Love burns

di editio
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cap. 1 ***
Capitolo 2: *** Cap. 2 ***
Capitolo 3: *** Cap. 3 ***
Capitolo 4: *** Cap. 4 ***
Capitolo 5: *** Cap. 5 ***
Capitolo 6: *** Cap. 6 ***
Capitolo 7: *** Cap. 7 ***
Capitolo 8: *** Cap. 8 ***
Capitolo 9: *** Cap. 9 ***
Capitolo 10: *** Cap. 10 ***
Capitolo 11: *** Cap. 11 ***
Capitolo 12: *** Cap. 12 ***
Capitolo 13: *** cap. 13 ***
Capitolo 14: *** cap. 14 ***
Capitolo 15: *** Cap. 15 ***
Capitolo 16: *** cap. 16 e 17 ***
Capitolo 17: *** Cap. 18 ***
Capitolo 18: *** Cap. 19 ***
Capitolo 19: *** Cap. 20 ***
Capitolo 20: *** Cap. 21 ***
Capitolo 21: *** Cap. 22 ***
Capitolo 22: *** Cap. 23 ***
Capitolo 23: *** Cap. 24 ***
Capitolo 24: *** Cap. 25 ***
Capitolo 25: *** Cap. 26 ***



Capitolo 1
*** Cap. 1 ***


Capitolo 1

 

Mentre cadono
son prese da un turbine
le foglie secche
(Masaoko Shiki)

 
– Ahi…
– Cosa c’è, Mae?
– Niente milady. Mi ero appisolata e ho sbattuto la testa. Questa strada è piena di buche!
– Sì, hai ragione.
Mae torna a chiudere gli occhi e io riprendo a guardare il paesaggio.
La campagna è ancora avvolta dalla leggera foschia mattutina. Il disco rotondo del sole, visibile attraverso lo strato sottilissimo di nubi, inonda l’aria di una luce dorata quasi irreale. È la prima volta, nella mia vita, che mi capita di poter guardare direttamente al sole senza essere costretta schermare gli occhi con la mano e senza esserne accecata. Lo fisso per qualche secondo, quasi incredula. I profili degli alberi, ormai pressoché spogli, emergono avvolti dal luccichio di migliaia di goccioline d’acqua, mentre il silenzio ovattato che ci circonda come una bolla è rotto solo dal cigolio delle ruote e dal respiro delicato di Mae.
Appoggio la tempia contro il vetro del finestrino: è freddo e mi trasmette un brivido. Chissà quanto manca ancora? Cerco di orientarmi, ma la foschia mi impedisce di riconoscere qualsiasi punto di riferimento. L’ultima volta che ho percorso questa strada ero in compagnia di mia madre. Quanto tempo è passato? Due anni, forse tre. Prima dell’aggravarsi della tua malattia e della tua morte, mamma! Sapessi quanto mi manchi! Perché te ne sei dovuta andare così presto, lasciandomi da sola? Tu hai ceduto, mamma, ma io non voglio farlo. Non voglio che la mia vita sia la copia della tua. Non lo permetterò. Troverò il modo. Devo trovarlo! Lui insiste, ogni giorno, ad ogni incontro; tanto che ho finito con l’accettare l’invito di sua Grazia pur di non vederlo per un po’, benché non sia propriamente nello stato d’animo adatto per apprezzare la compagnia.
Sento le lacrime premere contro i miei occhi e faccio violenza su me stessa per ricacciarle indietro. Non devo piangere. Non devo e non voglio arrendermi.
Un rumore secco e improvviso mi scuote dal torpore e dal dormiveglia in cui devo essere caduta e vengo sbalzata in avanti finendo addosso a Mae che si sveglia con un urlo. Non ho neppure di tempo di risponderle che una serie di imprecazioni in un misto di inglese e giapponese mi mettono in allarme. Apro lo sportello e mi affaccio.
– Cosa è successo, Akio?
– Una buca, Maya-sama. Si è rotta l’asse.
Scendo al volo, rischiando di inciampare nel mio stesso vestito, e mi affianco ad Akio, inginocchiato a fianco della vettura e chino a studiarne il danno. Lo vedo scuotere la testa e sospirare di disappunto.
– Siamo ancora lontani dalla residenza di sua Grazia? Con questa nebbia non riesco ad orientarmi tanto bene.
– Abbastanza, Maya-sama. Due ore, più o meno. Però c’è un villaggio qui vicino dove voi potrete aspettare al caldo, mentre io faccio riparare l’asse. Non ci vorrà più di qualche ora.
– Va bene, Akio. Tu vai a cercare aiuto, mentre noi aspettiamo qui.
– Ma, Maya-sama… rimanere qui da sola, in aperta campagna…
– Allora sbrigati. Non possiamo lasciare i bagagli incustoditi.
Akio mi guarda incerto per qualche istante, poi si gira e si avvia di corsa lungo la strada. Sento un sorriso salirmi alle labbra. Povero vecchio Akio, costretto a vivere, e probabilmente a morire, in un paese straniero per amore di mio padre e mio. Il mio unico contatto con le mie origini.
Mi giro verso il boschetto che costeggia la strada e cerco un posto dove potermi sedere nell'attesa. L’aria è ancora piuttosto fredda, e anche se la foschia è ormai quasi scomparsa del tutto, ha però lasciato il suo ricordo nell’erba umida e nelle foglie gocciolanti. Osservo ammirata il paesaggio che si svela al mio sguardo: amo i colori dell’autunno. Le tonalità che sfumano dal rosso intenso, al ruggine, al giallo mi trasmettono una sensazione di tepore, di tranquillità e di calore umano.
Mae si siede accanto me e cominciamo a parlare del più e del meno. Èla prima volta per lei ad un rendez-vous come quello verso cui siamo dirette e ha paura di sbagliare. Per fortuna porto ancora il lutto, almeno non ci saranno difficoltà con i colori degli abiti. Le spiego di nuovo cosa le persone che incontreremo si aspettano da me, e da lei, e cerco di rassicurarla. Non ci saranno problemi: Mae è una ragazza sveglia e saprà cavarsela.
Sono stanca di stare seduta su questa scomoda pietra umida, quindi mi alzo e inizio ad addentrarmi nel bosco, più una macchia d’alberi a dire la verità. Cammino per un po’ seguendo il sentiero e perdendomi nel profumo penetrante e carnoso di terra e muschio. Lo scricchiolio dei miei passi sulle foglie secche e il belato di qualche pecora in lontananza sono gli unici rumori che mi raggiungono. Mi fermo un attimo e chiudo gli occhi alzando il viso verso un tiepido raggio di sole che mi sfiora come una carezza delicata e amorevole.
Riprendo a passeggiare e, girando dietro ad un cespuglio, me lo trovo improvvisamente davanti.
– Ah!– grido.
Il grosso cane marrone mi guarda per qualche secondo, poi comincia a ringhiare. Stai calma e pensa, Maya, pensa! Continuiamo a fissarci negli occhi. Faccio qualche passo all’indietro, e le mie mani sfiorano il fusto di un albero che sembra abbastanza grosso. Appoggio i palmi contro il tronco ruvido e comincio ad aggirarlo, sempre guardando la bestia che nel frattempo ha cominciato ad avanzare lentamente nella mia direzione. Deglutisco. Adesso capisco cosa significa avere il cuore in gola! Con un movimento improvviso, e sbagliato mi rendo conto quasi immediatamente, scivolo dietro l’albero, forse nella speranza che sparendo dalla sua vista il cane possa dimenticarsi di me. Invece, l’ho solo irritato di più e in due falcate me lo ritrovo addosso. Lo slancio dell’animale mi fa perdere l’equilibrio e cadiamo entrambi a terra. Comincio a urlare terrorizzata, e a scalciare nel tentativo di allontanarlo, ma sembra che ogni mio sforzo sia vano. I suoi denti catturano l’orlo del mio vestito producendo un lungo squarcio. Lo guardo inorridita e gli sferro un ennesimo calcio, con tutta la mia forza, e questa volta riesco a staccarlo e a farlo volare poco distante, ma si rialza immediatamente e si lancia di nuovo all’attacco. Vedo i suoi canini affilati balenare verso di me e chiudo gli occhi atterrita, aspettando solo di sentirli affondare definitivamente nelle miei carni, certa ormai di non avere più scampo. Però non succede niente: solo un’imprecazione e un guaito, e rumori di lotta. Sconcertata, riapro gli occhi e vedo il cane appeso al braccio di un uomo. Spalanco la bocca e vorrei gridare di nuovo, ma riesco solo ad annaspare, in preda al panico, incapace di qualsiasi movimento. Lo scontro continua e l’uomo, per quanto cerchi disperatamente e con forza, non riesce a scrollare da sé le mascelle dell’animale. In un lampo di lucidità mi accorgo che il suo braccio è protetto da una giacca avvolta preventivamente intorno ad esso, e che il cane non sembra avergli lacerato la carne. Mi scuoto. Devo fare qualcosa, devo aiutarlo! Subito! Con quello che mi sembra uno sforzo sovrumano riesco a muovermi e vedo, poco distante, un ramo abbastanza grosso e dall’aria resistente. Lo afferro e mi lancio verso la bestia cominciando a tempestarla di colpi, senza pensare, preda solo della mia paura, dell'ansia e della necessità di aiutare quell'uomo. Continuo a colpire, con determinazione, fino a costringerla finalmente a lasciargli braccio. Ma incontro i suoi occhi, rabbiosi, feroci, e la vista dei suoi canini scoperti mi provoca nuovamente sul corpo lo stesso brivido agghiacciante di pochi istanti prima. Ho di nuovo attirato l’attenzione su di me e il cane torna a ringhiare nella mia direzione, preparandosi a un nuovo balzo. Mi gelo, la mente ormai completamente bianca. Quasi immediatamente sento che il bastone mi viene strappato dalle mani e vedo l’uomo agitarlo nella direzione dell’animale, intimandogli in tono deciso di allontanarsi. Passa quella che sembra un’eternità, poi finalmente il cane si volta e scappa tra gli alberi.
Mi giro verso il mio salvatore, e incontro due occhi d’ambra spalancati su di me, ma prima che riesca a mettere a fuoco il volto che li ospita, il mondo intero si offusca: di fronte a me solo nebbia, e suoni lontani.

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Capitolo 2
*** Cap. 2 ***


Capitolo 2

 
Vento d’autunno,
ci guardiamo negli occhi
e viviamo, tu ed io.
(Masaoko Shiki)

 

Mi volto verso la ragazza e la vedo spalancare gli occhi su di me prima di ondeggiare pericolosamente in avanti e cercare invano un appiglio. Mi precipito a sorreggerla, e la sento accasciarsi fra le mie braccia, senza forze.
– Vi sentite bene, signora? Avete bisogno di qualcosa?
Si riprende, e alza su di me un viso che mi coglie impreparato. Rimaniamo a fissarci un istante, anche lei sembra stupita.
– No, vi ringrazio molto, è tutto a posto. Devo solo riprendermi dallo spavento.
Ha un nuovo cedimento, e la sostengo ancora più saldamente mentre cerco con gli occhi, e trovo, un posto sufficientemente comodo dove farla sedere: l'accompagno verso il tronco di un albero caduto a pochi passi da noi, cingendole con un braccio la vita sottile, e la sento aggrapparsi a me e cercare il mio sostegno. Le sorrido per rassicurarla, ma raggiunto il tronco lei si libera improvvisamente dalla mia presa, e seppure a fatica, si siede sul legno. Mi chino accanto a lei, e la osservo.
– Quel cane era rabbioso. Non avreste dovuto avventurarvi da sola in un bosco come questo. Sarebbe potuta finire molto male se non avessi sentito le vostre grida e non vi avessi soccorsa in tempo.
La sento sospirare forte, e noto con sollievo il colore tornare gradualmente a dipingere di un rosa pallido il suo volto minuto e teso.
– Volevo solo fare una passeggiata per passare un po' il tempo. Abbiamo avuto un incidente e aspettavamo i soccorsi.
La ragazza alza improvvisamente gli occhi a cercare qualcosa oltre la fitta boscaglia, ed io mi volto istintivamente a seguire il suo sguardo.
– Mae! − Torna a fissare lo sguardo su di me, spaventata. – Non l'avete vista? Dio, l'ho lasciata sola, quella bestia potrebbe trovarla. Dobbiamo aiutarla, signore, dobbiamo tornare da lei. Vi prego, aiutatemi!
Si alza all'improvviso e inizia a correre come una forsennata lungo il sentiero, sollevando appena le gonne per agevolarsi nei movimenti e costringendomi, mio malgrado, a seguirla.
Di lì a poco scorgo la figura paralizzata di una ragazza in piedi al margine della strada. Tiene gli occhi fissi nella nostra direzione e un'espressione atterrita le altera spaventosamente i lineamenti tesi di un volto altrimenti piuttosto anonimo. La mia strana compagna di lotta si rilassa. Si precipita verso di lei, e l'abbraccia.
– Mae, stai bene? Scusami, ti ho lasciata sola, quella bestia...
− Milady, siete voi! Sia ringraziato il cielo, state bene!
La tensione si scioglie di colpo nel corpo e nella voce della nuova sconosciuta, ma è ancora scossa, e inizia a intervallare le parole a singhiozzi soffocati. Rallento il passo, e mi avvicino.
− Ho sentito delle urla provenire dal bosco...mi sono spaventata così tanto...non sapevo cosa fare... se venirvi a cercare... se chiedere aiuto... Perdonatemi, vi prego!
− Non ho niente da perdonarti Mae, calmati ora. Sto bene, guardami.
− Ho avuto così tanta paura Milady...così tanta...
Nel dire questo la ragazza chiamata Mae mi scorge, spalanca gli occhi e lancia un urlo, spaventata. Mi blocco, sconcertato. Poi comprendo, e la strana ragazza incontrata nel bosco si appresta a dare spiegazioni.
– È tutto a posto, Mae. Sono stata aggredita da un cane inferocito, e il signore mi ha salvata. Se non fosse stato per lui, non so cosa ne sarebbe di me, adesso.
Sorrido, e accenno un saluto. Mi avvicino alle due donne, e comprendo a quale incidente si riferisse prima la ragazza.
– È un danno piuttosto serio, e il villaggio è a poco meno di un'ora da qui. Dovrete aspettare ancora a lungo.
Mae inorridisce nel vedere gli strappi sull'abito di quella che immagino essere la sua padrona, ed io noto solamente ora che la ragazza indossa il lutto. Lei sospira, e mi sorride. Si è ripresa completamente, e il tono della sua voce non lascia adito a dubbi sulla determinazione del suo carattere.
– Signore, vi ringrazio molto per essere venuto in mio soccorso nel bosco. Saprò ripagarvi per la generosità del vostro gesto. Ma non vorrei trattenervi più del dovuto, anche voi sarete in viaggio, immagino.
Trattengo una risata, ma non riesco ad evitare di lanciarle un'occhiata divertita.
– Un modo elegante per farmi capire che non avete più bisogno di me.
La vedo spalancare gli occhi nel vedermi prendere posto su una pietra accanto a loro, ma fingo di non essermi accorto del suo disappunto.
– Non è mia abitudine lasciare delle signore sole ai margini di una strada poco frequentata, in balia degli eventi e di bestie inferocite. – Alzo gli occhi su di lei e la vedo rabbuiarsi, e aggrottare leggermente le sopracciglia ben disegnate. – Aspetterò con voi i soccorsi.
Le sorrido, e un'occhiata veloce a Mae mi convince che almeno lei, per quanto intimorita, non desidera altro.
– È molto cortese da parte vostra, vi ringrazio nuovamente.
Mi lancia un'occhiata tanto veloce quanto stizzita, ed io mi ritrovo un'altra volta a dover trattenere una risata: questa ragazza è divertente. Un po' troppo indisponente, forse, e alquanto superba. Il suo volto però mi incuriosisce, e le sue espressioni indispettite, a scapito delle parole, stimolano in me la voglia di provocarla.
– Non si direbbe dalle espressioni che fate. Ma è una questione di responsabilità: non mi perdonerei mai se vi accadesse qualcosa dopo avervi abbandonate a voi stesse. Motivo per cui, signora, dovrete sopportare ancora un poco la mia presenza.
Mae mi sorride timidamente, ed io ricambio cordialmente il suo sorriso. La sua padrona, invece, mi lancia un'occhiata fugace e, aggiustando alla meglio l'abito stracciato intorno alle gambe magre, prende posto compostamente sul tronco abbattuto, accanto a quella che ormai sono certo di poter definire la sua cameriera.
– Come preferite, allora. Non potrei mai perdonarmi un'onta al vostro onore.
– Bene. Vedo che abbiamo raggiunto un accordo.
Le lancio un'occhiata furtiva, ma la ragazza tiene lo sguardo basso, e sussurra qualcosa che mi è impossibile afferrare alla timida ragazza al suo fianco. Le lascio alle loro chiacchiere, e osservo il paesaggio illuminarsi fiocamente sotto i deboli raggi del sole autunnale. Questi colori mi ricordano qualcosa di lontano, in un altro tempo, e in un altro luogo. Quanto tempo è passato? Troppo, ma non ancora sufficiente per dimenticare. Guardo di nuovo la ragazza, i suoi occhi, il suo viso. No, non sbaglio. Non ci può essere alcun margine di errore. Ma com'è possibile, e perché? Scuoto la testa, e sorrido. Buffo che l'abbia incontrata proprio io. Probabilmente lei si sta ponendo la stessa domanda, perché quando incontra i miei occhi abbassa lestamente lo sguardo, quasi vergognandosi di quel breve contatto e di quella muta domanda reciproca. Mi alzo, e muovo qualche passo, sempre più incuriosito da questa strana coincidenza.
– Dove siete dirette?
La ragazza volta il viso nella mia direzione, soffermandosi ad osservare la mia giacca ormai a brandelli e i miei stivali scoloriti, poi alza gli occhi sul mio volto ed io sostengo orgoglioso il suo sguardo nell'attendere la risposta.
– Ho ricevuto un invito per assistere a una serata dedicata alla poesia, ma non credo che la cosa possa interessarvi, signore.
Serata di poesia! Mi sfugge un sorrisetto ironico, e decido di raccogliere la sua provocazione nell'accentare così marcatamente la parola signore.
– Avete ragione, milady, non fa per me. Il mio mondo è un altro, molto lontano da qui, e molto lontano da voi.
Mi avvicino e la fisso intensamente in quei suoi grandi occhi scuri, spalancati su di me. Poi mi inchino leggermente, e prima di voltarmi per riprendere la mia strada le sussurro all’orecchio qualcosa che sono certo faticherà a comprendere.
– Nel mio mondo, la gente vive ogni giorno nella luce abbagliante dell'arcobaleno.

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Capitolo 3
*** Cap. 3 ***


Capitolo 3

 
Essere imperatore
Di un’isola disabitata
Che felicità
(Masaoko Shiki)

 
Mae mi sta acconciando i capelli per la serata: li ha spazzolati accuratamente fino a farli diventare morbidi e splendenti, e ora, ciocca dopo ciocca, sta costruendo un’elaborata pettinatura. Le forcine tirano e mi grattano la testa, ma non posso farci nulla: è il prezzo da pagare per i pochi giorni di respiro che mi sono concessa. Mi stringo addosso la vestaglia e ripenso al caldo benvenuto riservatomi da sua Grazia.
 
Il danno alla vettura si è rivelato più grave di quanto Akio avesse giudicato all’inizio e Mae ed io siamo state costrette a trascorrere le tante ore di attesa nella casa del diacono, intrattenute dalle sue chiacchiere e da quelle della moglie, la quale è stata ben felice di questo diversivo alla noia di una lunga giornata autunnale. Alla fine, a circa metà pomeriggio, siamo riusciti a partire, e dopo un altro paio d’ore di viaggio abbiamo varcato i cancelli di Chesnore.
È stata, come sempre, un’emozione percorrere il lungo viale costeggiato da querce maestose che si dipana in mezzo a prati e boschi, e poi uscire da quella specie di galleria naturale nella luce improvvisa e infuocata del tramonto e trovarsi di fronte, dall’altra parte del lago, quasi sorgesse direttamente dalle acque, l’immensa magione con la sua pietra grigia, le sue colonne di marmo bianco e i suoi giardini. Ed è stato strabiliante chiudere gli occhi e assaporare sulla lingua, sulla pelle e sulla punta delle dita il profumo intenso, pieno e persistente delle rose.
Il maggiordomo mi ha fatto accomodare in biblioteca, dove mi è stato quasi immediatamente servito un graditissimo tè caldo, e dopo qualche minuto sua Grazia è scesa a salutarmi. Non appena mi ha vista, mi ha stretto in un abbraccio materno.
– Maya, sono felicissima che abbiate accettato il mio invito. – Si è fermata un attimo e mi ha allontanata da sé di qualche passo, senza però lasciare la presa sulle mie mani. – Ma cosa vi è successo, bambina? E perché siete così in ritardo? Vi aspettavamo per l’ora di pranzo! E il vostro abito… − si è interrotta guardando con aria interrogativa il lungo strappo nella seta della mia gonna.
−Abbiamo avuto un incidente. Si è rotta l’asse e abbiamo dovuto aspettare che la sostituissero. Ma adesso è tutto a posto, ed eccomi qua – ho cercato di rassicurarla.
Sua Grazia mi ha guardata perplessa per qualche secondo, ma poi ha deciso di fidarsi delle mie parole, e io ho preferito non scendere nei dettagli. Gli occhi dell’uomo che mi ha aiutata mi sono balenati per una frazione di secondo nella mente, ma ne ho scacciato con forza il ricordo e ho cercato di rivolgere alla mia ospite un sorriso ancora più radioso.
− Sono sicura che apprezzerete questa serata, − ha proseguito lei − e spero che vogliate fermarvi almeno finché anche noi non torneremo a Londra.
– Vi ringrazio, milady, ma non vorrei recare troppo disturbo. Mi fermerò solo fino alla prossima domenica.
– Ma quale disturbo, sciocca ragazza. Sapete che vi voglio bene come a una figlia e che volevo bene alla vostra povera mamma, che Dio l’abbia in gloria, come a una sorella. Comunque avremo occasione di riparlarne e state certa che riuscirò a farvi cambiare idea. Tra l’altro ci sono anche alcuni compagni di università di Lawrence, quindi non sarete costretta a subire solo la compagnia di noi poveri vecchietti.
– Ma cosa dite, eccellenza? Sapete benissimo che adoro conversare con voi. Ho così poche occasioni di poter parlare di mia madre con chi le voleva bene. – Purtroppo non sono stata capace di trattenere un piccolo singhiozzo, uscito involontariamente a spezzare le ultime parole. – E vorrei anche approfittare della vostra disponibilità ed esperienza per chiedervi un consiglio.
Sua Signoria mi ha accarezzato dolcemente una guancia e ha detto:
– Ma certo, bambina. Adesso però andate un po’ a riposarvi e poi preparatevi per la serata. Vedo che portate ancora il lutto, ma ciò non vi impedirà di affascinare tutti con la vostra bellezza.
 
Sorrido leggermente osservando il mio riflesso nello specchio. Per la disperazione di Mae, che è costretta ogni volta a interminabili sedute con il ferro caldo per ottenere almeno qualche boccolo decente, ho i capelli lisci e neri, un’eredità paterna. Gli occhi marroni e grandi hanno un caratteristico taglio orientale, il naso leggermente all’insù e la bocca sono piuttosto piccoli, ma ho labbra ben disegnate, morbide e carnose (eredità materna). Nel complesso i miei lineamenti, per quanto esotici, sarebbero piuttosto armonici e graziosi se non fosse per la carnagione, non esattamente di quel colorito bianco latte tanto apprezzato nelle signorine e signore dell’alta società. Quello che al momento colpisce del mio volto, però, è lo sguardo teso e triste, che mi conferisce un’aria preoccupata e seria, mentre in realtà avrei un carattere solare e spensierato. Perlomeno, lo avevo prima della morte della mamma e di tutto ciò che ne è conseguito.
Continuo a fissare la mia immagine, coccolata dal tocco leggero delle mani sapienti di Mae che si muovono veloci tra i miei capelli, e dal calore del fuoco acceso nel caminetto, e forse mi assopisco un attimo perché, all’improvviso, il ricordo dell’uomo che questa mattina mi ha salvata dal cane invade la mia mente. Voglio allontanarlo, cerco di scacciarlo ma non ci riesco, e piano piano l’immagine del suo viso si sovrappone al mio sulla superficie lucida dello specchio. Non so spiegarmene la ragione, ma trovarmi di fronte qualcuno di così simile a me mi ha lasciata esterrefatta. Avrei voluto chiedergli chi fosse, e cosa ci fa qui, e avrei voluto chiedergli di raccontarmi la sua storia, ma non sono argomenti che una signorina di buona famiglia, e di ottima educazione, può affrontare con uno sconosciuto.
– Ecco milady, ho finito.
La voce di Mae mi riscuote dalle mie riflessioni. Metto a fuoco l’immagine della ragazza nello specchio, e un sorriso riconoscente mi nasce spontaneo dal cuore.
– Oh, Mae, sono meravigliosi. Grazie!
Giro la testa di lato per ammirare di profilo il lavoro della mia straordinaria cameriera. Dopo averle arricciate con il ferro caldo, ha raccolto tutte le ciocche in una grande coda e le ha arrotolate una ad una su se stesse fermandole poi con alcune forcine. Le ciocche lunghe sul davanti, invece, sono state attorcigliate e fissate sul retro, in modo però da lasciarle cadere in morbide volute ai lati della testa.
Mi osservo ancora una volta, pienamente soddisfatta, e sorrido in risposta all'attesa muta di Mae incontrando i suoi occhi attraverso lo specchio.
– Grazie milady! – mi dice appagata. – Ora però è ora di vestirvi. Ho dovuto lottare con le altre cameriere per riuscire ad accaparrarmi il ferro e stirare l’abito da sera, ma alla fine ce l’ho fatta. Sapeste quanti pettegolezzi si sentono nell’area della servitù – continua, aiutandomi ad indossare l’ingombrante ammasso di seta e merletti, dopo avermi quasi certamente rotto una costola nel tentativo di stringere all’inverosimile il corsetto. – Potrei già raccontarvi di uno o due nuovi amori e fidanzamenti imminenti. Ed ho anche sentito che Mister Lawrence è impaziente di rivedervi e presentarvi ai suoi amici.
– Mae, sai benissimo che non sono interessata ad alcun fidanzamento. È proprio per questo che siamo qui.
– Sì, ma…
– Basta Mae, non voglio parlarne.
– Sì, milady. Scusatemi.
 
Sospiro profondamente e chiudo gli occhi, cercando di racimolare ogni briciolo di entusiasmo sopravvissuto dentro me da tempi più felici. Mi obbligo a stamparmi un sorriso convincente sulle labbra e riapro gli occhi, determinata, pronta a fare la mia entrata nel salotto già pieno degli ospiti di sua Grazia.
– Maya, finalmente! Venite che vi presento. – Sua Grazia corre a prendermi per mano attirando su di me l’attenzione generale. – Mister Thomas Wakefield, un compagno di club di Lawrence, e grande appassionato di poesia, sembra. Mister Wakefield, ho il piacere di presentarvi Lady Maya Kitajima.
Mister Wakefield, un ragazzo di circa venticinque anni, alto e magro, con lunghe basette rossastre e folti capelli scompigliati, si inchina affabilmente e mi sfiora la mano con le labbra.
– È un piacere, milady. Ho sentito molto parlare di voi e decantare la vostra bellezza. Spero vorrete farmi l’onore di sedere accanto a me durante la cena.
– Mister Wakefield! – lo rimprovera sua Grazia con un finto tono scandalizzato. – Quale audacia.
Mi inchino leggermente e proseguo il giro di presentazioni sotto l’ala protettrice della mia ospite, tra chiacchiere, risatine, e finte confidenze. Alcune di queste persone già le conoscevo, altre mi sono estranee, ma la differenza è poca. Le conversazioni rimangono sempre ad un livello fastidiosamente superficiale: nuove mode, matrimoni, fidanzamenti, esibizioni. Inizio a provare insofferenza, e a poco a poco il chiacchiericcio incessante mi prende alla gola e sento che comincia a mancarmi il respiro. Mae ha forse esagerato nello stringere il corsetto, così mi avvicino ad una delle alte finestre e cerco un attimo di tranquillità.
– Milady! – Un signore sulla cinquantina, con una lunga barba quasi completamente bianca mi si avvicina sorridendo affabilmente. – Ho avuto il grandissimo piacere di conoscere entrambi i vostri genitori anni fa, quando eravate ancora in fasce. Perdonatemi se vi ho rivolto la parola senza esservi ancora stato presentato, ma volevo assolutamente cogliere l’occasione per porgervi le mie condoglianze per la prematura morte di vostra madre.
Incrociamo un attimo lo sguardo e rimango colpita dalla bontà che leggo nei suoi occhi azzurri.
– Vi ringrazio, Mister…?
– Oh, imperdonabile questa mancanza di educazione da parte mia. Arthur Hughes, al vostro servizio – dice piegando leggermente in avanti il busto e la testa e portandosi la mano destra al cuore.
– Oh, quell’Arthur Hughes? Il pittore?
– In persona. Conoscete i miei dipinti?
– Ho avuto il grandissimo piacere di visitare una vostra mostra. Vi ammiro tantissimo. Ricordo che alcuni dei vostri dipinti mi avevano colpita per l’uso magnifico del colore, per la precisione e l’attenzione ai particolari.
– Grazie infinite, milady. Spero vorrete offrirmi l’occasione di mostrarvi altri miei lavori, una volta rientrati in città.
– Sarebbe un onore per me, signore.
Mister Hughes mi sorride bonario e sta per aggiungere qualcosa, quando il maggiordomo ci interrompe per annunciare che la cena è servita.
Lawrence si avvicina, porgendomi il braccio.
– Spero non vi offendiate, Mister Hughes, se ve la rubo per la cena.
– Nessuna offesa, signore, – risponde il pittore sempre sorridendo.
– Allora, Maya, devo confessarvi di essere terribilmente infelice. Siete arrivata da quasi un’ora e ancora non mi avete fatto l’onore neppure di un misero sguardo. Perché siete così crudele?
– Suvvia Lawrence, tanto non riuscirete a farmi sentire in colpa – gli rispondo ridendo, – eravate così impegnato a intrattenere Lady Lucy Morris che non mi è sembrato educato disturbarvi.
– Donna insensibile. Lo sapete benissimo che il mio cuore batte solo per voi.
– Certo, quando non è impegnato a correre per qualcun altro – ribatto, guardandolo in tralice. Lui accenna appena un sorriso.
– Va bene mi arrendo, avete vinto voi. Seriamente, Maya, come state? Sono stato molto felice quando mia madre mi ha detto che avevate accettato l’invito.
– Va meglio, Lawrence, grazie.
– Chissà perché non mi convincete – dice lui lanciandomi un’occhiata penetrante. – Ma parliamo d’altro… vi aspettavamo molto prima. È forse successo qualcosa durante il viaggio?
– Si è rotto l’asse a circa tre ore da qui. Akio è dovuto andare a cercare aiuto a Merrytown e poi abbiamo dovuto aspettare che la carrozza fosse riparata. E mentre, per ingannare l’attesa, passeggiavo nel bosco… – Lawrence piega la testa in aspettativa – sono stata aggredita da un cane rabbioso, – dico d’un fiato e a bassa voce, quasi en passant, sperando forse che lui non mi senta.
– Cosa? Dove? Cosa vi ha fatto? E adesso come state?
Si è girato verso di me e mi guarda con occhi impauriti e preoccupati. La sua mano mi stringe con forza il braccio.
– Va tutto bene, Lawrence, calmatevi prima di attirare l’attenzione. Sono stata soccorsa da un… passante che ha scacciato la bestia e ha vegliato su di noi fino al ritorno di Akio. Non mi è successo nulla, se non un po’ di spavento e una gonna lacerata.
– Un passante, eh? Un contadino, forse, o un cacciatore?
– No, non saprei. Ha importanza?
Lawrence cerca il mio sguardo e alza un sopracciglio. – No, direi di no.
– Infatti – concludo, cercando di scacciare il viso dell’uomo che mi ha aiutata e che, con forza, riemerge nei miei pensieri provocandomi, mio malgrado, una morsa allo stomaco.
Intanto siamo arrivati al tavolo riccamente apparecchiato per la cena. Ci accomodiamo e ci viene immediatamente servito un consommé di carne, seguito poi da un arrosto di maiale con salsa ai mirtilli, da selvaggina in fricassea, pasticcio di agnello, patate arrosto, una selezione di dolci e, infine, uva bianca.
Durante la cena parlo poco e ascolto ancora meno, persa nei miei pensieri, e nei ricordi. Lawrence… se quella volta non l’avessi sentito piangere, quando eravamo ancora ragazzi, e se non avessi conquistato la sua fiducia spingendolo a confidarsi, saremmo lo stesso diventati così intimi?
Senza che me ne accorga la cena finisce, e le signore si alzano per dirigersi di nuovo in salotto, mentre i signori si ritirano in biblioteca con il loro brandy e i loro sigari.
Passa un’altra mezzora di chiacchiere e qualche tentativo di canto, poi i signori ci raggiungono.
– Benissimo, adesso che ci siamo tutti, credo che la serata possa cominciare – dice sua Grazia, alzandosi dalla poltrona. – Prego, seguitemi nel salone da ballo dove è stato allestito un piccolo palcoscenico adatto all’occasione.
Lawrence mi offre di nuovo il braccio e insieme ci avviamo.
– È una sorpresa. Sono sicuro che vi piacerà.
Quando entro nel salone rimango letteralmente di stucco.
Su una piattaforma lignea è stato ricreato l’interno di una stanza giapponese: i tatami, i paraventi, le lampade in carta di riso. Al centro, avvolto in un sontuoso kimono da cerimonia, vi è inginocchiato un uomo dai lunghi capelli castani, il busto e il volto rivolti a terra, nel saluto tradizionale. Prendo posto e osservo con stupefatta attenzione quell’ambiente così familiare e al tempo stesso così estraneo.
L'uomo si raddrizza, e io vengo risucchiata all'istante in un silenzio fragoroso e assordante, denso di pensieri caotici e in fermento. Tutto, intorno a me, sembra venire inghiottito dal buio e rimaniamo solo noi due, lui ed io. E la calda ruvidezza della sua voce.

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Capitolo 4
*** Cap. 4 ***


Capitolo 4

 

Risplende verde
la Musa
sui fogli di riso.
(Masaoko Shiki)

 
Poso nuovamente le mani sulle cosce avvolte nel mio pesante kimono, e passo serio e concentrato lo sguardo sulle persone eleganti e raccolte in attesa di fronte a me. Il bordo del palco sembra delimitare un confine, una linea marcata e precisa a contenere due mondi, tanto lontani quanto diversi. E la ragazza incontrata durante la mia passeggiata di questa mattina, della quale incrocio brevemente lo sguardo stupito sul volto rischiarato appena dal riverbero delle candele, sembra oscillare fra i due come un ponte sospeso, invisibile e scivoloso. Sapevo che sarebbe venuta, e ad essere del tutto sincero, ne sono contento. Volevo incontrarla di nuovo, sapere qualcosa di più di lei. Qualcosa.
Tutti gli occhi sono puntati su di me, sulla mia figura inginocchiata e immobile, sul mio volto impassibile. Chiudo gli occhi. Mi concentro. Sto per aprire a quelle persone una finestra sul mio mondo, le mie radici. Spero di farlo bene, devo farlo bene. Non me lo perdonerei mai, altrimenti.
– Il mio nome è Hayami Masumi, la mia terra il Giappone, il mio mestiere regalare illusioni. È un onore per me essere qui questa sera, e spero vogliate essere così cortesi da permettermi una breve introduzione a ciò che sto per recitarvi: Haiku. Poesie. Brevi. Brevissime. Tre versi appena: quinario-settenario-quinario. – Faccio una pausa, e ne ripeto il nome. – Haiku.– Ne assaporo il suono sulla lingua, il leggero soffio tra le labbra, poi proseguo. – I primi haiku risalgono al XVII secolo e derivano dal Tanka, un componimento poetico risalente al IV secolo, composti da cinque versi, dei quali gli haiku mantengono i primi tre. In entrambi i casi si tratta di poesie brevi, spesso connesse alla natura. Di più: sono natura. La sua voce, leggera e impalpabile, che sussurra appena all'orecchio vigile del poeta, il quale non può che coglierne l'attimo, eterno e mutabile, e trascriverlo in versi, conscio dell'inadeguatezza del linguaggio nell'esprimere semplici e profonde verità. Verità del silenzio, culla delle parole. Perché la natura è essenza pura, spoglia, e tutto ciò che a noi è dato coglierne è solo l'energia vitale, la profonda spiritualità radicata nella sua manifestazione. E il poeta, l'haijin, contempla quella verità, la fa sua, cerca l'essenzialità e la trasforma in versi, suscitando emozioni. Haiku.
Sento l'aria calda intorno a me farsi leggera, mentre il silenzio diventa pesante, gonfio d'attesa. Riapro gli occhi, e so che il mio sguardo è cambiato. Lo sento attraverso il sangue che mi scorre caldo nelle vene, lungo il brivido che mi percorre in un lampo i muscoli tesi della schiena. Lo sento, e dimentico tutto. Non sono più io, me ne rendo conto, ora sono parte dei versi che sto per recitare. La mia anime si fonde con essi, e raccolgo in me quei brevi attimi di vita che si fanno poesia.
È questa la magia degli haiku: i nostrihaiku, i mieihaiku, la più caratteristica forma di poesia giapponese.
 

Luna fredda:
nel rumore del ponte
io vado solo
(Tan Taigi)

 
Mi rendo conto di avere alterato la scaletta, non era questo l'haiku con il quale intendevo iniziare. Recito a memoria, non leggo. Comprendo però: è lei, la misteriosa ragazza dai profondi occhi neri che sento incollati addosso, che ha inconsapevolmente, e chissà in quale modo, operato questa scelta per me.
 

Mi sorprenderà la pioggia
ora che non ho neppure il cappello di bambù
ma che importa...
(Matsuo Basho)

 
Attendo qualche istante, c'è silenzio. Poi proseguo: nella mente un mantello, freddo, vuoto, e un inverno lontano. Non mi voltai indietro nemmeno una volta; camminavo spedito, seppellendo sotto quella neve e quel silenzio una vita che non mi apparteneva più. Anche il dolore era troppo freddo per sciogliersi in lacrime ma continuavo a camminare, soffocando ricordi e pensieri, alla ricerca della mia strada, e trovando solo i miei passi.
 

C'ero soltanto.
C'ero. Intorno
cadeva la neve
(Kobayashi Issa)

 
Mi chiedo se qualcuno fra i miei ascoltatori riuscirà davvero a comprendere il prossimo. Tutto quello che racchiude, le verità che svela. Siamo così diversi...
 

Legge di Buddha
splendente
nella rugiada della foglia
(Kobayashi Issa)

 
Anche se non voglio, il ricordo corre veloce a mio padre. Vorrei scacciare il pensiero, ma lui rimane lì, inchiodato alla mia mente e al sangue. Mio padre...
 

Tra la barca e la riva
a separarci
si alza un salice
(Masaoka Shiki)

 
L'ho scelto per lei questo haiku, dopo averla incontrata. Chissà se ci si riconosce. Non la guardo mentre lo recito. Non guardo nessuno, a dire il vero.
 

Acquazzone:
guarda fuori sola
una donna
(Takarai Kikaku)

 
 
Ho fatto mio questo haiku dalla prima volta in cui lo lessi. Sono anni che attendo la primavera, e sono fiducioso, so che arriverà. Nel frattempo, ho il mio bel lavoro a ripulire quotidianamente le mie scarpe infangate.
 

Ad ogni cancello
la primavera comincia
dal fango sui sandali
(Kobayashi Issa)

 
Un uomo tossisce discretamente. Attendo qualche attimo, paziente. Voglio svuotare completamente la mente per i prossimi versi.
 

In questo mondo
Contempliamo
i fiori;
sotto,
l'inferno
(Kobayashi Issa)

 
L'immagine dell'haiku seguente s'imprime a forza dietro le mie palpebre chiuse. Tante stelle ho visto cadere, e mai un desiderio. I miei desideri non sono fatti per venire esauditi.
 

Solitudine:
i fuochi d'artificio che fioriscono,
dopo cade una stella
(Masaoka Shiki)

 
Sospiro pesantemente. Mi rivedo bambino, e rivivo per un istante la meraviglia di un pomeriggio perduto. Mia madre che mi asciuga le lacrime, io che mi allontano. E la neve cade, silenziosa e fredda.
 

Cose che non lasciano ricordo
la neve fresca
e lo scoiattolo che salta
(Kusatao Nakamura)

 
Respiro. Mi lascio avvolgere dagli odori e dai profumi che si mescolano nella sala, e rendono l’aria quasi densa. Li sento sulla pelle, nelle narici, mi annebbiano la mente. Poi ne sento uno sovrastare tutti gli altri, ma non è presente, lo so. Lo percepisco comunque, e lo lascio uscire caldo e avvolgente, insieme alle parole.
 

L'orchidea, di notte
nasconde nel profumo
lo splendore del fiore
(Yosa Buson)

 
Sento la notte, la sua umidità appiccicosa e leggera sulla pelle accaldata. La vedo.
 

Breve notte d'estate
sulla peluria del bruco
stille di rugiada
(Yosa Buson)

 
Apro gli occhi, e attraverso le luci soffuse delle lampade in carta di riso ritrovo il volto familiare della ragazza incontrata nel bosco. È strano, è come se i suoi occhi stessero richiamando la mia attenzione. L'assecondo.
 

Convalescenza:
stancarsi gli occhi
contemplando le rose
(Masaoka Shiki)

 
Il silenzio prosegue, nessuno osa fiatare. Ho catturato l'attenzione, tutti sembrano pendere dalle mie labbra e aspettare un mio suono. Il suono del prossimo haiku. Richiudo gli occhi. Assaporo il momento.
 

Calma, lumaca:
tu scalalo, il Fuji, ma
senza affrettarti
(Kobayashi Issa)

 
Trattengo un sorriso. Il prossimo sembra stato scritto apposta per me. La vedo quella lucciola, la inseguo ogni giorno. E un giorno la raggiungerò, lo so. E brillerò insieme a lei, nel plenilunio.
 

Quando l'insegui
la lucciola s'occulta
nel plenilunio
(Ryota Yoshikawa)

 
Mi alzo in piedi, e attendo. Qualche istante, non troppo. Muovo un paio di passi verso il limite del palco, sento il calore del legno sotto i piedi avvolti nei tabi. M'inchino con grazia e riconoscenza, unisco le mani, e chino il viso.
 

Vento d'autunno
allo sguardo
tutto è haiku.
(Takahama Kyoshi)

 
Qualche attimo di silenzio, e un uomo a pochi passi da me inizia un plauso leggero. Qualcuno si unisce, e dopo pochi istanti la magia degli haiku lascia spazio a un applauso scrosciante. Abbasso gli occhi, e sorrido. Amo recitare, amo il fuoco che sento scorrermi sotto pelle nel ripetere un verso, nel fondermi con esso. Mi fa sentire vivo.
Ma non ho tempo per pensare, mi chino in un nuovo ringraziamento e indosso gli zori. Vengo immediatamente raggiunto dalla mia ospite, una donna gioviale, dai modi gentili, la quale, con fare esperto e sicura di sé, mi accompagna al centro della grande sala, seriamente determinata a presentarmi ai suoi curiosi ospiti.
Mi ritrovo a scambiare convenevoli, ringraziare per i complimenti, rispondere educatamente alle domande cortesi e discrete, ma velate tuttavia da una morbosa curiosità sulla mia vita, le mie origini, il mio abbigliamento tanto affascinante quanto inusuale. Sorrido, nulla di nuovo per me. Sono abituato agli sguardi attenti e sfuggenti, così come alle domande inespresse mascherate con poca abilità nei sorrisi di circostanza. I loro complimenti però sono sinceri, glielo leggo negli occhi. Sono riuscito ad affascinarli, e a conquistarli. Chissà per quanto, però. Con tutta probabilità queste persone ricorderanno una piacevole serata avvolta nella magia dell'oriente; ricorderanno le lampade in carta di riso, i paraventi, il kimono, forse l’ombra del mio volto. Io vorrei ricordassero qualche breve verso, e l'immagine da essi evocata. A dire il vero vorrei ricordassero di più, qualcosa di più. Forse... chissà...
Un'occhiata veloce nella sala e scorgo la misteriosa fanciulla del bosco sostenere una fitta conversazione con Lord Lawrence Ash, il mio pigmalione della serata. È grazie a lui se questa sera mi trovo qui, e ho avuto la possibilità di cimentarmi in questo tipo di recitazione. Un uomo alquanto affascinante, e singolare, oserei dire. Rimasi sorpreso quando mi si avvicinò e si sedette al mio tavolo in quella locanda di quart'ordine; non riuscivo a comprendere le motivazioni che portavano un uomo della sua posizione a frequentare un luogo negletto come quello. C'era qualcosa in lui che mi sfuggiva, e mi sfugge tuttora. Non riesco a comprendere cosa sia, ma sento che quel qualcosa, in qualche modo, lo rende simile a me. E ora, notando l'intimità con la quale parla alla strana fanciulla del bosco, comprendo il suo interesse nei miei confronti. Con una leggerissima punta di fastidio, a dire il vero, che preferisco indirizzare verso di lui, più che a me. Lo vedo avvicinarsi con la coda dell'occhio, e so che lei lo segue. Mi volto per salutare, e gli sorrido.
– Mister Hayami, complimenti vivissimi. Mi avete fatto venire i brividi questa sera, ero completamente in balia della vostra voce, e delle suggestioni da voi create. Impressionante, dico sul serio.
Chino leggermente il capo, in segno di ringraziamento.
– È molto gentile da parte vostra my lord, ma sono io a dovervi ringraziare nuovamente per l'opportunità che mi avete offerto. Sono felice di non aver deluso le vostre aspettative.
Mi stringe la mano con fare complice, ed io ricambio con simpatia. Uno sguardo alla sua silenziosa compagna mi avverte, invece, che con lei la conversazione non sarà altrettanto cordiale. Nascondo un sorriso divertito, e attendo le presentazioni imminenti.
– Maya, permettetemi di presentarvi Mister Hayami Masumi, attore promettente e ottimo compagno di conversazione e di bevute. Mister Hayami l'amica migliore che potessi trovare, Lady Maya Kitajima, ottima compagna di conversazione e fonte inesauribile di rimproveri gratuiti.
Dall'occhiata che la ragazza gli lancia nell'accompagnare la risposta, e anche per esperienza personale, non dubito affatto dell'ultima affermazione. Chino leggermente il capo in omaggio, ma la tentazione di provocarla è davvero forte da trattenere.
– I miei rimproveri sono in buona fede, Lawrence, soprattutto quando riguardano le compagnie da frequentare. Esclusi i presenti, ovviamente.
Ovviamente. Sostengo il suo sguardo, troppo diretto per una fanciulla della buona società. Sorrido.
– Posso chiedervi se la serata è stata di vostro gradimento, milady?
Noto la sua sicurezza vacillare un istante, e il suo volto mostrare un attimo di smarrimento. Socchiudo gli occhi, e la osservo.
– Sinceramente non del tutto. Oh certo, voi siete stato molto bravo, li avete ammaliati tutti. Ma non c'era un ordine logico nei vostri haiku, concedetemi questa piccola critica alla vostra recita altrimenti così suggestiva.
Sorrido nuovamente, sapendo bene che non è stato l'ordine sparso dei miei haiku ad averla infastidita.
– Gli haiku non possiedono ordine, milady. Seguono l'ordine del cuore, e del sentire.
– Probabilmente allora il mio cuore e il mio sentire seguono un ordine decisamente diverso dal vostro.
Alzo un sopracciglio, e ricambio l'occhiata divertita di Lord Lawrence Ash. Richiamato dalla vista di qualcuno l'uomo si scusa educatamente, e prima di attendere una mia risposta ci abbandona, affrettandosi verso l'entrata del salone e lasciandomi solo alla mercé della mia affascinante e scontrosa interlocutrice. Abbasso deliberatamente il tono della voce, affinché possa sentirmi, e mi chino deliberatamente verso il suo orecchio nel sussurrare quelle parole.
– Ora che siamo soli, milady, non è stato l'ordine sparso dei miei haiku ad avervi infastidita, non è vero? Vi ho vista mentre recitavo, e lo so che avete sentito dentro quei versi come li ho sentiti io. Voi sapete cosa stavo recitando.
Alza gli occhi su di me, un lampo nelle iridi scure, e comprendo di non aver sbagliato nella mia intuizione.
– Infastidita non è il termine giusto, signore. – Lo dice passando un lungo sguardo inquisitorio sulla mia figura fasciata nel Kimono, con le braccia raccolte al petto, sui miei piedi, coperti dai tabi e calzati in un paio di zori. – Voi vi siete preso gioco di me, questa mattina.
– Se vi avessi detto che sarei stato io ad animare questa serata di poesia, voi sareste venuta comunque, signora?
Lei aggrotta leggermente le sopracciglia, e vedo un leggero rossore imporporarle appena le guance dalla pelle perfetta, ma, e ne sono sicuro, non del colore che lei desidererebbe avere. La sua voce è ferma, e il tono duro mentre mi volta la schiena.
– No, probabilmente no. E adesso scusatemi, mi sono trattenuta con voi più di quanto dovuto, e consentito. Vi rinnovo i miei complimenti, signor Hayami, e con questi aggiungo l'augurio di imparare al più presto le norme che regolano i rapporti nella buona società inglese.
La guardo allontanarsi con grazia ed eleganza, accennare saluti, sorridere. Mostra sicurezza, è il suo ambiente. Se non fosse per quel leggero tremore delle dita nel sollevare appena l'orlo del vestito, e per il delicato rossore che le imporpora appena le guance delicate e la pelle nuda del decolleté. Dovrei sentirmi offeso, ma non ci riesco. Chino leggermente il capo, e socchiudo gli occhi. Sorrido.

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Capitolo 5
*** Cap. 5 ***


Capitolo 5

Alzo il capo e vedo
me coricato
nel freddo
(Miura Chora)

− Avanti.
− Milady, l’ammiraglio vi aspetta nello studio.
Eccoci. Sapevo che il momento sarebbe arrivato. Prendo fiato prima di rispondere.
− Digli che lo raggiungerò tra qualche minuto.
La cameriera fa un leggero inchino e si richiude la porta alle spalle. Poso il libro che sto leggendo e mi alzo avvicinandomi alla finestra. Oramai l’autunno è arrivato anche a Londra: il cielo è una cappa plumbea e pesante, residui filacciosi di nebbia indugiano ancora attorno alla base di alberi e cespugli e il prato è già ricoperto di foglie morte.
Madre! Dammi tu la forza, ti prego. Dammi la forza di sopportare.
Ormai non c’è più niente che possa fare. Ripenso alla conversazione avuta con Lady Mulberry poco prima della partenza da Chesnore. Ricordo la tristezza dipinta sul suo viso e la rabbia impotente nei suoi occhi. Purtroppo, purtroppo per me, anche lei ha dovuto ammettere che non ci sono vie d’uscita: devo piegarmi all’imposizione dell’ammiraglio. Se solo avessi i mezzi, scapperei lontano da tutto questo: dal perbenismo soffocante, dalla convinzione che le donne debbano essere solo bei soprammobili senza voce in capitolo sulla propria vita, dai discorsi fatui, dall’ipocrisia verso se stessi in primo luogo e verso tutti gli altri poi. Ma non posso, non avrei idea di come sopravvivere e nessuno a cui potermi rivolgere senza trascinarlo nel fango con me.
Con un sospiro mi volto e vado incontro al mio destino. A testa alta, come mi è stato insegnato.
 
Lo studio dell’ammiraglio è immerso nella penombra, e freddo. Sente sempre troppo caldo lui, qui. Abituato alle scomodità dei vascelli militari, non riesce a scrollarsi di dosso certe abitudini spartane, per così dire. Ricordo le interminabili e furiose discussioni per riuscire ad ottenere il permesso di mantenere il camino acceso per tutto il giorno nella camera della mamma, dopo che fu costretta a letto dalla sua malattia.
− Maya, sedetevi. Immagino sappiate perché vi ho fatta venire − dice, continuando a tenere la testa chinata sulla scrivania.
− Sì ammiraglio, lo immagino.
Appoggia la penna con cui stava scrivendo e prende la polvere asciuga inchiostro, ne lascia cadere un po’ sul foglio e poi ne soffia via l’eccesso. Piega la lettera e la ripone dentro una spessa busta color crema. Poi, finalmente, alza il viso verso di me.
Ci osserviamo a vicenda, in silenzio. I suoi occhi di ghiaccio mi fissano impassibili, incastonati nella fitta rete di rughe che gli percorre il viso. L’asprezza della vita di mare ha certamente lasciato segni profondi sulla sua pelle, e nel suo animo. In tanti anni di convivenza mai una parola gentile, né per me né per mia madre, che pure era sua moglie. Ci ha sempre trattate con fredda e rigida cortesia, imponendoci le sue abitudini e idee, controllando ogni aspetto della nostra vita. Alla fine mia madre ha ceduto all’infelicità ed è caduta in un profondo stato di prostrazione sia fisica che mentale.
Ero piccola quando si sposarono, ma credo che, se anche il matrimonio le fu quasi imposto, almeno all’inizio lei abbia provato a far nascere dentro di sé dei sentimenti verso il marito e di costruire un rapporto basato sull’affetto; e credo anche che la causa principale della sua malattia sia stata l’indifferenza dell’ammiraglio. Lui non ci ha mai voluto bene, siamo state sempre e solo un mezzo per guadagnare prestigio sociale.
Ed eccomi qua, pronta a diventare la sua nuova merce di scambio. Aspetto solo di essere informata su chi sarà il compratore.
− Ho deciso che accetterete la proposta di matrimonio di Lord Edmund Middleton, visconte di Hendrick e primogenito del conte di Middleborough e di Lady Margaret. Sarà nostro ospite domani all’ora del tè. È inutile dire che non ho intenzione di discutere oltre della questione. Avete portato il lutto per oltre un anno e mezzo, adesso basta. Vi sposerete e prenderete il vostro posto in società.
Chino la testa.
− Sì, ammiraglio.
− Bene, potete andare.
Mi alzo, faccio una piccola riverenza e lascio la stanza. Dopo aver richiuso la porta alle mie spalle, rimango per qualche secondo con la mano stretta attorno alla maniglia, scossa da brividi violenti.Chiudo gli occhi e serro i denti, per controllare il tremito delle mani, e delle labbra. Ecco miseramente crollato il sogno di una vita felice accanto a un uomo che mi ama e che amo. Sì, anche io come qualunque altra fanciulla ho letto dell’amore, l’ho sentito raccontare, l’ho visto negli occhi della mamma quando mi parlava di papà, l’ho sognato. Soprattutto, l’ho sognato.
− State bene, milady?
La voce di Stewart mi scuote dai miei pensieri.
− Sì grazie, Stewart. Ero solo assorta. Andrò in salotto, servitemi lì il tè quando sarà ora.
− Ero venuto ad avvisarvi che avete una visita, milady – dice porgendomi un vassoio d’argento su cui è appoggiato un biglietto da visita.
Lo prendo e immediatamente mi sento un po’ meglio.
− Grazie Stewart, dite a Mae di prepararsi per uscire e di prendere il mio soprabito verde, con i guanti e il cappello abbinati.
− Subito milady.
Guardo il maggiordomo prendere la direzione della cucina prima di dirigermi a mia volta verso il salotto.
Apro delicatamente la porta e lo vedo immediatamente, stagliato nella cornice luminosa della finestra, le mani intrecciate dietro la schiena, intento ad osservare qualcosa all’esterno.
− Lawrence, vi prego portatemi fuori a prendere il tè. Voglio uscire da questa casa.
Avrei voluto, e dovuto, essere più controllata, e distaccata, e signorile, ma non ci sono riuscita. Lawrence è l’unico vero amico che abbia, non so e non voglio fingere anche con lui.
Mi studia un attimo. C’è un velo di tristezza e comprensione nei suoi occhi mentre dice: – Ma certo, Maya. Andiamo subito.
Mi avvicino e gli appoggio una mano sul braccio.
− Grazie.
Lui annuisce sorridendomi dolcemente.
 
Stiamo camminando lentamente lungo Regency Street, diretti verso una delle sale da tè più frequentate del momento. Quando ero più piccola un buon tè caldo e un vassoio di pasticcini riuscivano a lavare via tutti i dispiaceri, ma adesso, oggi…
− Allora Maya, volete dirmi che cosa è successo? Raramente vi ho vista così abbattuta.
− Davvero non riuscite ad immaginarlo, Lawrence? Il candidato è stato scelto. Domani avverrà la presentazione ufficiale.
Lawrence si blocca e mi guarda dritto in viso.
− Mi dispiace – dice, stringendo ancora di più la mano che ho passato sotto il suo braccio. – Sapete bene che se fosse in mio potere… ma fino a che mio fratello maggiore non si sarà sposato io non riceverò niente della mia rendita e, tra l’altro, non credo che il vostro patrigno acconsentirebbe al matrimonio con un figlio cadetto.
− No Lawrence, infatti. Anche se certamente sarebbe la soluzione migliore per entrambi.
− Lo credete davvero? Vi voglio troppo bene, Maya, per condannarvi a una vita di menzogne e sotterfugi. Per me certo sarebbe un’ottima scelta, ma non per voi. E lo sapete bene.
− Almeno sarei sicura dell’affetto e della stima di mio marito.
Un sorriso leggero gli piega leggermente gli angoli delle labbra.
− Vorrei abbracciarvi, Maya, tenervi stretta e consolarvi. Se solo non fossimo in questa maledetta città, in questa nazione, così puritana e pronta alla condanna, vi dimostrerei tutto l’affetto che nutro per voi, qui e ora.
− Grazie Lawrence, lo so. – Mi soffermo un attimo a valutare il mio futuro e proseguo. − Saranno durissimi i prossimi mesi, senza questi momenti solo per noi. Però ci scriveremo, vero? Continuerò ad essere la vostra migliore amica e l’unica con il diritto di rimproverarvi, promettetelo.
Lawrence mi aggiusta un ricciolo che è sfuggito alle forcine.
− Non dubitate mai di me. − Rimaniamo a guardarci negli occhi per un lungo istante. Le sue parole avvolgono il mio cuore oppresso, morbide e carezzevoli come un velo di seta. Una lacrima solitaria rotola lungo la curva della mia guancia, lui la raccoglie sulla punta del dito indice, piccola goccia trasparente, e se la porta alle labbra. – Non dubitate mai di me. Così come io non dubiterò mai di voi.
Riesco solo ad annuire, senza parole per questo gesto carico di un affetto smisurato.
Lo schiocco di una frusta rompe la magia e riprendiamo a camminare.
– Allora ditemi, chi è il fortunato?
− Lord Hendrick − rispondo con una smorfia.
− Quel borioso, arrogante, stupido figlio di… sua madre?
− Proprio lui. Ma potete star certo che non troverà in me una fidanzata sottomessa e adorante.
− Povero Middleton, mi fa quasi pena! – ride Lawrence.
− Quasi… − ma vengo interrotta dall’avvicinarsi di un signore alto, dal portamento distinto e vestito elegantemente.
− Ash, speravo proprio di incontrarvi. Avrei una cortesia da chiedervi. Milady – e si inchina sollevando leggermente il cappello.
− Maya permettetemi di presentarvi Mister Lawrence Talbot, di cui sicuramente conoscerete la fama. Talbot questa è Lady Maya Kitajima, nipote del conte di Suffolk e figliastra dell’ammiraglio Worthington.
Gli rivolgo un sorriso cortese e una riverenza.
− È un piacere, Mister Talbot, fare la conoscenza di un attore così famoso e apprezzato.
− Troppo gentile milady. Ricordo di avervi già vista in occasione della recente serata di poesia a Chesnore, ma non ho avuto il piacere di esservi presentato quella sera. Che nome particolare il vostro, − azzarda piegando leggermente la testa di lato, in una muta richiesta di informazioni.
− È un nome giapponese – decido di assecondarlo nella sua curiosità. – Anche mio padre lo era.
− Curioso, – risponde l’uomo. – Spero che un giorno vorrete farmi l’onore di raccontarmi la vostra storia, milady. Un attore ha sempre bisogno di buone storie.
− Vedremo. – Non riesco a decidere se quest’uomo mi piace oppure no. Ha dei modi affabili e diretti, ma leggo nei suoi profondi occhi scuri un’inquietudine che non so definire. Possiede il fascino e la sicurezza di chi è abituato a essere sempre al centro dell’attenzione, eppure non concede che parte di se stesso. Mi attrae e mi respinge nello stesso tempo. Strana sensazione. – Andiamo Lawrence? Comincio a sentire freddo.
− Ma certo Maya, scusatemi. – Poi rivolgendosi a Mister Talbot. – Che ne dite di pranzare insieme domani, così potremo parlare senza timore di annoiare le giovani e affascinanti signore? − conclude strizzandomi l’occhio.
− Ottima idea. E vi sarebbe possibile portare con voi anche quel giovane attore che ha recitato in modo così magistrale quelle bellissime poesie a casa vostra?
− Ci proverò, quantomeno. Gli farò avere il mio biglietto questa sera stessa.
− Perfetto Ash, aspetterò anch’io un vostro biglietto. Vi ringrazio e vi riconsegno a questa deliziosa signora.
Annuisco e sorrido in segno di saluto, poi torno ad appoggiarmi al braccio che Lawrence mi porge e proseguo con lui nella nostra passeggiata, seguita, nella mia testa, dalla luce di due occhi ambra che mi fissano sfrontati.

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Capitolo 6
*** Cap. 6 ***


Capitolo 6

 
Ombre d’alberi –
e la mia ombra che si muove
nella luna invernale.
(Masaoka Shiki)
 

 
Trovare il biglietto da visita di Lord Lawrence Ash infilato sotto la porta della camera in affitto dove vivo mi ha lasciato alquanto sorpreso ieri sera, ma il mio stupore è cresciuto maggiormente nel leggere le poche righe, scritte con una grafia elegante e ricercata, con le quali mi si invitava a pranzo per oggi. Al fine di aumentare la mia curiosità, ed essere certo che non sarei mancato all'appuntamento, l'inappuntabile Lord Lawrence Ash mi ha informato che avrei trovato, al mio arrivo, una piccola sorpresa di mio sicuro gradimento, cosa della quale si riteneva del tutto certo. Ho sorriso a quella debole presunzione, e ho rigirato più volte il biglietto tra le dita, chiedendomi il perché di questo invito. Una piccola sorpresa di sicuro gradimento... Una sorpresa... Ho pensato a qualcosa che possa riguardare la mia recitazione, ma forse è sperare troppo. In fondo, quell'uomo non conosce nulla di me. Un incontro casuale in una bettola di quart'ordine in una notte come tante, dopo una serata come tante. Quattro chiacchiere, molta curiosità, poche domande e ancora meno risposte. Ma una certa simpatia, e l'invito a portare un poco del fascino dell'oriente in una villa inglese sperduta nelle campagne ben oltre l'estrema periferia londinese. Ora so che la sua curiosità nei miei confronti non era dovuta tanto alla mia diversità, quanto piuttosto a una somiglianza con la ragazza da me incontrata nel bosco. La stessa che ho salvato da un cane inferocito e che ho poi ritrovato alla serata di poesia. Ora lo so: quando ha visto me, ha pensato a lei. Le vuole bene, si capisce. C'è una certa confidenza tra loro, ma c'è anche qualcos'altro: qualcosa che mi sfugge, che non comprendo, e che tuttavia, per qualche misterioso motivo, mi dà fastidio.
La ragazza... possibile? Kitajima Maya. Ricordo bene come si chiama, non potrei mai scordare l'unico nome giapponese che, oltre al mio, mi sia capitato di sentir pronunciare in Inghilterra. Scuoto la testa mentre aggiusto il mantello sulle spalle e mi affretto al luogo dell'appuntamento. No, quest'ipotesi l'avevo scartata ieri sera. Eppure non riesco a togliermi questa  idea, o forse speranza, dalla mente, pur sapendo che sarebbe alquanto difficile e sconveniente per lei pranzare fuori casa da sola in compagnia di due uomini. Potrebbe esserci la cameriera, Mae se non ricordo male, ma no, non sarebbe fattibile comunque. Accelero il passo, facendomi largo tra quelli che dal viso e la divisa appaiono studenti, musicisti, popolani, e qualche signore, più benestante degli altri, attento a tenere la giusta distanza e un adeguato contegno nei confronti della dama che gli passeggia al fianco.
Pranzo insolito, questo. Lord Lawrence Ash ha scelto un locale frequentato da artisti: attori, musicisti, gente di spettacolo. Mi sfugge un sorriso, e sbuffo alla mia ingenuità. Come ho potuto pensare che Mister Ash osasse portare quella ragazza a pranzo in un posto simile? E accompagnato da uno come me, per giunta! Varcata la soglia del locale, infatti, nessuna ragazza è seduta al tavolo di my lord, il quale si alza non appena mi scorge e mi si avvicina con atteggiamento gioviale e amichevole. C’è invece un uomo, dalla figura imponente e lo sguardo accattivante che si alza a sua volta, osservandomi con curiosità e interesse, lasciando trapelare dagli occhi un qualcosa che mi attrae, e al quale non riesco a dare un nome. Il volto mi è familiare, ma non riesco a trovargli una collocazione tra le mie scarse conoscenze in città.
− Sono davvero onorato che abbiate deciso di accettare il mio invito, Mister Hayami. Venite, vi stavamo aspettando. Il mio ospite sembra piuttosto impaziente di fare la vostra conoscenza.
Non sono abituato a tanta confidenza, e questa intimità mi coglie un poco impreparato. Lord Lawrence Ash mi posa una mano sulla spalla, e mi sospinge leggermente verso il tavolo occupato dal suo compagno, l'uomo che tanto mi aveva colpito al mio ingresso nel locale. E che a dire il vero, non ha ancora smesso di stimolare la mia curiosità.
− Sono io sentirmi onorato di aver ricevuto un invito da parte vostra, my lord. Devo dire che vi riesce piuttosto bene incuriosire le persone, e assicurarvi la loro impossibilità di rifiutare un vostro invito.
− Credetemi, Mister Hayami, alla fine di questo pranzo non vi rammaricherete affatto di questa mia piccola scorrettezza.
Il sorriso e l'occhiata sorniona con cui accompagna le parole velocemente sussurrate alla mia sola attenzione non fanno altro che aumentare il mio interesse, e per contraltare, la mia tensione. Lo guardo perplesso, ma abbiamo raggiunto il tavolo, e attendo le presentazioni.
− Mister Talbot, ogni promessa è debito. Permettetemi di presentarvi l'ospite che ha catturato così tanto interesse da parte vostra, come da parte mia, se mi è lecito affermarlo: Mister Masumi Hayami, giapponese di origine, e da qualche anno, inglese di adozione. Attore di grande talento, a quanto pare.
Rimango un istante basito. Non saprei dire se per il fatto di essere stato presentato come attore di grande talento o per il nome appena pronunciato, Talbot, che continua a rimbalzarmi nelle orecchie, e che associo a Shakespeare: Amleto, Macbeth, Otello, e tutte le altre opere interpretate da quell'uomo e da me divorate dal loggione dopo aver messo da parte con parsimonia e determinazione i miei pochi, per non dire miseri, risparmi mensili. Attendo, senza sapere bene cosa aspettarmi, né cosa dire. Mister Talbot allunga una mano ed io ricambio la sua stretta vigorosa, mentre i suoi occhi penetranti non smettono nemmeno per un istante di sondare i miei alla ricerca di qualcosa, ed io mi chiedo cosa sia, e se riuscirà a trovarlo mai, quel qualcosa.
− Ha detto giusto Ash, talento! − Si prende una breve pausa, teatrale e studiata, come lui. Solo dalle parole però: gli occhi scuri e indecifrabili rimangono sempre fissi nei miei. − Stavo per avvicinarvi quella sera a Chesnore, in seguito alla vostra brillante esposizione di quegli splendidi versi giapponesi... Haiku, se non ricordo male. − Abbozza un sorriso, il primo da quando ho fatto il mio ingresso nel locale. − Vi prego di perdonare la mia terribile pronuncia, nel caso avessi involontariamente storpiato il nome.
Devo dire qualcosa, ma sono totalmente rapito dal fascino magnetico e dall'aura strana irradiata da quest'uomo, che mi attrae, e mi inquieta allo stesso tempo.
− Haiku, sì. La pronuncia è corretta, Mister Talbot. Non so dirvi quanto sia onorato di fare la vostra conoscenza, e quanto mi senta orgoglioso di avere attirato in qualche modo la vostra attenzione. Né tantomeno so descrivere l'emozione che mi suscita vedervi recitare sul palcoscenico, quanto invidio la vostra bravura, e quanto vi ammiro.
Mi rendo conto di aver parlato in modo sconclusionato, forse anche un tantino esagitato. Ma i miei pensieri sono ancora sconnessi, completamente concentrati sulle parole “talento” e “Talbot”, due concetti che fatico ancora ad associare appieno al mio nome. Per fortuna ci pensa Lord Lawrence Ash a stemperare la mia tensione, invitandoci a prendere posto poiché la fame incombe e indicandomi cortesemente la sedia libera accanto a sé.
− Vi piace davvero la mia recitazione?
La domanda a bruciapelo di Mister Talbot, formulata nell'istante esatto in cui prendo possesso della sedia a me destinata, mi fa alzare stupito gli occhi su di lui e mi lascia un istante perplesso, a valutare e chiedermene il motivo.
− Non potrebbe essere altrimenti. Non ne verrei catturato in modo così disarmante se non fosse vero. − Gli occhi dell'uomo non smettono di scrutarmi, come gli occhi di my lord, del resto. Arriva il cameriere, e la possibilità di replica viene momentaneamente posticipata. Ordiniamo il pranzo, o meglio, ci pensa il nostro ospite a ordinare per noi, consigliandoci i piatti migliori e scegliendo il vino più prestigioso presente nella cantina. Non pongo alcuna obiezione, è da molto tempo che non mi concedo un pranzo decente.
− Mister Hayami, vi chiederete il perché di questo invito, e per quale motivo alla fine non mi sia presentato a voi al seguito della serata di poesia. La verità è che ero scosso, e avevo bisogno di pensare. Riorganizzare pensieri ed emozioni, e riflettere su un qualcosa che avevo ormai deciso di abbandonare da tempo. Riguardo al perché abbia chiesto ad Ash di incontrarvi, la risposta è semplice: vi piacerebbe entrare a far parte della mia compagnia?
 
La proposta di Talbot mi ha lasciato qualche istante senza fiato, a fissarlo incredulo e in silenzio chiedendomi cosa abbia mai fatto per meritare di venire preso in giro in quel modo. Ma non si è trattato di uno scherzo, e la proposta si è rivelata tanto seria quanto inaspettata.
Cammino al suo fianco. Lord Lawrence Ash ci ha lasciato per occuparsi di affari non meglio definiti, dopo essersi congratulato con me e avermi chiesto ironicamente perdono per quella sua piccola scorrettezza nell'invito. Gli ho sorriso in risposta, sapendo che non potrò mai ringraziarlo abbastanza per quella sua “piccola scorrettezza”, come si diverte a chiamarla lui. Mister Talbot ferma una carrozza, e mi fa cenno di salire. Mi ha chiesto di seguirlo al teatro: il fatto che io abbia accettato senza indugi la sua offerta mi ha fatto diventare una sorta di sua proprietà, e il suo atteggiamento nei miei confronti è cambiato istantaneamente nel momento stesso in cui ho articolato un lunghissimo periodo che sarebbe stato semplicemente riassumibile con la parola “sì.” Ora gli siedo di fronte, e i suoi occhi continuano a scrutarmi. Ne sostengo lo sguardo, affascinato e composto.
− Avete detto di aver studiato teatro nel vostro paese d'origine. Un giorno mi piacerebbe saperne di più. Piuttosto, che conoscenze avete del teatro occidentale?
Sposta il bastone nella mano sinistra, e accavalla le gambe in un gesto che su qualcun altro potrebbe sembrare effeminato, ma non su di lui.
− Non molte, a dire il vero. Ho letto alcuni libri che sono riuscito a trovare, e tutti gli articoli e le recensioni uscite sui giornali. E ho assistito a tutte le rappresentazioni alle quali mi è stato possibile accedere, assimilando tutto ciò che vedevo, osservando, scrutando, cogliendone ogni sfumatura, e facendola mia. Nient'altro, mi dispiace.
Abbasso mio malgrado lo sguardo, spero che le mie parole non si trasformino in problema. La voce di MisterTalbot e le sue parole mi rassicurano.
− Meglio così. Pochi scogli da limare, e la vostra conoscenza del teatro orientale potrebbe tornare molto, molto utile.
Sorride, ed io comprendo che le sue parole seguono altri pensieri, dai quali vengo momentaneamente escluso, e dei quali comprendo anche, tuttavia, di far parte.
− Il prossimo spettacolo che porteremo in scena è “La tempesta”. La conoscete?
Mi scruta con i suoi grandi occhi neri ridotti a fessure, ed io scuoto amaramente la testa.
− No, mi dispiace. Non ho mai assistito a una sua rappresentazione.
Mister Talbot batte due colpi con il bastone sul tetto della vettura e il cocchiere rallenta l'andatura, per fermare poi la carrozza di fronte a un palazzo imponente e austero, che riconosco all'istante. Mister Talbot sorride e non attende che gli venga aperta la portiera. Ad un suo cenno scendo dietro di lui, aspetto che saldi la corsa e lo seguo lungo il marciapiede affollato e rischiarato da un debole raggio di sole.
− Poco male, vorrà dire che il primo approccio lo avrete con il copione. Mi serve un nuovo Calibano dopo che il precedente ha pensato bene di abbandonare la compagnia e darsi alla macchia. Seguitemi, vi presento i vostri nuovi colleghi e il luogo che volente o nolente diverrà da oggi la vostra casa. Non deludetemi, e ne guadagneremo entrambi.
Varca la soglia e si ferma, si volta nella mia direzione e fissa uno sguardo scuro come la notte nei miei occhi ambrati e spalancati su di lui.
 − Benvenuto nella mia compagnia, Mister Hayami.

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Capitolo 7
*** Cap. 7 ***


Capitolo 7

 
Viviamo separati e facciamo cose diverse,
ma eguale è il nostro destino.
(Matsuo Basho)
 

Carissimo Lawrence,
ho saputo solo poco fa da sua Grazia che siete rientrato a Oxford già da alcuni giorni. Me ne rammarico profondamente perché avrei gradito moltissimo una vostra visita in questo periodo buio e insensato. Spero, comunque, che il motivo di una partenza così improvvisa sia per voi fonte di gioia e diletto.
Sarete curioso, immagino, di sapere come si è svolto l’incontro con Lord Hendrick e quali impressioni ne ho ricevute. Eccomi quindi a voi, non sarò così crudele da tenervi a lungo sulle spine.
Come ben ricorderete, la visita era stata fissata per il giorno successivo al nostro ultimo incontro. My lord è arrivato puntualissimo, nonostante la pioggia scrosciante e il vento furioso. Io e l’ammiraglio eravamo già in salotto, immersi ognuno nei propri pensieri e senza sentire la necessità di parlare o intrattenerci vicendevolmente. L’indifferenza è oramai, amico mio, l’unica cosa che ci accomuna. Se non fosse che sto per lasciare la casa che mi ha vista crescere per un'altra dove incontrerò la stessa freddezza e lo stesso disinteresse, potrei considerare, senza il timore di esagerare, questo matrimonio alla stregua di una liberazione.
Ma torniamo a Lord Hendrick. Avevo già avuto occasione, in passato, di condividere una o due danze con lui e ricordavo la sua alterigia e la sua scarsa propensione alla conversazione. In questo l’ho trovato piuttosto cambiato, e ammetto la possibilità di un mio precedente errore di giudizio.
Dopo essere stato introdotto da Stewart e aver scambiato i convenevoli con l’ammiraglio, si è diligentemente seduto accanto a me sul divano intrattenendomi con aneddoti riguardanti conoscenti comuni e racconti sulla sua famiglia e i suoi possedimenti. Suo padre, il conte di Middleborough, sembra sia stato, in gioventù, amico intimo di personaggi illustri come Lord Gladstone e Lord Rosbery. Mi ha parlato molto di politica e delle sue aspirazioni, tanto che credo di essermi fatta un’idea piuttosto precisa sul perché sia sua intenzione chiedermi in moglie.
Vi ho stupito vero, Lawrence? Eravate convinto che avrei palesato tutto il mio disappunto, che avrei criticato ogni sua parola e ogni suo gesto, invece… Ma no Lawrence, non ce la faccio a mentirvi. Non mi piace. Neanche un po’. Per tutto il tempo che siamo rimasti a parlare, ho avuto la sensazione, netta e inequivocabile, che stesse solo posando. La sua gentilezza e il suo charme non nascono né dal cuore né, tantomeno, da un animo gentile, ma solo ed esclusivamente da una lunga pratica. È stato educato al fine di affascinare chi gli sta di fronte, e lui lo fa alla perfezione, se la cosa può tornargli utile.
Adesso voi vi chiederete come è possibile che abbia capito tutto questo da una sola conversazione. In realtà, nell’ultimo mese, ci siamo incontrati spesso e ho avuto modo di osservarlo attentamente. Soprattutto ho potuto vedere i cambiamenti repentini della sua espressione quando per qualche motivo, distrazione o altro, lasciava cadere la maschera. Certo, è una bella maschera quella che indossa, e in questo momento credo di essere una delle fanciulle più invidiate di tutta Londra. Gli zigomi marcati, il naso greco, il taglio forte della mascella, lo sguardo fiero e i capelli neri e ondulati fanno di Lord Hendrick un uomo di rara bellezza (chissà poi perché ve lo dico, certamente lo avrete notato da solo!), eppure a me non basta. Che ironia vero, amico caro? Io che per tutta la vita ho cercato l’approvazione di chi mi stava attorno, adesso vorrei solo diventare invisibile. Vorrei che tutti, voi escluso, si dimenticassero di me e mi lasciassero condurre la mia vita, fare le mie scelte.
Chi o cosa sceglierei, se questo sogno potesse avverarsi? Non lo so, Lawrence. Non lo so veramente. Mi sento strana in questi ultimi tempi. Pensieri e desideri che mai prima d’ora avevano percorso la mia mente, la invadono nei momenti più impensati e allora sono assalita da un fortissimo senso di oppressione. Vorrei solo essere libera. Mi capite vero, amico mio? Voi più di chiunque altro.
In ogni caso, la settimana prossima ci sarà una cena a cui io e l’ammiraglio parteciperemo insieme al Conte e alla Contessa di Middleborough. La prima uscita ufficiale che renderà chiare a tutti le intenzioni della famiglia, poi credo che Lord Hendrick mi farà la richiesta. Sappiamo entrambi che è solo una formalità, e che ha già avuto il beneplacito dell’ammiraglio. Anzi, mi stupisce che la proposta non sia stata fatta prima, ma forse il mio futuro promesso sposo voleva essere sicuro delle mie doti e del mio carattere, e forse i ripetuti tentativi di farmi sorridere e ridere erano solo un modo educato di controllare la mia dentatura.
Se solo sapesse che vi scrivo lettere di questo tenore, che la nostra amicizia va oltre il rapporto signorina-gentiluomo, che a voi rivelo quei pensieri che spesso nascondo anche a me stessa… Ma è meglio non pensarci adesso.
Ho paura, Lawrence. Ho veramente paura. Paura di non conoscere mai il vero amore e tutte le sensazioni che da esso derivano. Paura di vivere una vita arida, lontana da ogni passione. Paura di non riuscire più a percepire l’essenza delle persone che mi circondano. Ricordate quella volta che passeggiando per St. James Park mi parlaste della vostra teoria riguardante l’armonia delle persone? Mi faceste così tanto ridere descrivendo le varie tipologie che incontravamo; eppure, anche nel divertimento, c’era una profonda verità in quello che dicevate. Mi capita sempre più spesso di chiedermi come sono e come sarò io. Se quella che voi, in modo così evocativo, chiamate “armonia” è veramente l’insieme di tanti aspetti della personalità di ognuno, dalla fiducia al rispetto di se stessi, dalla postura all’intonazione della voce, dallo sguardo alla fluidità dei movimenti mi piacerebbe immensamente sapere che cosa si legge di me dal mio modo di pormi agli altri.
Sapete Lawrence, a volte penso che il vostro posto non sia qui in Inghilterra, ma in Giappone. Ci sono aspetti di quella cultura che rispecchiano il vostro essere molto meglio di quanto non facciano la nostra epoca e la nostra società. Un giorno forse… eppure dentro di me so già che se mai tornerò nel paese d’origine di mio padre, non sarà con voi.
Ma lasciamo da parte i pensieri tristi. Oggi mi aspetta un incontro che, sono certa, mi farà tornare il buonumore. Vi racconterò tutto nella prossima lettera.
 
Spero di leggervi e magari vedervi al più presto.
Con immenso affetto vostra
Maya
P.S. E il vostro pranzo con Mister Talbot e Mister Hayami? Non ho mai avuto occasione di chiedervelo, ma come lo avete conosciuto? È un vostro amico?
 
Non rileggo quello che ho scritto. Non lo faccio mai con le lettere a Lawrence. So già che mi farei prendere da mille dubbi sull’opportunità di quello che ho appena detto, e finirei con il cambiare o cancellare quasi tutto. Preferisco lasciare che i miei pensieri fluiscano liberi, è così che voglio sia la nostra amicizia; non voglio barriere sociali o di etichetta tra noi.
Mentre aspetto che l’inchiostro si asciughi rileggo il biglietto d’invito ricevuto da Mister Hughes; mi aspetta domani nel suo studio per mostrarmi i suoi ultimi lavori e per una sorpresa. Mi chiedo, ancora una volta, di cosa potrebbe trattarsi, ma per quanto ci pensi davvero non riesco a farmi un’idea.
Riprendo in mano la lettera per Lawrence, la piego e la imbusto. Scrivo l’indirizzo e l’appoggio sulla scrivania. Ci penserà poi Mae a portarla all’ufficio postale.
Il rintocco della pendola dietro di me mi avvisa che si è fatto tardi e che devo uscire subito se voglio arrivare puntuale all’appuntamento con Crystabel.
 
La carrozza pubblica si ferma un po’ troppo bruscamente davanti al cancello del giardino botanico ed io sono costretta a cercare un appiglio per non cadere in avanti. Akio purtroppo ha dovuto accompagnare l’ammiraglio ad un ennesimo incontro con i Middleton e io ho dovuto provvedere altrimenti. Un usciere si affretta ad aprire lo sportello e mi porge la mano per aiutarmi a scendere. Cerco nella mia borsetta le monete da dargli per saldare la corsa e gli dico di tenersi il resto, quindi mi dirigo verso la sala d’aspetto dove so che Crystabel mi sta già attendendo.
Riconosco subito la sua figura di spalle, assorta a guardare i giardini e le serre che si dipanano fuori dalla grande porta-finestra chiusa sui rigori dell’inverno ormai prossimo. I capelli biondi raccolti in uno chignon alto sormontato da un cappellino piatto e decorato da alcune piume d’aigrette, le spalle diritte, il portamento fiero, e quella sensazione di dolce malinconia che la circonda e che le conferisce un’aura elegantemente tragica: tutto di lei è inconfondibile. Si intuisce, al solo scrutare i suoi profondi occhi verdi, un grande rimpianto, o forse una delusione, qualcosa di cui lei non ha mai parlato con nessuno, almeno che io sappia. Crystabel La Motte è una lontana cugina da parte materna, ovviamente, appartenente al ramo meno nobile della famiglia, ma non per questo meno interessante. Al contrario, la sua ricca personalità, l’intelligenza vivace e le indiscusse capacità poetiche la rendono una delle creature più interessanti che abbia mai incontrato. Ma ciò che più ammiro di lei è la forza indomita con cui ha saputo imporre i suoi ideali e scegliere la sua vita. Crystabel non si è mai sposata, vive da sola con l’unica eccezione di una vecchia governante in un modesto ma elegante cottage a Wimbledon e si dedica alla sua arte. È un privilegio per me potermi considerare sua amica.
− Eccomi Belle, scusatemi se vi ho fatto attendere.
− Maya, mia cara… − dice voltandosi e abbracciandomi dolcemente. – Mi sembra sia passato un secolo dall’ultima volta che ci siamo viste; non sapete quanto mi ha fatto piacere ricevere il vostro invito.
− E a me dispiace di aver lasciato che passasse tutto questo tempo, ma adesso siamo qui e avremo modo di recuperare. Ditemi, avete qualche novità da raccontarmi?
− Nessuna degna di nota, cugina. Le mie giornate trascorrono pressoché identiche: scrivo, passeggio, ricamo, di tanto in tanto visito qualche conoscente o una mostra qui in città.
Chiacchierando abbiamo imboccato la galleria coperta che porta all’esposizione dei fiori esotici. Non appena entriamo nella gabbia di vetro l’aria intrisa di umidità e profumo mi afferra alla gola e sembra volermi rubare il fiato, ma è una sensazione che dura solo qualche secondo, anche se il respiro rimane comunque pesante. Come accade ogni volta l’opulenza dei colori e la sinfonia passionale dei profumi mi rapiscono e mi ritrovo a fissare in estasi le varie specie di orchidee che una dopo l’altra si offrono sensuali al mio sguardo. La Phalaenopsis violacea, la Phapiopedilum rotschildianum e la Phapiopedilum vinicolor sono le mie preferite: i petali carnosi dai colori di volta in volta decisi o delicati che sfumano uno nell’altro, il profumo intenso, le forme insinuanti, tutto di loro mi affascina.
Improvvisamente la voce di quell’uomo mi risuona nella mente:
 

L'orchidea, di notte
nasconde nel profumo
lo splendore del fiore

 
Seguo il suo consiglio e chiudo gli occhi lasciandomi avviluppare dai soli odori: terriccio umido, erba, foglie e su tutto il concerto di quei profumi avvolgenti e familiari. La serra, le strade trafficate di Londra, le case e i palazzi scompaiono per essere sostituiti dalla grazia e tranquillità di un giardino giapponese in piena notte. La luna piena che si insinua tra i rami di un ginkyō e lo scorrere placido di un ruscello artificiale. Ricordi antichi che credevo perduti per sempre.
La voce di Belle mi giunge da lontano e fatico a tornare da lei, al mio presente.
− Mi è stato detto che presto vi fidanzerete, mia cara. È una notizia attendibile?
Ed ecco che anche gli ultimi brandelli di sogno svaniscono in un sol colpo.
− Sì, l’ammiraglio sta trattando con il conte di Middleborough.
Belle deve aver colto qualcosa nel tono della mia voce perché mi rivolge un’occhiata interrogativa. – Non sembrate particolarmente entusiasta.
− Non lo sono infatti, ma non ho altra scelta. Non sono fortunata come voi e i miei parenti non sono disposti a fornirmi una rendita che mi permetterebbe di vivere in indipendenza.
Le parole mi sono uscite dalla bocca senza che avessi il tempo di fermarle. Sono stata estremamente scortese e maleducata verso Belle. Non è certo sua la colpa della mia situazione e adesso mi dispiace di averla offesa senza motivo. Ma la sua risposta mi stupisce.
− Non pensate Maya che vivere da sola sia stata una mia scelta. Sono state le circostanze a spingermi in questa direzione e se potessi tornare indietro, se potessi cambiare certi avvenimenti della mia vita, state pur certa che lo farei senza esitazione. Un cuore spezzato e un animo pieno di rimpianti non sono buoni compagni di vita.
Sgrano gli occhi a questa confessione repentina e oso una domanda che mai avrei pensato di trovarmi a porgerle.
− Siete stata innamorata, Belle?
Lo sguardo perso e un attimo di esitazione, ma poi sospira e risponde.
− Immensamente. Ma non ho avuto fortuna. Lui era già sposato, non poteva lasciare la moglie e mi amava troppo per chiedermi di diventare la sua amante. Allora mi sembrava che non ci fossero altre soluzioni se non quella di lasciarci, ma adesso… adesso non ne sono più tanto sicura. – Abbassa il tono della voce ad un sussurro quasi impercettibile, come se qualcosa dentro di lei facesse resistenza alle parole che invece le escono dalle labbra. Cerco i suoi occhi e vi scorgo una malinconia infinita. Non posso fare a meno di chiedermi quante notti deve aver passato insonne a rimuginare sulle sue scelte. − Ho vissuto dei momenti meravigliosi insieme a lui e se fossi stata meno rigida, se avessi creduto di più nel nostro amore, avrebbero potuto essercene tanti altri. Invece l’ho allontanato pensando di riuscire a dimenticarlo, ma così non è stato. – Siamo arrivate alla fine della serra e Belle sembra rendersi conto all’improvviso di quello che è appena successo. Un rossore improvviso le colora le guance altrimenti diafane. – Oddio, scusatemi Maya, non sono argomenti adatti a una giovane come voi, questi. Venite, andiamo a prendere un tè e poi alla sartoria Graham. Ho bisogno di un nuovo parasole. – Cerca di dissimulare, di nascondere l’imbarazzo per essersi mostrata nella sua umanità e intimità di donna.
Mentre sto per salire in carrozza vedo Mister Hayami che sta parlando animatamente con un uomo alto e dai folti capelli rossicci. Ride e sembra felice. I nostri sguardi si incontrano attraverso la strada ed entrambi ci immobilizziamo, gli occhi fissi in quelli dell’altro. Gli rivolgo un cenno della testa e lui risponde con un inchino alla maniera giapponese, prima di rivolgersi di nuovo al suo amico e allontanarsi insieme a lui.
Lo seguo con lo sguardo fino a che il tocco leggero della mano di Belle mi richiama ai miei obblighi.
− State bene, mia cara?
− Non lo so, cugina. Non lo so. – le rispondo continuando a guardare le due figure di spalle che si allontanano.
− Li conoscete?
− Solo uno. È un giapponese, come me. Un conoscente di Lord Lawrence Ash.
− Capisco – dice Belle, mentre un leggero sorriso le increspa gli angoli della bocca.
Non permetto a me stessa di chiederle che cosa abbia visto sul mio volto e cosa abbia capito. O forse ho semplicemente paura disaperlo.

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Capitolo 8
*** Cap. 8 ***


Capitolo 8

 

Una perfida rugiada come quella che mia madre raccoglieva
con una penna di corvo da una malsana palude
possa ricadere su entrambi voi due! E che il vento di libeccio possa travolgervi
ed appestarvi di vesciche!
(I, 2, 325-328)

Esco dal mio antro buio, dalla terra alla quale appartengo. Questa è la prova generale prima dello spettacolo, e il mio corpo è stato dipinto dalla testa ai piedi con i colori scuri e caldi della terra; un po' di fango mi è stato appiccicato con cura qua e là sulla pelle, seguendo disegni precisi, e anche se tira un po' una volta rappreso io stesso riconosco in esso le squame. Sono Calibano, un mostro, schiavo della mia materia come di Prospero. Sono un essere selvaggio, adulatore se mi conviene, e il mio limite e la mia forza sono racchiusi nel linguaggio. Resistenza e rivolta, anelo alla mia libertà, e alla mia allegria. Indomito e indomabile, piego la testa di fronte al potere del mio signore, ma solo perché è più forte, e perché se non obbedisco mi tortura, non perché lo riconosca come tale. Io sono il solo padrone di me stesso, della mia esuberanza e disperazione, e questa è la mia isola, l'isola di mia madre, la strega Sycorax, ed io il figlio di quella sua magia oscura, e del diavolo.
 

Ed io ti amavo allora,
e ti mostrai tutto quello che di bello c'era da vedere nell'isola,
e le sorgenti di fresche acque, e le cisterne di acqua salata, e i luoghi sterili e quelli fertili.
Maledetto quando ti ho fatto vedere tutte queste cose! Tutti gli incantesimi
di Sycorax, i rospi, gli scarafaggi, i pipistrelli ti piombino addosso!
Perché io sono il solo suddito che tu abbia,
mentre prima ero re di me stesso. Ed ora mi hai confinato
in questa dura roccia, mentre il resto dell'isola
mi è vietato
( I, 2, 340-348 )

 
Volgo lo sguardo verso Angie, e la trovo bellissima. Devo stare attento, non è Angie ora, ma Miranda. Insieme avremmo potuto popolare l'isola di tanti piccoli Calibani, è questo tutto ciò a cui devo pensare ora. Piccoli Calibani, non piccoli Masumi. Il pensiero mi fa sorridere in modo forse un po' troppo malizioso, ma lo trovo perfetto per Calibano. Lui non ha freni inibitori, dice tutto quello che pensa, agisce in base ai propri impulsi, e alla propria natura. È un mostro che l'educazione non ha mai fatto suo, un essere abietto e comico, scaltro nella sua ingenuità, e libero nella sua schiavitù. Io sono Calibano, il figlio di Sycorax, l'uomo mai nato chiuso in un’ancestrale esaltazione dell'io.
 

Tu mi hai insegnato a parlare, e l'unico vantaggio che ne traggo
è che posso maledire. Che la peste rossa ti distrugga
per avermi insegnato la tua lingua!
( I, 2, 367-369)

 
Attendo le minacce di Prospero in risposta alla mia prepotenza e ribellione, e mi faccio piccolo di fronte alla paura dei suoi immensi poteri davanti ai quali le magie di mia madre, seppur potenti e nere, non erano nulla. Agisco d'impulso, come un bambino, o un animale da addestrare. È la paura che sottomette il mio corpo, paura del dolore, e della sofferenza, ma la mia mente rimane libera. Il corpo è suo, ma il pensiero resterà per sempre mio. Mi allontano a raccogliere la legna, e lascio il posto ad Ariel.
Mi siedo su una poltroncina in prima fila e seguo attentamente l'incontro di Miranda con Ferdinando. Mi sento un poco ridicolo ora che non sono più in scena a indossare solo questa assurda specie di asciugamano scuro legato intorno alla vita. Stiamo rischiando molto, davvero molto a portare in scena un Calibano vestito in questo modo. La società vittoriana non lascia scampo, ma io sono un selvaggio, e Talbot non ha voluto sentire ragioni. Non ha più nulla da perdere, ha detto. Ma io sì, e continuo a nutrire forti timori su eventuali ripercussioni.
Scosto i capelli dal viso nero come la pece e ripenso ai miei occhi ambrati fissarmi sconosciuti dal riflesso dello specchio nel camerino. Risaltano come non mai su quella pelle scura, e sono occhi ferini, lo so. Occhi indomiti, fessure per l'anima. Sono gli occhi del Calibano che è in me.
Seguo Miranda, cercando di ritrovare in lei un poco di Angie. Non la trovo. È brava, davvero brava. I suoi riccioli fiammanti ondeggiano leggeri ad ogni movimento del capo, e il suo volto regolare dai grandi occhi azzurri è in grado di catturare ogni singolo sguardo nel momento stesso in cui lei decide di volere l'attenzione su di sé. Mi è piaciuta fin dalla prima volta in cui l'ho incontrata, in questo teatro austero che è diventata la mia casa. Siamo entrati subito in sintonia, e so che è attratta da me almeno quanto io lo sono da lei. È stata lei, non Talbot, a farmi entrare nel gruppo. È stata lei, con la sua allegria e spensieratezza, a non farmi sentire un intruso. Ed è stata sempre lei, con la sua determinazione, ad aiutarmi nel mio percorso di costruzione di Calibano. Avevo creduto ci avrebbe pensato Talbot, invece lui non ha fatto altro che riprendermi sulla scena, limando le mie imperfezioni e lavorando su un personaggio già da me impostato. Solo ora mi rendo conto che voleva un mio Calibano. Il Calibano che solo io sarei riuscito a portare in scena, perché quel Calibano non lo avrebbe trovato in nessun altro che in me, perché fa parte di me, e mi appartiene. Quello che non capisco, invece, è perché gli altri personaggi li abbia costruiti lui. In un certo senso, questa rappresentazione potrebbe definirsi nostra, mia e sua. Siamo gli unici creatori. Io e Talbot. E sopra noi, Shakespeare.
È di nuovo il mio turno, e mi appresto a incontrare Stephano e Trinculo trascinando la mia catasta di legna. È l'ora del mio mostro ubriaco, della mia libertà, della mia vitalità. E del mio linguaggio forbito, all'occasione. Più tardi sarà l'ora del mio discorso più importante, perché alla fine, i più commoventi e poetici discorsi di tutta l'opera usciranno proprio dalla mia bocca, tramite le parole del selvaggio, rozzo, maleducato e irriverente Calibano, il mio Calibano, il mio mostro-poeta che si appresta a tradire il padrone per servire il nuovo dio, ubriaco e sconclusionato quanto lui.
 

Non dovete avere paura, l'isola è piena di rumori,
di suoni e di dolci musiche, che procuran diletto e non fanno alcun male.
A volte un vibrar di strumenti
mi ronza alle orecchie, e a volte odo alcune voci
che pur s'io mi fossi svegliato in quel punto da un lungo sonno,
m'indurrebbero nuovamente al sonno, e in sogno
io soglio vedere aprirsi le nubi, e mostrare ogni sorta di ricchezze
che sono rovesciarsi su me. Così che quando mi sveglio,
mi metto subito a piangere dallo struggimento di volermi di nuovo riaddormentare.
( 3, 2, 132-140 )

 
Riporto alla mente tutta la mia gioia infantile nel pronunciare queste battute, non è il Calibano mostro che parla, è il Calibano poeta, è Shakespeare, come mi ha fatto notare Talbot, è l'essenza primordiale, la poesia che esisteva ancora prima del linguaggio. Mi lascio andare, trasportato dalla musica di Ariel e dalle parole, lascio andare Calibano all'ebbrezza del vino, della gioia e della libertà, prima di ricadere nell'oblio della costrizione, e nel timore del risveglio, e delle torture.
 
Volto infastidito la testa sul cuscino e stringo forte le palpebre, ma ormai il timido raggio di sole filtrato a forza attraverso uno spiraglio delle pesanti tende alla finestra mi ha destato del tutto. Aggrotto un poco le sopracciglia, non riconosco il posto. Poi ricordo.
Abbasso il capo e osservo Angie addormentata sul mio petto. Non vorrei svegliarla, ma lo faccio comunque. Mi sorride.
− Buongiorno Masumi.
− Dobbiamo darci una mossa o Talbot s'infurierà.
Le accarezzo i riccioli scuri e le poso un bacio delicato sulla fronte. Lei mi si stringe un poco più al petto, poi si scosta con grazia e mi osserva curiosa.
− È la prima notte che trascorriamo insieme, e la prima cosa che mi dici è che rischiamo di fare tardi a teatro?
Sorrido. È bellissima.
− Questa sera abbiamo la prima, e per me, è la prima in assoluto.
− Hai paura?
Porta le gambe al petto, e le circonda le braccia. Mi osserva.
− Un po'. Non del palcoscenico, ma della reazione del pubblico.
Mi alzo, e inizio a vestirmi. Lei continua a osservarmi.
− Il tuo Calibano è affascinante, anche se avrei preferito recitare Miranda con te nella parte di Ferdinando.
− È meglio essere amanti nella vita che non sulla scena, non trovi?
Infilo la camicia nei pantaloni e le sorrido, ammiccante.
− Su questo non c'è dubbio, soprattutto se il contraltare è una notte come quella appena trascorsa.
Ora è lei a sorridere, ma ancora non accenna a scendere da quel letto.
− Grazie, mia nobile signora. Ma vuoi compiacerti d'ascoltare ancora una volta la supplica che t'ho rivolto?
Scoppia a ridere alla mia citazione di Calibano, e accetta la mano che le tendo per stringerla a me, e farle finalmente posare i piedi sul pavimento. Mi abbraccia, mi posa un bacio irriverente sulle labbra e inizia a raccogliere i vestiti lasciati cadere sul pavimento la sera prima. Io raccolgo i capelli nel mio solito codino, ma noto che Angie si è fatta improvvisamente seria. Mi chiede di stringerle il corsetto, così non mi guarda mentre mi pone l'ultima domanda che mai mi sarei mai aspettato di sentirmi rivolgere da lei.
− Chi è Maya?
Mi blocco.
Maya?
− L'unica Maya che io conosca è una lontana amica d'infanzia, perché me lo chiedi?
Ho mentito, non è la sola. Ma per qualche ragione non voglio che Angie sappia della mia conoscenza di Lady Kitajima.
− Mentre dormivi questa notte hai fatto il suo nome. Una volta sola, ma ci sono rimasta male. Sembrava una supplica. Eri innamorato di lei?
Ho finito di stringerle il corsetto, le poso le mani sui fianchi e la volto a incontrare i miei occhi.
− No. Ed ora possiamo avviarci, per favore?
Mi sorride e mi abbraccia, ed io le poso un bacio leggero fra i riccioli scompigliati sulla testa. Non mi chiede più nulla, mi stringe solo più forte. Io invece chiudo gli occhi, e ricordo.
Questa notte, fra le braccia di Angie, ho sognato Maya Kitajima.

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Capitolo 9
*** Cap. 9 ***


Capitolo 9

 
Siamo della stessa materia
Di cui sono fatti i sogni
E la nostra breve vita
È avvolta dal sonno
(William Shakespeare, The Tempest)

 
Le ruote della carrozza scorrono sull’acciottolato ricoperto di paglia di Oxford Street producendo un rumore sordo che, mescolandosi al ritmo regolare degli zoccoli dei cavalli e alla litania del discorso di Lord Hendrick, potrebbe farmi scivolare lentamente nel sonno, se non fosse per l’acuta consapevolezza dello sguardo freddo della contessa puntato sul mio volto.
Non sono ancora riuscita a capire cosa la madre del mio fidanzato pensi di me. Cosa pensi veramente, intendo. Non sono sicura di piacerle, ma neppure del contrario. Il volto della contessa di Middleborough è una maschera impenetrabile, e adesso capisco da chi Edmund abbia preso la sua capacità di dissimulazione. Certo, il figlio non è ancora all’altezza della madre, ma la stoffa è indubbiamente la stessa.
E io? Non posso fare a meno di chiedermelo. Cosa prevale in me: la dolcezza di mia madre o il senso del dovere di mio padre? Forse entrambi.
− Milady!
Il tono brusco e autoritario della voce del conte mi fa tornare rapidamente alla realtà.
− Domando perdono, conte, ero distratta. Dite pure.
− Vi stavo chiedendo se avete mai assistito a quest’opera, prima d’ora.
− No, My Lord, non ne ho mai avuta l’occasione. Ma la conosco comunque piuttosto bene; la mamma mi chiedeva spesso di leggerla ad alta voce, durante la sua malattia.
− Capisco. Non esitate comunque a porre domande se qualche passaggio non dovesse esservi chiaro. Edmund è una specie di esperto di teatro shakespeariano. Una delle sue tante passioni, e neppure la più bizzarra, devo dire.
− Vi ringrazio, padre – dice il mio fidanzato chinando leggermente la testa. Poi si rivolge a me. – Siete decisamente incantevole questa sera, Maya. Quel colore vi si addice in modo particolare, mette in risalto i vostri splendidi capelli neri.
− Siete troppo gentile, My Lord. Mi metterete in imbarazzo se continuerete a farmi tanti complimenti.
− Nessun complimento, mia cara. Siete uno splendore.
Sgrano leggermente gli occhi alle parole della contessa; è la prima volta che si mostra gentile nei miei riguardi senza che la situazione lo richieda.
− Grazie, milady – rispondo, chinando il capo e stirando con la mano qualche piega immaginaria della gonna.
L’abito che indosso per l’occasione è di un carminio talmente scuro da sembrare quasi viola. La scollatura a barca e le maniche arricciate in organza di seta mi lasciano scoperte le spalle e le braccia. Il corpetto è arricchito ai lati e sulla curva del seno da file e file di roselline di tulle da cui partono due cascate di tessuto che arrivano fino alla cintura in taffettà di seta. La gonna, anch’essa in taffettà lucido, è impreziosita da una coda ricamata a motivi floreali, sempre rose, tono su tono, con un filo di seta che assume sfumature sanguigne a seconda della luce. Lunghi guanti mi coprono la parte inferiore del braccio fin sopra al gomito. Siccome la serata è piuttosto fredda sono coperta anche da un pesante mantello con cappuccio, in prezioso velluto nero foderato di pelliccia, che tengo aperto perché l’interno della carrozza è riscaldato a sufficienza dai mattoni roventi che sono stati messi sotto ai sedili appena prima della partenza dalla residenza dei conti Middlebourogh in Russel Square.
Quando, dopo pochi minuti, giungiamo davanti al King’s Theatre in Haymarket, un inserviente apre immediatamente lo sportello e abbassa il predellino, lasciando che una ventata di aria gelida si insinui rapidamente all’interno. Mi affretto a richiudere le asole del mantello, infilo al polso la catenella della borsetta che avevo posato sul sedile e sono pronta ad appoggiarmi alla mano tesa che Edmund mi offre per aiutarmi a scendere. Il suo tocco, anche attraverso i guanti, mi trasmette un brivido, ma non sono sicura se sia di freddo o, piuttosto, dovuto a qualcos’altro. Passo la mia mano sotto al suo braccio e ci avviamo, dietro ai suoi genitori, verso l’ingresso in stile neoclassico illuminato a giorno.
C’è ancora tempo prima che cominci lo spettacolo e noi, come tutte le persone presenti alla serata, lo impiegheremo a scambiare convenevoli, banalità e commenti con questo e con quello: in sostanza, a metterci in mostra.
Mi guardo attorno alla ricerca di qualche volto amico. Se almeno ci fosse Lawrence! Sarebbe un tale sollievo vedere il suo sorriso ironico in mezzo a tutti questi sguardi curiosi e ipocriti.
Mi sono persa ancora una volta nei miei pensieri e solo sentire pronunciare il mio nome riesce a farmi prestare di nuovo attenzione a ciò che mi circonda. Lentamente il mio sguardo torna a mettere a fuoco e mi ritrovo ad annegare dentro a due occhi che mi tolgono il fiato.
− Lady Kitajima, mi permetta di presentarle Mister Dorian Gray.
Dovrei rispondere, in un qualche modo. So che dovrei farlo, ma non ci riesco. La persona che mi sta davanti sembra aver risucchiato ogni mio pensiero coerente e tutto quello che sono capace di fare è guardare ammirata alla sua perfezione. Con quelle labbra cremisi, dal contorno ben delineato, quei limpidi occhi azzurri e quei capelli biondi inanellati è certamente il giovane più bello che io abbia mai visto.
− È un piacere, signore – mi costringo infine a rivolgergli il mio saluto, accompagnandolo con una piccola riverenza.
− Lady Kitajima, quello che si dice di voi non fa onore alla vostra bellezza. Il vostro fidanzato ne sarà certamente fiero oltre che invidiato e, di conseguenza, felice.
− La felicità non è avere quello che si desidera, ma desiderare quello che si ha, Mister Gray.
− Verissimo, milady. Concordo in pieno con voi. Adesso, se volete scusarmi…
Accenna un inchino alla contessa e a me, fa un cenno della testa ai nostri accompagnatori e si allontana.
− È un vostro compagno di università, Edmund? – non riesco a trattenermi dal chiedere.
− A dire la verità, era un mio compagno di università – risponde al posto suo il conte. Sento i tratti del mio viso modellarsi in un’espressione di stupore assoluto, e il mio interlocutore non riesce a soffocare una risatina. – È la reazione che hanno tutti, milady. Ma non chiedetemi spiegazioni, perché, in tutta sincerità, non ne ho. Andiamo, avviamoci verso i nostri posti.
Sono ancora allibita quando arriviamo alle poltrone di platea a noi riservate e prendiamo posto sul soffice velluto rosso. Scaccio le perplessità e abbasso lo sguardo sul programma che mi è stato dato all’entrata, dopo aver lasciato il mantello al guardaroba. Ah, la compagnia che mette in scena lo spettacolo è quella di Mister Talbot! Mi accingo a leggere l’elenco degli attori, ma una voce familiare attira la mia attenzione.
− Conte di Middleborough! Contessa! Middleton! – Lawrence rivolge un cenno del capo agli uomini e si china per sfiorare con le labbra la mano inguantata della contessa. – Carissima Maya, è un piacere vedervi. Siete incredibilmente charmante questa sera.
− E voi il solito adulatore, Lawrence. Siete qui da solo?
− No, sono qui con mamam, il duca e il marchese di Carewall. La famiglia al completo, insomma.
− Verrò a salutare Sua Grazia durante l’intervallo, allora.
− Ne sarà lieta, mia cara. – Sposta lo sguardo verso Edmund ed io vi leggo una sottile ammonizione. − Middleton, spero vi rendiate conto della vostra fortuna e che sappiate apprezzarla.
− Cosa volete farci, caro Ash, privilegi di noi primogeniti! – risponde Edmund con una certa noncuranza.
− Indubbiamente, ma fate in modo di non dimenticare mai che la vostra futura sposa è la figlioccia della duchessa di Kerrigan. – Lo dice con un tono piuttosto duro che mi sorprende, e con uno sguardo glaciale nei suoi begli occhi verdi.
Edmund però non ha il tempo di ribattere, perché le luci si abbassano e Lawrence china il capo in segno di commiato e si affretta verso il palco di proprietà della famiglia.
Lancio un’occhiata in tralice al mio fidanzato e lo vedo stringere con forza il bracciolo della poltrona, nel tentativo di placare l’irritazione. Sul suo volto la solita maschera impenetrabile si è leggermente incrinata, e la mascella tesa indica che le parole di Lawrence lo hanno infastidito oltremisura. Lawrence, c’era proprio bisogno di questa minaccia?
Ma il sipario si alza e la mia attenzione è catturata dalla scena. Il ponte di una nave sballottato dalle onde. Rumore tempestoso di tuoni e fulmini. Sul palco due personaggi vestiti da marinai.
 

−Nostromo!
−Sono qui, capitano: che c’è?
− Bravo. Chiama i marinai – su presto, datti da fare o finiremo in secca. Muoversi, muoversi!
(Op. cit. I, 1, 1-4)

 
Conosco quasi a memoria i dialoghi di questo dramma, eppure vederli pronunciati in un teatro, su di un palco, da attori capaci, supera ogni mia immaginazione. Prospero avvolto nel suo mantello blu notte è imponente e autoritario, fa quasi paura nella sua determinazione e forza. Mister Talbot è riuscito a cogliere alla perfezione il senso di estraneità che lo accompagna. Miranda è una bella ragazza un po’ sciocca, completamente ignorante del mondo al di fuori dell’isola e pertanto abbagliata dalle novità che la tempesta, opera della magia del padre, ha portato su quelle sponde, primo tra tutti Ferdinando, il bel principe di Napoli. Ariel e Calibano sono i personaggi che più mi interessava vedere rappresentati; ero curiosa di assistere a quale sarebbe stata la resa di uno spirito e di un mostro. Quando entra in scena, Ariel è assolutamente stupendo: la leggerezza, la grazia e l’armonia che porta con sé sono incredibili. Il costume, fatto di veli che ondeggiano ad ogni movimento di quel corpo sottile e flessuoso, e il trucco argenteo rendono ancora più evanescente e impalpabile la sua figura. Calibano al contrario è pesante, rozzo e di una fisicità prorompente, ai limiti dell’osceno, tanto che prevedo aspri commenti e accuse da parte delle solite menti ottuse. La voce gutturale con cui pronuncia le battute di disprezzo rivolte a Prospero e Miranda risveglia qualcosa nella mia memoria: è un suono che mi sembra di conoscere, e anche la cadenza straniera non suona nuova al mio orecchio. L’attore che impersona Calibano ha un modo di recitare diverso rispetto alla fluidità di coloro che lo circondano: dà come l’impressione di servirsi di una sua reale diversità per afferrare la discordanza del mostro reietto e trasmetterla agli spettatori. Lo trovo molto interessante, e affascinante anche.
La scena si sposta sui cortigiani e sugli inganni di Ariel per separarli e far loro vivere esperienze completamente diverse. Ho sempre trovato incredibile il fatto che pur trovandosi a pochi passi l’uno dall’altro ognuno di loro percepisca l’isola in modo completamente diverso da chi lo circonda, mentre Prospero, abile burattinaio, tira i fili di ogni loro mossa.
Intanto Miranda e Ferdinando si innamorano: un colpo di fulmine, come solo nei libri ne accadono. Oppure anche nella realtà? Getto un’occhiata furtiva al mio fidanzato. Forse ad altri livelli della società le persone possono permettersi il lusso, l’unico loro concesso probabilmente, di innamorarsi; ma noi privilegiati, noi titolati, ci fidanziamo e sposiamo solo per interesse, anzi i matrimoni d’amore sono guardati con un certo sospetto. Eppure nel profondo nel nostro cuore tutte noi, fanciulle e giovani donne, aspettiamo con impazienza i fremiti dell’amore e ci chiediamo cosa significhi amare ed essere amate. Quante volte ne abbiamo parlato, insieme alle mie compagne, quando ancora frequentavo l’Accademia per signorine di Miss Pettigrew! Quanti sospiri ardenti smarriti dietro a fratelli, cugini e, a volte, qualche zio in visita. Lawrence era uno dei più popolari. Bello, sempre gentile, affabile; si intratteneva con me e le mie amiche raccontandoci aneddoti succosi sulla stagione e rischiose peripezie sicuramente inventate.
Persa nei miei pensieri e ricordi ho tralasciato di seguire lo spettacolo e ci metto qualche secondo prima di riprendere il filo della trama. Certo, i complotti: quello di Calibano e dei marinai contro Prospero e quello di Antonio e Sebastiano contro Alonso. Poi lo spettacolo degli spiriti e il ricongiungimento finale. Prospero che perdona i suoi antichi nemici e concede Miranda in sposa a Ferdinando. Eppure per lui sembra non esserci un lieto fine: ha avuto la meglio sul fratello traditore e recuperato il suo titolo e il suo regno, ma si rende conto che il suo potere è solo in grado di modificare gli eventi, non i cuori. Calibano e Antonio non si pentono delle loro azioni, e lui non può intervenire su questo.
Il sipario si chiude, passa qualche secondo, poi cominciano gli applausi. Anche io mi unisco entusiasta. Gli attori vengono chiamati alla ribalta, più e più volte.
Edmund mi sfiora leggermente il braccio per richiamare la mia attenzione.
− Andiamo Maya, seguitemi e vi presenterò Prospero, ovvero Mister Lawrence Talbot.
− Vi ringrazio del pensiero, Edmund, ma ho già avuto il piacere di incontrare Mister Talbot.
− Ah sì? Bene, allora vi farà piacere salutarlo. – Ho l’impressione che la mia risposta lo abbia contrariato.
− Certamente.
Passo la mano sotto al suo braccio e imbocchiamo un corridoio laterale ai camerini degli attori.
C’è molta gente davanti a quello di Mister Talbot, ma l’arrivo provvidenziale di Lawrence ci spiana un po’ la strada.
− Comodo, eh, essere figlio di un duca? – gli sussurro all’orecchio.
− Almeno questo, − mi risponde ammiccando. – Talbot, le mie vivissime congratulazioni: un Prospero indubbiamente perfetto e un lavoro encomiabile.
− Grazie Ash, lieto che sia stato di vostro gradimento. Lady Kitajima, spero che anche voi abbiate apprezzato gli sforzi di un umile attore.
− Immensamente Mister Talbot. Mi avete catturata e affascinata con la vostra arte.
− Troppo buona, milady.
− Middleton, mentre parlate con Mister Talbot, permettetemi di rubare un attimo la vostra fidanzata. Vorrei accompagnarla a salutare una conoscenza comune.
− Ma… veramente… – Edmund è talmente stupito e colto alla sprovvista dalla richiesta di Lawrence da non riuscire a ribattere, e mi fissa con aria leggermente infastidita quando si accorge di non trovare in me alcun appoggio.
− Suvvia Middleton, non siate così possessivo – insiste Lawrence, porgendomi il braccio. − Dove Talbot?
− Tre porte più avanti – gli risponde quest’ultimo, con un guizzo divertito negli occhi neri.
Lawrence si fa strada tra la folla che assedia ancora il camerino di Prospero, e in silenzio mi guida lungo lo stretto corridoio. Ci fermiamo davanti a una porta anonima e il mio accompagnatore picchia leggermente sul legno con le nocche inguantate.
− Calibano, è permesso?
Mi lancia uno sguardo divertito, e io continuo a non capire.
− Avanti – risponde una voce leggermente roca che, di nuovo, risveglia in me l’eco di un lontano e inafferrabile ricordo.
La porta viene aperta da una ragazza avvolta in una vestaglia colorata. Ha lunghi capelli neri, occhi brillanti, le guance soffuse di un leggero rossore e un sorriso felice le aleggia sulle labbra piene.
− Con permesso – dice la giovane e si allontana, non prima però di aver fissato su di me uno sguardo indagatore e ostile.
La seguo con gli occhi lungo il corridoio e ne riconosco i movimenti: è l’interprete di Miranda. Senza il pesante trucco di scena e la parrucca fulva è ancora più bella.
Incuriosita torno a guardare dentro la stanza: una toeletta cosparsa di barattoli e scatole, molto probabilmente contenenti i trucchi di scena, una giacca appesa allo schienale di una poltrona dall’aria sfondata e un tavolinetto su cui è appoggiato un vassoio con una teiera, due tazze vuote e i resti di un pasto, occupano buona parte del poco spazio.
− Solo un attimo – dice la stessa voce di prima da dietro un paravento posto dal lato opposto rispetto alla poltrona.
− Vi avverto, Calibano, che sono in compagnia di una signora. Vi prego, quindi, di mostrarvi a noi già presentabile, – dice Lawrence in tono confidenziale, e mi lancia l’ennesima occhiata divertita. Sento l’eco di una risatina provenire da dietro lo schermo che mi nasconde il nostro ospite.
Piego la testa e il mio sguardo è attirato dal guizzo di un’immagine riflessa nello specchio posto sopra la toeletta. La schiena nuda di un uomo: la pelle olivastra, i muscoli scattanti delle spalle, la linea flessuosa della colonna, i fianchi snelli; e poi un torace largo e un addome teso nel momento in cui si gira velocemente per afferrare la camicia e indossarla. Purtroppo lo specchio taglia la testa e tutto ciò che vedo è una ciocca di lunghi capelli castani.
Distolgo lo sguardo imbarazzata e contrariata. Cosa sono tutti questi segreti? E cosa sta combinando Lawrence? Perché mi ha trascinata qui?
Sto meditando a testa bassa di tornare dai Middleton, quando vedo un paio di piedi calzati in lucide scarpe di pelle uscire da dietro il paravento. Il mio sguardo risale lentamente lungo due gambe coperte da pantaloni neri piuttosto attillati, si sofferma su mani grandi con lunghe dita affusolate, su una vita sottile e un ventre perfettamente piatto nascosti da una morbida camicia bianca, su un collo lasciato appena scoperto dal colletto non allacciato, per fermarsi, infine, su due occhi d’oro liquido che brillano di gioia. E su una bocca macchiata di rosso per labbra.
− Eccomi, My Lord. – E dopo aver posato gli occhi su di me – Milady. Scusate se vi ho costretti ad attendermi – ci saluta portando la mano al cuore e piegando la testa in un saluto che ricorda molto quello del suo mentore.
Continuo a fissare quel volto sorridente, e mi sento trascinare lontano. Qualcosa dentro di me si contrae quasi dolorosamente, ma io non so dire se si tratti di una sensazione bella o brutta. Guardo ora lui e ora Lawrence che gli sta silenziosamente facendo cenno di pulirsi e, senza che riesca a impedirmelo, vengo colta da un tremendo senso di irritazione. È come se una bolla mi avvolgesse: vedo le loro bocche muoversi e sorridere, ma nessun suono giunge al mio orecchio. Credo di barcollare un attimo, perché percepisco la mia mano cercare il sostegno del braccio di Lawrence, e con uno sforzo enorme, quasi combattessi contro la mia stessa volontà, piano piano riesco a riemergere alla superficie del mondo circostante.
− State bene Maya? Siete pallida.
− Sì, non preoccupatevi. Solo un leggero capogiro. Vi dispiace, Mister Hayami, se approfitto un attimo della vostra poltrona?
− Vi prego, milady, accomodatevi pure.
Mi siedo e respiro profondamente, ma il corsetto stretto all’inverosimile mi impedisce di inspirare sufficiente ossigeno. Alzo lo sguardo e trovo ancora il viso sorridente di Masumi Hayami che mi osserva curioso. Il ricordo del volto bello e felice di Miranda mi offusca la vista e vengo sommersa da un’altra ondata di rabbia immotivata. Sento il sangue affluirmi al collo e al viso, e la consapevolezza di non riuscire a mascherare i miei pensieri non fa altro che accrescere il mio dispetto.
− Vi faccio le mie più sincere congratulazioni, signore. Siete stato impareggiabile nella parte del selvaggio senza educazione e senza morale. – Calco provocatoriamente l’accento sulle ultime parole.
Il sorriso gli appassisce lentamente sulle labbra, e un’ombra di risentimento gli attraversa lo sguardo.
− Spero si trattasse di un complimento, milady.
− Nessun dubbio che lo fosse, − rispondo alzandomi di scatto dalla poltrona e dirigendomi verso la porta. – Andiamo Lawrence, Lord Hendrick ci starà cercando. Non sta bene che io stia qui da sola con voi.
− Né con me − aggiunge Mister Hayami, ironico.
− No infatti, tantomeno con voi.
− Già, immaginavo.
− Bene allora. Permettetemi di complimentarmi ancora con voi Mister Hayami. E addio.
− Addio, lady Kitajima.
Il tono pacato e misurato con cui mi rivolge il suo saluto fa apparire la mia reazione ancora più inadeguata e spregevole. Arrossisco di nuovo, questa volta per l’umiliazione.
Lawrence mi porge il braccio con un sorriso sornione.
− Vi manderò un invito per pranzo uno dei prossimi giorni, Hayami. E ancora congratulazioni per l’ottima prova.
− Grazie, My Lord.
Usciamo dal camerino a andiamo quasi a sbattere contro Edmund.
− Ah, Middleton. Stavate cercando noi?
− Andiamo Maya, si sta facendo tardi – risponde freddamente il mio fidanzato.
Mi stacco dal braccio conosciuto di Lawrence e mi appoggio a quello teso di Edmund.
− Grazie, Lawrence.
− Piacere mio, Maya. Sarebbe mia intenzione passare in visita domani per il tè, me ne concedete il permesso?
− Con immenso piacere – gli rispondo con un sorriso indulgente.
− Bene. Vi auguro di trascorrere una buona notte, allora. – Si china e mi sfiora il dorso della mano con le labbra. – Middleton.
Edmund risponde con un cenno rigido della testa e mi guida verso la hall; ma aspetta di essere abbastanza lontani affinché Lawrence non possa sentirci prima di dirmi in un tono freddo e distaccato, senza neppure guardarmi:
− Gradirei molto che la mia futura moglie non invitasse altri cavalieri per il tè.
− Lawrence è mio amico fin dall’infanzia, quasi un fratello. Non accetterò mai di escluderlo dalla mia vita.
− Vedremo.
− Vedremo.
La lotta è cominciata.

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Capitolo 10
*** Cap. 10 ***


Capitolo 10

 

Accatastata per il fuoco,
la fascina
comincia a germogliare
(Nozawa Boncho)

 
− Lo spettacolo sembra avere riscosso un notevole successo sia a livello di critica che di pubblico, stando ai giornali.
Talbot sbuffa infastidito, e sposta con interesse lo sguardo da James, il nostro etereo Ariel ora impegnato a sfogliare il Times alla ricerca della pagina dello spettacolo, a me. Mi fissa a lungo, e io sostengo con curiosità il suo sguardo scuro e penetrante, inarcando appena un sopracciglio in attesa di spiegazione.
− Così sembra.
Continua a fissarmi, imperscrutabile. James abbassa il giornale, sorpreso, e aggrotta leggermente le sopracciglia bionde e folte.
−Perché dite questo, signore? Non siete soddisfatto?
− Ricevere consensi sia dal pubblico che dalla critica raramente è una cosa buona, James.
Mi alzo dai gradini di accesso al palco dove mi sono seduto, leggermente infastidito da quello sguardo fisso e affilato, e mi avvicino a James, iniziando a mia volta a scorrere per l'ennesima volta una critica alla prima del nostro spettacolo andato in scena ieri. Hanno parlato di me, ma non riesco bene comprendere se il mio Calibano sia stato promosso o meno. Qualcosa mi sfugge, ma non dipende solo dalla mia difficoltà con la lettura. Ad Angie invece viene riconosciuto di aver dato vita a una Miranda perfetta, ingenua ma determinata. Sono felice per lei, merita tutti gli onori. È una grande attrice. Su Talbot solo elogi: per la competenza interpretativa, la presenza scenica, il fascino misterioso e indiscutibile con cui ha riportato in vita Prospero. Presenza scenica oscurata appena da un Calibano sconcertante, bello nella sua mostruosità, innovativo e fuori dalle righe. Da me, insomma.
Sposto di nuovo l'attenzione su Talbot: è questo il motivo della sua insoddisfazione? È per questo che mi scruta in modo così ossessivo quasi volesse scavarmi l'anima? Non so cosa pensare, sarebbe assurdo. Io non sono nulla, e senza di lui, varrei ancora meno.
Vengo distratto dalla voce di Thomas, il nostro Trinculo, in ritardo come sempre, che entra in sala chiamando il mio nome.
− Masumi, un ragazzino ha portato questo regalo per te. L'usciere non voleva farlo entrare, così l'ho preso in consegna io.
Rimango basito. Un regalo per me? Da parte di un ragazzino?
Forse è troppo timido, e in realtà il dono è per Angie. Mi volto a cercarla, e vedo il suo sguardo illuminarsi: è curiosa, come tutte le donne, del resto. Mi si avvicina con discrezione, ma non posso fare a meno di notare una punta di sarcasmo nelle sue parole. Gelosia?
 − Però, sei l'ultimo arrivato e il primo a raccogliere regali.
Ricevo fra le mani quel dono inaspettato, conscio di avere tutti gli occhi della compagnia puntati addosso, e ricambio con un sorriso piuttosto imbarazzato quello divertito di Thomas.
− E dai Masumi, non rimanere lì impalato, scarta il tuo regalo. Altrimenti lo farò io al posto tuo; però attento, poi mi tengo il contenuto!
Prima di scartare il pacchetto rigiro più volte fra le mani il biglietto di accompagnamento, ancora incredulo. No, non è per Angie, il destinatario sono proprio io. Mi prendo tutto il tempo per leggere con attenzione le poche righe a me indirizzate, stilate con grafia elegante da una mano però non troppo ferma.
 

Vogliate accettare questo regalo con le mie più vive congratulazioni per aver portato in scena un Calibano che ha saputo affascinarmi oltre ogni mia migliore aspettativa.
Una Vostra ammiratrice.

 
Guarda guarda, c'è di che essere gelosa...
Angie mi prende il biglietto dalle mani e lo scruta irriverente da ogni angolazione.
− Non c'è il nome. Perché?
Non lo so. Se ne sapessi il motivo, probabilmente saprei anche di chi si tratta. È strano, però. Ho avuto molte ammiratrici quando recitavo in Giappone, ho ricevuto molte lettere, e molti regali. Ma un'ammiratrice anonima mai, è la prima volta, e la sensazione non è affatto spiacevole.
Sfilo con cura il nastro in seta di un porpora pastellato, e liberata anche la carta, lascio sfuggire un sorriso nel riconoscere la scatola in radica con un marchio famoso impresso a fuoco nel legno. Sigari, costosissimi, comprati nell'altrettanto famoso negozio in St. James Street.
− Non è giusto, però. Io lavoro in questa compagnia da molti anni, ma nessuno mi ha mai regalato sigari così costosi. Nessuno mi ha mai regalato niente, a dire il vero.
Daniel assume un'aria fintamente imbronciata, ma scorgo comunque una sincera frustrazione nelle sue parole.
− Daniel, tu non hai mai nemmeno interpretato un Calibano come quello di Masumi per pretendere riconoscimenti, non trovi?
Le parole di Talbot mi sorprendono. Sembra orgoglioso. Daniel sbuffa, arruffandosi con aria comica la zazzera rossa sulla testa.
− Beh, però Masumi potrebbe offrircene uno, almeno per spirito di solidarietà.
− Lo farò Daniel, festeggeremo insieme la sera dell'ultimo spettacolo, e a giudicare dalla scatola, ci saranno sigari per tutti!
Mi è tornato il buonumore, le recensioni dei quotidiani non mi spaventano più. Ho un'ammiratrice, il mio Calibano ha saputo toccare le corde del suo cuore. La mia prima ammiratrice, misteriosa per giunta. Una dama anziana probabilmente, visto il tremolio della mano che traspare da alcune lettere. Una dama che probabilmente ha assistito a molte rappresentazioni dellaTempesta, e che è rimasta colpita dalla mia interpretazione. Questo pensiero mi riempie di soddisfazione, e mi scalda il cuore. Ho un'ammiratrice, in questa città straniera e fredda, in una società che non lascia scampo, che ti isola e ti uccide senza darti possibilità di appello.
Ho bisogno di stare un poco da solo, di fare due passi. Sento la necessità di fare solo mio questo momento, di godermelo appieno. Esco dal teatro e confondo la mia persona tra signore agghindate e uomini compiti, sapendo bene di non passare comunque inosservato nonostante gli abiti nuovi comprati con l'anticipo datomi da Talbot e la mia caratteristica riservatezza. Non ho l'aspetto di un uomo che possa permettersi il lusso di passare inosservato, io. Non lo avevo in Giappone, figuriamoci a Londra.
Continuo a camminare senza meta, a mescolarmi alla folla perso nei miei pensieri, e soltanto quando i miei occhi mettono realmente a fuoco la merce esposta nella vetrina di fronte alla quale mi sono fermato, realizzo di avere percorso la Charles Street, oltrepassato St James Square ed essere arrivato, inconsciamente, esattamente all'entrata della tabaccheria più famosa di Londra.
La curiosità ha il sopravvento, e oltrepasso la soglia.
Vengo violentemente investito dall'odore intenso e caratteristico del tabacco, misto a quello acre del fumo depositato da anni e anni di esalazioni sul legno del mobilio e sulle pareti ingiallite del locale. Mi avvicino al banco e all'uomo occupato a registrare qualcosa su un libro dietro ad esso, cercando di organizzare velocemente i pensieri per formulare una domanda meno istintiva del mio impulso ad entrare nel negozio.
− Buongiorno a voi, signore. In cosa posso servirvi?
Gli è stata sufficiente un'occhiata per inquadrare la mia persona, e lo stato sociale a cui appartengo. Non capisco però se ci sia dell'ironia nelle parole e nel tono della sua voce, o piuttosto, semplice leziosità di commerciante.
− Vi chiedo scusa per quanto sto per chiedervi, ma per caso avete venduto e confezionato una scatola di sigari per un regalo questa mattina?
L'uomo non fa nulla per nascondere il sorriso ironico che gli si dipana sulle labbra nell'udire la mia domanda, e si sofferma ad osservarmi qualche istante, incuriosito. Mi sento un'idiota. Sono in una tabaccheria, e in una tabaccheria si vendono tabacchi. Cos'altro avrebbe potuto vendere, cilindri?
− Sigari ne ho venduti molti, e confezioni altrettante...
Ecco, per l'appunto. Cerco di mantenere un contegno, e non abbasso lo sguardo.
− ...ma se mi dite la qualità, forse posso esservi d'aiuto.
Mi rilasso, lo informo sul tipo di sigari e gli descrivo minuziosamente scatola e confezione. L'uomo mi ascolta attentamente, e lo vedo corrugare in pieghe morbide le rughe marcate della fronte. Riflette.
− Mi dispiace, ma gli ultimi sigari da voi menzionati li abbiamo venduti tre settimane orsono. Si tratta di sigari di alta qualità e molto costosi, ne arrivano poche partite alla volta, e le vendiamo nel giro pochi giorni. Non posso esservi di alcun aiuto signore, mi dispiace.
Sorrido alla mia ingenuità, mascherando al contempo la delusione. Cosa mi aspettavo? Ringrazio il proprietario del negozio e con un ultimo cenno del capo riprendo la porta, lasciando l'uomo ai suoi registri e i miei pensieri tra i tabacchi arrotolati in bella mostra sul banco.
Proseguo per immettermi nella Piccadilly, sarà di sicuro affollatissima ed io ho solo voglia di distrarmi e non pensare a nulla per un po'. Non pensare a nulla, ma soprattutto, non pensare a lei. Alla ragazza del bosco. Alla ragazza di chiara origine giapponese. A lady Kitajima, e allo strano effetto che la sua presenza suscita in me.
Non mi aspettavo di trovarmela di fronte nel camerino ieri sera, e a dirla tutta, non mi aspettavo nemmeno una reazione così piccata da parte sua. Sembra mi detesti sul serio, o quantomeno, che mal tolleri la mia presenza. Eppure mi piacerebbe trascorrere del tempo con lei, sapere qualcosa di più sulle sue origini, quel qualcosa che io le ricordo e che lei cerca disperatamente di dimenticare, e che probabilmente concorre a renderla così insofferente e guardinga nei miei confronti. Senza scordare che è una lady, e io un attore. Scuoto la testa, e sorrido all'indirizzo di nessuno. Mi piacerebbe, mi piacerebbe molto ma... non posso. Semplicemente non posso. Non mi è concesso e, personalmente, non mi concedo nemmeno di pensarci.
Come immaginavo, Piccadilly è molto più che trafficata. Volto appena il capo alla mia destra prima di attraversare la strada, e i nostri sguardi si incrociano. Sembra sorpresa quanto me, perché si ferma, mentre sta per attraversare, già oltre il marciapiede e all'interno della carreggiata. Non ho tempo per pensare, e agisco d'istinto. La sollevo quasi da terra nell'afferrarla, giusto un attimo prima che gli zoccoli dei cavalli sovraeccitati a causa del brusco strattone dato dal conducente alle redini ci investano entrambi.
− Signora siete impazzita? Fate attenzione quando attraversate la strada, c’è mancato poco che vi investissi!
Mi scuso con il conducente della carrozza e, con un cenno della mano, lo lascio riprendere la sua strada. Non voglio perdere tempo, devo occuparmi della ragazza che ancora stringo fra le braccia.
− Milady state bene, vi siete ferita?
È pallida, e le tremano le labbra mentre mi fissa cercando di riprendersi dallo spavento, e io immagino che le stiano tremando anche le gambe, a giudicare dal modo in cui cerca un appoggio in me. Continuo a sostenerla, senza distogliere lo sguardo da quegli occhi dal taglio allungato e dalle ciglia nere, folte e lunghissime, mentre attendo una sua risposta, conscio di non essere educato, né tantomeno delicato, ma non me ne importa. Sono preoccupato.
− Sì, sto bene, vi ringrazio Mister Hayami. Io... mi sono distratta, e...
Mi stringe con più forza il braccio, e mi fissa con uno sguardo completamente disarmato. È talmente vicina che posso sentire il profumo dei suoi capelli, mescolato a una fragranza calda e soffusa che mai mi sarei immaginato di ritrovare a Londra, e che per un istante mi aggroviglia lo stomaco, e mi fa chiudere gli occhi. Scaccio ogni pensiero, e lo allontano dalla mente con un sospiro.
− Dovete fare più attenzione, milady. Non posso essere sempre al vostro fianco per salvarvi tutte le volte che vi cacciate in una qualche situazione di pericolo.
Si allontana bruscamente da me, abbassando di colpo lo sguardo e ritrovando nello spazio di un attimo l'atteggiamento contegnoso e altero al quale ormai sono abituato.
− Non prendetevi oneri che non vi competono, Mister Hayami. Nemmeno io muoio dalla voglia di venire ripetutamente salvata da voi. Comunque sia, vi ringrazio di nuovo per la vostra tempestività, e per quanto mi dispiaccia doverlo ammettere, mi ritrovo ancora una volta in debito con voi.
Mi lancia un'occhiata sfuggente, e a discapito delle parole noto turbamento in lei. Il respiro affrettato le solleva a ritmo regolare il petto, e un leggero rossore ha preso a colorarle distintamente gli zigomi ombreggiati da quelle ciglia lunghissime. Probabilmente è ancora sotto shock, perché cerca appoggio in Mae, adesso.
 Mae! Me ne accorgo solo ora! La ragazza che ha urlato, attirando l'attenzione dei passanti. La sua cameriera, che ha lasciato cadere pacchi e sacchetti a terra nel portare le mani alla bocca per urlare, scena che io ho registrato distrattamente dimenticandola subito dopo per riportarla alla mente soltanto ora, nel tornare alla realtà, nel momento in cui lo spazio si è frapposto nuovamente fra me e l'irraggiungibile lady Kitajima.
− Nessun debito, milady. Solo l'augurio che vogliate accompagnare il vostro fidanzato ad assistere anche al mio prossimo spettacolo. Ne sarei onorato.
Chino leggermente il capo, in un saluto che sa più di Giappone che di Londra, e non sono sicuro di voler conoscere la sua risposta.
− Assisto sempre con molto piacere agli spettacoli di Mister Talbot, e non mancherò di certo nemmeno al prossimo. Assisteremo entrambi con piacere alla vostra prossima messa in scena, vi prego di non deluderci.
Mi aspettavo una risposta più piccata da parte sua, qualunque cosa, ma di sicuro non il tono pacato e leggermente imbarazzato della sua voce. Fingo di non accorgermene, e accenno un sorriso chinando leggermente il capo, in segno di ringraziamento.
− Mi onorate, milady, e mi obbligate a dare il meglio di me, per non deludervi. − Riapro gli occhi che avevo chiuso nell'inchino appena accennato, e fisso lo sguardo nel suo, perché voglio che le mie parole le si imprimano bene nella mente, voglio la sua attenzione. − Non lo farò, milady, consideratela una promessa.
Mi rivolge un sorriso appena abbozzato ma è veloce a nascondere gli occhi sotto quelle sue ciglia incredibili, ed io rimango un istante a guardarla, certo di aver visto un'ombra passarle rapida sulla fronte e sulle guance ancora leggermente arrossate.
− Non ne dubito. Arrivederci, Mister Hayami, e ancora grazie.
Fa un cenno a Mae e si volta senza più guardarmi, ed io la osservo incedere rapida e aggraziata lungo il marciapiede affollato, scorgo il suo profilo chinarsi leggermente verso la cameriera, le sue labbra sussurrarle qualcosa, la sua mano cercare un appiglio nel braccio di Mae. Estraggo un fazzoletto dal taschino senza distogliere lo sguardo da lei, dall'ultima persona che mi sarei aspettato di incontrare a Londra, da quella donna irraggiungibile, inconfondibile e misteriosa che corrisponde al nome di lady Kitajima Maya, promessa sposa del futuro conte di Middleborough, a quanto mi è stato detto da Ash, per cui futura contessa.
Scuoto la testa, e riprendo la mia strada. La razionalità però non mi è sufficiente. Muovo solo pochi passi, e le parole mi escono in un sussurro fra le labbra socchiuse allungate appena in un sorriso malinconico e amaro.
− Al prossimo spettacolo, Maya-san.
 
Chiudo piano la porta della mia camera, per non fare rumore. È tardi, e il resto della compagnia si è riunito a cena dopo lo spettacolo. Non avevo voglia di stare con loro questa sera, la chiacchierata scambiata nel pomeriggio con Talbot mi ha aperto nuovi orizzonti, e mi dà molto a cui pensare.
Mi svesto lentamente, la pelle è ancora umida e calda in seguito al bagno rilassante che mi sono concesso dopo una giornata lunghissima e densa di avvenimenti importanti. I capelli bagnati mi grondano acqua sulle spalle e le guance, ma non me ne importa. Li tampono leggermente con l'asciugamano, lo lancio sulla sedia e mi lascio cadere pesantemente sul letto.
Quando sono tornato al teatro, questo pomeriggio, ho trovato Talbot seduto in prima fila, solo, le gambe accavallate e mento intento ad accarezzarsi distrattamente il mento con una mano. Mi sono avvicinato, ma lui non si è mosso; è rimasto con lo sguardo scuro e assorto fisso sul palcoscenico vuoto, ma senza dar segno di vederlo.
− Vorrei parlare un poco con voi, se non vi dispiace, signore.
− Siediti Masumi.
Il suo tono è stato perentorio, non mi ha guardato nemmeno. Ha continuato ostinato a fissare il palcoscenico.
Ho preso allora posto accanto a lui, e ho atteso una sua parola. Non ne è venuta nessuna, e ho parlato io.
− Io non penso che il mio Calibano abbia oscurato il vostro Prospero. A dire il vero, non credo nemmeno che le critiche al mio personaggio siano del tutto positive. È per questo motivo che non siete soddisfatto, signore?
La mia domanda se non altro è riuscita a distrarlo dai suoi pensieri, perché in risposta si è messo a ridere.
Tu credi davvero che a me possa interessare quello che scrive la critica? Non sarei qui se così fosse, Masumi.
Quella risposta mi ha spiazzato completamente, tanto da non sapere esattamente cosa ribattere. Ci ha pensato lui.
− In ogni caso, quello che hanno scritto è vero. Il tuo Calibano ha oltrepassato il palcoscenico, ha attirato gli sguardi e l'interesse su di sé, e ha sentito il richiamo del pubblico, raggiungendolo. In un certo senso, mi hai oscurato. Ma non potevi farmi regalo migliore, Masumi.
In quel momento si è voltato verso di me, e mi ha fissato a lungo. Subito non ho capito, e in tutta onestà, non comprendo bene nemmeno ora.
− Tu credi che io sia semplicemente un attore?
Ricordo benissimo com'è cambiato il suo sguardo nel porgermi quella domanda, e non lo scorderò mai.
− Io vi conosco come attore, rappresentate qualcosa di diverso?
Il suo viso si è contratto allora in una smorfia amara, ed io ho scorto una luce diversa, dolorosa e fulminea guizzare feroce nei suoi occhi scuri come la notte.
− Io rappresento molte cose, Masumi, alcune delle quali anche piacevoli. Ma ho aspettato tanto uno come te, ed ora che ti ho trovato, non voglio essere la causa della tua e della mia rovina.
Capivo sempre meno. Di cosa stava parlando? Rovina? Per quale motivo?
Ma lui non è sembrato preoccuparsi della mia reazione, e nemmeno del fatto che non comprendessi assolutamente nulla di quanto mi stesse dicendo.
− Ho scritto un'opera, Masumi. Un'opera sulla quale molte persone vorrebbero mettere le mani, e portare in scena. Ma nessuno può farlo, a parte me. Perché nessuno conosce quello che conosco io, e io non voglio interpretarla. La vedo anche ora, su questo palcoscenico. E la vedo in te, nel tuo Calibano.
− Di quale opera state parlando, signore?
Mi sono alzato senza accorgermene, e lui ha fatto lo stesso, ma per andarsene.
− Ogni cosa a suo tempo, Masumi. Ogni cosa a suo tempo.
 
Decido si alzarmi dal letto e mi avvicino all'abbaino, scrutando oltre le nubi alla ricerca di qualche stella temeraria e sola, decisa a spandere la sua fioca luce attraverso il cielo denso e fumoso di Londra. Trovo invece il riflesso della scatola di sigari, e mi avvicino, invogliato a fumarne uno, e per qualche strano motivo la mente corre all'incomprensibile e sofisticata Miss Kitajima. Sorrido al ricordo del nostro incontro nel pomeriggio, ma i dubbi sul mio volto sono veloci a cedere il posto alla curiosità, nel notare un foglio inserito accuratamente tra i sigari e il fondo del legno. Tolgo i sigari e sfilo il foglio. È un disegno, una bellissima rosa in boccio tracciata a china da una mano leggera con estrema cura e delicatezza. La osservo a lungo, e mi sembra quasi di sentire il profumo esalare inebriante dai suoi petali. Avvicino il foglio al viso, ma è un altro il profumo che assale le mie narici. Sento il tabacco, prepotente e dominante, ma c'è qualcos'altro, ed è così lieve che fatico a sentirlo. È buono però, e anche se non lo riconosco, suscita in me una piacevole sensazione di calore, e conforto.
Vengo distratto da un leggero bussare alla porta, e ripongo il disegno sul tavolino, accanto ai sigari. Mi avvicino all'uscio, e lo socchiudo silenziosamente quel tanto che basta per far entrare Angie.
− Scusa il ritardo, ci siamo dilungati in chiacchiere e progetti, questa sera. Ma ti aggiornerò domani mattina. Non vuoi dormire, vero?
Inclino leggermente la testa, e i capelli ancora umidi mi solleticano leggermente la spalla.
− Se così fosse, non ti avrei chiesto di raggiungermi dopo cena, non credi.

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Capitolo 11
*** Cap. 11 ***


Capitolo 11

 

Caduto il fiore
Resiste l’immagine
Della peonia
(Yosa Buson)

 
Il corridoio è buio, ma io procedo sicura; le braccia allargate ad accarezzare con la punta delle dita entrambe le pareti e la testa alta, a cercare con lo sguardo un cielo che invece non c’è.
Mi fermo davanti a una porta, uguale a tutte le altre eppure diversa. Una porta che nasconde, o contiene, i miei desideri. Allungo la mano e giro con decisione la maniglia. La stessa decisione con cui vorrei poter governare la mia vita.
Una fessura si schiude leggermente e uno spicchio di luce opalescente illumina i miei piedi nudi e l’orlo della mia camicia da notte.
Nessun rumore. Il silenzio che mi circonda è quasi irreale.
L’aria è pervasa da un leggero sentore di sandalo che mi avvolge in spire morbide e insinuanti. Chiudo gli occhi e lo lascio penetrare dentro me, ne assaporo il profumo sulla lingua, lo sento scorrere sulla pelle e insinuarsi sotto il tessuto leggero che nasconde il mio corpo nudo.
Muovo qualche passo all’interno della stanza. Tutto è esattamente come l’ultima volta, tranne che al posto della poltrona si trova adesso una chaise longue su cui, la testa appoggiata al bracciolo, lui sta dormendo.
Mi avvicino e lo osservo nel cono di luce lunare che filtra dalla finestra, le cui tende deve aver dimenticato di chiudere.
Il viso, seppur parzialmente nascosto da ciocche di capelli spettinati, ha un’espressione rilassata e serena. Di tanto in tanto un fremito gli fa vibrare lievemente le narici, e le labbra sottili dal taglio fine sono leggermente schiuse in un respiro appena più pesante del solito. Un braccio è appoggiato con indolenza sull’addome scoperto, mentre l’altro è disteso dietro alla testa, in una posizione che mette in risalto la lunga muscolatura della spalla e dell’avambraccio.
Percorrendo con lo sguardo la linea dello stomaco mi accorgo di una sottile striscia di peluria, splendente nel riflesso biancastro della luna, che dall’ombelico scende fino a sparire entro alla linea dei pantaloni, confine di un territorio a me ancora sconosciuto.
Vengo percorsa da un brivido.
Mi avvicino e gli sfioro la pelle nuda del petto con la punta delle dita. Lui si agita e mormora qualcosa che non riesco ad afferrare, allora mi chino sul suo viso addormentato e con voce appena percettibile gli ordino, all’orecchio: − Baciami!
Le sue mani si stringono immediatamente sui miei fianchi e con un movimento fluido mi tira sulla superficie morbida del divano. Il suo corpo aderisce al mio e le sue labbra cercano avide la mia bocca. Quando la trovano sento che qualcosa dentro di me viene liberato: mi aggrappo alle sue spalle e lo attiro ancora di più a me. Immediatamente vengo avvolta dall’aroma intenso della sua pelle e mi perdo in quel profumo di gelsomino che fa vibrare ogni angolo del mio corpo al ritmo del suo respiro.
Mentre con una mano mi accarezza il viso, i capelli, il collo, l’altra risale lentamente lungo il fianco fino a chiudersi a coppa attorno al mio seno per stringerlo in un massaggio sempre più urgente, e quando anche la sua bocca cerca la rotondità delle mie curve attraverso il tessuto leggero della camicia serro ancora più forte gli occhi e trattengo un lungo sospiro.
Poi tutto si confonde in una spirale che sembra inghiottirmi: mani, pelle, tessuto, calore, respiri affannosi, baci, capelli, carezze, fame, desiderio.
Sento il suo tocco farsi sempre più febbrile ma quando solleva la camicia e cerca quella parte di me che neppure io ho mai avuto l’ardire di esplorare, mi sveglio all’improvviso, sudata, ansimante e con la mente e i sensi in subbuglio.
Allungo il braccio raccogliendo la coperta che, nell’agitazione di poco prima, deve essere scivolata di lato e mi ci avvolgo dentro coprendomi anche la testa. Il calore del mio corpo e del mio viso in fiamme sono quasi insopportabili sotto lo spesso strato di lana, ma non cedo. Avvicino le gambe al petto e, raggomitolata su me stessa, mi impongo di riaddormentarmi e di non pensare al sogno che ho appena fatto. Come se fosse facile!
 

− No, così non va. L’ultima deve essere più lunga.
DO - RE - MI- DO - SI - LA - SOL…
Sbatto entrambe le mani sulla tastiera del pianoforte e sospiro pesantemente. Oggi non è proprio la giornata adatta per provare nuove armonie. Lawrence solleva la testa dal libro che sta distrattamente sfogliando e alza un sopracciglio.
− Così la straziate quella povera Ultima rosa d’estate, Maya!
− Scusatemi – dico con un altro sospiro. – È da qualche giorno che dormo poco e male e sono un po’ irritabile.
“E faccio anche sogni… particolari” penso tra me, ma naturalmente mi guardo bene dal dirlo, anche se il solo riaffiorare delle immagini della notte scorsa mi fa arrossire violentemente.
− Spero non vi siate risentita per l’annullamento del tè di ieri. Come vi ho scritto nel biglietto, un vecchio e carissimo amico è venuto a Londra per affari e si è fermato solo una notte. Non potevo proprio rimandare l’incontro.
− No, state tranquillo, ho capito benissimo.
− Allora, forse, è al vostro fidanzato che deve essere imputato questo vostro malumore. L’altra sera a teatro mi è sembrato particolarmente scontento.
Al solo sentir nominare Edmund sento lo stomaco chiudersi in una morsa di rabbia. “No Lawrence, non è per colpa di Lord Hendrick se sto così.” O forse sì, forse è anche a causa sua, forse le due cose sono così indissolubilmente legate che non riesco neanche a immaginare da dove cominciare a districarle. Sto per rispondere con una scusa quando un bussare discreto alla porta del salotto mi blocca le parole in gola.
− Avanti.
Una delle cameriere entra reggendo un grande vassoio su cui sono appoggiati dei pasticcini e un servizio per il tè in fine porcellana italiana. Non è preziosa come quella cinese, ma la trovo altrettanto bella. Raffinata e forte, come mia madre voleva che diventassi anche io. Vi ho deluso madre?
− Maya! − Mi scuoto al suono della voce di Lawrence e gli rivolgo quello che deve essere uno sguardo perso perché lui, con un sospiro pesante, si alza dalla poltrona e viene a sedermisi accanto. Aspetta che la cameriera sia uscita dopo aver appoggiato il vassoio sul basso tavolino davanti a noi, prima di proseguire.– Allora, volete dirmi cosa vi succede? Siete assente oggi, e nervosa. C’è qualcosa che posso fare per voi?
“Sì, aiutatemi a uscire da questa gabbia!”
− No, Lawrence, nessuno può aiutarmi. Ma grazie lo stesso per la gentile offerta.
− Non volete proprio confidarvi, allora!
− No, preferisco di no – dico sporgendo il busto per prendere la teiera. Verso il tè, aggiungo un po’ di latte e glielo porgo con un sorriso. La mia mano trema leggermente e un po’ di liquido versa sul piattino, ma lui fa finta di niente.
Non posso proprio raccontare a Lawrence quello che è successo ieri.
Verso anche il mio tè.
Non posso confessargli di aver passato tutta la notte che ha seguito la prima a teatro a girarmi e rigirarmi nel letto, combattuta tra rabbia, rimorso, dispetto, invidia e gelosia. E che all’alba mi sono seduta alla scrivania e ho scritto un biglietto per accompagnare il dono di quella preziosa scatola di sigari che avevo comprato proprio per lui, per Lawrence, ad un attore appena incontrato, senza peraltro avere il coraggio di firmarmi e di scusarmi. Spero che l’ammirazione di una sconosciuta possa avergli fatto dimenticare le mie parole sgarbate e, devo ammetterlo, false. Totalmente false. “Vogliate accettare questo regalo con le mie più vive congratulazioni per aver portato in scena un Calibano che ha saputo affascinarmi oltre ogni mia migliore aspettativa. Una Vostra ammiratrice.”Hayami Masumi ha interpretato un Calibano eccellente: la sua gestualità, la sua fisicità aggressiva, i suoni rozzi e pressoché inarticolati che gli uscivano dalla bocca erano la perfetta rappresentazione del selvaggio, ma il suo sguardo, quegli occhi che non so come non ho riconosciuto subito, parlavano di libertà e nobiltà. Una nobiltà che nasce in primo luogo dalla sincerità e dall’essere pienamente se stessi. Pur nella sua perversione Calibano rimane fedele a ciò che è. E lo stesso sembra fare Mister Hayami.
Sospiro. “Il mio mondo è la mia prigione, Hayami-san. Come si fa ad essere liberi? Come si arriva ad avere una luce come quella nello sguardo?”
Lawrence si alza dal divano e va a sedersi al pianoforte, nel posto dove fino a pochi minuti fa ero io.
Inizia a suonare. Le sue dita corrono leggere sulla tastiera. Mi guarda e strizza l’occhio. Si sposta leggermente sulla panca facendomi posto e io non posso che arrendermi al potere che il suo affetto ha su di me. Gli siedo accanto e la mia voce si leva in comunione con la musica:

’Tis the last rose of summer
Left blooming alone;
All her lovely companions
Are faded and gone;
No flower of her kindred,
No rosebud is nigh,
To reflect back her blushes,
To give sigh for sigh.
(Thomas Moore, The Last Rose of Summer)[1]  

Mister Hayami! Non ho resistito e ho voluto mandargli anche qualcosa di mio, di Maya, e non solo dell’ammiratrice. Qualcosa che riguarda me, ciò che sono e ciò che amo.
Avevo disegnato quella rosa sotto lo sguardo attento e bonario di Mister Hughes, durante una visita al suo atelier. Mi ero congratulata con lui per la sua maestria nel riprodurre la natura e gli avevo confessato che guardando alcuni suoi quadri ero stata tentata di allungare la mano e sentire se anche al tatto quelle foglie così perfette fossero capaci di trasmettere la stessa sensazione vellutata della realtà. Lui gentilmente si era allora offerto di aiutarmi a migliorare la mia scarsa tecnica e mi aveva insegnato a servirmi dell’inchiostro di china e a dare profondità e spessore ai petali tramite l’uso sapiente delle ombre.

I’ll not leave thee, thou lone one!
To pine on the stem;
Since the lovely are sleeping,
Go, sleep thou with them.
Thus kindly I scatter
Thy leaves o’er the bed,
Where thy mates of the garden
Lie scentless and dead.
(Thomas Moore, The Last Rose of Summer)[2]
 

E poi ieri.
Non mi aspettavo di incrociare il suo sguardo tra la folla. Il pacco era stato fatto consegnare. Me ne ero occupata personalmente per non dover subire gli sguardi interrogativi dei domestici e per evitare che la notizia potesse giungere alle orecchie dell’ammiraglio. Poi, per ingannare il tempo e i pensieri ero andata a fare degli acquisti in previsione della cena che si terrà la settimana prossima per annunciare il fidanzamento, e girando la testa per controllare la strada prima di attraversare l’ho visto a pochi metri da me. Il cuore ha avuto un sussulto e poi si è quasi fermato, immobilizzato assieme a tutto il resto del corpo, e se lui non fosse intervenuto con tempestività trascinandomi di nuovo sul marciapiede sarei finita calpestata dagli zoccoli di un tiro a quattro. La sua stretta attorno alla vita, il leggero aroma di sandalo sprigionato dai suoi vestiti, il battito del suo cuore accanto al mio orecchio, tutto questo mi ha fatto dimenticare per un attimo dove e con chi fossi e mi sono accostata ancora di più. Ho desiderato poter assaporare eternamente quella dolce sensazione di sicurezza tra le sue braccia e di potermi saziare di quegli occhi mielati, curiosi e incerti; ma le parole che ha pronunciato hanno rialzato immediatamente la barriera che si era abbassata un istante tra di noi, e per quanto desiderassi ancora sentirlo vicino, mi sono costretta a ringraziarlo con imposta cortesia e distanza, e a congedarmi.
“Perché?”
Mi accorgo solo ora che Lawrence ha smesso di suonare e che mi sta fissando con aria interrogativa. Mi alzo dalla panca e mi avvicino alla finestra.
− Lawrence…
− Dite Maya.
− Da quanto conoscete Mister Hayami? È un vostro amico?
− Me l’avete già fatta questa domanda; e comunque no, mia cara, lo conosco solo da qualche mese. Ci siamo incontrati in un… locale che frequento ogni tanto. Un posto non esattamente raccomandabile, e non voglio prediche – mi previene. – I suoi lineamenti hanno attirato subito la mia attenzione. Ho capito all’istante le sue origini e mi sono avvicinato per parlargli. Ho scoperto che in Giappone era un attore e mi è venuta l’idea della serata di poesia orientale. L’ho fatto soprattutto per voi e se non aveste accettato l’invito sarei venuto personalmente a rapirvi.
Sorrido. − È stata graditissima, Lawrence. Grazie.
− Dovere milady − dice, piegando il busto a voler simulare un inchino. − Adesso però toglietemi voi una curiosità: perché sembrate detestarlo così tanto?
− Non lo detesto affatto. È solo che la sua presenza mi ricorda continuamente ciò che ho perduto, e ciò che in parte sono. E non sono sicura di volerlo.
− E poi?
− E poi niente. Solo questo – mento, sapendo perfettamente di farlo. E forse lo capisce anche lui perché si alza dal pianoforte, mi si avvicina e passandomi un braccio attorno alle spalle mi stringe a sé. Ma il tintinnare della campana all’ingresso rompe l’incanto e Lawrence si stacca dal mio fianco tornando a sedersi sulla poltrona. Qualche secondo dopo Edmund e il conte suo padre fanno il loro ingresso nella stanza, seguiti dall’ammiraglio.
− Maya ero impaziente… − si ferma all’improvviso. – Ash. Di nuovo qui?
− Lord Lawrence Ash, lieto rivedervi così presto – interviene il conte. – Siete venuto a far visita all’ammiraglio? Mi dispiace ma ci siamo attardati in una visita d’affari e siamo rientrati solo adesso.
Lawrence aggrotta le sopracciglia. – No, sono qui per Maya – gli risponde, per poi proseguire rivolto a Edmund. − Come ben saprete ieri non mi è stato possibile venire a porgerle i miei omaggi prima della mia partenza per Oxford, quindi sono venuto oggi.
− Certo, mi era passato di mente – dice Edmund, fissandolo in viso. – Ora se non vi dispiace avrei bisogno di parlare in privato con la mia fidanzata.
− Edmund, non vi permetto di essere così scortese con i miei ospiti – gli sibilo, arrabbiata.
− Maya! – mi rimprovera l’ammiraglio. – Comportatevi da signora.
Edmund si volta a guardarmi. – Cosa significa che non mi permettete di essere scortese con i vostri ospiti? Ricordatevi con chi state parlando. Tra poco sarete mia moglie e…
− Ricordate voi con chi state parlando! – lo interrompe Lawrence duro. – Non prendetevi libertà che il vostro rango non vi consente.
− E voi non ronzate intorno alle promesse spose di altri gentiluomini. Oppure dobbiamo pensare che le voci che circolano sono vere?
Vedo Lawrence sbiancare in viso.
− Lasciate perdere, Lawrence. Andate adesso, vi prego.
− Ma…
− Nessun ma… Non vi permetterò di esporvi per me. Io sto bene. Non preoccupatevi.
− Maya…
− Andate, ve ne prego.
Con un sospiro si china a sfiorarmi la mano con le labbra, e saluta gli altri con un cenno della testa.
− Ah, dimenticavo Ash. – lo blocca Edmund. − Sapete che ho deciso di finanziare la compagnia di Mister Morris? È arrivato il momento di dare del filo da torcere a Talbot e ai suoi attorucoli, soprattutto al suo nuovo pupillo. È anche un vostro conoscente se non erro. Si vocifera nell’ambiente che Talbot lo stia tenendo d’occhio per fargli interpretare un’opera da lui scritta. Un capolavoro a quanto pare. Vedremo se arriverà a meritarlo.
− Sì, vedremo. Addio Maya. Vi scriverò presto.
Va verso la porta e se la chiude alle spalle.
Mi giro di nuovo verso Edmund.
− Perché? Perché siete stato così maleducato? Ve l’ho già detto: Lawrence ed io ci conosciamo fin da quando eravamo bambini; non rinuncerò mai alla sua amicizia, che lo accettiate o no.
− Ed io vi ho già detto che cosa mi aspetto da voi in quanto mia fidanzata e futura moglie – ribatte lui imperturbabile.
− Io… io vi detesto – gli urlo prima di lasciare a mia volta la stanza.
− Bene, così sarà ancora più divertente farvi mia – lo sento dire prima di scoppiare a ridere.


[1] Ecco l’ultima rosa dell’estate/lasciata a sbocciare in solitudine;/tutte le sue dolci compagne/appassite oramai e scomparse;/nessun fiore della sua specie,/nessun bocciolo è prossimo,/per rispondere al suo rossore,/per ricambiare i suoi sospiri.
 
[2] Ma io non ti lascerò da sola/a languire sul tuo stelo;/poiché i tuoi cari dormono,/vai, riposati con loro./Così, delicatamente spargo/i tuoi petali sul letto,/dove le tue compagne del giardino/giacciono senza profumo e abbandonate.
 

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Capitolo 12
*** Cap. 12 ***


Capitolo 12

Il tetto si è bruciato
Ora
posso vedere la luna.
(Masahide)

 

Eccomi qui, dietro le quinte di scena, ad aspettare concentrato e lucido la mia chiamata sul palcoscenico. I capelli son ben legati e nascosti, il mio volto deve apparire più pulito e morigerato che mai. Indosso una tunica, e sopra questa, la toga praetexta: sono un senatore di Roma, e mi accingo a presenziare alla festa dei Lupercali. Sono Bruto, e sto per tradire mio padre, il mio console, il mio dittatore. Per un bene supremo, per un bene più grande: tradisco me stesso per l'onore di Roma.
Chiudo gli occhi, e respiro profondamente. Non è stato facile per me impadronirmi di questa parte: sapevo poco o nulla di Roma, e ancor meno della sua storia. Talbot mi è stato decisamente d'aiuto, seppur poco paziente e molto pretenzioso. Anche Angie ha fatto il possibile per aiutarmi, soprattutto nella lettura. Lo scoglio più grande da quando sono arrivato a Londra è stata la mia difficoltà con la lingua, con la sua musicalità differente fatta di suoni sconosciuti che per me non sono facili da riprodurre. Ma la mia caparbietà ha avuto la meglio: mi sono impegnato molto, ho faticato molto, e alla fine ce l'ho fatta. Ora leggo con disinvoltura, ma Shakespeare è un'altra cosa. Però ho lottato anche con lui, e sono qui per dimostrare che ho vinto.
Non è stato semplice nemmeno comprendere a fondo la personalità di Bruto: un uomo dotato di un forte senso morale, ma combattuto e lacerato dai tormenti. Un uomo che alla fine soccombe a causa delle sue stesse virtù: questo sono io, questo porterò in scena, dall'apertura dei Lupercali alla disfatta di Filippi. La lenta discesa di un uomo verso la propria rovina, passando attraverso il proprio inferno personale per guardare infine in volto la disfatta degli ideali piegati alla logica e alla forza di un’ineluttabile realtà. Temo la dittatura, mi tormento tra lealtà e giustizia, poi mi aggrego ai congiurati e l'ultima pugnalata al mio nemico e ai miei ideali sarà mia sferrata dalla mia stessa mano. Combatterò, comprenderò il mio fallimento e morirò in Grecia, sulla mia spada, in un ultimo, disperato gesto d'onore.
Mi sono chiesto spesso durante le prove perché Talbot abbia affidato a me il ruolo di Bruto. Per sé ha scelto Antonio, il mio antagonista. E il protagonista, anche se Angie non fa che ripetermi che per lei il vero eroe tragico della storia sono io. A me non importa, perché sento questo personaggio con tutti i suoi dilemmi e le sue scelte spezzate, il suo ancorarsi a un mondo che non esiste più, molto vicino a me, al mio sentire. Per questioni diverse, mi sento lacerato anch'io. Ma non ora, non qui. Qui sono Bruto, membro del glorioso senato romano, e un gesto del suggeritore mi avverte che è arrivato il momento di salire i pochi gradini di accesso al palcoscenico.
 
Mi siedo di fronte allo specchio imbrunito del mio camerino e con gesti lenti e meccanici inizio a togliere con cura dal viso il trucco di scena. A dire il vero sento il bisogno di fare un bagno caldo, ma dovrò aspettare. Lo spettacolo sembra avere avuto successo, questa stagione pare concludersi nel migliore dei modi. Sento il sangue scorrermi ancora caldo nelle vene, la sensazione inebriante di essere uscito dal mio corpo ed essermi impossessato dei pensieri e della vita di un'altra persona ha su di me ha un effetto a dir poco eccitante. Ci impiego un po' a riprendere il controllo sulle emozioni, è sempre così. Il problema è che non voglio separarmene, mi piace sentire questi brividi attraversare il mio corpo, e renderlo vivo. Poche cose riescono a farlo, e osservando Angie attraverso il riflesso dello specchio trafficare con le tuniche alle mie spalle, mi rendo conto che lei non è una di queste.
Chissà se la mia ammiratrice sconosciuta è venuta a vedere anche questo spettacolo. Chissà se le è piaciuto, chissà se me lo farà sapere. Sciolgo i capelli e mi allungo sulla poltroncina, godendo del senso di rilassatezza che sento avvolgere a poco a poco le mie membra e la mia mente. Il Giulio Cesare scivola in secondo piano: è normale, ormai è passato. Almeno fino a domani. La scena che si è presentata al mio sguardo nel momento in cui ho alzato gli occhi verso la platea nell'omaggio al pubblico a fine spettacolo si ripresenta vivida e fulminea alla mia memoria. Oltre la luce tremolante delle candele disposte in ordine sul palco c’era Miss Kitajima, in prima fila, con gli occhi spalancati e il volto acceso, bella e irraggiungibile come non mai, straniera come non mai, ma con il potere immenso di calamitare su di sé tutta la mia attenzione. L'ho vista sussultare un istante nell'incrociare il mio sguardo, ma non ha spostato il suo. È rimasta a fissarmi, per nulla intimidita, con mio grande piacere. Quello che non mi è piaciuto, invece, è ciò di cui non si è accorta: l'uomo seduto accanto a lei, il suo fidanzato, senz'ombra di dubbio. La sua attenzione non era rivolta al palco, ma a lei. Il suo sguardo era duro, la sua espressione seria, e calcolatrice. Non mi piace quell'uomo, non mi piace per niente.
− Masumi, hanno bussato alla porta.
La voce di Angie mi distoglie dai miei pensieri. Mi alzo, e mi rendo conto che ha canticchiato per tutto il tempo in cui sono stato rapito dalle mie riflessioni. Mi avvicino alla porta, e la apro. Le ultime persone che avrei mai immaginato vedere sulla soglia del mio camerino mi scrutano con un sorriso affettato l'uno, e con imbarazzo l'altra. La sorpresa mi impedisce per un istante di muovermi o parlare, poi mi riprendo, spalanco del tutto la porta e attendo. Lady Kitajima sta per parlare, ma l'uomo ferma le sue parole sul nascere, con fare autoritario che non ammette repliche. Comprendo all'istante di non riscuotere esattamente i suoi favori, ma non posso farci nulla. Oltre l'educazione, l'antipatia è reciproca.
− Lord Hendrick, futuro Conte di Middlebourgh, onorato. Dopo aver assistito a un Giulio Cesare come quello portato in scena dalla vostra compagnia questa sera, non potevo esimermi dal presentarmi a voi di persona. Felice di fare la vostra conoscenza, Bruto.
Non raccolgo la provocazione, non me lo posso permettere. Devo capire cosa quest'uomo voglia da me.
− Mi cogliete impreparato My Lord. Non mi aspettavo una vostra visita, ne sono onorato. − Chino il capo in saluto, a lui e alla sua imbarazzata ospite che cela a fatica un certo fastidio. Evito deliberatamente di pronunciare il mio nome. − Piacere di rivedervi, milady. Mi fa piacere che siate venuta a vedere anche questo nostro ultimo spettacolo.
No, quest'uomo non mi piace per niente. Il lampo che gli attraversa gli occhi chiari non promette nulla di buono, e il suo atteggiamento, per quanto composto e trattenuto, si dimostra alquanto ostile.
− La mia fidanzata ha mostrato il desiderio di complimentarsi personalmente con voi, Mister. Hayami. Era mio dovere accompagnarla e cogliere l'occasione per fare finalmente la vostra conoscenza.
C'è una sfida sottile nelle sue parole, ma mi obbligo a non raccoglierla. Angie si mette al mio fianco, pretendendo silenziosamente le presentazioni. C'è tensione nell'aria, ma stranamente, non ho alcuna voglia di dissiparla.
− Sì, Mister Hayami, avete recitato in modo impeccabile questa sera. Mi avete completamente catturata.
È bella esattamente come la ricordavo, leggermente imbarazzata e intimidita. Ma la determinazione nei suoi occhi è immutata, come la sua fierezza.
− Vi ringrazio, milady. Non è stato facile, ho ancora molto da imparare. Ma la fiducia che mister Talbot ripone in me e nelle mie capacità mi sprona a dare il meglio, e a impegnarmi al massimo delle mie possibilità. Sapere di essere riuscito a catturare la vostra attenzione è motivo di soddisfazione. Vi ringrazio nuovamente.
La voce di Lord Hendrick s'inserisce a forza nella conversazione come qualcosa di sgradito e fuori luogo. Torno malvolentieri a rivolgere a lui la mia attenzione.
− Certo è che avete ancora molto da imparare. Avete talento, ma la vostra recitazione è ancora troppo istintiva, non ci avete lavorato troppo sopra, non è forse vero? − Non mi guarda in viso mentre pronuncia questo suo giudizio approssimativo, ma passa uno sguardo disinteressato e studiato su ogni angolo del mio camerino.
− No, Lord Hendrick. A dire il vero il mio personaggio l'ho studiato sotto ogni angolazione, e ci ho lavorato sopra, ci ho lavorato sopra moltissimo. Mi dispiace non essere riuscito a raccogliere appieno i vostri favori, probabilmente ho ancora dei limiti.
− Sì, probabilmente sì. Francamente non riesco a comprendere tutto questo interesse di Mister Talbot nei vostri confronti. Come attore siete acerbo, come uomo siete straniero. − Noto un lampo di rabbia attraversare lo sguardo di Lady Kitajima, e il corpo tendersi nel tentativo di mascherarla. Cerco di contenere al meglio anche la mia. − Pensate davvero di riuscire a scalare le vette del successo e impadronirvi di quel capolavoro che Talbot tiene così saldamente ancorato alle sue mani?
Fisso gli occhi nei suoi, non ho alcuna intenzione di lasciarmi intimidire da quest'uomo indisponente che ha deciso, a quanto pare, di darmi battaglia per chissà quale oscuro motivo.
− Non so di cosa voi stiate parlando, My Lord. Io voglio recitare, niente più che recitare. Non sono a conoscenza di alcun capolavoro, né tantomeno è mia intenzione appropriarmene.
Lord Hendrick sorride, prende una mano alla sua infastidita fidanzata e la obbliga a posarla sul suo avambraccio. Sento gli occhi di Angie puntati addosso, ma io continuo a fissare lui.
− Meglio così. Sapete, Mister Hayami, ormai è tardi, ma alla riapertura della stagione dovreste andare a vedere uno spettacolo di Mister Morris. Ho deciso di finanziare la sua compagnia, potreste avere delle belle sorprese.
La voce di Miss Kitajima attrae la mi attenzione. È pallida, e la sua mano inguantata stringe con forza il braccio del suo fidanzato.
− Edmund... Non mi sento molto bene, possiamo andare, per favore?
− Sì, certo, ho bisogno anch'io di respirare un poco d'aria fresca. Addio Mister Hayami, e complimenti per il vostro spettacolo. Godetevi la gloria finché ne avete la possibilità. − Mi lancia uno sguardo beffardo, che muta radicalmente nel porgere i propri saluti ad Angie. Un altro sguardo che non mi piace, e che mi infastidisce. E non mi piace nemmeno quello di risposta di Angie. Sposto l'attenzione su Lady Kitajima, ma pare non essersi accorta di nulla. Sembra persa in altri pensieri, ai quali mi è impossibile accedere. Nei due mesi da che non ci vediamo non è cambiata per nulla, è sempre bellissima, e sempre irraggiungibile. Anche se questa sera, per qualche ragione a me ignota, l'ho sentita vicino a me.
− Addio Lord Hendrick, ma nessuna gloria è concessa a chi non possiede alcun valore. − Lo ignoro deliberatamente, e porgo i miei saluti al volto pallido della sua accompagnatrice.
− Grazie per la visita e i complimenti, milady. Ne sono onorato. − Attendo un istante, perché voglio che capisca davvero per cosa la sto ringraziando. Lo sguardo che mi rivolge mi fa comprendere che lo ha fatto. − Grazie.
Aspetto che varchino la soglia e richiudo pensieroso la porta alle loro spalle. Angie mi fissa con uno sguardo preoccupato e imbarazzato. Si sente in colpa, e ne ha tutti i motivi. Ma non mi importa. Non c’è niente di cui mi importi in questo momento se non il desiderio imperativo che sta nascendo dentro di me. C'è una cosa voglio fare, e devo farla subito. Sotto l’occhiata stupita e curiosa di Angie riapro la porta e prendo veloce la via del corridoio, precipitandomi verso l'ingresso del teatro. Forse non è ancora troppo tardi, e io devo trovarlo. C'è molta gente nel salone, troppa. Sto per varcare un confine, sto per fare qualcosa di cui probabilmente mi pentirò presto. Ma non ho scelta. Mi guardo intorno, lo cerco, so di non passare inosservato e devo essere cauto. Lo trovo, sta parlando con alcune persone che non conosco. Gli faccio un cenno, mi vede e mi dice di aspettare. Attendo.
− Cosa succede, Mister Hayami? Lo spettacolo è stato un successo, questa sera avete superato voi stesso. Talbot deve essere molto orgoglioso di voi.
Lawrence Ash è gioviale e amichevole come sempre. La sua allegria è contagiosa, ma io non riesco a fare a meno di percepire una velata malinconia dietro ai suoi occhi chiari e alle sue maniere garbate.
− Perdonatemi My Lord, so di essere sfrontato ma non ho altra scelta, e non so a chi altro chiedere aiuto.− Mi fissa con aria sospettosa e accorta. Io sospiro, tanto vale buttare fuori tutto subito, e sperare che comprenda. − Ho bisogno di incontrare Lady Kitajima, devo parlarle.
Continua a fissarmi, ma il verde dei suoi occhi ha cambiato sfumatura. Rimane in silenzio qualche istante, meditabondo.
− Sapete cosa mi state chiedendo Mister Hayami? Lo sapete?
− Sì. Ma credetemi, è importante. Devo parlarle. Ma se lei non vorrà incontrarmi, non porrò alcuna obiezione, e accetterò la sua scelta. Vi imploro, My Lord.
Sospira, seguendo chissà quali pensieri, senza smettere un istante di fissarmi.
− Farò il possibile, Mister Hayami. Ma non sarà semplice, non lo sarà per niente. Ora vi debbo lasciare, altre persone richiedono la mia attenzione. Vi consiglio di cercare Mister Talbot, e prima o poi, anche noi avremo qualcosa di cui parlare.
 
− Ti fa ancora male? Sarebbe ora che tu andassi a farti visitare da un medico, non sottovalutare la tua salute.
− Sto bene, Angie, passerà.
Respiro a fondo, ma a dispetto delle mie parole, il dolore al petto si fa ogni giorno più intenso. Alle volte, fatico anche a respirare. E quando mi succede vengo colto da un'improvvisa debolezza, e devo sedermi.
Angie mi si avvicina, si siede sul letto e mi scruta con attenzione.
− C'è una cosa di cui vorrei parlarti, Masumi.
Chiudo la finestra e mi volto a guardarla. È seria, non l'ho mai vista così seria da quando la conosco.
− Riguardo a noi?
− Anche.
Sospira, e noto il suo imbarazzo. Mi avvicino, e prendo posto accanto a lei.
− Ho avuto una proposta di lavoro, se accetto mi dovrò allontanare per qualche tempo.
− Con Talbot hai già parlato?
− Sì. − Abbassa lo sguardo, e passa distrattamente le dita sottili a distendere una ruga sulla coperta. È una brava interprete, ma lo sono anch'io. Capisco quando mente.
− Quindi?
− Mi hanno proposto di andare in America. Si tratta una compagnia importante, sarebbe una bella esperienza e darebbe una svolta importante alla mia carriera.
Sono stupito, ma a dire il vero, nemmeno più di tanto. Le pongo comunque la domanda, ma la conosco bene. Lei ha già deciso.
− In America? Sei sicura?
Mi fissa sconvolta e incredula. Poi abbassa di nuovo lo sguardo, colpevole. È un’ammissione.
− E quando dovresti partire?
− La settimana prossima. Non t'importa di noi?
Mi sfugge un sorriso, e lei sembra aversene a male.
− Tu hai già deciso, Angie, non riversare le colpe su di me. Siamo stati bene insieme, ci siamo rispettati e anche voluti bene. Ma sapevamo entrambi che questa storia non sarebbe potuta durare, siamo diversi.
Si alza di scatto, ha gli occhi arrossati e umidi di lacrime trattenute.
− Io ti amo davvero, Masumi, è solo che...
Mi alzo a mia volta, ma non l'abbraccio, non faccio nulla.
− È solo che la carriera, per una come te, viene prima di ogni cosa. È giusto così, Angie, segui la tua strada. Ma non tardare a parlarne con Talbot, non pensare solo a te stessa.
Tira su col naso, ma non si avvicina.
− Mi aspetterai?
Non rispondo. La guardo, e sospiro. Lei si avvicina un poco, mi sfiora una guancia e scuote il capo. Poi raccoglie la borsetta e si precipita alla porta, senza dire più nulla, e senza aspettare parole che sappiamo bene entrambi non sarebbero mai potute uscire dalle mie labbra.
Sospiro nuovamente, mi sdraio sul letto e fisso preoccupato il soffitto. Ho appena detto addio ad Angie, ma sembra non importarmene. Volto il capo verso la finestra e lo sguardo mi cade sulla confezione lucida ed elegante che nell’entrare avevo riposto distrattamente sul comodino. Allungo una mano per prenderla, e aperto il coperchio lascio scivolare fra le dita la seta delicata e pregiata con la quale la mia misteriosa ammiratrice ha voluto omaggiare la riuscita del mio ultimo spettacolo. Chissà per quale motivo ha pensato di regalarmi un fazzoletto per il collo, e chissà per quale motivo neppure questa volta me lo ha consegnato di persona. Rigiro quel fazzoletto fra le dita, assaporandone sulla pelle la morbidezza, il calore, la leggerezza. Nessun biglietto di congratulazioni questa volta, solo il foulard, e il disegno. Di nuovo una rosa, una splendida rosa, un bocciolo non ancora schiuso del tutto, ma che porta in sé, racchiuso fra i petali raccolti, la promessa di una fioritura senza uguali. Prendo in mano il foglio, e noto che il tratto sembra essere migliorato dal primo disegno. È meno incerto, più nitido. Oserei dire quasi più personale. Una rosa che sta fiorendo… Chissà se c’è un motivo dietro a questa scelta. Ad ogni modo, mi sento infinitamente grato a questa misteriosa ammiratrice, mi rende orgoglioso di me, e mi fa sentire in dovere di impegnarmi al massimo anche per lei, per fare in modo di ripagare il suo apprezzamento, e la fiducia nei miei confronti. M'incuriosisce molto questa presenza misteriosa al mio fianco, ma per quanto provi a indagare, o a pensare, non trovo niente che possa riportarmi in qualche modo a lei, o a conoscerne almeno il nome. Ci rinuncio, ripongo il disegno nella scatola, e chiudo il coperchio. Il fazzoletto continuo invece a farlo scivolare lentamente fra le dita, e una piega improvvisa della seta alla luce oscillante delle candele mi riporta alla mente un movimento di Lady Kitajima, e del suo vestito. La rivedo di fronte a me, con le sue origini misteriose e le sue risposte sagaci, la rivedo in prima fila, con il volto accesso e gli occhi spalancati sul palcoscenico. Sbuffo, e i capelli sciolti mi ricadono sul volto mentre scuoto lentamente il capo. Mi sembra tutto così assurdo! Angie mi ha appena detto addio, io stringo fra le dita il dono di un'ammiratrice premurosa e forse anche un poco infatuata e l''unica cosa a cui riesca a pensare è il favore chiesto questa sera a Lord Lawrence Ash. Il fatto è che devo incontrare Maya Kitajima. Non posso aspettare, devo parlarle...

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Capitolo 13
*** cap. 13 ***


Capitolo 13

 
Strette nella roccia
ho chiuso le parole.
Quanto trattiene in petto
questo cuore
non lo saprà nessuno
 
(Yamabe No Akahito)

 
 
− Sì, assolutamente sì.
− Benissimo, mia cara, sarà un viaggio piacevole ma anche istruttivo. Non siete mai stata sul continente ancora, non è vero?
− No, non ancora e non vedo l’ora. Però… come farò a convincere l’ammiraglio?
− Ci penserò io, voi preoccupatevi solo di rassicurare il vostro fidanzato che sarete in buone mani e che nulla vi accadrà se anche per un po’ sarete lontana da lui.
− Come volete, e grazie. Grazie infinite. È il più bel regalo che avreste potuto farmi, zio.
− Il miglior ringraziamento sarà la vostra compagnia. Andrò subito a parlare con il vostro patrigno. Mi aspettano al club tra poco più di un’ora e devo sbrigarmi se voglio arrivare in tempo.
− Sì, anche io ho un appuntamento. Portate i miei saluti a Lady Dimbleby e ditele che andrò presto a farle visita per definire i particolari.
Accompagno lo zio nello studio dell’ammiraglio e mi affretto verso le mie stanze dove Mae mi sta già aspettando. Mi aiuta a indossare l’abito a righe rosa scuro e bianche, con le rifiniture cremisi. So che il colore si addice alla mia carnagione olivastra e che il taglio particolare esalta la mia figura. E voglio essere bella. Voglio vedere i suoi occhi chiari illuminarsi di ammirazione quando poserà lo sguardo su di me. Sorrido in anticipazione del momento, ma anche un po’ di me stessa. Quante volte ho cambiato idea nel corso degli ultimi due giorni? Troppe, senza ombra di dubbio; ma ormai non ha più importanza. Ormai ho dato la mia risposta e non posso più tornare indietro.
 
Seduta dentro la carrozza che Akio guida verso South Kensington, ripenso al momento in cui Lawrence mi ha riferito la richiesta di Mister Hayami.
È venuto a farmi visita la mattina successiva la prima del Giulio Cesare. Sul suo viso non c’era la solita espressione bonaria e gioviale: le labbra erano chiuse in una piega decisa e forse anche un po’ preoccupata, anziché aperte nel sorriso amichevole di sempre.
− Maya, ricordate la nostra conversazione di qualche mese fa riguardo a Masumi Hayami? – Credo di aver sgranato gli occhi e nello stesso tempo essere arrossita, perché Lawrence non ha avuto bisogno di altra risposta per proseguire. – Vedo dalla vostra reazione che ricordate. Ecco, ieri sera, dopo lo spettacolo, Mister Hayami mi ha chiesto di aiutarlo a incontrarvi. Sinceramente sono rimasto piuttosto stupito dalla sua audacia e stavo per rifiutare, quando le parole che mi rivolgeste allora mi sono tornate alla mente: diceste che vi ricordava ciò che siete e ciò che avete perduto. Ma c’era anche dell’altro, qualcosa che forse per pudore non voleste o poteste dirmi… No, non imbarazzatevi, Maya – ha detto ad un mio timido tentativo di interromperlo. − Vi conosco e vi voglio bene, non c’è bisogno di tante parole tra noi. – Ho annuito in silenzio, grata per quell’ennesima dimostrazione di affetto. – Gli stessi vostri pensieri li ho letti negli occhi di Mister Hayami, ed è stato per questo che ho accettato di essere il suo messaggero. Ha detto che rispetterà qualsiasi vostra scelta, e lo stesso farò io. Non cercherò di convincervi né ad incontrarlo né a non farlo, ma lascerò che seguiate il vostro cuore e il vostro istinto.
− No, non voglio parlargli. Non abbiamo nulla da dirci. Lo ha detto lui stesso durante il nostro primo incontro: apparteniamo a mondi diversi che niente hanno in comune.
Ho risposto di getto, senza neanche concedermi la possibilità di pensarci qualche secondo.
− Ne siete proprio sicura, Maya?
− Sì – ho risposto senza indugi, allontanandomi da lui. Sono andata a sedermi davanti al pianoforte e ho cominciato a suonare. Volevo un pezzo impegnativo e con un ritmo piuttosto sostenuto in grado di nascondere l’agitazione che, mio malgrado, era nata in me. Ma come si permetteva di mettermi in imbarazzo in quel modo? Se qualcuno ci avesse visti, sarebbe stato uno scandalo! Chiedermi di mettere a repentaglio la mia reputazione, per cosa? Un’origine comune? Un passato ormai lontano e quasi dimenticato? No, non lo avrei incontrato. E poi, se anche avesse avuto tutta questa voglia di parlare non c’erano forse Mister Talbot e… e quella ragazza? Un altro moto di stizza e ho ripreso a suonare daccapo il pezzo, questa volta accompagnando la musica con le parole, appena sussurrate.
 

L'amour est un oiseau rebelle
Que nul ne peut apprivoiser,
Et c'est bien en vain qu'on l'appelle
S'il lui convient de refuser.
Rien n'y fait menace ou prière,
L'un parle bien, l'autre se tait,
Et c'est l'autre que je préfère,
Il n'a rien dit mais il me plaît.
(La Habanera da Carmendi George Bizet, libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy) (1)

 
Non so dire se siano stati i versi della canzone, scelta istintivamente dalle mie mani, oppure il sorriso sornione di Lawrence, o se abbia semplicemente ceduto a un’inclinazione che io stessa avevo, ma all’improvviso tutto il mio dispetto si è dissipato lasciando dietro di sé nient’altro che una scia di indecisione.
Ho smesso di suonare e mi sono girata verso Lawrence.
− Ci penserò, non posso promettervi di più per adesso.
Lui mi ha rivolto uno sguardo meditabondo e ha sospirato. E solo poi ha annuito.
Ci ho pensato per due giorni, cambiando e ricambiando idea di continuo, ma alla fine la curiosità di sapere e il desiderio di rivederlo sono stati più forti di ogni dubbio o timore.
 
Persa nei miei pensieri non mi sono accorta che siamo intanto arrivati davanti alla casa in mattoni rossi di Holland Park Road. Akio suona il campanello accanto alla porta d’ingresso, quindi aiuta me e Mae a scendere dalla carrozza. Il maggiordomo di Mister Hughes apre il lucido battente di quercia e ci fa entrare nell’atrio dove veniamo liberate dei nostri soprabiti, e dove ci viene chiesto di sederci qualche secondo in attesa del padrone di casa.
In qualsiasi altra abitazione essere costretti ad aspettare nell’ingresso sarebbe considerato un’enorme scortesia, ma non nella casa di Arthur Hughes. Qui ogni stanza è talmente curata, particolare e bella che non ci si stanca mai di ammirarla. Dall’atrio passo direttamente nella Sala di Narciso con al centro lo splendido bronzo del giovinetto greco e alle pareti quelle meravigliose piastrelle con quella intensa tonalità turchese. Alzo la testa e come ogni volta mi fisso ad osservare il pannello in ceramica che rappresenta un vaso contenente dei fiori stilizzati. Ma non è questo ciò che preferisco di questo piano, bensì la Sala Araba. Non appena varco la soglia alzo gli occhi al soffitto che in altezza arriva fino al tetto. Le colonne, gli archi, le mezze-cupole e le cupole ricoperti da mosaici dorati che lo decorano tutt’intorno mi lasciano ancora una volta senza fiato. Mi avvicino alla finestra e chiudo gli occhi concentrandomi sul suono gorgogliante dell’acqua che sgorga dalla fontana posizionata esattamente al centro della piccola sala. Lascio che la pace e la tranquillità che si respirano in questo posto calmino i miei nervi tesi e mi lascio trasportare dall’atmosfera di altri tempi e altri luoghi immaginando immense distese desertiche, case le cui pietre trattengono all’interno una frescura impregnata di odori e sapori esotici, uomini dalla pelle seccata dal sole avvolti in ampie vesti bianche e blu e vermiglie e con la testa fasciata da lunghi turbanti.
− Prego Milady, Mister Hughes vi sta aspettando nello studio. Vi faccio strada.
La voce querula del maggiordomo rompe l’incanto e mi ritrovo costretta ad abbandonare le mie fantasticherie per tornare alla realtà. Concedo a Mae il permesso di aspettarmi nella sala della servitù e lo seguo.
Lo studio si trova al primo piano e per arrivarci si deve salire la più bella scala che io abbia mai visto. È in ebano, nero come la più malvagia delle anime dell’inferno e si arrampica appoggiandosi a una parete costellata di quadri, fino ad arrivare su un pianerottolo con una finestra interna che dà direttamente sulla Sala Araba sottostante. Non so resistere alla tentazione e mi affaccio un momento per gettare un ultimo sguardo a questo angolo di oriente in piena Londra. Lo studio si trova immediatamente sulla destra e anche qui Mister Hughes ha aggiunto il tocco di quello squisito artista che è facendo costruire una mezza torre che sporge dal corpo principale della casa e rivestendola di una vetrata che occupa tutta la parete in altezza, in modo tale che guardando fuori si abbia la vista non solo degli alberi del giardino ma anche di una grande porzione di cielo. Mi fa venire voglia di poter spiccare il volo e sfruttare per me e per sempre quella libertà che promette. La stanza è ingombra di tele, cavalletti, sedie di ogni tipo e misura, tavoli a loro volta sommersi di ogni oggetto possibile e immaginabile, ma non posso fare a meno di pensare a come sarebbe bello potersi fermare qui a leggere o suonare e, alzando gli occhi, ritrovarsi immersi in questo bonsai di immensità.
 
Mister Hughes mi accoglie con il solito sorriso gentile e si scusa per essersi fatto sorprendere al lavoro. Lo tranquillizzo e mi avvicino ad osservare il dipinto che ho visto nascere e svilupparsi in questi ultimi mesi e scopro con mia sorpresa che è ormai ultimato: Ofelia, seduta su un tronco getta dei fiori nell’acqua del fiume ai suoi piedi e li osserva galleggiare trasportati dalla corrente. È un’immagine molto struggente e triste; il contrasto tra la carnagione chiarissima della ragazza e il rosso delle sue labbra, così come le ombre scure che le cerchiano gli occhi trasmettono tutta la sua angoscia e il senso della sua malattia. Anche l’abito, una semplice tunica bianca, contribuisce a rafforzare il senso di ineluttabilità: tra poco Ofelia si lascerà scivolare nell’acqua e abbraccerà quella morte che è già arrivata con un’ombra sul suo volto.
− Manca solo la velatura, ma ci vorranno ancora dei mesi prima che il colore sia abbastanza asciutto– dice Mister Hughes, proprio nel momento in cui il maggiordomo entra reggendo un vassoio su cui è posato un biglietto. Il mio ospite lo prende tra le dita leggermente macchiate di colore e legge le poche parole vergate con quella che sembra una calligrafia piuttosto elegante. E che io riconosco anche a distanza: Lawrence!
Il cuore mi balza nel petto e una paura irrazionale mi attanaglia le viscere. Se potessi farlo mi nasconderei! Tutta la mia sicurezza e spavalderia si fondono come neve al sole e mi lasciano incerta e nervosa, non più certa di aver compiuto la scelta giusta. Cosa posso dirgli? Come riuscirò a dissimulare questa emozione che non capisco ma che sento turbinare in me?
− … anche una vostra conoscenza − sta intanto dicendo Mister Hughes. – Ma non ho il piacere di conoscere il suo accompagnatore. Mister… Eiaimi?
− Mister Hayami forse – dico, trattenendo un involontario sorriso alla storpiatura del nome. – È l’attore che ha recitato gli haiku durante la serata di poesia a Chesnore, qualche mese fa.
− Ah, sì certo! Adesso ricordo. È anche lui… − lascia la frase in sospeso, non sapendo esattamente come continuare, e io mi affretto a toglierlo dall’imbarazzo.
− Sì, è giapponese come me. Anzi, un sangue misto all’apparenza. Ma non so niente di più di quanto sia riuscita a capire dall’aspetto, non abbiamo mai avuto l’occasione di parlare.
− Bene, allora potremo ovviare subito a questa mancanza. Vi raggiungerò tra qualche minuto. − Poi rivolto al maggiordomo. − Fai accomodare i signori nel salottino Sebastian, e accompagna anche la deliziosa Lady Kitajima.
Annuisco con un sorriso e seguo Sebastian al piano inferiore.
Sto girando l’angolo che dalle scale dà l’accesso alla Sala di Narciso quando li vedo attraverso la coppia di colonne che la separa dall’ingresso. Sono uno di fianco all’altro e Lawrence sta indicando la piastrella esagonale raffigurante i fiori di garofano che decora una delle pareti della sala. La testa di Mister Hayami è leggermente piegata verso il suo interlocutore; lo sguardo concentrato, le labbra appena atteggiate in un sorriso di ammirazione. Si girano entrambi al richiamo del maggiordomo e i nostri occhi si trovano immediatamente. Quegli occhi dall’incredibile colore del miele… Cosa mi sta succedendo? Perché quest’uomo ha il potere di attirare in un attimo la mia attenzione su di sé? Dipende solo dal richiamo di un’origine comune, oppure c’è anche qualcos’altro? Cos’è quel qualcosa che mi spinge a compiere azioni singolari come l’inviargli regali nascondendomi dietro un’inafferrabile ammiratrice segreta, oppure accettare un incontro che, se scoperto, potrebbe generare un’infinità di chiacchiere e fors’anche sfociare in uno scandalo?
− My lord, ma che piacevole sorpresa incontrarvi qui! – dico avvicinandomi e porgendo la mano a Lawrence, che la prende tra le sue e accenna un sorriso.
− Una meravigliosa coincidenza direi, mia cara. Vi ricordate di Mister Hayami, vero?
− Certo che sì. È un enorme piacere rivedervi, signore. Permettetemi di rinnovarvi i complimenti per la vostra ultima interpretazione.
− Vi ringrazio, milady − dice lui.
C’è qualcosa di strano nella sua voce. È più roca e incerta del solito e mi chiedo a cosa sia dovuto questo improvviso riserbo.
Seguiamo Sebastian che ci fa accomodare nel salottino per poi congedarsi immediatamente.
− Mister Hughes arriverà tra qualche minuto – dice prima di uscire e chiudersi la porta alle spalle.
Rimaniamo per un attimo in silenzio a guardarci, poi dico con una risatina imbarazzata:
− Allora Mister Hayami, non trovate che anche My Lord ed io siamo degli ottimi attori?
Lawrence scoppia a ridere e anche Mister Hayami si concede un guizzo insolente negli occhi chiari.
− Indubbiamente milady. Si è appena liberato un posto nella compagnia di Mister Talbot, forse potrebbe interessarvi!
Sgrano gli occhi per la sorpresa, poi dico gelida:
− Spero, signore, che sia solo a causa della vostra poca conoscenza dei costumi di questo paese, se osate rivolgervi a una signora con una proposta del genere.
Lui mi guarda con un’espressione di stupore dipinta sul volto, poi arrossisce violentemente. Per sua fortuna Lawrence interviene in suo favore.
− Suvvia Maya, sono certo che non era nelle intenzioni di Mister Hayami offendervi in alcun modo. – E ancora avvicinando le labbra al mio orecchio perché solo io possa sentirlo. − Cercate di perdonarlo e, soprattutto, non dimenticate le difficoltà che voi stessa avete dovuto superare durante i primi anni a casa di vostro nonno.
Le parole di Lawrence mi colpiscono con la forza dei ricordi.
Abbasso un attimo lo sguardo, pensierosa, quindi mi rivolgo a Mister Hayami, il tono appena un po’ più conciliante. – Il teatro non è considerata una professione rispettabile per una donna, tantomeno per una signora che non ha bisogno di lavorare per mantenersi. Tenetelo a mente, per il futuro.
− Capisco milady. Vi prego di perdonare le mie parole avventate.
Non ho il tempo di rispondere perché Mister Hughes entra nella stanza e saluta affabilmente sia Lawrence che il mio interlocutore.
− Chiedo umilmente scusa per essermi presentato a casa vostra senza invito e senza aver avvisato in precedenza, ma mentre stavo camminando insieme a Mister Hayami mi è venuta una bella idea su un dipinto che vorrei commissionarvi e siccome tra pochi giorni partirò per raggiungere il Duca a Kerrigan, ho pensato di approfittare del fatto che eravamo in zona per esporvela direttamente. Spero di non avervi interrotto.
− Hmm, no… se Lady Kitajima mi concede qualche minuto.
− Come rifiutare qualcosa a Lord Lawrence Ash? Non c’è problema, Mister Hughes, continueremo il mio ritratto un’altra volta. Magari Mister Hayami sarà così gentile da accompagnarmi a passeggiare in giardino, nell’attesa – dico rivolgendo il mio sguardo verso l’uomo che se ne sta silenzioso ad ammirare alcuni dei dipinti appesi alla parete.
− Sarà un onore, milady – dice scuotendosi e offrendomi il braccio.
Il giardino è in perfetto stile inglese: un soffice manto erboso, qualche cespuglio di fiori vicino al muro di cinta e un gruppo di faggi e aceri appena più lontano. Trasmette un senso di rustico ordinato, è naturale ma non incontrollato.
− C’è molta differenza tra i giardini inglesi e quelli giapponesi, non trovate? E non solo a causa del diverso clima.
− Conoscete bene il Giappone? – mi chiede, continuando a guardare davanti a sé.
− Ci ho vissuto fino all’età di dieci anni, poi siamo venute qui. Molte cose le ho dimenticate, ma ci sono particolari che mi sono rimasti dentro, che sono ormai parte di me e che spesso ricordo con un misto di rimpianto e nostalgia. − Mi guida verso una panchina e mi fa cenno di accomodarmi, mentre lui rimane in piedi e mi guarda. Un lungo sguardo assorto che sembra volersi aprire un varco dentro di me con la forza di una lama. E allora glielo chiedo, senza introduzione né inutili giri di parole. – Perché avete voluto incontrarmi, Mister Hayami?
− Perché ho chiesto di potervi incontrare? Sinceramente? Non so spiegarmelo bene neppure io. – Si ferma un attimo a riflettere, come se cercasse le parole adatte. – Il fatto è che ogni volta che vi ho vista ho avuto la sensazione che vi nascondeste dietro ad una maschera, che le vost…
− Ma come vi permettete? – Ci ho messo un attimo a rendermi conto del senso delle sue parole, ma una volta comprese in tutta la loro sfacciataggine la reazione è stata immediata. – Come osate venirmi a dire che trascorro la mia vita nella menzogna? Chi siete voi per potervi rivolgere a me in questo modo così… così paternalistico?
Mi alzo pronta ad allontanarmi il più in fretta possibile dalla sua arroganza, ma lui mi afferra il braccio e mi impedisce di fare anche solo un altro passo.
− Aspettate! Avete frainteso quello che volevo dirvi…
− Non ho frainteso niente. Ho capito benissimo invece. E ora lasciatemi il braccio, Mister Hayami.
− Solo se mi promettete di ascoltarmi.
− No – ribadisco con decisione. – Non ho nessuna intenzione di stare ancora a sentire mentre mi offendete.
− Non vi ho offesa, e voi lo sapete bene – risponde insinuante. Lancio uno sguardo alla casa nella speranza che Lawrence stesse assistendo alla scena e stia venendo in mio soccorso, ma il giardino è vuoto e le finestre solo degli occhi ciechi che riflettono la luce del sole mattutino.
Mister Hayami mi stringe il braccio sopra il gomito e mi spinge con decisione verso gli alberi. Mi ritrovo intrappolata tra lui e un grosso tronco, la schiena appoggiata alla superficie ruvida dell’albero e le sue mani appoggiate ai lati della mia testa. – Credete che sappia come vi sentite solo perché l’ho intuito? O forse, non può essere invece una sensazione che conosco bene perché la sento in me ogni giorno? Per quanto voi vi ostiniate a negarlo siamo uguali voi e io, due gaijin; e portiamo addosso il segno di ciò che siamo.
Mi guarda dritto negli occhi. Il suo sguardo è deciso, quasi duro. E io capisco, finalmente. Capisco perché fin dalla prima volta che ci siamo incontrati mi sono sentita attratta da lui. Capisco perché il ricordo del suo viso ha accompagnato i miei giorni e perseguitato le mie notti. Capisco perché ho voluto renderlo odioso ai miei stessi occhi. Ciò che non capisco è perché vorrei che adesso abbassasse la testa verso il mio viso e avvicinasse le sue labbra alle mie…
Giro il capo in un gesto istintivo di disagio mentre il ricordo di un sogno ormai lontano affiora nitido alla mia memoria. Ho paura che possa leggere il desiderio nei miei occhi, quindi li tengo abbassati quando dico a bassa voce:
− Ho capito. Adesso però liberatemi.
Passa qualche secondo poi abbassa le braccia.
− Ricominciamo da capo, milady. Ve ne prego.
Mi incammino di nuovo in direzione della panchina dove ero seduta poc’anzi e torno ad accomodarmi. Le parole iniziano ad uscirmi da sole, naturali e fluenti.
− Mio padre era un samurai appartenente al clan di Satsuma, ad un’ala moderata che non aveva mai pensato che chiudersi al mondo fosse la scelta migliore per il suo paese. Era un ragazzo intelligente e amante più dei libri che della spada, così dopo la Restaurazione fu inviato in Inghilterra per studiarne la politica, l’economia e la società e fu qui che conobbe mia madre e se ne innamorò. Mio nonno, il conte di Suffolk, nella speranza di agevolare l’ascesa del figlio in campo diplomatico acconsentì al matrimonio. In fondo mia madre era l’ultima di sette figli e il conte di unioni politiche e d’interesse con la nobiltà inglese ne aveva già fatte contrarre abbastanza. Si sposarono nel 1870; ma dopo appena un paio d’anni mio padre fu richiamato in patria e mia madre e io, che ero nata da pochi mesi, naturalmente lo seguimmo. Quindi la mia prima consapevolezza del mondo, i primi passi e le prime parole furono quelli del Giappone. Anche la mamma, da parte sua era felice, la nonna e le altre sue figlie ci accolsero con calore e si presero cura di lei e di me, mio padre l’amava e la trattava con la delicatezza e il riguardo riservati alle cose preziose. Certo ebbe delle difficoltà a capire la cultura e le usanze, ma la nuova famiglia non le fece mai mancare il suo sostegno. Ho bellissimi ricordi delle giornate trascorse con mia nonna, dei suoi racconti, del suo giardino e delle sue lezioni. Purtroppo, però, mio padre venne ucciso durante la battaglia di Tabaruzaka e con la sconfitta di Saigō-sama nessuno della nostra famiglia era più al sicuro da possibili rivalse, così mia madre e io venimmo aiutate a raggiungere Yokohama e poste sotto la protezione del console che ci imbarcò immediatamente per l’Inghilterra. – Alzo lo sguardo verso il mio ascoltatore; Mister Hayami non ha detto neppure una parola durante tutto il racconto, e continua a tacere anche adesso che mi sono fermata. Evidentemente aspetta il seguito, così decido di accontentarlo. – La lingua la conoscevo bene perché i miei genitori la parlavano tra di loro e con me, ma fu comunque difficile abituarsi ai costumi e alla società inglesi. Naturalmente mia madre mi fu vicinissima e mi aiutò e incoraggiò in ogni modo possibile, soprattutto mi insegnò a mostrare con orgoglio la mia diversità, anche se io quella lezione non l’ho mai imparata fino in fondo. Quando ero piccola e i lineamenti orientali erano ancora più marcati di adesso, gli altri bambini mi tenevano a distanza. Ho trascorso interi anni come allieva dell’Accademia per Signorine di Miss Pettigrew, e solo alla fine le altre ragazze hanno cominciato a trattarmi come una di loro, ad accettarmi per quella che sono, e gran parte del merito va all’amicizia di Lawrence, poiché tutte, all’accademia, ne erano mezze innamorate. – Sorrido appena al ricordo. − Le nostre madri erano amiche d’infanzia e lo stesso siamo diventati io e lui. Nel corso degli anni Lawrence è stato, oltre alla mamma, il mio unico sostegno e aiuto. Qualche anno dopo il nostro rientro la mamma fu obbligata dalla sua famiglia a sposare l’ammiraglio Worthington, ma ben presto si ammalò e due anni fa è morta, così sono rimasta sola.
− Ma ben presto vi sposerete anche voi e avrete una famiglia vostra – dice lui infine.
Lo guardo stupita. Non capisco il senso del suo commento. Non capisco perché mentre lo dice il suo sguardo d’ambra diventa duro come la resina da cui prende il colore. Non so cosa rispondere e mi limito ad abbassare di nuovo la testa, sia in segno di assenso che per nascondere il tremito improvviso delle labbra. Per mia fortuna questa volta Lawrence interviene veramente a salvarmi e sento la sua voce calda intonare la melodia della Habanera mentre si avvicina.
− Andiamo Maya, Mister Hayami, è tempo di rientrare.
Torniamo verso la casa immersi ognuno nei propri pensieri, senza scambiarci altre parole se non le frasi di cortesia al momento del commiato. E quando risalgo, finalmente, sulla carrozza mi lascio sfuggire un lungo sospiro liberatorio. Peccato però che la mia mente sia ancora più confusa di quando sono arrivata.

 


[1] L’amore è un uccello ribelle/ Che nessuno può addomesticare,/ Invano lo si chiama,/ Se gli va di rifiutare./ Nulla serve,/ minaccia o preghiera,/ L’uno parla bene, l’altro tace;/ Ed è l’altro ch’io preferisco,/ Nulla ha detto, ma mi piace.
 

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Capitolo 14
*** cap. 14 ***


Capitolo 14

 

La lunga notte,
il rumore dell'acqua,
dicono quel che penso
(Gochiku)

 

Vivere in un bosco, e soprattutto, adattarsi ad esso non è la cosa più semplice di questo mondo, soprattutto quando sei costretto a farlo in solitudine. Certo, al primo approccio sembra splendido: sei a contatto con la natura, ti senti in pace e comunione con gli alberi, gli animali, perfino con gli elementi. Così è stato il primo giorno: all'ottavo invece, attanagliato dai morsi della fame e imprigionato da un temporale in una stamberga di legno con gli abiti fradici e legna umida per accendere un fuoco, inizi a maledire ogni singola foglia, zolla, arbusto o animale. Nel mio caso, almeno, è successo questo. A dire il vero le mie imprecazioni sono tutte rivolte a Talbot, alle sue idee assurde e ai suoi metodi di insegnamento poco ortodossi. È vero che conosco poco o nulla del teatro occidentale, ma immagino esistano sistemi meno sperimentali e sicuramente più consoni ed efficienti per colmare questa mia lacuna. Il bosco di sicuro è funzionale a qualcosa che riguarda il teatro, ma non capisco cosa, e Talbot non si è dilungato in spiegazione alcuna. Ha fatto in modo che io arrivassi qui, e null'altro.
In qualche modo, non so nemmeno io come, riesco a dar vita a una debole fiammella. Ringrazio mentalmente il Grande Demone Celeste per avermi concesso questa grazia − nel caso esista veramente, è sempre meglio non inimicarselo – e mi tolgo velocemente di dosso gli abiti bagnati, ponendoli ad asciugare su un bastone appoggiato a un cavalletto improvvisato con la catasta di legna e posto a debita distanza dal fuoco. Mi sfrego le braccia per scaldarmi un poco, e l'occhio mi cade su un mantello appeso alla porta da un probabile e previdente cacciatore. Lo afferro senza esitazioni e me lo avvolgo bene intorno alle spalle prima di accatastare ancora un poco di legna accanto al mio falò improvvisato nella speranza di asciugarla un poco, e aumentare così la mia scorta di ciocchi utili ad alimentare il mio misero fuocherello, che per fortuna, tanto misero sembra non esserlo più. I capelli continuano a grondarmi sulla fronte e le spalle, sciolgo il laccio che li raccoglie e li strizzo un poco, lasciandoli poi cadere liberi su collo e volto, infine mi siedo a gambe incrociate sul terreno battuto, e aspetto.
Le fiamme guizzano in volute morbide e ammalianti all'interno del cerchio di pietre nel quale ho raccolto il fuoco, un danza tanto seducente da ipnotizzarmi. È una sorpresa constatare quanto un semplice fuoco possa tenerti compagnia, quando sei da solo. Il debole crepitio della legna accompagna i miei pensieri, e pare rispondere ad essi, in una conversazione intima e sommessa. Di tanto in tanto il bagliore di un fulmine s'inserisce a forza nel tentativo di spezzare questa magia, ma la sua forza è concentrata in un istante, troppo debole per pretendere attenzione. Mi stringo nel mantello, e aggiungo qualche ciocco al mio compagno di conversazione e solitudine. Almeno lui posso alimentarlo, io è da ieri sera che non tocco cibo. Dannato Talbot! Ma davvero pensava che io riuscissi a sopravvivere in un bosco mangiando solo bacche, frutti, e quel poco che mi ha concesso di portarmi da casa? Nemmeno un letto mi ha fatto trovare per dormire, mi sono dovuto arrangiare a costruirmi un pagliericcio con qualche asse trovata in quella specie di baracca che mi ha offerto come alloggio. E oggi ci mancava solo il temporale, a concludere nel modo peggiore la mia ricerca di cibo e il mio soggiorno forzato in questo bosco fitto e minaccioso. Per fortuna ho trovato questo riparo, anche se non abbastanza in fretta da evitare di bagnarmi. Smuovo un poco le braci, soffocando l'irritazione. Ma a cosa serve, cosa dovrei mai imparare, io, da un bosco? La mia vita non era già sufficientemente complicata a Londra?
Impara a muoverti nella natura, a confonderti con essa. Ti servirà.”
Il potere della suggestione: le parole di Talbot mi riecheggiano nella mente come fossero state appena pronunciate dalle lingue crepitanti sotto i miei occhi. Servirà a cosa? Ma soprattutto, servirà a chi? Ho passato giornate intere a passeggiare tra la fitta vegetazione, dapprima rilassato, poi curioso, infine irritato e il più delle volte frustrato.
Non ti preoccupare. Quando l'avrai trovato, saprai cosa stavi cercando.”
Di nuovo ci pensano le fiamme, imitando la voce profonda e suadente di Talbot, a rispondere alle domande inespresse dei miei pensieri. Che strano, se fisso con attenzione quelle lingue di fuoco, ho l'impressione di rivedere anche i suoi occhi neri come la notte sondarmi indiscreti e pungenti il cuore e l'anima. Trattengo il fiato, del tutto affascinato e imprigionato dal fascino magnetico di quelle pupille dilatate e rosse, che sembrano allungarsi e prendere la vita dal colore dai carboni ardenti che le hanno originate. Sbatto più volte le palpebre, per riprendere contatto con la realtà e allontanare da me la sensazione di gelo e pericolo imminente che mi aveva suscitato la mia suggestione. È un uomo singolare Talbot, misterioso e oscuro. Inavvicinabile e insondabile, e del tutto incomprensibile. Sorrido al pensiero, e smuovo un poco le braci per disperdere del tutto la visione. Che senso può mai avere cercare qualcosa quando non sai nemmeno cosa sia quel qualcosa? Muovermi nella natura è semplice, confondermi con essa un po' meno. Con quale scopo, poi? Un nuovo lampo illumina la stanza, e oscura per un istante la malia del fuoco. E io rimango sorpreso dalla mia nuova e improvvisa consapevolezza: qualcosa in me è cambiato, io sono cambiato. Concentrato com'ero sull'idea di confondermi fra quegli alberi e quegli arbusti, non mi ero reso conto che il bosco mi stava piano piano abbracciando, aiutandomi a confondermi tra le sue fronde e i suoi muschi perché io, inconsapevolmente, glielo avevo gradualmente permesso. Avevo imparato a conoscerlo e non mi serviva più guardare: sapevo. Avevo iniziato a muovermi con sicurezza, senza temerlo. Sapevo sempre a quale ora della giornata mi trovassi, senza fermarmi a riflettere sul come facessi a saperlo. Raggiungevo la fonte senza nemmeno accorgermi di averne preso il cammino quando avevo sete, gli arbusti di more quando sentivo la necessità di mettere qualcosa nello stomaco, e avevo iniziato a muovermi silenziosamente, per non disturbare le innumerevoli forme di vita con le quali condividevo gli spazi e che avevo imparato ad ascoltare nelle mie lunghe passeggiate solitarie. Ero persino riuscito a vedere qualche cervo, alcune lepri, e per fortuna nessun animale più grosso e potenzialmente più pericoloso. Mi chiedo se soggiornando qui in una situazione più confortevole il mio approccio con il bosco sarebbe stato lo stesso: no, probabilmente no. Anzi, sicuramente no. E Talbot lo sapeva, ma perché ha voluto farmi fare questa esperienza? Che cosa dovrei ricavare da questi giorni trascorsi in solitudine tra le montagne?
Riporto la mia attenzione sulle fiamme, e chiedo loro una risposta che non arriverà mai. I morsi della fame si fanno più intensi, non vedo l'ora che finisca il temporale in modo da avviarmi alla mia umile e desolata dimora, dove perlomeno, per quanto poco, il cibo non manca. Traccio con le dita dei segni sulla terra battuta del pavimento, senza motivo, tanto per passare il tempo. È ridicolo, ma tra quei segni dettati dal caso mi sembra quasi di intravedere la forma di una rosa.
Sorrido e torno a fissare il fuoco e il volto che ora mi osserva serio e malinconico dalle fiamme, ricambio lo sguardo limpido e trasparente di quegli occhi dal taglio allungato e dalle ciglia nere e folte, e mi stupisco della sensazione tenera e struggente che mi assale al ricordo e dalla quale mi lascio, senza remora alcuna, piacevolmente avvolgere. Scuoto i capelli ancora umidi per allontanarli dal viso insieme al suo volto, ma lei rimane lì, impressa a fuoco da quelle fiamme nella mia mente, e allora mi alzo per socchiudere l'uscio e respirare un poco d'aria umida e densa dei profumi della terra. Appoggio la spalla allo stipite della porta, incrocio le braccia e soffermo lo sguardo sui rami frustati dal vento, poi chiudo gli occhi, e comprendo. Me lo dicono le fronde con il loro fruscio impetuoso, me lo sussurra il vento, trasportando nel cielo plumbeo un effluvio di parole: “Sei in pericolo, sull'orlo di un precipizio. Basta poco, un movimento sbagliato, un passo di troppo e non ti sarà più concesso alcun ritorno. Sarai costretto a precipitare, sempre più giù, senza nulla a cui aggrapparti se non a quella sensazione di incontenibile struggimento e tenerezza alla quale mai avresti dovuto aprire le porte.”
Tolgo il mantello, lo riappendo al chiodo fissato allo stipite della porta e torno verso il fuoco a raccogliere i vestiti ormai asciutti. Devo stare attento, non posso permettermi di innamorarmi di lei. Devo starle lontano, non devo più cercarla. È solo che quella ragazza è riuscita a penetrare in me toccando corde che nessuno mai aveva nemmeno sfiorato, e l'ha fatto con una facilità talmente disarmante da cogliermi impreparato, rendendomi vulnerabile e insicuro, come mai mi era successo di sentirmi in vita mia. Sorrido amaramente mentre infilo un braccio nella manica della camicia e assaporo il contatto tiepido con la mia pelle ancora umida. É piacevole, ma non quanto la carezza che realmente vorrei. Ora so per quale motivo ho voluto incontrarla, il vero motivo, e non la mezza verità che ho raccontato a lei, e a me stesso. Il desiderio di abbassare un poco il viso e baciarla, quel pomeriggio, è stato tanto intenso quanto inatteso mentre la inchiodavo a quell'albero per non perderla, e non perdere quella sensazione sfuggente e disarmante che era riuscita a suscitare in me con la sua sola presenza. Mi sono controllato a fatica, perché per un attimo ho avuto l'impressione che lei desiderasse quel bacio, che lo desiderasse quanto lo desideravo io, con le labbra appena socchiuse e lo sguardo così limpido, così...
Una fitta al petto mi costringe a piegarmi su me stesso, e a posare un ginocchio e la mano sulla terra battuta e fredda. Fatico a respirare, i polmoni sembrano essermi diventati di ghiaccio. In compenso, sento il volto in fiamme, e il corpo cosparso di brividi e sudore freddo. Al dolore sono abituato, cerco di rimanere calmo, e lentamente riprendo a respirare. Nel momento in cui mi alzo, però, la testa inizia a girarmi vorticosamente, e cerco un appoggio nella parete per non cadere. Ho l'impressione che mi si stia alzando la febbre, e con essa, l'anticipo del mio ritorno a Londra.
 
Accarezzo con incredulità il velluto dell'abito appeso all'anta dell'armadio nella mia stanza, con timore, direi, quasi avessi paura di sciuparlo. My Lord deve aver sborsato un bel po' di soldi per comprarlo, e il tutto solo per fare un regalo a me. È un uomo singolare Lawrence Ash, un uomo che non finisce mai di stupirmi. Ripenso al nostro primo incontro, al suo modo gentile e discreto di studiarmi, alla nostra curiosità reciproca e simpatia immediata.
L'ho rivisto la sera stessa in cui sono tornato a Londra in seguito al mio misterioso tirocinio nel bosco, nella stessa locanda in cui ci siamo incontrati la prima volta e nella quale mi ero recato per mangiare qualcosa, data la mia scarsità di provviste. Mi si è avvicinato subito, invitandomi al suo tavolo e ordinando per me. Ha voluto sapere tutto della mia settimana da eremita, sembrava molto interessato, forse addirittura più di me. Abbiamo chiacchierato a lungo, e lui, seppure con atteggiamento amichevole, non ha smesso di scrutarmi un solo istante. Sembrava volesse leggermi l'anima. E l'ha fatto, perché io so di averglielo permesso. Lui sa perché ho voluto incontrare Lady Kitajima. Lui ha capito, ma non sono altrettanto sicuro che condivida le mie scelte. Nessuno di noi ha mai nominato Lady Kitajima, ma questo nostro evitare l'argomento, probabilmente, non ha fatto altro che rendere più vivo il fantasma aleggiante della sua presenza. Ha voluto offrirmi la cena, e lo sguardo che ha accompagnato l'ultimo sorso di vino portato alle labbra ha aperto nella mia mente il tarlo del dubbio, e della gelosia. Quale tipo di rapporto leghi Lord Ash a Lady Kitajima per me resta ancora un mistero. Lui può starle accanto in modi che ad altri sono proibiti, e per questo lo invidio. Possibile che sia innamorato di lei? E se lei lo fosse di lui? Dovrei rivedere la mia impressione iniziale, in quel caso... Scuoto il capo e cerco di allontanare questi pensieri. Posso solo essere grato a Lord Ash per avermi offerto la sua amicizia, e per la sua benevolenza nei miei confronti. Prima di accomiatarsi quella sera mi ha addirittura invitato al Circolo per il pranzo del giovedì seguente, cioè oggi. Mi ha detto di non preoccuparmi di nulla, che avrebbe pensato a tutto lui, e che non mi sarei mai dovuto perdere l'occasione che mi sarebbe stata offerta servita su un vassoio d'argento.
Di quale occasione si trattasse, l'avrei scoperto a breve.
Osservo nello specchio affumicato appeso alla parete l'elegante abito in velluto la cui tonalità fa risaltare come non mai il colore caldo e ambrato dei miei occhi. Tengo i capelli sciolti sulle spalle, avendo deciso di esaudire il desiderio, o meglio, il consiglio espresso da My Lord nel biglietto che accompagnava il regalo e l'invito formale al Circolo. Con un pizzico di vanità tutta maschile penso che mi piacerebbe vedere l'espressione dipinta sul volto di Lady Kitajima nel presentarmi a lei indossando quest'abito, ma rimuovo subito il pensiero. Ho preso la mia decisione, e non intendo tornare indietro. Raccolgo dal tavolo l'invito e mi appresto ad aprire l'uscio per raggiungere My Lord, ma una fitta dolorosa al petto mi blocca la mano sull'uscio, e io smetto per un attimo di respirare. Per quanto mi sia ostinato a far finta che non ci fosse, la febbre non mi è mai passata. L'ultima cosa che vedo è l'ocra della manica della mia marsina, poi una nebbia sempre più fitta, e infine, il buio più totale.

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Capitolo 15
*** Cap. 15 ***


Capitolo 15


Si mescolano
Il lago e il fiume
Nella pioggia di primavera

(Yosa Buson)


Mi aggrappo alla catena del campanello e la tiro con forza, una, due, tre volte, ma nessuno viene ad aprire. Allora inizio a bussare con foga, la mano inguantata aperta contro la superficie irregolare e scrostata della porta.
«Calmatevi mia cara, date agli abitanti il tempo di scendere» dice Belle prendendo le mie dita e stringendole tra le sue.
Nello stesso momento una finestra si apre al piano di sopra e ne esce una testa di donna dai capelli arruffati, di un colore incerto, e una faccia gonfia e decisamente sgradevole.
«Seee… cosa c’è ancora?»
«Aprite la porta per cortesia, siamo qui per vedere Lawrence Ash.»
Un attimo di silenzio durante il quale la donna ci squadra pensierosa poi, finalmente, si degna di rispondere.
«Arrivo. Aspettate lì.»
Mi volto verso Belle alla ricerca di un suo gesto di sostegno e lo sguardo mi cade sul vicolo nel quale ci troviamo. È stretto, sporco e c’è un odore terribile di urina e marciume. Le case sono accatastate le une sulle altre, tanto che sembra che i piani alti vogliano toccarsi, annerite dall’incuria e dal fumo denso che aleggia tutt’intorno. Alcuni fili tirati da una finestra a quella di fronte mettono in bella mostra qualche straccio che forse dovrebbe essere un lenzuolo e alcune pezze grigiastre e macchiate. Incontro il profilo di Belle, anch’essa intenta ad osservare quello scenario squallido e desolante e dico a bassa voce, quasi parlando a me stessa:
«Non… capisco cosa ci faccia Lawrence in un posto del genere.»
Non faccio in tempo a sentire la sua risposta, ammesso che ce ne sia una, perché la porta si apre su una donna di età indefinibile, trasandata, la pelle di un colorito giallognolo e gli occhi spiritati e iniettati di sangue.
«Chi siete?» biascica. «Questa è una casa rispettabile. Non sono ammesse donne nelle camere. Cosa volete, eh?»
Il mio primo istinto è quello di fare un passo indietro e tornare alla sicurezza della mia casa, e il secondo quello di spingerla di lato e urlarle “Via! Fatti da parte vecchia ubriacona!”, ma li trattengo entrambi mentre cerco di sfoderare un sorriso convincente e di ignorare i suoi sottintesi.
«Cerchiamo Mister Ash, per favore.» Meglio non rivelare il suo titolo in una situazione e in un posto come questi.
La donna mi rivolge uno sguardo vacuo e aggrotta le sopracciglia, non so se per mettere a fuoco quello che vede, o se perché sta pensando.
«Hmm, siete imparentata con quello là, eh? Vi assomigliate in effetti, quasi due gocce d’acqua» dice, scoppiando in una risata sdentata e sgradevole.
Non capisco cosa intenda ma un’idea mi balena in testa e prendo dalla borsetta due monete da un penny.
«Due gocce di gin, per l’esattezza» dico, porgendole i due copper.
«Ahh, ma che belle facce di bronzo!  Bene Miss, entrate pure. Primo piano, seconda porta» sghignazza facendosi da parte. «E divertitevi!»
Mi dirigo verso la stretta scala con tutta la dignità di cui sono capace, anche per non correre il rischio di ribattere alla sua sfacciataggine. Non è il momento giusto per dar peso alle parole di una vecchia sfacciata e ubriaca. Adesso ho altro di cui preoccuparmi.

Maya ho bisogno di voi, raggiungetemi il prima possibile a questo indirizzo. Vostro, Lawrence

Il biglietto mi è stato recapitato proprio mentre io e Belle ci stavamo accomodando per il pranzo, e non appena ne ho scorse le poche righe ci siamo precipitate all’indirizzo menzionato. Per fortuna l’ammiraglio era fuori e non ho dovuto affrontarlo. Avrei anche evitato che Belle mi accompagnasse, ma non sono riuscita a dissuaderla. Non ha voluto sentire ragioni.
Busso leggermente alla porta della stanza indicatomi dalla padrona di casa. Sospiro. Ormai non posso più tornare indietro. Ho agito impulsivamente e in preda a una strana ansia nel venire qui, ma non c’è niente che non farei per Lawrence. Se mi ha chiesto di raggiungerlo subito, avrà avuto sicuramente un buon motivo, solo mi chiedo cosa ci faccia in un posto come questo. Sapevo già che aveva delle amicizie e delle frequentazioni “particolari”, ma ha sempre evitato di scendere nei particolari e soprattutto di coinvolgermi. E poi cosa significavano le parole della padrona di casa? Io assomiglierei a chi?
Un rumore di passi sul pavimento scricchiolante e la porta si apre appena, lasciandomi intravedere il viso preoccupato di Lawrence.
«Maya, mia cara, siete qui finalmente!» dice facendosi da parte e invitandomi a entrare. Poi scorge anche Belle, e un lampo di disappunto gli attraversa lo sguardo. «E non siete sola a quanto pare.»
«No, Lawrence. Vi ricordate di mia cugina Crystabel La Motte, vero? Ma ditemi, piuttosto, che cosa è successo? State bene?» gli chiedo apprensiva. Ha il volto tirato e gli abiti un po’sgualciti, ma si comporta e si muove con la calma e la dignità di sempre.
«È un piacere rivedervi, Miss La Motte» dice inchinandosi compito davanti a Belle. «Anche se le circ…»
Smetto di ascoltare: la mia attenzione è stata catturata da una figura sul letto in fondo alla stanza. Mister Hayami? Possibile? Mi avvicino e lo osservo. È proprio lui, immobile e incredibilmente pallido. Il petto si alza e si abbassa affannosamente sotto la coperta e gocce di sudore gli imperlano la fronte e i capelli umidi. Cosa… cosa gli è successo? Non sembra neppure lo stesso uomo che imponeva la sua presenza sul palcoscenico solo poche settimane fa. Ha le guance emaciate, delle profonde occhiaie bluastre e dei graffi ormai secchi sparsi su viso e mani. Gli occhi sono chiusi e sembra in uno stato di semi-incoscienza; solo a tratti gli esce dalla bocca qualche suono incomprensibile mischiato a colpi di tosse repentini e violenti. Non riesco a distogliere lo sguardo, sconvolta e incredula, fino a che la voce di Lawrence non riesce a scrollarmi insinuandosi nei miei pensieri. Mi volto a guardarlo in viso alla ricerca di una spiegazione.
«È per questo, per lui, che mi avete fatta venire qui?»
«Sì, Maya. L’ho trovato così un paio d’ore fa. Eravamo d’accordo che ci saremmo incontrati qui, ma lui non rispondeva, così sono entrato e l’ho trovato svenuto per terra. Ho provato a chiedergli cosa si sentisse ma non capisco niente di quello che dice, sempre ammesso che le sue siano risposte e non delirio. Ci eravamo visti qualche giorno fa e…»
«Avevate un appuntamento?» lo interrompo. Non so cosa mi abbia preso, ma non sono stata capace di trattenermi. «E dove dovevate andare?»
«Al club, ma…» Lawrence sembra perplesso, poi spalanca improvvisamente gli occhi per lo stupore. «Maya non è come pensate! Non crederete davvero che io volessi…»
«Non preoccupatevi Lawrence, non penso niente. Non sono affari miei» dico con un tono più aspro di quanto vorrei. «Pensiamo a Mister Hayami adesso. Avete già chiamato il medico?»
Lawrence mi squadra con attenzione e lascia uscire un profondo sospiro di amarezza prima di rispondere.
«Sì, ho fatto chiamare il medico, ma non è ancora arrivato. Sinceramente non sapevo cosa fare; io… io non posso fermarmi. Devo incontrare il duca e mio fratello a cena, e partire con loro domani mattina presto per affari di famiglia. Ma non potevo neanche lasciare Hayami nelle mani della sua padrona di casa… l’avete vista anche voi, è…» Non riesce a trovare le parole, e in effetti le uniche che vengono in mente anche a me non sono affatto lusinghiere. «Ho pensato che magari sentendosi parlare nella sua lingua si sarebbe tranquillizzato. Il teatro adesso è chiuso e non ho idea di dove si trovino Talbot e gli altri membri della compagnia. Non sapevo veramente a chi altri rivolgermi, Maya. Ma poi ho pensato che dopo il vostro chiarimento dei giorni scorsi, non vi sarebbe stato di troppo incomodo cercare di aiutarlo» conclude turbato, e io percepisco nella sua voce e nella frenesia con cui parla tutta la preoccupazione e l’ansia che devono averlo assillato nelle ultime ore, e non posso fare a meno di rivolgergli un sorriso affettuoso.
«Va bene Lawrence ho capito, non angustiatevi oltre. Aspettiamo che arrivi il medico e poi vedremo cosa fare.»
Mi volto di nuovo verso il letto da dove provengono dei lamenti flebili e altri colpi di tosse. Gli occhi di Mister Hayami adesso sono aperti e muove le labbra come se stesse parlando, ma la sua voce è talmente bassa che non riesco a sentire quasi nulla. Mi avvicino e mi chino su di lui nella speranza di cogliere qualche parola. Nonostante il suo sguardo sia velato dalla febbre e dal delirio, l’oro liquido delle sue pupille ha il calore di un sogno lontano, un sogno in cui sento di potermi perdere. Allunga una mano verso di me e dice a voce alta, in giapponese:
«Non andartene! Rimani con me, non andartene! Padre…»
Una lacrima solitaria gli scivola lungo la tempia e sull’orecchio. Rimango impietrita, combattuta tra il desiderio di afferrare la mano che mi porge e il presentimento che se lo facessi poi non sarei più capace di lasciarla andare. Allora avvicino la bocca al suo orecchio, e gli rispondo in una lingua che non parlo più da troppo tempo.
«Non ti lascio, Masumi. Dormi adesso. Riposati, mio caro.»
Lui sembra tranquillizzarsi e torna a chiudere gli occhi.
Mi chiedo cosa mi stia succedendo. Lo conosco appena, eppure vorrei sedermi accanto a lui e passargli la mano sul volto accaldato, tra i capelli umidi, in una carezza leggera come una nube e tenera come l’affetto. Vorrei prendermi cura di lui e rassicurarlo con parole dolci. Vorrei sentirlo pronunciare il mio nome e stringere la mia mano. Ma non faccio nulla di tutto ciò, invece mi sollevo e mi avvicino al tavolo alla ricerca di un fazzoletto o qualsiasi altra cosa che possa essere usato per tergergli il sudore dal viso. Purtroppo però non c’è nulla sul tavolo, tranne un’elegante scatola contenente una preziosa sciarpa di seta. La sfioro con la punta delle dita e cerco di nascondere il leggero rossore che sento salirmi alle guance. Ero, in effetti, molto curiosa di sapere che cosa Mister Hayami potesse pensare dei doni della sua ammiratrice misteriosa, e vedere che li conserva con cura mi procura una gioia e un piacere maggiori di quanto avessi sospettato.
Il suono tintinnate di una campanella mi riporta alla realtà. Lawrence si affaccia alla porta, in ascolto, quindi esce per rientrare subito dopo in compagnia di un uomo alto e magro, piuttosto anziano a giudicare dalla folta barba quasi completamente bianca che gli copre il volto, e con indosso un sobrio abito nero. Nella mano stringe una grande valigia di pelle che appoggia senza esitazione sul tavolo.
Annuisce appena alle presentazioni, e quando il suo sguardo si posa su di me aggrotta leggermente le sopracciglia.
«Dottore, prego da questa parte» gli dice Lawrence, richiamando la sua attenzione sul malato.
L’uomo distoglie lo sguardo dal mio viso e si avvicina al letto. Appoggia una mano sulla fronte di Mister Hayami e gli prende il polso.
«Ha la febbre davvero molto alta» dice con voce nasale. «Da quanto sta così?»
«Non lo sappiamo con sicurezza» risponde Lawrence, e ripete quello che già aveva raccontato a me. Il medico annuisce e si avvicina alla borsa. Allunga le mani per aprirla ma si ferma a metà strada come se si fosse ricordato, improvvisamente, di qualcosa. Guarda me e poi Belle, che è rimasta per tutto il tempo in disparte, senza dire neppure una parola. A dire la verità mi ero quasi completamente dimenticata della sua presenza!
«Dovrò visitarlo, se le signore fossero così gentili da lasciare la stanza» dice in fretta e con un tono neutro, come se fosse una frase che ripete spesso. E probabilmente è proprio così.
Belle si alza e si dirige verso la porta, ma io rimango al mio posto e, guardando fisso Lawrence con la segreta preghiera di non tradirmi, dico impulsivamente:
«Sono sua sorella, l’ho già visto senza camicia. E, nel delirio, non parla inglese; forse avrete bisogno di me.»
Lawrence sgrana gli occhi, ma non dice nulla, e neanche Belle per mia fortuna, nonostante senta un respiro strozzato provenire dal punto in cui si trova. C’è un attimo di silenzio e io mi chiedo perché mai mi stia esponendo così. Che cosa mi lega a quest’uomo? Quella corrente sotterranea di brivido e anticipazione ogni volta che ci incontriamo, quel desiderio strisciante di sentirlo vicino, quel calore improvviso quando le nostre pelli si sfiorano, cosa significa tutto questo? Sposto lo sguardo da Lawrence al dottore.
«Come volete» risponde quest’ultimo con indifferenza. Probabilmente il fatto che i nostri lineamenti tradiscano origini comuni è per lui prova sufficiente della veridicità delle mie parole. Oppure, ancora più probabilmente, è talmente avvezzo ad ogni genere di persona o rapporto da non lasciarsi più condizionare dall’opinione comune su ciò che è appropriato e ciò che non lo è.
Estrae dalla borsa un lungo tubo conico in metallo a cui avvita una base anch’essa in metallo, quindi si avvicina di nuovo al letto e, chiedendo l’assistenza di Lawrence, alza Mister Hayami a sedere e gli solleva la camicia sulla schiena. Appoggia la base dell’apparecchio che tiene in mano sotto una spalla del malato, che nel frattempo continua a essere preda di continui spasmi di tosse, e l’altra estremità al proprio orecchio. Ascolta per un po’, poi si sposta sull’altra spalla.
«Sapete se da qualche giorno lamentasse dolori al petto?»
«Credo di sì» risponde Lawrence. «Quando l’ho visto la settimana scorsa, aveva già la tosse e si teneva il petto con la mano.»
«Hmm, capisco, come immaginavo. I polmoni sono liberi, ma si sentono comunque dei rantoli crepitanti durante gli eccessi di tosse, quindi c’è il rischio che si tratti di polmonite. I sintomi esterni non si vedono tuttavia. Al momento mi limiterei a una cura a base di acido salicilico contro la febbre, e qualche goccia di laudano per combattere il dolore e farlo riposare. Per ora gli somministro io entrambi. Guardate bene come faccio, signora» dice, cercandomi con gli occhi «vi servirà per quando dovrete farlo voi. E comunque la terapia migliore è il riposo assoluto, moltissima acqua e una dieta nutriente e varia per quando inizierà a riprendersi.»
Nel mentre che ci fornisce queste indicazioni, ripone nella valigia lo strumento che ha usato per la visita e ne tira fuori un quaderno su cui inizia a scrivere la prescrizione per la farmacia. Consegna il foglio a Lawrence, riscuote il suo onorario e si congeda in fretta.
Lawrence ed io rimaniamo in mezzo alla stanza a studiarci incerti.
«E ora?» trova lui, alla fine, il coraggio di chiedere.
«Io… non lo so Lawrence. Cure, acqua, riposo e buon cibo. E avrà anche bisogno di qualcuno che lo assista continuamente, almeno finché la febbre non è scesa. E questa stanza poi» mi guardo intorno «per quanto sia abbastanza ordinata, è comunque umida e piena dei miasmi che entrano dagli spifferi, non so se sia adatta a una convalescenza. Forse dovremmo…» un nuovo spasmo di tosse proveniente dal letto fa cadere tutte le mie barriere. Non mi importa che cosa mi leghi o cosa non mi leghi a quest’uomo, non posso certo lasciarlo da solo in questo posto, così concludo, risoluta. «Per questa notte rimarrò io, poi domani cercherò una sistemazione migliore e un’infermiera che possa prendersi al meglio cura di lui.»
«Siete completamente impazzita Maya? Non potete farlo!» ribatte Lawrence teso, la voce di qualche tono troppo alta. «Cosa direte all’ammiraglio? E al vostro fidanzato, se dovesse venire a scoprirlo? E poi potrebbe essere pericoloso, è pur sempre un uomo.»
«Per l’amor del cielo, Lawrence, ha la febbre altissima, non riesce a stare seduto senza aiuto ed è anche sotto l’effetto di una droga. Cosa volete che possa capitarmi? Cosa pensate che possa farmi?» gli rispondo sostenuta.
Ci guardiamo in cagnesco per qualche secondo, come mai era successo prima, poi lui dice con voce più bassa e accondiscendente, continuando però a guardarmi dritto negli occhi. «Capisco, Maya, che possiate sentirvi responsabile per quella parte di sangue che condividete, ma non potete pensare di rovinare la vostra reputazione, e forse la vostra vita, per qualcuno che conoscete appena. Non potete, semplicemente, dimenticare il vostro dovere nei confronti della vostra famiglia.»
«Davvero, Lawrence? E voi allora?» ribatto con sarcasmo. Lui si limita a guardarmi dritto negli occhi aggrottando leggermente le sopracciglia, ma non risponde.
«Avrei un suggerimento» interviene improvvisamente Belle. Ci voltiamo entrambi verso di lei. «Potrei scrivere un biglietto all’ammiraglio dicendo che Maya ha avuto un malore mentre era in visita a casa mia e che rimarrà da me fino a che non starà meglio.»
«Davvero? Davvero lo fareste Belle?» le chiedo speranzosa.
Si avvicina e mi accarezza dolcemente una guancia.
«Sono convinta anche io che non corriate alcun pericolo.» Poi rivolgendosi a Lawrence. «Ve ne prego anche io: fidatevi.»
«No Maya» scuote la testa quest’ultimo. «Un conto è parlare nel giardino di una casa rispettabile, sotto il controllo di chi vi vuole bene.» Un leggero sorriso mi increspa mio malgrado le labbra a queste parole. Allora ci stava guardando a casa di Mister Hughes! «E un conto è rimanere da sola un’intera notte nella stanza di un uomo, nei bassifondi di Londra. Non posso lasciarvelo fare.»
«Non me lo lasciate fare? E con quale diritto me lo impedite?» Non dovevo dirlo. Semplicemente non dovevo. Leggo lo stupore e il dispiacere nei suoi occhi adesso. L’ho ferito e lui non se lo merita. «Scusatemi Lawrence, non volevo dire una cosa del genere. Io non…» ma non so come proseguire. Mi avvicino, cercando di prendergli una mano, ma lui si scosta e mi guarda addolorato.
«Dirò alla padrona di casa di procurarvi del carbone per il fuoco e dell’acqua pulita.» Prende dal tavolo la prescrizione del medico e ne scorre velocemente le poche righe. «Passerò anche in farmacia e chiederò che mandino un garzone con le medicine.» Infine gira lo sguardo verso Belle. «Tornerò non appena mi sarà possibile. Addio Miss La Motte.»
Prende dalla sedia il soprabito e il cappello, e senza voltarsi apre la porta per andare via.
«Lawrence…»
«Abbiate cura di voi Maya. E serrate la porta, mi raccomando.»
Si chiude l’uscio alle spalle, lasciando la piccola e misera stanza avvolta in un silenzio stupefatto rotto solo dal respiro irregolare di Mister Hayami. Non riesco a credere di averlo fatto veramente: ho anteposto uno sconosciuto a Lawrence! Il mio Lawrence. Raddrizzo le spalle e irrigidisco la schiena, cercando in tutti i modi di nascondere il tremito delle labbra. “Non devi piangere, Maya. Non piangere. Puoi farcela. Ci penserai più tardi ma non adesso. Non adesso.”
«Bene. Se tra poco arriverà l’acqua fresca, sarà meglio procurarsi anche delle pezze.»
La stretta di Belle sul mio braccio è rassicurante e comprensiva, e io annuisco riconoscente prima di andare a sedermi accanto al letto.
Un colpo secco alla porta, e una fanciulla entra con le mani occupate da due secchi colmi di carbone. Li posa accanto al caminetto, quindi si avvicina al portacatino prendendone la brocca.
«Ci vorrà un po’ per l’acqua» dice, squadrandomi insolente. «La fontana è molto affollata. Comunque nel frattempo riempio questa.»
«Grazie. Riusciresti a procurarmi anche delle pezze pulite?»
«Pulite? Posso provarci» risponde, e si dirige verso la porta, non prima di avermi lanciato uno sguardo truce. Sto per dirle qualcosa, ma poi capisco. Dev’essere invaghita di Mister Hayami. Anche lei, come Miranda e come… Possibile che anch’io…? Ma neppure a questo voglio pensare adesso, così prendo dal tavolo la sciarpa, la immergo nella poca acqua che è nel catino accanto al letto e inizio a lavargli il viso accaldato. Sta dormendo piuttosto tranquillo ora, scosso di tanto in tanto solo da qualche colpo di tosse. Evidentemente il calmante e la medicina stanno facendo effetto.
«È lo stesso uomo che avete salutato quel giorno fuori dal Giardino Botanico, vero?» chiede Belle, sedendomi accanto dopo che la ragazza è uscita. «Come lo conoscete?»
Abbasso gli occhi sulle mie mani che stringono ancora la seta bagnata e le racconto tutto, dal primo incontro nel bosco fino all’ultimo appuntamento a casa di Mister Hughes. Le parlo dei dubbi e delle paure, di come ho cercato di negare l’interesse nei suoi confronti e di come invece questo è cresciuto in me sempre di più fino a farmi decidere di gettare al vento ogni altra considerazione e accettare di vederlo e parlargli in privato. Le racconto di come, durante quella conversazione, Mister Hayami mi abbia fatto capire che le mie sensazioni sono anche le sue e che le nostre origini comuni potrebbero diventare motivo di supporto reciproco. E le racconto anche di come gli ho inviato dei regali sotto le mentite spoglie di una sconosciuta ammiratrice. L’unica cosa di cui non le parlo è il sogno di quella notte, dopo che mi aveva salvata dalla carrozza. Quello è un ricordo che appartiene solo a me. Lei ascolta,ogni tanto pone qualche domanda, ma non dà giudizi o consigli, si limita a guardarmi con quel suo sguardo attento e intelligente e un sorriso indulgente sulle labbra sottili.

È passata qualche ora da quando Belle si è congedata. Dopo aver avermi ascoltata a lungo si è offerta di occuparsi lei di Mister Hayami; a casa sua, per tutto il tempo necessario, per conto dell’ammiratrice segreta. Abbiamo pensato che sia la soluzione migliore. Tra pochi giorni anche io dovrò partire e non so se Lawrence sarà tornato per allora. Belle dal canto suo, abita da sola e non deve giustificarsi con nessuno, al massimo potrà dire che si tratta di un parente della sua governante. Almeno fino a che nessuno lo vede. Adesso è andata a casa per scrivere il biglietto all’ammiraglio e per preparare il nostro arrivo. Domani mattina presto manderà una carrozza a prenderci. Sono contenta che le cose si siano messe in questo modo: non dovrò preoccuparmi di nulla, nemmeno quando sarò lontana, e lui non saprà mai chi lo sta aiutando. Certo, dovrò dare dei soldi alla padrona di casa perché non gli racconti della mia presenza qui se, una volta guarito, dovesse farle delle domande, ma non credo che questa sia una difficoltà insormontabile.
La giornata sta ormai finendo e la stanza è sempre più buia. Mi alzo dalla sedia e vado ad accendere la candela che è posata sulla mensola del camino. Una luce tremolante e soffusa si diffonde tutt’intorno disegnando ombre sfumate negli angoli e nel soffitto. Riempio una tazza con l’acqua della brocca e mi avvicino a Mister Hayami. Sta ancora dormendo, ma il suo sonno non è più profondo come prima; la pelle è ancora bollente al tatto, nonostante le spugnature, e il respiro piuttosto affannoso. Mi chino sul letto accanto alla sua testa e dopo avergli passato un braccio sotto alle spalle lo aiuto a sollevarsi quel tanto che gli permette di bere. È docile nelle mie mani, ma incredibilmente pesante. Ha un fisico asciutto e proporzionato, lunghe mani nervose e tratti armoniosi. L’ho osservato a lungo in queste ore, e ho notato che solo dagli zigomi alti e dal taglio allungato degli occhi si può indovinare la sua origine; il colore dei capelli e della pelle sono quelli di un comune europeo, e anche l’altezza notevole. Poso il bicchiere e torno a sedermi al mio posto e a perdermi nei miei pensieri. Lawrence!
Devo essermi assopita perché un movimento brusco e improvviso mi fa sobbalzare spaventata. Metto a fuoco e vedo Mister Hayami seduto sul letto, gli occhi spalancati su di me e un braccio teso in avanti, come se volesse respingermi.
«No, non ti ascolterò. Ho deciso, lasciami andare, io…»
Non finisce la frase. Si alza di scatto dal materasso, ma le gambe non lo tengono e cade per terra ansimante. Gli afferro il braccio e cerco di aiutarlo ad alzarsi, ma lui non collabora e rimane sdraiato sul pavimento nudo, a borbottare frasi incomprensibili. Allora mi inginocchio accanto a lui e gli parlo all’orecchio.
«Alzatevi Hayami-san. Non potete rimanere qui a terra. È freddo e voi avete una brutta febbre. Vi prego alzatevi.»
Ma non mi sente. È perso nel suo mondo delirante, lontano da tutti e da tutto. Provo di nuovo a sollevarlo, ma senza successo. Lo guardo impotente e lo vedo passare sotto i miei occhi dalla congestione del calore a un tremito improvviso. Gli tocco la fronte ed è, se possibile, ancora più calda di prima. Gli metto le mani sotto le ascelle e cerco di riportarlo a letto, ma è veramente troppo pesante per me.
«Oohh, dannazione» impreco forse per la prima volta nella mia intera vita. «E adesso cosa faccio? Non posso lasciarvi per terra, Hayami-san!»
Lancio uno sguardo al letto, apparentemente irraggiungibile, e mi viene un’idea. Prendo il materasso e lo tiro sul pavimento accanto al corpo, ormai scosso da brividi di freddo, di Mister Hayami, poi gli afferro le gambe e gliele appoggio su di esso, quindi gli vado di fianco e con uno sforzo tale che rischia di spezzarmi la schiena lo rivolto fino a farlo salire completamente sopra il giaciglio improvvisato. Lascio uscire un profondo sospiro di sollievo misto a fatica, e mi asciugo con il dorso della mano la fronte umida di sudore. Infine prendo dal letto la coperta e la appoggio sul corpo inerte del mio assistito che continua tremare visibilmente.
La medicina! Il medico ha detto di somministrargli un’altra dose se la febbre non fosse scesa. Sciolgo in una tazza con l’acqua uno degli incarti che il garzone della farmacia ha consegnato appena prima della partenza di Belle, e con un altro sforzo sollevo la testa e le spalle di Mister Hayami per farlo bere. Lui si lascia guidare ubbidiente, ma dopo che l’ho aiutato a ricoricarsi mi afferra con forza il polso e mi trascina accanto a sé.
«Rimani qui, vicino a me» dice con voce impastata.
Sono paralizzata dalla paura. È sveglio? Mi ha riconosciuta? Giro lentamente la testa nella sua direzione e alla luce tremula della candela vedo i suoi occhi socchiusi, ma non coscienti. Allungo una mano sul suo viso, ormai irruvidito dalla barba che sta crescendo e gli sussurro:
«Rimarrò con te finché vorrai. Ma adesso dormi, non preoccuparti di niente.»
Per tutta risposta stira il braccio e si aggrappa alla mia vita, stringendomi a sé in un abbraccio che mi lascia senza fiato per l’imbarazzo. Non sono mai stata abbracciata da un uomo finora, tranne che da Lawrence. La consapevolezza del suo corpo premuto contro il mio mi riporta alla mente il ricordo del sogno che ci aveva visti protagonisti e un’ondata di calore mi sale dal ventre verso il collo e poi al viso. Lo guardo in tralice: i lunghi capelli scarmigliati, il volto pallido e graffiato, le lunghe ciglia che gli ombreggiano gli zigomi affilati. E cedo. Per la seconda volta, questa sera, mi abbandono alla corrente, incurante di ciò che questo comporterà. Gli passo un braccio dietro il collo e gli appoggio la testa nell’incavo della mia spalla, mentre con l’altro mano percorro ogni singolo tratto del suo viso, cantandogli una dolce nenia che mia nonna mi ripeteva sempre quando ero malata. La storia di un amore tragico tra l’incarnazione di una dea e uno scultore che aveva il compito di scolpire una statua con il legno del susino che conteneva lo spirito della divinità.
Poco a poco i brividi si placano e Hayami-san riprende a dormire di un sonno regolare, ma io non mi muovo. Rimango stretta a lui per il resto della notte, godendo del suo calore e della sua vicinanza e ben consapevole che questo è tutto ciò che mi sarà mai concesso avere.

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Capitolo 16
*** cap. 16 e 17 ***


Capitolo 16


La farfalla dorme tranquilla
aggrappata
alla campana del tempio
finché non suonerà.

(Taniguchi Buson)


Inspiro a pieni polmoni l'aria calda e umida che in una brezza leggera sale dal mare, e la consapevolezza del miglioramento del mio stato di salute non fa che acuire e rendere ancora più splendido il mio periodo di convalescenza in Italia. Siamo arrivati da un paio di settimane, ormai, e ho imparato persino qualche parola e alcune brevi frasi in italiano. Non male, per uno che come me fino a pochi anni fa non conosceva altra lingua che non fosse il giapponese. Genova è splendida: così calda, solare. Così caratteristica con i suoi vicoli stretti – come li chiamano qui? Ah sì, caruggi! − e così unica nel trovarsi divisa tra la montagna e il mare. Mi piace questa città, mi piace il clima, così diverso da Londra. E mi piace il calore del sole sulla pelle, sul viso, a scaldarti l'anima, oltre al cuore.
Questa mattina avevo voglia di tornare al Belvedere. Talbot aveva alcune commissioni da fare prima della nostra imminente partenza per Vienna. Che rivelazione questo viaggio! Quante cose sono successe da quando, senza nemmeno avere avuto il tempo di rendermene conto, sono svenuto nel mio appartamento, mancando così all'appuntamento con Lord Ash, per risvegliarmi qualche giorno dopo in un letto sconosciuto nella casa di un altrettanto sconosciuta e misteriosa Miss La Motte.
Appoggio entrambi i palmi sul parapetto che costeggia il viale e lascio vagare lo sguardo oltre i tetti e i declivi della città, oltre i pensieri, per incontrare il mare. O per cercare risposte, forse. C'è sempre qualcosa che non mi torna nel mio soggiorno presso Miss La Motte. Tutto quello che mi è stato raccontato è di essere svenuto poco prima dell'appuntamento con Lord Ash, che Miss La Motte mi ha accolto in casa, su richiesta della mia misteriosa ammiratrice, dopo che My Lord mi aveva trovato privo di sensi e riverso sul pavimento in preda alla febbre e alle allucinazioni. Da quello che mi è stato riportato la portinaia si è presa cura di me - Lord Ash deve averla pagata davvero bene per farle assumere un tale disturbo - ed io, personalmente, ringrazio qualunque forza divina mi abbia impedito di percepire la sua presenza e di realizzare il fatto di aver lasciato la mia vita nelle mani di quella sudicia e insopportabile ubriacona. Forse la mia misteriosa ammiratrice ha avuto modo di vedere la portinaia − ipotesi alquanto improbabile − o qualcuno gliene ha parlato, così lei si è impietosita e si è mossa in mio soccorso. Potrebbe essere una spiegazione, ma nel giro di una notte… Ad ogni modo, mi chiedo come possa essere venuta a conoscenza della mia malattia, ma ancora di più mi preme sapere per quale motivo abbia deciso di voler restare nell'anonimato, senza darmi così alcuna possibilità di ringraziarla, né tantomeno di sdebitarmi. Miss La Motte ha rifiutato di rispondere a ogni domanda da me posta al riguardo, eppure lei sa, lei la conosce. Ho ripassato nella mente ogni singola parola da lei pronunciata in mia presenza nella speranza di trovarvi qualche indizio, qualche traccia della mia misteriosa ammiratrice. Eppure niente, tutto rimane vago, nell'ombra, anche se io sento che c'è qualcosa, nella mia testa, che mi parla di lei. Ma non riesco a trovarlo questo qualcosa: è sfuggente, impalpabile, e più lo seguo più si confonde nell'ombra fitta in cui è calata la mia mente nei giorni bui della malattia. Un biglietto, una semplice busta con allegate poche parole e come firma la solita rosa è tutto ciò che la mia ammiratrice ha voluto far sapere di lei.

Essendo venuta a conoscenza delle vostre precarie condizioni di salute mi sono sentita in obbligo di prestarvi soccorso, almeno per quanto concerne le mie possibilità. Voi non preoccupatevi di nulla, pensate solo a guarire. Dovete tornare sulle scene, per voi, e anche per me.

E poi la rosa, unica e inconfondibile. La grafia questa volta mi è sembrata un poco più sicura, sebbene più nervosa. Forse la mia ammiratrice era davvero preoccupata mentre scriveva quel biglietto. Forse aveva fretta, forse... Non riesco a capire. Miss La Motte ha tenuto un silenzioso riserbo al riguardo, e niente sono venuto a sapere nemmeno da Lord Ash poiché Talbot, quando è venuto a reclamarmi, mi ha bruscamente informato che Ash è partito per un qualche viaggio in compagnia del padre e del fratello. Se vorrò parlargli, dovrò aspettare il suo ritorno a Londra, e il mio.

«Dove... Dove sono?»
«Avete ripreso conoscenza, finalmente, Mister Hayami! Io mi chiamo Christabel La Motte e voi siete ospite nella mia casa su richiesta della vostra ammiratrice della rosa. Mi ha detto di dirvi così, che voi avreste capito.»
Aveva faticato a comprendere, invece. Dopo aver spostato lo sguardo dalla sconosciuta in abito verde al resto della stanza e aver socchiuso gli occhi per mettere a fuoco la vista, si era sentito debole, e spossato.
«Tutto quello che riesco a ricordare è che mi stavo avviando a un appuntamento con Lord Ash. Avevo indossato il vestito, mi stavo avviando alla porta... poi ho provato un dolore fortissimo al petto che mi ha tolto il respiro e... più nulla. Ma... come sono arrivato qui da voi?»
Aveva provato a sollevare il busto, ma si era ritrovato senza forze e costretto, suo malgrado, ad abbandonare nuovamente la testa sul cuscino. La sentiva vuota, pesante, e terribilmente confusa.
«Non siete ancora in forze per riuscire ad alzarvi, Mister Hayami; state tranquillo e non agitatevi. Il peggio è passato. Ci avete fatto prendere a tutti un bello spavento, ma già da ieri la febbre è calata e il vostro colorito, per quanto pallido, si mostra già meno tetro. È un buon segno, così almeno ha detto il dottore. Avrete sete, immagino, volete dell'acqua?»
Non aveva aspettato la sua risposta, si era avvicinata al comodino accanto al suo letto e sollevata con grazia una brocca smaltata in azzurro aveva versato un poco d'acqua in un bicchiere per poi avvicinarlo con cautela alle sue labbra disidratate, eludendo con garbo il suo imbarazzo, e il suo riserbo.
«Vi ringrazio molto, mi dispiace arrecarvi tanto disturbo. Già da ieri, avete detto? Ma da quanto tempo sono qui? Che giorno è oggi?»
«Domenica pomeriggio, siete rimasto pressoché incosciente tre giorni, anche a causa del laudano che vi ha prescritto il dottore. E non avete quasi toccato cibo. Desiderate ancora un po' d'acqua?»
Aveva accennato di no con il capo, frastornato. Non ricordava nulla... Laudano aveva detto? Un eccesso di tosse aveva interrotto i suoi pensieri, e la donna gli si era accostata pietosamente per aiutarlo a sollevarsi un poco.
«Questa impiegherà un po' a passare, ma il dottore ha detto che siete un uomo giovane e di costituzione robusta, e in più avete reagito bene alla terapia. Lo conoscerete più tardi, quando verrà a farvi visita.»
«Tre giorni...»
Aveva abbandonato una mano sulla fronte, perplesso, cercando di ricordare. Poi aveva sollevato un poco le lenzuola, e alzato gli occhi a fissare sconcertato la sua ospite sconosciuta. La camicia che indossava era fresca, pulita, di ottima fattura... e non gli apparteneva.
«Non preoccupatevi, ha pensato a tutto la vostra ammiratrice, e il dottore si è preoccupato personalmente di farvi indossare abiti più pratici e idonei a un ammalato. Pensate solo a riposare Mister Hayami, pensate a rimettervi in forze. Ora vi porto qualcosa da mangiare, e questa volta, per favore, cercate di collaborare.»
Gli aveva sorriso, e lui, in imbarazzo, si era sforzato di fare altrettanto.
«Avete parlato della mia ammiratrice, la conoscete dunque. Per caso conoscete anche Lord Ash? È stato lui a trovarmi giovedì, non è vero? Lord Ash conosce la mia ammiratrice? Per favore, devo sapere...»
Le donna non si era nemmeno voltata, aveva aperto la porta gli aveva lanciato un'ultima occhiata fugace prima di allontanarsi dalla camera e dalle sue domande incalzanti.
«Per ora impegnatevi soltanto a mettere qualcosa nello stomaco. Alle domande, per quanto mi sarà possibile, risponderò più tardi.»

Non aveva risposto. Aveva mantenuto fede alla promessa fatta alla sua ammiratrice di conservare il più assoluto riserbo riguardo alla sua identità e a ogni aspetto della sua persona, e per quanto lui si sforzasse di indagare, apertamente o con i più cervellotici sotterfugi su di lei, Miss La Motte si era guardata bene dal lasciarsi sfuggire qualcosa o dal cadere ingenuamente nei tranelli. Non era riuscito a sapere niente di più di ciò che la sua ammiratrice aveva deciso di volergli rivelare e lui, nei pochi giorni trascorsi in qualità di ospite obbligato in quella casa, non seppe pensare ad altro. Finché un pomeriggio Talbot, tornato dal suo misterioso viaggio, non si era presentato alla porta di Miss La Motte, nervoso e accigliato, per portarlo via con sé.
Aveva recuperato un poco le forze e aveva raggiunto Miss La Motte nel suo salotto, dove era stato invitato a farle compagnia davanti a una profumata e fumante tazza di tè. Aveva sorseggiato la bevanda pensieroso, assaporandone a fondo l'aroma, così diverso dal tè che era abituato a bere in Giappone. Aveva sospirato. Come sembravano lontani quei giorni: più passava il tempo e più la sua terra d'origine sembrava volersi allontanare perfino dai ricordi. Eppure era sufficiente un istante, un sorso di tè in un salotto londinese e le distanze tornavano ad accorciarsi nel ricordo di altri sapori, altri profumi, altre memorie. Aveva spalancato gli occhi, e per poco non si era rovesciato il tè sulla camicia immacolata e i pantaloni lucidi. Un profumo... una voce di donna che gli sussurrava all'orecchio parole incomprensibili. E freddo, tanto freddo...
Mr. Talbot era stato puntuale nel venirlo a reclamare, come annunciato nella breve missiva che gli aveva fatto recapitare in risposta al suo ancor più breve biglietto in cui lo aveva informato delle proprie condizioni di salute e del soggiorno presso l'abitazione di Miss La Motte. Un altro biglietto lo aveva scritto all'indirizzo di Lord Ash, scusandosi profondamente per il disturbo arrecatogli e ringraziandolo ancor più sentitamente per essersi preso cura di lui nell'immediato.
«Bentornato signore. Vi trovo bene e...»
«Non posso dire lo stesso di te, Masumi. Hai preparato i bagagli?»
«Non ho alcun bagaglio, signore.»
Talbot aveva aggrottato leggermente le sopracciglia, ma non gli aveva chiesto altro. Si era rivolto a Miss La Motte, e il suo tono, per quanto autoritario, si era fatto più cordiale.
«Vi ringrazio infinitamente per esservi presa cura di lui, signora, e vi chiedo nuovamente perdono per non essere potuto venire prima a sollevarvi da quest'onere. Ora mi occuperò io di lui. Verrete ripagata per tutto.»
«Non è me che dovete ringraziare, signore. Io ho solo messo a disposizione la mia casa, nulla di più.»
Talbot era rimasto in silenzio qualche istante, a riordinare i pensieri, aveva supposto, o a cercare risposte. Lo aveva fissato, ma non gli aveva posto alcuna domanda.
Dopo aver ringraziato infinitamente Miss La Motte le aveva detto che l'avrebbe ripagata di tutto un giorno, si era augurato di poterla rivedere e le aveva lasciato una breve missiva con la richiesta di farla pervenire alla sua ammiratrice. Lei lo aveva fissato dubbiosa, ma alla fine aveva chinato il capo, in cenno di assenso. Si era inchinato una seconda volta, e lo sguardo che la donna gli aveva rivolto come ultimo saluto gli aveva mostrato tutta la sua preoccupazione. Una volta raggiunto Talbot, già seduto nella carrozza, si era così avviato verso la sua nuova dimora, dove avrebbe trascorso il resto della sua convalescenza una volta guarito dalla malattia.
«Hai un'ammiratrice piuttosto zelante, a quanto pare» era stata l'unica constatazione che il suo mentore aveva fatto seguire al resoconto sui fatti seguiti allo svenimento di quel fatidico giovedì, accompagnata da un sorriso beffardo e un'occhiata divertita. «Sei fortunato. In un modo o nell'altro riesci sempre a trovare qualcuno disposto a venirti in aiuto. D'altronde, il fascino non ti manca.»
Aveva semplicemente sbuffato, senza rispondere alla provocazione. E aveva fermato con ostinazione lo sguardo oltre il finestrino, socchiudendo appena gli occhi per schermarli dalla luce che filtrava attraverso quella barriera di vetro che li separava dal mondo, ponendosi nella posizione di osservatore, per non venire osservato.
Aveva visto nel riflesso un sorriso sornione alleggerire le labbra severe di Talbot, ma il suo maestro non aveva più cercato alcuna conversazione. Dopo un paio di isolati lo aveva sentito battere un paio di volte il bastone sul soffitto della carrozza per fermare il cocchiere, e si era voltato a fissarlo in silenzio, interrogandolo muto.
«Ho una piccola commissione da fare, attendi qui per favore, non impiegherò molto.»


«Scusate...»
Una voce di donna mi riporta al presente, e mi volto per incontrare due occhi sconosciuti e un mezzo sorriso titubante e sospeso.
«Mi dispiace, io... io non parlo italiano.»
È una delle prime frasi che ho imparato, spero solo di averla pronunciata correttamente. La donna continua a fissarmi e noto la delusione prendere il posto del sorriso sul suo volto, ma non si allontana.
«Parlate un poco inglese?»
Le sorrido, e accenno un sì con il capo.
«Bene, questa è una fortuna. So che non è cortese da parte mia, ma è da un po' che vi osservo. Voi non siete un uomo che passa inosservato.» L'espressione che deve essersi dipinta sul mio volto la costringe mio malgrado a chiarire velocemente le sue parole, quasi a volersi scusare per l'indelicatezza, o la maleducazione. «Vi chiedo ancora scusa, non fraintendetemi. Io sono una pittrice, e purtroppo per me sono terribilmente attratta da quello che le persone che non fanno il mio mestiere tendono a non vedere.»
Ha completamente catturato la mia attenzione, e la fisso incuriosito e confuso. Nemmeno io devo sembrarle molto educato, infatti ora la donna ha assunto l'espressione di chi improvvisamente non sa più cosa dire. Un attimo dopo mi rendo conto, invece, che stava solo cercando nella mente le parole giuste da dire.
«Mi avete colpita subito, nel momento stesso in cui siete arrivato. C'è qualcosa in voi che cattura l'attenzione di chi vi sta intorno. Aspettate, non mi riferisco al vostro aspetto. Non fraintendetemi di nuovo, vi prego, è solo che voi...»
Alla fine lascia cadere le braccia lungo i fianchi, e sospira.
«Aspettate. Ora vi faccio vedere, così capirete.»
La guardo affrettarsi lungo il viale per raggiungere una sedia e un cavalletto che non avevo notato al mio arrivo. La vedo raccogliere un blocco che immagino racchiuda dei disegni e tornare sui suoi passi, per raggiungermi e mostrarmi l'ultima cosa che mi sarei mai aspettato di vedere rappresentata su un foglio.
«È quello che mi avete trasmesso, quello che ho visto in voi. Non ho potuto fare a meno di prendere in mano un carboncino e disegnarvi. Entrambi.»
Prendo in mano il blocco che la donna mi sta allungando e lo fisso incredulo. Sono io in quel dipinto, il mio profilo, la mia figura, sono indiscutibilmente io. Osservo i tratti di quel volto, e vi leggo una malinconia profonda, possibile? Lo sguardo perso all'orizzonte, i capelli scomposti dalla brezza marina, le mani che sembrano nervose, aggrappate con forza al muretto quasi a cercarne una sicurezza o un appiglio. E poi lei. Quell’immagine indistinta alle mie spalle. Rimango senza fiato, gli occhi incollati alla figura femminile disegnata di schiena, in una nuvola leggera, impalpabile. Ma io la riconosco, so che è lei. I capelli, il profilo appena accennato e indefinito del naso mentre sembra voltarsi per guadarmi, non possono essere che suoi.
«Ma... come...»
La donna mi sorride, sembra felice.
«Ho indovinato, vero? Era a lei che stavate pensando.»
La fisso sbigottito e incantato al tempo stesso. Chi è questa donna, come fa a conoscere Lady Kitajima?
«Voi...Voi conoscete Lady Kitajima?»
La pittrice mi fissa sorpresa, sembra non capire.
«Lady Kitajima? È così che si chiama?» Annuisco, poiché sono impossibilitato a fare altro. «No, non la conosco. Ho solo visto una donna nei vostri pensieri e, visto che voi siete asiatico, ho immaginato che anche lei lo fosse. Davvero nel mio ritratto avete visto la vostra donna?»
Scuoto il capo, e mi sfugge uno sbuffo. Lei sembra rimanerci male.
«Sì, ho riconosciuto Lady Kitajima, senza alcun indugio. La vostra bravura è notevole, siete un’artista, non c'è dubbio in proposito. Ma no, non è la mia donna, per quanto io non riesca a smettere di pensare a lei.»
Riporto gli occhi sul disegno a carboncino che tengo ancora stretto saldamente fra le mani, non riuscendo ancora a capacitarmi di aver ispirato qualcosa che ha davvero del prodigioso.
«Mi dispiace, vi chiedo scusa. Io... non avevo capito.»
«Non potevate saperlo. Ad ogni modo, voi possedete davvero un grande talento. Riuscite a leggere l'anima delle persone, e a mettere su carta i loro desideri più nascosti.»
«Nel vostro caso non così nascosti, permettetemi l'impudenza.»
Ride, ed è contagiosa. Strappa un sorriso anche a me, a dispetto delle circostanze. Poi torno improvvisamente serio, e a fissare il mare.
«La sogno spesso, anche se non dovrei farlo. La sogno più di quanto vorrei. Ho cercato di allontanarla dai miei pensieri, ho cercato di fingere che non me ne importasse. Ma non è vero. Più la allontano e più la cerco, più mi convinco che è una follia e più la sogno. Lei non è destinata a me, lei non potrà mai accorgersi di me. Apparteniamo a mondi diversi, siamo destinati a percorrere una strada in cui la parola noi non può in alcun modo essere contemplata. Ci sono delle volte in cui in seguito a un suo sguardo, a un movimento involontario delle ciglia, al leggero tremore di una mano, a un rossore appena accennato mi illudo che forse le cose potrebbero andare in modo diverso, ma poi ci penso, ragiono, e mi rendo conto che non è così, che non potrà mai essere così, e allora cerco di dimenticare tutto ma... - sospiro, per far uscire con l'aria i pensieri e materializzarli in parole - ...non posso. È una sofferenza continua dalla quale non riesco a liberarmi. Anche se ad essere del tutto sincero, forse sarebbe meglio dire che non voglio.»
Mi rendo conto di aver esternato per la prima volta i miei sentimenti nei confronti di Lady Kitajima con una perfetta sconosciuta, ma stranamente non sembra importarmene. Chissà, forse perché sono in un paese straniero, in una città ancora più straniera di Londra, e forse per questo più libero. Chissà.
«Se posso permettermi, lei è già sposata?»
«No, ma lo sarà presto.»
La donna sospira, e per qualche istante nessuno di noi due proferisce parola.
«Se non vi disturba la mia curiosità, posso chiedervi cosa vi ha portato qui a Genova? Siamo abituati a vedere stranieri, siamo una città di mare, ma voi...»
«Sono nato e cresciuto in Giappone, ma vivo a Londra adesso. Ero andato lì per cercare una persona, ma è una storia piuttosto complicata, e altrettanto lunga. Qualche tempo fa mi sono ammalato di polmonite, così Mister Talbot – il mio mentore − mi ha offerto questo soggiorno in Italia per trascorrere qui la mia convalescenza. C'è il clima adatto, come aveva suggerito il medico. Sono trascorse ormai due settimane dal nostro arrivo, e domani partiamo per Vienna.»
«È un peccato, mi sarebbe piaciuto incontrarvi ancora.» Le sorrido, e lei ricambia con entusiasmo. «Nessun ostacolo è insormontabile, niente è ancora perduto. E in ogni caso, non si può perdere qualcosa che non si ha ancora avuto, non trovate?»
È vero, eppure la mia sensazione è proprio quella. È un sogno ricorrente, dal giorno in cui mi sono svegliato a casa di Miss La Motte. Immagini frammentate in cui c'è sempre lei, Lady Kitajima. I suoi occhi, le sue mani, i suoi capelli. Il suo profumo, così preciso da sembrare reale, come le sue parole, sussurrate e confuse, che mi parlano di una dea, e di un susino. E la sensazione dolcissima e struggente di averla stretta fra le braccia, di aver sentito il suo calore, di averla sentita mia. No, si può perdere qualcosa anche se non lo si è mai avuto. Anzi, potrei dire che lo si perde in un modo ancora più doloroso, perché è come perderlo due volte.
La donna si volta di scatto e il suo sguardo si posa apprensivo tra la sedia e il cavalletto da lavoro abbandonati all'ombra di un albero nei pressi di una panchina. Noto alcuni bambini avvicinarsi incuriositi a scrutare pennelli e colori, accompagnati da un cane.
«Ora devo lasciarvi Mister…»
«Hayami. Il mio nome è Hayami Masumi. Perdonatemi, il vostro ritratto mi ha sconvolto a tal punto da farmi dimenticare l'educazione e l'opportunità di presentarmi. Vedete? Non sono un gentiluomo.»
«Sì invece, credetemi. E tenete pure il ritratto, ve lo regalo. Consideratelo una sorta di portafortuna per realizzare il vostro sogno d'amore.»
Strappa con cura il foglio dal blocco, lo arrotola velocemente e me lo porge con grazia.
«Siete molto gentile. Ma non mi avete ancora detto il vostro nome, signora...»
«L'ho messo in firma al ritratto.»
Mi sorride un'ultima volta e la guardo precipitarsi alla sua postazione di lavoro, poi srotolo con cura il ritratto e cerco il nome posto in calce. Kat. Con un ultimo cenno di saluto e ringraziamento al suo indirizzo riprendo anch'io il mio cammino. Come Talbot, anch'io ho delle mansioni da sbrigare in previsione del viaggio a Vienna. Compresa qualche delucidazione in più su Coppelia, il balletto al quale Talbot vuole assolutamente assistere, e al quale sono stato caldamente invitato ad accompagnarlo.

Capitolo 17

Si sveglia
e sbadiglia, il gatto;
poi, l’amore.

(Kobayashi Issa)


La Wiener Staatsoper è uno dei teatri più belli che abbia mai visto. La sua maestosità ed eleganza mi hanno piacevolmente sorpresa, ma lo spettacolo di balletto che vi è appena stato rappresentato mi ha letteralmente tolto il respiro: Coppelia da parte della compagnia del teatro Bolshoi di Mosca. Non avevo mai assistito a un balletto prima d’ora e ne sono rimasta incantata. La musica è sublime, e ho trovato sorprendente la bravura della ballerina che interpreta la parte della bambola meccanica. Chissà come fa a rimanere immobile per tutto quel tempo? Mi ha dato veramente l’impressione di essere inanimata! E i movimenti meccanici di Swanilda quando prende il posto di Coppelia… assolutamente incredibili!
Sento l’eccitazione per la meravigliosa esibizione scorrermi ancora nelle vene, sono accaldata e il brusio incomprensibile della moltitudine di persone che affollano il ricevimento mi confonde, così esco nella galleria che sovrasta la loggia per cercare un angolo tranquillo e respirare un po’ d’aria fresca. Le luci che filtrano attraverso le finestre creano delle ombre pesanti negli angoli e vicino alle colonne. Avvicinandomi alla balaustra noto un uomo che, appoggiato a una di esse, sembra guardare fuori verso la strada sottostante. È alto, con lunghi capelli castano chiaro che risaltano sullo sfondo di una marsina nera, ed è così assorto nei propri pensieri da non girarsi nemmeno per vedere chi abbia interrotto la sua solitudine. Siccome è proprio la solitudine che anch’io sto cercando, mi dirigo verso l’arcata adiacente alla sua in modo da essere separati da una delle colonne. Appoggio le mani sul parapetto e chiudo gli occhi aspirando il profumo della notte: nonostante il clima dell’Austria sia più rigido rispetto a quello del sud della Francia e dell’Italia la serata è gradevolmente tiepida e l’aria appena frizzante, ed è piacevole starmene qui tranquilla a godermi la pace e lasciare che le emozioni dello spettacolo si sedimentino lentamente dentro di me.
Lascio vagare i pensieri insieme alle nuvole che corrono lente nel cielo fino a quando il suono familiare di una voce mi riscuote. Non è possibile! So bene che non è in alcun modo possibile e che devo averlo immaginato, eppure il mio cuore accelera improvvisamente il suo battito e un vuoto sembra aprirsi dentro al mio stomaco.
Prendo aria, mi giro e lo vedo: il profilo affilato disegnato dalla luce proveniente dal salone, la figura slanciata e forse un po’ più magra di come la ricordassi, è chinato per raccogliere qualcosa da terra. Un oggetto piccolo che prende tra le mani e poi spolvera con cura prima di rimetterlo in tasca e voltarmi le spalle per rientrare. Potrei lasciarlo andare, tornare dagli zii e pregarli di riaccompagnarmi in albergo. Fuggire semplicemente e far finta che sia stato solo un sogno. Lui non può essere qui! Lui è a Londra, ancora convalescente e sotto l’ala protettiva di Mister Talbot. Almeno questo è quanto mi ha scritto Belle, e io sono senza ombra di dubbio ingannata solo da una forte somiglianza e dal desiderio feroce di rivederlo.
«Hayami-san?» lo chiamo con voce talmente bassa che non so come possa sentirmi. Ma deve averlo fatto in qualche modo perché si immobilizza e poi si gira lentamente, lo sguardo dapprima interrogativo, poi incredulo e poi… poi non so. Gioia forse, e imbarazzo.
«Lady Kitajima, che incredibile sorpresa incontrarvi qui» dice alla fine dopo essersi avvicinato e avermi preso la mano. Un brivido mi corre lungo la schiena e una strana morsa mi stringe lo stomaco quando le sue labbra sfiorano il pizzo del mio guanto.
Rimaniamo per un lungo istante a fissarci negli occhi, entrambi apparentemente alla ricerca di una conferma. Il suo viso è più smunto di prima e i segni di occhiaie profonde sono ben visibili pur nell’ombra leggera che gli vela il viso. Anche il suo sguardo d’ambra ha una dolcezza nuova, una luce che sembra mettere in risalto il leggero rossore delle guance.
«Anche per me è una sorpresa vedervi Mister Hayami. È da…» mi fermo incerta «dalla nostra conversazione a casa di Mister Hughes che non ci vediamo. Spero che stiate bene.»
Belle mi ha tenuta costantemente informata sulle condizioni di salute di Mister Hayami, da quando è stato trasferito a casa sua fino a che Mister Talbot non si è presentato per reclamarne le cure, ma tutto quello che è venuto dopo mi è ignoto. Perché è qui? E con chi? Non dovrebbe essere a casa a rimettersi?
«Adesso sto bene, milady, vi ringrazio. Anche se, a dire il vero, gli ultimi mesi non sono stati facili, e se… qualcuno non si fosse prodigato immediatamente forse non sarei sopravvissuto.»
Ha una leggera esitazione nel parlare e io mi chiedo se si riferisca a Belle oppure all’ammiratrice sconosciuta; in fondo gli abbiamo fatto credere che la sua presenza a casa di mia cugina fosse dovuta a un suo intervento.
«Adesso però state meglio, vero? E Lawrence sa di questa vostra indisposizione? È venuto a farvi visita?» lo tempesto, avvicinandomi a lui e appoggiandogli una mano sul braccio, desiderosa di avere subito delle risposte alle domande che mi hanno oppressa da quando sono partita. Lawrence non ha risposto a nessuna delle mie lettere, ma forse con lui ha parlato.
«Sì, My Lord sa della mia malattia, ma non l’ho più sentito da quando mi ha soccorso» dice con un’aria tra il rassegnato e il curioso.
«Capisco. Non preoccupatevi sono sicura che lo vedrete non appena tornerete a Londra. Ci penserò io a ricordarglielo» cerco di rassicurarlo, anche se a dire la verità, sono io quella che avrebbe bisogno di rassicurazioni. Gli rivolgo un sorriso incoraggiante, ma lui invece irrigidisce la mascella e distoglie lo sguardo.
«Siete qui con il vostro fidanzato, milady?» riprende dopo qualche secondo di silenzio.
«No, sono insieme ai miei zii. Siamo in viaggio per l’Europa da quasi due mesi ormai e Vienna è l’ultima tappa. E voi invece? Non pensavo che poteste… sì insomma… voi…» mi fermo all’improvviso in preda alla confusione. Stavo per dire qualcosa di veramente molto scortese.
«Intendete forse che non pensate che possa permettermelo?» mi viene in soccorso lui con un mezzo sorriso che però non arriva a illuminargli lo sguardo.
«Scusatemi, è stato molto indelicato da parte mia. Sono mortificata» cerco di scusarmi
«Non preoccupatevi, avete ragione. Non potrei permettermi un viaggio come questo, né questi abiti e tantomeno di partecipare a ricevimenti come quello» dice indicando con un cenno della testa la sala alle sue spalle. «È Mister Talbot che mi ha offerto di accompagnarlo, pagando tutto. Ufficialmente perché non aveva voglia di viaggiare da solo, ma in realtà sono convinto che lo abbia fatto per consentirmi di rimettermi il più in fretta possibile. Abbiamo prima trascorso tre settimane a Genova e poi siamo venuti qui.» Si ferma un attimo senza distogliere lo sguardo dal mio viso, né io vorrei che lo facesse, e poi riprende, mentre un sorriso ironico gli stira leggermente le labbra. «Sapete che è la prima volta che mi chiedete scusa per qualcosa da quando ci conosciamo?»
«Davvero? Ne siete proprio sicuro?» rispondo esitante e devo aver sgranato gli occhi ed essere arrossita perché Mister Hayami scoppia in una risata divertita e mi rivolge un’occhiata maliziosa.
«Suvvia, non fate quella faccia stupita. Prometto che alla fine della conversazione dimenticherò la vostra gentilezza e mi comporterò come se mi aveste dimostrato anche questa volta il solito disprezzo. Ma per un altro po’ parlate con me così, come se non ci fosse nulla a separarci» conclude, tornando serio.
«Io… io non vi disprezzo affatto mister Hayami» rispondo, abbassando la testa per impedirgli di vedere l’ondata di emozione che mi ha imporporato le guance. Poi il tocco leggero delle sue dita sotto al mio mento mi costringe a rialzarla e a guardarlo dritto in viso.
«Davvero? Davvero non mi disprezzate?» chiede con un tono molto più dolce e una luce calda negli occhi.
«No» biascico in qualche modo, completamente avvinta dal suo sguardo e fin troppo conscia del calore della sua mano sulla mia pelle.
«Ne siete sicura? Proprio per niente?»
«Proprio per niente, ma se insistete posso provare a…»
«No, va bene così. Non voglio la vostra ostilità» mi interrompe. «Vorrei esservi amico.»
Mi mancano le parole per rispondere mentre una fitta di speranza mi trapassa come un fulmine. È ancora chinato su di me, le sue dita nude sotto al mio mento, e il volto talmente vicino che basterebbe un movimento lieve in avanti perché le nostre bocche arrivassero a toccarsi.
Ma non succede. Mister Hayami lascia andare il mio viso e si passa la mano tra i capelli con un sospiro, tanto che mi chiedo se per caso gli stessi miei pensieri non abbiano sfiorato anche la sua mente, se anche lui, come me, non stia combattendo contro un sentimento che sa essere irrazionale e irrealizzabile. Abbasso il viso per paura che possa leggere sui miei lineamenti tutto il mio desiderio e la mia frustrazione e mi giro di nuovo verso la strada, prendendo un respiro profondo e cercando di ritrovare una dignitosa compostezza. Dopo qualche secondo mi si affianca. Per un po’ restiamo in silenzio, poi alla fine la sua voce bassa rompe l’immobilità e iniziamo a raccontarci dei rispettivi viaggi e delle cose viste, ridendo insieme su esperienze buffe o situazioni imbarazzanti. Non ci guardiamo, se non qualche occhiata fuggevole, ma ce ne stiamo semplicemente uno accanto all’altra, su questa loggia viennese, ad osservare il gioco delle luci tremolanti dei lampioni nella strada giù in basso e a goderci la reciproca compagnia. Poi improvvisamente lo sento respirare pesantemente e percepisco il movimento della sua spalla che si alza e si abbassa.
«Verrete a vedere il mio prossimo spettacolo, in autunno?»
«Sì, statene certo» rispondo di getto, voltandomi a guardarlo.
«E verrete anche a salutarmi?»
«Chiederò a Lawrence di accompagnarmi.»
Lo vedo aggrottare le sopracciglia prima di ribattere.
«Capisco. Siete molto legati, vero? Voi e Ash, intendo.»
«Sì, ci conosciamo fin da quando eravamo bambini e l’affetto tra di noi non ha fatto altro che crescere e rafforzarsi nel corso degli anni.» Continuo a guardarlo mentre parlo, ma il suo viso è rivolto alla strada giù in basso, gli occhi nascosti dalle lunghe ciglia.
«Perché allora non sposate lui, anziché il visconte di Hendrick?» chiede con un tono grave e in qualche modo mesto.
«Perché Lawrence non…» mi fermo appena in tempo. «Perché Lawrence non può sposarsi fino a che non lo farà il fratello maggiore, e il mio patrigno ha fretta di liberarsi di me. E comunque i matrimoni tra le famiglie nobili inglesi non sono quasi mai una questione d’amore.»
Non mi era mai capitato finora di esprimere i miei pensieri, quasi tutti i miei pensieri, con questa franchezza, ma parlare con lui in quest’atmosfera rilassata, ancora ammaliata dalle forme e dalla musica di un meraviglioso spettacolo, è così piacevole e naturale che mi è venuto spontaneo dirgli la verità. Fino ad ora è stato Lawrence il mio unico confidente, l’unica persona, oltre alla mamma, di cui mi fidassi completamente, eppure ora, nel profondo del mio cuore sento che anche Hayami Masumi merita la mia completa fiducia. Non ho idea se ciò sarà possibile, e ancora meno riesco a immaginare quali conseguenze questa nuova consapevolezza avrà sulla mia vita, ma qui e ora voglio illudermi di essergli vicina emotivamente oltre che fisicamente.
«E voi… avete qualcuno di speciale, Mister Hayami?» mi faccio coraggio e chiedo a mia volta. Voglio sapere tutto di lui, anche quelle cose che fanno male, anche quelle che non posso cambiare. Benché non possa fare a meno di chiedermi, con un brivido, se ci sarebbe in realtà qualcosa che potrei cambiare se scegliessi di volerlo con tutte le mie forze.
«No, milady. Al momento il matrimonio è l’ultimo dei miei pensieri.»
«Ah, pensavo che voi e l’attrice che interpretava Miranda…» mi lascio sfuggire, arrossendo per la sfacciataggine delle mie stesse parole. Lui mi guarda un attimo in tralice prima di rispondere, con la mascella contratta e una nota di tristezza nella voce.
«È partita. E comunque non eravamo fidanzati.»
«Ah… quindi non siete innamorato?» Trattengo il respiro subito dopo che le parole sono uscite.
«Non lo so» risponde quasi con rabbia dopo un attimo di esitazione. «E voi Milady?»
«Io… sì, credo di sì» e chino la testa, il sangue che mi fluisce al viso e lo riscalda come se mi trovassi davanti a una fiamma.
Ecco l’ho detto! Io che dell’amore non conosco niente; io che non so neppure spiegarmi come sia stato possibile che sia nato in me questo sentimento, io l’ho detto. Sono innamorata di lui che conosco così poco, lui con cui non ho fatto altro che litigare fin dal primo incontro, lui che è così lontano dal mio mondo. E adesso mi chiedo se innamorarsi sia sempre così, se ci sia sempre questo misto di dolore e piacere, paura e coraggio.
«È un uomo fortunato» dice dopo qualche secondo, in tono sommesso. «Adesso, però è meglio rientrare. Permettete che vi accompagni?»
Non voglio andare via. Voglio rimanere a parlare con lui, a guardarlo di nascosto, a cercare lo scintillio malizioso dei suoi occhi da gatto.
«Aspettate…» ma proprio mentre sto allungando la mano per trattenerlo, la porta del salone si apre, lasciando uscire rumore di chiacchiere e musica da ballo e una coppia esce sulla terrazza. Lascio ricadere la mano. «Io vorrei rimanere ancora qualche minuto, ma voi rientrate pure. L’aria si sta rinfrescando e forse non vi fa bene stare ancora all’aperto.»
Mi guarda come se volesse leggermi dentro, come se volesse scoprire se veramente voglio che si allontani, e alla fine si china verso di me e mi sfiora la guancia con un bacio leggero, quasi impalpabile.
«Addio milady. Vi auguro ogni felicità.»
Mi porto la mano alla guancia, bollente nel punto in cui le sue labbra l’hanno toccata, e continuo a guardare la sua figura slanciata allontanarsi fino a sparire in mezzo alla folla all’interno. Poi mi giro di nuovo verso la strada e alzo gli occhi al cielo illuminato dalle tante luci di Vienna.
Un mormorio e una risatina trattenuta mi fanno girare e vedo le due persone che sono uscite poco prima: le teste che quasi si toccano e le mani intrecciate, stanno bisbigliando fitto tra di loro, con dolcezza. Una tristezza improvvisa si abbatte su di me come un maglio, schiacciandomi sotto il peso della consapevolezza che mai, mai nella mia vita potrò condividere momenti di tale intimità e intensità. Mai proverò l’emozione di un abbraccio d’amore o di un bacio scambiato con il cuore. Tutto intorno a me sarà freddo e austero e senza vita. Sarò circondata dalla stessa atmosfera che ha portato la mamma alla malattia e poi alla morte. O forse no, forse lei è morta perché il suo cuore si è irrimediabilmente spezzato quando mio padre se n’è andato; ma almeno ha conosciuto l’amore. Almeno ha amato ed è stata amata. Almeno ha avuto per sempre con sé una parte dell’uomo che amava. A me tutto questo sarà stato negato. I figli che partorirò altro non saranno che il frutto del dovere e della violenza.
Il viso beffardo di Edmund mi appare davanti in tutta la sua freddezza e ripugnanza e scoppio a piangere. Cerco di trattenere i singhiozzi portandomi la mano davanti alla bocca e mordendo il mio stesso pugno, ma serve a poco.
«Mademoiselle was ist es? Fühlen Sie sich nicht gut?»
Con un gesto brusco e rabbioso mi asciugo gli occhi dalle lacrime e metto a fuoco un viso di donna che mi rivolge uno sguardo preoccupato.
«Io… non parlo il tedesco» balbetto in francese. «Scusatemi, non volevo disturbarvi. Adesso passa. È solo un momento di debolezza.»
La signora sorride con dolcezza e mi prende a braccetto.
«Venite, andiamo a sederci su quella panchina» dice anche lei in francese. «Frederick, per cortesia, ci porteresti una coppa di vino?»
«No, grazie, non è necessario. Sto bene, veramente. Devo tornare in sala. Vogliate scusarmi.»
«Shh, calmatevi. Non potete tornare in sala in quello stato» insiste lei, guidandomi delicatamente. «Adesso mio marito vi porterà qualcosa da bere.»
Mi siedo ubbidiente e guardo l’uomo allontanarsi. Il ricordo della figura di spalle di Hayami-san che va via da me mi invade di nuovo la mente per un attimo, insieme a quello della mia compagna in atteggiamento intimo con il suo cavaliere. Lacrime di tristezza, rabbia e nostalgia salgono a pungermi gli occhi, ma faccio del mio meglio per ricacciarle indietro e riacquistare una parvenza di contegno.
«Avete per caso litigato con il vostro fidanzato?» chiede la donna accomodandosi accanto a me.
«Il mio fidanzato?» Non rispondo subito. Deglutisco prima, cercando di ricacciare giù il groppo che mi è salito alla gola. «Non… non è il mio fidanzato» le spiego mentre una nuova ondata di sofferenza monta velocemente dentro di me e il mio respiro torna a farsi affannoso.
La donna mi squadra con le sopracciglia aggrottate.
«So che forse vi sembrerà folle e che va contro tutte le regole dell’etichetta, ma se aveste voglia di sfogarvi, io vi ascolterò volentieri. È probabile che dopo questa sera non ci incontreremo mai più e tutto quello che vi rimarrà sarà il ricordo di un’estranea che vi ha permesso di alleggerirvi il cuore per qualche ora. Volete?»
La guardo dritto in viso. È molto bella e, anche se non più giovanissima, trasmette lo stesso un’aria di freschezza e allegria. I grandi occhi chiari, incorniciati da lunghe ciglia, hanno uno sguardo franco e premuroso.
«Non so…» rispondo indecisa, ma anche tentata. Ho bisogno di sfogarmi, di raccontare a qualcuno quello che mi si agita nel cuore. La donna stringe leggermente la mia mano e io mi arrendo alla sua simpatia. «All’inizio ho cercato di convincermi che non lo sopportavo, ma era solo paura. Credo di aver capito subito, con il cuore almeno, che qualcosa mi legava a lui. Solo che non volevo e non potevo ammetterlo. Abbiamo origini comuni, ma storie diverse, posizioni diverse e doveri diversi. Eppure… non so come e neppure perché, ma non riesco a scacciarlo dai miei pensieri. E non vorrei lasciarlo andare, vorrei potermi sentire libera di dirgli quello che provo veramente, quello che penso e quello che desidero. Invece non posso e non potrò mai…»
Mentre parlo la dama sconosciuta continua a tenermi stretta e ad accarezzarmi la mano.
«Non sapete quanto vi capisco, mia cara.» Lascia uscire un sospiro, prima di continuare. «Qualche anno fa ero promessa sposa ad un giovane duca di Vienna, ma non lo amavo. Ero innamorata di Frederick, lo ero stata fin dalla prima volta che l’avevo visto, ma credevo che lui non mi ricambiasse. Avevo scambiato la sua correttezza per freddezza e la sua paura per disinteresse, mentre in realtà entrambi ogni giorno, ad ogni incontro, cercavamo di nascondere e negare i nostri sentimenti. Per fortuna avevamo dei buoni amici, uno in particolare, che ha fatto capire a Frederick l’errore che stava facendo e lui è venuto a prendermi. Ero già in chiesa e la cerimonia era già cominciata, ma io l’ho seguito lo stesso. I miei sentimenti per lui erano troppo grandi e profondi per sperare di riuscire a dimenticarli, per cercare la felicità altrove.»
La guardo con gli occhi sbarrati e sto per rispondere quando sento dei passi che si avvicinano. È il cavaliere della mia confidente. Stringe un calice in ogni mano e ne offre uno a me e uno alla sua compagna.
«Grazie» dico dopo aver bevuto un lungo sorso. «Siete stati molto cortesi, ma adesso credo che andrò a cercare i miei zii e li pregherò di riaccompagnarmi in albergo.»
«Pensate a quello che vi ho detto, mia cara. L’amore non deve spaventare ma dare gioia. Non abbiate paura di bruciarvi, perché se anche dovesse succedere non avrete rimpianti, ma solo ricordi.» Mi abbraccia teneramente, poi si alza e mi porge la mano. «Andiamo insieme a cercare i vostri zii.»
«Grazie Madam» le dico, e rivolgendomi all’uomo «e anche a voi Monsieur.»
«Conte Frederick Bransche, al vostro servizio mademoiselle» risponde lui con un sorriso, inchinandosi leggermente mentre i lunghi capelli neri gli ricadono sul viso.

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Capitolo 17
*** Cap. 18 ***


Capitolo 18

Pioggia di primavera
riflessa negli occhi bovini
che non la vedono.

(Konishi Raizan)


«Chi si rivede, a quanto pare vi hanno rimesso a nuovo, eh? Avessi io la vostra fortuna saprei di certo come sfruttarla. Beh, però, a guardarvi bene, sembra che anche voi sappiate il fatto vostro.»
Bene, la vita da sogno trascorsa dall'aggravarsi della malattia è, da ora in poi, davvero da considerarsi passato. La vista per nulla gratificante della padrona di casa, con la sua voce impastata e la mente annebbiata dai fumi dell'alcool mi riporta alla miseria della mia condizione più velocemente di quanto abbiano fatto le stradine sporche, maleodoranti e chiassose che ho attraversato per raggiungere quella che tornerà a tutti gli effetti ad essere la mia casa. O meglio, la stanza umida, fredda e grigia dove tornerò a vivere da oggi in poi. Decido di ignorare la sua provocazione, non ho alcuna intenzione di mettermi a discutere con un’ubriacona.
«Buongiorno Mrs.Griffiths. Sono felice anch'io di vedere che state bene.»
Chiudo la porta e poso i bagagli a terra. Non molti per la verità, sicuramente più numerosi di quando sono partito, in ogni caso.
«Avete portato con voi i bagagli? Pensavo foste venuto a prendere le vostre cose, non a portarle.»
La guardo senza comprendere. Lei fa altrettanto ma la sua mente, a differenza della mia, non è particolarmente lucida.
«Cosa intendete dire? Per quale motivo dovrei essere venuto a prendere le mie cose?»
La megera inizia a balbettare, a disagio, e io fatico a comprendere le poche parole biascicate a mezza voce. Cosa sta succedendo?
«Beh, ecco, non vi siete più fatto vivo per mesi, ed io pensavo che voi... Insomma, quelle persone...»
«Quali persone? Di cosa state parlando?»
La donna cambia improvvisamente espressione, e anche se ubriaca, almeno lei sembra aver trovato risposta alle sue domande. Decido che voglio sapere anch'io, non m'importa se non è sobria abbastanza da essere attendibile. Ad ogni modo, quando mai l'ho vista sobria? Voglio sapere cos'è successo la notte della mia malattia, troppi punti non mi sono chiari. E troppi misteri circondano le mie sorti e la mia ammiratrice. Certo, considerare  Mrs Griffiths la chiave di svolta per risolvere i punti oscuri della mia vita mi sembra quasi uno scherzo del destino, e pretendere troppo. Ma qualcosa sa, e quello che sa lei, lo voglio sapere anch'io. Il fatto che sia ubriaca poi potrebbe, tutto sommato, tornare anche a mio favore. Mi avvicino.
«Alla fine non vi ha voluto, eh? Vi ha rispedito a casa...»
Ma si può sapere di che diavolo sta parlando?
«Io davvero non riesco a comprendere le vostre parole, Mrs Griffiths. Immagino vi stiate riferendo al giorno in cui sono svenuto, al giorno in cui avevo appuntamento con Lord Ash al circolo. A tal proposito vorrei davvero ringraziarvi per esservi presa cura di me, quella notte. Non ho ricordi, ma così mi è stato riferito. Siete stata davvero molto gentile, saprò sdebitarmi.»
Mi fissa con aria interrogativa, e io faccio altrettanto. Poi aggrotta le sopracciglia folte e ingrigite e sembra ricordare qualcosa.
«Ah, già. Mi avete creato un bel po' di trambusto quella notte, sapete? Per fortuna il mattino seguente sono venuti quegli uomini a prendervi, così da evitarmi ulteriori scocciature. Come se non avessi già abbastanza problemi da dovermi accollare anche i vostri.»
Scaccio istantaneamente dalla mia mente l'immagine di Mrs Griffiths china sul mio capezzale, e non ho più alcun dubbio: Ash deve averla pagata profumatamente affinché si prendesse tanto disturbo. Sospiro, e raccolgo i bagagli.
«Quanto vi ha pagata Lord Ash?»
La donna spalanca la bocca, ma non proferisce parola. Mi chiedo che tipo d'uomo possa mai essere suo marito. Non l'ho mai visto.
«Nessuno mi ha dato un penny, lo giuro...»
«Al posto vostro io non lo farei.»
Mi avvio a raggiungere le scale, ma vengo costretto a fermarmi un'altra volta.
«Aspetti Mister Hayami! A dire il vero, io mi riferivo a un'altra questione...»
Mi volto, i bagagli ancora in spalla. Non ho alcuna intenzione di appoggiarli a terra. Voglio solo andare in camera ora, voglio un letto e voglio riposarmi dal viaggio. Mi sento terribilmente stanco, e devo riflettere. Non mi piace l'idea di avere ulteriori debiti con Ash. Lascio andare un sospiro e mi preparo allo sforzo di riuscire a comprendere i ragionamenti annebbiati di Mrs Griffiths..
«Ho affittato la vostra stanza.»
«Cosa avete fatto?»
Mi rendo conto di avere alzato la voce, ma sono furioso. Lascio cadere a terra la borsa da viaggio e in un paio di falcate raggiungo la donna che, istintivamente, cerca protezione dietro lo schienale di una vecchia poltrona.
«Voi eravate sparito... non sapevo niente... la camera era libera...»
«Io vi ho sempre pagato l'affitto, anche durante la mia assenza. Come avete potuto fare una cosa del genere? Con quale diritto...»
«Ad ogni modo se ne andrà a breve, non avete di che preoccuparvi. A quanto pare il vostro coinquilino non ama molto questo posto, sembra che abbia già trovato una nuova sistemazione.»
La fisso con aria truce, e fatico a credere che le parole da lei pronunciate siano vere. Scuoto la testa, allibito.
«Voi siete davvero... dov'è adesso? Chi è? Cosa fa?»
Non aspetto che mi risponda, raccolgo velocemente i bagagli e questa volta mi precipito a salire le scale. Estraggo la chiave dalla tasca e apro la serratura. Non ci posso credere. Davvero qualcuno ha abitato questo posto in mia assenza! Muovo qualche passo all'interno e noto il letto sfatto, soffocando la rabbia e la frustrazione. Noto un baule di cuoio marrone che non mi appartiene ai piedi del letto, è aperto, e colmo di indumenti. Apro istintivamente il mio armadio, ma tutto è in ordine, come lo ricordavo. Tutto sommato, come inquilino non sembra essere troppo invadente, sembra quasi essere entrato nella mia vita in punta di piedi. Almeno questo! Mi passo una mano tra i capelli, incerto sul da farsi. In ogni caso non posso cacciarlo, per cui la prima cosa da fare è cercare un altro letto. Quando tornerà a casa parlerò con lui, e chiariremo la situazione.
 
«E dove volete che lo recuperi io un altro letto? Se mi aveste avvertito del vostro ritorno avrei pensato a qualcosa, ma così, su due piedi...» dice la mia disonesta padrona di casa quando le espongo la mia richiesta.
Mi avvicino minacciosamente, e punto bene lo sguardo negli occhi cerulei e appannati di Mrs Griffiths, che arretra di un passo.
«In questa situazione mi ci avete messo voi, per cui esigo che troviate un letto, e in tempi brevi. Mi arrangerò io a portarlo in camera, in un modo o nell'altro. In caso contrario, sappiate che sono a conoscenza di sufficienti aneddoti sul vostro conto e sui vostri negoziati non troppo puliti. Ma sono sicuro che non mi troverò nella condizione di dover arrivare a tanto, che dite?»
Mi fissa con aria minacciosa, ma la sua espressione ha perso buona parte della precedente presunzione.
«Vedrò cosa posso fare.»
«Bene.»
Torno nella mia stanza, tolgo le lenzuola dal letto, metto al loro posto una coperta e mi ci sdraio sopra. Sono stanchissimo e non tardo ad addormentarmi. Quando mi sveglio è già l'imbrunire, ma del mio coinquilino ancora nessuna notizia. I colpi alla porta, causa del mio brusco risveglio, si fanno più insistenti. Mi alzo con riluttanza, e Mrs. Griffiths mi fa sapere che se voglio posso portare in camera un vecchio divano dalla soffitta. Annuisco, meglio che niente. Sento improvvisamente l'aria della camera farsi pesante, e mi avvicino alla finestra per aprirne le imposte. Com'è diversa l'aria qui rispetto a Genova, o Vienna. Il ritratto! Mi precipito alla borsa da viaggio ed estraggo il disegno regalatomi da Kat, la pittrice genovese. L'avevo incartato con cura, affinché non si rovinasse. Lo apro, e torno alla finestra, dove c'è più luce per osservarlo. Quante volte mi sono perso di fronte a questo ritratto? Troppe, senz'ombra di dubbio. Soprattutto dopo aver incontrato Lady Kitajima a Vienna. Chi se lo sarebbe mai aspettato! Eppure era lì, a pochi passi da me, ed era stata a pochi passi da me anche durante tutto lo spettacolo di Coppelia. Il destino... si può chiamare così? Ci ho pensato spesso, che coincidenza incredibile ritrovarci a Vienna a pochi passi l'uno dall'altro senza nemmeno essersi cercati. Ci siamo semplicemente incontrati, e non l'ho mai sentita così vicina come quella sera. Per la prima volta l'ho sentita abbattere quel muro di ostilità che ci divideva, e abbiamo parlato, abbiamo riso. L'ho baciata.
Sfioro con un dito il profilo di Lady Kitajima disegnato da Kat e il desiderio di poterla rivedere mi assale con prepotenza, insieme ai ricordi sfumati di un sogno che mi ossessiona quasi ogni notte, un sogno in cui la stringo, e nel quale la sento stringersi a me. Mi fa impazzire questa sensazione di averla avuta fra le braccia unita alla consapevolezza che non si tratta che del ricordo di un sogno. Me la fa desiderare ancora di più, mi fa struggere ancora di più. Possibile che mi sia innamorato di lei a tal punto? Non l'ho nemmeno realmente baciata, le ho solo sfiorato una guancia, non ho osato di più. Non perché è fidanzata, non per galanteria, non perché non lo desiderassi. Con un'altra donna, nella stessa situazione, probabilmente l'avrei fatto. Ma con lei no, non ne ho avuto il coraggio. E solo il cielo sa quanto desiderassi farlo! Ma l'avrei ferita, l'avrei allontanata e persa per sempre. Ma neppure io le sono indifferente, lo sento, e questa sensazione di struggente dolcezza e speranza mi fa perdere la ragione. Mi sono allontanato da lei prima di rovinare tutto, prima di cedere alle emozioni, prima di lasciarmi avvolgere completamente dalla magia delle atmosfere in sala, di una città straniera, dell'unica donna che desideravo incontrare. Se solo non mi avesse detto di essere innamorata di Ash...
Sento una morsa aggrovigliarmi lo stomaco e con un gesto di stizza sfilo il laccio che mi tiene legati i capelli, lasciandoli cadere sulle spalle, a coprirmi il viso. Appoggio la fronte al palmo della mano, e sospiro. Gelosia? Davvero sono geloso? Sono arrivato a questo punto? Ho sempre saputo che lei non sarebbe mai potuta essere mia, ma riuscirò davvero ad accontentarmi della sua amicizia? È solo questo ciò che prova per me? Simpatia? Una sorta di solidarietà dovuta alle origini comuni? Che stupido! È innamorata di Ash, lo è sempre stata. È costretta dalle circostanze a sposare Lord Hendrick, - un uomo come Lord Hendrick!- ma il suo cuore è legato ad Ash. Che illuso... come sono stato ingenuo, era così evidente. È tutto così chiaro, così ovvio!
Dei colpi ripetuti alla porta mi costringono a mettere da parte ritratto e pensieri, e ad aprire l'uscio. Mi si presenta di fronte un uomo giovane, all'incirca della mia età, biondo, alto, elegante. Sembra imbarazzato.
«Mister Hayami? Mi chiamo Andrew Randall, e sono il vostro coinquilino. Sono davvero spiacente per l'equivoco che si è creato fra noi, mi avevano detto che voi eravate a conoscenza della mia presenza, e che eravate d'accordo.»
Bene, almeno qualcosa inizia a farsi più chiaro.
«No, a dire il vero non ne sapevo assolutamente nulla, e devo dire che non mi ha fatto particolarmente piacere scoprire di dover dividere la camera con uno sconosciuto. Ma mi hanno anche riferito che avete già trovato una nuova sistemazione, o sono fandonie anche queste?»
Forse sono stato troppo brusco, perché per un istante rimane indeciso sul da farsi, o su cosa dire. Ma non me ne importa. Ho tutto il diritto di essere arrabbiato per la situazione che si è venuta a creare.
«A dire il vero sto ancora cercando, ma non intendo rimanere qui ancora a lungo.»
Mi sposto di lato, e gli faccio spazio per entrare. Mi sorride, ed io richiudo la porta. Ha dormito in questa camera chissà da quanto, eppure adesso sembra sentirsi un intruso e si guarda intorno leggermente imbarazzato. Vorrei essere arrabbiato, ma devo ammettere che mi dispiace per lui.
«Senti, non è con te che sono arrabbiato» cerco di rimediare, accantonando istintivamente le forme di cortesia. «Se ti sei trovato a dover cercare un alloggio come questo non sei messo molto meglio di me, per cui posso comprendere le tue motivazioni. Se mi dai una mano a portare in questa stanza il divano che si trova in soffitta puoi continuare a dormire qui per ora, altrimenti ti cerchi un altro posto e ci pensi tu a risolvere la questione con chi l'ha creata. È il massimo che ti posso offrire.»
Sembra rilassarsi e mi sorride, tendendomi una mano. Noto che i polsini della giacca sono leggermente sgualciti, eppure l'abito è di ottima fattura. Quest'uomo mi incuriosisce. Ricambio la stretta.
«Le prometto che non vi sarò di disturbo ancora per molto, non so davvero come ringraziarvi, signore.»
«Andando a prendere il divano e chiamandomi semplicemente Masumi. Ma prima è meglio per entrambi se andiamo a fare quattro chiacchiere con la signora Griffiths riguardo all'affitto.»
Bene, per ora la questione è risolta. Sono appena rientrato a Londra e già mi ritrovo mille problemi a cui far fronte. I prossimi giorni devo assolutamente incontrare Ash, e risolvere la questione del debito nei suoi confronti. Poi ci sarà lo spettacolo a cui Talbot mi obbliga ad assistere, con quell'attore di cui ultimamente parlano tutti, Jaydon Brodribb, e un nesso che ancora non ho capito bene con il balletto Coppelia al quale abbiamo assistito a Vienna e con l'opera misteriosa di Talbot. E per finire, lunedì la compagnia riapre i battenti, per allestire uno spettacolo di beneficenza. Dopo mesi rimetterò piede su un palcoscenico. Sorrido all'idea, mi sento rinascere. Faccio un cenno con il capo a Randall di seguirmi, e insieme raggiungiamo le scale.
Bentornato a Londra, Masumi!

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Capitolo 18
*** Cap. 19 ***


Capitolo 19

Alzo il capo e vedo
Me coricato
Nel freddo

(Miura Chora)


Edmund è seduto mollemente sulla poltrona e mi sta osservando. Da quando è arrivato, poco prima dell’ora del tè, senza preavviso né invito, non ha fatto altro. I suoi occhi, leggermente arrossati e brillanti di una luce quasi febbrile, mi hanno seguita in ogni movimento. Ho provato a coinvolgerlo in una conversazione raccontandogli il viaggio, ma non ha dimostrato interesse e le uniche parole che ha pronunciato sono state per chiedere del whisky al posto del tè che gli era stato offerto e per mandare Mae a svolgere una commissione. Il suo sguardo fisso su di me mi mette a disagio, vorrei veramente che si congedasse oppure che tornasse l’ammiraglio. Sospiro al pensiero: arrivare addirittura a desiderare la compagnia del mio patrigno, devo essere veramente al limite della disperazione!
«Maya mia cara, mi sembrate un po’ pallida. Vi siete forse affaticata troppo durante la vostra vacanza, oppure è stata la mia lontananza?» mi chiede all’improvviso, la voce appena strascicata e impastata.
Alzo lo sguardo dal fazzoletto che sto ricamando per accertarmi della sua espressione e incontro solo un sorriso di circostanza, tirato e falso come sappiamo entrambi essere le parole che ha appena pronunciato.
«Sto benissimo My Lord» rispondo, calcando sull’appellativo di rispetto nel tentativo, spero non vano, di rimarcare la distanza tra noi e magari spingerlo ad accomiatarsi. Sono stanca e voglio ritirarmi nella mia camera, da sola, e dimenticare per qualche momento che quest’uomo diventerà mio marito. «Deve essere solo una vostra impressione, oppure la poca luce. È quasi ora di cena, ormai.»
«Allora spero che mi invitiate a rimanere. Siete stata via troppo tempo e adesso è vostro dovere occuparvi un po’ di me. Non sono stato neppure la prima persona che avete voluto vedere al vostro ritorno, ma siete corsa a casa di Ash.»
Lo dice con una certa noncuranza, ma non è difficile immaginare l’intento provocatorio nascosto dietro il paravento di una tranquilla conversazione.
«Solo per porgere i miei ossequi alla contessa e poi come lo sap…» Ma non mi dà neppure il tempo di finire e, interrompendomi con un gesto brusco della mano, continua in un tono basso e velenoso.
«Lo so e basta. E la cosa non mi piace. Ve l’ho già detto: siete la mia fidanzata e io non gradisco che intratteniate rapporti con altri uomini. E non venite di nuovo a propinarmi la storiella che siete amici d’infanzia. Non vi permetterò di rendermi ridicolo.»
I suoi occhi freddi non lasciano i miei, e io sento il sangue affluirmi al viso. Sta cercando di spaventarmi, ma non ho intenzione di cedere. Non ho nulla di cui dovermi sentire in colpa o da nascondere. Quasi.
«Ma come vi permettete?» ribatto, cercando di mostrare un tono offeso. «Non vorrete certo insinuare che Lawrence e io…»
«Come vi permettete voi!» ruggisce lui e si alza dalla poltrona rivolgendomi uno sguardo sinistro. «Smettetela di prendermi in giro e di sentirvi superiore solo perché c’è lui alle vostre spalle. Lo so benissimo che è per vederlo che siete andata a casa sua, e non intendo tollerare oltre. Vi ordino di interrompere ogni rapporto con Lord Lawrence Ash da questo preciso momento.»
«Voi mi ordinate?» Non riesco quasi a credere a quello che ho appena sentito. «Voi mi ordinate?! Chi vi dà il diritto di arrogarvi un tale potere? Se anche diventerò vostra moglie, ciò non significa che non potrò coltivare le mie amicizie e i miei interessi.»
Strizza gli occhi riducendoli a due oscuri triangoli e dice piano, scandendo le parole.
«Voi siete mia e sono io a decidere chi saranno i vostri amici e quali saranno i vostri… interessi.» Sembra quasi che abbia sputato fuori l’ultima parola.
«Io non sono vostra!» gli sibilo contro a mia volta, infuriata.
I lineamenti del suo viso perdono in un baleno la compostezza abituale e si deformano in un ghigno cattivo.
«Oh sì, invece» dice appena prima di avventarsi su di me e di schiacciarmi contro la spalliera del divano.
Mi coglie talmente di sorpresa che non reagisco se non quando sento la sua bocca sulla mia e la sua lingua che cerca di farsi strada tra le mie labbra. Inizio a scalciare e a cercare di respingerlo, ma lui è veloce a bloccarmi entrambe le braccia e a tenermi ferma con il peso del suo corpo premuto sul mio. Allontano il viso dal suo e cerco di sfuggire ai suoi tentativi di prendere di nuovo la mia bocca, ma lui mi porta le braccia sopra la testa immobilizzandomi i polsi con una mano mentre con l’altra mi stringe la mascella.
«Stai ferma» dice tra i denti. «Altrimenti ti farai male.»
Le sue labbra tornano a premere sulle mie, che io mi ostino a tenere serrate, e continuo nel frattempo a cercare di scuotermelo di dosso, ma peggioro solo la situazione perché lui mi spinge giù sul divano e mi copre la bocca con una mano, sussurrando vicino al mio orecchio.
«Non urlare oppure interverrà la servitù e la tua reputazione sarà irrimediabilmente compromessa.»
Per un attimo mi immobilizzo e smetto anche di difendermi. Sento il suo ginocchio premere contro le mie gambe fino a che non mi costringe ad aprirle per poi insinuarsi tra di esse finché non incontra la resistenza del mio corpo. Le dita sul mio viso stringono la presa e mi forzano ad aprire la bocca che lui subito invade con violenza. La sua mano scivola lungo il collo e la spalla fino al seno rivelando completamente quelle che sono le sue intenzioni. Inizio di nuovo a scalciare e a cercare di allontanarlo puntando le mani sul suo petto e spingendolo via da me. Si stacca dalla mia bocca.
«Smettila, o finirai per farti male sul serio» dice tra i denti a pochi millimetri dal mio viso. Il suo alito è caldo e sa di whisky e tabacco. Preme di nuovo il suo corpo contro il mio e mi blocca sul divano. Non posso quasi muovermi. Mentre le sue labbra percorrono il mio collo e io gli tempesto di pugni le spalle e mi agito sotto di lui, la sua mano scende lungo il mio fianco e inizia a sollevarmi la gonna. È un attimo. Un’immagine fugace come un lampo e vedo me stessa stesa sopra una chaise-longue mentre un altro corpo si preme sul mio e altre mani mi accarezzano. Raddoppio gli sforzi per liberarmi e gli metto una mano sul viso spingendolo indietro, lui allora mi afferra entrambi i polsi e mi crocifigge, strofinandosi contro di me. Sento la sua mascolinità premere contro la mia coscia e, approfittando dell’opportunità che mi offre la sua bocca di nuovo sulla mia, gli mordo il labbro. E poi urlo. Urlo con tutto il fiato che ho in gola, incurante di quello che penserà la servitù, incurante della mia reputazione e di qualsiasi altra cosa se non il desiderio di non arrendermi a lui. Rimane un attimo gelato e poi si solleva di scatto.
Il suo schiaffo mi gira la testa di lato.
«Sgualdrina» mi soffia in faccia. «Stai pur certa che non finisce qui.»
Quindi si alza e si allontana di qualche passo riprendendo il controllo di sé. La mia guancia pulsa selvaggiamente mentre gli occhi ancora mi lacrimano per il dolore.
«Milady tutto bene?» sento la voce di Stewart dall’altra parte della porta.
I miei occhi tornano a mettere a fuoco appena in tempo per vedere Edmund lanciarmi un bacio sulla punta delle dita e aprire la porta uscendo nel corridoio.
«Il cappello e il soprabito, e sbrigati» dice a Stewart.

La mia mente impiega qualche secondo prima di rendersi conto dell’enormità di quello che è appena accaduto, ma quando succede inizio a tremare e a sudare. Brividi di freddo si alternano a vampate di calore che mi accendono il viso e il collo. Senza neppure riflettere se sia o no la cosa giusta da fare, mi alzo e corro verso le stalle, sperando di trovarvi Akio. Per fortuna è lì che sta martellando qualcosa.
«Akio, prepara subito la carrozza. Io aspetto qui.»
Mi guarda e aggrotta le sopracciglia.
«Maya-sama state bene? Avete un’aria sconvolta… è successo qualcosa?» chiede preoccupato.
«No… sì. Ti prego, Akio, sbrigati.»
«Sì, Maya-sama.»
Ma ci mette troppo, e io non riesco a stare ferma e aspettare pazientemente.
«Non importa» gli grido quasi correndo verso la strada. Tutto quello a cui riesco a pensare è il conforto dell’abbraccio di Lawrence, ma non posso andare da lui. Se venisse a sapere quello che è appena successo sarebbe capace di uccidere Edmund, e io non posso permetterglielo. Non voglio essere la causa della sua rovina. Non ho più visto Lawrence da quella volta a casa di…
Mi fermo in mezzo al marciapiede. Il cuore sembra essermi caduto ai piedi. Le gambe si sono fatte pesanti. Hayami-san! Vienna. Il tocco gentile delle sue labbra sulla mia guancia. Il desiderio. Il senso di vuoto. Le speranze infrante ancor prima di nascere. Hayami-san.
Sbatto le ciglia per impedirmi di scoppiare a piangere in mezzo alla strada. Chiudo gli occhi cercando di pensare, ma li riapro all’istante. Immagini ancora fresche dell’aggressione subita vorticano insidiose appena sotto la superficie e il cuore riprende a battermi frenetico nel petto. Mi cade lo sguardo sul mio viso riflesso nel vetro di una finestra e capisco di non avere altra scelta. Penserò a una scusa. Inventerò qualcosa che non comprenda Edmund, ma ho bisogno del sostegno e dell’affetto di Lawrence; ho bisogno di aprirgli il mio animo e raccontargli almeno di Hayami-san.
Mi guardo intorno riconoscendo immediatamente la via. Pur senza volerlo sono corsa verso casa sua. Forse la ragione mi diceva altrimenti, ma il cuore mi ha guidata verso l’unico rifugio sicuro che conoscesse.
Poi li vedo.
Lawrence e Mister Hayami stanno scendendo gli scalini della residenza londinese dei duchi di Kerrigan. Senza neppure darmi il tempo di ricompormi, mi precipito verso di loro, verso di lui, come se fossi trascinata da una forza incontrastabile.
«Hayami-san!»
Lui si ferma e si gira lentamente verso di me, gli occhi spalancati per lo stupore. Non voglio sapere niente, non mi importa di niente. Mi lancio verso di lui, le gambe che mi tengono a malapena e mi aggrappo al suo braccio.
«Milady…» lo sento deglutire. «Milady, siamo in mezzo alla strada.»
«Non importa.»
Lo sento irrigidirsi.
«Maya!» La mano di Lawrence si posa protettiva sulla mia spalla e mi allontana Hayami-san. «Maya, cosa è successo? Perché…» si ferma all’improvviso e mi sfiora gentilmente la guancia. Stringe gli occhi e mi attira verso di sé. «Chi è stato Maya? Cosa è successo?» dice, stringendomi il polso fino a farmi quasi male.
«Niente, solo un incidente. Non è niente, veramente» cerco di mentire. Ma non devo essere tanto convincente, perché lui continua a fissarmi con uno sguardo severo e la bocca stretta in una linea sottile. Distolgo lo sguardo dal suo, imbarazzata.
«Entriamo e raccontatemi tutto» dice infine. Poi si avvicina a Mister Hayami e gli appoggia familiarmente una mano sulla spalla. «Scusatemi signore, ma credo che dovremo rimandare ancora una volta la nostra cena. Spero capiate.»
«Non preoccupatevi, capisco benissimo» risponde l’altro. Lo vedo stringere i pugni e poi distendere di nuovo le dita, prima di alzare il mento e rivolgermi uno sguardo duro. «Addio milady» mi saluta rigido.
Gira le spalle a entrambi e si incammina. E io capisco di aver commesso un errore. Nella mia follia d’amore avevo immaginato, sperato, voluto credere che condividessimo gli stessi sentimenti, invece la sua è solo naturale cortesia. Il rossore intenso apparso sulle sue guance quando mi sono quasi gettata su di lui è stata solo la dimostrazione del suo imbarazzo. Chiudo gli occhi e irrigidisco le spalle. Se paragonata a questo, la brutta avventura con Edmund si perde nella nebbia. Sento un’oppressione al petto che si fa sempre più forte fino al punto di farmi dubitare di riuscire a mai respirare ancora. Le viscere sembrano diventate di piombo e tutto quello che vorrei fare è lasciarmi cadere a terra e sperare che questa si apra ad accogliermi. È la seconda volta in poche settimane che vedo la sua schiena allontanarsi da me e non sono sicura di quello che provo. Vorrei trovare un modo, anche solo uno, per liberare le mie emozioni, ma non riesco neppure a piangere. Sento solo una terribile desolazione. E rabbia.
La mano di Lawrence si posa gentilmente sulla mia spalla.
«Andiamo Maya» mi dice, spingendomi verso la porta d’ingresso.
Mi fa accomodare in biblioteca e dice a una cameriera di portare del tè e di assicurarsi che nessuno ci disturbi. La ragazza aggrotta le sopracciglia e apre la bocca come per dire qualcosa, ma poi sembra cambiare idea e si chiude silenziosamente la porta alle spalle.
Lawrence avvicina l’altra poltrona e mi siede davanti, poi prende le mie mani tra le sue e le stringe. Sono calde e rassicuranti, così come caldo e pieno di affetto è il suo sguardo. Le lacrime che prima non riuscivano a trovare una via d’uscita ora si presentano esigenti ai miei occhi.
«Oh, Lawrence… pensavo che non voleste più saperne di me dopo quello che è successo. Sapeste quante volte mi sono rimproverata…»
«Shhh,» dice lui «adesso non ha più importanza. Dimenticatelo. Volete dirmi, piuttosto, che cosa è successo? Avete un aspetto a dir poco scarmigliato e un’espressione sconvolta.»
«Io… niente di grave, veramente. Avevo solo bisogno di parlare con voi e allora sono corsa via da casa, senza fermarmi a pensare, e poi… poi… lui… non pensavo di… trovarlo qui» concludo in fretta.
Lawrence aggrotta le sopracciglia.
«Parlate di Mister Hayami? Siete corsa fra le sue braccia non appena lo avete visto. Fra le sue, non fra le mie. Lui… è importante per voi, vero?»
Lo guardo dritto in viso: la fronte alta, i lunghi capelli neri, le sopracciglia folte, gli occhi di un verde talmente intenso da assomigliare a quello dei prati estivi, gli zigomi marcati e la bocca gentile. Posso mentirgli su Edmund, ma non su questo. Non sui miei sentimenti.
«Sì, Lawrence. Molto importante.»
«Venite qui» dice sporgendosi verso di me per abbracciarmi. D’istinto mi ritraggo e lui mi lancia uno sguardo stupito restando con le braccia protese. Ma so bene di non aver nulla da temere da Lawrence, così con un sospiro mi avvicino e mi lascio avvolgere dal calore del suo affetto. «Calmatevi adesso, e raccontatemi che cosa è successo. Vi conosco troppo bene per credere che non vi sia capitato nulla.»
Un tocco alla porta e la cameriera rientra con il tè. Lawrence la ringrazia e la segue con lo sguardo mentre torna verso la porta e se la chiude alla spalle, quindi si alza, gira dietro alla scrivania e prende una bottiglia da un cassetto. Ne versa una piccola quantità in una delle due tazze e me la porge.
«Bevete questo, vi aiuterà.»
Ubbidisco senza fiatare, ma quando avvicino la tazza alle labbra l’odore bruciante dell’alcol mi fa arricciare il naso. Lawrence si lascia sfuggire una risatina.
«È il miglior whisky della Scozia, Maya, non vi è concessa nessuna espressione disgustata.»
Sorrido anche io, e trangugio il contenuto tutto d’un fiato. Sento una scia di fuoco scavarmi la gola fino allo stomaco e inizio a tossire, ma piano piano un calore piacevole prende il posto del bruciore intenso e comincio a sentirmi meglio. Appoggio la testa all’indietro sulla pelle morbida della poltrona e chiudo gli occhi, cercando di trovare il coraggio di parlare.
Le dita di Lawrence mi sfiorano delicatamente la guancia offesa, prima di fissarmi una ciocca di capelli dietro all’orecchio, e io prendo la sua mano tra le mie e appoggio il viso sul suo palmo.
«Edmund ha cercato di usarmi violenza, ma non c’è riuscito.» Lo sento sobbalzare e stringo ancora di più la presa sulla sua mano. «Sono corsa subito qui perché non sapevo a chi altri rivolgermi. Voi siete la persona che mi è più vicina, che mi è sempre stata più vicina oltre alla mamma. So che non sarei dovuta scappare» continuo poi tutto d’un fiato, gli occhi fissi nei suoi «ma mi ha colta di sorpresa. Pensavo di avere tempo fino a dopo il matrimonio, ma so benissimo che è questo ciò che mi aspetta. È solo che… solo che… non lo so neanche io, Lawrence. Adesso che ho riconosciuto questo sentimento per Hayami-san, non riesco più ad accettare la mia sorte con la sottomissione di prima.»
Lawrence distoglie lo sguardo e si alza. Va alla scrivania e si versa una dose abbondante di whisky. Lo butta giù in un solo sorso, poi scaglia il bicchiere in terra e sbatte un pugno sul piano in legno.
«Lo ammazzo. Giuro che lo ammazzo!»
«No!» quasi gli urlo, alzandomi. «Non voglio che vi compromettiate. Promettetelo! Promettetemi che non farete niente di stupido che possa allontanarvi da me!» Poi proseguo con più calma. «Pensateci bene, adesso o dopo cosa cambia? Lo sapete bene quanto me che, comunque, prima o poi dovrò giacere con lui. Ve lo ripeto: mi ha solo colto di sorpresa ma so quali saranno i miei doveri di moglie.» Lui continua a darmi le spalle e a tenere i pugni serrati, allora mi avvicino e lo abbraccio da dietro, appoggiando il viso alla sua schiena. «Lawrence, non potete difendermi da quello che è il mio destino, dalla società, dalla mia vita. Semplicemente non potete.»
Appoggia una mano sulle mie e si slaccia dal mio abbraccio, quindi torna a sedersi sulla poltrona prendendosi la testa tra le mani.
«Non posso, Maya? Io… non riesco a non pensare a quello che ha cercato di farvi. Come potete anche solo pensare di difenderlo? Vi ha picchiata, Maya! Se non vi rispetta adesso che siete solo la sua promessa, come pensate che possa farlo dopo, quando sarete sua a tutti gli effetti?» mi chiede con rabbia. «Non posso lasciare che vi faccia quello che vuole. Dio Maya, siete ancora così innocente, ma non è così che dovrebbe comportarsi un gentiluomo. Non è così! Vorrei che provasse le stesse sensazioni… vorrei strangolarlo con le mie mani.»
La voce è rotta e capisco che sta piangendo. Mi inginocchio davanti a lui e inizio ad accarezzargli la testa.
«Statemi vicino Lawrence. Non fate delle sciocchezze per vendicarmi, statemi solo vicino e io saprò affrontare tutto ciò che mi aspetta a testa alta. Ve ne prego, non fate niente che possa allontanarvi da me.»
«Oddio Maya!» dice lui prima di stringermi in un abbraccio che mi toglie il respiro. «Cosa ne sarà di noi?»

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Capitolo 19
*** Cap. 20 ***


Scusate il ritardo, ma impegni lavorativi mi hanno tenuta lontana :)

Capitolo 20

 
 

Lontano e vicino si ode
crosciar di cascate
tra foglie cadute.
(Masaoka Shiki)

 
 
 

«Dovresti parlarle.»
Apro gli occhi e vedo Randall chiudere il libro che stava leggendo alla luce fioca di una candela, posarlo sul tavolo e fissarmi.
«A chi ti riferisci?»
«Alla donna a cui stai pensando.»
Volto anche il capo nella sua direzione, e nel farlo infilo un braccio tra la nuca e il cuscino sul letto.
«E cosa ti fa credere che io ti stia pensando a una donna?»
Randall si lascia fuggire una risatina, e nel farlo accavalla con grazia le gambe allontanandosi appena dal tavolo.
«Andiamo Masumi sono un ex soldato, ne ho visti a decine di uomini nella tua situazione. Riconoscerei quello sguardo e quel cipiglio anche se fossi cieco, e ti assicuro che non lo sono.»
Mi alzo dal letto accompagnato da un fastidioso cigolio delle reti, prendo una tazza e mi verso una dose generosa di whisky dalla bottiglia lasciata aperta sul tavolo. Noto che la tazza di Randall è ancora piena e penso che il mio coinquilino ha davvero uno strano modo di bere i liquori: sembra volerli centellinare, sorseggiandone piccole quantità in un lasso di tempo piuttosto esteso.
«Non c'entra una donna, sono semplicemente un po' stanco. Probabilmente mi porto ancora addosso strascichi della polmonite.»
Randall osserva il liquido ambrato nella sua tazza sbeccata, la ruota un poco e dà una leggera scrollata di spalle a precedere le sue parole.
«Va bene, come preferisci. Non volevo essere invadente, scusami. È solo che mi dispiace vederti così: assorto, malinconico, distratto. Sei mai stato a uno zoo, Masumi?»
Ora sono io a fissare lo sguardo su di lui, ma non sembra scomporsi troppo.
«Uno zoo?»
«Sì. Sembri un leone in gabbia. Irrequieto anche quando se ne sta sdraiato tranquillo sul suo pagliericcio. Gli occhi non mentono Masumi, non lo fanno mai.»
Sospiro, afferro la spalliera di una sedia e prendo posto al tavolo, di fronte alla figura incuriosita e in penombra di Randall. Appoggio un gomito sul legno scuro e graffiato, e inclino un poco il capo per passarmi istintivamente una mano fra i capelli.
«In realtà è successa una cosa del tutto inaspettata oggi pomeriggio, qualcosa che mi lascia da pensare, senza che, tuttavia, riesca a trovare risposte.»
Randall rimane in un silenzio rispettoso. È stato così fin dal nostro primo incontro: un rispetto reciproco che nulla ha a che vedere con la formalità e che lentamente, giorno dopo giorno, si sta trasformando in amicizia. Piccoli passi, piccole cortesie, qualche piccola confidenza in più, una parola...
«Sono andato a trovare un amico» rifletto un istante e decido che sì, posso chiamarlo così «per chiarire una questione a causa della quale mi sentivo particolarmente in debito verso di lui… ma non è una situazione semplice. Ci sono dei momenti in cui vorrei poterlo detestare, ma la stima che provo nei suoi confronti e l'amicizia che mi ha offerto senza pretendere nulla in cambio mi impediscono di provare questo genere di sentimenti. Sono combattuto, e la cosa peggiore è che da ogni fronte ne esco perdente.»
«Perché vuoi odiarlo, allora?»
«In realtà non lo odio. Lo invidio.»
Randall incrocia le braccia sul petto e allunga le gambe sotto il tavolo, reclinando appena il capo di lato, e mi scruta con il suo sguardo chiaro e comprensivo. Lo ricambio.
«Lui ha qualcosa, anzi qualcuno, che a me sarà precluso per sempre. Vorrei non averla mai incontrata!» dico abbassando la testa sulle braccia.
Randall si china leggermente in avanti, e mi posa una mano calda sulla spalla, in un gesto confidenziale, un poco cameratesco.
«La tua non è invidia, amico mio, è gelosia.»
Dei colpi pesanti e scomposti battuti alla porta della nostra camera ci fanno voltare di scatto, sorpresi. Ci guardiamo un istante, interrogandoci a vicenda.
«Aspetti qualcuno?»
Randall scrolla le spalle e il capo, e i colpi si ripetono, con insistenza. Una voce maschile alterata e impastata chiama il mio nome così mi alzo, e vado ad aprire.
«Ash, ma cosa...»
Lawrence Ash si sostiene a stento con un braccio sullo stipite della porta, è palesemente ubriaco e sembra faticare anche solo a mettermi a fuoco. Ciondola pericolosamente su un lato, e io mi affretto a sostenerlo prima che perda del tutto il poco equilibrio che sembra essergli rimasto.
«Hayami... siete a casa... ho bisogno... di voi...»
«Randall dammi una mano per favore, non si regge in piedi.»
Randall è già al mio fianco, prima ancora che finissi la frase aveva già passato un braccio di Lord Ash sulla sua spalla, e insieme lo accompagniamo a crollare sulla sedia più vicina.
«Siete ubriaco fradicio, non sembrate nemmeno voi. Vado a chiamare una carrozza che vi riporti a casa.»
«No, sto... sto bene.»
Ha la voce impastata, ma a guardarlo bene sembra sconvolto.
«Cosa vi è successo, Ash? »
«Perdonatemi, ma direi che per stasera avete già bevuto abbastanza.»
Randall allontana la bottiglia dal tavolo prima che la presa insicura di Ash la raggiunga, e questi gli lancia un'occhiata irosa, ma un istante dopo sembra già aver dimenticato la sua presenza.
«L'ho minacciato di morte... ero furioso... lo avrei ucciso in quello stesso istante... invece devo aspettare fino a domani mattina.»
Ricambio preoccupato l'occhiata sconcertata di Randall, afferro una sedia e prendo posto di fronte ad Ash, i gomiti posati sulle ginocchia, il busto proteso verso di lui.
«Ditemi cos'è successo Ash. Chi avete minacciato? Per quale motivo?»
Lord Ash, di norma così compassato, gioviale, acuto, sembra essere ora sull'orlo della disperazione. Si prende la testa tra le mani e lascia sfuggire un paio di singhiozzi.
“Hendrick. Quel verme ripugnante e disgustoso, quella feccia della società, quell'essere spregevole e abbietto, quel... Non posso sopportarlo, non posso.»
Una lacrima gli si forma all'angolo delle palpebre chiuse e un terribile sospetto inizia a farsi strada tra i miei pensieri confusi. Lo assalgo quasi.
«Cos'è successo Lord Ash! Ditemelo, devo sapere!»
Randall alza stupito gli occhi nel sentire il titolo, ma non dice nulla. Rimane seduto sul divano che gli funge da letto, e leggo sul suo volto l'indecisione sull'opportunità o meno di lasciare la stanza. Gli chiedo di rimanere.
«Quell'uomo non può sposare Maya, non la mia Maya...»
Gli afferro una spalla e lo scuoto leggermente. Mi fissa con i suoi occhi verdi alterati dall'alcool e dalla disperazione, e io sento una rabbia sorda salirmi con prepotenza alla testa.
«Che cos'ha fatto Hendrick a Lady Kitajima? Che cosa le ha fatto, Ash?»
Sospira forte, e abbandona il capo sulle braccia incrociate mollemente sul tavolo.
«Lo avrei ucciso, lo giuro. Lo avrei fatto davvero se solo non fossimo stati in pubblico.»
«Ash!»
«Ha cercato di usarle violenza... alla mia Maya... quell'essere spregevole ha cercato...»
Stringe forte i pugni e io lo afferro con prepotenza per il bavero della camicia immacolata. Mi rendo vagamente conto di avere anche iniziato a scuoterlo.
«Dov'è adesso?»
Ash mi fissa con occhi vuoti, e io ripeto quasi urlando la domanda.
«Dov'è, Ash? Ditemi dove lo avete lasciato!»
Randall mi si avvicina a grandi falcate, mi posa con decisione una mano sulla spalla ma io la allontano con rabbia.
«Calmati Masumi. Perdere la testa non ti sarà di alcun aiuto in questo momento.»
«La cosa non ti riguarda Randall.» Gli sibilo le parole con più astio di quanto vorrei trasmettere, ma lui non indietreggia. Punta gli occhi nei miei, uno sguardo tranquillo, ma fermo.
«No, ma tu sei mio amico. E non ti permetterò di fare sciocchezze.»
Torna a posarmi la mano sulla spalla incitandomi a lasciare la presa e questa volta non oppongo resistenza. Ash non ha avuto alcuna reazione, è semplicemente rimasto a fissarmi con sguardo lontano, assente, senza sorpresa alcuna. Appoggio i palmi sul tavolo, chino la testa e chiudo gli occhi.
«È per questo che è venuta a cercarvi oggi pomeriggio, Ash? È per questo che era così sconvolta?»
Non mi risponde, ma accenna brevemente un sì con il capo. Afferro la bottiglia di whisky allontanata dal tavolo da Randall e verso una dose generosa di spirito nella tazza. Ho bisogno di qualcosa di forte, e subito. Comprendo perfettamente Lord Ash. Ucciderei Edmund in questo stesso istante, a mani nude se solo me lo trovassi di fronte. Ha ragione Randall però, non posso perdere la testa. E non ho alcun diritto a nessuna minaccia, o a nessuna vendetta. Mi sento impotente, ed è una sensazione che fatico a digerire.
«Come sta Lady Kitajima?»
La domanda è troppo diretta, me ne rendo conto. Ma questa sera abbiamo messo da parte ogni formalità, e siamo solamente due uomini impotenti di fronte alla stessa rabbia, e allo stesso dolore.
«E come dovrebbe stare?» Biascica le parole, il calore del camino nella parete accanto alla porta deve aver accentuato l'effetto dell'alcool nel suo corpo. Solleva appena il capo ma deve girargli la testa, perché torna ad abbandonarlo senza forze sul tavolo. «Ha una forza d'animo invidiabile, ma la cosa peggiore è che sembra rassegnata a tutto questo, sembra rassegnata al peggio. La mia Maya, costretta a pagare per colpe non sue... e io...»
Sento di nuovo la rabbia salirmi dentro, unita a un senso di frustrazione peggiore di qualunque tortura. Inizio a camminare per la stanza in preda all'ira, scagliando pugni sulle pareti, sul tavolo, sull'anta dell'armadio improvvisamente apertasi al mio passaggio.
«Ma non posso lasciarla così, non posso... io... la sposerò.»
Raddrizza il busto, e io lascio cadere a terra la tazza ormai vuota. Fisso quegli occhi velati e tristi, senza comprendere né assimilare quelle parole.
«Siete ubriaco Ash, parlate a sproposito.»
Sono sconvolto, non riesco a mettere a fuoco il turbinio di pensieri che mi si accavallano disordinati nella mente.
«E cosa dovrei fare secondo voi? Lasciarla a quell'essere abominevole? Avete alternative migliori della mia da offrirle?»
Quelle parole mi colpiscono come un pugno al centro dello stomaco, mi feriscono e mi tolgono il fiato. Smetto di respirare.
«No. Non le ho. Anzi, penso sia la soluzione migliore. Per entrambi.»
Sussurro appena le ultime parole, rendendomi vagamente conto che la rabbia, nella mia testa, ha lasciato improvvisamente il posto a un'indefinibile sensazione di frustrazione mista a disperazione.
Ash ride nervosamente, e prova ad alzarsi maldestramente dal tavolo. Lo vedo barcollare, e istintivamente mi avvicino a sorreggerlo ma Randall è più veloce di me.
«È meglio che vi risediate, Lord Ash. Vi porto un bicchiere d'acqua, immagino abbiate sete.
Vedo Ash accettare senza indugio l'aiuto di Randall, lo vedo abbandonarsi a lui. Solo da ubriaco può mostrare un simile atteggiamento, e Randall sembra non farci caso. Noto una piccola ombra nello sguardo del mio amico però, e non ne comprendo la ragione. Scuoto amaramente il capo e torno a sedermi, portando le mani a coppa a coprirmi il naso, e la bocca.
«Che ironia la vita, non è vero amico mio?» Ash riprende a parlare in modo sconnesso, e non comprendo quanto possano essere lucide le sue parole. Mi guarda, ma sembra non vedermi. «Sapevo che prima o poi mi sarei dovuto sposare, ma non immaginavo così presto. Anche se Maya è l'unica donna che non avrebbe a soffrire dal nostro matrimonio. Ma chi l'avrebbe detto?»
Reclina il capo all'indietro e torna a ridere in modo innaturale. Più che una risata sembra un pianto che non trova altri modi di venire espresso se non camuffandosi d'ironia. «Farei qualunque cosa per portarla via dalla vita infelice che l'aspetta, qualunque... anche sacrificare la mia se fosse necessario. È così difficile essere apprezzati per quello che si è, e Maya lo fa pur sapendo tutto, di me. Io glielo devo, per il bene che le voglio, e per il bene che lei vuole a me. Glielo devo...»
È ubriaco, sono parole sconnesse. Alzo il volto e lo fisso rassegnato, non trovando le parole adatte a sostenere la situazione, perché quelle che vorrei dire mi fanno male. Ma le lascio uscire comunque, in un sussurro consapevole e rassegnato.
«Lady Kitajima vi ama, Ash.»
È doloroso ammetterlo a voce alta, ma corrisponde al vero. L'ho sentito, l'ho visto. Ma fatico ancora ad accettarlo. Scoppia a ridere, ma è una risata amara, che mi colpisce al cuore.
«Chi può definire l'amore, Hayami? Certo che mi ama, come io amo lei. Non è così che dovrebbero andare le cose? Un matrimonio fra noi non sarebbe la soluzione migliore?»
Non posso che annuire, quando in realtà mi sento morire.
«Non la lascerò mai ad Edmund, cascasse il mondo non gli permetterò di farle questo.»
La rabbia sembra fargli riprendere un poco la ragione. Torna di nuovo ad alzarsi, e io mi alzo con lui. Chiude gli occhi un istante, forse nel tentativo di fermare il mondo che gli ruota intorno, poi li riapre su di me, ma gli vedo uno sguardo spento, e terribilmente triste. Sembra voler mettere a fuoco un pensiero, perché aggrotta leggermente le sopracciglia scure.
«Il motivo per cui ero venuto... dopo la nostra conversazione di oggi pomeriggio...»
Aspetto. Sono ancora sconvolto, ma lui sembra ripensarci.
«Perdonatemi Masumi, ne parleremo un'altra volta. Ora devo andare, la mia carrozza dovrebbe essere ancora qui ad aspettarmi.»
Prova a muovere qualche passo ma le gambe non sembrano voler seguire la volontà degli intenti. Barcolla un istante e socchiude gli occhi, probabilmente nel tentativo di trovare un punto fermo nella stanza che immagino vorticargli fastidiosamente intorno. Ci precipitiamo entrambi, io e Randall, un balzo istintivo per sorreggerlo mentre crolla pesantemente e ad occhi chiusi sul mio letto. Un leggero russare costringe me e Randall a scambiarci un'occhiata interrogativa.
«E adesso che facciamo?»
Fisso Ash un istante, poi mi chino e inizio a sfilargli gli stivali in pelle lucida dai piedi.
«Non abbiamo molta scelta, mi pare. In ogni caso, questa notte non credo che avrei chiuso occhio.»
Mi volto, e trovo gli occhi di Randall pensierosi e fissi sul mio viso.
«Mi dispiace, non volevo coinvolgerti in tutto questo» gli dico.
Ci impiega un po' a rispondermi, mi aspettavo un cenno, qualunque cosa, ma non quel silenzio.
«Non pensavo che le cose stessero in questo modo. Sono io a chiederti scusa.»
Rimaniamo in silenzio per un po', ognuno chiuso nei propri pensieri. Mi siedo alla finestra, nello spazio ampio e freddo del davanzale. La luce soffusa della candela crea riflessi tremuli e mi impedisce di fissare lo sguardo nel buio oltre il vetro appannato. Sento una rabbia sorda risalirmi prepotentemente dalle viscere ma stringo i denti e cerco di controllarla. Incontro gli occhi riflessi di Randall sul vetro e ci fissiamo a lungo.
«Hai sentito tutto. Sono innamorati, è la soluzione migliore un matrimonio fra loro, è una soluzione per tutti.»
Ora è lui a versare una dosa generosa di whisky nel bicchiere, e a fissarla assorto.
«Già. O almeno, così pare.»
 

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Capitolo 20
*** Cap. 21 ***


Capitolo 21

 

Durante la notte
ascolto il vento d'autunno
rodere le colline.
(Matsuo Basho)

 
L’aroma amaro del tè mi avvolge regalandomi un attimo di piacevole aspettativa. Mi crogiolo ancora qualche secondo nel tepore delle coperte prima di aprire gli occhi sulla penombra della stanza; Mae non ha ancora aperto le tende ma qualche spiraglio di luce filtra lo stesso attraverso lo spesso tessuto broccato e il fuoco appena ravvivato getta un bagliore incerto sui mobili e sui quadri alle pareti.
«Buongiorno milady. Preferite che vi porti il vassoio a letto oppure vi alzate?»
Mi concedo un attimo di indecisione, poi sospiro e mi sollevo rabbrividendo nell’aria frizzante della stanza. L’autunno è ormai inoltrato e le notti sono diventate fredde; tra pochi giorni ci trasferiremo a Dubose Manor per l’inverno e questa casa verrà chiusa fino alla prossima primavera.
«Mi alzo Mae, grazie.»
Lei prende la vestaglia dalla sedia e me la porge aspettando che scenda dal letto. La indosso poi prendo la tazza di tè già versato e la stringo tra le mani, godendo del calore che mi trasmette. Mi avvicino alla finestra e guardo fuori, verso il giardino avvolto dalla nebbia. Le sagome degli alberi si distinguono a malapena ma un pallido riflesso biancastro in alto sembra voler penetrare il grigiore e mi fa pensare che forse la giornata sarà allietata da qualche raggio di sole.
«L’ammiraglio vi attende nel suo studio, appena sarete vestita» dice Mae alle mie spalle, interrompendo il corso dei miei pensieri.
«Nel suo studio? Ne sei sicura?»
«Sì, milady. È stato lui stesso a dirmelo.»
Mi chiedo se sia venuto a sapere di quanto è successo l’altro ieri. Ma chi potrebbe averlo informato? Nessuno tranne me, Lawrence ed Edmund lo sanno. Al solo pensiero di Edmund vengo scossa da un brivido involontario e mi lascio sfuggire dalle mani la tazza che cade sul tappeto con un rumore sordo rovesciando il poco tè rimasto. Fisso la macchia umida che si va formando e aggrotto le sopracciglia nel tentativo di impedire alle immagini di riaffiorare dal pozzo in cui le ho confinate.
«Milady vi siete bruciata?» mi chiede Mae apprensiva, avvicinandosi con una salvietta.
Le mani mi stanno ancora tremando, ma cerco di recuperare la calma.
«No, stai tranquilla» rispondo in un sospiro. «Prendimi l’abito blu. Andrò subito a sentire cosa vuole l’ammiraglio.»
Meglio togliersi subito il pensiero; è inutile stare qui a lambiccarsi il cervello, e probabilmente non sarà neppure qualcosa di importante, forse vuole solo discutere dei preparativi per la prossima partenza.
Mae mi aiuta a indossare la camicia e il corsetto, poi mi allaccia sulla schiena il vestito di lana blu.
«Mentre parlo con l’ammiraglio tieni in caldo la colazione, Mae.»
«Sì milady, ma mangiate almeno una fetta o due di pane tostato mentre vi pettino.»
 
Busso alla porta dello studio con il cuore in gola, e un brutto presentimento nell’animo.
«Avanti» mi invita a entrare la voce sicura del mio padrino.
«Buongiorno ammiraglio. Desideravate parlarmi?»
«Sì mia cara, sedetevi. Ho una brutta notizia da darvi» dice alzandosi e rivolgendomi uno sguardo penetrante. «Ho appena ricevuto un biglietto dalla contessa di Middleborough…» ha, stranamente, un attimo di incertezza, ma poi prosegue sicuro, il tono di voce piatto e incolore di chi è abituato a comunicare cose spiacevoli e non si lascia coinvolgere.«Dice che il vostro fidanzato ha avuto un incidente di caccia. È ferito piuttosto gravemente e la contessa richiede la vostra presenza al suo capezzale.»
Sento il sangue defluirmi dal viso e il respiro morirmi in gola.
Un incidente di caccia… ferito… capezzale.
Queste parole riecheggiano ininterrottamente nelle mia testa, ma faccio fatica a dar loro un senso compiuto. Guardo verso l’ammiraglio nella speranza che mi aiuti a capire, ma il suo viso è impassibile.
«Devo… devo andare?» gli chiedo non tanto per avere una conferma, ma perché proprio non riesco a pensare chiaramente.
«Vi accompagnerò io» dice ricambiando il mio sguardo, «ma prima fate colazione. È sempre meglio affrontare le brutte situazioni con lo stomaco pieno» conclude con la sua abituale praticità. E io, per una volta, sono grata per questo aspetto così burbero e freddo del suo carattere. Non sono sicura che sarei stata in grado di sopportare troppe attenzioni.
Mi alzo dalla poltrona e torno di corsa in camera. Spalanco la porta e sbattendomela alle spalle mi precipito verso la bacinella nell’angolo accanto al camino. Mi aggrappo ai manici in ferro e vomito.
«Milady» urla Mae afferrandomi i capelli e scostandomeli dal viso. «Cosa è successo, milady?»
Non le rispondo ma scoppio in una risata incontrollata mentre il sapore salato delle lacrime si mischia a quello acido della bile. Non so come, ma ho la certezza che non si sia trattato di un incidente di caccia. Dentro di me so che è stato Lawrence, e la paura per la sua sorte mi rende quasi isterica. Solo dopo qualche minuto riesco a calmarmi e prendo qualche sorso di tè dalla tazza che Mae ha posato sulla toeletta.
«Lord Hendrick è ferito e sta male. Devo andare» spiego alla fine. «Ma prima ho una lettera da scrivere. Poi penserai tu a farla recapitare, va bene?»
Mae annuisce, guardandomi con gli occhi neri sbarrati.
 
Il conte ci raggiunge nel suo studio. È molto pallido, ha la barba lunga e indossa ancora la veste da camera, segno che la notizia lo ha colto ancora a letto e che non ha avuto il tempo di cambiarsi. Ci fa segno di accomodarci e va immediatamente a versarsi una dose abbondante di liquore da una caraffa già quasi vuota. Beve in un solo colpo quasi tutto il contenuto del bicchiere e poi si gira verso di noi.
«Grazie per essere venuti subito» dice guardando prima me e poi l’ammiraglio. «Il dottore è andato via da poco, anche se ha detto fin dall’inizio che non è in pericolo di vita.» Si ferma per guardarsi le mani strette a pugno e apre la bocca come per continuare, ma sembra ripensarci e la richiude in una piega amara.
«Come è successo? E dove?» chiede l’ammiraglio con una nota ambigua nella voce.
Il conte alza la testa e lo guarda dritto in viso, aggrottando le sopracciglia. Sospira e piega leggermente le labbra in un mezzo sorriso tirato.
«C’era da immaginare che non ci avreste creduto» sospira. «È inutile mentire anche con voi, confido che non sia nei vostri interessi denunciarlo.» Prende un respiro profondo e poi lascia uscire tutto d’un fiato: «Sì è trattato di un duello. Questa mattina presto… ma non vuole dire contro chi e soprattutto perché.»
Lo guardo incredula.
Un duello?
No, ti prego, tutto ma non questo. Questo no!
Stringo convulsamente l’abito e deglutisco.
«…milady, state bene?»
«Eh, sì sì. Scusate… solo che non mi aspettavo questo… e come … come…» Come sta Lawrence? vorrei chiedere, ma so benissimo di non potere. «Anche l’altra persona… è ferita?» Lo guardo implorante, anche se in verità vorrei alzarmi e scuoterlo per farmi raccontare tutto, ma lui prende tempo portandosi di nuovo il bicchiere alle labbra. Non mi importa niente di Edmund, sapere che è vivo e che non rischia la vita per colpa mia basta già ad acquietare il mio spirito cristiano. Ma ho bisogno di sapere come sta il mio Laurie!
«Ehm! Non lo sappiamo… non vuole dirlo!» dice il conte esasperato. «Capisco la vostra preoccupazione, milady. Provate voi a farlo parlare, magari a voi darà ascolto. Magari con voi si confiderà…» Pronuncia le ultime parole in un sussurro lasciandosi cadere su una poltrona e nascondendo il viso tra le mani. «Edmund è l’erede del titolo, se dovesse essere coinvolto in uno scandalo del genere, o addirittura essere accusato di omicidio… oddio…»
Omicidio? Mi alzo in piedi di scatto e comincio a camminare per la stanza torcendomi le mani. Non riesco a sopportare questa incertezza. Non riesco a sopportare questa attesa. Devo parlare con Edmund. Deve dirmi quello che è successo!
«Vado da lui» annuncio decisa, mentre cerco con tutta me stessa di ricacciare la paura in fondo alla gola.
«Vi accompagno» dice il conte, alzandosi a sua volta con quello che sembra un grande sforzo e porgendomi il braccio. «Tornerò da voi tra qualche momento ammiraglio, se volete scusarmi.»
«A vostra disposizione, my lord» risponde quest’ultimo impeccabile.
Mentre saliamo le scale, il conte appoggia la mano sulla mia e la stringe leggermente.
«Spero che questo incidente non vi faccia cambiare idea riguardo al matrimonio Maya. Il dottore dice che non può pronunciarsi ancora, ma che è improbabile che le sue… funzioni siano state danneggiate.»
Mi fermo e lo guardo in viso. Non ho capito quello ha detto, le parole fanno fatica a penetrare l’angoscia che mi attanaglia i pensieri.
«Non capisco. Di cosa parlate?»
«Forse è meglio che sia la contessa a spiegarvi, mia cara» dice con aria imbarazzata, prima di riprendere a camminare.
Quando bussa ad una delle porte che danno sul corridoio buio sento il sudore scorrermi lungo la schiena, sotto i vestiti, e la paura assalirmi improvvisa. Stringo le mani l’una contro l’altra e mi accorgo che anche i palmi sono sudati.
La porta si apre su una stanza in penombra e l’odore penetrante di sangue, bruciato e urina mi assale immediatamente alla gola. Trattengo un conato e seguo il conte all’interno. Le tende sono tirate e le uniche fonti di luce sono una lampada posta su una toeletta e il fuoco. Scorgo immediatamente Edmund adagiato contro i cuscini, il viso bianco quasi come la camicia che indossa e gli occhi chiusi. Il conte si avvicina a una donna seduta su uno sgabello e appoggiata con il busto al materasso e le sussurra qualcosa. La contessa alza la testa e guarda nella mia direzione. Ha il viso gonfio e stanco, i capelli le cadono disordinati sulle spalle e anche lei è ancora vestita con gli abiti da notte. Cerco di sorriderle, ma non sono sicura che i muscoli del mio viso rispondano come vorrei e temo di averle rivolto una smorfia mio malgrado. Non me ne curo e giro la testa, senza però avere il coraggio di guardare ancora verso Edmund. La contessa si alza e si dirige verso una porta nella parete opposta a quella contro cui si trova il letto, la apre silenziosamente e mi fa cenno di entrare. È un salotto molto piccolo, arredato con solo un paio di poltrone di pelle, un tavolino e un mobile basso coperto da diverse bottiglie di liquore.
«Grazie per essere corsa immediatamente mia cara» dice con una voce da cui trapelano tutta la stanchezza e la preoccupazione delle ultime ore. «Il dottore dice che per ora è fuori pericolo: il sangue si è fermato e se nei prossimi giorni non dovesse sorgere un’infezione potrà rimettersi perfettamente.» Un brivido intenso la scuote tutta e si porta una mano agli occhi.
«Contessa» dico facendo un passo verso di lei, «state bene?»
Lascia cadere la mano e alza lo sguardo su di me.
«No, è ovvio che non sto bene. Come potete solo pensarlo? Mio figlio è stato ferito a morte e io non so neppure chi sia stato e perché.» Si lascia cadere su una delle poltrone. «Non vuole raccontare nulla, neppure a me. Ma forse a voi qualcosa dirà. Non so veramente a chi altri rivolgermi, so solo che chi lo ha ridotto così dovrà pagare. Giuro sulla mia stessa vita che la pagherà.»
Questa volta sono io ad essere scossa da un brivido.
«Ma se si è trattato di un duello, forse anche il suo avversario è ferito» dico con un filo di voce. «Sapete almeno questo?»
Se anche non ho la certezza che sia contro Lawrence che Edmund si è battuto, il desiderio e la speranza di sbagliarmi mi spingono a porre continue domande, ma la contessa scuote la testa e risponde rabbiosa:
«Vi ho già detto che non so niente. Niente di niente.»
Per un attimo ho la tentazione di ribattere a mia volta che è inutile che se la prenda con me, che non è colpa mia se Edmund sta male, ma ingoio le parole che mi salgono alla gola nella consapevolezza che invece è probabilmente vero il contrario.
Ho appena abbassato la testa, impotente e senza la possibilità di ribattere, quando il conte fa capolino dalla porta e annuncia che Edmund si è svegliato. La contessa si alza di scatto e corre nella camera adiacente, io la seguo riluttante. Mi avvicino al letto e punto gli occhi sulle mani del mio fidanzato, adagiate sulla coperta ai lati del corpo e non posso fare a meno di ricordare la stretta di quelle dita sul mio viso, la sensazione di sentirle percorrere il mio di corpo. Serro gli occhi e deglutisco nel tentativo di scacciare le immagini dalla mente.
«Vi lasciamo qualche minuto soli, mentre noi andiamo a vestirci» sta intanto dicendomi il conte. «Torneremo tra poco.» Stringe il gomito della contessa e sembra quasi spingerla fuori dalla camera. La porta si chiude silenziosamente alle loro spalle, e a questo punto non ho più vie d’uscita: rivolgo gli occhi verso il letto e verso il viso della figura che lo occupa.
È spettinato e quasi completamente esangue, e mi sta fissando con le sopracciglia aggrottate.
«Co… come vi sentite?» gli chiedo timorosa.
Non mi risponde ma continua a guardarmi in viso, mentre l’ombra di un sorriso gli increspa leggermente un lato della bocca. Mi fa più paura adesso di quanto non me ne abbia fatta allora: nonostante la sofferenza palese trasmette una sensazione di freddezza e determinazione che fa accapponare la pelle.
«Edmund, è contro Lawrence che vi siete battuto? Vi prego dovete dirmelo. E lui come sta?» dico prendendo una delle sue mani tra le mie. Per quanto forte possa essere la repulsione nei suoi confronti ho bisogno di sapere e non ho intenzione di farmi intimorire da nulla. La sua pelle è fredda e non appena le mie dita la sfiorano Edmund sfila la mano dalla mia presa con un gesto stizzoso.
«Non toccatemi!»
Stringo la mascella per evitare di rispondergli e faccio un passo indietro.
«Va bene, come volete, ma per favore rispondete alla mia domanda.» E invece non risponde, ma si limita a continuare a fissarmi con quello sguardo sprezzante. «Edmund, vi prego…» dico con voce spezzata, non più capace di trattenere le lacrime. «… vi prego!»
Ma ogni mia preghiera è inutile. Continuiamo a guardarci in silenzio per qualche altro lungo minuto. È la sua vendetta su di me. Sa benissimo che tenermi in questo limbo di incertezza è più doloroso di qualsiasi notizia dichiarata. Ma il suo silenzio mi rivela comunque qualcosa: non mi sono sbagliata, è stato Lawrence il suo avversario. Con il cuore pesante e la paura che mi scorre nelle vene al posto del sangue mi dirigo verso la porta e lascio la stanza, senza rivolgergli neppure una parola di commiato.
So che l’ammiraglio mi sta aspettando da qualche parte ma non ho voglia di parlargli, quindi fermo una domestica che sta pulendo la scala e le chiedo di portarmi il soprabito, il cappello e la borsetta. Mi faccio aiutare a indossarli ed esco da sola. Per mia fortuna dopo solo qualche passo sento un rumore di cavalli alle mie spalle, mi giro e vedo che si tratta di una carrozza pubblica. Faccio cenno al conducente e questi si ferma immediatamente.
«Servo vostro, ma’m» dice il suo compare dopo essere saltato giù e avermi aperto lo sportello. «Dove volete andare?»
«Kensington Road»
Il tragitto da Russel Square a Kensington Road non è breve e la carrozza impiega un po’ di tempo prima di fermarsi davanti alla casa cittadina dei conti di Kerrigan. Pago il vetturino, salgo i pochi scalini e picchio sul battente in ottone lucido. Respiro profondamente. Se dovesse essere successo qualcosa di grave iAnthony me lo dirà subito, non appena aprirà la porta. Invece non succede: vengo fatta entrare come al solito e mentre aspetto di essere annunciata sento delle voci rabbiose provenire dalla biblioteca. Sono stata tantissime volte in questa casa e ne conosco benissimo anche le abitudini: a quest’ora il duca riceve i suoi segretari e si occupa degli affari. È strano però sentirlo così alterato, non era mai successo prima. Non riesco a capire le parole, ma dal tono si sentono trapelare dispiacere ed esasperazione. Poi la porta si apre e vedo uscire Lawrence, gli abiti in disordine e i lineamenti distorti dalla furia.
«Laurie!» lo chiamo. Si volta verso di me e mi raggiunge in due falcate.
«Maya! Come mai siete qui? Cosa è successo?»
«Ditemelo voi, cosa è successo? È per il duello che stavate litigando con vostro padre? È contro di voi che si è battuto Edmund, vero?» lo guardo in viso e dal lampo che attraversa i suoi occhi capisco di non essermi sbagliata. «Oddio Lawrence, state bene? Non siete ferito?» Mi aggrappo al suo braccio e lo osservo: è spettinato, pallido e ha gli occhi iniettati di sangue. Indossa solo una camicia e ci metto qualche secondo ad accorgermi che al tatto è rigida e ruvida, abbasso gli occhi e vedo le macchie di sangue sulla manica e sul polsino.
«Sto bene, non preoccupatevi. Non sono ferito» dice lui.
«Ma… e il sangue?»
Un ghigno monello gli muove la bocca.
«Non è il mio» dice con una punta di soddisfazione.
Mio malgrado tiro un sospiro di sollievo e rialzo la testa per guardarlo ancora in viso. Adesso che so che sta bene, comincio a sentire una punta di irritazione. Mi stacco dal suo braccio e lo affronto, cercando di apparire più arrabbiata di quanto in realtà non sia.
«Bene, adesso però mi dite perché diavolo avete fatto una cosa del genere? Se non sbaglio vi avevo chiesto di non fare sciocchezze, sempre ammesso che rischiare la vita possa considerarsi una sciocchezza.»
«Venite, andiamo. Togliamoci da qui» dice prendendomi per il braccio e tirandomi verso il salotto privato della duchessa. Mi fa entrare e poi si chiude la porta alle spalle. «Dunque… immagino che siano stati i conti ad avvisarvi. Lo avete visto? È ancora vivo?»
«Sì è vivo e cosciente, ma non mi ha neppure rivolto la parola. Il conte e la contessa speravano che riuscissi a convincerlo a parlare, ma è stato inutile. Certamente non immaginano la verità, altrimenti non lo avrebbero fatto.»
«Già, credo anch’io. E come sta? Quando lo hanno portato via era quasi svenuto.»
«Il dottore ha detto che non è in pericolo di vita, se non sopraggiunge un’infezione.»
«Peccato» ribatte lui cattivo.
«Lawrence, smettetela! Vi rendete conto del guaio in cui siete? Quando si verrà a sapere…»
«Non si verrà a sapere» mi interrompe. «Non è nei suoi interessi più di quanto lo sia nei miei. Io sono solo il secondogenito, lui l’erede del titolo. Avrebbe più lui a perdere…»
«Sarà, ma resta il fatto che avete rischiato la vostra vita» lo interrompo.
«E lo rifarei. Mi dispiace solo di non aver fatto centro. Qualche centimetro più a sinistra e non avrebbe più dato fastidio a nessuna donna.»
Lo guardo senza capire.
«Cosa volete dire?»
Lawrence solleva un sopracciglio con aria interrogativa. «Allora non vi hanno detto tutto? Beh, ecco… quando ho sparato ho mirato… come dire… alla sua virilità» confessa arrossendo, non so se per l’imbarazzo o l’orgoglio.
Porto una mano davanti alla bocca, inorridita e incapace di ribattere in alcun modo. Poi piano piano il paradosso della situazione si fa strada nella mia mente e non riesco a trattenere una risata. Anche se molto amara, in verità.
«Pensavate di aiutarmi, Lawrence? Mi dispiace dirvelo, ma credo che abbiate solo peggiorato le cose» dico infine.
Laurie mi rivolge uno sguardo addolorato. «Lo so, solo che quando l’ho fatto avevo altri piani in mente. Pensavo che sarei stato io a sposarvi e che sareste stata al sicuro.»
Ho la certezza di essere rimasta a bocca aperta per qualche secondo prima di riuscire a rispondere.
«Sposarmi? Voi?»
«Avrei voluto… vorrei… ma il duca la pensa diversamente» dice con rinnovata rabbia.
«È per questo che stavate litigando?»
«Sì» risponde tra i denti. «Però potremmo sempre farlo. Potremmo sposarci e andare lontano» propone, quasi implorandomi.
Raramente ho visto Lawrence così coinvolto, e sento le lacrime salirmi agli occhi.
«Grazie» gli sussurro, avvicinandomi e appoggiandogli la testa sul petto. «Grazie veramente. In un altro momento avrei accettato. Dividere la vita con voi, ed essere sicura di potervi difendere e aiutare sarebbe quanto di meglio avrei potuto chiedere per me, ma ora le cose sono cambiate. Ora c’è qualcun altro che ha bisogno del mio sostegno, e io non posso e non voglio abbandonarlo fuggendo lontano. Farò tutto quello che è in mio potere per rendere la sua strada il più agevole possibile.»
«Hayami» afferma Lawrence. «Non pensavo che foste coinvolta a tal punto.»
Arrossisco mio malgrado. «Sì» rispondo semplicemente. «Mi aiuterete, vero?»
Lawrence mi guarda pensoso per qualche secondo, poi finalmente sorride.
«Farò del mio meglio, anche se forse non ho cominciato nel modo migliore» dice distogliendo lo sguardo.
«Non capisco, Lawrence. Di cosa parlate?»
«Beh, ecco… ieri sera dopo aver sfidato Hendrick mi sono ubriacato e nell’annebbiamento da whisky sono andato a casa sua per chiedergli di farmi da secondo.» Trattengo il fiato, quando lui si ferma e appoggia la guancia sulla mia testa.
«E…» lo sollecito.
«Non ricordo cosa sia successo, so solo che durante la notte mi sono svegliato nel suo letto e che il suo coinquilino si è offerto di accompagnarmi al posto suo.»
«Il suo coinquilino?»
«Sì, sembra sia stato un brutto tiro di quella specie di arpia che è la sua padrona di casa.
Ricordo perfettamente la donna spaventosa che ci ha aperto la porta quando Hayami-san stava male.
«Capisco, quindi è stato questo Mister…
«Randall»
«Mister Randall a sostenervi?» domando.
«Sì» risponde brevemente Lawrence. «Un bravo ragazzo e anche molto compito. Un ex-soldato se non ricordo male.»
«E anche un amico, se ha fatto questo per Hayami-san.»
«Un altro amico, Maya. Mi chiedo cosa avrà mai Masumi Hayami perché tutti si prodighino così per lui!»
Non posso fare a meno di sorridere a quest’affermazione e stringerlo ancora più forte tra le braccia.

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Capitolo 21
*** Cap. 22 ***


Capitolo 22

Senza far rumore,
nella pianta di risso
s'insinua il bruco

(Hattori Ransetsu)

 

 

Jaydon Brodribb.

Non posso fare a meno di ripeterne il nome nella mente mentre rilasso le spalle contro lo schienale della poltrona, socchiudendo appena gli occhi come reazione istintiva alla sensazione di dover tenere alta la guardia di fronte a quell'uomo che nemmeno conosco. Devo ringraziare Talbot per questo, la sua imperscrutabilità e le sue parole sibilline sedute alla mia destra. Gli lancio uno sguardo di soppiatto, a sondare le sue emozioni. Pare non averne. È immobile, gli occhi fissi sulla sala, una mano alzata ad accarezzarsi distrattamente il mento coperto da una barba che un occhio disattento scambierebbe per poco amor proprio e scarsa cura di sé. Nessun giudizio potrebbe essere più sbagliato, tuttavia, poiché Talbot dimostra di riservare un'attenzione quasi maniacale allo stato della propria barba: ogni mattina della stessa lunghezza, ogni giorno così sfacciatamente indisponente nel proporsi con quel suo disordine apparente. Aspetta il calo del brusio in sala, e il momento magico in cui verrà sollevato il sipario sulla scena, esattamente come me. O quasi.

Jaydon Brodribb. Un attore rivelazione, istrionico e geniale, talmente perfetto nella costruzione di sé da sfiorare il manierismo. Così lo ha definito Talbot il giorno in cui mi ha invitato ad assistere allo spettacolo che lo vede protagonista, senza che io capissi esattamente quale parte dovesse rivestire per me tutta la vicenda. Doveva assolutamente assistere a una sua rappresentazione, e io avrei dovuto, altrettanto assolutamente, accompagnarlo. Nessuna spiegazione, nessuna delucidazione del perché io, e non altri. La cosa di per sé non mi avrebbe creato alcun problema, e non mi sarei posto alcuna domanda se non avessi assistito all'improvvisa allucinazione del suo sguardo, all'euforia a stento trattenuta che gli alterava i lineamenti e i gesti. Lo stesso effetto aveva avuto su di lui il balletto al quale avevamo assistito a Vienna, Coppelia: era stato velocissimo a passare da un momento di esaltazione a una cupa riflessione, causata, da quello che ero riuscito a intuire, dall'effetto che aveva avuto su di lui l'idea di una bambola meccanica. Mi aveva detto di prestare attenzione, e di ricordare bene quei movimenti e quelle sensazioni, perché mi sarebbero tornate utili, molto utili, un giorno. Ha dei progetti su di me, questo mi è chiaro. Di quali siano però non mi ha ancora reso partecipe, non del tutto almeno, e non chiaramente. E ora questo attore catapultato all'improvviso sotto le luci della ribalta, del quale Talbot parla con la stessa curiosa esaltazione e aspettativa, e a causa del quale intuisco la presenza di un qualche pericolo, che nulla ha a che vedere con il fatto che Jaydon Brodribb lavori nella compagnia teatrale di Mr. Morris, il cui mecenate è nientedimeno che quel bastardo di Hendrick.

Non posso evitare ai miei occhi di alzarsi verso la balconata alla mia sinistra, dove una donna bionda e altera si è chinata leggermente verso l'uomo seduto al suo fianco, per sussurrargli qualcosa schermata da un ventaglio. Ma non è lei che cerco; sebbene possa intuire chi sia, e la cosa mi faccia male, non m'interessa. È l'altra donna seduta a quel balcone che mi ha fatto voltare lo sguardo, la ragazza dal volto inconfondibile che ho cercato tra la folla nel momento stesso in cui ho messo piede al Soho Theatre questa sera. Lady Kitajima è splendida nel suo vestito di un porpora scuro, i capelli raccolti in un'acconciatura elaborata, lo sguardo serio sotto le ciglia che ricordo lunghissime intento a scorrere il programma dello spettacolo. Immagino come debba sentirsi in questo momento: il gesto folle di Ash, un matrimonio al quale è impossibile sottrarsi, l'ipocrisia che la costringe a mostrarsi in pubblico accompagnata probabilmente dalle ultime persone che vorrebbe avere al fianco in questo momento. Mi sento impotente, e frustrato. Vorrei averla accanto, e allo stesso tempo desidero che si allontani dalla mia vista, vorrei che svanisse con un battito di quelle sue ciglia lunghe e folte, portandosi via possibilmente il ricordo di ogni parola, ogni incontro, ogni gesto che mi hanno fatto inconsapevolmente e irreparabilmente innamorare di lei. Sento il brusio in sala affievolirsi, vedo il volto di lei confondersi nella penombra. Incrocio velocemente lo sguardo di Talbot e riporto l'attenzione sul palcoscenico. Il mio incontro con Jaydon Brodribb è imminente. Le porte di Casa di Bambola stanno per aprirsi a Londra.

 

Non so da quanto tempo sia iniziato il primo atto, ho perso completamente ogni cognizione temporale. Sono ammaliato, coinvolto, incredulo, partecipe. Jaydon/Helmer è straordinario. Ti cattura all'istante, è impossibile restare indifferenti di fronte alla sua personalità dirompente che travalica la scena e gli spazi, è impossibile non ammirarlo, non invidiarlo. La scena è tutta sua, ruba gli spazi, s'impone semplicemente con la sua presenza. Potrebbe restare muto, e gli occhi di tutti resterebbero comunque incatenati alla sua persona. Piccoli brividi mi corrono lungo la spina dorsale, e inizio a sentire freddo. Il tempo scorre, gli atti si susseguono, le battute si alternano. Io sono sempre immobile, e una nuova consapevolezza s'affaccia lentamente in me. Nora... Maya...

 

«NORA: Tu non pensi e non parli come l'uomo di cui possa essere la compagna. Svanita la minaccia, placata l'angoscia per la tua sorte, non per la mia, hai dimenticato tutto. E io sono tornata ad essere per te la lodoletta, la bambola da portare in braccio. Forse da portare in braccio con più attenzione perché t'eri accorto che sono più fragile di quanto pensassi. Ascolta, Torvald; ho capito in quell'attimo di essere vissuta per otto anni con un estraneo. Un estraneo che mi ha fatto fare tre figli...Vorrei stritolarmi! Farmi a pezzi! Non riesco a sopportarne nemmeno il pensiero!

TORVALD: Capisco. Siamo divisi da un abisso. Ma non potremmo, insieme...

NORA: Guardami come sono: non posso essere tua moglie.

TORVALD: Ma io ho la forza di diventare un altro.

NORA: Forse, quando non avrai più la tua bambola.»

 

Dio... alzo nuovamente lo sguardo a cercare Lady Kitajima, Maya, la mia Maya che non sarà mai mia e questa volta trovo i suoi occhi. Nessuno dei due sembra sorpreso di incontrare lo sguardo dell'altro, e nemmeno imbarazzato. Rimaniamo semplicemente così, a guardarci per un attimo che mi sembra eterno, durante il quale mi passano davanti le immagini di Lord Ash, di Edmund, di lei, dei miei sogni. La vedo muovere le labbra, sembra mormorare qualcosa. Mi piace illudermi, e credere che stia sussurrando il mio nome. Maya...

Distoglie lo sguardo, e mi accorgo che ora è la donna accanto a lei, la contessa, la madre di Edmund, a fissarmi. Chino il capo e riporto l'attenzione sulla scena, del tutto frastornato. Mai come in questo momento, e per più di un motivo, vorrei che lo spettacolo giungesse alla sua conclusione.

«Sì... È perfetto... È lui...»

Le parole di Talbot sono appena un sussurro tra gli scrosci del plauso del pubblico in sala, ma alle mie orecchie giungono nitide, forti e allarmanti. Di nuovo quello sguardo allucinato, inchiodato al palcoscenico, di nuovo quel serrare della mascella e dei pugni intorno alle dita nude.

«Talbot!»

«Hai trovato pane per i tuoi denti Masumi, ora dovrai impegnarti come non mai... Sì... è così che deve andare... la mia opera... il mio sogno... sì...»

«Talbot?» ma lui sembra non sentirmi, così gli poso una mano sul braccio, per attirare la sua attenzione. «Talbot guardatemi! Di cosa state parlando? Cos'è che deve andare in questo modo?»

«Andiamo Masumi. Devo conoscere di persona Helmer, e lo devi fare anche tu.»

Si è ripreso in un attimo, si alza di scatto e senza alcuna spiegazione inizia a farsi largo tra la folla, bloccata dai convenevoli e dallo scambio delle prime impressioni della serata, senza nemmeno darmi il tempo di rispondere, o di reagire. Mi affretto a seguirlo lungo la sala e attraverso i corridoi, sembra conoscere il teatro molto bene; continua a parlare ma mi arrivano solo poche parole delle farneticazioni di cui sembra essere preda. Raggiungiamo i camerini e lo vedo scegliere a colpo sicuro una porta sulla quale batte due nocche forti e sicure.

«Mary sei tu? È aperto, entra pure.»

Talbot non si preoccupa di manifestare la propria identità. Mette mano senza esitazione alla maniglia e apre l'uscio. Brodribb è seduto alla toeletta, si sta togliendo il trucco di scena passandosi un fazzoletto inumidito sulla pelle del viso. Socchiude appena gli occhi per lanciarci un'occhiata distratta attraverso lo specchio, e quando si accorge che nessuno di noi è Mary si blocca con il fazzoletto ancora premuto sul collo e ci punta addosso due occhi intelligenti, freddi e calcolatori.

«E voi chi siete?»

«Perdonate l'intrusione e il disturbo, Mr. Brodribb. Mi chiamo Lawrence Talbot e...»

Nel sentir pronunciare quel nome Brodribb cambia immediatamente espressione. Il suo sguardo si fa curioso, sorpreso e interessato.

«So chi siete, Mr. Talbot. Ora vi ho riconosciuto. È un onore per me fare la vostra conoscenza.»

Si sporge un poco, cercando il mio viso. Vedo la sua espressione mutare per la terza volta in pochi minuti.

«Ed è un onore conoscere anche voi, Mr. Hayami.»

Spalanco gli occhi, colto di sorpresa. Quest'uomo mi conosce? Vedo Talbot accennare un sorriso, ma lo nasconde in fretta, e troppo bene.

«Mi conoscete?»

«Non potrei non farlo. Sono un attore anch'io, e so riconoscere il talento. Senza contare il fatto che non è cosa di tutti i giorni incontrare un giapponese a Londra.»

Il mio volto deve aver assunto un'espressione alquanto sospettosa, perché Brodribb si alza dalla poltroncina, affrettandosi a giustificare le proprie parole.

«Vi chiedo scusa Mr. Hayami, non intendevo essere sgarbato.» Lo dice con tono dimesso, prima di rivolgere l'attenzione a Talbot e riprendere il discorso. «La verità è che sono un vostro ammiratore, Mr. Talbot, e mi sarebbe davvero piaciuto entrare a far parte della vostra compagnia. Ne sarei stato orgoglioso, e onorato. Ho assistito con vero piacere ai vostri spettacoli, ogni qualvolta mi è stato possibile farlo. Ho studiato anch'io il teatro shakespeariano, ma non mi bastava più. Volevo qualcosa di diverso, e Mr. Morris me ne ha data l'occasione. Ed è stato durante il corso di uno di questi spettacoli che ho notato voi, Mr. Hayami» accompagna le parole con un gesto teatrale e garbato della mano, indicandomi appena, e capisco cosa Talbot intendesse con “manierismo”. «Mi avete sorpreso, confuso. Al punto da chiedere informazioni su di voi, così da rimanere ulteriormente colpito dal vostro talento.»

«Curioso, Mr. Brodribb, siamo venuti a cercarvi in camerino per complimentarci con voi, e finora gli unici complimenti sono usciti dalle vostre labbra.» Penso che per quanto mi riguarda “cercarvi” non è esattamente il termine più adatto. Se fossi stato io a parlare, al posto di Talbot, avrei omesso volentieri quel particolare.

Brodribb accenna un sorriso, ma non c'è traccia di modestia sul suo volto. Al contrario, mostra sicurezza e una dose generosa di compiacimento mentre Talbot continua.

«Siete straordinario, sul serio. Mi avete colpito, profondamente. È difficile che un attore riesca a coinvolgermi a tal punto nella sua recitazione. Di norma colgo all'istante solo i difetti, non che in voi non ve ne siano, per certi versi siete ancora piuttosto acerbo, ma siete un soggetto interessante e molto, molto promettente. Ma credo che di questo siate perfettamente cosciente anche voi.»

Brodribb china il capo, mostrando di accettare complimenti e critiche in egual misura. Jaydon attore mi affascina incommensurabilmente, suscitando in me uno spirito di competizione che raramente mi ero accorto di provare. Sul Jaydon uomo invece mi rendo conto di avere ancora parecchie riserve. Non riesco a definirlo, non riesco ad afferrarlo. Mi limito ad osservare.

«Le vostre parole mi fanno onore, Mr. Talbot. Sarei oltremodo onorato di discutere più approfonditamente con voi riguardo ai miei difetti, e su come migliorarli.»

«Questo compito non spetta a me, non più.» Talbot volta repentinamente il capo, sondando incuriosito il camerino. «Volevo chiedervi di entrare a far parte della mia compagnia, ma avete già risposto alla mia domanda prima ancora che ve la porgessi. Ad ogni modo, è meglio così, continuate per la vostra strada. Se ho visto giusto, come mi auguro che sia, vi porterà lontano. E quando sarete pronto, tornerete da me. Oh sì, eccome se tornerete!»

Non so cosa rispondere all'alzata di sopracciglia con la quale mi interroga Brodribb, mi limito a ricambiarne lo sguardo, incuriosito quanto lui.

«Conosco le storie che si raccontano su una misteriosa opera fantasma, un’opera fantastica, all'avanguardia. Vi riferite a questo, Mr. Talbot? È la vostra opera misteriosa ciò di cui stiamo parlando?»

Talbot sorride, e io provo apprensione.

«È così dunque. Non è un caso che abbiate accettato nella vostra compagnia un attore senza alcuna preparazione specifica come Mr. Hayami, non è vero? Avete visto il suo talento, libero da ogni preconcetto e impostazione.» Brodribb si prende una breve pausa, durante la quale socchiude appena gli occhi, come a valutare un qualche pensiero. «Ci rivedremo Mr. Talbot, ci potete giurare.» Poi si rivolge a me, e allunga una mano, con determinazione e rispetto. «Aspetterò a anche voi, Mr. Hayami, le nostre strade si incroceranno di nuovo, e presto.»

Sento tutti i miei timori materializzarsi all'istante nella stretta ferrea che unisce la mia mano a quella di Brodribb. Non so dire se i miei occhi contengano la stessa luce di malcelata sfida presente nei suoi, ma non abbasso lo sguardo, non l'ho mai fatto. Assistere al suo spettacolo, questa sera, è stata la migliore opportunità che mai mi sia stata offerta. Lancio uno sguardo a Talbot, e ormai non nutro più alcun dubbio. Tutto si è svolto esattamente come il mio maestro aveva previsto nelle sue geniali e folli farneticazioni.

«Vi chiedo solo di coinvolgermi ancora come avete fatto durante lo spettacolo di questa sera, Mr. Brodribb.»

«Ma che diavolo sta succedendo là fuori?»

Talbot aggrotta un poco le sopracciglia interrompendo bruscamente il discorso, e oltrepassa la porta, incuriosito e attento. Lo seguo, e noto il movimento affrettato di alcuni operai, in tutta probabilità macchinisti. Due di loro corrono nella nostra direzione, e alle loro urla, mi gelo.

«Presto, allontanatevi. Via di qui. È scoppiato un incendio in sala, veloci!»

Maya! Mi affretto lungo il corridoio per raggiungere le scale che portano alle balconate, ma Brodribb mi afferra per un braccio, costringendomi a fermare la corsa.

«Non di là, prendiamo l'uscita posteriore. È più vicina e più sicura.»

Mi strattona con forza, impedendomi di liberarmi dalla sua morsa.

«Lasciatemi andare, devo raggiungere una persona.»

Talbot mi afferra una spalla, e mi costringe a voltarmi per fissarlo bene in volto.

«Ha ragione lui Masumi, la gente starà già sfollando, non ha senso rischiare per qualcuno che molto probabilmente è già in salvo. Andiamo, non essere sciocco.»

Stringo i denti, e mi accingo a cedere, quando un'ombra color porpora scuro passa velocemente nell'angolo della mia visuale. Un lampo e non la vedo più. C'è molta gente, i movimenti sono frenetici, scomposti.

«Dov'è l'uscita, Brodribb?»

«Andiamo Mr. Hayami, non possiamo restare qui ancora a lungo.»

Ha alzato la voce, ma la alzo anch'io. Sto urlando, in preda all'ansia.

«Dov'è l'uscita? Ditemi che direzione devo prendere per raggiungere l'uscita!»

Rassegnato mi dà le indicazioni necessarie, e io prendo velocemente la direzione opposta a quella del mio rivale, e del mio maestro. Devo raggiungere la sala, devo raggiungere Maya. Era lei l'ombra che ho visto passare, ne sono sicuro e devo trovarla. Percorro i corridoi, uno dopo l'altro. Ricordo perfettamente il percorso fatto al seguito di Talbot per raggiungere i camerini dalla sala. Ma di Maya nemmeno l'ombra. Devo stare attento, alcuni uomini stanno lavorando alacremente per porre al riparo macchinari e limitare il più possibile i danni, altri fuggono, altri ancora danno ordini incomprensibili nel panico generale. Non la vedo da nessuna parte. Devo cercare una macchia di colore, era lei, sono sicuro. Raggiungo una saletta di collegamento, e la vedo. Accostata al muro, gli occhi grandi e impauriti, cerca di farsi largo nella direzione opposta a quella presa dalla folla. Non capisco cosa stia cercando di fare, ma sono molto più alto di lei, più forte, e riesco a muovermi meglio e a farmi largo tra le persone in preda al panico, fino a raggiungerla.

«Lady Kitajima!»

Urlo il suo nome e lei si volta, mi vede. Cerca di venirmi incontro, è spaventata. Non le danno possibilità di movimento e lei viene schiacciata nuovamente contro il muro, una volta, poi un'altra. L'afferro e la stringo forte al mio petto, proteggendola.

«Mr. Hayami! Dobbiamo uscire da qui, è scoppiato un incendio, in sala non si respira, io non riesco a muovermi...»

« Lo so, lo so. State bene? Siete ferita?»

Stringe i pugni sul mio petto, afferrandomi con forza il bavero della marsina.

«Sto bene, ma mi hanno imprigionata in questo punto, non riesco ad avanzare. Voi state bene, vero? Non siete ferito?»

C'è apprensione nella sua voce e ha gli occhi lucidi. La stringo più forte.

«Sto bene, adesso dobbiamo pensare solo a come uscire di qui.» Mi chino verso il suo orecchio, sussurrandole le parole un po' per calmarla, un po' per sentirla ancora più vicina, un po' perché capisca bene ciò che sto per dirle. «Sopportate il mio abbraccio ancora un poco, voglio solo proteggervi. Se doveste cadere a terra, cadrei con voi, e sarebbe la fine. Verremmo calpestati, e in quel caso difficilmente riusciremmo ad uscire da questo teatro. Fra poco vi prenderò per mano, e inizieremo a muoverci lungo il muro, verso una porta che si trova esattamente di fronte a voi. Da lì prenderemo la strada verso l'uscita posteriore, c'è meno movimento da quella parte, e saremo fuori. Avete capito bene cosa vi ho detto?»

Accenna un sì contro il mio petto, e io la stringo ancora più forte. Si aggrappa a me.

«Ora Milady, andiamo!»

Le afferro la mano e lei me la tiene stretta, appoggiandosi a me. Ci muoviamo lentamente, lungo il muro, stretti l'uno all'altra. Riusciamo a raggiungere il corridoio laterale, e l'aria si fa meno densa, meno opprimente.

«Seguitemi Milady, da questa parte.»

Corriamo lungo il corridoio, la precedo, senza mai abbandonare la sua piccola mano serrata con forza nella mia. Raggiunta l'uscita liberiamo entrambi un sospiro di sollievo, e iniziamo a respirare a pieni polmoni, allentando la tensione, sollevati.

Ci scambiamo un sorriso imbarazzato, e le lascio andare la mano. Non riesco a comprendere se si senta dispiaciuta o sollevata dal mio gesto. In silenzio ci incamminiamo per aggirare il teatro e raggiungere l'entrata principale, il punto di ritrovo, le carrozze.

«ありがとう,はやみ先生。もし あなたが私を急いで助けてくれなかったら,どうなっていたことか»

Mi fermo e fisso il suo bel volto con stupore e riconoscenza. Tiene gli occhi bassi, e mi rivolge un breve sorriso imbarazzato.

«以前は,決して,こんなことしなかった。どうか何か言って»

«日本語を最後に使ったのは,とても昔の事なの。だから,間違えるのが怖いのよ»1

Sento una tenerezza infinita allargare il mio petto, e senza nemmeno pensare, le afferro la mano, e la stringo nuovamente a me. Respiro l'odore del fumo imprigionato fra i suoi capelli, la pelle e l'abito strapazzato, le ciocche scomposte della sua elaborata acconciatura ormai distrutta mi solleticano la pelle, ma non ho mai sentito niente di così piacevole. Lei non si ribella, non dice nulla. Poi, inaspettatamente, ricambia il mio abbraccio.

«Mi sento così perduta signor Hayami, così vulnerabile... non sono una signora, non è vero? Una signora non si comporterebbe come me...»

La scosto un poco, e le asciugo con delicatezza una lacrima che aveva iniziato a fare capolino tra le ciglia.

«Non ho mai conosciuto una donna come voi, Lady Kitajima. Mai, in tutta la mia vita.»

«Nora... Io...»

L'abbraccio nuovamente, forte, per trasmetterle tutta la mia ammirazione, la mia comprensione, il mio amore. Questo pensiero improvviso mi fa tornare alla realtà, e faccio forza su me stesso per sciogliermi dal suo abbraccio, e riprendere le distanze.

«Dobbiamo trovare i conti, Milady. Dovete tornare a casa.»

Mi fissa con occhi sgranati, come se anche lei avesse subito improvvisamente un brusco risveglio nella realtà.

«Sì...»

Riprendiamo a muoverci, imbarazzati entrambi. Camminiamo lentamente, e il silenzio inizia a farsi pesante. Mi schiarisco un poco la voce.

«Se posso chiedervelo, cosa ci facevate dietro le quinte del teatro? Perché non siete scappata come tutti gli altri verso l'uscita principale?»

Anche al buio la vedo arrossire. Ci pensa un poco, indecisa se rispondere o no.

«Cercavo... Lawrence. Lo avevo visto dirigersi verso il retro del teatro ed ero preoccupata per lui.»

La fisso sbalordito.

«Però per favore Mr. Hayami, non parliamone più. Vi prego...»

Alza su di me due occhi imploranti, e io mi sento improvvisamente svuotato. Non sono sicuro se per l'ammirazione, la gelosia, il senso di struggimento che la sua presenza mi provoca, o semplicemente perché all'improvviso mi sento stanchissimo.

«Lawrence!»

Seguo il suo sguardo e vedo il mio amico palesemente in apprensione correre veloce nella nostra direzione. Abbraccia Lady Kitajima, visibilmente sollevato.

«Maya, siete salva. Dio sia lodato. Nessuno sapeva darmi vostre notizie, mi sono sentito morire.»

«Sto bene Lawrence, Mr. Hayami mi ha protetta e mi ha portata qui fuori. Se non mi avesse notata, non so cosa ne sarebbe di me adesso.»

Lord Ash mi lancia uno sguardo colmo di riconoscenza, e lascia andare un sospiro di sollievo e, stranamente, direi quasi di rassegnazione.

«Non so davvero come ringraziarvi, Hayami. Vi sono debitore, un'altra volta.»

Gli poso una mano sulla spalla, non servono parole fra noi. Non in questo momento.

«Andiamo Maya, vi accompagno a casa.»

Stringo più forte la mano sulla sua spalla, con fermezza.

«No Ash. Lady Kitajima deve trovare i suoi futuri suoceri, e tornare con loro.»

«Mr. Hayami ha ragione, Lawrence. Non incrinate ancora di più la vostra posizione, e la mia. So che vi costa fatica, so che vorreste proteggermi ad ogni costo, ma non è questo il modo migliore, lo sapete anche voi.»

Ash scuote la testa e serra forte la mascella, fissando un punto lontano, perso nel buio.

«Accompagnatela voi Hayami. Per favore.»

Porgo il braccio a Lady Kitajima, e con apprensione, imbarazzo e una leggera malinconia, ci avviamo a cercare una carrozza che nessuno di noi vorrebbe trovare.

 

 

1 «Grazie Mr. Hayami. Non so cosa ne sarebbe stato di me se non foste accorso in mio aiuto.»

«Non l'avevate mai fatto prima. Dite ancora qualcos'altro, vi prego.»

«È trascorso tanto tempo dall'ultima volta che ho usato questa lingua. Ho paura di sbagliare.»

 

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Capitolo 22
*** Cap. 23 ***


Capitolo 23

 

Luna piena d’autunno

bellissima semplicemente,

perfettamente chiara.

(Miura Chora)

 

Fermatevi. Fermatevi subito!» urlo al conducente attraverso la finestrella alle mie spalle.

«Yes ma’m. Appena riesco ad accostare» risponde questi.

«No, subito» ribadisco perentoria.

L’uomo brontola un improperio e fa fermare lentamente i cavalli. Io nel frattempo guardo indietro fuori dal finestrino, cercando di ritrovarlo in mezzo alla folla che cammina rasente ai muri per evitare gli schizzi delle carrozze e dei carri.

«Mister Hayami. Mister Hayami da questa parte» lo chiamo, cercando di sovrastare con la mia voce le urla degli altri conducenti, i rumori delle ruote sull’acciottolato e il picchiare insistente della pioggia, ma lui naturalmente non mi sente. Cammina a passo veloce, con la testa bassa e infossata nelle spalle per ripararsi. Mi sporgo dal finestrino, incurante delle gocce che mi martellano il volto e grido ancora, con tutto il fiato che ho. «Hayami-san!!»

Questa volta si blocca e si guarda stupito intorno, fino a che i suoi occhi non si fermano sull’hansom dal quale gli sto facendo segno con la mano. Rimane un attimo immobile a fissarmi, ma quando apro lo sportello invitandolo a raggiungermi attraversa in fretta il marciapiede e infila la testa all’interno della vettura.

«Siete sicura, milady?»

«Sbrigatevi a salire, stiamo bloccando il traffico» lo incita il vetturino.

Io annuisco e sorrido, mentre un calore inaspettato si diffonde dal petto ad ogni angolo del mio corpo e mi intorpidisce le dita. Le stringo in grembo, tutto il mio essere proteso verso la sua risposta.

«Va bene allora» cede, issandosi all’interno e prendendo posto nel sedile di fronte al mio proprio nel momento in cui, con uno scossone in avanti, i cavalli riprendono il loro cammino.

«Sono zuppo» sussurra tra sé, scostandosi una ciocca dalla guancia e guardandosi avvilito i calzoni e gli stivali.

Rimango per un attimo a fissarlo letteralmente incantata mentre si passa una mano tra i capelli scuriti dalla pioggia nel tentativo, inutile, di pettinarli all’indietro. Ciocche quasi nere gli ricadono davanti agli occhi dal taglio allungato e dall’incredibile colore dell’oro, reso ancora più evidente dal contrasto con l’aria ferrigna che ci circonda. Poi il mio sguardo scende verso le labbra dal taglio deciso, adesso atteggiate a un mezzo sorriso, sulla linea della mascella appena sottolineata da un’ombra di barba, sul collo tornito, sulle spalle larghe e le braccia forti evidenziate dal tessuto umido della giacca che aderisce e mette in evidenza la muscolatura.

«Grazie per avermi offerto questo riparo, milady, ma non vorrei rubarvi del tempo prezioso» dice, alzando anche lui gli occhi a fissarmi.

«Non… non c’è nessun problema, signore. Sto andando da Mister Hughes a vedere il quadro per il quale ho posato, finalmente finito. Anzi, sarei…» deglutisco e lo dico tutto d’un fiato «sarei molto felice se voleste accompagnarmi.»

Lo vedo aggrottare le sopracciglia e deglutire a sua volta.

«Davvero lo volete?»

«Sì, ve ne prego.»

Lo voglio, lo voglio, lo voglio. Non posso perdere neppure un istante del tempo che mi è concesso per stare in vostra compagnia. Voglio ammirare la vostra bellezza, commuovermi al vostro accento straniero, ritrovare nei tratti del vostro viso i ricordi della mia infanzia, ascoltare la musica della vostra voce e tremare quando le vostre mani mi sfiorano. Voglio potermi girare e trovarvi dietro di me, con quello sguardo triste eppure con il sorriso sulle labbra.” Naturalmente non posso dirgli tutto questo, così ripiego su un argomento più neutro.

«È dalla notte dell’incendio a teatro che non ci vediamo. Vi ringrazio ancora per avermi salvata.»

E anche per avermi abbracciata e consolata”, penso tra me. E d’un tratto l’emozione di quella sera torna a presentarsi esigente alla mia memoria. Ho cercato di non pormi domande su quanto successo tra noi, sulle ragioni che possono averlo spinto ad abbracciarmi dopo il mio goffo tentativo di tornare a parlare in giapponese, oppure ad essersi così teneramente preso cura di me. Ho cercato di non ricordare la stretta dalle sue braccia, il suo profumo, ma soprattutto ho cercato di non pensare al modo in cui il mio corpo ha reagito al suo tocco, alla fiamma che si è accesa nel mio ventre e che mi ha lasciata debole e tremante. Purtroppo per me però, tutti questi tentativi di esiliarlo dalla mia mente me lo hanno reso ancor più presente, e mio malgrado sono stata assalita da dubbi e, probabilmente false, speranze circa i suoi sentimenti nei miei confronti.

Riflettendoci bene, non ho scelto un argomento di conversazione esattamente neutro. Non dal mio punto di vista almeno. E forse nemmeno dal suo perché vedo le sue guance ricoprirsi di un leggero rossore e lo sguardo rabbuiarsi.

«Non c’è di che milady, è stato un onore per me potervi essere utile» risponde appena prima di lasciar esplodere uno starnuto fortissimo.

«In effetti siete zuppo» concordo con una risatina. «Una volta da Mister Hughes gli chiederemo di prestarvi degli abiti asciutti. Per fortuna, essendo un artista non è troppo legato alle convenzioni e non si scandalizzerà. Nel frattempo scaldatevi con questa» continuo, prendendo la coperta che mi copre le gambe e appoggiandogliela sulle spalle. Ma nel farlo sono costretta ad avvicinarmi nello spazio ridotto dell’hansom, gli occhi incatenati ai suoi. I nostri volti sono a pochi centimetri, sempre più vicini, sempre di più fino a che non sento il suo respiro caldo sulle mie labbra.

«Siamo arrivati ma’m» dice, lontana, la voce del cocchiere.

«Siamo arrivati» sono solo capace di ripetere frastornata.

«Siamo arrivati» conferma anche lui sospirando, senza tuttavia distogliere lo sguardo dal mio viso.

«Hayami-san, io…» ma prima che riesca a trovare il coraggio di proseguire, lo sportello si apre e sono costretta mio malgrado ad abbandonare i suoi occhi e a cercare il denaro per pagare la vettura.

Sono senza parole. Assolutamente senza parole. Sapevo che il quadro di Mister Hughes non sarebbe stato un ritratto tradizionale, ma non mi sarei mai aspettata una simile meraviglia e adesso capisco perché abbia voluto mantenermelo segreto fino ad ora.

«Ma come facevate, signore, a sapere che è uno dei miei poemi preferiti?»

«Mia cara» sorride lui benigno «basta guardarvi per capire.»

«Dite?» gli chiedo, spostando l’attenzione dalla tela al suo viso coperto dalle rughe e dalla barba.

«Indubbiamente. Ma fate attenzione, tenete sempre bene a mente la fine del poema, bambina» risponde accarezzandomi delicatamente una guancia. Sento i miei occhi sgranarsi dalla sorpresa. Possibile che abbia intuito i miei sentimenti per Hayami-san? Sono così evidenti? «Oh, ecco il vostro Lancillotto» continua sottovoce prima di scostarsi di qualche passo da me per rivolgere la sua attenzione a Mister Hayami che è appena entrato nello studio. Indossa un abito da cavallerizzo con pantaloni crema e una giacca ruggine su una camicia bianca. È splendido, la sua bellezza e naturale eleganza mi tolgono letteralmente il fiato.

«Bene bene, vedo che Mrs. Grandier è riuscita a trovare qualcosa della vostra misura. E vedrete che riuscirà anche ad asciugare i vostri abiti in un baleno» gli si rivolge affabile il nostro ospite.

«Siete stato fin troppo gentile, dopo che vi sono piombato in casa senza preavviso, signore.»

«Nessun disturbo, non crucciatevi anzi, siccome devo allontanarmi brevemente per un impegno improvviso, sono contento che ci sia qualcuno a tenere compagnia a lady Kitajima nel frattempo.»

«Servo vostro, sir» risponde Hayami-san piegando lievemente la testa.

«Perfetto, allora è deciso» dice Mr. Hughes, guardandomi con una luce maliziosa negli occhi prima di allontanarsi e chiudersi la porta alle spalle. Arrossisco e capisco di non essermi sbagliata. Lui ha capito!

Rimaniamo solo io e lui, in silenzio, palesemente imbrarazzati.

«Allora Mr. Hayami cosa ne pensate del ritratto?»

Haymi-san si avvicina lentamente al quadro e lo fissa a lungo, assorto, poi comincia a parlare, senza però guardarmi.

«Non so esattamente cosa racconti, ma quei fili che sono aggrovigliati attorno alle vostre gambe e che rischiano di farvi cadere rappresentano il vostro destino, il vostro essere prigioniera della vostra vita. Però guardate bene, nonostante siate consapevole della vostra condizione non vi fate spaventare e cercate di alzarvi dalla poltrona, di ribellarvi. Il cavaliere invece potrebbe voler figurare una figura esterna, qualcuno disposto a vegliare su di voi e a combattere, se necessario» dice con una nota di dolore nella voce, indicando con il dito l’immagine del guerriero nascosto dall’armatura.

Lo guardo allibita. Come è possibile che mi conosca così bene? Che sia riuscito a capire tutto questo di me solo guardando un mio ritratto?

«Conoscete il poema di Lord Tennyson, La dama di Shalott?» gli chiedo allora.

«Purtroppo no» risponde senza distogliere lo sguardo dal quadro.

«La dama viveva in una torre sull'isola di Shalott,» comincio a raccontare «vicino a Camelot. Era vittima di una maledizione che diceva che sarebbe morta non appena avesse volto lo sguardo verso Camelot. Così guardava all'esterno attraverso uno specchio, e tesseva ciò che vedeva su una tela magica. Sebbene fosse tentata dall'osservare la vita reale che scorreva fuori dalla sua finestra, sapeva che se lo avesse fatto sarebbe andata incontro alla fine della propria vita.

There she weaves by night and day

A magic web with colours gay.

She has heard a whisper say,

A curse is on her if she stay

To look down to Camelot.


 

She knows not what the curse may be,

And so she weaveth steadily,

And little other care hath she,

The Lady of Shalott.


 

And moving through a mirror clear

That hangs before her all the year,

Shadows of the world appear.

There she sees the highway near

Winding down to Camelot;1»


 

Un giorno, tuttavia, vedendo Lancillotto attraverso il suo specchio, capì, come non era mai successo prima, quanto fosse stanca della sua esistenza, destinata com'era a guardare il mondo solamente attraverso ombre e riflessi.


 

She left the web, she left the loom,

She made three paces through the room,

She saw the water-lily bloom,

She saw the helmet and the plume,

She look'd down to Camelot.


 

Out flew the web and floated wide;

The mirror crack'd from side to side;

"The curse is come upon me," cried

The Lady of Shalott.2


 

Allora lasciò la torre, trovò una barca e si lasciò trasportare verso Camelot lungo il fiume, intonando una canzone malinconica e spegnendosi cantando.»

«E non trovate triste che Mister Hughes vi abbia rappresentato nei panni di una donna destinata a non vivere?»

«E se invece fosse una donna il cui destino è quello di sacrificare tutto per amore?»

Finalmente abbandona il ritratto e si volta a guardarmi. Arrossisce leggermente mentre mormora:

«Perdonatemi, ho osato troppo.»

«Oh no, non c’è niente da perdonare, Hayami-san, perché è verissimo tutto quello che avete appena detto.»

Soffermo di nuovo l’attenzione sul suo viso, sull’ombra delicata che le ciglia disegnano sui suoi zigomi mentre tiene gli occhi bassi e non riesco a trattenere la mia mano quando si alza ad accarezzargli una guancia.

Viene scosso da un brivido, poi stringe le mie dita tra le sue e se le porta alle labbra.

«Basta milady, vi prego. Mi straziate il cuore così.»

«Il mio lo è già perché…»

Alza su di me uno sguardo traboccante tristezza, e amore. Razionalmente non so se dare adito a quello che il cuore mi dice, ma decido di fidarmi dell’istinto. Decido di lasciarmi andare, di abbracciare la mia maledizione ovunque essa mi condurrà.

«… perché sa che non potrò mai avervi.»

«Ditelo ancora.» Fa un passo e mi stringe tra le braccia. «Ditelo ancora, anche se fosse solo una menzogna, anche se fosse solo la gratitudine, o un sogno. Ditelo ancora…»

«Voi mi incendiate e io non so resistervi. Nessun essere umano può stare in mezzo al fuoco senza esserne consumato3

Sento il suo abbraccio scivolare lentamente sul mio corpo fino a cingermi la vita, la testa appoggiata al mio grembo.

«Vi amo» sussurra con la bocca premuta contro la stoffa della mia gonna. «Ho combattuto contro me stesso e contro la certezza che questo giorno non sarebbe mai potuto essere, ma non c’è stato niente da fare. Vi amo contro ogni razionalità, contro ogni tentativo di credere il contrario. Vi amo e non posso farci niente.»

Improvvisamente non riesco più a trattenere le lacrime. Le sento scorrere sul viso, sulle labbra, sul collo e vorrei parlare, vorrei dirgli che anche per me è lo stesso, che è stato lo stesso sin da quando l’ho conosciuto ma le parole rimangono incastrate nel groviglio di emozioni che mi sta soffocando. Le gambe non mi tengono più e crollo a terra, inginocchiata di fronte a lui, e non so più se ridere o piangere davanti alla sua espressione sbigottita e agli occhi lucidi e alla palese emozione che gli fa tremare il labbro inferiore. Allungo le mani verso di lui, mi aggrappo alla sua camicia e comincio a singhiozzare con la testa appoggiata al suo petto. Sento le sue braccia avvolgermi e stringermi a sé, talmente forte da togliermi il respiro.

E rimaniamo a lungo così, a terra, io a piangere tutto il mio sollievo e la mia paura e lui a consolarmi con baci teneri sulla testa e sublimi parole d’amore. Ed è sempre così che ci trova il maggiordomo di Mr. Hughes.

«Ehmm, non vorrei disturbare…» dice rivolgendoci uno sguardo a metà tra l’indulgente e l’ammonitore «ma il tè sarà servito a breve e… beh, credo immaginiate entrambi che non è possibile…»

L’imbarazzo diventa evidente sul suo viso e anche io mi sento arrossire. Rivolgo uno sguardo ad Hayami-san e vedo che anche le sue guance sono imporporate benché non accenni a voler lasciare le mie mani, sorrido e liberandone una dalla sua stretta gli accarezzo un’ultima volta il volto.

«Andiamo, forse un tè ci aiuterà a calmarci.»

Annuisce e dopo aver deposto un bacio sul palmo della mia mano aperta si alza e mi aiuta a rimettermi in piedi a mia volta. Sento le gambe ancora tremanti, quindi mi appoggio con piacere al braccio che mi offre per scendere al piano inferiore.

Sebastian ci precede di qualche metro e quando gira l’angolo che separa la scala dalla sala con la statua di Narciso, Hayami-san si ferma improvvisamente, mi attira a sé e avvicina il suo viso al mio.

«Scusatemi ma non posso più resistere» dice sulle mie labbra prima di appoggiarvi le sue, inizialmente con delicatezza e poi con sempre maggior decisione. Vengo sommersa da una sensazione nuova e inebriante, la percezione del mondo circostante svanisce e rimane solo la consapevolezza del calore della sua bocca, della fiamma che dal centro del mio essere brucia qualsiasi altro pensiero che non sia il desiderio che tutto questo, qualunque cosa sia, non finisca mai più.

«Oddio!» lo sento mormorare ansimante quando si stacca da me. Ma dura solo un secondo e poi le nostre bocche sono di nuovo unite, mentre mi passa un braccio dietro alla vita attirandomi ancora più vicina e con l’altra mano mi sorregge la testa.

«Non possiamo, non qui» riesco finalmente a mormorare, allontanandolo e trattenendolo allo stesso tempo. Lui geme ma fa comunque un mezzo passo indietro. Sospira e si passa una mano tra i capelli spettinati, senza mai distogliere gli occhi dai miei.

«Avete ragione» dice semplicemente.

Respiro profondamente ma siamo ancora così vicini che sento solo il suo profumo, una fragranza familiare di sandalo e gelsomino, e improvvisamente ricordo e sento il mio stomaco annodarsi ancora più stretto. Questa volta non si è trattato di un sogno, questa volta mi ha baciata veramente, e io ho risposto. Abbasso gli occhi a terra, imbarazzata e gli passo accanto senza avere il coraggio di guardarlo di nuovo in viso.


 

Mister Hughes ci fa accomodare e io servo il tè, un Russian Caravan dal tipico aroma pieno e leggermente affumicato. Il suo sapore forte e rinvigorente è un balsamo per i miei nervi ancora scossi dalla sorpresa e mi appoggio allo schienale della poltrona chiudendo gli occhi e lasciandomi cullare dall’armonia del momento.

«Io… avrei una cortesia da chiedere a entrambi, se me lo permettete» esordisce il nostro ospite dopo un attimo di silenzio. Entrambi lo guardiamo curiosi e annuiamo. «È solo un pensiero che mi è balenato in testa quando vi ho visti prima, così vicini… io vorrei che posaste per me, insieme, per un nuovo quadro» conclude guardando speranzoso dall’uno all’altra.

«Siete sicuro di voler essere coinvolto, signore?» gli dico con schiettezza. «Conoscete bene la mia situazione, e avete intuito il sentimento che mi lega a Mister Hayami…»

«Tutto quello che so è che per me sarebbe un onore potervi dipingere, entrambi. Di tutto il resto non mi curo.»

Mi alzo e vado ad inginocchiarmi davanti a lui, gli prendo una mano e la bacio.

«Vi ringrazio maestro» dico mentre nuove lacrime mi bagnano gli occhi.

Poi sento la mano di Hayami-san che si posa sopra alle nostre ancora unite e la sua voce arrochita dall’emozione:

«Dio vi benedica, signore. Vi sarò debitore per il resto della vita.»

Mi volto a guardarlo e leggo nei suoi occhi la stessa mia paura, ma anche lo stesso mio sollievo e la stessa mia felicità.


 

1 Lei tesse notte e giorno senza pace

Una tela magica di colore vivace

E nel suo cuore la condanna non tace:

Sarà maledetta se uno sguardo fugace

Getterà verso Camelot.


 

Lei non conosce altra sorte

Se non di tessere fino alla morte

E altro non accade alla corte

Della Signora di Shalott.


 

Ombre dai riflessi chiari vanno,

Nello specchio appeso tutto l’anno

Ombre fugaci che di vita sanno

Lungo la strada da cui arriveranno

Le genti di Camelot.


 

2 Lei abbandona tela e spola

Fa tre passi col cuore in gola

Vede nell’acqua i gigli viola

Vede l’elmo, il pennacchio e la stola

Guardando verso Camelot


 

Il telo vola fluttuando spiegato

Lo specchio è incrinato da lato a lato

Sono maledetta” è il grido accorato

Della Signora di Shalott.

(Traduzione di Valentino Szemere)

3 Citazione da “Possession. Una storia romantica” di Antonia S. Byatt

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Capitolo 23
*** Cap. 24 ***


Capitolo 24

 

 

Luna fredda:

Nel rumore del ponte

Io vado solo.

(Tan Taigi)

 

Cammino adagio lungo il marciapiede umido e scivoloso, evitando distrattamente qualche pozzanghera formatasi in seguito alle incessanti piogge dei giorni scorsi, la testa china, gli occhi bassi, le mani abbandonate a sfiorare di tanto in tanto i lembi pesanti del mantello avvolto a coprirmi le spalle. Non vedo l'ora di arrivare a casa, e mai come questa sera la strada mi è sembrata tanto lunga, buia e sconosciuta. Alzo lo sguardo verso la luce fioca di un lampione e noto tra la bruma rarefatta che l'avvolge goccioline d'acqua attraversarla leggere e perdersi nel buio della strada. È ripreso a piovere, eppure io non me ne ero nemmeno accorto. All'ultimo istante schivo con un balzo istintivo l'acqua sollevata dal passaggio troppo spedito di una carrozza. Un particolare insignificante, il suo predellino, riporta la mia mente a pochi giorni prima, in un'altra strada, in un'altra carrozza. Lady Kitajima, Maya. Da allora non l'ho più vista, ed è dura trattenersi, dover aspettare. Cosa darei per averla accanto in questo momento, per poterla stringere fra le braccia, accarezzarle le labbra morbide e piene, baciarla. Cosa darei per posarle di nuovo la testa in grembo e lasciarmi cullare da lei un istante ancora, ascoltando la sua voce calda e melodiosa allontanare dalla mia testa i pensieri angosciosi che mi si accavallano senza tregua e gettano ombre scure e minacciose sulla cortina appena sollevata sul mio futuro. Maya... Chi l'avrebbe mai detto che un giorno il mio amore potesse essere corrisposto? Chi avrebbe mai pensato che quella donna unica e irraggiungibile si sarebbe davvero innamorata di me? Il ricordo della sua dichiarazione nello studio di Mr Hughes mi provoca nuovi brividi lungo la spina dorsale e una strana eccitazione al centro del petto. D'altronde è sempre così, ogni volta che ci ripenso. L'emozione mi aveva colto alla sprovvista, insieme alle gambe molli e al disperato tentativo di impedire alla mia voce di tremare. In seguito, spingerla da parte nel corridoio e baciarla era stato un impulso impossibile da reprimere. Il desiderio di lei era troppo intenso, troppo a lungo soffocato, troppo allontanato. Sentirla rispondere così appassionatamente al mio bacio, sentire le sue labbra dischiudersi e il suo corpo abbandonarsi totalmente mi ha annebbiato la mente. Per un istante ho temuto che avrei perso il controllo e il pensiero mi ha spaventato e sorpreso al tempo stesso. Mai avrei creduto di provare un emozione simile, e lei deve essersene accorta. Se solo fosse qui in questo momento, se solo fosse qui questa sera io...

Mi accorgo con sorpresa di essere giunto sotto casa. La finestra della camera è illuminata e mi trovo a pensare di essere felice che Randall abbia deciso di non uscire questa sera. Prendo un grosso respiro, a pieni polmoni, faccio forza su me stesso e decido di buttarmi la malinconia alle spalle. Non voglio scaricare il mio malumore su Andrew, né tantomeno commiserarmi.

«Oh, bentornato Masumi. Stavo giusto per andare a cena, ti va di farmi compagnia?

Mi chiudo la porta alle spalle e appoggiato il mantello su una sedia mi lascio cadere pesantemente sul letto. Chiudo gli occhi e abbozzo un cenno di saluto al mio coinquilino.

«Grazie Andrew, ma ho sbocconcellato qualcosa con la compagnia finite le prove. Tu piuttosto, come mai devi ancora cenare?

«Ho avuto alcuni contrattempi. Decisamente seccanti, a dirla tutta.»

Mi lancia uno sguardo eloquente e non fatico a comprendere. La polizia è disposta a chiudere un occhio riguardo al duello fra Ash ed Edmund, ma per quanto concerne Randall e il suo ruolo nella faccenda sembra essere di tutt'altro avviso. Pensare che sarei dovuto esserci io al suo posto quella mattina, se solo non avessi girovagato tutta la notte per Londra in preda alla rabbia e alla frustrazione, nel doloroso tentativo di schiarirmi le idee e valutare il da farsi, prima di crollare del tutto e cedere completamente alla ragione e allo sconforto. D’altronde allora ero ancora convinto che Lady Kitajima fosse innamorata di Ash. Temevo che My Lord si sarebbe accorto dei miei pensieri, nonché della mia invidia, una volta che si fosse risvegliato dal suo sonno alcolico, e non ero sicuro di poterlo affrontare. Nonostante ora sappia che la verità è un’altra, ho ancora un certo timore ad affrontarlo, un imbarazzo affatto usuale nel mio carattere.

«È a causa mia se ti trovi in questa situazione, non riesco a darmene pace.»

Mi alzo a sedere sul letto con un sospiro. Non avrei mai voluto coinvolgere Randall in tutto questo, avrei davvero voluto esserci io al suo posto quella mattina. Ash non avrebbe sbagliato il bersaglio.

«È stata una mia scelta Masumi, non assumerti colpe che non hai. E comunque My Lord si sta prodigando oltremisura per appianare la questione, anche oggi ha quasi litigato con l’ufficiale incaricato.»

Ha pronunciato quelle parole come se nulla fosse, senza alzare lo sguardo o fermare la mano intenta ad accomodare la camicia, ma ho avuto l’impressione di vedere le sue labbra arricciarsi leggermente in un sorriso appena accennato. Poi mi fissa, scrutandomi serio in volto.

«Tu piuttosto, che hai? Sembri alquanto pensieroso.»

Mi alzo definitivamente dal letto e lascio cadere una manata amichevole sulla spalla di Randall.

«Ti accompagno. Ho giusto bisogno di trascorrere qualche ora in compagnia di un amico questa sera.»

Ci chiudiamola porta della stanza alle spalle, scendiamo le scale e accennato un breve saluto a un'accigliata Mrs Griffiths ci avviamo spediti alla nostra locanda preferita.

 

«Talbot mi ha licenziato.»

Randall alza gli occhi dalla zuppa che stava portando alla bocca e posa il cucchiaio nel piatto.

«Stai scherzando?»

«No, affatto.» Avvicino il boccale di birra alle labbra e mi schiarisco la gola così secca da farmi quasi male. «Ha detto che per me è tempo di cambiare aria. Di fare nuove esperienze. Di abbandonare il teatro shakespeariano.»

Randall si lascia sfuggire un grugnito di disappunto prima di riprendere in mano la sua cena.

«Lo scopo? Mi sembrava di aver capito che per lui fossi una sorta di attore di punta sul quale avesse rivestito grandi aspettative. Cos'è cambiato?»

«Non lo so. Ma qualcosa è sicuramente cambiato, ed è qualcosa che ha a che fare con Talbot, Brodribb e forse anche con le misteriose assenze del mio mentore nell'ultimo periodo.»

Lascio andare un sospiro, un modo come un altro per cercare di allentare la tensione che mi opprime la mente e cercare di analizzare gli ultimi avvenimenti con tutta la lucidità di cui sono capace.

 

Talbot mi è sembrato strano fin dal suo primo ingresso al teatro per le prove della mattina. Meno curato del solito, con la mente spesso assente, lo sguardo fisso e un'irascibilità a stento contenuta. Certo, la messa in scena di Romeo e Giulietta sta creando qualche problema in più del previsto e non solo perché sono stato scelto io come protagonista, cosa che non manca mai di suscitare qualche forma di invidia e disappunto tra i miei colleghi, ma i suoi pensieri erano costantemente rivolti altrove. A dirla tutta, non sembrava nemmeno che gli importasse un granché delle prove, a parte il calendario. Lo ha fissato a lungo, soffermandosi pensieroso sulla data della prima. E poi il licenziamento. Mi ha chiesto di fermarmi dopo che gli altri se ne erano andati e una volta rimasti soli mi si è avvicinato, scrutandomi a lungo prima di parlare.

«Il tuo tempo con me è finito Masumi. Devi cercare nuove strade. Devi evolvere.»

Non sono riuscito a proferire parola, non ho potuto fare altro che fissarlo sorpreso e incredulo. Quando infine ho aperto bocca, non ne è uscito altro che un perché appena sussurrato.

«Perché il tempo corre e io non voglio sprecare né il tuo talento né l'unica cosa realmente buona che ho creato nella mia vita.»

Poi si è scostato velocemente, con un balzo è salito sul palcoscenico e con gesto teatrale ha indicato il proscenio e la platea, abbracciando con lo sguardo la sua unica, vera ragione di vita.

«Lo vedi tutto questo? Chiudi gli occhi, senti il frusciare dei vestiti, il mormorio sommesso, il silenzio improvviso e lo scroscio degli applausi? Li senti?»

«Sì.» Sentivo veramente tutto, come se il teatro fosse gremito e tutti pendessero letteralmente dalle mie labbra, stregati dalla mia recitazione, con gli occhi incollati sul mio personaggio, incapaci di distogliere lo sguardo.

«È questo il tuo scopo, il tuo destino. Se rimarrai incatenato qui, se continuerai a camminare nella mia ombra non li sentirai più. Morirai come uomo e come attore, perché non avrai più nulla di nuovo da proporre.»

Poi mi si è inginocchiato di fronte , in modo che i nostri volti fossero alla stessa altezza, e io mi sono avvicinato, ritrovando in lui quello sguardo febbrile e ferino che rappresenta l'essenza indiscutibile del suo fascino. Mi si è avvicinato talmente tanto che ho sentito l'odore della sua pelle, un sentore selvaggio, e lungo la schiena una scarica di brividi che poco assomigliava all'eccitazione e molto alla paura.

«Non sprecare il tuo talento più di quanto io non ti abbia già permesso. Me lo devi. Ho sfruttato abbastanza le tue capacità, ora è tempo che mi dimostri di essere degno di portare in scena la mia opera. Se mi deluderai, o se capirò di avere sopravvalutato il tuo talento, non avrò alcuna pietà, né alcuna remora a porre la mia vita nelle mani del tuo rivale.»

Ricordo di aver socchiuso appena gli occhi, colpito nell'orgoglio.

«Non lo farò.»

Siamo rimasti a fissarci a lungo finché Talbot non mi ha voltato le spalle, per uscire dalle quinte di scena come l’attore consumato che è.

«Questa è l'ultima opera che rappresenterai con la mia compagnia. Sei licenziato. Con il prossimo spettacolo darai l'addio ai tuoi colleghi.»

 

«Mi stai dicendo che ti ha licenziato per farti un favore?»

Randall mi interroga dubbioso, alzando appena un sopracciglio mentre allontana con una mano il piatto vuoto sul tavolo.

«Per quanto possa sembrare assurdo, sì.»

Effettivamente non avevo pensato alla cosa sotto questa prospettiva. Certo però che più che un favore sembra uno scherzo, e nemmeno troppo divertente.

«Ma quest'opera misteriosa per la quale saresti in lizza con quell'attore dal nome impronunciabile, di cosa tratta? E di che genere di teatro stiamo parlando?»

Sospirando mi passo distrattamente una mano tra i capelli sciolti sulle spalle.

«È un opera innovativa da quel che ho capito, ha a che fare con il sociale, con il teatro contemporaneo e con lo spirito della natura in quest'epoca di modernità. Non so ancora nulla della trama, né ho mai visto il copione.»

Randall si è allungato sulla sedia, sento le sue gambe sfiorare le mie sotto il tavolo. Incrocia le braccia e mi osserva.

«Beh, se le cose stanno in questo modo direi che è anche ora che tu metta per un poco da parte Shakespeare e abbracci nuove esperienze. Anche se la parte di Romeo in questo periodo ti sta proprio a pennello» conclude con un sorrisetto canzonatorio.

Mi rendo conto di essere arrossito, imbarazzato, e non riesco a fare a meno di fulminarlo con lo sguardo. Per tutta risposta il mio amico scoppia a ridere di gusto e ordina un secondo boccale di birra per entrambi.

«L'unico problema è l'affitto. Come pensi di fare? Lady Kitajima potrebbe darti una mano.»

«Nel modo più assoluto non intendo coinvolgerla in questa faccenda. È già sufficientemente complicato così, non riesco ancora a rendermi pienamente conto di ciò che è successo. Ad ogni modo, troverò una soluzione. O un lavoro.»

Alziamo entrambi i nostri boccali, brindando non so bene a cosa, forse semplicemente alla nostra amicizia. Mi ritengo fortunato ad aver incontrato un uomo come Randall.

«Sai, alla fine lo sentivo. Sapevo di non esserle indifferente. Pensavo fossero solo mie illusioni, il fatto di desiderarla così tanto, credevo che...»

Randall sorride e si sporge sul tavolo per posarmi amichevolmente una mano sulla spalla.

«È difficile essere obiettivi quando si è innamorati. Sei fortunato a essere corrisposto, amico mio.»

Sospiro, ho un brutto presentimento che non riesco ad allontanare dalla mente.

«Ho paura Randall. Per lei sarei disposto a fare qualunque cosa. E per qualunque, intendo davvero tutto. Ma cos' ho da offrirle? Quale futuro può avere con me?» Bevo un sorso di birra, ma lo sento bruciare in gola. Mi sforzo di berne un secondo. «Non posso accettare che sposi quel bastardo di Hendrick, e allo stesso tempo non posso fare nulla alla luce del sole per risolvere questa situazione. Non senza provocare uno scandalo, almeno. Nemmeno Ash è riuscito a sottrarla alle sue luride mani. Ed io non sono niente.»

Randall mi toglie il boccale dalla mano e lo posa sul tavolo, accanto al suo.

«Tu non sei Ash.»

Alzo il viso e lui non distoglie lo sguardo.

«Tu sei libero.»

Cerco di capire mentre Randall scuote il capo e torna ad appoggiare le spalle allo schienale della sedia.

«Se con questo intendi dire che posso rapirla e fuggire con lei sì, potrei farlo. Ma non sono sicuro di volerlo. Non potrei mai farle questo. Non potrei condannarla a una vita di stenti e miseria. L'amo talmente tanto che sarei anche disposto a rinunciare a lei, se fosse per il suo bene. Se mai dovessi arrivare a questo, spero che Ash non faccia lo stesso. Spero che le stia sempre accanto e che non l'abbandoni mai. Non riesco nemmeno più ad esserne geloso.»

Rimaniamo entrambi in silenzio, ognuno chiuso nei propri pensieri, finché la voce di Randall mi arriva all'orecchio in un sussurro isolato dalla confusione della sala.

«Non lo farà.»

Socchiudo gli occhi, dubbioso.

«Come fai a esserne certo?»

Ci pensa un istante, e mi risponde prima di ingoiare un lungo sorso di birra dal boccale ormai vuoto.

«Perché io non lo farei. E lui è come me, te l’assicuro.»

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Capitolo 24
*** Cap. 25 ***


Capitolo 25

 

Piccolo ciliegio selvaggio

io solo l'amo

e solo lui fa altrettanto

(Matsuo Basho)

 

La notizia mi coglie talmente di sorpresa che rimango a bocca aperta per qualche secondo prima che il mio cervello riesca ad assimilarla completamente.

«Lo ha licenziato? E perché?»

Lawrence mi guarda e scuote la testa.

«Non l’ho capito bene neanche io, sembra per non incatenarlo a un solo tipo di teatro e per dargli l’occasione di imparare anche altri metodi di recitazione.» Fa un gesto con la mano, come a voler accantonare un pensiero molesto. «Artisti! Chi li capisce è bravo.»

Sorrido mio malgrado. In effetti Lawrence Talbot è un personaggio alquanto peculiare: ogni volta che ci siamo incontrati, e non è stato spesso per mia fortuna, mi ha sempre trasmesso sensazioni indefinibili. E anche quello che mi ha raccontato Masumi – tu-tum, tu-tum, tu-tum il cuore parte al galoppo al solo ricordo di quando mi ha chiesto di chiamarlo con il suo primo nome – è piuttosto inquietante. Sembra infatti che negli ultimi mesi Mr. Talbot sia molto cambiato: il suo carattere già ombroso è peggiorato considerevolmente ed è diventato anche molto più aggressivo. Un paio di volte Masumi ha avuto addirittura l’impressione che si trattenesse a stento dall’attaccare fisicamente qualche malcapitato che era incorso nelle sue ire, limitandosi a ringhiargli contro.

«Masumi è convinto che nasconda un segreto. Qualcosa di molto più importante e pericoloso della fantomatica opera a cui tutti sembrano essere così interessati.»

«Masumi, eh!» ribatte Lawrence con un sorriso sornione, accarezzando con la punta del dito la cornice di uno dei quadri alle pareti. Siamo nel salotto di Mr. Hughes, in attesa dell’arrivo di Masumi per la seduta settimanale. Lawrence ha insistito per accompagnarmi, adducendo come scusa che non si incontrano dalla sera dell’incendio a teatro. «Siete già a questo punto?»

Lo guardo severa, anche se sono consapevole di non riuscire a nascondere la fiammella di divertimento che sento ardere nel fondo dei miei occhi. «Siamo già a questo punto» confermo con aria di sfida, mettendo su un finto broncio, per poi sciogliermi in una risatina quando lui alza gli occhi al cielo e scuote la testa.

Non ho potuto fare a meno di raccontargli quello che è successo in questa stessa casa solo qualche settimana fa; non potrei mai nascondergli nulla, e neppure lo voglio. In un certo senso lui è parte della mia coscienza, mi conosce meglio di chiunque altro – spesso sospetto addirittura che mi conosca meglio di quanto non faccia io stessa. Parlare con lui significa quasi sdoppiarmi e avere un punto di vista diverso, più esperto, sui miei pensieri e le mie azioni. Come avrei potuto quindi tacergli la mia felicità? E ha reagito esattamente come mi aspettavo: mi ha guardata preoccupato, poi ha sorriso, ha sospirato e ha detto che avrebbe fatto di tutto per aiutarmi. Quindi adesso eccolo qui, nelle vesti di fratello maggiore, ad aspettare l’arrivo del mio spasimante per ribadire tacitamente la sua presenza alle mie spalle. Nessuno potrà mai farmi del male, perché ci sarà sempre lui a difendermi. Sento gli occhi inumidirsi di commozione e scuoto la testa per recuperare il contegno. «Comunque torniamo alle cose serie. Come possiamo aiutarlo? E Mr. Randall cosa dice?» domando.

«Sembra che voglia cercarsi un’altra scrittura, o un lavoro» risponde Lawrence con un sospiro. «Ma non credo che sarà facile. È vero che lavorando con Talbot si è fatto conoscere, ma il fatto che lui lo voglia licenziare gioca a suo sfavore, almeno con le compagnie di un certo livello, che sono anche le uniche in grado di pagarlo abbastanza da permettergli un’esistenza quantomeno tranquilla.»

Rifletto un attimo sulle parole di Lawrence. Mr. Talbot ha fama di uomo scorbutico ed esigente, ma è anche risaputo che quando trova un attore promettente non lo lascia andare via per niente al mondo, quindi il fatto che voglia licenziare Masumi getta un’ombra sulle sue capacità, e per quel motivo le altre compagnie lo guarderanno con sospetto.

«C’è qualcosa di concreto che possiamo fare?» chiedo, riscuotendomi dai miei pensieri e osservandolo mentre torna a sedersi sulla poltrona davanti alla porta-finestra. «Magari potreste convincerlo ad accettare un aiuto economico. Naturalmente sarei io a procurarvi il denaro.»

Lawrence scoppia a ridere. «Siete meravigliosamente ingenua Maya. Pura e ingenua.»

Alzo il mento in un gesto di sfida.

«Cosa c’è di tanto divertente in quello che ho detto?»

«C’è che proprio non conoscete gli uomini Maya, e tantomeno il loro orgoglio smisurato. Hayami poi è un campione di orgoglio» dice sorridendo leggermente, come se ricordasse qualcosa. «Non accetterà mai denaro da me, non finché non avrà la certezza di poterlo restituire. Già si sente in debito perché l’ho presentato a Talbot e l’ho soccorso quando stava male, preferirebbe morire che accettare altro aiuto da parte mia. E non pensate che lo accetterebbe da voi» alza una mano a fermare le parole che stavano per uscirmi dalla bocca. «Un uomo non può abbassarsi a essere mantenuto dalla donna che ama. Se accettate un consiglio non accennateglielo nemmeno: lo mettereste solo in gravissimo imbarazzo e ferireste a morte il suo amor proprio.»

«E allora come se la caverà?»

«Forse potrei convincere Randall a… Ma no, non funzionerebbe. Non si lascerà sostenere da nessuno dei suoi conoscenti.»

«E se non fosse un conoscente?»

Lawrence aggrotta le sopracciglia. «E allora chi?»

«Ehm… un’ammiratrice sconosciuta?»

Rimane un attimo a guardarmi confuso, ma poi un sorriso trionfale si fa strada sul suo bel viso. «La vecchia ammiratrice segreta… Ma certo! Dobbiamo organizzare tutto alla perfezione e fare in modo che non possa rifiutare.»

«Lawrence, a questo proposito avrei una cortesia enorme da chiedervi. Voi siete…» mi fermo un attimo imbarazzata, «… avete più esperienza in certe cose.»

Lo vedo alzare un sopracciglio, perplesso.

«Di cosa state parlando?»

«Devo vendere dei gioielli. Di nascosto.»

«Non ce n’è bisogno Maya. Provvederò io a tutto» dice, chiudendo la questione con un gesto secco della mano.

«No!» Questa volta è lui a sgranare gli occhi per la sorpresa, ma io non ho intenzione di cedere. «Voglio essere io ad aiutarlo. Vi prego Lawrence. Voglio poter fare almeno questo per lui. Voglio poter sapere, anche se solo dentro di me, che ho potuto dargli qualcosa di concreto.»

Laurie rimane qualche secondo in silenzio, a fissarmi. Poi sospira e annuisce. «Va bene, Maya. Ma cosa direte all’ammiraglio? Che li avete perduti?»

«Sì, se prendo una delle collane della mamma, dovrebbe bastare per pagare l’affitto di un appartamento per diversi mesi. Almeno, Mae mi ha detto così.»

«Sì. Presumo possa bastare. Ma l’ammiratrice come verrà a saperlo?»

«Immagino che prima o poi la notizia sarà resa pubblica. Lei interverrà in quel momento.»

«Mi fate quasi paura, Maya. Siete perversamente astuta. Sareste la moglie ideale per un politico o un diplomatico.» Un ghigno quasi spiacevole gli increspa le labbra mentre pronuncia quelle parole.

Lo fulmino con lo sguardo. «Smettetela! C’è già Edmund a tormentarmi» dico con un sospiro.

«A proposito, come sta? Ci sono novità riguardo allo scioglimento del fidanzamento?»

«No, ancora non ce ne sono. Visto che la regina aveva dato il suo assenso, ormai entrambe le famiglie sono vincolate, però il nonno ha chiesto una prova delle… hmmm… possibilità riproduttive di Edmund. Anche se sinceramente non capisco come potrà fare ad averla.»

Lawrence scoppia di nuovo a ridere.

«Vecchio volpone!» dice con un lampo di ammirazione nello sguardo.

Aggrotto le sopracciglia. «Volete avere la bontà di spiegarmi almeno voi? L’ammiraglio si è limitato a darmi questa comunicazione e io non ho avuto l’ardire di chiedere altro.»

«Beh… ecco… credo che prima di dare il suo beneplacito, vostro nonno voglia vedere il frutto dei lombi di Edmund» mi spiega con un certo imbarazzo.

«E... e come farà?» domando, anche se in verità non sono affatto sicura di volerlo sapere.

«Gli verrà chiesto di giacere con una donna e ingravidarla.»

Non credo di aver sentito bene. Scuoto la testa e lo guardo in viso, cercando di capire se stia parlando sul serio oppure no.

«Una donna? Quale donna?»

«Di certo non voi, Maya, state tranquilla. Probabilmente una cameriera.»

«E lei accetterà di… di fare una cosa del genere?» Quasi non riesco a parlare per l’orrore.

«Pensateci Maya… sicuramente le verrà offerto un vitalizio e sarà comunque la madre del figlio di un conte, anche se illegittimo. Sicuramente vivrà meglio che lavorando quindici ore al giorno senza nessuna certezza.»

Deglutisco a vuoto. Mi sento la bocca secca come sabbia e lacrime di frustrazione mi salgono agli occhi.

«Ma non è giusto!»

«Ci sono infinite cose che non sono giuste al mondo Maya…»

Un colpo discreto alla porta lo interrompe, e Sebastian entra per annunciare l’arrivo di Masumi.

In un istante dimentico Edmund e tutto quello che lo riguarda e mi alzo in piedi per andare ad accoglierlo. So che non dovrei farlo, che questa non è casa mia ma non posso impedirmi di corrergli incontro.

Sebastian si fa da parte e la figura di Masumi si staglia sulla porta, arrivando con la sua altezza quasi a toccare lo stipite. Non appena i nostri sguardi si incontrano i tratti tesi del suo viso si distendono in un sorriso raggiante e io sento le viscere contrarsi. Passerà mai questa emozione? Riuscirò mai ad abituarmi alla sua bellezza? Smetterò mai di rendere grazie a Dio e a tutti i santi per il solo fatto di poterlo avere? In due falcate mi è accanto e stringe delicatamente la mano che gli porgo, posandovi sopra un bacio leggero.

«Solo un acconto» dice, ammiccando. Io arrossisco e distolgo lo sguardo imbarazzata.

Dal giorno in cui, non so come e grazie a quale coraggio, gli ho aperto il mio cuore e Mr. Hughes ci ha tacitamente offerto questo porto sicuro, abbiamo trascorso insieme molte ore a parlare e a raccontarci come abbiamo vissuto i mesi di incomprensione e apparente distacco. Non abbiamo parlato né del passato lontano, né del futuro: per ora ci accontentiamo di vivere questo sogno presente, cercando quanto più possibile di chiudere fuori il mondo reale. Sappiamo entrambi che prima o poi ci troveremo ad affrontare tutto quello che stiamo così disperatamente cercando di dimenticare, ma non è ancora il momento. Certe volte, mentre parliamo, giro improvvisamente la testa e lo scopro a rivolgermi uno sguardo colmo di paura e malinconia e in quei momenti vorrei che un vento impetuoso ci sollevasse e ci portasse via con sé, lontano da tutto e tutti, noi due soli, daccapo. Perché lo so a cosa pensa quando mi guarda così: pensa a Edmund, alla differenza tra il mio mondo e il suo, al suo non sentirsi all’altezza del mio rango.

«Hayami, sono un po’ geloso sapete?» Laurie si è alzato e si è messo davanti alla finestra, di spalle. Il viso è quasi completamente in ombra, la postura marziale, con le gambe leggermente allargate e le mani intrecciate dietro alla schiena. Al suono della sua voce ci giriamo contemporaneamente e sento Masumi irrigidirsi leggermente. Aggrotto le sopracciglia. «A me non avete mai chiesto di chiamarvi per nome, nonostante vi conosca da molto più tempo» conclude, avvicinandosi e porgendogli la mano. Masumi la guarda, il viso arrossato, poi lentamente allunga la sua e la stringe.

«Non pensavo che vi interessasse» risponde, rilassandosi.

«Sono tante le cose a cui non pensavate, se mi permettete» lo sfotte Lawrence.

«Lawrence! Smettetela di tormentarlo» lo rimprovero.

«Ai vostri ordini, mia signora» si mette sull’attenti lui. «Andrò a curiosare un po’ nello studio di Mr. Hughes, per dare il tempo al vostro cuore generoso di addolcirsi e perdonarmi.» Mi fa l’occhiolino ed esce chiudendosi la porta alle spalle.

Masumi e io rimaniamo qualche secondo a fissare il punto in cui stava Lawrence, mentre le nostre mani si cercano e si stringono, poi mi sporgo verso di lui e mi lascio andare contro il suo petto. Le sue braccia mi avvolgono immediatamente e mi stringono.

«Buongiorno, mia diletta! Come state oggi?»

«Bene adesso, mio cavaliere. E voi?» rispondo, stando al suo gioco.

Lui non dice nulla, ma si china su di me. Le sue labbra sfregano le mie con gentilezza, avanti e indietro, avanti e indietro. Sento il suo respiro caldo e profumato nella mia bocca. Il mondo perde i suoi confini, mi aggrappo con forza alle sue spalle e alzo il viso, invitandolo. Lui però si lascia sfuggire una risatina e comincia a mordicchiarmi e succhiarmi il labbro inferiore. I suoi occhi sono un pozzo in fondo al quale c’è la promessa di un mare di luce.

«Hmmm, sai di pane e marmellata…» dice con voce sommessa e roca. «Viene voglia di mangiarti!»

Oddioddioddioddioddioddio…

Smette di giocare con la mia bocca, e lasciandosi dietro una scia di baci si sposta verso l’orecchio. Alterna piccoli e delicati morsetti al lobo ad affondi con la punta della lingua nella fossetta che sta dietro, dove l’orecchio di congiunge al collo. Il mio respiro affannoso si trasforma in un gemito e lo sento ridere ancora.

«Ti sono mancato?» mi chiede con il fiato corto, prima di passare a baciarmi il profilo della mascella risalendo verso la bocca. E alla fine si tuffa nella mia calda umidità, e non è il mio cuore a fermarsi ma il tempo. Le mani di Masumi risalgono lungo la mia schiena e mi si stringono attorno al collo e alla testa costringendomi a piegarla ancora di più all’indietro, mentre i nostri denti picchiettano gli uni contro gli altri, e le lingue sembrano sfidarsi in un acceso duello.

Non mi riconosco più, abbandono ogni velleità di controllo e mi lascio trasportare dal fulmine bianco che mi attraversa. Gli metto anche io le mani dietro alla testa, attirandolo ancora di più verso di me, come se cercassi di fondermi con lui. Perdo la consapevolezza del mio corpo ma acquisto quella del suo: non sono più un essere umano ma un nodo di sensazioni, e ogni suo tocco, ogni sua carezza scatena una tempesta di scintille e piacere.

«Ti voglio Maya, che gli Dei mi perdonino! Non ti lascerò mai a nessun altro, dovessi dannarmi l’anima per questo!» mi dice sulle labbra.

Sento una lacrima scendermi lungo la guancia e intrufolarsi tra i nostri visi attaccati. Masumi si stacca un attimo dalla mia bocca e mi guarda. Poi lentamente asciuga via quella scia salata e depone un bacio leggero su ognuno dei miei occhi, prima di abbracciarmi stretta.

«Rinuncerei a tutto per te, se solo me lo permettessi.»

Ma io non posso permetterlo.

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Capitolo 25
*** Cap. 26 ***


Capitolo 26

Ancora una volta

Qualcuno mi oltrepassa -

sera d'autunno

(Kobayashi Issa)

 

 

«O fedele mercante,

I tuoi veleni sono rapidi: io muoio con un bacio!»

È la mia ultima battuta. Il mio ultimo spettacolo. Con la calata del sipario dirò addio alla compagnia di Talbot. Mi accascio al suolo, senza vita. Non sento più niente, nemmeno il battito del mio cuore. Non provo più niente, a parte una debole sensazione di gelo che pare attraversarmi gli abiti e la pelle, sempre più intensa, alla ricerca delle ossa. Quasi non respiro, tengo il capo reclinato sul braccio, ascolto soltanto. Romeo è morto.

«Questo giorno porta con sé una grigia pace.

Il sole per il dolore naconde la sua faccia.

Andiamo: parleremo ancora di questi fatti dolorosi,

perché fra coloro che vi parteciparono,

alcuni saranno perdonati, altri puniti.

Certo non vi fu mai una storia più infelice

di quella di Giulietta e del suo Romeo.»

Eccolo il verso che aspettavo, la mia condanna e la mia liberazione. Ora manca solo la calata del sipario, gli attimi sospesi di attesa, il giudizio del pubblico. Infine l'annuncio alla compagnia del mio licenziamento, accompagnato dal mio improbabile ottimismo. Alcuni all'interno della compagnia saranno felici del mio abbandono, altri, i pochi con i quali sono riuscito a intrattenere un minimo di rapporto, forse se ne rammaricheranno, sebbene per breve tempo: nel nostro mondo la competizione è troppo alta perché sentimenti quali l'amicizia o la solidarietà abbiano il tempo di costruirsi e la forza di sopravvivere. Per quanto concerne Talbot, il buio più nero avvolge la mia mente. Ha voluto allontanarmi, ma sembra angustiarsene. Possiede una volontà ferrea e un notevole controllo sulle proprie emozioni, ma spesso l'ho scorto osservarmi mentre pensava che non me ne accorgessi e ho percepito una malinconia diversa nel suo sguardo, una paura spesso celata dalla rabbia nelle sue parole e un'ansia costante avvolgerlo nel timore di non avere più tempo.

M'inchino di fronte al plauso con cui viene accolto il mio rientro sul palcoscenico, e voglio omaggiare il pubblico con tutta la riconoscenza che alberga nel mio cuore per il calore dal quale mi sento avvolto e per la stima dimostrata nei miei confronti. So che Maya mi sta osservando, ma i miei occhi non riescono a raggiungerla, e forse è meglio così. Non sopporterei di vederla seduta accanto a quel bastardo di Edmund, e allo stesso tempo, non vorrei mai porla in una situazione imbarazzante poiché difficilmente i miei occhi riuscirebbero a mascherare i sentimenti inequivocabili che provo nei suoi confronti. Porgo un nuovo inchino e con un gesto carico di amore incondizionato e gratitudine lancio verso la platea la rosa che tengo delicatamente tra le dita. Sono sicuro che la mia ammiratrice sia fra il pubblico, e se è così capirà che quella rosa è per lei. Non posso fare altro per comunicare con la mia misteriosa e sconosciuta sostenitrice: non so chi sia, né tantomeno come contattarla. Ma spero con tutto il cuore che possa essere lei, in qualunque modo, a mettersi in contatto con me. Perché in un modo o nell'altro io devo scoprire chi sia, devo capire perché ha voluto fare tanto per me e ringraziarla. Ti prego ammiratrice, dammi la possibilità di ripagarti di tutto. Te lo devo e tu lo devi a me.

 

Dire addio ai miei colleghi è stato più difficile di quanto avessi immaginato. Per quanto pronto, per quanto preparato, si è rivelato comunque essere un pugno nello stomaco, freddo e calcolato, così potente da togliere il fiato. Sono ufficialmente un uomo disoccupato, licenziato da una delle più prestigiose compagnie teatrali londinesi, straniero, con pochi soldi in tasca e un affitto da pagare. La mia mente è un turbinio di pensieri allo sbando, mille domande mi si accavallano senza risposta, e io le accolgo e le ascolto, impotente. Chi mi offrirà un nuovo lavoro nel campo dello spettacolo ora? Con questi presupposti, poi? Perché Talbot mi ha fatto questo, abbandonandomi a me stesso senza punti di riferimento e completamente allo sbando? Che cosa vuole realmente da me? E io sono realmente disposto a dargli ciò che vuole? Lo voglio davvero?

Il volo radente di un pipistrello sopra il mio capo mi distoglie momentaneamente dai miei pensieri. Capisco dove sono arrivato e ho un sussulto. Ho camminato così tanto e così a lungo riflettendo sugli ultimi avvenimenti della mia vita da non essermi nemmeno reso conto di dove le mie gambe mi stessero portando. Sorrido e scuoto il capo. Chi voglio prendere in giro? Sapevo esattamente quale direzione avrei preso una volta lasciata la locanda che mi ha visto condividere la mia ultima cena insieme agli attori della compagnia di Talbot. La verità è che avevo bisogno di Maya, che ho bisogno di Maya. Ho bisogno di sentirla vicina anche se non potrò vederla, anche se non potrò stringerla, o baciarla. Bisogno di sapere che c'è, che è qui, a pochi passi. Tanto mi basta. Guardo la luna alta nel cielo e penso che ormai deve essere tardi, tanto tardi, e che lei starà sicuramente dormendo. La immagino abbandonata al sonno, il capo posato delicatamente sul cuscino, le belle labbra carnose un poco dischiuse, i capelli lisci e setosi ombreggiarle appena il viso. Mi passo una mano tra i capelli, quasi vergognandomi di me stesso per la direzione involontaria e lussuriosa presa dai miei pensieri, quasi volessi aiutarmi, fisicamente, a cacciarli dalla mia testa. E poi la vedo. Sbatto un paio di volte le palpebre, poi socchiudo gli occhi e cerco di mettere a fuoco la figura che intravedo tra le ombre degli alberi proiettate dalla luna su un balcone della casa. Mi avvicino un poco per osservare meglio, furtivamente, celandomi nell'ombra. Si tratta di una donna, e io trattengo il fiato. La osservo stringere le braccia intorno alla veste, quasi a proteggersi dall'aria pungente della notte e contemporaneamente voltare leggermente in viso a incontrare la luce. Esco allo scoperto, incredulo. Maya!

Devo aver pronunciato il nome a voce più alta di quanto avrei voluto, perché la vedo voltarsi nella mia direzione, arretrare un istante e portare impaurita una mano a coprirsi la bocca. Ma si riprende subito. Dopo essersi guardata bene intorno mi fa un cenno con la mano, e io capisco di dover raggiungere un qualche luogo sul retro. Mi avvio rinvigorito da quest'incontro del tutto inaspettato, per quanto anelato, senza sapere esattamente dove andare. Trovo un cancello e aspetto acquattato nell'ombra. Non devo aspettare molto. Una figura incappucciata di nero scivola silenziosa lungo il sentiero di terra battuta e giunta in prossimità del cancello si nasconde all'ombra del muretto di recinzione. Non accade nulla. Accenno un colpetto di tosse, giusto per far notare la mia presenza. Spero di cuore si tratti di Maya, o Mae, in caso contrario, non oso pensare alle conseguenze della mia intraprendenza.

«Masumi?»

È la sua voce e la tensione mi abbandona all'istante. Esco dal mio rifugio d'ombra e mi aggrappo alle sbarre in ferro battuto del cancello.

«Maya, sia ringraziato Dio, sei tu! Per un istante ho temuto il peggio.»

Lei stringe le sue piccole mani intorno alle mie, ma non ha ancora abbandonato il suo atteggiamento guardingo. Un cappuccio le nasconde il volto, e devo chinarmi per guardarla negli occhi. È preoccupata, e penso che dovrei essere più cauto anch'io.

«Non possiamo stare qui, è troppo pericoloso, siamo scoperti. Aggira la recinzione, c'è un piccolo cancello nascosto dietro l'edera e lo riconoscerai perché è sovrastato dai rami di un susino. Ho appena spedito Mae ad aprirlo, io ti aspetterò lì.»

«Maya...»

«Vai Masumi, non possiamo stare così alla luce. Oltretutto la camera dell'ammiraglio dà su questo lato; per quanto dorma profondamente, io ho paura.»

Rifiuta la carezza della mano che avevo allungato verso il suo viso e con un'ultima occhiata si allontana silenziosamente com'era arrivata, divenendo ben presto un'ombra confusa fra le ombre, ingannevole, indistinta e scura. Mi allontano a mia volta dalla luce e mi affretto a raggiungere l'appuntamento con il cuore in gola, le gambe tremanti e un'incongrua euforia nella mente. Scorgo il susino, l'edera, e avvicinandomi anche il cancello lasciato leggermente socchiuso. Lo sospingo guardingo, per accertarmi che non faccia troppo rumore, ma i cardini sembrano essere ben oliati. Lo apro quel tento che basta per riuscire a passare e una volta all'interno sento due braccia esili afferrarmi da dietro e un corpo morbido appoggiarsi con decisione alla mia schiena. Sorrido, la riconoscerei tra mille. Le afferro le mani e allento un poco la sua stretta prima di voltarmi e sospingerla con decisione alla mia sinistra ove l'ombra si fa più fitta, più scura e complice. La bacio con esigenza, desiderio e disperazione, riversando sulle sue labbra tutte le emozioni della serata, il mio amore combattuto, le mie insicurezze e le mie paure. La sento rispondere con trasporto e il desiderio di lei si fa talmente acceso da farmi girare la testa. Affondo allora il viso tra i suoi capelli profumati e la stringo forte, aggrappandomi a lei, sussurrandole dolci parole in una lingua a lei conosciuta, nella nostra lingua, e la sento sorridere contro il mio petto, felice.

«È una follia averti fatto entrare qui, dovrei allontanarti e rientrare in casa all'istante.»

«Ma non lo farai, perché siamo due folli innamorati.»

«Ho messo Mae di guardia all'ingresso. Al primo segnale di pericolo siamo d'accordo che accenderà il candelabro. Da qui ce ne accorgeremmo subito.» Scuote la testa un istante, dubbiosa. «Dio mio, cosa sto facendo?»

Vorrei risponderle ma lei me lo impedisce posandomi con decisione un dito sulle labbra; poi mi prende per mano e io mi ritrovo a seguirla per un bel tratto lungo il perimetro del giardino, il più silenziosamente possibile e a ridosso del muretto sovrastato dai rampicanti, fino a raggiungere una piccola panchina in ferro battuto nascosta tra gli alberi.

«È il mio piccolo giardino segreto, da piccola venivo sempre qui quando volevo scappare da qualcuno o stare un poco da sola.» Abbassa gli occhi un istante, ma anche al buio riesco a vederne il rossore sulle guance. «Sì, non serve che tu me lo dica, non è un granché come nascondiglio segreto, però è ben nascosto e lo sento mio.» Le sfioro una guancia con la punta delle dita, e lei mi sorride. «Ci sediamo?»

Tocca a me sorriderle ora, e senza mai lasciarle la mano prendo posto accanto a lei.

«Non ci speravo d'incontrarti questa notte.»

«Non mentirmi, altrimenti perché saresti venuto?»

«Per sentirti vicina.»

Mi studia un istante, ma non risponde.

«Ho dato l'addio alla compagnia questa sera. Non pensavo mi sarebbe costato così tanta tristezza, pensavo di essermi ormai abituato all'idea.»

«Hai dato l'addio anche alla tua famosa ammiratrice, non è vero? Quella rosa era per lei.»

Non mi aspettavo un tono così piccato da parte sua, e l'espressione lievemente contrita mi strappa un accenno di sorriso. A dirla tutta, mi sento lusingato.

«Certamente, ma non avrei mai sperato di ottenere tanto.»

«Scusami, ma non ti seguo.»

Mi guarda dubbiosa, e questa volta sorrido apertamente. Le prendo il viso tra le mani e le bisbiglio sulle labbra.

«Mi piace saperti gelosa.»

Ma lei si discosta bruscamente, così da evitare il mio bacio, e mi fulmina con lo sguardo.

«Hai preso un abbaglio. Ero solo preoccupata per te, per il tuo futuro.»

«Non è necessario. Troverò una nuova compagnia disposta ad accettarmi tra le sue fila, non ho alcuna intenzione di abbandonare il palcoscenico.» Mi rendo conto di fingere una sicurezza che in realtà non provo, ma non voglio mostrarmi debole o insicuro agli occhi della donna che amo. Non voglio pensare al futuro, mi fa male. In questo momento non esiste altro tempo per me che non sia il presente, il qui e l'ora, al fianco di Lady Kitajima. Poso un gomito sullo schienale della panchina e inclino un poco la testa di lato, per osservarla meglio, consapevole di avere in questo modo il viso in ombra rispetto al suo. «A ogni modo, spero che la mia ammiratrice sia intuitiva quanto lo sei stata tu e che capisca quanto io le sia riconoscente. Probabilmente non sarei qui, se non fosse stato per lei.»

«Magari ci sarei stata io.» Il suo è un sussurro appena percettibile nell'immobilità della notte, e la vedo distogliere subito lo sguardo dal mio, vergognandosi quasi delle parole appena pronunciate.

«Tu non mi potevi soffrire, sono io quello che ti ha desiderata dal primo istante in cui ti ho incontrata. Avresti davvero preso il posto della mia ammiratrice?»

«Per salvarti la vita sì, certo che l'avrei fatto. E diventerei la tua ammiratrice anche adesso se questo servisse a darti coraggio,a farti credere in te stesso, a lottare per ciò in cui credi e desideri.»

Mi guarda di sottecchi e io l'attiro più vicina a me, avvolgendola completamente nel mio abbraccio e le poso le labbra sulla spalla, in un lembo di pelle lasciata nuda dalla veste. La sento rabbrividire e la stringo più forte.

«Lei è preziosa per me, ma tu sei Maya. È da te che ho cercato rifugio questa notte, è fra le tue braccia che sogno di addormentarmi ogni volta che chiudo gli occhi, per cui non dubitare mai del mio amore per te, qualunque cosa succeda questa notte, domani, fra una settimana o un anno...Io ti amo Maya Kitajima, io ti amo.»

È lei a cercare le mie labbra ora, e io non voglio fare altro che assecondarla. Voglio che ricordi i miei baci e che non desideri mai altri baci che non siano i miei.

«Voi baciate come insegna il libro, mio Romeo.»

 

Ora so cosa vuol dire perdere del tutto la cognizione del tempo. Potrebbero essere trascorsi minuti, come ore. Esistiamo solo noi, con i nostri sussurri, i nostri baci e le nostre carezze. E la nostra incoscienza dettata dall'amore e dal bisogno che proviamo entrambi di sentire l'altro vicino, dimenticando di essere soli.

«Sai Masumi, stavo pensando che so davvero poco di te. Del tuo passato intendo.»

Sospiro pesantemente. Non amo parlare di me e avrei preferito continuare ad ascoltare il silenzio abbracciato a lei.

«Possiamo parlarne un'altra volta? Ti racconterò tutto, è una promessa, ma lasciami godere ancora un poco del tuo calore amore mio, prima che canti di nuovo l'allodola, e annunci il mattino e...»

«Era l'usignolo» m'interrompe.

«Era l'allodola, Maya.»

La sento tremare fra le mie braccia e una paura sconosciuta e improvvisa mi contorce le viscere e mi fa serrare impotente palpebre e labbra. Ti prego Maya, non dirlo, non dirlo, non dirlo!

«Masumi, tu pensi che per loro esistesse un'altra possibilità?»

«Non lo so Maya, ma io non sono Romeo.»

Alza il volto e mi fissa bene negli occhi, con una serietà e una determinazione che se possono me la fanno amare e desiderare ancora di più.

«E io non sono Giulietta.»


 

Note:
* W.Shakespeare, Romeo e Giulietta, V, III, vv. 119-120
** W.Shakespeare, Romeo e Giulietta, V, III, vv.305-310
*** W.Shakespeare, Romeo e Giulietta, I, 5, v. 112
Testo di riferimento: Shakespeare, Le tragedie ed. I Meridiani, Mondadori.

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