The LOST – Life Of Sunsheltered Tokyo

di Blackmoody
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** O1. Kiss The Rain ***
Capitolo 2: *** O2. Cigarettes & Alcohol ***
Capitolo 3: *** O3. Danny Boy ***
Capitolo 4: *** O4. Other Side Of The World ***
Capitolo 5: *** O5. Postcards From Heaven ***
Capitolo 6: *** O6. The Distance Between ***
Capitolo 7: *** O7. I Thought It Was You ***
Capitolo 8: *** O8. Damaged Goods ***
Capitolo 9: *** O9. I'm Gunnin' Down Romance ***
Capitolo 10: *** 1O. I Believe I Can Fly ***



Capitolo 1
*** O1. Kiss The Rain ***


BlackMoody’s Fanfics Corporation presents

 

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The LOST

Life Of  Sunsheltered Tokyo

 

 

 

 

 

 

O1. Kiss The Rain

 

 

 

“Che la pioggia sia dannata”.

Con un gesto di stizza, il ragazzo si tolse un ciuffo di capelli biondi dalla fronte: era bagnato fradicio, e aveva ancora una buona mezz’ora di cammino prima di poter arrivare a quella che era la sua destinazione. Imprecò di nuovo dentro di sé contro le nuvole che lo sovrastavano, rovesciandogli addosso la loro ira. E lui, a sua volta, covava una rabbia cieca contro di esse. Odiava la pioggia, quelle implacabili stille d’acqua che cadevano senza quasi far rumore; le stesse indifferenti stille che avevano assistito assieme a lui, in una notte di due anni prima, alla morte di suo padre. Erano piccole, leggere e letali, come proiettili. E il ragazzo le detestava con forza.

Una macchina, passando lungo la strada, sollevò uno spruzzo da una grossa pozzanghera, e lui fu costretto a ritrarsi contro uno dei piloni del ponte sotto il quale si accingeva a transitare, onde evitare di ricevere una doccia sporca e fuori programma: - Merda! Almeno fai attenzione ai pedoni, stronzo – borbottò tra i denti.

Avanzò di qualche passo, e si bloccò. Aveva intravisto, poco più avanti, la sagoma di quella che sembrava una persona accovacciata contro un pilone, una figura minuta e immobile, silenziosa. Lo era a tal punto che lo incuriosì, e il ragazzo le andò incontro, godendo al contempo del riparo che gli offriva il largo ponte.

Non c’era molta luce, lì sotto, ma capì subito che si trattava di un moccioso più giovane di lui, che sedeva per terra con le ginocchia piegate contro il petto e la testa reclinata sulle braccia sottili, con indosso soltanto un paio di jeans e un maglioncino leggero, come se fosse scappato di casa in fretta e furia. Si avvicinò ancora, credendo che l’altro stesse dormendo o fosse, addirittura, svenuto. Dovette ricredersi nel giro di un istante, poiché non appena sentì i suoi passi il bambino alzò il capo e lo guardò dritto negli occhi. Il ragazzo sussultò quasi: il viso del moccioso era pallido, e il mondo che li circondava era grigio e piovoso, eppure le iridi che lo fissavano erano calde e luminose, ambrate e grandi, benchè seminascoste da ciocche di capelli castani impastati di gocce.

Il bambino tirò su col naso: - Chi sei? – domandò. Aveva una voce incredibilmente tranquilla.

- Soltanto uno che passava per caso – rispose il ragazzo, asciutto – E tu? Non dovresti essere a casa tua? -

Che osservazione idiota, gli venne da pensare subito dopo.

- Non credo di avere più una casa – disse l’altro scuotendo le spalle esili.

- E non hai nessun altro da cui andare? -

Il ragazzino fece un cenno di diniego, senza smettere di guardarlo. Il biondo gettò un’occhiata attorno a sé: non c’era nessuno oltre a loro, lì, non transitavano nemmeno più macchine, e la pioggia continuava a scendere. Gli importava il giusto della sorte di quel moccioso, però non gli piaceva l’idea di abbandonarlo lì, non dopo averci parlato, seppur il minimo indispensabile. Non s’interessava più al prossimo, lui, ma fregarsene di questo bambino gli sembrava un crimine, un affronto verso gli occhi dorati con cui seguitava ad osservarlo.

- Quanti anni hai? – lo apostrofò di nuovo.

Quello gli sorrise timido: - Dieci. Li ho compiuti il cinque di questo mese –

- Non m’importa sapere quando sei nato – tagliò corto il ragazzo.

- E tu, invece? -

- Quindici – rispose sbrigativo. Poi gli tese, abbastanza riluttante, una mano: - Dai, alzati di lì -

Il bambino lo fissò stupito per un attimo, e infine afferrò la mano che l’altro gli aveva offerto; la sua era umida di pioggia e terriccio, e nonostante tutto tiepida. Si rimise in piedi e sorrise per la seconda volta:

- Io mi chiamo Goku. Son Goku – rivelò con una certa infantile, immotivata e gradevole soddisfazione.

Il biondo ritrasse la mano: - Hoshi Sanzo. Adesso seguimi – concluse, voltandosi per proseguire il cammino.

Goku non ribattè, si limitò ad obbedire, e gli tenne dietro con passo svelto. Forse era sconsiderato fidarsi così di una persona appena conosciuta, soprattutto nella situazione in cui si trovava, ma c’era qualcosa in quel ragazzo dai capelli chiari e lo sguardo di ametista amara che lo attirava e confortava.

Perciò si avviarono assieme lungo la strada deserta e battuta senza sosta dalla pioggia d’aprile.

 

 

La casa di Makoto Uehara, l’unico parente di Sanzo ancora in vita e amico di lunga data del suo defunto padre, si confondeva tra decine di altre abitazioni simili in un quartiere di periferia di Tokyo, una zona che, nei giorni di sole, si poteva considerare accogliente. Nei pomeriggi cupi, invece, incuteva una specie di soggezione: era immersa nel silenzio, con le vie strette rese meno plumbee dalle poche luci che filtravano dalle finestre e le case semplici, alcune tristi e vecchie.

Quella verso cui si diresse il biondino, per lo meno, era tra le migliori. Goku lo seguì fin sotto la veranda, e lo tirò piano per un lembo della camicia bagnata: - Perché mi hai portato qui? –

- Perché queste persone potranno tenerti con loro. È brava gente – spiegò Sanzo, sempre in tono piatto.

Il bambino sporse un po’ il labbro inferiore a mo’ di broncio: - Io vorrei restare con te – si azzardò a dire.

Il ragazzo fu costretto a reprimere una risata sarcastica. Si era bevuto il cervello, quel moccioso?

- Non mi conosci nemmeno, vedi di non sparare cavolate – lo freddò. Avvertiva un vago imbarazzo.

Goku gli lasciò andare il lembo di camicia: - Lo so che ti conosco da pochissimo. Però mi piacerebbe tanto –

Sanzo si chinò su di lui, cercando di apparire il più autoritario e ragionevole possibile:

- Ascoltami bene. Io non posso tenerti con me. Prima di tutto non mi pare una cosa sensata, e inoltre ho solo cinque anni più di te e non ho più una vera famiglia. Vivo alla giornata. Credi che potrei accollarmi una responsabilità del genere, cioè accudire un moccioso come te? Non posso, punto e basta -

Si girò senza aggiungere altro e suonò il campanello, mentre Goku sorrideva senza farsi vedere. Perché Sanzo aveva detto “non posso”, e non “non voglio”. Era una magra consolazione, ma gli fece piacere.

Attesero una manciata di secondi, e infine la porta si aprì, e un uomo piuttosto anziano comparve sulla soglia, avvolto in un tradizionale kimono da casa: - Sanzo? Come mai sei qui, oggi? – si stupì nel vederselo di fronte.

- Ho un problema, Uehara-san – esordì il ragazzo, scostandosi per indicargli Goku.

Makoto lo squadrò da capo a piedi, assorto, e annuì con fare grave: - Sarà meglio che entriate – commentò, facendosi da parte perché si mettessero al riparo nell’ingresso. Prima di chiudere la porta, però, guardò fuori a destra e a sinistra, come per accertarsi, per chissà quale motivo, che nessuno li avesse seguiti.

L’abitazione degli Uehara era senza pretese, e confortevole. Goku dette un’occhiata in giro con espressione quasi avida, non come se non avesse mai messo piede in un luogo accogliente, bensì come se fosse felice di trovarsi di nuovo in un ambiente che lo rendeva sereno; Sanzo, intanto, cercava di asciugarsi come poteva.

- Venite, venite, non statevene lì impalati – li esortò Makoto, invitandoli a seguirlo nel soggiorno – Non mi aspettavo una tua visita, ragazzo mio, credevo tu avessi ancora qualche commissione da sbrigare -

- Le ho infatti – confermò il biondo – Ma ci penserò più tardi. Non se la prenderanno -

L’uomo gli rivolse un sorriso senza allegria: - No, per adesso non se la prenderanno – mormorò. Si sedette su un vecchio divano e prese in mano una tazza di tè che doveva aver abbandonato per andare ad aprire la porta.

Sanzo si accomodò su una poltrona e Goku, temendo di sporcare la stoffa, si inginocchiò docilmente sul tatami, notando quanto fosse strano vedere mobili in stile occidentale in una stanza tipicamente giapponese.

- Veniamo al tuo problema, Sanzo – tornò a dire Makoto – Chi è questo bambino? -

- Non lo so. L’ho trovato sotto al ponte della Yamanote mentre venivo in qua. Si chiama Son Goku -

Nell’udire il nome, il volto dell’uomo parve adombrarsi, o rattristarsi, ma fu questione di poco. Sanzo, comunque, pur notandolo, fece finta di niente e proseguì: - Vorrei che lo tenessi con te –

Makoto e Goku si guardarono, poi il primo tornò a rivolgersi al biondino: - Ne sei sicuro? Per me va bene, e penso che mia moglie sarà d’accordo… del resto, sai che i nostri figli ormai stanno altrove, ci farebbe piacere… ma voglio dire, non è che preferiresti restare con lui? – indagò, cauto. Il bambino sospirò, speranzoso.

- Preferisco che stia con voi – ripetè Sanzo – Con me correrebbe più pericoli, e io non voglio grane -

L’uomo si sporse in avanti, preoccupato: - Pericoli? Che genere di lavori ti stanno già facendo fare? –

Il ragazzo alzò le spalle: - Non ho ancora ucciso nessuno, se è questo che vuoi sapere. Mi usano come spia, se serve, e soprattutto devo portare notizie e messaggi. Non mi piace lavorare per quell’italiano, però devo pur guadagnarmi da vivere – rispose senza scomporsi e guardando i vetri colanti d’acqua.

Makoto parve rincuorato e si riappoggiò allo schienale del divano, mandando giù un lungo sorso di tè. Goku non si azzardò a parlare. Quel signore gli stava simpatico e la paura provata prima di vedere Sanzo si era ridotta ad un pessimo ricordo, eppure avrebbe voluto lo stesso che il biondo lo tenesse con sé. Se qualcuno gliene avesse chiesto il motivo non avrebbe saputo spiegarlo, solo dire che “sentiva” che era così.

- Lo affido a te, dunque – sentenziò Sanzo, alzandosi in piedi. Doveva andarsene o avrebbe tardato.

- Puoi fidarti di me, ragazzo mio – lo rassicurò Makoto con un sorriso paterno – E anche tu, piccolo, stai tranquillo. Sono un vecchio burbero ma ho un cuore d’oro, garantito – disse con una strizzata d’occhio.

Goku ricambiò il sorriso: - Grazie, Uehara-san – mormorò. L’uomo lo guardò nuovamente con velata preoccupazione, seguendo un pensiero suo, e di nuovo non aggiunse altro.

Poi, annunciando che andava a telefonare alla moglie per avvertirla, si spostò verso la cucina, lasciandoli soli nel salotto. Per un po’ i due ragazzi non fiatarono, il silenzio che ticchettava di gocce ed orologi, e fu Sanzo a riprendere la parola per primo: - Ti troverai bene –

Goku mugolò per non sbilanciarsi: - Ti ringrazio – fece, a mezza voce. Appariva così fragile…

Sanzo chiuse gli occhi un momento, concentrandosi sulla propria parte fredda e razionale per non rischiare di venirsene fuori con frasi inopportune, ma era pur sempre un quindicenne che iniziava soltanto allora ad acquisire il cinismo necessario per resistere nel mondo cui apparteneva e non riuscì a comportarsi con l’indifferenza che si era augurato. Pertanto, s’inginocchiò di fronte al bambino e gli posò una mano su una spalla:

- Non potevo fare altrimenti – ribadì – Un giorno però tornerò, te lo prometto -

Goku incatenò per la seconda volta il proprio sguardo di ambra ardente a quello violetto e inquieto del biondino:

- Me lo prometti? Sul serio? Ti rivedrò? – chiese, incredulo.

- Tornerò a trovarti, sì. Prima o poi potrò farlo – confermò Sanzo, e si rialzò.

Il ragazzino lo sentì muoversi per raggiungere Uehara-san, nella stanza accanto, e li udì conversare piano, ma non capì bene quello che si dicevano e ricominciò quindi a curiosare con discrezione.

Il biondo, invece, scambiò le ultime parole di convenienza con Makoto, raccomandandosi di badare al moccioso e di salutare Ayako-san, sua moglie. L’uomo garantì che non lo avrebbe deluso.

- Sanzo – lo richiamò quando questi fece per dirigersi all’ingresso. Il ragazzo si voltò.

- Cosa c’è? -

- Abbi cura di te stesso. Sopravvivere in un mondo come il nostro, soggetto alle regole del clan, non è semplice. Sono certo che tu te ne sia già accorto, ma ti prego di una cosa sola. Non svendere il tuo cuore. Oh, sì – aggiunse, notando la smorfia di Sanzo – so che pretendi di non “averne” già più, e sai anche che non è vero. Puoi celarlo, serrarlo, soffocarlo, ma il tuo cuore t’inseguirà sempre. Qualunque ruolo ti affibbieranno in futuro, non gettarlo mai via. Tuo padre non lo vorrebbe, ed io nemmeno -

L’altro distolse lo sguardo, con aria vagamente e volutamente sprezzante: - Non ti capisco, Uehara-san –

L’uomo sorrise e agitò una mano: - Abbi cura di te stesso – ripetè – Arrivederci, Sanzo –

Questi chinò appena il capo e salutò a sua volta. Si rinfilò le scarpe umide ed uscì senza voltarsi indietro, ma una volta fuori gettò un’occhiata verso le finestre del soggiorno, intravedendo attraverso le tende la sagoma esile di Son Goku camminare lentamente per la stanza. Chissà se Makoto sapeva qualcosa su di lui… a giudicare dall’espressione che ad un certo punto aveva assunto, avrebbe giurato di sì.

“Che m’importa, in fondo?” si chiese all’improvviso.

Girò la schiena e si avviò giù per la strada, riprendendo ad imprecare mentalmente contro la pioggia d’aprile che sembrava penetrargli nelle ossa e nei pensieri al pari di quel paio d’occhi ambrati che, come non troppo tardi si sarebbe reso conto, lo avevano inconsciamente stregato.

Ma allora, certo, non poteva saperlo.

 

 

 

٭ First Chapter Ends ٭

 

 

 

 

 

 

 

Note dell’autrice:

ed ecco la tanto pubblicizzata nuova storia con i ‘Saiyukian’ come protagonisti ancora una volta. E ancora una volta, in un’ambientazione AU… me ne scuso con quanti preferiscono lo scenario classico, ma avevo un bisogno impellente di buttarmi in questo (ennesimo ^^’’) lavoro e non ho saputo (né voluto) trattenermi!

Come primo capitolo non è particolarmente lungo e, forse, ancora abbastanza ermetico, però garantisco che già dal prossimo spiegherò meglio svariate cose: cosa intendo con ‘clan’ (ma l’avrete capito, credo, sebbene non sia sicura che in Giappone usino lo stesso nostro termine), chi è “l’italiano” cui accenna Sanzo… Per i dubbi di Makoto-san, invece, dovrete attendere.

In ogni caso, che ne pensate? Spero davvero che vi piaccia e che continuerete a leggere… ne sarei contenta ^_-

Qualche curiosità: ho scritto questo capitolo tutto in una volta, in un paio d’ore, e adesso sono le 3 e un quarto di notte… ma si sa, il sabato sera è lecito fare queste pazziate, anche se si è appena tornati da una consueta uscita con la propria combriccola XP; ho lavorato col sottofondo musicale (immancabile ) delle colonne sonore dell’ Ultimo Samurai e di V for Vendetta, mentre al momento concludo sulle note di Ordinary World dei Duran Duran (rilassiamoci… *-*).

Il titolo del capitolo è ripreso dall’omonima canzone Kiss the rain, ma non ricordo di chi è… perdono!!

Grazie per aver letto fin qui. Alla prossima “puntata”, mi raccomando!

See you soon and go to the West! yours BlackMoody ~

 

Ps: tenete d’occhio la mia pagina di DeviantArt [ http://blackmoody.deviantart.com ].

I disegni a tema non mancheranno, e non mancano già adesso ^_-

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** O2. Cigarettes & Alcohol ***


The LOST

The LOST

Life Of  Sunsheltered Tokyo

 

 

 

 

 

 

O2. Cigarettes & Alcohol

 

 

 

La sveglia suonò con insistenza una, due, tre volte, e Sanzo si rigirò nervoso nel letto dando, nel frattempo, una pesante manata sull’innocente oggetto che faceva il suo dovere sul comodino lì accanto. Ma gli squilli non s’interruppero, e il biondo fu costretto ad alzarsi del tutto per capire, dunque, da dove provenissero: qualcuno stava scampanellando alla porta. La sveglia doveva aver suonato già da un pezzo.

- Arrivo, arrivo – bofonchiò Sanzo avviandosi ad aprire, senza curarsi di avere indosso solo i boxer.

Si ritrovò davanti un paio di occhiali lucenti e un giovane uomo bruno della sua stessa età, vestito con cura, che gli augurò il buongiorno con uno dei suoi soliti smaglianti sorrisi. Il biondo sbuffò.

- Hakkai, ti rendi conto di che ore sono? – lo aggredì.

Il moro rise appena: - Stranamente tardi, considerato che in casi normali ti alzi all’alba –

Sanzo sollevò un sopracciglio sottile: - Non fare sempre del sarcasmo, è irritante. Cosa vuoi? –

- Posso entrare? – e prima ancora che l’altro annuisse avanzò all’interno, recando con sé una ventata di aria calda. Il sole era già piuttosto alto e prometteva un’ennesima giornata di aria torrida. Mentre Hakkai si toglieva la giacca e si accomodava su una sedia della cucina, Sanzo andò a infilarsi un paio di jeans e a lavarsi il viso, rimuginando.

Cho Hakkai era così da quando lo conosceva. Gentile fino all’esasperazione, intelligente, fin troppo acuto, e assieme privo di scrupoli e remore se la situazione lo richiedeva; nessuno lo avrebbe indicato come membro di quella struttura spietata che era la Yakuza, eppure nel giro di pochi anni si era fatto strada tanto quanto lui, benchè in diversa direzione: Cho Hakkai era sfruttato principalmente per le sue doti intellettive e strategiche, non per la sua bravura nello sparare o nel maneggiare una katana o un pugnale.

L’assassino professionista, ormai, era Hoshi Sanzo, lo stesso che fino a nove anni addietro era un quindicenne che faceva la spola tra un boss e l’altro e si nascondeva pure nei cessi per spiare ed origliare.

Quello che uccideva era lui, e non andava poi così fiero. Ma era lavoro, e lo svolgeva senza ribattere.

- Un po’ di caffè? – chiese Hakkai porgendogli una tazza quando Sanzo tornò in cucina.

- Sei in casa mia – gli fece notare questi – Non dovrei offrirtelo io? -

- Già che c’ero… - si giustificò il moro, pacato. Aveva persino acceso la radio, e una sinfonia classica particolarmente famosa riempì la stanza. Sanzo scosse la testa, deciso a lasciar correre, e si sedette al tavolo.

Hakkai sorseggiò il caffè: - Ti chiedo scusa per essere piombato qui senza avvisarti. Ieri sera ho provato a telefonarti, ma non ti ho trovato. E non potevo aspettare il pomeriggio perché dobbiamo muoverci – disse.

Il biondo lo guardò in tralice da sopra l’orlo della tazzina: - Muoverci a o per fare cosa, dannazione? –

- Fujiwara vuole vederci – rispose l’altro – Dobbiamo andare da lui entro l’ora di pranzo -

- Fujiwara? – ripetè Sanzo in tono strozzato. Hakkai annuì senza parlare.

Il nome non era nuovo a nessuno dei due. Hiroki Fujiwara era il capo, il perno del clan, quello che dettava le leggi e gli ordini e che pochi avevano l’ardire di contraddire, come uno shogun dei tempi andati. Gestiva gli intrighi della yakuza dell’intero Kantō e controllava giri immani di denaro, e né Sanzo né Hakkai lo avevano ancora mai incontrato di persona. Il fatto che desiderasse parlare direttamente a dei suoi sottoposti era solitamente segno di sventura o, al contrario, di grandiose opportunità: eppure, i due amici lo avrebbero volentieri evitato.

- Perché vuole vederci? – incalzò il biondo, la fronte aggrottata.

- Non lo so. Rossini mi ha riferito soltanto il messaggio principale, ovvero quello di recarci all’Hotel -

Sanzo sbuffò per la seconda volta: - Rossini… non sopporto la sua boria – ringhiò.

- Silenzio, Sanzo… anche le tazzine nascondono microspie – sorrise Hakkai.

- Se c’erano, le ho bevute assieme al caffè – replicò secco lui, alzandosi – All’Hotel, hai detto? -

Il moro fece un cenno d’assenso: - Direttamente nell’appartamento di Fujiwara – precisò.

- Allora vediamo di sbrigarci – concluse Sanzo, e si avviò verso la propria camera per finire di prepararsi. Hakkai rise in silenzio, stando ben attento a non ricordare al compare che gli aveva detto esattamente la medesima cosa nell’arrivare. L’orgoglio di Sanzo Hoshi non aveva limiti.

L’orgoglioso in questione ricomparve una decina di minuti dopo, abbigliato come si confaceva all’occasione, la giacca nera in una mano e una piccola pistola argentata nell’altra. Hakkai le gettò un’occhiata:

- Non credo sia necessario che porti la tua Smith&Wesson – disse, ragionevole.

Il biondo la fece scomparire in una tasca interna: - Preferisco non esagerare con la fiducia – replicò.

Fece il giro dell’appartamento, spense la radio e chiuse le tapparelle, poi afferrò il mazzo di chiavi poggiato su una mensola dell’ingresso e si mise le scarpe; il moro lo imitò e attese che aprisse la porta.

- Sei venuto in macchina, Hakkai? – s’informò Sanzo, uscendo.

- No, ho preso la metropolitana, non avevo benzina -

La porta si chiuse con un colpo e il biondo inforcò un paio di occhiali da sole: - Prenderemo la mia –

Quindi si avviarono giù per le scale che conducevano al parcheggio del condominio, senza parlare.

 

 

L’Hotel in cui Hiroki Fujiwara aveva stabilito il suo quartier generale era, a tutti gli effetti, un ex albergo, tra i migliori di Tokyo: si trovava nella zona residenziale della parte ovest della città, e vantava un’architettura unica, mescolando stile giapponese e dettagli europei; Fujiwara lo aveva acquistato dopo l’abbandono dei proprietari caduti in rovina – c’era chi sospettava che ne fosse lui il diretto responsabile – e adesso si era trasformato nella sede centrale del clan. Era però molto raro che semplici pedine come Sanzo e Hakkai vi venissero invitate: era considerato un luogo d’élite e pressochè proibito.

Il biondo accostò la macchina al marciapiede con un’unica manovra, e i due scesero quasi di fronte alla grande porta d’ingresso. Alla destra di questa, oltre alla vecchia targa dell’albergo, spiccava un manifesto incorniciato che pareva pubblicizzare un locale: “Moon Indigo – aperto dalle ore 23.00 in poi. Welcome in.”. Una scritta dorata in campo nero, e più in basso il disegno stilizzato di un bicchiere da cocktail circondato da petali scarlatti.

- Ne sapevi qualcosa, tu? – domandò Sanzo ad Hakkai, indicando il manifesto.

Il moro lesse velocemente: - No. Ma credo esista da diverso tempo – rispose enigmatico.

Sanzo scrollò le spalle: - Non è importante. Entriamo e facciamola finita –

Salirono tre gradini e si ritrovarono nella fresca hall dell’albergo, mentre una sentinella si muoveva subito loro incontro. Si accertò che fossero davvero i signori Hoshi Sanzo e Cho Hakkai, poi parlò rapido al cellulare e infine chiese ai due di aspettare cortesemente lì l’arrivo di Akira-san. Quest’ultimo non si fece attendere troppo: comparve in cima alla scalinata che portava al primo piano e li salutò con un sorriso cordiale, stringendo la mano di entrambi quando fu loro vicino. Era un ragazzo di circa vent’anni, magro e dai capelli piuttosto lunghi, ed era il figlio di Fujiwara: - Mio padre vi sta aspettando – disse infatti – Vi prego di seguirmi –

I due giovani obbedirono, e salirono l’ampia scalinata tenendosi prudentemente al fianco del loro imberbe cicerone; camminarono facendo poco rumore attraverso i corridoi silenziosi dell’Hotel e si fermarono finalmente davanti ad una porta di lucido legno scuro. Akira sorrise e spinse giù la maniglia:

- Signori, accomodatevi – li invitò, più simile ad un maggiordomo che all’erede di tutta quella fortuna.

Sanzo e Hakkai, ancora, fecero come era stato loro detto ed entrarono nella stanza mentre il ragazzo richiudeva la porta. E a quel punto lo videro: Hiroki Fujiwara li attendeva in piedi, le mani incrociate dietro la schiena, guardando fuori da una finestra, ma si voltò non appena li sentì entrare. Era molto alto, dalle spalle larghe, e il viso affilato e intelligente lo faceva rassomigliare pericolosamente ad un falco intento nella propria caccia. Si mosse incontro al biondo e al moro, i quali s’inchinarono lievemente: - Fujiwara-san – lo salutò Hakkai; Sanzo invece non parlò. Non era capace, lui, di ostentare una gentilezza che non possedeva.

- Molto bene. Signori, sono contento che siate venuti così presto – esordì l’uomo, sorridendo.

- Abbiamo fatto quanto più in fretta potevamo – confermò il moro ricambiando il sorriso. Sanzo annuì.

Fujiwara fece loro cenno di sedersi sui cuscini che circondavano un basso tavolino dall’aspetto antico, e subito dopo li imitò, ordinando contemporaneamente al figlio di andare a chiamare qualcuno che li servisse con tè e sake. Akira uscì in silenzio, e suo padre riprese a parlare: - Immagino non sappiate il motivo per cui vi ho fatti venire qui. Innanzitutto, ritengo sia doveroso da parte mia accertarmi che siate a conoscenza di ciò che sta accadendo ultimamente – disse, scrutandoli con occhi penetranti.

- So quel poco che mi è concesso sapere – rispose Sanzo, sostenendo lo sguardo – Avete da gestire spostamenti più impegnativi del solito di merce e denaro, e pare che la polizia ci stia stranamente alle costole, stavolta -

Fujiwara sospirò, stizzito: - Esatto, Hoshi. Non ci hanno mai dato troppo fastidio, ed ecco invece che, proprio adesso, cominciano a fare il loro dovere – scoppiò in una breve risata sarcastica – Li trovo ridicoli ma, purtroppo, non posso permettermi di sottovalutarli. Per fortuna so a chi principalmente è dovuto questo repentino cambiamento –

Estrasse da una tasca della giacca una foto scattata con una Polaroid e la tese ad Hakkai:

- Cho, il compito che intendo affidarti è il seguente. Dovrai avvicinarti alla persona in questione e scoprirne piani, conoscenze, punti deboli e punti di forza, cose che dovrai puntualmente riferirmi. Non ti sto ordinando di uccidere nessuno – precisò, cogliendo l’espressione dubbiosa che si era dipinta negli occhi verdi del moro – Quello non sarà compito tuo. Sarai il nostro infiltrato. Del resto, quattro anni fa eri un detective al loro servizio, no? -

La bocca di Hakkai, per un istante, assunse una strana piega, prima di tornare a stendersi in un mezzo sorriso:

- Giusto. La persona su cui devo raccogliere informazioni è l’uomo della foto? – chiese.

- Sì. È il nuovo ispettore capo, si chiama Sha Gojyo -

Il moro si concentrò sull’istantanea. Il soggetto avrà avuto più o meno la loro età, sui venticinque anni, e un’aria talmente poco seria, con una sigaretta in bocca e i capelli lunghi di un incredibile colore scarlatto, da sembrare uno yakuza piuttosto che un poliziotto. Ed era anche, notò Hakkai stupito, molto bello.

Sanzo, che gli sedeva accanto, gettò un’occhiata svogliata alla fotografia e si accese una delle sue Marlboro rosse senza fare commenti; Akira rientrò nella stanza, seguito da un’anziana donna che posò sul tavolino tre tazze di tè fumante e una bottiglia di sakè freddo. Soltanto allora il moro si riscosse:

- Quando dovrò iniziare, Fujiwara-san? – volle sapere.

L’uomo sorseggiò il tè e poi rispose: - Oggi è sabato. Da lunedì andrà benissimo –

Hakkai chinò la testa, sistemando la foto dentro la propria agenda tascabile, e Fujiwara, soddisfatto, si rivolse a Sanzo: - Veniamo a noi, Hoshi. Non mi sono mai complimentato direttamente con te per l’eccellente lavoro che svolgi, e me ne rammarico. Sei il miglior sicario che il clan vanti da diverso tempo, e hai la stessa stoffa di tuo padre. Eravamo amici, sai, io e lui – disse, ma evitò di guardare il biondo negli occhi. Questi rimase in silenzio, e Fujiwara continuò: - Non ti sorprenderai dunque dell’incarico che sto per affidarti. Ci sono una quindicina di persone che hanno preso a collaborare con la legge, che sanno troppo, e sono perciò diventate obsolete. Sai come funziona, ormai. Dovrai ucciderle, tutte e quindici –

- Ovviamente – ribattè Sanzo, asciutto, la sigaretta tra le dita – Chi sono queste persone? -

Il suo interlocutore sorrise e si girò verso il figlio, in piedi accanto alla porta: - La scatola, Akira –

Il ragazzo prese un contenitore rettangolare di materiale nero e lo portò al padre. Fujiwara tolse il coperchio, mostrando ai due ciò che vi era sotto: più di una dozzina di lucenti proiettili dorati adatti ad una S&W.

- In ognuna di queste cartucce – spiegò l’uomo – ho inserito un pezzo di carta con su scritto un nome della lista. Del primo bersaglio ti dirò io l’identità, ma dopo, ogni volta che avrai eliminato una delle quindici persone, dovrai venire da me e prendere la cartuccia successiva. Guarderai il foglio, e poi userai il proiettile assieme agli altri -

Sanzo lo fissò in tralice: - Sta dicendo che non devo sapere in anticipo il nome delle vittime? Perché? –

Fujiwara chiuse la scatola con un colpo secco: - Limitati a fare il tuo lavoro, Hoshi. I ‘perché’ non servono –

Gli tese una cartuccia, informandolo che anche lui avrebbe iniziato da lunedì, e Sanzo fece subito scomparire il piccolo oggetto dorato in una tasca della camicia. Il discorso sembrava concluso.

L’uomo difatti si rilassò, e versò ai due un’abbondante dose di sake: - C’è un favore che dovrei domandarvi. Gradirei che vi trasferiste qui all’Hotel, per il periodo necessario allo svolgimento dei vostri compiti. Ho già fatto preparare due stanze, al piano di sopra, in cui trasferirvi oggi stesso. Potrete andare a casa a prendere quello che vi serve, dopodichè tornerete qui. È un modo come un altro per proteggervi –

Più che un favore era chiaramente un ordine indiscutibile, e i due si ritrovarono loro malgrado ad acconsentire, sebbene non avessero alcuna voglia di stare lì al quartier generale. La soddisfazione di Fujiwara fu tangibile.

Continuarono a bere e a fumare, mentre parlavano di argomenti leggeri, e solo quando giunse il momento di congedarsi Hakkai si sovvenne di una cosa: - Fujiwara-san. Il Moon Indigo… che genere di locale è? –

Fujiwara parve lusingato dalla domanda: - Non ci eravate mai venuti? È il più in voga tra i membri del clan, ormai. Lo feci aprire circa cinque anni fa, dopo aver consacrato l’Hotel a nostra sede principale. Mi chiedi di che genere sia, Cho… stasera fatemi compagnia e lo vedrete. La serata del sabato è la migliore – concluse.

 

 

Il resto della giornata trascorse velocemente, immersa nella calura estiva e nel frinire delle poche cicale che resistevano in città. Sanzo e Hakkai tornarono ai rispettivi appartamenti per raccogliere indumenti, armi, qualche libro e cd, e si recarono nuovamente all’Hotel, dove il solito Akira li aspettava per mostrar loro le stanze. Vennero anche a sapere che nel palazzo alloggiavano molti dei più stretti collaboratori di suo padre, oltre a lui medesimo, e che la maggior parte di “quelli come loro”, le pedine, vi capitavano in occasioni particolari o per passare un paio di serate al Moon Indigo; pure la “servitù” viveva lì.

Le stanze dove Akira li condusse erano in realtà due suites sfacciatamente enormi che, da sole, occupavano quasi metà del secondo piano: avevano il pavimento coperto dal tatami ed erano arredate in stile puramente giapponese, il che acuì l’impressione del moro di trovarsi nel castello di un potente feudatario dell’epoca Edo; le grandi finestre si affacciavano sull’ampio giardino interno dell’Hotel, e su un ben mimetizzato mobile a parete si trovavano alcune comodità moderne quali telefono, televisore a schermo piatto e frigobar; il bagno, meno antiquato, era vasto il doppio di quelli a cui Sanzo e Hakkai erano abituati. Inoltre, le due stanze erano comunicanti.

- Spero che vi troverete bene. Per qualsiasi cosa non esitate a chiamare i domestici – li salutò Akira prima di dileguarsi nel corridoio in penombra. Era estremamente disponibile pur essendo il figlio dello shogun, pensò Hakkai, ma non appariva poi così felice. Indubbiamente, non era capace di essere spietato.

I due presero possesso ciascuno della propria suite. Sanzo si sedette sulla pedana rialzata su cui stava il letto, cominciando a tirar fuori dalla borsa ciò che si era portato dietro. E nel frattempo, rimuginava.

Uccidere, uccidere, ancora uccidere. Uccidere per altre quindici volte come minimo, uccidere e avere conferma del fatto che tale azione non gli faceva né caldo né freddo: quando uccideva, lui era un automa. Sebbene suo padre fosse morto colpito da un proiettile, a lui non provocava repulsione l’usare una pistola. Forse era folle, come quegli assassini dei tempi andati che imparavano a conoscere e a non temere il sapore del sangue di cui si bagnavano le loro lame, ma non gl’importava: l’unico suo interesse era scoprire, un giorno, la verità, trovare colui o coloro che avevano ammazzato suo padre. E sfogava intanto la sua rabbia e il suo dolore sottraendo vite con indifferenza.

- Nobile Hoshi, gradite un goccio di sake? -

La voce pacata di Hakkai lo distolse dai suoi cupi pensieri. Il moro era entrato nella stanza passando per la bassa porta scorrevole che le univa, indossando un bel kimono bianco chiuso da una fascia verde.

- Nobile Cho, piantala con questa pantomima da samurai fallito – borbottò il biondo.

- Come siete scortese, nobile Hoshi – ridacchiò Hakkai – Allora, niente sake? -

Sanzo si alzò e andò alla finestra: - Preferisco una sigaretta –

Aprì il vetro in modo da far filtrare quel poco d’aria che soffiava all’esterno e si appoggiò alla parete, lo sguardo apparentemente perso tra le fronde scure degli alberi del vasto cortile; Hakkai si accomodò su un cuscino lì vicino.

- Ti stai pentendo di aver accettato l’incarico? – saltò su all’improvviso.

Il biondo lo fulminò: - Ma figuriamoci. E poi, avevamo scelta? – replicò.

- Hai ragione – convenne il moro con un sospiro – Nella nostra posizione è impossibile -

- Dimmi – proseguì Sanzo, fissando di nuovo il vuoto – Ti fidi di Fujiwara, tu? -

Hakkai sorrise senza allegria: - Per principio, non mi fido granchè di nessuno – rispose.

L’altro non ribattè, pur trovandosi d’accordo con ciò che il compagno aveva appena detto. In quel momento, la sua attenzione fu catturata dai riflessi delle carpe rosse e dorate che nuotavano nel laghetto del giardino e, inspiegabilmente, gli tornarono alla mente un paio d’occhi ambrati che gli erano rimasti nascosti tra le pieghe della memoria. Chissà perché, poi. Non aveva più visto il ragazzino, da quando l’aveva lasciato a Makoto-san quel giorno di nove anni prima, e non ci aveva nemmeno più pensato. Si chiese per quale motivo se ne fosse ricordato proprio adesso. “Come se me ne importasse qualcosa…” si costrinse a bofonchiare.

- Sanzo – lo chiamò Hakkai – Andremo allora a questo Moon Indigo, stasera? -

Il biondo si riscosse: - Ripeto, abbiamo scelta? Non ne ho assolutamente voglia, ma fa lo stesso –

- Bene, alle undici passo a bussarti – disse il moro, deciso, e con un cenno di saluto se ne tornò nella sua stanza, lasciando Sanzo da solo con le sue odiate elucubrazioni mentali che si perdevano nel fumo della Marlboro.

 

 

Hakkai fu estremamente puntuale – e non c’era da stupirsene. Alle undici precise si presentò alla porta, e i due amici si recarono con andatura indolente al piano terra dell’Hotel: il palazzo era molto più affollato di quel che avevano visto quella mattina, con un viavai di uomini più o meno giovani e di inservienti che si affrettavano lungo i corridoi e le scale recando vassoi e messaggi. La maggior parte della folla si concentrava sul lato destro della hall, dove, come Sanzo e il moro notarono subito, si trovava l’ingresso al tanto decantato locale, indicato da una scritta argentea e da due buttafuori che controllavano che gli avventori non recassero armi con sé. Quando giunse il loro turno, Hakkai riferì il nome suo e quello del biondo, e i due cerberi li fecero subito passare chinando addirittura la testa in segno di rispetto: - Fujiwara-san vi attende al tavolo dieci – disse il primo.

Il Moon Indigo era, in effetti, un locale notturno di tutto rispetto. Anch’esso in uno stile che s’ispirava alla tradizione, era decorato da drappi scarlatti, scritte, ventagli e antiche armi affissi alle pareti, illuminato da luci soffuse sistemate in maniera strategica e disposto su due livelli: nella zona rialzata, una specie di largo palco d’onore, stavano i tavoli, alcuni divani e i privés separati da tende sottili; la zona più bassa era occupata dal banco-bar, dall’angolo riservato ai musicisti, da altri divanetti e grandi cuscini, e al centro da quella che aveva tutta l’aria di essere una pista da ballo. C’era già molta gente, un brusio diffuso, e tra i tavolini si aggiravano una mezza dozzina di avvenenti camerieri, ragazze e ragazzi. Gli avventori erano principalmente di sesso maschile, e le uniche donne presenti erano chiaramente le mogli di taluni di essi. Sanzo sbuffò piano.

- Ah, eccovi, signori! Avanti, accomodatevi al nostro tavolo! – li interpellò a gran voce Hiroki Fujiwara.

Non era solo: con lui sedeva un uomo di poco più giovane, castano e occhialuto, di bell’aspetto ma dall’espressione sprezzante. Era Rossini, “l’italiano”, il braccio destro di Fujiwara. Salutò il biondo e Hakkai con un cenno del capo mentre questi prendevano posto accanto a loro e l’altro ordinava da bere per tutti e quattro.

- Che ve ne pare, dunque? – volle sapere Fujiwara, riferendosi al locale.

- Ci piace molto, ne conveniamo – rispose il moro per entrambi, sebbene Sanzo non avesse espresso alcun parere in proposito e se ne stesse in silenzio con lo sguardo corrucciato – È un interno di grande gusto -

L’uomo sorrise sornione: - Me ne compiaccio. E non avete ancora visto il pezzo forte – disse.

Rossini scoppiò in una risata: - E ne rimarrete positivamente colpiti, credo – aggiunse.

In quell’istante partì la musica. Il complesso ospite della serata attaccò un noto brano swing, nella penombra, e da due porte laterali al banco-bar che né Sanzo né Hakkai avevano notato prima uscirono diverse giovani donne inguainate in abitini che poco lasciavano all’immaginazione e che riprendevano la moda degli anni ’40: difatti, le ragazze iniziarono a ballare a ritmo della musica swingata del complesso, esibendosi in una specie di tip-tap più sensuale del normale. Erano tutte molto graziose, e dagli uomini seduti ai tavoli e sui divani si alzò un lungo applauso accompagnato da fischi di approvazione. Anche Fujiwara e Rossini batterono le mani compiaciuti.

- Devo dire che lo spettacolo è apprezzabile – commentò Hakkai sorridendo, ma il biondo capì subito che, come lui, il compagno non era rimasto poi così “positivamente colpito”.

Fujiwara lo squadrò ammiccando: - Abbiamo le signorine migliori del clan a nostra disposizione – spiegò, sebbene nessuno glielo avesse chiesto – Tutto merito di Rossini, che si occupa da anni della… faccenda –

L’italiano agitò una mano: - E certo voi non disprezzate la cosa – disse soddisfatto.

Sanzo evitò di intromettersi nella conversazione, concentrandosi sul bicchiere di gin tonic da cui stava bevendo. Trovava assolutamente squallida l’ossessione della stragrande maggioranza degli uomini per il sesso e per le belle donne che si offrivano loro senza problemi, e non si era mai entusiasmato di fronte ad occasioni simili, per quante gli se ne fossero presentate. Se non altro, la musica era trascinante e gradevole.

- Ma non ci sono solo le signorine, sapete? – proseguì Rossini – Molti, qui dentro, preferiscono… -

Un secondo applauso si levò dagli avventori: alle ragazze si erano ora uniti cinque ragazzi in pantaloni neri e camicia bianca, che si misero a ballare con movimenti sciolti e accattivanti al pari di quelli delle altre. Il pubblico esultò, mentre Sanzo e Hakkai si scambiavano un’occhiata perplessa.

- … loro. Cinque mocciosi dannatamente attraenti – terminò l’uomo – Siete sorpresi? Gran parte dei nostri li preferiscono alle donne. La ritenete una cosa da biasimare? -

Il moro fece un cenno di diniego: - Non vedo perché dovremmo – rispose affabile – Vero, Sanzo? –

Il biondo, però, non li stava ascoltando. Si tirò su in piedi di scatto, rischiando di rovesciare il bicchiere di gin tonic, e mosse un passo verso la pista, dove il balletto continuava. Guardò bene, e sussultò appena.

Rispetto a nove anni prima era cambiato in modo impressionante, eppure Sanzo ne era sicuro: il giovane al centro del gruppo, che si muoveva con inconsapevole languore, aveva un viso bello e dolce, ed era slanciato e ben fatto, sulla ventina, ma i corti capelli color castagna e i grandi occhi d’ambra erano inconfondibili.

Quel ragazzo era Son Goku.

 

 

 

٭ Second Chapter Ends ٭

 

 

 

 

 

 

 

Note dell’autrice:

orbene, siori e siore, sono riuscita a scrivere in tempi accettabili il secondo capitolo XP.

Se vi state già scandalizzando per ruolo che ho affibbiato a Goku non vi preoccupate, please, ha tutto un suo perché… e poi non posso farci nulla, l’influenza (anche minima) del sacrosanto Moulin Rouge! non mi abbandona mai! Comunque in questo caso l’idea m’è venuta ascoltando un paio di canzoni, più avanti vedrete quali… Sorry, sorry.

Ho presentato alcuni personaggi fondamentali: ovviamente Hakkai, poi Fujiwara, Rossini (l’italiano famoso – non prendetevela, non vuole essere cattiva pubblicità, è realismo ^^’’) e Akira, che sarà piuttosto importante; Gojyo stavolta fa “l’uomo della legge” (molto per dire ¬_¬), sì, per cambiare le carte in tavola. Presto farà il suo ingresso in scena!

Spero vi sia piaciuto pure questo capitolo… ho cercato di puntare particolarmente sulle atmosfere *me influenzata dai troppi film che vede* e mi auguro siano riuscite bene. E la storia… è entrata nel vivo *-*"

Aspettate la prossima puntata, e cominceranno anche maggiori interazioni tra Sanzo e Goku… (oooops!)

Grazie a tutte le bimbe che hanno commentato finora, continuate a seguirmi nell’impresa ^_-

Piiiiiiiccole (e inutili) curiosità: ho scritto il capitolo sulle note di alcune Ouvertures d’opera di Rossini – il compositore, non ci confondiamo XD – e della Sinfonia n.8 in sol maggiore di Dvořak; ora mi sto allegramente sparando in cuffia una sequela di brani jazz stupendosi… come espediente per rilassarsi son fantastici =ç=

La canzone del titolo, Cigarettes and alcohol, è degli Oasis.

Ci sentiamo alla prossima! yours BlackMoody~

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** O3. Danny Boy ***


The LOST

The LOST

Life Of  Sunsheltered Tokyo

 

 

 

 

 

 

O3. Danny Boy

 

 

 

- Qualcosa non va, Hoshi? – fece Fujiwara alle sue spalle, la voce incuriosita.

In effetti c’erano almeno due cose che non andavano bene, constatò Sanzo: prima tra tutte, l’aver ritrovato il moccioso in un luogo come quello, e poi… poi, il fatto che nel vederlo aveva avuto quella spropositata reazione. Perché era scattato in piedi? Perché aveva avvertito per un istante l’impulso di precipitarsi sulla pista e di trascinare il ragazzo via di lì? Cosa gl’importava a lui, fondamentalmente?

Ma non ne fece parola: - Niente. Ho solo notato una persona – rispose invece, mantenendosi sul vago e rimettendosi a sedere. Hakkai lo scrutò da sopra le lenti degli occhiali con espressione indecifrabile, mentre Rossini si accendeva una sigaretta e sorrideva apertamente al biondo:

- Vedo che il moretto ti ha colpito, eh – disse.

- Da quanto tempo è qui? – chiese Sanzo. Meglio stare al gioco, se voleva saperne di più.

L’italiano aspirò una boccata di fumo, pensoso: - Beh, da un annetto circa, forse meno. Lo abbiamo preso con noi quattro anni fa, e all’inizio ha svolto altri generi di lavori – lo fissò – Come facevi tu, ricordi? –

Il biondo annuì, mantenendo gli occhi d’ametista, freddi, puntati in quelli grigi di Rossini.

- Poi, date le sue potenzialità, abbiamo deciso di destinarlo qui al Moon Indigo – proseguì questi.

- E la sua famiglia? – intervenne Hakkai.

Fujiwara gli gettò un’occhiata strana: - Non ha famiglia. Ci ha riferito che i suoi genitori sono morti –

Sanzo incamerò l’informazione senza mostrare alcuna sorpresa. C’era molto che intendeva scoprire, però scelse di iniziare da argomenti meno compromettenti; avrebbe voluto chiedere perché il moccioso se n’era andato da casa di Makoto-san, eppure qualcosa dentro di sé gli suggerì di non parlarne con i due uomini.

- E cosa fa di preciso, qui dentro? – s’informò quindi. “Alla faccia della domanda idiota…”

Rossini ridacchiò di nuovo, provocando un discreto fastidio nel biondo: - Di tutto un po’. A volte serve ai tavoli, più spesso balla e intrattiene, come adesso, nulla di più… finora – fece una pausa, la cenere che cadeva dal mozzicone di sigaretta – Stasera dovrebbe iniziare l’altra attività collaterale cui si dedicano i suoi colleghi quando finiscono di esibirsi. Avrete capito cosa intendo, spero… -

- Certo, certo, mi sembra logico – si affrettò a rassicurarlo Hakkai con un sorriso tirato. Aveva il volto incupito, un’ombra strana negli occhi, come se le parole di Rossini gli avessero suscitato ricordi sgraditi. Sanzo però non se ne accorse: era troppo occupato a tentare di tenere sotto controllo il disgusto e la leggera rabbia provocategli dall’idea che il moccioso da lui aiutato sarebbe stato usato come un giocattolo lascivo, da quel momento in avanti.

- Questa è la sua serata di debutto in tal senso – s’intromise Fujiwara – Prima era soltanto un ragazzino, e nemmeno molto attraente. Ma ora… guardatelo – e fece un ampio gesto verso la pista lucida di luci.

Gli altri tre si voltarono, Sanzo compreso, suo malgrado. La musica adesso era più lenta, una sorta di walzer jazzato, e Goku ballava con una delle ragazze, per la gioia del pubblico eccitato: e se lei era bella, i lunghi capelli color mogano che si muovevano a ritmo, lui lo era ancora di più. Sembrava concentrato, e non certo felice.

Il biondo mandò giù un sorso di gin tonic, continuando ad osservarlo: si sentiva la gola secca.

- Un sacco dei miei uomini hanno già espresso il desiderio di trascorrervi la notte – disse Fujiwara in tono distaccato – Resta solo da decidere a chi andrà il privilegio di averlo questa sera -

Hakkai cercò, con scarso successo, di accogliere quell’ultima frase con una risata, mentre l’italiano seguitava a fissare i due ballerini con sguardo odiosamente interessato e Sanzo distoglieva il proprio.

Trascorsero una manciata di attimi, e infine, spinto da un impulso ignoto, il biondo parlò con voce decisa:

- Fujiwara-san. Lo lasci a me, per stanotte – proferì, sovrastando la musica.

Il moro spalancò la bocca, stupito, e due uomini sgranarono gli occhi con palese sconcerto. Ma non appena capirono che Sanzo diceva sul serio scoppiarono a ridere, e Rossini gli appioppò una sonora pacca sulla schiena:

- Ha gusto, l’hitokiri! – esclamò. Non mancava molto perché fosse ubriaco fradicio.

- Ti accordo questo favore solo perché sei tu, Hoshi! – rincarò Fujiwara, sorridendo soddisfatto.

Se i loro comportamenti lo infastidirono, il biondo non lo dette a vedere: un’idea stava prendendo piede nella sua mente, l’idea che gli aveva fatto esprimere quella richiesta. Ignorò le occhiate incalzanti di un Hakkai che voleva chiaramente capirci qualcosa e guardò Fujiwara per avere una conferma che non si limitasse ai commenti di cattivo gusto. L’uomo annuì: - Hai il mio permesso, Hoshi. Quando l’esibizione sarà finita, aspetta il ragazzo nel corridoio dei camerini. Puoi entrarci passando dalla porta dietro il banco-bar. Manderò qualcuno ad avvertirlo –

Sanzo piegò impercettibilmente il capo e non aggiunse altro. Rossini continuò, sempre più sbronzo, ad elogiare i pregi di intrattenitori ed intrattenitrici e a pungolare Hakkai affinchè anche lui reclamasse una compagnia, per quella sera, ma il moro si schermì con sorrisi e formule cortesi, ben mascherando un disagio crescente; Fujiwara parlò con diverse persone che, passando, si fermavano al loro tavolo, elegante e minaccioso, e il biondo si estraniò quasi del tutto dalle conversazioni che lo attorniavano: di tanto in tanto gettava uno sguardo in tralice alla pista, godendosi la musica per quanto gli era possibile, fumando e finendo con calma gelida un secondo gin tonic.

Verso le una gli spettacoli terminarono. L’illuminazione del Moon Indigo si abbassò ulteriormente, i jazzisti salutarono il pubblico e se ne andarono, mentre un cd di musica ambient ne prendeva il posto, e Hakkai e Sanzo convennero in silenzio che era giunto il momento di ritirarsi.

- Credo che me ne andrò a dormire – disse il moro – Vi ringrazio per l’ottima serata -

- Buonanotte – borbottò il biondo, asciutto.

Fujiwara e Rossini ricambiarono il saluto e li osservarono allontanarsi, l’uno verso l’uscita e l’altro verso il bancone al bordo pista: - Ci torneranno utili, non trovi? – fece l’italiano.

- Già – convenne il primo con un sorriso metallico – Meravigliosamente utili -

 

 

Il piccolo corridoio su cui si affacciavano i camerini era poco illuminato e spoglio, se lo si confrontava col resto dell’Hotel; dalle porte chiuse provenivano, un po’ soffocate, voci maschili e femminili, alcune allegre, alcune scocciate. Sanzo si appoggiò al muro con aria assente, in attesa che Goku uscisse da una delle stanze: si sentiva strano, quasi a disagio al pensiero di rivedere, dopo tutti quegli anni, il moccioso che aveva fondamentalmente abbandonato. Beh, era stata l’unica cosa sensata da fare… nemmeno lo conosceva. E non lo conosceva nemmeno adesso, eppure non si stava certo comportando in modo sensato, riflettè. Mise bene in chiaro la situazione con sé stesso: non aveva alcuna intenzione di portarselo davvero a letto, non l’aveva mai avuta. Lo faceva soltanto per evitargli una condizione ancora più spiacevole: ma si rendeva conto che non avrebbe potuto “coprirlo” sempre.

E il motivo per cui lo faceva gli appariva assolutamente oscuro.

All’improvviso, la porta alla sua sinistra si spalancò, gettando un fascio di luce giallastra sulla parete in ombra, e la figura del ragazzo si delineò sulla soglia, esitante. Sanzo tacque.

- Sei tu la persona che mi hanno indicato? – chiese Son Goku, il tono incerto.

Il biondo fece un passo avanti, così da entrare nel cono di luce e mostrare il proprio volto all’altro. Goku sussultò, sgranando quelle gocce d’ambra che erano i suoi occhi: - Tu… Sanzo…? – sussurrò.

Lo avrebbe riconosciuto anche in mezzo ad una folla immensa. L’immagine di quel viso chiaro, incorniciato da capelli di grano lucente, con le sue iridi d’ametista amara, gli era rimasta scolpita nella mente. Aveva atteso a lungo di poterlo rivedere, di ascoltare di nuovo la sua voce brusca e affatto sgradevole, ed ecco che se lo ritrovava di fronte proprio lì, in quel luogo, in quella situazione… non avrebbe voluto, però era felice che fosse lì.

Lo guardò meglio, e si sentì avvampare appena. Il quindicenne che quel giorno lo aveva aiutato era bello, ma l’uomo che lo osservava senza parlare era incredibilmente affascinante: i capelli più lunghi, il volto più duro, l’espressione sicura e scontrosa, il modo in cui si appoggiava al muro, la camicia nera un po’ sbottonata, le mani affondate nelle tasche… Tutto in lui lo attraeva, Goku se ne rese conto subito, e provò un dirompente imbarazzo.

- Sono io. Ti ricordi di me, vedo – disse Sanzo. Il tempo pareva fermo attorno a loro.

Il ragazzo abbozzò un sorriso: - Non ti ho mai scordato. Tu, invece… -

- Non è il posto giusto per parlarne – tagliò corto il biondo, chiudendo la porta alle spalle dell’altro.

La luce scomparve, lasciandoli al buio, e Goku ebbe un fremito di timore misto a desiderio.

- Vieni con me, muoviti – ordinò Sanzo con fare perentorio, e afferrandolo per un polso prese a camminare in direzione della porta in fondo al corridoio, quella che si affacciava direttamente sulla hall.

L’Hotel era completamente deserto, a quell’ora. Le sentinelle all’ingresso fumavano, parlottando tra loro, e c’erano pochissime lampade accese, le tende tirate da cui filtrava un alone di lampioni e luna. Il biondo guidò Goku su per le scale fino al secondo piano, dove si trovava la sua stanza, senza lasciargli il polso per un solo istante.

C’era un che di suggestivo ed estraniante nell’attraversare quegli ambienti silenziosi e in penombra assieme a quell’uomo bello e scostante, pensò il ragazzo col cuore piuttosto in tumulto. Sanzo non aveva risposto alla sua prima domanda, ma non c’erano molti dubbi sulle sue intenzioni. Immaginando ciò che sarebbe accaduto una volta arrivati nella camera del biondo, Goku avvertì le proprie guance farsi ancora più calde: per fortuna sarà con lui, si disse. Per fortuna sarà con lui.

Si fermarono davanti ad una porta scura, e Sanzo estrasse una chiave dalla tasca posteriore dei jeans, armeggiando con la serratura più a lungo del previsto a causa del buio. Il ragazzo attese, gli occhi fissi sulla sagoma dell’altro, e infine la porta si aprì, rivelandogli la stanza da letto più grande in cui avesse mai messo piede. Il biondo lo tirò all’interno, allentando finalmente la presa sul suo polso sottile; non accese alcuna luce, considerando più che sufficiente quella proveniente dall’esterno. Nella camera di Hakkai non si udiva alcun rumore e Sanzo si sorprese, nel gettare un’occhiata fuori dalla finestra, al vedere l’amico passeggiare quieto nel vasto giardino: non scorgeva il suo volto, e sapeva di dovergli un paio di spiegazioni. Non perché si preoccupasse per lui, no, semplicemente per evitarsi la seccatura di sentirsi rivolgere fastidiose domande o lezioni di vita.

- Sanzo… -

La voce di Goku lo costrinse a girarsi verso quest’ultimo, che se n’era rimasto in piedi in mezzo alla suite tormentandosi le mani: - Siediti. E non parlare troppo forte – gli rispose il biondo. Goku si accasciò sul bordo del letto con aria smarrita, e l’altro dovette fare inaspettatamente un notevole sforzo per non raggiungerlo.

- Dimmi, adesso. Perché diamine te ne sei andato dalla casa di Uehara-san? – esordì.

Il ragazzo alzò la testa: - Non me ne sono andato – disse – Sono loro che sono venuti a prendermi –

- Loro chi? Fujiwara e i suoi? -

- Fujiwara non c’era. L’ho visto qui per la prima volta. Vennero Rossini-san e altri uomini -

Sanzo si accese l’ennesim Marlboro della serata: - E perché sono venuti a prenderti? –

- Non lo so di preciso – mormorò Goku.

Spiegò meglio com’erano andate le cose. Circa quattro anni prima, l’italiano e una mezza dozzina di scagnozzi avevano bussato alla porta di Makoto-san: sapevano che teneva con sè un ragazzino senza famiglia, e Fujiwara aveva ritenuto opportuno verificare la sua identità e la situazione generale. Il vecchio Makoto non aveva potuto protestare, essendoci di mezzo il capo in persona, ed era andato a chiamare il giovane ospite, ansioso.

Quando Rossini l’aveva visto, Goku aveva notato un guizzo bizzarro attraversargli lo sguardo, e ciò si era ripetuto dopo aver appreso il suo nome, ma lui non ci aveva fatto troppo caso. Makoto-san aveva trattenuto il respiro.

« Il moccioso verrà con noi, Uehara » aveva proclamato l’italiano « Ultimamente abbiamo bisogno di braccia giovani che svolgano alcune commissioni. Visto che il tuo protetto è passato di ruolo… »

Non aveva accennato al Moon Indigo, e difatti per tre anni Goku ne aveva ignorato l’esistenza. Recapitava pacchi, messaggi, origliava, spiava, puliva pure se ce n’era bisogno, e osservava incuriosito quel mondo quasi crepuscolare dal quale si allontanava poco e nel quale, ignaro, veniva tenuto sotto stretto controllo. E non si lamentava. Ma poi era cresciuto, era diventato un diciottenne fatto e finito, e bello: se ne accorgeva da solo, guardandosi nei vetri e cogliendo le occhiate di molte persone, uomini e donne. Una sera era passato vicino all’ingresso del Moon Indigo, aveva sentito la musica, e si era messo, per istinto, a ballare da solo nella hall vuota. Aveva avvertito una strana sensazione, come di gioia, di liberazione, nel danzare, e si era avveduto troppo tardi della presenza di Fujiwara sulla scalinata alle sue spalle. Fujiwara che, con un sorriso quasi paterno e al contempo inquietante, gli si era avvicinato, complimentandosi con lui e proponendogli di mostrare al pubblico quella sua arte.

E Goku, come tutti gli altri lì dentro, non aveva potuto dire di no.

- Così mi sono ritrovato a fare quello che hai visto prima – concluse, a mo’ di scusa.

Sanzo lo guardava in silenzio, assorto. C’erano un paio di punti, nel racconto, che lo turbavano un po’.

- Ma ti assicuro che non ho mai fatto… altro – proseguì il ragazzo, sporgendosi verso di lui – Non ho mai voluto, e nemmeno vorrei adesso… beh, cioè… voglio dire, sono felice che ci sia tu! -

Il biondo scrollò le spalle: - Non ti sto accusando di niente – replicò con voce piatta.

Goku gli puntò le proprie gocce d’ambra nelle ametiste fredde: - Perché non sei più tornato a trovarmi? –

- Non ti avevo fatto alcuna promessa -

- Sì invece! Avevi giurato che l’avresti fatto -

- Ero solo un moccioso -

- Questo non cambia le cose – protestò l’altro – Perché, Sanzo? -

C’era della tristezza sincera in quella domanda. E il biondo, suo malgrado, ne fu colpito in pieno. Dacchè suo padre era morto, non aveva incontrato né desiderato incontrare qualcuno che amasse e ricercasse la sua presenza: mai, nessuno, se escludeva il ragazzo che gli stava di fronte. Lo aveva atteso per nove anni, e lo conosceva da un solo, misero giorno. Un giorno che significava tutto, prezioso come quelle sue stille d’oro ardente.

- Avevo troppe incombenze, e troppo difficili da sbrigare. E… - si bloccò - … nuovi ordini -

Goku non indagò oltre, appagato dal tono più morbido che Sanzo aveva, intenzionalmente o no, usato. Di nuovo trovò come ammaliante il fatto di essere lì con lui, in quella stanza che sapeva di legno, tabacco e stoffa pulita.

Quell’uomo gli piaceva. Non capiva in quale modo, ma gli piaceva tantissimo.

- Forza – saltò su il biondo – Vedi di dormire, adesso -

Il ragazzo lo fissò spaesato: - Dormire? – ripetè. Stava scherzando, forse…

Sanzo tirò fuori da una bassa cassettiera un kimono da notte e glielo lanciò:

- Non ho più voglia di chiacchierare. Sono stanco, perciò dormi e sta’ buono -

Goku strinse la veste tra le dita: - Quindi tu… io… noi… non… - farfugliò con imbarazzo.

- Nove anni fa ti ho salvato la pelle – disse il biondo – Questa notte ti ho parato il culo -

E non c’era traccia di ironia in quelle parole, benchè sottintendessero “in tutti i sensi”. Il giovane dai capelli castani arrossì ancora, deglutendo a vuoto e sentendosi un perfetto cretino:

- Ah, grazie… però ero convinto che… -

- Stai forse dicendo che ti dispiace che ti abbia portato qui solo per copertura? -

Il rossore aumentò a dismisura: - No! Non intendevo questo! – si affrettò a rispondere – Buonanotte allora –

Sanzo ribattè con una sorta di grugnito e si voltò verso la finestra mentre Goku si cambiava. Hakkai non stava più passeggiando, si era seduto sul bordo del piccolo lago e ne guardava i riflessi argentei.

Di lì a una manciata di minuti nella grande camera scese il silenzio. Il ragazzo si addormentò senza ulteriori storie e il biondo andò in bagno a lavarsi ed indossare anche lui uno di quei kimono chiari e setosi; poi tornò nella stanza e si accomodò su un cuscino, la schiena appoggiata alla parete, e si mise ad osservare Goku. Non intendeva dividere il letto con lui, eppure non poteva fare a meno di guardarlo: esile e indifeso nel sonno, perso in quel futon immenso, la bocca socchiusa e una mano adagiata mollemente nella sua direzione, il respiro lieve. Aveva l’espressione serena, diversamente da quanto aveva notato al Moon Indigo, e per un istante provò l’impulso pungente di alzarsi, andarsi a sdraiare sul letto e su di lui, e sentire così il calore di quel corpo sotto di sé. Fu un attimo, e bastò a lasciarlo stordito. Doveva essere colpa dell’alcohol, del caldo, della musica che gli riecheggiava sempre nelle orecchie, e dell’immagine di Goku che ballava tra le luci vaghe.

Si passò una mano sul viso, dandosi mentalmente della testa di cazzo: non gliene importava niente, non gliene importava niente, ripetè più volte, come in un mantra, scivolando nel sonno.

E al contempo era consapevole già del contrario.

 

 

 

 

٭ Third Chapter Ends ٭

 

 

 

 

 

 

 

Note dell’autrice:

mi stupisco della velocità con cui sto scrivendo questa storia… è che mi piace veramente da impazzire!

Terzo capitolo completato, più cortino di quel che pensavo ma spero soddisfacente… dato che Sanzo e Goku si sono finalmente rivisti. Se vi aspettavate già una lemon mi dispiace… dovrete pazientare ancora un po’ ^^’’’

Ne dovrà passare di acqua sotto i ponti, prima (e nemmeno troppa). Dal prossimo capitolo, difatti, iniziano le vere danze e si entra nel pieno dell’intrigo, sebbene già qui abbia inserito qualche elemento…

E per chi sta trepidando (Simoooo, sei in ascolto? XP) annuncio che apparirà anche Anna Dai Capelli Rossi… aka Gojyo.

È assolutamente ora di farlo entrare in scena! (altrimenti non mi diverto ♪ )

Graziegraziegrazie per i nuovi & ulteriori commenti, sono davvero contenta che stiate apprezzando il lavoro e che, comunque, abbiate le vostre “riserve” in merito a certi particolari… sennò che romanzo professionale sarebbe? ^_-

*la Black e il suo egopensantismo*

Come sempre, continuate a dirmi i vostri pareri, impressioni, tutto quello che volete, please!

Consuete Curiosità (CC): il titolo del capitolo non corrisponde a quello di una canzone, ma è una citazione presa dal brano Sewn dei The Feeling, che tornerà ad avere un discreto ruolo più avanti… Ho scritto il capitolo nel giro di due giorni, ascoltando principalmente la radio e un assortimento di musiche di film, e ora sto concludendo con i cuffia brani vari, da Song to say goodbye dei Placebo a Ai no heart, ai no hoshi dei Brilliant Green, passando per la favolosa Somewhere dei Within Temptation… e per Sole spento (*-*) dei Timoria.

E come al solito la postilla è più lunga del capitolo… Ci sentiamo alla prossima! yours BlackMoody ~

 

 

 

 

 

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Capitolo 4
*** O4. Other Side Of The World ***


The LOST

The LOST

Life Of  Sunsheltered Tokyo

 

 

 

 

 

 

O4. Other Side Of The World

 

 

 

La mattina seguente Sanzo si svegliò prima di quanto avesse temuto: il sole non era ancora sorto del tutto, e solo il cielo ormai chiaro, d’un azzurro sbiadito, avvisava dello spuntare del giorno.

Avendo dormito in una strana posizione, rannicchiato sull’ampio cuscino e con la schiena appoggiata alla parete, si sentiva maledettamente indolenzito, ma si rimise comunque in piedi nel giro di poco e si avvicinò piano al grande letto sulla pedana rialzata per chiamare il ragazzo. Doveva rimandarlo nella sua stanza prima che l’Hotel si animasse troppo. Goku dormiva ancora, con il volto così rilassato e innocente da dimostrare al massimo una quindicina d’anni, e il biondo se ne stette un po’ ad osservarlo, in silenzio ed immobile, prima di decidersi a chinarsi su di lui e a scuoterlo per una spalla: - Ehi, svegliati, moccioso – lo esortò.

Goku mugolò qualcosa, si smosse sotto le coperte, e infine sollevò le palpebre, puntando due occhi disarmanti e liquidi di sonno verso Sanzo e facendolo vacillare per un istante.

- Buongiorno… - mormorò con un sorriso timido.

Il biondo parve sul punto di restituirgliene uno, ma poi ritenne più opportuno allontanarsi dal ragazzo e riacquisire un certo distacco: - Alzati, forza. È bene che te ne torni in camera tua –

Goku si tirò su a sedere: - Ti ringrazio davvero tantissimo, Sanzo – disse.

- Lascia stare – borbottò questi con una scrollata di spalle – Ricorda comunque che non potrò coprirti di continuo. Se non vuoi fare certe cose sarà bene che trovi tu una scusa – lo ammonì mentre si accendeva una sigaretta.

- Farò il possibile. Te lo prometto – replicò il ragazzo con enfasi.

- Non importa che tu lo prometta a me – lo freddò Sanzo, perentorio, evitando di guardarlo.

Goku emerse completamente dal groviglio di coperte e lenzuoli e si piegò a raccogliere i propri abiti, che la sera precedente aveva posato alla base della pedana: - Scusami – sussurrò contrito. Se ne stettero zitti per alcuni minuti, il tempo necessario all’uno di rivestirsi e all’altro di fumare la prima Marlboro della giornata sforzandosi di tenere gli occhi fissi sul giardino oltre il vetro della finestra. Hakkai non c’era più: ed era ovvio, considerato che solo uno stupido avrebbe passato un’intera notte a riflettere sul bordo di un insulso laghetto artificiale.

- Spero che presto potremo stare di nuovo da soli, Sanzo – riprese Goku sorridendo.

Lui gettò la cicca nel posacenere: - Non dire cose che potrebbero essere fraintese –

Il ragazzo si avvicinò alla porta: - Non c’è niente da fraintendere. Sono felice che tu sia di nuovo nello stesso luogo in cui sono anch’io – affermò. Sanzo si voltò a guardarlo, sorpreso suo malgrado.

- A presto allora – si sentì dire in tono calmo. Vide Goku rivolgergli un altro bellissimo sorriso e uscire senza fretta dalla stanza, senza quasi fare rumore, come una tempesta discreta.

Si sedette pesantemente sul letto sfatto e afferrò il kimono bianco che il ragazzo aveva indossato per dormire, fissandolo come in attesa di una risposta che potesse stupidamente arrivargli da lì: perché lo aveva colpito a tal punto, pur avendolo incontrato due sole volte e a distanza di nove, lunghi anni? Assente, sollevò un lembo di stoffa e se lo portò al viso: vi era rimasto un buon odore, il profumo di Goku.

Fu la voce di Hakkai a riscuoterlo: - Sei pronto, nobile Hoshi? –

Sanzo allontanò di scatto la stoffa: - Bussa prima di entrare, dannazione! – esclamò.

- Ma io ho bussato. Sei tu che non te ne sei accorto – ridacchiò l’altro.

- Per cosa devo essere pronto? Non lavoreremo mica assieme, io e te – disse il biondo nell’alzarsi.

Hakkai si grattò la testa: - No, però ci tenevo ad augurarti buona fortuna. Il tuo compito è peggiore del mio –

Sanzo non rispose. Lui non faceva confronti tra i ruoli che si erano scelti, poiché tutto, in quel mondo, gli appariva naturale e al tempo stesso lo nauseava profondamente. Ancora con indosso il kimono da notte si premurò di recuperare munizioni e pistola da un cassetto, rammentando che avrebbe dovuto fare un salto da Fujiwara per farsi dire il primo nome della lista nera. Il moro seguì con lo sguardo, e infine parlò di nuovo:

- Ci tenevo a precisare che ieri sera non mi sono comportato in maniera strana a causa della tua decisione inaspettata. Sono soltanto rimasto sorpreso, se me lo concedi – sorrise.

- Tanto sorpreso da startene a rimuginare fissando una stupida fontana? -

- Non ho certo rimuginato su di te e sul ragazzo – replicò Hakkai – A proposito, come lo conosci? -

Il biondo aprì l’armadio a parete per prendere gli abiti: - Nove anni fa l’ho aiutato. Era solo un moccioso e se ne stava seduto al bordo di una strada, sotto un ponte, così l’ho affidato a Makoto Uehara. Non l’avevo più rivisto – fece una pausa, ripensando alla velata accusa di Goku a riguardo – Ovviamente tutto mi aspettavo, tranne che di trovarlo qui a dimenarsi su una pista. Non so nemmeno perché l’ho aiutato –

Chiuse l’anta scorrevole dell’armadio e si avviò verso il bagno. Hakkai annuì lentamente.

- Quindi non l’hai fatto per portartelo a letto – constatò.

Sanzo lo fulminò con un’occhiata: - Certo che no! – confermò stizzito. Anche troppo.

- Comunque è indegno che un ragazzo come lui debba prestarsi a simili attività – proseguì il moro, a mezza voce come se stesse parlando tra sé e sé – Ma credo che abbia ancora qualche speranza di non fare la sua fine -

Il biondo lo fissò: - La fine di chi? – domandò. Hakkai gli rispose con un ennesimo sorriso, stavolta tirato e stanco, e girò i tacchi avviandosi verso la porta di comunicazione che conduceva alla sua camera.

- Perché sei diventato un informatore al soldo della yakuza, tu? – incalzò Sanzo, immaginando che esistesse un nesso tra tale motivo e la frase ambigua che l’amico aveva appena pronunciato.

Il moro non si voltò: - Perché ho un debito da saldare – disse – A stasera – e scomparve oltre la soglia.

 

 

Le strade del centro di Tokyo brulicavano di gente, verso mezzogiorno di quel lunedì mattina. Uomini in completo nonostante il caldo e donne dall’aria annoiata che si spostavano tra gli uffici, ragazzini in divisa scolastica che occhieggiavano le vetrine invase dal sole, e anziani in veste tradizionale che camminavano lenti e composti gettando sguardi scandalizzati ai giovani visual e alle gothi-lol che sedevano ai bordi dei viali. E tra loro Hakkai, che osservava quel carosello umano con un leggero capogiro, non essendo più abituato a vivere e muoversi in un contesto normale: invidiava la maggior parte delle persone che gli passavano accanto con indifferenza, tranquille nella loro banale routine quotidiana. Ma non poteva, ovviamente, perdersi in riflessioni inutili. Aveva l’indirizzo della centrale di polizia e la foto di Sha Gojyo in tasca, e quelli erano i suoi obbiettivi. Non aveva idea di come avrebbe avvicinato l’ispettore dai capelli scarlatti, né di quale scusa avrebbe usato per iniziare ad entrarci in confidenza, e pertanto non intendeva fare programmi. Sarebbe andata come doveva andare.

Svoltò in una via laterale, dirigendosi con passo sicuro verso la sua meta, e all’improvviso si fermò: qualche metro innanzi a lui tre uomini stavano parlando ad alta voce, urlando quasi; due erano di spalle, uno più basso dell’altro ed entrambi tarchiati, l’atteggiamento bellicoso; il terzo aveva il volto in ombra, cosicchè Hakkai non riuscì a distinguerne i tratti. Avanzò nella loro direzione per capire cosa stesse accadendo, cauto.

- Sbirro di merda, cosa aspetti a levarti dalle palle? – stava sbraitando il tizio alto.

- Mi leverei anche dalle palle, se non fosse che voi due dovete seguirmi in centrale, idiota – ribattè l’uomo dal viso in ombra, l’inflessione sarcastica. Sembrava tremendamente sicuro di sé.

Il basso emise un grugnito sordo: - L’idiota sei tu. Mica credi che ti obbediremo, eh? – lo provocò.

Il poliziotto sorrise: - Avete proprio deciso di farmi già fare gli straordinari, allora. Coglioni… -

Successe tutto in un lampo. Il più alto dei due afferrò una sbarra di ferro rotolata sull’asfalto da chissà quale impalcatura e si scagliò contro l’uomo in ombra, che per fortuna scansò il colpo chinandosi: nel movimento i suoi capelli catturarono una striscia di luce, e Hakkai vide distintamente che erano del colore del sangue. Coincidenza o meno, però, non poteva comunque starsene con le mani in mano. Corse verso il terzetto mentre i due mettevano il rosso con la schiena al muro e si apprestavano a colpire una seconda volta, e bloccò in tempo il polso di quello che reggeva la sbarra di ferro: - Vi pregherei di non fare cazzate in pieno giorno, signori – disse soave.

- L’unico che sta facendo una cazzata, qui, sei tu! – ululò il basso, pronto ad assalirlo.

- Ripetitivo, amico – commentò il poliziotto, e approfittando di un suo momento di distrazione lo prese per un braccio, facendo scattare dal nulla un paio di manette. L’altro tentò di liberarsi dalla stretta di Hakkai, ma questi fece saltar via la sbarra dalle sue mani e continuò a tenerlo stretto finchè il rosso non lo ammanettò come il compare. Il moro sorrise con fare indulgente:

- Non si può proprio mai sottovalutare un semplice passante -

- Meno male che te lo dici da solo! – intervenne il rosso, passandosi una mano tra i capelli.

E Hakkai lo riconobbe: era il giovane dell’istantanea. Sha Gojyo in persona. Tra tutti i poliziotti della zona, aveva finito per aiutare proprio quello che era il suo obbiettivo. In fondo, era la cosa migliore che potesse capitargli: non aveva più bisogno di lambiccarsi il cervello alla ricerca di uno stratagemma, non doveva cercarlo oltre. Era lì di fronte a lui e lo scrutava con riconoscenza ed una certa complicità. Sarebbe stato facilissimo, d’ora in poi.

Il solo particolare che turbò Hakkai fu il sorriso che Sha Gojyo gli stava rivolgendo: seducente, non trovava altri termini per definirlo, e ciò lo lasciò vagamente perplesso. Perplesso e lusingato, in ogni caso.

- Ti ringrazio per avermi dato una mano – disse il rosso, tenendo per le braccia i due in manette che ancora imprecavano e si dimenavano – Me la sarei cavata comunque, ma ho apprezzato l’intervento – aggiunse con un occhiolino. Per essere un ispettore di polizia era davvero singolare.

Il moro scrollò le spalle: - Dovere, non importa che mi ringrazi – si schermì.

Sha Gojyo arricciò le labbra in una smorfia bonaria: - Ti ringrazio eccome, invece. E anzi, fammi portare queste teste calde in centrale e poi ti offro il pranzo per sdebitarmi – decise su due piedi.

- Ma tu non dovresti lavorare? – s’informò Hakkai. Troppa fortuna tutta assieme, pensò sbalordito.

- A dire il vero stavo smontando ora – rispose il rosso – Faccio un po’ quello che mi pare, sai. Però devo tornarci per forza, il tempo di sbrigare quest’incombenza che m’è capitata tra le palle. Vieni pure con me, eh! – e così parlando si avviò di buon passo nella direzione opposta a quella a cui doveva essere giunto, trascinandosi dietro i due malcapitati recalcitranti e seguito da un Hakkai pensieroso. Lungo la strada gli spiegò che aveva sorpreso quegli uomini a molestare una ragazza, lì nella via, mentre veniva via dalla centrale: nel vederlo, i due avevano distolto l’attenzione dalla giovane donna, che si era prontamente rifugiata in uno dei portoni – doveva essere casa sua – e lui aveva comunicato loro che dovevano seguirlo alla stazione di polizia; i due si erano opposti, iniziando a offendere e provocare, come anche Hakkai aveva visto, e da lì era nata quella sottospecie di rissa.

- Veramente una seccatura, di lunedì mattina! – rise il rosso alla fine del racconto.

Erano arrivati all’edificio che ospitava la centrale, ed insieme varcarono la soglia. Un cospicuo numero di agenti salutò Sha Gojyo con calore, e altri con una certa deferenza, e lui rispose a tutti quanti con il fare spaccone e trascinante che pareva caratterizzarlo. Il moro lo attese fuori da uno degli uffici, sentendolo discutere con un collega e riferirgli quanto era accaduto, la mente altrove: aveva un sacco di assi nella manica da giocare, e doveva giocarli al meglio. Ma non gli piaceva l’idea di ingannare così l’ispettore dai capelli di fiamma.

- Ecco qua, ho finito! –

La voce dell’oggetto delle sue riflessioni lo fece sobbalzare: - Ah, bene… - riuscì a mormorare.

- Allora, accetti il mio invito a pranzo? -

- Non mi conosci nemmeno… e sul serio, non devi scomodarti – protestò debolmente Hakkai.

Sha Gojyo sorrise: - Guarda che non mi sto scomodando. E comunque, dimmi il tuo nome, no? –

L’altro non potè fare a meno di restituirgli il sorriso: - Cho Hakkai – disse, una mano tesa.

- Sha Gojyo – fece il rosso, stringendogliela con vigore – Tutto a posto, adesso, no? Quindi andiamo -

Hakkai rise di gusto: - Certo che sei insistente! –

- Di norma lo sono solo con le belle donne. Per te farò un’eccezione – ribattè Gojyo ammiccando.

Il moro scosse la testa divertito. Era davvero, davvero singolare, quell’uomo. Ciò nonostante lo seguì di nuovo all’esterno, nell’afa del primo pomeriggio, osservandolo mentre si metteva in bocca una sigaretta di marca semisconosciuta e passava entrambe le mani tra i lucidi capelli scarlatti. Camminarono fino al viale principale, alla ricerca di un locale in cui mangiare: il rosso non amava i posti squallidi, a quanto pareva, perché alla fine lo guidò dentro una tavola calda di tutto rispetto – forse attratto anche dalle graziose cameriere.

Si accomodarono ad un tavolo vicino alla vetrata che dava sulla strada, godendosi l’aria condizionata e sfogliando distrattamente i menù. Gojyo parlava molto, in tono scanzonato, e questo mise Hakkai inaspettatamente a proprio agio, tanto che si ritrovò a conversare in completa tranquillità, come se si conoscessero da anni. Si vide comunque costretto ad inventarsi un lavoro e una situazione di vita che certo non aveva, dato che il rosso glielo chiedeva, e si dimenticò bellamente di estorcergli tra le righe informazioni preziose: non ripensò nemmeno a quale fosse il suo scopo di partenza. Ma in fondo, l’importante era creare i presupposti per un prossimo incontro, e allora sì che avrebbe avuto molto tempo per svolgere il compito affidatogli da Fujiwara. Da una parte era questo che lo spingeva; dall’altra, il puro e semplice desiderio di rivedere Sha Gojyo, così diverso da lui e così irresistibile. Irresistibile nella voce, nei gesti, nella risata schietta, nel suo essere oltre le regole e gli stereotipi. Era un ossimoro, notò Hakkai: l’uomo della legge appariva più fuorilegge dello yakuza in incognito. Gli venne da sorridere.

Finito il pasto si concessero un caffè corretto e una mezzora abbondante di ulteriore conversazione, restii ad uscire e ad abbandonare così quel paradiso climatizzato. Il rosso sfoggiò le sue doti di seduttore su un paio di cameriere, ma presto si stancò e tornò ad adagiarsi contro lo schienale della panca imbottita, fumando:

- Sarà bene andare adesso, tu che dici? – lo apostrofò.

- Già. Ci siamo stati un sacco, qui dentro – convenne Hakkai.

- Ma si sta talmente bene… - mugolò Gojyo, stiracchiandosi.

Per un po’ ci fu silenzio, mentre la radio passava una ballata degli X Japan – e nel sentirla il rosso sogghignò.

Fu il moro a riprendere la parola: - Ti ringrazio davvero per il pranzo, e ti auguro buon lavoro –

- Mh… Piuttosto, Hakkai, a me non dispiacerebbe uscire ancora per fare due chiacchiere -

L’altro battè le palpebre, colpito per l’ennesima volta: - Beh… nemmeno a me – si sentì rispondere.

Aveva la strada spianata, e l’aveva ottenuta senza sforzo. Eppure quello non gl’importava poi granchè.

Prese un tovagliolo di carta e vi scarabocchiò sopra una sequenza di cifre: - Il mio numero di telefono –

Gojyo si rigirò il foglio tra le dita: - Cellulare? Non hai un numero di casa? – chiese incuriosito.

- Certo, però ci sono raramente – disse Hakkai senza scomporsi. Facile inventare scuse innocue.

- Ti chiamerò, allora – concluse il rosso sorridendo.

Si alzarono, e avendo già saldato il conto si diressero subito alla porta, lamentandosi per la calura e il marasma di folla che li attendevano in strada. Si salutarono, già piuttosto complici, e infine Hakkai s’incamminò verso il parcheggio in cui aveva lasciato l’auto. Gojyo lo guardò allontanarsi, senza distogliere gli occhi fin quando gli fu possibile vederlo. Poi sorrise appena, s’accese un’altra sigaretta e se ne andò dalla parte opposta.

 

 

Un semplice, stupido proiettile dorato, e un’altra vita se n’era andata. Sanzo osservò la Smith&Wesson che ancora stringeva nella mano destra per diversi minuti: aveva tolto di mezzo il primo uomo della lista nera di Fujiwara. Gli era bastato un colpo, visto che la vittima gli dava le spalle quando era arrivato e si era accorta di lui solo all’ultimo momento. Era uno yakuza di circa quarantacinque anni, losco come pochi, che il biondo sapeva essere stato, tempo addietro, collaboratore di Fujiwara; ma essendo divenuto, poi, collaboratore anche di un clan rivale, era logico che avessero pensato di eliminarlo. Sanzo si era abituato a queste cose, in quegli anni, ed era comunque grato – a suo modo – al fatto di dover uccidere esclusivamente elementi del loro stesso stampo, e non famiglie, o donne, o persone che non se lo meritavano: quello lo facevano altri, e spesso si chiedeva chi.

Sbuffando fece sparire la pistola in una tasca interna della giacca, che si tolse con un gesto brusco e gettò sul sedile posteriore dell’auto. Il sole si avviava a tramontare ed era ora di tornarsene all’Hotel: per raggiungere la vittima aveva dovuto guidare fino all’estrema periferia nord di Tokyo e gli ci sarebbe voluto un po’ per rientrare.

Durante il tragitto non si domandò come fosse andata la giornata di Hakkai. Era di cattivo umore, più del solito, e non gl’importava di nessuno. Una volta all’albergo si sarebbe concesso una doccia fredda e sarebbe rimasto in camera fino al giorno dopo: non voleva vedere anima viva.

Il cielo ad ovest era infuocato, foschioso, e il disco solare appariva sanguigno e opaco, cosa che certo non migliorò il suo umore. Di sangue se ne trovava sempre troppo davanti a sé. Adesso come undici anni prima.

Il tramonto cedette il passo al crepuscolo, con le luci della città che si facevano via via più chiare nell’aria indaco della sera, e finalmente il biondo entrò nel cortile laterale dell’Hotel, adibito a parcheggio. Le finestre da quella parte dell’edificio erano tutte buie, ad eccezion fatta per una al terzo piano: vi brillava una luce bassa e calda, oltre i vetri spalancati, e Sanzo riconobbe Goku nella sagoma scura che vi stava affacciata. Il ragazzo guardava il cielo, o almeno così gli sembrò di scorgere, il mento appoggiato sulle mani chiuse, e dalle sue spalle giungevano le note sommesse di una qualche canzone. Doveva essere camera sua, pensò il biondo, soffermandosi ad osservarlo per un paio di minuti in perfetto silenzio. Quando poi si allontanò fece scricchiolare il ghiaino sotto le scarpe, ma non si voltò per assicurarsi che Goku non l’avesse visto: se si era accorto di lui, tanto meglio.

Costeggiò l’albergo dal lato dell’ingresso principale e vi entrò rapido, le mani affondate nelle tasche. Non si accorse di Fujiwara, che scrutava la strada da dietro le tende del suo appartamento e che fece nuovamente uno di quei suoi sorrisi metallici in direzione di Sanzo. Ma questi nemmeno ci pensò, e si chiuse nella suite come s’era ripromesso, l’immagine del ragazzo che tornava ad apparirgli suo malgrado davanti agli occhi.

 

 

 

٭ Fourth Chapter Ends ٭

 

 

 

 

 

 

 

 

Note dell’autrice:

wow… mi stupisco ogni volta di più della celerità che sto dimostrando nello scrivere questa storia XD!

Mai successo… sarà che mi ha preso veramente, ma veramente tanto.

Insomma, ecco anche il quarto capitolo: Gojyo ha fatto la sua entrata in scena, come promesso, e mi auguro di averlo reso bene… sapete com’è, sono più abituata a trattare di Sanzo e Goku che non del kappa e di Hakkai ^^’’

Però mi piace molto farli muovere “sul palco”. Ditemi voi se almeno ci riesco in modo decente…

E a proposito, come sempre graziegraziegrazie per recensioni & commenti (in diretta o meno XP): ormai non vi dico nemmeno più di continuare a seguirmi nell’impresa! Ah, beh…  l’ho detto lo stesso… (baka onna! – ndTutti)

Riguardo al prossimo capitolo posso annunciarvi che probabilmente si tratterà in maggior parte di un flashback; ho aggiunto quel “probabilmente” perché per una volta non ho lo schema di ogni chap già pronto… come viene viene *_*

Ma l’idea c’è, quindi credo che farò come ho pensato.

CC [Consuete Curiosità]: la background music di questo capitolo è passata da brani di Andrea Guerra (da film come La finestra di fronte, Cuore sacro e Che ne sarà di noi), un album di Sting (The Best Of Sting And Police), quel pezzo meraviglioso che è Sewn dei The Feeling ed si è conclusa con una passata di songs di Michael Bublè.

Il titolo del capitolo è quello della canzone di KT Tunstall.

Bene, a questo punto chiudo i battenti! Appuntamento alla prossima “puntata”. See you soon and go to the West!

yours BlackMoody~

 

 

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Capitolo 5
*** O5. Postcards From Heaven ***


The LOST

The LOST

Life Of  Sunsheltered Tokyo

 

 

 

 

 

 

O5. Postcards From Heaven

 

 

 

C’era una volta un tempo in cui la famiglia Hoshi viveva felice. Quando Sanzo era soltanto un bambino e ancora sorrideva, e sua madre gli carezzava la testa e lo abbracciava all’improvviso facendolo ridere: ricordava così poco di lei! I capelli corti e scuri, diversissimi da quelli del marito, e gli occhi color ametista come i suoi; probabilmente era bella, lo vedeva nelle foto, ma non era mai riuscito ad interessarsi troppo alla bellezza femminile.

Suo padre era cambiato di poco, durante quegli anni, sempre gentile e dolce. Era diventato solo più triste e silenzioso, dopo la morte di lei. Uno stupido incidente d’auto, tutto lì. Un tutto qui abbastanza gelido da devastare.

Sanzo aveva cinque anni, allora. Aveva iniziato a regalare di rado sorrisi, a stare da solo. Lui e suo padre, per molti mesi, si erano quasi evitati, la tristezza e il senso di colpa che gravavano su di loro come nebbia, mentre la grande casa si faceva più fredda, più buia, riempita dal coro di condoglianze di parenti, amici, colleghi, conoscenti.

C’era anche Hiroki Fujiwara, tra essi, il volto tirato e pallido, l’unico che riuscisse a parlare con Komyo.

Era andata avanti così per un po’. Poi, un giorno, complice la pioggia d’autunno, padre e figlio s’erano ritrovati seduti assieme, involontariamente, sotto la veranda sul retro, l’uno fumando la pipa, l’altro leggendo un libro. Non avevano parlato, almeno finchè Sanzo non era balzato in piedi, scendendo tra l’erba e rimanendo in piedi, immobile, a lasciare che l’acqua lo bagnasse completamente: ad un tratto si era girato a guardare il padre, una leggera aria di sfida dipinta negli occhi, e Komyo l’aveva imitato. Entrambi fermi e bagnati, infreddoliti, senza muovere un muscolo né rivolgendosi parola. Ma alla fine, l’uomo si era voltato verso il figlio, scuotendo i lunghi capelli biondo cenere intrisi di pioggia e sorridendo; Sanzo aveva ricambiato l’occhiata.

« C’è qualcosa che volevi dirmi? » aveva chiesto Komyo.

« E tu? » aveva replicato il bambino.

L’uomo aveva addolcito la propria espressione, già malinconica: « Tutto ciò che non abbiamo detto finora » era stata la risposta « Siamo rimasti solo io e te. Che senso ha se ci perdiamo pure noi, Sanzo? »

Non avrebbe avuto un senso, no, questo anche lui lo sapeva, e non voleva che fosse così. Pertanto si era avvicinato al padre e l’aveva abbracciato di slancio, le braccia intorno alla vita – poiché più in alto non arrivava; Komyo l’aveva tirato su e stretto a sé, ed erano rimasti così, padre e figlio, sotto la pioggia d’autunno.

E da quel momento, le cose avevano preso lentamente a migliorare.

La tristezza aveva ceduto il passo alla nostalgia, la nostalgia all’abitudine, finchè il ricordo di Mizuki Hoshi non era divenuto una presenza rassicurante per entrambi. Sanzo crebbe, rivelando un carattere non certo semplice da trattare ma onesto e indipendente e non ancora tanto scostante da impedirgli d’intrattenersi, nelle lunghe serate in cui se ne stavano in casa, in conversazione col padre, imparando molte cose. Apprese proprio in quelle occasioni che Komyo aiutava spesso e volentieri l’amico Hiroki Fujiwara nel suo lavoro: quale esso fosse, per il bambino restò per anni un mistero, e nemmeno se ne interessò troppo. Suo padre stava bene, non c’erano problemi, e poco lo preoccupava. Piano piano, poi, conobbe l’esistenza del “clan”, seppe che Fujiwara era un pezzo grosso e si rese conto che non tutto quello in cui era coinvolto era pulito. Ma Komyo non si sporcava le mani: lo vedeva parlare al telefono, armeggiare con carte e computer, e c’erano volte in cui incontrava l’amico, in casa o altrove. Quando c’era lui, Sanzo trascurava i compiti scolastici e si metteva ad origliare da dietro la ringhiera delle scale, senza però riuscire a seguire granchè di quel che dicevano. Nomi, fatti, situazioni che lui ignorava completamente.

Andò avanti così fino all’anno in cui ne compì dodici; e anzi, il cambiamento in suo padre doveva essere avvenuto già prima, eppure il ragazzino si accorse della cosa solo allora. Non che Komyo fosse diverso nei suoi confronti, tutt’altro, ma nella grande casa si respirava una vaga inquietudine: l’uomo si adombrava più spesso, Fujiwara si vedeva molto meno di prima, e Komyo appariva furtivo, sempre impegnato a scrivere, a cercare qualcosa, a fare altre telefonate. Le volte in cui Sanzo provò a chiedergli delucidazioni, il padre gli rispose con un sorriso rassicurante e con l’affermazione che non c’era niente di storto, solo un periodo più faticoso del solito in ditta.

Sì, perché Komyo Hoshi ricopriva un ruolo importante in un’azienda elettronica, e non lo aveva abbandonato, nonostante le stranezze e le disgrazie della sua vita. In molti erano convinti che il figlio avrebbe seguito le sue orme, ma le cose non andarono così. Sia per volontà di Sanzo, sia per volontà d’altri.

Avvenne in una sera di settembre, l’inizio dell’autunno dei suoi tredici anni. Pioveva fitto da quella mattina, con un suono sommesso e costante, e il ragazzo era rientrato da scuola completamente bagnato ed estremamente nervoso, trovando un messaggio del padre sulla segreteria telefonica: sarebbe tornato a casa tardi, gli diceva, dato che aveva da incontrare una persona dopo il lavoro. Che non lo aspettasse alzato, si premurava.

Sanzo partì con ogni buona intenzione di obbedire a Komyo. Se la sbrigò da solo con i pasti e rimase tranquillo a leggere per quasi tutto il pomeriggio. Eppure, più passavano le ore e più una vaga forma d’ansia prendeva piede dentro di lui, inesorabile, incomprensibile, odiosa e impossibile da ignorare. Fu per questo che cenò in fretta e subito dopo si catapultò fuori, armato di ombrello e giacca a vento; corse alla stazione della Yamanote più vicina e si recò al palazzo che ospitava l’azienda, mentre calava il buio e la pioggia non accennava a smettere.

Vide suo padre non appena mise piede nell’ampio cortile d’ingresso, illuminato freddamente da un paio di grossi fari: Komyo se ne stava lì, appoggiato al muro del gabbiotto del custode, ora vuoto, con il suo solito vecchio ombrello in mano e il volto serio. Sanzo richiamò la sua attenzione da lontano, agitando una mano, e l’uomo si girò a guardarlo solo dopo una manciata di istanti, sorpreso: « Che ci fai qui? Ti avevo chiesto di restare a casa… » disse.

« Ho pensato di venirti incontro, visto che è tardi, ecco tutto » replicò il figlio, avvicinandosi e appoggiandosi anche lui con la schiena al muro. Era un po’ umido, ma faceva lo stesso.

Komyo scosse la testa: « Avresti fatto meglio a darmi retta, Sanzo » mormorò « Comunque resta pure. La persona che sto aspettando arriverà tra breve e poi potremo tornarcene a casa in santa pace »

Pronunciò l’ultima frase con un leggero tremito d’insicurezza nella voce, cosa che il ragazzo non notò, coperta dal suono della pioggia. Iniziava a fare freddo, e Sanzo si augurò che la persona facesse in fretta: non gli piaceva stare lì, con quei riflettori asettici puntati addosso e il buio tutt’intorno. E suo padre era teso, lo vedeva.

« Stavo pensando, Sanzo… » riprese Komyo all’improvviso, in tono leggero « Non mi hai ancora parlato di nessuna ragazzina che ti piaccia, a scuola. E sì che hai già tredici anni e stai diventando bello come tua madre! »

Il biondino lo fissò storcendo il naso: « Le donne sono tutte stupide » sentenziò seccamente.

Suo padre scoppiò a ridere: « Quanto sei critico! Sappi che così offendi quella che ho sposato »

« Mamma era un caso a parte » disse piano il ragazzo. Perché Komyo se ne saltava fuori con simili argomenti, ora?

« Sai, a volte m’immagino come sarai alla mia età, Sanzo » proseguì l’uomo, di nuovo grave « M’immagino persino come saresti nel giorno del tuo possibile matrimonio. Sono strano, vero? »

Il ragazzo annuì, un po’ stizzito: « Oh, eccome se lo sei, papà »

Avrebbe dovuto capire. Avrebbe dovuto avere qualche presentimento, sospetto, timore. Avrebbe dovuto trascinare via suo padre in quel momento, quando gli restavano il tempo e l’occasione di rincasare sani e salvi.

Magari sarebbe cambiato poco, sarebbe accaduto lo stesso, un altro giorno. E magari no.

Cominciò col rumore delle auto che s’avvicinavano al cancello d’ingresso e con la luce annebbiata dei fari che le annunciavano. Komyo alzò il viso di scatto, stringendo gli occhi, e mise una mano sulla spalla del figlio:

« Sono loro. Va’ nel gabbiotto del custode e non uscire finchè non se ne saranno andati » disse rapido.

Sanzo lo guardò sconcertato: « Perché? » volle sapere. Non gli piaceva, non gli piaceva per niente.

« Dammi retta, ti prego! » lo supplicò Komyo, ormai sull’orlo dell’agitazione. Le auto erano quasi arrivate nel cortile.

Al ragazzo non restò altro da fare che obbedire, chiudere l’ombrello e correre verso la porta del gabbiotto in muratura; si voltò verso il padre e ne vide il sorriso dolce e triste tra le gocce di pioggia, e aprì la bocca per parlare.

Ma l’uomo lo precedette: « Sii sempre forte più che puoi, Sanzo » e mosse incontro ai fari.

Il biondino richiuse alle proprie spalle la porta e si accovacciò dietro al vetro appannato, in modo da vedere quel che accadeva all’esterno senza che si accorgessero di lui; lì accanto c’erano le apparecchiature collegate alle telecamere di sorveglianza, ma pareva fosse tutto spento. Deglutì a vuoto e s’impose di starsene fermo lì dentro.

Le auto – erano tre, adesso le vedeva, e scure – erano infine entrate nel cortile, e si erano arrestate a pochi metri da Komyo, che attendeva immobile riparato dal suo ombrello. Alcuni uomini scesero dalle vetture e uno di essi, avvolto in un giaccone nero, si fece avanti, fermandosi però al margine della zona luminosa creata dai due fari, cosicchè Sanzo non potè scorgerne il viso. Si aggrappò al davanzale interno, le nocche sbiancate.

Non riuscì ad udire nemmeno una parola di quelle che furono pronunciate là fuori, da suo padre e dall’uomo sconosciuto che lo fronteggiava. Non contò i minuti che se ne restò accucciato in quello stanzino gelido, minuti che comunque gli parvero infiniti, dilatati, insopportabili, dilaniati dalla sua crescente voglia di urlare per distrarli, interromperli, bloccarli. Non sapeva cosa stesse accadendo di preciso, ma sentiva sempre più freddo.

Là fuori parlavano, quasi non si muovevano neanche. Fu per questo, probabilmente, che il ragazzo vide con grande distinzione i gesti dell’interlocutore di suo padre, verso la fine: prima tese una mano verso Komyo, come a voler domandare o imporre qualcosa, e la ritrasse nel giro di pochi attimi, con una mossa nervosa.

E poi, la stessa mano tornò in avanti, illuminata dai fari. Stringeva una pistola nera e lucente.

Sanzo spalancò le labbra nel tentativo di gridare, ma accadde troppo in fretta.

Komyo non fece niente per evitarlo, mentre le dita dell’uomo si contraevano sul grilletto bagnato: forse fu troppo rapido anche per lui, o forse in quell’ultimo istante decise di lasciar perdere. Ci furono un debole bagliore ed un colpo secco smorzato dal rumore della pioggia e dal vetro, e il ragazzo vide, impotente, sconvolto, suo padre accasciarsi a terra con una sorta di grazia innaturale, sollevando piccoli spruzzi, le braccia spalancate al suolo.

« PADREEEEEEEEEE!!!! »

Urlò con quanto fiato aveva in corpo, udendo la propria voce aspra e rotta esplodere nella stanza fredda. Non credeva a quel che era avvenuto innanzi ai suoi occhi, non poteva crederci. Non poteva essere vero, no, no, no, no.

Gli sembrava una farsa, una presa di giro, una cosa che non c’entrava niente con la sua, la loro vita.

Eppure la realtà era lì, oltre un vetro appannato. L’uomo che aveva sparato si girò verso il gabbiotto, quando lui urlò, ma non fece nulla tranne rinfoderare la pistola e allontanarsi nel buio. Un paio di sportelli sbatterono e le auto si rimisero in moto, andandosene, lasciando Sanzo con un senso ancor maggiore di gelida incredulità.

Non si chiese come mai, pur accorgendosi della sua presenza, non avessero sparato anche a lui. Si catapultò fuori dalla stanza, rendendosi conto a malapena della pioggia che gli sferzò il viso, confondendosi con le lacrime, e si precipitò verso suo padre aggrappandosi a chissà quale fievole speranza.

Ma di speranza, quella notte, non ve n’era. Il proiettile aveva colpito Komyo dritto nel cuore, e non c’era più modo di salvarlo. Se ne stava lì, steso sul selciato pieno di pozze, l’ombrello volato a qualche passo da lui, il volto pallido e gli occhi ancora aperti puntati al cielo cupo e opprimente, occhi che Sanzo gli chiuse passandovi sopra una mano tremante. Provò a chiamarlo una, due, tre volte, e già sapeva che non avrebbe risposto.

Allora, invaso da un’ondata di buia rabbia, di sconcerto, di dolore, e di disperazione, il ragazzo cadde in ginocchio accanto al corpo del padre, gettò il capo all’indietro e iniziò a urlare, urlare, urlare, piangendo, contro il cielo.

Gridò fin quando ebbe respiro, e fin quando i ricordi di quelle ore maledette non divennero confusi.

Era morto. Davanti a lui. E a lui non era stato concesso di fare alcunchè.

 

 

Il funerale si tenne qualche giorno più tardi. La casa, più solinga che mai, si riempì di visitatori, più di quanti se ne fossero visti alla cerimonia funebre in onore di sua madre: c’erano i parenti rimasti in vita di Komyo, pure quelli che abitavano lontano da Tokyo, c’erano tutti coloro che nel corso di quegli anni si erano proclamati e atteggiati ad amici dell’uomo – e probabilmente alcuni lo erano stati sinceramente; c’era Makoto Uehara, che piangeva in silenzio e che lo abbracciò rapido nell’arrivare, seguito dalla famiglia, c’erano i colleghi di lavoro di Komyo e certe vecchie conoscenze di Mizuki. E c’era Hiroki Fujiwara, pallido e contrito, assieme ad altri uomini più o meno giovani. Sanzo li guardava sfilare innanzi a sé mentre sedeva sul grande cuscino nero all’ingresso, sentendosi assente e infreddolito, rispondendo ai saluti e alle frasi di circostanza con brevi cenni della testa.

Avrebbe preferito che se ne fossero andati tutti. Non ascoltò nemmeno una delle proposte che gli vennero rivolte da vari parenti di trasferirsi a vivere con loro, perché non gliene importava: che lo lasciassero in pace, e solo.

Ma prestò attenzione alle parole di Fujiwara, quando questi lo prese da parte prima che le ceneri di Komyo venissero sepolte nel cimitero vicino. L’uomo gli rinnovò il proprio dolore per la morte dell’amico e gli fece la sua profferta: mettersi sotto la sua protezione e lavorare per lui. Non gli sarebbe mancato nulla, nemmeno la libertà.

« Diventare un membro della Yakuza? » s’informò il ragazzo con malcelato sarcasmo, giusto per far presente a Fujiwara che non era all’oscuro della sua attività. Il suo interlocutore sorrise:

« Non è una cosa così disdicevole, in tempi come questi. Cominceresti con compiti semplici, adatti ad un giovanotto della tua età, non temere. Ti garantisco protezione e relativa tranquillità, Sanzo, e un’occasione di allontanarti dalla tua vecchia vita e dai suoi troppi ricordi. Senza contare… » fece una pausa « … che tuo padre è certamente stato ucciso da qualcuno della Yakuza »

Il biondino lo guardò fisso, gli occhi febbrili: « E lei saprebbe dirmi chi è stato, Fujiwara-san? » domandò.

L’altro scosse il capo: « Mi dispiace. Nemmeno io ne ho idea, per adesso. Ma col tempo, forse… »

Fu decisivo, per Sanzo. Fu per questo che scelse di accettare la proposta dell’uomo, con la cupa speranza di ritrovarsi, prima o poi, faccia a faccia con colui che aveva assassinato Komyo con tanto sangue freddo, scoprendone il motivo e facendogli risputare il sangue che aveva versato. Non aveva mai preso in considerazione la vendetta, ed era cosciente della sua inutilità: non sarebbe servita a riportare in vita suo padre, ma l’avrebbe aiutato a placare l’ira che già covava dentro. Voleva sapere, ad ogni costo.

Pertanto vendette la grande casa ai margini della città con l’ausilio dei parenti, prendendo per sé una parte della somma che ne ricavò – il resto venne spartito equamente tra gli altri. Lasciò gran parte della sua roba e con una borsa soltanto si trasferì nel piccolo appartamento che Fujiwara gli aveva riservato, sempre in periferia; non rivide più l’uomo, poiché riceveva ordini e notizie da un suo collaboratore, il giovane Jonathan Rossini, e comunque non gli dispiacque. Hiroki Fujiwara lo metteva vagamente in soggezione.

Trascorsero così undici anni quasi senza che lui se ne accorgesse.

 

 

Il torrido agosto sfumò piano piano in un settembre ventoso, portando sollievo a tutti, compresi coloro che alloggiavano all’Hotel. E giunse anche il giorno dell’anniversario della morte di Komyo, e il biondo si concesse un’intera giornata di riposo, non dicendo niente a nessuno. C’era il sole, stavolta, e un cielo talmente bello e limpido che pareva una beffa. Ma il cimitero fuori città era piacevole a guardarsi, in quella luce, e Sanzo sostò a lungo di fronte alla pietra bianca che contrassegnava la tomba di suo padre, con l’incenso che bruciava indolente e i fiori nuovi comprati per l’occasione. Lì accanto riposava anche sua madre.

Da una parte, odiava i ricordi che lo assalivano ogni anno, quando vi si recava: quelli brutti fomentavano dolori che avrebbero fatto meglio a starsene sepolti in profondità, e che rendevano vulnerabile persino lui. E quelli piacevoli erano insopportabili perché erano come sfocate, preziose cartoline dimenticate che gli arrivavano da un luogo ormai irraggiungibile, simile ad un piccolo paradiso fatto di memoria celato nella sua mente. Erano ad un passo dai suoi occhi, quando lo assalivano, e per quanto tendesse le mani non gli avrebbe più riafferrati. Mai.

Ecco perché li sopportava a stento, nonostante la loro bellezza.

- Arrivederci – mormorò infine in direzione delle due pietre bianche. Aveva rimuginato anche troppo, e s’era fatta l’ora di tornare all’Hotel. Mentre si riavviava verso la macchina intravide, in lontananza, la sua vecchia casa, e si voltò in fretta. Che stupidaggine sarebbe stata, cedere alla nostalgia con tanta facilità.

Giunse a destinazione che era già il crepuscolo. Parcheggiò nel solito cortile laterale, e stava chiudendo le serrature dell’auto quando si avvide della presenza di qualcun altro: davanti alla piccola porta che conduceva ai locali di servizio dell’edificio c’erano due persone, una delle quali era Akira, il figlio di Fujiwara. Sorrideva, seppur con un certo atteggiamento guardingo, e parlava a bassa voce ad una ragazza esile e slanciata dai lunghi capelli color mogano e il volto armonioso, la stessa che quella sera aveva ballato con Goku. C’era qualcosa nel modo in cui si comportavano che trattenne Sanzo dal dare prova d’essersi accorto di loro e che lo spinse ad andarsene in silenzio: non ne sapeva distinguere il motivo preciso, non conoscendo d’altronde il tipo di rapporto che esisteva tra i due, ma si sentiva come accomunato ad Akira. Pensiero stupido, e comunque presente.

Sulla scalinata dell’atrio incontrò Fujiwara medesimo, che scendeva per recarsi, con ogni probabilità, al Moon Indigo o altrove: - Sei stato a trovare tuo padre? – lo apostrofò l’uomo con gentilezza.

Il biondo annuì: - Naturalmente sì – rispose a mezza voce.

- In settimana farò anch’io un salto là – disse Fujiwara – Piuttosto, Hoshi… hai visto mio figlio? -

Sanzo si stupì un po’ a quella domanda, e non rispose subito. Rammentò l’aria furtiva e intima che aveva scorto attorno ad Akira e alla ragazza, e si sentì in dovere, misteriosamente, di negare: - No, mi dispiace, non l’ho visto –

L’uomo scrollò le spalle: - Non fa niente. Ti ringrazio lo stesso, e buona serata – concluse, e se ne andò.

Per quanto contrario fosse al suo carattere, almeno in casi normali, quella notte il biondo rimase sveglio fino a tardi in compagnia di Hakkai, impegnati in una serratissima partita a scacchi, con birra, sigarette e qualcosa da mangiare a portata di mano, in camera del moro. Parlarono molto, soprattutto delle novità di Hakkai, che stava diventando intimo amico dell’ispettore dai capelli rossi e si stupiva di come fosse stato semplice. Sanzo credette di cogliere un fremito, nel tono dell’altro, che andava oltre la soddisfazione di star riuscendo nel suo compito, ma non s’interessò alla cosa, non essendo fatti suoi. Parlarono per ore, ascoltando musica, e il biondo si ritrovò a pensare che non aveva di che pentirsene: nella giornata dei ricordi poteva concederselo.

 

 

 

٭ Fifth Chapter Ends ٭

 

 

 

 

 

 

 

 

Note dell’autrice:

ohilà, ci siete ancora? O siete (giustamente *-*) tutti in vacanza a godervi le ferie? Io son tornata qualche giorno fa e verso la fine del mese ripartirò per farmi un altro po’ di mare: è droga, non vorresti mai smettere di starci!

Comunque la mia è stata una vacanza tremendamente sclerotica e creativa, c’è da andarne fieri XP

Tornando a noi. Cosa ne dite di questo capitolo? Quasi interamente dedicato – per più della metà è un flashback – al passato di Sanzo e al ruolo di suo padre nella vicenda; non è certo molto allegro, me ne scuso, ma poteva essere altrimenti? Il personaggio di Komyo mi piace tantissimo, e nonostante questo non ho potuto fare a meno di “lasciarlo morire” anche qui come nella storia originale (con tanto di ultima-frase-catartica ripresa dal Gensomaden ^^’). Se vi ho messo qualche pulce nell’orecchio riguardo alla verità sulla sua morte dovrete pazientare per sapere se avevate visto giusto…

Goku a questo giro non è comparso, ma tornerà nel prossimo. E non ho inserito a caso la breve scena di Akira e della ragazza, ovviamente… che lo specifico a fare XD? Vedrete tutto via via, promesso.

Sto anche approntando una vera e propria galleria d’immagini su questa storia (la riprova che mi ha “presa” un casino *-*), con disegni della sottoscritta e non solo… bello bello bello, mi piace un sacco lavorare a tutto questo!

Ringrazio le commentatrici/lettrici e le mie solite aficionadas: ne m’abandonnez pas, les filles! :*

CC [Consuete Curiosità]: il titolo del capitolo è quello di una canzone (bellissima) dei Lighthouse Family, e l’ho scritto ascoltando l’album One dei Beatles e le colonne sonore dell’Ultimo Samurai e delle Cronache di Narnia.ß consigli per gli acquisti

Ci sentiamo alla prossima, mina-san! yours BlackMoody ~

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 6
*** O6. The Distance Between ***


The LOST

The LOST

Life Of  Sunsheltered Tokyo

 

 

 

 

 

 

O6. The Distance Between

 

 

 

Quella mattina, nell’aprire gli occhi, Goku si ritrovò a fissare lo spicchio di cielo che s’intravedeva dalla finestra della sua camera: era nuvoloso e inquieto, grigio ma non cupo, proprio come ci si aspettava da una giornata di fine settembre; il vento scuoteva leggermente i vetri, e il ragazzo già s’immaginava la tempesta di foglie che di sicuro stava spazzando il cortile polveroso.

Con un sospiro Goku si raggomitolò di nuovo sotto le coperte del futon. Era domenica e faceva fresco, quindi poteva permetterselo, si disse mentre gettava un’occhiata assonnata alla confusione che regnava incontrastata attorno a lui: una pila di cd masterizzati accanto al piccolo stereo, alcuni libri ancora aperti sul tavolo basso che occupava il centro della stanza, scarpe e maglie sparpagliate sul tatami, e un mucchietto di indumenti da lavare che faceva capolino da dietro la porta del bagno, semiaperta. Non c’era niente di ordinato, lì dentro, ma quel marasma aveva il potere di rassicurarlo e di farlo sentire a casa persino in un luogo che casa non era affatto.

Allungando una mano per accendere lo stereo, il giovane si concesse qualche ulteriore minuto d’ozio, cullato dalle note di un paio di canzoni a lui sconosciute, e infine si alzò dal letto con una mossa decisa. Dato che il tempo era quello che era e che non aveva – per fortuna – altri impegni, avrebbe impiegato quella domenica per rimettere un po’ a posto le sue cose e, soprattutto, per fare un salto al conbini che si trovava vicino all’Hotel. Non che gli servissero cibarie, mangiava sempre assieme ai suoi colleghi e colleghe e agli inservienti in una saletta a pianoterra: voleva semplicemente uscire, staccare la spina, portare i vestiti in lavanderia e magari comprare qualche rivista. A dirla tutta, sperava di incontrare Sanzo, ma sapeva quanto poco possibile fosse.

Non lo vedeva da diversi giorni, e moriva dalla voglia di dirgli che era riuscito a convincere Fujiwara e Rossini a limitare le sue mansioni a quelle di ballerino e cameriere, così come gli aveva, forse inutilmente, promesso.

Si lavò il viso e indossò in fretta jeans e pullover, raccogliendo gli indumenti sporchi in una borsa di carta e gettandosi una lunga sciarpa intorno al collo: gli era venuta fame, e non vedeva l’ora di fermarsi nel piccolo caffè sulla strada del conbini per mangiare un croissant caldo. Salutò diverse persone nel percorrere corridoi e scale, fermandosi persino a scambiare due parole con la sentinella di turno, prima di scendere finalmente in strada con la borsa degli indumenti che gli dondolava al fianco e gli occhi appena socchiusi per affrontare il vento leggero e pungente; la via era poco affollata, così come il caffè, e Goku ne fu abbastanza contento, nonostante la sua natura socievole. Ne vedeva fin troppa, di gente, durante la settimana.

Rinfrancato dal cappuccino e dal croissant si diresse verso la lavanderia self-service situata di fronte al conbini. Le lavatrici erano pressochè tutte in funzione, ma oltre a lui c’era soltanto un’altra persona, girata di spalle rispetto alla porta: un uomo alto e snello dai capelli scuri, avvolto in un cappotto che gli arrivava fino al ginocchio e apparentemente in difficoltà riguardo alle modalità di avvio di un lavaggio. Goku si avvicinò con discrezione.

- Mi scusi, le serve una mano? – chiese, schiarendosi la voce.

L’uomo si voltò, rivelando un paio di straordinari occhi verdi cerchiati da occhiali sottili e un sorriso gentile:

- Temo di sì – ammise – Sono abituato a lavatrici diverse -

- Oh, non si preoccupi, faccio io – si offrì il ragazzo di slancio, felice di rendersi utile.

Hakkai lo guardò armeggiare con i comandi, riconoscendolo solo in quel momento. Era il giovane ballerino che conosceva Sanzo, il bambino che aveva incontrato nove anni addietro; era la prima volta che ci parlava.

- Ecco qua! Ci vorrà una mezz’ora buona, sia paziente – disse Goku alla fine.

Il moro chinò la testa in segno di gratitudine: - Ti ringrazio tantissimo. Anche io vivo all’Hotel, ora come ora, ma solitamente utilizzo la lavatrice delle inservienti. Oggi avevo voglia di farmi un piccolo giro – replicò.

- Anche lei? Ci conosciamo? – s’informò il ragazzo, perplesso.

Hakkai sorrise ancora: - Non direttamente. Ho sentito parlare di te da Sanzo – spiegò.

A tale risposta, Goku si scoprì curiosamente compiaciuto e desideroso di saperne di più su quanto il biondo aveva detto sul suo conto all’uomo: - Sul… sul serio? E cosa le ha raccontato? – domandò titubante. Magari lo considerava uno scocciatore, un moccioso sfigato, uno sbandato, una presenza qualunque. E magari tutto il contrario.

- Di come vi siete incontrati quel giorno di pioggia – rispose Hakkai sorridendo – Ti assicuro che non si aspettava affatto di ritrovarti qui, in questa situazione, ma credo non gli abbia dato troppo fastidio – aggiunse con una punta di complicità nella voce. C’era qualcosa in quel ragazzo e nel modo in cui lo guardava, ascoltandolo, che lo induceva a pensare che almeno da parte sua ci fosse un sentimento particolare: stava nascendo allora, e di certo Sanzo non ne aveva idea, ma già esisteva, glielo leggeva negli occhi. Sorrise ancora, con più spontaneità, e tese una mano.

- Scusami, sono un maleducato. Io sono Cho Hakkai – si presentò.

Il ragazzo scrollò le spalle e lo imitò: - Non preoccuparti, avrei dovuto pensarci io. Mi chiamo Goku, piacere –

Si scambiarono una calorosa stretta di mani, e sul momento la conversazione si concluse. L’uno rimase ad aspettare che la propria lavatrice terminasse, mentre l’altro si occupò dei propri indumenti, mentre fuori si alternavano sprazzi d’ombra e chiarore a seconda di come spirava il vento. C’era una gran tranquillità.

Alla fine, il moro riprese i panni puliti, li rimise in un’ampia busta e battè un paio di colpetti discreti sulla spalla destra di Goku: - Ti saluto, il mio dovere di uomo di casa l’ho fatto – annunciò.

Il giovane ridacchiò di gusto: - Il mio avrà termine tra poco, per fortuna. Torni all’Hotel? –

- Sì. Resterei volentieri a farti compagnia, ma… - gettò un’occhiata all’orologio da polso - … ho un appuntamento a Harajuku tra meno di un’ora, devo sbrigarmi. Mi dispiace -

- Figurati – glissò Goku scrollando la testa – Piuttosto… ti vedi con la tua fidanzata? -

Stavolta fu Hakkai a scoppiare a ridere, non capiva nemmeno lui se per la curiosità candida dell’altro o se per l’immagine di Gojyo che gli era subito balenata in mente: - Direi proprio di no. Ah, se incontri Sanzo salutamelo –

- Certo… anche se dubito di vederlo – rispose Goku con vago rammarico.

Il moro gli sorrise ancora e si avviò all’uscita: - A presto – lo salutò, e uscì rapido in strada.

Il ragazzo quindi rimase solo nella lavanderia deserta, un po’ stordito e fondamentalmente contento per quel che Hakkai gli aveva riferito riguardo all’opinione di Sanzo su di lui. Certo non ne sapeva molto, ma bastava. L’unica pecca era che tali discorsi gli avevano messo addosso una voglia incredibile di trascorrere nuovamente del tempo col biondo – il che non era del tutto rassicurante: da quando si erano ritrovati, era come se Hoshi Sanzo fosse diventato una specie di droga, per Goku; lo cercava spesso, lo seguiva con lo sguardo se lo scorgeva nei corridoi o giù nel parcheggio, dall’alto della sua finestra illuminata, e si sentiva appagato se riusciva a scambiarci due semplici, futili parole. Eppure rimaneva della distanza tra loro, uno spazio vuoto e sconosciuto che il ragazzo per il momento non poteva colmare: Sanzo era forse troppo lontano per e da lui e chiunque altro. E il sentimento che provava… era strano, non aveva un nome preciso, oppure non era in grado di darglielo, adesso.

“Temo di essere strano io” riflettè Goku mentre, dopo aver ripreso i panni puliti, si accingeva a varcare la soglia del conbini; si fermò un attimo, sorridendo tra sé al pensiero, poi scosse la testa e si diresse con passo spedito verso il reparto libreria, deciso a comprare l’ultimo numero di Zerosum per distrarsi un minimo.

 

 

Il corso principale di Harajuku era pieno di gente come al solito, se non di più: era domenica, il che inoltre comportava un aumento esponenziale della folla di cosplayers e tizi in tenuta goticheggiante. Eppure, nonostante questo, la testa scarlatta di Gojyo – colore naturale, sosteneva lui – era inconfondibile. Lo stava aspettando davanti ad una vetrina di scarpe griffate occidentali, fumandosi una sigaretta in completa tranquillità, l’aria rilassata e dannatamente sicura di sé. Hakkai si fece strada tra i passanti e lo raggiunse, vagamente affannato: aveva camminato in fretta dal parcheggio a lì, visto che era in leggero ritardo.

- Ohi! – lo salutò l’ispettore non appena lo scorse – Cominciavo a convincermi che volessi darmi buca -

Il moro fece un cenno divertito: - Non sarebbe da me, credimi. Aspetti da molto? – replicò.

Gojyo sogghignò: - Da nemmeno cinque minuti, in verità, l’ho detto per farti sentire un po’ in colpa –

- Oh, gentile da parte tua – rise l’altro. Cercò invano di non lasciarsi trasportare dall’atmosfera complice che ogni volta si veniva a creare tra loro, arrendendosi contemporaneamente all’evidenza dei fatti: quegli incontri erano diventati, e forse sempre stati, tutto tranne che volti allo scopo per cui erano nati. Hakkai non ricordava di aver mai toccato l’argomento che avrebbe dovuto interessargli, durante quelle uscite; stava bene, parlavano, ridevano, si conoscevano sempre più a fondo, e il lavoro, Fujiwara, la polizia, la Yakuza, il resto perdeva di significato.

Ecco perché, si disse il moro, magari quel giorno avrebbe provato a fare sul serio. Così, giusto per evitarsi le domande inopportune di Rossini quando lo vedeva rientrare, e solo per quel debito che doveva loro.

- Ti porto in un localino di tutto rispetto, oggi – fece Gojyo, distraendolo.

- Che genere di localino? -

Il rosso gli dette di gomito su un fianco: - Non aspettarti chissà che, però a me piace. Fanno uno yakisoba favoloso –

- Allora ne vale sicuramente la pena – convenne Hakkai – E al film hai pensato? -

- L’unico che mi tirava è Slevin. Mica ti dispiace, eh? -

- No, anzi, mi sembra adattissimo -

Gojyo gli scoccò una buffa occhiata in tralice: - Adatto? A chi o cosa? – chiese.

- Beh, gangster, poliziotti corrotti… mi vieni in mente tu – si affrettò a rispondere il moro.

Era una sua idea, o nella voce dell’amico aveva colto una nota di impressionante sarcasmo?

Per fortuna l’ispettore non incalzò oltre, si limitò a ridacchiare con l’aria di chi la sa lunga e ad accendersi un’ennesima Hi-Lite: in questo rassomigliava incredibilmente a Sanzo – e solo in questo.

Da lì in poi, il pomeriggio si svolse in maniera impeccabile. I due si recarono a mangiare il tanto decantato yakisoba, e vi trascorsero due ore abbondanti, riempiendosi lo stomaco di chiacchiere, cibo e birra, mentre Gojyo si divertiva a bisticciare con il padrone del locale, sua vecchia conoscenza, e Hakkai non trovava niente di meglio da fare che ridere, piuttosto che farlo smettere; e nel locale c’era un piacevole tepore, se confrontato col vento fresco che tirava all’esterno, e la radio passava canzoni che piacevano ad entrambi e che entrambi si ritrovavano a cantare tra una battuta e l’altra. Dopo, rinfrancati e riscaldati dal pranzo, andarono quindi al cinema, evitando per un pelo la coda estenuante che si venne a formare alla cassa, e si gustarono il film, la novità della settimana.

C’era da riconoscere che Gojyo aveva avuto gusto nello scegliere proprio Slevin: era ben fatto, intrigante, pieno d’azione, e per certi versi ricordava veramente la situazione del moro, di Sanzo, di Goku e pure dell’ispettore.

E c’era da riconoscere che quel braccio del rosso passato dietro la sua nuca, sullo schienale della poltrona, non lo infastidiva, né imbarazzava o divertiva: lo rendeva soltanto rassicurato e quasi contento, così come i sorrisi d’intesa che gli rivolgeva ad ogni commento lanciato su una scena. Confuso, Hakkai non lo era più troppo, quando invece avrebbe dovuto esserlo, oggettivamente parlando.

Ma dell’oggettività, della norma, non si era mai curato sul serio, in fondo. Nemmeno al tempo in cui c’era lei.

- Aaah, bello, mi è piaciuto un sacco – esclamò Gojyo non appena furono usciti da cinema, una Hi-Lite già accesa in bocca. Ormai il sole era calato, e faceva più fresco; di gente ce n’era sempre tanta, intorno a loro, però l’arietta pungente, il cielo screziato d’oro tra le nuvole e le mille luci accese sulle strade rendevano piacevole anche la folla. I due si diressero verso il parcheggio in cui il moro aveva lasciato la macchina, camminando lentamente e continuando a disquisire sul film. Fu il rosso a dare una strana svolta alla conversazione:

- Tu hai mai avuto a che fare con la Yakuza, Hakkai? – chiese all’improvviso.

L’interpellato rischiò di inciampare nei suoi stessi piedi: - Non direi. Perché? – disse, riuscendo a mantenersi imperturbabile e a non lasciar trapelare la propria lieve agitazione. Che fosse l’ispettore a fare il doppiogioco? Magari era lui che si era lasciato avvicinare con la precisa intenzione di carpirgli informazioni che gli sarebbero poi servite nelle indagini contro Fujiwara e il resto del clan, Cho Hakkai compreso. E se era così, il suddetto Cho Hakkai era pronto ad ammettere con sé stesso di averlo preso bellamente in tasca.

- Perché ho saputo che qualche anno fa avevi iniziato come poliziotto – replicò Gojyo – Ho domandato ad uno dei miei superiori, il quale mi ha riferito di come poi ti sei ritirato dall’ambiente, a solo un anno e mezza dall’inizio del lavoro. La cosa m’è parsa bizzarra, quindi ho pensato che tu abbia avuto problemi con qualche clan. Ho sbagliato? -

Il moro si sentì vagamente rassicurato. L’ispettore aveva toccato un tasto dolente, ma sembrava non conoscere la sua attuale posizione: - Non hai sbagliato del tutto, ma non mi va di raccontarti il vero motivo – rispose quindi a mezza voce - O almeno, non adesso. Perdonami – aggiunse.

L’altro scosse le spalle: - Figurati, non avevo mica intenzione di metterti sotto torchio! Non sarà un argomento semplice da trattare, immagino. Certo però che ritrovarti a fare l’impiegatuccio… come mai? – ghignò.

Si riferiva alla menzogna che Hakkai aveva inventato circa la sua presunta professione, e stava ridendo; eppure all’amico parve nuovamente di cogliere qualcosa, nel suo tono e nel suo sguardo, che lo mise un po’ in guardia.

- Chi è che ha dichiarato di avere intenzione di farmi il terzo grado, ispettore Sha? – lo provocò con malizia, in maniera da ricondurre il discorso su un piano scherzoso.

Gojyo non rispose subito. Si fermò e si volse verso di lui, serio, gli occhi dritti nei suoi:

- Non lo farei, non contro la tua volontà -

Il moro perse fiato per un istante, al suono della voce roca del rosso, e non seppe ribattere niente.

Rimasero in silenzio a guardarsi finchè un drappello di ragazze ben vestite e truccate non passò loro accanto osservandoli con sfacciato interesse e ammiccando, al che Gojyo si riscosse e riacquistò il suo solito atteggiamento libertino, salutandole con un seducente “Buonasera, bellezze”; Hakkai si sciolse a sua volta e sorrise.

Giunsero dopo poco al parcheggio, a buio, e lì si salutarono, fissando il prossimo incontro. L’atmosfera gradevolmente tesa di prima pareva dimenticata da entrambi, ma un che di diverso c’era, tra loro.

Ora che era confuso, pensò Hakkai nell’accendere il motore.

 

 

- Come procede, Jonathan? -

- Nulla di nuovo, Hiroki-san – rispose Rossini, lasciandosi cadere su una poltrona e accettando il bicchiere di brandy che l’uomo gli offriva – Cho è giusto tornato da uno dei suoi giri informativi assieme all’ispettore, ed insiste nel dire che per il momento la polizia non costituisce un ostacolo. Non stanno facendo granchè -

Fujiwara annuì: - Questo è un bene… o lo sarebbe, se fossimo certi di tali informazioni –

- In ogni caso, Cho sta adempiendo al suo dovere senza mostrare alcun sospetto. È già abbastanza -

- Hai ragione, Jonathan – convenne l’altro – Tu credi ci sia la possibilità che venga a conoscenza della verità, dato che è rientrato in contatto con il mondo da cui proviene? -

Rossini riflettè un attimo: - C’è il rischio, in effetti. Però ce ne preoccuperemo a tempo debito –

Fujiwara parve soddisfatto, e buttò giù un gran sorso di brandy continuando a passeggiare per la stanza.

- E tu che mi dici di Hoshi, Hiroki-san? -

- Il nostro biondino è ad un buon punto della lista, ed è sempre il solito. È un validissimo elemento, no? -

L’italiano ridacchiò: - Più che valido. Potresti nominarlo tuo erede, al posto di quel pusillanime di Akira –

Il suo interlocutore lo fulminò con un’occhiata: - Non dire cazzate, Jonathan –

Era talmente scuro in viso che Rossini smise immediatamente di sorridere, conscio di aver esagerato con il sarcasmo, non solo per via degli attriti che esistevano tra Fujiwara e il figlio; la questione legata a Sanzo era anche più pericolosa da tirare in ballo. Pericolosa e delicata, poiché comprendeva il suo defunto padre.

- Akira… - riprese il capo del clan a voce bassa - … non mi piace come si sta comportando. Sparisce per giornate intere, non si cura minimamente di quelli che dovrebbero essere i suoi doveri -

- C’è chi l’ha visto in compagnia di una delle ragazze – interloquì Rossini, cauto.

- Non m’importa sapere con chi passa il suo tempo. Basta che non si metta strane idee in testa -

Jonathan si alzò: - Allora vedrò di tenerlo d’occhio meglio, che dici? – propose.

Fujiwara fece un cenno di assenso senza parlare, e l’altro intuì che non aveva più voglia di discutere. Perciò gli augurò la buonanotte e uscì dall’appartamento in fretta. Non gli piaceva affrontare il boss quando questi s’innervosiva, cosa che metteva in soggezione persino lui, il “tirapiedi-privo-di-scrupoli”, come lo chiamavano.

Ciò che lo consolava era che tutto pareva procedere secondo i loro programmi.

Si diresse verso il Moon Indigo, e nella hall si scontrò con quel tipetto dai capelli castani spettinati che amava considerare la perla rara del locale: - Ehi, Son, stasera addirittura te ne scappi? – lo canzonò.

- Scusami, Rossini-san, non ti avevo visto! Comunque non sono di turno – disse quello di rimando, e non smise neppure di correre. Jonathan lo guardò allontanarsi, e non se ne curò oltre.

Goku, dal canto suo, si precipitò nel giardino del cortile interno, il suo preferito. Aveva dato una mano nelle cucine, e adesso sentiva il bisogno di starsene tranquillo a godersi l’aria notturna, da solo. E poi, la camera di Sanzo si affacciava proprio sul cortile, e magari l’avrebbe visto e salutato, da sotto in su.

Gli toccò rimanere deluso, una volta sbucato all’esterno, perché le grandi finestre erano immerse nel buio più totale: il biondo doveva essere uscito, o forse dormiva già, pensò il ragazzo con un sospiro. Quanto era stupido comportarsi così! Lo sapeva benissimo, eppure quasi non gli dispiaceva. L’avere una persona costantemente in testa, cercarla senza stancarsi, nonostante il senso di estraniamento che gli dava quel non riconoscere di quale sentimento si trattasse, tutto ciò lo colmava e appagava, da una parte.

Dall’altra, era una cosa tremendamente assurda.

Sospirò per l’ennesima volta, e in quel momento si accorse di non essere l’unico occupante del giardino: gli dava le spalle ed era seduto su una bassa panca di pietra, ma Goku capì che si trattava di un uomo, probabilmente un inserviente in pausa o uno dei tanti scagnozzi-avventori che circolavano nell’Hotel. Fece per allontanarsi per non disturbarlo, né essere disturbato, quando notò un particolare che gli fece cambiare idea.

L’uomo stava fumando una sigaretta, ne intravide il bagliore rossastro nella penombra; e le ciocche di capelli illuminategli dalle luci del porticato erano inequivocabilmente color del grano.

Allora si armò di coraggio – il coraggio di sopportare una figuraccia, qualora avesse preso un granchio – e si riavvicinò all’altro, tossicchiando piano per segnalare la sua presenza.

- Sanzo? – chiamò.

L’altro si voltò quasi immediatamente: - E tu che ci fai qui? – lo apostrofò con una certa, ruvida sorpresa.

L’espressione di Goku si lasciò andare ad un sorriso: - Buonasera – disse.

Forse quella distanza non era così impossibile da colmare.

 

 

 

٭ Sixth Chapter Ends ٭

 

 

 

 

 

 

 

 

Note dell’autrice:

scusate, scusate! Innanzitutto per il ritardo, cosa che non era (stranamente XD) più successa… Ho avuto un paio di mesetti di fuoco, e non è che ora la situazione sia molto diversa, ma pian pianino sono riuscita a mettere insieme anche questo capitolo. Ecco, scusate anche per averlo interrotto in tal momentaccio, però se scrivo tutto e subito che gusto c’è?

Spero che le fans di Gojyo & Hakkai siano rimaste abbastanza soddisfatte! In ogni caso vi assicuro che non sarete deluse, andando avanti con la storia, per quel che riguarda questi due… ^^

Mi sono divertita a descrivere Goku in un contesto tanto casalingo, all’inizio del capitolo, e il riferimento allo Zerosum m’è venuto di getto, non lo avevo assolutamente programmato XP! Poi m’è sembrato opportuno inserire la conversazione tra Fujiwara e Rossini, giusto per non dimenticarsi che qui le cose non sono molto chiare come potrebbero apparire, e ho citato Slevin perché mi ha effettivamente un po’ ispirata.

(a proposito, se vi capita andate a vederlo: è Patto criminale, con Josh Hartnett e Lucy Liu)

Ohi, come sempre arigatou gozaimasu a tutte per recensioni, commenti e anche semplice lettura! Con una nota di merito in particolare per le mie solite “aficionadas” ^.^ Continuate a supportarmi, mi raccomando!

||CC (Consuete Curiosità)||: il titolo del capitolo è quello di una canzone di Marshall Crenshaw; mentre scrivevo me ne sono ascoltate svariate, come Haraiso (Merry), Playground love (Air) e quelle dell’album Peachtree Road del grande Elton;

e come regalino finale vi metto il link per vedere il dessin che ho fatto a mo’ di copertina per l’intera storia:

http://www.deviantart.com/deviation/39571796

Alla prossima! See you soon and go to the West, yours BlackMoody ~

 

 

 

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Capitolo 7
*** O7. I Thought It Was You ***


The LOST

The LOST

Life Of  Sunsheltered Tokyo

 

 

 

 

 

 

O7. I Thought It Was You

 

 

 

Sanzo gettò a terra il mozzicone di Marlboro e per qualche istante scrutò il giovane in piedi dietro di lui con un misto di fastidio e di non totalmente spiacevole stupore. Si era aspettato di avere il grande cortile tutto per sé, quella sera: aveva trascorso l’intera giornata in camera a leggere e rimuginare, se escludeva il pranzo in un piccolo ristorante lì vicino, e sceso il buio aveva provato un forte bisogno di starsene all’aria per un po’, senza nessuno che gli girasse tra i piedi. Ecco perché il giardino deserto dell’Hotel gli era parso il luogo più adatto.

Era furioso, e quindi ancor meno propenso del solito a vedersi altri volti attorno. Era furioso, poiché erano ormai più di due mesi che si muoveva nel cuore della Yakuza di Tokyo, lavorando per Hiroki Fujiwara in persona, uccidendo chi egli ordinava e placando inutilmente il rancore che lo divorava, e nonostante questo non aveva trovato una sola, fottutissima traccia che potesse condurlo a scovare l’assassino di suo padre. Persino Fujiwara pareva al suo stesso punto, stando a quel che gli diceva: tentare di scoprire la verità in un mondo come il loro era come muoversi nel fumo, e il biondo cominciava a stancarsi. Era diventato quel che era soltanto per giungere all’uomo che nell’ombra aveva premuto il grilletto, e ripensarci gli comunicava un gran senso di rabbia impotente.

Ma adesso che aveva quegli occhi d’ambra puntati addosso non sapeva se infuriarsi ulteriormente o se, invece, esser grato al loro proprietario per averlo strappato da quelle odiose riflessioni:

- E tu che ci fai qui? – lo apostrofò con un residuo di durezza nella voce.

Goku aggirò la panca di pietra e si fermò di fronte a lui, prima di rispondere:

- Beh, è una bella serata… - disse sorridendo – Avevo voglia di starmene qui a pensare, così, niente di che -

Sanzo sbuffò: - Allora torna a pensare e lascia pensare me – lo freddò.

In realtà non gli piaceva affatto l’idea di rimanere di nuovo da solo con la sua ira come unica compagnia, e non aveva alcun motivo per essere tanto sgarbato con l’altro, eppure era convinto che fargli credere il contrario sarebbe stata la cosa migliore, per apparirgli più forte e senza bisogno di chicchessia.

Il ragazzo, però, non se ne andò: - Scusami, vedo che ti ho disturbato. Ma… insomma, dato che siamo qui entrambi mi sembrerebbe brutto starcene ai due angoli opposti del cortile come non ci fosse nessuno – replicò tutto d’un fiato, di rimando – O comunque, io non potrei, ora che ti ho visto – aggiunse, un leggero imbarazzo.

Il biondo lo guardò: - Cosa stai cercando di dirmi? – domandò. Dannazione, lo ammorbidiva sempre.

- Che se ti va potremmo parlare tra noi, piuttosto che pensare. Dopo si sta meglio, sai? – sorrise ancora Goku.

Dei, se era sfacciato. Eppure non riuscì a rispondergli con astio, non riuscì nemmeno a provarlo, quell’astio. In casi normali un qualsiasi ventenne che lo tampinava con quell’espressione idiota e speranzosa sul volto proponendogli una sana chiacchierata gli avrebbe fatto saltare i nervi, ma con lui pareva impossibile prendersela: erano quegli occhi, Sanzo cominciava ad esserne certo. E quel trasporto che Goku inequivocabilmente gli comunicava.

- E di che diamine vorresti parlare? – chiese quindi.

Il più giovane parve rifletterci un attimo su: - Ad essere sincero non lo so… però c’è di sicuro una cosa che volevo dirti – rispose con una voce che, nella penombra, tradiva il suo sorriso. Poi, senza aspettare che Sanzo replicasse o lo invitasse, improbabilmente, a farlo, si sedette al suo fianco sulla bassa panca di pietra, rivolto però nella direzione opposta, convinto di rappresentare comunque un piccolo fastidio per il biondo.

- Ricordi quello che ti ho promesso la sera che ci siamo rivisti, sul mio lavoro? – riprese.

Sanzo assentì con un borbottio incomprensibile, guardandosi bene dal precisare che non l’aveva mai considerata una promessa personale. O forse sì, e per questo stette zitto.

- Ecco, sono riuscito a convincere Fujiwara-san a farmi soltanto servire ai tavoli e ballare! – spiegò, contento – L’ho pregato di lasciarmi del tempo prima di iniziare l’altra… attività, e lui ha accettato. Non so come sia potuto succedere, davvero, ma credo che Fujiwara-san sia una persona gentile, in fondo, non trovi anche tu? -

- Non ne ho idea – disse il biondo in tono scettico. Doveva sempre capire quell’uomo.

Goku lo guardò da sopra la sua spalla: - Non ti fa piacere? –

L’altro sbuffò appena: - La faccenda riguarda te. Non me – replicò col solito tono tagliente. E, come al solito, quel tono gli servì a mascherare il fatto che, dentro di sé, ciò che aveva detto non era poi troppo veritiero.

Il ragazzo gli sorrise di nuovo, e nella poca luce Sanzo non seppe cogliere la sfumatura apparsa sul suo viso; ebbe l’impressione che Goku avesse cominciato a conoscerlo, e che non si fosse lasciato ingannare dalla risposta.

Per un po’ se ne rimasero in silenzio, giusto il tempo, per il biondo, di accendersi una seconda Marlboro e di tirare qualche boccata mentre guardava il cielo nero e velato della sera. Stava davvero sentendosi più rilassato?

- Tu perché ti trovi in questo posto, tra questa gente, Sanzo? – se ne uscì il ragazzo all’improvviso.

L’interpellato gli gettò un’occhiata in tralice: - E tu, perché te ne stavi sotto quel ponte, quel giorno? –

Gli era venuta fuori dal nulla, la domanda. Non aveva mai pensato di porgliela, fino ad ora. Però gli era rimasta in testa una frase pronunciata tempo addietro da Fujiwara sulla morte dei genitori di Goku, e il biondo era sicuro che esistesse un nesso tutto fuorchè trascurabile tra i due accadimenti.

Il giovane apparve per un attimo smarrito, serrandosi nelle proprie spalle prima di parlare:

- Ero fuggito di casa da circa due giorni. Non avevo una meta, avevo paura ed ero stanco, e quindi avevo finito per accasciarmi là sotto. Non voglio pensare a ciò che sarebbe potuto succedermi se non fossi passato tu -

- Ma sono passato, no? – replicò inaspettatamente Sanzo, e le spalle di Goku si rilassarono.

- Sei passato, sì. Per questo sono convinto che tu mi abbia in qualche modo salvato, credimi – proseguì il ragazzo con dolcezza – Allora avevo appena perso la mia famiglia, sai? Ecco perché scappavo -

Il biondo ruotò di poco il busto in modo da poterlo guardare: - Come l’hai persa, la tua famiglia? – chiese.

Goku prese un profondo respiro: - Entrambi i miei genitori sono stati uccisi, non so perché e non so da chi. So soltanto che quel pomeriggio erano inquieti, e mia madre mi pregò di andarmene a giocare fuori casa finchè non si fosse fatto buio. In realtà pioveva, non era proprio il tempo adatto per starsene a giro… però lo feci. E quando rientrai era già finito tutto. Erano stesi a terra… ed erano morti. Così – raccontò. La voce gli si incrinò leggermente mentre pronunciava l’ultima parola, ma fu un istante. Se li ricordava alla perfezione, i corpi senza vita di suo padre e sua madre, riversi sul pavimento chiaro schizzato di sangue, e la radio ancora accesa in un angolo.

- E non hai davvero idea del chi e del perché? – insistette Sanzo. Dei, se erano simili.

Il ragazzo scosse la testa castana: - Davvero, no. Ero un bambino, questo sì, però non riesco ad immaginare che si fossero immischiati in faccende tanto pericolose da perderci la vita… o meglio, ne sono del tutto all’oscuro. Mio padre lavorava come tassista, mia madre era stata una ballerina e poi era stata assunta come commessa in un negozio. Chi mai avrebbe potuto voler vedere morte due persone come loro? –

- Non chiederlo a me. Nemmeno mio padre era un uomo che meritava di essere ammazzato – disse Sanzo a bassa voce, e solo dopo si rese conto di aver pronunciato la seconda frase. Stava cercando di non pensarci più, cazzo.

Per un po’ Goku stette zitto, incrociando le mani in grembo e alzando lo sguardo al fazzoletto di cielo che sovrastava il cortile e si mescolava con le fronde scure degli alberi; dalle strade intorno giungeva fioco il rumore delle auto.

- Allora sei qui all’Hotel per via di tuo padre, Sanzo? – domandò infine.

- In un certo senso sì – fu la risposta.

- Se ti va di parlarne… - azzardò l’altro.

- E a che pro? Non eri tu quello che voleva farmi stare meglio? – lo interruppe il biondo, ma non era arrabbiato.

Goku arrossì leggermente: - Spero di star riuscendo nell’intento –

Sanzo non ribattè. Se avesse voluto essere totalmente sincero avrebbe dovuto dirgli che sì, ci stava riuscendo, con la sua sola, sfacciata, solare presenza. Lui che aveva vissuto quasi la sua medesima orribile esperienza e che non si era trasformato in un mostro di rabbia fredda in cerca di vendetta, lui che era andato avanti, pur con dolore e fatica. Avrebbe voluto dirglielo, o in alternativa mentire spudoratamente, e nel dubbio, ancora, tacque.

- Se vuoi me ne vado, Sanzo – mormorò il ragazzo ad un tratto, vacillando di fronte al suo silenzio.

Fece per alzarsi, e l’uomo, voltatosi, gli mise una mano sulla spalla: - Smettila, e resta qui – borbottò.

L’espressione contratta di Goku si sciolse in un sorriso, e con esso parve allentarsi anche la tensione che era rimasta tra loro sino a quel momento. Presero a parlare di più, di molte più cose, e il biondo arrivò persino a spiegargli quale fosse il suo ruolo all’interno del clan, stupendosi del proprio stesso timore di vedere il giovane fuggire via o disprezzarlo, una volta scoperta quella carta; ma Goku non scappò, né si allontanò: rimase invece lì sulla panchina e vi si mise a sedere a cavalcioni per poterlo vedere meglio in volto, e ascoltò attento ogni singola parola di Sanzo. Soltanto quando quest’ultimo ebbe terminato il discorso chiese:

- E non ti pesa mai un compito del genere? Uccidere… come coloro che uccisero tuo padre? -

Ecco, l’aveva detto. Touchè, venne da pensare al biondo:

- Che mi pesi o meno non ha importanza, è ciò che qui definiscono “il mio lavoro” – disse – Finchè non mi daranno l’ordine di fare fuoco contro persone che non hanno niente a che vedere con la Yakuza, come donne, mocciosi, vecchi e uomini disarmati e ignari, non protesterò. Per il momento, è bene che faccia la mia parte -

Goku annuì lentamente: - Capisco –

Capiva la malcelata tristezza di Sanzo, prima di tutto. Per quanto questi si sforzasse di esternarla sotto forma di spietato cinismo, lui gliela leggeva negli occhi, in quelle ametiste amare. E capiva anche che avrebbe desiderato abbracciarlo forte, in modo da scacciare, almeno per qualche attimo, sia la sua che la propria.

Eppure si trattenne dal farlo: non era sicuro che il biondo avrebbe gradito, purtroppo… Così sospirò e decise di cambiare argomento di punto in bianco, pregando Sanzo con voce allegra di raccontargli qualcosa della sua infanzia. L’altro lo fissò come se avesse tirato un’eresia:

- Ora, posso sapere perché diamine dovrei raccontarti i fatti miei?! – esclamò.

- Perché sono curioso! Per favore, Sanzo, non c’è niente di male! – lo supplicò Goku, ridendo.

E il biondo si arrese ancora una volta, benchè con un sonoro verso di disappunto:

- Purchè tu la finisca di fare casino – sbuffò.

 

 

In una stanza al terzo piano del palazzo, Sumire Hagiwara, la giovane donna dai capelli color mogano che lavorava assieme a Goku al Moon Indigo, sorrise al proprio riflesso sul vetro della finestra:

- Akira, indovina chi c’è giù nel giardino? – disse rivolta al ragazzo alle sue spalle.

Il figlio di Fujiwara si alzò a sedere sul futon, guardandola: - In giardino? Non ne ho idea… - ammise.

Sumire si girò: - Goku e Hoshi-san! Sono su una delle panchine, credo stiano parlando – descrisse.

Lui inarcò un sopracciglio, vagamente perplesso: - E dunque? A cosa stai pensando? -

La ragazza tornò con passi lenti verso il futon e vi si lasciò cadere sopra di nuovo, scuotendo la testa e accostandosi ad Akira, il viso tornato serio: - Hai sempre intenzione di portare a termine il tuo piano, non è così? – domandò.

- Ovviamente, ma continuo a non capire – rispose cautamente il giovane.

Lei gli puntò gli occhi dritti nei suoi: - Non volevi forse cercare l’aiuto di Hoshi-san e Cho-san? Se Hoshi-san tiene a Goku, se gli si sta avvicinando, allora potrà avere le nostre stesse idee, o comunque saprà comprenderci. Rifletti, Akira… se il tuo intento si compiesse, anche Goku potrebbe essere “libero” da questa situazione di merda. Hoshi-san gli è legato, perciò dubito che si tirerà indietro. E avrà pure lui dell’astio contro tuo padre – sussurrò.

- Ti sbagli, Sumire – la bloccò l’altro in tono stanco – Temo che Hoshi non ci darà una mano con tanta facilità. È un uomo freddo, egoista, e non conosco abbastanza i rapporti tra lui e mio padre da poter affermare che ha del risentimento nei suoi confronti. O forse sì, dovrebbe averne, ma non lo sa -

La donna giocherellò con il lembo di coperta che teneva tra le dita, assorta:

- Quindi preferisci non parlargliene affatto? -

- Non adesso, almeno. Prima dovrò interpellare anche Cho, e valutare quanto realmente siamo in grado di fare. Se nessuno di loro ci offrirà il suo appoggio dovremo arrenderci, Sumire, senza contare che è un rischio divulgare ciò che abbiamo in mente. Qualcuno potrebbe tradirci, e non sarebbe strano, in questo mondo – sospirò Akira.

Sumire si morse un labbro: - Non esiste un modo per muoverci con più sicurezza? –

- L’unica cosa che posso fare è informarmi, dissimulando le mie intenzioni, circa il passato di Hoshi e Cho… Se trovassi anche un minimo, valido motivo per averli dalla nostra parte… -

Mosse una mano verso la compagna, accarezzandole la schiena, l’espressione malinconica nella luce soffusa che filtrava dalle tapparelle abbassate: - Ci siamo buttati in qualcosa di troppo grande per noi, eh? –

- Tu hai deciso di buttarti. Io ho soltanto scelto di seguirti – replicò Sumire a mezza voce, sorridendo.

 

 

Sanzo scoccò un’occhiata all’orologio che portava al polso sinistro e inarcò un sopracciglio: si era fatto più che tardi. Il dettaglio peggiore era che non se n’era reso conto, intento com’era a parlare con quel moccioso ventenne che gli stava ormai talmente vicino da rischiare di posargli la testa castana sulla spalla. Però il suddetto moccioso gli aveva davvero restituito il respiro, in quella notte che all’inizio gli era sembrata tanto soffocante, lo ammetteva.

- Avanti, scimmia, scrollati e lasciami andare a dormire, è quasi mattina – lo apostrofò brusco.

Goku sbadigliò: - Perché adesso mi chiami scimmia, Sanzo? – volle sapere, un po’ perplesso.

- Perché sei petulante in egual modo – rispose il biondo – Forza, prima che tu t’addormenti qui -

Si alzarono in contemporanea, e il ragazzo si stiracchiò, le braccia levate verso il cielo scuro e le mani aperte, come in una sorta di preghiera inconsapevole. L’uomo lo osservò in silenzio e lo trovò, non certo per la prima volta, altrettanto inconsapevolmente attraente; si fece avanti verso di lui, le scarpe che scricchiolavano sulle foglie secche che coprivano il suolo. Appariva così fragile… quando invece, tra i due, il meno forte era Sanzo stesso.

- Ti ringrazio per la bellissima serata – disse Goku in tono dolce e assonnato.

Il biondo avanzò di un altro passo, finchè non gli fu vicinissimo. Lo guardò, e chinò il volto in direzione di quello del ragazzo, ad un soffio dalla sua bocca, e si fermò subito prima di toccarla:

- Buonanotte – mormorò. Duro, laconico, ma non quanto aveva creduto.

Poi si allontanò, una nuova sigaretta già in mano, e scomparve senza aggiungere una parola nel buio del porticato, mentre Goku rimase lì in piedi, il cuore che gli tambureggiava dentro con morbida violenza.

 

 

 

٭ Seventh Chapter Ends ٭

 

 

 

 

 

 

 

 

Note dell’autrice:

oddei, sono riuscita a terminare anche questo! Ganbatta ne! Un po’ più breve degli altri e più improntato sui dialoghi, ma era fondamentale… Ho finalmente cominciato a dare il giusto ruolo ad Akira e Sumire, di cui credo abbiate afferrato gli intenti. Le acque si stanno muovendo tanto da una parte quanto dall’altra, e vedrete quale delle due “strariperà” per prima…

E poi, dovevo mettere a tutti costi la scena del giardino tra Sanzo e Goku, la cui storia è venuta a galla (non tutta, ovvio ^^’’); se state pensando che ho esagerato con le tragedie personali chiedo venia, ma consolatevi sapendo che sono, purtroppo, necessarie, e che Gojyo almeno non ha situazioni del genere alle spalle, per una volta! A proposito del rosso… il prossimo capitolo vedrà compe protagonisti lui e Hakkai: chi mi chiedeva cose in proposito alla loro relazione non sarà deluso (spero)!

Comunque non mancheranno nemmeno gli altri due “bimbi”, siatene certe XP

Di nuovo, vi ringrazio tantissimissimissimo per le recensioni, i commenti, i complimenti, per il fatto che questa storia riesca a coinvolgervi così tanto: è quanto di meglio possa capitare a chi scrive, il miglior complimento da ricevere, giuro!

Perciò, come sempre, arigatou gozaimasu, e restate connesse/i.

|| CC [Consuete Curiosità] ||: il titolo del capitolo proviene dall’omonima canzone di Andy Bell; mentre scrivevo, il mio lettore cd s’è macinato Lotus di Elisa, The Captain and the Kid del vecchio Elton e Under rug swept di Alanis Morissette.

Bonus news: è in progettazione la mia nuova doujinshi… aspettate e vedrete.

Alla prossima – see you soon and go to the West! yours BlackMoody ~

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 8
*** O8. Damaged Goods ***


The LOST

The LOST

Life Of  Sunsheltered Tokyo

 

 

 

 

 

 

O8. Damaged Goods

 

 

 

Era circa un’ora che fuori infuriava quella tempesta assurda: vento, tuoni, fulmini e pioggia battente, ed era un miracolo che ancora non fosse saltata la luce. Seduto alla sua scrivania, Gojyo sorseggiava un cappuccino guardando l’acqua scorrere sui vetri delle finestre appannate e passandosi di tanto in tanto una mano tra i capelli, com’era sua abitudine. Un tempo del genere non gli comunicava tristezza, solo una sensazione di fastidio, e dunque non aspettava altro che spiovesse, così da non bagnarsi all’uscita dal lavoro.

Il resto dell’ufficio era particolarmente silenzioso, caso più unico che raro: la maggior parte dei suoi colleghi era già tornata a casa, altri avevano ricevuto l’ordine di recarsi a sedare una rissa – e il cielo sapeva quanto Gojyo non li invidiasse affatto – e i pochi rimasti, tra cui due delle ragazze, se ne stavano tranquilli alle loro postazioni, quasi sicuramente intenti a divertirsi col computer in attesa di finire il turno, come lui. Ma nessuno di loro si sarebbe visto con Cho Hakkai, dopo, pensò il rosso con un vago sorriso. Quanti mesi erano ormai che si frequentavano regolarmente? Almeno tre, ed era come se si conoscessero da una vita, tanta era la complicità che si era venuta a creare e che non sarebbe dovuta esistere, dati gli intenti di entrambi. Oh, sì, perché Gojyo era tutto fuorchè ingenuo: lavorare in polizia da cinque anni aveva contribuito ad affinargli il cervello, gli piaceva dire. L’ispettore aveva intuito ciò che si muoveva dietro Hakkai, il motivo per cui il moro era piombato all’improvviso nella sua vita, eppure ancora faceva finta di niente. Giocavano alla pari, e nessuno dei due era in svantaggio. O forse lo erano tutti e due: i loro personali interessi prendevano il sopravvento su quelli lavorativi, ogni volta che si vedevano.

Magari quella sera gliene avrebbe parlato, riflettè Gojyo mentre buttava giù in un sorso solo l’ultimo goccio di cappuccino. E magari gli avrebbe esposto anche l’altro piccolo problema, se della definizione di problema poteva fregiarsi. Quella strana situazione rischiava di renderlo irrimediabilmente felice.

Quasi gli avesse letto nel pensiero, il cellulare del rosso prese a suonare con insistenza, al di sotto dello strato di fogli, cartelline e cartacce che ingombravano la sua scrivania. Le mani dell’ispettore si fecero strada, con solerzia, attraverso la massa di oggetti per lo più inutili sotto i quali stava sommerso il telefono, e riuscì a rispondere quando ormai, certamente, la persona che lo stava cercando aveva quasi perso ogni speranza. Sorrise nel leggere il nome sul display e disse con voce ben chiara e accattivante: - Buongiorno, principessa –

Era una frase di un film italiano che aveva visto da poco, e gli era piaciuta molto. E sembrava che anche l’altro avesse gradito, giacchè si udì una risatina compiaciuta: - Primo, ti faccio notare che è sera. Secondo, ti ricordo che non sono proprio una “principessa” – ribattè Hakkai, palesemente divertito dal saluto di Gojyo.

Il sorriso di quest’ultimo si fece ancora più ampio: - Forse dovrei chiamarti “principe”, allora –

- Beh, mi pare già più logico – assentì il moro, ridendo di nuovo – Ascolta, tra quanto esci? -

Il rosso gettò un’occhiata all’orologio da polso e fece un rapido calcolo. Un quarto d’ora nemmeno e sarebbe stato fuori all’ingresso, disse. In realtà gli mancava una mezz’ora e passa, ma voleva vederlo prima possibile.

- Stasera ceniamo da me, se per te va bene – riprese Hakkai. Il tono suonava un po’ incerto.

- Va bene eccome. Ne parliamo appena sarò lì. A tra poco! – concluse l’ispettore, chiedendosi per l’ennesima volta come mai le sue conversazioni con lui rassomigliavano pericolosamente a quelle che aveva avuto, ai tempi del liceo, con la sua prima ed unica ragazza fissa. Ma si rispose che, comunque fosse, non era una cosa negativa.

Attese altri dieci minuti, rispondendo per le rime alle colleghe che lo punzecchiavano domandandogli se al telefono era la sua fidanzata, poi gettò nel cestino il bicchiere di carta del cappuccino, s’infilò il giaccone con un unico movimento fluido, mise il cellulare al sicuro in una tasca e gridò un ‘arrivederci’ ben sonoro agli astanti, infischiandosene dei loro commenti amichevolmente provocatori. Scese le scale in fretta, e quando arrivò alla vetrata d’ingresso notò due particolari per cui le sue labbra si distesero in un ennesimo sorriso: il primo, la pioggia che aveva smesso di cadere, e gli stralci di cielo blu chiaro che si affacciavano dalle nuvole sfilacciate; e il secondo, il volto un po’ arrossato di Hakkai avvolto da una grande sciarpa bianca, gli occhi verdi e limpidi del moro che guardavano nella sua direzione. Non lo aveva mai abbracciato prima di allora, e gli riuscì più naturale dell’accoglierlo con una consueta pacca sulla spalla. L’altro gli posò la testa nell’incavo del collo dopo un attimo di esitazione, sentendosi stupido e contento: - Buonasera, Gojyo – gli disse.

Il rosso allentò la stretta senza smettere di sorridere: - Ma come siamo formali oggi – lo redarguì scherzosamente.

Hakkai scrollò il capo: - Ogni tanto è più forte di me, scusami – replicò – Mi accompagni a fare la spesa? –

Gojyo scoppiò in una sonora risata: - Senti come sei bravo a cambiare argomento! –

- Guarda che non ho niente in frigo! – si difese il moro – Perciò, se non vuoi digiunare… -

- Dai, non te la prendere, ti ci accompagno più che volentieri – assicurò l’ispettore, incamminandosi.

- Opportunista… - ridacchiò Hakkai seguendolo.

Si diressero verso il parcheggio in cui il moro aveva lasciato la macchina, e da lì proseguirono per il quartiere in cui abitava, fermandosi in un supermercato non lontano da casa sua e acquistando lo stretto necessario per riempirsi lo stomaco. Era una strana sensazione, per Hakkai, quella di tornare nel proprio appartamento dopo mesi che non ci metteva piede, il rivedere quelle vie e giardini e file di abitazioni tanto familiari ed ormai estranee. Per un istante fu tentato di ritrattare l’invito con una scusa e di trascinare l’amico a cena in qualche locale, temendo che questi potesse accorgersi di qualcosa entrando in casa sua, ma avevano comprato già tutto e tirava un vento freddo che gli faceva solo desiderare di rifugiarsi subito al caldo.

Pertanto, condusse Gojyo fino ad un piccolo condominio all’angolo di una strada secondaria, fino alla porta scura al secondo piano: - Eccoci arrivati – annunciò mentre faceva scattare la serratura.

Quando accese la luce fu subito chiaro al rosso che l’appartamento era rimasto disabitato per diverso tempo: non c’era niente in disordine, nulla di abbandonato sul pavimento, o sulle basse poltrone del salotto, e su ogni mobile era ben visibile un sottile strato di polvere; anche l’odore, seppur poco percettibile e mescolato al profumo di Hakkai, era quello di una casa le cui finestre non venivano aperte da un po’. Ma Gojyo non parlò e si limitò a seguire l’altro in cucina e a guardarsi intorno con aria curiosa, mentre Hakkai disponeva le confezioni di cibo sul tavolo. C’era uno stereo su una mensola vicino alla porta, e l’ispettore si offrì volontario di preparare la cena soltanto a patto che il moro si occupasse di metter su una buona colonna sonora per la serata.

Hakkai accettò l’offerta ridendo di gusto, e ciascuno dei due si concentrò sul proprio compito: il trovarsi lì, nella stessa casa, nella stessa stanza, con un’atmosfera così intima, stava facendo crescere in loro un vago disagio e una sempre più incalzante aspettativa per qualcosa che entrambi conoscevano e che ancora non ammettevano.

Non sarebbe dovuta affatto andare in quel modo, pensarono. Senza troppa convinzione.

 

 

La cena trascorse quasi in un soffio, con la musica che suonava in un angolo e il vino che scendeva giù che era un piacere, dalla bottiglia nei bicchieri e dai bicchieri nella gola. Ridevano più del solito, raccontandosi aneddoti di mera importanza dei tempi del liceo e tacendo con attenzione, nonostante l’alcol, su quegli argomenti che sapevano essere rischiosi; c’erano momenti in cui le loro mani, involontariamente, si toccavano, e più questo accadeva e meno le scostavano, sorridendosi. Non si fece udire alcun campanello d’allarme da parte delle loro coscienze, forse perché non ve n’era nessun reale e valido motivo. Parlavano e mangiavano e bevevano, e già avevano capito che non si sarebbero fermati lì. E non c’era cosa più bella da pensare.

Alla fine, Hakkai si alzò per primo e cominciò a sparecchiare: - Se dopo ci guardassimo un film? – propose.

Gojyo si stiracchiò, uno stuzzicadenti in bocca: - Mi sembra un’ottima idea. Che hai di interessante? –

- Non ricordo, daremo un’occhiata – rispose il moro dandogli le spalle e armeggiando con il lavello.

Nello stereo girava un cd di Elton John, soffocato appena dal suono dell’acqua.

- A proposito, Gojyo, sei un mago a cucinare – riprese Hakkai, voltandosi verso di lui.

Il rosso sorrise sornione: - Immodestamente parlando, lo so. Mi fa piacere che tu abbia apprezzato –

Hakkai lo imitò: - Come premio ti aspetta il mio caffè speciale, se vuoi –

L’ispettore era più che d’accordo. Rimase seduto in silenzio ad osservare l’amico che, più sottile che mai nei pantaloni chiari e l’ampio maglione color smeraldo, preparava le tazze con gesti eleganti, e che tornò a guardarlo una volta che il caffè fu pronto: - Spero che ti piaccia, è da diversi giorni che non lo preparo – si schermì.

Gojyo si alzò in piedi per prendere la tazzina e gli si accostò, appoggiandosi al bordo del lavello, per sorseggiarlo con quanta più calma possibile. Era bollente, scuro, e sapeva di nocciola: gli piacque moltissimo, e lo disse.

Il moro sorrise con spontaneità, ringraziandolo e stringendo appena le palpebre, il volto inclinato.

Allora, il rosso sentì come scattare qualcosa nella propria mente, come un velo che veniva sollevato, e posò la tazza sul piano dietro di sé. Poi si spostò, in modo da avere Hakkai perfettamente di fronte e le braccia ai lati dei suoi fianchi: era anche più bello, mentre lo fissava con quell’espressione incerta.

E il moro ebbe un attimo di esitazione nel vedere Gojyo chinarsi su di lui, il viso intenso. Ma chiuse subito gli occhi, ancor prima di accorgersi di avere le labbra dell’ispettore premute sulle proprie, ancor prima di rendersi conto di aver socchiuso la bocca per permettergli di assaggiarla, come se non avessero mai fatto altro.

Fu un bacio caldo e lento, esitante, ed entrambi rimasero immobili mentre iniziavano a scambiarsi respiri, la radio che cantava in un angolo, l’acqua che scorreva e si confondeva col vento all’esterno.

Non sarebbe dovuta andare in quel modo, tentavano di rammentarsi, ma le loro menti si rifiutarono di pensarlo.

Si separarono dopo un tempo indefinito e rimasero in silenzio a guardarsi. In fondo, sapevano che sarebbe andata così, lo avevano capito sin dal primo momento, probabilmente. E allora, che così fosse.

- Mmh… sai di caffè – ridacchiò Gojyo, la voce bassa.

- E tu di sigaretta – disse Hakkai di rimando, azzardandosi a posargli le mani sui fianchi.

Il rosso sorrise e gli sfilò gli occhiali: - Non si può desiderare di più – concluse, e lo baciò di nuovo.

Lasciarono da parte le inibizioni e l’incertezza iniziale, stavolta. Gojyo strinse a sé Hakkai, imprigionandolo al contempo tra il proprio corpo e il bordo del lavello; Hakkai gli passò entrambe le braccia attorno al collo, perso.

Rabbrividì nel sentire le dita calde dell’altro farsi strada, libere, al di sotto del suo maglione e iniziare a carezzargli la schiena, ma le lasciò fare con piacere. Era la prima volta che gli capitava di abbandonarsi a qualcuno con tanto trasporto, e già sentiva che difficilmente ne avrebbe fatto a meno, d’ora innanzi.

- Hakkai – mormorò il rosso all’improvviso, roco – Non amo farlo in cucina -

Il moro rise piano: - Vieni con me – replicò, e lo prese per mano, conducendolo verso la propria camera.

 

 

All’Hotel, nello stesso momento, Sanzo camminava irrequieto su e giù per la stanza. Dalla finestra semiaperta filtrava un refolo di vento pungente, il posacenere era ormai stracolmo di mozziconi di Marlboro e lui non riusciva a prendere sonno. Non perché ci fossero stati accadimenti particolari durante quella giornata, né a causa dell’ennesima assenza misteriosa di Hakkai, il quale, il biondo ne era certo, si stava mettendo nei casini assieme all’ispettore dai capelli scarlatti. A Sanzo importava il giusto, eppure c’era qualcosa che lo innervosiva.

Con ogni probabilità c’entrava il fatto che troppo spesso i suoi pensieri si focalizzavano su Goku: da quando aveva seriamente rischiato di baciarlo, quella notte in cui avevano parlato nel cortile, non se lo toglieva di testa. E se qualcuno avesse avuto il fegato di domandargliene il motivo lui non avrebbe potuto – e voluto – dare risposta.

Chissà perché gli era balenata l’idea di baciarlo, poi. Ancora un’idiozia, di sicuro.

Ma il sonno non accennava ad arrivare, e la sua agitazione era divenuta insopportabile. Perciò, il biondo uscì di scatto dalla camera, lasciando aperta la finestra e senza dare doppie mandate alla porta, senza nemmeno sapere dove andare. Oltrepassò i corridoi fiocamente illuminati, scese le scale con passi decisi e ovattati, e alla fine arrivò all’ingresso del Moon Indigo, per una volta deserto e quasi buio, quasi invitante. Vi si addentrò di un po’, notando quanto gli piacesse di più quel posto se privato della solita gente odiosa, dal brusìo e dall’odore forte di sigari e profumi aggressivi; erano accese soltanto le luci basse agli angoli della pista e quelle dietro al banco-bar, e tutto era silenzioso. E forse Sanzo sarebbe tornato indietro, se non fosse stato per il pianoforte, il vecchio pianoforte nero a coda che se ne stava, come sempre, al centro della pedana riservata ai musicisti: era solitario e chiuso quanto lui, e gli mise addosso una gran voglia di suonare. Non lo faceva da anni, pur avendo studiato sin dall’infanzia.

Così si avvicinò allo strumento, ascoltando lo scriocchiolare delle proprie scarpe sul parquet lucido, e prima di sedersi sullo sgabello girevole sfiorò il legno scuro con la punta delle dita, assorto. Poi toccò i tasti bianchi con inconsueta delicatezza, passando mentalmente in rassegna i brani che conosceva, e infine si decise.

C’era una canzone inglese che gli piaceva moltissimo, di cui non rammentava né titolo né autore ma che ricordava a memoria: le sue mani si mossero da sole, nell’eseguire le note d’inizio che riempirono la sala vuota, e subito dopo la voce le imitò, sorprendendo persino Sanzo medesimo. Gli sembrava di non cantare da secoli.

 

I've seen the bridge and the bridge is long
And they built it high and they built it strong
Strong enough to hold the weight of time
Long enough to leave some of us behind

And every one of us has to face that day
Do you cross the bridge or do you fade away
And every one of us that ever came to play
Has to cross the bridge or fade away

 

Non era certo che le parole fossero esatte, però andò avanti comunque, dacchè gli pareva di stare un po’ meglio. il volume crebbe piano piano, la musica divenne più chiara, e Sanzo cantò ancora.

 

Standing on the bridge looking at the waves
Seen so many jump, never seen one saved
On a distant beach your song can die
On a bitter wind, on a cruel tide

And every one of us has to face that day
Do you cross the bridge or do you fade away
And every one of us that ever came to play
Has to cross the bridge or fade away

 

Un ponte da attraversare, sì. Forse era così che si sentiva, come messo di fronte ad un bivio, ad una scelta, anche se all’apparenza, in quel momento, non aveva niente da scegliere. O almeno di questo voleva convincersi.

Ma proprio in quegli stessi istanti, a sua insaputa, un’altra persona stava vagando insonne per i corridoi deserti dell’albergo, una persona che udì la canzone provenire dal pianoterra, dal Moon Indigo buio, e che si affrettò a raggiungerne l’entrata per scoprire chi fosse il proprietario di quella voce tanto calda e di quel suono intenso.

Il biondo sulle prime non s’accorse della presenza di Goku sulla porta, immerso com’era in ciò che stava facendo; non incrociò subito il suo sguardo meravigliato e assorto, mentre seguitava a cantare:

 

And the bridge it shines
Oh cold, hard iron
Saying: come and risk it all
Or die trying

 

Un mezzo sorriso amaro gli sfiorò le labbra. Anche lui, anche loro, sarebbero morti nel tentativo? Il tentativo di fare cosa, poi? Di cambiare la situazione? Di scoprire finalmente l’assassino di suo padre? Di guadagnarsi un’esistenza più normale? O semplicemente, nel tentativo di ammettere che il suo cuore raggelato riprendeva a battere?

La voce sfumò, le dita corsero di nuovo sui tasti tiepidi, in una sorta di carezza, e Sanzo socchiuse gli occhi lasciandosi trasportare, per una volta. Se la musica ne era capace, meglio approfittarne.

E Goku, che intanto aveva mosso alcuni muti passi avanti per avvicinarsi al bordo della pista, restò immobile e altrettanto muto a guardarlo suonare, una mano serrata a pugno sulla stoffa della maglia come a voler trattenere la tempesta di sensazioni che quella scena gli stava scatenando dentro. Aveva voglia di piangere: quella musica, la voce di Sanzo e la sua espressione, le dita che danzavano… era tutto talmente bello! Loro due, in una sala vuota. Sembrava un segreto da custodire gelosamente, un momento che non avrebbe mai condiviso con nessun altro.

 

And every one of us has to face that day
Do you cross the bridge or do you fade away
And every one of us that ever came to play
Has to cross the bridge or fade away

Has to cross the bridge or fade away

 

La canzone pareva terminata. Le ultime note risuonarono liquide e limpide nella grande stanza e infine svanirono, cedendo il posto al solito silenzio. Il biondo allora rialzò il capo e si rese conto di non essere solo: eccolo lì, l’oggetto dei suoi più frequenti pensieri, una figura sottile avvolta in un ampio maglione chiaro che lo fissava con uno sguardo perso e sognante dipinto in quelle iridi ambrate. Zitto e fermo, tratteneva il respiro, e Sanzo, nel capirlo, dovette trattenersi dal precipitarsi da lui per abbracciarlo. Già, lui si tratteneva sempre.

Non dissero una parola, né il biondo né il ragazzo, continuando a guardarsi in una maniera che valeva più di dieci frasi futili e che era dieci volte più pericolosa. Come and risk it all

Fu Goku, inaspettatamente, il primo a riscuotersi: aprì la bocca come per parlare, poi la richiuse di scatto, abbozzò un sorriso imbarazzato e girò i tacchi, allontanandosi in fretta. Sanzo non provò a fermarlo, non essendo sicuro di sé stesso, si limitò a seguirlo con gli occhi. Bastava poco, ormai, per farlo ammorbidire, diamine.

Scosse la testa, adesso meravigliosamente sgombra, e riprese a suonare nella sala deserta.

 

 

Se glielo avessero predetto tempo addietro, Hakkai non ci avrebbe creduto affatto, esattamente come Gojyo. Non avevano pensato che un giorno avrebbero potuto sentirsi in quel modo: prigionieri e liberi, felici e smarriti, sul punto di morire con dolcezza e vivi, vivi come non mai. Le mani incatenate, le labbra dell’uno mescolate con quelle dell’altro, i corpi vicini e caldi e pulsanti e sudati che si confondevano con le lenzuola quasi fredde, a confronto, le voci unite in forti respiri che riempivano la stanza buia, e quella punta di dolore che rendeva ancora più impetuoso ciò che sentivano, stordente e bruciante e intenso come forse mai avevano provato sinora. Mai, niente di simile.

Loro che avrebbero dovuto essere nemici e che fin dall’inizio non lo erano stati, adesso era lì, a bearsi delle reciproche grida e del piacere che reciprocamente si davano: era così che doveva andare, così era andata.

Gojyo quella notte lo amò con attenta passione – e a ripensarci in seguito si stupì quasi, conoscendosi.

Hakkai lo ricambiò con un trasporto immenso, superato l’iniziale imbarazzo – e si sorprese anche lui.

Quella notte forse finì persino troppo presto, ma seppe renderli dannatamente felici.

 

 

 

٭ Eighth Chapter Ends ٭

 

 

 

 

 

 

 

 

Note dell’autrice:

phew… pare che sia riuscita a terminare in tempo per Natale questo nuovo capitolo ^^! Ammetto che forse potrà risultare un tantino “strano”, se non altro per come ho tirato via (temo) nel finale… chiedo venia, con Gojyo e Hakkai devo ancora prendere la mano XP Comunque spero che abbiate gradito lo stesso: vi prometto che in futuro farò meglio!

E poi sono tremenda, veramente, non riesco a non dare spazio agli altri due… *risatina imbarazzata*

Passando ai dettagli tecnici, la canzone cantata/suonata da Sanzo è The bridge di Elton John (per la serie: non sono fissata con ‘sto benedetto cantante, no no no ¬_¬), canzone che personalmente adoro e che ho trovato anche abbastanza adatta, come testo, alla vicenda intera. Mi raccomando, rileggetevi la scena con la musica in sottofondo, rende di più ;-)

E il prossimo capitolo… beh, stavolta toccherà al passato di Hakkai venire a galla; contemporaneamente, ci si avvicinerà sempre di più al momento in cui i giochi si faranno pericolosi da entrambe le parti. Se vi chiedete quanti capitoli vi aspettano ancora, vi rispondo che in totale saranno circa una quindicina, se tutto va bene… altri 7, quindi! Sperem di farcela *_* “

Immancabile: GRAZIE MILLERRIME per recensioni, commenti in diretta e complimenti, mina-san!! Continuate a seguirmi! E poi, un appello alla mia amante Simo… aiò, tesoVa, se non leggi questo ti ripudio XDD (scherzo, ne’)

||Consuete Curiosità|| Il titolo del capitolo è tratto da un’ennesima canzone di Sir Elton, ovverosia Freaks in love; la background-music di stavolta, invece, son stati gli album To bring you my love di PJ Harvey e The best of dei Massive Attack, più alcune canzoni sparse dei Nickelback (Far away), dei Placebo (Song to say goodbye) e dei Pearl Jam (Black).

E anche per questo aggiornamento è tutto ^^ Ci sentiamo alla prossima! yours Blackmoody ~

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 9
*** O9. I'm Gunnin' Down Romance ***


The LOST

The LOST

Life Of  Sunsheltered Tokyo

 

 

 

 

 

 

O9. I’m Gunnin’ Down Romance

 

 

 

Al risveglio, il mattino seguente, Hakkai ci mise un po’ per ricollegare in maniera logica gli avvenimenti della giornata appena trascorsa. Ci mise un po’ persino a ricordare perché mai, aprendo gli occhi, si fosse trovato davanti l’ordine impolverato della sua vecchia camera e perché non fosse al’Hotel. Guardò fuori attraverso le palpebre ancora pesanti di sonno, riconoscendo gli alberi e le finestre delle case vicine, scuotendosi pian piano; poi girò la testa verso la stanza e vide Gojyo, ancora addormentato al suo fianco: appariva così tranquillo e beato, arruffato tra coperte e lenzuoli sfatti e con i capelli cremisi spettinati, che il moro non potè impedirsi di sorridere e ridere sottovoce. Dei, come si sentiva felice!

Sembrava che il cuore dovesse esplodergli da un momento all’altro, balzargli fuori dal petto. C’era però, in quella contentezza, una punta recondita di ansia, un pensiero rivolto costantemente alla domanda “come la mettiamo adesso? “. Non che avesse mai avuto la reale intenzione di seguire gli ordini di Fujiwara, dacchè aveva conosciuto l’ispettore, ma ora la cosa si era concretizzata: ora era con il boss che doveva fare il doppio gioco.

E questo costituiva un ulteriore problema. Aveva sempre un debito nei confronti del clan. Gli era forse concesso metterlo da parte? Non era da lui.

Gojyo si mosse sul materasso, catturando la sua attenzione e distogliendolo, per fortuna, da quei ragionamenti che certo erano poco adatti ad un tale risveglio: goditi il presente, Hakkai, si disse. Goditelo almeno finchè non tornerai all’Hotel.

- Buongiorno – mugugnò il rosso guardandolo di sottecchi e tentando di sfoderare uno dei suoi soliti sorrisi da seduttore.

Il moro si chinò su di lui, sfiorandogli la fronte col proprio naso: - Buongiorno a te. Un caffè? – s’informò.

L’altro si mise a ridere e si puntellò su un gomito: - Se è come quello di ieri sera, fammene anche due – scherzò, allusivo.

Hakkai rispose alla risata e si alzò dal letto, andando come prima cosa a prendere un telo da bagno che si arrotolò attorno ai fianchi nudi; quindi lasciò Gojyo a finire di svegliarsi e si recò in cucina per preparare qualcosa che rassomigliasse ad una colazione normale. E l’ispettore, nel frattempo, mentre si passava una mano tra le ciocche impazzite e ascoltava i rumori della casa e della strada sottostante, pensò che doveva rivelare al compagno quanto sapeva delle sue attività connesse alla Yakuza, a tutti i costi. Meglio non avere segreti, giunti a quel punto.

Non affrontò subito l’argomento, però, quando Hakkai tornò in camera sorreggendo un piccolo vassoio con su due tazze di caffè fumante. Per qualche minuto mangiarono e bevvero in silenzio, scambiandosi occhiate, e andarono avanti così finchè Gojyo non gli posò una mano sul braccio, il volto serio: - Cosa racconterai al tuo capo, questa sera? – domandò. E il modo in cui pronunciò la parola “capo” non lasciava dubbi su quel che intendeva.

Il moro tossì appena, le dita contratte sul manico della tazzina: - Cosa vorresti dire, Gojyo? – ribattè, la voce bassa.

L’ispettore tolse la mano, continuando a fissarlo severamente: - Lasciamo perdere i sotterfugi, Hakkai. So per chi lavori e immagino molto bene il motivo per cui mi hai avvicinato, tre mesi fa. Ciò di cui non sono a conoscenza è quel che tu abbia riferito a Hiroki Fujiwara e quel tu abbia in mente di fare adesso. Comunque, sei libero di proclamarti mio nemico in via ufficiale – concluse con un mezzo sorriso.

- Come… da quanto lo sai? – boccheggiò Hakkai. Mentire gli sembrava stupido.

- Gli sbirri saranno stolti, ma non così sciocchi, credimi. Mi sono permesso di informarmi su di te, dopo averti conosciuto, poiché con i tempi che corrono è meglio non fidarsi troppo di chicchessia – spiegò – E ho scoperto particolari che ignoravo. Ammetto di averlo fatto anche perché mi interessavi già, principe – aggiunse sorridendo. Non si era dimenticato della battuta telefonica del giorno prima.

Hakkai esalò uno sbuffo che rassomigliava ad una minuscola risata, ma non disse niente. Quali particolari?

- Ho scoperto, ad esempio – proseguì Gojyo quasi leggendogli nella mente – che anni fa hai lavorato in polizia -

Bastò quello. Bastò, per mozzargli il respiro, per farlo irrigidire. Il passato alla ribalta, ecco cos’era. Non che lui lo avesse mai messo da parte, né cercato di farlo, questo no: ma gli faceva male risentirne parlare quando non era lui a volerlo. E il rosso dovette fare caso allo sguardo ferito che si era cristallizzato negli occhi chiari dell’altro, tanto che tornò a posargli una mano sul braccio, stavolta con più dolcezza.

- Mi dispiace. Ho toccato un tasto dolente, eh? – disse allora, carezzandogli piano la pelle.

Il moro scosse la testa: - Non scusarti, non ne hai motivo. Anche se purtroppo hai ragione – mormorò. Si sentiva a disagio.

Per un po’ sia lui sia Gojyo rimasero in silenzio, evitando di guardarsi negli occhi dal momento che sapevano perfettamente che avevano raggiunto un nodo fondamentale. Un nodo di svolta. Chi dei due avesse parlato per primo, adesso, avrebbe decretato buona parte di ciò che li aspettava.

Fu Hakkai a riaprire bocca, sorprendendosi leggermente: - Forse vorresti saperne di più, Gojyo? – chiese piano.

Il rosso scrollò le spalle, senza guardarlo: - Io sarei curioso, però se tu non te la senti… - rispose con un sospiro. Diamine, se era curioso. Sul dossier riguardante il moro, il plico di fogli che aveva rintracciato nell’archivio della sede, erano contenute ben poche informazioni riguardo ciò che era accaduto ad Hakkai durante il suo breve periodo come poliziotto; non vi era nemmeno scritto perché se ne fosse andato all’improvviso.

- Devo sentirmela – replicò questi, accostandosi al compagno – Credo sia giusto che tu sappia tutto di me, ormai -

E magari parlandone qualche fantasma, qualche ombra di quelle che gli albergavano dentro da anni, si sarebbero dissipate, sbiadite, o pur restando avrebbero acquistato un senso. Voleva fidarsi di Gojyo e voleva credere, anche, che almeno lui sarebbe riuscito a farlo stare meglio.

Perciò si ridistese sul letto, gli occhi verdi rivolti al soffitto e le braccia incrociate dietro la testa; avvertiva lo sguardo dell’altro su di sé, in attesa, e per chissà quale ragione stupida per un attimo si soffermò a pensare che avrebbe dovuto lavare le tazze del caffè, prima.

Ma poi prese un profondo respiro e cominciò a raccontare, a voce bassa, la storia che si portava sulle spalle da tanto, tanto tempo.

 

 

- Mio padre ha sempre avuto buone conoscenze in polizia. Ecco perché riuscii subito ad entrarvi per un periodo di prova quando avevo appena finito le superiori e iniziato l’università. Ero deciso a portare avanti entrambi gli impegni, soprattutto per non deludere i miei familiari… una di quelle idee inutili che ti vengono da ragazzo. Però lavorare in polizia mi piaceva moltissimo, nonostante all’epoca le mie mansioni si limitassero al lavoro d’ufficio. Il primo anno trascorse così, senza scossoni, che quasi non me ne resi conto. Ricordo che fui contento come una pasqua il giorno in cui mi comunicarono che, considerate le mie precoci capacità, avrei potuto partecipare attivamente a certe azioni; credo che ci fosse dietro la mano di mio padre, ma nessuno certo me lo venne a dire. Avevo vent’anni e m’importava solo di essere utile a chi mi circondava.

Per circa un mese mi allenai, imparando a sparare e affinando le mie conoscenze in fatto di arti marziali, e finalmente mi ritennero pronto. Ci furono alcune rapine, due casi di rissa violenta, persino un tentato omicidio, e andai anch’io con i miei compagni, a dare il mio contributo. Credo mi ritenessero una specie di “prodigio”, e in effetti me la cavavo già bene. E poi… poi saltò fuori quella faccenda, all’improvviso.

Un grosso giro di prostituzione e droga legato a potenti boss della Yakuza. C’era un bordello, ad Akihabara, che era stato individuato come il centro nevralgico di questa organizzazione, ed io venni mandato là per indagare sul campo. Probabilmente mi scelsero perché, a dispetto dell’ammirazione che suscitavo e della fiducia che riponevano in me, ero comunque il novellino, l’ultima ruota del carro. Se fossi finito male non sarebbe stato un problema trascendentale, ecco quello che di sicuro pensavano. Accettai, desideroso di togliermi quel ruolo scomodo di dosso. Ero diverso, allora… -

Hakkai fece una pausa, pensieroso. Ricordare questo era la parte più difficile. Ricordare il momento in cui l’aveva conosciuta.

- Ti confesso che ero teso come una corda di violino, quando misi piede nel locale. Si chiamava Hanamachi, la città dei fiori. Era stato costruito ad immagine e somiglianza delle case da thè dell’epoca Edo, e molte delle donne che vi lavoravano erano agghindate a mo’ di geisha… mi sentii quasi catapultato indietro nel tempo, immagina. Il piano era semplice: avrei dovuto comportarmi come un qualsiasi cliente e, con la scusa dell’alcol, raccogliere quante più informazioni mi era possibile, dalle ragazze e dagli altri avventori. Come vedi i miei compiti non sono cambiati troppo -

aggiunse con una risata asciutta. Gojyo non commentò nulla e aspettò che proseguisse, osservandolo attraverso le palpebre abbassate.

- E la vidi immediatamente. Non mi guardai nemmeno intorno per decidere su quale “geisha” ripiegare. Vidi lei, che serviva da bere in un angolo, e non capii più niente. Mi feci servire un cocktail forte, mentre pensavo a come avvicinarla, e quando fui abbastanza alticcio da non preoccuparmi mi diressi nella sua direzione. Non scherzo se ti dico che mi andò bene alla prima -

Era una ragazza della sua età, forse un paio d’anni di più, con un volto bello e armonioso e pallido ombreggiato dai ciuffi di capelli castani scuri che le sfuggivano dalla lunga treccia in cui erano stati raccolti; indossava un kimono cremisi e bianco, e si muoveva piano senza parlare molto.

Si chiamava Kanan Okazaki. Gli si presentò così, sorridendogli con riserbo e chinando il viso, le mani a ravviarsi le ciocche.

- Puoi immaginare cosa avrei dovuto fare, se tutto fosse stato normale. Avrei dovuto fingere di sedurla, farla parlare, magari portarmela a letto senza badarci particolarmente. Invece quella prima sera parlammo e basta, e parlammo un sacco, seduti su uno dei divani con l’aria leggera di chi si sta tentando a vicenda in modo da non destare sospetti. Scoprii dopo poco che lei era la figlia del boss del clan rivale di quello che controllava l’Hanamachi e che si era vista costretta a lavorare lì per garantire al padre un minimo di sicurezza: finchè lei avesse prestato servizio per loro, il suo clan non avrebbe corso grossi rischi. O meglio, fin quando ai più potenti fosse servito il loro appoggio. Io presi mentalmente nota di quel che mi veniva detto, sebbene non fossi completamente lucido, e mi azzardai persino a chiederle se sapesse il nome dell’uomo che si muoveva dietro all’intera vicenda e alla sua vita… in fondo, era quello il mio obbiettivo. Ma Kanan scosse la testa, mormorando di non averne idea, e ancora oggi non so dirti se fosse la verità o una menzogna per proteggersi. Comunque mi ritenni soddisfatto, perché la avevo conosciuta -

Gojyo seguitava a non fare commenti. Voleva sentire il resto della storia, convinto che ci fossero particolari importanti che erano sfuggiti allo stesso Hakkai, annebbiato dalla tensione e dai sentimenti che provava per la ragazza. E poi… sì, non faceva commenti perché un po’ l’immagine di lei lo infastidiva: non tanto perché era venuta prima di lui, quanto perché gli sembrava che il moro gli si fosse legato perché gliela ricordava.

Stessa identica situazione, o quasi. Stesso identico conflitto tra ciò che doveva e ciò che voleva fare, in base ai suoi sentimenti.

- Tornai a trovarla più e più volte, sempre meno con la scusa del mio lavoro di indagine. Ci furono anzi serate in cui non parlammo nemmeno, intenti com’eravamo a fare l’amore. La amavo in una maniera assurda, la desideravo, e in me si faceva via via più forte e insistente l’impulso di portarla via da quel posto e di liberarla da quel peso. Chi se ne importava di suo padre! mi dicevo. Sarebbe felice comunque, con me. Lo sarebbe di più, pensavo, e contemporaneamente mi pentivo per il mio egoismo. Nel frattempo il cerchio si stava stringendo attorno a noi: il mio ispettore capo, accortosi di qualcosa, mi mise in guardia, avvisandomi che se avessi continuato così avrebbero dovuto prendere seri provvedimenti; e vennero raddoppiati i controlli, sia su di me, sia su di lei, da parte di entrambe le fazioni. Furono uccisi un paio di membri del clan di Kanan, ci fu una sparatoria in cui rimasero feriti alcuni miei colleghi, l’Hanamachi divenne un vero e proprio punto d’incontro per passaggi di merce illegale.

Ci stava crollando tutto addosso. Lei aveva paura per suo padre e per sé stessa e per noi, io ero nervoso come mai ero stato fino ad allora, convinto di avere gli occhi dell’intero corpo di polizia puntati sulla schiena con sospetto. Ci avrebbero ammazzati, ne ero certo.

Perciò prendemmo infine la decisione di scappare. C’era della follia nella nostra agitazione, e forse se avessimo aspettato sarebbe andata diversamente. Ma volevo proteggerla ad ogni costo e volevo, anche, sfuggire a quel mondo in cui mi ero invischiato per mia volontà. Kanan non si convinse subito riguardo alla fuga, cedette dopo diversi tentativi, pur cedendo con decisione. Scappammo una notte d’aprile, mentre l’Hanamachi veniva circondato dai miei colleghi, pronti per la resa dei conti, e gli uomini del clan si apprestavano a far fuoco dall’interno e le donne urlavano.

Ci lanciammo in strada da una porta posteriore con le orecchie colme del rumore degli spari e delle voci, ed eravamo sicuri che in quell’inferno nessuno avesse badato a noi, che nessuno ci avesse visti, coperti dal buio. Ma non era così. Non era così –

Hakkai si alzò di scatto a sedere, le dita contratte sulla stoffa liscia del lenzuolo. Dei, se gli faceva male ricordare!

La corsa verso la macchina con due borsoni che sbattevano loro contro le gambe, la partenza isterica, Kanan che si voltava di continuo per controllare che nessuno li stesse inseguendo. Si ritrovarono fuori dalla città in un batter d’occhio: stavano già tirando un sospiro di sollievo quando si accorsero delle auto nere, indistinguibili, che li tallonavano a fari spenti. Non c’era luna, quella notte, il cielo era nuvoloso. E per quanto guardassero, né lui né lei seppero capire chi ci fosse dietro di loro. Hakkai accelerò e accelerò, ma quelli erano troppi e ogni volta li raggiunsero.

Tirarono fuori le pistole in un tratto aperto di strada, ancora più buio del precedente, e presero a sparare. Colpi maledettamente precisi. I vetri s’infrangevano con fragore, il veicolo sbandava, il moro non riusciva più a mantenere quel poco di calma che gli era rimasta. Kanan gridava.

Ma all’improvviso tacque e gli si accasciò inerte su una spalla; una macchina li aveva affiancati. Hakkai riuscì a vedere due sole cose prima che il nero vischioso di quella notte lo sommergesse: le sagome scure che miravano nella sua direzione, la prima.

E gli occhi stupiti di lei che lo fissavano, la bocca appena aperta, un rivolo di sangue che le colava in silenzio dalla tempia sinistra.

Ci fu uno scoppio, un bagliore, e poi più niente. Per un attimo pensò “sto morendo”. Con una certa speranza.

 

 

Quando terminò il racconto, il moro si abbracciò le ginocchia, posandovi la testa sopra, e Gojyo, sopraffatto, gli accarezzò la schiena nuda.

- Che cosa accadde, dopo? – mormorò. Forse non avrebbe dovuto insistere ancora, però…

Hakkai girò il viso per guardarlo: - Mi risvegliai in ospedale. C’erano i miei colleghi, mio padre, tutti sollevati nel trovarmi vivo ma delusi da ciò che avevo combinato. Nessuno mi diceva nulla di Kanan, nessuno parlava di quel che era successo sulla strada. Quando poi se ne andarono, ancora stizziti, persone che non conoscevo ne presero il posto. Uno di loro si presentò come Jonathan Rossini, vice-boss di un clan della Yakuza amico di quello del padre di lei, e mi assicurò di essere dalla mia parte. Mi rivelò che erano stati lui e i suoi a raggiungere il luogo dell’incidente e a portarmi in ospedale: mi avevano tirato fuori dalle lamiere, accorgendosi che respiravo ancora. Ma Kanan… - s’interruppe di nuovo.

- … era morta? – terminò per lui il rosso in un soffio.

- Sì. Lo era già quando ci trovarono, mi disse Rossini. Non era stato possibile salvarla –

Gojyo si mordicchiò il labbro inferiore: - Mi dispiace. E ti senti in colpa? Sei convinto di averla portata tu alla morte? –

Il moro scrollò le spalle: - All’inizio lo pensai. Ma presto capii che non era colpa di nessuno dei due, che non avremmo potuto evitare quella fine. Piuttosto provavo rabbia verso la Yakuza, che l’aveva uccisa, e verso i miei colleghi che non avevano saputo aiutarci, solo sospettare di me. Mio padre, poi… era capace unicamente di rinfacciarmi la mia immaturità e il fatto che non ero e non sarei mai stato un buon poliziotto, essendomi rivelato schiavo di sentimenti irragionevoli. In fin dei conti non aveva torto – rispose – Quindi avrei mollato tutto anche se Rossini non mi avesse proposto di lavorare per loro, entrando nel clan di tal Hiroki Fujiwara. Accettai, poiché dovevo loro la vita, ed accecato inoltre dal desiderio di trovare, presto o tardi, il suo assassino. Lasciai la mia famiglia, che si rifiutò di capire e che non mi ha contattato più se non in casi rarissimi.

Sono passati quasi cinque anni… -

- E il padre di lei? Sai dove sia finito? -

- Pare sia morto un anno dopo, circa. Ucciso o meno, questo lo ignoro –

- Capisco – concluse il rosso.

Adesso che era stato detto tutto, Hakkai si sentiva come svuotato, persino più leggero, nonostante la morsa che ancora lo stringeva. Gojyo sapeva chi era, cosa aveva fatto e perché era finito a fare la spia per conto della Yakuza, e poteva immaginare quale fosse il suo proposito reale.

La verità, comunque, era che non si trovava così male nel clan, per quanto poco legale fosse: lo avevano lasciato libero di muoversi come preferiva, senza osservarlo con malcelato sospetto, ricambiando, quando necessario, la fiducia con la fiducia. Eppure…

- Che cosa pensi di fare, allora? Ormai mi hai mostrato il tuo doppio gioco, principe – chiese Gojyo con un mezzo sorriso.

Eppure l’incontro con quell’uomo ironico dai capelli scarlatti lo aveva come risvegliato dal torpore in cui si era adagiato per quattro anni: non che avesse motivi per andare contro Fujiwara e Rossini e gli altri, col debito che aveva nei loro confronti, però non voleva più ingannarlo.

Dire che lo amava sarebbe stato eccessivo, ma si avvicinava pericolosamente a quel che provava.

- Se d’ora innanzi farò il doppio gioco non sarà con te, Gojyo – replicò serio.

Il tempo scorreva rapido, e Hakkai non poteva rimandare a lungo il momento di rientrare all’Hotel. Pertanto si rivestirono entrambi, e in silenzio risistemarono la camera e la cucina, ciascuno dei due immerso in riflessioni complicate, l’aroma del caffè ancora nelle stanze.

L’ispettore ripensava al racconto del moro, e più ci rimuginava più qualcosa gli suonava strano, una sensazione labile: c’era un punto oscuro che gli rodeva la mente con la sua importanza nascosta. Avrebbe indagato da solo sulla questione, senza farne partecipe il compagno.

Se c’era sotto quel che temeva, la cosa migliore era agire con cautela e scoprire le carte una volta che i dubbi si fossero chiariti. Gli venne da ridacchiare piano, all’idea che Hakkai era più simile a lui di quanto credesse: non era forse Gojyo, nel presente, il poliziotto che permetteva ai propri sentimenti di alterare i suoi doveri, esattamente come il moro aveva fatto con Kanan Okazaki? Come se tutto si volesse ripetere.

 

 

Si separarono sul tratto di marciapiede di fronte al cancello di casa, i visi e i capelli sferzati dal vento mentre si concedevano un bacio di saluto.

L’accordo era quello di rivedersi al più presto, come di consueto, se non più del solito, e la raccomandazione quella di stare bene attenti, adesso che il rapporto tra loro si era evoluto in modo pericoloso, a volerla intendere così. Hakkai entrò in macchina e mise in moto continuando ad agitare una mano in direzione del rosso, prima di partire. Gojyo rimase ad osservare l’auto che si allontanava e infine, quando questa scomparve dietro una curva, andò dalla parte opposta con passo rilassato, le ciocche infuocate che danzavano tra le folate fredde.

 

 

 

 

٭ Ninth Chapter Ends ٭

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note dell’autrice:

aaaah, oddei, scusatemi per il ritardo assurdo!! Ma ho finito ieri con gli esami di questo periodo, domenica scorsa c’è stato il Concerto d’Inverno e non sapevo veramente come riuscire a fare tutto… cosa che difatti non mi è riuscita ^^’’

Comunque, rieccomi qui. Altro capitolo incentrato esclusivamente su Gojyo e Hakkai e sul passato di quest’ultimo (giuro che ho finito coi flashback strappalacrime XD), che mi auguro di non aver trattato in maniera troppo sbrigativa. Oh, che le fans degli altri due non si disperino:

annuncio sin da ora che il prossimo li vedrà protagonisti assoluti… e chi ha orecchie per intendere intenda *risatina dietro al ventaglio*

Come al solito, fatemi sapere se questa “puntata” vi è piaciuta e, cosa altrettanto consueta, grassssie millerrime a tutte quante per i motivi che ben conoscete:

continuate a seguirmi, chè io ne sarò contenta e voi non rimarrete deluse (spero)!

Poipoipoi… oh, giusto, le curiosità musicali di turno:

||CC|| → il titolo del capitolo è preso dalla canzone Gunning down romance dei Savage Garden, che oltretutto mi sono ascoltata mentre scrivevo, assieme alla colonna sonora di Balla coi lupi e a Playing the angel dei Depeche Mode (più qualche song random, come Frozen di Madonna, Sky blue di Peter Gabriel, A beautiful lie dei 30 Seconds To Mars, Solo un sogno di Pacifico e Lucy di Anna “Nana + Blast”).

A risentirci al prossimo capitolo – che arriverà piuttosto presto! yours Black ~

 

 

 

 

 

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Capitolo 10
*** 1O. I Believe I Can Fly ***


The LOST

The LOST

Life Of  Sunsheltered Tokyo

 

 

 

 

 

 

1O . I Believe I Can Fly

 

 

 

Questo casto fuoco per il mio desiderio,

questa confusione per ansia d’equilibrio,

quest’innocente dolore di polvere nei miei occhi

solleverà l’angoscia d’un altro cuore

divorato dalle nebulose.

[Federigo Garcìa Lorca]

 

 

La neve cadeva lenta e fitta, quella sera. C’era un tale traffico, lungo le strade centrali di Tokyo, che Sanzo si trovò spesso bloccato in ingorghi impossibili, col rumore penetrante dei clacson che non faceva che aumentare il suo mal di testa e la sua irritazione. Niente omicidi quel pomeriggio, se non altro, ma aveva dovuto recarsi da un conoscente di Fujiwara per ritirare, da parte di quest’ultimo, documenti e una piccola valigia: aveva un paio di ipotesi riguardo al contenuto di essa, e non aveva voglia di accertarsene. Aveva guidato tutto il giorno, sotto la neve e il cielo biancastro, aveva sopportato le chiacchiere di un vecchio borioso, yakuza del peggior stampo, e il puzzo dei suoi sigari, e adesso era costretto pure a districarsi nel traffico prenatalizio.

La sua già labile pazienza era andata a farsi benedire. Aveva sempre trovato stupide le luci colorate e le vetrine straripanti di cose inutili in quel periodo dell’anno, persino quando era un bambino: il Natale gli piaceva, lo ricordava, solo se trascorso in casa, o all’aperto lontano dalla città, assieme a suo padre. Ora lo detestava soltanto.

Alla fine, ben più tardi di quanto avesse programmato, riuscì ad arrivare all’Hotel; dovette parcheggiare accanto al marciapiede, dato che il cortile laterale era completamente occupato, probabilmente a causa degli ospiti di Fujiwara giunti apposta per godersi i festeggiamenti, magari al Moon Indigo. Ebbe un inspiegabile moto di stizza, mentre sbatteva con forza lo sportello dell’auto e borbottava qualche accidente verso la neve e il freddo pungente.

- Buonasera, Hoshi-san. Tempo da lupi, eh? – lo salutò la sentinella di turno, amichevole.

- Fin troppo – ribattè Sanzo passandogli davanti senza fermarsi.

Si recò innanzitutto all’appartamento di Fujiwara con valigia e plico di documenti, e fu accolto con inusuale calore dall’uomo, il quale lo riempì di complimenti di fronte ad alcune persone, uomini e donne in abiti eleganti, che sedevano sulle poltrone del suo salotto. Il biondo immaginò si trattasse di altri amici e collaboratori, con le mogli.

- Perché non ti fermi con noi, Hoshi? Stavo giusto per far servire la cena – lo invitò Fujiwara.

Sanzo si ritrasse: - La ringrazio, ma preferirei andare a riposarmi, per adesso –

L’uomo rise: - Ti faccio lavorare troppo, vero? Almeno fai un salto al Moon Indigo, più tardi! – esclamò.

- Ci penserò su – promise il biondo senza grande impegno, e si congedò con un piccolo inchino formale.

La camera di Hakkai era vuota. Il moro, glielo aveva preannunciato, era uscito per incontrare il rosso ispettore Sha, con il pretesto che aveva da estorcergli nuove, preziose informazioni: ma se Sanzo conosceva l’amico, non aveva dubbi sul fatto che gli stesse nascondendo qualcosa. Da circa un mese a quella parte era più sereno e luminoso del solito, sorrideva in maniera spontanea e meno affettata. Si sentì ancora vagamente irritato, e forse persino invidioso di chissà cosa. Si rinchiuse in camera per un’ora buona, rimanendo steso sul letto a fissare i tendaggi sopra di sé, senza nemmeno rimuginare; poi si alzò, irrequieto, e se ne stette a fumare alla finestra guardando distratto i fiocchi di neve che cadevano sul giardino illuminato a festa e sulle persone che vi sostavano e transitavano, chiedendosi se era il caso di fare o meno un salto a quel maledetto locale.

Fu la sua mente a decidere per lui. Si sovvenne dell’ultima conversazione che aveva avuto con Goku, del loro incontro nella sala deserta al suono del pianoforte e della sua voce, rammentò gli occhi d’ambra ardente e il sorriso, e senza rendersene conto capì che voleva avere occasione di rivederlo. Si cambiò in fretta, indossando un paio di jeans e un maglione chiaro, mise in tasca accendino e pacchetto di Marlboro rosse e uscì della stanza prima che potessero venirgli dei ripensamenti a riguardo.

Era già piuttosto tardi: doveva essere stato in camera molto più di quanto credesse, poiché quando mise piede nella hall scorse entrambe le lancette del proprio orologio fermarsi sul dodici. Sbuffò, ed entrò comunque nell’ambiente fumoso, caldo, invitante e denso di musica e voci del Moon Indigo. Fece ben attenzione a evitare Fujiwara, Rossini e i loro tirapiedi, spinto da un’incredibile voglia di passare inosservato; ordinò un bicchiere di vino bianco e sedette ad un tavolo in penombra da cui poteva osservare tranquillamente il resto del locale. In pista c’erano solo donne, tra cui Sumire, la ragazza di Akira, e nemmeno tra i camerieri riuscì a scorgere una sagoma che somigliasse a quella di Goku. “Perché cavolo mi aspetto di vederlo?” si domandava con stizza. “Perché lo sto cercando?”

Quale che fosse la risposta, comunque, pareva che il suo insensato desiderio fosse destinato a non realizzarsi, considerato che del giovane non c’era traccia lì. Pertanto, Sanzo si trattenne al Moon Indigo giusto il tempo necessario di svuotare il calice e di salutare controvoglia una mezza dozzina di persone che conosceva.

Si scoprì estremamente sollevato, nel dirigersi verso la scalinata dell’ingresso per tornarsene in camera. Ma aveva mosso pochi passi lungo il corridoio illuminato con discrezione quando udì due voci innanzi a sé, scorgendone subito dopo i proprietari: uno era un uomo di mezz’età, che il biondo riconobbe come un compare di Rossini, palesemente sbronzo, e l’altro… era Goku. L’uomo aveva la mano sinistra posata sulla maniglia della porta che si trovava dietro di lui e la destra a stringere un braccio del ragazzo, che si divincolava protestando.

- La prego, Kozama-san, mi lasci andare! – gridava piano.

L’interpellato ridacchiò lascivo: - Guarda che ti pago bene, che ti credi! – sbottò.

- Le ripeto che il mio lavoro non è questo! – replicò Goku in tono a metà tra il duro e il disgustato.

- Ma se Jonathan mi ha detto di sì… eddai, comunque fa lo stesso… ti pago, non fare storie! -

Aveva aperto la porta e stava cercando di trascinarlo nella stanza. Sanzo si fece avanti.

- Per l’ultima volta, Kozama-san, mi lasci andare!! – esclamò ancora il ragazzo.

E visto che l’uomo non volle saperne di dargli ascolto, il biondo ritenne più che opportuno intervenire: si avvicinò veloce e gli sferrò un sonoro pugno in piena faccia, facendolo crollare miseramente a terra svenuto. L’alcol sapeva essere un ottimo alleato, niente da eccepire. Sotto lo sguardo stupito e sollevato di Goku trascinò Kazama fino al suo letto e ce lo lasciò cadere sopra con un gesto sprezzante:

- Domattina attribuirà il tutto alla sbornia. Non abbiamo di che preoccuparci – proferì – Ora andiamocene -

Goku annuì e lo seguì, sempre un po’ stranito, fuori dalla camera. Il cuore aveva preso a battergli con più forza del normale, com’era ormai abitudine che facesse quando c’era il biondo nei paraggi. L’aveva aiutato di nuovo. Ne era felice, più che felice, ma sentiva di dover dire qualcosa, sia per ringraziarlo sia per sapere il motivo per cui l’aveva fatto per l’ennesima volta. Avrebbe tanto voluto capire quali fossero i sentimenti di quell’uomo.

- Dove stiamo andando? – si azzardò a domandare mentre salivano le scale fianco a fianco.

- Ti sto accompagnando alla tua stanza. È bene che tu ci rimanga, stanotte -

Goku trovò la risposta vagamente deludente e non disse altro finchè non vi furono davanti. Si fermò ad una certa distanza dalla porta e si appoggiò al muro, stringendosi nella maglia nera che indossava, gli occhi quasi sognanti: Sanzo lo trovò pericolosamente adorabile, e stette zitto.

- Se continui ad aiutarmi non saprò più come sdebitarmi, lo sai? – disse alla fine il ragazzo sorridendo.

Il biondo scrollò le spalle: - Io non pretendo niente in cambio. Non ci pensare neanche –

Goku lo guardò: - Però voglio almeno ringraziarti – ribattè – Sei sempre nel posto giusto al momento giusto, quando mi trovo in queste situazioni, e ne sono felice. Grazie, davvero –

- Sei felice perché te ne tiro fuori? – indagò l’altro, inaspettatamente. Cosa voleva sentirgli dire?

- Certo! Ma soprattutto… beh, perché sei tu, Sanzo – rispose il ragazzo di getto. Cominciava a fare caldo.

Era questo, quello che voleva sentirsi dire. Non ebbe dubbi nemmeno un cinico come lui, nemmeno per un attimo, perché le parole di Goku gli avevano fatto nascere il piccolo, piccolissimo ed innegabile impulso di sorridere: ed era talmente tanto che non ne provava il desiderio! E il secondo desiderio, quello non così improvviso di prendere il ragazzo tra le braccia e portarlo via da lì, non era meno presente.

Ma si dominò e si limitò ad avanzare di qualche passo e a bloccare Goku al muro, ponendo entrambe le mani sopra la sua testa e guardandolo dritto negli occhi d’ambra ardente. Questi sussultò appena e non si mosse.

- Ascoltami bene – esordì Sanzo con una voce roca e vibrante che fece arrossire il giovane – Io non ti ho salvato da certe situazioni per avere la tua riconoscenza o per aiutarti. Non sono così interessato al prossimo -

S’interruppe, mentre l’altro aspettava e tratteneva il fiato. Il biondo fu colto dall’idea di non proseguire, di lasciar perdere e di non pronunciare la frase che avrebbe definitivamente dimostrato quel che realmente pensava, ma non era questo che voleva. Perciò si accostò un po’ di più a Goku, senza tuttavia sfiorarlo:

- Lo faccio perché vorrei che tu fossi mio, e mio soltanto – disse – Tutto qui -

Tutto qui. Nient’altro che la pura, semplice, stupida, bellissima verità che ormai ben conosceva. Non avrebbe parlato ancora: che fosse Goku a rispondergli, in qualunque modo e quando avesse inteso farlo.

E forse la risposta già gli si leggeva in volto, constatò Sanzo nel guardarlo di nuovo e nel notare che aveva le guance colorite, gli occhi lucidi e stupiti e le labbra socchiuse verso di lui, tanto che l’uomo dovette fare un notevole sforzo di volontà per allontanarsi senza prima catturarle tra le proprie. Ma avrebbe atteso una vera risposta.

- Va’ in camera, adesso – gli ingiunse in tono gradevolmente burbero.

Goku ebbe un leggero scatto, scuotendosi: - Ah! Sanzo… - balbettò.

Lui si avviò verso le scale, voltandosi un istante: - Buonanotte – tagliò corto, e prese a scendere i gradini dandogli sempre le spalle, ermetico e comunicando al tempo stesso un chiaro messaggio. Il ragazzo, con la mente ovattata e il viso in fiamme e il petto in tumulto, fece per aprire la porta della propria stanza ed entrarvi, ma si bloccò.

Non aveva detto nulla, non aveva lasciato capire niente di certo di quello che provava, della contentezza che gli aveva donato la frase di Sanzo. Era rimasto zitto e a bocca aperta come un cretino, e non aveva alcuna intenzione di concludere lì quella notte che sembrava – e che fu – così preziosa.

Sapeva qual era il messaggio che aveva immaginato di vedere sulla schiena del biondo che s’allontanava: Raggiungimi.

Non indugiò oltre. Richiuse di botto la porta e si precipitò giù per le scale, quasi correndo.

 

 

Era stato un completo stupido a limitarsi ad una specie di dichiarazione? Probabilmente sì, però se l’avesse preso senza essere certo dei sentimenti del ragazzo sarebbe stato alla stregua di Kazama, Rossini e degli altri idioti che lo consideravano una puttana o qualcosa di maledettamente simile. E lui non era uno stinco di santo, no, ma non si sarebbe mai sognato di comportarsi come loro. Soprattutto non con Goku, assolutamente.

Sbuffando con uno stizzito “tsk!”, Sanzo si sedette su uno sgabello imbottito accanto alla finestra, una Marlboro già in mano; nella stanza accanto tutto era silenzio, segnale che Hakkai avrebbe trascorso ancora una volta la notte fuori, e dal cielo ormai nero continuavano a cadere lievi le scaglie di neve. Si udivano pochissimi rumori.

Poi, un bussare discreto alla porta attrasse la sua attenzione, e il biondo si rialzò per andare ad aprire:

- Chi è? – domandò, pur sapendolo già.

- Sono io… posso entrare? – disse di rimando la voce imbarazzata di Goku.

L’uomo aprì uno spicchio di porta e s’affacciò nel corridoio, trovandosi davanti il ragazzo che lo guardava con un certo nervosismo e le mani nascoste dalle lunghe maniche della maglia: - Cosa vuoi? –

Goku gli puntò gli occhi negli occhi, deciso: - Risponderti – replicò.

- Non importa che tu lo faccia adesso – lo freddò Sanzo, più laconico di quel che in realtà si sentiva.

- Ma se conosco già la risposta da tanto tempo… da prima che tu me lo dicessi… perché dovrei aspettare? – incalzò il ragazzo, e aveva un tono così intenso che il biondo spalancò la porta lasciando che si avvicinasse alla soglia.

Goku continuò: - Dopo me ne tornerò di sopra, se lo desideri, ma prima… fammi parlare, Sanzo, ti prego –

Questi non protestò, ben lungi dal volerlo fermare adesso. Era il suo turno di attendere altre parole.

- Io… anch’io vorrei essere tuo, e tuo soltanto. Tuo soltanto – sorrise Goku – Lo vorrei davvero… -

La voce gli si ridusse ad un sussurro, e Sanzo tese una mano, afferrandogli un polso e tirandolo dentro la camera assieme a sé, per poi richiudere la porta e premurarsi di girare due volte la chiave nella toppa.

Il ragazzo si ritrovò così con le spalle appoggiate contro il legno e il respiro del biondo vicinissimo al suo, il calore inaspettato del suo corpo che iniziava a confonderlo, unito al profumo di tabacco e chissà quale fragranza:

- Ah… se non vuoi… non voglio che tu faccia questo… Sanz… - provò a dire in un soffio, controvoglia.

Sanzo gli circondò il volto con le dita fresche e chiare: - Sst. Ti ho lasciato parlare abbastanza, Goku -

Il giovane allora chiuse gli occhi, capendo con sollievo che il compagno desiderava la medesima cosa sua. Gli balenò per un attimo in mente il timore che l’uomo l’avrebbe tenuto con sé solo per quella notte e poi l’avrebbe lasciato andare una volta soddisfatta un istinto momentaneo, e che tutto sarebbe tornato come prima, o peggio; ma se anche era così, l’unica cosa che gl’importava era il presente.

Si abbandonò pertanto tra le braccia e alle labbra di Sanzo, schiudendogli la propria bocca con cieca e completa fiducia, e fremette. Quel primo bacio fu lento, lungo, assaporante, senza respiro, caldo, stordente, e meraviglioso: Goku si strinse alle spalle del biondo con spontaneità e quasi disperazione, e Sanzo di rimando lo serrò ancor di più contro il petto, allontanandosi pian piano dalla porta, continuando ad assaggiare la bocca e le labbra del ragazzo senza fretta.

Si separarono dopo istanti dilatati come giorni di sole e vento, il respiro accelerato e i sensi infiammati. Ripresero a baciarsi senza dire niente, ora profondamente, ora fugaci, le mani che si sfioravano e sfioravano la pelle al di sotto dei maglioni; Sanzo spostava le labbra da quelle brucianti di Goku al suo collo, a tratti mordendolo appena, cominciando a strappargli piccoli gemiti, e tornava alla sua bocca, ancora e ancora, perché era più inebriante di una droga. E lo teneva stretto, come se temesse di vederlo svanire da un momento all’altro, evaporare come pioggia.

Ma oltre i vetri un po’ appannati non pioveva più: cadevano indolenti i fiocchi bianchi, nello stesso silenzio denso e morbido che regnava nella stanza, denso e morbido al pari dei sospiri e del fruscìo delle stoffe su cui il biondo si adagiò, il ragazzo sotto di sé.

Fu bellissimo spogliarlo senza fretta, e lasciarsi spogliare da quelle mani esili e percorse da leggeri brividi, e sentire piano piano il contatto che, disarmante, aumentava tra i loro due corpi nudi e tiepidi, e vedere quegli occhi dorati fissarlo, liquidi e sorridenti, attraverso la frangia scura.

Non pensava più a Fujiwara, al Moon Indigo, alle pericolose assenze di Hakkai, a tutti i proiettili che aveva sprecato, al desiderio di vendetta che lo divorava. Non pensava a niente, e questo, per uno come lui, era un benevolo miracolo. O forse no: Goku era il miracolo.

Gli si abbandonava completamente, e al contempo gli donava un amore e un piacere che non avevano limiti. S’inarcava contro di lui ad ogni suo bacio, ogni sua carezza, ogni suo movimento, intrecciava le dita e le gambe con le sue, ansimava con dolcezza e gli cercava le labbra con le proprie, sempre così calde e piene, le guance arrossate e il respiro che gli tremava in gola. E lo sentiva, Sanzo, il battito forte del suo cuore.

Per lunghissimi minuti si rotolarono tra coperte e lenzuola bianche, non cessando mai di assaggiarsi, mentre le loro ombre unite danzavano sul muro nella poca luce e si accompagnavano alla neve che vorticava lenta contro il cielo nero di velluto. Velluto, come quelle sensazioni.

E dopo, dopo quei lunghissimi, eterni minuti, il biondo fu di nuovo sopra il giovane, e premette cauto con i fianchi contro i suoi fianchi, le mani che correvano su e giù sulle anche di Goku; e Goku, socchiudendo le palpebre, mordendosi appena il labbro inferiore, ancora gli si abbandonò, felice di farlo, e lasciò che Sanzo gli scivolasse dentro. Non fece caso al dolore, lo abbracciò soltanto, invocando il suo nome in un gemito mal trattenuto.

Si baciarono per l’ennesima volta, e quel sentire che li pervadeva divenne tanto forte da spazzar via le loro coscienze.

Le immagini si mescolarono, vorticando come i fiocchi chiari: la piccola lampada accesa in angolo, i riflessi vaghi sui vetri, il biancore di quel letto immenso, la porta nell’ombra lontana, e il soffitto a sovrastarli, il soffitto che Goku scorgeva dietro le spalle ampie di Sanzo.

I movimenti si fecero languidi, ondeggianti, incalzanti. Seguivano il ritmo dei loro sospiri e delle voci che a vicenda si chiamavano nel silenzio.

Poi ogni cosa parve esplodere, nelle loro menti già fluttuanti.

Fu come trovarsi davanti ad un grande mare luccicante sotto il sole, come essere avvolti in quella luce sotto un cielo che acceca.

Come esserci, in quel cielo straordinario. Perché fare l’amore con lui era…

Sì. Era come volare.

 

 

 

 

٭ Tenth Chapter Ends ٭

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note dell’autrice:

ebbene sì, anche questo capitolo è pronto. Vi ho fatto aspettare un po’, e ho scritto meno di quel che pensavo, ma come sempre il tempo è tiranno (e non lo dico tanto per dire, giuro @_@ <- sto per collassare) e ho fatto quel che ho potuto… spero che apprezzerete comunque!

Insomma, la scena 3x9 tanto attesa eccovela qui ^^ - ed era veramente un tot che non narravo di ‘sti due come protagonisti!

Non ho molto da dichiarare, circa questo capitolo, né molto da spiegare, ma voi fatemi sapere cosa ne pensate, as usual.

Dal prossimo cominceremo ad avviarci verso il climax della storia intera, perciò state pronte… ho in mente già tutto, e non vedo l’ora di metterlo per scritto *_*

(me, la donna che adoooora gli intrighi e l’azione *svah*)

E mo’, invece delle solite ||CC|| vi consiglio chiaro e tondo quali canzoni mettere in sottofondo per gustarvi il capitolo fino in fondo:

Live with me, Teardrop, Unfinished simpathy, Protection e Sly dei Massive Attack + Believe di Elton John + The dancer di PJ Harvey + The power of love dei Frankie Goes To Hollywood; e ovviamente, I believe i can fly di R Kelly, che dà anche il titolo al capitolo.

La citazione iniziale è tratta da una poesia di Federigo Garcìa Lorca che personalmente trovo stupenderrima.

Ah, dimenticavo! Come sempre, grazie mille a tutte! Continuate (e continuiamo) così :*

Ci sentiamo alla prossima! yours Blackmoody ~

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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