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Lista capitoli: Capitolo 1: *** Il primo giorno della caduta dei petali di ciliegio. *** Capitolo 2: *** Quando tornai bambina riscoprii quel calore vicino al cuore *** Capitolo 3: *** Quello fu il bacio più bello della mia vita. *** Capitolo 4: *** La città degli acquedotti *** Capitolo 5: *** Vedi Napoli e poi muori *** Capitolo 6: *** Il bacio che ti potrebbe cambiare per sempre *** Capitolo 7: *** Il viaggio nel posto che non conosco *** Capitolo 8: *** Quel sapore sulle labbra prima della partenza. ***
Capitolo 1 *** Il primo giorno della caduta dei petali di ciliegio. ***
Primo
Non
sono molte le persone in grado di credere che possa esistere qualcosa di
sovrannaturale. Quando intendo che non sono in grado è perché guardare un film
su maghi e streghe, ed ogni tanto lanciare qualche incantesimo impugnando un
cucchiaio, è molto differente dal tenere nascosto nella propria scrivania un
antico libro contenente misteriose carte, delle quali nemmeno io ancora conosco
tutto il potenziale.
Quando
finalmente completai l’intera collezione, se si può chiamare così, delle carte
di Clow Reed, ero molto felice, soprattutto alla fine di quell’ultima impresa
contro la carta dell’ombra, quando potei finalmente dire “ti amo” a Li Shaoran;
ovviamente quelle due parole, dette da una me 11enne, mi fanno ancora
sbellicare delle risate. Dirle, però, fu una scelta molto grossa, quasi quanto
quella di decidere di tenere le carte, per evitare futuri problemi.
Essere
in grado di credere a queste carte è certamente molto più facile che credere in
una relazione tra me e Shaoran. Quando hai undici/dodici anni, pensi che tutto
sia per sempre. Anche quando lui partì per Hong Kong a tre mesi dalla fine
della raccolta delle carte, credi che sia solo un piccolo periodo del
per sempre; a tredici ragioni sul fatto che fosse la fine; a quindici pensi che
quel primo amore sia stato meraviglioso e incredibilmente platonico, dato che
oltre il bacio a stampo non si andava; al giorno d’oggi poi riderci su
specchiandoti poco prima di andare a lavoro.
Beh,
si!
Lui
tornò ad Hong Kong, il porto profumato, ho bei ricordi di quel posto, per
continuare gli studi sia di mago che di ordinario studente sotto la severa
mirata della madre ed io, fui straziata dal dolore. Tre mesi belli ed intensi
vennero offuscati dal sapere che aveva una fidanzatina nella città profumata. Ancora
oggi trovo appropriato associare la parola “Merda” alla sua faccia.
Arriviamo
così ai miei primi 15 anni. Fu l’anno nel quale dovetti prendere le mie prime
decisioni di vita importanti, quelle dalle quali non si torna indietro. Avevo
ancora le carte sotto chiave in un doppio fondo della libreria, ovviamente
erano l’ultimo dei miei pensieri dato che mi accingevo a frequentare il primo
giorno di scuola media superiore. I tre anni che ti formano e cambiano per
tutta la vita; eccome se mi hanno cambiato. In primis perché per me furono
quattro, e come secondo fattore, perché mi ritrovavo ad andare in un luogo dove
tutti erano degli sconosciuti.
Tomoyo
non aveva scelto il mio stesso istituto; penso che sia stato a causa del nostro
ultimo litigio. Quando Shaoran partì, lei mi fu molto vicino, troppo vicino,
avevo capito che provava per me qualcosa che andava oltre l’essere amica del
cuore; chiamatemi pure cuore di pietra ma io non provavo i medesimi sentimenti
e dovetti dirglielo. Non fui molto gentile e la ferii profondamente. Bastarono
poche settimane perché si calmassero le acque e tornammo ad essere delle amiche
che vanno a fare commissioni insieme. Mi sbagliavo! Quando mi disse che aveva
scelto un istituto diverso dal mio capì: le cose non erano per niente tornate
alla normalità.
La
mia scuola non era molto grande ma alquanto rinomata. Aveva un club del
baseball tra i migliori del Kanto ed una squadra di basket molto famosa, a me
interessava solo il club di pattinaggio; non lo avevo mai preso in considerazione
come un possibile sport, da praticare in modo agonistico ma, una volta provato scoprii
che metteva in circolo la stessa adrenalina che attraversava il mio corpo durante
le notti passate a caccia di carte.
Tornare
indietro con la mente mi riporta proprio al primo giorno, quando fummo tutti in
fila nella palestra, in attesa del solito discorso del preside e del nuovo
rappresentante degli studenti. Il primo parlò per quasi venti minuti e le gambe
cominciarono a manifestare il loro assoluto disprezzo per quella grassa figura;
fortunatamente il rappresentante degli studenti fu più magnanimo e si limito ad
un “salve ragazzi” e “spero che tutti darete il meglio, nei club come nello
studio, a tutti buon lavoro”.
Quando
finalmente ci lasciarono liberi di uscire dalla palestra, come un gregge di
pecore senza meta, fu allora che apparve lei. Incredibilmente più alta di me,
livida in volto e pugni serrati. Uno di quei pugni affondò nella mia guancia
mentre il gemello fece scrocchiare il mio naso come un ramoscello, il tutto
accompagnato dal grido “Assassina!”
Non
tutti ebbero la prontezza di riflessi del professor Kawashima, il
rappresentante degli insegnati che fortunatamente passava li accanto, di
afferrare quella montagna di capelli scuri e schiacciarla contro il suolo, per
evitare che potesse infierire sul mio naso. Ci fu letteralmente una pozzanghera
di sangue, quello che sgorgava dal mio naso, non fece così male come ci si può
aspettare ma rimasi molto disorientata dalla situazione. Quando capì di essere
finita da terra, notai la ragazza che si dimenava come un cavallo e il
professore che la teneva saldamente premuta contro il terreno sabbioso. Attorno
alla scenetta fuori programma erano già accorsi numerosi studenti, i cui volti
non mostravano sorpresa, bensì rassegnazione; altri professori accorsero e ce
ne vollero tre per riuscire ad allontanare quella belva. Uno dei curiosi mi
aiutò a rialzarmi e mi porse dei fazzoletti per tamponare il naso, solo quando
cercai di tapparmi le narici capì che era rotto.
Senza
pensarci su, il vice preside mi caricò sulla sua auto diretto al pronto
soccorso più vicino, durante il viaggio cercavo di non sporcare i sedili della
macchina mentre ripensavo alla parola in allegato ai pungi: “Assassina!”
Sicuramente,
anzi, senza dubbio doveva avermi scambiato per qualcun altro. Al nostro arrivo
al pronto soccorso più vicino, barcollai fino alla sala d’aspetto dove il
sangue finalmente smise di colarmi dal naso.
“Mi
spiace che sia successo! Sei del primo anno vero? Non credo che ora avrai una
buona opinione della scuola.” Dal tono del professore capii che non era la
prima volta, sicura di una lunga attesa in quella sala affrontai il discorso:
“Non si preoccupi, piuttosto, dal suo tono rassegnato, mi sembra di capire che
non sono la prima vittima di questi avvenimenti.”
“La
nostra scuola, a differenza di altre, non ha fama di risse o studenti
indisciplinati, il problema resta isolato a questa ragazza: qualche tempo fa ha
perso il padre durante una vacanza in Italia, sembra che sia caduto da una
scogliera, lei invece, afferma di aver visto una donna colpirlo e spingerlo di
sotto.” Il professore aveva il tic di grattarsi ripetutamente il polso.
“Quindi
si sfoga con gli ultimi arrivati nella scuola, non mi sembra molto giusto”
“Si
sfoga con chiunque gli capiti a tiro, ma la maggior parte delle volte finisce
in infermeria.”
“Mi
ha gridato contro che sono un’assassina!”
Il
professore rimase in silenzio per alcuni istanti. Il suo sguardo faceva la
spola tra le mani e il pavimento, poi finalmente mi guardò: “Sei mai stata in
Italia?”
“No!”
Ero sicurissima di non aver mai messo piede neanche in Europa.
“Allora
non so proprio spiegarmi il perché ti abbia chiamato in quel modo, spero solo
che la cosa non si ripeta.”
“Mi
scusi professore, ma lei parla proprio con rassegnazione, se questa studentessa
è una noia per alunni e insegnati basterebbe allontanarla.”
Il
professore grattò con più intensità. “La compagnia della sua famiglia sostiene
il nostro istituto. Non è consigliabile buttare fuori la figlia di chi ci paga
le bollette. Dobbiamo fare l’interesse dell’istruzione e perdere questo
sostenitore ci costerebbe molti club e laboratori.”
“Non
sono molto d’accordo.”
“Ha perso da poco il padre e quindi il
suo comportamento così ostile e violento, secondo lo psicologo della scuola, è
più che normale, le serve per scaricare lo stress causato dalla perdita
improvvisa.”
Io annuì poco convinta e stetti in
silenzio finché non mi fecero entrare e, con un colpo secco e tanto dolore, mi
raddrizzarono il naso rendendolo, secondo molti, tanto carino.
Il giorno dopo mi presentai al regolare
inizio delle lezioni accompagnata da mio padre, e questo per una quindicenne è
molto imbarazzante. Fortunatamente filò dritto nell’ufficio del vice preside
mentre io, mi rintanai in classe dove riconobbi alcune facce che mi avevano
aiutato a rialzarmi il giorno prima. Erano delle ragazze molto socievoli e si
interessarono a ciò che mi era successo; era impossibile non farlo dato che
avevo il naso fasciato ed ero obbligata a respirare – rumorosamente – con la
bocca. La professoressa Kisame fu la prima insegnante che conoscemmo, nonché la
nostra coordinatrice, anche lei s’interessò al mio povero naso, così come altri
professori durante l’intervallo del pranzo. Ammetto che la situazione
cominciava a diventare pesante.
Notai però, che la mia assalitrice era
seguita da un professore, e non fu un caso sporadico ma per tutti gli
intervalli successivi venne sorvegliata da molto vicino; questo non bastò a
tenerla lontano e più volte cerco di aggredirmi. Cominciò ad accumularsi molto
stress ma dopo due settimane potei finalmente uscire di casa senza la
fasciatura e ricominciare a respirare dal naso; dopo tre, i professori smisero
di seguirla e sembrò che smettesse anche di importunarmi finché, a un mese
esatto dalla prima aggressione la incontrai nel bagno del secondo piano.
Fu più veloce di me, quando capì che
eravamo sole scattò e chiuse la porta impedendomi di lasciare i servizi. Il suo
viso da bianco passo per tutte le tonalità di rosso fino ad arrivare al
paonazzo.
Rika Suzuki, così si chiamava, si
scagliò contro di me con tutta la rabbia che aveva in corpo e mi getto verso i
lavandini, un dolore atroce mi percorse tutto il corpo ma non caddi; riuscì ad
evitare un altro spintone e mi allontanai cercando di arrivare alla porta, ma
un terzo tentativo andò a segno e caddi a terra. Il naso ricominciò a farmi
male.
Decisi che si era andati troppo oltre ed
evocai il mio scettro riuscendo a rialzarmi e ribaltare la situazione, le feci
lo sgambetto con un colpo secco, gettandola a terra e senza titubare, puntai l’estremità
al suo collo evitando che si potesse rialzare.
“E ora dimmi che diavolo vuoi da me!”
Fui molto teatrale ma ciò che ottenni fu solo una lunga bestemmia che non credo
sia il caso di riportare. Quando ripetei la domanda ebbi una risposta un po’
più educata: “Hai ucciso mio padre, bastarda!”
“Errore! Ho sentito la storia e non sono
mai stata in Italia.”
“Oh, ed invece sei stata proprio tu, non
mi sbaglio, come potrei? Eri lì e l’hai spinto di sotto durante i fuochi
d’artificio, ridevi come una iena mentre cadeva. Impugnavi questo stesso…bastone,
hai riso anche mentre il suo sangue sporcava le rocce e quando mia madre si
disperò.”
“Io non ho ucciso tuo padre!” Potevo gridarlo
all’infinito ma non voleva sentire ragioni, anzi, cominciò a piangere e questo
mi destabilizzò. Indietreggiai di alcuni passi e proprio in quel momento entrò
un’altra alunna: rimase senza parole per quella scena e corse a chiamare un
insegnante.
Durante il resto delle lezioni non
riuscii a togliermi dalla mente quelle parole. Il sangue sulle rocce e una
probabile me che uccideva un uomo, e ci rideva su, pareva la sinossi di
un incubo.
Il giorno successivo, finiti gli allenamenti
della squadra di pattinaggio, sul tavolino del soggiorno c’erano ad attendermi
una lettera gialla con il logo del Ministero della Giustizia giapponese ed una
del Ministero della Giustizia italiano. Erano già state aperte da mio padre ed
in quel momento le stava leggendo anche mio fratello. Subito potei percepire il
freddo di quella situazione, ma era destinata a peggiorare.
“Sakura” Cominciò mio padre con la voce
rotta, ma non so se dalla sorpresa o dalla vergogna. “Sono due informazioni di
garanzia”.
P.S.Curiosirà
L’informazione
di garanzia è un atto attraverso il quale una persona viene avvertita di
essere sottoposta aindagini preliminari, ossia di
quella fase processuale in cui si raccolgono elementi utili alla formulazione
di unaimputazione. L'informazioneindica
inoltre le norme che si intendono violate e la data e il luogo di tale
violazione.
Capitolo 2 *** Quando tornai bambina riscoprii quel calore vicino al cuore ***
Secondo
Sembrava che non ci fosse verso di poter
essere una normale studentessa.
Kerochan si posò sulla mia spalla e non
parlò per tutta la serata, non sapeva che dire ma voleva lo stesso essermi di
conforto, io invece, stavo seduta sul letto, con la testa vuota e non sapevo se
dovermi disperare o scervellarmi per trovare una spiegazione logica alla situazione
nella quale mi trovavo. Alla fine scelsi la seconda opzione e pensai e ripensai
fino a farmi venire il mal di testa: non era possibile che io fossi diventata
un’assassina! Non ero mai stata in Europa, mai andata oltre Hong Kong se
proprio vogliamo dire le cose come stanno; inoltre, essendo una fifona, non ero
mai riuscita a sopportare la visione del sangue, figuriamoci riderne.
Successivamente il mio pensiero ricadde sulla
ragazza che accusava, Rika Suzuki, era davvero sicura che io fossi l’assassina
del padre, tanto da andare alla polizia e denunciarmi. Quella sera papà mi
spiegò che di li a poco saremo stati chiamati davanti al giudice, quest’ultimo
avrebbe deciso se rimandarmi a giudizio, ovvero decidere o no se si sarebbe
dovuto fare il processo in Italia, quindi il mio arresto.
Naturalmente i mali non vengono mai da
soli. Mentre mi scoppiava la testa arrivò un messaggio al cellulare e, se non
ricordo male, faceva così:
“Ciao, sono Li. Sapendo che hai
cancellato il mio numero e sicuramente cambiato anche SIM, l’ho chiesto a
Tomoyo. In questi giorni sarò a Tomoeda per sbrigare alcune commissioni per conto
di mia madre. Mi piacerebbe poterti rivedere e offrirti un frappé o un gelato.”
Non fui così seccata come vi possiate
asepttare.
La prima cosa che mi venne in mente fu
che forse lui avrebbe potuto trovare una spiegazione logica alla faccenda
dell’omicidio. Senza pensarci ulteriormente chiamai il numero dal quale era
stato inviato il messaggio ma, dopo decine di squilli, non rispose nessuno. Dopo
tre vani tentativi dovetti scendere per la cena e per la prima volta la mia
famiglia cenò in completo silenzio, non accendemmo nemmeno la televisione, si
potevano addirittura sentire le macchine passare nella strada di fronte e i
cani dei vicini, una sensazione tremenda, c’era una tensione innaturale
nell’aria.
La suoneria a tutto volume del mio
telefonino mi risvegliò da quella trance e corsi su per le scale più veloce che
potevo, rischiando anche di rotolare giù; quasi sfondai la porta della mia
camera e volai sul letto rispondendo alla chiamata prima che riattaccassero.
“Ciao, Sakura!” La voce, sebbene con un
timbro un po’ più grave, era quella inconfondibile e accentata al mandarino di
Li. “Mi stavi chiamando?”
“Si.” La mia voce, invece, tremava ed
ansimava per la corsa.
“Dimmi tutto.”
“Perché sei tranquillo ed io così
nervosa?” Non so perché gli feci quella domanda ma non rispose, sentii solo i
rumori di sottofondo. “Ho bisogno del tuo aiuto: credo di essermi cacciata in
qualcosa di troppo grande e nemmeno Kerochan sa spiegarlo.” Li stette in
silenzio per altri secondi ma alla fine decidemmo che ci saremo incontrati la
mattina successiva: io non sarei andata a scuola e lui mi avrebbe raggiunta con
un taxi.
Quella notte andai a letto un po’ più
sollevata, ancora non so spiegarmi il motivo. Dopo aver passato il resto della
serata con le budella in rivolta, come se fossero in balia di decine di
roditori e una nausea che pareva inarrestabile, sentii un piacevole calduccio
che mi cullò finché non presi sonno. Come ho già detto non so il perché, forse
mi aspettavo che con il suo arrivo tutto si sarebbe sistemato, che avrebbe
lottato affinché tutti capissero che io non avevo fatto quella cosa terribile,
mi avrebbe difeso con le unghie e con i denti, ne ero sicurissima!
Dopo tutto, qualche tempo fa, ci siamo
voluti bene, così bene da dirci “ti amo”; pareva una cosa così lontana e
assurda, eppure in quel momento non nascondo che mi sarebbe tanto piaciuto un
suo abbraccio. Lo desideravo così tanto che lo sognai e la mattina dopo ero
ancora più confusa. Restai con lo sguardo perso nel vuoto, ad osservare il
soffitto, per molti minuti mentre la radiosveglia urlava canzoni e la rassegna
stampa mattutina; Kerochan, invece, continuò a russare finché non mi alzai e lo
svegliai tarandogli un orecchio.
“Sei crudele! Stavo sognando un mondo
fatto di caramello, non mi piace questa legge del se sono sveglia io devi
esserlo anche tu!”
Sapendo di essere sola in casa mi feci
una doccia molto più lunga del normale, ebbi così tempo per potermi riprendere
da una notte passata a sognare abbracci da parte di quella persona, colei che
mi aveva distrutto e condizionato la vita per tutte le scuole medie; proprio
quando stavo superando il dolore riappare, per potermi uccidere di nuovo.
La radiosveglia continuò a suonare
finché non la zittii con un colpo secco. Kerochan tornò a nanna appena le
canzoni cessarono, almeno non lo avrebbe.
Come mi aspettai sentì il cuore
esplodermi nel petto. Non mi aspettavo che fosse cambiato così tanto. Appariva
molto più grande dell’età che avrebbe dovuto dimostrare. Alto e ben piazzato
lasciava intuire che negli ultimi anni aveva praticato uno sport molto
assiduamente. La barbetta giovanile e incolta, dava l’impressione di poca cura
personale ma pensai che fosse per il viaggio.
“Ehi!” Fu la sua prima parola. Non
sapevo se dovermi incazzare o lasciar correre. A dir la verità furono molte le
cose che quella mattina lasciai correre; come ad esempio il fatto che lui fosse
lì proprio quando avevo bisogno di aiuto, sapevo che Tomoyo aveva appreso della
mia situazione e l’aveva sicuramente avvisato per e-mail o tramite qualche
social network – e’ davvero un’ottima amica, peccato che in quel periodo non me
ne fossi accorta –, un’altra cosa era il fatto che non avesse con se una
valigia e i vestiti erano in perfetto ordine, significava che era in città già
dalla notte prima.
Non mi guardò per tutto il tempo che
impiegammo per arrivare al bar più vicino dove, molto cortesemente ordinò un
caffè per lui ed un frappé alla fragola per me. Il fatto che si ricordasse
ancora cosa ero solita ordinare in quelle situazioni mi fece molto piacere.
“Non ti nascondo che mi fai paura…hai
una faccia” Fu la seconda frase che mi rivolse e mi assalii una tale voglia di
prenderlo a botte che quasi lo feci, poi ricordai di trovarmi in un luogo
pubblico, inoltre, aveva ragione, in quei giorni ero davvero frustrata.
“Ed io non ti nascondo che ti odio!”
Sono partita puntando sul pesante, lo so, ma fu la prima cosa che mi venne in
mente.
“Ok…era davvero necessario saltare la
scuola?”
“Tanto oggi non mi sarei persa niente”
In realtà avrei dovuto sostenere due compiti in classe, me malefica! “Hai
qualche idea?”
“Certo: penso la tua compagna di scuola abbia
il cervello totalmente di traverso. Non sarò di sicuro il primo a dirlo ma se
tu non sei mai stata in Italia, e ne hai le prove, non puoi aver commesso il
fatto. Non pensare nemmeno per un secondo alle carte di Clow, le hai catturate
tutte e non può essere opera loro. A meno che tu non le abbia di nuovo perse…”
“Certo che no. Eppure pensavamo lo
stesso prima che si presentasse la carta del Nulla, comunque Eriol mi ha
confermato che non ne esistono altre.”
“Allora non so proprio a che pensare.”
Non mi piacque quella sua frase, non avevo accettato d’incontrarlo solo per
farmi ripetere cose che già conoscevo.
“Un mago antagonista di Clow Reed?”
“Clow aveva tanti nemici, come ogni
mago, ma stiamo parlando di secoli e secoli fa, inoltre, un nemico con poteri
magici, quindi vincolato dalle leggi magiche, attaccherebbe di persona e non
cercherebbe di incastrarti, sarebbe un disonore per lui."
Finalmente arrivarono le ordinazioni e
Li terminò il caffè senza nemmeno metterci lo zucchero. Il quel momento sentii
una volante della polizia passare davanti al bar a sirene spiegate, un brivido
mi attraversò la schiena e questo non sfuggì al mio accompagnatore, molto
gentilmente cambiò argomento.
“Domani è il tuo compleanno!” Frugò in
tasca ed estrasse un piccolo pacchetto. “Pensavo che non fosse giusto presentarmi
senza un regalo.”
Non sapevo che dire, ovviamente mi
lasciò spiazzata perché non mi aspettavo nemmeno che si ricordasse il giorno del
mio compleanno. Sulle prime pensai che volesse comprare il mio perdono e restai
in silenzio, mi accorsi subito che quello era un pensiero avvelenato dalla mia
frustrazione, lo conoscevo molto bene e non lo ritenevo capace di fare una cosa
simile, quindi accettai il regalo cercando di sorridere. Nel prendere quel
pacchetto le nostre dita si sfiorarono e fu come se ricevetti una scarica
elettrica, insieme a quella scossa mi attraversarono la mente decine e decine
di momenti sorridenti passati insieme e ricordai, mio malgrado, quanto mi fosse
mancato in tutto quel tempo.
“Non dovevi.” Quella solita frase fatta,
in queste occasioni è d’obbligo.
“Figurati, mi fa piacere.”
Non so perché arrossii, fortunatamente
mi tornò l’appetito e terminai il mio frappé con un unico sorso. Quando lui si
alzò dal tavolino per andare a pagare non erano passati neanche quindi minuti
dal nostro ingresso. Uscimmo in strada diretti verso casa e nessuno dei due
fiatò per tutto il tragitto; camminargli accanto mi fece tornare bambina e di
questo me ne vergognai infinitamente. Non era possibile che io continuassi a
essere triste e rimpiangere quel mio fidanzatino del tempo delle
elementari; mi sentivo una stupida, a quattordici anni si dovrebbe essere molto
più maturi ed invece, si trovava accanto a me, le mie mani fremevano di poterlo
sfiorare.
“Siamo arrivati.” Mi svegliò dalla
valanga di pensieri.
“Grazie del frappé.” Nel dire quella
frase arrossii di nuovo.
“Sarò a Tomoeda fino a domani sera, poi
tornerò fra altre due settimane e ci aggiorneremo, parlerò con mia madre e
vediamo che dice sulla situazione.” Aveva un tono così gentile. “Sai, ogni
tanto mi chiede come state tu e Tomoyo, ogni volta non so che dirle su di te,
se non quello che mi dice la tua amica. Mi piacerebbe poter…riallacciare i
rapporti.”
“Sakura_Clow@nifty.com”
“Come?”
“E’ il mio indirizzo di posta
elettronica, non mi sommergere di pubblicità e cazzate varie.”
Mentre si annotava il contatto sul
cellulare calò di nuovo il silenzio e tornò la voglia di sforargli la mano,
com’era accaduto poco prima. La allungai quasi impercettibilmente ma la
ritrassi subito, spaventata da una vecchietta che passava li accanto.
“Allora, ci vediamo tra due settimane.”
Dette quelle parole attese che io tornassi in casa per andarsene tranquillo
lungo la strada. Mi accorsi di avere il cuore che batteva all’impazzata solo
quando richiusi la porta. Rivederlo fu così bello quanto terribile, venivo
attraversata da una marea di sensazioni e non sapevo a quale dare retta, credo
anche di aver pianto per alcuni secondi, ma questo forse era meglio non dirlo,
mi vergogno già troppo.
“Bentornata” Tre giorni dopo, papà, mi
attendeva in cucina e non appena mi vide si tolse il grembiule che utilizzava
sempre ai i fornelli. “Mi dispiace ma devi rimetterti le scarpe, stamattina ha
chiamato l’avvocato e ci aspetta dal giudice. Ci sono novità!”
“Belle o brutte?”
“Non l’ha specificato.”
Venni letteralmente trascinata dentro un
taxi e dopo quasi un mezz’ora di viaggio arrivammo in pretura. Era la volta che
entravo in quel palazzo, gli altri incontri erano stati sempre fatti nello
studio dell’avvocato amico di papà, che in realtà era casa sua. L’ingresso ci
accolse con una lunga scalinata in marmo bianco e due grandi portoni in ferro
dorato con la scritta in caratteri cubitali PALAZZO DI GIUSTIZIA. Una volta dentro,
un’altra lunga scalinata, questa volta in marmo nero, con un frenetico sali
e scendi di gente ben vestita; chiaramente distinguibili gli avocati in
abiti costosi, seguiti dai clienti con abiti un po’ più borghesi, personale del
tribunale, poliziotti in divisa mai vista prima e decine e decine di altre
persone che andavano da una parte all’altra.
Entrammo in un ascensore e salimmo di quattro
piani. Appena si aprirono le porte mi ritrovai faccia a faccia con Rika Suzuki.
Credevo che mi avrebbe assalito di nuovo, invece, aveva un viso beatamente
rilassato ma con una smorfia di soddisfazione indescrivibile. Prese l’ascensore
che io e papà avevamo appena lasciato nello stesso momento in cui ci venne
incontro l’avvocato livido in volto.
“Quella ragazza è insopportabile.”
Kenichi, così si chiamava, era un uomo più o meno della stessa età di mio
padre, scoprii più avanti che erano andati alla stessa scuola superiore ma per
l’università si erano divisi, senza però troncare i contatti. Prese mio padre
da parte e lo informò, con fare molto gesticolante, di alcune cose che non
riuscii a udire, quanto si riavvicinarono a me potei intuire dai loro volti che
le novità non erano a nostro favore.
Finalmente fummo ricevuti in un ufficio
molto grande, con grandi finestre, una bandiera giapponese appesa al muro ed
una scrivania enorme. Ad attenderci, un uomo di mezza età barbuto che fumava
una pipa mentre leggeva alcuni fogli di una cartella rosa.
Al nostro ingresso si alzò in piedi e ci
strinse le mani presentandosi come Giudice per le indagini preliminari,
fu lui a convocarci e dopo un breve colloquio, nel quale venne analizzata per
la trentesima volta la situazione, accese un televisore e quello che apparve
non mi piacque per niente.
“Questo è ciò che ha registrato una
telecamera di sorveglianza all’ingresso del centro storico della città di
Agropoli, dov’è successo il fatto. Ecco! Come potete notare ci sono i fuochi
d’artificio e sono la fonte di luce maggiore, anche perché uno dei lampioni era
non funzionante. Ora si vede la vittima che si allontana dalla famiglia per
riuscire a filmare meglio lo spettacolo pirotecnico.”
Non potevo credere ai miei occhi: ad un
certo punto vidi apparire nell’inquadrature due individui che ricordavano la
mia figura, con lo scettro, e quella di Li, con la spada. Ero basita!
“Una delle due figure è voltata verso la
telecamera e si può chiaramente riconoscere la qui presente, Kinomoto Sakura, e
proprio in questo momento, ecco qui, colpisce il signor Suzuki alla nuca con il
bastone, lo si vede accasciarsi privo di sensi sul muraglione. A questo punto
la seconda figura, maschile, che ancora non siamo riusciti a identificare,
allontana chi cerca di intervenire brandendo una grossa spada.”
Non nascondo che ero sempre più sconvolta.
“Ora potete notare che la figura
femminile colpisce di nuovo la vittima alla testa rompendo visibilmente il
cranio. Lo spinge giù dal muretto e la vittima sparisce dalla visuale, ancora
pochi secondi e le due figure si allontanano lasciando i parente disperati e i
curiosi che guardano oltre il muretto.”
Visionammo di nuovo il filmato per decine
di volte ma non c’erano dubbi che l’assassina del video fossi io, o per lo
meno, era identica a me. Mio padre era sbiancato e guardava speranzoso l’amico
avvocato che si mangiava nervosamente le unghie senza dire una parola.
“Allora.” Il giudice spense il
televisore e posò la pipa sul tavolo. “Signorina Kinomoto, la famiglia Suzuki e
i loro avvocati sono già stati qui ed hanno confermato ciò che si vede nel filmato.
Il video ci è stato spedito dalla Procura di Salerno, stanno svolgendo loro le
indagini ed intendono andare fino in fondo. In questi giorni emetteranno un
mandato di custodia cautelare nei suoi confronti.”
“Mi arrestano?” Lo dissi con la voce
rotta dal pianto.
“Si, ma prima che questo possa essere
convalidato devono fare richiesta di estradizione al nostro paese. Questo verrà
valutato e qualora venisse approvato da Tokyo, dovrai essere condotta fino in
Italia dove verrai arrestata, sarai affidata agli psicologi, e verrà svolto il
processo a tuo carico.”
Sentii come se un muro mi fosse crollato
sulle spalle. “Non posso essere io quella del video, io non sono mai stata in
Europa, non sono mai stata in Italia e non sono mai stata neanche in quella
città, non riesco nemmeno a pronunciarne il nome. Sono innocente, non voglio essere
arrestata, voglio studiare, voglio pattinare, voglio stare con i miei amici,
non voglio andare in prigione, non per qualcosa che non ho mai fatto.” Stavo
urlando ma non mi fermai finché non finì l’aria.
Mio padre mi abbracciò così forte da
farmi male e guardandolo in viso, notai che stava cercando di nascondere le
lacrime.
Prima di tornare a casa passammo per
l’ufficio dell’avvocato. Mi sommerse di domande finché papà non decise che fu
ora di tornare. Finirono per rassicurarmi sul fatto che in caso di processo
avevano le prove che non mi ero mai allontanata da Tomoeda nel periodo dell’omicidio,
del fatto che non era stata ritrovata la presunta arma del delitto e ovviamente
non vi era alcun movente.
Nessun movente
Eppure doveva pur esserci un motivo per
il quale ammazzare quell’uomo. Non ho mai trovato sensata la possibilità di
uccidere qualcuno solo per il gusto di farlo, anche quando nei film si parla di
serial killer che uccidono tanto per tenersi occupati, rimango basita, deve
sempre esserci un motivo per il quale viene la voglia ti stroncare una vita.
Rincasammo stanchi, l’ora del pranzo era
passata già da un pezzo e la prima cosa che feci fu quella di salire in camera
e buttarmi sul letto. Presi il cellulare, dovevo assolutamente riferire a Li del
suo coinvolgimento; optai per un sms e sperai che lo leggesse prima di tornare
ad Hong Kong: ovviamente non lo fece immediatamente, quella sera mi spedì una
mail nella quale mi esprimeva tutta la sua rabbia e la sorpresa.
Nei giorni successivi si sparse la voce
e i giornalisti si appostarono con i loro camper nelle vie limitrofe alla mia
casa. Ogni volta che uscivo per andare a scuola o per commissioni, venivo
sommersa di domande, il più delle volte spintonata e strattonata tra un
cronista e l’altro, chiamata assassina dai passanti, e fotografata fino alla
nausea. A scuola la cosa non migliorava di certo. Isolata e derisa dalle stesse
persone che ad inizio anno mi avevano dimostrato la loro disponibilità e amicizia,
passavo le pause in isolamento e le lezioni a parare pallottole di carta e
proiettili bavosi di cerbottane. Abbandonai il club del pattinaggio e, dato che
il regolamento scolastico imponeva di partecipare ad almeno un club, mi
iscrissi al club della lettura. Era dedito alla cura della biblioteca e finalmente
potevo stare tranquilla perché era obbligatorio il silenzio; non dovevo fare
altro che ordinare i libri secondo l’alfabeto, spolverarli, e registrarli quando
uscivano o rientravano dal prestito.
Ogni volta che tornavo a casa, dopo aver
fatto lo slalom tra i giornalisti, dovevo assolutamente mettere lo stereo al
massimo volume. Mi serviva per staccare la spina al cervello, almeno per
qualche minuto, dopo, quasi sempre, piangevo, era una situazione stressante. Furono
le due settimane più lunghe della mia vita ma finalmente arrivò il giorno nel
quale sarebbe tornato a Tomoeda lui. Li Shaoran.
Decisi che l’avrei incontrato quella
sera stessa e corsi nella casa dove era solito stare durante i soggiorni in
città. Avevo bisogno di un qualsiasi volto amico. Quando mi ritrovai davanti al
cancello avevo il cuore impazzito, non per la corsa, bensì perché lo avrei finalmente
rivisto. Ovviamente continuavo a sentirmi sempre più stupida, ma quella volta
avevo una buona ragione per vederlo.
“Ho deciso di andare in Italia!” Fu la
prima cosa che gli dissi non appena mise il muso fuori.
“Come scusa?!”
“Voglio vedere il posto dov’è accaduto
il fatto, voglio sentirne le vibrazioni e scoprire chi, e per quale motivo, sta
cercando di incastrarci, e voglio che tu mi accompagni.”
“Sei pazza!” Li si chiuse dietro la
porta ed avanzò fino al cancello.
“No, ho solo bisogno di capire, non puoi
immaginare cosa devo sopportare ogni giorno. Questa situazione mi sta uccidendo
poco a poco.”
“Sai bene che non posso accompagnarti.”
“Infatti DEVI” Nel pronunciare quella
parola credo di averlo sputacchiato.
“Come sarebbe a dire?”
“Sei in debito con me, per come mi hai
trattato, per come mi hai fatto soffrire, per come mi hai abbandonata, per non
avermi detto nemmeno un ti lascio o un mi vedo con un’altra. Hai
ucciso una parte di me.”
“Non è il momento di parlare di quando
avevamo undici anni.”
“Si tratta di poco più di tre anni fa.”
“Eravamo dei bambini”
“Ma i sentimenti erano quelli di chi è
cresciuto in fretta, di chi ama per davvero, eravamo diversi dagli altri
bambini della nostra età, combattevamo ogni notte, ed ogni notte rischiavamo di
non rivedere mai più i nostri genitori. Siamo sempre stati più grandi di quei
dieci anni che il nostro corpo dimostrava.”
Li scosse la testa.
“Non avevo il seno che ho adesso, non
avevo i brufoli, non avevo la carta d’identità, ma ero grande, sono più grande!
Prendo ogni giorno in mano un potere tale da poter distruggere tutto. Questo ti
da responsabilità, ti fa maturare.”
Sembrava che gli fosse venuto un
giramento di testa e si sedette per terra, io feci lo stesso e lo fissai per
molti secondi negli occhi alla ricerca di una qualche scintilla.
“Ho bisogno del tuo aiuto.” Scandii per
bene quelle parole.
“E’ un’accusa di omicidio. Non stiamo
lottando contro una carta di Clow, se ci vogliono arrestare non puoi
affrontarli con scettro e spada.”
“Lo so!”
Passarono altri secondi di silenzio.
“Sei sicura di non volermi con te solo
per sentirmi dire scusa?”
“Come ti ho detto, sono più matura di
una quattordicenne normale. Mi basterebbe solo che tu venissi con me e mi dessi
il tuo aiuto. Questo varrebbe come scuse.”
“Mi dispiace.” Li si alzò in piedi e si
pulì i pantaloni.
“Di cosa?”
“Di averti fatto soffrire.”
“Ma se ti ho appena detto…”
“Ora devo tornare dentro, ti chiamo in questi
giorni per organizzare il viaggio. Buona notte e fai attenzione mentre torni a
casa, in zona ci sono dei cani randagi.”
Li tornò frettolosamente in casa.
Non mi aspettavo che si scusasse in quel
momento. Anche lui era più maturo di quello che potesse sembrare. Nonostante
fosse aprile faceva ancora fresco alla sera. Eppure me ne andai con una strana
sensazione di calduccio sul petto. Misi le mani nelle tasche e mi accorsi di
avere ancora il suo regalo incartato.
Capitolo 3 *** Quello fu il bacio più bello della mia vita. ***
Terzo
Per il terzo giorno consecutivo saltai
la scuola e m’incontrai con Li allo Starbucks della via principale di Tomoeda.
Essendo un posto molto affollato nessuno badava a noi due e potevamo
pianificare il viaggio in Italia senza interruzioni. La cosa però si rivelò
molto difficile dato che un viaggio simile comportava una spesa enorme e tempi
di spostamento molto larghi. Tomoeda era una grande città ma si serviva
dell’aeroporto di Tokyo ed un volto per Roma aveva una durata di oltre 20 ore,
senza scalo.
“Non dispongo di tutti questi soldi!” Li
svuotò la tazzina del caffè in un secondo.
“Non…potresti chiedere un prestito a tua
madre? La tua mi sembra una famiglia molto ricca.”
“Sei davvero incredibile! Non ti fai
scrupoli.”
“Voglio solo che tutto questo finisca il
prima possibile e vorrei ricordarti, nel caso te ne fossi scordato, che in
tutta questa faccenda ci sei dentro anche tu.”
“Uff! Una volta lì dovremo anche
mangiare, dormire, lavarci e cambiarci…non è così facile come sembra ed anche
disponendo di una carta di credito infinita non diventa tutto più
facile.”
“Non
importa, ho anche io un po’ di soldi da parte, inoltre, sono sicurissima che
una volta arrivati tutto si sistemerà nel giro di poche ore.” Non so perché, ma
avevo questa sensazione.
Mentre
attendevo alla fermata dell’autobus insieme a Li, entrambi percepimmo una
strana sensazione. Come se qualcuno nelle vicinanze avesse cominciato ad
esultare. Lo sentivamo nell’aria, era stranamente frizzante e fresca, noi però
non lo percepimmo come una bella sensazione e lo capii non appena arrivai a
casa.
Mi
stavo congedando da Li quando notammo una voltante della polizia gironzolare
per la via. Non disse nulla e con piccole spinte mi fece capire che era meglio
entrare in casa. Papà era un bagno di lacrime e l’avvocato scrutava
nervosamente dei fogli sparsi su tutto il tavolo; non erano arrivate buone
notizie e corsi in camera lasciando Li in balia di mio fratello al piano di
sotto.
“Sakura!”
Kerochan aveva messo a soqquadro la stanza ed aveva gettato alcune cose in un
angolo del letto. “Ci sono cattive vibrazioni nell’aria, prepara le tue cose,
dobbiamo andar via.”
Non
parlai e gettai tutto dentro una valigia senza soffermarmi a lasciare gli
indumenti piegati correttamente. Suonò il campanello e sbircia fuori dalla
finestra, davanti a casa c’erano tre inconfondibili volanti con i lampeggianti
rossi. Dopo qualche istante entrò nella camera anche Li e chiuse a chiave, era
completamente bianco: “Tokyo ha autorizzato al tuo espatrio, sono qui per
arrestarti.”
“Aiutami
a chiudere la valigia.”
Quando
riuscimmo a chiudere la zip bussarono alla porta in modo minaccioso.
“Signorina Kinomoto, Polizia, dovrebbe
venire con noi.”
“Sakura, apri per cortesia.”
La prima era una voce sconosciuta mentre
la seconda, quella di mio padre. Sapevo che mi sarebbe mancato tantissimo una
volta che me ne fossi andata, così come mio fratello. Le nocche dei poliziotti
sulla porta si facevano sempre più minacciose e provarono anche ad aprire
sperando che fosse aperta.
“Dobbiamo andare via!” Kerochan gettò
dentro la mia tasca alcune delle sue caramelle.
“Scappiamo?” Li rimase a pensarci per
alcuni secondi. Nello stesso istante in cui mi sorrise consenziente forzarono
la porta e due poliziotti piombarono in camera mia. Tirai fuori la carta del
tempo e congelai la situazione con calma, memore che se avessi eseguito
l’incantesimo senza la dovuta concentrazione non sarebbe durato più di alcuni
secondi, in quel modo potevamo avere un vantaggio di svariate ore.
Dietro ai poliziotti si trovavano papà e
mio fratello che lo tirava per la camicia. Erano immobili e non potei fare
altro che abbracciarli sperando di potervi rivedere il prima possibile. Uscimmo
di casa passando sotto le gambe degli agenti di polizia ed evocai la carta del
volo.
“Andiamo ad Haneda?”
“No! Penso sia meglio puntare su
Narita.” Risposi a Li mentre ci libravamo nel cielo senza vento.
“Ma, l’aeroporto di Haneda è il più
vicino.”
“Appunto, ma ne abbiamo già parlato, non vedendoci penseranno che siamo scappati abbiamo la
possibilità di prendere un aereo; sceglieranno di controllare per primo l’aeroporto
interno a Tokyo dato è il più vicino in linea d’aria. Se andiamo a Narita,
riusciremo a guadagnare qualche ora in più. Inoltre, ho visto su internet che ha
voli più frequenti verso l’Italia, se siamo fortunati dovremo riuscire a
partire subito.”
“Ok, io non so dove siano questi posti,
ma spiegami perché il cinesino lo devo portare io!” Kerochan aveva assunto la
sua forma completa e portava in groppa Li, non lo volevo insieme a me durante
il volo. Passammo rapidamente a casa sua e dopo che ebbe preso anche lui alcune
cose agganciai la valigia sullo scettro, insieme alla mia, e volammo verso
Tokyo.
A causa del tempo immobile non c’era
neanche un filo di vento, eppure il fresco dell’alta quota poteva essere
avvertito lo stesso; passammo in mezzo a stormi di uccelli e sciami di insetti.
Una volta fuori da Tomoeda seguimmo i binari della ferrovia in direzione della
capitale.
Mentre mi trovavo in volo riuscii a
rilassarmi un po’. Dal momento in cui avevo visto la volante della polizia
attorno a casa il mio cuore era impazzito, batteva così forte da farmi male nel
petto, dovetti prendere grandi boccate d’aria per rallentarlo un po’. Kerochan volava
accanto a me mentre Li giocava con il cellulare per passare il tempo, sembrava
non gradire il panorama. Mi sentii tremendamente in colpa, lo stavo trascinando
contro la sua volontà in qualcosa di enorme, per la mia paura di crescere, di
lasciarlo andare, di vederlo solo come un conoscente, come un amico, come una
bellissima esperienza. Che egoista!
Quando fummo sopra Tokio ricominciai ad
avere paura. Avevo appena lasciato indietro la mia casa, papà, mio fratello, tutte
le mie amicizie e Tomoyo. Piansi! L’avevo trattata così nell’ultimo periodo da
farla allontanare, mi sentivo un verme, potevo anche sforzarmi e darle un
abbraccio, parlarle con calma, farle capire che la volevo solo come amica del
cuore.
Proprio quando stavo riuscendo a
superare il male che mi aveva fatto Li Shaoran, mi fu molto vicina, a dir la
verità mi fu vicinissima per tutto il tempo, ma ci fu il momento nel quale
decisi che fosse ora di voltare pagina, per farmi smettere di pensare a lui in
modo definitivo, decise di trascinarmi a Tokio e di passare il venerdì al Museo
Ghibli e, il resto del fine settimana, al Tokyo Disneyland.
Acconsentii un po’ controvoglia, lo ammetto e mi ritrovai in autostrada verso
Mitaka; passammo un sereno pomeriggio tra le meravigliose ambientazioni del
museo ed il cappuccino più buono della mia vita. Dopo quella tappa, e un’oretta
di macchina, finalmente arrivammo al Tokyo Disneyland Hotel, in una
delle camere più grandi e belle di tutto il parco. Letti morbidissimi,
cioccolatini sul cuscino, grandi finestre che davano sul parco ed una
inaspettata visita di Paperino subito dopo il nostro arrivo. Ricomincia a
sorridete e per alcune ore riuscii a scacciare l’opprimente fantasma di Li che
mi portavo appresso ogni giorno.
Mollati i bagagli, seguimmo Paperino
nella hall e ci indicò dove cenare, poi se ne andò a passo goffo. La cena,
ricordo, era favolosa e ci fu anche uno spettacolino di mimi nel teatro annesso
all’albergo. Ma era solo l’inizio e il giorno dopo ci svegliammo presto per
correre alla galleria World Bazar e curiosare nelle vetrine, in attesa del vero
divertimento. Prima andammo alla ToonTown, dove c’erano tutte le mascotte della
Disney, lo ricordo benissimo anche perché ho tutt’ora una mia foto con Pippo
sulla scrivania; poi venne la volta di Westernland, Tomorrowland la trovammo in
ristrutturazione - cattivi! -, optammo per Critter Country e ci infradiciammo
nella Spash Mountain. Ricordo i nostri capelli gonfi come quelli di Simba e le
risate mentre tentavamo di asciugarli nei bagni pubblici con altre due ragazze
conosciute durante l’attesa del gioco; era tutto così speciale e semplice, non
pensavo più a nulla, solo a stringere la mano di Tomoyo e correre insieme a lei
da un’attrazione all’altra, diciamo che la trascinavo, per lei non era la prima
visita del parco. Io invece, mi sentivo di nuovo bambina e proprio come una
bambina, mi sentivo incredibilmente felice.
A fine serata eravamo distrutte, letteralmente!
Dopo una rapida doccia siamo atterrate sul lettone, era enorme e come spesso
capita cominciammo a picchiarci con i cuscini e poi a rubarci le coperte l’un
l’altra. Durante la notte continuammo a tirare quelle coperte finché non ci
girammo faccia a faccia e dopo qualche risata calò il silenzio; era buio ma si
riuscivano a distinguere i contorni del viso grazie alle luci che provenivano
dall’esterno. Lentamente si avvicinò e, complice la stanchezza e la fantastica
giornata, mi baciò per la prima volta.
Era un bacio così delicato, uno di
quelli che è in grado di donare solo una ragazza davvero innamorata, labbra
morbide e bagnate per il nervosismo, il suo fiato sapeva di dentifricio alla
menta ed io mi persi in quel bacio così semplice. Durò nemmeno un secondo ma fu
come se fosse durato ore. Eravamo così vicine e ci fissammo per molti istanti
negli occhi ma nessuna delle due disse nulla. Il secondo fu un po’ più lungo ma
io non lo feci durare più di tre secondi, la spinsi via facendola quasi cadere
dal letto, corsi in bagno e mi chiusi dentro per quasi venti minuti; ero sicura
che lei stesse piangendo ma non avevo il coraggio di andare a chiederle scusa o
di provare a consolarla. Sebbene dato da una ragazza, quel bacio aveva fatto
riaffiorare i ricordi dei baci dati a Li. Quando uscii lei era immobile,
nascosta sotto le coperte come un bruco. e dava le spalle alla mia porzione di
letto, mi coricai in silenzio e spensi la luce. Mi sembra superfluo dire che
dal giorno dopo non ci parlammo per molte ore.
Mi
ripresi da quel ricordo proprio mentre sorvolavo la baia di Tokio. Li e
Kerochan si erano datti addosso quasi tutto il viaggio ma non avevo voglia di
fare da paciere, si sarebbero stancati da soli. In quel momento il tempo
ricominciò il suo corso, ed un aereo partito dall’aeroporto di Haneda ci passò
proprio sopra le teste facendo un gran frastuono.
“Il
tempo è tornato normale.” Disse Li. Mitico capitan ovvio. “Mi piacerebbe
vedere la faccia dei poliziotti.”
“Io,
invece, vorrei rivedere quella di mio padre.” Non era la prima volta che andavo
a Tokio ma ogni volta mi veniva nostalgia di casa. Era un posto così grande,
praticamente mastodontico, caotico, veloce, oppressivo, con più di trentotto
milioni di abitanti nell’area metropolitana, che si incrociavano in modo
incalcolabile ogni giorno, aveva un ritmo di vita al quale non ero abituata;
preferivo la tranquilla Tomoeda. Individuai da lontano la torre di Tokio e
sotto di me Disneyland con i suoi colori e suoni, il viaggio volgeva al termine;
in quel momento i poliziotti stavano rivoltando la casa nella mia furiosa
ricerca, subito dopo sarebbero passati all’intero quartiere. Avrebbero poi bloccato
le strade e le stazioni da e verso Tomoeda, per evitare che io potessi
scappare, nel frattempo interrogavano i miei compagni di classe e i miei
parenti, avrebbero messo a soqquadro anche le loro case e non trovandomi
avrebbero deciso di cercarmi fino a Tokio e quindi, gli aeroporti.
Cominciai
ad intravvedere i confini della città, oltre c’era l’aeroporto, il mio volo per
l’Italia e soprattutto, la possibilità di sistemare tutto.
“Sakura.”
Kerochan mi si affiancò. “Perché non mi sali in groppa, voleremo più veloce.”
“Non
è necessario.” Non volevo stare così vicino a Li. Presi perciò la carta della
velocità e la utilizzai per poter andare più veloce, il tanto che bastava
affinché Kerochan non dovesse per forza andare piano, anzi, faticò nel starmi
dietro. Grazie a quella potrei sorvolare più rapidamente la città ed individuai
l’aeroporto di Narita in pochi minuti. Percorsi gli ultimi venti chilometri
planando e finalmente atterrai. Avevo le gambe addormentate e gli occhi in
lacrime per quell’ultimo tratto ad alta velocità.
“Perché
non hai utilizzato la carta della sparizione? Ora dovremo camminare.” Li scese
dalla groppa di Kerochan e mi diede subito sui nervi. Nel frattempo Kerochan
tornò piccolo e mi si posò stremato sulla spalla.
“Perché
sono stanca! Abbiamo volato da Tomoeda fino a qui, ho fermato il tempo per quasi
quattro ore ed ho le gambe addormentate. Inoltre, camminare fa bene.” Ci
trovavamo sopra uno dei passaggi pedonali sopraelevati, era ora di pranzo e le
macchine in transito erano poche. Ci siamo messi in cammino seguendo le
indicazioni per il Terminal 1 attraversando altri passaggi pedonali e marciapiedi.
Dopo alcuni minuti, finalmente entrammo nel terminal e potemmo sederci su di
una panchina, finalmente potevo riprendere un po’ si fiato; ero stremata per il
volo e mi pentii di averlo fatto con lo scettro.
Li
non si era seduto, si avvicinò al tabellone che esponeva i voli in partenza ed
in arrivo, rimase ad osservarlo per parecchio tempo ma alla fine puntò il dito
verso una di quelle scritte luminose e mi fece cenno di avvicinarmi. Sbuffai mentre
mi alzavo contro voglia, anche Kerochan non fu molto d’accordo, cadde dalla mia
tasca e dovette nascondersi dietro le valige.
“Sono
un po’ fuori allenamento con gli ideogrammi.” Mi indicò la riga del tabellone.
“Roma-Fiumicino,
ore 14:15” Lessi e mi rallegrai, erano quasi le 13, avevamo più di un’ora di
tempo per fare il biglietto e salire a bordo.
“Cerchiamo
la biglietteria e imbarchiamoci.”
“Non avremo problemi dato che siamo
minorenni?”
“Beh, io viaggio molto spesso tra
Giappone ed Hong Kong, questo perché ho una liberatoria firmata da mia madre in
caso di problemi. Per te ci inventeremo qualcosa. Tranquilla”
Cominciammo a vagare per l’aeroporto a
passo spedito, trascinandoci dietro le valige finché non trovammo la
biglietteria dell’Alitalia, la compagnia che segnalava il tabellone. Li riuscì
a comprare il biglietto senza problemi ma gli chiesero se fosse accompagnato e
dovette tirare fuori la liberatoria della madre. Biglietto stampato. Per il mio
utilizzammo un metodo diverso: mi nascosi nella toilette delle donne, ed in
silenzio, utilizzai di nuovo la carta del tempo. Fu relativamente facile, Li
scavalcò il bancone e dopo aver smanettato un po’ con il terminale riuscì a
stampare un biglietto anche per me, pochi istanti dopo il tempo ricominciò a
scorrere ma ci eravamo già allontanati verso il controllo di sicurezza, dove
nessuno fece domande o provò a fermarci; finalmente passammo le valigie nel
metal detector ed entrammo nella zona sicura.
Sia ben chiaro che sto raccontando in stile
romanzo: so’ che tutto ciò che stai leggendo ti sembra assurdo ed
impensabile. Se cominciassi a raccontare per filo e per segno, minuto per
minuto, tutto il viaggio ti addormenteresti: da Tomoeda a Tokyo ci sono quasi
trenta chilometri di tragitto in linea d’aria e all’aeroporto, dalla città,
sono altri sessanta; sorvolare un’area metropolitana di milioni e milioni di
abitanti poi, necessita di molto tempo. Sto cercando di essere breve anche per
quanto riguarda l’aeroporto, entrare di soppiatto e senza accompagnatori, per
due adolescenti di quindici anni è difficile, vengono subito notati, siamo quindi
dovuti restare in mezzo alla folla, abbiamo evitato i continui giri delle
guardie giurate e, quando Li mi ha stampato il biglietto ha dovuto fare molti
tentativi dato che non conosceva i passaggi per l’emissione; anche superare i
controlli di sicurezza non è stato facile: ci siamo dovuti accodare nella fila
più lunga insieme ad altre famiglie con figli al seguito. Kerochan, poi, se
fosse passato come un peluche dentro il metal detector, avrebbero rilevato le
ossa e i tessuti – anche lui è un essere vivente – e quindi ci sarebbero stati
non pochi casini: ha perciò deciso di volare raso al tetto il più rapido
possibile ed attendermi nel bagno delle donne, oltre il controllo di sicurezza.
Ovviamente per tutto il tempo abbiamo lasciato i cellulari spenti e con la
batteria disinserita, questo per evitare di essere rintracciati, e tante altre
piccole cose. Siate pazienti, volevate una storia e ve la sto dando, se volete
il copione dettagliato di un film, chiudete subito questa pagina, non fa per
voi.
“Ecco la nostra fila.” Li si diresse
verso la fila per l’imbarco. Il grande tabellone indicava la scritta B165
Roma Fiumicino. Avevano già cominciato le operazione di imbarco e la fila
stava lentamente passando oltre il gate. Osservammo attentamente il modo con il
quale le hostess convalidavano il biglietto.
Bloccai di nuovo il tempo e strappammo
in due i biglietti seguendo la linea tratteggiata. I pezzi piccoli li mettemmo
in mezzo a quelli che tenevano le hostess ed attraversammo il lungo corridoio
bianco fino all’aereo. Un piccolo slalom tra gli altri passeggeri e, notammo
che una seconda hostess vidimava con una firma il resto del biglietto, facemmo
lo stesso imitando quasi perfettamente lo scarabocchio e prendemmo posto mentre
il tempo ricominciava a scorrere. In mezzo alla confusione dei passeggeri
nessuno ci notò, fortunatamente. Li sistemò i nostri bagagli ed io sorrisi
immaginando le maledizioni che in quel momento ci stava lanciando Kerochan,
rinchiuso nel bagaglio per le successive venti ore.
Eh si, avevamo davanti a noi quasi un
giorno di volo ininterrotto, mi sentivo male solo al pensiero di dover restare
dentro quella scatola con le ali con Li Shaoran accanto a me.
“Speriamo che i film siano recenti.” Li
si mise subito comodo sul sedile accanto al finestrino e si assicurò nuovamente
che nessuno ci stesse osservando. Sembrava che fosse molto a suo aggio, doveva
viaggiare parecchio. Io avevo già la gola secca a causa dell’aria condizionata
e pensare che dovevo stare chiusa li dentro per tutto quel tempo non mi
rallegrava.
“Saranno in giapponese o in italiano?”
Tanto valeva fare un po’ di conversazione.
“Dovrebbero avere i sottotitoli, ma
credo proprio che siano film italiani.”
Le hostess, due o tre parevano modelle,
invitarono tutti coloro che erano ancora in piedi a prendere posto e ad
allacciare le cinture, controllarono ogni singolo passeggero dell’aereo. Dopo
alcuni minuti iniziò il solito teatrino delle indicazioni di sicurezza partendo
con l’italiano, successivamente un giapponese molto stentato e per finire ad un
accettabile inglese; mentre venivano lette le istruzione in quest’ultima lingua
l’aereo cominciò le operazioni di rullaggio verso la pista.
Mi resi conto di essere, al contrario di
Li, molto nervosa solo dopo il decollo, quando ci fu dato il permesso di
togliere le cinture di sicurezza. Non perché le fossi così vicina, bensì perché
avevo paura di ciò che sarebbe successo una volta atterrati a Roma; non ero mai
andata così lontano da casa, andare all’avventura in un posto totalmente
diverso, dove non conosco la lingua e dove non appena la polizia avesse fatto
due più due, mi sarebbe saltata addosso, cavoli se mi spaventava!
Sicuramente non vi interessa sapere che
cosa ho fatto in venti ore di volo; oltre dormire non si poteva fare un
granché, al massimo leggere qualche rivista o guardare i film proposti tra un
passaggio e l’altro del carrello con le vivande, di chiacchierare con gli alti
passeggeri non se ne parlava nemmeno, la maggior parte erano uomini d’affare
che non staccavano gli occhi dai loro portatili e i pochi ragazzi che c’erano
si trovavano al seguito di famiglie straniere.
Mi
accorsi di essere arrivata a destinazione perché l’aereo rimbalzò sulla pista
svegliandomi dall’ennesimo assopimento. Cercai di stiracchiarmi e la prima cosa
che ricordo di aver notato era la testa di Li appoggiata sulla mia spalla. Era
incredibile che l’atterraggio, e il rumore dei freni non l’avessero svegliato.
Comunque, era davvero carino quando dormiva, quindi lo svegliai nel modo più
dolce che mi venne in mente: lo lanciai verso la parte opposta affinché
sbattesse la testa contro il finestrino; tornò tra noi comuni mortali con un
bel bernoccolo vicino al sopracciglio destro, sembrava disorientato. Non
nascondo che risi sotto ai baffi mentre guardava fuori dal finestrino con un
occhio aperto e l’altro chiuso.
Le
operazioni di sbarco erano snervanti, fortunatamente non avevamo bagagli nella
stiva ed una volta scesi dall’aereo ci dirigemmo a passo spedito fuori dalla
zona passeggeri, verso il bar duty free più prossimo e finalmente, un caffè
decente!
“Sia
ben chiaro, prima di andare sul luogo del misfatto voglio vedere il Colosseo,
San Pietro e la Fontana di Trevi.” Ovviamente la prima a parlare fui io. Lui
rispose solo con un rapido segno della mano, sembrava abbastanza seccato da
quella mia richiesta, lo stavo sbattendo da una parte all’altra per i miei
capricci. In quel momento si avvicinò a noi una persona altissima, in gessato
grigio scuro, aveva due enormi baffi neri e fece un leggero inchino.
“Salve,
mi chiamo Roberto e sono il corrispondente sud-europeo per la Daidōji Toy
Company. Prego, seguitemi verso la macchina, vi scorterò al vostro albergo.”
Aveva una perfetta pronuncia giapponese e l’inchino fu eseguito alla
perfezione. Li prese la propria valigia e seguì quell’individuo verso l’uscita
senza proferire parola.
Io ero sconvolta: quel tipo faceva parte
della ditta di famiglia di Tomoyo ed era venuto a prenderci all’aeroporto, su
ordine della mia amica. Ok, più che sconvolta ero davvero incazzata. Raccolsi
le mie cose e li seguii fuori dall’aeroporto a passo spedito e rumoroso,
entrammo nel cortile di un parcheggio a pagamento e poi dentro una macchina
elegantissima con il logo della compagnia sulla fiancata. Lanciai la mia
valigia nel portabagagli – di questo Kerochan non fu molto contento - e presi
posto nei sedili posteriori.
“Ora,
voglio che mi spieghi, perché uno uomo dell’azienda di Tomoyo è venuto a
prenderci?” Il viaggio fino a Roma fu molto più riposante di quello aereo e
l’albergo era davvero bello: avevamo due camere comunicanti ed io feci irruzione
nella sua, senza bussare, mentre si cambiava la maglietta. Per lo spavento
rimase incastrato.
“Che
c’è da spiegare? Ho semplicemente detto a Tomoyo che saremo andati a Roma, ed
ha voluto aiutarci.”
“E
perché Tomoyo è al corrente di dove ci troviamo? Sai benissimo che sarà la
prima ad essere interrogata sulla mia sparizione.”
“Scommetto
che non è questo il problema.”
“E’
uno dei problemi, direi il più grosso.”
“Ho comunicato tutte le nostre
decisioni, utilizzavamo canali sicuri, dei cellulari usa e getta, l’ultimo l’ho
fatto sparire prima che entrassimo nella zona sicura all’aeroporto di Narita,
lei avrà fatto sicuramente lo stesso.”
“Perché Tomoyo è al corrente di tutto
ciò?” Ero sempre più furibonda.
“Perché non dovrebbe esserlo? Mi ha
chiesto lei di tenerla informata.”
“Nessuno ti ha dato il permesso di
renderla partecipe dei nostri problemi o dei nostri spostamenti, volevo che non
fosse coinvolta, che non avessero motivo di darle fastidio.”
“Non è solo tua amica, è anche mia, e mi
ha chiesto di tenerla aggiornata perché voleva aiutarci, se hai avuto problemi
con lei e non riesci a dormire per ciò che è successo sono affari tuoi.”
“Quanto sai di ciò che è successo?”
“Abbastanza, me lo ha detto di sua
spontanea volontà.”
“E quanto siete amici? Da quanto siete
in contatto? Che cosa c’è tra voi due?”
“Che stai dicendo?”
“So’ che tornavi spesso a Tomoeda, ti
incontravi con i nostri vecchi compagni delle elementari, con Tomoyo, con tutti
tranne che con me, ed ora voglio sapere quanto siete, per così dire, amici”
“Non c’è niente tra me e Tomoyo, non c’è
mai stato e stai tranquilla che non ci sarà mai.”
Piansi. “Perché dovrei crederti? Ho
dovuto sapere da tua cugina che stavi con una tua compagna delle medie, non
posso crederti anche adesso. Lascia stare Tomoyo.” L’ultima frase la gridai con
tutto il fiato che avevo e me ne andai sbattendo la porta tra le nostre camere.
Anche lui si era infuriato. Mi seguì in camera, era ancora a petto nudo ed
aveva tutte le vene in evidenza. “Adesso basta!” Urlò e mi diede una spinta per
farmi cadere sul letto. Ebbi paura ma rimase in piedi, ansimando.
“La verità fa male?” Lo stuzzicai.
“La verità un corno, so bene che a
pensare male si indovina ma sei completamente fuori strada. Non c’è niente tra
me e Tomoyo, non voglio più ripeterlo. Sono venuto qui in Italia, a migliaia di
chilometri da casa solo per aiutarti, quasi per un tuo capriccio, non voglio passare
tutto il tempo a litigare. Inoltre, non sei arrabbiata per il fatto che possa
essere successo qualcosa con Tomoyo, ma per l’esatto contrario. E’ Tomoyo che
vuoi, non me!”
Non dissi nulla. Mi resi conto che aveva
pienamente ragione.
“Vado a farmi una doccia. Faresti bene a
fare anche tu lo stesso, l’aria condizionata dell’aereo deve averti disidratato
il cervello. La cattura carte che conosco non fa di queste scenate, non sei la
vera Sakura. Ci vediamo fra un’ora per andare a pranzo.”
Chiuse sbattendo la porta e rimasi
immobile, ed in ascolto, finché non udii l’acqua scorrere nella doccia. Poi,
ricordo, desiderai tanto un abbraccio di della mia amica.
P.S.Curiosità
L’area
metropolitana di Tokio conta 37'730'064
abitanti. È lapiù popolata area metropolitana del mondoe copre circa 13.500km².
Dopo Tokio si trovano San Paolo in Brasile, con 26’831'058 abitanti; e Città del Messico, con 23'610’441.
La sola città di Tokio conta quasi
nove milioni di abitanti ed è l’undicesima città più popolosa al mondo. La
prima è Shangai, in Cina, con quasi 14 milioni.
“Mi
dispiace.” Ricordo che Tomoyo aveva gli occhi gonfi, così rossi da sembrare in
sangue, le lacrime rigavano le guance e il labbro superiore tremava per il
nervosismo. “Sakura, non so cosa mi è preso, io…” Non sapeva cosa dire. La
guardavo dall’alto al basso mentre, in ginocchio, riponeva la propria
telecamera nella borsa. Era il giorno in cui avremo lasciato l’albergo del
Tokyo Disneyland ed avevamo passato tutta la mattina seguente al bacio senza
rivolgerci la parola, dopo pranzo, con un gesto leggero, come eravamo solite
fare alle elementare, mi prese la mano rifiutai con un gesto di stizza talmente
maleducato da farle mancare il fiato.
“Non
c’è niente da spiegare, sono io a non aver mai capito che tu…” Non sapevo con
che parole continuare quella frase, non volevo colpirla ancora, sembrava che
potesse morire da un momento all’altro.
“No,
no, no, io sono…mi…Sakura, ti voglio un mondo di bene. Non posso farci nulla.”
“Io…non
credo di volertene così tanto, è una cosa diversa per me.”
“Posso
continuare ad essere…tua amica?”
“Non
credo.”
“Che
stronza!” Ripensando a ciò che era successo nell’albergo del Disneyland mi
sentii di nuovo un verme e colpii il muro della doccia con tutta la forza che
avevo, più e più volte. L’acqua calda mi aveva fatto capire che persona mi
stavo trasformando. Ero passata da solare e gentile ad una bastarda. Si, una
bastarda! Può sembrare impossibile ma è proprio ciò che dimostravo di essere. Sembravo
una di quelle persone che odiavo profondamente, avevo il carattere delle
antipatiche figlie di papà che popolano telefilm e cartoni animati.
La prova di tutto era Tomoyo, la vecchia
Sakura l’avrebbe abbracciata e consolata, ne avrebbe parlato con lei e
sarebbero andate a bere un frappe insieme mano per la mano, le avrebbe
asciugato le lacrime e stretta forte; ovviamente non avrebbero più fatto la
doccia insieme, non si sarebbe più fatta immortalare con a telecamera ma
avrebbe continuato a volerla vicino nonostante quel bacio. Essere turbata per
ciò che era successo con Li non era un buon motivo per liquidarla e non
frequentarla per quasi tutti i tre anni delle scuole medie. Mi avrebbe
sicuramente aiutato a superare il dolore per la mia prima vera delusione
d’amore.
Ripensandoci su, nemmeno con Li ero
stata tanto gentile, non che lui si meritasse tanta gentilezza. Eppure mi
voleva bene e lo aveva dimostrato venendomi incontro non appena ebbi bisogno di
aiuto, di vero aiuto; non aveva fiatato quando gli avevo detto come prima frase
che l’odiavo, non fiatò nemmeno quando decisi di trascinarlo in Italia
facendogli pagare praticamente tutte le spese, abbassò la testa quando lo
costrinsi a scusarsi, senza nemmeno dargli la possibilità di spiegare il motivo
per il quale mi aveva lasciato, non dimostrò nemmeno contrarietà nel visitare
Roma, nonostante la priorità fosse quella di nascondersi, e per ultimo, gli
avevo urlato contro di lasciare in pace quell’amica alla quale io stessa avevo
fatto del male.
Uscii dal box doccia ed indossai
l’accappatoio fornito dall’albergo. Lui mi stava aspettando seduto sul mio
letto, segno che avevo passato sotto la doccia troppo tempo.
“Sei la solita ritardataria.”
“Dov’è Kerochan?” Mi guardai intorno,
non volevo stare sola con lui.
“E’ uscito per controllare la situazione
attorno all’albergo, dice che sentiva vibrazioni nuove. Sarà andato ad
assicurarsi che qui intorno ci siano negozi di dolci.”
“Li...” E’ vero che non volevo stare
sola con lui ma avevo bisogno di scusarmi.
“Và meglio? Dopo la doccia intendo.”
Bloccò la mia frase con un sorriso e quella domanda dal tono molto preoccupato,
ammetto che mi lasciò spiazzata.
Le mie gambe si mossero da sole e mi
avvicinai al letto. Vedendomi prossima a lui si alzò per uscire dalla stanza e
lasciarmi cambiare. Fui più rapida e gli afferrai il braccio nonostante
cercasse di liberarsi della presa. Era la seconda volta che lo toccavo, avevo
sempre cercato di evitare il contatto con la sua pelle e ripiombare in quello
che mi capitò poco dopo. Sentii il bisogno infrenabile di stringerlo forte ed è
proprio quello che feci.
Lui divenne rosso come al solito, sapeva
bene che sotto l’accappatoio ero nuda, e cercò di non fare caso al mio
abbraccio con tutte le sue forze; sembra improbabile ma alla fine ricambiò e mi
diede anche un bacio sulla fronte. Fu un momento molto bello, lo ammetto, da
telefilm, ne avevo bisogno.
Lo lasciai libero di andare nella sua
camera, ammetto che se fosse rimasto mentre mi cambiavo non mi avrebbe dato
fastidio, forse questo era meglio non dirlo, ero una quindicenne in piena
rivoluzione ormonale e non ne sarebbe scaturito niente di buono.
Quell’abbraccio
funse da scuse reciproche, diciamo più miei che sue. Quando uscimmo sorridenti dall’albergo
ci trovammo immersi un una chiassosa via piena di gente. Kerochan, che era
tornato puntuale per andare a pranzo, mise la testa fuori dalla tasca estasiato
dalla visione di tutta quella gente nuova: “Uao! Mi sembra incredibile di
essere di nuovo in Europa? E’ da molto che non venivo a Roma, sembra tutto
cambiato, come per Hong Kong.”
“Kerochan,
puoi restare affacciato ma almeno stai zitto, non farti notare.”
“Va
bene, ma perché vanno tutti nella stessa direzione?”
Effettivamente
la maggior parte delle persone camminavano nello stesso senso. Li non ci fece
caso e si diresse verso un piccolo locale self service dove servivano dei
tranci di pizza. Ne ordinò due, con bibite annesse e acconsentì a lasciarmi
pagare. Finalmente utilizzai la mia carta di credito, ce l’avevo da quando
avevo compiuto dodici anni, mio padre aveva aperto un conto e ci versava tutte le
mie paghette, all’inizio non ero molto contenta perché non vedevo fisicamente i
soldi, poi capii che si stava formando un bel gruzzoletto, mi sentivo ricca e
finalmente potevo usarlo.
“Mi
pentirò di averti lasciato pagare con la carta di credito.” Li tirò un morso
alla sua pizza.
“Perché?”
“Non appena controlleranno i movimenti
della tua carta, sapranno che siamo a Roma, in questo punto esatto.”
“Allora non stiamo fermi, muoviamoci.”
Dopo aver finito la pizza ci alzammo dai
tavolini della veranda e ci incolonnammo ad un gruppo di turisti asiatici. Era
un’assolata giornata e decidemmo di muoverci nella stessa direzione di tutta
quella folla. La via non era molto lunga e costeggiava un alto muro arancione
sulla desta e palazzi in stile europeo sulla sinistra. Finita la via si passava
sotto due alti archi in muratura, senza nemmeno accorgermene mi ritrovai sotto
un enorme colonnato e infine in una piazza gigantesca dove a prima vista
troneggiavano un obelisco e due fontane.
“Non dirmi che…”
“Sembra proprio di si!”
Tutto attorno era un enorme abbraccio di
colonne e statue che ci osservavano dall’alto insieme alla stupenda facciata di
San Pietro.
“Il Vaticano!” Ero emozionatissima, mi
trovavo a passeggiare su qualcosa di cui avevo sempre e solo letto sui libri,
una piazza che avevo visto solo in televisione. Era tutto molto più grande e
bello di come avevo immaginato, ancora adesso non so come descrivere quello
spettacolo che di colpo mi si era parato davanti. Poco prima camminavo in una
normale via e subito dopo mi ritrovai in uno spiazzo immenso sotto l’occhio
vigile di quella costruzione, il colonnato poi, proprio come diceva la
professoressa di storia dell’arte, pareva volerti abbracciare. Li sorrise nel
vedere la mia felicità, peccato che non ci fossimo portati una macchina fotografica,
me ne sono sempre pentita ma nella fretta della fuga non pensi di poter fare
turismo. Passeggiamo a lungo nella piazza ma non ricordo il perché non entrammo
dentro la chiesa, ipotizzo per i controlli di sicurezza ma non mi viene in
mente niente.
In preda alla felicità gli sfiorai la
mano. L’intenzione era di stringergliela e di correre insieme a lui nella
piazza, proprio come avevo fatto con Tomoyo al Disneyland, ma non appena sentii
la sua pelle rimasi come fulminata. Fu molto gentile a fingere di non averci
fatto caso. Seguimmo la strada larga che si apriva di fronte alla chiesa, che
se non ricordo male si chiama via della Conciliazione, eravamo costretti a
camminare nel verso opposto a quello delle altre persone e i marciapiedi erano
molto affollati, una cosa molto fastidiosa. Passeggiare ci fece molto bene,
dopo aver passato quasi un giorno interno seduti, arrivammo fino ai piedi di un
castello, accanto al quale passava il fiume Tevere.
“Chi sei?!” Kerochan volò fuori dalla
mia tasca e si mise ad urlare attirando l’attenzione. “Che cosa vuoi?”
“Kerochan, che ti prende” Sottovoce
cercai di afferrarlo ma sgusciò via. Notai che Li si era messo in posa, la
solita posa di quando c’era un pericolo imminente. Mi guardai intorno, molte
persone che avevano notato Kerochan, dopo alcuni istanti fui come attraversata
da un brivido di freddo e sentii del forte calore provenire dalla sommità del
castello, come se ci fosse un grosso incendio.
“C’e qualcuno sul tetto.” Effettivamente
c’era un uomo in piedi sulla banderuola. Altri passanti lo notarono e
cominciarono ad indicare quella persona in attesa di ciò che sarebbe potuto
succedere. Qualcuno si spaventò mentre altri erano incuriositi, nel frattempo
si formava una piccola folla ed un crescente brusio.
“Ben arrivata, cominciamo!” Quella voce
mi gelò il sangue e nello stesso momento udimmo un rumore assordante alle nostre
spalle: non potevamo credere ai nostri occhi, un muro d’acqua e fango ci
investì facendoci rotolare e sbattere contro alcune cose che non ho ben capito
che fossero, credo bancarelle. La folla di curiosi fu sparsa ovunque ed io
riuscii ad afferrare un palo della luce, a Li non era andata così bene e finì
incastrato sotto una macchina. Urla e pianti arrivavano da tutte le parti in ogni
lingua.
Presi in mano lo scettro e mi voltai di
nuovo verso il castello, l’uomo era già sparito. Tutt’attorno acqua e gente
sparsa ovunque che cercava di rialzarsi per scappare, le bancarelle ambulanti
che erano solite sostare sul lungotevere e sotto il castello erano state
scaraventate chissà dove, alcune donne gridarono, i bambini piansero e se non
ricordo male si udirono anche alcune sirene ed allarmi di automobili.
Impugnai la carta dell’acqua per evitare
che una seconda onda ripetesse lo scherzetto; ricordo anche che sorrisi, finalmente
avevo avuto la conferma, ciò di cui mi accusavano era di natura magica.
Rimasi in attesa per alcuni secondi e mi
accorsi troppo tardi che l’acqua che era stata spinta sulla strada aveva
formato una seconda onda, cercò di buttarmi nel fiume ed ebbi di nuovo ebbi di
nuovo la prontezza di riflessi di afferrare lo stesso palo della luce di prima.
La potenza dell’acqua era molto più forte della prima onda e mi dovetti aiutare
con lo scettro per non essere trascinata vi; la forza era tale che mi strappò
via i pantaloni, una scarpa e il bracciale di caucciù che avevo al polso,
fortunatamente quando quell’onda passo avevo ancora indosso le mutande, sarebbe
stato molto imbarazzante. Ad altri non era andata meglio, dal fiume sentivo
arrivare urla di aiuto ma tra il panico generale non potei far nulla. Corsi
alla ricerca di Li e lo trovai sotto la macchina con la gamba destra
incastrata, aveva anche un braccio sanguinante vicino al gomito.
“Metti Kerochan nello zaino, dovrei
riuscire a disincastrarmi da solo.” Mi porse il guardiano peluche privo di
sensi. Mi venne quasi da piangere, era immobile e con una zampa visibilmente
rotta, stava a bocca aperta e sembrava che il pancino non si muovesse. Lo presi
delicatamente e lo infilai nello zaino che avevo appresso, fortunatamente
l’acqua non me lo aveva strappato via.
“E così, saresti tu l’erede di Clow
Reed?” Mi voltai e mi ritrovai davanti un uomo altissimo e dai tratti iberici.
Mi osservò attentamente e poi: “Patetica.” Mi lanciò addosso un altro muro
d’acqua, fortunatamente quella volta riuscii ad usare la carta dell’acqua e
bloccai il muro prima che travolgesse sia me che Li.
“Anche Clow Reed utilizzava questa carta,
ma si accorgeva subito che era praticamente inutile.” Il mio assalitore mosse
la mano ed una colonna d’acqua nera uscì da un tombino spingendomi lontano per
alcuni metri.
“Che vuoi da me?” Mi ero fatta male al
gomito e puzzavo di fogna.
“Che voglio da te? Suvvia, non
scherziamo e gioca le tue carte.”
Non me lo feci ripetere due volte e
sfoderai la carta del fuoco nel tentativo di tenerlo lontano l’ennesimo muro
d’acqua proveniente dal fiume mi fece rotolare via. Ricordo che quella volta quasi
affogai perché non riuscii a trovare appigli.
“Arrenditi ed avrai salva la vita!”
Non lo stetti a sentire e con la carta
del volo mi alzai sopra di lui più che potevo. Solo da quell’altezza mi resi
conto della distruzione che aveva causato. C’erano molti corpi immobili, fango
ovunque, automobili rovesciate e cassonetti e spazzatura rovesciati ovunque.
“Pensi di potermi scappare?”
Due colonne d’acqua mi raggiunsero e
dovetti fare molte manovre per evitare quegli attacchi ed alla fine mi
colpirono così forte da farmi perdere il controllo, precipitai verso il Tevere
che, ad osservarlo bene, era agitato come un mare in tempesta, fu una visione
che mi colpì moltissimo. Mentre cadevo cercai di risalire sullo scettro ma
sapevo di non averne il tempo. Dovetti prendere una carta a caso sperando che
mi potesse essere utile. Ebbi fortuna ed utilizzai la carta del galleggiamento
e riuscii a frenare la caduta con lo scettro, atterrai quasi dolcemente sulla
superficie dell’acqua. Che male alle gambe.
“Oh, una mossa davvero spiazzante.” Il
mio assalitore rideva; io, invece, ero percorsa da fremiti dovuti a tutta l’adrenalina
che avevo in circolo, ansimai nel tentativo di rallentare i battiti del cuore,
così da poter ragionare in modo lucido. Il fiume si agitò ancora di più ma non
persi l’equilibrio e nel frattempo guardavo con occhi di sfida il mio nemico.
Non so che mi prese, ma volevo dargli una bella lezione, ero senza pantaloni,
puzzolente, sporca ed aveva fatto del male ai miei amici, meritava una
punizione.
“Questo sgorbio è con te?” Il nemico
sollevò Li per una gamba e lo porse e come un sacco della spazzatura. Sembrava
svenuto.
“Lascialo stare! Hai nominato Clow Reed,
è me che vuoi, sono io l’erede!”
“Si può dire che tu abbia ragione.”
L’uomo fece spallucce e lo gettò via come se fosse niente.
“Ripeto: che cosa vuoi da me?” Sapevo
che lui fosse al corrente di ciò che era successo l’estate prima. “Perché hai
ucciso il signor Suzuki?”
“Piccola, se dovessi elencare tutte le
persone che ho ucciso, tanto vale prendersela comoda.” La cosa strana è che lui
parlava in una lingua a me sconosciuta ma il significato delle sue affermazione
comparivano immediatamente nella mia testa.
Mi attaccò per l’ennesima volta ma per
sua sfortuna avevo avuto occasione di fare due più due e, grazie alle
reminiscenze scolastiche, arrivai alla conclusione che elettricità e acqua non
vanno molto d’accordo e lui mi sembrava uno che avesse molto a che fare con l’acca-due-o.
Presi la carta del fulmine e gli scagliai contro quanti più fulmini potevo.
Intravidi la carta che si lanciava a gran velocità contro il nemico e lo colpì
in pieno, purtroppo in mezzo alla confusione lo persi di vista e sparì.
Corsi su per le scale che dal fiume
riportavano alla strada e lo cercai senza successo.
“Sakura” Li mi chiamò e mi avvicinai per
accertarmi delle sue condizioni, fortunatamente era solo acciaccato e bagnato.
“E’ andato via, credo di averlo colpito
con la carta del fulmine.”
“Sei stata grande…dov’è Kerochan?”
“E’ nello zaino” lo tirai fuori e ci
rallegrammo nel vederlo di nuovo cosciente, era bello vedere i suoi occhietti
muoversi pieni di vita nonostante la zampa rotta, era pensieroso e stava
rimuginando e balbettando qualcosa.
“Che hai, palla di pelo?”
“Stai zitto mangia-soia: sto pensando!”
Kerochan rispose per le rime a Li e rimase pensare finché non dovetti riporre
nello zaino, si stavano avvicinando delle persone con le tute arancioni, li
identificammo come paramedici.
“Prendi.” Mentre venivamo scortati fino
ad un’ambulanza, Li mi porse la felpa che aveva ancora con se. “Usala come se
fosse una gonna, non mi sembra il caso di andare in giro in mutande rosa.” Il
mio viso divenne dello stesso colore della tuta dei paramedici, per lo scontro
mi ero dimenticata che l’acqua mi aveva strappato via i pantaloni e, come se
non bastasse, a causa dell’acqua, le mutande erano diventate praticamente
trasparenti.
Dopo che i medici disinfettarono le
escoriazioni e i tagli siamo dovuti scappare via nascosti dalla carta della
sparizione. Insieme alle ambulanze si sarebbero fatti vivi anche i poliziotti e
noi non potevamo rischiare di essere identificati. Tornammo all’albergo e
fortunatamente Li aveva ancora nei pantaloni la tessera per ottenere le chiavi
delle stanze dalla reception, la mia era rimasta nei pantaloni finiti chissà
dove, insieme alla scarpa destra. Ovviamente i receptionist ci chiesero che cosa
fosse successo, e perché io puzzassi di fogna, ma riuscimmo a farci capire
consigliando loro di guardare su internet.
“Ok, ci facciamo la seconda doccia della
giornata e ci vediamo nella mia camera per fare il punto della situazione.” Li
si riprese la felpa, l’avrebbe sciacquata dal fango sotto la doccia. Dovetti
nascondere le mie mutande trasparenti con le mani.
“Kerochan, se vieni con me ti sistemo la
zampa.” Titubante entrò in stanza con lui, mi lasciarono sola e ammetto che fu
una liberazione togliermi di dosso quell’odore di fogna. L’acqua che mi era
stata lanciata addosso era freddissima ed un po’ di calduccio fece rallentare
l’adrenalina che avevo ancora in circolo. Ovviamente ricominciai anche a
chiedermi chi diavolo fosse quel tipo e che cosa volesse da me; ci aveva
rovinato la visita alla città, fatto del male a Kerochan e a tante altre
persone. E il motivo? Quello ci sfuggiva, quando entrai nella camera di Li fu
la prima domanda che ci siamo posti.
“Penso di aver già visto quel tizio, anzi,
conosco le sue tecniche.” Kerochan si appollaiò sul letto e cercò di scartare
una caramella con una sola zampa, quella sinistra gli era stata raddrizzata da
Li e fasciata insieme ad una penna per tenerla dritta. Faceva davvero pena e dovetti
aiutarlo perché la scenetta stava diventato grottesca. “Clow Reed aveva molti
nemici, non è la prima volta che affrontiamo questo argomento io e Sakura, uno
di questi aveva sviluppato poteri straordinari nella manipolazione dell’acqua:
riusciva a fare tutto ciò che voleva e Clow si era ispirato a lui nella
creazione e nel perfezionamento di questa carta. Non ricordo il nome ed a
distanza di tutti questi secoli non credo possibile che sia la stessa persona,
potremo essere di fronte a qualcosa di simile per quanto riguarda la nostra
Sakura, un individuo che ha acquisito i poteri.”
“Si, ma per quale motivo ci ha
attaccato?” Li fece una domanda alla quale nessuno rispose. Fummo salvati dai
pensieri più assurdi da Roberto che bussò alla nostra porta. Aveva la stanza
accanto alle nostre e, durante il viaggio in auto, ci aveva spiegato che si trovava
a Roma per controllare alcune irregolarità di un punto vendita affiliato
all’azienda.
“Scusate il disturbo.” Dopo un altro
perfetto inchino Li lo fece entrare. “Alla reception mi hanno detto chi siete
rientrati senza pantaloni e puzzolenti. Presumo che siate rimasti coinvolta
nella piena del Tevere. State bene?”
“Quella senza pantaloni ero io, ho perso
anche una scarpa.”
“Stiamo bene, grazie per
l’interessamento.” Sembrava che Li volesse liquidarlo.
“Alla radio ho sentito dire che c’è
stata una frana poco lontano da Roma, la grande massa d’acqua violentemente
spostata è arrivata fino in città facendo danni. Dicevano anche che sono morte
due persone e non riescono a trovare una bambina, pensano che sia caduta nel
fiume.”
Sentii lo stomaco atrofizzarsi all’istante,
mi sentivo in parte responsabile.
“Sembra però che l’emergenza sia passata
e il fiume è tornato normale, chiuderanno i ponti più bassi e alcune zone a
rischio attorno al Tevere per non correre rischi, non avete scelto un buon
momento per fare una visita alla città”
“Roberto, hai modo di metterti in
contatto con Tomoyo, la figlia della presidentessa? Vorrei sentire mia cugina.”
Sorridente e senza fare domande mi porse
il cellulare. Mi rifugiai nella mia stanza e rimasi immobile. Era da un po’ che
non la sentivo e a dir la verità non sapevo che dire.
“Pronto?” La sua voce fece capolino nel
mio orecchio e ricordai perché volevo sentirla, mi fece calmare ma allo stesso
tempo ricominciarono a sgorgare le lacrime dai miei occhi, ora che ci penso, in
quest’avventura piansi davvero tanto. Mi sedetti sul pavimento e rimasi
silenziosa mentre Tomoyo cercava di capire chi stesse dall’altra parte della
cornetta.
“Ciao Tomoyo, sono Sakura.” Al decimo pronto
risposi e questa volta fu lei a zittirsi. “Siamo in albergo, grazie per aver
mandato Roberto a prenderci. So che piombo all’improvviso ed ora che ci penso
non so nemmeno che ore siano in Giappone ma avevo assoluto bisogno di
sentirti.” Le parole uscivano da sole, come una folata di vento. “Sai, un uomo
ci ha attaccati dicendo tante cose strane, abbiamo rischiato di affogare e
Kerochan si è fatto male ad una zampa; è la prima volta che affronto una
battaglia senza che tu sia lì a riprendermi, è stato molto spettacolare ma sono
morte due persone e non riescono a trovare una bambina, pensano che sia finita
in acqua; avrei tanto voluto avere uno dei tuoi vestiti, li ho sempre indossati
controvoglia ma in molte occasioni si sono rivelati utilissimi, mi mancano
davvero. Mi manchi anche tu, sicuramente mi saresti più utile di Li e…”
“Mi sarebbe tanto piaciuto riprenderti
con la mia telecamera nuova, inoltre devi proprio vedere i disegni per i nuovi
vestiti, sono bellissimi e ce n’è anche qualcuno di quelli provocanti.”
“Questi ultimi è meglio che non me li
mostri nemmeno.”
Ricordo che abbiamo riso per alcuni
secondi finché non è calato uno di quei silenzi che non vedi l’ora di rompere,
ma ti manca il coraggio e allora preghi con tutto il cuore che sia l’altro a
farlo.
“Mi dispiace per ciò che è successo tra
noi, mi manchi.”
“Che programmi avete per domani?” Cambiò
subito argomento, ma dalla voce capii che si era emozionata per quel mio mi
manchi.
“Beh, è successo un gran casino qui a
Roma, penso sia il caso di andare verso la nostra destinazione, domani tutti i
riflettori saranno puntati qui e potremo muoverci con più tranquillità.”
“Hai pienamente ragione, nella sfortuna
avete avuto, come dire, culo. Chiederò a Roberto di portavi almeno fino a
Salerno.”
“Non puoi, ci insegue la polizia, non
voglio coinvolgerti. E tanto meno voglio coinvolgere Roberto.”
“Tranquilla, lui è di quella città e ci
sarebbe dovuto tornare comunque per le ferie, vi darà uno strappo e poi non
avrete più a che fare con lui. Fatevi una bella dormita così domani sarete
freschi e ragionerete a mente riposata.”
“Va bene, buonanotte Tomoyo. Ancora
Grazie.”
“Buonanotte, potresti salutami Kerochan
e Li e passarmi Roberto? Spero che vogliate continuare a tenermi informata,
voglio rendermi utile anche da qui.”
Non nascondo che quando ci infilammo
oltre il casello mi pentii di non aver visitato per bene Roma, mentre guardavo
le macchine che superavamo mi pentivo di non essere andata a vedere la fontana
di Trevi, il Pantheon, i Fori Imperiali ma soprattutto, il Colosseo.
Li russava beatamente nel sedile
posteriore, io preferivo continuare a stargli lontano, nel sedile del
passeggero anteriore. Nonostante l’abbraccio del giorno prima le cose non
potevano cambiare in meglio da un giorno all’altro. Eh si, sembra stupido ma se
ci si ragiona, quando si vuole bene ad una persona i momento belli sono
indubbiamente tanti e si conservano come diamanti, ricordandoli di tanto in
tanto per cercare di riassaporare ciò che sono stati. Eppure basta un unico
momento di debolezza, una cosa brutta, qualcosa di percepito come un
tradimento, una mancanza di rispetto, qualcosa che colpisce così forte da farti
sanguinare lo stomaco e quei diamanti vengono rotti come vetro da un grosso,
sporco sasso. Tutto viene in secondo piano e pensi infinitamente a quello
sporco che oscura tutto, unge e macchia i bei momenti passati, cerchi di non
vederlo ma non ci riesci: ci sarà sempre quel masso e col tempo diventerà un
sassolino, un granello di sabbia, piccolo e grigio, riuscirai a tirare avanti,
però, sarà come camminare avendolo nella scarpa, da qui in poi è soggettivo se
sopportare quel fastidio o levare il sassolino e correre via lasciando indietro
tutto, liberandosi anche dei cocci di diamante rotti, lasciando andare per sempre
chi ti ha voluto bene.
Io avevo ancora il mio sassolino nella
scarpa ma non riuscivo a capirne l’entità, se fosse piccolo o grande, nero o
bianco, stringevo i denti e continuavo ad andare avanti; mi tenevo stretta
quella persona a cui avevo voluto bene anche non conoscendo i suoi sentimenti.
Alquanto egoista, no?
Non pensai ad altro nelle tre ore che ci
impiegammo per arrivare solo a Napoli, c’era traffico e non avendo fatto soste,
Roberto decise che avremo pranzato in città, così da poterci anche sgranchire le
gambe, avremo ricominciato il viaggio dopo il caffè. Quando finalmente pagammo
al casello, riuscimmo a percorrere poco più di un chilometro prima di essere
fermati da un uomo in divisa nera che, con una palettina bianca e rossa, ci
fece segno di fermarci sul lato della strada.
Roberto si fermò davanti alla loro
macchina, notai che uno di loro aveva a tracolla una mitraglietta e ci
osservava in modo minaccioso.
“Chi sono questi uomini armati?” Non vi
nascondo che ero terrorizzata.
“Carabinieri, una specie di polizia, è
il solito controllo della patente.”
L’uomo con la paletta si avvicinò e
scambiò alcune parole in Italiano con Roberto poi notò me e Li. Si allontanò
rapido verso il suo collega senza proferire altro.
“Tomoyo mi ha detto che siete ricercati,
vi hanno accusato di omicidio.” Roberto strinse con forza il volante.
“Stiamo andando ad Agropoli per
dimostrare la nostra innocenza, forse è il caso che si separiamo qui.”
“Siete innocenti?”
“Certo!” Risposi senza pensarci su due
volte e notammo che il carabiniere si avvicinava nuovamente, questa volta con
un foglio in mano e si distingueva perfettamente un volto asiatico stampato
sopra.
“Bene.” Roberto ingranò la marcia più bassa
e la macchina partì con un gran polverone, rischiando di causare un incidente.
Venni schiacciata al sedile e non potei far altro che reggermi forte alla
cintura di sicurezza.
“Che succede?” Li si era svegliato
spaventatissimo.
“Sembra che vi abbiano riconosciuto. Vi
porto a Napoli e vi scarico non appena li seminiamo, dovrete arrivare da soli
ad Agropoli.”
“Ma così inseguiranno anche a te.”
“Tomoyo mi ha detto che siete innocenti,
e non sareste mai venuti fin qui se non lo foste davvero, vi credo ma dobbiamo
separarci.”
Dobbiamo molto a Roberto.
P.S. Curiosità
Uno dei tanti appellativi con i quali viene chiamata la città di
Roma, oltre a Città eterna e Caput mundi, è Città
dell’acqua, nome dovuto ai numerosi acquedotti presenti in città e nelle
provincie del suo antico e vasto impero.
Roma ha il maggior numero di atenei e di iscritti universitari in
Italia; sul suo territorio sono presenti 22 atenei statali e privati e 24
atenei pontifici, per un totale di 46 atenei
“Stare a Roma e non far mai una passeggiata a piedi, sarebbe, mi
sembra, poco divertente.”
Dal tranquillo e
rilassante rettilineo autostradale ci ritrovammo a scappare per le vie della
periferia napoletana. Roberto sembrava abituato all’alta velocità, io invece,
non potevo che sospirare ad ogni auto superata o evitata. I carabinieri ci
raggiunsero in poco tempo e si incollarono al nostro paraurti a sirene
spiegate. Avevo una gran paura, temevo che da un momento all’altro potesse
succedere come nei film e cominciassero a sparare nel tentativo di fermarci,
fortunatamente si limitarono solo a tamponarci cercando di mandarci fuori
strada e di rallentarci.
Quando uscimmo
dall’autostrada ci eravamo infilati in città e nel navigatore satellitare di
Roberto lessi Poggioreale, poi quello schermo fu
l’ultima cosa che lessi, ero intenta ad osservare nello specchietto i
carabinieri che ci inseguivano. In pochi minuti le macchine diventarono due e
più di una volta, una di queste cercò di superarci nel tentativo di sbarrarci
la strada.
Col senno di poi
sarei anche potuta intervenire con le carte di Clow ma la velocità e la paura
mi impedirono di fare qualsiasi movimento all’infuori di quelli per reggermi
ben salda; ancora oggi ricordo la nausea dovuta a tutti quegli scossoni.
Il motore della
macchina era assordante e le gomme fischiavano ad ogni curva alzando di tanto
in tanto fumo bianco maleodorante. Non so se fosse la mia immaginazione ma ad
un certo punto, Roberto si infilò in una stradina più stretta delle altre per
poi sbucare dentro una molto più larga, con varie corsie, circondata da palazzi
oltre i quali mi sembrò di intravvedere il mare e le grandi gru del porto. Non
mi impegnai molto a capire se fosse immaginazione o meno, perché dal verso di
marcia opposto sbucò un'altra macchina dei carabinieri e dopo aver invaso la
nostra corsia, saltando un isola spartitraffico, cercò di tamponarci. A dir la
verità ci colpì di striscio, staccando lo specchietto di Roberto e graffiando
vistosamente l’auto. Fortunatamente il nostro autista aveva buoni riflessi e
riuscì ad evitare di perdere il controllo rendendo vano quel tentativo.
Ricordo che
Roberto fece una curva all’ultimo momento per cercare di seminare i carabinieri
ma ci ritrovammo in una strada piena di macchine in doppia fila e bambini
ovunque. Eravamo in prossimità di una scuola ed era ora di pranzo, i bambini si
riversarono per strada ma invece di rallentare andammo ancora più veloci.
Ricordo di non
aver mai pregato così intensamente in vita mia come quando Roberto riuscì a
fare lo slalom tra decine e decine di bambini che correvano in ogni direzione
per la paura.
Funzionò.
I carabinieri si
fermarono e ci dileguammo per le vite di Napoli il più veloce possibile, ancora
con il cuore a mille.
“Vi lascio
appena siamo in un posto tranquillo, le valige farò in modo di farvele trovare
questa notte. Andate per mezzanotte nella strada che c’è tra il cimitero nuovo
e il cimitero monumentale. I due ingressi sono uno di fronte all’altro e li
vicino ci sono dei cassonetti. Troverete le valige li dietro.” Roberto giudò
per altri minuti e poi si fermò senza dare nell’occhio in una rotonda.”
Scendete nella metropolitana e prendere il primo treno che passa,andate verso il centro, dove ci sono le
comitive di turisti asiatici.”
“Grazie
Roberto.” Non riuscimmo a dire altro perché ripartì subito. In lontananza
sentimmo alcune sirene e seguimmo il suggerimento, scendemmo le scale e, dopo
aver comprato due biglietti al terminale automatico attendemmo il primo treno
che andava in direzione del centro. All’interno della carrozza trovammo due
posti vicini e ci sedemmo accanto ad una signora anziana con il nipotino che
giocava con una console portatile. Non era così affollato come ero abituata a
vedere in Giappone e ricordo che il vagone era alquanto sporco.
“Dove
scendiamo?” Mi rilassai cercando di far rallentare il cuore mentre il treno
cominciava la sua corsa sotterranea.
“Dante.” Li
scrutò attentamente la mappa della metro e penso che abbia scelto una
destinazione a caso. Avevo studiato inglese alle scuole medie ma non ero mai
stata un genio con le lingue straniere, alcune lettere dell’alfabeto
occidentale mi risultavano ignote. Fortunatamente l’istruzione che aveva avuto
Li era di molto superiore alla mia, era un bene averlo al mio fianco. “Dobbiamo
sembrare turisti, quindi dobbiamo accodarci alle comitive come abbiamo fatto a
Roma; sarà necessario fare molta attenzione perché ora sanno tutti che siamo a
Napoli, usare la carta di credito vicino al Vaticano ci ha smascherato e la
sfortuna di aver incontrato i carabinieri ha indicato la nostra posizione
esatta. Ora sanno che siamo in città ed allontanarsi diventerà molto più difficile.”
Tra una fermata
e l’altra la gente continuò a salire e scendere senza badare alla nostra
presenza. Quando arrivò la fermata scelta da Li, attendemmo che si aprissero le
porte del treno e cautamente ci incolonnammo alla folla in direzione delle scale.
La fermata era molto colorata e vivace, c’era molta gente che sostava vicino a
negozietti molto invitanti, alcune pareti erano abbellite da installazioni di
arte moderna, o così pareva, una era molto particolare e rappresentava alcune
sfere di vari colori su sfondo blu, un’altra, invece, rappresentava delle
sbarre di ferro saldati su alcune scarpe, capelli e trenini giocatolo. Molto
strana l’arte moderna.
Dopo aver vagato
un po’ tra un binario e l’altro decidemmo di risalire in superficie sperando
che non ci fossero orde di carabinieri in tenuta antisommossa pronti a
catturarci. Salimmo le scale fino ad una copertura in vetro e acciaio che ci
accompagno sulla piazza Dante, dove troneggiava la statua di Alighieri ed un
palazzo a semicerchio che pareva tanto
un’altra scuola, aveva una torre con un orologio e il tetto era costeggiato da
statue che osservavano la piazza con sguardo saccente. Erano presenti alcune
comitive di turisti che fotografavano la statua e alcuni bambini che correvano
da una parte all’altra inseguendo piccioni, la strada era alquanto trafficata e
c’era un gran viavai di gente; abbiamo avuto fortuna.
“Che facciamo?”
Avevo fame ed una gran sete, la paura mi aveva disidratato.
“Non lo so, ho
usato gli ultimi spiccioli per i biglietti della metro.” Li aveva ragione,
appena arrivati all’Aeroporto di Roma, Roberto l’aveva accompagnato per
cambiare alcuni yen in euro, aveva cambiato solo poche decine di euro così da
non dare nell’occhio,purtroppo li
avevamo già utilizzati tutti. Cambiare di nuovo in qualche banca equivaleva al
dire “Ehi siamo qui, vi stiamo aspettando.”
Senza sapere che
fare cominciammo a camminare lungo il marciapiede. Destinazione ignota. Seguimmo
la folla lungo quella che a tratti era una via trafficata e subito dopo diventava
zona pedonale, a quanto pare ci trovavamo al centro: era pieno di bar, negozi,
pub, uffici, c’erano alcuni palazzi antichi con facciate davvero belle con
grandi colonne e scritte nel marmo. Ricordo che camminammo per quasi mezz’ora,
sembrava che stessimo scendendo a valle. Di tanto in tanto ci si avvicinava
qualche venditore ambulante ma dopo aver fatto capire che non parlavamo
italiano, si allontanavano subito.
Poi ci
ritrovammo in una piazza con una fontana al centro di un rotonda e,
successivamente in una piazza gigantesca sorvegliata da una chiesa che mi
ricordò molto quella di San Pietro al Vaticano, aveva attorno un colonnato,
molto più piccolo di quello romano, ed un ingresso maestoso formato da colonne
e un architrave triangolare, sembrava l’ingresso di un tempio greco; dietro
poi, c’erano tre cupole, due ai lati, piccole, ed una enorme con un croce
cristiana sulla sommità.
“Dovrebbe essere
Piazza del Plebiscito.” Li aveva una mappa turistica in mano e la stava
studiando attentamente.
“Da dove l’hai
tirata fuori?”
“Era in terra.
Si, lo so che non si raccoglie niente da terra, ma siamo in emergenza, sarà
indispensabile averla con noi.”
“Che bella
dormita.” Kerochan aprì lo zaino e mise la testa fuori. Dopo le ferite
riportate il giorno prima, e nonostante tutti gli scossoni dell’inseguimento,
aveva dormito come un ghiro. La cosa non mi stupiva affatto. “Siamo già a
Salerno?”
“Siamo a Napoli,
abbiamo avuto un problemino con i carabinieri.”
“Carra…cosa?”
“Polizia,
problemi con la polizia.” Li ripiegò la mappa e la mise in tasca. Si guardò
attorno e dopo aver frugato in tasca riuscì a tirare fuori qualche spicciolo.
Contammo le monete e scoprimmo di avere
poco più di due euro e sessanta centesimi, quasi duecentosettanta yen. Tropo poco
per riuscire a mangiare e bere in tre.
“Sakura, c’è
qualcuno che sa maneggiare la magia!” Con un rapido movimento Li Kerochan venne
ricacciato dentro il mio zaino perché ci passarono accanto alcuni bambini. Ci
guardammo intorno ma le uniche cose che avevamo davanti agli occhi erano
comitive di turisti, cittadini comuni, piccioni, auto e moto.
“Mostrami la
mano.” Silenzioso come un fantasma si era avvicinato un ragazzo vestito in modo
elegante, aveva la pelle scura e capelli nerissimi, corti, due occhi
altrettanto neri che ti imprigionavano e una postura e presenza che parevano
ipnotiche. Sembrava che dalla sua persona arrivassero vibrazioni, calore,
freddo, tutto insieme, ero attratta come se fosse un magnete. “Posso vedere la
tua mano destra?” Parlava in una lingua sconosciuta, pareva Arabo, ma nella mia
mentre si materializzava l’esatto significato.
“Che vuole
questo tipo, Sakura?” Li cercò di farmi indietreggiare tirandomi per lo zaino
ma riuscii a sfilarlo con un movimento rapido e mi avvicinai ancora di più a
quello strano individuo che mi si era parato davanti. Gli ero vicino tanto
quanto bastava per toccarlo. Era più grande di noi e doveva avere vent’anni o
poco più. Mi porse la mano e comparve un cerchio nero con al centro un numero
romano che rappresentava il due, II. Feci lo stesso e porsi la mano destra
tenendola accanto alla sua. Con molto solletico, nel mio palmo, comparve come
un tatuaggio lo stesso simbolo, identico se non fosse stato per il colore. Il
mio era rosso.
“Che significa?”
Li si mise tra noi due e afferrò il ragazzo, che mantenne la calma, per il
colletto. Il ragazzo mi guardò facendomi capire che non aveva capito nulla di
ciò che le avesse dello il mio accompagnatore. Quindi feci da interpreti e ripronunciai la domanda.
“Quindi, sei tu
l’avversario a non essere a conoscenza delle prove.”
“Quali prove?”
“Non sai davvero
niente?”
Feci di no con
la testa. Il misterioso ragazzo mosse la mano vicino al viso di Li e gli si
illuminarono gli occhi per un istante, appena impercettibile.
“Avete già
mangiato?” Anche Li capì la domanda e lo lasciò andare per mettersi di fronte a
me, nel tentativo di proteggermi. “Mi sembrate stanchi ad affamati, vi propongo
di venire a pranzo, miei ospiti ovviamente, e vi spiegherò tutto. Tranquilli,
non vi attaccherò, io ho il simbolo nero e il vostro è diverso, quindi sarei
eliminato all’istante.”
“Fidiamoci.” Kerochan
sbucò di nuovo dallo zaino e lo scrutò attentamente. “E’ un essere in grado di
maneggiare i poteri magici ma non emana vibrazioni negative, non è ostile.”
“Ascoltate il
guardiano mostriciattolo.”
“Conosci
Kerochan?” La mia domanda era d’obbligo.
“Lo letto molto
sui suoi poteri, se non sbaglio questa non è la sua vera forma, solo quella…tascabile. Giusto?”
“A chi hai
chiamato mostriciattolo tascabile!? Ripetilo se hai il coraggio brutto figlio
di papà viziato!” Kerochan gridò con tutto il suo fiato ma Li lo ricacciò
dentro lo zaino prima che qualcuno potesse notarlo. Non potemmo che ridere alla
visione di quella scenetta.
“C’è un
ristorante carino qui vicino, piccolino, ma cucinano divinamente.” Il ragazzo
cominciò a camminare in direzione del locale. Non potemmo che seguirlo, diciamo
che io venni trascinata dall’influenza enigmatica di quella persona. L’avevamo
appena conosciuto, eppure mi sembrava di averlo sempre avuto intorno a me,
conosceva il mio segreto e la magia, era una specie di cugino.
“Il tuo nome?”
Fu Li a fare la domanda, sembrava che non si fidasse.
“Mi chiamo
‘Adel.” Rispose senza nemmeno voltarsi.
“Turco?”
Cominciava a non piacermi il tono di Li.
“Emirati Arabi
Uniti, sono nato nell’emirato di Abu Dhabi, ma grazie al lavoro di mio padre ho
residenza in tutti e sette.”
“Allah, al-Waṭan, al-Ra’is” Il tono di Li mi piaceva sempre di meno.
“Esatto: Allah, Patria, Presidente,vedo che sei…colto.”
“Mi piace la
storia contemporanea e gironzolare su Wikipedia.”
Seguimmo ‘Adel
fino ad un ristorante che si affacciava sulla via che avevamo appena percorso
io e Li. Entrammo nel locale e, tra i tavoli, venimmo accolti da una ragazza
carinissima che ci accompagnò al nostro posto e ci porse i menù prima di andare
ad accogliere altri clienti entrati poco dopo di noi. Anche se pur sapendo che
non potevamo abbassare la guardia, cercammo lo stesso di rilassarci e la cosa
ci venne piuttosto bene quando ordinammo dei piatti di pasta giganti. Noi
ordinammo delle bibite normali ma ‘Adel ordinò del vino e cominciò a
sorseggiarlo con gusto.
“Sei giapponese,
giusto?” ‘Adel posò il bicchiere e si pulì la bocca con il tovagliolo.
Armeggiava le forchette da maestro mentre io Li avevamo un po’ più di problemi
nel portarci l’antipasto alla bocca. “Mi risulta che Clow Reed fosse di origine
cinese.”
“Ho trovato le
carte di Clow dentro un libro nella biblioteca di mio padre, non so come ci sia
finito, ipotizzo che essendo un professore universitario possa esserselo
procurato durante le sue ricerche. Ho acquisito i poteri e non nascondo che
ancora oggi non so come utilizzarle al cento per centro, a dir la verità non ne
trovo motivo.”
“A differenza
tua, io ho sempre saputo di essere discendente di una famiglia di stregoni. I
miei antenati erano nomadi e quindi si muovevano ogni qual volta che avevano
necessità di viveri, denaro, eccetera. Durante gli spostamenti andavano di
città in città e si incontravano con altre persone con i poteri – sembra che
non fosse così strano nell’antichità – e si scambiavano conoscenze acquisendo
reciprocamente capacità magiche ed altre conoscenze. Ovviamente in famiglia c’e
sempre stata la tradizione di tramandare tutti i saperi della tribù, niente
escluso; negli anni poi c’è stata la necessità di stabilirsi da qualche parte e
la storia mi ha insegnato che decidemmo di stabilirci negli Emirati Arabi,
anche se al tempo non erano ancora uno stato. Successivamente, in tempi
recenti, i componenti della mia famiglia hanno utilizzato le loro capacità per
creare servizi e lavoro che, come dire, ci hanno fruttato fortuna, in famiglia
non abbiamo di certo problemi di soldi.”
“Ma non mi dire,
non si notava mica.” Li osservava i tavoli vicini senza nemmeno guardare colui
che ci aveva invitato a pranzo.
“Puoi scusarci
un momento, ‘Adel?” Presi Li e lo trascinai in strada. Si divincolò dalla mia
presa quasi subito con un gesto di stizza ed incrociò le braccia voltandosi da
tutt’altra parte. Che voglia di prenderlo a schiaffi!
“Io non avevo
finito di mangiare!” Li stava davvero rischiando di essere picchiato sul serio.
“Che cos’hai? Perché
ti rivolgi a lui con quel tono odioso?”
“Non mi fido!”
Sbottò lui.
“Non ti fidi di
‘Adel?”
“Pensaci! Si è
avvicinato come una lince, avrebbe potuto ucciderci in un attimo se tu non
avessi avuto quella specie di tatuaggio di un colore diverso dal suo. Và
considero come un nemico, penso che siamo capitati dentro qualcosa che va oltre
il fatto dell’omicidio del Signor Suzuki, comincio a pensare che sia stato solo
un diversivo, o peggio, un metodo per attirare la nostra attenzione.”
“Non ti nascondo
che anche io ho avuto questa sensazione, fatto sta che non è un buon motivo per
trattare male la persona che ci sta offrendo il pranzo. Inoltre siamo in una
città ed in uno stato straniero, non conosciamo ne la lingua ne il posto,
abbiamo bisogno di qualcuno che sia nostro amico. Non possiamo più contare su
Roberto e avere ‘Adel ci farebbe molto comodo.” Bloccai Li che cercava di
rientrare nel ristorante. “Sento che possiamo fidarci.”
Ci guardammo per
alcuni secondi negli occhi. Ho cercato di fare lo sguardo più serio che potessi
ma sono sicura di aver fatto solo la figura della scema. Come per darmi il
contentino, Li entrò calmo nel ristorante cercando di essere il più naturale
possibile.
“Che cos’è?”
Dissi io ancora prima di sedermi di nuovo al tavolo, mostrando il segno che
avevo nella mano e che, sembrasse, comparire solo in sua presenza. Li mi aveva ricordato
quel dettaglio, non so perché ma mi ero totalmente dimenticata a causa del
fascino di quel ragazzo e della storia della sua gente. A dir la verità ciò che
ci raccontò fu molto di più ma non ricordo bene ogni singolo dettaglio, non
sono mai stata un genio in storia. Presi di nuovo posto e il tatuaggio sparì.
“E’ un torneo.
Non come quelli che vedi nei film ma ci siamo.” ‘Adel, finì un altro bicchiere
di vino.
“Stai
scherzando, vero? A Roma ci hanno attaccati, sono morte delle persone, è stato
distrutto un argine e ci sono ancora dispersi, il tutto per un fottuto torneo
tra maghi?” Senza accorgersene, credo, Li gridò.
“Non è un
torneo, è Il Torneo Haab.” ‘Adel non si scompose. “Tutti i maghi,
stregoni, sciamani, sacerdoti e alchimisti di ogni tempo e terra, sono a
conoscenza di questo torneo, un incantesimo lo invoca e viene data la
possibilità ad ogni persona dotata di certe conoscenze, l’onore di
parteciparvi, sta a lei decidere se farlo o no.”
“Che significa Haab?” Chiesi io.
“Il primo torneo
risale ai Maya e agli Atzeki, la leggenda narra che
tra gli sciamani e gli stregoni di varie città e villaggi ci fosse malcontento,
uno dei più saggi creò la formula per il torneo Haab. Questo prende il nome dal
ciclo di 365 giorni del calendario Maya e si deve arrivare ad un vincitore
entro i giorni del ciclo, pena, la morte di tutti i concorrenti. Erano
abbastanza drastici questi Maya. La chiamata era inclusa nell’incantesimo
stesso e tutti i concorrenti avrebbero saputo dove si sarebbero svolte le
prove.” ‘Adel accolse con un sorriso i piatti di pasta che ci venivano messi
sotto il naso e, se pur a tratti con la bocca piena, continuò la spiegazione.
“Nei secoli l’incantesimo è stato modificato, a volte semplificato, altre reso
più complicato per accogliere più concorrenti e, in tempi moderni, affinché la
chiamata fosse nascosta, in modo che le persone prive di poteri non potessero
sapere dello svolgimento del torneo. Si tratta però di una soluzione drastica,
molto recente, dato che ormai le persone che riescono a padroneggiare le
conoscenze adatte per partecipare si contano sulle dita delle mani. E’
necessario creare una chiamata diversa per ogni persona che parteciperà al
torneo, sperando che questa recepisca il messaggio. Un tempo il torneo era
pubblico e il vincitore otteneva gloria eterna e poteri infiniti che gli
sarebbero serviti per incontrarsi con gli dei e fiancheggiarli; attualmente
l’incantesimo permette poteri infiniti solo per un sole, ovvero dall’alba del giorno successivo alla vittoria fino
all’alba successiva. Praticamente si è un dio per un giorno intero.”
Non nascondo che
ero sconvolta, non riuscivo nemmeno a mangiare.
“Qual è stata la
tua chiamata?” Chiese Li.
“A dir la verità
ho sentito da subito che venivo attratto dall’Europa, poi ho cominciato a
riscontrare stranezze, sogni particolari dove apparivano sempre le tre piramidi
della piana di Ghiza, al Cairo. Ho fatto delle
ricerche e mi sono consultato con alcuni parenti, anch’essi dotati di
conoscenze. Alla fine sono partito e ho affrontato il mio avversario ai piedi
della sfinge si è arreso.” ‘Adel finì sorridente la usa porzione di pasta al
sugo.
“C’è la
possibilità di arrendersi?” Cominciavo ad essere un po’ più sollevata.
“Certo.
Ovviamente chi partecipa sa che è molto pericoloso e partecipa con uno scopo
importate, che può portare a compimento solo con la vittoria dell’Haab. Se però
durante il torneo arriva ad un punto tale da rischiare la vita e, il gioco non
vale la candela, può arrendersi.”
“Qual è il
motivo per il quale partecipi?”
“E’ complicato
da spiegare e non so se potete capire, piuttosto, sono curioso di conoscere la
vostra di chiamata.”
“Ci hanno
accusati di omicidio. Siamo venuti in Italia perché volevamo capire meglio la
situazione, a Roma abbiamo incontrato un tipo che ci ha attaccato e mi sono
difesa. Quando però l’ho attaccato io è sparito e non si è più fatto vedere.
Spero di non averlo ucciso.”
“Sarebbe rimasto
il cadavere, dovete sapere che l’incantesimo, tra la varie modifiche, permette
di farti arrendere in automatico se sei ferito in modo così grave da non poter continuare
la lotta.” ‘Adel ci sorrise e il cameriere si avvicinò con il secondo, carne
alla piastra. “L’accusa di omicidio è la prima volta che la sento come
chiamata. Però mi pare sensato, voi venite dall’altra parte del mondo e solo un
fatto così grave vi avrebbe potuto portare fin qui. E’ anche vero che in questo
modo siete costretti a vincere per
riportare tutto alla normalità; piuttosto, perché siete in due?”
“Siamo entrambi
dotati di poteri. Io sono il discendente genetico di Clow Reed, lei invece ha
acquisito i poteri in un, come dire, incidente. Penso che siamo qui per questo
motivo: entrambi i discendenti sono ancora in vita, ma solo uno è il destinato
al torneo.” Fu Li a rispondere alla domanda e finalmente abbandonò quel tono
irritante, inoltre aveva detto una cosa sensata, il suo ragionamento filava. “E
perché sono stato trascinato qui contro la mia volontà.”
Parlai troppo
presto e dopo quell’ultima frase di Li non gli rivolsi la parola per tutto il
resto del pranzo. Ero talmente furiosa da non riuscire nemmeno a mangiare una
sola briciola in più. Torturai tutti i fazzoletti e i tovaglioli presenti sul
tavolo finché ‘Adel, sempre con il sorriso sul viso, non pagò il conto con
tanto di carta di credito dorata. Durante il resto del pranzo Li gli aveva
spiegato per bene la nostra situazione e si offrì di ospitarci nella casa che
aveva preso in affitto. Ovvio che non potevamo accettare ma si fece talmente
insistente che per farlo stare zitto non potemmo che seguirlo fino
all’appartamento. Aveva trovato alloggio in un palazzo vicino ad un’area
militare, visto dall’alto il palazzo risultava tra l’aeroporto e il centro
direzionale dove c’era la stazione dei treni; notammo di aver avuto un altro
colpo di fortuna perché il cimitero, dove avremo dovuto recuperare le valigie,
era proprio li vicino; durante il tragitto ‘Adel ci spiegò di aver preso casa
proprio li perché se avesse avuto bisogno di partire immediatamente sarebbe
stato a pochi isolati dai grandi mezzi si trasporto.
“Prendetevi la
libertà di fare come se fosse casa vostra. Tanto non è nemmeno mia.” ‘Adel aprì
la porta ed entrammo nel soggiorno bello e luminoso di una casa che, a prima
vista pareva, al quanto piccola. Nel soggiorno era presente anche la cucina e
due divani stavano attorno ad una televisione sul muro opposto. Posò le chiavi
di casa sul tavolo accanto alla cucina ed aprì il frigo per tirare fuori due
lattine di pepsi. “Ormai sono a Napoli da due mesi, il mio nemico è qui in
città ma ancora non sono riuscito ad incontrarlo, evidentemente nel suo ultimo
scontro è rimasto ferito e deve ancora riprendersi. Per questo quando ho
sentito la presenza di Sakura, mi sono avvicinato in modo così sospetto: vogliate
perdonarmi.”
Ci guardammo
intorno e mi venne l’istinto di togliermi le scarpe, notando poi che la casa
non aveva il pavimento in legno, ma in piastrelle rosa, non le tolsi e feci il
solito inchino prima di varcare la soglia, Li e Kerochan, al contrario, era già
andati ad accomodarsi sul divano. Lanciai loro un’occhiata assassina ma ignorarono
la mia minaccia di morte. Aiutai ‘Adel a prender i bicchieri per le bibite e mi
sedetti al tavolo con lui, tirò fuori da un mobile della cucina anche un pacchetto
di patatine e lo mise sul tavolo in modo che potessimo servirci da soli.
“Perché ci
aiuti?” Dato che Li si era acceso la televisione cercai di fare un po’ di
conversazione. “Secondo come va il resto delle battaglie finiremo con l’essere
nemici.”
“Lo so.”
Sospirando aprì il sacchetto delle patatine e mi versò un po’ di pepsi nel
bicchiere. “Sono stato educato ad essere sempre cordiale e ospitale con tutti,
conoscenti e sconosciuti, è più forte di me e non mi va di vedervi come nemici.
Inoltre se ci fosse uno scontro tra noi due io non avrei possibilità di
vittoria. Conosco le qualità e la potenza delle carte di Clow, sono molto
famose tra i conoscenti delle arti magiche. Al tempo della loro creazione erano
due le persone più forti tra i maghi & co.: Clow
Reed, con le sue conoscenze praticamente infinite ed un sorriso perenne sul
viso, e Ferrante Croce, uomo dalle grandi conoscenze arcaiche del sud Italia e
del nord Africa, nonché grande studioso dei misteri Greci e Egiziani. Questi
due era meglio averli come alleati che come nemici, Clow era amichevole mentre
Croce al quanto irascibile e famoso per la sua noncuranza della vita altrui.”
“Li e Kerochan
mi avevano accennato qualcosa del genere.”
“Il numero due
sulle nostre mani rappresenta la prima vittoria, ovvero che abbiamo il diritto
di partecipare alla seconda fase contro un nemico che ha il nostro stesso
simbolo. Il torneo contava otto concorrenti,
vincendo la prima battaglia siamo rimasi in quattro, noi due e i nostri nemici.
Se vinciamo anche questo secondo scontro ci incontreremo nella finale.”
“Non posso
lottare contro di te.”
“Dobbiamo,
altrimenti moriremo. Possiamo però fare un patto.”
“Esponimelo.”
“Utilizzando le
carte di Clow sei la favorita. Potremo lottare per una mezz’oretta e, ad un
certo punto, io mi arrenderò consegnando a te la vittoria del torneo.”
“Potrei
arrendermi io, perché devi farlo tu?”
“Come ho detto
prima, sei la favorita. Inoltre avrai la possibilità di sistemare la situazione
dell’accusa di omicidio e tornare subito a casa.” ‘Adel mangiò alcune patatine
e poi il suo viso si fece molto serio. “In cambio voglio solo che tu possa
esaudire il motivo per il quale partecipo al torneo.”
Era un’idea
geniale sulla carta, ma avevo il presentimento che qualcosa non avrebbe
funzionato. Era permesso truccare la lotta in quel modo? Non sapevo ancora che
cosa voleva ‘Adel in cambio e soprattutto, non sapevo se sarei riuscita ad
arrivare alla finale. Lottare non era il mio modo preferito di far uso delle
carte di Clow, potevo morire o peggio, uccidere qualcuno. Mi sentivo ancora
molto in colpa per ciò che era successo a Roma; la notte prima avevo sognato le
persone che avevano perso la vita, ogni volta mi ridestavo dal sogno ma
continuavano ad apparire; non ero fatta per usare quel potere per far del male
alle altre persone. “Così mi obblighi a continuare il torneo ed io non ho
ancora deciso se andare avanti.”
“Mi piacerebbe
dirti che puoi tirarti indietro ma, avendo affrontato il primo nemico a Roma
non puoi non continuare, se non lo fai il tuo avversario verrebbe a cercarti e,
in caso non riuscisse a trovarti il toreo finirebbe senza un vincitore, in questo
modo tutti i partecipanti al torneo morirebbero, te compresa.”
Non si riceve
tutti i giorni la notizia “o combatti o muori”. Rimasi al quanto scossa da
quelle parole di ‘Adel, non riuscii nemmeno a mangiare la pizza che avevamo
ordinato a domicilio e, a detta di Kerochan, era la migliore che avesse mai
mangiato; insieme a li non fecero altro che stare stravaccati sul divano mentre
io e ‘Adel parlavamo e parlavamo. Abbiamo chiacchierato di tutto: lui mi ha raccontato
degli Emirati Arabi Uniti, della scuola e dell’università, dei suoi amici ad
Abu Dhabi e del lavoro part-time che dovrà cominciare a settembre nell’azienda
del padre; io gli raccontai del Giappone e della scuola media, del primo giorno
di scuola superiore, di come ho trovato le carte di Clow e di tutte le
avventure passate nel tentativo di recuperarle; e arrivò la mezzanotte.
Fece capolino
così veloce che non mi accorsi del tempo trascorso. Roberto avrebbe lasciato le
valige proprio in quegli istanti.
“Se vuoi
accompagno io Sakura, conosco la zona e potrei darle un’occhiata, puoi restare
a casa se ti va.” Potete immaginare benissimo cosa risposero Li e Kerochan a
quella proposta di ‘Adel. Esatto: si gettarono nuovamente sul divano!
Ci incamminammo da
soli verso il punto indicatoci da Roberto e in appena venti minuti fummo in una
via circondata da muri alti oltre i quali si intravvedevano strutture funerarie
ancora più alte. Ai piedi dei muri cassonetti qua e la, e decine e decine di
banchetti scheletrici di venditori di fiori vuoti. Nonostante la strada fosse
illuminata da alcuni lampioni con luce gialla/arancione, incuteva un certo
timore. ‘Adel mi spiegò che quella strada tagliava a metà il cimitero della
città e che da una parte si trovava quello antico con le costruzioni
monumentali, per le autorità e per le famiglie più ricche, mentre dall’altra
parte c’era il cimitero nuovo. Finalmente arrivammo nel punto dove i cancelli
dei due cimiteri stavano uno di fronte all’altro. Si poteva riconoscere l’ingresso
più elaborato del cimitero antico e quello più sobrio del cimitero più recente.
Lì vicino due cassonetti uno accanto all’altro; ci avvicinammo senza dare nell’occhio,
anche se la strada era deserta, e dall’ombra recuperammo le valige. Era
mezzanotte e mezza e mi incuriosii il fatto che i cancelli dei cimiteri erano
aperti.
La tasca
frontale della mia valigia era aperta e trovai dentro una busta che non era
stata messa da me. Quando la aprii rimasi sorpresa nel vedere che conteneva
alcune centinaia di euro; osservando meglio trovai anche un biglietto scritto
in ideogrammi da Roberto, ci spiegava che Tomoyo lo aveva chiamato e chiesto di
lasciare noi del denaro della società, inoltre ci lasciava il suo numero di
cellulare e gli auguri di buona fortuna. Non credo che si possa trovare
migliore amica di Tomoyo.
Sentimmo gridare
dietro di noi e quando ci voltammo era apparsa dalla curva una macchina con dei
lampeggianti spenti che ci veniva incontro. Un uomo dal finestrino ci gridava
cose che non capivo mentre il conducente aveva azionato gli abbaglianti per
poterci vedere meglio.
“Polizia.” ‘Adel
indietreggiò di alcuni passi verso i cancelli del cimitero monumentale.
“Che facciamo.”
Appena io finii di pronunciare la frase uno degli uomini scese tenendo la mano
appoggiata al fianco, vicino alla fondina della pistola.
“Sakura Kinomoto?” Sebbene con un accento strano il poliziotto
aveva detto il mio nome e mi gelai in quella posizione. Fece alcuni passi verso
di me e mi sentii in trappola, pronunciò altre volte il mio nome ma sembrava
aver capito che ero proprio io quella che stava cercando.
“Seguimi!” ‘Adel prese entrambe le valige per il manico e
corse dentro il cimitero monumentale e non potei che seguirlo. Sentimmo dietro
di noi la macchina della polizia che accendeva le sirene e accelerava violentemente.
Riuscimmo a correre per alcuni metri dentro il cimitero fino ad arrivare ad una
biforcazione e dalla nostra sinistra sbucò il motivo per il quale i cancelli
erano aperti a quell’ora della notte: una macchina dei carabinieri; appena ci
notarono accesero anche loro le sirene e si misero all’inseguimento.
Cosa ci poteva
essere di peggio? Inseguiti da polizia e carabinieri, fuggivamo a piedi con le
valige sotto braccio e per giunta, in un cimitero buio pieno di statue che ti
guardano dall’ombra. Posso dire con certezza che in vita mia non ci fu più
niente che mi spaventò dopo quella fuga.
P.S.Curiosità
Il nome arabo ‘Adel significa Il Giusto.
L’area metropolitana
di Napoli, secondo il Censis, è la seconda area metropolitana
d’Italia per abitanti ed espansione dopo la Mega regione Lombarda (Milano)
e precede quella di Roma; è il 18°
comune d’Europa per popolazione e l’86° al mondo.
Il Calendario
Maya è un antico sistema utilizzato da Maya,
Toltechi, Aztechi e da altri popoli dell’America Centrale.
Si tratta di un calendario molto
complicato e si basa su tre cicli di diversa durata e utilizzo:
Ciclo Tzolkin,
aveva una durata di 260 giorni.
Ciclo Haab, aveva una
durata di 364 giorni, più il "giorno fuori dal tempo".
Lungo computo, indicava il numero di
giorni dall'inizio dell'era maya.
Per maggiori informazioni: http://www.marianotomatis.it/index.php?page=count-2012
http://it.wikipedia.org/wiki/Calendario_maya
“I napoletani
discendono dagli dèi, questa è la verità, non sono né greci né oschi né romani, sono dèi. Che per vivere sulla terra si
sono fatti come siamo; un misto di spirito attico grazie agli ateniesi, di
tenacia al lavoro osca, di intelligenza indulgente ed acuta quale si conviene
ad esseri divini.”
Capitolo 6 *** Il bacio che ti potrebbe cambiare per sempre ***
Sesto
Dopo
tanti colpi di fortuna non potevamo non aspettarcene uno mancino da parte del
destino. Imboccammo una stradina dove non era possibile passare in auto, in
questo modo riuscimmo a guadagnare un po’ di tempo per nasconderci tra le
sepolture.
“Come
hanno fatto a trovarci?” Ero stravolta per la corsa improvvisa. Ci trovavamo in
un punto molto buio, quasi non riuscivo a vedere ‘Adel accanto a me, la luna e
le luci della città venivano oscurate dagli alti alberi e dalle cappelle.
“Hanno
notato una ragazza orientale ed uno islamico aggirarsi di notte in una zona
poco trafficata, è venuto loro spontaneo verificare se tu fossi la persona che
stessero cercando. I carabinieri, invece, credo che stessero pattugliando il
cimitero alla ricerca di possibili vandali o profanatori. Hanno solo avuto
fortuna.” Anche ‘Adel aveva il fiatone. Il tempo di riprendere un po’ di fiato
e ci nascondemmo poco più avanti, verso una zona ancora più buia e con una
statua dal viso straziato dal dolore. Durante la corsa notai che quella parte
del cimitero era ricca di cappelle, chiese e tombe maestose, non era difficile
nascondersi fin tanto c’era buio, il problema sarebbe stato uscire, il posto
era circondato da alti muri e questi sarebbero stati sorvegliati attentamente
dalla polizia.
“Mi
sto stancando di scappare.” Mi sedetti in terra e cominciai a scartare le carte
alla ricerca di qualcosa di utile oltre al solito stop del tempo. Non ero
mentalmente stabile per concentrarmi e far durare l’incantesimo tanto quanto
bastava per uscire dal cimitero e tornare all’appartamento.
“Che
stai facendo?” ‘Adel mi prese di mano la carta della sparizione.
“Voglio
portarti via da qui. Hai qualche altra idea a parte quella di nasconderci?”
“Anch’io
sono dotato di poteri. Pensi che non ci abbia pensato? C’è un motivo per il
quale ci siamo nascosti: non siamo avversari nel torneo ed utilizzare gli
incantesimi potrebbe voler dire che mi stai attaccando, quindi, l’infrazione
delle regole.”
“Ma,
stamattina hai utilizzato quell’incantesimo su Li in mia presenza e non è
successo niente.”
“Non
era né un incantesimo di attacco né di difesa; per usare questi tipi di
incantesimo dobbiamo essere lontani, non chiedermi quanto perché non lo so.”
“Non
se ne parla nemmeno!” Ero ancora più terrorizzata. “Non possiamo dividerci:
siamo in un cimitero, al buio, con la polizia che ci insegue e senza poter
usare i poteri. Qui ci ammazzano.”
“Non
ci possono sparare se non li attacchiamo. Ascoltami bene.” Fino a quel momento
‘Adel era rimasto in piedi, si inginocchiò al mio stesso livello. “So’ usare
anche io un incantesimo per bloccare il tempo ed ho modificato la formula affinché
possa durare quanto voglio, ma dobbiamo essere lontani. Tu devi restare vicino
al muro, nascosta in mezzo a questo cespuglio mentre io mi dirigo a quello
opposto, farò in modo che non venga inclusa nell’incantesimo ma non devi
assolutamente muovere un muscolo finché non mi vedi tornare.”
“Pensiamo
a qualcos’altro!” Appena finii di pronunciare quella frase sentii i passi
veloci dei poliziotti a pochi metri da dove eravamo nascosti e le torce illuminare
tutt’intorno. Tirai la maglietta di ‘Adel ma lui fu incredibilmente veloce e
corse via facendo più baccano che poteva per attirare l’attenzione. La cosa
funzionò e tutte le torce lo inseguirono lasciandomi completamente al buio in
compagnia delle valige.
Rimasi
sola. Era molto difficile distinguere ciò che avevo intorno ed anche quando i
miei occhi si abituarono al buio, furono poche le cose che riuscii a riconoscere.
Riuscivo a distinguere le carte perché ognuna aveva una superficie diversa
dall’altra, è una cosa che non avevo mai rivelato a nessuno, al tatto potevo
capire all’istante che carta fosse.
Di
tanto in tanto si udiva qualche voce in lontananza e alcune macchine che
passavano nella strada attorno a cimitero. Ipotizzai che tutte le forze si
stessero concentrando su ‘Adel in fuga, pregai affinché corresse veloce ed
agile come un gatto.
Dal
cespuglio potevo vedere alcune tombe decorate da statue in marmo, meravigliose
ma con sguardo triste o rassegnato, erano le poche cose che potevo distinguere
ogni volta che le nuvole si scostavano dalla luna, ricordo ch la nottata fosse
al quanto nuvolosa. In lontananza si vedevano i lumicini delle tombe più, per
così dire, recenti o restaurate da poco; lo spettacolo era macabro ed avevo la
tremenda sensazione che da un momento all’altro la porta di qualche cripta si
sarebbe aperta.
Mi
presi a schiaffi per non suggestionarmi e nascosi la testa tra le braccia
cercando di pensare a tutt’altro, il ché mi fece molto incazzare perché
l’immagine di Li e Kerochan, russare beatamente sul divano, attraversò la mia
mente. Li avrei picchiati molto volentieri.
SCHREEEEEEK
Il
rumore fu’ qualcosa del genere ma molto, molto, più ferroso ed ebbi la
sensazione che il sangue nelle vene avesse cominciato a scorrere al contrario,
cominciai a tremare e l’ossigeno sembrava sempre di meno, ansimai cercando più
aria che potevo.
Voltai
lentamente lo sguardo verso il punto dal quale arrivò il rumore. Non vidi nulla
finché la luna non riapparve tra le nuvole e la cosà era terribile! Una porta
in ferro della cripta più vicina era stata aperta e, come se non bastasse, un
uomo zoppicante stava scendendo i gradini.
Trattenni
le urla, mi misi un dito in bocca e cominciai a morsicarlo paurosamente; udì la
porta che si richiudeva ed alcuni passi trascinati sulla ghiaia, pregai con
tutta me stessa che ‘Adel arrivasse il prima possibile al punto adatto all’incantesimo.
L’individuo
cominciò a camminare sulla terra umida e i passi si facevano sempre più vicini,
piagnucolavo e non riuscii a trattenere i gemiti di paura. Quando sentì che
spostava le frasche vicino a dove mi ero nascosta sentii caldo nelle gambe, me
l’ero fatta addosso! A chi non sarebbe successo?!
Mi
apparve un omone sfigurato, mi parlò in un lingua sconosciuta. Non era quella
di ‘Adel, nemmeno italiano, eppure l’avevo già sentita. Alla fine non ce la
feci e cominciai a piangere e gridare a pieni polmoni.
Venni
colpita con uno schiaffo e rotolai a terra dolorante alla guancia. Vidi che l’orrenda
figura alzava il braccio verso di me, era armato, riconobbi dalla luce della
luna che aveva con se una pistola ma non feci in tempo nemmeno a prova a
scappare.
All’improvviso
un fulmine illuminò tutto a giorno e sentii un piacevole calore che dalla
spalla mi percorreva tutto il petto fino al ventre. Mi sentivo bene e decisi di
addormentarmi.
“Kerochan?”
Accanto a me si trovava il viso assopito del mangia caramelle per eccellenza. Avevo
la testa su di un cuscino e mi trovavo distesa in un letto che non avevo mai
viso. La stanza era piccolina e spoglia, dalla finestra socchiusa entravano il
sole e i rumore delle auto.
“Finalmente
ti sei ripresa.” La voce di Kerochan era debole e strofinò il suo viso contro
il mio, stava piangendo e non riuscii a trattenermi dall’abbracciarlo come
fosse un peluche ma si divincolò quasi subito rosso in faccia. “Era ora, hai
dormito per due giorni.”
Li
si precipitò nella stanza attirato dalla voce di Kerochan sbattendo la porta
come in un film, si mise al capezzale del letto con lo sguardo preoccupato,
‘Adel lo seguì a passo lento e con le mani in tasca, notai che aveva un occhio
nero e un cerotto sul sopracciglio.
“Che
cosa è successo?”
“Abbiamo
avuto una piccola discussione.” Fu Li a rispondere alla mia domanda e ‘Adel
sorrise assentendo, poi uscì dalla stanza. Feci altre domande ma né Li né
Kerochan mi diedero risposta, anzi, parlavano in modo vago e parevano alquanto assonnati.
Quando uscirono anche loro mi alzai dal letto e scoprì di non avere vestiti.
Potete immaginare la sorpresa e l’indignazione! Diamine, non indossavo nemmeno
le mutande che ricordavo di portare prima di svenire. Ero in mutande e
reggiseno. Trovai la mia valigia accanto al letto e mi vestii livida in viso e,
appena pronta, corsi in cucina sbattendo i piedi come se fossero di piombo ma
sia Kerochan che Li si erano addormentati sul divano. Solo ‘Adel era sveglio e
li stava coprendo con una coperta leggera mentre il caffè nella piccola moka
grigia gorgogliava allegro, mi fece segno di fare silenzio e mi porse una sedia
per prendere posto al tavolo con lui.
“Lasciali
dormire: se lo meritano.” Parlò a voce bassa e mi porse alcuni biscotti e la
tazzina fumante. “Sei stata incosciente per due giorni e non hanno chiuso
occhio per tutto quel tempo, volevano esserci quando ti saresti svegliata.”
“Chi
ha osato cambiarmi i vestiti?” Il mio tono era minaccioso.
“Beh,
erano sporchi di sangue, inoltre……te la sei fatta sotto.”
Potete
immaginare quanto divenni rossa ma ero ancora più incazzata!
“Li
e Kerochan mi hanno aiutato a lavanti e curarti.”
“Perché
è stato necessario tutto ciò?”
“Mentre
cercavo di raggiungere il muro opposto ho sentito uno sparo.”
“Uno
sparo? Mi hanno sparato!?” Ero sconvolta.
“Sono
riuscito ad arrivare al muro opposto ed ho bloccato il tempo ma quando sono
tornato dove ti avevo lasciato e non eri più sola: c’era un uomo sfigurato e
penso sia il nemico che hai affrontato a Roma. Evidentemente non gli è andata
giù la sconfitta.”
“Quell’uomo
mi ha sparato?” Non ci potevo credere, ispezionai il mio corpo alla ricerca di
ferite ma non trovai nulla.
“Quando
ti abbiamo…spogliato, ho provveduto a curarti con alcuni incantesimi che mi ha
tramandato mia nonna, era la prima volta che mi capitava di usarli e sembra che
sia andato tutto bene.”
“Dove
sono stata colpita?”
“Spalla
sinistra, poco sopra il seno.”
Divenni
ancora più rossa ed abbassai lo sguardo.
“Hai
perso parecchio sangue, penso ti convenga mangiare qualcosa di più sostanzioso
di quei biscotti, che stupido che sono. Ti scaldo una pizza?”
Annuii
e molto gentilmente prese una pizza surgelata dal freezer per infilarla nel
forno a micro onde. Mi accorsi che avevo fame appena vidi la pizza, ma avevo
anche voglia di prendere quella tazzina di caffè bollente e versarla sul viso di
Li, dovevo punirlo per avermi visto nuda, pensai a tutte le cose sporche che
fece successivamente in bagno, o per lo meno pensai che le avesse fatte. Stranamente
non ero in collera con ‘Adel, forse perché mi aveva salvato la vita. Era uno
sconosciuto mentre Li era la persona che avevo amato, sarebbe stato più normale
se avessi provato il contrario. Insieme a quei pensieri sopraggiunse il mal di
testa per i due giorni passati a dormire.
“Non
essere arrabbiata con il tuo amico.” Sembrò che ‘Adel mi avesse lesso nel
pensiero, o aveva semplicemente notato il mio sguardo cattivo. “Se non mi
avesse aiutato non so se ora saresti qui. Ti posso assicurare che è stato molto
gentile e non ha sfiorato nessuna parte del tuo corpo se non quelle dove eri
stata ferita, sei fortunata ad averlo al tuo fianco, è molto in gamba.”
Non
potei non arrossire, avevo appena avuto la conferma che entrambi mi avevano
visto nuda. “Grazie.” Sospirai cercando di non apparire più vergognosa di
quanto non fossi. “Che n’è stato dell’uomo che mi ha attaccato.?”
Improvvisamente
‘Adel si fece scuro in volto e il cicalino del forno a micro onde lo avvisò che
la pizza era pronta. Il trucco però non funzionò e quando mi porse il piatto
fumante ripetei la domanda.
“Ci
siamo affrontati e…ho dovuto!”
“L’hai
ucciso?” Non fui così sconvolta come può sembrare. Alla fine, o lui o me. Appariva
molto abbattuto nel dire quelle parole, evidentemente nemmeno lui avrebbe
voluto che fosse andata in quella maniera. Mi incuriosii l’immagine mentale che
mi feci di ‘Adel mentre usa la magia, faceva molto da film d’azione.
“Diceva
che avevi macchiato il suo onore e doveva versare il tuo sangue per ripulire.
Non so perché usasse una pistola, ipotizzo che avesse ferite troppo gravi per
riuscire a lanciare incantesimi”
“E
il tuo viso?” Osservandolo da vicino notai che l’occhio, oltre ad essere livido
era anche gonfio.
“Questo
me lo sono meritato!” Sorrise mentre si passava la mano sul livido. “Avevo
promesso che avrei badato alla tua incolumità e così non è stato. Li si è
arrabbiato moltissimo e devo ammetterlo, ci sa fare con i pugni, per ridurmi
così gli è bastano un solo colpo.”
Ero
incredula. “Come ha osato? Tu non hai colpa.”
“Lascia
stare, ha pienamente ragione, sono venuto meno alla mia promessa ed hai
rischiato di morire, questo è il minimo di ciò che merito. Abbiamo chiarito
mentre eri addormentata, non c’è bisogno che ne parli con lui; avresti dovuto
vedere lo sguardo con il quale vegliava su di te, siete stati insieme qualche
tempo fa? Ho indovinato?”
Fu
come se una freccia mi avesse trapassato e la pizza mi andò quasi di traverso.
“Penso
che lui sia ancora molto preso da te.”
“E’
passato! LUI ha fatto passare tutto. Ho sofferto tantissimo.”
“Eppure,
pare che anche lui abbia sofferto, a te sembrerà qualcosa che non sta ne in
cielo ne in terra, ma se qualcuno, profano come me, vi osserva bene, percepisce
qualche filo che vi lega; e in modo al quanto saldo.”
“Mi
sa che quel pugno ti ha causato qualche danno al cervello.” Diedi un morso alla
quarta fetta di pizza con crudeltà infinita mentre ‘Adel rideva di gusto.
Passammo
un altro giorno chiusi in casa. ‘Adel diceva che sarebbe servito per far credere
ai poliziotti che fossimo andati via da Napoli, però si trattava di un giornata
particolare: era l’ultima che avremo passato in città. Quando mi svegliai
quella mattina trovai sul tavolo della cucina due pezzi di carta scritti in
italiano, incomprensibile per me ma ‘Adel mi spiegò che si trattava di due
biglietti del treno, sola andata, per Agropoli; ci spiegò che aveva percepito
la forte presenza del suo nemico in città, segno che l’avrebbe affrontato
quanto prima.
Eravamo
molto grati per tutto ciò che ‘Adel aveva fatto in quei giorni per noi,
nonostante fossimo sconosciuti ci aveva trattati come parenti e riuscimmo a
convincerlo nel lasciarsi offrire la cena quella notte.
Essere
a Napoli e non mangiare la vera pizza napoletana non sarebbe stato divertente.
Ci lasciammo portare in centro da un taxi e scelsi un ristorante carino vicino
al teatro San Carlo e i quartieri spagnoli. La cena fu grandiosa, bevemmo e
mangiammo come dei cassonetti; inoltre fui molto felice di poter pagare il
contro ad ‘Adel con i soldi che ci aveva fatto avere Tomoyo, li avrei
restituiti quando sarebbe finito tutto.
Purtroppo
non restammo molto a gironzolare per il centro e tornammo subito a casa. Mi
sarebbe piaciuto fare un giro nelle vie della Napoli giovane ma a detta di
‘Adel, non era saggio stare fuori per troppo tempo. Il taxi ci riportò alla
base e fu occasione per stare ancora un po’ tutti e quattro insieme. Scherzammo
per un’altra oretta attorno al tavolo ma arrivò il momento di andare a nanna.
In
quei giorni, Li aveva trovato molto più comodo il divano rispetto al letto
offertogli dal padrone di casa, quindi con tanto di coperta, si raggomitolò
come un bozzolo e cominciò a russare quasi all’istante; ovviamente Kerochan lo
seguì a ruota posizionandosi ai suoi piedi. Era incredibile come dall’episodio
di Roma non si fossero più dati contro, evidentemente quando Li gli aveva
raddrizzato la zampa si era creata una qualche complicità tra i due. Non potevo
che esserne felice!
“Vai
a dormire anche tu…” Non capii se quel proferimento di ‘Adel fosse una domanda
o un’affermazione; rimasi ad osservare i suoi occhi per alcuni istanti e quando
abbassai lo sguardo si stiracchiò facendo un gran rumore con la schiena.
“Penso
proprio di si.” Ero arrossita. Non chiedetemi il motivo perché non lo so
nemmeno io. Mi alzai e uscii dalla cucina percorrendo il corridoio sul quale si
affacciava la stanza prestatami, il bagno, e quella di ‘Adel. Aprii la porta di
camera mia quasi a malincuore, sentii alle mie spalle che ‘Adel entrava in
bagno e chiudeva la porta a chiave. Non so il perché ma sospirai, avevo il
cuore che batteva come un treno e le mani scivolose per il sudore; non capivo
che diamine mi stesse succedendo.
Finalmente
entrai in camera e preparai il letto per la notte in attesa che si liberasse il
bagno, così da potermi cambiare.
Sentii
finalmente che la porta del bagno si apriva e mi precipitai in corridoio
lasciando cadere a terra tutto quello che avevo in mano. Mi sentii come
trascinata da una forza invisibile, un enorme magnete che mi attraeva
inesorabilmente. Me lo ritrovai di fronte mentre lasciava il bagno e gli presi
la maglietta tirandolo verso di me con tutta la forza di cui ero capace. Chiusi
gli occhi e lasciai che le mie labbra incontrassero le sue! Con quel gesto mi
spaventai da morire e nemmeno ‘Adel fu molto contento. Mi allontanò quasi
subito e, paonazza, non potei che rintanarmi nella stanza.
“Stupida!” Fu tutto quello che ronzò nella
mia testa per l’intera notte. Non ci fu altra parola che potesse prendere il soppravvento
su quella.
Speravo
con tutto il cuore che ‘Adel non mi odiasse e Li non lo venisse mai a sapere,
così, quando il giorno dopo mi svegliò la persona che avevo baciato non potei non
spaventarmi ancora di più. Era appena l’alba e guardando fuori dalla serranda
leggermente chiusa imprecai nel vedere le strade deserte e la penombra ovunque.
Rincoglionita, barcollai fino alla cucina dove trovai Kerochan, Li ed ‘Adel
intenti in un’animata discussione, non ricordo di cosa stessero parlando; caddi
a peso morto sull’unica sedia libera e successivamente sul tavolo lurido, uno
stormo di piccioni avrebbe fatto meno briciole di quelle tre bestie.
Mi
venne offerta una tazzina di caffè ed alcuni biscotti, l’aroma mi ridestò un
pochino e riuscii ad afferrare alcune delle frasi che si stavano dicendo i tre uomini
di casa: Li non era tanto contento dei biglietti e stava chiedendo
spiegazioni dato che era previsto che partissimo da Pompei e non da Napoli,
‘Adel rispondeva con calma assoluta spiegando che era meglio partire da fuori
città per evitare la polizia, e devo ammettere che aveva senso, ci avrebbe
teletrasportato lui stesso ma non poteva andare oltre perché non ne era in
grado.
Il
suo sguardo cadde su di me, divenni rossa all’istante; ci osservammo per alcuni
secondi ed accennammo reciprocamente un sorriso complice, che vedemmo bene di
non far notare a Li.
“E
comunque, io volevo continuare a dormire!” Kerochan fece sentire le sue ragioni
mordendo rumorosamente l’ennesimo biscotto.
“Ha
ragione ‘Adel, dobbiamo andare via subito.” Li si stiracchiò e dopo aver
lasciato la tazzina del caffè nel lavandino si diresse verso il bagno.
“Perché
dobbiamo andare via così presto?” Non mi ero ancora abituata alla luce e i miei
occhi si rifiutavano di restare aperti troppo a lungo, l’odore del caffè ed un
primo sorso mi avevano permesso di fare quella domanda.
“Ve
l’ho già spiegato: sento che oggi affronterò il mio avversario.” ‘Adel lo disse
con noncuranza. “Dovete andare via per lo stesso motivo per il quale ci siamo
dovuti separare al cimitero, non voglio rischiare di coinvolgervi.”
“Tornando
al nostro discorso: il tuo è un gran bel desiderio, non sarà forse un po’
troppo drastico, potrebbero esserci più problemi a causa di questo cambiamento
improvviso che di quanti non se ne creerebbero in futuro lasciando tutto così
com’è.” Kerochan parlò a bocca piena e riuscimmo a malapena capire che cosa
avesse detto.
“Giusto!
Non mi hai ancora detto qual è il tuo scopo.” Mi ridestai di colpo.
“Il
motivo per il quale sto partecipando al torneo?” ‘Adel sorrise. “E’ semplice, o
per lo meno in teoria. Come sapete, vivo negli Emirati Arabi Uniti, li si
respira molta aria di occidente, la nostra politica anche se non sembra, ne è
molto influenzata. Siamo uno dei pochi stati dove si respira libertà. Negli
altri libertà, diritti e democrazia sono solo un sogno,
fantasie da ventenni per così dire; il resto del mondo non sa di quanto è fortunato
anche solo per aver la possibilità di votare in un referendum, di poter votare
i propri rappresentanti nel governo, poter essere contro le scelte dei propri
rappresentanti e riportarli sulla giusta strada, poi, è davvero una cosa
stupefacente.”
“Penso
di aver capito il motivo del tuo impegno.” In realtà non del tutto.
“Voglio
portare una ventata di modernità a quei popoli che sono oppressi dalle
dittature.”
“Ma,
come ha detto Kerochan, un cambiamento così radicale potrebbe creare più
problemi di quelli che ci sono ora. Come reagirebbe la gente, per non parlare
dei governi, se da un giorno all’altro ci fosse una costituzione, dei
rappresentanti…non so nemmeno io che…”
“Avete
ragione entrambi ed anche io avevo pensato a questa possibilità. Infatti è mia
intenzione dare un impulso, diciamo distribuire coraggio e idee, poi sta alle
persone fare il resto, devono volerlo o in pochi anni si tornerebbe alla
situazione iniziale, o peggio, a guerre civili.”
“Accidenti,
la politica è davvero complicata, ed io che mi lamento di qualche ora di storia
alla settimana.”
“Ho
dato una spiegazione molto striminzita ma spero di aver reso l’idea.”
“Perfettamente!”
Kerochan rispose cercando di fare un OK con la zampa sana, io invece mi sentivo
al quanto confusa.
“Ora
veniamo a noi: spero che tu abbia riflettuto sul motivo per il quale ti ho
allontanato quando mi hai baciato” ‘Adel mi pietrificò, Kerochan sgranò gli
occhi più spaventato che sorpreso. Mossi la testa alla ricerca di Li ma quando
arrivò alle mie orecchie il rumore dell’acqua che scorre nella doccia mi
rilassai. Trovai la forza di negare con la testa.
‘Adel
sorrise. “Ti sei cotta di me in appena due giorni, quelli nei quali
abbiamo parlato; uscendo a cercare le valige insieme, può aver catalizzato la
cosa. Non mi era mai successo ma ne sono onorato.” Poggiò la sua mano sopra la
mia e potete immaginare di che colore diventai. “Ma penso che tu sappia quanta
differenza di età c’è tra me e te, inoltre non mi conosci affatto e sono già
impegnato con una ragazza, si chiama Amira e mi attende a casa.”
“Scusami.”
Fu come se mi fosse crollato addosso un palazzo.
“Devi
scusarti con te stessa, non con me. Non ti rendi conto di avere vicino una
persona che ti è molto devota.”
“Li?”
Io abbassai lo sguardo.
“Non
sei cieca e sai benissimo che è qui in Italia per un motivo: ti vuole bene e
questo sovrasta tutto ciò che può essere capitato in passato. Le relazioni non
sono perfette come nei film, magari fosse tutto così semplice, ed anche tu gli
vuoi bene, altrimenti non lo avresti voluto al tuo fianco.”
“C’è
modo e modo di voler bene ad una persona.”
“Lo
ami!” Le parole di ‘Adel furono peggio di una pugnalata. “Se lo avessi voluto
bene in modo diverso non gli avresti permesso di venire con te, avresti pensato
alla tua incolumità, facendolo venire con te hai ragionato come se foste una
cosa sola, un unico individuo; lui va’ dove vai tu perché vi completate. Ecco
come hai ragionato.”
“Ti
sbagli!” Mi ero alzata in piedi ed avevo gli occhi gonfi. “Non sai niente di me
e Li; non ti permetto di parlare di ciò che non conosci!”
“Sakura.”
‘Adel aveva una voce molto calma. Prima quel tono mi attirava, in quel momento,
invece, mi innervosì. “Ho avuto quindici anni prima di te, so che cuore si ha
in petto a quell’età.”
Non
potevo stare a sentire un secondo di più, e senza nemmeno ringraziare per il
pasto mi rinchiusi in camera sbattendo la porta. Dopo alcuni secondi, quando
l’ossigeno ricominciò ad affluire al cervello in modo corretto, capì la
futilità del mio nervosismo. Mi ero arrabbiata perché mi aveva sbattuto sul
naso la verità, si dice che la verità fa male: è lo stesso dolore che si prova
quando si sbatte contro un palo della luce durante una passeggiata; ciò a cui
mi ero scontrata era lo stesso Li. Avevo picchiato il naso contro il suo viso
sempre spento di quegli ultimi giorni, era spento perché non facevo altro che
trattarlo male, perché stavo flirtando con ‘Adel sotto il suo naso e perché lo
allontanavo mentre poco prima lo desideravo con tutta ma stessa.
“Sakura?”
Kerochan entrò in camera, non mi ero accorta di essermi riaddormentata. “Manchi
solo tu, ‘Adel dice che è ora di andare. Tutto bene?”
“NO!”
“Colpa
del cinesino o dell’emiro? Ma perché non ti trovi un giapponese come
fidanzato?”
“Nessuno
dei due ha colpa, nessuno dei due è il mio ragazzo, non so che diamine sto
facendo!”
“Non
ho molta esperienza ma posso darti un consiglio.” Kerochan mi si posò accanto.
“Niente.”
“In
che senso?”
“Nulla.”
Sorrise con quella smorfia in grado di strappare una risata a chiunque. “Lascia
che le cose si evolvano naturalmente, senza metterci per forza mano. Penso che
sia la cosa più saggia da fare.”
A
me non sembrava la cosa migliore ma decisi di dargli retta. Mi preparai più
veloce che potevo ed abbandonai la stanza per raggiungere gli altri due nella
cucina. Non osavo guardarli in faccia.
‘Adel
ci fece prendere sotto braccio i bagagli e posò una mano sulle nostre spalle,
Kerochan si chiuse dentro lo zaino e senza nemmeno rendercene contò rovinammo a
terra. Fu come se ci avessero messo lo sgambetto durante una corsa.
Apparimmo
in un angolo cieco del parcheggio accanto alla stazione dei treni, tra un auto
e il muro. Avevo il sedere dolorante a causa della caduta e nemmeno Li sembrava
aver fatto un atterraggio da manuale, ‘Adel ovviamente era in piedi
perfettamente composto, aveva solo il fiatone, come se avesse fatto una lunga
corsa. Ci ripulimmo e ci guardammo intorno, non c’era nessuno e dalla strada
vicino si udivano di tanto in tanto delle macchine o delle moto; raccolte le
valigie entrammo nella stazione alla ricerca di un punto dove depositarle.
“Mi
dispiace solo di non avervi fatto fare un giro decente di Napoli. Praticamente
siamo rimasti sempre in casa.” ‘Adel si scusò mentre ci accompagnava all’interno.
“Mi sarebbe tanto piaciuto portarvi al porto turistico, alla chiesa dove si
trova il sangue di San Gennaro, nella Napoli sotterranea, quella vi sarebbe
davvero piaciuta.”
“Non
preoccuparti, hai fatto anche troppo per noi, non sappiamo come ringraziarti.”
Disse Li.
“Mi
basta trovarvi alla finale. E’ l’unica cosa che vi chiedo.”
“Sarà
fatto!” Li allungò la mano per stringere quella di ‘Adel, si salutarono come
vecchi amici grazie ad una calorosa stretta. Li aprì lo sportello del deposito
bagagli e depose la sua valigia ma, essendo chiusa male, non ci stava e dovette
aprirla per sistemare le cose che vi erano all’interno, mentre faceva questo
‘Adel recitò sottovoce un incantesimo e fece sparire a Li la capacità di capire
le sue parole.
“Addio,
Sakura.”
“Non
parlarmi di addii, abbiamo promesso di rincontrarci per la finale, dobbiamo
esaudire il tuo desiderio, è davvero altruista, stamattina non te l’ho detto.”
Parlavo a testa bassa. “Mi sento un’egoista a lottare per una causa personale
mentre tu lotti per gente che nemmeno conosci.”
“Non
ti hanno dato altra scelta, hai dovuto partecipare contro la tua volontà ed è
normale che il tuo desiderio sia quello di mettere tutto a posto, non devi
sentirti in colpa.” ‘Adel sorrise e mi sciolsi vedendo il suo viso felice.
“Spero davvero di rincontrarti, aspettami ad Agropoli e metteremo tutto a
posto, dimentica l’addio di prima. Ok?”
“Ok!”
‘Adel
riuscì a regalarmi un sorriso poco prima che ci lasciasse per tornare a Napoli
ed affrontare il suo nemico. Già mi mancava, con lui eravamo al sicuro, di
colpo ci trovammo di nuovo soli e con in mano due biglietti dei quali non
capivamo la scrittura. Sospirai e riposi anche io la valigia nel deposito
bagagli.
“Sakura.”
Kerochan sbucò dallo zainetto. “A che ora parte il nostro treno?”
“Alle
due di pomeriggio.”
“Uffa.”
Il viso di Kerochan si fece triste nell’apprendere dall’orologio della stazione
che erano appena le nove e mezza di mattina. “Che facciamo fino ad allora?”
“Beh,
siamo a Pompei, visitiamo la città antica.” Proposi, ma il malcontento non gli
sparì dal suo volto, anzi.
“Vecchi
muri colorati? Che noia, torno a nanna.”
“Sbaglio
o Kerochan non è molto partecipe ultimamente?” Li mi si avvicinò mente il
guardiano delle carta chiudeva dietro di se la zip dello zainetto.
“Non
ti sbagli.” Notai che Li mi fissava incessantemente e distolsi lo sguardo,
avevo paura che scoprisse che avevo baciato ‘Adel. “Ehm, saranno lontani gli
scavi?”
“Non
più di ottocento metri, possiamo tranquillamente arrivarci a piedi.” Non
smetteva di fissarmi. “L’ho visto poco fa’ nella cartina della città, quella
che c’è appesa alla parete.”
“Ok,
io sono una schiappa con i punti cardinali, ti seguo.”
Li
mi fissò per altri interminabili secondi, infine abbassò lo sguardo come se
avesse capito qualcosa di fondamentale ed annuì.
Eravamo
decisamente più leggeri senza le valige e fortunatamente trovammo una giornata
favorevole alle passeggiate. Lo seguii lungo la strada che finiva davanti ad un
altissimo campanile bianco. Non ci sono meraviglie di questo genere in
Giappone. Lo si vedeva fin dalla stazione e ad ogni passo diventava sempre più
grande e alto. La lunga via che dalla stazione portava a quel campanile terminò
in una larga piazza dove potei ammirare il santuario in tutta la sua
magnificenza, attraversammo strada e giardini avvicinandoci fino a poter
toccare il marmo bianco che lo teneva in piedi, era freddo e liscio e provai un
brivido nel fare questo.
Come
uno scoppio mi apparve in mente il viso triste di mio padre, doveva sicuramente
avere un’espressione del genere in quei giorni che mancavo di casa; ero sparita
da un momento all’altro, con la polizia che mi inseguiva manette in mano, senza
dare una spiegazione e senza dare mie notizie; vedere quelle meraviglie lo
avrebbero sicuramente rallegrato, se non fatto impazzire, mi sarebbe piaciuto
spedirgli almeno una cartolina, ma non era possibile.
Ricordo
sempre quando mi parlava degli scavi di città e civiltà scomparse: Egitto,
Maya, Atzeki, Costantinopoli, Gerusalemme, Roma, più di una volta parlava degli
scavi romani in nord Africa e di Pompei, ora che ricordo non aveva mai avuto
possibilità di viaggiare per partecipare a ricerche così importanti o grandi,
l’università lo invitava sempre in Cina o in patria. Poter toccare con mano i
muri dell’antica Roma sarebbe stato l’apice della sua vita, dopo di questo
sarebbe potuto morire in pace, senza rimpianti.
Mentre
ripensavo a papà , senza nemmeno accorgermene il posto attorno a me era
cambiato, avevo seguito Li per centinaia di metri, attraversato una piazza ed
una lunga via alberata fino a ritrovarci dentro un corridoio buio e umido, a
causa dei miei pensieri non avevo osservato dove mettevo piede e quando uscii
di nuovo alla luce, beh, mio padre sarebbe svenuto dalla felicità.
“L’anfiteatro!”
Lo dissi quasi urlato ma, fortunatamente, nessuno badò a me, a dir la verità
non c’era molta gente, solo due o tre gruppetti di persone ed alcuni turisti
isolati intenti a fotografare. Mio padre aveva una foto di quello stadio antico
nel suo studio, mi parlava spesso degli antichi romani, quindi per me, essere
proprio dentro il monumento della foto era un’esperienza incredibile. Mi pentii
di nuovo di non essermi portata una fotocamera.
“L’hai
baciato!” Quella parole di Li furono come un’eclissi di sole inaspettata, ai
miei occhi pareva davvero che fosse diventato tutto buio e lo sguardo con il
quale lo disse, era straziante; mi venne voglia di abbracciarlo e di stringerlo
più forte che potevo ma ancora non riesco a capire perché rimasi inchiodata. La
sua non era una domanda, sapeva tutto, non era stupido.
“Si,
e non tirerò fuori scuse del tipo ero stanca, ero disorientata, ero
triste. Ne avevo semplicemente voglia e non mi sono trattenuta.” Ovviamente
soffrì tantissimo nel sentirmi dire quelle cose. “Ma, me ne sono pentita.”
Non
disse nulla per molti secondi e guardava in terra mente giocherellava con
alcuni sassi sotto alla scarpa. Quando alzò lo sguardo sembrava che stesse per
piangere e fu una cosa che mi disorientò. A Tokio era così restio e così
intenzionato a starmi il più lontano possibile ed in quel momento,
invece…aspettate un attimo, forse ero io a tenerlo a distanza, lui stava solo
cercando di assecondarmi, di accontentarmi, mi ero già scordata che a Tokio
l’avevo trattato malissimo proprio quando lui voleva scusarsi, quando voleva
chiarire tutti quei dubbi che mi ero portata dietro durante le scuole medie;
voleva sanare quella mia malattia della paura di restare delusa dalle altre
persone, di aprirmi con la mia amica più fidata, di vedere altri ragazzi, di
guardalo in faccia. In quel momento mi attraversarono tanti di quei pensieri,
sensazioni, cose non quantificabili.
“Quel
bacio…lo avrei tanto voluto io.”
Ci
guardammo negli occhi per parecchi minuti di silenzio, mentre i turisti ci
passavano accanto per ammirare il monumento.
Era
un primo bacio, dato ad una persona che non fosse lui, era una persona
dalla quale ero attratta sessualmente, non mi era mai capitato prima e il mio
corpo, ed io stessa, era in tilt. Dopo che ‘Adel mi aveva allontanato, sulle
spalle, dove mi aveva toccato per fermare il bacio, sentivo come se bruciassero,
ero un bagno di sudore e incredibilmente umida nella zona più calda del
mio corpo. Era la prima volta che mi capitava, ero spaventata perché non mi
aspettavo di provare quello.
Li
non era uno stupido ed aveva notato quella mia attrazione verso l’emiro. Era
geloso e deluso perché, come diceva ‘Adel, provava ancora moltissime cose nei
miei confronti.
Come
una foglia al vento mi sentii spinta verso di lui. Feci alcuni passi fino ad
averlo a portata di abbraccio; era più alto di me quindi dovevo alzare
leggermente lo sguardo per guardarlo negli occhi, non capivo che mi stesse
succedendo, provavo di nuovo le stesse sensazioni della notte prima, ma davanti
non avevo ‘Adel. Ebbi una voglia incredibile di leccargli le labbra, di
morsicargli il naso, anche di tirargli i capelli, ma tremavo di paura, ero
un’idiota!
Come
uno schiaffo percepii una sensazione che ormai conoscevo bene, ci voltammo
contemporaneamente per osservare la donna ed i suoi capelli incredibilmente
biondi.
“Sakura,
giusto? Erede di Clow Reed” La donna ridacchiò mentre giocherellava con i
lunghi capelli. “Se ti arrendi subito prometto che una volta vinto il torneo
esaudirò il motivo per il quale partecipi; in caso contrario, sappi che uccido
sempre i miei nemici, è una tradizione di famiglia.”
“Come
puoi essere così sicura che io partecipi per un scopo ben preciso?”
“Suvvia,
tesoro.” Ridacchiò di nuovo. “Tutti i partecipanti hanno un desiderio che
possono esaudire solo con questo torneo; ti capita solo una volta nella vita.”
Dentro
di me ero incazzata come un pazza, quella donna aveva appena rovinato un
momento che avrebbe cambiato la mia vita. Osservandola bene pareva una modella:
corpo perfetto e magro, alta quasi due metri e lunghi capelli biondi che
scendevano fino ai seni. Il viso sembrava quello di un angelo ma quando
ridacchiava pareva l’esatto opposto; parlava in una lingua molto strana, sulle
prime mi sembrò russo, ed ovviamente Li non capiva ciò che ci stessimo dicendo.
“Stavi
per baciare il tuo fidanzatino?” Di nuovo il ridacchio malefico.
“Fatti
gli affari tuoi.” Quella sua frase mi fece ancora più incazzare. “Chi mi dice
che manterrai la promessa?”
“Basta
accettare e lo scoprirai. Io vincerò per forza, sono troppo grandi le mie
motivazioni in questo gioco e non posso permettere che tu, mocciosa, mi possa
rallentare.”
“Anche
io: devo mantenere una promessa!”
“Una
promessa, dici?” A quella frase non ridacchiò e si fece incredibilmente seria.
“Signorina, sembri una figlietta viziata che ha sempre avuto tutto. Io alla tua
età sono stata strappata di casa, la casa dove sono cresciuta, senza nemmeno la
possibilità di fare i bagagli. Ci hanno portato lontano, siamo scappati e ci
hanno buttato come spazzatura in un’altra casa. Piccola, brutta, fredda. Vivevo
in un posto che era un paradiso, e quel paradiso è stato trasformato in un
incendio che si è mangiato mio padre e i miei zii! Io ho una forte motivazione
per vincere: devo riportare tutto come prima.”
“Io…”
Non seppi che dire.
“Hai
mai studiato storia contemporanea? Sai dove si trova Pripyat? Quando è esplosa Černobyl' non siamo stati avvertiti,
dopo alcuni giorni sono arrivati degli uomini con le maschere antigas e ci
hanno preso di peso e caricati sugli autobus. Un’infinita coda ci ha portati
lontano dalle nostre case. La mia famiglia è stata distrutta: papà e i miei zii
sono diventati liquidatori, l’unione sovietica dava soldi e pensioni,
loro volevano darci dignità e lavorarono in prima linea gettando sabbia sul
reattore nucleare scoperto, a pochi metri dal materiale radioattivo. Mio padre e
due miei zii morirono in un incidente durante i primi giorni del loro lavoro,
l’unico zio che mi è rimasto fu gravemente ustionato ed ha perso la vista ed un
piede, non riceve nemmeno la pensione di invalidità. Se hai motivazioni più
alte di quella di risanare la zona di alienazione di Černobyl' e tutte le
persone malate, ti prego, dimmelo.”
In quel momento mi sentii come
un’assassina.
P.S.Curiosità
Napoli sotterraneaè un complesso di cunicoli e cavità
scavate neltufoposte nel
sottosuolo diNapoli; vi si trovano soprattutto innumerevoli forme di ambienti
ed architetture classiche, greche e romane. Al giorno d'oggi vi sono diversi percorsi per poter
accedere alla rete di ambienti sotterranei, la quale non è ancora completamente
conosciuta, in cui si alternano tra cisterne e cave, cunicoli e pozzi, resti
del periodo greco-romano e catacombe, ed i passaggi che collegano svariati
punti della città anche distanti chilometri sono innumerevoli. Ancora oggi
speleologi continuano a studiare ed ispezionare le cavità e i cunicoli che
riaffiorano in occasione di sprofondamenti e/o crolli ed inserirle nel
cosiddetto censimento delle cavità cittadine.
I due principali
ingressi al sito sono quello dipiazza
San Gaetano e quello di viaSant'Anna
di Palazzo. (tratto da Wikipedia)
IlCimitero di Poggiorealeè il principalecimitero diNapolie tra i maggiori in Europa, il
complesso più importante è il Cimitero Monumentale, la parte più antica
e caratteristica, di enorme valore storico e culturale per la preziosità delle
suetombee delle suestatue, nonché per il gran numero dicappelle, chiese e il Quadrato degli uomini illustri,
comprendente 157 monumenti di uomini illustri disposte su un’area di circa 5.300 metri quadri.
IlSantuario
della Beata Vergine del Santo Rosario di Pompeiè unapontificia
basilicamaggiore situata aPompei, è anche sede vaticana, l’altezza del campanile è di 82
metri ed è il 29° in Italia.
Iliquidatori sono i lavoratori
che operarono al recupero della zona deldisastro di Černobyl' soprattutto
negli anni 1986-1987, con un prosieguo delle attività fino al 1990. Il compito
dei primi liquidatori fu prevalentemente quello di uscire armati di badile o
delle proprie braccia sul tetto semi imploso del reattore e di raccogliere le macerie
e i pezzi di grafite altamente radioattiva dal peso di 40/60 chilogrammi, per
gettarle dal bordo del tetto nella voragine sottostante. Le macerie sarebbero
state poi sigillate dentro ad un sarcofago di cemento e acciaio. Il tempo
previsto per il completamento di ogni manovra si aggirava attorno ai 40
secondi.
Altissimo è il numero degli invalidi, fra
coloro che portarono il loro aiuto, a causa di svariate patologie di natura
oncologica o per malattie legate all'immunodeficienza. Numerosi hanno subito
l'amputazione degli arti per tumori o per le ustioni riportate dall'esposizione
acuta da radiazione.
Secondo Vyacheslav Grishin, della
Chernobyl Union, 25 000 dei liquidatori russi sono morti e 70 000
sono rimasti gravemente disabili e lo stesso discorso vale per l'Ucraina.
Capitolo 7 *** Il viaggio nel posto che non conosco ***
Irina era il nuovo avversario, mi
aveva pietrificato, ero colpevole di egoismo; avevo già provato tutto questo
quando ‘Adel mi aveva raccontato il motivo per il quale partecipava al torneo,
ma con Irina era diverso, lei aveva un vero motivo per il quale combattere,
voleva porre rimedio a tutto il male causato da un disastro evitabile, ero io
il cattivo della situazione.
Mi lasciò del tempo per decidere se
arrendermi o affrontarla e feci una passeggiata per gli scavi con Li e
Kerochan. Fare un passeggiata per modo di dire, sebbene non stessi
correndo avevo il fiatone e sopraggiunse un forte mal di testa ad incorniciare
il tutto.
“Oggi è domenica!” Li lo disse mentre
osservava l’interno di una delle case romane. “Fra non molto questo posto sarà
invaso da turisti, non è il caso di combattere qui.” Aveva ragione, Irina mi
aveva detto di tornare all’anfiteatro entro mezz’ora, lo scontro sarebbe sicuramente
cominciato all’interno. “Forse è il caso di arrendersi, abbiamo scoperto
il motivo delle accuse di omicidio, penso sia il caso di stringere un patto con
Irina.”
Rimasi in silenzio.
“Sakura, mi stai ascoltano?”
Non risposi, continuavo a ripensare al motivo per il quale
combattevo. E’ vero, ho partecipato al torneo per caso, potevo arrendermi e
uscirne subito ma le motivazioni di ‘Adel mi trattenevano. Era sicurissimo di
sconfiggere il suo nemico e di arrivare in finale, inoltre aveva fiducia in me.
Non potevo tradirla.
“Sakura, hai sentito quello che ti ho detto?”
“Si!” Finalmente lo degnai di una risposta. “E penso che tu
abbia ragione.”
“In che senso?”
Mi sedetti sui gradoni di una casa decorata di rosso. Frugai
nel mio zaino e presi in mano i biglietti del treno e i soldi di Tomoyo.
“Sakura!” Kerochan aveva intuito le mie intenzioni ed abbassò
la testa.
Presi uno dei biglietti e lo strappai in decine di pezzettini
minuscoli, poi toccò al vento sparpagliarli. Li rimase scioccato per quel mio
gesto ma non fiatò. Contai i soldi che mi erano rimasti e un quarto di essi lo
infilai di nuovo nello zaino, il resto lo porsi a Li.
“Che significa?” Quella sua domanda era più che giusta.
“E’ vero, abbiamo scoperto il motivo della morte del signor
Suzuki, abbiamo raggiunto il nostro scopo, per te non c’è più niente da fare in
Italia. Il torneo vuole me, continuerò da sola.”
Li non parlò, incrociò le braccia e rimase ad osservarmi
mentre gli porgevo i soldi; non li prese, continuava a fissarmi come un ebete,
avrei tanto voluto sapere che diamine gli stesse passando per la testa.
“Sakura, non pensi di essere stata un po’ troppo avventata?
Perché non ci ripensi, Li ti è stato di grande aiuto fin’ora.” Kerochan cercò
di farmi ragionare posandosi sulla mia spalla.
“Lo so, ma come ho detto prima, abbiamo scoperto perché è
stato ucciso il signor Suzuki. Il torneo Haab vuole solo me, per lui è inutile
starmi vicino, rischia di restare coinvolto negli scontri, a Roma gli è andata
bene ma potrebbe non essere così fortunato una seconda volta.”
Passarono altri secondi di silenzio e Li continuava a
fissarmi in silenzio. Penso che ci stesse ragionando alla velocità di un
criceto zombie. Si sedette anche lui sui gradini, a poco più di un metro da
dov’ero io, osservò i pezzetti di carta del biglietto che venivano portati via
dal vento.
“Scommetto che ora mi dirai che continuerai a stare al mio
fianco.”
“Si!” Infine mi parlò.
“Vattene, non ti voglio tra i piedi!” Quella mia affermazione
lo scosse davvero tanto. Spalancò gli occhi, sconvolto nel sentire quelle parole
uscire dalla mia bocca; rimase ad osservarmi per parecchi secondi finché non si
grattò il sopracciglio trattenendo una risata.
“Quindi, lasciami ricapitolare la situazione, prima mi
trascini con la forza in Italia, utilizzi il mio denaro, non fai altro che
trattarmi da schifo, ed ora che hai i soldi di Tomoyo, pretendi la mia partenza
immediata.”
“E’ per la tua incolumità.”
“TU SEI PAZZA!” Gridò più forte di quanto non avesse fatto
Irina, fu una reazione che mi spaventò a morte. “Chi diavolo sei tu, che hanno
fatto alla Sakura che conoscevo? Ho sopportato tutto le cattiverie dette in
questi giorni, ho pagato il volo, i pasti, ti ho curato quando sei stata
ferita, ti ho portato in giro per Roma ed ora mi dici di tornare a casa, come
se niente di tutto ciò fosse mai successo!”
“…” Non ebbi il coraggio di dire nulla.
“Perché mi tratti così di merda? E’ perché sono andato con
un’altra ragazza? Lo so che ho tradito la tua fiducia ma non poteva funzionare
tra noi stando lontani duemilasettecento chilometri. Mi sono scusato, ti ho
accompagnato, ti ho supportato e sopportato: non hai cambiato minimamente atteggiamento
nei miei confronti, continui imperterrita a trattarmi come una spugna sporca.
Prima mi rivuoi nella tua vita ed ora mi cacci. Mi sono riavvicinato a te
perché me l’ha chiesto Tomoyo.”
Ebbi un sussulto al cuore.
“Mi sono sempre sentito in colpa per ciò che ho fatto e per
la vergogna non ho mai avuto il coraggio di contattarti. Sai quanto mi è
costato incontrati? Sai quante volte Tomoyo mi ha chiamato per chiedermi di vederti?
L’ho fatto per cortesia, per poterti stare vicino come amico. Mi sono anche
illuso di poter riprovare qualcosa di bello nei tuoi confronti e sto
sanguinando dentro nel vomitarti addosso tutte queste parole. Si può sapere che
cazzo vuoi?”
“Che tu faccia ritorno a Hong Kong!” Ero irremovibile.
Nonostante tutto non si può nascondere che gli volevo bene, ma avevo un compito
che poteva essere portato a termine solo da me, se lui dentro di se sanguinava,
io invece, morivo nel lasciarlo andare via. Non volevo assolutamente che
rimanesse coinvolto come a Roma, non me lo sarei mai perdonato.
“Devi aver battuto la testa molto forte ultimamente.”
Lo colpii con uno schiaffo. Feci una cosa che non avevo mai
fatto e sentii la mano in sangue. Avevo affondato le mani nel suo viso con
tutta la forza di cui disponevo e lo feci rotolare giù dalle scale. Non si
aspettava una cosa del genere altrimenti non avrebbe mai perso l’equilibrio. Si
rialzò con il viso viola di rabbia e si ritrovò la lama dello scettro,
trasformato tramite la carta della spada, puntato alla gola.
“Ho detto che non ti voglio tra i piedi.” Non lo guardai in
viso e tenni la testa bassa. Riuscii a proferire quella frase senza
singhiozzare.
“Sei un’idiota.” Avrebbe potuto disarmarmi in qualsiasi
momento ma indietreggiò di alcuni passi e raccolse le sue cose. “Ok, non mi
vuoi tra i piedi ed io me ne vado. Sei davvero una stupida, come ho fatto a
pensare di volerti baciare nonostante tutti i tuoi insulti e le altre cose
terribili che mi hai detto. Osi anche minacciarmi con le carte di Clow. Tu…tu
sei una sconosciuta, non vedo nessuna Sakura Kinomoto qui!”
Raccolse tutto e se ne andò dandomi le spalle. Non si voltò e
sparì dietro l’angolo di una delle varie case antiche, ascoltai i suoi passi
sulla ghiaia allontanarsi sempre di più fino a diventare impercettibili poi,
ricordo perfettamente, gettai lontano lo scettro e piansi come non avevo mai fatto
in vita mia; mi sentivo di nuovo male, dolore fisico come quando ero venuta a
conoscenza del tradimento. Avevo voglia di picchiare il terreno, di rompere
qualcosa, sapevo che avevo fatto la cosa giusta mandandolo via, eppure mi fece
davvero male vederlo andare via.
Kerochan non disse nulla, sapeva che avevo fatto la cosa più
giusta nei confronti di Li, le cose erano cambiate rispetto alla partenza da
Tomoeda. Restai disorientata per molti minuti finché Kero non mi tirò
l’orecchio facendomi ricordare che da chi fossi attesa. Una volta calmata, e
asciugato le lacrime, potei percepire le vibrazioni dell’aria in direzione
dell’anfiteatro.
Raccolsi lo scettro e mi diressi a passo spedito verso l’arena.
Buttavo l’occhio su ogni casa antica sperando che sopravvivesse alla battaglia,
in caso contrario se fossi riuscita a portare a termina la promessa fatta ad
‘Adel, avrei potuto ricostruirle così come le vedevo, ed anche più resistenti.
Quando feci il mio ingresso nell’anfiteatro, Irina mi stava attendendo nello
stesso punto nel quale l’avevo lasciata, sembrava non si fosse mossa di un solo
centimetro.
Kerochan si trasformò nella sua forma completa e rilasciò un
lungo ruggito, quasi sospirato, in segno di sfida. Gli diedi un buffetto sulla
testa ed avanzammo verso il centro della costruzione. Mi fermai a circa dieci
metri dal mio avversario che sorrise nel vedermi tornare.
“Pensavo fossi scappata!” Ridacchiò. “Sarebbe stata una
reazione comprensibile.”
Non dissi nulla e strinsi forte lo scettro, questo non sfuggì
al mio avversario: “Immagino che tu abbia scelto di affrontarmi.” Dopo che io
annuì, si grattò la fronte e le sopraciglia nervosamente. “Sembravi una
ragazzina molto intelligente, devo ricredermi.”
“Ho anche io delle faccende da portare a termine.” Quasi
gridai nel dirlo. Poi non so che mi prese e decisi di attaccare per prima.
Sfilai da tasca la carta del salto in modo da poter essere più agile e schivare
gli attacchi, saltai verso l’alto e presi una seconda carta, quella dell’acqua,
dopo che l’evocai feci in modo che si scagliasse contro il mio nemico. Speravo
che bastasse quella mossa ma Irina non si mosse e restò ad osservare la mia
invocazione che avanzava pericolosamente.
“Sei davvero insensibile.” Parlò restando composta come una
principessa. “Come puoi attaccare una donna incinta?”
Sgranai gli occhi e quasi mi scapparono dalle orbite. Richiamai
la carta e atterrai sulla terra battuta dell’arena. Mi parve di udire un
bambino piangere ma in quel momento c’eravamo solo noi. Mi ero fiondata come
una tigre sul nemico ma non potevo continuare la lotta, non me la sentivo di
lottare contro una donna incinta, sarebbe stato come combattere contro il
bambino stesso.
“Terzo mese di gravidanza, l’ho scoperto poco prima di
partire per Tel Aviv, ho affrontato il mio primo avversario sapendo che sarebbe
stato rischioso per il mio futuro figlio, ma allo stesso tempo faccio tutto
questo proprio per lui.”
Non ebbi il coraggio di attaccare una seconda volta, in
compenso fu lei a muoversi. Pronunciò qualcosa di incomprensibile e dopo aver
aperto la mano ricevetti una forte botta e fui scaraventata lontano Non riuscii
a respirare per parecchi secondi, percepivo dolore ovunque, era come se fossi
stata investita da un’automobile. Non riuscivo a muovermi ed un forte sibilo
quasi mi mandò le orecchie in frantumi. Quando finalmente riuscii e respirare
correttamente sputai sangue su sangue ma continuavo a restare a terra, in mezzo
alla polvere.
Accanto a me c’era Kerochan riverso nella mia stessa
situazione. Si riprese più velocemente di me e riuscì e rimettersi in piedi. Mi
aggrappai a lui per rialzarmi ma una forte tosse mi impediva di restare eretta
correttamente. Irina nel frattempo ridacchiava, quanto mi desse fastidio quella
risata non potete capirlo; mi aspettavo un attacco simile a quello di Roma con
muri d’acqua, al massimo fuoco e fulmini, e invece mi ritrovai a terra senza
aver visto nulla di tutto ciò.
“Credo che abbia sviluppato degli incantesimi per spostare
grandi masse d’aria.” Kerochan ringhiò mettendosi tra me e Irina, io continuai
a restargli aggrappata cercando di riprendere fiato. Quando le orecchie smisero
di fischiare e lo stomaco di premere per vomitare, recuperai lo scettro, ero
ancora barcollante ed avevo un male cane sul fianco. Ancora prima che me ne
rendessi conto mi ritrovai in aria con un braccio tra le zanne di Kerochan, una
parte dell’anfiteatro esplose lanciando frammenti ovunque. Per ogni coccio che
cadeva a terra immaginavo una lacrima di papà ma grazie ai riflessi di Kerochan
avevo ancora il corpo tutto intero.
“La lotta è tra me e te, il tuo animaletto domestico non
dovrebbe intromettersi.” Irina ringhiò quasi come Kerochan. Evidentemente aveva
previsto che con quell’ultimo attacco mi avrebbe sconfitta, il mio animaletto
le aveva sconciato i giochi.
Kerochan mi posò tra le macerie e dopo avergli grattato
l’orecchio lo lascia per dirigermi verso il mio avversario. Feci alcuni passi
che mi risultarono incredibilmente difficili all’inizio, poi il dolore
lentamente diminuì tanto quanto bastava per restare dritta correttamente. Ero
in prossimità di Irina e strinsi lo scettro impolverato.
“Cavoli, allora è vero ciò che si dice sulla forza di volontà
di voi giapponesi.”
“Esatto.” Tossii violentemente. “Come pensi che ti possa
attaccare sapendo della tua attesa?”
“In amore e in guerra tutto è permesso, credo che questo
detto non ti sia nuovo e poi, in uno scontro c’è sempre qualcuno con un punto
debole più marcato rispetto a quello del nemico, così come c’è chi ha un punto
di forza in più.”
Non dissi nulla e notai che Irina muoveva di nuovo le mani.
Riuscii ad utilizzare la carta dello scudo ed evitai di essere compita una
seconda volta.
“Interessanti queste tue carte.” Di nuovo la risata
fastidiosa. “Ma se non sbaglio devi avere un rapidità incredibile per scegliere
la carta giusta a seconda della situazione.”
Irina mosse la braccia ma invece di puntarle contro di me,
mirò verso il terreno ed ancora prima che potessi capire, un boato assordante
mi fece sprofondare in una voragine formatasi sotto di me. Mi aggrappai come
meglio potevo e grazie alla carta del salto ancora attiva riuscii, se pur con molta
difficoltà, a trovare un buon appiglio e saltare fuori. Di nuovo in superficie
notai che Irina si era avvicinata così tanto alla crepa da riuscire a colpirmi
una seconda volta. Evocai la carta dello spostamento e questa mi portò
all’istante nel punto opposto dell’anfiteatro.
Infilai la mano in tasca e percepii la presenza della carta
del fulmine ma non la evocai.
“Ero vicina e non mi aspettavo che uscissi dalla voragine. Perché
non mi hai colpito?”
“Non posso fare del male ad un innocente!” Se non ci fosse
stato il bambino di mezzo quasi sicuramente non avrei esitato.
“Stupida!” Irina mosse le mani molto più veloce di prima.
Attesi l’onda d’urto frontale cercando di proteggere il viso con le mani.
Contro ogni previsione venni colpita alla schiena da alcuni detriti
dell’anfiteatro. Con il solito spostamento d’aria abbatté un’altra parte
dell’anfiteatro indirizzandolo verso di me; fui sepolta da sabbia, pietre,
polvere, insetti. Ricevetti un colpo alla testa e non ricordo per quanti
istanti restai senza conoscenza, riaprendo gli occhi c’erano attorno a me solo
dei minuscoli raggi di sole che penetravano tra le pietre, il resto era tutto
buio. Penso sia inutile descrivere il dolore che provai nel venir sepolta viva.
Contro ogni previsione alcune grosse pietre si erano
incastrate fra loro in modo da non schiacciarmi e, sebbene in uno spazio
angusto, potevo muovere braccia e gambe tanto quanto bastava per capire di non
avere nessun osso rotto; tossii per l’enorme polverone che lentamente si posava
sulla mia testa mentre sentivo la risata snervante di Irina che passeggiava
sulle macerie.
Chissà che avrebbe pensato mio padre nel sapere che
l’anfiteatro di Pompei era stato abbattuto in due punti, penso lo stesso che
avrebbero pensato tutti i visitatori che ci avevano messo piede, gli
archeologi, gli abitanti di Pompei stessa, sarebbe stato come ricevere l’amputazione
di un arto. Stavo contribuendo alla distruzione di quel luogo, dopo l’accusa
di omicidio, la fuga da casa, la totale mancanza di mie notizie, stavo dando un
quarto dispiacere a mio padre: la distruzione di una parte della sua vita,
della sua passione, del suo futuro di archeologo. Non potevo fare una cosa
simile, dovevo mettere fine allo scempio e, decisa più che mai, trovai la carta
del vento e la evocai affinché mi liberasse dalle macerie con un forte tornado.
Potete immaginare la faccia del mio avversario nel vedere
quei grossi massi volare via sospinti dal vento, corsi fuori dalla macerie
dolorante come non mai ed evocai una seconda carta, l’arciere. Si materializzò
al mio fianco e caricò puntando la freccia contro il mio nemico pietrificato
dalla paura. Quando la freccia venne scoccata sentii un forte tremolio nella
mano, come se mi si fosse addormentata. Capii e feci in modo che la freccia si
dissolvesse prima di incontrare il corpo di Irina.
Sulla mano con il simbolo del torneo Haab era cambia il
numero, si materializzò il tre romano, III, per la paura il mio avversario si
era arreso ed avevo vinto l’incontro. Ringraziai le carte e misi da parte lo
scettro.
“Stai bene?” Mi avvicinai ad Irina, riversa a terra e
tremolante. Non volevo che il bambino soffrisse di quel suo spavento, che si
verificasse un aborto spontaneo. Dato che il mio ex avversario non mi rispose
usai la carta del sonno per calmarla fino a farle prendere sonno, con meno
stress il bambino non avrebbe avuto problemi.
Venni raggiunta da Kerochan e gli salii in groppa ancora
prima che potesse toccare terra; mi portò finalmente via dall’anfiteatro
semidistrutto, proprio mentre accorrevano i curiosi e le sirene si facevano
sempre più vicine. Mi sdraiai sulla sua groppa, esausta e con il cuore a mille,
osservai per le strade le ambulanze e altre auto con i lampeggianti arrivare da
ogni strada. Chissà come avrebbe reagito mio padre alla notizia del crollo, non
volevo pensarci.
Senza accorgermene arrivammo nel retro della stazione,
proprio dove ci aveva lasciato ‘Adel quella mattina; mi diedi una ripulita al
vestito ed entrai dirigendomi a passo spedito verso la toilette, potei ripulire
dalla polvere la faccia e le braccia, era meglio non dare nell’occhio;
approfittando del bagno deserto si diede una rinfrescata anche Kerochan.
“Come stai?” Mi chiese mentre si asciugava con della carta
igienica.
“Bene!” Era vero, stavo relativamente bene se pur esausta e
un po’ scossa.
“Sicura? Ti è crollato addosso un muro!”
“Lo so, ma sto bene, ho avuto molta fortuna.”
“Hai avuto troppa fortuna in questi ultimi giorni, devi stare
più attenta.”
“Smettila di portare iella.”
Mi sciacquai faccia e braccia più e più volte, ripulii anche
la maglietta e i jeans in modo più accurato. Ne approfittai anche per darmi una
sistemata ai capelli, dopotutto ero nel paese della moda! Finalmente fui
presentabile.
Dopo aver recuperato la valigia mi diressi al binario dal
quale sarebbe dovuto partire il treno. Non conoscendo l’italiano confrontai ciò
che c’era scritto sul biglietto con quello rappresentato negli schermi della
stazione; c’erano solo tre binari ma non nascondo che non fu facile scoprire il
bario giusto, se non si conosce la lingua è difficile muoversi senza intoppi.
Aspettai per più di mezz’ora, in lontananza si udivano le
sirene fare avanti e indietro, nella stazione le persone parlavano tra loro
molto animatamente, presumo che si fosse già sparsa la voce di ciò che era
accaduto agli scavi. Nascosi il viso tra le mani.
Finalmente arrivò il treno, accanto ai binari non c’erano ne’
cancelli ne’ controllo dei bagagli, quindi si poteva salire non appena fossero
scesi i precedenti passeggeri. Biglietto in mano, cercai il mio posto e, dopo
un po’ di smarrimento, lo trovai occupato da un ragazzo che baciava una ragazza
seduta in quello accanto. Arrossii sia per il modo con il quale si baciavano,
sia perché occupavano i posti che erano destinati a me e Li, anzi,
semplicemente a me.
Mi guardai un attimo intorno cercando il controllore, o
qualcuno in divisa, e notai che anche gli altri passeggeri prendevano posto
senza controllare la numerazione dei posti. Intuii allora che fosse cosa
normale, paese che vai, usanze e maleducazioni che trovi; mi adeguai sedendo
qualche posto più avanti.
Il convoglio partì mezzo vuoto con un lungo stridulo
metallico, probabilmente proveniente dalle ruote. Mi misi comoda, il viaggio
non doveva durare più di un’ora; il vagone non brillava o profumava di pulito e
gli altri passeggeri non facevano di certo a gara per fare silenzio: fu un
continuo squillare di cellulari, risate sguaiate, grida, pianti del solito
bambino e discorsi proferiti a voce alta. Quasi mi scoppiò la testa!
Dal finestrino osservai la corsa del treno e in alcuni tratti
riuscii ad intravedere anche il mare in lontananza. Davvero strano prendere il
treno in uno stato diverso dal proprio, attorno a me udivo una lingua
totalmente sconosciuta anche se qualche parola la conoscevo anche io, tipo ciao
o buongiorno, penso che qualcuno avesse anche pronunciato le parole pizza
e Berlusconi, davvero divertente!
“Quanto manca?” Kerochan sbucò impaziente dallo zaino e mi
parlò sottovoce.
“Più o meno dieci minuti”
In quel momento passò un signore in divisa e preparai il
biglietto da mostragli, fui ignorata e proseguì verso il vagone successivo. Ero
basita!
Dopo quell’episodio mi venne un gran sonno, la battaglia mi
aveva stancato, non lo nascondo, ma i sedili non erano così comodi come potevano
sembrare. Altri passeggeri stavano scomposti e stravaccati come se fosse il
divano di casa, al contrario, io conservai una certa postura finche non riuscii
più a tenere gli occhi aperti. Non sbadigliai e ricordo solo di essere rovinata
sul sedile accanto, mi accorsi di essere sdraiata ma non avevo la forza di
rimettermi composta, cominciò a girarmi la testa e allungai le mani alla
ricerca di Kerochan. Quando vidi tutto in bianco e nero mi spaventai per
davvero, rotolai per terra con un rumore simile a quello di un sacco di
spazzatura. Attirai l’attenzione perché mi sentii addosso mani sconosciute, non
vidi chi fosse e lentamente tutto cominciò a diventare sempre più bianco.
Percepivo che il treno continuò imperterrito la sua corsa mentre
attorno a me decine di voci sconosciute e intraducibili; alcuni mi
schiaffeggiarono credendo che fossi svenuta, altri mi alzarono le gambe,
qualcuno provò anche ad aprirmi gli occhi e verificare il battito del cuore.
Chiusi gli occhi alcuni istanti e vidi alcune persone armeggiare
con tubicini trasparenti, palloncini, ed altri oggetti sconosciuti. Erano
vestite d’arancione molto chiaro e con dei guanti azzurri mi toccavano ovunque,
mi parlavano, facevano dei gesti, quando mi posizionarono una mascherina
trasparente in faccia chiusi di nuovo gli occhi perché la luce cominciò a darmi
fastidio.
Li riaprii alcuni istanti dopo e notai un tetto molto basso
con alcune luci accese, si muoveva tutto ed avevo intorno ancora quelle persone
vestite di arancione, udii delle sirene assordanti e venni sballottata da una
parte all’atra. Di nuovo buio.
Riaprii gli occhi una terza volta e attorno a me si trovavano
persone con vestiti molto colorati con in mano strumentazioni a prima vista
molto affilate. Provarono a parlarmi e mi accorsi che non ero più in treno. Mi
venne improvvisamente sonno, una seconda volta.
Riuscii a spalancare gli occhi dopo pochi istanti. Un
micidiale mal di testa mi assalì come una tigre e dolori di ogni genere mi
impedirono di muovere qualsiasi arto. Pensai di sognare o di delirare perché
accanto al letto riconobbi i visi di mio padre e Tomoyo. Avevano gli occhi
gonfi di lacrime e cercarono di parlarmi, non li capii perché le orecchie
fischiavano. Era un bel sogno l’ammetto! Decisi di svegliarmi quando si
presentò anche il viso di Li, era il più preoccupato e stringeva forte tra le
braccia Tomoyo che cominciò a singhiozzare.
“Bentornata!” Riconobbi la voce di Irina.
Mossi lo sguardo verso la mia destra e la trovai seduta su di
una sedia, mi guardò sorridente per alcuni istanti e continuò a scarabocchiare
su di un pezzo di carta, se non ricordo male stava disegnando una farfalla.
Provai a pronunciare qualche parola ma avevo la gola secca e la bocca che
sembrava impastata di colla. Prontamente mi venne offerto un bicchiere con
dell’acqua e la mandai giù come fossi una naufraga.
“Va meglio?”
“Grazie.” Fu un ringraziamento molto titubante. Ero sicura
che avesse cattive intenzioni. “Se mi vuoi uccidere perché mi hai dato
l’acqua?”
“Ucciderti?” Ridacchio con la solita fastidiosa espressione.
Pensai solo in quel momento che capivo quello che stesse dicendo, intuii che mi
avesse fatto un incantesimo, chissà quanti altri me ne aveva fatto mentre ero
incosciente. “Non sono un’assassina.”
Ok, mi aveva totalmente disorientato, completò il disegno con
una firma molto bella e lo avvicinò all’unico braccio che avevo fuori dalle
coperte. Lo posò poco sopra il polso, come se volesse imprimerlo sulla pelle.
“Ti starebbe molto bene come tatuaggio, forse però preferisci
un fiore di ciliegio!” Prese in mano un altro foglio, disegnato sicuramente poco
prima, con un bellissimo fiore e lo posò dove c’era prima quello della
farfalla. “In effetti ti donerebbe moltissimo.”
“Prima mi vuoi uccidere ed ora mi proponi un tatuaggio?”
“Ah, il fatto che uccido sempre i miei nemici? Beh…se
la sorte ti è avversa, nel poker devi fingere di avere una buona mano per
vincere, io ci ho provato anche nel torneo Haab, contro il primo nemico a Tel
Aviv, mi è andata bene ma, quando ho visto la potenza che sei in grado di
scatenare grazie alle carte…mi sono spaventata”
“Quindi non mi avresti ucciso?”
“No.”
“Ed ora vuoi vendicarti?”
“No.”
“Dove sono?”
“In ospedale, ad Agropoli.”
“Figo!” Cercai di muovermi ma ero incredibilmente esausta.
“Alla fine sono arrivata a destinazione.”
Irina continuò ad aggiungere dettagli al fiore di ciliegio.
Mi guardai intorno, non ero in una stanza normale, forse in qualche reparto
particolare, tipo terapia intensiva o rianimazione, il letto accanto al mio era
vuoto e fuori il sole stava tramontando proprio in quel momento. Il mal di
testa cominciò a martellare sempre di più e Irina se ne accorse, mosse la mano
verso di me e il dolore sparì all’istante.
“Sei
stata tu? Grazie.”
“Figurati.”
“Perché
sei qui?”
“Mi
piacerebbe farti un tatuaggio!”
Risi
davvero di gusto!
“Perché
ridi? Sono una professionista e lo faccio come lavoro, guarda.” Alzò la
maglietta mostrandomi il tatuaggio raffigurante due macchine dell’autoscontro
in primo piano, e in lontananza una ruota panoramica tra alcuni alberi
scheletrici. “Bello vero? L’ho disegnato io ma è stato un mio collega ad
imprimerlo sulla pelle. Rappresenta la mia città.”
“Perché
vuoi farmi un tatuaggio?”
“Sei
un persona speciale. Mi hai salvato la vita, non hai infierito mentre altri
avrebbero ucciso senza pensarci su due volte. Quello del tatuaggio è l’unico
modo che conosco per ringraziarti.”
Non
dissi nulla, ero quasi commossa, sembrava tanto ostile ed invece era una
persona sensibile. Mi aiutò a mettermi seduta, avevo dei punti nella pancia e
in testa.
“Ti ho accelerato la guarigione, entro domani mattina sarai
guarita del tutto, basta solo che ti metti a dormire.”
“Che cosa mi è successo?”
“Ho ascoltato quello che dicevano i tuoi parenti fuori dalla
porta, poco fa.”
“I miei parenti?”
“Si! Erano qui fino a poco prima che ti riprendessi;
comunque, i miei colpi sono stati troppo forti, fortunatamente non ti sei rotta
niente ma hai avuto una emorragia interna e ti hanno anche dovuto asportare la
milza. Di conseguenza potresti essere più esposta alle influenze, forse dovrai
assumere della cardioaspirina per qualche periodo e sentirti improvvisamente
stanca: ci farai l’abitudine. Sei svenuta in treno a causa dell’emorragia ma
fortunatamente eri vicina ad Agropoli, sei stata caricata in ambulanza e ti
hanno operato d’urgenza. Ci hai messo quasi tre giorni per riprenderti.”
“A dir la verità ho ancora sonno!”
“Ti conviene continuare a dormire, qui fuori ci sono dei
poliziotti e sono pronti ad arrestarti non appena ti sarai ristabilita.”
Non mi sorpresi, in tre giorni avevano avuto tutto il tempo
di controllare i miei documenti e di capire chi fossi; Irina piegò i fogli e li
ripose nella borsetta che aveva con se, osservandola bene era truccata in modo
leggero, era una ragazza bellissima dai cappelli lunghi e biondi, occhi
chiarissimi ed un neo sul naso piccolo, quasi irrilevante. Un rigonfiamento
appena accennato del ventre lasciava intuire che quando aveva affermato di
essere incinta, era verità.
Uscì dalla stanza con un meraviglioso sorriso stampato sul viso.
Quando la porta si aprì notai che alcuni poliziotti vagavano nel corridoio,
chiusi subito gli occhi per far finta si dormire e finii per assopirmi sul
serio.
“E’ davvero bella mentre dorme, vero?” Nel dormiveglia
riconobbi la voce. Era di una persona alla quale volevo davvero bene, ma era
impossibile che fosse li in quel momento. Si sarebbe dovuta trovare dall’altra
parte del planisfero. Riaprii gli occhi e notai subito l’enorme massa di
capelli neri e i grandi occhi lucidi per l’emozione.
“Tomoyo?” Non credevo ai miei occhi, era lì davanti a me, con
le lacrime agli occhi e le mani giunte. Ci osservammo per molti secondi,
nessuna delle due batté ciglio o proferì alcunché; mi tornarono alla mente le belle
giornate passate insieme e quanto mi fosse mancata in quell’avventura, di come
l’avevo tratta male e dell’ultima volta che avevamo parlato al telefono. Non
era sola, accanto a lei c’era Li, se ne stava quasi in disparte e dalla sua
espressione sembrava che non sapesse se sorridere o uscire dalla stanza. “Ti ci
vuole molto per abbracciarmi o devo prenderti per la camicia?”
Non fui molto femminile con quell’ultima frase ma Tomoyo
quasi saltò sul letto per potermi mettere le braccia attorno al collo. Mi
riempì di baci ed uno o due mi furono dati sulle mie labbra, non ci badai, ero
troppo felice di averla vicino. Il mio cuore impazziva per la felicità e quasi
mi mancò il fiato quando vidi mio padre apparire sulla porta; non mi sarei mai
aspettata di aprire gli occhi e di trovarmeli davanti. Venni a conoscenza del
fatto che papà era stato trascinato in Italia da Tomoyo in uno dei suoi colpi
di testa: aveva sentito alla televisione che ero stata trovata ferita in un
treno, appena appresa la notizia si era imbarcata sul primo volo per Roma
trascinandosi dietro mio padre, ovviamente ansioso di riabbracciarmi.
Anche lui si unì agli abbracci ma quando entrò nella stanza
era in compagnia di due carabinieri, si misero al due alti della porta ed
osservarono ogni nostro movimento per tutto il tempo che ricevetti quella
visita. Ero molto debole e l’unica cosa che feci fu quella di lasciare che mi
abbracciassero e baciassero finché i medici non decisero che dovevo riposare,
ancora.
“Ti avevo detto di andartene.” Li fu l’ultimo, rimase per
tutto il tempo ad un metro dal letto, osservando gli abbracci ed ascoltando i
discorsi. Non fiatò nemmeno un volta.
“Se non me ne fossi andato forse ora non avresti tutti quei
punti.” Le sue parole sembravano nascondere dei singhiozzi. Mentre parlava mi
diede le spalle e di tanto in tanto faceva qualche passo verso la porta. “Non
posso perdonare a me stesso una cosa così grave. E’ la seconda volta che ci
dividiamo e per la seconda volta finisci in fin di vita.”
Aveva ragione: a Napoli mi era successa una cosa simile ma
grazie agli incantesimi di ‘Adel mi ero salvata, quella seconda volta, però,
era diverso dato che si trattava delle conseguenze della lotta contro Irina.
“Voi maschi siete così stupidi.”
“Non dovevo lasciarti sola.” Dopo quella frase restammo in
silenzio per altri interminabili secondi poi fece qualche passo verso la porta.
Ero immobile e riuscivo a muovere liberamente solo le dita delle mani, mi
sembrava di essere un enorme blocco di cemento. Mossi la testa a fatica verso
comodino accanto al letto: “Mi porgeresti un bicchiere d’acqua?”
Finalmente si voltò e si diresse a passo spedito verso il
comodino. Versò dell’acqua in un bicchiere di plastica e, con attenzione, mi
aiutò a bere; non avevo sete, a idratarmi ci pensava il tubicino trasparente
che penetrava sotto il mio braccio, avevo semplicemente la gola molto secca.
“Dove stanno papà e Tomoyo?”
“Abbiamo trovato un bed and breakfast vicino alla spiaggia -
è davvero molto bella, ti piacerà di sicuro - provvisoriamente staremo lì e
vedremo come si evolveranno gli eventi; ah, cosa più importante, Kerochan è con
Tomoyo, starà con lei finché non ti riprendi.”
“Mi spiace di averti trattato male in tutti questi giorni, mi
spiace di aver detto di odiarti, mi spiace di averti fatto pagare tutto, mi
spiace di averti tenuto il muso, di averti mandato via e soprattutto di
avertelo permesso, mi spiace di tutto.” Quelle parole uscirono dalla mia bocca
senza controllo.
“Sei un stupida!” Mi porse un altro bicchiere d’acqua e lo
mandai giù, finalmente avevo la gola di nuovo a posto. “Pensi davvero che mi
sarei lasciato trascinare in tutta questa storia se non avessi voluto darti il
mio aiuto? Spiace anche a me di averti detto quelle cose a Pompei.”
“Ehi!” Uno dei carabinieri mise la mano sulla spalla di Li e
con lo sguardo gli fece capire che era ora di andare via. Venni lasciata da
sola, la serranda quasi del tutto abbassata, la porta chiusa e due poliziotti
che sorvegliavano il corridoio, quasi fossi una serial Killer, non avendo
niente di meglio da fare, misi la testa sul cuscino e mi riaddormentai.
La mattina seguente mi svegliarono delle infermiere e
cambiarono la bottiglia del flebo che serviva a idratarmi, misurarono anche la
mia temperatura con uno strumento che inserirono in un orecchio. Provarono a
dirmi qualcosa in Inglese ed io non potei che rispondere “ok, ok.” In segno di
cortesia: ancora oggi non ho la minima idea di che diavolo mi avessero chiesto.
Restai sveglia e in solitudine per più di un’ora finché non
si riaprì la porta ed apparve il sorriso di Irina. Non mi aspettavo di
rivederla, per giunta, aveva in mano il mio ciondolo e le carte di Clow.
“Come stai?” Si scostò i capelli dal viso e mi porse le
carte. Fui sorpresa di riuscire a prenderle con tanta facilità, la sera prima muovevo
appena le dita delle mani. “Sembra che il mio incantesimo abbia
funzionato…lasciami fare un controllo.” Posò la sua mano sulle ferite e
percepii dei brividi di freddo che mi attraversarono ogni singolo nervo.
“Ok, sei perfettamente guarita.” Strappò via la fasciatura
che avevo sulla fronte e mi scoprii dalle lenzuola. “Forza! Vestiti e andiamo
via di qui.” Non lo avevo notato prima, ma aveva con se anche il mio zaino ed
all’interno c’era un cambio, doveva aver frugato nella mia valigia, ma come?
“Aspetta una attimo.” Mi sedetti sul bordo del letto. “Come
fai ad avere tutte queste cose? Credevo che fossero rimaste sul treno.”
“Credevi male: i carabinieri hanno recuperato tutto, ed io ho
fatto altrettanto dalla loro caserma. Ora, scopriti la pancia, devo levarti i
punti.”
Feci come chiesto e dopo essermi tolta la medicazione vidi i
punti che spuntavano dalla pelle, quasi non si vedeva la leggera cicatrice.
Irina avvicinò la mano e i nodi si sciolsero da soli, delicatamente li tirò via
uno ad uno finché non rimasero solo i forellini, si sarebbero richiusi in poco
tempo, infine applicò di nuovo il cerotto, non mi fece male ed anzi, sentii del
solletico. Fece lo stesso con la testa, non ricordo di essermi fatta male anche
in quel punto durane lo scontro, forse era successo quando caddi in treno.
Finalmente potei rimettermi i vestiti e dopo una veloce
sistemata ai capelli, giusto per non dare nell’occhio, la seguii fuori dalla
stanza. Passammo accanto ai carabinieri immobili come guardie svizzere, capii
che Irina li aveva immobilizzati con un incantesimo; la seguii poi, lungo il
corridoio fino alle scale che ci portarono al piano terra e finalmente uscimmo
all’aria aperta; ci trovavamo in periferia e attorno non c’erano case, solo un
grande parcheggio oltre la strada. Ci sedemmo alla fermata dell’autobus
dall’altra parte della strada.
Ancora non mi rendevo conto di cos’era successo, ci volle
molto tempo, era già tutto finito quando assimilai a cosa ero andata incontro
in quell’avventura. Appena uscita dall’ospedale mi scivolarono addosso i tre
giorni passati a dormire, l’asportazione della milza e l’emorragia interna, non
li considerai cose importati, quasi non me ne accorsi ma avevo rischiato la
vita già due volte in quel giro per l’Italia. Mi sedetti sulla panchina con
Irina, a dir la verità presi posto nella parte opposta, non mi andava di sedere
accanto alla persona che mi aveva quasi ucciso, stranamente però non ero così
tanto arrabbiata come dovevo.
Finalmente arrivò l’autobus, Irina si lasciò andare ad un
altro atto di gentilezza e mi diede un biglietto, la cosa cominciava a puzzare.
Quando scendemmo in centro camminammo fino ad arrivare in una piazza coperta da
molti alberi, con un monumento al centro ed alcune panchine di gesso bianco
sparse ai lati delle aiuole.
E’ incredibile come il paesaggio urbano, in Italia, cambi così
tanto di città in città. In Giappone le zone residenziali sono al novanta
percento tutte identiche, lunghe strade disposte a scacchiera dove si
affacciano le case una accanto all’altra, il resto della città è molto simile
se non fosse per piazze o incroci particolari; qui in Italia invece, mi pareva
tutto originale e diverso di via in via, davvero!
Proseguimmo per qualche centinaio di metri e ci spostammo
lungo una via pedonale sulla quale avevano la vetrina decine di negozi e
locali. Era più o meno metà mattinata, panchine e tavolini dei bar erano colmi
di persone, i negozi tenevano le porte aperte ai clienti ed un caldo soffocante
mi schiacciava verso la pavimentazione rosa, non credo di averlo puntualizzato
prima ma, la mia partenza il Italia avvenne la prima settimana di Giugno.
“Tutto a posto?” Mi chiese Irina.
“Più o meno…il caldo mi uccide!”
“Vuoi che ci fermiamo a riposare?”
“Abbiamo, per caso, una destinazione?”
Sorrise e prese posto nella veranda di un bar, solo
all’arrivo della cameriera mi accorsi che stavo morendo di fame. Cavoli, mi
trovavo in Italia: ordinai cappuccino, croissant al cioccolato ed un’aranciata
fresca, avevo già l’acquolina in bocca e la bustina di zucchero tra le mani.
“Vorrei che esaudissi il mio desiderio!”
“Sapevo che c’era qualcosa dietro la tua gentilezza!” Quelle
parole di Irina spiegarono tutte le sue attenzioni nei miei confronti, era un
ragionamento da freddo computer ma, avendo anch’io un desiderio forte
come il suo, penso avrei fatto altrettanto.
“Avrai un giorno intero per usare i poteri illimitati, mi
piacerebbe che pensassi a me per cinque soli minuti, tanto dovrebbe bastare per
lanciare l’incantesimo.”
Sorrisi. “Avevo già pensato a questo, avrei fatto in modo di
esaudire il tuo desiderio anche se non ci fossimo più viste.”
“Come immaginavo, sei davvero una persona speciale.” Lo disse
con voce commossa. “Mi sono battuta in questo torneo, non tanto per la
radioattività, dato che ormai il danno è fatto, ma per fare in modo di avere un
posto da mostrare a mio figlio. Quando ero piccola, più o meno sei anni, i miei
genitori mi portarono a Poltava, la città dove si erano conosciuti e
innamorati, ricordo quel viaggio come il più bello della mia vita. Dopo la
morte di mio padre, quel ricordo ha acquistato sempre più valore e mi sono
sempre ripromessa di portare mio figlio nella città dove sono nata. Purtroppo
dovevo fare i conti con la radioattività.”
“Capisco, io ho perso mia madre, praticamente non l’ho mai
conosciuta e ricordo il suo viso solo grazie alle fotografie, ogni suo oggetto
che ho a casa ha un valore tutto speciale; forse il mio dolore non si avvicina
alla intensità del tuo ma, penso di capirti.”
La cameriera ci portò l’ordinazione con un sorriso e Irina
pagò senza battere ciglio. Appena ci lascò con le nostre tazze di cappuccino mi
assicurai che nessuno mi stesse guardando e misi fine all’esistenza del
croissant.
“Va meglio?”
“Si, grazie!”
Mentre mandavo giù l’ultima goccia di aranciata percepii di
nuovo la vibrazione nell’aria, quella che mi avvisava che c’era qualcuno dotato
di poteri nelle vicinanze, contemporaneamente cominciò a pizzicare anche il
segno sulla mano. ‘Adel!
Sembrava che anche Irina si fosse accorta di quella presenza
e ci alzammo quasi contemporaneamente. Proseguimmo lungo la vita che stavamo
percorrendo fino a poco prima del caffè, anzi, corsi lungo la via. Feci
lo slalom tra varie persone e i gruppetti di ragazzini correndo più veloce che
potevo finché la strada non cominciò ad essere in salita. Rallentai ma strinsi
i denti e proseguii la salita a testa bassa fino a quando il pizzicchio sulla
mano non si fece molto forte.
Alla fine la vidi: la porta, l’ingresso! Era l’arco che si
vedeva nel video mostratomi dal giudice a Tomoeda, non avevo dubbi. Ansimai
fino al muretto e guardai di sotto: non c’era uno strapiombo ma una scogliera
che non ti lascia di certo scampo in caso di caduta. Mi guardai attorno più e
più volte ma di ‘Adel nessuna traccia; scrutai i visi di ogni singolo passante
finché non individuai due occhi neri, come l’ebano, che mi fissavano.
“Sakura, è il tuo prossimo avversario!” Irina mi raggiunse e
mi si affinacò-
“E’ impossibile, non si tratta di ‘Adel!” Davanti a me non
c’era l’emiro che mi aspettavo di trovare ma una persona di quasi mezza età,
non c’erano dubbi sui suoi poteri ma non riuscivo a capire dove potesse essere
‘Adel.
“Ti va di cominciare subito o sei ancora debole dall’ultimo
combattimento?” Aprì bocca e proferì in italiano, sembrava uno del luogo e con
quella frase si presentò come mio prossimo avversario, quello finale. In significato
delle sue parole si materializzò correttamente nella mia testa e potevo
percepire la sua grande forza magica.
“Dov’è ‘Adel? Il ragazzo che hai affrontato prima di venire
qui?”
“L’ho ucciso.” Lo disse con una calma tale che pregai di aver
capito male ma quelle parole furono come lame che mi trapassavano. Ricordo che
ad un certo punto mi ritrovai in ginocchio, con le lacrime e il moccio che
colavano a terra.
P.S. Curiosità
Aruòpuleè il
nome della città di Agropoli indialetto cilentano. Agropoliè uncomune di circa 21 mila abitanti sito nellaprovincia di Salerno,nella regioneCampania. E’ una località turistica e in Estate raggiunge i
40 mila abitanti. Ha una storia antica risalente al VII secolo a.C.
quando vicino al fiume Testene, che attraversa la cittadina, la baia veniva utilizzata
dai Greci per gli scambi commerciali, inoltre edificarono anche un tempio
dedicato ad Artemide.
L'Anfiteatro di Pompeifu edificato nell’antica città romana tra
l'80ed il70
a.C. ed aveva una capienza di quasi ventimila persone. L'arenaè interra
battutaed è divisa dallaplateada un parapettoaltro due metri e prima dell'eruzione
del Vesuvio,eraaffrescatocon immagini di lotte tra gladiatori; l’intera struttura
era anche attrezzata con unvelarium, una coperturache veniva utilizzata per proteggere
gli spettatori dal solee dallapioggia, simile a
quella del Colosseo di Roma. Lo
stadio risulta essere uno dei più antichi e meglio conservati al mondo,
divenne famoso per aver ospitato la bandPink Floyd nel1972, in un concerto registrato in assenza di pubblico ed è un passaggio memorabile della
storia del rock.
Dall’autore:
Ti rubo solo altri due minuti per ringraziarti per aver letto
e sopportato fin qui. Questa è la mia prima storia scritta in prima persona e
le difficoltà non sono mancate, sono sorpreso di quante letture e commenti
abbia ricevuto nonostante il fandom non sia uno dei più frequentati.
Il prossimo capitolo sarà quello conclusivo. Forza! Un ultimo
sforzo!
Spero di non averti fatto perdere del tempo con questa storia
e che ti abbia fatto rilassare e distrarre, fa sempre bene. Ancora grazie e ti
prego di lasciare un tuo apprezzamento, suggerimento o insulto a fine lettura,
in modo da poter correggere l’eventuale distrazione e migliorarmi nella
scrittura.
Capitolo 8 *** Quel sapore sulle labbra prima della partenza. ***
Ottavo
Considero un miracolo l’aver avuto Irina accanto a me in quel
momento.
Appresa la scomparsa di ‘Adel, mi pietrificai e caddi in
ginocchio; in faccia avevo di tutto: lacrime, moccio, polvere, ero l’immagine
stessa della disperazione e d’altro canto, come si faceva a non esserlo, avevo
appena perso il secondo ragazzo che avessi mai baciato, quello più gentile e
comprensivo che avessi mai incontrato, il primo per il quale avevo provato una
forte attrazione sessuale. Mi aspettavo di trovarlo appoggiato al muretto,
sorridente e dagli abiti eleganti ed ordinati che mi guardava e sorrideva,
chissà se quei suoi nerissimi occhi restarono aperti o chiusi nel, chissà
qual’e stato il suo ultimo pensiero, la sua ultima parola o il suo ultimo
incantesimo prima di perdere la vita.
“Fermo!” Irina si mise tra me e il nuovo nemico. Non
avendogli risposto, aveva fatto molti passi nella mia direzione e sembrava
proprio che non avesse buone intenzioni. Potevo percepire il pericolo ma il mio
corpo si rifiutava di muoversi, l’unico movimento consentito erano i
singhiozzi.
“Spostati, tu sei fuori!”
“So’ che hai invocato tu l’incantesimo Haab e ricordo bene la
tua predisposizione per le sfide difficili, quelle all’ultimo respiro, ti piace
misurarti con tutto e tutti per dimostrare la tua superiorità. Non è forse
questo il motivo per il quale hai voluto che lottassimo l’uno contro l’altro?”
“Diciamo che hai indovinato, dove vuoi arrivare?”
“Il tuo avversario non è il grado di combattere, nemmeno di
cominciare lo scontro, sei davvero sicuro di voler vincere in questo modo, di
arrivare direttamente alla vittoria?”
Il mio avversario rimase immobile e si morse il labbro in
modo molto violento, successivamente ci diede le spalle e si allontanò in
silenzio. I suoi passi erano molto pesanti e li udii anche quando fu molto
lontano.
Mi rimisi in piedi con l’aiuto di Irina e mi fece appoggiare
al parapetto affinché potessi respirare. Ero cieca, le lacrime mi accecavano,
non smettevano di cadere, di bagnarmi il viso, dopo un po’ un riuscii più a
singhiozzare o parlare, non potevo urlare, solo lacrime su lacrime. Non mi
accorsi nemmeno di essere tra le braccia di Li o quando fosse arrivato, mi
strinse forte e nascosi il viso sul suo petto, come un gatto impaurito.
Quando riaprii gli occhi mi ritrovai in una stanza
sconosciuta, di nuovo, questa volta riconobbi la stanza di un albergo. Ricordai
che Li mi trasportò di peso e ci volle molta forza per staccare le mie braccia
dal suo collo; sembravo una bambina e riuscii a fermare le lacrime solo
prendendo sonno.
Al mio risveglio il sole stava tramontando, dalla finestra
entrava di nuovo una calda aurora arancione e le mie lacrime ricominciarono da
dove avevano smesso. Sembrava impossibile: ero davvero contenta di poter
rivedere ‘Adel, di poter mettere fine a quella corsa sempre più frenetica e
faticosa, anche di riabbracciarlo, non potei fare niente di tutto ciò.
“Grazie.” Irina era nella stanza e stava leggende un grosso
libro, quel ringraziamento fu la prima parola che mi venne in mente, eppure non
venni degnata di considerazione. Quasi sbattendo la porta, fece il suo ingresso
Li con Kerochan seduto sulla sua spalla, si diressero alla finestra e
verificarono da quale mezzo provenivano le sirene in lontananza. Quando capì
che non c’era pericolo si sedette ai piedi del letto.
“C’era proprio bisogno di andartene in giro per la città?”
Kerochan sembrava al quanto arrabbiato. Teneva le zampe conserte e lo sguardo
tagliente, non era possibile per lui fare la faccia minacciosa, sarebbe
sembrato sempre e solo un pupazzo.
“Adesso basta! Vi ho già detto che l’ho portata in giro i!.”
Irina chiuse il di botto per riportare il silenzio. Ovviamente tutti ci
voltammo verso di lei; mantenne la calma mentre posava il volume sul comodino
li accanto ma non riuscì a trattenere alcune lacrime.
“Perché piangi?”
“Perché mi dispiace! Mi spiace che tu debba lottare contro
quel…mostro, non ha pietà, non teme niente e nessuno, uccide e basta, ha una
conoscenza incredibile delle arti magiche di metà pianeta.”
“Non ci credo!” Li si rimise in piedi. “Tutti hanno un punto
debole, non esiste la perfezione.”
“Ovvio che ci sono ma la più potente non può essere utilizzata
da Sakura.”
“Ascoltami bene: le hai gettato addosso un muro ed ha rischiato
di morire dissanguata, hai usato la tua situazione di dolce attesa come un’arma,
dici come utilizzare questo punto debole a nostro favore o ti giurò che mi
vendicherò per ciò che le hai fatto!”
Ammetto che fu molto gentile ma allo stesso tempo fastidioso.
“Non può essere utilizzato perché sono io quel punto debole!”
Irina si mise in piedi proprio di fronte a Li. “Ora siediti!”
Li non poté che risedersi, lo sguardo di Irina pietrificava.
Nessuno dei due aveva alzato la voce, erano bastagli gli sguardi a contornare
quelle poche frasi che si scambiarono. Mi asciugai le lacrime con il lenzuolo,
il dolore al cuore non se n’era ancora andato.
“Pierfrancesco Spina è il tuo prossimo nemico! Lui è diretto
discendete di Ferrante Croce, uno dei maghi più forti e temibili che abbia mai
messo piede in questo mondo. Non so se contarlo come difetto o pregio per la
sua personalità ma ho sempre pensato che fosse Autistico. Si estranea
totalmente, a livelli tali che quando ti ignora pare sordo, quando lo colpisci
cade ma si rialza come se fosse inciampato da solo. Ha un’ossessione
incredibile per l’ordine e la simmetria. Può sembrare questo il suo punto
debole ma non lo è, per la sua persona è un pregio perché ottiene ciò che vuole
grazie alla magia. Se affronta un nemico si estranea dall’umanità e lo uccide
come una zanzara fastidiosa. Sembra calmo, ma ha tic frequenti e se li
interrompi è capace di farti pagare con la vita.” Irina prese di nuovo posto.
“Sembra una persona di mezza età ma in realtà si trascura moltissimo, siamo
coetanei ed io ho trentadue anni. Passa tutto il tempo ad ampliare e migliorare
le sue conoscenze, principalmente magia e alchimia, ma è una persona
incredibilmente colta e con un quoziente intellettivo di molto superiore alla
norma.”
“Che centra tutto questo con te?” Li sembrava impaziente.
“Sono stata la sua ragazza!”
E’ incredibile come risulta piccolo il mondo, siamo 7
miliardi di persone ma quando viaggi sembra semplicemente di andare in periferia,
un periferia immensa. Io e Li ci guardammo ma i nostri visi quasi non
mostrarono espressione, eravamo arrivati al punto che non ci sorprendevamo più
di nulla.
“Quando andavo all’Università vinsi una borsa di studio
Erasmus per l’università di Murcia, in Spagna. Era una città minuscola in
confronto a Kiev ma con tre campus universitari era molto viva e piena di
culture diverse, praticamente ti senti davvero in Europa! Ho incontrato
Pierfrancesco durante il corso intensivo di Spagnolo e durante le varie feste erasmus
ci siamo conosciuti meglio, innamorati e, come potete immaginare, non passavamo
di certo il tempo a guardarci negli occhi.”
“Ci stai dicendo che il figlio che aspetti è suo?” Feci una
domanda molto stupida, me ne accorsi solo quando l’avevo già pronunciata.
“No, vi sto spiegando che il nostro rapporto raggiunse
livelli molto forti ma non restai mai incinta da parte sua, anche perché
abbiamo usato sempre il preservativo.” Irina cominciò a giocherellare con i
capelli. “La storia non durò più dei sei mesi che passammo da studenti ospiti e
mi accorsi subito di questi suoi particolari atteggiamenti, ma solo verso le
altre persone. La cosa strana è che quando era in mia compagnia si trasformava
in una persona diversa, diciamo nella norma, non sembrava autistico, pareva
quasi che si rilassasse.
Ci lasciammo ad un mese dalla fine della borsa di studio, a
dir la verità erano tre settimane e fui io a lasciarlo. Non riuscivo più a
sopportarlo: era incredibilmente geloso ed invadente; se una persona mia ama ha
fiducia in me. Non lo vidi per svariati anni e so soltanto che continuò gli
studi a Benevento fino alla laurea, poi si ritirò per altri studi di natura
magica e alchemica a Napoli. Agropoli è la sua città natale e la sua presenza
può significare solo che è arrivato a conoscenze tali da sentirsi invincibile,
sono convinta che abbia invocato il torneo Haab proprio per testare queste sue
nuove capacità.”
Li si mangiò le unghie durante tutto il racconto. Il suo
sguardo non stava fermo un attimo e sembrava che stesse diventando sempre più
nervos, alla fine si mise in piedi per avvicinarsi alla finestra: “Quindi il
punto debole sei tu, e dato che è Sakura quella che deve affrontare questo Pirrfanccescoo,
non ha possibilità di vincere!”
Irina tacque, smise anche di passare le dita tra i capelli,
ovviamente non mi piacque quel silenzio, presagiva una mia inevitabile
sconfitta o peggio, la morte. In realtà non avevo ancora deciso se affrontare
quell’ultima battaglia, la morte di ‘Adel mi aveva ovviamente spiazzata,
demoralizzata, le lacrime si erano fermate ma sapevo che non sarei riuscita a
stare in piedi senza cascare di nuovo in ginocchio.
Quando arrivò sera ricordo che andammo a dormire molto
presto, non prima di aver mangiato qualche schifezza dal minibar del bad and
breakfast. Sembrava che Irina sapesse che avrei passato la notte da lei, mi
stupii molto nel notare che la stanza nella quale ero stata portata aveva due
letti. Li decise di tornare da Tomoyo e Papà e rimasi sola con la persona che
mi aveva quasi ucciso.
Ovvio che non mi piaceva come situazione, farsi offrire il
caffè non basta come scuse, farsi raccontare i punti deboli del nemico nemmeno;
ero molto titubante e la sua gentilezza non poteva che spiazzarmi. Ovviamente
Kerochan restò con me ma fu come se non ci fosse dato che cominciò a russare
ancora prima che spegnessimo le luci. Quando Irina prese sonno io avevo ancora
gli occhi aperti e guardavo fuori dalla finestra le macchine che gironzolavano
per la città, non mi andava di dormire nella stessa stanza di persona che
avrebbe potuto aver fatto, con questo Pierfrancesco, un patto simile a quello
tra me e ‘Adel. Ovviamente non potevo essere certa di quelle mie seghe mentali
ma non era una possibilità da scartare. Quando avevo dormito sapevo che c’era
li e quindi mi sentivo serena, quando se ne andò avrei tanto voluto urlargli di
restare ma dalla mia bocca uscirono solo altri singhiozzi.
Faceva un gran caldo e ricordo di aver aperto la finestra
quel tanto che bastava per far entrare un po’ di fresco. Finalmente mi sdraiai
ma ero fradicia per il sudore e decisi di restare solo in maglietta e mutande,
come in pieno agosto, quell’anno la primavera fu tanto calda quanto l’estate.
Un bagliore dell’oscurità mi fece venire la pelle d’oca,
tanto che cercai scettro e carte, fortunatamente capii che non c’erano vibrazioni
pericolose e divenni rovente in viso.
Gli unici uomini nudi che avessi mai visto erano quelli delle
illustrazioni del libro di Storia dell’Arte. In quel momento ne avevo uno di
fronte a me e quando fece alcuni passi verso il mio letto apparve il sorriso
inconfondibile e carico di gentilezza di ‘Adel. Quasi scoppiai in lacrime ed
ancora prima che potesse cadere una lacrima era su di me per riempirmi di baci.
Non riuscivo a parlare e nemmeno lui proferì parola, sembravano così inutili e
fuori luogo; chiusi gli occhi e mi rilassai tra le braccia e non disprezzai il
fare l’amore con lui. Non era sporco, non era sesso, era carico di sentimento,
di lacrime e gemiti nascosti, di carezze, di baci sul collo, sui seni, di
orecchie mordicchiate e mani tra i capelli.
Mi ripresi ancora più sudata di prima, ero attraversata da
fremiti di non so cosa, di nuovo umida nella parte più sensibile e sola nel
letto. Dapprima mi sentii una depravata ma il senso di colpa sparì quasi
subito, avevo capito di aver provato qualcosa di più spesso nel confronti di
‘Adel e che non sarei mai dovuta andare via da Napoli, sarei dovuta restare per
aiutarlo e salvargli la vita.
Di nuovo una vibrazione di pericolo.
Mi precipitai alla finestra, sembrava che non ci fosse niente
di strano, il buio era rotto solo dai lampioni e dalle luci provenienti dalle
finestre, di tanto in tanto alcune macchine percorrevano la via con i loro fari
e i cani abbaiavano da una casa all’altra. Non ho idea dell’ora, solo che non
c’era nessuno sui marciapiedi.
Di nuovo la vibrazione, questa volta più forte.
Mi voltai verso Irina e Kerochan, nessuno dei due si svegliò,
sembrava che la percepissi solo io, eppure era così forte, pareva che le pareti
si contorcessero, come in un terremoto. Aprii del tutto la finestra e le
vibrazioni aumentarono a dismisura, raccolsi le carte e lo scettro prima di
sedermi sulla finestra con le gambe penzolanti nel vuoto. Ero solo al primo
piano e a pochi centimetri dai piedi c’era il tetto catramato di una veranda in
legno, eppure avevo una lieve vertigine. Ci badai solo un primo istante e dopo
altre vibrazioni, più forti delle prime, mi lasciai andare e atterrai sul
catrame. Mi accorsi solo allora di essere rimasta in maglietta e mutande, che
stupida, e la finestra era troppo in alto.
“E’ stato divertente vederlo morire.” Nella mia testa
comparvero quelle parole glaciali. Mi voltai, come ben potete immaginare,
spaventata ma ero sola, la strada era deserta e venne attraversata solo da una
gatto grasso e goffo. Scesi in strada con un altro balzo.
“So che vuoi vendicarlo!” Di nuovo la voce e nessuna
presenza.
Cominciai a correre in direzione delle vibrazioni. Dopo
essere rimasta senza pantaloni a Roma non mi importava di correre in mutande
per Agropoli; prendevo strade apparentemente a caso, guidata solo dal mio
istinto che diceva di muovere le gambe verso quelle onde.
Un lampeggiante azzurro si intromise nella luce arancione dei
lampioni ed ancora prima che potessi voltarmi un’auto nera e con una scritta
bianca sulla fiancata salì sul marciapiede tagliandomi la strada. Dallo
sportello del passeggero scese un uomo con una divisa fin troppo familiare.
Corsi ancora più veloce verso la parte opposta, alle mie spalle udii l’auto
fare retromarcia e dopo aver accesso le sirene mi inseguì con un rombo
assordante. Cercai di cambiare strada all’ultimo momento nel tentativo di
seminarli ma non ebbi successo; sicuramente non si erano nemmeno accorti di chi
fossi, anche io essendo poliziotta e vedessi qualcuno che corre in mutande, di
notte, in mezzo alla strada, mi fermerei per vederci chiaro.
Senza volerlo mi ritrovai nella zona pedonale della mattina
prima; se nel resto della città non c’era quasi anima viva in quel tratto di
strada sembrava che i bar stessero facendo grandi affari. Udii uno stridio di
gomme e sportelli che si chiudevano di colpo. Non mi voltai perché sapevo già
di essere seguita a piedi, cominciai a correre tra i tavolini dei bar e
gruppetti di ragazzi vicino alle panchine cercando di apporre più ostacoli
possibili tra me e i Carabinieri. Quando la strada si fece in salita e a
scaloni, cominciai a sentire la stanchezza, strinsi i denti e non mi fermai
nemmeno quando varcai la porta della città vecchia. Le strade diventarono più
strette e tortuose, mi nascosi in un angolo buio e restai immobile cercando di
limitare il fracasso del mio fiatone. Udii gli scarponi dei carabinieri salire
gli scaloni e spuntare nella via, fortunatamente non indugiarono più di alcuni
secondi e proseguirono nella mia ricerca.
Mi sedetti in terra e ripresi fiato, per la fuga avevo smesso
di seguire le vibrazioni nell’aria, quindi fu una fortuna percepire che erano
molto vicine, come se anche nella fuga fossi stata indirizzata verso quelle
stradine strette. Attesi ancora qualche minuto prima di uscire dall’ombra, per
non fare rumore mi tolsi le scarpe, almeno quelle le avevo messe prima di
lanciarmi dalla finestra, e camminai verso il punto dal quale provenivano quei
terremoti.
“Per quanto ancora vuoi farmi aspettare?!” La voce fece di
nuovo capolino nella mia testa. Le vibrazioni aumentarono e dopo varie
stradine, scale e incroci sbucai di fronte ad un enorme castello aragonese
illuminato da fari arancioni che ne accentuavano la magnificenza. Alte mura mi
osservarono in segno di sfida mentre da una delle torri sventolavano bandiere
facendo un gran fracasso.
“Non ti vergogni ad andare in giro senza pantaloni?” Mossi
rapidamente lo sguardo alla ricerca di quella voce, quell’ultima frase era
stata pronunciata nelle vicinanze, non era comparsa nella mia mente, infatti Pierfrancesco
mi attendeva appoggiato ad una macchina. “Con quelle mutande rosse poi, non
siamo mica a capodanno!”
“Non sono rosse, sono rosa!” Risposi alla sua provocazione
come una bambina, era lo scarso livello di ossigeno al cervello, causa della
corsa. Mi inginocchiai per riprendere fiato, se mi avessero chiesto di fare la
strada al contrario e tornare da Irina, non ci sarei mai riuscita.
“Sei stata in gamba ad aver sconfitto Irina anche se
ripensandoci non era poi così scontata la lotta tra una occhi a mandola ed una
zingara, siete entrambi inutili.”
Non risposi alla sua provocazione razzista, rimasi però
sorpresa dall’insulto rivolto a quella persona che un tempo aveva amato, poi
ripensai a tutte le cose che dissi io a Li quando scoprii che stava con un'altra,
diciamo che avevamo reagito in modi simili; alle mie spalle arrivarono i due
carabinieri, ero stremata, non sarei riuscita a scappare una seconda volta, ,
cominciai a rimpiangere i miei pattini rossi, soli soletti sotto il letto a
Tomoeda. Contro ogni aspettativa vidi un terzo carabiniere, in divisa perfetta,
che si avvicinò al mio avversario, li vidi scambiarsi alcune frasi e sguardi di
sfida finché tutti e tre i militari non se ne andarono lasciandomi sola con Pierfrancesco.
“In questa città, così piccola, ci conosciamo praticamente
tutti e le persone dotate di capacità magiche sono più di quelle che ti
potresti aspettare, quello era un Maresciallo e vecchio amico di famiglia, un
pezzo grosso, nella vita ha approfondito tecniche di controllo dell’elettricità,
incredibili ma le ritengo troppo complicate e instabili per essere usate in
combattimento.” Pierfrancesco doveva aver notato la mia faccia sorpresa. “E’ a
conoscenza della nostra lotta imminente e non ci darà fastidio.”
Ripresi finalmente fiato, il Castello di spalle al mio nemico
era maestoso e le luci notturne gli conferivano un’aura davvero mistica,
magnetica, ripensandoci non poteva esserci sfondo migliore per quell’incontro.
“Hai detto imminente!?” Avevo ripreso fiato ma la
stanchezza sarebbe rimasta.
“Si, penso che sia il caso di porre fine a questo torneo,
anche tu sei del mio stesso parere altrimenti non avresti corso fin qui.”
Abbassai lo sguardo, mi sarebbe piaciuto affrontare quell’ultima
sfida con uno dei vestiti confezionati da Tomoyo, piuttosto che in mutande;
ignoravo la situazione psico-fisica del mio ultimo avversario ma doveva essere
perfetta, al contrario della mia che era disastrosa sotto ogni punto di vista:
iniziare l’ultimo combattimento in quell’istante significava rischiare tutto,
quasi per un capriccio. La ragione diceva di non accettare ma le questioni in
ballo erano troppe: la promessa fatta ad ‘Adel e quella a Irina, la salvezza
mia e di Li per non finire il galera e il pressante desiderio che tutto potesse
tornare alla normalità; volevo vincere per rimettere a posto il casino fatto a Pompei,
volevo che mio padre vedesse gli scavi e si potesse meravigliare nel camminare
sul ciottolato di oltre duemila anni; il cuore, al contrario, batteva sempre
più forte in attesa del nuovo scontro. Da quando ero diventata così competitiva
e così non curante della mia incolumità? Bah, le carte di Clow mi hanno
influenzata, è vero, ma avevo sempre creduto di poter controllare questo
condizionamento cercando di restare una ragazzina come tutte le altre, la
verità è che crebbi incredibilmente veloce a causa delle responsabilità che si
annidavano nelle mie tasche, quelle carte avevano il potere di distruggere ogni
cosa ed era compito mio fare in modo che ciò non avvenisse. Un volta catturate tutte
mi ero ripromessa che non le avrei mai utilizzare contro altre persone; avevo
infranto la mia stessa promessa ma non mi sentivo in colpa.
L’adrenalina entrò in circolo, potevo chiaramente sentirla
scorrere nelle braccia e nelle gambe, speravo che mi aiutasse nonostante la
stanchezza della corsa. Evocai le carte del vento e del volo per librarmi più
in alto che potevo. Il mio avversario restò ad osservare la scena senza battere
ciglio, anche quando la carta dell’arciere gli scagliò contro una decina di
frecce, si limitò a passeggiare per evitarle con calma snervante.
Atterrai sul castello e cercai un carta che mi potesse essere
utile, mossa sbagliata: una parte delle mura si sgretolò sotto di me e mi
salvai solo perché il potere della carta del volo era ancora attivo, decine e
decine di pietre cominciarono a volare in tutte le direzioni cercando di
colpirmi, alcune erano piccole come schegge mentre altre grandi quanto televisori.
Venni colpita ripetutamente prima di riuscire ad usare la carta dello scudo ed
atterrare senza troppi danni.
“Maledizione!” Lo esclamai, anzi, lo urlai. Ero stata colpita
al ginocchio e quasi mi accasciai. Cercai di farmi più piccola possibile mentre
le rocce si scagliavano sullo scudo nel tentativo di sfondarlo e quel momento
non avrebbe tardato.
Dovevo giocare bene le mie carte, in tutti i sensi: afferrai
la carta della piccolezza e le pietre di restrinsero fino a diventare sabbia e
quello fu il momento di prendere la carta della sabbia e la tecnica del mio
avversario gli si ritorse contro. Smise di fare il gradasso e si gettò a terra
mentre i proiettili di sabbia lo sfioravano di pochi centimetri disintegrando
alcune auto e facendo scattare l’allarme di altre.
“I miei complimenti” Pierfrancesco si scrollò la polvere di
dosso con calma indicibile, io ero dolorante e con il fiatone.” Sei quasi
riuscita a farmi spaventare. Non c’è male come inizio e comincio a comprendere
come tu possa essere arrivata fin qui.”
Non mi diede il tempo di respirare, mi ritrovai a correre per
evitare i frammenti delle auto di poco prima che mi piovevano addosso
infuocati. Non c’è altro modo di spiegarlo: il ferro non arde, era opera sua e
se uno di quei frammenti mi avesse colpito sarei stata sconfitta. Corsi fino a
che non trovai la carta dell’acqua ed invocandola evitai di essere colpita e
feci in modo che un mini tsunami si abbattesse sul mio avversario.
“Sei ripetitiva!” Ancora prima che l’onda lo colpisse era
scomparso e riapparso su di una torre del castello. L’acqua si ritirò e saltò
giù atterrando come se stesse scendendo da un gradino. Mi guardava con sfida ma
non osava avvicinarsi. Intuii che fosse specializzato in attacchi a distanza, nel
corpo a corpo era possibile vincere. Evocai la carta del vento per alzare
polvere ed acqua, in modo da disturbarlo, successivamente e in rapida sequenza evocai
anche le carte della lotta e della velocità: ancora prima che potesse
rendersene conto lo colpii con un pugno poco sotto il collo mandandolo a terra
dolorante.
Lo ammetto, non era una cosa che avevo fatto spesso, direi
che fu proprio la prima, avevo delle promesse da mantenere ed un padre in
pensiero che non desiderava vedere la sua figlia innocente dietro delle fredde
sbarre. Poteva avere tutte le ragioni del mondo per combattere ma avrei vinto
io, era il momento di crescere.
In che senso crescere? Fino a quell’avventura non avevo mai
buttato lo sguardo oltre Tomoeda, l’unica viaggio fatto era stato ad Hong Kong
e non avevo più sentito il bisogno di viaggiare, nemmeno di sapere cosa succede
oltre i confini del Kantō, nel
mondo, era un menefreghismo che non mi era mai pesato ma più camminavo in
Europa e più capivo quanto fossi stata stupida a nascondere le carte dove le
avevo trovate; non sapevo fino a che punto potesse essere schifoso il mondo,
non avevo mai pensato che avrei potuto usare le carte come un dono, un dono per
migliorare il pianeta e salvare delle vite.
La mano mi pulsava, non avevo mai colpito nessuno in vita mia
e soprattutto, nei film non fanno mai vedere che si fa male anche chi il pugno
lo dà, non solo chi lo riceve, ed a proposito di chi lo riceve, il mio
avversario si trovava ai miei piedi che tossiva e cercava di riprendere a
respirare; non era mia intenzione colpirlo così vicino al collo, volevo
colpirlo al volto ma per la velocità non ero riuscita a centrare il bersaglio.
Avrei potuto eliminarlo subito e porre fine al torneo,
vincere, mantenere le promesse.
Invece NO! Come una stupida mi inginocchiai per accertarmi
delle sue condizioni, mi sentivo in colpa per il fatto che non stesse riuscendo
a respirare. Ripensandoci ho fatto bene e non ucciderlo, penso non ne sarei mai
stata capace.
“Stammi lontana.”
Ricevetti un calcio, per il mio avversario era già abbastanza
umiliante essere stato atterrato in quel modo, figuriamoci ricevere le mie
cure. Si rialzò barcollante e con le lacrime agli occhi; non potei che
allontanarmi dato che il suo sguardo non era dei più rassicuranti, presi di
nuovo il volo e sperai di poter essere al sicuro a mezz’aria.
Fu allora che capii di cosa fosse davvero capace,
d’improvviso cominciò a grandinare, pezzi di ghiaccio grandi come ghiaia, non
avevo niente con cui ripararmi e non sto a dirvi quanto facessero male,
scendere significava mettermi in trappola. Non sapevo che carta usare:
ghiaccio, tempesta, scudo? Le presi in mano tutte e tre decisa ad utilizzarle
una dopo l’altra ma un dolore lancinante al braccio mi fece aprire la mano per
istinto e le vidi svolazzare verso terra. Avevo una fiamma sul braccio, la
spensi d’istinto con l’altra mano ma non era che l’inizio ed ancora lo sogno:
migliaia di chicchi di grandine infuocati precipitavano verso di me attirati
dalla gravità. Il fiato in gola mancò di colpo, l’adrenalina aumentò di
velocità e con un colpo di reni puntai lo scettro verso terra per scendere in
picchiata e cercare riparo.
Irina aveva ragione: era incredibilmente forte, forse non
avrei dovuto affrontarlo senza essermi prima preparata. L’acqua rimasta dal mio
attacco precedente prese fuoco - cominciavo ad odiare la semplicità con la
quale aggirava le leggi della fisica, sicuramente Newton si stava agitando
nella tomba – e di conseguenza non potevo atterrare: esitai e fu la scelta
peggiore che potessi fare perché Pierfrancesco ricambiò il mio pugno colpendomi
con uno schiaffo. Sentii il naso dolermi, come quando Rika Suzuki lo ruppe il
primo giorno di scuola, e il sangue colare sulla bocca e il collo. La grandine
in fiamme cadeva attorno a noi formando una prigione di fuoco dal quale non
vedevo via d’uscita, caddi dallo scettro e le fiamme sgombrarono l’asfalto,
sembrava proprio che volesse finirmi lentamente.
“Spada!” Fu la prima carta del mazzo e dopo aver recuperato
lo scettro lo trasformai e mi preparai a difendermi; barcollavo e bastò uno
spostamento d’aria a farmi cadere e perdere la mia arma. Ero finita, ne fui
sicurissima e chiusi gli occhi in attesa del colpo finale, per le regole del
torneo avevo ancora le forze per continuare e quindi l’incontro non terminò,
non provai a difendermi perché sapevo di non avere speranza di vittoria.
“Non osare arrenderti!” Le parole del mio avversario arano
molto minacciose ma cominciavo a prendere in considerazione quella possibilità,
anche se inutile: in caso mi fossi arresa, per la rabbia mi avrebbe finito lo
stesso.
“Come osi?!” A quelle parole alzai lo sguardo e vidi una
figura scura attraversare le fiamme con un gran balzo e raccogliere la spada,
si mise tra me e Pierfrancesco e gli puntò contro la spada in segno di sfida.
Solo quando Kerochan mi raccolse e allontanò dalle fiamme capii che si trattava
di Li. Udii il rumore di lame che lottano ma ero impossibilitata dal vedere ciò
che accadeva; venni portata in un vicolo vicino e Irina ci venne incontro con
il viso preoccupato: “Sei una stupida! Ti avevo detto avvisato.” Mi porse una
bottiglietta d’acqua e la mandai giù in appena due sorsi mentre Kerochan
tornava nella sua forma pupazzetto.
“Non è la vostra battaglia!” Figurai davvero fica mentre lo
dicevo, lentamente il cuore rallentò il battito, ero davvero esausta.
Un’esplosione squarciò l’aria e temetti per l’incolumità di Li, mi affacciai
nel vicolo e con mia sorpresa notai che le fiamme erano scomparse, c’era solo
cenere e i due combattenti uno di fronte all’altro, l’esplosione era stata tale
che in tutta la città gli allarmi delle auto cominciarono a suonare e si
udirono parecchi vetri andare in frantumi, speravo che nessuno rimanesse
ferito; a quel punto pensai a Tomoyo e Papà, il fragore li aveva ridestati di
sicuro e la mia amica, videocamera sotto braccio, stava correndo verso di noi,
figurarsi se si fosse fatta scappare uno scontro del genere.
Irina infilò delle garze su per le mie narici nel tentativo
di fermare il sangue, il dolore fu terribile ma la lasciai fare dato che potevo
recuperare un po’ di fiato.
“Li non resisterà a lungo!” Kerochan sembrava molto
preoccupato, lo presi per un orecchio e sparsi le carte in terra, avevo bisogno
che mi consigliasse. “Sbaglio o hai perso delle carte?”
“Mi sono cadute poco fa, renditi utile e consigliami cosa
usare.”
“Sei una incosciente…comunque se evochi nebbia, illusione e
fulmine potresti riuscire a prenderlo di sorpresa ma dubito che basterebbe.”
“A cosa serve questa?” Irina mise il dito sulla carta della
fantasia.
“Posso far apparire ciò che voglio!”
“Pierfrancesco è estremamente aracnofobico, alla vista di un
ragno diventa talmente nervoso che va in tachicardia: fai apparire una serie di
ragni giganti, per lo spavento abbasserà la guardia e potrai colpirlo.”
“Perché non lo hai detto prima?”
“Perché non pensavo che tu potessi far apparire dei ragni, mi
chiamo Irina non Nostradamus.”
Era un suggerimento prezioso come i diamanti ma il problema
sarebbe stato applicarlo: lo scettro lo stava usando Li e recuperarlo significava
mettermi tra i due. Raccolsi le carte e dopo averle rimesse in tasca mi
avvicinai allo scontro. Decine e decine di altre persone uscirono dalle proprie
case, alcune scappavano, altre si avvicinavano per godersi lo spettacolo. Come
aveva detto il mio avversario prima dello scontro, in quella città le persone
dotate di capacità magiche era più di quelle che mi aspettassi, tanto che una o
due volte dovetti farmi largo.
“Li, dammi lo scettro.”
“Ti sei già riposata? Non ci credo!”
“Smettila di fare l’idiota e dammi quello scettro, lo devo
sconfiggere io!”
“Ascolta la tua amica!” Pierfrancesco mosse le mani e
un’incredibile folata di vento scaraventò Li a terra facendogli perdere la
spada. Era il momento: scattai dolorante come non mai e grazie ad alcune
reminiscenze di Softball delle scuole medie scivolai come se dovessi fare punto
ed evitare il guanto avversario, raccolsi lo scettro e ringraziai la carta
della spada, evocai la Fantasia che fece apparire migliaia di tarantole intente
a circondare il mio avversario.
Irina aveva ragione: Pierfrancesco urlò come un bambino e
lanciò dalle mani fiammate isteriche in ogni direzione nel tentativo di
uccidere e scacciare i ragni. Ovviamente più ne bruciava e più ne creavo,
infine ne feci comparire tre giganti, tra i più schifosi che avessi mai visto
su Discovery Channel.
Era il momento: lasciai che, come suggerito da Kerochan, la
carta del fulmine lo colpisse più e più volte. Stanco e spaventato svenne
rovinando a terra, era finita.
Anche io crollai, Li e Kerochan si precipitarono per
assicurarsi delle mie condizioni mentre tutt’intorno la gente applaudiva e
gridava complimenti. Notai Irina che prendeva tra le mani il volto di
Pierfrancesco e si sedeva accanto a lui, gli accarezzò più e più volte le
guance sussurrando qualcosa che non riuscimmo a percepire, sorrise e fu
l’ultima volta che la vidi in quell’avventura.
“Sei stata grande, Sakura” Kerochan si trasformò nella forma
completa e Li, non senza arrossire, mi prese tra le sue braccia per portarmi
sulla groppa del guardiano; ero felice ma incredibilmente stanca, nascosi il
viso sul suo petto e presi sonno all’istante.
Quando le carezze di papà mi ridestarono dal sonno, per la
seconda volta mi ritrovai in un’ambulanza. Mi parlò dolcemente, con la voce
rotta dalle lacrime, e spiegò che eravamo diretti di nuovo al pronto soccorso,
sorrisi nel vederlo e restai sveglia per tutto il tempo che passai tra le mani
dei medici. Controllarono il naso, curarono le bruciature e le ferite, fu una
operazione lunga e dolorosa ma finalmente, per modo di dire, mi condussero in
una stanza della degenza donne, infine venni ammanettata al letto da due
Carabinieri.
La presi con filosofia: potevo finalmente dormire in pace ed
è proprio quello che feci, ameno fino all’alba quando il braccio cominciò a
dolere come se lo stessero amputando. Urlai e i due carabinieri entrarono nella
stanza ma non poterono fare altro che suonare il campanello per chiamare i
medici. Mi portarono in sala di medicazione e con mia sorpresa notai di avere
l’intero braccio nero, come se lo avessi immerso nella vernice, le mani dei
medici mi toccarono ovunque e dalle loro facce sembravano non sapere che mi
stesse succedendo, almeno non ero la sola; mi tolsero la maglietta e restai in
reggiseno, il nero stava avanzando sulla pelle come una chiazza di petrolio,
sotto i miei occhi il nero inglobò tutto il braccio con il segno del Torneo
Haab, successivamente toccò al seno e avanzò verso la pancia e il collo, più
avanzava e più faceva male, sembrava che mi scuoiassero con miglia di aghi. I
medici iniettarono un antidolorifico ma non fece effetto e finalmente i carabinieri
mi tolsero le manette, cominciai a dimenarmi finché non fui completamente nera.
Il dolore sparì di colpo e con la coda dell’occhio vidi fuori
da una finestra parzialmente chiusa che il sole stava sorgendo proprio in
quegli istanti; il mio cuore rallentò e i polmoni ricominciarono a respirare in
modo meno affannato, il sudore sparì e mi rizzai in piedi. Il nero cominciò ad
essere assorbito dalla mia pelle lasciando disegni della cultura Maya, non li
avevo mai visti ma ne comprendevo il significato, capivo perfettamente anche le
parole dei medici e dei carabinieri.
Iniziai ad udire tutto vicinissimo: le gocce nel lavandino
della sala di medicazione e il rumore dell’acqua nel resto delle tubature dello
stabile, il respiro dei pazienti dormenti dell’ospedale, i medici negli altri
reparti, il motore delle auto che passavano sulla strada e la loro autoradio,
il rumore della corrente elettrica che attraversa i cavi dei pali della luce,
le serrande dei primi bar che aprono la mattina presto, le persone della città
che si svegliano sbadigliando, i bambini che piangono durante la notte, il
russare di chi ancora dorme e i gemiti di chi fa l’amore la mattina presto, i
primi caffè nella moka e i primi cinguettii, le onde che si infrangevano sulla
spiaggia e il motore delle barche che tornano dalla pesca. Tutto era così vicino,
come se fosse nella stessa stanza; i medici e i carabinieri si muovevano lentamente,
quasi immobili, uscii nel corridoio, giù per le scale e all’aperto. Non avevo
ne freddo ne caldo, ero a piedi nudi e percepivo addirittura il calore che
proveniva dal centro della Terra; la luna e il sole, avevo la percezione di
poterli toccare solo allungando le braccia, niente più dolore, tutto ciò che
era intorno a me sembrava così normale e familiare come se fossi stata io a
creare ogni singolo atomo ed avevo voglia di farli miei, di percepire ancora di
più tutto ciò che era intorno a me: tolsi i vestiti e restai nuda, erano un
ostacolo per le mie percezione e fu quasi spaventoso sentire il vento sulla mia
pelle, trasportava da lontano miliardi di odori, sensazioni, granelli di
polvere ed ognuno di loro aveva toccato un qualcosa che si materializzava all’istante
nella mia testa.
Ero diventata ciò che mi aveva detto ‘Adel: ero un Dio.
Aprii le braccia ed andai nella stanza frigorifera
dell’obitorio, a Napoli. ‘Adel era li che mi attendeva ma non potevo ridargli
la vita. Perché? Conosco il perché ma non posso rivelarlo.
Lo scoprii da un involucro di plastica e lo abbracciai
nonostante fosse freddo come la neve. Non riuscii a piangere ma ne ebbi
un’incredibile compassione, come fossi sua madre, la mogie, la sorella, il
padre, una percezione della tristezza talmente forte da non riuscire ad entrare
nel mio cuore, come se fosse troppo grande rispetto all’entrata. Anche lui era
nudo e avevano eseguito sui suoi resti un’autopsia, se ne vedevano i segni.
Lo sollevai come fosse di gommapiuma e riapparvi in un
lussuosissimo soggiorno nel quale mi attendeva una donna anziana con il capo
coperto da un velo rosa finissimo, quasi invisibile. Al mio arrivo si inchinò e
ricambiai con un leggero movimento del capo; sembrava che mi attendesse da
molte ore e l’intera stanza era abbellito da bellissimi fiori e doni culinari
dal profumo afrodisiaco. Lasciai ‘Adel su di un divano della stanza e gli
baciai la fronte, quella della prima persona che mi aveva trasmesso pulsione
sessuale, voglia di accogliere qualcuno dentro di me e di non lasciarlo più
andare via, lui mi aveva trattato così bene, da principessa.
Sapevo che la donna era la madre e si rialzò porgendomi un
libro con la copertina di pelle verde e scritte arabe dorate riportante la
scritta Corano, mi bastò toccarlo per vedere la storia di quel libro
molto antico, storico cimelio di famiglia e oggetto inestimabile. Accettai il
gesto ma non potevo portare quel dono con me, mi congedai dopo aver dato
un’ultima carezza al viso del figlio.
Era arrivato il momento di andare in un altro posto importante
e riapparvi a Pompei per far tornare normale l’anfiteatro che aveva distrutto
Irina, fu facile perché bastò pensarlo e le pietre tornarono una ad una al loro
posto ; fu la volta poi di andare a Pripyat e apparvi sul punto più alto della
ex centrale elettro-nucleare. Mi bastò toccarla per vederne tutta la storia, la
sofferenza causata e quella futura. Rimuovendo la radioattività tutta in una
volta sarebbe parso strano ai governi e poco costruttivo, aprii le braccia e
pensai che da quel momento in poi la radioattività si sarebbe esaurita molto
più velocemente, in modo che Irina sarebbe potuta tornare con il figlio in
città.
Lasciai la scheletrica città Ucraina per apparire sulla Bab el Khadra, la Porta Verde, ingresso
della città vecchia di Tunisi, in Tunisia. Dovevo esaudire il desiderio di
‘Adel e sciogliere la promessa che ci eravamo fatti, sentivo che sarebbe dovuto
iniziare tutto in quel paese, aprii di nuovo le braccia e il suo desiderio fu
esaudito. Sorrisi e finalmente alcune lacrime sgorgarono dai miei occhi, mi
sentivo appagata e felice. Chiusi gli occhi e quando li riaprii ero di nuovo ad
Agropoli per rimettere in sesto la parte di castello crollato durante lo
scontro con Pierfrancesco e risolvere il problema che mi aveva trascinato fino
in Italia.
La missione era
compiuta. Mi ci volle davvero poco tempo per portare a termine quei compiti
perciò decisi di riapparire davanti Li. Potete immaginare la sua sorpresa nel
vedermi nuda, voltò lo sguardo e notai che aveva il viso rosso come il sangue,
mi avvicinai e poggiai la mano sul suo petto. Tastai i suoi sentimenti, era
come se fossero solidi e li tenessi in mano: vidi l’amore che aveva provato per
quella sua compagna di classe a Hong Kong e ne vidi anche la gioia dei momenti
che ci passò insieme. Capii che non sarei mai riuscita a donargli quegli
istanti a causa della nostra lontananza, non potevo riempirlo di baci come
faceva lei, fargli il solletico, rubargli le patatine al cinema o correre
insieme sul prato, mi sentii il colpa ad aver provato odio nei suoi confronti;
mossi le dita fra i sentimenti, trovai tristezza e vergogna vicino ai miei
ricordi, si sentì incredibilmente in colpa e triste per la distanza che ci
separava e per essersi abbandonato ad una ragazza che non fossi io. C’erano
anche confetti recenti - si, i sentimenti di una persona hanno le sembianze di
confetti colorati – erano rosa e portavano il mio nome, luminosissimi avevano
il sapore della gioia di stare anche solo di fianco a chi si vuole bene e di guardare
quella persona sorridere, uno però era quello della delusione, piccolo e scuro
rappresentava tutto il dolore che gli avevo procurato con la mia testardaggine
e stupidità, li accanto però, ce n’era uno rosso intenso, piccolissimo, e
profumava di miele, era l’odore dell’amore, di chi ama, lo presi e lo divisi
delicatamente in due per mangiarne una parte, era davvero buono, forse la cosa
più buona che avessi mai assaggiato.
Rimisi il resto
dei sentimenti a posto e indietreggiai di alcuni passi; la faccia disorientata
di Li l’ho sempre trovata davvero esilarante.
Avevo portato a
termine il mio scopo in Italia e allargai un’ultima volta le braccia per far
scorrere veloce quel giorno e al calare del sole tornai nella mia stanza
d’ospedale come se nulla fosse mai accaduto.
Riaprii gli occhi
che il sole era già sparito, in compenso c’era mio padre: “Piccola, come stai?”
Furono parole dolci e cariche di preoccupazione, non potei che rispondere lasciandomi
abbracciare.
Fui dimessa due
giorni dopo: gli accertamenti durarono più del previsto perché in seguito a
quella esperienza da dea i valori delle analisi schizzarono alle stelle
allarmando i medici; quando fui stabile venne a prendermi un furgoncino della
polizia penitenziaria e mi trasferirono a Salerno, insieme a me c’erano in
quanto minorenne uno psicologo, un interprete ed un medico. Potete intuire il
mio nervosismo, e vi sbagliate: ero incredibilmente calma, tanto che mi
addormentai beatamente durante il viaggio fino al retro del tribunale. Ancora
intontita scesi dal mezzo e accompagnata dentro fino ad una sala con un grande
tavolo di legno finemente levigato e varie persone sedute tutt’attorno. Presi
posto accanto allo psicologo e la interprete ed attendemmo l’arrivo del
giudice. Nel frattempo fece il suo ingresso papà, lasciarono che prendesse
posto vicino a me, il tutto sotto l’occhio vigile delle guardie dalla divisa
celeste.
Finalmente si
aprirono le porte ed entro un carrello con televisore e lettore DVD seguito dal
giudice. L’addetto che aveva trasportato l’apparecchio inserì un disco e fece
partire il filmato. Apparimmo io e Li nello stesso ambiente del filmato che ci
mostrarono a Tomoeda, solo che questa volta eravamo ripresi da una diversa
angolazione e ci mostrava intenti nell’evitare che il signor Suzuki cadesse
oltre il muretto.
Papà sospirò per
la lieta sorpresa.
Visionammo il
video più e più volte e ribadimmo altrettante volte che non mi ero mai spostata
dal Giappone nel periodo in cui sarebbe accaduto il fatto.
Dopo averci
ragionato su il Giudice si alzò in piedi e parlò in Italiano per alcuni minuti ed
in seguito si ritirò così come era entrato. Ci voltammo verso l’interprete
sorridente e ci spiegò che il Giudice aveva deciso di non rinviarmi a giudizio
in quanto il fatto non sussisteva, dovremo però dimostrare, tramite il mio
legale, che non avessi lasciato il Giappone in quel periodo.
Era una vittoria!
Il fatto era avvenuto a Luglio, sarebbe bastato mostrare le presenze
scolastiche del mese per essere definitivamente libera. Mi vennero tolte le
manette e dopo aver stretto la mano all’interprete e allo psicologo, potei
abbracciare mio padre in lacrime.
Napoli, tornammo
nella città partenopea quasi subito, non prima di aver visitato tutti insieme,
io, papà, Li e Tomoyo, Pompei. Fu una giornata bellissima, scattammo centinaia
di foto e registrammo video su video grazie a Tomoyo. La foto più bella fu
quella che ci fece uno dei custodi, ci riprese con il Vesuvio alle spalle,
attualmente è la foto migliore che ho in camera.
Una volta tornati
a Napoli sapevo ciò che sarebbe successo.
Li restò con noi
per altri due giorni; papà volle visitare l’Università l’Orientale e per caso
scoprì in una bacheca, che un suo libro era stato adottato in uno degli
insegnamenti, si informò e dopo aver incontrato il docente dell’insegnamento
venne invitato a partecipare alle lezioni della settimana; per Li non c’era
motivo di restare.
Quella furba di Tomoyo
finse di star male per due giorni e durante le lezioni di papà io e Li
visitammo la città. Fu una furbata incredibile da parte della mia amica ma quei
due giorni, non posso nasconderlo, furono bellissimi. Visitammo i castelli, i
quartieri spagnoli, le ville, i cimiteri monumentali, i negozietti artigiani,
la fontana del Bernini, e tantissimi altri posti, due giornate davvero
incredibili.
Sembrava come se,
con la fine di quella brutta vicenda, ci fossimo alleggeriti, non facevamo che
sorridere e scattare e riprendere grazie alla attrezzatura che ci prestò la
finta malata. Conservo gelosamente il video che mi fece Li mentre passeggiavamo
per la Piazza del Plebiscito.
“Sai, mi sento
come se mi mancasse la metà di qualcosa.” Li aveva detto la cosa più sensata di
tutta quella vicenda. Si era accorto di ciò che avevo fatto con quel confetto
rosso raccolto dal suo petto e sentii le mie guance avvampare. “Facciamo un
ultimo giro prima di tornare per cena?”
Io annuii e lo
seguii lungo le vie, era quasi ora di cena e il sole cominciava a tramontare,
il giorno dopo sarebbe partito in treno per Roma e da li avrebbe preso un aereo
per Hong Kong, aveva già tutti i biglietti sul comodino dell’albergo.
Passeggiammo
finché non sentii il cuore piangere, non mi sono mai chiesta se avessi fatto
bene a dividere quel confetto, Li era stato gentilissimo ad accompagnarmi,
sopportarmi, pagare le spese e salvarmi nell’ultima battaglia. Lo avevo
trattato così male da sentirmi un ladra, desideravo poter provare qualcosa nei
suoi confronti, qualcosa di bello e quel gesto del confetto fece da trampolino
a ciò che avvenne in quelle ultime ore insieme a Napoli.
Mi avvicinai e lo
acchiappai alle spalle stringendolo in un abbraccio quasi soffocante. Poggiai
il viso alla sua schiena e trattenni le lacrime, basta piangere; non sapevo
quando lo avrei rivisto, quando avrei potuto sentire di nuovo la sua mano nella
mia, il suo odore o anche solo parlargli guardandolo negli occhi.
Lui si immobilizzò
quasi all’istante, non si aspettava quel gesto ma era come se ci sperasse con
tutto se stesso. Restammo in quella posizione per alcuni secondi mentre la
gente ci camminava attorno senza badare a noi finché non si divincolò per
voltarsi ed abbracciarmi a sua volta: “Penso che così vada meglio.”
Quella sua frase
vi avvolse come altre due braccia e per far incontrare le mie labbra con le sue
non dovetti fare altro che alzare il viso e chiudere gli occhi.
Era la prima volta
che ci baciavamo in quel modo, la prima volta che assaggiavo le sue labbra in
quel modo, la sua lingue e quel suo abbraccio così stretto. ‘Adel aveva
ragione, lo avevo voluto con me per un motivo specifico, gli volevo troppo bene
per lasciarlo fuori dalla mia vita e sembrava che aver aspettato e ripensato
alla nostra situazione più e più volte avesse zuccherato le nostre labbra.
Ci lasciammo così.
Eh si, questa è la
vita reale, non ci potevamo amare stando così lontani, non a quell’età.
Lo vidi salire sul
treno e non lasciai il suo sguardo finché il vagone non cominciò a muoversi.
Non piansi, non risi, non dissi nulla per quasi due giorni e solo allora
realizzai di non averlo più intorno, di non sentire la sua presenza
rassicurante, invadente e snervante allo stesso tempo. Mi mancò tantissimo ma
non so’ dire se ci amammo in quelle ultime poche ore che passammo abbracciati.
Come sono complicate le cose quando si cresce, forse era meglio se avessi
deciso di far tornare indietro il tempo e vivere una seconda infanzia.
E’ tutto più
facile quando il gesto d’amore più profondo del nostro arsenale è quello di un
bacio sulla guancia.
Epilogo
Alicante. Spagna
mediterranea.
Scendemmo
finalmente dal treno dopo quasi tre ore e mezzo di corsa e Tomoyo fu la prima a
stiracchiarsi. Il sole estivo ci riscaldò per bene ridandoci il sollievo negato
dall’aria condizionata polare del treno, avevamo le ossa doloranti come delle
vecchiette.
Il tassista prese
i nostri bagagli e ci portò per le strade trafficate in un viaggio snervante
fatto di spunti e frenate continue fino ad una piccola piazza davanti ad un
imponente palazzo bianco in stile Liberty. Recuperammo i nostri trolley e dopo
aver pagato attraversammo la strada per goderci a pieno lo spettacolo che
avevamo intuito dall’auto. Un’enorme piazza rosa faceva da palco sul mare di
fronte al bellissimo porticciolo turistico con centinaia di natanti bianchi
ormeggiati, il loro moto era regolare e si muovevano tutti insieme con le onde
creando un effetto quasi ipnotico mentre dalla parte opposte, su di un monte,
il castello della città medievale sembrava godersi lo spettacolo di quelle
barche e delle campanelle che suonavano al vento. In molti fotografano la
costruzione e non potevamo non intuire che la notte sarebbe stato uno
spettacolo mozzafiato.
Dopo aver scattato
anche noi alcune foto, attraversammo nuovamente la strada e percorremmo alcuni
isolati, guidate dal cellulare di Tomoyo, fino ad una vetrina recante una
enorme scritta rossa TATOO.
Entrammo e ci
venne incontro un uomo con braccia e gambe tatuate, come se lo scopo primario
fosse stato quello di nascondere la pelle.
“Buenos dias, me
llamo Sakura y estoy buscando Irina” Il mio Spagnolo aveva un accento terribile
ma l’uomo capì ugualmente e mi sorrise: “Ahora està terminando un trabajo, si
no tienes prissa puedes esperar un ratito. Creo que terminarà en diez minutos.”
“Vale, gracias!”
Ci accomodammo
nella sala d’aspetto all’ingresso dello studio, aver studiato Spagnolo al
secondo anno di Università era servito a qualcosa, peccato che fosse la prima
volta che potevo davvero metterlo in pratica.
Si: universitaria!
Accompagnai Tomoyo
a Madrid durante le vacanze estive del mio terzo anno accademico, erano passati
alcuni anni dalla mia avventura italiana. Al ritorno in Giappone venni informata
di aver perso un anno di scuola e dovetti ricominciare l’anno successivo, nel
frattempo lavoricchiai in un ristorante vicino casa.
I miei incantesimi
da, per così dire, dea avevano dato frutto: la vicenda del signor Suzuki fu
chiusa come incidente, non era giusto ed è vero, ma questo donò un po’ di
sollievo a quella famiglia e strano ma vero, io e Rika andavamo talmente
d’accordo da uscire insieme dopo la scuola; per il desiderio di ‘Adel siamo
tutti a conoscenza della Primavera Araba, in quella parte di mondo si è
lottato parecchio in nome dei diritti e della democrazia, e si continuerà a
farlo per tantissimo tempo, spero che ‘Adel ne sia contento; per quanto
riguarda Pripyat è notizia recente che la radioattività è calata in modo
ragionevole, tanto che il governo permette visite più frequenti alla vecchia
città permettendo l’ingresso anche ai bambini.
“Vedo che ti è
cresciuto il seno, e che seno!” Irina apparve da dietro una tenda posta a
separare il laboratorio dalla sala d’aspetto. Fece il solito incantesimo per
permettere di parlarci.
Ci venne incontro
e mi abbracciò come una mamma fa con la figlia. Aveva il viso carico di gioia e
mi squadrò dalla testa ai piedi: “Sei diventata una donna meravigliosa, e dire
che quando ti ho conosciuto eri ancora una mocciosa!”
“Schietta come
sempre. Non è stato facile trovarti!”
“Mi sono spostata
molto in Europa ma alla fine ho aperto questo studio con mio Marito, piuttosto:
che cosa ci fai qui?”
“Spero che tu
ricordi ancora quegli schizzi che mi hai fatto in ospedale, ad Agropoli.”
“Certo.” Si scostò
i capelli biondi da davanti il viso. “Non dimentico mai un mio disegno: vuoi i
fiori di ciliegio, uno per ogni polso!”
“Esatto.”
Seguii la donna
che un tempo mi aveva quasi ucciso nel laboratorio e mi fece accomodare su di
una poltrona per prepararmi ad essere punzecchiata per bene.
“Ho chiamato mia
figlia, la secondogenita, come te!” Irina disegnò i fiori di ciliegio con un
pennarello rosso sui polsi interni di entrambe le braccia, era incredibile
vederla lavorare.
“Perché?” Non me l’aspettavo.
“Spero che lei
possa avere la tua stessa forza, la bellezza e la voglia di vivere che ho
percepito stando vicino a te. Sei una persona speciale ed hai dimostrato di
essere la persona dotata di poteri più potente oggi in circolazione. Altri si
sarebbero montati la testa ed avrebbero intrapreso la conquista del mondo, o
peggio. E’ un bene che abbia vinto tu.”
“Che fine ha fatto
Pierfrancesco?” In quel momento gli aghi cominciarono a delineare i contorni
del fiore destro, fece un gran male, il tatuaggio nei polsi è tra i più
dolorosi.
“Chi lo sa?! Penso
che sia da qualche parte in Turchia o India, se non a Torino, comunque in
qualche luogo carico di magia. Non l’ho più visto ne sentito. E tu? Il cinesino
che era con te?”
Non seppi che
rispondere e dribblai la domanda. A fine mattinata ebbi in regalo due splendidi
fiori di ciliegio nei polsi. Erano meravigliosi, sembravano così veri e quanto
si sarebbero cicatrizzati i dettagli delle ombreggiature li avrebbero rei
ancora più veritieri; i fiori mi avrebbero ricordato per sempre ciò che era
successo in Italia e il fatto che se si ha qualcosa per cui vale la pena andare
avanti gli sforzi prima o poi, saranno ricompensati.
So’ che volete
sapere di Li.
Siamo rimasti in
contatto, certo, ma non lo rividi fino al primo anno di Università, quando
venne per sbrigare alcune commissioni a Tokio. Questa è un'altra storia, molto
contorta ma che tengo nel cuore, dopo quella vicenda non lo vidi per molto
tempo ma ora è molto vicino.
Crescemmo e
acquisimmo esperienza lontani, in due realtà culturali diverse, e da un punto
di vista adulto fu giusto così. So che lo volete sapere, brutti maliziosi, e ve
lo dirò: non ho perso la verginità con lui e aggiungo anche che l’ultimo anno
di liceo ho avuto due ragazzi, per non parlare di quelli all’Università, una
volta ne tradii uno, fu una vendetta ed un po’ me ne vergogno ancora.
Magari fosse tutto
come nei film, eh?
Alla fine trovò
lavoro a Tokio, mi ha sempre raccontato che un giorno il suo capo entrò in
ufficio e gli chiese come avrebbe reagito se fosse stato trasferito in una
filiale nipponica. Era un lavoro come un altro, dice lui.
Quando ci
incontrammo per caso alla stazione di Shibuya non ci riconoscemmo subito ma ci
voltammo nello stesso istante dopo pochi secondi.