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Lista capitoli: Capitolo 1: *** O1. Kiss The Rain *** Capitolo 2: *** O2. Cigarettes & Alcohol *** Capitolo 3: *** O3. Danny Boy *** Capitolo 4: *** O4. Other Side Of The World *** Capitolo 5: *** O5. Postcards From Heaven *** Capitolo 6: *** O6. The Distance Between *** Capitolo 7: *** O7. I Thought It Was You *** Capitolo 8: *** O8. Damaged Goods *** Capitolo 9: *** O9. I'm Gunnin' Down Romance *** Capitolo 10: *** 1O. I Believe I Can Fly ***
Con un gesto di stizza, il ragazzo si tolse un
ciuffo di capelli biondi dalla fronte: era bagnato fradicio, e aveva ancora una
buona mezz’ora di cammino prima di poter arrivare a quella che era la sua
destinazione. Imprecò di nuovo dentro di sé contro le nuvole che lo
sovrastavano, rovesciandogli addosso la loro ira. E lui, a sua volta, covava
una rabbia cieca contro di esse. Odiava la pioggia, quelle implacabili
stille d’acqua che cadevano senza quasi far rumore; le stesse indifferenti
stille che avevano assistito assieme a lui, in una notte di due anni prima,
alla morte di suo padre. Erano piccole, leggere e letali, come proiettili. E
il ragazzo le detestava con forza.
Una macchina, passando lungo la strada,
sollevò uno spruzzo da una grossa pozzanghera, e lui fu costretto a ritrarsi
contro uno dei piloni del ponte sotto il quale si accingeva a transitare, onde
evitare di ricevere una doccia sporca e fuori programma: - Merda! Almeno fai
attenzione ai pedoni, stronzo – borbottò tra i denti.
Avanzò di qualche passo, e si bloccò. Aveva
intravisto, poco più avanti, la sagoma di quella che sembrava una persona accovacciata
contro un pilone, una figura minuta e immobile, silenziosa. Lo era a tal punto
che lo incuriosì, e il ragazzo le andò incontro, godendo al contempo del riparo
che gli offriva il largo ponte.
Non c’era molta luce, lì sotto, ma capì subito
che si trattava di un moccioso più giovane di lui, che sedeva per terra con le
ginocchia piegate contro il petto e la testa reclinata sulle braccia sottili,
con indosso soltanto un paio di jeans e un maglioncino leggero, come se fosse
scappato di casa in fretta e furia. Si avvicinò ancora, credendo che l’altro
stesse dormendo o fosse, addirittura, svenuto. Dovette ricredersi nel giro di
un istante, poiché non appena sentì i suoi passi il bambino alzò il capo e lo
guardò dritto negli occhi. Il ragazzo sussultò quasi: il viso del moccioso era
pallido, e il mondo che li circondava era grigio e piovoso, eppure le iridi che
lo fissavano erano calde e luminose, ambrate e grandi, benchè seminascoste da
ciocche di capelli castani impastati di gocce.
Il bambino tirò su col naso: - Chi sei? –
domandò. Aveva una voce incredibilmente tranquilla.
- Soltanto uno che passava per caso – rispose
il ragazzo, asciutto – E tu? Non dovresti essere a casa tua? -
Che osservazione idiota, gli venne da pensare
subito dopo.
- Non credo di avere più una casa – disse
l’altro scuotendo le spalle esili.
- E non hai nessun altro da cui andare? -
Il ragazzino fece un cenno di diniego, senza
smettere di guardarlo. Il biondo gettò un’occhiata attorno a sé: non c’era
nessuno oltre a loro, lì, non transitavano nemmeno più macchine, e la pioggia
continuava a scendere. Gli importava il giusto della sorte di quel moccioso,
però non gli piaceva l’idea di abbandonarlo lì, non dopo averci parlato, seppur
il minimo indispensabile. Non s’interessava più al prossimo, lui, ma fregarsene
di questo bambino gli sembrava un crimine, un affronto verso gli occhi dorati
con cui seguitava ad osservarlo.
- Quanti anni hai? – lo apostrofò di nuovo.
Quello gli sorrise timido: - Dieci. Li ho
compiuti il cinque di questo mese –
- Non m’importa sapere quando sei nato –
tagliò corto il ragazzo.
- E tu, invece? -
- Quindici – rispose sbrigativo. Poi gli tese,
abbastanza riluttante, una mano: - Dai, alzati di lì -
Il bambino lo fissò stupito per un attimo, e
infine afferrò la mano che l’altro gli aveva offerto; la sua era umida di
pioggia e terriccio, e nonostante tutto tiepida. Si rimise in piedi e sorrise
per la seconda volta:
- Io mi chiamo Goku. Son Goku – rivelò con una
certa infantile, immotivata e gradevole soddisfazione.
Il biondo ritrasse la mano: - Hoshi Sanzo.
Adesso seguimi – concluse, voltandosi per proseguire il cammino.
Goku non ribattè, si limitò ad obbedire, e gli
tenne dietro con passo svelto. Forse era sconsiderato fidarsi così di una
persona appena conosciuta, soprattutto nella situazione in cui si trovava, ma
c’era qualcosa in quel ragazzo dai capelli chiari e lo sguardo di ametista
amara che lo attirava e confortava.
Perciò si avviarono assieme lungo la strada
deserta e battuta senza sosta dalla pioggia d’aprile.
La casa di Makoto Uehara, l’unico parente di
Sanzo ancora in vita e amico di lunga data del suo defunto padre, si confondeva
tra decine di altre abitazioni simili in un quartiere di periferia di Tokyo,
una zona che, nei giorni di sole, si poteva considerare accogliente. Nei
pomeriggi cupi, invece, incuteva una specie di soggezione: era immersa nel
silenzio, con le vie strette rese meno plumbee dalle poche luci che filtravano
dalle finestre e le case semplici, alcune tristi e vecchie.
Quella verso cui si diresse il biondino, per
lo meno, era tra le migliori. Goku lo seguì fin sotto la veranda, e lo tirò
piano per un lembo della camicia bagnata: - Perché mi hai portato qui? –
- Perché queste persone potranno tenerti con
loro. È brava gente – spiegò Sanzo, sempre in tono piatto.
Il bambino sporse un po’ il labbro inferiore a
mo’ di broncio: - Io vorrei restare con te – si azzardò a dire.
Il ragazzo fu costretto a reprimere una risata
sarcastica. Si era bevuto il cervello, quel moccioso?
- Non mi conosci nemmeno, vedi di non sparare
cavolate – lo freddò. Avvertiva un vago imbarazzo.
Goku gli lasciò andare il lembo di camicia: -
Lo so che ti conosco da pochissimo. Però mi piacerebbe tanto –
Sanzo si chinò su di lui, cercando di apparire
il più autoritario e ragionevole possibile:
- Ascoltami bene. Io non posso tenerti con me.
Prima di tutto non mi pare una cosa sensata, e inoltre ho solo cinque anni più
di te e non ho più una vera famiglia. Vivo alla giornata. Credi che potrei
accollarmi una responsabilità del genere, cioè accudire un moccioso come te?
Non posso, punto e basta -
Si girò senza aggiungere altro e suonò il
campanello, mentre Goku sorrideva senza farsi vedere. Perché Sanzo aveva detto
“non posso”, e non “non voglio”. Era una magra consolazione, ma gli fece
piacere.
Attesero una manciata di secondi, e infine la
porta si aprì, e un uomo piuttosto anziano comparve sulla soglia, avvolto in un
tradizionale kimono da casa: - Sanzo? Come mai sei qui, oggi? – si stupì nel
vederselo di fronte.
- Ho un problema, Uehara-san – esordì il
ragazzo, scostandosi per indicargli Goku.
Makoto lo squadrò da capo a piedi, assorto, e
annuì con fare grave: - Sarà meglio che entriate – commentò, facendosi da parte
perché si mettessero al riparo nell’ingresso. Prima di chiudere la porta, però,
guardò fuori a destra e a sinistra, come per accertarsi, per chissà quale
motivo, che nessuno li avesse seguiti.
L’abitazione degli Uehara era senza pretese, e
confortevole. Goku dette un’occhiata in giro con espressione quasi avida, non
come se non avesse mai messo piede in un luogo accogliente, bensì come se fosse
felice di trovarsi di nuovo in un ambiente che lo rendeva sereno; Sanzo,
intanto, cercava di asciugarsi come poteva.
- Venite, venite, non statevene lì impalati –
li esortò Makoto, invitandoli a seguirlo nel soggiorno – Non mi aspettavo una
tua visita, ragazzo mio, credevo tu avessi ancora qualche commissione da
sbrigare -
- Le ho infatti – confermò il biondo – Ma ci
penserò più tardi. Non se la prenderanno -
L’uomo gli rivolse un sorriso senza allegria:
- No, per adesso non se la prenderanno – mormorò. Si sedette su un vecchio
divano e prese in mano una tazza di tè che doveva aver abbandonato per andare
ad aprire la porta.
Sanzo si accomodò su una poltrona e Goku,
temendo di sporcare la stoffa, si inginocchiò docilmente sul tatami, notando
quanto fosse strano vedere mobili in stile occidentale in una stanza
tipicamente giapponese.
- Veniamo al tuo problema, Sanzo – tornò a
dire Makoto – Chi è questo bambino? -
- Non lo so. L’ho trovato sotto al ponte della
Yamanote mentre venivo in qua. Si chiama Son Goku -
Nell’udire il nome, il volto dell’uomo parve
adombrarsi, o rattristarsi, ma fu questione di poco. Sanzo, comunque, pur
notandolo, fece finta di niente e proseguì: - Vorrei che lo tenessi con te –
Makoto e Goku si guardarono, poi il primo
tornò a rivolgersi al biondino: - Ne sei sicuro? Per me va bene, e penso che
mia moglie sarà d’accordo… del resto, sai che i nostri figli ormai stanno
altrove, ci farebbe piacere… ma voglio dire, non è che preferiresti restare con
lui? – indagò, cauto. Il bambino sospirò, speranzoso.
- Preferisco che stia con voi – ripetè Sanzo –
Con me correrebbe più pericoli, e io non voglio grane -
L’uomo si sporse in avanti, preoccupato: -
Pericoli? Che genere di lavori ti stanno già facendo fare? –
Il ragazzo alzò le spalle: - Non ho ancora
ucciso nessuno, se è questo che vuoi sapere. Mi usano come spia, se serve, e
soprattutto devo portare notizie e messaggi. Non mi piace lavorare per
quell’italiano, però devo pur guadagnarmi da vivere – rispose senza scomporsi e
guardando i vetri colanti d’acqua.
Makoto parve rincuorato e si riappoggiò allo
schienale del divano, mandando giù un lungo sorso di tè. Goku non si azzardò a
parlare. Quel signore gli stava simpatico e la paura provata prima di vedere
Sanzo si era ridotta ad un pessimo ricordo, eppure avrebbe voluto lo stesso che
il biondo lo tenesse con sé. Se qualcuno gliene avesse chiesto il motivo non
avrebbe saputo spiegarlo, solo dire che “sentiva” che era così.
- Lo affido a te, dunque – sentenziò Sanzo,
alzandosi in piedi. Doveva andarsene o avrebbe tardato.
- Puoi fidarti di me, ragazzo mio – lo
rassicurò Makoto con un sorriso paterno – E anche tu, piccolo, stai tranquillo.
Sono un vecchio burbero ma ho un cuore d’oro, garantito – disse con una
strizzata d’occhio.
Goku ricambiò il sorriso: - Grazie, Uehara-san
– mormorò. L’uomo lo guardò nuovamente con velata preoccupazione, seguendo un
pensiero suo, e di nuovo non aggiunse altro.
Poi, annunciando che andava a telefonare alla
moglie per avvertirla, si spostò verso la cucina, lasciandoli soli nel salotto.
Per un po’ i due ragazzi non fiatarono, il silenzio che ticchettava di gocce ed
orologi, e fu Sanzo a riprendere la parola per primo: - Ti troverai bene –
Goku mugolò per non sbilanciarsi: - Ti
ringrazio – fece, a mezza voce. Appariva così fragile…
Sanzo chiuse gli occhi un momento,
concentrandosi sulla propria parte fredda e razionale per non rischiare di
venirsene fuori con frasi inopportune, ma era pur sempre un quindicenne che
iniziava soltanto allora ad acquisire il cinismo necessario per resistere nel
mondo cui apparteneva e non riuscì a comportarsi con l’indifferenza che si era
augurato. Pertanto, s’inginocchiò di fronte al bambino e gli posò una mano su
una spalla:
- Non potevo fare altrimenti – ribadì – Un
giorno però tornerò, te lo prometto -
Goku incatenò per la seconda volta il proprio
sguardo di ambra ardente a quello violetto e inquieto del biondino:
- Me lo prometti? Sul serio? Ti rivedrò? –
chiese, incredulo.
- Tornerò a trovarti, sì. Prima o poi potrò
farlo – confermò Sanzo, e si rialzò.
Il ragazzino lo sentì muoversi per raggiungere
Uehara-san, nella stanza accanto, e li udì conversare piano, ma non capì bene
quello che si dicevano e ricominciò quindi a curiosare con discrezione.
Il biondo, invece, scambiò le ultime parole di
convenienza con Makoto, raccomandandosi di badare al moccioso e di salutare
Ayako-san, sua moglie. L’uomo garantì che non lo avrebbe deluso.
- Sanzo – lo richiamò quando questi fece per
dirigersi all’ingresso. Il ragazzo si voltò.
- Cosa c’è? -
- Abbi cura di te stesso. Sopravvivere in un
mondo come il nostro, soggetto alle regole del clan, non è semplice. Sono certo
che tu te ne sia già accorto, ma ti prego di una cosa sola. Non svendere il tuo
cuore. Oh, sì – aggiunse, notando la smorfia di Sanzo – so che pretendi di non
“averne” già più, e sai anche che non è vero. Puoi celarlo, serrarlo,
soffocarlo, ma il tuo cuore t’inseguirà sempre. Qualunque ruolo ti affibbieranno
in futuro, non gettarlo mai via. Tuo padre non lo vorrebbe, ed io nemmeno -
L’altro distolse lo sguardo, con aria
vagamente e volutamente sprezzante: - Non ti capisco, Uehara-san –
L’uomo sorrise e agitò una mano: - Abbi cura
di te stesso – ripetè – Arrivederci, Sanzo –
Questi chinò appena il capo e salutò a sua
volta. Si rinfilò le scarpe umide ed uscì senza voltarsi indietro, ma una volta
fuori gettò un’occhiata verso le finestre del soggiorno, intravedendo
attraverso le tende la sagoma esile di Son Goku camminare lentamente per la
stanza. Chissà se Makoto sapeva qualcosa su di lui… a giudicare
dall’espressione che ad un certo punto aveva assunto, avrebbe giurato di sì.
“Che m’importa, in fondo?” si chiese
all’improvviso.
Girò la schiena e si avviò giù per la strada,
riprendendo ad imprecare mentalmente contro la pioggia d’aprile che sembrava
penetrargli nelle ossa e nei pensieri al pari di quel paio d’occhi ambrati che,
come non troppo tardi si sarebbe reso conto, lo avevano inconsciamente stregato.
Ma allora, certo, non poteva saperlo.
٭ First Chapter
Ends ٭
Note
dell’autrice:
ed
ecco la tanto pubblicizzata nuova storia con i ‘Saiyukian’ come protagonisti
ancora una volta. E ancora una volta, in un’ambientazione AU… me ne scuso con
quanti preferiscono lo scenario classico, ma avevo un bisogno impellente di
buttarmi in questo (ennesimo ^^’’) lavoro e non ho saputo (né voluto)
trattenermi!
Come
primo capitolo non è particolarmente lungo e, forse, ancora abbastanza
ermetico, però garantisco che già dal prossimo spiegherò meglio svariate cose:
cosa intendo con ‘clan’ (ma l’avrete capito, credo, sebbene non sia sicura che
in Giappone usino lo stesso nostro termine), chi è “l’italiano” cui accenna
Sanzo… Per i dubbi di Makoto-san, invece, dovrete attendere.
In
ogni caso, che ne pensate? Spero davvero che vi piaccia e che continuerete a
leggere… ne sarei contenta ^_-
Qualche
curiosità: ho scritto questo capitolo tutto in una volta, in un paio d’ore, e
adesso sono le 3 e un quarto di notte… ma si sa, il sabato sera è lecito fare
queste pazziate, anche se si è appena tornati da una consueta uscita con la
propria combriccola XP; ho lavorato col sottofondo musicale (immancabile ♥
)
delle colonne sonore dell’ Ultimo Samurai e di V for Vendetta,
mentre al momento concludo sulle note di Ordinary World dei Duran Duran
(rilassiamoci… *-*).
Il
titolo del capitolo è ripreso dall’omonima canzone Kiss the rain, ma non
ricordo di chi è… perdono!!
Grazie
per aver letto fin qui. Alla prossima “puntata”, mi raccomando!
See
you soon and go to the West! yours BlackMoody ~
La sveglia suonò con insistenza una, due, tre volte, e
Sanzo si rigirò nervoso nel letto dando, nel frattempo, una pesante manata
sull’innocente oggetto che faceva il suo dovere sul comodino lì accanto. Ma gli
squilli non s’interruppero, e il biondo fu costretto ad alzarsi del tutto per
capire, dunque, da dove provenissero: qualcuno stava scampanellando alla porta.
La sveglia doveva aver suonato già da un pezzo.
- Arrivo, arrivo – bofonchiò Sanzo avviandosi
ad aprire, senza curarsi di avere indosso solo i boxer.
Si ritrovò davanti un paio di occhiali lucenti
e un giovane uomo bruno della sua stessa età, vestito con cura, che gli augurò
il buongiorno con uno dei suoi soliti smaglianti sorrisi. Il biondo sbuffò.
- Hakkai, ti rendi conto di che ore sono? – lo
aggredì.
Il moro rise appena: - Stranamente tardi,
considerato che in casi normali ti alzi all’alba –
Sanzo sollevò un sopracciglio sottile: - Non
fare sempre del sarcasmo, è irritante. Cosa vuoi? –
- Posso entrare? – e prima ancora che l’altro
annuisse avanzò all’interno, recando con sé una ventata di aria calda. Il sole
era già piuttosto alto e prometteva un’ennesima giornata di aria torrida.
Mentre Hakkai si toglieva la giacca e si accomodava su una sedia della cucina,
Sanzo andò a infilarsi un paio di jeans e a lavarsi il viso, rimuginando.
Cho Hakkai era così da quando lo conosceva.
Gentile fino all’esasperazione, intelligente, fin troppo acuto, e assieme privo
di scrupoli e remore se la situazione lo richiedeva; nessuno lo avrebbe
indicato come membro di quella struttura spietata che era la Yakuza, eppure nel
giro di pochi anni si era fatto strada tanto quanto lui, benchè in diversa
direzione: Cho Hakkai era sfruttato principalmente per le sue doti intellettive
e strategiche, non per la sua bravura nello sparare o nel maneggiare una katana
o un pugnale.
L’assassino professionista, ormai, era Hoshi
Sanzo, lo stesso che fino a nove anni addietro era un quindicenne che faceva la
spola tra un boss e l’altro e si nascondeva pure nei cessi per spiare ed
origliare.
Quello che uccideva era lui, e non andava poi
così fiero. Ma era lavoro, e lo svolgeva senza ribattere.
- Un po’ di caffè? – chiese Hakkai porgendogli
una tazza quando Sanzo tornò in cucina.
- Sei in casa mia – gli fece notare questi –
Non dovrei offrirtelo io? -
- Già che c’ero… - si giustificò il moro,
pacato. Aveva persino acceso la radio, e una sinfonia classica particolarmente
famosa riempì la stanza. Sanzo scosse la testa, deciso a lasciar correre, e si
sedette al tavolo.
Hakkai sorseggiò il caffè: - Ti chiedo scusa
per essere piombato qui senza avvisarti. Ieri sera ho provato a telefonarti, ma
non ti ho trovato. E non potevo aspettare il pomeriggio perché dobbiamo
muoverci – disse.
Il biondo lo guardò in tralice da sopra l’orlo
della tazzina: - Muoverci a o per fare cosa, dannazione? –
- Fujiwara vuole vederci – rispose l’altro –
Dobbiamo andare da lui entro l’ora di pranzo -
- Fujiwara? – ripetè Sanzo in tono strozzato.
Hakkai annuì senza parlare.
Il nome non era nuovo a nessuno dei due.
Hiroki Fujiwara era il capo, il perno del clan, quello che dettava le
leggi e gli ordini e che pochi avevano l’ardire di contraddire, come uno shogun
dei tempi andati. Gestiva gli intrighi della yakuza dell’intero Kantō e
controllava giri immani di denaro, e né Sanzo né Hakkai lo avevano ancora mai
incontrato di persona. Il fatto che desiderasse parlare direttamente a dei suoi
sottoposti era solitamente segno di sventura o, al contrario, di grandiose
opportunità: eppure, i due amici lo avrebbero volentieri evitato.
- Perché vuole vederci? – incalzò il biondo,
la fronte aggrottata.
- Non lo so. Rossini mi ha riferito soltanto
il messaggio principale, ovvero quello di recarci all’Hotel -
Sanzo sbuffò per la seconda volta: - Rossini…
non sopporto la sua boria – ringhiò.
- Silenzio, Sanzo… anche le tazzine nascondono
microspie – sorrise Hakkai.
- Se c’erano, le ho bevute assieme al caffè –
replicò secco lui, alzandosi – All’Hotel, hai detto? -
Il moro fece un cenno d’assenso: -
Direttamente nell’appartamento di Fujiwara – precisò.
- Allora vediamo di sbrigarci – concluse
Sanzo, e si avviò verso la propria camera per finire di prepararsi. Hakkai rise
in silenzio, stando ben attento a non ricordare al compare che gli aveva detto
esattamente la medesima cosa nell’arrivare. L’orgoglio di Sanzo Hoshi non aveva
limiti.
L’orgoglioso in questione ricomparve una
decina di minuti dopo, abbigliato come si confaceva all’occasione, la giacca
nera in una mano e una piccola pistola argentata nell’altra. Hakkai le gettò
un’occhiata:
- Non credo sia necessario che porti la tua
Smith&Wesson – disse, ragionevole.
Il biondo la fece scomparire in una tasca
interna: - Preferisco non esagerare con la fiducia – replicò.
Fece il giro dell’appartamento, spense la
radio e chiuse le tapparelle, poi afferrò il mazzo di chiavi poggiato su una
mensola dell’ingresso e si mise le scarpe; il moro lo imitò e attese che
aprisse la porta.
- Sei venuto in macchina, Hakkai? – s’informò
Sanzo, uscendo.
- No, ho preso la metropolitana, non avevo
benzina -
La porta si chiuse con un colpo e il biondo
inforcò un paio di occhiali da sole: - Prenderemo la mia –
Quindi si avviarono giù per le scale che
conducevano al parcheggio del condominio, senza parlare.
L’Hotel in cui Hiroki Fujiwara aveva stabilito
il suo quartier generale era, a tutti gli effetti, un ex albergo, tra i
migliori di Tokyo: si trovava nella zona residenziale della parte ovest della
città, e vantava un’architettura unica, mescolando stile giapponese e dettagli
europei; Fujiwara lo aveva acquistato dopo l’abbandono dei proprietari caduti
in rovina – c’era chi sospettava che ne fosse lui il diretto responsabile – e
adesso si era trasformato nella sede centrale del clan. Era però molto raro che
semplici pedine come Sanzo e Hakkai vi venissero invitate: era considerato un
luogo d’élite e pressochè proibito.
Il biondo accostò la macchina al marciapiede
con un’unica manovra, e i due scesero quasi di fronte alla grande porta
d’ingresso. Alla destra di questa, oltre alla vecchia targa dell’albergo,
spiccava un manifesto incorniciato che pareva pubblicizzare un locale: “Moon
Indigo – aperto dalle ore 23.00 in poi. Welcome in.”. Una scritta dorata in
campo nero, e più in basso il disegno stilizzato di un bicchiere da cocktail
circondato da petali scarlatti.
- Ne sapevi qualcosa, tu? – domandò Sanzo ad
Hakkai, indicando il manifesto.
Il moro lesse velocemente: - No. Ma credo
esista da diverso tempo – rispose enigmatico.
Sanzo scrollò le spalle: - Non è importante.
Entriamo e facciamola finita –
Salirono tre gradini e si ritrovarono nella
fresca hall dell’albergo, mentre una sentinella si muoveva subito loro
incontro. Si accertò che fossero davvero i signori Hoshi Sanzo e Cho Hakkai,
poi parlò rapido al cellulare e infine chiese ai due di aspettare cortesemente
lì l’arrivo di Akira-san. Quest’ultimo non si fece attendere troppo: comparve
in cima alla scalinata che portava al primo piano e li salutò con un sorriso
cordiale, stringendo la mano di entrambi quando fu loro vicino. Era un ragazzo
di circa vent’anni, magro e dai capelli piuttosto lunghi, ed era il figlio di
Fujiwara: - Mio padre vi sta aspettando – disse infatti – Vi prego di seguirmi
–
I due giovani obbedirono, e salirono l’ampia
scalinata tenendosi prudentemente al fianco del loro imberbe cicerone;
camminarono facendo poco rumore attraverso i corridoi silenziosi dell’Hotel e
si fermarono finalmente davanti ad una porta di lucido legno scuro. Akira
sorrise e spinse giù la maniglia:
- Signori, accomodatevi – li invitò, più
simile ad un maggiordomo che all’erede di tutta quella fortuna.
Sanzo e Hakkai, ancora, fecero come era stato
loro detto ed entrarono nella stanza mentre il ragazzo richiudeva la porta. E a
quel punto lo videro: Hiroki Fujiwara li attendeva in piedi, le mani incrociate
dietro la schiena, guardando fuori da una finestra, ma si voltò non appena li
sentì entrare. Era molto alto, dalle spalle larghe, e il viso affilato e
intelligente lo faceva rassomigliare pericolosamente ad un falco intento nella
propria caccia. Si mosse incontro al biondo e al moro, i quali s’inchinarono
lievemente: - Fujiwara-san – lo salutò Hakkai; Sanzo invece non parlò. Non era
capace, lui, di ostentare una gentilezza che non possedeva.
- Molto bene. Signori, sono contento che siate
venuti così presto – esordì l’uomo, sorridendo.
- Abbiamo fatto quanto più in fretta potevamo
– confermò il moro ricambiando il sorriso. Sanzo annuì.
Fujiwara fece loro cenno di sedersi sui
cuscini che circondavano un basso tavolino dall’aspetto antico, e subito dopo
li imitò, ordinando contemporaneamente al figlio di andare a chiamare qualcuno
che li servisse con tè e sake. Akira uscì in silenzio, e suo padre riprese a
parlare: - Immagino non sappiate il motivo per cui vi ho fatti venire qui. Innanzitutto,
ritengo sia doveroso da parte mia accertarmi che siate a conoscenza di ciò che
sta accadendo ultimamente – disse, scrutandoli con occhi penetranti.
- So quel poco che mi è concesso sapere –
rispose Sanzo, sostenendo lo sguardo – Avete da gestire spostamenti più
impegnativi del solito di merce e denaro, e pare che la polizia ci stia
stranamente alle costole, stavolta -
Fujiwara sospirò, stizzito: - Esatto, Hoshi.
Non ci hanno mai dato troppo fastidio, ed ecco invece che, proprio adesso,
cominciano a fare il loro dovere – scoppiò in una breve risata sarcastica – Li
trovo ridicoli ma, purtroppo, non posso permettermi di sottovalutarli. Per
fortuna so a chi principalmente è dovuto questo repentino cambiamento –
Estrasse da una tasca della giacca una foto
scattata con una Polaroid e la tese ad Hakkai:
- Cho, il compito che intendo affidarti è il
seguente. Dovrai avvicinarti alla persona in questione e scoprirne piani,
conoscenze, punti deboli e punti di forza, cose che dovrai puntualmente
riferirmi. Non ti sto ordinando di uccidere nessuno – precisò, cogliendo
l’espressione dubbiosa che si era dipinta negli occhi verdi del moro – Quello
non sarà compito tuo. Sarai il nostro infiltrato. Del resto, quattro anni fa
eri un detective al loro servizio, no? -
La bocca di Hakkai, per un istante, assunse
una strana piega, prima di tornare a stendersi in un mezzo sorriso:
- Giusto. La persona su cui devo raccogliere
informazioni è l’uomo della foto? – chiese.
- Sì. È il nuovo ispettore capo, si chiama Sha
Gojyo -
Il moro si concentrò sull’istantanea. Il
soggetto avrà avuto più o meno la loro età, sui venticinque anni, e un’aria
talmente poco seria, con una sigaretta in bocca e i capelli lunghi di un
incredibile colore scarlatto, da sembrare uno yakuza piuttosto che un
poliziotto. Ed era anche, notò Hakkai stupito, molto bello.
Sanzo, che gli sedeva accanto, gettò
un’occhiata svogliata alla fotografia e si accese una delle sue Marlboro rosse
senza fare commenti; Akira rientrò nella stanza, seguito da un’anziana donna
che posò sul tavolino tre tazze di tè fumante e una bottiglia di sakè freddo.
Soltanto allora il moro si riscosse:
- Quando dovrò iniziare, Fujiwara-san? – volle
sapere.
L’uomo sorseggiò il tè e poi rispose: - Oggi è
sabato. Da lunedì andrà benissimo –
Hakkai chinò la testa, sistemando la foto
dentro la propria agenda tascabile, e Fujiwara, soddisfatto, si rivolse a
Sanzo: - Veniamo a noi, Hoshi. Non mi sono mai complimentato direttamente con
te per l’eccellente lavoro che svolgi, e me ne rammarico. Sei il miglior
sicario che il clan vanti da diverso tempo, e hai la stessa stoffa di tuo
padre. Eravamo amici, sai, io e lui – disse, ma evitò di guardare il biondo
negli occhi. Questi rimase in silenzio, e Fujiwara continuò: - Non ti
sorprenderai dunque dell’incarico che sto per affidarti. Ci sono una quindicina
di persone che hanno preso a collaborare con la legge, che sanno troppo, e sono
perciò diventate obsolete. Sai come funziona, ormai. Dovrai ucciderle, tutte e
quindici –
- Ovviamente – ribattè Sanzo, asciutto, la
sigaretta tra le dita – Chi sono queste persone? -
Il suo interlocutore sorrise e si girò verso
il figlio, in piedi accanto alla porta: - La scatola, Akira –
Il ragazzo prese un contenitore rettangolare
di materiale nero e lo portò al padre. Fujiwara tolse il coperchio, mostrando
ai due ciò che vi era sotto: più di una dozzina di lucenti proiettili dorati
adatti ad una S&W.
- In ognuna di queste cartucce – spiegò l’uomo
– ho inserito un pezzo di carta con su scritto un nome della lista. Del primo
bersaglio ti dirò io l’identità, ma dopo, ogni volta che avrai eliminato una
delle quindici persone, dovrai venire da me e prendere la cartuccia successiva.
Guarderai il foglio, e poi userai il proiettile assieme agli altri -
Sanzo lo fissò in tralice: - Sta dicendo che
non devo sapere in anticipo il nome delle vittime? Perché? –
Fujiwara chiuse la scatola con un colpo secco:
- Limitati a fare il tuo lavoro, Hoshi. I ‘perché’ non servono –
Gli tese una cartuccia, informandolo che anche
lui avrebbe iniziato da lunedì, e Sanzo fece subito scomparire il piccolo
oggetto dorato in una tasca della camicia. Il discorso sembrava concluso.
L’uomo difatti si rilassò, e versò ai due
un’abbondante dose di sake: - C’è un favore che dovrei domandarvi. Gradirei che
vi trasferiste qui all’Hotel, per il periodo necessario allo svolgimento dei
vostri compiti. Ho già fatto preparare due stanze, al piano di sopra, in cui
trasferirvi oggi stesso. Potrete andare a casa a prendere quello che vi serve,
dopodichè tornerete qui. È un modo come un altro per proteggervi –
Più che un favore era chiaramente un ordine
indiscutibile, e i due si ritrovarono loro malgrado ad acconsentire, sebbene
non avessero alcuna voglia di stare lì al quartier generale. La soddisfazione
di Fujiwara fu tangibile.
Continuarono a bere e a fumare, mentre
parlavano di argomenti leggeri, e solo quando giunse il momento di congedarsi
Hakkai si sovvenne di una cosa: - Fujiwara-san. Il Moon Indigo… che genere di
locale è? –
Fujiwara parve lusingato dalla domanda: - Non
ci eravate mai venuti? È il più in voga tra i membri del clan, ormai. Lo feci
aprire circa cinque anni fa, dopo aver consacrato l’Hotel a nostra sede
principale. Mi chiedi di che genere sia, Cho… stasera fatemi compagnia e lo
vedrete. La serata del sabato è la migliore – concluse.
Il resto della giornata trascorse velocemente,
immersa nella calura estiva e nel frinire delle poche cicale che resistevano in
città. Sanzo e Hakkai tornarono ai rispettivi appartamenti per raccogliere
indumenti, armi, qualche libro e cd, e si recarono nuovamente all’Hotel, dove
il solito Akira li aspettava per mostrar loro le stanze. Vennero anche a sapere
che nel palazzo alloggiavano molti dei più stretti collaboratori di suo padre,
oltre a lui medesimo, e che la maggior parte di “quelli come loro”, le pedine,
vi capitavano in occasioni particolari o per passare un paio di serate al Moon
Indigo; pure la “servitù” viveva lì.
Le stanze dove Akira li condusse erano in
realtà due suites sfacciatamente enormi che, da sole, occupavano quasi metà del
secondo piano: avevano il pavimento coperto dal tatami ed erano arredate in
stile puramente giapponese, il che acuì l’impressione del moro di trovarsi nel
castello di un potente feudatario dell’epoca Edo; le grandi finestre si affacciavano
sull’ampio giardino interno dell’Hotel, e su un ben mimetizzato mobile a parete
si trovavano alcune comodità moderne quali telefono, televisore a schermo
piatto e frigobar; il bagno, meno antiquato, era vasto il doppio di quelli a
cui Sanzo e Hakkai erano abituati. Inoltre, le due stanze erano comunicanti.
- Spero che vi troverete bene. Per qualsiasi
cosa non esitate a chiamare i domestici – li salutò Akira prima di dileguarsi
nel corridoio in penombra. Era estremamente disponibile pur essendo il figlio
dello shogun, pensò Hakkai, ma non appariva poi così felice.
Indubbiamente, non era capace di essere spietato.
I due presero possesso ciascuno della propria
suite. Sanzo si sedette sulla pedana rialzata su cui stava il letto,
cominciando a tirar fuori dalla borsa ciò che si era portato dietro. E nel
frattempo, rimuginava.
Uccidere, uccidere, ancora uccidere. Uccidere
per altre quindici volte come minimo, uccidere e avere conferma del fatto che
tale azione non gli faceva né caldo né freddo: quando uccideva, lui era un
automa. Sebbene suo padre fosse morto colpito da un proiettile, a lui non
provocava repulsione l’usare una pistola. Forse era folle, come quegli
assassini dei tempi andati che imparavano a conoscere e a non temere il sapore
del sangue di cui si bagnavano le loro lame, ma non gl’importava: l’unico suo
interesse era scoprire, un giorno, la verità, trovare colui o coloro che
avevano ammazzato suo padre. E sfogava intanto la sua rabbia e il suo dolore
sottraendo vite con indifferenza.
- Nobile Hoshi, gradite un goccio di sake? -
La voce pacata di Hakkai lo distolse dai suoi
cupi pensieri. Il moro era entrato nella stanza passando per la bassa porta
scorrevole che le univa, indossando un bel kimono bianco chiuso da una fascia
verde.
- Nobile Cho, piantala con questa pantomima da
samurai fallito – borbottò il biondo.
- Come siete scortese, nobile Hoshi –
ridacchiò Hakkai – Allora, niente sake? -
Sanzo si alzò e andò alla finestra: -
Preferisco una sigaretta –
Aprì il vetro in modo da far filtrare quel
poco d’aria che soffiava all’esterno e si appoggiò alla parete, lo sguardo
apparentemente perso tra le fronde scure degli alberi del vasto cortile; Hakkai
si accomodò su un cuscino lì vicino.
- Ti stai pentendo di aver accettato
l’incarico? – saltò su all’improvviso.
Il biondo lo fulminò: - Ma figuriamoci. E poi,
avevamo scelta? – replicò.
- Hai ragione – convenne il moro con un
sospiro – Nella nostra posizione è impossibile -
- Dimmi – proseguì Sanzo, fissando di nuovo il
vuoto – Ti fidi di Fujiwara, tu? -
Hakkai sorrise senza allegria: - Per
principio, non mi fido granchè di nessuno – rispose.
L’altro non ribattè, pur trovandosi d’accordo
con ciò che il compagno aveva appena detto. In quel momento, la sua attenzione
fu catturata dai riflessi delle carpe rosse e dorate che nuotavano nel laghetto
del giardino e, inspiegabilmente, gli tornarono alla mente un paio d’occhi
ambrati che gli erano rimasti nascosti tra le pieghe della memoria. Chissà
perché, poi. Non aveva più visto il ragazzino, da quando l’aveva lasciato a
Makoto-san quel giorno di nove anni prima, e non ci aveva nemmeno più pensato.
Si chiese per quale motivo se ne fosse ricordato proprio adesso. “Come se me ne
importasse qualcosa…” si costrinse a bofonchiare.
- Sanzo – lo chiamò Hakkai – Andremo allora a
questo Moon Indigo, stasera? -
Il biondo si riscosse: - Ripeto, abbiamo
scelta? Non ne ho assolutamente voglia, ma fa lo stesso –
- Bene, alle undici passo a bussarti – disse
il moro, deciso, e con un cenno di saluto se ne tornò nella sua stanza,
lasciando Sanzo da solo con le sue odiate elucubrazioni mentali che si
perdevano nel fumo della Marlboro.
Hakkai fu estremamente puntuale – e non c’era
da stupirsene. Alle undici precise si presentò alla porta, e i due amici si
recarono con andatura indolente al piano terra dell’Hotel: il palazzo era molto
più affollato di quel che avevano visto quella mattina, con un viavai di uomini
più o meno giovani e di inservienti che si affrettavano lungo i corridoi e le
scale recando vassoi e messaggi. La maggior parte della folla si concentrava
sul lato destro della hall, dove, come Sanzo e il moro notarono subito, si
trovava l’ingresso al tanto decantato locale, indicato da una scritta argentea
e da due buttafuori che controllavano che gli avventori non recassero armi con
sé. Quando giunse il loro turno, Hakkai riferì il nome suo e quello del biondo,
e i due cerberi li fecero subito passare chinando addirittura la testa in segno
di rispetto: - Fujiwara-san vi attende al tavolo dieci – disse il primo.
Il Moon Indigo era, in effetti, un locale
notturno di tutto rispetto. Anch’esso in uno stile che s’ispirava alla
tradizione, era decorato da drappi scarlatti, scritte, ventagli e antiche armi
affissi alle pareti, illuminato da luci soffuse sistemate in maniera strategica
e disposto su due livelli: nella zona rialzata, una specie di largo palco
d’onore, stavano i tavoli, alcuni divani e i privés separati da tende sottili;
la zona più bassa era occupata dal banco-bar, dall’angolo riservato ai
musicisti, da altri divanetti e grandi cuscini, e al centro da quella che aveva
tutta l’aria di essere una pista da ballo. C’era già molta gente, un brusio
diffuso, e tra i tavolini si aggiravano una mezza dozzina di avvenenti
camerieri, ragazze e ragazzi. Gli avventori erano principalmente di sesso
maschile, e le uniche donne presenti erano chiaramente le mogli di taluni di
essi. Sanzo sbuffò piano.
- Ah, eccovi, signori! Avanti, accomodatevi al
nostro tavolo! – li interpellò a gran voce Hiroki Fujiwara.
Non era solo: con lui sedeva un uomo di poco
più giovane, castano e occhialuto, di bell’aspetto ma dall’espressione
sprezzante. Era Rossini, “l’italiano”, il braccio destro di Fujiwara. Salutò il
biondo e Hakkai con un cenno del capo mentre questi prendevano posto accanto a
loro e l’altro ordinava da bere per tutti e quattro.
- Che ve ne pare, dunque? – volle sapere
Fujiwara, riferendosi al locale.
- Ci piace molto, ne conveniamo – rispose il
moro per entrambi, sebbene Sanzo non avesse espresso alcun parere in proposito
e se ne stesse in silenzio con lo sguardo corrucciato – È un interno di grande
gusto -
L’uomo sorrise sornione: - Me ne compiaccio. E
non avete ancora visto il pezzo forte – disse.
Rossini scoppiò in una risata: - E ne
rimarrete positivamente colpiti, credo – aggiunse.
In quell’istante partì la musica. Il complesso
ospite della serata attaccò un noto brano swing, nella penombra, e da due porte
laterali al banco-bar che né Sanzo né Hakkai avevano notato prima uscirono
diverse giovani donne inguainate in abitini che poco lasciavano
all’immaginazione e che riprendevano la moda degli anni ’40: difatti, le
ragazze iniziarono a ballare a ritmo della musica swingata del complesso,
esibendosi in una specie di tip-tap più sensuale del normale. Erano tutte molto
graziose, e dagli uomini seduti ai tavoli e sui divani si alzò un lungo
applauso accompagnato da fischi di approvazione. Anche Fujiwara e Rossini
batterono le mani compiaciuti.
- Devo dire che lo spettacolo è apprezzabile –
commentò Hakkai sorridendo, ma il biondo capì subito che, come lui, il compagno
non era rimasto poi così “positivamente colpito”.
Fujiwara lo squadrò ammiccando: - Abbiamo le
signorine migliori del clan a nostra disposizione – spiegò, sebbene nessuno
glielo avesse chiesto – Tutto merito di Rossini, che si occupa da anni della…
faccenda –
L’italiano agitò una mano: - E certo voi non
disprezzate la cosa – disse soddisfatto.
Sanzo evitò di intromettersi nella
conversazione, concentrandosi sul bicchiere di gin tonic da cui stava bevendo.
Trovava assolutamente squallida l’ossessione della stragrande maggioranza degli
uomini per il sesso e per le belle donne che si offrivano loro senza problemi,
e non si era mai entusiasmato di fronte ad occasioni simili, per quante gli se
ne fossero presentate. Se non altro, la musica era trascinante e gradevole.
- Ma non ci sono solo le signorine, sapete? –
proseguì Rossini – Molti, qui dentro, preferiscono… -
Un secondo applauso si levò dagli avventori:
alle ragazze si erano ora uniti cinque ragazzi in pantaloni neri e camicia
bianca, che si misero a ballare con movimenti sciolti e accattivanti al pari di
quelli delle altre. Il pubblico esultò, mentre Sanzo e Hakkai si scambiavano
un’occhiata perplessa.
- … loro. Cinque mocciosi dannatamente
attraenti – terminò l’uomo – Siete sorpresi? Gran parte dei nostri li
preferiscono alle donne. La ritenete una cosa da biasimare? -
Il moro fece un cenno di diniego: - Non vedo
perché dovremmo – rispose affabile – Vero, Sanzo? –
Il biondo, però, non li stava ascoltando. Si tirò su in
piedi di scatto, rischiando di rovesciare il bicchiere di gin tonic, e mosse un
passo verso la pista, dove il balletto continuava. Guardò bene, e sussultò
appena.
Rispetto a nove anni prima era cambiato in
modo impressionante, eppure Sanzo ne era sicuro: il giovane al centro del
gruppo, che si muoveva con inconsapevole languore, aveva un viso bello e dolce,
ed era slanciato e ben fatto, sulla ventina, ma i corti capelli color castagna
e i grandi occhi d’ambra erano inconfondibili.
Quel ragazzo era Son Goku.
٭ Second Chapter
Ends ٭
Note
dell’autrice:
orbene,
siori e siore, sono riuscita a scrivere in tempi accettabili il secondo
capitolo XP.
Se
vi state già scandalizzando per ruolo che ho affibbiato a Goku non vi
preoccupate, please, ha tutto un suo perché… e poi non posso farci nulla,
l’influenza (anche minima) del sacrosanto Moulin Rouge! non mi abbandona
mai! Comunque in questo caso l’idea m’è venuta ascoltando un paio di canzoni,
più avanti vedrete quali… Sorry, sorry.
Ho
presentato alcuni personaggi fondamentali: ovviamente Hakkai, poi Fujiwara,
Rossini (l’italiano famoso – non prendetevela, non vuole essere cattiva
pubblicità, è realismo ^^’’) e Akira, che sarà piuttosto importante; Gojyo
stavolta fa “l’uomo della legge” (molto per dire ¬_¬), sì, per cambiare le
carte in tavola. Presto farà il suo ingresso in scena!
Spero
vi sia piaciuto pure questo capitolo… ho cercato di puntare particolarmente
sulle atmosfere *me influenzata dai troppi film che vede* e mi auguro siano
riuscite bene. E la storia… è entrata nel vivo *-*"
Aspettate
la prossima puntata, e cominceranno anche maggiori interazioni tra Sanzo e
Goku… (oooops!)
Grazie
a tutte le bimbe che hanno commentato finora, continuate a seguirmi
nell’impresa ^_-
Piiiiiiiccole
(e inutili) curiosità: ho scritto il capitolo sulle note di alcune Ouvertures
d’opera di Rossini – il compositore, non ci confondiamo XD – e della Sinfonia
n.8 in sol maggiore di Dvořak; ora mi sto allegramente sparando in
cuffia una sequela di brani jazz stupendosi… come espediente per rilassarsi son
fantastici =ç=
La
canzone del titolo, Cigarettes and alcohol, è degli Oasis.
- Qualcosa non va, Hoshi? – fece Fujiwara alle
sue spalle, la voce incuriosita.
In effetti c’erano almeno due cose che non
andavano bene, constatò Sanzo: prima tra tutte, l’aver ritrovato il moccioso in
un luogo come quello, e poi… poi, il fatto che nel vederlo aveva avuto quella
spropositata reazione. Perché era scattato in piedi? Perché aveva avvertito per
un istante l’impulso di precipitarsi sulla pista e di trascinare il ragazzo via
di lì? Cosa gl’importava a lui, fondamentalmente?
Ma non ne fece parola: - Niente. Ho solo
notato una persona – rispose invece, mantenendosi sul vago e rimettendosi a
sedere. Hakkai lo scrutò da sopra le lenti degli occhiali con espressione
indecifrabile, mentre Rossini si accendeva una sigaretta e sorrideva
apertamente al biondo:
- Vedo che il moretto ti ha colpito, eh –
disse.
- Da quanto tempo è qui? – chiese Sanzo.
Meglio stare al gioco, se voleva saperne di più.
L’italiano aspirò una boccata di fumo,
pensoso: - Beh, da un annetto circa, forse meno. Lo abbiamo preso con noi
quattro anni fa, e all’inizio ha svolto altri generi di lavori – lo fissò –
Come facevi tu, ricordi? –
Il biondo annuì, mantenendo gli occhi
d’ametista, freddi, puntati in quelli grigi di Rossini.
- Poi, date le sue potenzialità,
abbiamo deciso di destinarlo qui al Moon Indigo – proseguì questi.
- E la sua famiglia? – intervenne Hakkai.
Fujiwara gli gettò un’occhiata strana: - Non
ha famiglia. Ci ha riferito che i suoi genitori sono morti –
Sanzo incamerò l’informazione senza mostrare
alcuna sorpresa. C’era molto che intendeva scoprire, però scelse di iniziare da
argomenti meno compromettenti; avrebbe voluto chiedere perché il moccioso se
n’era andato da casa di Makoto-san, eppure qualcosa dentro di sé gli suggerì di
non parlarne con i due uomini.
- E cosa fa di preciso, qui dentro? –
s’informò quindi. “Alla faccia della domanda idiota…”
Rossini ridacchiò di nuovo, provocando un
discreto fastidio nel biondo: - Di tutto un po’. A volte serve ai tavoli, più
spesso balla e intrattiene, come adesso, nulla di più… finora – fece una pausa,
la cenere che cadeva dal mozzicone di sigaretta – Stasera dovrebbe iniziare
l’altra attività collaterale cui si dedicano i suoi colleghi quando finiscono
di esibirsi. Avrete capito cosa intendo, spero… -
- Certo, certo, mi sembra logico – si affrettò
a rassicurarlo Hakkai con un sorriso tirato. Aveva il volto incupito, un’ombra
strana negli occhi, come se le parole di Rossini gli avessero suscitato ricordi
sgraditi. Sanzo però non se ne accorse: era troppo occupato a tentare di tenere
sotto controllo il disgusto e la leggera rabbia provocategli dall’idea che il
moccioso da lui aiutato sarebbe stato usato come un giocattolo lascivo, da quel
momento in avanti.
- Questa è la sua serata di debutto in tal
senso – s’intromise Fujiwara – Prima era soltanto un ragazzino, e nemmeno molto
attraente. Ma ora… guardatelo – e fece un ampio gesto verso la pista lucida di
luci.
Gli altri tre si voltarono, Sanzo compreso,
suo malgrado. La musica adesso era più lenta, una sorta di walzer jazzato, e
Goku ballava con una delle ragazze, per la gioia del pubblico eccitato: e se
lei era bella, i lunghi capelli color mogano che si muovevano a ritmo, lui lo
era ancora di più. Sembrava concentrato, e non certo felice.
Il biondo mandò giù un sorso di gin tonic,
continuando ad osservarlo: si sentiva la gola secca.
- Un sacco dei miei uomini hanno già espresso il desiderio
di trascorrervi la notte – disse Fujiwara in tono distaccato – Resta solo da decidere
a chi andrà il privilegio di averlo questa sera -
Hakkai cercò, con scarso successo, di accogliere
quell’ultima frase con una risata, mentre l’italiano seguitava a fissare i due
ballerini con sguardo odiosamente interessato e Sanzo distoglieva il proprio.
Trascorsero una manciata di attimi, e infine, spinto da un
impulso ignoto, il biondo parlò con voce decisa:
- Fujiwara-san. Lo lasci a me, per stanotte – proferì,
sovrastando la musica.
Il moro spalancò la bocca, stupito, e due uomini
sgranarono gli occhi con palese sconcerto. Ma non appena capirono che Sanzo
diceva sul serio scoppiarono a ridere, e Rossini gli appioppò una sonora pacca
sulla schiena:
- Ha gusto, l’hitokiri! – esclamò. Non mancava
molto perché fosse ubriaco fradicio.
- Ti accordo questo favore solo perché sei tu, Hoshi! –
rincarò Fujiwara, sorridendo soddisfatto.
Se i loro comportamenti lo infastidirono, il biondo non lo
dette a vedere: un’idea stava prendendo piede nella sua mente, l’idea che gli
aveva fatto esprimere quella richiesta. Ignorò le occhiate incalzanti di un
Hakkai che voleva chiaramente capirci qualcosa e guardò Fujiwara per avere una
conferma che non si limitasse ai commenti di cattivo gusto. L’uomo annuì: - Hai
il mio permesso, Hoshi. Quando l’esibizione sarà finita, aspetta il ragazzo nel
corridoio dei camerini. Puoi entrarci passando dalla porta dietro il banco-bar.
Manderò qualcuno ad avvertirlo –
Sanzo piegò impercettibilmente il capo e non aggiunse
altro. Rossini continuò, sempre più sbronzo, ad elogiare i pregi di
intrattenitori ed intrattenitrici e a pungolare Hakkai affinchè anche lui
reclamasse una compagnia, per quella sera, ma il moro si schermì con sorrisi e
formule cortesi, ben mascherando un disagio crescente; Fujiwara parlò con
diverse persone che, passando, si fermavano al loro tavolo, elegante e
minaccioso, e il biondo si estraniò quasi del tutto dalle conversazioni che lo
attorniavano: di tanto in tanto gettava uno sguardo in tralice alla pista,
godendosi la musica per quanto gli era possibile, fumando e finendo con calma
gelida un secondo gin tonic.
Verso le una gli spettacoli terminarono. L’illuminazione
del Moon Indigo si abbassò ulteriormente, i jazzisti salutarono il pubblico e
se ne andarono, mentre un cd di musica ambient ne prendeva il posto, e Hakkai e
Sanzo convennero in silenzio che era giunto il momento di ritirarsi.
- Credo che me ne andrò a dormire – disse il moro – Vi
ringrazio per l’ottima serata -
- Buonanotte – borbottò il biondo, asciutto.
Fujiwara e Rossini ricambiarono il saluto e li osservarono
allontanarsi, l’uno verso l’uscita e l’altro verso il bancone al bordo pista: -
Ci torneranno utili, non trovi? – fece l’italiano.
- Già – convenne il primo con un sorriso metallico –
Meravigliosamente utili -
Il piccolo corridoio su cui si affacciavano i camerini era
poco illuminato e spoglio, se lo si confrontava col resto dell’Hotel; dalle
porte chiuse provenivano, un po’ soffocate, voci maschili e femminili, alcune
allegre, alcune scocciate. Sanzo si appoggiò al muro con aria assente, in
attesa che Goku uscisse da una delle stanze: si sentiva strano, quasi a disagio
al pensiero di rivedere, dopo tutti quegli anni, il moccioso che aveva
fondamentalmente abbandonato. Beh, era stata l’unica cosa sensata da fare…
nemmeno lo conosceva. E non lo conosceva nemmeno adesso, eppure non si stava
certo comportando in modo sensato, riflettè. Mise bene in chiaro la situazione
con sé stesso: non aveva alcuna intenzione di portarselo davvero a letto, non
l’aveva mai avuta. Lo faceva soltanto per evitargli una condizione ancora più
spiacevole: ma si rendeva conto che non avrebbe potuto “coprirlo” sempre.
E il motivo per cui lo faceva gli appariva assolutamente
oscuro.
All’improvviso, la porta alla sua sinistra si spalancò,
gettando un fascio di luce giallastra sulla parete in ombra, e la figura del
ragazzo si delineò sulla soglia, esitante. Sanzo tacque.
- Sei tu la persona che mi hanno indicato? – chiese Son
Goku, il tono incerto.
Il biondo fece un passo avanti, così da entrare nel cono
di luce e mostrare il proprio volto all’altro. Goku sussultò, sgranando quelle
gocce d’ambra che erano i suoi occhi: - Tu… Sanzo…? – sussurrò.
Lo avrebbe riconosciuto anche in mezzo ad una folla
immensa. L’immagine di quel viso chiaro, incorniciato da capelli di grano lucente,
con le sue iridi d’ametista amara, gli era rimasta scolpita nella mente. Aveva
atteso a lungo di poterlo rivedere, di ascoltare di nuovo la sua voce brusca e
affatto sgradevole, ed ecco che se lo ritrovava di fronte proprio lì, in quel
luogo, in quella situazione… non avrebbe voluto, però era felice che fosse lì.
Lo guardò meglio, e si sentì avvampare appena. Il
quindicenne che quel giorno lo aveva aiutato era bello, ma l’uomo che lo
osservava senza parlare era incredibilmente affascinante: i capelli più lunghi,
il volto più duro, l’espressione sicura e scontrosa, il modo in cui si
appoggiava al muro, la camicia nera un po’ sbottonata, le mani affondate nelle
tasche… Tutto in lui lo attraeva, Goku se ne rese conto subito, e provò un
dirompente imbarazzo.
- Sono io. Ti ricordi di me, vedo – disse Sanzo. Il tempo
pareva fermo attorno a loro.
Il ragazzo abbozzò un sorriso: - Non ti ho mai scordato.
Tu, invece… -
- Non è il posto giusto per parlarne – tagliò corto il
biondo, chiudendo la porta alle spalle dell’altro.
La luce scomparve, lasciandoli al buio, e Goku ebbe un
fremito di timore misto a desiderio.
- Vieni con me, muoviti – ordinò Sanzo con fare
perentorio, e afferrandolo per un polso prese a camminare in direzione della
porta in fondo al corridoio, quella che si affacciava direttamente sulla hall.
L’Hotel era completamente deserto, a quell’ora. Le
sentinelle all’ingresso fumavano, parlottando tra loro, e c’erano pochissime
lampade accese, le tende tirate da cui filtrava un alone di lampioni e luna. Il
biondo guidò Goku su per le scale fino al secondo piano, dove si trovava la sua
stanza, senza lasciargli il polso per un solo istante.
C’era un che di suggestivo ed estraniante
nell’attraversare quegli ambienti silenziosi e in penombra assieme a quell’uomo
bello e scostante, pensò il ragazzo col cuore piuttosto in tumulto. Sanzo non
aveva risposto alla sua prima domanda, ma non c’erano molti dubbi sulle sue
intenzioni. Immaginando ciò che sarebbe accaduto una volta arrivati nella
camera del biondo, Goku avvertì le proprie guance farsi ancora più calde: per
fortuna sarà con lui, si disse. Per fortuna sarà con lui.
Si fermarono davanti ad una porta scura, e Sanzo estrasse
una chiave dalla tasca posteriore dei jeans, armeggiando con la serratura più a
lungo del previsto a causa del buio. Il ragazzo attese, gli occhi fissi sulla
sagoma dell’altro, e infine la porta si aprì, rivelandogli la stanza da letto
più grande in cui avesse mai messo piede. Il biondo lo tirò all’interno,
allentando finalmente la presa sul suo polso sottile; non accese alcuna luce,
considerando più che sufficiente quella proveniente dall’esterno. Nella camera
di Hakkai non si udiva alcun rumore e Sanzo si sorprese, nel gettare
un’occhiata fuori dalla finestra, al vedere l’amico passeggiare quieto nel
vasto giardino: non scorgeva il suo volto, e sapeva di dovergli un paio di
spiegazioni. Non perché si preoccupasse per lui, no, semplicemente per evitarsi
la seccatura di sentirsi rivolgere fastidiose domande o lezioni di vita.
- Sanzo… -
La voce di Goku lo costrinse a girarsi verso quest’ultimo,
che se n’era rimasto in piedi in mezzo alla suite tormentandosi le mani: -
Siediti. E non parlare troppo forte – gli rispose il biondo. Goku si accasciò
sul bordo del letto con aria smarrita, e l’altro dovette fare inaspettatamente
un notevole sforzo per non raggiungerlo.
- Dimmi, adesso. Perché diamine te ne sei andato dalla
casa di Uehara-san? – esordì.
Il ragazzo alzò la testa: - Non me ne sono andato – disse
– Sono loro che sono venuti a prendermi –
- Loro chi? Fujiwara e i suoi? -
- Fujiwara non c’era. L’ho visto qui per la prima volta.
Vennero Rossini-san e altri uomini -
Sanzo si accese l’ennesim Marlboro della serata: - E
perché sono venuti a prenderti? –
- Non lo so di preciso – mormorò Goku.
Spiegò meglio com’erano andate le cose. Circa quattro anni
prima, l’italiano e una mezza dozzina di scagnozzi avevano bussato alla porta
di Makoto-san: sapevano che teneva con sè un ragazzino senza famiglia, e
Fujiwara aveva ritenuto opportuno verificare la sua identità e la situazione
generale. Il vecchio Makoto non aveva potuto protestare, essendoci di mezzo il
capo in persona, ed era andato a chiamare il giovane ospite, ansioso.
Quando Rossini l’aveva visto, Goku aveva notato un guizzo
bizzarro attraversargli lo sguardo, e ciò si era ripetuto dopo aver appreso il
suo nome, ma lui non ci aveva fatto troppo caso. Makoto-san aveva trattenuto il
respiro.
« Il moccioso verrà con noi, Uehara » aveva
proclamato l’italiano « Ultimamente abbiamo bisogno di braccia giovani che
svolgano alcune commissioni. Visto che il tuo protetto è passato di ruolo… »
Non aveva accennato al Moon Indigo, e difatti per tre anni
Goku ne aveva ignorato l’esistenza. Recapitava pacchi, messaggi, origliava,
spiava, puliva pure se ce n’era bisogno, e osservava incuriosito quel mondo
quasi crepuscolare dal quale si allontanava poco e nel quale, ignaro, veniva
tenuto sotto stretto controllo. E non si lamentava. Ma poi era cresciuto, era
diventato un diciottenne fatto e finito, e bello: se ne accorgeva da solo,
guardandosi nei vetri e cogliendo le occhiate di molte persone, uomini e donne.
Una sera era passato vicino all’ingresso del Moon Indigo, aveva sentito la
musica, e si era messo, per istinto, a ballare da solo nella hall vuota. Aveva avvertito
una strana sensazione, come di gioia, di liberazione, nel danzare, e si era
avveduto troppo tardi della presenza di Fujiwara sulla scalinata alle sue
spalle. Fujiwara che, con un sorriso quasi paterno e al contempo inquietante,
gli si era avvicinato, complimentandosi con lui e proponendogli di mostrare al
pubblico quella sua arte.
E Goku, come tutti gli altri lì dentro, non aveva potuto
dire di no.
- Così mi sono ritrovato a fare quello che hai visto prima
– concluse, a mo’ di scusa.
Sanzo lo guardava in silenzio, assorto. C’erano un paio di
punti, nel racconto, che lo turbavano un po’.
- Ma ti assicuro che non ho mai fatto… altro – proseguì il
ragazzo, sporgendosi verso di lui – Non ho mai voluto, e nemmeno vorrei adesso…
beh, cioè… voglio dire, sono felice che ci sia tu! -
Il biondo scrollò le spalle: - Non ti sto accusando di
niente – replicò con voce piatta.
Goku gli puntò le proprie gocce d’ambra nelle ametiste
fredde: - Perché non sei più tornato a trovarmi? –
- Non ti avevo fatto alcuna promessa -
- Sì invece! Avevi giurato che l’avresti fatto -
- Ero solo un moccioso -
- Questo non cambia le cose – protestò l’altro – Perché,
Sanzo? -
C’era della tristezza sincera in quella domanda. E il
biondo, suo malgrado, ne fu colpito in pieno. Dacchè suo padre era morto, non
aveva incontrato né desiderato incontrare qualcuno che amasse e ricercasse la
sua presenza: mai, nessuno, se escludeva il ragazzo che gli stava di fronte. Lo
aveva atteso per nove anni, e lo conosceva da un solo, misero giorno. Un giorno
che significava tutto, prezioso come quelle sue stille d’oro ardente.
- Avevo troppe incombenze, e troppo difficili da sbrigare.
E… - si bloccò - … nuovi ordini -
Goku non indagò oltre, appagato dal tono più morbido che
Sanzo aveva, intenzionalmente o no, usato. Di nuovo trovò come ammaliante il
fatto di essere lì con lui, in quella stanza che sapeva di legno, tabacco e
stoffa pulita.
Quell’uomo gli piaceva. Non capiva in quale modo, ma gli
piaceva tantissimo.
- Forza – saltò su il biondo – Vedi di dormire, adesso -
Il ragazzo lo fissò spaesato: - Dormire? – ripetè. Stava
scherzando, forse…
Sanzo tirò fuori da una bassa cassettiera un kimono da
notte e glielo lanciò:
- Non ho più voglia di chiacchierare. Sono stanco, perciò
dormi e sta’ buono -
Goku strinse la veste tra le dita: - Quindi tu… io… noi…
non… - farfugliò con imbarazzo.
- Nove anni fa ti ho salvato la pelle – disse il biondo –
Questa notte ti ho parato il culo -
E non c’era traccia di ironia in quelle parole, benchè
sottintendessero “in tutti i sensi”. Il giovane dai capelli castani arrossì
ancora, deglutendo a vuoto e sentendosi un perfetto cretino:
- Ah, grazie… però ero convinto che… -
- Stai forse dicendo che ti dispiace che ti abbia portato
qui solo per copertura? -
Il rossore aumentò a dismisura: - No! Non intendevo
questo! – si affrettò a rispondere – Buonanotte allora –
Sanzo ribattè con una sorta di grugnito e si voltò verso
la finestra mentre Goku si cambiava. Hakkai non stava più passeggiando, si era
seduto sul bordo del piccolo lago e ne guardava i riflessi argentei.
Di lì a una manciata di minuti nella grande camera scese
il silenzio. Il ragazzo si addormentò senza ulteriori storie e il biondo andò
in bagno a lavarsi ed indossare anche lui uno di quei kimono chiari e setosi;
poi tornò nella stanza e si accomodò su un cuscino, la schiena appoggiata alla
parete, e si mise ad osservare Goku. Non intendeva dividere il letto con lui,
eppure non poteva fare a meno di guardarlo: esile e indifeso nel sonno, perso
in quel futon immenso, la bocca socchiusa e una mano adagiata mollemente nella
sua direzione, il respiro lieve. Aveva l’espressione serena, diversamente da
quanto aveva notato al Moon Indigo, e per un istante provò l’impulso pungente
di alzarsi, andarsi a sdraiare sul letto e su di lui, e sentire così il calore
di quel corpo sotto di sé. Fu un attimo, e bastò a lasciarlo stordito. Doveva
essere colpa dell’alcohol, del caldo, della musica che gli riecheggiava sempre
nelle orecchie, e dell’immagine di Goku che ballava tra le luci vaghe.
Si passò una mano sul viso, dandosi mentalmente della
testa di cazzo: non gliene importava niente, non gliene importava niente,
ripetè più volte, come in un mantra, scivolando nel sonno.
E al contempo era consapevole già del contrario.
٭
Third Chapter Ends ٭
Note dell’autrice:
mi stupisco della velocità
con cui sto scrivendo questa storia… è che mi piace veramente da impazzire!
Terzo capitolo completato,
più cortino di quel che pensavo ma spero soddisfacente… dato che Sanzo e Goku si
sono finalmente rivisti. Se vi aspettavate già una lemon mi dispiace… dovrete
pazientare ancora un po’ ^^’’’
Ne dovrà passare di acqua
sotto i ponti, prima (e nemmeno troppa). Dal prossimo capitolo, difatti,
iniziano le vere danze e si entra nel pieno dell’intrigo, sebbene già qui abbia
inserito qualche elemento…
E per chi sta trepidando
(Simoooo, sei in ascolto? XP) annuncio che apparirà anche Anna Dai Capelli
Rossi… aka Gojyo.
È assolutamente ora di farlo
entrare in scena! (altrimenti non mi diverto ♪ )
Graziegraziegrazie per i
nuovi & ulteriori commenti, sono davvero contenta che stiate apprezzando il
lavoro e che, comunque, abbiate le vostre “riserve” in merito a certi
particolari… sennò che romanzo professionale sarebbe? ^_-
*la Black e il suo egopensantismo*
Come sempre, continuate a
dirmi i vostri pareri, impressioni, tutto quello che volete, please!
Consuete Curiosità (CC): il
titolo del capitolo non corrisponde a quello di una canzone, ma è una citazione
presa dal brano Sewn dei The Feeling, che tornerà ad avere un discreto
ruolo più avanti… Ho scritto il capitolo nel giro di due giorni, ascoltando
principalmente la radio e un assortimento di musiche di film, e ora sto
concludendo con i cuffia brani vari, da Song to say goodbye dei Placebo
a Ai no heart, ai no hoshi dei Brilliant Green, passando per la favolosa
Somewhere dei Within Temptation… e per Sole spento (*-*) dei
Timoria.
E come al solito la postilla
è più lunga del capitolo… Ci sentiamo alla prossima! yours BlackMoody ~
La mattina seguente Sanzo si svegliò prima di quanto
avesse temuto: il sole non era ancora sorto del tutto, e solo il cielo ormai
chiaro, d’un azzurro sbiadito, avvisava dello spuntare del giorno.
Avendo dormito in una strana posizione,
rannicchiato sull’ampio cuscino e con la schiena appoggiata alla parete, si
sentiva maledettamente indolenzito, ma si rimise comunque in piedi nel giro di
poco e si avvicinò piano al grande letto sulla pedana rialzata per chiamare il
ragazzo. Doveva rimandarlo nella sua stanza prima che l’Hotel si animasse
troppo. Goku dormiva ancora, con il volto così rilassato e innocente da
dimostrare al massimo una quindicina d’anni, e il biondo se ne stette un po’ ad
osservarlo, in silenzio ed immobile, prima di decidersi a chinarsi su di lui e
a scuoterlo per una spalla: - Ehi, svegliati, moccioso – lo esortò.
Goku mugolò qualcosa, si smosse sotto le
coperte, e infine sollevò le palpebre, puntando due occhi disarmanti e liquidi
di sonno verso Sanzo e facendolo vacillare per un istante.
- Buongiorno… - mormorò con un sorriso timido.
Il biondo parve sul punto di restituirgliene
uno, ma poi ritenne più opportuno allontanarsi dal ragazzo e riacquisire un
certo distacco: - Alzati, forza. È bene che te ne torni in camera tua –
Goku si tirò su a sedere: - Ti ringrazio
davvero tantissimo, Sanzo – disse.
- Lascia stare – borbottò questi con una
scrollata di spalle – Ricorda comunque che non potrò coprirti di continuo. Se
non vuoi fare certe cose sarà bene che trovi tu una scusa – lo ammonì mentre si
accendeva una sigaretta.
- Farò il possibile. Te lo prometto – replicò
il ragazzo con enfasi.
- Non importa che tu lo prometta a me –
lo freddò Sanzo, perentorio, evitando di guardarlo.
Goku emerse completamente dal groviglio di
coperte e lenzuoli e si piegò a raccogliere i propri abiti, che la sera
precedente aveva posato alla base della pedana: - Scusami – sussurrò contrito.
Se ne stettero zitti per alcuni minuti, il tempo necessario all’uno di
rivestirsi e all’altro di fumare la prima Marlboro della giornata sforzandosi
di tenere gli occhi fissi sul giardino oltre il vetro della finestra. Hakkai
non c’era più: ed era ovvio, considerato che solo uno stupido avrebbe passato
un’intera notte a riflettere sul bordo di un insulso laghetto artificiale.
- Spero che presto potremo stare di nuovo da
soli, Sanzo – riprese Goku sorridendo.
Lui gettò la cicca nel posacenere: - Non dire
cose che potrebbero essere fraintese –
Il ragazzo si avvicinò alla porta: - Non c’è
niente da fraintendere. Sono felice che tu sia di nuovo nello stesso luogo in
cui sono anch’io – affermò. Sanzo si voltò a guardarlo, sorpreso suo malgrado.
- A presto allora – si sentì dire in tono
calmo. Vide Goku rivolgergli un altro bellissimo sorriso e uscire senza fretta
dalla stanza, senza quasi fare rumore, come una tempesta discreta.
Si sedette pesantemente sul letto sfatto e
afferrò il kimono bianco che il ragazzo aveva indossato per dormire, fissandolo
come in attesa di una risposta che potesse stupidamente arrivargli da lì:
perché lo aveva colpito a tal punto, pur avendolo incontrato due sole volte e a
distanza di nove, lunghi anni? Assente, sollevò un lembo di stoffa e se lo
portò al viso: vi era rimasto un buon odore, il profumo di Goku.
Fu la voce di Hakkai a riscuoterlo: - Sei
pronto, nobile Hoshi? –
Sanzo allontanò di scatto la stoffa: - Bussa
prima di entrare, dannazione! – esclamò.
- Ma io ho bussato. Sei tu che non te
ne sei accorto – ridacchiò l’altro.
- Per cosa devo essere pronto? Non lavoreremo
mica assieme, io e te – disse il biondo nell’alzarsi.
Hakkai si grattò la testa: - No, però ci
tenevo ad augurarti buona fortuna. Il tuo compito è peggiore del mio –
Sanzo non rispose. Lui non faceva confronti
tra i ruoli che si erano scelti, poiché tutto, in quel mondo, gli appariva
naturale e al tempo stesso lo nauseava profondamente. Ancora con indosso il
kimono da notte si premurò di recuperare munizioni e pistola da un cassetto,
rammentando che avrebbe dovuto fare un salto da Fujiwara per farsi dire il
primo nome della lista nera. Il moro seguì con lo sguardo, e infine parlò di
nuovo:
- Ci tenevo a precisare che ieri sera non mi
sono comportato in maniera strana a causa della tua decisione inaspettata. Sono
soltanto rimasto sorpreso, se me lo concedi – sorrise.
- Tanto sorpreso da startene a rimuginare
fissando una stupida fontana? -
- Non ho certo rimuginato su di te e sul
ragazzo – replicò Hakkai – A proposito, come lo conosci? -
Il biondo aprì l’armadio a parete per prendere
gli abiti: - Nove anni fa l’ho aiutato. Era solo un moccioso e se ne stava
seduto al bordo di una strada, sotto un ponte, così l’ho affidato a Makoto
Uehara. Non l’avevo più rivisto – fece una pausa, ripensando alla velata accusa
di Goku a riguardo – Ovviamente tutto mi aspettavo, tranne che di trovarlo qui
a dimenarsi su una pista. Non so nemmeno perché l’ho aiutato –
Chiuse l’anta scorrevole dell’armadio e si
avviò verso il bagno. Hakkai annuì lentamente.
- Quindi non l’hai fatto per portartelo a
letto – constatò.
Sanzo lo fulminò con un’occhiata: - Certo che
no! – confermò stizzito. Anche troppo.
- Comunque è indegno che un ragazzo come lui
debba prestarsi a simili attività – proseguì il moro, a mezza voce come se
stesse parlando tra sé e sé – Ma credo che abbia ancora qualche speranza di non
fare la sua fine -
Il biondo lo fissò: - La fine di chi? –
domandò. Hakkai gli rispose con un ennesimo sorriso, stavolta tirato e stanco,
e girò i tacchi avviandosi verso la porta di comunicazione che conduceva alla
sua camera.
- Perché sei diventato un informatore al soldo
della yakuza, tu? – incalzò Sanzo, immaginando che esistesse un nesso tra tale
motivo e la frase ambigua che l’amico aveva appena pronunciato.
Il moro non si voltò: - Perché ho un debito da
saldare – disse – A stasera – e scomparve oltre la soglia.
Le strade del centro di Tokyo brulicavano di
gente, verso mezzogiorno di quel lunedì mattina. Uomini in completo nonostante
il caldo e donne dall’aria annoiata che si spostavano tra gli uffici, ragazzini
in divisa scolastica che occhieggiavano le vetrine invase dal sole, e anziani
in veste tradizionale che camminavano lenti e composti gettando sguardi
scandalizzati ai giovani visual e alle gothi-lol che sedevano ai
bordi dei viali. E tra loro Hakkai, che osservava quel carosello umano con un
leggero capogiro, non essendo più abituato a vivere e muoversi in un contesto
normale: invidiava la maggior parte delle persone che gli passavano accanto con
indifferenza, tranquille nella loro banale routine quotidiana. Ma non poteva,
ovviamente, perdersi in riflessioni inutili. Aveva l’indirizzo della centrale
di polizia e la foto di Sha Gojyo in tasca, e quelli erano i suoi obbiettivi.
Non aveva idea di come avrebbe avvicinato l’ispettore dai capelli scarlatti, né
di quale scusa avrebbe usato per iniziare ad entrarci in confidenza, e pertanto
non intendeva fare programmi. Sarebbe andata come doveva andare.
Svoltò in una via laterale, dirigendosi con
passo sicuro verso la sua meta, e all’improvviso si fermò: qualche metro
innanzi a lui tre uomini stavano parlando ad alta voce, urlando quasi; due
erano di spalle, uno più basso dell’altro ed entrambi tarchiati,
l’atteggiamento bellicoso; il terzo aveva il volto in ombra, cosicchè Hakkai
non riuscì a distinguerne i tratti. Avanzò nella loro direzione per capire cosa
stesse accadendo, cauto.
- Sbirro di merda, cosa aspetti a levarti
dalle palle? – stava sbraitando il tizio alto.
- Mi leverei anche dalle palle, se non fosse
che voi due dovete seguirmi in centrale, idiota – ribattè l’uomo dal viso in
ombra, l’inflessione sarcastica. Sembrava tremendamente sicuro di sé.
Il basso emise un grugnito sordo: - L’idiota
sei tu. Mica credi che ti obbediremo, eh? – lo provocò.
Il poliziotto sorrise: - Avete proprio deciso
di farmi già fare gli straordinari, allora. Coglioni… -
Successe tutto in un lampo. Il più alto dei
due afferrò una sbarra di ferro rotolata sull’asfalto da chissà quale
impalcatura e si scagliò contro l’uomo in ombra, che per fortuna scansò il colpo
chinandosi: nel movimento i suoi capelli catturarono una striscia di luce, e
Hakkai vide distintamente che erano del colore del sangue. Coincidenza o meno,
però, non poteva comunque starsene con le mani in mano. Corse verso il terzetto
mentre i due mettevano il rosso con la schiena al muro e si apprestavano a
colpire una seconda volta, e bloccò in tempo il polso di quello che reggeva la
sbarra di ferro: - Vi pregherei di non fare cazzate in pieno giorno, signori –
disse soave.
- L’unico che sta facendo una cazzata, qui,
sei tu! – ululò il basso, pronto ad assalirlo.
- Ripetitivo, amico – commentò il poliziotto,
e approfittando di un suo momento di distrazione lo prese per un braccio,
facendo scattare dal nulla un paio di manette. L’altro tentò di liberarsi dalla
stretta di Hakkai, ma questi fece saltar via la sbarra dalle sue mani e
continuò a tenerlo stretto finchè il rosso non lo ammanettò come il compare. Il
moro sorrise con fare indulgente:
- Non si può proprio mai sottovalutare un
semplice passante -
- Meno male che te lo dici da solo! –
intervenne il rosso, passandosi una mano tra i capelli.
E Hakkai lo riconobbe: era il giovane
dell’istantanea. Sha Gojyo in persona. Tra tutti i poliziotti della zona, aveva
finito per aiutare proprio quello che era il suo obbiettivo. In fondo, era la
cosa migliore che potesse capitargli: non aveva più bisogno di lambiccarsi il
cervello alla ricerca di uno stratagemma, non doveva cercarlo oltre. Era lì di
fronte a lui e lo scrutava con riconoscenza ed una certa complicità. Sarebbe
stato facilissimo, d’ora in poi.
Il solo particolare che turbò Hakkai fu il
sorriso che Sha Gojyo gli stava rivolgendo: seducente, non trovava altri
termini per definirlo, e ciò lo lasciò vagamente perplesso. Perplesso e
lusingato, in ogni caso.
- Ti ringrazio per avermi dato una mano –
disse il rosso, tenendo per le braccia i due in manette che ancora imprecavano
e si dimenavano – Me la sarei cavata comunque, ma ho apprezzato l’intervento –
aggiunse con un occhiolino. Per essere un ispettore di polizia era davvero
singolare.
Il moro scrollò le spalle: - Dovere, non
importa che mi ringrazi – si schermì.
Sha Gojyo arricciò le labbra in una smorfia
bonaria: - Ti ringrazio eccome, invece. E anzi, fammi portare queste teste
calde in centrale e poi ti offro il pranzo per sdebitarmi – decise su due
piedi.
- Ma tu non dovresti lavorare? – s’informò
Hakkai. Troppa fortuna tutta assieme, pensò sbalordito.
- A dire il vero stavo smontando ora – rispose
il rosso – Faccio un po’ quello che mi pare, sai. Però devo tornarci per forza,
il tempo di sbrigare quest’incombenza che m’è capitata tra le palle. Vieni pure
con me, eh! – e così parlando si avviò di buon passo nella direzione opposta a
quella a cui doveva essere giunto, trascinandosi dietro i due malcapitati
recalcitranti e seguito da un Hakkai pensieroso. Lungo la strada gli spiegò che
aveva sorpreso quegli uomini a molestare una ragazza, lì nella via, mentre
veniva via dalla centrale: nel vederlo, i due avevano distolto l’attenzione
dalla giovane donna, che si era prontamente rifugiata in uno dei portoni –
doveva essere casa sua – e lui aveva comunicato loro che dovevano seguirlo alla
stazione di polizia; i due si erano opposti, iniziando a offendere e provocare,
come anche Hakkai aveva visto, e da lì era nata quella sottospecie di rissa.
- Veramente una seccatura, di lunedì mattina!
– rise il rosso alla fine del racconto.
Erano arrivati all’edificio che ospitava la
centrale, ed insieme varcarono la soglia. Un cospicuo numero di agenti salutò
Sha Gojyo con calore, e altri con una certa deferenza, e lui rispose a tutti
quanti con il fare spaccone e trascinante che pareva caratterizzarlo. Il moro
lo attese fuori da uno degli uffici, sentendolo discutere con un collega e
riferirgli quanto era accaduto, la mente altrove: aveva un sacco di assi nella
manica da giocare, e doveva giocarli al meglio. Ma non gli piaceva l’idea di
ingannare così l’ispettore dai capelli di fiamma.
- Ecco qua, ho finito! –
La voce dell’oggetto delle sue riflessioni lo
fece sobbalzare: - Ah, bene… - riuscì a mormorare.
- Allora, accetti il mio invito a pranzo? -
- Non mi conosci nemmeno… e sul serio, non
devi scomodarti – protestò debolmente Hakkai.
Sha Gojyo sorrise: - Guarda che non mi sto
scomodando. E comunque, dimmi il tuo nome, no? –
L’altro non potè fare a meno di restituirgli
il sorriso: - Cho Hakkai – disse, una mano tesa.
- Sha Gojyo – fece il rosso, stringendogliela
con vigore – Tutto a posto, adesso, no? Quindi andiamo -
Hakkai rise di gusto: - Certo che sei
insistente! –
- Di norma lo sono solo con le belle donne.
Per te farò un’eccezione – ribattè Gojyo ammiccando.
Il moro scosse la testa divertito. Era
davvero, davvero singolare, quell’uomo. Ciò nonostante lo seguì di nuovo
all’esterno, nell’afa del primo pomeriggio, osservandolo mentre si metteva in
bocca una sigaretta di marca semisconosciuta e passava entrambe le mani tra i
lucidi capelli scarlatti. Camminarono fino al viale principale, alla ricerca di
un locale in cui mangiare: il rosso non amava i posti squallidi, a quanto
pareva, perché alla fine lo guidò dentro una tavola calda di tutto rispetto –
forse attratto anche dalle graziose cameriere.
Si accomodarono ad un tavolo vicino alla
vetrata che dava sulla strada, godendosi l’aria condizionata e sfogliando
distrattamente i menù. Gojyo parlava molto, in tono scanzonato, e questo mise
Hakkai inaspettatamente a proprio agio, tanto che si ritrovò a conversare in
completa tranquillità, come se si conoscessero da anni. Si vide comunque
costretto ad inventarsi un lavoro e una situazione di vita che certo non aveva,
dato che il rosso glielo chiedeva, e si dimenticò bellamente di estorcergli tra
le righe informazioni preziose: non ripensò nemmeno a quale fosse il suo scopo
di partenza. Ma in fondo, l’importante era creare i presupposti per un prossimo
incontro, e allora sì che avrebbe avuto molto tempo per svolgere il compito
affidatogli da Fujiwara. Da una parte era questo che lo spingeva; dall’altra,
il puro e semplice desiderio di rivedere Sha Gojyo, così diverso da lui e così
irresistibile. Irresistibile nella voce, nei gesti, nella risata schietta, nel
suo essere oltre le regole e gli stereotipi. Era un ossimoro, notò Hakkai:
l’uomo della legge appariva più fuorilegge dello yakuza in incognito. Gli venne
da sorridere.
Finito il pasto si concessero un caffè
corretto e una mezzora abbondante di ulteriore conversazione, restii ad uscire
e ad abbandonare così quel paradiso climatizzato. Il rosso sfoggiò le sue doti
di seduttore su un paio di cameriere, ma presto si stancò e tornò ad adagiarsi
contro lo schienale della panca imbottita, fumando:
- Sarà bene andare adesso, tu che dici? – lo
apostrofò.
- Già. Ci siamo stati un sacco, qui dentro –
convenne Hakkai.
- Ma si sta talmente bene… - mugolò Gojyo,
stiracchiandosi.
Per un po’ ci fu silenzio, mentre la radio
passava una ballata degli X Japan – e nel sentirla il rosso sogghignò.
Fu il moro a riprendere la parola: - Ti
ringrazio davvero per il pranzo, e ti auguro buon lavoro –
- Mh… Piuttosto, Hakkai, a me non
dispiacerebbe uscire ancora per fare due chiacchiere -
L’altro battè le palpebre, colpito per
l’ennesima volta: - Beh… nemmeno a me – si sentì rispondere.
Aveva la strada spianata, e l’aveva ottenuta
senza sforzo. Eppure quello non gl’importava poi granchè.
Prese un tovagliolo di carta e vi scarabocchiò
sopra una sequenza di cifre: - Il mio numero di telefono –
Gojyo si rigirò il foglio tra le dita: -
Cellulare? Non hai un numero di casa? – chiese incuriosito.
- Certo, però ci sono raramente – disse Hakkai
senza scomporsi. Facile inventare scuse innocue.
- Ti chiamerò, allora – concluse il rosso
sorridendo.
Si alzarono, e avendo già saldato il conto si
diressero subito alla porta, lamentandosi per la calura e il marasma di folla
che li attendevano in strada. Si salutarono, già piuttosto complici, e infine
Hakkai s’incamminò verso il parcheggio in cui aveva lasciato l’auto. Gojyo lo
guardò allontanarsi, senza distogliere gli occhi fin quando gli fu possibile
vederlo. Poi sorrise appena, s’accese un’altra sigaretta e se ne andò dalla
parte opposta.
Un semplice, stupido proiettile dorato, e
un’altra vita se n’era andata. Sanzo osservò la Smith&Wesson che ancora
stringeva nella mano destra per diversi minuti: aveva tolto di mezzo il primo
uomo della lista nera di Fujiwara. Gli era bastato un colpo, visto che la
vittima gli dava le spalle quando era arrivato e si era accorta di lui solo
all’ultimo momento. Era uno yakuza di circa quarantacinque anni, losco come
pochi, che il biondo sapeva essere stato, tempo addietro, collaboratore di
Fujiwara; ma essendo divenuto, poi, collaboratore anche di un clan rivale, era
logico che avessero pensato di eliminarlo. Sanzo si era abituato a queste cose,
in quegli anni, ed era comunque grato – a suo modo – al fatto di dover uccidere
esclusivamente elementi del loro stesso stampo, e non famiglie, o donne, o
persone che non se lo meritavano: quello lo facevano altri, e spesso si
chiedeva chi.
Sbuffando fece sparire la pistola in una tasca
interna della giacca, che si tolse con un gesto brusco e gettò sul sedile
posteriore dell’auto. Il sole si avviava a tramontare ed era ora di tornarsene
all’Hotel: per raggiungere la vittima aveva dovuto guidare fino all’estrema
periferia nord di Tokyo e gli ci sarebbe voluto un po’ per rientrare.
Durante il tragitto non si domandò come fosse
andata la giornata di Hakkai. Era di cattivo umore, più del solito, e non
gl’importava di nessuno. Una volta all’albergo si sarebbe concesso una doccia
fredda e sarebbe rimasto in camera fino al giorno dopo: non voleva vedere anima
viva.
Il cielo ad ovest era infuocato, foschioso, e
il disco solare appariva sanguigno e opaco, cosa che certo non migliorò il suo
umore. Di sangue se ne trovava sempre troppo davanti a sé. Adesso come undici
anni prima.
Il tramonto cedette il passo al crepuscolo,
con le luci della città che si facevano via via più chiare nell’aria indaco
della sera, e finalmente il biondo entrò nel cortile laterale dell’Hotel,
adibito a parcheggio. Le finestre da quella parte dell’edificio erano tutte
buie, ad eccezion fatta per una al terzo piano: vi brillava una luce bassa e
calda, oltre i vetri spalancati, e Sanzo riconobbe Goku nella sagoma scura che
vi stava affacciata. Il ragazzo guardava il cielo, o almeno così gli sembrò di
scorgere, il mento appoggiato sulle mani chiuse, e dalle sue spalle giungevano
le note sommesse di una qualche canzone. Doveva essere camera sua, pensò il
biondo, soffermandosi ad osservarlo per un paio di minuti in perfetto silenzio.
Quando poi si allontanò fece scricchiolare il ghiaino sotto le scarpe, ma non
si voltò per assicurarsi che Goku non l’avesse visto: se si era accorto di lui,
tanto meglio.
Costeggiò l’albergo dal lato dell’ingresso
principale e vi entrò rapido, le mani affondate nelle tasche. Non si accorse di
Fujiwara, che scrutava la strada da dietro le tende del suo appartamento e che
fece nuovamente uno di quei suoi sorrisi metallici in direzione di Sanzo. Ma
questi nemmeno ci pensò, e si chiuse nella suite come s’era ripromesso,
l’immagine del ragazzo che tornava ad apparirgli suo malgrado davanti agli
occhi.
٭ Fourth Chapter
Ends ٭
Note
dell’autrice:
wow…
mi stupisco ogni volta di più della celerità che sto dimostrando nello scrivere
questa storia XD!
Mai
successo… sarà che mi ha preso veramente, ma veramente tanto.
Insomma,
ecco anche il quarto capitolo: Gojyo ha fatto la sua entrata in scena, come
promesso, e mi auguro di averlo reso bene… sapete com’è, sono più abituata a
trattare di Sanzo e Goku che non del kappa e di Hakkai ^^’’
Però
mi piace molto farli muovere “sul palco”. Ditemi voi se almeno ci riesco in
modo decente…
E
a proposito, come sempre graziegraziegrazie per recensioni & commenti (in
diretta o meno XP): ormai non vi dico nemmeno più di continuare a seguirmi
nell’impresa! Ah, beh…l’ho detto lo
stesso… (baka onna! – ndTutti)
Riguardo
al prossimo capitolo posso annunciarvi che probabilmente si tratterà in maggior
parte di un flashback; ho aggiunto quel “probabilmente” perché per una volta
non ho lo schema di ogni chap già pronto… come viene viene *_*
Ma
l’idea c’è, quindi credo che farò come ho pensato.
CC
[Consuete Curiosità]: la background music di questo capitolo è passata
da brani di Andrea Guerra (da film come La finestra di fronte, Cuore sacro e
Che ne sarà di noi), un album di Sting (The Best Of Sting And Police),
quel pezzo meraviglioso che è Sewn dei The Feeling ed si è conclusa con
una passata di songs di Michael Bublè.
Il
titolo del capitolo è quello della canzone di KT Tunstall.
Bene,
a questo punto chiudo i battenti! Appuntamento alla prossima “puntata”. See you
soon and go to the West!
C’era una volta un tempo in cui la famiglia Hoshi viveva
felice. Quando Sanzo era soltanto un bambino e ancora sorrideva, e sua madre
gli carezzava la testa e lo abbracciava all’improvviso facendolo ridere:
ricordava così poco di lei! I capelli corti e scuri, diversissimi da quelli del
marito, e gli occhi color ametista come i suoi; probabilmente era bella, lo
vedeva nelle foto, ma non era mai riuscito ad interessarsi troppo alla bellezza
femminile.
Suo padre era cambiato di poco, durante quegli
anni, sempre gentile e dolce. Era diventato solo più triste e silenzioso, dopo
la morte di lei. Uno stupido incidente d’auto, tutto lì. Un tutto qui abbastanza
gelido da devastare.
Sanzo aveva cinque anni, allora. Aveva
iniziato a regalare di rado sorrisi, a stare da solo. Lui e suo padre, per
molti mesi, si erano quasi evitati, la tristezza e il senso di colpa che
gravavano su di loro come nebbia, mentre la grande casa si faceva più fredda,
più buia, riempita dal coro di condoglianze di parenti, amici, colleghi,
conoscenti.
C’era anche Hiroki Fujiwara, tra essi, il
volto tirato e pallido, l’unico che riuscisse a parlare con Komyo.
Era andata avanti così per un po’. Poi, un
giorno, complice la pioggia d’autunno, padre e figlio s’erano ritrovati seduti
assieme, involontariamente, sotto la veranda sul retro, l’uno fumando la pipa,
l’altro leggendo un libro. Non avevano parlato, almeno finchè Sanzo non era
balzato in piedi, scendendo tra l’erba e rimanendo in piedi, immobile, a
lasciare che l’acqua lo bagnasse completamente: ad un tratto si era girato a
guardare il padre, una leggera aria di sfida dipinta negli occhi, e Komyo
l’aveva imitato. Entrambi fermi e bagnati, infreddoliti, senza muovere un muscolo
né rivolgendosi parola. Ma alla fine, l’uomo si era voltato verso il figlio,
scuotendo i lunghi capelli biondo cenere intrisi di pioggia e sorridendo; Sanzo
aveva ricambiato l’occhiata.
« C’è qualcosa che volevi dirmi? » aveva
chiesto Komyo.
« E tu? » aveva replicato il bambino.
L’uomo aveva addolcito la propria espressione,
già malinconica: « Tutto ciò che non abbiamo detto finora » era stata la
risposta « Siamo rimasti solo io e te. Che senso ha se ci perdiamo pure noi,
Sanzo? »
Non avrebbe avuto un senso, no, questo anche
lui lo sapeva, e non voleva che fosse così. Pertanto si era avvicinato al padre
e l’aveva abbracciato di slancio, le braccia intorno alla vita – poiché più in
alto non arrivava; Komyo l’aveva tirato su e stretto a sé, ed erano rimasti
così, padre e figlio, sotto la pioggia d’autunno.
E da quel momento, le cose avevano preso
lentamente a migliorare.
La tristezza aveva ceduto il passo alla
nostalgia, la nostalgia all’abitudine, finchè il ricordo di Mizuki Hoshi non
era divenuto una presenza rassicurante per entrambi. Sanzo crebbe, rivelando un
carattere non certo semplice da trattare ma onesto e indipendente e non ancora
tanto scostante da impedirgli d’intrattenersi, nelle lunghe serate in cui se ne
stavano in casa, in conversazione col padre, imparando molte cose. Apprese
proprio in quelle occasioni che Komyo aiutava spesso e volentieri l’amico
Hiroki Fujiwara nel suo lavoro: quale esso fosse, per il bambino restò per anni
un mistero, e nemmeno se ne interessò troppo. Suo padre stava bene, non c’erano
problemi, e poco lo preoccupava. Piano piano, poi, conobbe l’esistenza del
“clan”, seppe che Fujiwara era un pezzo grosso e si rese conto che non tutto
quello in cui era coinvolto era pulito. Ma Komyo non si sporcava le mani: lo
vedeva parlare al telefono, armeggiare con carte e computer, e c’erano volte in
cui incontrava l’amico, in casa o altrove. Quando c’era lui, Sanzo trascurava i
compiti scolastici e si metteva ad origliare da dietro la ringhiera delle
scale, senza però riuscire a seguire granchè di quel che dicevano. Nomi, fatti,
situazioni che lui ignorava completamente.
Andò avanti così fino all’anno in cui ne compì
dodici; e anzi, il cambiamento in suo padre doveva essere avvenuto già prima,
eppure il ragazzino si accorse della cosa solo allora. Non che Komyo fosse
diverso nei suoi confronti, tutt’altro, ma nella grande casa si respirava una
vaga inquietudine: l’uomo si adombrava più spesso, Fujiwara si vedeva molto
meno di prima, e Komyo appariva furtivo, sempre impegnato a scrivere, a cercare
qualcosa, a fare altre telefonate. Le volte in cui Sanzo provò a chiedergli
delucidazioni, il padre gli rispose con un sorriso rassicurante e con
l’affermazione che non c’era niente di storto, solo un periodo più faticoso del
solito in ditta.
Sì, perché Komyo Hoshi ricopriva un ruolo
importante in un’azienda elettronica, e non lo aveva abbandonato, nonostante le
stranezze e le disgrazie della sua vita. In molti erano convinti che il figlio
avrebbe seguito le sue orme, ma le cose non andarono così. Sia per volontà di
Sanzo, sia per volontà d’altri.
Avvenne in una sera di settembre, l’inizio
dell’autunno dei suoi tredici anni. Pioveva fitto da quella mattina, con un
suono sommesso e costante, e il ragazzo era rientrato da scuola completamente
bagnato ed estremamente nervoso, trovando un messaggio del padre sulla
segreteria telefonica: sarebbe tornato a casa tardi, gli diceva, dato che aveva
da incontrare una persona dopo il lavoro. Che non lo aspettasse alzato, si
premurava.
Sanzo partì con ogni buona intenzione di
obbedire a Komyo. Se la sbrigò da solo con i pasti e rimase tranquillo a
leggere per quasi tutto il pomeriggio. Eppure, più passavano le ore e più una
vaga forma d’ansia prendeva piede dentro di lui, inesorabile, incomprensibile,
odiosa e impossibile da ignorare. Fu per questo che cenò in fretta e subito
dopo si catapultò fuori, armato di ombrello e giacca a vento; corse alla
stazione della Yamanote più vicina e si recò al palazzo che ospitava l’azienda,
mentre calava il buio e la pioggia non accennava a smettere.
Vide suo padre non appena mise piede
nell’ampio cortile d’ingresso, illuminato freddamente da un paio di grossi
fari: Komyo se ne stava lì, appoggiato al muro del gabbiotto del custode, ora
vuoto, con il suo solito vecchio ombrello in mano e il volto serio. Sanzo
richiamò la sua attenzione da lontano, agitando una mano, e l’uomo si girò a
guardarlo solo dopo una manciata di istanti, sorpreso: « Che ci fai qui? Ti
avevo chiesto di restare a casa… » disse.
« Ho pensato di venirti incontro, visto che è
tardi, ecco tutto » replicò il figlio, avvicinandosi e appoggiandosi anche lui
con la schiena al muro. Era un po’ umido, ma faceva lo stesso.
Komyo scosse la testa: « Avresti fatto meglio
a darmi retta, Sanzo » mormorò « Comunque resta pure. La persona che sto
aspettando arriverà tra breve e poi potremo tornarcene a casa in santa pace »
Pronunciò l’ultima frase con un leggero
tremito d’insicurezza nella voce, cosa che il ragazzo non notò, coperta dal
suono della pioggia. Iniziava a fare freddo, e Sanzo si augurò che la
persona facesse in fretta: non gli piaceva stare lì, con quei riflettori
asettici puntati addosso e il buio tutt’intorno. E suo padre era teso, lo
vedeva.
« Stavo pensando, Sanzo… » riprese Komyo
all’improvviso, in tono leggero « Non mi hai ancora parlato di nessuna
ragazzina che ti piaccia, a scuola. E sì che hai già tredici anni e stai
diventando bello come tua madre! »
Il biondino lo fissò storcendo il naso: « Le
donne sono tutte stupide » sentenziò seccamente.
Suo padre scoppiò a ridere: « Quanto sei
critico! Sappi che così offendi quella che ho sposato »
« Mamma era un caso a parte » disse piano il
ragazzo. Perché Komyo se ne saltava fuori con simili argomenti, ora?
« Sai, a volte m’immagino come sarai alla mia
età, Sanzo » proseguì l’uomo, di nuovo grave « M’immagino persino come saresti
nel giorno del tuo possibile matrimonio. Sono strano, vero? »
Il ragazzo annuì, un po’ stizzito: « Oh,
eccome se lo sei, papà »
Avrebbe dovuto capire. Avrebbe dovuto avere
qualche presentimento, sospetto, timore. Avrebbe dovuto trascinare via suo
padre in quel momento, quando gli restavano il tempo e l’occasione di rincasare
sani e salvi.
Magari sarebbe cambiato poco, sarebbe accaduto
lo stesso, un altro giorno. E magari no.
Cominciò col rumore delle auto che
s’avvicinavano al cancello d’ingresso e con la luce annebbiata dei fari che le
annunciavano. Komyo alzò il viso di scatto, stringendo gli occhi, e mise una
mano sulla spalla del figlio:
« Sono loro. Va’ nel gabbiotto del custode e
non uscire finchè non se ne saranno andati » disse rapido.
Sanzo lo guardò sconcertato: « Perché? » volle
sapere. Non gli piaceva, non gli piaceva per niente.
« Dammi retta, ti prego! » lo supplicò
Komyo, ormai sull’orlo dell’agitazione. Le auto erano quasi arrivate nel
cortile.
Al ragazzo non restò altro da fare che
obbedire, chiudere l’ombrello e correre verso la porta del gabbiotto in
muratura; si voltò verso il padre e ne vide il sorriso dolce e triste tra le
gocce di pioggia, e aprì la bocca per parlare.
Ma l’uomo lo precedette: « Sii sempre forte
più che puoi, Sanzo » e mosse incontro ai fari.
Il biondino richiuse alle proprie spalle la
porta e si accovacciò dietro al vetro appannato, in modo da vedere quel che
accadeva all’esterno senza che si accorgessero di lui; lì accanto c’erano le
apparecchiature collegate alle telecamere di sorveglianza, ma pareva fosse
tutto spento. Deglutì a vuoto e s’impose di starsene fermo lì dentro.
Le auto – erano tre, adesso le vedeva, e scure
– erano infine entrate nel cortile, e si erano arrestate a pochi metri da
Komyo, che attendeva immobile riparato dal suo ombrello. Alcuni uomini scesero
dalle vetture e uno di essi, avvolto in un giaccone nero, si fece avanti,
fermandosi però al margine della zona luminosa creata dai due fari, cosicchè
Sanzo non potè scorgerne il viso. Si aggrappò al davanzale interno, le nocche
sbiancate.
Non riuscì ad udire nemmeno una parola di
quelle che furono pronunciate là fuori, da suo padre e dall’uomo sconosciuto
che lo fronteggiava. Non contò i minuti che se ne restò accucciato in quello
stanzino gelido, minuti che comunque gli parvero infiniti, dilatati,
insopportabili, dilaniati dalla sua crescente voglia di urlare per distrarli,
interromperli, bloccarli. Non sapeva cosa stesse accadendo di preciso, ma
sentiva sempre più freddo.
Là fuori parlavano, quasi non si muovevano
neanche. Fu per questo, probabilmente, che il ragazzo vide con grande
distinzione i gesti dell’interlocutore di suo padre, verso la fine: prima tese
una mano verso Komyo, come a voler domandare o imporre qualcosa, e la ritrasse
nel giro di pochi attimi, con una mossa nervosa.
E poi, la stessa mano tornò in avanti,
illuminata dai fari. Stringeva una pistola nera e lucente.
Sanzo spalancò le labbra nel tentativo di
gridare, ma accadde troppo in fretta.
Komyo non fece niente per evitarlo, mentre le
dita dell’uomo si contraevano sul grilletto bagnato: forse fu troppo rapido
anche per lui, o forse in quell’ultimo istante decise di lasciar perdere. Ci
furono un debole bagliore ed un colpo secco smorzato dal rumore della pioggia e
dal vetro, e il ragazzo vide, impotente, sconvolto, suo padre accasciarsi a
terra con una sorta di grazia innaturale, sollevando piccoli spruzzi, le
braccia spalancate al suolo.
«
PADREEEEEEEEEE!!!! »
Urlò con quanto fiato aveva in corpo, udendo la propria
voce aspra e rotta esplodere nella stanza fredda. Non credeva a quel che era
avvenuto innanzi ai suoi occhi, non poteva crederci. Non poteva essere vero,
no, no, no, no.
Gli sembrava una farsa, una presa di giro, una
cosa che non c’entrava niente con la sua, la loro vita.
Eppure la realtà era lì, oltre un vetro
appannato. L’uomo che aveva sparato si girò verso il gabbiotto, quando lui
urlò, ma non fece nulla tranne rinfoderare la pistola e allontanarsi nel buio.
Un paio di sportelli sbatterono e le auto si rimisero in moto, andandosene,
lasciando Sanzo con un senso ancor maggiore di gelida incredulità.
Non si chiese come mai, pur accorgendosi della
sua presenza, non avessero sparato anche a lui. Si catapultò fuori dalla
stanza, rendendosi conto a malapena della pioggia che gli sferzò il viso,
confondendosi con le lacrime, e si precipitò verso suo padre aggrappandosi a
chissà quale fievole speranza.
Ma di speranza, quella notte, non ve n’era. Il
proiettile aveva colpito Komyo dritto nel cuore, e non c’era più modo di
salvarlo. Se ne stava lì, steso sul selciato pieno di pozze, l’ombrello volato
a qualche passo da lui, il volto pallido e gli occhi ancora aperti puntati al
cielo cupo e opprimente, occhi che Sanzo gli chiuse passandovi sopra una mano
tremante. Provò a chiamarlo una, due, tre volte, e già sapeva che non avrebbe
risposto.
Allora, invaso da un’ondata di buia rabbia, di
sconcerto, di dolore, e di disperazione, il ragazzo cadde in ginocchio accanto
al corpo del padre, gettò il capo all’indietro e iniziò a urlare, urlare,
urlare, piangendo, contro il cielo.
Gridò fin quando ebbe respiro, e fin quando i
ricordi di quelle ore maledette non divennero confusi.
Era morto. Davanti a lui. E a lui non era
stato concesso di fare alcunchè.
Il funerale si tenne qualche giorno più tardi.
La casa, più solinga che mai, si riempì di visitatori, più di quanti se ne
fossero visti alla cerimonia funebre in onore di sua madre: c’erano i parenti
rimasti in vita di Komyo, pure quelli che abitavano lontano da Tokyo, c’erano
tutti coloro che nel corso di quegli anni si erano proclamati e atteggiati ad
amici dell’uomo – e probabilmente alcuni lo erano stati sinceramente; c’era
Makoto Uehara, che piangeva in silenzio e che lo abbracciò rapido
nell’arrivare, seguito dalla famiglia, c’erano i colleghi di lavoro di Komyo e
certe vecchie conoscenze di Mizuki. E c’era Hiroki Fujiwara, pallido e
contrito, assieme ad altri uomini più o meno giovani. Sanzo li guardava sfilare
innanzi a sé mentre sedeva sul grande cuscino nero all’ingresso, sentendosi
assente e infreddolito, rispondendo ai saluti e alle frasi di circostanza con
brevi cenni della testa.
Avrebbe preferito che se ne fossero andati
tutti. Non ascoltò nemmeno una delle proposte che gli vennero rivolte da vari
parenti di trasferirsi a vivere con loro, perché non gliene importava: che lo
lasciassero in pace, e solo.
Ma prestò attenzione alle parole di Fujiwara,
quando questi lo prese da parte prima che le ceneri di Komyo venissero sepolte
nel cimitero vicino. L’uomo gli rinnovò il proprio dolore per la morte
dell’amico e gli fece la sua profferta: mettersi sotto la sua protezione e
lavorare per lui. Non gli sarebbe mancato nulla, nemmeno la libertà.
« Diventare un membro della Yakuza? »
s’informò il ragazzo con malcelato sarcasmo, giusto per far presente a Fujiwara
che non era all’oscuro della sua attività. Il suo interlocutore sorrise:
« Non è una cosa così disdicevole, in tempi
come questi. Cominceresti con compiti semplici, adatti ad un giovanotto della
tua età, non temere. Ti garantisco protezione e relativa tranquillità, Sanzo, e
un’occasione di allontanarti dalla tua vecchia vita e dai suoi troppi ricordi.
Senza contare… » fece una pausa « … che tuo padre è certamente stato ucciso da
qualcuno della Yakuza »
Il biondino lo guardò fisso, gli occhi
febbrili: « E lei saprebbe dirmi chi è stato, Fujiwara-san? » domandò.
L’altro scosse il capo: « Mi dispiace. Nemmeno
io ne ho idea, per adesso. Ma col tempo, forse… »
Fu decisivo, per Sanzo. Fu per questo che
scelse di accettare la proposta dell’uomo, con la cupa speranza di ritrovarsi,
prima o poi, faccia a faccia con colui che aveva assassinato Komyo con tanto
sangue freddo, scoprendone il motivo e facendogli risputare il sangue che aveva
versato. Non aveva mai preso in considerazione la vendetta, ed era cosciente
della sua inutilità: non sarebbe servita a riportare in vita suo padre, ma
l’avrebbe aiutato a placare l’ira che già covava dentro. Voleva sapere, ad ogni
costo.
Pertanto vendette la grande casa ai margini
della città con l’ausilio dei parenti, prendendo per sé una parte della somma
che ne ricavò – il resto venne spartito equamente tra gli altri. Lasciò gran
parte della sua roba e con una borsa soltanto si trasferì nel piccolo appartamento
che Fujiwara gli aveva riservato, sempre in periferia; non rivide più l’uomo,
poiché riceveva ordini e notizie da un suo collaboratore, il giovane Jonathan
Rossini, e comunque non gli dispiacque. Hiroki Fujiwara lo metteva vagamente in
soggezione.
Trascorsero così undici anni quasi senza che
lui se ne accorgesse.
Il torrido agosto sfumò piano piano in un
settembre ventoso, portando sollievo a tutti, compresi coloro che alloggiavano
all’Hotel. E giunse anche il giorno dell’anniversario della morte di Komyo, e
il biondo si concesse un’intera giornata di riposo, non dicendo niente a
nessuno. C’era il sole, stavolta, e un cielo talmente bello e limpido che
pareva una beffa. Ma il cimitero fuori città era piacevole a guardarsi, in
quella luce, e Sanzo sostò a lungo di fronte alla pietra bianca che
contrassegnava la tomba di suo padre, con l’incenso che bruciava indolente e i
fiori nuovi comprati per l’occasione. Lì accanto riposava anche sua madre.
Da una parte, odiava i ricordi che lo
assalivano ogni anno, quando vi si recava: quelli brutti fomentavano dolori che
avrebbero fatto meglio a starsene sepolti in profondità, e che rendevano
vulnerabile persino lui. E quelli piacevoli erano insopportabili perché erano
come sfocate, preziose cartoline dimenticate che gli arrivavano da un luogo
ormai irraggiungibile, simile ad un piccolo paradiso fatto di memoria celato
nella sua mente. Erano ad un passo dai suoi occhi, quando lo assalivano, e per
quanto tendesse le mani non gli avrebbe più riafferrati. Mai.
Ecco perché li sopportava a stento, nonostante
la loro bellezza.
- Arrivederci – mormorò infine in direzione
delle due pietre bianche. Aveva rimuginato anche troppo, e s’era fatta l’ora di
tornare all’Hotel. Mentre si riavviava verso la macchina intravide, in lontananza,
la sua vecchia casa, e si voltò in fretta. Che stupidaggine sarebbe stata,
cedere alla nostalgia con tanta facilità.
Giunse a destinazione che era già il
crepuscolo. Parcheggiò nel solito cortile laterale, e stava chiudendo le
serrature dell’auto quando si avvide della presenza di qualcun altro: davanti
alla piccola porta che conduceva ai locali di servizio dell’edificio c’erano
due persone, una delle quali era Akira, il figlio di Fujiwara. Sorrideva,
seppur con un certo atteggiamento guardingo, e parlava a bassa voce ad una
ragazza esile e slanciata dai lunghi capelli color mogano e il volto armonioso,
la stessa che quella sera aveva ballato con Goku. C’era qualcosa nel modo in
cui si comportavano che trattenne Sanzo dal dare prova d’essersi accorto di
loro e che lo spinse ad andarsene in silenzio: non ne sapeva distinguere il
motivo preciso, non conoscendo d’altronde il tipo di rapporto che esisteva tra
i due, ma si sentiva come accomunato ad Akira. Pensiero stupido, e comunque
presente.
Sulla scalinata dell’atrio incontrò Fujiwara
medesimo, che scendeva per recarsi, con ogni probabilità, al Moon Indigo o
altrove: - Sei stato a trovare tuo padre? – lo apostrofò l’uomo con gentilezza.
Il biondo annuì: - Naturalmente sì – rispose a
mezza voce.
- In settimana farò anch’io un salto là –
disse Fujiwara – Piuttosto, Hoshi… hai visto mio figlio? -
Sanzo si stupì un po’ a quella domanda, e non
rispose subito. Rammentò l’aria furtiva e intima che aveva scorto attorno ad
Akira e alla ragazza, e si sentì in dovere, misteriosamente, di negare: - No,
mi dispiace, non l’ho visto –
L’uomo scrollò le spalle: - Non fa niente. Ti
ringrazio lo stesso, e buona serata – concluse, e se ne andò.
Per quanto contrario fosse al suo carattere,
almeno in casi normali, quella notte il biondo rimase sveglio fino a tardi in
compagnia di Hakkai, impegnati in una serratissima partita a scacchi, con
birra, sigarette e qualcosa da mangiare a portata di mano, in camera del moro.
Parlarono molto, soprattutto delle novità di Hakkai, che stava diventando
intimo amico dell’ispettore dai capelli rossi e si stupiva di come fosse stato
semplice. Sanzo credette di cogliere un fremito, nel tono dell’altro, che
andava oltre la soddisfazione di star riuscendo nel suo compito, ma non
s’interessò alla cosa, non essendo fatti suoi. Parlarono per ore, ascoltando
musica, e il biondo si ritrovò a pensare che non aveva di che pentirsene: nella
giornata dei ricordi poteva concederselo.
٭ Fifth Chapter
Ends ٭
Note
dell’autrice:
ohilà,
ci siete ancora? O siete (giustamente *-*) tutti in vacanza a godervi le ferie?
Io son tornata qualche giorno fa e verso la fine del mese ripartirò per farmi
un altro po’ di mare: è droga, non vorresti mai smettere di starci!
Comunque
la mia è stata una vacanza tremendamente sclerotica e creativa, c’è da andarne
fieri XP
Tornando
a noi. Cosa ne dite di questo capitolo? Quasi interamente dedicato – per più
della metà è un flashback – al passato di Sanzo e al ruolo di suo padre
nella vicenda; non è certo molto allegro, me ne scuso, ma poteva essere
altrimenti? Il personaggio di Komyo mi piace tantissimo, e nonostante questo
non ho potuto fare a meno di “lasciarlo morire” anche qui come nella storia originale
(con tanto di ultima-frase-catartica ripresa dal Gensomaden ^^’). Se vi ho
messo qualche pulce nell’orecchio riguardo alla verità sulla sua morte dovrete
pazientare per sapere se avevate visto giusto…
Goku
a questo giro non è comparso, ma tornerà nel prossimo. E non ho inserito a caso
la breve scena di Akira e della ragazza, ovviamente… che lo specifico a fare
XD? Vedrete tutto via via, promesso.
Sto
anche approntando una vera e propria galleria d’immagini su questa storia (la
riprova che mi ha “presa” un casino *-*), con disegni della sottoscritta e non
solo… bello bello bello, mi piace un sacco lavorare a tutto questo!
Ringrazio
le commentatrici/lettrici e le mie solite aficionadas: ne m’abandonnez
pas, les filles! :*
CC
[Consuete Curiosità]: il titolo del capitolo è quello di una canzone
(bellissima) dei Lighthouse Family, e l’ho scritto ascoltando l’album One
dei Beatles e le colonne sonore dell’Ultimo Samurai e delle Cronache
di Narnia.ß
consigli per gli acquisti
Ci
sentiamo alla prossima, mina-san! yours BlackMoody ~
Quella mattina, nell’aprire gli occhi, Goku si ritrovò a
fissare lo spicchio di cielo che s’intravedeva dalla finestra della sua camera:
era nuvoloso e inquieto, grigio ma non cupo, proprio come ci si aspettava da
una giornata di fine settembre; il vento scuoteva leggermente i vetri, e il
ragazzo già s’immaginava la tempesta di foglie che di sicuro stava spazzando il
cortile polveroso.
Con un sospiro Goku si raggomitolò di nuovo
sotto le coperte del futon. Era domenica e faceva fresco, quindi poteva
permetterselo, si disse mentre gettava un’occhiata assonnata alla confusione
che regnava incontrastata attorno a lui: una pila di cd masterizzati accanto al
piccolo stereo, alcuni libri ancora aperti sul tavolo basso che occupava il
centro della stanza, scarpe e maglie sparpagliate sul tatami, e un mucchietto
di indumenti da lavare che faceva capolino da dietro la porta del bagno,
semiaperta. Non c’era niente di ordinato, lì dentro, ma quel marasma aveva il
potere di rassicurarlo e di farlo sentire a casa persino in un luogo che casa
non era affatto.
Allungando una mano per accendere lo stereo,
il giovane si concesse qualche ulteriore minuto d’ozio, cullato dalle note di
un paio di canzoni a lui sconosciute, e infine si alzò dal letto con una mossa
decisa. Dato che il tempo era quello che era e che non aveva – per fortuna –
altri impegni, avrebbe impiegato quella domenica per rimettere un po’ a posto
le sue cose e, soprattutto, per fare un salto al conbini che si trovava vicino
all’Hotel. Non che gli servissero cibarie, mangiava sempre assieme ai suoi
colleghi e colleghe e agli inservienti in una saletta a pianoterra: voleva
semplicemente uscire, staccare la spina, portare i vestiti in lavanderia e
magari comprare qualche rivista. A dirla tutta, sperava di incontrare Sanzo, ma
sapeva quanto poco possibile fosse.
Non lo vedeva da diversi giorni, e moriva
dalla voglia di dirgli che era riuscito a convincere Fujiwara e Rossini a
limitare le sue mansioni a quelle di ballerino e cameriere, così come gli
aveva, forse inutilmente, promesso.
Si lavò il viso e indossò in fretta jeans e
pullover, raccogliendo gli indumenti sporchi in una borsa di carta e gettandosi
una lunga sciarpa intorno al collo: gli era venuta fame, e non vedeva l’ora di
fermarsi nel piccolo caffè sulla strada del conbini per mangiare un croissant
caldo. Salutò diverse persone nel percorrere corridoi e scale, fermandosi
persino a scambiare due parole con la sentinella di turno, prima di scendere
finalmente in strada con la borsa degli indumenti che gli dondolava al fianco e
gli occhi appena socchiusi per affrontare il vento leggero e pungente; la via
era poco affollata, così come il caffè, e Goku ne fu abbastanza contento,
nonostante la sua natura socievole. Ne vedeva fin troppa, di gente, durante la
settimana.
Rinfrancato dal cappuccino e dal croissant si
diresse verso la lavanderia self-service situata di fronte al conbini. Le
lavatrici erano pressochè tutte in funzione, ma oltre a lui c’era soltanto
un’altra persona, girata di spalle rispetto alla porta: un uomo alto e snello
dai capelli scuri, avvolto in un cappotto che gli arrivava fino al ginocchio e
apparentemente in difficoltà riguardo alle modalità di avvio di un lavaggio.
Goku si avvicinò con discrezione.
- Mi scusi, le serve una mano? – chiese,
schiarendosi la voce.
L’uomo si voltò, rivelando un paio di
straordinari occhi verdi cerchiati da occhiali sottili e un sorriso gentile:
- Temo di sì – ammise – Sono abituato a
lavatrici diverse -
- Oh, non si preoccupi, faccio io – si offrì
il ragazzo di slancio, felice di rendersi utile.
Hakkai lo guardò armeggiare con i comandi,
riconoscendolo solo in quel momento. Era il giovane ballerino che conosceva
Sanzo, il bambino che aveva incontrato nove anni addietro; era la prima volta
che ci parlava.
- Ecco qua! Ci vorrà una mezz’ora buona, sia
paziente – disse Goku alla fine.
Il moro chinò la testa in segno di
gratitudine: - Ti ringrazio tantissimo. Anche io vivo all’Hotel, ora come ora,
ma solitamente utilizzo la lavatrice delle inservienti. Oggi avevo voglia di
farmi un piccolo giro – replicò.
- Anche lei? Ci conosciamo? – s’informò
il ragazzo, perplesso.
Hakkai sorrise ancora: - Non direttamente. Ho
sentito parlare di te da Sanzo – spiegò.
A tale risposta, Goku si scoprì curiosamente
compiaciuto e desideroso di saperne di più su quanto il biondo aveva detto sul
suo conto all’uomo: - Sul… sul serio? E cosa le ha raccontato? – domandò
titubante. Magari lo considerava uno scocciatore, un moccioso sfigato, uno
sbandato, una presenza qualunque. E magari tutto il contrario.
- Di come vi siete incontrati quel giorno di
pioggia – rispose Hakkai sorridendo – Ti assicuro che non si aspettava affatto
di ritrovarti qui, in questa situazione, ma credo non gli abbia dato troppo
fastidio – aggiunse con una punta di complicità nella voce. C’era qualcosa in
quel ragazzo e nel modo in cui lo guardava, ascoltandolo, che lo induceva a
pensare che almeno da parte sua ci fosse un sentimento particolare: stava nascendo
allora, e di certo Sanzo non ne aveva idea, ma già esisteva, glielo leggeva
negli occhi. Sorrise ancora, con più spontaneità, e tese una mano.
- Scusami, sono un maleducato. Io sono Cho
Hakkai – si presentò.
Il ragazzo scrollò le spalle e lo imitò: - Non
preoccuparti, avrei dovuto pensarci io. Mi chiamo Goku, piacere –
Si scambiarono una calorosa stretta di mani, e
sul momento la conversazione si concluse. L’uno rimase ad aspettare che la
propria lavatrice terminasse, mentre l’altro si occupò dei propri indumenti,
mentre fuori si alternavano sprazzi d’ombra e chiarore a seconda di come
spirava il vento. C’era una gran tranquillità.
Alla fine, il moro riprese i panni puliti, li
rimise in un’ampia busta e battè un paio di colpetti discreti sulla spalla destra
di Goku: - Ti saluto, il mio dovere di uomo di casa l’ho fatto – annunciò.
Il giovane ridacchiò di gusto: - Il mio avrà
termine tra poco, per fortuna. Torni all’Hotel? –
- Sì. Resterei volentieri a farti compagnia,
ma… - gettò un’occhiata all’orologio da polso - … ho un appuntamento a Harajuku
tra meno di un’ora, devo sbrigarmi. Mi dispiace -
- Figurati – glissò Goku scrollando la testa –
Piuttosto… ti vedi con la tua fidanzata? -
Stavolta fu Hakkai a scoppiare a ridere, non
capiva nemmeno lui se per la curiosità candida dell’altro o se per l’immagine
di Gojyo che gli era subito balenata in mente: - Direi proprio di no. Ah, se
incontri Sanzo salutamelo –
- Certo… anche se dubito di vederlo – rispose
Goku con vago rammarico.
Il moro gli sorrise ancora e si avviò
all’uscita: - A presto – lo salutò, e uscì rapido in strada.
Il ragazzo quindi rimase solo nella lavanderia
deserta, un po’ stordito e fondamentalmente contento per quel che Hakkai gli
aveva riferito riguardo all’opinione di Sanzo su di lui. Certo non ne sapeva
molto, ma bastava. L’unica pecca era che tali discorsi gli avevano messo
addosso una voglia incredibile di trascorrere nuovamente del tempo col biondo –
il che non era del tutto rassicurante: da quando si erano ritrovati, era come
se Hoshi Sanzo fosse diventato una specie di droga, per Goku; lo cercava
spesso, lo seguiva con lo sguardo se lo scorgeva nei corridoi o giù nel
parcheggio, dall’alto della sua finestra illuminata, e si sentiva appagato se
riusciva a scambiarci due semplici, futili parole. Eppure rimaneva della
distanza tra loro, uno spazio vuoto e sconosciuto che il ragazzo per il momento
non poteva colmare: Sanzo era forse troppo lontano per e da lui e chiunque
altro. E il sentimento che provava… era strano, non aveva un nome preciso,
oppure non era in grado di darglielo, adesso.
“Temo di essere strano io” riflettè
Goku mentre, dopo aver ripreso i panni puliti, si accingeva a varcare la soglia
del conbini; si fermò un attimo, sorridendo tra sé al pensiero, poi scosse la
testa e si diresse con passo spedito verso il reparto libreria, deciso a
comprare l’ultimo numero di Zerosum per distrarsi un minimo.
Il corso principale di Harajuku era pieno di
gente come al solito, se non di più: era domenica, il che inoltre comportava un
aumento esponenziale della folla di cosplayers e tizi in tenuta goticheggiante.
Eppure, nonostante questo, la testa scarlatta di Gojyo – colore naturale,
sosteneva lui – era inconfondibile. Lo stava aspettando davanti ad una vetrina
di scarpe griffate occidentali, fumandosi una sigaretta in completa
tranquillità, l’aria rilassata e dannatamente sicura di sé. Hakkai si fece
strada tra i passanti e lo raggiunse, vagamente affannato: aveva camminato in
fretta dal parcheggio a lì, visto che era in leggero ritardo.
- Ohi! – lo salutò l’ispettore non appena lo
scorse – Cominciavo a convincermi che volessi darmi buca -
Il moro fece un cenno divertito: - Non sarebbe
da me, credimi. Aspetti da molto? – replicò.
Gojyo sogghignò: - Da nemmeno cinque minuti,
in verità, l’ho detto per farti sentire un po’ in colpa –
- Oh, gentile da parte tua – rise l’altro.
Cercò invano di non lasciarsi trasportare dall’atmosfera complice che ogni
volta si veniva a creare tra loro, arrendendosi contemporaneamente all’evidenza
dei fatti: quegli incontri erano diventati, e forse sempre stati, tutto tranne
che volti allo scopo per cui erano nati. Hakkai non ricordava di aver mai
toccato l’argomento che avrebbe dovuto interessargli, durante quelle uscite;
stava bene, parlavano, ridevano, si conoscevano sempre più a fondo, e il
lavoro, Fujiwara, la polizia, la Yakuza, il resto perdeva di significato.
Ecco perché, si disse il moro, magari quel
giorno avrebbe provato a fare sul serio. Così, giusto per evitarsi le domande
inopportune di Rossini quando lo vedeva rientrare, e solo per quel debito che
doveva loro.
- Ti porto in un localino di tutto rispetto,
oggi – fece Gojyo, distraendolo.
- Che genere di localino? -
Il rosso gli dette di gomito su un fianco: -
Non aspettarti chissà che, però a me piace. Fanno uno yakisoba favoloso –
- Allora ne vale sicuramente la pena –
convenne Hakkai – E al film hai pensato? -
- L’unico che mi tirava è Slevin. Mica
ti dispiace, eh? -
- No, anzi, mi sembra adattissimo -
Gojyo gli scoccò una buffa occhiata in tralice:
- Adatto? A chi o cosa? – chiese.
- Beh, gangster, poliziotti corrotti… mi vieni
in mente tu – si affrettò a rispondere il moro.
Era una sua idea, o nella voce dell’amico
aveva colto una nota di impressionante sarcasmo?
Per fortuna l’ispettore non incalzò oltre, si
limitò a ridacchiare con l’aria di chi la sa lunga e ad accendersi un’ennesima
Hi-Lite: in questo rassomigliava incredibilmente a Sanzo – e solo in questo.
Da lì in poi, il pomeriggio si svolse in
maniera impeccabile. I due si recarono a mangiare il tanto decantato yakisoba,
e vi trascorsero due ore abbondanti, riempiendosi lo stomaco di chiacchiere,
cibo e birra, mentre Gojyo si divertiva a bisticciare con il padrone del
locale, sua vecchia conoscenza, e Hakkai non trovava niente di meglio da fare
che ridere, piuttosto che farlo smettere; e nel locale c’era un piacevole
tepore, se confrontato col vento fresco che tirava all’esterno, e la radio
passava canzoni che piacevano ad entrambi e che entrambi si ritrovavano a
cantare tra una battuta e l’altra. Dopo, rinfrancati e riscaldati dal pranzo,
andarono quindi al cinema, evitando per un pelo la coda estenuante che si venne
a formare alla cassa, e si gustarono il film, la novità della settimana.
C’era da riconoscere che Gojyo aveva avuto
gusto nello scegliere proprio Slevin: era ben fatto, intrigante, pieno
d’azione, e per certi versi ricordava veramente la situazione del moro, di
Sanzo, di Goku e pure dell’ispettore.
E c’era da riconoscere che quel braccio del
rosso passato dietro la sua nuca, sullo schienale della poltrona, non lo
infastidiva, né imbarazzava o divertiva: lo rendeva soltanto rassicurato e
quasi contento, così come i sorrisi d’intesa che gli rivolgeva ad ogni commento
lanciato su una scena. Confuso, Hakkai non lo era più troppo, quando invece
avrebbe dovuto esserlo, oggettivamente parlando.
Ma dell’oggettività, della norma, non si era
mai curato sul serio, in fondo. Nemmeno al tempo in cui c’era lei.
- Aaah, bello, mi è piaciuto un sacco –
esclamò Gojyo non appena furono usciti da cinema, una Hi-Lite già accesa in
bocca. Ormai il sole era calato, e faceva più fresco; di gente ce n’era sempre
tanta, intorno a loro, però l’arietta pungente, il cielo screziato d’oro tra le
nuvole e le mille luci accese sulle strade rendevano piacevole anche la folla.
I due si diressero verso il parcheggio in cui il moro aveva lasciato la
macchina, camminando lentamente e continuando a disquisire sul film. Fu il
rosso a dare una strana svolta alla conversazione:
- Tu hai mai avuto a che fare con la Yakuza,
Hakkai? – chiese all’improvviso.
L’interpellato rischiò di inciampare nei suoi
stessi piedi: - Non direi. Perché? – disse, riuscendo a mantenersi
imperturbabile e a non lasciar trapelare la propria lieve agitazione. Che fosse
l’ispettore a fare il doppiogioco? Magari era lui che si era lasciato
avvicinare con la precisa intenzione di carpirgli informazioni che gli
sarebbero poi servite nelle indagini contro Fujiwara e il resto del clan, Cho
Hakkai compreso. E se era così, il suddetto Cho Hakkai era pronto ad ammettere
con sé stesso di averlo preso bellamente in tasca.
- Perché ho saputo che qualche anno fa avevi
iniziato come poliziotto – replicò Gojyo – Ho domandato ad uno dei miei
superiori, il quale mi ha riferito di come poi ti sei ritirato dall’ambiente, a
solo un anno e mezza dall’inizio del lavoro. La cosa m’è parsa bizzarra, quindi
ho pensato che tu abbia avuto problemi con qualche clan. Ho sbagliato? -
Il moro si sentì vagamente rassicurato.
L’ispettore aveva toccato un tasto dolente, ma sembrava non conoscere la sua
attuale posizione: - Non hai sbagliato del tutto, ma non mi va di raccontarti
il vero motivo – rispose quindi a mezza voce - O almeno, non adesso. Perdonami
– aggiunse.
L’altro scosse le spalle: - Figurati, non
avevo mica intenzione di metterti sotto torchio! Non sarà un argomento semplice
da trattare, immagino. Certo però che ritrovarti a fare l’impiegatuccio… come
mai? – ghignò.
Si riferiva alla menzogna che Hakkai aveva
inventato circa la sua presunta professione, e stava ridendo; eppure all’amico
parve nuovamente di cogliere qualcosa, nel suo tono e nel suo sguardo, che lo
mise un po’ in guardia.
- Chi è che ha dichiarato di avere intenzione
di farmi il terzo grado, ispettore Sha? – lo provocò con malizia, in maniera da
ricondurre il discorso su un piano scherzoso.
Gojyo non rispose subito. Si fermò e si volse
verso di lui, serio, gli occhi dritti nei suoi:
- Non lo farei, non contro la tua volontà -
Il moro perse fiato per un istante, al suono
della voce roca del rosso, e non seppe ribattere niente.
Rimasero in silenzio a guardarsi finchè un
drappello di ragazze ben vestite e truccate non passò loro accanto osservandoli
con sfacciato interesse e ammiccando, al che Gojyo si riscosse e riacquistò il
suo solito atteggiamento libertino, salutandole con un seducente “Buonasera,
bellezze”; Hakkai si sciolse a sua volta e sorrise.
Giunsero dopo poco al parcheggio, a buio, e lì
si salutarono, fissando il prossimo incontro. L’atmosfera gradevolmente tesa di
prima pareva dimenticata da entrambi, ma un che di diverso c’era, tra loro.
Ora sì che era confuso, pensò Hakkai
nell’accendere il motore.
- Come procede, Jonathan? -
- Nulla di nuovo, Hiroki-san – rispose
Rossini, lasciandosi cadere su una poltrona e accettando il bicchiere di brandy
che l’uomo gli offriva – Cho è giusto tornato da uno dei suoi giri informativi
assieme all’ispettore, ed insiste nel dire che per il momento la polizia non
costituisce un ostacolo. Non stanno facendo granchè -
Fujiwara annuì: - Questo è un bene… o lo sarebbe,
se fossimo certi di tali informazioni –
- In ogni caso, Cho sta adempiendo al suo
dovere senza mostrare alcun sospetto. È già abbastanza -
- Hai ragione, Jonathan – convenne l’altro –
Tu credi ci sia la possibilità che venga a conoscenza della verità, dato che è
rientrato in contatto con il mondo da cui proviene? -
Rossini riflettè un attimo: - C’è il rischio,
in effetti. Però ce ne preoccuperemo a tempo debito –
Fujiwara parve soddisfatto, e buttò giù un
gran sorso di brandy continuando a passeggiare per la stanza.
- E tu che mi dici di Hoshi, Hiroki-san? -
- Il nostro biondino è ad un buon punto della
lista, ed è sempre il solito. È un validissimo elemento, no? -
L’italiano ridacchiò: - Più che valido.
Potresti nominarlo tuo erede, al posto di quel pusillanime di Akira –
Il suo interlocutore lo fulminò con
un’occhiata: - Non dire cazzate, Jonathan –
Era talmente scuro in viso che Rossini smise
immediatamente di sorridere, conscio di aver esagerato con il sarcasmo, non
solo per via degli attriti che esistevano tra Fujiwara e il figlio; la
questione legata a Sanzo era anche più pericolosa da tirare in ballo.
Pericolosa e delicata, poiché comprendeva il suo defunto padre.
- Akira… - riprese il capo del clan a voce
bassa - … non mi piace come si sta comportando. Sparisce per giornate intere,
non si cura minimamente di quelli che dovrebbero essere i suoi doveri -
- C’è chi l’ha visto in compagnia di una delle
ragazze – interloquì Rossini, cauto.
- Non m’importa sapere con chi passa il suo
tempo. Basta che non si metta strane idee in testa -
Jonathan si alzò: - Allora vedrò di tenerlo
d’occhio meglio, che dici? – propose.
Fujiwara fece un cenno di assenso senza
parlare, e l’altro intuì che non aveva più voglia di discutere. Perciò gli
augurò la buonanotte e uscì dall’appartamento in fretta. Non gli piaceva
affrontare il boss quando questi s’innervosiva, cosa che metteva in soggezione
persino lui, il “tirapiedi-privo-di-scrupoli”, come lo chiamavano.
Ciò che lo consolava era che tutto pareva
procedere secondo i loro programmi.
Si diresse verso il Moon Indigo, e nella hall
si scontrò con quel tipetto dai capelli castani spettinati che amava
considerare la perla rara del locale: - Ehi, Son, stasera addirittura te ne
scappi? – lo canzonò.
- Scusami, Rossini-san, non ti avevo visto!
Comunque non sono di turno – disse quello di rimando, e non smise neppure di
correre. Jonathan lo guardò allontanarsi, e non se ne curò oltre.
Goku, dal canto suo, si precipitò nel giardino
del cortile interno, il suo preferito. Aveva dato una mano nelle cucine, e
adesso sentiva il bisogno di starsene tranquillo a godersi l’aria notturna, da
solo. E poi, la camera di Sanzo si affacciava proprio sul cortile, e magari
l’avrebbe visto e salutato, da sotto in su.
Gli toccò rimanere deluso, una volta sbucato
all’esterno, perché le grandi finestre erano immerse nel buio più totale: il
biondo doveva essere uscito, o forse dormiva già, pensò il ragazzo con un
sospiro. Quanto era stupido comportarsi così! Lo sapeva benissimo, eppure quasi
non gli dispiaceva. L’avere una persona costantemente in testa, cercarla senza
stancarsi, nonostante il senso di estraniamento che gli dava quel non
riconoscere di quale sentimento si trattasse, tutto ciò lo colmava e appagava,
da una parte.
Dall’altra, era una cosa tremendamente
assurda.
Sospirò per l’ennesima volta, e in quel
momento si accorse di non essere l’unico occupante del giardino: gli dava le
spalle ed era seduto su una bassa panca di pietra, ma Goku capì che si trattava
di un uomo, probabilmente un inserviente in pausa o uno dei tanti
scagnozzi-avventori che circolavano nell’Hotel. Fece per allontanarsi per non
disturbarlo, né essere disturbato, quando notò un particolare che gli fece
cambiare idea.
L’uomo stava fumando una sigaretta, ne
intravide il bagliore rossastro nella penombra; e le ciocche di capelli
illuminategli dalle luci del porticato erano inequivocabilmente color del
grano.
Allora si armò di coraggio – il coraggio di
sopportare una figuraccia, qualora avesse preso un granchio – e si riavvicinò
all’altro, tossicchiando piano per segnalare la sua presenza.
- Sanzo? – chiamò.
L’altro si voltò quasi immediatamente: - E tu
che ci fai qui? – lo apostrofò con una certa, ruvida sorpresa.
L’espressione di Goku si lasciò andare ad un
sorriso: - Buonasera – disse.
Forse quella distanza non era così impossibile
da colmare.
٭ Sixth Chapter Ends ٭
Note
dell’autrice:
scusate,
scusate! Innanzitutto per il ritardo, cosa che non era (stranamente XD) più
successa… Ho avuto un paio di mesetti di fuoco, e non è che ora la situazione
sia molto diversa, ma pian pianino sono riuscita a mettere insieme anche questo
capitolo. Ecco, scusate anche per averlo interrotto in tal momentaccio, però se
scrivo tutto e subito che gusto c’è?
Spero
che le fans di Gojyo & Hakkai siano rimaste abbastanza soddisfatte! In ogni
caso vi assicuro che non sarete deluse, andando avanti con la storia, per quel
che riguarda questi due… ^^
Mi
sono divertita a descrivere Goku in un contesto tanto casalingo, all’inizio del
capitolo, e il riferimento allo Zerosum m’è venuto di getto, non lo avevo
assolutamente programmato XP! Poi m’è sembrato opportuno inserire la
conversazione tra Fujiwara e Rossini, giusto per non dimenticarsi che qui le
cose non sono molto chiare come potrebbero apparire, e ho citato Slevin
perché mi ha effettivamente un po’ ispirata.
(a
proposito, se vi capita andate a vederlo: è Patto criminale, con Josh
Hartnett e Lucy Liu)
Ohi,
come sempre arigatou gozaimasu a tutte per recensioni, commenti e anche
semplice lettura! Con una nota di merito in particolare per le mie solite
“aficionadas” ^.^ Continuate a supportarmi, mi raccomando!
||CC
(Consuete Curiosità)||: il titolo del capitolo è quello di una canzone di
Marshall Crenshaw; mentre scrivevo me ne sono ascoltate svariate, come Haraiso
(Merry), Playground love (Air) e quelle dell’album Peachtree Road
del grande Elton;
e
come regalino finale vi metto il link per vedere il dessin che ho fatto a mo’
di copertina per l’intera storia:
Sanzo gettò a terra il mozzicone di Marlboro e per qualche
istante scrutò il giovane in piedi dietro di lui con un misto di fastidio e di
non totalmente spiacevole stupore. Si era aspettato di avere il grande cortile
tutto per sé, quella sera: aveva trascorso l’intera giornata in camera a
leggere e rimuginare, se escludeva il pranzo in un piccolo ristorante lì
vicino, e sceso il buio aveva provato un forte bisogno di starsene all’aria per
un po’, senza nessuno che gli girasse tra i piedi. Ecco perché il giardino
deserto dell’Hotel gli era parso il luogo più adatto.
Era furioso, e quindi ancor meno propenso del
solito a vedersi altri volti attorno. Era furioso, poiché erano ormai più di due
mesi che si muoveva nel cuore della Yakuza di Tokyo, lavorando per Hiroki
Fujiwara in persona, uccidendo chi egli ordinava e placando inutilmente il
rancore che lo divorava, e nonostante questo non aveva trovato una sola,
fottutissima traccia che potesse condurlo a scovare l’assassino di suo padre.
Persino Fujiwara pareva al suo stesso punto, stando a quel che gli diceva:
tentare di scoprire la verità in un mondo come il loro era come muoversi nel
fumo, e il biondo cominciava a stancarsi. Era diventato quel che era soltanto
per giungere all’uomo che nell’ombra aveva premuto il grilletto, e ripensarci
gli comunicava un gran senso di rabbia impotente.
Ma adesso che aveva quegli occhi d’ambra
puntati addosso non sapeva se infuriarsi ulteriormente o se, invece, esser
grato al loro proprietario per averlo strappato da quelle odiose riflessioni:
- E tu che ci fai qui? – lo apostrofò con un
residuo di durezza nella voce.
Goku aggirò la panca di pietra e si fermò di
fronte a lui, prima di rispondere:
- Beh, è una bella serata… - disse sorridendo
– Avevo voglia di starmene qui a pensare, così, niente di che -
Sanzo sbuffò: - Allora torna a pensare e
lascia pensare me – lo freddò.
In realtà non gli piaceva affatto l’idea di
rimanere di nuovo da solo con la sua ira come unica compagnia, e non aveva
alcun motivo per essere tanto sgarbato con l’altro, eppure era convinto che
fargli credere il contrario sarebbe stata la cosa migliore, per apparirgli più
forte e senza bisogno di chicchessia.
Il ragazzo, però, non se ne andò: - Scusami,
vedo che ti ho disturbato. Ma… insomma, dato che siamo qui entrambi mi
sembrerebbe brutto starcene ai due angoli opposti del cortile come non ci fosse
nessuno – replicò tutto d’un fiato, di rimando – O comunque, io non potrei, ora
che ti ho visto – aggiunse, un leggero imbarazzo.
Il biondo lo guardò: - Cosa stai cercando di
dirmi? – domandò. Dannazione, lo ammorbidiva sempre.
- Che se ti va potremmo parlare tra noi,
piuttosto che pensare. Dopo si sta meglio, sai? – sorrise ancora Goku.
Dei, se era sfacciato. Eppure non riuscì a
rispondergli con astio, non riuscì nemmeno a provarlo, quell’astio. In casi
normali un qualsiasi ventenne che lo tampinava con quell’espressione idiota e
speranzosa sul volto proponendogli una sana chiacchierata gli avrebbe fatto
saltare i nervi, ma con lui pareva impossibile prendersela: erano quegli
occhi, Sanzo cominciava ad esserne certo. E quel trasporto che Goku
inequivocabilmente gli comunicava.
- E di che diamine vorresti parlare? – chiese
quindi.
Il più giovane parve rifletterci un attimo su:
- Ad essere sincero non lo so… però c’è di sicuro una cosa che volevo dirti –
rispose con una voce che, nella penombra, tradiva il suo sorriso. Poi, senza
aspettare che Sanzo replicasse o lo invitasse, improbabilmente, a farlo, si
sedette al suo fianco sulla bassa panca di pietra, rivolto però nella direzione
opposta, convinto di rappresentare comunque un piccolo fastidio per il biondo.
- Ricordi quello che ti ho promesso la sera
che ci siamo rivisti, sul mio lavoro? – riprese.
Sanzo assentì con un borbottio
incomprensibile, guardandosi bene dal precisare che non l’aveva mai considerata
una promessa personale. O forse sì, e per questo stette zitto.
- Ecco, sono riuscito a convincere
Fujiwara-san a farmi soltanto servire ai tavoli e ballare! – spiegò, contento –
L’ho pregato di lasciarmi del tempo prima di iniziare l’altra… attività, e lui
ha accettato. Non so come sia potuto succedere, davvero, ma credo che
Fujiwara-san sia una persona gentile, in fondo, non trovi anche tu? -
- Non ne ho idea – disse il biondo in tono
scettico. Doveva sempre capire quell’uomo.
Goku lo guardò da sopra la sua spalla: - Non
ti fa piacere? –
L’altro sbuffò appena: - La faccenda riguarda
te. Non me – replicò col solito tono tagliente. E, come al solito, quel tono
gli servì a mascherare il fatto che, dentro di sé, ciò che aveva detto non era
poi troppo veritiero.
Il ragazzo gli sorrise di nuovo, e nella poca
luce Sanzo non seppe cogliere la sfumatura apparsa sul suo viso; ebbe
l’impressione che Goku avesse cominciato a conoscerlo, e che non si fosse
lasciato ingannare dalla risposta.
Per un po’ se ne rimasero in silenzio, giusto
il tempo, per il biondo, di accendersi una seconda Marlboro e di tirare qualche
boccata mentre guardava il cielo nero e velato della sera. Stava davvero
sentendosi più rilassato?
- Tu perché ti trovi in questo posto, tra
questa gente, Sanzo? – se ne uscì il ragazzo all’improvviso.
L’interpellato gli gettò un’occhiata in
tralice: - E tu, perché te ne stavi sotto quel ponte, quel giorno? –
Gli era venuta fuori dal nulla, la domanda.
Non aveva mai pensato di porgliela, fino ad ora. Però gli era rimasta in testa
una frase pronunciata tempo addietro da Fujiwara sulla morte dei genitori di
Goku, e il biondo era sicuro che esistesse un nesso tutto fuorchè trascurabile
tra i due accadimenti.
Il giovane apparve per un attimo smarrito,
serrandosi nelle proprie spalle prima di parlare:
- Ero fuggito di casa da circa due giorni. Non
avevo una meta, avevo paura ed ero stanco, e quindi avevo finito per
accasciarmi là sotto. Non voglio pensare a ciò che sarebbe potuto succedermi se
non fossi passato tu -
- Ma sono passato, no? – replicò
inaspettatamente Sanzo, e le spalle di Goku si rilassarono.
- Sei passato, sì. Per questo sono convinto che
tu mi abbia in qualche modo salvato, credimi – proseguì il ragazzo con dolcezza
– Allora avevo appena perso la mia famiglia, sai? Ecco perché scappavo -
Il biondo ruotò di poco il busto in modo da
poterlo guardare: - Come l’hai persa, la tua famiglia? – chiese.
Goku prese un profondo respiro: - Entrambi i
miei genitori sono stati uccisi, non so perché e non so da chi. So soltanto che
quel pomeriggio erano inquieti, e mia madre mi pregò di andarmene a giocare
fuori casa finchè non si fosse fatto buio. In realtà pioveva, non era proprio
il tempo adatto per starsene a giro… però lo feci. E quando rientrai era già
finito tutto. Erano stesi a terra… ed erano morti. Così – raccontò. La voce gli
si incrinò leggermente mentre pronunciava l’ultima parola, ma fu un istante. Se
li ricordava alla perfezione, i corpi senza vita di suo padre e sua madre,
riversi sul pavimento chiaro schizzato di sangue, e la radio ancora accesa in
un angolo.
- E non hai davvero idea del chi e del perché?
– insistette Sanzo. Dei, se erano simili.
Il ragazzo scosse la testa castana: - Davvero,
no. Ero un bambino, questo sì, però non riesco ad immaginare che si fossero
immischiati in faccende tanto pericolose da perderci la vita… o meglio, ne sono
del tutto all’oscuro. Mio padre lavorava come tassista, mia madre era stata una
ballerina e poi era stata assunta come commessa in un negozio. Chi mai avrebbe
potuto voler vedere morte due persone come loro? –
- Non chiederlo a me. Nemmeno mio padre era un
uomo che meritava di essere ammazzato – disse Sanzo a bassa voce, e solo dopo
si rese conto di aver pronunciato la seconda frase. Stava cercando di non
pensarci più, cazzo.
Per un po’ Goku stette zitto, incrociando le
mani in grembo e alzando lo sguardo al fazzoletto di cielo che sovrastava il cortile
e si mescolava con le fronde scure degli alberi; dalle strade intorno giungeva
fioco il rumore delle auto.
- Allora sei qui all’Hotel per via di tuo
padre, Sanzo? – domandò infine.
- In un certo senso sì – fu la risposta.
- Se ti va di parlarne… - azzardò l’altro.
- E a che pro? Non eri tu quello che voleva
farmi stare meglio? – lo interruppe il biondo, ma non era arrabbiato.
Goku arrossì leggermente: - Spero di star
riuscendo nell’intento –
Sanzo non ribattè. Se avesse voluto essere
totalmente sincero avrebbe dovuto dirgli che sì, ci stava riuscendo, con la sua
sola, sfacciata, solare presenza. Lui che aveva vissuto quasi la sua medesima
orribile esperienza e che non si era trasformato in un mostro di rabbia fredda
in cerca di vendetta, lui che era andato avanti, pur con dolore e fatica.
Avrebbe voluto dirglielo, o in alternativa mentire spudoratamente, e nel
dubbio, ancora, tacque.
- Se vuoi me ne vado, Sanzo – mormorò il
ragazzo ad un tratto, vacillando di fronte al suo silenzio.
Fece per alzarsi, e l’uomo, voltatosi, gli
mise una mano sulla spalla: - Smettila, e resta qui – borbottò.
L’espressione contratta di Goku si sciolse in
un sorriso, e con esso parve allentarsi anche la tensione che era rimasta tra
loro sino a quel momento. Presero a parlare di più, di molte più cose, e il
biondo arrivò persino a spiegargli quale fosse il suo ruolo all’interno del
clan, stupendosi del proprio stesso timore di vedere il giovane fuggire via o
disprezzarlo, una volta scoperta quella carta; ma Goku non scappò, né si
allontanò: rimase invece lì sulla panchina e vi si mise a sedere a cavalcioni
per poterlo vedere meglio in volto, e ascoltò attento ogni singola parola di
Sanzo. Soltanto quando quest’ultimo ebbe terminato il discorso chiese:
- E non ti pesa mai un compito del genere?
Uccidere… come coloro che uccisero tuo padre? -
Ecco, l’aveva detto. Touchè, venne da
pensare al biondo:
- Che mi pesi o meno non ha importanza, è ciò
che qui definiscono “il mio lavoro” – disse – Finchè non mi daranno l’ordine di
fare fuoco contro persone che non hanno niente a che vedere con la Yakuza, come
donne, mocciosi, vecchi e uomini disarmati e ignari, non protesterò. Per il
momento, è bene che faccia la mia parte -
Goku annuì lentamente: - Capisco –
Capiva la malcelata tristezza di Sanzo, prima
di tutto. Per quanto questi si sforzasse di esternarla sotto forma di spietato
cinismo, lui gliela leggeva negli occhi, in quelle ametiste amare. E capiva
anche che avrebbe desiderato abbracciarlo forte, in modo da scacciare, almeno
per qualche attimo, sia la sua che la propria.
Eppure si trattenne dal farlo: non era sicuro
che il biondo avrebbe gradito, purtroppo… Così sospirò e decise di cambiare
argomento di punto in bianco, pregando Sanzo con voce allegra di raccontargli
qualcosa della sua infanzia. L’altro lo fissò come se avesse tirato un’eresia:
- Ora, posso sapere perché diamine dovrei
raccontarti i fatti miei?! – esclamò.
- Perché sono curioso! Per favore, Sanzo, non
c’è niente di male! – lo supplicò Goku, ridendo.
E il biondo si arrese ancora una volta, benchè
con un sonoro verso di disappunto:
- Purchè tu la finisca di fare casino –
sbuffò.
In una stanza al terzo piano del palazzo,
Sumire Hagiwara, la giovane donna dai capelli color mogano che lavorava assieme
a Goku al Moon Indigo, sorrise al proprio riflesso sul vetro della finestra:
- Akira, indovina chi c’è giù nel giardino? –
disse rivolta al ragazzo alle sue spalle.
Il figlio di Fujiwara si alzò a sedere sul
futon, guardandola: - In giardino? Non ne ho idea… - ammise.
Sumire si girò: - Goku e Hoshi-san! Sono su
una delle panchine, credo stiano parlando – descrisse.
Lui inarcò un sopracciglio, vagamente
perplesso: - E dunque? A cosa stai pensando? -
La ragazza tornò con passi lenti verso il
futon e vi si lasciò cadere sopra di nuovo, scuotendo la testa e accostandosi
ad Akira, il viso tornato serio: - Hai sempre intenzione di portare a termine
il tuo piano, non è così? – domandò.
- Ovviamente, ma continuo a non capire –
rispose cautamente il giovane.
Lei gli puntò gli occhi dritti nei suoi: - Non
volevi forse cercare l’aiuto di Hoshi-san e Cho-san? Se Hoshi-san tiene a Goku,
se gli si sta avvicinando, allora potrà avere le nostre stesse idee, o comunque
saprà comprenderci. Rifletti, Akira… se il tuo intento si compiesse, anche Goku
potrebbe essere “libero” da questa situazione di merda. Hoshi-san gli è legato,
perciò dubito che si tirerà indietro. E avrà pure lui dell’astio contro tuo
padre – sussurrò.
- Ti sbagli, Sumire – la bloccò l’altro in
tono stanco – Temo che Hoshi non ci darà una mano con tanta facilità. È un uomo
freddo, egoista, e non conosco abbastanza i rapporti tra lui e mio padre da
poter affermare che ha del risentimento nei suoi confronti. O forse sì,
dovrebbe averne, ma non lo sa -
La donna giocherellò con il lembo di coperta
che teneva tra le dita, assorta:
- Quindi preferisci non parlargliene affatto?
-
- Non adesso, almeno. Prima dovrò interpellare
anche Cho, e valutare quanto realmente siamo in grado di fare. Se nessuno di
loro ci offrirà il suo appoggio dovremo arrenderci, Sumire, senza contare che è
un rischio divulgare ciò che abbiamo in mente. Qualcuno potrebbe tradirci, e
non sarebbe strano, in questo mondo – sospirò Akira.
Sumire si morse un labbro: - Non esiste un
modo per muoverci con più sicurezza? –
- L’unica cosa che posso fare è informarmi,
dissimulando le mie intenzioni, circa il passato di Hoshi e Cho… Se trovassi
anche un minimo, valido motivo per averli dalla nostra parte… -
Mosse una mano verso la compagna,
accarezzandole la schiena, l’espressione malinconica nella luce soffusa che
filtrava dalle tapparelle abbassate: - Ci siamo buttati in qualcosa di troppo
grande per noi, eh? –
- Tu hai deciso di buttarti. Io ho
soltanto scelto di seguirti – replicò Sumire a mezza voce, sorridendo.
Sanzo scoccò un’occhiata all’orologio che
portava al polso sinistro e inarcò un sopracciglio: si era fatto più che tardi.
Il dettaglio peggiore era che non se n’era reso conto, intento com’era a
parlare con quel moccioso ventenne che gli stava ormai talmente vicino da
rischiare di posargli la testa castana sulla spalla. Però il suddetto moccioso
gli aveva davvero restituito il respiro, in quella notte che all’inizio gli era
sembrata tanto soffocante, lo ammetteva.
- Avanti, scimmia, scrollati e lasciami andare
a dormire, è quasi mattina – lo apostrofò brusco.
Goku sbadigliò: - Perché adesso mi chiami
scimmia, Sanzo? – volle sapere, un po’ perplesso.
- Perché sei petulante in egual modo – rispose
il biondo – Forza, prima che tu t’addormenti qui -
Si alzarono in contemporanea, e il ragazzo si
stiracchiò, le braccia levate verso il cielo scuro e le mani aperte, come in
una sorta di preghiera inconsapevole. L’uomo lo osservò in silenzio e lo trovò,
non certo per la prima volta, altrettanto inconsapevolmente attraente; si fece
avanti verso di lui, le scarpe che scricchiolavano sulle foglie secche che
coprivano il suolo. Appariva così fragile… quando invece, tra i due, il meno
forte era Sanzo stesso.
- Ti ringrazio per la bellissima serata –
disse Goku in tono dolce e assonnato.
Il biondo avanzò di un altro passo, finchè non
gli fu vicinissimo. Lo guardò, e chinò il volto in direzione di quello del
ragazzo, ad un soffio dalla sua bocca, e si fermò subito prima di toccarla:
- Buonanotte – mormorò. Duro, laconico, ma non
quanto aveva creduto.
Poi si allontanò, una nuova sigaretta già in
mano, e scomparve senza aggiungere una parola nel buio del porticato, mentre
Goku rimase lì in piedi, il cuore che gli tambureggiava dentro con morbida
violenza.
٭ Seventh Chapter Ends ٭
Note
dell’autrice:
oddei,
sono riuscita a terminare anche questo! Ganbatta ne! Un po’ più breve degli
altri e più improntato sui dialoghi, ma era fondamentale… Ho finalmente
cominciato a dare il giusto ruolo ad Akira e Sumire, di cui credo abbiate
afferrato gli intenti. Le acque si stanno muovendo tanto da una parte quanto
dall’altra, e vedrete quale delle due “strariperà” per prima…
E
poi, dovevo mettere a tutti costi la scena del giardino tra Sanzo e Goku, la
cui storia è venuta a galla (non tutta, ovvio ^^’’); se state pensando che ho
esagerato con le tragedie personali chiedo venia, ma consolatevi sapendo che
sono, purtroppo, necessarie, e che Gojyo almeno non ha situazioni del genere
alle spalle, per una volta! A proposito del rosso… il prossimo capitolo vedrà
compe protagonisti lui e Hakkai: chi mi chiedeva cose in proposito alla loro
relazione non sarà deluso (spero)!
Comunque
non mancheranno nemmeno gli altri due “bimbi”, siatene certe XP
Di
nuovo, vi ringrazio tantissimissimissimo per le recensioni, i commenti, i
complimenti, per il fatto che questa storia riesca a coinvolgervi così tanto: è
quanto di meglio possa capitare a chi scrive, il miglior complimento da
ricevere, giuro!
Perciò,
come sempre, arigatou gozaimasu, e restate connesse/i.
||
CC [Consuete Curiosità] ||: il titolo del capitolo proviene dall’omonima
canzone di Andy Bell; mentre scrivevo, il mio lettore cd s’è macinato Lotus di
Elisa, The Captain and the Kid del vecchio Elton e Under rug swept
di Alanis Morissette.
Bonus
news: è in progettazione la mia nuova doujinshi… aspettate e vedrete.
Alla
prossima – see you soon and go to the West! yours BlackMoody ~
Era circa un’ora che fuori infuriava quella tempesta
assurda: vento, tuoni, fulmini e pioggia battente, ed era un miracolo che
ancora non fosse saltata la luce. Seduto alla sua scrivania, Gojyo sorseggiava
un cappuccino guardando l’acqua scorrere sui vetri delle finestre appannate e
passandosi di tanto in tanto una mano tra i capelli, com’era sua abitudine. Un
tempo del genere non gli comunicava tristezza, solo una sensazione di fastidio,
e dunque non aspettava altro che spiovesse, così da non bagnarsi all’uscita dal
lavoro.
Il resto dell’ufficio era particolarmente silenzioso, caso
più unico che raro: la maggior parte dei suoi colleghi era già tornata a casa,
altri avevano ricevuto l’ordine di recarsi a sedare una rissa – e il cielo
sapeva quanto Gojyo non li invidiasse affatto – e i pochi rimasti, tra cui due
delle ragazze, se ne stavano tranquilli alle loro postazioni, quasi sicuramente
intenti a divertirsi col computer in attesa di finire il turno, come lui. Ma
nessuno di loro si sarebbe visto con Cho Hakkai, dopo, pensò il rosso con un
vago sorriso. Quanti mesi erano ormai che si frequentavano regolarmente? Almeno
tre, ed era come se si conoscessero da una vita, tanta era la complicità che si
era venuta a creare e che non sarebbe dovuta esistere, dati gli intenti di
entrambi. Oh, sì, perché Gojyo era tutto fuorchè ingenuo: lavorare in polizia
da cinque anni aveva contribuito ad affinargli il cervello, gli piaceva dire.
L’ispettore aveva intuito ciò che si muoveva dietro Hakkai, il motivo per cui
il moro era piombato all’improvviso nella sua vita, eppure ancora faceva finta
di niente. Giocavano alla pari, e nessuno dei due era in svantaggio. O forse lo
erano tutti e due: i loro personali interessi prendevano il sopravvento su
quelli lavorativi, ogni volta che si vedevano.
Magari quella sera gliene avrebbe parlato, riflettè Gojyo
mentre buttava giù in un sorso solo l’ultimo goccio di cappuccino. E magari gli
avrebbe esposto anche l’altro piccolo problema, se della definizione di problema
poteva fregiarsi. Quella strana situazione rischiava di renderlo
irrimediabilmente felice.
Quasi gli avesse letto nel pensiero, il cellulare del
rosso prese a suonare con insistenza, al di sotto dello strato di fogli,
cartelline e cartacce che ingombravano la sua scrivania. Le mani dell’ispettore
si fecero strada, con solerzia, attraverso la massa di oggetti per lo più
inutili sotto i quali stava sommerso il telefono, e riuscì a rispondere quando
ormai, certamente, la persona che lo stava cercando aveva quasi perso ogni
speranza. Sorrise nel leggere il nome sul display e disse con voce ben chiara e
accattivante: - Buongiorno, principessa –
Era una frase di un film italiano che aveva visto da poco,
e gli era piaciuta molto. E sembrava che anche l’altro avesse gradito, giacchè
si udì una risatina compiaciuta: - Primo, ti faccio notare che è sera. Secondo,
ti ricordo che non sono proprio una “principessa” – ribattè Hakkai, palesemente
divertito dal saluto di Gojyo.
Il sorriso di quest’ultimo si fece ancora più ampio: -
Forse dovrei chiamarti “principe”, allora –
- Beh, mi pare già più logico – assentì il moro, ridendo
di nuovo – Ascolta, tra quanto esci? -
Il rosso gettò un’occhiata all’orologio da polso e fece un
rapido calcolo. Un quarto d’ora nemmeno e sarebbe stato fuori all’ingresso,
disse. In realtà gli mancava una mezz’ora e passa, ma voleva vederlo prima
possibile.
- Stasera ceniamo da me, se per te va bene – riprese
Hakkai. Il tono suonava un po’ incerto.
- Va bene eccome. Ne parliamo appena sarò lì. A tra poco!
– concluse l’ispettore, chiedendosi per l’ennesima volta come mai le sue
conversazioni con lui rassomigliavano pericolosamente a quelle che aveva avuto,
ai tempi del liceo, con la sua prima ed unica ragazza fissa. Ma si rispose che,
comunque fosse, non era una cosa negativa.
Attese altri dieci minuti, rispondendo per le rime alle
colleghe che lo punzecchiavano domandandogli se al telefono era la sua
fidanzata, poi gettò nel cestino il bicchiere di carta del cappuccino, s’infilò
il giaccone con un unico movimento fluido, mise il cellulare al sicuro in una
tasca e gridò un ‘arrivederci’ ben sonoro agli astanti, infischiandosene dei
loro commenti amichevolmente provocatori. Scese le scale in fretta, e quando arrivò
alla vetrata d’ingresso notò due particolari per cui le sue labbra si distesero
in un ennesimo sorriso: il primo, la pioggia che aveva smesso di cadere, e gli
stralci di cielo blu chiaro che si affacciavano dalle nuvole sfilacciate; e il
secondo, il volto un po’ arrossato di Hakkai avvolto da una grande sciarpa
bianca, gli occhi verdi e limpidi del moro che guardavano nella sua direzione.
Non lo aveva mai abbracciato prima di allora, e gli riuscì più naturale
dell’accoglierlo con una consueta pacca sulla spalla. L’altro gli posò la testa
nell’incavo del collo dopo un attimo di esitazione, sentendosi stupido e
contento: - Buonasera, Gojyo – gli disse.
Il rosso allentò la stretta senza smettere di sorridere: -
Ma come siamo formali oggi – lo redarguì scherzosamente.
Hakkai scrollò il capo: - Ogni tanto è più forte di me,
scusami – replicò – Mi accompagni a fare la spesa? –
Gojyo scoppiò in una sonora risata: - Senti come sei bravo
a cambiare argomento! –
- Guarda che non ho niente in frigo! – si difese il moro –
Perciò, se non vuoi digiunare… -
- Dai, non te la prendere, ti ci accompagno più che
volentieri – assicurò l’ispettore, incamminandosi.
- Opportunista… - ridacchiò Hakkai seguendolo.
Si diressero verso il parcheggio in cui il moro aveva
lasciato la macchina, e da lì proseguirono per il quartiere in cui abitava,
fermandosi in un supermercato non lontano da casa sua e acquistando lo stretto
necessario per riempirsi lo stomaco. Era una strana sensazione, per Hakkai,
quella di tornare nel proprio appartamento dopo mesi che non ci metteva piede,
il rivedere quelle vie e giardini e file di abitazioni tanto familiari ed ormai
estranee. Per un istante fu tentato di ritrattare l’invito con una scusa e di
trascinare l’amico a cena in qualche locale, temendo che questi potesse
accorgersi di qualcosa entrando in casa sua, ma avevano comprato già tutto e
tirava un vento freddo che gli faceva solo desiderare di rifugiarsi subito al
caldo.
Pertanto, condusse Gojyo fino ad un piccolo condominio
all’angolo di una strada secondaria, fino alla porta scura al secondo piano: -
Eccoci arrivati – annunciò mentre faceva scattare la serratura.
Quando accese la luce fu subito chiaro al rosso che
l’appartamento era rimasto disabitato per diverso tempo: non c’era niente in disordine,
nulla di abbandonato sul pavimento, o sulle basse poltrone del salotto, e su
ogni mobile era ben visibile un sottile strato di polvere; anche l’odore,
seppur poco percettibile e mescolato al profumo di Hakkai, era quello di una
casa le cui finestre non venivano aperte da un po’. Ma Gojyo non parlò e si
limitò a seguire l’altro in cucina e a guardarsi intorno con aria curiosa,
mentre Hakkai disponeva le confezioni di cibo sul tavolo. C’era uno stereo su
una mensola vicino alla porta, e l’ispettore si offrì volontario di preparare
la cena soltanto a patto che il moro si occupasse di metter su una buona
colonna sonora per la serata.
Hakkai accettò l’offerta ridendo di gusto, e ciascuno dei
due si concentrò sul proprio compito: il trovarsi lì, nella stessa casa, nella
stessa stanza, con un’atmosfera così intima, stava facendo crescere in loro un
vago disagio e una sempre più incalzante aspettativa per qualcosa che entrambi
conoscevano e che ancora non ammettevano.
Non sarebbe dovuta affatto andare in quel modo, pensarono.
Senza troppa convinzione.
La cena trascorse quasi in un soffio, con la musica che
suonava in un angolo e il vino che scendeva giù che era un piacere, dalla
bottiglia nei bicchieri e dai bicchieri nella gola. Ridevano più del solito, raccontandosi
aneddoti di mera importanza dei tempi del liceo e tacendo con attenzione,
nonostante l’alcol, su quegli argomenti che sapevano essere rischiosi; c’erano
momenti in cui le loro mani, involontariamente, si toccavano, e più questo
accadeva e meno le scostavano, sorridendosi. Non si fece udire alcun campanello
d’allarme da parte delle loro coscienze, forse perché non ve n’era nessun reale
e valido motivo. Parlavano e mangiavano e bevevano, e già avevano capito che
non si sarebbero fermati lì. E non c’era cosa più bella da pensare.
Alla fine, Hakkai si alzò per primo e cominciò a
sparecchiare: - Se dopo ci guardassimo un film? – propose.
Gojyo si stiracchiò, uno stuzzicadenti in bocca: - Mi
sembra un’ottima idea. Che hai di interessante? –
- Non ricordo, daremo un’occhiata – rispose il moro
dandogli le spalle e armeggiando con il lavello.
Nello stereo girava un cd di Elton John, soffocato appena
dal suono dell’acqua.
- A proposito, Gojyo, sei un mago a cucinare – riprese
Hakkai, voltandosi verso di lui.
Il rosso sorrise sornione: - Immodestamente parlando, lo
so. Mi fa piacere che tu abbia apprezzato –
Hakkai lo imitò: - Come premio ti aspetta il mio caffè
speciale, se vuoi –
L’ispettore era più che d’accordo. Rimase seduto in
silenzio ad osservare l’amico che, più sottile che mai nei pantaloni chiari e
l’ampio maglione color smeraldo, preparava le tazze con gesti eleganti, e che
tornò a guardarlo una volta che il caffè fu pronto: - Spero che ti piaccia, è
da diversi giorni che non lo preparo – si schermì.
Gojyo si alzò in piedi per prendere la tazzina e gli si
accostò, appoggiandosi al bordo del lavello, per sorseggiarlo con quanta più
calma possibile. Era bollente, scuro, e sapeva di nocciola: gli piacque
moltissimo, e lo disse.
Il moro sorrise con spontaneità, ringraziandolo e
stringendo appena le palpebre, il volto inclinato.
Allora, il rosso sentì come scattare qualcosa nella
propria mente, come un velo che veniva sollevato, e posò la tazza sul piano
dietro di sé. Poi si spostò, in modo da avere Hakkai perfettamente di fronte e
le braccia ai lati dei suoi fianchi: era anche più bello, mentre lo fissava con
quell’espressione incerta.
E il moro ebbe un attimo di esitazione nel vedere Gojyo
chinarsi su di lui, il viso intenso. Ma chiuse subito gli occhi, ancor prima di
accorgersi di avere le labbra dell’ispettore premute sulle proprie, ancor prima
di rendersi conto di aver socchiuso la bocca per permettergli di assaggiarla,
come se non avessero mai fatto altro.
Fu un bacio caldo e lento, esitante, ed entrambi rimasero
immobili mentre iniziavano a scambiarsi respiri, la radio che cantava in un
angolo, l’acqua che scorreva e si confondeva col vento all’esterno.
Non sarebbe dovuta andare in quel modo, tentavano di
rammentarsi, ma le loro menti si rifiutarono di pensarlo.
Si separarono dopo un tempo indefinito e rimasero in
silenzio a guardarsi. In fondo, sapevano che sarebbe andata così, lo avevano
capito sin dal primo momento, probabilmente. E allora, che così fosse.
- Mmh… sai di caffè – ridacchiò Gojyo, la voce bassa.
- E tu di sigaretta – disse Hakkai di rimando,
azzardandosi a posargli le mani sui fianchi.
Il rosso sorrise e gli sfilò gli occhiali: - Non si può
desiderare di più – concluse, e lo baciò di nuovo.
Lasciarono da parte le inibizioni e l’incertezza iniziale,
stavolta. Gojyo strinse a sé Hakkai, imprigionandolo al contempo tra il proprio
corpo e il bordo del lavello; Hakkai gli passò entrambe le braccia attorno al
collo, perso.
Rabbrividì nel sentire le dita calde dell’altro farsi
strada, libere, al di sotto del suo maglione e iniziare a carezzargli la
schiena, ma le lasciò fare con piacere. Era la prima volta che gli capitava di
abbandonarsi a qualcuno con tanto trasporto, e già sentiva che difficilmente ne
avrebbe fatto a meno, d’ora innanzi.
- Hakkai – mormorò il rosso all’improvviso, roco – Non amo
farlo in cucina -
Il moro rise piano: - Vieni con me – replicò, e lo prese
per mano, conducendolo verso la propria camera.
All’Hotel, nello stesso momento, Sanzo camminava
irrequieto su e giù per la stanza. Dalla finestra semiaperta filtrava un refolo
di vento pungente, il posacenere era ormai stracolmo di mozziconi di Marlboro e
lui non riusciva a prendere sonno. Non perché ci fossero stati accadimenti
particolari durante quella giornata, né a causa dell’ennesima assenza
misteriosa di Hakkai, il quale, il biondo ne era certo, si stava mettendo nei
casini assieme all’ispettore dai capelli scarlatti. A Sanzo importava il
giusto, eppure c’era qualcosa che lo innervosiva.
Con ogni probabilità c’entrava il fatto che troppo spesso
i suoi pensieri si focalizzavano su Goku: da quando aveva seriamente rischiato
di baciarlo, quella notte in cui avevano parlato nel cortile, non se lo
toglieva di testa. E se qualcuno avesse avuto il fegato di domandargliene il
motivo lui non avrebbe potuto – e voluto – dare risposta.
Chissà perché gli era balenata l’idea di baciarlo, poi.
Ancora un’idiozia, di sicuro.
Ma il sonno non accennava ad arrivare, e la sua agitazione
era divenuta insopportabile. Perciò, il biondo uscì di scatto dalla camera,
lasciando aperta la finestra e senza dare doppie mandate alla porta, senza
nemmeno sapere dove andare. Oltrepassò i corridoi fiocamente illuminati, scese
le scale con passi decisi e ovattati, e alla fine arrivò all’ingresso del Moon
Indigo, per una volta deserto e quasi buio, quasi invitante. Vi si addentrò di
un po’, notando quanto gli piacesse di più quel posto se privato della solita
gente odiosa, dal brusìo e dall’odore forte di sigari e profumi aggressivi;
erano accese soltanto le luci basse agli angoli della pista e quelle dietro al
banco-bar, e tutto era silenzioso. E forse Sanzo sarebbe tornato indietro, se
non fosse stato per il pianoforte, il vecchio pianoforte nero a coda che se ne
stava, come sempre, al centro della pedana riservata ai musicisti: era
solitario e chiuso quanto lui, e gli mise addosso una gran voglia di suonare.
Non lo faceva da anni, pur avendo studiato sin dall’infanzia.
Così si avvicinò allo strumento, ascoltando lo
scriocchiolare delle proprie scarpe sul parquet lucido, e prima di sedersi
sullo sgabello girevole sfiorò il legno scuro con la punta delle dita, assorto.
Poi toccò i tasti bianchi con inconsueta delicatezza, passando mentalmente in
rassegna i brani che conosceva, e infine si decise.
C’era una canzone inglese che gli piaceva moltissimo, di
cui non rammentava né titolo né autore ma che ricordava a memoria: le sue mani
si mossero da sole, nell’eseguire le note d’inizio che riempirono la sala
vuota, e subito dopo la voce le imitò, sorprendendo persino Sanzo medesimo. Gli
sembrava di non cantare da secoli.
I've
seen the bridge and the bridge is long
And they built it high and they built it strong
Strong enough to hold the weight of time
Long enough to leave some of us behind
And
every one of us has to face that day
Do you cross the bridge or do you fade away
And every one of us that ever came to play
Has to cross the bridge or fade away
Non era certo che le parole fossero esatte, però andò
avanti comunque, dacchè gli pareva di stare un po’ meglio. il volume crebbe
piano piano, la musica divenne più chiara, e Sanzo cantò ancora.
Standing
on the bridge looking at the waves
Seen so many jump, never seen one saved
On a distant beach your song can die
On a bitter wind, on a cruel tide
And every one of us has to face that day
Do you cross the bridge or do you fade away
And every one of us that ever came to play
Has to cross the bridge or fade away
Un ponte da attraversare, sì. Forse era così che si
sentiva, come messo di fronte ad un bivio, ad una scelta, anche se
all’apparenza, in quel momento, non aveva niente da scegliere. O almeno di
questo voleva convincersi.
Ma proprio in quegli stessi istanti, a sua insaputa,
un’altra persona stava vagando insonne per i corridoi deserti dell’albergo, una
persona che udì la canzone provenire dal pianoterra, dal Moon Indigo buio, e
che si affrettò a raggiungerne l’entrata per scoprire chi fosse il proprietario
di quella voce tanto calda e di quel suono intenso.
Il biondo sulle prime non s’accorse della presenza di Goku
sulla porta, immerso com’era in ciò che stava facendo; non incrociò subito il
suo sguardo meravigliato e assorto, mentre seguitava a cantare:
And
the bridge it shines
Oh cold, hard iron
Saying: come and risk it all
Or die trying
Un mezzo sorriso amaro gli sfiorò le labbra. Anche lui,
anche loro, sarebbero morti nel tentativo? Il tentativo di fare cosa,
poi? Di cambiare la situazione? Di scoprire finalmente l’assassino di suo
padre? Di guadagnarsi un’esistenza più normale? O semplicemente, nel tentativo
di ammettere che il suo cuore raggelato riprendeva a battere?
La voce sfumò, le dita corsero di nuovo sui tasti tiepidi,
in una sorta di carezza, e Sanzo socchiuse gli occhi lasciandosi trasportare,
per una volta. Se la musica ne era capace, meglio approfittarne.
E Goku, che intanto aveva mosso alcuni muti passi avanti
per avvicinarsi al bordo della pista, restò immobile e altrettanto muto a
guardarlo suonare, una mano serrata a pugno sulla stoffa della maglia come a
voler trattenere la tempesta di sensazioni che quella scena gli stava
scatenando dentro. Aveva voglia di piangere: quella musica, la voce di Sanzo e
la sua espressione, le dita che danzavano… era tutto talmente bello! Loro due,
in una sala vuota. Sembrava un segreto da custodire gelosamente, un momento che
non avrebbe mai condiviso con nessun altro.
And
every one of us has to face that day
Do you cross the bridge or do you fade away
And every one of us that ever came to play
Has to cross the bridge or fade away
Has
to cross the bridge or fade away
La canzone pareva terminata. Le ultime note risuonarono liquide e
limpide nella grande stanza e infine svanirono, cedendo il posto al solito
silenzio. Il biondo allora rialzò il capo e si rese conto di non essere solo:
eccolo lì, l’oggetto dei suoi più frequenti pensieri, una figura sottile
avvolta in un ampio maglione chiaro che lo fissava con uno sguardo perso e
sognante dipinto in quelle iridi ambrate. Zitto e fermo, tratteneva il respiro,
e Sanzo, nel capirlo, dovette trattenersi dal precipitarsi da lui per
abbracciarlo. Già, lui si tratteneva sempre.
Non dissero una parola, né il biondo né il ragazzo, continuando a
guardarsi in una maniera che valeva più di dieci frasi futili e che era dieci
volte più pericolosa. Come and risk it all…
Fu Goku, inaspettatamente, il primo a riscuotersi: aprì la bocca come
per parlare, poi la richiuse di scatto, abbozzò un sorriso imbarazzato e girò i
tacchi, allontanandosi in fretta. Sanzo non provò a fermarlo, non essendo
sicuro di sé stesso, si limitò a seguirlo con gli occhi. Bastava poco, ormai,
per farlo ammorbidire, diamine.
Scosse la testa, adesso meravigliosamente sgombra, e riprese a suonare
nella sala deserta.
Se glielo avessero predetto tempo addietro, Hakkai non ci avrebbe
creduto affatto, esattamente come Gojyo. Non avevano pensato che un giorno
avrebbero potuto sentirsi in quel modo: prigionieri e liberi, felici e
smarriti, sul punto di morire con dolcezza e vivi, vivi come non mai. Le mani
incatenate, le labbra dell’uno mescolate con quelle dell’altro, i corpi vicini
e caldi e pulsanti e sudati che si confondevano con le lenzuola quasi fredde, a
confronto, le voci unite in forti respiri che riempivano la stanza buia, e
quella punta di dolore che rendeva ancora più impetuoso ciò che sentivano,
stordente e bruciante e intenso come forse mai avevano provato sinora. Mai,
niente di simile.
Loro che avrebbero dovuto essere nemici e che fin dall’inizio non lo
erano stati, adesso era lì, a bearsi delle reciproche grida e del piacere che
reciprocamente si davano: era così che doveva andare, così era andata.
Gojyo quella notte lo amò con attenta passione – e a ripensarci in
seguito si stupì quasi, conoscendosi.
Hakkai lo ricambiò con un trasporto immenso, superato l’iniziale
imbarazzo – e si sorprese anche lui.
Quella notte forse finì persino troppo presto, ma seppe renderli
dannatamente felici.
٭ Eighth Chapter Ends ٭
Note
dell’autrice:
phew…
pare che sia riuscita a terminare in tempo per Natale questo nuovo capitolo ^^!
Ammetto che forse potrà risultare un tantino “strano”, se non altro per come ho
tirato via (temo) nel finale… chiedo venia, con Gojyo e Hakkai devo ancora
prendere la mano XP Comunque spero che abbiate gradito lo stesso: vi prometto
che in futuro farò meglio!
E
poi sono tremenda, veramente, non riesco a non dare spazio agli altri due…
*risatina imbarazzata*
Passando
ai dettagli tecnici, la canzone cantata/suonata da Sanzo è The bridge di
Elton John (per la serie: non sono fissata con ‘sto benedetto cantante, no no
no ¬_¬), canzone che personalmente adoro e che ho trovato anche abbastanza
adatta, come testo, alla vicenda intera. Mi raccomando, rileggetevi la scena
con la musica in sottofondo, rende di più ;-)
E
il prossimo capitolo… beh, stavolta toccherà al passato di Hakkai venire a
galla; contemporaneamente, ci si avvicinerà sempre di più al momento in cui i
giochi si faranno pericolosi da entrambe le parti. Se vi chiedete quanti
capitoli vi aspettano ancora, vi rispondo che in totale saranno circa una
quindicina, se tutto va bene… altri 7, quindi! Sperem di farcela *_* “
Immancabile:
GRAZIE MILLERRIME per recensioni, commenti in diretta e complimenti, mina-san!!
Continuate a seguirmi! E poi, un appello alla mia amante Simo… aiò, tesoVa, se
non leggi questo ti ripudio XDD (scherzo, ne’)
||Consuete
Curiosità|| Il titolo del capitolo è tratto da un’ennesima canzone di Sir
Elton, ovverosia Freaks in love; la background-music di stavolta,
invece, son stati gli album To bring you my love di PJ Harvey e The
best of dei Massive Attack, più alcune canzoni sparse dei Nickelback (Far
away), dei Placebo (Song to say goodbye) e dei Pearl Jam (Black).
E
anche per questo aggiornamento è tutto ^^ Ci sentiamo alla prossima! yours
Blackmoody ~
Al risveglio, il mattino seguente, Hakkai ci mise un po’
per ricollegare in maniera logica gli avvenimenti della giornata appena
trascorsa. Ci mise un po’ persino a ricordare perché mai, aprendo gli occhi, si
fosse trovato davanti l’ordine impolverato della sua vecchia camera e perché
non fosse al’Hotel. Guardò fuori attraverso le palpebre ancora pesanti di
sonno, riconoscendo gli alberi e le finestre delle case vicine, scuotendosi pian
piano; poi girò la testa verso la stanza e vide Gojyo, ancora addormentato al
suo fianco: appariva così tranquillo e beato, arruffato tra coperte e lenzuoli
sfatti e con i capelli cremisi spettinati, che il moro non potè impedirsi di
sorridere e ridere sottovoce. Dei, come si sentiva felice!
Sembrava che il cuore dovesse esplodergli da un momento
all’altro, balzargli fuori dal petto. C’era però, in quella contentezza, una
punta recondita di ansia, un pensiero rivolto costantemente alla domanda “come
la mettiamo adesso? “. Non che avesse mai avuto la reale intenzione di
seguire gli ordini di Fujiwara, dacchè aveva conosciuto l’ispettore, ma ora la
cosa si era concretizzata: ora era con il boss che doveva fare il doppio gioco.
E questo costituiva un ulteriore problema. Aveva sempre un
debito nei confronti del clan. Gli era forse concesso metterlo da parte? Non
era da lui.
Gojyo si mosse sul materasso, catturando la sua attenzione
e distogliendolo, per fortuna, da quei ragionamenti che certo erano poco adatti
ad un tale risveglio: goditi il presente, Hakkai, si disse. Goditelo almeno
finchè non tornerai all’Hotel.
- Buongiorno – mugugnò il rosso guardandolo di sottecchi e
tentando di sfoderare uno dei suoi soliti sorrisi da seduttore.
Il moro si chinò su di lui, sfiorandogli la fronte col
proprio naso: - Buongiorno a te. Un caffè? – s’informò.
L’altro si mise a ridere e si puntellò su un gomito: - Se
è come quello di ieri sera, fammene anche due – scherzò, allusivo.
Hakkai rispose alla risata e si alzò dal letto, andando
come prima cosa a prendere un telo da bagno che si arrotolò attorno ai fianchi
nudi; quindi lasciò Gojyo a finire di svegliarsi e si recò in cucina per
preparare qualcosa che rassomigliasse ad una colazione normale. E l’ispettore,
nel frattempo, mentre si passava una mano tra le ciocche impazzite e ascoltava
i rumori della casa e della strada sottostante, pensò che doveva rivelare al
compagno quanto sapeva delle sue attività connesse alla Yakuza, a tutti i
costi. Meglio non avere segreti, giunti a quel punto.
Non affrontò subito l’argomento, però, quando Hakkai tornò
in camera sorreggendo un piccolo vassoio con su due tazze di caffè fumante. Per
qualche minuto mangiarono e bevvero in silenzio, scambiandosi occhiate, e
andarono avanti così finchè Gojyo non gli posò una mano sul braccio, il volto
serio: - Cosa racconterai al tuo capo, questa sera? – domandò. E il modo in cui
pronunciò la parola “capo” non lasciava dubbi su quel che intendeva.
Il moro tossì appena, le dita contratte sul manico della
tazzina: - Cosa vorresti dire, Gojyo? – ribattè, la voce bassa.
L’ispettore tolse la mano, continuando a fissarlo
severamente: - Lasciamo perdere i sotterfugi, Hakkai. So per chi lavori e
immagino molto bene il motivo per cui mi hai avvicinato, tre mesi fa. Ciò di
cui non sono a conoscenza è quel che tu abbia riferito a Hiroki Fujiwara e quel
tu abbia in mente di fare adesso. Comunque, sei libero di proclamarti mio
nemico in via ufficiale – concluse con un mezzo sorriso.
- Come… da quanto lo sai? – boccheggiò Hakkai. Mentire gli
sembrava stupido.
- Gli sbirri saranno stolti, ma non così sciocchi,
credimi. Mi sono permesso di informarmi su di te, dopo averti conosciuto,
poiché con i tempi che corrono è meglio non fidarsi troppo di chicchessia –
spiegò – E ho scoperto particolari che ignoravo. Ammetto di averlo fatto anche
perché mi interessavi già, principe – aggiunse sorridendo. Non si era
dimenticato della battuta telefonica del giorno prima.
Hakkai esalò uno sbuffo che rassomigliava ad una minuscola
risata, ma non disse niente. Quali particolari?
- Ho scoperto, ad esempio – proseguì Gojyo quasi
leggendogli nella mente – che anni fa hai lavorato in polizia -
Bastò quello. Bastò, per mozzargli il respiro, per farlo
irrigidire. Il passato alla ribalta, ecco cos’era. Non che lui lo avesse mai
messo da parte, né cercato di farlo, questo no: ma gli faceva male risentirne
parlare quando non era lui a volerlo. E il rosso dovette fare caso allo sguardo
ferito che si era cristallizzato negli occhi chiari dell’altro, tanto che tornò
a posargli una mano sul braccio, stavolta con più dolcezza.
- Mi dispiace. Ho toccato un tasto dolente, eh? – disse
allora, carezzandogli piano la pelle.
Il moro scosse la testa: - Non scusarti, non ne hai
motivo. Anche se purtroppo hai ragione – mormorò. Si sentiva a disagio.
Per un po’ sia lui sia Gojyo rimasero in silenzio,
evitando di guardarsi negli occhi dal momento che sapevano perfettamente che
avevano raggiunto un nodo fondamentale. Un nodo di svolta. Chi dei due avesse
parlato per primo, adesso, avrebbe decretato buona parte di ciò che li
aspettava.
Fu Hakkai a riaprire bocca, sorprendendosi leggermente: -
Forse vorresti saperne di più, Gojyo? – chiese piano.
Il rosso scrollò le spalle, senza guardarlo: - Io sarei
curioso, però se tu non te la senti… - rispose con un sospiro. Diamine, se era
curioso. Sul dossier riguardante il moro, il plico di fogli che aveva
rintracciato nell’archivio della sede, erano contenute ben poche informazioni
riguardo ciò che era accaduto ad Hakkai durante il suo breve periodo come
poliziotto; non vi era nemmeno scritto perché se ne fosse andato
all’improvviso.
- Devo
sentirmela – replicò questi, accostandosi al compagno – Credo sia giusto che tu
sappia tutto di me, ormai -
E magari parlandone qualche fantasma, qualche ombra di
quelle che gli albergavano dentro da anni, si sarebbero dissipate, sbiadite, o
pur restando avrebbero acquistato un senso. Voleva fidarsi di Gojyo e voleva
credere, anche, che almeno lui sarebbe riuscito a farlo stare meglio.
Perciò si ridistese sul letto, gli occhi verdi rivolti al
soffitto e le braccia incrociate dietro la testa; avvertiva lo sguardo
dell’altro su di sé, in attesa, e per chissà quale ragione stupida per un
attimo si soffermò a pensare che avrebbe dovuto lavare le tazze del caffè,
prima.
Ma poi prese un profondo respiro e cominciò a raccontare,
a voce bassa, la storia che si portava sulle spalle da tanto, tanto tempo.
- Mio padre ha sempre avuto buone conoscenze in polizia.
Ecco perché riuscii subito ad entrarvi per un periodo di prova quando avevo
appena finito le superiori e iniziato l’università. Ero deciso a portare avanti
entrambi gli impegni, soprattutto per non deludere i miei familiari… una di
quelle idee inutili che ti vengono da ragazzo. Però lavorare in polizia mi
piaceva moltissimo, nonostante all’epoca le mie mansioni si limitassero al
lavoro d’ufficio. Il primo anno trascorse così, senza scossoni, che quasi non
me ne resi conto. Ricordo che fui contento come una pasqua il giorno in cui mi
comunicarono che, considerate le mie precoci capacità, avrei potuto partecipare
attivamente a certe azioni; credo che ci fosse dietro la mano di mio padre, ma
nessuno certo me lo venne a dire. Avevo vent’anni e m’importava solo di essere
utile a chi mi circondava.
Per circa un mese mi allenai, imparando a sparare e
affinando le mie conoscenze in fatto di arti marziali, e finalmente mi
ritennero pronto. Ci furono alcune rapine, due casi di rissa violenta, persino
un tentato omicidio, e andai anch’io con i miei compagni, a dare il mio
contributo. Credo mi ritenessero una specie di “prodigio”, e in effetti me la
cavavo già bene. E poi… poi saltò fuori quella faccenda, all’improvviso.
Un grosso giro di prostituzione e droga legato a potenti
boss della Yakuza. C’era un bordello, ad Akihabara, che era stato individuato
come il centro nevralgico di questa organizzazione, ed io venni mandato là per
indagare sul campo. Probabilmente mi scelsero perché, a dispetto
dell’ammirazione che suscitavo e della fiducia che riponevano in me, ero
comunque il novellino, l’ultima ruota del carro. Se fossi finito male non
sarebbe stato un problema trascendentale, ecco quello che di sicuro pensavano.
Accettai, desideroso di togliermi quel ruolo scomodo di dosso. Ero diverso,
allora… -
Hakkai fece una pausa, pensieroso. Ricordare questo era la parte più difficile.
Ricordare il momento in cui l’aveva conosciuta.
- Ti confesso che ero teso come una corda di violino,
quando misi piede nel locale. Si chiamava Hanamachi, la città dei fiori. Era
stato costruito ad immagine e somiglianza delle case da thè dell’epoca Edo, e
molte delle donne che vi lavoravano erano agghindate a mo’ di geisha… mi sentii
quasi catapultato indietro nel tempo, immagina. Il piano era semplice: avrei
dovuto comportarmi come un qualsiasi cliente e, con la scusa dell’alcol,
raccogliere quante più informazioni mi era possibile, dalle ragazze e dagli
altri avventori. Come vedi i miei compiti non sono cambiati troppo -
aggiunse con una risata asciutta. Gojyo non commentò nulla
e aspettò che proseguisse, osservandolo attraverso le palpebre abbassate.
- E la vidi immediatamente. Non mi guardai nemmeno intorno
per decidere su quale “geisha” ripiegare. Vidi lei, che serviva da bere in un
angolo, e non capii più niente. Mi feci servire un cocktail forte, mentre
pensavo a come avvicinarla, e quando fui abbastanza alticcio da non
preoccuparmi mi diressi nella sua direzione. Non scherzo se ti dico che mi andò
bene alla prima -
Era una ragazza della sua età, forse un paio d’anni di
più, con un volto bello e armonioso e pallido ombreggiato dai ciuffi di capelli
castani scuri che le sfuggivano dalla lunga treccia in cui erano stati
raccolti; indossava un kimono cremisi e bianco, e si muoveva piano senza
parlare molto.
Si chiamava Kanan Okazaki. Gli si presentò così,
sorridendogli con riserbo e chinando il viso, le mani a ravviarsi le ciocche.
- Puoi immaginare cosa avrei dovuto fare, se tutto fosse
stato normale. Avrei dovuto fingere di sedurla, farla parlare, magari
portarmela a letto senza badarci particolarmente. Invece quella prima sera
parlammo e basta, e parlammo un sacco, seduti su uno dei divani con l’aria
leggera di chi si sta tentando a vicenda in modo da non destare sospetti.
Scoprii dopo poco che lei era la figlia del boss del clan rivale di quello che
controllava l’Hanamachi e che si era vista costretta a lavorare lì per
garantire al padre un minimo di sicurezza: finchè lei avesse prestato servizio
per loro, il suo clan non avrebbe
corso grossi rischi. O meglio, fin quando ai più potenti fosse servito il loro
appoggio. Io presi mentalmente nota di quel che mi veniva detto, sebbene non
fossi completamente lucido, e mi azzardai persino a chiederle se sapesse il
nome dell’uomo che si muoveva dietro all’intera vicenda e alla sua vita… in
fondo, era quello il mio obbiettivo. Ma Kanan scosse la testa, mormorando di
non averne idea, e ancora oggi non so dirti se fosse la verità o una menzogna
per proteggersi. Comunque mi ritenni soddisfatto, perché la avevo conosciuta -
Gojyo seguitava a non fare commenti. Voleva sentire il
resto della storia, convinto che ci fossero particolari importanti che erano
sfuggiti allo stesso Hakkai, annebbiato dalla tensione e dai sentimenti che
provava per la ragazza. E poi… sì, non faceva commenti perché un po’ l’immagine
di lei lo infastidiva: non tanto perché era venuta prima di lui, quanto perché
gli sembrava che il moro gli si fosse legato perché gliela ricordava.
Stessa identica situazione, o quasi. Stesso identico
conflitto tra ciò che doveva e ciò
che voleva fare, in base ai suoi
sentimenti.
- Tornai a trovarla più e più volte, sempre meno con la
scusa del mio lavoro di indagine. Ci furono anzi serate in cui non parlammo
nemmeno, intenti com’eravamo a fare l’amore. La amavo in una maniera assurda,
la desideravo, e in me si faceva via via più forte e insistente l’impulso di
portarla via da quel posto e di liberarla da quel peso. Chi se ne importava di
suo padre! mi dicevo. Sarebbe felice comunque, con me. Lo sarebbe di più,
pensavo, e contemporaneamente mi pentivo per il mio egoismo. Nel frattempo il
cerchio si stava stringendo attorno a noi: il mio ispettore capo, accortosi di
qualcosa, mi mise in guardia, avvisandomi che se avessi continuato così
avrebbero dovuto prendere seri provvedimenti; e vennero raddoppiati i controlli,
sia su di me, sia su di lei, da parte di entrambe le fazioni. Furono uccisi un
paio di membri del clan di Kanan, ci fu una sparatoria in cui rimasero feriti
alcuni miei colleghi, l’Hanamachi divenne un vero e proprio punto d’incontro
per passaggi di merce illegale.
Ci stava crollando tutto addosso. Lei aveva paura per suo
padre e per sé stessa e per noi, io ero nervoso come mai ero stato fino ad
allora, convinto di avere gli occhi dell’intero corpo di polizia puntati sulla
schiena con sospetto. Ci avrebbero ammazzati, ne ero certo.
Perciò prendemmo infine la decisione di scappare. C’era
della follia nella nostra agitazione, e forse se avessimo aspettato sarebbe
andata diversamente. Ma volevo proteggerla ad ogni costo e volevo, anche,
sfuggire a quel mondo in cui mi ero invischiato per mia volontà. Kanan non si
convinse subito riguardo alla fuga, cedette dopo diversi tentativi, pur cedendo
con decisione. Scappammo una notte d’aprile, mentre l’Hanamachi veniva
circondato dai miei colleghi, pronti per la resa dei conti, e gli uomini del
clan si apprestavano a far fuoco dall’interno e le donne urlavano.
Ci lanciammo in strada da una porta posteriore con le
orecchie colme del rumore degli spari e delle voci, ed eravamo sicuri che in
quell’inferno nessuno avesse badato a noi, che nessuno ci avesse visti, coperti
dal buio. Ma non era così. Non era così –
Hakkai si alzò di scatto a sedere, le dita contratte sulla
stoffa liscia del lenzuolo. Dei, se gli faceva male ricordare!
La corsa verso la macchina con due borsoni che sbattevano
loro contro le gambe, la partenza isterica, Kanan che si voltava di continuo
per controllare che nessuno li stesse inseguendo. Si ritrovarono fuori dalla
città in un batter d’occhio: stavano già tirando un sospiro di sollievo quando
si accorsero delle auto nere, indistinguibili, che li tallonavano a fari
spenti. Non c’era luna, quella notte, il cielo era nuvoloso. E per quanto
guardassero, né lui né lei seppero capire chi ci fosse dietro di loro. Hakkai
accelerò e accelerò, ma quelli erano troppi e ogni volta li raggiunsero.
Tirarono fuori le pistole in un tratto aperto di strada,
ancora più buio del precedente, e presero a sparare. Colpi maledettamente
precisi. I vetri s’infrangevano con fragore, il veicolo sbandava, il moro non
riusciva più a mantenere quel poco di calma che gli era rimasta. Kanan gridava.
Ma all’improvviso tacque e gli si accasciò inerte su una
spalla; una macchina li aveva affiancati. Hakkai riuscì a vedere due sole cose
prima che il nero vischioso di quella notte lo sommergesse: le sagome scure che
miravano nella sua direzione, la prima.
E gli occhi stupiti di lei che lo fissavano, la bocca
appena aperta, un rivolo di sangue che le colava in silenzio dalla tempia
sinistra.
Ci fu uno scoppio, un bagliore, e poi più niente. Per un
attimo pensò “sto morendo”. Con una
certa speranza.
Quando terminò il racconto, il moro si abbracciò le
ginocchia, posandovi la testa sopra, e Gojyo, sopraffatto, gli accarezzò la
schiena nuda.
- Che cosa accadde, dopo? – mormorò. Forse non avrebbe
dovuto insistere ancora, però…
Hakkai girò il viso per guardarlo: - Mi risvegliai in
ospedale. C’erano i miei colleghi, mio padre, tutti sollevati nel trovarmi vivo
ma delusi da ciò che avevo combinato. Nessuno mi diceva nulla di Kanan, nessuno
parlava di quel che era successo sulla strada. Quando poi se ne andarono,
ancora stizziti, persone che non conoscevo ne presero il posto. Uno di loro si
presentò come Jonathan Rossini, vice-boss di un clan della Yakuza amico di
quello del padre di lei, e mi assicurò di essere dalla mia parte. Mi rivelò che
erano stati lui e i suoi a raggiungere il luogo dell’incidente e a portarmi in
ospedale: mi avevano tirato fuori dalle lamiere, accorgendosi che respiravo
ancora. Ma Kanan… - s’interruppe di nuovo.
- … era morta? – terminò per lui il rosso in un soffio.
- Sì. Lo era già quando ci trovarono, mi disse Rossini.
Non era stato possibile salvarla –
Gojyo si mordicchiò il labbro inferiore: - Mi dispiace. E
ti senti in colpa? Sei convinto di averla portata tu alla morte? –
Il moro scrollò le spalle: - All’inizio lo pensai. Ma
presto capii che non era colpa di nessuno dei due, che non avremmo potuto
evitare quella fine. Piuttosto provavo rabbia verso la Yakuza, che l’aveva
uccisa, e verso i miei colleghi che non avevano saputo aiutarci, solo
sospettare di me. Mio padre, poi… era capace unicamente di rinfacciarmi la mia
immaturità e il fatto che non ero e non sarei mai stato un buon poliziotto, essendomi
rivelato schiavo di sentimenti irragionevoli. In fin dei conti non aveva torto
– rispose – Quindi avrei mollato tutto anche se Rossini non mi avesse proposto
di lavorare per loro, entrando nel clan di tal Hiroki Fujiwara. Accettai,
poiché dovevo loro la vita, ed accecato inoltre dal desiderio di trovare,
presto o tardi, il suo assassino. Lasciai la mia famiglia, che si rifiutò di
capire e che non mi ha contattato più se non in casi rarissimi.
Sono passati quasi cinque anni… -
- E il padre di lei? Sai dove sia finito? -
- Pare sia morto un anno dopo, circa. Ucciso o meno,
questo lo ignoro –
- Capisco – concluse il rosso.
Adesso che era stato detto tutto, Hakkai si sentiva come
svuotato, persino più leggero, nonostante la morsa che ancora lo stringeva.
Gojyo sapeva chi era, cosa aveva fatto e perché era finito a fare la spia per
conto della Yakuza, e poteva immaginare quale fosse il suo proposito reale.
La verità, comunque, era che non si trovava così male nel
clan, per quanto poco legale fosse: lo avevano lasciato libero di muoversi come
preferiva, senza osservarlo con malcelato sospetto, ricambiando, quando
necessario, la fiducia con la fiducia. Eppure…
- Che cosa pensi di fare, allora? Ormai mi hai mostrato il
tuo doppio gioco, principe – chiese
Gojyo con un mezzo sorriso.
Eppure l’incontro con quell’uomo ironico dai capelli
scarlatti lo aveva come risvegliato dal torpore in cui si era adagiato per
quattro anni: non che avesse motivi per andare contro Fujiwara e Rossini e gli
altri, col debito che aveva nei loro confronti, però non voleva più ingannarlo.
Dire che lo amava sarebbe stato eccessivo, ma si
avvicinava pericolosamente a quel che provava.
- Se d’ora innanzi farò il doppio gioco non sarà con te,
Gojyo – replicò serio.
Il tempo scorreva rapido, e Hakkai non poteva rimandare a
lungo il momento di rientrare all’Hotel. Pertanto si rivestirono entrambi, e in
silenzio risistemarono la camera e la cucina, ciascuno dei due immerso in
riflessioni complicate, l’aroma del caffè ancora nelle stanze.
L’ispettore ripensava al racconto del moro, e più ci
rimuginava più qualcosa gli suonava strano, una sensazione labile: c’era un
punto oscuro che gli rodeva la mente con la sua importanza nascosta. Avrebbe
indagato da solo sulla questione, senza farne partecipe il compagno.
Se c’era sotto quel che temeva, la cosa migliore era agire
con cautela e scoprire le carte una volta che i dubbi si fossero chiariti. Gli
venne da ridacchiare piano, all’idea che Hakkai era più simile a lui di quanto
credesse: non era forse Gojyo, nel presente, il poliziotto che permetteva ai
propri sentimenti di alterare i suoi doveri, esattamente come il moro aveva
fatto con Kanan Okazaki? Come se tutto si volesse ripetere.
Si separarono sul tratto di marciapiede di fronte al
cancello di casa, i visi e i capelli sferzati dal vento mentre si concedevano
un bacio di saluto.
L’accordo era quello di rivedersi al più presto, come di
consueto, se non più del solito, e la raccomandazione quella di stare bene
attenti, adesso che il rapporto tra loro si era evoluto in modo pericoloso, a
volerla intendere così. Hakkai entrò in macchina e mise in moto continuando ad
agitare una mano in direzione del rosso, prima di partire. Gojyo rimase ad
osservare l’auto che si allontanava e infine, quando questa scomparve dietro
una curva, andò dalla parte opposta con passo rilassato, le ciocche infuocate
che danzavano tra le folate fredde.
٭Ninth Chapter Ends ٭
Note dell’autrice:
aaaah, oddei, scusatemi per il ritardo assurdo!! Ma ho
finito ieri con gli esami di questo periodo, domenica scorsa c’è stato il
Concerto d’Inverno e non sapevo veramente come riuscire a fare tutto… cosa che
difatti non mi è riuscita ^^’’
Comunque, rieccomi qui. Altro capitolo incentrato
esclusivamente su Gojyo e Hakkai e sul passato di quest’ultimo (giuro che ho
finito coi flashback strappalacrime XD), che mi auguro di non aver trattato in
maniera troppo sbrigativa. Oh, che le fans degli altri due non si disperino:
annuncio sin da ora che il prossimo li vedrà
protagonisti assoluti… e chi ha orecchie per intendere intenda *risatina dietro
al ventaglio*
Come al solito, fatemi sapere se questa “puntata” vi è
piaciuta e, cosa altrettanto consueta, grassssie millerrime a tutte quante per
i motivi che ben conoscete:
continuate a seguirmi, chè io ne sarò contenta e voi
non rimarrete deluse (spero)!
Poipoipoi… oh, giusto, le curiosità musicali di turno:
||CC|| → il titolo del capitolo è preso dalla
canzone Gunning down romance dei
Savage Garden, che oltretutto mi sono ascoltata mentre scrivevo, assieme alla
colonna sonora di Balla coi lupi e a Playing the angel dei Depeche Mode (più
qualche song random, come Frozen di
Madonna, Sky blue di Peter Gabriel, A beautiful lie dei 30 Seconds To Mars, Solo un sogno di Pacificoe
Lucy di Anna “Nana + Blast”).
A risentirci al prossimo capitolo – che arriverà
piuttosto presto! yours Black ~
La neve cadeva lenta e fitta, quella sera. C’era un tale
traffico, lungo le strade centrali di Tokyo, che Sanzo si trovò spesso bloccato
in ingorghi impossibili, col rumore penetrante dei clacson che non faceva che
aumentare il suo mal di testa e la sua irritazione. Niente omicidi quel
pomeriggio, se non altro, ma aveva dovuto recarsi da un conoscente di Fujiwara
per ritirare, da parte di quest’ultimo, documenti e una piccola valigia: aveva
un paio di ipotesi riguardo al contenuto di essa, e non aveva voglia di
accertarsene. Aveva guidato tutto il giorno, sotto la neve e il cielo
biancastro, aveva sopportato le chiacchiere di un vecchio borioso, yakuza del
peggior stampo, e il puzzo dei suoi sigari, e adesso era costretto pure a
districarsi nel traffico prenatalizio.
La sua già labile pazienza era andata a farsi benedire.
Aveva sempre trovato stupide le luci colorate e le vetrine straripanti di cose
inutili in quel periodo dell’anno, persino quando era un bambino: il Natale gli
piaceva, lo ricordava, solo se trascorso in casa, o all’aperto lontano dalla
città, assieme a suo padre. Ora lo detestava soltanto.
Alla fine, ben più tardi di quanto avesse programmato,
riuscì ad arrivare all’Hotel; dovette parcheggiare accanto al marciapiede, dato
che il cortile laterale era completamente occupato, probabilmente a causa degli
ospiti di Fujiwara giunti apposta per godersi i festeggiamenti, magari al Moon
Indigo. Ebbe un inspiegabile moto di stizza, mentre sbatteva con forza lo sportello
dell’auto e borbottava qualche accidente verso la neve e il freddo pungente.
- Buonasera, Hoshi-san. Tempo da lupi, eh? – lo salutò la
sentinella di turno, amichevole.
- Fin troppo – ribattè Sanzo passandogli davanti senza
fermarsi.
Si recò innanzitutto all’appartamento di Fujiwara con
valigia e plico di documenti, e fu accolto con inusuale calore dall’uomo, il
quale lo riempì di complimenti di fronte ad alcune persone, uomini e donne in
abiti eleganti, che sedevano sulle poltrone del suo salotto. Il biondo immaginò
si trattasse di altri amici e collaboratori, con le mogli.
- Perché non ti fermi con noi, Hoshi? Stavo giusto per far
servire la cena – lo invitò Fujiwara.
Sanzo si ritrasse: - La ringrazio, ma preferirei andare a
riposarmi, per adesso –
L’uomo rise: - Ti faccio lavorare troppo, vero? Almeno fai
un salto al Moon Indigo, più tardi! – esclamò.
- Ci penserò su – promise il biondo senza grande impegno,
e si congedò con un piccolo inchino formale.
La camera di Hakkai era vuota. Il moro, glielo aveva
preannunciato, era uscito per incontrare il rosso ispettore Sha, con il
pretesto che aveva da estorcergli nuove, preziose informazioni: ma se Sanzo
conosceva l’amico, non aveva dubbi sul fatto che gli stesse nascondendo
qualcosa. Da circa un mese a quella parte era più sereno e luminoso del solito,
sorrideva in maniera spontanea e meno affettata. Si sentì ancora vagamente
irritato, e forse persino invidioso di chissà cosa. Si rinchiuse in camera per
un’ora buona, rimanendo steso sul letto a fissare i tendaggi sopra di sé, senza
nemmeno rimuginare; poi si alzò, irrequieto, e se ne stette a fumare alla
finestra guardando distratto i fiocchi di neve che cadevano sul giardino
illuminato a festa e sulle persone che vi sostavano e transitavano, chiedendosi
se era il caso di fare o meno un salto a quel maledetto locale.
Fu la sua mente a decidere per lui. Si sovvenne
dell’ultima conversazione che aveva avuto con Goku, del loro incontro nella
sala deserta al suono del pianoforte e della sua voce, rammentò gli occhi
d’ambra ardente e il sorriso, e senza rendersene conto capì che voleva avere
occasione di rivederlo. Si cambiò in fretta, indossando un paio di jeans e un
maglione chiaro, mise in tasca accendino e pacchetto di Marlboro rosse e uscì
della stanza prima che potessero venirgli dei ripensamenti a riguardo.
Era già piuttosto tardi: doveva essere stato in camera
molto più di quanto credesse, poiché quando mise piede nella hall scorse
entrambe le lancette del proprio orologio fermarsi sul dodici. Sbuffò, ed entrò
comunque nell’ambiente fumoso, caldo, invitante e denso di musica e voci del
Moon Indigo. Fece ben attenzione a evitare Fujiwara, Rossini e i loro
tirapiedi, spinto da un’incredibile voglia di passare inosservato; ordinò un
bicchiere di vino bianco e sedette ad un tavolo in penombra da cui poteva
osservare tranquillamente il resto del locale. In pista c’erano solo donne, tra
cui Sumire, la ragazza di Akira, e nemmeno tra i camerieri riuscì a scorgere
una sagoma che somigliasse a quella di Goku. “Perché cavolo mi aspetto di
vederlo?” si domandava con stizza. “Perché lo sto cercando?”
Quale che fosse la risposta, comunque, pareva che il suo
insensato desiderio fosse destinato a non realizzarsi, considerato che del
giovane non c’era traccia lì. Pertanto, Sanzo si trattenne al Moon Indigo
giusto il tempo necessario di svuotare il calice e di salutare controvoglia una
mezza dozzina di persone che conosceva.
Si scoprì estremamente sollevato, nel dirigersi verso la
scalinata dell’ingresso per tornarsene in camera. Ma aveva mosso pochi passi
lungo il corridoio illuminato con discrezione quando udì due voci innanzi a sé,
scorgendone subito dopo i proprietari: uno era un uomo di mezz’età, che il
biondo riconobbe come un compare di Rossini, palesemente sbronzo, e l’altro…
era Goku. L’uomo aveva la mano sinistra posata sulla maniglia della porta che
si trovava dietro di lui e la destra a stringere un braccio del ragazzo, che si
divincolava protestando.
- La prego, Kozama-san, mi lasci andare! – gridava piano.
L’interpellato ridacchiò lascivo: - Guarda che ti pago
bene, che ti credi! – sbottò.
- Le ripeto che il mio lavoro non è questo! –
replicò Goku in tono a metà tra il duro e il disgustato.
- Ma se Jonathan mi ha detto di sì… eddai, comunque fa lo
stesso… ti pago, non fare storie! -
Aveva aperto la porta e stava cercando di trascinarlo
nella stanza. Sanzo si fece avanti.
- Per l’ultima volta, Kozama-san, mi lasci andare!!
– esclamò ancora il ragazzo.
E visto che l’uomo non volle saperne di dargli ascolto, il
biondo ritenne più che opportuno intervenire: si avvicinò veloce e gli sferrò
un sonoro pugno in piena faccia, facendolo crollare miseramente a terra
svenuto. L’alcol sapeva essere un ottimo alleato, niente da eccepire. Sotto lo
sguardo stupito e sollevato di Goku trascinò Kazama fino al suo letto e ce lo
lasciò cadere sopra con un gesto sprezzante:
- Domattina attribuirà il tutto alla sbornia. Non abbiamo
di che preoccuparci – proferì – Ora andiamocene -
Goku annuì e lo seguì, sempre un po’ stranito, fuori dalla
camera. Il cuore aveva preso a battergli con più forza del normale, com’era
ormai abitudine che facesse quando c’era il biondo nei paraggi. L’aveva aiutato
di nuovo. Ne era felice, più che felice, ma sentiva di dover dire qualcosa, sia
per ringraziarlo sia per sapere il motivo per cui l’aveva fatto per l’ennesima
volta. Avrebbe tanto voluto capire quali fossero i sentimenti di quell’uomo.
- Dove stiamo andando? – si azzardò a domandare mentre
salivano le scale fianco a fianco.
- Ti sto accompagnando alla tua stanza. È bene che tu ci
rimanga, stanotte -
Goku trovò la risposta vagamente deludente e non disse
altro finchè non vi furono davanti. Si fermò ad una certa distanza dalla porta
e si appoggiò al muro, stringendosi nella maglia nera che indossava, gli occhi
quasi sognanti: Sanzo lo trovò pericolosamente adorabile, e stette zitto.
- Se continui ad aiutarmi non saprò più come sdebitarmi,
lo sai? – disse alla fine il ragazzo sorridendo.
Il biondo scrollò le spalle: - Io non pretendo niente in
cambio. Non ci pensare neanche –
Goku lo guardò: - Però voglio almeno ringraziarti –
ribattè – Sei sempre nel posto giusto al momento giusto, quando mi trovo in
queste situazioni, e ne sono felice. Grazie, davvero –
- Sei felice perché te ne tiro fuori? – indagò l’altro,
inaspettatamente. Cosa voleva sentirgli dire?
- Certo! Ma soprattutto… beh, perché sei tu, Sanzo –
rispose il ragazzo di getto. Cominciava a fare caldo.
Era questo, quello che voleva sentirsi dire. Non ebbe
dubbi nemmeno un cinico come lui, nemmeno per un attimo, perché le parole di
Goku gli avevano fatto nascere il piccolo, piccolissimo ed innegabile impulso
di sorridere: ed era talmente tanto che non ne provava il desiderio! E il secondo
desiderio, quello non così improvviso di prendere il ragazzo tra le braccia
e portarlo via da lì, non era meno presente.
Ma si dominò e si limitò ad avanzare di qualche passo e a
bloccare Goku al muro, ponendo entrambe le mani sopra la sua testa e
guardandolo dritto negli occhi d’ambra ardente. Questi sussultò appena e non si
mosse.
- Ascoltami bene – esordì Sanzo con una voce roca e
vibrante che fece arrossire il giovane – Io non ti ho salvato da certe
situazioni per avere la tua riconoscenza o per aiutarti. Non sono così
interessato al prossimo -
S’interruppe, mentre l’altro aspettava e tratteneva il
fiato. Il biondo fu colto dall’idea di non proseguire, di lasciar perdere e di
non pronunciare la frase che avrebbe definitivamente dimostrato quel che
realmente pensava, ma non era questo che voleva. Perciò si accostò un po’ di
più a Goku, senza tuttavia sfiorarlo:
- Lo faccio perché vorrei che tu fossi mio, e mio soltanto
– disse – Tutto qui -
Tutto qui. Nient’altro che la pura, semplice,
stupida, bellissima verità che ormai ben conosceva. Non avrebbe parlato ancora:
che fosse Goku a rispondergli, in qualunque modo e quando avesse inteso farlo.
E forse la risposta già gli si leggeva in volto, constatò
Sanzo nel guardarlo di nuovo e nel notare che aveva le guance colorite, gli
occhi lucidi e stupiti e le labbra socchiuse verso di lui, tanto che l’uomo
dovette fare un notevole sforzo di volontà per allontanarsi senza prima
catturarle tra le proprie. Ma avrebbe atteso una vera risposta.
- Va’ in camera, adesso – gli ingiunse in tono
gradevolmente burbero.
Goku ebbe un leggero scatto, scuotendosi: - Ah! Sanzo… -
balbettò.
Lui si avviò verso le scale, voltandosi un istante: -
Buonanotte – tagliò corto, e prese a scendere i gradini dandogli sempre le
spalle, ermetico e comunicando al tempo stesso un chiaro messaggio. Il ragazzo,
con la mente ovattata e il viso in fiamme e il petto in tumulto, fece per
aprire la porta della propria stanza ed entrarvi, ma si bloccò.
Non aveva detto nulla, non aveva lasciato capire niente di
certo di quello che provava, della contentezza che gli aveva donato la frase di
Sanzo. Era rimasto zitto e a bocca aperta come un cretino, e non aveva alcuna
intenzione di concludere lì quella notte che sembrava – e che fu – così
preziosa.
Sapeva qual era il messaggio che aveva immaginato di
vedere sulla schiena del biondo che s’allontanava: Raggiungimi.
Non indugiò oltre. Richiuse di botto la porta e si
precipitò giù per le scale, quasi correndo.
Era stato un completo stupido a limitarsi ad una specie di
dichiarazione? Probabilmente sì, però se l’avesse preso senza essere certo dei
sentimenti del ragazzo sarebbe stato alla stregua di Kazama, Rossini e degli
altri idioti che lo consideravano una puttana o qualcosa di maledettamente
simile. E lui non era uno stinco di santo, no, ma non si sarebbe mai sognato di
comportarsi come loro. Soprattutto non con Goku, assolutamente.
Sbuffando con uno stizzito “tsk!”, Sanzo si sedette su uno
sgabello imbottito accanto alla finestra, una Marlboro già in mano; nella
stanza accanto tutto era silenzio, segnale che Hakkai avrebbe trascorso ancora
una volta la notte fuori, e dal cielo ormai nero continuavano a cadere lievi le
scaglie di neve. Si udivano pochissimi rumori.
Poi, un bussare discreto alla porta attrasse la sua
attenzione, e il biondo si rialzò per andare ad aprire:
- Chi è? – domandò, pur sapendolo già.
- Sono io… posso entrare? – disse di rimando la voce
imbarazzata di Goku.
L’uomo aprì uno spicchio di porta e s’affacciò nel
corridoio, trovandosi davanti il ragazzo che lo guardava con un certo
nervosismo e le mani nascoste dalle lunghe maniche della maglia: - Cosa vuoi? –
Goku gli puntò gli occhi negli occhi, deciso: -
Risponderti – replicò.
- Non importa che tu lo faccia adesso – lo freddò Sanzo,
più laconico di quel che in realtà si sentiva.
- Ma se conosco già la risposta da tanto tempo… da prima
che tu me lo dicessi… perché dovrei aspettare? – incalzò il ragazzo, e aveva un
tono così intenso che il biondo spalancò la porta lasciando che si avvicinasse
alla soglia.
Goku continuò: - Dopo me ne tornerò di sopra, se lo desideri,
ma prima… fammi parlare, Sanzo, ti prego –
Questi non protestò, ben lungi dal volerlo fermare adesso.
Era il suo turno di attendere altre parole.
- Io… anch’io vorrei essere tuo, e tuo soltanto. Tuo
soltanto – sorrise Goku – Lo vorrei davvero… -
La voce gli si ridusse ad un sussurro, e Sanzo tese una
mano, afferrandogli un polso e tirandolo dentro la camera assieme a sé, per poi
richiudere la porta e premurarsi di girare due volte la chiave nella toppa.
Il ragazzo si ritrovò così con le spalle appoggiate contro
il legno e il respiro del biondo vicinissimo al suo, il calore inaspettato del
suo corpo che iniziava a confonderlo, unito al profumo di tabacco e chissà
quale fragranza:
- Ah… se non vuoi… non voglio che tu faccia questo… Sanz…
- provò a dire in un soffio, controvoglia.
Sanzo gli circondò il volto con le dita fresche e chiare:
- Sst. Ti ho lasciato parlare abbastanza, Goku -
Il giovane allora chiuse gli occhi, capendo con sollievo
che il compagno desiderava la medesima cosa sua. Gli balenò per un attimo in
mente il timore che l’uomo l’avrebbe tenuto con sé solo per quella notte e poi
l’avrebbe lasciato andare una volta soddisfatta un istinto momentaneo, e che
tutto sarebbe tornato come prima, o peggio; ma se anche era così, l’unica cosa
che gl’importava era il presente.
Si abbandonò pertanto tra le braccia e alle labbra di
Sanzo, schiudendogli la propria bocca con cieca e completa fiducia, e fremette.
Quel primo bacio fu lento, lungo, assaporante, senza respiro, caldo, stordente,
e meraviglioso: Goku si strinse alle spalle del biondo con spontaneità e quasi
disperazione, e Sanzo di rimando lo serrò ancor di più contro il petto,
allontanandosi pian piano dalla porta, continuando ad assaggiare la bocca e le
labbra del ragazzo senza fretta.
Si separarono dopo istanti dilatati come giorni di sole e
vento, il respiro accelerato e i sensi infiammati. Ripresero a baciarsi senza
dire niente, ora profondamente, ora fugaci, le mani che si sfioravano e
sfioravano la pelle al di sotto dei maglioni; Sanzo spostava le labbra da
quelle brucianti di Goku al suo collo, a tratti mordendolo appena, cominciando
a strappargli piccoli gemiti, e tornava alla sua bocca, ancora e ancora, perché
era più inebriante di una droga. E lo teneva stretto, come se temesse di vederlo
svanire da un momento all’altro, evaporare come pioggia.
Ma oltre i vetri un po’ appannati non pioveva più:
cadevano indolenti i fiocchi bianchi, nello stesso silenzio denso e morbido che
regnava nella stanza, denso e morbido al pari dei sospiri e del fruscìo delle
stoffe su cui il biondo si adagiò, il ragazzo sotto di sé.
Fu bellissimo spogliarlo senza fretta, e lasciarsi
spogliare da quelle mani esili e percorse da leggeri brividi, e sentire piano
piano il contatto che, disarmante, aumentava tra i loro due corpi nudi e
tiepidi, e vedere quegli occhi dorati fissarlo, liquidi e sorridenti,
attraverso la frangia scura.
Non pensava più a Fujiwara, al Moon Indigo, alle
pericolose assenze di Hakkai, a tutti i proiettili che aveva sprecato, al
desiderio di vendetta che lo divorava. Non pensava a niente, e questo, per uno
come lui, era un benevolo miracolo. O forse no: Goku era il miracolo.
Gli si abbandonava completamente, e al contempo gli donava
un amore e un piacere che non avevano limiti. S’inarcava contro di lui ad ogni
suo bacio, ogni sua carezza, ogni suo movimento, intrecciava le dita e le gambe
con le sue, ansimava con dolcezza e gli cercava le labbra con le proprie,
sempre così calde e piene, le guance arrossate e il respiro che gli tremava in
gola. E lo sentiva, Sanzo, il battito forte del suo cuore.
Per lunghissimi minuti si rotolarono tra coperte e
lenzuola bianche, non cessando mai di assaggiarsi, mentre le loro ombre unite
danzavano sul muro nella poca luce e si accompagnavano alla neve che vorticava
lenta contro il cielo nero di velluto. Velluto,
come quelle sensazioni.
E dopo, dopo quei lunghissimi, eterni minuti, il biondo fu
di nuovo sopra il giovane, e premette cauto con i fianchi contro i suoi
fianchi, le mani che correvano su e giù sulle anche di Goku; e Goku,
socchiudendo le palpebre, mordendosi appena il labbro inferiore, ancora gli si
abbandonò, felice di farlo, e lasciò che Sanzo gli scivolasse dentro. Non fece
caso al dolore, lo abbracciò soltanto, invocando il suo nome in un gemito mal
trattenuto.
Si baciarono per l’ennesima volta, e quel sentire che li
pervadeva divenne tanto forte da spazzar via le loro coscienze.
Le immagini si mescolarono, vorticando come i fiocchi
chiari: la piccola lampada accesa in angolo, i riflessi vaghi sui vetri, il
biancore di quel letto immenso, la porta nell’ombra lontana, e il soffitto a
sovrastarli, il soffitto che Goku scorgeva dietro le spalle ampie di Sanzo.
I movimenti si fecero languidi, ondeggianti, incalzanti.
Seguivano il ritmo dei loro sospiri e delle voci che a vicenda si chiamavano
nel silenzio.
Poi ogni cosa parve esplodere, nelle loro menti già
fluttuanti.
Fu come trovarsi davanti ad un grande mare luccicante
sotto il sole, come essere avvolti in quella luce sotto un cielo che acceca.
Come esserci, in
quel cielo straordinario. Perché fare l’amore con lui era…
Sì. Era come volare.
٭Tenth Chapter Ends ٭
Note dell’autrice:
ebbene sì, anche questo
capitolo è pronto. Vi ho fatto aspettare un po’, e ho scritto meno di quel che
pensavo, ma come sempre il tempo è tiranno (e non lo dico tanto per dire, giuro
@_@ <- sto per collassare) e ho fatto quel che ho potuto… spero che
apprezzerete comunque!
Insomma, la scena 3x9 tanto
attesa eccovela qui ^^ - ed era veramente un tot che non narravo di ‘sti due
come protagonisti!
Non ho molto da dichiarare,
circa questo capitolo, né molto da spiegare, ma voi fatemi sapere cosa ne
pensate, as usual.
Dal prossimo cominceremo ad
avviarci verso il climax della storia intera, perciò state pronte… ho in mente
già tutto, e non vedo l’ora di metterlo per scritto *_*
(me, la donna che adoooora
gli intrighi e l’azione *svah*)
E mo’, invece delle solite
||CC|| vi consiglio chiaro e tondo quali canzoni mettere in sottofondo per
gustarvi il capitolo fino in fondo:
Live with me, Teardrop, Unfinished simpathy, Protection e Sly dei Massive Attack + Believe
di Elton John + The dancer di PJ
Harvey + The power of love dei
Frankie Goes To Hollywood; e ovviamente, I
believe i can fly di R Kelly, che dà anche il titolo al capitolo.
La citazione iniziale è
tratta da una poesia di Federigo Garcìa Lorca che personalmente trovo
stupenderrima.
Ah, dimenticavo! Come
sempre, grazie mille a tutte! Continuate (e continuiamo) così :*