Storie di dèi ed eroi... a volte poco dèi e poco eroi

di Mary P_Stark
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Atena -1 ***
Capitolo 2: *** Atena - 2 ***
Capitolo 3: *** Ares - 1 ***
Capitolo 4: *** Ares - 2 ***
Capitolo 5: *** Erebos - 1 - ***
Capitolo 6: *** Erebos - 2 - ***
Capitolo 7: *** Erebos - 3 - ***
Capitolo 8: *** Artemide - 1 - ***
Capitolo 9: *** Artemide - 2 - ***
Capitolo 10: *** Efesto - 1 - ***
Capitolo 11: *** Efesto - 2 - ***
Capitolo 12: *** Efesto - 3 - ***
Capitolo 13: *** Efesto - 4 - ***
Capitolo 14: *** Eos - 1 - ***
Capitolo 15: *** Eos - 2 - ***
Capitolo 16: *** Eos - 3 - ***
Capitolo 17: *** Eos - 4 - ***
Capitolo 18: *** Eos - 5 - ***
Capitolo 19: *** Achille - 1 - ***
Capitolo 20: *** Achille - 2 - ***
Capitolo 21: *** Achille - 3 - ***
Capitolo 22: *** Achille - 4 - ***
Capitolo 23: *** Achille - 5 - ***
Capitolo 24: *** Hermes - 1 - ***
Capitolo 25: *** Hermes - 2 - ***
Capitolo 26: *** Hermes - 3 - ***
Capitolo 27: *** Hermes - 4 - ***
Capitolo 28: *** Apollo - 1 - ***
Capitolo 29: *** Apollo - 2 - ***
Capitolo 30: *** Apollo - 3 - ***
Capitolo 31: *** Apollo - 4 - ***
Capitolo 32: *** Zeus - 1 - ***
Capitolo 33: *** Zeus - 2 - ***
Capitolo 34: *** Zeus - 3 - ***
Capitolo 35: *** Eris - 1 - ***
Capitolo 36: *** Eris - 2 - ***
Capitolo 37: *** Eris - 3 - ***
Capitolo 38: *** Eris - 4 - ***
Capitolo 39: *** Eris -5 - ***
Capitolo 40: *** Eolo - 1 - ***
Capitolo 41: *** Eolo - 2 - ***
Capitolo 42: *** Eolo - 3 - ***
Capitolo 43: *** Eolo - 4 - ***
Capitolo 44: *** Dioniso - 1 - ***
Capitolo 45: *** Dioniso - 2 - ***
Capitolo 46: *** Dioniso - 3 - ***
Capitolo 47: *** Dioniso -4 - ***
Capitolo 48: *** Chaos -1 - ***
Capitolo 49: *** Chaos - 2 - ***
Capitolo 50: *** Pantheon - 1 - ***
Capitolo 51: *** Pantheon - 2 - ***
Capitolo 52: *** Pantheon - 3 - ***
Capitolo 53: *** Pantheon - 4 - ***
Capitolo 54: *** Alekos - 1 - ***
Capitolo 55: *** Alekos - 2 - ***
Capitolo 56: *** Alekos - 3 - ***
Capitolo 57: *** Alekos - 4 - ***
Capitolo 58: *** Astrea - 1 - ***
Capitolo 59: *** Astrea - 2 - ***
Capitolo 60: *** Astrea - 3 - ***
Capitolo 61: *** Astrea - 4 - ***
Capitolo 62: *** Astrea - 5 - ***
Capitolo 63: *** Astrea - 6 - ***
Capitolo 64: *** Astrea - 7 - ***
Capitolo 65: *** Astrea - 8 - ***



Capitolo 1
*** Atena -1 ***


1.
 


 
Atty sedeva come al solito al suo scrittoio, la finestra aperta sul giardino che si apriva a ventaglio sul retro di casa. Il profumo delle erbe officinali e delle rose tee inondava la stanza, mentre lo sguardo malinconico e pensieroso della sua civetta le accarezzava il volto eburneo.

Non v’era nulla di strano in quell’immagine, nulla che non ricalcasse i suoi ultimi anni a Pebble Beach, nei pressi di Monterey, California. La Sunridge Road – dove lei abitava – era sempre percorsa dalle auto dei facoltosi residenti, e l’abbaiare lontano dei cani da guardia era solo un lieve brusio che spezzava il silenzio di quel colle rivolto verso l’oceano.

Eppure, quella mattina, qualcosa di diverso dal solito c’era; lo sentiva.

Fu la brezza proveniente dall’oceano a portare la conferma ai suoi sospetti.

Prima ancora che il suono del campanello si allargasse nella villa in stile country in cui viveva da dieci anni, Atty si era già alzata dalla sedia di vimini su cui era rimasta assisa fino a quel momento.

In poche, rapide falcate, raggiunse la porta d'ingresso per poi aprirla, ritrovandosi dinanzi l’ospite più inatteso che le sarebbe potuto capitare in mille anni.

Biondo e dai riccioli mollemente rilasciati sulle spalle, il cugino Hermes sorrise bonario ad Atty e, levando una mano recante una busta vergata elegantemente, esordì dicendo: “Buongiorno, cugina. Sono secoli che non ci vediamo, eh?”

Aggrottando la fronte con espressione dubbiosa, Atty aprì completamente la porta d’ingresso per lasciar entrare il baldo cugino, abbigliato con una camicia hawaiana, pantaloncini corti e infradito ai piedi.

Squadrandolo dall’alto al basso con aria a metà tra il divertito e lo sconcertato, Atty disse a mezza voce: “Disturbato mentre eri in vacanza?”

“Esatto. Ma quando il grande capo chiama, bisogna muovere il culo, no?” ridacchiò Hermes, guardandosi intorno con espressione curiosa e astuta assieme.

Atty non dubitò neppure per un istante che, al suo ritorno a casa, avrebbe spifferato tutto sul suo conto al padre. Come dubitarne anche solo per un secondo, visto chi aveva appena fatto entrare in casa?

Hermes era tutto meno che discreto, e avrebbe riportato con dovizia di particolari ciò che in quel momento stava scrutando con tanta attenzione.

La villa ove abitava ricordava il Messico e le sue tradizioni, dalle pareti intonacate grossolanamente e con caldi colori del bronzo e dell’ocra, alle tende leggere di organza, che danzavano dal giallo paglierino al rosso vivace. Le linee minimaliste del mobilio, e l’utilizzo di legni scuri e grezzi, non facevano che accentuarne la memoria storica.

Le librerie poste nell’ampio ingresso erano semplici, senza fronzoli ad abbellirle. Niente stile roccocò o liberty, per lei.

Su di esse, disposti in bella mostra, diversi oggetti appartenenti al popolo Maya erano esposti allo sguardo degli ospiti e della padrona di casa, vestigia di un antico passato a cui Atty era molto legata.

Hermes fissò ironico per alcuni attimi la sua preziosa collezione, prima di passare oltre. Di certo, immaginava i motivi di quella scelta stilistica ma non commentò in alcun modo, proseguendo lungo il corridoio abbellito da fotografie raffiguranti il sito archeologico di Tulum.

Fissandone una in particolare, Hermes lanciò uno sguardo significativo alla cugina che, accigliata, sibilò: “Non osare aprire bocca.”

“Carini” si limitò a dire lui, ammiccando all’indirizzo della coppia fotografata di fronte a una piramide a gradoni.

Brontolando un insulto tra i denti, Atty sospinse il cugino fino al salotto, un’ampia stanza rettangolare dove un’enorme vetrata lasciava intravedere l’oceano dabbasso. Le piante ad alto fusto che scivolavano lungo il declivio sibilavano leggermente al passaggio del vento, e il loro agreste profumo giungeva nella stanza, permeandola.

Continuando a guardarsi intorno incuriosito, Hermes le disse: “Di casa tua non hai esposto nulla, a quanto vedo.”

I divani di quel salotto, bassi e in legno lavorato grossolanamente, erano ricoperti da cuscini sui toni del rosso e del giallo, così come le poltrone affacciate sulla veranda. Sui muri color ocra, arazzi ricamati raffiguravano dei quetzal dalle lunghe piume verdi appollaiati sulle statue di alcuni dèi di pietra.

No, a ben vedere, della terra natale di Atty, non v’era davvero nulla.

Atty si accigliò a quel commento, e mormorò: “Non avevo motivi per esibire oggetti provenienti dalla Grecia.”

“Ma dalla terra natia di…” cominciò col dire Hermes, subito azzittito dall’occhiata omicida di Atty. “Okay, mi muro la bocca.”

“Bene” ringhiò lei, volgendogli le spalle.

Aggirando il piano bar in legno e marmo verde d’Irlanda, Atty aprì il frigorifero da cui estrasse una bottiglia di scotch, due bicchierini e un cestello di cubetti di ghiaccio. Ciò fatto, poggiò il tutto sul tavolino che separava i due sofà e si servì un goccio di liquore, senza però badare a fare lo stesso con il suo ospite.

Sorridendo derisorio nel rendersi conto che la cugina non gli avrebbe versato da bere, il giovane prese la bottiglia di liquore e lasciò scivolare un paio di dita di scotch in un secondo bicchiere. Senza poi attendere alcun invito, si accomodò disordinatamente sul divano che dava le spalle all’oceano.

Scrutandolo meditabonda, Atty non fece granché caso all’arrivo della sua civetta che, con eleganza, si posò sul piano bar e scrutò a sua volta il nuovo venuto.

Nuovo venuto che, perforato dallo sguardo di uccello e donna, ridacchiò nervosamente prima di esalare: “Ehi, ambasciator non porta pena, Atty! Prenditela con chi di dovere, non con me!”

“Non dovevano neppure sapere che io ero qui, se ben ricordo. Avevo schermato la casa di proposito” precisò Atty, sorseggiando lo scotch prima di sedersi di fronte al cugino.

Hermes ebbe la decenza di arrossire e Atty, allentando un poco la stretta sul bicchiere, aggiunse con maggiore calma: “Senti, so quanto possa essere pressante nostro padre, quando vuole una cosa. Che ha di così importante da dirmi, per aver inviato niente meno che te?”

Hermes le allungò la busta color crema che ancora teneva in mano e Atty, dopo averla afferrata e averne percepito sotto il polpastrelli la filigrana grossa e irregolare, sospirò e spezzò il sigillo di ceralacca con un secco strattone.

Dopo un momento di indecisione ne estrasse un foglio ripiegato in due, che dispiegò con cautela e, aggrottata impercettibilmente la fronte, cominciò a leggere.

 
Mia cara figlia, conosco bene i motivi che ti spingono
a rimanere incatenata al luogo dove tutt’ora dimori, lasciando
la tua famiglia fuori dalla tua vita e dal tuo dolore.
Vorrei solo che credessi alle parole di tuo zio, quando
afferma di non aver avuto alcun ruolo nella morte di tuo marito.
Nulla avrebbe potuto farlo più felice che renderti la vita di Miguel,
ma nessuno può reclamare la sua anima, una volta varcate le porte dell’Oltretomba.
Torna da me e riappacificati con tuo zio. Ne trarrete entrambi giovamento.
 
Levando lo sguardo dallo scritto, Atty sospirò lasciando ricadere la lettera sulle gambe e, con voce resa roca dal rancore, disse: “Dovrà cadere il sole, prima che ciò avvenga.”

Hermes sgranò gli occhi, scrutando allarmato fuori dalla vetrata per accertarsi che non stesse succedendo nulla di preoccupante, prima di esclamare: “Per tutti gli dèi dell’Olimpo, Atty! Non parlare così! Una dea non dovrebbe esprimersi a questo modo. Sai che le nostre parole hanno un peso!”

Fulminandolo con occhi adamantini, Atty si levò in piedi ed esclamò: “Pensi che le parole degli umani non l’abbiano?!”

Levandosi a sua volta in piedi, Hermes oltrepassò in tutta fretta lo spazio che li separava e, afferrando la cugina per le spalle, mormorò comprensivo: “Atty, Atena, ascoltami. Non volevo mancare di rispetto a tuo marito. Sono più che sicuro che i voti che vi siete scambiati fossero sinceri, e che le sue parole avessero davvero un peso e un’importanza reali. Ma tu sei e rimani la dea della guerra, delle arti e dell’intelletto, non puoi dimenticarlo. Non puoi parlare a vanvera.”

Atena tremò sotto la sua stretta prima di reclinare il viso e lasciare che una massa di morbide ciocche ramate ne velasse i tratti del volto perfetti ed eternamente belli.

Trattenendo lacrime che non avrebbe mai versato in presenza di Hermes, Atena sussurrò con voce rotta dal dolore: “Non c’è più, Hermes. Non è più con me.”

Arrischiandosi ad abbracciarla, Hermes le carezzò la lunga chioma dorata, sussurrando contro la sua chioma morbida: “Sono proprio la persona meno adatta per questo ruolo, sorella. Riprenditi, o comincerò a piangere anch’io.”

Scoppiando in una risatina sgangherata, Atena si scostò da Hermes e disse: “Scusa. Ma era da tempo che non ne parlavo con qualcuno.”

“Quanto tempo è che non vedi gente? Quattro anni? Da quanto tempo non vai a trovare Apollo, o Artemide? Sai che sentono tremendamente la tua mancanza?” le domandò Hermes, dandole delle goffe pacche sulle spalle.

Allontanandosi da Hermes, Atena tornò a sedersi sul divano mentre la sua civetta, Pallade, svolazzava sullo schienale andando a posarsi accanto a lei. Con un movimento elegante della testa, sfiorò la sua chioma ramata emettendo un suono simile a un lamento.

Sorridendo all’amica, Atena ne carezzò il piumaggio sericeo e scuro prima di tornare ad osservare Hermes e chiedergli: “Poseidone non ha neppure il coraggio di scrivermi di persona? Deve lasciare che nostro padre interceda per lui?”

“Senti, Atty, se nostro zio avesse mandato uno dei suoi tritoni come ambasciatore, avresti dato in escandescenze, magari friggendolo sul posto” protestò bonariamente Hermes, finendo il suo scotch prima di poggiare il bicchiere sul tavolino di cristallo e tornare a sedersi sul divano.

Allungate poi le braccia sul bordo dello schienale, Hermes riprese il discorso, aggiungendo: “L’astio tra te e Poseidone è vecchio di millenni, Atty, e lo sai. Non avresti mai accettato un suo portavoce alla porta, ma avresti accettato me.”

“Potrei sempre decidere di far mangiare i tuoi sandali alati a Pallade” precisò Atena, sollevando ironicamente un sopracciglio.

Sentendosi interpellata, Pallade lanciò un grido stridente prima di fissare male Hermes che, ridacchiando, sollevò immediatamente le mani per calmare l’uccello ed esclamare: “E dai, sorella! Non scherzare su queste cose! Non voglio restare bloccato sulla Terra per settimane, mentre le muse mi consegnano un nuovo paio di calzari!”

Scuotendo con noncuranza una mano, Atena celiò: “E pensi davvero che la mia Pallade si abbasserebbe a punzecchiarti i sandali?”

Guardando per un momento l’altezzoso rapace, Hermes borbottò: “E’ troppo vanitosa per farlo, mi sa.”

“E’ una signora, dopotutto” precisò Atena, prima di tornare seria e aggiungere: “Poseidone dovrà strisciare alla mia porta, prima che io decida di tornare sull’Olimpo per parlargli. Ciò detto, puoi raggiungere nuovamente le tue onde, darti alle scorribande nel cielo o a dove diavolo ti pare, fratello.”

“Sempre la solita scorbutica” brontolò Hermes, sollevandosi con un movimento aggraziato prima di piegarsi verso di lei e chiosare: “Portare il lutto in eterno pensi possa far riposare in pace l’anima di Miguel?”

Atena non disse nulla ma Hermes notò immediatamente la tensione riverberare nel corpo longilineo della cugina e, sorridendo compiaciuto, se ne andò senza più dire nulla, lasciando che al suo posto rimanesse il consueto profumo legato agli dèi.

Ambrosia.

Da quanto non ne avvertiva il sapore sublime sul palato? Davvero un sacco di tempo, ma per nulla al mondo si sarebbe abbassata a tornare sull’Olimpo solo per sentirne il divino aroma.

Quel profumo, però, riverberò tra le pareti di casa per molto tempo ancora dopo la dipartita di Hermes, e finì con l’angustiarla a tal punto che, dopo aver aperto le imposte per far circolare l’aria, uscì dalla villa per andarsene un po’ da quel posto.

Non sarebbe rimasta a casa un solo attimo di più, finché quel profumo dolciastro non fosse scomparso.

Imboccata la via con il suo pick-up rosso fuoco, oltrepassò il colle e scese a Monterey.

Non badò molto al traffico cittadino o al profumo salmastro dell’oceano che penetrava nell’abitacolo attraverso i finestrini aperti. Voleva solo rivedere un luogo a lei caro, anche se questo significava avvicinarsi tremendamente al mondo governato da suo zio.

Miguel però lo aveva amato, e tutto ciò che lui aveva amato aveva un posto speciale nel suo cuore.

Impiegò quasi un’ora per raggiungere il Monterey Bay Aquarium e, dopo aver parcheggiato l’auto quasi a un miglio di distanza dall’entrata, riuscì finalmente a prendere la via dell’ingresso.

Attorno a lei, famiglie in vacanza con i figli, scolaresche o semplici turisti, erano in coda più o meno diligentemente in attesa di poter prendere il biglietto per entrare.

Non potevano certo immaginare che al loro fianco, abbigliata con un semplice chemisier di seta azzurro cielo, vi fosse una potente dea greca, signora di Atene e maestra delle arti e della guerra.

Stanca ormai da secoli di vivere nel suo tempio, appollaiato sopra la chiassosa Atene e divisa dai mortali dalla sua magia immortale, si era allontanata da esso per scrutare con occhi nuovi il mondo moderno.

Lo scorrere del tempo osservato attraverso le alte colonne di marmo del tempio, l’aveva resa irrequieta, e questo l’aveva spinta a partire. Partecipare attivamente alla vita delle genti era stato il suo scopo, e così era discesa in mezzo agli uomini per tornare a vivere avventure in prima persona, e non più a esserne spettatrice.

Secoli e secoli erano passati da quando il suo popolo aveva officiato riti e preghiere in suo onore, offrendo libagioni e doni in oro nel suo tempio.

Non che pretendesse ancora la devozione cieca di un tempo, ma si era sentita sola in quell’enorme casa vuota, senza alcuno con cui condividere le ore del giorno e della notte.

Abbandonando così le sue terre e trasferendosi nel Nuovo Mondo, aveva dimenticato i suoi altisonanti titoli per diventare semplicemente Atty.

Aveva vagato da uno Stato all’altro per conoscere in prima persona i cambiamenti avvenuti nel mondo, e aveva gioito di molte invenzioni dell’uomo, come di altre aveva pianto sconsolata.

Si era lasciata strappare una lacrima dai primi film a colori visti al cinema, e aveva riso delle esilaranti commedie di Charlie Chaplin. Aveva provato il gusto delle bevande gassate come dei panini presi al fast-food ma, più di ogni altra cosa, aveva goduto nel vivere come una donna normale.

Non più venerata e idolatrata, Atena aveva scoperto cosa volesse dire essere una donna mortale nel mondo in subbuglio degli Anni 60. Aveva marciato al fianco dei pacifisti durante i cortei contro la Guerra nel Vietnam e aveva condiviso, con un certo divertimento, lo stile di vita degli hippies.

Durante quel periodo di svago, passato a conoscere se stessa e il mondo moderno, Atena non era più tornata al suo tempio in Grecia.

Inutilmente, suo padre aveva tentato di ricondurla in seno alla famiglia, trovando le sue scorribande terrene un pessimo esempio per tutti gli altri dèi dell’Olimpo.

Incurante dei suoi richiami, Atena aveva solo in seguito scoperto che, dopo la sua fuga volontaria dal mondo divino, altri dèi l’avevano seguita, a cominciare dal litigioso Ares.

Tra i suoi mille interessi, aveva posto la sua attenzione sul Progetto Manhattan, finendo poi con il forzare la mano al presidente degli Stati Uniti perché sganciasse le bombe su Hiroshima e Nagasaki.

Di quello non era stata per nulla contenta e, durante un aspro battibecco con suo fratello, Atena e Ares avevano finito con il far quasi esplodere una centrale nucleare a causa del potere che avevano sprigionato durante la loro baruffa.

Dopo quell’evento, di comune accordo e per evitare che Zeus intervenisse, richiamandoli tutti sull’Olimpo, gli dèi presenti sulla Terra avevano giurato di non interferire più in alcun modo con gli eventi umani.

Atena, però, aveva continuato per anni a credere che Ares, in fondo, non avesse smesso affatto di ficcanasare e mettere mano nelle decisioni degli uomini.

Non essendo comunque un problema suo, aveva accettato di buon grado il patto, non desiderando affatto interagire fino a quel punto con gli esseri umani, ma volendo solo godersi quella lunga vacanza lontano da casa.

Fu durante una visita all’acquario di Monterey che era avvenuto ciò che Atena non si era aspettata potesse succedere.

Miguel era lì, in compagnia di un paio di amici, mentre pazientemente attendeva di entrare. Scorgendolo in mezzo alla folla grazie alla sua altezza considerevole, Atena era rimasta colpita dal suo sguardo puro e dal suo viso scolpito.

Adone stesso non avrebbe potuto essere altrettanto bello e, pur non avendo desiderato avvicinare un uomo per averlo come amante – i tempi di Woodstock le erano bastati – Atena non era riuscita a togliergli gli occhi di dosso.

Per tutta la durata del giro all’acquario, si era sempre tenuta a debita distanza ma senza mai perderlo d’occhio quando, di punto in bianco, il giovane si era allontanato dal gruppetto per avvicinarsi a lei.

Pur sapendo di non doversi sentire in imbarazzo – diavolo, era una dea, dopotutto! – Atena aveva reclinato timida il viso mentre lui, con passo sicuro e sguardo affascinante, l’aveva raggiunta e aveva esordito dicendo: “Posso chiederti se ci siamo già visti da qualche parte? Mi sembra di conoscerti, sai? Forse abbiamo frequentato la stessa scuola?”

Un po’ sorpresa da quell’approccio così diretto, Atena aveva levato i suoi occhi adamantini su di lui che, accentuando il sorriso, aveva continuato asserendo: “Cavoli, sei davvero alta. E’ raro che una donna possa guardarmi negli occhi come fai tu.”

“Siamo tutti alti, in famiglia” aveva commentato Atena, prima di aggiungere: “Non ci siamo mai visti, credo, eppure i tuoi lineamenti mi ricordano qualcuno.”

“Vorrà dire che ci siamo conosciuti in un’altra vita” aveva riso lui, prima di allungare l’ampia mano abbronzata e dire: “Sono Miguel Rodriguez. E tu?”

“Atena Parthenos. Ma puoi chiamarmi Atty” aveva subito detto lei, stringendo quella calda e rassicurante mano con la propria.

“Hai lo stesso nome della dea greca? I tuoi genitori sono per caso degli storici?” le aveva chiesto, sinceramente stupito.

“Qualcosa del genere” aveva chiosato lei, sorridendo tra sé.

Da quel momento, lei e Miguel erano diventati inseparabili, le due metà di un intero, le due facce di una stessa medaglia e, cosa che per Atena era parsa impossibile fin dagli albori del tempo, dopo un breve fidanzamento, si erano sposati.

Divisi tra il lavoro di Miguel come istruttore di surf, che lo impegnava quasi tutti i giorni sulla spiaggia di Monterey, e la villa che Atena aveva preso per entrambi – dopo lunghissime trattative, alla fine Miguel aveva accettato di lasciar pagare tutto a lei – la loro vita era andata avanti così per una decina d’anni.

Un giorno di maggio, però, durante una giornata particolarmente ventosa, il telefono aveva squillato, innervosendola.

Samantha, una collega di Miguel, l’aveva chiamata per dirle di un incidente in mare. Senza badare a nulla se non a raggiungere quanto prima l’ospedale dove era stato ricoverato d’urgenza, si era lanciata in auto verso la città con il cuore pesante e l’animo affranto.

Quando era giunta a destinazione, Samantha l’aveva avvolta con un braccio alla vita, protettiva come una madre, e l’aveva condotta all’interno dell’ospedale. Camminando leste nei corridoi, le aveva spiegato come un’onda particolarmente violenta l’avesse sbalzato dal surf, facendolo finire sott’acqua.

Annuendo senza realmente ascoltarla, Atena si era poi rivolta al dottore di turno che, vedendola incinta e pallida come un cencio, l’aveva fatta accomodare prima di raccontarle l’atroce realtà dei fatti.

Nella caduta, Miguel aveva colpito il fondale, spezzandosi l’osso del collo. La corsa in ospedale era stata inutile.

Atena era crollata contro lo schienale della poltroncina su cui era accomodata e, dopo meno di mezz’ora, anche il suo bambino, il primo bambino che avesse mai deciso di avere, aveva seguito il padre nel regno dell’Oltretomba.

Samantha si era offerta di aiutarla a superare quel tragico momento, e così pure tutti gli amici e la famiglia di Miguel ma, sorda e cieca alle loro dimostrazioni di affetto, Atena si era chiusa nel suo personale dolore.

I giorni erano diventati settimane e le settimane mesi e, poco alla volta, lei era rimasta sola.

Unica sua compagna era rimasta Pallade, la fida civetta che, fin dal momento della sua partenza da Atene, non l’aveva mai abbandonata.

E’ da masochisti tornare qui, pensò tra sé Atena mentre prendeva un biglietto.

Non pensi mai di tornare a casa, figlia?”

La voce del padre le sfiorò la mente, a sorpresa, dopo più di un decennio di silenzio.

Senza farsi cogliere in fallo, o mostrare ad alcuno il suo stupore, Atena porse il proprio biglietto all’addetto perché lo controllasse dopodiché entrò nell’acquario dicendo mentalmente al padre: “Quale onore… il padre degli dèi si ricorda di avere una figlia in giro per il mondo?”

“Non usare questo tono con me, ragazza. Posso ancora rivoltarti sulle ginocchia e suonartele” la rimbrottò Zeus, prima di sospirare pesantemente. “Perché, con te, deve sempre finire a male parole?”

Perché non ho voglia di parlarti?” ipotizzò lei, fermandosi di fronte alla vasca enorme dei pesci tropicali.

Una murena boccheggiava minacciosa dalla sua tana di pietra, ricoperta da leggere concentrazioni di corallo rosato e di anemoni di mare dalle papille ondeggianti. Alcuni ippocampi, leggiadri come uccelli in volo, galleggiavano apparentemente senza peso dinanzi ai suoi occhi.

Un gruppetto di pesci pagliaccio, nel frattempo danzava allegramente poco più in là, attirando l’attenzione di alcuni bambini che, ridacchiando tra loro, ne imitavano le movenze per il divertimento dei genitori e delle persone presenti.

Anche lei sorrise deliziata immaginandosi, per un attimo, di veder compiere le stesse divertenti evoluzioni dal figlio che non aveva mai potuto prendere in braccio.

Quel ricordo le procurò una fitta al costato che la fece quasi barcollare e suo padre, intervenendo con minor acredine che in precedenza, mormorò: “E’ spiaciuto a tutti noi, lo sai. Ma non ci è stato possibile salvarlo dalle mani di Thanatos. Se avessimo saputo che eri incinta, avrei tenuto sotto controllo la situazione e sarei intervenuto io stesso, ma…”

“Conosco le leggi dell’Oltretomba, padre. Non c’è bisogno che tu mi ricordi queste cose” sbottò Atena, allontanandosi dal gruppo dei bambini per avviarsi verso la sala dei pinguini.

“Avrei gradito sapere che stavo per diventare nonno!” ringhiò Zeus nella sua testa, portandola ad aggrottare la fronte per il fastidio.

Posando una mano sulla tempia destra come per chetare un principio di mal di testa, Atena replicò seccata: “Non mi era parso di aver capito che Miguel ti piacesse. Se non ricordo male, quando ti ho invitato al matrimonio, hai risposto sdegnato che non ti interessava mescolarti agli umani. Ti piace solo gozzovigliare con le donne mortali giusto per far incavolare a morte Era!”

“Tu, piccola… non ti permetto di trattarmi a questo modo!” brontolò Zeus con voce resa insicura dalla realtà dei fatti esposta da Atena.

Sapeva di aver rifiutato sdegnosamente l’invito, sapeva di non aver mai voluto conoscere il marito della figlia, sapeva di non averla mai chiamata dopo la morte del giovane umano.

Niente di ciò che aveva detto la figlia era sbagliato, però…

“Senti, padre, non ho intenzione di rivangare il passato con te. Sono qui per passare un giorno in santa pace. Vuoi concedermelo?”

“E vai proprio in un luogo che ti ricorda lui?”

“Si dà il caso che i ricordi di Miguel siano piacevoli” precisò Atena prima di chiudere la mente alle sue parole e ai suoi richiami. Si era già stancata di lui.

Non voleva perdere tempo con le recriminazioni di suo padre, vista soprattutto la ritrosia che lui aveva sempre dimostrato nei confronti di Miguel.

Inoltre, lei non aveva mai odiato il mare.

La sua città sorgeva su uno dei mari più belli del pianeta, e la visuale dello splendore del Mediterraneo visto dal Partenone non era eguagliata da nulla al mondo.

Era con lo zio che ce l’aveva, non con il regno che lui governava.

“Sono buffi, vero?” esordì una voce al suo fianco, sorprendendola.

Era raro, per non dire impossibile, che lei venisse colta di sorpresa, eppure avvenne.

Volgendosi a mezzo, Atty scrutò l’uomo al suo fianco che, a mani intrecciate dietro la schiena, osservava con un sorrisino divertito le evoluzioni rocambolesche di alcuni pinguini di Adelia all’interno dell’enorme vasca di vetro temperato.

Annuendo lievemente, Atena commentò piatta: “Affascinanti.”

“Mi perdoni. Forse l’ho disturbata, con il mio intervento inopportuno” sorrise bonario l’uomo, mettendo in mostra due fossette sulle gote rasate di fresco.

Accentuando il proprio sorriso, ora carico di contrizione, Atena scosse il capo e replicò: “No, mi scusi lei. Mi sono comportata da vera maleducata.”

“Sembrava persa in pensieri molto tristi” commentò educatamente l’uomo, abbigliato con camicia bianca a righe azzurre e semplici pantaloni scuri dalla piega perfetta. Ai piedi, portava dei mocassini di pelle chiara, e sembrava appena essere rientrato da un giro in barca.

Profumava di salsedine e di mare aperto.

“Abbastanza” ammise Atena, tornando a guardare i pinguini, impegnati a sorvolare uno spuntone di roccia il più velocemente possibile.

“Io vengo qui tutte le volte che voglio ricordare mia moglie. E lei?” chiosò con casualità l’uomo, lanciandole un breve sguardo prima di ammirare le evoluzioni degli strani uccelli acquatici.

Un po’ sorpresa, Atena lanciò uno sguardo alla mano sinistra dell’uomo che, in effetti, recava una fede dall’aria antica mentre al mignolo, una più piccola, accompagnava la gemella.

Quel particolare non le parve strano, come se lo avesse già visto da qualche altra parte, anche se non rammentò dove.

Proseguendo, l’uomo mormorò perso nei ricordi: “Morì in barca, circa dieci anni fa. Era così brava nel portare il suo due alberi, ma si avvicinò troppo a una secca e colpì un masso con lo scafo, ribaltandosi. Nella caduta, rimase impigliata nel sartiame e morì affogata. I soccorsi non fecero in tempo a salvarla.”

Atena sospirò spiacente e disse: “Mi dispiace tantissimo. Anche io ho perso mio marito. Morì in un incidente con il surf.”

“Per questo viene qui?” chiese allora lui.

“Sì. Questo posto gli era molto caro, così vengo qui quando mi sento sola. E’ così anche per lei?” gli spiegò Atena, prima di sorridere comprensiva.

Annuendo, l’uomo disse: “Lei amava il mare più di se stessa. Ma mi prendo la colpa di averle insegnato a navigare. Non fosse stato per me, forse ora sarebbe ancora viva.”

“Gli uomini chiedono e gli dèi dispongono” motteggiò amaramente Atena. “Lei desiderava che sua moglie imparasse, ma gli dèi hanno deciso di farle ricadere sulle spalle questo desiderio esaudito. Non dipende quindi da una sua decisione, ma dal modo in cui le Moire vedono il mondo. E cioè in maniera piuttosto ironica e, spesso e volentieri, cinica.”

“Crede nelle Tessitrici dei Destini?”

“A volte” ridacchiò Atena prima di allungare una mano verso l’uomo e dire: “Mi chiamo Atena Parthenos. Molto piacere.”

Sollevando un sopracciglio bruno con evidente sorpresa, l’uomo strinse la sua mano replicando: “Ah, un nome divino, …letteralmente. Io sono Morgan Dark. Piacere mio.”

A quel nome, Atena sorrise bonaria e ribatté: “Anche il suo ha un che di mistico. ‘Uomo venuto dalle oscurità del mare’. E’ poetico.”

“Lo pensava anche mia madre” annuì divertito Morgan, allontanandosi un poco dalla piscina dei pinguini per proseguire il giro.

Al cenno dell’uomo di proseguire, Atena annuì con un sorriso e si mise al suo fianco, cominciando a chiacchierare del più e del meno.

Tra un discorso e l’altro, ammirando di volta in volta scenari sempre nuovi e rammentando episodi ogni qualvolta diversi, Atena parlò a Morgan di Miguel e lui, a sua volta, le raccontò di sua moglie Sophie.

Fu solo verso sera che la coppia uscì dall’acquario e, trovandosi a osservare i colori caldi e infuocati del cielo al tramonto, sorrisero divertiti, dicendo quasi all’unisono: “Tardino, direi…”

Ridendo suo malgrado – era da tempo che non le succedeva –, Atena fissò un istante Morgan e il riflesso dei colori del crepuscolo sui suoi capelli scuri, striati di fili argentati e, colta da un impulso improvviso, gli domandò: “Posso invitarti a cena?”

Sorridendo, Morgan annuì dopo un istante e disse: “Mi hai battuto sul tempo. Se ti va, conosco un localino qui vicino dove servono dell’ottimo pesce appena pescato.”

“Perfetto. Adoro il pesce” annuì Atena.

“Possiamo andare anche a piedi. E’ vicino” le propose lui, offrendole galante il braccio.

Accettandolo di buon grado, Atena si incamminò con lui lungo il marciapiede, avviandosi verso l’interno di Monterey, lasciando che il rumore delle auto lungo la via non la disturbasse come avveniva di solito.

Tutta la sua attenzione era rivolta a Morgan che, con la sua voce suadente da tenore, le raccontò di come avesse scoperto quel piccolo ristorantino assieme alla moglie, una sera in cui pioveva a dirotto.

Impiegarono circa dieci minuti per raggiungere il Bistrot Moulin.

Ristorante francese rinomato nella zona, era caratterizzato da piccoli tavolini con tovaglie allegramente colorate, bandierine francesi appese al soffitto e svariate stampe raffiguranti Parigi, oltre a locandine degli spettacoli del Moulin Rouge.

“Quando entrammo qui, quella volta, gocciolavamo come rubinetti rotti” ridacchiò Morgan nel terminare il suo racconto.

“Immagino” sorrise Atena, subito investita dal profumo di pesce cotto alla griglia e di squisite salsine dagli aromi invitanti.

Guardandosi intorno, ammirò affascinata la sfilata di bottiglie di vino francese scrupolosamente sistemata su alcuni pensili di legno bianco e, scrutando alcuni nomi particolarmente noti, commentò: “Si trattano bene.”

“Amo questo posto anche per i vini” annuì Morgan prima di salutare il gestore del locale e dire: “Bonsoir, Philippe. Hai un tavolo libero per me e la signora?”

“Oh, ma certo, ma certo, signor Dark. Prego, venite” annuì il piccolo proprietario del locale, illuminandosi in viso nel vedere Morgan.

Accompagnata la coppia a un tavolo d’angolo, vicino a una stampa raffigurante Montmartre, monsieur Philippe elencò loro tutta la varietà di piatti sul menù e pubblicizzò in particolare i tagliolini all’astice, di cui il loro cuoco era specialista.

Sorridendo a più riprese di fronte all’espansività del proprietario del locale, Atena annuì ordinando proprio quel piatto assieme a Morgan, che si occupò anche di ordinare del vino adatto all’occasione.

Dopo aver servito loro del fresco Chardonnay e aver portato loro un cestino di pane, il cameriere chiese a Morgan se desiderassero anche degli stuzzichini in attesa del primo piatto. Al suo cenno di assenso, giunsero quindi dei deliziosi amuse bouche di pesce, sistemati in piccole ciotole di ceramica smaltata di azzurro.

Nell’assaggiare il primo boccone, Atena sorrise tra sé, pensando a quanto fosse stata bizzarra quella giornata, e come lo fosse altrettanto quella stramba serata.

 
***
 
Ferma di fronte alla sua auto, gli occhi stanchi e appesantiti dal buon vino, Atena sorrise a Morgan e mormorò: “Grazie per la bella serata, Morgan. Era da tempo che non uscivo con qualcuno.”

“Anch’io. E sono lieto che la serata ti sia piaciuta, Atena” le disse lui, sorridendole benevolmente.

“Spero non ti dispiacerà se però torno a casa da sola” ridacchiò lei, aprendo la portiera dell’auto.

Morgan sollevò un sopracciglio con ironia e celiò: “Oh, beh, mi lusinghi a pensare una cosa simile, ma ho il doppio dei tuoi anni, e non me la sentirei proprio di provarci con te. Anche se, ad aver avuto vent’anni di meno…”

Scoppiando a ridere, Atena sfiorò un braccio di Morgan con la mano e disse per contro: “Devo essere davvero ubriaca per lasciarmi scappare certe frasi.”

“Mi fai temere per te, dicendomi questo” replicò Morgan, tornando serio.

Imitandolo, Atena sorride docile e disse per contro: “Non preoccuparti, non mi succederà nulla. Se preferisci, comunque, posso chiamarti quando arrivo a casa per rassicurarti sulle mie condizioni di salute.”

“Mi piacerebbe” annuì Morgan.

Salita che fu in auto, Atena accese il motore e disse: “Ci vediamo domani, allora.”

“A domani” annuì ancora Morgan, prima di vederla avviarsi verso l’uscita del parcheggio.

Rimasto solo, scrutò i fari sempre più lontani del pick-up di Atena e sussurrò tra sé: “Spero solo che tu capisca.”







____________________________________

Cos'avrà voluto dire, Morgan, con quelle parole???

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Capitolo 2
*** Atena - 2 ***


2.



Atena si stiracchiò svogliatamente, sentendosi più forte e serena di quanto non lo fosse mai stata, in quegli ultimi anni passati senza Miguel.

Con uno slancio tutto nuovo scese da letto, scalciando via le lenzuola e osservando Pallade sul suo trespolo con un sorriso dipinto sul viso.

I fulvi capelli sciolti sulle spalle, la giovane dea si avvicinò alla sua piumata amica per carezzare gentilmente il suo corpicino morbido e, ridacchiando tra sé, disse alla civetta: “Oggi passerò la giornata con Morgan. Non ti pare assurdo che un perfetto sconosciuto sia riuscito laddove nessun altro è mai uscito vittorioso?”

Pallade emise un rauco gracidio di protesta e gonfiò le penne, prima di balzare sulla sua spalla e strofinarsi contro la sua guancia, quasi fosse gelosa del nuovo arrivato.

“Stai tranquilla. Tu sei, e sarai, sempre la prima, nei miei pensieri. Morgan è solo un amico, capito?” la rassicurò lei, carezzandole il becco mentre si dirigeva in cucina per preparare la colazione.

Dopo aver spazzolato una ciotola di corn-flakes con il latte mentre Pallade, nel giardino, si divertiva a cacciare un topolino, Atena indossò una leggera camiciola di lino bianco e pantaloni lunghi fino al ginocchio color kaki. Al tutto, abbinò delle infradito di cuoio con applicazioni di turchese sui lacci.

Stretti i capelli in una treccia singola, che scivolò sulla schiena diritta, Atena fece per richiamare all’ordine Pallade, quando la vide dedicarsi al suo pasto con troppa foga, ma il campanello suonò proprio in quel momento.

Sorpresa, la giovane andò alla porta per aprire e, a sorpresa, si trovò dinanzi Morgan, abbigliato come lei in maniera molto sportiva, con una sahariana color sabbia a maniche corte e pantaloncini al ginocchio.

Ai piedi, indossava delle leggere scarpe da tennis scure, senza calzini.

Atena approvò silenziosamente tra sé prima di sentire, alle sue spalle, lo stridio irato di Pallade che, volandole sulla spalla, fissò astiosa Morgan prima di lanciare un altro grido di protesta.

Allontanandosi sorpreso dall’animale inferocito, Morgan esordì dicendo: “Volevo farti una sorpresa, ma tu l’hai fatta a me. Tieni una civetta in casa?”

“Già” annuì Atena, cercando di chetare il malumore di Pallade. “Non pensavo saresti passato a prendermi. Pallade, smettila di soffiare così!”

Ridacchiando nervosamente, Morgan arretrò ancora di un passo prima di dire: “Non devo starle davvero simpatico.”

“Non ha mai fatto così” esalò Atena, sinceramente sorpresa. “Pallade, torna subito in camera e restaci. Ora esco con Morgan, e dopo riparleremo del tuo comportamento.”

Protestando con un sonoro quanto acuto stridio, la civetta si involò verso la camera e Atena, uscendo di casa dopo aver afferrato uno zainetto, si scusò dicendo: “E’ molto gelosa, devi scusarla.”

“Non pensavo si potesse addestrare così bene un animale come una civetta” chiosò Morgan, dirigendosi con lei verso il suo SUV nero. “L’hai chiamata come l’amica mitologica di Atena?”

“Già” annuì lei, ripensando per l’ennesima volta alla cara Pallade.

Tutte le sue civette si erano chiamate così. Non poteva farne a meno. Anche se non erano mai le stesse e, nel corso dei millenni, se ne erano succedute a migliaia, si erano tutte chiamate Pallade.

Aperta per lei la portiera dell’auto, Morgan attese che fosse salita prima di raggiungere il posto di guida.

Atena, dal suo sedile, lo scrutò curiosa e domandò: “Non hai voluto dirmi dove mi avresti portato, ieri sera. Nessuna anticipazione?”

“No. Voglio che sia una sorpresa” le sorrise lui, mettendo in moto.

“D’accordo” ridacchiò lei, sistemandosi meglio sul sedile e osservando distrattamente la via e le case affacciate su di essa che, sempre più velocemente, scorrevano dinanzi ai suoi occhi eccitati.

Non si sentiva così da tempo, ed era tutto merito di Morgan.

Era comparso dal nulla nella sua vita, riempiendo dei vuoti che la sua famiglia e i suoi amici umani non erano stati in grado di fare, forse perché unico a comprendere il suo dolore e la sua fame di pace interiore.

Non voleva indagare troppo su quel colpo di fortuna, temendo potesse scomparire da un momento all’altro. Voleva solo goderselo.

Parlando di come si fossero trovati bene la sera prima, e di quanto Atena avesse trovato eccellente la cucina, la coppia si ritrovò ben presto nel centro di Monterey ma, neppure lì, Morgan fermò l’auto.

Si diresse verso la baia, come a voler tornare all’acquario ma, all’ultimo momento, risalì la collina lungo Pearl Street e lì Atena, irrigidendosi all’istante, mormorò: “Morgan, cos’hai in mente?”

“Non agitarti. Desidero solo mostrarti una cosa” replicò lui, rallentando fino a parcheggiare di fronte all’entrata del San Carlos Cemetery.

“Non voglio” sbottò lei, stringendo le braccia sotto il seno e mettendo un broncio ostinato.

“Non chiedo altro che un po’ del tuo tempo” la supplicò Morgan, sfiorandole una spalla con la mano calda.

Atena si scostò come si fosse ustionata e Morgan, dopo essere sceso dall’auto, la raggiunse e, aperta la portiera, slacciò la sua cintura di sicurezza e le offrì la mano, aggiungendo ancor più gentilmente: “Voglio solo mostrarti dov’è sepolta mia moglie, poi andremo via.”

“Non… non voglio andare da Miguel, però” sussurrò Atena, a denti stretti.

Sinceramente stupito, Morgan esalò: “E’ sepolto qui anche lui?”

Atena annuì, scendendo da sola dall’auto e tenendosi stretta al petto lo zainetto. Morgan la fissò con sincero dispiacere e le chiese: “Non sei mai andata a trovarlo, dopo la sua morte?”

“Fa troppo male. Ho pagato una fiorista perché mettesse sempre fiori freschi sulla tomba ma io… io…” tentennò Atena prima di appoggiarsi al SUV e chiedere: “… mi reputi insensibile?”

“Sei tante cose, ma di certo non insensibile” le sorrise lui, prendendola per mano e accompagnandola all’interno del cimitero con passo tranquillo.

Tenendo il capo chino e stringendo nella mano libera i lacci dello zainetto, Atena oltrepassò i cancelli d’ingresso prima di lanciare occhiate furtive alle lapidi di marmo. Alte statue di angeli si inframmezzavano a piante ad alto fusto, mentre piccoli gruppi di persone erano intente a pregare di fronte ai propri defunti.

Svoltando sulla destra, lungo un enorme viale alberato, Morgan si diresse verso una serie di cappelle più o meno grandi, che rassomigliavano a piccoli tempietti votivi.

Quando ne raggiunse uno con la statua di una sirena accovacciata su uno scoglio, si fermò e Atena, scrutando curiosa l’insolita raffigurazione, notò ai suoi piedi, scolpita su una lastra di rame, una piccola epigrafe.

“A Sophie, la sirena dei mari più bella che io abbia mai conosciuto” mormorò Atena, prima di vedere Morgan aprire il cancelletto di metallo per entrare all’interno della cappella.

Seguendolo dopo un istante passato a scrutare la bella sirena di marmo bianco, la giovane dea entrò nel piccolo tempietto in stile greco antico e fissò la lapide che nascondeva i resti mortali della moglie di Morgan.

Sgomenta, scorse un nome che conosceva bene.

Seira Enosìctono, detta Sophie. Amata moglie e amica.

Seira.

Chiudendo gli occhi per un momento mentre, alle sue spalle, un’aura a lei ben più che nota faceva la sua comparsa, Atena sussurrò irritata: “Davvero i miei complimenti. Non ti facevo così subdolo.”

“Non si tratta di essere subdoli. Si tratta di essere onesti” replicò una voce alle sue spalle, che nulla aveva a che fare con quella di Morgan.

Volgendosi con gli occhi che sprizzavano scintille, Atena incrociò lo sguardo dello zio e, rabbiosa, esclamò: “Che storia è questa?! Spiegami!”

I capelli sale e pepe erano scomparsi per lasciare il posto a fluenti riccioli castano dorati mentre il volto, dai lineamenti in precedenza poco appariscenti, si fecero decisi, dagli zigomi alti, il naso diritto e il mento volitivo.

Gli occhi, di un acceso azzurro acqua marina, si intrecciarono a quelli grigio perla della nipote, mentre la voce stentorea di Poseidone riprendeva dicendo quieto: “Non c’è nulla per cui essere infuriati, Atena. Volevo solo dimostrarti che anch’io posso capire bene ciò che provi.”

“Seira non è mai stata sposata con te! Seira è diventata donna per amore di un uomo e…” cominciò a inveire Atena prima di bloccarsi di fronte allo sguardo affranto dello zio ed esalare: “…eri veramente tu?”

Poseidone non la ascoltò e, sfiorando la lapide con dita leggermente tremanti, disse: “Voleva diventare umana per potermi amare come solo una donna può fare e io, scioccamente, glielo concessi. Era la mia amica più cara e la donna a cui io tenevo più di tutte. E le ho fatto questo.”

“Come puoi dirlo, dopo… dopo tutte le donne che hai avuto?!” replicò scettica Atena.

“Concedimi le mie debolezze senza crearne altre laddove non vi sono. Amavo Seira di amore sincero, Atena. Non avrei concesso a nessun altro un dono simile, lo sai bene. Quante sirene si sono innamorate dei mortali che vedevano navigare per i mari e tentavano, con i loro canti, di trattenerli nel loro mondo? Quante? E a quante ho dato il dono della mortalità?”

“A nessuna” ammise Atena, più calma, prima di chiedere: “Perché non la salvasti?”

“Perché, semplicemente, non ve ne fu il tempo. Ero sull’Olimpo, quel giorno, impegnato in una discussione con tuo padre, quando l’incidente avvenne. Sai bene quanto il palazzo di tuo padre sia un luogo schermato dalle energie fluttuanti provenienti dal mondo degli umani” le spiegò Poseidone, continuando a fissare la lapide con sguardo perso.

“Sì” sussurrò Atena. Sapeva bene anche lei quanto fosse difficile percepire il mondo dei terreni, dalla casa del padre.

“I delfini accorsero subito per aiutarla, ma non riuscirono a liberarla dal sartiame e, mentre alcune ninfe dei fiumi accorrevano sull’Olimpo per avvertirmi e i tritoni del mare si affrettavano a raggiungere la barca, lei morì” sussurrò Poseidone, chiudendo un momento gli occhi.

La terra tremò leggermente sotto i loro piedi e Atena, volendo scuotere lo zio da quel dolore prima che potesse danneggiare anche gli umani, disse lesta: “Non ne avevi colpa.”

“Le diedi io le gambe per diventare donna. Ho colpa, in questo senso. Ma hai ragione; non decisi io la rotta che tenne la barca” replicò lui, calmandosi subito.

Il tremore cessò e Atena, sospirando pesantemente, domandò: “Vuoi farmi intendere che Miguel non morì per causa tua?”

“Non intervengo più da secoli sulle correnti oceaniche proprio perché ormai troppe navi, e umani, si trovano in loro balia, così lascio che i loro flussi rimangano il più lineari possibili, governati dalle energie del pianeta. Come non decisi io di veder colare a picco la barca di Sophie, così non ho colpa per ciò che successe a Miguel” le spiegò lui, volgendosi completamente verso la nipote. “Non potei fare nulla per lui perché la morte giunse troppo repentina, richiamando Thanatos sul luogo dell’incidente prima che io potessi anche solo chiedere alle Moire di ripensare a ciò che avevano fatto.”

La nipote, sorpresa, esalò: “Tu … chiedesti ad Atropo e…”

“Ci provai, perché sapevo bene il dolore che avrebbe prodotto in te la sua morte. Ma fu troppo tardi. Come lo fu per il tuo bambino. Nessuno di noi sapeva che eri incinta, perciò nessuno di noi poté intervenire per fermare la mano di Thanatos. Ma so che Persefone se ne prende buona cura, nei Campi Elisi. Lo fa giocare con le farfalle e intrecciano spesso corone di fiori per te e Miguel.”

“Lo hai visto?” singhiozzò Atena, con voce rotta.

Annuendo, Poseidone le sfiorò il viso con un dito, con un tocco leggero, prima di dirle: “Cercai di intercedere almeno per lui, visto il suo sangue divino, ma Ade fu lapidario. Il bimbo non avrebbe più potuto abbandonare il suo mondo, anche se figlio tuo. Ma Persefone mi promise che, da quel giorno in poi, se ne sarebbe occupata lei e gli avrebbe parlato di te e di quanto lo amavi.”

Lasciandosi scivolare contro il muro interno della cappella, Atena scoppiò in lacrime ed esalò: “Com’è?”

“Somiglia sia a te che a Miguel. Ha i riccioli scuri di tuo marito e occhi chiari come i tuoi. Ora è un bel bambino di quattro anni” le spiegò Poseidone, piegandosi su un ginocchio per sfiorarle, esitante, una guancia.

Scoppiando in una risatina isterica, Atena fissò la sua mano sinistra ed esalò: “Ora ricordo dove avevo visto portare gli anelli a questo modo. A te! E io che non mi sono mai chiesta cosa rappresentassero. Pensavo fossero semplici orpelli, non fedi nuziali.”

“Non abbiamo mai navigato in buone acque, io e te” abbozzò una risatina lui.

“No. E ora capisco anche perché Pallade voleva cavarti un occhio. Lei aveva capito chi eri, aura o non aura presente” sospirò Atena, sollevando lo sguardo per guardarlo.

Poseidone sorrise lievemente, ma aveva gli occhi lucidi.

Ridacchiando nervosamente, lui commentò: “Le civette non mi hanno mai amato, lo so.”

“Davvero i miei complimenti… Morgan Dark” sussurrò lei, esausta.

“Uso sempre questo nome, quando mi muovo tra i mortali” chiosò lui, sedendosi accanto ad Atena prima di avvolgerle le spalle con un braccio.

Lasciando scivolare il capo contro il torace muscoloso dello zio, Atena sussurrò: “Cosa devo fare, con te?”

“Accettare che non io, ma il Fato, ti ha strappato Miguel e il tuo bambino. E accettare che, almeno su una cosa, possiamo capirci” le spiegò la divinità, carezzandole i serici capelli.

“Non cadrà il mondo se andiamo d’accordo su qualcosa, vero?” cercò di ironizzare lei, pur volendo piangere a dirotto.

“Non credo sia possibile” ammise lui, aiutandola ad alzarsi per abbracciarla forte. “Mi spiace davvero tanto, nipote. Davvero.”

“Ti credo” sussurrò a quel punto Atena, ricambiando l’abbraccio.

 
***
 
Avvolgendola in un abbraccio consolatorio e di benvenuto, Persefone sorrise ad Atena e, accompagnandola lungo un interminabile colonnato circondato da ampie distese di campi fioriti, disse: “Vedrai che sarà contentissimo di vederti. Gli ho mostrato alcune tue foto, e sono certo che ti riconoscerà subito.”

“E… e se non dovesse… se non volesse…” tentennò Atena, prima di voltarsi in direzione dello zio, che le seguiva a pochi passi di distanza, intento a ridacchiare divertito.

“La coraggiosa Atena che vacilla? Non è da te!” commentò ilare Poseidone, dandole una pacca sulla spalla.

Mettendo il broncio, Atena replicò piccata: “Vedi di non tirare troppo la corda, zio. E’ già tanto che ti ho concesso di venire con me.”

“Non ho bisogno della tua presenza per venire a trovare…” cominciò col dire Poseidone, prima di storcere il naso e chiedere: “… gli abbiamo mai dato un nome, a questo bambino?”

Un po’ sorpresa, Atena si fermò a metà di un passo e disse, rivolta allo zio: “Oh, giusto. Tu non sapevi che era stato seppellito vicino al padre, quindi non hai neppure letto il nome sulla lapide.”

Poi, rivolgendosi a Persefone, chiese: “Neppure tu ti sei mai arrischiata a cercare la sua tomba? Anche tu avevi paura della mia reazione?”

Persefone e Poseidone si guardarono imbarazzati per alcuni attimi quando alla fine, tossicchiando, lo zio ammise: “Beh, ecco… ammetto di non aver avuto il coraggio di indagare su dove li avessi fatti seppellire, dopo quanto era successo. Avrei tanto voluto andarci per portare almeno dei fiori, ma…”

“… ma avevi il terrore folle che io mi sarei accorta della tua presenza e avrei tentato di fare delle sciocchezze” terminò per lui Atena, sorridendo benevola. “Hai fatto bene, credimi.”

“Meno male” sospirò sollevato prima di aggiungere malizioso. “Con te non si sa mai come fare.”

“Zio…” ringhiò Atena, aggrottando subito la fronte.

“Muto come una tomba” promise lui, prima di strizzarle l’occhio e chiedere: “Come si chiama, allora?”

“Alekos” disse Atena, con un sorrisino.

“Bellissimo nome, davvero. Gli si addice” assentì Persefone, prima di dire: “Eccolo là.”

Oltre il colonnato infinito – che percorreva in tutta la loro enormità i Campi Elisi – e immerso in un mare colorato di fiori profumati, Atena vide un bimbo dai riccioli scuri e la pelle chiara.

Apparentemente, stava giocando con una farfalla, e scorrazzava allegro tra i fiori, ridendo e sbattendo le mani sopra la testa.

Mordendosi un labbro con aria esitante, mosse il primo passo tra l’erba alta prima di sussurrare: “Alekos…agape1…”

Il bimbo si volse, forse percependo la presenza di qualcuno, forse attirato dal fruscio leggero di quel nome appena sussurrato e, aprendosi in un sorriso, mosse qualche passo verso Atena – le mani protese verso di lei – e disse esitante: “Metera2?”

Annuendo senza riuscire a parlare né a distogliere lo sguardo da lui, Atena gli corse incontro prima di crollare in ginocchio di fronte al bimbo e stringerlo in un abbraccio soffocante.

Ridacchiando divertito quando Atena lo colmò di baci su tutto il viso, il bimbo disse: “Metera, mi fai male.”

“Oh, scusami, tesoro mio” sussurrò lei, allentando un poco la presa prima di affondare il viso nei suoi riccioli. Avevano lo stesso profumo di quelli di Miguel. “Sono solo così felice di vederti.”

“Zia Percy mi ha detto che eri tanto triste perché io ero morto, e non riuscivi a trovare la via per vedermi, così ho aspettato qui tutti i giorni” le spiegò con disarmante semplicità il bimbo, mentre Persefone e Poseidone li osservavano da una certa distanza.

“Hai fatto benissimo, tesoro mio, benissimo” annuì più e più volte Atena, prima di guardare Persefone e dire: “Grazie ancora per quello che hai fatto.”

“Ho solo mantenuto viva la tua presenza per quando fossi stata pronta. Ma sai che non potrà mai abbandonare i Campi Elisi, vero?” le ricordò dolcemente Persefone, sorridendole spiacente.

Annuendo, Atena si sollevò in piedi tenendo in braccio il suo bambino e, con un sorriso, disse: “Lo so. Ma mi basta averlo almeno qui.”

Tutto contento, Alekos strinse le braccia paffute intorno al collo della mamma e disse: “Ora potremo giocare assieme per sempre.”

“Sì, bimbo mio. Per sempre” annuì Atena, prima di chiedere a Persefone: “Ha potuto conoscere suo padre?”

“Come mortale, è giunto qui senza un corpo fisico, quindi no, mi spiace” scosse il capo Persefone.

“Vorrà dire che ti parlerò io, di tuo padre. Ti racconterò tutto di lui” cominciò col dire Atena, prima di iniziare a camminare per il prato assieme al figlio, accoccolato tra le sue braccia e del tutto perso nel suo sguardo.

Fermo assieme a Persefone nei pressi del colonnato, Poseidone ammirò la scena con un sorriso e chiosò: “Dopotutto, non è andata male, no?”

“Mi spiace solo che a te non sia stata concessa altrettanta grazia. Facendo diventare umana Seira, hai perso il diritto di vederla qui nell’Oltretomba” gli disse Persefone, sfiorando comprensiva un suo braccio.

Poseidone scrollò le spalle, commentando: “Mi ripago della perdita guardando loro due.”

“E io vedrò di ricompensare te, fratello, per avermi restituito una figlia che credevo persa” decretò una voce alle loro spalle.

Volgendosi a mezzo, Poseidone sorrise a Zeus che, evanescente come uno spettro e avvolto da una leggera nebbiolina dorata, si avvicinò al fratello sorridendo soddisfatto.

“Non ho bisogno di ricompense, fratello, ma grazie per averci pensato” replicò a quel punto Poseidone quando la proiezione di Zeus lo affiancò.

“Non ti facevo così umile, Poseidone” ridacchiò Zeus, sorridendo maggiormente quando vide Alekos baciare la madre su una guancia.

“Sono in giornata sì, oggi” si limitò a dire Poseidone, prima di correre verso i suoi nipoti e prendere Alekos dalle braccia della madre per farlo volteggiare sopra la sua testa.

“Beh, per una volta non sono dovuto intervenire io” commentò pacato Zeus.

Persefone sorrise prima di domandare curiosa: “Non ti unisci a loro, Sommo Zeus?”

“E rischiare di irritare mia figlia? No. Ha perdonato Poseidone, non il sottoscritto. E io non sono così ardito da mettermi contro una dea irritata con me” ridacchiò Zeus, facendo un gesto vezzoso con la mano prima di scomparire.

Persefone ridacchiò, ipotizzando che il Signore degli dèi fosse ben più che abituato alle ire di una certa dea in particolare e, tra sé, celiò: “Meglio avere un nemico per volta, da affrontare.”

Detto ciò, si incamminò tranquillamente verso i due dèi, impegnati a intrecciare corone di fiori per il bimbo e, a gran voce, disse loro: “Alekos, perché non sali in groppa a zio Poseidone e non ti fai scarrozzare in giro per il prato?”

 
 
 
__________________________
  1. Agape: amato, amore (greco)
  2. Metera: madre (greco)

N.d.A.: spero che questa breve storia, anche se un po' malinconica, vi sia piaciuta.

 

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Capitolo 3
*** Ares - 1 ***


1.
 
 
 
Pallade svolazzava allegra nel giardino, mentre Atena sorseggiava la sua spremuta di frutta sdraiata su una sedia reclinabile, godendosi il sole del meriggio.

Era un febbraio piuttosto caldo, a Monterey, California, e le brezze meridionali portavano con sé l’odore salmastro del mare e la secchezza delle terre a sud.

Forse, quel vento avrebbe anche potuto produrre uno dei catastrofici incendi che tanto stavano facendo soffrire la California in quegli anni, ma Atena non poteva saperlo.

Non era veggente, e consultare l’oracolo di suo fratello per saperlo, le sembrava una sciocchezza. La Pizia aveva altro a cui pensare.

Il suono reiterato del campanello la sorprese e, vagamente indispettita, si domandò chi potesse – di prima mattina – disturbarla a quel modo, suonando alla porta con fare così maleducato.

Balzando in piedi dalla sedia mentre Pallade si andava a posare sul ramo di un sicomoro, Atena rientrò in fretta in casa, borbottando uno scocciato “arrivo, arrivo”, ma il campanello continuò a suonare indisponente.

Irritandosi ulteriormente, Atena raggiunse finalmente la porta e, spalancandola con un diavolo per capello, fissò il nuovo venuto e sbottò dicendo: “Che diavolo hai da… suonare… tanto…”

Le parole le mancarono man mano che i suoi occhi chiari registrarono finalmente chi avesse di fronte e, sbattendo le palpebre più volte, gracchiò: “Ma che ci fai qui?!”

“Posso entrare? Mi sento un tantino idiota, qui fuori, con la mazza in bella vista” sbottò l’uomo dinanzi a lei, in totale abito adamitico e con un diavolo per capello a sua volta.

Beh, forse parlare di uomo era riduttivo visto che l’armadio tutto muscoli che Atena stava guardando con malcelata ironia, altri non era che il Sommo Ares, dio della guerra e padrone di Sparta.

Cercando di trattenersi dal ridere, ma trovando tutta quella situazione paradossale, Atena si fece da parte per lasciarlo entrare e, a mezza voce, domandò: “Scusa l’impertinenza, fratello… ma dove hai lasciato gli abiti?”

L’alto e imponente dio, dalla pelle dorata dal sole e i morbidi riccioli biondi, si avviò verso il piano bar presente nel salone e, sedutosi su un alto sgabello, poggiò il gomito sul ripiano in marmo e borbottò: “Lo sa Zeus, dove possano essere i miei abiti! Afrodite li ha nascosti, poco prima di lasciarmi a mollo nel bel mezzo dell’Oceano, e solo perché ho dimenticato che oggi è San Valentino!”

Atena sbatté le palpebre, sinceramente perplessa, prima di rammentare cosa fosse San Valentino.

“Oh…” mormorò soltanto lei, mentre Ares grugniva un insulto tra i denti.

“Già. Oh. Quella scriteriata di Afrodite l’ha presa così male che mi ha lanciato contro le peggio maledizioni e poi, non contenta, mi ha mollato lì come un imbecille e se n’è andata con il mio yacht!” sbottò il dio, afferrando una bottiglia di scotch tra la ricca collezione di liquori della sorella per scolarsene un poco.

"Ma... e non potevi semplicemente tornartene a casa?" domandò Atena a quel punto.

"Non mi andava. Ero troppo furioso per tornarmene sull'Olimpo, così sono venuto qui."

Aperta poi la bottiglia, non cercò neppure un bicchiere e iniziò a tracannare il liquido ambrato sotto lo sguardo accigliato di Atena che, poggiate le mani sui fianchi, borbottò: “Prego. Fai pure come se fossi a casa tua, Ares.”

“Non fare la bisbetica anche tu, Atty. Ne ho già avuto a sufficienza delle intemperanze di Afrodite, senza dovermi sorbire anche le tue critiche” replicò piccato Ares, sbattendo la bottiglia ormai vuota sul ripiano marmoreo.

Atena cercò di mantenere la calma – era inutile e controproducente discutere con Ares, visto che non era dotato della minima pazienza – e si limitò a dire: “Miguel non aveva la tua possanza, ma posso provare a darti un paio di pantaloncini della tuta. Sono elasticizzati, e coprirebbero almeno le parti interessanti.”

Ares ebbe un impercettibile moto di imbarazzo, a quelle parole, e borbottò: “Non passai a farti le mie condoglianze. Scusa.”

“Non passò nessuno perché io non lo dissi a nessuno, all'epoca” replicò lei, avviandosi verso la sua camera da letto.

Erano passati più di cinque anni dalla morte del marito e, anche grazie all’intervento di suo zio Poseidone, era venuta a patti con la sua dipartita. Grazie a lui, inoltre, aveva scoperto di poter vedere il suo piccolo Alekos nell’Oltretomba e, non di rado, si recava nel regno di Ade per poter giocare con lui.

Quando tornò dal fratello, gli consegnò gli abiti e aggiunse: “Non ero in buoni rapporti con i nostri parenti, all’epoca, e lo sai.”

Lui scrollò le spalle, infilando con attenzione i pantaloni – erano un po’ corti, ma tutto sommato svolgevano il loro lavoro – e, dopo aver fatto lo stesso con la maglietta, borbottò: “Perché, pensi che io sia il più coccolato della nidiata?”

Atena scoppiò a ridere, scosse il capo ed esalò: “Oh, no di certo.”

“Ecco, per l’appunto” chiosò lui, lanciando un’occhiata verso la vetrata che conduceva al giardino. In lontananza, scorse una civetta e, divertito, aggiunse: “E’ Pallade?”

“Sì. Vuoi giocare con lei? Anche se non è il tuo animale, non le stai antipatico” scrollò le spalle Atena.

“E’ una femmina. Troverà di sicuro un motivo per avercela con me” brontolò per contro Ares, pur levandosi in piedi per raggiungere il giardino.

Lasciandosi andare a un risolino, Atena replicò: “Io ti sto aiutando, e sono una femmina.”

“Sei l’eccezione che conferma la regola” sottolineò per contro lui.

Fatta scorrere la porta della vetrata, Ares si sistemò su una sedia di vimini e, sollevata una mano, disse: “Vieni, piccola. Conosciamoci.”

Pallade inclinò la testolina di lato, lanciò un’occhiata dubbiosa alla sua padrona ma, infine, si involò dallo sconosciuto per fare la sua conoscenza.

Ares, allora, le carezzò il petto con un dito prima di passare alla testolina e al becco e Atena, nel poggiarsi contro il tavolino da giardino, mormorò: “Dimenticavo che ci sai fare, con gli uccelli.”

“Gli avvoltoi sono sicuramente più nevrastenici di questa piccolina, ma ci si può anche divertire, con loro” ammise Ares, lanciando un’occhiata distratta al profilo della collina su cui sorgeva la casa della sorella.

Da quella posizione invidiabile, il colpo d’occhio era di prim’ordine.

Lungo i declivi si potevano scorgere solo poche ville e una distesa quasi infinita di vegetazione mentre, in lontananza, il blu delle acque era infinito e splendido.

“Davvero un luogo pacifico. Ma non ti annoi mai, qui?” le domandò Ares, giocherellando con la piccola Pallade.

Atena si guardò intorno, lasciò vagare lo sguardo sull’orizzonte baciato dal sole e, alla fine, ammise: “Non annoiata. Forse un po’ sola, ma Pallade mi aiuta molto. Inoltre, Ermes viene a trovarmi ogni tanto, e le mie visite ad Alekos mi servono per non sentire troppo la mancanza di ciò che ho perso.”

Annuendo, Ares asserì: “Ho visto il ragazzino. Il padre doveva avere bei lineamenti, perché non ti somiglia molto. Anche se gli occhi e la carnagione sono tuoi.”

Atena assentì con un sorriso e replicò: “Sì, Miguel era un bell’uomo, ma era soprattutto un brav’uomo.”

“Lui ti faceva dei regali, per San Valentino?”

La dea scoppiò a ridere, a quell’accenno e, annuendo, asserì: “Erano solitamente dei fiori da piantare, visto che li amo molto.”

Ares scosse il capo, borbottando: “Ad Afrodite non interesserebbero. Lei non ha il pollice verde.”

“Beh, sai, lei ha più affinità col mare, piuttosto che con la terra” sottolineò Atena.

“Quindi, avrebbe dovuto apprezzare la gita in barca! Anche se io non mi ricordavo affatto di questa festività così idiota!” sbottò subito Ares e Pallade, spaventava, volò via.

Atena scosse il capo di fronte agli improvvisi scoppi d’ira del fratello e, battendogli una mano sulla spalla, asserì: “Datti una calmata, Ares, o ti si gonfieranno le vene del collo.”

Lui se lo tastò immediatamente, irritato, e borbottò: “Mi fanno sembrare un toro, e non è una cosa che gradisco molto.”

Nonostante tutto, Atena rise e si disse che, quanto a vanità, Ares e Afrodite si erano davvero trovati. In fede sua, non avrebbe saputo dire quale dei due dèi passasse più tempo davanti allo specchio.

“Senti. Oggi avevo intenzione di andare a trovare Alekos. Visto come stanno le cose, puoi accompagnarmi, così ti calmerai un po’ e, nel frattempo, chiederemo anche a Percy dei consigli su come chetare le ire di Afrodite” gli propose a quel punto Atena, non sapendo che altro fare, col fratello.

Era difficile avere a che fare con lui, ma non se la sentiva di lasciarlo in balia del suo malumore, soprattutto visto che si trovava tra gli umani. Se si fosse lasciato prendere dall’ira, avrebbe potuto spingere intere popolazioni alla guerra, e non era esattamente una cosa positiva.

Gli umani erano molto bravi già da soli, nel complicarsi la vita, e non avevano bisogno delle imbeccate di Ares per farsi fuori a suon di bombe e fucili.

“D’accordo. Tentar non nuoce” assentì lui, levandosi in piedi. Nel farlo, però, le cuciture dei pantaloni cedettero.

Atena sospirò per diretta conseguenza, mentre Ares fissava spiacente il danno e, scuotendo la testa, borbottò: “Forse, prima, dovremo prenderti qualcosa da mettere. Non puoi andartene in giro con le chiappe al vento.”

“Non me ne importerebbe molto, ma non sarebbe carino presentarsi da tuo figlio senza nulla addosso. Qualcosina la so anch’io” chiosò Ares.

“Aspettami qui e fai pace con Pallade, mentre vado a comprarti qualcosa” gli disse a quel punto lei, dirigendosi verso l’interno della casa. “Più di ogni altra cosa, però, non agitarti. Gli umani sono fragili.”

Lui la fissò malissimo, ma replicò: “Sono già stato indottrinato da nostro padre. Mi ha fatto una testa così, e non voglio sentirmelo ripetere ancora. Starò buono. Davvero.”

Ciò detto, si fece una croce sul cuore e Atena, suo malgrado divertita, asserì: “Quel gesto lo fanno i cristiani, sai?”

“Ah… beh, vabbè, hai capito” brontolò lui, sollevando una mano per mandarla bonariamente al diavolo.

Atena lasciò perdere e, dopo essersi fermata a prendere le chiavi dell’auto, raggiunse il suo pick-up per raggiungere in fretta il centro di Monterey.

A volte, è davvero difficile avere a che fare coi parenti, brontolò tra sé, pensando a cos’avrebbe detto la commessa, quando si fosse presentata per acquistare degli abiti da uomo.

Il paese era piccolo e la gente mormorava con nulla. Avrebbero sicuramente pensato che si era trovata un uomo, dopo tanto tempo.

“Beh, che pensino ciò che vogliono” brontolò lei, accelerando.

 
***

Le infradito, forse, non erano le calzature più adatte per visitare l’Oltretomba ma, in tutta onestà, ma niente di ciò che aveva proposto ad Ares dopo avergli fatto indossare maglietta e pantaloncini, era risultato di suo gradimento.

Le ciabatte da spiaggia erano state, per l’appunto, l’ultima spiaggia su cui cadere. Erano l’unica cosa che si avvicinava ai calzari che, ahi lei, esistevano per le donne, ma non per gli uomini.

Sciabattando lungo il viale di colonne che conduceva al prato dei Campi Elisi dove si trovava di solito Alekos, Ares si volse a mezzo verso Atena e disse: “L’ultima volta che l’ho visto, gli ho portato una spada giocattolo e uno scudo.”

“Immaginavo fosti tu, l'autore del regalo. Me li mostrò subito, ma non volle mai dirmi chi glieli aveva regalati. Pensavi non avrei gradito?”

“Sai che ho la sensibilità di una roccia, Atty. Chi capisce come ragiona una donna?” chiosò lui, scrollando le spalle con impotenza.

Lei rise sommessamente, salutò con un cenno Persefone e disse: “Ne hai avuta a sufficienza per pensare di portare un regalino a mio figlio. Dopotutto, non sei messo così male, fratello.”

“Fino a lì ci arrivo anch’io. Ma non chiedermi di ricordare compleanni, onomastici o ricorrenze, perché allora il mio cervello va in tilt. Ricordo solo le date del Sei Nazioni di Rugby.”

Atena lo fissò costernata e replicò: “E perché mai, scusa?”

Ares ghignò divertito e asserì: “Scusa, ma non hai mai visto una partita di rugby?”

“Vagamente” ammise lei, prima di esalare: “Ti piace, perché sono piuttosto… fisici nel corso del match?”

Ares annuì con orgoglio, neanche lo avesse inventato lui, quello sport, e dichiarò: “Al confronto con la lotta greco-romana, che ormai è talmente edulcorata da farmi ridere, nel rugby vedo la vera furia, il vero spirito combattivo.”

“Ma è tutto controllato e regolato, se non erro. Ti sta bene lo stesso?”

“Quando il risultato è così interessante, mi sta bene anche qualche regola d’ingaggio” chiosò lui. “Ehilà, Percy. Sei sempre uno schianto.”

Persefone rise nell’abbracciare entrambi e, accompagnandoli lungo il colonnato, disse: “Le urla di Afrodite si sono sentite fino a qui, sappilo. Ma cosa le hai fatto?”

“Non ho ricordato il San Valentino” brontolò Ares.

Persefone fece tanto d’occhi e Atena rise sommessamente. La cosa era davvero ridicola, secondo quest’ultima, ma con Afrodite tutto era possibile.

A quel punto, mossa a pietà dallo sguardo ferito di Ares, Percy ascoltò le sue lagnanze una a una e, quando infine raggiunsero Alekos, la dea fu ben felice del suo soggiorno semestrale nell’Oltretomba.

Salire sull’Olimpo e ascoltare anche le lagnanze di Afrodite, sarebbe stato troppo anche per lei. Meglio rimanere lì e sopportare solo un dio ferito e irritato.

Metera, ciao! Ciao zio Ares!” esclamò Alekos, giungendo loro incontro da una collinetta vicina, le braccia ricolme di fiori e il capo cinto da una coroncina di campanule.

“Alekos, ciao!” disse la madre, abbracciandolo prima di complimentarsi con lui per l’esecuzione della coroncina.

“Oh, ma non l’ho fatta io. E’ stato zio Ade a farla” rise il bambino, indicando dietro di lui la divinità avvolta in un lungo manto nero che, quatta quatta, stava tentando di sfuggire ai loro sguardi.

Persefone scoppiò a ridere, di fronte a quel goffo tentativo del marito di non essere scoperto a esprimere carinerie al bambino e Atena, divertita a sua volta, esalò: “Zio Ade… non me lo sarei mai aspettato, da te.”

Il dio, vistosi scoperto, rizzò la schiena con regalità e fissando tutti dall’alto al basso, replicò piccato: “E’ pur sempre mio nipote… più o meno, insomma… e sta qui a casa mia, per cui…”

Ares lo bloccò, asserendo serafico: “Ti stai arrampicando sugli specchi e credimi, non funziona, con le donne. Io ci ho rimesso lo yacht e gli abiti.”

“Purtroppo per noi tutti, lo sappiamo. Afrodite ha un timbro vocale che spacca i timpani, e arriva fino a qui” si lagnò Ade, grato per quella via di fuga dall’argomento ‘coroncine di fiori’. “Mi domando come tu possa anche solo sopportarla.”

“E’ brava a…” iniziò col dire Ares prima di voltarsi verso un interessato Alekos, tappargli le orecchie e infine aggiungere: “…letto. E non solo. Sa fare certi giochetti che non starò qui a elencare, perciò il gioco vale la candela.”

Persefone e Atena lo fissarono con sufficienza e Ares, lasciando andare Alekos, borbottò: “Non fate le noiose. Sono cose che valgono, quando decidi di stare con qualcuno.”

“Quale profondità d’animo, fratello” celiò Atena, rimettendo a terra Alekos. “Andiamo a correre per i prati, tesoro. E’ meglio.”

“Cos’ha detto zio Ares, su zia Afrodite?” domandò curioso il bambino.

“Cose che, per il momento, non sei tenuto a sapere” sottolineò la madre, incenerendo con lo sguardo il fratello.

Osservando madre e figlio allontanarsi lungo la collina, Ares borbottò: “Ecco, vedi Percy? Ho ragione io. Le donne si incavolano sempre, con me.”

“Chiedersi come mai, è troppo, per quella tua zucca vuota?” ironizzò la donna, dandogli una pacca sul braccio.

“Se è vuota, come faccio a pensare?” sottolineò per contro lui, facendola scoppiare a ridere.

 
***

Zeus allungò l’ennesimo fazzoletto ad Afrodite, giunta in lacrime al suo tempio non meno di dieci ore prima e, nel sistemarsi meglio il tappo di sughero che aveva nell’orecchio, fissò dolente la moglie in cerca di aiuto.

Era suo compito offrire ospitalità agli dèi tutti, qualora ne avessero bisogno, ma le lagnanze di Afrodite lo avevano così stomacato da obbligarlo a difendere i suoi poveri timpani da quel logorante piagnisteo.

Sua moglie Era, seduta sul suo divanetto preferito, era intenta a lavorare di maglia e, non meno del marito, aveva indossato dei tappi per proteggersi dagli strepiti di Afrodite.

Fu l’arrivo a sorpresa di Artemide che risolse quello stallo senza fine.

Avanzando lungo la navata principale del tempio, gli alti calzari dorati che ticchettavano sul pavimento di marmo bianco, l’alta e forte dea della caccia raggiunse il trittico divino e, dopo essersi inchinata formalmente a Zeus, fissò arcigna Afrodite e sbottò dicendo: “Giuro che, se non ti cuci la bocca, ci penserò io. Non se ne può più dei tuoi strepiti. Hai spaventato tutti i miei animali e, quel che è peggio, le mie capre non fanno più il latte perché sono sconvolte dalle tue urla starnazzanti.”

“Io non starnazzo!” strillò Afrodite, concedendosi un altro attacco di pianto.

Artemide, allora, sbuffò sonoramente, fissò la dea con aria battagliera e, afferratala a un polso, ringhiò: “Vediamo di risolverla una volta per tutte, altrimenti qui dovremo fare tutti trasloco. Sii un po’ più donna di così e ricomponiti, per tutti noi!”

Ciò detto, la trascinò via dal divanetto su cui si era gettata in lacrime e disperata e, protestando contro i modi da cavernicola di Artemide, urlò tutto il suo dolore e la sua mancanza di partecipazione da parte dei parenti.

Solo quando le due dee furono definitivamente all’esterno del palazzo, Zeus si arrischiò a togliersi i tappi ed Era, facendo lo stesso, mormorò: “Credo che farò un regalo a tua figlia. Afrodite avrebbe finito con l’allagare il palazzo con le sue lacrime, di questo passo.”

“Non me lo dire. Ero già pronto a chiamare Poseidone per evitare che vi fossero dei maremoti” celiò Zeus, massaggiandosi i padiglioni auricolari. Tappi o non tappi, la voce squillante di Afrodite uccideva.

“Cosa pensi che farà, ora, Artemide?”

“Conoscendola, penso che le farà un corso accelerato di femminismo, o qualcosa del genere. Lei non ama essere messa in secondo piano dagli uomini, lo sai” scrollò le spalle Zeus.

Sorridendo divertita, Era chiosò: “Povero Ares. Prevedo guai.”




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N.d.A.: era da un po' che volevo riprendere l'argomento divinità, e Ares me ne ha dato l'occasione. 
Questa sarà una cartella che verrà aggiornata ogni tanto, quando dèi ed eroi decideranno che è giunto il momento, per loro, di camminare tra di noi.
Nel prossimo capitolo vedremo cosa combinerà Artemide, e se Ares e Afrodite faranno finalmente pace.

 

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Capitolo 4
*** Ares - 2 ***


 
2.
 

 
Il boschetto che circondava il tempio di Artemide era stranamente silenzioso. Per quanto riguardava gli animali che solitamente lo abitavano, per lo meno.

In realtà, l’unico rumore udibile – o era meglio dire frastuono? – era il pianto dissennato di Afrodite, unitamente agli sbuffi di Artemide e al picchiettare del suo piede a terra.

La dea della caccia era prossima a un attacco isterico, ma non voleva prendersela con un’altra donna, specialmente se ferita da un uomo.

Nel caso specifico, inoltre, sapeva bene che Ares aveva la stessa delicatezza di rinoceronte e il calore umano di un blocchetto di ghiaccio, perciò non era strano che avesse ferito Afrodite.

Quanto al motivo, però, aveva qualcosa da ridire in merito, questa volta. E glielo disse.

“Scusami tanto, Afrodite… ma come puoi pretendere che quel buzzurro di mio fratello si ricordi anche soltanto vagamente di una festività umana? Sai quante ce ne sono?! E quante di queste gli interessano davvero?!”

Afrodite smise di piangere per un istante – le orecchie di Artemide ringraziarono – e la dea della caccia, ringalluzzita, aggiunse subito dopo: “Va ancora bene se Ares si ricorda di scendere da letto, figurarsi il resto!”

“Ma Arty…” mugugnò Afrodite, già prossima a un’altra esplosione di pianto.

“Ah, no, mia cara. Devi darti un contegno, altrimenti cosa diranno coloro che ancora oggi ti elevano a unica incarnazione della bellezza?” sbuffò Artemide, facendo leva sulla vanità smisurata della dea.

Afrodite sgranò gli occhi, a quelle parole, e balbettò: “I miei… fan?”

Grattandosi la fronte per un principio di emicrania – eh, sì, anche agli dèi poteva venire – la dea della caccia si maledisse per quella volta in cui l’aveva portata al Festival del Cinema di Venezia.

Tutti quei luccichii, quello splendore ininterrotto l’avevano travolta, facendole apprezzare le bellezze della città veneta, dopo i tanti secoli passati entro i confini del suo tempio. Ma non era stata tanto l’architettura senz’altro unica della città, ad attirarla.

Le orde di fan che idolatravano attori e attrici, trattandoli alla stregua di divinità, le aveva fatto tornare in mente gli sfarzi del passato, in cui era lei a essere trattata con amore e fedeltà assoluti.

Questo l’aveva portata non solo a provare un istintivo impulso di rivalsa – come osavano, quelle umane, reputarsi belle? –, subito seguito da un istinto ancor più stupido, e molto, molto umano.

Dopo aver chiesto a Hermes, il più esperto tra loro del mondo degli umani, aveva acquistato un cellulare – chi lo sapeva che sul Monte Olimpo c’era campo? – e aveva aperto un account su Instagram.

Da quel che Artemide sapeva, i suoi followers erano più di quattro milioni.

“Senti… non vorrai mica che ti vedano con il naso che cola e gli occhi rossi, vero?” la minacciò neppure troppo indirettamente Artemide, facendola inorridire al solo pensiero.

“Non oseresti mai postare una foto di me come sono ora!” sibilò Afrodite, rizzandosi in piedi e scrutandola con occhi che ribollivano.

Beh, almeno non piange più, pensò tra sé Artemide.

“Potrei anche farlo, se questo servisse a farti riprendere. Afrodite, sei una donna bellissima, con dei figli che ti adorano e ti temono, e un mondo che ancora brama una tua benedizione… cosa che non possono vantare molti di noi, tra l’altro” sottolineò Arty, scrollando le spalle. “Davvero ti lagni se un uomo dalle limitate capacità emotive non ti ha regalato un cioccolatino?”

“E’ una questione di principio! Lui è mio, perciò deve provvedere a me!” sbottò la dea, accigliandosi.

“Ah, desolata di doverti contraddire, ma Ares ha una caterva di amanti, e lo sai bene anche tu. Come te, del resto… e va bene così, amica mia! Non devi farti dire cosa fare da un uomo, e non devi essere succube delle sue attenzioni.”

“Parla quella che ha congelato il suo amante mortale perché non invecchiasse” brontolò Afrodite, con supponenza.

“Non tirare in ballo Endimione, per favore, perché non c’entra niente” sbuffò Artemide, punta sul vivo.

“Le tue figlie sono nate grazie a un uomo perennemente addormentato. Alla faccia della coerenza, tesoro, e del non essere succube di un uomo. Potevi almeno trovartelo che partecipasse attivamente” la punzecchiò Afrodite.

“Tu, brutta…” ringhiò Artemide, balzando addosso ad Afrodite per fargliela pagare.

Ne seguì una colluttazione in cui le due dee cominciarono a tirarsi i capelli, difendersi a unghiate e calci e a insultare l’un l’altra con insinuazioni sempre più becere.

Dal palazzo di Zeus, Era sospirò infastidita, rimise i tappi di ovatta e borbottò: “Come non detto. Col cavolo che regalerò qualcosa ad Artemide. Adesso sono due, a urlare!”

“Lo sai che, quando si tratta di Endimione, non sente più ragioni” replicò pacato Zeus, rimettendosi le cuffie del cellulare.

“E’ una bambina viziata, ecco cosa. Sempre a giocare nei boschi con arco e frecce” si lagnò Era, sferruzzando con fare nervoso.

“E’ la dea della caccia, cara. Che altro dovrebbe fare?” sottolineò Zeus.

Era, però, lo guardò malissimo e, tastandosi un orecchio, urlò: “Non ti sento!”

“Volesse il cielo…” sospirò Zeus, rimettendosi a guardare Big Bang Theory sul suo smartphone.

 
***

Alekos smise di giocare con la sua palla quando, di colpo, nell’Oltretomba si udirono in lontananza le urla concitate di due donne, unitamente a insulti più o meno coloriti.

Peserfone si portò la mano a un orecchio per meglio ascoltare, mentre Atena prendeva in braccio il figlio e Ares accigliava la fronte, preoccupato.

“Ma cosa accidenti sta succedendo?” esalò Persefone, mentre Ade tornava con granatine per tutti.

Il dio dell’Oltretomba si fermò a metà di un passo, ascoltò per alcuni secondi e infine scoppiò in una risata piena di godimento.

“Adoro le donne che si accapigliano!”

“Che cosa?” esalarono sia Atena che Persefone, confuse.

“Bimbe care, è ovvio che non riconosciate le due voci coinvolte. Siete donne, perciò per voi è normale comportarvi così…” motteggiò Ade, guadagnandosi per diretta conseguenza un calcio negli stinchi da Persefone. “Ahia, cara! Ma è vero! Voi non urlate. Voi strepitate come aquile, quando siete furiose.”

“In effetti è vero” sottolineò Ares, prima di impallidire e aggiungere: “Sono Arty e Afrodite, vero, Ade?”

“A quanto pare, se non ho capito male, Afrodite ha punzecchiato Arty per via di Endimione, e sai quanto tua sorella perda le staffe, quando qualcuno lo fa” sottolineò Ade, continuando a rimanere in ascolto di quei suoni cacofonici e sempre più forti.

“Dèi, Afrodite… ma proprio Endimione dovevi tirare fuori?” sbuffò Ares, passandosi esasperato una mano sul viso.

“Zia Artemide e zia Afrodite stanno litigando?” domandò Alekos, dubbioso.

“A quanto pare, sì” chiosò Atena, dandogli un bacetto.

“Sarà meglio che vada, prima che si strappino tutti i capelli. Allora sì che Afrodite sarebbe davvero incontenibile” mugugnò Ares, dando una carezza ad Alekos prima di correre verso l’uscita dei Campi Elisi.

“Dici che zio Ares ce la farà?”

“Lo scopriremo presto. Se il tetto ci cadrà in testa, sapremo che ha fallito, e quelle pazze hanno spaccato in due il pianeta” celiò Ade, guadagnandosi un altro calcio negli stinchi, che portò Alekos a ridere.

Massaggiandosi la gamba dolorante, Ade mugugnò: “Non ti comprerò più le Jimmy Choo, poco ma sicuro. Hanno una punta micidiale.”

“Affari tuoi. E guai a te se mi togli il credito in negozio. Potrei decidere di aizzarti contro le Erinni per puro diletto” lo minacciò Persefone.

Ade allora, sbuffò e, all’indirizzo di Alekos, chiosò: “Stai sempre attento a cosa prometti, ragazzo, specialmente quando c’è di mezzo una donna.”

 
***
 
Ares stava correndo a perdifiato lungo la via principale del villaggio olimpico quando Apollo, uscendo dal suo tempio, non lo bloccò per dirgli: “Spero tu sia qui per fermare quelle due. Non se ne può davvero più.”

“Non potevi fermare nostra sorella?” replicò Ares, accigliandosi immediatamente.

“Mettermi in mezzo a due donne, e per una cosa che non ho scatenato io?” lo irrise Apollo. “Fossi matto. Sbrogliala tu, questa matassa.”

Ciò detto, rientrò nel suo tempio insieme a un insulto di Ares che, ancor più corrucciato, borbottò: “Deimos, Phobos, andate a bloccare quelle due mentre io vado a prendere il necessario per calmarle.”

I due figli apparvero nelle loro nere livree di dèi della battaglia, le enormi ali ad allungare ombre oscure sopra il capo del padre.

“Mamma ci sbranerà vivi, se ci mettiamo in mezzo” protestò Phobos, svolazzando titubante intorno al padre e già pronto a darsela a gambe.

“Per essere la Paura personificata, sei un dannato fifone” ringhiò Ares, allungando il passo e fissando disgustato il figlio.

“Sono previdente, ecco tutto” scrollò le spalle il figlio, sparendo in una nuvoletta dorata.

Ares fissò esterrefatto il punto in cui il figlio era svanito senza altre spiegazioni e, dopo aver smoccolato a gran voce, scrutò Deimos, che era stranamente rimasto, e disse: “Immagino che tu mi aiuterai, allora.”

“Ne approfitterò per chiedere ad Artemide di uscire, tutto qui. Alla mamma penserai tu. Io sto ben lontano dai suoi artigli” ironizzò Deimos, involandosi verso il tempio di Artemide.

Ares, allora, smoccolando un altro po’ all’indirizzo dei due figli irrispettosi, si fermò nel magazzino delle armi di Efesto e, senza chiedere il permesso, prese per sé una delle reti di Artemide, capace di bloccare uomini e dèi.

Ciò fatto, si trasmutò nei pressi del tempio di Artemide – era impossibile trasmutarsi all’interno di qualsiasi edificio olimpico, ma solo all’esterno – e, quando riprese corporeità, grugnì: “Ma perché hanno fatto le corde vocali alle donne?”

Gli strepiti erano così forti, nei pressi del tempio, che era quasi impossibile udire altro rumore a parte il loro gracchiare e urlare imprecazioni.

Da quel che poteva sentire, inoltre, Deimos sembrava avere serie difficoltà a trattenere Artemide, che lo stava ingiuriando a male parole per la sua villania.

“Di male in peggio…” brontolò Ares, svoltando l’angolo per infilarsi nel bosco sacro ad Artemide.

Lì, infine, le trovò, avvinghiate tra loro e più simili a un polipo gigante, che a due donne adulte.

Suo malgrado, anche Deimos era finito invischiato in quella miscellanea di gambe e braccia e, a giudicare dall’aria sofferente, una delle due donne lo stava malmenando, o anche peggio.

Non potendo fare altro, Ares lanciò la rete e, come sommerse da un peso insopportabile, le tre creature divine vennero schiacciate a terra, finalmente separate tra loro e impossibilitate a muoversi.

“Liberami subito! Non hai il diritto di usare le mie reti!” gli urlò contro Artemide, inviperita.

“Non appena vi sarete calmate, signore, vi libererò. Per il momento, chiudete le vostre malsane boccucce e ascoltatemi” ringhiò per contro Ares, fissando malamente la dea della caccia e, subito dopo, Afrodite.

Notando finalmente come fossero conciate, e quali strascichi avessero lasciato le loro unghiate e i loro calci, Ares si chetò un poco e aggiunse: “Lascia che ti curi, agape. Non vuoi davvero che io ti dia il tuo regalo, così conciata, vero?”

“Un… regalo?” esalò Afrodite, illuminandosi tutta e calmandosi completamente.

Ares ghignò soddisfatto e annuì, sollevando poi cautamente parte della rete per liberare Afrodite.

Questa, balzò subito in piedi e lo abbracciò ma, memore del motivo dello scontro, si scostò l’attimo seguente per ingiuriarlo a male parole.

Lui la azzittì con un dito poggiato sulle labbra e, sorridendo malizioso, mormorò: “Sai che non mi intendo di feste umane, bimba mia… devi lanciarmi dei segnali, se vuoi che io ci arrivi per tempo.”

“Ma te li avevo lasciati!” protestò Afrodite.

“E cosa, di grazia?” volle sapere Ares, sinceramente confuso.

“I cioccolatini, è ovvio” sottolineò lei, piccata.

Ares si massaggiò pensieroso il mento, non ricordando affatto di aver mangiato cioccolatini, nei giorni precedenti a quel disastro.

Un dubbio, quindi, gli serpeggiò nella mente e, cominciando a irritarsi, lanciò un’occhiata a Deimos e ringhiò: “Tu e tuo fratello… nei giorni scorsi eravate a casa mia. Che avete combinato, mentre io ero da Dioniso per una bevuta?”

Deimos impallidì visibilmente e mormorò: “Io non c’entro. E’ stato Phobos a entrare nella tua stanza per rubarti la spada. Non sapevo che avrebbe preso anche dell’altro!”

“La mia spada?!” ringhiò furioso Ares.

“I miei cioccolatini!?” strillò nel frattempo Afrodite.

“Mamma, giuro, non c’entro nulla con i tuoi cioccolatini” si lagnò Deimos, tremando come una foglia.

“Più che Terrore, sei terrorizzato” lo prese in giro Artemide, fissandolo ghignante.

“Della mamma quando si infuria? Sempre” sottolineò Deimos. “E’ da lei che prendo ispirazione.”

“Buono a sapersi” sorrise melliflua Afrodite, e Deimos tremò.

Ecco. Sarebbe stata una di quelle volte.
 
***

Persefone lanciò un’occhiata esasperata al soffitto, quando gli strilli di Afrodite tornarono ad ammorbare l’aria con un sottofondo di insulti più o meno comprensibili.

Ade, a quel punto, rise di puro piacere e Atena, sbuffando contrariata, esalò: “Ma che combina, Ares? E’ così difficile dare una ghirlanda di fiori ad Afrodite?”

“Oh, gliel’ha data, e se ne compiace molto, visto che perde anche del tempo ad ammirarsi in ogni specchio disponibile. Il punto è un altro” ciangottò tutto soddisfatto Ade, ascoltando il rimescolio di voci che giungevano dal Monte Olimpo.

“E quale sarebbe?” domandarono in coro Atena e Persefone.

“Afrodite sta dando la caccia a Deimos e Phobos, rei di aver mangiato i cioccolatini che lei aveva regalato ad Ares” spiegò loro il dio, scoppiando in un altro accesso di risa.

Le due dee si fissarono basite quando, a sorpresa, una decina di nuvolette dorate comparvero sopra le loro teste.

Uno a uno, gli dèi olimpici comparvero nel regno dell’Oltretomba e Ade, avvicinandosi al fratello Zeus, che sembrava alquanto provato, ghignò divertito e domandò: “Ti sei auto-esiliato?”

“Ho pensato che potevamo fare una festa per Alekos. E’ un po’ di tempo che non ne organizziamo una, e gli altri si sono voluti accodare” tergiversò Zeus, salutando poi allegramente il nipote.

Ade sghignazzò e si limitò a dire: “Mando a chiamare Tisifone e le altre. Come band rock, non le batte nessuno.”

Zeus si dichiarò d’accordo e Atena, nel vedere il figlio così felice, non poté che rallegrarsi per quel piccolo cambio di programma.

Nel vedere tornare anche Ares, però, si sorprese non poco e, affiancatolo, gli domandò: “Ma come? Non sei rimasto per fermare Afrodite?”

“Fermarla? Per niente. Quei due traditori mi hanno cacciato in questo guaio, e loro pagheranno con un bel servizio total body fatto da mammina” ghignò Ares, tutto soddisfatto.

Sollevando un sopracciglio con aria evidentemente confusa, Atena esalò: “In che senso, scusa?”

“Credo che Afrodite abbia parlato di ceretta” le spiegò lui, prima di dare il cinque a Dioniso, già pronto a fare baldoria.

Atena, allora, fissò il soffitto con aria dolente e chiosò: “Poveri ragazzi.”







N.d.A.: visto che la storia di Atena era un tantino malinconica e triste, ho pensato che quella di Ares dovesse essere più pimpante e divertente. In ogni caso, se siete preoccupati per Atena e la sua felicità, ho già pensato a qualcosa per lei.
Per ora, spero che vi siate divertiti a leggere queste avventure. 

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Capitolo 5
*** Erebos - 1 - ***


Érebos – 1

 

 

 

 

Alekos stava saltellando allegramente per il prato, mentre alcune farfalle danzavano attorno a lui, gli uccellini cinguettavano lieti e le fontane zampillavano, gorgogliando.

Atena osservava l’intera scena con aria persa, godendosi il fresco perenne dei Campi Elisi e l’aria di assoluta serenità di quei luoghi.

Sapeva che non era come il mondo terreno, dove brillava il sole, un vento reale ti schiaffeggiava il viso e la neve poteva ammantare ogni luogo, rendendo tutto ovattato e romantico.

Il solo fatto di poter passare del tempo con Alekos, comunque, era di per sé già un dono, e Atena era abbastanza onesta da essere contenta di poter avere almeno questo.

Nessun essere umano poteva contare su simili grazie.

Dei passi leggeri alle sue spalle la portarono a volgere lo sguardo e, non senza sorpresa, vide comparire la figura leggiadra e di nero vestita di Nyx.

La dea della Notte, divinità Ctonia figlia di Caos, era stata la più reticente tra tutte, a presentarsi al suo cospetto, da quando aveva avuto la possibilità di vedere Alekos nell’Oltretomba.

Forse, o almeno Atena così pensava, perché ad aver reciso il filo della vita di Miguel e Alekos era stata una delle sue figlie. Atropo.

Quando finalmente Nyx si era decisa a presentarsi al suo cospetto, lo aveva fatto con il capo velato, penitente e con lo sguardo basso.

Atena, però, aveva passato da tempo il periodo in cui aveva ingiuriato le Moire e il loro destino beffardo e crudele e, quando l’aveva vista, si era limitata a liberarle il volto dal velo scuro per baciarle le guance.

Ne aveva accettato le scuse – persino Thanatos aveva tentato di farle capire il perché non avesse potuto evitare di fare ciò che aveva fatto – e Atena l’aveva infine spinta a tornare a trovare Alekos.

Desiderava che il figlio conoscesse tutta la sua immensa famiglia immortale, perché non fosse mai solo e si sentisse amato e protetto da tutti coloro che lo circondavano.

L’unico, a ben vedere, a non farsi mai vivo al suo cospetto, era stato Érebos, il compagno di Nyx e, a sua volta, padre di Atropo. Del vecchio amico, non aveva notizie da anni.

“Buongiorno, Nyx. Qual buon vento ti porta qui?” esordì Atena, invitandola a sedersi accanto a lei sul prato.

Nyx le sorrise timida e annuì, accogliendo l’invito e, dopo aver sistemato la lunga veste scura – su cui Atena poteva scorgere il cielo stellato che vedevano gli umani ogni notte – disse: “Per la verità, volevo sapere se potevi farmi un favore.”

Sorpresa, Atena domandò: “Dimmi pure. Cosa potrei fare per te?”

“In realtà, non è niente di così terribile o complicato. Solo, non so se vorrai farlo” tentennò Nyx, giocherellando nervosamente con le mani.

Sempre più confusa, la dea della guerra e delle arti inclinò il capo fulvo – quel giorno, le morbide chiome erano rilasciate sulle spalle in onde dorate e che le giungevano fino alla vita – e domandò ancora: “Cosa stai cercando di non dirmi, Nyx?”

Sospirando, la dea della Notte allora mormorò: “Si tratta di Érebos. Credo sia molto depresso. O meglio, è oltre la depressione già da tempo, e credo che mediterebbe anche al suicidio, se non fosse che è una divinità Ctonia.”

Atena fece tanto d’occhi, a quella notizia, ed esalò: “Sono anni che non lo vedo, Nyx. Come pensi che, il mio contributo, possa servire a strapparlo all’inedia e al dolore?”

“Beh, ecco… si duole per ciò che è successo ad Alekos e Miguel. Non ha mai superato il fatto che Atropo abbia fatto ciò che ha fatto, e… insomma…”

Atena sorrise tristemente e replicò: “Per questo è l’unico dio che non è mai venuto qui? Persino Thanatos mi ha avvicinato per scusarsi, pur sapendo bene che sono cose che avvengono indipendentemente da tutto. Se riceve l’impulso, lui deve farlo, come qualsiasi altro dio.”

“Érebos non si dà pace per le azioni di nostra figlia e, anche se io gli ho detto che tu hai perdonato Atropo, non riesce a farsene una ragione” le spiegò lei, sospirando e scuotendo il capo per la sofferenza.

Atena, allora, le sfiorò una spalla con la mano, sorrise e disse: “Proverò a parlarci io, a costo di tirarlo fuori dal buco in cui si è infilato per farlo rinsavire a suon di pugni. Sono pur sempre la dea della guerra, no? Uno stratagemma saprò pur idearlo.”

Nyx la abbracciò con calore e mormorò: “Ti ringrazio, Atena. So di chiederti molto, ma non saprei a chi altro chiedere, se non a te. Lui ti vuole tanto bene!”

“E io a lui, per questo ti aiuterò” la rincuorò Atena, sollevandosi e chiamando a sé Alekos.

Il bambino, di ormai sette anni, trottò da lei agilmente, i bei capelli scuri che ricadevano in riccioli morbidi sulle sue spalle.

Con un certo divertimento da parte di Atena, il corto spadino che Ares gli aveva regalato era ben legato in vita grazie a una cinta di pelle dono di Artemide, e Alekos non lo abbandonava mai.

Tra tutti gli dèi, Ares era quello che maggiormente lo aveva preso sotto la sua ala, addestrandolo e istruendolo nelle arti della guerra, ma senza sconfinare nel macabro.

Atena si era sorpresa di questo lato tenero nel fratello, ma Afrodite gli aveva confidato quanto, la morte di Alekos, lo avesse a suo modo sconvolto.

Pur se avevano sempre litigato come cane e gatto, contrapponendosi in ogni guerra che veniva combattuta in loro nome, Ares le aveva sempre voluto bene, e quella disgrazia lo aveva toccato nel profondo.

Proprio per questo, si era preso l’impegno di essere come un padre, per Alekos, e il bambino gli si era davvero affezionato molto.

“Mamma si deve assentare per un po’, ma Nyx rimarrà qui a farti compagnia, va bene?”

Alekos assentì obbediente e, scrutando la bella dea della Notte, le domandò: “Puoi insegnarmi le costellazioni? Zio Ares dice che è importante conoscerle, perché ci indicano la via, durante la notte, senza avere bisogno dello smartphone.”

Atena rise a quell’accenno – purtroppo, nell’Oltretomba non c’era campo, ma Ares gli aveva comunque mostrato il suo cellulare – e Nyx, annuendo divertita, asserì: “Sarò onorata di spiegarti i flussi delle stelle e le costellazioni nel cielo, Alekos. Se prendi carta e penna, possiamo fare delle riproduzioni, così sarà più semplice.”

Il bambino assentì felice e corse verso il gazebo dove teneva le sue cose scolastiche – per essere un ragazzino di sette anni, conosceva più cose di qualsiasi umano adulto – e Atena, con un sorriso, si allontanò.

***

L’accesso al centro della Terra, dove si trovava lo studio di Érebos, era raggiungibile tramite una lunga scala a chiocciola circondata perennemente dalle nebbie.

Atena la imboccò senza alcun problema, essendovi stata diverse volte, in gioventù.

Non la infastidiva la sensazione di umidore sulla pelle, visto che la nebbia era tiepida e piacevolmente profumata.

Si discostava di molto dalle esalazioni metifiche e dal fetore sulfureo del Tartaro. Quello sì che era un luogo da cui stare ben lontani!

Continuando a discendere in quel luogo senza dimensioni – le nebbie erano abbastanza fitte da non far percepire il baratro in cui ci si stava inoltrando – Atena cominciò a contare i gradini uno a uno.

Sapeva bene o male di doverne conteggiare tremila, gradino più, gradino meno. Così facendo non si sarebbe persa, evitando di finire al centro della Terra invece che nello studio dove lavorava Érebos.

Questo le diede il tempo di ripensare alle parole di Nyx e al suo disperato tentativo di salvare il fratello dall’autodistruzione – impossibile, per un dio, ma comunque assai dolorosa da sopportare, se protratta in eterno.

Come spiegare a Érebos che non aveva animosità nei suoi confronti, e che aveva parlato anche con Atropo, venendo a patti con ciò che aveva fatto?

Ciò che la dea dell’ineluttabilità le aveva confessato non avrebbe potuto portargli alcun conforto – anche perché aveva trovato oscure le sue parole. Inoltre, la segretezza era un vincolo, in quel caso.

Nessuno poteva conoscere il Fato di un altro, e ciò che le aveva detto Atropo avrebbe anche potuto costarle la divinità, o peggio. Destabilizzare gli equilibri del Cosmo.

Ben sapendo quanto fosse un pericolo reale, Atena si era attenuta al più stretto riserbo e, già da due anni, teneva dentro di sé quel segreto oscuro e incomprensibile.

La via è lunga e perigliosa, affrontata solo una volta e una volta fallita.

Che mai avrebbero potuto voler dire, quelle parole?

A distanza di tempo, non le aveva ancora comprese, ma era inutile rimuginarci sopra, poiché ciò che non sapeva non poteva essere di aiuto a Érebos per uscire da quell’antro senza fondo.

Quando infine raggiunse i tremila gradini, Atena allungò una mano nella diafana consistenza nebbiosa e, subito, un cancello dorato apparve dinanzi a lei, rischiarando l’ambiente.

Tutt’attorno a lei divenne visibile un piccolo tempio dagli alti colonnati e il simbolo di Érebos sulla parte centrale del frontone; una falce di luna in un cielo nero.

Atena varcò il cancello senza ulteriori indugi e, dietro di lei, la nebbia inghiottì le scale, che divennero subito invisibili al suo sguardo.

Ora, ai suoi occhi chiari era permesso di vedere unicamente il tempio e il cortile antistante.

Atena, però, non si fece distrarre da quell’insolito straniamento spazio-temporale e, avanzando a grandi passi, penetrò nel pronao e si diresse verso la biblioteca del dio.

I suoi passi rimbombarono nel tempio spoglio, rischiarato solo da rade torce.

La struttura in marmo bianco ricalcava in massima parte l’architettura greco-dorica, anche se alle pareti Atena poté notare delle stampe moderne e degli arazzi medievali.

Evidentemente, Érebos doveva essere salito in superficie diverse volte, nel corso dei millenni, per visitare librerie e antiche biblioteche, la sua vera passione.

Quel luogo trasudava cultura e amore per le arti in ogni suo più piccolo scorcio, e denotava altresì la cura e la passione con cui il padrone di casa se ne prendeva cura.

Quando Atena raggiunse infine lo studio del dio Ctonio, non fu perciò sorpresa di trovarlo sommerso di libri.

Quello che, piuttosto, la sorprese, fu la quantità di tomi presenti tutt’attorno alla divinità, un tantino più esagerata rispetto a quella che si sarebbe aspettata. Anche da uno studioso suo pari.

Le sembrava di scorgere Gandalf immerso nella biblioteca di Minas Tirith, nel famoso La Compagnia dell’Anello, uscito diversi anni prima al cinema, e che lei aveva visto con piacere.

Le colonne di libri, pergamene e appunti sparsi per l’ampio studio era assai ragguardevole, e l’odore delle candele ammorbava l’aria con i suoi aromi di cera d’api e olivo.

Dando due colpetti alla porta aperta, giusto per annunciarsi, Atena esordì dicendo: “Érebos, posso entrare?”

La sua voce parve raggiungerlo come al rallentatore. Il suo corpo ricurvo si mosse con lentezza anomala, come se fosse stato immerso interamente nella melassa e non fosse in grado di compiere movimenti coerenti o fluidi.

Atena sollevò un sopracciglio con evidente curiosità, di fronte a questa evidente anomalia e, quando vide finalmente il volto di Érebos nella sua interezza, comprese perché Nyx si fosse preoccupata.

Aveva sempre ritenuto il dio della notte uno degli uomini più belli che si fossero mai visti sul pianeta – così come nei vari pantheon –, perciò la dea della guerra trovò assolutamente sconvolgente quel volto smagrito, pallido e coperto da barba folta e ispida.

Sembrava come svuotato di ogni luce di vita. La sua pelle naturalmente eburnea appariva smunta e quasi grigia e gli occhi, che erano sempre stati blu come il cielo prima del sopraggiungere della notte, erano spenti e opachi.

“Érebos… ma cosa ti sei fatto?” esalò lei, raggiungendolo in poche falcate mentre lui tentata a fatica di sollevarsi dalla sedia su cui, presumibilmente, era rimasto seduto per mesi interi.

“Atena…” mormorò lui, la voce roca e irruvidita dalla disabitudine a parlare. “…ce l’ho fatta.”

“A fare cosa?” replicò la dea, sorreggendone tutto il peso. Le dava l’impressione che un solo alito di vento avrebbe potuto spazzarlo via.

Lui si limitò a un mezzo sorriso e, senza dare nessun avviso ad Atena, svenne.

***

Érebos riaprì gli occhi molto tempo dopo e, nel fissare il soffitto a botte della sua stanza, si chiese confuso come vi fosse giunto.

Non ricordava molto di ciò che era avvenuto nell’ultimo periodo. Sapeva soltanto di aver passato mesi nel suo studio, senza mai muoversi per… per…

“Alekos” mormorò il dio, balzando a sedere.

Solo in quel momento si accorse di essere steso sul suo enorme letto, con un pigiama pulito addosso e – tastandosi il viso – senza la barba sempre più lunga che aveva invaso il suo volto in quel lungo periodo di isolamento forzato.

Atena entrò in quel momento in camera, un vassoio tra le mani e, vedendolo desto, sorrise e disse: “Bene… chi non muore si rivede.”

Lui la fissò stranito per alcuni attimi prima di rammentare il suo arrivo nello studio e il suo tentativo, a quanto pareva fallito, di parlarle della sua scoperta.

“Atena… sei stata tu a…”

Lei accentuò il suo sorriso e, nei suoi occhi chiari, comparve lo scintillio di un pensiero malizioso, cui Érebos rispose con una risatina.

“Immagino di sì, visto che Nyx non è qui a prendermi per i capelli, o a insultarmi in tutte le lingue del mondo.”

“Tua sorella è preoccupata per te. E, da quel che ho visto, aveva ragione. Ti sei ridotto uno straccio. Sono otto giorni che deliri” sottolineò Atena, sgomentandolo.

Otto… giorni?” gracchiò lui, incredulo. “Sono otto giorni che ti prendi cura di me? Non avresti dovuto!”

“E perché mai? Sei mio amico, Érebos, e non è stato affatto un problema prendermi cura di te” replicò la dea, fissandolo con tranquillità.

“Il tuo unico pensiero deve essere Alekos” sottolineò lui, accigliandosi.

Atena sorrise divertita per diretta conseguenza e, poggiato che ebbe il vassoio sul comodino di legno scuro, la dea si accomodò sul bordo del letto e mormorò: “Alekos ha capito la situazione, e mi ha pregato di prendermi cura di te.”

Quelle parole ebbero l’effetto di spezzare il fragile autocontrollo di Érebos che, senza poter impedire a se stesse di farlo, scoppiò in un pianto silenzioso che sorprese la dea.

Atena lo guardò senza comprendere quel cedimento improvviso, ma furono le parole del dio a sciogliere ogni dubbio.

“Non merito la sua bontà. La mia famiglia ti ha tolto così tanto, e ha tolto così tanto a lui… eppure è sempre così dolce con me. Nyx mi porta ogni volta le ghirlande che lui fa per me, oltre ai suoi inviti a giocare nel prato dei Campi Elisi… ma io non ne ho mai avuto il coraggio” singhiozzò dolente il dio, tergendosi il viso con gesti nervosi.

Atena comprese così il perché di alcune ghirlande rinsecchite presenti nello studio – ora nuovamente accessibile e più ordinato – e, sorridendogli comprensiva, gli carezzò il capo e disse: “Ho parlato con Atropo, Érebos. Va tutto bene. Né io né Alekos siamo adirati con lei, o con te. Sappiamo che certe cose vanno come vanno per un motivo, anche se al momento può risultarci oscuro.”

“Lei… vi siete parlate?” esalò il dio, sospirando pieno di sorpresa.

La dea assentì, ovviamente mantenendo il segreto sulle sue parole, e disse soltanto: “Lascia perdere questo esilio volontario. Non ne giova nessuno.”

“Aveva uno scopo, anche se non ho potuto dirtelo subito, e hai dovuto occuparti di un relitto quale mi ero ridotto” replicò lui, afferrandole una mano per portarsela al petto con affetto.

Lei accennò un sorriso e lasciò la mano dov’era. Érebos e lei avevano un rapporto profondo e lungo millenni, e non le spiaceva che venisse rinsaldato.

Inoltre, da quello che Nyx non le aveva detto, era una cosa che anche a lei avrebbe fatto piacere, oltre che a Érebos stesso.

Da quando era morto Miguel, non aveva più pensato a nessun uomo – o dio – come a un potenziale partner di vita. La sua mancanza, semplicemente, le aveva riempito il cuore di ghiaccio.

Rivedere Poseidone e scoprire la sua triste realtà, oltre alla presenza nell’Oltretomba del suo Alekos, le aveva permesso di superare lo scoglio della morte di Miguel.

Da quel giorno, era tornata a sorridere e, poco per volta, era tornata la se stessa di un tempo.

Aveva ripreso i contatti con la famiglia di Miguel, e si era recata più volte a Sacramento, presso la loro abitazione, per festeggiare il Cinco de Majo piuttosto che il Dia de Muertos.

Anche questo l’aveva aiutata a ritrovare un equilibrio e, grazie a queste novità nella sua vita, era riuscita a fare visita alla tomba di Miguel con il cuore più sereno.

A volte, passava ore intere a raccontargli del loro Alekos, e di come fosse amato e benvoluto da tutti.

Sapeva bene che la sua voce si perdeva semplicemente nel vento senza mai raggiungere il suo Miguel, ma era confortante poterlo fare.

Quando, perciò, aveva parlato con Atropo e Nyx, era riuscita a essere coerente con se stessa e obiettiva riguardo a ciò che era avvenuto. Non v’era stata alcuna colpa, nessun desiderio di ferire, ma solo il dipanarsi del Fato nudo e crudo.

Sapere di Érebos l’aveva quindi intristita e, quando l’aveva trovato così provato e infiacchito dall’esilio, non aveva potuto che prendersi cura di lui.

Avere a che fare con un uomo dopo tanti anni era stato strano, per lei, ma l’affetto aveva ben presto preso il sopravvento sull’imbarazzo e la disabitudine.

In qualche modo, tra i frequenti stati di delirio, era anche riuscita a far mangiare Érebos e, dopo otto giorni di riposo, egli aveva ripreso il vigore di un tempo e la sua bellezza quasi imbarazzante.

I fluenti capelli neri, non più ingrigiti dalla debilitazione, erano nuovamente morbidi e arricciati sulle punte e i suoi occhi blu riflettevano le stelle del cielo anche in quell’antro profondo e buio.

“So cosa fare. Per Alekos” disse infine Érebos, sorprendendola e strappandola a quei pensieri errabondi.

“Come?” esalò la dea, irrigidendosi leggermente.

Lui assentì e, scivolando fuori dal letto dalla parte opposta rispetto ad Atena, rise e chiosò: “Ah… hai trovato i miei pigiami di Valentino?”

“In effetti, mi hai stupito. Non sapevo fossi così modaiolo” ironizzò lei, levandosi in piedi a sua volta.

“Sono morbidi sulla pelle” si limitò a dire lui, oltrepassando l’enorme letto per raggiungerla e afferrarle una mano. “Vieni con me. Ti mostrerò ciò che ho scoperto.”

Lei lo seguì senza protestare e, quando raggiunsero lo studio, Érebos ebbe nuovamente di che stupirsi e di che essere grato ad Atena.

Sorridendole pieno di gratitudine, mormorò: “Credo che non sia mai stato così in ordine, o pulito. Non dovevi. Davvero.”

“Ero qui. Comunque, ho solo messo le cose in ordine e le ho spolverate, ma non le ho spostate da come le avevi impilate, così sarebbe stato più semplice riprendere i tuoi studi” si limitò a dire lei, grata a Érebos della stretta alla sua mano.

Era piacevole sentire il suo calore.

Il dio allora entrò con lei nello studio e, indicandole una pergamena arrotolata sulla scrivania nuovamente linda, disse: “So come salvare Alekos da questo mondo.”

“Cosa?” ansimò lei, impallidendo leggermente. “Ma non può…”

Lui scosse il capo, le afferrò le spalle pieno di speranza e ripeté: “Possiamo riportare Alekos nel mondo dei vivi.”

Lacrime copiose riempirono gli occhi chiari di Atena che, con la voce spezzata dall’emozione, esalò: “Ma è… è morto. Non può più uscire da qui.”

“Euridice, pensa a Euridice” le rammentò il dio, facendole sgranare gli occhi.

“Ma lui non è mai vissuto, Érebos. E’ nato morto, perciò non ha vissuto una vita come Euridice” replicò lei, non volendo aggrapparsi a nessun tipo di speranza. Sarebbe stato troppo doloroso crederci, per poi scoprire che non era vero.

“Sì, lo so, … ma pensaci bene. Tuo figlio è vissuto per otto mesi nel tuo grembo, amato e coccolato. Respirava e viveva attraverso te perciò, in linea teorica, può essere considerato una creatura vivente a tutti gli effetti, anche se non ha mai camminato su questa Terra. Essendo figlio di una dea, inoltre, ha maggiori possibilità di riuscita rispetto a Euridice.”

Atena serrò gli occhi, scosse il capo e non riuscì a impedirsi di piangere così Érebos, stringendola in un abbraccio consolatorio, mormorò contro la sua chioma ramata: “Scusa se ho impiegato tanti anni a scoprire cosa cercare, e come cercare.”

“Sei sicuro che funzionerà?” singhiozzò la donna, scostandosi per scrutarlo con impazienza e dubbio insieme.

“Solo tu potrai scoprirlo, perché la parte più difficile spetterà a te” sospirò Érebos. “Dovrai percorrere il Sentiero di Orfeo.”

Atena sgranò gli occhi, atterrita, e ripensò alle tragiche vicende dei due amanti.

Euridice era morta per il morso di un serpente e Orfeo, pazzo di dolore per lei, era riuscito a commuovere i signori dell’Oltretomba e le stesse Erinni, con le sue melodie strazianti.

Gli era stato perciò concesso di raggiungere l’Oltretomba e di percorrere a ritroso il sentiero, conducendo con sé l’anima di Euridice. Gli era stato però ingiunto di non guardarla mai, e a ciò si era attenuto… fin quasi alla fine.

La foga di rivedere l’amata lo aveva tradito, però, e l’anima di Euridice era stata risucchiata nuovamente nell’Oltretomba, portando così all’inedia e infine alla morte il dolente Orfeo.

La via è lunga e perigliosa, affrontata solo una volta e una volta fallita.

Le parole di Atropo tornarono prepotenti nella sua mente e Atena, turbata, si domandò se ciò che le aveva prospettato la dea Ctonia fosse per l’appunto questo.

Ma come affrontare un simile sentiero?

Avrebbe dovuto attraversare lo Stige, il fiume dell’odio. A seguito il Cocito, o fiume dei pianti, e l’Acheronte, il fiume dei dolori.

Già questo, l’avrebbe messa a dura prova, e così il piccolo Alekos. Ma ancora non sarebbe bastato perché sarebbero rimasti loro da affrontare il Flegetonte, o fiume del fuoco e infine il più infido di tutti, il Lete.

Il fiume dell’oblio e della dimenticanza.

Il suo amore e quello di Alekos sarebbero sopravvissuti a quell’ultima, terribile prova? Davvero non lo sapeva.

 

 

 

 

N.d.A.: ripartiamo da un dio meno conosciuto, ma che mi incuriosisce per la sua natura “antica”, tra gli dèi. Érebos è latore di una notizia di per sé sconvolgente e, forse, dell’unica risorsa utile per poter salvare Alekos dalle braccia dell’Oltretomba, in cui è rinchiuso da più di sette anni.

Riusciranno però i due a superare il sentiero di Orfeo (l’ho inventato io) o anche Atena commetterà lo stesso errore dell’antico musico?

p.s.: Naturalmente, alcune parti del mito sono state storpiate a uso e consumo delle mie storie. Non a caso, tutti gli dèi possono andare e venire dall’Oltretomba quando invece, secondo i miti, ciò non era possibile. Non me ne vogliate… serviva solo a rendere più interessanti le storie.

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Capitolo 6
*** Erebos - 2 - ***


 
2.
 
 
 
La risalita dal tempio sotterraneo di Érebos verso l’Oltretomba fu silenziosa. Gli unici suoni udibili nella coltre di nebbia perenne, che avvolgeva la scala a chiocciola in un eterno abbraccio, erano i passi di Atena ed Érebos sui gradini di metallo.

Null’altro era udibile, non una parola, non un sospiro.

Atena aveva troppo a cui pensare, per poter parlare, e il dio dell’oscurità primigenia aveva a sua volta molti pensieri a carezzargli la mente, ora nuovamente reattiva.

Quando infine raggiunsero la spianata sassosa che conduceva ai Campi Elisi, Érebos prese per mano Atena e, sorridendole, disse: “Io sono fiducioso. So che sei abbastanza forte e coraggiosa per affrontare qualsiasi sfida, se è il tuo cuore a dirtelo.”

Lei accettò la stretta, trovandola rassicurante e, a passo lesto, si incamminò con lui per parlare con Ade della scoperta del dio. Il dubbio, in ogni caso, serpeggiava nella sua mente, e lo disse.

“Vorrei avere la tua stessa fiducia, amico mio, ma ciò che mi preme davvero è Alekos. Lui è ancora un bambino, e quei fiumi sono terribili per un motivo. Ade non li ha creati così a caso. Solo Orfeo, in tanti secoli, tentò l’impresa, e sappiamo bene entrambi come andò a finire.”

“Ne sono consapevole, ma è l’unica occasione concessavi per strappare le catene che trattengono Alekos a questa terra” le ricordò il dio, accentuando per un attimo la stretta sulla sua mano. “Sono sicuro di quello che dico.”

“E io ti credo… ma non di meno ho paura” sottolineò lei con sincerità.

Lui rise, e Atena non poté che trovare quel suono splendido. Érebos aveva sempre avuto una voce meravigliosa, tanto da far invidia a Euterpe, la Musa del Canto. Lei stessa, in gioventù, si era ritrovava a invidiare un simile timbro musicale, non avendo avuto in dono una voce altrettanto splendida.

“Saresti folle a non avere paura dei fiumi infernali creati da Ade, mia cara, ma resto dell’idea che potete farcela entrambi” dichiarò la divinità, prima di scorgere in lontananza Nyx, intenta a giocare a girotondo assieme ad Alekos e Ares.

La sola vista del gigantesco dio della guerra impegnato in un’attività così poco virile lo fece sorridere ma, al tempo stesso, lo portò a dire: “Lui ha dimostrato molta più forza di me.”

“Non era così coinvolto” gli rammentò Atena. “Ma sono grata ad Ares per le sue attenzioni.”

Érebos, allora, sollevò la mano di Atena ancora stretta alla sua, ne baciò il dorso e infine la lasciò per raggiungere il trio sulla collina.

Il dio dell’oscurità richiamò quindi l’attenzione di Alekos che, a un sussurro di Nyx, si aprì in un caldo sorriso di benvenuto e corse verso di lui per abbracciarlo con calore.

Érebos letteralmente cadde in ginocchio dinanzi al bambino e lo strinse a sé con calore, scusandosi per la sua viltà. Alekos, però, lo sorprese ancora, baciandolo sulle guance e asciugandogli le lacrime con gesti gentili delle mani.

Nell’avvicinarsi, Atena gli sentì dire: “La mamma mi ha detto tutto, ma non è stata colpa tua, o di Atropo. Ci sono cose che neppure gli dèi possono cambiare.”

Carezzando quel viso dolcissimo e circondato di neri capelli, il dio replicò: “Forse, piccolino, ma credo di aver trovato il modo di poterti dare una possibilità per ribaltare ciò che è successo.”

Il bambino lo fissò stranito e così pure Ares che, accigliandosi furiosamente, spintonò Érebos con violenza e sibilò: “Non mettergli in testa delle fesserie senza senso, se non vuoi che ti spacchi la faccia, dio Ctonio dei miei stivali!”

Nyx esalò un singulto strozzato, di fronte a quell’attacco imprevisto, ma fu Atena a intervenire in difesa del dio dell’oscurità.

Rabbiosa, si interpose tra i due, piazzò un destro nel fianco di Ares – che crollò su un ginocchio per il dolore – e ringhiò inviperita: “Maledizione, Ares, cuciti quella boccaccia e ascoltalo, invece di fare l’idiota come al solito!”

Alekos ridacchiò divertito, di fronte a quel battibecco di certo non infrequente tra i due fratellastri e Nyx, scrutando il fratello, sorrise appena e disse: “Mi sembra che tu stia meglio.”

“Grazie ad Atena” le sorrise di rimando lui, lanciando poi un’occhiata guardinga ad Ares, che ancora stava lagnandosi per il colpo di Atena.

“Che c’è? Ti sei presa finalmente una vacanza, sorellina, e ora ti scaldi subito se parlo male al tuo bambolotto? Era anche ora, direi, che ci dessi dentro, ma proprio con una divinità Ctonia? Non potevi sceglierti un satiro, per spassartela? Almeno sono più allegri e divertenti” la prese in giro Ares, rimettendosi in piedi a fatica e fissandola pieno di malizia.

Atena cercò di contare fino a dieci – non le piaceva litigare davanti ad Alekos – ma riuscì sì e no a raggiungere il tre, prima di scaricare una ginocchiata nei sacri augelli del fratello.

Pallido come un cencio, il dio crollò nuovamente a terra, preda di dolori terribili e Atena, spietata, gli ringhiò contro: “Sei pregato di essere educato, di fronte ad Alekos. E poi, mi sono solo presa cura di Érebos, in questi giorni, esattamente come avrebbe fatto qualsiasi buona amica. Tutto qui.”

“Sì, sì… raccontala a qualcun altro” gracchiò Ares, coprendosi il basso ventre quando la sorella minacciò di dargli un altro calcio.

Sbuffando esasperata, lei lo lasciò perdere e, rivolta a Nyx, disse: “E’ vero. Non ho fatto nulla che…”

La dea, però, ridacchiò divertita e, lanciato uno sguardo malizioso a Érebos – che incredibilmente arrossì – si limitò a dire: “Ti credo ma, se anche avesse avuto ragione Ares, non sarebbe stato un problema. Io e lui non stiamo più insieme da secoli… e comunque non avrebbe fatto differenza in nessun caso. Sai che siamo sempre stati una coppia aperta.”

“Oh” gracchiò soltanto Atena, non aspettandoselo di certo. Era chiaro che era rimasta indietro con i pettegolezzi.

Metera, cosa voleva dire, prima, lo zio?” domandò a quel punto Alekos, fissando curioso il viso di Érebos e cercando di soprassedere sulle cose che aveva detto Ares. Qualcosa aveva intuito ma, vista l’arrabbiatura della madre, era preferibile lasciar perdere.

Atena, a quel punto, si volse verso il figlio e lo prese per le spalle, seria in viso non meno di lui, il battibecco con il fratello già dimenticato.

“C’è la possibilità che io possa portarti via dall’Oltretomba. Ma sarà una cosa molto rischiosa e assai difficile. Nessuno è mai riuscito a compiere quest’impresa.”

Alekos, però, domandò soltanto: “Cosa devo fare?”
 
***

Ade si stava grattando la lunga barba da almeno venti minuti, gli occhi neri nascosti dalle palpebre socchiuse e la bocca piegata in una smorfia pensierosa.

Érebos aveva esposto anche a lui il suo piano, oltre a mostrargli il documento che aveva trovato tra i suoi libri, in cui si menzionava un caso come quello di Atena.

Alla fine, il dio dell’Oltretomba sospirò e ammise: “Onestamente, non ne avevo mai sentito parlare. Ero convinto che, essendo il bambino nato morto, non potesse essere annoverato tra le creature in grado di percorrere il Sentiero, altrimenti te lo avrei detto io stesso, Atena. Dovrò cominciare anch’io a prendere magnesio e fosforo, se comincio a dimenticare le regole stesse del mio mondo… anche se va detto che le avevo fatte scrivere a Tisifone e socie. Si vede che, mentre dettavo, avevo la testa altrove.”

“Percy” tossicchiò malizioso Ares, guardandosi intorno con espressione innocente quando Ade lo fulminò con lo sguardo.

La dea scosse il capo con un sorriso divertito, immaginandosi lo zio alle prese con erboristerie e farmacie umane, lasciando deliberatamente perdere la battutaccia di Ares.

La sola idea di pensare Ade al bancone di una farmacia avrebbe fatto sbellicare chiunque, vista soprattutto la totale inutilità dei medicamenti umani, su un corpo divino come era il loro.

Replicando pragmatica, Atena disse: “Anche quanto, Alekos non sarebbe stato abbastanza grande per affrontarlo. Avremmo dovuto attendere in ogni caso.”

Persefone stringeva a sé Alekos, preoccupata non meno degli altri, e mormorò: “Sarebbe un inferno, percorrerlo… scusate il gioco di parole, ma è così.”

Ade si lasciò andare a un’imprecazione e, sconsolato, dichiarò: “I cinque fiumi infernali furono creati proprio per rendere le cose impossibili a chiunque avesse tentato e, anche se Orfeo ed Euridice riuscirono – più o meno – nell’impresa, nessun altro tentò più perché venne reputata una via impraticabile da chiunque.”

“Non potevi sapere che, un giorno, uno di noi si sarebbe ritrovato in questa situazione” sottolineò Atena, dando una pacca sulla spalla allo zio.

Ade fece per parlare ma, proprio in quel mentre, due nuvolette dorate comparvero nei Campi Elisi e, in un tripudio di scintille, le figure imponenti di Zeus e Poseidone apparvero in tutto il loro splendore.

E furia.

Zeus, infatti, appariva più imbestialito che mai e, dalle sue mani, sottili folgori sfrigolavano come in un arco fotovoltaico.

Poseidone non era meno irritato ma, nei suoi occhi, era ben evidente anche un accenno di panico, che si intensificò quando il suo sguardo blu oltremare si posò sui nipoti.

“Oh, oh, sono arrivati anche i fratelloni…” chiosò Ade, intrecciando le mani dietro la schiena. “Non vi chiedo neppure perché siete qui. Ve lo si legge in faccia. Il punto è un altro; come l’avete saputo?”

“Io so sempre quello che fa mia figlia!” sbottò Zeus, riferendosi alla nascita davvero inconsueta di Atena.

La dea parve ricordarselo solo in quel momento perché, sfiorandosi la fronte con le dita, borbottò: “Miseria ladra, è vero. Devo sempre stare attenta a quanto penso.”

“Cos’è questa folle idea che hai messo nella testa di mia figlia?!” ringhiò Zeus, gettandosi praticamente addosso a Érebos come un caterpillar.

Atena si frappose tra loro e Ares, memore di ciò che era successo a lui, si coprì le parti intime e disse al padre: “Fossi in te, mi coprirei le palle. Atena ha una certa tendenza a tirare ginocchiate in quella zona, neanche fosse un cavallo imbizzarrito.”

“Maledizione, Ares, il linguaggio!” sbottò Atena, indicando poi con rabbia il figlio, che stava sghignazzando.

“Oh, per carità, Atena, …le palle sono palle, chiamale pure come vuoi, ma palle rimangono” brontolò Ares, facendo spallucce.

“Aaah” sbottò la dea, fissando il cielo fasullo di quel luogo con aria esasperata. I Campi Elisi ricreavano lo splendore di una bella collina fiorita, con un caldo sole a baciare il volto, ma Atena sapeva bene che era solo mera illusione.

Tutto ciò era creato per soddisfare e chetare le anime dei puri di cuore, giunti nell’Oltretomba al momento della morte.

Le diede comunque una certa soddisfazione squadrare il cielo azzurro, piuttosto che una parete spoglia di roccia.

“Torniamo a noi. Spiegami perché, all’improvviso, vuoi cimentarti in questa follia!” sbraitò Zeus, rivolgendosi ora direttamente alla figlia.

“Perché, se c’è anche una minima speranza di poter riavere almeno Alekos, io voglio tentare, e lui è d’accordo con me” gli spiegò caparbia Atena, poggiando le mani sui fianchi con fare battagliero.

“E’ inutile che ti atteggi a superdonna. I cinque fiumi infernali sono terribili, anche per una divinità tuo pari!” le ringhiò contro Zeus, ora denotando tutta la sua ansia.

Oltre il suo sguardo d’acciaio v’era molto altro, come poté notare suo malgrado la dea della guerra.

Vi era nascosto il panico all’idea che, non solo la figlia potesse dimenticare il figlio, ma che Alekos potesse perdere ogni ricordo di loro, diventando solo un’anima senza passato, libera dal dolore, ma anche dall’amore.

Se era più o meno sicuro che, grazie ai poteri del suo sangue di semidio, il ragazzino avrebbe potuto affrontare i primi quattro fiumi infernali, Zeus dubitava che il Lete lo avrebbe graziato. Quel fiume lo spaventava più di ogni altra cosa, anche se non avrebbe mai ammesso con suo fratello Ade quanto, quella terribile trovata, fosse terrificante.

Alekos, però, si avvicinò al nonno e, presolo per mano, gli sorrise e disse: “Io ho fiducia nella mamma. E zio Érebos si è impegnato tanto per trovare una scappatoia per me. Sono sicuro che ha ragione.”

Zeus si chetò immediatamente al suo tocco e, piegatosi su un ginocchio per essere occhi negli occhi col nipote, mormorò ansioso: “So che la mamma è forte. E’ mia figlia, perciò conosco le sue capacità. Ma il Lete è un fiume che non lascia scampo a ciò che risiede qui.”

Ciò detto, gli sfiorò prima la fronte e poi il torace, all’altezza del cuore.

“Papà mi proteggerà” lo rassicurò a quel punto il bambino.

“Come?” mormorarono in coro i presenti, non comprendendo le sue parole.

Alekos, allora, si rivolse alla madre e, leggermente titubante, disse: “Un’anima pura è venuta da me, alcuni mesi fa. Una di quelle che passeggiano nei prati di asfodelo dei Campi Elisi.”

Lei assentì tesa, non sapendo che pensare. Era mai possibile? Solitamente, le anime umane perdevano coscienza di sé e si limitavano a godersi la pace dei Campi Elisi, senza più avere memoria del passato.

“Non lo fanno mai, con me. Credo non capiscano bene cosa io sia, perciò stanno alla larga, però quell’anima si è avvicinata ed è rimasta con me per qualche tempo” le spiegò il bambino, prendendo anche la mano della madre, oltre a trattenere ancora quella del nonno.

“Ti ha… ti ha parlato?” singhiozzò Atena.

“Mmh, non so se parlato sia il termine giusto. Le anime non parlano. Però sentivo cosa provava, ed era un po’ come quando lo zio Ares mi abbraccia. Sapeva di uomo e di papà.”

Ares gongolò tutto contento, a quel commento, ma Atena lo dispensò di un’occhiataccia. Non era il momento di pavoneggiarsi come degli idioti!

“Quindi, dici che quest’anima era tuo padre. E cos’altro hai capito?” gli domandò Atena, sorridendogli tremula. Dunque, Miguel era riuscito a percepire la presenza del figlio nei Campi Elisi? Rammentava ogni cosa del suo passato, a dispetto di tutto?

“Ho capito che mi proteggerà sempre, e mi sono sentito sicuro, le volte che ero con quest’anima. Non può che essere papà, vero?”

“Credo di sì. Miguel era una persona speciale, e ti ha amato fin dal giorno in cui gli ho detto che saresti nato” assentì Atena, prima di avvertire un brivido a lei familiare.

Levando il capo per scrutare l’orizzonte, la dea scorse una luminescenza nei pressi del gazebo dove soleva studiare Alekos e, portandosi una mano al petto, mormorò: “Miguel…”

Ade tossicchiò imbarazzato, a quella vista davvero inconsueta, e borbottò: “Non abbiamo niente di meglio da fare, oltre a guardare? Su, su, allontaniamoci un po’.”

Di comune accordo, le divinità si allontanarono una dopo l’altra ed Érebos, sfiorandole una spalla, le sussurrò: “Vai da lui. Credo ti servirà.”

Lei assentì nervosa e, dopo aver lasciato Alekos nelle mani di Persefone, si avviò verso il gazebo per comprendere se, effettivamente, quell’anima appartenesse a Miguel.

I suoi piedi incespicarono più volte nell’erba smossa dal vento – anche quella, un’illusione dei Campi Elisi – e, quando infine raggiunse il gazebo, ripeté: “Miguel… sei tu?”

L’anima si illuminò maggiormente, costringendo Atena a socchiudere gli occhi e, con voce incrinata dall’emozione, allungò una mano per sfiorare quella luminescenza e disse: “Sei tu. Ti sento.”

Atena…

Fu solo un sussurro, niente più di questo, ma per Atena fu come un’epifania.

Sorrise, si terse una lacrima ribelle dal viso e disse: “Hai… hai mantenuto i ricordi.”

Alekos… sentivo lui… e te in lui… questo mi ha fatto ricordare… la mia dea, il mio bambino…

“Stai… stai bene?” mormorò lei, prima di ridere di se stessa. “Che razza di domanda vengo a farti…”

Sto bene. Ho amato te e amo nostro figlio. Qui c’è pace, e un mare infinito, oltre quella collina. Le sue acque sono placide e calde.

Dopo qualche istante di esitazione, l’anima domandò: Davvero lo porterai via di qui?

Atena non si stupì di questa sua conoscenza. Se davvero era rimasto vicino ad Alekos in quell’ultimo periodo, si era creato un legame così profondo da rendergli semplice percepire le emozioni del figlio.

“E’ nelle nostre intenzioni, però…”

Se lei fosse riuscita nell’impresa, Miguel sarebbe rimasto solo. Era così egoista da negargli anche quella piccola fiammella di gioia?

L’anima, però, si illuminò maggiormente, e la voce di Miguel inondò la mente di Atena.

Negargli la vita sarebbe un abuso, visto che lui ha la possibilità di tornare alla vita vera.

“E tu? Rimarresti solo.”

Se affonderò nel Lete al posto di Alekos, lui potrà oltrepassarlo senza rischi e io… forse perderò i ricordi, ma l’amore per voi, mai. Ne sono certo.

Atena sgranò gli occhi, a quelle parole, e nella sua mente ogni ricordo di Miguel tornò con prepotenza, scuotendola.

“No, no… non posso chiederti anche questo.”

Non sei stata tu la causa del mio incidente in mare, Atena. Fu una mia negligenza. Non tenni conto dei margini di sicurezza perché mi credevo troppo esperto, troppo superiore alle forze che stavo sfidando, per abbassarmi a prendere qualche precauzione. Giocai la partita tra la vita e la morte con le carte sbagliate. Tutto qui.

“Miguel…”

Saprò di aver amato qualcuno, e di essere stato riamato, anche se non ricorderò i vostri volti. Posso sopportarlo. Lasciami fare almeno questo, per nostro figlio. Fu colpa mia, se tu avesti quell’aborto. La mia morte portò alla sua. Permettimi di salvarlo almeno stavolta.

L’anima divenne sfavillante, a quel punto, avvolgendo completamente Atena che, per un momento, poté rivedere il suo Miguel come lo aveva scorto da vivo.

I bei capelli neri e fluenti, la pelle bronzea, gli occhi neri e lucidi, il bel sorriso scanzonato.

“Ti amo…”

Anch’io.

Ciò detto, l’anima tornò alla normalità, niente più che un’ombra iridescente e Atena, preso il coraggio tra le mani, tornò dai suoi parenti e amici per riferire quanto deciso.

L’anima la seguì e, quando entrambi si ritrovarono nel cerchio creato dalle divinità in attesa, Atena disse: “Miguel ci aiuterà.”

Zeus annuì fiero, asserendo: “Tutto ciò è degno di grande coraggio. Mia figlia non poteva che sposare un uomo di valore.”

La dea si lasciò andare a un sorrisino ironico, rammentando le liti dei primi tempi con il padre, e proprio a causa della sua decisione di vivere con Miguel.

Ade, per nulla in vena di fare dell’ironia, scrutò ansioso la nipote e borbottò preoccupato: “Ricordati che nessuno di noi potrà intervenire. Tu sola dovrai guidarlo, ma rammenta! Non voltarti mai, non ascoltare le voci che udirai o le richieste che ti verranno fatte. I fiumi sono ingannatori e sanno cogliere i punti deboli di chiunque, anche di una divinità.”

“E… e il Lete?” deglutì a fatica Atena, terrorizzata all’idea di perdere i suoi ricordi più preziosi.

“Non dovresti subire danni, grazie all’icore1 che scorre in te, ma io userei tutti i tuoi poteri per proteggerti. Quanto ad Alekos…” le spiegò Ade, prima di guardare dubbioso l’entità iridescente. “…immagino tu sappia come fare, Miguel.”

L’anima assentì, muovendosi leggermente e diventando più brillante.

“Quando sarete all’esterno, nel mondo dei mortali, dovrai ricordarti di non girarti ancora, finché non udrai le porte dell’Oltretomba chiudersi. Ricorda che Orfeo commise questo errore, e fallì.”

affrontata solo una volta e una volta fallita.

Atena annuì con vigore e, uno a uno, li scrutò per attingere forza dalla sua famiglia. Il feroce Ares, il prode Poseidone, il saggio Zeus, l’enigmatico Ade, la dolce Persefone, la mistica Nyx e il potente Érebos.

Quest’ultimo le sorrise, asserendo: “Vi attenderò all’esterno, visto che non mi è concesso accompagnarvi. Non ho dubbi che riuscirete.”

La dea assentì e, preso per mano il figlio, disse: “Riusciremo.”

Alekos, a quel punto, guardò dubbioso Ade e Persefone e domandò: “Non potrò più venire a trovarvi, vero?”

“No, tesoro. Non saresti abbastanza potente per farlo, ma verremo noi da te” lo rincuorò Persefone, baciandolo sulla fronte.

Atena non attese un attimo di più e, assieme al figlio, si diresse verso le sponde del primo fiume. Lo Stige, il fiume dell’odio.

 


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1 Icore: secondo il mito, è il minerale che compone il sangue delle creature immortali.
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N.d.A.: A quanto pare, la faccenda ha messo in ansia più di un dio, ma Atena è ben decisa a mettersi in gioco e così pure Alekos che, forte dell'aiuto dell'anima del padre, sente di potercela fare.

Se qualcuno si chiedesse come mai Miguel non può compiere lo stesso tragitto, ricordo che ai tempi in cui si svolgono i fatti, se un morto tornasse alla vita sarebbe un bel casino, in termini tecnici. (c'erano un po' troppi testimoni che avevano visto Miguel morto, su quella spiaggia, la sua previdenza sociale annullata, le carte del funerale e quant'altro... insomma, burocraticamente, non è fattibile). Inoltre, nelle mie storie, i morti non hanno più corporeita, ma sono entità di luce senza sostanza reale, perciò apparirebbero come degli spettri, nel mondo dei vivi.

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Capitolo 7
*** Erebos - 3 - ***


 

3.

 

 

 

I Campi Elisi erano ormai lontani e l’illusione di bellezza e serenità di quei luoghi era scomparsa da tempo, lasciando il posto a immense caverne sotterranee, anfratti bui e strapiombi senza fine.

L’Oltretomba non era esattamente un luogo di villeggiatura e, in lontananza, si potevano udire le grida dei violenti gettati nel Tartaro.

Atena preferì non pensare a loro e al loro tormento eterno – stupratori, omicidi e traditori avevano un biglietto di sola andata per il Tartaro, quando venivano traghettati da Acheronte – quanto, piuttosto, alla loro missione.

Lo Stige era il primo ostacolo da superare e, se aveva anche solo in parte compreso il significato del suo nome, non le sarebbe stato risparmiato nulla.

Dalle guerre combattute in suo nome, in cui migliaia di uomini erano morti combattendo, all’autolesionismo di cui era stata preda nei primi mesi dalla perdita di Miguel.

Ogni cosa le sarebbe stata rinfacciata con tutta la violenza possibile, ma lei avrebbe dovuto resistere, e attraversare per intero il fiume senza lasciarsi dominare da esso.

Dietro di lei – non poteva controllare, ma ne sentiva i passi – Alekos procedeva speditamente, tenendo il passo.

Non aveva idea di dove fosse Miguel, ma sperò che fosse al suo fianco.

Quando udì il turbinare dell’acqua e il suono gorgogliante dei mulinelli, Atena disse: “L’acqua è bassa, perciò non dovrai nuotare, ma ricorda che è molto forte. Procedi con cautela.”

“Sì, mamma” disse Alekos con decisione.

La dea allora proseguì fino a raggiungere la riva e, dopo aver affondato il primo piede nell’acqua, venne letteralmente investita da grida barbare e violente, oltre che da quello che sembrava essere sangue.

Sì, le acque dello Stige erano di sangue, rosse come una ciliegia matura e ribollenti di tutto l’odio che aveva saputo scatenare nei millenni.

Vedove inconsolabili le gridarono contro i peggiori epiteti, mentre immagini di suoi antichi generali le urlavano addosso il loro rancore per essere morti invano.

Atena accettò ogni parola con stoicismo, essendoselo aspettato, pur se alcune frasi furono più dolorose di altre, da accettare.

Fu la voce di Pallade, la sua amata Pallade, a farla tremare e bloccare a metà di un passo.

La sua immagine spettrale le comparve innanzi, trasfigurata dall’odio e dal risentimento e questa, con tutto il fiato di cui disponeva, le urlò i peggiori epiteti, pentendosi di essere stata sua amica.

“Non sono vere, non sono vere…” cercò di ricordare a se stessa, pur trovando difficile non ascoltare la voce a lei cara dell’amica.

“Mamma!” gridò Alekos, bloccandola nuovamente.

I suoi piedi si mossero per volgersi completamente ma, memore delle parole di Ade, rimase bloccata per un attimo e riprese a camminare, dicendo soltanto: “Vieni avanti, Alekos. Coraggio. Ce la puoi fare.”

“Non voglio venire con te. Mi stai portando via da mio padre. Sei solo un’egoista e cattiva” disse la voce di Alekos, atona e priva di amore.

Atena si morse il labbro inferiore, intuendo fosse l’ennesimo inganno dello Stige, per cui non rispose e accelerò soltanto il passo, pensando al dolce sorriso del suo bambino e alle parole d’amore per lei.

Alekos non le avrebbe mai parlato così, non si sarebbe mai rivolto così alla sua amata metera.

Quando finalmente toccò la riva opposta, le voci si spensero di colpo e tutto tornò quieto, ma non lei, che tremava come una foglia e aveva le lacrime agli occhi per la tensione.

Dèi, e questo era solo il primo! Capiva bene perché nessuno, dopo Orfeo, si fosse arrischiato a tentare l’impresa!

“Alekos… sei con me?” domandò Atena, stringendosi le braccia al petto e costringendosi a non volgere lo sguardo. Ma era così difficile non cercarlo per consolarlo!

“Sì… metera. Andiamo” piagnucolò il bambino, pur se con tono abbastanza controllato.

Atena, allora, riprese il cammino e, dietro di lei, i piedini di Alekos tornarono a tamburellare il terreno smosso.

Il Cocito, o fiume dei pianti, era quello che la preoccupava di meno. Aveva pianto tutte le lacrime del mondo, per la morte di Miguel e la scomparsa di Alekos, perciò era abituata ad averci a che fare.

Quando, però, il turbinio delle acque di quel fiume giunse alle sue orecchie, al pari di una fitta nebbiolina di gocce, capì quanto fosse subdolo anche Cocito.

Non solo ogni goccia d’acqua corrispondeva a una persona diversa, ma i loro pianti dissennati e senza freno rimbombavano nelle sue orecchie come grancasse.

Cercò un riparo dal loro dolore coprendosi le orecchie, ma tutto fu vano.

Entrare nelle sue acque, peggiorò solo la situazione.

Fu per questo che prese la decisione di correre. Rintronata com’era dalle urla, avrebbe rischiato d’incespicare e cadere, e questo avrebbe voluto dire essere completamente ammorbata da quel dolore immane.

No, non se lo poteva permettere. Sperò soltanto che Alekos riuscisse a fare lo stesso.

“Alekos, corri come fai di solito nel torrente dei Campi Elisi” lo istruì lei, sperando che riuscisse a sentirla. Le urla erano davvero terrificanti quanto strazianti.

“Sì, m…a.”

Atena udì solo alcune lettera, ma le bastò quel per mettersi a correre con tutte le sue forze, tenendo premute le mani sulle orecchie meglio che poté.

I pianti di milioni di persone la schiaffeggiarono in volto, tramortendola, facendole percepire tutto il dolore provato per la morte di un amato, per una sconfitta in guerra, per la propria morte imminente.

Le lacrime del Cocito sembravano acido, su di lei e, pur non ferendola fisicamente, Atena ne sentì gli effetti a livello nervoso. Era come essere immersi in una vasca di torpedini.

Incespicò un paio di volte, ma alla fine riuscì a raggiungere la riva e, gettandosi a terra quasi senza fiato, si passò le mani sul corpo intorpidito dalle acque del Cocito, cercando di riattivare la circolazione.

Piangendo, Atena si domandò cosa stesse provando il suo Alekos, se lei era stata così male, attraversando il secondo fiume infernale.

Nel rialzarsi a fatica, lo sguardo sempre puntato a terra, Atena domandò: “Alekos. Stai bene?”

Si udì un ‘mh-mh’, ma nessun pianto e la dea, sorridendo appena, si chiese se Miguel lo avesse aiutato in qualche modo ad attraversare.

Senza domandare nulla – non voleva mettere Alekos nella condizione di sentirsi in colpa per aver fatto soffrire il padre al suo posto – Atena allora proseguì verso l’Acheronte, il fiume dei dolori.

Atena non aveva davvero idea di cosa si potesse provare, visto e considerato ciò che aveva sentito nei primi due fiumi.

Cosa poteva esservi di peggio?

Quando, però, ne raggiunse la riva e scorse le sue acque placide e calme, si fece subito sospettosa.

Cosa stava succedendo? Perché il fiume non ribolliva come gli altri? Cosa nascondevano quelle acque quasi immote?

Non avendo altro modo di scoprirlo se non immergendosi fino alle ginocchia – l’Acheronte sembrava un po’ più basso rispetto agli altri fiumi infernali – Atena infilò un piede nell’acqua scura e tranquilla.

E urlò.

Urlò come se le fondamenta stesse della Terra le fossero piombate addosso, e lei dovesse sostenerle come il mitico Atlante.

Mille spini acuminati intrisi di veleno era quello che, più verosimilmente, stava provando in quel momento Atena ma, non di meno, procedette in avanti, un passo alla volta, un grido disperato alla volta.

Quando sentì il pianto a singhiozzi di Alekos, Atena desiderò con tutta se stessa voltarsi, prenderlo in braccio e condurlo lei stessa sulla riva, ma sapeva di non doverlo fare.

Anche per questo, si coprì le orecchie per non sentire e pianse tutte le lacrime che aveva.

Sperò soltanto che Miguel, in qualche modo, potesse mitigare quella inesorabile tortura.

***

Passeggiando nervosamente nella radura che si apriva dinanzi le porte dell’Oltretomba, Érebos si fermò quando si ritrovò a fronteggiare lo sguardo accigliato di Nyx.

“Smettila. Farai un solco a terra, se continui così” lo ammonì lei, sfiorandogli un braccio con la mano.

“Non sopporto l’idea di saperla laggiù, mentre io sono bellamente qui a non fare nulla!” sbottò la divinità, indicando con rabbia la porta dell’Oltretomba.

Nyx gli sorrise comprensiva e replicò: “Per questo hai aspettato tanto, per parlarle? Non sopportavi il pensiero di abbandonarla a se stessa, e per una cosa che avevi scoperto tu?”

“Ho cercato, Nyx. Zeus stesso sa se ho cercato…” si lagnò Érebos, stringendo i denti per la rabbia e la frustrazione. “… ma non v’era nulla se non questo, per salvare Alekos dall’Oltretomba.”

“Atena è forte, non temere.”

“Lo so… ma qui si parla di suo figlio. Delle sue sofferenze. Sopporterà di sentirlo piangere?” le domandò il dio, afferrando la sorella per le spalle. “In che inferno l’ho mandata?”

“Stai aiutandola a uscirne, a voler essere precisi” sottolineò Nyx, cercando di spezzare l’ansia che trafiggeva il cuore del fratello.

Érebos le concesse un mezzo sorriso, cui seguì una risatina stanca. “La amo, Nyx.”

“Lo so, caro, come so che la morte di Miguel e Alekos ha colpito te molto più di noi tutti. Sai anche che il cuore di Atena, al momento, è ancora legato a Miguel, vero?”

“Ma certo, e neppure vorrei il contrario. Un’anima così pura non poteva che appartenere a un uomo eccezionale. Però, desidero comunque starle vicino, se lei me lo concederà” le spiegò il dio, carezzandole i neri capelli.

Nyx gli sorrise, annuendo, e disse: “Credo che il modo in cui Atena si è presa cura di te, dica molto. Le stai a cuore, e molto. Quanto al resto, solo il tempo lo dirà. Io, comunque, tiferò per te.”

“Grazie, sorella” mormorò Érebos, prima di rabbrividire e scrutare ansioso la porta dell’Oltretomba. “Si avvicinano…”

***

Il Flegetonte, semplicemente, non esisteva.

O meglio, se lame di fuoco perenne potevano essere considerate un fiume, allora il Flegetonte era il fiume più inquietante che Atena avesse mai visto.

Quelle non erano acque purulente, bollenti e vorticanti, ma era letteralmente fuoco che galleggiava sul letto di un fiume senz’acqua, e che venivano alimentate unicamente dalle forze infernali di quel luogo.

“Mamma, ho paura” mormorò Alekos dietro di lei.

Atena si morse un labbro a sangue per impedirsi di volgere lo sguardo e, stringendo i pugni fino a conficcarsi le unghie nei palmi, disse: “Ho il dubbio che non siano fiamme vere, agape, ma solo un’altra estensione del dolore provato dai dannati. Il punto non sarà non ustionarsi, ma non ascoltare i messaggi ingannevoli che ci verranno sussurrati.”

“V-va bene” balbettò il bambino.

Atena lo sentì singhiozzare una volta e pulirsi qualcosa – immaginò il viso – prima di aggiungere: “Papà è ancora qui con me. Mi ha aiutato, prima.”

“Bene. Sono contenta, Alekos. Ora, io vado per prima e, come per il Cocito, vediamo di correre un po’. Credo sia meglio” gli spiegò lei, sentendo acconsentire al suo piano.

Ciò detto, balzò nel fiume di fuoco e, come aveva immaginato, non si ustionò la pelle, ma comprese subito che genere di fiamme fossero quelle.

Erano le fiamme dell’anima, che divoravano dall’interno, togliendo il fiato e le forze.

Tutto ciò che di bello e buono e puro vi era nel cuore veniva arso dalle fiamme, producendo rimpianto, dolore e sofferenza.

Atena, però, non si lasciò dominare e, decisa a superare anche quello scoglio, urlò: “Prova pure a divorare tutta la mia anima, se pensi di riuscirci! Ma non ce la farai!”

Le fiamme, allora, la circondarono formando un’alta colonna vermiglia che, però, non impedì ad Atena di scorgere in lontananza la riva opposta.

Facendosi quindi strada come se fosse stata immersa in una foresta di rovi, si sbracciò per scostare le fiamme una a una, ansimando per lo sforzo di non venire divorata fino all’ultima briciola.

Dietro di lei, la dea avvertì le urla spaventate – più che addolorate – di Alekos, e quel nuovo dolore rinfocolò le fiamme intorno a lei, rendendole più dense, quasi fisiche.

“Giuro che ti caverò la pelle a striscioline sottili, zio, dopo questa tua diavoleria” ringhiò Atena, gettandosi a testa bassa in mezzo alle fiamme per raggiungere in tutta fretta la riva.

Queste ultime le si gettarono addosso come cani da caccia appresso alla preda, ma Atena le ignorò. Che tentassero pure di assoggettarla. Lei si sarebbe sempre difesa, avrebbe impedito al dolore e al rimorso di vincerla.

Incespicò e, in un caso, cadde carponi, venendo avvolta dal fuoco ringhiante e pronto a divorarla, ma ancora si sollevò.

Con un’ultima imprecazione mise infine piede sulla sponda opposta e lì, senza fiato, si lasciò cadere a terra prona, ansimando e smoccolando all’indirizzo di Ade.

“Gliela farò pagare cara… anche se so che deve essere così, me la pagherà… scommetto che li ha inventati quando Persefone non era con lui” si lagnò Atena, cercando di riprendere fiato.

Metera…” piagnucolò Alekos.

Chiusi gli occhi, Atena mormorò: “Ancora uno, piccolo mio. Poi potremo dare tanti calci negli stinchi allo zio, va bene?”

Alekos tentò di ridere a quella battuta, ma dalla sua boccuccia tesa uscì solo un gracidio.

“Mi spiace tanto, agape. Non avrei dovuto spingerti a tanto…” singhiozzò Atena, tergendosi il viso stanco.

“Posso farcela, mamma. Davvero. Papà mi ha aiutato a pensare a cose belle, anche se piangevo e stavo male” replicò Alekos con coraggio.

“A cosa hai pensato?”

“A te, la prima volta che ti ho vista. A zia Persefone quando mi prepara i dolci, o allo zio Ares quando mi insegna a tirar di spada. Poi ho pensato a zio Érebos e al suo dolore, e a come mi abbia fatto capire che, anche se sono piccolo, posso fare comunque cose da adulto. Lui crede davvero che io possa farcela, perciò lo farò.”

Atena si risollevò a fatica – avrebbe dormito per un mese di fila, se fosse riuscita in quell’impresa. Diversamente, beh… se avesse perso Alekos e Miguel ancora una volta, avrebbe chiesto a Zeus di ucciderla.

Era l’unico a poterlo fare e, a quel punto, non sarebbe più valso vivere.

Quello, però, doveva rimanere l’ultimo dei suoi pensieri. Doveva credere di potercela fare, esattamente come Alekos aveva creduto nelle parole di Érebos.

“D’accordo, proseguiamo” decretò infine la dea, incamminandosi verso il Lete.

Per quel fiume in particolare, avrebbe mandato tutto alle ortiche e sfoderato la sua divinità al suo massimo fulgore.

Concentrandosi sul suo sangue, sull’icore che scorreva potente dentro di lei, richiamò a sé le antiche vestigia. In uno sfavillio dorato, lunghe vesti bianche la circondarono, calzari dorati ricoprirono i suoi piedi e un elmo di fattura mirabile comparve dinanzi al suo volto.

Nella mano sinistra strinse lo scudo su cui capeggiava la testa di Medusa mentre, nella destra, la sua spada da guerra brillava letale e pronta a dar battaglia.

“Sei bellissima, mamma” mormorò Alekos, ammirato.

“Grazie, tesoro” replicò lei, sorridendo brevemente sotto l’elmo abbassato dinanzi al viso.

Che il Lete tentasse pure di sopraffarla. Gli avrebbe dimostrato cosa voleva dire mettersi contro una dea.

***

Érebos venne scosso da un violento brivido e, muovendosi verso la porta dell’Oltretomba, venne presto fermato da Nyx che, preoccupata, esalò: “Non puoi intervenire, fratello. E’ contro le regole, e lo sai!”

“Non trasgredirò un bel niente! Ma devo essere presente in qualche modo, e lo farò!” ringhiò lui e, con un gran movimento di braccia, nubi dense di nebbia scaturirono dalle sue dita e si infiltrarono nella roccia per dirigersi leste verso il Lete.

Nyx osservò quella nebbia scintillante e totalmente controllata dal fratello e, tesa, mormorò: “Spero che la pensi così anche Atropo, perché altrimenti sai cosa potrebbe succedere. Ha un caratteraccio, nostra figlia, quando ci si mette.”

“Non si arrabbierà, perché io non aiuterò Atena o Alekos, esattamente come nei patti” precisò Érebos, socchiudendo gli occhi per meglio concentrarsi.

“Non ha mai amato neppure i cavilli, ricordalo” sottolineò Nyx.

“Lasciami fare, Nyx. Andrà bene.”

“Lo spero, o manderò te, da Miss Mani di Forbice. Io ho già dato” si lagnò a quel punto la sorella, facendolo ridere.

“Se ti sentisse, si infurierebbe. Sai che non vuole essere chiamata così.”

“Pensa a quel che stai facendo… qualsiasi cosa sia” lo redarguì Nyx.

Ed Érebos lo fece, sperando con tutto se stesso che funzionasse.

***

Le acque del Lete erano placide al pari dell’Acheronte, ma Atena sapeva che nascondevano l’insidia più difficile di tutte; la dimenticanza.

Quel fiume in apparenza tranquillo avrebbe potuto strappare loro ogni ricordo, ogni dolore, ogni gioia, lasciandoli vuoti e senza un’identità, ma lei lo avrebbe impedito a ogni costo. Almeno per sé, per lo meno.

Quanto ad Alekos, doveva confidare che il suo piano avesse successo, anche se questo avrebbe voluto dire, per lui, dimenticarsi di lei e del loro bambino.

Non del mio amore per voi, e del vostro per me, però, rammentò lei, sperando che le parole di Miguel corrispondessero a verità. Desiderava che almeno l’amore rimanesse con lui, pur se non avrebbe mai più rammentato da chi fosse stato amato.

Preso un gran respiro, quindi, avanzò verso la riva al pari di una densa nebbiolina argentata che, ben presto, Atena riconobbe essere un’estensione diretta di Érebos.

“Ma cosa sta facendo?”, si domandò mentalmente Atena, affondando il primo piede nelle acque del Lete.

Subito, le acque sfrigolarono al contatto con la sua pelle di dea e divennero simili a piraņa pronti a divorarla.

Atena, però, falciò quell’ondata con la sua spada, svaporandola completamente.

Soddisfatta del risultato, puntò quindi lo scudo su una nuova ondata del Lete che, letteralmente, divenne pietra prima di sbriciolarsi dinanzi a lei e scivolare via con la corrente.

“Ah… quindi sei soggiogata anche tu al potere di Medusa…” ghignò soddisfatta Atena, fissando bieca le acque del fiume.

Ringalluzzita da quel risultato, Atena si gettò nel mezzo del fiume come se si trovasse sul campo di battaglia e, feroci come fiere, le onde del Lete si gettarono su di lei per avere la meglio.

Dietro di lei, interamente ricoperto dalla luminescenza di Miguel, Alekos avanzava a una certa distanza dalla madre e, guardando il combattimento in atto, mormorò: “E’ davvero brava.”

Miguel si illuminò maggiormente, dando una conferma alle sue parole e Alekos, sorridendo contrito, disse: “La mamma non me l’ha detto, ma penso di aver capito cosa succederà. Ti dimenticherai di noi, vero?”

L’anima sfarfallò un poco e Alekos, annuendo, aggiunse: “Credo che questo sia un gesto da eroi, e io ti ricorderò sempre, in ogni mia preghiera. Lo farò anche per te, e dirò a tutti che mio padre è morto come un eroe, per salvare me e la mamma.”

Miguel si fece più lucente, a quelle parole e il suo calore lo avvolse interamente, confermandogli tutto l’amore che provava per lui.

Alekos allora sorrise ma, quando scorse la nebbia addensarsi attorno a loro fin quasi a far svanire la figura di Atena, mormorò: “Érebos?”

“Segui la nebbia e resta dove ella rimarrà, così sarai sicuro di non essere davanti a tua madre, quando riemergerà dalla battaglia. Quanto al resto, lascia fare a me.”

“Cosa vuoi fare, zio?” domandò il bambino, ma il dio non rispose.

Non potendo fare altro, Alekos seguì la nebbia fino alla riva ma, quando egli mise piede sulla roccia dura e compatta, l’anima di Miguel venne risucchiata dal Lete.

Lui non aveva il consenso a raggiungere la porta dell’Oltretomba, solo Alekos poteva.

La nebbia, però, lo avvolse, proteggendolo e, di colpo, svanì.

Alekos non riuscì più a vederla da nessuna parte ma, memore delle parole del dio dell’oscurità, annuì fiducioso e attese di veder comparire la madre sulla terraferma.

Ciò avvenne con una grande esplosione di energia e luce, segno che la battaglia era terminata e Atena aveva sconfitto le acque litigiose e furenti del Lete.

Quando, però, il figlio la vide sulla riva, si morse un labbro e desiderò correre da lei per abbracciarla.

Sua madre era in lacrime, distrutta al pensiero di aver per sempre condannato l’amore della vita all’oblio eterno.

Non di meno, proseguì verso l’ultima erta che li divideva da un’immensa porta a due battenti e, claudicante, la raggiunse a grandi passi.

Alekos poté udire chiaramente il suo pianto incontrollato e cercò di trasmetterle tutto il suo amore, ma lei parve non sentirlo.

Forse, quella era l’ultima prova decisiva. La deprivazione dell’udito.

A quel modo, lei non avrebbe potuto essere certa della sua presenza e avrebbe potuto correre il rischio di voltarsi troppo presto, vanificando ogni sforzo e ogni loro sacrificio.

“Ce l’abbiamo quasi fatta, mamma. Coraggio” mormorò comunque Alekos, sperando che, almeno nel suo cuore, la madre potesse udire le sue parole.

***

La battaglia sul fiume Lete l’aveva sfiancata e, quel che era peggio, la consapevolezza di aver perso i ricordi di Miguel l’aveva piegata fin quasi a spezzarla.

Il non udire nulla dietro di sé, intorno a sé, inoltre, la rendeva nervosa, ma sapeva bene che quello era l’ultimo ostacolo da affrontare.

Orfeo aveva sofferto lo stesso dubbio immane e aveva fallito, lasciandosi andare alla frenesia non appena aveva scorto la luce del sole.

Non aveva però potuto udire il rumore delle porte dell’Oltretomba chiudersi, e proprio a causa di quel sordido incantesimo, perciò aveva fallito la sua impresa, volgendo lo sguardo.

Lei, però, non avrebbe fallito. Sarebbe rimasta per ore e ore a occhi chiusi, sperando che questo potesse bastare.

Miguel si era sacrificato per la riuscita di quella folle impresa, perciò lei non poteva rendere vano quel dono immane.

Spalancò perciò la porta con una spinta e, una volta all’esterno, nell’ampia radura che si trovava dinanzi all’entrata, si gettò a terra assieme a spada e scudo e pianse.

Pianse tutte le lacrime del mondo, e rimase accucciata a terra perché il tempo compisse il resto dell’opera.

Invisibile alla vista a causa dell’ultimo incantesimo imposto da Ade, Nyx ed Érebos tentarono di incoraggiarla a resistere, ma le loro voci rimasero al di fuori della bolla in cui ancora si trovava Atena.

Il dio batté i pugni più e più volte sulla parete invisibile che li divideva, gridando a perdifiato il nome di Atena, ma nulla avvenne.

Fu Alekos a spezzare il pianto della madre.

Sfiorandole la spalla con una mano, mormorò: “Mamma, metera… puoi sentirmi? Apri gli occhi. E’ tutto finito.”

Atena sobbalzò nell’udire nuovamente la sua voce ma, ancora, non si fidò ad aprire gli occhi. E se fosse stato l’ultimo trucco di Ade?

“Le porte sono chiuse, mamma. Davvero. Apri gli occhi” insisté ancora Alekos, inginocchiandosi dinanzi a lei. “Il sole è splendido, mamma, ed è così caldo!”

“Alekos…” mormorò Atena, socchiudendo gli occhi.

Un’ombra si figurò dinanzi a lei e la dea, spalancando gli occhi, si ritrovò ad abbracciare il figlio, finalmente libera, finalmente assieme a lui.

Baciò il suo volto, e ancora non successe nulla. Nessuna Erinne pronta a portarlo via da lei, nessun dio di sventura a dirle che aveva fallito.

E poi Érebos e Nyx, accanto a loro, felici e con le lacrime agli occhi per la gioia.

Allungando una mano al dio, si lasciò aiutare a rimettersi in piedi e Alekos, abbracciando entrambi i fratelli, disse: “Zia Nyx, Zio Érebos… ce l’abbiamo fatta!”

“Sì, caro… sei stato molto coraggioso. Ma ora è il caso che andiate a casa. Devi farti curare le escoriazioni sulle mani e sui piedi” mormorò Nyx, abbracciandolo e baciandolo sulle guance.

Alekos si guardò incuriosito e, annuendo sorpreso, asserì: “Ecco perché mi bruciavano tanto…”

Atena lo guardò piena di orgoglio e disse: “Mi prenderò cura di te, tesoro mio. Niente più viaggi infernali, per noi due.”

“Grazie, mamma” le sorrise Alekos, prima di guardarsi intorno e domandare: “Ma dove siamo?”

“Nell’antica Colchide, ragazzo. Da qualche parte in Medio Oriente, comunque” gli spiegò Érebos. “Visto che non è una zona molto tranquilla, convenite con me che è meglio andarcene?”

“Direi di sì” assentì Atena, prendendo in braccio il figlio per poi dispensarlo di altri baci.

Alekos rise e, in uno scintillio dorato, se ne andarono per raggiungere Monterey, California, e la casa di Atena.

Quando riapparvero, Alekos si ritrovò a fissare un bel giardino fiorito, alberi imponenti che degradavano verso il mare e una bella civetta maculata su un trespolo.

Nel vederli, Pallade trillò allegramente e si involò fino a raggiungere la spalla della padrona, che la carezzò grata e felice.

“E’ la tua civetta, mamma?” mormorò ammirato il bambino.

“Sì, caro. Vieni a conoscere la tua sorellina piumata” gli disse lei, scostando Pallade su un dito per poi avvicinarla ad Alekos.

Il bambino la prese timoroso sui palmi delle mani, mentre la civetta lo studiava con curiosità, muovendo a destra e a manca la testolina.

Sorridendo nel guardarli piena d’amore, Atena si deterse un’ultima lacrima dal viso e, guardandosi finalmente intorno, vide unicamente Érebos accanto a lei, ma non Nyx.

“E’ rientrata nell’Oltretomba per dare la bella notizia” le spiegò lui.

Annuendo, Atena poggiò stancamente il capo contro la spalla del dio e mormorò: “Ormai non ci speravo più. Ade ha davvero creato delle barriere mostruose, laggiù.”

“Ma ce l’hai fatta. Ce l’avete fatta” le fece notare lui, sistemandole delicatamente una ciocca di capelli.

“Come avevi detto tu… anche se al costo dei ricordi di Miguel” mormorò lei, sospirando.

Érebos, allora, sollevò una mano per mostrarle un’ampolla dorata e leggermente rilucente e Atena, confusa, domandò: “Cos’è?”

“Sono i ricordi di Miguel. Ho potuto salvarli dalle acque del Lete mentre venivano trascinati via” mormorò lui, facendola rianimare immediatamente. “Non mi era concesso aiutare te e Alekos, ma nessuno mi ha vietato di aiutare Miguel.”

“Érebos…” sussurrò grata Atena, abbracciandolo con forza. “Grazie.”

“Gli parlerò di voi e, se lo vorrà, li riavrà indietro. Non è mia intenzione sconvolgere la sua anima, ora sicuramente confusa, perciò lascerò a lui la scelta e, nel frattempo, li custodirò gelosamente” le spiegò il dio, rimettendo al sicuro l’ampolla.

“Così, se vorrà, saprà chi lo ha tanto amato” annuì Atena. “Anche Alekos ne sarà felice.”

 

 

 

 

N.d.A.: e qui termina anche questo breve episodio. Naturalmente, ritroveremo Atena e gli altri protagonisti di queste storie in altre avventure, perché hanno tanto ancora da dire. Alla prossima!

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Capitolo 8
*** Artemide - 1 - ***


Artemide – 1
 
 
 
Atena sbatté le palpebre con aria confusa, svegliandosi di soprassalto quando un camion scoppiettante giunse nelle vicinanze di casa, scalando le marce con un gran grattare e infine fermandosi con un brontolio fastidioso.

“Ma che diavolo…” brontolò la dea, levandosi da letto cercando di non fare troppo rumore.

Con un mezzo sorriso, lanciò un’occhiata al torso nudo di Érebos, sdraiato nel suo letto e ancora dormiente.

Le lunghe e lisce chiome corvine erano sparse sul cuscino come un cielo notturno e, irresistibile, le tornò il desiderio di affondare le mani in quei capelli favolosi.

Adorava farlo e, forse anche per questo, Érebos non li aveva mai tagliati.

Erano passati circa due anni da quando, con un viaggio infernale in tutte le sue declinazioni possibili, lei e suo figlio erano riusciti a uscire dall’Oltretomba, e tutto grazie ai buoni uffici del dio dell’oscurità.

Érebos si era impegnato anima e corpo per trovare una possibile scappatoia che permettesse ad Alekos di lasciare il regno di Ade, mettendo in quella ricerca tutto l’amore provato per Atena.

Da quel giorno così lieto per la dea – in cui aveva anche ricevuto la rassicurazione che i ricordi di Miguel non erano andati persi nelle acque del Lete – Érebos aveva fatto spesso visita a lei e al piccolo Alekos.

Per la dea era stato bello tornare a condividere la vita con qualcuno, e anche Alekos aveva trovato piacevole passare le sue giornate con la divinità Ctonia.

Érebos si era dimostrato, se mai ve ne fosse stato bisogno, un uomo paziente e generoso. I primi mesi da quel difficile viaggio erano infatti stati duri, per Atena, combattuta tra la gioia per aver liberato il figlio e la tristezza per aver lasciato sola l’anima di Miguel nell’Oltretomba.

Anche per questo, il dio si era più volte recato nei Campi Elisi alla ricerca dell’anima di Miguel, lasciando che ogni volta la nebbia lo trovasse per lui. Avendolo salvato dalle acque del Lete, il suo potere era in grado di riconoscerlo tra le migliaia di creature che affollavano l’Oltretomba.

A ogni incontro, Érebos raccontava all’anima coraggiosa le avventure di Atena e di Alekos, di come vivessero la loro vita nel mondo dei vivi e, pur non avendo più i suoi ricordi, Miguel sembrava lieto di sapere di loro.

Alle successive domande del dio riguardo ai suoi ricordi, però, Miguel aveva sempre preferito non ricevere nulla indietro, non ancora sicuro di voler riavere i suoi ricordi.

A questo, Érebos si era strettamente attenuto, promettendo comunque all’anima di custodire ad vitam aeternam l’ampolla con le sue rimembranze finché non le avesse rivolute per sé.

Per questo motivo, il prezioso monile si trovava nel mezzo del salotto della casa di Atena. Pur sapendo che era impossibile – era necessaria una mente, per immagazzinare ricordi – la divinità aveva sempre sperato, lasciandolo in quel luogo ricco di calore umano, che potesse raccogliere in qualche modo le sensazioni provate da Atena e Alekos.

Un mugolio proveniente dal letto fece riemergere Atena dai suoi pensieri e, sorridendo, attese che il dio riaprisse gli occhi dal suo sonno.

Atena era affascinata da quello sguardo, che sapeva inglobare tutte le stelle del cielo in iridi del colore della notte. Per quanto passasse il tempo, non si sarebbe mai abituata.

Agape…” mormorò lui, infine destandosi e aprendo i suoi fantastici occhi.

Atena sorrise e, nel sedersi sul bordo del letto, gli carezzò il viso, su cui era apparso un filo di barba.

Le sembrava così strano poter avere un uomo ancora al suo fianco! Eppure, Érebos era lì, e la famiglia di Miguel non solo ne era al corrente, ma era ormai affezionata al dio Ctonio.

Era stato difficile, almeno per lei, presentare Érebos agli ex suoceri, a cui si era riavvicinata dopo anni di allontanamento forzato. Riaverli nella sua vita era stato bello e rinfrancante e, ora che almeno Alekos era nel mondo dei vivi, sarebbe stato crudele escluderli dalla sua vita.

Ma come spiegare la presenza di un altro uomo al suo fianco, anche se divinità?

Atena aveva vacillato, nel compiere quel primo passo, ma ogni sua paura era stata spazzata via dall’abbraccio di mamma Anita, che aveva rischiato di incrinare – per modo di dire – una costola a Érebos nel dargli il benvenuto.

Sia Anita che Carlos, il padre di Miguel, si erano dichiarati entusiasti di saperla con un uomo, e non più sola. Il fatto che fossero entrambi divinità, e il loro nipotino un semidio immortale, poco contava, per loro.

Fin dal primo momento in cui Miguel aveva ammesso con loro la verità, la famiglia intera aveva accettato la cosa come un dato di fatto. A loro era bastato che il figlio fosse felice.

Alla morte di Miguel, non avevano trovato strano l’allontanamento della dea e, parlandone con Anita, Atena aveva infine conosciuto i motivi del loro silenzio rispettoso.

“Vivendo in eterno, le tue emozioni sono dilatate in un periodo di tempo che io o Carlos non avremmo mai potuto capire, …perciò non solo abbiamo compreso il tuo bisogno di restare sola, ma lo abbiamo ritenuto l’ennesima riprova dei tuoi sentimenti per lui” le aveva detto la suocera, battendole affettuosamente una mano sul braccio.

Non avendo mai avuto una madre – nascere dalla mente di Zeus precludeva da simili piaceri – Atena aveva sempre ritenuto Anita una sostituta degna di tale nome, e anche per questo aveva molto temuto la presentazione di Érebos alla coppia.

Mai, per nulla al mondo, avrebbe voluto farli soffrire. Ma tutto era andato per il meglio e, anzi, il dio e il nipote erano spesso oggetto di affettuosi e calorosi saluti.

“Atena… ma cosa…” mormorò il dio, guardandola dubbioso.

“Scusa. Non volevo disturbarti” replicò lei, facendo spallucce prima di chinarsi verso di lui.

Dopo avergli dato un bacio leggero, disse: “Il rumore di un camion davvero vecchio – immagino – mi ha svegliato, così volevo capire chi fosse la causa di un simile fracasso la domenica mattina.”

Scostando le lenzuola di raso scuro, il dio si levò da letto in tutta la sua statuaria bellezza e, nell’afferrare la vestaglia, si offrì di accompagnarla e disse: “Non si sa mai. Magari dovrai affrontare un camionista grande e grosso… e io dovrò difenderlo dalla tua ira funesta.”

Atena ridacchiò divertita – Érebos trovava affascinanti le dinamiche umane, ed era diventato in breve tempo un assiduo frequentatore dei social network – e replicò: “Cercherò di contenere i miei istinti guerrieri, promesso.”

In quel mentre, anche Alekos uscì dalla sua stanza e, vedendoli in corridoio, decretò: “Ha svegliato anche voi, immagino.”

“Abbiamo tutti il sonno leggero, a quanto pare. Dovremmo parlare un po’ con Hypnos a tal proposito” chiosò Atena, circondando le spalle del suo tesoro di nove anni.

Alekos le sorrise allegro, saltellando a ogni passo e, quando i tre raggiunsero la porta, Atena aprì per curiosare all’esterno, già pronta a sfoderare il suo sorriso migliore… o la sua migliore interpretazione da donna infuriata. Avrebbe giudicato sul momento quale delle due opzioni scegliere.

Quando, però, scorse un camion scassato poco oltre il suo cancello d’ingresso e una smoccolante Artemide discenderne con tanto di capelli ritti in testa, la dea si chiese se fosse per caso finita in una dimensione parallela.

Érebos tappò immediatamente le orecchie ad Alekos e, sbattendo frettoloso le palpebre, borbottò: “E’ Artemide? O sto ancora dormendo?”

“No, purtroppo è lei” sbuffò Atena, esasperata.

Lanciato poi uno sguardo ai suoi due uomini, aggiunse: “Cominciate pure a preparare la colazione. Io vado a sentire cosa è passato per la mente a quella fulminata di mia sorella.”

Il dio ridacchiò divertito e, nel riaccompagnare Alekos in casa, promise al ragazzo pancake al caramello e spremuta fresca.

Chiudendosi la porta alle spalle, Atena avanzò quindi battagliera verso la divinità silvestre e, le mani sui fianchi e l’espressione bellicosa, ringhiò: “Arty, …ma che diavolo combini, a quest’ora del mattino?!”

La dea, sentendosi interpellare da una voce familiare, si passò una mano tra i corti capelli rosso fuoco – la sua ultima passione erano i tagli pixie – ed esclamò: “Atty! Ciao! Che bello vederti!”

Accigliandosi maggiormente, Atena avanzò ancora e borbottò a bassa voce: “Sorella, qui la gente dorme, di solito, la domenica mattina alle sette.”

La dea della caccia si guardò intorno confusa, scrutò le lame d’ombra prodotte dalle piante del viale come a controllare l’orario – non aveva un orologio? – e infine chiese: “Cos’è la domenica?”

“Oh, cielo!” gracchiò Atena, dandosi una gran manata sulla fronte prima di osservare disgustata il camion da cui la sorella era discesa, ormai pronto a morire in mezzo alla strada del suo nuovo quartiere.

Trasferitasi un anno addietro sulla 17 Miles Drive – ogni sei o sette anni, cambiava sempre zona per non insospettire troppo i vicini – Atena era fiera dei rapporti di buon vicinato che aveva instaurato.

L’arrivo della sorella, però, poteva vanificare in un colpo solo tutto il suo lavoro. La zona di Pescadero Point, sul lato opposto del promontorio su cui sorgeva Monterey, era molto tranquilla e silenziosa, e i fracassoni non erano graditi.

“Arty, toglimi una curiosità. Dove hai trovato questo reperto storico?” le domandò Atena, indicando il mezzo di trasporto arrugginito e dalle sospensioni cadenti che si trovava dinanzi a casa sua.

Battendosi un dito sul mento, Artemide replicò: “Dici che è per via della tua domenica, se non ho trovato cose migliori?”

“Decisamente sì” dichiarò la sorella, scuotendo il capo per l’esasperazione. “Senti, spegni quell’affare e poi spiegami dove hai dato la patente, visto che non mi sembra tu l’abbia mai avuta.”

Artemide sgranò leggermente gli occhi, arrossì suo malgrado e Atena, sibilando un’imprecazione tra i denti, ringhiò: “Vieni dentro, prima che qualcuno scopra che hai guidato fino a qui – non voglio sapere da dove – e senza avere il permesso di farlo.”

“Ma ho la patente, sorella! Davvero!” si lagnò Artemide, seguendola a grandi passi nella villa della dea della guerra mentre sventolava un tesserino patinato e fresco di conio.

“Quale, con esattezza?”

“Quella che hai tu, è ovvio!” si limitò a dire Arty, scrollando le spalle nel mostrarle la sua patente a mo’ di prova.

“Appunto…” sibilò Atena, chiudendo la porta d’ingresso per poi sospingere Artemide verso la cucina.

Gran parte del mobilio della vecchia casa era stato trasferito da Monterey a Pescadero Point, con l’ultimo trasloco. Nell’oltrepassare il corridoio d’ingresso, Arty quindi passò dinanzi alla foto del matrimonio della sorella e Miguel, oltre ad alcune altre che ritraevano il bel surfer su un’onda particolarmente impegnativa.

“Persefone ci stava chiacchierando giusto l’altro giorno, da quel che so. Érebos le ha insegnato come riconoscerlo” chiosò Artemide, indicando Miguel mentre passavano di fretta dinanzi alle foto.

Sorridendo appena, Atena assentì e disse: “Sì, lo so. Me l’ha detto. Gli piace sentir parlare di me e di Alekos, ma ancora non ha chiesto indietro i suoi ricordi. Credo sia più facile, per lui, ascoltare soltanto, senza provare il rimpianto di non essere con noi.”

“Così, almeno, non soffre di nostalgia ma può ascoltare dei racconti piacevoli” ne convenne Artemide, prima di salutare Alekos ed Érebos, già seduti a tavola. “Buongiorno a tutti!”

“Qual buon vento, Artemide?” domandò il dio dell’oscurità, sorridendole cordiale.

“A quanto pare, Arty ha deciso di traslocare” dichiarò Atena, scrollando le spalle.

La dea della caccia rise, di fronte allo sconcerto di Érebos e al sorriso estasiato del nipote e, poggiate le mani sui fianchi, esclamò: “Avrete compagnia, d’ora in poi!”

“Basta che non si trasferisca in toto l’Olimpo…” mugugnò Atena, scuotendo la testa per l’esasperazione.

Si era allontanata dalla Grecia anche per avere un po’ di pace e, per diversi decenni, era stata accontenta. Se in seguito ad Artemide, però, fosse giunto anche qualcun altro, avrebbe chiesto asilo politico a un altro Pantheon. Quello norreno le piaceva, e avrebbe potuto fare un bel dispetto al padre, facendo comunella con Odino.

“Oh, non fare la noiosa, Atty! Siamo una grande famiglia, e ci vogliamo tutti bene…” brontolò Artemide, dandole una pacca sulla spalla con una certa energia.

“Vallo a dire ad Afrodite… porta ancora i segni delle tue unghie sul fondoschiena. Ma le hai cavato la carne, quella volta?” le rammentò Atena, prima di fissarla con autentica curiosità.

Artemide ghignò fiera e disse: “Meritava una lavata di testa. Non mi si parla di Endimione come se fosse il primo uomo di passaggio.”

“Disse la dea femminista che non vuole essere messa in ombra da nessun uomo” sottolineò per contro Atena, facendola arrossire.

“Non ti ci mettere anche tu, Atty” la mise in guardia la dea della caccia, accigliandosi.

“Frena i bollori, cara. Sono in pace da secoli, e voglio continuare così. Dicevo soltanto che è opinabile il fatto che Afrodite avesse torto e tu no. Vi siete accapigliate per un uomo. Punto. E non è molto edificante… neppure per una dea quale tu sei.”

Artemide storse il naso, lanciò un’occhiata a Érebos chiedendosi se potesse o meno punzecchiare la sorella in merito al suo nuovo amante, ma infine si trattenne.

Dopotutto, Atena aveva già ampiamente dato, quanto a sofferenze, e non era il caso di farle battute idiote solo per avere l’ultima parola.

Era lieta che avesse un rapporto così sereno con il dio dell’oscurità, e che quest’ultimo non solo non fosse geloso di Miguel, ma che si prodigasse per dargli tutto ciò di cui avesse bisogno nell’Oltretomba.

Ben poche anime potevano vantare un simile trattamento di rispetto.

“Si lagna per un segno invisibile” chiosò quindi Arty, scrollando le spalle.

“Vallo a dire a lei. Anche l’altro giorno, su Instagram, si scusava per la mancanza di suoi nuovi selfie del lato B” la prese in giro Atena, facendo scoppiare a ridere i suoi due uomini.

“Quella maniaca dell’autocompiacimento. Ma se ha un sedere perfetto!” brontolò Artemide, scuotendo il capo per l’esasperazione.

Atena rise sommessamente e, nell’invitare al tavolo della colazione la sorella, si fece spiegare come fosse riuscita a trovare quel catorcio su quattro ruote che, solo per caso, somigliava a un camion.
 
***

Spacchettando l’ennesimo cartone – colmo all’inverosimile e, con tutta probabilità, ritoccato magicamente per contenere più cose del pensabile – Atena scrutò soddisfatta l’ampia camera da letto della sorella e disse: “Beh, direi che è ben diversa dal tuo tempio sull’Olimpo. Somiglia più a una stanza in stile savana.”

“Era quello che volevo” assentì lieta Artemide, sedendosi sul bordo dell’enorme letto a tre piazze per poi aggiungere: “Sono stanca dei marmi e delle colonne doriche del palazzo.”

“E ...” la punzecchiò Atena, imitandola.

“Perché ci deve essere per forza un ‘e’, sorella?” mugugnò la dea, accigliandosi.

“Non sei vanesia come Afrodite, perciò dimmi; cos’è che realmente ti rode il fegato?”

Artemide sostenne lo sguardo ferreo della sorella per pochi secondi, prima di crollare e reclinare il viso, nascosto poi dalle sue mani aperte a ventaglio.

Sorpresa da quella reazione, Atena le sfiorò la spalla con una mano e le domandò: “Tesoro, che succede?”

“Mi mancavi” mormorò la dea, affondando maggiormente il viso tra le mani.

“Come?” esalò Atena, sgomenta.

Vagamente piccata, Artemide borbottò: “E’ così difficile da credere? Con Afrodite non vado d’accordo, Eos mi odia per via di Orione, Era non mi sopporta perché la mia faccia le ricorda mia madre Leto, Demetra ed Estia stanno sempre per i fatti loro e le Muse sono smorfiose, tutte a vantarsi dei loro doni. Percy esce solo sei mesi l’anno dall’Oltretomba e, quando è laggiù, è sempre cheek-to-cheek con Ade, da quando Alekos non c’è più. L’unica con cui andavo veramente d’accordo eri tu, ma sei scappata dall’Olimpo, e quindi…”

Atena sospirò leggermente, trovando quel discorso un tantino infantile ma, preferendo non litigare con lei, asserì: “Magari, se affrontassi un po’ meno di petto le persone, non ti troveresti sempre a litigare con chicchessia.”

“Io NON AFFRONTO LE PERSONE DI PETTO!” sbraitò Artemide prima di tapparsi la bocca, sgranare gli occhi e sospirare demoralizzata.

Fissandola con sufficienza, Atena replicò: “Questa come vogliamo chiamarla, se non aggressione verbale?”

Artemide grugnì, preferendo non rispondere e la sorella sorrise divertita, scuotendo la testa per l’esasperazione.

“Dovresti andare in uno di quegli incontri per il controllo della rabbia, sai?” chiosò infine la dea della guerra.

“E cosa dovrebbero essere, scusa?” sbuffò la sorella, accigliandosi.

“Quello che ho detto. Le persone si incontrano ed espongono ciò che pensano, oltre a tentare di capire perché hanno questi colpi di testa improvvisi. Sembra che aiuti” le spiegò Atena.

Artemide non parve molto convinta, ma il suono del campanello interruppe qualsiasi sua replica.

Levatesi in piedi con estrema grazia, le due dee raggiunsero la porta d’ingresso e lì, allegra e sorridente, Anita Rodriguez si presentò con un enorme vassoio colmo di nachos al formaggio appena fatti.

“I ragazzi mi hanno detto che eravate qui a sistemare le cose di tua sorella, così sono venuta a darle il benvenuto” le spiegò la donna, consegnando ad Atena il vassoio per poi abbracciare una sorpresa Artemide. “Bienvenida, mi querida… sono contenta che Atena abbia sua sorella nelle vicinanze. Un po’ di compagnia fa bene a tutti.”

“Oh, beh… grazie, signora” mormorò Artemide, prima di lanciare un ghigno soddisfatto all’indirizzo di Atena, che sbuffò contrariata. “E’ un vero piacere fare la sua conoscenza.”

“Dammi pure del tu, tesoro. Come fa il caro Érebos” la corresse subito Anita. “Posso aiutarvi in qualcosa, care?”

Artemide si aprì in un sorriso tutto fossette e chiosò: “E’ adorabile, sai, sorella?”

“Lo so” ammise Atena, avvolgendo con un braccio le spalle esili della donna.

“Mettiamoci al lavoro per far diventare uno splendore questa casa” dichiarò a quel punto Anita, avvolgendosi le maniche del maglioncino di cotone.

“E sia!” assentì Artemide, già pregustando un bel lavoro di gruppo.
 
***

“… e così, Miguel vi disse di Atena praticamente subito” mormorò sorpresa Artemide, appollaiata sul bancone del piano bar mentre mangiucchiava un nacho con gran diletto.

Sorridendo ad Atena, che stava riponendo in uno stipetto gli ultimi prodotti di pulizia rimasti in giro per casa, Anita assentì e disse: “Riteneva che fosse assurdo portarci a casa una donna come lei, senza farci sapere il suo segreto più grande. Come avremmo potuto amarla sinceramente, senza saperlo?”

Atena le sorrise e, nel carezzarle una spalla, asserì: “Ero in pensiero, lo ammetto, quando ve lo disse, perché non sono cose che ci si aspetta di sentire, oggigiorno.”

“Sarei più sorpresa di scoprire che esistono persone oneste in Parlamento, credimi” ironizzò Anita, facendo sorridere le due dee. “Noi messicani abbiamo un misticismo molto più profondo rispetto a molte popolazioni, e credere nell’esistenza del divino non è così difficile, per noi.”

Gli occhi le divennero liquidi, quando parlò nuovamente di Miguel e disse: “Ti amava così tanto, cara, e ha passato degli anni splendidi, con te.”

“Sapere che ha serbato di me dei bei ricordi, è l’unica cosa che mi consola” ammise Atena. “Ma non è giusto intristirci così, quando nella casa accanto stanno preparando un barbecue per noi!”

Anita assentì con piacere e replicò: “Ci sarà anche Felipe, oggi. E’ riuscito a prendersi un giorno libero, e così ha preso un aereo ed è venuto qui.”

“Che bello! Sono mesi che non lo vedo!” esclamò Atena, lieta della notizia.

Artemide la fissò dubbiosa e le domandò: “Scusa, ma Érebos che dirà, vedendoti così felice al pensiero di incontrare un altro uomo?”

Atena sospirò e, scuotendo il capo nell’accompagnare fuori una ridente Anita, borbottò: “Felipe è il mio ex cognato, sciocca.”

“Oh… cioè, quel gran pezzo di uomo di tuo marito, aveva un fratello?” esalò Artemide, prima di scoppiare a ridere per l’imbarazzo.

Atena sospirò nuovamente e, rivolgendosi ad Anita, brontolò: “Scusala. Sta più tempo con gli animali, che con le persone, e questo è il risultato.”

“Beh, ma cara… dimostra soltanto di aver gusto in fatto di uomini” ironizzò Anita, facendo scoppiare a ridere le due dee.


 


N.d.A. A sorpresa è arrivata Artemide, a rendere più pepata la vita di Atena. Che dite, combinerà dei guai come sull'Olimpo? E la storia tra Atena ed Erebos procederà senza inghippi, o la presenza della dea silvana porterà scompiglio anche tra di loro?

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Capitolo 9
*** Artemide - 2 - ***


Artemide -2-
 
 
 
 
 
La divisa verde oliva di Felipe spiccava evidente, in mezzo alle camice hawaiane di suo padre Carlos e suo zio Ortis, che in quel momento gli stavano porgendo una birra e del mais allo spiedo.

I cugini e le cugine di Felipe, invece, sembravano meno chiassosi quanto ad abbigliamento, ma il loro vociare non aveva nulla da invidiare a quello dei due Rodriguez senior.

Quando Felipe aveva posteggiato il suo Range Rover accanto alla nuova casa di Atena, non si era stupito più di tanto nel sentire già la sua caciarona famigliola alle prese con la festa del Cinco. Per loro, era ancor più importante di Natale, forse.

L’uomo trentaseienne, quindi, si era avventurato lungo il vialetto d’ingresso – abbellito da ginestre e mimose a cespuglio – e si era fatto notare con un saluto a gran voce e un ampio gesto del braccio.

Subito, il nipote Alekos si era presentato al suo fianco tutto sorridente e allegro e, tenendolo per mano, lo aveva scortato da Érebos per fare le presentazioni, avvertendolo nel frattempo circa l’ubicazione di Atena e Anita.

Finalmente, quindi, Felipe aveva conosciuto l’uomo – beh, il dio – di cui tanto la madre gli aveva parlato e, contrariamente a quanto aveva temuto, lo aveva trovato affabile quanto umile nei modi.

In quel momento, notò Felipe scolandosi la sua birra, era impegnato accanto al barbecue, in compagnia di zia Julieta – la sorella gemella di Anita. All’apparenza, sembravano muoversi in perfetta sincronia.

Forse, dopotutto, per quella volta tutto sarebbe andato bene, alla griglia. O almeno così sperava. Sua madre aveva riso un sacco, raccontandogli la precedente esperienza del dio accanto a una piastra da barbecue, ma lui preferiva non esserne testimone.
 
***

Di ritorno assieme ad Anita dalla nuova casa di Artemide, Atena lanciò un’occhiata tutt’attorno, sorrise per la chiassosa allegria che si era già sprigionata tra i partecipanti al Cinco e Maio e chiosò: “Direi che sta procedendo tutto bene, vero?”

La ex suocera annuì con piacere e, divertita, indicò alla dea le imprese del suo compagno, impegnato dinanzi al barbecue insieme a Julieta, che dava l’idea di essere una madre orgogliosa alle prese col suo unico figlio.

Entrambe sorrisero, ricordando bene la prima volta che il dio si era avvicinato a un barbecue. La maggior parte delle verdure avevano fatto una fine miserevole, e anche le bistecche erano risultate immangiabili.

Érebos, però, non si era dato per vinto e si era impegnato nell’imparare, anche grazie alla pazienza di Julieta che, con maestria, lo aveva reso edotto nella tecnica sopraffina del barbecue.

Fu in quel momento che Felipe riuscì finalmente a inquadrare Atena e, oltrepassando la muraglia umana composta dalla sua famiglia, la abbracciò con calore, baciandola poi sulle guance con trasporto.

Atena accettò e ricambiò l’abbraccio, avendo sinceramente sentito la mancanza dell’ex cognato e l’uomo, emozionato, mormorò: “Mi chica… como estas?”

“Ora che ti ho qui, molto meglio. Sono mesi che non ci vediamo!” replicò lei, baciandolo sulle guance con affetto prima di dargli un buffetto sul naso.

Lui rise di quel gesto materno, passandosi una mano sulla zazzera di capelli neri prima di indicare Érebos e dire: “Ho finalmente conosciuto il tuo uomo, mentre tu e mamma eravate nella casa accanto, ed è davvero simpatico. Il tuo ometto, poi… sembra sempre di più la copia sputata di Miguel.”

Alekos sorrise tutto contento, nel sentirglielo dire e, rivolto alla madre, disse: “Lo zio mi ha detto un sacco di cose, su papà, quando aveva la mia età. Sapevi che si era rotto un braccio cadendo da un albero?”

Atena sospirò piena di sorpresa, ma rise. “Oddio, no, non lo sapevo, ma non mi sorprende più di tanto.”

Felipe rise assieme a lei, asserendo: “Io e Micky ci cacciavamo in un sacco di pasticci, da piccoli.”

“Oh, anche Alekos sta recuperando” ammiccò Atena, lanciando un’occhiata significativa al figlio, che arrossì.

“Che hai combinato, mi chico?” si incuriosì Felipe, mentre il resto della famiglia si avvicinava per ascoltare.

Storcendo il naso, Alekos borbottò: “Ho messo una rana nell’armadietto di una mia compagna di classe, e lei ha strillato come un’aquila. Ma io pensavo che le piacessero! Ne ha tante, stampigliate sopra lo zaino!”

Tutti risero di fronte al suo piccato sconcerto e Atena, nel dargli una pacca sulla spalla, disse: “Lascia perdere, tesoro. E’ assai difficile capire le donne.”

“Di certo è una mammoletta, se si è spaventata per una rana” motteggiò Artemide, raggiungendo finalmente la festa e attirando così l’attenzione di tutti i presenti.

“E tu saresti…?” si interessò Felipe, ammiccando malizioso al suo indirizzo.

Arty sorrise con altrettanta malizia e replicò: “La dea della caccia, mortale.”

“Allora dovrò tenerti particolarmente d’occhio, visto che sono un ranger” chiosò lui, sollevando un sopracciglio con evidente interesse, scrutandola poi da capo a piedi con chiaro compiacimento.

Artemide, ovviamente, non ne comprese il doppio senso ma non le importò nulla e, afferrando la birra che Alekos le stava offrendo, celiò: “Non so cosa sia un ranger, ma farmi tenere d’occhio da te potrebbe essere interessante.”

Gli uomini risero di quella battuta volutamente maliziosa e Anita, dando una pacca sul braccio a un’esasperata Atena – che aveva fissato le schermaglie tra i due con qualcosa di simile al disgusto – chiosò: “Te l’ho detto, cara. Ha gusto per gli uomini esattamente come la sorella.”
 
***

Osservando Artemide e Felipe alle prese con una disquisizione sull’importanza dei predatori all’interno del naturale ciclo di vita e morte in un habitat sano, Atena si accostò a Érebos e domandò: “Tutto bene?”

“Ma certo. La famiglia di Miguel è splendida, ma questo già lo sapevo. Inoltre, suo fratello è una persona molto piacevole, e mi ha offerto la possibilità di conoscere tuo marito un po’ meglio” le rispose lui, sorridendole generosamente.

Atena lo prese sottobraccio spontaneamente e, poggiato il capo contro la sua spalla, replicò: “Miguel era mio marito. E’ morto, lo sai.”

“Ciò nondimeno, rimane il tuo amore” sottolineò lui, baciandole teneramente i capelli.

Atena allora si scostò da lui per scrutarlo con espressione dubbiosa e, dopo aver scosso il capo, si allontanò per avviarsi all’interno della casa senza dire nulla.

Non comprendendo quel comportamento, lui fece per seguirla ma Anita lo fermò con gentilezza, mormorando: “Ora deve rimanere un po’ sola.”

“Ho detto qualcosa di male, secondo te?” le domandò allora lui, profondamente turbato all’idea di averla sconvolta inconsapevolmente con il suo dire.

La donna scrutò quegli occhi così singolari e unici, che sapevano racchiudere la bellezza del cielo stellato e dell’universo tutto e, scuotendo la testa, asserì: “Sei la persona più dolce, generosa e paziente di questo mondo, caro, ed è bello che tu ricordi con così grande cuore il mio Miguel, ma così le impedisci di chiudere veramente con il passato.”

“Ma… ma io non desidero che lo dimentichi perché adesso sono al suo fianco!” esalò sgomento Érebos.

“Non si tratterebbe di dimenticarlo, ma di permetterle di crearsi dei nuovi ricordi con te. Quelli di Miguel non spariranno mai ma, finché tu ti tratterrai dall’essere davvero il suo nuovo compagno, lei non potrà mai ricominciare.”

Érebos allora scrutò l’ampolla che aveva sistemato sul davanzale della finestra, tornò a osservare Anita e infine mormorò: “Ho sempre pensato che, se mi fossi limitato ad amarla come la amo, sarebbe bastato. Inoltre, non volevo che Miguel pensasse che stessi usurpando il suo posto.”

Anita a quel punto rise e lo abbracciò con calore, replicando: “Oh, tesoro, ma Miguel sapeva bene che, prima o poi, Atena avrebbe trovato l’amore anche con qualcuno di diverso da lui. Lei è immortale, il mio bambino no. Il fatto che tu sia un dio, credo che lo rassicurerebbe sul fatto che lei non rischierà mai di rimanere da sola. Era questo, a terrorizzarlo più di tutto.”

La divinità lanciò uno sguardo penetrante verso la casa, mentre il rumore dei festeggiamenti proseguiva imperturbato nel giardino, e Artemide e Felipe si stavano giocando l’ultima salsiccia a colpi di morra cinese.

Aveva sempre pensato che, parlando di Miguel e facendo capire ad Atena quanto, l’uomo che lei aveva sposato, non urtasse la sua sensibilità di dio innamorato, potesse essere la carta giusta da usare, ma sembrava aver sbagliato grandemente.

Non che avesse mentito. Miguel era per lui l’esempio di uomo esemplare, e sapere che Atena aveva potuto averlo nella sua vita, lo aveva reso felice.

Evidentemente, però, rammentarglielo così spesso ed esitando nel coltivare il loro rapporto ogni qual volta si erano trovati in prossimità dell’ampolla con le memorie di Miguel, l’aveva in qualche modo ferita.

“Sii il suo uomo in tutti i sensi, chico, e prendi il posto che ora ti spetta di diritto. Non aver paura di ferire la memoria di Miguel, perché non potrai mai farlo. Il tuo cuore è troppo puro, per poter concepire anche solo un pensiero crudele o egoista” lo rincuorò Anita. “Feriresti Miguel se tu non amassi Atena come merita, ma questo dubito potrà mai succedere.”

Érebos allora si chinò per baciarla su una guancia a mo’ di ringraziamento per quelle sagge parole e, dopo un istante, raccolse l’ampolla nella sua mano ed entrò in casa.

Lì, raggiunse la stanza di Alekos, posizionò l’ampolla sul suo comodino e, piano, mormorò: “E’ giusto anche per lei, credo.”

Ciò fatto, uscì per cercare Atena ma, quando udì dei rumori all’altro capo della casa, nei pressi della porta d’ingresso, si insospettì e raggiunse a grandi passi l’entrata per capire cosa stesse succedendo.

Impegnata con uno scatolone e diverse fotografie tra le mani, il dio trovò infine Atena, che sobbalzò nel veder giungere Érebos con espressione determinata. Colpevole, reclinò ciò che ancora teneva in mano e mormorò: “Scusa.”

“Come, prego?” esalò il dio, disorientato dal suo dire.

“Tu sei così gentile, con me, e io non ho mai fatto nulla per meritarmi un simile affetto incondizionato” sussurrò Atena, infilando le fotografie nello scatolone.

Ora più che mai confuso, la divinità replicò: “E questo cosa vorrebbe dire? Pensi di non avermi mai dimostrato il tuo affetto? O il tuo amore?”

“Tenevo quelle nell’entrata di casa!” sbottò Atena, risollevando il viso e fissando ombrosa sia Érebos che le fotografie nello scatolone.

La divinità Ctonia sorrise sensibilmente nel notare quel cipiglio, riconoscendo in quello sguardo acceso le scintille della guerriera che era in lei.

“Ebbene? Se mi avessero dato fastidio, te l’avrei detto” sottolineò lui, facendola però ridere per diretta conseguenza.

“Andiamo, Érebos, sappiamo bene entrambi che non l’avresti mai fatto. Sei buono. Buono al punto tale che non tenteresti mai di ferire nessuno, neppure un’anima che risiede nell’Oltretomba” gli rinfacciò Atena, poggiando le mani sui fianchi con espressione sempre più bellicosa.

Il dio sorrise maggiormente, di fronte a quel progressivo cambiamento e, suo malgrado affascinato da quell’aspetto vagamente feroce e che, solitamente, Atena non mostrava mai, con lui, asserì: “Vuoi forse dirmi che sono un bonaccione? O sto usando male questa terminologia moderna?”

Sbuffando, Atena cominciò a camminare avanti e indietro, chiaramente indispettita, e sbottò dicendo: “Come faccio ad arrabbiarmi con te, se tu sei sempre così gentile con me?!”

“E perché vuoi arrabbiarti?” la irrise gentilmente lui.

“Perché… perché tu non sei mai arrabbiato, mentre a me viene voglia di arrabbiarmi, ogni tanto, e mi trattengo perché mi sento un’idiota a volermi arrabbiare quando ho un compagno come te al fianco” sbuffò contrariata Atena, sbattendo le braccia contro i fianchi al pari di una bambina.

Érebos rimase strabiliato da quella spiegazione apparentemente senza senso e, scoppiando a ridere di gusto, la abbracciò e disse contro i suoi capelli di fiamma: “Ah, mia cara Atena… ti amo. E scusami se ti ricordavo sempre Miguel, e mi sentivo in imbarazzo a baciarti dinanzi all’ampolla, e non ti ho mai detto di togliere le sue foto. Sto imparando anch’io, credimi. Non solo tu. Pensavo che, se ne avessimo parlato, tu ti saresti sentita a disagio avendomi nella tua vita, e invece ho sbagliato tutto.”

Atena ascoltò ogni parola con la meraviglia e la commozione nel cuore e, stringendolo a sé, mormorò: “Quindi… eri geloso?”

“Non geloso. Sono intimorito dall’uomo che è stato per te Miguel, e cerco di essere come lui, ma a quanto pare non lo sto facendo bene” ammise lui, scostandola per darle un bacio sulla fronte.

A quelle ultime ammissioni, Atena rise e replicò: “Ma Érebos, io e Miguel litigavamo, a volte, e a volte ci davamo reciprocamente sui nervi. Non è mai stato tutto rose e fiori, credimi, ma sapevamo che l’amore avrebbe prevalso sulle sfuriate. Pensi davvero che una dea della guerra come me non prenda di petto le cose, ogni tanto, e non si attacchi per le più piccole cose? Hai visto, no, cosa succede con Ares? Siamo sempre ai ferri corti.”

“Quindi… tu e Miguel…?”

“Non hai mai litigato con Nyx, quando stavate insieme?” gli fece notare lei, carezzandogli delicatamente la lunga chioma corvina, che ora gli raggiungeva la vita.

“Beh, a ben pensare, sì” ammise lui, meditabondo. “Ma davo per scontato che, essendo mia sorella e mia compagna da migliaia di anni, fosse il tempo trascorso assieme ad aver logorato reciprocamente i nervi.”

“Può anche essere… ma continuate a volervi bene, no? Anche se ami me, e stai con me.”

“Non potrei mai non amare Nyx” asserì con sicurezza Érebos prima di sospirare di sorpresa e scoppiare in una calda risata.

Atena annuì e mormorò: “Appunto. E’ la stessa cosa per me. Miguel rimarrà nel mio cuore, ma ora amo te, e voglio stare con te. Ma non con una copia di mio marito. Con te, per come sei. Inoltre, so che questo non ferirà Miguel perché, prima di tutto, lui ha sempre voluto il mio bene.”

“E’ quello che mi ha detto anche Anita” assentì lui.

“C’è un motivo se adoro quella donna” ammiccò Atena, sorridendo felice.

Érebos, allora, avvolse la vita della sua amata con le braccia, la strinse a sé dolcemente e mormorò: “Era il nostro primo litigio, questo?”

Ammiccando maliziosa, Atena mormorò di rimando: “Direi di sì.”

“Penso che andrebbe festeggiato in qualche modo” propose quindi la divinità, accentuando la sua stretta.

Ridendo divertita e piena di malizia, la dea replicò: “Ora? Con tutti gli invitati che ci sono fuori?”

Érebos schioccò le dita e, immediatamente, una nebbiolina rilucente li avvolse completamente, oscurando a qualsiasi occhio curioso quell’angolo di casa.

“Se anche tentassero di entrare, non riuscirebbero” la rassicurò lui, calando sulla sua bocca subito dopo.

Atena non si lasciò pregare e, avvolte le gambe attorno alla vita stretta del dio, si lasciò condurre nella loro stanza per festeggiare degnamente la loro prima lite.

Artemide poteva ben reggere la baracca per un po’. Inoltre, glielo doveva, visto che le aveva permesso di diventare la sua vicina di casa.
 
***

Arricciando il naso non appena si rese conto di qualcosa di diverso nell’aria, Arty lanciò un’occhiata incuriosita alla casa, prima di ghignare furba e motteggiare: “Oh, oh… Erry ha sfoderato l’artiglieria pesante.”

“Erry?” ripeté confuso Felipe, sorseggiando una birra.

Artemide indicò la casa con la sua bottiglia di tequila – gentilmente offertale da zio Ortis – e, accentuando il suo sorriso, celiò: “Anche un mortale tuo pari dovrebbe intravedere uno sfrigolio argentato, dietro le finestre di casa.”

Felipe accentuò lo sguardo e chiese con ironia: “Il mortale al tuo fianco riesce a scorgerla. Ma cosa sarebbe?”

“Un modo assai raffinato dell’uomo di casa per tenerci fuori… immagino per fare cosacce con Atena” sghignazzò Artemide, ingollando un altro po’ di tequila. “Erry è un gran signore ma, a volte, ha un bastone infilato nel c…”

Tappandole la bocca per evitare di dire sconcezze, Felipe mormorò: “Non parlare così, quando c’è mio nipote nei paraggi.”

“Alekos ha sentito ben di peggio, quando si trovava nell’Oltretomba. Quando Percy si trova da sua madre, Ade diventa più stizzoso di un cavallo a cui abbiano tirato la coda, perciò non è insolito che smoccoli a gran voce…” scrollò le spalle Artemide, incurante del suo richiamo. “… e nell’Ade c’è un’eco pazzesca.”

Lui allora scosse il capo, rise sommessamente e celiò: “E’ tutto così assurdo… anche se so di Atena da quasi vent’anni. Mi era parso così strano che Miguel si fosse convinto a volerla sposare così presto! Ventidue anni e Boom! Piombò a casa con la notizia che aveva conosciuto la donna della sua vita e che, per niente al mondo, l’avrebbe lasciata andare.”

“Sei più giovane di Miguel?” si informò Artemide.

“Di sei anni circa” assentì Felipe, tornando serio al pari della dea, che stava ascoltando con attenzione. “Mamma volle conoscere questo concentrato di perfezione e, quando Miguel assentì, ci disse che aveva qualcosa di molto speciale, oltre a essere la donna perfetta per lui, e che tutti noi avremmo dovuto aprire al massimo le nostre menti, per poterla apprezzare e vederla come la vedeva lui.”

“Speciale davvero, direi” ammiccò la dea.

“Mamma è molto religiosa, e conosce gli spiriti e il loro regno meglio di chiunque altro, in casa, perciò le parole ispirate di Miguel non la sorpresero più d tanto, quando infine la incontrammo” ammise Felipe, tornando a scrutare la casa. “Anche volendo, non avremmo potuto non credergli. Si sentiva che era una divinità.”

Artemide sollevò un sopracciglio con evidente sorpresa e mormorò: “Oh… e così mia sorella vi ha mostrato il suo vero volto?”

“Se intendi l’iconografia classica di Atena con scudo ed elmo, no…” precisò Felipe. “… ma il suo volto era come illuminato dall’interno, e la sua bellezza travalicava qualsiasi creatura umana avessimo mai visto.”

Artemide assentì pensierosa, mormorando: “Ha lasciato che l’icore risplendesse nel suo sangue.”

“L’icore?” domandò confuso l’uomo.

“L’icore è un minerale divino che ci rende ciò che siamo. Ha effetti diversi su ciascuno di noi, e ci offre poteri diversi in base a ciò che abbiamo acquisito all’atto della nascita” gli spiegò Artemide, sentendosi assai strana nelle parti della maestrina.

Solitamente, lei si divertiva con gli uomini, e li teneva per sé giusto il tempo per una ruzzolata nei boschi, passando poi all’amante successivo, all’avventura successiva.

Con Endimione aveva commesso una sciocchezza, e solo perché infatuata di lui ben più che di chiunque altro.

Confinarlo nel sonno eterno ne aveva preservato la bellezza, certo… ma a discapito di un qualsiasi rapporto umano con lui. E lei si sentiva stranamente intrigata da ciò che stava succedendo in quel momento con Felipe.

Parlare con lui, confrontarsi con le sue idee, ridere e scherzare e sì, bere insieme senza pensare minimamente al sesso come componente primaria, era davvero – e stranamente – piacevole.

“Perciò, quando tuo padre si unì carnalmente a tua madre, tu acquisisti i tratti tipici della notte da tua madre, mentre quelli diurni vennero acquisiti da tuo fratello Apollo?” le domandò Felipe.

“Esattamente. Qualcuno ha studiato, qui” ammiccò la dea, complimentandosi con lui.

“Quando hai una divinità per cognata, due cosucce torni a studiarle. Giusto per sapere se devo evitare qualcosa” chiosò l’uomo, divertito.

“All’epoca, credo che avresti potuto rendere felicissima Atena offrendole la testa di Poseidone su una picca… ma ora vanno abbastanza d’accordo” gli spiegò con naturalezza Artemide, prima di notare il leggero pallore di Felipe. “Che c’è?”

“Beh… l’idea di uccidere un dio non penso mi sia mai passata per la mente. Che poi… è possibile?”

“Forse, Érebos ne sarebbe in grado. Essendo una divinità Ctonia, è più antica rispetto a tutti noi e, grazie al suo legame antitetico tra la vita e la morte, potrebbe essere in grado di scindere anche i legami dell’icore con il corpo immortale di un dio. In via del tutto ipotetica, s’intende, perché non credo che quel ragazzone ci abbia mai anche solo pensato, a un’eventualità simile” gli spiegò Artemide, scrollando divertita le spalle.

“Essendo una persona così mite, non si pensa a quanto, in realtà, sia potente e antico” annuì ammirato Felipe prima di guardare Artemide e domandarle: “E tu? Tu hai mai pensato di fare del male a qualche dio? O qualche dispetto?”

Artemide scoppiò a ridere, a quella domanda e, ripensando alla lite con Afrodite, esalò: “Oh, ci provai, ma con scarso profitto. Ares mi fermò, impedendomi di fare del male alla sua Afrodite.”

“Quindi sei tu che hai sfregiato il lato B di Afrodite?” ironizzò Felipe, ritrovandosi per diretta conseguenza ad ammirare le iridi smeraldine di Artemide riempirsi di sorpresa e malizia.

“Non mi dire che anche tu la segui su Instagram?!” gracchiò la dea, scioccata. “E che lei ha osato lamentarsi di me!”

Felipe sollevò il suo cellulare per mostrarglielo e, ridacchiando, aprì la pagina di Afrodite – conosciuta con il nome di First Goddess – per chiosare: “Sono un uomo sano di mente e di corpo. Come posso non apprezzare una simile visione? Inoltre, contrariamente agli altri, so che sto guardando davvero una dea.”

Artemide storse il naso nello scorgere le ultime foto di Afrodite. A ben vedere – e lasciando perdere il suo desiderio di fare il bastian contrario – le immagini erano davvero eccellenti, eseguite da una mano esperta e con una protagonista assai fotogenica.

Afrodite se ne stava nuda come un verme, sdraiata su uno scoglio dell’isola di Cipro, tenendo una mano pudicamente premuta sui seni, mentre una gamba sollevata ad arte le nascondeva le parti intime.

Splendida sotto qualsiasi aspetto, con le chiome bionde e morbide accarezzate dal vento e le labbra tumide socchiuse, come a sussurrare un segreto, sembrava pronta ad accogliere il suo amante.

La maledetta ci sapeva fare, non si poteva certo dire altro.

“E’ bella” bofonchiò Artemide distogliendo lo sguardo.

Felipe allora mise via il cellulare, si alzò in piedi e, offrendo una mano ad Artemide, celiò: “E’ un po’ troppo perfettina, per i miei gusti, però. E poi, non di solo nudo si ciba l’occhio dell’uomo.”

Ringalluzzita da quelle parole e dalla battutina di Felipe, Artemide accettò la sua mano e, complice una musica latina di sottofondo, iniziò a ballare con l’uomo seguendone i passi cadenzati e veloci.

Fu in quel mentre che, riemergendo dalla casa, appagati e sereni, Érebos e Atena notarono la coppia danzante e quest’ultima, sorridendo indulgente, chiosò: “Che dici? Dovrei avvisare il mio ex cognato della tendenza di Arty a usare gli uomini come stalloni da monta?”

“Lasciali divertire. Penso che Felipe sia abbastanza cosciente di chi ha davanti. E poi, tua sorella non sarebbe la prima a innamorarsi di un Rodriguez.”

“Questo è vero” ammiccò Atena, levandosi in punta di piedi per baciare il suo uomo. “Grazie, per prima.”

“Grazie a te. E’ stato… appagante” mormorò lui, soddisfatto.

Lei ammiccò soddisfatta e, quando Alekos la raggiunse di corsa, Atena lo abbracciò per poi domandargli: “Allora, ti piace la festa?”

Il ragazzo assentì, lanciò un’occhiata ai volti soddisfatti dei due adulti e, malizioso, domandò: “Vi siete divertiti?”

Atena scoppiò a ridere, baciandogli il capo per diretta conseguenza ed Érebos, annuendo con gran diletto, asserì: “Direi che è stata un’esperienza edificante, ragazzo.”

“Bene” ammiccò Alekos, ridacchiando.

Carezzandogli il capo, il dio poi aggiunse: “Ho messo l’ampolla coi ricordi di Miguel nella tua stanza, e ho fatto in modo che tu possa vederli, se vuoi, così potrai conoscerlo al meglio, direttamente dalla sua mente.”

“Grazie, Érebos. Lo farò volentieri” lo abbracciò il ragazzo, prima di correre via quando la cugina Ariana, di tre anni più grande di lui, lo chiamò per giocare alla pignatta.

“E’ stato un bel gesto. Grazie” mormorò Atena.

“E’ suo padre, ed è giusto che lo conosca. Ma farò in modo di farmi conoscere meglio anch’io. Desidero far parte pienamente anche della sua vita, oltre che della tua, perciò domani lo porterò a trovare alcune sue sorellastre.”

Atena levò un sopracciglio con evidente curiosità e lui, ammiccando, aggiunse: “Lo porterò dalle Esperidi, tranquilla. Per i suoi altri fratelli e sorelle c’è tempo. Inoltre, il bosco che governano le Esperidi è splendido, e visto che Alekos ama le passeggiate all’aria aperta, sarà un bel luogo da visitare.”

“Credo che gli piacerà molto” annuì Atena, prima di fare tanto d’occhi quando Artemide scoppiò in una risata così forte da attirare l’attenzione di tutti i presenti.

Persino la musica venne azzittita per capire il perché di cotanta allegria e, mentre gli occhi degli invitati si puntavano sulla dea silvana, Atena borbottò: “Ma che combina, adesso?”

Imperturbabile a qualsiasi cosa, Artemide levò un braccio a salutare la sorella e, a gran voce, esclamò: “Ehi, Atty, Felipe non crede che esistano gli unicorni. Che dici, devo portarlo nel mio giardino sull’Olimpo per dimostrargli che non mento?”

Esasperata, Atena lasciò il fianco di Érebos – ora ridente – per raggiungere la sorella e, quando l’ebbe a tiro, la afferrò per le spalle e bofonchiò: “C’è un motivo se gli umani non sanno della loro effettiva esistenza, e per loro sono solo creature mistiche. O te lo sei dimenticato, sciroccata che non sei altro?!”

Artemide sbatté le palpebre per qualche attimo prima di arrossire copiosamente e mormorare: “Scusa, sorella. L’ho davvero dimenticato.”

“Cugina, ma allora possiamo averne uno?” esalò Ariana, scrutandola con occhi sognanti, mentre le altre giovani fanciulle presenti si facevano sognanti e speranzose. “Ti prego, ti prego! Lo voglio!

“Ecco, brava” mugugnò Atena, prima di lanciare un’occhiata supplichevole a Érebos che, con uno schiocco di dita, avvolse l’intera famiglia in una frizzante nebbiolina argentata.

Mentre le menti dei presenti venivano ripulite di quegli ultimi minuti di conversazione, Artemide sussurrò addolorata: “Scusa, Atena. Mi è proprio sfuggito!”

Sospirando, Atena assentì e replicò: “Lo so, cara, ma ricordalo, se vorrai stare con gli umani. Certe creature dovranno sempre rimanere segrete, per loro, o la conoscenza potrebbe portarli alla pazzia. Hai visto gli occhi di Ariana e le altre, quando ne hai fatto menzione. Era già pronta a qualsiasi cosa, pur di averlo.”

Dandosi una gran manata sulla fronte, Artemide assentì e borbottò: “Ne ho già avuto a sufficienza nei secoli scorsi, delle caccie indiscriminate a quei poveri animali. Solo che, mentre parlavo con Felipe, mi è proprio scappato.”

“Ti trovi bene con lui, vero?” le sorrise allora Atena, vedendola arrossire di puro piacere.

Annuendo, Arty ammise: “E’ davvero piacevole parlare con un uomo senza pensare necessariamente al sesso. O meglio, non è che non ci pensi, ma non è prioritario, ecco.”
Atena scoppiò a ridere e, dandole una pacca sulla spalla, asserì: “Te lo concedo. Felipe è un gran bell’uomo, ma trattalo bene. E’ di famiglia.”

“Non mi permetterei mai di ferire nessuno di loro… anche se sono stata così goffa da commettere questo madornale errore” la rassicurò Artemide, osservando le nebbie che, lentamente, stavano tornando al dio dell’oscurità come fedeli agnellini di ritorno dal loro pastore. “Mi hanno avvolta nel loro abbraccio, come avrebbero fatto con un comune essere umano. Non si sono comportati come postulanti o mitomani, ma come persone cordiali e schiette, e questo mi ha fatto sentire accettata. Forse, neppure sull’Olimpo mi sono mai sentita così pienamente accolta.”

Atena la strinse a sé per un istante, comprendendo bene cosa volesse dire – era andava via dall’Olimpo anche a causa delle beghe familiari, dopotutto – e ammise: “E’ la stessa cosa che provai io quando li conobbi la prima volta. Sanno farti sentire bene qui.”

Nel dirlo, si toccò il cuore, e Artemide assentì con vigore, prima di aggiungere con malizia: “Ciò non toglie che proverò a conquistare Felipe per godermi un po’ di tempo con lui.”

Atena allora scoppiò a ridere di gusto, assentì e chiosò: “Se lui è d’accordo, chi sono io per negartelo?”

A incantesimo ultimato, Érebos raggiunse le due donne e, schioccando nuovamente le dita, permise alle persone di riprendere la festa come se nulla fosse.

Felipe, un po’ confuso, scosse il capo come se si fosse appena risvegliato da un sogno e Artemide, per aiutarlo a riprendersi, lo prese sottobraccio, strizzò l’occhio ad Atena e disse: “Vieni. Voglio mostrarti ciò che intendevo prima con ‘governo degli animali’. Penso potrai trovarlo interessante.”

“Dubito potrei trovare poco interessante qualsiasi cosa tu abbia da dirmi” replicò Felipe, con malizia.

Artemide allora rise e, bloccandosi un attimo per scrutare la sorella, aggiunse: “Lo adoro già, sai?”

“Non avevo dubbi. Ma adesso vai, se vuoi approfittare del buio per fare i tuoi giochetti notturni con uccelli e scoiattoli” la invogliò Atena, vedendola ridere per diretta conseguenza.

La coppia, allora, si defilò dalla festa e Anita, nel raggiungere la ex nuora, sorrise divertita e celiò: “Devo cominciare a preparare una festa di fidanzamento?”

Atena scosse il capo, ridendo, e replicò: “Oh, non credo. Arty è troppo libera e autonoma per legarsi a un solo uomo, ma Felipe le piace, e credo che passeranno un po’ di tempo insieme. Comunque, mi sono raccomandata di essere chiara sulle sue intenzioni. Non voglio che Felipe soffra a causa sua.”

Anita, allora, scoppiò a ridere e replicò: “Ma non dovrebbe essere l’uomo, ad avere simili riguardi?”

Érebos la fissò divertito e, scrollando le spalle, chiosò: “Quando si tratta di Artemide, le precauzioni non sono mai troppe.”


 



N.d.A.: abbiamo finalmente conosciuto il fratello di Miguel, oltre ad alcuni altri membri della famiglia Rodriguez. Erebos è inoltre finalmente riuscito a trovare un equilibrio tra ciò che prova per Atena e il suo rispetto per il defunto Miguel. A sua volta, Atena ha potuto chiarirsi con Erebos e trovare "la quadratura del cerchio" nella loro relazione.
Resta solo da capire come evolverà il nuovo rapporto nato tra Arty e Felipe. Che dite? I due convoleranno a nozze o si limiteranno a divertirsi un po'?
Lo scopriremo con la prossima storia, dove farà la sua comparsa un altro dio: Efesto.
Alla prossima, e grazie per essere passati a dare un'occhiata!

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Capitolo 10
*** Efesto - 1 - ***


 
 
Efesto – 1 –
 
 
 
 
Non bastava la zoppia – che sua madre Era soffrisse di emicranie a vita, per questo! – no, ci si doveva mettere anche la sciatica.

Quella maledetta! L’aveva lasciato in pace per millenni, ma ora tornava a infastidirlo con le sue fitte atroci, procurandogli più dolore del sopportabile.

Neppure la sua fucina gli dava più gioia, a quel punto e, anche se in parte si sentiva colpevole per questo, aveva sfogato la sua rabbia fino a far eruttare più volte del consueto il vulcano ove risiedeva.

Non che i catanesi non fossero abituati alle bizze dell’Etna – ci convivevano da secoli e, anche grazie alle sue colate laviche, le terre erano fertilissime – però comprendeva bene quanto, un’eruzione, potesse causare disagi nei tempi moderni.

Niente più uccelli di metallo che ronzavano attorno alla città della Conca d’Oro, niente più uomini a sfidare le ripidi pendici del monte, niente più scienziati impegnati nello studio di casa sua (ma senza sapere della sua presenza).

“Maledizione!” ringhiò Efesto, dando l’ennesimo colpo a terra col suo bastone.

Per diretta conseguenza, l’Etna sbuffò dei lapilli e Teti, scrutando comprensiva il suo figlio adottivo, disse: “Dovresti andare a farti dei bagni di sole, Efesto, oppure dei massaggi. Sarebbero un toccasana, per te.”

“E spaventare i turisti? Non ci penso proprio” brontolò l’acciaccato dio, massaggiandosi la barba cisposa e ripensando alle volte in cui, in preda al panico, la gente si era allontanata da lui nel corso dei millenni.

Sapeva di non essere affascinante come Apollo o Ares, ma non poteva farci nulla se la rabbia di Era si era trasferita sulla sua faccia, rendendolo meno che piacevole alla vista.

Teti gli si avvicinò, lasciando perdere un prezioso monile in bronzo che Efesto aveva fatto per lei e, nel carezzargli la zazzera di capelli sale e pepe, mormorò: “La bellezza non è data solo da un bel viso, ma anche da un buon cuore.”

“Beh, non credo che la gente la pensi come te, metera” sbuffò Efesto, pur apprezzando le parole della nereide.

Gettato con spregio dall’Olimpo perché ripudiato dalla sua stessa madre, Efesto era infine caduto nel mare e lì, pazienti e amorevoli, le nereidi si erano prese cura di lui, allevandolo.

Solo dopo molte e rocambolesche azioni, era riuscito a far riconoscere a sua madre Era le proprie responsabilità genitoriali, concedendogli il titolo di divinità, ma l’Olimpo era sempre stato un luogo troppo ostile, per lui.

Il matrimonio organizzato con Afrodite? Una vera sciocchezza, da parte sua, credere che potesse funzionare e che, a quel modo, i dolori di un’infanzia senza madre potessero essere cancellati.

No, Afrodite lo aveva tradito così tante volte da rendergli invisa persino la sua leggiadra figura e, alla fine, l’aveva lasciata libera di vivere come voleva. Solo e incattivito, si era infine rifugiato nel suo amato Etna per vivere della unica compagnia delle sue opere.

Certo, gli dèi lo visitavano spesso perché lui forgiasse le loro armi, e persino quel borioso di Ares gli aveva chiesto più volte di prestarsi alle sue richieste.

Lui lo aveva fatto di malavoglia, nelle prime occasioni ma, nel corso dei secoli, si era reso conto che quel pallone gonfiato era, in fondo, un bonaccione con un caratteraccio tale e quale al suo, e perciò avevano finito con l’andare d’accordo.

Afrodite, invece, non gli aveva mai chiesto nulla. Forse per rispetto, forse per ribrezzo, ma non si era mai presentata sulla bocca del vulcano per chiedere udienza.

A Efesto non importava, comunque.

Però, se quella maledetta sciatica non lo avesse lasciato in pace, neppure la solitudine all’interno della sua fucina sarebbe più stata un balsamo, per lui.

“Perché non vai a trovare Artemide e Atena? So che vivono in un posto moderno e soleggiato. Credo ti farebbe bene passare del tempo con qualcuno che apprezzi, ti pare?” gli propose Teti, sorridendogli speranzosa.

Già, le due dee che si erano spinte a dare un calcio alla porta d’entrata dell’Olimpo per vivere in mezzo agli umani.

Dopotutto, Artemide e Atena non erano mai state crudeli con lui e, anche se non erano mai stati amici amici, erano pur sempre divinità che lo rispettavano.

Forse, non lo avrebbero messo alla porta, se avesse chiesto asilo politico per un po’.

“Hai il loro indirizzo?” domandò a quel punto Efesto.

Teti assentì e, dopo aver estratto il suo cellulare dalla scarsella che portava in vita, gli inviò il tutto e poi domandò: “Conti di andare in aereo, o di…?”

“Aereo? Scherzerai, spero! Cadono, metera” brontolò Efesto, levandosi in piedi a fatica dal treppiede su cui era rimasto assiso fino a quel momento.

La sciatica gli scaricò una fitta tremenda lungo la gamba destra e, mentre Teti lo sorreggeva a un braccio, replicò: “Non cadono tutti, Efesto. E poi, un viaggio in compagnia ti avrebbe giovato.”

“In compagnia? Con degli umani chiassosi, puzzolenti e ficcanaso? No, grazie” sbottò il dio, lasciandosi però aiutare dalla nereide a raggiungere la sua stanza da letto.

Spartana al pari della fucina, la grotta in cui viveva Efesto era dotata di tutti i confort tecnologici – dalla TV a schermo piatto, all’abbonamento a Sky e Netflix – ma, quanto a eleganza, lasciava alquanto a desiderare.

A parte un divano grigio, un tavolo grigio con quattro sedie grigie e una cucina a vista grigia, si poteva contare poco altro in quella living room.

“Ci vorrebbe davvero un tocco femminile” chiosò Teti, oltrepassando quel locale per giungere infine nella camera da letto di Efesto.

Un letto alla francese era posizionato accanto a un cassettone e a una poltrona Ikea – Teti non ricordava se fosse una Tullsta o una Ektorp, ma erano di sicuro un dono di Eurinome, patita di quella marca di mobili – ma, oltre a quello, null’altro abbelliva quella stanzetta angusta e buia.

“Non credo che una donna vorrebbe vivere qui, metera” chiosò Efesto, scostandosi da lei per afferrare una valigia morbida da sotto il letto e infilarci dentro le prime quattro cose che trovò nel cassettone.

“Solo perché tu fai di tutto per tenere alla porta la gente” replicò gentilmente la nereide. “In ogni caso, pensi di chiamarle, prima di piombare là di colpo?”

“Se le chiamassi, troverebbero una scusa per dirmi di no, perciò farò loro una comparsata” scrollò le spalle curve Efesto, chiudendo la sua borsa. “Sai dov’è la porta. A presto.”

Ciò detto, scomparve in uno scintillio di fuoco e Teti, scuotendo il capo, esalò esasperata: “E dire che gli ho dato un’educazione, da piccolo.”
 
***

Un vento forte proveniente da sud spirava sulla collina di Pescadero Point mentre Efesto, armato di valigia e di bastone, avanzava claudicante verso la villetta di Atena.

Appariva ben tenuta e accogliente, con un ampio giardino che la circondava su ogni lato, un’altalena accanto a un piccolo laghetto e tanti fiori profumati a inondare l’aria.

Davvero un bel posto dove vivere, pensò Efesto, pigiando il pulsante del campanello.

Udì chiaramente il suono all’interno della casa, ma nessuno venne ad aprire e, per un attimo, il dio si chiese se per caso Teti l’avesse avvisata, e Atena si fosse data alla macchia.

Non ci avrebbe trovato niente di strano. Gli dèi sapevano essere dei gran bastardi, quando ci si mettevano.

“Mamma non è a casa” disse una voce fanciullesca, poco lontano.

Efesto si volse a mezzo e, aggrappato alla recinzione che delimitava la proprietà, il dio vide un giovane decenne dai neri capelli e i profondi occhi verdi che, sorridente, lo stava osservando.

Cos’aveva da sorridere tanto, quel ragazzino dall’aria innocente? Lo trovava così orrendo da ridere di lui?

“Hai detto ‘mamma’, ragazzo?” chiese comunque Efesto, domandandosi se quello non fosse il fantomatico figlio di Atena. Ma non era nell’Oltretomba?

Ecco cosa succedeva a non partecipare alle chat di gruppo! Non venivi mai aggiornato in tempo reale!

“Sono Alekos. Tu chi sei? Non ti ho mai visto qui intorno, ma so che sei un dio” disse con semplicità il ragazzino, spostandosi lungo la recinzione per avvicinarsi a lui.

“Il mio nome è Efesto. Quindi, tu percepisci le divinità?”

Annuendo con vigore, il ragazzino asserì: “Érebos dice che dipende dal sangue di mamma.”

“Perché conosci una divinità Ctonia?” si domandò confuso Efesto.

Il ragazzino sorrise felice e dichiarò: “Érebos sta con la mamma. Il mio papà umano è morto in un incidente, così non può più stare con noi. Érebos, però, mi fa da padre. Sapevi che ama scalare le montagne? Mi ci porta spesso.”

Vagamente confuso dal colloquiare tranquillo del bambino, Efesto fece per chiedere altro quando, dalla porta di casa della villetta accanto a quella di Atena, fece la sua apparizione la statuaria Artemide.

Abbigliata con una striminzita salopette e i capelli cortissimi e rosso fuoco sparati sulla testa, sembrava reduce da una guerra all’ultimo pennello con un pittore o un tinteggiatore.

Alekos si volse nell’udire il rumore della porta e, ridendo sommessamente, celiò: “Zia… hai rovesciato ancora la latta del colore?”

“Lasciamo perdere, Alekos… io e i lavori manuali non abbiamo feeling” brontolò la donna, avvicinandosi alla staccionata. Poggiate poi le mani sui fianchi, fissò accigliata Efesto per alcuni attimi prima di riconoscerlo ed esalare: “Ehi, zio! Che ci fai in zona? L’Etna ti è diventato stretto?”

Efesto sbuffò. Artemide era sempre uno schiacciasassi, nel parlare.

La vicinanza con la sorellastra non l’aveva affatto ammorbidita, però sembrava molto protettiva nei confronti del bambino che, evidentemente, le era stato affidato. Il braccio poggiato sulle spalle del bambino lasciava intendere che la dea avrebbe dato fondo a ogni suo potere, pur di proteggerlo.

“Buongiorno, Artemide. Ho soltanto seguito il consiglio di Teti, e sono venuto in villeggiatura per qualche tempo” scrollò le spalle l’anziano dio, storcendo la bocca.

“Beh, Atena è via per il week-end” replicò Arty, ammiccando poi maliziosa. “Érebos ha pensato di organizzare qualcosa di romantico per lei. Se non hai già prenotato da qualche parte, ti ospito io. Tanto, questa villa ha quattro stanze da letto, e io non dormo in tutte.”

Vagamente sorpreso da quell’offerta spontanea e non richiesta, Efesto annuì lentamente ma Artemide, prevenendo qualsiasi sua risposta verbale, aggiunse: “Prima, però, ti accompagnano in centro. Devi rifarti un po’ il guardaroba e, credi a me, anche un po’ il look. Sei un po’ datato, per questa parte di mondo, sai?”

“Non ci penso proprio a farmi fissare dalla gente per essere deriso!” sbottò immediatamente Efesto, rifiutandosi categoricamente.

Artemide, però, non si fece affatto impressionare dal suo cipiglio e, scrollando una spalla, inviò Alekos a recuperare le chiavi della sua Ford Mustang Shelby 500 e, rivolta allo zio, asserì: “Qui nessuno ti nota, se non sei un divo del cinema, tranquillo. E poi, credimi. Una rassettata da chi dico io, e ti sentirai rinato.”

“Tu che ne sai? Sei sempre stata perfetta!” brontolò il dio, picchiando a terra il bastone.

Come si permetteva, quella dea da strapazzo, di lagnarsi di fantomatici difetti con lui, che invece ci conviveva da millenni?

Artemide addolcì inaspettatamente lo sguardo e replicò: “So quanto Era possa essere bastarda, credimi e, anche se non mi ha scaraventato giù dall’Olimpo, ho assaggiato la sferza della sua lingua fin da quando sono nata e papà mi ha portato a casa sua. Gli umani avranno tanti difetti, non lo nego, ma sono molto meno rompipalle rispetto a certe divinità di nostra conoscenza. E sanno come farti sentire meglio.”

Efesto rimase in silenzio, non sapendo se crederle o meno e, quando vide tornare Alekos tutto eccitato e con le chiavi dell’auto in mano, si limitò a un assenso forzato. Non avrebbe fatto la parte del pavido, ma pregò dentro di sé che Artemide non scherzasse, o si sarebbe vendicato degnamente di lei.

Dopotutto, era figlio di Era, e sapeva come fare per escogitare delle vendette coi fiocchi.
 
***

Il Secret Oasis Day SPA di San Josè era tutto ciò che una persona bisognosa di attenzioni poteva desiderare; locali dalle luci soffuse, musiche ayurvediche, profumi delicati, personale competente.

Quando Efesto, Artemide e Alekos vi misero piede, il dio borbottò all’indirizzo della nipote: “Ma… è un luogo di culto egizio?”

Artemide ridacchiò, notando le statue della dea-gatto Bastet, ma scosse il capo e replicò: “Per gli umani, il mondo egizio e il culto del corpo che avevano loro equivalgono a eccellenza, perciò troverai svariati oggetti di provenienza egizia, qui dentro. Credimi, sono assai bravi. Io mi faccio massaggiare le spalle, quando mi fanno male. Tirare con l’arco stanca anche gli dèi, cosa credi?”

Efesto parve poco convinto, ma la seguì silenzioso lungo il corridoio dalle tinte color cannella, dove diverse dracene marginate esplodevano dai loro vasi panciuti, allungandosi come mani sinuose ad accarezzare i nuovi venuti.

Una graziosa umana dai corti capelli neri tagliati a paggetto li accolse, dando loro il benvenuto da dietro il bancone dell’accettazione.

Indossava un camice bianco su cui era cucito il nome – Selene O’Keefe – e sorrise invariabilmente a tutti, indirizzando identici sguardi professionali senza mai venire meno alla sua compostezza.

Questo colpì non poco Efesto, da sempre abituato agli sguardi di disgusto delle donne, e di derisione degli uomini.

“Buongiorno. Ho chiamato prima per prenotare una cura del corpo completa. Ho parlato con Samantha” esordì Artemide, avvolgendo con naturalezza un braccio attorno alle spalle di Alekos.

“Oh, sì, miss Phoebe Basileia1” assentì la giovane, scrutando velocemente lo schermo del suo computer. “Prego, potete raggiungere la saletta numero tre. Adam vi sta aspettando assieme a Cassandra.”

“Ottimo” annuì Artemide, avviandosi lungo il corridoio assieme al suo sparuto gruppo.

Efesto si accodò sempre meno convinto, già pronto ad assalire verbalmente chi si fosse trovato dinanzi ma, quando entrò nella stanza indicata loro, la sorpresa lo azzittì.

Il locale, ampio e dalle tinte tenui dell’azzurro e del grigio ghiaccio, conteneva un lettino, uno schermo TV e un mobiletto a vetri ove erano contenuti delle boccette di diverse forme e colori.

Lì, un uomo sui trent’anni e una donna di circa cinquanta li stavano aspettando, entrambi vestiti di bianco e dall’aspetto curato.

“Buongiorno, Phoebe” esordì l’uomo – Adam – allungando una mano per stringere quella protesa di Artemide.

“Adam… Mrs Abramopulos” replicò lei, accennando un saluto alla donna. “Mio zio avrebbe bisogno di un po’ di coccole, come ho già accennato a Samantha per telefono.”

“Siamo qui per questo” si limitò a dire Cassandra, sorridendo cordiale a Efesto che, subito, si irrigidì. “Ci sono patologie di cui dovremmo tener conto?”

Artemide, a quel punto, lanciò uno sguardo allo zio e lui, non potendo fare altro, tossicchiò e disse: “Ci sono… alcune cose.”

Annuendo subito, Adam dichiarò pacifico: “Phoebe, noi ora discuteremo in privato con tuo zio. Perché non vai con il bambino… tuo nipote, se non ricordo male, nella sala relax? Ti chiameremo più tardi, quando avremo fatto.”

Titubante, Artemide squadrò accigliata Efesto e disse mentalmente: “Ricordati di non ucciderli. Sono qui per aiutarti, è chiaro?”

“Farò del mio meglio” brontolò il dio.

Artemide, allora, accettò e salutò Efesto prima di uscire con Alekos, che augurò un buon massaggio allo zio.

Rimasto solo con i due umani, la divinità alla fine borbottò: “Al momento, ho un problema con la sciatica. E la schiena è messa maluccio.”

“Una scogliosi?” domandò professionale Cassandra.

Efesto assentì spiacente, ma sul viso della donna non comparve né disgusto, né pietà, cosa che lo sorprese non poco.

“Adam è bravissimo con i massaggi, perciò lui tratterà la sua schiena, mentre io mi prenderò cura dei piedi. La riflessologia plantare fa miracoli e le assicuro che, quando uscirà da qui, si sentirà molto meglio” gli predisse la donna.

La sola idea che quella umana potesse toccare i suoi piedi lo riempì di orrore ma, non volendo apparire scontroso e, soprattutto, pavido, si limitò a seguire le loro indicazioni e si spogliò, sistemandosi un asciugamani intorno alla vita.

Sdraiatosi poi sul lettino, si lasciò manipolare da entrambi gli umani e, a sorpresa, sentì realmente il suo corpo riprendere vigore sotto il loro tocco.

Era mai possibile che quegli esseri mortali fossero riusciti a impadronirsi di capacità così eccelse? Ed era mai possibile che la sua testardaggine lo avesse tenuto lontano da simili piaceri per così tanto tempo?
 
***

“… dovrebbe davvero pensare di iscriversi a una SPA nella sua città natale, signor Basileia… problematiche come le sue possono essere tenute sotto controllo, e calmierate, con massaggi continui e un buon esercizio fisico” asserì a un certo punto Cassandra, asciugandosi le mani dall’ammorbidente che aveva usato durante il massaggio.

Efesto si stava rivestendo dietro un paravento, dopo quasi un’ora di incredibile, meraviglioso massaggio rigenerante.

Era stato stimolante non solo tornare a percepire il suo corpo senza i classici dolori a esso collegati, ma anche parlare dei propri problemi con qualcuno che non solo ascoltava, ma capiva.

Durante la sessione di massaggio, Adam aveva ammesso con candore di avere una protesi a una gamba, persa durante una battaglia in Afghanistan per colpa di una mina.

Ritiratosi dall’esercito, si era fatto curare in una clinica e aveva imparato ad apprezzare ciò che massaggiatori e terapisti compivano su persone come lui. Da questo, aveva preso lo spunto per diventare lui stesso un addetto nel settore.

Il fatto che un uomo così forte e prestante potesse avere un difetto fisico, aveva sorpreso Efesto così come lo aveva rasserenato. Soprattutto quando aveva udito Adam parlare di normalità, non di difetti o mancanze.

“Se ne ha la possibilità, faccia degli esercizi in piscina. Le saranno d’aiuto per la schiena” aggiunse ancora Cassandra, sorridendogli con calore. “Vedrà che, così facendo, starà molto meglio e non arriverà ad avere contratture così forti alla schiena.”

“Farò così” assentì Efesto, sentendosi più pronto che mai ad accettare consigli da loro.

“Dirò a Selene di fissarle un’altra seduta tra tre o quattro giorni, va bene?” domandò a quel punto Adam.

“Oh, … ah, sì. Rimarrò qui per un po’, quindi…” annuì più sicura di sé la divinità, prima di aggiungere grato: “… non ho mai avuto molta fiducia in queste cose, ma mi sono davvero ricreduto.”

“Io ho impiegato dieci anni a convincere mio marito a farsi fare un massaggio” ironizzò Cassandra, scuotendo una mano come se nulla fosse. “Non mi dice nulla di nuovo, signor Basileia. Molte persone temono di esporsi troppo, e mettersi a nudo impensierisce quasi tutti. Ma noi non siamo qui per giudicare nessuno. Noi aiutiamo a fare star bene le persone.”

Ciò detto, aprì la porta per accompagnarlo nella sala relax, dove Artemide e Alekos stavano aspettando, e aggiunse: “Chi vuole giudicare e basta, non è gradito qui da noi.”

Efesto assentì con fervore e, quando infine vide i suoi nipoti, si ritrovò persino a sorridere. Era davvero bello, per una volta, non sentirsi teso e acciaccato.

Certo, quando il calore terapeutico del massaggio fosse passato, avrebbe sentito ancor più dolore, per un po’ – era stato avvertito per tempo – ma, dopo alcune sedute, ne avrebbe sentito gli effetti in tutto il corpo.

Artemide lo fissò a occhi sgranati, chiaramente sorpresa dalla sensazione di benessere che proveniva da lui e, ghignando, dichiarò: “Mi sa che hanno fatto miracoli, con te, zio. Ti vedo meglio.”

Sto meglio” sottolineò lui.

“Ottimo… perché ora penseremo al tuo guardaroba. E alla tua barba” precisò la dea, mettendolo subito in allarme.

Cassandra rise sommessamente e, dando una pacca sulla spalla a Efesto, asserì: “Sua nipote è proprio decisa a viziarla. Ne approfitti. E’ cosa rara.”

Efesto non fu del tutto certo di potersi fidare di Artemide, visto il suo carattere ballerino, ma confidò che almeno Alekos – che appariva così maturo – sapesse tenerla a bada.

Lui, in tutta onestà, non sapeva cosa pensare, di quella strana vacanza. Però, di una cosa, era certo. Avrebbe fatto ancora dei massaggi.

Cascasse il mondo.

 
 
 
 
 
N.d.A.: ed ecco che ritroviamo di nuovo Artemide, in compagnia - come già preannunciato - di una nuova divinità; Efesto, il dio del fuoco e della metallurgia.
La reclusione forzata di Efesto è stata interrotta grazie alle parole gentili di Teti che, preoccupata per il suo figliastro, ha deciso di spedirlo per un po' fuori dalla sua fucina. Efesto riuscirà a trovare altri interessi, a parte maglio e incudine, o la vita al di fuori del suo vulcano gli verrà presto a mancare?
Lo scopriremo ben presto! Per ora, grazie per essere passati! (P.S. come mi è stato giustamente fatto notare, Efesto non sarebbe propriamente uno zio, per Artemide e Atena. Nel caso specifico, il titolo di "zio" è un segno di rispetto, non tanto di parentela stretta.)

 
 
1 Phoebe Basileia: Appellativi di Artemide. Phoebe è la versione femminile dell’appellativo del fratello, Febo Apollo. Basileia significa “sovrana”.

 

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Capitolo 11
*** Efesto - 2 - ***


Efesto – 2 –

 

 

 

 

La barba nuovamente regimentata e un taglio di capelli molto più moderno – in stile George Clooney, gli avevano detto – Efesto si presentò in un enorme negozio di abbigliamento maschile assieme alla sua esaltata nipote e a un più pacato pronipotino.

Una commessa in livrea li accolse sull’entrata e, dopo aver chiesto loro lumi circa la loro venuta, li indirizzò subito verso un reparto di abiti causal e dalle tinte tenui.

Senza badare minimamente alla zoppia di Efesto, la donna gli mostrò maglioncini in cotone, camice a righe color cielo e pantaloni classici di lana secca.

Offrì poi il suo sapere anche nella scelta delle scarpe, dai mocassini in pelle ad alcuni modelli di sneakers finché, puntando lo sguardo sul bastone di Efesto, non lo mise in allarme.

Che infine fosse pronta a prenderlo in giro? Che si fosse prestata a essere gentile per tutto il tempo, per poi smascherarsi sul più bello?

Già pronto ad abbaiarle contro, Efesto dovette però fermarsi sul nascere quando la commessa, pensierosa, gli disse: “Quel bastone va sostituito. Ho giusto qualche modello in ebano che andrebbe benissimo. Ha qualche animale preferito, per caso? Per il pomello, sa. Noi ne abbiamo con la testa di levriero, di leone e di orso, ma si possono ordinare in qualsiasi forma, se preferisce.”

Poi, sorridendo divertita, aggiunse: “Mio nonno ne ha acquistato uno con la testa di una papera, e tutto perché è sempre stato un assiduo cacciatore di germani reali. Era eccitato come un bambino, quando gliel’ho fatto vedere.”

Artemide ghignò soddisfatta, lanciando un’occhiata a Efesto che avrebbe potuto essere letta come un ‘che ti dicevo?’, ma a cui il dio preferì non replicare.

Rivolta alla commessa, si limitò a dire: “Con il leone va bene.”

“Ottimo, ottimo. Per l’altezza, io le consiglierei un bastone un po’ più alto, rispetto a quello che utilizza ora. Così camminerà meglio, a mio parere, ma ne proveremo di diverse misure per esserne certi” asserì la donna, svolazzando poi via a passi veloci.

Non appena fu lontana, Artemide diede di gomito allo zio e bisbigliò: “Allooooora… è o non è stata un’idea grandiosa?”

Lui la fissò in cagnesco ma, prima ancora di poterla mandare al diavolo, Alekos lo bloccò con un gesto inaspettato.

Porgendogli un cappello stile Borsalino, disse: “Secondo me ti potrebbe stare bene, zio. Perché non lo provi?”

“Ah… grazie, ragazzo” mormorò lui, afferrandolo per poi schiacciarselo in testa.

Artemide, allora, sbuffò e disse: “Non così, zio. Fai piano. Ecco… mettilo così. Direi che va bene. Hai occhio, Alekos!”

“Lo zio ha gli occhi grigi, perciò ho pensato che potesse andare bene” sorrise Alekos, tutto contento, prima di sobbalzare quando udì il suo cellulare trillare nella tasca dello zainetto che portava sulle spalle.

Afferratolo in fretta, rispose e disse: “Ciao, mamma! Sì, va tutto bene. Sono in compagnia della zia e di zio Efesto. Ci è venuto a trovare!”

Il bambino assentì a delle evidenti domande da parte della madre, prima di aggiungere: “Abbiamo accompagnato lo zio in giro per San Josè, e ci stiamo divertendo un mondo. Dopo, mamma, posso chiedere allo zio di insegnarmi a fare qualcosa col ferro?”

Efesto sgranò gli occhi per la sorpresa, di fronte a quella richiesta, ma subito si preparò a sentire il diniego di Atena. Quale madre si sarebbe fidata ad affidargli il proprio figlio?

Quando, però, il ragazzino sorrise gaio e salutò sua madre, il dio si chiese cosa avesse detto Atena riguardo alla sua richiesta.

“Se non ti scoccia, zio, mi faresti vedere come si forgiano i metalli? Mamma dice che le tue armi sono grandiose, ma che forse non sono ancora abbastanza grande per tenere in mano i tuoi martelli. Però, ha detto che posso guardarti e imparare e, quando lo riterrai giusto, mi farai provare qualcosa.”

La divinità avvertì qualcosa di molto simile alle lacrime, nei suoi occhi e Artemide, dandogli una pacca sulla spalla, chiosò: “Solo perché tua madre è una vacca isterica, non è detto che tutte le donne lo siano. Ti pare?”

Alekos si esibì in un ghigno divertito e si tappò la bocca per trattenersi dal ridere sguaiato, mentre Efesto fissava senza parole la dea e Artemide borbottava subito dopo: “Guai a te se dici a tuo zio che ho detto delle brutte parole davanti a te. E’ chiaro, ragazzino?”

“Zio Felipe riderà troppo, quando glielo dirò” la irrise per contro Alekos, vedendola poi arrossire per diretta conseguenza.

Efesto si ritrovò a sua volta a sorridere divertito – cosa davvero inconsueta, per lui – e, indirizzando un’occhiata al pronipote, domandò: “E’ il fratello del tuo papà umano?”

“Sì, zio Felipe fa la guardia ai boschi e va molto d’accordo con zia Artemide. Ma non vuole che lei parli male, quando ci sono io nei paraggi” gli spiegò Alekos, sempre ridacchiando.

“Fa bene a dirlo” annuì Efesto.

Artemide fece per mandarli al diavolo, ma l’arrivo della commessa le impedì di prendersi la sua rivincita.

Tutta soddisfatta – e ignara delle ire della dea – la donna mostrò il bastone a Efesto e disse: “Lo provi. Sono sicura che le andrà bene. Ho occhio per le misure.”

Il dio dovette essere concorde con lei perché, non appena ebbe cambiato il proprio bastone con quello nuovo, avvertì un deciso cambiamento.

Inoltre, il pomello in argento si conformava bene con il suo palmo. Lo faceva sentire più sicuro.

La commessa assentì orgogliosa e chiosò: “Ora, direi che è perfetto.”

***

Perfetto. Nessuno aveva mai usato quella parola, rivolta a lui ma, quando infine uscì dal negozio con addosso alcuni dei suoi nuovi abiti – mentre il resto degli acquisti era ben impacchettato dentro ad altre tre borse – Efesto si sentì bene per la prima volta da millenni.

Che la donna lo avesse fatto perché pagata, o perché ci credesse veramente, alla divinità non importava.

Ora si sentiva giusto nella sua pelle, e non aveva più paura dei commenti della gente.

Aveva i capelli in ordine, la barba irsuta era sparita e sostituita da una più leggera e ordinata, mentre i suoi abiti cenciosi erano stati sostituiti da una camicia azzurra a righe bianche e pantaloni grigio ghiaccio su mocassini neri.

Il bastone lo accompagnava a ogni passo senza costringere la sua schiena a piegarsi in maniera innaturale e, invece di puzzare di ferro e fuoco, odorava di spezie e di pulito.

Un vero cambiamento, per lui.

Se solo non si fosse intestardito con l’infischiarsene di se stesso per tutto questo tempo, forse avrebbe vissuto meglio, e per più tempo, con i propri difetti senza trovarli inaccettabili.

Non sarebbe mai stato un Adone, lo sapeva, ma essere ordinato e pulito era un bel passo avanti. Ora, nessuno avrebbe più potuto sbeffeggiarlo.

Nel salire quindi in auto con i nipoti, dichiarò: “Una volta a casa, controllerò se a Catania esiste qualcosa del genere.”

“Ben detto, zio. Si fottano quelli che vogliono prenderti per i fondelli. Sei un uomo piacente, se ti ci metti” sbottò Artemide, dandogli man forte.

Alekos rise del suo dire ed Efesto, ridendo con lui, asserì: “L’hai rifatto, Artemide. Parla bene.”

Per tutta risposta, Artemide li mandò al diavolo e accese la radio per non ascoltarli dopodiché, ingranata la marcia, si avviò lungo la strada per tornare a Pescadero Point.

Quando, però, le programmazioni vennero interrotte per avvisare la popolazione di un brutto incendio sulle colline vicino a San Francisco, si ammutolì e divenne pallida in viso.

A causa del vento forte e di un probabile incendio doloso, le zone di Alamo e di Mount Diablo erano invase dalle fiamme, perciò le persone erano invitate ad allontanarsi dalla zona per mettersi in salvo.

Sia Artemide che Alekos si azzittirono, a quella notizia ed Efesto, chiedendosene in motivi, domandò: “Perché la cosa vi preoccupa? Non è vicino alle vostre case.”

“No, ma…” tentennò Artemide, non sapendo quanto dire.

“Lo zio lavora nella zona di Alamo, perciò è sicuramente lì a gestire i soccorsi” disse per lei Alekos, pallido in viso non meno della zia.

Efesto si rabbuiò immediatamente e, rivolto uno sguardo al pronipote, asserì: “Vedrai che non gli succederà nulla.”

Volgendosi poi verso la nipote, disse: “Portami là. Voglio capire come si muove il fuoco.”

Artemide lanciò un’occhiata preoccupata allo specchietto retrovisore ma assentì e, nello svoltare l’auto, dichiarò: “Alekos, però, deve stare lontano dal fuoco. Se gli succede qualcosa, Atena mi taglia la gola.”

“Al ragazzo non succederà nulla, ma non voglio che diventi triste se dovesse succedere qualcosa a suo zio, e non credo che neppure Atena sarebbe tanto felice. O tu” sottolineò il dio, adombrandosi.

Artemide rimase in silenzio per diversi secondi, prima di dire: “Grazie.”

***

Il fronte delle fiamme era spaventoso, anche se erano ancora molto lontani da Alamo. La strada era stata chiusa, perciò era impossibile avventurarsi ulteriormente vicino, ma non era affatto un problema, per due divinità e per un mezzo dio.

Tenendo Artemide per mano, Alekos si teleportò assieme a loro e, quando raggiunsero un punto riparato dal vento, ma più vicino al fronte dell’incendio, domandò: “Come facciamo a trovare lo zio?!”

Artemide non gli rispose, gli occhi puntati sul monte in fiamme e la mente concentrata su ciò che stava vedendo e ascoltando.

Gli animali stavano fuggendo ogni dove, folli di paura e annebbiati dal fumo non meno degli umani. Era raggelante udire le loro voci disperate e non poter fare nulla per aiutarli.

Efesto, impegnato a sua volta a studiare quelle lingue scarlatte – che si sviluppavano verso il cielo come braccia di dannati in fuga dall’inferno – non era meno in ansia della nipote.

Da quel poco che poteva comprendere, non v’erano abbastanza uomini sul campo e, di quel passo, il fronte di fiamme avrebbe scollinato, invadendo l’intera vallata di Alamo, distruggendola.

Occorreva porvi rimedio, predisponendo dei corridoi frangi fiamma abbastanza larghi da bloccarne l’avanzata, ma non era certo che gli uomini potessero farli in tempo.

“Portami qui l’umano, ragazza. Devo parlare con lui” dichiarò Efesto, lapidario.

Artemide assentì e si teleportò dove percepiva più forte la presenza di Felipe, mentre Alekos rimaneva al fianco di Efesto, il viso preoccupato e teso.

“Sai come fermarlo, zio?” domandò il bambino.

“Farò quel che posso. Zeus ci ha vietato di interferire con le vite degli umani, e per ovvie ragioni, ma posso dare dei consigli, no?” asserì il dio, dandogli una goffa pacca sulle spalle.

Alekos sbatté le palpebre sugli occhi colmi di lacrime e, abbracciandolo con forza, mormorò: “Sono così contento che tu sia qui.”

Efesto si irrigidì per un istante, a quelle parole, non avendole mai udite da anima viva, se non dalla sua madre adottiva e, nello stringere debolmente a sé il bambino, sussurrò commosso: “Farò tutto il possibile, te lo assicuro.”

***

Riprendendo forma solida nei pressi di una delle jeep dei ranger del luogo, Artemide si guardò febbrilmente intorno, il cuore in gola e l’ansia che le galoppava feroce nelle vene.

Dea o meno, le fiamme l’avevano sempre spaventata e gli incendi boschivi erano, per lei, un autentico inferno a occhi aperti.

Il fatto di sapere che, tra quelle fiamme, poteva trovarsi una persona a cui teneva, poi, peggiorava di molto le cose perciò, quando infine intravide la figura di Felipe, il cuore quasi le scoppiò nel petto.

In quel momento impegnato a sistemare delle transenne perché le auto non risalissero la collina, appariva stanco e tirato, oltre che sporco di fuliggine, ma sano.

Artemide non aspettò un attimo di più e, di corsa, si avventurò verso di lui fino a raggiungerlo.

Lì, lo afferrò per un braccio e Felipe, sobbalzando per la sorpresa, sgranò gli occhi ed esalò: “Arty, ma… che diavolo ci fai qui?!”

“Sono venuta ad aiutare” disse soltanto lei, prima di trascinarlo con sé e aggiungere: “Porto rinforzi, ma ho bisogno che tu ti assenti un minuto con me.”

“Come vedi siamo piuttosto presi” replicò piccato Felipe, indicando il caos che li circondava. “Ti assicuro che abbiamo tutto sotto controllo, e abbiamo già visto molti animali scappare fuori dal bosco. Vedrai che staranno tutti bene.”

Imprecando, Artemide strinse la mano sul suo braccio e ringhiò: “Non devi ammansirmi, umano! Ma ascoltarmi! Non avete affatto la situazione sotto controllo, e devi parlare di questo con mio zio, prima che sia tardi. Lui è l’unico che può salvare la baracca, ma ha bisogno di parlare con te, perché non può intervenire direttamente!”

Felipe fissò attentamente la dea per capire quanto, delle parole di Artemide, fossero frutto del suo carattere naturalmente estroso e vanesio ma, nulla trovando se non paura allo stato puro, annuì in fretta e disse: “Dammi un minuto.”

Ciò detto, si allontanò per parlare con un collega alcuni attimi, attimi in cui Artemide picchiettò il piede a terra, sempre più in ansia. Se avesse atteso anche un solo minuto in più, sarebbe esplosa.

Non appena Felipe tornò, lo trascinò dietro un pick-up e disse lesta: “Non lasciare il mio fianco, mortale, non so che fine potresti fare.”

Felipe non fece neppure in tempo a replicare, che il suo corpo venne vaporizzato dal potere della dea e condotto altrove sotto forma di una nuvola di particelle.

Quando infine riprese forma umana, Felipe cadde a terra in ginocchio e tossì acidi, davvero impreparato per un simile – quanto violento – evento soprannaturale.

Efesto si rabbuiò, a quella vista e, mentre Alekos accorreva a soccorrere lo zio, il dio borbottò: “Per tutti i demoni, ragazza! Hai la stessa delicatezza di un Titano!”

Lei sbuffò, si terse il viso da una lacrima ribelle e sbottò: “Quando sono in ansia, non riesco a essere delicata.”

Sorpreso da quell’ammissione, così come dal motivo per cui la dea era nervosa – perché era palese che la motivazione fosse da ricercare nel giovane seduto a terra – Efesto si chetò e, rivolto allo zio di Alekos, domandò: “Va meglio, umano?”

Felipe si volse a mezzo, si passò una mano sul volto cinereo e gracchiò: “Se non muoio nei prossimi due minuti… sì.”

Efesto abbozzò un sorrisino, gli poggiò una mano sulla spalla e, rivolto ad Artemide, borbottò contrariato: “Un umano non accetta bene la smaterializzazione. Dovresti saperlo. L’hai quasi spezzato in due!”

Artemide, a sorpresa, sbatté le braccia contro i fianchi al pari di una bambina e, con occhi colmi di lacrime rabbiose, ringhiò: “Credi che non lo sappia?! Ma papà ci ha vietato di intervenire direttamente nella vita degli umani, e non potevo portarlo qui a dorso di…”

Tappandosi la bocca l’attimo seguente – memore di ciò che era accaduto alla festa del Cinco de Maio – Artemide imprecò tra i denti e terminò di dire con più calma: “La smaterializzazione era l’unica soluzione.”

“Che stupidaggine… neppure la possibilità di usare…” cominciò col dire Efesto, subito bloccato da Artemide e Alekos che, in coro, strillarono un potente NO.

Felipe li fissò straniti, finalmente in grado di muoversi senza apparire un ubriaco e, rimesso in piedi, li squadrò tutti e domandò: “Posso sapere, a questo punto, perché mi avete portato qui?”

“Il fronte dell’incendio si muove in un modo irregolare, e gli uomini che avete sul fianco della montagna, a ovest, verranno investiti in pieno. Dovete farli spostare, e predisporre dei canali frangi-fuoco un miglio a sud rispetto a dove si trovano ora” gli disse in fretta Efesto, vedendolo aggrottare la fronte per diretta conseguenza.

“I ragazzi ci sanno fare, e conoscono la montagna – e gli incendi – molto bene” replicò cauto Felipe.

“Non come mio zio, credimi” sottolineò Artemide, scura in volto. “Efesto conosce il fuoco come voi umani non potrete mai comprenderlo, neppure in altri diecimila anni.”

A quel nome, Felipe impallidì leggermente ma assentì e, passandosi una mano tra la chioma spettinata e affumicata dal fuoco, borbottò: “Oookay… il dio del fuoco. Gran cosa. Erano questi i rinforzi di cui parlavi, Arty?”

“Esatto. Ma non possiamo intervenire direttamente, perché mio padre ce l’ha impedito, dopo che Ares ha combinato un mezzo macello, con il Progetto Manhattan e tutto il resto…” gesticolò nervosa la dea, facendogli strabuzzare gli occhi per diretta conseguenza.

“No, guarda, preferisco non sapere fino a che punto siete invischiati nei nostri affari…” scosse le mani Felipe, sospirando esasperato. “… quindi, tu mi dici che il fronte dell’incendio si sposterà. In base a cosa?”

“Il vento, il tipo di piante sul monte, la conformazione del terreno e la pressione barometrica” gli citò lesto Efesto, guardandosi intorno nervosamente. “Non possiamo perdere altro tempo. Dobbiamo farli spostare. Ora!”

“D’accordo, d’accordo…” annuì più volte Felipe, rimuginando sul da farsi. “Non mi daranno mai retta, se glielo dirò per radio. Devo andare là per forza.”

Guardandosi poi intorno, individuò la Mustang di Artemide, guardò lei speranzoso e infine domandò: “So quanto ci tieni, ma…”

“Andiamo. Guido io. Tu mi dirai dove andare” dichiarò lapidaria lei, prima di guardare seria Alekos e aggiungere: “Rimani con lo zio. Lui si prenderà cura di te.”

Ciò detto, Artemide scrutò ombrosa la divinità del fuoco e disse: “Non appena arriveremo lassù, mi dirai come dovremo comportarci. Tieni il cellulare a portata di mano.”

Efesto assentì e, mentre Artemide e Felipe si allontanavano alla svelta per raggiungere il fronte dell’incendio, Alekos prese la mano del prozio e mormorò: “Non succederà nulla allo zio, vero?”

“Se Artemide si ricorda di non smaterializzarlo un’altra volta, sì” sospirò Efesto, tornando a scrutare l’incendio con espressione accigliata.

***

La risalita verso il monte fu più semplice del previsto, grazie alle strade deserte e ai blocchi già messi in atto dai colleghi di Felipe.

Artemide non incontrò nessuno, sul suo cammino, a parte un’auto di poliziotti che intimò loro l’alt prima di notare la divisa di Felipe.

Non impiegarono più di un minuto prima di spiegare loro la situazione e, complice un piccolo gioco di sguardi di Artemide ai due uomini, il tutto si svolse celermente e senza danni.

“Non ti chiedo neanche cosa hai fatto a quei due agenti… sembravano rintronati” ridacchiò a un certo punto Felipe, tenendosi alla portiera dell’auto quando Artemide imboccò una curva con particolare irruenza.

“Niente di speciale. Ho usato un po’ di fascino divino. Può fare questo effetto, sulle menti degli uomini” chiosò lei, accennando un sorrisino nervoso.

Felipe ne scrutò attentamente il profilo teso, le mani strette al volante fin quasi a sbiancarle, le labbra tese e secche e, turbato, le domandò: “Arty, che ti succede?”

Lei tentò di sorridere ma fu tutto vano e, quando si ritrovarono dinanzi a una pianta crollata a causa del fuoco, l’urlo che le uscì dalle labbra risuonò nell’abitacolo come una salva di cannoni.

Felipe allora le afferrò il braccio tremante, mentre l’auto si bloccava a pochi centimetri dal tronco caduto, e mormorò: “Hai paura del fuoco, Arty?”

La dea allora assentì, spense l’auto – la strada era sbarrata dalla pianta, perciò non avrebbero potuto andare da nessuna parte, a quel punto – e, guardandolo spaurita, sussurrò: “Gli incendi boschivi… mi terrorizzano.”

“Ma allora, perché sei venuta?” replicò lui, prima di sgranare gli occhi quando lei gli sorrise piena di candore e dolcezza.

“E te lo chiedi anche?” ironizzò la dea, allungandosi per dargli un bacio sulle labbra dischiuse.

Felipe la lasciò fare per alcuni istanti, assaporando la dolcezza di miele di quelle labbra divine – in tutti i sensi – prima di riprendere coscienza di sé e di ciò che stava accadendo.

Scostandola a malincuore, Felipe asserì: “Ne parleremo dopo, Arty, e approfonditamente, credimi. Ma ora vai. Torna da Alekos. Andrò io a parlare coi vigili del fuoco.”

“Non se ne parla” ringhiò Artemide, uscendo dall’auto mentre lui la imitava, leggermente irritato. “Non mi fido delle Moire. Con tutto il rispetto per Érebos, ma le sue figlie sono tre stronze, e non voglio lasciare il tuo fianco per nessun motivo al mondo.”

Felipe imprecò sottilmente, lanciò uno sguardo al cielo come se temesse di venire colpito da un meteorite da un momento all’altro e sottolineò cauto: “Tengo a precisare, a chiunque stia ascoltando, che sono opinioni sue, non mie.”

Nonostante tutto, Artemide scoppiò a ridere e, nell’oltrepassare l’auto, indicò a Felipe la pianta abbattuta e disse: “Sbrighiamoci. A piedi sarà una bella scarpinata.”

Lui, però, la afferrò alla vita, se la strinse contro per un attimo e, con foga, le diede un bacio impetuoso quanto rapido.

Soddisfatto, poi, la lasciò andare – vagamente stordita ma sorridente – e chiosò: “Ora volerò. Poco ma sicuro.”

Artemide rise, ma non si lasciò ingannare. Neppure Felipe era tranquillo come voleva far apparire e, anche per questo, la dea non tornò sulle sue decisioni e, assieme all’uomo, risalì l’erta per raggiungere i pompieri.

***

“Perché non chiama?” si domandò per la millesima volta Efesto, passeggiando claudicante avanti e indietro.

Alekos fissava spaventato il monte sempre più avvolto da fiamme e fumo finché, finalmente, il cellulare di Efesto squillò nella sua mano, spezzando il silenzio inquieto che li circondava.

Accettando subito la chiamata, Efesto urlò: “Ma dove diavolo sei finita?!”

“Ce la siamo fatta a piedi, nell’ultimo tratto! Ecco cosa!” strillò esausta la dea, mandandolo poi debitamente a quel paese.

Sbuffando, Efesto brontolò un insulto all’indirizzo della nipote prima di chiedere delucidazioni della situazione su quel lato della montagna e, quando seppe ogni cosa, ringhiò.

Come temeva, il fuoco si era dato da fare per sparigliare le carte ma, non potendo mettervi mano direttamente, avrebbe dovuto fare affidamento sulle forze degli umani, per fermare un potenziale disastro apocalittico.

“Usa il tuo fascino, ragazza, e spingi quei ragazzi a lasciar perdere quella parte di bosco. E’ ormai persa. Si devono concentrare a sud, perché il fuoco sterzerà da quella parte e arriverà a bruciare tutto il monte, se non intervengono prima. Di’ loro di usare quei grandi uccelli di metallo per bagnare il bosco a sud, così che le fiamme non attecchiscano, e permettano loro di creare i canali frangi-fuoco.”

“Okay. Papà si incazzerà di brutto, ma lo manderò direttamente da Atena. Con lei abbasserà la cresta” dichiarò rapida Artemide, chiudendo la comunicazione.

Efesto, a quel punto, scrutò Alekos e, dubbioso, gli domandò: “Credi che la mamma si arrabbierebbe, se la disturbassimo? Temo che Artemide, da sola, possa fare poco, e io devo prendermi cura di te, al momento.”

Alekos storse il naso, ma disse: “Visto che lo zio è in pericolo, non credo che dirà nulla. Lei gli vuole molto bene. Però, se vuoi andare anche tu, lassù, io prometto di andarmene a casa e aspettarvi lì.”

“E farti rimanere da solo, senza nessuno a cui chiedere lumi o aggiornamenti?” ritorse lui con gentilezza davvero rara. “No, Alekos. Non ti costringerei mai a farlo. Mi sorbirò la rabbia di Atena, se necessario, ma è meglio accettare quello, che lasciare che a tuo zio succeda qualcosa, ti pare?”

“Le dirò che te l’ho detto io” lo tranquillizzò Alekos, abbracciandolo.

Efesto accettò con gratitudine quell’abbraccio, trovandolo più confortante di mille parole e di tutti i doni del mondo e, nel chiudere gli occhi, ringraziò Teti per avergli consigliato di raggiungere Atena e Artemide in California.

Diversamente, non avrebbe mai conosciuto Alekos e il suo calore umano.

“Spiacente di disturbarti, Atena, ma c’è bisogno che tu ed Érebos rientriate. C’è un incendio nei pressi di Alamo, e il tuo parente è coinvolto.”

“Efesto… cosa sta succedendo? Felipe è in pericolo?” domandò ansiosa la voce di Atena nella sua mente.

“Artemide è con lui, e stanno tentando di convogliare i pompieri nel punto giusto, ma non so se riusciranno, visto che ci è negato intervenire direttamente.”

“Maledetto Ares e la volta che si è impicciato!” sbottò Atena, imprecando a gran voce. “Torneremo subito, ovviamente. Alekos è con te?”

“Sì, è qui con me. Ho preferito tenerlo qui perché fosse costantemente informato, piuttosto che solo a casa, e senza informazioni di prima mano su suo zio.”

“Hai fatto benissimo, grazie. Ti chiedo di prenderti cura ancora un po’ di lui, mentre io ed Érebos andiamo a dar loro man forte. Ti farò sapere.”

Ciò detto, interruppe il contatto ed Efesto, sorridendo a un ansioso Alekos, disse: “Non si è arrabbiata, tranquillo. Ora andranno a dare una mano.”

“Bene” mormorò sollevato Alekos. “Non voglio che nonna Anita perda anche Felipe.”

“Non succederà. Con quelle due discole di mezzo, non succederà mai” lo rassicurò lui, avvolgendogli le spalle con un braccio.

Sperò davvero di avere ragione perché, se fosse successo il peggio, niente avrebbe fermato Artemide dal commettere un deicidio, e forse neppure Atena.

 

 

 

 

N.d.A.: sottolineo che il titolo di “zio” e “nipote”, nel caso specifico, è del tutto onorario, visto che non ci sono reali parentele tra Efesto e Artemide, o tra Efesto e Alekos. Visto l’aspetto più ‘anziano’ di Efesto, mi è venuto spontaneo che, tra loro, vi fosse una sorta di rapporto tra zio/nipote, quando in realtà non hanno legami (almeno, seguendo il mito a cui mi sono appoggiata per scrivere questa storia).

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Capitolo 12
*** Efesto - 3 - ***


 
Efesto – 3 –
 
 
 
 
L’arrivo di Atena ed Érebos fu annunciato da una strana bruma azzurrognola, che i pompieri guardarono con sospetto misto a preoccupazione.

Nessuno dei vigili del fuoco allertati da Felipe aveva accettato le sue parole riguardo al cambiamento di piani per affrontare il fuoco, perciò l’arrivo delle due divinità fu accolta dagli sguardi sorpresi dell’intera compagnia.

Artemide aveva assistito al battibecco tra Felipe e il capo dei pompieri senza poter fare nulla – troppo innervosita dall’incendio per potersi concentrare sui suoi poteri – ma, quando vide quella nebbia, sorrise sollevata.

Nessuno poteva giocare con le menti delle persone come Érebos. Lui sarebbe riuscito a smuovere quegli irriducibili vigili del fuoco, salvando l’intera situazione e quegli uomini coraggiosi quanto testardi.

Non appena vide comparire la coppia, perciò, Arty corse ad abbracciare Atena, stringendosi alla sorellastra con una tale forza da far gemere la dea della guerra. Mentre Érebos si ragguagliava con Felipe per conoscere in breve la situazione – sempre sotto gli occhi sgomenti dei pompieri –, Artemide mormorò: “Non sapevo davvero cosa fare… ero bloccata, e…”

Azzittendola con un sorriso, Atena replicò: “So che queste cose ti scioccano a morte, tesoro, ma sono felice che tu non abbia voluto abbandonare Felipe. Hai dimostrato coraggio, davvero.”

“Alekos è al sicuro con lo zio, comunque” ci tenne a sottolineare Artemide. “Non è mai rimasto da solo!”

Scoppiando a ridere suo malgrado, Atena assentì tranquilla. “Lo so, non temere. Ho già parlato con Efesto, e ci ha detto come sono andate le cose. Hai fatto tutto benissimo.”

Rasserenata dalle parole della sorella, Artemide osservò con occhi più sereni l’opera della divinità Ctonia, intento a parlare con i vigili del fuoco riguardo a ciò che avrebbero dovuto fare.

Ammiccando infine a Felipe, chiosò: “Lui sì che ci sa fare, con le parole.”

“Decisamente” esalò lui, scrutando l’intera scena con espressione basita e occhi sgranati.

Già pronta a commentare la bravura della divinità Ctonia con una battutaccia, Artemide strillò di paura quando un paio di piante crollarono verso di loro sotto il peso delle fiamme che le stavano divorando.

Immediatamente, e incuranti di avere un pubblico, Artemide e Atena sfoggiarono le loro armi e, mentre le frecce dorate della dea silvana distruggevano la prima pianta, la seconda venne divelta dalla potente spada della dea della guerra.

Il tutto sotto gli occhi basiti dei vigili del fuoco che, pur sotto l’effetto dei poteri di Érebos, colsero fin nei minimi dettagli ciò che avvenne dinanzi a loro.

Felipe, non meno scioccato dei pompieri accanto a lui, gracchiò sgomento: “Miseria… ladra.”

Fu però Érebos a sottolineare l’evidente, e a scuotere il capo con espressione esasperata quanto divertita. “Siete le solite esagerate. Ora dovrò anche candeggiare le loro memorie.”

Ad Artemide non fregò un accidente e, stringendosi a Felipe, borbottò: “Non me ne importa un fico secco. Non lascerò che Atropo si diverta con un altro Rodriguez. Niente di personale, Érebos, ma vorrei stare nei primi danni e impedire a tua figlia di far danni.”

Atena non poté che sorriderle calorosamente e, rivolta alla divinità Ctonia, chiosò: “Papà si incazzerà di brutto, ma fa niente.”

“Dubito si arrabbierà con me” sorrise sornione la divinità, lasciando scivolare le sue dita sui volti dei pompieri con gesti simili a carezze.

“Oh, e perché?” si interessarono subito le due dee.

“Perché sono più vecchio di lui” sottolineò Érebos prima di schioccare le dita e ordinare ai pompieri di allontanarsi per raggiungere il nuovo punto di raccolta.

Atena sogghignò per diretta conseguenza e, lanciando un’occhiata maliziosa al suo compagno, celiò: “Oserei dire che la faccenda avrà risvolti davvero interessanti, se mai papà dovesse metterci il becco.”

“Preferisco non sapere… vi lascio alle vostre beghe divine” borbottò a quel punto Felipe, salendo a sua volta sul camion dei vigili del fuoco. “… comunque, grazie in anticipo. Se il piano di Efesto funziona, avrà salvato tutta la zona di Alamo.”

“Credi a noi, Felipe…” asserirono in coro Atena e Artemide. “… Efesto non sbaglia mai, quando c’è di mezzo il fuoco.”

Lui annuì, sorrise ad Atena ed Érebos e infine, rivolto uno sguardo malizioso ad Artemide, mormorò: “Tu e io abbiamo un conto in sospeso, dea della caccia. Non sparire.”

“Non ci penso proprio” annuì lei, guardandolo allontanarsi assieme ai vigili del fuoco.

Non appena non furono più alla portata della loro vista, Artemide si volse a mezzo verso la sorella, titubante, e domandò: “Credi che dovrei seguirlo? Sai, dopotutto…”

Atena scosse il capo, le sfiorò il viso con una carezza e replicò: “Se mai vorrai cominciare qualcosa con lui, ricorda sempre che è un mortale e, prima o dopo, Atropo avrà la forbice in mano per Felipe. Non è una cosa su cui tu possa porre un veto, perciò pondera ciò che senti e sappi che il Fato è una livella che non fa sconti a nessuno, ma che non condanna per sadismo o perversione. E’ nella natura delle cose, e basta.”

Artemide annuì lentamente e, nel lanciare uno sguardo alle fiamme che ancora divampavano dietro di loro, domandò: “E’ così che sei venuta a patti con la morte di Miguel?”

“Esatto. E se non mi credi, parla con Atropo. Sarà illuminante, in tal senso” le spiegò Atena.

Artemide allora balzò all’indietro, indicò il bosco e borbottò: “Facciamo che parleremo di filosofia lontano da qui. Ormai ho i nervi a pezzi, e potrei dare di matto per molto meno che la caduta di un albero.”

Atena ed Érebos si dichiararono d’accordo e, assieme, tornarono laddove ancora si trovavano Efesto e il piccolo Alekos.

Nel riprendere forma accanto a loro, Atena sorrise al suo bambino – ancora stretto alla mano di Efesto – e, nel vedere lo zio, spalancò gli occhi ed esalò sorpresa: “Zio! Però… ti sei tirato a lucido!”

Arrossendo fino alla radice dei capelli sale e pepe, lui borbottò una risposta incomprensibile prima di domandare ansioso: “E’ andato tutto bene, lassù? Stanno facendo ciò che ho detto al mortale?”

Érebos assentì, dandogli una pacca sulla spalla per rassicurarlo.

“Ho spiegato loro per filo e per segno come devono comportarsi e…” si interruppe per un attimo, indicando sopra le loro teste il canadair che stava dirigendosi verso il fondo della valle. “… da quel che sembra, stanno mettendo in pratica alla perfezione i tuoi consigli. Direi che tutto sta procedendo bene.”

“Mi riterrò soddisfatto quando lo vedrò spento” sbuffò Efesto prima di accigliarsi al pari degli altri quando vide comparire, a qualche metro da loro, una nuvoletta scintillante che preannunciava l’arrivo di una divinità. “Che succede, ora?”

“E chi lo sa?” si lagnò Artemide, passandosi nervosamente le mani tra i capelli pieni di fuliggine.

Abbigliato con la sua divisa d’ordinanza, Hermes apparve dinanzi a loro con tanto di eleganti calzari dorati ai piedi e dotati di ali, una candida tunica bianco latte e bracciali d’oro ai polsi, recanti le effige di Zeus.

Tutto sorridente e baldanzoso, svolazzò accanto a loro con la sacca per le lettere sistemata a tracolla e, una alla volta, candide missive vergate con grafia elegante vennero consegnate a Efesto, Atena e Artemide.

Quando, però, Hermes si ritrovò dinanzi a Érebos, il messaggero degli dèi ebbe un’insicurezza, colmata però subito dalla divinità Ctonia che, allungata una mano, sorrise serafica e disse: “Accontentalo pure, Hermes. Lo so che ambasciator non porta pena.”

“Non si sa mai… nei secoli, hanno tagliato un sacco di teste, ai messaggeri” ghignò furbo Hermes prima di guardare le sorelle e chiosare: “Vi siete messe nei guai, mi sa.”

“Lo temi così tanto che la tua mascella sta per scardinarsi a forza di trattenere il sarcasmo” sibilò Artemide, soffiandogli contro.

“Sei la solita scontrosa” sbuffò Hermes, atterrando poi accanto ad Alekos per un rapido abbraccio e per consegnare una lettera anche a lui, stavolta colorata e piena di adesivi. “Questa, almeno, è simpatica.”

“Grazie, zio Hermes” sorrise Alekos, aprendola e vedendo comparire i diorami di tutti gli dèi dell’Olimpo, con tanto di sorrisoni e occhi a stella.

“Dioniso” borbottarono all’unisono Atena e Artemide.

Con un balzello, Hermes tornò a sollevarsi in volo e, inchinandosi scherzosamente al gruppo di divinità, dichiarò: “Naturalmente, Zeus vi vuole vedere subito.”

Ciò detto, svanì come era giunto, lasciando alle sue spalle solo il ricordo di una risata divertita e il profumo dell’ambrosia di cui, solitamente, odorava Hermes.

“Neanche ci facesse dentro il bagno” brontolò Artemide, scuotendosi una mano dinanzi al volto.

Atena ghignò, non potendo che darle ragione e, nell’aprire la sua busta, scrutò accigliata il richiamo formale di Padre Zeus e i toni da Santa Inquisizione con cui la invitava a presentarsi sull’Olimpo.

Sbuffando, richiuse la lettera, la passò al figlio – che la lesse immediatamente, scoppiando in una risatina divertita – e borbottò: “E io che speravo che diventare nonno lo avrebbe addolcito. Era al suo peggio, quando l’ha scritta.”

“Magari era furioso con la moglie. Sai che, quando litigano, diventa ispirato e diventa velenoso come un aspide” scrollò le spalle Artemide, lanciando uno sguardo al fuoco che divampava in lontananza. “E se io rimanessi e voi mi anticipaste? Così, giusto per stare sul sicuro.”

“Andiamo, prima che gli parta un divino embolo. Potrebbe diventare ancor più creativo di così e inviarci le Erinni, come accompagnatrici” mugugnò Atena, afferrando la mano di Alekos per poi domandare: “Pronto a fare un giretto sull’Olimpo?”

“Non vedo l’ora” annuì eccitato il ragazzino.

I quattro dèi si guardarono vicendevolmente e, quasi all’unisono, replicarono: “Potessimo dire la stessa cosa…”
 
***

Il viale centrale che costeggiava i templi eretti da tempo immemore sull’Olimpo, era abbellito da piante d’alto fusto, fontane zampillanti e statue di ogni ordine e grandezza.

Profumi di nettare e ambrosia si espandevano nell’aria come un qualcosa di fisico e Alekos, nel guardarsi intorno con espressione sognante, mormorò: “E’ tutto bellissimo.”

Atena e Artemide, entrambe abbigliate come si conveniva a due dee del loro calibro, avanzavano con passo battagliero accanto al bambino. Loro malgrado, però, furono costrette a loro volta ad ammettere che quel luogo, per quanto classico e un po’ demodé, fosse splendido anche agli occhi di una divinità.

Le marmoree costruzioni che si ergevano verso il cielo terso erano di splendida fattura, e la purezza dell’aria che si respirava in quei luoghi non aveva eguali in nessun luogo, sulla Terra.

Le ampie scalinate che conducevano ai singoli templi erano lisce come perle, ed erano altrettanto cangianti sotto il sole del meriggio.

I colonnati, diritti e perfetti, ne erano il degno termine e, oltre loro, la frescura e l’ombra dei templi sembrava promettere pace e serenità.

Tutto, in quel luogo, sembrava studiato per regalare a un occhio sprovveduto una sensazione di sicurezza e di candore, ma nessuno degli dèi pronti a far visita a Zeus si lasciò ingannare.

Che Alekos pensasse pure che l’Olimpo fosse un luogo esemplare e privo di difetti: tutti loro, chi in un modo, chi nell’altro, sapeva bene che non era così.

Quando infine raggiunsero il punto più alto dell’Olimpo e il palazzo più imponente di tutti, Atena celiò sarcastica: “Benvenuti agli Hunger Games. Possa la fortuna essere sempre dalla vostra parte.”

Artemide scoppiò in una grassa risata mentre Efesto, grattandosi dubbioso la nuca, domandava: “Non era quella saga piena di gente che moriva in un’arena?”

“Esatto, zio. Credo che la mamma volesse fare dell’ironia, visto che sembrate dover fronteggiare qualcosa di simile” ridacchiò Alekos.

“Beh, sfruttiamo la citazione fino in fondo, allora” chiosò Efesto, schioccando un dito e facendo rifulgere gli abiti dei quattro dèi di fiamme scarlatte… e totalmente finte.

“Oooh, fantastiche, zio!” esclamò Artemide, battendo felice le mani. “Le voglio su tutte le mie tuniche!”

“Anche se ti spaventano gli incendi?” domandò dubbioso Efesto.

“E chi se ne frega… queste sono finte, e sono troppo cool” trillò eccitata Artemide, saltellando e guardandosi con espressione estasiata.

“Mancherebbe il cocchio, ma ci accontenteremo” chiosò a quel punto Érebos, socchiudendo per un momento gli occhi prima di distendere le mani sulla sua tunica.

Da bianca che era divenne nera come la notte e, sul tessuto traslucido e che rifletteva le fiamme di Efesto, comparvero tutte le stelle dell’universo in un gorgoglio primordiale che fece sospirare di pura meraviglia i presenti.

I lunghi e neri capelli del dio Ctonio si andarono a confondere con i toni scuri della tunica, così da rendere il loro leggero fluttuare ancor più misterioso e affascinante.

Avanzando per primo, Érebos sorrise loro furbescamente e disse: “Giusto per fare un po’ di scena, sapete… dovrò pur vantare la mia discendenza, ogni tanto.”

“Sarà grandioso. A paparino verrà un travaso di bile” ridacchiò maligna Artemide mentre prendeva sottobraccio zio Efesto, e Atena faceva lo stesso con suo figlio.

Non appena il gruppo sparuto ebbe oltrepassato la linea immaginaria offerta dalle alte colonne corinzie del tempio – che rifletterono le fiamme scarlatte di Efesto –, mille torce si accesero accanto ai muri, indirizzando loro la via.

Non che ve ne fosse bisogno poiché ognuno di loro, salvo Alekos, conosceva bene la strada per raggiungere la sala del trono. Zeus, però, aveva forse voluto rispondere alla scelta plateale di Efesto di sfoggiare un look estroso, e questo era il risultato.

Quando infine raggiunsero l’interno del tempio e l’ampia sala del trono, vi trovarono già presenti il possente Zeus, oltre alla seriosa Era.

Ai due lati della sala, al pari di tanti membri di una giuria, gli dèi tutti attendevano che il Padre dell’Olimpo parlasse e Atena, nel piegarsi all’orecchio di Artemide, mormorò: “Lo dicevo che eravamo agli Hunger Games.”

“Afrodite non mi manderà mai un paracadute” brontolò Arty, accigliandosi.

“Guardate troppa TV” le redarguì bonariamente Efesto, guardandosi solo fuggevolmente attorno, per niente turbato dagli eventuali commenti delle divinità.

Ormai aveva imparato a fregarsene. Teti aveva avuto ragione da vendere, a mandarlo tra i mortali. Solo loro potevano conoscere una vita vissuta nell’imperfezione, ma che così imperfetta poi non era affatto.

I difetti potevano diventare pregi, e le limitazioni opportunità. Mai più, nella sua esistenza, si sarebbe nascosto dietro ciò che gli era accaduto.

Né avrebbe più permesso a nessuno di farlo sentire inferiore per il suo aspetto fisico, o le sue mancanze.

Lui era giusto così com’era, anche se non era bello come Afrodite, o aitante come Ares.

Raggiunto che ebbero la scalinata che conduceva al trono, il gruppo si fermò e Zeus, senza neppure prendersi il tempo di salutarli, sbatté i pugni sui braccioli del trono marmoreo e tuonò: “MA COSA VI SALTA IN MENTE, DICO IO?!”

“Niente, ‘ciao, come va, figliole?’, papino? Dopotutto, sono diversi mesi che manco da casa, e Atty anche di più” sottolineò sprezzante Artemide.

Era borbottò qualcosa riguardo all’educazione di certe dee e, per tutta risposta, Artemide sibilò: “E’ meglio se stai zitta, visto che tu sei l’ultima a poter parlare di educazione!”

“Cosa vorresti dire?!” sbottò Era, levandosi irosa dal suo scranno e fissando l’odiata dea silvestre con gelidi occhi azzurri.

“Cosa voglio dire?! Ce l’hai davanti al naso, COSA!” sbraitò allora la giovane dea, indicando Efesto e sfidandola a ribattere.

Azzittendosi di colpo, Era fissò livida la divinità della caccia che, per tutta risposta, ghignò al suo indirizzo e poggiò soddisfatta le mani sui fianchi.

Zeus si affrettò a riportare l’attenzione sul motivo principale per cui aveva convocato le quattro divinità e, tossicchiando, disse con minore enfasi: “Ehm, tornando a noi, vorrei ricordarvi che, stando ai trattati firmati da tutti, non vi era concesso usare i vostri poteri di fronte a dei mortali in maniera così diretta come avete fatto.”

“Solo perché abbiamo abbattuto un paio di piante? O fatto un paio di abracadabra?” sottolineò Atena, guardandosi noncurante le unghie, neanche vi stesse cercando i misteri dell’universo.

Zeus sbuffò di fronte a quell’aperto disinteresse nei confronti della sua reprimenda e, oscurandosi in viso, ringhiò: “Ti ho insegnato a guardare in faccia la gente, quando ci si parla. Che razza di esempio dai, a tuo figlio?!”

Alekos sorrise al nonno, non sapendo se ridere di fronte all’aperta sfida della madre e della zia, o se limitarsi a nascondersi dietro la schiena di Érebos per rendersi invisibile. Non voleva essere usato come pezzo degli scacchi di quella particolare partita, ma non voleva neppure offendere nessuno.

“Padre, se ritenessi il tuo scoppio d’ira utile a insegnare qualcosa a mio figlio, ben volentieri mi prenderei la tua reprimenda…” disse allora Atena, sollevando due occhi di gelido smeraldo sul padre, che impallidì leggermente. “… ma, visto e considerato che la tua lettera trasudava rabbia repressa e basta, non ritengo che Alekos possa imparare alcunché, da questa pagliacciata.”

“PAGLIACCIATA?!” sbraitò allora Zeus, divenendo paonazzo in viso per l’ira.

Ares ridacchiò spudoratamente, strizzando l’occhio ad Atena, che lo ringraziò con un bacetto lanciato nell’aria con fare molto civettuolo.

“Adesso BASTA! FUORI TUTTI!” tornò a urlare Zeus, sempre più furioso.

Ben volentieri, gli altri dèi defilarono fuori dal palazzo del Padre e, quando Apollo passò accanto alla gemella, mormorò: “Attenti ai fulmini. Ne ha un paio dietro il trono, nella sua faretra.”

“Grazie per la soffiata, fratello” ammiccò Artemide, guardandolo poi correre via alla chetichella.

Rimasti finalmente soli, Zeus li fissò al colmo dell’esasperazione e borbottò: “Come si fa a farsi rispettare, se non mi prendete sul serio?!”

“Farsi rispettare non implica necessariamente urlare come un pazzo, voler comminare condanne senza giusta causa e lanciare strali a caso contro persone a caso” sottolineò Atena, indicando con un dito la faretra delle folgori che era appesa al trono.

Arrossendo leggermente, Zeus grugnì: “Non le avrei usate, in ogni caso.”

“Vorrei ben vedere… ma quel che abbiamo compiuto è stato fatto per salvare delle vite umane, ed Érebos aveva tutto pienamente sotto controllo” gli fece quindi notare Atena, lanciando poi un sorriso al suo compagno.

“Quanto a te…” sbuffò a quel punto Zeus, fissando torvo la divinità Ctonia. “… non ti sembra di aver esagerato, nell’uso dei tuoi poteri?”

“Con tutto il rispetto, Zeus, non prendo ordini da te, e posso fare più o meno ciò che voglio” si limitò a dire il dio, scrollando le spalle. “Se i miei poteri possono salvare la vita a qualcuno, ben venga. E se possono rendere felice la mia amata, meglio ancora. Ricorda, io non sono figlio tuo e non sono tenuto a seguire le tue leggi.”

Deglutendo a fatica, e ricordando forse con fastidio la vera – e più profonda – natura del dio Ctonio, Zeus si limitò a borbottare: “Beh, vedi di non fare troppi favori alla mia figliola, se ti riesce.”

“Mi premurerò di non fare mai del male a nessuno” gli concesse Érebos con una certa ironia.

Tossicchiando imbarazzato, Zeus tornò con lo sguardo sulle sue figlie, che non sembravano minimamente preoccupate dal suo rimbrotto.

Come poteva ammettere, con loro, che la sua ‘dolce’ metà si era sentita infastidita dal fatto che suo figlio Efesto avesse fatto comunella con le due dee, riuscendo persino a divertirsi, e lo aveva obbligato a richiamarle all’ordine?

Zeus sapeva perfettamente da solo che quelle erano solo le tirate di una bambina viziata. Efesto aveva tutto il diritto di vivere come meglio credeva, visto soprattutto il trattamento subito alla sua nascita, e durante il primo periodo della sua vita.

Il problema era che, finché non fosse riuscito a liberarsi dal maledetto trono su cui si era assiso quella mattina, in attesa di un incontro intimo con una ninfa, non avrebbe più potuto fare un accidente di niente.

Quella vigliacca di Era aveva fatto sostituire i troni a sua insaputa – probabilmente per vendicarsi di una sua recente scappatella – e aveva fatto sistemare lo scranno costruito da Efesto al posto del suo.1 Segno inequivocabile che, primo, una delle sue ancelle aveva tradito la sua fiducia, secondo, Era aveva conservato quell’infernale marchingegno per poterlo usare contro di lui.

Era già stato dannatamente difficile convincere Efesto a liberare Era da quella trappola, a suo tempo, e grazie a un lauto quanto infruttuoso pagamento. Figurarsi se ora, che si ritrovava contro tutti quanti, il dio del fuoco si sarebbe abbassato a liberarlo, e solo per grazia divina.

Era non avrebbe mai detto una parola buona per difenderlo, visto che era stato colto in fallo. Artemide e Atena erano giustamente furiose per quella convocazione poco convincente. Érebos non aveva nessun interesse ad aiutarlo, specialmente dopo aver fatto arrabbiare la sua dolce metà e, per finire, Efesto non aveva nessun debito d’onore, con lui.

Era in un bel guaio.

“Sai cosa mi stavo chiedendo, papino?” intervenne a quel punto Artemide, sedendosi sul primo gradino del palco per poi guardarlo dal basso all’alto con aria di sfida. “Come mai continui a startene seduto lì come una statua, quando invece sei solito camminare avanti e indietro, quando sei irritato?”

Impallidendo leggermente, Zeus si limitò a dire: “Non è detto che io sia irritato. Magari, sono solo deluso da voi e dalla leggerezza con cui affrontate le cose.”

Artemide assottigliò lo sguardo, ghignò beffarda e, lanciando uno sguardo a una seriosa Era, aggiunse: “Mah… sarà anche vero, eppure qualcosa non mi torna. Perché non scendi e non ne parliamo a quattr’occhi?”

Sollevando un sopracciglio con evidente interesse, Atena guardò a sua volta il padre, si aprì in un sorriso di scherno e chiosò: “Sì, papà. Scendi. Dopotutto, siamo in famiglia, e non c’è bisogno di tutta questa messa inscena.”

“Sto bene qui” sottolineò lui sprezzante.

Artemide, allora, balzò in piedi, annullò le distanze che li separavano per raggiungerlo sul palco e, afferratolo a una mano, lo strattonò dicendo: “Oh, ma dai! Non vuoi neanche darci un abbraccio pacificatore?”

Come ipotizzato dalla dea, il corpo massiccio di Zeus rimase ancorato allo scranno marmoreo e, per diretta conseguenza, Artemide scoppiò in una grassa risata e celiò: “Che hai combinato per finire sul trono di Efesto?”

Sentitosi preso in causa, il dio del fuoco guardò sua madre, ora palesemente a disagio e, rivolto alla dea silvestre, domandò: “Sei sicuro che sia quello?”

“O qualcuno ne ha costruito un altro uguale, o una persona a caso…” chiosò Artemide, fissando ironica una furiosa Era. “… ha pensato bene di fare uno scherzetto al Padre degli dèi.”

“Non puoi venire nella MIA CASA a prenderti gioco di me, con quella faccia che mi ricorda ogni giorno LE SUE COLPE…” sbottò Era, levandosi in piedi come una furia fino a piazzarsi di fronte a una imperturbabile Artemide. “… per poi farmi passare per una sciocca vanesia! Si meritava una simile punizione! Come voi vi meritate di essere punite per aver fatto quello che volevate di fronte a dei miseri umani!”

Sbadigliando sonoramente di fronte a quella filippica, Artemide replicò caustica: “Primo, non è CASA TUA, ma di mio padre. Il tuo tempio è un altro, se ben ricordo, e lì non ho mai messo piede per mero rispetto, anche se tu sembri non ricordarlo MAI. Secondo, scaricare sui figli le colpe dei padri è qualcosa di miserevole e rivoltante e, come dea del focolare domestico, speravo che almeno tu te lo ricordassi ma, a quanto pare, non te ne frega niente. Terzo, abbiamo salvato delle vite umane, agendo come abbiamo fatto, e non me ne pento ma, se ti riferisci all’uso dei poteri di Érebos durante il Cinco de Maio e in occasione dell’incendio, come ha giustamente detto lui, può fare quel che vuole, perché voi non avete potere su una divinità Ctonia.”

Ciò detto, piazzò le mani sui fianchi, fissò rabbiosa Era e scoccò la bordata finale.

“Se poi vogliamo spaccare il capello in quattro, tu più di tutte dovresti tacere, sull’uso incongruo del potere, visto ciò che hai fatto quando nacque lo zio. Pensi che usare la tua forza su un infante sia stato giusto, o coerente con quanto vai predicando?”

Efesto ascoltò le parole di Artemide con la sorpresa nel cuore. Era forse la prima volta in assoluto che un’invettiva del genere veniva rivolta a sua madre, e con toni così duri.

Lui stesso non era mai riuscito a parlarle in quel modo, e il fatto che fosse sua nipote a ergersi a suo paladino, fu qualcosa che lo scaldò dentro più delle fiamme che lui sapeva così magistralmente governare.

Era tremava come una foglia, ma non per la paura quanto, piuttosto, per la furia a stento trattenuta. Sapeva di non poter ribattere alle parole della dea, ma il desiderio di farlo era così forte da farle brillare di stizza gli occhi azzurro cielo.

Allontanandosi di un passo dalla dea del focolare, Artemide tornò a squadrare il padre, ora seria e vagamente disgustata, e aggiunse: “Non faccio neppure fatica a capire cos’abbia spinto Era a farti questo scherzo di pessimo gusto, e non la biasimo affatto. Io e Apollo siamo nati per un tuo capriccio, perché mia madre era bella e tu la volevi. Così, hai fatto imbestialire tua moglie e ci hai fatto vivere con il suo odio come compagni. Ben fatto, paparino.”

Zeus ebbe la decenza di non dire nulla e Artemide, cogliendo la palla al balzo, guardò dabbasso e concluse dicendo: “Volevi insegnare qualcosa a tuo nipote? Beh, Alekos può imparare questo; che la lealtà e la fedeltà sono importanti, ma vanno conquistate con il sudore della fronte. Vuoi il rispetto dei tuoi sudditi? Comincia tu a rispettare noi.”

Ciò detto, discese dal palco con passo tranquillo, si accostò a Efesto e, strizzandogli l’occhio, domandò: “Quanto tempo rimarrà lì?”

Efesto schioccò le dita e, subito, gli arti di Zeus furono liberi.

Vagamente sorpresi, i presenti guardarono Efesto in cerca di spiegazioni e la divinità, con una scrollata di spalle, dichiarò: “Non voglio guastarmi la giornata pensando a quanto far durare la sua penitenza. La sta già scontando da una vita. Non ho bisogno di infierire.”

Artemide gli sorrise compiaciuta e, presolo sottobraccio, disse: “Andiamo al mio tempio. Vi offrirò un po’ di nettare e ambrosia.”

“Molto volentieri” assentirono i membri del gruppetto, avviandosi verso l’uscita mentre le urla di Era ingiuriavano Zeus in merito alla sua debolezza e alla sua zucca vuota.

Una volta fuori dal tempio, Efesto prese una gran boccata d’aria, sorrise ad Artemide e gli altri e infine disse sollevato: “Non mi sono mai sentito meglio in vita mia. Lo giuro.”

 
 
1: Efesto costruì un trono per Era, ma con una trappola. Quando lei vi si sedette, rimase bloccata sullo scranno e a nulla valsero le richieste degli dèi. Dioniso, così, lo fece ubriacare per strapparne il consenso a liberarla, ma solo dopo che gli fu promessa in sposa Afrodite. Il resto, è storia.
 

 
N.d.A.: che dire? Zeus non ne fa una giusta?

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Capitolo 13
*** Efesto - 4 - ***


 
 
Efesto – 4 –
 
 
 
“… e così, tutto è bene quel che finisce bene” chiosò Felipe, sorseggiando una birra mentre Artemide serviva delle crudités sotto la veranda di casa.

Efesto assentì e, nel massaggiarsi la gamba destra, un po’ dolorante, disse: “Credo che Zeus stia ancora lagnandosi per il dolore alle orecchie, ma se l’è cercata, alla fin fine. Ognuno vive coi propri difetti e le proprie debolezze. Lui, semplicemente, non ha ancora capito come gestirli, e il risultato sono le urla di Era e le sue vendette perverse.”

Ghignando, Felipe annuì e replicò: “A me basta aver aiutato a salvare Alamo. Col vostro intervento, siamo riusciti a evitare che quell’incendio si espandesse a tal punto da distruggere non solo quella cittadina, ma anche San Josè, perciò ben venga.”

Ciò detto, scrutò dubbioso il dio del fuoco e domandò: “Se lo proponessi a un mio amico pompiere, ti andrebbe di tenere dei corsi su come interpretare i movimenti del fuoco durante gli incendi? Non potranno fare ciò che fai tu ma, con qualche nozione in più, potrebbero essere avvantaggiati durante i prossimi interventi.”

Sinceramente sorpreso, Efesto mormorò: “Credi che… mi ascolterebbero?”

“Puoi falsificare qualche documento per farti sembrare un esperto del settore dal punto di vista umano, no?” scrollò le spalle Felipe, come se non vi fossero problemi. “Vedrai. Dopo pochi minuti di conferenza, ti adoreranno. Che, per una divinità, dovrebbe essere la norma, poi.”

Efesto si ritrovò a sorridere divertito e assentì con piacere mentre Atena, dando una pacca sulla spalla all’ex cognato, commentava: “Hai avuto davvero una bellissima idea.”

Ciò detto, si rivolse a Efesto e aggiunse: “Scusami se non ho mai pensato che Era avesse bisogno di una ripassata, per quello che ti fece. Davo per scontato che non ti interessasse, ma ognuno di noi dovrebbe avere un paladino, e tu non hai mai avuto nessuno. Ti ho sempre considerato mio zio, ma non mi sono comportata da brava nipote.”

Efesto, però, scosse il capo e replicò: “Se ne avessi avuto il coraggio, avrei potuto farlo anch’io, a suo tempo. Inoltre, non ho mai considerato voi, il mio problema. Però, ciò che ha detto Artemide mi ha fatto sentire bene.”

La dea sorrise commossa, arrossendo e, nell’infilarsi un pezzo di carota in bocca, celiò: “Sono forte, come rullo compressore.”

Tutti sorrisero divertiti a quel commento e Felipe, attirandosela sulle gambe perché si sedesse, chiosò: “Sei forte anche come guarda-spalla, anche se hai una fifa blu quando vedi il fuoco.”

Lei rise, annuendo con vigore e, nel rialzarsi, lo afferrò a una mano per poi dire: “Vieni a prestarmi servizio, mortale. Devo portare fuori ancora un sacco di cose.”

“Come la mia dea comanda” mormorò lui, seguendola appresso mentre Artemide rideva come una ragazzina innamorata.

Nel vederli sparire dentro casa, Efesto scosse il capo e mormorò mesto: “Si farà del male, stando con lui.”

“Ne è consapevole, come lo è lui. Ma ho imparato che la gioia è gioia, indipendentemente da quanto essa dura, e vale la pena viverla pienamente” replicò dolcemente Atena, carezzando sul viso Alekos prima di prendere la mano di Érebos e stringerla nella sua.

Efesto annuì, sorseggiando la sua bevanda analcolica e, scrutando i suoi nipoti con rinnovata sicurezza, disse: “Aiuterò gli umani, dove potrò, poi tornerò a Catania e mi costruirò una villa da cui godere la vista del mio monte Etna e del mare.”

“E farai un abbonamento a una SPA?” ironizzò Atena, ammiccando.

“Eccome! Anche se dubito che troverò un altro Adam. Lui ha davvero un tocco divino” sospirò il dio, facendo ridere i presenti.

“Sono sicura che troverai qualcuno di valido…” asserì Érebos. “… e, naturalmente, quando la casa sarà ultimata, verremo a trovarti.”

“Sarete i benvenuti” annuì soddisfatto Efesto.

Non avrebbe chiuso la sua fucina all’interno della bocca dell’Etna. Vi era troppo affezionato per abbandonarla, ma era giusto che vivesse la sua vita immortale al meglio, e non da recluso.

Sua madre non lo aveva voluto, né amato, ma di questo non si faceva più un cruccio. Stava bene nella sua pelle, finalmente.






N.d.A.: qui si conclude la breve avventura californiana del nostro dio del fuoco, che ha finalmente trovato un equilibrio nella sua vita tribolata e dei nuovi amici con cui condividerla.
Abbiamo inoltre avuto modo di notare come Zeus ed Era, nonostante i millenni, continuino a beccarsi come galli per le scappatelle di lui, a riprova del fatto che certe cose sono immutabili.
Ho lasciato in sospeso volutamente la storia tra Felipe e Artemide perché, a momenti alterni, tornerà a ricomparire nelle mie storie ma, in linea di massima, non vi saranno drammi di nessun genere, non temete.
Adesso vedrò quale dio - o eroe - busserà alla mia porta... avete per caso un toto-nomi da propormi?

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Capitolo 14
*** Eos - 1 - ***


 
 
Eos – 1  –
 

 Isola di Ortigia - millenni fa
 
 
Il sangue era ancora fresco, sull’erba umida e da poco calpestata ed Eos, nell’inginocchiarsi accanto al corpo caldo ma morente di Orione, pianse lacrime amare e colme di rabbia.

La freccia mortale che stava strappando attimo dopo attimo la vita al suo amore, apparteneva alla faretra di Artemide, di questo era sicura.

Le piume d’aquila, il legno dorato della freccia, la punta in ferro dalla bordatura perfetta, tipica delle fucine di Efesto.

Eos non avrebbe potuto avere dubbi nemmeno in mille anni. Perciò, quando vide Artemide comparire dal fitto del bosco assieme ai suoi mastini e a un paio di sue ancelle, anch’esse armate e livide in volto, non si sorprese.

Sirio, il fedele cane di Orione, abbaiò loro contro, nel vederle, ma ad Artemide bastò un gesto della mano, per chetarlo.

Anche di questo, Eos non si sorprese. Era ben nota la familiarità che la dea aveva con i cani da caccia, e nessun animale poteva levarsi contro di lei.

La cosa, però, la fece infuriare e, se già la fine miserevole di Orione non l’aveva resa pazza di rabbia, la remissività di Sirio la fece agire.

Levandosi in piedi, affrontò la dea di bianco vestita, i cui fulgidi capelli erano fittamente intrecciati sulla nuca in una trina di trecce, e urlò: “Cosa ti ha spinto a colpirlo, sconsiderata?! Cosa mai ti aveva fatto?! Non eravate forse amici?!”

Artemide lanciò un’occhiata al corpo riverso sul terreno di Orione, al suo sangue scarlatto che inzuppava gli steli d’erba tingendoli di rosso e, accigliandosi, sibilò: “Era un mendace, Eos. Lo è stato con me, così come con te.”

“Eri solo gelosa del fatto che lui mi fosse fedele, e ti avesse rifiutata!” le ringhiò contro Eos, stringendo le mani a pugno.

L’attimo seguente, poi, scoppiò in una risata malefica, condita di lacrime dolenti, e aggiunse: “Me l’ha detto, sai? Di come ti sei prostrata ai suoi piedi, di come lo hai supplicato di diventare il tuo amante… e di come lui ti ha rifiutato. Per questo lo hai ucciso?!”

Artemide non riuscì a nascondere un tic nervoso sul volto eburneo e perfetto, ma non parlò. Certo, Orione l’aveva offesa, a suo tempo, quando si era rifiutato a lei ma, con il tempo, era venuta a patti con le parole dell’uomo e ne aveva accettato la rettitudine morale.

Averlo come amico, durante le battute di caccia, si era rivelato piacevole e gratificante e, anche se non aveva potuto farlo suo, aveva comunque goduto della sua compagnia. Si era divertita a ridere e scherzare dei loro successi – o insuccessi – durante i loro pellegrinaggi per boschi, e lasciarlo tornare da Eos con un saluto e un abbraccio, le era parsa sempre la cosa più giusta, tra di loro.

Ma tutto era cambiato quando, in visita presso la sua amica Alcione, l’aveva scorto a infastidirla in modo più che esplicito.

Sul momento, non aveva detto nulla – era amica di Orione, e agli amici lasciava il beneficio del dubbio – ma, quando ne aveva parlato con Alcione e aveva saputo che il cacciatore aveva infastidito anche le sue sorelle Celeno ed Elettra, la sua rabbia era divampata.

Desiderosa di conoscere anche le versioni delle altre Pleiadi, Artemide si era quindi recata nelle abitazioni delle sorelle di Alcione e, quando la verità le si era riversata addosso in tutta la sua cruda freddezza, il suo cuore era esploso.

Furente e vendicativa, si era quindi recata al suo tempio per armarsi e, presi con sé i suoi segugi, si era recata dal fratello per conoscere la posizione di Orione nel mondo.

Essendo pieno giorno, Apollo non aveva faticato affatto a individuarlo sull’isola Ortigia e lì, come vento di tempesta, si era riversata Artemide, accompagnata dal monito del gemello.

La gelosia portava solo a eventi nefasti.

Sorda alle sue parole, però, Artemide si era convinta di essere nel giusto, ben decisa a proteggere l’onore delle Pleiadi e a punire l’amico fedifrago, reo di aver ingannato anche Eos, la sua diletta moglie.

A nulla erano valse le parole di Orione. A nulla era valsa la sua fuga.

Le frecce di Artemide non sbagliavano mai il bersaglio, era solo lei a decidere di mancare una preda e, quella volta, prese la decisione di non farlo.

Ora, con l’ira di Eos dipinta nei suoi occhi cerulei e le lacrime a imperlare il suo bel volto, Artemide ebbe un tremito di rimorso, ma la bocca non si aprì, le scuse non vennero, le parole rimasero inchiodate dentro di sé.

“Sei un mostro, a voler dileggiare il suo ricordo proprio davanti ai miei occhi. Non saprai mai cosa vuol dire amare davvero, visto che tu non hai un cuore con cui farlo!” sentenziò Eos, crollando in ginocchio accanto a Orione per poi piangere sul suo cadavere.

Le ancelle di Artemide fecero per replicare coi fatti a quell’ingiuria ma la dea le bloccò, ordinando semplicemente di rientrare al tempio sull'Olimpo senza fare null’altro.

Le giovani assentirono, portando con loro i mastini della divinità e Artemide, nell’abbandonare la radura dove ancora Eos stava piangendo affranta, mormorò: “Quando vorrai la verità, vieni a cercarmi. Fino a quel momento, credi pure quel che vuoi.”

Eos non rispose e Artemide, in silenzio, se ne andò dall’isola, lasciando dietro di sé il ricordo di un’amicizia a cui molto aveva tenuto, e che molto l’aveva fatta soffrire.
 
***


Presente

Lo sguardo perso nel vuoto mentre, nel cielo scuro, le stelle cadenti disegnavano archi impermanenti, Artemide sobbalzò quando il braccio di Felipe le si strinse attorno alla vita e il suo mento, leggero, si posò sulla spalla.

“A cosa sta pensando, la mia dea preferita?” domandò l’uomo, accentuando la sua stretta.

Lei si lasciò andare morbidamente contro il torace dell’amante, godendo del suo calore e del dolce e ritmico battere del suo cuore.

Erano arrivati a godere dei rispettivi corpi quasi per caso, durante un pic-nic notturno sulle sponde di un lago montano.

Artemide si era sorpresa della passione che aveva sentito nascere dentro di sé e, al tempo stesso, ne era rimasta terrorizzata. Il pensiero che un giorno Felipe l’avrebbe abbandonata l’aveva quasi ridotta in lacrime, ma il pensiero delle parole di Atena le avevano impedito di crollare.

La sorella, prima della loro partenza verso il lago, aveva sottolineato con lei quanto, la mortalità di Felipe, fosse sia un dono che uno scoglio, per loro. Lui le avrebbe dato tutto se stesso proprio perché mortale, e lei avrebbe dovuto goderne a piene mani proprio sapendo che nulla sarebbe durato per sempre.

Avrebbe solo dovuto decidere se era o meno in grado di accettare questo prezzo.

Nel momento stesso in cui la loro pelle si era sfiorata al chiaror della luna, Artemide non aveva avuto dubbi. Felipe sarebbe rimasto nella sua vita finché il Fato lo avesse permesso… o lui lo avesse voluto.

Perché amarlo come lei lo amava non soltanto la faceva sentire felice, ma la faceva sentire completa.

Era bello essere indipendenti e fiere, ma ciò non voleva affatto dire che non potesse esserlo anche al fianco di un uomo.

“Arty… che ti prende?” domandò nuovamente Felipe, ora preoccupato.

Riscuotendosi un poco, lei gli sorrise appena e mormorò: “Pensieri profondi. Non è da me, scusa.”

“Sei preoccupata perché Alekos è al corso degli scout?”

Scoppiando in una risatina, Artemide scosse il capo – ricordava bene quando, due giorni addietro, Alekos era partito con il suo gruppo per un viaggio sul lago Tahoe – e replicò: “Oh, no davvero. Inoltre, nel bosco dove sono a campeggiare, ho lasciato una delle mie ancelle, perciò…”

Ghignando, Felipe asserì: “Lo sapevo… la zia chioccia non poteva non colpire.”

“Non ti credere… Atty ha inviato Pallade, mentre Erebos… beh, lui non ha bisogno di inviare nessuno, potente com’è” brontolò Artemide, non volendo apparire debole agli occhi di Felipe.

“Non accigliarti, mia bella dea. Credo sia carino che vi preoccupiate così tanto per la prima gita fuori porta di quel ragazzino, ma ricordatevi che è un semidio. Non ha gli stessi problemi dei bambini umani” sottolineò Felipe, dandole un bacetto sul collo.

Artemide sospirò di pura delizia e, volgendosi tra le sue braccia per poterlo guardare in viso, mormorò: “Lo so. Lo sappiamo. Ma, proprio perché è un semidio, può essere ferito, e ancora non sappiamo quale sia il suo punto debole.”

“Non ci sono cacciatori di semidei in giro, che io sappia. Respira e goditi la pioggia di stelle cadenti” la rassicurò lui, dandole un bacetto sulla guancia.

“Sai, vero, che non sono stelle cadenti?” ironizzò allora Artemide, levando lo sguardo verso il cielo.

Un fulgore argenteo sfrecciò nel cielo per un attimo, svanendo alcuni secondi dopo e Felipe, dandole un pizzicotto sul braccio, replicò: “Ovvio che lo so. Ma davvero vuoi che dica ‘perché non andiamo ad ammirare dei bolidi di roccia e ghiaccio che sfrecciano attraverso l’atmosfera’? Non suona affatto romantico.”

“No, in effetti fa schifo” ammise la dea, non riuscendo però a mettere enfasi nel suo dire.

A questo punto, Felipe la prese per le spalle, poggiò la fronte contro la sua e domandò: “La verità, Arty. Che succede?”

“E’ una cosa stupida” brontolò a quel punto Artemide, mettendo il broncio.

“Allora, ti prenderò in giro spudoratamente. Dopotutto, tu hai riso per una settimana, quando hai visto i miei boxer di Iron Man” sottolineò Felipe, facendola scoppiare a ridere.

“Ma per forza! C’è scritto sopra ‘I am Iron Man’, e proprio sul…” cominciò col dire lei, subito azzittita da un bacio di Felipe.

Lei apprezzò ma, quando lui infine si scostò e replicò con un ‘so esattamente dov’è la scritta’, la dea non poté che scoppiare in un’altra grassa risata.

Che lei lo volesse o meno, Felipe riusciva sempre a strapparla dall’inedia o dai pensieri tristi, checché Arty ammettesse di essere giù di morale, ovviamente.

“Ergo… non mi sono dimenticato la domanda, sai?”

Sbuffando sonoramente, Artemide poggiò vergognosa il capo contro il suo torace e borbottò: “Stavo ascoltando i Metallica, oggi.”

“Ebbene? Sono un’ottima band. Dov’è l’inghippo?” domandò lui, carezzandole la chioma fulgida con movenze tenere e tranquille.

Rilassandosi sotto il tocco esperto dell’uomo, che sapeva esattamente come prenderla in quei momenti di crollo emotivo, Artemide aggiunse mogia: “C’era anche Orion, tra i brani che ho ascoltato.”

La mano si bloccò per un istante prima di riprendere la carezza e l’uomo, cauto, domandò: “Brutti ricordi, quindi?”

“Direi di sì. Se poi ci metti la pioggia di stelle cadenti, sono andata in paranoia” ammise lei, risollevando il capo per poi abbracciarlo. “Scusa. Doveva essere una serata romantica tra me e te, prima del ritorno di mia sorella dal suo viaggio ad Atene, e invece rovino tutto così.”

“Non hai rovinato nulla. Mi spiace soltanto non poterti aiutare. Le cronache sono abbastanza confuse, in merito a ciò che avvenne. Che poi… è tutto vero, quel che si dice?” le domandò lui, tenendola stretta a sé per poi scrutarla nei profondi occhi verde foglia.

“Beh, dipende cosa intendi per ‘tutto vero’. Ne ho lette di cotte e di crude, su quella storia, ma la faccenda è una e una sola; io feci l’errore di innamorarmi di un uomo che era sposato. Capii il mio errore e, pur se ferita, ne rimasi amica, ma lui si permise di ingannare me e la sua donna, cercando di circuire le mie migliori amiche e spacciandosi comunque per un uomo retto” gli spiegò lei, sospirando.

“Immagino che Eos non la prese bene” sottolineò Felipe, pensieroso.

“E’ un eufemismo. Mi ingiuriò pesantemente e non volle ascoltarmi. Non volle neppure parlare con le Pleiadi, che erano state fatte oggetto delle attenzioni maliziose di Orione” sbuffò la dea, iniziando a irritarsi al ricordo delle parole di fiele della dea dell’Aurora.

“Tu le uccidesti l’uomo, però” sottolineò gentilmente lui.

“Non è così semplice, Felipe. L’onore di una dea è… era tutto, all’epoca, e io mi sentivo presa in giro, sminuita nel mio onore di dea. So che avvilente ammetterlo, ma rimasi sconvolta dal fatto che Orione avesse preferito le Pleiadi a me” sospirò Artemide, scostandosi da Felipe per raggiungere la staccionata e, una volta lì, aggrapparvisi.

“Ti rende solo una donna. Potente e immortale, ma sempre donna. Immagino che non sia facile essere rifiutati” ci tenne a dire Felipe, ritrovandosi addosso per diretta conseguenza gli occhi inquisitori di Artemide.

“Perché, tu non hai mai ricevuto un rifiuto in vita tua?” sbottò la dea, incredula.

“Ebbene no, mia cara divinità. Tutte le donne mi hanno sempre adorato” ironizzò lui, vedendola sgranare gli occhi per diretta conseguenza.

“Che cosa?!” gracchiò Artemide, facendolo così scoppiare a ridere.

“Scusa, Arty, ma hai una faccia… giuro sul dio che vuoi che è vero!” continuò a ridere lui quando il volto di Artemide si fece ancora più scuro e disgustato.

“Non ho veramente parole… presa in giro da un mortale…” brontolò la dea, dirigendosi verso casa.

Felipe la seguì, sempre ridendo, e aggiunse: “Andiamo, Arty. Io vinco facile. Amo una dea, e una dea ama me.”

Lei si bloccò a metà di un passo, lo squadrò con aria di sufficienza e infine disse altezzosa: “Questa dea potrebbe cambiare idea, sai?”

“Non sai perdere” sentenziò Felipe, prendendola sottobraccio.

“Mai detto di saperlo fare” sottolineò per contro lei, entrando in casa assieme all’uomo.

Non vista, un’ombra li osservò scomparire all’interno dell’abitato e, non appena le luci si furono spente, questa si intrufolò nel giardino, lasciò un involto umido sulla porta di casa e, con un sogghigno, si dileguò nella notte.

La dea della caccia avrebbe avuto un risveglio amaro, questo era poco ma sicuro, e avrebbe capito cosa significava soffrire per amore.
 
***

Ancora mezzo addormentato, Felipe si diresse ciondolante verso la porta d’entrata, pronto a ritirare il giornale come ogni mattina – quando si fermava a dormire da Arty – ma, quando aprì il battente, non trovò un quotidiano ad attenderlo.

Dinanzi ai suoi occhi ora spalancati, l’uomo scrutò confuso un sacco di juta macchiato e dall’odore pungente che, a causa del suo contenuto, aveva creato una disgustosa scia di insetti provenienti dal giardino.

Già sul punto di prendere quell’involto spiacevole e gettarlo nella pattumiera, Artemide lo afferrò a un braccio e, gelida come la notte, ringhiò: “Rientra in casa. Subito.”

“Arty, ma cosa…” iniziò col dire lui, bloccandosi non appena si volse a guardarla.

Contrariamente al solito, Artemide risplendeva di quel debole bagliore che le aveva visto solo poche volte, da quando si conoscevano, ma che sapeva essere il suo marchio divino agli occhi dei mortali.

L’icore nel suo sangue brillava come mille lucciole in una notte d’estate, tingendole la pelle eburnea fin quasi a farla apparire d’oro.

In un altro momento avrebbe trovato quello spettacolo davvero meraviglioso, ma l’acciaio negli occhi di Artemide gli fece comprendere quanto, quell’evento, non fosse legato a qualcosa di piacevole.

Scostandosi perciò dalla porta, rientrò di qualche passo mentre la dea, facendo comparire con uno schiocco di dita il suo arco, abbassava l’arma per aprire con cautela l’involto.

Pur essendo abituato al sangue e alla morte – anche se era un ranger, non era raro che fosse stato presente su scene del crimine – Felipe sentì una stretta alla gola quando vide il capo mozzato di una persona all’interno del sacco.

Lasciandosi sfuggire un’imprecazione, Felipe guardò preoccupato la dea al suo fianco che, furente come poche altre volte, ricoprì con la juta quel volto bellissimo e immobile per poi distogliere lo sguardo.

“Arty… che succede?” mormorò preoccupato Felipe. “Chi è quell’uomo?”

“Endimione” replicò fiacca la dea, allontanandosi dall’involto come se fosse stato ricolmo di serpi.
Sempre più confuso, Felipe ricollegò nome a mito e domandò turbato: “Ma chi può… non era sotto la tua protezione?”

“Non più. Qualche anno fa, lo liberai dall’incantesimo che lo teneva assopito. Quando Atena portò via Alekos dall’Oltretomba, decisi di fare qualcosa di simile anch’io. Trovai assurdo continuare a tenerlo bloccato, nonostante fosse stata una sua richiesta rimanere nel genere di stasi in cui lo avevo addormentato” mormorò Artemide, sorridendogli mesta.

“In che senso… una sua richiesta?” esalò Felipe, confuso da quell’uscita.

Scrollando le spalle, Artemide ammise: “Checché ne dica Afrodite, o il mito stesso, fu Endimione a chiedermi di essere assopito. Voleva preservare la sua bellezza per sempre e io, da sciocca innamorata, lo accontentai. Avevamo l’accordo che io lo svegliassi per un mese ogni cento anni e, beh… sono fatta di carne anch’io…”

“Le tue due figlie” annuì Felipe, arrischiandosi a carezzarle una spalla.

Artemide accettò il gesto ma non si avvicinò, né cercò conforto in un abbraccio o altro. In quel momento, era una furia a stento repressa, e Felipe lo sapeva bene.

“Fu una sua decisione. Lo fu fin dall’inizio. Se mi si può dare una colpa, fu quella di accettarla e di chiedere a mio padre di esaudirla” sbuffò la dea, lanciando un’occhiata adirata all’involto di juta prima di aggiungere: “Quando però Alekos venne liberato dall’Oltretomba, ne parlai con Endimione e lui ammise di essere stanco della sua scelta e di voler invecchiare come qualsiasi altro uomo, di vivere ogni giorno la vita delle sue figlie e di coccolare i suoi nipoti. Così, papà sciolse l’incantesimo ed Endimione si trasferì a Cipro assieme a Delia.”

“Quindi… stavate ancora assieme?” domandò cauto Felipe, non sapendo bene come sentirsi.

Sapeva, stando a quel poco che aveva saputo per bocca di Arty, che la dea non era stata né casta né pura, nella sua esistenza, e che la compagnia maschile non le era mai dispiaciuta, ma tutto questo non lo aveva mai infastidito.

Il fatto di condividere con un altro uomo un rapporto intimo con la dea, però, andava un po’ troppo al di là della sua capacità di sopportazione, ma non voleva discuterne con Arty proprio in quel momento.

Non con la testa del suo amante sulla soglia di casa.

Artemide, però, si aprì in un mezzo sorriso, gli carezzò il viso e asserì: “La passione che ci univa è svanita nel corso dei secoli. Io ero affascinata dalla sua bellezza, e lui dalla mia, perciò il nostro rapporto era destinato a esaurirsi col tempo, per mancanza di spinte ulteriori. Ma mi ha dato due figlie, e non volevo per lui una fine così miserevole.”

“Arty…” sussurrò Felipe, sfiorandole il viso.

Lei si scostò appena, non desiderando la sua pietà e, tornando a guardare l’involto insanguinato, aggiunse: “Da quel che sapevo, doveva partire a giorni per Delo per andare a trovare Daphne, l’altra mia figlia, ma a questo punto…”

Sgranando di colpo gli occhi, Artemide corse in tutta fretta in casa per afferrare il suo telefono e, dopo aver composto il numero di Delia, la figlia maggiore, attese trepidante che qualcuno le rispondesse.

Quando, finalmente, all’altro capo sollevarono la cornetta, Artemide esalò: “Agape, sei tu?”

Metera… oddio, madre…” singhiozzò Delia, scoppiando in un pianto dirotto.

Accigliandosi, Artemide scrutò per un istante Felipe – memore di ciò che era avvenuto quando lo aveva teleportato mesi addietro – prima di dire: “Devo andare da mia figlia. Tu lascia l’involto dove si trova e…”

Interrompendosi per un istante, la dea schioccò le dita e, all’interno della stanza, comparve uno dei suoi cani da caccia.

“… oggi ti terrà compagnia Aster. Se ci saranno problemi, lui potrà farmelo sapere. Non voglio che lo lasci mai, è chiaro?”

Felipe, però, scosse il capo e, scrutando il segugio dai muscoli possenti, replicò: “Non ti mollo proprio ora che hai bisogno di una mano.”

Imprecando tra i denti, Artemide sbottò e disse: “Non posso aspettare di prendere un aereo! Mia figlia ha bisogno di me adesso!”

“Teletrasportami. La prima volta sono stato male, ma non è detto che ricapiti. Ribadisco, non ti lascio sola” ribatté cocciuto Felipe, afferrando il suo cellulare dalla credenza dove lo aveva poggiato la sera precedente. “Adesso chiamo in sede per dire…”

Artemide lo bloccò, dichiarando lapidaria: “Moriresti, se lo facessi di nuovo. I corpi umani non sono fatti per essere dematerializzati.”

Felipe bloccò la mano sullo smartphone, chiaramente sorpreso da quella risposta ma, irremovibile nella sua decisione, borbottò: “Beh, trova un altro modo, allora, perché io verrò con te.”

Imprecando nuovamente, Artemide ringhiò: “Atty me l’aveva detto che voi Rodriguez siete cocciuti come asini.”

Felipe si limitò a ghignare e, dopo aver telefonato al suo superiore per chiedere un permesso di quarantott’ore, dichiarò: “Ebbene?”

Artemide lo fissò malissimo ma, alla fine, pestò un piede a terra e sibilò: “Hermes, porta subito qui il tuo culo alato, se non vuoi che spifferi a papà di quella partita di…”

Una nuvoletta dorata comparve all’improvviso nel salone della villetta di Artemide e un trafelato Hermes, con soltanto un paio di boxer addosso e una maglietta ancora tra le mani, sbucò da essa, esalando: “Maledizione, Arty, cosa vai vaneggiando?!”

Sogghignando perfida, la dea della caccia replicò con tono falsamente mielato: “Oh, amoruccio mio, ma io non vaneggio affatto. Credi che fare degli scambi commerciali e illeciti nei boschi, sia sicuro? O privo di sguardi indiscreti?”

“I tuoi uccellini maledetti” sbuffò irritato Hermes, infilandosi rabbiosamente la maglietta dei Nirvana prima di guardare storto Felipe e aggiungere: “E tu la sopporti?”

“Capita, ogni tanto” chiosò Felipe, facendo spallucce.

Artemide batté le mani davanti al viso di Hermes per recuperare la sua attenzione e, lapidaria, disse: “Porterai in volo Felipe fino alla casa di mia figlia Delia, visto che non vuole mollare il mio fianco e io ho bisogno di andarci immediatamente.”

“Ci sono stato alcune settimane fa. Bella casa sulla collina” asserì il dio. “Quel che non mi torna è perché devo fare da taxi al tuo uomo.”

“Qualcuno ha ucciso Endimione e Delia è sconvolta, perciò io devo andare da lei, e Felipe vuole darmi una mano” ammise a quel punto Artemide, scatenando subito la reazione del dio.

“Ehi, no, aspetta! E’ impossibile! L’avrei saputo!” sbottò contrariata la divinità.

“Può darsi che Atropo non ti abbia chiamato, o che Thanatos ti abbia preceduto come al solito, visto che te ne stai sempre a gozzovigliare in giro, e le anime vagano dappertutto senza meta, prima che tu le porti nell’Oltretomba” lo rabberciò bonariamente Artemide, scuotendo una mano come se la cosa non fosse rilevante.

Irritandosi ulteriormente, Hermes però bofonchiò: “E’ successo solo una volta! E se scopro che Thanos mi ha preceduto per farmi un dispetto, gli taglio le palle.”

Sospirando esasperata, Artemide si passò una mano sul viso e replicò: “Thanos1, Hermes? Ma davvero?”

“Beh, dai, gli somiglia, no?” ghignò il dio, ammiccando poi a Felipe, chiaramente confuso da quella discussione assurda. “Sono uno psicopompo. Accompagno le anime dei morti da mio zio Ade e da quello scassapalle di Thanatos che, però, ogni due per te, mi frega il lavoro lasciandomi solo il ruolo di postino.”

Passandosi le mani sul viso, Felipe annuì a fatica, ma disse: “D’accordo, d’accordo… come volete voi ma… si può fare quello che ha detto Arty?”

Lucidandosi le unghie sulla maglietta con fare molto supponente, Hermes asserì: “Ragazzo, io posso fare cose che voi umani non potreste neppure immaginare2…”

“Se dici che hai visto le fiamme oltre i bastioni di Tannhauser2, ti accoppo” ringhiò Artemide, mettendo fine alle pagliacciate di Hermes. “Mi aiuti, oppure spiffero tutto a paparino?”

“Ci tengo a sottolineare che questa non è una richiesta, ma un ricatto” precisò il dio, chiaramente offeso. “Quanto a ciò che vorresti far passare come ‘crimine’, stavo solo acquistando della maria per scopi filantropici. Serviva per persone malate, cara.”

“Per quella, esistono già i negozi, Hermes. E usano i fiori, non le foglie” sottolineò Artemide, ghignante.

“Pignola che non sei altro” sbuffò Hermes, schioccando le dita per far comparire un paio di jeans e le sue scarpe da ginnastica alate.

Trionfante, Artemide gli diede un buffetto sulla guancia e, nell’osservare il suo segugio Aster, disse: “Controlla casa e, se succede qualcosa, chiamami.”

Il cane uggiolò e si posizionò sul tappeto nel mezzo della stanza mentre Hermes, ora completamente vestito, offriva una mano a un dubbioso Felipe, asserendo: “Sei pronto per un’esperienza unica, mortale?”

“Starmene per ore abbracciato a un dio, mentre svolazzo sopra l’oceano? Mai fatto prima, in effetti” celiò Felipe, lanciando poi uno sguardo ad Artemide, già pronta a partire. “Guai a te se non mi aspetti.”

Lei si limitò ad assentire e, in una nuvola argentata, svanì.

A quel punto, Hermes si fece serio in viso e, uscendo sulla veranda assieme a Felipe, borbottò: “Salterà qualche testa, quando si saprà che Endimione è morto. Artemide non è una dea che lascia correre su certe cose e, anche se Afrodite l’ha sempre presa in giro per la loro storia, in passato, si incavolerà di brutto pure lei. Non ama che le storie d’amore finiscano così.”

“Una testa è già saltata, ed è sul pianerottolo di casa” gli fece notare Felipe, avvolgendo la vita del dio con un braccio.

Hermes, allora, divenne ancor più scuro in volto e mugugnò: “Quello stronzo di Thanatos ha davvero un cuore di pietra. Sa che, per certe anime, voglio esserci io. Non avrei mai lasciato che Endimione entrasse nell’Eliseo con quello scocciatore, se solo lo avessi saputo.”

Ciò detto, strinse a sua volta Felipe e aggiunse: “Non ci vedrà nessuno, ma non sarà una passeggiata. Ci vorranno circa due orette. Pronto?”

“Non lo so. Te lo saprò dire all’arrivo” si limitò a dire Felipe, facendo poi due rapidi calcoli mentali. “Toglimi una curiosità… ma a che velocità viaggeremo?”

“Meglio se te lo dico all’arrivo” chiosò Hermes, sollevando un pugno verso il cielo per gridare. “Verso l’infinito, e oltre3.”

Felipe lo fissò malissimo e borbottò: “Guardate davvero troppa TV, voi dèi.”

Hermes esplose in una risata sgangherata, ma Felipe non ebbe il tempo di unirsi a lui in quel momento di divertimento. Era troppo impegnato a non morire di paura a causa dell’altitudine raggiunta.

Stringendosi più che poté al dio, l’uomo esalò: “Non farmi cadere, o giuro che il mio fantasma ti perseguiterà a vita.”

Hermes rise ancora più forte ma, per rassicurarlo, accentuò a sua volta la stretta e, mantenendosi a una quota più bassa, puntò verso Cipro.

Grazie ai suoi calzari, l’inerzia era inesistente, perciò avrebbe potuto aumentare la velocità fino a vette inenarrabili; il punto sarebbe stato far sopravvivere Felipe, però.

Per non causargli sindromi da greyout4, perciò, mantenne una velocità costante e accettabile e, per quanto gli fu possibile, lo protesse dal vento e dai moscerini.

Quelli, purtroppo, non riusciva mai a schivarli tutti, quando volava a quel modo.

A quel punto, anche lui era curioso di capire cosa fosse successo a Endimione. Non gli andava giù che Thanatos giocasse così con le anime che lui doveva accompagnare nell’Oltretomba, specialmente quando poi c’erano di mezzo le sue sorelle.

Già una volta gli aveva fatto un torto, accompagnando di sua mano l’anima di Miguel fino all’entrata dei Campi Elisi perché, del marito di Atena, si occupasse Ade.

Se la cosa si fosse ripetuta anche con Artemide, Hermes si sarebbe fatto sentire.


 
 
 
1 Thanos: per chi non avesse visto Avengers, è uno dei villain più pericolosi che si siano visti nei film (come nei fumetti) della Marvel. L’ho inserito per l’assonanza con Thanatos, visto che Hermes è un burlone.
2. Le due frasi pronunciate da Hermes e Artemide appartengono al film cult “Blade Runner” e sono citate dal co-protagonista Rutger Hauer, che interpreta l’androide Nexus 6 chiamato Roy Betty.
3 Verso l’infinito…: frase mitica appartenuta al personaggio fantastico di Buzz Lightyear, di Toy Story.
4 Greyout: brusco scivolamento del sangue dalla testa alle parte inferiori del corpo. Può portare alla perdita progressiva della visibilità fino al blackout e allo svenimento.
 

 

N.d.A.: mi perdoneranno i puristi ma, ai fini della narrazione, ho dovuto rimaneggiare ancora i miti, rivedendo in modo diverso la condizione di sonno eterno di Endimione. Essendo storie di fantasia, non penso di aver fatto alcun danno.
Quanto alla morte di Orione, ho scelto il mito che lo riguarda e che parla di Artemide che, in persona, lo uccide per vendetta per aver importunato le Pleiadi. Altri miti parlano invece di uno scorpione, che poi viene premiato dalla stessa Artemide, diventando costellazione.

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Capitolo 15
*** Eos - 2 - ***


Eos – 2 –
 
 
 
 
Eos scrutava il cielo all’alba dall’alto di un’altura nei pressi di Kissonerga, dove Delia Basileia, figlia di Artemide ed Endimione, abitava con il marito e il figlio decenne.

Aveva a lungo pensato a come agire, cosa fare e come farlo ma, alla fine di ogni suo ragionamento, giungeva sempre alla stessa risposta. Doveva compiere ciò che Emazione le aveva consigliato fin dall’inizio; far soffrire chi l’aveva fatta soffrire.

Aveva però dovuto attendere la rinascita del suo figlio più riottoso, per poter mettere in atto la sua vendetta, poiché Memnone si era rifiutato di aiutarla in tal senso.

Memnone, il suo figlio più dolce e amante della pace, non era stato affatto d’accordo con quel piano e si era defilato quasi immediatamente dalla madre, una volta conosciute le sue intenzioni.

Venuto però a conoscenza della presenza Emazione sulla Terra, redivivo nel corpo di un umano ma suo fratello in ogni sua parte – sia fisica che caratteriale –, era tornato da sua madre in privato, con un’alternativa che non li esponesse alle ire di Zeus.

Che Eos potesse o meno avere ragione, si doveva tener conto sempre e comunque che Artemide era figlia di Zeus, il signore dell’Olimpo, e scatenare la sua ira non era mai cosa buona.

Un frullo d’ali fece riemergere Eos da quei ricordi e, nell’osservare l’arrivo di suo figlio, sospirò.

Morto per mano di Achille, Memnone era stato graziato dalla mano di Zeus per i meriti ottenuti in vita e, grazie al tocco del dio, era stato tramutato in un magnifico uccello dalle bianche ali e il corpo flessuoso ed elegante di un airone.

Da sempre il più umano e caritatevole tra i suoi figli, Memnone si era sempre dichiarato restio a fare del male alle persone e, nel corso della guerra di Troia, si era distinto per forza e coraggio, interamente spesi per la difesa delle genti troiane.

Achille aveva avuto la meglio su di lui unicamente grazie alla protezione di Teti, ma il Fato aveva comunque preso e strappato ai vivi il Pelide, consegnandolo al mito eterno.

Da quel che Eos sapeva, Memnone lo incontrava ogni tanto, guidato a lui in ogni sua reincarnazione proprio a causa della lotta che li aveva visti avversari.

Al loro ultimo incontro, avvenuto soltanto la settimana precedente nelle selvagge lande dell’est europeo, Achille lo aveva sfidato a una gara di velocità, e Memnone aveva accettato partecipando in forma animale.

Essendo un uccello immortale grazie alla mano di Zeus, Memnone non aveva dovuto affrontare le continue morti e rinascite di Achille o Emazione – che invece avevano vagato con corpi diversi e diverse etnie nel corso dei secoli – ma aveva pagato la sua doppia forma con la solitudine.

Eos era grata agli dèi di poterlo avere ancora con sé, ma non era del tutto certa che il favore chiesto a Zeus tanti secoli addietro rendesse felice il figlio.

Nel recuperare forma umana, Memnone si accostò alla madre e mormorò: “Pensieri tristi di prima mattina, madre?”

“Pensavo a te ed Emazione. Alle vostre vite… avresti voluto il suo destino, piuttosto che questa vita immortale, ma spezzata a metà?” gli domandò la dea, scrutando il suo aitante figlio dalla pelle bronzea e i riccioli scuri.

Memnone non rispose subito, limitandosi a scrutare il mare in lontananza, baciato dai primi raggi del sole.

Il piano di sua madre per vendicarsi di Artemide era stato messo in atto dal fratello che, nelle sue vesti di mortale, aveva fatto irruzione nella casa della dea per consegnare il suo particolare dono.

Da quel che sapeva, ora Emazione era in viaggio per rientrare a Cipro e scorgere con i suoi occhi il risultato del loro piano, una volta che Artemide avesse trovato anche il suo secondo dono.

Sperava soltanto che questo bastasse a sedare la sete di vendetta della madre e, al tempo stesso, non spingesse la dea della caccia ad aprire una seconda faida con Eos. A quel punto, Memnone non avrebbe saputo come fare a salvare sua madre e suo fratello dalla saetta di Zeus.

“Ho vissuto una vita piena, madre, ricca di soddisfazioni e beltà infinite…” cominciò col dire Memnone, scacciando da sé quei torvi pensieri. “… e, anche se non ho potuto concedermi la gioia di un figlio, non rimpiango nulla. Né rimpiangerò la scelta di Zeus di rendermi immortale nella mia doppia forma.”

In quanto figlio di una divinità legata all’alba, Memnone poteva riprendere forma umana solo in quei brevi momenti, dovendo poi tornare nelle sue forme di airone per il resto della giornata.

“Il mondo dei mortali è sempre stato troppo crudele e violento, per te…” ammise Eos, carezzando delicatamente un braccio del figlo. “… forse, dopotutto, Zeus non sbagliò nel tramutarti in un airone.”

“Preferisco vivere così, madre, davvero. E questi tempi infausti non fanno che avvalorare le mie parole” mormorò Memnone, scrutandola poi sofferente. “E’ davvero necessario giocare con i sentimenti della dea della caccia?”

Eos divenne di ghiaccio, a quelle parole, e sibilò furente: “Pensi davvero che, dopo millenni di dolore, io non abbia il diritto di assestare anche a lei un colpo simile?! Ha ucciso l’uomo che amavo!”

“Comprendo più di quanto le mie parole non possano esprimere, madre, ma la vendetta porta con sé altro dolore. Inoltre, se tu chiedessi consiglio alle Pleiadi, loro…” cercò di dire Memnone, azzittito dalla madre con uno sguardo gelido e pieno di livore.

“Non ricominciare con questa storia delle Pleiadi! Non parlerò mai con loro! Sono amiche di Artemide e, per lei, direbbero tutto e il contrario di tutto, pur di difenderla! Ti ho già accontentato, venendo meno al mio piano originale per seguire il tuo. Non chiedere oltre!”

Memnone desistette dai suoi intenti e, quando il sole fu completamente sorto e la sfera luminescente si distaccò dall’ultimo tratto di orizzonte marino, sorrise alla madre e si tramutò in airone.

Con uno stridio melanconico, si alzò quindi in volto e, planando lontano, si allontanò dal sapore di fiele che le parole della madre gli avevano lasciato addosso.

A nulla erano valse le sue preghiere, nel corso dei secoli, a nulla era valso tentare di riportarla alla ragione e a una vita più serena e non vissuta nell’odio e nel rancore.

Eos aveva continuato a rimuginare e a divorare se stessa assieme alla poca felicità rimastale, e il ritorno di Emazione nella sua vita non aveva fatto che peggiorare la situazione.

Bellicoso per natura tanto quanto lui era amante della pace e dell’armonia, Emazione aveva sobillato l’odio della madre, portandolo a vette mai toccate negli ultimi due millenni.

Non contento, aveva escogitato l’assassinio dell’ultimo amante di Artemide, ma a quel punto Memnone era intervenuto atterrito, ricordando a entrambi chi fosse quell’uomo.

Non soltanto era l’ex cognato della dea Atena ma, più di tutto, un caro amico del dio Erebos, divinità Ctonia dai poteri incommensurabili e ben più potente di Eos e di tutto il pantheon olimpico.

Uccidere Felipe Rodriguez avrebbe voluto dire scatenare ire così profonde ed eterne da maledire l’intera umanità – ed Eos ed Emazione con loro – al patimento senza fine.

A quelle parole, anche il riottoso Emazione era tornato sui suoi passi e Memnone, ben conscio di non poterli fermare, aveva dovuto escogitare suo malgrado un piano alternativo.

Sperava soltanto che l’ira della dea Artemide non raggiungesse livelli tali da scomodare il sommo Zeus, o Memnone non aveva davvero idea di come sarebbero finite le cose.
 
***

Materializzandosi sulla terrazza della casa di Delia e Theodoros, suo marito, Artemide cercò con lo sguardo la sua famiglia, impaziente e tremante.

Pur sapendo di aver impiegato solo pochi secondi per arrivare lì, le sembrava di aver tardato una vita a raggiungere la sua bambina e, quando finalmente la vide oltre le vetrate di casa, sospirò.

Subito, Delia la raggiunse, aprendo la porta-finestra a scorrimento con un gesto secco della mano. Gettandosi poi tra le braccia della madre, pianse lacrime dolenti e mormorò scioccata: “Non sapevo davvero che fare, metera… ero sconvolta.”

“Lo so, tesoro, lo so” mormorò Artemide, carezzandole i lunghi capelli biondi e ricci. Proprio come quelli del padre.

Il pensiero la fece irrigidire e, nel guardarsi intorno, domandò: “Theodoros dov’è?”

“E’ con il piccolo Hektor. Ho gridato, quando ho …ho trovato papà, e lui si è messo a piangere. Sta tentando di calmarlo” le spiegò Delia, scostandosi dalla madre per scrutarla con i suoi immensi occhi cerulei.

“Dove lo hai trovato?” domandò roca Artemide.

“Nella dependance, dove viveva quando stava qui da noi” le spiegò Delia. “Vuoi…”

Pur desiderando vederlo con i suoi occhi, fu ligia alla parola data a Felipe e, scuotendo il capo, mormorò: “Devo aspettare l’arrivo di Felipe. Gli ho promesso che non avrei fatto le cose da sola.”

Delia sollevò le sopracciglia con evidente sorpresa e, accennando un sorriso, si terse il viso dalle lacrime e disse: “Finalmente potremo conoscerlo. Mi spiace soltanto che sia per un evento così infausto.”

“Capirà. E’ un uomo che sa adattarsi” ammise la madre, dandole un bacio sulla fronte. “Inoltre, sarà così felice di mettere i piedi a terra, dopo il volo con Hermes, che ti bacerà per la gioia.”

Delia si lasciò andare a un risolino fiacco, asserendo: “Oh, cielo! Pover’uomo! Non oso immaginare come arriverà qui.”

“Gli è capitato di peggio. L’ho smaterializzato, una volta” ammise Artemide, entrando in casa con la figlia.

Delia allora si bloccò sui suoi passi, la fissò con aria accigliata e disse: “Mamma. Ma che sciocchezza hai fatto?”

“Lo so, lo so. Ma ero agitata, quel giorno. Perciò, il peggio lo ha già passato, credo.”

“Gli preparerò una limonata, mentre aspettiamo. Nel frattempo, possiamo dare una mano a Theodoros con Hektor” le propose a quel punto Delia, sospirando.

Artemide assentì e, mentre la figlia si recava in cucina, lei raggiunse le stanze da letto per incontrare suo nipote e suo genero.

Mentre attendeva Felipe, il sistema migliore per non impazzire era stare con il suo adorato nipotino.
 
***

Il suo regno per un cavallo. No, non per un cavallo… per un po’ di terra. Avrebbe dato qualsiasi cosa per poggiare di nuovo i piedi a terra, e neanche per tutto l’oro del mondo avrebbe mai più viaggiato con Hermes.

Se, sulle prime, il dio si era impegnato nel mantenere una velocità di crociera e un’andatura lineare, dopo solo mezz’ora di viaggio aveva cominciato ad annoiarsi, decidendo così di deliziarlo con la sua bravura di aviere.

Peccato che Felipe non solo detestasse volare, ma neppure si fosse mai lanciato come un pazzo sulle montagne russe come, invece, suo fratello Miguel aveva sempre fatto.

Nella successiva ora e mezzo, perciò, Hermes lo aveva reso edotto sui looping, i tonneau, le virate di Immelmann e altre acrobazie varie, di cui non ricordava affatto il nome, solo la sensazione sullo stomaco.

Il fatto di poter vedere terra all’orizzonte, e sempre più vicina, non poté quindi che rallegrare Felipe che, non appena Hermes decise di rallentare l’andatura per predisporre un atterraggio, borbottò: “Sia ringraziato Dio…”

“Grazie” ciangottò Hermes.

Felipe preferì astenersi dal sottolineare che quel ringraziamento non era affatto rivolto a lui; finché non avesse toccato terra, non si sarebbe lagnato, ma in seguito…

Quando i suoi piedi finalmente toccarono il soffice prato di fronte alla villetta della famiglia Panagulis, qualsiasi pensiero, vendetta, rabbia e paura vennero annullati. Semplicemente, Felipe crollò prima in ginocchio e poi si sdraiò sull’erba, inspirando a pieni polmoni l’aroma della terra e la freschezza del prato sotto di sé.

Hermes, invece, lo fissò accigliato dalla veranda dove aveva terminato il suo atterraggio, e borbottò: “Ma che esagerato!”

La porta-finestra scorse lentamente si mosse alcuni attimi dopo, facendone uscire Delia che, sorridendo appena allo zio, mormorò: “Che hai combinato con quel pover’uomo?”

“Non ha lo stomaco degli avieri, ecco tutto” si lagnò Hermes, allungando una mano per afferrare un bicchiere di limonata dal vassoio che teneva Delia.

Lei, però, lo allontanò dalla sua traiettoria di tiro e disse: “Non è per te. Vai a trovare Hektor, mentre io mi prendo cura della tua ultima vittima.”

“Siete tutti insopportabili” brontolò il dio, entrando in casa e lasciandoli soli.

Delia, allora, lasciò il vassoio sul tavolo in veranda e, dopo aver tolto le infradito, affondò con i piedi nell’erba e si avvicinò lentamente a Felipe, che sembrava davvero troppo stremato, per alzarsi.

Quando, però, l’uomo avvertì un fruscio di abiti avvicinarsi a lui, levò prima il volto e poi l’intero corpo, mettendosi seduto e osservando sorpreso la donna dinanzi a lui.

Era indubbia la sua beltà, così come i tratti perfetti del volto, ma ciò che lo colpì maggiormente furono gli occhi; di una bontà incredibile e pieni di infinito dolore.

Levatosi in piedi, Felipe si spazzolò i pantaloni e, allungando una mano, sorrise e disse: “Scusa se ti sono svenuto praticamente nel prato. Io sono Felipe Rodriguez.”

“Ho sperimentato a mia volta le dubbie capacità di volo di mio zio, perciò hai tutta la mia comprensione” replicò la donna, stringendola sua mano protesa. “Io sono Delia. Mi spiace di conoscerti in quest’occasione.”

Adombrandosi, Felipe allora cercò con lo sguardo Artemide e Delia, accompagnandolo con un gesto verso la veranda, aggiunse: “E’ in camera di mio figlio, assieme a mio marito. Sono… beh, ecco, ho dato un po’ di matto, quando ho trovato mio padre senza…”

Felipe sgranò gli occhi, addolorato al pensiero che proprio lei fosse stata costretta a scoprire Endimione in quelle condizioni e, sgomento, mormorò: “Sono davvero spiacente, Delia.”

Lei accennò un sorriso di ringraziamento e, indicandogli la limonata, disse: “Prendila. Ti rimetterà a posto lo stomaco. Ne avrai bisogno, visto che mamma ti ha aspettato per vedere papà.”

Pur lieto che Artemide avesse mantenuto la parola data, non osò immaginare quanto, al momento, fosse furiosa e inappagata perciò, ingollando in fretta l’ottima limonata, guardò determinato Delia e dichiarò: “Andiamo pure.”

La donna annuì e lo accompagnò dentro casa, dove chiamò la madre per avvisarlo dell’arrivo di Felipe.

Subito, Artemide si catapultò nel salone e lì, in barba a tutto, lo abbracciò stretto per alcuni istanti prima di prendere il suo viso tra le mani, scrutarlo con attenzione e borbottare: “Hermes, …fagli venire ancora una volta gli occhi rossi, e giuro che dirò tutto a paparino.”

“Non c’è giustizia per gli artisti, ecco cosa” si lamentò Hermes, comparendo a sua volta nel salone e tenendo in braccio Hektor, mentre alle sue spalle procedeva Theodoros, l’aria ancora piuttosto sbattuta.

Artemide lo frizzò con un’occhiata omicida ma, non volendo perdere altro tempo, dichiarò: “Tieni Hektor, Hermes, mentre noi andiamo da Endimione.”

“D’accordo” assentì la divinità, uscendo con il nipote nell’ampio giardino.

Delia, allora, prese per mano il marito, si avviò lungo il corridoio per raggiungere la dependance e Artemide, nell’affiancarsi a Felipe, domandò in un sussurro: “Stai bene?”

“Sono stato meglio ma, di sicuro, tornerò in aereo” la mise al corrente lui, dandole un colpetto con la spalla.

Sapeva bene che Artemide non voleva essere coccolata né vezzeggiata, in quel momento. Aveva soltanto bisogno della sua presenza, del suo appoggio, e quelli non glieli avrebbe fatti mancare per nulla al mondo.

Pronto a tutto, seguì quindi il piccolo drappello fino a raggiungere una graziosa dependance in tipico stile greco, con bianche pareti stuccate, scuri in legno dipinti di blu e alcuni cactus sui fianchi dell’entrata.

Fu Theodoros ad aprire la porta e, trattenendo Delia al di fuori del piccolo appartamento, mormorò: “Preferisco che non lo riveda.”

“E’ giusto” assentì Artemide, oltrepassando lo stipite, subito seguita da Felipe.

Non appena entrò, l’odore della morte colpì le sue narici come uno schiaffo e la dea, accigliandosi, osservò il corpo riverso sul letto, le lenzuola sgualcite e la lieve macchia di sangue sul cuscino.

Anche Felipe osservò la scena, aggirò il letto per meglio controllare la scena del crimine e, adombrandosi in viso, asserì: “Artemide, è impossibile che sia morto per decapitazione.”

Artemide lo fissò per alcuni istanti come se fosse stato un pazzo ma Felipe, indicando la macchia esigua sul cuscino, aggiunse caparbio: “Pensaci, Arty. Un corpo vivo produce molto più sangue di così, con le arterie principali recise di netto. Non può essere morto per questo, oppure hanno spostato il corpo qui in un secondo momento.”

Sempre più scura in volto, Artemide si accucciò accanto al corpo e sibilò irritata: “Che diavolo sta succedendo, qui?”

“Aveva dei segni distintivi, o qualche tatuaggio, per poter asserire che questo è veramente il corpo di Endimione?” le domandò a quel punto Felipe, colto da un orribile dubbio.

Artemide sgranò gli occhi, a quella domanda e, pur dopo un istante di reticenza, afferrò il braccio destro del corpo esanime e lo sollevò lentamente.

Attenta, scrutò in prossimità dell’ascella e, cominciando a ringhiare come se fosse stata uno dei suoi segugi, si rialzò piena di livore e urlò: “Chi ha mai fatto questo?!”

“Non è lui, vero?” domandò Felipe, pur immaginandosi la risposta.

Artemide riuscì soltanto ad annuire, la rabbia a renderla muta e tremante.

L’icore tornò a brillare nel suo corpo fino a farla rifulgere e Delia, nel vedere quella reazione nella madre attraverso la porta aperta, si affacciò leggermente e mormorò turbata: “Cosa succede?”

Felipe la fissò sollevato, ma non scevro di domande, e disse: “Non è tuo padre. Artemide lo ha appena scoperto, ma resta da capire chi sia, e perché sia qui.”

Delia si coprì la bocca con la mano, piena di sgomento, ed esalò: “Ma… i suoi vestiti… la sua pelle…”

“E’ un umano qualsiasi che gli somiglia, ma non è lui” sibilò a quel punto Artemide, volgendosi a mezzo per guardare Delia. “Quel che mi chiedo ora, è… cosa diavolo ho visto, sulla porta d’entrata, a questo punto?”

Felipe tornò con i ricordi a quel momento, ai pochi attimi prestati all’osservazione di quella testa mozzata, al desiderio di Artemide di non guardarla una seconda volta. Forse, se avesse insistito per controllare l'involto a sua volta, non sarebbero arrivati a quel punto.

Colto da un dubbio terribile, estrasse il cellulare dalla tasca, digitò un paio di parole e, avvicinandosi ad Artemide, domandò: “Chi vedi, qui?”

Strabuzzando gli occhi, la dea esalò: “Ma… lady Diana è morta! E’ una foto di repertorio, vero?”

“E’ una statua di cera di Madame Tussauds, Arty” gli spiegò Felipe, allontanando il cellulare. “Ho il fortissimo dubbio che la testa che abbiamo visto sia, in realtà, un artefatto ben congeniato, il tutto allo scopo di farti impazzire di dolore, di ferirti per qualche motivo.”

Artemide non riuscì a dire nulla e Delia, abbracciandola per chetarne il tremore crescente, domandò: “Chi può volere una cosa del genere?”

“Non lo so ma…” cominciò col dire Felipe prima di digitare un numero sullo smartphone e dire: “Sì, ciao Athena. Scusa se non eravamo a casa, quando siete tornati. Abbiamo avuto un’urgenza e… sì, Aster è a casa di Arty.”

“Il fatto che ci sia Aster, non depone a favore della vostra assenza. Che diavolo sta succedendo, chico?” domandò turbata la dea.

Felipe sorrise divertito, di fronte a quel nomignolo che avrebbe potuto andare bene più ad Alekos, che a lui, ma soprassedette. Una dea millenaria può chiamarti ‘bambino’ visto che, ai suoi occhi, lo sei davvero.

“Dovresti farmi un favore e, prima che tu ti spaventi, credo che ciò che vedrai sia assolutamente un falso. Davanti alla porta di casa di Arty c’è un involto. Dovresti controllare che sia davvero fasullo” le spiegò allora Felipe.

Athena borbottò contrariata: “Parli per enigmi, e la cosa non mi piace, comunque controllerò… stai buono, Aster. E dire che dovresti conoscermi.”

Felipe accennò un mezzo sorriso e attese. In sottofondo si potevano udire senza problemi i latrati di Aster e le proteste di Atena, mentre la voce calma e suadente di Érebos tentata di calmare il segugio.

Ci vollero una decina di secondi ma, quando sentì Athena imprecare, Felipe seppe che aveva trovato ciò che le aveva indicato.

“Ma chi diavolo ha pensato di fare una pagliacciata simile?! So anch’io che Artemide è partita subito per Cipro!” sbottò Athena, smoccolando subito dopo. “E’ la copia sputata di Endimione!”

“Ti spiegherò tutto dopo. Per ora grazie per la conferma” disse Felipe, chiudendo la comunicazione.
Annuendo infine ad Arty, l’uomo disse: “Come immaginavo. Era in lattice. Perfettamente confezionata, tanto che anche Athena credeva fosse Endimione.”

A quel punto, l’ira di Artemide divenne fisica e Delia, scostandosi dalla madre, esalò: “Metera, che succede?”

La dea non rispose, sapendo di essere rovente come il fuoco a causa della rabbia che divampava dentro di lei, ma Felipe non si scoraggiò e la avvicinò per calmarla.

In barba al dolore che provò nello sfiorarle il volto per una carezza, Felipe mormorò: “La mia dea preferita è superiore alle minacce, ricordi? E’ superiore a tutto. Anche a questo.”

“Stenterei a crederlo possibile” sibilò Artemide, cercando di scostarsi per non ustionare Felipe.

Lui, però, la afferrò alla nuca, trattenendolo e, sorprendendo la dea, la avvolse in un abbraccio e aggiunse: “Cheta la tua ira e pensa a come comportarti. Limitarti a rispondere all’ingiuria non porterà che ad altro dolore, lo sai. L’hai detto tu stessa: l’onore di una dea era importante. Ora sono altre le cose che ti stanno a cuore.”

Artemide avvolse Felipe a sua volta, trattenendo la sua foga e tornando normale poco alla volta e, nel poggiare la fronte contro la sua spalla, mormorò tesa: “Stai rischiando grosso, mortale, a dire che il mio onore non conta più, ora come ora.”

Felipe sorrise, massaggiandole la schiena, e replicò: “L’unico problema è che non sai perdere, Arty, e sbarelli con niente. Devi rimanere calma e ragionare.”

“Mi stai paragonando ad Ares, per caso?” mugugnò Artemide, risollevando il viso per scrutarlo torva.

“Non lo conosco così bene per poter giudicare…” ammise Felipe, avendo visto il dio spartano solo un paio di volte. “… ma direi che, se il mito è anche solo in parte fedele, quella accorta è Athena, e lui è lo schiacciasassi.”

“Abbastanza veritiera, come spiegazione, pur se anche Athena ha i suoi momenti” borbottò Artemide, mordendosi pensierosa il labbro inferiore prima di scostarsi, afferrare le mani arrossate di Felipe e aggiungere: “Scusa.”

“Sono abituato ai tuoi momenti. Fa niente” replicò lui, facendo spallucce e sorridendo a Delia, che ora appariva più tranquilla. “Pensaci bene, Arty. Chi, tra coloro che hai affrontato nei secoli, potrebbe avercela così tanto con te da ordire un piano così intricato per farti soffrire.”

Artemide tornò a scrutare il corpo esamine steso sul letto e, aggrottando la fronte, asserì per contro: “Quello che mi sto domandando io ora è un’altra cosa: perché farmi soffrire, ma non uccidere Endimione? Sembra una cosa fatta a metà.”

Detto ciò, scrutò poi intensamente Felipe e aggiunse ombrosa: “Ma soprattutto… perché colpire Endimione, quando persino i sassi sapevano che non stavamo più assieme?”

“Io non lo sapevo” sottolineò Felipe.

Artemide sbuffò e replicò: “Intendevo dire tra gli immortali.”

L’uomo levò confuso un sopracciglio, ma fu Delia a rispondere alla domanda della madre, e dire: “Avrebbero dovuto colpire te, Felipe, per far soffrire come non mai mia madre. Chi l’avesse tenuta d’occhio, lo avrebbe capito subito.”

Impallidendo leggermente, Felipe si ritrovò a tossicchiare turbato e Theodoros, poggiato allo stipite della porta, chiosò: “Voi signore siete delicatissime, nel far penzolare una simile Spada di Damocle sulla testa di un uomo.”

Arrossendo suo malgrado, Delia mormorò: “Cielo, scusa, Felipe! Andavo a tentativi, ma mi è sembrata un’ipotesi plausibile.”

Anche Arty si scusò, carezzando il viso turbato di Felipe che, però, replicò: “Per quanto la cosa non mi piaccia, Delia ha ragione.”

La dea della caccia allora asserì: “Dando per scontato questo, chi vorrebbe farmi soffrire, ma solo un po’? Perché questa gentilezza, se così la vogliamo vedere?”

“E’ una contraddizione in termini…” ammise Theodoros. “…oppure, un estremo tentativo di placare la tua ira ma, al tempo stesso, accontentare chi ti voleva vedere prostrata dal dolore.”

Artemide assentì al genero, ammettendo: “Certo, al momento sono furiosa perché, sicuramente, questo scherzo terribile non mi è affatto piaciuto e, anche se non sappiamo dove sia Endimione, possiamo dare per scontato che sia vivo, altrimenti avrebbero usato davvero la sua testa e il suo corpo, per farmi ammattire.”

Tutti assentirono e la dea, massaggiandosi il mento, aggiunse: “Stando così le cose, non mi sognerei mai di chiamare mio fratello o, peggio ancora, mio padre, per chiedere vendetta. Mi limiterei a sbrigarmela per conto mio.”

Prima ancora che i presenti potessero dire qualsiasi cosa, Hermes gridò dal giardino: “Artemide! Abbiamo visite!”

A chi diavolo si stava riferendo?

Arty e gli altri si riversarono quindi come un fiume in piena nel giardino e lì, elegante e flessuoso, Memnone nelle sue forme di airone se ne stava in piedi accanto al laghetto artificiale, in attesa.

Subito, Artemide fece comparire con uno schiocco di dita la sua magica rete da caccia ma Felipe, bloccandola a un braccio, asserì: “Non so chi sia, perché immagino non sia un semplice uccello, ma guardalo. E’ venuto di sua spontanea volontà, non ha paura ed è solo.”

Suo malgrado, Artemide assentì e, nel gettare la rete a terra – per il momento non l’avrebbe usata – disse: “Parla, Memnone, e dimmi cosa porta qui al mio cospetto un figlio di Eos.”

Nell’udire quel nome, i presenti – tolto Hermes – scrutarono sorpresi la dea della caccia che, occhi negli occhi con lo splendido volatile, attendeva impaziente una sua risposta.

Una risposta che, almeno a giudicare dallo sguardo della divinità, sarebbe o meno costata la vita al figlio immortale di Eos. Perché, che ne dicessero i miti, esisteva anche il sistema per uccidere un immortale. E Artemide sapeva a chi chiedere.





N.d.A.: ligia alla promessa di non far più soffrire nessuno come ho fatto con Athena e Miguel, ho optato per questo "scherzo" di cattivissimo gusto - anche se resta da capire di chi sia il corpo, e dove sia Endimione - che sta facendo andare fuori di testa Artemide. 
Memnone ha deciso di esporsi in prima persona per impedire che Eos e Artemide vengano allo scontro diretto, ma la sua strategia avrà successo? Oppure Arty si darà nuovamente alla caccia, e stavolta per predare Memnone?

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Capitolo 16
*** Eos - 3 - ***


3.
 
 
 
 
Sapeva di aver corso più di un rischio, con quel piano ai limiti del sopportabile, così come era cosciente che presentarsi lì, disarmato e solo, era ancor più rischioso di ciò che aveva fatto fino a quel momento.

Studiare le abitudini di Artemide, il suo rapporto con il mortale che amava, però, lo aveva convinto a rischiare il tutto e per tutto, pur di salvare fratello e madre, perciò ora Memnone stava affrontando da solo la nemesi di Eos.

Colei che gli aveva strappato il suo Orione, colei che al tempo stesso aveva reso onore e giustizia alle amiche Pleiadi, colei che non aveva perdonato il tradimento dell’amico.

La dea della caccia era tutte queste cose, ai suoi occhi, ma in quel momento sperò soprattutto che fosse una donna abbastanza paziente da ascoltarlo.

Già il fatto che avesse gettato a terra la sua magica rete – complice l’aver ascoltato le parole del suo uomo – deponeva a suo favore.

Ugualmente, ripiegò ossequioso il capo e disse: “Ti rendo onore, Agròtis Dia. Giungo qui in pace, e con risposte, se vorrai farmi la cortesia di ascoltare.”

Artemide si accigliò leggermente, percependo quel messaggio mentale destinato a lei sola e, scosso il capo, si avvicinò cauta a Memnone, sollevò una mano per sfiorarlo e, con un mezzo sorriso, disse: “Ti concederò la forza per tornare alla tua forma primigenia, Memnone, poiché è giusto che le persone con me sappiano ogni cosa.”

Ciò detto, lasciò che l’icore nel suo sangue prendesse vita e, fulgida come una piccola stella, trasferì parte del suo potere all’immortale che, sotto gli occhi sorpresi di tutti, prese sembianze umane.

Scostandosi e tornando la se stessa di sempre, Artemide si riaffiancò a Felipe e, inclinando il capo nell’osservare il giovane dai ricci capelli castani e gli occhi grigi, chiosò: “Non ti ricordavo così bello. Somigli molto a tua madre, Memnone.”

Ancora, il giovane reclinò il capo e mormorò: “Sei molto cortese, Agròtis Dia. Le tue parole mi lusingano, pur se so che la vera bellezza è ben lungi dalla mia persona, che è di assai modesta natura.”

Artemide ghignò un poco, replicando: “Parli con proprietà e rispetto, figlio di Eos, ma ciò non toglie che tu sia di stirpe a me invisa perciò dimmi cosa vuoi, e poi io deciderò cosa farne di te.”

“Così sia, Agròtis Dia. Giungo qui con una preghiera e una spiegazione. Tutto ciò che è avvenuto in queste ore è stato fatto per offrire a mia madre un pegno per il suo dolore millenario ma, al tempo stesso, per non infierire in maniera irreparabile su di te, Kynégetria.”

Più che mai confuso dalle parole dell’uomo di nome Memnone che, da quel che aveva capito, era il figlio della nemesi di Artemide, Felipe lanciò un’occhiata dubbia alla dea e domandò: “Scusa l’ignoranza, …ma perché ti chiama con tutti questi titoli?”

Sogghignando beffarda all’indirizzo di Memnone, la divinità asserì: “Perché il giovane qui dinanzi a noi ha studiato la lezione, e sa che amo essere venerata, anche se cerco di non darlo a vedere. Inoltre, sa che è meglio non arruffare le piume di un falco, vero?”

“Ciò che dici è giusto, Agròtis Dia” chiosò Memnone, affabile, prima di adombrarsi in viso e aggiungere: “Sono io il responsabile di ciò che hai trovato dinanzi alla porta della tua villa, così come del cadavere nella dependance. Il tutto è stato fatto per offrire a mia madre le tue lacrime, così che esse potessero lavare le sue.”

Pur accigliandosi, Artemide fu ligia alla promessa fatta a Felipe di lasciar parlare l’immortale figlio di Eos così, con un cenno nervoso della mano, incitò l’uomo a proseguire.

“Emastione e mia madre volevano colpire lui…” proseguì Memnone, indicando Felipe. “… per questo sono intervenuto in prima persona, deviando i loro piani iniziali. Non desideravo la morte di nessuno, poiché sufficiente sangue era stato versato per questa faida millenaria, e non desideravo che proseguisse in eterno.”

Indicando la dependance, Artemide replicò piccata: “Mi sembra che un cadavere riposi sul letto di Endimione. Lui dov’è, a proposito?”

“Endimione sta bene. Si trova in una grotta sulla costa, protetto dai miei simili e stordito da un infuso di belladonna” le spiegò Memnone. “Quanto al cadavere, ho prelevato il corpo da una camera mortuaria. Ho impiegato un po’ per trovare la persona giusta ma, alla fine, è successo.”

“La testa mozzata?” domandò a quel punto Felipe.

“Opera di mastri artigiani umani. La mecca del cinema offre un sacco di Studi che lavorano sugli effetti speciali, e non è stato difficile ottenere ciò che volevamo per mettere in pratica il nostro piano” ammise l’immortale. “Emastione ha seguito per diverso tempo Endimione, procurandomi così moltissime foto da inviare allo Studio.”

“Curioso che quello psicopatico di Emastione abbia accettato di giocare tutto sulla psicologia, piuttosto che sul sangue” chiosò sarcastica Artemide, giocherellando con le dita sulla superficie lignea del suo arco.

Felipe la scrutò ansioso, ma lei non fece nulla. Fu però Delia a prendere la parola e, livida in viso, sibilò: “Avete terrorizzato mio figlio, oltre a me e mio marito, e avete portato lo scompiglio nella mia famiglia. E tutto per cosa?!”

“Per Orione, è ovvio” celiò Artemide, allungando una mano per carezzare il viso della figlia. “Eos si è voluta vendicare, ferendomi come io ferii lei. Quel che mi chiedo è… perché ora? Ha avuto millenni per farlo.”

Scrollando le spalle, Memnone si limitò a dire: “Le rinascite di Emastione avvenivano sempre lontano dai periodi in cui Endimione era desto, così non ha mai potuto aiutare nostra madre a compiere la sua vendetta.”

“Perché, ovviamente, Eos è così vigliacca da non volersi sporcare le mani in prima persona, vero?” ghignò perfida Artemide, la mano ora stretta a pugno intorno all’arco.

“Mia madre non ha mai brillato per iniziativa. Non è come te, Agròtis Dia.”

“Questo è poco ma sicuro” sbuffò la dea. “Tu, quindi, hai sempre rifiutato le sue richieste?”

“Io vivo in pace, Kynégetria, e non amo la guerra. La mia vita da airone mi piace perché mi permette di vivere in un mondo lontano dalle ipocrisie dell’uomo, perciò non poteva interessarmi la sete di vendetta di mia madre. Sete di vendetta, tra l’altro, del tutto immotivata” sottolineò Memnone con estremo candore.

Sollevando sorpresa un sopracciglio, la divinità lo scrutò con estremo interesse e, dubbiosa, domandò: “Cosa vuoi dire, con le tue parole?”

“So tutto ciò che successe alle Pleiadi. Parlai a suo tempo sia con Alcione che con le sue sorelle, e seppi da loro la verità. Cercai di parlarne in più occasioni anche con mia madre, ma tutto fu vano, così rinunciai a darle conforto e sbagliando, lo ammetto, la lasciai al suo dolore.”

Artemide sospirò pesantemente, fece scomparire l’arco e la faretra con le frecce dopodiché, scrutando con profonda stanchezza Memnone, disse: “Sono disposta ad ascoltare i tuoi consigli. Come dovremmo risolverla, una volta per tutte?”
 
***

Mai, in tutta la sua esistenza, era stata vittima di un tradimento così grande, così profondo, così totale.

Perché, in nome di tutti gli dèi, Memnone si trovava nel giardino dei Panagulis, in piena vista? Cosa aveva in mente di fare?! Perché non si era attenuto al piano?!

Ma più di tutto, come aveva potuto riprendere sembianze umane?!

“Avrei dovuto far fare tutto a Emastione” sibilò la dea, abbandonando la sua postazione sul colle alle spalle di Kissonerga per raggiungere il figlio.

Emastione non era ancora tornato dalla sua missione californiana – i tempi dei voli transoceanici erano maledettamente lunghi, e lei non poteva smaterializzarlo da un capo all’altro del mondo – ma non importava, al momento.

Doveva capire cosa aveva in mente Memnone. E nel caso, fermarlo.
 
***

“Credo di avere la soluzione a tutto, Agròtis Dia, anche se mi ci è voluto non poco per risolvere l’ultimo rompicapo di questo intricato guaio…” iniziò col dire Memnone, quando una nuvola argentea si materializzò sopra le loro teste.

Artemide si parò immediatamente dinanzi a Felipe mentre Hermes, mosso da un insolito istinto protettivo, si pose innanzi a Delia, porgendo poi a Theodoros il piccolo Hektor.

Dalla nuvola, con ben poca sorpresa, emerse una furente Eos che, scrutando il folto gruppo presente nel giardino, fissò accigliata la forma umana del figlio e, confusa, esalò: “Memnone… come puoi…”

“Merito di Artemide” le spiegò lui, prima di aggiungere: “Ora, madre, è tempo di affrontare questo inutile dolore, e di ascoltare – e accettare – la verità per quella che è.”

Ripresasi dal momentaneo shock – come, e perché, Artemide aveva ridato le forme umane a Memnone? – la dea sibilò: “Non ricominciare con questa litania. Non ascolterò mai le bugie delle leccapiedi di quella puttana!”

“Ehi, dico un po’!” si inalberò immediatamente Artemide, stringendo i pugni per la rabbia.

Felipe si limitò a prenderla per mano e lei, pur furente, mormorò: “Ringrazia che ti amo, sennò farei ‘chiamate aiuto’1.”

Accennando un sorrisino, l’uomo replicò: “Devo toglierti i blue-ray della Marvel. Tu e Athena fate troppe maratone.”

“Provaci, e ti brucerò i boxer di Iron Man” sottolineò per contro lei, ammiccando melliflua.

“Questo è un colpo basso” brontolò Felipe.

“Può anche essere, ma…” cominciò con il ribattere Artemide, prima di venire interrotta dall’imbarazzato tossicchiare di Hermes.

Volgendosi verso il dio, sbottò dicendo: “Beh, che hai? Ti è venuta la tosse cavallina?!”

“Ragazzi, per quanto mi piaccia vedervi battibeccare come due piccioncini, abbiamo giusto una faida millenaria da risolvere, e una dea incazzata da calmare” celiò Hermes, indicando diverto una inviperita Eos.

Artemide non se lo fece ripetere. Raccolse le maniche della sua camiciola fin sopra i gomiti e, a passo di carica, si diresse verso Eos ringhiando: “Risolviamola alla vecchia maniera. A suon di pugni!”

Prima ancora che Felipe potesse bloccarla, o Memnone si mettesse in mezzo per proteggere sua madre, la voce poco distante di un uomo interruppe tutti, congelandoli sul posto.

“Ti prego, amica mia. Fermati.”

Raggelata dal suono di quella voce che, per millenni, non aveva più udito, Artemide divenne pallida come un cencio e, volgendosi a mezzo, fissò lo sguardo sull’uomo alto e bruno che si trovava al limitare del giardino.

Eos ne seguì a sua volta lo sguardo, le lacrime ben visibili nei suoi occhi di cielo e, con un singulto, esalò straziata: “Orione…”

Sia Felipe che i coniugi Panagulis rimasero scioccati nell’udire quel nome, ma non Hermes, che chiosò: “Beh, se non è una carrambata questa…”

“Perché… perché sei qui, ora?” domandò addolorata Eos, non riuscendo neppure a muoversi, tanto era il suo disagio. “Perché non ti ho mai trovato, in questi millenni?”

“Perché non mi sono mai reincarnato” sottolineò colpevole Orione, guardando turbato le lacrime di Eos. “Dovevo espiare le mie colpe.”

Quelle ultime parole congelarono il volto della dea dell’aurora che, immobile, mormorò: “Quali… colpe?”

Orione, allora, scrutò dolente Artemide e ammise: “Le colpe per cui la dea della caccia mi diede la morte.”

Eos impiegò diversi attimi per assimilare quelle parole ma, quando il suo cervello sconvolto ammise ciò che l’uomo aveva detto, crollò in ginocchio ed emise un grido così straziante da colpire persino Hermes.

Il pianto venne subito dopo e Memnone, nel vedere la madre così prostrata dal dolore, si accovacciò al suo fianco per stringerla in un abbraccio.

Cullandola contro di sé mentre le lacrime della dea intridevano la sua tunica, Memnone la sentì dire: “Tu mi avevi avvisata… mi avevi detto ogni cosa, e io non ho voluto crederti…”

“Il tuo amore per lui ti aveva resa cieca e sorda, per questo non riuscivi ad ascoltarmi” replicò comprensivo il figlio, baciando gentilmente i capelli della madre.

Artemide osservò l’intera scena senza avere la forza di provare alcun risentimento, ma così non fu per Delia che, furiosa, sibilò: “Spero che ora sarete tutti soddisfatti! Avete avuto la vostra scena madre! Ma adesso rivoglio mio padre!”

Hektor si allungò dalle braccia del padre per raggiungere Delia e lei, tremante, lo prese tra le braccia, aggiungendo: “Avete sconvolto me, mio figlio e mio marito, oltre che mia madre. Spero che il vostro orgoglio di dèi sia sazio, ormai.”

Artemide sospirò spiacente nel vedere il livido dolore della figlia e Orione, nell’osservare la donna, annuì contrito e disse: “Tutti noi, in un modo o nell’altro, ti abbiamo reso un danno, e me ne scuso.”

Scostandosi dal figlio e tergendosi le gote rosse di pianto, Eos si rialzò in piedi e, annuendo a sua volta, mormorò: “Ti devo delle scuse anch’io. Avrei dovuto sapere che, su un argomento simile, Artemide non avrebbe mai potuto mentire, ma il dolore ha parlato per me, e mi ha guidato in questi millenni senza mai farmi scorgere la verità.”

Artemide sospirò irritata, a quell’accenno, e replicò: “Meglio tardi che mai. Io non mi schiererò mai contro una donna tradita, Eos. Avresti dovuto pensarci a suo tempo!”

“Lo so” ammise Eos, lanciando poi uno sguardo a Felipe, che teneva ancora una mano premuta sul braccio di Artemide. “Voglio scusarmi anche con te, mortale, per la terribile sorte cui ti volevo rendere partecipe.”

Felipe si limitò a un assenso torvo, preferendo non esprimersi proprio in quel momento. Stava tentando di trattenere la collera per non far inalberare Artemide, e qualsiasi parola uscita dalla sua bocca in quel momento, sarebbe apparsa in ogni caso rabbiosa.

Meglio tacere, quindi.

Eos accettò il suo silenzio, non potendo certo pretendere il suo perdono immediato e, rivolgendosi infine a Orione, disse: “Furono le Pleiadi, quindi.”

“Temo di sì” ammise lui, reclinando colpevole il capo bruno.

Eos sospirò affranta ma non disse nulla e Hermes, passandosi una mano tra i riccioli biondi, domandò scocciato: “Beh, tutto qui? La risolvete così? A tarallucci e vino?”

La dea dell’aurora, allora, volgendosi a mezzo verso il messaggero degli dèi, lo raggelò con uno sguardo colmo di risentimento e mormorò lapidaria: “Chi ha detto di aver risolto?”

L’attimo seguente, prima che Memnone o Artemide potessero bloccarla, Eos si scagliò contro Orione, insultandolo in tutte le lingue di sua conoscenza e utilizzando una gergalità così sboccata che persino Artemide arrossì sconvolta.

Delia e Theodoros, preferendo non correre rischi, portarono in casa di volata Hektor mentre Memnone, osservando l’intera scena con aria esasperata, si passò una mano sul volto e mormorò: “La mia idea non era esattamente questa.”

Del tutto impreparato a questa svolta, Felipe fissò Artemide con aria palesemente divertita e chiosò: “Le dee conoscono la moderazione?”

“Evidentemente, no” ammise Artemide, sgranando a più riprese gli occhi man mano che gli insulti sboccati proseguivano.

“Devo immaginare che non stia esattamente cantando l’Ave Maria… almeno a giudicare dalla tua faccia” asserì dopo un attimo Felipe, chiedendosi al tempo stesso quanto potesse resistere, un corpo umano, sotto i colpi ripetuti di una dea furiosa.

“Ah… no. Decisamente non è una preghiera, la sua. Non quella canonica dei cristiani, per lo meno” esalò Artemide, mordendosi dubbiosa il labbro inferiore.

Hermes, tutt’altro che allibito, si accomodò su una delle poltrone da giardino e, sospirando deliziato, asserì: “Arty, ti ringrazio. Mi fai sempre partecipare a delle gite assai istruttive.”

“Idiota” bofonchiò Artemide, prima di volgersi a mezzo quando udì un’imprecazione giungere dal bordo del giardino.

Trafelato per la corsa e rosso in volto come un peperone maturo, Emastione si aggrappò alla staccionata di legno bianco come se ne andasse della sua vita e, contrariato, esclamò: “Ma perché diavolo non mi ha aspettato?!”

Sollevando entrambe le sopracciglia con espressione rinvigorita – il litigio tra Eos e Orione già del tutto dimenticato – Artemide celiò: “Oh, del divertimento anche per me.”

“Ah… Agròtis Dia…” tentennò Memnone, non sapendo quanto schierarsi dalla parte del fratello. In fondo, si meritava una lezione per aver congiurato contro la vita dell’amante della dea, ma non voleva che si creasse un’altra faida millenaria.

La dea silvana storse il naso, fissò sia Memnone che Felipe con aria scoraggiata e, rilassando le mani già strette a pugno, borbottò: “Siete due piaghe pacifiste. Non c’è alcun divertimento, ad avervi attorno.”

Ciò detto, sollevò il mento verso il cielo, ghignò e aggiunse: “Afroditeee… caraaa… ci sarebbe una total body per teee…”

Quel tono stranamente zuccheroso e querulo preoccupò immediatamente sia Felipe che Memnone, ma non Emastione che, ripresosi dalla corsa per raggiungere casa Panagulis, oltrepassò il cancelletto aperto e domandò: “Perché quelle facce? Cosa volete che succeda, se arriva anche Afrodite? E poi, perché la mamma sta malmenando quel tipo?”

Memnone si domandò fuggevolmente dove, nella mente ottusa del fratello, potesse essersi nascosto l’unico neurone funzionante ma, quando una nube d’oro si materializzò nel giardino, lasciò perdere quel pensiero e iniziò a pregare.

Hermes, invece, batté le mani eccitato ed esclamò: “Vai così! Ultimate fighting!”

La dea della bellezza apparve in tutto il suo splendore, meravigliosa alla vista nel suo peplum color cielo, mentre nuvole di capelli dorati le scendevano sulle spalle.

Raggiante e piena di brio, la dea atterrò dolcemente sul prato ormai irrimediabilmente rovinato da tutto quel tramestio di persone e, sorridendo alla dea silvestre, domandò: “Sono così felice che tu mi abbia chiamato! Sarebbe il mio primo cliente!”

Ora del tutto confuso, Felipe fissò Artemide con occhi colmi di domande e Afrodite, nel notarlo, cinguettò allegra ed esclamò: “Ohhh, dimmi che è il tuo uomo, ti prego! E’ adorabile!”

“Sì, tesoro… ma non è a lui che farai la total body…” ghignò Artemide, indicando poi con un dito il sempre più smarrito Emastione. “… lui si è gentilmente offerto per una ceretta su tutto il corpo.”

“Ma che amore!” trillò Afrodite, schioccando le dita e facendo comparire la sua borsa con l’attrezzatura da estetista.

Alla parola ‘ceretta’, Emastione impallidì di colpo, si tastò il torace irsuto, si guardò le braccia ricoperte di peluria castana e, con un grido ben poco mascolino, se la diede a gambe levate.

“Oh, ma tu guarda che fifone…” brontolò Afrodite, scuotendo il capo prima di incamminarsi verso il cancelletto da cui era scappato Emastione. “Deimooos… Phobooos… mamma ha bisogno di voiii!”

Nel sentirli nominare, Artemide scoppiò in una grassa e un po’ sadica risata e, mentre due creature alate dall’aspetto demoniaco apparvero accanto alla dea della bellezza, Felipe chiosò sconcertato: “E meno male che sono dèi…”
 
***

Con la promessa di rientrare in un breve lasso di tempo, Artemide e Memnone si allontanarono da casa Panagulis con l’intento di recuperare Endimione e, dopo essersi teleportati sulla spiaggia, la dea domandò: “Perché ti sei prestato a tutta questa pagliacciata di pessimo gusto?”

Indicando alla dea dove imboccare il sentiero che conduceva alla grotta dove aveva nascosto Endimione, Memnone sorrise spiacente e ammise: “E’ difficile vedere le lacrime della propria madre, anno dopo anno, secolo dopo secolo, senza tentare di fare almeno qualcosa. Sapevo di rischiare, ma speravo nella tua clemenza.”

Sbuffando, Artemide assentì suo malgrado e borbottò: “Sì… immagino sia qualcosa di vagamente angosciante.”

Ridacchiando, Memnone indicò un’apertura nella scogliera dove miriadi di aironi stavano stoicamente facendo la guardia e aggiunse ironico: “Angosciante? Stavano per scoppiarmi i timpani!”

Anche Artemide sorrise divertita nonostante tutto e, nel penetrare all’interno della grotta assieme a Memnone, asserì: “Quando uccisi Orione, non volli certo ferire lei. Non sono così meschina da negare che, a suo tempo, lo predai anche per vendicarmi dell’onta subita, ma fu soprattutto per ciò che Orione aveva fatto alle Pleiadi e a Eos. Per me è inaccettabile che un uomo ferisca a questo modo una donna.”

“Ne sono cosciente e, quando ho percepito la presenza di Orione su questa terra, ho iniziato a cercarlo per parlargli di ciò che avevo intenzione di fare. Ma mai, in tutta la mia vita, avrei immaginato che mia madre avrebbe reagito così alla sua presenza” esalò sconcertato Memnone, facendo ridere la dea della caccia.

“Sottovaluti il senso di rivalsa di una donna. Può essere tremendo” ghignò la dea, prima di inarcare un sopracciglio e domandare: “E così, tu fiuti i semidei?”

“Qualcosa del genere. Li percepisco, come se fossero segnali radio che posso sentire coi miei sensi. E’ così che abbiamo trovato tua figlia, e abbiamo iniziato a tenere d’occhio Endimione” assentì Memnone. “A ben vedere, ce ne sono un sacco, al momento.”

“Chi, per esempio?” domandò Artemide, addentrandosi ulteriormente nella caverna e tastando la parete alla sua destra per non cadere. Non si vedeva a un palmo, e non aveva pensato di portare con sé una torcia elettrica.

“Oh, beh, così su due piedi mi vengono in mente Asclepio che, da quel che so, fa il chirurgo a Philadelphia, Tersicore, che ha aperto un disco pub a Londra e Achille, che fa l’insegnante di atletica a…” iniziò col dire Memnone prima di interrompersi quando vide Artemide ghignare soddisfatta. “…credo che non avrei dovuto nominare proprio lui.”

“Non preoccuparti…” ciangottò la dea, ammiccando perfida. “… non hai visto come sono diventata brava a trattenere la rabbia?”

“E’ un brav’uomo. Davvero” sottolineò suo malgrado Memnone, indicando alla dea di svoltare alla sua sinistra.

“Non devi dirlo a me. Sono Athena e Apollo che hanno avuto da dire con lui” si limitò a replicare Artemide prima di sorridere di fronte al corpo di Endimione.

Al solo vederlo, l’icore prese a brillare nel suo corpo di dea.

L’uomo stava riposando su un letto di frasche e, quando la dea si accucciò per svegliarlo, sorrise nel vedere i suoi occhi azzurri aprirsi alla luce fioca emanata dal suo corpo divino.

“Ehi… ma non avevamo smesso di vederci così?” ironizzò la dea, dandogli un buffetto sulla guancia.

Endimione si poggiò su un gomito per mettersi seduto, sorrise alla dea e replicò: “In effetti, ha molto del dejà vu. Dove siamo, stavolta, per la cronaca? E chi è lui?”

Sorridendo, Arty lo aiutò a rialzarsi e, nell’indicargli di seguirlo all’esterno della grotta dove in quel momento si trovavano, disse: “Lui è il tuo rapitore e, quando torneremo a casa, ne vedrai delle belle.”

Endimione si concesse un secondo per apparire sbalordito ma, l’attimo seguente, scoppiò in una frenetica risata ed esclamò: “Con te, ne succedono sempre delle belle!”

“Vero” chiosò la dea, facendo spallucce.





(1) "chiamate aiuto": vedasi il film Marvel Thor: Ragnarok. La scena riguarda Thor e il suo fratellastro Loki e riguarda un vecchio gioco che facevano da bambini.



N.d.A.: che dite? Ormai Eos si sentirà appagata, o adesso la sua vendetta si protrarrà all'infinito contro Orione?

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Capitolo 17
*** Eos - 4 - ***


4.
 
 
 
 
Se mai Artemide aveva pensato di aver visto di tutto, per quel giorno, dovette ricredersi alla svelta.

Avendo Endimione sangue di semidio nelle vene, la dea aveva potuto smaterializzarsi dalla spiaggia assieme a lui e a Memnone ma, al loro rientro presso la casa della figlia, si era dovuta fermare, piena di sbigottimento.

La vista di Eos avvinghiata a Orione l’aveva raggelata sul posto, al pari dei due uomini con lei.

Dopo quel momento di sbigottimento, Endimione si era scusato con Artemide ed era defilato in fretta in casa, così da rassicurare la famiglia sulle sue condizioni, mentre la dea e Memnone si erano avvicinati che chiedere lumi.

Dalla guerra all’amore, il passo era stato evidentemente breve, per i due.

Ora, seduta accanto a Felipe – che aveva imitato Hermes e aveva preso per sé una poltrona da giardino su cui accomodarsi – e con un’espressione sempre più ombrosa in viso, borbottò irritata: “Hanno intenzione di andare avanti ancora per molto con questo filmino a luci rosse?”

Accavallando le gambe con nonchalance mentre sorseggiava la limonata che Delia aveva fatto per lui, e che non aveva avuto occasione di terminare, Felipe replicò: “Diciamo che lo preferisco all’horror che aveva in mente di inscenare Emastione.”

Ciò detto, lanciò un’occhiata ad Afrodite, tutta presa dalla sua tintarella, e aggiunse in un sussurro: “Come mai si è messa a fare l’estetista, tra l’altro?”

“Ha aperto diversi centri benessere un po’ per tutta la Grecia, visto che ama il bello e tutto ciò che aiuta a diventare belli, ma credo non avesse quasi mai interpretato di persona la parte dell’estetista…” chiosò Arty, prima di aggiungere divertita: “… a parte con Deimos. Ma quella volta, doveva vendicarsi.”

Felipe strabuzzò gli occhi per lo sgomento, tornò a guardare la dea della bellezza distesa su un telo mare e abbigliata con un succinto bikini azzurro cielo e, dubbioso, domandò: “Ma… non sarebbe suo figlio?”

Artemide sorrise, gli diede un buffetto sulla guancia e disse: “Siamo molto particolari, mio caro. Porta pazienza.”

“Non provo neanche a capirvi… faccio prima” sottolineò Felipe, scuotendo il capo prima di afferrare il suo cellulare per mandare un messaggio ad Athena. Era giusto che sapesse che tutto si era più o meno risolto.

Arty rise sommessamente e, nel rivolgersi alla dea della bellezza, domandò: “Come mai sei rimasta? Non avevi un incontro con il commercialista, o qualcosa del genere?”

“Ci ho mandato Ares. Sai che non amo perdermi dietro alle scartoffie” replicò la dea, voltandosi di schiena e mettendo in mostra un lato B davvero fantastico.

Sorridendo poi maliziosa a Felipe, Afrodite mormorò: “So che sei tra i miei followers. Vorresti un autografo da mostrare agli amici, caro?”

Felipe si ritrovò a sorridere nervosamente – sapeva quanto Artemide poteva mostrarsi gelosa, se ci si metteva – e, scuotendo il capo, declinò gentilmente, domandando per contro: “Se non è un disturbo… posso sapere come avete chiamato la vostra catena di centri benessere? Ho un paio di amici, ad Atene, e potrei indirizzarli da voi.”

Afrodite rise dolcemente e, ammiccando a una accigliata Artemide, mormorò: “Oooh, ma com’è carino! Mi dà del voi come i miei postulanti! E’ davvero adorabile!”

Arty borbottò un insulto tra i denti prima di ringhiare: “Perché sua madre lo ha educato bene. Tu, invece, dimostri senza ombra di dubbio di non averne mai avuta una, e infatti sei una vera scema. Ma che ti è saltato in mente di mandare Ares dal commercialista?! Lui ha ancora meno pazienza di te! Gli taglierà la testa al primo assaggio di partita doppia!”

Accigliandosi, la dea della bellezza replicò piccata: “Mi sono raccomandata di non farlo, è ovvio! Pensi che non lo sappia?!”

Artemide, però, scosse il capo, si passò le mani tra i rossi capelli e sbraitò: “Maledizione, Afrodite! Ma pensi davvero che a lui bastino le raccomandazioni!?”

Un lampo di dubbio oltrepassò il volto della bella dea che, nel mettersi seduta, scrutò preoccupata l’amica e domandò timorosa: “Credi che dovrei andare a dare una controllatina?”

“Come minimo. E chiamerei i soccorsi prima di ogni altra cosa” sospirò Artemide, chiedendosi perché, proprio lei, dovesse fare la parte di quella matura.

Balzando in piedi, Afrodite afferrò il bracciolo della poltrona su cui era seduto Felipe, si piegò dinanzi a lui mostrandogli un generoso scorcio del suo décolleté e, nel dargli un bacetto sulla guancia, strizzò l’occhio e disse: “La mia catena di centri benessere si chiama Callipigia. Grazie per aver pensato di mandarmi dei clienti. E puoi darmi del tu, tesoro.”

Ciò detto – e schivando uno schiaffo volante di Artemide – Afrodite si smaterializzò e Hermes, sghignazzando spudoratamente, lanciò uno sguardo divertito a un frastornato Felipe e chiosò: “Sei davvero adorato dalle dèe, mortale.”

“Non dirlo neppure!” sbraitò Artemide, afferrando poi il viso di Felipe per ripulirlo dal rossetto di Afrodite. “Ma tu guarda quella cretina…”

Sballottato dalle mani nervose di Artemide, Felipe riuscì in qualche modo a dire: “D-dai… s-sta calma…”

“Hanno finito” ciangottò nel frattempo Hermes, indicando divertito Eos e Orione.

Ancora irritata per il gesto di Afrodite, Artemide si volse furiosa verso la divinità dell’aurora e il suo amante e, rabbiosa, ringhiò: “Alla buon’ora!”

Arrossendo suo malgrado – e del tutto inconsapevole dei motivi della rabbia di Artemide – Eos mormorò: “Beh… erano migliaia di anni che non lo vedevo.”

“Lo abbiamo notato, grazie. Hai obbligato mia figlia e la sua famiglia a barricarsi in casa per non sconvolgere ulteriormente Hektor. Complimenti” sibilò Artemide, mentre Felipe le scostava le mani per trattenerle tra le sue. “E mollami!”

“Non ci penso minimamente. Mi stai scorticando la guancia” replicò Felipe prima di scrutare la coppia nuovamente riunita e domandare: “Faida chiusa, quindi?”

“Certo” assentì Eos, guardandosi intorno con espressione spiacente nel notare tutto il prato calpestato. “Abbiamo causato notevoli danni, e li pagheremo, questo è sicuro. Ma voglio che siate certi che non si ripeterà mai più.”

“Oh, credo che il corpo di Emastione sia la garanzia migliore di tutte” ghignò perfida Artemide, lanciando un’occhiata all’uomo disteso all’ombra della veranda.

La sua pelle abbronzata era lucida, glabra e apparentemente intonsa ma, sulle gote rasate, due righe di lacrime spezzavano quell’effetto di perfezione, al pari delle mani chiuse a coppa sui genitali.

Lasciandosi sfuggire una risatina, aggiunse: “La ceretta all’inguine deve essere stata particolarmente dolorosa.”

I maschi presenti spostarono le mani a proteggere le parti intime come riflesso spontaneo ed Eos, fissando dolente il figlio, mormorò: “E pensare che è tanto più bello, così…”

“Credo che, al momento, gliene importi poco” si ritrovò a dire Endimione, uscendo da casa proprio in quel momento.

Memnone lo guardò sorridente e si dichiarò più che d’accordo ma, nello scrutare la madre, domandò serio: “Ora stai bene? Ne è valsa la pena?”

Eos gli sorrise, si avvicinò per un abbraccio e, nel depositargli un bacio sulla guancia, ammise: “Avrei dovuto ascoltarti, e capire. Questo mi avrebbe impedito di far del male a Delia e alla sua famiglia, che di fatto non c’entravano nulla.”

Rivoltasi poi a Felipe, che ancora stava trattenendo le mani di Artemide, aggiunse: “Mi dolgo anche per il dolore che abbiamo causato a te, mortale. E’ chiaro quanto la dea che ami ti stia a cuore, e immagino quanto le nostre azioni ti abbiamo potuto ferire. Non cercherò il tuo perdono, ma ti chiedo scusa.”

Felipe si limitò a un freddo cenno d’assenso. Non era ancora in grado di perdonare Eos e i suoi figli per quelle lunghe ore di disagio. Anche se tutto era andato per il meglio, era difficile far sbollire la rabbia, ma sapeva che se avesse parlato, Artemide si sarebbe infuriata di nuovo.

Meglio soprassedere.

Afferrata la mano di Orione, Eos dunque disse: “Ci accomiatiamo con la promessa di sistemare ogni cosa. Non ti deluderò, Artemide.”

“Bene” si limitò a dire la dea, distogliendo lo sguardo da Eos per puntarlo su Orione: “Nonostante tutto, è bello rivederti, amico mio.”

“E’ reciproco” asserì lui, sorridendole.

In breve, la famiglia multiforme di Eos se ne andò dal giardino dei Panagulis e Artemide, nel sorridere a Endimione, si levò in piedi e disse: “Scusa per la tempistica pessima. Lui è il mio compagno. Felipe.”

Endimione allungò una mano verso l’ispanico – nel frattempo levatosi in piedi a sua volta – e, stringendo quella protesa di Felipe, asserì: “Finalmente si è decisa a tirarti fuori dalla scatola dove ti aveva nascosto. Io e Delia eravamo ansiosi di conoscerti, anche se speravo in un incontro più tranquillo.”

Ritrovandosi a ridere divertito, Felipe lanciò un’occhiata incuriosita alla dea silvana e chiosò: “Non sapevo fossi così gelosa di me. Comunque, è un piacere conoscerti, così come lo è stato conoscere la tua famiglia, Endimione.”

Arrossendo suo malgrado, Arty borbottò: “Beh, hai ben visto Afrodite. Lei ci prova con tutti… dovevo tenerti un po’ protetto.”

Felipe scoppiò in un’altra risata, la abbracciò e replicò: “Sei solo tu, la mia preferita. Ricordalo.”

Artemide assentì e Hermes, nello stiracchiarsi, celiò: “Adesso cominciate voi il film a luci rosse? No, perché ho bisogno di rifornirmi, se stanno così le cose.”

“Idiota” sbuffò Artemide.

“Realista, mia cara. Solo realista” precisò Hermes.
 
***

“Avresti potuto teleportarti, sai? Non mi sarei offeso” chiosò Felipe, distendendosi nel suo letto dopo quasi quarantotto ore di panico, follia e tanti nuovi incontri. “So che non ami particolarmente gli aerei.”

“Non mi andava di lasciarti tornare da solo… e il viaggio di andata era stato troppo tremendo per farti fare il bis” mugugnò Artemide, sbadigliando sonoramente.

Felipe assentì con un risolino, asserendo: “Poco ma sicuro. Delia mi ha detto che anche lei stette male, durante il suo primo volo con Hermes.”

Grattandosi una guancia, Arty annuì. “Credo che nessuno sopravviva ai voli di Hermes. Ma, vista la situazione, non ho trovato altro modo per farti venire con me senza perdere tempo.”

“E io sono contento che tu mi abbia aspettato” replicò lui, dandole un bacio.

“Anche se ti è toccato assistere a scene raccapriccianti?”

“Non definirei raccapriccianti i seni di Afrodite” ironizzò Felipe, ritrovandosi addosso il cuscino di Artemide.

Scoppiando a ridere, Felipe intercettò un secondo colpo e, nel salire a cavalcioni sopra la dea, la bloccò ai polsi e aggiunse: “Mia fulgida dea gelosa… te l’ho detto mille volte. Sei tu la mia amata.”
“Allora defollowati dalla sua pagina” ringhiò la dea, trattenendosi dal spingerlo via. A volte era così complicato ricordarsi che le sue carni erano quelle di un mortale!

“Non ci penso minimamente” rise lui, stampandole un bacio sulla fronte. “Afrodite è divertente, oltre che bella, e io la trovo interessante. Ma, e fammi finire di parlare, prima di puntare alla mia virilità con il falcetto che tieni nascosto nella mano…”

Artemide sbuffò ma assentì e Felipe, tornando serio, mormorò: “… ma non è lei la donna che amo. Inoltre, mi ha fatto piacere conoscere Endimione, e non capisco perché eri così restia a presentarmelo.”

“Non sapevo come l’avresti presa. Abbiamo due figlie, assieme, e anche i sassi sanno quanto ne fossi ossessionata” brontolò lei, arrossendo suo malgrado.

Felipe, allora, tornò a sdraiarsi al suo fianco, le strinse la mano dopo averla liberata del falcetto e, con tono tranquillo, disse: “Non mi sono imbarcato in questa relazione senza mettere in conto una buona dose di stranezze, Arty. Anche Miguel lo aveva messo in conto a suo tempo e, anche se va detto che, durante i suoi anni di matrimonio, non successe mai nulla del genere, tutti ci aspettavamo il contrario.”

“Oh” mormorò sorpresa Artemide.

“So che vieni da un mondo, e un’epoca, che io difficilmente potrò mai capire, ma lo accetto. E’ parte di te e, anche se oggi avrei voluto avere la forza di tuo padre per proteggerti dal dolore che hai patito, mi ha fatto molto piacere che tu abbia voluto condividere tutto con me” le spiegò lui, dandole un bacetto sulla spalla.

La dea poggiò il capo contro la spalla di Felipe, sospirò e disse sommessamente: “Mi è piaciuto vedervi tutti assieme. E’ questa la mia idea di famiglia, non quella che ho avuto sull’Olimpo, dove dominavano la rabbia, le gelosie e i tradimenti. Inoltre, adoro tua madre e la tua, di famiglia, e mi piace stare con voi.”

“Mi fa piacere sentirtelo dire” le sorrise lui.

“Non ti terrò nascosto più niente. Promesso” mormorò lei, lieta di poter parlare apertamente con Felipe.

Si era preoccupata per tutto il tempo, tesa al pensiero che simili eventi potessero minare il loro rapporto ma lui, ancora una volta, l’aveva sorpresa e meravigliata. Era davvero un mortale dalle immense capacità, e lei era stata fortunata a conoscerlo.

“A questo proposito; ci sono altri nemici di cui dovrei conoscere il nome?” ironizzò Felipe.

“Beh, dovrei fare mente locale, onestamente…” mormorò lei, tamburellandosi un dito sul mento con fare pensoso.

“Mentre scorri la tua lista di delitti…” rise sommessamente Felipe. “… puoi spiegarmi come Orione ha potuto essere lì tra noi?”

“Beh, i semidèi hanno il diritto di reclamare l’anima dall’Oltretomba per poter rinascere nel corpo di un umano e, se lo desiderano, riprendere le loro sembianze primigenie. Il loro corpo, però, resta nel regno di Ade. C’è una sala apposita proprio per questo, tra le altre cose” gli spiegò Artemide prima di sollevare un sopracciglio e aggiungere: “Oh… ti chiedevi di Alekos, vero?”

“Esatto. Immagino che i semidèi appaiano, nell’Oltretomba, con la fisionomia che avevano nel momento della morte, vero?”

“Sì, è giusto. Solo gli umani perdono corporeità e divengono pura luce. Se chiedi ad Alekos, potrà spiegarti bene che sembianze ha Miguel adesso” annuì accigliata la dea, iniziando a comprendere dove volesse andare a parare Felipe.

“Se così è, Alekos avrebbe dovuto rimanere un neonato per l’eternità. Correggimi se sbaglio…” tentennò Felipe.

Era un pensiero che gli era balenato nel momento stesso in cui Orione aveva parlato di sé e della sua scelta di uscire dall’Oltretomba, dopo millenni di autoimposto purgatorio.

Come poteva, la sua storia, collimare con quella di Alekos che, invece, era cresciuto nell’Oltretomba e ne era uscito sulle sue gambe?

Dopotutto, non erano entrambi figli di una divinità e di un mortale?

Levandosi di colpo a sedere sul letto, la stanchezza del tutto dimenticata, Artemide ansimò sconcertata: “Ma dove cavolo avevamo la testa?!”

Felipe si ritrovò a sorridere e asserì: “Forse, eravate solo contenti che Athena non avesse perso la possibilità di vedere suo figlio, perciò non avete badato al come.”

“Poco ma sicuro” brontolò suo malgrado Artemide. “Tra Persefone e Ade che lo vezzeggiavano come due novelli sposini, Ares che gli regala spade a raffica e paparino che lo ricopriva di complimenti, Alekos ha passato i primi quattro anni della sua vita nell’Oltretomba senza quasi rendersi conto di dove si trovasse. Quando poi Athena ha scoperto della sua esistenza, l’ha presa per buona né più né meno di noi, … ma nessuno ha mai chiesto spiegazioni!”

Ciò detto, lanciò uno sguardo verso il soffitto e, dopo essersi schiarita la voce, disse: “Io ti invoco, Thanatos, signore della morte, traghettatore di anime.”

Felipe sgranò gli occhi, nell’udire quel nome ancestrale e messaggero di sventure ma, prima ancora di poter replicare alla decisione della dea, una nube oscura e scintillante apparve dinanzi al loro letto.

Subito dopo, nelle sembianze di un giovane abbigliato con un completo in pelle nera, borchie e stivali Dr. Martens, fece la sua apparizione Thanatos.

Passandosi una mano tra la zazzera di capelli neri e sparati sulla testa, Thanatos borbottò contrariato: “Arty, per tutti gli dèi, e dire che lo sai che non amo le cose a tre!”

Scoppiando in una grassa risata, mentre Felipe rimaneva senza parole di fronte a quel metallaro dall’apparente età di un ventenne, Artemide esalò: “Oddio, Thanny… sei tale e quale al tuo socio…”

“Non mi confondere con Hermes, please… io, il mio lavoro, lo faccio seriamente” si accigliò il giovane psicopompo, mettendo il broncio.

“Scusa, scusa, è vero… è Hermes quello che si perde dietro alle gonnelle delle signore” ironizzò Artemide, asciugandosi una lacrima di ilarità.

Thanatos scrollò le spalle e, nell’indicare Felipe, chiosò: “Dì al tuo uomo che non voglio anticipare i tempi. Mi sembra un tantino pallido.”

Arty, allora, si volse per controllare Felipe e, quando notò il suo effettivo pallore, gli strinse una mano e mormorò: “Ehi, va tutto bene… è a posto, davvero.”

Sospirando, Thanatos borbottò: “Facciamo lo stesso mestiere, ma sono sempre io quello che si becca gli insulti. Una di queste volte mi arrabbierò sul serio e mi metterò in sciopero. Che ci pensi Hermes, alle anime dei morti!”

“Su, su, stai buono, Thanny. Non è colpa di Felipe. Ne ha passate anche troppe, nelle ultime quarantott’ore” sottolineò Artemide, battendo una mano sulla gamba di Felipe per dargli coraggio. Era chiaro come Thanatos rappresentasse, in qualche modo, il limite alla sopportazione delle stranezze, per Felipe.

Quando, però, pensò al suo recente passato, Artemide esalò un sospiro dolente e, rivolta a Felipe, mormorò: “Oh, caro! Lui non…”

Scuotendo nervosamente una mano, Felipe assentì e replicò: “Sì, sì, lo so. Athena mi ha spiegato tutto, di quella faccenda. Ma è comunque strano. Ora mi passa, in ogni caso.”

Thanatos si fece scuro in volto, ma solo per il dolore provato e, roco, disse: “Se può consolarti, litigai con Atropo, quando mi disse di andare a prendere Miguel. Avrebbe dovuto farlo Hermes, tra l’altro, perché mi aveva fatto una testa tanto, riguardo ai futuri lutti della sorella, ma fu introvabile, quel giorno, così accompagnai io Miguel sulle porte dei Campi Elisi.”

Felipe sospirò amaro. Hermes aveva guardato lontano, pensando ai futuri lutti di Athena. Sapendo la sorella imparentata con un mortale, aveva messo in conto quel particolare fin dall’inizio ma, al momento opportuno, non era stato presente.

Ecco perché, il solo accennarne, lo aveva infervorato tanto. Aveva mancato a un appuntamento che lui stesso aveva voluto onorare.

Levando una mano a mo’ di ringraziamento, Felipe mormorò: “Grazie. In qualche modo, mi rincuora sapere che non fosse da solo.”

Thanatos accettò il ringraziamento e, rivolto ad Artemide, domandò: “Cosa volevi, per chiamarmi a quest’ora? Stavo a un concerto, sai?”

“Lo si capisce dai vestiti, credimi” chiosò lei, prima di domandare: “Posso sapere che hai combinato, con Alekos?”

Arrossendo come un peperone, Thanatos si passò una mano nervosa sulla nuca, sbirciò Felipe in viso prima di tornare su Artemide e mormorare: “Beh, è una cosa che dovresti chiedere a Érebos.”

“A tuo padre?” gracchiò sorpresa la dea.

Felipe, a quel punto, fissò senza parole Thanatos ed esalò: “E’… tuo padre?!”

“Per partenogenesi, sì. Niente contributo femminile, per me, ma sono venuto piuttosto bene” chiosò lui, scrollando le spalle. “Nyx, comunque, è stata una mamma putativa splendida.”

Artemide lo richiamò all’ordine prima che partisse con una descrizione delle molteplici doti della dea della notte e, incredula, domandò: “Spiegati. Cosa c’entra Érebos?”

“Beh, ecco… papà è innamorato di Athena da molto tempo… da prima della nascita di Alekos, per intenderci. La seguiva da lontano, felice che lei avesse trovato un uomo che la facesse sorridere ma, quando seppe ciò che era successo a Miguel, mi mandò da lei, temendo che le potesse succedere qualcosa.”

“Il bambino. Temeva per lui” mormorò roca Artemide.

Annuendo, Thanatos aggiunse: “Mentre mi recavo da Athena, mi giunse la chiamata di Atropo. Dopo Miguel, avrei dovuto accompagnare nei Campi Elisi anche il suo bambino. Così, lo dissi a mio padre mentre raggiungevo l’ospedale dove era stata ricoverata Athena e, prima che i dottori potessero spezzare il legame fisico tra lei e Alekos, portai via con me la sua anima.”

“Cristo…” gracchiò Felipe, passandosi le mani sul volto. “…quindi, Alekos era già morto dentro di lei da ore?”

“Esatto, mortale. Il legame con la vita si spezzò assieme a quello di Miguel. Ma il cordone ombelicale che ancora lo legava ad Athena mi permise creare un ponte tra l’anima di Alekos e quella della madre. Se fossi giunto a cose fatte, a cordone reciso, non avrei potuto che condurre Alekos ai Campi Elisi, per sempre neonato ma così, con il cordone ancora intatto, ho mantenuto il legame tra madre e figlio.”

“E questo… te lo disse Érebos? Ti disse lui come fare?” mormorò Artemide, sulla soglia delle lacrime.

Annuendo, Thanatos mormorò: “Fu un tentativo disperato, perché neppure lui era certo che avrebbe funzionato. Ma il legame resistette e Alekos crebbe, attingendo alla forza vitale della madre grazie a quel cordone mai veramente scisso, per loro due.”

“Quindi, potenzialmente, Alekos potrà vivere in eterno?” esalò confuso Felipe.

“Per come stanno ora le cose… sì” ammise Thanatos.

“Ma perché non ce l’ha mai detto?” domandò a quel punto Artemide prima di aggrottare la fronte e aggiungere torva: “Perché nessuno ha notato questo particolare?”

Thanatos le sorrise dolcemente, e replicò con candore: “Se tu amassi una donna al punto di fare di tutto per lei, ammetteresti di essere stato così importante nella salvezza di suo figlio? Non ti verrebbe il dubbio che, il suo eventuale affetto, potrebbe essere nato dalla gratitudine? Non ti sentiresti più sereno e in pace con te stesso, se vedessi in lei l’amore senza il peso di questa verità? Érebos agì sulle menti di voi perché non vi poneste il problema, così che poteste godere della compagnia di Alekos senza doverlo ringraziare. Nel frattempo, nella tranquillità del suo studio, proseguì le ricerche per portare a termine ciò che aveva iniziato; salvare Alekos.”

Sia Felipe che Artemide si fissarono vicendevolmente, davvero senza parole e Thanatos, facendo spallucce e sorridendo loro, li salutò con un cenno e disse: “Beh, se ho risposto a tutto, io andrei. Ci rivedremo solo tra molto tempo, mortale, salvo visite di cortesia.”

“Thanny! Non puoi fare la spia!” esalò sconvolta Artemide, facendo tanto d’occhi.

“Mica gli ho detto quando! Accontentati che ho sbirciato qua e là nel libro di Atropo” replicò lui, strizzando l’occhio a Felipe prima di svanire nel nulla.

“Ma tu guarda…” brontolò Arty, prima di guardare un pallido Felipe e aggiungere: “Okay, basta dèi, per un po’.”

“Facciamo qualche mese, ti va?” gracchiò Felipe, crollando lungo disteso sul letto. “Vicini esclusi, s’intende.”

“Promesso” annuì Artemide, abbracciandolo stretta.

Sì, per un po’ non ne avrebbe voluto sentire parlare neppure lei, della sua parentela immortale. Ne aveva avuto abbastanza.

Nel chiudere gli occhi, però, sorrise commossa e si ripromise di ringraziare Érebos per ciò che aveva fatto per tutti loro e per Athena in particolare.

Quel gesto di amore altruistico aveva portato del bene a molti di loro, e non solo alla madre di Alekos e, per questo, lei avrebbe ringraziato il dio dell’oscurità. A costo di farlo arrossire per la vergogna fino alla fine dei tempi.






N.d.A.: tutto si è risolto per il meglio, e viene infine fornita una spiegazione per la singolare condizione di Alekos. Erebos ha tentato il tutto e per tutto, per salvarlo da una triste esistenza nell'Oltretomba e, grazie ai suoi consigli e al pronto intervento di Thanatos, è stato scongiurato il peggio.
Se qualcuno si stesse chiedendo che fine avesse fatto Hermes, in quel fatidico giorno, lo spiegherò più avanti. Ora, mi sto concentrando sulla storia di Achille, che presto vedremo apparire e che spiegherà come mai ci sia dell'acredine tra lui e Athena (con Apollo è evidente: ha contribuito a distruggere Troia, che Apollo proteggeva...).
A presto!

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 18
*** Eos - 5 - ***


 
 
Epilogo
 
 
 
 
Approfittando della mancanza di Athena da casa – scesa a San Josè per accompagnare Alekos in un centro estivo – Artemide sgattaiolò nella villa appresso alla sua e, bussato che ebbe, attese nervosa l’arrivo di Érebos alla porta.

Non appena la divinità ebbe scostato il battente, la dea silvana gli si buttò tra le braccia e, di fronte a uno sconcertato dio dell’oscurità, mormorò commossa: “Grazie! Grazie! Grazie!”

Sorridendo gentilmente, Érebos batté con affetto le mani sulla schiena della dea e, senza neppure troppa sorpresa, disse: “Thanatos ha cantato.”

Scostandosi con un sorriso e una lacrima di gioia, Artemide assentì ancora piuttosto frastornata ed Érebos, nell’invitarla in casa, le domandò: “Come mai hai voluto sapere?”

“Parlandone con Felipe, mi sono resa conto che, in tutti questi anni, nessuno di noi si è mai posto un problema che, diversamente, avrebbe dovuto balzare agli occhi di tutti… ma non è successo. Così, ho chiesto a Thanatos e lui ci ha spiegato cos’hai fatto per Athena” gli spiegò Artemide, ancora affascinata dal gesto altruistico del dio. “Erry… così tanto?”

Scrollando le spalle, la divinità replicò con semplicità: “Amo Athena. Non esiste nulla che non farei per lei e, se avessi potuto strappare Miguel al destino che gli è spettato, lo avrei fatto. Ma quello è un confine che neppure io posso valicare. Con Alekos tentai il tutto e per tutto, essendo lui figlio di una dea, non sapendo però se avrebbe funzionato o meno. Era tutto molto forzato e credimi, Atropo mi strigliò ben bene, a suo tempo.”

“Ma funzionò… e mettesti in candeggina i pensieri di tutti” ironizzò Artemide, facendolo ridere.

“Più o meno. Non volevo che Athena si sentisse in debito con me, o che voi tutti sentiste un qualche genere di dovere nei miei confronti. Lo avevo fatto con gioia, e non volevo ringraziamenti” si limitò a dire Érebos.

“Ma lei sa, adesso? Sì, insomma, Athena” si informò Artemide.

“Glielo dissi. Ma solo dopo essere certo che lei mi amasse a prescindere da quello” ammise lui. “Anche Alekos lo sa perciò, se ne volete parlare, non ci saranno problemi.”

Annuendo, Artemide a quel punto domandò: “Fosti tu, dunque, a convincere Hermes a non andare? Per lasciare che Thanatos agisse per conto tuo?”

Sinceramente sorpreso, il dio scosse il capo e replicò: “Non so perché Hermes non giunse sul luogo dell’incidente di Miguel. Non mi sono mai posto il problema di controllare. Mi fidavo dell’operato di Thanatos e, quando seppi di Miguel, gli dissi come agire per tempo.”

“Oh… chissà che fine fece, quel giorno?” si domandò curiosa Artemide.

Érebos, però, le disse: “Forse, per una volta, dovresti moderare la curiosità, Arty. E’ possibile che Hermes voglia mantenere questo segreto per sé. Se non ha mai parlato di quel giorno, ci deve essere un motivo veramente grave, e non è giusto ficcare il naso.”

“Solo perché tu sei buono, ma io sono dispettosa, perciò credo che lo farò, una di queste volte” ironizzò Artemide, portando la divinità a un nuovo scoppio di risa.

Dandole una pacca sulla spalla, Érebos chiosò: “Attenta a quel che chiedi. Non sai mai cosa potresti pagare per averlo.”

“Non fare il menagramo, Erry…” mugugnò lei, allungandosi per dargli un pizzicotto sul naso. “… voglio solo capire perché Hermes ha bigiato un appuntamento. Non farò del male a nessuno.”

“Lo spero davvero” ammiccò il dio, prima di sbirciare dalla finestra e vedere Felipe dirigersi verso il suo pick-up. “Lui come sta?”

Tornando seria, Artemide seguì lo sguardo di Érebos e mormorò: “E’ forte, e ha una resilienza davvero rara. Ma ho paura, Erry. Una paura folle di non essere io, abbastanza forte per lui. Riuscirò a sopportare di perderlo, un domani?”

“Non pensare in questi termini, Arty. Pensa alla gioia che ti dona ogni giorno. Sarà questa, la tua forza, quando il momento giungerà” la consolò Érebos, sfiorandole il viso con una carezza.

“Tu e Atty starete con me, vero?”

“Sempre” annuì il dio e, per un attimo, Artemide scorse attorno a lui un alone di potere così grande da far invidia all’intero Pantheon olimpico.

Sì, con quella forza al suo fianco, non sarebbe crollata. Nel frattempo, però, avrebbe seguito il consiglio di Érebos e avrebbe goduto della presenza di Felipe in ogni istante, e si sarebbe prodigata per essere, per lui, la migliore delle compagne.







N.d.A.: e con questo concludiamo la breve avventura dedicata alla dea dell'aurora e al suo amore Orione. Il prossimo eroe che incontreremo sul nostro cammino è Achille, alle prese con la seconda profezia fatta da sua madre, prima che lui partisse per la guerra troiana.
A presto!

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Capitolo 19
*** Achille - 1 - ***


Achille – 1 –
 
 
 
 
Achille Nikomachos1 poteva ritenersi soddisfatto. Non soltanto era riuscito a scovare Efesto, dio del fuoco e della metallurgia, ma aveva anche ottenuto un incontro con lui.

Da quel poco che aveva sempre saputo sul dio, non era molto propenso a ricevere visite ma, poiché potevano vantare una parentela acquisita per parte di madre, Efesto si era ben guardato dal rifiutargli un incontro.

Un po’ a sorpresa, quindi, Achille aveva annotato il suo indirizzo – chi avrebbe mai pensato che lo scorbutico Efesto abitasse a Catania? – e, dopo aver preparato una borsa leggera, aveva prenotato un volo dall’Aeroporto Torino-Caselle in direzione sud.

Greco per parte di padre, Achille viveva nei pressi di Bra da quando aveva compiuto cinque anni, e le sue ossa si erano temprate sulle curve di asfalto che si inframmezzavano ai filari delle Langhe e del Roero.

Dalla madre italiana, che lo aveva cresciuto dopo la separazione dal marito, aveva preso l’amore per il buon cibo e la passione per la cucina, oltre che per la vita.

Di suo padre sapeva ben poco, pur se non era in cattivi rapporti. Era soprattutto la distanza a tenerli separati, non il rancore.

Naturalmente, essendo un dio redivivo, non aveva affatto dimenticato il suo passato glorioso ma, proprio memore degli eventi delle sue vite precedenti, ne aveva fatto tesoro per cambiare.

In quella nuova vita si era prefissato altri traguardi, ben differenti dall’essere un eroe universalmente riconosciuto, pur se questo nuovo tracciato non si era rivelato più facile del precedente.

Anche per questo, la visita al dio Efesto era giunta come una lancia di salvataggio insperata.

Fu quindi con una buona dose di fiducia che accolse l’atterraggio sull’isola di Trinacria, ben più che desideroso di conoscere di persona il dio che sua madre Teti aveva svezzato.

Non occorse molto per uscire dall’aeroporto e trovare un taxi. Il vero problema, come scoprì poco più tardi, fu altrove, infatti.

Dall’Aeroporto Fontanarossa alla piccola Strada Viola nel centro di Catania – dove Efesto aveva acquistato un enorme lotto di terreno – occorse più di un’ora. Il traffico gli parve impazzito, ma non molto differente da quello di Torino, città che lui evitava come la peste, se poteva.

In generale, preferiva usare le auto per le corse di rally, in cui se la sapeva cavare discretamente bene, nella categoria CIR asfalto. Diversamente, il suo interesse primario era attualmente lo sky running, dove poteva dare libero sfogo al suo amore per la corsa. E per il pericolo.

«Il suo amico si è costruito proprio un villone» commentò divertito il tassista, ammirando la bella magione visibile oltre l’alto muro di cinta.

Achille annuì, osservando senza parole l’ampia villa a due piani dai muri bianchi, le persiane color perla e il pronao dal fitto colonnato che circondava l’intera struttura.

La proprietà – in parte visibile dal cancello in ferro battuto davanti a cui si era fermato il tassista – era circondata da un alto muro stuccato di bianco. Da quell’angolo in particolare, erano visibili lunghi filari di ulivi e di aranci, oltre a un’ampia piscina a forma di conchiglia e a un gazebo dalla forma ellittica.

«Non si è risparmiato, questo è sicuro» chiosò Achille, pagando la corsa e scaricando la sua borsa per poi approssimarsi al cancello d’entrata.

Lì, suonò al citofono mentre il rombo della Fiat Bravo del tassista si allontanava lungo la via impervia e, dopo alcuni secondi, una donna rispose chiedendo chi fosse.

Sorpreso, Achille si presentò e, quando il cancello pedonale venne aperto per lui, l’uomo si chiese come mai vi fosse un esemplare di genere femminile in casa del burbero dio.

Da quel che ricordava di lui, Efesto non era mai stato molto amato dalle donne, e parte del suo rinomato caratteraccio dipendeva anche da questo. Non che la dea Afrodite si fosse comportata molto bene, con lui, però anche il dio non era mai stato famoso per le sue carinerie.

Perciò, chi gli aveva risposto?

Quando infine raggiunse il pronao e lo oltrepassò, ammirandone i colonnati di marmo bianco e gli splendidi capitelli corinzi, Achille notò la porta d’entrata aprirsi prima del suo arrivo.

Dinanzi a lui, quindi, apparve una giovane in divisa camicia-pantaloni color bianco latte che, sorridente, disse: «Benvenuto. Il signor Basileia la sta aspettando nella veranda sul retro.»

Basileia? Perché diavolo Efesto usava come cognome uno degli epiteti di Artemide?

Achille lo trovò un fatto piuttosto sconcertante ma, ugualmente, seguì la giovane che, nel farlo accomodare, aggiunse: «Il signor Basileia si scusa per non essere venuto personalmente alla porta, ma sta terminando la sua sessione di massaggi.»

Achille strabuzzò gli occhi, a quella notizia e, sempre più confuso – che avesse sbagliato completamente indirizzo? – mormorò dubbioso: «Ehm, non vorrei sembrare offensivo, ma l’Efesto che conosco io non farebbe mai massaggi.»

La giovane allora sorrise incantevole e, indicandogli di svoltare a destra, lungo un ampio corridoio dai bianchi pavimenti in gres porcellanato e pareti abbellite con stucco veneziano giallo paglierino, asserì: «Oh, il signor Basileia, infatti, ci ha assunti solo alcuni mesi fa, perché ci prendessimo cura di lui. E’ stato inoltre così gentile da offrire una stanza a coloro che fossero troppo distanti da casa per rincasare ogni giorno, perciò non si stupisca di vedere altre persone in giro per la villa.»

Il semidio non poté che sorprendersi ulteriormente, di fronte a quel mare di novità inaspettate e, quando infine raggiunsero la veranda, Efesto stava giusto ringraziando uno dei massaggiatori per il buon lavoro svolto.

Achille non poté che rimanere a bocca aperta. Non solo per lo spettacolare panorama offerto dalla distesa di ulivi e aranci – piantati in rigorosi filari – e del mare alle loro spalle, ma per la incredibile trasformazione avvenuta nel dio del fuoco.

Per quel che ne aveva sempre saputo lui, Efesto era famoso per essere un uomo bruciato dal calore, arcigno, rapace nello sguardo e scorbutico con quasi tutto il genere vivente.

Il ragazzo che aveva appena ringraziato e che, in quel momento, stava sistemando in uno stipetto tutto ciò che aveva usato per i massaggi, era stato gratificato invece gratificato da un sorriso, così come da parole gentili e generose.

Una bella contraddizione in termini, per quanto ne sapeva lui.

Nel volgersi a mezzo, il corpo avvolto da un pesante accappatoio bianco, Efesto esordì dicendo: «Bentrovato, Achille. Accomodati pure e serviti senza problemi. Ci sono diversi vini bianchi, acqua e limoncello, nel carrello delle bevande. Io mi cambio e sono da te.»

Ciò detto, entrò in una stanzetta affacciata sulla veranda in cui si trovavano e Achille, non sapendo che altro fare, si accomodò su una poltrona di vimini e si servì del limoncello fresco.

Era davvero senza parole. Si era aspettato di giungere in un tugurio nei pressi del monte Etna, circondato da sterpaglie, gran confusione e odore di zolfo. Al contrario, si ritrovava in una sorta di villa hollywoodiana, con tanto di massaggiatori, servitù e bevande eccellenti, di fronte a uno dei panorami più belli del mondo.

Qualcosa non tornava.

Quando infine Efesto tornò, presentandosi in leggeri pantaloni di lino beige e camicia bianca dalle maniche arrotolate sui gomiti, ebbe ulteriormente motivo di stupirsi.

Evidentemente, qualcuno aveva giocato – in meglio – con il suo guardaroba e, a ben vedere, anche con la sua faccia. Il taglio di capelli era perfetto, e la leggera barba era stata sistemata da mani esperte.

Camminando grazie all’ausilio di un bastone da passeggio dal pomolo in argento, pur se non sembrava che la sua zoppia fosse così importante, Efesto raggiunse il suo ospite e si accomodò su una poltrona vicina.

Lì, si servì del Greco di Tufo in un bel calice a forma di calla e domandò: «Cosa porta il mio fratellastro alla porta del dio del fuoco?»

Achille sapeva bene che sua madre Teti si era presa buona cura di Efesto, dopo che l’ingrata Era lo aveva scacciato malamente dall’Olimpo, ma non aveva mai pensato che il dio lo vedesse come un fratello.

«Per la verità, sono così sconvolto da quello che vedo, da averlo praticamente dimenticato» ammise Achille, facendo sorridere il dio.

«Posso capire. Chi passa a trovarmi, impiega più o meno mezza giornata per capire che non è tutto uno scherzo» asserì magnanimo Efesto. «Hai mancato Athena e Artemide di una settimana. Erano qui assieme alle loro famiglie allargate.»

Sorpreso, Achille esalò: «Quanti altri dèi camminano tra noi? Io sono giunto a te tramite i buoni uffici di Memnone, ma non avevo idea che vi fossero altre divinità amanti del mondo umano.»

«Memnone?» ripeté sorpreso Efesto, prima di comprendere e sorridere. «Oh, già… ogni tanto si ferma in uno degli stagni che ci sono nella proprietà. Ho impiegato un po’ per capire che era il figlio di Eos, ma alla fine ci sono arrivato. La traccia divina che si tira dietro è abbastanza forte, pur se io non sono molto esperto nel riconoscerle.»

«Cielo! Artemide e Athena! Forse, dopotutto, è stato un bene che io non le abbia incrociate, visti i miei trascorsi con Apollo, e il caos con Briseide e il sacco di Troia» esalò l’uomo, passandosi nervosamente una mano tra i ricci capelli castani.

Durante la guerra di Troia si era inimicato il fratello di Artemide – protettore della città – e, in un’occasione, aveva obbligato la dea Athena a intervenire perché non commettesse una follia.

Il fatto che Agamennone avesse tentato di togliergli Briseide, lo aveva quasi mandato fuori di testa ma, a conti fatti, uccidere il re di Micene avrebbe portato solo la vittoria ai troiani. Lui, però, si era solo fatto guidare dall’istinto cieco e dalla lussuria, e Athena si era vista costretta a fermare la sua mano… e a fargli una lavata di capo.

Fosse stato solo quello, però, forse Athena lo avrebbe anche potuto perdonare… ma ciò che era successo dopo la caduta della città aveva fatto infuriare così tanto la dea che probabilmente, sapendolo redivivo, avrebbe preteso una vendetta anche su di lui.

Efesto, però, lo irrise e replicò: «Ah, quelle due ragazze sono assai cambiate. Esattamente come me. Inoltre, pur se la faccenda di Cassandra fu incresciosa – e commessa da un soldato acheo, non da te – Athena sapeva bene chi e come colpire, per vendicarsi. E mi pare lo abbia fatto più che bene, a suo tempo.»

Annuendo suo malgrado, Achille però replicò: «Non lo metto in dubbio, Efesto. Ma Artemide ama molto il fratello, e io combattei contro di lui, a Troia, e feci mia una sua accolita. Quanto ad Athena, so che lo stupro venne commesso da Aiace Olieo, ma lei non accettò il comportamento barbaro di tutti gli achei, che infatti vennero puniti per sua mano, smarrendosi sulla via del ritorno. Se io fossi stato in vita, si sarebbe vendicata anche su di me, e sapermi vivo ora potrebbe farle tornare in mente quella vendetta.»

Efesto sorrise benevolo, ben comprendendo le paure dell’eroe. L’ira degli dèi non conosceva data di scadenza e, pur se lui sapeva che sia Artemide che Athena erano molto diverse dalle dèe che erano state un tempo, Achille nutriva giustamente dei dubbi.

«Posso chiederti come mai, tra gli umani, usi un titolo onorifico di Artemide come cognome?» domandò curioso Achille.

«A suo tempo, quella scaltra ragazza mi fece capire un paio di cose e mi rese edotto sulla vita moderna, così la onoro portando il suo cognome tra i mortali. Dopotutto, sia lei che Athena mi chiamano zio, perciò ha un suo senso logico» scrollò le spalle il dio, sorprendendo ulteriormente l’uomo.

In quel mentre, il cellulare di Efesto squillò e la divinità, scusandosi col proprio ospite, rispose alla videochiamata e sorrise spontaneamente nel veder comparire il viso solare di Alekos all’altro capo.

«Ciao, zio! Come stai?!» esclamò il figlio undicenne di Athena.

«Alekos, ciao. Io sto benissimo, e ho appena ricevuto la visita di mio fratello» gli spiegò Efesto, sorridendo nel vederlo spalancare la bocca per la sorpresa.

«Hai un fratello? E chi, zio? Dimmi, ti prego!» esclamò eccitato il ragazzino, battendo le mani pieno di allegria.

Sorridendo divertito suo malgrado, Achille si piegò verso il cellulare per vedere con chi stesse parlando Efesto e, nel vedere un ragazzo dalla carnagione chiara, gli occhi verde smeraldo e i riccioli scuri, domandò piano: «Chi è?»

«Il figlio di Athena» spiegò Efesto, prima di aggiungere: «Lui è Achille, Alekos. La sua mamma si prese cura di me, quando nacqui, perciò lo considero una sorta di fratello.»

Mentre Achille diventava pallido al solo sentir nominare la dea della guerra, la sua potente protettrice – e che lui aveva deluso grandemente –, Alekos sorrise pieno di meraviglia e disse: «E’ una cosa bellissima, zio. Anche se non siete parenti veri, vi lega l’amore della stessa mamma. Perciò, tu sei quell’Achille

Riscuotendosi dinanzi alla domanda del ragazzino, l’uomo assentì e, di colpo, gli occhi di Alekos si illuminarono di letizia, mentre il ragazzino esclamava: «Ti stiamo studiando a scuola! Eri davvero fortissimo

Achille fece per denigrarsi, ma la voce di una donna in sottofondo lo fece raggelare, facendolo impallidire di colpo. Conosceva molto bene quel timbro vocale, e sembrava che i secoli l’avessero mantenuto immutato.

Alekos rispose alla donna con un: ‘c’è Achille in linea!’ e, prima ancora che l’uomo potesse defilare, il volto perfetto e bellissimo della dea Athena comparve nello schermo dell’iPhone di Efesto.

Gli occhi smeraldini della divinità lo perforarono per alcuni istanti prima che la bocca generosa e morbida si piegasse in un sorriso, per poi far defluire un ‘ma guarda’ davvero sorpreso da essa.

Lanciata poi un’occhiata a Efesto, Athena domandò ironica: «Hai fatto una riunione di famiglia senza invitarci, zio?»

«E’ stata una cosa dell’ultimo minuto, cara, ma se vuoi ho camere libere per tutti» ironizzò il dio, vedendo Achille scuotere freneticamente il capo per negare con forza.

Athena accentuò il suo sorriso nel vedere l’espressione sconvolta di Achille e, divertita, asserì: «Se sei preoccupato per il fatto che i tuoi uomini hanno stuprato e ucciso donne che mi adoravano, infischiandovene del fatto che fossero degli persone innocenti, non devi più preoccuparti. Chi di dovere è stato punito, dovresti saperlo, e tu hai pagato con la morte la tua entrata a Troia. Non vedo motivi per infierire ulteriormente. Io e Arty – sai, suo fratello è qui in visita, e sarebbe interessato a parlarti, se sapesse che sei vivo – siamo molto maturate, col tempo. Non spacchiamo più culi a nessuno. Preferiamo parlare, prima.»

«Linguaggio2» dissero in coro Efesto e Alekos, scoppiando poi a ridere per diretta conseguenza.

La dea fissò disgustata il figlio, prima, e lo zio, poi e infine borbottò: «Benedette maratone Marvel. La prossima volta mi darò malata.»

Achille immaginò per un momento di trovarsi catapultato in un universo parallelo, poiché non capì nulla di quello che stava accadendo. Era mai possibile che, non solo Athena lo stesse bellamente prendendo in giro per fargli nascere un po’ di sana strizza, ma stesse anche nominando dei film di caratura mondiale con proprietà fin troppo sospetta?

Inoltre, il figlio che osservava con così tanto affetto, da dove saltava fuori? Cos’era successo, dalla sua morte alla sua ultima reincarnazione?

«Mamma, perché non invitiamo qui sia lo zio che Achille? Così può aiutarmi coi compiti di Epica. Stiamo giusto studiando l’Iliade!» propose a quel punto Alekos.

Achille si sentì male al solo pensiero. Il suo nuovo silenziatore per l’auto, per cui si era sobbarcato quel viaggio, sarebbe finito nel dimenticatoio. Ma come dire di no al figlio di una dea?

Athena sbirciò nel visore, assottigliò le palpebre e domandò: «Era una visita di cortesia, la tua, o d’interesse?»

«Ehm… entrambe» ammise Achille, non comprendendo il motivo della domanda.

«Oh, giusto. Il disegno che mi hai mandato» ammise a sua volta Efesto, scoppiando a ridere. «Temo dovremo rimandare, Alekos. Devo preparare un silenziatore nuovo per l’auto da rally di Achille.»

«Ma hai una fucina anche qui!» protestò dolente il ragazzino.

«Non insistere, Alekos. Lo zio lavora più volentieri nella sua e, se è un pezzo speciale, avrà bisogno della forza della lava, per forgiarlo» replicò pacifica Athena.

«Già… è vero…» brontolò suo malgrado il ragazzino, prima di guardare spiacente Achille e aggiungere: «Scusa se ho insistito.»

Ecco, bene. E adesso chi poteva dire di no a due occhioni così dolci, gentili e contriti?

Lui non aveva esattamente un macigno, al posto del cuore e, avendo già sperimentato la vita da eroe, nella sua nuova reincarnazione aveva iniziato a testare l’altra scelta offertagli dalla madre a suo tempo.

Una vita nell’ombra, ma coronata da amore, famiglia e affetti.

Non che per il momento vi stesse riuscendo molto bene, ma aveva avuto un paio di fidanzate e non gli era dispiaciuto, come interludio. Inoltre, parte del motivo per cui si trovava lì, era proprio a causa di una donna, perciò…

Di fronte a quegli occhioni, quindi, si ritrovò a mormorare: «Beh, se Efesto può lavorare lì, allora…»

Achille non dovette dire altro. Alekos scoppiò in un ‘evviva!’ pieno di letizia e il dio del fuoco, sorridendo divertito al fratellastro, chiosò: «Ma tu non eri tutto d’un pezzo?»

«Non in questa vita. Mi sono ripromesso di provare con la seconda scelta che mamma mi fece all’epoca, e questi sono i risultati attuali» asserì sconfortato Achille.

«Beh, io posso anche lavorare a casa di Alekos, non c’è problema» disse a quel punto Efesto, dando una pacca sulle spalle ad Achille, che sospirò.

Athena, a quel punto, ghignò beffarda e disse: «Preparerò una stanza per Achille, allora. Immagino che tu voglia dormire da Artemide, visto che ti ci sei trovato così bene la prima volta. Inoltre, con Apollo nei paraggi, meglio non rischiare.»

«Avrete un ospite a testa… mi sembra corretto» dichiarò divertito Efesto.

«Ma certo. Avvertirò Érebos dell’arrivo di un ospite» disse a quel punto Athena, svanendo dall’inquadratura per allontanarsi.

Nell’udire quel nome ancestrale, Achille rabbrividì per diretta conseguenza e, osservando titubante il bambino ancora presente in linea, il semidio gorgoglio: «Ah… Érebos è tuo padre, ragazzino?»

«E’ il mio secondo papà. Il mio primo papà è morto, e ora è nell’Oltretomba, ma adesso Érebos è il nuovo compagno di mamma, e lui mi fa da padre. E’ davvero un mito» gli spiegò Alekos, tutto sorridente.

«Morto? Quindi era…» esalò sorpreso il semidio.

«Era un mortale, e si chiamava Miguel. I capelli li ho presi da lui» asserì il ragazzino, tirandosi una ciocca bruna con due dita. «Suo fratello Felipe sta con la zia Artemide, adesso.»

D’accordo, era davvero finito in un universo parallelo. Athena aveva avuto un figlio da un mortale? E Artemide aveva per fidanzato l’ex cognato di Athena?

Dandogli una pacca sulla spalla, Efesto chiosò comprensivo: «Te l’ho detto. Sono cambiate.»

«O io mi sono ubriacato con il tuo limoncino» celiò Achille, facendo scoppiare a ridere Etesto e Alekos.
 
***

Materializzarsi nel giardino di una villetta con vista sul mare, era strano anche per uno come lui, che aveva vissuto in epoche ora considerate mito, e con guerrieri ricordati come eroi da millenni.

Pur essendo un mortale, la sua anima di semidio gli concedeva qualche vantaggio – oltre a quello di ricordare ogni sua reincarnazione – e, quando Efesto gli aveva proposto di teleportarsi, non si era rifiutato.

Nel poggiare i piedi su erba fresca e profumata di rugiada, Achille si guardò quindi in giro con espressione ammirata, niente affatto disturbato da quel salto spazio-temporale durato solo un battito di ciglio.

Il giardino in cui erano giunti era ben curato, con eleganti salici piangenti a offrire ombra agli uccellini e un grazioso gazebo a traliccio dove crescevano rose rampicanti dagli svariati colori.

Poco più in là, nei pressi dello steccato in legno chiaro che delimitava la proprietà, una grande voliera disegnava un ampio semicerchio e lì, solitaria, una civetta dal manto bruno stava riposando tranquilla.

Il tutto appariva moderno e ben tenuto e nulla faceva pensare che, all’interno di quella villetta a piano terra in stile americano, potesse vivere la potente dea della guerra, cui lui aveva prestato giuramento di fedeltà secoli addietro.

Era stato davvero uno sciocco a comportarsi come aveva fatto, durante la guerra di Troia ma, a giudicare dalle parole della dea, lei pareva non avere rancori repressi verso di lui.

Ugualmente, quando la vide comparire sulla veranda in uno splendido chemisier di seta scura, si inginocchiò penitente e mormorò ossequioso: «Ti chiedo venia per il mio comportamento irresponsabile, mia signora. Fui davvero una testa calda, a gettarmi a quel modo contro Agamennone. Per non parlare di come mi comportai a Troia.»

«E’ vero…» ammise con candore Athena, poggiando una mano sui suoi riccioli castani. «… ma apprezzavo molto la tua irruenza, a suo tempo e, quando ti scelsi per appoggiarti nella guerra, sapevo a cosa andavo incontro. Intervenni perché fu giusto intervenire, tutto qui.»

«Ma non feci nulla per impedire lo scempio di donne e bambini. Pensai solo a occupare la città» replicò l’uomo, sollevando il capo a guardarla.

Lei si accigliò appena, annuì e ammise: «Sì, è vero anche questo. Ma le persone che commisero tali atti vennero degnamente punite. Tu perdesti la vita, non vedo quindi il motivo di infierire ulteriormente su di te, Achille.»

«Anche se non sono stato degno del vostro amore?» domandò dolente l’uomo, fissando la sua dea con occhi ricolmi di sincero patimento.

Athena a quel punto gli sorrise, si piegò per afferrare le sue mani e, sollevatolo da terra, gli carezzò una guancia, affermando con sincerità: «Avrei punito anche te con un ritorno in patria irto di difficoltà, esattamente come feci con Ulisse ma, se ricordi la storia, alla fine aiutai anche lui, nonostante tutto.»

Achille accennò un sorriso, ripensando a Nausicäa e al dolce intervento della dea.

Al suo assenso, Athena terminò di dire: «Perdono sempre gli errori dei miei campioni, prima o poi. E tu pagasti un pegno assai più grande di quello che avrei mai chiesto per la presa di Troia, compiuta in modo così brutale.»

«E’ confortante sentirvelo dire, mia signora» mormorò ossequioso Achille.

Lanciando uno sguardo a Efesto, che stava osservando l’intera scena con quieto interesse, Athena domandò: «Che ti aspettavi, scusa? Che gli tirassi le orecchie, o che? E’ uno dei miei bambini, dopotutto!»

Efesto scoppiò a ridere di fronte a quella frase – Achille superava di mezza testa Athena, per quanto lei fosse già una donna molto alta – e, nell’avvicinarsi alla nipote acquisita, asserì: «Lo chiami bambino, ma è grande il doppio di te. E’ buffo, ammettilo.»

«Anche quando Alekos sarà adulto, lo chiamerò il mio bambino. E Achille è un figlio prediletto, anche se un paio di volte mi ha fatto pensar male» sottolineò Athena. «Ai nostri figli adorati possiamo dare strigliate colossali, se serve. Sta a indicare quanto gli vogliamo bene.»

«Buono a sapersi, vero, Achille?» chiosò Efesto, ammiccando al fratellastro.

Sorridendo nervosamente, Achille si limitò a dire: «Vedrò di non fare ulteriori casini, in questa vita.»

Prima ancora di poter commentare qualcosa in tal senso, Athena sgranò gli occhi per la sorpresa, spostò dietro di sé Achille con una facilità che sgomentò il semidio e, levato un braccio, fece apparire il suo scudo con la Gorgone, esclamando: «Andiamo, Apollo! Vedi di contenerti!»

La freccia d’oro scagliata da Apollo dovette affrontare il potere devastante di Athena che, de facto, impedì al dardo di raggiungere il suo bersaglio, finendo con il frantumarsi contro lo scudo magico della dea.

Irritato, il dio abbassò il suo arco proprio mentre Artemide lo raggiungeva piena di rabbia e lo afferrava alla vita per trattenerlo.

«Perché quell’infame scudiero del male si trova sul suolo sacro della tua dimora?!» sbraitò Apollo, infervorandosi.

Athena sospirò esasperata, abbassò a sua volta lo scudo e borbottò: «Cielo, Apollo… modernizzati! Si parlava così nel secolo scorso!»

Achille fissò vagamente preoccupato la figura snella e affascinante del dio solare, fermo all’altro capo della staccionata e trattenuto dalla gemella che, furibonda, sembrava sul punto di malmenare il fratello.

Turbato, il semidio mormorò: «Devo andarmene, mia signora?»

«Per niente. Alekos ti ha invitato, e tu rimani» sottolineò Athena, accigliandosi. «Ne avevamo già parlato, Apollo. Soffri di vuoti di memoria, per averlo dimenticato in così breve tempo?»

«Come, ne avevate già parlato?» esalò Achille, mentre Efesto si avvicinava ad Athena per offrire un ulteriore scudo al semidio.

Volgendosi a mezzo, Athena replicò: «Beh, mi è sembrato scontato, visto che Apollo era già qui e ti avrebbe visto. Ma, a quanto pare, è un po’ sordo. Oppure soffre di vuoti di memoria.»

«Reco giustizia, Athena, perciò scostati!»

Infuriandosi, le dea della guerra si ammantò della sua armatura, fece rifulgere l’icore nel suo sangue e, dando lustro al suo nome, esclamò: «Non rechi giustizia, ma un’inutile vendetta! Cospirasti contro Patroclo fino a farlo uccidere, pur sapendo quanto Achille vi fosse affezionato, e infine guidasti la freccia di Paride perché colpisse Achille nel suo punto debole! Cos’altro vuoi, dal mio protetto?!»

Stringendo la mano sull’arco d’argento che gli era proprio, Apollo sbottò dicendo: «Tu stessa ti infuriasti per ciò che lasciarono dietro al loro passaggio, una volta cadute le mura di Troia!»

«E li punii all’epoca! Ma ora siamo ben lontani da quei tempi, e tu devi piantarla di portare rancore. Soprattutto se lo porti verso ospiti che sono in casa mia!» sbraitò Athena, falciando l’aria con la sua spada.

Achille si guardò attorno preoccupato, scrutò ansioso le ville nelle vicinanze e, rivolto a Efesto, domandò: «Ma… non c’è il rischio che li vedano?»

«Érebos ha elevato uno scudo proprio per evitare che scenate del genere divenissero pubbliche» chiosò Efesto, ammiccando simpaticamente. «Conosce i suoi polli, del resto.»

«Pollo a chi?!» sbraitarono all’unisono sia Apollo che Athena.

Un refolo di nebbia avvolse l’intera casa di Athena, escludendo di fatto Apollo e Artemide e, mentre Érebos usciva con passo tranquillo in veranda, Achille si premurò di chinare ossequioso il capo di fronte alla divinità Ctonia.

Se Athena gli incuteva un sincero timore, verso il dio dell’oscurità, Achille provava un più che motivato terrore primigenio.

«A quanto pare, ho fatto bene a erigerla» chiosò quieto il dio, poggiando le mani sui fianchi con espressione soddisfatta.

«Questo è barare, Érebos!» si lagnò Apollo, oltre il muro di nebbia.

«Ti sta salvando le chiappe da un pestaggio, idiota che non sei altro!» lo rabberciò per contro la sorella. «Davvero ti vorresti battere con Athena? Cazzo, lei è la dea della guerra!»

«Linguaggio!» declamarono in coro Efesto ed Érebos, facendo esplodere la dea silvana in un’altra maledizione.

Calando la sua spada, Athena bofonchiò: «Giuro, Apollo, che a volte dubito della tua intelligenza. Forse hai preso troppo sole, da bambino.»

«Sarò anche il dio del sole e della medicina, ma posso batterti in qualsiasi momento! Ti sei rammollita, da quando vivi tra i mortali!» la prese in giro Apollo.

Sollevando un sopracciglio con aria accigliata, le mani strette a pugno e l’icore ancora brillante nelle sue vene, Athena sibilò: «Mi sono… rammollita

Efesto guardò un tantino preoccupato la divinità Ctonia che, però, replicò con candore: «Ehi, l’hanno offesa. E’ giusto che dica la sua.»

Achille lanciò occhiate più che preoccupate a tutti finché, colto da un moto di speranza, non vide arrivare Alekos, il figlio di Athena e, forse, la loro unica fonte di salvezza da un potenziale disastro.

Il ragazzino fissò pieno di ammirazione la figura della madre, sorrise a Érebos e infine, rivolgendosi al semidio, esalò: «La mamma ti sta difendendo?»

«A quanto pare, sì, ma temo che le cose ci siano un tantino sfuggite di mano» ammise l’uomo, sperando che Alekos potesse portar pace tra i due dèi.

«Perché sei arrabbiata, mamma?»

«Lo zio Apollo pensa che mi sia rammollita, a vivere qua» ghignò la dea, poggiando temporaneamente a terra scudo e spada per legarsi i capelli fulvi in una treccia.

Alekos scoppiò in una sonora risata che non fece presagire nulla di buono ad Achille che, un attimo dopo, sentì infatti dire: «Lo zio non ti conosce bene, allora, mamma.»

«Pensi dovrei dargli una lezione?» gli domandò lei.

«Dipende. Se non lo facessi, ti prenderebbe in giro?»

«Temo di sì.»

«Allora, suonagliele» dichiarò Alekos, sgomentando non poco Achille.

«Mia signora… credete davvero che sia necessario?» domandò a quel punto il semidio.

«Le accuse di Apollo sono assurde, perciò combatteremo» dichiarò Athena, facendo scomparire con uno schiocco sia scudo che spada.

Confuso, Achille vide svanire anche la nebbia che, fino a quel momento, li aveva protetti dallo sguardo di Apollo che, finalmente libero di avvicinarsi, scavalcò la staccionata, fissò livido il semidio e sibilò: «Ti distruggerò.»

«Lo vedremo. Finora, le hai solo prese» sottolineò Athena, ghignando superba nell’afferrare il dio a un braccio perché distogliesse lo sguardo da Achille.

Il semidio fu pronto a mettersi tra i due, pur di evitare che Apollo levasse mano contro la sua dea ma Efesto, trattenendolo, mormorò divertito: «Io non mi preoccuperei, sai?»

«Ma Apollo vuole…» iniziò col dire Achille, prima di bloccarsi costernato quando sentì parlare il dio solare.

«Mi sono allenato un sacco ad Assassin’s Creed, perciò avrò la meglio, stavolta.»

Athena lo fissò con aria di sufficienza, replicando: «Hai la stratega delle strateghe per eccellenza, di fronte a te. Non vincerai mai

Ciò detto, i due dèi entrarono nella villetta a passo di carica mentre Efesto, battendo una mano sulla spalla di un costernato semidio, chiosava: «Che ti aspettavi? Fulmini e saette?»

«Davvero non lo so» gracchiò Achille, chiedendosi ancora una volta se non fosse finito in un universo parallelo.

E pensare che a lui serviva soltanto il silenziatore di uno scarico!

 
 
 
1 Nikomachos: (greco) letteralmente, significa “vittoria in battaglia”.
2: “Linguaggio!”: Battuta di Captain America in Avengers:Age of Ultron, simpaticamente utilizzata poi da Tony Stark per prendere in giro il capitano Rogers sulla sua fissazione per il linguaggio educato.


N.d.A.: facciamo la nostra conoscenza con Achille, e scopriamo che il dio è convinto che Athena sia adirata con lui per quanto successe a Troia, una volta cadute le sue porte. A sua volta, Athena è suo malgrado divertita all'idea di poter parlare con il suo campione perché, se un tempo avrebbe potuto punirlo al pari degli altri achei, i millenni passati a conoscere gli umani l'hanno cambiata, così come la maternità, e ciò la spinge a tranquillizzare il giovane semidio... e a proteggerlo dalle bizze di un irritato Apollo, che invece non ne vuole sapere di perdonare.
Che dite? Chi vincerà ad Assassin's Creed? E Achille riuscirà ad avere il suo silenziatore nuovo?

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Capitolo 20
*** Achille - 2 - ***


 
 
2
 
 
 
La musica gli piaceva e, pur se con le dovute cautele, non disdegnava neppure i brani più romantici o tragici.

Ma Apollo stava davvero esagerando, con il melodramma.

Dopotutto, aveva perso solo una stupida partita ai videogiochi.

Sei volte.

Una disfatta totale.

Okay, a ben vedere, forse qualche motivo per essere così triste e sconsolato lo aveva anche lui… ma non aveva molta voglia di arrivare a sanguinare dalle orecchie, a causa del suo lamento tragico.

Dei passi lenti portarono Achille a volgere lo sguardo dietro di sé e, nel veder giungere Athena avvoltolata in una vestaglia, ormai pronta per il riposo notturno, sorrise leggermente.

Nel corso della serata – e dopo aver gustato dei meravigliosi piatti messicani preparati dalle sapienti mani della dea – Achille si era progressivamente rilassato, cominciando a vedere con occhi nuovi la sua protettrice.

Non che la presenza di Apollo, e i suoi sguardi raggelanti, non lo avessero preoccupato, ma la pacata risolutezza di Athena lo aveva fatto sentire al sicuro, niente affatto in pericolo.

Era quasi paradossale per uno come lui che, in tante sue vite, aveva combattuto per la gloria sotto diversi nomi – pur se il suo primo nome era rimasto il più famoso – ma gli aveva fatto piacere sentirsi così.

Avendo deciso, in quella vita, di non puntare all’eroismo ma su qualcosa che mai, fino ad allora, aveva tentato prima, percepire il senso di protezione profuso dalla dea lo aveva fatto sentire al posto giusto, per una volta.

Fino a quel momento, infatti, la sua decisione di intraprendere l’altra via non aveva dato i risultati sperati e, a parte qualche breve infatuazione, nulla di buono era venuto dalla sua scelta.

Stranamente, però, ritrovarsi circondato da divinità e respirare di nuovo quell’aura di magia e incanto che, nella sua prima vita, aveva vissuto pienamente, lo aveva fatto sentire nuovamente vivo.

Che fosse quindi destinato a un solo genere di Fato? Che la madre lo avesse infine ingannato, prospettandogli due futuri possibili?

La sua vita doveva essere una continua lotta, per poi culminare con la morte in giovane età e la gloria?

«Sembri avere dei pensieri profondi, per uno che ha visto il suo dio rivale perdere smaccatamente ad Assassin’s Creed» chiosò la dea, poggiando gli avambracci sul parapetto in legno della veranda.

Tutto era silenzioso, intorno a loro, - tolto ovviamente il canto disperato di Apollo - e le fioche luci della città di San Josè si intravedevano appena, attraverso il fitto fogliame dei salici piangenti che crescevano nel giardino.

Quel luogo non rassomigliava ad Atene e al suo tempio, né a nessuno dei luoghi cari alla dea, eppure ella aveva deciso di stabilirsi proprio lì, e in nessun’altra dimora.

Lui assentì prima di storcere il naso quando il dio solare intonò una nuova strofa, ancor più decadente della precedente.

Athena gli sorrise a mezzo, commentando con una certa ironia: «So che Apollo fa venire voglia di gettarsi da una rupe, quando strimpella così…»

Ciò detto, lanciò un’occhiata al dio, appollaiato sul ramo di una pianta di sicomoro nel giardino della villa di Artemide, neanche fosse stato un uccello notturno preda di una pena d’amore.

Achille emise un risolino e la dea, proseguendo, aggiunse: «… ma non è davvero il caso di rimanere qui fuori da soli, ad arrovellarsi il cervello su mille pensieri. In casa ci sono un sacco di persone che sanno ascoltare, sai?»

«Posso chiedervi perché vi siete stabilita proprio qui, mia signora?» domandò ossequioso Achille, scrutando meditabondo la voliera dove riposava Pallade, la civetta della dea.

La piccola creatura era appollaiata sul suo trespolo e teneva la testolina sotto un’ala, ma Achille non era del tutto certo che stesse dormendo. Sembrava che l’uccello percepisse la vicinanza della divinità a lei cara, o così almeno era parso ad Achille, in quelle ore passate in compagnia della dea della guerra.

Era più che convinto che, se Athena fosse stata in qualche modo in pericolo, la piccola Pallade si sarebbe involata verso la padrona pur di proteggerla. A costo della vita.

«In questa città abita la famiglia del mio defunto marito, e mi spiacerebbe davvero allontanarmi da loro, visto il legame che si è sviluppato con Alekos. Inoltre, questo posto mi piace e ci si vive bene» si limitò a dire lei, scrollando le spalle.

«Quindi, siete qui perché siete legata a questo luogo dall’amore» sottolineò il semidio, vedendola annuire.

«La famiglia Rodriguez vuole molto bene sia a me che ad Alekos ed Érebos, e noi ne vogliamo a loro. Ci hanno adottati, per così dire, e hanno adottato Artemide, in un certo qual modo» gli spiegò Athena, addolcendo il suo sguardo nell’osservare la villetta dove abitava la dea silvana. «Loro ci hanno offerto il cuore, e noi li abbiamo ricambiati. E’ una bella sensazione.»

«Una bella sensazione…» mormorò meditabondo Achille, annuendo.

«Ti chiedi se anche tu potrai vivere qualcosa di simile? Se non ho capito male, hai scelto di tentare, stavolta» sottolineò la dea, incuriosita dalle sue domande.

«Mi sembra di brancolare nel buio, e di fare tutto nel modo sbagliato. Non ho ottenuto granché, da questa mia seconda scelta, finora, e mi domando se in fondo il mio destino sia solo uno. Quello di combattere per la gloria e l’onore, e perire nel farlo» ammise il semidio, sospirando melanconico.

Athena si accigliò leggermente, a quelle parole, fissò astiosa Apollo e borbottò: «Questa nenia strappalacrime deve finire… fa venire pensieri tragici.»

Ciò detto, scese dalla veranda in un fruscio di seta, raggiunse la staccionata e, sotto gli occhi sgomenti di Achille, scavalcò senza troppi complimenti, mettendo in mostra un abbondante stacco di coscia. Questo sottintendeva la presenza di un babydoll o di qualcosa di altrettanto discinto, sotto quella vestaglia color notte, e Achille cercò di non pensare ai sottintesi di un simile abbigliamento.

Non voleva pensare alla sua dea tra le braccia di un’altra divinità, impegnati a fare cose di livello carnale piuttosto basico e… umano, per così dire.

Era qualcosa che mal si sposava con il suo concetto di divinità, anche se aveva ben visto quanto, il loro comportamento, fosse ben lungi da quello che lui aveva sempre pensato.

La musica di Apollo, nel frattempo, si arrestò, il dio discese dalla pianta con un balzo e, rivolgendosi ad Athena in tono stanco, borbottò: «Non posso neppure suonare, ora?»

La dea, però, non lo rimbrottò e, stretto il dio in un abbraccio, disse per contro: «Non è bello sentirti così triste, Febo. Rendi onore al tuo nome e risplendi… non lasciarti catturare dall’angoscia. Dopotutto, era solo una partita ai videogiochi.»

Apollo si lasciò andare al suo abbraccio per qualche secondo, fece scomparire la cetra con uno schiocco di dita e replicò: «Sai che non amo perdere… e il suo volto mi ricorda ogni giorno ciò che non ho saputo fare per le persone che avevo giurato di proteggere.»

«Vi sono state altre battaglie, e altre persone che hanno cercato in te una guida… perché, quindi, avercela a morte solo con Achille?» domandò a quel punto Athena, scostandosi dal dio per fissarlo negli occhi cerulei e bellissimi.

Apollo allora accennò un sorriso tristissimo, sfiorò il viso della dea con una carezza e ammise: «E’ difficile accettare che tu, mia sorella, difenda colui che ha ucciso mio figlio.»

Athena sospirò sommessamente, gli baciò la fronte con tenerezza e replicò: «E’ stata la guerra, non Achille, a uccidere Troilo. Tu facesti uccidere Patroclo, ricordi? Credo che per Achille il dolore fu altrettanto cocente. Mantenere le faide aperte per motivi del genere, non ha senso. Ognuno di voi perse tantissimo, in quella guerra. Io stessa ne rimasi ferita. Per questo, il modo migliore di vincere una guerra, è non iniziarla

«Parole di pace da una dea guerriera?» ironizzò suo malgrado Apollo, scostandosi da Athena per poggiarsi al sicomoro, sospirare e reclinare mesto il capo.

«Ricorda che, innanzitutto, io mi premuro di attuare una tattica di battaglia che comporti le minori perdite possibili e, se posso evitare lo scontro diretto, lo faccio. E’ Ares l’aizzatore, non certo io» asserì la dea, sfiorandogli la spalla con una mano.

«Quindi… dovrei perdonare e andare avanti?»

«Achille sta tentando di cambiare il suo destino. Tu che sei un dio, vorresti essere dunque da meno?» ironizzò a quel punto Athena, vedendolo raddrizzarsi fieramente e fissarla con occhi rilucenti.

«Non sfidarmi ancora, Athena… potresti non vincere, stavolta.»

Levando un sopracciglio con ironia, la dea replicò con candore: «Sei stato tu a sfidarmi, prima…»

«Quisquiglie» la liquidò lui con un gesto. «Lo perdonerò per onorare te e tuo figlio, che siete un inno al cambiamento, ma non diventerò mai suo amico. Questo, scordatelo.»

«Neppure lo pretendevo» sottolineò la dea. «Quindi, posso andare a dormire tranquilla, senza dover pensare a te che escogiti dei piani per ucciderlo?»

A quel punto, Apollo sorrise malizioso, le aprì la vestaglia con dita delicate e, ammirandone il completino intimo, asserì: «Dormire? Chi vuoi prendere in giro, adelfi

Athena storse il naso, richiuse la vestaglia con un gesto secco delle mani e bofonchiò: «Alla fine dormirò… mai detto di volerlo fare subito

Ciò detto, si volse per tornarsene a casa propria, seguita dalla risatina di scherno di Apollo.

Incurante, la dea scavalcò come aveva fatto all’andata ma, nel vedere Achille squadrarla come se avesse avuto due teste e una coda, sospirò esasperata e brontolò: «Abituati, ragazzo. Ho due gambe anch’io.»

«N-non lo metto in dubbio, mia signora» balbettò l’uomo, reclinando pudico il capo.

Accigliandosi un poco, Athena si fermò accanto a lui, gli risollevò il volto poggiando un dito sotto il suo mento e borbottò: «Non ho ben capito… abbandonando le lotte, sei diventato un bacchettone?»

Avvampando come un cerino, Achille scosse decisamente il capo e ammise: «Decisamente no, mia dea… ma voi siete… beh, ecco…»

Cominciando a comprendere, la divinità si aprì in un sorrisino divertito e celiò: «Oh, capisco qual è il problema. Mi hai sempre idolatrata, pensandomi intoccabile, giusto? Ero anch’io considerata una dea vergine, al pari della mia sorellina Arty. Ma ora scopri che non lo siamo. Ti abbiamo deluso, Achille?»

«Non potreste mai!» si affrettò a dire il semidio.

Grattandosi il mento con fare pensieroso, Athena allora domandò: «Se non è quello, qual è il problema, allora?»

«Non c’è nessun problema, mia signora» sottolineò Achille, cercando con tutte le sue forze di non lasciar cadere lo sguardo sull’ampia scollatura del négligé che la dea indossava, messo in evidenza dalla vestaglia aperta.

Levando un sopracciglio con evidente ilarità, Athena scoppiò in una risatina trillante, si sistemò meglio la vestaglia e mormorò suadente: «Ora ho capito… devo essere più stanca di quanto non credessi, se ci ho messo tanto a comprendere. Credimi, è un complimento, per me. Spero, però, che non sarai dispiaciuto, se le mie attenzioni andranno solo a Érebos.»

Achille avrebbe voluto scavarsi la fossa proprio in quel punto ma, ovviamente, non poté né allontanarsi per iniziare a prepararsi la tomba, né spararsi per accelerare le cose, quindi si limitò a bofonchiare: «Non mi permetterei mai di pensarvi in quel modo…»

Athena rise di nuovo, gli batté una mano sulla spalla e chiosò: «Tranquillizzati, mio protetto. So che sei un uomo rispettoso, quando vuoi. Ma ora è il caso se entrambi andiamo a riposare. Domani, dobbiamo assistere alle opere magistrali di mio zio.»

«Sì, certo, mia signora» assentì lui, cercando di non pensare a cosa avrebbe voluto dire, per Athena, andare a riposare.

Lei, però, si volse per scrutarlo da sopra una spalla, gli sorrise carica di dolcezza e mormorò: «Sono più che certa che queste dinamiche diverranno pura routine anche per te, Achille. Lasciatelo dire dalla tua dea.»

Abbozzando un sorriso, lui assentì e, senza più dire nulla, si andò a chiudere all’interno della stanza a lui concessa, dove si sdraiò sul comodo letto e pensò a colei che, più di tutte, avrebbe voluto nella sua fantasiosa routine quotidiana.

Ma, prima di qualsiasi cosa, doveva ottenere quel benedetto silenziatore, o non avrebbe neanche potuto avvicinarsi alla routine da lui tanto bramata.
 
***

Il battere ritmico del martello sull’incudine aveva qualcosa di ipnotico e seducente, ma Achille era davvero troppo distratto dalla fucina di Efesto per poter cogliere appieno la magia della sua opera.

Contrariamente a quanto aveva immaginato in un primo momento, Efesto non aveva una fucina a casa delle nipoti acquisite… non propriamente, per lo meno.

Il luogo in cui si trovavano in quel momento, e in cui Efesto stava lavorando finemente il metallo per creare un silenziatore eccezionale per la sua Subaru Impreza, si trovava sotto le loro case.

Molto al di sotto delle loro case.

Da quel poco che Alekos gli aveva spiegato, prendendolo per mano per discendere la scala a chiocciola che conduceva in quei meandri oscuri, la fucina si trovava a circa due miglia sotto i livello del mare, nei pressi di una sacca magmatica.

Con il suo fiuto per tutto ciò che era fuoco e furia, il dio della metallurgia non aveva faticato molto a scovarla e, complici la magia di Érebos e la mera forza bruta di Ares, la fucina era infine stata approntata.

«Lo zio dice che non c’è niente di meglio che il fuoco della terra, per creare le sue opere» mormorò Alekos, gli occhi fissi sul dio della metallurgia e la mano ancora stretta a quella di Achille.

Fin da quando si erano conosciuti, Achille aveva notato nel giovane una forte propensione al riso, oltre a un’indubbia intelligenza e a una gentilezza davvero trascinante. Non si poteva non rimanere affascinati da Alekos, e la sensazione di essere disposti a tutto, pur di renderlo felice, accresceva a ogni attimo passato assieme a lui.

Che fosse il fascino di un ragazzino educato, o una qualche strana peculiarità nata dall’essere un semidio, Achille non lo sapeva, ma era intrigato dalla sua compagnia.

«Vedendo quello che è in grado di fare, non stento a crederlo» assentì il semidio, chiedendosi perché Athena e il dio Ctonio non li avessero seguiti dabbasso.

Come comprendendo i suoi dubbi, Alekos disse: «Oggi arrivano i nonni da Santa Fe. Inoltre, nel pomeriggio, tornerà Felipe da un seminario in Ontario, perciò ci sarà festa grande, stasera, e la mamma e la zia volevano che tutto fosse pronto per il loro ritorno.»

Suo malgrado, Achille sorrise e chiosò: «E’ davvero strano pensare a tua madre come a una donna di casa. Io l’ho sempre vista come una dea inarrivabile e da temere, da amare con rispetto e cuore puro, ma vedo che è assai diversa da come me l’ero prefigurata. Molto meno… fredda e distante.»
Alekos sorrise divertito, e ammise: «Ai colloqui con i genitori, mamma fa cadere la mascella a tanti papà.»

Achille allora rise, ammettendo tra sé che anche lui aveva rischiato di perdere la propria, la sera precedente, alla vista di tanta bellezza esibita senza remore.

«Mamma è bellissima, ma anche quando Érebos viene a scuola a prendermi, succede la stessa cosa. Con le mamme, però» sghignazzò Alekos.

«E il tuo papà?»

I tratti di Alekos si addolcirono, nel sentire nominare Miguel e, scrollando le spalle, disse: «Mi posso basare solo sulle foto e sui racconti di mamma, dei nonni e dello zio, ma penso che fosse un bell’uomo. Più di tutto, però, amava la mamma, e la mamma amava lui. Ha faticato molto a venirne fuori e io, nel frattempo, sono stato cresciuto da Ade e Persefone, nell’Oltretomba.»

Achille strabuzzò gli occhi, di fronte a quell’affermazione e, fissando senza parole il ragazzino, domandò confuso: «Se eri nell’Oltretomba, come puoi essere qui, ora? Sei rinato?»

Efesto si tolse la maschera da saldatore proprio in quel momento, afferrò il silenziatore per gettarlo nell’acqua fredda – producendo così roventi spire di fumo – e, rivolto al fratello putativo, dichiarò: «Alekos è unico nel suo genere. Pur essendo un semidio, vivrà quanto sua madre, grazie al legame tra anime che Thanatos ha tenuto legato per loro.»

Strabiliato, Achille esalò: «Neppure sapevo si potesse… o che il dio della morte fosse così generoso d’animo da…»

Alekos sorrise divertito, ammiccò furbescamente e Achille, accigliandosi leggermente, borbottò: «Aspetta un po’… Thanatos è figlio di Érebos, quindi…»

Il ragazzo assentì, mormorando: «Salvò il nostro legame quando io morii nel ventre della mamma, così da permettermi di crescere nonostante fossi nell’Oltretomba. E’ più complicato di come te lo sto spiegando ma, in pratica, ha mantenuto un cordone ombelicale di livello psichico, così che noi fossimo sempre legati. Questo ha permesso alla mamma di non perdermi. Nel frattempo, Érebos studiò il modo per portarmi fuori dal regno di zio Ade grazie al sentiero di Orfeo.»

Achille rabbrividì al solo sentir nominare quel nome – conoscendo di fama quel passaggio tutt’altro che agevole – e lanciò uno sguardo verso l’alto, quasi potesse scorgere la figura del dio Ctonio impegnato ad aiutare la sua compagna.

Sospirando, quindi, disse: «Se non è amore questo…»

Efesto riprese a martellare e, scoppiando a ridere, esclamò, indicando il silenziatore: «Già! Se non è amore questo?»

«Vuoi bene alla tua macchina, Achille?» domandò un po’ ingenuamente Alekos, mentre il semidio tentava di non arrossire di fronte alla subdola affermazione del dio del fuoco.

«Qualcosa del genere…» bofonchiò lui, grattandosi la nuca per il gran fastidio. Detestava essere messo alle strette, ma dubitava fortemente che Efesto si sarebbe tirato indietro dal porgli mille domande, indipendentemente dalla presenza o meno di Alekos.

Non a caso, l’attimo seguente, Efesto domandò: «Perché non ci parli un po’ del tuo navigatore, Achille? Dopotutto, usufruirà anche lui del mio lavoro, visto che l’auto sarà sicuramente più performante.»

Alekos lo fissò pieno di speranza e Achille, nel fissare la schiena ricurva di Efesto, desiderò riavere la sua spada per poterlo fronteggiare. Da cosa l’aveva capito?!
 
***

«Una… donna?» esalò Athena, distendendo una tovaglia sul tavolo da giardino, mentre Artemide sistemava le ultime birre nei cestelli del ghiaccio che aveva posizionato vicino alle sedie a sdraio.

Quando la famiglia Rodriguez si riuniva, lo faceva sempre in gran numero e le birre scorrevano a fiumi, perciò non era il caso di rimanere senza, o di essere disorganizzati in merito.

Annuendo con fare saputo, Érebos ripiegò tra le mani uno strofinaccio e dichiarò: «Se fossi appassionata di rally, lo sapresti, tesoro.»

Athena levò un sopracciglio con aria ironica, replicando: «Non potrei mai raggiungere il tuo livello di competenza, visto quanto tempo passi a guardare le gare. A quanti canali streaming sei arrivato, per curiosità? Otto? Dieci?»

«Sei il mio unico amore, agape, ma le auto mi piacciono molto» sottolineò Érebos, soprassedendo sulla domanda e facendo scoppiare a ridere Artemide, mentre Athena scuoteva il capo esasperata.

«Non c’è niente da fare, sorella. Che siano mortali o immortali, mettili davanti a un pistone e quattro ruote, e non capiranno più niente.»

«Da cosa derivi questo fatto, devo ancora capirlo… e dire che ho vissuto un bel po’, ma ancora rimane un mistero, per me» celiò Athena, carezzando in viso la divinità Ctonia mentre quest’ultima, scrollando le spalle con un sorrisino, rientrava in casa per recuperare gli stuzzichini.

Rimaste sole, Athena lanciò un’occhiata alla sorella e, poggiandosi contro il tavolo da giardino, le domandò senza mezzi termini: «Lui lo sa?»

Artemide si bloccò per un istante, si sfiorò il ventre e, dopo un attimo, scosse il capo e disse: «Non ancora. E’ una cosa fresca. L’ho scoperto solo qualche giorno fa. Ma tu come…»

«Eri diversa dal solito. Stranamente attenta a quel che facevi» ammise Athena, notando l’aria accigliata di Artemide. «Se fosse stato tutto come al solito, avresti malmenato Apollo per avermi lanciato una freccia, la sera precedente, ma non hai fatto nulla di tutto ciò. Ti sei limitata a trattenerlo, stando ben attenta a come lui si muoveva. Niente affatto tu, per l’appunto.»

«Dio! Sei peggio di quell’investigatore inglese!» gracchiò Artemide, passandosi una mano tra la zazzera di capelli ramati.

«Holmes? Qualcosa del genere» ammise con ironia Athena, prima di sorriderle e aggiungere: «E’ per questo che Apollo è qui? Glielo hai detto?»

Sbuffando, Arty annuì suo malgrado e bofonchiò: «Gli ho chiesto se avrebbe voluto essere il padrino e, non solo lui ha accettato, ma ha promesso di parlare con le Muse per mettere una buona parola.»

Sorridendo divertita, Athena asserì: «Desidera che il nipote – o la nipote – diventi un’artista?»

«A me basta che sia sana» scrollò le spalle lei.

Levando un sopracciglio, la dea ateniese domandò: «Hai già controllato?»

«E’ più semplice di così. Posso mettere al mondo solo femmine» ammiccò Artemide, sorprendendo un poco la sorella.

«Oh… ma dai…»

«Lo chiesi a Demetra, durante il mio primo parto. Scioccamente, non desideravo partorire un maschio perché pensavo – da brava idiota – di fare un torto ai miei stessi precetti femministi…» fece la lingua Artemide, ammettendo con candore i suoi pregiudizi. «… ma lei mi disse che, anche volendo, non avrei mai potuto partorire un maschio. Il mio patrimonio genetico è così forte che, anche se avessi avuto un figlio da un dio, sarebbe comunque risultato predominante il mio background

Athena la fissò senza parole, esalando: «Non so se è più scioccante sentirti dire che Demetra parlava di patrimonio genetico, o del fatto che puoi avere solo figlie femmine.»

Scrollando le spalle, Artemide replicò: «Da quando si è messa a collaborare con l’OMS, usa un sacco di paroloni. Comunque, mi fu d’aiuto allora con le figlie di Endimione, e penso di chiamarla ora per la cucciola di Felipe.»

Athena le sorrise spontaneamente. Al solo nominare il suo compagno umano, Artemide si era aperta in un sorriso pieno di aspettativa e gioia.

Certo, sapeva che niente avrebbe potuto fermare la mano di Atropo, un domani, ma era giusto che Artemide condividesse tutto con Felipe, anche la gioia della maternità, visto quanto si amavano.

Era passato ormai più di un anno da quando si erano conosciuti e, in quel tempo, la loro conoscenza era maturata fino a sfociare nell’amore.

Athena li aveva osservati con attenzione, avendo cura di non dire nulla ma cercando in entrambi i semi potenziali del disastro. Non avrebbe voluto per nessuno dei due una separazione cruenta e dolorosa.

Non avendo però trovato nulla che potesse portare a un finale drammatico, si era perciò beata la vista del manifestarsi e del crescere del loro amore, tenendo per sé paure e dubbi.

Ora, con una nuova vita in arrivo, Athena non poté che abbracciare la sorella e dire: «Sarò la sua paladina, se mai servirà.»

«Grazie, sorella» mormorò Artemide, tenendola stretta per un istante prima di sollevare il viso dalle spalla di Athena non appena vide una nube dorata formarsi sopra le loro teste.

Scostandosi da Artemide, Athena scrutò a sua volta la nube e, quando vide comparire Apollo in grande spolvero, con tanto di tuba e bastone, sbatté le palpebre e balbettò: «M-ma come t-ti sei vestito, scusa?»

Guardandosi accigliato, Apollo brontolò: «Non hai detto che era una festa?»

«In giardino. Una festa in giardino, fratello. Con birra, carne alla griglia e purea di patate. Non un vernissage con tanto di serata all’Opera» mugugnò esasperata Artemide, passandosi una mano sul volto.

«Oh. Temo di aver male interpretato» gracchiò il dio solare, schioccando le dita per far svanire gli abiti, rimanendo così in tenuta adamitica.

«Ohsignoresantocielo, Apollo!» sbraitò la divinità ateniese, facendo tanto d’occhi mentre il dio se ne andava in casa di Athena per discorrere con Érebos. «Almeno indossa qualcosa!»

«E sbagliare di nuovo? Lo odierei a morte, e sapete bene quanto io sia permaloso. Chiederò a Érebos, prima di fare una scelta, e solo dopo mi coprirò» replicò Apollo, salutandole candidamente mentre entrava in casa attraverso la veranda.

Athena e Artemide fissarono sbigottite il suo perfetto lato B prima di borbottare contrariate: «Perché non abbiamo dei fratelli normali? Perché





N.d.A.: cominciamo a subodorare qualcosa, riguardo alla richiesta pressante di Achille di avere un silenziatore nuovo per la sua auto da rally. Che sia un caso alla "cherchez la femme?" Nel frattempo, scopriamo che Artemide e Felipe aspettano una bambina, ma che il papà ancora non sa nulla? Come la prenderà, Felipe?
Piccola nota a margine: la battuta di Artemide su uomini e motori può anche essere girata alle donne, ovviamente. La sottoscritta, per esempio, è super appassionata di gare di moto, ma ho usato questo "modo di vedere" solo per fare dell'ironia spicciola.

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Capitolo 21
*** Achille - 3 - ***


3.
 
 
 
 
«… e così, l’hai convinta a diventare il tuo navigatore?» domandò a un certo punto Alekos, gli occhi brillanti e pieni di curiosità.

Come? Come diavolo era finito a raccontare la storia della sua ultima vita a quel ragazzino di tredici anni, che come una spugna raccoglieva tutto ciò che diceva senza mai mettere un freno alla sua curiosità?

E come diavolo era finito a confidare i suoi più grandi dubbi a Efesto, in merito alla possibilità o meno di conquistare colei che aveva saputo mandare al tappeto il suo cuore?

Da quando in qua trovava sensato chiedere a Efesto dei consigli d’amore? A rigor di logica, avrebbe dovuto chiedere consiglio ad Afrodite.

Visto che comunque, in quegli ultimi due giorni, il mondo sembrava essersi capovolto, il dio della metallurgia poteva anche essere diventato come Eros… chissà?

Sospirando, Achille assentì alla domanda di Alekos e dichiarò: «Tolti i motivi puramente sentimentali, Alessandra è davvero una navigatrice coi fiocchi, e i risultati in gara lo hanno dimostrato. L’idea del silenziatore nuovo mi è venuta assieme a uno dei meccanici. Non riuscivamo a essere del tutto performanti, pur avendo ottenuto un buon numero di vittorie, e sapevamo che il problema veniva da lì così, mentre ne parlavo con il mio amico Memnone, è saltato fuori il nome di Efesto, e allora…»

«Allora, hai pensato bene di chiedere a me. Tra l’altro, sono uno dei fornitori ufficiali per le categorie rally e prototipi» dichiarò a quel punto Efesto, sorridendo ghignante.

«Già… è stata una sorpresa sapere che avevi comprato le quote azionarie di una ditta di scarichi d’auto, ma Memnone me lo aveva confermato, e così…» ammise Achille, sorridendogli divertito.

«Ho molteplici interessi, se è per questo. Ho le mani in pasta anche in ditte che costruiscono pezzi di ricambio per barche e aerei, e partecipo anche a una commessa per conto dell’ESA» sottolineò Efesto, divertito. «Ho messo i miei capitali in mano a gente capace, e i risultati mi hanno dato ragione.»

«Puoi dirlo. I nuovi scarichi della tua ditta vanno a ruba» assentì Achille.

«Il tuo sarà speciale, non temere. Molto superiore agli altri, anche se all’apparenza sembrerà uguale» ammiccò il dio.

«Non sarà come barare, zio?» domandò a quel punto Alekos, un po’ preoccupato.

«Si tratterebbe dell’ultima gara, e il nostro Achille è già in testa alla sua categoria, perciò non ruberebbe nulla. Ma servirebbe ad assicurargli la vittoria perché la tappa in cui gareggerà è cara alla sua Alessandra» gli spiegò Efesto, battendogli una mano sulla spalla.

«Uhm… una bugia a fin di bene, quindi» assentì dopo un attimo Alekos.

«Qualcosa del genere» annuì il semidio, controllando l’ora sul suo orologio digitale. «Mmmh, direi che dobbiamo rientrare, se non vogliamo arrivare tardi.»

«Chissà se lo zio è già arrivato? Voglio sapere tutto del suo viaggio» dichiarò eccitato Alekos, afferrando la mano di Achille per trascinarlo verso la scala a chiocciola.

Achille, allora, scrutò Efesto e, dopo uno sguardo senza parole, il dio annuì e disse: «Sì, è l’effetto che fa a tutti. Persino Ade, quando stava con lui, sembrava rintronato dalla gioia.»

Alekos rise di quel commento e iniziò la risalita verso casa, mentre Achille prendeva atto della cosa ed Efesto li seguiva tutto divertito, tenendo in mano il silenziatore ormai pronto.

Quando infine raggiunsero il giardino di Artemide – Achille sospettava vi fosse di mezzo la magia di Érebos, o non avrebbe saputo spiegarsi il breve tempo impiegato per percorrere due miglia di distanza in verticale – Achille non poté che sorprendersi.

Nel vicino giardino di Athena, le persone presenti sembravano essere almeno una quarantina, e chiacchieravano tutte amabilmente e con gran diletto.

Un buon profumino di carne alla griglia si levava dal barbecue, controllato dal dio Ctonio e da una donna piccola e bruna che Achille non conosceva, mentre birra e vino rosso venivano passati di mano in mano.

Nei pressi della piscina, un tavolino più basso e colorato era stato allestito per i membri più giovani del gruppo e Alekos, nel vedere le cugine e i cugini, sorrise pieno di gioia.

«La mia famiglia umana» dichiarò tutto sorridente Alekos, attirando verso lo steccato un divertito Achille.

«Davvero numerosa e allegra» dichiarò il semidio, ripensando alla sua vita tranquilla in compagnia di mamma e dei nonni. Non avendo avuto la fortuna di avere degli zii, la sua era sempre stata una vita in famiglia assai pacifica e composta da poche persone. Pochi ma buoni, aveva sempre detto.

Di fronte a quel concentrato di colore, vivacità e affiatamento, rimase perciò strabiliato, ma anche piacevolmente lieto di essere stato annoverato tra gli invitati.

Aprendo il cancelletto che si trovava a metà dello steccato – e collegava le due proprietà –, Alekos assentì e disse: «Assomiglia un po’ ai pic-nic che facevo nei Campi Elisi… ma con la birra. La musica, invece, è più o meno uguale, perché Tisifone e le altre Erinni suonavano tecno e rock per noi.»

Achille scoppiò a ridere di fronte a quell’esempio davvero incredibile quanto inverosimile. Quel ragazzino aveva vissuto una vita davvero unica, in quei brevi anni.

Ancora sorridente, si vide avvicinare da una donnina bruna tutta sorridente e, nel vedere la reazione di Alekos, immaginò trattarsi della nonna.

Anita Rodriguez abbracciò il nipote con un gran bacio con lo schiocco su una guancia prima di sorridere ad Achille, allungare entrambe le mani verso di lui e dire: «Oh, caro! Finalmente sei arrivato! Athena ci ha detto che ti avremmo avuto come ospite! E’ davvero un onore!»

Ciò detto, strinse le mani di Achille e sorrise tutta pimpante, lasciando il semidio assai frastornato. Era più che certo che tanta energia sarebbe piaciuta un sacco a sua madre. Lei adorava le persone così spigliate e solari.

Subito dopo, una possente pacca sulla spalla giunse a sorpresa, lasciando quasi senza fiato Achille che, nel volgersi a mezzo, si ritrovò a fissare un volto abbronzato e sormontato da capelli sale e pepe.

«Ehi, ecco il nostro Pelide Achille! Ma ti chiami ancora così, ora come ora?!»

«Caro, insomma! Ti pare il modo di trattare un ospite?» brontolò Anita, fissando malamente quello che risultò essere il marito.

Carlos Rodriguez bofonchiò una risposta tra i denti e Achille, sorridendo divertito, esalò: «Ah… stesso nome, cognome del mio attuale padre, che è greco, ed è Nikomachos.»

«Molto bene, Achille Nikomachos… vieni tra noi uomini a raccontarci qualche aneddoto succoso. Anche perché, se rimani qui, mia moglie ti strapazzerà di coccole fino a farti venire il diabete, perciò è meglio se defili alla svelta» ironizzò l’uomo, avvolgendo con un braccio le spalle del semidio per poi condurlo verso il gruppo di uomini riuniti vicino alla voliera, tutti intenti a fare i complimenti alla piccola Pallade.

«Carlos Antonio Rodriguez! Questa me la pagherai!» sbottò Anita, prendendo sottobraccio il nipotino per poi andare nella direzione opposta.

«Sì, sì, cara…» ciangottò Carlos, facendo l’occhiolino ad Achille per poi aggiungere: «…adoro battibeccare con lei, perché poi è più divertente fare pace.»

Il semidio si ritrovò a ridere di gusto con l’uomo e, senza neanche accorgersene, una birra comparve tra le sue mani e molte pacche vennero date sulle sue spalle a mo’ di saluto.

Con l’ennesimo vassoio di stuzzichini prelevato dalla cucina, Athena osservò la scena dalla veranda e non poté che trovare il tutto esilarante.

Carlos sapeva mettere a suo agio davvero tutti, ed era più che certa che avrebbe potuto strappare un sorriso anche alla permalosa e litigiosa Eris.

Rivolgendosi comunque a Felipe, che l’aveva aiutata a portare altre libagioni, disse: «Mi fido abbastanza di tuo padre, ma non vorrei che lo mettessero in imbarazzo con domande troppo personali. Ci pensi tu?»

«Salverò io il tuo protetto, non temere» ammiccò Felipe, rubandole una tartina prima di raggiungere il gruppo di uomini composto da cugini, zii e nipoti della sua immensa famiglia.

Artemide, poco distante dalla sorella, mormorò: «Sembra averla presa bene. Non è svenuto o che…»

Felipe era venuto a conoscenza di ogni cosa non appena aveva fatto ritorno dal suo viaggio. Artemide aveva sì e no lasciato il tempo al suo amato di scendere dal pick-up dopodiché, balzellando verso di lui al pari di una bambina, lo aveva abbracciato con trasporto.

Pur felice per l’accoglienza, Felipe aveva subito compreso che qualcosa di strano stava bollendo in pentola, perciò aveva squadrato curioso il viso radioso – in tutti i sensi – della sua amata e aveva chiesto spiegazioni.

Artemide, però, aveva preferito nicchiare per condurlo in casa e, complice Apollo e il suo accompagnamento con la cetra, l’ingresso di Felipe era stato salutato da un coro composto dalle Muse in grande spolvero.

Frastornato da quell’accoglienza tutt’altro che prevista, Felipe si era visto stringere con calore le mani dalle Muse, che si erano poi congratulate con lui per il lieto evento.

A quel punto, Felipe aveva squadrato da sopra una spalla una raggiante Artemide e, confuso, aveva domandato: «Ma… quale lieto evento?»

Artemide, allora, lo aveva fissato sconcertata, aveva indicato le Muse, il fratello e aveva infine detto: «Beh, ma mi pare ovvio! Per cosa avrei fatto scomodare l’intero gruppo delle Muse, oltre al mio musicista preferito, se non per una futura nascita?!»

Felipe aveva sgranato gli occhi per un istante, si era ritrovato a sorridere un po’ stupidamente e infine, passandosi una mano sul viso, aveva celiato: «Amore, di solito, prima si parla al padre e poi alla famiglia, che in seguito – sempre di solito – fa le congratulazioni.»

«Ah» gracchiò Artemide, ora assai spiacente per aver commesso un passo falso.

Felipe, però, l’aveva abbracciata con calore e, dopo averle dato un tenero bacio, le aveva detto: «Va tutto bene. Mi è piaciuta la sorpresa, e mi piace l’idea di diventare papà. Hai fatto tutto benissimo.»

Artemide era perciò tornata a sorridere e le Muse, una a una, avevano abbracciato entrambi per terminare quella stramba cerimonia di benvenuto per la bambina in arrivo.

«Ti ama. Quindi, tutto diventa facile» si limitò a dire Athena prima di scoppiare a ridere nel veder ricomparire Apollo dalla villetta. «Finalmente hai scelto!»

Apollo assentì, rassettandosi la maglietta dall’improbabile scritta ‘dio c’è, e si vede!’, e dichiarò: «Devo dire che questo abbigliamento è più in tono con la serata. Ma il cavallo è un po’ stretto, e mi friziona…»

Artemide sollevò una mano per bloccarlo – alcune bambine stavano osservando rapite il dio solare – e, accigliata, dichiarò: «Linguaggio, per favore. Ci sono delle minorenni.»

Apollo allora mimò di cucirsi le labbra e, sorridendo affascinante alle nipoti di Ortis e Julieta, allungò loro le mani e disse: «Lasciate che canti per voi, fanciulle.»

Le bambine strillarono eccitate – avevano già avuto modo di sentire la splendida voce di Febo Apollo, e perciò erano liete di poter replicare – e, come uno stuolo di farfalline su un unico fiore, lo seguirono in un angolo del giardino per udire il suo canto.

Artemide scosse il capo con finta esasperazione, sogghignò e, rivolta alla sorella, disse: «Diciamo di Ares, ma anche lui non scherza. E’ come un bambino piccolo.»

«Che vuoi farci?» scrollò le spalle Athena, lanciando un’occhiata a Érebos e Julieta, impegnati a sistemare gli spiedini pronti su un vassoio di acciaio. «Direi che ci siamo…»

«Bene! Ho una fame da lupi!» dichiarò Artemide, massaggiandosi soddisfatta le mani, negli occhi un lampo di desiderio ben evidente.

Athena sorrise sorniona, la lasciò andare e infine chiosò: «Direi che c’è anche qualche bambina piccola, qui nei paraggi…»
 
***

Zio Ortis stava esibendosi nella peggiore interpretazione di sempre di Hound Dog di Elvis Prestley, complice una buona quantità di birra bevuta e tanta, tanta faccia tosta.

Il pubblico, però, pareva apprezzare quello starnazzare in una lingua che solo vagamente rassomigliava all’inglese, e che era per lo più qualcosa di simile al messicano, mescolato a qualche dialetto californiano.

Persino Apollo non aveva nulla da ridire, di solito così permaloso, ma era probabile che questo dipendesse dalla pancia piena e dalla leggera sbornia che si era concesso per quella serata in famiglia.

Seduto su una delle sdraio mentre sbocconcellava un tramezzino, Achille sembrava invece del tutto sobrio e Athena, colta da curiosità e un pizzico di apprensione, lo avvicinò per comprendere se vi fossero dei problemi.

Le era parso che, durante la festa, il suo ospite e protetto si fosse divertito ma, in quel momento, il suo sguardo pensieroso la metteva un po’ in ansia.

Intrecciate le gambe per sedersi sul prato, la dea lo sbirciò in viso con espressione interrogativa e domandò: «Va tutto bene? Ti ho visto un po’ perso, a un certo punto.»

Sorridendole, Achille scosse il capo e replicò: «Sto benissimo, grazie. Capisco perché amiate queste persone. Sono davvero splendide e, se il vostro Miguel assomigliava a Felipe anche solo un poco, comprendo perché ve ne siate innamorata, a suo tempo.»

Athena ammiccò allegra, assentì e disse: «Sì, sono davvero speciali, e ti fanno sentire amato ma, soprattutto, non fanno pressioni perché noi esterniamo il nostro lato divino. Ci trattano come persone comuni e credimi, fa piacere anche a una divinità.»

«Quindi, devo smetterla di darvi del voi e non devo più amarvi e onorarvi?» ironizzò Achille, facendola scoppiare a ridere di gusto.

«Achille, puoi fare come più credi, ma io rimarrò sempre la tua sostenitrice» dichiarò la dea prima di lanciare uno strillo di sorpresa e coprirsi il viso alla bell’e meglio.

Achille non fece in tempo.

Un’onda anomala d’acqua ghiacciata gli crollò addosso tra le risate di Alekos e delle sue cuginette, armati di un enorme bacile di plastica ormai vuoto e gocciolante.

«Ice Bucket Challenge!» gridarono in coro i ragazzini, il tutto filmato da un ghignante Felipe che, dopo aver terminato il suo lavoro, riconsegnò il telefono ad Alekos.

In parte colpita da quella doccia imprevista, Athena fissò accigliata il figlio, mentre le risate degli adulti diventavano sempre più spassose, e gorgogliò: «Scusa, ma non doveva essere prima nominato, per essere annacquato a questo modo?»

«Infatti» ghignò Alekos, mostrandole il telefono, ove compariva il suo invito spedito ad Achille.

Scrollandosi dal viso alcune ciocche di capelli infradiciate, Athena si alzò in piedi al pari di Achille, sospirò e infine disse: «Magari, la prossima volta, aspetta che la persona a cui lo invii abbia letto il messaggio e accetti la nomination.»

«Sì, mamma» ridacchiò Alekos, allontanandosi con le cugine con fare vittorioso.

Nel farlo, però, passò accanto a Érebos che, complice, batté il cinque col figlio adottivo prima di vederselo sfilare al fianco.

Athena se ne sorprese un poco ma preferì non chiedere nulla e, nell’osservare un divertito quanto bagnato Achille, celiò: «Hai salvato qualcosa, o sei completamente fradicio?»

«Totalmente bagnato. Ho l’acqua anche nelle scarpe. Ma mi piace essere tirato in mezzo agli scherzi… fa sentire di famiglia» ghignò il semidio, scusandosi coi presenti per poi avviarsi all’interno della villetta per un cambio completo.
 
***

Sdraiata su un fianco nell’enorme letto che divideva con Érebos, Athena sorrise sorniona nel carezzargli l’ampio torace esposto alla luce pallida della luna e, in un mormorio, domandò: «Cos’avete combinato con Achille, tu e Alekos?»

Lui ridacchiò, le afferrò la mano sul torace per baciarne il dorso e, ammiccando, asserì: «Ti riferisci al bagno fuori programma?»

«Ti ho visto dargli il cinque subito dopo la doccia improvvisata, e non mi è parso che tu ti stessi congratulando per il gesto in sé, quanto per altro» gli spiegò lei, salendo a cavalcioni su di lui per studiarne il volto bellissimo.

La folta chioma corvina del dio Ctonio era sparsa sui cuscini e Athena, come sempre, fu attirata dall’idea di affondarvi le mani ma, prima di perdere di vista il suo obiettivo, scosse il capo e borbottò: «Sei peggio di una sirena tentatrice… allora, vuoi dirmi cos’avete combinato?»

Érebos sorrise malizioso e mormorò: «Mi piace l’idea di farti perdere così tanto la testa. Comunque, ho chiamato Ade per chiedergli un catino di acqua dello Stige… la stessa acqua che è finita addosso ad Achille.»

«E a me» sottolineò Athena, levando un sopracciglio per la sorpresa. «Come mai ti è venuto in mente di farlo?»

«Ho visto la tua espressione, quando hai guardato una delle gare di Achille sul telefonino di Alekos, e non mi è piaciuto vederti in ansia» dichiarò in tutta sincerità il dio Ctonio, adombrandosi leggermente in viso. «So che soffriresti, se succedesse qualcosa al tuo protetto, così ho pensato che un secondo bagno nello Stige fosse necessario. Ho solo evitato lo sbattimento di portarlo fino a là.»
Ridendo suo malgrado, Athena lo gratificò di un bacio lungo e molto sensuale, che fece culminare con un sorriso pieno di promesse.

«Ricorda, non mi spezzo di fronte a niente… ma grazie per aver pensato alla salute di Achille» mormorò lei, carezzandolo sensuale sul torace. «Atropo si incazzerà di brutto, per questa tua intromissione.»

Érebos socchiuse gli occhi, tentando di resistere il più possibile, prima di perdersi nel suo amore e, sorridendo a mezzo, asserì: «Lo so… ma mi fa piacere renderti felice, se posso, e so gestire mia figlia, … anche quando ha la luna storta.»

«Pur se rischi di irritare anche papà, nel farlo?» ironizzò Athena.

Scrollando appena le spalle, Érebos replicò: «Credo che, per rientrare nelle tue grazie e in quelle di Artemide, sarebbe disposto a fare molto peggio che darmi il permesso per recuperare un po’ d’acqua dallo Stige.»

Tornando seria, la dea chiosò serafica: «E’ stato lui a dare di matto contro di noi, quando era solo irritato con Era per il tiro mancino che lei gli aveva fatto. E’ stato superficiale, e ha lasciato che Era ferisse Artemide, quindi per me può anche rimanere assiso sul suo trono di marmo fino alla fine dei giorni.»

«Ha paura di venire a parlare con te» la mise al corrente il dio, sorprendendola.

«Ci hai parlato?» esalò Athena.

Annuendo, il dio Ctonio asserì: «Non sono io che ho litigato con Zeus, ma voi, perciò non mi sembrava sbagliato andare a parlarci. Mi fa un po’ pena, lo ammetto.»

Sprezzante, Athena borbottò: «Se l’è meritato. Neanche lo zio Poseidone mi ha mai irritato tanto, nei secoli… ma lui riesce proprio a tirare fuori il peggio, da me.»

«Questo è vero» con candore Érebos. «Ora, però, possiamo pensare ad altro?»

«Con vero piacere» sorrise Athena, chinandosi su di lui per riprendere da dove si era interrotta.

Se suo padre voleva redimersi, doveva fare molto di più che parlare con Érebos. Poco ma sicuro.
 
***

Sdraiato sull’erba fresca e umida mentre la notte diveniva sempre più profonda – non sembrava davvero di essere in ottobre! – Achille sorrise quando vide giungere Artemide in infradito e chemisier di cotone.

«Le congratulazioni sono d’obbligo, da quel che ho saputo» esordì lui, rimettendosi a sedere mentre la dea lo imitava, accomodandosi a gambe intrecciate sull’erba. «A quando il lieto evento?»

«Otto mesi circa» si limitò a dire lei, scrollando le spalle per poi guardarlo con un certo divertimento. «Lo zio mi ha detto che il silenziatore lo hai fatto fare per avere una possibilità in più di vincere l’ultima gara… e tutto per far felice la tua bella. Ero troppo curiosa di sapere se era vero che il grande Achille si era perso dietro a una donna, così sono uscita per chiedertelo.»

Achille non badò al suo tono ironico, né allo sguardo carico di curiosità della dea e, annuendo, asserì: «Sembra che quella gara in particolare sia stregata, perché non riusciamo mai a vincerla, ma Alessandra ci terrebbe molto, e così…»

«Lei, però, non sa che stai facendo questo gesto per la sua felicità, è corretto, vero?» sottolineò Artemide, sinceramente incuriosita.

«No. Oggettivamente, trovo assai difficile non essere un eroe, e questa nuova esperienza di vita mi mette molto in difficoltà. Era più facile camminare lungo l’altro sentiero, anche se questo mi ha sempre portato a morti premature. Ora come ora, non so cosa fare. E’ davvero un terreno nuovo e impervio, per me» ammise Achille.

Artemide assentì, lasciò che lo sguardo vagasse verso la valle, dove si scorgeva Monterey – illuminata e caotica – e, pensierosa, disse: «Non so perché dovrei sentirmi così in ansia per la nascita di questa figlia, visto che ne ho avute altre due, eppure mi sembra di non sapere dov’è la strada in cui infilarmi.»

«Conosco la sensazione» asserì il semidio.

La dea annuì con un risolino, replicando: «Fa schifo, vero?»

«Abbastanza» ne convenne lui.

«Sai, quando morì Miguel, Athena abbandonò qualsiasi contatto con noi. Non volle avere intorno nessuno. Aveva smarrito la via anche lei, che è sempre stata forte e sicura di sé. Trovai la cosa sconvolgente, a suo tempo, lo ammetto. Persino lei poteva crollare, e per me fu assurdo anche il solo pensarlo ...ma successe.»

«Temete per Felipe, non per la bimba» ipotizzò Achille, vedendola annuire torva.

«So che Atropo non ce l’ha con nessuno, e che la morte di Miguel non dipese da un suo capriccio, ma a volte mi sveglio la notte soltanto per sentirlo respirare» ammise la dea, passandosi nervosamente una mano sul ventre piatto. «So inoltre che, prima o poi, dovrò dirgli addio, perché la sua mortalità me lo porterà via… ma è così bello stare con lui!»

Dopo un attimo, ammiccò al semidio e aggiunse: «Scusa, sono un po’ sdolcinata.»

Scuotendo il capo, Achille replicò: «Mi sto battendo per ottenere la stessa cosa, quindi non posso che apprezzare la vostra felicità e sperare di poterla vivere io stesso.»

«Beh, alla fine Athena è riuscita a ritrovare la strada di casa. Chi siamo, noi due, per non fare altrettanto?» chiosò la dea, stringendosi le ginocchia al petto per poi poggiarvi il mento. «Riusciremo a essere altrettanto bravi. Ne sono sicura.»

«La casa che vi ha accolte è numerosa, piena d’amore e di gioia. E’ valsa davvero la pena di lottare per tornare alla vita, a mio parere» dichiarò Achille, levandosi in piedi con un balzo. «E’ questo che spero per me… e Alessandra. Anche se la sua non è né una casa ampia, o piena della gioia che meriterebbe.»

Accigliandosi leggermente, Artemide domandò: «Non è amata?»

Scrollando le spalle, Achille disse: «Sua madre cercò di ucciderla nella culla. Fu il cane, a salvarla. Cominciò ad abbaiare contro la padrona, attirando così l’attenzione dei vicini di casa che, trovando la porta aperta, entrarono e videro la donna con le mani ancora strette sul collo della bambina. Si parlò di crisi post-partum. La diedero in affido perché il padre era un drogato, sempre dentro e fuori dalla galera, e la madre non poteva più tenerla, dopo ciò che aveva tentato di fare.»

Artemide levò entrambe le sopracciglia per la sorpresa e il disgusto, ma non disse nulla, spingendo Achille a proseguire nel racconto.

«Venne sballottata da una famiglia affidataria a un’altra per anni, finché non finì a Verona. Lì, iniziò l’amore per i motori. Suo padre putativo era un meccanico. Lei passava ore e ore a guardarlo lavorare, e un giorno lui decise di farla provare con qualche lavoretto semplice. Fu così che divennero prima amici, e poi padre e figlia nel senso più puro del termine. La madre, fortunatamente, fu d’accordo a farla stare in officina, e il loro rapporto divenne via via più saldo.»

«Ma qualcosa non andò bene, vero?» terminò per lui Artemide.

Achille scosse il capo, e ammise: «Un pazzo, armato di pistola, si presentò in officina per riavere la sua auto senza pagare il conto. Si scatenò quindi un parapiglia e partì un colpo, che uccise suo padre. Si scoprì in seguito che l’uomo aveva appena ucciso la moglie, e rivoleva l’auto per scappare da Verona.»

«Che disastro…» sospirò Artemide, scuotendo il capo. «Quindi, tu vorresti essere la sua nuova famiglia?»

«Merita tutto l’amore che la vita, finora, le ha tolto» annuì Achille, con fervore. «Sua madre adottiva le vuole bene, ma sono solo in due, ora, e il vero legame lei lo aveva con il padre, Giancarlo.»

«Per quel che mi riguarda, tiferò per te» dichiarò Artemide, levandosi a sua volta in piedi e battendo una mano sulla sua spalla. «Inoltre, pregherò per una vita serena per la tua Alessandra. Per i mie gusti, ha già dato a sufficienza, e io sono sempre di parte, quando c’è di mezzo una donna che soffre.»

«Vi ringrazio, Agrotis Día» mormorò ossequioso Achille.

Lei accennò un sorriso, ammiccò a qualcuno alle spalle di Achille e, come scusandosi, aggiunse: «Non può farti nulla, perciò porta pazienza.»

Ciò detto, si allontanò com’era venuta e Achille, seguendola con lo sguardo, si trovò ad affrontare il volto accigliato e pensieroso di Apollo.

Scostandosi istintivamente, Achille reclinò il capo – era pur sempre al cospetto di una divinità, indipendentemente da ciò che aveva visto quel pomeriggio – e, dubbioso, domandò: «Cosa posso fare per voi, Febo?»

Apollo, però, non rispose subito e, silenzioso, raggiunse la staccionata che si gettava sul declivio che conduceva a valle e lì si fermò in contemplazione.

Achille lo seguì dopo alcuni attimi di riluttanza, poggiò le mani sulla staccionata e ne scrutò il profilo perfetto stagliato nell’oscurità della notte. Anche con quella luce fioca, la sua bellezza era quasi imbarazzante.

«Sai di avermi ferito molto, uccidendo mio figlio?»

«Voi tramaste per uccidere Patroclo… e uccideste me per mano di Paride» replicò con semplicità Achille.

Apollo assentì con un sospiro, si passò una mano sul viso ed esalò: «Non so davvero come facciano, Athena e Ares, a trovare soddisfazione nella guerra. Io ne rimasi sconvolto e addolorato, ma niente affatto soddisfatto. Non lo sarei stato neppure se avessimo vinto, lo ammetto. Troppe morti, troppo sacrificio di sangue.»

«Non posso parlare per due divinità ma, avendo visto Athena come donna, e non solo come dea, non credo provi piacere. E’ molto attenta nel pianificare le battaglie ed è desiderosa di vincere, questo sì, ma dubito che ami veder scorrere il sangue» ci tenne a dire Achille.

«Le arti e la musica sono più semplici, più belle, e recano più gioia di una guerra» sottolineò Apollo, scrollando una spalla.

«Ne convengo» assentì cauto il semidio. Dove voleva andare a parare, con quel discorso?

Volgendosi a scrutarlo, Apollo allora domandò: «Quindi, se sai che i miei doni recano più gioia di quelli offerti da Athena, perché hai dato il tuo amore a lei?»

Ritrovandosi a ridere per l’assurdità di quella domanda, Achille esalò: «Perché in tutta onestà, Febo, mi avreste ucciso di vostra mano, se mi aveste sentito cantare… o suonare. Le mie capacità erano altre. Le Muse non guardarono dalla mia parte, quando nacqui, né mia madre Teti pensò di chiedere il loro sostegno perché io diventassi un artista.»

Levando un sopracciglio con evidente sorpresa, Apollo domandò: «E’ dunque così terribile la tua voce, quando canti? Non mi sembrerebbe, ascoltandoti parlare.»

«Credetemi. Farei sanguinare le orecchie a un sordo» ammise con candore Achille.

Massaggiandosi pensieroso il mento, Apollo allora disse: «Canta. Sarò io a decidere.»

«Come, prego?» gracchiò Achille, impallidendo leggermente.

«E’ l’ordine di un dio. Canta. Sarò io a dirti se il tuo è un caso senza speranza, o meno» lo incitò Apollo, scrollando con impazienza una mano.

“Ma non era meglio se andavo a dormire?”, si domandò Achille, schiarendosi la gola.

Dopo alcuni secondi di imbarazzo, il semidio si esibì quindi in un breve brano ritmato e, come temuto, il volto di Apollo si trasfigurò, divenendo puro dolore.

Bastarono dieci secondi di quello strazio, per convincere Apollo a dire: «E’ davvero il caso che tu rimanga un prediletto di Athena. Io non ti vorrei neppure alla porta del mio tempio.»

«Intendevo appunto questo, prima» sottolineò Achille, facendo spallucce.

Scuotendo il capo, Apollo si ritrovò suo malgrado a sorridere e, ironico, dichiarò: «Tutto sommato sono contento di sapere che il grande paladino di Athena starnazza come un’oca spennata.»

“E’ un dio, porta pazienza, è un dio, porta pazienza…” cominciò a ripetersi Achille, preferendo non aprire un’altra faida con il dio solare. Già sembrava complesso chiudere definitivamente quella, che stava perdurando da diversi millenni.

Quest’ultimo, però, mise alla prova le capacità di resistenza del semidio, continuando a offenderlo in modo più o meno diretto, beandosi della sua bravura nel canto a discapito di quella di Achille.

Per il semidio fu una notte davvero molto lunga.







N.d.A.: scopriamo un po' del passato infelice di Alessandra, e di come Achille voglia fare la differenza per lei e per il suo futuro. Veniamo anche a sapere come Artemide abbia fatto un po' di confusione nel dire la verità al suo Felipe, ma di come l'uomo abbia comunque apprezzato il suo gesto.
Erebos, nel frattempo, ha pensato a sopperire alle "mancanze" di Achille, rendendo partecipe del piano anche Alekos, che si è divertito un mondo nell'essere messo in mezzo.
Che dite? Grazie a questo fantomatico silenziatore, Achille e Alessandra riusciranno finalmente a vincere la loro gara del cuore? 

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Capitolo 22
*** Achille - 4 - ***


 
 
4.
 
 
 
 
 
La mano poggiata sul seno bronzeo di Giulietta Capuleti, Apollo storse il naso non appena Alekos gli ebbe fatto la foto e, nel toglierla, il dio borbottò: «Poi mi dovrete spiegare come, questo rito barbaro, possa portare fortuna in amore. Potrei capire se potessi toccare i seni veri di una giovane donna, …ma una statua?»

Mentre alcune ragazze nei pressi ridevano sommessamente delle sue proteste, Apollo si scansò per lasciar spazio al resto dei postulanti, in fremente attesa di poter replicare il gesto propiziatorio.

Disgustata, la divinità si avvicinò al nipote per ammirare la foto appena scattata da Alekos e mormorare contrariata: «Ai nostri tempi, i postulanti erano più composti.»

Alekos si limitò a sorridere allo zio, mostrandogli la fotografia per distrarlo e Apollo, apparentemente soddisfatto del risultato, domandò: «Athena e Artemide, dove sono finite? Non vogliono rendersi ridicole anche loro, con questo gesto insulso?»

«Credo siano andate a provare l’ebbrezza di scrivere una lettera d’amore» ironizzò il ragazzo.

Apollo scosse il capo e replicò: «Ma se hanno già i loro uomini al seguito…»

«Non so che dirti, zio» si scusò Alekos, facendo spallucce.

«Perché non posso avere due sorelle normali?» si lagnò il dio, sospirando poi di sollievo quando vide ricomparire Felipe ed Érebos, allontanatisi alcuni minuti prima per fare incetta di vino locale.

L’arrivo a Verona – così da poter vedere il Rally delle Due Valli a cui avrebbe partecipato Achille – era avvenuto tre giorni addietro e, in quel breve periodo di tempo prima della gara, la famiglia allargata di Athena si era data al turismo spicciolo.

Se Achille ed Efesto si erano defilati per raggiungere il team e delineare gli ultimi ritocchi all’auto – oltre a montare il nuovo silenziatore – il resto del gruppo era rimasto in zona per godersi un giro per la bella cittadina italiana.

«Ebbene? Siete infine riusciti nel vostro intento?» domandò Apollo, portandosi accanto ai due uomini assieme ad Alekos.

«Tutto fatto. Abbiamo concordato una spedizione oltreoceano di una cinquantina di bottiglie, tra vino Soave e Bardolino» dichiarò soddisfatto Felipe.

Érebos si disse a sua volta soddisfatto del risultato dell’acquisto ma, quando non vide Athena al fianco del figlio, la sua gioia si smorzò un poco per diventare preoccupazione.

Ad accorgersene per primo fu Apollo che, canzonatorio, dichiarò: «Caro il mio Erry… devi darti una calmata, o anche a un dio Ctonio come te verrà un infarto. Pensi davvero che possa succedere qualcosa alla tua amata?»

Érebos si accigliò un poco, a quel commento, e replicò: «Quando anche l’aria che respiri ti sarà meno cara della donna che ami, allora ne riparleremo.»

«Ti sei lasciato traviare da quest’atmosfera romantica, amico mio» ribatté Apollo, scanzonato. «Lascia che Athena si diverta anche senza di te… dopotutto, non siete gemelli siamesi.»

La divinità Ctonia scosse il capo per l’esasperazione, e asserì: «Non ho mai detto che non può divertirsi senza di me, Apollo, ma mi è parso curioso non vedere lei e Arty, e così mi sono preoccupato per la bambina in arrivo.»

A quell’accenno, Apollo tornò serio e dichiarò: «Credimi …se fosse successo qualcosa ad Arty o alla piccola Cynthia, te ne saresti accorto, perché io non sarei stato così calmo e tranquillo.»

Nel sentire il nome della bambina non ancora nata, Felipe sorrise divertito e domandò: «Stamattina è Cynthia?»

Scrollando le spalle, Apollo chiosò: «Credo che lo sarà per i prossimi due giorni, non di più. Già se ne lagnava poco prima che Alekos mi fotografasse con quella statua pagana dell’amore.»

Felipe ridacchiò di quel commento e, nell’osservare la fila alla statua di Giulietta, si domandò cosa ne pensasse Apollo di coloro che credevano fossero loro, gli dèi pagani.

Le due dee ricomparvero proprio in quel momento e, nel sistemare le loro lettere tra i pertugi formatisi nei secoli tra i mattoni del muro di quel cortile così speciale, dissero soddisfatte: «Direi che siamo a posto, adesso.»

«Avete soddisfatto la vostra voglia di romanticismo?» le prese in giro Apollo, raggiungendole assieme agli altri.

Artemide lo fissò malissimo, replicando irritata: «Abbiamo scritto due lettere di incitamento per Achille e Alessandra. Razza di insensibile che non sei altro.»

Apollo si accigliò un poco, a quel commento, e borbottò: «Avresti dovuto parlarne con Afrodite, piuttosto. Saresti sicuramente stata più che certa dei risultati, invece di sdilinquirti appresso a una dea dell’amore inesistente e fatua.»

Artemide lo mandò al diavolo con un gesto della mano, ribattendo: «Non sai stare al gioco, Apollo.»

«Di che gioco stai blaterando, scusa? Stavamo parlando di divinità, non di giochi» brontolò il dio solare, fissando costernato la sorella

Sospirando pesantemente, Artemide replicò allo sguardo del fratello con uno pieno di esasperazione, e gorgogliò: «E’ un modo di dire, fratello! Dio, aggiornati!»

Apollo fece per replicare ma Alekos, afferrando la sua mano, gli sorrise con candore e domandò: «Zio Apollo… andiamo a fare le foto all’Arena?»

«Tutto quel che vuoi, nipote» gli concesse Apollo, lasciando perdere la discussione con la sorella per poi indirizzarsi verso l’uscita.

Athena sorrise divertita nell’osservare la scena, e chiosò: «Ormai è assodato. Alekos è un calmante vivente.»

«Ha sicuramente capacità terapeutiche, nel suo sorriso» assentì Érebos, orgoglioso.

«Per riuscire a incantare così mio fratello, deve avere per forza delle doti sovrannaturali» convenne Artemide, sbattendo sorpresa le palpebre. «Lui non si tirerebbe mai indietro, di fronte a un battibecco con me, se le cose fossero normali.»

Felipe, allora, li fissò incuriosito e domandò: «Pensate davvero che sia possibile? Non è più facile pensare che le persone gli vogliano soltanto bene?»

Le tre divinità scossero il capo all’unisono, come guidate da un’unica mano e Athena, sorridendo all’ex cognato, disse: «Può essere come dici tu, in effetti, ma avverto sempre un pizzicore sotto pelle, quando succedono cose come queste e, visto il legame che abbiamo, può essere sintomo dell’uso di un qualche genere di potere. Come se sfruttasse i miei per poter ottenere pace e tranquillità.»

Artemide ammiccò alla sorella e celiò: «L’esatto tuo contrario, quindi.»

Athena la fulminò con lo sguardo, replicando: «Non fare come il tuo gemello. Non è davvero il caso di punzecchiarmi su questa cosa.»

«Povera sorella… non potrai insegnare L’Arte della Guerra al tuo tesorino» ciangottò per contro Artemide.

La dea della guerra sospirò, si passò una mano sul viso e, in un borbottio, disse: «Sopportarti per i prossimi otto mesi sarà uno strazio… lo so già.»

Artemide sghignazzò con aria vagamente perfida e Felipe, sorridendo spiacente ad Athena, mormorò: «Porta pazienza…»

Scuotendo il capo, Athena si allontanò per raggiungere Apollo e Alekos ed Érebos, ammiccando all’indirizzo della dea silvana, chiosò: «Ho idea che Alekos dovrà fare gli straordinari, oggi.»

«Già» ammiccò la dea, prendendo sottobraccio il suo uomo.
 
***

Efesto si era detto più che deciso a voler sovrintendere gli ultimi lavori sull’auto di Achille e negli ultimi tre giorni, dacché erano partiti da Monterey, a ciò ci era attenuto.

Aveva partecipato a ogni sessione di allenamento, collaborato coi meccanici e offerto consigli utili per migliorare la registrazione del motore.

Il tutto era avvenuto sotto gli occhi sorpresi e sempre più eccitati di Alessandra Corinzi, navigatrice di Achille e sua fiamma segreta.

L’alta e flessuosa venticinquenne si era dichiarata entusiasta di conoscere Efesto e, quando ne aveva scoperto la competenza in materia, si era persa in una dissertazione con il dio in merito alle prestazioni degli ultimi modelli di Subaru.

Achille aveva gradito non poco la gentilezza del dio, così come la sua pazienza nel rispondere alle mille domande di Alessandra. Pur non avendolo potuto presentare come fratellastro – sarebbe stato impensabile spiegare la loro parentela – Achille lo aveva fatto figurare come un suo prezioso e caro amico, ed Efesto a questo si era attenuto.

Armato di pazienza infinita e molta professionalità, il dio del fuoco aveva offerto preziosi consigli così come battute scherzose e, per tutto il tempo, Achille aveva studiato con occhio attento il dio.

L’immagine di quell’uomo faceto e ciarliero ben si discostava da quella del dio burbero e solitario che lui aveva conosciuto nei tempi antichi, e quel miracoloso cambiamento era tutto dovuto all’amore che Artemide e Athena gli avevano donato.

Era stato sciocco, nelle sue vite passate, a pensare che l’amore genuino e offerto a cuore aperto potesse essere una banalità. Ora, dinanzi a lui, stava la prova che, invece, aveva un potere immenso.

E lui desiderava saggiarlo sulle dita in prima persona. Ma, primariamente, dovevano vincere quella stramaledetta gara, così Alessandra avrebbe potuto portare il trofeo sulla tomba del padre.

Il Rally delle Due Valli era sempre stata la gara preferita di Giancarlo Corinzi, e Achille voleva rendere onore alla sua memoria portando alla vittoria sua figlia, che tanto lo aveva amato.

«Ehi, Achille… Terra chiama Achille… ci sei?» esordì la voce di Alessandra, facendo capolino nella mente del semidio.

Riscuotendosi e affondando imbarazzato nello sguardo corvino della donna, Achille borbottò: «Dio, scusa… mi sono perso a riguardarmi mentalmente il tracciato, e sono andato in oca.»

Ridacchiando, e mostrando due tenere fossette sulle gote rosee, Alessandra asserì: «Beh, finché vai in oca qui, tutto bene, ma vedi di non farlo in gara. Io so leggere bene, ma al volante sei tu il mago.»

«Non temere. Stavolta porteremo a casa quella coppa» le promise lui, dandole una pacca sulla spalla.

Lo sguardo della giovane si addolcì, a quelle parole e, rivolgendo uno sguardo alle colline verdeggianti tra cui si sarebbe svolta la gara, mormorò: «Se non dovessimo riuscirci, andrebbe bene comunque. Il campionato di categoria è nostro, però…»

Achille strinse maggiormente la presa e replicò: «Te l’ho promesso e, a costo di fare un patto col diavolo, avrai quel trofeo.»

Lei ammiccò grata al suo indirizzo e, facendo un cenno in direzione dell’officina in cui i meccanici stavano lavorando, disse: «Il tuo amico è davvero un guru della meccanica. Ma dove lo hai tenuto nascosto fino a ora?»

Sotto l’Etna, a forgiare armi?, pensò Achille, replicando però ad alta voce: «Efesto è un tipo che si concede di rado ma, stavolta, ha voluto intervenire di persona perché desidera anche lui che noi vinciamo questa gara.»

«Beh, di sicuro se ne intende. Ha una competenza tecnica quasi imbarazzante» sorrise deliziata Alessandra, prima di celiare: «Comunque, è curioso che tu e lui abbiate nomi così …mitici

«Anche il tuo lo è. E’ il femminile di Alessandro che, da quel poco che so di Epica, non è esattamente un nome da poco. Basti pensare ad Alessandro Magno, il più grande condottiero che la storia ricordi» sottolineò Achille, replicando con falso sussiego.

«Okay, hai ragione… ma i pass che hai richiesto per i tuoi amici sono davvero particolari. Ammettilo» lo punzecchiò lei, afferrando la lista di nomi che teneva nella tasca della sua tuta da lavoro.

Scorrendoli per un attimo con lo sguardo, ridacchiò divertita e disse: «Allora, abbiamo Athena Parthenos, Phoebe Basileia, Febo Basileia, Efesto Basileia… sono parenti, tra l’altro?»

«Zio e nipoti» ammise Achille, sospirando.

«Poi non è finita… abbiamo un Alekos Parthenos-Rodriguez e …squillo di trombe… Érebos Chthoníos… ora, se le mie memorie di Epica non sono così scarse, abbiamo un chiaro esempio di gente con dei grossi disturbi della personalità. L’unica persona normale nella tua lista, è il signor Felipe Rodriguez!»

Okay, forse sarebbe stato davvero il caso di non dare i loro nomi veri…, pensò sconsolato Achille. Il punto sarebbe stato spiegare a divinità come Apollo i motivi pratici per non utilizzare il proprio vero nome.

No, meglio rinunciare in partenza e fare finta di niente.

«Provengono da famiglie in cui l’amore per l’epica era davvero forte» borbottò il semidio, sperando che le bastasse come spiegazione.

Quando però Alessandra non gli rispose, Achille la scrutò con curiosità e, nel notare il suo sguardo fisso verso qualcosa che aveva alle spalle, si volse insospettito e infine comprese.

A ben vedere, quattro divinità come Artemide, Apollo, Athena ed Érebos non passavano di sicuro inosservate, icore o non icore a risplendere nelle loro vene.

Le chiome ramate di Athena, Apollo e Artemide brillavano come oro fresco di conio, sotto il sole di quel meriggio appena iniziato, creando un’immagine di perfezione davvero imbarazzante. Messi assieme, davano l’idea di aver rubato la maggior parte della bellezza disponibile al momento della loro nascita.

Il dio Ctonio, invece, sembrava essere il loro esatto contrario, la pelle chiara e i capelli lunghi e corvini a identificarlo come una creatura della notte, altrettanto affascinante e altrettanto misterioso.

Nel complesso, era uno spettacolo davvero degno di nota e, pur se Felipe era un bell’uomo, il confronto con le divinità al suo fianco era a suo discapito.

«Non mi avevi accennato al fatto che erano tutti top model» brontolò a bassa voce Alessandra, ovviamente colpita dalla loro bellezza ultraterrena e vagamente turbata all’idea di presentarsi loro in tuta da meccanico.

«Infatti, non ci lavorano» sottolineò Achille, prima di veder comparire anche Alekos, rimasto alle spalle del gruppetto di adulti.

Subito, un sorriso si aprì sul viso del semidio – era curioso come si fosse già affezionato al ragazzo – e Alekos, correndogli incontro, lo abbracciò con calore ed esclamò: «Scusa il ritardo, Achille! Ci siamo persi a comprare delle calamite, e così siamo partiti tardi da Verona.»

«Tranquillo, tanto la gara sarà domani… al momento stiamo facendo solo dei ritocchi all’auto» lo rassicurò lui, prima di presentarlo ad Alessandra: «Lui è Alekos, figlio di Athena.»

Alessandra strinse la mano protesa di Alekos e disse: «Tanto piacere, Alekos. Spero davvero che domani tu possa divertirti.»

«Sono sicuro che sarà così. Ho visto alcune vostre gare, e siete bravissimi. Non potete che vincere» replicò allegro Alekos, prima di scorgere Efesto nel garage poco lontano e domandare: «Posso andare a guardare mentre lavorano? Sarò bravissimo, lo prometto, e non toccherò niente.»

«Non c’è problema. Io avevo la tua età, quando ho cominciato a lavorare sul mio primo cambio» gli sorrise Alessandra, lasciando che corresse via. «E’ un ragazzino davvero solare.»

«Puoi dirlo forte. Ha un carisma davvero singolare» annuì Achille, prima di dare il benvenuto ai suoi ospiti.  

Alessandra, quindi, fece la conoscenza del curioso gruppo di amici di Achille ma, prima ancora di poterli invitare a visionare l’auto con cui avrebbero gareggiato, una voce pimpante attirò l’attenzione dell’intera compagnia, sorprendendoli.

Abbigliato come un otaku di prima categoria, Hermes si avvicinò al gruppo con passo dinoccolato, l’aria compiaciuta e un sorriso così sfrontato da far venire il prurito alle mani.

Sulle spalle, un simpatico zainetto con le effige di Neon Genesis Evangelion faceva coppia con il berretto di Dragon Ball, il tutto accompagnato da una maglietta di Saint Seiya e scarpe dipinte col personaggio di Totoro, dello Studio Ghibli.

Se Achille e Alessandra rimasero senza parole, a quella vista davvero inconsueta, Athena e Artemide si passarono le mani sul viso, esterrefatte, Érebos preferì evitare commenti e Apollo borbottò un laconico: «Lo sapevo che sarebbe venuto… figurati se non si presentava.»

«Ehi, parentato! Come state?» esclamò un sorridente Hermes prima di inchinarsi dinanzi ad Athena, offrirle una statuina dalle graziose fattezze e aggiungere: «Per voi, Lady Isabel. Con tutto il mio affetto e rispetto genuino.»

«Lady… Isabel? Ma che cavolo stai dicendo?» gracchiò Athena, afferrando con attenzione la statuina che Hermes aveva estratto dal suo strampalato zaino per studiarla da vicino.

Hermes sbuffò offeso, borbottando: «Non lo sai che è il nome italiano della dea Atena?! Aggiornati!»

La statuina offertale da Hermes raffigurava una giovane donna dai lunghi capelli viola, e indossava una strana armatura dorata e dotata di ali, nonché armata di uno scettro tondeggiante e uno scudo.

Di per sé, Athena la trovò carina, ma non riuscì comunque a immaginare cosa avesse a che fare lei con quell’action figure.

Sbattendo le palpebre, la dea quindi replicò sempre più confusa: «Hermes, da che mondo e mondo, Atena è Atena. Punto. Nel culto romano è stata chiamata Minerva, ma la sostanza era identica. Non ho mai sentito parlare di una Isabel.»

Esasperato, il dio scosse il capo ed esalò: «Oh, kami-sama! Devo renderti edotta sul mondo di Saint Seiya, ho già capito… anche se forse non ti piacerà sapere che Lady Isabel non è esattamente amata, dai fan della saga. Però hanno anche ragione, … in certi casi, è stata davvero stronza.»

Ciò detto sghignazzò e Athena, cominciando a irritarsi, assottigliò lo sguardo e sibilò: «Hermes, se non vuoi che ti riduca alla grandezza di questa statuina… molto carina, tra l’altro, grazie per avermela regalata ma… dimmi cosa ci fai qui, e cosa c’entro io con questa statuetta colorata.»

«Come… cosa ci faccio qui?!» esclamò per contro Hermes, apparentemente scioccato. «Cioè, è avvenuto l’evento del secolo… no, del millennio, e io non dovrei esserne partecipe?!»

Ora tutte le divinità, oltre ai tre mortali, lo fissarono senza parole e lui, non potendo far altro che spiegarsi, aggiunse laconico: «Apollo e Achille che hanno fatto pace. Non credete che sia un evento di per sé biblico?»

«Di certo non biblico, anche quanto» sottolineò Apollo, lanciando un’occhiata dubbia all’indirizzo di Achille, che ancora stava osservando Hermes con occhi fuori dalle orbite. «E comunque, caro mio, hai scioccato a morte i nostri ospiti. Magari, se ti presentassi – e avvisassi – prima di fare queste piazzate, eviteresti di sconvolgere le persone.»

Hermes, allora, si volse per sorridere ad Achille e Alessandra e, con un inchino svolazzante, disse: «Io sono Hermes DiMaia, tanto piacere.»

«Di… Maia?» gorgogliò confuso Achille.

«Suona bene, no? Mia mamma ha sempre avuto un nome splendido…» sottolineò Hermes prima di esibirsi in un elegante baciamano con Alessandra e aggiungere: «Lietissimo di fare la tua conoscenza, incantevole fanciulla.»

Perdendo la pazienza, Athena scostò Hermes da una costernata Alessandra e domandò feroce: «Blocca il tuo fiume di parole per un secondo e rispondi chiaramente, per una volta; perché sei conciato come un bambino di sei anni? E perché sei qui, ora? Sul serio

«Non sono conciato come un bambino, ma ho solo fatto incetta di cosucce carine nel quartiere di Akihabara, a Tokyo, mentre visitavo la mostra per il trentennale di Saint Seiya… da qui la splendida maglietta» sottolineò Hermes, afferrandone i lembi per mostrare meglio i cavalieri d’oro sopra disegnati. «Da quella mostra viene anche la tua statuetta, visto che Saint Seiya narra le vicende dei Cavalieri di Atena. Dato che ero in zona, a fine mostra ho pensato di restare qualche mese e fare un po’ di spese folli, così ho girato tutti i negozi della zona, ho visitato il Museo Ghibli, mi sono fermato per una fiera del fumetto e ho partecipato a diversi Q&A di alcune idol. Quando, però, ho chiamato a casa tua e non ho trovato nessuno, ho sentito Anita per sapere se andava tutto bene, così lei mi ha parlato della gara. Per questo sono qui.»

Athena lo fissò senza parole e Artemide, curiosando con sguardo critico il suo zaino, storse il naso e borbottò: «Potevi almeno prendere quello con l’Unità 02! E’ il più bello!»

«Scusa se io preferisco quello di Shinji» brontolò per contro Hermes, levando il mento con fare scocciato.

«Non hai gusto» sbuffò Artemide, infilando una mano nello zaino per ravanarvi dentro.

«Ehi, dico!» esclamò contrariato Hermes, cercando di fermarla.

«Voglio vedere se hai portato un regalo anche a me!» protestò Artemide.

«Se anche ti avessi preso qualcosa, non te lo darei mai, a questo punto!» sbottò scocciato Hermes, scostandosi dalle mani di Artemide.

«Perché non ho dei parenti normali?» si lagnò Athena, fissando i due fratelli lottare al pari di due bambini piccoli, prima di udire la risatina di Alessandra.

Tutti si volsero verso di lei, anche i due litiganti e la giovane, tergendosi una lacrima di ilarità, disse: «E’ la cosa più bella, stravagante e folle che abbia mai visto… pagherei per avere una famiglia così.»

«Vedi?!» esclamò Hermes tutto soddisfatto, indicando Alessandra con espressione gioiosa.

«Sta di fatto che non hai portato una statuina anche a me» si lagnò Artemide, mentre Felipe scuoteva il capo con espressione incredula.

«Non è colpa mia se non hanno pensato di fare una action figure di Artemide… ma ce ne sono di Apollo, però» sottolineò Hermes, facendo la gioia del dio ma gettando nello sconforto la dea silvana.

«Sei un ingrato» sbottò Artemide, dandogli le spalle e afferrando Felipe a una mano per allontanarsi sdegnata.

Felipe mimò uno ‘scusa’ all’indirizzo di Alessandra mentre veniva praticamente trascinato via e la giovane, nel tornare a osservare l’ultimo arrivato, domandò: «La fiera era bella come ho potuto vedere su Youtube?»

Hermes si illuminò, a quelle parole e, presa sottobraccio Alessandra, cominciò a spiegarle per filo e per segno tutto ciò che aveva potuto vedere – e acquistare – presso la mostra trentennale di Saint Seiya.

Nel vederli allontanarsi per dirigersi verso il garage, Achille esalò: «E’ passato un tornado, o cosa?»

«Più o meno, …dire Hermes e dire ‘catastrofe naturale’ è uguale» sospirò Athena, reclinando stancamente le spalle in avanti.

Érebos, dal canto suo, disse ad Achille: «Non mi preoccuperei. Hermes fa il buffone, ma è buono come il pane.»

«Basta che Alessandra sia contenta. Dopotutto, è raro sentirla ridere, e con voi lo ha fatto» asserì Achille, scrollando le spalle per poi invitare il gruppo rimasto a dirigersi verso il garage.

«Sei davvero messo bene, se parli così. Un’anima completamente persa» celiò Apollo, fissandolo pieno di scherno.

Prima di poter replicare, Achille scoppiò a ridere quando Athena centrò la collottola di Apollo con uno schiaffo, a cui seguì un ‘sei il solito insensibile!’ detto a gran voce.

I due iniziarono immediatamente a battibeccare in merito alla libertà di espressione ed Érebos, sorridendo a un divertito Achille, chiosò: «Se non altro, non ci si annoia mai, con loro.»

«Poco ma sicuro» assentì il semidio.
 
***

Sorseggiando una tisana all’ombra della veranda dell’albergo dov’erano ospitati per quella notte, Alessandra sorrise nel veder giungere Achille con passo lento e tranquillo.

La serata era stata allegra e vivace, condita di battute, battibecchi scherzosi e dialoghi ai limiti del surreale.

La compagnia di amici di Achille si era dimostrata davvero alla mano, pur se Alessandra aveva faticato non poco a non perdersi in contemplazione di Apollo e di Érebos, a suo modo di vedere di una bellezza davvero ultraterrena.

«Stai facendo riposare le orecchie?» domandò Achille, fermandosi a poca distanza da lei per poi poggiare gli avambracci sul parapetto di legno della veranda in stile chalet alpino.

Sorridendo divertita, Alessandra replicò: «E’ più che certo che sanno divertirsi, assieme. Sembrano davvero molto affiatati. Ma sono tutti parenti?»

«Più o meno. Érebos è il compagno di Athena, Felipe è quello di Phoebe e Apollo è suo fratello. Contemporaneamente, Apollo e Phoebe sono i fratellastri di Athena, ed Efesto è lo zio di Apollo, Athena e Phoebe.»

«Wow. Una bella famigliola allargata, a quanto pare» esalò Alessandra, sgranando gli occhi. «E Alekos? E’ il figlio di Érebos e Athena?»

«No, in effetti. E’ il figlio del primo matrimonio di Athena. Sposò Miguel, il fratello di Felipe, che morì in mare dopo alcuni anni dalla loro unione» le spiegò Achille, vedendola spalancare la bocca per il dispiacere.

«Oh, cielo! Perdere il padre in così tenera età. Non oso immaginare come possa essere stato, per lui e per la madre… però, ho visto che va molto d’accordo con Érebos, perciò penso che si vogliano molto bene» mormorò lei, pensierosa.

Non hai neppure idea di come sia stata l’infanzia di Alekos, pensò tra sé Achille, tornando col pensiero a ciò che gli avevano detto di lui. Il viaggio verso l’Oltretomba tra le braccia di Thanatos, la vita-non vita con Persefone e Ade, il Sentiero di Orfeo, la sua nuova esistenza nel mondo dei terreni… ce n’era abbastanza per uscirne pazzi, e Alekos aveva solo tredici anni!

«Sono una famiglia unita, sì» assentì alla fine Achille. «E ora, con l’arrivo di un altro bebè, Alekos dovrà fare il fratello maggiore per il cuginetto.»

Alessandra annuì lieta, dichiarando: «Phoebe è davvero una forza della natura! E’ molto fortunata ad avere un uomo come Felipe al fianco. Sembrano amarsi molto.»

Achille assentì muto, preferendo non incamminarsi su quel sentiero pericoloso in particolare. Parlare d’amore con lei equivaleva a piantarsi una pallottola in testa.

Chi avrebbe potuto tacere, affrontando un simile argomento proprio con l’oggetto del suo desiderio?

Alessandra, però, lo cercò con lo sguardo, inclinando il capo verso di lui, e i suoi corti e lisci capelli corvini le carezzarono il viso illuminato dalla luce della luna.

Achille non poté sfuggire a quegli occhi e lei, titubante, domandò: «Sei sicuro che far venire qui Athena sia stata una scelta saggia?»

Completamente frastornato dalla sua domanda, Achille strabuzzò gli occhi ed esalò: «Che? Scusa? Che intendi?»

«Beh, mi pare evidente che lei ti piaccia, e molto. Però dovresti pensare a qualcun altro, perché fissarsi su una donna sposata – o accompagnata, se preferisci – non può far bene alla salute.»

Alessandra lo disse con tono così serio e preoccupato che Achille non poté che scoppiare a ridere di gusto, passandosi una mano sul viso per la comicità della situazione.

Certo, lui amava Athena, ma come un postulante può amare la propria divinità. Di un amore puro e disinteressato. Mai, neppure in mille vite, avrebbe voluto la dea tra le sue braccia come, invece, desiderava Alessandra.

Ovviamente ne riconosceva la bellezza – solo un cieco non avrebbe apprezzato la perfezione di Athena – ma il suo interesse per la dea non aveva risvolti amorosi o sessuali. Lui doveva rispetto a colei che gli aveva concesso i suoi favori, e avrebbe fatto di tutto per esserne degno, in qualsiasi sua reincarnazione.

Tergendosi lacrime di ilarità, Achille perciò esalò: «Oddio, credimi, Ale… tra me e Athena non c’è mai stato nulla, né mai ci sarà, e non perché lei ama Érebos. Semplicemente, perché io non la amo come tu pensi. Per me, lei è una donna da ammirare. Ha fatto cose, per me, che io non potrò mai ripagare, perciò le porto molto rispetto.»

Sbattendo sorpresa le palpebre, Alessandra arrossì leggermente e mormorò: «Ops… scusa. Ho completamente frainteso, allora.»

Achille, però, scosse il capo e replicò: «Farei di tutto, per lei e per suo figlio, ma perché penso sia giusto farlo. Meritano tutto ciò che io potrò mai dare loro.»

Alessandra, allora, gli batté una mano sull’avambraccio e chiosò ammirata: «Sei davvero una persona nobile d’animo, Achille. E’ bello sapere che sei mio amico.»

Lui si limitò a sorridere, preferendo non soffermarsi troppo su quell’angosciosa parola. Amico.

Non aveva davvero intenzione di finire come Jorah Mormont in Game of Thrones, friendzonato a vita dalla sua amata Daenerys Targaryen.







N.d.A.: innanzitutto, ringrazio NemoTheNameless per la dritta su Saint Seiya, che mi ha fatto venire in mente la scena con Hermes e soci. Questo mi ha anche permesso di darvi una connotazione temporale, visto che la mostra per il trentennale si è svolta nel 2016, e che potete trovare qui.
Per chi fosse curioso di conoscere i gadget che Hermes ha acquistato, li potete trovare qui, qui, qui e qui.
Abbiamo infine conosciuto Alessandra che, oltre a essersi dimostrata una ragazza amante dell'allegria, denota anche una sincera curiosità e un occhio attento ai particolari. Ha infatti notato il legame tra Achille e Athena, pur se lo ha ovviamente travisato. Avrà anche notato altro? Quell'amico, sarà reale, o sarà un pungolo lanciato verso Achille?
Lo scopriremo presto.

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Capitolo 23
*** Achille - 5 - ***


 
 
5.
 
 
 
 
Forti dei Pass concessi loro dalla squadra di Achille e Alessandra, la compagnia di Athena poté rimanere fino agli ultimi istanti accanto alla coppia. Quando infine questi partirono sulla loro Subaru con un gran rombo e uno stridio di gomme, il gruppo si portò in fretta in un punto in cui fosse visibile il maxischermo montato ad arte per permettere la visione dell’intero percorso.

Per Alekos fu esaltante vedere una gara dal vivo per la prima volta ed Érebos, nel vederlo così felice, gli promise altri eventi e altri viaggi per conoscere meglio il mondo dei motori.

Athena non poté che essere felice per i due, ma dentro di sé sospirò esasperata al pensiero che, entro breve, il figlio avrebbe chiesto di poter guidare una motocicletta o, peggio, un bolide su strada.

Per quanto semidio, e per quanto legato a lei fino alla sua scomparsa, non era esattamente il caso che suo figlio sperimentasse troppo presto l’ebbrezza della velocità.

Ma tant’era. Alekos stava crescendo ed Érebos si stava dimostrando un padre putativo davvero ingamba.

Miguel sarebbe stato davvero lieto di sapere una cosa simile perché, più di qualsiasi altra cosa, lui aveva pregato perché lei e il figlio fossero felici, e questo stava davvero accadendo.

Preso perciò il cellulare, filmò il figlio ed Érebos dopodiché, cercato il numero di Persefone, le inviò il video ottenuto.

Non appena lo vedi, mostralo anche a Miguel. Credo gli farà piacere.

Da quando Érebos aveva restituito i ricordi a Miguel – quasi un anno addietro – Athena aveva preso l’abitudine di informarlo sugli eventi salienti della vita del figlio e, da quel poco che aveva saputo, l’anima del marito aveva gradito quelle notizie.

Persefone si era detta stupita dalla forza di volontà dell’anima e, a detta dello stesso Ade, nessuno aveva mai dimostrato, nel corso dei millenni, una caparbietà simile. La Dimenticanza non avrebbe mai avuto Miguel, questo era poco ma sicuro. Sarebbe rimasto per sempre un’anima senziente, e per sua stessa volontà.

Con un sorriso, quindi, mise via il cellulare per concentrarsi sulla visione della gara.
 
***

«…100 metri, destra 4, taglia poco, 60 metri frena tornante destro, in sinistra piena, 150 metri, sinistra 3 lunga apre in 80 metri sinistra 4, veloce lunga, taglia poco alla fine…» 1

La voce meccanica e attenta di Alessandra dettava il ritmo ad Achille, spingendolo sempre più veloce, sempre più vicino al risultato finale. La coppa di specialità e il premio per la vittoria al Rally delle Due Valli.

Achille si muoveva rapido, uniformando il movimento del volante a quello dei piedi sui pedali di metallo, il tutto accompagnato dalle indispensabili indicazioni di Alessandra.

Poco contavano la forza centrifuga che li sballottava a ogni curva o i salti sui dossi, che li facevano volare come proiettili verso il successivo tratto di asfalto da divorare. Lui sapeva esattamente come gestire ogni metro di strada, ogni curva, ogni rettilineo, fosse esso in salita o in discesa.

Le gomme stridevano, il suono secco e preciso del cambio si riverberava nella mano destra di Achille, mentre la sinistra era sempre saldamente ancorata al volante.

I corpi avvinti dai sedili della Sparco e dalle cinture di sicurezza, ricontrollate mille e mille volte, Achille aveva occhi solo per la strada e orecchie per la sua navigatrice.

Il pubblico, il paesaggio, nulla poteva distrarlo in quel momento. Per lui, esistevano solo la sua auto, la sua copilota e il traguardo sempre più vicino.

Piè veloce. Così lo avevano chiamato nella sua prima vita, e così era anche in questa. I suoi movimenti erano rapidi, infallibili, e li avrebbero condotti alla vittoria.

Fu forse questa eccessiva sicurezza che non lo fece reagire per tempo. O forse fu la troppa sorpresa. In ogni caso, quando svoltò in una curva a gomito, tecnicamente molto difficile ma eseguita nel migliore dei modi, Achille si ritrovò di fronte a un mostro in piena regola.

L’imprevisto che non ti aspetteresti mai.

Sgranando gli occhi mentre Alessandra gridava ‘bambino!’ con tono terrorizzato, Achille sterzò brutalmente, mandando gli ammortizzatori a fine corsa nel breve decorrere di un decimo di secondo.

Le pinze si chiusero brutalmente sui dischi autoventilanti della Brembo, mentre ogni lamiera, bullone o guarnizione veniva messa a dura prova da quella brusca, terribile manovra di salvataggio estremo.

Nessuno dei due vide più nulla. Il contraccolpo della forza centrifuga sull’auto fu tale da mandarli quasi in greyout2 ma, quando la Subaru si inclinò pericolosamente su un fianco, entrambi si resero conto di una cosa.

La gara sarebbe finita lì.

L’auto proseguì la sua corsa fino a cappottarsi e, mentre le urla della folla stipata nei prati limitrofi aumentava i suoi decibel, Achille pregò che non succedesse nulla ad Alessandra.

Non avrebbe mai sopportato che, proprio in quell’occasione a lei così cara, perdesse la vita. Si sarebbe dannato a vita, per questo.

Nello stesso momento, all’arrivo del circuito, un coro di disappunto e paura si levò tra i presenti e Athena, levandosi in piedi ricolma di terrore, gridò il nome di Achille al pari della sua famiglia e degli altri spettatori.

Pieni di sgomento, videro l’auto cappottare per ben quattro volte, prima di fermarsi contro un muretto di contenimento in cemento armato.

Fu solo quando la Subaru interruppe la sua carambola impazzita, che Athena si accorse di un particolare impercettibile, ma di vitale importanza.

Gli occhi di Érebos sfavillavano di potere, simili a un universo miniaturizzato nelle sue iridi solitamente del colore del cielo azzurro.

«Érebos…» mormorò atterrita Athena, fissandolo però piena di speranza.

Lui assentì, rilasciando la sua onda di potere prima di sorriderle rassicurante e stringerle una mano, permettendo così al gruppo di poter tirare un sospiro di sollievo.

Fu in quel momento che Artemide, poggiandosi una mano sul cuore per lo scampato pericolo, notò l’assenza di suo fratello. Guardandosi intorno e non trovandolo da nessuna parte, esalò: «Ma dov’è finito?»
 
***

Non riusciva esattamente a capire dove fosse, cosa stesse accadendo, o perché avesse una strana sensazione di straniamento dal proprio corpo.

Gli sembrava di non essere al posto giusto, o nella giusta posizione. Tutto gli sembrava decentrato, come se qualcuno avesse spostato di colpo l’asse terrestre, mandandolo fuori fase.

«Il solito eroe…» brontolò una voce vicino a lui, pur se non fu del tutto certo di aver compreso bene quelle parole.

Eroe? Perché lo definivano un eroe? Lui era… o meglio, non era più un eroe. O il suo Fato aveva cospirato contro di lui, togliendogli ciò che più desiderava?

Aprendo finalmente gli occhi, Achille se li ritrovò inondati di sangue, forse a causa di un taglio sulla fronte. Dubitava di essersi rotto la testa, visto che il suo casco era il migliore su piazza… ma tutto era possibile, quando c’erano di mezzo le Moire.

Rumori di lamiera si intervallarono al suono delle sirene …delle ambulanze?

Sì, sembravano delle ambulanze. Ma perché c’erano…

A quel punto, Achille ricordò. E la paura tornò ad affollare la sua mente nuovamente lucida.

Il bambino. Un bambino era sfuggito all’attenzione dei genitori, gettandosi in strada per salutarli e finendo con il ritrovarsi sulla traiettoria di tiro di un’auto di diverse tonnellate, lanciata a tutta velocità contro di lui.

La manovra che Achille aveva dovuto compiere per evitarlo era stata ai limiti della fisica conosciuta e, ovviamente, le forze in campo si erano messe tutte contro di lui, facendoli ribaltare.

Non rammentava quante volte, né se ciò che aveva tentato come ultima, disperata via di fuga da un massacro, fosse riuscita o meno. Sperò soltanto che il suo tentativo di salvarli avesse evitato ad Alessandra delle conseguenze tragiche.

Volgendo il capo per cercarla – il collo era integro, per fortuna – la vide mentre veniva estratta dalle braccia forti di un pompiere, apparentemente illesa, o comunque senza ferite visibili.

Il vigile del fuoco che si era rivolto a lui tranciò le sue cinture di sicurezza grazie all’ausilio di un paio di tenaglie e, scocciato, borbottò: «Tu guarda se devo venire a recuperarti.»

Ciò detto, il volto bellissimo e accigliato di Apollo gli si manifestò innanzi, sorprendendo non poco Achille.

Che diavolo ci faceva, lì, il dio solare?

Trascinato fuori dall’abitacolo dalle mani forti della divinità, Achille percepì un forte dolore alla parte inferiore del corpo. Mentre altri vigili del fuoco aiutavano Apollo nel compito di estrarlo, il semidio fissò inorridito il proprio stivaletto completamente ricoperto di sangue.

«Qui c’è bisogno di un medico!» gridò Apollo, depositando a terra il capo di Achille mentre un altro pompiere deponeva il resto del corpo.

«Il… il tallone…il tallone…» cominciò a biascicare Achille, completamente ammantato di terrore.
Non era possibile che Atropo fosse così crudele da farlo morire proprio ora!

«Calmati… non hai nulla» lo redarguì Apollo, ma Achille non lo ascoltò affatto.

Memorie dei suoi molti passati gli riportarono alla mente le sue molteplici morti in battaglia, in una girandola impazzita e infarcita di sangue, dolore e prematura dipartita.

Per le sue sinapsi fu troppo.

Mentre veniva caricato su una barella per essere condotto a Verona, in ospedale, i suoi sensi devastati si presero una pausa e tutto divenne buio. Infinitamente buio e calmo.
 
***

«…quindi, volete dirmi che può essere…»

Alessandra si interruppe quando vide gli occhi nocciola di Achille aprirsi e, sorridendo ai dottori che stavano parlando con lei, li salutò mentre uscivano dalla stanza, dopodiché mormorò: «Ehi, ciao. Sei tornato.»

Il semidio sbatté le palpebre nel vederla, sinceramente lieto di poterle parlare prima della dipartita finale.

Sapeva bene che il sangue che aveva visto sul tallone equivaleva alla morte, per lui. Ogni sua vita gloriosa era stata caratterizzata dallo stesso tipo di finale. Il Tallone d’Achille era davvero letale, nel suo caso, non era soltanto il nome di un tendine, o un sarcastico modo di dire per indicare una mancanza di qualche genere.

«Alessandra… come stai?» biascicò lui, stordito dai farmaci. La medicina moderna stava rimandando l’inevitabile, evidentemente, ma sapeva di avere ben poco tempo a sua disposizione, per parlare. Doveva agire in fretta.

«A parte una marea di lividi e qualche graffietto, sto benissimo. La cellula di sicurezza ha retto bene, e le cinture non si sono rotte. Tu, piuttosto? Hai un bel bernoccolo e…»

Levando una mano per zittirla, lui mormorò: «So di non avere molto tempo, perciò vorrei che mi ascoltassi. Non posso più tacere, ormai.»

Strabuzzando gli occhi, lei esalò: «Ma guarda che…»

«No, Alessandra. Ti supplico!» la pregò lui, stringendo nella sua una mano della donna. «So già quale destino mi attende, perciò desidero aprirti il mio cuore per non dover morire con il rimorso a farmi da compagno. Non occorre che tu mi dia una risposta, o assecondi ciò che ti dirò… vorrei solo che tu mi ascoltassi.»

La giovane assentì muta e Achille, stringendo maggiormente le dita di lei tra le sue, mormorò: «Quattro anni fa, quando ci incontrammo per la prima volta al Rally di Montecarlo, e finimmo a banchettare con patatine e coca-cola perché avevamo finito i soldi, capii subito che eri una donna speciale, diversa dalle altre. Fu una sorpresa scoprire la tua passione per le corse, e ancor di più rendermi conto di quanto fossi esperta, e portata per ciò che ora fai con una competenza quasi incredibile.»

Alessandra gli sorrise e, ancora, lo lasciò parlare, ligia alla promessa di non interromperlo. I suoi occhi, però, sembravano voler dire mille parole, ma Achille preferì non badare loro e concentrarsi unicamente su ciò che aveva da dire.

Se si fosse crogiolato in quello sguardo, sarebbe morto senza poter dirle la verità.

Achille allora deglutì, prese un gran respiro e aggiunse: «Ti amo. Non so in che altro modo dirtelo. Non sono mai stato un maestro di eloquenza. Per questo servirebbe Apollo, ma dubito mi farebbe questo favore. Vorrei essere stato abbastanza forte per poter diventare la tua famiglia, il tuo porto sicuro ma, a quanto pare, il mio destino è uno e uno solo e, per quanti tentativi io faccia, la morte busserà sempre alla mia porta prima del tempo.»

Le lacrime salirono agli occhi di Alessandra, a quelle parole e, nel carezzare il viso di Achille con la mano libera, mormorò: «Credo che tu te la sappia cavare abbastanza bene, con le parole, credimi.»

«Forse… peccato che non potrò farne ulteriore uso, di qui a poco» sospirò lui prima di inquadrare, sullo specchio della porta, la figura di Athena. «Temo di aver fallito.»

Athena, a sorpresa, gli sorrise divertita, entrò nella stanza ammiccando complice ad Alessandra e, nel sedersi sul bordo libero del letto d’ospedale, ammise: «Beh, credo che dopotutto tua madre avesse ragione. Non morirai in giovane età, stavolta.»

Facendo tanto d’occhi, Achille esalò confuso: «Ma… la ferita al tallone… il sangue… è come tutte le altre volte.»

«Suggestione. Tutto qui. Il colpo che hai ricevuto in testa ha prodotto una lieve commozione celebrale, e questo può averti portato a credere – e vedere – cose che non c’erano» gli spiegò Athena con tono tranquillo. «In realtà, hai solo un bernoccolo, e il taglio che avevi sul sopracciglio sta già guarendo, ma io farei finta di niente e terrei comunque la benda. Spiegare agli umani perché, in poche ore, il tuo corpo si stia rigenerando così in fretta, potrebbe causare un po’ di problemi… e dopo chi lo sente, mio padre?»

Quelle parole così sibilline misero in allarme Achille che, pieno di timore, fissò turbato Alessandra. Quest’ultima, però, si limitò a scrollare le spalle per poi ammettere: «Diciamo che, dopotutto, non mi sbagliavo sui tuoi amici. I loro nomi volevano dire qualcosa.»

«Ma… Athena… non capisco» mormorò Achille, sempre più confuso.

Dopo aver lanciato una seconda occhiata ad Alessandra, che assentì con un lieve rossore, la dea disse: «Quando sei svenuto, e Apollo urlava perché ti portassero via con l’ambulanza, Alessandra si è spaventata molto e temeva che tu potessi davvero morire, così abbiamo dovuto rassicurarla circa la tua salute.»

«Da brava zuccona quale sono, però, non volevo credere alle loro parole asserendo che, non essendo dottori, non potevano essere certi che tu non stessi morendo per un’emorragia interna o qualcos’altro…» aggiunse Alessandra, ridacchiando imbarazzata. «… così Athena mi ha detto chi eri realmente, e hanno fatto in modo che ci credessi

«Ma… mia signora… in questa rinascita io non ho ricevuto doni da mia madre» sottolineò a quel punto Achille, vistosi ormai smascherato.

Athena sorrise divertita, e replicò: «Beh, un bagno in particolare lo hai fatto, se ben ricordi.»

Achille si accigliò per un attimo, prima di spalancare gli occhi ed esalare: «La doccia improvvisata di Alekos?»

La divinità assentì e gli spiegò del piano di Érebos per tenerlo al sicuro, parlandogli così delle acque dello Stige richieste direttamente ad Ade per lui.

«Se ben ricordi, eri completamente bagnato, tallone compreso» gli rammentò lei, ammiccando.

Scoppiando a ridere nonostante tutto, Achille fissò pieno di gratitudine la dea e, con un cenno del capo, disse ossequioso: «Non so davvero cosa dire per ringraziarvi, mia signora. Continuate a essere la mia protettrice anche in questa epoca.»

«Come ti avevo promesso» annuì lei, dandogli una pacca sulla spalla.

«Non mi spiego, però, l’intervento di Apollo. Tra tutti gli dèi, non è certamente un mio sostenitore» commentò a quel punto Achille.

Limitandosi a una scrollatina di spalle, la dea ammise: «Ci ha detto che lo ha fatto per Alessandra. L’ha presa in simpatia, e così è intervenuto perché non soffrisse. Nel frattempo, comunque, Érebos ha attutito il contraccolpo con i suoi poteri, e anche per questo ne siete usciti praticamente indenni.»
«L’auto è demolita, purtroppo» aggiunse Alessandra, con un leggero sospiro. «E’ un vero peccato perché, con le migliorie apportate da tuo fratello, filava che era un piacere. Avremmo vinto di sicuro.»

Achille scosse il capo per il dispiacere, a quell’accenno, e domandò: «Il bambino, almeno, è salvo?»

«Oh, sì. Hai fatto una manovra eccellente, per evitarlo, pur se ci hai spedito direttamente sulla luna. Ora, che io sappia, i genitori del bambino sono in caserma per una lavata di testa coi controfiocchi, e credo che la Federazione sporgerà denuncia contro chi doveva vigilare e, forse, anche contro la famiglia dell’incauto baby-tifoso. Poteva succedere una catastrofe» gli spiegò Alessandra, lanciando poi un’occhiata piena di gratitudine ad Athena. «Fa comodo avere degli amici ai piani alti

«Sì, fa davvero comodo» annuì Achille, sorridendo a sua volta alla dea.

Athena ammiccò a entrambi, si chinò per un bacio sulla fronte al suo protetto e, nel rialzarsi, disse: «Ora che sai che non dovrai morire a breve, penso vorrete parlare di ciò che è saltato fuori in questi minuti. Ci trovate qui fuori, se servirà il nostro intervento.»

Con un ultimo saluto alla coppia, la dea quindi uscì dalla stanza e si richiuse la porta alle spalle, raggiungendo il suo gruppo nella sala d’attesa del reparto di terapia intensiva dell’Ospedale Borgo Roma di Verona.

Artemide fu la prima a domandarle di Achille e la sorella, nel sedersi accanto a lei, dichiarò: «Direi che è sano come un pesce e ha fatto la dichiarazione d’amore più strappalacrime della storia.»

Érebos e Felipe si guardarono dubbiosi e Athena, scoppiando a ridere, aggiunse: «Presenti esclusi, s’intende.»

Alekos, chiaramente sollevato, domandò: «La mia doccia, allora, è servita?»

«Alla grande. Le acque dello Stige stanno lavorando egregiamente e, nel giro di qualche ora, sarà fuori dal suo letto senza neppure un livido a memoria di quel brutto volo.»

«Bene» sorrise soddisfatto Alekos, prima di guardare dubbioso la madre e chiedere: «Se mi facessi un bagno anch’io nello Stige, mi permetteresti di usare i kart?»

Tutti scoppiarono a ridere, a quell’accenno, ma Athena non rise affatto e, serafica, disse: «Se ben ricordo, tu hai già fatto il bagno nello Stige, tesoro, perciò sei già invulnerabile, da quel punto di vista. Il punto è un altro. Sono davvero contraria all’idea che tu salga su una cosa che può carambolare a quel modo.»

«Ma mamma!» esalò scontento Alekos.

Disperato, il ragazzo cercò supporto in Érebos che, però, levò le mani e replicò: «Ti voglio molto bene, Alekos, ma dirti di sì senza il suo benestare vorrebbe dire precludermi a vita l’ingresso in camera da letto, temo.»

«Uffa, ma dai!» protestò a quel punto il ragazzo, fissando alternativamente tutti gli adulti presenti.

Persino Hermes si defilò da quel confronto finché, a sorpresa, Alessandra comparve in mezzo al gruppo e disse: «Potrei insegnargli io… e andremmo piano. Davvero piano.»

Volgendosi a mezzo, Athena le sorrise e domandò: «E’ andato tutto bene, là dentro?»

Pur arrossendo un poco, la donna assentì con vigore e, nel sedersi accanto alla dea, proseguì dicendo: «Ho un debito enorme con tutti voi, perciò mi prenderei cura di Alekos come se fosse figlio mio. So bene cosa voglia dire volere una cosa e non poterla ottenere perciò, vi prego, permettetemi di farlo girare in pista con me.»

A quell’accenno, la dea della guerra storse il naso e mormorò spiacente: «Mi duole per il trofeo. So quanto tu ci tenessi.»

Alessandra, però, scosse il capo e replicò: «Non importa. Sono sicura che mio padre sa con quanto impegno abbiamo tentato di vincere, e ci proveremo ancora. Ma la cosa più importante è che non abbiamo lasciato nulla di intentato. Abbiamo dato il massimo, che è quanto di meglio ci si possa aspettare da una persona.»

Athena allora assentì e dichiarò: «Lo lascerò venire con te.»

«Grazie» mormorò Alessandra prima di ammiccare vittoriosa ad Alekos, che balzò dalla poltroncina mimando una giga, pur senza fare rumore. Dopotutto, erano in ospedale, e Alekos era un ragazzo educato.

«Io andrò con loro, allora» dichiarò a quel punto Apollo, sorprendendo tutti.

«E perché, di grazia?» domandò Athena, curiosa.

«Tu hai il tuo protetto, io ho la mia… e sono sicuro che la mia protetta sa cantare» dichiarò con sussiego Apollo.

Scrollando impotente le spalle, Athena ammise: «Mi dichiaro sconfitta in partenza, credimi. Achille è stonato come una campana, perciò il punto è tuo.»

«Bene» ghignò vittorioso Apollo, poggiando le mani sui fianchi con espressione più che soddisfatta.

Athena allora lo fissò esasperata e borbottò: «Ti accontenti di poco.»

Lui non la stette minimamente ad ascoltare e Alessandra, ridendo sommessamente, chiosò: «Achille è davvero fortunato ad avervi nella sua vita.»

Efesto le sorrise cordiale, battendole una mano sulla spalla e replicò: «Ora anche tu fai parte della famiglia. Esattamente come Felipe, o Achille stesso.»

Alessandra annuì dopo qualche istante, piena di gratitudine e, ammiccando, asserì: «A mamma verrà male quando le dirò che, in un colpo solo, mi sono fatta così tanti amici.»

«Ci faremo volere così bene che non avrà nessun problema» dichiarò ampolloso Hermes.

La giovane assentì, pur immaginandosi la faccia di sua madre di fronte a quella squadra così male assortita, ma assai affiatata. Di certo avrebbe avuto qualcosa da ridire su Hermes – era un po’ sopra agli standard persino per lei – ma, come aveva asserito il dio psicopompo, alla fine avrebbe voluto loro bene.

La cosa più complicata, alla fine, sarebbe stato ammettere con la mamma che lei, proprio lei, il maschiaccio che tutti avevano preso in giro nel corso degli anni, si era appena fidanzata.
 
***

Consegnato che ebbe ad Alessandra il suo biglietto da visita – lasciandola peraltro assai sbigottita – Apollo prese tra le sue le mani della giovane e dichiarò: «Fammi sapere se il ragazzo ti infastidisce in qualche modo. In quanto mia protetta, è mio dovere salvaguardare la tua salute e il tuo benessere.»

Sorridendo vagamente imbarazzata, Alessandra annuì ma disse: «Sono sicura che non succederà nulla… ma grazie.»

«Con lui, non si può mai sapere» brontolò Apollo, fulminando con lo sguardo un esasperato - ma paziente - Achille.

Athena diede di gomito al fratello, lo raggelò con un’occhiata e ringhiò: «Ti ho già detto e ripetuto di piantarla, Apollo. Non puoi continuare a rompere in eterno con questa storia. Avevi detto che avevate chiarito, tu e Achille!»

«Sì, ma adesso ho un nuovo motivo per stare attento alle sue mosse» sottolineò per contro il dio solare.

«Solo perché hai pensato bene di prendere sotto la sua ala proprio la sua fidanzata!» sbottò a quel punto Athena, irritandosi.

«Non è colpa mia se Alessandra è meritevole delle mie attenzioni» replicò altezzoso il dio.

Athena rimbeccò il fratello per diretta conseguenza e Artemide, nel fissare i due con aperto disgusto, borbottò: «E meno male che sono io che prendo di petto la gente.»

Alessandra rise vagamente ansiosa ma Alekos la tranquillizzò, dicendo: «In realtà, si vogliono bene, ma amano battibeccare su tutto. E poi, ora che zia Arty non può farlo, Apollo è praticamente costretto a discutere con mia madre.»

«Oh, credimi, nipote caro, ho ancora tutto il tempo di questo mondo, per battibeccare» sottolineò Artemide, stringendoselo al fianco con un gran sorriso.

«Preferirei di no» ghignò Felipe, prima di stringere le mani ad Alessandra e Achille. «Venite a trovarci quanto prima. Vi aspettiamo. E alla riapertura delle gare, considerateci già lì.»

«Sarete sempre i benvenuti e, alla prima occasione utile, verremo sicuramente» gli garantì Alessandra, prima di strizzare l’occhio ad Alekos e aggiungere: «Noi abbiamo il nostro giro in pista da fare, ricordalo.»

«Non potrei mai dimenticarlo» sorrise tutto contento il ragazzo.

Efesto, allora, abbracciò entrambi e, rivolto al fratello, disse: «Casa mia è sempre aperta, per voi. Venite quando volete, anche senza preavviso. Come hai visto, c’è spazio in abbondanza per la famiglia.»

Achille annuì con un sorriso prima di scoppiare a ridere assieme agli altri quando Hermes, ormai stanco della discussione tra Athena e Apollo, interpose tra di loro un falso scudo di Atena, ripreso direttamente dalla serie di Saint Seiya.

«Piantala Hermes!» sbraitarono in coro i due contendenti prima di prendersela con quest’ultimo, che scappò a gambe levate per non farsi prendere.

Artemide fissò la scena con aria totalmente imbarazzata ed esalò: «Perché non ho dei fratelli normali?»

«Non ti annoieresti mortalmente, se tu li avessi?» celiò per contro Érebos, sorridendo tutto divertito.
«Hai ragione anche tu» ammise dopo qualche attimo la dea, tamburellandosi l’indice sul mento per poi assottigliare le palpebre, ghignare sardonica e borbottare: «Volendo, potrei…»

L’attimo seguente, senza nessun motivo apparente, anche la dea silvana si diede alla caccia di Hermes, unendosi a fratello e sorella e Felipe, sospirando, dichiarò: «Ho idea che abbiano avuto un’infanzia assai repressa.»

Érebos assentì, serio in volto nell’osservare le quattro divinità impegnate in una versione rivisitata e corretta di acchiapparella e, senza mai distogliere lo sguardo da loro, disse: «E’ anche per questo che amo vederli così. Vivere sull’Olimpo è stato tutt’altro che semplice, per loro e, finché sarà in mio potere, vorrò sempre saperli liberi e spensierati.»

Felipe preferì non chiedere nulla in merito, ben sapendo che vi erano dei segreti, nel passato di ognuno di loro, che era meglio non conoscere.

Per quanto potessero apparire infantili, o facili a lasciarsi andare ai sentimenti umani, erano pur sempre divinità dotate di un potere inimmaginabile, e pensare che qualcuno potesse aver condizionato le loro esistenze, aveva dell’incredibile.

Però, se una divinità del calibro di Érebos si dichiarava lieto di vederli comportarsi in quel modo, doveva avere le sue ragioni e Felipe, dal canto suo, era felice di poter vedere coloro che amava con un sorriso sul volto.

Quando, però, Apollo fece comparire il suo arco e Athena la sua spada, anche Érebos sospirò esasperato e, nello schioccare le dite per formare la sua ormai abusata barriera di nebbia, borbottò: «Adesso, però, esagerano…»

Il gruppo rise di gusto, a quel commento e, mentre la nebbia li avvolgeva per rendere ciechi gli occhi dei pochi umani che avrebbero potuto vederli in quell’isolato piazzale fuori Verona, Achille si disse che mai, una gara, era finita in modo migliore.







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1. Il dialogo di Alessandra è un esempio tipico di ciò che un navigatore dice al proprio pilota. All'apparenza, sembra non avere senso ma, se si capisce il gergo, tutto appare più semplice da comprendere. Per esempio, "sinistra 4" indica una curva a sinistra, e il raggio di curvatura che si troverà ad affrontare il pilota è indicato dal numero. Più il numero è piccolo, più la curva è stretta.

2. Greyout: fenomeno che avviene quando la visibilità si riduce progressivamente a causa di una più o meno forte mancanza di sangue al cervello. Ne soffrono in particolar modo i piloti di aereo, sottoposti a forze G piuttosto elevate.


N.d.A.: qui termina l'avventura di Achille, anche se non è detto che possa tornare più avanti.
Apollo ha preso in simpatia Alessandra, perciò Achille dovrà sopportare ancora - e per gli anni a venire - la presenza del dio nella sua vita. 
Nella prossima avventura, affronteremo il passato di Hermes, e scopriremo perché non fu lui ad accompagnare Miguel e Alekos nell'Oltretomba, quando sappiamo - lo dissi in passato in altre storie - che aveva fatto espressa richiesta a Thanatos di poter essere lui a occuparsi dei cari legati ad Athena.
Ci sarà da versare qualche lacrima, vi avviso...

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Capitolo 24
*** Hermes - 1 - ***


 
  1. Hermes
 
 
Aprile 2017
 
 
«…è tutta colpa tua. Se non fossi venuto, niente di tutto questo sarebbe mai successo… tu sia maledetto, Hermes!»

Risvegliandosi di colpo da un sonno irrequieto e dallo stesso disturbante sogno – o incubo, per meglio dire – che da decenni lo affliggeva, Hermes si passò una mano fiacca sul viso, imponendosi di aprire gli occhi.

La luce del sole lo ferì e, con uno schiocco di dita, le tende aperte nel suo attico si chiusero una dopo l’altra, conferendo a quel loft di stampo moderno un’ambientazione molto decadente.

Tutto assunse i toni del blu e dell’indaco e, mentre le ultime candele terminavano di sciogliersi su loro stesse, l’odore forte e acido di diversi corpi nudi e saturi di alcol gli ricordò le prodezze della notte precedente.

La festa che aveva organizzato era terminata come di consueto e, pur se era lieto che nessuno ci avesse lasciato le penne, durante quell’orgia sfrenata e priva di regole, non si sentiva affatto soddisfatto.

Niente sembrava dargli requie. Si stava spingendo sempre più in là, con i vizi e con le avventure, ma nulla pareva calmare l’irrequietezza e lo sconforto che lo accompagnavano da quel giorno.

Alzandosi lentamente dal divano in cui era affondato assieme a un paio di ragazze – no, un ragazzo e una ragazza, a ben vedere – Hermes si trascinò stancamente fino al bagno, aprì l’acqua della doccia e vi si infilò sotto.

Era stanco, stanco da impazzire, eppure sapeva di non poterlo davvero essere. Era un dio, immortale e indistruttibile, eppure il solo respirare gli costava fatica.

Avrebbe voluto trovare un angolino buio, rintanarsi lì e lasciarsi morire, ma sapeva che non sarebbe mai avvenuto.

A meno di non chiedere a Érebos – uno dei pochi conoscitori dell’arte di uccidere una divinità – non avrebbe mai conosciuto il sapore della morte, né la sensazione di liberazione che, secondo lui, doveva dare.

Migliaia, se non milioni di anime, aveva accompagnato nell’Oltretomba perché si perdessero nella Dimenticanza e, ogni volta che le aveva lasciate a Caronte, lui era stato tentato di prenderne il posto.

Da quel maledetto giorno aveva desiderato sparire, così che il dolore se ne andasse per sempre. Ciò ovviamente non era mai avvenuto, e così la ferita nel suo animo si era fatta strada aprendosi sempre più, allargandosi un centimetro alla volta, divorandolo come un cancro.

Questo lo aveva tenuto lontano da Miguel, quell’infausto giorno.

Troppo sbronzo per muoversi, stordito dalle droghe e dall’alcol, non aveva udito il suono dell’anima di Miguel che spezzava i suoi legami col mondo, e Thanatos lo aveva preceduto.

E dire che lui stesso si era premurato di sottolineare al dio della morte che, coloro i quali fossero stati legati ad Athena, sarebbero stati un suo onere, un suo fardello.

A ciò non si era attenuto perché troppo stordito, troppo perso nel suo personale incubo per sentire i richiami dell’anima pronta per la dipartita, così come quelli di Thanatos che lo richiamava ai suoi doveri di psicopompo.

Con ciò che in seguito era successo, era stato un bene che lui non si fosse presentato. Diversamente, Alekos non avrebbe potuto salvarsi e diventare grande, e quella sarebbe stata solo l’ennesima riprova della sua incapacità, del suo essere una creatura spregevole e inutile.

Mentre l’acqua ghiacciata ritemprava il suo corpo nudo e fiacco, ma non il suo animo disperato, Hermes mormorò torvo: «Dovevo morire io, quel giorno…»

***


Tutto sorridente e abbigliato con un completo in stile anni ’80, con tanto di camicia hawaiana, pantaloncini al ginocchio e infradito, Hermes fece il suo ingresso nella villetta di Artemide e Felipe.

«Ehilà, bella gente!» esclamò il dio, levando un braccio per salutare i presenti. «Dov’è la mia balenottera preferita?»

Un vaso di fiori volò a qualche centimetro dalla testa di Hermes mentre Artemide, chiaramente inviperita e rossa come un peperone in volto, gli urlava contro dalla cucina: «Razza di bastardo che non sei altro! Se mi chiami ancora balenottera, ti cavo gli occhi!»

«Siamo nervosetti, stamattina?» esalò vagamente sconvolto il dio, lanciando un’occhiata curiosa all’indirizzo di Felipe, sdraiato sul divano e con l’aria di aver bisogno di una tregua.

«Non ne hai idea» borbottò Felipe, passandosi un braccio sugli occhi pesti per poi sospirare.

«E’ inutile che mi prendiate in giro, voi due! Non siete voi a dover portare in grembo due gemelli, che pensano che la mia pancia sia l’equivalente di un pallone da calcio!» sbottò Artemide, infilando in bocca un gambo di sedano per azzannarlo con violenza.

Hermes deglutì a fatica di fronte alla dea adirata e, levando debolmente le mani come per scusarsi, mormorò: «Stai buona, Arty… il tuo Hermessuccio ti vuole tanto bene, e sono sicuro che anche il tuo Felipuccio te ne vuole tantissimo.»

«Stamattina ho i miei dubbi» brontolò dal divano Felipe, la voce stanca e roca.

Hermes lo guardò dubbioso per un attimo, prima di chiedere: «Come mai questo ripensamento un tantino tardivo?»

«Gli ho tirato una ginocchiata nelle palle» spiegò sinteticamente Artemide, afferrando un’altra gamba di sedano.

Hermes piegò la bocca in una smorfia al solo pensiero del dolore provato da Felipe e, fissando apertamente contrariato la dea, esalò: «Ma perché ti è saltato in mente di fargli uno sgarbo simile?»

«Come se fosse colpa mia…» brontolò per contro Artemide, indicandosi la pancia enorme. «…dillo alla Principessa Xena e a Buffy l’Ammazzavampiri qua dentro. Sono loro che hanno tentato di evirare il padre. Io sono innocente.»

La prima visita di controllo che Arty aveva svolto, sotto l’attenta supervisione di Demetra, aveva dato un responso inaspettato quanto sorprendente.

Artemide non solo aspettava una figlia… ma questa figlia aveva una gemella, perfettamente formata e di forza pari all’altra.

Se, da principio, la notizia aveva sconvolto un po’ i due genitori, in seguito la gioia per la novella aveva preso il posto della sorpresa e, sia nella famiglia Rodriguez che tra i fratelli e le sorelle di Arty, era scoppiato un applauso pieno di letizia.

Naturalmente, la notizia era rimbalzata fino al palazzo di Zeus e lì, il padre degli dèi, aveva segretamente festeggiato per la figlia, ben sapendo di non potersi congratulare direttamente con lei.

Parimenti, aveva iniziato a scrivere delle lettere ad Artemide e, sfruttando il suo titolo di ánghelos, aveva ufficialmente inviato Hermes al cospetto della dea silvana per chiederle di sotterrare l’ascia di guerra.

Arty, però, aveva rimandato al mittente ogni lettera e, per ogni rifiuto, Hermes era dovuto tornare con la coda tra le gambe al palazzo di Zeus, ricevendo come ricompensa i rimproveri del padre.

Tutto ciò era andato avanti per mesi finché, ormai sfiancato da quella tiritera, anche Hermes aveva gettato la spugna, lasciando l’ingrato compito a Iris.

«Ma perché le tue figlie avrebbero dovuto far del male al padre?» domandò Hermes, piuttosto confuso.

«Non l’hanno fatto di proposito, ma mi hanno fatto un male dell’anima, quando si sono spostate, e le sue palle erano sulla traiettoria di tiro delle mie ginocchia» si limitò a scrollare le spalle Artemide. «Non mi dirai che sei qui per mio padre… Iris è passata solo tre giorni fa con l’ennesima lettera!»

«Ehi, bal… tesorino bello, ti ho già detto che ho dato forfait mesi fa» sottolineò lui, correggendosi in tutta fretta per non rischiare, a sua volta, di rimetterci i sacri augelli.

«Meglio. Per me può anche mangiarsele, quelle lettere» brontolò la dea, afferrando una carota per poi sgranocchiarla furiosamente.

«Non sarebbe più semplice leggerne una e far smettere questo andirivieni alla dolce Iris? Temo che ormai sia allo stremo, la poveretta» le fece notare Hermes, sedendosi su uno degli alti sgabelli da cucina per poi rubarle un pezzetto di carota tagliata a tronchetto.

Artemide gli diede uno schiaffetto sulla mano ma Hermes non vi badò affatto e la dea, con uno sbuffo, borbottò: «Se cedo ora, si sentirà in dovere di venire qui, e io non lo voglio.»

«Non ti sentiresti meglio, se avessi con te almeno uno dei tuoi genitori?» le fece notare lui, ammiccando curioso.

«Che genitore è stato, per me o per Apollo? Era così terrorizzato da da sua moglie che ha lasciato nostra madre in balia del rifiuto delle genti, prima, e della furia di Pitone, dopo. Nessuno voleva aiutarla per paura della furia di Era! Ha partorito senza appoggio alcuno, e sua sorella Ortigia le ha solo fornito un luogo in cui fermarsi, ma non ha mosso un dito per starle accanto. Non fosse stato per la loro parentela, non le avrebbe mai permesso di partorire sulle coste della sua isola. Quindi, cosa gli devo?!»

«Beh, ecco…» tentennò lui, non sapendo che altro dire.

«Mia madre rimase con noi solo per poco tempo, e anche ciò che fece Apollo per vendicarla – uccidere Pitone – non le restituì alcuna fiducia in se stessa, né le fece tornare il desiderio di stare con noi… per lei, noi siamo lo specchio di nostro padre, e perciò siamo da evitare» proseguì irritata Artemide, servendosi un bicchiere d’acqua, che ingollò con vigore. «Perciò, come vedi, mio padre è un porco bastardo, e mia madre è chissà dove, dispersa nel mondo, perché è troppo pavida per riemergere e scoprire come sono diventati i suoi figli.»

«Nessuno sa dove sia?» domandò sorpreso Hermes.

«Macché. E non perché non ci abbiamo provato. Ho mandato i miei segugi in ogni angolo del globo, ma non è servito a nulla. So solo che non è morta, essendo una figlia di due titani, ma non è di grande conforto.»

Ciò detto, sospirò, poggiò il bicchiere sul piano cucina e, dopo aver recuperato una compressa fredda dal freezer, la portò a Felipe, che la accettò più che volentieri.

Sedendosi accanto a lui sul divano, gli carezzò spiacente i capelli, mormorando: «Sarà meglio che tu dorma nella stanza degli ospiti, Felipe. Non voglio farti veramente male, se dovesse capitarmi di stare ancora così.»

«Alla peggio, userò una brandina… ma non ti lascerò sola» sottolineò lui, scostando per un istante il braccio per guardarla e sorriderle.

Lei allora accennò un sorrisino e, nel rivolgersi a Hermes, domandò: «Sei venuto in visita di cortesia, o avevi un motivo in particolare?»

«Ovviamente, sono venuto per farmi tirare addosso un vaso da te» sottolineò Hermes, osservando i cocci in terra prima di schioccare un dito per ricomporre ogni cosa.

Artemide sorrise sghemba, replicando: «Mi hai chiamato balenottera…»

«Sì, lo so, me la sono cercata» scrollò le spalle lui, sistemando il vaso nuovamente integro. «Quel che volevo chiederti era, per l’appunto, di dare una tregua a Iris ma, dopo avermi ricordato ciò che successe a suo tempo, credo non te lo chiederò più. Hai tutte le ragioni per essere infuriata con papà.»

«Vorrei vedere…» mormorò la dea, massaggiandosi distrattamente la schiena con una mano, mentre con quella libera carezzava il viso di Felipe.

Hermes si sentì rimordere la coscienza al pensiero di tutto ciò che aveva fatto lui la scorsa notte, mentre la sorella aveva patito le pene dell’inferno a causa della gravidanza.

Ancora una volta, come sempre ormai, si sentì inadeguato al suo compito e niente affatto degno del suo ruolo di divinità ma, come si era ripromesso a suo tempo, nulla emerse, nulla venne detto.

Per le sorelle, lui doveva essere il solito rompiscatole un po’ caciarone e divertente. Non voleva che si prendessero carico anche dei suoi problemi.

Sia Artemide che Athena avevano già sofferto troppo, e non avevano di certo bisogno di sentire le sue lagnanze e i suoi pianti. Se li era cercati, perciò doveva soffrire in silenzio, senza far pesare nulla a nessuno.

Sistemando un cuscino dietro la schiena di Artemide, Hermes le baciò il capo e disse: «Così starai un po’ più comoda.»

Fatto ciò, estrasse dal suo zainetto una ciotola di legno di olivo e aggiunse: «E’ ambrosia. Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere.»

Artemide gli sorrise grata, prese in mano la ciotola e, dopo averla stappata, lasciò che l’aroma speziato dell’ambrosia le inondasse le narici. Senza poterne fare a meno, infilò un dito nella sua densa consistenza e se la portò alle labbra, sospirando deliziata.

L’icore nel suo sangue prese a brillare come un piccolo incendio sottopelle e Felipe, curioso, domandò: «Io non posso assaggiare, vero?»

«No. E’ velenosa per i mortali ma, per dèi e semidèi, è come miele» gli spiegò Hermes. «Farà bene alle bambine e, forse, eviterà future evirazioni.»

«Ben venga, allora» asserì Felipe.

«Grazie, Hermes. Ne avevo davvero bisogno» mormorò la dea, tributandogli un dolce sorriso.

Il dio, però, non se ne sentì davvero degno e, schernendosi, replicò: «Guarda te se ci deve pensare uno scapestrato come me! Ricordati di chiederne un po’ alle tue ancelle, quando verranno per le abluzioni. L’ultimo mese dovresti mangiarla sempre.»

«Sei peggio di una chioccia» sottolineò Artemide, ridendo gaia.

Hermes rise di gusto e, nell’accomiatarsi, replicò: «Il mio animale è il gallo, non la gallina!»

«Sempre pennuto è!» lo rimbeccò Artemide prima di sentire la porta chiudersi.

Tornando seria, la dea guardò dubbiosa Felipe e domandò: «A te non è parso un po’ strano?»

«Lo conosco da poco, perciò non faccio testo, ma mi è sembrato un po’ solo» ammise Felipe.

«Forse, dovrei davvero sentire la Pizia. Chissà che lei non ne sappia un po’ di più… ma non mi va di andare fino a Delfi. Sono troppo stanca, anche solo per teleportarmi, e la Pizia non accetta richiesta via Skype» sospirò Artemide.

«Hermes mi sembra un tipo in gamba. Se avrà bisogno, chiederà alla sua famiglia, no?»

«Lo spero» mormorò lei, lanciando un’occhiata al vasetto di ambrosia.

***


Era davvero venuto solo per quello?

Gli mancava l’aria, e anche solo pensare di spostarsi dall’appoggio sicuro offerto dalla porta d’ingresso della villetta di Artemide, gli sembrava troppo.

Era uscito come un comune umano perché la sua mente era stata troppo confusa e sfiancata per svanire come sovente, e questo la diceva lunga sul suo attuale stato.

Ma cosa poteva farci?

Le droghe non funzionavano. Bere era diventato inutile. Il sesso sfrenato e le pratiche sadomaso non gli davano più nulla.

Ogni cosa, per quanto questa fosse illegale, sopra le righe, moralmente inaccettabile, era già sorpassata e inutile, per lui, ai fini pratici.

La sua mente, e quella voce, lo riportavano prepotenti a quel periodo tanto adorato, a quel tempo di goliardico amore e sfrenata dissolutezza, tramutatisi in un attimo nel suo incubo ricorrente.

Quando riuscì finalmente a riaprire gli occhi, dopo averli tenuti serrati per un tempo indefinito, Hermes li sgranò in preda al panico più nero quando, sulla veranda della villetta di Athena, egli vide la figura di Érebos.

Le braccia conserte e lo sguardo puntato su di lui, il dio Ctonio sembrava essere avvolto dal manto della notte, coi suoi lunghi e lisci capelli neri, il viso candido come la luna e l’abbigliamento total black.

Forse, si stava chiedendo cosa stesse combinando, spianato contro la porta della villetta di Artemide al pari di un poster.

Quando, però, vide la sua bocca muoversi, seppe con certezza che, non solo Érebos non si stava chiedendo il perché del suo comportamento, ma sapeva cosa lo stava arrovellando.

Nella sua mente, simile a un gong, la voce del dio disse stentorea: “Non puoi giocare con le carte del tuo destino ancora per molto, Hermes. Devi scegliere di farti aiutare, o anche un dio come te si perderà per sempre, e Atropo calerà la sua forbice, mandando me a compiere ciò che il Fato vorrà.”

Lui scosse il capo, a quelle parole dal chiaro sapore di una sentenza definitiva e, piegandosi sulle ginocchia, si strinse la testa tra le mani e pregò, agognò con tutto se stesso di sparire, di scappare dallo sguardo del dio Ctonio.

Questo, però, ovviamente non avvenne, tanto era il suo turbamento e la sua stanchezza mentale ed Érebos, mosso a pietà, schioccò le dita e lo condusse direttamente nel suo attico a Las Vegas.

Hermes fissò costernato quelle pareti a lui familiari, il profumo di patchouli bruciato negli incensieri che gli riempiva le narici, la frescura dei pavimenti di marmo bianco sotto le sue dita e, non riuscendo più a trattenersi, urlò.

Urlò fino a farsi dolere la gola, fino a tossire acidi e bile e, quando fu finalmente abbastanza stremato per crollare lungo riverso sul pavimento, gorgogliò: «Non ne posso più… basta…»
 
***

In uno sfarfallio di tenebra, Érebos riprese le sue sembianze dinanzi alla scalinata marmorea del tempio di Zeus e, senza attendere un attimo di più, percorse a due a due i gradini prima di lasciarsi alle spalle il pronao dagli alti colonnati.

A grandi passi, si diresse verso il luogo in cui la presenza del Padre degli dèi era più forte e, quando infine lo vide in compagnia della sorella Demetra, non se ne chiese i motivi.

Era in ansia per Artemide, ma non poteva avvicinarsi a lei a causa della lite avvenuta anni prima. Da quel giorno, i due non si erano più parlati, e nessun tentativo di venire a patti era servito.

Quando Zeus lo scorse, il volto ombroso e imperscrutabile, interruppe subito il dialogo con Demetra e, impallidendo leggermente, gorgogliò: «Artemide sta…»

Scuotendo recisamente il capo, il dio Ctonio asserì: «E’ ormai stanca, ma sta bene. Non sono qui per lei.»

«Volete che vi lasci soli?» domandò a quel punto Demetra, fissando dubbiosa l’alta divinità Ctonia. Nessuno poteva dirsi completamente a proprio agio, con le divinità Ctonie e, per quanto Érebos fosse un dio tranquillo e pacato, l’ansia nasceva spontanea in chi poco lo conosceva.

Érebos rifletté un attimo su come esprimersi, ma alla fine disse: «Avere un parere in più non guasta, soprattutto se a darlo è una persona di simile spessore.»

La dea sorrise appena a quel complimento inaspettato, annuendo grata.

Il dio Ctonio, allora, dichiarò torvo: «Hermes è al limite. Non ce la fa più. Potrebbe impazzire da un momento all’altro, e sappiamo bene cosa potrebbe fare una divinità fuori controllo, su un pianeta pieno di vita come la Terra.»

Zeus si adombrò in viso, a quelle parole, e replicò: «Pensavo che lasciargli fare quel che voleva, gli avrebbe permesso di dimenticare.»

«Con tutto il rispetto, Zeus, ma non sta dimenticando. Sta affogando nel senso di colpa e nell’inedia. Se fosse stato un comune umano, sarebbe ormai morto da tempo… e quando una divinità invoca la propria morte, non è mai un buon segno» ribatté Érebos con tono vagamente critico.

Zeus si accigliò nell’avvertire l’implicito rimprovero e, burbero, grugnì: «Che avrei dovuto fare, sentiamo? Legarlo a un palo e fustigarlo finché non avesse compreso che non era colpa sua?!»

«Se necessario, forse. Ma lasciarlo ai propri demoni ha prodotto altri incubi, altre increspature, altre crepe nel suo animo, e ora sono enormi!» si alterò il dio Ctonio, aggrottando la fronte. «Nemmeno gli Oneiroi riescono più a tenere sotto controllo il suo subconscio, e Hypnos ha già rinunciato da tempo a imporre su di lui il riposo per tentare di chetarlo.»

Zeus levò le sopracciglia, pieno di meraviglia, ma non disse nulla. Forse era davvero sorpreso che sia gli dèi minori dei sogni, che il dio del sonno, avessero fallito nel compito di chetare i demoni che arrovellavano Hermes.

«Cos’è successo, Zeus? Perché Hermes sta male?» domandò turbata Demetra.

Zeus sospirò, scosse il capo e dichiarò stancamente: «Sciocchezze umane, che però lui ha preso molto sul serio… e di cui porta ancora il peso, nonostante siano passati decenni da quando quell’incidente avvenne.»

«Sono morti diciassette ragazzi! Come puoi definirle sciocchezze?!» sbottò Érebos, sgranando gli occhi.

«Posso perché erano solo umani! Sono fallibili, sciocchi e fatui!» lo rimbeccò Zeus. «Nessuno ha ordinato loro di fare quel che hanno fatto, e Hermes è stato sciocco a pensare che, dar loro una mano a ottenere ciò che volevano, li avrebbe resi devoti e amorevoli. Gli umani non sanno provare vero amore o devozione!»

Érebos a quel punto lo fissò pieno di sarcasmo e asserì: «Disprezzi le creature che un tempo ti idolatravano? I miei complimenti. O forse il problema risiede altrove? Forse, non accetti che degli umani amino le tue figlie e i tuoi figli, e vengano corrisposti con altrettanta passione?»

Zeus si oscurò in volto, ma non parlò così il dio Ctonio, sprezzante, aggiunse: «Hermes potrà aver sbagliato a pensare che, dando loro ciò che desideravano, lo avrebbero amato spassionatamente, ma credere che il suo dolore sia effimero e inutile perché provato per dei mortali, rende te effimero e inutile.»

La furia di Zeus si incendiò in un attimo e, subitanea, una saetta comparve nel suo pugno, spaventando Demetra, che si scostò di alcuni passi in preda al panico.

Érebos, però, non si allontanò e anzi, si pose dinanzi alla dea per proteggerla e, al tempo stesso, sorrise sarcastico a Zeus per poi aggiungere: «Hai rotto i ponti con i tuoi figli perché non accetti che amino qualcun altro oltre te e, francamente, è quanto di più egoistico io abbia mai visto. Non sono tuoi schiavi, né tue pedine in un gioco senza fine. Sono liberi, e tu non vuoi accettarlo.»

«Sono nati da me!» tuonò Zeus, levando il braccio armato di saetta.

«E con questo? Pensi che questo ti dia il diritto di trattarli come preferisci, o di infischiartene quando non ne comprendi i patimenti? Apprezzai di vederti a disagio, di fronte al silenzio delle tue figlie, perché pensai che avessi compreso i tuoi errori… ma ora mi domando quanto di ciò che vidi fosse genuino …o legato a una reale comprensione dei fatti.»

«Stai sfidando la persona sbagliata, Érebos» gli ricordò Padre Tutto, furente.

«Ricorda, figlio di Crono… io ho poteri che tu neppure puoi immaginare, e che fanno impallidire i tuoi. Solo, non mi sembra giusto privare la mia amata del padre, e unicamente per un mio capriccio» sottolineò Érebos, raggelandolo con lo sguardo. «Per rispetto verso Athena, Artemide e Hermes, sono giunto qui per chiedere il tuo permesso di aiutare tuo figlio ma, stando a ciò che sento, non ritieni che il suo dolore sia maturato per le giuste motivazioni. E’ esatto ciò che dico?»

«Hermes ha sempre avuto troppo a cuore le sorti dei mortali» si lagnò Zeus, chetandosi leggermente.

«Chieditene i motivi. E’ uno psicopompo al pari dei miei figli Thanatos e Caronte e, a meno di non strappare loro il cuore dal petto, mi sembra ovvio che ne siano rimasti segnati, in un modo o nell’altro, nel corso dei millenni. Dubito che uno qualsiasi di noi, a loro posto, non si lascerebbe andare a un poco di calore umano, dopo tante anime condotte alle porte dell’Oltretomba, e oltre» sottolineò il dio Ctonio, scuro in viso.

La mano di Demetra sfiorò il braccio di Érebos per scostarlo e il dio, gentilmente, la lasciò passare perché la dea potesse affrontare il fratello.

Quest’ultimo la fissò adombrato, borbottando: «Hai delle lamentele anche tu, sorella?»

«Ti sei arroccato sull’Olimpo senza mai vivere pienamente le creature mortali che stanno sotto di esso, ma io credo sia stato un errore. Da quando mi sono convinta a entrare a far parte dell’OMS, ho imparato a conoscere meglio gli esseri umani e, se è pur vero che vi sono delle persone crudeli e indegne di vivere, per contro ve ne sono molte altre che invece sono meritevoli… e degne di essere aiutate, così come spalleggiate.»

Zeus sbuffò irritato, ma Demetra non si diede per vinta.

«Fratello, non so cosa sconvolse tanto il povero Hermes, ma credi a Érebos. Il dolore provato per le creature mortali non è inferiore a quello che potremmo provare per qualcuno di noi. Sanno farsi amare, e riamare con pienezza e abnegazione. E non credere che non sappia cosa voglia dire provare gelosia nei confronti di qualcuno, poiché io ne provo tuttora verso nostro fratello Ade per via di Persefone. Ma so anche che dobbiamo soprassedere, e accettare per buono ciò che ci viene dato… o tolto. Di fronte a certe cose, neppure noi possiamo nulla.»

«Quindi, dovrei accettare che Athena ami i genitori del suo marito morto più di me?!» ringhiò furioso Zeus, mettendo finalmente in luce il suo cruccio. «O che Artemide si appoggi a quei mortali come se non avesse una famiglia?»

Érebos, allora, disse con tono stanco: «Finché non accetterai di chiedere scusa alle tue figlie e conoscere Carlos e Anita, niente di quel che dirai potrà avere senso. Sono persone meritevoli, a cui voler bene. Non ti stupire se le tue figlie li amano. Chiediti piuttosto perché tu non riesci a ottenere lo stesso.»

Zeus digrignò i denti, a quelle parole ma, complice forse la presenza di Demetra, non replicò e, lasciata svanire la saetta, borbottò: «Fai quel che più credi giusto, per Hermes. Ma non ti lagnare con me se non otterrai nulla. Quel ragazzo è solo un bambino viziato.»

Il dio Ctonio preferì non replicare a quelle parole piene di fiele e, senza un saluto o una parola, se ne andò dal tempio di Zeus, seguito a pochi passi da Demetra.

Quando infine si ritrovarono nel piazzale antistante il tempio, la dea lo bloccò a un braccio, mormorando ansiosa: «Érebos, aspetta.»

La divinità Ctonia si volse a mezzo e, con un cenno del capo, disse: «Sappi che non mi scuserò con lui.»

«Neppure te lo chiederò. Mio fratello sa essere cieco e sordo, su alcune cose, ma posso assicurarti che ama le sue figlie e i suoi figli. Solo, non comprende alcune cose di loro» lo rassicurò Demetra.

«So benissimo che li ama, a modo suo, ma deve accettare che molti di loro hanno deciso di cambiare, di vivere una vita diversa da quella che hanno passato qui» replicò Érebos, abbracciando con lo sguardo la città olimpica e i suoi molteplici templi.

Demetra ne seguì l’occhiata, assentì e preferì non replicare. Pur essendo un luogo bellissimo, pieno di pace, armonia e perfezione, era altresì un luogo freddo e inospitale, e molti dei suoi abitanti si erano man mano discostati per discendere tra i terreni.

Lei stessa, per molti mesi l’anno – quando Persefone si trovava nell’Oltretomba – viveva tra Ginevra e Bruxelles, spendendo tutto il suo tempo in favore degli umani.

Come dare torto al dio Ctonio, quindi?

Ugualmente, però, disse: «Ti prego di credere che Zeus non è cattivo. E’ solo ancorato a un passato che non esiste più ed è difficile, per lui, accettarlo.»

«Non fatico a crederlo, Demetra, ma ugualmente sta rischiando di perdere l’affetto dei suoi figli, comportandosi così.»

«Lo so» assentì Demetra, spiacente. «Pensi sia il caso che avverta Maia? Ci stiamo preparando per assistere Artemide nel parto ma, se pensi che debba parlare al figlio, le accennerò qualcosa, perché credo che neppure lei sia al corrente dei disagi di Hermes.»

«Non voglio turbare Maia, perciò no, non dirglielo. Hermes impazzirebbe del tutto, se sapesse che sua madre è a conoscenza del suo personale fardello. Ci penserò io e, se potrò, lo salverò da se stesso» si limitò a dire il dio, scuotendo il capo.

«Mi atterrò al tuo dire, allora… ma sappi che avrai il mio appoggio, qualora ti servisse» dichiarò Demetra, sorridendogli grata.

Il dio Ctonio assentì e, in un battito di ciglia, se ne andò dall’Olimpo. Sarebbe stato difficile e oltremodo pericoloso mettere alle strette Hermes, ma non v’era più tempo. Atropo lo aveva avvertito; non gli avrebbe più concesso altre occasioni.

I poteri di Hermes erano minacciosamente vicini all’autodistruzione e, se ciò fosse successo, nessuna creatura vivente sarebbe più stata al sicuro.

A volte, amare richiedeva un prezzo molto alto da pagare, e Hermes lo aveva scoperto a proprie spese e nel modo più terribile. Soltanto, non aveva più trovato la via della sanità mentale, e ora aveva bisogno di una mano.

Érebos, però, non sapeva se lui l’avrebbe accettata e lui non voleva interpretare il ruolo del boia. Per nessun motivo al mondo.






N.d.A.: come avete potuto constatare, l'allegria e goliardia di Hermes sono una mera facciata per nascondere i tumulti - e i dubbi - interiori, nati decenni primi e mai del tutto sopiti. Questa sua debolezza protratta, però, lo sta conducendo pian piano verso un baratro senza fine e, poiché Erebos non desidera vederne l'annientamento - anche perché sarebbe deputato a eliminarlo lui stesso, in quanto divinità Ctonia, e quindi dai poteri superiori al Pantheon legato a Zeus - cerca di fargli capire quanto sia vicino a perdersi. Riuscirà, però, a capire, il nostro scapestrato dio psicopompo? O Erebos sarà costretto a un gesto terribile?
Da ultimo, Zeus muoverà mano per aiutare il figlio, o lascerà che le cose procedano senza un suo intervento diretto?

 

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Capitolo 25
*** Hermes - 2 - ***


2.
 
 
 
 
 
Erano settimane che cercava in giro per il mondo, tra vallate e pendii, campagne e città, ma nulla era valso allo scopo. Gli rimaneva solo quell’ultima carta da giocare, dopodiché avrebbe dovuto darsi per vinto. Ancora una volta.

Non aveva realmente sperato di riuscire in quell’impresa, però si era sentito in dovere di tentare. Non c’era stato per Athena, e ancora ne portava i segni sul cuore, perciò aveva desiderato fare qualcosa di buono almeno per Artemide.

La sua impresa, però, era diventata difficile fin dai suoi primi tentativi di ricerca e, nel corso dei giorni, il tutto era diventato ancor più complicato e impraticabile.

Quando, perciò, mise piede nel tempio di Ares, Hermes pregò con tutto se stesso che la sua idea funzionasse, permettendogli di sentirsi un po’ meno sporco, un po’ meno inutile.

Lasciatosi alle spalle peristasi e pronao, il dio si avviò con passo leggero sul pavimento marmoreo fino a raggiungere la camera interna del tempio, il naos, dove era solito intrattenersi Ares con i suoi compagni di bevute.

Quel giorno, a giudicare dai rumori che udiva provenire dal naos, doveva essere in corso una partita a qualche videogioco di guerra, o qualcosa di simile.

Non appena varcò l’arco di colonne interne, però, Hermes si rese conto che non era affatto così.

Ares era sdraiato sulla sua ottomana preferita, un cesto di frutti succosi posizionato dinanzi a lui, e stava osservando su uno schermo gigante quella che sembrava essere una guerra sanguinosa e spietata.

Accanto a lui, seduti a terra a gambe intrecciate, Bia e Cratos – due dei suoi luogotenenti – osservavano a loro volta quel macabro spettacolo senza perdersi un solo fotogramma.

Schiarendosi la voce dopo alcuni attimi di esitazione, indeciso se interrompere o meno la visione di quel disgustoso spettacolo, Hermes attirò così l’attenzione del padrone di casa.

Questi, volgendo il capo a mezzo, levò un sopracciglio con evidente sorpresa quando scorse Hermes e, levato un braccio a mo’ di saluto, domandò: «Ehi, Hermes! Che ci fai qui? Sei venuto in veste ufficiale, o è una visita di cortesia?»

«Assolutamente di cortesia, fratello» dichiarò Hermes, avvicinandosi.

Il rumore della battaglia divenne più forte man mano che si avvicinava e Ares, nell’abbassare un po’ il volume, sottolineò: «Voglio subito precisare che non l’ho causata io. Al tempo d’oggi, gli uomini riescono a fare cose inenarrabili anche senza che io sussurri niente al loro orecchio. Hanno imparato bene e, devo dire, hanno così tanta fantasia e perversione da sorprendermi, a volte.»

Hermes accennò un sorrisino di circostanza – che gli piacesse o meno quell’aspetto di Ares, lui sapeva bene quanto amasse il sangue e la violenza – e chiosò: «Oh, sanno certamente renderti onore.»

«Sicuramente» assentì Ares prima di gettare le gambe fuori dall’ottomana, levarsi in piedi e guardare i suoi due aiutanti di campo. «Rimanete pure qui a divertirvi. Io devo conferire con mio fratello.»

I due fratelli seduti a terra assentirono grati e, patatine alla mano, proseguirono nella visione delle immagini riguardanti la terrificante guerra in Siria, mentre Ares e Hermes si portavano nell’opistodomo, sicuramente più tranquillo e adatto per parlare.

Non appena raggiunsero quel luogo fresco e ben lontano dai rumori fastidiosi provenienti dal televisore a schermo piatto, Ares intrecciò le braccia nerborute sul torace e domandò: «Allora? Di cosa avevi bisogno, fratellino?»

«Puoi prestarmi i tuoi avvoltoi?» chiese di getto Hermes, sorprendendolo non poco.

Sbattendo le palpebre con evidente sorpresa, Ares replicò: «Potrei anche farlo… ma perché?»

«E’ noto a tutti che hanno una vista eccelsa e grande intelligenza, e credo sia il sistema più veloce per trovare… beh, una persona che nessuno sa dove si trovi» gli spiegò sommariamente Hermes, non sapendo quanto dire.

Ares, però, non si lasciò abbindolare dalle sue scarne parole e, accigliandosi, replicò: «Potresti chiedere a nostro padre di prestarti le sue aquile. Anche loro sono uccelli dall’indubbia bravura. Ma non lo farai… perché?»

Da quando in qua Ares si soffermava a pensare alle cose che gli venivano dette? O a cavillare sui particolari? Lui agiva a testa bassa, come un toro alla carica. Non badava a cose del genere!

Hermes si lagnò mentalmente per quel fastidioso contrattempo e, burbero, ammise: «Non voglio chiedere un favore a nostro padre.»

«Sei in rotta anche tu con papino Zeus? Non bastavano Arty e Athena?» ironizzò a quel punto Ares. «La nostra quasi mamma come sta, tra l’altro? Non mi azzardo più a chiamare, da quando mi ha detto cose inenarrabili al telefono.»

«E’ un tantino nervosa e stanca. Pare che le gemelle siano molto forti, e la disturbano più del sopportabile» gli spiegò succintamente Hermes, prima di ammettere: «Pensavo che, se fossi riuscito a trovare Latona, Artemide si sarebbe sentita meglio. Avere la propria madre al fianco non dovrebbe dare conforto, in momenti come questo?»

«Non posso parlare per esperienza personale, visto che avere Era al fianco è come essere punti da uno scorpione sul culo, …» chiosò Ares, scrollando le spalle con noncuranza. «…ma forse hai ragione. Vorrei però ricordarti una cosa, fratellino.»

«E cioè?»

«Se un dio non vuole essere trovato, non potrai fare nulla per sovvertire questo fatto. Latona è una titanide, perciò ha abbastanza potere per nascondersi agli occhi di tutti e, se in questi secoli si è celata alla vista delle divinità, avrà avuto le sue brave ragioni, perciò sarà quasi impossibile trovarla» sottolineò Ares, accigliandosi.

«Tenterò ugualmente» liquidò la questione Hermes, compiendo un gesto ampio e secco del braccio.

Ares allora scrollò le spalle, schioccò le dita e, nel breve decorrere di qualche attimo, una decina di avvoltoi comparvero nell’opistodomo, scrutando dall’alto i due dèi con i loro occhietti attenti e voraci.

Hermes li fissò vagamente ansioso, pur sapendo che non gli avrebbero fatto alcun male e Ares, nel ghignare brevemente, asserì: «Un po’ meglio, vero, rispetto ai tuoi galletti?»

«Fanno sicuramente più paura» gorgogliò Hermes, turbato.

Ares rise brevemente, prima di guardare i suoi animali sacri e dire: «Cercate la titanide Latona e portatele i miei ossequi. Ditele che il dio Hermes desidera conferire con lei, se non è troppo disturbo.»

Gli avvoltoi assentirono con le loro testoline piumate prima di involarsi come uno stormo compatto e uscire dal tempio e Hermes, nell’osservarli, si chiese se avrebbero avuto successo.

«C’è altro che posso fare, fratellino?» domandò Ares, dandogli una pacca sulla spalla.

Lui scosse il capo, pur desiderando affondare nel forte abbraccio del dio suo fratello per qualche attimo di conforto. Ugualmente, non lo fece e, scostandosi, lo ringraziò con un sorriso e se ne andò come era venuto, con passo pesante e sconfortato.

Ares lo fissò dubbioso per diversi attimi, ma alla fine tornò dai suoi luogotenenti per continuare la visione della guerra siriana. Se Hermes voleva altro da lui, glielo avrebbe detto in seguito, quando fosse stato pronto.
 
***

Athena aveva sempre saputo che, molto di ciò che realmente Érebos rappresentava, veniva gelosamente celato dentro l’animo del dio e, spesso, si era chiesta quanta – della sua oscurità primigenia – avesse un’accezione negativa.

Lei lo amava, e ne era riamata con passione e devozione, ma non nascondeva a se stessa quanto, a volte, avrebbe desiderato conoscere tutto di lui, indipendentemente da quanto oscure potessero essere le conseguenze.

Sapeva che lui era padrone dell’oscurità, e sapeva altresì che questa energia inglobava sia gli stati fisici che metapsichici di ciò che apparteneva alla notte.  La stessa Nyx, sorella di Érebos e madre di molti dei loro figli, aveva parti di sé che era meglio non conoscere approfonditamente, eppure loro erano grandi amiche e Athena le voleva bene come a una sorella.

Quando, perciò, la dea entrò nello studio di Érebos, che il dio aveva ricreato in una delle stanze della villetta dove abitava con lei, non si stupì più di tanto nel vederlo circondato da un’oscurità senza fondo e senza forma.

Ciò che la turbò fu però scorgere sul volto bellissimo del dio i semi del dubbio e della preoccupazione e, dopo essersi richiusa la porta alle spalle, mormorò: «Ti senti bene?»

Érebos non cancellò l’oscurità come soleva fare in sua presenza ma vi rimase immerso e, nello scuotere il capo, disse: «Devo prepararmi per una cosa. Ma sto bene.»

Sorpresa che il dio non avesse nascosto quel suo lato più oscuro – era sempre restio a mostrarglielo, perciò era lieta che lui non avesse interrotto ciò che stava facendo – Athena si avvicinò dubbiosa e domandò: «Niente che io debba sapere?»

«Non riguarda me, né te, perciò dovrebbe parlartene il diretto interessato e, se ancora non l’ha fatto, io non tradirò il suo silenzio. Puoi accettarlo, amore mio?» mormorò il dio Ctonio, sorridendole spiacente.

Lei accennò un sorriso, annuendo, e replicò: «Mi fido del tuo giudizio. Ma sei certo che questo qualcosa non ti danneggerà? Sembri così turbato!»

Érebos assentì, ma ammise: «Non sarà pericoloso tanto per me, ma per chi dovrà affrontare ciò che sto preparando.»

«Ed è necessario?» chiese turbata la dea, osservando l’oscurità sfrigolante. Avvertiva senza problemi il potere primigenio proveniente da quella massa turbinante e priva di corporeità e, pur se divinità, ne ebbe paura.

Chi mai avrebbe potuto affrontare – e sopportare – una simile energia?

«Per la sua salvezza mentale, sì» annuì roco Érebos, sorprendendo non poco Athena.

Il potere del dio Ctonio era così enorme che solo entità Ctonie avrebbero potuto sopportarne il peso… chiunque altro, ne sarebbe rimasto schiacciato.

Sgranando di colpo gli occhi, la dea della guerra mormorò: «E’… si tratta di Hermes, vero?»

La divinità Ctonia assentì con un sorriso triste, asserendo: «La tua sensibilità ti precede, cara, ma Hermes non è ancora pronto per parlarne con voi… la sua mente sta vagando in un mondo che lo tiene distante dai suoi affetti, e solo io posso riportarlo indietro. Sempre se lo vorrà, ovviamente.»
Impallidendo leggermente, Athena si portò una mano al cuore ed esalò: «Se un dio impazzisse, potrebbe…»

«Distruggere ogni cosa, sì» annuì suo malgrado Érebos, e l’Universo oscuro in cui era immerso brillò per un attimo, come a dare enfasi al suo dire. «Il mio compito sarà quello dell’avvocato della difesa, ma anche dell’accusa e, se ciò che avverrà nel mio regno non lo porterà alla ragione, dovrò anche esserne il boia. Atropo si arrabbierà perché te l’ho detto e, soprattutto, perché mi sono impicciato nei suoi affari, ma ormai le cose si sono spinte così avanti che nessuno potrà fare nulla per interromperle.»

Athena assentì suo malgrado e, in barba ai timori di Érebos, si avvicinò a lui, lo baciò dolcemente sulle labbra fredde – forse specchio di ciò in cui era immerso – e mormorò: «So che non potresti mai fare coscientemente del male a qualcuno. Spero solo che Hermes ti ascolti, anche se avrei preferito che si rivolgesse a noi per qualsiasi cosa.»

«Tu stessa rifiutasti l’aiuto dei tuoi fratelli, quando morì Miguel, perciò puoi comprendere il suo sbandamento e la sua paura» le rammentò la divinità. «Contrariamente a lui, però, tu non ti perdesti nell’autocommiserazione e nell’autodistruzione, e non rischiasti mai di perdere te stessa. Lui, invece, è a un passo dal perdere il controllo di sé, con tutto ciò che questo comporta.»

Athena annuì spaventata, sapendo bene cosa non le stesse dicendo Érebos. La follia, la distruzione, un evento estintivo che neppure le Moire avrebbero potuto controllare.

«Lo riporterò da voi. Te lo prometto» le sorrise il dio Ctonio, immergendosi completamente nella nube oscura da lui creata e che, all’apparenza, conteneva l’universo stesso.

La dea non poté che assentire e, dopo essere uscita dallo studio, si appoggiò contro la porta e sospirò, domandandosi cosa avesse turbato così tanto Hermes da spingerlo a perdersi a quel modo.

Il suo dolce e scapestrato fratellino era la quintessenza dell’irrequietezza e della dissolutezza, ma sapeva anche essere tenero e affettuoso.

Cos’aveva dunque convinto Hermes di non essere degno di poter parlare con loro, di non poter aprire loro il cuore? Cosa c’era, nel passato di Hermes, da sconvolgerlo tanto?

E da quanto andava avanti questa caduta nell’abisso?
 
***

Il giardino in cui si tessevano i destini del mondo era piacevole alla vista e all’olfatto, deliziato da aromi di rose, erbe officinali e agrumi.

Camminando a passo tranquillo lungo la passeggiata in selciato che attraversava quel magnifico giardino sempreverde, Érebos si chiese come avrebbero preso, le sue figlie, quell’intervento a gamba tesa.

Sapeva bene di non avere il diritto – almeno, non fino a quel momento – di interporsi nel destino di Hermes, ma lo inorridiva il pensiero di non fare nulla per lui e per il suo destino.

Sicuramente, Lachesi e Atropo avrebbero avuto da ridire e se la sarebbero presa con lui a suon di strepiti, ma il dio Ctonio conosceva bene le sue figlie, e sapeva come affrontarle.

Inoltre, prima di poter fare qualsiasi cosa, doveva parlare con Cloto, e conoscere esattamente ciò che era avvenuto quel fatidico giorno. Senza conoscere per intero il passato di Hermes, non avrebbe potuto muoversi per migliorarne il futuro. Sapere solo delle morti che lo avevano sconvolto, non lo aiutava a capire il quadro d’insieme. Doveva conoscere ogni cosa.

Forse, facendo appello al buon cuore di Cloto, anche le sue due sorelle maggiori si sarebbero dimostrate più disposte ad ascoltare le sue istanze.

Procedendo fino a raggiungere un tempietto dagli alti colonnati, Érebos sorrise un poco nell’udire il suono inconfondibile di musica da camera.

Le Moire adoravano Bach, perciò capitava spesso che, quella parte del giardino ove si trovava il loro tempio, fosse allietata dalle magistrali note del musicista tedesco.

Immaginando fosse un buon segno – erano solite rimanere nel silenzio più assoluto, quando litigavano – Érebos si spinse quindi a entrare nel tempio e, dopo un cenno di saluto alle loro ancelle, fece la sua apparizione nel naos.

Cloto fu la prima a interrompere il suo movimento sul telaio, ma solo per alcuni istanti. Sorridendo al padre, accennò un movimento del capo a mo’ di saluto dopodiché tornò a tessere il filo che Lachesi, con attenzione, le stava porgendo con mani esperte.

Atropo, di nero vestita e con un’elaborata acconciatura a trine di trecce sul capo, stava lucidando la sua cesoia e, con tono beffardo, chiosò: «Paparino è arrivato, Lacey… che dici, ci litighiamo un po’, o andiamo subito al punto?»

Attenta al suo filo, Lachesi sollevò un poco un sopracciglio, replicando sarcastica: «Dopo quello che ha fatto per Achille, dovremmo arrabbiarci un po’ con lui, ma non mi va di mettere il broncio proprio oggi. Afrodite ci ha acconciato così bene i capelli che voglio godermi il suo trattamento di bellezza fino in fondo.»

Cloto sorrise divertita ma non disse niente, limitandosi a fare spallucce di fronte all’espressione confusa del padre.

«Ah… i capelli vi stanno molto bene, ragazze» esordì Érebos, ammirando con effettivo sbalordimento le elaborate acconciature delle figlie. Afrodite aveva davvero buon gusto, e aveva saputo sottolineare la bellezza di ciascuna delle Moire nel modo più raffinato.

«Grazie, padre» cinguettarono in coro le tre sorelle.

Il dio Ctonio, a quel punto, prese per sé una sedia, vi si accomodò e dichiarò dubbioso: «Perché ho l’impressione che sappiate esattamente il motivo per cui io mi trovo qui?»

Lachesi ammiccò all’indirizzo del filo che Cloto stava tessendo ed Érebos, nel notare il colore peculiare del filato – dorato e di una purezza soprannaturale – borbottò: «E’ il destino di Hermes, giusto?»

«Sapevamo già che saresti giunto qui» intervenne a quel punto Atropo, poggiando la sua cesoia su un tavolino ricolmo di attrezzi da taglio, prima di fissare burbera il padre e aggiungere: «Davvero ci hai preso per delle sprovvedute, o delle novelline? E dire che sai benissimo che mestiere facciamo!»

«Chiedo venia» mormorò il padre, reclinando colpevole il capo corvino. «Ergo, posso sapere come andarono davvero le cose? Conosco parte dei fatti, ma non come si svolsero per intero.»

Atropo lo fissò con aria di superiorità e celiò: «Ovvio che tu non lo sappia. L’oscurità non può giungere ovunque. Né può leggere nel passato delle genti, o nei loro cuori.»

Érebos sollevò un sopracciglio con evidente sarcasmo e, rivolgendosi alla figlia maggiore, replicò: «Stai gongolando, Atropo?»

«Un pochino, padre. Solo un pochino. E’ piacevole sapere che, anche un dio potente come te, possiede dei limiti» sorrise dolcemente la dea, scrollando le spalle.

«Tutti noi abbiamo dei limiti, o potremmo peccare di alterigia e causare danni al Creato» sottolineò il dio, senza alcun problema. «Quindi, sapevate che sarei venuto qui. E sapevate che avrei chiesto di Hermes. Potete dunque rispondere alle mie domande?»

Fu Lachesi a rispondere.

«Come qualsiasi filato divino, anche quello di Hermes non ha fine apparente ma, come potrai notare, Cloto ha difficoltà a tesserlo perché è sfilacciato.»

Cloto assentì alle parole della sorella, e proseguì dicendo: «Sappiamo che solo la tua mano potrà rendere di nuovo lineare il filo ma, per farlo, debbo raccontarti ciò che avvenne nella sua prima parte, quella che ho già intessuto.»

«Immagino che, se ciò che vedrò – e farò – non sarà sufficiente, il filato si spezzerà» ipotizzò Érebos, accigliandosi.

Atropo, però, scosse il capo e, seria in viso così come preoccupata, tese al padre una cesoia dalle lame dorate e replicò: «Tu solo hai il potere di tagliare questo filato. Potrei chiederlo a mamma, ma credo che tu abbia molto a cuore Hermes, e preferisca avere su di te questo fardello. Essendo uno psicopompo come Thanatos, Hermes ha molto in comune con le tenebre di cui tu sei signore e padrone, e puoi comprendere meglio di chiunque altro i suoi sbandamenti emotivi.»

Érebos assentì con vigore, sapendo bene di questo legame tra lui e il giovane dio. Pur se, per la maggiore, Hermes era stato impiegato come un ánghelos, un messaggero degli dèi, il suo ruolo di psicopompo non era inferiore a quello di Thanatos, e questo creava un legame a doppio filo tra di loro.

Forse, anche per questo aveva così a cuore le sorti di quello scapestrato ragazzo.

Afferrata la cesoia, il dio Ctonio assentì e mormorò: «Raccontami tutto, Cloto. Ho bisogno di sapere, per aiutarlo.»

«Lo farò. Nessuna di noi vuole che Hermes muoia» assentì la figlia, continuando a tessere il filato sdrucito del dio, stando ben attenta a non rovinarlo ulteriormente con il suo tocco.
 
***

Allontanatasi dallo studio di Érebos, Athena si domandò pensierosa cosa potesse essere successo di così grave da turbare Hermes al punto di portarlo all’autodistruzione.

Nulla, però, le giunse alla mente e, tra sé, si diede della sciocca per non essersi accorta del dolore del fratello. Era stata così presa dai suoi patimenti personali, da non rendersi conto che Hermes stava vivendo un inferno forse pari – o superiore – al suo.

Hermes si era sempre comportato come un ragazzo allegro e sbruffone ma, a ben vedere, negli ultimi anni si era avvicinato molto a lei e ad Artemide, cambiando radicalmente le sue abitudini giornaliere per stare con loro.

Se, a caldo, aveva attribuito quell’andirivieni come a un nuovo sollazzo del fratello e al desiderio di conoscere meglio Alekos, le parole di Érebos mettevano ora sotto tutt’altra luce quel comportamento.

Cosa aveva nascosto loro di così tremendo da non poter essere detto a voce alta?

«Cosa ti sta succedendo, fratellino?» mormorò Athena, massaggiandosi pensosa il mento.

«Mamma, cosa c’è?» domandò Alekos, sorprendendola nel corridoio.

La dea si riscosse dall’immobilità che l’aveva bloccata nel bel mezzo del corridoio – attirando così l’attenzione del figlio – e, sorridendogli, scosse il capo e replicò: «Non è successo n…»

Athena non terminò mai la frase.

L’urlo mentale di Artemide la sconvolse a tal punto da toglierle il fiato di bocca e, prima di poter dire altro, prese per mano il figlio e si materializzò nella villa accanto, preoccupata e in allerta.

Piegata accanto a Felipe, che la sosteneva a fatica, Artemide urlò una seconda volta e Athena, accorrendole al fianco, le avvolse un braccio attorno alla vita per poi domandare: «Hai già chiamato Demetra?»

Lei scosse il capo e la sorella, determinata, chiuse gli occhi per concentrarsi sulla ricerca mentale della dea, prima di dire: “Demetra. Ci siamo. Venite alla svelta. Le bambine sembrano voler uscire a qualsiasi costo, e non credo che Artemide gradirebbe molto essere sventrata viva. Xena e Buffy sembrano davvero inviperite.”

“Arriviamo” si limitò a dire la dea. “Ma veramente vuole chiamarle così?”

“Sarebbero nomi ideali…” chiosò Athena, interrompendo il contatto.

L’attimo seguente, Demetra e la pleiade Maia, madre di Hermes, apparvero in uno scintillio d’argento nel salone della villetta di Artemide e Felipe, sospirando di sollievo, disse: «Le acque si sono rotte circa due minuti fa e, da quel momento, sono cominciati i dolori atroci. Non riesce quasi a respirare.»

«Stanno premendo sui polmoni, quelle discole» dichiarò lesta Maia, indirizzando Artemide, Athena e Felipe verso la camera da letto.

Demetra, da parte sua, si rivolse a un preoccupato Alekos e disse: «Nei prossimi minuti giungeranno anche le ancelle di Artemide. Mandale in camera da noi. Nel frattempo, dai fuoco ai rami di lavanda che ti ho fatto vedere nei giorni scorsi e poi accendi la musica di Bach che ho lasciato nello stereo.»

«Va bene. Farò così» assentì Alekos, più che mai teso. «Zia Artemide rischia di morire?»

Demetra lo rassicurò con un abbraccio e scosse il capo, replicando: «Non morirà nessuno, oggi, te lo prometto, a costo di prendere a calci sia Hermes che Thanatos, se dovessero presentarsi alla porta. Il problema è che quelle due monelle hanno preso dalla madre, e sono assai vispe.»

Alekos riuscì a raffazzonare un sorriso di assenso e Demetra, dopo un attimo, si diresse verso la sua paziente mentre il ragazzo si apprestava a fare quanto richiesto.
 
***

L’istante in cui Athena confermò a Hermes l’inizio del travaglio di Artemide fu, per il dio, il momento più brutto della sua vita.

Aveva fallito. Ancora una volta.

Nonostante l’utilizzo degli avvoltoi di Ares, Hermes non era riuscito a trovare neppure una minima traccia che potesse condurlo al nascondiglio in cui si era rintanata Latona. Si era nascosta così bene da essersi resa invisibile a chiunque, dèi compresi.

Non era riuscito in una cosa all’apparenza così semplice come trovare qualcuno, neppure con l’ausilio di un potere divino quale avevano gli avvoltoi di Ares.

Era così incapace da non essere in grado di fare neppure questo.

Lasciando che gli avvoltoi tornassero al mittente, Hermes maledisse il giorno stesso in cui aveva deciso di lasciarsi andare all’amore e, smaterializzandosi, si ritrovò dinanzi un pallido e preoccupato Alekos.

Il ragazzo, nel vederlo, esalò spaventato: «Non vuoi portare via…»

Hermes lo interruppe subito, scuotendo il capo, e mormorò stanco: «No, non sono qui per portare via le bambine. Volevo solo scusarmi con mia sorella.»

Ciò detto – e lasciando interdetto un preoccupato Alekos – Hermes si diresse con passo strascicato fino alla stanza della partoriente e lì, scrutando la scena con occhi spenti, avanzò fino a raggiungere Artemide.

Nessuno lo intralciò; ognuno dei presenti aveva i propri compiti e nessuno di questi comprendeva il fermare uno sciocco così, inginocchiatosi che fu accanto al letto, Hermes mormorò: «Ho fallito, sorella. Perdonami.»

Artemide lo fissò stranita e vagamente spiritata, replicando tra una contrazione e l’altra: «Ti sei rincitrullito di colpo, Hermes? Cosa avresti fallito, scusa?»

Afferrandole la mano libera, l’altra era saldamente trattenuta da quelle di Felipe, Hermes replicò: «Desideravo condurre qui tua madre perché potessi trarre conforto da lei, ma non sono riuscito a trovarla.»

Sia Artemide che Athena sgranarono gli occhi, a quell’ammissione e Maia, nell’osservare turbata il figlio, asserì: «Tesoro, nessuno di noi sa dove ella sia. Non devi darti colpe che non hai.»

«Ugualmente, sono stato manchevole. Ancora una volta non sono stato degno dell’amore delle mie sorelle» replicò il dio, fissando spiacente la madre prima di tornare a rivolgersi alla sorella.

Sorridendole contrito, baciò il dorso della mano di Artemide, si rimise in piedi e si scostò dal letto, mentre la dea silvana lo seguiva con lo sguardo, allungandosi come poté verso di lui.

Troppo impegnata a estrarre la prima neonata, Demetra non poté dire né fare nulla ma, memore delle parole di Érebos, scrutò turbata Hermes, temendo per lui. Il tono della sua voce non preannunciava nulla di buono.

L’urlo di dolore di Artemide distrasse tutti il tempo sufficiente a permettere a Hermes di teleportarsi lontano dalla stanza della sorella e, quando Athena si rese conto di esserselo lasciato sfuggire, si domandò terrorizzata cosa sarebbe successo a quel punto.

Nessuna delle dee presenti osò parlare, perciò fu Felipe a esalare turbato: «Ma che gli è preso?»

Artemide lanciò un’occhiata terrorizzata ad Athena, che assentì turbata suo malgrado e, non potendo esimersi dall’urlare – complice l’ennesima contrazione – la dea gridò: «Riportatemi mio fratello!»
 
***

Ogni cosa era avvolta dall’oscurità, ma dubitava fortemente che fosse a causa delle tende tirate e delle luci spente nel suo attico. Neppure la notte più buia era così uniformemente scura e vuota.

No, non si trovava nel suo attico, dove aveva cercato di arrivare dopo essersi smaterializzato dalla casa di Artemide.

Il punto era un altro: dove si trovava?

Sembrava di essere immersi in un vuoto cosmico, ma non v’era il conforto della luce delle stelle o della bellezza delle galassie e delle nebulose.

Un immenso e uniforme mantello nero lo avvolgeva, deprivandolo di qualsiasi senso.

Per qualche istante, Hermes lo trovò persino piacevole – forse, lì non avrebbe sentito più dolore – ma, nel breve decorrere di alcuni minuti, il panico e l’angoscia tornarono a ghermirlo, facendolo rabbrividire.

Fu in quel momento che una luce accecante lo portò a socchiudere gli occhi e proteggersi il viso con le braccia, mentre dall’intenso bagliore la figura di un uomo emergeva dal nulla per raggiungerlo.

«E’ giunto il tempo, Hermes» tuonò la voce stentorea di Érebos, colmandolo di sorpresa e terrore.

Mentre il bagliore si affievoliva, Hermes poté finalmente scorgere il dio Ctonio nella sua forma primigenia e, se prima aveva provato paura, ora urlò.

Pur se bellissimo come sempre, Érebos appariva terrificante. Immerso nel suo potere sconfinato e primigenio, era la creatura più potente e terribile che lui avesse mai visto durante la sua lunghissima esistenza.

Persino i poteri del padre, al confronto, impallidivano.

Le lunghe chiome corvine del dio erano agitate da un vento che Hermes non poteva percepire, così come le sue vesti lunghe e scure, ondeggianti come mare in tempesta, sembravano scosse da potenze a lui precluse.

Le vestigia del dio riflettevano l’immensità del cosmo e il turbinio di galassie e buchi neri, contenendoli in uno spazio in cui, a rigor di logica, non avrebbero potuto essere trattenuti. Era questo ciò che Érebos teneva celato al mondo, ciò che lui controllava e teneva celato dietro un sorriso o una stretta di mano.

L’immensità di tutto ciò che apparteneva all’oscurità. Né buona né cattiva, soltanto… infinita.

«E’ tempo che tu scelga, Hermes, poiché l’icore nel tuo sangue non è più sotto controllo e rischia di implodere su se stesso, con le conseguenze che tu ben sai» disse ancora il dio Ctonio.

Attorno a Hermes, come in un cinema tridimensionale, immagini di distruzione, morte e disastri naturali si intervallarono a velocità sempre maggiore finché, in un’unica esplosione di luce, tutto tornò nero e privo di forma.

Crollando in ginocchio, il corpo scosso dai brividi e gli occhi sgranati per l’orrore, Hermes gorgogliò: «Ho cercato… ho tentato con tutto me stesso… ma non riesco a dimenticare il mio fallimento, la mia stupidità. Sono morti per causa mia…»

«Perciò lascerai che tutto venga distrutto perché non accetti di aver commesso un errore?» lo rabberciò atono la divinità, fissandolo dall’alto della sua statura divenuta incredibile.

Hermes si sentì piccolo e inerme di fronte a quell’impressionante sfoggio di potere primigenio e, reclinando il capo, mormorò: «Sono debole. Non li ho salvati.»

«Perciò lascerai che tutto venga distrutto perché non accetti di aver commesso un errore?» domandò ancora Érebos, con lo stesso tono e lo stesso sguardo freddo posato sul dio.

«Uccidimi, ti prego… non voglio far morire nessun altro» singhiozzò Hermes, rattrappendosi su se stesso.

«Perciò lascerai che le tue sorelle e i tuoi fratelli piangano per la tua sorte?» chiese a quel punto la divinità.

Hermes sgranò gli occhi, a quell’accenno e, come in precedenza, le immagini di Artemide, Athena, Alekos, Ares, Apollo, sua madre Maia, si intervallarono a scene colme di dolore, frustrazione e morte.

Hermes si strinse le mani sul viso, scosse il capo e cominciò a mugolare frasi sconclusionate, ma Érebos lo interruppe, domandando ancora: «Lascerai che il rimorso ti corroda? Che corroda tutto e tutti?»

«Ma li ho uccisi!» gridò a quel punto Hermes, le mani strette a pugno e il volto trasfigurato dal risentimento e dalla pena.

Érebos allora chiuse gli occhi, sospirò stancamente e, prima che Hermes potesse dire altro, il vuoto lo risucchiò.

E cadde.








N.d.A. Hermes si trova davvero a un bivio ed Erebos, suo malgrado, sarà colui che dovrà giudicarlo e, nell'eventualità più terribile, eliminarlo. Cosa sarà davvero successo a quei diciassette ragazzi? E perché Hermes è convinto di averli uccisi tutti, e di sua mano? Lo scopriremo nel prossimo capitolo, promesso!
 

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Capitolo 26
*** Hermes - 3 - ***


3.

Los Angeles – settembre 1971

 

 

Il sottotetto del capannone industriale dove avevano trovato rifugio era ancora dannatamente caldo, nonostante fossero già le nove di sera, ma non importava.

Erano sfuggiti alle forze dell’ordine, nessuno dei suoi amici era finito in galera per le proteste contro la guerra del Vietnam, ed erano soddisfatti per i risultati ottenuti quel giorno.

Si sentiva appagato, fiero di avere degli amici umani che ricambiavano il suo affetto e, più di tutto, si sentiva utile a qualcuno.

Il fatto che, per ottenere questo affetto, avesse dovuto rubare all’interno di un laboratorio di materiali chimici, era secondario per lui.

In quanto divinità, nessun luogo era a lui precluso, e Hermes aveva sempre usato la sua capacità di muoversi con agilità e svicolare abilmente tra le maglie della sicurezza per procurarsi ciò che più voleva.

Lo aveva fatto fin da quando, in fasce, aveva rubato la mandria di Apollo, e divenire adulto non lo aveva cambiato. Erano variati solo i suoi interessi.

Sdraiandosi su un materasso consunto, mentre alcuni dei suoi amici si appoggiavano stanchi contro una parete per bucarsi, Hermes li fissò tutti con amore e sorrise quando Jane lo raggiunse per poi baciarlo.

La sua Jane.

La amava fin da quando l’aveva vista alla prima manifestazione contro la guerra a cui aveva partecipato.

La sua grinta, il suo livore verso le istituzioni – che lei accusava di essere i veri fautori delle morti in battaglia – lo avevano conquistato subito.

Lui, da sempre astuto e truffaldino, da sempre sostenitore di tutti coloro che sceglievano altre vie per giungere ove volevano, si era innamorato dell’ardore giovanile di Jane, della sua strenua volontà di cambiare il mondo.

Conoscerla e divenirne amico era stato semplice e bello. Amarla, facile come respirare. E Jane si era lasciata andare a lui con lo stesso ardore e forza con cui aveva combattuto fin lì le sue battaglie.

Si erano amati più e più volte, dopo il loro primo incontro, e Jane lo aveva fatto entrare nel suo gruppo di pacifisti, devoti all’amore universale.

Avevano partecipato ai festeggiamenti di Woodstock e si erano beati di quell’atmosfera di unione pacifica e di amore tra le genti, entrando in contatto con nuove realtà, nuove esperienze… nuove droghe.

Pur avendole conosciute e provate nei secoli, Hermes si era dichiarato piuttosto restio ad accettare l’uso indiscriminato che, all’interno della sua nuova cerchia di amici, si faceva del peyote e della meth.

Jane, però, lo aveva preso metaforicamente per mano, facendogli sperimentare un nuovo genere di realtà, di sensazioni, e Hermes si era lasciato conquistare.

Forte del suo potere, era riuscito a ottenere per tutti loro prodotti sempre nuovi e sempre più coinvolgenti, e l’amore che era seguito a questi suoi doni lo aveva galvanizzato, stordendolo.

Rendendolo scioccamente cieco.

«Dove sei, Hermes?» domandò Jane, riportandolo alla realtà.

«Qui con te» sottolineò lui, baciandola sul collo.

Lei gli sorrise, vagamente stordita dalla prima dose di mescalina che aveva preso poco dopo il raduno in piazza e Hermes, aiutandola a sdraiarsi, le baciò la fronte e disse: «Dovresti darci un taglio, Jane. O una cosa, o l’altra.»

La giovane rise dolcemente, lo scansò svogliatamente con una mano e replicò: «Ora non fare come mio padre… faccio quello che voglio. Nessun uomo mi darà mai ordini. Men che meno quelli che stanno al Governo.»

«Ma io sono un dio… non sono al Governo» ammiccò lui, levandosi in piedi.

Jane allora gorgogliò una risata da ubriaca, annuì e disse: «Il dio con …»

Hermes le tappò la bocca prima di sentirle udire l’oscenità che stava per sgorgare dalle sue labbra a cuore e, sorridendole dolcemente, mormorò: «So come sono fatto, credimi… e sono lieto che il mio corpo ti piaccia, ma ora resta qui e riposa. Soprattutto, basta rimescolare le cose. Ora sono invocato da mio padre, e non posso mancare, ma tornerò a breve, d’accordo?»

«D’aaaccordooo» mormorò lei, volgendosi su un fianco per poi guardarlo piena di allegria. «Dopo, farai l’amore con me, però. Mi manchi già, perciò dovrai farti perdonare.»

«Tutto quello che vuoi» assentì lui prima di lanciare un’occhiata al membro più anziano del gruppo, Nathan, indicarle Jane col capo e poi svanire in una nuvola dorata.

***

Gli occhi di Hermes si aprirono fin quasi a fargli dolere la pelle e, riscuotendosi da quel ricordo terrificante, si guardò intorno solo per trovare ancora il buio che lo aveva fagocitato, facendolo cadere per un tempo infinito.

Il suo cuore batté frenetico nel petto ma, prima ancora di poter chiedere a Érebos di smettere con quella tortura, le immagini della sua mente vennero sostituite da qualcosa che non aveva mai visto prima.

Intorno a lui riapparve il sottotetto, i suoi amici, il mobilio disadorno e raffazzonato alla bell’e e meglio… Jane.

Una Jane viva. Bellissima.

Sgranando gli occhi l’attimo successivo, vide però altro… qualcosa che forse avrebbe preferito non vedere, né sapere.

Jane mise un broncio dolcissimo, lagnandosi per la mancanza di Hermes, e questo fece storcere il naso di Nathan che replicò: «Ti piace soltanto perché fa cose pazzesche… ma se fosse come me, o Carl, neanche lo avresti degnato di uno sguardo …o fatto entrare nel nostro gruppo.»

La giovane lo fissò storta, troppo stordita dalla mescalina per essere incisiva nella sua offensiva, ma disse perentoria: «Hermes potrebbe essere cieco e sordo, ma sarebbe comunque il mio Hermes

«E’ il tuo spacciatore» sottolineò aspro Nathan.

«Il nostro, anche quanto… e ci dà roba di primissima qualità. Nessuno è mai stato male, grazie a lui» mugugnò Jane, volgendosi prona per poi fissare torva Nathan e aggiungere: «Ma il punto non è questo, Nathan, e lo sai. Mi tratta bene, vuole bene alla mia sorellina e si preoccupa che noi possiamo avere un tetto sotto cui dormire. I nostri genitori se ne sbattono, ma lui no. Lui tiene a noi, e io gli piaccio per quella che sono. Sei solo geloso di lui.»

«Di quel rammollito?» la prese in giro Nathan, levandosi da terra con in mano una siringa ricolma di liquido biancastro. «Dovrei essere pazzo, per essere geloso di un tipo del genere.»

«Hermes è la mia famiglia …si prende cura di me e di mia sorella, e io mi prendo cura di lui» aggiunse a quel punto Jane, scrutandolo dal basso all’altro, mentre Nathan incombeva su di lei come un’ombra inquietante.

Hermes fissò quelle scene con il cuore in gola, il viso cosparso di sudore e la consapevolezza che, di lì a poco, sarebbero tutti morti.

Con le mani cercò di afferrare Jane, di strapparla al suo infausto destino, ma le immagini tridimensionali rimasero a lui precluse, costringendo così il dio a vedere anche il resto.

Nathan si piegò su un ginocchio, l’ago levato sopra il capo come la cuspide di uno scorpione e, afferrata Jane per i capelli, ringhiò contro il suo viso: «Beh, tu non sarai mai la sua famiglia, però!»

Ciò detto, infilò l’ago nel braccio di una sconvolta Jane che, pur divincolandosi, non riuscì a evitare che la dose eccessiva di meth le penetrasse nel sangue.

«Consolati… morirai a causa di roba che non ha portato lui» le sibilò in faccia Nathan prima di volgersi verso il suo folto gruppo di compagni.

Solo alcuni – abbastanza lucidi per aver visto l’intera scena – si erano accorti di ciò che Nathan aveva fatto, e furono perciò i primi a subire la triste sorte che, presto o tardi, toccò a tutti.

Mentre i gorgoglii dolenti di Jane dichiaravano a gran voce l’inizio del rigetto del corpo delle sostanze stupefacenti, Nathan portava indegna morte ai suoi compagni iniettando loro aria nelle vene, procurando così degli emboli gassosi letali.

Uno dopo l’altro, falcidiò coloro che, per lungo tempo, erano stati suoi amici ma che, con l’avvento di Hermes, avevano visto in lui – e non più in Nathan – un capo da seguire.

Quando infine raggiunse la piccola, tenera Claire, Nathan non riuscì però a portare a termine la sua vendetta per il tradimento dei suoi compagni.

Addormentata su una montagna di cuscini, appariva molto più giovane dei suoi diciassette anni e, nel vederla così fragile e inconsapevole, calò la mano, scrutò il delirio che si era lasciato alle spalle e, da ultimo, inoculò l’aria a se stesso.

La morte sopraggiunse poco tempo dopo, quando l’embolo gassoso produsse un arresto cardiaco, e fu su questo spettacolo desolante che Claire posò i suoi occhi, non appena si svegliò.

Trovò la morte a tenerle compagnia, e sua sorella Jane era tra loro.

Le immagini svaporarono, ma Hermes rammentava bene cosa fosse successo in seguito.

Percepì ogni singolo sospiro di ogni singola anima, e a ogni distacco dalla vita, lui provò una pugnalata nel petto. Quando infine gli giunse il sospiro di Jane, per lui fu troppo. Fuggì dal tempio del padre per tornare a Los Angeles, terrorizzato da quel che avrebbe trovato, ma consapevole della verità.

Raggiungere a Los Angeles per compiere la sua opera di psicopompo gli sembrò come un lento, torrido cammino attraverso le fiamme infernali.

Quando infine vide i corpi stesi a terra, i medici impegnati a dichiararne i decessi e le relative anime in piedi accanto a coloro i quali erano stati i loro involucri viventi, si sentì male.

L’anima di Nathan lo vide e, contrariamente agli altri, lo accusò di essere la causa della loro morte. Lo maledisse, pregando che lui non potesse più vivere in pace e, con questo peso sul cuore, Hermes li condusse fino alle porte dell’Oltretomba.

Il chiarore rappresentato da Érebos tornò e Hermes, il volto rigato di lacrime come mai, da quell’infausto giorno, aveva potuto – o saputo – versare, fissò il volto cupo del dio Ctonio, mormorando: «Li uccise lui. Tutti quanti.»

La divinità non disse nulla e, al suo posto, apparve la figura di una donna di mezza età, dai capelli raccolti in uno chignon e abbigliata in maniera allegra e vivace.

Hermes, nonostante tutto, riconobbe subito in quel volto segnato dagli anni la figura di Claire e, scoppiando in un pianto dirotto, crollò in ginocchio e mormorò: «Non li ho salvati… non li ho salvati…»

La donna si accoccolò accanto a lui, lo strinse a sé e replicò: «Eri lontano, e nessuno avrebbe mai potuto prevedere la follia di Nathan.»

«Ma Jane…»

«Jane ti amava, e io ti consideravo il fratello che non ho mai avuto. Eri davvero la nostra famiglia, Hermes…» ribatté la donna, carezzandogli la chioma biondo cenere. «Eravamo tutti sciocchi e presuntuosi, all’epoca, e pensavamo che comportarci così avrebbe portato a qualcosa di buono. Tu ci hai solo assecondato, mai obbligato.»

«Avrei potuto fermarvi… ma ho… io ho…» tentennò lui, stringendosi alla donna con tutta la sua forza.

«Hai fatto quello che altri ti hanno chiesto… immagino, per lo stesso motivo per cui io e Jane ti stavamo sempre accanto. Tutti noi ci sentivamo soli, e la compagnia dell’altro ci faceva sentire vivi» mormorò Claire, carezzandogli il viso con un tocco delicato della mano.

Hermes non riuscì a rispondere, limitandosi a piangere tutte le lacrime che, per tante decadi, aveva trattenuto dentro di sé ma, quando risollevò il viso per chiedere perdono a Claire, trovò soltanto Érebos.

Sconvolto, Hermes esalò: «Era… era un tuo sortilegio?»

Scuotendo il capo, lui si limitò a dire: «Sono le sue parole, così come il suo volto. Solo, non è potuta venire di persona, perché ricoverata in ospedale. Altrimenti, sarebbe venuta fin qui per chiederti perdono.»

«Chiedermi… perdono?» gorgogliò Hermes, confuso.

«Per non averti cercato, per aver perso i contatti con te. Ora, però, è tempo di andare, Hermes» decretò Érebos, levandosi in piedi e allungandogli una mano perché lo seguisse.

Hermes, però, scosse il capo e replicò dolente: «Non voglio morire. Non voglio svanire in un lampo di luce. Voglio conoscere le mie nipotine, vederle crescere, voglio poter stare accanto ad Artemide, e darle una spalla su cui piangere quando sarà il momento.»

Il dio rimase in silenzio ed Hermes, sospirando, aggiunse roco: «Parlerò con loro… dirò loro ogni cosa, ma permettimi di stare ancora con la mia famiglia.»

Érebos allora sorrise e disse: «Avevi già scelto questa via quando le tue lacrime sono finalmente scese, ma mi ha fatto piacere sentirtelo dire.»

Hermes si levò in piedi, lo abbracciò – venendo ricambiato – e domandò curioso: «Come potevi sapere, tu? Non l’ho mai detto a nessuno.»

«Ho avuto delle buone consigliere ad aiutarmi…inoltre, a quanto pare, era questo il mio compito, fin dall’inizio del tuo filo del destino. Inoltre, anche tuo padre ne era a conoscenza» gli spiegò Érebos, sorridendo sghembo. «La tua mente era così indebolita dal dolore, che Zeus non ha avuto problemi a leggerla …e a capire.»

«Ma non ha fatto nulla per fermarmi» mormorò Hermes, prima di levare coraggiosamente il capo e aggiungere: «Ma ora sapranno tutto. Le mie sorelle e i miei fratelli.»

«Molto bene» assentì Érebos.

Mentre le porte del mondo oscuro si aprivano per loro, Hermes domandò alla divinità Ctonia: «Pensi che potrei rivedere Claire?»

«Si offenderebbe se tu non l’andassi a trovare» gli sorrise il dio. «Quando mi sono recato da lei per sapere se si ricordasse o meno di te, mi disse le esatte parole che tu hai sentito nella visione. Lei vorrebbe dirti di persona. Perciò sì, vai da Claire. Stai con lei, e guarisci, Hermes.»

L’attimo seguente, in un lampo di luce, svanirono dal mondo oscuro per ritrovarsi dinanzi alla porta di una stanza d’ospedale, nel reparto di ortopedia.

Hermes si guardò intorno turbato ma, grazie ai poteri di Érebos, non solo nessuno li vide giungere, ma neppure entrare nella stanza.

Lì, il dio vide la donna della visione – Claire – sdraiata in un enorme letto e con una gamba ingessata e tenuta in sospensione da alcuni cavi metallici e, suo malgrado, rise dolcemente.

A quel suono, la donna si destò, fissò per un attimo stranita i suoi visitatori dopodiché, nel riconoscere Hermes, allungò una mano verso di lui e mormorò: «Fratellone… non sei invecchiato di un giorno…»

Le lacrime, cocenti e amare, tornarono a debordare dai suoi occhi e, mentre il dio Ctonio si allontanava non visto per poter lasciare loro un po’ di intimità, Hermes abbracciò la donna e ricordò con lei gli eventi che lo avevano quasi portato alla follia.

***

Érebos riprese forma nel corridoio antistante la camera da letto di Artemide e, quando questo avvenne, ciò che avvertì il dio furono le sue urla furibonde della dea silvana e i tentativi di Athena di chetarla.

Nel vedere, però, Demetra e Maia con le due bambine in braccio e Felipe assieme a loro, si tranquillizzò un poco: il problema non era dato dalle neonate, ma dalla scomparsa improvvisa di Hermes.

Sorridendo incoraggiante a Maia, che lo dispensò di un cenno ossequioso del capo, il dio Ctonio si affacciò sulla camera della neomamma giusto in tempo per evitare un cuscino lanciato a gran velocità.

Intercettatolo al volo, Érebos chiosò: «Denoto che stai già bene. Ne sono lieto.»

«TU…» ringhiò furiosa la dea silvestre, rossa in volto per l’ira e per il parto gemellare appena sopportato. «… riportami mio fratello, o giuro su tutti i pantheon di questo mondo che troverò il modo di ucciderti!»

La divinità Ctonia non diede adito di prendersela per la minaccia e, ammiccando ad Athena, che appariva abbastanza provata, celiò: «Deduco che tu le abbia detto qualcosa…»

«Non tutto, ovviamente, visto che non hai specificato il problema» sbottò a sua volta la dea, fissandolo aspramente.

Érebos sospirò, a quel punto, scosse il capo e commentò sarcastico: «E’ proprio vero che non potrai mai accontentare le donne, neppure volendo.»

Ciò detto, si avvicinò al letto, si sedette sul bordo e, carezzando il viso di una rabbiosa Artemide, disse seriamente: «Vostro fratello ora è al sicuro, ma avrà bisogno del vostro appoggio e del vostro aiuto, in seguito. Io ho solo spezzato un circolo vizioso, ma voi dovrete fare il resto.»

Accigliandosi leggermente, la dea silvana si chetò un poco, replicando: «Come se ci fosse bisogno di chiederlo. Certo che saremo al suo fianco!»

Érebos accennò un sorriso e Artemide, impallidendo leggermente, mormorò turbata: «Era… in pericolo?»

«Non più. Ma potrebbe ricaderci, per questo deve sentirvi vicine, a costo di obbligarlo ad accettare la vostra vicinanza. Almeno per un po’» la rassicurò lui, levandosi da letto per tornare da Athena.

Lì, la abbracciò, lasciando trasparire parte del suo disagio per essere stato costretto a fare suo malgrado del male a Hermes, facendogli rivivere quello scomodo, terribile passato.
Athena, perciò, lo tenne avvinto a sé, assorbì i suoi tremori impercettibili e, prima di vederlo svanire, mormorò: «Ti amo. Sempre.»

Lui assentì e, in uno scintillio dorato, svanì, lasciando nella pace la camera che aveva trovato nel caos.

Affacciandosi dopo qualche attimo e trovando finalmente un’atmosfera distesa, Felipe sorrise alla compagna e domandò: «Ora vuoi abbracciare le tue piccoline? Penso che abbiano entrambe fame.»

Scoppiando a ridere, Artemide assentì e, allungando le braccia verso di lui, chiosò: «Come se la cosa mi dovesse sorprendere. Quelle due hanno sempre avuto fame!»

Felipe assentì divertito e, nell’osservare Athena, mimò un labiale per chiederle se tutto andasse bene, trovando in lei un assenso completo.

Un poco più tranquillo, Felipe permise a Demetra e Maia di rientrare con le bambine e, mentre le due dee consegnavano le neonate alla madre, l’uomo si avvicinò alla ex cognata per mormorare: «Poi mi spiegherai, vero?»

«Appena ci capirò qualcosa, di sicuro. Ho idea che nostro fratello Hermes avrà bisogno di un po’ di supporto psicologico, anche se non so bene perché» assentì lei con un mezzo sorriso.

«Nessun problema. Siamo una famiglia, no?» chiosò Felipe, come se fosse la cosa più naturale del mondo.

Lei assentì, gli diede un familiare colpetto spalla contro spalla e annuì. «Sì, lo siamo.»

***

La testa reclinata all’indietro sulla sua poltrona ergonomica da ufficio, Érebos sobbalzò per la sorpresa quando udì Alekos chiamarlo.

«Pa’, posso entrare?» mormorò il quattordicenne, affacciandosi dubbioso nel suo studio.

Lui sorrise a mezzo, e assentì.

Alekos aveva iniziato a chiamarlo a quel modo da un giorno all’altro, dopo una domanda a sorpresa di una sua compagna di classe alla secondary school.

Nel vederli assieme dopo l’uscita da scuola, Barbra si era avvicinata ad Alekos per un saluto e, sorridendo a entrambi, aveva chiosato: «Tu e il tuo pa’ vi somigliate, anche se non sei nato da lui, sai?»

Da quel giorno, Alekos aveva preso a usare quel gergo – pa’ – che a Érebos era subito piaciuto moltissimo, così come ad Athena.

Dubbioso, Alekos si avvicinò al dio Ctonio e, poggiandosi contro la scrivania, domandò: «Ti senti bene? Percepisco tanto dolore, in te.»

Non era ancora ben chiaro a nessuno come funzionassero i doni di Alekos, ma era abbastanza sicuro che avessero a che fare con il dolore e l’ansia delle persone. In lui era innato il desiderio di vederle sorridere.

Érebos, perciò, non si stupì di quel commento e replicò: «Sono molto stanco perché ho dovuto fare una cosa di cui non vado molto orgoglioso, ma che era necessaria per far guarire zio Hermes.»

Alekos, allora, sorrise sollevato e disse: «Sono lieto che tu lo abbia fatto. Io sapevo di non poter fare nulla, perché il suo dolore era troppo profondo e troppo radicato, perché riuscissi a comprenderne i contorni.»

Annuendo, la divinità Ctonia lo attirò a sé per una carezza, asserendo: «Immaginavo che avessi avvertito il suo disagio. Non ti sentivi in grado di affrontarlo, forse?»

«Aveva a che fare con cose che non riuscivo a comprendere, ma speravo che prima o poi lui ce ne avrebbe parlato, così avrei potuto tentare di fare qualcosa» ammise il giovane, stringendo Érebos in un abbraccio. «Tu hai risolto la questione, ma ora stai male per lui.»

«Succede quando vuoi bene a una persona, ma sei costretto a farla soffrire prima di vederla nuovamente stare bene. E’ un procedimento assai complesso» disse stancamente il dio, accettando e rispondendo di buon grado all’abbraccio.

«Starò un po’ con te, così anche il tuo dolore andrà via… spero» dichiarò Alekos, sorridendogli nell’appoggiare il capo contro la sua spalla.

«Grazie a te, andrà via di sicuro… e non per via dei tuoi poteri, ma perché sei tu, Alekos, a farmi stare bene» asserì il dio, sospirando e lasciandosi cullare dall’affetto del figlio adottivo.

Non aveva bisogno d’altro, in quel momento, per ritemprarsi. Solo dell’affetto del suo figliolo.

 

 

 


 N.d.A.: che ne dite, Hermes avrà finalmente capito? Correrà ancora un rischio simile, o finalmente si fiderà della sua famiglia?

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Capitolo 27
*** Hermes - 4 - ***


 

Epilogo.

 

 

 

 

Xena e Buffy, come la madre le aveva simpaticamente soprannominate, dormivano nelle loro culle mentre Artemide, appollaiata sulla sua nuovissima sedia a dondolo, le osservava con aria persa.

Felipe, accanto alle culle, era in loro estatica contemplazione e, sorridendo nel sistemare un ricciolo dei neri capelli di Xena, mormorò: «Sei sicura, per i nomi? Io non mi offendo se vuoi scegliere uno dei tuoi titoli, sai?»

«Ne avevamo già parlato. Xena sarà Edith, come la tua prozia che tanto amavi. Buffy sarà Tessa che, tra le altre cose, significa ‘colei che è cacciatrice’, quindi si adatta perfettamente a me» mormorò sonnacchiosa la dea, dondolandosi con calma.

«Anche Edith ha un significato?» si incuriosì Felipe, scrutandola sorridente.

Lei assentì, dicendo: «E’ ‘colei che lotta per la felicità’. E’ un nome che denota forza e, per come mi tirava calci nella pancia, non può che starle a pennello.»

Divertito, Felipe chiosò: «Anche la prozia Edith era una combattente. Mi piace… anche se pure Xena mi pare adatto. Ma non voglio che, un domani, le mie figlie mi odino per aver dato loro il nome di un personaggio della TV.»

Artemide rise di quel commento ma, quando sentì delle voci lungo il corridoio e riconobbe quelle delle figlie, si levò dalla sedia e spalancò le braccia per accoglierle degnamente.

Quando la porta si aprì, perciò, Delia e Daphne vennero avvolte dall’abbraccio della madre, mentre Theodoros, Hector, Endimione e Akelia – la compagna di Daphne – sorridevano di fronte a quel saluto caloroso.

Felipe si raddrizzò, sorrise loro e disse: «Ben arrivati. Il viaggio è andato bene?»

«Movimentato» celiò Akelia, stringendo in un abbraccio Artemide prima di avvicinarsi alle culle assieme agli altri. «Non so se c’entri Eolo o meno, ma abbiamo trovato un sacco di turbolenze e, alla fine, abbiamo tutti dovuto fare una deviazione al bar per ritemprarci, una volta scesi.»

Artemide sorrise divertita, ma replicò: «Non credo sia stata colpa sua. Qualche ora fa era qui assieme a Poseidone e alle Pleiadi.»

Akelia ammiccò all’indirizzo di Daphne, che rise sommessamente e chiosò: «Ci mancava solo il sommo Zeus e poi eravamo a posto!»

«Dubito che mio padre si presenterà alla porta. Ha ancora il divieto di venire qui» sottolineò Artemide, prima di sentir bussare alla porta d’ingresso.

Endimione e Felipe la fissarono divertiti ma lei, sbuffando, scosse il capo e replicò: «Smettetela di guardarmi con facce tanto furbe. Se fosse stato mio padre, i miei segugi avrebbero già cominciato ad abbaiare.»

Sorpreso, Endimione squadrò Felipe in cerca di spiegazioni e lui, scrollando le spalle, ammise: «Sono tutti in giardino, e fanno la guardia contro i visitatori… indesiderati

«L’ha davvero presa giù male» gracchiò Endimione, mentre Artemide usciva dalla stanza per dirigersi alla porta.

Dal salotto, la padrona di casa urlò: «E’ lui che è un bastardo!»

«Linguaggio!» urlarono per contro gli altri e le due gemelle, udendo quel gran baccano, si svegliarono, scrutando curiose il volto esasperato del padre.

«Ehila, Xena… Buffy… guardate un po’ chi abbiamo qui?» mormorò Felipe, facendo loro il solletico sotto il mento.

Delia e Daphne risero di quei nomi e, nel prendere in braccio le sorelle, chiosarono assieme: «Non darete veramente loro questi nomi, giusto?»

«Saranno solo i soprannomi» promise Felipe, mentre il rumore di parecchie voci si faceva largo nella casa. «Dal caos che sento, direi che sono arrivati i nonni paterni.»

Neppure dieci secondi dopo, Carlos e Anita Rodriguez si affacciarono sulla stanza già affollata e, nel vedere le nipotine, si illuminarono in viso, aprendosi in larghi sorrisi.

Artemide fece gli onori di casa, presentando le loro figlie, le rispettive famiglie e lasciando per ultimo Endimione, cui Anita regalò un sorriso di autentico benvenuto, condito da una pacca sulla spalla di Carlos.

Di comune accordo, il folto gruppo si trasferì nel salone e, nel farlo, Endimione si affiancò a Felipe per sussurrare: «Sei sicuro che non ci siano problemi? Sì, per il fatto che io e Artemide abbiamo avuto due figlie assieme.»

Felipe gli sorrise tranquillo, replicando: «La mia famiglia è di larghe vedute, e adotteranno in automatico anche te e le tue figlie, non dubitare. Chiedi a Érebos come lo hanno accolto, se hai qualche dubbio in merito.»

Endimione assentì, un poco rasserenato ma, quando vide Artemide coccolata da Anita e Carlos, e le sue due figlie trattate alla stregua di nipoti non viste da tempo, qualsiasi dubbio venne fugato.

Fu però il latrato dei cani della dea silvana a sorprendere i presenti e, accigliandosi immediatamente, Artemide si catapultò alla porta – pronta a dar battaglia – solo per trovarvi innanzi un enorme cesto colmo di regali.

Sorpresa e vagamente sospettosa, afferrò la busta col fiocco rosa che capeggiava sul cesto di proporzioni imbarazzanti e, nel notare la scrittura del padre, fu sul punto di gettarla.

La mano di Felipe però la bloccò e, nel sorriderle dolcemente, mormorò: «Concedigli una possibilità.»

Il broncio di Artemide si fece più evidente ma accettò suo malgrado e, nel dispiegare la lettera, lesse a mezza voce per entrambi: «Spero che le bimbe stiano bene e mi congratulo con voi per la vostra nuova famiglia. Se lo vorrete, nettare e ambrosia sono nella cesta, perché anche le vostre figlie abbiano la benedizione del pantheon tutto… assieme a una collezione di pannolini che, mi dicono, servano in gran quantità, nei primi mesi.»

Felipe sorrise divertito, celiando: «Ho idea che non sia molto esperto in materia, vero?»

«No. Lui si divertita a mettere incinte le donne, non tanto a prendersi cura dei pargoli avuti da loro» sottolineò imbronciata Artemide.

«Vai avanti… non conosco il greco antico, ma credo che la lettera non sia finita» la rimbeccò dolcemente Felipe.

Sbuffando, la dea assentì e proseguì nella lettura.

«Quando e se lo vorrete, verrò personalmente per benedirle, così come feci a suo tempo per Delia, Daphne e Hector, e come feci anche per Alekos. Inoltre, vorrei che…»

A quel punto, Artemide si interruppe, sgranò gli occhi per un istante prima di assottigliarli, accartocciare la lettera e gettarla infastidita a terra. Questo gesto sorprese Felipe, che subito la raccolse per ogni evenienza.

La dea non si degnò di dare alcuna spiegazione del suo gesto e, senza dire nulla, uscì di casa per raggiungere le altalene che, pochi mesi prima, avevano fatto montare nel giardino.

Lì, si sedette in solitudine mentre Felipe, dispiegando di nuovo il foglio, scrutò dubbioso Delia e Daphne prima di fare loro un cenno del capo.

Le due donne assentirono, avviandosi all’esterno per raggiungere la madre e Felipe, nel consegnare la lettera a Endimione, domandò: «Puoi finire di leggerla, per favore?»

Lui assentì e, nello scorrere il testo fino al punto in cui Artemide si era bloccata, sorrise appena e mormorò: «Oh, …ora capisco perché si è infuriata. Il sommo Zeus dice questo: “Spero che vorrai esprimere i miei ringraziamenti al tuo compagno e ai suoi genitori. In quanto a tua madre, che Hermes ha tanto cercato per te, si trova a Kos, suo luogo d’origine, sotto le mentite spoglie di una vecchia di nome Talia, Non ama essere disturbata, ma credo che per te e tuo fratello farebbe un’eccezione.”

«Bingo!» esalò sorpreso Felipe. «Dice altro?»

«Dice soltanto che anche Era si felicita con voi, ma credo che questa sia una forzatura bella e buona» terminò di dire Endimione, riconsegnandogli la lettera.

Anita non disse nulla. Si limitò a sorridere al figlio prima di uscire a sua volta da casa mentre Carlos, serio in volto, mormorava pensieroso: «Ne capisco poco di dèi e quant’altro ma, quando il grande capo si abbassa ad avvicinarsi di soppiatto come un mendicante, qualcosa vorrà pur dire.»

Akelia annuì e, nel coccolare Xena – mentre Buffy era tra le braccia di Theodoros –, dichiarò: «Quando seppi la verità da Daphne, per poco non mi venne un infarto. Ma quando la tua futura suocera si presenta in una nuvola di fumo argentato, puoi prendere la cosa per buona o diventare matta.»

«Athena fu un po’ più dolce di così, ma fu comunque abbastanza diretta… anche se va detto che mio figlio Miguel ci mise in guardia ben più di una volta» assentì Carlos, sorridendole comprensivo.

«Loro vedono il mondo in termini di millenni, e temo che anche i loro battibecchi possano durare altrettanto, perciò credo che ciò che ha fatto oggi il sommo Zeus possa essere visto come un evento epico» ammise Endimione. «Se pensiamo che Eos ha impiegato più di due millenni per vendicarsi di Artemide, pochi anni per tentare di dirimere un bisticcio possono essere visti come uno starnuto, per noi mortali.»

Tutti assentirono pensierosi, lasciando che le parole di Endimione galleggiassero come un monito nell’aria ma Hector, di fronte alle loro espressioni per lui troppo serie, borbottò: «Posso uscire anch’io? Mi annoio un po’.»

Theodoros assentì con un risolino, asserendo: «Vai a rallegrare la nonna.»

«D’accordo!» esclamò il bambino prima di fermarsi di fronte a Felipe, sorridere e aggiungere: «Le mie zie sono molto belle.»

Ciò detto, corse fuori e Felipe, in cuor suo, sperò che Artemide non se la prendesse troppo per il tentativo di suo padre di cancellare, una volta per tutte, quella divisione tra loro.

Dondolando silenziosa sull’altalena mentre Hector la imitava e Delia e Daphne erano sedute sull’erba, le gambe intrecciate e le mani sulle ginocchia, Artemide tornò con la mente al testo della lettera.

Lui aveva sempre saputo dove Latona si era nascosta, ma non aveva mai tradito il suo bisogno di solitudine. L’aveva protetta dalla curiosità dei suoi stessi figli, per un suo perverso senso di rispetto nei confronti della donna che aveva generato la sua progenie.

«Ánghelos…» mormorò Artemide, sorprendendo tutti i presenti.

Alcuni istanti dopo, in uno scintillio dorato, Hermes fece la sua apparizione e, contrito, il fratello le si inginocchiò accanto, mormorando: «Al tuo servizio, sorella.»

Lei si limitò ad allungare le mani, chinarsi verso di lui e baciargli i riccioli biondo cenere, prima di dire: «So dov’è la mamma.»

Hermes levò il capo per la sorpresa, fissandola pieno di speranza e Artemide, scrollando le spalle, chiosò: «Non avresti potuto trovarla neppure volendo. Ha le sembianze di una vecchia, ed è sotto la protezione di Zeus, a Kos.»

Sbattendo le palpebre, Hermes gracchiò: «Ne… protegge l’anonimato?»

«A quanto pare, sì. Non chiedermi perché, poiché a questo punto non mi reputo più in grado di capire le persone, tanto meno gli dèi, ma tant’è. Si fa chiamare Talia, e vorrei che le recapitassi un messaggio da parte mia. Dille che ha delle nipoti e un pronipote, e sarei felice se volesse conoscerli.»

«Tutto ciò che desideri, sorella.»

Agile, Hermes si rialzò per andarsene, ma Artemide lo afferrò a un braccio, aggiungendo: «Ancora una cosa…»

«Dimmi.»

«Vorrei venissi qui a fare da baby-sitter a Xena e Buffy» dichiarò lei, sorridendo di fronte alla sua espressione basita. «Penso che mi piacerebbe molto vederti impegnato con pannolini e creme.»

Hermes arrossì di piacere e assentì, dichiarando: «Lo farò con piacere, sorella.»

«E… Hermes…» mormorò poi Artemide, rimettendosi in piedi.

Il dio deglutì dubbioso, annuendo di fronte al suo sguardo imperscrutabile ma, quando la sentì parlare, desiderò nuovamente mettersi a piangere, esattamente come era accaduto di fronte a Érebos.

«Non te lo dirò una seconda volta, perciò accontentati. Ti voglio bene, fratellino, e la prossima volta che sentirai di essere solo, vieni da me, o giuro che ti caverò i peli dal corpo uno alla volta, tanto che desidererai il trattamento di total body di Afrodite, piuttosto che sopportare la mia tortura. Ti è chiaro il concetto?»

Lui assentì, la abbracciò rapidamente e, con un bacio sulla guancia, defilò in una nuvoletta di fumo dorato prima che Hector potesse chiedere: «Nonna, ma cos’è una total body

«E’ un’arma di distruzione di massa che le donne usano contro gli uomini» ghignò Artemide prima di sollevarlo dall’altalena, farlo volare alto ed esclamare: «Ma io ti difenderò da tutte le total body del mondo, amore mio!»

Il bambino rise trillante e Delia, rivolgendosi a Daphne, chiosò: «E’ passata.»

Kos sembrava caotica anche nei mesi di bassa stagione e, quando Hermes si materializzò nel luogo dove, presumibilmente, si trovava Latona, storse il naso.

Non amava il traffico automobilistico, soprattutto perché non ne capiva la logica, o le traiettorie, e rischiava spesso e volentieri di finire sotto un’auto.

Quel giorno, però, non badò a nulla, né al suono dei clacson, né tanto meno all’andirivieni degli scooter lanciati a folle velocità.

Quel giorno, aveva un solo compito, e cioè trovare la madre di Artemide e Apollo.

Seguendo perciò le poche indicazioni fornitegli dalla dea silvana, Hermes si avventurò nel centro della cittadina marittima fino a portarsi nei pressi delle rovine del tempio dedicato a Dioniso.

Lì, come gli era stato detto dalle sue fonti, trovò una donna anziana intenta a sistemare una bella aiuola fiorita. Sembrava serena e in pace col mondo, niente affatto turbata dai rumori caotici che la circondavano.

Era lì, ma era come se fosse del tutto distaccata dal mondo che le scorreva attorno.

Neppure in mille anni avrebbe riconosciuto, in quella magrolina signora in chemisier fiorato, la giunonica e statuaria Latona delle leggende. Anche gli avvoltoi di Ares erano stati ingannati da quella magia, così come i segugi di Artemide a suo tempo.

Ciò che gli rimaneva del tutto estraneo era il motivo per cui Zeus ne avesse mantenuto l’anonimato in tutti questi millenni, e perché la donna non si fosse più avvicinata ai suoi figli.

Schiarendosi perciò la voce per annunciare la sua presenza, Hermes sorrise a una sorpresa donna e, con un leggero cenno del capo, mormorò: «Giungo a voi in pace, titanide Latona. Reco notizie dei vostri figli, se avrete la compiacenza di prestarmi orecchio.»

Gli occhi cerulei della donna si sgranarono lentamente, di fronte a quell’inconsueto messaggio e, rialzatasi che fu, si rassettò la veste e replicò: «Se Zeus ti ha permesso di raggiungermi, avrà avuto i suoi buoni motivi… cos’hai dunque da dirmi, ánghelos

«Reco la notizia delle ultime nate di vostra figlia Artemide, e del suo desiderio di mettervi al corrente che avete quattro nipoti femmine e un pronipote che sarebbero felicissimi di conoscervi» le spiegò Hermes, sorridendole cordiale. «Apollo sarebbe egualmente felice di rivedervi, pur se il suo carattere indipendente non lo farebbe mai ammettere un simile pensiero.»

Latona sospirò, invitò Hermes ad accomodarsi su una delle vicine panchine e, dopo averlo imitato, domandò: «Zeus ti ha detto perché io sono qui, sotto mentite spoglie?»

«Non ho osato chiedere» ammise il dio, scuotendo il capo.

«Per il benessere delle genti… perché la pace regni sull’Olimpo e la Terra» disse con semplicità la titanide, sorprendendolo non poco. «Era si infuriò così tanto, per la mia gravidanza, che lanciò così tanti anatemi da rendere invivibile qualsiasi luogo sulla Terra, per me, a parte la mia patria natia, che Zeus protesse al solo scopo di darmi un luogo in cui vivere.»

Hermes sospirò demoralizzato, mormorando: «Vi è dunque impossibile abbandonare questi luoghi?»

«Esattamente. A meno di non voler far scoppiare una guerra contro Era, cosa che non voglio assolutamente. Ha tutte le ragioni per odiarmi, visto che io ho generato i figli di suo marito ma, soprattutto, perché ho desiderato quei figli da lui.»

Hermes, a quel punto, sgranò gli occhi per la sorpresa e Latona, sorridendo divertita, aggiunse: «Pensavi che Zeus mi avesse violentata? O circuita? Niente di tutto ciò, ánghelos. Proprio per questo, Era mi odia tanto, e odia ancora di più i miei figli. Perché io e Zeus abbiamo sempre avuto questo legame speciale. L’unico modo per tenere me e i miei figli al sicuro, è stato stare lontani.»

«Ma… non sarebbe giusto che voi viveste assieme alla vostra famiglia, in barba alla furia di Era?»

«Mi giocai questa possibilità quando chiesi ai miei giovani figli di commettere uno sterminio, e solo per la mia lesa vanità. Mi approfittai del loro amore, loro che erano ancora giovani virgulti facilmente malleabili, e feci massacrare la famiglia di Niobe soltanto perché non ero stata in grado di essere umile» replicò mesta Latona, scuotendo il capo. «Merito sia l’ira di Era che la segregazione che mi sono imposta a causa di ciò che feci a Niobe. Non sono stata una brava guida per i miei figli, perciò non credo di meritarli, né di poter dare loro grandi insegnamenti.»

«Tutti noi abbiamo sbagliato, in passato, ma ognuno di noi merita una seconda possibilità» sottolineò Hermes, sapendo di parlare anche a se stesso, oltre che alla titanide.

Latona gli batté una mano su un braccio, sorridendo gentilmente, e asserì: «E’ questa la mia seconda possibilità. Ho concesso ai miei figli di crescere e tenersi lontani da una donna che li ha spinti a commettere degli omicidi senza alcuno scopo logico, se non la vanità. Da quel che mi hai detto, Artemide ha già quattro figlie, e una di esse ha avuto a sua volta un figlio. Sono lieta per lei, e pregherò per tutti loro, così come pregherò che anche Apollo possa trovare una compagna – o un compagno – che lo ami come merita.»

«Potrò dire loro che, se vogliono, possono venire a visitarvi?» domandò speranzoso il dio.

«Non è loro vietato… ma non ne vedo il motivo. Hanno vissuto bene anche senza di me, fino a ora» scrollò le spalle Latona, rassegnata ma tranquilla.

«Ho scoperto a mie spese quanto, la vicinanza con le persone a cui vogliamo bene, sia vitale… anche se spesso non ce ne rendiamo conto» ammise Hermes, esibendosi in un sorriso sghembo e pieno di contrizione.

Latona assentì lentamente e, alla fine, disse: «Non impedirò loro di trovarmi, lo prometto.»

«Mi basta. Grazie per la vostra disponibilità, titanide Latona. Sarò lieto di portare questa notizia a mia sorella e mio fratello» mormorò Hermes, levandosi in piedi con un balzello allegro.

«Grazie a te, Hermes» replicò la donna, sospirando e lasciando che il suo aspetto tornasse quello della Latona delle leggende.

Il dio sgranò gli occhi di fronte a tanta bellezza e, pur sapendo che gli umani non erano in grado di vederli – la protezione di Zeus era attiva anche in quel senso – Hermes si guardò intorno con espressione ansiosa.

Una simile beltà poteva attirare mille e più sguardi ma, grazie al potere del padre degli dèi, nessuno volse lo sguardo verso di loro, e i presenti si limitarono a ignorarli, come se non esistessero.

Sorridendo a Hermes, Latona si levò dalla panchina, gli strinse la mano e dichiarò: «Smetterò di nascondere il mio volto al mondo. Se mai i miei figli verranno qui, voglio che mi vedano con le sembianze che avevo quando li ho lasciati a loro stessi, e non con un volto che non mi appartiene.»

«Lo trovo più che giusto» assentì Hermes, chinandosi per un elegante baciamano prima di svanire in una nuvola dorata.

Ora che aveva risolto con Latona, gli mancava solo un’unica cosa da fare.

Il tempio di Era non era il classico edificio ricco di colonnati e dalle ampie scalinate quanto, piuttosto, un piccolo tempietto dotato di una cupola tondeggiante e dal pronao circolare.

Quando Hermes ne varcò le soglie, avvertì distintamente il suono di una cetra mirabilmente suonata e, non appena ne comprese l’origine, sorrise.

Una delle ancelle di Era stava suonando lo strumento con mani abili, mentre le altre ragazze al seguito della dea si stavano occupando di acconciare la chioma bionda della sposa di Zeus.

Nell’avvertire la sua presenza, però, Era levò una mano per interrompere il lavorio delle sue dilette e, nel congedarle, si volse a mezzo sull’ottomana per scrutare il messaggero degli dèi.

«Cosa ti porta qui, ánghelos? Mio marito mi sta convocando in via ufficiale?» domandò Era con tono austero e freddo.

Se con lui la dea non si era mai comportata in modo arrogante, non aveva mai neppure brillato per simpatia ma, tenendo conto di ciò che aveva dovuto subire da Zeus, Hermes non si era mai fatto illusioni sul loro rapporto.

Per lo meno, Era non aveva mai trattato sua madre Maia con rabbia o sete di vendetta.

Inchinandosi perciò con educazione, Hermes mormorò: «Reco una richiesta e una preghiera, se mi sarà concesso di parlare, divina Era.»

La dea scosse una mano come per liquidare il suo dire troppo affettato e, accavallando le gambe, replicò: «Non c’è bisogno dei salamelecchi, Hermes. Dimmi pure ciò che ti arrovella tanto, senza preoccuparti della semantica.»

«Vorrei con tutto il cuore che lasciaste incontrare Artemide, Apollo e Latona, senza che questo scateni una reazione da parte vostra.»

Al suono di quei nomi, Era si irrigidì nella postura e, per un attimo, Hermes temette che la dea richiamasse le sue ancelle per cacciarlo dal tempio, ma ciò non avvenne.

La divinità si limitò a sospirare, si passò una mano sul viso e infine domandò: «E tutto ciò perché?»

«Reputo che sia giusto che una madre possa vedere i propri figli, così come una nonna possa incontrare e conoscere i propri nipoti» si limitò a dire Hermes. «Lo riterrei un nobile gesto da parte vostra, divina Era.»

«Tu non ne sei personalmente coinvolto, però. Quindi, perché sei tu a perorare questa causa?» si interrogò la dea, levandosi dall’ottomana per avvicinarsi al dio.

«Perché amo i miei fratelli, e desidero che siano felici. So che il Sommo Zeus mio padre vi ha arrecato offesa, commettendo hybris nei confronti di molte donne, e avendo da esse altrettanti figli… ma ci tengo a dirvi che noi non ne abbiamo colpa, e siamo vittime al pari vostro. Non desidero irritarvi, divina Era, ma sono pronto a pagare un pegno per la vostra indulgenza, se lo riterrete giusto» disse Hermes, piegandosi su un ginocchio di fronte alla dea.

«Non ne avete colpa…» mormorò la divinità, sfiorando con delicatezza i riccioli ribelli di Hermes. «Sì, questo lo so. Ma è ugualmente difficile vedervi scorrazzare per il mondo, come un costante memento dell’infedeltà di mio marito.»

Hermes, a quel punto, levò il capo con un sorriso truffaldino, ammiccò alla dea e replicò: «Se è questo a preoccuparvi, potreste replicare a infedeltà con infedeltà, divina Era e, se lo riterrete degno pegno, io sarò il vostro toy boy fino a quando sarà necessario.»

La dea sgranò gli occhi di fronte alla sfrontatezza del dio, ma questo la portò anche a ridere sguaiata, liberandosi un poco dal continuo senso di rabbia che le covava in seno.

Sempre ridendo, Era lo prese per mano, sollevandolo da terra e, nel dargli un bacio sulle labbra, chiosò: «E’ una proposta allettante, e la vaglierò con attenzione. Per ora, vai pure a dire ai tuoi fratelli che non mi infurierò, se anche visiteranno Latona. Voi pensate che io sia crudele a prescindere ma, se ogni tanto le cose mi venissero semplicemente chieste, invece di farle sempre alle mie spalle, forse non mi arrabbierei poi così tanto, no?»

«Credo di cominciare a capire, sì» assentì Hermes, inchinandosi con uno svolazzo prima di strizzarle l’occhio e abbandonare il tempio in uno scintillio dorato.

Era sospirò nel vederlo andare via e, nel richiamare le sue ancelle, domandò loro con ironia: «Che ne dite, mie dilette? Dovrei provare a gustare le carni del giovane Hermes?»

Le ancelle risero imbarazzate, facendo sorridere per diretta conseguenza Era che, tornando a sistemarsi sulla ottomana, pregò le sue dilette di proseguire con ciò che stavano facendo in precedenza.

Dopotutto, ci avrebbe pensato su. In fondo, che male avrebbe fatto fantasticare un po’?

Artemide fissò schifata un soddisfattissimo Hermes che, spaparanzato sullo sdraio nel giardino di Athena, aveva appena terminato di enumerare i suoi molteplici successi e la sua proposta fatta a Era.

Anche Athena fissò leggermente disgustata il fratello e, servendosi della limonata fresca, domandò: «Ma era proprio il caso di proporle una cosa simile? Non sei un gigolò, sai? Non devi abbassarti a tanto.»

«Siete soltanto delle puritane, sorelle, e non vedete il quadro d’insieme come lo vedo io» sottolineò per contro Hermes, strizzando l’occhio ad Alekos.

Il ragazzo rise divertito e Hermes, con una scrollatina di spalle, aggiunse: «Io ci guadagnerei un’amante – cosa che non guasta mai, per uno scapolo incallito come me – e Zeus dovrebbe rodersi il fegato, perché mai farebbe del male a un proprio figlio, no?»

Le due sorelle lo fissarono basite per un attimo, prima di scoppiare in una grassa risata di gola, cui si unì – più civilmente – anche Érebos.

«A questo non avevo affatto pensato! Zeus non ti toccherebbe perché non si sognerebbe mai di danneggiare la propria progenie per una donna, ma dovrebbe rosicare perché, per una volta, sarebbe Era a tradire e non il contrario!» sghignazzò Artemide, tergendosi lacrime d’ilarità.

«Visto? E’ un piano geniale» ghignò a sua volta Hermes.

«Alekos… non prendere esempio da tuo zio. Queste non sono cose da farsi» sottolineò Athena, pur battendo una mano sul braccio a Hermes con aria complice.

Alekos si asciugò una lacrima di ilarità, esalando: «Credo che farei molta fatica a pensarmi così assieme a nonna Era.»

Gli adulti tremarono al solo pensiero e Felipe, nell’osservarli con espressione esasperata, borbottò: «Avete una morale davvero discutibile, voi divinità…»

«Non badiamo molto alle parentele, lo ammetto…» celiò Athena, sorridendo e ammiccando a Érebos, che scrollò le spalle come se niente fosse. «… ma per noi è normale. Anche se Era è la moglie di mio padre, nulla vieterebbe a Hermes di prenderla come amante, pur se lui è figlio di Zeus. La cosa che ci fa inorridire è che nessuno di noi sopporta Era, non il fatto che Hermes andrebbe a letto con la donna di suo padre.»

«Ribadisco… avete una mentalità contorta e una morale inesistente, ma tant’è…» sospirò Felipe, scuotendo il capo.

«Scusa, tesoro» gorgogliò Artemide, dandogli un buffetto sulla guancia.

In uno scintillio dorato, Apollo fece la sua apparizione nel giardino di Athena e Artemide, salutatolo con un gesto della mano, disse: «Alla buon’ora! Ti ho mandato un sms un milione di anni fa!»

«Erano solo due ore fa, sorella, e ho anch’io una vita, sai?» brontolò Apollo, affacciandosi sulle culle delle gemelle per fare loro le moine. «Voi non diventerete permalose e sociopatiche come la mamma, vero?»

«Sociopatica a chi?!» ringhiò Artemide, placcata in extremis da Felipe prima che potesse scagliare un calcio negli stinchi al fulvo dio del sole.

Apollo si scansò per ogni evenienza e, fissando con aria di sufficienza la gemella, replicò: «A te, visto che hai un carattere davvero pessimo.»

Ciò detto, si rivolse a Hermes e domandò: «Allora è vero che hai trovato nostra madre?»

«Per gentile concessione di nostro padre Zeus. Vi attende a Kos e, rullo di tamburi, Era non dirà alcunché. Avete il suo beneplacito» dichiarò soddisfatto Hermes.

«Che diavolo le hai promesso, per non farla sbarellare al solo sentir nominare nostra madre?» biascicò Apollo, sconvolto.

«Zio Hermes andrà a letto con Era, se lei lo richiederà al suo cospetto» gorgogliò tutto divertito Alekos.

Apollo impallidì leggermente, a quella notizia, e bofonchiò: «Beh, caro fratello, ti ringrazio per il sacrificio, ma non era necessario. Posso anche vivere senza vedere mia madre, sai?»

«Non fare l’insensibile, Apollo. A tutti fa piacere vedere la propria madre, ogni tanto… ammesso che non sia una pazza vendicativa con la mania dell’omicidio…» sottolineò Hermes, facendo sorridere tutti per i sottintesi di quella frase. «Terrò buona la Virago per tutto il tempo che sarà necessario… ammesso che mi chiami al suo cospetto, è ovvio. Io, da parte mia, otterrò di fare un dispetto a nostro padre e un favore a una dea taaanto bisognosa di affetto.»

«Hai una mente malata, fratello, ma ti voglio bene lo stesso» dichiarò a quel punto Apollo, levando un pugno verso Hermes, contro cui l’ánghelos batté il proprio.

Forse gli incubi non sarebbero spariti del tutto e sarebbero tornati a infastidirlo ancora, negli anni a venire, ma ora sapeva di poterli affrontare.

Sapeva di non aver tradito la fiducia di Jane, e di avere il perdono di Claire, e questo era il miglior balsamo contro il dolore. Oltre a una famiglia allargata un po’ sopra le righe ma molto, molto unita come la sua.


 


 

 



N.d.A.: qui si chiude la disavventura di Hermes, che apre automaticamente nuovi possibili scenari (che combinerà, Era? Accetterà l'offerta di Hermes?) e tante altre avventure. Spero di avervi chiarito un po' le idee sul nostro Messaggero degli Dèi un po' mattacchione.

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Capitolo 28
*** Apollo - 1 - ***


 
Apollo -1-
 
 
Agosto 2017 – Los Angeles
 
 
Passeggiando sulla Ocean Boulevard con andatura tranquilla, l’aria pacifica e le mani nelle tasche posteriori dei pantaloni, Febo Apollo poteva apparire come un qualsiasi altro giovane e aitante californiano.

Certo, la sua indubbia bellezza e perfezione attiravano molti sguardi – sia maschili che femminili – e, in ambo i casi, lui dispensava sorrisi simpatici quanto distratti.

Sapeva cosa gli umani stavano vedendo e, pur compiacendosene, non era interessato a una scappatella di qualche ora per soddisfare i suoi appetiti sessuali.

Non disdegnava di mescolarsi con gli umani e lo aveva fatto, in passato, ma non ne sentiva il bisogno, in quel momento.

Ascoltare la storia di Hermes – e veder piangere il fratello contro la spalla di Athena – lo aveva sconvolto più del pensabile e, da quel giorno, molte volte si era posto il dilemma su cosa fare del proprio futuro.

Essendo una creatura immortale, poteva disporre di tutto il tempo che desiderava ma, alla fine dei conti, era proprio quello il problema.

Come dare peso – e valore – alle cose, quando il taglio di Atropo non avrebbe mai reciso il suo cordone vitale? (A meno di non scatenare le ire del Cosmo, ovviamente, e costringere Érebos o altre divinità Ctonie a porre fine alla sua vita).

In cuor suo, tremava già al pensiero di perdere le nipoti, così come aborriva il pensiero di dover vedere Artemide in lacrime per la perdita di Carlos e Anita, così come di Felipe.

Presto o tardi, in maniera lenta o subitanea, tutto ciò sarebbe comunque accaduto, che lui lo volesse o meno, e a quel punto avrebbe dovuto affrontare il dolore più puro e genuino della perdita.

Questa paura, però, rendeva più vivide le emozioni provate dalle sorelle, e lui stesso si sentiva più se stesso in seno al clan Rodriguez, piuttosto che tra le mura asettiche del suo tempio di Delo, o sull’Olimpo.

La mortalità umana lo rendeva consapevole dell’impermanenza delle cose, dell’ineluttabilità della vita vissuta sulla Terra e per questo ogni colore, ogni sapore, ogni odore assumevano più corporeità, più forza.

Tutto ciò gli era stato precluso per secoli dal suo autoisolamento dal mondo umano, secoli in cui ogni cosa aveva perso di interesse, per lui.

«A quanto pare, hai dei pensieri assai profondi che ti ronzano per la mente. Hai un’aria così seriosa!» chiosò qualcuno alle spalle di Apollo, sorprendendolo.

Sobbalzando, Febo si arrestò per voltarsi a mezzo, sorpreso che qualcuno potesse averlo preso alla sprovvista a quel modo. Quando però avvertì il tocco familiare di un potere divino nascosto dietro il volto di un uomo alto e bruno, sorrise sghembo e borbottò: «Ehi, zio… vuoi farmi prendere un colpo?»

Abbozzando una risata, Poseidone diede una pacca sulla spalla al nipote e celiò: «Dubito potrebbe venirti… ma mi incuriosiva il tuo peregrinare a vuoto, così mi sono avvicinato.»

«Come mai sotto mentite spoglie? Le tue chiome castane e gli occhi neri non vanno bene per passeggiare sulla Ocean Front?» domandò Apollo, indicandolo per intero nel suo completo di lino color crema.

«Oh… la faccia, dici? La usai quando mi avvicinai ad Athena la prima volta, nelle vesti di Morgan Dark, e l’ho mantenuta per tutte le mie visite sulla terraferma» gli spiegò lui, tirando leggermente un lembo della camiciola.

«Uh… nome evocativo, non c’è che dire» ammise Apollo, scrutando il volto abbronzato dello zio, gli occhi di un verde intenso e i neri e ondulati capelli tagliati all’attaccatura del collo. «Scommetto che fai strage di fanciulle più o meno giovani, con quello sguardo tenebroso e il fisico portentoso.»
Poseidone rise più forte e, nel proseguire la camminata, disse: «Diciamo che non mi lamento. E tu? In caccia a tua volta?»

«Per la verità, sono a riposo, per così dire. Ho alcune cose su cui pensare, in questo periodo, e l’idea di sollazzarmi non mi alletta» ammise il giovane dio, facendo spallucce.

Levando un sopracciglio con espressione sorpresa, Poseidone replicò: «Per tenerti lontano da del sano divertimento, deve essere successo qualcosa di grave.»

Ligio al patto stretto con Hermes di non parlare con nessuno di ciò che era avvenuto con Érebos, Apollo si limitò a dire: «Abbastanza. Ma ho risolto.»

Accigliandosi leggermente, il dio del mare mormorò: «Uhm… quanta segretezza! Beh, se a voi ragazzi serve una mano, io sono qui, d’accordo? So che c’è ancora la faida aperta tra Athena, Artemide e mio fratello, ma io non c’entro, sia chiaro.»

«Non temere. Nessuno di noi ti ha annoverato tra i dislike» assentì Apollo prima di volgersi un attimo a mezzo, sorridere appena e aggiungere: «Sai di essere seguito da una splendida fanciulla?»
Poseidone impallidì a quel commento e, bloccando subitaneo la sua camminata, sospirò contrito e si volse spiacente, mormorando: «Bimba, avvicinati. Sei così silenziosa che mi dimentico sempre che tu sia qui.»

La bellezza bruna sorrise timida e divertita al tempo stesso e, balzellando fino a raggiungere il fianco di Poseidone, lanciò un’occhiata curiosa ad Apollo con i suoi occhioni cerulei, sormontati da lunghissime ciglia nere, dopodiché sussurrò: «Stavate parlando con il divino Apollo, e non volevo disturbare.»

Febo la scrutò pieno di curiosità, chiedendosi chi fosse quella fanciulla dalla squisita bellezza e la parlata tanto delicata e Poseidone, avvolgendo le spalle della ragazza, disse: «Lei è Acaste, figlia del titano Oceano e della titanide Teti.»

«Oh, …un’oceanina, dunque» esalò sorpreso Apollo. «Perdona se non ti ho riconosciuta, ma penso di non averti mai vista. Va anche detto che, di solito, non bazzico mari e oceani, e voi siete così tante che…»

Acaste sorrise timida e, ridacchiando, annuì. «Non c’è problema, divino Apollo. Solitamente, passo il mio tempo con Persefone, quando è nel mondo dei vivi, altrimenti sono sempre in mare aperto con mio padre. E’ normale che non mi abbiate mai vista in giro.»

«Solo Apollo, o Febo, Acaste. Il divino lasciamolo pure da parte, così come le forme di cortesia» ironizzò il dio, offrendole la mano.

Lei accettò di buon grado e Apollo, inchinandosi con grazia, ne baciò il dorso facendola arrossire fino alla radice dei capelli.

Poseidone, a quel punto, diede uno scappellotto al dio, borbottando: «Non fare il marpione con la ragazza. E’ sotto la mia custodia!»

«Ahia!» brontolò Apollo, raddrizzandosi con aria accigliata. «Sotto la tua custodia? Ma se la stavi perdendo per strada?»

Poseidone ebbe la decenza di non dire niente e Acaste, ridendo sommessamente, ammiccò divertita e replicò: «Oh, ma non mi sarei di certo persa. E’ difficile perdere di vista il sommo Poseidone.»

«Ciò non toglie che ti ha lasciata indietro – e in disparte – perciò credo che sarà meglio che io ti rimanga accanto, piccola Acaste, prima che questo buzzurro ti lasci su un autobus come un pacco postale dimenticato» celiò Apollo offrendole il braccio e guardando sarcastico Poseidone.

Il dio del mare fissò accigliato il nipote, mentre Acaste accettava il braccio della divinità solare con aria assai affascinata.

«Sei un giovane dio pestifero e irriverente, sappilo… e poi non mi dimenticherei mai Acaste in giro!» mugugnò Poseidone, proseguendo nella passeggiata quando Apollo e Acaste iniziarono a camminare dinanzi a lui.

«Come dicevo, non si può mai sapere, con voi vecchietti, perciò è meglio se, a occuparsi dei più piccoli, pensiamo noi giovani» sottolineò Apollo, schivando con agilità un secondo scappellotto di Poseidone.

«Comincio a capire perché Zeus abbia litigato con le figlie. Le vostre lingue stanno diventando biforcute, col passare del tempo» brontolò il dio del mare, pur lasciandosi andare a un sogghigno.

Acaste sorrise divertita di fronte a quel battibecco e, con tono allegro, chiosò: «Credo che sia un onore essere scortata da simili e potenti divinità. Sono molto grata a entrambi per il tempo che mi state dedicando.»

Apollo le sorrise cordiale e, rivolto allo zio, chiese più seriamente: «Scherzi a parte… avevate in programma di fare qualcosa, per caso?»

«Per la verità, Acaste voleva visitare la costa, visto che non c’era mai stata prima ma, in tutta onestà, a parte qualche localino in cui non la porterò mai e alcuni ristoranti rinomati, non conosco molto neppure io la zona di Los Angeles» ammise suo malgrado Poseidone.

Il nipote lo fissò con aria di sufficienza e, rivolto ad Acaste, domandò: «Cosa ti piacerebbe vedere, piccola?»

«Oh, non ho alcuna preferenza, divino… ehm, Febo» si corresse in fretta Acaste, ammiccando imbarazzata. «Ma non voglio rubarti altro tempo. Avrai sicuramente cose più interessanti da fare, che prestarti a farmi da guida per la città.»

«Contrariamente a quanto tu possa pensare, io amo bazzicare in giro per le città» ironizzò lui. «Se ti fidi, zio, posso portarla in giro io. Prometto di non comportarmi da zotico.»

Poseidone storse il naso, reclinò il capo a scrutare il volto tranquillo e pacifico di Acaste ma, alla fine, disse: «Se le torci un solo capello, dovrai vedertela anche con me, oltre che con i suoi genitori. Sia chiaro.»

Apollo rise pieno di divertimento, assentì e, malizioso, chiosò: «Se volessi farle qualcosa, torcerle un capello sarebbe davvero l’ultima cosa che farei

Il terzo scappellotto lo raggiunse, stavolta, e Poseidone ringhiò irritato: «Insomma! Parla bene! Acaste è giovane e pura! Non è una sciagurata come te o Hermes, è chiaro?!»

Fremendo interiormente nell’udire il nome del fratello, Apollo fu sul punto di difenderlo da quelle accuse gratuite ma, ligio al voto del silenzio, lasciò correre e si limitò a chiosare: «Da qualcuno avremo pur preso…»

Bofonchiando tra i denti un’imprecazione incomprensibile, Poseidone sospirò sconfitto e, nel rivolgersi ad Acaste, le domandò: «Tu sei d’accordo, bambina?»

«Se per Febo Apollo non sono un disturbo, sarebbe piacevole passeggiare per le vie di questa enorme città in compagnia di qualcuno che le conosce» replicò con candore l’oceanina.

Il dio del mare sospirò pesantemente ma non trovò nulla a cui appellarsi per evitare quell’uscita fuori programma così, data una pacca sulla spalla ad Apollo, dichiarò burbero: «Verrò a riprenderla stasera, proprio qui. Fatti trovare per le nove in punto, o ti manderò a cercare dai tritoni in assetto da battaglia, è chiaro?»

Apollo lo irrise con lo sguardo e replicò ironico: «Zio, …Acaste non è una bambina umana di due anni. Darle un coprifuoco del genere mi sembra davvero esagerato. Facciamo alle undici di sera… dalle almeno il tempo di godersi una cena.»

Accigliandosi, Poseidone fece per ribattere ma Acaste, sorridendo al dio del mare, chiosò: «Posso sempre scivolare via come acqua, divino Poseidone, se proprio mi dovessi annoiare. Non avrei problemi.»

«Anche questo è vero» sospirò sconfitta la divinità marina, fissandola apertamente preoccupato. «Non ti curare di insultarlo… se ti annoi, vieni via.»

«Grazie, zio! Troppo buono» bofonchiò Apollo, adombrandosi in viso.

Acaste si lasciò andare a un sorrisino e, dopo aver annuito al dio del mare, si rivolse a Febo, asserendo: «Sono pronta a scoprire le bellezze della città. Dove andiamo?»

«Sei mai stata a Disneyland?» le domandò a quel punto Apollo.

«No. Cos’è?» scosse il capo l’oceanina, sinceramente curiosa.

Apollo fissò malamente Poseidone e borbottò: «Siete degli incivili, nel regno dei mari. Non l’avete mai portata da Topolino?!»

«Vattene, nipote, prima che ti prenda a calci sul sedere» brontolò Poseidone, sospingendolo via per poi allontanarsi a grandi passi, lo sguardo adombrato quanto irritato.

Apollo ghignò per diretta conseguenza, sapendo di averlo punto sul vivo e, dopo aver ammiccato a una curiosa Acaste, dichiarò: «Ti farò fare un corso accelerato di divertimenti, mia cara oceanina. Conosci per caso Ariel la sirena, o Rapunzel?»

«Intendi i personaggi Disney?» domandò confusa Acaste, prima di aprirsi in un sorriso e domandare: «Oh, Disneyland, quindi, è dove vengono prodotti i film d’animazione delle principesse?»

«No. E’ dove i sogni di grandi e bambini diventano realtà, e dove puoi incontrare i tuoi eroi in carne e ossa» replicò Apollo, prendendola sottobraccio.

Sbattendo curiosa le palpebre, Acaste disse: «Avevo capito che fossero solo disegni. Almeno… Persefone mi disse questo, mentre li guardavamo al tempio di Demetra.»

«Tutto verissimo… ma ci sono degli umani che interpretano tali personaggi per far divertire i bambini. Anche se penso che pure gli adulti apprezzino lo sforzo» le spiegò Apollo, trascinandola docilmente verso un punto riparato dagli sguardi per potersi smaterializzare. «Per quel che mi riguarda, mi è piaciuto molto, visitarlo.»

«Sarei davvero curiosa di vedere questo parco dei divertimenti, allora, Febo» dichiarò a quel punto Acaste, balzellando allegra e piena di eccitazione.

«E io ti accontenterò… ti scoccia, però, se prima passiamo a prendere mio nipote Alekos? Credo che insieme ci divertiremmo molto di più, e tu avresti come compagno di avventura qualcuno più vicino alla tua età.»

Annuendo senza problemi, Acaste asserì: «Sarò lieta di passare del tempo con il figlio della divina Athena. Poseidone ci parla spesso di lui, perciò sarà bello dare un volto a ciò che so del giovane semidio.»

«Molto bene, allora. Si parte!» esclamò Apollo, sbattendo le palpebre per poi trasmutare al pari di Acaste, che lo seguì fiduciosa.
 
***

Non gli era ancora ben chiaro, ma doveva esserci qualcosa, nella geometria, che mal si addiceva al suo carattere.

La odiava in ogni sua forma, e pur avendo a disposizione una mente superiore e due divinità come genitori, Alekos si trovava nella difficile situazione di fissare un foglio bianco da ore, impossibilitato a terminare i compiti.

Accolse perciò con gioia l’arrivo di nuovi ospiti, perché questo avrebbe voluto dire interrompere almeno per un po’ quel tedioso lavoro di concetto che proprio non sapeva apprezzare.

Balzando dalla sua poltrona ergonomica, si catapultò fuori dalla stanza per raggiungere il giardino – dove avvertiva la presenza divina di un suo parente – e, quando vide Apollo insieme a una fanciulla, sorrise sorpreso ed esclamò: «Ciao, zio! Ben arrivato!»

«Alekos… ben trovato. Athena ed Érebos non sono in casa?» domandò Apollo, guardandosi intorno.

«Sono a casa di Artemide a fare da babysitter a Buffy e Xena, perché la zia e Felipe hanno un impegno con nonna Anita a San Josè» gli spiegò il ragazzo, sbirciando curioso in direzione della ragazza appresso allo zio.

Alekos era ormai un affascinante quindicenne e, seguendo le orme di madre e padre, era diventato piuttosto alto e minacciava di crescere ancora, nei prossimi anni.

Come Felipe e Miguel, aveva fluenti e nerissimi capelli, mentre gli occhi di colomba e la carnagione chiara e perfetta, erano retaggio della madre.

Molte ragazzine della sua classe avevano già chiesto – senza successo – di poter uscire con lui, ma Alekos si era sempre negato con estrema cortesia, preferendo pensare ad altro, piuttosto che al gentil sesso.

La sua testa era impegnata altrove, almeno in quel periodo, inoltre non si sentiva ancora molto sicuro a entrare in intimità con un’umana. Temeva che, grazie al suo dono così particolare, le reazioni della fanciulla in questione potessero essere distorti a suo favore, perciò aveva sempre preferito evitare.

Inoltre, memore della promessa fattagli un paio di anni prima, Alessandra si era fatta viva spesso per portarlo in pista con i go-kart, e Alekos aveva scoperto di amare immensamente il mondo dei motori. Complice anche Achille, Alekos si era quindi appassionato a quello sport, arrivando a dedicarvi un sacco di tempo.

Tempo che, inevitabilmente, lo aveva tenuto lontano dal genere femminile in generale.

Athena non aveva potuto che fare buon viso a cattivo gioco e, accompagnato ogni volta da Érebos, Alessandra o Achille, Alekos aveva dato spazio a questo suo nuovo interesse con il massimo impegno possibile.

La presenza di Acaste, però, riuscì a incuriosirlo notevolmente, soprattutto perché era ben difficile che Apollo si presentasse a casa loro con una ragazza.

Accorgendosi dello sguardo curioso del nipote, Apollo sorrise furbo e disse: «Scusa la scortesia, Alekos… lei è l’oceanina Acaste, e oggi le faccio da accompagnatore.»

Spalancando gli occhi per la sorpresa, Alekos assentì e disse con cortesia: «E’ davvero un piacere conoscerti, Acaste. Io sono Alekos. E’ la prima volta che incontro un’oceanina.»

Allungata una mano verso la giovane, il ragazzo strinse con delicatezza quella protesa di Acaste e, sorridendo, aggiunse: «Spero che mio zio sia stato una brava guida, finora.»

Sorridendo per un attimo a Febo, Acaste assentì e dichiarò: «E’ stato così gentile da offrirmi di portarmi a vedere Disneyland, visto che non ci sono mai stata.»

«A questo proposito, pensavo che tu potresti unirti a noi. Hai tempo, per caso?» gli domandò a quel punto Apollo, notando subito dopo l’espressione accigliata del nipote.

Storcendo la bocca, Alekos borbottò: «Dovrei terminare geometria, prima di poter uscire.»

«Ecco cosa succede a mandare un semidio a scuola» brontolò Apollo, scuotendo il capo. «Ma si può facilmente rimediare.»

Ciò detto, si avventurò assieme nella villa di Athena tallonato dai due giovani e, dopo aver vagato per i corridoi, raggiunse infine la stanza di Alekos. Lì, fissò burbero il quaderno del nipote, afferrò la sua penna e disse: «Non ho mai capito perché Athena si ostini a mandarti a scuola. Sai già quello che c’è da sapere del mondo. A cosa servono queste regole umane?»

Mentre continuava a brontolare, la sua mano veloce risolse in fretta i problemi di geometria di Alekos e il nipote, strabiliato, esalò: «Non sapevo fossi così bravo!»

«Nipote caro… vivi migliaia di anni in un tempio, con la sola compagnia di quattro mura e poco altro, e allora troverai piacevole persino i libri di geometria. L’arrivo della televisione e della radio sono stati la mia scialuppa di salvataggio dalla noia e dalla follia, sappilo» chiosò Apollo, terminando in pochi minuti il problema sul libro di Alekos.

Ciò fatto, lo chiuse con un secco schiocco e aggiunse: «Ora, andiamo da Athena per avvisarla. Dopodiché, uno di questi giorni, ti spiegherò per filo e per segno la geometria, così che non debba più metterti i bastoni tra le ruote.»

«Grazie davvero, zio» esalò Alekos, pieno di riconoscenza.

Lui ghignò soddisfatto e, nel trasmutarsi con i due giovani nella villa di Artemide, esclamò: «Ehi! Dove sono le mie nipotine belle?»

«Ciao, Apollo! Siamo in camera da letto!» lo informò Athena, a voce alta.

Assieme alla sua voce, giunse anche il gorgoglio infantile di una delle due bimbe e Apollo, tutto sorridente, si diresse verso la zona notte della villa, pronto a salutare le sue meravigliose nipoti.

Quando, però, aprì la porta della stanza, il suo volto divenne verde dalla nausea e, tappandosi immediatamente il naso, gracchiò sconvolto: «E’ esplosa una bomba chimica, qui dentro?»

Osservando la finestra aperta, Érebos sorrise divertito a uno schifato Apollo e replicò: «Qualcosa del genere. Credo che dovrebbero mettere i pannolini usati nella lista delle armi di distruzione di massa.»

«Poco ma sicuro» brontolò Apollo, rimanendo a debita distanza dalla fonte della puzza mefitica che stava ammorbando l’aria.

«Cercavi Arty, per caso? Perché è con Anita, impegnata a cercare di capire cosa indossare per il matrimonio di Claire e Phill» gli spiegò Athena, nominando una coppia di amici di Felipe. Tergendosi poi la fronte con il dorso di una mano, sollevò soddisfatta Xena tra le braccia, nuovamente pulita e profumata.

«Per la verità, volevo sapere se potevo portare Alekos con me. Oggi faccio l’accompagnatore» disse Apollo, indicando una sorridente e timida Acaste, che salutò con un elegante inchino.

Athena fissò il fratello con aperta sorpresa prima di riconoscere la giovane al suo fianco e dire: «Oh… sei un’oceanina, vero?»

«Sì, divina Athena. Stavo passeggiando con il sommo Poseidone in giro per Los Angeles, e lì abbiamo incontrato il divino Apollo… ehm, Febo, e così abbiamo concordato di passare la giornata assieme» spiegò la ragazza, sorridendo contrita ad Apollo per il piccolo errore, a cui lui però rispose con un sorrisone complice.

Sempre più sorpresa, Athena rimise nella culla Xena prima di poggiare le mani sui fianchi e dichiarare: «Mi sorprendi, Apollo. Come mai tanta disponibilità?»

«Mi andava. Allora, Alekos può venire con noi?» scrollò le spalle il dio, preferendo non scendere nei dettagli.

Athena, però, non mollò l’osso e gli domandò mentalmente: “Ci sono dei problemi, Febo? Perché non voglio rischiare che si scateni un secondo apocalisse. Visto che siamo appena usciti dall’incubo quasi mortale di Hermes, non vorrei ricaderci con te. Érebos ha ancora gli incubi, a causa di ciò che ha dovuto fare per salvarlo.”

“Niente di tutto ciò, Atty, ma è proprio a causa di Hermes se mi comporto così. Mi sono reso conto di aver dato per scontato il tempo e ciò che mi circonda, e ora desidero viverlo con maggiore attenzione e profondità. Sono stanco di subire lo scorrere del tempo… lo voglio gestire!

Sbattendo sorpresa le palpebre – Apollo non stava affatto scherzando – Athena assentì leggermente e, nello scrutare il figlio, domandò: «Hai finito geometria?»

«Tutto fatto…» cominciò col dire Alekos, sospirando subito dopo per poi aggiungere: «… grazie allo zio.»

Apollo lo fissò sconvolto mentre Athena, con un risolino, esalava: «Davvero non so che dire…»

«Ma non sai dire bugie, nipote?» esalò Febo, fissando Alekos con aria sorpresa.

«Non alla mamma» ammise suo malgrado Alekos.

«Che hai fatto a questo povero ragazzo?» gracchiò Apollo, fissando disgustato la sorella.

Fu Érebos a rispondere, mentre sistemava Buffy accanto alla sorellina e gettava via le due bombe chimiche che le gemelle avevano prodotto coi loro piccolissimi corpicini.

«Ha a che fare con il loro legame, perciò sarà sempre impossibile, per Alekos, mentire a sua madre.»
«Questa sì che è iella» chiosò Apollo, avvolgendo le spalle del nipote con fare consolatorio. «Comunque, gli ho promesso che gli spiegherò la geometria per filo e per segno, così non avrà più problemi.»

«Va bene… per stavolta lascerò correre» concesse Athena, facendo spallucce.

«Tradotto: se andrà a Disneyland, non sarà su un go-kart, perciò va bene» dichiarò con totale sincerità Alekos, sorridendo divertito alla madre, che ghignò in risposta.

Apollo rise di gusto, esalando: «Ancora, Athena? E dire che pensavo ti fosse passata, questa fobia! Lui è immortale!»

«Vedrai Arty, con queste due, quando cominceranno a gattonare. Ha già parlato di foderare la casa di gommapiuma» sottolineò sarcastica Athena, sbuffando contrariata.

Apollo scosse il capo per il divertimento e, lanciata un’occhiata colma di comprensione a Érebos, dichiarò: «Beh, noi andiamo, allora. Vi chiameremo più tardi per dirvi che va tutto bene, e che non ho portato vostro figlio in un luogo di perdizione, o a buttarsi di testa in un vulcano attivo.»

Acaste rise divertita assieme ad Alekos, mentre Athena bofonchiava: «Arrivi tardi. Ares lo ha già portato in uno strip club a mia insaputa, mentre Efesto gli ha fatto visitare la caldera dell’Etna.»

Levando entrambe le sopracciglia con estrema sorpresa, Apollo fece per commentare ma, ricordandosi di Acaste e del suo candore, si limitò a dire: «Io mi limiterò a Topolino e Minnie. Promesso.»

Ciò detto, prese per mano sia l’oceanina che Alekos e, in uno scintillio dorato, svanì dalla stanza, lasciando soli i due dèi.

Athena, a quel punto, lanciò un’occhiata a Érebos e, turbata, domandò: «Devo preoccuparmi anche per lui?»

«Ne dubito. Penso semplicemente che Apollo stia rivedendo le sue priorità. Il che non è un male e, almeno per quel che riguarda Alekos, è un bene. Stare con i suoi parenti è importante, e gli permette di aprire la mente a tutte le sfaccettature del mondo divino, non solo di quello umano» replicò la divinità Ctonia, giocherellando con una mano di Xena. «E uscire con una ragazza non guasta mai.»

La bambina si divertì a mangiucchiargli un dito, gorgogliando soddisfatta e Athena, sorridendogli nell’osservarlo, mormorò: «Vorresti un figlio? Nostro, intendo.»

Sobbalzando leggermente, Érebos la fissò pieno di sorpresa e, con un mezzo sorriso, asserì: «Come ho imparato a mie spese grazie alle mie care figliole, mettere il becco nelle faccende che non mi competono può risultare pericoloso, e non voglio andare da Cloto per ficcare il naso nella trama del nostro futuro insieme. Quel che verrà, verrà. Io sono già felice così, e considero Alekos mio figlio a tutti gli effetti.»

Athena assentì ma, quando un odorino particolare colpì le sue narici, borbottò e disse: «Arty deve dare da mangiare solo ambrosia, a queste bambine. Fanno una cacca mefitica.»

«Temo di sì» si lagnò a sua volta il dio, sospirando afflitto prima di alzarsi e aggiungere: «Prendo degli altri pannolini.»


 





N.d.A.: sono passati alcuni mesi dalla crisi di Hermes e la sua risoluzione, e questo evento più unico che raro ha lasciato i suoi strascichi tra gli dèi, e in special modo su Apollo, che si sente in dovere di rivedere e correggere tutta la sua esistenza.
In questo capitolo, inoltre, facciamo la conoscenza con una delle tremila oceanine figlie di Oceano (ne parlerò più ampiamente nei prossimi capitoli) e scopriamo come la vita sociale di Alekos sia stata, fino a questo momento, piuttosto blindata - per sua stessa decisione - sul fronte sentimentale.
Che dite? Succederà qualcosa a uno dei nostri due uomini? 

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Capitolo 29
*** Apollo - 2 - ***


 
 
2.
 
 
 
 
Impegnato a sorseggiare una bibita mentre Alekos e Acaste erano alle prese con le space mountain, nella sezione Tomorrowland del parco, Apollo sorrise a mezzo non appena avvertì nelle vicinanze una presenza a lui conosciuta.

Volgendosi a mezzo, ammiccò al possente Ares in tenuta disneyana e, mentre il suo sguardo indugiava divertito su un una sempre magnifica Afrodite alle prese con alcune foto di rito, chiosò: «Come mai qui, oggi? Non pensavo potesse piacervi un posto simile.»

«Afrodite voleva vedere la sfilata delle principesse…» esordì Ares, sistemandosi meglio le orecchie da Topolino sulla testa, prima di aggiungere a bassa voce: «… ma credo voglia farlo solo per poter criticare i loro vestiti.»

Apollo rise sommessamente mentre Afrodite, a poca distanza da loro, si stava esibendo in un selfie davanti alla torre di Tomorrowland al solo scopo di postarla su Instagram.

«Sarebbe da lei» ammise Apollo, gettando nel cestino la lattina di Coca-Cola ormai vuota. «Cercavate Alekos, per caso?»

Annuendo con vigore – e facendo così ricadere in avanti le orecchie da Topolino – Ares ammise: «Sono passato da casa sua poco fa, e Athena ci ha detto che era qui con te. Si sta divertendo, almeno? Quel ragazzo passa troppo tempo sui libri, a causa delle scuole umane, e dimentica di vivere la sua vita.»

«Non sei il solo a pensarlo, credimi» ironizzò Apollo, fissandolo pieno di curiosità. «Comunque, credo che il parco gli stia piacendo. Non mi è parso infelice.»

«Potrebbe ambire a ben altri sollazzi, ma Athena si è arrabbiata a morte, quando ha saputo dove l’ho portato l’ultima volta» scrollò le spalle Ares.

«E’ con una ragazza» sottolineò a quel punto Apollo.

Ares si ringalluzzì subito, a quella notizia, e replicò: «Finalmente si è deciso a uscire con una femmina? Cominciavo a preoccuparmi all’idea di dovergli cercare qualche bel fanciullo. Non ne conosco molti, e per la maggiore non andiamo molto d’accordo, ma mi sarei messo d’impegno, per lui.»

Apollo non resistette più e scoppiò a ridere, attirando così anche l’attenzione di Afrodite che, raggiuntili con la sua solita classe innata, sorride ai due dèi e domandò: «Cos’hai detto, ad Apollo, per farlo ridere così?»

«Gli ho solo detto che mi sarei impegnato a trovare dei fanciulli da presentare ad Alekos, nel caso in cui fosse risultato che le donne non gli interessavano» brontolò Ares, contrariato. «Uno non può neanche comportarsi un minimo civilmente, che lo prendono in giro subito. E poi vi chiedete perché preferisco agire d’impulso, piuttosto che parlare.»

Rabbonendolo con un dolce bacetto sulla guancia, Afrodite fissò curiosa Apollo e gli chiese: «Come mai siete entrati in argomento?»

«Perché oggi ho pensato di portarlo fuori assieme ad Acaste. La conosci, Afrodite?» scrollò le spalle Apollo.

Afrodite si illuminò in viso, a quelle parole, ed esalò: «Oh, che dolce cosina! E’ un’oceanina davvero molto carina! La adoro! Ho passato un po’ di tempo con lei e Persefone, e posso dire che è davvero una cara ragazza. Ma come mai ti sei preso questo impegno?»

Tornando serio, Apollo tornò a guardarsi intorno con espressione pensierosa e ammise: «Ciò che è successo a Hermes mi ha fatto pensare. Ho passato secoli nella solitudine del mio tempio, estraniandomi dal mondo e dal tempo che passava, lasciando che questo mi scorresse sulla pelle senza darvi alcun peso. Mi prendevo i miei sollazzi, ovviamente, ma non li sentivo veramente. Era come sei fossi sempre da qualche altra parte. Mai veramente io.»

«Se devi fare della filosofia, me ne vado» borbottò Ares, ricevendo per diretta conseguenza un pizzicotto sul braccio da Afrodite.

«Lascialo parlare, Ares…» lo redarguì la dea, annuendo poi ad Apollo perché proseguisse.

«Nel bene e nel male, Hermes ha vissuto una vita più piena della mia e, anche se ha sofferto molto per la perdita dei suoi amici e della donna che amava, credo ne sia comunque valsa la pena. La stessa Athena ha rischiato, e pur con le sue perdite, ha una famiglia splendida che ama, e da cui è riamata. Io cos’ho, invece? Mi sono limitato a crogiolarmi nella mia immortalità, senza godere appieno di nulla, e gli unici legami abbastanza forti che mi erano rimasti erano con voi e le mie sorelle. Credo in tutta sincerità che sia stata una perdita di tempo» ammise Apollo, scrollando le spalle.

«Quindi, ti stai dando al baby-sitting?» ironizzò Ares, mentre Afrodite sospirava affascinata per le parole profonde di Apollo.

Apollo rise della battuta del fratellastro e asserì: «Anche. Ma soprattutto, voglio cominciare a godermi di più la mia nuova, grande famiglia allargata, e desidero cominciare a capire davvero cosa mi circonda.»

«Lo dicevo, io… argomenti troppo profondi, per i miei gusti» celiò Ares, dando una sonora pacca sulla spalla di Apollo, che tossicchiò per diretta conseguenza. «Lasciati andare a basta, senza troppi arzigogoli mentali. Quelli, fanno venire solo il mal di testa… e se ne può fare anche a meno.»

«Il solito buzzurro» si lagnò Afrodite, sospirando affranta.

Apollo sorrise nonostante tutto e, annuendo, ammise: «Forse hai ragione, Ares. Penso troppo, e questo mi crea ulteriori problemi. Dovrei semplicemente lasciarmi andare e basta.»

Aprendosi in un sorrisone soddisfatto, Ares ghignò a una esterrefatta Afrodite e ghignò: «Visto? HO RAGIONE IO.»

«Ce lo rinfaccerà fino alla fine dei tempi» esalò la dea, scuotendo il capo per l’esasperazione.

Ares tendeva a crogiolarsi nell’autocompiacimento assoluto, quando riceveva dei complimenti inattesi, fosse anche soltanto per il gusto di un gelato, o il colore di un oggetto. Quell’ammissione lo avrebbe mantenuto in uno stato di gloria per settimane intere.

Apollo sorrise divertito da quella scenetta ma, non appena intravide le figure di Acaste e Alekos – mano nella mano – di ritorno dalle space mountain, si volse dalla parte opposta e sussurrò: «Fate finta di nulla… stanno tornando e…»

Afrodite non fece in tempo a imitare Apollo che Ares si sbracciò per farsi vedere dal nipote, richiamandolo poi a gran voce e facendogli i complimenti per la sua nuova conquista.

Afrodite e Apollo guardarono sconsolati l’intera scena mentre Alekos diventava vermiglio in volto e Acaste si faceva piccola piccola, quasi volendo scomparire dietro le spalle del giovane semidio.

Ares poteva incutere un certo timore, quando lo si vedeva per la prima volta… anche se aveva le orecchie di Topolino in testa e indossava la maglietta di Pluto.

«E’ davvero un buzzurro» si lagnò Afrodite, passandosi una mano sul viso con espressione sconvolta.

Apollo non fu da meno e, scuotendo il capo, borbottò: «Alekos non vorrà più uscire con me, dopo questa tirata… e zio Poseidone non mi affiderà mai più Acaste. Bel risultato.»

«Scusa, Febo. Non pensavo che, venendo qui, avremmo fatto un simile disastro. Pensavamo soltanto di unirci a voi per una giornata in compagnia» sottolineò Afrodite, spiacente.

«Tu non centri nulla, …è Ares a essere una mina vagante» sospirò Apollo, sconsolato.

Nel vederli tornare assieme, Ares nel mezzo e i due giovani sui lati e attorniati dalle braccia possenti del dio, Apollo pregò che quella giornata non andasse a catafascio. Non voleva mandare in malora il suo rapporto con Alekos a causa delle intemperanze del fratello e, men che meno, voleva essere inseguito dai tritoni dello zio per aver fatto angustiare Acaste.

«Che ne dite se andiamo tutti all’Alien Pizza Planet?» propose tutto contento Ares, sorridendo al fratello e alla compagna.

Alekos si dichiarò d’accordo e Acaste, nel curiosare il viso del ragazzo oltre lo sbarramento offerto dal fisico possente di Ares, domandò: «Cos’è la pizza?»

Sorridendole, lui le disse: «La cosa più buona del mondo. Vedrai.»

Ciò detto, si svicolò dalla stretta leggera di Ares e riprese per mano Acaste, avviandosi poi verso la pizzeria assieme all’oceanina, seguito a breve distanza dai tre adulti.

Sogghignando soddisfatto, Ares sussurrò: «Bravo ragazzo. Prendi l’iniziativa.»

Apollo e Afrodite lo fissarono straniti e Ares, gonfiandosi come un pavone, disse loro: «Se il ragazzo si fa spaventare dalla presenza di un adulto, allora vuol dire che non ha intenzioni serie, ed è meglio che stia lontano dalla ragazza in questione. Visto che invece si è mosso, pare che Alekos sia interessato a conoscere meglio la fanciullina, perciò non mi immischierò più.»

«Non ti facevo così percettivo» esalò Apollo, squadrando il fratellastro con espressione sorpresa.

A sua volta, Afrodite mormorò ammirata: «Sapevo che, stando con me, qualcosa avresti imparato sull’amore!»

Ares li fissò con aria superiore, asserendo: «Le più grandi guerre sono nate a causa dell’amore. Ricordatevelo. Sono perciò informatissimo sull’argomento.»

Apollo tossicchiò al solo sentire quelle parole e replicò cauto: «Ehm… l’idea non è di scatenare una seconda guerra tra Athena e Poseidone… lo sai, vero?»

Ares impiegò alcuni istanti prima di comprendere le parole del fratellastro e, un po’ meno sicuro di sé, borbottò: «Dite che potrebbe succedere?»

Prima che Apollo potesse rispondere, Afrodite prese entrambi gli dèi sottobraccio e, lapidaria, sentenziò: «Se uno solo di voi due emette fiato, chiamerò Deimos e Phobos perché vi diano la caccia. Lasciateli in pace e fatevi gli affari vostri! Sono giovani, belli e immortali! Non hanno bisogno della vostra supervisione…»

Illuminandosi poi in viso, aggiunse sibillina: «… ma solo della mia

Le due divinità sospirarono scoraggiate e, mentre Afrodite aumentava l’andatura per raggiungere i giovani, ormai all’interno della pizzeria, Apollo borbottò: «Alekos ci odierà a vita.»

«Voi due, forse, ma non potrebbe mai odiare la dea dell’amore» chiosò convinta la dea.

«Aspetta un momento, tesoro…» borbottò Ares, puntando di colpo i piedi e bloccando di fatto l’avanzare della compagna.

Afrodite lo fissò leggermente irritata ma, quando sentì Ares proseguire nel suo discorso, si illuminò tutta, perdendo di colpo ogni altro interesse.

«… credo che quei ragazzi laggiù desiderino fare una foto con te. E’ già da un po’ che ti fissano, e tu non vuoi rendere infelici i tuoi fan, vero?»

«Assolutamente no» scosse il capo Afrodite, lanciando un’occhiata turbata alla facciata colorata della pizzeria prima di dire risoluta: «Ci metterò solo cinque minuti… forse sei. Teneteli d’occhio per me e non parlate. Devo pensare io a questa cosa.»

Ciò detto, si allontanò con passo elegante per raggiungere il nutrito gruppo di ragazzi che avevano attirato l’attenzione di Ares.

Soddisfatto, il dio della guerra ghignò all’indirizzo di Apollo e celiò: «Athena non potrà più accusarmi di non usare il cervello.»

Sorpreso, Apollo esalò: «Non mi dire che le hai raccontato una bugia?!»

«Non proprio… la stavano effettivamente guardando da un po’, ma non ho la più pallida idea se siano tra i suoi follower o meno» scrollò le spalle Ares, sospingendo lontano Apollo. «Porta via quei due ragazzi e scusati con entrambi. Non era mia intenzione rovinare loro la giornata, ma mi rendo conto solo ora che avere Afrodite alle calcagna significa avere una che ti prepara le bomboniere prima del tempo.»

Trovando il gesto di Ares assai lodevole e comprensivo, il dio della musica chiosò: «Vuoi davvero bene a quel ragazzo, eh?»

«Non so se sia lui, o se il suo dono possa condizionarmi, ma gli voglio davvero un mondo di bene, e non voglio che soffra» ammise senza remore Ares. «Persino mia sorella Eris ne è in qualche modo attratta. Lei che è la discordia fatta persona, è comunque assai incuriosita da Alekos. Sarà che sono antitetici e, come sai, gli opposti si attraggono, ma tant’è.»

Volgendosi poi a mezzo, fece un cenno col capo in direzione di un gruppetto di turisti e aggiunse: «Eccola là, nascosta in mezzo a quelle persone. Proprio come al solito… quando Alekos esce, lei si trova sempre nelle vicinanze.»

Sinceramente sorpreso – non si era mai reso conto degli spostamenti di Eris! – Apollo domandò: «Ti ha mai spiegato perché lo fa? E Athena lo sa?»

«Eris che spiega qualcosa?» lo irrise Ares. «Mi staccherebbe la testa a morsi, piuttosto che darmi qualche spiegazione… ma non è per fargli del male. Credo che ne sia incuriosita per una ragione tutta sua, ma non ha intenzioni malvage. Quanto ad Athena, credo lo sappia. Le ho viste una volta mentre si parlavano, e Atty non sembrava per niente nervosa, per cui…»

Sempre più sorpreso, Apollo scosse il capo, pieno di incredulità, ma Ares non gli permise di crogiolarsi troppo in quella confusione estemporanea e, lapidario, dichiarò: «Portali via, prima che finisca di fare i selfie. Io mi inventerò qualcosa, ma voi andate

Apollo assentì, preferendo accantonare il discorso Eris per un altro momento e, quando infine raggiunse l’Alien Pizza Planet, scovò Alekos e Acaste alle prese con una fetta di pizza a testa.

Spontaneamente, si ritrovò sorridere di fronte al sorriso di aperto e puro piacere di Acaste e, nonostante l’urgenza che ne muoveva i passi, si prese il suo tempo per poter godere del suo genuino apprezzamento.

Da quanto tempo lui non provava un simile godimento per le cose che lo circondavano? Da quando, tutto gli era giunto a noia?

Preferendo non farsi ammorbare dai suoi stessi dubbi, Apollo li raggiunse in tutta fretta e, dopo essere scivolato sul sedile di uno dei divanetti dove si erano accomodati, mormorò frettoloso: «Siamo braccati da Afrodite, perciò dovremo fare una fuga frettolosa da un’altra parte. Avete qualche idea?»

Ingollando in fretta il pezzo di pizza che stava masticando, Alekos sospirò e domandò: «Vuole maritarci prima del tempo, per caso?»

Apollo si ritrovò ad arrossire suo malgrado e, nell’osservare pieno di contrizione la dolce Acaste, trovò soltanto il suo sorrisino pieno di divertimento e due occhioni azzurri colmi di ironia.

«Ah… temo che le sue intenzioni siano più o meno queste. Ares si scusa. Non pensava che le cose sarebbero precipitate a questo modo» ammise Apollo, scuotendo il capo.

«Alekos me ne ha accennato subito dopo essere entrati qui…» ammise con candore Acaste, scrollando le spalle come se nulla fosse. «… e ci ha anche tenuto a scusarsi, ma io trovo tutto molto divertente. Sono solita annoiarmi molto, sul fondo dell’oceano, anche se non oso lagnarmi coi miei genitori, visto che vivo nella bambagia, per così dire. La giornata di oggi, invece, è così diversa dal solito e così frenetica, che non potrei davvero sognarmi di lamentarmi per qualcosa.»

Sorseggiando la propria bibita per un istante, Acaste terminò infine di dire: «Inoltre, la divina Afrodite segue soltanto i propri istinti, perciò non avrei nulla da rimproverarle. Solo, mi spiacerebbe deluderla.»

Apollo si ritrovò a sorriderle pieno di incanto e di ammirazione per quella giovane così intelligente e ingenua al tempo stesso e, nel darle un buffetto su una guancia, replicò: «Non dirglielo mai, o ti farà sposare qualcuno immediatamente.»

«E’ per questo che abbiamo cominciato a mangiare prima del tuo arrivo, zio. Stavo già programmando una fuga» ammiccò Alekos, divertito. «Zio Ares, quindi, si prenderà la colpa di tutto?»

«A quanto pare, sì» assentì il dio della musica, rialzandosi in piedi. «Hai già provveduto a pagare, Alekos?»

«Ho già fatto tutto» annuì il giovane, tenendo per sé solo il bicchiere di Coca-Cola, che ancora non aveva terminato.

Acaste li seguì piena di divertimento e di aspettativa e, non appena ebbero raggiunto il retro del locale, lontano da sguardi indiscreti, domandò: «Ora cosa facciamo?»

Alekos le sorrise, prendendola per mano, e dichiarò: «Che ne dici della Walk of Fame?»
 
***

Osservare Acaste e Alekos che si scambiavano domande e risposte come in un talk show, e tutte inerenti ai nomi che comparivano lungo la Walk of Fame, era più divertente di quanto avesse pensato in un primo momento.

L’oceanina balzellava da una stella all’altra della rinomata Via degli Artisti con la leggiadria di una farfalla, citando con competenza attori e attrici, piuttosto che cantanti di varie epoche e stili. Alekos, comunque, non era da meno e, alle domande sibilline di Acaste, riusciva sempre a rispondere esattamente.

La subitanea sorpresa di Apollo nello scoprirli così preparati, si sostituì ben presto al piacere di sentirli parlare e ridere assieme. Alekos si impegnava a metterla alla prova con nomi di artisti sempre più vecchi o poco conosciuti, ma la ragazza non sembrava avere difficoltà a rispondere a ogni singola domanda.

Il dio della musica, silente e in assorta contemplazione, si godeva quello spettacolo senza dire nulla, gustandosi quei momenti di serenità come un assetato di fronte a una fonte fresca.

Osservando la spontaneità di Acaste e la serenità di Alekos, Apollo ebbe la riprova di quanto si fosse perso, in quei secoli, e quanto Athena, Hermes o la sua stessa gemella avessero cercato nel mondo dei mortali.

In quanto dèi, beneficiati di una lunga vita, potevano ottenere facilmente qualsiasi cosa, o vivere avventure al di fuori dell’immaginario umano… eppure, l’inedia tendeva a prenderli tutti. Nessuno escluso.

Il logorio del tempo aveva, su di loro, l’effetto di renderli insensibili e lontani dai destini dei mortali, e questo aveva spaventato Apollo nel momento stesso in cui Hermes aveva rischiato di morire per mano di Érebos.

Per quanto potesse terrorizzarlo l’idea di affezionarsi a una persona che, nel breve decorrere di qualche decennio, avrebbe potuto – e dovuto – perdere, trovava che fosse più bello e più vero sentire - e provare - amore, affetto e devozione. Soprattutto verso i mortali.

Quei sentimenti gli erano divenuti estranei, nel corso del tempo, e anche le grandi passioni da lui provate nella sua giovinezza immortale, erano divenute per lui solo ricordi dolci, ma lontani e sbiaditi.

Vedere Hermes a un passo dall’abisso proprio a causa dei sentimenti dirompenti provati per degli esseri mortali, gli aveva posto dinanzi agli occhi una verità tutt’altro che piacevole.

Si era indurito. Era divenuto simile a una delle statue che lo raffiguravano in molteplici pose plastiche, ma fredde. Non veritiere del suo vero Io.

Questo non gli faceva di certo piacere, ma gli era divenuto ormai evidente.

Quando aveva preso in braccio per la prima volta Xena e Buffy, quella verità lo aveva fatto sentire quasi incapace di mostrare alle nipoti il suo amore per loro. Persino l’interesse per Alessandra e la sua decisione di prenderla come pupilla, era stata più una piccola ripicca nei confronti di Achille, che un vero e proprio interesse personale.

Fu forse per questo che, a un certo punto, Apollo avanzò verso i due ragazzi – impegnati in un’allegra discussione sulla bravura di Frank Sinatra – e li abbracciò stretti.

Subito, Alekos sgranò gli occhi per la sorpresa e, nell’avvolgere un braccio attorno alla vita stretta del dio, mormorò: «Va tutto bene, zio… fa un po’ male, all’inizio, ma poi passa.»

Sorridendo, Apollo assentì muto e Acaste, nell’osservarlo preoccupata, domandò: «Qualcosa non va, Febo?»

«No, va tutto bene, Acaste. Solo che voi due siete splendidi, insieme, e mi avete arrecato una gioia molto grande, oggi» le spiegò lui, lasciandoli infine andare con un sorriso un po’ imbarazzato a illuminargli il viso.

Arrossendo di pura delizia, Acaste allora disse: «Sono lieta che stare in mia compagnia possa avervi… averti arrecato gioia, Febo. Io mi reputo piuttosto ordinaria, ma sono felice di poter essere stata di aiuto in qualche modo.»

«Credimi, la tua spontaneità e la tua gioia di vivere sono tutto tranne che ordinarie, Acaste» replicò Apollo, dandole un buffetto sulla guancia.

Quando, però, si volse per compiere lo stesso gesto con Alekos, Apollo si ritrovò ad affondare il suo sguardo in quello attento e preoccupato del nipote che, turbato, mormorò mentalmente: “Sei sicuro che vada davvero tutto bene? Pa’ è ancora piuttosto turbato dalla faccenda di Hermes, e non vorrei dovesse rifare ciò che ha fatto. Ne soffrirebbe moltissimo, e io non voglio vedere soffrire Érebos.”

Intenerito dalle preoccupazioni del nipote nei confronti del suo patrigno, Apollo asserì per contro: “Non temere per me, né per Érebos. Anzi, apprezzo queste sensazioni destabilizzanti. Erano ciò che cercavo da tempo, ma non sapevo esattamente come esternarle.”

“Per questo, con Buffy e Xena, sei sempre così a disagio?” ipotizzò Alekos, sollevando le sopracciglia per la sorpresa e la comprensione.

“Esatto… mi sono reso conto di essermi assai arrugginito, in questi secoli, e di aver tagliato fuori dalla mia vita sensazioni che, un tempo, bramavo come l’aria nei polmoni. Ora che desidero riaverle per me, soffro, ma è una sofferenza che ho cercato e che desidero. Non ti preoccupare, perciò.”

Alekos assentì più tranquillo e Acaste, sorridendo fiduciosa a entrambi, disse: «Gradirei mangiare un po’ di gelato, se fosse possibile. Alekos mi diceva che è molto buono.»

Apollo annuì con vigore e, avvolte le spalle di entrambi, dichiarò: «Dovrò scambiare due paroline con Oceano e Teti, ma anche con Persefone. Va bene il cinema, va bene la musica, ma ogni tanto va bene anche passeggiare all’aria aperta!»

Acaste e Alekos assentirono con una risata piena di divertimento e Apollo, in cuor suo, accolse con piacere il tuffo al cuore che provò nel sentire nuovamente il suo animo agitarsi e riscaldarsi al suono di quelle risa.

Era bello tornare a percepire quelle emozioni così contrastanti, sottili e subdole, che potevano portare alla gioia più totale così come allo sconforto completo.

Nel bene e nel male, lui voleva sentire. Non voleva ridursi a essere l’ombra di se stesso.

“E’ questo che tiene lontani zia Artemide, mamma e il nonno…” gli trasmise Alekos, spiacente.

“Temo di sì. Ma è difficile dare dei consigli al proprio padre, quando quest’ultimo non è disposto ad accettarli” asserì Apollo, sapendo di avere ragione.

Pur provando a conferire con Zeus, Apollo non avrebbe ottenuto niente di buono. Finché il padre degli dèi non avesse deciso di cambiare rotta in prima persona, nessun suo gesto distensivo sarebbe servito a far allentare la tensione tra lui e le sue figlie.






N.d.A.: Apollo affronta di petto i dubbi circa il suo futuro e comprende quanto, il tempo e la solitudine, lo abbiano indurito, e quanto la rinnovata vicinanza alle sue sorelle e fratelli, lo stia spingendo a provare nuovamente sensazioni che pensava di aver perso. Stavolta, però, si rende conto di stare vivendo in modo più intenso e sì, più maturo, e questo lo destabilizza un po', così come preoccupa non poco Alekos.
Apollo però lo rassicura; non avremo un Hermes 2 - la vendetta. (ve lo prometto)








 

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Capitolo 30
*** Apollo - 3 - ***


 
3.
 
 
 
 
Seduti comodamente su una panchina lungo la Ocean Boulevard, le stelle alte in cielo e il profumo dell’oceano a riempire le loro narici, Apollo, Acaste e Alekos attendevano pazienti l’arrivo di Poseidone.

Come promesso, Apollo aveva offerto all’oceanina – e per l’occasione, anche ad Alekos – una sontuosa cena presso un localino vicino alla spiaggia. Pur essendo abituata a pietanze di pesce, Acaste si era dimostrata entusiasta della cucina umana e aveva espresso i suoi vivi complimenti al cuoco per la sua bravura.

Apollo aveva temuto per un attimo di dover praticare un massaggio cardiaco al povero chef, così emozionato e pieno di gratitudine da aver rischiato l’infarto. Il tutto si era però risolto con un invito dello stesso chef a provare nuovi piatti presso il loro locale, e Acaste aveva accettato con entusiasmo.

«E’ stato tutto così bello che, quasi quasi, mi spiace rientrare a casa» sospirò a un certo punto Acaste, giocherellando nervosa con una collana di conchiglie che Alekos le aveva regalato durante la loro passeggiata lungo le vie di Long Beach.

«Possiamo tornare a visitare Los Angeles tutte le volte che vuoi» le ricordò Apollo, sorridendole affabile.

«Vorresti farmi ancora da guida?» esalò sorpresa Acaste, fissandolo con occhi sgranati.

Apollo scrollò le spalle, assentì e disse: «Non sarebbe farti da guida, ma stare in compagnia di un’amica. E’ ben diverso. Inoltre, verrebbe anche Alekos. Dico bene?»

Il ragazzo assentì con un sorriso timido, dicendo: «Sarebbe un piacere. Oggi mi sono divertito molto. Inoltre, non dovremmo limitarci solo a Los Angeles. Potremmo andare da qualsiasi parte, visitare qualsiasi luogo può interessarti.»

Acaste si illuminò di pura gioia, balzò in piedi per porsi dinanzi ai suoi due accompagnatori e, inchinandosi a loro, dichiarò: «Vi ringrazio immensamente per tutto ciò che avete fatto per me… sarà bellissimo passare altro tempo con voi.»

Apollo fece per replicare a tanti e tali ringraziamenti quando, a sorpresa, un profumo a lui familiare lo fece volgere all’improvviso. Sorpreso, vide avanzare lungo il marciapiede una figura che, da millenni, non aveva più incontrato lungo il suo cammino – o meglio, voluto incontrare.

Lampi di ricordi comuni e comuni quanto feroci accuse rimbalzarono nella sua mente ma, ligio al suo mantra personale di non lasciarsi più andare all’inedia, ne accettò la forza così come il dolore.

Inconsapevole della battaglia interiore del dio, Acaste sorrise deliziata e un po’ stupita all’indirizzo della sorella maggiore e, balzellando verso di lei con gioia, afferrò le mani di Clizia ed esclamò: «Non sapevo che saresti venuta tu a prendermi! Attendevamo il sommo Poseidone.»

«Non è il caso di scomodare il signore dei mari, per una cosa simile» si limitò a dire l’oceanina, lanciando poi un’occhiata inquisitoria ad Apollo, che resse bene lo sguardo senza però proferire parola.

A quel punto, sia Acaste che Alekos scrutarono curiosi i due silenziosi contendenti finché Apollo, levandosi in piedi, non annullò le distanze che li separavano e, sorridendo all’oceanina, disse: «E’ bello rivederti, Clizia.»

L’oceanina arrossì fino alla radice dei biondi capelli in risposta alle parole impreviste del dio e, reclinando pudica lo sguardo, mormorò: «E’… è bello rivedere te, Febo.»

Sempre più confusa, Acaste domandò alla sorella: «Vi conoscevate, per caso?»

Clizia assentì rapidamente, senza però entrare nel merito e Alekos, immaginando vi fosse qualcosa di cui i due interessati non desideravano parlare dinanzi a loro, intervenne lesto e si presentò.

«E’ un piacere conoscere una delle sorelle di Acaste. Io sono Alekos, figlio di Athena.»

Clizia volse il suo sguardo d’ambra in direzione del giovane e, sorridendogli grata per quell’improvvisata volta a trarla d’impaccio, mormorò: «Avevo sentito parlare di te dal sommo Poseidone. E’ un piacere fare la tua conoscenza. Io sono Clizia.»

«Febo e Alekos si sono offerti di accompagnarmi in altri posti, esattamente come hanno fatto oggi. Non è meraviglioso? Mi sono divertita moltissimo, e non vedo l’ora di scoprire altri luoghi altrettanto magnifici» esclamò Acaste, stringendo in un abbraccio la tesissima Clizia, che assentì meccanicamente.

«Papà sarà felice di saperlo… visto che quasi tutte le nostre sorelle sono sposate, e tu sei quasi sempre sola, o in compagnia di Persefone, sarà lieto di questa novità nella tua vita» rispose atona Clizia, non sapendo cosa pensare delle parole della sorella, così come del comportamento di Apollo.

Era così cambiato, nel corso dei secoli? Era mai possibile che l’inarrivabile Apollo, dio del sole e delle arti, avesse mutato il suo carattere?

«Sarebbe bello se partecipassi anche tu, Clizia» intervenne a quel punto Apollo, sorprendendo ulteriormente l’oceanina che, turbata, si scostò dalla sorella per allontanarsi di qualche metro dallo sparuto gruppetto.

Scusandosi subito con i due giovani, Apollo la seguì immediatamente e Acaste, preoccupata per la sorella, fece per rincorrerla a sua volta, ma Alekos la bloccò a un braccio.

«Lascia che si parlino. Credo che abbiano qualcosa in sospeso di cui noi non dobbiamo sapere nulla… almeno per il momento» le disse Alekos, sorridendole benevolo.

Acaste assentì debolmente e, nel rivolgere lo sguardo all’oceano cupo e increspato di rade onde, mormorò: «Clizia non si è mai voluta sposare, sai? E la reazione che ha avuto vedendo Apollo, potrebbe essere la spiegazione a una simile scelta.»

Alekos sospirò sorpreso e l’oceanina, sorridendo leggermente, aggiunse: «Clizia ha passato molti anni a starsene per i fatti suoi, appollaiata da qualche parte, in contemplazione del cielo. Ma, invece di essere felice per ciò che vedeva, era sempre triste. Non mi ha mai voluto spiegare il perché di un tale comportamento, ma forse…»

Lanciata un’occhiata ai due adulti – che stavano discorrendo a poca distanza da loro – Alekos aggiunse per lei: «… forse, Clizia provava dei sentimenti per qualcuno, e Apollo ne era a conoscenza… forse erano in disaccordo su questo, e rivedersi ha creato imbarazzo in Clizia.»

Acaste annuì alle parole di Alekos ma, prima ancora di poter replicare, sobbalzò sorpresa al pari del ragazzo al suo fianco quando Clizia si gettò in lacrime tra le braccia di Apollo.

Il sapore di quelle lacrime, però, portò la giovane oceanina a sorridere speranzosa e, sollevata, mormorò: «Sono contenta che sia venuta lei, a prendermi. E’ bello vederla nuovamente in pace.»

«Lacrime di gioia, quindi?» domandò curioso Alekos, cercando di non soffermarsi troppo sulla visione dei due adulti abbracciati.

Acaste si tastò il naso, annuendo, e disse: «Hanno il profumo giusto. Sanno di pacificazione, di un peso che non le grava più sul cuore. E’ una buona cosa, credo.»

Alekos annuì lieto e, come sempre in questi casi, si ritrovò a guardarsi intorno con aria divertita e curiosa al tempo stesso. Prima o poi avrebbe trovato il modo di parlare con l’ombra che lo seguiva, ma che lo rifuggiva al tempo stesso, ma non era quello il momento.

Sapeva che qualcuno lo osservava da anni con interesse, ma non sembrava intenzionato ad avvicinarsi a sufficienza perché lui potesse riconoscerlo, o riconoscerla. Ugualmente, quella presenza non sembrava abbandonarlo mai, quando usciva di casa, in special modo quando si trovava in compagnia di qualcuno.

Che quest’ombra volesse proteggerlo in qualche modo? O che fosse incuriosita dalle sue amicizie?
Non ne aveva davvero idea, ma prima o poi sarebbe riuscito a scoprire qualcosa di più.

Tornando infine a scrutare il viso di Acaste, le sorrise pieno di gratitudine e disse: «Tu ci hai ringraziati, prima, ma vorrei ringraziarti a mia volta. E’ la prima volta che posso parlare apertamente con qualcuno che non siano i miei cugini umani, o comportarmi per quello che sono realmente. E’ stato bello.»

Acaste ammiccò divertita e aggiunse: «Ti riferisci a quello che voleva fare Afrodite con noi?»

Arrossendo suo malgrado, Alekos annuì e, grattandosi nervosamente una guancia, ammise: «Beh, sì. Insomma... anche se non siamo usciti per quello, è stato comunque il mio primo appuntamento con una ragazza. Più o meno, ecco.»

Acaste rise dolcemente, diede un colpetto con la spalla a quella del ragazzo e mormorò: «E’ stato anche il mio primo appuntamento. Più o meno, ecco. Potrai ben capire che, con tremila fratelli, e altrettante sorelle, possa essere un pochino difficile muovermi liberamente, o conoscere qualcuno. Senza poi contare l’ossessione di mio padre di voler proteggere le proprie figlie dai malintenzionati.»

Immaginandosi una schiera di potamoi1 a difesa della loro dolce sorellina, e altrettante oceanine pronte a sguainare i tridenti pur di proteggerla, Alekos si ritrovò a ridere nervosamente. In effetti, la cosa aveva del surreale e suonava dannatamente inquietante, anche per lui che era abituato a un mondo di dèi ed eroi.

«So di non essere coraggioso come mia madre, che ha dato il suo cuore – per la prima volta – a un mortale. Non ne sarei davvero in grado. Non al momento, comunque» ammise con candore Alekos, rivolgendosi ad Acaste. «Stare con te, oggi, mi è piaciuto anche per questo. Mi ha fatto capire come possa essere passare del tempo con qualcuno che non sia un mio parente. E’ stato piacevole e nuovo. Diverso.»

Acaste assentì pensierosa, asserendo: «Alcune mie sorelle sposarono dei mortali, e ora li ricordano con affetto e devozione, pur essendosi maritate in seguito con altre persone. Capisco cosa vuoi dire. A volte le vedo piangere, ma mi dicono che sono lacrime dolci, non tristi. Anche tua madre piange tuo padre?»

«Capita, sì, ma Érebos è quasi sempre con lei, quando succede, perciò so di non dovermi preoccupare. Inoltre, abbiamo una famiglia molto unita, che stempera il dolore di tutti» le spiegò Alekos, scrollando le spalle.

«Mi piacerebbe conoscerli. Pensi che potrei farlo, una di queste volte?»

Sorridendole, Alekos annuì e disse: «Ti accoglierebbero a braccia aperte… ma rischieresti anche lì un trattamento alla Afrodite. Te la senti?»

Acaste ammiccò divertita e scrollò le spalle come se non fosse affatto un problema. Ad Alekos bastò.

Desiderava rivedere ancora Acaste, e il fatto che lei non solo lo volesse a sua volta, ma fosse disposta ad affrontare il fuoco incrociato di domande della sua famiglia, lo riempì di gioia.

Sorridendo all’indirizzo di Apollo, fu grato allo zio per quell’uscita fuori programma. Gli aveva permesso di conoscere una ragazza davvero speciale e, per la prima volta dacché era nato, aveva potuto essere se stesso al di fuori della cerchia dei suoi parenti. Un’autentica novità, per lui.

Quando, però, Alekos colse la tensione sui volti di Apollo e Clizia, il ragazzo si ritrovò a preoccuparsi perché dolore e rabbia si mescolavano come la schiuma del mare sulla banchisa, e i loro occhi parevano sfidarsi.

“Zio, ma cosa…”

“Riporta a casa Acaste, per favore. Io e Clizia dobbiamo sistemare una faccenda, una volta per tutte” lo pregò Apollo, gli occhi negli occhi con l’oceanina che, in quel momento, lo stava mettendo a dura prova.

Annuendo, Alekos prese per mano Acaste e, in un sussurro, disse: «Verrò con te a conoscere tuo padre e tua madre. Che dici? Gli piacerò?»

Acaste sorrise al giovane, assentì e replicò: «Mio padre ama sempre le visite, e così mia madre. Ma Clizia starà bene, sola con Apollo? Mi sembrano un po’ tesi, ora come ora.»

«Devono chiarirsi, e noi siamo di troppo» le spiegò Alekos, spiacente.

Acaste, però, si limitò a un assenso deciso e, presolo per entrambe le mani, mormorò: «Voglio solo che mia sorella sia felice, perciò mi toglierò dai piedi. Preparati, perché trasmutarsi in acqua può essere un po’ più complesso che sulla terra ferma.»

«Ti seguirò fedelmente, allora» ammiccò Alekos, ammiccando.

«Sarà un piacere» sorrise lei, strizzando gli occhi prima di trasmutare al pari del giovane semidio.

Avvedendosene, Apollo dichiarò soddisfatto: «Bene. Ora che sono andati, possiamo chiarirci una volta per tutte.»

Clizia lanciò un’occhiata ove solo alcuni attimi prima si era trovata sua sorella e, turbata, esalò: «Mio padre mi ucciderà, se la vede rientrare da sola!»

«E’ in compagnia di Alekos. Non temere. E’ più importante che io e te parliamo, altrimenti questa faida rimarrà aperta per altri duemila anni, e io non voglio» replicò determinato Apollo, facendo irritare non poco Clizia, che lo fissò stizzita.

«Sei tu che continui a confondermi!» sbottò l’oceanina.

Apollo sospirò, le offrì il braccio per una passeggiata notturna sulla spiaggia e Clizia, suo malgrado, accettò borbottando: «Non puoi dirmi che non sei più arrabbiato con me, e poi rifiutare il mio amore come se nulla fosse.»

Apollo allora la fissò pieno di dolore, scosse il capo per l’impazienza ma riuscì comunque a parlare con calma, desideroso di chiudere quell’immane equivoco protrattosi da fin troppo tempo.

Consegnando entrambi all’oscurità della notte, mentre una pallida luna sorrideva alta in cielo – permettendo ad Artemide di scorgere il gemello, qualora lo avesse voluto – Apollo replicò: «Dimmi, Clizia… e sii onesta. Il tuo amore per me, da cosa dipendeva?»

Avvampando in viso, l’oceanina reclinò il viso e mormorò: «Sei bellissimo, Febo, e nessuno può essere più affascinante di te. Tutte ti adorano e ti venerano, ma pensavo che io fossi speciale, per te.»

Ciò detto, risollevò i suoi occhi d’ambra per puntarli sul volto perfetto del dio e, suo malgrado, l’infatuazione di un tempo tornò a ferirla.

Era stato così bello entrare nelle grazie del dio, essere la sua prediletta e accettare i frutti della sua attenzione e della sua venerazione.

Leucotoe aveva però rovinato ogni cosa, divenendo l’interesse di Apollo e la sua nuova amante. Il mondo di Clizia – dapprima splendido e ricco di gioia – si era quindi tramutato in un inferno in Terra, ove ogni cosa la feriva e le faceva dolere il cuore.

Per questo, si era spinta a commettere un atto indegno, e per cui il padre l’aveva debitamente punita con l’isolamento nel suo regno.

Per questo, aveva sofferto durante i lunghi millenni di separazione forzata dal dio.

Per questo, aveva chiesto a suo padre Oceano di potersi recare sulla terraferma per riaccompagnare a casa Acaste, spezzando così per qualche ora la sua prigionia dorata e millenaria.

Se fosse riuscita a chiedere perdono e a implorare di essere nuovamente amata da Apollo, di cui aveva sentito la mancanza fino a quel momento, forse tutto si sarebbe risolto.

Ma il dio, pur perdonandola per aver causato la morte di Leucotoe, le aveva negato ancora una volta la sua gioia più grande, e ora la sfidava a mettere a parole le sue debolezze più profonde.

Bloccando i suoi passi, la brezza marina a carezzarle le gambe nude e il volto arrossato dall’imbarazzo, Clizia asserì gelida: «Mi lasciasti per un’umana e, quando io mi macchiai di un terribile atto per amore tuo, tu mi negasti la parola, o il semplice sguardo, per millenni! Hai una minima idea di quanto ho sofferto ogni giorno di questa mia interminabile vita?!»

Apollo assentì stanco, ricordando bene quei tragici eventi.

Tutto era stato causato da una serie di vendette, concatenate tra loro come la trama di un tessuto senza fine, che però aveva portato la fine di una vita incolpevole; quella di Leucotoe.

Se lui non avesse detto a Efesto del tradimento di Afrodite con Ares, la dea dell’amore non avrebbe cercato vendetta su di lui, e Leucotoe non sarebbe rimasta vittima della vendetta di Clizia.

«Una catena… una maledetta, infinita catena…» mormorò Apollo, lanciando un’occhiata alla bianca luna nel cielo.

“Te la senti di fare tutto quanto da solo, fratello?” gli domandò Artemide con tono ansioso.

“Sto cercando di aggiustare un torto e, al tempo stesso, di vivere la mia vita secondo nuovi canoni. Qualche intoppo lo dovrò pur superare, no?” ironizzò il dio, cercando così di tranquillizzare la sorella.

“Verrò lì anche adesso, se necessario.”

“Stai con le tue bambine e il tuo uomo, Phoebe. Non annegherò nell’abisso del dolore, promesso” la rincuorò Apollo, spezzando poi il contatto con la gemella per concentrarsi unicamente su Clizia e il suo cuore spezzato.

«Sai perché concessi le mie attenzioni a Leucotoe?» domandò quindi Apollo, rivolgendosi a un’irritata Clizia.

«Non ho mai avuto la presunzione di comprendere le azioni di un dio» sbuffò irritata l’oceanina.

«Avresti dovuto. Mi avrebbe fatto piacere parlarne con te» sottolineò lui, sorridendo sghembo. «O forse, all’epoca non mi sarebbe piaciuto, ma adesso sicuramente sì»

«Parli per enigmi, e rendi tutto ancor più doloroso» gli rinfacciò Clizia, stringendosi le braccia al petto.

La brezza si levò più forte, sbattendole l’abito di seta contro il corpo perfetto e Apollo, suo malgrado, rammentò cosa volesse dire tenerla stretta tra le braccia, affondare il viso tra i suoi seni, perdersi in lei completamente.

Chiudendo per un istante gli occhi, cercò di focalizzare altrove la sua mente, ma fu davvero difficile discostarsi da simili ondate di piacere. Clizia, dopotutto, era stata una delle sue amanti più generose, e gli era stata fedele nonostante il loro rapporto fosse andato a catafascio.

«Afrodite mi maledisse, facendomi innamorare di Leucotoe perché io feci la spia su di lei e sul suo rapporto con Ares» le spiegò infine Apollo, sorprendendola. «Poiché la maledizione proveniva dalla dea dell’amore, io non potei avere scampo alcuno e pagai la mia lingua lunga con il tradimento a te. Nessun’altra se non Leucotoe poteva esistere, per me… né dea, né umana.»

«Quindi io…» ansimò sconvolta Clizia, impallidendo di sgomento. «… condannai Leucotoe a una morte orribile, e lei… lei…»

Scoppiando nuovamente in lacrime, Clizia si coprì il viso con le mani per soffocare i singhiozzi ricolmi di contrizione e Apollo, spiacente, le sfiorò una spalla con una mano, desiderando con tutto il cuore abbracciarla.

Se l’avesse fatto, però, sarebbe ricaduto nelle sue vecchie abitudini e avrebbe risolto ogni cosa – dolore, passione e rabbia – con un piacevole quanto vuoto amplesso.

Ora voleva molto di più. Desiderava il contatto, ma altresì il sentimento, il trasporto, la passione dei sensi così come l’estasi della vicinanza di due cuori che battono all’unisono, non solo la lussuria.

Senza la conoscenza di chi si ha accanto, però, due cuori non possono battere all’unisono, e lui ormai cercava questo.

«Capisco il tuo odio, adesso… e comprendo perché tu non abbia più desiderato parlarmi… fui orribile…» si lagnò dolente Clizia, tergendosi le lacrime per poi scrutarlo con occhi pieni di mestizia.

«Fui superficiale, Clizia. Tutti noi lo fummo. Afrodite a non capire la futilità dei suoi segreti, io a essermi impicciato di un affare non mio, tu ad aver agito contro un’altra donna, e solo per gelosia. Peccammo a vario titolo e in vari modi, e un’innocente ne pagò lo scotto più salato» ammise Apollo, sfiorandole il viso con una dolce carezza.

Clizia assentì e reclinò colpevole il capo, mormorando: «Ti volevo per me, e peccai di egoismo nel modo più becero possibile.»

«Perciò torno a chiederti… perché? Solo per il mio viso? Era vero amore, o solo un’infatuazione dovuta alla bellezza reciproca? E credimi, sto facendo la domanda anche a me stesso» le chiese lui, stringendole delicatamente il viso tra le mani perché i loro sguardi si incrociassero.

Clizia rimase in silenzio, gli occhi sempre più grandi e sommersi dalla verità insita nelle parole del dio. Cosa l’aveva spinta tra le braccia di Febo? Solo la sua bellezza? Nient’altro che quello?

Scostandosi di un passo da Apollo, l’oceanina mormorò sgomenta quanto consapevole: «Fummo superficiali anche in questo, temo.»

«Lo credo anch’io, ma non desidero più esserlo» ammise Apollo, sfiorandosi il petto con una mano. «Sono stanco di non sentire nulla, di lasciarmi scorrere il tempo sulle membra senza provare le emozioni che, invece, gli umani provano ogni giorno. Né, per contro, voglio essere come un tempo, dedito solo a vuoti e superficiali sentimenti, che mi hanno lasciato solo bei ricordi ma poco altro.»

«Per gli umani è diverso. Sono così perché la loro vita avrà un termine, e desiderano viverla pienamente» replicò Clizia con un mesto sorriso. «Così non è per noi e sì… tendiamo a sprecare il tempo concessoci proprio perché possiamo farlo.»

«Athena e mia sorella Artemide hanno deciso di rischiare, abbandonandosi all’amore verso due mortali. Certo, il marito di Athena è morto, e il dolore da lei patito è stato enorme, ma è stata comunque felice di aver amato il suo Miguel, e Alekos glielo ricorda ogni giorno. Ugualmente, Artemide è felice con il suo Felipe, felice come non l’ho mai vista. Certo, so già che soffriranno, a tempo debito e a vario titolo, ma loro desiderano comunque questo scampolo di felicità al nulla eterno che le aspetta, all’inedia dell’immortalità, allo scorrere del tempo fine a se stesso. Anch’io soffrirò, poiché amo la famiglia umana delle mie sorella ma, anch’io, desidero queste sensazioni, queste pulsioni.»

Clizia si arrischiò a prenderlo per mano e, lo sguardo a sua volta puntato verso l’oceano, disse sommessamente: «Non abbiamo mai parlato così, prima…»

«Troppo noioso?» ironizzò Apollo, ammiccando al suo indirizzo.

«No, affatto» scosse il capo lei prima di scostarsi, porsi dinanzi a lui e, con un’elegante riverenza, dire: «I miei sentiti omaggi, divino Apollo. Io sono l’oceanina Clizia, figlia del titano Oceano e della titanide Teti. E’ un onore fare la tua conoscenza.»

Apollo allora le sorrise, si inchinò a sua volta e, sollevandole una mano per un baciamano aggraziato, replicò: «Lieto di essere al tuo cospetto, Clizia, figlia di Oceano e di Teti. Reputo mio l’onore di conoscerti.»

Clizia gli sorrise nel risollevarsi e, indicando il mare, mormorò: «Credo sia tempo che io rientri. Mio padre comincerà a preoccuparsi, sapendomi fuori senza i miei fratelli e, soprattutto, sapendoti in tua compagnia. Dopotutto, sono ancora in punizione per via di Leucotoe. Inoltre, credo che il giovane Alekos sia ormai agli sgoccioli, quanto a resistenza.»

Scoppiando a ridere, Apollo si passò una mano tra i folti riccioli ramati e, annuendo, disse: «Vieni anche tu, la prossima volta che porterò fuori Alekos e Acaste. Sarebbe bello conoscerci davvero, stavolta.»

Lei assentì, gli sfiorò il volto con un tocco pieno di rammarico e bramosia ma, infine, si scostò e trasmutò per raggiungere la reggia negli abissi dove si trovava la sua famiglia.

Conoscersi davvero. Avrebbe di nuovo parlato con Apollo ma, stavolta, come una donna a un uomo, e non una postulante a un dio.

Aveva ancora un sorriso stampato sul bel viso, quando infine rimise piede alla reggia di Oceano e lì, circondato dai tremila potamoi e da un Oceano alquanto diffidente, Clizia trovò il povero Alekos.

Acaste se ne stava ai piedi di Teti, assisa sulla sua ottomana preferita, ed entrambe osservavano la scena con aria a metà tra il riso e la disperazione.

Pur ammirando lo stoico contegno del figlio di Athena, Clizia venne mossa a pietà dalla sua posizione minoritaria. Fattasi quindi spazio tra i fratelli a suon di gomitate fino a raggiungere Alekos, si rivolse alla sua famiglia e domandò: «Pensate di averlo sottoposto a sufficienti domande? O volete fargli passare del tutto la voglia di rivedere la nostra piccola Acaste?»

«E’ giusto che parliamo un po’ con il nuovo amico di Acaste, non ti pare?» brontolò Oceano, passandosi una mano sulla folta barba bianca. «Inoltre, non dovevi essere tu a riportarla a casa, invece di delegare a questo giovanotto?»

Sbuffando, Clizia lasciò perdere la domanda del padre per replicare ironica: «Parlare, padre? Alekos se ne sta qui, in mezzo a una masnada di uomini dal testosterone troppo alto, ed è così educato da non tentare nemmeno la fuga, il tutto unicamente per non apparire scortese ai vostri occhi.»

Ciò detto, l’oceanina poggiò una mano sulla spalla del giovane, che la gratificò di un sorriso apertamente lieto e pieno di gratitudine.

Storcendo la bocca per quell’implicito rimprovero, Oceano fece per replicare alle accuse della figlia, ma un’enorme nube argentata si formò nei pressi di quell’improvvisato tribunale, sorprendendo tutti.

Una dopo l’altra le sorelle di Clizia e Acaste presero forma nell’enorme salone che, a quel punto, iniziò a diventare un poco più stretto, dovendo contenere più di seimila persone.

«Cos’hai fatto, Clizia?» sbottò Oceano, squadrando sempre più in ansia le sue tremila figlie, apertamente battagliere e dichiaratamente dalla parte della sorella.

«Io? Niente» scrollò le spalle Clizia, ammiccando poi alla madre, che sorrise benevola. «Ma forse, così, le cose saranno un po’ più egualitarie.»

Nel breve decorrere di qualche istante, Alekos venne letteralmente circondato dalle oceanine che, a momenti alterni, lo dispensarono di caldi sorrisi, abbracci e complimenti.

Il tutto, condito da eloquenti sorrisi di scherno e rimprovero rivolti a Oceano che, alla fine, sospirò sconfitto per poi dire: «E va bene! Forse abbiamo un tantino esagerato con le domande… ma è la prima volta che Acaste esce con un ragazzo, e volevamo sapere chi era!»

«Se vogliamo spaccare il capello in quattro, padre, è stata un’uscita amichevole di tre persone, non un appuntamento romantico come lo vuoi dipingere tu» sottolineò Clizia, ammiccando poi all’indirizzo di Acaste, che sorrise grata. «Prima di parlare di romanticismo, non credi che i due si dovrebbero almeno conoscere

«Ai miei tempi, queste cose neppure si guardavano» brontolò Oceano.

«Alekos ha quindici anni, non quindici secoli, o millenni. Forse, ha abitudini un tantino diverse dalle tue, padre» ironizzò Clizia.

Grattandosi la barba con fare pensoso Oceano infine sospirò, lanciò uno sguardo spiacente ad Alekos e borbottò: «Non ti sei offeso, vero, ragazzo? Hai capito perché ti abbiamo fatto tutte quelle domande, no?»

Sentendosi più che protetto dalle tremila oceanine che lo circondavano, Alekos assentì ma ammise: «Non so se ho risposto bene a tutte le domande, ma capisco perché me le abbiate fatte. Volete così bene a tutte le vostre figlie, che il primo estraneo che mette piede qui va debitamente controllato.»

Oceano si aprì in un sorrisone talmente ampio da ricordare ad Alekos la figura di Babbo Natale della Coca-Cola, solo in versione marina, ma si guardò bene dal dirglielo.

Non aveva idea se il paragone lo avrebbe o meno inorgoglito.

A ogni buon conto, il titano si fece largo tra la sua folta schiera di figli e figlie, si chinò su Alekos e, battendogli una mano sulla spalla, domandò: «Quindi, come dice la mia pestifera figlia, vorresti conoscere meglio Acaste?»

«Sarei onorato se me lo concedeste… sempre che ad Acaste interessi conoscermi meglio, s’intende. Non vorrei mai imporre la mia presenza, se non voluta» replicò il giovane, lanciando poi un’occhiata all’oceanina oggetto del contendere.

La diretta interessata si levò a quel punto in piedi, sorrise grata alla madre – artefice dell’arrivo di tutte le oceanine – e, rivolta al padre, disse: «Sarei felice di diventare amica di Alekos, e di conoscere la sua famiglia umana. Mi è stato detto che è molto calorosa e accogliente, e sarebbe bello farmi nuovi amici.»

Oceano assentì dopo qualche istante e Clizia, volendo approfittare di quel momento di distensione da parte del padre, aggiunse per sé: «Io accompagnerò Acaste sulla terraferma, la prossima volta che andrà. Apollo mi ha concesso il suo perdono divino e ha espresso il desiderio di conoscermi davvero, stavolta.»

Il padre la fissò burbero, accentuando la piega delle sue folte sopracciglia ma lei, prevenendo qualsiasi suo rimprovero, aggiunse: «Io e Apollo ci siamo chiariti, davvero.»

Ancora dubbioso, Oceano borbottò: «Siamo sicuri? Non voglio inimicarmi ancora uno dei figli di Zeus. Devo al Padre degli Dèi la mia salvezza e quella di Teti, perciò non voglio avere screzi con la sua famiglia.»

«E’ stato lui a invitarmi. Desidera comprendere, e conoscere, la vera me, padre…» gli spiegò Clizia, afferrando entrambe le mani del padre per dare maggiore peso alle sue parole. «…e io desidero fare lo stesso.»

Oceano lanciò un’occhiata a Teti, che assentì lieta così, con un mezzo sorriso, il titano bofonchiò: «Pare che sia la serata delle sorprese, questa. E sia! Se il divino Apollo ti ha concesso il perdono, la mia punizione viene annullata oggi stesso, e tu sarai libera di muoverti a tuo piacimento.»

Le oceanine trillarono in coro la loro gioia, e molti potamoi strinsero Clizia in abbracci di sincera felicità ma Oceano, levando una mano per frenarne l’esuberanza collettiva, aggiunse: «Va da sé se che anche io parlerò con Apollo. Un buon padre deve stare ben attento a chi frequenta la figlia.»

Scoppiando a ridere, Clizia assentì e lo abbracciò e Acaste, nel raggiungere Alekos nel mezzo di quel folto gruppo di oceanine e potamoi, sussurrò all’amico: «Direi che è la degna coronazione di una giornata splendida, ti pare?»

«Sono d’accordo» assentì lui, sorridendole con calore. «Ora, però, è davvero il caso che rientri. Lo dirai tu a tuo padre?»

Annuendo, Acaste si arrischiò a dargli un bacio sulla guancia – approfittando della confusione causata dal gesto di Clizia – e, in un sussurro, disse: «Penserò a tutto io. A presto, Alekos.»

«A presto» mormorò il giovane, trasmutandosi nel giardino di casa sua.

Lì, trovò ad attenderlo Apollo che, ammiccando al suo indirizzo, domandò: «Allora, sei sopravvissuto al terzo grado di Oceano?»

Alekos lo squadrò divertito e, annuendo, dichiarò: «Oh, io me la sono cavata alla grande… ma tu come te la caverai, zio?»

«Io? Perché, scusa?» gracchiò Apollo, levandosi immediatamente dalla panchina su cui si era assiso in attesa del ritorno del nipote.

Scoppiando a ridere, Alekos si diresse verso casa e disse: «Oceano ha intenzione di parlare con te, prima di permettere a Clizia di uscire.»

«Cosa?! Ma io sono il divino Apollo, signore del sole! Dovrebbe essere sufficiente, come garanzia!» sbottò la divinità, seguendolo verso casa per avere altre spiegazioni in merito.

Alekos lo fissò da sopra una spalla, chiaramente divertito, e replicò: «Credo che non gli interessino nulla, i tuoi titoli. Per lui, sei solo un uomo che vuole uscire con sua figlia.»

Apollo si accigliò e, nell’entrare in casa con il nipote, snocciolò una per una le sue infinite qualità, trovandosi però a scontrarsi con le repliche del nipote.

Non vista e non udita, Eris fece per andarsene dall’ombra del salice piangente dietro cui si era nascosta, ormai sicura che Alekos fosse a casa al sicuro ma Athena, comparendo a sorpresa alle sue spalle, le domandò: «Non vuoi entrare? Non ci sarebbe niente di male, dopotutto.»

«Sarei di troppo» bofonchiò Eris, trasmutandosi prima di concedere alla dea della guerra qualsiasi replica.

Facendo spallucce, ad Athena non restò altro che rientrare a sua volta in casa. Quando Eris avesse voluto fare il primo passo per conoscere Alekos, lo avrebbe fatto, e lei non si sarebbe messa in mezzo.

Dopotutto, era pur sempre sua zia.
 
 
 
 
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1Potamoi: sono i tremila figli maschi di Oceano, e fratelli delle oceanine.
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N.d.A.: diciamo che Apollo ha ragionato davvero molto sul suo futuro, e l'arrivo a sorpresa di Clizia apre davvero scenari nuovi, per lui. Quanto ad Alekos, lui e Acaste diventeranno qualcosa di più che amici, o rimarranno solo tali?
Infine abbiamo Eris che, a quanto pare, sembra attirata dal potere di Alekos e, al tempo stesso, non riesce ad avvicinarlo. Chissà se la sorella di Ares riuscirà infine ad avvicinare il nipote, prima o poi?


 

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Capitolo 31
*** Apollo - 4 - ***


 
4. – Epilogo
 
 
 
 
Latona stava sistemando alcuni fiori nell’aiola, quando una voce racchiusa nel suo cuore per millenni le sfiorò le orecchie, emozionandola.

Subito, levò il capo biondo-dorato per scrutare in direzione del cancello della sua proprietà, nei pressi della cittadina portuale di Kos e lì, bello letteralmente come il sole, vide Apollo.

Le sue chiome fulve brillavano sotto il sole come riccioli di rame appena strappati dal calore della fornace, mentre un sorriso insicuro ne ringiovaniva il viso perfetto e bellissimo.

Sorridendo spontaneamente a quella visione, Latona lasciò perdere i suoi bulbi per spazzolarsi le mani nel grembiule che indossava e, dolce quanto insicura, disse: «Entra pure, figlio mio.»

Dopo la visita di Hermes, diversi mesi prima, Latona aveva atteso con trepidazione e paura assieme, l’arrivo dei suoi figli. Dei gemelli, però, solo Artemide si era presentata, portando con sé le sue figlie e gli uomini più importanti della sua vita; Endimione e Felipe.

Latona li aveva conosciuti con immensa gioia, aveva pianto nell’abbracciare le due ultime nate e aveva fatto i complimenti a Hector, autoproclamatosi protettore delle sue piccole, nuove zie.

Quando, però, aveva chiesto notizie di Apollo, Artemide aveva dovuto ammettere con la madre il rifiuto del fratello a presenziare a quella visita. Non potendole dare nessuna spiegazione in merito, la dea silvana si era limitata a chiederle scusa, premurandosi di rassicurarla comunque sull’amore di Apollo per lei.

Latona aveva accettato senza alcuno sforzo la decisione del figlio – pur avendo desiderato vederlo – e Artemide le aveva promesso il massimo impegno nel convincerlo a cambiare idea.

Trovarselo infine innanzi, bellissimo e fiero, portò Latona a lasciarsi sfuggire una lacrima di gioia, lacrima che Apollo raccolse con un dito per poi portarsela alle labbra.

«E’ amara, ma sa ugualmente di felicità» chiosò lui, stringendola poi in un delicato abbraccio. «E’ bello rivederti, madre.»

«E’ più bello rivedere te, figliolo» mormorò lei, lasciandosi scaldare dal potere del dio del sole. Era davvero così piacevole stare tra le sue braccia!

Quando infine si separarono, Apollo si guardò intorno, ammirò il bel giardino curato dalla madre, la piccola casa stuccata di bianco e dalle imposte verde acqua e, infine, disse: «Ti si addice. Qui è tutto molto bello.»

«Entra, e sediamoci al fresco della veranda sul retro» lo invitò lei, prendendolo sottobraccio.

Apollo assentì e, dopo aver oltrepassato la casa, fresca e profumata di fiori di ibisco, si ritrovò a fissare la scogliera dinanzi a lui e il mare dabbasso che, rumoroso, si infrangeva contro la roccia.

L’aria salmastra gli riempì i polmoni, mentre l’aroma delle piante officinali si mescolava a quei sentori marini, procurandogli piacere.

Sospirando deliziato, Apollo si sistemò su una poltrona di vimini e, sorridendo a sua madre, disse: «Perdonami se ho impiegato tanto, per venire, ma volevo risolvere alcuni miei problemi personali, prima di vederti.»

«Avevi tutto il tempo del mondo, per venire – o non venire – perciò non hai nulla di cui scusarti» scosse il capo la titanide. «Spero che tu stia meglio, ora.»

Annuendo, Apollo lasciò vagare lo sguardo su quel meraviglioso panorama e, con un mezzo sorriso, mormorò: «Sentivo di essermi indurito, nel corso dei millenni, di aver perso contatto con il mio spirito più vero, e non volevo sembrarti insensibile o villano, presentandomi a te per come ero mesi addietro.»

Latona sbatté le palpebre, sorpresa da quella confessione, ma assentì e Apollo, rinvigorito dalla sua comprensione, aggiunse: «Sento il desiderio di abbracciarti, e il mio cuore si duole per i millenni che ci hanno visto separati… ma sono lieto di sentire questo genere di dolore. Mi ero come… perso

Allungando una mano verso il figlio, la poggiò sul suo avambraccio e, piena di amore materno, mormorò: «Vivere per millenni può fare questo effetto, ma sono felice che tu abbia ritrovato te stesso e il tuo equilibrio.»

«Ci sto provando, per lo meno» ammiccò lui, facendola ridere.

Apollo si beò di quel dolce suono e, nel chiudere gli occhi di fronte al profondo senso di pace provato in quel momento, sussurrò: «E’ così bello stare qui… c’è molta pace.»

«Piace anche a me, anche se scendo spesso a Kos per stare in mezzo alla gente» ammise Latona, carezzando debolmente l’avambraccio del figlio per trasmettergli la sua vicinanza, sia fisica che psicologica.

Apollo sorrise e annuì, mormorando: «Anch’io mi sono riavvicinato al mondo degli umani. Ho anche fatto pace con Clizia.»

«Ne sono lieta» sorrise Latona. «Quindi, lei sta con te, adesso?»

Scuotendo il capo, Apollo tornò a guardarla e, dubbioso, disse: «Desidero prima di tutto imparare a conoscerla bene. Pensi sia sbagliato?»

Latona gli sfiorò il viso con una carezza, scosse il capo e replicò: «No, caro. Non è affatto sbagliato. Fin troppe cose, nella vostra gioventù, vennero fatte per l’impulso di un momento, anche per causa mia, perciò è giusto che questo nuovo corso ti veda più riflessivo. Più di ogni altra cosa, però, devi chiederti; tutto questo ti rende felice?»

Lui assentì e, nel rivolgere uno sguardo al mare blu zaffiro e alla sottili onde che lo increspavano, mormorò: «Desidero davvero conoscerla. Non voglio più vivere un’esistenza superficiale. Non è più per me. Ho solo un problemino, però.»

Latona si fece attenta e, disponibile, disse: «Se posso esserti d’aiuto in qualche modo…»

Apollo, però, scosse il capo e, indirizzando un dito verso le immensità del mare, ammise: «Domani devo vedere Oceano, e non ho la più pallida idea di come andrà il nostro incontro. Hai qualche consiglio per me?»

Latona scoppiò a ridere, si allungò per abbracciare il figlio e ammise: «Tesoro mio, non saprei davvero cosa dirti, a parte di essere sincero con Oceano e sui tuoi sentimenti per Clizia.»

Apollo storse il naso e borbottò: «Quanto sincero?»

«Oh, beh, tesoro… non fino a quel punto, è ovvio» sottolineò Latona, scuotendo il capo con aria falsamente inorridita.

Apollo rise divertito e, nell’annuire, chiosò: «Okay, mediamente sincero.»

Latona ci pensò sopra un attimo ma, alla fine, disse: «Facciamo un quarto di sincerità. Può bastare. Con i padri, non si sa mai.»

Febo la fissò per un momento con aperta sorpresa, prima di lasciarsi andare a una risata liberatoria, cui si unì anche la madre.

Sì, forse avrebbe omesso molto, con Oceano, ma non le cose più importanti. Lui teneva a Clizia e voleva imparare – finalmente – a conoscerla.






N.d.A.: qui terminano - per ora - le avventure di Apollo. Naturalmente lo incontreremo ancora (non vi lascerò nel dubbio riguardo al suo rapporto con Clizia) ma, per il momento, la nostra attenzione verrà catalizzata su Zeus, nel prossimo capitolo. Vedremo come, le recenti vicende legate ai figli, lo abbiano colpito, e come abbia - finalmente - deciso di porre rimedio al solco sempre più grande che lo divide da loro. 
Non necessariamente, è chiaro, tutto filerà liscio. Quando mai succede, con me? ;-)
Alla prossima, e grazie per avermi seguito fino a qui!

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Capitolo 32
*** Zeus - 1 - ***


 
Zeus – 1 –
 
 
 
 
Dicembre 2017 – San José
 
 
 
Era sempre così difficile scegliere l’albero di Natale più adatto per le grandi occasioni!

Quell’anno, poi, sarebbe stato più speciale degli altri, poiché avrebbero festeggiato la nascita di Gesù assieme alle loro due nuove nipotine, Buffy e Xena.

Sorridendo tra sé al pensiero delle nipoti Edith e Tessa - e dei loro buffi soprannomi - Anita Santos Rodriguez si disse che quel Natale sarebbe stato più frizzante e allegro che mai.

I nomi profetici che Artemide aveva dato alle gemelle quando ancora erano nel suo ventre, si erano dimostrati infinitamente rivelatori del loro carattere. Anche se, all’anagrafe, sarebbero sempre state Edith e Tessa Rodriguez, con tutta probabilità loro le avrebbero chiamate Xena e Buffy.

La prima, si aggirava già per casa brandendo uno dei suoi giocattoli a mo’ di clava, mentre la seconda gironzolava con fare furtivo e attento, pronta a colpirti alle spalle alla minima distrazione.

Essendo figlie di una dea, le due discole sapevano già camminare e parlare, e spesso ciò che dicevano lasciava interdetti gli adulti attorno a loro. L’amore provato per quelle gemelle dai neri capelli e gli occhi verde smeraldo, però, era così forte da far perdere di vista qualsiasi stranezza.

«Querida, andiamo?» le domandò suo marito Carlos a poca distanza da lei, strappandola così ai suoi pensieri.

Annuendo, Anita si volse per ammirare l’albero scelto per quell’anno dal consorte e, come sempre, non poté che trovarsi d’accordo con lui. Carlos aveva un fiuto eccezionale per scegliere sempre la pianta migliore del vivaio.

Seguendolo quindi al pick-up, dove un giovane inserviente lo aiutò a caricare il pino sul cassone aperto, Anita osservò distratta l’intera operazione prima di rendersi conto di essere osservata.

Vagamente sorpresa e sì, assai incuriosita, volse perciò il capo per comprendere il perché di quella strana sensazione e, quando vide un anziano munito di bastone, non poté che sorprendersi ancora di più.

Non conosceva affatto quell’uomo, né gli pareva facesse parte degli amici del marito, per cui cosa voleva da lei?

Quando, però, il suo sguardo si concentrò meglio sulla persona che, tanto poco discretamente, la stava scrutando nel cortile del vivaio, Anita iniziò a comprendere, e sorrise.

Lasciando che al pino pensassero il marito e il garzone del negozio, Anita si discostò da loro per raggiungere l’anziano, alto nonostante la postura incurvata, e canuto di capelli.

Il viso, pur segnato da rughe profonde, rivelava un passato glorioso e importante e la donna, suo malgrado, non poté che sorridere di fronte a quello strenuo tentativo di apparire normale.

Quando infine raggiunse l’anziano, lanciò un’occhiata al bastone di legno dal pomolo argentato e dalla forma a testa d’aquila e, infine, domandò: «Avevate bisogno di me?»

«Temo di sì, gentile signora. Ho smarrito la via di casa, e non so esattamente dove mi trovo» ammise l’anziano, guardandosi intorno con espressione confusa mentre Anita ampliava il suo sorriso.

«Oh, cielo! Allora avete davvero bisogno di aiuto, e io ve lo fornirò sicuramente» disse la donna, mentre il pick-up di Carlos si avvicinava loro con il motore al minimo.

«Ve ne sono immensamente grato» mormorò l’anziano, reclinando un poco il capo a mo’ di ringraziamento.

Anita sorrise ancor di più, decisamente divertita da tutta la situazione e, quando infine Carlos si fermò al suo fianco per sapere cosa stesse succedendo, la donna si volse verso il marito e dichiarò: «Va tutto bene, caro. Perché non saluti il suocero dei tuoi figli?»

Sia l’anziano che Carlos spalancarono parimenti gli occhi e Anita, con uno sbuffo simpatico e il gesto divertito di una mano, asserì senza problemi: «Pensavate davvero di potermi ingannare, sommo Zeus?»
 
***

Appollaiato sul sedile del pick-up dei Rodriguez nelle sue vesti di gatto, mentre Carlos guidava con aria costernata e Anita se la rideva soddisfatta, Zeus si chiese per la millesima volta come la donna fosse riuscita a riconoscerlo.

Si era tramutato in un anziano per non essere spaventoso e minaccioso ai suoi occhi e, al tempo stesso, aveva creato l’immagine di un uomo fragile grazie al bastone e all’aria smarrita.

Il tutto, però, non aveva minimamente ingannato l’umana, madre dei mariti delle sue figlie, e questo lo aveva sconvolto non poco, oltre che angustiarlo in maniera davvero insolita.

Com’era possibile che una semplice umana potesse percepire la sua aura divina?

«Mi spieghi perché si è dovuto trasformare in un gatto?» brontolò a un certo punto Carlos, lanciando un’occhiata sdegnosa al felino tigrato che era seduto al fianco della moglie.

«Perché, nelle sue forme abituali, non avrebbe mai trovato spazio qua dentro, caro. E tu sai che sono allergica al pelo di cane» sottolineò Anita, con tutta calma.

«Ai segugi di Artemide, no» borbottò lui.

«Caro… ma è ovvio. E’ lei che impedisce che io possa star male» ci tenne a precisare la donna, dandogli una pacca sul braccio.

«Beh, visto quello che sappiamo, non mi va l’idea che ti sieda vicino… neanche nelle sembianze di un gatto!»

Il soriano miagolò irritato mentre Anita, scoppiando in una fragorosa risata, esalava: «Oh, mi querido, ma io sono troppo vecchia per interessare al sommo Zeus!»

«Tu non sarai mai vecchia, mi amor» replicò Carlos, dandole un bacetto veloce mentre rallentava per svoltare nel loro cortile di casa.

Anita sorrise tutta orgogliosa ma, quando l’auto si fermò dietro alla berlina della donna, si limitò a dire: «Sai benissimo che non è vero. Comunque, ti ringrazio per il complimento.»

Aperto poi lo sportello, permise a Zeus-gatto di scendere con un balzo dopodiché, lasciato a Carlos il compito di scaricare il pino, indicò al loro strano ospite di seguirla.

Una volta aperta la porta a vetri della loro villetta a un piano - che sorgeva lungo la Gold Creek Way, una dolce collina a sud ovest del centro città - Anita disse: «Prego, entrate, sommo Zeus.»

Il gatto si avventurò all’interno con la coda ben diritta e fiera ma, quando trovò ad attenderlo uno dei segugi della figlia, miagolò inviperito e si nascose subito dietro Anita.

Aster ringhiò immediatamente, nel vederlo, ma la donna lo rabbonì dicendo: «So che la tua mamma ti ha detto diversamente, ma l’ho invitato io, perciò va bene. Ora, potresti uscire in giardino? Lo rendi un po’ nervoso.»

Il segugio assentì, pur non sentendosi propriamente a suo agio nel lasciare la sua protetta assieme a Zeus e, dopo un ultima occhiata ferale al gatto, se ne andò a lunghe falcate fino a raggiungere la veranda.

Lì, spostò la zanzariera col muso prima di fare la stessa cosa una volta uscito e, solo a quel punto, Zeus-gatto si sentì abbastanza sicuro per scostarsi dall’umana.

Ciò fatto, riprese sembianze umane e, lasciato perdere il suo travestimento – ovviamente inutile – si presentò alla suocera delle sue figlie con il suo vero aspetto.

Ribelli chiome bruno dorate attorniarono un volto piacente e dalla pelle olivastra, mentre drappi di seta bianca e rossa avvolgevano il suo corpo in un tipico himation di epoca greca.

Anita levò gli occhi per incrociarne lo sguardo – ora, la figura di Zeus sfiorava i due metri di altezza – e, sollevando ammirata le sopracciglia, chiosò: «So da chi hanno preso bellezza e portamento le vostre ragazze.»

Lo sguardo ambrato di Zeus si abbassò per incontrare quello corvino di Anita Rodriguez ma, ben lungi dal sentirsi a proprio agio, le domandò: «Posso sapere come avete indovinato la mia reale identità, mortale?»

«Perché è una bruja… vede oltre il velo della menzogna e conosce gli spiriti» brontolò una voce sull’entrata.

Zeus si volse in direzione del marito di Anita e, sollevando sorpreso le sopracciglia, esalò: «Una… strega? Ho capito bene?»

«Non ho scopa e cappello a punta, mi spiace» celiò Anita, invitandolo a sedersi sul divano, ove Zeus si accomodò dopo alcuni attimi di indecisione.

Carlos, da parte sua, fissò aspramente il dio entrato suo malgrado nella sua abitazione e Anita, notando il nervosismo del marito, borbottò: «Sii gentile e smettila di fissarlo a quel modo, caro. Sei davvero maleducato.»

«Perdonami, querida, se sono un tantino prevenuto nei suoi confronti» replicò Carlos, pur andandosene verso la cucina open-space, dove si preparò una tazza di tè alla menta.

Scrollando le spalle, Anita tornò a prestare attenzione al suo inconsueto ospite e, dubbiosa, chiese: «Prendete qualcosa da bere?»

«Non occorre» scosse il capo il dio, prima di guardarsi intorno con curiosità.

La casa era ampia, arieggiata e profumata di fiori. I colori decisi delle pareti stuccate grossolanamente, così come i mobili in legno dalle forme modeste e semplici, ricordavano certe abitazioni messicane che aveva visto nei film.

Gli sembrava di ricordare da alcuni racconti di Hermes che, a suo tempo, anche Athena avesse vissuto in una casa simile, assieme a Miguel.

Ciò che però lo colpì, di quella casa così diversa dai suoi standard, furono le fotografie alle pareti.

Erano tantissime, e raffiguravano solo persone. Alcune erano immagini di Athena e Miguel, felici sulla barca di lui, mentre solcavano il mare in una bella giornata estiva.

In altre, invece, erano visibili Alekos ed Érebos su un go-kart, o Athena e il suo nuovo compagno mentre erano indaffarati di fronte a un barbecue.

Nei pressi del salone, Zeus vide altresì le fotografie di Artemide e Felipe in abiti da cerimonia e con le gemelline in braccio.

Anita ne intercettò lo sguardo e disse sommessamente: «Si sono sposati due mesi fa, al Parco di Yellowstone. E’ stata una cerimonia intima, se così si può dire di un branco di duecento invitati, tra parenti umani e immortali.»

«Capisco» mormorò il dio, distogliendo lo sguardo per puntarlo sulla donna. «Spiegatemi, per favore. Non sono addentro alla cultura mesoamericana, e non so di preciso cosa sia una bruja, pur conoscendone il significato letterale.»

«Una bruja può essere molte cose, sia nel bene che nel male. Sente e vede gli spiriti, parla con l’aldilà e sa cosa sono la verità e la menzogna, o dove esse si possono nascondere» gli spiegò Anita, offrendogli un vassoio colmo di biscotti alle gocce di cioccolato.

«Avete i poteri di una Pizia?» domandò sorpreso Zeus.

«Niente affatto» sorrise divertita Anita, scuotendo il capo. «Ho conosciuto le veggenti di vostro figlio Apollo, e loro sono ben più brave e competenti di me. Io… percepisco in modo diverso il mondo che mi circonda. Per questo, compresi che le parole del mio Miguel erano vere. E per questo credetti alle parole di Athena, quando si presentò a noi la prima volta.»

Nel sentire nominare il marito della figlia, Zeus ci tenne a dire: «Ci è spiaciuto non poter intervenire per salvare Miguel ma, in quel periodo, nessuno di noi sapeva di lui, e così non potemmo impedire che Thanatos portasse via la sua anima.»

Annuendo, Anita lanciò un’occhiata alla foto del figlio – ritratto su un’onda mentre faceva surf – e disse: «Athena ci spiegò tutto. Sappiamo, e capiamo.»

Zeus scrutò il volto ombroso di Carlos, in piedi accanto all’isola della cucina, ma non vi trovò rabbia, solo confusione e ansia, sentimenti che lui stesso aveva causato, piombando senza invito nella loro casa.

Quando aveva congegnato quel piano, aveva pensato di fare tutto molto in fretta, di parlare per qualche minuto con la madre di Miguel e risolvere l’impiccio con Artemide e Athena.

A quel punto, però, comprese senza problemi che, di tutte le sue idee strampalate, quella si stava rivelando la peggiore di tutte.

Non avrebbe mai e poi mai potuto risolvere in breve tempo quel guaio ma, soprattutto, non avrebbe mai potuto ingannare, o impressionare, una donna enigmatica come Anita Rodriguez.

Si era aspettato di trovare una donnina fragile e sottomessa, mentre invece aveva di fronte una donna volitiva e dall’animo di un guerriero.

Il marito, inoltre, non era per nulla turbato dall’idea di mettersi tra la moglie e il signore dell’Olimpo, qualora fosse servito il suo intervento, a riprova di una tempra davvero rara.

Tutto ciò constatando, Zeus non poté che sospirare sconfitto e dire: «Credo di aver bisogno del vostro aiuto per risolvere un problema che, ormai, reputo insormontabile.»

«Se siete qui perché prendiamo le vostre difese di fronte ad Artemide e Athena, allora quella è la porta» sbottò Carlos, indicando rabbioso il battente a vetri da cui tutti loro erano entrati. «Ciò che avete fatto a quelle due adorabili bambine è indegno di qualsiasi padre, e io non starò qui ad ascoltare le vostre lagnanze, dio o non dio quale voi siete.»

Soddisfatto per quella manfrina, Carlos se ne andò prima che Anita o Zeus potessero dire alcunché e, quando l’uomo infilò la porta che conduceva al seminterrato, aggiunse: «Hanno fatto bene ad arrabbiarsi con voi!»

Lo sbattere del battente chiuse la partita e Anita, con uno sbuffo infastidito, esalò: «Ecco il caratteraccio dei Rodriguez che viene fuori.»

Zeus non poté che muovere freneticamente le palpebre, rimasto senza parole e del tutto frastornato all’idea di essere stato appena minacciato da un mortale.

In circostanze diverse, avrebbe dato in escandescenza e avrebbe fulminato il povero folle di turno ma, trattandosi di due persone speciali per le figlie, non emise fiato.

«Mi scuso per il comportamento di mio marito, ma va detto che adora le vostre figlie come se fossero sue, e questi sono i risultati» chiosò Anita, sorridendo divertita mentre faceva spallucce. «Abbiamo sempre voluto anche delle figlie femmine, ma non abbiamo mai ricevuto questo regalo, perciò l’arrivo di Athena e Artemide è stato per noi, letteralmente, un dono divino.»

«Forse, vostro marito non sa che hanno anche un lato diabolico, dietro la facciata eterea e affascinante» si lasciò sfuggire Zeus, prima di fissare contrito Anita, che però rise per diretta conseguenza.

«Oh, almeno nel caso di Artemide, il caro Carlos ha assaggiato le sue zanne, per così dire. L’ultimo mese di gestazione delle gemelle, Artemide era davvero intrattabile. Brutto da dire, ma era così. Aveva sempre dolori ovunque, e niente sembrava darle pace» gli spiegò Anita, sospirando spiacente. «In uno dei suoi giorni ‘no’, Artemide sbraitò così forte da diventare afona per qualche ora, e Carlos rimase così scioccato da ciò che le uscì dalla bocca da portarlo a prepararle tè al miele nei successivi dieci giorni.»

«Tè al miele?» esalò sorpreso Zeus.

«Per tentare di calmare il suo mal di gola… sperando, nel frattempo, che non esplodesse ancora» ammiccò divertita la donna. «Penso di non averlo mai visto così turbato… ancora adesso non so cosa disse Artemide, ma dubito fosse qualcosa di piacevole.»

Grattandosi la barba lunga e folta, la divinità assentì e borbottò: «Conosco bene quelle urla e, di solito, mi salvo con le cuffie dell’iPod, o i tappi di sughero.»

Anita rise sommessamente, di fronte a quell’ammissione così umana ma, più seriamente, disse: «Non vi mentirò, perché non amo farlo e non credo sia necessario. Pur se non userò le stesse parole di mio marito, vi assicuro che non vi aiuterò a ritrovare la serenità con le vostre figlie. Non sarebbe corretto nei confronti di nessuno di voi. Ugualmente, sarò imparziale e, se mi verrà chiesto, dirò che siete stato educato con entrambi noi e non avete tentato di costringerci a parteggiare per voi.»

Accigliandosi, Zeus si ritrovò ad affogare in un classico cul de sac. Con quelle semplici parole, Anita lo aveva bloccato in un loop senza via d’uscita.

Se avesse tentato qualsiasi approccio violento, le sue figlie lo avrebbero saputo e si sarebbero adirate ancor di più ma, al tempo stesso, se Anita e Carlos non lo avessero aiutato, lui non avrebbe trovato scorciatoie per riavvicinare le figlie.

Sconsolato, si lasciò andare contro lo schienale del divano su cui era assiso quando, all’improvviso, la risata adamantina di Era si espanse nella casa, sorprendendo sia Zeus che Anita.

In uno scintillio argentato, la dea fece la sua apparizione in un elegante completo giacca-pantalone color fumo di Londra e, sorridendo soddisfatta ad Anita, dichiarò: «I miei sinceri complimenti, signora. Lo avete sistemato nel miglior modo possibile.»

Sinceramente sorpresa da quell’entrata in scena davvero imprevista, Anita si portò una mano al petto e, preso un bel respiro, esalò: «Oh, bella! Siete Era, per caso?»

«Esattamente e, se mio marito si è dimenticato il mio ruolo, gli rinfrescherò la memoria immantinente» ciangottò la donna prima di fissare glaciale il Padre degli Dèi.

Impallidendo non poco, Zeus si levò dal divano per chetare la moglie ma lei, fissandolo sprezzante, borbottò: «Ma tu guarda se devi presentarti a casa dei mortali con le vesti che porti sull’Olimpo. Ammodernati, per tutti noi!»

Zeus la fissò malamente ma accettò il rimprovero e, con uno schiocco di dita, l’himation scomparve per lasciare il posto a pantaloni di lana secca e maglione e quadri.

«Va un po’ meglio» brontolò Era, critica. «E ora, visto che la signora si è dichiarata, sparisci da qui.»

«Che diavolo sei venuta a fare, si può sapere?»

Sospirando, Era si volse verso una dubbiosa Anita e chiosò: «A volte, i mariti sanno essere così tardi…»

Ciò detto, si interpose tra la padrona di casa e Zeus per poi aggiungere: «Forse non rammenti che io sono la dea preposta alla pace del focolare domestico, e tu stavi decisamente guastando questa pace!»

Facendo tanto d’occhi, il marito replicò caustico: «Da quando in qua ti occupi direttamente di queste cose? Soprattutto, di questa famiglia?!»

Accigliandosi non poco, Era gli puntò contro il petto un dito munito di unghia affilatissima e, sibilante, ribatté: «Se proprio lo vuoi sapere, Artemide mi ha fatto conoscere le sue gemelline. Me le ha portate Hermes durante uno dei suoi turni come baby-sitter, e abbiamo giocato tutto il giorno. Per questo, mi occupo di questa famiglia!»

Quella notizia fece avvampare di rabbia Zeus che, ormai paonazzo in viso, sbraitò: «Com’è possibile che proprio tu abbia potuto conoscerle?!»

«Semplice. Perché ho permesso ad Artemide e Apollo di far visita alla loro madre, senza incorrere per questo nella mia ira» sottolineò aspra Era. «Quando chiedi le cose per favore, e non cerchi di farmela sotto il naso, tutto può accadere magicamente.»

«Te lo do io il per favore!» urlò Zeus, proprio mentre Carlos riemergeva dal seminterrato, attirato dalle urla del dio.

Era si volse per salutare il nuovo venuto con un sorriso e, nel frattempo, centrò il marito al volto con un destro d’eccezione. Quel colpo proditorio lo mandò al tappeto, e l’urto della testa contro il tavolino da salotto completò il tutto, tramortendolo abbastanza da farlo svenire.

Mentre Anita e Carlos fissavano l’intera scena senza riuscire a dire alcunché, Era spalancò gli occhi per la sorpresa e, vagamente divertita, esalò: «Oh, cielo! Stavolta l’ho fatta grossa.»
 
***

Di tutte le cose che avrebbero potuto succedere, quel giorno, ritrovarsi con il Padre degli Dèi svenuto nel suo salotto mentre la sua sposa, Era, se ne stava accomodata su una poltrona, Anita non lo aveva di certo previsto.

«Mi scuso ancora per il suo comportamento. Perde le staffe per un nonnulla» cinguettò Era, fissando poi bieca il marito ancora steso a terra.

«Ehm… sicuramente apprezziamo la visita, ma come mai siete giunta qui?» domandò dubbiosa Anita, lanciando un’occhiata davvero confusa all’indirizzo del marito, che scrollò impotente le spalle.

Tornando seria, e perdendo qualsiasi desiderio di essere dolce o svenevole, Era si limitò a dire: «Sono davvero intervenuta per i motivi che ho detto prima, ma anche perché trovo assai scorretto il comportamento di Zeus. Non è assolutamente giusto che lui cerchi delle scorciatoie per aggiustare ciò che ha rotto. Si è comportato da idiota, con le sue figlie, e dovrà ammetterlo davanti a loro. Nient’altro funzionerà.»

Sospirando, poi, aggiunse: «Neppure io ho avuto comportamenti degni di una dea, in passato e, pur se va detto che molti miei atteggiamenti erano dovuti alle di lui scappatelle, non avrei mai dovuto prendermela con il frutto dei suoi tradimenti. Anche per questo, ho voluto chiarirmi con Artemide e Apollo, e la visita delle bambine è stato il loro modo di ringraziarmi.»

Anita sorrise appena, annuendo, e disse: «Sono due birbanti che si fanno voler bene con facilità.»

Era sorrise genuinamente e assentì, dichiarando: «Le mie ancelle erano disperate, al pensiero che potessero farsi male, e correvano loro appresso tutto il tempo. Ma io ero abbastanza tranquilla, sapendo di che pasta è fatta la madre e, dopo aver conosciuto voi, posso dire che anche il padre non può essere da meno.»

«Beh… grazie» chiosò una voce sulla porta d’entrata.

All’unisono, Era, Anita e Carlos si volsero verso un sorpreso Felipe che, riposte le chiavi di casa dei genitori, si avvicinò all’insolito trio prima di notare la figura di Zeus stesa sul divano.

Sbattendo le palpebre per la confusione, l’uomo esalò: «Ehm… che è successo? O sta succedendo? Ditemi voi, perché ho le idee un po’ confuse.»

Era si levò in piedi per allungare una mano verso Felipe e l’uomo, non sapendo che altro fare, la accettò e disse: «Conosco quasi tutti, ormai, perciò oserei dire che voi siete la divina Era, giusto?»

«Esattamente, Felipe. Hai due figlie davvero energiche, sai?» dichiarò Era, sorridendo affabile.

«Hermes mi ha detto che si sono divertite molto, al vostro tempio. Grazie per averle guardate per un po’» dichiarò Felipe, non sapendo esattamente come sentirsi.

Già da anni aveva che fare con divinità di ogni genere, eroi o presunti tali e semidei di varia origine, ma ritrovarsi a colloquiare con la sposa di Zeus gli risultò assai ostico da accettare. Vista soprattutto la nomea di quest’ultima.

Hermes, però, non solo aveva garantito per la dea ma, sopra a ogni altra cosa, aveva tenuto a sottolineare quanto, l’apparente gentilezza di Era, non dipendesse da sue prestazioni particolari.

Persino Efesto gli aveva detto di essere riuscito a parlare con la madre con toni cordiali, pur non essendo ancora riuscito a perdonarla per i suoi errori.

Molto semplicemente, come lo stesso Hermes aveva detto con una buona dose di incredulità, era bastato ringraziarla per la gentilezza concessa a Latona, e offrirle la possibilità di essere una nonna adottiva.

Questo semplice gesto l’aveva quasi trasformata.

Quasi, ovviamente, almeno a giudicare dalla condizione attuale di Zeus.

«A gentilezza si risponde con gentilezza, e loro sono davvero adorabili» chiosò Era, lanciando poi uno sguardo verso la figura sdraiata di Zeus prima di aggiungere: «Coraggio, smettila di far finta di dormire e saluta tuo genero, prima che ti dia un pugno più forte, stavolta.»

Sbuffando, il Padre degli Dèi aprì un occhio e, nel sollevarsi lentamente, borbottò: «Pensavo di avertela fatta.»

La dea lo irrise con lo sguardo, replicando: «Non basta un mio pugno – e neanche una zuccata ben data – per mandarti al tappeto, altrimenti lo avrei fatto molte volte, nei secoli passati.»

«La solita simpaticona» si lagnò Zeus, lanciando quindi uno sguardo pieno di contrizione a una sorpresa Anita prima di levarsi in piedi e scrutare da vicino Felipe Rodriguez.

Naturalmente, aveva fatto controllare attentamente l’umano dalle sue aquile, all’insaputa della figlia, ma non aveva mai ravveduto nulla di strano – o malvagio – in lui.

Nonostante questo, il primo impatto nell’incrociare il suo sguardo gli procurò rabbia e gelosia, che tenne però a freno.

Érebos lo aveva accusato di essere geloso dei propri figli e, a mente fredda e con l’aiuto della sorella Demetra, aveva dovuto ammettere con se stesso la triste verità.

Si era sentito defraudato dell’amore dei figli, quando questi ultimi avevano convogliato tale affetto incondizionato sugli umani da loro conosciuti. Aveva provato rabbia per essere stato tagliato fuori ma, più di ogni altra cosa, non aveva saputo come dire ‘mi dispiace’ al momento giusto.

Prima ancora di poter dire qualcosa, Zeus venne però spiazzato dal gesto di Felipe che, allungando una mano verso di lui, sorrise a mezzo e disse: «E’ un piacere conoscervi. E grazie per i pannolini. Sono stati ampiamente utilizzati.»

Il Padre degli Dèi scrutò quella mano aperta, la pelle così simile alla sua e, nello stringerla quasi remissivamente, mormorò: «Mi era stato detto che potevano servire.»

«E così è stato. L’ambrosia sembrava essere un purgante naturale, per loro e, quando la mangiavano, si liberavano di qualsiasi problema intestinale… con risultati più o meno profumati, però» gli spiegò Felipe, cercando di non pensare al fatto che stava discorrendo con il Signore dei Fulmini di pappette e pannolini puzzolenti.

Zeus accennò un sorriso goffo, già sul punto di replicare al commento di Felipe, quando Aster iniziò a ululare nel giardino, mettendoli in allarme.

Subito, i presenti nella casa si volsero verso le vetrate della veranda e Zeus, avvertendo un sordo prurito alla base della nuca, seppe di essere nei guai.

In un turbinio di foglie, ululati e ringhi, le porte della veranda si aprirono per lasciar entrare una furibonda Artemide che, alla vista del padre, lasciò scatenare senza remore l’icore nel suo sangue.

Per ogni evenienza – e forse memore di altre sfuriate simili da parte di Artemide, Carlos trascinò lontano la sgomenta Anita mentre Felipe, a occhi sgranati, esalava: «Madre de Dios…»

«COSA CI FAI QUI?!» sbraitò Artemide, rifulgendo al pari di un astro entro le pareti di casa.

Era si pose in modo apparentemente casuale dinanzi a Felipe ma lui, con un sorriso, la ringraziò per la cortesia e passò oltre, raggiungendo la furiosa mogliettina.

Incurante di ciò che stava succedendo, la prese per mano e, subito, lo scintillio dell’icore venne a sparire dall’arto sfiorato da Felipe, rimanendo rilucente in tutto il resto del corpo.

«Vai via… devo ammazzare mio padre» ringhiò fuori dai gangheri Artemide.

«Esagerata…» la irrise bonariamente lui.

«Niente affatto!» urlò a quel punto Artemide, levando la mano libera per far apparire una delle sue lance da caccia.

«Oh, per amor del cielo…» esalò Era, spostandosi ulteriormente per pararsi dinanzi ai coniugi Rodriguez, ormai senza parole.

Artemide, però, replicò al gesto della dea con tono apparentemente pacifico che, però, non rassicurò per nulla Era. «Tranquilla. Il bersaglio non sono loro.»

«Non si sa mai» scrollò le spalle la dea, mentre Zeus teneva le mani levate a mo’ di scudo – e di scusa – per chetare la riottosa figlia.

«Tesoro, ti sembra davvero il caso di fare tutta questa confusione in casa dei tuoi suoceri?» tentennò il Padre degli dèi, non sapendo come affrontare le ire di Artemide.

Lei sogghignò per diretta conseguenza, lasciò la mano di Felipe e sibilò: «Non farei mai dei danni in casa di Anita.»

Ciò detto, si lanciò contro il padre e, non appena lo sfiorò, entrambi scomparvero in un alone argentato, lasciando che una calma irreale si deponesse come un sudario sulla casa.

«Oh, ma dai, Arty!» esclamò contrariato Felipe, accigliandosi un attimo dopo averla vista svanire.

«Ma che è successo?» domandò Carlos, guardandosi intorno con espressione più che mai confusa. Era forse passato un tornado, all’interno della villetta?

Era si passò una mano sul volto, sospirò esasperata e infine ammise: «Questa teatralità l’ha presa tutta dal padre. Lo ha portato a Delo per dargli una lezione.»

«In che senso?» esalarono i tre mortali, chiaramente sorpresi.

Era sospirò, scrollò le spalle e ammise preoccupata: «Gli darà la caccia. A Delo, è Artemide che comanda, e neppure Zeus può nulla, in quelle terre.»







N.d.A: direi che il piano congegnato da Zeus per fare pace con le figlie non sta andando esattamente per il verso giusto.
Questo però ci offre la possibilità di scoprire che, almeno per quel che riguarda Era, le cose stanno migliorando - sul fronte parentado - e che molte delle tensioni del passato si sono calmate. Che dite, riuscirà anche Zeus nell'impresa?

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Capitolo 33
*** Zeus - 2 - ***


2.
 
 
 
 
Più volte si era ritrovato nelle vesti di un animale, durante i millenni passati a girovagare per il mondo ma mai, neppure una volta, per sfuggire alle ire di una dea.

Per attirare tra le sue braccia una bella mortale, sicuramente, per ingannare lo sguardo di Era, ben più di una volta… ma come agnello sacrificale? Davvero era una novità, per lui, e la cosa non gli piaceva affatto.

Inoltre, la forma tozza e quasi volgare del cinghiale non si addiceva molto a lui che, dopotutto, era il Signore dell’Olimpo. Poiché quella forma era stata scelta da Artemide, però, e lui si trovava nelle terre a lei sacre di Delo, Zeus non aveva possibilità di cambiarle. Inoltre, non faticava a comprendere i perché variegati di quella scelta in particolare.

O forse, dopotutto, il perché era solo uno. Il cinghiale era la forma selvatica di un animale domestico dalle indubbie capacità organolettiche, ma che veniva spesso usato per insultare gli uomini.

Il maiale.

Non faticava a credere che Artemide avesse usato una buona dose di ironia, nello scegliere quel mascheramento per lui e, mentre balzava goffamente oltre un torrentello coperto di rada neve, seppe comunque coglierne l’ironia.

Peccato che, in quel momento, sua figlia non fosse in vena di scherzi e volesse inforcarlo con una delle sue lance.

Se fossero state frecce, avrebbe dovuto preoccuparsi seriamente, poiché quelle armi in particolare non mancavano mai il bersaglio – anche grazie al tocco di Efesto – e potevano ferire anche un dio ma, trattandosi delle lance, aveva qualche chance di non restare ferito gravemente.

Ammesso e non concesso che Artemide non volesse giocare con lui al gatto col topo, facendogli credere di essere relativamente al sicuro quando, in realtà, non era così.

Rallentando l’andatura non appena raggiunse una grotta in cui nascondersi per riprendere fiato, Zeus-cinghiale si chiese quale strategia di caccia avrebbe adottato Artemide.

Dopotutto, non v’era dea più brava di lei, in quell’attività e, per quanto lui fosse forte, Delo era il sancta sanctorum della figlia, e trovarsi sulle sue terre da nemico non era mai un grande affare.

Nascosto da fronde e pietre, Zeus quindi attese, e attese, ma nulla e nessuno venne a cercarlo e, quando infine la notte calò, tutt’intorno a lui si fece silenzioso e tetro.

Trattandosi di Artemide, la notte non poteva che esserle favorevole, visti i suoi poteri lunari perciò Zeus, più che convinto che la sua furia sarebbe presto giusta, rimase rannicchiato nell’ombra, indugiando sul da farsi.

Il sonno, però, prese il sopravvento sull’ansia e l’aspettativa e, quando infine il corpo tozzo di Zeus cadde a terra addormentato, Artemide apparve dinanzi alla bocca d’entrata della grotta e sorrise.

L’attimo seguente, Hypnos le si accodò e, ghignante, dichiarò: «Era così preoccupato dalle tue mosse da essere diventato una facile preda, per me. Desideri che io faccia altro, Arty?»

Artemide scosse il capo nel sorridere al nero crinito e alato dio del sonno e, nel dargli una pacca sulla spalla, asserì divertita: «Ho in mente per lui una nottata che non potrà mai dimenticare. Credo che sia mille volte meglio che piantargli una lancia nel culo.»

Hypnos sollevò divertito un sopracciglio, replicando: «Opinabile. Ares ti direbbe di no, e che fare a botte è meglio di qualsiasi altra cosa, ma…»

Interrompendosi quando finalmente vide comparire a poca distanza Morpheus, Phobetor e Phantasos, allargò quindi il suo ghigno e terminò di dire: «… visto chi hai assoldato, credo che potresti averla vinta davvero tu. Potrebbe essere assai divertente osservare, oltretutto.»

Scrollando una spalla, Artemide disse: «Fai pure… basta chiedere a Morpheus, dopotutto. Ti farai un giretto nella testa di mio padre, mentre lui rivivrà con occhi diversi tutto ciò che ha fatto finora. Potrebbe essere scioccante, però. Sei pronto all’idea?»

«Dubito che le scappatelle di Zeus possano essere così tremende» celiò Hypnos, fissandola pieno di ironia.

Artemide, però, ghignò perfida e, rivolgendosi a Phobetor, replicò: «Hai già in mente qualcosa, per renderle più terrificanti che mai?»

«Credo che apprezzerai. Mi sono ispirato a Jennifer’s Body» sorrise perfido l’oneiroi, giocherellando con una delle sue trecce biondo platino.

Morpheus e Phantasos risero al solo sentir nominare quel film particolarmente splatter, mentre Artemide e Hypnos, vagamente più inquietati dall’idea scelta da Phobetor, si limitarono a una smorfia di disgusto.

Scuotendo mani e capo, la dea della caccia borbottò: «Fai come ti pare, basta che gli serva da lezione per i secoli futuri. Chissà che, per qualche tempo, la smetta di sollevare gonnelle a destra e a manca.»

«Credo che, per un po’, avrà il disgusto del genere femminile» ghignò Phobetor, avvicinandosi al sommo Zeus assieme ai suoi due fratelli. «Va da sé che vogliamo l’immunità diplomatica.»

«Siete figli di una divinità Ctonia… non vi torcerà un capello» sbuffò Artemide, allontanandosi dal padre insieme a un non più convinto Hypnos. «Ma come? Niente capatina nei sogni di mio padre?»

«I film horror mi terrorizzano» gli fece notare lui, facendola scoppiare a ridere dopo un attimo di incredulità.
 
***

Come diavolo aveva fatto a crollare dal sonno? Voleva farsi prendere come un idiota?

Scrollandosi di dosso i residui del sonnellino che aveva schiacciato, Zeus si rese conto di aver ripreso sembianze umane e, un filino più tranquillo, si risollevò dal suo giaciglio di terra e pietre per uscire dalla grotta che lo aveva protetto.

Nel farlo, però, si ritrovò innanzi a uno spettacolo che mai, neppure nei suoi sogni più incredibili, aveva avuto la grazia di incrociare con lo sguardo.

Particolarmente colpito da quella visione paradisiaca, si lasciò andare a un sospiro di pura delizia e, sorridente, si avvicinò allo stuolo di naiadi intente a ristorarsi nelle acque di un fiume.

Nude e splendide, rilucevano sotto la luce del sole mattutino, e la loro pelle ricoperta di perle d’acqua sembrava morbida e setosa come le stoffe più preziose.

Subito, le sue mani formicolarono per il desiderio di possederle, del tutto dimentico del pericolo che lo aveva spinto a rifugiarsi nel punto più oscuro della foresta e, senza darsi pena di mascherarsi, le raggiunse con una falcata imperiosa.

Le naiadi lo videro quasi simultaneamente ma, invece di scappare, si levarono in piedi, chi da terra e chi dalle acque del fiume e, come un gruppo compatto, si avviarono verso di lui con sorrisi carichi d’aspettativa.

Quella vista di seni pieni e forme voluttuose non fece che rinfocolare la fregola di Zeus che, ormai a un passo da quel paradiso in terra, lanciò un grido terrorizzato non appena la prima delle naiadi scostò le labbra sorridenti per mostrare i denti.

Sotto quelle labbra rosse e carnose, splendide alla vista e perfette per essere baciate… si nascondeva la dentatura di uno squalo, pronto a divorare chi si fosse incautamente avvicinato a esse.

Ora del tutto dimentico della passione che lo aveva spinto ad avvicinarsi, Zeus tentò di colpirle con le sue folgori ma, complice la sua presenza a Delo, non riuscì a richiamare le sue potenti saette.

Non potendo fare altro, si vide costretto a scappare ignominiosamente, mentre le voci sempre più alte e seduttrici delle naiadi lo rincorrevano ogni dove.

Più di una volta le zanne di quelle mostruose naiadi furono sul punto di morderlo e, a ogni occasione, Zeus riuscì a stento a sottrarsi da quei baci letali quanto terrificanti.

Apparentemente instancabili, le temibili ninfe dei fiumi continuarono a rincorrere Zeus lungo tutta l’isola di Delo finché, ormai stremato, il Padre degli dèi inciampò nei suoi stessi piedi, carambolando a terra.

Subito, le naiadi furono su di lui, iniziando a morderlo in più punti mentre il dio, stravolto dal panico e dal dolore, gridava loro invano di non ucciderlo, di non divorarlo.

Una di loro, fiammeggiante di capelli e con sguardo sardonico, si sollevò da sopra il suo torace per fissarlo negli occhi e dichiarare: «Ma come? Non ci vuoi più? Non ci ami più, sommo Zeus? Non desideri dunque tutte le creature femminili del mondo?»

Prima che lui potesse rispondere in un qualsiasi modo, una naiade attaccò con ferocia le sue parti intime e a quel punto, colto da un dolore immane e una paura mai provata… Zeus riprese conoscenza.

Incespicando con le mani, si tastò il corpo madido di sudore in cerca di ferite ma, nulla vedendo se non le sue vesti e le sue carni intonse, esalò un sospiro di sollievo prima di crollare prono sul terreno smosso.

Aveva dunque sognato tutto?

«Sai, paparino… strilli come una bambina di cinque anni, quando hai paura» ironizzò alle sue spalle una voce, mandandolo nel panico.

Strillando – per l’appunto – come una bambina, Zeus si rimise seduto e indietreggiò terrorizzato fino a sfiorare il muro della grotta, e solo per trovare una ghignante Artemide a pochi passi da lui.

Ansimante e pieno di paura, la fissò per diversi istanti con il cuore in gola, il battito a mille e la sudorazione fuori controllo, prima di cominciare a comprendere cosa fosse successo… e quale fosse stata la vendetta della figlia.

Mettendo finalmente a fuoco l’imbocco della grotta, vide infine le figure degli oneiroi, oltre a quella splendida e misteriosa di Nyx, di nero vestita e con le lunghe chiome corvine sparse tutt’attorno come un mantello.

La dea della notte carezzava indifferentemente i tre figli, scrutandoli con espressione assai orgogliosa e soddisfatta e Artemide, nel sorridere loro, dichiarò: «Direi che è andata bene… era nel panico più totale.»

«Che diavolo… hai fatto?» domandò confuso Zeus, cominciando a irritarsi per la soddisfazione della figlia.

Lei lo fulminò con lo sguardo, replicando: «Quello che ti meritavi per aver sempre pensato di poter fare quello che volevi, con le donne. Ti è piaciuto essere soggiogato, preso con la forza e massacrato?»

«Io non ho mai…» tentennò il padre, subito azzittito dalla figlia.

«Maledizione, padre! Hai avuto così tante amanti da aver bisogno di un’enciclopedia, per poterle ricordare tutte! E pensi davvero che il tuo agire non le abbia massacrate dentro? E quante di loro hanno subito la rabbia di Era, perché tu non ti sei preso le tue giuste responsabilità? Devo ricordarti di Io? O di mia madre? O di Europa? Devo citarne altre?!»

Lanciato uno sguardo a Phobetor, Zeus gli domandò roco: «Le hai create di tuo pugno?»

L’oneiroi scosse il capo, ora assai serio e posato, replicando: «Sono i ricordi inquieti delle mortali da te possedute e che, attraverso le acque del Lete, hanno potuto liberarsi e riposare in pace.»

Ciò detto, lanciò un’occhiata grata a Hypnos, che si rivolse a Zeus per dire: «Ho attinto a quelle acque per farne dono a Phobetor, così che potesse rendere il più reale e personale possibile il tuo incubo. Ammetto, però, che non avevo idea che avesse scelto proprio questo genere di incubo. L’ho saputo solo quando ha iniziato a lavorare su di te.»

Rabbrividendo suo malgrado, Zeus borbottò: «Avrei preferito non conoscere così bene le sue attitudini di cineasta dell’horror.»

Nyx sorrise a quelle parole e asserì: «Mio figlio sa essere assai fantasioso, quando vuole. E ora, rispettosamente, torniamo a casa. Ci sono altre persone che hanno bisogno del tocco dei miei figli. Vieni con noi, Hypnos?»

«Certamente, madre» assentì il dio del sonno, esibendosi in un elegante baciamano ad Artemide prima di svanire nel nulla assieme ai suoi familiari.

Rimasta sola col padre, Artemide sospirò, si appoggiò al muro di pietra della grotta e borbottò accigliata: «Tu guarda se una figlia si deve ridurre a questo, per far entrare in zucca qualcosa al proprio padre.»

«Sei stata crudele» mugugnò la divinità, levandosi in piedi a fatica.

Il corpo gli doleva come se fosse stato dilaniato realmente da quelle naiadi in versione cannibale, pur non avendo ferite evidenti a dare credito alle sue sensazioni. Phobetor ci era andato davvero pesante.

«Crudele? Perché, tu pensi di non esserlo stato con quella vacca isterica di Era?» ironizzò sarcastica Artemide, fissandolo con supponenza.

Quell’accenno lo fece accigliare ulteriormente, portandolo a dire: «La chiami vacca, ma le hai portato le bambine. Perché a lei sì, e a me no?!»

Quella domanda suonò querula e infantile persino alle sue orecchie, ma non gliene importò nulla. Odiava il solo fatto che persino Era fosse stata preferita a lui, visto l’odio che era sempre intercorso tra le due dee!

Artemide rise senza alcuna allegria, lanciò un’occhiata verso l’esterno della grotta e mormorò stanca: «Per quanto lei non mi piaccia, e io non piaccia a lei, abbiamo capito come sopravvivere sullo stesso mondo ma, soprattutto, abbiamo compreso che era inutile detestarci, visto che l’odio che ci insudiciava lo avevi creato tu

Zeus ebbe la decenza di non aprire bocca e Artemide, apprezzandolo, aggiunse con minore rabbia: «Intendevo questo, con massacrato. Io ed Era ci siamo massacrate l’anima per millenni, e per cosa? Lei si irritò con mia madre per causa tua. Io arrivai a odiarla per causa tua. Capisci cosa ci hai fatto?»

Suo padre rimase in religioso silenzio per diverso tempo mentre, all’esterno della grotta, la vita della foresta in cui si trovavano riprendeva il suo scorrere regolare e placido.

In quell’angolo di Delo, protetti dallo sguardo degli umani, animali e natura prosperavano, grazie ai poteri di Artemide. Ogni cosa aveva colori splendidi, gli animali erano pacifici e tutto era come avrebbe dovuto essere. Tutto era in pace e in armonia.

Erano solo loro a guastare quella perfezione. Loro e la loro tensione a stento controllata.

Sospirando, infine, Zeus mormorò roco: «Scusami.»

Artemide sgranò gli occhi, di fronte a quella semplice parola e Zeus, approfittandosi del suo silenzio, aggiunse: «Hai… hai sposato un brav’uomo.»

Rabbrividendo, la dea della caccia assentì, borbottò un ‘lo so’ e, senza dire alcunché, svanì dalla sua vista, lasciandolo solo.

Sorpreso da quella reazione, Zeus si guardò intorno confuso, schioccò le dita per tentare di richiamare le folgori e, sempre a sorpresa, esse comparvero, confermandogli che era libero di andarsene.

Il punto era: dove?
 
***

Veder comparire Zeus nelle sue terre era evento più unico che raro, visto che la mancanza di Alekos dall’Oltretomba aveva tolto scusanti valide al fratello per passarlo a trovare spesso come in passato.

Ade, perciò, si stupì non poco quando lo vide apparire all’entrata dei Campi Elisi, l’aria sbattuta e di uno che aveva passato una nottata davvero infernale.

Avvicinandosi a lui con aria guardinga – non si poteva mai sapere, quando un dio era irritato – Ade mormorò cauto: «Qual buon vento, fratello?»

Zeus si volse a mezzo, l’aria quasi spaurita, e si guardò intorno come in cerca di qualcun altro, che però non riuscì a trovare.

Ade, ancor più confuso dalla reazione inaspettata del fratello, disse: «Se cerchi Persefone, è con le Erinni. So che Tisifone voleva farle sentire un nuovo brano che hanno scritto.»

«Oh» gorgogliò Zeus, annuendo stanco.

Non che parlare con sua figlia avrebbe risolto molto. Avrebbe probabilmente ricevuto una manfrina anche da lei, con il risultato di sentirsi ancor più stordito di prima. Quindi, che diavolo era venuto a fare proprio lì?

«Come sta andando, con la tua ricerca di una tregua? No, perché onestamente sembri piuttosto sbattuto, e mi chiedevo se dipendesse da questo» chiosò Ade, dandogli una pacca sulla spalla.

«Arty mi ha fatto vedere i sorci verdi, stanotte, letteralmente, e ha chiarito molto bene quanto mi detesti… e, in fondo, non le posso davvero dare torto» brontolò la divinità, lanciando un’occhiata alle dolci colline in fiore dei Campi Elisi.

Sembrava tutto così piacevole, alla vista, ma quella bellezza non faceva che nascondere abilmente ciò che si celava nelle aree più cupe dell’Oltretomba; i fiumi infernali e il Tartaro. I luoghi più terrificanti in cui un’anima potesse finire.

I luoghi in cui le anime delle sue tante amanti avevano trovato la loro fine, dannate da Era a causa dei suoi continui tradimenti.

Sospirando, Zeus reclinò il capo per la stanchezza provata di fronte alle parole di condanna di Artemide e Ade, sinceramente sorpreso da quella reazione, esalò: «Arty ti ha davvero ridotto uno straccio.»

«Non mi è piaciuto quel che mi ha detto… ma non posso neppure fargliene una colpa, visto ciò che mi hanno mostrato gli oneiroi in sogno.»

Accigliandosi, Ade asserì: «Sai che gli oneiroi non mostrano necessariamente la verità.»

«Queste verità, le hanno ottenute con i ricordi contenuti nel Lete» sottolineò Zeus, fissando aspramente il fratello.

A quelle parole, Ade sospirò e, scuotendo il capo, disse: «Se provengono da lì, allora so perché hai l’aria così sbattuta. Ciò che è contenuto nel Lete spaventerebbe chiunque. Chiedi ad Athena o Alekos se…»

Sgranando gli occhi di fronte alla sciocchezza appena proferita, Ade si interruppe e, spiacente, guardò il fratello prima di aggiungere: «Già, scusa. Non puoi parlarci. Ma forse…»

Accigliandosi, Zeus esalò: «Cosa volevi dire, prima di interromperti?»

Lanciando un’occhiata ai Campi Elisi e alle luminose anime che ivi dimoravano, Ade disse: «Potresti parlarne con qualcuno che ha conosciuto molto bene Athena, e che potrebbe dirti come la pensa tua figlia.»

«Vuoi dire…»

«Sì, voglio dire Miguel. Érebos gli ha restituito i ricordi, perciò non avrà problemi a dirti ciò che Athena pensava di te, e come eventualmente fare per chiudere una volta per tutte questa faida» asserì Ade, scrollando le spalle. «Sono stati sposati, e lui sapeva come prenderla.»

«Non soffrirà?» domandò cauto Zeus. Paradossalmente, l’idea di fare del male a quell’anima, lo turbava infinitamente.

Fu solo dopo qualche attimo, che ne comprese il motivo; indirettamente, avrebbe fatto soffrire Anita e Carlos, oltre alla figlia e il nipote, e lui non lo voleva.

Ade, però, scosse il capo e replicò: «Ci parlo spesso anch’io, e mi sembra felice di condividere i suoi ricordi. E’ un’anima assai particolare. Ti piacerà.»

Zeus si lasciò andare a un sorriso amaro e, tra sé, si rese conto di un altro atroce particolare. Sarebbe stata la prima volta in cui avrebbe parlato a tu per tu con il primo marito di sua figlia. Davvero una cosa miserevole, da parte sua.

Ma, a quel punto, più in basso di così non poteva cadere. Poteva soltanto risollevarsi e risalire. E lo avrebbe fatto.

Dopotutto, era o non era il Padre degli dèi?
 
***

L’anima di Miguel era seduta ai bordi di un placido laghetto, e sembrava intenta a studiare il movimento dell’acqua sospinta da un dolce venticello primaverile.

Nei Campi Elisi, tutto era splendido, verdeggiante e profumato, e persino un animo piuttosto rude come quello di Zeus trovò quei luoghi splendidi alla vista.

Fasulli, certamente, ma un ottimo viatico per la pace eterna per le anime che si erano guadagnate un simile ringraziamento per le buone azioni compiute in vita.

Quando Zeus infine avvicinò l’ex genero, il bagliore dell’anima si intensificò, forse denotando sorpresa e, non appena il dio si accomodò al suo fianco, questa si rilassò, tornando a tonalità più tenui.

Intrecciando le braccia sulle ginocchia ripiegate, Zeus esordì dicendo: «Ti ricordi di me? Ci incontrammo quando Athena portò via Alekos dall’Oltretomba.»

L’anima assentì e una voce tenue e pacata asserì: “Mi ricordo di voi, sommo Zeus. Come mai siete qui? Athena ha fatto i capricci?”

Sorridendo ironicamente, la divinità scrollò le spalle e replicò: «Forse li ho fatti più io, di lei, e ora non so come rimediare. Come ben saprai, non ha un carattere esattamente docile.»

“Su cosa vi siete scontrati, se è lecito chiedere?”

«Sul mio rapporto con le donne.»

L’anima allora rise dolcemente, senza alcuna volontà di deridere Zeus e, con semplicità, disse: “Athena era solita lagnarsi del fatto che, essendo vostra figlia, sentiva fin troppo spesso i vostri pensieri più… sporchi?... e anche per questo si era allontanata da casa. Diceva che aiutava a non sentirli.”

Sospirando, Zeus annuì torvo e borbottò: «Temevo sarebbe successo. Quando partorisci una figlia dal tuo cervello, accadono cose strane.»

“Non vi ha mai rammentato con vera rabbia, però. Sembravano piuttosto le lagnanze di un figlio unico con il proprio genitore un po’ distratto. Un segno di affetto, mascherato da lamentela.”

«Ora, però, la lamentela è reale. E non so come fare per scusarmi» ammise Zeus, reclinando mogio il capo.

Quanto aveva sentito, in effetti, sua figlia, per sentirsi obbligata ad allontanarsi da casa per decenni interi? Quanto, la sua vita dissoluta, aveva finito con il logorarla e renderla così invisa a lui?

Artemide non aveva sbagliato, ad accusarlo di aver massacrato le donne che aveva di avere accanto a sé nel corso della sua esistenza. E non soltanto per quanto riguardava le sue amanti.

Il suo tocco aveva lacerato le anime delle sue figlie e, molto probabilmente, gli aveva reso inviso anche i figli maschi.

“Athena ama i fiori. Regalatele un fiore e delle scuse sincere, dopodiché chiedetele di parlare con lei nel luogo che più apprezza. Ma siate onesto, perché ha la terribile abilità di capire chi dice bugie” dichiarò Miguel dopo alcuni attimi di silenzio.

«Il luogo che più… apprezza?» esalò Zeus, davvero confuso.

L’anima si illuminò, forse divertita dalla sua ignoranza.

“Portatela al Giardino Giapponese di Los Angeles. Lei lo adora, perché dice che quei luoghi le danno pace e serenità, anche quando è irritata con il mondo. Sarà un buon posto dove parlare.”

Zeus assentì e, contrito, mormorò: «Vorrei ringraziarti in qualche modo, ma non saprei davvero come.»

“Fate pace. Sarà bello sapere da Persefone che tutto è andato per il meglio.”

La divinità gli sorrise piena di gratitudine e, nel levarsi in piedi, asserì: «Ade ha ragione. Sei davvero un’anima unica, e ora capisco perché mia figlia ti abbia amato tanto.»

“E’ stato facile amare Athena. E ora che so che sta con una persona che la ama, sono ancor più felice, perché so che non rimarrà mai sola. Ringrazio Érebos ogni giorno, per questo.”

«Anche se è lui, al suo fianco, e non tu?»

“So bene che io non avrei mai potuto che essere una parentesi, nella vita di Athena. Lei è una dea, e io ero un mortale. Per quanto ci amassimo, il tutto era destinato a finire ma, proprio perché l’amavo, e sapevo che lei mi riamava, temevo potesse soffrire di solitudine, una volta che io me ne fossi andato. Quando perciò ho saputo che qualcuno come Érebos la amava e si prendeva cura di lui, sono stato felice, perché il mio desiderio era stato esaudito.”

Zeus assentì gravemente e, dopo un ultimo ringraziamento, si allontanò dall’anima per tornare sull’Olimpo.

Miguel gli aveva posto dinanzi agli occhi l’unica realtà che non aveva mai preso in considerazione durante la sua lunga vita; l’altruismo contrapposto all’egoismo.

Se l’anima del mortale rappresentava l’altruismo, lui era il caposaldo dell’opposto. Dell’egoismo puro e sfrontato.

Questo aveva rappresentato, per millenni e millenni, ed era servita la voce pacata e gentile di un’anima mortale, per rendersene conto.

Sorridendo tristemente tra sé mentre riemergeva dall’Oltretomba, Zeus si chiese se, i fantomatici poteri divinatori di Alekos, non dipendessero in toto dall’anima gentile di suo padre.

Era mai possibile che un semplice umano avesse condizionato così tanto il frutto del suo amore con una divinità?

Da quel poco che aveva sentito, e visto, poteva davvero essere così.

Se un semplice umano era riuscito a emergere a quel modo, divenendo un’anima senziente di rara purezza, lui si sarebbe messo d’impegno per non essere da meno.

In gioco c’era il suo rapporto con le figlie, e non era più il momento di cincischiare. Doveva agire.







N.d.A.: Artemide ha voluto giocare pesante per cercare di smuovere la coscienza del padre e, per tutta risposta, Zeus ha cercato aiuto in Miguel. Il punto è; avrà veramente capito i suoi errori o, come al solito, ne combinerà una delle sue?












 

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Capitolo 34
*** Zeus - 3 - ***


 
Epilogo.
 
 
 
 
 
Le leggiadre ali d’oro di Iris erano splendide, alla luce morente del sole e, quando Athena si ritrovò innanzi la messaggera degli dèi, ella si perse in contemplazione dei magnifici giochi di luce creati dal sole riflesso sulle sue remiganti.

Iris era sempre stata splendida, nelle sue vesti nivee, con le bionde chiome sparse sulle esili spalle e le enormi ali a cingerla come un mantello piumato. Era davvero uno scorno, pensare a quale infausto compito le spettasse solitamente; recare tristi notizie.

La dea, però, non si era mai data peso, per questo compito tutt’altro che semplice, e lo aveva sempre portato a termine con professionalità e gentilezza.

Athena dubitava, comunque, che in quell’occasione si trovasse nella veranda di casa sua per recare infauste novelle.

«Qual buon vento, Iris? Hermes ti ha di nuovo mollato una patata bollente tra le mani?» domandò per questo Athena, sorridendole benevola.

La dea ammiccò divertita e, nel ritirare le ali sulle spalle al pari di un mantello, replicò: «Oh, no… più semplicemente, il divino Zeus non ha chiamato Hermes per questa missione. Credo si vergognasse.»

Athena levò un sopracciglio con evidente sorpresa e asserì: «Gelerà l’inferno, prima che mio padre si vergogni di qualcosa. Comunque, cosa ti porta qui, con una tempesta in arrivo?»

In lontananza, verso le montagne a nord-est, nubi nere si stavano addensando all’orizzonte e, prima di notte, avrebbero iniziato a danzare sulle città costiere, portando con loro pioggia e fulmini.

Iris, in ogni caso, sarebbe stata ben lontana, e non doveva preoccuparsene.

Allungando quindi una missiva ad Athena, disse con tono ossequioso: «Il divino Zeus ti prega di leggerla – e non cestinarla – poiché desidera scusarsi con te per il modo increscioso in cui si è comportato con te e con tuo figlio.»

Sempre più sorpresa, la divinità prese la lettera pergamenata in mano, osservò dubbiosa Iris e domandò: «Testuali parole?»

«Assolutamente. Mi ha fatto promettere di essere scrupolosa, nel riportartele» assentì la dea, prima di aggiungere con tono sincero: «Posso assicurartelo, Athena. Non lo avevo mai visto così abbacchiato dacché sono nata. Non mi ha neanche guardato in faccia, mentre ritiravo il messaggio! E di solito cerca sempre di curiosare nella scollatura della mia tunica.»

Ora lo sconcerto di Athena si fece enorme e, picchiettandosi la missiva contro il mento con fare pensoso, dichiarò: «Beh, questa è davvero una cosa strana. Neanche una sbirciatina? Niente niente?»

«Niente di niente. Neppure quando mi sono voltata per involarmi. Di solito me ne accorgo sempre, se sbircia, ma stavolta non è successo» assentì Iris, stupita al pari della dea della guerra.

«Beh, vorrà dire che farò uno sforzo. Anche soltanto per ringraziarti della cortesia di avermi portato il messaggio» dichiarò Athena, scrollando le spalle.

«E’ il mio compito» replicò con semplicità Iris. «E se, per una volta, non devo portare tristi favelle, è meglio.»

«Lo credo anch’io» assentì Athena, sorridendole. «Ti fermi per la cena, o devi rientrare subito?»

«Mi spiace, ma devo vedermi con le mie sorelle. Mi hanno detto che vogliono portarmi a un concerto di musica punk rock e, anche se non sono sicura che potrà piacermi, non me la sono sentita di dire di no» dichiarò Iris, sorridendo con fare vagamente nervoso.

Athena andò col pensiero alle arpie Celeno, Ocipete e Aello e, tra sé, si domandò come fosse avere tre sorelle così diverse per carattere e temperamento, rispetto al proprio. Aveva idea che non fosse facile, per Iris, rimanere in buoni rapporti con loro senza venire schiacciata dalle personalità piuttosto… briose delle tre sorelle, ma sembravano comunque volersi sinceramente bene.

«Tappi per le orecchie. Fanno miracoli» la consigliò Athena, prima di salutarla e rientrare in casa con la missiva tra le mani.

Raggiunta la cucina, dove Alekos ed Érebos stavano armeggiando con la pizza, Athena si accomodò a tavola e domandò con una certa ironia: «Papà mi scrive, pregandomi di leggerla prima gettarla. Che dite? La butto nel fuoco, o la leggo?»

«Mamma!» esclamò Alekos, scoppiando a ridere. «Visto che non l’hai bruciata nel momento stesso in cui te l’hanno consegnata, varrebbe la pena leggerla, ti pare?»

«Ah, il mio dolce bambino dall’animo nobile…» sospirò divertita Athena, ritrovandosi a schivare uno strofinaccio, lanciatole contro da un ombroso Alekos. «… vorrà dire che farò lo sforzo.»

«Chiamami ancora bambino, e non risponderò di me stesso» brontolò Alekos, sistemando la pizza sul piatto della madre.

Athena, però, ammiccò all’indirizzo del figlio e replicò: «Siamo permalosetti, ormai?»

«Mamma…» sbuffò Alekos, accigliandosi maggiormente.

Érebos rise sommessamente di fronte a quel battibecco e, nel sistemare sul tavolo birra e Coca-cola, disse: «Sei più pestifera di Arty, quando vuoi.»

«Poco ma sicuro» assentì la dea, spezzando il sigillo di ceralacca per aprire la missiva.

I due uomini di casa assaggiarono rispettivamente la propria pizza, mentre Athena leggeva velocemente il lungo scritto del padre, accigliandosi e sollevando le sopracciglia per la sorpresa a momenti alterni.

Quando infine ebbe finito, poggiò la missiva sul tavolo, afferrò un pezzo di pizza per portarselo alla bocca e, dopo averlo masticato per bene e ingollato, borbottò: «Chiede una tregua… e il maledetto ha giocato sporco, invitando me e Arty al Giardino Giapponese di Los Angeles.»

Sorpresa, la divinità Ctonia domandò: «Perché proprio lì

Scrollando le spalle, Athena asserì con semplicità: «Perché è il giardino terreno che più mi piace, e solo una persona sapeva di questo mio amore per quel luogo in particolare. Miguel.»

«Papà?» esalò Alekos, sorpreso.

«Già. Non ci sono più tornata perché, da quando visitiamo regolarmente il giardino delle Esperidi, non mi è neppure più venuta voglia di andarci…» ammise con candore Athena, sorridendo a Érebos, che annuì tranquillo. «…ma, se le cose fossero state diverse, probabilmente avrei continuato ad andarci.»

«Beh, effettivamente, credo che non esista nulla, sulla Terra, che possa rivaleggiare con quel luogo» ammise pensieroso Alekos. «Ti farebbe sentire triste, andarci senza papà?»

«No, affatto. Iniziai a visitare quel giardino prima di incontrare lui, perciò non è legato a un suo ricordo in particolare e poi, in ogni caso, ho superato ampiamente la fase in cui, vedere cose legate a Miguel, può farmi male» lo rassicurò Athena, sorridendogli.

«Se Zeus è sceso in Ade per parlare appositamente con Miguel, questo denota quanto tuo padre si stia impegnando per riallacciare i rapporti con te e Artemide. Mi sembra che sia giusto dargli il beneficio del dubbio, a questo punto» dichiarò il dio Ctonio con tono pragmatico.

«Mah… direi di sì. E’ davvero inutile continuare a fare muro contro muro. Se persino con Era siamo arrivate a un compromesso storico, perché non tentare anche con lui?» ammise Athena, sbocconcellando la propria pizza.

Alekos assentì lieto e disse: «Sarei davvero contento se tutta questa faccenda si risolvesse una volta per tutte. Il nonno mi manca.»

«Guarda che tu potevi andare a fargli visita quando volevi. La diatriba era tra me, Arty e lui» sottolineò Athena, scrollando le spalle.

«Prima vieni sempre tu, mamma» precisò con naturalezza Alekos.

Athena, allora, gli sorrise dolcemente e, nel carezzargli una guancia, asserì: «Non ho un bambino dolcissimo?»

Érebos scoppiò a ridere non appena il viso di Alekos si fece paonazzo d’imbarazzo mentre Athena, sorridendo divertita, aggiungeva: «Scusa, è stato più forte di me.»

«L’ho notato» bofonchiò Alekos, sospirando esasperato.

«Facciamo così… la prossima volta che facciamo la pizza, invita anche Acaste. Finora, siete sempre usciti con Apollo e Clizia, ma vorrei partecipare anch’io» gli propose Athena.

«Solo se mi prometti di non fare come zia Afrodite, che è partita in quarta chiedendomi se preferissi le camelie o le gerbere, per i banchetti di nozze» sbuffò il giovane, ingollando un sorso generoso di Coca-cola.

Athena fece tanto d’occhi, a quelle parole e, dopo un attimo, scoppiò in un’accesa risata insieme al suo compagno, mentre Alekos replicava quanto, in realtà, non vi fosse nulla da ridere.

All’esterno, nell’oscurità del giardino e ben nascosta dietro il salice piangente, Eris sospirò nel lasciarsi scivolare lungo il tronco dell’albero, sedendosi fiaccamente sul prato umido.

L’attimo seguente, in uno scintillio dorato, la figura imponente di Ares le balenò innanzi e, prima che lei potesse fuggire come sua abitudine, venne bloccata al polso dal fratello.

Accigliata, la dea lo fissò rabbiosa e ringhiò: «Lasciami andare, se non vuoi fare una brutta fine.»

«Smettila di mordere sempre, Eris» replicò lui, sorridendole beffardo. «Volevo solo parlare con te per un attimo.»

«Non ho tempo» gli gettò in faccia lei, di malagrazia.

«Ma ne hai abbastanza per spiare sempre Alekos. Perché?» ribatté Ares, fissandola pieno di curiosità.

La dea dalla chioma corvina distolse nervosa lo sguardo e, in un borbottio, mormorò: «Ad Athena non dà fastidio. Perché, quindi, dovrebbe fregare qualcosa a te?»

«Perché voglio bene a quel ragazzo, e non voglio che proprio mia sorella gli faccia del male» sottolineò Ares, facendosi mortalmente serio in viso.

Già pronto a rabberciarlo in malo modo, Eris si bloccò sul nascere per non mettersi a urlare – e allarmare così i padroni di casa – e, rabbiosa, sibilò: «Non gli farei mai del male.
Non a lui.»

Sinceramente sorpreso da quella frase, Ares la lasciò andare e replicò confuso: «Perché lui no, e altri magari sì?»

«Perché lui rappresenta la mia occasione persa» ringhiò furibonda Eris, svanendo in uno scintillio d’argento.

Ares sospirò, scosse il capo e borbottò: «Chi la capisce è bravo.»

«Lascia che venga, fratello» esordì una voce, proveniente dalla veranda.

Emergendo dall’ombra, Ares fissò spiacente Athena e borbottò: «Scusa… ci hai sentiti? Speravo di essere stato abbastanza discreto ma, come mio solito, ho il piede pesante.»

Lei scrollò le spalle e replicò con semplicità: «So sempre quando Eris è nei paraggi, perché mi avverte prima. Mi sono sorpresa perché se n’è andata senza salutarmi, come fa di solito, così sono uscita per capire cosa fosse successo.»

«Quindi, voi due…» esalò sorpreso Ares.

Annuendo, Athena fissò le spesse nubi di pioggia, ormai pronte a scatenarsi in tutta la loro forza e, in un mormorio spiacente, asserì: «Le fa bene. Anche se non so in che modo, ma mi sembra più serena quando è nei paraggi e, ti assicuro, non ha cattive intenzioni. Mi fa piacere che tu ci tenga così tanto ad Alekos ma davvero… non stuzzicarla, su questa cosa. Va bene così.»

«Se sta bene a te, sta bene anche me. Volevo solo essere sicuro che non ci fossero problemi, visto che le visite stanno aumentando» ribatté preoccupato Ares.

Sorridendogli con affetto, Athena disse: «Sei davvero caro, anche se a volte ti comporti come uno schiacciasassi. Forse, dovresti essere più carino anche con lei.»

Ares scoppiò a ridere al solo pensiero, replicando sardonico: «Eris mi maciullerebbe le palle in un tritacarne, se solo ci provassi. Quella ha solo rabbia, in testa.»

«Chiediti, allora, perché viene qui» gli fece notare sibillina Athena, lasciandolo senza parole. «Fai bei sogni, fratello, e non badare troppo a Eris.»

«Tu pensa a spupazzarti il tuo uomo, sorella. Pensi troppo e agisci poco» ghignò il dio, scomparendo prima di sentire il commento ben poco elegante che Athena gli tributò in risposta.
 
***

Il Giardino Giapponese di Los Angeles era bello come lo ricordava e, nel varcare le soglie dell’ingresso, lasciandosi alle spalle le due enormi statue dei leoni guardiani, Athena mormorò: «Riesci a immaginartelo in fiore, sorella?»

Artemide assentì pensierosa, guardandosi intorno piena di ammirazione e, nello sfiorare il mancorrente di un ponticello, borbottò: «Anche se la natura è a riposo, in questo momento, l’architettura di questo luogo rimane splendida. Continuo però a non capire perché tu ti sia lasciata convincere a venire qui.»

«E tu perché non hai infilzato il sedere di nostro padre con le tue lance, l’altro ieri?» replicò ironica Athena, vedendola adombrarsi in risposta. «E’ chiaro che anche tu sei stanca di questa situazione, altrimenti non ci saresti andata per il sottile.»

«Per il sottile? Phobetor non ci è affatto andato per il sottile!» brontolò la dea, pur sapendo che Athena aveva ragione. Le sue frecce dorate avrebbero fatto molti più danni, a livello fisico, rispetto all’incubo di Phobetor, eppure si era trattenuta, pensando a quell’alternativa davvero distante dai suoi soliti metodi.

«Appunto. Hai lasciato che fosse qualcun altro a fare il lavoro, perché tu non te la sentivi. E per carità, deve aver funzionato se papà non ha guardato il seno di Iris, quando le ha dato la missiva da consegnarmi» ironizzò suo malgrado Athena.

«Anche solo per questo, bisognerebbe intonare un Alleluia fino alla fine dei tempi, ma tanto so che non durerà» sbuffò contrariata Artemide.

«Ha funzionato nel senso più ampio del termine, sorella. Forse durerà poco, come dici tu, ma si è scusato con noi e desidera parlare con noi. Non è stata né un’imposizione né un ordine. Potevamo anche rifiutare» le fece notare Athena, dandole una pacca sulla spalla mentre raggiungevano una delle pagode all’interno dell’ampio giardino.

Lì, ad attenderle nelle sue sembianze naturali e abbigliato con un completo jeans e maglione scuri, videro Zeus e, per la prima volta in vita sua, Athena lesse il dubbio nei suoi occhi ambrati.

Oh, eccome se Phobetor aveva fatto centro! Avrebbe dovuto ringraziare il figlio di Nyx per il miracolo appena avvenuto perché, dacché aveva memoria, Zeus non si era mai ridotto a essere così insicuro.

La divinità sollevò esitante una mano a salutarle e Athena, presa per mano Artemide prima che decidesse di scappare a gambe levate, salutò a sua volta il padre ed esordì dicendo: «Ben trovato, papà. Hai l’aria un po’ sbattuta. Dormito male, per caso?»

«Ho avuto nottate migliori» ammise lui, lanciando un’occhiata obliqua ad Artemide prima di invitarle a passeggiare lungo i camminamenti che aggiravano il giardino zen del parco.

Il fruscio del vento, unito al gorgogliare dei torrenti e al cinguettare dei passerotti, rendeva magico e tranquillo quel luogo paradisiaco che, pur privato dei profumi dei fiori primaverili, recava con sé la bellezza della natura a riposo.

Le strutture create dall’uomo si intrecciavano alla perfezione con le linee degli aceri spogli e dei sempreverdi che si incurvavano verso i ruscelli, ricreando paesaggi dal sapore antico ed esotico.

Zeus si ritrovò a scrutare quei luoghi con un sorriso tranquillo e appagato e, ripensando alle parole di Miguel, Zeus disse: «Capisco perché questo posto ti piaccia tanto, Athena.»

«Lo scoprii durante la mia fase zen, e mi stabilii a Los Angeles per un lustro, per poterlo visitare tutti i giorni» ammise la dea, osservando gli aceri ormai spogli affiancati da cipressi giapponesi e cespugli di skimmia. «Mi rilassa molto passeggiare qui. Te lo ha detto Miguel, vero?»

Annuendo senza remore – e sorprendendo Artemide per quell’ammissione – Zeus asserì: «Ho pensato che, se volevo cominciare da qualche parte, dovevo chiedere a chi, più di tutti, ti aveva conosciuto dal punto di vista più intimo.»

«Quindi, hai chiesto all’anima di un mortale» celiò Athena, pur addolcendo il commento con uno sguardo carico di ammirazione. «Mi sorprendi, padre. Ti sei abbassato a strisciare.»

«Non…» iniziò piccato Zeus, prima di interrompersi, prendere un gran respiro e aggiungere: «… non si tratta di strisciare, Athena, ma di capire. Anita e Carlos mi hanno fatto comprendere che, per nulla al mondo, mi avrebbero reso le cose più facili, mentre Érebos, a suo tempo, mi disse di non guardare tutto e tutti dall’alto al basso, o non avrei mai compreso cosa vi legava alla famiglia Rodriguez, o al mondo degli umani più in generale.»

«Hai rischiato grosso, tirando in ballo loro» borbottò Artemide, parlando per la prima volta. «Se avessi infierito sulla nostra famiglia umana, allora ti avrei veramente ucciso, su Delo.»

Sospirando esasperato, Zeus esalò: «Sarà sempre così, con voi? Un continuo ribattere? Perché con Era siete state più permissive?»

«Perché lei reagiva alle tue malefatte, perciò non era la vera causa del contendere» replicò quieta Athena, dando una stretta leggera alla mano di Artemide perché si calmasse. «Persino il comportamento tenuto da Era con Efesto, fu il risultato di un tuo scorno. Le chiedesti mai perché lo gettò dall’Olimpo?»

Al diniego cauto di Zeus, Athena mormorò: «Perché desiderava una femmina… come me, per intenderci. Una bambina da accudire e coccolare, e che lenisse il suo senso di vuoto e solitudine. Invece, nacque un maschio che le ricordava te, e così se la prese con lui. Non fu giusto, chiariamolo subito, e a questo errore sta finalmente cercando di porre rimedio con zio Efesto, ma avvenne per questo.»

«Quindi, tutti i mali del mondo sono colpa mia?» ironizzò tristemente Zeus.

Artemide fece per assentire, ma Athena la bloccò con uno sguardo ammonitore e replicò: «Non tutti, lo sai bene. Ma quelli in cui hai avuto voce in capitolo, sì. Per ciascuna donna che hai preso contro la sua volontà, o mentendole, hai ferito Era, la fanciulla in questione e la di lei famiglia. Per i figli nati da quei rapporti, hai poi scatenato le ire di tua moglie, il tutto in un infinito Nastro di Moebius che ancora adesso porta dolore e frustrazione.»

Bloccandosi a metà di un passo, Zeus si lasciò andare a un sospiro pesante e stanco, cui aggiunse un mesto ‘non so cosa dire’.

Artemide, a quel punto, scosse il capo e borbottò: «Dubito che la smetterai mai di correre dietro alle gonnelle e, anche se ora hai gli incubi al solo pensiero, non credo che durerà in eterno. La stretta degli oneiroi non dura per sempre. Però, per lo meno, se proprio dovesse succedere ancora, scusati con Era. Fatti perdonare. Quella vacca isterica è anche simpatica, se non ha sempre il dente avvelenato con te.»

A Zeus sfuggì un mezzo sorriso. «Ma non riesci proprio a non chiamarla così?»

«Non le dà fastidio, in realtà, perché capisce quando lo dico per insultarla, e quando voglio fare dell’ironia leggera» scrollò le spalle Artemide, come se nulla fosse. «Adesso che le ho spiegato come capire la differenza, è più facile andare d’accordo.»

Fermandosi in corrispondenza di un ponte ad arco, la dea silvestre aggiunse lapidaria: «Non ti chiederò scusa per gli incubi, sappilo.»

«Neanche me l’aspettavo» assentì Zeus prima di guardare Athena.

Lei assentì con un’alzata di spalle, chiosando: «Per me, il bando è finito.»

Artemide annuì a sua volta ma, levando un dito ammonitore, borbottò: «Giocatela bene, mi raccomando.»

«Mi pensate davvero così debole?» gracchiò Zeus, strabuzzando gli occhi per l’incredulità.

Le due figlie lo fissarono malissimo e, proprio per questo, il Padre degli dèi preferì non proferire altro. Dopotutto, aveva raggiunto il suo scopo, no?
 
***

Due mesi dopo…

 
Intenta a spiegare ad Acaste il sistema più facile per stendere l’impasto della pizza nella teglia, Athena quasi non fece cadere tutto a terra quando, dalla villetta vicina, giunse l’urlo – mentale e vendicativo – di Artemide.

Sorpresa, Athena scostò in un luogo sicuro il contenitore dell’impasto e, sbirciando fuori dalla finestra, sbatté le palpebre quando vide giungere a passo di carica la sorella, seguita appresso dal marito.

Le gemelle, in groppa ad Aster, chiudevano la fila.

«Ma che succede?» esalò Athena, mentre Alekos ed Érebos si affacciavano sulla cucina per capire a loro volta cos’avesse prodotto quell’urlo mentale.

«Artemide mi sembra assai nervosa» chiosò Acaste, spazzolandosi le mani infarinate nel grembiule. «Mi domando perché.»

«C’è solo una persona che può averla fatta infuriare così…» cominciò col dire Athena, adombrandosi. «…ed è nostro padre. E dire che aveva promesso!»

Artemide entrò come una furia proprio in quel momento, scalciò via le scarpe inumidite dalla pioggia per non sporcare il pavimento e urlò: «Quel vecchio maiale l’ha rifatto!»

«Appunto» sospirò Athena, scuotendo esasperata il capo.

Inviperita, la dea silvana si sbracciò nel vano tentativo di scaricare la tensione e aggiunse: «Quel porco schifoso è stato beccato da uno dei miei uccelletti mentre rincorreva una ninfa, poco lontano da Tebe. E dire che l’avevo avvisato…»

«Sei già passata da Era per vedere se ne è al corrente? Perché altrimenti bisognerà correre ai ripari e…» iniziò col dire Athena, prima di accorgersi delle risatine complici di Acaste e Alekos.

Anche Artemide se ne rese conto e, mentre Felipe e le figlie entravano in casa di Athena, già pronti a chetare le due dee, Acaste disse con apparente candore: «Credo che, ora come ora, disturbereste Era, se andaste al suo tempio.»

Interessata, Artemide si chetò immediatamente e, rivolta un’occhiata curiosa all’oceanina, domandò: «Oh… e come mai?»

In uno scintillio dorato, fece la sua apparizione Hermes che, balzellando nella cucina sotto gli occhi sorpresi di tutti, afferrò una fetta di formaggio ceddar, la divorò soddisfatto e disse: «Al momento, la cara Era è impegnata in attività assai ludiche, perciò evitate di presentarvi sull’Olimpo.»

Accigliandosi, Athena scansò la mano di Hermes prima che potesse prendere un’altra fetta di formaggio e, sotto lo sguardo dolente e contrariato del fratellino, borbottò: «Ma non ti eri offerto tu di farle saltare la cavallina, ogni tanto, proprio per rasserenarla?»

«Che espressione elegante, Atty» chiosò Felipe, ghignante.

«Lo so, caro» ammiccò lei, da sopra una spalla.

Hermes fissò Acaste con aria saputa e la giovane oceanina, tutta sorridente, disse per lui: «Beh, Alekos mi ha accennato al problema riguardante i… vizi di vostro padre, e le relative reazioni di Era, così ho chiesto consiglio ai miei fratelli, visto che ne conosco poco di comportamenti maschili. Alla fine del mio racconto, loro si sono dichiarati ben disposti a supportare la divina Era, caso mai fosse successo qualcosa… e a questo si sono attenuti.»

Assottigliando le palpebre per scrutarla con attenzione, Athena domandò dubbiosa: «Ricordami quanti fratelli hai, Acaste?»

«Tremila» sorrise maggiormente l’oceanina, pienamente soddisfatta di se stessa.

Artemide e Athena si sorrisero parimenti ghignanti mentre Felipe, un tantino preoccupato, domandava: «Ma… non è che Zeus potrebbe arrabbiarsi in qualche modo?»

«Deve solo provarci. Phobetor è pronto per il bis» dichiarò lapidaria Artemide, negli occhi una scintilla di vendetta già pronta a esplodere in tutta la sua furia.

Athena sorrise alla sua giovane ospite, la abbracciò con calore e disse: «Sei stata bravissima, cara. Sono sicura che, dopo il loro trattamento, Era sarà rilassata e tranquilla per mesi.»

«L’idea era quella. E poi, i miei fratelli sono tutti molto affascinanti» dichiarò Acaste, sorridendo dolcemente.

Felipe la guardò dubbioso e, grattandosi una guancia, chiosò: «Sembra un angelo fatto e finito, ma ha la vostra stessa mente contorta e diabolica.»

Artemide lo fissò altezzosa, replicando: «Dimostra soltanto che Teti la sta tirando su furba come una volpe. Tutto qui.»

«Sì, sì, Arty… vedila pure così» scrollò una mano Felipe, avviandosi verso il nipote e il cognato. «Visto che vi vedo pronti per andare in pista, vi seguo. Lasciamo queste virago a loro stesse, per oggi. Mi fanno un tantino paura.»

Ridendo del commento dello zio, mentre Érebos faceva finta di niente di fronte alle occhiate venefiche di Athena e Artemide, Alekos celiò: «Attento a come parli, o stasera non ci daranno la pizza!»

«Basterà chiedere alle mie bimbe adorate, perché diano da mangiare al loro papà… vero?» celiò Felipe, guardando le due figliole sul dorso di Aster.

Xena e Buffy assentirono gioiose sotto lo sguardo inorridito di Artemide e, mentre Felipe e gli altri uomini si allontanavano dalla cucina, la dea silvana scrutò ombrosa le figlie e borbottò: «Com’è che, col papà, siete sempre così accomodanti, voi due?»

Le due bimbe si limitarono a sorridere innocenti, nascondendo spudoratamente qualcosa e Acaste, scoppiando a ridere, chiosò: «Beh, pare abbiano già imparato come fare, queste due.»

«Purtroppo sì» sospirò esasperata Artemide, rimboccandosi le maniche prima di aggiungere: «Manderò un SMS alla vacca isterica per sapere se si sta divertendo. Chissà che non mi mandi qualche foto dei tuoi fratelli in atteggiamenti osé.»

«Oh, se vuoi ho i loro contatti Instagram sul cellulare. Forse c’è qualcosa di interessante anche lì» le disse con nonchalance la giovane, estraendo lo smartphone dalla tasca dei jeans per mostrarglielo.

Artemide e Athena osservarono curiose le miriadi di foto dei potamoi e, sempre più sogghignanti e perfide, cinguettarono in coro: «Oh, sì… si sta sicuramente divertendo.»







N.d.A.: in tutta onestà, non potevo far cambiare Zeus fino al punto di renderlo un fedele e casto compagno per Era. Non sarebbe più stato lui... ma almeno, adesso, le cose sembrano andare meglio anche per la dea consorte del Padre degli dèi, che dite?
Scopriamo anche che le visite di Eris si stanno facendo via via più frequenti e che, in qualche modo, la cosa ha a che fare con il suo oscuro passato. Cosa avrà voluto dire, la dea, parlando di occasione persa?
Naturalmente ve ne riparlerò, come tornerò a parlare di Apollo e Clizia che, a quanto pare, stanno uscendo spesso assieme ad Alekos e Acaste. Non vi lascerò digiuni di notizie, promesso.
Alla prossima!

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Capitolo 35
*** Eris - 1 - ***


 
Eris – 1 –
 
 
 
Millenni fa, Monte Olimpo
 
 
Gli strepiti furiosi di un bimbo appena nato riempivano l’aria incontaminata e pura dell’Olimpo e, mentre Zeus si trovava molto lontano dal luogo in cui la moglie Era aveva appena dato alla luce la sua figlioletta, un giovane Ares borbottava: «Ma deve fare proprio tutto questo chiasso?»

Un’egualmente giovane Athena replicò sorniona: «E’ una neonata. Cosa dovrebbe fare?»

«Tu sei nata già grande… perché lei no?» brontolò contrariato Ares, faticando a comprendere la situazione.

Athena lo fissò piena di biasimo e, nello scuotere il capo di riccioli biondo-ramati, esalò esasperata: «Perché io sono stata plasmata nella mente di nostro padre, sciocco, e lui mi ha creata così. Tu e tua sorella, invece, siete nati dal ventre della divina Era, perciò siete nati piccoli.»

«Io non sono piccolo!» sbottò furioso Ares, incendiando il suo viso di giovane uomo e fissando burbero la sorellastra.

Athena lo guardò con aria di superiorità e replicò serafica: «Oh, sì, sei davvero un giovane enorme… infatti il tuo cervello è inversamente proporzionale ai tuoi muscoli.»

«E questo che diavolo vorrebbe dire?!» sbraitò a quel punto Ares, divenendo paonazzo in volto, gli occhi chiari che lanciavano strali di rabbia.

La giovane Athena rise con aria deliberatamente derisoria e Ares, ligio ai suoi precetti, le saltò addosso per dargliene quattro.

Ben conoscendo il carattere bellicoso del fratello, Athena si scostò di un poco per evitarlo, allungò un piedino abbracciato da eleganti calzari dorati e Ares, non potendo evitare lo sgambetto, volò lungo riverso sul corridoio marmoreo.

Lagnandosi per la gran testata sul pavimento che, quel volo, produsse con gran fragore ed eco per tutto il tempio, Ares fissò poi furioso la schiena di Athena, già diretta verso le stanze di Era e ben decisa a incontrare la nuova nata.

«Aspetta, maledetta! Devo essere io, il primo a vederla!» esclamò il giovane, balzando in piedi e imprecando tra i denti per il senso di stordimento dovuto alla caduta.

Gli sembrava di essere ubriaco… e non era neppure passato da Dioniso per una bevuta!

La sorellastra rise divertita da sopra una spalla e, nello scostare i tendaggi che la separavano dalle stanze della divina Era, mormorò melliflua: «Mi spiace, è tardi… hai perso. Di nuovo.»

Con un ringhio che fece tremare le pareti dell’intero tempio, Ares si lanciò alla carica per raggiungerla e quasi divelse le tende di seta, per recuperare il terreno perduto.

Nel farlo, però, si trovò addosso le occhiate di rimprovero delle ancelle della madre che, con ampi gesti delle mani e ‘ssst’ bisbigliati con veemenza, lo riportarono a più miti consigli.

Per bella posta, Athena gli fece la linguaccia da sopra una spalla, lei già al fianco del letto di Era e in contemplazione della neonata.

Ares si trattenne a stento dall’ingiuriarla a male parole – non aveva voglia di assaggiare le ire della madre – e, con passo pesante, raggiunse il talamo per osservare la sorellina appena nata.

Questa, ancora strepitante, sembrava non tener conto dei tentativi della madre di chetarla e anche Athena, dopo un inziale divertimento, si ritrovò a fissare spiacente e turbata il pianto disperato della piccola.

I suoi tentativi di carezzarle il capo corvino non sortirono alcun effetto e Ares, a disagio di fronte a tutte quelle lacrime, borbottò: «Come fa ad avere tutto quel fiato? E’ piccolissima.»

Cominciando a irritarsi, Era passò la bambina urlante a una delle ancelle e, nel sollevarsi da letto con aria stizzita, disse: «Fatela smettere. Mi fa dolere le orecchie. Io, nel frattempo, mi cambierò le vesti. Vi do questo tempo, per chetarla.»

Ciò detto, se ne andò dalla stanza per raggiungere i bagni termali del tempio, gli sguardi dubbiosi di Ares e Athena a seguirla nel suo allontanamento frettoloso dalla neonata.

«Ma non dovrebbe…» tentennò Ares, lanciando occhiate intermittenti alla bambina in braccio a una delle ancelle, e al punto in cui era scomparsa la madre.

Athena scrollò le spalle, si volse a guardare la piccola in lacrime e mormorò: «Non so davvero, Ares.»

«Tu che non sai qualcosa?» la rimbeccò il giovane dio.

La sorellastra, però, non raccolse il suo tentativo di litigare nuovamente e, nell’avvicinarsi alla piccola, domandò: «La divina Era ha già deciso come chiamarla?»

«No, Vostra Grazia… non ci ha detto nulla, in merito» mormorò spiacente l’ancella, intenta a cullare l’inconsolabile bambina.

Grattandosi una guancia con espressione perplessa, Athena scrutò il fratellastro e gli domandò: «Tu come la chiameresti?»

«Io? Lo chiedi a me? E che ne so?!» gracchiò sgomento il giovane, impallidendo di fronte alla sua domanda.

Athena gli lanciò un’occhiata derisoria e, tamburellandosi il dito indice sul mento, borbottò: «Cosa succede se, al tuo nome, sostituisci le vocali con quelle che seguono?»

«Eh? Lo sai che non amo gli indovinelli, Athena!» sibilò Ares, contrariato. «Parla facile!»

«Ma dai… questo è semplice. Dopo la Alfa di Ares cosa viene, se compiti le vocali?»

«La Epsilon» sbuffò il giovane, accigliato ma disponibile a seguirla nel suo ragionamento.

«E dopo la Epsilon che compare nella seconda parte del tuo nome, cosa c’è?» lo invitò a proseguire la sorellastra, incitandolo con un gesto della mano.

«La Iota. Oh… Invece di Ares, Eris, dici?» esalò sorpreso il giovane, prima di sorridere con goffa soddisfazione. «Eris. Sì, mi piace. E’ da femmina, no?»

«Sì, è da femmina» assentì la giovane, cercando di dare un buffetto sulla guancia alla bimba. «Che dici? Ti piace Eris, come nome, piccolina?»

La neonata parve apprezzare, perché il pianto scemò un poco ma, prima ancora di poter sorridere per la soddisfazione, la voce gelida di Era si levò fiera e, sotto gli occhi turbati di Athena, la dea tornò nelle sue stanze e scostò di malagrazia la giovane divinità della guerra.

Fissandola poi con aria di sfida, dichiarò: «Non sono affari tuoi, come si chiamerà. E ora vattene. Questo non è posto per te.»

La giovane dea sapeva bene di non essere molto apprezzata dalla consorte del padre, ma aveva sperato che la nascita di una figlia avrebbe ammorbidito un poco Era.

Così, però, sembrava non essere avvenuto e in silenzio – non volendo fomentare la sua ira – si ritirò dalle sue stanze, passando a fianco di un mogio Ares, che le lanciò un’occhiata spiacente.

Era sempre stato così, tra i due giovani dèi. Finché erano loro a fomentare la lite o i reciproci bisticci, potevano anche tirarsi per i capelli e prendersi a pugni per ore, ma nessuno dei due sopportava che fossero altri, a rabberciarli.

Anche Ares, come lei, sapeva però bene quando tacere.

Mentre Athena si allontanava dal gineceo del tempio, sentì comunque dire ad Ares: «Il nome l’ho scelto io, madre. Possiamo darglielo? Mi piace.»

«E sia» convenne Era, la voce stanca e nervosa. «Ma non permetterti mai più di giocare per i corridoi del mio tempio con Athena, o anche solo di farle rivedere la bambina. Lei non fa parte della famiglia.»

«Ma…» tentennò il giovane dio, restio a tenere lontana la sorella e amica.

«Niente ma, Ares» sentenziò rigida Era, trasmettendo in quelle poche parole tutto il suo livore.

Athena sospirò, lasciandosi quindi alle spalle il tempio di Era e la rabbia della dea. Quando infine si ritrovò a scrutare il cielo ammantato di stelle, si trasmutò nella casa di Nyx per terminare in modo migliore quella giornata divenuta così triste e cupa. Lì, era sempre stata ben accetta e le piaceva passare le giornate in compagnia dei figli della Notte.

Riapparendo nell’enorme veranda della casa della Notte, dove i molti figli di Nyx dimoravano, Athena salutò con un cenno Hypnos che, nel vederla, le sorrise e le indicò di avvicinarsi a lui.

Accoccolatasi accanto all’amico, intento a scrutare un piccolo planisfero illuminato da miriadi di luci colorate gli domandò curiosa: «Sono i mortali?»

«Sì. Sono i miei sudditi devoti» ammiccò divertito il dio del sonno, sfiorando il planisfero con dita delicate. «Hai la faccia abbattuta… Era ha dato il meglio di sé, vero?»

La giovane scrollò le spalle e lasciò cadere l’argomento, preferendo ammirare la volta del cielo da quella prospettiva insolita – la casa di Nyx sembrava racchiudere l’universo intero e, al tempo stesso, non conteneva nulla – e, appoggiando il capo alla spalla di Hypnos, mormorò: «Puoi mandarmi un sogno bello e tranquillo?»

«Per te, amica mia, quel che vuoi» ammiccò il dio, chiamando poi con un fischio il fratello Morpheus. «Una richiesta speciale per la signorina. Cosa potresti offrirle, di leggiadro, piacevole e bello?»

Morpheus carezzò spiacente il capo di Athena e lei, per tutta risposta, gli sorrise grata.

Tra loro era sempre corso un buonissimo rapporto, e Athena considerava Nyx alla stregua di una madre.

Il dio dei sogni scosse il capo nel sedersi a sua volta accanto alla dea e, fissandola con occhi colmi di mestizia, mormorò: «Non mi piace quando ti trattano così, Atty, e lo sai. Dovresti trasferirti in pianta stabile da noi e vivere come nostra sorella. Noi ti tratteremmo bene.»

«Mi adottereste senza chiedere a vostra madre?» domandò curiosa la dea, prima di assottigliare le palpebre e aggiungere: «Di preciso, come mi avrebbero trattata, scusa?»

Lui ammiccò spiacente, scrollando le spalle e indicando un’ombra sul fondo della sala, che si rivelò essere Hermes.

«Oh,… il solito spione. Perché non sei entrato anche tu a vedere la piccola, piuttosto?» borbottò Athena, sollevando il capo per scrutare il fratellastro, nascosto all’ombra dei pilastri di sostegno della veranda.

«E prendermi le scontate reprimende di Era perché sono un bastardo di suo marito? Ma anche no. Comunque… anche tu sei stata sciocca. Perché impicciarsi del nome della bimba? Lo sai che Era se la prende anche soltanto se respiri, quando ha la luna storta» ironizzò Hermes, uscendo dall’ombra per poi accucciarsi a sua volta accanto a Hypnos, ancora impegnato nel suo ruolo di dio del sonno.

«Sembrava tranquilla, ultimamente… forse perché sapeva che avrebbe partorito una bambina» scrollò le spalle Athena. «Quando invece è nata, e la piccola continuava a piangere, lei si è spazientita… finendo con il cacciarmi. Perciò, che colpa ho io, scusa?»

Hermes la fissò pieno di malizia e replicò: «Sei così ingenua, nonostante il tuo intelletto… non lo sai che Era fa sempre il bello e il cattivo tempo, senza dare spiegazioni in merito?»

«Devo ricordarti che sei più piccolo di me, e mi devi rispetto?» sottolineò Athena, accigliandosi.

Hermes rise per tutta risposta, e asserì: «Ah, chiedo venia, sorella, ma era talmente scontato, che lei ti avrebbe scacciata a male parole! Ma dai! Darle persino un nome!»

«E’ stato Ares a darglielo!» sbottò Athena.

«Su tuo consiglio. Diversamente, quel tontolone non sarebbe mai arrivato a congegnare un simile pensiero» precisò Hermes, facendo sorridere Hypnos e Morpheus.

«Non vi ci mettete anche voi due…» brontolò Athena, prima di sospirare afflitta e aggiungere: «Volevo solo dare una mano. Rendermi partecipe. E’ così difficile da capire?»

«Per Era? Eccome! Considera che suo marito è chissà dove, probabilmente con una donzella, e intento a cornificare per l’ennesima volta la moglie. Pensi le piaccia trovarsi in giro per casa i frutti dell’amore fedifrago di suo marito, anche se tu sei nata dalla sua testa, e tecnicamente non hai una madre con cui lui ha cornificato Era?» le fece notare Hermes, tornando serio.

Athena non poté replicare e Morpheus, nel darle una pacca sulla spalla, domandò: «Hai ancora bisogno di me?»

«Vedi se riesci a far fare bei sogni a quella bimba. Piangeva così disperatamente che, forse, ha bisogno di una tregua» dichiarò a quel punto la dea.

L’oneiroi assentì alla sua richiesta e si dileguò dalla casa della madre, prima di riapparire alcuni istanti più tardi, gli occhi dilatati per lo shock e l’aria di uno cui fosse stato posto innanzi l’orrore più terribile e immaginabile.

I giovani dèi lo fissarono pieni di sgomento e Athena, poggiando una mano sulla spalla dell’oneiroi, domandò turbata: «Cos’è successo? Perché hai quest’espressione?»

«Perché sei già qui? Era ti ha scacciato?» domandò al tempo stesso Hermes.

Morpheus dissentì turbato, si passò una mano sul volto pallido e, nell’osservare Hypnos, domandò al fratello: «Non dorme, vero?»

Hypnos, che era rimasto in religioso silenzio fino a quell’istante, ammise: «C’è una forza che mi tiene lontano da lei, come se non volesse il mio intervento… cose volesse la sua sofferenza.»

«In che senso?» esalarono sia Hermes che Athena.

«La sua mente è così rabbuiata, così caotica che non riesco a mettermi in contatto con lei per chetarla e farla dormire. E’ come se dentro la sua testa vi fosse qualcuno che urla continuamente, costringendola a piangere» spiegò loro Hypnos, allargando con le mani la visione di ciò che aveva innanzi.

Le stelle che avevano rappresentato le creature viventi sul planisfero, si andarono via via allontanando, lasciando al loro posto alcune luci più brillanti, rappresentate dalle creature immortali.

«Questa è Era, chiaramente disturbata dalle urla della bambina… vedete come il suo spettro mentale è rosso cupo? Una divinità quieta dovrebbe essere colorata di rosa pallido» aggiunse Hypnos, indicando alcuni punti ben chiari sul planisfero. «Le luci più fioche sono le ancelle della dea e più evidente di tutti, perché di un amaranto così cupo da sembrare nero, c’è la piccola.»

«Eris…» sussurrò spiacente Athena.

«Perché soffre tanto?» domandò Hermes, turbato da quella colorazione così torva.

Accigliandosi, Hypnos si fece pensieroso e, dopo alcuni attimi di silenzio, mormorò a mezza voce: «Moros, io ti convoco. Accetta il mio invito, ti prego, fratello.»

Quel nome ancestrale fece rabbrividire sia Athena che Hermes e, quando un’onda di nero potere primigenio si addensò nella casa, le due divinità si strinsero vicendevolmente la mano per darsi coraggio.

Personificazione del destino avverso e ineluttabile, Moros fece la sua apparizione in uno scintillio oscuro e, attorno ai giovani, l’aria parve quasi prendere fuoco.

Avvolto nel suo nero mantello, Moros si avvicinò al fratello minore, lanciò uno sguardo assente al resto dei presenti e, atono, domandò: «Perché chiedi il mio intervento, Hypnos? Sai che non è accorto chiedere che io parli.»

«E’ tua la colpa delle sofferenze dell’infante?» domandò senza mezze misure il dio del sonno, sfidando con lo sguardo l’alto e imponente fratello.

Moros era una creatura naturalmente taciturna, rinchiusa il più delle volte negli antri più oscuri dell’universo e chiamato a parlare solo per rendere noto il Fato delle persone. La sua voce stentorea e profonda incuteva timore financo alle divinità, timorose di ricevere da lui tristi notizie sul loro futuro.

Fedele alle Moire, era l’unico a poter parlare del filo della vita di mortali e immortali, e sempre per mezzo di contorti indovinelli. Comprenderne quindi i messaggi non era mai semplice, né si era mai certi di aver compreso adeguatamente il suo dire.

«Sai bene che io sono solo un messaggero, fratellino, perciò non addossarmi colpe che non ho» replicò il dio incappucciato, con tono sardonico. «Quanto alla creatura nominata Eris, posso dirti questo; la di lei sorte è legata a quella di coloro che l’hanno preceduta, e le sue sofferenze hanno preso vita da sofferenze precedenti, in un ciclo continuo e senza fine, che bilancia ciò che verrà.»

«Se mettessi i sottotitoli, sarebbe meglio. Non ci ho capito niente» osò dire Hermes, ritrovandosi addosso gli occhi imperscrutabili di Moros.

Azzittendosi subito, Hermes abbracciò tremante Athena che, dopo averlo frizzato con lo sguardo per la stupidaggine appena detta, fissò a sua volta Moros e domandò: «Non c’è altro che puoi dirci su di lei?»

«Ella soffrirà e farà soffrire in egual misura, poiché è questo che ci si aspetterà da lei» dichiarò la divinità, atona e impersonale.

«Perché dovremmo aspettarci questo, da una divinità?»

«Perché il bene e il male esistono da prima che la luce e il buio nascessero, e qualcuno deve prendere su di sé il fardello di una parte, così come dell’altra» asserì laconico il dio.

«Il bene… e il male?» ripeté Morpheus. «Lei… rappresenta il male?»

«Sei superficiale nel comprendere, fratellino. Non questo ho detto, né questo significano le mie parole. E prima di irritare Atropo, mi concederò. Sentirla urlare è peggio che spiegare le cose a voi, sperando che le comprendiate al volo.»

Prima di poter sentire gli insulti di tutti i presenti, Moros svanì e Hypnos, nell’allontanare il planisfero con un gesto stizzito, borbottò: «Non fosse che mi fa una paura folle, gli avrei già dato un calcio nel sedere. E’ un vero stronzo, quando ci si mette.»

«Se fa paura a te, che sei suo fratello, cosa dovrei dire io?» piagnucolò Hermes, ancora stretto ad Athena al pari di una patella con lo scoglio.

La sorellastra cercò inutilmente di allontanarlo da sé così, decidendo di lasciar perdere, si limitò a carezzare le spalle tremanti di Hermes e, esasperata, borbottò: «Di sicuro, non ci ha facilitato la vita, con quelle parole. Che diamine volevano dire?»

«E chi lo sa? Ha detto che non dobbiamo prenderle alla lettera, in sostanza, ma di più non saprei dire» ammise Morpheus, scrollando impotente le spalle. «Una cosa è certa. Se Eris continuerà a piangere a quel modo, Era potrebbe anche gettarla dall’Olimpo come fece con Efesto.»

Athena si accigliò, a quelle parole, e borbottò determinata: «Beh, la salverei prima, poco ma sicuro.»
 
***

Zeus sgattaiolò tra le mura del suo tempio, già pronto a fingere l’ennesimo impegno gravoso con qualche re miceneo, quando si ritrovò a rischiare l’infarto per la paura.

La figura di Era si trovava allungata sulla sua ottomana preferita, mentre una creaturina urlante se ne adagiata in una culla, nel bel mezzo del suo enorme letto, quasi a voler gridare il suo peccato a gran voce.

«Ah, ehm… la bimba è nata, quindi? Ma è normale che pianga così? Non l’hai ancora allattata, per caso?» tentennò Zeus, cercando di portare subito altrove ogni suo pensiero.

Era, però, non si fece minimamente ingannare, forte ormai di troppe bugie sopportate, di tanti silenzi ingiustificati, di una miriade di bastardi a ricordarle il fallimento del suo matrimonio.

Lei, nume tutelare della famiglia, non riusciva a tenere in piedi la propria. Era davvero un ben misero scherzo del destino.

Levandosi imperiosa dall’ottomana per raggiungerlo – dopotutto, l’orgoglio le rimaneva, e glielo avrebbe gettato in faccia come uno schiaffo – lo afferrò per la tunica ed esclamò: «Ho avuto un travaglio di dodici ore! Dodici! E tu te la stavi spassando con qualche donnaccia, a giudicare dall’odore che hai ancora addosso! Neppure in un giorno così importante, sei stato al mio fianco!»

«Era, cerca di capirmi… non sapevo che sarebbe nata oggi… sono del tutto incolpevole. E poi, non ero con delle donne, ma vicino a delle donne, per essere precisi, perché ero a colloquio con il re di Micene, e quindi…» gorgogliò Zeus, raffazzonando una scusa tra capo e collo e scostandosi dalla moglie di un passo per evitare le sue unghie affilate.

La dea non lo ascoltò affatto, però, e urlò ancora più forte le sue rimostranze, mentre un sempre più irritato Zeus si giustificava con nuovi e più vari argomenti.

In quel caos crescente, il pianto di Eris andò scemando fino a trasformarsi in un ghigno furbo e soddisfatto. Fu solo in quel momento che la mano di Hypnos poté sfiorarla, e Morpheus portarle i sogni per chetarne temporaneamente la furia.

Ciò che però videro i due fratelli non parlò di una bambina pacificata, ma di una piccola, giovane dea dalla furia inusitata e perversa, nata da un’altra furia inusitata e perversa.
 
 
 
 
 
 
Dall’alfabeto greco antico: Alfa, Epsilon, Iota, Omicron, Ipsilon (che equivale alla U)

N.d.A.: qui inizia il percorso di Eris e, ve lo dico fin da subito, non si esaurirà con questa storia, ma proseguirà anche nelle prossime. (sto cominciando ad avvicinarmi alla fine di questo strano viaggio, vi avverto ^_^)
La bambina ha avuto una nascita travagliata, e le parole di Moros sono foriere di tempesta, che colpirà Eris e che al tempo stesso le permetterà di colpire gli altri. 
Ma ciò è indice di male, o c'è altro, come ha lasciato intendere Moros?

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Capitolo 36
*** Eris - 2 - ***


2.
 
 
 
Giardino delle Esperidi – Luglio 2018
 
 
Apollo riposava tranquillo sotto le fronde di un melo, un tiepido venticello a rinfrescargli il viso e il profumo dei fiori a solleticargli le narici.

Accanto a lui, intenta a intrecciare una ghirlanda di margherite, Clizia sorrideva pacifica, lo sguardo perso nel vuoto mentre le mani si muovevano meccanicamente tra i fiori.

Ormai non contava più gli appuntamenti che aveva condiviso con Apollo, ma il solo pensarci la rendeva felice.

Se le prime volte era stato difficile conciliare l’antica figura di Apollo con il nuovo dio del sole, più attento alle parole e ai gesti, si era poco a poco abituata al suo desiderio di conoscerla davvero, e non solo come un uomo conosce una donna.

A ben vedere, da quando avevano deciso di frequentarsi, non erano mai arrivati al dunque, dal punto di vista fisico. C’era stato qualche bacio, qualche atteggiamento intimo piuttosto inequivocabile, ma il dio non aveva mai voluto andare oltre.

Clizia lo aveva trovato strano ma, tutto sommato, anche appagante e, dopo mesi e mesi di quel lento conoscersi, ora era soddisfatta anche soltanto di guardarlo dormire. Davvero un bel cambiamento, da quando loro due non pensavano che a divertirsi in un letto.

Sorridendo suo malgrado di fronte alla superficialità con cui aveva vissuto quel loro primo rapporto, fatto di carnalità ma non di interconnessione tra le menti, Clizia si sentì baciata dalla fortuna, al pensiero di poter rimediare.

Apollo stesso si era detto grato di poter recuperare un rapporto a cui aveva tenuto molto, ma nel modo sbagliato e ora, almeno agli occhi di Clizia, sembrava essere soddisfatto e compiaciuto dalla loro relazione.

Lanciato uno sguardo in lontananza, dove Alekos e Acaste stavano discorrendo con Egle e Aretusa in merito alla coltivazione dei pomi d’oro di Era, Clizia si domandò cosa ne pensasse la sorella del giovane semidio.

Anche loro, ormai, si frequentavano da mesi, ma non le era sembrato che i due avessero maturato qualcosa di diverso da una bella amicizia. Non che la cosa fosse sbagliata, ma Clizia era curiosa di sapere se fosse la verità, o solo un abile metodo per tenere a bada Afrodite e le sue mire da ‘abito bianco’.

Il solo pensiero la fece ridere istintivamente e Apollo, ridestandosi dal suo sonno leggero, sorrise dubbioso e domandò: «Ho il moccolo al naso, per caso? Per questo ridi?»

Lei scosse il capo, ridendo ancora di più al solo pensiero di vedere il viso perfetto di Apollo macchiato da un indecoroso moccolo. La cosa l’avrebbe davvero fatta sbellicare.

Messosi a sedere, il dio si guardò intorno, chiedendosi cos’avesse destato in Clizia una simile ilarità ma, nulla vedendo di strano o curioso, tornò a domandarle lumi.

Clizia, allora, si limitò a dire: «Mi domandavo se Alekos e Acaste stiano in qualche modo nascondendo i loro reali sentimenti per non incuriosire Afrodite, o se davvero sono soltanto amici.»

Apollo ammiccò divertito a quel pensiero e ammise: «Ah, beh, conoscendo Afrodite, capisco bene che i due ragazzi vogliano tenerla alla larga. Quella birbante potrebbe organizzare un matrimonio tra capo e collo, e sedarli per far dire loro senza che se ne rendano conto.»

«Quindi, secondo te, si piacciono?» domandò Clizia, tergendosi una lacrima di ilarità.

Tornando serio, Apollo si lasciò andare a un sorriso dolce e chiosò: «Poco importa, io credo. Sono giovani e stanno bene insieme. Hanno tutto il tempo del mondo per scoprire se la loro amicizia fiorirà in qualcosa d’altro. Grazie al legame di Alekos e Athena, il ragazzo è immortale al pari nostro, perciò Acaste non dovrà mai temere di perderlo a causa della vecchiaia.»

Sfiorando il viso di Apollo con una carezza, Clizia mormorò dolente: «Sei preoccupato per Artemide, vero?»

«Credo, più o meno, di essere venuto a patti con la mortalità di Felipe e degli altri, ma a volte mi sveglio terrorizzato, e non so come Arty riesca a non essere altrettanto rosa dai dubbi» ammise lui, accettando la carezza e sorridendole di rimando. «Va detto che anche le figlie che ebbe con Endimione, sono mortali, perciò lei dovrebbe già essere preparata a quel che avverrà, ma…»

«… ma credi che ciò che la lega a Felipe sia qualcosa di così profondo e unico, da poterla spezzare» aggiunse Clizia, vedendolo annuire torvo.

L’oceanina gli sorrise comprensiva, replicando pensierosa: «Molte mie sorelle e diversi miei fratelli hanno vissuto quello stesso dolore, e posso dirti questo, Apollo; per quanto le lacrime scorrano a fiumi, se vi è stato reale amore, il ricordo diventerà dolce e stempererà pian piano il dolore. Non è un procedimento facile, o veloce, ma avviene. E tua sorella è una donna troppo forte e di carattere, per cedere allo sconforto. Inoltre, ha tutti noi accanto a lei, no?»

«Vero» assentì Apollo, pacificato dalle parole di Clizia. «Grazie, Clizia. Mi fa sempre bene parlarne con te.»

Lei sorrise deliziata, ammettendo con candore: «Prima, ridevo anche di questo, effettivamente. Siamo così cambiati, rispetto agli albori! Se penso alle volte in cui siamo rimasti in silenzio nel nostro talamo, perché non avevamo nulla da dirci dopo ore e ore di sesso. Solo adesso riesco a capire quanto vuoto fosse il nostro rapporto… e quanto preferisca quello di adesso.»

«Anche se mi sto comportando come un monaco?» ironizzò Apollo, sfiorandole una ciocca dei biondi capelli.

Clizia assentì, lasciò un bacio sul dorso della mano che le stava carezzando la chioma e mormorò: «Ti desidero, anche più di un tempo, ma è così bello starti accanto, parlare con te, confrontarmi con le tue opinioni, che l’aspetto carnale passa in secondo piano.»

Poi, ammiccando, aggiunse maliziosa e con un desiderio bramoso nello sguardo: «Beh, quasi sempre in secondo piano.»

Apollo assottigliò le palpebre e, nel far distendere Clizia sul prato, mormorò: «Mi rendo conto che lasciarti senza nutrimento fin quasi ad affamarti a questo modo, non è una bella cosa. Lascia che ti dia sollievo, mio bellissimo fiore1

Clizia rise dolcemente quando le labbra morbide e calde di Apollo sfiorarono le sue nel più ammaliante e malizioso dei baci e, mentre le sue mani ne avvolgevano il collo, quelle del dio le sfiorarono i fianchi in brevi, lente carezze.

Non seppe dire se Alekos e Acaste si fossero accorti di ciò che stava succedendo, ma non se ne curò. Le labbra di Apollo richiedevano tutta la sua attenzione.
 
***

Allontanandosi strategicamente dalla radura per oltrepassare il colle e rendersi così invisibili alla vista, Alekos sorrise tra sé al pensiero della richiesta giunta in tutta fretta dallo zio.

Si era sorpreso non poco dalle richieste sempre più frequenti di Apollo di uscire insieme a lui e Acaste ma, con il passare del tempo, ne aveva compreso i motivi.

Pur se la volontà dello zio di conoscere meglio Clizia era lodevole, la volontà altrettanto forte della carne era difficile da gestire, dopo millenni di cinico inasprimento di sé. Apollo aveva avuto necessità di avere una spalla a cui aggrapparsi per non venire meno ai suoi precetti, e Alekos era stato ben lieto di dargli una mano.

Inoltre, questo gli aveva dato la possibilità di conoscere a sua volta meglio Acaste, così come Clizia, che trovava assai adatta allo zio. Quanto ad Acaste, Alekos la trovava grandiosa e simpaticissima ma, al pari della ragazza, non era scattato il classico fuoco che, invece, vedeva chiaramente negli occhi di Apollo quando guardava Clizia.

«Sbaglio o questo cambiamento di rotta è stato pilotato da qualcuno?» ironizzò Acaste, mentre Egle e Aretusa sorridevano divertite, facendo di tutto per non guardarsi alle spalle.
Alekos ghignò furbo e fece spallucce, così l’oceanina chiosò birbante: «Ce ne è voluto, però! Pensavo che Apollo si sarebbe rinchiuso in un monastero, di questo passo.»

A quel punto, le due esperidi scoppiarono in una calda risata mentre Alekos, arrossendo suo malgrado, replicava: «Voleva solo concedere a entrambi del tempo.»

«Non ne dubito, Alekos, ma uno di questi giorni li avremmo visti entrambi sciogliersi di desiderio represso… ammettilo» ribatté lei con fare malizioso.

La dolce, tenera, apparentemente ingenua Acaste, si era dimostrata nel tempo assai furba e dall’occhio attento e, ogni volta, sapeva sorprendere Alekos con le sue uscite. Zio Felipe l’aveva definita diabolica al pari delle altre dee di loro conoscenza, e in fondo non aveva tutti i torti. Teti doveva averci messo lo zampino, rendendola più edotta di quanto, in un primo momento, Alekos stesso non avesse immaginato.

«Purtroppo è vero. Quei due avrebbero resistito ancora poco, però va anche detto che sono stati assai bravi a trattenersi dal gettarsi addosso l’un l’altra, senza prima badare ai pensieri reciproci. Non ti pare?»

«Ma certo. Ora sanno di poterlo fare conoscendosi davvero, il che è un traguardo non da poco, per una divinità, non è così?» sorrise Acaste, soddisfatta al pari di una maestrina con i suoi due allievi prediletti.

«Sentire due giovani che parlano di divinità come se fossero degli alunni indisciplinati e un po’ sciocchi, è davvero divertente» ammise Aretusa, avvolgendo con un braccio i fianchi del fratellastro. «Se penso a quanto eri giovane e timido, la prima volta che venisti a trovarci qui, Alekos! Sei davvero maturato molto anche tu!»

«E a me ha fatto piacere conoscervi tutte… è bello avere una famiglia così numerosa e amorevole» replicò Alekos, sorridendo alla ninfa prima di rendersi conto di una presenza estranea, ferma nell’ombra a poca distanza da loro.

L’attimo successivo, però, ne comprese l’entità e non si preoccupò, continuando la sua passeggiata assieme alle sue sorellastre e ad Acaste.

Non gli spiaceva che Eris fosse presente; avrebbe però preferito parlare con lei, invece di saperla sempre a distanza di sicurezza, ma veramente vicino a lui.
 
***

Seduti a gambe intrecciate sul bordo di una polla d’acqua, in attesa che Egle e Aretusa tornassero con le libagioni per il pranzo, Acaste sorrise enigmatica ad Alekos e domandò: «Eris è da queste parti, vero?»

Sorridendo ammirato all’amica, il giovane assentì e domandò: «Cosa mi ha tradito?»

«Sono brava a cogliere le espressioni facciali delle persone, e ormai riconosco molto bene le tue» ammise lei, con una scrollatina di spalle. «Hai sempre la stessa espressione felice e, al tempo stesso, preoccupata, quando avverti la presenza di Eris. Quel che mi sorprende è che solo tu sei in grado di avvertirla. Io non la sento affatto.»

«Non so esattamente spiegarti come funziona, ma credo che lei voglia che sappia che è nei paraggi ma, al tempo stesso, non vuole disturbarmi. Io, però, vorrei parlare con lei.»

Acuendo il suo sorriso, Acaste allora gli domandò: «Sai dirmi dove si trova? Più o meno.»

Alekos si concentrò sul sottile filo di potere che lo univa a Eris e, seguendolo fino a raggiungerla, sorrise debolmente e disse: «Poco distante da qui, nel bosco, nei pressi di un torrente sorgivo.»

L’oceanina assentì e, nello sfiorare l’acqua con una mano, si fece assente, quasi la sua anima non fosse più presente nel corpo. Alekos la sostenne gentilmente perché non cadesse – non era certo che non potesse succedere – mentre Acaste, trasmutata in parte in acqua, andò alla ricerca di Eris.

Era ormai da tempo che la dea li seguiva a distanza di sicurezza, e credeva fosse giunto il momento in cui si palesasse una volta per tutte. Alekos ne aveva percepito la presenza ogni volta, e aveva desiderato parlare con lei in ogni occasione.

Chissà che, cogliendola di sorpresa, non accettasse un invito formale e smettesse di nascondersi nell’ombra.

Già pronta a un rimbrotto, così come a frasi ben più volgari di un semplice ‘vai al diavolo’ – trattandosi di Eris, Acaste era più o meno propensa a pensare qualsiasi cosa – l’oceanina la colse alle spalle con la sua seconda forma liquida e, balzando dal torrente, esclamò: «Eccoti, finalmente!»

Eris si volse nervosa, le mani pallide arricciate ad artiglio e lo sguardo rabbioso avvolto da una nuvola di capelli neri. Furente con se stessa per essere stata colta in flagrante, balzò all’indietro esclamando: «Tu! Perché diavolo non sei con Alekos! Devi stare con lui! Torna immediatamente nel tuo corpo, E RESTACI!»

Vagamente perplessa di fronte all’ansia trasudante da quelle parole apparentemente furenti, Acaste avanzò di un passo nonostante la postura difensiva di Eris e aggiunse: «Alekos è ormai un uomo, e non ha bisogno di compagnia in ogni attimo della sua giornata.»

Falciando l’aria con un braccio, Eris la tenne a distanza e sibilò: «Tu servi alla sua luce, perciò torna! TORNA!»

«La sua…luce?» esalò confusa Acaste, bloccando il suo incedere.

L’oceanina scrutò il volto pallido della dea con espressione più che mai incerta e, per un attimo, desiderò scostarle i capelli per essere certa di comprendere bene la sua espressione.

Quell’ammasso scomposto e corvino di capelli ne confondeva i tratti, rendendole difficile capire i suoi reali sentimenti, ma gli occhi – di un grigio così chiaro da sembrare bianco – parlavano di odio e, al tempo stesso, di paura.

Ma paura di cosa, alla fine?

«Vattene…» ringhiò a quel punto Eris, falciando l’aria ma stando ben attenta a non toccarla. «VATTENE

Acaste non si lasciò intimidire – sua madre Teti le aveva spesso detto che pensieri e parole non sempre collimavano, e quello sembrava il tipico esempio – così, avanzando ancora di un passo, replicò: «Non andrò… se non assieme a te.»

Ciò detto, le sorrise contrita e, sussurrando un ‘mi spiace’, allungò il suo braccio acquatico per afferrarla a un polso e, grazie a quel contatto, la forzò a una trasmutazione per portarla via con sé.

Eris non poté liberarsi da quella gabbia – Acaste, dopotutto, era figlia di due titani, e il suo potere era antecedente a quello di Era e Zeus – e, suo malgrado, dovette seguirla.

Sotto gli occhi attenti di Alekos, quindi, Acaste riprese il controllo del proprio corpo mentre una smarrita quanto furiosa Eris cadeva a terra, a pochi passi da loro.

Carponi e quasi senza fiato, la dea fissò quindi con livore la giovane oceanina mentre riprendeva coscienza e, furiosa, esclamò: «Tu, maledetta! Adesso te la faccio pagare!»

Prima ancora di potersi avvicinare, però, Alekos intrecciò il suo sguardo con Eris e, sorridendole, levò una mano per dire: «Non avercela con lei. Un po’ è anche colpa mia, che volevo conoscerti. Acaste mi ha solo accontentato.»

Bloccandosi a metà di un passo, Eris distolse in fretta lo sguardo e, in un borbottio sommesso, mormorò: «Non avresti dovuto volere questo.»

«E perché mai? Sei l’unica della famiglia che non ho ancora conosciuto» replicò Alekos, scrutando per un istante Acaste per rendersi conto se stesse o meno bene.

A un assenso dell’oceanina, il giovane tornò a volgersi verso Eris e aggiunse: «Sai, ho conosciuto tuo figlio Horkos. Era con le Erinni, poco tempo fa, e stavano componendo un nuovo brano da proporre ad Ade. Suona il basso in modo strepitoso.»

Se mai possibile, Eris impallidì più di quanto già non fosse e, contrariamente a qualsiasi sua precedente azione, afferrò Alekos per le braccia ed esclamò: «Tu non devi avvicinarti alla mia progenie! Mai! Ti insozzerebbe!»

Ciò detto, forse rendendosi conto del suo gesto, si allontanò scandalizzata, forse pronta a fuggire, ma Alekos glielo impedì, asserendo atono: «Hai detto una sciocchezza.»

Acaste lo fissò preoccupata, forse non aspettandosi una frase simile enunciata proprio dall’amico, ma Alekos scosse il capo nella sua direzione e, dopo un attimo di indecisione, aggiunse: «Non desidero offenderti, Eris, ma denigrare se stessi o i propri figli, è da sciocchi. Non hai nessun motivo per vergognarti di loro, o di te, se è per questo.»

La dea, immobile fin dal momento in cui lui aveva proferito parola per smentirla, si volse lentamente verso il giovane, lo squadrò con i suoi occhi chiari e mormorò livida: «Non conosci abbastanza nessuno di noi, per dire questo. Il tuo dono è troppo puro, perché una stirpe avariata come la mia insozzi anche la tua sola ombra.»

«Stirpe… avariata?» esalò Acaste, percependo nella dea la sua strenua convinzione di essere imperfetta, impura… inadatta anche soltanto a parlare con Alekos.

La dea fissò rovente l’oceanina e, snudando i denti per l’ira, aggiunse: «Come altro vorresti chiamare una stirpe come la mia, nata da un odio e un risentimento cocenti?!»

A quelle parole, l’oceanina impallidì leggermente ed Eris, cogliendo la palla al balzo, svanì loro innanzi, lasciando dietro di sé solo il profumo amaro delle sue parole.

Alekos e Acaste si fissarono vicendevolmente turbati e quest’ultima, con un sospiro, mormorò spiacente: «Credo di averla fatta infuriare.»

Il giovane, però, scosse il capo e replicò: «Non è colpa tua. Eris è molto amareggiata e crede di meritare solo dolore.»

«Ma perché? Hai ben visto, no? Pur se era furente con me, non ha minimamente tentato di colpirmi» sottolineò Acaste, scuotendo il capo per la confusione.

«Credimi, scoprirò perché crede di essere una persona malvagia» dichiarò Alekos, prendendola per mano. «Credo sia venuto il momento di scambiare quattro parole con i vari fratelli di Eris, e capire cosa ne sanno loro.»

«Beh, allora avremo il nostro daffare…» chiosò Acaste prima di domandargli: «Con Egle e Aretusa, come ci regoliamo?»

Alekos si rammentò solo in quell’istante delle due sorellastre e, battendosi una mano sulla fronte, esalò: «Accidenti! Okay, facciamolo dopo la loro merenda. Non vorrei mai offenderle.»

Acaste gli sorrise dolcemente, mormorando: «Sei proprio un bravo ragazzo, Alekos.»

Lui arrossì un poco, borbottando per contro: «Non fare come mia madre, per favore.»

Lei si limitò a ridacchiare impertinente, e ad Alekos non rimase altro che ignorarla. Replicare non sarebbe servito a niente, quindi tanto valeva non dire altro.
 
***

«Eris?» mormorò dubbioso Apollo, sbocconcellando una fetta di mela dal grande vassoio che Aretusa aveva poggiato su una tovaglia da pic-nic.

Dopo aver lanciato un messaggio mentale allo zio – stando ben attendo a non captare ciò che stava facendo – Alekos aveva dato una mano alle sorellastre ad allestire un pranzo sul prato. Acaste, nel frattempo, era corsa alla sorgente per riempire alcune brocche d’acqua, a cui aveva aggiunto qualche goccia dei succosi limoni che crescevano nel giardino, per renderla più buona.

Quando infine Apollo e Clizia li avevano raggiunti, i due erano apparsi sicuramente rilassati ma, a sorpresa, nessuno aveva mostrato segni evidenti di un rapporto focoso.

O erano stati molto bravi a non sgualcire gli abiti, o alla fine Apollo e Clizia si erano limitati a farsi le coccole.

Alekos aveva preferito non chiedere, e Acaste si era ben guardata dal fare domande alla sorella. Le Esperidi, semplicemente, avevano fatto finta di nulla, come se il momentaneo tête-à-tête di Apollo e Clizia non fosse mai avvenuto.

Annuendo di fronte allo sguardo interrogativo dello zio, Alekos attese suoi lumi in merito e la divinità, dopo essersi sistemata meglio sul prato, ammise: «Beh, forse sono il meno adatto a parlartene, visto che io e Arty nascemmo nove mesi dopo di lei.»

«Oh» esalò Alekos, reclinando spiacente il capo. «Quindi, il nonno era…»

«Già. A spassarsela con mia madre, mentre Era aveva le doglie» ammise con tono fiacco Apollo. «Perché mi chiedi di lei?»

«Vorrei sapere qualcosa di più sulla sua storia. E’ l’unica, tra di voi, con cui non ho mai parlato, e così…» tentennò Alekos, non sapendo bene quanto dire.

Grattandosi una guancia, meditabondo, Apollo replicò: «C’è ben poco da dire. Ha un caratteraccio al pari di Ares, e ama mettere zizzania tra le persone, quasi che vederle litigare sia una panacea, per lei.»

Acaste strinse spiacente la mano di Alekos, ben immaginando la sua frustrazione di fronte alla scarna risposta dello zio. Il giovane, però, non si diede per vinto e rivolse la sua attenzione alle sorellastre, domandando loro lumi sul pomo della discordia.

Aretusa sospirò spiacente e ammise: «Sì, lo colse da una delle nostre piante e convinse Era, tua madre e Afrodite a scendere in competizione per averlo. La cosa sciocca fu che quelle tre accettarono. Come se la bellezza fosse unica e ben definita da regole, e non nel cuore delle persone, e perciò unica e fine a se stessa.»

Egle sorrise nell’annuire e Alekos, subodorando qualcosa, domandò dubbioso: «Cosa combinarono?»

«Per prima cosa, chiesero a Zeus di dirimere la questione, ma lui ovviamente si defilò alla svelta per rifilare all’ignaro Paride la scelta. Costui scelse Afrodite, come ben tutti sappiamo, ma il mito non parla d’altro, in merito alla reazione delle dee. Non dice cosa successe dopo che Afrodite ebbe ottenuto in dono il pomo» ammiccò Egle al fratellastro.

Alekos sospirò e disse sconsolato: «Sto già temendo il peggio, ma dimmi pure.»

«Se tra i mortali si scatenò una guerra a seguito del ratto di Elena, che portò gli dèi a parteggiare per l’una o l’altra fazione, sull’Olimpo si formò un vero e proprio putiferio per una cosa ben più futile. Afrodite tentò di fondere la mela per farne dei gioielli… ma il pomo non cambiò mai forma» ammise Egle. «Ella tentò di tutto, si rivolse persino all’ex marito Efesto pur di avere la meglio sul pomo, ma nulla valse allo scopo. Così, Athena ed Era la presero in giro per i suoi goffi tentativi di ottenere nuovi gioielli e… beh…»

Alekos si passò una mano sul viso e borbottò: «Ad Afrodite non piacciono gli sberleffi.»

«Esatto. Inoltre, il fatto di vedere Athena ed Era coalizzate contro di lei, la fece andare fuori di matto, così ella scatenò Deimos e Phobos perché colpissero le due dee, ma i figli si guardarono bene dal muovere contro simili divinità e defilarono per bella posta, nascondendosi nell’Oltretomba» disse Aretusa, sorridendo divertita.

«Oh, cielo…» esalò Alekos, mentre il resto dei presenti stentava a non ridere.

Scrollando le spalle, Aretusa concluse dicendo: «Non volendo tenere un semplice pomo come ornamento per il suo tempio, Afrodite finì col gettarlo dall’Olimpo e, che io sappia, adesso è in una casa di qualche ricco collezionista di oggetti rari, del tutto ignaro di avere per sé l’unico, originale, pomo della discordia. Deimos e Phobos, ovviamente, dovettero passare duecento anni nella casa di Ade, prima di poter rimettere piede nel tempio di mammina.»

«Si comportavano come bambine capricciose» chiosò derisorio Apollo, guadagnandosi una gomitata nel fianco da Clizia. «Ahia!»

«Parla per te, visto che cambiavi amanti al pari di tuo padre» sottolineò lei, ammiccando maliziosa.

«Beh, non è la stessa cosa, però…» borbottò a quel punto il dio solare, arrossendo suo malgrado.

Clizia acuì lo sguardo per puntarlo contro di lui, e ad Apollo non restò altro che tacere.

Alekos, da parte sua, rise sommessamente e celiò: «Beh, per lo meno so che si sono divertite, a un certo punto.»

«Di sicuro, quella sfida le mise alla prova… e loro fallirono miseramente, dimostrando quanto superficiali fossero all’epoca» motteggiò Egle, senza malizia alcuna.

Alekos assentì, chiosando: «Saprò come prendere in giro mia madre, grazie a questa storia. Grazie, sorelle.»

«Di nulla, Alekos» replicarono in coro le Esperidi, sorridendo complici.

«Ora, però, vorrei chiedere ai diretti interessati» dichiarò a sorpresa Alekos, facendo rizzare in piedi Apollo, già in ansia.

«No, aspetta, Alekos! Non devi…»

Lui non attese di farlo terminare. Domandò mentalmente a Era di poter essere convocato e, grazie ai poteri della dea, scomparve dal giardino delle Esperidi per giungere direttamente sull’Olimpo, di fronte al tempio di sua nonna putativa.

Osservando irritato la nuvoletta scintillante in cui era sparito Alekos, Apollo sbottò dicendo: «Si caccerà nei guai, a ficcare così il naso in questo modo. Adesso vado a riprenderlo, prima che combini un disastro.»

Acaste, però, lo afferrò a un braccio e replicò dolente: «No, per favore, Apollo. Lascialo fare. Alekos tiene molto a conoscere la verità su Eris.»

«Ma perché? Cos’hanno, in comune, loro due?» volle sapere a quel punto Apollo.

«Te lo dovrà dire Alekos, se lo vorrà. Io voglio difendere i suoi passi, però, e a questo precetto mi atterrò» dichiarò lapidaria Acaste.

Apollo la fissò stranito per alcuni istanti, si volse a scrutare la sorella e infine disse: «Voi oceanine avete la testa dura, quando volete.»

«Abbastanza» ammise Clizia, prima di chiedere mentalmente alla sorella: “Sei sicura che Alekos non si caccerà davvero nei guai? Gli sono affezionata, e non voglio che soffra.”

“E’ una cosa che vuole risolvere, e io mi impegnerò con tutta me stessa per aiutarlo.”

“Lo fai per amor suo?”

Acaste le sorrise, replicando con semplicità: “Alekos e io siamo amici. Mi spiace per Afrodite, ma non potrà preparare il nostro matrimonio. Però, potrà divertirsi con te e Apollo, vero?”

Clizia arrossì come un gambero e si allontanò dalla mente della sorella che, soddisfatta, lanciò uno sguardo verso il cielo sgombro di nubi e pregò che andasse tutto bene.

Anche lei non voleva che Alekos soffrisse, ma non voleva neppure negargli la verità. Sapeva che ne aveva bisogno, ormai.

 

 
 
 
 
1: la frase di Apollo non è solo un complimento a Clizia. E’ anche un riferimento al mito, che vede Clizia mutare in un girasole per seguire per sempre il sorgere e il calare del sole, così da poter vedere il suo adorato Apollo, da cui era stata ripudiata (i motivi li ho spiegati nella storia di Apollo).



N.d.A.: Riuscirà Alekos a scoprire tutti i segreti di Eris? Ma, soprattutto, perché è spinto a scoprire la verità su di lei?


 

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Capitolo 37
*** Eris - 3 - ***


 
 
3.
 
 
 

 
Pur se non aveva alcun legame con Era, fin da bambino Alekos l’aveva sempre chiamata nonna e, nonostante le perplessità di tutti, lei aveva sempre accettato volentieri l’epiteto.

Per quanto Era non fosse mai andata particolarmente d’accordo con Athena, la dea del focolare aveva invece amato molto il suo figliolo semidio.

Fin dai tempi dell’Oltretomba, Era non gli aveva mai fatto mancare il suo affetto. Nel crescere, quella colloquialità era rimasta e, ancora adesso, Alekos vedeva in Era una nonna premurosa, così come la vedeva in Anita, la madre di Miguel.

La dea, che in quel momento stava tenendo in braccio Buffy, salutò Alekos al suo arrivo e, nell’invitarlo a entrare nel tempio, disse a mo’ di spiegazione: «Oggi ho Buffy, mentre sua sorella Xena è da Efesto. Pare che queste due pesti abbiano litigato così tanto da far decidere ai genitori di tenerle momentaneamente lontane.»

Sorpreso, Alekos guardò la cuginetta in viso – visibilmente segnata da un graffio sotto allo zigomo – e domandò curioso: «Ma cos’avete combinato, voi due?»

«Xena mi ha rotto il pony di legno, così io le ho rotto lo scudo, e allora lei mi ha rotto…» borbottò la bambina, compitando sulle sue piccole dita la serie sempre più lunga di oggetti distrutti dai loro atti vendicativi.

Cominciando a impensierirsi quando la lista superò le venti unità, Alekos la interruppe con un sorriso nervoso e le chiese: «Immagino che abbiate dato letteralmente in escandescenze. Per questo siete qui, e non a casa, vero?»

«Mamma ha detto che da nonna Anita avremmo potuto far danni molto seri, così mi ha portato qui da nonna Era, mentre quella schif…»

Era tappò preventivamente la bocca alla nipotina putativa, ammonendola poi con lo sguardo a non proseguire e la bimba, nonostante tutto, si azzittì, mettendo il broncio.

«Okay, ho più o meno capito» sospirò Alekos, scuotendo il capo e carezzando il viso tumefatto della bambina. «Ti fa molto male, piccolina?»

Lei scosse il capo, orgogliosa ma, nemmeno un minuto dopo, scoppiò in lacrime e si allungò per essere presa in braccio dal cugino, che la accolse volentieri accanto a sé.

Cullandola gentilmente mentre il pianto purificatore di Buffy proseguiva senza sosta, Alekos ascoltò le proteste della bimba, condite però anche di scuse alla sorella, a cui aveva strappato una ciocca di capelli.

Era osservò l’intera scena con un sorriso sul volto e, quando infine Buffy fu abbastanza stanca da collassare, la dea chiamò una delle sue ancelle perché la mettesse a dormire.

Non appena la vide andare via, sorrise quindi al nipote acquisito e dichiarò: «Solo tu riesci a dirimere le contese con così tanta facilità. Il tuo dono è davvero superbo.»

Alekos infilò le mani nelle tasche posteriori dei jeans, come sempre in imbarazzo di fronte ai complimenti tributatigli e, sorridendo a mezzo, replicò: «Mi viene spontaneo farlo.»

«Dai voce alle tue qualità più intime» gli spiegò la dea, invitandolo a passeggiare nel suo giardino privato. «Zeus mi ha detto che, secondo lui, il dono ti viene direttamente da tuo padre e che, tramite il sangue divino di tua madre, ha preso corpo concretamente.»

Vagamente sorpreso da quell’accenno, Alekos domandò cauto, pur se speranzoso: «Ma… tu e nonno… va tutto bene?»

Era sorrise mesta e rassegnata e, nell’indicare un gazebo circondato di rose, invitò il nipote acquisito a sedersi con lei sulla panchina in ferro battuto che vi aveva fatto sistemare.

Circondati dal profumo dei fiori e il cinguettio degli uccelli, la dea ammise: «Mi sono crogiolata per secoli, millenni, nell’illusione che lui, prima o poi, sarebbe cambiato e, nel frattempo, ho patito pene inenarrabili e le ho fatte patire a chi mi stava vicino. Zeus, semplicemente, è così. O lo tengo per quello che è, oppure dovremo inscenare una seconda guerra titanica, con quello che ne verrebbe in conseguenza.»

«Ma non ti senti presa in giro, così?» le domandò turbato il giovane.

«Un po’, ma anche chiedendo a Lachesi, ho avuto conferma del fatto che, con questioni come il Fato, non si può mettere il becco, e lui è e sarà sempre così» scrollò le spalle la dea. «Ci sono cose che vanno oltre la nostra comprensione, e che non vengono decise da noi, che pure siamo divinità.»

«Quindi…»

«Non mi chiedo più con chi lui sia. Lascio perdere. Mi diverto per conto mio, con chi desidero e, così facendo, riusciamo a parlarci come due persone civili. Non sarà il massimo, ma è meglio che prenderci per i capelli o lanciarci strali come facevamo in passato» gli spiegò lei, sorridendo suo malgrado alla sorte spettatale.

Alekos assentì spiacente, avendo sperato in un finale del tutto diverso, per loro. Aveva segretamente sperato – e pregato – che tra i due nonni vi potesse essere un’intesa di qualche tipo… ma non aveva pensato di certo a quello.

Se a Era stava bene, però, poteva anche accontentarsi. Per il momento.

Vedendolo dubbioso quanto pensieroso, Era gli venne incontro e, sorridendogli, domandò: «Cosa ti porta qui? Non che non mi facciano piacere le tue richieste di essere convocato, ma vedo che qualcosa ti rode il fegato, e sembra che tu non voglia parlarmene per qualche motivo che non comprendo.»

«Ho paura di ferirti, chiedendo, e davvero non vorrei» ammise il giovane, fissandola pieno di contrizione.

Era allora gli sorrise, carezzò gli scuri capelli del giovane quasi egli fosse ancora un bambino e infine disse: «Nessuno potrà mai farmi male come me lo fece Zeus, perciò parla.»

«Ho bisogno di sapere di Eris» mormorò allora Alekos, in un soffio.

Sinceramente sorpresa, Era esalò: «E perché mai, scusa?»

Alekos si strinse una mano al petto, arruffando la maglietta che indossava e, con sincero dolore, ammise: «La sento. Sento quando è vicina, e sono lieto che ci sia, perché sembra che la mia vicinanza mitighi il dolore che la divora, ma al tempo stesso mi fa male pensare che lei non voglia parlare con me.»

Era sospirò, annuendo debolmente, e ammise: «Quella ragazza è sempre stata un problema, fin dalla nascita. Temo, tra le altre cose, che sia colpa mia e di Zeus, se il suo lato più oscuro ha predominato su quello buono.»

«Cosa vuoi dire, nonna?» esalò confuso Alekos.

Lei gli sorrise tristemente, mormorando: «Come abbiamo ipotizzato che tuo padre ti abbia passato il dono che tu ora usi per portare armonia, così io e Zeus possiamo aver incanalato in lei tutto il nostro livore, il nostro odio, la nostra frustrazione, generando in lei ciò che poi ha distribuito intorno a sé nel corso dei millenni. I suoi figli ne hanno rispecchiato i malumori e ora esiste solo una creatura ferita, che odia tutto e tutti. Così, per lo meno, io mi spiego il suo carattere.»

«Non odia tutti. Non me» sottolineò Alekos, sicuro di sé.

«Tu dici che la tua presenza la rende quieta? Può essere… ma finirà con il ferire anche te, ragazzo mio, come ha fatto con tutti, oltre che con se stessa» lo mise in guardia Era, senza malanimo alcuno nella voce. Semplicemente, esprimeva un dato di fatto.

Per nulla scoraggiato, Alekos replicò: «Se è vero che Eris è il frutto dei vostri recessi più oscuri, mentre io sono il frutto della parte migliore dei miei genitori, credo possa esistere una speranza, per lei. Non potrei semplicemente usare il mio potere su di lei?»

«Caro, è encomiabile da parte tua pensarlo, ma si parla di millenni di malvagità e di sotterfugi, non di pochi attimi» sottolineò la dea.

Alekos assentì torvo, a quelle parole e, reclinando il viso, fissò i suoi pugni stretti sui jeans, chiaro segno della sua frustrazione. Era mai possibile che non potesse fare niente per chetare i dolenti pensieri di Eris?
 
***

Come aveva potuto farsi giocare a quel modo da un’oceanina? Come aveva potuto essere così sciocca e incauta?!

Torcendosi le mani per il nervosismo e la rabbia, Eris scagliò contro il muro una coppa brunita che, tintinnando, cadde poi a terra producendo echi sinistri nel suo piccolo tempio, sperduto in un angolo dell’Olimpo.

Nessuno l’aveva voluta come vicina di casa, perciò lei si era ritagliata un posticino su uno spuntone di roccia, lontana da tutto e da tutti, e lì si era rinchiusa a meditar vendetta.

Nel corso dei secoli era riuscita a prendersi qualche soddisfazione e, anche grazie ai suoi figli, aveva altresì sorriso qualche volta, di fronte ai loro successi ma, come spesso avviene, in mezzo a tante, una mela marcia compare sempre.

Sua figlia Ate aveva fatto il passo più lungo della gamba, non le aveva dato ascolto e si era fatta cacciare per sempre dall’Olimpo. Da quel giorno, la figlia non aveva più voluto parlarle, accusandola di non averla difesa a sufficienza dalle accuse di Zeus.

Non che Eris fosse mai stata una madre protettiva o calorosa, ma l’aveva ferita sentir parlare Ate a quel modo; dopotutto, lei le aveva pur detto di non sfidare il sommo Zeus. Ate, però, non aveva voluto ascoltarla, si era messa nelle mani di nonna Era per farla contenta – come se si aspettasse di essere poi amata dalla nonna, per questo – e quello era stato il risultato.

Disgustata da entrambi i nonni, Ate aveva ben volentieri accettato il divieto a tornare sull’Olimpo e, da quel giorno, aveva fatto impazzire gli uomini con i suoi sussurri e le sue minacce.

A lei non era rimasto altro che veder allontanarsi un altro pezzo di sé, e sempre a causa dei suoi genitori e del loro modo egoistico di trattare le persone.

Una seconda coppa seguì la prima e, subito dopo, un grido di rabbia e frustrazione echeggiò nel tempio mentre, stanca e provata, crollava a terra in lacrime.

Non avrebbe mai dovuto avvicinarsi tanto ad Alekos, rischiando di rovinare a quel modo quel giovane perfetto e dal futuro luminoso e puro.

Ma era stato più forte di lei e, pur avendo tentato in tutti i modi possibili di evitarlo, aveva voluto sentire su di sé il tocco del suo potere, la dolce brezza della sua pace che, invero, riusciva a scacciare i suoi pensieri folli.

Tergendosi il viso come se non avesse più forze anche solo per manifestare la propria rabbia, Eris si lasciò scivolare a terra e, in un pianto silenzioso, sfogò così frustrazione e dolore.

Fu in quella posa davvero inusuale che la trovò Ares, ancora stesa a terra, in lacrime e stremata.

Sorpreso da quel cedimento davvero inconsueto, che nella sorella non aveva mai visto in tanti millenni, Ares la avvicinò cauto e, sollevandola da terra, la trovò inerme tra le sue braccia, del tutto cedevole e fiacca.

«Ma cosa ti è successo?»

«Uccidimi, fratello, ti prego…» mormorò Eris, sentendosi male al solo pensiero di chiedere aiuto, ma non sapendo in che altro modo proteggere Alekos da lei.

Sgranando gli occhi per lo sgomento, Ares la sollevò con facilità da terra e, in tutta fretta, la condusse nelle sue stanze, borbottando contrariato: «Ma che scemenze stai dicendo?! Non ci penso minimamente! A parte che non saprei neanche fisicamente come fare, e poi abbiamo già rischiato il botto con Hermes, …figurarsi se permetterei a te di fare una follia simile. Manderesti il mondo in rovina.»

«Non mi importa del mondo! Mi importa di Alekos!» esclamò con una scintilla di forza residua la dea, sgomentando ulteriormente il fratello.

Accigliandosi al solo sentir nominare il nipote, lui ringhiò: «Che intendi dire? Cosa gli hai fatto?!»

Eris, a quel punto, crollò a sorpresa contro l’ampio torace del fratello e, tra le lacrime, raccontò del suo primo incontro con Alekos e delle parole piene di speranza e di rimprovero insieme del giovane.

Ares ascoltò in silenzio per tutto il tempo e, dopo averla depositata sul suo letto, prese una pezzuola e un catino d’acqua e lavò via le lacrime dal volto della sorella, guardandola poi con espressione burbera.

«Mi hai fatto venire un colpo, Eris. Pensavo gli avessi fatto del male, mentre invece vi siete solo parlati. Che vuoi che sia?» scrollò le spalle il dio, non più così irritato.

Lei fece tanto d’occhi, a quelle parole, e replicò furiosa: «Che vuoi che sia?! Io sono dannata, fratello, e non ho il diritto di parlare con una creatura pura come lui! Tantomeno di toccarlo!»

Ares sbuffò per tutta risposta e, gettata la pezzuola nel catino, replicò serafico: «Dici un mucchio di scemenze. Non sei dannata, e Alekos non è un angelo dei cristiani, o un kami giapponese. E’ fatto di carne e sangue, come me e te.»

Eris lo fissò stranita, battendo le palpebre ora asciutte e Ares, tossicchiando imbarazzato, borbottò: «Non ti venisse in mente di dire che mi hai sentito citare una cosa simile, o giuro che ci farò un pensierino, sull’ammazzarti.»

«Hai… studiato gli altri culti?» esalò Eris, ormai più sorpresa che rattristata.

«Beh, che c’è? Bisogna conoscere il proprio nemico, no?!» sbottò Ares, sulle sue.

Lei ristette zitta a fissarlo e Ares, tossicchiando più volte per l’imbarazzo di essere stato scoperto, riprese a parlare con tono burbero, dicendo: «Se Alekos vuole parlarti, e Athena dice che va bene, che problemi devi farti? Neanch’io sono uno stinco di santo, sai? Ho versato più sangue di te, sorella, e con gran diletto, credimi. Ma non mi pento di nulla. Io sono così, eppure so provare amore per la mia Afrodite…»

«E’ lussuria» sottolineò Eris.

«Fammi finire!» sbottò il fratello. «Dicevo, …posso provare amore per la mia Afrodite, per le mie sorelle e fratelli, e per Alekos, pur avendo fomentato guerre e dispute per millenni. Una cosa non esclude l’altra, perché è nella nostra natura

Stringendo le mani sulla sua nera veste, Eris reclinò colpevole il capo e mormorò: «Non dovresti neppure tentare di consolarmi. Anche tu dovresti odiarmi, come tutti gli altri.»

«E perché mai, scusa?» gracchiò il fratello, ora confuso.

«Pentesilea. Tua figlia» mormorò Eris. «Fui io a forgiare l’arma che usò durante la Guerra di Troia, pensando di esserne in grado, ma non la salvò dalla morte. Dal disonore.»

Sorridendo a mezzo, Ares le risollevò il viso pallido poggiando un dito sotto il suo mento e, tranquillo, disse: «Fu Pentesilea a scegliere di partecipare, alleandosi con Priamo, e chiese a te, sua zia, di forgiare la sua arma perché si fidava della tua bravura. E la tua arma fu davvero straordinaria. Non fu la lancia a farla fallire, ma la bravura di Achille nella lotta. Non fu tua la colpa della sua morte, Eris. Non pensarlo, neppure per un attimo.»

«Eppure, se io avessi…»

Ares la azzittì con un’occhiata gelida, replicando: «Fu Efesto stesso a lodare l’arma da te forgiata, non solo io. Accetta che non fu colpa tua, e perdonati per una colpa che non hai.»

«Perdonarmi?» mugolò la dea, incredula.

«Invero, ma non tutte le sventure nascono da te. Le persone riescono a fare prodigi anche da soli. Basta guardare fuori dalla finestra, per rendersene conto. Gli umani sono bravissimi a causarsi sofferenze senza richiedere il nostro aiuto» celiò lui, dandole un pizzicotto sul naso. «Piuttosto, quanti giovani hai spronato, pungolato perché migliorassero loro stessi? Questo lo dimentichi sempre, eh?»

«Non compensa le mie cattiverie» brontolò Eris, cocciuta.

Ares allora sospirò, le diede una gran spinta alla spalla, mandandola lunga riversa sul letto e sbottò dicendo: «Sai che ti dico, Eris? Finché andrai in giro camuffandoti da Samara di The Ring, lo so anch’io che ti sembrerà di essere un’appestata. Devi riprenderti un po’, sorella, e convincerti che non sei poi quel gran disastro che credi.»

Lei lo fissò malissimo, si risollevò a sedere e, afferrata la stoffa del suo abito dimesso, borbottò: «Cosa intendi dire, scusa?!»

Il fratello la fissò esasperato e, dopo un attimo di indecisione, la afferrò a un polso con malagrazia e se la tirò dietro, incurante delle proteste della sorella e dei suoi sguardi omicidi.

Con uno scintillio, si trasmutò poi nel suo tempio assieme a lei e, dopo aver afferrato un Blue-ray disc, lo infilò nel lettore e disse: «Questa è la bambina di The Ring

Eris osservò per diversi attimi lo schermo gigante posto nella sala privata di Ares. Portandosi lentamente una mano al volto quando una ragazzina pallida, vestita di bianco e con scialbi capelli neri se ne andava in giro a spaventare la gente attraverso uno schermo, esalò: «Io… sono così?»

Scettico, Ares replicò: «Scusa… ma da quand’è che non ti guardi allo specchio?»

«Da quando in qua ne ho bisogno?» sbottò lei, fissandolo arcigna.

Il fratello sospirò nuovamente, scosse il capo e, dopo aver afferrato il suo cellulare, borbottò alla persona all’altro capo: «Ciao, tesoro. Non è che potresti passare qui con il tuo armamentario da donne? No, non per me, sciocchina. Non voglio farmi le french

Alcuni borbottii al telefono e Ares replicò: «Ti pare che ti direi di venire qui per fare un servizietto a una mia amante? Sono un po’ tonto, te lo concedo, ma non così tanto. E’ per mia sorella Eris.»

La diretta interessata sgranò gli occhi sgomenta, fece per scappare al solo pensiero ma Ares la afferrò nuovamente a un polso, fissandola poi con un ghigno che non ammetteva repliche.

Ciò fatto, aggiunse: «No, non sono ammattito. E’ che avrebbe bisogno di un tocco femminile, e il massimo a cui arrivo io sono le forcine per i capelli e i cerchietti.»

Quando ebbe chiuso la chiamata, si volse infine verso la sorella, ancora inorridita, e dichiarò: «Sei stata troppo tempo per i fatti tuoi, da sola a rimuginare soltanto su cose brutte e io, da bravo idiota, te l’ho lasciato fare perché, inutile dirlo, solo un insensibile e un egoista, e ne capisco poco di donne.»

Ciò detto, rise di sé e aggiunse: «Questo me l’ha detto Athena, e sono propenso a crederle, perché di solito non mi dice bugie. Questa cosa con Alekos, però, sta diventando un’ossessione che ti sta facendo uscire di testa, ed è brutto vederti così indifesa, perché non lo sei mai stata.»

«Non so che mi stia succedendo» esalò lei, scuotendo il capo di fronte all’ineluttabilità delle sue stesse parole.

Suo fratello aveva ragione. Mai una volta, nella sua esistenza, si era sentita così persa e desolata, così priva di appigli a cui aggrapparsi… e non capiva perché proprio quel giovane immortale dovesse farle quell’effetto.

«Parla con Afrodite. Tutti pensano che sia un po’ superficiale e svampita, e forse per certe cose lo è, ma è brava ad ascoltare» cercò di rassicurarla Ares, dandole una goffa pacca sulla spalla.

Eris annuì cauta ma, quando la dea dell’Amore giunse in tutta la sua scintillante bellezza a rischiarare il tempio dell’amante, quasi desiderò fuggire dalla gentile stretta del fratello.

Sapeva, però, che Ares l’avrebbe rincorsa per tutto il mondo pur di portare a termine ciò che si era prefissato, perciò lasciò perdere il pensiero di scappare a gambe levate e si ripromise di sopportare quel supplizio fino alla fine.

Dopotutto, non capitava spesso – per non dire mai! – che qualcuno si prendesse cura di lei, perciò poteva approfittarne almeno un po’.

Afrodite avanzò con la sua falcata elegante e slanciata, vestita con un completino bianco da estetista e un’enorme borsa a tracolla e, dopo averla poggiata a terra, squadrò i due fratelli, la stanza disordinata di Ares e infine disse: «Bene. Tu sistema un po’ qui intorno; sembra una porcilaia. Io ed Eris, nel frattempo, capiremo cosa fare.»

Ares borbottò un insulto colorito e riferito ai sopracitati animali da fattoria, prima di mettersi a sistemare di malavoglia quanto detto da Afrodite. A sua volta, la dea si morse pensierosa il labbro inferiore, dimostrando in parte ansia e in parte calcolo.

Eris non fece altro che rimanere ferma, le mani serrate a pugno lungo i fianchi e i lunghi capelli neri a coprirle in parte il volto.

Alla fine, Afrodite si lasciò andare a un sospiro tremulo e, senza toccare Eris, le domandò: «Dove vuoi sistemarti?»

La dea della discordia si guardò intorno con espressione mogia ma, infine, borbottò: «Sulla balconata va bene?»

Afrodite assentì e, nel recuperare la borsa, disse: «E’ un ottimo posto. Si vede la vallata, da lì, e il sole fa bene alla pelle.»

Con uno schiocco di dita, Afrodite fece poi apparire un comodo sgabello imbottito per Eris e, dopo averla pregata di sedersi, le domandò: «Posso toccarti i capelli?»

«Anche se molti lo pensano, non mordo» sospirò Eris, annuendo.

Afrodite storse appena il naso, di fronte al suo tono querulo, ma cercò di non farci caso. Non era mai capitato che Ares le chiedesse aiuto per sua sorella e, se era accaduto, evidentemente doveva aver visto qualcosa che lo aveva turbato.

Era passato troppo poco tempo dalla crisi di Hermes, per non temere episodi simili, ed Eris era un’ottima candidata per il ruolo della vittima predestinata.

Forse, Ares aveva avuto in qualche modo timore che la sorella potesse meditare il suicidio, perciò l’aveva interpellata perché gli desse una mano con la scontrosa sorella.

A ogni buon conto, iniziò a districare delicatamente con una spazzola i capelli di Eris e, debolmente, disse: «Sei fortunata. Sono capelli forti e senza doppie punte. Per averli così lunghi, non sembrano affatto sfibrati.»

Eris rispose con un mmmh monocorde che, però, non scoraggiò Afrodite dal proseguire la sua analisi del capello e, dopo quasi mezz’ora di quel trattamento, le liberò il viso per mettere in luce un ovale perfetto e dalla pelle eburnea.

Sollevando sorpresa le sopracciglia, Afrodite borbottò: «Beh, che mi venga un colpo!»

«Che c’è? Ho una verruca sul naso?» ironizzò la dea della discordia.

La divinità dell’Amore, per contro, sbuffò dicendo: «So che ti viene spontaneo cercare di metter zizzania ma ti prego, non farlo proprio ora. La mia esclamazione veniva dal fatto che non immaginavo tu avessi una pelle così bella, o degli occhi così singolari.»

Sinceramente sorpresa da quel commento, Eris se ne ristette zitta a rimirare i cerulei occhi della dea che, attenti, la stavano squadrando con competenza.

Non stava mentendo, lo si poteva leggere chiaramente dalla sua espressione.

Ormai del tutto presa dalla sua missione, Afrodite non perse tempo a chiedere il permesso e carezzò il viso di Eris per delineare con il tocco delle dita la curva morbida di guance e mandibola, borbottando poi pensierosa: «Uhm, decisamente bei lineamenti. Oserei dire che hai preso da Era, che ha sempre avuto un bell’ovale del volto. Ma i colori sono tutti tuoi, non te li ha dati nessuno.»

«Che intendi dire?» esalò la dea.

Sorridendole complice, Afrodite dichiarò: «Dovevi essere già decisa in partenza a non voler rassomigliare ai tuoi genitori, perché sia Zeus che Era hanno una pelle bronzea, mentre la tua è algida come il latte. I tuoi capelli sono neri, mentre quelli di Zeus sono castani, e quelli di Era, biondi. Infine, i tuoi occhi sono di un grigio così chiaro da far pensare ai diamanti, e nessuno dei due li ha di quel colore. Volevi essere te stessa, non un loro surrogato.»

Sgranando gli occhi di fronte a quelle parole, Eris non seppe come replicare e, dentro di sé, si sentì paradossalmente sollevata all’idea di non rassomigliare ai genitori, pur avendolo sempre saputo.

Eppure, le parole di Afrodite lo avevano reso reale, tangibile. Lei non era come i suoi genitori, poteva essere diversa da ciò che le avevano riversato dentro durante tutto il periodo della sua gestazione, e durante i primi anni della sua crescita.

Ringalluzzita dal silenzio di Eris, Afrodite proseguì nel dire: «Se posso permettermi, con un incarnato come il tuo, stirerei i capelli, li scalerei e accorcerei la lunghezza generale per renderli più leggeri. Inoltre, non per offendere, cambierei sartoria. Le tuniche di questo genere, andavano bene qualche secolo fa.»

Sbattendo confusa le palpebre, Eris reclinò il capo a guardarsi l’abito semplice e scuro come la notte e, storcendo la bocca, mormorò: «Non voglio i jeans. Sono ruvidi.»

«Concordo… fanno seccare la pelle con facilità. Opterei per dei pantaloni in lana secca, o del lino in estate. Ammesso che tu non voglia rimanere sulle gonne. Per quelle, ti puoi sbizzarrire» dichiarò con competenza Afrodite.

«Senti…»

«Dimmi, Eris.»

«Perché mi aiuti?» domandò con sincerità la dea. «Non ti sono mai stata simpatica, ammettilo.»

La bionda divinità soppesò con attenzione sia la domanda che l’affermazione di Eris e, dopo quasi un minuto di pesante silenzio, disse: «Avevo timore di te, non antipatia, ma semplicemente perché non ti conoscevo bene, e tu sembravi non avere alcuna intenzione di conoscere tua cognata. Quanto all’aiutarti, me l’ha chiesto Ares, ed è ben difficile che lui mi chieda favori, perciò ho accettato volentieri.»

Eris assentì alla sua risposta, rimanendo a lungo in silenzio mentre Afrodite faceva comparire un bacile con acqua e oli profumati per lavarle i capelli. Dopo averlo fatto e averli risciacquati con attenzione, iniziò a sforbiciare ciocca dopo ciocca per sistemarle la chioma come precedentemente detto.

Mentre i capelli corvini cadevano sul pavimento marmoreo in lievi fruscii, un caldo venticello risalì dalla valle, portando con sé il profumo degli oliveti e dei fiori di zagara. Eris ne assaporò gli aromi socchiudendo gli occhi e Afrodite, sorridendo appena, asserì: «Ares mi disse che Athena avrebbe voluto prenderti come sorella, se Era non ti avesse voluta. Credo si sentisse un po’ sola, nel palazzo di Zeus, senza nessuna ragazza con cui giocare.»

Eris si irrigidì leggermente, a quelle parole, ma Afrodite continuò dicendo: «Sai, penso che in generale, a quel tempo, avrebbero dovuto sterilizzare il sommo Zeus, perché causò un sacco di disagi e problemi a tutti i suoi figli. Non era proprio il genere di personaggio che avrebbe dovuto avere una stirpe.»

«Anche se sei sposata con uno di loro?»

«Ares ha un caratteraccio che ha trasmesso anche ai nostri figli e, secondo me, è tutto merito di quei due scriteriati dei genitori, se ha dei comportamenti ai limiti dell’assurdo. Ama il sangue e le guerre ma, per assurdo, adora guardare Pollyanna. Ora, capirai quanto suona contorto, vero?» celiò Afrodite.

«Pollyanna?»

«Una bambina sempre felice, e che vuole trasmettere a tutti la propria gioia, anche quando il mondo attorno a lei va a catafascio» semplificò per lei Afrodite, facendo spallucce. «Arriva a essere stomachevole, per la cronaca.»

Eris sollevò entrambe le sopracciglia per la sorpresa e la dea dell’Amore, annuendo, chiosò: «Capisci che intendo?»

«Quindi, tu dici che…»

«Siamo divinità, e quel che facciamo ha sempre un risvolto più profondo rispetto alle azioni degli umani perciò, secondo me, gli agenti esterni possono influenzarci molto di più rispetto a quanto potrebbe succedere a un mortale. Zeus ed Era avevano liti in continuazione, e spesso di fronte al figlio, che perciò si è abbeverato di violenza. Per lo stesso motivo, forse, anche tu ne hai sofferto, e ora trovi scontato – e più facile – attaccare piuttosto che essere attaccata. Mi sbaglio?» replicò Afrodite, voltandole delicatamente il capo per controllarne il profilo.

«Ma tu non dovresti pensare a persone che fanno sesso, o cose simili?» si lasciò sfuggire Eris, prima di tapparsi spiacente la bocca.

Afrodite, però, non se la prese affatto e asserì con un sorriso: «Come volevasi dimostrare. Quando ti senti attaccata, o punta sul vivo, ti difendi con le offese o le punzecchiature. A riprova di un animo ferito e che non vuole più essere tale.»

«Scusa.»

«Non importa. Ho messo in conto qualche tua rabberciata, quando ho accettato di venire qui» scrollò le spalle la dea. «Zeus mi ha sempre considerata una sciocchina, buona solo a occuparmi di camere da letto e di amori tra le lenzuola. Non ha mai pensato che potesse interessarmi altro.»

«E nonostante tutto, hai continuato ad amare? A dare gioia alle genti?» domandò curiosa Eris.

Sorridendole con sincerità, Afrodite ammise: «E’ stata un po’ una ripicca nei suoi confronti. L’amore è un’arma potente e, ancora oggi, io sono l’unica a essere amata con sincerità dagli umani. Lui si credeva grande e potente, ma ora nessuno lo ricorda, se non per usarlo in pessimi film cinematografici o poco altro. Io, invece…»

Accennando un timido, veloce sorriso, Eris mormorò: «Capisco. Quindi, ti sei presa la tua vendetta, in qualche modo.»

«Già. E senza chiedere il tuo intervento. Spero non ti senta offesa» chiosò Afrodite, ammiccando.

«Niente affatto» scrollò le spalle Eris, provando a sorridere.

Con un’ultima sforbiciata, la dea bionda si ritenne soddisfatta e, dopo aver liberato Eris da alcune ciocche cadute sulla sua tunica, disse: «Direi che ora va molto meglio. Adesso, devo solo stirarteli con la spazzola e il phon.»

Eris annuì e Afrodite, con competenza e impegno, le stirò i capelli e le sistemò l’acconciatura con olii emollienti e spezie nobili.

Fu così che le trovò Ares, intente a chiacchierare e a scambiarsi battute più o meno maliziose sugli dèi. Ed Eris stava sorridendo.







N.d.A.: è chiaro che Alekos si sente in qualche modo interconnesso a Eris, e la dea a sua volta viene condizionata dalla sua presenza nel mondo, al punto tale da sentrisi destabilizzata. 
Questo preoccupa non poco Ares, che già durante la crisi di Hermes aveva tremato di paura per il fratello. Con i suoi gesti goffi, cerca quindi di tirare fuori dai guai la sorella, sperando che l'intervento di Afrodite possa servire allo scopo.
A Eris piaceranno i cambiamenti apportati? Si sentirà un po' meno "appestata", come si definisce lei? E quale effetto avrà, questo discernimento del problema, sul suo rapporto con Alekos?
Naturalmente, vi rimando alla settimana prossima, per una risposta di qualche genere e, nel frattempo, vi auguro Buone Feste. ^_^

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Capitolo 38
*** Eris - 4 - ***


 
4.
 
 
 
 
Rigirandosi una gonna gitana tra le mani con aria accigliata, l’ennesima gonna che Afrodite le aveva offerto di provare, Eris borbottò confusa: «Non hai qualcosa di più sobrio di così? Mi sembra che il giallo, il verde e il blu messi assieme, siano un po’ troppo, per me.»

Afrodite sbuffò contrariata e replicò: «L’idea è quella di svecchiare la tua linea e, se lo faccio solo coi capelli, sarà un lavoro fatto a metà. Già hai rifiutato il trucco, cosa per me inaccettabile, perché degli occhi così belli devono essere valorizzati, ma posso anche soprassedere. Sui vestiti, però, mi rifiuto di farti indossare un total black

«Ma non dovrebbe piacere a me?» sottolineò Eris, piantando le mani sui fianchi.

«Ora non atteggiarti con me, cara. Sarai anche la dea della discordia, e avrai ordito piani diabolici per una vita ma credimi, posso farmi valere quando voglio. Anche io posso diventare diabolica, se voglio. Inoltre, sono la maggiore, qui dentro, quindi mi darai retta!»

«Solo perché ti ho permesso di acconciarmi i capelli, questo non vuol dire che ora puoi disporre di me come se fossi una bambola!» replicò accigliata Eris.

Sospirando irritata, Afrodite allora sbottò: «Bene! Facciamo come dici tu, ed escludiamo il genere gitano! Cosa vorresti, allora?!»

Ritenendosi soddisfatta, Eris si chetò un poco e tornò a sfogliare febbrilmente le riviste di moda di Afrodite.

Quei pochi giorni passati in compagnia di Afrodite le avevano aperto un mondo – a volte davvero sconcertante – su cosa a cui non si era mai minimamente interessata. Soprattutto, però, le avevano permesso di conoscere una donna che lei aveva ingiustamente creduto soltanto vanesia e superficiale, ma che invece aveva saputo sorprenderla in positivo.

Certo, Afrodite era e rimaneva una dea fuori di cervello, quando si trattava di ciarlare di cosmetici o di moda – a Eris dolevano ancora le orecchie, a furia di sentirle parlare di sfilate – ma, in fondo in fondo, sapeva anche essere simpatica.

Continuando a sfogliare la rivista che teneva tra le mani al pari di una preda, Eris ghignò soddisfatta quando infine incappò in un completo sobrio e più nelle sue corde.

Era un semplice abito plissettato in maglia blu navy e, quando lo mostrò ad Afrodite, questa scosse il capo rassegnata ma ammise: «E va bene. Non è quello che avrei scelto io, ma fa risaltare la tua pelle eburnea, quindi può andare. Ed Elisabetta Franchi sia.»

«Chi è, scusa?» domandò Eris, confusa.

«La stilista che ha disegnato l’abito» le spiegò Afrodite, schioccando le dita.

Sull’enorme catasta di abiti fin lì selezionati, comparve l’abito richiesto da Eris e, dopo averlo indossato e averlo trovato assai comodo, la dea disse: «Ai piedi posso portare i miei calzari? Non indosserò mai quei trampoli che usi tu.»

«Sì, tanto vanno di moda» acconsentì Afrodite, scuotendo negligente una mano.

A quel punto, Eris si guardò allo specchio e non si riconobbe.

Quella che vedeva riflessa non era la se stessa di sempre. Era una donna che non la rispecchiava, che voleva essere qualcuna che non era e, quasi senza accorgersene, le mani corsero ai capelli perché le ricoprissero il viso.

Afrodite, però, la bloccò sul nascere e replicò secca: «Ti sei nascosta per troppo tempo, e non è affatto giusto! Non hai niente per cui essere messa alla gogna, credimi.»

«Eppure sai cos’ho fatto!» protestò Eris, rabbiosa.

«Oh, per carità! Vai a chiedere ad Apollo quanto sono stata stronza con lui, e solo perché era andato a spifferare la verità a Efesto su quel che stava succedendo tra me e Ares» replicò burbera Afrodite. «Feci uccidere un’umana a Clizia, in pratica, e tutto perché volevo vendicarmi perché Apollo aveva aperto bocca con il mio ex. Ti pare un’azione onorevole? E che dire di Apollo e Artemide! Uccisero i figli di un’umana, perché Latona glielo ordinò, e tutto per invidia. Credimi, non hai l’esclusiva delle cattiverie e non ci hai suggerito tu di farlo, quindi non prenderti dubbi meriti che non hai. Comunque, se vuoi, posso restare qui fino a stasera a raccontarti aneddoti simili in cui non hai preso parte e vedrai, alla fine cederai tu. Non hai ancora capito con chi hai a che fare.»

Eris, a quel punto, lasciò ricadere le mani e Afrodite, nel passare veloce le dita tra i capelli per rassettarli, aggiunse più gentilmente: «Siamo emanazioni di ciò che l’Universo ha bisogno per sopravvivere, non dimenticarlo, perciò ognuno di noi è necessario. Zeus ed Era ne sono stati il lungo braccio, facendoci nascere con ciò che serviva e mettendoci anche del loro, se vuoi il mio parere personale. Non a tutti capitano cose simpatiche come far sorgere il sole, o elevare la luna, ma mica per questo uno si deve rovinare l’esistenza! Pensa a Thanatos… credi che portare in giro dei morti per tutto il tempo sia divertente? No di certo. Eppure lo fa, ma non per questo non ha una vita sociale.»

Eris fece per replicare, ma l’arrivo di Deimos e Phobos la interruppe.

I due giovani raggiunsero la stanza da letto della madre quasi buttando giù la porta e Deimos, entrato per primo, esclamò furibondo: «Ehi, madre! Devi assolutamente dire a Phobos che…»

Inquadrando Eris nel suo campo visivo, Deimos interruppe la sua arringa e si raddrizzò immediatamente, si rassettò il giubbotto di pelle nera che indossava dopodiché, sorridendo con l’intento di apparire affascinante, domandò con voce profonda: «Wow… chi è questa gnocca da paura?»

Afrodite sbottò con un’imprecazione inviperita, mentre Eris faceva tanto d’occhi e Phobos spingeva via il fratello per poter vedere a sua volta e rifarsi la vista.

«Ma è il modo di entrare nelle stanze di una donna?!» sbraitò poi la loro madre. «E poi, vedi di parlare a modo, visto che è tua zia, quella che stai guardando come un pesce lesso!»

«Mia… zia? Di che zia stai parlando?» domandò Deimos, scrutando Eris con maggiore attenzione.

Afrodite scosse il capo per l’esasperazione e borbottò: «Proprio dei maschi dovevo far nascere. Ragionano solo con le parti basse, quando vedono una donna.»

«Madre!» protestarono con veemenza i due figli, mentre Eris li fissava stranita.

«Parlo di Eris, debosciati che non siete altro! E sì, ragionate davvero con le parti basse, se non l’avete riconosciuta subito.»

I due giovani dèi sbatterono confusi le palpebre ed Eris, mossa a pietà, ammise: «Va detto che non ci siamo visti spesso… né con queste vesti.»

«Ecco! Ecco, diglielo, Eris!» scattò subito Phobos, annuendo a più riprese. «Però, cavoli… stai davvero bene, sai, zia?»

Eris allora si guardò di nuovo allo specchio e, ancora poco convinta, borbottò: «Non sembro… finta

«Se non hai fatto ricorso al chirurgo estetico, allora non sei finta» chiosò con semplicità Deimos. «Hai solo cambiato stile.»

«Chirurgo… estetico? E chi è? E per fare cosa, poi?» esalò Eris, più che confusa.

Phobos, allora, mise le mani a coppa sul torace e replicò: «Beh, il chirurgo estetico ti può rifare il seno… un po’ come quello di mamma, per intenderci.»

Afrodite esplose in un urlo disumano che fece rabbrividire la stessa Eris e, mentre Deimos e Phobos diventavano cerei in volto, la dea dell’Amore rifilò una spazzolata in testa a entrambi, strillando: «I miei seni sono veri, non rifatti!»

«Ma era per dire… per spiegare a Eris» si lagnò Phobos, passandosi una mano sulla parte dolente.

Ancora furente, la dea sibilò: «Cos’eravate venuti a fare, per la cronaca? E siate veloci, prima che vi butti fuori a calci nel sedere.»

Deimos storse la bocca e borbottò: «Volevo che dicessi a Phobos che sono nato prima io, di lui.»

Afrodite strabuzzò gli occhi ed esalò sconvolta: «E perché dovrei dirglielo? Che rilevanza potrebbe mai avere, saperlo?»

«Perché, se si convincesse una volta per tutte che sono suo fratello maggiore, lui mi dovrebbe obbedienza!» sbottò querulo Deimos.

Afrodite chiuse gli occhi per l’impazienza, si massaggiò l’attaccatura del naso con pollice e indice e, con una voce che risuonò pericolosa anche alle orecchie di Eris, sibilò: «Uscite immediatamente da qui, e non tornate finché non avrete infilato un po’ di intelligenza in quelle due teste vuote. FUOOORIII!»

Con un ‘ciao, zia’ gorgogliato tra i denti, mentre l’urlo diabolico di Afrodite rimbalzava tra le pareti del tempio al pari di una scarica di mitragliatrice, Deimos e Phobos si dileguarono, lasciando nuovamente sole le due dee.

Dee che si fissarono reciprocamente prima di sospirare all’unisono.

«Se ti lamenti dei tuoi figli, facciamo a cambio, se vuoi» le propose Afrodite, vedendola scuotere il capo in risposta.

«Credo che, più o meno, le soddisfazioni siano le stesse» chiosò Eris, sospirando.

«Già, temo di sì» ammise Afrodite, prima di scoppiare a ridere.

Eris la seguì con tono più blando e controllato, ma per Afrodite fu già un traguardo insperato.

Quando aveva iniziato a lavorare assieme a Eris, non aveva davvero sperato di poter raggiungere, in così pochi giorni, una tale sintonia, eppure era davvero bastato lasciare da parte le ansie, per trovare in lei solo una creatura ferita e bisognosa di attenzioni.

In Eris non v’era nulla di volutamente crudele o malvagio e, gran parte delle sue azioni passate, erano nate a causa del profondo senso di vuoto e rabbia che aveva sentito dentro.

Che fosse veramente dovuto al comportamento egoista di Era e Zeus, alla mano onnisciente dell’Universo, o a un mix di entrambe le cose, nessuno avrebbe potuto dirlo, poiché non esistevano esami probanti che potessero asserirlo, ma tant’era.

Eris aveva sofferto di una solitudine e di un dolore così cocenti, tali da essersi trasformati in ciò che poi l’aveva contraddistinta nei secoli. Questi sentimenti erano sorti in lei da ben prima della nascita, maturati in nove mesi di gestazione sofferta, in cui la sua divinità si era abbeverata degli scontri tra i due genitori.

Che fosse stato l’Universo a volere ciò, poteva essere una buona spiegazione, esattamente come mille altre ancora, ma la sostanza era una sola; Eris aveva sofferto e fatto soffrire, così come aveva pungolato gli uomini a migliorare loro stessi.

Era tempo che Eris pungolasse se stessa per fare altrettanto.

«Cosa dovrei fare, secondo te?» domandò Eris dopo quel momento di ilarità.

«Affrontare ciò che temi, credo. Nel caso specifico, parlare con Alekos… anche se mi fa strano pensare che tu ne abbia timore» asserì Afrodite.

«Non ho timore di lui, ma per lui» sottolineò Eris.

«Beh, quel ragazzo potrebbe ammansire una tigre e strapparle di bocca il pranzo, se volesse… dubito che potresti contaminarlo, se è questo il tuo cruccio» chiosò Afrodite, facendo spallucce. «Ognuno di noi ha dei lati oscuri, alcuni si vedono più di altri, ma nessuno ne è immune. Altrimenti, non saremmo in equilibrio con il Cosmo.»

Ciò detto, ridacchiò di fronte all’espressione confusa di Eris e aggiunse: «Parole di Érebos, non mie.»

A quel punto, a Eris non restò che dire: «Andrò, allora.»

Afrodite assentì, sollevò una mano a palmo aperto e, strizzando l’occhio, disse: «Batti la tua mano contro la mia. E’ benaugurante.»

Eris lo fece un po’ goffamente e, in uno scintillio d’argento, infine svanì, lasciando sola Afrodite con la sua montagna di abiti da sistemare.

La dea, però, non pensò affatto a quello quanto, piuttosto, ad Alekos. Sperò davvero di aver fatto la cosa giusta. Per entrambi.
 
***

Clizia stava carezzando le tempie di Alekos con movimenti circolari e lenti mentre Apollo, turbato, asseriva: «Non ci si può ridurre così soltanto perché non hai potuto parlare con Eris. Per cosa, poi? Per chiederle scusa? Mica le hai fatto qualcosa!»

«Sono stato scortese!» sbottò Alekos, prima di digrignare i denti e poggiare una mano sulla fronte per il gran male.

Un’emicrania pazzesca lo aveva colto alla fine di un week-end in cui, per tutto il tempo, non aveva fatto che pensare a un modo per scusarsi con Eris.

Tornato a casa dopo la visita a Era e alle Esperidi, Alekos non aveva fatto altro che passeggiare nervosamente avanti e indietro per il corridoio, arrivando a obbligare la madre a lanciargli un ultimatum.

Alekos, d’altra parte, non aveva fatto menzione alla madre in merito ai motivi di una tale ansia, perciò era stato quasi scontato che vederlo così fuori di sé l’avesse sia alterata che preoccupata.

Come spiegarle, d'altronde, qualcosa a cui neppure lui sapeva dare un nome?

Non sapendo che altro fare, Alekos si era scusato con la madre e, dopo aver trovato Apollo, gli aveva chiesto consiglio in merito. Per tutta risposta, lo zio lo aveva portato con sé nel regno di Oceano, dove stava soggiornando assieme a Clizia.

Lì, la coppia lo aveva accolto negli appartamenti dell’oceanina, e Acaste si era unita al trio, una volta saputa la presenza del giovane nel mondo dei mari.

Oceano e Teti si erano dichiarati disponibili a ospitarlo per tutto il tempo necessario, certi che cambiare aria avrebbe aiutato Alekos a ristabilirsi e schiarirsi le idee.

Nei tre giorni trascorsi sotto i mari, però, Alekos aveva continuato a sentirsi stranito, a disagio, nervoso e inappetente, arrivando a collezionare, per l’appunto, un’emicrania di proporzioni bibliche.

«So benissimo che è assurdo, zio, ma mi sento così per questo» sottolineò Alekos, cercando di non irritarsi e sorridendo grato a Clizia, che si stava prendendo cura di lui.

«Non angustiarlo, Apollo. Se Alekos pensa di averla offesa in qualche modo, e desidera rimediare, tu dovresti credergli» asserì Clizia, carezzando gentilmente la fronte di Alekos, che teneva il capo poggiato sulle gambe dell’oceanina.

Apollo, però, replicò piccato, dicendo per contro: «Quel che so io è che mio nipote ha il capo poggiato su cosce su cui ho il diritto di prelazione, e perciò sono un tantino restio ad avere la mente lucida per pensare ad altro se non a questo.»

Clizia rise sommessamente, mentre Acaste rideva dell’imbarazzo di Alekos e, con gentilezza, lo aiutava a rimettersi seduto sul divano che aveva occupato fino a quel momento.

«Oh, cielo! Geloso del proprio nipote! Come se tu potessi avere dubbi sulla mia fedeltà» ironizzò Clizia, alzandosi per andare a dare un bacio sulla fronte ad Apollo.

«Scusa, cara, ma ho passato millenni a fare l’idiota in giro e, ora che ti ho ritrovato e ho di nuovo un mio centro emotivo stabile e sicuro, stento a dividerti con gli altri. Sono un ben misero zio, lo so» chiosò il dio, lanciando un sorriso di scuse ad Alekos.

Clizia sorrise compiaciuta, gli avvolse il collo con le braccia nel sistemarsi dietro di lui e, poggiando il mento sul suo capo, disse: «Gelosie a parte, è chiaro che quello che è successo nel giardino delle Esperidi, prima, e da Era, poi, ti ha angustiato non poco, se sei arrivato a ridurti così.»

«Non posso che darti ragione, Clizia, ma non so davvero come spiegare questo mio stato, se non dicendo che mi sento tremendamente in colpa nei confronti di Eris, e…» cominciò col dire Alekos prima di irrigidirsi, fissare il soffitto delle stanze di Clizia e mettersi come in ascolto di qualcosa.

Acaste gli afferrò una mano, si concentrò e mormorò ansiosa: «Eris… ormai ho imparato a riconoscere la sua traccia, e…»

Volgendosi eccitata verso l’amico, l’oceanina concluse dicendo: «Sta andando a casa tua!»

«Andiamo, ti prego!» esalò Alekos, ricevendo il pieno assenso della ragazza, che strizzò gli occhi e si concentrò per trasmutare entrambi fino alla terraferma.

Prima che Apollo o Clizia potessero dire alcunché, i due giovani svanirono in una nuvoletta scintillante e il dio solare, sbuffando, borbottò: «E’ diventato un vizio, quello di mollarci senza neanche un saluto.»

Scoppiando a ridere, Clizia gli si strinse maggiormente contro e mormorò: «Lasciali fare. Sono molto giovani e assai emotivi, e hanno bisogno di seguire i propri impulsi… e, finché questi non li faranno cacciare nei guai, che facciano, no?»

«Sei molto più saggia e paziente di me» ammise Apollo, attirandosela sulle ginocchia.

«Può essere, potente divinità solare» ammiccò Clizia, dandogli un bacetto sul naso prima di dire più seriamente: «So che sei in ansia per Alekos e, da quel po’ che ho visto finora, non credo sia mai stato così nervoso o turbato in vita sua, perciò lascialo fare. Deve poter dare voce anche ai suoi timori e alle sue debolezze, non soltanto ai suoi punti di forza.»

«Come abbiamo fatto noi?»

«Esatto. Significa diventare adulti, mi dicono» ironizzò Clizia.

«Buono a sapersi» mormorò lui, levando il viso per darle un bacio.

Bacio a cui ne seguirono molti… molti altri.
 
***

Riprendere forma all’ombra della veranda della villetta di Athena, parve a Eris un compito più improbo e difficile del solito e, quando ad accoglierla fu Érebos, e non l’amica, il suo imbarazzo salì alle stelle.

Intento a rientrare in casa dopo aver dato da mangiare a Pallade, il dio Ctonio levò un sopracciglio con espressione sorpresa e, lento, un sorriso si andò a dipingere sul suo viso perfetto.

Di pari passo con il sorriso di Érebos, sorse sul viso di Eris un profuso rossore, che lei cercò di mascherare volgendosi a mezzo e borbottando irritata: «Non c’è Athena?»

«Sta facendo la doccia» disse con naturalezza il dio, poggiando la ciotola del cibo di Pallade su un tavolino per poi intrecciare le braccia sul torace e aggiungere: «Te lo dirò lo stesso, anche se so che ti infurierai. Stai molto bene, così.»

Come prevedibile, Eris gli sibilò contro ma, pur a volto basso e mogio, borbottò: «Grazie.»

Addolcendo lo sguardo, la divinità Ctonia mormorò: «Le mie figlie ti hanno reso la vita difficile, è ben chiaro ai miei occhi e, se non sapessi che tu hai sempre dimostrato di avere la forza per sopportare il peso del tuo destino, ti chiederei anche umile perdono. Trattandosi di te, però, potrebbe risultare un insulto, lo so.»

«Hai sempre parlato troppo, Érebos» brontolò Eris, scrutando il giardino - illuminato dal sole - e la voliera di Pallade. La piccola civetta appariva felice e spensierata, ben lieta di poter affondare artigli e becco nel pezzo di carne fresca che il dio Ctonio le aveva appena lasciato.

Per quanto potesse apparire una scena cruenta, la bellezza di Pallade non veniva minimamente sminuita dal sangue su becco e zampe, né si sarebbe potuto pensare di lei che fosse una creatura feroce o crudele.

Era solo la sua natura, che la voleva predatrice e carnivora.

«Cominci a capire?» domandò criptico Érebos.

La dea finalmente si volse ad affrontare lo sguardo del dio ma, invece di trovarvi dell’ironia, vi scorse solo una profonda comprensione.

Érebos non la stava affatto deridendo. Comprendeva i suoi dubbi e i suoi stati di rabbia infinita e non li trovava fuori luogo, ma una conseguenza di ciò che altri le avevano messo sulle spalle.

Chetandosi leggermente, la dea si studiò le mani – dove Afrodite aveva accorciato le unghie, dandole del rinforzante trasparente – e mormorò stanca: «Perché proprio io, Érebos?»

«Come ti ho detto prima, perché ciò che sovrasta tutti noi ti ha ritenuto abbastanza forte per sopportare il peso dell’ingombrante filo del tuo destino, messo nelle mani delle mie figlie perché lo tessessero. Purtroppo, non di soli sentimenti puri è composto l’Universo. Laddove vi è bene, vi sarà male, laddove vi è luce, vi sarà oscurità, perché l’una non può esistere senza l’altra. Tu puoi sia istigare che stimolare, con le tue parole. Sono le due facce della stessa medaglia. La persona che sarà votata al male, seguirà la via dell’istigazione a delinquere, mentre la persona votata al bene, sarà stimolata a migliorarsi, a primeggiare per portare la luce. Non sei mai tu a scegliere, ma loro.»

«Ma ho anche peccato di invidia e per vendetta… ho fatto cose per il mio piacere personale» sottolineò Eris, turbata dalle parole del dio Ctonio.

Érebos allora rise, schernendo se stesso, e replicò: «Perché, dopotutto, hai un cuore e una mente che operano per se stessi, e non solo per obbedire ciecamente al Fato. Ti è concesso. Tutti noi, a suo tempo, abbiamo commesso crimini più o meno gravi, ci siamo presi libertà più o meno grandi.»

«Anche tu?» esalò Eris, sorpresa.

«Forzai la Natura stessa, per salvare Alekos da un’esistenza come anima senziente imprigionata per l’eternità nell’Oltretomba, entro il corpo di un neonato non più in grado di crescere» ammise lui, sorprendendola. «Ordinai a Thanatos di compiere un gesto mai fatto prima, e legai l’anima di Athena a quella del suo bambino morto, prima che questo venisse partorito, perché potesse vivere in eterno …ma non feci solo questo. Non sarebbe bastato.»

«Cosa intendi dire?» mormorò la dea, pur subodorando le implicazioni indirette del suo gesto.

«Pur se fu fatto per un bene superiore, per salvare una vita, ciò che feci per Alekos creò uno squilibrio nel Chaos primigenio. Alekos era morto, e non aveva un suo filo del destino, poiché non ne avrebbe avuto bisogno, nell’Oltretomba. Atropo lo aveva reciso.»

«Ma non gli bastava essere legato ad Athena?» domandò turbata Eris.

«L’anima e il destino non sono la stessa cosa. Le due entità devono coesistere, perché vi sia vita e, senza un destino prefissato che venga intessuto, l’anima non può fare molto, da sola» replicò Érebos, scuotendo il capo. «Fu per questo che creai uno squilibrio… feci ciò che nessun dio dovrebbe fare. Dare vita al nulla.»

«Lo facesti perché… eri innamorato di Athena?» esalò Eris, sgranando gli occhi.

Annuendo, il dio Ctonio le sorrise pieno di dolcezza e aggiunse: «Non mi importava che Alekos non fosse figlio mio, o che Athena potesse amare per sempre il suo Miguel. Volevo fare qualcosa per lei, perché non perdesse qualcuno a lei così caro. Forzai decisamente la mano, e Cloto me la fece pagare cara, lo ammetto.»

Eris si accigliò, a quelle parole, e domandò: «Cosa intendi dire?»

«Poiché ero io ad aver creato lo scompenso, dovevo essere io a pagare il fio, a prendere sulle spalle il peso di quell’anima che avevo strappato ad Ade. Diversamente, avrebbe dovuto farlo Athena, e io non lo avrei mai permesso» scosse il capo Érebos.

«Cosa significano, quindi, le tue parole?» domandò Eris, sempre più in ansia.

«Parte del mio filo del destino serve a far vivere Alekos e, con l’andare del tempo, il mio si sfilaccerà sempre di più fino a rompersi e, quando ciò avverrà, io morrò» ammise con naturalezza il dio Ctonio, sgomentando la dea. «Ma non turbarti di ciò. Non avverrà né domani né tra dieci anni. Solo, devo stare molto più attento a come uso i miei poteri. Più li sfrutto, più il mio tempo si estingue velocemente.»

Eris fece tanto d’occhi, a quella notizia, e mormorò turbata: «Alekos lo sa? E Athena?»

«Athena lo sa, ma non Alekos, perciò ti prego di non dirgli nulla. Non desidero che soffra per una cosa che ho fatto in piena coscienza e che, a quanto pare, andava fatta da qualcuno con abbastanza forza da poter reggerne il peso» le raccomandò lui, avvicinandosi per sfiorarle il viso.

«Quanto… quanto pensi vivrai ancora?» esalò lei. «E perché dici che andava fatta

«Se nessuno di voi combina più guai come Hermes? Ancora diversi secoli, …forse millenni» le sorrise lui, scrollando le spalle. «Quanto alla tua seconda domanda, ci vorrà ancora qualche tempo, prima che tu ti possa rispondere da sola.»

Eris si sentì in colpa al pensiero di aver chiesto al fratello di ucciderla. Per farlo, Ares avrebbe dovuto rivolgersi a Érebos e, inconsapevolmente, questo avrebbe ridotto di molto le sue possibilità di rimanere al fianco dell’amata.

«Niente è accaduto…» sottolineò lui, carezzandole la guancia con il pollice. «…perciò non mi hai fatto nulla, Eris.»

«Però…» tentennò lei, bloccandosi all’inizio della frase quando percepì due nuove presenze avvicinarsi a loro.

Volgendosi, Eris spalancò le palpebre quando vide comparire sia Acaste che Alekos da una nuvola multicolore e scintillante. L’attimo dopo, gli occhi smeraldini di Alekos la fissarono basiti per alcuni istanti, quasi non riconoscendola, e lo stesso fu per Acaste.

«Eris… sei… sei tu?» esalò il giovane, confuso.

Lei assentì timida e Alekos, senza dire altro, le corse incontro e la abbracciò con foga, sgomentandola e sorprendendola al tempo stesso.

Era la prima volta che veniva abbracciata a quel modo, con un fervore e un sentimento così forti da stordirla.

Subito dopo, altre due braccia la avvolsero ed Eris si ritrovò stretta nell’abbraccio soffocante di Alekos e Acaste che, in lacrime, le chiesero perdono per la loro insolenza.

Érebos le sorrise da sopra una spalla, rientrando in casa perché rimanessero soli ed Eris, non sapendo bene che fare, sospinse entrambi per poterli guardare in volto, dopodiché sbottò dicendo: «Ma perché diavolo vi state scusando?»

Acaste fu la prima a esclamare: «Sono stata un’insolente a trasportarti via come ho fatto nel giardino delle Esperidi. Non dovevo farlo, dovevo rispettare il tuo desiderio di non avvicinarci.»

Alekos assentì alle sue parole e aggiunse: «Non avremmo dovuto forzarti a un incontro, Eris, se tu non lo volevi, perciò ti chiediamo perdono. Siamo giovani e sciocchi, e spesso agiamo senza pensare. Scusaci.»

Ciò detto, si inchinò al pari di Acaste ed Eris venne presa dallo strano, insolito desiderio di abbracciarli per scacciare il loro disagio.

Per contro, invece, diede un pugno in testa a entrambi e, nel sentirli lamentarsi, borbottò contrariata: «Ma vi pare un buon motivo per piangere e disperarsi? Vi sembro irritata con voi, o pronta a meditar vendetta soltanto perché avete aggirato quello che, ai vostri occhi, sembrava un problema?»

Massaggiandosi la nuca, dove Eris lo aveva colpito, Alekos mormorò confuso: «Beh, un po’ arrabbiata la sembri, ma non come pensavo.»

Acaste mugugnò un assenso ed Eris, con un sospiro esasperato, poggiò le mani sui fianchi e borbottò: «Ma proprio due giovani così educati, dovevano capitarmi.»

…la persona votata al bene, sarà stimolata a migliorarsi, a primeggiare per portare luce. Non sei mai tu a scegliere, ma loro…

Le parole di Érebos tornarono a risuonarle nella mente e, tra sé, si disse che dopotutto poteva anche restare vicino ad Alekos senza rovinarlo, se il farlo lo spronava a ingegnarsi per ottenere ciò che voleva.

E se lui voleva parlarle, conoscerla, che male c’era?

Accennando un mezzo sorriso, Eris quindi aggiunse: «Sembriamo tre idioti, qui fuori in veranda senza far niente. Andiamo ad aiutare Érebos in cucina, visto che è quasi ora di cena.»

Poi, guardandosi intorno, domandò: «Ma di solito non siete in compagnia di Apollo e Clizia, voi due?»

Ridendo maliziosa, Acaste chiosò: «Oh, credo che stiano facendo qualcosa di mooolto più interessante che apprestarsi a cucinare.»

«Preferisco non sapere» borbottò Eris, entrando in casa assieme ai due giovani.

«Eris… una cosa» le disse Alekos, richiamando la sua attenzione mentre si avviavano verso la cucina.

«Dimmi» mormorò la dea.

Lui le sorrise e, strizzandole l’occhio, disse: «Stai molto bene, così.»

Eris avvampò in volto e, non potendoselo evitare, gli diede uno scappellotto sulla nuca, portandolo a ridere a crepapelle.






N.d.A.: con questo capitolo vi auguro buona chiusura d'anno e buon inizio, sperando che il 2020 sia un anno decente... non pretendo tanto, dai. ;-)
Eris scopre il segreto celato dietro ad Alekos, ma Erebos la prega di non dire nulla, e a ciò lei si attiene. Per quel che riguarda la criptica frase di Erebos riguardo al "doveva essere fatta", la ritroveremo più avanti, quando Eris dovrà compiere una scelta che la coinvolgerà per il resto della sua esistenza.
Alla prossima, e grazie per avermi seguito fin qui!



 




 

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Capitolo 39
*** Eris -5 - ***


 
 
Epilogo.
 
 
 
 
Dopo aver terminato di sistemare anche l’ultimo tendaggio, Eris sospirò compiaciuta nell’ammirare la nuova disposizione dei mobili all’interno del suo tempio e, sorridendo timida ad Athena, disse: «Beh, direi che non sembra più un campo di battaglia.»

«Non lo è mai sembrato. Ma, di sicuro, aver riordinato un po’ ha aiutato… e anche aver avuto della mano d’opera in più non ha guastato» ironizzò Athena, ammiccando all’indirizzo di Zeus ed Era, impegnati in una disquisizione sulla migliore posizione di un kylix di epoca micenea. «Pur se va detto che, per la maggiore, hanno discusso, più che aiutato.»

Eris sorrise divertita, ripensando al momento in cui si era ritrovata a chiedere aiuto ad Athena per risistemare la propria casa.

I commenti di Phobos e Deimos riguardo al suo cambiamento estetico, per quanto enunciati in modo semplice e superficiale, avevano contenuto in sé un’enorme verità. L’abito non faceva certo il monaco, e lei non sarebbe cambiata dal giorno alla notte soltanto per aver indossato un abito che le piaceva. Soltanto, avrebbe vissuto la sua esistenza senza autoflagellarsi come aveva fatto fino a quel momento.

Come le aveva detto Afrodite, ognuno di loro aveva lati oscuri e dovevano imparare a conviverci, per non impazzire.

Per questo si era decisa a chiedere aiuto ad Athena – non sentendosi davvero in grado di risistemare casa da sola – ma la sorpresa era stata enorme, quando aveva trovato ad attenderla sull’entrata del tempio anche i suoi genitori.

Dopo la chiacchierata avvenuta tra Era e Alekos, la dea aveva parlato dei dubbi sorti al ragazzo anche con Zeus e, a sorpresa, il dio si era ritrovato ad arrossire imbarazzato quanto pieno di dispiacere.

Memore delle parole di Érebos, Eris non aveva incolpato i genitori del suo dolore, replicando loro che le liti e i battibecchi avvenuti tra i due l’avevano resa abbastanza forte e ruvida per poter reggere il peso del suo compito.

Pur accettando le parole della figlia, entrambi i genitori erano comunque rimasti per aiutare sia Eris che Athena a rassettare il tempio anche se, come quest’ultima aveva poi notato, il risultato erano state diverse discussioni e parecchi battibecchi.

«E’ quasi impossibile tenerli nella stessa stanza e sperare che non si riprendano l’un l’altro. Credo sia la loro natura» sospirò Eris, scuotendo il capo.

In quel mentre, Alekos entrò nella stanza ove si trovavano Eris e Athena e, tenendo tra le mani una serie di cuscini, domandò: «Con tutto il rispetto… ma davvero vuoi mettere dei cuscini color lavanda qua dentro?»

Sollevando un sopracciglio con evidente sorpresa, Eris afferrò irritata l’oggetto del contendere e, fissandolo con occhi gelidi, borbottò contrariata: «Questa è opera di Afrodite. Ne sono sicura.»

Scioccando le dita, il cuscino divenne blu scuro e, nel renderlo ad Alekos, aggiunse: «Grazie per avermelo fatto notare. Se lo avessi trovato in casa, mi sarebbe venuto un travaso di bile.»

Alekos le sorrise soddisfatto e, nel sistemare i cuscini su un vicino divano, dichiarò però con aria critica: «Può andare. Ma non è che le tue aquile arpie si divertiranno a spiumarli, ora che ne hai così tanti?»

Come se l’averle nominate le avesse richiamate accanto alla loro padrona, Homados e Proioxis1 lanciarono i loro impetuosi richiami prima di atterrare sul parapetto della veranda in cui si trovavano le divinità.

Il giovane semidio le fissò da sopra una spalla, mentre un leggero tremore alle mani ne smascherava l’ansia. Per quanto gli fossero sempre piaciuti gli animali, continuava a sentirsi a disagio, di fronte a quelle creature mastodontiche e dall’aspetto austero.

Le due aquile arpie, per contro, si limitarono a guardarlo con i loro profondi occhi chiari, in attesa di un ordine della loro signora, apparentemente pacifiche e per nulla interessate ad atti bellicosi.

Athena sorrise divertita di fronte all’ansia del figlio ma Eris, volendo rimediare a quel problema, disse: «Accarezzale, Alekos. Sapranno riconoscerti, così, e non ti riterranno una minaccia per me. Tua madre lo ha già fatto e, come vedi, neppure la guardano.»

«A livello teorico posso anche crederti, ma siamo sicuri che non amino la carne di semidio? Quegli artigli sono enormi… con tutto il rispetto, Eris, ma sono davvero inquietanti» sorrise spiacente Alekos, pur avvicinandosi alle due enormi aquile.

Eris sorrise nell’annuire, ma replicò: «Sai, vero, che non bisogna giudicare un libro dalla copertina?»

A quelle parole, Alekos si trasfigurò in volto, la guardò con espressione dolente e dichiarò: «Scusami. Hai perfettamente ragione. Sono stato sciocco a basarmi solo sul loro aspetto. In effetti, pur se ne ho paura, se le guardo bene posso vedere anche la loro selvaggia bellezza.»

Eris assentì pensierosa, colpita dalla reazione a dir poco smisurata del giovane ma, preferendo non dire nulla in quel momento, afferrò la mano di Alekos per poggiarla sul capo di Homados e badare soltanto alla sua immediata paura. Guidandolo gentilmente nella carezza, quindi mormorò: «Senti la morbidezza delle loro penne? Il loro calore?»

Alekos annuì silenzioso, mentre l’aquila arpia si lasciava sfiorare dalla mano del giovane senza muovere un solo muscolo.

Gli occhi dell’animale erano puntati in quelli smeraldini del giovane, quasi stessero tentando di creare un legame e Alekos, solo in quell’istante, si rese conto di un particolare che, in precedenza, non aveva notato.

Volgendosi a mezzo per scrutare Eris, ancora al suo fianco, disse: «Hanno i tuoi occhi. Sono identici.»

La dea assentì, dedicando le proprie attenzioni a Proioxis. Piegandosi fino a sfiorare il capo dell’aquila arpia con la fronte, Eris disse: «Sono nate così. Forse, eravamo destinate a diventare compagne di vita. Chissà.»

Alekos non disse nulla, limitandosi a scrutare l’immagine di Eris e di Proioxis l’una accanto all’altra, in totale simbiosi e armonia. La dea che il mondo aveva sempre visto come portatrice di sventure, era anche una divinità piena di amore per coloro che lo avessero accettato senza restrizioni.

Quelle aquile l’amavano e si sarebbero battute per lei fino alla morte. L’amore e la dedizione di Eris le spingeva a dare il meglio di loro, portandole a essere temibili e ineguagliabili nella lotta, unicamente per amore della loro dea.

A quel punto, anche Alekos si piegò in avanti per sfiorare il capo di Homados e, sotto gli occhi sorpresi di Eris, la sua aquila emise un trillo sonoro e, a suo modo, delicato, prima di becchettare gentilmente le labbra e il naso del giovane.

Alekos rise, di fronte a quella dimostrazione di totale accettazione e, nel carezzare entrambe le arpie, non si avvide dello sguardo pensieroso delle due dee presenti nella veranda.

Eris e Athena si scambiarono un’occhiata interrogativa ma, prima di potersi confrontare sui rispettivi pensieri, l’entrata in scena di Zeus impedì qualsiasi confronto.

Il Padre degli dèi si presentò in veranda tenendo tra le mani una possente stata di nudo maschile e, nero in viso così come contrariato come poche altre volte, sbottò dicendo: «Non vorrai davvero tenere in casa questo coso, vero?!»

Avvedendosi del motivo di tanta rabbia – Zeus tratteneva con fare schifato una copia del David di Michelangelo, quasi desideroso di frantumarla – Eris scoppiò in una risata sarcastica, replicando: «Dimmi, padre… perché mai non dovrei tenerla? Solo perché si tratta di un uomo nudo, e non di una donna nuda?»

«Ma è ovvio!» replicò Zeus, prima di tapparsi la bocca e guardarsi intorno con espressione ansiosa.

L’attimo seguente, uno scappellotto giunse a sorpresa e, mentre Era riprendeva le sue sembianze umane accanto al marito, Athena, Eris e Alekos scoppiavano allegramente a ridere. Le arpie, per contro, non si curarono minimamente della scena, badando solo a sistemarsi il piumaggio.

«Se vuole tenerne anche venti, ha tutto il diritto di farlo, razza di bifolco che non sei altro!» sibilò Era, strappandogli di mano la statua prima di ammirarla con apprezzamento.

Zeus rabbrividì a quella vista e, irritato, bofonchiò: «Non ti basta aver trasformato il tuo tempio in un laboratorio artistico? Hai più quadri e statue di quei potamoi, figli di Oceano, di un’intera collezione museale umana!»

Era lo fissò piena di divertimento e replicò: «Non so cosa farci se sono ottimi soggetti di studio. E loro sono così premurosi… non si stancano mai di posare per me.»

«Me lo immagino, il perché…» borbottò Zeus, intrecciando piccato le braccia sul torace.

Eris fissò la coppia in pieno litigio con aria esasperata mentre Athena, sospirando, esalava: «Padre, hai davvero una bella faccia tosta a lamentarti di Era.»

«Tu non puoi capire cosa voglia dire, per un uomo, vedere la propria moglie che si sollazza senza di lui!» esalò Zeus, sgranando due occhi colmi di lacrime non versate.

Per Eris fu troppo. Scoppiò a ridere e, rivolgendosi ad Alekos, che stava tentando con tutte le forze di non sbeffeggiare il nonno, dichiarò: «Bene, Alekos. Ti sia di lezione. Questo è il tipo d’uomo che non devi diventare.»

«Figlia! Perché dici questo?!» sbottò Zeus, ricevendo per diretta conseguenza un altro scappellotto da parte di Era.

La lite proseguì ancora per molto, mentre i due dèi si rinfacciavano i rispettivi peccati veniali, e Alekos tentava di portarli a più miti consigli, riuscendovi il più delle volte.

Nell’osservare la scena, Eris tornò seria e mormorò ad Athena: «Il suo potere si sta fortificando, ma mi chiedo; non sarà troppo, per lui?»

Athena strinse le mani a pugno lungo i fianchi, annuì silente e, dopo alcuni attimi, asserì: «E’ bello che Zeus ed Era si parlino dopo secoli, ma…»

«… ma sai che qualcosa non va, che l’equilibrio si sta sbilanciando» mormorò per lei Eris, gli occhi fissi su Alekos, del tutto ignaro del loro esame.

«Sì è già sbilanciato una volta, con la sua nascita. E ora…» tentennò Athena, lanciando uno sguardo spaventato all’indirizzo di Eris prima di guardare le due arpie, i cui occhi seguivano attenti ogni movimento di Alekos.

La dea della discordia si accigliò, strinse una delle mani della divinità della guerra e, lapidaria, dichiarò: «Non esiste dea più testarda di me. Ricordalo. Troverò un modo per comprendere cosa fare, te lo giuro.»

Athena assentì e, cercando di non pensare quali implicazioni avrebbe potuto avere nel futuro il potere sempre più grande di Alekos, si beò della vista di Zeus che baciava Era per dimostrarle la sua bravura come amante.

Non voleva pensare al Destino in quel momento. Non lo voleva proprio.

 
 
 
 
 
1: Sono i nomi di due Makhai, o spiriti della battaglia. Secondo il mito, erano figlie di Eris.



N.d.A.: Qualche nube all'orizzonte. Alekos comincia a dare segni di squilibrio nella Forza (scusate la battuta, ma sono ancora in "fase Star Wars"), e sia Eris che Athena si accorgono che qualcosa non va nei suoi comportamenti. 
L'atteggiamento delle arpie mette altresì in allarme Eris, perché sa quanto siano notoriamente restie ad affezionarsi, le sue aquile. Sulla cosa, comunque, ci ritorneremo.
D'ora in poi, pur mostrando nuovi personaggi, creerò un unico filone principale da seguire, perciò attenzione alle briciole di Pollicino che lascerò qui e là, e che aiuteranno a capire poi gli eventi finali di questa storia di divinità.
Nella prossima storia ci trasferiremo in Italia, nelle belle isole Eolie... non dico altro. A presto!

 

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Capitolo 40
*** Eolo - 1 - ***


Eolo – 1 –
 
 
 
Millenni fa – Eolide
 
 
Sorseggiando del buon vino egizio mentre il sole reclinava all’orizzonte, scomparendo nelle acque placide che circondavano l’isola di Lesvos1, Aiolos tornò con la mente agli ultimi anni della sua vita.

Boiotos, il suo gemello, era ormai lontano, signore delle terre che egli stesso aveva chiamato Beozia e che aveva conquistato in nome del loro patrigno. Pur se nella giovinezza avevano vissuto fianco a fianco come una sola entità, ora le loro vite scorrevano parallele e sembravano destinate a non incrociarsi mai.

Era un peccato, ma divenire adulti portava anche a questo genere di scelte, così come a scoprire quanto poco, a volte, gli adulti fossero onesti e corretti gli uni con gli altri.

Loro avevano pagato queste bugie molto amaramente e, pur se ora tutto si era risolto, ancora molte ferite nel suo animo, dovevano rimarginarsi.

La loro madre adottiva, Teano, li aveva accolti in gran segreto per non ammettere la sua apparente sterilità col marito Metaponto, che già l’aveva minacciata di ripudiarla, se non gli avesse dato figli.

Durante la loro infanzia, né lui né Boiotos erano stati coscienti di questo. Erano cresciuti all’ombra dell’onesto e forte re Metaponto, signore e sovrano di vasti territori a ovest della ricca Ellade, credendosi figli della bella Teano.

Per anni avevano vissuto nella tranquillità e negli agi del suo palazzo ma, quando Teano era infine rimasta incinta del re, per loro la vita era improvvisamente cambiata.

I loro fratelli minori – che, all’epoca dei fatti, lui e Boiotos avevano veramente creduto essere tali – erano cresciuti alla loro ombra, mai più forti o veloci, mai più agili o lesti.

Questo aveva irritato sempre più la subdola Teano, portandola infine a prendere una decisione tragica quanto infausta.

Divenuti adulti, i veri figli di Teano erano stati spinti dalla madre a scagliarsi contro coloro che, fino a quel momento, loro avevano considerato come fratelli. La donna aveva ammesso con loro il misfatto, ammonendoli al silenzio quanto a ricchi tesori, se loro avessero eliminato per sempre coloro che li teneva lontani dall’amore di Metaponto.

Lo scontro – risultato da subito impari – era terminato in favore suo e di Boiotos, ma questo li aveva costretti a fuggire, timorosi che il re li potesse punire per il reato commesso.

Spaventati e in cerca di un riparo, avevano infine trovato ristoro e rifugio presso una tribù di pastori, gli stessi pastori che, molti anni prima, avevano consegnato lui e il fratello a Teano perché li crescesse.

Così come erano stati un’oasi di salvezza per due neonati esposti da un nonno sconsiderato e crudele, così si erano rivelati un rifugio sicuro in età adulta, ma anche una fonte immensa di sapere.

I pastori avevano raccontato loro del giorno in cui erano stati trovati su una scogliera, esposti perché simbolo della colpa della donna che li aveva partoriti.

A quelle parole, e di fronte a una tribù in preda allo stupore, era quindi apparso Poseidone, che si era infine presentato a loro, ammettendo di fronte a entrambi loro le proprie responsabilità di padre.

Con dovizia di particolari, aveva ammesso di aver giaciuto con una donna di nome Melanippe – la loro vera madre – e di aver così scatenato le ire del padre di lei, che li aveva puniti con l’esposizione.

A ciò, era seguito l’inganno di Teano, che si era rivolta ai pastori per chiedere aiuto e li aveva presi con sé per non ammettere con il re le sue mancanze.

Di fronte alle pressanti domande di entrambi, Poseidone aveva infine raccontato loro della fine di Melanippe che, per causa loro, era stata imprigionata dal padre, rea di aver giaciuto con un dio.

A quelle parole, lui e Boiotos avevano lasciato la tribù di pastori e lo stesso dio dei Mari, accorrendo nel regno del loro nonno materno al fine di liberare la loro vera madre.

Il fatto che Poseidone avesse lasciato sola l’amante a sopportare una punizione non meritata, abbandonandola a se stessa per anni e anni, li aveva così angustiati da non volerlo più rivedere.

Dopo aver liberato la donna e averle detto la verità sulla loro identità, avevano preso con loro la madre, ben decisi a portare giustizia fino in fondo. Determinati, quindi, erano tornati al cospetto di re Metaponto per smascherare la perfida Teano che, ripudiata per i reati commessi, era stata sostituita dalla dolce Melanippe.

A quel punto, per ringraziare Metaponto della grazia ricevuta e per aver deciso di prendersi cura di Melanippe, lui e Boiotos si erano spinti a est per conquistare terre in suo nome.

Potendo contare sui poteri divini di Poseidone – pur non avendolo mai ringraziato per tale grazia – i due fratelli avevano mantenuto la parola, e ora Metaponto poteva governare su molte più terre rispetto al passato.

Sorridendo tra sé, Aiolos levò la coppa non appena il sole andò a svanire all’orizzonte e mormorò: «A te, Metaponto, che sai rendere felice mia madre. Tua sia l’Eolide, d’ora innanzi. A me, invece, sia la libertà di vivere come meglio credo.»

Era stato divertente galoppare verso le terre a oriente e spingersi laddove non era mai stato, ma trovarsi entro le quattro mura di un palazzo lo rendeva nervoso, quasi i suoi piedi dovessero continuare a muoversi.

Forse, dopotutto, il suo dono di governare i venti, governava anche la sua vita, spingendolo a muoversi sempre e comunque, non trovando mai requie per se stesso.

Boreas, uno dei quattro venti ai suoi ordini, scelse quel momento per giungere al suo cospetto e, sistemandosi la chioma bionda con un passaggio negligente della mano, sorrise al suo signore ed esclamò: «Perché quello sguardo triste, Aiolos? Hai dunque già perso interesse per le tue conquiste? Eppure, mi sembra che l’ultima battaglia sia stata epica.»

Aiolos gli sorrise in risposta, replicando: «Sai bene che il mio è uno spirito libero, e le mura di una casa – per quanto essa possa essere bella – non mi tratterranno mai a lungo.»

Boreas rise di fronte a quella risposta, replicando malizioso: «Neanche le cosce morbide di una donna, potrebbero trattenerti?»

Aiolos rise con lui e, nello scuotere il capo, asserì: «Trovo i miei divertimenti senza problemi, quando li cerco, e sono sempre appaganti ma no, neppure una donna potrebbe trattenermi dal lasciarmi andare alle correnti.»

«Allora viaggia con noi, mio signore, lasciati trasportare dalla nostra forza, dacci la possibilità di dimostrarti quanto possiamo essere potenti e fieri, se lasciati a noi stessi» lo incitò a quel punto Boreas, battendogli una mano sulla spalla. «E’ encomiabile che tu voglia donare agli uomini dei venti favorevoli per i viaggi e l’agricoltura, ma questo limita noi e limita te, che rischi di diventare né più né meno che un servitore di mortali, invece di un dio potente e da venerare.»

Aiolos gli sorrise comprensivo, ben sapendo quanto, trattenere la forza di Boreas e dei suoi fratelli, li rendesse nervosi e inquieti. Erano fatti per galoppare le tempeste, per domare gli uragani e per scatenare fortunali, non per muoversi diligentemente sotto il suo giogo. I mortali, però, avevano necessità di venti benevoli, non di tempeste distruttive e violente.

«Sai bene perché vi trattengo» sottolineò Aiolos, tornando serio in viso.

Boreas si accigliò, borbottando: «Gli umani non ti venerano come dovrebbero. Hanno doni per il sommo Zeus o per la bella Afrodite. Si genuflettono in nome della geniale Athena quanto per il forte Ares e crudele, ma per te? Quali doni recano a te, che più di tutti dovrebbero rispettare? No, mio signore, meritano di imparare a chi deve essere concesso il vero rispetto.»

Aiolos gli sorrise pieno di affetto, batté una mano sulla sua spalla e asserì con tono quieto: «Non cerco glorie come alcuni miei parenti amano invece fare. Mi basta vivere in serenità, amico mio. Cheta il tuo livore, perciò, poiché non v’è bisogno di dimostrazione alcuna.»

Boreas reclinò il capo, apparentemente domato da quelle parole bonarie, e Aiolos terminò dicendo: «Non c’è bisogno di gesti eclatanti per sentirsi paghi, amico mio. Mi basta sapere che mia madre è felice accanto a un uomo giusto, e che le genti possono sfamarsi grazie a ciò che i venti portano loro. Quanto ai doni che tu decanti… che me ne farei, Boreas?»

Ciò detto, se ne andò con passo tranquillo, lasciando Boreas a rimuginare sulle parole del suo signore.

Trovava ingiusto che ad Aiolos non venissero riconosciuti onori degni del suo nome, e il fatto che lui stesso non si rendesse conto di questo scorno, rendeva più che mai necessario un cambio di rotta.

Nulla dicendo ad Aiolos, quindi, si recò dai suoi fratelli Euros, Nótos e Zéphyros per metterli a conoscenza delle sue decisioni.

In loro, trovò il pieno plauso alle sue idee e di comune accordo decisero che, una volta per tutte, il mondo degli uomini avrebbe conosciuto il vero valore di Aiolos… e la pericolosità di una sua eventuale mancanza.

Che imparassero sulla loro pelle cosa voleva dire avere dalla propria parte un dio benevolo che, grazie al proprio tocco, portava pace e prosperità laddove avrebbe potuto esserci solo distruzione.

Boreas osservò le luci dei villaggi sull’isola di Lesvos, ghignò perfido e dichiarò: «Vivono sereni e senza pensieri perché Aiolos, con la sua benevolenza, porta a tutti loro venti agevoli per la pesca, piogge dolci trasportate dal vento e nessuna tempesta a rovinare le messi. Ma è tempo che capiscano che, tutto ciò, ha un prezzo che finora non hanno pagato.»

«Aiolos merita rispetto» assentirono gli altri fratelli.

Ciò detto, uscirono silenti dal palazzo in Eolide che Aiolos aveva conquistato, così da dimostrare agli incauti umani quanto fragile e impermanente fosse la loro esistenza.
 
***

Le feste di Dioniso erano sempre splendide e, pur se ritrovarsi addormentati in una delle sue stanze – e circondato da ninfe di indubbio splendore – non fosse per lui una novità, Aiolos trovò però strano che fosse il sommo Zeus a svegliarlo.

Che ci faceva, lì? Aveva a sua volta partecipato? Non se n’era reso conto ma, dopo i molti otri di vino bevuti per festeggiare, non aveva più le idee chiare, perciò tutto poteva essere.

Quando infine riuscì a mettere a fuoco il volto ombroso e barbuto del Padre degli dèi, esclamò: «Ehi, zio! Che succede? Va a fuoco il palazzo di Dioniso?»

«No, ragazzo. Qualcosa di molto peggio, a ben vedere» borbottò Zeus, afferrandolo a un polso per sollevarlo dal letto e trascinarlo via con sé.

Aiolos lo lasciò fare, trattenendo per sé i commenti aspri che, con qualsiasi altra divinità, avrebbe usato – dopotutto, qui si parlava del sommo Zeus – e, seguendolo lungo uno dei corridoi del palazzo di Dioniso, si limitò a domandare: «E’ forse successo qualcosa a mio fratello?»

«Non direttamente, ma forse anche lui avrà qualcosa da dirti, dopo che io stesso ti avrò fatto una predica coi fiocchi» brontolò Zeus, facendolo infine uscire dal tempio, ove la luce del sole ferì gli occhi fiacchi di Aiolos.

Levando una mano per frangere i raggi solari, così da proteggersi gli occhi pesti, il dio dei venti mise quindi a fuoco la piazza antistante il tempio dionisiaco e lì, sgranando gli occhi cerulei, esalò: «Ma cosa… perché i miei sottoposti sono stati imprigionati?!»

Zeus lo fissò pieno di rimprovero, mentre un silente Poseidone stava di guardia ai prigionieri e molte altre divinità si stavano radunando nella piazza per comprendere cosa stesse succedendo.

Ignorando bellamente lo sguardo inquisitorio del sommo Zeus, Aiolos mosse i primi passi per raggiungere i suoi amici, imprigionati in quattro enormi giare dal cui stretto collo a imputo fuoriuscivano solo le loro teste.

I quattro venti erano stati imbavagliati e bendati e, l’una all’altra, le quattro giare erano state unite da pesanti catene dorate, quasi sicuramente opera di Efesto.

Aiolos, però, non raggiunse mai i suoi amici, trattenuto a un braccio da Zeus che, lapidario, dichiarò: «Il tuo unico compito era quello di tenere a bada i loro caratteri impetuosi e selvaggi, e invece non ti sei minimamente curato di trattenerli dalla loro sete di distruzione, e ora ci ritroviamo con intere popolazioni ridotte alla fame dai loro gesti inconsulti, vedove in lacrime perché hanno perso figli e compagni in mare, o città distrutte dai marosi sollevati dai tuoi generali.»

Aiolos fissò senza proferir parola i volti inermi dei suoi amici e, crollando in ginocchio, tornò con la memoria alle parole di Boreas, che avevano gridato vendetta contro gli umani e la loro superficialità.

«Non… non avevo capito» riuscì ad articolare Aiolos, passandosi le mani sul viso.

«La Beozia è stata spazzata da venti di burrasca così tremendi da aver disseminato morte e distruzione ovunque…» aggiunse Zeus, torvo in volto e freddo nei toni. «… e ora tuo fratello Boiotos sta tentando di porre rimedio a tale scempio, ma persino per un semidio come lui, sarà difficile sistemare tutto. Ti manda a dire di non mettere piede nelle sue terre per chiedere perdono, perché non te lo concederà. Il Fato ti scelse come dio dei venti al posto suo, poiché solo tu ereditasti immortalità e poteri, ma ora vedo bene quanto, questa scelta da parte del destino, sia stata errata e infelice.»

«Sommo Zeus… zio, io…» tentennò Aiolos, fissandolo penitente e pieno di dolore. «Volevano solo che le persone comprendessero quanto bene porto loro… sono sicuro che non è stato fatto con intenti malvagi.»

«Quanto bene porti alla gente, Aiolos?» ironizzò Zeus. «Beh, credo che ora lo abbiano capito, per merito di coloro che tu consideri amici. Dimmi, sei orgoglioso di loro? Sei lieto delle loro gesta? Sarai felice di sentire il tuo nome affiancato dalla paura e dalla rabbia delle genti?»

«Sono miei amici» sottolineò soltanto Aiolos, risollevandosi in piedi per meglio affrontarlo.

«Beh, i tuoi cosiddetti amici ti hanno reso davvero un pessimo servizio, e ora pagheranno per la distruzione che hanno portato, rimanendo confinati per l’eternità in quelle giare, e verranno loro tolti i poteri perché solo tu possa gestirli. Sarà un compito arduo, perché l’energia da loro emanata è davvero enorme, ma anche tu devi pagare per la tua superficialità» dichiarò Zeus, lapidario.

Aiolos, però, si ribellò a quella scelta ed esclamò: «Loro possono aver peccato di ingenuità, te lo concedo, sommo Zeus, ma non puoi confinarli a vita in quelle giare! Con o senza poteri, i loro sono spiriti liberi e moriranno di inedia, rimanendo confinati a quel modo!»

Zeus se ne infischiò, voltando bellamente le spalle al nipote per dire al fratello Poseidone: «Conducili nelle grotte segrete che io e te abbiamo pattuito e, nel farlo, togli loro i poteri per porli nelle mani di tuo figlio. Altro non devo dire.»

Poseidone si limitò ad assentire e Aiolos, irritato per la mancanza di polso del padre, oltre che per le decisioni del sommo Zeus, afferrò un braccio dello zio ed esclamò: «Liberali, ti prego, e ti prometto che non sfuggiranno mai più al mio controllo. Saranno confinati entro terre che io sceglierò, e a cui dovranno tornare ogni giorno, pena la perdita dei loro poteri per mano mia. Non toglierò mai loro il guinzaglio, ma permetti ai miei amici di vivere al di fuori di quelle gabbie. Te ne supplico.»

Il Padre degli dèi lo fissò pieno di furore, restio ad accettare contrattazioni che non venissero da lui ma, di fronte allo sguardo di sincero pentimento di Aiolos e al suo desiderio genuino di salvare gli amici, sbuffò e disse per contro: «Al prossimo errore, ne pagherai tu stesso le conseguenze. La tua divinità deriva dal sangue potente di mio fratello ma, se mi deluderai ancora, o uno dei tuoi amici lo farà al posto tuo, allora non vi saranno ulteriori perdoni. Nipote o meno che tu sia, sarai condannato con durezza.»

Aiolos assentì a più riprese, piegandosi penitente a baciare il dorso della mano di Zeus e, mentre il Padre degli dèi faceva svanire le giare di contenimento per liberare i venti, dichiarò a gran voce: «Efesto costruirà delle catene per tutti loro, e tu le governerai. Scegli con coerenza cosa fare, poiché tutto dipende dalla tua forza di volontà.»

Ciò detto, svanì al pari degli altri e Aiolos, crollando in ginocchio accanto ai suoi amici – svenuti e distesi sul selciato di fronte al tempio dionisiaco – sentì su di sé tutto il peso delle parole dello zio.

Non avrebbe più potuto fallire, o permettere a uno dei suoi amici di farlo, o per tutti loro sarebbe arrivata una pesante punizione da sopportare. Forse la morte stessa.

Efesto lo raggiunse claudicante, rimasto fino a quel momento silente e ombroso, osservò irrispettoso i venti e dichiarò: «Ti costruirò delle catene e dei collari per ognuno di loro, così che si ricordino che sono i tuoi servitori, e non delle divinità tue pari.»

Ciò detto, svanì in una nuvola di potere color cenere, e ad Aiolos non restò altro che raggiungere i propri amici e piangere per la loro sorte.

Era stato ingenuo a non rendersi conto della profondità del risentimento di Boreas. Se avesse prestato maggiormente orecchio alle sue proteste, forse quel guaio non sarebbe mai nato, nessuno sarebbe morto a causa di un suo errore, e Boiotos non si sarebbe adirato con lui.

Carezzando il capo di Boreas, steso a terra ancora privo di conoscenza, Aiolos pianse in silenzio e, in un mormorio roco, ammise: «Non sono stato accorto. Avrei dovuto comprendere i vostri sentimenti, così come le vostre repliche, invece ho dato per scontato che foste felici, e ora sono costretto a tarpare le vostre ali per un mio errore.»

Eris scelse quel momento per apparire e, con passo felpato e movimenti erratici, lo raggiunse per sussurrare al suo orecchio: «Dimmi, dio dei venti… ti lascerai solo andare allo sconforto, o farai anche qualcosa? Perché, per ora, l’unica azione di cui mi sembri capace, è quella di bagnare il selciato con le tue lacrime.»

Aiolos la scacciò con un gesto del braccio e, nel guardarla con livore crescente mentre la dea rideva divertita di fonte al suo dolore, lui sbottò dicendo: «Ho fallito, è vero. Ma non sono un debole! Riuscirò a dar loro una vita onorevole, anche con queste restrizioni.»

Eris rise delle sue parole, giocherellò con una ciocca dei suoi neri capelli con fare negligente e distratto, quasi che il fervore di Aiolos non la toccasse minimamente, e replicò: «Belle parole, le tue. Ma già una volta hai commesso un errore. Chi mi dice che non ne commetterai un secondo?»

«Anche per il solo gusto di farti un dispetto, ciò non succederà» le gettò in faccia Aiolos, trasmutando se stesso e i suoi amici per non essere più oggetto dell’interesse di Eris.

La dea si limitò a un sorrisino soddisfatto e, non avendo più nessuno da punzecchiare, se ne andò. Dopotutto, il suo compito era stato svolto egregiamente, e forse Aiolos non l’avrebbe davvero delusa.
 
***

Le piccole isole a nord della più imponente Trinacria sarebbero state l’ideale, per loro. Pacifiche, tranquille, sufficientemente lontane dalla civiltà ma, al tempo stesso, abbastanza vicine al mondo dei mortali, così da non sentirsi del tutto fuori dal mondo.

Lì, avrebbe costruito una casa per tutti loro, Efesto le avrebbe rese idonee a contenere il potere dei venti e, al tempo stesso, le avrebbe fatte divenire dei magneti che li costringessero a tornare ogni volta.

Da parte sua, avrebbe vigilato sulla loro sorte, sarebbe stato al loro fianco e avrebbe fatto in modo che quella casa non apparisse loro come una gabbia, quale invece sapeva essere. Avrebbero vissuto al meglio delle loro possibilità e, forse, con il passare dei secoli, la collera di Zeus sarebbe scemata fino a permettere loro di recuperare un po’ di libertà.

«Non devi pensare che non abbia avuto a cuore la tua sorte» esordì una voce alle spalle di Aiolos, mentre egli si volgeva di scatto per scoprire chi avesse parlato.

Accigliandosi quando vide la figura imperiosa di Poseidone, il giovane dio sbottò dicendo: «Mi hai dato giustappunto questa idea, invece! Non avresti potuto difendermi, di fronte alle accuse dello zio?»

«Erano giuste accuse» sottolineò Poseidone, sfidandolo a replicare in tal senso.

Aiolos non sopportò quello sguardo per più di qualche istante e, nel tornare a scrutare il mare dall’altura su cui si trovava, borbottò: «Ugualmente, avresti potuto essere dalla mia parte, per una volta. Per tutta la vita mi hai lasciato a me stesso, ci hai lasciati a noi stessi, e neppure per nostra madre ci sei stato. Non avresti potuto tentare di redimerti, in questo frangente?»

«Chi credi abbia impedito a Zeus di eliminare i tuoi amici venti?» replicò per contro il dio, facendolo sobbalzare per la sorpresa. «Per Zeus, sarebbe stato molto più semplice colpirli con le sue saette e mettere fine sul nascere a qualsiasi protesta, invece io l’ho pregato di risparmiarli perché so quanto tieni a loro. Quanto essi siano, per te, una sorta di famiglia.»

Aiolos assentì in silenzio, ancora torvo in viso e Poseidone, nell’avvicinarsi al figlio, gli batté una mano sulla spalla per poi aggiungere: «E’ raro che Zeus conceda una seconda occasione, perciò sii accorto e gestisci bene questo dono che ti è stato fatto. Io ti rimarrò accanto per aiutarti, se lo vorrai, ma sarai comunque tu ad avere la responsabilità di tenere a bada Boreas e gli altri.»

«Le catene sono proprio…» tentennò il giovane dio, scrutando il profilo duro del padre con espressione dolente.

«… necessarie? Sì. Anche soltanto per mettere in chiaro nella loro testa dura un paio di concetti. Se il tempo dimostrerà il loro pentimento, forse si potrà intercedere per loro perché vengano eliminate ma, fino a quel momento, esse rimarranno.»

Aiolos assentì turbato, prima di domandare: «Rimarrai davvero, stavolta? O mi abbandonerai come abbandonasti Melanippe?»

«Anch’io imparo dai miei errori, figlio» ammise il dio, stringendo con più forza la mano sulla spalla di Aiolos.

Il dio dei venti credette alle sue parole e, con il peso dell’errore a tenergli compagnia, eresse quindi la nuova casa per sé e per i suoi amici. Forse, dopo questa lezione di umiltà, sarebbe stato in grado di comprendere meglio le cose che lo circondavano, e di saper porre rimedio ai problemi prima del disastro.

 
 

 
1 Lesvos: è l’attuale isola di Lesbo, che si trova dinanzi alle coste turche, dove è situata anche l’antica Eolide.



N.d.A.: un breve accenno al passato di Aiolos (ho preferito il nome greco al più conosciuto Eolo) per farvi capire che tipo fosse lui, come fossero i venti al suo comando e perché si trovino "imprigionati" alle Eolie.

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Capitolo 41
*** Eolo - 2 - ***


 
2.
 
 
Isole Eolie – Settembre 2019
 
 
«Giuro che, se sento ancora quella cavolo di pubblicità, lancerò la TV fuori dalla finestra» si lagnò Aiolos, gettando negligente un’arachide contro lo schermo piatto del suo televisore a 65 pollici.

Boreas, vento del nord, rise sommessamente e replicò: «Tu ti lamenti perché hanno dato il tuo nome a una compagnia telefonica, ma io cosa dovrei dire? Vendo arredi per il bagno!»

Aiolos – o Eolo, come era conosciuto ai più – lo fissò con aria stranita dal suo divano di vimini e, con un mezzo sorriso, esalò: «Ma dai? Dici sul serio?»

«Giuro. Ho controllato l’altro giorno su internet, ed è saltato fuori questo» gli disse Boreas, armeggiando con lo smartphone per mostrargli la pagina incriminata.

Aiolos la fissò incredulo per alcuni istanti prima di scoppiare a ridere e replicare: «Beh, per lo meno mi sembra roba di qualità.»

«Niente da dire… però ti capisco. Quando quell’affarino dice ‘eeeolo’ 1 con la sua vocetta querula, fa venire i brividi anche a me» chiosò Boreas, servendosi un po’ di succo di frutta alla pesca dalla brocca che si trovava sul tavolino da salotto.

Il dio dei venti assentì stanco, lanciando un’occhiata distratta oltre le finestre aperte della veranda in cui si trovavano, e da cui si poteva scorgere il mare illuminato dal sole e la vicina Filicudi.

Situata a poca distanza dal Belvedere Panoramico dell’isola, e proprio di fronte all’aerea balneare di Pollara, la villa di Aiolos sorgeva isolata e lontana dagli altri villaggi di Salina, il luogo in cui aveva deciso di vivere coi suoi amici venti.

Lipari, ove avevano vissuto per diversi millenni, era diventata troppo caotica a causa del turismo, così avevano deviato i loro interessi sulla più piccola Salina, centro piuttosto vivo e divertente, ma non così traboccante di turisti.

A loro serviva sia la tranquillità che la vita mondana, e Salina aveva saputo rispondere egregiamente ad entrambe le loro necessità, spingendoli a vivere lì.

Di foggia greca, la loro nuova villa vantava ampi vani e mura stuccate di bianco, imposte azzurro cielo e vaste terrazze sormontate da tendaggi. Una sola, tra esse, era stata lasciata sgombra di protezione, e perciò baciata costantemente dal sole. Essa aveva uno scopo ben preciso, e Aiolos era molto fiero di averla fatta costruire.

Da quella terrazza in particolare, e grazie ai venti favorevoli che accarezzavano l’isola – come se lui avesse avuto bisogno di aiuti, in merito! – lui e i suoi amici si involavano spesso con il parapendio, spezzando così la monotonia delle afose giornate estive.

Quel giorno, però, attendevano visite, perciò si sarebbero astenuti dal volare come erano soliti fare fino al periodo dei temporali autunnali.

Sospirando, e tornando suo malgrado con i piedi per terra, il dio dei venti esalò: «E’ il prezzo da pagare per vivere assieme ai mortali. Dobbiamo sopportare l’utilizzo improprio dei nostri nomi. Anche se devo dire che ho apprezzato molto il Cavaliere dello Zodiaco a cui hanno affibbiato il mio nome.»

«Lo credo! Aveva una delle armature più fighe disegnate da Kurumada!» ammiccò Boreas, mimando due ali enormi con il movimento sinuoso delle braccia. «Anche se il tocco di Shingo Araki e Michi Himeno gli ha conferito molto più fascino.»

Aiolos rise di quella buffa imitazione del Cavaliere di Sagitter e, nel sollevarsi dal divano per stiracchiarsi, domandò: «Senti un po’, brutta imitazione di un gallinaceo… Zéphyros ed Euros non sono ancora tornati dal porto? Il traghetto è di nuovo in ritardo?»

Nótos, vento del sud, entrò giusto in quel momento in veranda, il cellulare in una mano e un sandwich nell’altra, e dichiarò: «Euros mi ha appena chiamato. Il traghetto è arrivato adesso… e pare che le figlie di Artemide siano piuttosto chiassose, perché sentivo Zéphyros lagnarsi del baccano che facevano nel piazzale del porto.»

Aiolos rise ancor più forte di prima, esalando divertito: «Sono bambine! Che pretende? Zéph è il solito noiosino e precisino.»

«E’ il vento di primavera, no? Tutto dolce e carino…» ironizzò Boreas, facendosi aria con una mano con fare svenevole.

«Se vi sente, vedrete quanto dolce e carino può diventare» li prese in giro Nótos, ammiccando all’indirizzo dei fratelli.

Boreas fece per replicare, ma i possenti colpi d’ala di due enormi uccelli li colsero di sorpresa, azzittendo il trio in veranda e portando i tre uomini a scrutare fuori dalle ampie finestre con aria dubbiosa.

Dalle vetrate aperte sulla balconata, le tre divinità scorsero infine le sagome di due immensi rapaci dalle ali grigie e, subitaneo, il panico montò in loro.

Esisteva un solo tipo di bestia alata, capace di raggiungere una simile apertura alare… e non aveva alcun motivo di essere lì!

I due rapaci, dopo aver sorvolato la villa di Aiolos un paio di volte, lanciarono un cupo grido intimidatorio prima di atterrare sulle soglie in pietra delle enormi vetrate aperte, artigliandole con le possenti zampe.

Impallidendo al pari degli altri, Boreas si fece piccolo piccolo, nascondendosi dietro lo schienale di uno dei divani mentre, con occhi spiritati, fissava costernato le due possenti aquile arpie piombate lì tra capo e collo.

Aiolos le fissò a sua volta con espressione inquieta e, mordendosi il labbro inferiore, borbottò: «Ma… non sono le arpie di Eris, quelle? Sì, insomma… Homados e Proioxis?»

«C-credo di sì, ma… perché sono qui?» gracchiò Nótos, allontanandosi un passo alla volta fino a raggiungere l’ingresso della veranda.

In fretta, quindi, si nascose dietro il muro e lì, turbato, continuò a osservare le due possenti arpie in religioso silenzio. Le aquile, però, non diedero segno né di volerli attaccare, né tanto meno di volersene andare e, anzi, infilarono le teste sotto le ali con un atteggiamento del tutto rilassato.

«E ora?» sussurrò Boreas, guardando il padrone di casa con espressione tesa.

«Io non mi muovo di un millimetro. Se vuoi fare qualcosa, falla tu» brontolò Aiolos, scivolando pian piano a terra fino a nascondersi totalmente dietro al divano.

«Sembriamo ridicoli» sbuffò Boreas, imitando comunque Aiolos.

«Litigaci tu, con quelle due bestiole. Se Eris era girata male, quando le ha lasciate uscire, può aver detto loro di beccare culi a destra e a manca, perciò io non presterò il fianco perché becchino il mio» sottolineò il dio, fissandolo accigliato.

Boreas non seppe cosa replicare in merito e, non sapendo che altro fare, rimase in silenzio a scrutare quelle enormi aquile dall’aspetto terrificante. Forse, se si fossero annoiate abbastanza, se ne sarebbero andate da sole… e senza beccare culi.
 
***

«Dovete sapere che, dalla terrazza più alta della villa, possiamo tranquillamente lanciarci con…»

Del tutto impegnato a interpretare la parte di anfitrione con i loro ospiti appena giunti a Salina, Euros, vento dell’est, impiegò qualche attimo prima di notare qualcosa di strano intorno a sé.

Nótos era ben nascosto dietro una credenza e, con il capo, gli stava facendo cenno – con aria assai spaventata, tra l’altro – di non entrare assolutamente nel salone.

Euros, ben noto per fare l’esatto contrario di quel che gli si diceva, pregò quindi gli ospiti – a loro volta piuttosto confusi dall’atteggiamento di Nótos – di attenderlo un istante. Ciò detto, si infilò in veranda con passo lesto, esattamente come gli era stato indicato di non fare.

Bloccandosi a metà di un passo non appena ebbe oltrepassato la soglia, Euros fissò Aiolos e Boreas tutti tremanti e rannicchiati dietro un divano e, confuso, gorgogliò: «Ma che fate? I divani sono diventati improvvisamente scomodi?»

Boreas non emise fiato al pari di Aiolos, ma indicò verso le vetrate con mano tremante, l’aria di chi aveva appena visto un fantasma.

Euros, a quel punto, seguì con lo sguardo la sua indicazione e, mentre gli ospiti entravano a loro volta in veranda per meglio capire la situazione, lui strillò in modo ben poco edificante e gracchiò: «Ma cosa sono quelle due bestiacce?!»

Le arpie strillarono inviperite, a quel commento ma, prima ancora di muovere mezzo passo – ops, zampa – per vendicarsi dell’offesa, videro colui che stavano cercando e trillarono di soddisfazione.

Alekos sorrise spontaneamente nel vederle e, in pochi passi, le raggiunse per abbracciare le due aquile sotto lo sguardo sgomento di Aiolos e dei quattro venti.

«Siete arrivate prima voi! Dovrò dire a Eris che aveva ragione. Siete velocissime» esclamò Alekos, mentre la sua famiglia lo guardava con indulgenza e un leggero senso di disagio.

«Quelle bestiole non lo mollano un attimo, da un po’ di tempo a questa parte» chiosò Artemide, mentre Buffy si sbracciava per scendere e raggiungere a sua volta le arpie. «Sì, sì, ho capito, scalmanata che non sei altro. Vai pure e fatti beccare. Lo sai che obbediscono solo ad Alekos.»

«Se c’è lui, non mi beccheranno» sottolineò la bimbetta, subito seguita a ruota da Xena.

Aiolos si fece abbastanza coraggio da alzarsi e, nel raggiungere cauto i suoi ospiti, indicò la scena in corso come se si aspettasse di veder comparire uno xenomorfo2 da un momento all’altro. Turbato, quindi, domandò incredulo: «Ma… da quando in qua Alekos si è fatto due simili animaletti da compagnia?»

Athena si limitò a un’alzata di spalla, come non potendo dare una risposta semplice o esaustiva, e si limitò a replicare: «Non sono sue in senso stretto. Ma obbediscono a lui, se le chiama e, quanto pare, Alekos aveva chiesto loro di venire.»

«Oh… ed Eris glielo permette?» gracchiò Aiolos, ancora più confuso. «Da quel che so, è molto gelosa delle sue bestiole.»

«Qualcosa del genere. Il suo potere sembra tenere a bada l’istinto sanguinario delle Makhai che vivono all’interno di quelle arpie e, stando così le cose, loro lo seguono ogni volta che lui desidera stare in loro compagnia» spiegò succintamente Athena, facendo spallucce.

«Ma, di solito, non stanno sempre incollate al fianco di Eris? E’ raro vederle veleggiare da sole» domandò a quel punto Boreas.

«Va così. Di certo, se ci proviamo noi, tentano di staccarci le dita a beccate» si limitò a dire Artemide con una spallucciata, come se nessuno di loro fosse fosse in grado di dare altre spiegazioni.

I quattro venti non chiesero quindi altro e Aiolos, lasciando che alle arpie pensassero Alekos e le due bambine, guidò i suoi ospiti verso le loro camere da letto.

«Ci ha fatto davvero piacere ricevere la tua telefonata, Athena. Era da tempo che non ci vedevamo, e questo è il periodo migliore per godersi il mare. Il turismo è in calo, adesso, e visitare l’isola sarà assai più piacevole, senza tutta la confusione dei turisti estivi.»

«Inoltre…» aggiunse Zéphyros, tutto sorridente: «… da quando possiamo lanciarci col parapendio direttamente dalla terrazza, stare qui è diventato ancor più divertente.»

«Io proverò di sicuro» dichiarò immediatamente Artemide.

«Sì… e poi chi glielo dice, a Buffy e Xena, che loro non possono fare quello che fa la mamma?» ironizzò Felipe al suo fianco.

Lei si accigliò, storcendo la bella bocca rosea e, in un borbottio sommesso, disse: «Beh, potresti distrarle mentre faccio un giretto.»

«Cioè… vorresti comprare il mio silenzio, mia divinità?» celiò lui, scatenando l’ilarità dei presenti.

«Ci penserò» motteggiò altezzosa Artemide prima di lanciare un’occhiata all’interno della stanza a loro assegnata. «Wow! Ma che affreschi magnifici!»

«Merito delle Muse. Si sono divertite a dilettarsi in un nuovo genere di arte, per loro, e devo dire che ci sanno fare anche con colori e pennello, non solo con musica e canto» dichiarò fiero Aiolos.

«Adesso che lo so, saprò a chi far ridipingere la villa» disse Artemide, lasciandosi cadere sull’enorme letto con aria estasiata.

Aiolos fissò curioso Felipe e lui, con una scrollatina d spalle, ammise: «Anche Buffy e Xena hanno messo alla prova la loro affinità con l’arte del colore del pennello, ma con scarsi risultati.»

«Oh… non oso neppure chiedere» esalò vagamente ansioso Aiolos, dandogli una pacca consolatoria sulla spalla mentre osservava turbato gli affreschi della stanza.

Sperò davvero che le due gemelline non si sognassero di affrescare anche casa sua.

«Non immagineresti mai quanto posso essere… creative» sospirò Felipe, scuotendo il capo. «Sarà un dramma far loro capire che, quando cominceranno la scuola, il vostro mondo dovrà rimanere segreto a tutti i costi. Nei loro splendidi disegni non fanno altro che mostrare ciò che vedono tutti i giorni... il che non è esattamente normale.»

L’istante seguente, Felipe sgranò gli occhi quando il suo sguardo si portò all’altezza della finestra, ove corse l’istante successivo per aprirla e scrutare all’esterno, suscitando così la curiosità di tutti.

Terrorizzato, l’uomo si sporse il più possibile all’esterno per capire quanto, di ciò che aveva soltanto intravisto, fosse stata realtà ma, non appena si rese conto di aver visto benissimo, urlò: «Buffy! Ma che diavolo fai?!»

Costernato e pieno di terrore, la osservò a occhi sgranati mentre volteggiava sul dorso del possente Proioxis, felice e deliziata come poche altre volte l’aveva vista.

Subito, Artemide balzò via dal letto per comprendere cosa stesse accadendo e, quando vide a sua volta la scena, andò su tutte le furie.

Ignorando la presenza di parenti e amici, corse verso il salotto – dove ancora si trovavano Alekos, Xena e il possente Homados – e, senza alcun controllo, sbraitò: «Cosa vuoi fare, Alekos? Ammazzarmi le figlie?!»

Negli occhi del giovane comparve un lampo di protesta che mai, prima d’ora, Artemide aveva scorto nel nipote ma, prima che quel lampo potesse tradursi in una rispostaccia, Alekos richiamò con un fischio Proioxis e disse: «Non è mai stata in pericolo. Proioxis l’avrebbe protetta a costo della vita.»

«Perché gliel’hai chiesto tu?» lo rimbeccò sarcastica Artemide, afferrando Xena per prenderla in braccio, mentre la bimba protestava animatamente per tutta risposta.

Alekos assottigliò le palpebre e, ancora, sembrò sul punto di rispondere a tono ma, come in precedenza, si limitò a dire: «Sì. Perché gliel’ho detto io. Mi sono fedeli, e fanno di tutto per esaudire i miei desideri.»

Quando poi Proioxis tornò a posare le enormi zampe sulla soglia della finestra e fece scendere una eccitatissima Buffy, aggiunse serafico: «Come vedi, non è successo nulla.»

«Beh, la prossima volta, chiedimelo» sbottò Artemide, trascinando via anche Buffy, mentre il resto dei familiari osservava la scena in completo, imbarazzato silenzio.

Aiolos fu lesto a indirizzare il gruppo verso la terrazza, così che gli animi si calmassero un poco ma, con Alekos, rimasero Athena ed Érebos.

Non appena la famiglia si fu allontanata, la dea si avvicinò al figlio, intento a carezzare il capo di un incolpevole Proioxis, e mormorò: «Come mai questo colpo di testa?»

Il figlio reclinò il capo a scrutarla in volto e, suo malgrado, Athena sospirò. Era diventato ormai grande e la superava di mezza testa, per quanto lei stessa fosse alta.

Alekos aveva già compiuto diciannove anni e assomigliava moltissimo a Miguel, almeno dal punto di vista fisico. Sul piano caratteriale, il dolce e tenero bambino dei primi anni era stato man mano sostituito da un adolescente intraprendente, che aveva poi lasciato il posto a un giovane affascinante quanto prestante.

I suoi poteri del tutto unici, però, lo rendevano diversissimo dall’ex marito e diverse volte, ormai, glielo rendevano quasi un estraneo. Come quel giorno.

Nel corso degli anni, ne aveva ammirato la crescita e si era scoperta assai orgogliosa di avere un figlio così dotato. Per certi versi, aveva persino peccato di vanità, pur sentendosi un po’ sciocca nell’ammetterlo con se stessa.

Nell’ultimo paio d’anni, però, come la stessa Eris aveva notato, e come Érebos aveva temuto, il suo potere aveva finito con il diventare sempre più grande e forte, e stava iniziando a cambiare il carattere di Alekos.

Il corpo di un semidio non era in grado, a quanto pareva, di contenere anche soltanto una parte del potere di una divinità Ctonia, e questo stava incidendo sempre più spesso sulla capacità decisionale di Alekos.

Spezzando in due il proprio filo della vita per donarlo ad Alekos, Érebos aveva prodotto un effetto collaterale che, in un primo momento, non aveva minimamente ipotizzato, ma che ora iniziava a mostrare i suoi punti deboli.

Né lui né Athena avevano la minima idea di come poter bloccare, o calmierare, una simile escalation, ma era sempre più evidente quanto, quella necessità, sarebbe presto diventata inderogabile.

«Avresti dovuto chiedere ad Artemide o a Felipe, se potevi farlo. Lo sai» sottolineò con dolcezza Athena, carezzandogli un braccio.

«Volevo rendere felici Buffy e Xena, e loro me l’avrebbero impedito» replicò Alekos, tornando a volgersi per carezzare il capo di Proioxis per poi aggiungere: «Era giusto che provassero l’ebbrezza del volo, e loro me l’avrebbero impedito.»

Athena fissò preoccupata Érebos che, con gentilezza, replicò: «E’ encomiabile, da parte tua, ma così hai turbato Artemide e Felipe.»

A quelle parole, il volto di Alekos ebbe come un guizzo e si fece cereo e, con mani tremanti, il giovane si coprì il viso, esalando: «Non… non ci ho pensato. Ho ascoltato le preghiere di Buffy e Xena e le ho esaudite, però non ho…»

Interrompendo il suo dire, si lasciò scivolare a terra sotto gli occhi sgomenti dei due genitori mentre le arpie, irritate, iniziarono a strepitare e soffiare all’indirizzo di Athena ed Érebos.

«Tesoro, tranquillizzati. Non è successo nulla. Le tue cugine stanno bene, e lo sai che Artemide ha un caratteraccio. Le passerà» mormorò Athena, cercando di non far caso agli artigli delle arpie. Non voleva essere aggredita e, di sicuro, non desiderava far del male a quegli animali, ma lo avrebbe fatto se l’avessero tenuta ancora lontana dal figlio.

Alekos, però, sollevò una mano per carezzare una delle zampe di Homados e, subito, lo strepitio ebbe termine.

Non andava bene. Per niente.

Nessuna divinità poteva avere il controllo sull’animale sacro di un suo pari, ma lui – da semidio – guidava le aquile arpie di Eris come se fossero state sue, e questo non dipendeva dagli ordini della dea.

Neppure Eris avrebbe potuto obbligare Homados e Proioxis a farsi dare ordini da qualcun altro, se non da lei; non era così che funzionava, con gli animali devoti delle divinità.

Le arpie, invece, si lasciavano modellare come creta nelle mani di Alekos, e questo poteva solo voler dire una cosa; il suo potere stava diventando troppo forte. Così forte da condizionare una delle regole basilari del loro mondo.

Érebos non disse nulla, limitandosi ad aiutare Alekos a risollevarsi da terra e, dopo uno sguardo ad Athena, lo condusse nelle sue stanze perché si riposasse un poco.

Lasciando quindi il figlio nelle mani del compagno, la dea raggiunse la sorella sulla terrazza più alta della villa, dove si era radunata l’intera famiglia, e lì venne subito avvicinata dalle nipoti.

Buffy e Xena le abbracciarono le gambe, guardandola poi con aria colpevole e, quasi all’unisono, mugugnarono: «Scusaciii! E’ colpa nostra! Non hai sgridato Alekos, vero? Siamo noi che abbiamo insistito!»

Athena si chinò alla loro altezza per abbracciarle e, stringendosele al petto, mormorò: «Voi non avete colpe, tesori miei. E lui è abbastanza grande per dirvi di no, quando serve.»

«Sì, ma noi abbiamo davvero davvero insistito!» sottolineò Buffy, ai limiti del pianto: «Alekos ha chiamato le due arpie perché noi ci siamo lamentate del fatto che non avevamo il permesso di volare con le aquile del nonno, e non ci sembrava giusto!»

Accigliandosi leggermente, Athena lanciò un’occhiata ad Artemide che, nel frattempo, si era avvicinata, e mormorò: «Giusto, eh?»

«Sì, zia. Lui ci ha detto che la riteneva un’ingiustizia, così ha ordinato alle arpie di seguirci fin qui» annuì Xena. «Quindi, è colpa nostra, non sua.»

Athena sorrise alle bambine, pur non sentendosi dell’umore per farlo, e baciò entrambe prima di rassicurarle sulla buona salute di Alekos. Ritenutesi soddisfatte, le gemelle tornarono dal padre nel loro trotto allegro e la dea, nel rialzarsi, sospirò stanca e preoccupata.

Artemide, ora più calma, asserì: «Dovrei essere abbastanza grande per capire che Alekos non le avrebbe mai messe in pericolo. Scusami se ho alzato la voce con lui.»

Athena scosse il capo, dicendo per contro: «Doveva chiedere, prima di tutto.»

Ciò detto, la dea fece un cenno alla sorella perché si allontanasse con lei dal resto del gruppo e, nel poggiarsi contro il parapetto della balconata, Artemide domandò cupa: «Non c’entrano soltanto i capricci delle gemelline, vero?»

«Non del tutto. Voleva portare giustizia, il suo concetto di giustizia, a tutti i costi. Infischiandosene delle conseguenze» sospirò Athena, passandosi una mano tra la folta chioma fulva.

Levando un sopracciglio con evidente confusione, Artemide esalò: «Che intendi dire, scusa?»

«Tu e Felipe sareste stati un impedimento alla felicità delle bimbe, perciò non vi ha interpellati e ha fatto di testa sua… perché lui deve rendere felici le persone, aggiustando i torti che trova lungo il cammino. Indipendentemente dal fatto che siano veri, o presunti.»

«Merda!» gracchiò la dea, costernata. «E’ il suo potere, a parlare?»

«Temiamo di sì. Già l’anno scorso, quando lui e Acaste obbligarono Eris a palesarsi con l’inganno, Alekos ebbe una crisi di nervi per averla costretta a mostrarsi a loro» le spiegò Athena. «La cosa più folle fu che non me lo disse, preferendo nascondersi da me perché non lo obbligassi a dire la verità.»

«Oh, già… la faccenda del vostro legame» borbottò Artemide, annuendo. «Come lo scopristi, quindi?»

«Me lo disse Clizia. Non le parve normale, perché la sua reazione non fu soltanto emotiva, peraltro assai esagerata, ma anche fisica. Mi disse che, nei tre giorni passati nel regno di Oceano, le sue condizioni fisiche peggiorarono fino a bloccarlo, con un tremendo mal di testa e una brutta tachicardia a corollario.»

Artemide sospirò, passandosi una mano sul volto con espressione irritata e, nel poggiare una mano sulla spalla della sorella, domandò: «Ci sono stati altri episodi?»

«Il fatto che Era e Zeus vadano d’accordo ormai da mesi, non ti dice niente?» domandò con fiacca ironia la dea, facendo sobbalzare la sorella per la sorpresa.

«C’è il suo zampino?»

«Non ne so molto, perché è diventato più guardingo, con me, e vengo a sapere le cose più… anomale tramite Acaste, Apollo o Clizia, ma pare che non ritenesse giusto che la coppia più importante del pantheon litigasse sempre.»

«Merda!» ripeté Artemide, passandosi le mani tra i corti capelli ramati. «E ora che si fa?»

«Non lo sappiamo. Érebos è impegnato da mesi a studiare e scandagliare tutti i libri e le pergamene più antiche di cui dispone, ma non è saltato fuori nulla di utile. Alekos è unico per molti motivi, e non so davvero cosa potrebbe succedere, se le cose andassero avanti a questo modo» sospirò Athena, poggiando il capo contro la spalla della sorella. «Potrebbe consumarsi, di questo passo, travolto dal suo stesso desiderio di portare giustizia ovunque... o, nella peggiore delle ipotesi, potrebbe fare del male a qualcuno per portare del bene ad altri.»

Artemide le carezzò il capo, sentendosi per la prima volta in vita sua veramente impotente. Lei era una dea dai poteri immensi, eppure non aveva la più pallida idea di come poter risolvere un problema simile.

«Non essendo figlia diretta di Crono, non ho potuto dargli il dono della divinità completa, come invece sarebbe avvenuto se a partorirlo fosse stata Demetra, o Era…» sospirò Athena, scuotendo il capo per l’irritazione. «… e questo lo porta ad avere seri problemi nella gestione del suo potere che, a quanto pare, sembra poter essere governato solo da un dio. E’ un problema non da poco.»

«Non puoi fartene una colpa, così come non deve farsi una colpa Érebos per aver deciso di salvarlo. Non potevate sapere.»

«Non sono abbastanza forte per proteggerlo, ed è una cosa che non sopporto» sorrise mesta Athena, passandosi una mano sul viso con espressione turbata.

Artemide, per tutta risposta, la abbracciò e disse con veemenza: «Atty, non è assolutamente colpa tua! Nessuno poteva prevedere che Alekos avrebbe sviluppato un simile potere, ma stai tranquilla. Se c’è qualcuno che può dipanare questa matassa, è sicuramente Érebos. Dopotutto, è lui che vi ha permesso di uscire dall’Oltretomba, no? Riuscirà anche stavolta.»

Athena annuì senza però dire nulla. Nemmeno Artemide conosceva l’intera storia, e dirle del sacrificio di Érebos – e di ciò che questo sacrificio aveva involontariamente scatenato – non sarebbe servito.

Non voleva in alcun modo mettere in ansia la sua famiglia, e dirle la verità l’avrebbe sicuramente messa in agitazione. Dovevano risolvere da soli quel problema.

Se mai vi era un modo, ovviamente.

 
 
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1 Eolo: Aiolos si riferisce alla pubblicità della Eolo – società telefonica per internet a banda veloce.
2 Xenomorfo: 
Lo Xenomorfo, noto anche come Alien, è una specie immaginaria extraterrestre presente come principale antagonista, sia nella serie di film Alien, che nell'universo immaginario a esso collegato.
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N.d.A.: direi che i problemi di Alekos sono ben lungi dall'essere migliorati e anzi, la faccenda sta assumendo dei contorni anche piuttosto inquietanti. Il fatto stesso che sia stato tentato di replicare per le rime alla giusta preoccupazione di Artemide - e la relativa crisi successiva - ci dice che qualcosa si è spezzato, e il tempo per rilassarsi è ormai finito.
Cosa faranno i nostri eroi, a questo punto?

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Capitolo 42
*** Eolo - 3 - ***


 
3.
 
 
 
 
 
Le mani a coprire il volto contratto dalla contrizione, Alekos mormorò sconvolto: «Cosa ho fatto, papà? Perché non me ne sono reso conto?»

Érebos gli carezzò una spalla, asserendo gentilmente: «Non hai fatto nulla di male. Hai agito d’impulso, e questa è una cosa che andrà corretta, ma non hai commesso nulla di irreparabile.»

«Ho mancato di rispetto ai miei zii» replicò affranto Alekos, mostrando finalmente il proprio volto al genitore adottivo.

I suoi occhi smeraldini erano bagnati di lacrime, e trasmettevano tutto il suo dolore e la battaglia interna che stava combattendo.

Se si fosse unicamente trattato di una adolescenziale tempesta emotiva, la divinità Ctonia non se ne sarebbe preoccupata, ma v’era ben altro dietro a quella contrizione dolente e forse fin troppo accentuata. V’erano due entità potenti che si stavano scontrando, utilizzando il corpo di Alekos come un campo di battaglia.

Il suo potere divino – sempre più forte e dirompente – era contrapposto alla sua forza di volontà umana, più debole e fallace per sua stessa natura.

Come fosse possibile metterle d’accordo, il dio non era ancora riuscito a scoprirlo.

«Sbagliare è connaturato in qualsiasi creatura vivente, Alekos ma, per te che possiedi anche poteri divini, le cose cambiano un poco. Ognuno di noi deve soppesare bene i propri desideri e le proprie aspirazioni, perché abbiamo doni che ci permettono di ottenere molto, e senza fatica. Questo, però, può creare degli squilibri, e noi dobbiamo soppesarli con attenzione» disse il dio Ctonio carezzandogli il capo come, sovente, aveva fatto quando ancora era un bambino.

Alekos assentì cauto, ma domandò: «Quindi, è sbagliato pensare di poter sempre raddrizzare un torto, se lo si ritiene tale e se si hanno i mezzi per farlo?»

«Devi esaminare con accuratezza i pro e i contro, e valutare di volta in volta cosa voglia dire assecondare i desideri di qualcuno» replicò il dio, accigliandosi leggermente a quella domanda dai sottintesi assai vasti. «Faresti svaligiare una banca a un ladro, pur se sapessi che questo gli renderebbe la vita più facile e, magari, gli permetterebbe di sfamare un figlio e una moglie?»

«No!» esalò costernato Alekos. «Però, tenterei di fargli guadagnare dei soldi così da poter vivere rettamente.»

«E se lui non volesse guadagnarli lecitamente?»

Alekos si azzittì di fronte a quella domanda e, sospirando, reclinò il capo sul cuscino e mormorò: «Capisco cosa vuoi dire, ma continuo a pensare che ci sia qualcosa che non va nell’equazione. Tutti dovrebbero poter contare sul bene e sulla giustizia.»

«Se fosse sempre giorno, io, Nyx, Artemide o altri come noi, non esisteremmo, ti pare?» replicò enigmatico Érebos, pregandolo quindi di riposare un poco.

Alekos lo guardò dubbioso mentre il padre usciva dalla sua stanza e, con quelle parole, infine si addormentò.

Nel corridoio Érebos trovò Hypnos ad attenderlo, lo sguardo accigliato e pensieroso e, dopo aver ringraziato il figlio per averlo raggiunto, domandò: «Credi di poterlo trattenere fino a che il suo equilibrio interno non si sarà stabilizzato?»

«Non è come trattare con certe divinità zuccone di mia conoscenza, non temere» ironizzò il figlio, indicando con un cenno alla porta della stanza di Alekos. «La faccenda, comunque, è seria. Dentro la sua testa c’è un guazzabuglio infernale, e Morpheus farà una fatica del diavolo a fargli sognare prati verdi e cieli azzurri, credimi.»

Annuendo stancamente, la divinità Ctonia assentì e, dopo un ultimo saluto, osservò Hypnos svanire in una nuvola dorata.

Come doveva agire, a quel punto? Cosa doveva fare?
 
***

La luna era alta in cielo, quando Alekos uscì sul terrazzo più alto della villa per ammirare il mare e le luci del vicino villaggio costiero.

La cena che Aiolos aveva offerto loro non era stata inferiore a quella di un qualsiasi Grand Hotel di fama mondiale, e il pesce fresco cucinato alla perfezione aveva obbligato al bis più di un commensale.

Le risate si erano sprecate e, pur se Alekos si era sentito un po’ a disagio nel rivedere gli zii dopo ciò che era successo, il loro incontro era avvenuto senza drammi.

Il giovane si era scusato con Artemide e Felipe per il suo colpo di testa, ma gli zii erano stati così cari da non addebitargli nulla, e le cuginette lo avevano abbracciato forte, scusandosi a loro volta.

Tutto si era apparentemente appianato, ma ancora Alekos non si era sentito abbastanza a suo agio da rilassarsi, né con gli altri, né con se stesso e, alla fine, si era ritirato subito dopo la cena luculliana.

In quel momento, la villa era però tranquilla – gli ospiti erano quasi tutti a letto – e lui poté tornare a respirare con serenità dopo ore di tensione nervosa. Una mano poggiata tranquilla sul capo di Proioxis, Alekos scrutava il lento volteggiare di Homados sopra le loro teste.

Era talmente piacevole averli accanto che qualsiasi problema passava in secondo piano, con loro nelle vicinanze.

Quando però Aiolos lo raggiunse sulla terrazza, un po’ se ne stupì. Da quel che aveva capito, il dio dei venti e i suoi amici avevano una discreta paura delle aquile arpie, e Homados e Proioxis si trovavano con lui, in quel momento.

Ugualmente, lo vide avvicinarsi e, con un sorriso di scuse, mormorò: «Vorrei scusarmi anche con te, Aiolos. Tu ci inviti qui, e io faccio scoppiare un mezzo incidente diplomatico.»

Aiolos rise di quel commento e, dopo aver controllato che Proioxis non la prendesse come un’invasione dei suoi spazi, lo affiancò e replicò: «Credimi, ne so qualcosa di incidenti diplomatici, e il tuo non è tra questi.»

Accennando un sorrisino, Alekos domandò: «Intendi quel che successe alla tua madre adottiva?»

«Esatto, ragazzo mio. Io e Boiotos, il mio gemello, non avremmo dovuto sopravvivere ai suoi inganni, e avremmo dovuto perire per mano dei suoi figli naturali. Avere per padre un dio come Poseidone, però, ti concede certi vantaggi» gli strizzò l’occhio il dio dei venti. «Scoprire la realtà su nostro padre e su chi fosse nostra madre, ci spinse a dire la verità a Metaponto, così che potesse rendersi conto delle molteplici bugie di Teano. Questo, come immaginerai, scatenò non poco caos, alla corte del nostro padre adottivo.»

«Fu un incidente diplomatico coi fiocchi» ammise Alekos. «Mettere in piazza simili segreti è tutt’ora sconveniente… figurarsi all’epoca!»

«Decisamente, ma questo ci portò a conoscere la verità su noi stessi e, per quanto mi sia spiaciuto non poter condividere l’immortalità con Boiotos, riesco a convivere abbastanza bene con il ricordo di lui e di ciò che seppe darmi come fratello.»

«Deve mancarti molto» mormorò Alekos, spiacente.

«Come nessun altro, ma ho i miei amici, qui con me e, anche se li ho condannati a questa vita segregata a causa di un mio errore di valutazione, spero di aver contribuito con i miei sforzi a rendere loro la vita il migliore possibile.»

Alekos mormorò: «Da un grande male, è comunque giunto del bene.»

«Esatto. Le due cose non si escludono a priori e anzi, di solito vanno di pari passo» dichiarò Aiolos con un sorriso. «E’ più che evidente che oggi, con il tuo gesto, volessi rendere felici quelle bimbette, ma non hai tenuto conto della reazione di quell’isterica di Artemide. Mi domando ancora come faccia Felipe a sopportarla.»

Alekos rise sommessamente e Aiolos, dandogli un colpetto con la spalla, aggiunse: «Da un grande bene, però, può anche venire del male. In sostanza, anche se si vuole fare una cosa buona, si può finire per fare un casino. Perciò, vale la pena fermarsi un attimo a soppesare le cose.»

«E dire che mi reputavo abbastanza adulto da averle ormai capite, certe dinamiche eppure sembra che, ogni tanto, il mio cervello vada in tilt» si irrise il giovane, scuotendo il capo per l’imbarazzo.

Aiolos allora rise, e replicò: «Ehi, ragazzo! Io non ho ancora imparato adesso!»

Alekos gli sorrise divertito e il dio dei venti, tornando serio, aggiunse: «Non voglio ficcare il naso negli affari tuoi e chiederti cosa sta succedendo, perché sei grande abbastanza per avere il diritto di tenere per te i tuoi segreti. Ti dico questo, però. Concediti il lusso di sbagliare, ogni tanto, e prenditi anche del tempo per respirare e stare un po’ per i fatti tuoi. Non è necessariamente detto che tu debba, sempre e comunque, pensare al bene collettivo o a ciò che secondo te va raddrizzato. C’è anche il tuo, di benessere a cui pensare. E mi sembri un tantino teso, se me lo concedi. Devi rilassarti un po’.»

«Forse hai ragione… ma mi viene spontaneo pensare a come sistemare al meglio le cose» sospirò Alekos, carezzando il capo di Proioxis con fare distratto.

«Capisco» mormorò il dio, sollevando turbato un sopracciglio nel notare il totale servilismo dell’arpia. «Senti cosa facciamo. Domattina diciamo ai ragazzi di darci dentro col vento, così ti mando a spasso con il parapendio e con queste due ragazzone troppo cresciute, va bene?»

«E dopo chi le sente, Buffy e Xena?» ironizzò Alekos.

«L’hai rifatto» ammiccò Aiolos, dandogli un colpetto alla spalla con un pugno. «Pensa a te, per una volta. Alle bambine troveremo altro, da fare. Promesso.»

«Andata» accettò a quel punto Alekos, lanciando poi un’occhiata a Proioxis che, al suo assenso, si involò per raggiungere Homados.

Aiolos ne seguì il volo con fare pensieroso e, tra sé, si domandò quanto Eris fosse al corrente della sottomissione delle sue arpie ai voleri di Alekos. Si era resa conto di ciò che stava accadendo?
 
***

Come promesso, Zéphyros generò correnti ascensionali tali da permettere ad Alekos di levarsi in volo con il parapendio, mentre gli altri venti controbilanciarono quella variazione barometrica intorno all’isola.

Zeus avrebbe tagliato loro la testa con gran diletto, se avessero combinato altri guai perciò era vitale che, nel mondo umano, non vi fossero ripercussioni di nessun genere. Ormai avevano imparato bene la lezione.

Sotto gli occhi attenti della madre e quelli divertiti di Felipe, Alekos si librò quindi in volo e, assieme a lui, Homados e Proioxis si involarono per tenergli compagnia.

Da quella prospettiva del tutto privilegiata, Alekos poté finalmente godersi il panorama dell’isola visto dall’alto, oltre alla visione dell’arcipelago delle Eolie e del mar Tirreno.

Il suo cuore si fece via via più leggero, le pulsioni contraddittorie andarono scemando e, infine, nella sua mente ricomparve il sereno. Non si era neppure reso conto di aver avuto una tale confusione mentale eppure, quando si trovò lassù, tutto gli divenne più chiaro, come se un velo fosse venuto a mancare.

Le arpie gli tennero compagnia durante i suoi volteggi e, mentre manovrava il parapendio per far perdurare il più possibile il volo, Alekos sentì un nuovo desiderio sorgere dentro di sé.

Aiolos aveva ragione; stava perdendo di vista il senso reale delle cose. Dare sempre voce ai suoi istinti divini, e cercare di portare ordine laddove vedeva caos, non sempre era giusto o corretto. Doveva porsi dei limiti, o avrebbe finito col fare del male a qualcuno.

Anche a se stesso, a quanto pareva. Doveva badare anche ai propri bisogni, alle proprie richieste personali.

Passare del tempo unicamente con la famiglia, lasciarsi travolgere dai drammi personali di ciascuno di loro e, più di tutto, essere determinante nel dirimere le mille questioni che gli si erano presentate innanzi, era stato snervante.

Ora se ne rendeva conto.

Per quanto li amasse tutti, sapeva anche riconoscerne i difetti, e questi avevano pesato molto più del previsto, sulla sua salute.

Forse, dopotutto, il disagio crescente che sentiva dentro di sé aveva origine da lì. Era più che probabile che gli fosse venuto un esaurimento.

Sorridendo tra sé, si disse che avere a che fare con le divinità greche – e i loro capricci – poteva davvero prosciugare le energie di chiunque e, molto probabilmente, un po’ di tranquillità avrebbe risolto ogni cosa.

Quando infine toccò terra, dopo almeno quaranta minuti di volo libero e leggermente pilotato da Aiolos e il suo dominio sui venti, Alekos sospirò soddisfatto e pacificato. Levando poi il viso verso il cielo terso, si perse in contemplazione delle sue due compagne di volo e, nel vederle così libere da freni, prese la sua decisione.

Sì, si sarebbe preso una pausa. Da tutto.

Dall’università – dopotutto, un anno sabbatico poteva servire a tutti, no? Anche a un semidio come lui – dalla vita quotidiana, dai soliti problemi delle divinità di sua conoscenza, da ogni forma di ansia, insomma.

Avrebbe trovato un posto dove rifugiarsi e lì avrebbe ritrovato l’equilibrio perso.

Quando infine vide giungere Nótos con la sua jeep, Alekos raccolse il parapendio ripiegandolo diligentemente e il vento del sud, sorridendogli, dichiarò: «Davvero un bel volo. E mi assicuri che era il tuo primo lancio?»

«Assolutamente» assentì il giovane.

«Beh, ci sei portato, ragazzo» dichiarò il vento del sud, caricando il parapendio nel baule mentre Alekos saliva in auto.

Le arpie lanciarono il loro stridio e, diligenti, si involarono nuovamente verso la villa di Aiolos.

«Tu dici?» commentò Alekos, osservandole con aria persa.

«Dico che, se tua madre è d’accordo, potresti rimanere un po’ qui con noi e diventare un esperto» gli strizzò l’occhio Nótos, sorprendendolo.

«Come sai che…» tentennò il giovane, non sapendo come esprimersi.

«Abbiamo la vista acuta, e sappiamo riconoscere una persona in gabbia, visto che noi ci viviamo da un sacco di tempo» gli fece notare l’altro, guidando lungo la provinciale con scioltezza, quasi conoscesse ogni minima asperità.

«Dici che ho l’impressione di essere… in trappola?»

Nótos assentì, dichiarando: «Per quanto tu voglia bene a una persona, arrivati a un certo punto avrai bisogno di crearti i tuoi spazi, entro cui muoverti più liberamente. Tu sei un semidio dotato di grandi poteri, e non sei come un comune mortale che ha esigenze e visioni limitate. Tu vedi più in grande, per così dire, e scorgi le cose prima degli altri perché non sei confinato dalla tua età anagrafica e, quindi, dalla lentezza del cervello umano nell’apprendere le cose.»

Alekos annuì suo malgrado. Per quanto gli fosse piaciuto intraprendere gli studi e farsi degli amici umani, era stato difficile mascherare il suo sapere e la sua rapidissima capacità di apprendimento.

Certo, avrebbe potuto fare come alcuni ragazzini reputati geni per il loro Q.I. elevatissimo, ma questo gli avrebbe precluso diverse avventure con i suoi coetanei. Lasciarsi andare al tran tran scolastico era stato bello, per quanto limitante, ma ora voleva fare un passo in più in un’altra direzione.

Solo, non sapeva ancora quale.

«Hai bisogno di slegare l’asino, come dicono qui in Italia, e lasciarti alle spalle i luoghi in cui hai vissuto finora. Non dico che devi dire ‘ciao ciao’ a mamma e papà ma, ormai, devi crearti un tuo nido in cui brillare solitario» proseguì nel dire il vento del sud, scrollando una spalla. «Pensa a tua madre… anche lei se ne andò dall’Olimpo per gli stessi motivi. L’Olimpo cominciava a starle stretto.»

«Anche Aiolos mi ha detto qualcosa del genere. Che ho bisogno di staccare un po’ la spina da tutto» ammise Alekos, guardandosi intorno con espressione pensierosa. «Capisco cosa vuoi dire, in merito al mio essere più… vecchio della mia età, e diverso da chi mi circonda. Mi ci sento, spesso e volentieri, e questo mi confonde. Il fatto di aver terminato parte degli studi umani mi è di conforto, in un certo senso, perché era diventato sempre più difficile, per me, rapportarmi coi miei compagni di scuola, per quanto molti di loro mi stessero simpatici.»

«Visione limitata, data dalla loro umanità, contro visione illimitata, data dalla tua immortalità» assentì Nótos. «E’ una bella grana, niente da dire.»

Alekos assentì e, quando vide all’orizzonte il profilo della villa, mormorò: «Chiederò a mia madre se posso restare un po’ di più.»

«Ben detto, ragazzo.»
 
***

Accomodati su comode poltrone da giardino sull’ampia terrazza della villa, Aiolos ammirò volteggiare Alekos e le due aquile, mentre Athena armeggiava nervosa con un laccio della sua camicetta, chiaramente a disagio.

Sorridendole da sopra una spalla, il dio dei venti disse: «Non si schianterà neanche volendo. Sto controllando i poteri di Zéphyros con grande maestria, sappilo.»

Athena sorrise appena, annuendo, ma ammise: «Non apprezzo neppure quando sale su un’auto da corsa, se è per questo, quindi non fare caso a me.»

«Oh… dai kart, siamo passati alle auto? Nascar, o rally?» domandò incuriosito il dio.

Sospirando, la dea mormorò: «Entrambe. Il problema è che ora vuole guidare da solo, senza l’aiuto di Alessandra, la moglie di Achille, e la cosa mi turba. Finché c’era lei, al suo fianco, mi sentivo più o meno tranquilla, per quanto Alessandra sia solo un’umana. Ma ora…»

Aiolos annuì, facendosi cupo in volto e, tornando con lo sguardo al parapendio che volteggiava leggero nel vento, asserì: «Ho proposto al tuo ragazzo di staccare un po’ e di venire da me. Nótos glielo accennerà a sua volta, quando lo andrà a prendere.»

«Perché hai…» iniziò col dire Athena, prima di sentirlo proseguire.

«Athena, quel ragazzo ha bisogno di pace mentale, e non può averla a casa con te. Non fraintendermi, sei una madre eccellente ed Érebos è il migliore dei padri ma, tra le baruffe delle bambine, le crisi di Era e Zeus, i capricci di Ares e le tirate di Afrodite con la faccenda di Acaste, Alekos ha accumulato stress da vendere.»

Athena sospirò, annuendo suo malgrado.

Sapeva benissimo che la sua era la famiglia caotica e confusionaria per eccellenza e, per un giovane dall’animo buono e i poteri di Alekos, poteva davvero essere un supplizio sopportare certe situazioni.

Ugualmente, si sentì inadeguata a detenere il ruolo di madre, quando udì le parole di Aiolos.

«Non dico che venire qui sarà la soluzione a tutti i suoi mali, ma potrebbe… rallentare ciò che sta avanzando dentro di lui come un diluvio» le spiegò Aiolos, turbato.

«Te ne sei accorto anche tu?» esalò la dea, un po’ sorpresa.

Aiolos le sorrise con gentilezza, asserendo per contro: «Athena, credimi… sono un bonaccione, e lo sai, ma certe cose si notano. E io ho già commesso una volta un errore madornale, lasciando che i segni premonitori della sventura mi passassero davanti senza vederli, perciò tento sempre di far schivare ad altri i propri, se posso.»

Lei gli sorrise indulgente, replicando: «Sei sempre stato libero come il vento che governi, lo so, e sono sicura che quanto successe quella volta non dipese tanto dalla tua negligenza, quanto dal fatto che il tuo cuore non accettava di frenare i tuoi amici.»

«Esatto!» ridacchiò lui, prima di tornare serio e aggiungere: «Non so da cosa dipendano i problemi di Alekos, e accetterò il tuo silenzio in merito, credimi, ma sono convinto che un cambiamento d’aria gli farà bene. Acaste non avrebbe problemi a raggiungerlo qui, e così tutti i suoi amici immortali. Ma ti sconsiglio di proporla come opzione. Ha bisogno di spazio.»

«Anche da me» mormorò lei, con aria sconfitta.

«Il vostro legame, in effetti, un po’ lo limita. Ha una paura tremenda di deluderti, vero?» le sorrise spiacente lui.

Lei assentì e Aiolos, sorridendo tra sé e sé, ammise: «Mi piacerebbe aver avuto un simile rapporto con mia madre, puoi fidarti della mia parola. Si vede lontano un miglio che tuo figlio ti adora. Alekos ha avuto la possibilità di crescere con te, come a me e Boiotos non capitò con Melanippe, e questo non glielo toglierà mai nessuno. Inoltre, la presenza di Érebos gli ha dato stabilità e sicurezza… ma ora ha bisogno di capire chi è.»

«Da solo» sottolineò Athena.

Lui assentì, domandandole: «Riuscirai a sopportarlo?»

«Sei stato padre anche tu… non avresti fatto di tutto, per i tuoi figli?» ironizzò Athena.

«Ovviamente» ammiccò Aiolos, prima di udire del baccano provenire dabbasso.

Sorridendo quindi divertito quando udì il cinguettio delle voci delle gemelline, celiò: «La Banda Bassotti è tornata.»

Athena scoppiò a ridere di fronte al doppio-senso nascosto in quella battuta – chiaro riferimento a una banda di malviventi dei fumetti di Topolino, ma anche all’altezza delle bimbe a cui si riferiva il commento ironico – e, nell’alzarsi, disse: «Secondo me, a Érebos dovrebbe essere passata la voglia di accompagnare quelle pesti in giro per negozi assieme alla madre. Tu che dici?»

Felipe, rimasto in silenzio fino a quel momento per permettere ad Athena di confrontarsi con le idee di Aiolos, ammiccò a quel commento e asserì: «Poco ma sicuro. Ancora mi stupisco che si sia offerto volontario.»

Ciò detto, si alzò dal divanetto dov’era rimasto assiso fino in assorta contemplazione del volo di Alekos, la abbracciò e disse: «Dai ascolto ad Aiolos. Qui starà bene, e gli servirà per stare meglio.»

«Me lo dite tutti, perciò non potrò che accettare» sospirò la dea, annuendo.

Prendendola sottobraccio, Felipe la accompagnò dentro casa per dare il bentornato a tutti e Aiolos, attardandosi un poco sulla terrazza, mormorò tra sé: «Speriamo che basti, perché altrimenti non so cos’altro potrebbe aiutarlo.»

Moros scelse proprio quel momento per comparire sul terrazzo e Aiolos, sobbalzando tremebondo, si portò una mano al cuore ed esalò contrariato: «Cristo santissimo! E’ già la seconda volta che mi compari davanti così! Ti vuoi far annunciare, una buona volta?! Basta anche un campanellino alla caviglia… ma fa qualcosa!»

Il dio non badò minimamente alle sue parole irritate e avanzò come una folata di vento gelido fino ad approssimarsi a lui, facendo rabbrividire ulteriormente Aiolos.

«Vedo che hai colto appieno le mie parole. Ben fatto» esordì Moros, sistemandosi distrattamente il mantello nerofumo.

«Non che mi avessi lasciato molte alternative a cui appellarmi. Mi dicesti che Alekos doveva allentare i suoi vecchi legami per crearne di nuovi. Non avevo molte variabili, ti pare? Gli unici legami che ha sono con la sua famiglia, per cui…» brontolò Aiolos.

«Avrei potuto intendere anche i suoi legami con gli umani» replicò Moros, pacifico.

«Non l’avresti detto a me, allora, ma ad Achille, o a chi per lui. Di’ piuttosto che stai seguendo con particolare attenzione le sorti di quel ragazzo. Almeno secondo i tuoi standard, la cosa è alquanto sospetta» sottolineò Aiolos, sfidandolo con lo sguardo.

Lo aveva spaventato a morte vedersi comparire innanzi la figura di Moros, meno di due settimane addietro e, per un attimo, aveva temuto per se stesso e per i suoi amici.

Quando, però, il dio gli aveva parlato di Alekos, figlio di Athena, se n’era stupito non poco.

Pur essendo amico di lunga data di Athena, non era di certo tra i suoi parenti più stretti e, anche se grazie a Hermes conosceva vita, morte e miracoli di tutti, gli era parso strano che Moros avesse rivolto proprio a lui quel monito.

Riflettendoci a mente fredda, e avendo avuto anche l’occasione di parlare con Alekos stesso, aveva infine compreso la manovra di Moros.

Proprio perché al di fuori della cerchia più ristretta e intima dei famigliari di Athena, lui poteva fare ciò che ad altri sarebbe risultato impossibile. Offrirgli una via di fuga dal caos che lo circondava solitamente e che, a quanto pareva, aveva contribuito a creare degli squilibri nel giovane.

Moros si accigliò alle parole profferte da Aiolos, ma ugualmente non disse nulla.

Il dio dei venti, però, non demorse e continuò dicendo: «Non ti sei mai spinto a ficcare il naso a questo modo, né a dare indicazioni così chiare e di facile interpretazione in merito al futuro di una persona, perciò ti richiedo; perché, con Alekos, stai facendo un’eccezione?»

Sbattendo le palpebre, Moros si ritrovò a passarsi una mano sul volto, borbottando contrariato: «Non sono affari che ti riguardano. Limitati a fare ciò che hai deciso.»

«Bella pretesa, la tua! Non sei Zeus, e nemmeno un qualsiasi Padreterno di altri pantheon, perciò abbi almeno la gentilezza di chiarire questo mio dubbio!» sbottò Aiolos.

Moros lo fissò malamente e asserì piccato: «Zeus non avrebbe dovuto rinchiudere solo i quattro venti, ma anche te, a suo tempo. Sei indisponente con chi ti è superiore.»

«Mai detto di essere un bambino obbediente. Quanto ai miei amici, non li conosci abbastanza per dire se meritassero o meno una simile punizione» sottolineò per contro Aiolos.

«Mi stupisce che Zeus li abbia liberati dalle giare, piuttosto» ironizzò sarcastico Moros. «Forse, avanzando con l’età, si è rammollito.»

«Cosa credi che sia, questa villa, se non una gabbia?» protestò amaramente Aiolos, lasciando però del tutto imperturbato Moros. «La villa è come una gabbia di Faraday, e…»
Bloccandosi a metà della frase, Aiolos sgranò gli occhi di colpo ed esalò: «Lo sapevi! Per questo hai chiesto proprio a me di fare qualcosa per Alekos. Ipotizzi che questo posto possa tenerlo al sicuro, almeno per un po’.»

Moros ancora non disse nulla, gli occhi imperscrutabili e fissi in quelli chiari e brillanti di Aiolos che, a quel punto, sospirò e disse: «Lasciamo perdere. Mi limiterò ad aiutare il ragazzo, sperando che basti.»

Fu solo in quel momento che la maschera imperturbabile di Moros ebbe un cedimento e, con un sospiro tremulo, ammise: «Non basterà… ma servirà a far guadagnare tempo a chi di dovere.»

Ciò detto, svanì in uno scintillio oscuro e Aiolos ristette solo sulla terrazza, in compagnia dei suoi dubbi. Cosa diavolo aveva voluto dire, con quelle ultime parole?


 

N.d.A.: se la faccenda ha preoccupato persino Moros - di solito imperturbabile -, spingendolo ad agire in prima persona per mettersi in contatto con Aiolos, quanto potrà essere grave, il problema di Alekos? E soprattutto, di che problema si tratta, in realtà?
Ovviamente, dovrete aspettare ancora un po', prima di scoprirlo.
A presto!

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Capitolo 43
*** Eolo - 4 - ***


 
 
Epilogo.
 
 
Febbraio 2020 – Isole Eolie
 
 
Affiorando dalle acque di fronte a Salina come un’apparizione spettrale, Acaste riprese ben presto forme umane e, con un battito di ciglia, si trasmutò di fronte alla casa di Aiolos.

Pochi istanti dopo, Poseidone la imitò e, assieme, scrutarono la porta d’entrata della villa di Aiolos, non sapendo bene chi dei due dovesse suonare il campanello. A volte, le gerarchie divine erano assurde.

In quanto figlia di due titani, Acaste era di stirpe più antica rispetto a Poseidone ma, a sua volta, quest’ultimo apparteneva al trittico divino più potente dell’Olimpo, perciò meritava rispetto.

Alla fine, se la giocarono alla morra cinese e, nel perdere, Acaste disse: «Dobbiamo trovare una soluzione migliore oppure, una volta o l’altra, ci prenderanno per idioti.»

«Concordo… soprattutto visto che ti sei fissata nel voler evitare di comparire dentro casa, come avrei fatto io se tu non ci fossi stata» ironizzò Poseidone, strizzandole l’occhio.

Lei sbuffò, preferendo non replicare.

Per quanto le fosse facile apparire in ogni angolo del globo, non apprezzava palesarsi dinanzi alle persone di punto in bianco, specialmente in casa loro. La cortesia era per lei cosa gradita, e a cui ben volentieri si prestava, perciò non entrava mai in una casa, se non dalla porta d’ingresso.

Fu Zéphyros ad aprire, chiaramente abbacchiato dal brutto tempo di quei giorni invernali, ma bello come sempre nel suo completo jeans e maglietta.

Dei quattro venti, lui era di sicuro il più affascinante, e quello che maggiormente teneva alla propria immagine personale. Acaste lo aveva trovato subito interessante, fin dal loro primo incontro, e a ogni sua nuova visita, aveva passato sempre più tempo in sua compagnia.

Pur trattandosi di visite ad Alekos, aveva trovato piacevole fare nuove amicizie e, con Zéphyros, si trovava particolarmente bene.

Sorridendole nel vederla, Zéph la fece entrare dopo essersi inchinato a Poseidone e, con un pizzico di ironia, domandò: «Quante volte ti dovremo dire che puoi trasmutare direttamente in casa? Non ci sono problemi, davvero.»

Lei rise sommessamente, replicando: «Mi sembrerebbe scortese.»

«Fai pure come più ti aggrada, non c’è problema ma, se un domani vorrai apparire in camera mia, io non piangerò» le strizzò l’occhio lui, accentuando così la sua risata.

Poseidone rise a sua volta, e chiosò: «Farò finta di non aver sentito, ragazzo.»

«Ve ne sono grato, sommo Poseidone… non vorrei mai offendere il sommo Oceano, con le mie speranze, e so che voi due siete molto amici» ammiccò Zéphyros, apparentemente per nulla turbato da quel pensiero.

Acaste non avrebbe avuto difficoltà ad accontentarlo – dopotutto, Zéphyros era una compagnia molto piacevole – ma la preoccupazione per Alekos aveva la meglio su tutto, in quel periodo. Anche sui suoi interessi personali.

Spiacente, perciò, disse: «Magari, in un’altra occasione…»

Il vento dell’ovest annuì, replicando più serio: «Non farti carico delle mie battute. Volevo solo farti ridere. Mi sembravi molto in ansia, perciò…»

«Te ne sono grata, Zéphyros. Davvero» mormorò lei, prendendolo sottobraccio mentre Poseidone si accodava a loro. «Lui come sta, oggi?»

Adombrandosi in viso, i caldi occhi verde giada del vento dell’ovest si fecero cupi e, dalla sua voce, trasparì tutto il suo nervosismo.

«Ora è con Boreas. Stanno lavorando accanto al motore della sua Porsche. Pare che perdersi accanto ai lavori di meccanica lo distragga a sufficienza dal…»

«…dal pensare al mondo esterno, vero?» terminò di dire lei, incupendosi non meno dell’amico.

Poseidone imprecò tra i denti, ma non si espresse in tal senso. L’aver ricevuto una richiesta di aiuto da parte del figlio lo aveva preoccupato non poco perciò, quando aveva saputo della prossima visita di Acaste, si era accodato.

Stando alle parole del vento dell’ovest, doveva essere successo qualcosa, dalla sua ultima visita, avvenuta nel periodo natalizio. Ma cosa?

Zéphyros li indirizzò verso un’ampia scala a chiocciola in muratura e, nell’annuire, dichiarò: «Non vi stupite se, all’inizio, avrà dei ripensamenti sul suo trovarsi qui. Lo fa ogni qualvolta qualcuno viene a fargli visita. Dopo, però, gli passa.»

Acaste sospirò affranta, mormorando: «E’ peggiorato così tanto?»

«Per la verità, all’inizio era persino difficile trattenerlo qui, quando qualcuno si presentava in visita. Riteneva suo dovere tornare per sistemare le cose. Di quali cose stesse parlando, però, non ne ha mai fatto menzione. Ora, sembra essersi stabilizzato» replicò Zéph, sfiorando rassegnato il muro che correva lungo la scala a chiocciola. «Per noi, questo posto è una gabbia entro cui dobbiamo tornare ogni notte, pena la punizione di Zeus per aver sgarrato ma, con Alekos, sembra funzioni abbastanza bene per tenere a bada quello che lo angustia.»

«Ma finirà col diventare una gabbia anche per lui» mormorò per contro l’oceanina.

«Non se le grandi menti risolvono il problema per tempo» cercò di ironizzare Zéphyros, aprendo per lei la porta del garage.

Lì, Acaste e Poseidone si ritrovarono in un mondo fatto di motori, bielle, valvole, alberi a camme e quant’altro e, per quanto l’oceanina comprendesse un po’ la meccanica delle auto, vide pezzi di cui non conosceva affatto l’origine.  

Poseidone, in compenso, si illuminò in viso e, scusandosi con la coppia, si avvicinò all’automobile per curiosare da vicino.

La Porsche incriminata si trovava nel mezzo del garage, sollevata su un ponte e con il blocco motore completamente distaccato dal telaio.

Alessandra, Achille e Nótos stavano ripulendo i cilindri con precisione certosina, mentre Aiolos e Alekos erano impegnati nel controllare le valvole del motore.

Boreas aveva gli occhi lustri di commozione – o era panico? – ed Euros gli batteva consolatorio una mano sulla spalla, parlottando con lui come a volerlo chetare.

L’entrata in scena di Acaste e Poseidone provocò il previsto trambusto ma, già sapendo cosa aspettarsi da Alekos, i due prevennero qualsiasi sua crisi apparendo allegri e spensierati, pur non sentendocisi affatto.

Alekos, per prima cosa, tributò un abbraccio prolungato e dolce all’amica e, nel sorriderle, disse: «Consola Boreas, se ti riesce. Ha paura che non saremo in grado di rimontargli l’auto.»

Lei assentì con vigore e il giovane, con occhi lucenti di soddisfazione, mormorò: «Non sai quanto mi faccia piacere che tu sia qui. Sono sicuro che farai la felicità di Zéphyros. Sentiva la tua mancanza, perciò sono lieto che tu sia venuta a trovarci. Ora, va davvero tutto bene.»

«Beh… anch’io sentivo la sua mancanza» riuscì a dire lei, volgendosi in tempo per nascondere la sua espressione preoccupata.

Ciò detto, lo ascoltò mentre discorreva di motori con Poseidone, e questo le concesse il lusso di parlare mentalmente – senza che lui se ne rendesse conto – con Zéphyros.

“Che ti dicevo?”, gli trasmise il vento dell’ovest, facendo spallucce.

“Sbaglio, o mi è parso che, per lui, io e te fossimo come un Cubo di Rubik da risolvere?”, sottolineò per contro Acaste. “Perché ha detto che ‘ora va tutto bene’? Cosa intendeva dire?”

“Che, secondo il suo metro di giudizio, non era giusto che tu non fossi qui con me, ed era combattuto tra il chiamarti e lo stare zitto per non obbligarti a venire. Insomma, un’autentica battaglia navale a livello mentale. Ma credimi… oggi è meglio di un mese fa” sottolineò Zéphyros, per contro.

“Ha ragione il mio amico, Acaste… è migliorato, anche se sembra strano dirlo” si intromise Aiolos, guardando spiacente l’oceanina. “So che può essere difficile notare particolari come questo ma credimi, stiamo facendo il meglio per lui. Quando la dependance per lui sarà pronta, potrà tornare a casa, ma fino ad allora…”

“Sarà come questa casa?”, protestò Acaste, accigliandosi.

Deve essere come questa casa, almeno finché non disinnescheremo la bomba che c’è nella sua testa” precisò Aiolos facendosi duro in viso. “Non credere che ci stiamo divertendo, a tenerlo lontano dalla famiglia, o a destinarlo a un rifugio che sarà più una prigione che un’abitazione, per lui. E’ per il suo bene.”

Acaste non poté ribattere alle parole del dio dei venti, perché non aveva proposte alternative al problema di Alekos. Finché Érebos non avesse scoperto come calmierare il potere dell’amico, lei non avrebbe potuto far altro che accettare quanto ne fosse venuto, e dare una mano ove possibile.

“Non è solo, Acaste. Ci stiamo occupando tutti di lui, non temere” cercò di consolarla Aiolos, prima di impallidire visibilmente e sgranare gli occhi subito dopo.

Acaste ne seguì lo sguardo stravolto e, con uno strillo, si portò alle spalle di Zéphyros quando vide entrare nel garage anche le arpie di Eris.

«Ma che ci fanno, loro, qui?!» esalò la giovane, impallidendo visibilmente mentre Poseidone si nascondeva a sua volta dietro un ridente Alekos.

«Mi tengono compagnia» si limitò a dire Alekos, come se fosse la cosa più naturale del mondo.

“Anche questo è un bene?!” esalò la giovane oceanina, guardando sconvolta Zéphyros.

“No, questo no. Ma su quei due mastodonti non abbiamo potere, e anche Eris fa fatica a trattenerli a casa, il che è tutto dire. La presa di Alekos, su di loro, è molto forte” ammise Zéph.

Acaste osservò quindi piena di sgomento le due enormi aquile arpie avvicinarsi goffamente sulle grandi zampe artigliate, finendo con il posizionarsi a pochi passi da Alekos.

Quest’ultimo sorrise loro e dispensò a entrambe una carezza sul capo, prima di tornare al lavoro, apparentemente tranquillo e sereno.

Acaste, però, si domandò quanto, di quella tranquillità, fosse genuina e, soprattutto, salutare.

Alekos avrebbe resistito, al di fuori di quella gabbia dorata?

Lanciato uno sguardo terrorizzato a Poseidone, domandò mentalmente: “Non c’è davvero niente che possiamo fare?”

“Siamo qui per questo. Per aiutare. E lo faremo, Acaste. In ogni modo possibile” sottolineò Poseidone, prima di sorridere al figlio, che assentì al suo indirizzo. “Commisi a mia volta degli errori, in gioventù, coi miei figli, ma voglio rimediare. Tu mi aiuterai a farlo, cara, e così aiuteremo anche Alekos.”

“D’accordo… ma lontano da quelle arpie. Davvero non riesco a star loro vicino” esalò lei, spostandosi poco alla volta perché i suoi movimenti non apparissero una fuga.

Poseidone le sorrise comprensivo, ben comprendendo il suo stato di panico. Per niente al mondo sarebbe stato vicino a quegli affari con le ali ma, per Alekos, avrebbe sopportato anche quella paura.





N.d.A.: è chiaro che Alekos ha un problema nel gestire la sua doppia natura e, soprattutto, il potere derivatogli dal filato di Erebos. Per ora, sembra che la struttura unica della casa di Aiolos riesca a contenere i poteri del ragazzo ma, come anche Moros ha sottolineato, questo è solo un pagliativo.
Riusciranno i nostri eroi a trovare il sistema per chetare ciò che sta agitandosi nella mente di Alekos?
 

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Capitolo 44
*** Dioniso - 1 - ***


 
Dioniso – 1 –
 
 
Millenni fa – Tracia
 
 
Il viaggio era stato breve, pur se davvero infausto. Almeno, così era parso agli occhi di Hermes.

Nulla poteva essere fausto e piacevole, quando un infante veniva privato della propria casa, dei propri affetti e di coloro i quali avrebbero dovuto prendersi cura di lui.

La somma Era aveva dimostrato una volta di più quanto, le sue vendette, fossero impietose e prive di umanità, e quanto anche gli infanti potessero rischiare con facilità il suo tocco venefico.

Eris era considerata da tutti la dea della discordia, ma la cosa non sorprendeva affatto Hermes, vista la madre che si ritrovava.

Atterrando con delicatezza dinanzi a uno stagno, Hermes controllò che il fagotto che teneva tra le braccia non avesse subito danni e, sorridendo, carezzò il mento del bimbo che aveva salvato da morte certa.

«Vedrai, piccolino, qui starai bene» lo rassicurò Hermes, mentre ancora il bimbo dormiva tra le sue braccia, forse rasserenato dalla sua presenza forte e gentile.

Sorridendo quindi speranzoso, il dio levò il capo a scrutare il bosco e il vicino stagno circondato di canne ripiegate dalla brezza e, attento, cercò la figura a lui conosciuta di Eudora, una iade, figlia dell’oceanina Pleione e del titano Atlante.

Scorgendola infine su un masso ricurvo e oscurato dalle fronde degli alberi, lei come sempre bellissima, era in quel momento in contemplazione del proprio riflesso nelle acque.

«Dolce fanciulla di biondo crinita, posso rubarti qualche istante del tuo tempo?» esclamò dunque Hermes, mostrandosi quindi alla iade.

Eudora levò lesta il viso per sorridergli e, nello scostare su una spalla la lunga chioma, rise nel riconoscerlo e replicò: «Per te avrò sempre tempo, mio felice compagno di giochi. Cosa ti porta qui, giovane Hermes, e come posso esserti utile?»

Balzellando come un satiro fino a giungere accanto a lei, Hermes le mostrò il piccolo fagotto che teneva tra le mani e la iade, nello scorgere un bambino, esalò sconcertata: «Cos’è mai avvenuto, mio dolce amico? E’ forse tuo figlio, e io non sapevo del tuo lieto evento?»

«No, mia bella compagna di passeggiate. Questo è il peso della vendetta, e io tento di portare giustizia laddove è stata lesa» mormorò dolente il dio.

Tornando del tutto seria, il desiderio di divertirsi ormai scemato, Eudora gli domandò: «Parla con chiarezza, Hermes. Perché rechi teco un infante?»

«La di lui madre fu amante di Zeus, e la divina Era ha testé sterminato la sua famiglia per spregio verso codesto misfatto. Questo povero fanciullo è l’unico sopravvissuto, e non ho avuto cuore di lasciarlo a morire entro le mura materne, ormai orfane di proprietari» sospirò Hermes, scuotendo il capo per il dolore.

«Pasitoe, Coronide… giungete qui, ve ne prego» mormorò allora la iade, scrutando le acque placide dello stagno dinanzi a loro.

Due figure acquatiche dalle forme femminili presero immediatamente corporeità e, sotto gli occhi di Hermes, le due iadi fecero la loro comparsa per raggiungere la sorella.

Giunte infine sulla riva dello stagno, ricoprirono i propri corpi nudi di foglie d’edera e quercia mentre Hermes, con un mezzo sorriso, chiosava: «Se Zeus sapesse delle vostre pratiche disinibite, vi si affezionerebbe molto.»

«La Tracia è luogo pacifico anche per questo… perché siamo ben lontane dal sommo Zeus» ironizzò Coronide, dandogli un buffetto sul mento. «Per un bel faccino come il tuo, bimbetto, potrei però fare un pensierino lascivo, sai?»

Hermes rise nervosamente, di fronte a quell’offerta – non gli sarebbe dispiaciuto, se non avesse avuto il piccolino con sé – ma si limitò a dire: «Un’altra volta, ben volentieri, mia illustre iade, ma ora reco meco un’incombenza importante, e desidero portarla a termine.»

Scrutando il bimbo tra le sue braccia, la iade lanciò un’occhiata turbata alle sue sorelle e, dubbiosa, domandò: «Cos’ha a che fare questo cucciolo, con noi?»

«Vi chiedo di crescerlo, lontano dall’ombra di Era e della sua rabbia. Lei non oserà mai colpire le figlie di Pleione, poiché discendenti dirette di un titano quale è Oceano, che è stato alleato di Zeus nella battaglia contro Crono. Sarà al sicuro, con voi» le pregò Hermes, stringendo le mani sul fagottino ancora addormentato.

Pasitoe carezzò la fronte del bimbo, giocherellò coi suoi riccioli castani e asserì: «Potrebbe tranquillamente passare per uno dei nostri figli, ed Era non ne saprebbe nulla.»

Eudora assentì e Coronide, nel prenderlo in braccio, dichiarò: «Ce ne prenderemo cura noi, Hermes. Non temere. I bambini sono importanti, e andrebbero sempre protetti, indipendentemente da chi li ha messi al mondo.»

«Sapevo di poter contare su di voi» sospirò sollevato Hermes, dando una pacca sulla spalla all’amica Eudora.

«Il fanciullo ha un nome, dunque?» domandò Pasitoe, sorridendo al bimbo che, nel frattempo, si era destato, gorgogliando e borbottando, con i pugni ben levati verso il cielo.

Eudora e Coronide lo guardarono piene di divertimento e Hermes, nel consegnare loro un piccolo kantharos dipinto in nero e oro, disse: «Il suo nome è Dioniso. Stava giocando con questo, quando l’ho trovato. E’ l’unica cosa che rimane della sua casa. Per favore, conservatelo per lui.»

Coronide assentì, prese con sé il kantharos e dichiarò: «Quando diverrà adulto, gli diremo chi è e, se vorrà cercarti, gli diremo dove trovarti.»

«Passerò comunque a trovarlo. Non dubitate» replicò Hermes, sfiorando con un bacio la fronte del piccolo, prima di aggiungere: «Abbi una buona vita, fanciullo. Gioiremo insieme la tua venuta al mondo quando sarai più grande, te lo prometto.»

Ciò detto, ringraziò nuovamente le iadi e tornò al suo ruolo di psicopompo. L’intera famiglia di Dioniso doveva essere condotta nell’Oltretomba, e Thanatos era impegnato altrove. Spettava dunque a lui, quell’ingrato compito.
 
***

Maggio 2022 – Monte Olimpo
 
Sdraiato su una miriade di morbidi cuscini di velluto mentre, al suo fianco, il suo amante del momento era crollato per il sonno, Dioniso chiese per sé un altro giro di vino e Ares, nel servirglielo, ghignò con fare malizioso e celiò: «Stasera andrai liscio, amico mio! Il tuo amichetto è andato… non ne caverai un ragno dal buco!»

Ciò detto, si ribaltò sui cuscini, ridendo delle sue stesse parole e scolandosi un altro otre di vino delle Lipari.

Dioniso allora lanciò un’occhiata al giovane potamoi al suo fianco – si erano incontrati fuori dalla casa di Era, poco dopo uno dei festini della dea – sorrise consolatorio e asserì: «Quando vorrò il suo corpo, saprò ridestarlo a nuova, sfolgorante vita. Non temere per me, mio giocoso fratellone, e bada soltanto a divertirti.»

Ares rise nuovamente, rischiò di rovesciarsi addosso parte del vino contenuto nel suo otre mentre Alekos, nello schivare i passi ciondolanti di un satiro, riusciva infine a raggiungere Dioniso.

Dopo una divertente telefonata intercorsa con Ares, Alekos si era unito allo zio per quell’uscita fuori porta e davvero fuori programma, oltre che un tantino proibita, almeno per quel che lo riguardava.

Alekos, infatti, era uscito di casa senza avvisare la madre o Érebos delle sue intenzioni ma, almeno per qualche ora ancora, non avrebbe rischiato ripercussioni di alcun genere.

Sgattaiolato in gran segreto dalla dependance che avevano costruito per lui, a poca distanza da quella dei genitori, Alekos si era quindi avventurato fino alle porte del palazzo di Dioniso grazie all’aiuto di Ares, e aveva sfidato la sorte.

Lì, non senza una certa agitazione – era la prima volta che partecipava a una festa così sopra le righe – era entrato all’interno dell’enorme tempio in compagnia dello zio, nelle orecchie la musica che già stavano suonando all’interno.

Una volta raggiunto il salone più interno, Alekos vi aveva infine trovato ogni genere di libagione, oltre a un’autentica sfilata di donne e uomini in abiti discinti, intenti a ballare, dimenarsi, baciarsi e… beh, tanto altro.

Pur provando un sano e genuino imbarazzo, era comunque rimasto e Ares, tenendoselo appresso, lo aveva reso edotto sul modo migliore per divertirsi alle feste di Dioniso.

Cioè, ubriacarsi e lasciar perdere i perbenismi.

Ares ci aveva dato dentro, almeno a giudizio di uno sconvolto Alekos, finendo diversi otri di birra, di vino bianco e di vino rosso. Non soddisfatto, aveva poi chiesto a gran voce vassoi e vassoi di carne cotta con l’osso, subito accontentato dalle celebranti di Dioniso.

Il padrone di casa, non lesinando affatto con le piacevolezze, aveva mostrato ad Alekos il suo nuovo angolo per i divertimenti, ma lì il giovane era fuggito non appena aveva scorto frustini e cinghie di cuoio.

Ormai pentito di aver dato voce a una subdola idea che, sulle prime, gli era parsa allettante quanto piacevole a farsi, Alekos aveva quindi cercato un angolino in cui rifugiarsi per superare indenne la notte.

Avendo promesso ad Ares di rimanere con lui fino al giorno seguente, non se l’era sentita di disturbarlo per farsi riaccompagnare a casa. Non potendo fare altro che restare, si era quindi nascosto in un angolo appartato del tempio per sfuggire a quel mondo per lui così alieno.

Ciò, però, non era bastato a salvarlo da assalti più o meno eleganti da parte di fanciulle piacenti e procaci, a cui Alekos solo a stento era riuscito a dire di no.

Solo verso l’alba, non riuscendo più a sopportare la situazione – e sentendosi abbastanza alticcio da perdere il controllo – Alekos aveva deciso di recarsi da Dioniso per chiedere a lui aiuto.

Lasciandosi quasi cadere sui cuscini accanto al padrone di casa, il giovane semidio mormorò con voce strascicata e fiacca: «Non voglio offenderti, zio, ma davvero non ce la faccio. E’ troppo, per me.»

Dioniso gli carezzò il viso solcato da leggera barba e, dolcemente, gli disse: «Non so neppure perché tu abbia accettato, mio caro. Ares è stato sciocco a portarti. La tua mente è così pura e ingenua, per certi spettacoli, che proprio non trovano spazio in te. Ma mi fa piacere che tu abbia almeno tentato. E’ sempre bello vederti, e il tuo potere è così ammaliante che anche i miei invitati ne sono impregnati fin nel midollo.»

«E’ un bene o un male?» domandò confuso Alekos, poggiando il capo contro la spalla di Dioniso. Si era impegnato molto, in quegli ultimi anni, nel tentare di trovare un equilibrio tra quello che era giusto e quello che era sbagliato, ma non era certo di esservi riuscito. Soprattutto, non era certo che, alcune delle sue decisioni, fossero propriamente sue.

Suo padre e sua madre sembravano ancora così turbati che, anche solo per quello, desiderava tornare a casa prima del levar del sole. Non voleva turbarli ulteriormente, visto quanto già facevano per lui.

Eppure, gli era parso così giusto spingere per andare da Dioniso, che…

Il dio continuò a carezzargli il viso, mormorando suadente e strappandolo così ai suoi pensieri: «Per me, può essere solo un bene, perché le persone liete e appagate, si divertono di più di quelle irritate e bizzose. Ma potrebbe anche essere vero il contrario, se volessi una festa più… movimentata. L’appagamento le frenerebbe, e questo porterebbe al collasso della festa.»

Alekos rise di fronte allo sguardo malizioso dello zio e replicò: «Più movimentata di così?!»

Dioniso rise con lui, scuotendo una mano come se le parole del nipote fossero una burla e, annuendo, replicò: «Caro il mio ragazzo, io posso creare scenari che tu solo immagini… anzi, no, non credo tu possa davvero immaginarli, ma sono molto più piccanti di stasera… no, stamattina, a ben pensare.»

Alekos assentì con una risata sgangherata e, nel raddrizzarsi a fatica, celiò: «Credo di aver capito, ma non mi esprimerò adesso. Ho il dubbio di essere sbronzo, e non so davvero come farò a rimettere piede a casa, conciato così. Mamma mi ucciderà, se le chiederò di materializzarmi dinanzi alla dependance, e Ares al momento è andato.»

Ciò detto, indicò lo zio, impegnato in una pesante e rumorosa dormita tra una marea di cuscini.

Dioniso assentì, rimuginando tra sé sull’intera situazione. Come gli altri dèi, anche lui era a conoscenza della speciale abitazione creata appositamente per Alekos, eretta sullo stile della villa di Aiolos.

Da quel poco che aveva compreso, quella specie di gabbia di Faraday impediva ai poteri del giovane di prendere il sopravvento su di lui. Quel che però Dioniso non sapeva era se, un’uscita da casa di così tante ore, e condita di beveraggi alcolici, potesse danneggiare il giovane. Perché non ci aveva pensato prima, e non aveva chiesto lumi ad Ares?

Denigrando se stesso per quell’errore madornale, Dioniso cercò di rasserenare il giovane perché non avesse una crisi d’ansia – che non avrebbe saputo come gestire – e, sorridendogli, domandò: «Athena ti vuole morigerato e pio a vita, ragazzo mio? Hai ventidue anni, ormai, e credo sia nel tuo diritto sollazzarti e darti alla pazza gioia.»

«Non si tratta di quello. E’ che non posso mentire, con lei, anche se un po’ riesco a murarmi la bocca, se proprio mi impegno» replicò Alekos e, per un attimo, la figura di una donna balenò nella sua mente, attirandolo verso di sé. «Non voglio deluderla, facendomi vedere ubriaco e, credo, strafatto di qualcosa, quando lei mi aveva messo in guardia in merito agli effetti dell’ambrosia mescolata al vino... e a non so che altro.»

Dioniso esplose in una dolce risata, assentì e disse: «Questo sì che è un difetto non da poco, nel vostro rapporto unico! Beh, ragazzo mio, se tu mi dici chi chiamare perché ti levi le castagne dal fuoco, io lo chiamerò. Non oso tenerti qui con me, poiché ben difficilmente riuscirei a tenerti lontano quelle ninfe. Ti stanno letteralmente divorando con gli occhi. Diversamente, potrei trasmutarti anch’io ma, alticcio come sono, potrei farti finire in Nebraska. O alla Casa Bianca.»

Alekos non riuscì a seguire con lo sguardo l’indicazione di Dioniso, troppo stordito da ciò che aveva mangiato e bevuto per compiere anche un movimento così semplice come levare il capo.

Dando quindi per scontato che vi fossero delle ninfe interessate a lui, poggiò il capo contro la sua spalla, estrasse il cellulare dalla tasca, richiamò un numero in rubrica e borbottò, prima di addormentarsi: «Chiama.»

Dioniso lo lasciò scivolare dolcemente tra i cuscini, accompagnandolo con gesti teneri delle mani, afferrò il suo cellulare e scrutò curioso il numero inserito sul display.

«Perché proprio lei?» si domandò pur seguendo le richieste del nipote.

Al quarto squillo, la voce ansiosa di Eris esalò all’altro capo: «Alekos, che succede a quest’ora?!»

«Buon mattino, mia cara e idiosincratica Eris. Prima che le tue arpie vengano qui a divorarmi i sacri augelli, posso chiederti un’incombenza?» esordì con la consueta ironia Dioniso, mandandola ovviamente su tutte le furie.

«COSA DIAVOLO CI FAI, TU, CON IL CELLULARE DI ALEKOS?!» sbraitò la dea, costringendo Dioniso ad allontanare lo smartphone dall’orecchio per evitare un distaccamento del timpano.

«Diamine, cara, …con una voce del genere, mi immagino come tu debba essere quando ti liberi alla passione…» ironizzò malizioso Dioniso, scatenando l’ulteriore ira di Eris.

«Proioxis sarà felicissima di strapparti le palle, razza di satiro da strapazzo che non sei altro» lo minacciò Eris piena di furore, prima di aggiungere: «E ora rispondimi, prima che le ordini anche di sbudellarti come fecero le aquile di nostro padre con il fegato di Prometeo!»

Sorridendo ansioso di fronte a un simile scoppio d’ira, così come alla minaccia altamente splatter della dea, Dioniso tornò comunque serio e mormorò: «Tieni molto a lui… ora capisco perché mi ha domandato di chiamare proprio te. Sapeva che tu lo avresti protetto a prescindere

«A prescindere da cosa?» domandò sospettosa Eris, abbassando il tono di voce per sostituirlo con uno assai turbato e, paradossalmente, molto più minaccioso del precedente.

«Raggiungimi al mio tempio, cara, e ne avrai visione. Oh, e una cosa… ti scongiuro, prega Proioxis di risparmiarmi, per stavolta.»

Eris non gli rispose, limitandosi a sbattergli il telefono in faccia. L’attimo seguente, in uno scintillio d’argento, apparve dinanzi al dio con il furore dipinto sul volto.

Dioniso, però, se ne infischiò bellamente e, dopo averla raggiunta, la abbracciò, baciandola poi sulle labbra prima di mormorare sornione: «Sono felice che Afrodite non ti abbia cambiata così tanto da farti perdere quella luce che hai sempre avuto negli occhi. Inoltre, mi piace come hai migliorato il look.»

Eris lo spintonò lontano, imprecando al suo indirizzo e tergendosi le labbra dal sapore di vino e ambrosia che lui le aveva lasciato.

Avrebbe dovuto immaginare che presentarsi a casa di Dioniso le avrebbe procurato dei guai, ma sapere che Alekos si trovava lì le aveva messo le ali ai piedi.

Inquadrando finalmente la figura del figlio di Athena, Eris venne colta da stordimento e panico e, nell’incespicare, rischiò di cadere a sua volta tra i cuscini.

Dioniso fu lesto a sostenerla e, avvolto un braccio attorno alla sua vita stretta, disse con tono più serio: «Non ti arrabbiare se ti ho afferrata, ma sei diventata pallida come un cencio… ora sei stabile, sorella?»

Annuendo lentamente, batté un paio di volte una mano su quella di Dioniso che ancora la tratteneva e, scrutandolo da sopra una spalla, domandò caustica: «Perché lo hai ridotto così, razza di idiota?»

«Non io ho versato vino nella sua coppa, mia ingiusta ospite. Se vuoi incolparmi di qualcosa, accusami di non averti invitato per tenerlo d’occhio, o di non essere stato abbastanza accorto dal chiedere ad Ares quanto il giovane reggesse l’alcol… ma dubito che, con te presente, il ragazzo si sarebbe lasciato andare, o che Ares avrebbe saputo rispondermi. E’ così pieno di virginee paure, il povero Alekos, da farmi quasi pena, mentre Ares sa a malapena contare fino a dieci, quindi figuriamoci se sa fare conteggi complessi.»

«Alekos è puro, contrariamente a voi» sottolineò furiosa Eris.

Ciò detto, si avventurò tra i cuscini, sollevò il capo di Alekos per portarselo al petto e, fissando astiosa Dioniso, sibilò: «Non una parola, con Athena.»

«Come se non lo sapessi» ammiccò lui, salutandola con un gesto della mano quando la vide svanire assieme ad Alekos.

Una volta che i due furono scomparsi dal suo tempio, Dioniso osservò serio l’intero salone, ancora ricolmo dei suoi molti ospiti e, nel notare quanto ancora fossero storditi dal potere ammaliante di Alekos, mormorò: «Ha davvero raggiunto un potere enorme.»
 
***

Passando una pezzuola umida sul volto teso di Alekos, Eris si chiese per l’ennesima volta come fosse venuto in mente, al ragazzo, di partecipare a uno dei baccanali di Dioniso.

Se c’era un evento a cui lui, assolutamente, non avrebbe dovuto essere presente, era per l’appunto quello. La mente di Alekos era troppo pura e luminosa, per devianze e promiscuità simili.

Nel sentirlo lamentarsi nel sonno, la dea gli carezzò i capelli intrisi di sudore e, tra sé, sorrise nonostante tutto.

Li stava facendo crescere come lo zio umano, il padre di Buffy e Xena, e gli donavano particolarmente, conferendogli un’aria più matura e vagamente gitana.

Eris aveva conosciuto Felipe alcuni mesi dopo l’aver scoperto il segreto di Érebos e, tutto sommato, le era parso una brava persona, per essere soltanto un umano. Quando, poi, aveva udito dalla sua bocca le vicende di suo fratello Miguel e di Athena, aveva sorriso e pianto in gran segreto.

Il loro profondo e prezioso amore, non a caso aveva generato una creatura unica come Alekos. Quello stesso amore, però, unito al potere devastante del dio Ctonio che lo aveva salvato, stava creando uno squilibrio sempre maggiore nell’universo, e ormai era impossibile non rendersene conto.

Così come sembrava impossibile mettervi un freno. Non appena aveva messo piede nel tempio di Dioniso, ne aveva subito sentito gli effetti sulla pelle. Per un attimo, aveva ella stessa desiderato gettarsi nelle danze per farsi trascinare dall’allegria e dalla gioia del momento, trovando giusto perdersi nei suoi sensi ridestati all’estasi.

Quando, però, se n’era resa conto, era tornata in sé in tutta fretta e aveva rifiutato quell’ammaliante sirena che era divenuta il potere di Alekos, pensando innanzitutto a portarlo via dal tempio di Dioniso.

Era mai possibile che questo suo comportamento sconsiderato fosse un effetto collaterale di tale condizione?

«Eris…»

Tornando immediatamente con lo sguardo sul volto di Alekos, la dea mormorò: «Agápi… come stai?»

Gli occhi di smeraldo di Alekos si aprirono, assonnati e vacui, e un lento sorriso si incuneò sul suo viso, trasfigurandolo. Quando sorrideva a quel modo, neppure il bel volto di Apollo poteva reggere il confronto, ed Eris si chiedeva sempre come le mortali avessero potuto finora sopravvivere a una simile bellezza.

Quel pensiero divertito, però, venne spazzato via dallo sguardo vacuo e pieno di desiderio del giovane che, carezzando il viso confuso di Eris, mormorò roco: «Che bello vederti.»

«Alekos… si può sapere perché hai…» cominciò col dire Eris, prima di venire azzittita dal gesto improvviso di Alekos.

Il giovane la sospinse con forza sul letto, portandosi sopra di lei e dominandola col proprio corpo di uomo, occhi negli occhi con Eris e smanioso di non interrompere in nessun modo quel contatto.

«Alekos…» ansimò scioccata la dea, suo malgrado stordita dalla sua forza di giovane uomo, e preoccupata da ciò che avrebbe potuto fare da lì in poi.

Cosa diavolo aveva in mente?!

«Ne ho bisogno, Eris… ho bisogno di…» gorgogliò lui, chinandosi verso di lei col chiaro intento di baciarla.

Eris poggiò invano le mani sul suo ampio torace, rendendosi così conto di quanto Alekos fosse cresciuto, in quegli anni, diventando un uomo molto forte fisicamente, oltre che assai potente.

Stranamente, però, in quel momento non avvertiva minimamente l’influsso del suo potere, quanto piuttosto un altro bisogno, a cui però non sapeva dare un nome, né una forma.

Quando si rese conto della totale confusione che albergava negli occhi di Alekos, lo richiamò con voce stentorea, esclamando: «Alekos! Svegliati!»

Quel suono lo fece riprendere a sufficienza per rendersi conto di ciò che aveva quasi commesso e, nel balzare via dal letto con espressione sconvolta, fissò Eris pieno di dolore e urlò.

Strette le mani sul capo, gli occhi ormai rivoltati a mostrare solo la sclera, trasformò il suo urlo in un richiamo pieno di disperazione e dolore, tale da portare la stessa Eris alle lacrime.

Quel grido straziò il cuore della dea, lo percosse, spezzandolo in mille schegge di diamante e, mentre gli stridii impazziti delle arpie si unirono al gemito di Alekos, lui… svanì.







N.d.A: facciamo la conoscenza con un altro dio dell'Olimpo, il solare Dioniso, e scopriamo che Alekos è sgattaiolato fuori di casa senza permesso grazie ai buoni uffici di Ares.
Questa uscita fuori programma, però, porta ben presto Alekos a fare i conti con i postumi di una sbronza davvero colossale... ma anche con un problema ben più grave, che vede Eris come punto focale.
Perché proprio lei? E come, Alekos, è riuscito a trasmutare, visto che non ha mai avuto potere sufficiente per farlo?

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Capitolo 45
*** Dioniso - 2 - ***


2.
 
 
 
 
 
Sgomenta e terrorizzata come mai prima di allora, Eris afferrò le lenzuola dove, fino all’istante precedente, si era trovato Alekos e, in preda al panico, urlò invano il suo nome.

Alekos non era mai stato in grado di trasmutare in modo indipendente, e il fatto stesso che avesse compiuto un gesto simile in un momento di confusione mentale, poteva aver creato disastri inenarrabili.

Stringendosi una mano al petto, si concentrò sul fuoco interiore del giovane e cercò, cercò il suo tocco, la luce della sua anima ma, pur avvertendo il suo soffio della vita, non riuscì a vederlo, non riuscì a raggiungerlo.

Sempre più spaventata, scese di corsa dal letto, chiamò Homados e Proioxis e, stringendosele al petto per un istante, mormorò: «Trovate Alekos. Presto!»

Le aquile arpie si involarono immediatamente, spingendosi verso i due emisferi del pianeta mentre Eris, scivolando a terra ormai priva di forze, mormorava tremante: «Dioniso… vieni qui ora…»

Quella chiamata portò il dio a muoversi immediatamente e, quando comparve negli appartamenti privati della dea, si sorprese non poco nel vederla a terra, in lacrime e con l’aria smarrita di una infante.

Guardandosi intorno, Dioniso notò subito il letto sfatto e la totale mancanza di Alekos così, cominciando a preoccuparsi, le si inginocchiò accanto prima di domandarle ansioso: «Sorella, cosa è successo?»

Stringendo una mano sulla tunica leopardata di Dioniso, lei levò il viso in lacrime per fissare i suoi occhi adamantini in quelli color ambra del dio e, con voce spezzata, esalò: «Alekos è svanito.»

Dioniso impiegò qualche istante per recepire quelle parole – e non certo perché fosse sbronzo, …non del tutto, almeno – e, con un mezzo sorriso teso e nervoso, replicò: «E’… è impossibile, Eris. Non ne è mai stato in grado.»

«LO SO!» esplose Eris, coprendosi il viso per nascondere un pianto ormai irrefrenabile.

Dioniso si astenne dall’abbracciarla, poiché sapeva che con Eris si poteva scherzare solo fino a un certo punto, pur se era molto migliorata, negli ultimi anni.

Preferì quindi poggiarle una mano sulla spalla mentre, con l’altra, le carezzava il capo con gentilezza, turbato dal suo crollo emotivo. Da quando in qua Eris si comportava a quel modo?

Il pianto si chetò un poco e Dioniso, con insospettabile delicatezza, le domandò: «Posso chiederti cos’è successo prima della sua ipotetica scomparsa?»

«Si è svegliato e… beh, ha cercato di baciarmi. E non so che altro avesse in mente, in verità…» ammise lei, tergendosi il viso per sfidarlo con lo sguardo a replicare. Dioniso, però, non disse nulla, limitandosi ad annuire.

Non potendo rimbeccarlo in alcun modo, vista la mancanza di commenti piccanti o idioti da parte sua, Eris allora aggiunse: «Non lo ha fatto, per la cronaca. Si è fermato prima. Non è certo un pervertito come qualcuno di mia conoscenza.»

«Cercherò di non prenderlo come un insulto» ironizzò Dioniso, scrollando una spalla. «Ebbene, ha tentato di baciarti… dove sta il problema?»

«Non era in sé!» sbottò la dea, afferrandolo alla tunica per scuoterlo con veemenza. «Cosa diavolo gli hai dato, alla tua maledetta festa?!»

Afferrate le mani di Eris, Dioniso la costrinse a rimettersi in piedi e, dopo averla accompagnata fino al letto, la fece sedere e le disse: «Niente di strano, Eris. C’erano nettare e ambrosia, birra egiziana, oppio, cose del genere. Niente droghe sintetiche, se è quello che temi. Non mi piace la robaccia che creano gli umani.»

Eris lo spintonò con forza facendolo caracollare all’indietro e, furibonda, esclamò: «Oppio?! Ti pare poco?! Alekos non è come tutti voi! Lui non si lascia andare a simili vizi!»

Accigliandosi leggermente, Dioniso si rassettò la tunica ormai sdrucita e, fissando torvo la sorellastra, replicò: «Chiediti, piuttosto, perché il ragazzo abbia deciso in tutta coscienza di partecipare alla mia festa. Non ho mai insistito, con lui, proprio perché sapevo della sua indole tranquilla, ma ieri sera è venuto con Ares di sua spontanea volontà.»

«Quell’idiota di mio fratello non si smentisce mai» sibilò Eris, stringendo le mani sulle lenzuola, che ancora emanavano il profumo muschiato di Alekos.

«Vorrei farti notare che siamo tutti, o quasi, fratelli e sorelle, grazie a quell’inseminatore compulsivo che è il sommo Zeus» ironizzò Dioniso, levando le mani con espressione derisoria. «Specifica con quale fratello te la stai prendendo, ora.»

«Con tutti! Dovreste avere maggiore cura di Alekos!» ringhiò a quel punto la dea.

Ora sinceramente confuso, Dioniso le domandò: «Ma perché sei così protettiva, con lui? Non ti ho davvero mai vista comportarti a questo modo. Da quando quel ragazzo cammina nel mondo, il tuo comportamento è cambiato. Capisco che la situazione sia delicata ma perché tu, proprio tu, ti comporti a questo modo?»

Eris reclinò colpevole il capo, annuendo stancamente e, suo malgrado, mormorò: «So benissimo di non essere coerente. Non c’è bisogno che tu me lo faccia notare.»

Picchiettandosi un dito sul mento, Dioniso le si sedette accanto con aria meditabonda e, con voce insolitamente gentile, asserì: «I tuoi figli sono nati per partenogenesi… desideravi una stirpe tutta tua, ma che non fosse contaminata dal sangue di nessun uomo. A ben vedere, non hai mai avvicinato nessun uomo – mortale o immortale che fosse – per ottenere da lui favori o piacere. Ma, da quando Alekos vive, sei pian piano cambiata, vero?»

«Cosa stai tentando di insinuare?» sibilò Eris, afferrandolo al collo con decisione.

Dioniso non si scostò, lasciando che le dita della dea affondassero nella sua carne e, per quanto il momento non fosse dei più ideali, provò anche un discreto piacere. Non che fosse il caso di far notare a Eris quanto, il suo tocco violento, stesse risvegliando in lui discutibili pulsioni.

Lo avrebbe ammazzato di sicuro, se si fosse resa conto della cosa. Era troppo preoccupata per Alekos per soprassedere. Inoltre, pur se era migliorata un poco, restava pur sempre la dea della discordia, e lei non ci andava per il sottile, con le vendette.

Cercando perciò di rimandare al mittente quei piacevoli brividi di piacere, il dio mormorò roco: «Non insinuo niente. E’ un dato di fatto, e mi sorprende di esserci arrivato solo ora… ma va anche detto che non è il mio mestiere, quello di usare il cervello per comprendere la parte più profonda dell’animo di ognuno di noi.»

Eris accentuò la stretta, digrignando i denti per l’ira, ma Dioniso proseguì dicendo: «Sei legata a lui… in un qualche modo che, a quanto pare, neppure tu o lui comprendete, ma il legame è chiaro, ed è sempre più forte. Resta da capire soltanto la motivazione del gesto, che può essere stato dettato dall’ubriachezza, come da un impulso più profondo, e che va assolutamente chiarito, visto che Alekos è unico nel suo genere.»

La dea scosse il capo, lasciando andare il collo di Dioniso come se si fosse ustionata e, portandosi le mani al volto, affondò le unghie nelle gote pallide, gracchiando sconvolta: «L’ho contaminato, ed è diventato come gli altri… quanto più avevo temuto, è infine successo.»

Afferrando le mani della sorellastra quando vide comparire le prime gocce di sangue tra le sue dita, Dioniso gliele strinse con forza perché non sfuggisse alla sua presa e, lapidario, replicò: «Non dire sciocchezze! Non sei la peste bubbonica, sciocca! Molto più semplicemente, Alekos ha visto in te una bella donna e, spinto da pulsioni di cui non starò qui a parlarti, ha tentato un approccio, ma poi se n’è pentito per motivi tutti suoi ed è sbarellato.»

«Ma lui è… è…» tentennò Eris, non sapendo mettere a parole ciò che pensava.

«Cosa? Cos’ha di tanto speciale? Mettiamo i puntini sulle ‘i’ una volta per tutte, perché secondo me hai le idee confuse, su di lui. Alekos è figlio di Athena, per cominciare. Ebbene? Non mi verrai a dire che ti preoccupa la vostra parentela, spero? Sai benissimo che, tra divinità, queste cose non contano nulla» protestò Dioniso.

«Non è questo il punto, infatti!» sbottò Eris.

«Ti preoccupa l’età, forse? Érebos e Athena stanno tranquillamente insieme, eppure lui nacque migliaia e migliaia di anni prima di lei. E sai quante altre coppie sono così? Cosa dovrebbe dire Felipe, scusa? E’ un infante, al confronto di Artemide, e lo era anche Endimione, a suo tempo.»

Eris cercò di sfuggire alla presa del fratello, e così anche alle sue parole, ma lui non demorse e proseguì nel dire: «E’ un uomo, Eris. Non più il dolce ragazzino che tutti noi abbiamo conosciuto in terra di Ade, o che tu seguisti per anni nell’ombra. Ha i desideri e i pensieri di un uomo e, se lo desidera, può bramare l’amore di una donna …o di un uomo, indifferentemente.»

«Non hai visto i suoi occhi, Dioniso» protestò Eris, scuotendo il capo. «C’era un desiderio animalesco, nei suoi occhi… una brama che non aveva nulla a che fare con un uomo che desidera una donna e paradossalmente, in quel momento, il suo potere era muto, come reso cieco da qualcosa…o a qualcuno

A quel punto, Dioniso impallidì leggermente, conscio dell’ansia insita nelle parole della dea, e mormorò: «Se la cosa ti ha spaventato tanto – e ha spaventato lui, a quanto pare – allora non si tratta affatto di concupiscenza, ma di qualcosa di molto più oscuro.»

«Non sono spaventata» sottolineò lei, sbuffando contrariata.

Non voleva sentirsi così debole e sottomessa; lo detestava con tutta se stessa, ma Dioniso aveva ragione. Lei era spaventata perché quello che aveva visto, nell’attimo in cui Alekos aveva tentato di baciarla, non era stato affatto il giovane che aveva imparato a conoscere, o un uomo interessato a una donna.

Se fosse stato un desiderio cosciente e pulito, non avrebbe avuto problemi ad accettare il suo bacio. Ma colui che l’aveva bloccata sotto di sé, non era stato l’Alekos di sempre.

«E’ per questo che ti dico che il mio potere lo ha traviato, facendolo diventare qualcuno che non è» protestò a quel punto Eris, divincolandosi finalmente dalla stretta di Dioniso.

«Eris, conosco bene ciò che ti venne predetto all’atto della nascita» replicò il dio, sorprendendola. «Mi fu specificamente detto quando tentai un approccio con te, tanti secoli addietro.»

«Come?» esalò la dea, scostandosi per guardarlo in volto con espressione confusa.

Lui assentì totalmente serio e, scrollando le spalle, aggiunse: «Sei bellissima, e penso sia uno spreco che tu non abbia mai conosciuto il piacere derivante dall’amare un uomo… o una donna, se preferisci. Avrei anche voluto essere io, a un certo punto, a offrirti questo dono ma mi fu detto che, se fossi entrato a far parte della tua vita, mi avresti distrutto.»

Eris assentì suo malgrado, ma Dioniso sospirò contrito e ammise: «Ne ebbi paura, lo ammetto, e così tornai sui miei passi, lasciandoti sola a sopportare il peso di un destino tra i più complessi e dolorosi che mai siano toccati a una divinità.»

«Era tuo diritto pensarla così» sottolineò la dea.

«Quindi, non è tuo diritto trovare un po’ di felicità? Pensi che, perché ti è stato dato un determinato compito da svolgere nel mondo, automaticamente ti sia preclusa la gioia?» domandò per contro Dioniso, inalberandosi.

Sorridendo mesta, Eris asserì: «Soffrirò e farò soffrire in egual misura. Chi mi vorrebbe come compagna?»

«Forse, colui che toglie la sofferenza? Non hai mai pensato che, chi ha deciso di darti un simile peso da portare, abbia anche pensato che fosse giunto il momento di riequilibrare il tuo destino fin troppo avverso?»

«Hai ragione su una cosa, Dioniso. Pensare non fa per te» ironizzò suo malgrado Eris, risollevandosi. «Andrò a parlare con nostro padre. Forse, con i suoi poteri, riuscirà a trovare Alekos prima di dover mettere in allarme Athena.»

«Beh, non andrai da sola. Ti ho abbandonata una volta, per paura, ma non lo farò una seconda» sbottò Dioniso, levandosi in piedi e avvolgendole la vita con un braccio.

Eris discese con lo sguardo a scrutare la mano poggiata sul suo fianco e, sardonica, mormorò: «Fratello… dove pensi di andare, con quelle dita?»

Dioniso seguì a sua volta lo sguardo della dea e, ridacchiando nervosamente, sollevò subito la propria mano prima di dire: «Ehm… è più forte di me. Sei così bella che mi viene spontaneo provarci.»

«Sei un caso senza speranza» sospirò Eris, trasmutandosi alle porte del palazzo del padre.

Dioniso la seguì, ben deciso a non abbandonarla. Se lei era portatrice di sofferenza, lui lo era di allegria e spensieratezza, e non avrebbe permesso che la serata si chiudesse al peggio. Anche se c'era di mezzo il pessimismo di Eris.
 
***

Balzando sui gradini del tempio come se avesse avuto il fuoco alle spalle, Eris fu lesta a entrare nel luogo sacro a suo padre, subito seguita a ruota da Dioniso, che non poté evitare uno sguardo lascivo al fondoschiena della dea.

Dea che, una volta raggiunto il pronao, si bloccò di colpo, torse il braccio e gli scaricò un tal pugno allo stomaco da mandarlo riverso sul pavimento di marmo.

Lagnandosi per il gran dolore e portandosi in posizione fetale per difendere altre – e più preziose – zone del suo corpo, Dioniso la fissò con i dolenti occhi dorati e borbottò: «Ma perché devi sempre reagire così?!»

«Non amo essere radiografata, e i tuoi occhi hanno il potere di trapassare la gente» sbuffò lei, allungandogli poi una mano perché si rialzasse.

Dioniso la accettò cautamente e, nel rimettersi in piedi, dichiarò: «Su una cosa sono più che sicuro, adesso… l’abito non fa il monaco.»

«Ma va?» ironizzò caustica Eris, riprendendo la sua corsa all’interno del tempio.

Dioniso la superò in velocità – soprattutto per difendersi da ulteriori, e giuste, accuse di voyeurismo – e, nel lanciarsi in una corsa sfrenata entro il perimetro interno del tempio, esclamò: «Preghiamo che non sia a letto con qualcuna… non ho nessuna voglia di evitare i suoi strali!»

«Ti proteggerò io, fifone che non sei altro» gli promise Eris, sbuffando contrariata.

«Non è fifa… è più… autoconservazione» sottolineò per contro Dioniso.

Sogghignando suo malgrado, Eris replicò: «Papà deve solo provarci, a lanciarmi contro uno strale. Posso essere perfida in maniera molto terrificante, se lo voglio, e con lui ho materiale da sfruttare per vendette lunghe un millennio.»

«Me le farai vedere?» gli domandò lui, sorridendole beffardo da sopra una spalla.

Eris storse il naso e borbottò: «Non riesco a capire se sei sadico o se, semplicemente, sei matto da legare.»

Dioniso scoppiò in una grassa risata, risata che però morì di colpo in gola quando penetrò nell’area più interna del tempio, ove si trovavano le stanze di private di Zeus.

Coprendosi istintivamente gli occhi quando inquadrò ciò che più di tutto non avrebbe mai voluto vedere, Dioniso afferrò in tutta fretta Eris perché ella non fosse costretta a visionare un simile spettacolo.

Nel farlo, però, complice il suo stato di ubriachezza in fase di remissione, i suoi piedi incespicarono tra loro. La gravità traditrice fece il resto, e il pavimento divenne la loro ultima destinazione.

Eris strillò un’imprecazione prima di crollare a terra, urtando così i gomiti sul pavimento marmoreo mentre Dioniso, non potendo evitarlo, finì con il cadere addosso alla dea.

«Ma… che RAZZA DI IDIOTA!» urlò sempre più forte Eris, togliendoselo di dosso con una grande spinta di mani e piedi.

Dioniso si scusò più e più volte per la sua goffaggine – ma non per averle tastato il sedere – mentre, nella stanza adiacente, strilli femminili si univano a un brontolio maschile piuttosto inequivocabile.

Rimettendosi in piedi nonostante il dolore alle membra, causato dalla caduta improvvisa, Eris fu sul punto di aggredite Dioniso quando, nel bel mezzo del corridoio, spuntò Zeus in tutto il suo adamitico splendore.

Eris avvampò come un cerino, di fronte a tanta reale possanza e Dioniso, nel mettersi seduto, borbottò: «Era questo che volevo evitarti…»

«Che diavolo ci fate, voi due, qua dentro?! Avete preso casa mia per un luna park?!» sbraitò Zeus, piantando i pugni sui fianchi nudi.

Dioniso si coprì il viso al pari di Eris che, per ogni precauzione, si volse dalla parte opposta. Non contento, il figlio di Zeus disse: «Un accappatoio, paparino, sarebbe gradito… sai com’è… non è che vedere i tuoi batacchi mi piaccia molto, ed Eris è così virginea che proprio non è il caso di dare ulteriore spettacolo.»

Zeus si squadrò per un attimo, imprecò vistosamente e, nel tornare nelle sue stanze con passo pesante, sbraitò: «Anche quanto, cos’hanno che non vanno?»

«Non vanno perché sono i tuoi, paparino! Ecco, cosa c’è che non va!» esclamò Dioniso, levandosi in piedi e scrutando dolente la sua tunica ormai rovinata. «Niente… è da buttare.»

«Vuoi essere serio per almeno un minuto dietro fila?!» gli sibilò contro Eris, sbirciando poi sopra la spalla per essere sicura che il padre fosse sparito.

«La serietà la lascio agli altri, mia cara… e vorrei farti notare che ti si è rovinato l’abito» le fece notare Dioniso, indicando la gonna lesionata della dea.

Eris perse del tutto il controllo, di fronte all’espressione contrariata di Dioniso e, pestando un piede a terra con violenza, urlò: «MA CHI SE NE FREGA!»

Di fronte a quella reazione, Dioniso si appoggiò lesto al muro dietro di lui, così da non crollare nuovamente a terra a causa del piccolo terremoto causato da quel colpo.

Nell’uscire dalle sue stanze proprio mentre le ultime scosse erano in procinto di cessare, Zeus ci tenne a dire: «Vorrei conservarlo integro, il tempio, per la cronaca.»

Eris non si scusò affatto per quel colpo di testa e, nel guardare in volto suo padre con il massimo della serietà, disse: «Abbiamo bisogno di te. Alekos è scomparso.»

Finendo di allacciarsi l’accappatoio in vita, Zeus bloccò immediatamente il movimento delle sue mani non appena recepì il significato di quelle parole e, scrutando dubbioso la figlia, borbottò cauto: «In che senso… scomparso?»

«Si è trasmutato. Da solo» aggiunse lei, stringendosi una mano al petto per l’ansia.

Non riusciva a sentirlo da nessuna parte, e lei era sempre riuscita ad avvertirne la presenza fin da quando era nell’Oltretomba, ancora piccolo e indifeso!

Sembrava scomparso dalla faccia della Terra, e sperava davvero fosse materialmente impossibile, anche per un dio, altrimenti non avrebbe saputo dove cercarlo.

«Lui non è in grado di farlo» replicò cocciuto Zeus, ottenendo soltanto di far infuriare nuovamente Eris.

Accigliandosi, la dea ribatté caustica: «Perché voi uomini dovete sempre rispondere con una negazione alle nostre affermazioni?!»

Zeus levò un sopracciglio con evidente sarcasmo, asserendo: «Questa risposta l’hai imparata da tua madre.»

«Ah, …paparino, forse non è il caso di farla infuriare ancora di più. Homados e Proioxis sono in giro alla ricerca di Alekos ma, se tornassero su suo ordine, ci mangerebbero vivi» tentennò Dioniso, mettendo in guardia il Padre degli dèi.

Impallidendo leggermente, Zeus allora disse: «Spiegatemi dall’inizio questo guazzabuglio e, per le prossime volte, suonate il campanello.»

Eris e Dioniso lo fissarono esasperati, borbottando: «Non hai un campanello.»

«Ah. Giusto» gracchiò Zeus, indicando quindi loro di seguirlo. Era del tutto assurdo parlare di cose del genere nel bel mezzo di un corridoio, e quella sembrava una situazione dannatamente seria.

I due figli seguirono lesti il padre fino a raggiungere lo studio di Zeus dove, con uno schiocco di dita, le candele si accesero per conferire maggiore luminosità alla stanza.

Lì, Zeus sfiorò il mappamondo che teneva sulla scrivania e domandò: «Le tue arpie dove sono?»

Eris puntò il dito indice destro sull’Australia, mentre l’indice sinistro finì in Groenlandia. Torva, poi, disse: «Hanno scandagliato nord Europa, Sud Africa e tutta l’Asia senza trovare alcunché, neppure una traccia seppur lieve di lui, e posso dirti che neppure le tue aquile hanno la vista acuta come la loro.»

Zeus annuì senza problemi, ben sapendo che era la pura verità. Le arpie di Eris sarebbero riuscite a scovare un batterio specifico in tutto il globo, se a lei fosse servito proprio quello.
Il punto era un altro; se Alekos non si trovava da nessuna parte, sulla Terra, dov’era finito?

«Tu non riesci a sentirlo da nessuna parte, padre?» domandò a quel punto Eris, apparendo così spaventata da turbare lo stesso Zeus.

In tanti secoli, non aveva mai visto Eris preoccuparsi tanto per qualcuno; forse, solo quando lui aveva scacciato Ate dall’Olimpo. Di sicuro, però, non aveva raggiunto simili vette di ansia.

Ben deciso a rendersi utile, quindi, si concentrò sull’aura del nipote, la cercò con tutta l’attenzione possibile e, nel farlo, chiese persino ad Ade e Poseidone il loro aiuto, ma nulla valse allo scopo. Alekos sembrava davvero scomparso nel nulla.

Sospirando nel riaprire gli occhi, Zeus scosse dolente il capo ed Eris, lasciandosi andare su una delle sedie di fronte alla scrivania del padre, esalò sconvolta: «Ma dove può essere?»

Il Padre degli dèi lanciò uno sguardo dubbioso alla figlia, prima di rivolgersi a Dioniso per domandare: «Tu cosa c’entri in tutta questa faccenda?»

«Alekos si trovava da me, fino a circa un’ora fa…» ammise il dio, vedendo il padre aggrottare la fronte per diretta conseguenza. «…ma, prima che tu ti infuri con me, ci tengo a precisare che è venuto di sua spontanea volontà, non su mia coercizione.»

«Mi stupisce soltanto che abbia voluto partecipare a una delle tue feste, tutto qui» sottolineò Zeus. «Sai se ha fatto uso di droghe di qualche genere?»

«Non gli ho fatto da balia, ma credo abbia solo bevuto qualcosa» asserì il dio. «Mi sembrava troppo impegnato a schivare ninfe vogliose, per essere riuscito a raggiungere l’angolo del mio tempio dove si fumava oppio.»

Un nervo palpitò sulla guancia di Zeus e Dioniso, ghignante, aggiunse: «Te le sei già fatte tutte, quelle ninfe, paparino… non essere geloso.»

Zeus fece per replicare, ma il pugno di Eris calò come una scure sulla scrivania del padre, spezzandola in due e facendo tremare di paura i due dèi impegnati in quella dubbia discussione.

«Vogliamo tornare a noi?!» sbraitò poi Eris.

Tossicchiando imbarazzato, Zeus ammise: «Se neppure le tue arpie riescono a trovarlo, io non ne avverto la presenza in alcun luogo terreno, e i tuoi zii non lo percepiscono nei loro regni, esiste un solo altro luogo in può trovarsi, e davvero non ho idea di come vi sia potuto giungere.»

«Cos’è questo luogo?» domandò ansiosa Eris.

«Non è esattamente un luogo. E’ un’entità» precisò torvo Zeus. «Si tratta di Chaos.»

Dioniso ed Eris sbatterono confusi le palpebre, non comprendendo appieno le parole del padre e quest’ultima, turbata, gli chiese: «Che intendi, per Chaos?»

«E’ l’essere primordiale per eccellenza, da cui tutto e tutti siamo nati… è l’unico altro luogo, a parte la Terra, raggiungibile da una divinità, se togli il piano astrale – ma lì non c’è, ho già controllato – e solo tre persone, finora, ne avevano avuto libero accesso.»

«Tre… persone?» esalò Dioniso, fissando una altrettanto confusa Eris.

Zeus assentì, asserendo torvo: «Si tratta di Cloto, Lachesi e Atropo.»

«Le… le Moire?» ansimò sconvolta Eris. «Ma perché loro…»

Zeus le sorrise mesto, replicando: «Da dove pensi arrivino i destini di tutti noi?»

Sia Dioniso che Eris rimasero ammutoliti, di fronte a quell’inaspettata realtà e Zeus, afferrato che ebbe uno dei libri della sua libreria, lo aprì sopra all’ormai distrutta scrivania, puntando a una pagina ben precisa.

Lì, indicò il disegno di una nuvola oscura e aggiunse: «Nessuno, a eccezione delle Moire, sa quale sia l’aspetto di Chaos, né se abbia realmente un aspetto, per questo ho parlato di ‘entità’. Loro, ovviamente, mantengono un religioso silenzio tanto su Chaos quanto sui fili che intessono, e quindi non si sa neppure quale sia il luogo in cui realmente egli – o ella – si trovi.»

Frustrata, Eris sbottò dicendo: «E’ chiaro che non si trova sulla Terra, a questo punto, visto che non riusciamo a sentire Alekos da nessuna parte, e tu sei certo che si trovi lì.»

«O questo, figlia, oppure è svaporato come l’aria, e non credo proprio sia successo questo» sottolineò Zeus, vedendola impallidire al solo pensiero. «Avete già avvisato Athena?»

«Non dovrà essere affatto avvisata» precisò Eris, lapidaria. «Non prima di aver trovato il modo di raggiungere Chaos per liberare Alekos.»

«Dubito che potrà accadere» sottolineò per contro Zeus. «Non appena Athena si desterà dal sonno notturno, si renderà subito conto della sparizione di Alekos, e impazzirà di dolore e paura.»

«Allora, tu dovrai aiutarla a non impazzire o, giuro su tutti gli dèi di tutti i pantheon che io troverò il modo di fartela pagare» sibilò Eris, assottigliando pericolosamente le palpebre.

Pur non apprezzando il tono di Eris, Zeus preferì non replicare quando percepì qualcosa di più profondo e davvero insolito, dietro quella minaccia terribile.

Eris stava soffrendo in maniera indicibile e avrebbe sacrificato ogni cosa, forse anche la sua stessa vita, pur di riportare indietro Alekos dal luogo in cui si trovava.

Non ne conosceva i motivi, ma era forse il gesto più determinato e altruistico che lui le avesse mai visto fare, e gli diede la misura di quanto la figlia fosse coinvolta.

Annuendo suo malgrado, quindi, Zeus disse: «Baderò io a lei… ma presta attenzione, figlia. Non è detto che le Moire vogliano parlare con te. Sei pronta ad accettare un rifiuto?»

Eris, allora, si aprì in un sorriso ferale, replicando: «Nessuno dice di no a Eris.»

«Io verrò con te» intervenne a quel punto Dioniso, sorprendendo sia Eris che Zeus.

«Tu non c’entri nulla, con questa storia» sottolineò Eris, già pronta ad andarsene.

Dioniso, però, la afferrò a un braccio e replicò: «Te l’ho già detto. Ti lasciai sola una volta, per paura, ma non lo rifarò una seconda. Dove vai tu, vado io.»

Eris assentì dopo alcuni istanti di tacita battaglia di sguardi con il fratello e Zeus, nell’annuire, dichiarò: «Io raggiungerò Athena, ma voi sbrigatevi. Non è detto che io arrivi in tempo per bloccarla e, quasi sicuramente, Érebos non tarderà a giungere alla mia stessa conclusione.»

I due figli assentirono, trasmutandosi in un breve battito di ciglia e Zeus, con un sospiro, schioccò le dita per cambiarsi d’abito, borbottando preoccupato: «Questo sì che è un guaio davvero grosso. Ma come diavolo ha fatto, Alekos, a trasmutare?»





N.d.A.: a quanto pare, le cose si sono pericolosamente aggravate e, quel che è peggio, Alekos pare essere finito nell'unico posto in cui nessuno si sarebbe aspettato potesse finire. 
Sarà possibile raggiungere Chaos, in ogni caso, o i nostri eroi verranno fermati dal "padrone di casa"? Inoltre, l'improbabile coppia Eris/Dioniso, riuscirà a combinare qualcosa di buono per salvare Alekos, o servirà anche l'intervento di qualcun altro? Un'ultima cosa... vi ricordo che nulla è come sembra...

 

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Capitolo 46
*** Dioniso - 3 - ***


3.
 
 
 
Campi Elisi – Oltretomba
 
 
Moros stava controllando l’orologio a muro che Lachesi aveva sistemato sopra a una finestra e, storcendo il naso, borbottò: «A cosa ti serve un orologio, visto che tessi i destini del mondo e, perciò, sai esattamente quello che succede in ogni dannatissimo istante di ogni dannatissimo metro cubo di questo pianeta?»

Facendo la lingua al fratello per pur dispetto, Lachesi mosse il fuso con fare assai irritato e replicò: «Non ti piace? Ma se è steampunk

Moros si accigliò ancor di più, ribattendo inorridito: «Oddio… ti sei lasciata influenzare da tua sorella Cloto? Non mi dire che sei stata anche tu a quell’assurda parata del Lucca Comics, l’anno scorso!»

«Di’ ancora una volta che è assurda…» intervenne alle sue spalle Atropo, falciando l’aria con una delle sue cesoie dorate. «… e giuro che tagliuzzerò il tuo filo prima del tempo, fratellone.»

«Siete malate in testa, ecco cosa» sospirò Moros, lasciandosi andare sulla poltrona ov’era accomodato.

«E tu sei noioso come il mal di pancia» sottolineò Cloto, giungendo con un nuovo carico di spaghi dai colori sgargianti. «Si può sapere che ci fai, qui, tra l’altro? Rompi solo le scatole, o hai almeno un seppur minimo motivo per sfruttare la nostra aria?»

Moros fissò la sorella minore con un ghigno ferale, replicando: «Non potevano dare questo compito ingrato se non a tre megere come voi.»

«Da che pulpito!» esclamarono in coro le tre sorelle, sbeffeggiandolo.

Prima ancora che Moros potesse replicare con qualche altra cattiveria, due nubi colorate apparvero nell’imponente camera della tessitura delle Moire. Sotto gli occhi per nulla stupiti dei presenti, fecero quindi la loro apparizione Dioniso ed Eris e Moros, nel controllare ancora l’orologio, si levò in piedi e disse: «Dopotutto, è anche in orario.»

«E’ ovvio che lo sia! E’ steampunk!» sbuffò Lachesi, fissando male il fratello prima di sorridere ai due nuovi venuti e aggiungere: «Scusate la presenza di Moros. E’ uno scocciatore per natura e nessuno lo vuole, così lo ospitiamo per pietà.»

Moros la mandò debitamente al diavolo, mentre Atropo dava man forte alla sorella, asserendo le peggio cose sul fratello. A Eris, però, quel battibecco diede solo fastidio e, stringendo tra le mani il fuso che Lachesi stava usando per tessere, la fissò con sguardo omicida e sibilò: «Murati la bocca, se non desideri che lo faccia io.»

«La tua solita delicatezza» chiosò Atropo, scrollando le spalle per poi guardarla con ironia e aggiungere: «Pensi davvero che, una sola delle tue azioni, sia a noi sconosciuta?»

«Vediamo se hai previsto anche questa, di azione» replicò allora Eris, afferrandola all’improvviso per i capelli e portando Atropo a gridare di rabbia mista a sorpresa.

Cloto e Lachesi sospirarono nello scuotere il capo, mentre Dioniso si passava una mano sul volto con aria esasperata e Moros continuava a studiare l’orologio con fare meditabondo.

«Brutta strega, mollami!» sbraitò Atropo, divincolandosi inutilmente.

«Credi che non sappia come funzionano, i vostri fusi?» la irrise per contro Eris. «Sapete solo a grandi linee quello che accadrà, ma molte cose vi sono precluse… come quello che ho appena fatto, per l’appunto.»

Lasciando infine la presa, Eris lanciò un’occhiata venefica alle due sorelle restanti, ma loro si guardarono bene dal proferire parola. Fu Moros, però, ad aprire bocca, sorprendendo Discordia.

Scrutandola dall’alto dei suoi due metri, i suoi occhi scuri parvero bruciare dall’interno e, mentre si posavano su quelli grigio ghiaccio di Eris, egli le domandò: «Sei pronta a mettere in pratica su te stessa i tuoi poteri?»

«Mi sembra di averlo fatto per una vita intera, o sbaglio?» replicò caustica Eris. «O pensi debba soffrire ancor di più?»

Moros sorrise beffardo, asserendo per contro: «Hai sempre disprezzato tutto, di te, e pare che la paura peggiori la percezione che hai di te stessa.»

Afferrando il mantello di Moros, e sconvolgendo non poco sia le Moire che Dioniso – che divenne pallido come un cencio –, Eris gli sibilò in faccia: «Io. Non. Ho. Paura.»

«Ne hai, e tanta. Come non ne hai mai avuto in vita tua, e ora stai dando fondo alla tua parte migliore, che finora non hai mai considerato come parte di te» le ritorse contro Moros, imperturbabile anche a quell’attacco fisico. «Finora hai dato retta solo al tuo lato oscuro, che tanto ti ha fatto piangere nell’oscurità della notte.»

«Non parlare di cose che non sai!» urlò Eris, arrivando a schiaffeggiarlo.

Dioniso fu lesto ad afferrarla per la vita perché non compisse altri gesti inconsulti e, fissando spiacente Moros mentre Eris dava in escandescenze, lui disse: «Devi scusarla. E’ preoccupata per Alekos, e così...»

Moros si passò una mano sulla gota rossa e dolente ma, scuotendo il capo, si limitò a dire: «Ci vuole ben altro per sconvolgermi.»

«Lasciami provare… vedrai che riuscirò a toglierti quel sorriso beffardo dal volto!» sbraitò Eris, a stento trattenuta da Dioniso.

«Calmati, maledizione! Non siamo qui per litigare con Moros!» le rammentò Dioniso, palpandole un seno a sorpresa.

Eris si bloccò immediatamente, afferrò la mano di Dioniso per morderla e, mentre il dio smoccolava per il dolore, la sorella fissò caustica le Moire e asserì: «Se non volete che morda anche voi, ditemi dove posso trovare Chaos.»

Cloto mimò un ‘alleluja’ con le labbra, mentre Lachesi le dava una pacca sul sedere, come a metterla in guardia sulle vendette rapide e violente di Eris.

Eris, a quel punto, si accigliò e domandò dubbiosa: «Sapevate… che ve l’avrei chiesto?»

«Nel caso specifico, abbiamo ricevuto una soffiata» affermò Atropo, massaggiandosi ancora il cuoio capelluto dolorante.

«Bene, allora…» iniziò col dire Eris, prima di veder apparire diverse nubi colorate all’interno del tempio delle Moire.

Imprecando tra sé al pensiero di aver perso troppo tempo a discutere con Moros, Eris si preparò a ribattere a qualsiasi parola Athena avrebbe detto per fermarla.

Doveva essere lei a riportare indietro Alekos. Dovevano parlare di troppe cose, per permettere ad altri di occuparsene.

Quando, però, vide apparire Érebos, Artemide e Hermes, i dubbi di Eris andarono alle stelle. Che ci facevano, loro, al tempio delle Moire?

Sbattendo le palpebre con aria confusa, Eris si rivolse al compagno di Athena per chiedere: «Ma voi… che ci fate qui? Non siete con Athena?»

«Volevamo perorare la tua causa» le spiegò misteriosamente la divinità Ctonia.

Artemide scrollò le spalle, di fronte allo sguardo interrogativo di Eris, limitandosi a dire: «Non volevamo lasciarlo solo, visto che è provato non meno di Athena per la scomparsa di Alekos.»

«Chi c’è, con lei?» domandò subito Eris, accigliandosi.

«Ares, Afrodite, Efesto e nostro padre» le spiegò in fretta Hermes. «Era, invece, è andata a recuperare Acaste, Poseidone, Clizia e Apollo, che si trovano nel regno di Oceano.»

Eris assentì recisamente, non stupendosi per nulla di quella mobilitazione di massa. Tutti amavano Alekos, ed era più che evidente che ognuno di loro volesse essere coinvolto nel suo ritrovamento, o nell’essere un appoggio emotivo per Athena.

«D’accordo. Allora possiamo andare» dichiarò Dioniso, lanciando un’occhiata in direzione di Cloto, che però dissentì.

«Solo due, non uno in più» sottolineò la dea irritando tutti i presenti, con l’eccezione delle sorelle, Moros ed Érebos. «Solo tre persone possono mettere piede nel regno di Chaos e, poiché Alekos si trova già lì…»

Gli dèi si guardarono vicendevolmente in volto senza sapere bene cosa dire, perciò fu Moros a mettere fine a quello stallo del tutto inutile.

Aprendo di colpo il proprio mantello – che nascondeva un intero universo, sotto di esso – afferrò Eris e Dioniso per gettarli nell’oscurità senza fondo che, fino a quel momento, aveva tenuto ben nascosta.

Chinandosi poi su Eris, le sussurrò due parole all’orecchio, le pose tra le mani un piccolo involto, dopodiché richiuse i lembi del suo manto oscuro e dichiarò: «Stavate impiegando troppo tempo e, nel caso specifico, il tempo è vitale. Scusate.»

Hermes impallidì visibilmente e si aggrappò al braccio di Artemide, gracchiando: «Oddio, se li è mangiati!»

«Ma che razza di idiota!» lo rabberciò la sorella, dandogli uno scappellotto prima di domandare cauta: «Scemenze a parte… che hai fatto?»

Moros rimase muto come una tomba perciò Lachesi, dopo aver osservato per un istante il padre, dichiarò: «La porta di Chaos è Moros.»
 
***

Dioniso stava ancora urlando, quando i suoi piedi toccarono terra – se di terra si poteva parlare, visto che era circondato da un’uniforme oscurità.

Azzittendosi immediatamente, il dio afferrò lesto la mano di Eris non appena la vide scivolare accanto a lui dopo quella caduta apparentemente senza fine.

Per una volta, però, Eris non rifiutò la sua stretta e, cauta, si guardò intorno con espressione turbata, domandando: «Cosa dovrebbe essere, questo posto?»

«Ehi… io prendevo sempre tre, in geografia. Non chiedere a me» sottolineò Dioniso, guardandosi a sua volta intorno alla ricerca di un qualche segno distintivo, di una minima variazione di colore in quel mondo totalmente oscuro.

Eris non replicò alla sua battuta e, fattasi pensosa, scrutò prima se stessa e poi Dioniso, prima di sollevare un sopracciglio e dire: «Cloto ha detto che solo tre persone possono mettere piede qui e, se tu e io possiamo vederci è chiaro che, in qualche modo, questo mondo reagisce alla nostra scintilla vitale, o qualcosa di simile.»

«Parla semplice. In greco prendevo…» iniziò col dire Dioniso, subito interrotto da un ghigno di Eris.

«Prendevi tre, immagino.»

«Scontato. Non studiavo mai. Ero troppo impegnato a divertirmi» precisò Dioniso, scrollando le spalle. «Comunque, ho capito che intendevi. Non vediamo nulla perché non c’è niente di vivo, nelle vicinanze.»

«Stando al significato più recondito di Chaos, che significa abisso, o oscurità, non trovo strano che questo posto ci appaia così» aggiunse Eris, continuando a vagare con lo sguardo in cerca di qualche stilla di vita. «Il punto è; come facciamo a trovare Alekos, in questo posto, se non vediamo dove mettere i piedi?»

«Percepisci la sua presenza?» le domandò a quel punto Dioniso.

Eris si concentrò sul lampo di vita di Alekos, a lei ormai così familiare ma, dopo alcuni istanti di ricerca, scosse il capo e replicò: «No. Evidentemente, siamo ancora in territorio terrestre, per così dire. Dobbiamo spostarci.»

«O cadere» sottolineò Dioniso, sorprendendola. «Se tanto mi dà tanto, qui ci si sposta per caduta, e non in altro modo. Forse, avremmo dovuto chiedere una cartina a Cloto, o un paio di cuscini per il sedere.»

Eris lo irrise con lo sguardo ma testò l’ipotesi di Dioniso, tentando una trasmutazione.

Nulla di fatto. Senza sapere dove si trovava, né dove doveva recarsi, era impossibile spostarsi da un posto a un altro nel loro abituale modo.

«Temo tu abbia ragione. Qui non possiamo trasmutare da nessuna parte» dichiarò suo malgrado Eris, ritrovandosi a fissare l’aria tronfia e soddisfatta di Dioniso. «Beh? Che hai?»

«Hai detto che ho ragione e, detto da te, è come ricevere una dichiarazione d’amore» sorrise Dioniso, abbracciandola.

Eris lo scansò a forza, replicando piccata: «Dioniso, giuro che ti troverò mille donne e mille uomini, alla fine di questa cavolo di avventura, così sfogherai altrove i tuoi pruriti. Ora, però, vedi di aiutarmi senza dire scemenze.»

«Dichiarazione d’amore, dichiarazione d’amore…» ciangottò per contro Dioniso, avanzando mano nella mano con lei. «… dichiarazione d’amoreee!»

Come se una botola si fosse all’improvviso aperta sotto i loro piedi, i due caddero nuovamente nel vuoto ed Eris, afferrandolo al collo, esclamò irritata: «Ecco! Lo hai fatto infuriare con i tuoi starnazzi!»

«Piantala. Di. Stroz. Zarmi. Guar. Da. La. Giù!» biascicò in qualche modo Dioniso, sballottato dai tentativi di Eris di strangolarlo.

Come in precedenza, i loro corpi rallentarono fino a toccare nuovamente una sorta di suolo compatto ma, contrariamente a prima, attorno a loro iniziarono a vedersi alcuni colori.

«Siamo in un trip da acido?» esalò il dio, osservando l’intero ambiente multicolore con espressione confusa.

«Sono i colori primari» precisò caustica Eris, lasciando andare il fratello con uno strattone.
«E cosa ci dovremmo fare? Un dipinto? No, perché io…»

Tappandogli la bocca con una mano, Eris bofonchiò: «Prendevi tre in arte. Ho capito

Scostando la mano di lei, Dioniso precisò piccato: «Volevo dire che io amo il bianco e nero, piuttosto che l’uso dei colori. Sono un asso, in arte, cosa credi?»

Sgranando lentamente gli occhi, di fronte a quell’affermazione, Eris indicò il giallo e disse: «Mescolalo col rosso.»

«E come dovrei…» iniziò col dire lui, allungando una mano prima di affondare in un autentico lago di colore. «…fare?

Dioniso sbatté le palpebre un paio di volte, mosse la mano verso il rosso e, quando i due colori formarono l’arancione, esalò: «Ma che cavolo è, questo posto?»

«Il luogo della creazione di ogni cosa. Nel caso specifico, dei colori, a quanto pare» esalò Eris, guardandosi intorno con espressione sempre più meravigliata. «Che cosa ha detto nostro padre, prima?»

«Ero assai inorridito dalla visione dei suoi batacchi, perciò ero distratto, scusa» sospirò Dioniso, rabbrividendo al solo pensiero.

Eris sospirò esasperata e, mentre il fratello si divertiva a creare una nuova e sempre più bella tavolozza di colori, lei disse: «E’ il luogo in cui tutto e tutti siamo stati creati, perciò ci sta che anche i colori vengano da qui.»

«Se stanno così le cose, il prossimo posto in cui dovremmo…» iniziò a dire Dioniso, prima di sentirsi venire meno.

In fretta, e non curandosi minimamente di sporcare Eris di colore, il dio le afferrò una mano mentre una terza caduta li vedeva protagonisti.

Questa, durò più a lungo e, durante quell’interminabile e lento scorrere verso il basso – quasi stessero percorrendo uno scivolo – Eris si chiese quante altre parti di Chaos avrebbero dovuto visitare, prima di avvertire la presenza di Alekos.

Anche nel mondo dei colori, non aveva avvertito il suo soffio vitale, e questo particolare iniziava a metterla in agitazione. Le Moire avevano confermato che Alekos si trovava lì, ma quanto ancora avrebbero dovuto aggirarsi in quel mondo, prima di trovarlo?

E Chaos, nel frattempo, avrebbe potuto fargli del male? Dopotutto, lei non sapeva nulla di quell’entità primordiale, e nulla sapeva neppure delle sue abitudini di vita.

Il sol pensiero di non sapere con certezza come stesse Alekos la inorridiva, facendole tremare l’animo come mai, prima di allora, le era accaduto. Quando finalmente toccarono nuovamente terra, Eris afferrò la mano di Dioniso e domandò turbata: «E se trovassimo solo il suo cadavere? Se, mentre noi arranchiamo senza meta, Chaos lo uccidesse per essersi introdotto qui senza permesso?»

«Non dirlo neppure» replicò secco lui, fissandola con occhi che sprizzavano scintille dorate. «Lui è vivo. Ne sono fermamente convinto.»

«Come puoi esserlo? Non abbiamo alcuna prova che sia ancora vivo e, visto che non riesco a percepirlo…» tentennò Eris, stringendosi una mano al petto con aria dolente.

Dioniso si esibì in un mezzo sorriso e, nel darle un buffetto sul naso, asserì: «Parli come una persona che ha perso la speranza, e non è da te.»

«Io non so cosa sia la speranza!» sottolineò piccata Eris, scacciando la mano di Dioniso dal suo viso.

«Lo sai eccome, invece, cos’è, altrimenti non avresti punzecchiato le persone, in tutti questi millenni, perché compissero il passo giusto verso la direzione che dovevano prendere.»

«Cosa diavolo stai dicendo?» borbottò Eris, contrariata.

«Sei Discordia, ma sei anche stimolo alla competizione. E la competizione cosa può portare?»

«Guerre e sangue» sbottò Eris.

Dioniso sospirò, si passò una mano sul viso e replicò esasperato: «Con te, è come parlare con un muro, comunque… la competizione porta anche al miglioramento di sé, alla prosecuzione di un sogno, e cioè...?»

Eris lo fissò arcigna, chiaramente decisa a non parlare, così il fratello, battendogli le mani sulle spalle, aggiunse: «Dovrò portarti dall’otorino… hai le orecchie turate.»

«Idiota» brontolò la dea.

«Peggio ancora! La tua è sordità selettiva!» esclamò Dioniso, irridendola con lo sguardo. «Mi domando come faccia, Alekos, a sopportare queste tue dubbie doti.»

«Non nominare il suo nome…»

«…invano?» terminò per lei Dioniso, tappandole preventivamente la bocca. «Non è Gesù Cristo, né il dio dei cristiani, o qualsiasi altra divinità di nostra conoscenza o a noi sconosciuta. Persino noi mandiamo al diavolo Zeus, o chi per lui, quando siamo girati male, perciò perché non dovrei parlare di Alekos?»

«Perché lui ci è di molto superiore! Lui è puro!» lo rabberciò Eris, scansando la mano di Dioniso con stizza.

«Hai chiesto ad Athena cos’ha combinato, non appena è uscito dal raggio d’azione della villa del dio dei venti?» le ritorse contro Dioniso, accigliandosi.

Eris scosse recisamente il capo, pur avendo sempre mantenuto un certo tipo di contatto con il giovane.

Homados e Proioxis l’avevano tenuta informata in merito alla sua salute e, pur cercando di ridurre al minimo le visite – come richiesto dalla stessa Athena – in almeno tre occasioni si era presentata a Salina per vederlo.

Si era sentita morire dentro nel notare quanto, in quei lunghi mesi di isolamento forzato, gli occhi del giovane si fossero accesi di una luce sinistra e, anche ascoltando Aiolos, ne aveva avuto conferma.

Pur essendo riusciti a contenere le crisi di Alekos, tenerlo entro le mura protettive della villa aveva sortito un effetto imprevisto, e a suo modo altrettanto pericoloso.

Alekos aveva accumulato qualcosa di simile a una lista dei desideri, lista che a tutti era parsa un memorandum di ciò che avrebbe dovuto fare una volta lontano da Salina.

«Cos’ha fatto?» domandò a quel punto Eris, non sapendo bene cosa aspettarsi.

«Eos si è offerta di dargli un passaggio fino a casa – visto che si trovava a Salina in vacanza, assieme a Orione – e, mentre Alekos si preparava per la trasmutazione, lei gli ha parlato di Memnone e di quanto le mancasse parlare con lui in forma umana.»

Eris annuì cauta, ben sapendo della doppia natura del figlio immortale di Eos. Per sua stessa decisione, Memnone aveva scelto di essere mutato in un ibis bianco da Zeus, che gli aveva fatto dono dell’immortalità. L’unico momento della giornata in cui riprendeva forma umana era durante l’aurora, in cui solitamente si trovava sempre al fianco della madre.

Se per Memnone era un fatto normale e, anzi, preferibile a una vita da umano, per Eos non era mai stato così. Il fatto che, però, se ne fosse lagnata proprio con Alekos – ben sapendo quali fossero i suoi poteri – aveva del sospetto, ed Eris lo disse.

Dioniso scrollò le spalle, non sapendo che risponderle e, nel terminare il racconto, disse: «Sia come sia, Alekos ha ascoltato le sue lagnanze e, per tutta risposta, ha circuito Zeus di permettere a Memnone di mantenere la forma umana più a lungo, così da poter passare un po’ più di tempo con la madre.»

«Non dirmi che nostro padre ha accettato?!» esalò sconvolta Eris.

Lui assentì torvo, aggiungendo: «Non solo ha accettato, ma ci si è messo così d’impegno da portare a due giorni al mese la forma umana stabile di Memnone. Ovviamente, il ragazzo non è stato per niente felice della cosa – amando lui moltissimo la sua forma animale – e se n’è lagnato con la madre che, a sua volta, ha pianto come una vite tagliata ai piedi di Zeus perché rimuovesse il dono.»

«Immagino che Zeus si sia sentito un po’ preso in giro» ipotizzò Eris.

«Non sei in errore, sorella… morale della favola, Zeus ha ingiuriato Eos per il modo in cui ha turlupinato Alekos, Alekos è venuto a sapere dal nonno del guaio che inconsapevolmente ha causato, rammentandogli quindi la necessità di vagliare sempre i desideri delle persone e, per diretta conseguenza, il ragazzo ha avuto una crisi che lo ha atterrato per una settimana.»

Eris sospirò, scosse il capo e disse: «Se non troviamo il modo di bloccare il suo potere, impazzirà. La luce lo divorerà.»

«A volte, neppure la purezza ci può salvare. Qualche ombra ogni tanto serve a rendere più piacevole la luce, dopotutto» chiosò Dioniso, guardandosi intorno prima di aggiungere: «Lezioncina a parte, che facciamo, ora?»

Eris, però, non gli rispose, troppo impegnata a guardarsi per dare retta al fratello. Dioniso, quindi, ne seguì lo sguardo, rise imbarazzato e chiosò: «Una volta terminata questa storia, penserei seriamente a uno shatush o a dei colpi di luce. Ti sta bene, il biondo.»

Lei lo fissò malissimo – tra le mani alcune ciocche di capelli macchiate di colore giallo paglierino – e ringhiò: «Credimi, quando finiremo questo viaggio, il parrucchiere sarà l’ultimo dei miei pensieri.»

Dioniso preferì non chiedere quale sarebbe stato il primo.







N.d.A.: tra alti e bassi, direi che l'accoppiata Dioniso/Eris da qualche parte è arrivata. Ora, resta da capire quanto tempo impiegheranno per trovare Alekos, in quel dedalo di mondi sempre diversi in cui cadono ogni volta. Il fatto che Moros abbia detto che, "nel caso specifico, il tempo è vitale", credo sia tenere in debito conto.
A presto!
(P.S. : spero stiate tutt* bene, visto il periodaccio dovuto al Covid-19)
 

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Capitolo 47
*** Dioniso -4 - ***


 
Epilogo.
 
 
 
 
Aiolos penetrò nel tempio delle Moire al pari dei quattro venti e, sotto lo sguardo sorpreso di tutti i presenti, domandò ansioso: «Si hanno notizie di Alekos?!»

Seduto su una panca con il capo stretto tra le mani, Érebos lo sollevò meravigliato nell’udire la voce del dio del vento e, sgomento, esalò: «Cosa ci fate, qui? Sai benissimo che non puoi abbandonare Salina con i tuoi compagni!»

Aiolos gli sorrise, grato per la sua preoccupazione nonostante sapesse quanto, in quel momento, fosse nervoso, e replicò: «Ho chiesto il permesso a Zeus, prima di muovermi, e mio padre ha garantito per noi tutti.»

Artemide e gli altri dèi presenti tirarono un sospiro di sollievo e la dea della caccia, poggiando le mani sui fianchi, replicò rasserenata: «Meno male! Non c’è davvero bisogno di altre crisi familiari, per oggi.»

Aiolos assentì e, nel guardarsi intorno turbato, domandò: «Come mai siete tutti qui? Zeus ci ha detto che vi avremmo trovato al tempio delle Moire, ma immaginavo che sareste partiti tutti alla ricerca di Alekos, non che vi sareste fermati qui per un tè.»

«Solo tre persone possono trovarsi nel luogo in cui dimora Chaos» specificò Cloto, servendo al padre un po’ di camomilla. «Eris e Dioniso si trovano lì, oltre allo stesso Alekos, perciò la via ci è preclusa, al momento.»

Hermes fissò malissimo Moros, in piedi accanto al padre, e borbottò: «Se li è mangiati vivi!»

Moros sollevò sardonico un sopracciglio, lo sguardo di ghiaccio a studiarlo con falso interesse, replicando: «Hai una mente malata, Hermes, lo sai, vero?»

«Io, per lo meno, non mangio la gente» sottolineò per contro Hermes, ricevendo per tutta risposta una gomitata da Artemide.

Rivolgendosi poi ai venti e ad Aiolos, che stavano fissando Moros con aperto disgusto misto a terrore, la dea della caccia borbottò: «Non ascoltatelo. Moros ha solo aperto le porte per il regno di Chaos che, per puro caso, lui tiene nascoste sotto il suo mantello.»

Boreas fece tanto d’occhi, a quell’accenno e, rivolgendosi spavaldo a Moros, dichiarò: «Un gran bel mantello, il tuo. Non c’è che dire.»

«E’ utilissimo. Spedisce la gente in un sacco di bei posti. Vuoi provare?» ironizzò Moros, levando appena il lembo del mantello, quasi a volerlo sfidare.

Boreas si arrotolò le maniche della camicia, già pronto a rispondere alla sfida lanciatagli quando Érebos, sospirando, mormorò: «Per favore, ragazzi. Lasciate le smargiassate a dopo.»

«Scusa, padre» annuì contrito Moros risistemando subito i lembi del mantello.

Allo stesso modo, Boreas reclinò le braccia e borbottò: «Sì, scusami, Sommo Érebos. E’ da tanto che non esco di casa, e mi fa sempre un brutto effetto.»

«Porto una camomilla a tutti» dichiarò a quel punto Atropo, avviandosi nuovamente verso la cucina, da cui era uscita solo pochi istanti prima.

Aiolos la seguì con la scusa di aiutarla ma, non appena furono soli, le domandò ansioso: «Perché avete lasciato andare proprio Dioniso, con Eris? Perché non Artemide, per esempio? Lei è una guerriera, e avrebbe potuto…»

«…potuto, cosa, Aiolos? Cosa immagini ci sia, esattamente, nel regno di Chaos?» domandò per contro Atropo, mettendo sul fuoco un bollitore ricolmo d’acqua.

Azzittendosi di fronte a quella domanda inattesa, lui si morse il labbro inferiore, pensieroso, prima di ammettere la propria ignoranza in materia.

Atropo, allora, estrasse dell’infuso di camomilla da una scatola d’alluminio, gli sorrise comprensiva e replicò: «A parte me e le mie sorelle, nessuno sa cosa ci sia oltre le porte che Moros protegge. Ma è giusto che Dioniso sia andato con Eris. Per riuscire, lei ha bisogno di qualcuno che le sia opposto. Non ha bisogno di armi, ma di sostegno.»

«Sostegno per cosa, esattamente?»

«Dovrà prendere la decisione più difficile di tutta la sua esistenza. Dovrà prenderla senza chiedere l’altrui aiuto, e la coinvolgerà per il resto della vita, perciò ha bisogno di qualcuno che le faccia da contraltare, mentre si appresta a comprendere cosa Chaos vuole da lei.»

Accigliandosi, Aiolos le domandò: «Sei stranamente ciarliera e, di solito, non lo sei mai. Perché mi stai dicendo questo?»

«Perché non so cosa farà Eris. Il suo fuso è bloccato, non va né avanti né indietro, e né io né le mie sorelle possiamo fare nulla perché le cose cambino. Solo lei può farlo» gli spiegò Atropo, indicando un fuso in particolare, il cui filo dorato brillava con particolare intensità.

«E’ così… scintillante» esalò sorpreso Aiolos, fissandolo pieno di meraviglia.

«Pensavi fosse nero come la pece?» ironizzò Atropo, vedendolo arrossire in risposta. «Man mano che gli anni sono passati dalla nascita di Alekos, il suo filo si è fatto sempre più bello e sgargiante, e ora lo vedi così. Quello di Alekos, invece, continua a mutare colore e perde luminosità, e questo non è un bene.»

«Cosa significa?» mormorò preoccupato.

«Che sta combattendo contro se stesso, e contro ciò che sta diventando. Il punto è che, visto che ora è nel regno di Chaos e sembra non avere più il controllo di se stesso, non è detto che lui lo lasci andare» sospirò Atropo, indicando un secondo filato. «Neppure il suo filato si muove più.»

Aiolos strinse le mani a pugno, turbato dalla vista del filo di Alekos – strettamente connesso con un altro fuso di cui, però, Atropo non gli aveva detto la natura – e mormorò: «E tu dici che Eris e Dioniso sono le due persone adatte per riportarlo indietro…»

«Così era scritto nei fili, prima che quelli di Eris e Alekos si bloccassero» assentì lei.

«E quello di Dioniso?»

«Oggi sono ciarliera, non stupida» ammiccò Atropo, azzittendosi subito dopo.

Aiolos lasciò perdere dopo uno sbuffo e, quando Atropo gli porse il vassoio con le tazze, si limitò a dire: «Se non sapete come ingannare il tempo, andate dal padre di Alekos. In qualche modo, sente che il figlio è in pericolo, e si aggira fuori dal tempio come…beh, come un’anima in pena.»

Aiolos le sorrise ammirato, esalando: «Una battuta, Atropo! Non l’avrei mai detto!»

«Vattene da qui, pestifero di un dio, e renditi utile» brontolò la dea, scacciandolo dalla cucina con un gesto imperioso della mano.

Aiolos obbedì e la donna, tornando seria, si volse a controllare i filati delle persone coinvolte in quel guazzabuglio, sperando ardentemente di vederli muoversi.

Eris e Alekos erano bloccati, mentre il filato di Érebos stava sfilacciandosi sempre di più, minacciando la sua stessa esistenza. Soltanto quello di Dioniso procedeva spedito, ma quello le serviva unicamente per sapere che era ancora vivo.

Tutto il resto le era precluso. Persino lei, in quell’occasione, era cieca, e la cosa non le piacque per nulla.

«E’ questo, quello che si prova…1»

 
 
 
 
 
1 Citazione da The Dark Knight – Rises, quando Batman salva Catwoman e, all’improvviso, lei sparisce alla sua vista, lasciandolo con un pugno di mosche. Cosa, che di solito, fa lui con gli altri.


N.d.A.: di sicuro, la situazione non sembra volgere al meglio, e tutto il pantheon si è messo in allarme per poter essere partecipe della sofferenza di Erebos e Athena. Riusciranno, Dioniso ed Eris, a raggiungere Chaos prima che il filato di Alekos diventi irrecuperabile?

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Capitolo 48
*** Chaos -1 - ***


Chaos – 1 –
 
 
 
 
Non era mai avvenuto che qualcuno penetrasse nel suo regno, e senza il suo permesso, per giunta, ma andava anche detto che, tutto ciò che era legato a quel giovane, Alekos Parthenos, sfuggiva alle sue regole.

Da morto nel grembo materno che era – e perciò destinato al regno di Ade – Érebos lo aveva fatto divenire una singolarità, legando Alekos all’anima immortale della madre, e contravvenendo così a ogni regola fin lì scritta.

Un’anima senza il proprio filo della vita, però, non serviva a molto. Il dio Ctonio, perciò, non si era limitato a creare questo legame, ma aveva suddiviso in due il suo filato, pregando le figlie perché lo utilizzassero.

Thanatos, però, non aveva potuto impedire a se stesso di compiere il proprio compito e, a cose fatte, Alekos si era già trovato entro i confini del regno di Ade.

Alekos, quindi, aveva potuto vivere, pur se nel regno dell’Oltretomba e, grazie ad anima e filo, aveva potuto crescere fino al ricongiungimento con la madre.

Questa singolarità, che Chaos stesso aveva seguito con interesse, aveva quindi creato altre singolarità, scompaginando un regno, fino a quel momento, perfettamente equilibrato. Il dio della creazione, a quel punto, aveva iniziato a seguire le vicende del giovane semidio con occhio sempre più preoccupato, la curiosità ormai del tutto spazzata via dall’ansia.

La luce sviluppatasi nell’animo di Alekos aveva in principio eccitato Chaos – era raro vedere creature così pure e incontaminate – ma, col passare del tempo, ne aveva anche scorto le pecche, le limitazioni.

Una luce sempre più vivida e pura poteva causare gli stessi danni di un’oscurità completa e divorante, e proprio per questo le due entità dovevano convivere assieme, così da rendere necessarie e stabili entrambe.

In Alekos, però, non v’era ombra di oscurità alcuna e questo aveva portato, con il tempo, a un sovraccarico di energia senza controllo, energia che voleva divenire sempre più grande, più forte e indipendente.

Il corpo di un semidio non poteva contenerla senza incorrere in seri danni e, da quel poco che Chaos aveva potuto vedere nel corso degli anni, il momento di stallo era infine giunto.

Restava soltanto da scoprire se l’equilibrio si sarebbe ristabilito, o se le due entità coinvolte in questa singolarità, si sarebbero eliminate a vicenda.

Sorridendo spontaneamente quando, nell’osservare il corpo disteso di Alekos, Chaos ne vide il lento respiro farsi sempre più forte, sospirò sollevato e mormorò: «Bene. Si sta riprendendo.»

Quando gli occhi verde smeraldo di Alekos finalmente si aprirono, Chaos si avvicinò al letto su cui lo aveva sistemato e disse: «Bentornato, Alekos. Come ti senti?»

Il giovane si levò a sedere con movimenti goffi, resi tali dall’enorme dispendio di energie che aveva bruciato nel trasmutarsi con le sue sole forze.

Quando infine si ritrovò a fissare un uomo dalla folta barba grigia da una posizione più consona, Alekos esalò confuso: «Dove mi trovo? E tu chi sei?»

Indicando il luogo privo di mura – o dimensioni – in cui si trovavano, Chaos si limitò a dire: «Sei nel mio regno, Alekos. Quanto a me, io mi son parte di quella possanza che vuole continuamente il male e continuamente produce il bene.»

Accigliandosi leggermente, Alekos replicò: «Perché hai citato il Mefistofele di Goethe?»

Sorridendo compiaciuto per essere stato scoperto nella con così tanta facilità, Chaos asserì: «Era una citazione calzante, vista la situazione unica in cui ti trovi. Comunque, tornando serio, posso dirti questo; io sono Chaos, e questo è il luogo in cui tutto e tutti dimorano, prima di essere creati da me e da me avviati alla vita.»

Il giovane spalancò gli occhi per lo sconcerto, guardandosi intorno con espressione confusa e, nulla vedendo attorno a sé se non il letto su cui era seduto e la poltroncina ove era assiso Chaos, esalò: «Ma… qui non c’è niente!»

Sorridendo comprensivo, Chaos allora domandò: «Il bianco è un colore singolo, o è la somma di più colori?»

«La somma… di più colori» mormorò cauto Alekos, sentendosi abbastanza in forze per scostare le coltri e poggiare i piedi a terra. Sotto di sé, pur non vedendo nulla se non un uniforme bianco – e neppure la sua ombra – avvertì una presenza morbida e fresca, come se fosse stato su un prato.

Chaos assentì ancora, aggiungendo: «Perciò, pur se è vero che tu vedi solo bianco, sai che c’è anche altro, all’interno del bianco.»

Lui annuì, ma domandò: «Perché mi trovo qui?»

«Questo dovresti dirmelo tu. Sei tu a esserti trasmutato qui, e credimi… è la prima volta che capita» gli sorrise l’uomo che era Chaos, prima di mutare sotto gli occhi stralunati di Alekos e divenire una donna. «Oh, scusa… non ho badato a dirtelo. Avrei dovuto avvisarti, prima.»

Impallidendo visibilmente, il giovane gracchiò sconcertato: «Ma… ma che sta succedendo? Ero… mi trovavo da Eris, e…»

A quell’accenno, la memoria di Alekos tornò in tutta la sua ferocia a bombardarlo di immagini, di sensazioni, di odori e violenti. Come un maglio che ne colpisse le membra, si ripiegò quindi su se stesso, sentendosi pienamente colpevole di fronte a ciò che aveva fatto, e a quanto dolore aveva causato.

Chaos, allora, gli carezzò il capo e mormorò: «Cosa ti turba tanto, ragazzo?»

«Ho… ho compiuto un atto meschino, e me ne vergogno molto» sospirò Alekos, risollevando lo sguardo per fissarlo negli occhi cerulei della donna che aveva innanzi. «Perché… prima eri un uomo?»

«Perché io sono tutto e sono nulla, Alekos. Non ho forma definita, né definita entità. Ogni tanto cambio forma, poiché io ne possiedo in numero infinito e, a quanto sembra, tu avevi bisogno di una figura femminile, per sentirti a tuo agio e parlare con me» gli spiegò Chaos, sorridendogli cordiale.

«Quindi, in questo posto… sono nato anch’io?» domandò a quel punto Alekos, tornando a guardarsi intorno.

Il bianco dilagante stava pian piano svaporando, lasciando intravedere le mura di un’abitazione… o era un tempio? Che fosse un tentativo di Chaos di metterlo a suo agio?

«Certamente. Ma avresti dovuto prendere un’altra via, rispetto a quella attuale, dopo otto mesi e due giorni… cosa che non avvenne» sottolineò Chaos, levando un sopracciglio con una punta di ironia. «Sai il perché?»

«Me lo disse Érebos. Legò la mia anima a quella di mia madre, così che io potessi vivere ugualmente, anche se nel regno di Ade» asserì Alekos.

«Ma l’anima, da sola, non può dare la vita a una persona» sottolineò Chaos, mandandolo in confusione.

«Cosa… intendi dire?» esalò Alekos, turbato da quelle parole.

Chaos, allora, volse il capo verso sinistra e, subitanea, una parte del suo mondo divenne visibile anche agli occhi di Alekos.

Migliaia, forse milioni di anime candide attendevano pazienti in fila indiana, apparentemente in attesa dell’arrivo di qualcosa, o di qualcuno. Ciascuna di esse, tra le mani, portava con sé un piccolo fuso, su cui era avvolto del filo chiaro e traslucido.

«Ogni anima, ha… ha un…» tentennò Alekos, cominciando a capire le parole di Chaos. «Atropo aveva già tagliato il mio filo, quando Érebos mi legò a mia madre!»

«Esatto, mio caro, e nessun filo può essere riutilizzato, una volta che esso è stato reciso.»

Le mani di Alekos artigliarono il lenzuolo su cui erano poggiate e, iniziando a comprendere la portata del sacrificio di Érebos, il giovane gracchiò terrorizzato: «Mio… mio padre mi ha… il suo filato, forse…?»

Chaos sorrise comprensiva, asserendo: «Come un cavo di fibra ottica è composto da più filamenti, così il filato di una vita viene creato unendo più fili. Érebos chiese alle figlie di suddividere a metà il suo per donarlo a te, così da permetterti di vivere.»

«No, no, no…» singhiozzò Alekos, ripiegandosi in avanti quasi a volersi proteggere da qualcuno, o qualcosa. Forse, da se stesso, e dal peso che avrebbe dovuto portare da lì a quel momento.

A tanto si era spinto, il padre, pur di salvarlo?!

«Così facendo, Érebos mi ha scavalcato, creando una singolarità di cui nessuno – neppure io – sapeva nulla, né in merito ai poteri che avrebbe avuto, né riguardo alla vita che avrebbe vissuto.»

A quelle parole, Alekos crollò in ginocchio di fronte alla donna e, afferrando le sue mani, esclamò: «Non devi punirlo! Lui lo ha fatto per la mamma e per me! Perché amava tanto mia madre e desiderava salvarmi! Non puoi punire una buona azione!»

«E’ stata veramente buona?» sottolineò Chaos, mandandolo in totale confusione.

«In che senso?» esalò il giovane, sgranando gli occhi.

«Ogni cosa che è stata creata ha un suo uguale e contrario. Per ogni predatore, esiste una preda, o un antagonista, e ciò crea equilibrio, ma tu sei stato spinto a vivere quando non avresti dovuto, quando la tua vita avrebbe trovato un termine nell’Oltretomba, senza corpo e senza la possibilità di crescere» gli spiegò Chaos, atona.

Alekos assentì cauto, replicando: «E’ tutto vero, ma non credo che il gesto di Érebos sia stato dannoso per la Terra. Io non ho mai fatto del male a nessuno.»

«Come ti dicevo prima, nessuno può sapere cosa farai in futuro, perché non ho creato io il tuo filo della vita, e perciò non so cosa accadrà. So, però, che il tuo potere ti sta divorando, e ancora adesso stai tentando di convogliarlo verso di me per impedirmi di fare del male a tuo padre adottivo» gli sorrise lei, vedendolo arrossire in risposta.

«Io… mi scuso. Ma gli voglio bene, e così…» tentennò Alekos, sgranando gli occhi per l’orrore e portandosi le mani al volto. «Io tento di placarlo, ma lui cerca sempre di sopraffare il mio volere, e di esaudire i desideri di coloro che amo, a ogni costo

«Lui?» ripeté la donna, sollevando curiosa un sopracciglio.

Alekos assentì suo malgrado e mormorò contrito: «So di essere sempre io, ma è come se ci fosse un’altra entità, dentro di me. Mi sussurra ciò che, secondo lui, sarebbe meglio fare e anche se so che, spesso e volentieri, dovrei fermarmi, lui ha il sopravvento

Chaos assentì meditabondo, replicando: «Sono le due facce della tua essenza, a parlare. Il tuo lato umano, e quello divino. Ricorda che, pur essendo immortale grazie al legame con tua madre, la tua parte mortale è comunque presente, e ti rende tuo malgrado più debole, perciò corruttibile al potere divino che possiedi e che, mi spiace dirlo, non è così puro e luminoso come noi tutti credevamo.»

«Cosa?!» esalò Alekos, sgranando gli occhi.

«Il tuo si sta rivelando un potere egoistico, che predilige il raggiungimento dei risultati a discapito di tutto, e questo non è altruismo o bontà, Alekos» sottolineò Chaos, facendosi dura in volto.

«Ma… ma io… io ho sempre voluto il bene delle persone!» esclamò contrariato il giovane, balzando in piedi e sbracciandosi con veemenza. «Non puoi davvero accusarmi di essere egoista! Cos’ho mai fatto per meritarmi una simile accusa?»

«Rammenta le tue crisi, e scoprirai che tu stesso ti sei già punito più volte per il tuo egoismo» precisò la dea, levandosi a sua volta in piedi.

Nel farlo, l’immagine delle anime svanirono, così come il letto e la poltrona, sostituiti da un immenso schermo video, su cui apparvero vari momenti della vita di Alekos.

Il giovane li guardò pieno di sgomento e, man mano che gli episodi si susseguivano, e gli venivano messe di fronte le conseguenze delle sue azioni, il pallore del suo volto aumentò.

«Katie Randolf, seconda media, aula di chimica… ricordi quando, per farle piacere, hai fatto in modo che il suo esercizio fosse corretto?»

Annuendo silente, Alekos scrutò il video in cui, galvanizzata da quel risultato, la ragazza non aveva studiato per il compito in classe, sbagliando clamorosamente tutto.

Questo l’aveva fatta deprimere non poco, e aveva portato i genitori a sgridarla per lo scarso impegno.

L’immagine mutò e, poco alla volta, vennero sviscerati i piccoli peccati veniali di Alekos, divenuti sempre più importanti con il passare degli anni.

L’ultimo evento – il modo in cui aveva prevaricato Ares, convincendolo a portarlo con sé da Dioniso, nonostante sapesse di non doversi muovere – portò Alekos a stringere i denti per la frustrazione e il disgusto di se stesso.

Cosa lo avesse spinto a spingere lo zio a prenderlo con sé, Alekos ancora non lo capiva pienamente, ma aveva ritenuto giusto assaggiare in prima persona le gioie delle persone libere da pensieri e ombre.

Così, per lo meno, aveva visto coloro che si recavano presso il tempio di Dioniso.

«Cominci a capire cosa intendo, Alekos?» domandò infine Chaos, tornando a scrutarlo in viso.

Lui reclinò il capo, sconfitto, e mormorò: «Tutti hanno sempre creduto che fosse Eris la creatura malvagia, perché istigava le persone alla vendetta o alla lotta, ma come posso dirmi migliore? Io ho fatto ben di peggio!»

«Eris… è curioso che tu nomini proprio lei, tra tutti gli dèi» replicò Chaos, sorridendo imperscrutabile.

«Più di tutti, ho commesso un peccato di vanità nei suoi confronti. Pensavo che, agendo su di lei con i miei poteri, avrei potuto annullare i suoi intenti più oscuri, essendo il mio dono così puro…» si irrise Alekos, sollevando dolente le mani. «… ma, a conti fatti, non sono mai riuscito a ottenere nulla e, peggio ancora, l’ho fatta soffrire a causa dei miei personali desideri.»

«Perché credevi che Eris dovesse essere curata?» domandò a quel punto Chaos. «Non hai mai pensato che, se Eris è quello che è, ci sia un motivo ben preciso?»

«Come può essere giusto che lei soffra? Come può essere giusto che lei istighi le persone a scontrarsi?!» replicò Alekos, alterandosi. «Questo l’ha isolata da tutti! L’ha fatta vivere nella solitudine!»

«Hai ragione, ragazzo… hai davvero peccato di vanità» sorrise ironica Chaos, spiazzandolo. «Mi credi così ingenua da non aver pensato a ogni cosa, in questo universo?»

«Come?» esalò lui, sbattendo confuso le palpebre.

«Tutti gli dèi sono ambivalenti, nel loro essere ciò che sono. Eris è discordia, ma è altresì determinazione. Athena è guerra, ma è anche abnegazione a una causa, è cultura, è studio. Afrodite è bellezza superficiale, ma è anche amore verso se stessi, oltre che verso gli altri, Zeus è potenza fine a se stessa, ma è anche sinonimo di protezione… così per gli altri. Ognuno di loro ha due connotati. Potrei dire uno yin e uno yang. Tutto è bilanciato, in loro. Sei tu, a non esserlo!»

Con quelle parole d’accusa, Chaos lo fissò piena di biasimo e Alekos, crollando in ginocchio, si portò le mani al volto, affondando le dita nella carne fino a farla dolere.

Ogni singola parola detta da Chaos penetrò nel suo spirito come una miriade di coltellate mentre un lento, sempre più dolente grido di frustrazione sgorgava dalle sue labbra raggrinzite.

L’energia del suo potere scaturì dal corpo ripiegato e penitente di Alekos, avvolgendolo in spire sempre più spesse, sempre più veloci e vorticanti e, quando il giovane svanì infine alla vista di Chaos, questa sospirò.

«Mi spiace, ragazzo, ma è l’unico modo in cui potrai capirti… e accettarti.»

La bolla di energia si sollevò da terra di qualche centimetro e Chaos, levata una mano, la imprigionò in una rete di catene dorate perché non trasmutasse altrove.

Con un potere così fuori controllo, avrebbe potuto succedere qualsiasi cosa e lei non voleva che la Terra o, peggio ancora, il centro stesso del suo essere, venissero danneggiati.

Questo avrebbe comportato danni inenarrabili e mai visti, e lei doveva evitarlo a ogni costo.

Nel volgere lo sguardo alle sue spalle, turbata e ansiosa, mormorò: «Fai in fretta, Eris. Giungi a me.»
 
***

Facendosi largo tra una miriade di animali di ogni genere, forma e specie, Dioniso allungò una mano per aiutare anche Eris a oltrepassare quell’orda disordinata.

Non facevano altro da un tempo indefinito e, ogni volta che cadevano – o scivolavano con tempistiche quasi comiche, e oltre ogni legge fisica conosciuta – si ritrovavano in un angolo sempre nuovo e diverso di quel regno.

Ogni volta, Eris tentava di trovare una stilla di vita di Alekos, ma ogni tentativo risultava vano e infruttuoso.

Quando scivolarono nuovamente lungo l’ennesimo piano inclinato invisibile, Dioniso borbottò: «Se tanto mi dà tanto, ora dovremmo incontrare le anime umane, no? Gli animali li abbiamo fatti, e così la flora, gli oceani e il mondo di roccia. Colori primari e oscurità sono stati i primi… chi altro manca?»

«La luce» mormorò Eris, spalancando gli occhi per la sorpresa.

«Come? Che intendi dire?»

«Laggiù! Non la vedi?!» esclamò a quel punto lei, volgendogli a forza il volto perché lo puntasse verso un punto in particolare.

Dioniso sgranò gli occhi, a quella vista e, sgomento, esalò: «Sembra la luce di una stella… eppure non mi trasmette niente di buono. E a te?»

Lei scosse il capo, turbata a sua volta dalle emanazioni di quella fonte luminosa e, quando finalmente si ritrovarono in un nuovo ambiente, borbottò: «Le anime… proprio come immaginavi. Direi che non ci rimane altro, a questo punto.»

«Facciamo come in re Magi, allora? Seguiamo la stella?» scrollò le spalle Dioniso.

«Faremo di meglio. Visto che ora abbiamo una destinazione, trasmuteremo. Basta camminare, inciampare o ruzzolare come palle da bigliardo. Andremo là alla nostra maniera» dichiarò lapidaria Eris, concentrandosi sulla luce che era possibile intravedere all’orizzonte, oltre alla linea quasi interminabile di anime disposte diligentemente in miriadi di file indiane.

“Sto arrivando, Alekos. Pazienta ancora un poco” disse tra sé la dea, sperando con tutto il cuore di trovarlo laggiù, alla fonte di quel bagliore.

Non appena quel pensiero prese forma nella sua mente, però, la dea si bloccò, fissò turbata Dioniso e mormorò: «Fratello, io…»

Lui le strinse una mano con forza, sorrise fiducioso e disse: «E’ giusto sperare. Anche per una pessimista come te.»

Eris accennò un mezzo sorriso, a quel commento, e replicò: «D’accordo. Un balzo e via.»

Dioniso assentì e, concentrandosi sulla luce al pari di Eris, trasmutò. Come sempre, il tutto durò poco più di un battito di ciglia ma, quando i due dèi si ritrovarono di fronte all’immenso bagliore visto in lontananza, la speranza venne sostituita dalla confusione e sì, dal panico più totale.

Immersi in un nulla cosmico senza forma, colore o dimensione, la stella che avevano usato per orientarsi vorticava e sprizzava energia come una supernova. Accanto a lei, imperturbabile e apparentemente indifferente a quella quintessenza di potere primigenio, una donna dai lunghi capelli biondo-rossi osservava in silenzio lo spettacolo.

La mano sempre stretta a quella del fratello, Eris si avvicinò un poco, stando ben attenta a non toccare i contorni della stella e, una volta a portata di voce, esclamò: «Chi sei, tu? Dove si trova, Alekos?»

La donna si volse, apparentemente sollevata di vederli e, indicando con il capo la stella vorticante, disse: «Alekos è lì. La stella è Alekos.»

«Miseria. Ladra» gracchiò Dioniso, mentre Eris impallidiva visibilmente, cominciando a tremare come una foglia.

Pochi istanti, però, passarono da quella sconvolgente confessione alla reazione della dea della discordia. Furono istanti in cui ogni fibra dell’essere che era Eris si caricò di energia, di rabbia, di paura, di risentimento e di furia repressa e, come una tempesta, lei li convogliò contro la donna sconosciuta.

Sotto lo sguardo inorridito di Dioniso, che non fu in grado di fermare la sorella, Eris si gettò addosso alla donna col chiaro intento di prendersi qualche soddisfazione, dopo tanta frustrazione accumulata.

La bionda divinità, però, la bloccò con un semplice sorriso e, sollevata che ebbe una mano, le carezzò il viso livido per poi dire: «Conserva le tue forze per un compito più alto, figlia mia.»

«Figlia… mia?» ringhiò Eris, cercando invano di muoversi. «Chi sei, tu, per dire ciò?!»

Dioniso levò le mani per chetare la sorella, iniziando a subodorare la reale identità della donna che, con tanta facilità, stava tenendo imbrigliato il potere di Eris e, dubbioso, esalò: «Ehm, sorella… io mi calmerei un attimo, se fossi in te. Forse non è il caso di farla infuriare. Non lei, per lo meno.»

«E perché dovrebbe fregarmene qualcosa, di questa tipa?!» sbraitò Eris, fulminandolo con lo sguardo.

L’istante seguente, Eris crollò in ginocchio, come schiacciata dal peso della Terra stessa e Dioniso, sgomento, la raggiunse per aiutarla.

Chaos, imperturbabile, asserì: «Sei sempre stata dura, ma così dovevi essere, per sopportare il difficile compito che ti è spettato. Non è mai facile caricarsi del lato oscuro delle cose, così come invogliare le genti a scorgere oltre il velo dell’oscurità per trovare infine la luce… ma sono orgogliosa di ciò che hai fatto finora.»

Eris la fissò ricolma di rabbia, e urlò: «Chi sei tu, per me, per poter parlare come se mi conoscessi?!»

La donna allora le sorrise, mutò forma per prendere le sembianze di un uomo vegliardo e dalla lunga barba bianca prima di dichiarare: «Sono Chaos, figlia mia, e sono io che decisi per te il filato della tua esistenza.»

«Ecco, appunto, lo sapevo» gracchiò Dioniso, trattenendo la sorella dal commettere sciocchezze e, al tempo stesso, sfruttando quell’appoggio per non crollare a terra svenuto.

Eris rimase ammutolita di fronte a quell’affermazione, troppo sconvolta per poter riuscire a mettere a parola il suo risentimento, il suo desiderio di piangere, di chiedere un risarcimento per il troppo dolore patito, e dato.

Quell’essere – non le importava che fosse uomo o donna – era la causa prima di ogni cosa, di ogni morte che lei aveva causato con i suoi sussurri, di ogni guerra che aveva sobillato, di ogni litigio che aveva causato…

«… di ogni persona che è stata spinta da te a migliorarsi, ad affermarsi, a vincere le proprie paure…» aggiunse ad alta voce Chaos, sorridendole. «Sei ambivalente, Eris. Devi solo ricordarlo, perché hai dimenticato una parte di te che, ora, è più importante che mai.»

«Non è vero» singhiozzò Eris, reclinando il capo.

«Se ciò corrispondesse a verità, Alekos allora sarebbe morto» sottolineò a quel punto Chaos, sgomentandola. «Se tu non avessi questo potenziale, nessun altro potrebbe salvarlo da se stesso. Davvero credi di non avere in te un simile potere?»

Eris ristette in silenzio a scrutare quel viso dolce e vagamente accigliato, non sapendo come replicare. Era davvero in grado di fare quanto il vecchio le aveva suggerito?

Poteva, lei, credere di poter fare la differenza?







N.d.A.: Alekos si è infine ritrovato di fronte a Chaos, colui che primo fra tutti creò ogni cosa. Le parole con cui lo accoglie nel suo mondo, però, non sono per Alekos di facile comprensione, né piacevoli da udire. Il peso che sente sulle spalle è enorme, e Chaos non fa nulla per indorargli la pillola, portandolo a chiudersi in se stesso per affrontare finalmente il se stesso di cui ha tanta paura.
L'intervento di Eris potrà essere decisivo, sulle sorti di Alekos, o avrà il sopravvento la parte divina di Alekos, in questa battaglia per il predominio?
 

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Capitolo 49
*** Chaos - 2 - ***


 
Chaos - 2 -
 
 
 
 
Il mondo di Chaos era sempre stato un alternarsi di contrasti in equilibrio e, fin da quando aveva emesso il primo vagito, così era stato dacché aveva memoria.

I millenni si erano susseguiti gli uni sugli altri come le tessere del domino, combinati e ricombinati innumerevoli volte. Sopra e sotto, dentro e fuori, caldo e freddo, morto e vivo, tutto aveva avuto un senso logico, un’azione a cui rispondeva una reazione uguale e contraria.

Fino al gesto di Érebos.

Lui aveva creato l’incognita impazzita, ciò che scompaginava un’esistenza fatta di addizioni e sottrazioni, di moltiplicazioni e divisioni, che dovevano dare comunque valore zero, alla fine.

Questo aveva incuriosito Chaos, lo aveva reso per la prima volta partecipe di qualcosa di assolutamente ignoto anche per lui, che conosceva tutto di ogni cosa, fosse essa vivente o meno.

Alekos aveva preso le sembianze dell’autentica novità, del soffio di speranza verso un futuro meno monotono ma, come sempre avveniva, per ogni cosa doveva esistere un proprio opposto.

L’unicità di Alekos, però, aveva portato con sé altre incognite impazzite e, quando tutto era sembrato più o meno raccordarsi alla perfezione, qualcosa era andato storto.

Quella stortura era divenuta follia e ora, di fronte a quella follia, stava l’unica persona che, forse, sarebbe stata in grado di comprenderla e convogliarla verso una nuova via.

Stringendo le mani a pugno, Eris tornò a guardare Chaos e domandò con voce resa roca dall’irritazione: «Cosa intendi per potenziale

«Quanto sei disposta a cedere, di te stessa, per salvare lui?» le ritorse contro il vegliardo che era diventato Chaos.

«Tutto. Lui non può sparire, ma io sì» asserì con calma olimpica Eris, osservando tesa la stella vorticante che aveva dinanzi.

Chaos allora scosse mesto il capo e Dioniso, avvicinandosi alla sorella, replicò: «La vuoi piantare di dire che tu non sei importante?! Pensa a come potrebbe prenderla Alekos, se ti sentisse parlare così!? E poi, se proprio vogliamo spaccare il capello in quattro, mancheresti anche a me!»

«Ora non dire idiozie, Dioniso» sbuffò Eris.

Dioniso, allora, la afferrò a un braccio per volgerla con forza verso di sé e, tremendamente serio in viso, ringhiò: «Mi mancheresti! Mi mancherebbe qualsiasi mio fratello o sorella, razza di sciocca che non sei altro! Quella vacca di Era mi tolse l’unica famiglia che conoscevo, uccidendo tutti e, una volta adulto, mi portò alla follia per una colpa che non avevo commesso… essere figlio di Zeus era il mio unico scorno, e per questo mi punì! Pensi lo meritassi? Che avessi fatto qualcosa per essere maledetto?!»

Eris lo fissò turbata, non avendo mai visto Dioniso così alterato, o con le lacrime agli occhi per la frustrazione.

«Commisi omicidi e distrussi casate, durante i miei lunghi viaggi in oriente, posseduto dalla follia e dalla rabbia generate da Era, eppure alla fine riuscii a redimere me stesso. Nonna Rea mi aiutò in questo e, come promessa a me stesso e alla memoria di coloro a cui avevo strappato la vita, mi ripromisi di portare sempre gioia e allegria, e mai più dolore.»

«Dion…» mormorò lei, sbattendo confusa le palpebre.

La divinità si passò veloce una mano dinanzi agli occhi per strappare il velo di lacrime formatosi contro la sua volontà e, con tono più dolce, terminò di dire: «Nessuno di noi è perfetto, ma io vi amo per quello che siete e mi amo per quello che sono. Se ho peccato di codardia nel mio passato, voglio correggermi ora. Non ti lascerò mai e poi mai credere che tu meriti di sparire.»

Scoppiando poi in una breve, nervosa risata, aggiunse: «Pensa a cosa sei riuscita a farmi fare! Io, divinità superficiale per eccellenza, ho mollato tutto per aiutarti in questa folle impresa. Mi hai stimolato con la tua determinazione, e mi hai spinto a credere di poter dare una mano a qualcuno con qualcosa di diverso dalle droghe e dal vino. Ho potuto aiutare con le mie sole forze, e solo grazie a te.»

«Grazie ad Alekos» precisò Eris.

«Grazie a te» scosse il capo Dioniso, stringendole delicatamente il viso tra le mani. «Ho seguito te, ho ascoltato te, ho creduto in te, perciò non mollarmi adesso, dicendo che vuoi morire per lui. Non morirà nessuno, è chiaro?!»

Eris si lasciò andare a un sospiro e, cosa che non aveva mai fatto in tutta la sua esistenza, scivolò tra le braccia di Dioniso per abbracciarlo, cogliendolo del tutto di sorpresa.

«Oh, wow… questo sì che è un abbraccio» mormorò Dioniso, replicando con delicatezza alla stretta, finché non percepì nella dea il desiderio di scostarsi.

Lasciatala quindi andare, Dioniso la vide nuovamente determinata e, dentro di sé, sperò che le sue parole bastassero a non farla crollare.

Ciò che le aveva detto corrispondeva alla pura verità, ma non sapeva se sarebbero bastate le parole, con lei.

Nel vederla rivolgersi a Chaos con rinnovata fiducia, sperò di non vederla nuovamente saltare addosso al creatore di ogni cosa; dubitava che stavolta avrebbe soprasseduto.

Era praticamente certo che divinità del genere sopportassero i soprusi gratuiti un numero limitatissimo di volte, perciò era meglio evitare bis.

«Cosa devo fare?» domandò soltanto Eris.

«Ti ripeterò la domanda, ma stavolta non affrettare una risposta; quanto sei disposta a cedere, di te stessa, per lui?» replicò allora Chaos, mutando nuovamente forma per prendere le sembianze di Athena.

Eris sbatté le palpebre, confusa e Chaos, sorridendo un poco, aggiunse: «E’ curioso che tu abbia desiderato vedere proprio la madre di Alekos, in questo momento. Cosa desideri sapere, da lei?»

Dioniso fissò Chaos nelle sembianze di Athena, faticando non poco a riconoscere le piccole discrepanze tra l’originale e la copia. La voce, più di tutto, era differente dalla sorella che tanto amava e stimava.

Quella di Chaos era atona e priva di sostanza, quasi non volesse dare alcun indizio utile a Eris per comprendere quale decisione prendere. Se fosse stata la vera Athena, non avrebbe di certo parlato con tono così disinteressato!

Eris sbatté più e più volte le palpebre, asserendo: «Questo è un colpo basso…»

«Sei tu ad aver voluto vederla» sottolineò Chaos, cambiando nuovamente forma per prendere quelle di un uomo che Eris non aveva mai visto, ma che assomigliava molto a Felipe.

Che fosse Miguel o, quanto meno, l’immagine di Miguel?

«Desideri il beneplacito dei suoi genitori?» domandò Chaos con tono quasi ironico.

Eris si accigliò un poco, poggiò le mani sul volto di Chaos e ordinò: «Mostrami me stessa, se proprio devi farmi impazzire con questi voltafaccia!»

Chaos scoppiò a ridere per quel doppio senso e, nell’accontentarla, mutò e prese le sembianze di Eris ma, anche in quel caso, l’immagine non rimase tale a lungo.

Sotto gli occhi confusi di Dioniso e quelli irritati di Eris, Chaos continuò a riandare a un passato in cui la dea era disordinata, sciatta e irritabile. Subito dopo, in un continuum senza sosta, passò alla versione recente, assai più curata, ma sempre rigida e impostata.

«Molto divertente…» borbottò Eris, mentre Dioniso si copriva gli occhi per non impazzire. «…ma so bene com’ero e come sono diventata. Visto che però ora sei me, rispondi alla mia domanda; cosa devo fare?»

Chaos rise ancora e replicò: «Mi spiace, ma non funziona così. Dovrai decidere tu, ponderando bene ciò che ti è stato detto e ciò che tu sai di te stessa. Solo allora, potrai risponderti. Ma non puoi farlo qui, dove uno di noi due potrebbe influenzarti. Dovrai farlo ove ora si trova Alekos, in totale solitudine e potendo contare solo su te stessa.»

Eris lanciò un’occhiata a Dioniso, che assentì con vigore, dopodiché disse: «Andrò, allora. Ma come?»

«Sfiora la stella. La sua forza è tale che ne verrai risucchiata… ma presta attenzione; ora, Alekos sta combattendo contro se stesso, e non saprà riconoscere la realtà dalla finzione in cui si è confinato con le proprie mani. Sii perciò prudente, perché potrebbe scambiarti per una nemica.»

La dea, allora, gli rise in faccia, replicando: «Che c’è? Hai degli scrupoli di coscienza proprio ora? Mi sembra un tantino tardi!»

Ciò detto, allungò una mano per sfiorare la stella e, sotto gli occhi sgomenti di Dioniso, venne trascinata all’interno di quel fulgore primigenio.

Già pronto a seguirla, il dio venne bloccato da Chaos che, riprese le forme di un vegliardo, disse: «Non puoi più aiutarla. Le hai già dato tutte le armi di cui aveva bisogno per scoprire cosa fare.»

«Io? E che armi ho potuto mai darle?» si irrise Dioniso, fissandolo incredulo.

«Le hai detto ciò che aveva bisogno di sentirsi dire. Il resto dovrà farlo da sola, purtroppo e, in tutta onestà, non so come andrà a finire» sospirò Chaos, scuotendo ansioso il capo.

Nel vederlo esprimere finalmente dei sentimenti, Dioniso esalò: «Ma… allora ti interessa di loro!»

«Siete tutti mie creature e invariabilmente vi amo, ma so anche bene quanto molti di voi abbiano sofferto, prima di giungere dove siete giunti, e ciò mi fa penare poiché sono io che ho creato i fili della vostra esistenza» gli spiegò Chaos, scrutando la stella vorticante con aria turbata.

Dioniso, allora, si fece ombroso in volto e replicò caustico: «Era dunque necessario far uccidere tutta la mia famiglia? Far sì che Era mi facesse impazzire? Uccidere e depredare?»

«Come hai detto tu stesso, le tue sofferenze ti sono servite per dare un enorme peso alla vita, umana o immortale che fosse» replicò Chaos. «Per ogni azione, esiste una reazione. L’universo è sempre andato avanti così, fin dall’inizio.»

«Perché tu, dunque, sei solo, se per ognuno di noi deve esservi un contrario che ci bilanci?» domandò a quel punto Dioniso.

«Perché io sono la singolarità da cui tutto è nato. Alekos è invece la singolarità nata da un gesto ambivalente, e questo ha creato una spaccatura, un’incognita impazzita che ci ha portato a questo.»

Levando un sopracciglio con evidente confusione, Dioniso domandò: «Gesto… ambivalente?»

«E’ stato un gesto sia altruistico che egoistico, quello che ha permesso ad Alekos di vivere. Altruistico, perché tutto ciò che Érebos ha fatto, lo ha fatto per salvare una vita. Egoistico, perché lo ha fatto per salvare un solo infante, quello dell’amata, lasciando che gli altri infanti morti quel giorno non potessero ricevere lo stesso dono» gli spiegò Chaos.

«Oh, ma…» tentennò Dioniso, prima di borbottare: «… d’accordo, forse ho capito. Ma va anche detto che, se le figlie di  Érebos hanno accettato la proposta del padre, la cosa era fattibile.»

«Lo fu soltanto perché io non replicai» sottolineò Chaos, sorprendendolo. «Anch’io rimasi assai ammirato dal gesto di Érebos e così lo lasciai fare, conquistato mio malgrado da quella singolarità mai vista.»

Guardandosi poi intorno, il bianco uniforme di quel mondo a circondarli pienamente, aggiunse con un risolino: «Questa dimensione può essere assai noiosa, a volte!»

«Dovresti andare nel reparto flora… è molto bello» dichiarò Dioniso, prima di domandare: «Ma Atropo e le altre come fanno a venire qui? Spero, non come abbiamo fatto io ed Eris!»

Sorridendo affabile nel notare le macchie di colore sulla tunica di Dioniso, lui scosse il capo e replicò: «Si trasmutano. Una volta conosciuta la mia traccia energetica, la si può rintracciare anche se non la si percepisce in lontananza.»

«E questo mi porta alla domanda da un milione di dollari…» bofonchiò Dioniso, guardandosi dubbioso intorno. «…a quanto ammonterebbe questa lontananza, rispetto a dove siamo partiti?»

Chaos sorrise misterioso e, ammiccando, replicò: «Quanto è vecchio l’universo?»

Dioniso impallidì fino a diventare cereo in volto e, nel lasciarsi scivolare a terra, si prese tra le mani i riccioli castani e gracchiò: «Ma perché mi sono messo a fare domande? Tanto, in geografia…»

«… prendevi tre, me lo ricordo» ironizzò Chaos.

«Ci stavi… osservando?» gorgogliò a quel punto Dioniso, facendo tanto d’occhi. «Quindi, hai anche visto che…»

«… che Eris ha tentato di strangolarti, o che tu ci hai provato con lei? Sì, ho visto» ammise Chaos, ridendo sommessamente. «So che non avrei dovuto, vista la gravità della situazione, ma non succede davvero mai niente, qui, e le uniche volte in cui parlo con qualcuno, è quando passano a trovarmi le Moire, perciò…»

Dioniso sospirò, scosse il capo e ammise: «Eh, beh, sai com’è… la compagnia di tre vecchiette non è proprio il massimo, posso capire.»

Chaos preferì non replicare. Per quanto, nel suo mondo, vi fosse spazio solo per tre persone alla volta, non era detto che qualcuno potesse origliare alla porta. Con Cloto in special modo, tutto poteva essere.

Lasciando però perdere quel pensiero quando la sfera di luce di Alekos si contrasse su se stessa, Chaos borbottò un’imprecazione e sibilò: «Lo temevo…»

Balzando in piedi, preda di una paura improvvisa, Dioniso esclamò: «Che succede?!»

«Alekos la rifiuta. Rifiuta di vedere» sospirò Chaos, scuotendo il capo.

«E cioè?»

«Alekos ha conosciuto la verità su ciò che fece Érebos per tenerlo in vita, e questo lo ha sconvolto. Esiste un solo modo perché egli – ed Eris con lui – possa vivere nuovamente in equilibrio, ma è una cosa che debbono accettare entrambi e, da quel che mi pare di capire, Alekos sta opponendo fermamente resistenza» gli spiegò criptico Chaos.

Dioniso sbuffò contrariato e replicò: «Moros ha sicuramente preso da te, quanto a spiegazioni incomprensibili.»

Chaos accennò un sorriso, ma dentro di sé tremò. Se Alekos si fosse spinto troppo oltre, non avrebbe potuto contenere l’energia del suo potere. Proprio come una stella morente che si contrae sempre più, sarebbe deflagrato in un’esplosione di raggi gamma, portando con sé anche Eris.

Forse, il suo istinto lo aveva condotto lì, lontano da tutti, in un ultimo, disperato tentativo di proteggere ogni creatura – conosciuta o meno che fosse – dalla possibilità di un suo annientamento.

In quanto possessore di un potere in tutto simile a quello di una divinità Ctonia, doveva essersi allontanato volontariamente per non causare danni immani al genere umano, o alla Terra stessa. Il punto sarebbe stato scoprire se questo barlume di coscienza avrebbe prevalso su tutto, o meno.

Sperava soltanto che, tra il coinvolgimento di Eris e le sue parole, Alekos trovasse il modo di accettare le ombre che gli erano necessarie per sopravvivere, così da poter governare la luce dentro di lui.

Perché le une, senza l’altra, non potevano esistere.
 
***

Chaos l’aveva avvisata, ma niente avrebbe potuto prepararla a un simile spettacolo, a una simile dispersione di energia primigenia.

Forse, solo trovandosi in un buco nero super-massiccio, avrebbe potuto sperimentare lo stesso senso di schiacciamento, la stessa forza distruttiva, la medesima sensazione di annullamento di sé.

Eris non sapeva esattamente come fare per avvicinarsi al nucleo di quell’energia primordiale poiché, tutt’attorno a sé, non vedeva che luce, luce così forte e accecante da superare lo scudo delle sue palpebre abbassate.

Sballottata ogni dove, veniva spinta verso l’esterno da quell’onda dilagante ma, al tempo stesso, trattenuta in essa da un’eguale quanto altrettanto poderosa forza entropica.

Nel breve termine, avrebbe anche potuto rischiare di venire spezzata, se quelle due forze si fossero scontrate a lungo, scatenandosi contro di lei in egual misura.

Pur essendo una dea, anche la sua resistenza fisica aveva un limite, e il dolore si stava facendo davvero insopportabile.

Cercando di nuotare in qualche modo in quel miasma energetico, Eris urlò il nome di Alekos più e più volte, ma nulla sortì l’effetto voluto. Veniva attirata e respinta in modo costante e quasi matematico, quasi che il sistema fosse andato in crash, ripetendo se stesso all’infinito, in un loop privo di logica.

Chaos l’aveva sopravvalutata, dopotutto e, alla fine dei conti, anche lei si era sopravvalutata. Lei non sarebbe stata in grado di aiutare Alekos, e Athena avrebbe perso per sempre suo figlio, a causa sua.

Con questa nuova, terribile consapevolezza, smise di dimenarsi, lasciò che le forze che turbinavano la trasportassero ove volevano e, chiusi gli occhi, si preparò a morire con Alekos.
 
***

«Sta cedendo!» esclamò Chaos, sgranando gli occhi per l’ansia, quando la stella si rattrappì ulteriormente.

«Cosa? Come! In che senso?!» esclamò Dioniso, aggrappandosi al braccio della divinità con fare disperato.

«Eris… ha perso fiducia in se stessa perché non riesce a raggiungere Alekos» sospirò Chaos, scuotendo mesto il capo.

Dioniso, allora, fissò la stella incandescente e, pieno di rabbia, gridò: «Eris! Razza di cretina che non sei altro! Se non la pianti di piangerti addosso, giuro che ti palpeggerò il sedere fino alla fine dei tempi! Non mettermi alla prova, perché ti prometto che lo farò

Ciò detto, poggiò soddisfatto le mani sui fianchi mentre Chaos, leggermente allibito, lo fissava pieno di domande.

Lui allora rise impacciato e asserì: «Lo detesta. Inoltre, mi sono scordato che le smancerie, con lei, non funzionano molto, e che i discorsi diretti sono più nelle sue corde.»

Dubbioso, Chaos scrutò la stella e domandò: «Ma… cretina

«Vedrai che ho ragione» ghignò pieno di fiducia Dioniso.

Chaos si limitò a un assenso pieno di dubbi ma, quando la stella tornò a espandersi, non poté che sorridere compiaciuto. In fondo, scegliere Dioniso come accompagnatore di Eris, si era rivelata la scelta più giusta.

Ora, però, restava l’incognita più grande di tutte. Eris sarebbe riuscita a convincere Alekos che luce e tenebra dovevano convivere nel suo animo, perché lui potesse vivere?

E lei avrebbe accettato di sacrificarsi per lui, e per i medesimi motivi?







N.d.A: La situazione sta velocemente precipitando, e non è detto che Eris riesca a capire come fare per agire per il meglio. Quanto ad Alekos, contro chi starà combattendo? E accetterà l'intervento di Eris per riuscire a ripristinare l'equilibrio dentro di sè?
Con la prossima storia cominceremo a farci un'idea di quanto, la situazione, sia difficile e coinvolga non solo Eris e Alekos, ma molte altre persone...

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Capitolo 50
*** Pantheon - 1 - ***


 
Pantheon – 1 –
 
 
Santa Cruz (Moore Creek Preserve) – Maggio 2022
 
Pur se abituata a trasferirsi ogni dieci anni circa, così da non destare sospetti negli umani, Athena aveva sentito particolarmente quell’ultimo cambiamento di casa.

Non tanto a causa dell’abbandono di una zona che le piaceva particolarmente – avrebbe potuto tornarvi più avanti – quanto, piuttosto, per i motivi che avevano spinto la sua famiglia a farlo.

La necessità di costruire una seconda abitazione per Alekos, adeguandola ai rigidi standard esposti da Aiolos, li aveva costretti a trovare un luogo più appartato e ampio rispetto al solito.

Per questo, abbandonando la costa, si erano spostati a Santa Cruz, acquistando un ampio appezzamento di terreno lungo Meder Street, nei pressi della Moor Creek Preserve.

Nelle intenzioni di Athena ed Érebos vi era stato l’intento di ricreare una piccola oasi di pace intorno al figlio, così da permettergli di vivere quella sorta di prigionia dorata con maggior facilità.

Nei mesi, però, nessuna delle due divinità aveva trovato in Alekos alcun miglioramento. Pur contando molto sulle capacità di Érebos, Athena aveva cominciato a disperare che potesse trovare una soluzione al loro terribile problema.

Scrutando all’esterno della propria stanza, Athena lasciò che la lieve brezza di quel mattino penetrasse nella camera, scacciando quei lugubri pensieri che, ormai da tempo, affollavano la sua mente.

L’aria umida di quel mattino profumava di fulmini, ed era perciò foriera di tempesta, pur se una ben più devastante stava già sommovendo il suo animo e quello del compagno.

Nel volgere lo sguardo, Athena si lasciò andare a un tremulo sospiro nell’osservare Érebos, che a sua volta la stava scrutando dal bordo del letto, come in attesa di una sua parola.

Nei lunghi mesi di separazione dal figlio, Athena si era chiesta molto spesso come fossero giunti a quel punto, e perché la purezza insita nell’animo del figlio si fosse rivelata così pericolosa, sia per lui che per gli altri.

Al tempo stesso, Érebos si era preso la maggior parte delle colpe, nonostante le repliche sempre più ardimentose di Athena e, più di una volta, erano finiti ai ferri corti, a causa di ciò.

L’amore tra loro aveva comunque prevalso, ma le tensioni all’interno della coppia non erano mai realmente scemate, se non con il ritorno a casa di Alekos.

Quel senso di tranquillità ritrovata, però, era durato più o meno un anno. Il ricongiungimento con la famiglia, oltre alla relativa pace di quei luoghi, erano serviti a chetare solo temporaneamente il giovane.

Alekos aveva iniziato a manifestare nuovamente segni di squilibrio, nonostante quel periodo di quiete e di lontananza da ciò che avrebbe potuto turbarlo.

Mantenersi a distanza dal parentado immortale non aveva sortito gli effetti voluti, alla fine dei conti. Il suo potere aveva tentato più volte di portarlo sull’errata via e, spesso e volentieri, solo la grande determinazione di Alekos aveva fatto la differenza.

Questo tira e molla tra la volontà e i desideri del giovane aveva causato crisi emotive e fisiche sempre più forti, costringendo così Athena a prendere più gravi e drastiche decisioni.

Le visite – anche della parte di famiglia composta da mortali – erano state infine bandite e, pur controvoglia, Alekos aveva obbedito, ben sapendo di aver messo la madre nelle condizioni di vietargli qualsiasi contatto con l’esterno.

La goccia che aveva fatto traboccare il vaso, e che aveva spinto la dea a quel taglio netto con la società, era giunta a sorpresa, e non senza conseguenti scene di panico.

Aver sentito le lagnanze di Buffy e Xena in merito ai loro compagni d’asilo, aveva portato Alekos alle porte dell’edificio scolastico delle bimbe, deciso a farla pagare alle insegnanti per non averle accontentate.

La colpa di tali insegnanti? Non aver permesso alle gemelle di giocare sotto la pioggia, durante un temporale.

Quando il giovane si era finalmente reso conto delle sue azioni, e della follia che lo aveva spinto lì, era tornato lesto entro le sicure pareti della sua abitazione, ma lì Athena lo aveva trovato tremante e privo di energie.

Era servita quasi una settimana, perché il figlio si riprendesse dallo sforzo fisico servito per fermare se stesso dal portare la sua giustizia in nome delle cugine, e questo lo aveva stremato anche a livello psicologico.

Da quel giorno, erano passati sei mesi e, in tutto quel tempo, Alekos aveva lavorato quasi ogni giorno con Érebos per trovare il modo di equilibrare corpo e mente tramite la meditazione.

Athena aveva sperato che, restando a stretto contatto con colui che divideva con Alekos il proprio filo dell’esistenza, il figlio avrebbe potuto trovare un nuovo centro ma, ancora una volta, le sue speranze erano rimaste disilluse.

Nulla era cambiato, e questo la innervosiva ogni giorno di più.

«Come mai sei già desta?» le domandò infine Érebos, strappandola ai suoi pensieri.

Lei scosse il capo, non sapendo cosa rispondergli, quando un brivido lungo la schiena la fece correre con lo sguardo in direzione della casa del figlio.

A sua volta, Érebos la raggiunse alla finestra per scrutare la bianca costruzione in stile greco eretta per Alekos e, turbato, esalò: «La sua energia…»

«Non c’è!» sibilò Athena, sgomenta.

Che, ancora una volta, il lato più selvaggio di Alekos avesse preso il sopravvento, portandolo a sfidare il divieto?

Afferrata in fretta la vestaglia, Athena si catapultò fuori dalla villetta per raggiungere la dependance e, dopo aver bussato più volte, entrò. Se lo avesse trovato assieme a una ninfa, o a una iade, peggio per lui. Si sarebbe scusata e sarebbe tornata a casa. Ma se così non fosse stato…

Quel che però Athena trovò nell’aprire la porta, aumentò non di poco la sua ansia. La casa era immersa nel caos più totale, con oggetti gettati a terra, cuscini divelti dai divani, bicchieri in frantumi.

Cos’era mai successo, lì dentro?

Le parvero passate ore quando, infine, Érebos la raggiunse.

Esalando un ansito di panico pari a quello della compagna, il dio Ctonio domandò: «Dov’è Alekos? E perché c’è questa confusione?»

Athena si limitò a scuotere il capo, replicando scioccata: «Non lo so. Ho cercato di non pressarlo troppo, visto che l’abbiamo obbligato a rimanere confinato in casa, ma non pensavo che… che potesse… inoltre, credevo che stare con te lo stesse aiutando, ma ora…»

«Athena, non è colpa tua. Nessuno di noi ha la più pallida idea di come affrontare questa situazione» mormorò Érebos, stringendosela al petto per consolarla. «Non so davvero cosa gli stia succedendo, perciò non incolparti se neppure tu comprendi che fare.»

Lei si lasciò andare contro il suo torace e mormorò: «Lo so, ma sono sua madre, e vorrei…»

Lui sorrise mesto nel darle un bacio sui capelli, replicando: «E io sono suo padre, e vorrei risolvere il guaio che io stesso ho creato, ma non ne sono in grado.»

«Che è successo, qui dentro?» esalò la voce di Zeus, alle loro spalle.

La coppia si volse sorpresa, non aspettandosi di certo di udire la voce del Padre degli dèi alla loro porta. Intravedendo la figura possente del dio sullo specchio della porta d’ingresso della dependance, Athena mormorò confusa: «Padre… ma tu cosa ci fai qui?»

La divinità penetrò lentamente all’interno della casa, gli occhi puntati sul caos che regnava al suo interno e, dopo qualche istante ancora di perplessità, scrutò la figlia con aria contratta e asserì: «Reco notizie su Alekos, ma vorrei darvele in un posto meno caotico. La faccenda è già abbastanza ingarbugliata di suo, senza che il posto in cui parliamo ci causi ulteriore confusione.»

Pur desiderosa di sapere, Athena annuì. Ascoltare le parole di suo padre, e vedere come Alekos aveva ridotto la casa, non l’avrebbe di certo aiutata a calmarsi.

Di comune accordo, quindi, tornarono nella villetta principale e lì, radunatisi nell’elegante salotto in stile country inglese, Athena disse: «Parla pure, ora.»

Zeus assentì recisamente, accomodandosi su una poltrona e poggiando i gomiti sulle ginocchia, assumendo subito una postura stanca e infiacchita, nonostante fossero solo le sette del mattino.

«Ve la farò breve. Alekos si trovava a una festa organizzata da Dioniso, l’altra notte e, per motivi che non ho ben capito, ha chiesto di essere portato a casa di Eris. Immagino, per non farsi beccare da voi completamente ubriaco… o peggio» iniziò col dire Zeus, sorprendendo entrambi.

«Dioniso lo ha…» ansimò esterrefatta Athena, portandosi una mano alla bocca per la sorpresa.

Scuotendo il capo, Zeus replicò: «No, lui non c’entra. A quanto pare, Alekos era d’accordo con Ares. Morale, il ragazzo era ubriaco fradicio e non voleva farvi preoccupare, così ha chiamato Eris perché lo ospitasse… e qui è successo il fattaccio.»

«Che… fattaccio?» gracidò Athena, ormai pronta al peggio.

«Eris non è stata chiara, in merito, ma mi sembrava in imbarazzo, perciò non ho insistito. Fatto sta che Alekos è riuscito a trasmutare da solo, e abbiamo la quasi totale certezza che sia nel regno di Chaos» spiegò loro Zeus, sospirando fiacco.

«Ma Alekos non può trasmutare da solo!» sbottò Athena, accigliandosi.

«Non dirlo a Eris, o si incazzerà di brutto. Credimi, è successo, perché non si trova da nessuna parte, sulla Terra. Le arpie lo hanno cercato ovunque, e sai bene che, quando Homados e Proioxis si mettono in testa una cosa, non falliscono mai. E poi, hanno una predilezione per quel ragazzo, e non lascerebbero nulla di intentato, pur di trovarlo.»

Athena singhiozzò affranta mentre Érebos, sconvolto, esalava: «Devo andare da Cloto e le altre…»

«Sapevo che l’avresti detto, ma Eris è stata chiara anche su questo. Vuole riportarlo indietro lei» sottolineò Zeus.

«Perché ha detto questo?» esalò Athena, confusa.

«Vai a saperlo! Comunque, mi sembrava molto determinata, e così pure Dioniso, che si è accodato a lei.»

«So che deve essere lei a cercarlo. Io voglio solo convincere le mie figlie a non metterle i bastoni tra le ruote» asserì a sorpresa Érebos, sorridendo poi ad Athena, che lo stava fissando con espressione interrogativa. «Sono sicuro che Eris può riuscire a risolvere il problema. E’ l’unica cosa che ho compreso dai miei infruttuosi studi sulla natura primigenia del potere.»

«Se proprio vuoi andare, non ti lascerò da solo» precisò Athena, stringendogli una mano.

«Tu resta qui e riposa. Sei talmente in ansia che potresti subire dei danni durante la trasmutazione. Io, nel frattempo, chiederò ad Artemide e Hermes di accompagnarmi, così sarai più serena nel non sapermi da solo, va bene?» le raccomandò lui, dandole un bacio sulla fronte.

Athena storse il naso ma acconsentì così la divinità Ctonia, levatasi in piedi, scrutò Zeus e disse: «La affido a te.»

«Non ti preoccupare. Voi pensate ad Alekos» assentì Zeus, alzandosi per stringergli la mano con fare benaugurante.

Ciò detto, lo vide svanire.

Athena sospirò nello stringersi le mani in ventre e Zeus, sedutosi accanto a lei sul divano, le avvolse goffamente le spalle e disse: «Io ci provo… però tu dimmi se vado bene.»

La dea rise di fronte all’affermazione timida e insicura del padre e, nel poggiare il capo contro la sua spalla, mormorò: «Vai benissimo, papà. Davvero.»

Sorridendo un poco più sicuro di sé, Zeus afferrò quindi dal tavolino accanto al divano il telefono cordless e, ammiccando alla figlia, aggiunse: «Sarà meglio se chiamiamo rinforzi. Felipe, ormai, saprà già tutto, visto che ora Érebos si trova da Artemide, ma è meglio se lo diciamo anche ad Anita e Carlos, no?»

«Sì, è giusto. Non voglio mentire loro su una cosa così importante» annuì la dea, allungando una mano per prendere il cordless.

Zeus, però, lo tenne per sé e replicò con un sogghigno: «Lascia, faccio io. Spero che a rispondere sia Carlos, così lo farò ingelosire un po’.»

«Oh, papà…» sorrise suo malgrado Athena, restando stretta alla sua figura possente e protettiva.

Era bello averlo lì in quel momento. Ne aveva davvero bisogno.
 
***

Aiolos uscì dal tempio delle Moire in concomitanza con l’arrivo di Apollo, Era, Poseidone e Acaste.

Vedendoli in ansia e mossi da una fretta divorante, il dio li bloccò sul nascere e disse loro: «Chetate il vostro passo, poiché comunque non si può far nulla, al momento. Possiamo solo aspettare e tenere compagnia a Érebos, o…»

Indicando poi dabbasso, verso le mura di cinta del tempio, aggiunse: «…o a Miguel. Il resto, è affidato a Eris e Dioniso.»

«Eris …e Dioniso?» esalò sconcertata Era, portandosi una mano al volto con espressione sconvolta. «Ma chi ha deciso per una simile accoppiata?»

«Prenditela con Moros, se vuoi, divina Era. E’ stato lui a catapultarli nel regno di Chaos» scrollò le spalle Aiolos, discendendo poi le scale fino a incrociare suo padre. «Io vado da Miguel. Tu che fai?»

«Parlerò un po’ con Érebos, poi verrò da te» gli disse il padre, dandogli una pacca sulla spalla.

Lui assentì e ammiccò ad Acaste, dicendo: «Zéphyros è dentro con gli altri. Sarà felice di vederti. Tende sempre a essere il più ansioso di tutti, quando qualcosa scombina le sue giornate, e questa di sicuro non è una classica giornata come le altre.»

Lei gli sorrise grata e affrettò il passo per raggiungerlo, così ad Aiolos non restò altro che raggiungere la figura luminosa dell’anima appartenente al padre di Alekos.

Era al corrente che, talune volte, le anime potevano divenire senzienti e rammentare il proprio passato, ma non aveva mai parlato con una di loro, e non sapeva davvero che dire, a questa in particolare.

Rammentando però le parole di Athena, ‘sei stato a tua volta padre, no?’, si fece coraggio e lo avvicinò, sorridendo cordiale all’anima per poi accomodarsi al suo fianco contro le mura di cinta del tempio.

«Atropo mi ha detto che tu sei Miguel, il padre di Alekos. Io sono Aiolos, dio dei venti, e sono suo amico» esordì lui, ammiccando al suo indirizzo.

“Non sei mai venuto qui, quando Alekos viveva nell’Oltretomba” denotò Miguel, con una punta di curiosità.

«Punizione» ammiccò simpaticamente Aiolos. «Ero in castigo ad aeternum, assieme ai miei amici, ma ci hanno concesso di venire qui per via di… beh…»

“E’ successo qualcosa ad Alekos, giusto? Non c’è mai stata questa confusione, nei pressi del tempio delle Moire, e anche Ade sembra piuttosto nervoso. Inoltre, ho sentito dire il nome di mio figlio dalle Erinni più e più volte, e questo mi ha messo in allarme.”

«Diciamo che ci stiamo lavorando, ma sì… pare che Alekos si sia cacciato in una sorta di guaio, e ora due dei suoi zii sono corsi ad aiutarlo» ammise Aiolos, non sapendo come eludere la domanda. Vedere un via vai di divinità nell’Oltretomba era, senza alcun dubbio, qualcosa che poteva incuriosire chiunque.

Annuendo, l’anima domandò: “Athena come sta? Ho visto Érebos entrare di gran fretta assieme ad Artemide e Hermes, ma non ho visto lei.”

«Da quel che so, si trova a casa sua, in compagnia di familiari e amici. Penso non se la senta di venire qui, e non le do torto… là dentro, ci sono certe facce lunghe…» ironizzò Aiolos e, suo malgrado, fu lieto di vedere l’anima illuminarsi un poco, quasi stesse ridendo con lui.

Era difficile comprendere quali potessero essere i procedimenti mentali di un’anima, visto che essa percepiva le emozioni, gli eventi e il tempo in maniera completamente disgiunta dal mondo reale. Ugualmente, Aiolos era certo che Miguel riuscisse a capacitarsi di ciò che stava accadendo, e che gradisse il suo tentativo di spronarlo a non cedere all’ansia.

“Athena è sempre stata molto emotiva e diretta, nelle sue esternazioni. Se fosse qui, Ade avrebbe il suo bel daffare per tenerla calma” dichiarò l’anima, annuendo più volte.

«Ade adora vostro figlio e farebbe di tutto, per lui, ma ora non può farlo perché questo compito pare essere spettato ad altri. Immagino che non sarebbe per niente facile restare qui senza aggredire colui che la tiene lontana da suo figlio» chiosò Aiolos, assentendo.

“Érebos si sente in colpa, vero?”

«Temo di sì. L’ho visto piuttosto provato» annuì il dio dei venti.

“Digli di venire qui, per favore… credo abbia bisogno di rassicurazioni da parte mia, o si farà venire un esaurimento per niente” decretò con tono ironico Miguel.

Aiolos gli sorrise pieno di ammirazione e, nello scostarsi dal muro, dichiarò: «Ora ho la certezza che l’anima pura di Alekos è nata da te. Porterò il tuo messaggio al Sommo Érebos, te lo prometto.»

L’anima assentì grata e Aiolos, nel tornare all’interno del tempio delle Moire, si sentì stranamente pacificato. Sì, parlare con quell’anima dava davvero l’idea di quanto Miguel, in vita, fosse stato un essere speciale, pur se solo umano.
 
***

Ares entrò mogio nella villa di Athena e, per la prima volta in vita sua, lo fece usando la porta, e non trasmutandosi al suo interno.

Afrodite, al suo fianco, sembrava quasi sorreggerlo, nonostante la dea apparisse chiaramente più piccola ed esile del dio della guerra. Il fatto che il dio, però, fosse reclinato penitente in avanti e i suoi occhi fossero gonfi di pianto, confermava quanto Afrodite gli stesse effettivamente impedendo di crollare.

Athena sorrise mesta, di fronte a quello scenario davvero inconsueto e, nell’alzarsi dal divano – dove si trovavano anche Anita e Carlos – raggiunse il fratello e lo abbracciò.

Ares le si aggrappò con forza, trattenendo nuove lacrime piene di contrizione e Athena, nel dargli delle pacche sulla schiena enorme, gorgogliò: «Oddio, Ares, ma come ti sei ridotto!»

«Scusami, sorella… davvero! Non mi sono reso conto che lui…»

Lei lo azzittì subito, puntando un dito sulle sue labbra e, nel carezzargli il viso ancora umido di lacrime già versate, replicò: «Posso immaginare cosa sia successo. So benissimo che non metteresti mai coscientemente Alekos in pericolo, perciò ne deduco che lui abbia usato il suo potere su di te per ammansirti.»

«Me ne sono accorto solo stamattina, a cose fatte, quando mi sono risvegliato nel tempio di Dioniso e ho rammentato cosa fosse successo la notte precedente» ammise suo malgrado Ares. «Avrei dovuto essere più accorto, ma la telefonata di Alekos mi ha fatto così piacere che…»

Athena assentì, aggiungendo per lui: «…che sei venuto subito qui per stare con lui. Lo so. Mio malgrado, ho capito a mie spese come fa. O faceva.»

Afrodite, a quel punto, la afferrò a una spalla e replicò con veemenza: «Non dire così. Sono più che certa che, se c’è una persona che può riportarlo indietro, quella è Eris. Vuole bene al ragazzo, e ha una forza di volontà unica. Ricorda che è stata plasmata dal dolore, e niente può spezzarla. Quanto a Dioniso, beh… lui è lui, e ci si può davvero aspettare di tutto. Anche che sia utile, una volta tanto.»

Athena rise nonostante tutto, grata ad Afrodite e al suo tentativo di fare dell’ironia al solo scopo di tirarla su di morale.

Per quanto, su molte cose, fossero agli antipodi, apprezzava l’amicizia di Afrodite e saperla vicina le rendeva meno insopportabile l’attesa.

Deimos e Phobos scelsero quel momento per entrare in punta di piedi, le ali nere ben rattrappite sulle spalle e l’aria di coloro che non volevano assolutamente causare problemi.

Guardando poi Athena con aria di scuse, mormorarono quasi in coro: «Possiamo restare anche noi? Giuriamo che staremo buoni in un angolo, senza aprire bocca.»

La dea della guerra sorrise grata di fronte ai loro tentativi di apparire innocui - come se la personificazione della paura e del terrore potessero sembrare due putti di una chiesa.

Gentilmente, perciò, li abbracciò entrambi e disse: «So bene che siete qui per aiutarmi, e non per seminare panico. Restate pure e non preoccupatevi.»

«Grazie, zia» mormorano i gemelli, andandosi subito a sedere accanto a Buffy e Xena, che stavano giocherellando con un tablet.

Afrodite sorrise nel vederli così docili e, sommessamente, disse: «Alekos è riuscito a toccare anche il cuore di quei due perdigiorno… non fosse che sono in ansia per lui, sprizzerei gioia da tutti i pori per questo evento.»

Athena, allora, le batté una mano sulla spalla e replicò: «Cerchiamo di vedere il bicchiere mezzo pieno. Credo sia l’unica cosa da fare.»

Afrodite assentì prima di volgere incuriosita lo sguardo, quando una nuvola argentata apparve nel salotto.

Da essa presero forma Demetra, Persefone e Nyx e quest’ultima, quasi correndo, raggiunse Athena per abbracciarla e mormorare: «Vedrai che tornerà a casa sano e salvo!»

Lei la ringraziò ricambiando la stretta, mentre Demetra e Persefone chiedevano aggiornamenti a Zeus in merito alla situazione presso il tempio delle Moire.

Stretta nell’abbraccio di Nyx, Athena non poté che sorridere, di fronte alla profonda unione della sua famiglia che, per quanto caotica, folle e a volte autodistruttiva, sapeva unirsi più di ogni altra, quando serviva.

Mentre Anita accorreva al suono del campanello per far entrare il resto dei suoi cugini, giunti in massa per dare coraggio ad Athena, la dea della guerra osservò il lato divino della sua famiglia e sorrise. Fino a pochi anni addietro, non avrebbe mai neppure sognato di vedere suo padre parlare con Carlos, o di saperlo così premuroso nei suoi confronti.

Nonostante le sue pecche, nonostante i suoi colpi di testa, era un buon padre.

Tra sé, quindi, sperò che quel senso d’unione e amore potessero raggiungere Alekos, così da fargli comprendere quanto, tutti loro, lo amassero e lo rivolessero a casa.

Non aveva davvero idea di come il figlio fosse riuscito a raggiungere Chaos, o perché Eris si fosse sentita in dovere di raggiungerlo, ma confidava in lei, così come nella forza d’animo di Alekos.

In quel momento, non poteva che aspettare e sperare.







N.d.A.: gli eventi che vedono Alekos protagonista hanno letteralmente smosso l'intero Olimpo e, come una squadra ben oliata e unita da un forte affiatamento, le divinità si dividono tra regno mortale e immortale per proteggere dal dolore sia Athena che Erebos.
Vediamo così i vari eventi da molti punti di vista - motivo per cui ho deciso di intitolare questa serie di capitoli "Pantheon" - e torneremo presto anche a rivedere Chaos e Dioniso, che attendono in prima persona l'evolversi delle vicende.
Cosa accadrà, nel regno di Chaos, mentre il resto degli dèi attende trepidante dall'altra parte dell'invisibile muro che li separa?

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Capitolo 51
*** Pantheon - 2 - ***


 
2.
 
 
 
 
Érebos sedeva torvo su un piccolo spuntone di roccia, lo sguardo puntato sul tempio delle Moire – che distava solo qualche centinaio di iarde – e l’animo spezzato in due dall’ansia.

Miguel, in piedi al suo fianco, osservava pensieroso la collina ove si trovavano in quel momento, e dove Acaste stava intrecciando una corona di fiori per Zéphyros.

Il vento della primavera sembra intento a comprendere il meccanismo che creava le brezze in quella zona dell’Oltretomba e, dal suo viso, traspariva un’indubbia perplessità.

A poca distanza, Aiolos, Boreas e Nótos camminavano nervosamente avanti e indietro, mentre Euros stava tempestando Nyx di domande in merito al suo sapere su Chaos e sulle creature Ctonie.

A poco a poco, nel corso delle lunghe ore d’attesa, le divinità erano fuoriuscite dal tempio delle Moire per non impazzire, e le stesse padrone di casa uscivano spesso dalle sue mura, gli sguardi persi e pieni di dubbi.

Mai, Miguel le aveva viste così in ansia e prive delle consuete risposte che soleva leggere nei loro occhi di vegliarde.

«Non avrei mai pensato, ventidue anni fa, di poter causare un simile danno a tutti quanti» esordì il dio Ctonio, lanciando un’occhiata spiacente a Miguel.

L’anima si volse a scrutarlo, replicando con una certa ironia: “Io so solo che Alekos vive grazie a te. Il resto, è qualcosa che nessuno poteva prevedere, da quel che mi è parso di capire, perciò io mi chiedo… perché continui a incolparti per qualcosa su cui non hai avuto alcun potere decisionale?”

La divinità Ctonia sorrise fiacca e asserì per contro: «Capisco perché Athena litigava con te, a volte. Il tuo pragmatismo, se mi permetti, fa alquanto innervosire perché, se coscientemente so che tu hai ragione, quando mi lascio andare al mio subconscio, vorrei che tu non l’avessi.»

L’anima rise di gusto ed Érebos, nonostante tutto, si ritrovò a sorridere pur essendo ancora molto in ansia per Alekos.

Ricevere la richiesta di Miguel per bocca di Aiolos, lo aveva alquanto innervosito, sicuro com’era di ricevere una reprimenda dal padre del ragazzo. Miguel, come al solito, lo aveva invece sorpreso, desideroso com’era di essergli d’aiuto per tirarlo su di morale in un momento difficile.

“Voi divinità siete sempre così sicure di aver ragione che, quando succede il contrario, vi cade il mondo addosso… anche Athena appariva sdegnata quanto incredula, quando si rendeva conto di aver perso, in una discussione con me” ironizzò Miguel, e la sua luce interiore brillò di beatitudine.

Era chiaro quanto ancora l’amasse, e forse quell’amore sarebbe perdurato in eterno, ma Érebos non ne era geloso, così come Miguel non sembrava esserlo di lui. Semplicemente, ognuno di loro era stato parte – o era tutt’ora parte – della vita di Athena.

«Viviamo così a lungo da crederci infallibili, ma non lo siamo affatto» ammise suo malgrado la divinità Ctonia. «Avevo pensato, nella mia apparente superiorità di dio Ctonio, di conoscere ogni cosa sulla vita e sulla morte, e di aver soppesato ogni particolare ma, evidentemente, non avevo fatto i conti con le leggi sulle singolarità.»

“E quali sono?”

«Non ne esistono che vadano bene per tutti» asserì con mesta ironia Érebos. «Mi convinsi che, se Chaos mi avesse consentito di muovermi come stavo facendo, avrebbe anche voluto dire che non stavo commettendo azioni troppo gravi da impedirne lo svolgimento ma, a quanto pare, mi sbagliai di grosso, all’epoca.»

Miguel ristette in silenzio per qualche istante, lo sguardo puntato in direzione di Acaste e Zéphyros, ora impegnati a scrutare l’illusorio orizzonte dei Campi Elisi. Apparivano in ansia, le mani strette l’una nell’altra in reciproco sostegno e, pur non essendovi nessun altro contatto, tra di loro, appariva chiaro come i due giovani fossero in sintonia.

“Non conosco bene il vostro mondo, ma sono convinto di una cosa. Se l’entità che tu chiami Chaos ti permise di salvare Alekos, credo avrà un piano B anche questa volta, o non ti avrebbe concesso di fare ciò che facesti all’epoca.”

«Lo spero.»

Miguel, allora, si illuminò pieno di speranza e replicò: “Guarda tu stesso. Il Sommo Apollo mi pare molto innamorato dell’oceanina al suo fianco, eppure loro rappresentano il fuoco e l’acqua. Sono antitetici, no? Ma si amano lo stesso. La Natura, o Chaos – non voglio addentrarmi troppo in questi argomenti metafisici – ha deciso che andava bene così e, allo stesso modo, ha deciso che Alekos andava bene per il mondo. Questo è solo un… intoppo sul programma? Vogliamo vederla così?”

La divinità Ctonia osservò quindi Apollo e Clizia, giunti subito dopo l’arrivo di Poseidone, e accompagnati sia da Oceano che da Teti, equamente preoccupati per le sorti di Alekos.

Nessuno di loro aveva voluto abbandonarli e, in modo continuativo, si intervallavano tra il regno dell’Oltretomba e l’esterno per dare manforte a lui o ad Athena.

«Un intoppo.»

L’anima assentì e, nell’osservare l’arrivo a grandi passi di Ade, mormorò: “Pare in ansia anche lui.”

«Oppure, tutti questi ospiti a sorpresa lo innervosiscono» chiosò Érebos, levandosi in piedi per sorridere ad Ade e scusarsi per la loro invasione pacifica.

Ade, però, scosse una mano con fare frettoloso e replicò: «Ah, Érebos, lascia stare. Sono preoccupato tanto quanto gli altri, perciò mi fa bene avere compagnia. E tu, ragazzo, come te la passi? Reggi bene?»

Miguel annuì con fare tranquillo, dichiarandosi fiducioso sulla buona riuscita della missione.

Ade gli batté una mano sulla spalla – che era pura emanazione di energia – e, con un gran sorrisone, asserì: «Vorrei averla io, tutta questa fiducia incrollabile. Ma va già bene se ce l’hai tu, ragazzo.»

L’anima emise un risolino e, nel tornare a osservare il folto gruppo di divinità che avevano invaso i Campi Elisi, ringraziò chi di dovere per il loro affetto e la loro devozione a suo figlio. Era più che certo che questo avrebbe aiutato non poco, a salvarlo.
 
***

Lasciata Anita assieme ad Athena nella camera da letto di quest’ultima, Zeus tornò nel salotto dove, durante la giornata appena trascorsa, si erano avvicendati sia umani che divinità in un ciclo senza fine.

Il Padre degli dèi si era stupito non poco del caldo e devoto affetto dei cugini di Miguel e Felipe che, come un sol uomo – e una sola donna –, si erano intervallati accanto ad Athena per esserle di conforto.

Tutto quell’amore incondizionato e del tutto privo di secondi fini lo aveva colpito nel profondo, facendogli finalmente comprendere come, la figlia, avesse finito con l’amarli tutti indifferentemente.

Erano persone di valore, forti nonostante la loro mortalità e forse, proprio per questo, ancor più forti rispetto a loro, che potevano contare su una vita priva di limiti.

Lasciandosi stancamente andare su una poltrona – Buffy e Xena stavano dormendo in braccio a Deimos e Phobos – Zeus lanciò uno sguardo a Carlos, in piedi accanto al piano bar, e disse: «Se avete fame, faccio arrivare qualcosa.»

L’uomo si riscosse un poco, a quelle parole e, nel lanciare uno sguardo a Felipe e a sua cugina Ariana, intenti a sistemare il caos provocato dai giochi delle gemelline, mormorò: «Sì, forse è meglio. Sfinirci non servirà a nessuno.»

Annuendo, Zeus schioccò le dita e, sul tavolo del salotto, apparvero leccornie di ogni tipo e di ogni derivazione culturale. Levatosi poi in piedi, tolse dal ripiano solo un paio di bottiglie e una ciotola dopodiché, a mo’ di spiegazione, disse: «Nettare e ambrosia non sono per i palati umani. Vi intossichereste per nulla. Li porto ad Athena perché si riprenda un poco.»

Carlos assentì, osservando pieno di meraviglia l’immensa tavolata e Felipe, nel dare di gomito alla cugina, dichiarò: «Tu volevi del pollo vindaloo, vero?»

Arcuando le sopracciglia, la donna asserì: «Oh, se c’è, ben volentieri.»

Zeus sorrise nel vederli avvicinarsi al tavolo del salone e, dopo aver raggiunto la stanza della figlia e aver bussato, si affacciò per sussurrare: «Anita, se lo desideri, c’è qualche sfiziosità per cena.»

La donna sorrise alla divinità, annuendo grata e, nel levarsi da letto dopo aver dato un bacio sulla fronte ad Athena, uscì dalla stanza per lasciarli soli.

Zeus, allora, si avvicinò al letto con passo lento, quasi imbarazzato e, dopo aver fatto apparire in una mano una coppa d’argento, servì dell’ambrosia alla figlia prima di dire: «Non c’è cibo umano che potrà ritemprarti come questo. Prendilo, e bevilo tutto.»

La dea assentì e lo accontentò, sospirando poi per il sollievo.

Che le piacesse o meno ammetterlo, era dipendente da nettare e ambrosia e, per quanto si sforzasse di cibarsene il meno possibile per non assentarsi mai da casa, le era impossibile liberarsene. Questa carenza di elementi nutritivi aveva però prodotto su di lei un rapido indebolimento.

Solo cibandosi nuovamente di nettare e ambrosia, si rese conto dei danni subiti in quei lunghi mesi di astinenza.

Carezzandole il capo mentre, come per magia, i capelli sfibrati riprendevano colore e forza per tornare al ramato di sempre, Zeus ironizzò: «Non dovevo preoccuparmi tanto di te neppure quando vivevi sotto il mio stesso tetto. Ma tu guarda!»

«Erano le tue ancelle, a farlo» sottolineò pestifera Athena, ammiccando al suo indirizzo.

«Oh, beh, poco male…» ghignò lui, esibendosi in un sorriso truffaldino. «…comunque, per il futuro, fatti una scorta, invece di restare in astinenza. Non ti fa bene. Chiama Hermes o Iris come facevi in passato, se non vuoi lasciare la casa, ma nutriti

«Lo farò» assentì Athena, lanciando poi uno sguardo alla porta. «C’è più silenzio. Sono andati a casa, gli altri?»

«Quasi tutti. Ariana ha detto che rimarrà, per stanotte, e domani torneranno Serena e Cornelia, se niente cambierà nel frattempo. Felipe è ancora qui con le gemelline, visto che Artemide è scesa al tempio delle Moire per avere novità. Immagino che Érebos non ti abbia mandato nessun messaggio, vero?»

Lei scosse il capo, asserendo: «Eravamo d’accordo che, finché non vi fossero state novità, non avrebbe dovuto preoccuparsi di chiamarmi.»

Zeus annuì, lasciandosi andare a un breve sospiro tremulo e Athena, nel prendergli una mano, disse: «Stai andando bene, davvero. Non preoccuparti di aver tralasciato qualcosa.»

«Ma io ho tralasciato qualcosa» sospirò afflitto il dio, scuotendo il capo. «Forse, se fossi andato al posto di Dioniso, avrei potuto fare pressioni su Chaos. Dopotutto, sono o non sono il Padre degli dèi?»

Athena gli sorrise comprensiva, replicando: «Se ho capito bene cos’è Chaos, dubito si sarebbe preoccupato di ascoltarti, se non avesse voluto. Ha più potere di noi tutti messi insieme, no?»

Zeus storse il naso, di fronte a quella certezza, e borbottò: «Mi fai sentire inutile, così.»

«Non lo sei. Davvero» ammiccò la dea, lasciandosi poi andare contro i cuscini prima di aggiungere: «Ora cercherò di facilitare le cose a Hypnos e mi calmerò. E’ passato anche prima, assieme a Morpheus, ma non sono riusciti a combinare nulla.»

«Lascia che ti portino via per qualche ora. Al fortino penso io» le promise il padre, carezzandole la fronte per poi spegnere la abat-jour e uscire dalla sua stanza.

Una volta nel corridoio, Zeus si lasciò andare a un lungo, pesante sospiro, lasciando che le ansie e il peso emotivo accumulato in quell’interminabile giornata, cadessero infine sulle sue spalle.

Rendersi conto di quanto fosse stato difficile sorreggere la figlia, fu umiliante. Non era davvero abituato a fare la parte del padre, e la colpa era interamente sua, non dei suoi figli.

Tutto si poteva dire, di loro, ma non che non avessero tentato, nei secoli, di instaurare un rapporto maturo con lui, ma ogni tentativo era caduto nel vuoto.

Non faceva specie che, giunta al limite dell’esasperazione, sua figlia – la creatura che lui stesso aveva plasmato e cresciuto in sé – fosse fuggita per rifugiarsi nel mondo degli umani.

Quando infine risollevò lo sguardo, conscio delle proprie pecche e dei suoi limiti come padre, Zeus si ritrovò a fissare il volto turbato di Carlos, fermo a pochi passi da lui.

«Come sta?» domandò l’uomo, indicando con un cenno la porta chiusa.

«E’ provata ma, piuttosto che cedere, distruggerebbe interi continenti» cercò di ironizzare Zeus.

Carlos assentì, sorridendo appena, e mormorò: «Avrà preso dal padre.»

«Può darsi» dichiarò Zeus, sollevando un sopracciglio con aria leggermente sorpresa.

Era forse la prima volta che lui e Carlos si parlavano come persone civili, e la cosa lo lasciava alquanto perplesso. Sapere che il nipote era in pericolo, però, doveva aver fatto sotterrare l’ascia di guerra persino al volitivo seņor Rodriguez. Stavano combattendo la stessa guerra, dopotutto.

Insieme, quindi, tornarono nel salotto e lì si avvidero della presenza di Artemide che, nell’incrociare lo sguardo del padre, si limitò a un dissenso secco e senza parole.

Nessuna novità. Tutto era ancora fermo.

Presa in braccio Buffy, la dea si limitò a dire: «Noi torniamo domattina. Adesso andiamo a mettere a letto queste due pesti. Dalle facce di Deimos e Phobos, devono averli ridotti a uno straccio.»

I diretti interessati si limitarono a sbadigliare dopo essersi rialzati da terra e, nel dare dei buffetti sulle guance alle bimbe addormentate, dissero coralmente: «Sono simpatiche, e ci siamo divertiti… ma sono davvero delle pesti. Crediamo di avere morsi un po’ ovunque.»

«Tendono a essere cannibali, quando possono permetterselo» ironizzò imbarazzata Artemide, aggiungendo subito dopo: «Buonanotte a tutti.»

Felipe abbracciò padre e madre prima di seguire la moglie e, dopo che l’auto della coppia si fu allontanata dalla villa, Anita disse: «Credo che andrò a sdraiarmi anch’io. Se c’è bisogno di me, chiamatemi.»

Carlos assentì e, dopo essersi seduto sul divano, accese il TV a basso volume e si posizionò su un canale sportivo; in quel momento, stavano dando una partita di baseball.

Zeus, allora, squadrò i due figli di Ares e Afrodite, domandando loro: «Voi che fate, ragazzi?»

«Restiamo finché papà e mamma non tornano dall’Oltretomba, poi andiamo a trovare Eros. Esculapio ci ha detto che possiamo andare in clinica, finalmente. Pare che sia riuscito ad annullare gli effetti delle frecce di piombo che nostro fratello ha voluto testare su se stesso.»

Il Padre degli dèi sospirò esasperato, borbottando: «Ma tu guarda quel ragazzo… ma che gli è saltato in mente, di provare sulla sua pelle proprio quelle frecce?»

«Temeva fossero troppo potenti, perché taluni uomini finivano con il rimanere talmente invischiati dall’odio da diventare pericolosi e violenti, così ne ha controllato la portata…» scrollò le spalle Deimos. «…e c’è rimasto dentro con capra e cavoli.»

«Farete venire i capelli bianchi a vostra madre, di questo passo» brontolò Zeus, dando una pacca sulla schiena a entrambi, mentre i giovani uscivano ridacchianti da casa.

Carlos osservò silenzioso l’intera scena e soltanto quando le due divinità furono scomparse, si arrischiò a chiedere: «Parliamo del bimbo alato con le frecce d’oro?»

Zeus ghignò divertito e replicò: «Eros non è più un bimbo da tempo immemore e, di sicuro, non va in giro con un pareo intorno ai fianchi e un arco in mano. Quel ragazzo è alto come una pertica, ha muscoli dappertutto ed è ossessionato da un ballerino italiano di nome Roberto Bolle.»

L’uomo fece tanto d’occhi, sinceramente confuso, ed esalò: «Ma… e Psiche?»

Il dio rise, scuotendo una mano nel sedersi a sua volta sul divano, prima di dire: «Oh, …non ossessionato in quel senso! E’ ossessionato dal suo fisico! Vuole diventare come lui, e Psiche gli fa da personal trainer… o meglio, gli faceva, prima che quello sciocco provasse su di sé il potere delle sue frecce di piombo.»

«Ho quasi paura a chiedere… quanto tempo fa divenne ossessionato da questo ballerino?» tentennò Carlos.

«Direi che fu una sorta di Pesce d’Aprile, il suo, visto che la fissazione cominciò il primo Aprile del duemila e quattro. Lo vide ballare in Vaticano, alla presenza di Papa Giovanni Paolo II e, da lì, non capì più nulla» scrollò le spalle Zeus. «Quell’anno iniziò gli allenamenti per tonificare i muscoli giusti e, al tempo stesso, provò un nuovo tipo di frecce per il suo arco, lavorando assieme a Efesto per creare una nuova lega che tenesse il passo coi tempi. Sai, la faccenda degli acciai temprati e cose del genere. Ha una fissa per queste cose. Morale della favola, nel tentativo di capire se le nuove leghe andassero bene per i mortali millennials, fece un autentico casino.»

Carlos sospirò incredulo e Zeus, grattandosi pensoso una guancia, terminò di dire: «Inutile aggiungere che Afrodite andò su tutte le furie, Ares gli diede dell’imbecille e Psiche iniziò a piangere come una vite tagliata. Alla fine, Apollo decise che fosse il caso di interpellare anche suo figlio Esculapio, ben più esperto di lui, per quel che riguarda gli avvelenamenti. E’ in cura da allora.»

L’uomo deglutì a fatica, esalando: «Doveva essere un gran bel… veleno

«Eros non è mai stato un tipo dalle mezze misure e, di solito, la sua maniacalità sfociava in progetti ben riusciti… ma quella volta sbagliò davvero la composizione chimica della freccia, e ne nacque un’autentica arma di distruzione di massa, se così la vogliamo vedere» ammise Zeus.

Carlos sospirò, mormorando: «E’ proprio vero che, per voi, il tempo è del tutto relativo. Se uno di noi fosse in cura da… da quanto, di preciso?»

«Dal duemilasei» lo informò Zeus, sorprendendolo.

«Un bel po’, a quanto pare. Comunque, dubito che ne abbia risentito a livello fisico.»

Zeus dissentì, ammettendo: «Capisco cosa intendi e sì, non ci facciamo molti scrupoli, da quel punto di vista. Abbiamo dalla nostra una vita eterna che ci permette di commettere anche sciocchezze, cosa che a voi non è concessa. Questo, però, ci rende più …distaccati da tutto e da tutti, oserei dire, e ora mi rendo conto di quanto, questa nostra …mia estraneità alle vicende umane mi renda inadeguato a sostenere emotivamente mia figlia.»

«Non stai andando malaccio» chiosò Carlos, abbozzando un sorriso.

Zeus rispose al sorriso con un cenno grato del capo dopodiché, fiacco, si lasciò andare contro lo schienale del divano per osservare la partita.

Non se ne intendeva molto, di sport moderni, ma aveva più o meno capito le regole del baseball e, in quel momento, aveva bisogno di pensare a qualcosa di leggero e tranquillo, che non avesse a che fare con il nipote.

Il solo pensiero di soffermarsi a rimuginare su quanto stava succedendo, lo atterriva a tal punto da non comprendere più come comportarsi.

Non sapere nulla lo uccideva, così come il rendersi conto di dovere molto alla famiglia umana di Athena, ben più in grado di lui di prendersi cura dei propri cari.

Passandosi una mano sul volto, Zeus si piegò in avanti poggiando i gomiti sulle ginocchia e, preso il capo tra le mani, sospirò sconfitto: «Non so davvero che altro fare, per lei.»

«Perché, oggettivamente, non si può fare altro» ammise dopo alcuni attimi Carlos, giocherellando con il telecomando senza badare ai programmi che scorrevano sul TV. «Nessun potere al mondo può togliere il dolore di una madre in pena per il proprio figlio. Nessuno. Si può solo star loro accanto.»

«E’ la prima volta che mi sento così impotente in tutta la mia esistenza» borbottò Zeus, scuotendo il capo.

«Lo immagino. Fa schifo» chiosò Carlos, fermando la sua corsa da un canale all’altro quando trovò un film in particolare. «Ecco. Questo fa al caso nostro.»

«Cosa sarebbe?»

«La Storia Fantastica. E’ abbastanza folle da strapparci per qualche ora a questa follia ancor più grande» dichiarò Carlos con un mezzo sorriso.

Fu così che Zeus e Carlos si ritrovarono ad ascoltare le storie avventurose di Westley e Bottondoro, tra combattimenti a fil di spada, dialoghi ai limiti dell’assurdo e il classico vissero felici e contenti.
 
***

Dioniso osservava ansioso la stella gorgogliante e frenetica che rappresentava Alekos e, nel rivolgersi a Chaos – ora divenuto un uomo possente e dal volto fiero – il dio domandò: «Quanto credi durerà la discesa di Eris nel subconscio di Alekos?»

«Tutto dipenderà da quanto, il ragazzo, riuscirà a dominarsi e a dominare il suo lato divino. Se soccomberà alla sua parte immortale – che crea questo scompiglio – prima dell’arrivo di Eris, tutto sarà vano, perciò non ho una risposta da darti» dichiarò Chaos, lo sguardo d’ambra puntato sulla stella come una fiera sulla propria preda.

Dioniso assentì suo malgrado e, con un sorriso di scuse a Chaos, dichiarò: «Beh, io non starò qui ad aspettare che Eris torni. Le andrò incontro.»

Ciò detto, allungò una mano per lasciarsi risucchiare dalla stella ma, con suo sommo rammarico, questa lo rifiutò, spedendolo lungo riverso sulla superficie uniformemente bianca che li circondava.

Chaos allora lo fissò spiacente, mormorando: «Non sei tu a dover partecipare a questa parte della battaglia. Solo Eris e Alekos devono fronteggiarsi.»

Scuotendo la mano dolente, Dioniso domandò turbato: «In che senso, fronteggiarsi

«Eris dovrà compiere una scelta, e questa scelta la metterà di fronte ai due lati di Alekos. Quale che sia, dovrà fronteggiare uno dei due, ma solo lei potrà decidere se scontrarsi con il suo lato umano, o quello divino.»

«Piuttosto che fronteggiarlo, si farà ammazzare!» sbottò Dioniso. «Perché non gliel’hai detto? Ma soprattutto… perché non l’hai detto a me?!»

Balzando in piedi con rinnovato vigore, Dioniso tentò di nuovo di avvicinarti alla stella ma, stavolta, Chaos glielo impedì, trattenendolo a un braccio prima di asserire: «Come già ti dissi, grazie a te ha tutte le armi per fronteggiare questa battaglia, ma deve farlo da sola.»

«Ma io l’ho già lasciata sola un’altra volta!» replicò piccato Dioniso, mettendo finalmente a parole tutte le sue paure. «Per tutta la mia esistenza sono stato superficiale e guascone, mi sono solo interessato ai miei sollazzi e a quelli di coloro che volevano divertirsi con me. Non ho mai pensato di offrirmi a qualcuno in modo disinteressato, ma solo per il mio piacere personale… solo una volta avrei voluto farlo, ma mi ritrassi per paura.»

Ciò detto, reclinò colpevole il capo e aggiunse mogio: «Mi dissi che, poiché avevo tanto sofferto in gioventù, non valesse la pena di spendersi così tanto per conquistare una donna, e che sarebbe stato più semplice accontentarsi delle mille e più che avrei potuto avere con il semplice schiocco delle dita.»

«Eris avrebbe richiesto più di uno schiocco, vero?» ipotizzò Chaos, sorridendo sghembo.

Dioniso rise nonostante tutto, replicando: «Avrei dovuto consumarmi le dita, con lei, a forza di schioccare!»

Chaos annuì, limitandosi a dire: «Ora, temi che questa scelta possa portarti via per sempre l’unica persona che ha saputo scuoterti dalla tua vita di sollazzi?»

Dioniso preferì non esprimersi, ma Chaos non ne ebbe bisogno. Sapeva dei suoi figli molto più di quanto loro stessi conoscessero del proprio Io, e conosceva i reconditi segreti del dio al suo fianco.

L’infanzia rubata, la follia giovanile e la maturità passata negli eccessi più sfrenati, avevano reso Dioniso una creatura amabile e piena di vita, così da controbilanciare i dolori subiti. Ciò aveva creato in lui un istinto di conservazione piuttosto radicato che, allo stesso tempo, lo aveva tenuto lontano da colei che Dioniso aveva sentito come degna controparte di se stesso.

Ora, con la vita di Alekos nelle mani di Eris, Dioniso si sentiva defraudato di qualcosa che sentiva come proprio, e non poteva fare nulla per impedire che le cose si sviluppassero dinanzi ai suoi occhi.

«Volevo portare gioia nella sua triste vita. Sbagliavo, forse?» mormorò Dioniso, gli occhi dolenti puntati sulla stella rilucente.

«No. Ma perché non lo facesti?»

«Perché sono un vile idiota… e ora ho paura di un ragazzo e di ciò che rappresenta per Eris» si irrise Dioniso, passandosi nervosamente una mano tra i riccioli castano dorati. «Sono una ben misera divinità.»

«Sei ciò di cui Eris aveva bisogno ora» replicò criptico Chaos, lasciandolo nel dubbio.

Che mai aveva voluto dire, Chaos, con quelle parole?







N.d.A: ogni divinità - o umano - sta cercando di affrontare al meglio la situazione di stallo anche perché, tolti Chaos e Dioniso che hanno dinanzi agli occhi ciò che sta accadendo, nessun altro può immaginare neppure lontanamente la gravità della situazione. Riuscirà Eris a passare sopra al fatto di dover combattere contro Alekos, o si lascerà andare al suo pessimismo innato? 
 

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Capitolo 52
*** Pantheon - 3 - ***


3.

 

 

 

 

Achille bussò alla porta della villa di Athena proprio mentre questa, dall’interno, veniva aperta da Apollo.

I due, sorpresi parimenti, si squadrarono per alcuni attimi prima dell’intervento di Alessandra, visibilmente incinta, che si mise in mezzo per celiare: «Sembrate due filetti di baccalà, in questo momento, lasciatevelo dire.»

Riscuotendosi a sufficienza per sorridere alla mortale, Apollo ammise: «La sorpresa è stata così grande che persino io mi sono lasciato andare a un’espressione ben poco consona per la mia bellezza. Tu, piuttosto, mia pupilla, come stai?»

Sorridendo divertita mentre Achille grugniva un brontolio incomprensibile, Alessandra si tastò il ventre arrotondato e chiosò: «Mi sento una balena spiaggiata e non riesco più a guidare la mia auto da rally ma, per il resto, va tutto bene. Athena, piuttosto?»

Tornando serio, Apollo li invitò a entrare e domandò loro: «Resiste. Voi, piuttosto, come avete saputo?»

«Memnone era in visita, l’altro ieri, e ci ha informati» dichiarò a quel punto Achille, chiudendosi la porta alle spalle.

Rammentando l’amicizia tra i due, Apollo assentì senza chiedere altro e, dopo aver accompagnato la coppia in salotto – dove si trovavano un paio di cugini di Felipe, oltre a Efesto – disse: «Vi lascio in loro compagnia. Io vado a recuperare quelle malandrine delle mie nipoti. Hanno rubato le reti da caccia della madre e, mentre giocavano nel bosco, ci sono finite sotto, così non riesco a trasmutarle a casa, né loro riescono a sfuggirne.»

Alessandra sbatté perplessa le palpebre ed esalò: «Stavo per chiederti come hanno fatto a rubarle, ma preferisco non sapere, in effetti.»

«E’ meglio… quelle due riescono a fare cose fuori dalla grazia di qualsiasi dio» le assicurò la divinità, scuotendo esasperato il capo. «Prega che il piccoletto lì dentro sia più calmo.»

Ciò detto, uscì a grandi passi, le mani nelle tasche posteriori dei jeans e l’aria di una persona che aveva bisogno di una lunga, lunghissima passeggiata per schiarirsi le idee.

Non era quindi strano che Apollo non si fosse trasmutato fino al luogo in cui si trovavano le gemelline; aveva bisogno di tempo per stare da solo, e in santa pace, e una passeggiata per il bosco era l’ideale.

Nel salutare i presenti, quindi, Alessandra e Achille chiesero lumi in merito alla situazione e, quando anche Athena e Anita fecero la loro apparizione, la coppia le salutò con calore.

«Non dovevate disturbarvi a venire, specialmente nelle tue condizioni» sospirò Athena, lanciando un’occhiata turbata ad Alessandra, che però si schernì.

«Oh, non devi pensarci! E’ come se non ci fosse! O meglio, c’è perché non riesco più ad allacciarmi le scarpe con un po’ di grazia, ma per il resto è tranquillo e scalcia pochissimo.»

«Sapete già?»

«Un maschio. Il problema è che abbiamo ancora diversi dubbi sul nome» ammiccò Alessandra, lanciando un’occhiata ad Achille, che si adombrò in viso.

«Lei ritiene che Peleo sia davvero fuori discussione» brontolò Achille, intrecciando le braccia sull’ampio torace.

Scoppiando a ridere, Athena esalò: «Lo credo bene, Achille! E’ un nome davvero desueto!»

Persino Efesto si dichiarò d’accordo e, sorridendo alla coppia, domandò: «Perché, molto semplicemente, non scegliete un nome che non provenga dalle vostre famiglie? Scelto il primo, potrete mettere un secondo e terzo nome con i nominativi dei vostri padri, ma il primo sarà quello più usato, e su quello non dovrete litigare perché sarà del tutto nuovo, per voi.»

«Tu cosa consiglieresti?» domandò allora Alessandra, rivolta al dio del fuoco.

«Beh, Alessandro, visto che la mamma del pargolo è così bella, e ha un nome così bello e importante» ironizzò Efesto, facendo scoppiare a ridere la donna.

Athena e Anita sorrisero nell’annuire e Achille, con un sospiro, lanciò un’occhiata ai cugini gemelli di Felipe – Amos e Jorge – domandando: «Voi che dite?»

«Che, con una così bella mujer, non puoi che dire di sì» chiosò Amos, e Jorge fu più che d’accordo.

Achille allora sospirò e, con una scrollata di spalle, dichiarò sconfitto: «Sapevo che sarebbe finita così. E Alessandro sia.»

Alessandra gli diede un bacetto sulla guancia, gorgogliando un ‘grazie’ prima di tornare seria e, rivolgendosi ad Athena, domandò: «Si hanno notizie?»

Lei scosse il capo e replicò: «Siamo al quinto giorno, e ancora Moros non ha riaperto i lembi del mantello. Dice che non c’è nessuno, all’altro lato, perciò non ci pensa nemmeno a far sbirciare a qualcuno.»

Scuotendo il capo, Achille borbottò: «La cosa più difficile di tutte è l’attesa. Scontrarsi sul campo di battaglia non era mai così tedioso come l’aspettare che i corni suonassero la carica.»

«Ti capisco» assentì Athena, scuotendo il capo. «Se potessi, sfonderei le porte del regno di Chaos e raggiungerei mio figlio alla testa del mio esercito, con la spada in una mano e il mio scudo di Medusa nell’altra, ma non si può fare.»

Achille annuì comprensivo, prima di domandarle con un mezzo sorriso: «Da quant’è che non imbracci un’arma, mia signora?»

Levando un sopracciglio con aria dubbiosa, lei esalò: «Beh, da quando evitai che Apollo ti accoppasse con una delle sue frecce, in effetti.»

«Allora, col dovuto rispetto, è passato troppo tempo. Vieni con me, mia signora, e tira di spada con il tuo protetto, come facemmo un tempo nelle terre dell’Ellade» la pregò Achille, levando una mano verso di lei.

Dubbiosa, Athena osservò quella mano non sapendo bene che fare ma, nel trovare il plauso di Anita nei suoi occhi scuri, acconsentì con un mezzo sorriso e disse: «Accetto il tuo invito, mio pupillo… ma avrai bisogno di un upgrade al tuo abbigliamento. Jeans e felpa non sono l’ideale.»

Ciò detto si levò in piedi, schioccò le dita e, sotto lo sguardo sorpreso di tutti, Achille tornò a indossare la sua possente armatura. Una corta spada - chiamata kopis – riapparve al suo fianco, assieme allo scudo legato al braccio, su cui spiccavano bracciali di cuoio incisi a fuoco.

Pesanti schinieri proteggevano le sue tibie, mentre calzari di pelle tornarono a fasciare i suoi piedi, già pronti a correre nella radura per allenarsi come un tempo.

Alessandra lo ammirò senza parole mentre il marito, muovendosi lentamente per riprendere confidenza con il peso di quell’attrezzatura un tempo a lui ben nota, sorrise divertito e chiosò: «Non sto neppure male, dopotutto.»

Athena annuì, replicando con ironia: «Ti sei mantenuto in forma, mio pupillo, ma non basterà a mettermi in difficoltà.»

Nell’ammiccare, uno scintillio argentato la avvolse e, in un batter di ciglio, Athena tornò a essere la dea della guerra, colei che aveva guidato guerrieri e vinto battaglie.

Achille si inchinò spontaneamente, mormorando ossequioso: «Sono qui per servirti, mia signora.»

«Onora il tuo nome, Pelide Achille, e concedimi requie da questo imperituro dolore» sospirò la dea, avviandosi fiera verso l’esterno della villa, subito seguita da Achille.

Lo sparuto gruppetto rimase in religioso silenzio finché non li vide uscire, dopodiché Anita mormorò: «Ha fatto bene a chiederle di scuotersi un po’. Stava davvero deperendo, senza novità da parte di Érebos.»

«Achille è voluto assolutamente venire anche per questo. Dopotutto, lui conosce da molto tempo la sua dea» sorrise speranzosa Alessandra, prima di domandare: «Andiamo a vedere? Non ho mai visto un combattimento di questo genere.»

«Poco ma sicuro!» assentirono i gemelli, mentre Jorge offriva il braccio ad Alessandra.

Anita li lasciò andare e, quando fu finalmente sola, intrecciò le mani per una preghiera silenziosa. Ognuno aveva i propri modi, per trovare la pace dal dolore.

***

Acaste sorrise gentilmente ad Aiolos, quando lo vide avvicinarsi a lei e Zéphyros.

Ormai da giorni si trovavano nei Campi Elisi e, per non disturbare troppo le anime ivi presenti, le varie divinità si erano ridotte a stazionare la maggior parte del tempo entro i confini del tempio delle Moire.

Miguel non aveva mai abbandonato il divino gruppo e, a turno, tutti loro avevano passato del tempo con lui. Acaste aveva così scoperto nel padre di Alekos un uomo ricco di interessi e di profonda cultura, oltre che una persona allegra e dall’indole gentile.

In lui, Acaste aveva rivisto molte caratteristiche di Alekos, ma anche peculiarità uniche soltanto a Miguel e che, sicuramente, avevano conquistato a suo tempo il cuore di Athena.

«Come sta?» mormorò Aiolos, indirizzando un’occhiata all’addormentato vento di primavera.

Acaste indirizzò un’occhiata al poco lontano Hypnos e replicò: «Si è assopito non appena ha abbassato la guardia per un attimo. A turno, Hypnos ci sta facendo dormire tutti. Da quel che ho capito, non vuole accumuli di nervosismo in uno spazio ristretto come la zona del tempio delle Moire.»

Aiolos assentì, continuando a osservare la mano di Acaste che, gentilmente, carezzava i riccioli chiari di Zéphyros. Sorridendo, poi, dichiarò: «Sei stata un’autentica manna dal cielo, per lui. Zéph è stato colui che più di tutti, tra noi, ha faticato ad accettare la prigionia e, grazie a te, gli è diventato più leggero contemplare il futuro, perennemente legato com’è all’isola di Salina.»

Acaste sorrise nel lanciare un’occhiata alla personificazione del vento dell’ovest e, annuendo, chiosò: «Lui lo è stato per me in egual modo. Per millenni mi sono rifiutata di uscire dai mari, timorosa di fare la fine delle mie sorelle, innamoratesi di mortali e poi ridotte in lacrime dalla loro scomparsa. Non volevo ridurmi a quel modo perché credevo – erroneamente – che fosse sciocco lasciare che il proprio amore cadesse nelle mani di coloro che non potevano reggerne il peso.»

Aiolos assentì pensieroso, sedendole al fianco e intrecciando le braccia sulle ginocchia ripiegate. Acaste ammiccò al suo indirizzo per un attimo prima di aggiungere: «Ero davvero superficiale, all'epoca!»

«Non avevi ancora fatto le tue esperienze. Cosa ti fece cambiare idea?»

«Alekos» ammise lei. «Mi mostrò come fosse bello vivere in mezzo ai mortali, e quanto il loro mondo potesse offrire attrattive e curiosità. Ammise con me di avere le mie stesse paure, e di non ritenersi abbastanza coraggioso dal lasciarsi andare ad amori anche effimeri con le amiche mortali… non come la madre, per intenderci, che aveva donato il suo cuore a Miguel.»

Insieme, quindi, osservarono l’anima di Miguel, nei pressi dell’entrata del tempio e in compagnia di Artemide ed Era.

«La mortalità spaventerebbe chiunque, soprattutto noi, che non ne comprendiamo appieno il peso» ammise Aiolos, battendole una mano sulla spalla.

«Parlare con Miguel è stato illuminante e, mio malgrado, ho dovuto ricredermi anche sulla nostra supposta superiorità. Su molte cose, siamo assai limitati» si irrise Acaste, sorridendo mesta. «Ora, comprendo molto di più come Athena possa averlo amato, e come lui possa averla resa felice… e questa consapevolezza mi sta aiutando a comprendere meglio che rapporto voglio avere con Zéph.»

«Spero sia una consapevolezza positiva» si arrischiò a dire Aiolos.

Acaste annuì con un risolino, asserendo: «Dare molto più peso al tempo passato assieme è un particolare a cui, in precedenza, non avrei pensato, visto che il tempo non ha importanza, per noi. Invece, mi sono resa conto che anche per noi ha un valore, e ho deciso di non dare nulla per scontato, e di vivere appieno ogni esperienza, ogni sensazione provata.»

«Mi sembra un’ottima cosa» annuì Aiolos. «La superficialità fu il mio errore e, proprio per questo, condannai a imperitura prigionia i miei amici. Se tu renderai più piacevole questa eterna condanna a uno di noi, io ne sarò felice.»

«Spero che la mia amicizia renderà felici anche voi» sottolineò per contro Acaste.

«Questo è sicuro» assentì Aiolos prima di sospirare sgomento quando, all’improvviso, una scossa tellurica sommosse financo le pareti dell’Oltretomba.

Acaste poggiò lesta le mani dietro di sé per sorreggersi mentre Zéphyros, ridestandosi di colpo, balzò a sedere frastornato ed esalò: «Ma che succede?!»

Tutte le divinità presenti levarono lo sguardo in direzione del tempio, mentre Poseidone usciva da esso con l’aria sconvolta al pari degli altri. Neppure lui – che pure era l’Enosigeo – sembrava comprendere i motivi di quella scossa.

Preoccupato, Aiolos incrociò lo sguardo del padre un attimo dopo ma, al suo dissenso, comprese la sua totale estraneità a quell’evento. Non era lui a scuotere la Terra a quel modo.

Chi, dunque, poteva tanto?

***

Athena incespicò nei propri piedi quando una scossa tellurica riverberò nel terreno, scuotendo i dintorni con la stessa energia di un’onda di piena lanciata sulla costa.

«Ma che diavolo…?» esalò Achille, allargando i piedi per mantenersi saldamente eretto.

Il tutto durò solo pochi istanti, fu superficiale quanto veloce, ma mise in allarme Athena che, turbata, inviò un messaggio allo zio, chiedendo turbata: “Ma che sta succedendo, zio?”

“Non è opera mia, Athena… e, se il terremoto è giunto fino a te, mi viene il dubbio che sia stato avvertito un po’ ovunque, a questo punto” replicò Poseidone, turbato.

La dea fece tanto d’occhi, a quelle parole, e replicò ansiosa: “Vuoi forse dirmi che…”

“Non posso dirti nulla, Athena, perché non capisco di che natura sia, quel terremoto. Le faglie non si sono mosse. E’ come se l’intero pianeta sia stato scosso dall’esterno il che, capisci bene, ha del folle.”

Athena si ritrovò addosso gli sguardi turbati dei presenti e, nell’affondare la lama della spada nel terreno, ringraziò lo zio per le informazioni ricevute e, ad alta voce, disse: «E’ stato un rimbalzo energetico di origine divina… ma non è venuto da uno di noi.»

«Esistono altri pantheon che potrebbero averlo fatto?» domandò turbata Alessandra.

Scuotendo il capo, Athena replicò: «Vi sono diversi dèi che camminano tra noi, e non tutti appartengono al mio pantheon, ma nessuno di loro ha causato questo bang planetario. Li sento nella testa, e sembrano tutti equamente confusi.»

I gemelli si guardarono vicendevolmente con espressione turbata e Achille, nel prendere accanto a sé la moglie, domandò alla sua dea: «C’è un pericolo immediato?»

«In realtà, non credo. Poseidone mi ha detto che le faglie sono in ordine, non ne hanno minimamente risentito. Mi ha detto che è come se qualcuno avesse scosso la Terra come una palla di neve» replicò Athena, liberando man mano l’icore nel suo sangue.

«Non è molto piacevole, come idea…» brontolò Achille, prima di reclinare il viso quando il bagliore della pelle della dea divenne fastidioso da osservare. «Cosa stai facendo, ora?»

«Mi sto concentrando per tentare di capire a chi apparteneva l’energia che ha scosso il pianeta» mormorò Athena, mentre Anita li raggiungeva nella vicina radura, il viso pallido e preoccupato.

La donna non si curò del bagliore della dea e, una volta raggiuntala, la afferrò a una mano – mentre Athena escludeva quel punto per non ustionarla col suo potere – ed esalò: «Tesoro! Quel tremore era…»

Lei assentì torva, tornò al suo precedente stato e, nell’abbracciare la ex suocera, asserì: «Sì. Era Alekos.»

***

Dioniso finì nuovamente a terra, quando un tremore titanico squassò tutto ciò che li circondava. Mentre lo stesso Chaos si faceva perplesso in viso di fronte a quell’esplosione improvvisa di energia, la stella si ingigantì fino a diventare grande quanto un palazzo di sei piani.

Sgomento, Dioniso fissò preoccupato Chaos che, turbato suo pari, mormorò: «Si stanno scontrando. E’ cominciata.»

«Scontrando? Chi!» esalò Dioniso.

«L’umanità di Alekos contro la sua divinità» gli spiegò Chaos, stringendo le mani a pugno per l’ansia.

«Quindi, Eris…» ansimò Dioniso, afferrando un braccio di Chaos con espressione atterrita.

«E’ viva, non temere. Ma ancora non è riuscita a farsi udire da Alekos.»

«E adesso? Che succederà?»

Chaos lo fissò spiacente e, scuotendo il capo, replicò: «Davvero non lo so.»

***

Érebos si levò come un falco dalla panca su cui era rimasto assiso fino a quel momento e, livido in viso come mai era stato in tanti millenni di esistenza, si precipitò verso Moros con il chiaro intento di violare un altro tabù.

Aveva riconosciuto perfettamente quell’onda di energia, e non faticava a credere che anche Athena avesse compreso a chi potesse appartenere.

Alekos era arrivato a un bivio della sua esistenza, e nessuno di loro era lì per aiutarlo, e questo era inaccettabile sotto tutti i punti di vista.

Afferrato perciò il figlio a una spalla, disse perentorio: «Lasciami entrare. Non è più tempo dei tentennamenti.»

Moros, però, scosse lentamente il capo, scostò con gentilezza la mano del padre e replicò: «Tu sai perfettamente che non posso farlo. Nel momento stesso in cui tu tentassi di entrare, il tuo corpo andrebbe in briciole, e ogni speranza di vita di Alekos finirebbe in quell’istante. Tu e lui non potete trovarvi nello stesso posto e allo stesso momento, ora come ora, od ogni cosa che è stata messa in moto dal gesto di Eris e Dioniso, verrà vanificata. Anche tu, come gli altri, dovrai attendere.»

Érebos lo fissò in preda all’ira più nera, ma non poté che accettare le parole del figlio e, nello stringere a pugno le mani, crollò in ginocchio ed emise un grido pieno di rabbia e di dolore.

Nyx fu subito da lui e, nell’avvolgergli le spalle, lo scosse leggermente prima di dirgli: «Vai da Athena. Stai con lei. Ora come non mai, dovete stare insieme. Vigileremo noi sull’entrata, e non abbandoneremo mai l’avamposto. Te lo giuro.»

“Fai come dice lei, Érebos. Rimarrò anch’io, qui, ma tu prenditi cura di Athena” disse una voce alle loro spalle.

Le due divinità Ctonie si volsero e, dinanzi ai loro occhi, videro la figura luminosa di Miguel che, attorniata dalle divinità presenti nell’Oltretomba, si avvicinò e aggiunse: “Tu e lei dovete stare insieme, ora. A questo fronte baderemo noi.”

Nel rialzarsi da terra, il dio Ctonio assentì brevemente e, dopo un ultimo sorriso a Nyx e un ‘grazie’ a Miguel, Érebos trasmutò per tornare a casa.

Fu solo a quel punto che Moros si concesse il lusso di lasciarsi andare a una lacrima ribelle e la madre, nell’abbracciarlo, mormorò: «Lo so, è difficile.»

«Non sopporto di vederlo star male a quel modo, ma non potevo farlo passare. Sarebbe morto! Sarebbero morti entrambi!» sospirò Moros, stringendosi con forza alla madre.

Nessuno dei presenti osò dire qualcosa. Vedere il compassato e intransigente Moros lasciarsi andare al dolore, era qualcosa di più unico che raro e dava l’idea della pericolosità di quei momenti, dell’instabilità stessa del futuro.

Per quanto vi fosse un potenziale immenso, all’interno delle mura del tempio delle Moire, non sarebbe bastato per dirimere la matassa infernale in cui, in quel momento, era invischiato Alekos.

Solo il tempo avrebbe detto loro quale risoluzione, quella specifica singolarità, sarebbe progredita nell’Universo.

N.d.A.: Alekos sembra trovarsi davvero in guai seri, e i nervi di coloro che lo stanno attendendo oltre le porte del regno di Chaos si fanno ormai flebili. La tensione è alle stelle, e i messaggi che giungono dal regno del Creatore non aiutano a rasserenarsi. Il tremore che ha scosso la Terra stessa può essere solo foriera di disastri... sarà in grado, Eris, di contrastare un simile potere?


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Capitolo 53
*** Pantheon - 4 - ***


Epilogo.

 

 

 

 

«Anche in questo sta la tua debolezza… ma vedrai, ben presto non dovrai più soffrire, perché io avrò il pieno controllo, e tu non dovrai preoccuparti di nulla» mormorò una voce melliflua nell’oscurità, ridestando Alekos.

Aprendo gli occhi a fatica, e sentendosi più stanco e spossato di quanto non si fosse mai sentito in vita sua, il giovane si guardò intorno con aria stranita, trovando solo un uniforme vuoto siderale intorno a sé.

In lontananza, una luce. Sempre più vivida, sempre più forte e, quando infine questa fu abbastanza vicina perché Alekos ne scorgesse i contorni, assottigliò le palpebre per difendersi dal riverbero e domandò: «Chi sei, per dirmi di non preoccuparmi?»

L’emanazione luminosa rise dolcemente, e Alekos ebbe la sgradevole sensazione di conoscere perfettamente quel tono di voce ma, ancora, esclamò: «Palesati, perché io possa vederti in volto!»

La luce pian piano svanì, mettendo in mostra un fisico giovanile e prestante, lunghi capelli neri rilasciati sulle ampie spalle, una pelle bronzea e perfetta e due occhi di un verde profondissimo.

Il sorriso con cui il giovane si propose ad Alekos fu derisorio e, mentre il figlio di Athena si rendeva finalmente conto di chi avesse innanzi, l’emanazione chiosò: «Ammira Alekos, il dio della giustizia, e chiedi perdono per avermi messo i bastoni tra le ruote fino a questo momento.»

«Astrea è dea della giustizia, non tu!» protestò Alekos, ritrovandosi a fissare se stesso, pur se in versione divina. Perché, gli piacesse ammetterlo o meno, quella era la parte di sé che, in quegli ultimi anni, gli aveva sussurrato all’orecchio per tutto il tempo, mettendolo sempre più in conflitto con se stesso.

Alekos-dio rise, scacciando quell’affermazione con un gesto secco del braccio e replicando: «Astrea non è nulla, al mio confronto! Si assoggetterà al mio giudizio, esattamente come gli altri, poiché solo io posso sapere cosa è giusto e cosa è sbagliato! Il mio potere le è superiore, poiché giunto direttamente da una divinità Ctonia!»

Alekos-uomo allora sgranò gli occhi, a quelle parole e, stringendo le mani a pugno, replicò furioso: «Dici menzogne! Il mio potere nasce da mia madre e da mio padre!»

«Tu non hai più alcun potere, poiché finalmente le nostre due entità si sono scisse, liberandomi dalla zavorra dei tuoi pensieri umani e dai tuoi miseri tentativi di tenermi in gabbia» sottolineò per contro la divinità con le sembianze di Alekos. «Se avessi compreso fin dall’inizio la vera entità del tuo essere, avresti capito che non solo tua madre ti ha permesso di vivere finora, ma anche Érebos te l’ha concesso, condividendo con te il suo filo della vita, dandoti potere e forza!»

Alekos-uomo crollò in ginocchio, stringendosi le mani al petto per il peso di quella nuova consapevolezza e, turbato, domandò: «Smettila! So perfettamente quanto si sia sacrificato per me!»

Alekos-dio sorrise dolcemente, asserendo: «Sei così debole e cieco da non capire quale sia il vero dono che Érebos ci ha fatto, ma non temere. Io saprò gestirlo meglio di quanto tu potresti mai fare in mille anni della tua esistenza.»

Alekos-uomo aggrottò la fronte, a quelle parole, non sapendo cosa volesse dire la sua controparte, ma temendone oltremodo le implicazioni.

La divinità che era in Alekos si avvicinò lesta a lui e, risollevandogli il volto reclinato, lo fissò pieno di pietà e disse: «Non abbatterti. Ti libererò dal peso che ti porti e farò ciò che avrebbe dovuto essere fatto fin dall’inizio.»

«Cosa intendi dire?» mormorò l’Alekos uomo, insospettendosi.

«Per diventare il dio della giustizia quale dovevo essere fin da quando nostra madre ci creò, non posso avere il peso della tua umanità a trascinarmi nell’abisso ogni volta. Certe azioni, per essere giuste fino in fondo, comportano un necessario costo, e tu mi impediresti di attuare ciò che deve essere fatto, quindi eliminerò da me stesso il mio lato umano e sarò dunque perfetto.»

Ciò detto, levò una mano – ora armata di spada – e, con fierezza, calò il colpo.

 

 

 

 

N.d.A.: Alekos-divinità riuscirà nei suoi intenti, o la sua parte umana (in tutti i sensi) riuscirà in qualche modo a fermare il colpo vibrato contro di lui?

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 54
*** Alekos - 1 - ***


Alekos – 1 –

 

 

 

La lama serpeggiò ferale nell’aria, emettendo un sinistro sibilo di morte. Alekos immaginò sarebbe stato l’ultimo suono che avrebbe udito prima di venire assorbito dalla spada, che altro non era se non l’emanazione della divinità che aveva innanzi.

In un istante, mille e più immagini balenarono nella sua mente terrorizzata e, nel chiudere gli occhi prima di prepararsi al dolore della morte, mormorò: «Addio, madre.»

Il clangore del metallo che cozza contro altro metallo, però, lo portò a riaprire gli occhi e, sgomento quanto sorpreso, si ritrovò a fissare la schiena alata di una donna che, coraggiosa, si era interposta per salvarlo.

L’attimo seguente, risalendo con lo sguardo fino a sfiorare il volto a lui ben conosciuto di colei che lo aveva strappato alla morte, Alekos esalò: «Eris!»

«Stai bene, agápi?» mormorò la donna, reggendo bene il colpo inferto dalla divinità di Alekos.

Lui assentì prima di notare altro, in lei.

Sul volto di Eris erano evidenti strani simboli nerastri, apparentemente tatuati sulla sua bianca pelle e, meglio osservando, Alekos li scorse anche sui suoi avambracci e sulle mani.

Le ali, nere e imponenti, ricordavano quelle di Deimos e Phobos, pur se erano molto più ampie e lucenti e, anche in quel caso, per Alekos furono un’autentica novità.

Nel complesso, Eris appariva vendicativa e pericolosa, esattamente come i miti l’avevano sempre descritta.

Distogliendo lo sguardo da quello di Alekos, Eris mormorò spiacente: «Scusa. Non volevo mi vedessi così, ma…»

«Mal trovata, Eris. Cosa ci fai qui?» intervenne la divinità di Alekos, strappandoli al loro gioco di sguardi.

Accigliandosi, la dea replicò caustica: «Prova a indovinare, pallone gonfiato che non sei altro!»

Ciò detto, scacciò con un abile gesto del braccio la spada del giovane dio, scostandosi poi all’indietro e sempre tenendo dietro di sé l’Alekos uomo.

Scoppiando a ridere, la divinità di Alekos asserì: «Gli dèi hanno davvero puntato tutto su di te? Talmente in basso, si sono spinti? O pensavano di cogliermi di sorpresa, mandando a combattermi la creatura più infida ed egoista del pantheon?»

Eris si accigliò un poco, a quelle parole e, tra sé, cercò di rammentare a se stessa che, colui che le stava innanzi, non era il giovane a cui si era affezionata, ma solo l’emanazione nuda e cruda del potere divino in suo possesso. Scevro di controllo, scevro di pietà, scevro di amore.

Pura potenza, senza alcun pensiero umile a consigliarlo, a portarlo a più miti decisioni.

«Dovrai fare meglio di così, ragazzino, poiché io ho alle spalle millenni di nefandezze e di cattiverie e, prima che tu possa intaccare il mio amor proprio, ce ne vorrà» replicò beffarda la dea, falciando l’aria con la sua spada di nero acciaio siderale.

La divinità di Alekos, però, le rise in faccia, replicando sardonico: «Credo, invero, di aver fatto l’unica cosa in grado di indebolirti, invece. Costringerti a mostrare il tuo vero volto a questo ragazzo, a cui tu vuoi tanto bene, potrebbe significare la tua sconfitta.»

Eris strinse i pugni per la rabbia, ben sapendo quanto, quell’affermazione, fosse vera ma l’Alekos-uomo, prevenendo qualsiasi risposta da parte della dea, esclamò: «Eris non mi spaventa! Non mi ha mai spaventato!»

La divinità di Alekos lo fissò serafico, ribattendo: «Sei troppo debole per poter impicciarti di questa faccenda. Lascia che sia io a guidare il corpo che Érebos salvò dall’oblio e credimi, tutto andrà per il meglio. Riporterò l’equilibrio nel mondo, grazie alla giustizia che donerò agli uomini.»

«Ma a che prezzo?!» protestò l’Alekos-uomo. «Ora che ho i pensieri sgombri dal tuo chiacchiericcio continuo, posso vedere dove mi avresti portato! Non puoi pensare davvero che la giustizia possa fare tutto quello che vuole!»

«La giustizia è luce, e la luce predominerà sempre! Senza ombre, senza oscurità, essa porterà il bene supremo ogni dove!» esclamò per contro la divinità di Alekos, levando nuovamente la spada per colpire.

Eris, allora, allontanò con una spinta l’Alekos-uomo e, nel parare nuovamente il colpo dell’altro, ribatté sarcastica: «Sei troppo superbo, per essere giusto. Mi sa che hai perso qualche lezione di educazione civica, a scuola.»

«A te non è concesso parlare, Discordia! Tu sei l’antitesi stessa di tutto ciò che io sono e diverrò, perciò non meriti di vivere nello stesso mondo che io illuminerò con il mio sapere e la mia giusta mano!» esclamò la divinità, ingaggiando con la dea una furiosa battaglia a fil di spada.

Eris lasciò perdere le parole e replicò ai colpi della divinità di Alekos, stando ben attenta a tenerlo sempre lontano dal giovane che stava tentando di proteggere.

Le era occorso molto per riuscire a domare i marosi psichici che l’avevano tenuta lontano dalla parte più profonda dell’inconscio di Alekos ma, alla fine, era giunta ove lui aveva più bisogno.

Vedere quei due Alekos, l’uno smarrito e tremebondo, l’altro bellissimo ma glaciale, l’aveva lasciata senza parole per alcuni istanti, prima di porle di fronte il problema in tutta la sua triste realtà.

Il subconscio di Alekos si era infine scisso, e le due parti del giovane erano entrate in conflitto per il predominio.

Facendo ricorso a tutte le sue energie, e lasciando che la parte più oscura e pericolosa di lei fuoriuscisse per darle la forza necessaria, si era lanciata tra i due per parare il colpo di spada dell’Alekos-divinità. Così facendo, aveva però esposto allo sguardo dell’Alekos-uomo ciò che, da sempre, lei aveva voluto tenere nascosto.

Ogni glifo sulla sua pelle, ogni solco che ne segnava le carni, era il retaggio di ciò che aveva commesso nel corso della sua lunga esistenza ma forse, proprio ciò che l’aveva sempre fatta vergognare, ora li avrebbe salvati.

Se fosse stata meno forte, meno consapevole del sapore della sconfitta e della solitudine, avrebbe probabilmente fallito. Lei era Eris, la dea della Discordia, certo, ma altresì colei che spronava al raggiungimento dei propri ideali.

Ora, doveva soltanto ricordare le parole di Dioniso, e spronare se stessa a non cedere.

«Non hai la più pallida idea di cosa voglia dire avermi sfidato, pivello!» ringhiò a un certo punto Eris, levando la mano libera dalla spada per colpire la divinità di Alekos con la sua oscurità.

Il giovane dio gridò irritato quanto terrorizzato ed Eris, approfittando di quel momento, si volse a mezzo per controllare che l’altro Alekos stesse bene.

Lei era ciò che era, e non doveva più nascondersi dietro a false illusioni o assurdi pregiudizi. Luce e tenebra dovevano convivere, perché il mondo potesse esistere, perciò lei aveva tutto il diritto di camminare a testa alta, al pari degli altri.

«Stai bene?»

Alekos assentì, lo sguardo turbato e puntato sull’altro se stesso, ancora impegnato a districarsi dalle fiamme nere in cui era stato avvolto da Eris.

«Si libererà, vero?» mormorò il giovane, tornando a guardare Eris.

La dea non vide repulsione, nei suoi occhi, né paura, solo un profondo sollievo all’idea di non essere più solo e in compagnia di quell’essere che non rassomigliava affatto all’Alekos di sempre.

«Certo che si libererà. La sua luce è indispensabile, per l’universo» replicò Eris, sgomentandolo.

«Io, però, non voglio che sia così. Preferirei morire, piuttosto che vedere ogni cosa soggiogata dalla sua visione distorta del mondo» scosse con veemenza il capo Alekos.

«Se tu morissi, morirebbe anche lui, perché l’uno non può vivere senza l’altro. Inoltre, daresti un dolore a troppe persone, anche a me, e non credo che tu lo voglia davvero» sottolineò per contro Eris.

Alekos storse il naso, replicando: «Dovrei lasciarlo fare, allora? Da quel poco che ho compreso, ha tutta l’intenzione di prelevare tutto il potere insito nel filato di Érebos per portare avanti le sue intenzioni.»

Sospirando, Eris scosse il capo e mormorò: «Te lo ha dunque detto.»

Il giovane assentì spiacente, replicando: «Ha sacrificato moltissimo, per me, e io non credo di avergli mai fatto capire quanto gli volessi bene.»

La dea allora lo irrise, ribattendo: «Ora sembri un bambino delle elementari. E’ davvero così poca la stima che hai di te stesso, e del rapporto che hai con tuo padre? Devo dunque dare ragione al pallone gonfiato, e pensare che tu non hai il diritto di parlare in questa diatriba metapsichica?»

Alekos poggiò sulla dea due occhi pieni di risentimento, prima di rendersi conto di ciò che Eris aveva sapientemente fatto.

Sbuffando, perciò, disse: «Adesso capisco quale fosse il tuo gioco, quando punzecchiavi le persone perché dessero il meglio di loro… ma, onestamente, fa anche un po’ male.»

«Deve fare male, altrimenti non ti sentiresti spinto a smentirmi in tutto e per tutto, e non daresti un peso reale a ciò che devi compiere» sottolineò la dea.

Alekos assentì, sollevò una mano per sfiorare il viso di Eris in corrispondenza dei glifi oscuri e, nel sentirli turbinare sotto le dita, mormorò: «Sono una rappresentazione fisica della discordia?»

«Sì» disse soltanto lei. Nonostante tutto, il suo giudizio le faceva ancora paura.

Lui però le sorrise, seguì con un dito la linea scura che le solcava la gota e scese fino alla sua spalla, ove si fermò. Lì, la mano si allargò per poggiarsi delicata e, contrito, il giovane disse: «Scusami, per quello che è successo al tempio. Non ero evidentemente in me.»

«Credo di iniziare a capire cosa stessi cercando di fare» replicò la dea, lanciando un’occhiata alla divinità di Alekos che, nel frattempo, si era quasi del tutto liberata dalle fiamme oscure.

Annuendo, Alekos asserì mesto: «Il mio subconscio sapeva che la tua oscurità lo avrebbe rallentato, ma ho scelto davvero il modo più sbagliato, per ottenerla.»

A quel punto, Eris ammiccò e disse per contro: «Non mi sarebbe spiaciuto… ma solo se fossi stata certa del fatto che eri tu, a volerlo, e non il tuo subconscio disperato.»

Il giovane si liberò in una risata, rasserenato dalle parole di Eris e, nell’osservare il se stesso pervaso dall’energia Ctonia di Érebos, mormorò: «Come posso dominarlo, io che sono solo uomo?»

«Lo faremo insieme. Sono qui per questo, ora l’ho capito» replicò la dea, sorridendogli. «Soltanto… dovrai accettarmi nella tua vita, così che luce e tenebra siano finalmente in equilibrio.»

Alekos sgranò lentamente gli occhi, di fronte a quelle parole e al loro reale significato e, nell’osservare il suo lato divino, dichiarò: «La luce ha bisogno dell’oscurità, per prosperare…»

«…e l’oscurità ha bisogno della luce, per sopravvivere. Più la luce è vivida, più le ombre diventano forti. Se tu combini queste due cose al fatto di avere a disposizione i poteri Ctoni di Érebos, ottieni una bomba a orologeria pronta a esplodere. Questo ha creato disequilibrio, ma noi lo riporteremo sulla retta via» terminò per lui Eris, sollevando nuovamente la spada quando la divinità di Alekos si liberò dalla fiamma.

Il giovane umano annuì alle sue parole, mormorando: «Per operare nel bene, devo conoscere anche il male in tutte le sue sfaccettature, e accettarlo per quello che è.»

Eris assentì, aggiungendo: «La tua Pallade può essere sia una cacciatrice che un’adorabile amica, no?»

«Sì» sussurrò soltanto Alekos, stringendole la mano libera. «Posso ringraziarti, Eris?»

«Fallo, e ti prenderò a calci nel sedere» replicò la dea, facendolo scoppiare a ridere.

«D’accordo, eviterò. Cosa devo fare, ora?» le domandò a quel punto.

«Dovrò recidere il filo della tua vita, e farà un male dell’inferno, sappilo. Ma durerà poco, te lo prometto» gli disse lei, lasciandogli il tempo di digerire il significato più profondo di quelle parole.

Lui assentì lentamente, deglutendo a fatica e, nel tornare a fissare il suo alter ego, disse: «Tratterrò il respiro più che potrò.»

«Ti converrà, o ti perseguiterò a vita nell’Oltretomba, e non credo che Ade mi voglia come coinquilina» ghignò Eris prima di attirarlo a sé per sussurrargli: «Lasciati colpire dalla sua spada. Ella ti assorbirà, così potrò recidere meglio il filo.»

«Non voglio che lui ti faccia del male, però» protestò Alekos, abbracciandola.

Lei accettò l’abbraccio, ne trasse forza ma replicò: «Siete due pivelli, al mio confronto. Vi batterò senza problemi.»

Ciò detto, Eris lo lasciò andare ed esclamò: «Vediamo se riesci a battermi, smidollato che non sei altro!»

«Quando non avrò più lui tra i piedi, sarai la prima vittima dell’epurazione che andrò a mietere!» replicò la divinità di Alekos, falciando l’aria per colpire l’Alekos-uomo.

Eris dovete fare appello a tutte le sue forze per trattenersi dall’urlare, quando vide il giovane a cui lei era così affezionata svanire sotto il colpo dell’altro Alekos.

Il fulgore della divinità di Alekos si fece quindi più grande, una volta riavuto il suo lato umano e averlo schiacciato dentro di sé perché non lo infastidisse più. Ora, era ciò che aveva sempre desiderato; un essere completo senza più inibizioni.

Il ghigno di Alekos si fece via via più grande ed Eris, nonostante tutto, ne ebbe paura. Dopotutto, si parlava pur sempre del potere di un dio Ctonio, pur se dimezzato, e lei era nettamente inferiore a esso.

Avrebbe dovuto giocare d’astuzia e sfruttare la sua vanità, oltre che la sua inesperienza.

«Non hai più scampo. Qualsiasi cosa vi siate detti, qualsiasi piano abbiate congegnato, non funzionerà, perché io ti sono superiore in tutto, ed eliminerò ciò che non avrebbe mai dovuto nascere. L’oscurità non può albergare nei cuori delle genti, perché la luce prosperi, così io eliminerò te prima di chiunque altro, e riporterò l’ordine» dichiarò Alekos, puntando la propria spada contro Eris.

«E’ tutto da vedersi, sbarbatello. Se non hai ancora capito che ogni cosa, nell’Universo, deve avere un suo eguale e contrario, allora non meriti la divinità che ti è stata donata con tanto amore» replicò la dea, attaccandolo per prima e cercando di non pensare che, dinanzi a sé, si trovava colui che era venuta per salvare.

D’altronde, l’unico modo che aveva, e che doveva essere fatto, era quello di recidere il suo filo della vita, così che potesse sostituirlo con un altro, meno potente ma più gestibile da un semidio quale Alekos era.

Per farlo, però, doveva avvicinarsi a sufficienza per reciderlo e, al tempo stesso, non doveva venire uccisa dall’unica creatura in grado di farlo; una divinità Ctonia con i poteri di Érebos.

***

La stella che era Alekos era diventata ormai brillantissima, e pulsava come una creatura vivente in procinto di nascere. Dioniso la osservava con l’orrore negli occhi, ben conscio che quell’abominio non era il tenero ragazzo che tutti loro avevano conosciuto, ma qualcosa di mani visto né conosciuto.

Quell’essere dai poteri immensi era la personificazione di una nuova divinità fuori controllo, di un potere primigenio così forte che, al solo contatto con la superficie terrestre, avrebbe portato distruzione ogni dove.

Un autentico diluvio universale, un’estinzione di massa come al tempo dei dinosauri, un cataclisma tale da cambiare per sempre gli equilibri sul pianeta.

Quello non era Alekos.

«Cosa sta succedendo? Perché avverto sempre più potere?» domandò preoccupato Dioniso.

«Alekos ha inglobato la sua parte umana, schiacciandola dentro di sé e asservendola al proprio dominio» gli spiegò Chaos, sgomentandolo.

«Dunque… Eris non è riuscita a salvarlo?» esalò sgomentò il dio.

Chaos scosse il capo, replicando: «Affatto. Credo che Eris abbia colto perfettamente ciò che deve fare, ma ora viene la parte più difficile. Per quanto Alekos possegga solo metà del filato di Érebos, stiamo comunque parlando del potere di una divinità Ctonia, che è immensamente più grande rispetto a quello di Eris, che è una dea minore.»

«Dea… minore? Eris è la dea più potente, cazzuta e infida che io conosca! Non venirmi a dire che è inferiore!» sbottò Dioniso, piccato.

Chaos, allora, lo fissò pieno di divertimento e replicò: «Non riesco davvero a capire se siano insulti o complimenti, i tuoi.»

«Assolutamente complimenti» sottolineò Dioniso, come se non valesse neppure la pena di spiegarlo.

Chaos si limitò a scuotere il capo, chiaramente perplesso, e dichiarò: «Hai un modo davvero contorto di esprimente il tuo apprezzamento per lei.»

«Perché non stiamo parlando di Afrodite, o di una qualsiasi altra dea del pantheon. Qui si parla di Eris» specificò Dioniso, tornando a scrutare la stella luminescente con espressione turbata. «Visto che Alekos ha il potere di una divinità Ctonia, potrebbe… ucciderla?»

«Sì.»

Chaos non disse altro, e a Dioniso non servì. Persino uno come lui sapeva fare due più due… anche se aveva sempre preso tre in matematica.

«Giuro che, se ti fai ammazzare, troverò il modo di assillarti per sempre, Eris» brontolò a bassa voce Dioniso, stringendo le mani a pugno fino a farsi sanguinare i palmi a causa delle unghie conficcate nella carne.

***

Atropo osservava turbata i filati di coloro che erano impegnati nella battaglia finale e, nello sfiorare il fuso di Alekos, la dea avvertì chiaramente un cambiamento sostanziale.

Cambiamento che attirò lo stesso Érebos nella stanza ove la figlia aveva riposto quei particolari filati, a cui lei stava prestando un’attenzione maniacale ormai da giorni.

«Padre, perché non sei con Athena?» sospirò la dea, scuotendo il capo e ponendosi prudenzialmente dinanzi al filato di Érebos.

L’attimo seguente, la dea della guerra fece a sua volta capolino nella stanza e Atropo, spiacente, mormorò: «Venire qui vi farà soltanto soffrire di più.»

«Preferisco seguire la vicenda da qui» replicò la dea, osservando i filati con aria stanca e preoccupata assieme. «Ancora nulla?»

Atropo indicò un filato in particolare, dalla brillante trama dorata divisa su due spolette diverse. Una delle due spolette stava convogliando sempre più filo verso la propria parte, mentre l’altra stava progressivamente diminuendo.

La dea non dovette dire nulla, in merito. Il significato era più che mai eloquente.

Érebos annuì debolmente, a quella vista, vedendo confermate unicamente le sensazioni avvertite fin lì in quei giorni così concitati.

«E’ Alekos che sta prosciugando il mio potere. Giusto?»

Atropo assentì sotto lo sguardo sconcertato di Athena che, sconvolta, esalò: «Come può pensare di farti del male?!»

Lachesi li raggiunse silenziosa all’interno della saletta e, nell’osservare spiacente la dea della guerra, disse: «Lui pensa soltanto ad accumulare potere per la sua missione sulla Terra, ora come ora. Non ha più scrupoli di alcun genere, poiché la fiamma umana dell’animo di Alekos è stata soffocata.»

Ciò detto, le indicò il filato incriminato, mostrandole un filo in particolare, divenuto particolarmente opaco e flebile.

«Érebos… non puoi fare nulla per fermarlo?» mormorò preoccupata Athena, afferrando a un braccio l’amato.

Ecco dunque spiegato il suo pallore crescente! Athena se n’era chiesta i motivi ma, troppo turbata per le sorti del figlio, non aveva chiesto lumi.

Scoprire che proprio suo figlio stava causando la morte del suo amato, la metteva nella difficile condizione di non sapere che dire, né che fare.

«Se usassi il mio potere per forzare a mia volta il filo, potrei reciderlo nel momento sbagliato, causando la morte di Alekos» replicò lui, spiacente.

La dea aggrottò la fronte, di fronte a quella risposta, ribattendo confusa: «In che senso… nel momento sbagliato

«E’ solo un’ipotesi, seguita ai tanti studi che ho fatto ma credo che, in un modo o nell’altro, Alekos dovrà morire» sospirò il dio Ctonio, sorreggendo preventivamente l’amata.

Athena si aggrappò a lui con tutte le forze, cercò di non lasciarsi andare al panico più nero – ben sapendo che, molte delle parole dette da Érebos, non andavano prese alla lettera – e mormorò roca: «Come? E perché?»

La divinità Ctonia si limitò ad abbracciarla e Atropo, nel carezzare la schiena della dea tremante, sussurrò: «Nessuno di noi può saperlo. Il filato si sta dipanando lungo una nuova via, e neppure io ne conosco la fine. Ma so che c’è un solo modo per salvare la situazione, e questo evento non si è ancora verificato.»

Ciò detto, divenne muta e Athena dovette accontentarsi di quella risposta nebulosa. Se neppure le Tessitrici di Destini conoscevano l’esito della battaglia, lei non poteva che attendere in silenzio, stretta nell’abbraccio consolatorio dell’uomo che amava.

Ammesso e non concesso che Alekos le permettesse almeno questo.


 

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Capitolo 55
*** Alekos - 2 - ***


 

2.

 

 

 

 

 

Alekos era dannatamente bravo nel vibrare colpi con la sua spada rilucente ed Eris, che pure era abituata a combattere, cominciava a sentire la fatica di quel duello.

Menare fendenti contro colui che voleva salvare le riusciva difficile ma, al tempo stesso, sapeva di dover recidere il filo della vita di Alekos, per poterlo liberare dal potere devastante che lo stava divorando.

Il punto era un altro: come affondare la lama nel suo cuore, se le sue difese sembravano impenetrabili?

Scansando l’ennesimo affondo, Eris si allontanò di qualche passo, il fiato ormai corto e le risorse al lumicino. Aveva tentato di tutto, fatto appello a tutte le sue conoscenze in fatto di scherma e di trucchi, ma nulla era servito per sfondare le sue difese.

Sorridendo trionfante, Alekos a quel punto asserì: «Ti vedo sfiancata, Eris. Ammetti di avere dunque perso? Sei pronta alla resa finale?»

«Prima di poter apporre la parola ‘fine’ sul mio capo, dovrai sudare ancora parecchio, ragazzo. Inoltre, è necessario che io prima faccia una cosa e, finché non l’avrò fatta, tu dovrai sopportare la mia compagnia» replicò la dea, beffarda.

Accigliandosi leggermente, il giovane dio sbottò dicendo: «Non capisco di cosa tu stia parlando. Niente rimane più da compiere. Il lato umano di me che, per anni, mi ha combattuto, ora è al mio comando, esattamente come avrebbe dovuto essere fin dal principio, e ora nulla mi vieta di portare la giustizia che il mondo brama.»

«Come può esservi giustizia, se stai depredando il potere di Érebos per avere la meglio su di me?!» lo accusò Eris, accigliandosi. «Pensi non me ne sia resa conto? So riconoscere la sua onda energetica, e tu la stai usando spudoratamente, in barba a colui che ti concesse di vivere!»

Alekos si dimostrò imperturbabile, replicando pacato: «La giustizia prevede anche dei sacrifici, a volte, per poter giungere dove deve arrivare. Érebos capirebbe, se fosse qui con noi. La sua oscurità diverrà luce, nelle mie mani, e il suo sacrificio non sarà vano. Io lo rammenterò con amore, e lo stesso faranno gli altri.»

«Lui ti direbbe di smetterla, perché la parte più bella di te è sempre stata l’amore umile per gli altri, non il tuo potere di asservire tutti al tuo distorto senso della giustizia!» replicò Eris, sollevando nuovamente la spada per tornare ad affrontarlo. «E’ sempre stato il tuo lato umano a renderti forte, non il tuo lato divino!»

«Tutte sciocchezze. L’umanità che era in me mi limitava nelle scelte e nelle azioni, perché mi poneva dubbi che ora non ho più. C’è bisogno di azioni forti, di fronte all’oscurità dilagante che impregna il mondo come un morbo» si limitò a dire Alekos. «Tu sei parte del problema perciò ti eliminerò, poi passerò ad altro.»

«Stando a ciò che dici, è stato giusto forzare il rapporto tra Zeus ed Era, costringere con l’inganno Ares a condurti da Dioniso, rendere schiavi Homados e Proioxis perché fossero le tue arpie da compagnia… tutto ciò ha un senso, quindi?» lo accusò Eris, parando un suo affondo prima di replicare con una stoccata.

Alekos rise divertito, replicando: «Non siete tutti più felici, ora che Zeus ed Era vanno d’accordo? Non si vive dunque meglio? Anche tu, Discordia, non hai gioito nel tuo cuore oscuro, di fronte a due genitori finalmente riuniti? Cosa v’è di male, in tutto questo?»

«Non agiscono coscientemente! E’ una falsità dettata dal tuo inganno!» gli ritorse contro lei.

«Stando alle tue accuse, pensi anche che abbia fatto del male a Homados e Proioxis, giusto?» le rinfacciò allora lui, gelido in viso.

Eris sospirò nello scuotere il capo e disse contrariata: «Non sto dicendo che hai fatto loro del male, ma li hai privati della loro libertà di scelta. Così come sei intervenuto per cambiare la prospettiva di Zeus ed Era, così hai deformato la visione del mondo delle mie arpie, obbligandole a seguirti e facendo credere loro di stare agendo in piena coscienza.»

«Meritano un dio probo e retto. Sono animali splendidi, e devono stare con chi può elevarle, non renderle simbolo di impurezza e crudeltà» si limitò a dire Alekos con una scrollata indifferente delle spalle.

«Non riesci a capire» mormorò Eris, addolorata.

Il giovane dio sbuffò spazientito, ormai irritato dal suo dire. «Sei tu che non capisci, se anche le mie azioni nel tempio di Dioniso ti sono sembrate oscure. Possibile che tu non comprenda che, se l’amore e la gioia imperano, non può esservi oscurità?»

«Ritieni che Dioniso e le sue baccanti siano la risposta al dolore e alla rabbia del mondo, dunque?» esalò Eris, sconcertata.

«Se guidati dalla mia saggia mano, possono e potranno essere una risposta. Una delle tante, a ben vedere. Dioniso eleva la gioia, non l’oscurità, perciò si asservirà a me e sarà il mio lungo braccio, al pari di Apollo e di Zeus stesso» le spiegò con semplicità Alekos, sorridendo sprezzante.

Scuotendo il capo, la dea replicò: «L’ebbrezza conferisce una gioia effimera e, se conoscessi Dioniso come lo conosco io, te l’avrebbe detto lui stesso. Essa aiuta a sfuggire temporaneamente alla paura, ma non la cancella. Perciò, non otterresti che menzogne, chiedendo supporto a lui.»

«Chiedere… supporto?» la irrise Alekos, scoppiando in una risata incredula. «Non avrò bisogno di chiedere nulla. Userò i poteri di Dioniso per portare gioia laddove servirà, e così sarà per gli altri. Eleverò mia madre a regina, poiché ne ha l’intelligenza e la bellezza, e troverò per lei un compagno degno che sieda al suo fianco.»

«Tu sei folle» ansimò sgomenta Eris, facendo tanto d’occhi.

«Te l’ho già detto. A fronte di un risultato positivo, si deve pagare un prezzo per ottenerlo e, se il prezzo è l’asservimento, ci può stare. Nessuno di coloro che tu hai citato – disprezzandomi – sta soffrendo, questo devi ammetterlo, e nessuno soffrirà in futuro, te lo posso assicurare. Staranno tutti benissimo, sotto il mio controllo forte e sicuro.»

Eris allora scosse il capo, lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi e disse atona: «E’ proprio vero che, senza dualismo, non c’è equilibrio.»

Alekos sorrise vittorioso, di fronte alla sua palese rinuncia e, correndo verso di lei a spada sollevata, esclamò: «C’è un’unica verità… non è necessario avere una seconda opinione!»

«Come ti sbagli…» sussurrò lei, chiudendo gli occhi.

Il giovane dio si disinteressò delle sue ultime parole e, con un ghigno, affondò la lama nel fianco della dea, portandola a urlare per il dolore.

Eris si era aspettata una fitta cocente, un suppurato violento di stimoli nervosi verso il cervello ma, quando la lama penetrò nelle sue carni, lo shock fu comunque devastante.

Piegandosi in avanti per il dolore, ma trattenendo la lama dentro di sé per poter avere Alekos a portata di mano abbastanza a lungo per poter portare a termine il suo piano, lei sussurrò roca: «L’unica verità che vedo, ragazzino, è che la tua superbia ti ha fatto dimenticare chi hai davanti.»

«Cosa?» ansimò Alekos, confuso dal suo dire.

Trattenendo la spada con la mano e lasciando affondare la lama nel palmo, Eris si aprì in una perfida risatina di scherno, aggiungendo: «Discordia ha sempre un asso nella manica, non lo sai?»

Ciò detto, levò la mano libera – ora armata di stiletto – e, senza più dire nulla, affondò la lama nel cuore di Alekos, recidendo in modo netto il filo dell’esistenza del giovane dio.

Solo ora capiva perché Érebos le aveva spiegato la verità su Alekos, anni addietro, dando proprio a lei i mezzi per abbattere un dio pur non essendo una divinità Ctonia.

Solo ora comprendeva il motivo per cui Moros le aveva dato quella lama, poco prima di cadere nel regno di Chaos, racchiusa in un involto in cui il dio le spiegava come – e perché – utilizzarla.

Una lama forgiata dalle fiamme del monte Etna e plasmata dalle mani di Efesto, intrisa della forza delle saette di Zeus e imbevuta dell’oscurità primigenia di Érebos, poteva compiere ciò che solo un dio Ctonio era in grado di fare.

Quella stessa lama, anni addietro, avrebbe potuto recidere la vita di Hermes ma, solo grazie alla forza dello psicopompo, ciò non era avvenuto.

Ora, con quella lama, Moros le aveva consegnato tutte le sue speranze, dei preziosi consigli su come sferrare l’attacco decisivo, ma anche una serie di ammonimenti.

Già sapendo cosa avrebbe dovuto fare, dopo il colpo finale.

Già sapendo che lei sarebbe stata abbastanza forte per farlo, ma non sapendo se avrebbe accettato di compiere l’estremo gesto di mettere a rischio la propria esistenza per qualcun altro.

Lasciata scivolare fuori dal proprio corpo la lama di Alekos, mentre fiotti di sangue le imbrattavano l’abito, indebolendola poco alla volta, Eris accompagnò a terra Alekos, gli occhi sgranati per la sorpresa e lo sbigottimento.

«Qualsiasi divinità deve avere una controparte che le dica quando fermarsi. Non può essere univoca. Mai» sussurrò Eris mentre il subconscio di Alekos si sgretolava, liberandoli dal turbinio che fin lì li aveva accolti.

Dinanzi a loro, immobili e in attesa, Chaos e Dioniso li fissarono senza proferir parola ed Eris, sapendo di non avere molto tempo, lasciò Alekos in consegna a Dioniso e disse: «Esci dopo di me. Prima, devo fare ancora una cosa.»

«Ma… la tua ferita…» tentennò Dioniso, restio a lasciarla sola.

Lei gli sorrise grata, gli diede un pizzicotto sulla guancia e asserì: «Sono più coriacea di quanto tu non creda. Un minuto, okay? Dopo, esci da Chaos.»

Lui assentì muto e, in un baleno, Eris trasmutò per andarsene da lì.

A quel punto, con un esanime Alekos tra le braccia, Dioniso guardò Chaos in cerca di spiegazioni e domandò spaventato: «Dovrà morire, questa volta?»

Chaos non disse nulla, limitandosi a poggiare una mano sul capo di Alekos, ripiegato come una bambola di pezza contro il torace di Dioniso. Eris aveva davvero avuto ragione, ad andarsene in tutta fretta; trastullarsi con i filati della vita era rischioso, ma lì si stava davvero giocando con il fuoco.

***

Un coro di stupore, meraviglia, panico e confusione si levò tra i presenti quando Moros, a sorpresa, levò un lembo del mantello per far passare Eris, chiaramente ferita ma dall’aspetto piuttosto pericoloso.

Zeus fu il primo a muoversi, chiaramente desideroso di aiutarla, ma lei levò una mano per scansarlo, esclamando: «Dov’è Atropo? DOVE?!»

Ciò detto, fissò letale Hermes e ringhiò: «Non osare muoverti, piè alato, o giuro che…»

Hermes però la bloccò sul nascere, sollevò un polso legato strettamente a una delle colonne del tempio e sbottò dicendo: «Perché credi che sia legato?! Nessuno si fida di uno psicopompo, in situazioni simili!»

Sbuffando, Eris si guardò intorno turbata, ma Artemide le disse lesta: «Thanatos è impegnato altrove. Fai ciò che devi fare e non temere. Alla peggio, lo placcheremo noi, se i tempi si faranno lunghi.»

Eris allora annuì e, nel vedere Atropo affacciarsi da una porta, la raggiunse con andatura caracollante, incespicando nei propri piedi – bagnati del suo stesso sangue e perciò divenuti scivolosi.

Quasi abbattendo la porta, fissò il fuso di Alekos e poi il proprio quindi, rivolto uno sguardo a Érebos, annuì senza dire nulla e si apprestò a fare quanto aveva ormai deciso.

Chiaramente turbata dall’entrata a sorpresa della sorella, Athena la raggiunse in fretta per sorreggerla e, ansiosa, le domandò: «Cosa dobbiamo fare?»

Eris prese un gran respiro, guardò Lachesi e Atropo e ordinò torva: «Il mio filato. Dividetelo in due e ponete metà del filo sul fuso di Alekos. ORA!»

In fretta, le due dee si affrettarono a fare quanto ordinato loro, mentre Cloto badava a sistemare il filato del padre, nuovamente integro e brillante.

Non appena i due filati ripresero a muoversi sui rispettivi fusi, Eris ebbe un contraccolpo fisico e Athena, sorreggendola maggiormente, esalò: «Avrei potuto donare il mio!»

Eris, allora, scosse il capo, sorrise sorniona al dio Ctonio che la stava osservando apprensivo e replicò: «Fatti dare la spiegazione metafisica dal tuo uomo. Io posso solo dirti che Alekos ha bisogno di una parte della mia oscurità, per gestire la sua luce. Ecco tutto.»

Athena, per diretta conseguenza, guardò il suo compagno che, nell’avvicinarsi alle due dee, poggiò una pezzuola sul fianco sanguinante di Eris e si limitò a dire: «Può andar bene la spiegazione di Eris.»

Un secondo grido collettivo spazzò via qualsiasi intenzione di Athena di chiedere altro e, quando vide comparire suo padre con un sorriso da orecchio a orecchio, comprese.

Alekos era tornato.

Prima ancora di poter fare qualsiasi cosa, però, la dea gridò sgomenta quando Eris, ormai priva di forze, le crollò tra le braccia, non reggendo più la perdita di sangue dalla ferita.

Érebos si mosse quindi lesto per aiutare Discordia e, presala tra le braccia, la portò fuori dalla sala dei fusi, subito seguito a ruota dalla compagna e dalle figlie.

I presenti, raccolti attorno a un redivivo Alekos per felicitarsi del suo ritorno, ammutolirono di fronte alla visione di Eris, ora del tutto priva di conoscenza ed Érebos, senza perdere tempo, guardò Apollo e ordinò stentoreo: «Con me! E chiama Esculapio, perché avremo bisogno anche di lui.»

Apollo assentì rapido, trasmutandosi al pari di Érebos dopo aver lanciato un’occhiata incoraggiante a un turbato Alekos, giustamente preoccupato per colei che lo aveva salvato.

Quando il trittico si fu trasmutato altrove, Athena si concesse il lusso di abbracciare piena di sollievo sia Alekos che Dioniso ma il figlio, troppo teso per rimanere inerme tra le braccia della madre, si scostò e domandò turbato: «Dove sono, ora? Ti prego, dimmelo.»

«Sono nel tempio di Apollo. La cureranno lì» lo informò lei, carezzandogli il viso. «Non sentirti in colpa, Alekos, davvero.»

«L’ho ferita io, mamma, non qualcun altro perciò, se lo permetti, mi sentirò in colpa, e anche molto» sospirò Alekos, stringendo le mani a pugno per la frustrazione. Non sopportava che le persone a lui care dovessero continuamente soffrire a causa sua.

Athena non seppe che dire, per tirarlo su di morale, ma pensò Dioniso a scuoterlo.

Il dio lo prese per un braccio, livido in viso, e dichiarò lapidario: «Lei si è sbattuta per salvarti, e ora tu fai la lagna? Non hai imparato nulla, da tutto questo casino?»

«Dioniso…» esalò Hermes, scuotendo il capo per richiamarlo all’ordine.

«No, amico mio, non starò zitto. Non stavolta. Alekos deve imparare a gestire la sua nuova vita, perciò si deve scornare con le conseguenze delle sue azioni! Dovrai accettare anche l’oscurità generata da te stesso, se non vorrai causare altri guai! E ora, andiamo da lei!»

Ciò detto, si trasmutò con il giovane e Artemide, sbattendo le palpebre al pari di diverse altre divinità, esalò: «E chi lo sapeva che Dion era così determinato?»

Diversi dèi si limitarono a un’espressione di totale confusione mentre Athena, sorridendo spiacente all’anima di Miguel, esalava: «Scusa. Non c’è stato tempo perché vi parlaste.»

“Non importa. Avrebbe comunque potuto rimanere ben poco, qui. Sai come sono le regole. Ma mi fa piacere averlo visto e, quando Eris starà meglio, vorrei le dicessi di venire da me. Mi piacerebbe ringraziarla di persona per aver salvato nostro figlio ed Érebos.”

«Sarà intrattabile per mesi, dopo una ferita simile» lo avvisò Athena.

“Non ho fretta. Tanto, non vado da nessuna parte” ironizzò Miguel, facendola scoppiare a ridere.

«Molto bene, signori… ora che la crisi è passata, vedete di sloggiare alla svelta!» esclamò a quel punto Cloto, battendo sonoramente le mani. «Ci avete ridotto il tempio a un immondezzaio, e ora dobbiamo riordinare tutto!»

«Sei sempre stata una padrona di casa eccellente» ironizzò Hermes, ammiccando ad Artemide perché lo liberasse dalle sue corte magiche.

La dea silvana, a quel punto, slegò il nodo che, preventivamente, aveva stretto attorno al suo polso fin da quando Eris e Dioniso erano scomparsi e, ammiccando al fratello, chiosò: «Scusa per il trattamento, ma non potevamo rischiare.»

«Sono il primo a essere stato lieto che qualcuno ci abbia pensato. Per l’ansia, non avevo proprio badato a quel particolare e, se fossi stato libero, sarebbero stati guai» ammise Hermes. «Quando Eris ha reciso il filato di Alekos, mi sono sentito malissimo perché avvertivo il richiamo della sua anima ma, fortunatamente, lei è stata abbastanza veloce da rimettere a posto tutto.»

Artemide annuì turbata, borbottando: «Ha davvero giocato col fuoco. Se fosse svenuta prima di arrivare qui, Thanatos si sarebbe allontanato dal regno degli esseri umani per prendere il tuo posto, e allora sarebbe stato davvero difficile contenerlo.»

Quel lugubre accenno azzittì tutti gli dèi presenti che, alla spicciolata e senza dire altro, si allontanarono dal tempio delle Moire, lasciando infine la sola Athena e Moros, in compagnia delle tre Tessitrici.

La dea della guerra non poté esimersi dall’abbracciarle a turno e, in un mormorio, disse: «Grazie per ciò che avete fatto.»

«Stavolta, ne sapevamo tanto quanto gli altri, credici» replicò Atropo, pur apprezzando il ringraziamento.

«Quanto a te…» disse infine Athena, sorridendo grata a Moros. «…so che hai fatto più di quel che sembra, ma non starò qui a farti il terzo grado, visto che sarebbe una battaglia persa in partenza.»

Moros si limitò a un’alzata di spalle ma, sorprendendo tutti, la abbracciò con insolito calore e replicò: «E’ stato un piacere. Voglio bene anch’io ad Alekos.»

Ciò detto, tossicchiò imbarazzato e, con un plateale svolazzare di mantello, si trasmutò altrove, non lasciando altro da dire ad Athena, che raggiunse il figlio e il compagno nel tempio di Apollo.

***

Seduto a ginocchia raccolte poco a fianco della porta che lo separava dalla stanza di Eris, Alekos si massaggiò distrattamente il torace, in corrispondenza del punto in cui la dea lo aveva trafitto.

A ricordo di quell’atto terribile quanto necessario, si trovava una piccola cicatrice – ora rimarginata e in via di guarigione – che Esculapio aveva provveduto a bendare per ogni evenienza.

«Hai mangiato qualcosa?» domandò a un certo punto Dioniso, giungendo dal corridoio delle cucine con un carico piuttosto corposo di brocche e ciotole decorate.

Alekos scosse il capo e il dio, nel sedersi sul pavimento accanto a lui, gli offrì un bicchiere di peltro prima di lasciarvi scorrere all’interno del nettare dorato e dal profumo delizioso.

Lo stomaco di Alekos brontolò in risposta a quei profumi paradisiaci e Dioniso, ghignando, abbondò con la dose.

«Ordini del dottore. Nettare e ambrosia per una settimana» sciorinò poi con ironia il dio, prendendo per sé una manciata di ambrosia, che divorò con soddisfazione.

Alekos lo fissò curioso da sopra l’orlo del bicchiere e, non appena ne ebbe terminato il contenuto, disse: «Scusami se ti sono apparso pavido, nel tempio delle Moire, ma la ferita sanguinante di Eris mi ha davvero spaventato.»

Dioniso spallucciò in risposta, replicando: «Scusami tu. Ero ancora piuttosto turbato da tutta quella situazione assurda, per essere del tutto lucido nelle esternazioni. Non dovevo attaccarti come invece ho fatto. Dopotutto, sei passato in mezzo all’inferno.»

Alekos però scosse il capo, asserendo: «Hai fatto bene, invece. Devo imparare a gestire azione e reazione, fatto e conseguenza, … ma grazie al potere di Eris è più facile. Ora, vedo con maggiore chiarezza.»

«Cioè? Spiegati meglio» volle sapere Dioniso, offrendogli un secondo giro di nettare e una dose generosa di ambrosia.

Stringendosi le ginocchia al petto dopo aver poggiato il bicchiere a terra, Alekos si cibò di ambrosia prima di mormorare pensieroso: «Quando ero piccolo, vedevo le cose in modo confuso. Volevo che tutte le persone fossero felici perché credevo che questa fosse la cosa giusta ma, essendo un bambino, ero goffo nel mio modo di gestire il potere, perciò non riuscivo molto bene nel mettere in pratica ciò che pensavo.»

«E’ encomiabile che tu la vedessi così, ma sai che è impossibile, vero?» gli fece notare il dio.

Alekos ammiccò divertito e annuì, ma replicò con candore: «Ora ne sono più che cosciente, ma all’epoca - e crescendo è stato sempre peggio - la mia controparte divina riteneva inaccettabile che la giustizia e la luce non permeassero qualsiasi cosa, perciò percepivo ogni cosa, ogni situazione in maniera distorta.»

Levando un sopracciglio con evidente sorpresa, Dioniso gli domandò: «Lui, sì, insomma, la tua metà… ti parlava

«Mi sussurrava all’orecchio al pari di una sirena ammaliatrice e, man mano che crescevo, la cosa è diventata sempre più invadente, sempre più prepotente…» ammise Alekos. «… di contro, non potevo parlarne con mamma o papà, perché la voce mi aveva minacciato di fare loro cose terribili, se ne avessi fatto cenno con qualcuno.»

«E tu, ovviamente, le hai creduto» chiosò Dioniso.

«Col senno di poi, e visto come ha trattato Eris, credo di aver fatto bene» replicò Alekos.

«Niente da dire» ammise il dio. «Quindi, ti stava facendo il lavaggio del cervello?»

«In pratica, sì. Il mio lato umano era più debole del mio lato divino e quest’ultimo, poco alla volta, ha avuto il sopravvento su di me, portandomi a scompensi emotivi sempre più forti» gli spiegò Alekos con un sospiro. «Senza l’intervento di Eris, non avrei mai potuto riprendere il controllo.»

«E ora, come ti senti?»

«Equilibrato. Giusto, ma in senso buono. Ora vedo le cose nel modo corretto, e senza alcun problema. Gestisco il potere nel modo in cui avrei sempre dovuto» dichiarò Alekos, ora con un sorriso pieno di soddisfazione e speranza.

«Dovevi sentirti strano, oltre che piuttosto scoraggiato, nel sapere di non stare facendo le cose per bene, ma essere costretto a farle» ammise Dioniso, storcendo la bocca. «So bene cosa vuol dire, credimi.»

«La punizione di Era?» mormorò debolmente Alekos.

Dioniso assentì torvo, borbottando: «Quella vecchia strega ha insegnato bene alla figlia, non c’è che dire. Quanto a vendette subdole, ci sapeva fare. Fu assai disturbante vedere me stesso compiere stragi e violenze, del tutto consapevole delle mie azioni ma incapace di mettervi un freno a causa della sua malia.»

Alekos gli poggiò una mano sulla spalla, e subito Dioniso avvertì il tocco caldo del suo potere, stavolta frammisto al profumo fresco di qualcosa di nuovo. Sorridendogli a mezzo, asserì: «Oh… questo sì che è piacevole, ma non è disturbante come quando partecipasti al baccanale nel mio tempio. E’ l’oscurità di Eris?»

«Mi aiuta a mantenermi entro i confini del lecito. Non cerco di prevaricare la tua mente, facendoti vedere solo cose belle per cancellare il dolore, ma ti faccio sentire la mia partecipazione, il mio affetto» annuì Alekos. «Porto assieme a te il tuo dolore.»

«E’ fico. Pare tu lo sappia già usare bene…» mormorò Dioniso con un sospiro. «…come se tu e lei foste destinati a stare insieme fin dall’inizio.»

Alekos lo fissò confuso ma, prima di chiedere spiegazioni in merito al significato di quel commento, la porta della stanza si aprì e ne fuoriuscì Athena.

Sorridendo ai due, la dea si asciugò le mani in un pannetto – che poi ripose nella tasca posteriore dei pantaloni – e disse: «E’ a posto. Potete vederla, ma uno alla volta. E’ ancora debole.»

Alekos, allora, sorrise a Dioniso e dichiarò: «Vai tu. Io vorrei parlare con mia madre, prima.»

«D’accordo» bofonchiò Dioniso, penetrando nella stanza mentre anche Apollo ed Esculapio ne uscivano alla spicciolata.

Chiusosi la porta alle spalle, il dio fissò turbato la donna distesa su un enorme letto ricoperto di bianche lenzuola, ove Eris appariva ancora più pallida e stanca.

La scomposta chioma corvina era sparsa sui guanciali, mentre il viso eburneo era solcato da ombre profonde, dovute alla scarsa illuminazione della stanza. Appariva davvero fragile, in quel momento, eppure si era trovata dinanzi a una divinità Ctonia, e aveva vinto la sua battaglia.

Il solo pensiero, lo fece sentire piccolo e insicuro. Più ancora del solito, tra le altre cose, e questo contribuì a irritarlo ulteriormente.

«Come stai?» domandò Dioniso, avvicinandosi e accomodandosi su uno scranno nei pressi del letto.

Gli occhi chiari di Eris si mossero per visionarlo e, con un sospiro, la dea borbottò: «Come una che è stata trafitta da una spada di pura energia. Un po’ sfilettata, per così dire.»

Dioniso abbozzò un sorriso e replicò: «Beh, il sarcasmo non l’hai perso.»

«Vorrei vedere» sbuffò lei. «Perché, però, mi sembri più sbattuto tu, di me?»

«Io? Ma se sono la gioia fatta persona?» cercò di ironizzare lui, distogliendo lo sguardo dai suoi occhi perlacei. «Il tuo Alekos mi sembra sia in forma smagliante, adesso. Ho appena testato i suoi poteri, e ora sono bilanciatissimi.»

«Bene» annuì Eris.

«E… e tu? Senti… qualcosa?» tentennò Dioniso.

«Equilibrio. Come se un tassello fuori posto fosse finalmente stato sistemato» gli spiegò lei, sorridendo leggermente nel tastarsi la fronte.

Dioniso si adombrò, a quelle parole, e borbottò: «Quindi… ora sarà ‘e vissero felici e contenti’

La dea lo fissò dubbiosa, replicando: «Che intendi dire?»

«Ma sì… tu e Alekos, intendo. Ora che condividete lo stesso filato, è come se foste la stessa cosa, le due parti di un tutto, no?» biascicò in fretta Dioniso, gesticolando nervosamente con una mano.

Eris si accigliò appena, a quell’accenno e Dioniso, nell’affondare nei suoi occhi di diamante, si sentì perdere come la prima volta.

Quanto era stato stolto a cedere alla paura, secoli addietro? Perché aveva dato retta al suo lato remissivo e pavido? Lei che aveva sofferto pene indicibili ed era ugualmente sopravvissuta, più di tutte avrebbe potuto capire e accettare i suoi patimenti segreti, i rigurgiti di un passato che da sempre voleva dimenticare per la vergogna.

Invece, aveva ceduto alle lusinghe della vita semplice e spensierata, lasciando che il passato venisse relegato in un angolo, senza mai affrontarlo davvero. E ora, era troppo tardi per tutto.

Eris sospirò, chiuse gli occhi per un istante e infine disse: «Stavo male perché dovevo riequilibrare la luce di Alekos, che si faceva sempre più forte. Il potere di Érebos è talmente grande da aver nutrito, nel corso degli anni, la lucentezza abbacinante creatasi in Alekos così, per contrastarla e fermarla, doveva esserci un’altra ombra, ma di minore intensità, che potesse riportarla a più miti consigli.»

«Quindi, nessuna divinità Ctonia avrebbe potuto prendere il tuo posto» annuì lentamente Dioniso.

«Esatto. Più l’oscurità è forte, più la luce diventa abbagliante. Per questo, la bontà insita nell’animo di Alekos è diventata così pura, perché prendeva potere dalla quintessenza di Érebos. Io ero l’ideale per riequilibrare questo squilibrio, rendendo la luce meno vivida, e perciò più gestibile da un semidio» gli spiegò Eris, sbuffando stancamente. «Questo, vuol dire il nostro filato comune. Il legame che sentivo crescere con Alekos era questo; l’incognita che cercava di riequilibrarsi.»

«E… e il bacio?»

«Quasi bacio. E’ la stessa cosa. Fu la misura estrema di Alekos per bloccare la sua divinità, ma non funzionò perché io lo bloccai, pensando erroneamente che volesse baciarmi a causa di una mia presunta colpa» scrollò una spalla Eris, prima di lagnarsi per il dolore. «Ma perché cavolo mi fai tutte queste domande, scusa? Lo vuoi per te, per caso? Alekos, intendo… perché credo che gli piacciano le ragazze, quindi prenderesti un sonoro ‘no’ in risposta.»

Dioniso avvampò suo malgrado in viso – un’autentica rarità, per lui – e sbottò dicendo: «Questa è stata davvero una bassezza, Eris!»

«Ehi, Dion… dimentichi che io sono Discordia? Ogni tanto cercherò sempre di punzecchiare la gente» ammiccò lei, aprendosi in un sogghigno malizioso.

«Oh… al diavolo!» esclamò Dioniso, chinandosi su di lei per strapparle un bacio.

Eris sgranò gli occhi, piena di sorpresa, ma non lo bloccò e, quando il dio infine si scostò dalle sue labbra, le puntò addosso un dito e la minacciò dicendo: «Ti conquisterò. Fosse anche l’ultima cosa che faccio. E stavolta me ne fregherò bellamente se qualcuno mi metterà in guardia su di te. Ti voglio, donna, e ti avrò!»

La dea lo guardò basita per alcuni attimi, forse credendolo folle ma, alla fine, si liberò in una risata e disse: «Affari tuoi, ragazzo, se vuoi infilarti in questo ginepraio.»

Malizioso, Dioniso allora ammiccò e disse: «Oh, nel tuo ginepraio mi infilerei volentieri anche adesso, se è per questo.»

«Santo cielo, …che razza di pervertito…» sospirò Eris, scuotendo esasperata il capo.

«Non mi hai detto di no, perciò preparati ad altri agguati» ghignò il dio, ora tutto felice e contento.

Eris lo mandò bellamente al diavolo ma Dioniso se ne infischiò del tutto e, dopo aver raggiunto la porta della stanza, le lanciò un bacio da sopra una spalla e infine uscì.

Nel corridoio trovò Alekos in paziente attesa e, nel vederlo, Dion disse: «Puoi entrare, adesso. Ma non stare troppo. Non vorrei si stancasse, visto quello che ha passato. D’ora in poi, dovrà stare attenta a come dosa le energie, dopotutto.»

Alekos, a quelle parole, gli sorrise tranquillo e replicò: «Non preoccuparti per questo. Ricordi che io sono immortale grazie al legame con mia madre?»

«Sì. Ebbene?»

«Se io sono immortale, lo rimarrà anche Eris, nonostante il filato diviso in due, perché io avrò sempre bisogno della sua presenza» ammiccò Alekos, sorprendendolo. «Per questo ho voluto parlare con mia madre ed Érebos. Volevo essere certo di questa cosa.»

«Quindi, lei non dovrà…» borbottò nervosamente Dioniso, indicando il giovane e la porta della stanza a fasi alterne.

«No, non succederà quello che stava avvenendo con mio padre» ammise Alekos, sospirando tristemente nell’ammetterlo. «Il mio alter ego era divorato dalla brama di possedere tutto il potere di Érebos, così da cancellare per sempre la sua presenza. Per questo, lui ha rischiato di morire, non a causa del filato diviso.»

«Miseria. Ladra» gracchiò Dioniso, sgomento.

«Papà aveva erroneamente pensato che lo squilibrio di potere nel suo filato dipendesse dal fatto che fosse stato biforcato per consentirmi di vivere ma, in realtà, era il mio subconscio divino che, lentamente, lo stava prevaricando. Distruggere l’oscurità per portare la luce ovunque. Era questo, a cui puntava.  A tal punto, era deviato nella sua volontà.»

«E tu lo hai scoperto quando eri in quella sorta di bolla metapsichica?» volle sapere Dioniso, immaginando senza difficoltà i sensi di colpa del ragazzo. Lui stesso combatteva da sempre contro simili e dolenti note, e ancora adesso non ne era venuto a capo.

Alekos assentì, mormorando spiacente: «Mi ha parlato fino a sfinirmi, accennando a tutto quello che avrebbe fatto una volta uscito dal regno di Chaos, prima di dirmi che ruolo avrei avuto io… sì, il mio lato umano, intendo. Avrei dovuto farmi assorbire e rimanere in silenzio, senza più tentare di fermarlo, così che lui potesse annullare l’oscurità per sempre. Non aveva capito che, più lui diventava potente, più le controparti oscure lo diventavano a loro volta, ben decise a fermarlo.»

«Che intendi… oh… Moros, per caso?» esalò Dioniso, iniziando a comprendere il comportamento stranamente attivo della schiva divinità del destino che, da sempre, si era tenuta in disparte. In tutta quella stramba situazione d’emergenza, al contrario, era stato stranamente partecipe.

Il giovane semidio annuì, giocherellando con un laccio della sua maglietta. «Eris aveva dei problemi sempre maggiori a starmi lontano perché avvertiva, a livello inconscio, lo squilibrio che si stava formando in me, e io – la mia parte umana – ero felice che lei ci fosse perché speravo sempre in un suo intervento, qualora avessi esagerato. Moros, a sua volta, aveva presagito che, presto o tardi, avrebbe dovuto intervenire per bloccarmi, pur se la sola idea lo inorridiva.»

Sospirando, il giovane scrollò poi una spalla e aggiunse torvo: «Sarebbe arrivato a uccidermi, qualora fosse stato necessario. Se Eris avesse fallito, o se si fosse rifiutata di legarsi a me, sarebbe intervenuto lui, una volta per tutte. Dopotutto, lui è il latore dei destini ineluttabili e, proprio a causa di questo suo potere, sapeva di dover essere colui che mi avrebbe tolto la vita, nel caso in cui tutto fosse andato storto.»

«Ma certo…» mormorò a occhi sgranati Dioniso. «…solo una divinità Ctonia poteva fermarti, perciò sarebbe spettato a lui visto che Érebos era, di fatto, fuori gioco. Quindi, l’arma che ha utilizzato Eris era…»

Alekos assentì, mormorando: «Una lama intrisa di potere Ctonio, sì.»

Dioniso sbuffò pieno di meraviglia e ansia, ormai più che consapevole di cosa avessero rischiato, nel regno di Chaos. Non solo la morte di Alekos o di Eris, ma anche lo sfaldamento di un’intera famiglia.

Dubitava fortemente, infatti, che Moros sarebbe uscito indenne da quel compito, e così i suoi fratelli o i suoi genitori.

«Érebos doveva sopravvivere a qualsiasi costo, poiché egli rappresenta una delle entità primigenie dell’universo, mentre io ero sacrificabile. Moros ha una forza immensa, quasi paragonabile a quella del padre, e ce l’avrebbe fatta a portare a termine la missione. Inoltre, avrebbe avuto anche la forza mentale per portare il peso della mia uccisione. Ne avrebbe sofferto, ma non sarebbe impazzito… forse» ammise Alekos, passandosi stancamente le mani sul viso. «Eris, però, mi ha salvato, usando l’arma che Moros le aveva affidato prima di inviarla nel regno di Chaos. Così facendo, ha evitato che mio fratello dovesse prendere su di sé un simile peso.»

Sospirando, Dioniso lo abbracciò con calore e disse: «Beh, sono contento che tu sia tornato tutto intero, e che la tua parte divina sia sotto controllo. La senti, ora?»

«E’ placida, e non cerca affatto di predominare. Era davvero l’eccessivo potere derivato dal filato di mio padre, ad averla resa… superba» asserì Alekos, sorridendo al dio, prima di chiedergli: «Uscirai con la zia, ora che le cose sono andate a posto?»

Dioniso fece tanto d’occhi, a quella domanda, ma Alekos ammiccò malizioso e aggiunse: «Sarò ancora giovane, rispetto a voi, ma capisco quando un uomo è geloso.»

Scoppiando a ridere, Dioniso indirizzò il giovane verso la porta della stanza di Eris, non rispose alla sua affermazione e si limitò a dire: «Stai un po’ con lei. Le farà bene.»

Ad Alekos non restò altro che entrare. Dopotutto, non erano affari suoi se Dioniso voleva flirtare con Eris.

 

 

 

 

N.d.A.: direi che tutto si è risolto, ed Eris ne ha ricavano un filato a metà ma anche un dio che vuole essere la sua metà. Ci avrà guadagnato o perso, secondo voi? ;-)

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Capitolo 56
*** Alekos - 3 - ***


3.

 

 

 

 

Accomodatosi sullo scranno su cui, in precedenza, si era seduto Dioniso, Alekos guardò il volto pallido di Eris con occhi intrisi di preoccupazione. Lui l’aveva costretta a fare cose ai limiti del sopportabile, e ora giaceva ferita in quel letto per colpa del suo colpo di spada.

Poco importava che fosse stato il suo alter ego, a colpirla. La mano che aveva inferto il fendente, era stata pur sempre la sua.

Sbuffando leggermente, Eris ne attirò l’attenzione e disse: «Se ti sento dire ‘mi dispiace’ o qualcosa di simile, giuro che…»

«Lo so» sorrise suo malgrado Alekos. «Mi dai un calcio sul sedere.»

«Potrei fare di peggio, vista la situazione particolare» sottolineò la dea, tastandosi il fianco dolorante prima di mettersi seduta.

Alekos la aiutò lesto, sprimacciandole i cuscini prima di farla poggiare con delicatezza contro di essi. Nel farlo, le sistemò anche le ciocche dei lunghi capelli dietro le spalle e, sorridendo, mormorò: «Sono contento che ti siano ricresciuti. L’acconciatura che ti aveva fatto Afrodite era bella, ma i capelli così lunghi ti stanno molto bene.»

La dea sorrise maliziosa, a quelle parole, e celiò: «Ma che bravo… ora mi lusinghi, invece di chiedermi scusa?»

Alekos rise, scrollò le spalle come per ammettere di essere stato scoperto ma disse: «Dico la verità, anche se era un modo alternativo per chiederti scusa.»

«Agápi, ho imparato a conoscerti bene, e so come ragiona la tua testa… anche se il tuo amichetto mi ha davvero fatto dubitare di te, negli ultimi anni» sottolineò la dea, ammiccando al suo indirizzo.

«Ora che è quieto, riesco a capire molto bene fino a che punto si fosse spinto, e non posso che essere felice che qualcuno lo abbia rimesso in riga» asserì con convinzione Alekos. «Grazie al tuo potere, mi è anche più facile vedere le sfumature del mondo che mi circonda. Non è più così… estremo.»

«E’ in equilibrio tra il bianco e il nero, come dovrebbe essere» assentì la dea, compiaciuta. «E io, finalmente, non ho più le crisi d’identità di prima. Onestamente, cominciavo a non sopportarmi più.»

Scoppiando a ridere, Alekos disse: «Zio Ares mi ha detto che stava pensando di farti rinchiudere da qualche parte, perché aveva paura per te. Ma è davvero possibile rinchiudere un dio?»

«Beh, non se intendi i manicomi o le prigioni degli umani. Se un dio ha bisogno di aiuto medico, come nel mio caso – e credimi, accade più volte di quanto tu non pensi – ci rivolgiamo ad Apollo ma, per le malattie di tipo psicosomatico, è Esculapio a prendersi cura di noi.»

«Il figlio di Apollo? L’ho visto, ma…» tentennò Alekos, non sapendo bene come spiegare chi avesse visto, in effetti.

Eris gli sorrise comprensiva, asserendo: «Esculapio era un semidio come te, ed era anche molto amico di tua madre. Questa amicizia portò Athena a donare a Esculapio capacità curative che, però, urtarono non poco sia Ade che Zeus e quest’ultimo, temendo che i poteri di negromante del giovane semidio potessero mutare il pensiero degli uomini nei confronti degli dèi, lo uccise con una folgore.»

Alekos assentì torvo, mormorando: «Sì, ricordo questa parte del mito. Quindi, successe realmente?»

«Purtroppo sì. A quel tempo, mio padre era davvero molto meno malleabile di oggi. Comunque, Apollo e Zeus litigarono furiosamente, per questo, e tua madre intervenne a sua volta per chetare le ire di Zeus. Riteneva ingiusto che, per un dono che lei aveva voluto offrire a Esculapio, fosse stato il giovane semidio a pagarne il prezzo. Alla fine, Zeus accettò di riportarlo in vita, donandogli l’immortalità …ma alle condizioni che hai visto tu stesso» gli spiegò Eris, scrollando una spalla.

«Non è un’anima senziente come mio padre, e ha un qualche genere di corporeità, ma è come se non fosse realmente qui» asserì dubbioso Alekos.

«E’ un’apparizione astrale» dichiarò a quel punto Eris. «Vive nel regno metapsichico, dell’immaterialità e del pensiero, e cura le relazioni tra corpo e anima. Per questo è intervenuto anche lui, nel mio caso. Avevo ricevuto un discreto contraccolpo metapsichico, quando il filo si è diviso in due, e avevo bisogno di Esculapio per guarire lo strappo che si era formato.»

Alekos esalò un fischio pieno di ammirazione e stupore e, dubbioso, domandò: «Quindi, è come una sorta di psicologo, ma con poteri divini?»

«Qualcosa del genere» annuì Eris. «Anche se ci sa fare pure con ago e filo.»

«Accidenti! Neppure sapevo che esistesse, una divinità simile!» mormorò meravigliato Alekos.

«Tu, invece, sei un dio mancato. Ti spiace non essere diventato il dio della giustizia?» ironizzò Eris, battendogli una mano sulla spalla.

Alekos scosse recisamente il capo, replicando inorridito: «Per niente. L’idea di giustizia che aveva il mio alter ego era fortemente deviata, e non credo sarebbe andata bene in nessun genere di universo.»

Levando poi un sopracciglio quando un pensiero gli si formò spontaneo nella mente, Alekos domandò: «Ma… a proposito di giustizia, dov’è Astrea? Perché non l’ho mai vista, finora? Non è lei a detenere lo scettro della giustizia?»

Eris si adombrò, a quella domanda, e ammise dopo alcuni attimi di riflessione: «Beh, se il tuo alter ego voleva portare giustizia nel mondo perché vi vedeva solo oscurità, orrore e perdizione, Astrea è fuggita dal mondo per lo stesso identico motivo. La sua mente è rimasta così turbata e scioccata da ciò che avvenne durante la seconda guerra mondiale, da cadere in una sorta di limbo. Esculapio se ne prende cura da allora.»

La notizia turbò non poco Alekos che, sgomento, mormorò: «Lei è… morta

«Non esattamente. Quando avvenne il suo crollo emotivo, venne controllata da Esculapio ed Érebos, che ne valutò la pericolosità per il genere umano. Non ritenendola un rischio per nessuno, oltre che per se stessa, non la uccise ma, da quel giorno ella, semplicemente, si spense. Come una candela senza più fiamma.»

Alekos strinse le mani a pugno, inorridito suo malgrado dal dolore che gli uomini avevano provocato nella dea con il loro comportamento ingiustificato ed Eris, sorridendogli leggermente, aggiunse: «So che Eos e Astreo, i suoi genitori, vanno a trovarla spesso e le parlano. Vorresti conoscerla, e magari aiutarla?»

«Pensi che potrebbe servire?»

«I vostri poteri sono affini. Forse, le sarebbe d’aiuto. Tentar non nuoce, no? Oppure, ti farai venire mille e più dubbi, d’ora in poi, perché hai ceduto al lato più terrificante della luce?» ironizzò maliziosa Eris, lasciandosi andare a un sogghigno beffardo.

Alekos sbatté le palpebre di fronte all’uso sottile del dono di Eris e, grattandosi distrattamente un braccio, borbottò: «Miseria ladra… quando lo usi su di me, mi viene un formicolio terribile la pelle.»

Eris rise divertita, di fronte a quella novità e, smettendo immediatamente di usare il suo potere, aggiunse: «Va meglio, ora?»

«Decisamente sì. Comunque, vedrò di non farmi venire delle crisi di nervi soltanto perché ho quasi fatto esplodere il nostro mondo e tentato di mandare al creatore sia te che mio padre, va bene?»

La dea assentì, compiaciuta che il giovane riuscisse a fare dell’ironia su se stesso nonostante il rischio effettivamente corso. Rimuginare su quanto era successo e su ciò che avevano rischiato, però, non avrebbe portato a nulla. Dovevano accettarlo e andare avanti, cercando di perdonare se stessi, qualora fosse stato necessario.

«Credo che andrò a parlarne con Esculapio» dichiarò a quel punto Alekos, levandosi in piedi prima di strizzare l’occhio a Eris e aggiungere: «Devo metterti in guardia sulle intenzioni di zio Dioniso, o ne sei già al corrente?»

Eris sbuffò, lasciandosi però sfuggire un lieve rossore sulle gote che fece sorridere non poco Alekos.

«Quel pazzoide può pensarla come vuole. Non temere per me.»

«D’accordo. Allora, vi lascio soli. Devo ringraziare un sacco di persone, perciò dovrò pur cominciare da qualche parte» disse a quel punto Alekos, chinandosi su Eris per darle un bacio sulla guancia. «Grazie.»

Ciò detto, si scostò appena in tempo per evitare un pizzicotto da parte della dea che, fissandolo arcigna, borbottò: «Prima o poi mi verrai a tiro, e allora…»

Alekos rise nell’uscire in tutta fretta e, nel trovare Dioniso ancora in corridoio, disse allegramente: «Ora è arrabbiata con me… pensaci tu.»

«L’hai ringraziata?» ironizzò il dio, vedendolo annuire. «Va bene… mi sacrificherò io per la patria.»

Alekos lo guardò entrare tutto pimpante, le mani a sistemarsi nervosamente i riccioli castani e gli occhi dorati che sprizzavano malizia e divertimento.

Sì, Eris avrebbe avuto il suo bel daffare a scappare da lui, e Alekos ne era molto felice. La zia meritava un po’ di gioia, nella sua vita.

***

Alekos trovò Esculapio in compagnia di suo padre e di Clizia, impegnata a farsi visitare dal figlio del marito, e apparentemente soddisfatta dalle notizie appena ricevute.

Salutatolo coralmente, i tre immortali lo fissarono curiosi e Alekos, prima di porre qualsiasi altra domanda, si rivolse a Clizia e domandò: «Come ti senti? Con la confusione che ho causato in questi giorni, sono certo che neppure tu abbia avuto momenti molto piacevoli.»

Clizia gli sorrise, dandosi una pacca sul ventre leggermente arrotondato, e replicò: «Io e lui stiamo bene. Esculapio ce lo ha appena confermato. La prossima volta, però, fregatene delle vocette nella testa e parla con noi. Siamo la tua famiglia e, per te, ci saremo sempre… a volte, anche a sproposito, ma spero ci perdonerai quando saremo invadenti.»

Alekos rise di quella risposta e, nell’abbracciare Clizia, assentì e disse: «Quando nascerà il mio nuovo cugino, sarò io a essere invadente.»

«Per noi sarà un piacere» sottolineò Apollo, dandogli una pacca sulla spalla. «Avevi bisogno di noi, per caso? O cercavi i tuoi?»

«Per la verità, volevo parlare con Esculapio…» dichiarò il giovane, osservando pieno di curiosità la figura traslucida del dio, presente nella stanza solo in forma spirituale. «… sempre se hai tempo, s’intende.»

Il dio, in tutto somigliante al padre, pur se con capelli mori, invece che fulvi, assentì pieno di curiosità e, dopo essersi accomiatato dalla coppia, si accompagnò ad Alekos in uno dei corridoi del tempio.

Lì, quindi, domandò: «In cosa posso esserti utile?»

«Parlando con Eris, ho saputo che Astrea è, come dire… ricoverata da te, e volevo sapere se potevo essere utile in qualche modo» gli spiegò Alekos, infilandosi nervosamente le mani nelle tasche dei jeans.

Il solo pensiero di poter cominciare a redimersi dal caos che aveva combinato lo rendeva nervoso e impacciato, e le sue mani tremanti ne erano un chiaro indice.

Esculapio sorrise comprensivo, a quell’accenno e, annuendo, disse: «Beh, sì, curo Astrea da molto tempo, in effetti. Ma sei certo di volerti imbarcare in una simile impresa? Avere a che fare con i suo pensieri, a volte, non è affatto facile, e potresti comunque vederla solo in forma spirituale, per il momento.»

Chiaramente confuso, Alekos gli domandò: «Che intendi dire?»

«Al momento, Astrea è in sedazione profonda autoindotta. In parole povere, la sua mente è sprofondata così tanto da non essere raggiungibile se non in maniera metapsichica. Persino il suo corpo ci è precluso, a causa di ciò e, anche se esso si trova nella mia dimensione, non posso toccarlo in alcun modo, così come non possono i suoi genitori» tentò di spiegarli Esculapio, pur sapendo quanto fosse complesso mettere a parole il livello di estraniamento della dea.

Quando Astrea si era sentita male, Eos l’aveva condotta subito da lui perché le prestasse le prime cure e, in un primo momento, era stato in grado di prendersi cura della dea anche a livello fisico.

La sua crisi sistemica però, era giunta a un livello tale che, da un giorno all’altro, il corpo di Astrea era semplicemente svanito dinanzi ai suoi occhi. Chiedendo subito lumi ad Atropo, si era sentito dire che il filo di Astrea non era stato affatto reciso, e che esso continuava a muoversi regolarmente.

Solo a quel punto, Esculapio aveva compreso. Astrea aveva risucchiato se stessa nella propria mente, rifugiandosi in un loop infinito in cui le colpe che si era autoinflitta continuavano a flagellarla.

Parlandone successivamente con Érebos – essendovi costretto, quando una divinità minacciava la follia o l’autodistruzione – aveva però ricevuto un esito insperato alle proprie paure inespresse.

Astrea non aveva affatto cercato di morire, con il suo gesto, ma di vivere eternamente nel suo privato dolore, ritenendosi l’unica responsabile per la follia delle genti, e perciò l’unica a dover pagare per sempre.

Non essendovi stati gli estremi per condurla a una morte priva di pericoli per il Creato, Érebos si era raccomandato con Esculapio di controllarla sempre e, se possibile, di cercare di sradicarla da quel malsano dolore, e a ciò si era attenuto.

I suoi tentativi, nel corso degli anni, si erano però sempre rivelati vani, perciò era aperto a qualsiasi tipo di aiuto esterno, anche da parte del giovane Alekos.

«Vuoi ancora tentare?»

Alekos assentì, serio in volto ed Esculapio, annuendo al giovane, dichiarò: «Ora sei ancora provato per ciò che ti è accaduto, perciò dovrai riposare un poco ma, quando ti sarai ristabilito, verrò da te e ti insegnerò come raggiungerla. Non è necessario che tu ti sposti da casa, per farlo.»

Storcendo il naso, il giovane replicò: «Anche se casa mia è una sorta di gabbia psichica?»

Esculapio allora sorrise, ribattendo: «Efesto può invertire la polarizzazione e renderla un catalizzatore. Basterà chiederglielo.»

Fischiando sorpreso, Alekos gli sorrise grato e il dio, ammiccando al suo indirizzo, domandò: «Vuoi un passaggio da qualche parte, ora?»

«No, grazie. Penso che passeggerò per un po’ tra i templi, poi chiederò a qualcuno.»

«Se vuoi un consiglio, vai nel giardino di Artemide. E’ un buon posto dove ristorarsi, e tu sei sicuramente il benvenuto» gli consigliò Esculapio, salutandolo.

Alekos prese per buono l’invito e, dopo essere uscito dal tempio di Apollo, ne discese la scalinata, ritrovandosi così a respirare l’aria limpida e fresca dell’Olimpo.

A poca distanza, il tempio di Dioniso e quello di Ares apparivano splendidi e fieri, nelle loro articolate strutture murarie, mentre i giardini sempreverdi che li circondavano rilasciavano nell’aria profumi soavi e piacevoli.

Tutto era perfetto, in quel luogo, ma Alekos aveva ormai imparato sulla propria pelle che la perfezione era solo un effimero pensiero, niente affatto reale e, forse, niente affatto auspicabile.

Le persone erano bellissime anche – e soprattutto – grazie ai loro difetti e, pur se preferiva che tutti andassero d’amore e d’accordo, sapeva che era anche sciocco sperarlo.

La molteplicità di idee portava sovente allo scontro ma, se questo scontro avveniva in modo costruttivo, esso poteva portare a un’elevazione, a un miglioramento di sé e degli altri.

Diversamente, se dallo scontro nasceva solo cieca e sorda convinzione, allora si poteva unicamente giungere all’annichilimento. Nella sua superbia, lui era quasi giunto a questo.

In fondo, nel corso dei secoli, questo era stato il compito di Eris. Consigliare e pungolare, oltre che dar voce agli istinti primari dell’uomo. O, per lo meno, lo era stato fino a quando gli umani aveva ascoltato i suoi sussurri, interpretandoli a loro discrezione.

Eris aveva davvero avuto il compito più difficile tra tutti, dovendo soppesare ogni volta le parole e i consigli, mascherandoli dietro doppi significati per non concedere facili risposte agli umani.

Il fatto che queste parole, spesso e volentieri, fossero divenute foriere di guerre o dispute, non era dipeso da lei, ma dalla debole mente umana, da sempre abbagliata dalla via più breve, dal guadagno più veloce.

Sospirando, tornò per un attimo con lo sguardo al tempio di Apollo, ove si trovava colei che lo aveva salvato in tutti i modi possibili. Lei, più di tutti, conosceva il valore del dolore e, ora che lo aveva provato lui stesso sulla pelle, forse sarebbe riuscito ad aiutare Astrea a liberarsi del proprio.

Più sicuro di sé, approcciò una fontana zampillante per ammirare il proprio riflesso nell’acqua e, tra sé, sorrise divertito.

Ricordava bene il ghigno del se stesso divino ed era felice che fosse sparito, ma sapeva altrettanto bene che, da quel momento in poi, avrebbe dovuto pagare il peso della sua superbia.

Non se la sentiva di dare la colpa interamente al suo lato divino; lui stesso aveva abusato del proprio potere, quando ne era pienamente cosciente. Da questi errori, aveva imparato una dura lezione, ma era convinto che, da ciò, avrebbe saputo trarre del bene.

“Sembri soddisfatto” mormorò una voce nella sua mente mentre il riflesso nell’acqua svaniva, sommosso da leggere onde createsi senza apparente motivo.

Scostatosi di un passo, Alekos sorrise e allungò una mano, mano che venne prontamente afferrata da una lingua d’acqua che, poco alla volta, prese sembianze umane e, infine, le forme a lui note di Acaste.

Sorridendo maggiormente all’amica, la aiutò a scendere dalla fontana per poi abbracciarla con calore e l’oceanina, dopo averlo baciato sulle guance, asserì: «E’ bello rivederti finalmente in te. Eris come sta, piuttosto?»

«Molto meglio, ma credo che d’ora in poi avrà il suo bel daffare per togliersi di dosso le attenzioni di Dioniso» dichiarò Alekos, facendo scoppiare a ridere Acaste per la sorpresa.

«Beh, di tutte le cose che potevano succedere, questa davvero non me l’aspettavo» esalò la giovane, prendendolo sottobraccio. «Dove stavi andando, di bello?»

«Mi rilassavo un po’, in attesa di chiedere un passaggio per il piano di sotto… ho molte persone a cui chiedere perdono.»

«Al passaggio penserò io» lo rassicurò lei, tornando poi seria per domandargli: «Come stai, davvero

«Stai tranquilla. Sto bene sul serio. Ora sono completo nel modo giusto. Sono in perfetto equilibrio e, ciò che mi dava dei problemi, ora è svanito» le sorrise lui, dandole un colpetto con la spalla. «Tu, piuttosto. Che ci fai, qui, invece di stare in compagnia di Zéph?»

Sorridendo divertita, Acaste arrossì fino alla radice dei capelli e borbottò: «Guarda che non devo per forza stare sempre con lui.»

«E’ bello che ti piaccia così tanto da farti arrossire a questo modo… e mi fa piacere per lui…» dichiarò per contro Alekos, sorridendole allegro. «…perché lo reputo davvero un bravo ragazzo. Se fossi stato meno accecato dalle mire dell’altro me, avrei anche apprezzato maggiormente voi due come coppia, ma all’epoca ero piuttosto confuso.»

«E’ curioso che tu lo abbia anche solo notato» chiosò l’oceanina, incamminandosi con lui nel giardino del tempio di Artemide, dove alcune ancelle li salutarono con lievi inchini.

«Beh, per la verità, vi notai perché trovai la cosa in sincrono con ciò che io – o lui – credeva… credevo…» cominciò col dire Alekos prima di incespicare nelle parole, scoppiare a ridere ed esalare per diretta conseguenza: «Dio! Sarà un casino disgiungere le due cose! Comunque, vi trovavo giusti, perciò coerenti col piano finale.»

Acaste rabbrividì nonostante tutto, quando lui accennò al piano finale e Alekos, nell’accomodarsi con lei su una panchina di marmo nei pressi di un ciliegio, aggiunse più seriamente: «Non posso negare di aver apprezzato certi suoi pensieri – chi non vorrebbe la pace universale? – ma, quando mi permetteva di pensare in autonomia, mi rendevo conto anche delle profonde limitazioni, e pecche, del suo piano. Per ottenere una tale pace, avrebbe commesso stragi inenarrabili e reso schiavi gli umani. Non potevo accettarlo.»

«Ma ora, tu ed Eris lo tenete a bada?»

«Non credo sia corretto dire così. Ora, lui non esiste più, non in quella forma, per lo meno. La corruzione, nata in quella parte del mio animo, derivava dall’eccessivo potere di Érebos, che io non potevo gestire in quanto semidio. La metà del filato di Eris, invece, non crea problemi alla mia controparte divina che, per riflesso, non ha più… manie di grandezza» le spiegò Alekos, scrollando le spalle con naturalezza.

Acaste assentì sollevata e, socchiudendo gli occhi, reclinò il capo contro la spalla dell’amico, mormorando: «Ho davvero temuto di perderti, ma Érebos nutriva moltissima fiducia in Eris, e tuo padre mi ha aiutato moltissimo ad avere fiducia in una buona riuscita della missione. Ho potuto parlare molto, con lui, e posso dirti che deve essere stata una persona meravigliosa, in vita, ma lo è anche ora che è un’anima. Capisco perché tua madre si sia innamorata di lui.»

Alekos annuì silenzioso, lasciando che il suo sguardo galleggiasse leggero tutt’intorno a sé. Uccelli graziosi e canterini ciangottavano tra le piante, allietando il loro riposo, mentre coppie di unicorni trottavano a poca distanza, ristorandosi nella vicina polla d’acqua. I segugi di Artemide, solitamente così guardinghi e attenti, quel giorno si crogiolavano al sole, godendosi quel meriggio così sereno.

Sì, suo padre era stato un uomo di valore ma, soprattutto, era stato colui che aveva amato sua madre e che, per lui, aveva rischiato di perdere ogni suo ricordo, pur di salvarlo dall’Oltretomba. Per lui sarebbe stato sempre un po’ speciale.

Érebos, allo stesso modo, lo aveva fatto nascere una seconda volta e, dimostrando un amore infinito come il suo potere, aveva scardinato le leggi stesse della materia, per potergli permettere di vivere.

Entrambi i suoi padri erano stati – ed erano tutt’ora – persone degne di rispetto e ammirazione, e lui avrebbe messo tutto se stesso per portarne alti il nome e l’eredità.

«Aiuterò Astrea» disse di colpo Alekos, sorprendendo un poco Acaste, che risollevò il capo per scrutarlo piena di curiosità.

«Astrea? Come sai che…» esalò l’oceanina, sgranando gli occhi.

«Me ne hanno parlato sia Eris che Esculapio, e credo che aiutare lei potrebbe essere un buon primo passo in avanti per diventare l’uomo che intendo essere da qui in poi» le spiegò lui, la certezza d’intenti nel suo sorriso e la luce dell’aspettativa nello sguardo smeraldino.

Acaste allora gli sorrise, mormorando: «Vuoi diventare un guaritore?»

«Meglio. Una brava persona» scrollò le spalle lui, facendola ridere.

«Ma lo sei già!»

«Migliorerò ancora» replicò lui, stringendole una mano prima di aggiungere: «Potresti portarmi da mia nonna Anita? Vorrei cominciare con lei e il nonno.»

«Tutto quello che vuoi. Comunque, ti aiuterò anch’io a migliorare, se pensi di doverlo fare» gli promise lei, ammiccando al suo indirizzo e trasmutando entrambi in direzione del regno dei mortali.

***

Naturalmente, pur essendo stato preceduto dalle buone novelle portate da Artemide, il ritorno di Alekos nella famiglia Rodriguez fu accompagnato da pianti, abbracci e mille e più raccomandazioni.

Il giovane accettò ogni cosa – rimproveri compresi – con il cuore colmo di emozioni, e non si tirò mai indietro quando le zie e le cugine vollero riabbracciarlo più e più volte. Dopotutto, la sua sparizione era durata quasi una settimana e aveva creato uno scompiglio non indifferente, sia tra i suoi parenti mortali che immortali.

Fu solo a notte fonda che la buriana scese d’intensità e, trovato infine un momento per parlare in separata sede con nonna Anita, Alekos la pregò di seguirlo in giardino, dove si accomodò sul dondolo assieme a lei.

Nel prendere una mano tra le sue, le sorrise quindi speranzoso e disse: «Ho avuto molto tempo per riflettere, nei giorni in cui sono rimasto nel regno di Chaos e, pur se ho dovuto soprattutto discutere con l’altro me e rendermi conto fin dove volesse spingersi, ci sono cose che vorrei tenere, di quel periodo così terribile.»

«Non tutto il male viene per nuocere» motteggiò la donna, battendo la mano libera sulle loro due, ancora unite.

«Sì, l’ho imparato a mie spese. Parlando con colui che mi ha curato, ho saputo di una sua paziente che, forse, potrebbe aver bisogno di me. Il mio potere e il suo sono simili, ma abbiamo avuto reazioni diametralmente opposte a ciò che avevamo nel cuore» le spiegò allora Alekos. «Lei si sta autoflagellando da decenni, certa che gli orrori commessi dagli uomini siano causati dalla sua inettitudine come dea della giustizia. Vorrei aiutarla a perdonare se stessa, a farle capire che ciò che accade non dipende da sue mancanze, e che non deve farsi carico da sola di un simile dolore.»

«E’ encomiabile, tesoro… ma perché lo stai dicendo proprio a me?» gli domandò curiosa, Anita.

«Tu sei una bruja, conosci meglio di me gli spiriti erranti, e lei ora dimora in un altro luogo, ove solo gli spiriti possono vagare. Esculapio mi insegnerà a raggiungerla, ma vorrei sapere da te quale potrebbe essere il modo migliore per approcciarla. Puoi aiutarmi, nonna?» le spiegò Alekos, scrutandola pieno di speranza.

Anita lo attirò a sé per un abbraccio e, nel farlo, una lacrima le scivolò furtiva sulla guancia. Sapeva di avere accanto il nipote, ma ormai Alekos rassomigliava così tanto a Miguel da esserle difficile disgiungerli pienamente.

Il fatto che il nipote volesse aiutare una perfetta estranea, poi, glielo rendeva ancora più caro e ancor più simile al figlio. Anche in questo, rassomigliava al padre, e lei ne era immensamente felice.

«Ti aiuterò, Alekos. Insieme, la riporteremo a casa» gli promise la donna, baciandolo affettuosamente su una guancia.

«Grazie, nonna» sussurrò il giovane.

Finché non avesse raggiunto Astrea, non avrebbe ceduto, né allo sconforto e neppure alla rabbia. Ora, sapeva come fare, anche grazie a persone come sua nonna.

 

 

 

N.d.A.: Tutto è bene quel che finisce bene, verrebbe da dire, ma noi non abbiamo ancora finito... non del tutto, per lo meno. Alekos, infatti, ritiene necessario compiere ancora qualcosa, per dirsi finalmente "a posto".

Veniamo quindi a scoprire dell'esistenza di Astrea, dea della giustizia, che da anni ormai si è autoimposta la prigionia per motivazioni che ben presto scopriremo. Ma non solo lei incontreremo in questo nostro finale "con il botto" (scoprirete presto perché ho usato proprio questo modo di dire).

Anche qualcun altro è stato accennato dai nostri personaggi, e ha soggiornato a sua volta presso la casa di cura di Esculapio. Anche lui aiuterà Alekos nella sua personale missione per salvare Astrea e chiuderà il ciclo degli dèi ed eroi cominciato con Athena.

A presto, e grazie per avermi seguita fino a qui!

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Capitolo 57
*** Alekos - 4 - ***


 
Epilogo.
 
 
 
Le gambe intrecciate su un tappetino da yoga mentre Efesto terminava di polarizzare la casa di Alekos per i suoi scopi, il giovane sorrise a nonna Anita e disse: «Esculapio sta per arrivare, e…»

Una presenza astrale apparve alle spalle del giovane e la donna, sobbalzando leggermente, ridacchiò nervosa e disse: «Fa niente, tesoro. Ho capito cosa volevi dirmi.»

«Chiedo venia… avrei dovuto controllare» esordì Esculapio, inchinandosi contrito prima di sorridere ad Alekos per dire: «Vedo che ti sei messo comodo. Ma per quanto tempo puoi mantenere la posizione del loto?»

«Anche diverse ore, perché?»

«Perché, solitamente, occorrono due o tre ore anche solo per trovarla, perciò ti converrà sciogliere le gambe, sistemarti supino sul materassino e portare pazienza» ironizzò Esculapio, sorprendendolo non poco. «Astrea è assai evanescente, quando vuole, e i suoi movimenti nel subconscio sono erratici quanto il volo di una libellula.»

Alekos si affrettò a sciogliere le gambe, mentre Anita si accomodava sul divano nei suoi pressi. Efesto scese in quel momento dal secondo piano e, nel vedere Esculapio, lo salutò prima di domandare: «Le polarizzazioni vanno bene? E’ parecchio tempo che non desincronizzo simili gabbie d’energia.»

Il dio della medicina controllò che le onde mentali potessero viaggiare – amplificate – nel modo giusto e, dopo aver annuito, disse: «E’ tutto perfetto, grazie.»

La divinità del fuoco, allora, riprese il proprio bastone, salutò con un cenno Anita e, dopo essersi fermato accanto al corpo sdraiato di Alekos, disse: «Se hai di nuovo bisogno di me, chiamami pure. Ora vado. Ho la mia sessione di massaggi con Karen.»

Ammiccando, Alekos chiosò: «Massaggi, eh?»

Borbottando un rimprovero, Efesto arrossì copiosamente prima di trasmutare e Alekos, nel ridere sommessamente assieme a Esculapio, chiosò: «E’ così poco abituato a subire le attenzioni di una donna che, quando glielo si fa notare, arrossisce sempre.»

«Non essere dispettoso, nipote. Hai altro a cui pensare» lo richiamò gentilmente Anita, facendolo sorridere in risposta.

«Scusa, nonna.»

Esculapio sorrise indulgente al giovane, divertito dal battibecco con sua nonna, dopodiché disse: «Molto bene. Iniziamo.»

Anita prese nella sua una mano di Alekos, socchiuse gli occhi e mormorò: «Sussurra il suo nome nella tua mente. Le anime rispondo sempre a questo richiamo, anche quelle perdute e disincantate. Dopodiché attendi, e sii delicato. Le mosse decise le spaventano. Sii gentile e parla a bassa voce.»

Esculapio assentì più volte, ammirato dalle conoscenze di Anita e, prima di svanire per accompagnare Alekos nel regno dell’inconscio, mormorò: «Rammenta. Astrea vuole soffrire, perciò non accetterà parole come perdono o redenzione. Dovrai arrivare a lei in modo diverso.»

Alekos assentì e, con un sospiro, lasciò il suo corpo alle cure di nonna Anita, permettendo al suo subconscio di emergere in un nuovo, diverso universo.

Il suo viaggio verso l’ignoto ebbe dunque inizio.







N.d.A.: come sarà il primo approccio di Alekos con Astrea?
(visto che il capitolo è breve, sarò brava e vi posterò anche quello di Astrea... ^_^)

 

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Capitolo 58
*** Astrea - 1 - ***


Astrea – 1 –

 

 

 

 

6 Agosto 1945 – Olimpo

 

 

Come? Come si era giunti a questo?

Certo, le guerre erano sempre imperversate, le genti erano perite per colpi di spada e mannaia, prima, di moschetto e baionetta poi. Alla fine, però, il perfido ingegno umano aveva saputo congegnare mostri d’immane grandezza, che neppure lei aveva mai immaginato di poter vedere.

Ma come? Come l’uomo si era perso a tal punto e talmente in profondità?

Era mai possibile che non udisse più la voce della coscienza? Che non ascoltasse più il proprio animo, che lei sapeva essere intriso d’amore? Era davvero morto anche il più piccolo seme di speranza di un roseo futuro, dentro di loro?

Nervosamente, Astrea tornò alla polla della visione che, ormai giornalmente, visionava all’interno del suo tempio, eretto a poca distanza da quello della madre, a est della cima del monte Olimpo.

Lì, ne afferrò i bordi marmorei e piegò il biondo capo verso il basso, scrutando i vari scenari di guerra con orrore sempre crescente.

Anche interpellando Ares, che per primo aveva incolpato di quello scempio, aveva ricevuto in risposta un laconico “sono già stato ripreso, grazie”. Come se quella misera frase potesse compensare i milioni di morti che avevano macchiato col loro sangue la culla della civiltà occidentale, e non solo.

Il sonno della ragione, genera mostri.

L’acquaforte di Françisco Goya del 1797, il Capriccio n.43, per l’esattezza, sembrava essere stata creata appositamente per mettere nero su bianco l’orrore di quegli anni.

Dormiente, la Ragione aveva creato nel suo subconscio una serie infinita di orrori e tremebonde aberrazioni, e queste si erano concretizzate in quei tempi infausti nelle forme di una guerra senza pari, a memoria d’uomo.

Solo gli dèi avevano conosciuto scontri più maestosi e terrificanti ma mai, nella sua esistenza, Astrea aveva pensato che l’uomo si sarebbe spinto a imitare le divinità fino a questo punto.

Mai, fino a quel momento, l’uomo aveva trasceso l’essenza stessa di vita e morte.

Mai, fino a quel momento, era stato così terribilmente ingegnoso nel dispensare lutti.

Mai, fino a quel momento, lei si era sentita così inutile e senza scopo.

Gli occhi di perla continuarono a vagare sulla polla, seguendo il percorso erratico scelto dalle visioni, finché una in particolare non la colpì, e decise di seguirla.

Fissò quindi sgomenta e preoccupata il volo di un aereo dalle ali lucenti, la cui goffa forma poteva ricordare quella di un albatros.

Al pari del volatile, anche quell’aereo veleggiava solitario, raggiungendo quote ragguardevoli e, sotto la luce del sole del mattino, appariva quasi bello e innocente.

«Dove… dove stai volteggiando, portatore di morte?» mormorò Astrea, sfiorando l’acqua per ingrandire l’immagine.

Il velivolo si allargò nella polla, permettendole di scorgere una scritta sulla fusoliera argentata.

Enola Gay.

Che mai voleva dire, quella parola?

Conosceva tutte le lingue del mondo, eppure quella parola non le diceva nulla. Cosa mai aveva voluto dire, l’uomo, scrivendo quella parola senza senso?

Accigliandosi, strinse ancora l’immagine per scorgere i volti dei piloti, ma vide solo giovani emozionati e, forse, un po’ impauriti. Non soldati navigati o guerrieri brizzolati.

No, quella era stata una guerra combattuta da giovani, per la maggiore, in cui i giovani avevano pagato un prezzo elevatissimo e, a volte, dettato da scelte folli e prese da chi, nella teoria, avrebbe dovuto badare a loro. Intere generazioni erano state spazzate via, e tutto per avidità, sete di potere, disgusto per il più debole.

Dalla polla giunse un rumore stridente – un portellone si era aperto – e Astrea, sempre più tesa, strinse le mani sul bordo della piccola fontana fino a sbiancarsi le nocche.

Colse un conto alla rovescia, un cigolio meccanico e ritmato e infine, con un sibilo sinistro, un oggetto tubolare venne sganciato sopra una città.

Subito, il B2 – quello era il nome dell’aereo che aveva fin lì osservato – si involò a dritta, quasi desiderasse fuggire il prima possibile dalle proprie azioni, nonostante si trovasse a un’altitudine più che ragguardevole.

Astrea non se ne preoccupò, preferendo seguire la parabola discendente di quell’oggetto sinistro e cupo che stava involandosi sempre più velocemente verso le terre del Sol Levante.

Su quale città? Quale?

Un ponte. Un ponte a T. Sembrava dirigersi lì, come se i puntatori avessero scelto con esattezza dove colpire, perché quella bomba non terminasse in mare, o su un lato disabitato della cittadina costiera.

A ben vedere, la bomba non toccò mai terra. Un secondo sole prese vita a diverse centinaia di metri dal terreno, incenerendo tutto sotto di sé e tutt’attorno a sé.

Astrea gridò – accecata da un simile e improvviso riverbero – mentre un fungo di nubi, ceneri, fuoco e fulmini si elevava verso il cielo, apparendo infinito e spettrale persino ai suoi occhi di dea.

Come un’onda di morte, l’aria compressa dall’esplosione si fece strada a forza sulla città, schiacciando, spazzando via ogni cosa, riducendo in polvere palazzi, vie, l’umanità stessa.

Fiamme si elevarono verso l’alto come serpi, mentre il fungo si apriva a ventaglio sulla città, divenendo scuro e purulento e ammassando ulteriore energia, nuovamente pronta a gettarsi sulle coste già in ginocchio.

Calde lacrime corsero sulle gote pallide di Astrea mentre, impossibilitata a distogliere lo sguardo, scrutava lungo le vie della città riarsa alla ricerca di qualche superstite.

Vide ombre sui muri, unico retaggio rimasto delle persone troppo vicine alla bomba, per sopravvivere.

Vide corpi carbonizzati, ridotti a carta stracciata e ritorta su se stessa, niente più di un agglomerato di carni rinsecchite e abiti laceri.

Vide sangue, lamenti e pianti.

Crollando in ginocchio, il volto poggiato sul bordo della polla per scrutare ancora e ancora quel delirio di dolore, Astrea scorse infine le prime anime derelitte e scampate al massacro.

Una dopo l’altra, simili a zombie, si riversarono nel vicino fiume Ōta in cerca d’acqua, desiderosi di dare sfogo alla sete famelica che, il fuoco della bomba, aveva prodotto in loro.

Fu a quel punto che una pioggia nera e fintamente salvifica cominciò a cadere dal cielo, spingendo la gente a rivolgere gli sguardi bisognosi verso l’alto… e a bere.

Sembrò una benedizione, ma Astrea sapeva bene che quell’acqua fetida e mortifera li avrebbe condotti a fine indegna. Nulla di buono poteva venire dal fuoco divino che l’uomo si era permesso di scatenare su quella città.

Grida disperate si unirono a preghiere di speranza, quando la pioggerella si tramutò in acquazzone. Ma ancora gli effetti della bomba erano lungi dall’essere terminati.

Le nubi nere e gorgoglianti, dopo aver dissetato col veleno coloro che aveva dapprima tentato di sopprimere con il fuoco, ora scatenarono un inferno vorticoso di vento, che serpeggiò lungo il fiume in cerca di nuove vittime.

Un piccolo tornado prese forma tra le rive screpolate dal fuoco della bomba, figlio di un’energia non ancora doma o sazia di sangue, portando con sé nuova distruzione e nuovi morti.

Le genti fuggirono, inveendo contro il cielo, contro gli dèi tutti e contro coloro che avevano portato quel fuoco di morte. Sconfitti e piegati, scapparono infine verso le colline in cerca di un aiuto che, solo dopo giorni e giorni di agonia, sarebbe giunto.

Crollando a terra in preda al terrore e al disgusto, Astrea si coprì le orecchie per non udire più i lamenti della gente ma questi, ormai, erano dentro di lei, simili a lame che ne trafiggevano il cuore.

Lei, la dea della Giustizia, aveva permesso che accadesse un simile scempio, non era stata in grado di instillare il giudizio nelle genti, e ora degli innocenti erano morti sotto il fuoco dei loro simili.

Sotto un fuoco divino che mai, nessun uomo, avrebbe mai dovuto avere il permesso di usare.

***

Era successo qualcosa. Ne era più che sicura.

Il suo cuore aveva tremato al pari delle ali di una farfalla e, quando Eos aveva scrutato in volto il compagno Astreo, aveva scorto sul suo volto il medesimo turbamento, la medesima ansia.

Insieme, erano quindi usciti dal tempio per raggiungere quello di Astrea, da dove Eos aveva sentito pervenire quella sensazione di dolore cocente e senza fine.

Senza perdere tempo a cercare le ancelle della figlia per chiedere lumi, Eos e Astreo corsero lungo i corridoi del piccolo tempio di Astrea in cerca di lei. Quando infine giunsero nelle sue stanze private, la dea dell’Aurora dovette aggrapparsi al compagno per non svenire e, sconvolta, gridò il nome della figlia più e più volte.

Astrea giaceva a terra, apparentemente priva di sensi mentre, dalla polla della divinazione, grondava sangue frammisto a cenere.

In fretta, Eos le si inginocchiò accanto, sollevandola contro di sé mentre Astreo, turbato, scrutava la polla per comprendere i motivi di un simile rigurgito terribile.

«Cosa stava guardando?» domandò spaventata Eos.

«Hiroshima» disse solo Astreo, mentre la compagna sgranava gli occhi in preda alla confusione più totale. «Hiroshima è completamente distrutta. Spazzata via, riarsa da fuoco e vento.»

«Ma come è possibile?» esalò Eos, cullando contro di sé la figlia, che ancora non dava segni di volersi riprendere.

«Non lo so, ma dobbiamo pensare prima di tutto a lei» mormorò Astreo, sollevandola in braccio. «Esculapio, io ti invoco. Mia figlia ha bisogno di te.»

Aggrappandosi al braccio del compagno – chiamando Esculapio, Astreo dava per certo che Astrea avesse un problema neurologico, e non fisiologico – Eos scrutò ansiosa l’apparizione astrale del dio e, turbata, mormorò: «Aiutala, ti prego.»

Il dio si avvicinò lesto al trio e, nello scrutare velocemente Astrea, annuì e disse: «Le porte del mio regno sono aperte per voi. Astrea necessita di un’immediata assistenza.»

«Cos’ha?» domandò ansiosa la madre della giovane dea.

Esculapio la fissò spiacente, mormorando: «Dolore. Un dolore così straziante da averla fatta crollare.»

I due genitori tornarono a osservare la polla grondante sangue ed Esculapio, oscurandosi a quella vista, sfiorò il braccio di Astrea e dichiarò: «Andiamo. Non c’è molto tempo.»

***

9 agosto 1945 –Ras Alhague1, regno dell’inconscio

 

Esculapio sapeva di correre un rischio, richiedendo la presenza del Sommo Érebos, ma sapeva bene anche quali erano i suoi compiti come dio della medicina.

Al pari di suo padre Apollo, quando egli vestiva i panni del medico, le sue incombenze erano inderogabili. Nel caso in cui una divinità avesse dato segni di squilibrio o pazzia, lui avrebbe dovuto renderne conto al dio Ctonio dell’Oscurità, colui che disponeva della vita e della morte di ognuno di loro.

L’averlo convocato per decidere delle sorti di Astrea lo aveva quindi angustiato, ma non di meno si sarebbe tirato indietro. E sarebbe stata sua l’incombenza di spiegare ogni cosa a Eos e Astreo, qualora Érebos avesse deciso di eliminare la dea della Giustizia dal Piano Terreno.

Fu comunque con un brivido di aspettativa e timore, che avvertì l’arrivo di Érebos nel suo piano astrale. Era impossibile non rimanere colpiti dall’aura del suo potere devastante.

I serpenti che dimoravano nella sua casa, e che erano la sua primaria fonte di medicamenti per i suoi pazienti, scivolarono via lontani, rintanandosi nei loro anfratti senza più dare segno di alcuna attività.

L’oscurità era temuta anche dalle creature della notte, se prendeva le sembianze di Érebos.

Quando infine Esculapio lo vide giungere dal fondo del lungo corridoio, anche lui venne squassato da un fremito spontaneo e involontario.

Alto e imponente, le sue nere vesti si confondevano con i corvini capelli e, al pari di questi ultimi, fluttuavano come un’oscura nube senza fine, che pareva contenere i recessi stessi dell’Universo.

Il volto, bellissimo ed eburneo, era solcato in quel momento da una smorfia preoccupata ma, quando Esculapio si inchinò al suo cospetto, questa si trasformò in un quieto sorriso di saluto.

Per quanto il suo potere fosse immenso e devastante, e in tutti gli dèi egli incutesse un certo timore, la divinità Ctonia era la quintessenza della gentilezza, e le sue parole non erano mai spese invano.

«A cosa devo questo accorato richiamo, mio giovane amico?» domandò Érebos, poggiando delicatamente una mano sulla spalla di Esculapio.

«Grande è il mio timore, oh Sommo, poiché temo per la sorte della cara Astrea, caduta in un sonno inquieto e mai più risvegliatasi da quel giorno» esordì il dio della medicina, conducendo la divinità Ctonia in una vicina stanza.

Érebos si accigliò a quelle parole e, quando vide in volto l’addormentata Astrea, sospirò affranto.

La sua infinita bellezza sembrava spegnersi a ogni respiro, e le rughe sulla fronte della giovane dea indicavano la sua perenne ansia, il suo infinito stato di dolore, il suo conflitto senza soluzione di continuità.

Sfiorandole il viso con una mano, il dio Ctonio penetrò in lei con gentilezza, fuoriuscendone però sorpreso alcuni attimi dopo, quando disse: «Si sta autoflagellando!»

«Come, oh Sommo?!» esalò sgomento Esculapio.

Annuendo, Érebos aprì per il dio della medicina una finestra sulla mente di Astrea e, turbato, aggiunse: «Non desidera la morte, come tu forse temevi. Lei vuole soffrire. Agogna a prendere su di sé tutto il dolore delle genti perché pensa di meritarlo

«Ma perché? Cosa mai può pensare di aver fatto?» ansimò turbato Esculapio, scrutando ansioso il dio Ctonio.

«Come Giustizia, pensa di aver fallito nel proprio compito, forse non rendendosi conto che, da molti secoli ormai, la mente umana non ascolta più i nostri sussurri, né accetta i nostri consigli… se non quelli votati al male» sospirò Érebos, scuotendo mesto il capo.

«Quindi, cosa le accadrà, ora?»

Prima ancora di poter proferire parola, Astrea si inarcò verso l’alto come un arco teso e, dalla sua gola riarsa, un urlo disumano spezzò l’immota quiete di quei luoghi, sgomentando entrambi gli dèi.

Subito, Esculapio si avvicinò alla sua paziente per trattenerla dal cadere, ma ella non si rese minimamente conto della sua presenza ed Érebos, sospirando addolorato, esalò: «Non di nuovo…»

Esculapio si preoccupò immediatamente, a quelle parole e, nel rendersi conto del loro reale significato, mormorò turbato: «Questo la distruggerà.»

Astrea si dimenò tra le braccia di Esculapio, strinse le mani al petto come per volersi strappare via il cuore e in un ultimo, disperato tentativo di darsi dolore, svanì a sorpresa dinanzi ai loro occhi.

Esculapio crollò a mani aperte sul letto ormai vuoto, fissando sgomento una polla nera e imperscrutabile che galleggiava sopra le lenzuola al posto del corpo di Astrea.

A sua volta, Érebos fissò confuso quel pozzo di oscurità, esalando: «Cos’hai fatto, Astrea?!»

«Che le è successo?» gracchiò confuso Esculapio, risollevandosi per poi guardare turbato la divinità Ctonia.

«Ha imprigionato il suo corpo all’interno della propria mente… così soffriranno con maggiore intensità sia la carne che l’animo» ansimò il dio Ctonio dopo aver poggiato una mano sulla polla oscura e gorgogliante.

«Non è possibile» scosse il capo il dio della medicina, ancora incredulo.

«Anch’io lo ritenevo impossibile ma, a quanto pare, lei ha trovato la forza necessaria per tentare il mai tentato» sottolineò Érebos, volgendosi poi sorpreso quando udì la porta della stanza aprirsi.

Le due divinità scorsero sull’entrata la figura fiacca di Eos che, nel vederli entrambi accanto a un letto ormai vuoto, si portò le mani al volto per reprimere un grido e gorgogliò: «La mia bambina… che le avete fatto?!»

«Cheta la tua ira, perché è immotivata» iniziò col dire Esculapio, raggiungendo in fretta Eos prima che potesse commettere atti imperdonabili nei confronti di una divinità Ctonia.

Eos, però, si divincolò tra le braccia del dio e gli urlò contro disperata: «Sapevo che stava male, ma non dovevi chiamare il Sommo Érebos senza avvisarmi! Dovevo dirle addio, prima!»

La divinità Ctonia, osservando serafico la lotta della dea, si limitò a rispondere a quell’ingiustificata accusa: «Mai avrei fatto soffrire inutilmente una madre, Eos, né mi sarei permesso di fare qualsiasi cosa alle tue spalle, o a quelle di Astreo. Contieniti, quindi, e ascolta ciò che ho da dirti.»

Eos si ammutolì all’istante, di fronte al volto austero e serio di Érebos e, annuendo debolmente dopo diversi istanti passati a ritrovare l’autocontrollo perduto, mormorò: «Le mie scuse, ma il pensiero di mia figlia ha messo le ali al mio dire.»

Il dio Ctonio assentì più sereno e, nello sfiorare nuovamente la massa oscura che rappresentava l’animo ottenebrato di Astrea, dichiarò: «Tua figlia si è volontariamente chiusa in una prigione di dolore, convinta di essere la causa delle pene degli uomini. Al momento non mi è chiaro come vi sia riuscita, né come possa essere possibile riportare il suo corpo in questo piano astrale, ma non lascerò nulla di intentato, per salvarla.»

Eos annuì a più riprese, le mani artigliate alle braccia di Esculapio - che ancora la tratteneva - e, con le lacrime agli occhi, la dea domandò: «Cosa… cosa devo fare?»

«Posso lasciare aperta una breccia nei suoi pensieri perché sia sempre raggiungibile. Parlatele, state con lei nel suo personale mondo e cercate di ricreare in lei la fiducia persa nei propri mezzi. Credo sia l’unico modo di agire, al momento» dichiarò Érebos, lanciando poi uno sguardo al dio della medicina: «Non le servirà supporto medico, in questo frangente, ma solo psicologico. Cercate di non lasciarla mai sola. Io mi consulterò con Hypnos e gli oneiroi per capire come sia potuta succedere una cosa del genere e poi ti riferirò, oppure manderò direttamente qui i miei figli. Di più, penso non si possa fare, per ora.»

Esculapio assentì grato ed Eos, crollando contro il petto del dio, mormorò affranta: «Ma perché si è voluta addossare le colpe degli altri!?»

Il dio della medicina le carezzò comprensivo il capo biondo mentre la divinità Ctonia, tornando a osservare la polla di oscurità, mormorava sconfortato: «A volte, è difficile scindere se stessi da ciò che il Creato ci ha spinti a essere per millenni. La sua volontà di Giustizia era così forte che, non avendo potuto ottenerla, l’ha spinta a colpevolizzarsi.»

Ciò detto, Érebos si scusò con entrambi per poter raggiungere i suoi figli e, mentre il suo corpo si smaterializzava dal regno dell’inconscio per tornare sulla Terra, si domandò come avrebbe potuto agire per aiutare Astrea.

Mai nella sua esistenza era stato testimone di un simile evento e, pur sapendo quanto potessero essere enormi i doni degli dèi, non si era mai spinto a pensare che potesse accadere un fatto simile.

Quando Esculapio lo aveva chiamato, aveva temuto per la vita di Astrea, già presagendo di dover terminare la sua esistenza, ma quando aveva scorto il suo dolore e la sua pena, si era sentito smarrito e inadeguato.

Quanto doveva sentirsi sola e colpevole, in quel mondo onirico creato da lei stessa per autoflagellarsi in eterno?

Sospirando nel riprendere corporeità nel tempio di Nyx, Érebos si avviò in cerca dei figli e, quando Moros lo incrociò lungo uno dei corridoi, sollevò un sopracciglio con fare interrogativo e domandò: «Sicuro di non volere un passaggio altrove, padre? Non ti ho mai visto così turbato dacché sono nato.»

«Non è il momento di disturbare Chaos. O almeno spero» replicò il dio, dando una pacca sulla spalla al figlio.

Moros allora spallucciò e, nell’allontanarsi, chiosò: «Vedi tu, ma non è male parlare col vecchio, ogni tanto.»

Érebos sorrise a mezzo, nel sentire quel commento vagamente irriverente. Moros, però, era famoso per non avere peli sulla lingua, anche se era sovente assai criptico, nelle sue uscite.

In quel caso, però, non v’era alcun intento di esporre dei Misteri. Era soltanto il commento ironico di un ragazzo rivolto al proprio padre.

Il punto era un altro; l’intervento di Chaos si sarebbe reso necessario, o sarebbe bastato l’aiuto di Hypnos e degli oneiroi?

***

Hypnos impiegò diversi minuti, prima di rendersi conto della presenza del padre all’interno delle sue stanze emisferiche e, nel volgersi sorpreso a mezzo, esalò: «Padre! Come mai qui?»

Érebos si avvicinò al figlio, impegnato a visionare i pensieri errabondi dei mortali sul suo singolare planisfero luminoso. Ogni mortale perso nei sogni appariva come una pallida luce biancastra, mentre le divinità spiccavano per i loro colori dorati e brillanti.

«Immagino tu sia indaffarato, in questi giorni» esordì il dio, affiancandolo.

Hypnos si accigliò, a quelle parole, indicando un punto in particolare del planisfero, dove le luci erano intermittenti e fievoli. Il Giappone.

«I mortali sono folli. Quegli ordigni hanno creato un autentico putiferio, e ora la gente vaga nel regno dei sogni senza più una meta. Morpheus non riesce a calmarli in alcun modo, mentre Phobetor è sovraccarico di lavoro. Per non parlare di Phantasos! Non hai idea di quante persone sognino quelle maledette bombe sotto forma di mostri striscianti e ululanti!» sbottò Hypnos, ingrandendo con un tocco delle dita il punto incriminato del suo personale globo terrestre.

La divinità Ctonia assentì turbata e domandò: «Avresti qualche minuto da dedicarmi? Abbiamo un problema.»

Hypnos lo fissò pieno di curiosità, domandandosi quale potesse essere il problema che suo padre non era in grado di risolvere da solo. Dacché ricordasse, non era mai capitato che Érebos il Sommo non venisse a capo di un dilemma con le sue sole forze.

«Se posso esserti utile, ben volentieri ti aiuterò. Dimmi pure» assentì Hypnos, ascoltando quindi la dissertazione del padre in merito al caso di Astrea.

Mano a mano che il racconto si dipanava dinanzi a lui, il dio del sonno si sorprese sempre più fino a raggiungere lo stato di assoluta incredulità.

Quando infine Érebos terminò il resoconto di ciò di cui era stato testimone, Hypnos sospirò addolorato, mormorando: «Non oso neppure immaginare il dolore di Eos. Astreo ne è già al corrente?»

«Lo sta informando or ora Esculapio» disse il padre. «Che ne pensi? Credi ci sia qualche possibilità di riportarla indietro?»

«In tutta sincerità, padre, neppure sapevo che un corpo fisico potesse essere risucchiato in un sogno, figurarsi in un incubo» ammise spiacente Hypnos. «Astrea deve avere utilizzato una quantità di energia spaventosa, per rinchiudersi in quella gabbia senza sbarre.»

«E’ quello che temevo» sospirò il dio. «Ho lasciato aperto un varco per renderla raggiungibile ma, ben presto, questo si chiuderà. Non possiedo le tue stesse capacità di controllo, per quel che riguarda il sonno. Pensi di poter rendere permanente quel passaggio, almeno finché non capiamo come aiutarla?»

Hypnos assentì senza problemi. «Sì, questo posso farlo. Per quanto lei sia adirata con se stessa, non può tenermi lontana dal suo sonno, poiché io lo governo. Vi terrò aperto un varco così che possiate raggiungerla, ma davvero non so come si potrà sbrogliare, questa matassa. Non credo esistano precedenti in tal senso.»

Sospirando, Érebos annuì torvo e, con voce che denotava il suo profondo stato di ansia, mormorò: «E’ per questo che vorrei parlare anche con Morpheus e gli altri. Forse, assieme, potremmo essere più incisivi rispetto a una manovra in solitaria.»

«Te li manderò non appena saranno di ritorno» gli promise Hypnos, con un cenno del capo. «Certo che questa cosa proprio non ci voleva, ora come ora.»

«Che intendi dire?» domandò vagamente sorpreso il padre.

«Morpheus, Phobetor e Phantasos tornano sempre distrutti, in questi giorni. Non so quanto potranno essere efficaci su Astrea, se lei è così decisa ad auto-flagellarsi» sospirò Hypnos, scrollando impotente le spalle.

Érebos annuì sconsolato, tornando con lo sguardo alla planimetria della Terra. Non faticava a comprendere i motivi della stanchezza degli oneiroi; con un mondo così sottosopra e tormentato da tali demoni, era chiaro quanto le menti umane fossero cariche di disperazione e paura.

«Mi aiuteranno per quanto potranno, e se potranno» dichiarò a quel punto la divinità Ctonia, battendo una mano sulla spalla del figlio. «Ti lascio al tuo lavoro.»

«Mi spiace non poter essere maggiormente d’aiuto» sospirò Hypnos.

Érebos, per contro, gli sorrise e replicò: «Mi sei stato d’aiuto, invece. Anche il solo potertene parlare, mi è stato di conforto. Inoltre, mi aiuterai permettendomi di visitare i sogni di Astrea finché ve ne sarà bisogno. Non mi pare poco!»

Hypnos accennò un sorriso e il padre, stringendo maggiormente la mano che ancora era posata sulla spalla del figlio, aggiunse: «Voi mi siete sempre d’aiuto e conforto. Non dimenticatelo mai.»

Ciò detto, se ne andò e Hypnos, lasciato a se stesso il planisfero, si trasmutò nel regno di Esculapio per fare quanto richiesto dal padre. In casi estremi come quello, era meglio agire il prima possibile.

***

Quando Hypnos apparve all’interno dell’enorme clinica di Esculapio, si diresse immediatamente verso il luogo in cui avvertiva la presenza effimera di Astrea.

Era appena percettibile, poco più di un lumicino flebile e indistinto, ma ancora presente.

Affrettando il passo per non doversene pentire in futuro, Hypnos quasi investì Astreo, quando aprì la porta della stanza per catapultarsi in fretta all’interno.

Il titano lo afferrò per le spalle, sostenendolo mentre il dio del sonno si scusava per la sua irruenza.

Eos, da parte sua, sospirò sollevata nel vederlo, e domandò: «Ti manda Érebos?»

Lui assentì e, nell’osservare turbato il profondo buco nero da cui proveniva l’energia latente di Astrea, comprese appieno i motivi della tensione del padre.

Una cosa simile non si era mai vista, né sapeva neppure esattamente cosa potesse essere quello che stava guardando in quel momento.

Ugualmente, sfiorò quell’ombra senza fine e forzò le sue pareti per ottenere un passaggio diretto al suo interno più profondo. Nel farlo, perle cangianti gli si formarono sulla fronte, indice della profonda fatica che quel compito gli stava costando.

Digrignando i denti, Hypnos forzò ancora, borbottando: «Eh, no, Astrea. Ho il diritto di passaggio, credimi, e non ti permetterò di tenermi fuori dalla tua testa.»

Eos si mosse per fermarlo, a quelle parole ma Astreo la bloccò, scuotendo il capo ed Esculapio, rivolgendosi alla dea, disse: «Lascialo fare. Non le sta facendo del male, ma è vitale che il collegamento con lei rimanga aperto, e solo lui può farlo.»

La dea annuì a fatica e, tenendosi accanto al compagno, mormorò: «Non so se posso farcela…»

«Devi. Per lei» sottolineò Astreo, stringendola maggiormente a sé.

Hypnos sogghignò proprio in quell’istante e, vittorioso, dichiarò: «Aaah! Eccoti!»

Ciò detto, un barlume di luce fuoriuscì dal globo nero e senza fondo, da cui Hypnos estrasse una mano ricoperta di graffi ed ecchimosi.

Subito, Esculapio si avvicinò per controllare gli effettivi danni e il dio del sonno, lasciandolo fare, mormorò torvo: «Ora il passaggio non si chiuderà e potrete farle visita, ma prestate attenzione. Al momento, è adirata con me e potrebbe anche ferire qualcun altro. Direi di lasciarle il tempo di sbollire un po’.»

«Cosa ti ha fatto?» domandò turbata Eos.

Hypnos scrutò meditabondo le mani di Esculapio che, con competenza, stavano sistemando una fasciatura intrisa di medicamenti sulle sua pelle contusa e, con una scrollata di spalle, dichiarò: «Lei, nulla… questi sono gli effetti della bomba che rivede nella sua mente. Continua a ripercorrere quei momenti in un loop senza fine, e questi pensieri hanno una loro forza fisica.»

I genitori ne rimasero assai turbati ed Esculapio, con un sospiro, lasciò infine andare la mano del dio del sonno, asserendo: «Dovrebbero guarire nel giro di pochi giorni. Essendo state causate dal potere di una divinità, non si comportando come qualsiasi altra ferita, e sono un po’ lente a rimarginarsi.»

«Lo immaginavo…» annuì Hypnos. «…ma poco importa. Non fa così tanto male. Per ora, posso fare solo questo ma, non appena gli oneiroi torneranno, li manderò qui per una missione esplorativa.»

Entrambi i genitori assentirono alle sue parole e Hypnos, con un cenno a Esculapio, uscì dalla stanza, subito seguito dal dio della medicina.

Una volta soli, il dio del sonno aggiunse torvo: «Mio padre ha fatto bene a non terminare l’esistenza di Astrea perché, a tutti gli effetti, è pericolosa solo per se stessa, ma non offre spunti per pensare che voglia farla finita. Il punto è un altro; questo dolore protratto all’infinito potrebbe, sul momento, starle anche bene per punirsi in merito a colpe che crede sue ma, con il passare del tempo, la cosa potrebbe degenerare. Dovrai fare molta attenzione a cogliere i messaggi subliminali inviati dalla sua mente.»

Esculapio assentì grave, mormorando: «Ammetto senza problemi che è il caso più difficile che mi sia capitato. Le crisi d’identità le posso curare, così come le depressioni, ma questo…»

Hypnos assentì preoccupato, lanciando un’occhiata al battente chiuso della stanza. «Sì, non è per niente facile. Non appena mi raggiungeranno i miei fratelli, parleremo più approfonditamente dei segnali premonitori di un collasso sistemico. Loro sono molto più esperti di me.»

Esculapio annuì al dio e, insieme, ristettero silenti in osservazione della porta che li divideva da Astrea. Nessuno di loro sapeva bene cosa sarebbe successo, da lì in avanti, ma una cosa era certa.

Nulla sarebbe stato facile, d’ora innanzi.

 

 

 

1 Ras Alhague: (α Ophiuchi) è il nome della stella principale della Costellazione dell’Ofiuco. Stando al mito, Zeus tramutò il semidio Esculapio in una costellazione per riparare al fatto di averlo ucciso per futili motivi. Ho pensato di creare un legame tra i due eventi, ed è anche per questo che Esculapio appare solo come entità astrale, sul mondo terreno, e non ha un corpo vero e proprio se non a Ras Alhague.

 

 

 

N.d.A.: Tutto ciò che ho scritto e scriverò in merito agli eventi di Hiroshima e Nagasaki, (tranne ovviamente le interazioni di Astrea e Alekos con i cittadini delle due città) sono fatti realmente accaduti e tratti dal libro "Sopravvissuto alla Bomba Atomica" di Akiko Mikamo.

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Capitolo 59
*** Astrea - 2 - ***


2.

 

 

 

San Josè – Luglio 2022

 

Il profumo di salvia pervadeva l’intera stanza in cui Alekos si trovava e, quando nonna Anita mise nel braciere già fumante anche dei rametti secchi di lavanda, l’aroma divenne più forte, più aromatico e avvolgente.

Il primo tentativo di mettersi in contatto con Astrea era stato fallimentare per più di un motivo. Pur se Alekos era riuscito a penetrare nel suo sogno – rimanendo sconvolto dalle terribili immagini di Nagasaki, distrutta da Fat Man – il giovane non era riuscito a scorgere Astrea in quel mare di fuoco.

Nell’uscire dall’ambiente onirico, inoltre, aveva riportato diverse abrasioni e scottature, in gran parte causate dagli incendi perpetrati dalla bomba e che, nel sogno di Astrea, divenivano reali. Esculapio aveva dovuto curarlo sotto gli occhi turbati di Anita che, per tutta la durata del sonno indotto del nipote, aveva scorto con i suoi occhi le ripercussioni di quella prima missione.

Di comune accordo con Athena ed Érebos, Alekos aveva quindi deciso di approcciare il suo nuovo compito in maniera leggermente diversa, affrontando il problema con un occhio del tutto nuovo. Quello umano e, nello specifico, quello di Anita.

Astrea aveva avuto a che fare per decenni con persone del suo stesso pantheon, finendo con l’abituarsi alle loro presenze e al loro spettro energetico di origine divina. Forse, avvicinarsi a lei in modo diverso l’avrebbe spiazzata, mettendo Alekos maggiormente al sicuro dalle ripercussioni di quel mondo onirico così pericoloso.

Era possibile che, appoggiandosi a un credo differente, questo l’avrebbe aiutato a sfiorare la sua mente in modo tale da non irritarla, o spaventarla. Dopotutto, lui era stato battezzato – una volta uscito dall’Oltretomba, sua madre aveva accondisceso per rendere felice Anita – perciò aveva su di sé anche il marchio di un altro dio.

Dio che, nella stanza in cui sua nonna lo aveva condotto, era presente in modo chiaro e forte.

Quella stanza, ricavata nella piccola dependance che i coniugi Rodriguez avevano nella loro proprietà, solitamente ospitava i numerosi parenti in visita. In quel frangente, però, sarebbe servito come punto di partenza per il suo viaggio onirico nel mondo di Astrea.

Curiosando con lo sguardo, Alekos intravide la figura della Vergine di Guadalupe, poggiata su un altarino al pari di diversi fiori freschi, alcuni ceri al profumo di limone e a un piccolo crocifisso in legno e avorio.

Le pareti, in stucco veneziano color salmone, sembravano emanare calore e senso di protezione, forse anche grazie ai raggi di luce solare che penetravano dalle ampie finestre che si aprivano sulla stanza.

«Non avevo mai visto questa parte della dependance, prima d’ora» dichiarò Alekos, incuriosito da quel luogo così mistico e, al tempo stesso, così semplice.

Anita gli sorrise con aria vagamente ironica, replicando: «Capirai bene che, con un parentado come il nostro, questa stanza avrebbe potuto apparire… assurda. E’ per questo che, di solito, ci vengo solo io durante il día de los muertos.»

Alekos sorrise comprensivo, ammettendo senza remore che avere per parenti una buona parte del pantheon greco, poteva creare qualche problema a livello di fede personale.

«Se continui a prendertene cura, però, significa che qui trovi ancora sollievo e serenità» dichiarò il giovane, sfiorando con mano leggera un teschio di cristallo molato della grandezza di una mela.

Annuendo, Anita tirò le tende di batista per attenuare la luce presente nella stanza e, indicandogli un materassino steso sul pavimento di legno, ammise: «Posso credere nella divinità di tua madre e, al tempo stesso, pregare per il mio dio. Una cosa non esclude l’altra. Come voi stessi mi avete detto più volte, il pantheon greco non è l’unico presente su questo mondo.»

Nell’accomodarsi sul materassino, Alekos annuì tra sé. Sapeva della presenza di altre divinità appartenenti a pantheon diversi dal suo, perciò comprendeva appieno le parole di sua nonna. In un paio di occasioni, inoltre, aveva anche avuto modo di parlare con un esemplare appartenente a diversi pantheon, grazie alla sua peculiare unicità1.

Se esistevano loro, potevano tranquillamente esistere anche gli altri. Dipendeva soltanto dalla volontà della singola divinità, rendersi o meno visibile agli esseri umani.

Personalmente, non si era mai posto il problema relativo alla fede, né aveva mai pensato approfonditamente ai vari Credi religiosi terrestri. Avendo una famiglia come la sua, il limite era solo l’universo, perciò non faticava a credere nell’immateriale.

Se si aveva la forza sufficiente per aver fiducia al proprio dogma, non importava il pantheon a cui si faceva affidamento.

Sdraiatosi lentamente sul materassino mentre i profumi della stanza contribuivano a rilassarne le membra, Alekos mormorò: «Io credo in te, nonna. Su questo non ci piove.»

Anita sorrise al nipote e, nell’inginocchiarsi accanto a lui, dipinse due croci sulle sue mani con un impasto di verbena e salvia, asserendo: «Protegge dagli influssi maligni. Visti i precedenti…»

Alekos sorrise nel chiudere gli occhi e, con un sospiro, disse: «Io vado.»

La donna gli carezzò la fronte e, nel sistemargli alcune ciocche dei lunghi capelli, sussurrò: «Ormai devi tagliarli un po’, o comincerai ad assomigliare a Jared Leto.»

Il giovane scoppiò a ridere, tornando in sé per esalare divertito: «Nonna! Come faccio a concentrarmi se tu mi dici una cosa del genere?!»

Lei rise a sua volta, gli diede una pacca sulla spalla con la promessa di rimanere in silenzio ma, con una strizzatina d’occhio, sussurrò: «Però ho ragione.»

Alekos lasciò perdere, ridacchiando nel rimettersi disteso e, con un profondo sospiro, tornò a concentrarsi sulla propria mente e sul modo più veloce per distaccarsi dal proprio corpo.

Nel farlo, i ricordi lo riportarono come sempre a quei giorni passati nel ventre di Chaos e, pur sapendo che un evento simile non si sarebbe più ripetuto, interiormente rabbrividì.

Aveva rischiato l’annientamento suo e di Érebos, a causa della sua parte divina e, pur se ora ne aveva il pieno controllo, era difficile cancellare la paura provata al pensiero di aver fatto del male al proprio patrigno.

Ugualmente, non doveva lasciarsi andare a quei pensieri luttuosi o alla paura, ma concentrarsi unicamente sul suo compito.

“Non allarmarti, se ogni tanto pensi a Mister Sbruffone. Lo tengo a bada io, se ti fa paura” intervenne a sorpresa Eris, comparendo accanto a lui nel suo personale spettro mentale.

La condivisione di un unico filo le permetteva intrusioni simili e Alekos, non poche volte, l’aveva cercata col pensiero per essere certo che tutto andasse bene, per lei.

Vederla proprio in quel momento, quando per un istante aveva ceduto al dubbio, gli ridonò sicurezza ed Eris, dandogli un pizzicotto sul naso, aggiunse: “Sai benissimo che non si potrà più ripetere quel casino, perciò occupati di questa missione e non pensare ad altro. Io…”

Interrompendosi, Eris sbuffò contrariata e borbottò: “Me ne vado… devo pensare a uno scocciatore.”

Ciò detto, svanì dal suo spettro mentale mentre Alekos, estendendosi verso l’alto alla ricerca di Astrea, ghignò divertito, immaginando senza problemi chi fosse lo scocciatore di Eris.

***

Il vento la sferzava con il suo calore malsano, strappandole gli abiti di dosso e riducendo la sua pelle a una superficie raggrinzita e piagata, ricoperta di sangue purulento e impuro.

Arrancando alla ricerca di un riparo, Astrea venne più volte scacciata da persone indignate e ferite, che la additavano come la causa prima di quello sfacelo.

Ormai non ricordava neppure più quante volte avesse ascoltato quelle parole cariche di fiele, eppure ancora non aveva trovato il modo per scusarsi con ognuna delle persone a cui aveva cagionato dolore.

Era davvero una ben misera dea, e non meritava neppure l’amore e la compassione che i suoi genitori o Esculapio volevano condividere con lei.

Persino Érebos il sommo e i suoi figli si erano scomodati per lei, per la miserevole dea quale era, e anche per questo si era sentita immonda e immeritevole.

Il suo scopo nella vita sarebbe stato sempre e solo il dolore, come giusta punizione per non aver saputo guidare gli uomini e le loro deboli menti.

Se Giustizia non riusciva a portare a termine il proprio compito, quale altra ammenda da pagare poteva esservi, per lei, se non il rimpianto eterno?

Un soldato nipponico la scacciò di colpo, puntandole contro un fucile a baionetta e strappandola così ai suoi lugubri pensieri. Subito, Astrea si allontanò, non riuscendo ancora una volta a entrare nel campo di raccolta dei feriti.

Le era preclusa anche quella piccola concessione. Non poteva aiutare i feriti in alcun modo, poteva solo scorgerli da lontano e piangere per loro.

Arrancando lungo una salita che conduceva alle colline, raggiunse infine la pianta ove era solita sedersi per osservare lo scempio compiuto dalla sua inettitudine.

Da quel colle solitario, la baia di Hiroshima si scorgeva senza problemi e, da quella posizione privilegiata, lei poteva piangere e disperarsi, lasciando che il dolente pianto della terra martoriata penetrasse in lei.

Quel giorno, però, non trovò solo una pianta, ad attenderla, ma un giovane.

Appariva di bell’aspetto, lindo e pulito e dal viso solcato da un sorriso tenue, quasi non fosse sicuro di se stesso o delle proprie azioni.

Non lo conosceva, ma sapeva trattarsi di una creatura di origine divina. Nessun altro poteva attraversare il passaggio lasciato aperto da Hypnos tanti decenni addietro.

Interrompendo il suo incedere arrancante, Astrea mormorò roca: «Ti chiedo requie, viandante dei sogni. Non desidero parlare con te, né approcciarmi a te per ricevere una tua personale morale sul mio modo di vivere.»

Il giovane non le rispose, sedendosi a terra a gambe raccolte contro il torace e, col mento poggiato sulle braccia intrecciate, disse soltanto: «Il mare brilla ancora.»

Astrea si volse a mezzo, osservando quella distesa scintillante e pacifica che si estendeva in lontananza. Sì, le sue acque non recavano segno alcuno della distruzione perpetrata dall’uomo, né davano l’idea di racchiudere i sé i primi morti nucleari della storia.

Esso era immoto, tranquillo, baciato da un sole inclemente che non teneva conto dell’arsura provocata sulle ustioni purulente, o sulla pelle scarnificata dal fuoco e dalla radioattività.

Sì, il mare brillava ancora, ma era solo un’effimera pantomima di un mondo che non era più lo stesso, né mai lo sarebbe stato.

Terminata la sua salita con passo stanco e piedi piagati dalle pietre del sentiero, Astrea ristette dinanzi al giovane e, accigliandosi, disse nuovamente: «Non desidero parlare con te.»

«Va bene» mormorò il giovane, poggiando la schiena contro la pianta sotto cui si trovava, e che estendeva la sua ombra ben oltre le loro figure.

Adombrandosi ulteriormente, Astrea borbottò con tono più fermo: «E’ la mia pianta.»

Il giovane la squadrò con un solo occhio – l’altro era chiuso, il corpo rilassato in una posa di totale tranquillità – e replicò: «La mia prozia non sarebbe d’accordo.»

«Prozia? Che intendi dire?» esalò Astrea, ora fissandolo con aria confusa.

Alekos continuò a fingere disinteresse, anche se era ansioso che lei si accomodasse accanto a lui e non fuggisse dal suo tentativo di approccio.

Nonna Anita, però, era stata chiara. Per avvicinare una creatura inselvatichita come Astrea, doveva agire con cautela e non spingerla a tutti i costi a parlare.

Proprio per questo, nelle sue ultime incursioni, ne aveva solo studiato i movimenti, venendo così a scoprire quel luogo segreto in cui si rifugiava per sfuggire al dolore.

Il fatto che ogni tanto volesse discostarsi da quel mare di fuoco e morte era stato, per Alekos, un chiaro segno di speranza. Nonostante la decisione di soffrire per coloro che erano morti, anche Astrea aveva bisogno di rifuggire quell’ansia perenne, almeno per alcuni istanti.

Dopotutto, non voleva stare lì. Forse, più semplicemente, non sapeva più come fermare quel processo.

L’aria aggrottata di Astrea, così come il suo sbuffo irritato, lo riportarono al presente. Era chiaro quanto, in quel momento, avrebbe voluto gettarlo fuori dal suo sogno, pur non potendo.

Il condotto di Hypnos impediva il pieno controllo di Astrea su quel mondo, permettendo ai viandanti onirici come Alekos di andare e venire a loro piacimento. Questo, di certo, non significava che potessero variare qualcosa di quel regno; in questo, Astrea aveva ancora potere assoluto.

Il fatto di non poter essere tagliati fuori, comunque, era già un buon risultato.

Levando il viso a scrutarla, Alekos notò come la fronte della dea fosse solcata da profonde rughe d’ansietà. Rughe che, andando a incidere una pelle già piagata e debole, formarono sottili ulcerazioni rossastre e pronte a sanguinare.

Alekos se ne spiacque, ma non demorse. Ristette immobile e sorridente a guardarla, pronto a restare in silenzio anche per ore, pur di metterla a proprio agio.

Astrea, allora, bofonchiò nervosa: «Se ti manda mia madre, puoi dirle che le voglio bene, ma che non intendo interrompere ciò che sto facendo.»

«Non credo che tua madre mi vedrebbe volentieri. Pensò di uccidere mio zio, qualche anno fa e, per poco, non si arrivò a uno scontro tra lei e mia zia» gettò lì casualmente Alekos, chiudendo entrambi gli occhi e intrecciando le braccia dietro la nuca, mentre le lunghe gambe si stendevano sul terreno secco.

«Come?!» esclamò a quel punto Astrea, facendo tanto d’occhi.

Gettandosi in ginocchio accanto ad Alekos quando quest’ultimo non diede adito di voler concederle ulteriori spiegazioni in merito, la dea proseguì dicendo: «Spiegati meglio! Cosa fece, mia madre?!»

Grattandosi pensosamente una guancia, l’aria del tutto rilassata e per nulla in ansia – pur se dentro di sé fremeva d’impazienza – Alekos aggiunse: «Volle prendersi una vendetta nei confronti di mia zia Artemide, così pensò di ferirla uccidendo il suo attuale marito… mio zio, per l’appunto. Ma non lo fece, alla fine, se questo può consolarti.»

Portandosi le mani screpolate alle labbra per soffocare un grido inorridito, Astrea esalò sconfortata: «Ma perché tutto questo?!»

«Per via di Orione. La sai, no, la storia?» chiosò Alekos guardandola con aria serafica.

Astrea a quel punto tornò ad accigliarsi, si sistemò meglio accanto ad Alekos e borbottò: «Senti un po’, tu… chi saresti, per vantare tutte queste parentele così altisonanti?!»

«Sono Alekos, figlio di Athena. E tu?» disse con semplicità il giovane.

«Sai benissimo chi sono, o non saresti qui!» sbottò Astrea, già pronta a rialzarsi per andarsene.

«Mia madre mi ha insegnato a presentarmi sempre e comunque, con le persone che non conosco, e mia nonna si infurierebbe molto, se non lo facessi nel modo più corretto possibile» sottolineò Alekos con tono assolutamente sereno.

«Tua… nonna? Athena non ha genitori, a parte Zeus!» sbottò Astrea. «E anche lui, a dir la verità, è stato ben poco presente, per lei, durante la sua crescita.»

«Parlo della madre di mio padre. Anita. E’ un’umana» precisò a quel punto Alekos, sorprendendola.

«Athena… e un mortale?» esalò Astrea, bloccando la propria fuga per tornare a sedersi e conoscere altro. «Ma non è possibile!»

«Se vuoi, puoi assaggiare il mio sangue. Funziona meglio di qualsiasi carta d’identità» chiosò Alekos, facendo spallucce.

Astrea si accigliò, a quell’accenno e, indicando dabbasso verso la città in fiamme, borbottò: «Ho visto fin troppo sangue, per i miei gusti. Sei pregato di non parlarne con tanta superficialità.»

«Non intendevo mancarti di rispetto, ma so che è l’unico modo per essere riconosciuto da un’altra divinità» ci tenne a dire Alekos, tentato di afferrarle una mano perché non fuggisse.

Si trattenne solo a stento dal toccarla, pur se desiderava essere certo che non scappasse alla prima parola travisata e, con tono dolente, aggiunse: «Non era mia intenzione ferirti. Volevo solo presentarmi. Ma forse ho sbagliato.»

Astrea allora sospirò, si sistemò meglio a terra e domandò: «Quanti anni hai, Alekos?»

«Ventidue. Passai i miei primi anni di vita nell’Oltretomba finché mia madre non mi liberò, grazie ai buoni consigli di Érebos, conducendomi sulla Terra» le spiegò lui, sorprendendola ulteriormente.

Sbattendo le palpebre con aria confusa, Astrea esalò: «Ma… se eri morto, come hai potuto…?»

«E’ una storia piuttosto lunga e complicata. Se hai tempo, te la racconterò» disse a quel punto Alekos, lappandosi nervosamente le labbra in attesa di una sua risposta.

«Non ho dove altro andare» sbuffò Astrea, e al giovane spiacque che la dea la pensasse a quel modo.

Davvero credeva che il mondo non la rivolesse più? Che quel luogo di dolore potesse – e dovesse – essere la sua unica casa?

Cercando di non mettere a parole il proprio sconforto, Alekos iniziò quindi col dire: «Mio padre amava il mare e il surf. Conobbe mia madre in un parco acquatico nei pressi di Los Angeles.»

«Sapevo che Athena aveva lasciato l’Olimpo, ma non pensavo che volesse accoppiarsi con gli umani…» dichiarò con una certa acredine Astrea prima di rendersi conto della propria indelicatezza.

Alekos, però, non diede adito di essersi offeso e la dea, ora spiacente, mormorò: «Intendevo dire che non sapevo che Athena desiderasse concepire un figlio. Si è sempre tenuta a distanza dalla maternità. Immaginavo che il suo allontanamento dall’Olimpo fosse dipeso da un litigio con Zeus, non dal suo desiderio di maternità.»

Il giovane scrollò le spalle e replicò: «Non ti so dire da cosa dipese. Non ne parlo mai, con mamma, e neppure con il nonno. Del suo passato sulla Terra so soltanto che vagò senza meta per molto tempo, visitò un sacco di posti e conobbe molte persone, ma fu con mio padre che decise di vivere come una donna, e non come una dea.»

«Immagino si addolorò molto per la tua morte…» ipotizzò Astrea.

Alekos storse appena il naso e asserì: «Morimmo lo stesso giorno. Lui, in mare, e io nel ventre di mamma.»

Astrea sgranò gli occhi per la sorpresa, a quella notizia e, sempre più contrita, esalò: «Oh… non sapevo che tu…»

Lui scrollò le spalle, limitandosi a dire: «Mamma ebbe una crisi, quando seppe della sorte di mio padre. All’epoca era sola, non aveva più contatti con la sua famiglia, perciò Demetra non poté aiutarla con me e Thanatos giunse subito, al richiamo del filo della mia vita che si spezzava. Fu a quel punto che intervenne Érebos.»

Sbattendo le palpebre con aria ora totalmente sconcertata, Astrea mormorò turbata: «Il… il Sommo Érebos intervenne per aiutare Athena… e te? Per quale motivo tentò di bloccare l’agire del figlio?»

Alekos sorrise in risposta, mormorando: «E’ il mio secondo padre da quel giorno. Amava da molto tempo mia madre e, quando Thanatos gli disse quello che stava succedendo - e ciò che lui avrebbe dovuto fare - intervenne per salvare il salvabile. Il tutto, però, richiese diverso tempo, tempo che Thanatos impiegò per portarmi nell’Oltretomba come era suo compito. A giochi fatti, io ero vivo, legato all’anima di mia madre, ma non assieme a lei.»

Basita, Astrea esalò: «Un battesimo alla vita davvero incredibile. Mi spiace, comunque, che tuo padre non abbia potuto conoscerti.»

«Oh, ma lui mi conobbe» dichiarò lui, sorprendendola ulteriormente. «La sua anima rimase aggrappata ai ricordi e divenne senziente, perciò potei conoscerlo nel regno di Ade, e lui poté conoscere me. Impiegò diverso tempo prima di comprendere che ero suo figlio, ma alla fine potemmo stare insieme per un po’. In quei primi anni, mia madre venne tenuta all’oscuro del mio reale destino – nessuno osò avvicinarla, perché stava soffrendo moltissimo – così, a turno, tutti gli dèi si presero cura di me, finché il prozio Poseidone non decise di dirle la verità.»

«Immagino che per tua madre debba essere stato davvero straziante… soprattutto se si considera il rapporto assai conflittuale che esiste tra Athena e Poseidone» convenne Astrea, ascoltando rapita il racconto del giovane.

Alekos annuì e ammise: «Érebos non volle dirle nulla perché riteneva di non essere riuscito a compiere un gesto risolutivo. Si sentiva così in colpa nei suoi confronti! Gli altri dèi, invece, avevano paura delle sue reazioni.»

A quell’accenno, Astrea asserì con un certo divertimento: «Dalla dea della guerra, puoi aspettarti di tutto.»

«Già» ammiccò complice Alekos. «Comunque, Érebos passò quei miei primi anni nel regno di Ade immerso nello studio, sicuro di poter trovare il modo di liberarmi dall’Oltretomba. Poseidone, nel frattempo, decise di spezzare il silenzio che circondava mia madre, conscio che altrimenti sarebbe incorsa in un pericolo più grande del dolore.»

«L’autodistruzione» annuì recisamente Astrea. «Beh, se sei qui per questo, posso rassicurarti fin d’ora. Io non mi autodistruggerò di sicuro.»

«Oh, ne sono consapevole, altrimenti non avresti vissuto qui per così tanti decenni» dichiarò lui, sorprendendola un poco. «Ma sei l’unica che non ho mai conosciuto, e così ho pensato di venire, visto che era l’unico modo per vederti.»

«In che senso, scusa?» borbottò Astrea.

«Semplice. Io desidero conoscere tutti i membri del Pantheon greco perché sono parte della mia famiglia, e tu restavi l’ultima della lista. Ho conosciuto anche Chaos, e onestamente è stato più semplice che incontrare te» sottolineò Alekos, sorprendendola non poco.

«Chaos? Ma… sei certo di quel che dici? O mi stai prendendo in giro?» esalò la dea, fissandolo con aria confusa.

«Vesto semplicemente la verità con l’abito che più le si addice2. Dovresti prendermi in parola quando dico; ho davvero conosciuto Chaos» motteggiò Alekos, vedendola accigliarsi per diretta conseguenza.

Il giovane allora ridacchiò, si scusò con la dea e replicò a mo’ di spiegazione: «Scusa. E’ la battuta di un’Anime giapponese che ho visto in Italia qualche anno addietro, con il doppiaggio in italiano. Mi sembrava che si addicesse al momento.»

«Un… Anime? Parli in modo davvero strano» storse il naso Astrea.

«Si tratta di un cartone animato. Come quelli di Walt Disney, che immagino avrai conosciuto, a suo tempo, ma questo in particolare parla di dèi e di cavalieri… anche se forse rimarresti sconvolta da alcune trasposizioni fatte. Mia madre è la dea che guida i giusti cavalieri di bronzo in ogni battaglia, per esempio» le spiegò Alekos, con un sorriso sempre presente in volto.

«D’accordo, ora mi stai prendendo davvero in giro! Tua madre in un cartone animato?» gracchiò Astrea, incredula. Gli occhi azzurro cielo erano sgranati e pieni di meraviglia frammista e incomprensione.

Alekos, allora, scoppiò in un’allegra risata e replicò: «Non le hanno chiesto di certo il permesso! Hanno inserito un personaggio come guida spirituale di questi cavalieri, e hanno deciso che dovesse trattarsi di Athena.»

«E tua madre come l’ha presa, quando l’ha saputo?» si interessò a quel punto Astrea, levando un sopracciglio con interesse.

«Ha una sua action figure in camera da letto» ammise Alekos, prima di spiegarsi meglio. «Una raffigurazione, una sorta di statuina. Gliela regalò zio Hermes alcuni anni addietro.»

Astrea si passò le mani sul volto, chiaramente frastornata da quel mare di novità, ed esalò: «Sento che non mi stai mentendo, ma è tutto così assurdo!»

«Beh, in effetti, fin qui la mia vita è stata davvero assurda» ammise il giovane, volgendo lo sguardo quando avvertì una presenza estranea nei pressi dell’altura.

A sua volta, Astrea si accigliò e, nel levarsi in piedi, borbottò: «Arrivederci, Alekos.»

Ciò detto, svanì in un baluginio argentato e, mentre Alekos si levava in piedi per accogliere l’arrivo di Eos, sospirò spiacente e anche vagamente irritato. Era un vero peccato che non fosse rimasta, me era già qualcosa che non lo avesse cacciato a male parole alla sola vista.

Di sicuro, però, avrebbe preferito che Eos non si fosse intromessa così, vanificando a quel modo ogni suo sforzo.

Quando la dea dell’aurora infine giunse accanto a lui, sospirò frustrata e disse: «Lo fa sempre. Quando sente la mia presenza, fugge.»

«Teme una tua reprimenda» le confidò Alekos.

«Non dovrei forse fargliela?» mormorò afflitta la dea, indicando con un ampio gesto del capo tutto ciò che li circondava.

Alekos non faticò a comprendere le parole di Eos. Quel luogo di desolazione e morte non poteva certo essere un buon posto in cui vivere, ma gettarlo in faccia ad Astrea non era la soluzione ideale per avvicinarla.

«Piuttosto, …tu e lei di cosa parlavate?» si informò Eos, curiosa.

«Dell’action figure che Hermes regalò a mia madre» dichiarò Alekos, sorprendendola non poco.

«Che cosa? Parlavate… di un giocattolo?» gracchiò la dea, incredula. In questo, madre e figlia si somigliavano molto. Avevano lo stesso modo di far rizzare le sopracciglia bionde.

Addolcendo lo sguardo, Alekos le sfiorò un braccio con una carezza e aggiunse: «So di chiederti molto, Eos, ma ascolta ciò che ho da dire. Astrea non accetterà mai di tornare, se tu o Astreo la assillerete con le vostre richieste. Deve desiderare di tornare senza essere spinta a farlo.»

«E lo farà ascoltando storie di pupazzetti?» lo denigrò Eos, irritandosi immediatamente.

Imperturbabile ai capricci del carattere di Eos, Alekos replicò: «Ascolterà la mia storia. Vedrà che qualcun altro si è perso ed è tornato a riemergere dal buio in cui era caduto. Non ha bisogno di sapere cose che già sa, e cioè che l’eternità ha molto da offrirle, e che voi la amate, ma deve scoprire cose che non sa, e di me non sa nulla.»

«Pensi che basterà?» borbottò dubbiosa la dea.

«Non ho risposte in tal senso, e mio fratello Moros non è stato molto generoso, quanto a predizioni» ammiccò divertito Alekos. «Ho interpellato anche lui, ma mi ha soltanto detto di comprarmi della crema solare. Non molto utile, in effetti.»

Sbuffando, Eos borbottò: «Quel ragazzo è davvero insopportabile, quando ci si mette.»

«Porta avanti il suo compito, esattamente come io intendo fare con questo. Ho deciso di aiutare Astrea e a ciò mi atterrò, ma ti chiedo… non tornare, se desideri soltanto assillare tua figlia. Non otterrai nulla, così.»

«Tse… avere il filato di Eris ti ha fatto diventare più irrispettoso, a quanto pare» brontolò Eos, scuotendo irritata il capo.

«Io sono orgoglioso di condividere il suo filato, e ciò che tu vedi come mancanza di rispetto, è solo la richiesta dettata da una persona che desidera operare per il meglio» replicò serafico Alekos.

«Non lascerò qui mia figlia da sola! Sappilo!» sbottò allora Eos, fissandolo astiosa.

«Allora, lei non ti parlerà mai. Mi spiace per te, Eos» mormorò il giovane, chiudendo gli occhi per tornare nel proprio corpo.

Quando riemerse, sospirò per la stanchezza, osservò la nonna con aria infastidita e mormorò: «A volte, vorrei prendere a schiaffi le persone.»

Anita scoppiò a ridere, lo aiutò ad alzarsi e ammise: «Capisco bene cosa vuoi dire e, anche a me, a volte prudono le mani.»

Abbracciandola, Alekos allora mormorò: «Grazie, nonna. Tu sai sempre cosa dire, per risollevarmi il morale.»

La donna gli diede delle calorose pacche sulla schiena e, nel riaccompagnarlo all’esterno della dependance, disse: «Io ci sarò sempre, per voi, ma ora riposa un po’ e porta lontano da questa casa tuo cugino. Sta rischiando di far andare fuori di testa le mie ragazze.»

Seguendo incuriosito lo sguardo della nonna, Alekos cercò di comprendere il motivo di tanta preoccupazione – misto a una buona dose di divertimento – e, quando infine vide Eros accanto alle sue cugine, scoppiò a ridere.

«Oh, capisco. E’ venuto lui a prendermi?»

«Già, ma non ho fatto in tempo a tener lontano le ragazze dal suo bel faccino» sospirò Anita, scoppiando suo malgrado a ridere assieme al nipote.

Affrettandosi a raggiungere la casa della nonna, Alekos si avvicinò a Eros che, nel vederlo, sollevò una mano e dichiarò: «Le tue cugine sono assai simpatiche. Avrei dovuto venire prima, a trovarle.»

«E Psiche sarebbe stata d’accordo con te?» ironizzò Alekos, avvolgendo le spalle delle cugine con le braccia, quasi a volerle proteggere dal fascino di Eros.

Linda e Carmen gli tributarono un eguale sorriso di saluto e quest’ultima, con ironia pari a quella di Alekos, replicò: «Io sono più che sicura che Psiche non potrebbe mai essere gelosa di noi.»

Il giovane le baciò entrambe sul capo – essendo molto più alto di loro, gli riusciva bene – e ribatté: «Mai sfidare la gelosia degli dèi, mia cara. E poi, io vi trovo bellissime.»

Le cugine risero compiaciute e, dopo un doppio bacio sulle guance ad Alekos, si accodarono a una accigliata Anita che le richiamò subito all’ordine, riportandole in tutta fretta in casa.

Eros le osservò per un attimo prima di rivolgersi ad Alekos, ancora tutto sorridente, asserendo: «Mi mancava, il mondo degli umani. Mi sono sempre trovato assai bene, qui.»

«Vedo che non hai più problemi. L’avvelenamento è del tutto sparito, quindi» chiosò Alekos.

Il dio dell’amore assentì, scrollando poi le spalle con fare indolente. «Esculapio vorrebbe che io passassi da lui più spesso per dei controlli approfonditi, visto che gli organi erano stati assai colpiti dall’infezione, ma io sto bene! Non sento più alcun dolore.»

Alekos lo fissò con indulgenza, sapendo ormai bene quanto gli dèi detestassero gli ordini o le imposizioni di qualsiasi genere, anche quelli che riguardavano la loro salute.

«Ora, però, sarà meglio se andiamo. Parleremo in modo più approfondito di me una volta raggiunta casa tua. Athena ci vuole là immediatamente.»

Accigliandosi, Alekos domandò: «E’ successo qualcosa?»

«Nulla di brutto, non temere, ma aveva una certa fretta, quando mi ha spedito qui» ammiccò lui, allungandogli una mano.

Alekos la afferrò lesto e, in un lampo, lui ed Eros trasmutarono lontano da San José, diretti verso novità di cui il giovane non sapeva assolutamente nulla.

 

 

 

 

1 Parlo del personaggio di Benjamin Thomson, figlio di Joy Patterson e Morgan Thomson, apparsi nella mia storia original intitolata “Ali Scarlatte”. Per chi non l’avesse letta, trattasi di una Fenice che, per l’appunto, appare in quasi tutti i Pantheon, sotto diversi nomi. Fenice per i greci, Benu (o Bennu) per gli egizi, Garuda per gli indù, Fenghuang per i cinesi e così via.

2 La frase citata da Alekos appartiene al personaggio di Artax, apparso nella seconda stagione de “I Cavalieri dello Zodiaco”, nel ciclo di Asgard.

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Capitolo 60
*** Astrea - 3 - ***


 

3.

 

 

 

Santa Cruz (Moore Creek Preserve) – Luglio 2022

 

 

Quando Eros e Alekos riapparvero dinanzi alla villa di Athena ed Érebos, il giovane semidio afferrò a un braccio il cugino prima di entrare nell’abitato e, turbato, domandò: «Sei assolutamente sicuro che non sia successo nulla, vero?»

Eros lo fissò pieno di comprensione, ben sapendo quanto avesse sofferto Alekos pochissimo tempo addietro – e quanto avesse fatto soffrire i suoi stessi genitori – perciò, annuendo, disse con assoluta serietà: «Stai tranquillo. I tuoi genitori stanno bene, così come il resto del parentado… più o meno.»

«Intendi Astrea? O qualcun altro sta male?» esalò il giovane, impallidendo visibilmente.

«Intendevo dire proprio Astrea. Rilassati, ragazzo, o diventerai prematuramente canuto» ironizzò Eros, dandogli una pacca sulla spalla.

Abbozzando un sorriso nell’avviarsi verso la porta d’entrata, Alekos replicò un tantino più tranquillo: «Scusa, ma negli ultimi mesi sono stato abbastanza fuori di me e perciò tendo a essere un po’ prevenuto, quando non so le cose.»

«Deimos e Phobos mi hanno spiegato per sommi capi quel che ti è successo e… cavoli, ragazzo! Tu sei davvero la quintessenza dei primati!» rise Eros, stringendogli comprensivo una mano sulla spalla. «Presto o tardi dovrai anche spiegarmi come sono andate le cose, perché i miei fratelli tendono a fare un po’ di confusione, quando si spiegano.»

«Quando vuoi» acconsentì Alekos, aprendo la porta di casa per poi annunciare il loro arrivo.

Dioniso li salutò per primo, sbracciandosi calorosamente dal divano ed esclamando il nome di Alekos ed Eros a gran voce, neanche si fossero trovati a miglia di distanza.

Più composta, Eris sorrise a mezzo dalla sua poltrona e bofonchiò: «Scusatelo. E’ in libera uscita, e risulta essere un po’ scalmanato.»

Athena ed Érebos tornarono in quel momento dalla cucina, armati di ampi vassoi ricolmi di cibo e brocche di ambrosia e, sorridenti, li salutarono entrambi.

Incuriosito, Alekos tolse le brocche dalle mani dei genitori e domandò: «Cosa festeggiamo? Eros mi ha detto che avevate fretta di rivedermi a casa.»

Athena sorrise al figlio nell’appoggiare i vassoi sul tavolino del salotto e, annuendo, ammise: «Beh, volevo fossi presente, quando avrei detto a tutti che aspetto un bambino.»

Alekos fece tanto d’occhi, a quella notizia e, prima di causare danni, poggiò in fretta le brocche sul tavolino dopodiché abbracciò la madre pieno di eccitazione ed esalò: «Oh, cielo! E’ bellissimo!»

Érebos sorrise nel notare la gioia genuina del figlio adottivo e, premuroso, aggiunse: «E’ quasi del tutto certo che nascerà come una divinità, almeno stando a Demetra, perciò volevamo essere sicuri che…»

«… che non ne fossi geloso? Per carità!» rise Alekos, terminando la frase del padre. «Avevo sempre dato per scontato che, se aveste avuto un figlio, sarebbe nato con connotati del tutto divini, perciò non vedo il problema. Io amerò mio fratello – o mia sorella – come voi amate me e io amo voi, o forse anche di più.»

Volgendosi poi verso Eris e Dioniso, il giovane domandò: «E voi? Come mai siete qui?»

«Ho aiutato Demetra con tutti gli esami di tua madre» si limitò a dire Eris con una scrollatina di spalle.

Alekos la ringraziò – guadagnandosi un grugnito in risposta – mentre Eros, allungando una mano ai futuri genitori, chiosava: «Le congratulazioni sono d’obbligo. Siamo i primi a saperlo, per caso?»

Annuendo, Athena disse: «A parte Demetra, sì, siete i primi.»

«Allora, prenderò congedo per riferirlo a Psiche. Lei ama queste cose» dichiarò Eros prima di guardare Alekos e aggiungere: «La nostra chiacchierata è solo rimandata, ragazzo. Devi raccontarmi tutto della tua avventura.»

«Non mancherò. A presto, Eros» assentì il giovane, guardandolo mentre trasmutava per raggiungere Psiche.

Nell’accomodarsi sul divano, Athena scrutò curiosa il figlio e gli domandò: «Com’è andata la tua missione? Hai avuto successo, stavolta?»

«Ho parlato con Astrea, sì» assentì il giovane, trovando il plauso dei presenti. «Ho anche litigato con Eos, nel mentre, ma quello lo avevo messo in conto.»

Un po’ sorpresa, Athena gliene chiese i motivi e, dopo aver conosciuto le argomentazioni del figlio, sospirò ma ammise: «Capisco le reticenze di Eos, ma so che hai ragione. Quindi, tornerai da lei?»

«Sì. E, proprio come farò con Eros, anche a lei racconterò la mia avventura. Spero, a questo modo, di farle capire che non può prendersi la colpa per le decisioni che altri hanno preso. Lei non può opporsi al libero arbitrio… anche se è una dea» sospirò Alekos, scrollando le spalle con fare mogio.

La madre gli sorrise comprensiva e, indicandogli piena di curiosità le mani, domandò: «Quelle croci sui dorsi le ha fatte Anita, vero?»

«Servono a proteggermi dal potere di Astrea e, a quanto pare, funzionano. Stavolta non mi sono ustionato» commentò Alekos, osservando le intricate decorazioni a forma di croce che la nonna gli aveva dipinto sulle mani con del concentrato di Henna.

Dioniso le scrutò con interesse, asserendo: «Non conosco molto la cultura cristiana, ma so che hanno simbologie molto potenti. Dici che, con queste sulle mani, le energie prodotte da Astrea sono state calmierate?»

«Mi viene il sospetto che, essendo un simbolo appartenente a un pantheon diverso, funga da scudo contro il potere latente di Astrea. Pare non riesca a riconoscerlo così, se anche avviene qualcosa di traumatico, non ne subisco gli effetti» cercò di spiegare Alekos. «Secondo nonna, poteva essere un buon metodo per mettermi al riparo da eventuali disastri, e pare abbia funzionato.»

Dioniso annuì pensieroso, ma disse: «Quando, però, saprà riconoscerli, diventerai di nuovo vulnerabile.»

«Spero che, nel frattempo, la sua rabbia sia un po’ scemata» ammise Alekos prima di notare un particolare che, in precedenza, non aveva notato.

Adocchiando con maggiore attenzione il polso destro di Eris, storse il naso e borbottò: «Zia… da quando in qua porti gioielli? E’ un altro scherzo di Afrodite?»

A sorpresa, Dioniso scoppiò a ridere mentre Eris, irritata, sollevava il braccio incriminato per dire gelida: «Se conosci il modo di toglierlo, ti sarò grata a vita. Comunque, è uno scherzo di Dioniso, stavolta.»

Mentre Athena ed Érebos tentavano di non ridere a loro volta, di fronte al volto paonazzo e irritato di Discordia, Alekos studiò con attenzione il sottile filo d’argento e diamanti che brillava al polso della dea ed esalò: «Ma… come ha fatto a mettertelo senza che tu te ne rendessi conto?»

«Nel sonno» bofonchiò Eris.

Strabuzzando gli occhi per la confusione, Alekos fissò pieno di sorpresa Dioniso e domandò costernato: «Ti sei infilato nel suo tempio… con Homados e Proioxis di guardia? Sei pazzo, per caso?!»

«E’ qui che viene il bello, ragazzo» dichiarò orgoglioso Dioniso, ricevendo per diretta conseguenza un calcio nello stinco da parte di Eris. «Ahia! Smettila di fare la selvatica, e lascia che spieghi la mia genialità ad Alekos.»

«Ti ci strozzerò, prima o poi, con la tua genialità» brontolò Eris, intrecciando le braccia sul seno con espressione irritata.

Dioniso non le fece caso e continuò dicendo: «Come tu saprai, quelle due aquile mastodontiche hanno un unico amore… a parte la loro padroncina, ovviamente.»

Alekos assentì cauto, sapendolo più che bene. «Sì, la carne di cervo. Non dirmi che...»

Ghignando furbo, Dioniso assentì e disse: «Ho preso in prestito uno dei cervi di Artemide… sai, non sono esattamente molto esperto delle zone di caccia terrestri, e poi avevo fretta. Per farla breve, comunque, ne ho preso uno dalla sua riserva e l’ho regalato a quelle due adorabili bestiole che, tutte prese da quel pranzo gratuito, si sono distratte a sufficienza così da permettermi di entrare.»

Alekos sospirò, scuotendo il capo, e domandò: «E Artemide non ti ha detto nulla?»

«Ci arriveremo dopo» disse lesto Dioniso, scuotendo una mano come per cancellare quel particolare apparentemente insignificante. «Come un ninja, mi sono intrufolato nel tempio fino a raggiungere le stanze di Eris e lì, grazie alla mia genialità, le ho fatto dono del bracciale che hai visto.»

«Hai chiesto a Efesto di manipolarlo come Era fece con il trono di nonno Zeus, giusto?» ipotizzò Alekos, guadagnandosi un’occhiata basita da parte di Dioniso.

Eris si liberò in un sorriso pieno di esaltazione mentre Dioniso, tutto preoccupato, esalava costernato: «E… e tu come conosci quel trono

Ridacchiando divertito, mentre i genitori stavano perdendo la loro battaglia per non ridere, Alekos si limitò a dire: «C’ero anch’io, quando nonna Era ne fece un discreto uso.»

«Penso che andrò da Efesto adesso» dichiarò ghignante Eris, lanciando un’occhiata di fuoco a un disperato Dioniso.

«Oh, no, dai! Non fare così, Eris, ti prego!» si lagnò il dio, allungando una mano per trattenerla prima che lei fuggisse via.

Eris, però, fu più veloce e, dopo una strizzata d’occhio ad Alekos, svaporò sotto gli occhi dolenti di Dioniso che, l’attimo seguente, la seguì per intercettarla prima che raggiungesse Efesto.

Scoppiando a ridere assieme ai genitori di fronte a quell’assurda sceneggiata, Alekos esalò: «Eros si è perso uno spettacolo eccezionale. Credo che avrebbe apprezzato anche lui i maldestri tentativi di Dioniso di fare la corte a Eris!»

Asciugandosi una lacrima d’ilarità, Athena assentì e aggiunse: «Avrebbe apprezzato anche la punizione di Artemide a Dioniso, credo.»

Curioso, il giovane le domandò: «Cos’ha fatto, zia Arty?»

«Non ti sei chiesto come mai Dion non si sia mai appoggiato allo schienale del divano?» replicò piena di ironia la madre, incuriosendo ulteriormente il figlio.

«Non mi dire che…»

Érebos emise un risolino divertito e disse: «Arty lo ha riempito di staffilate, quando si è accorta del furto, ma Dioniso non ha mosso un dito per fermarla.»

Arrossendo leggermente, Alekos borbottò: «Ah, beh… credo di sapere il perché. Zio Dioniso ha una stanza un po’…particolare, nel suo tempio, perciò credo ci sia abituato.»

«Oh» esalarono i due dèi, vagamente sorpresi.

«Ne rimasi assai sorpreso e sconvolto anch’io, perciò scappai a gambe levate da quella parte del tempio per rifugiarmi altrove» ammise Alekos.

Di quella scappatella non aveva raccontato molto, ai genitori poiché, alla fine dell’opera, vi erano stati eventi ben più importanti a cui dare peso, in quel periodo.

Con l’arrivo di un fratellino – o una sorellina – Alekos, però, decise di dimostrare tutta la maturità e serietà ritrovate e aggiunse: «Non ne abbiamo più parlato, ma vorrei scusarmi per aver ingannato Ares, quella volta. Con lui mi sono già scusato, ovviamente, ma con voi non avevo più fatto accenno a quel fattaccio.»

Athena scrollò le spalle e replicò: «Ti divertisti, almeno?»

«Ah… temo che le bevute non siano il mio forte» ammise ridacchiando Alekos, passandosi nervosamente una mano sulla nuca. La trovò umida d’ansia. «Inoltre, Dioniso ha un gusto per la… promiscuità che va ben oltre le mie attuali possibilità di resistenza.»

Érebos sorrise divertito, asserendo: «Dioniso non c’è mai andato per il sottile, coi divertimenti. Immagino vi fossero tutte le creature del pantheon, a quella festa.»

«Tu ne sei al corrente per quale motivo, caro?» ironizzò Athena, scrutando piena di curiosità il compagno.

La divinità Ctonia scrollò le spalle con naturalezza, replicando: «Non ho passato tutto il mio tempo chiuso nel mio studio, sai, in questi millenni?»

Alekos scoppiò a ridere, di fronte a quella confessione spassionata e Athena, ora più che mai curiosa, gli chiese: «Oh… e dimmi; quali erano i tuoi divertimenti preferiti?»

«Le libagioni. Senza alcun dubbio. Dioniso è un padrone di casa assai generoso, e le pietanze che serviva erano sempre eccellenti» dichiarò senza alcun problema Érebos, sfidando la compagna a replicare alle sue parole.

Athena si accigliò un poco, lo studiò nei profondi occhi blu senza trovarvi alcuna menzogna ma, non del tutto sicura, replicò: «Chiederò ai miei fratelli… e non ti dirò quali. Voglio vedere cosa mi diranno loro.»

«Fai pure. Sono candido come un giglio» dichiarò sicuro di sé Érebos.

La dea storse il naso e Alekos, nello scoppiare a ridere, dichiarò con calore: «Grazie, papà… davvero.»

«E di cosa?» domandò curioso il dio.

Alekos scosse il capo, si levò dal divano per raggiungerli e, dopo essersi inginocchiato dinanzi a loro, li abbracciò con forza, mormorando: «Di tutto.»

***

Impegnato a sistemare la cucina dopo aver preparato per sé una pizza – aveva preferito lasciare soli i genitori perché si godessero una cenetta a lume di candela – Alekos sobbalzò per la sorpresa quando percepì la presenza di un immortale in avvicinamento.

Volgendosi a mezzo, vide infine comparire una nuvoletta multicolore che, a sorpresa, lasciò il campo a Eros e Psiche.

Raramente aveva incontrato l’affascinante dea protettrice delle fanciulle ma, come sempre, un piccolo sospiro di delizia gli sfuggì dalle labbra. Per quanto lo riguardava, neppure Afrodite era bella quanto lei, ma di certo non lo avrebbe mai ammesso con la dea della bellezza.

Il fatto che, oltretutto, possedesse un’intelligenza sottile e sopraffina, accentuava in lui la sensazione di indebolimento alle proprie membra.

Era davvero un bel casino, quando la moglie di tuo cugino ti faceva andare in brodo di giuggiole.

Cercando comunque di darsi un contegno, Alekos li salutò e disse: «Non vi aspettavo… volete che ordini qualcosa?»

«Abbiamo già cenato, grazie, Alekos» gli sorrise Psiche, avvicinandosi a lui per stringerlo in un abbraccio.

Psiche era adorabile e molto coccolona, e adorava in maniera smodata gli abbracci. Quando, però, eri fra le sue tante vittime incolpevoli, la cosa poteva comportare qualche imbarazzo.

Eros ne rise, già sapendo che la moglie instupidiva molti maschi – e anche diverse femmine – e, nel dare una pacca consolatoria sulla spalla di Alekos, chiosò: «Porta pazienza. La dolcezza è una bella cosa, ma fa anche cariare i denti.»

«Oh, tesoro!» rise Psiche, dirigendosi poi con passo elegante verso il divano del salotto della dependance di Alekos.

«Beh, io ho parecchie carie, allora» chiosò sconfitto Alekos, scrollando le spalle nel raggiungere la dea sul divano, mentre Eros si accomodava su una poltrona.

«Vedrai che, quando ti abituerai a me, neppure farai più caso alla mia presenza. Ora che Eros sta di nuovo bene, voglio passare molto più tempo con la famiglia» dichiarò Psiche, battendogli affettuosamente una mano sul ginocchio. «Fin quando lui è stato ricoverato, mi sentivo un verme a uscire dal tempio – o dalla clinica – senza di lui, perciò non abbiamo avuto molte occasioni di vederci, ma adesso tutto cambierà.»

«Ne sono felice» asserì Alekos prima di guardare Eros e domandare: «Vuoi sapere di Chaos, allora?»

«Prima di tutto, lasciami dire che quello che stai facendo per Astrea è davvero encomiabile. Esculapio mi ha detto che il vuoto cosmico in cui si è auto-ritirata ha avuto un…»

Interrompendosi, Eros guardò dubbioso Psiche e le chiese: «Com’è che l’ha chiamato, cara?»

«Un effetto Doppler. Le sue onde metapsichiche hanno riverberato e, a detta di Esculapio, non era mai successo prima.»

«Bene» mormorò Alekos. «Ma è ancora poco. Dovrò fare di meglio.»

«Perché mai la cosa ti sta tanto a cuore?» domandò a quel punto Eros, passandosi una mano tra i morbidi riccioli castano scuro. «Sei troppo giovane per averla conosciuta, quindi, perché la sua storia ti ha così colpito?»

«Raccontandoti ciò che mi è successo nel regno di Chaos, capirai perché ora intendo aiutare Astrea» gli predisse Alekos, iniziando così il suo racconto.

Eros e Psiche quindi ascoltarono il suo dire con grande attenzione e, più di una volta, la dea chiese delucidazioni in merito al singolare – oltre che unico – legame che lui ed Érebos avevano intrattenuto per così tanti anni.

Man mano che il racconto procedeva, Alekos si immaginò di dire le stesse cose ad Astrea, all’ombra della sua pianta preferita, con il riflesso lontano dell’oceano a fare da sfondo al loro incontro.

Non voleva pensare a ciò che era stato distrutto sotto di loro, né ai morti o ai feriti che ogni notte, da settantasette anni, Astrea vedeva nel suo imperfetto mondo fatto di dolore e distruzione.

Desiderava con tutto il cuore strapparla a quelle tribolazioni. Più di chiunque altro, sapeva cosa volesse dire credere fieramente nelle proprie convinzioni, e conosceva anche le conseguenze letali di una simile cecità.

Lei aveva preferito distruggersi senza mai morire, un giorno dopo l’altro, patendo in eterno le pene dell’inferno mentre lui, nella sua follia di dominio, aveva preferito annientare coloro i quali aveva reputato come nemici.

In barba alla logica, in barba all’amore, in barba a ogni equilibrio, si erano spinti entrambi all’estremo, sbagliando.

Solo Eris e il suo coraggio lo avevano salvato da quel futuro vuoto e assolutista, che a sua volta sarebbe stato imperfetto e colmo di dolore e distruzione.

Lui, a quel punto, desiderava fare lo stesso con Astrea o, per lo meno, ci avrebbe provato.

Quando infine spiegò a Eros ciò che fece Discordia per lui, sospirò e terminò di dire: «Capisci cosa intendevo? Credo di capire Astrea meglio di chiunque altro, perché io ho reagito nel modo esattamente opposto al suo, ma per gli stessi motivi. Non ho usato mezze misure.»

«Se avessi avuto energia sufficiente per fermare il tuo alter ego, ti saresti condannato da solo alla solitudine? Come Astrea?» mormorò turbato Eros.

Annuendo senza paura, Alekos dichiarò: «Per salvarvi? Senza alcun dubbio. Per questo so cosa l’ha spinta, ma so anche quanto vi sia di sbagliato in questo. Ora che vedo chiaramente sia il bene che il male e ne apprezzo l’equilibrio, so che sarebbe stato sbagliato sacrificarmi – in quanto inutile gesto – così come è sbagliato che Astrea paghi per errori che non ha commesso.»

Psiche annuì torva, replicando: «Tutto ciò ti rende onore ma sei cosciente che, avendo un animo affine a quello di Astrea, potresti rimanere risucchiato dai suoi stessi pensieri? Potresti trovare giusta la sua scelta, visto che in passato l’avresti presa tu stesso.»

«Comprendo il rischio, ma ugualmente voglio correrlo» dichiarò il giovane. «Grazie al filo di Eris e al suo potere, so di essere in grado di controllarmi molto meglio, e di percepire il mondo con più chiarezza. Non fallirò proprio su questo punto.»

«Ma sai che potresti non salvarla, vero?» gli fece notare Eros, adombrandosi un poco.

«Sì, l’ho messo in conto.»

Eros si fece silenzioso e, intrecciate le braccia sul torace, socchiuse gli occhi come se stesse rimuginando sulle ultime parole del giovane. Psiche, rivolgendosi invece ad Alekos, disse: «Troverai in noi degli alleati, credimi. Non ti lasceremo solo a tentare di riportarla indietro. Io stessa portai a termine molte prove, pur di avere Eros, perciò so cosa vuol dire combattere contro un destino avverso…»

«…e una suocera testarda…» ironizzò Alekos, facendola ridere.

«Sì, e una suocera testarda. Fortunatamente, Ares fu sempre dalla nostra parte e, alla fine, anche Afrodite comprese quanto forte fosse il nostro amore. Zeus mi permise di diventare la dea protettrice delle giovani innamorate proprio grazie all’impegno sostenuto, e di questo gliene sarò per sempre grata, perché ho molto a cuore questo mio compito, anche se ormai nessuno chiede più il mio aiuto.»

Con una scrollatina di spalle, Psiche sospirò dispiaciuta ma Alekos, desideroso di vederla sorridere di nuovo, chiosò: «Credo tu non debba preoccuparti di questo. Tu ed Eros siete i personaggi più riproposti dall’arte umana. La vostra storia ha affascinato i mortali in ogni epoca e luogo, e credo lo faccia tuttora.»

Psiche gli sorrise dolcemente e, come sempre, Alekos si sentì debole e sperduto. Aveva il dubbio concreto che, prima di abituarsi ai suoi sorrisi, sarebbe occorso davvero molto tempo.

Fu a quel punto che Eros sorrise, ghignò malizioso e domandò a sorpresa: «Com’è questa storia che Artemide ha malmenato a sangue Dioniso? A causa di Eris?»

Alekos scoppiò a ridere, di fronte a quel cambio radicale di argomento e, quando gli chiese i motivi di quella domanda, ammise di aver ricevuto un messaggio mentale da Hermes, e di essere rimasto colpito dall’evento.

Comprendendo a quel punto i motivi dell’insolito silenzio del dio, Alekos allora spiegò ciò che aveva portato Artemide a coprire di staffilate la schiena di Dioniso e il dio dell’amore, davvero colpito, esalò: «Cielo! E io che credevo di averle viste tutte! Non avrei mai pensato che Dioniso potesse fissarsi su una sola donna! Ed Eris, per giunta.»

Psiche, però, replicò: «Se ci pensi bene, Eros, è abbastanza sensato, invece. Il passato di Dioniso è oscuro e pervaso dalla follia, ed Eris sa cosa voglia dire convivere sia con l’oscurità che con il dolore connesso alla mancanza di controllo di sé. Chi più di lei potrebbe capirlo? Inoltre, sai bene che Dioniso non parla mai volentieri di ciò che gli accadde in gioventù ma, con lei, potrebbe aprirsi.»

Tornando serio, Eros assentì, ammettendo: «Potresti avere ragione, cara. Eris ha un bagaglio di esperienze che potrebbe aiutare Dioniso ad accettare ciò che gli successe a causa della maledizione di Era. Dopotutto, gran parte dei suoi divertimenti servono a tenerlo lontano proprio da quei ricordi.»

«Io credo che formerebbero una bella coppia… sempre ammesso che Homados e Proioxis non divorino Dioniso» chiosò Alekos con tono volutamente serio, facendo così scoppiare a ridere i suoi ospiti.

«Beh, è un rischio reale, in effetti. Quelle due bestiole troppo cresciute la adorano e…» cominciò col dire Eros prima di sbattere le palpebre, scrutare meglio oltre le porte finestre e terminare di dire: «… e, parlando di loro, guarda chi c’è lì fuori?»

Incuriosito, Alekos puntò lo sguardo sul prato di fronte alla sua dependance, ora illuminato soltanto da qualche luce di cortesia.

Quando mise a fuoco l’enorme sagoma scura che, caracollante, stava avanzando verso la finestra, Alekos balzò in piedi ed esalò confuso: «Homados?»

«Sai anche riconoscerle?» celiò Eros, balzando prudenzialmente via dalla poltrona per andare a sedersi accanto a Psiche, che rise sommessamente di fronte alla sua ansia manifesta.

Aprendo una vetrata, Alekos assentì nel frattempo e disse: «So riconoscerle benissimo.» Rivolto poi all’arpia, aggiunse: «Cosa succede? Perché sei qui?»

Da quando l’incantesimo che aveva gettato sulle due arpie era venuto meno, il loro rapporto era tornato a essere del tutto normale, anche se Homados e Proioxis nutrivano comunque un forte sentimento verso di lui.

L’aquila arpia gracchiò infelice e Alekos, scoppiando in una risatina divertita, chiosò: «Certo che puoi dormire qui, se vuoi. E anche tuo fratello, se proprio non ce la fate ad ascoltare le serenate di Dioniso.»

Eros scoppiò a ridere, piegandosi in due e crollando contro le cosce dell’amata che, battendogli affettuosamente delle pacche sulla schiena, cercò di calmare quell’attacco di risa isteriche.

Allo stesso tempo, Homados emise tutta una serie di gorgoglii spazientiti, andando a rintanarsi in un angolo buio della cucina per poi infilare la testa sotto un’ala.

Alekos non poté che spiacersi per l’amica arpia e, quando vide planare in lontananza anche Proioxis, capì che per un po’ le due aquile sarebbero rimaste con lui.

A ogni buon conto, provò a contattare Eris che, sofferente, mugugnò: “Dammi un buon motivo per non uccidere ogni membro maschile di questo universo. Presto! O comincerò a fare una strage.”

Cercando di non ridere, Alekos replicò: “Non ti mancherei neppure un po’?”

“Uff… sì, mi mancheresti. Ma come faccio a sopportare questo scempio? Sta uccidendo I will always love you in un modo indegno!”

“Neanche sapevo che la conoscessi, quella canzone!” replicò esterrefatto Alekos.

“Non mi sottovalutare, pivello” lo prese in giro la dea. “Piuttosto… hai qualche idea?”

Alekos fece entrare anche Proioxis prima di chiudere la finestra e, nell’indirizzarla verso la cucina, disse alla padrona delle due arpie: “Chiedi a tuo padre di scatenare una tempesta. Quando zio Dion sarà infradiciato per bene, si calmerà e tornerà al suo tempio… per un po’.”

“Sadico senza essere perfido. Mi piace” ironizzò Eris. “Le mie arpie sono da te, per caso? Le ho viste involarsi in tutta fretta, quando è cominciato questo concerto non richiesto, e mi chiedevo dove fossero finite.”

“Sono qui, non temere. Hanno chiesto asilo politico, e ora riposano in cucina.”

“Chiudi il frigorifero, o domattina sarai senza bistecche” lo mise in guardia Eris, chiudendo la comunicazione per tornare al suo annoso problema.

Scuotendo il capo nel sorridere indulgente, Alekos si chiese quanto ancora Eris avrebbe resistito, prima di commettere un deicidio.

Asciugandosi le copiose lacrime di ilarità, Eros riuscì in qualche modo a raddrizzarsi e, guardando al colmo del divertimento Alekos, esalò: «Davvero quel folle sta cantando dinanzi al tempio di Eris?»

«Ebbene sì. Sta distruggendo senza pietà le pietre miliari di Whitney Houston, a quanto pare» ammise Alekos, tornando a sedersi.

«Pace all’anima sua… spero che la poveretta non senta i suoi starnazzi, dal luogo in cui dimora la sua anima» chiosò Eros. «Dion è bravo in tante cose, ma non sa cantare. E’ un autentico massacratore di note.»

«Suvvia, caro, non è un caso così disperato» replicò indulgente Psiche.

«Lo dici solo perché sei buona e gentile, ma Dion non sa cantare. Chiedi ad Apollo, se non mi credi. Con lui, nostro zio ha perso ogni speranza» scrollò le spalle Eros, come se non vi fosse bisogno di dire altro.

Dalla cucina, giunse un coro di assoluta condivisione delle parole di Eros e Psiche, non potendo fare altro, chiosò: «Amen.»

 

 

N.d.A.: Che dite? Eris risparmierà Dioniso, o si farà prestare un pugnale ammazza-dèi da Moros? ;-)

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Capitolo 61
*** Astrea - 4 - ***


4.

 

 

Settembre 2022

 

 

Il fuoco stava ancora divorando diversi stabili nella parte più bassa di Hiroshima, incuranti della pioggia nera caduta sulla città, o del vento che era imperversato per ore intere, devastando il devastabile.

Astrea lo fissava con occhi lividi, i piedi ridotti a ulcere vive e che le dolevano ogni volta che attraversava ciò che restava del fiume Ōta.

Quella volta, però, due braccia robuste la sollevarono per impedirle di percepire altro dolore e, sconvolta, Astrea si volse a mezzo per conoscere chi l’avesse strappata al suo personale supplizio.

Quando vide il volto sorridente di Alekos – quel giorno, aveva i capelli legati in una coda di cavallo – la dea si accigliò e disse: «Non avevo bisogno di aiuto.»

«Mia madre mi ha insegnato a essere galante. Non vorrai di certo che io la deluda, vero?» replicò lui, scortandola oltre le acque basse del fiume per poi poggiarla nuovamente a terra, sul selciato ricoperto di macerie.

Astrea sbuffò irritata, passando nervosamente le mani sulle vesti lacere, dopodiché infilò le dita tra la massa informe di capelli bruciacchiati e borbottò: «Non hai bisogno di essere gentile con me. Non lo merito.»

«Se lo dici tu… io, comunque, farò in modo che mia madre non sia scontenta di me. Tu, porta pazienza» scrollò le spalle Alekos, offrendole il braccio prima di aggiungere: «Sai, mamma tende a essere un tantino dispotica, quando le cose non vanno come vuole lei.»

Astrea accennò un mezzo sorriso – senza però accettare il braccio di Alekos – e asserì: «Sì, ricordo qualcosina degli attacchi isterici di Athena.»

Scoppiando a ridere con fare complice, Alekos ritirò il braccio con nonchalance e mormorò con fare da cospiratore: «Ecco, appunto… visto che lo sai, sii buona con me e non mettermi nei guai.»

Scuotendo il capo per l’esasperazione, Astrea allora allungò la sua mano dalla pelle riarsa e disse: «E va bene! Offrimi pure il braccio. Ma tu guarda se doveva capitarmi un visitatore così compito ed educato.»

Alekos gli sorrise pieno di soddisfazione, trattenendo per sé il dolore nel vedere quelle tenere carni straziate dalla fiamma nucleare.

Astrea viveva ogni giorno la pena sofferta dagli abitanti delle due città giapponesi abbattute dalle atomiche e, ogni giorno, il suo corpo veniva riarso, scorticato e abraso dalla violenza di quegli eventi così terribili.

Non aveva la ben che minima idea di cosa volesse dire tutto ciò – lui aveva reagito nel modo opposto, perciò il suo corpo era diventato più potente che mai – ma era ben deciso a strapparla a quel dramma quotidiano. Solo, gli sembrava di stare facendo ben pochi progressi.

Erano mesi che continuava a fare visita ad Astrea e, se le prime volte aveva avuto non poche difficoltà a trattenerla accanto a sé per più di qualche minuto, adesso le loro chiacchierate duravano anche ore.

Solo, erano del tutto infruttuose, ai suoi occhi. Astrea continuava ad apparire debole, piagata e stanca, niente affatto la potente dea che doveva essere stata in passato.

Sua nonna, però, si era raccomandata più volte di non forzare la mano e, soprattutto, di non mostrare il proprio dolore ad Astrea. Lei avrebbe potuto immaginarlo, ma non doveva assolutamente vederlo dipinto nei suoi occhi.

«Dimmi una cosa… dove vivi, esattamente, qui?» gli domandò Alekos, mentre raggiungevano la loro solita collina, poco sopra le rovine di Hiroshima.

Astrea scrollò una spalla, replicando: «Non ho una casa. Dormo sul ciglio della strada, quando voglio riposare.»

Alekos fece per ribattere alle sue parole disincantate, ma la percezione di un’altrui presenza lo spinse a dire in un sussurro: «Vieni con me!»

Lei lo fissò sorpresa per un attimo prima avvertire l’energia della madre e, annuendo, si trasmutò con lui prima che la dea potesse vederli.

Trattandosi di un piano astrale, Alekos poteva trasmutare i propri pensieri ovunque, quindi non aveva bisogno di alcuna divinità per fare ciò che, nel mondo reale, non avrebbe potuto fare.

Dopo aver studiato con attenzione i dintorni di Hiroshima, aveva più volte pensato di portare Astrea in un luogo più appartato rispetto alla caotica città in fiamme. Trattandosi di un piano astrale altamente riprodotto, Alekos era più che certo che avrebbe trovato, nel mondo della dea, ciò che realmente si trovava nella prefettura di Hiroshima.

Cogliendo la palla al balzo, quindi, la condusse nei pressi del fiume Yawata, a poca distanza dalla città, ma riparato da dolci colline verdeggianti e sopravvissute al bombardamento.

Lì, decise di riprendere corporeità nei pressi di una sponda sabbiosa del fiume e, ridendo sommessamente, ammiccò all’indirizzo di Astrea e disse: «Eos mi odierà a morte per questo colpo basso, lo so già.»

Astrea annuì complice e, non potendo evitarselo, si lasciò andare a una breve, scoordinata risata che riempì il cuore di Alekos di speranza e soddisfazione.

Era la prima volta, in quei mesi, che il suo volto scarnificato veniva solcato da un sorriso e, per lui, fu come veder sorgere il sole.

Per un attimo, ciò che ella era stata in passato gli si presentò dinanzi agli occhi con immensa chiarezza e, con tutte le sue forze, Alekos desiderò strapparla a quel mondo perché tornasse con lui.

L’attimo, però, passò in fretta e Astrea tornò a essere la solita donna debole e scarmigliata che Alekos aveva conosciuto.

«Sì, mia madre ti odierà, ma io ti ringrazio. Davvero non sopporto di vederla venire qui, ogni giorno, per dirmi costantemente che sbaglio» sospirò la donna, scuotendo mesta il capo. «So di farla soffrire, ma lei non capisce.»

E pensare che le avevo chiesto di non fare esattamente questo, sospirò tra sé Alekos, irritandosi non poco di fronte alla chiara cecità di Eos.

Capiva quanto fosse difficile, per lei, sopportare l’autoimposta prigionia della figlia, ma affrontarla a muso duro non era servito nei settantasette anni precedenti. Dubitava fortemente sarebbe servito ora.

Alekos annuì al suo dire, dichiarandosi solidale con lei e, nel piegarsi per cercare alcuni ciottoli arrotondati e piatti, mormorò pensieroso: «I genitori fanno del loro meglio, per noi, ma a volte ciò non basta o, altre volte, non è ciò che vogliamo noi.»

Risollevatosi, lanciò poi alcuni ciottoli sulla superficie liscia del fiume, facendoli rimbalzare più e più volte e Astrea, osservandolo pensierosa, disse: «Non ho mai imparato a farlo, sai?»

Lui, allora, le offrì i restanti ciottoli e replicò: «Non sarò Achille, ma mi destreggio bene con i giochi di mano.»

«Hai conosciuto il Pelide? E’ dunque vivo, nella tua realtà?» domandò lei mentre Alekos le si poneva alle spalle, posizionandola nel modo corretto per lanciare.

«Sì. L’ho conosciuto. E’ stato lui a insegnarmi a guidare il mio primo kart. E’ una piccola automobilina che si una in circuiti chiusi, dove si svolgono delle gare» le spiegò lui, sfiorandole il gomito piagato perché sollevasse un poco il braccio. «Oppure, come in questo caso, mi ha insegnato a lanciare i sassi nel fiume.»

Con delicatezza, le sfiorò una mano perché ruotasse un poco il polso e, dentro di sé, sperò ardentemente di non procurarle ulteriore dolore, pur se dubitava di riuscire in una tale evenienza. La sua pelle era troppo abrasa perché il minimo tocco non producesse scariche dolorose.

Ugualmente, cercò di non pensarci e si concentrò sulla lezione che le stava impartendo e Astrea, nel seguire docilmente le manovre di Alekos, mormorò: «Non è dunque un soldato, in questa vita?»

«Tutt’altro. Fa l’insegnante di atletica in una scuola italiana e, nel tempo libero, corre con sua moglie nelle gare di rally… sono corse con le auto, ma non in piste regolamentari. E’ abbastanza pericoloso ma molto, molto elettrizzante» le spiegò lui, portando indietro il braccio destro di Astrea con grande lentezza. «Ecco, ci siamo quasi… ora mi scosto, così puoi lanciare.»

Lei annuì e, con una mezza torsione del braccio, scagliò lontano il sassolino, che rimbalzò un paio di volte prima di colare a picco inesorabilmente.

Astrea sgranò gli occhi per un istante a quella vista e, accigliandosi, borbottò: «Ne ha fatti solo due! Tu ne hai fatti di più!»

Alekos sorrise tra sé. Quella che stava parlando era una dea, l’inconfondibile spirito di una dea che non voleva essere inferiore a un semidio. Non era la donna sconfitta dagli eventi che gli era parsa fino a quel momento.

«Beh, è solo una questione di pratica… e di capacità innate. Non è detto che tu ne sia in grado» sottolineò serafico Alekos, fissandola dall’alto al basso con espressione divertita.

Astrea lo fissò arcigna per diversi secondi prima di borbottare: «Si sente che condividi il filato con Eris. La tua lingua è forcuta.»

Alekos scoppiò in un’allegra risata, a quel commento e, scusandosi, asserì: «Sì, forse in passato non avrei risposto così, ma credo sia stata la cosa giusta da dirti, ora come ora.»

«Hai fatto tutto questo per non farmi pensare a ciò che mi sono lasciata alle spalle, vero?» replicò lei, osservando le verdeggianti colline a cono che li circondavano e l’acqua verdastra del fiume. Tutto appariva puro, intonso e lindo, in quell’angolo di mondo, eppure lei non riusciva a dimenticare ciò che si celava oltre quei colli.

«So perfettamente che il tuo pensiero è sempre lì, o non ci troveremmo qui, ti pare?» ribatté Alekos, scrollando le spalle. «Ma niente mi impedisce di divertirmi con te, se me lo permetti. Dopotutto, quando si va in visita da amici, si tenta anche di passare delle ore liete, no?»

«Non hai di meglio da fare, nella vita reale?» lo irrise a quel punto lei. «Non hai una ninfa, o una mortale, che spasimano per te?»

«Sono un topo da biblioteca, se sai cosa vuol dire… inoltre, la tua compagnia mi piace, anche se vorrei portarti a Disneyland, una di queste volte. L’atmosfera sarebbe migliore.»

«Che cos’è?»

«Un parco dei divertimenti dove poter ridere e scherzare senza alcun freno…» cominciò col dire lui, prima di interromperla e aggiungere: «…e, prima che tu mi sbrani, lasciami dire una cosa. So perfettamente perché tu vuoi colpevolizzarti e rimanere qui, negandoti proprio la possibilità di ridere e scherzare. L’ho provato sulla mia pelle.»

Accigliandosi, Astrea replicò incredula: «Dubito che un ragazzino della tua età possa aver sopportato una simile pena. A meno che, ovviamente, nel mondo non si sia abbattuta una catastrofe simile a questa.»

Nel dirlo, tornarono automaticamente al colle sopra Hiroshima e Alekos, sfiancato ma non vinto, disse: «Stava per abbattersi una sciagura ben peggiore. E sarei stato io a causare una simile, immane distruzione.»

Astrea lo fissò senza parole, non sapendo come interpretare il suo dire e Alekos, nel prenderle le mani scabre, aggiunse: «Tu ti sei imposta il dolore, come risposta alla follia del mondo. Io, risposi all’oscurità con l’assolutismo. Per questo, Eris fu costretta a scindere il suo filato e sostituirsi a Érebos.»

«Cosa vuoi dire?» mormorò lei, tremante.

Stringendo maggiormente le sue mani, Alekos deglutì a fatica e ammise: «Ricordi che ti dissi che, per salvarmi, Érebos spezzò il proprio filato in due per sostituire il mio, che era stato reciso da Atropo al momento della mia morte. Al tempo stesso, mentre mi conduceva da Ade, Thanatos mi tenne in vita legando la mia anima a quella di mia madre, in modo tale che io potessi resistere abbastanza a lungo perché Érebos terminasse ciò che stava facendo.»

Astrea annuì cauta. Rammentava ogni suo racconto, ogni suo commento come ogni sua battuta e, pur se all’inizio vi aveva dato poco peso, col passare delle settimane aveva bramato con sempre maggiore forza il suo ritorno. Le sue parole. I suoi racconti.

La sua vita era diventata, per lei, stimolo ad attendere ogni suo ritorno e, come un assettato alla fonte, si era abbeverata delle sue parole con sempre maggior vigore.

Perciò sì, rammentava l’impresa epica di Érebos, e ancora non comprendeva perché ora, Alekos, dovesse condividere proprio con Eris il suo filato. Cos’era dunque successo? E perché Alekos si incolpava di colpe così gravi?

«L’amore tra mia madre e mio padre Miguel, creò in me una luce mai vista prima. Persino Chaos la riconobbe come tale. Unica» gli spiegò lui, reclinando colpevole il capo. «Questa luce, combinata coi poteri immensi dell’oscurità primigenia di Érebos, mi avrebbe fatto diventare un essere dalle capacità inimmaginabili. La pura luce che avevo in me, però, divenne sempre più sfolgorante e, paradossalmente, più assolutista che mai.»

«La quintessenza dell’oscurità produce la quintessenza della luce» mormorò turbata Astrea, vedendolo annuire in risposta.

«Più diventavo grande, più mi abbeveravo – non sapendolo – del potere di Érebos, accrescendo così la luce che mi aveva lasciato il mio primo padre. Così facendo, però, persi di vista la realtà delle cose, persi equilibrio e stabilità e mi convinsi che, annullando l’oscurità e asservendo a me qualsiasi creatura, avrei portato pace e luce nel mondo. Come sai, però, la luce abbisogna delle tenebre, per sopravvivere, ma io questo non volevo accettarlo. Volevo che le tenebre sparissero dalla faccia della terra.»

«Ma così…» tentennò Astrea, non volendo terminare la frase.

«La mia divinità prese il sopravvento sulla parte umana, e si dichiarò disposta a distruggere qualsiasi forma di oscurità, pur di portare la luce ogni dove, convinta… convinto com’ero che fosse l’unica soluzione per sconfiggere i mali del mondo» ammise Alekos, scuotendo contrito il capo. «Come semidio, non potevo gestire il filato così potente di Érebos, e questo mi fece impazzire, portandomi a un passo dal far esplodere il mondo intero con la mia visione folle della vita. Fu Eris a impedirlo.»

«Ma Eris è solo…»

«…Discordia?» disse per lei, sorridendole mesto. «No. Ho imparato a mie spese il dualismo delle divinità. Ognuno di voi ha due volti, e questo bilancia il vostro potere. Io, avevo solo la visione distorta della luce, a governarmi, ed Eris mi permise di fare mia l’oscurità che mi serviva per gestire ciò che io sentivo dentro, togliendomi al tempo stesso parte del potere che mi sbilanciava.»

Astrea fece per strappare le mani da quelle di Alekos, già temendo le sue prossime parole, ma lui le trattenne e terminò di dire: «Ho peccato di vanità, e il mio peccato ha quasi ucciso mio padre, oltre che tutti coloro che volevo proteggere. Ma ho avuto fiducia in Eris e questo mi ha salvato, come ha salvato l’umanità.»

Lappandosi nervosamente le labbra, Astrea mormorò: «Perché dici a me i tuoi peccati? A cosa pensi possa servire?»

«Non credi che anch’io, ogni giorno, non pensi a quanto ho fatto soffrire coloro che amo? Lo faccio sempre, nonostante loro mi abbiano perdonato» le spiegò lui con dolcezza. «Ma è inutile rimuginare senza agire. Nessuno può cancellare ciò che ho quasi fatto, e io posso solo accettare di non aver avuto abbastanza coraggio da chiedere aiuto quando avrei potuto fermare il mio Io divino, senza mettere in pericolo tutto il Creato.»

«E’… è diverso. Tu eri controllato dal tuo alter ego. Io no!» sbottò Astrea, strappando finalmente le sue mani da quelle del giovane. «Io non ho mosso un dito per salvare il mondo pur essendo pienamente cosciente di me stessa, e questi sono i risultati!»

A quelle parole, lo scenario cambiò nuovamente e Alekos visse in prima persona l’arrivo della bomba e il suo scoppio in aria, con la conseguente ondata di fuoco e radioattività che ne conseguì.

Astrea attese l’onda a testa alta, ineluttabile quanto la morte, ma lui non accettò passivamente quell’energia dilagante e mortifera.

Si gettò su di lei per proteggerla e, mentre la dea gli urlava di andarsene, di non rimanere vittima di quel fuoco terribile, lui le sorrise mormorando: «Te l’ho detto. E’ inutile rimanere fermi senza agire. E io non permetterò che quell’orrore ti colpisca per l’ennesima volta.»

Astrea fece per ribattere, ma l’onda di fuoco li avvolse e Alekos, colto in pieno da quel massiccio rigurgito di calore e radioattività, gridò. Gridò fino a farsi dolere la gola, mentre la pelle e gli abiti venivano divorati e i suoi muscoli subivano danni terribili.

Astrea allora scatenò tutta la sua forza e, nello spingere via il giovane, urlò: «Salvati almeno tu!»

Alekos non resistette a un tale impeto e, non potendo impedirselo, venne scagliato nuovamente nel suo corpo, sotto gli occhi inorriditi di Psiche ed Eros, che lo avevano vegliato fino a quel momento.

Eros fu lesto a prendere i medicamenti che Esculapio aveva lasciato per i casi di emergenza mentre Psiche, aiutando Alekos a mettersi seduto, gorgogliava terrorizzata: «Tesoro, ma cos’è successo?!»

Alekos tossì copiosamente più e più volte, portandosi le mani al volto e notando così la pelle riarsa dal fuoco, screpolata e rossa, così come gli abiti bruciati e ritorti sulla sua carne. Sgranando gli occhi di fronte a quel disastro – pur non avvertendo ancora pienamente il dolore connesso a simili ferite – guardò turbato una preoccupata Psiche che, con le lacrime agli occhi, esalava: «Agapí, ma che hai fatto?»

Eros si affrettò a togliere di dosso ad Alekos ciò che poteva eliminare senza procurargli dolore e, aggrottato in viso, iniziò a ricoprire la sua pelle coi medicamenti di Esculapio, borbottando nel frattempo: «Ha fatto il maledetto eroe, ecco cosa! Scommetto che le hai fatto da scudo o qualcosa di simile, eh?»

Alekos assentì meccanicamente, per nulla turbato che Eros continuasse a spogliarlo sotto gli occhi di Psiche. In quel momento, la sua mente era blindata in un unico istante terribile, da cui non riusciva a sfuggire.

Gli occhi di Astrea, fissi nei suoi, mentre il fuoco li avvolgeva.

«Miseriaccia schifosa…» brontolò Eros mentre terminava di spogliarlo, così da avere sott’occhio l’intero quadro della situazione. «…sembri un arrosto cotto a puntino. Tua madre mi farà a fettine, quando ti vedrà ridotto così.»

«Lei… non deve…» iniziò col dire Alekos, quando una nube argentata si materializzò nella stanza delle preghiere di Anita, dove tutti loro erano raccolti.

Eros imprecò vistosamente mentre Psiche, colpevole, reclinava il capo alla comparsa di Athena, torva in viso e chiaramente già al corrente delle condizioni del figlio. La gravidanza cominciava a risultare evidente e, se qualsiasi altra donna sarebbe apparsa più docile o fragile, così non fu per Athena, non per la dea della guerra.

«Non devo, cosa? Sapere come stai?» replicò caustica Athena, avanzando verso il figlio con occhi di ghiaccio. «Pensi davvero che, avendo l’anima in comune, io non percepisca il tuo dolore?»

Alekos rammentò troppo tardi quel particolare e, reclinando a sua volta il capo, mormorò: «Scusa.»

Da quando il suo equilibrio psichico era stato ristabilito, il legame tra lui e sua madre era tornato stabile, e questo implicava anche che lei fosse sempre in grado di stabilirne la buona salute o meno.

Nulla di più facile che, con simili ferite, lei stessa avesse ricevuto un contraccolpo psichico – se non addirittura fisico – non indifferente. Il solo pensiero lo fece star male, soprattutto pensando alle particolari condizioni della madre.

Tutto avrebbe voluto, tranne causarle un dolore proprio durante la gravidanza, eppure era successo.

«Scusaci, Athena, non abbiamo fatto buona guardia di lui, e ora…» iniziò col dire Psiche, quando Athena la interruppe con un sorriso.

«No, cara, voi non c’entrate nulla. Eravate qui, mentre Alekos si trovava in un piano psichico ben lontano da voi, perciò non potevate che controllare i suoi impulsi vitali» replicò Athena, inginocchiandosi accanto al figlio mentre Eros terminava di ricoprire le piaghe visibili con l’unguento di Esculapio. «Devo dedurre che le protezioni della nonna non siano servite, stavolta.»

«Diciamo che, stavolta, la bomba mi è esplosa proprio sopra la testa» ammise Alekos, sorprendendo i presenti mentre sollevava i dorsi delle mani per mostrare i segni rossastri lasciati dalla radice di Henna. «A ben vedere, sono le parti più sane, ma anche loro poco hanno potuto, contro quell’energia terribile.»

Sospirando di fronte all’espressione apparentemente imperturbabile della madre, il giovane poi aggiunse: «Abbiamo litigato, e il suo senso di colpa ha fatto il resto. Pensavo che, parlandole di ciò che avevo fatto, di quanto fossi stato vicino a danneggiare il mondo intero, Astrea avrebbe compreso come, in realtà, il confine tra luce e tenebra è assai labile, e non sempre è la tenebra a essere pericolosa. A quanto pare, però, non ha compreso – o voluto comprendere – il mio punto di vista… ed è successo questo.»

Eros gli mosse delicatamente la testa per controllare la condizione del suo cuoio capelluto e, sbuffando, borbottò: «Dovrai fare un taglio radicale, ragazzo. I tuoi bei riccioli sono bell’e che rovinati.»

«Merda» si lasciò sfuggire il giovane, portando istintivamente una mano alla testa, prima di lagnarsi per il gran male al braccio.

«Piano, campione! I tuoi muscoli sono rinsecchiti dal caldo atomico e, prima che tu possa muoverti come si deve, dovrai aspettare diverse settimane» lo rabberciò bonariamente Eros.

Athena sospirò dopo un ultimo sguardo alle condizioni miserevoli del figlio e, nel guardare per un istante la porta della stanza, disse: «Nonna sarà qui tra poco, visto l’orario e, onestamente, non voglio che ti veda così conciato. Le parlerò io e le dirò che la tua uscita dal piano astrale non è andata per il meglio.»

Annuendo, Alekos mormorò spiacente: «Scusa, mamma.»

«Non hai niente di cui scusarti» sospirò Athena, trattenendosi dal carezzargli il viso per non procurargli ulteriore dolore.

La vista del figlio così malridotto le faceva male al cuore, ma sapeva di non potergli impedire di fare ciò che sentiva nel cuore. Era un adulto, e come tale l’avrebbe trattato. Inoltre, comprendeva bene cosa lo stesse spingendo, e non voleva ostacolare in nessun modo la sua ricerca di redenzione.

«Lo porteremo a casa noi, e ci prenderemo cura di lui finché non sarai di ritorno» le promise Psiche.

Athena annuì e, dopo un sorriso al figlio, si diresse verso l’esterno della dependance a piedi, così da non mettere in allarme Anita con entrate in scena estemporanee.

Rimasti soli, i tre si guardarono vicendevolmente finché Eros, ammiccando alla compagna, non disse: «Tesoro, prima che Alekos si ricordi che è nudo come un verme, posso chiederti di raggiungere Esculapio per recuperare altri medicamenti?»

Psiche sorrise divertita mentre il ragazzo si ricopriva di un virgineo rossore – visibile nonostante le copiose scottature presenti anche sul suo volto – e, ammiccando, svanì in una nuvola d’argento profumata di rosa.

«Potevi anche evitare di dirlo, sai?» sbuffò Alekos, guardandosi con aria vergognosa.

«Noi divinità ce ne sbattiamo della nudità, cosa credi?» rise sommessamente Eros, prima di tornare serio e aggiungere: «Ora che non c’è nessuna donna in ascolto, puoi dirmi cos’è veramente successo?»

Alekos storse il naso, di fronte a quella domanda diretta, e ammise: «L’ho attaccata di petto, dicendo che era inutile che lei continuasse a rimanere bloccata nel suo mondo, senza agire in alcun modo per scoprire ove potesse migliorare le cose. Credi abbia esagerato?»

«E’ difficile dire come una donna possa interpretare un attacco del genere…» ammise Eros, pensieroso. «… però, di sicuro, il tuo gesto di proteggerla l’avrà sicuramente colpita. Tra l’altro, perché l’hai fatto? Lei è più potente di te, e poteva reggere molto meglio gli influssi della bomba.»

Il giovane reclinò il viso, di fronte a quell’affermazione e, dopo un lento e pesante sospiro, mormorò: «Non potevo sopportare che altro dolore la colpisse.»

«Oh» disse soltanto Eros, senza esprimere alcun tipo di commento. «Beh, sarà meglio che ti riporti a casa per cominciare il secondo ciclo di cure. La tua pelle ha già assorbito tutta la crema di Esculapio, e credo che le tue chiappe abbiano bisogno di una razione doppia di unguento… cosa che non hanno potuto ancora avere, visto che te ne stai tutt’ora seduto sulle tue stesse piaghe.»

Alekos assentì senza forze, non riuscendo neppure a replicare alle battute di spirito di Eros. Grazie al potere del cugino, quindi, raggiunsero la sua casa in un batter di ciglia dove trovarono ad attenderli la figura accigliata di Érebos.

Era chiaro che Athena avesse già parlato col compagno in merito alla salute del figlio, e che quest’ultimo volesse sincerarsi sulle sue condizioni.

Mentre il dio dell’amore sistemava lenzuola in più sul letto perché il materasso non si inzuppasse di unguenti, Alekos lanciò un’occhiata spiacente al padre, che si limitò a sorridergli comprensivo.

«Immagino facciano molto male» chiosò il dio Ctonio, non arrischiandosi a toccarlo.

«Per la verità, comincio a sentire qualcosa solo adesso… quindi, immagino che il peggio debba ancora arrivare» mormorò Alekos, scuotendo il capo per poi guardarsi le mani, quelle stesse mani che l’avevano sfiorata con delicatezza, quando si erano trovati lungo il fiume.

Pochi attimi dopo, le sue mani l’avevano afferrata con decisione perché non sfuggisse alle sue parole e, da ultimo, l’avevano spinta a terra per permettergli di proteggerla dal fuoco atomico.

Ricordava ancora chiaramente la sensazione di averla accanto, di sentire la scabra consistenza della sua pelle… di percepire il suo rifiuto a comprendere le sue parole.

E poi, quella assurda richiesta!

Salvati almeno tu!

Come poteva avergli chiesto proprio quello? Come poteva pensare che lui potesse salvarsi da solo? Era mai possibile che non comprendesse quanto fosse forte, in lui, il desiderio di salvarla?

Érebos lo fissò spiacente, asserendo: «Vado a chiedere ad Apollo dei calmanti adatti ai casi di ustione. Credo che, nelle prossime ore, ne avrai estremo bisogno.»

Ciò detto, pregò Eros di prendersi cura di lui, dopodiché svanì in uno scintillio dorato.

Rimasto solo con il cugino, Alekos lo guardò con occhi vulnerabili e persi, e mormorò: «Eros… temo di essere nei guai.»

«Già, lo credo anch’io» ammise senza problemi il dio, mentre Psiche faceva ritorno con le creme medicamentose per Alekos.

Nel vederli persi nei rispettivi sguardi, la dea poggiò delicatamente i contenitori sul comodino appresso a lei e, turbata, domandò: «Va tutto bene, ragazzi?»

Eros si limitò a sorriderle e, con una punta di ironia, disse: «Aiutami a stendere un nuovo strato di crema. Ho idea che d’ora in poi Alekos non farà più una piega, in tua presenza.»

«In che senso, scusa?» domandò burbera Psiche. «Sono forse diventata meno bella di prima?!»

Eros rise di fronte al suo palese risentimento e, senza risponderle, iniziò a spargere medicamento sulla pelle già in via di guarigione del cugino. Certi segreti tra uomini, erano inviolabili. Anche se a chiederti lumi era il tuo amore imperituro.

***

Rannicchiata sotto la sua pianta preferita, mentre gli occhi sgranati erano fissi sull’orizzonte senza realmente vederlo, Astrea mormorava incessantemente il nome di Alekos.

Fu così che la trovò Eos.

Per una volta, la figlia non si diede alla fuga e le permise di avvicinarla. Quando però le si inginocchiò accanto, trovò solo una fragile creatura ferita, non la combattiva dea che l’aveva scacciata per decenni senza degnarla di parola alcuna.

Un unico mormorio sembrava ossessionarla, in quel momento e, ancora una volta, non era rivolto a lei, ma forse a nessuno in particolare. Non era però un insulto, una richiesta o una preghiera, a turbarla, ma un nome.

Il nome di Alekos venne ripetuto infinite volte, nel tempo in cui Eos passò accanto ad Astrea e, mai una volta, la giovane dea della giustizia si risolse a spiegargliene i motivi.

Il suo sguardo, perso in un incubo senza fine, era immobile, vuoto, mentre le labbra, ricoperte di ragadi e sangue, continuavano incessanti a lasciar sgorgare dalla bocca il nome del giovane.

Non sapendo che altro fare, Eos carezzò ciò che rimaneva dei bei capelli biondi di un tempo di Astrea e, dando finalmente ascolto alle parole del figlio di Athena, mormorò: «Sono qui con te, amore. Solo questo.»

 


 

 




N.d.A.: direi che l'ultima missione di Alekos non è andata per il meglio. O forse sì? Voi che ne pensate?

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Capitolo 62
*** Astrea - 5 - ***


5.

 

 

Dicembre 2022

 

Quanto tempo era passato, dall’ultima visita di Alekos?

Astrea non lo sapeva, eppure credeva fosse trascorso molto tempo. Forse troppo, per poter pensare, o credere, a un suo eventuale ritorno.

Passeggiando nervosamente lungo le vie di una Hiroshima stranamente quieta - visto ciò che la circondava - Astrea continuava a correre con lo sguardo al colle della sua pianta preferita.

Da quando lo aveva visto sparire nel fuoco, quel terribile giorno in cui Alekos aveva ammesso il suo peccato con lei, ogni giorno il suo sguardo si era perso in contemplazione di quell’albero, a ogni nuova esplosione.

Dopotutto, lo aveva incontrato lì per la prima volta. Da quel momento, Alekos era giunto in visita a lei quasi giornalmente, sempre attendendola all’ombra di quella quercia scampata al disastro.

In principio, aveva trovato le sue visite piuttosto fastidiose, così come anacronistiche. Lui, così perfetto e sano, mal si abbinava a quel regno fatto di morte e disperazione, di cui lei stessa era portabandiera e creatrice.

Eppure, con il passare delle settimane – anche grazie alle stravaganti avventure che lui andava raccontandole, aggiornandola così sul mondo che si era lasciata alle spalle – aveva finito con il bramare le sue visite.

Per la prima volta da anni, aveva desiderato qualcosa che non fossero sangue, dolore e morte.

Per la prima volta da anni, aveva sorriso di fronte a una creatura viva, gioendo di tale vita.

Per la prima volta da anni, aveva agognato il calore umano proveniente da una persona.

Le sue parole, però, la condanna verso se stesso e verso di lei, l’avevano sconvolta, portandola a perdere il controllo sulla propria mente e coinvolgendo così anche lui nell’esplosione che l’aveva rinchiusa lì.

Non era stata capace di ascoltarlo, quando le sue parole erano divenute qualcosa di più che semplice conversazione. Era stata pavida, aveva perso per l’ennesima volta la battaglia contro se stessa e contro le proprie paure.

Stavolta, però, aveva coinvolto nel proprio personale dramma anche un’altra persona, una persona che aveva saputo toccarla nel profondo e che, proprio per questo, era stata segnata ancor di più dal suo errore.

Forse, dopotutto, Alekos aveva rinunciato a capirla, visti i danni che sicuramente aveva subito durante lo scoppio dell’atomica. In fondo, non l’avrebbe trovato per nulla strano, né così sconvolgente.

Persino sua madre, dopo quel giorno in cui l’aveva trovata sotto shock all’ombra della sua pianta, aveva smesso poco alla volta di tornare, quasi avesse compreso – finalmente – di non poter far nulla per lei.

Paradossalmente, però, ora sentiva la mancanza dei suoi goffi tentativi di strapparla a quei luoghi e, il solo pensarlo, la faceva sentire stupida e ingrata.

Per più di settant’anni aveva rifiutato sia lei che il padre, respingendo il loro amore così come i loro tentativi di parlarle, e ora che avevano finalmente gettato la spugna, si lagnava di essere stata lasciata sola.

Allo stesso modo, aveva escluso dalla sua vita Esculapio, Hypnos e i suoi fratelli, per non parlare del Sommo Érebos, prodigatisi inutilmente per riportarla a più miti consigli. Anche con loro si era comportata in malo modo, e cominciava a sentire il peso della loro mancanza.

Era davvero una ben misera persona, niente affatto degna di essere salvata o di portare il titolo di dea. Meritava di rimanere lì per l’eternità.

Fu perciò con estrema gioia – e non poca contrizione – che le sorse un sorriso sul volto, quando infine vide un’ombra nei pressi della sua collina preferita.

Accorrendo incontro a quell’ombra, già pronta a salutare Alekos e a benedire il suo ritorno, interruppe però di colpo la sua risalita quando, dinanzi a lei, trovò ad attenderla solo suo padre.

Vederlo dopo tanto tempo la fece sentire tremendamente in colpa, poiché lei aveva desiderato vedere qualcun altro, al suo posto.

Il padre, comunque, fece finta di non notare il suo evidente disappunto e, rimanendo fermo accanto alla pianta, disse: «Alekos mi ha detto che, quasi sicuramente, ti avrei trovata qui.»

Nell’udire quel nome, Astrea si rianimò subito e, portandosi una mano al petto, domandò turbata: «Lui… come sta, Alekos?»

«E’ tutt’ora convalescente» ammise lui, sgomentandola non poco. «Credo… beh, immagino sia successo qualcosa di piuttosto grosso durante una delle sue visite, per ridurlo nello stato in cui l’ho trovato durante una delle mie visite a lui.»

Astrea reclinò colpevole il capo, il desiderio di fuggire già pronto a prendere piede nel suo animo, quando Astreo aggiunse: «Si scusa con te. Non mi ha spiegato per cosa, ma mi ha pregato di dirtelo, nel caso in cui fossi venuto da te.»

La dea sgranò gli occhi per la sorpresa, a quelle parole e, risollevando un volto pieno di domande per puntarlo in direzione del padre, esalò sgomenta: «Ma… perché ti ha detto proprio questo? Non deve scusarsi di nulla!»

«Non mi è parso di quest’avviso» si limitò a dire il titano, scrollando le spalle. «E’ bello vederti, comunque, dopo tanto tempo.»

Astrea strinse le mani a pugno lungo i fianchi scarni e, sbuffando, replicò caustica: «Dubito sia un bello spettacolo.»

«Solo perché lo vuoi tu, no?» chiosò il padre, sorprendendola un poco.

«Se non ti conoscessi, direi che anche tu hai preso in prestito il filato di Eris per continuare a vivere» ribatté vagamente piccata Astrea.

Ridendo sommessamente, Astreo chiosò: «Credo che, ora come ora, Eris ti raggiungerebbe volentieri, pur di liberarsi delle attenzioni di Dioniso. Sono mesi che le corre appresso in ogni modo possibile, e sull’Olimpo sono ormai diventati argomento di discussione quotidiana. Ares ha persino aperto un giro di scommesse, puntando una marea di soldi su quando capitolerà sua sorella.»

Astrea fece tanto d’occhi, a quella notizia, ma ciò non bastò a farle dimenticare la propria condizione miserevole, né ciò che di male aveva fatto ad Alekos.

Sospirando, tornò quindi a reclinare il capo e mormorò: «Beh, se persino una dea come Eris ha uno spasimante che la venera, il mondo non può andare che alla rovescia.»

«Questa è una crudeltà gratuita, cara, e non è da te» le fece notare Astreo, portandola ad arrossire. «Sai bene che Eris non è mai stata solo Discordia, e il tuo risentimento millenario verso di lei non ha mai avuto molto senso.»

«Lei ha sempre remato contro di me!» sbottò Astrea, inveendo contro il padre al pari di una bambina a cui fosse stato rifiutato un regalo. «Non mi va giù che possa avere una vita tranquilla e serena, né che… che…»

Interrompendo il suo dire prima di ammettere troppo, Astrea sbuffò nel distogliere lo sguardo dal padre e, trinceratasi dietro un mutismo offeso, fissò testardamente la baia limpida e tranquilla.

Tutto, pur di non affrontare lo sguardo di sicura derisione del padre.

Astreo allora sorrise indulgente, di fronte a quello sfogo che esprimeva – finalmente – una scintilla di vita che mai, in quei decenni, aveva scorto sul volto della figlia.

Certo, aveva visto la rabbia di una donna che non voleva essere strappata al proprio incubo, ma lui non aveva mai considerato positivo quel genere di livore. Questo, invece, sapeva di nuovo e, paradossalmente, di antico. Della vecchia lei.

Per quanto gli spiacesse vederla irritata, era pur sempre preferibile all’Astrea atona e distante che aveva dovuto sopportare di vedere in silenzio per tutti quegli anni. Se era in qualche modo gelosa della vita apparentemente piacevole di Eris, questo poteva essere uno sprone per vederla riemergere da quello stato di sconfitta.

«Ora, penso che andrò. Vedo che sei indisposta alla compagnia altrui, perciò…» asserì a quel punto Astreo, facendo l’atto di scostarsi dalla pianta.

La figlia, però, lo afferrò a un braccio e, inconsapevole del proprio cambiamento estetico agli occhi del padre, mormorò ansiosa: «Eri venuto solo per dirmi di Alekos?»

Astreo cercò di contenere la propria sorpresa, di fronte al viso turbato – ma ora bellissimo – della figlia, e disse: «Beh, in effetti, sì. So che non vedi volentieri me o la mamma, ma ci sembrava giusto portarti il suo messaggio.»

La mano di Astrea strinse maggiormente il braccio del padre nel tentativo di trasmettere al padre quanto, in realtà, si sentisse frustrata e triste al pensiero di averlo sempre fatto soffrire.

«Non voglio vedervi star male a causa di una decisione che ho preso in piena coscienza. E’ tutto qui.»

«Soffriamo in ogni caso. Sia che tu ci veda, che no» replicò il titano, scostandole gentilmente la mano.

Lei, allora, si allontanò di un passo, quasi tramortita da quella realtà così semplice e assoluta e, mentre Astreo si dissolveva dinanzi ai suoi occhi spalancati, Astrea mormorò: «Sono stata così egoista, dunque?»

***

Guarire dalle bruciature lasciate dalla bomba, era stato più difficoltoso e doloroso di quanto non si fosse aspettato in un primo momento. Liberarsi finalmente delle fasciature fu dunque un sollievo, pur se non significava avere il lasciapassare definitivo per riprendere le sue visite ad Astrea.

Entrambi i genitori erano stati chiari, in merito; finché Esculapio o Apollo non lo avessero dichiarato guarito, non sarebbe tornato nel mondo onirico.

I suoi nonni umani erano stati dello stesso avviso, e persino nonno Zeus e nonna Era si erano impuntati in merito, mettendo un broncio tale da far sentire in colpa Alekos.

Era forse la prima volta, da quando aveva tolto il giogo del suo potere su di loro, in cui si erano spontaneamente uniti per un’unica causa. Nonostante il loro divieto gli avesse causato fastidio, era stato anche felice di vederli andare d’accordo su qualcosa… e senza il suo intervento diretto.

Anche se questo aveva voluto dire ritardare di quasi un mese il suo ritorno nel mondo onirico, gli aveva fatto piacere vederli uniti sotto un’unica bandiera.

In quei lunghi mesi di insopportabile attesa, Alekos era stato più volte tentato di venir meno alla parola data ma, memore di quanto aveva fatto soffrire la sua famiglia, si era autoimposto la calma.

Persino Eris lo aveva rabberciato per la sua fretta e, quando lui aveva replicato con stizza, la dea lo aveva preso per un orecchio al pari di un bambino, sgridandolo come poche altre volte gli era accaduto in passato.

A quello spettacolo, ovviamente, avevano assistito le due arpie che, furbamente, si erano involate per non dover subire a loro volta una reprimenda di qualche tipo. Con Eris, non si poteva mai sapere.

Sua madre, sempre ovviamente, aveva plaudito la sfuriata di Eris, e ad Alekos non era rimasto altro che rintanarsi in casa sua in compagnia di una birra e una pizza, brontolando in merito alla spietatezza delle donne.

Aveva anche rinunciato a chiamare Acaste per sfogarsi; tra il nipotino appena arrivato e le visite frequenti a Zéphyros, l’amica era sempre impegnatissima. Quasi sicuramente, comunque, Acaste si sarebbe schierata dalla parte di Eris e Athena, perciò lui non avrebbe ottenuto appoggio alcuno, ma ulteriori reprimende.

Inoltre, in ultima istanza, non sarebbe stato corretto scaricare su di lei i suoi problemi. Problemi che, alla fine, avevano preso la forma di un’unica parola.

O meglio, persona.

Astrea.

Ora che era passato così tanto tempo dal suo ferimento, desiderava rivederla più che mai, sapere come stesse e come vivesse quella nuova solitudine, dopo quel breve periodo passato a ricevere le sue quotidiane visite.

Pur se aveva parlato con Astreo in merito, non si sentiva soddisfatto né tranquillo e, finché non l’avesse vista con i propri occhi, il suo cuore non avrebbe smesso di palpitare nervosamente.

Quando, perciò, si presentò a casa dei nonni per ritentare il suo viaggio nel mondo onirico, lo fece con l’ansia di un adolescente al suo primo appuntamento. Cosa che lo fece sentire ancor più idiota di quanto già non si sentisse.

Anita e Carlos lo accolsero con sorrisi e abbracci ma, quando anche il nonno li seguì nella dependance, Alekos si rese conto di quanto entrambi, in realtà, non si sentissero affatto sicuri a rimandarlo in quel luogo così pericoloso.

Tutto ciò lo fece sentire ulteriormente in colpa ma, nonostante questo sentimento traditore, non se la sentì di annullare quel tentativo.

Doveva tornare da lei, a qualsiasi costo.

Nello sdraiarsi sul suo ormai famigliare materassino, guardò perciò i nonni con aria sicura e disse: «Sono certo che andrà tutto bene. In ogni caso, comunque, sono già guarito una volta. Succederà ancora.»

Carlos parlò prima ancora che Anita potesse rabberciare il nipote e, piantando con fare imperioso un dito addosso ad Alekos, borbottò a gran voce: «Non ti venisse in mente di prendere sottogamba la situazione, ragazzo, solo perché sei immortale. Hai ben visto cosa è successo a questa ragazza che cerchi di salvare, perciò non pensare mai di poterla sfangare sempre!»

Alekos sbatté le palpebre con aria incredula – era molto difficile che Carlos alzasse la voce con lui ma, evidentemente, il suo ferimento doveva averlo colpito molto – e, annuendo frettoloso, rettificò il suo dire.

«Sì, nonno. E’ chiaro. Non volevo dire che me ne sarei infischiato delle conseguenze, ma solo che voi non avreste dovuto stare in pensiero per me.»

«Questo ragazzo è tardo, o che?» ironizzò allora Carlos, lanciando un’occhiata sarcastica alla moglie, che sorrise divertita. «Pensa davvero che noi nonni potremmo non essere in pensiero per lui? O per qualsiasi altro dei nostri nipoti?»

«Ma caro, è un giovanotto sano e forte… per forza che si crede invincibile» celiò a sua volta Anita, portando Alekos a rimettersi seduto per poi fissarli accigliato e pronto a battibeccare con loro.

«D’accordo, c’è qualcosa che vi rode, e me la state facendo pagare in questo modo. Sputate il rospo, e chiudiamo la faccenda» propose quindi lui, scuotendo una mano con fare nervoso. Aveva fretta, ma non voleva lasciare che quell’argomento rimanesse in sospeso tra di loro.

Anita allora gli sorrise dolcemente e, nell’accomodarsi su una panca imbottita accanto al materassino dove il giovane era assiso, si limitò a dire: «Tesoro, vogliamo solo che tu stia attento, e non ti lanci in atti eroici gratuiti. Capiamo il tuo desiderio di aiutare questa donna, ma pensa anche a te stesso mentre lo fai.»

«Nonna ha ragione» annuì con vigore Carlos.

A quelle parole, Alekos addolcì lo sguardo, prese tra le sue una mano della nonna e mormorò: «Farò attenzione… ma nei limiti del possibile. Ho promesso a Eos che avrei liberato sua figlia, e io mantengo la parola data. Inoltre, desidero anch’io che Astrea se ne vada per sempre da quel luogo. Mi fa star male pensare a come soffre ogni giorno, a quanto si stia perdendo della vita di tutti i giorni.»

«Ma certo. Non potrebbe che essere così, visto il tuo animo buono. Ma usa lo scudo di tua madre, qualora servisse. Te ne prego» lo pregò Anita, osservando il piccolo bracciale che Alekos portava al polso.

Una testa di medusa della grandezza di un pollice pencolava dal bracciale in pelle che Alekos indossava quel giorno e che, all’occorrenza, gli sarebbe servito per difendersi da eventuali altre esplosioni. Sua madre, su questo, era stata categorica.

Gli sarebbe bastato stringere nel pugno la testa di medusa, e il possente scudo di Athena sarebbe apparso a proteggerlo.

«Lo userò. Promesso» annuì Alekos, tornando a distendersi per poi chiudere gli occhi e concentrarsi sulla mente di Astrea.

Con un gran respiro, si discostò quindi dal proprio corpo e, come un alito di vento, si involò fino alla dimensione onirica ove viveva Esculapio e, da lì, raggiunse le stanze di Astrea.

Come sempre, trovò solo il piccolo buco nero in cui lei era scomparsa decenni addietro ma, contrariamente al solito, notò delle scalfitture in quella massa oscura apparentemente inattaccabile.

Pareva quasi di vedere inciso su quella superficie liscia come alabastro il cretto di Burri, e questo fece sorgere molte domande in Alekos.

Lasciandole però per un secondo momento, si incuneò nel sogno eterno di Astrea e lì, dopo qualche attimo, si ritrovò all’ombra della pianta preferita della dea.

Guardandosi intorno, non trovò nulla di diverso dal solito – Hiroshima era già caduta vittima della bomba – sennonché i fuochi si erano finalmente estinti, e l’aria non era più satura di fumo e morte.

Doveva essere già il secondo o il terzo giorno dallo scoppio dell’ordigno, a suo parere, almeno a giudicare dalle condizioni della città.

«Alekos!»

Quell’ansito disperato quanto sorpreso giunse dalle sue spalle, strappandolo di colpo ai suoi pensieri. Nel volgersi quindi a mezzo, il giovane si sorprese non poco quando si ritrovò abbracciato dalla dea padrona di quei luoghi che, quasi sciogliendosi contro di lui, iniziò a ringraziare il cielo per la sua buona salute.

Non riuscendo a evitarlo, Alekos la strinse a sua volta e affondò il viso nella massa cespugliosa dei capelli di Astrea, infischiandosene grandemente del fatto che non fossero setosi o puliti.

Lei era lì, non era scomparsa chissà dove, e loro potevano riprendere a parlare assieme, a stare assieme.

Quando infine i due si scostarono per potersi finalmente guardare in viso, si sorrisero vicendevolmente per alcuni attimi. Nel momento stesso in cui Astrea, però, si rese conto della totale scomparsa dei riccioli di Alekos - sostituiti da un taglio militare piuttosto drastico - la dea ansimò sconvolta ed esalò: «Ma… e i tuoi capelli?!»

«Beh, hanno avuto bisogno del tocco di un barbiere. Erano piuttosto abbrustoliti» ammise lui con un risolino.

Quel risolino di scherno, però, non fece piacere ad Astrea, che ribatté piccata: «Te l’avevo pur detto di non metterti in mezzo. Così facendo, sei rimasto ferito, i tuoi capelli si sono volatilizzati e sei stato lontano da qui per mesi

Alekos impiegò alcuni attimi per digerire anche quella reprimenda – alla prossima, si sarebbe infuriato davvero – prima di rendersi conto delle ultime, impreviste parole della dea.

Alla fine dei conti, le era mancato. Poteva apparire irritata per il suo colpo di testa, ma… le era mancato!

Stupidamente, si mise perciò a sorridere in modo piuttosto tronfio e Astrea, notandolo subito, si accigliò ulteriormente e domandò: «Beh, che hai da sorridere tanto?»

«Ti sono mancato» sottolineò lui, poggiando le mani sui fianchi con fare soddisfatto.

Lei spalancò occhi e bocca di fronte alle sue parole spavalde, boccheggiò per diversi secondi senza sapere bene cosa dire ma, alla fine, bofonchiò: «Ma… che stai dicendo?!»

Il giovane allora ghignò beffardo, la guardò dall’alto al basso con fare saputo e ripeté ampollosamente: «Ti. Sono. Mancato.»

«Non ti ascolto neppure» sbottò allora lei, volgendogli le spalle per poi intrecciare le braccia sotto i seni, l’aria piccata e il naso rivolto verso l’alto in atteggiamento di sfida.

«D’accordo. Allora, vedrò di occupare il mio tempo in modo proficuo, invece di limitarmi a guardare la tua schiena spellata» replicò il giovane, cominciando a discendere la collina a passo svelto.

Astrea gli concesse tre secondi di vantaggio prima di volgersi irritata e raggiungerlo di corsa. Affiancatolo quindi con aria burbera, borbottò: «Ero solo preoccupata per te, sciocco!»

«Vedila come vuoi» scrollò le spalle lui, allungando il passo.

«Ehi, aspettami!» lo richiamò lei, alzando la voce.

«Smettila di camminare a piedi nudi, e vedrai che riuscirai a tenere il mio passo» gli fece notare lui, indicando con fare ironico i suoi piedi sudici.

Lei si bloccò di colpo, puntò i pugni sui fianchi e ringhiò: «E’ normale che io sia a piedi scalzi! Qui è bruciato tutto! Tutto! Perché proprio io dovrei avere le scarpe!?»

«Perché sei la signora di questo sogno?» si limitò a dire lui, tornando a discendere la collina e lasciandola così sola a rimuginare sulle sue parole sibilline.

Osservando il giovane che, a grandi passi balzellanti, si dirigeva sempre più velocemente verso il campo di raccolta dei feriti di Hiroshima – posizionato all’interno della base militare locale – Astrea si chiese se non avesse ragione.

In fondo, era lei stessa a essersi rinchiusa in quel mondo, perciò non poteva lagnarsi con Alekos del suo problema ai piedi. D’altra parte, lei sentiva di dover soffrire come gli altri, così da essere partecipe del dolore provato da quelle genti.

Sbuffando, perciò, tornò a discendere dalla collina di Koimachi senza dare troppo peso alle piante piagate dei suoi piedi, o al dolore che le riverberava nelle ossa. Se lo meritava, perciò non doveva lamentarsene.

Quando infine raggiunse Alekos, lo trovò a pochi passi dall’entrata della base militare locale, dove diversi soldati presidiavano l’entrata, gli abiti laceri e l’aria stanca di chi non ha più certezze né speranze.

Di lì a poco, la seconda bomba atomica sarebbe scoppiata a Nagasaki e, ben presto, altre morti e altro sangue si sarebbero aggiunti a quelli di Hiroshima, spezzando definitivamente il morale delle genti.

«E’ inutile che li guardi… tanto, non ti faranno entrare. Sei un gaijin, perciò non accetteranno mai la tua benevolenza» sottolineò Astrea ponendosi al suo fianco con espressione burbera.

Alekos, però, la afferrò a una mano e, sorridendole fiducioso, disse: «Sei la signora di questo mondo, perciò puoi andare dove vuoi.»

Ciò detto, la trascinò con sé verso i cancelli e, sotto gli occhi sgomenti di Astrea, i soldati non solo non li bloccarono ma si inchinarono dinanzi a loro come alla vista di una qualche entità trascendente.

«Oh-kami1» mormorarono ossequiosi, le teste reclinate in avanti in atteggiamento deferente.

Astrea li fissò senza capire mentre Alekos, al suo fianco, penetrava all’interno del campo con passo sicuro, con l’andatura potente e fiera di un dio.

«Ma come…» tentennò lei incredula.

«Guardati» le sussurrò per contro il giovane, ammiccando al suo indirizzo con espressione ammirata.

Lei allora reclinò il viso ma nulla vide perciò, ancor più confusa, domandò nuovamente: «Non capisco. Cosa dovrei vedere?»

A quel punto, fu Alekos a non comprendere e, dopo averle lasciato la mano, la fissò incredulo mentre, da dea incarnata quale lui l’aveva vista diventare, tornò a essere la scialba e debole creatura che aveva conosciuto. Che diavoleria era mai quella?

Astrea sbatté le braccia lungo i fianchi, ripetendo la domanda con inquietudine e Alekos, non meno confuso di lei, ammise: «Brillavi. Il tuo icore scintillava sotto la pelle, proprio come possono fare gli dèi. Ora, però…»

Astrea, a quel punto, afferrò la mano di Alekos per stringerla con forza e, ancora una volta, lui la vide in tutta la sua sfolgorante bellezza, coi lunghi e fluenti capelli biondi carezzati dalla brezza marina.

Gli occhi, di un grigio pallido e fluido, lo stavano scrutando pieni di domande, domande a cui però lui non sapeva dare una risposta.

«Cosa… cosa vedi, ora?» domandò lei, incerta.

«Te» si limitò a dire Alekos. «Hai dei bellissimi capelli. E se prometti di non spifferarlo a mia zia, posso anche osare dirti che sono più belli di quelli di Afrodite.»

Quel complimento la mandò in confusione. Sapeva bene di non avere un aspetto decente da più di settant’anni. Lasciate quindi le mani di Alekos, si passò le dita tra la scompigliata criniera annodata e informe e, con un sospiro, replicò: «Credo tu abbia le traveggole.»

«Oh, no. So bene cosa vedo. Ora, i tuoi capelli sono come al solito… e cioè, bisognosi di una bella pettinata e di un bel po’ di balsamo ammorbidente» le sorrise indulgente prima di riafferrarle le mani per aggiungere: «Se invece ti prendo per mano, vedo com’eri

«E…» mormorò lei, mordendosi nervosamente il labbro inferiore.

Alekos, a quel punto, arrossì e disse: «Oh, no! Non cadrò nel tranello! Ne so poco di donne, ma alcune cose le conosco. Se ammetto quanto tu fossi bella, mi potresti replicare che baso il mio giudizio su di te solo sul tuo volto, e non sulla tua personalità ma, se ti dicessi che ti apprezzo soprattutto come persona, replicheresti che ci conosciamo ancora troppo poco, per poter dire una cosa simile.»

«Come? Ma che dici?» esalò Astrea, sbigottita.

«Uhm… vuoi farmi intendere che non lo penseresti?» replicò ora dubbioso Alekos.

Lei scostò le mani da quelle di Alekos per poi allontanarsi di qualche passo dal giovane dopodiché, da sopra una spalla, lo guardò piena di dubbi e desiderosa di porre molte domande.

Di tutti i dubbi che Alekos le lesse negli occhi, però, non ne espresse nessuno e, con voce nuovamente atona, tornò a rivolgergli la parola soltanto per dirgli: «Andiamo a curare i feriti.»

Al giovane non restò altro che fare così anche se, per il resto della giornata passata accanto ad Astrea, non fece che accumulare tensione nervosa e una fortissima esasperazione.

Come diavolo faceva a farle capire che voleva conoscerla meglio e voleva aiutarla davvero?!

***

Riemergere dal sonno onirico fu più esasperante e irritante di quanto non lo fosse mai stato nei mesi precedenti e, quando si ritrovò gli occhi dei nonni puntati addosso, non faticò a comprenderne i motivi.

Era più che certo di avere il volto corrucciato, forse addirittura livido, e per più di un motivo.

«E’… andato tutto bene?» tentennò Anita, non sapendo bene quanto – e cosa – chiedere al nipote.

«Bah… vai a saperlo» sbuffò Alekos, balzando in piedi dal materassino prima di rendersi conto dell’orario. Era rimasto addormentato quasi tredici ore!

Fissando costernato l’orologio da muro, fissò spiacente entrambi i nonni, ma Carlos tenne subito a precisare: «Non fare quella faccia. Siamo andati in bagno a turno e abbiamo anche pranzato.»

«Lo spero bene» sottolineò Alekos, stiracchiandosi un poco prima di dire frettolosamente: «Eros, io ti invoco. Hai tempo per me?»

Una nuvola dorata apparve dopo qualche attimo e, sotto gli occhi stralunati dei tre presenti, fece la sua apparizione Eros in tutto il suo divino splendore.

A torso nudo e lucido di sudore, il dio indossava solo un esile perizoma da danza classica color carne, che niente lasciava all’immaginazione e molto mostrava agli occhi dei suoi spettatori.

Mentre Carlos bestemmiava un’invocazione a tutti i santi del paradiso per poi coprire gli occhi alla moglie – in totale ammirazione del dio – Alekos gracchiò: «Ah… che stavi facendo, scusa?»

«Danza classica, non si era capito? Porto persino le scarpette con la punta!» sottolineò lui indicandosi i piedi.

«Giuro… non le ho notate» esalò Alekos, passandosi una mano sul volto, ormai prossimo a un esaurimento. «Senti, se posso rubarti alla tua lezione, avrei bisogno di parlarti.»

Esibendosi in un fouetté en tournant di gran pregio, Eros assentì e disse: «Nessun problema. Posso riprendere anche dopo.»

Ciò detto, si inchinò elegantemente ad Anita, strizzò l’occhio a Carlos e infine portò con sé il cugino, svanendo in una nube dorata al sapor di zucchero.

Sbuffando di fronte ai residui di quella nuvoletta profumata, Carlos borbottò: «Questi dèi, a volte, non hanno davvero pudore.»

«Lo dici solo perché non è arrivata Psiche, così conciata» lo rimbeccò con ironia Anita, dandogli un colpetto sullo stomaco con fare divertito.

«Puoi forse criticarmi?» replicò allora lui, scoppiando a ridere con la moglie.

Nell’uscire dalla dependance mentre le loro risate andavano scemando, Carlos commentò con la moglie: «Chissà perché aveva quella faccia, comunque…»

«Se ha chiamato proprio Eros, oserei dire che è un caso delicato.»

«Uhm… cherchez la femme?» ipotizzò l’uomo.

Anita assentì, chiosando: «Ho idea di sì.»

«Era ora» motteggiò a quel punto Carlos, ricevendo per diretta conseguenza uno schiaffetto sulla spalla da parte della moglie.

Lui, però, non vi fece caso. Era inutile che la moglie facesse la finta puritana; il nipote era in gamba, sapeva un mucchio di cose… ma, quanto a donne, non aveva ancora imparato nulla, ed era tempo che si desse da fare.


 

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Capitolo 63
*** Astrea - 6 - ***


 

6.

 

 

 

Intento ad asciugarsi con un enorme asciugamano color salvia, Eros ascoltò la lunga e, a volte, divertente dissertazione di Alekos in merito a quanto successo nel mondo onirico di Astrea.

O meglio… per lui fu divertente. Quanto ad Alekos, a Eros parve assai frustrato e sì, decisamente preso dalla donna che aveva saputo renderlo così nervoso e irritato.

Quando infine il giovane cugino ebbe terminato il suo soliloquio dolente, il dio dell’amore gettò il salviettone sopra una sedia, schioccò le dita per far apparire una vestaglia di seta e, dopo essersela drappeggiata addosso, dichiarò: «Caro il mio Al, sei spacciato. Astrea ti ha fritto il cervello.»

«Che intendi dire?! Io desidero solo conoscerla meglio e aiutarla a uscire da quello schifo di mondo onirico!» sbottò Alekos, arrossendo suo malgrado. «La reputo una persona interessante e vorrei approfondire la sua conoscenza, ma lei è così testarda da vedere soltanto il suo personale incubo, senza capire che sono passati più di settant’anni da quell’evento!»

«Oh… mordi il freno, eh?» ironizzò a quel punto Eros, vedendolo adombrarsi in volto per diretta conseguenza. «Credi che non lo sappia? Astrea, intendo. Lo sa eccome che sono passati settant’anni o giù di lì, ma non le interessa. Lei vuole soffrire in eterno

«E io non voglio!» sbottò allora Alekos prima di bloccarsi, guardare Eros con espressione smarrita ed esalare subito dopo: «Io… scusami. Non volevo alzare la voce con te.»

Eros scosse una mano con fare noncurante, replicando semplicemente: «Non ci ho fatto caso. Sei esasperato perché Astrea comincia a piacerti, e vorresti conoscerla meglio per capire se lei potrebbe o meno essere la donna per te. Mi pare evidente.»

«Tu dici?» mugugnò Alekos.

«Bimbo caro, tu parli con la quintessenza stessa della sapienza amorosa e, non per offendere mia madre, ma ne so più io di lei, di amore passionale e liaison più o meno peccaminose» ammiccò furbo Eros, facendo sorridere il cugino.

Tornando poi serio, il dio dell’amore aggiunse: «Astrea era una bellissima persona, vitale e gioiosa, prima di imprigionarsi nel suo spettrale e personalissimo inferno, perciò non mi stupisce che un ragazzo con la tua personalità la trovi interessante. Dubito comunque che, pur in tutto quel suo macello shakesperiano fatto di tragedie e morti, lei si sia persa del tutto, e tu percepisci questa piccola fiammella di speranza.»

«Ne sono convinto, infatti. Il suo spirito perdura… ma è soffocato dal rimorso che prova per tutte quelle morti inutili» sospirò Alekos, lasciandosi cadere su una delle poltrone dello studio di prova di Eros.

Quando vi erano giunti, Alekos se ne era un po’ stupito ma, dopo averne chiesto spiegazioni a Eros, aveva scoperto trattarsi di un luogo nel regno umano che lui affittava periodicamente.

Eros sospirò a quelle parole, e asserì: «E’ difficile avere a che fare con una donna dilaniata da dubbi e pianti non consumati. Perché è palese che Astrea deve piangere ancora molte lacrime, prima di liberarsi dal dolore che cova in lei.»

«Tu credi che… non si sia mai sfogata?» esalò Alekos, pieno di sorpresa.

«Chiunque, anche la persona più persa nel dolore, se riesce a sfogarlo prima o poi si sente meglio. Lei invece, da quel che mi dici, non sta mai bene. E’ sempre dilaniata e divorata dalle stesse fiamme che divorano gli altri, giorno dopo giorno.»

«Però, se la tocco, vedo la vecchia lei» gli fece notare Alekos, sorprendendolo.

Eros rimase senza parole, a quell’accenno ma, preferendo non dare false speranze al giovane, si limitò a dire: «Beh, è una cosa sicuramente curiosa. Però credimi, finché lei non piangerà i suoi morti, perché è chiaro che li reputa come una sua responsabilità, non ne verrà mai fuori. E tu rimarrai frustrato a vita.»

Alekos si accigliò, a quelle ultime parole, e bofonchiò: «Grazie, cugino. Tu sì che sai risollevarmi il morale.»

«Ora non mettere il broncio anche tu…» ironizzò Eros, sorridendo poi a Psiche quando ella entrò nello studio di danza, armata di stivaletti pelosi, giacca a vento e jeans schiariti.

Nel vedere Alekos, la dea lasciò perdere le sue borse dello shopping per correre ad abbracciarlo e, nel passargli una mano sulla corta capigliatura, esalò: «Oh, sento così tanto la mancanza dei tuoi riccioli! E’ un vero peccato che si siano rovinati così tanto da doverli tagliare.»

«Anche a me mancano. Mi piacevano» sospirò il giovane, rispondendo all’abbraccio senza alcun problema.

Eros, dopotutto, aveva avuto ragione. Se non reagiva più a Psiche e alla sua presenza sensuale, non era soltanto perché si era abituato a lei, ma perché c’era un’altra donna, nella sua mente, che lo distraeva completamente.

Nel ricevere un bacio sulla guancia da Psiche, Alekos si mise in attento ascolto delle sue avventure in giro per le vie del centro di Milano – come scoprì a quel punto – e, per tutto il tempo, desiderò portarci anche Astrea.

Desiderava davvero strapparla a quella gabbia, anche solo per dimostrarle che il mondo, nonostante tutto, era sopravvissuto a tanto odio e tanta rabbia. Sapeva però che, prima di arrivare a tanto, avrebbe dovuto farla piangere.

Il che, lo inorridiva al solo pensarci.

***

Seduto a terra accanto al divano dove la madre era sdraiata comodamente, Alekos le passava a momenti alterni degli acini d’uva mentre Érebos, in cucina, era impegnato a terminare la preparazione dei pop-corn.

Quella sera, dopo essere tornato da Milano grazie a un passaggio di Psiche, Alekos si era voluto fermare a cena dai suoi genitori per sapere come stesse procedendo la gravidanza.

Il processo di guarigione lo aveva tenuto spesso a letto e, a causa dei forti dolori, non sempre se l’era sentita di farsi vedere da sua madre. Stando ormai bene, perciò, aveva pensato di passare in visita.

Rispetto ad Artemide, comunque, la madre non sembrava risentire della presenza della neonata – Demetra aveva confermato trattarsi di una femmina – né dei suoi poteri già in formazione.

Lo faceva sentire strano, il pensiero di vedere sua madre cambiare di giorno in giorno, nonostante avesse già vissuto pienamente la nascita e la crescita delle gemelline degli zii e del figlio di Apollo e Clizia.

Non aveva quindi idea se, questi suoi sentimenti contrastanti, dipendessero dalla consapevolezza di essere un futuro fratello maggiore, o dal timore che la sorella potesse essere come le cuginette.

Adorava Xena e Buffy, ma solo Chaos sapeva come Felipe non fosse già impazzito a causa dei loro dispetti.

Ora che andavano a scuola, le difficoltà per tenerle a bada erano decuplicate e, spesso e volentieri, Artemide era stata costretta a far intervenire Érebos per candeggiare le menti dei mortali.

«Sei così pensieroso che le tue paure stanno prendendo forma sopra la tua testa» ironizzò sua madre, strappandolo a quei tetri pensieri mentre, con una mano, spazzava simbolicamente via i pensieri del figlio.

Lui sorrise imbarazzato, scusandosi e, nel mettersi in ginocchio, poggiò un bacio sul ventre arrotondato della madre per poi dire: «Sono sicuro che tu sarai bravissima e buona come il pane, Chlóe1

Il padre rise sommessamente nel sentirlo parlare a quel modo e, dopo aver consegnato una ciotola enorme di pop-corn ad Athena, ne diede un’altra ad Alekos e dichiarò: «Di sicuro, Chlóe potrà vantare su un fratello gentile e premuroso che le farà da guida.»

«Al momento, la mia guida servirebbe a poco… non so dove andare o cosa fare, in questo periodo» sospirò il giovane, passandosi stancamente una mano sul viso.

Érebos levò un sopracciglio con evidente interesse ma, senza cambiare in alcun modo il tono di voce, disse con tranquillità: «Può capitare, ragazzo. Si vede che niente ti stimola veramente, ma non è necessariamente un male. Forse, potresti scegliere un’università e studiare per qualche anno. Potrebbe liberarti la mente.»

«Se lo dici tu…» mormorò Alekos, sbuffando.

Athena lanciò un’occhiata al compagno prima elevarsi dal divano, tenersi la schiena e borbottare: «Tu non saprai dove andare, ma io sì. Al bagno. E in fretta. Voi cominciate pure senza di me, visto che non so per quanto ne avrò.»

Alekos la seguì turbato con lo sguardo, ma il padre si limitò a dire: «Non temere. E’ solo la piccola che preme sulla sua vescica, facendola diventare più sensibile.»

«Okay» assentì il giovane prima di mormorare: «Ma me lo direste, vero, se ci fosse qualcosa che non va?»

«E’ ovvio. Sei nostro figlio e, tra di noi, non ci sono segreti» ammiccò Érebos, sgranocchiando con calma alcuni pop-corn.

Alekos allora annuì, parzialmente pacificato, cincischiò per alcuni attimi con i propri pop-corn e infine, con uno sbuffo, mugugnò: «Posso chiederti una cosa?»

«Certamente» assentì il dio Ctonio, mantenendosi su un tono neutro.

«Come approcceresti una donna, sapendo di doverla far soffrire, prima di farla stare bene?»

Sbattendo confuso le palpebre, Érebos fissò il figlio senza capire bene la sua domanda e Alekos, passandosi nervosamente le mani sul viso, brontolò un’imprecazione prima di ritentare.

«Eros è convinto che Astrea non abbia ancora pianto i suoi morti, e questo la bloccherebbe in quel loop senza fine. Sai, la faccenda di elaborare il lutto e tutto il resto…»

La divinità Ctonia assentì e Alekos, con maggiore coraggio, aggiunse: «Ecco, io mi troverei anche d’accordo con lui, se non fosse che non voglio farla piangere.»

«Oh… è encomiabile che tu tenga alla sua felicità ma, in effetti, il discorso di Eros ha un suo perché. Esculapio tentò più volte di venire a patti con lei, in merito a questo, ma non riuscì mai a fare breccia nel suo animo. Neppure gli oneiroi riuscirono in questo, e Hypnos ricevette un secco ‘non mi scocciare’ circa una ventina d’anni addietro. Quanto a me, non ripeterò ciò che mi disse per pura gentilezza nei tuoi confronti. Forse però, tu, potresti riuscirvi.»

«Quindi, sarò davvero costretto a farla ulteriormente soffrire?» borbottò Alekos, accigliandosi non poco.

Il dio Ctonio lo fissò con attenzione, ne studiò il nervosismo palese, l’ansia con cui ticchettava le dita su un ginocchio, o il modo in cui le sue labbra venivano lappate continuamente.

Alekos non stava chiedendogli solo un consiglio. Era completamente al buio, perso nel suo personale dramma, e non solo perché aveva paura di far soffrire Astrea. C’era ben altro, nelle sue domande.

«C’è più di un motivo, per cui non vuoi vederla soffrire? A parte quello più ovvio?» gli domandò allora il padre, poggiando sul tavolino da salotto la sua ciotola di pop-corn per dare un peso maggiore alle proprie parole.

Poteva anche essere la divinità Ctonia dell’oscurità, il Sommo Érebos che tutti temevano, ma non riusciva a vedersi molto in parte, con dei pop-corn in una mano e una Coca-Cola nell’altra.

Alekos lanciò uno sguardo al corridoio dove era svanita sua madre, prima di mormorare: «Potrebbe… esserci dell’altro.»

«Ed è una cosa che posso sapere, o preferisci parlarne solo con Eros? Vedo che ultimamente vi sentite spesso» gli domandò ancora il padre, sorridendogli comprensivo.

Il figlio rise imbarazzato, annuendo, ma disse: «Beh, il fatto che tu l’abbia notato, depone già a mio sfavore. Comunque, credo di provare qualcosa per Astrea, ma non riesco a capire se il mio interesse è più che altro dettato dal mio desiderio di salvarla, o se veramente ci sia dell’altro.»

Érebos assentì pensieroso, preferendo non lasciarsi andare a battute inerenti al fatto che Alekos si fosse innamorato o meno di una donna – cosa che sarebbe avvenuta con Ares presente, per esempio.

Rammentava bene lo stordimento da lui provato quando, dopo millenni passati al fianco di Nyx, la loro passione era scemata, lasciandoli liberi da legami profondi se non il rispetto e l’affetto reciproci.

Questo vuoto nel cuore lo aveva lasciato in qualche modo stranito, ma non in senso negativo. Gli aveva concesso di vedere il mondo con occhi nuovi, e questo lo aveva portato a guardare con occhi diversi anche le persone.

Nyx si era persino divertita, al pensiero di trovargli una nuova compagna, e lui l’aveva lasciata fare al solo scopo di dirle sempre di no in risposta.

Questo loro strano gioco, però, non aveva tenuto in debito conto l’ironia con cui Chaos sapeva sparigliare le carte… generando casualità laddove nessuno avrebbe mai pensato.

Pur conoscendo Athena da secoli, Érebos non aveva mai fatto parte della cerchia ristretta dei suoi amici – di cui invece faceva parte Nyx – ma, quando ella aveva deciso di andarsene dall’Olimpo, lui l’aveva aiutata a decidere.

Trovarla in lacrime, furiosa e scarmigliata dinanzi alla casa di Nyx e indecisa se entrare o meno, aveva mosso istintivamente il suo corpo verso di lei.

Athena si era scusata con lui per quell’improvvisata, ma il dio Ctonio l’aveva pregata di non pensarci e di dirle, piuttosto, come potesse donarle di nuovo il sorriso.

Spontaneamente, allora, la dea gli aveva parlato della sua ultima lite col padre, di come lei si sentisse fuori posto e fuori fase, sull’Olimpo, e di quanto desiderasse tornare nel mondo degli uomini.

Era stato a quel punto che lui le aveva proposto di visitare nuovamente il mondo umano che, per troppo tempo, non l’aveva vista camminare tra le genti come semplice donna, e lei aveva accolto l’idea con entusiasmo.

Nelle settimane successive, Athena era tornata spesso alla sua porta per chiedere ulteriori consigli o per sottoporgli proposte diverse. Quando, infine, il giorno della partenza era giunto, Athena lo aveva ringraziato con un abbraccio e un bacio, esprimendogli poi con un sorriso tutta la sua gratitudine per l’aiuto che lui le aveva dato.

Quel sorriso, il tempo passato assieme gomito a gomito e la scoperta di una Athena che lui mai aveva conosciuto realmente, avevano infine congiurato contro di lui.

La casualità che nessuno aveva considerato aveva iniziato a far parte della sua vita.

Nel corso dei decenni, quindi, Érebos l’aveva seguita in silenzio, ne aveva ammirato l’intraprendenza e la curiosità, si era innamorato di lei un passo alla volta, da lontano, senza mai turbarla con i suoi sentimenti. E aveva sentito il proprio cuore andare in pezzi quando, per la prima volta, Athena si era innamorata di un uomo.

Quel mortale, quel giovane di bell’aspetto e belle speranze, era riuscito laddove nessun altro, divinità comprese, era mai riuscito, e lui si era sentito un codardo per tutto il tempo. Mai si era fatto avanti, credendo in se stesso e nei propri sentimenti, e persino Nyx lo aveva rabberciato in tal senso, lagnandosi con lui per la sua viltà.

Così, ancora una volta, era rimasto nell’oblio, beandosi comunque per la felicità di Athena. Perché, prima ancora che alla propria, lui aveva pensato al benessere di colei che aveva imparato ad amare.

Per questo, l’incidente di Miguel e la morte di Alekos lo avevano spinto a tanto. Il suo amore per Athena lo aveva condotto su un sentiero che, solo per merito della benevolenza di Chaos, non si era tramutato in un disastro.

Se Alekos provava anche soltanto qualcosa di simile per Astrea, quindi, doveva metterlo in guardia dagli errori che lui aveva commesso, e che lo avevano condannato al silenzio per anni e anni.

«Sai che amavo tua madre da ben prima della tua nascita, no?» iniziò col dire allora Érebos, vedendolo annuire. «Sai anche che non provo gelosia nei confronti di tuo padre.»

«Certo. Me lo hai detto molte volte, e comunque ricordo bene come ti comportasti con lui, nell’Oltretomba, salvando dal Lete i suoi ricordi» annuì sereno Alekos.

«Ciò che forse non ti ho mai detto è che, però, mi sono sentito spesso un idiota per non essermi fatto avanti prima, con tua madre» ammise il dio, sorprendendo un poco il figlio adottivo. «Forse, tua madre avrebbe comunque avuto bisogno dell’amore di tuo padre, per sentire dentro di sé il desiderio di avere un compagno, chissà. Ma forse avrei potuto essere fin da subito io, quel compagno, e tu avresti potuto essere davvero mio figlio. Nessuno può saperlo, ma l’essermi tenuto nell’ombra mi fa credere di essere stato un vile... e anche un idiota.»

Alekos sorrise comprensivo, ben sapendo quanto fosse difficile, per una divinità, ammettere i propri errori, anche se soltanto in campo affettivo.

«Ho imparato molte cose, parlando con Chaos prima di venire risucchiato dentro il mio personale loop metapsichico, e so che una cosa molto importante è questa; il filato della vita offre linee guida, non un percorso prefissato perché, alla fine, siamo noi a decidere come vivere. Forse, in quel momento, neppure tu eri pronto per essere il suo uomo. Chissà» chiosò Alekos, scrollando le spalle.

«E’ possibile» annuì il dio.

«Quello che so con certezza è questo; aver avuto te e mio padre, nella mia vita, mi ha dato molto. Ringrazio ogni giorno per il tempo che ho passato con Miguel, piuttosto che per il tempo che ho passato e passerò con te» gli disse con sincerità Alekos. «Se mai dimostrerò di essere degno di voi, saprò di aver fatto un buon lavoro nella mia vita.»

«Lo stai già facendo, credimi, e penso di poter parlare anche a nome di Miguel, dicendoti questo» lo rincuorò il padre. «Tutto ciò per dirti che, se senti che potrebbe esserci qualcosa di più, nei sentimenti che provi per Astrea – a parte il genuino interesse di salvarla – devi scoprire cos’è e prenderlo a piene mani. L’immortalità è bella, ma sprecare anche un singolo giorno senza la persona amata è, per me, un’autentica assurdità.»

Alekos assentì grato e ammise: «E’ difficile capire cosa provo. La vedo così debole e fragile che, spontaneamente, vorrei sempre difenderla, eppure…»

«… eppure, sai che non è sempre stata così, che in passato non aveva bisogno di essere difesa, e che forse di quella persona potresti innamorarti senza alcun dubbio a seguirti come un’ombra» terminò per lui il padre, annuendo.

Sbuffando, il giovane asserì con una certa veemenza: «A volte, mi fa davvero arrabbiare. Vorrei scuoterla fino a far riemergere la dea che è in lei – e che io ho visto – ma che Astrea tiene saldamente per le redini. E’ come se si vergognasse di essere una divinità!»

Quel nervosismo inaspettato fece sorridere Érebos, confermandogli quanto il figlio fosse piuttosto preso dalla dea della giustizia. Era palese quanto fosse forte in lui il desiderio di strapparla ai suoi demoni, così da poterla finalmente conoscere davvero.

Tutto ciò, però, doveva avvenire con i tempi giusti, o Astrea si sarebbe chiusa a riccio ancor di più, relegando fuori dal suo cuore anche Alekos.

Prima ancora di poter parlare, però, Érebos vide tornare Athena che, le mani poggiate sulla schiena in posizione dolente, dichiarò: «Scusate, non ce la facevo più… ero troppo curiosa, e il bordo della vasca fa schifo, come sedia, perché è deplorevolmente duro. Ero stufa di stare seduta lì sopra ad aspettare che finiste di parlare.»

Sia Alekos che Érebos scoppiarono a ridere e Athena, nel sistemarsi di nuovo sul divano, diede una pacca sul braccio al figlio e aggiunse: «So ascoltare come un maschio, non temere. Non mi sdilinquirò come farebbe Afrodite. Promesso.»

Il figlio, però, scosse il capo, negò di avere problemi in merito a eventuali sdilinquimenti e, più sereno, parlò anche con la madre dei dubbi che lo attanagliavano. Dopotutto, due teste erano meglio di una. Se erano tre, era meglio ancora.

***

La notte era fredda e sferzata da un vento umido che le scompigliava i capelli, le feriva le membra e la faceva sentire ancor più sola e triste.

Rannicchiandosi più che poté sotto i pochi cenci che era riuscita a raccattare, Astrea serrò gli occhi per impedire alla polvere di ferirle le sclere già arrossate.

Tutto il suo corpo gridava di dolore, implorando per un attimo di requie ma perché, proprio quella sera, lei sentiva così tanto i morsi della fame e il grido delle sue carni?

Perché, proprio quella sera, ogni sua volontà di resistere stoicamente al dolore le sembrava inutile?

Perché, proprio quella sera, lei provava pena per se stessa?

Sei la regina di questo regno, perciò puoi fare quel che vuoi

Le parole di Alekos riverberarono dentro di lei come un martello, percuotendola e ricordandole in ogni momento quanto poco, dell’Astrea di un tempo, fosse rimasto.

Lei non era la derelitta che arrancava lungo le vie, o l’infima creatura vittima di un’ecatombe. Non lo era mai stata, e il solo fatto di volerla apparire era una menzogna bella e buona.

Il fatto di volersi punire ad vitam, ripercorrendo ogni giorno della sua esistenza le pene sofferte dal popolo giapponese, poteva forse avere un sentore di contrizione, ma non portava a nulla.

Cosa aveva imparato, in quei decenni fatti solo di dolore e disperazione? Nulla.

Cosa aveva fatto per riscattarsi dal baratro in cui era caduta? Nulla.

Si era rannicchiata in un angolo a lagnarsi per le colpe che presumeva di avere, ma non aveva agito. Non aveva fatto un accidente di niente, per aiutare le persone che avevano subito un tale scorno da parte del destino!

Risollevandosi da terra con espressione irritata e determinata assieme, Astrea fissò gli occhi di colomba sull’oceano scuro che ancora attendeva l’alba. Tutto era immoto, esattamente come lo era stata lei fino a quel momento.

Si era lasciata trascinare dalla corrente, niente più che una foglia in balia del vento degli eventi ma mai, una sola volta, aveva provato a cambiare lo stato delle cose.

Lei, che era stata fregiata del titolo di divinità, si era comportata come neppure il più misero degli umani avrebbe fatto.

«E’ ora di dire basta» sibilò Astrea, stringendo la mani a pugno contro i fianchi smagriti.

Reclinando lo sguardo, sbuffò irritata e, prima che il sole sorgesse per una nuova alba, un’altra luce si espanse sull’ignara Hiroshima.

Era giunto il tempo.

 

 

1 Chloé: significa “germoglio”, “piantina nascente”.

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Capitolo 64
*** Astrea - 7 - ***


7.

 

 

 

Raggiungere il sogno di Astrea gli era ormai semplice come leggere un libro, o sfogliare un giornale, eppure quel giorno si ritrovò in un luogo diverso dal solito, quasi avesse sbagliato posto.

Guardandosi intorno dubbioso, riconobbe le dolci colline verdeggianti, le strade inghiaiate di Hiroshima, la baia lucente e il porto con le navi alla fonda, eppure qualcosa non tornava.

Inoltre, più di ogni altra cosa, mancava Astrea.

Lui era solito trovarla nei pressi della collina con la quercia ove l’aveva incontrata la prima volta, eppure quel giorno non era lì.

Cominciando a preoccuparsi – che le sue fantasie fossero maturate fino a farla divenire essa stessa una paziente del campo? – Alekos cominciò a discendere in tutta fretta la collina.

Nel farlo, passò accanto a case divelte dall’esplosione, ai resti di giardini un tempo perfetti, ma nulla trovò se non una strana, insolita quiete. Le strade erano vuote. Nessuno, a parte lui, correva in esse.

Del popolo di Hiroshima che, per lungo tempo, aveva assediato col suo pianto e il suo dolore quei luoghi metapsichici, non v’era più traccia.

Neppure i soldati che, solitamente, pattugliavano la città alla ricerca di superstiti, erano presenti. Che mai era cambiato, nel sogno di Astrea? E lei dov’era?

L’ansia divenne panico, a quel punto e, mettendo le ali ai piedi, il giovane si diresse a tutta velocità verso la base militare dove, finalmente, incrociò le prime due persone di quella stramba giornata onirica.

Come la volta precedente, i due soldati di vedetta si inchinarono a lui con il consueto saluto – oh, kami – e Alekos, nel passarvi accanto con passo più lento, si domandò cosa vedessero in lui di tanto strano da usare quell’epiteto.

Era mai possibile che, in quella dimensione onirica, le emanazioni di Astrea potessero scorgere la sua discendenza divina? Davvero non lo sapeva, comunque prese per buona la possibilità di entrare e, attento, si addentrò nel campo.

Rallentando fino a fermarsi quando raggiunse il centro del piazzale sgombro di persone o materiale militare, Alekos si chiese dove fossero finiti tutti. Sapeva più che bene che, all’epoca, i feriti erano stati acquartierati nella base militare perciò… dov’erano finiti?

A ben vedere, neppure i due soldati al cancello, erano più presenti.

«Ma che succede?!» esclamò a quel punto Alekos prima di urlare a gran voce il nome di Astrea.

Quest’ultima, come un’apparizione ancestrale, emerse da un capannone in tutta la sua sfolgorante bellezza e Alekos, senza parole, ristette immobile in sua contemplazione.

Aveva già potuto scorgere la sua bellezza, così come la sua divinità, ma quella mattina Astrea appariva come mai gli era stato concesso di vedere finora. Era la dea che era stata un tempo, e il cui icore brillava sottopelle rendendola splendente al pari di una stella.

Allungando una mano verso di lui, Astrea gli sorrise a mo’ di benvenuto e mormorò: «Sono lieta tu sia venuto. Lascia che ti mostri una cosa.»

Lui assentì muto, rapito dal fulgore dei suoi poteri così come dalla sua rinnovata salubrità. Era un piacere, finalmente, vederla in salute! Ma perché questo cambiamento?

A sorpresa, quando Alekos strinse nella propria la mano della dea, ella tornò a essere donna e non più divinità, ma non per questo perse fascino o grazia.

Camminandole al fianco senza comprendere cosa, nel breve decorrere di una notte, fosse cambiato tanto in lei, Alekos ne apprezzò il bel viso eburneo e sano, gli abiti nuovamente in ordine e la lunga chioma bionda sparsa al vento.

Ora, stava di nuovo bene… ma sarebbe rimasta lì in ogni caso? Perché, tornata dea, non si era liberata di quella gabbia?

Lei allora gli sorrise, stordendolo non poco e facendogli perdere di vista le mille domande che, la sua nuova forma, gli aveva fatto nascere dentro. Con tono contrito, quindi, la dea ammise: «Ho pensato alle tue parole fin da quando te ne sei andato, la sera addietro. Avevi ragione nel dire che non ho fatto nulla per coloro che avevo preso nel mio cuore. Mi sono limitata a rivivere le loro pene… ma che altro ho fatto, per loro?»

«Non era mia intenzione offenderti» ci tenne a dire Alekos, ma lei scosse il capo, stringendo maggiormente la mano che li univa.

«Lo so e, se ti sono apparsa fredda, me ne spiace. Ero solo colpita dall’ovvietà delle tue parole. Mi sono soffermata a pensare al dolore, ma non ho fatto nulla per estirparlo e, per una dea quale io sono, è uno scorno non da poco» replicò la dea con un piccolo risolino di scherno verso se stessa.

Nell’aprire la porta del capannone da cui era precedentemente uscita, Astrea sorrise nel notare il completo stupore che balenò sul volto di Alekos e, orgogliosa, aggiunse: «Se volevo affrancarmi dal mio status di vittima, dovevo agire e, poiché io sono la signora di questi luoghi – avendoli creati io stessa –, ho dovuto cominciare da loro.»

Dinanzi agli occhi increduli di Alekos centinaia, se non migliaia di persone si trovavano distese su pagliericci di fortuna, assistite dalle ancelle della dea nel loro processo di guarigione.

Preoccupato suo malgrado da quell’imprevista piega degli eventi, Alekos temette che Astrea avesse preso fin troppo sul serio le sue parole così, timoroso, mormorò: «Tu sai, vero, che loro…»

«… non sono reali? Che in realtà sono morti, e altri sono rimasti sfigurati?» terminò per lui la dea, annuendo. «Certo. Non temere che io possa essere impazzita, anche se posso capire la tua confusione e i tuoi ovvi dubbi. Le mie ancelle e io curiamo loro perché loro fanno parte del mondo che io ho creato per punire me stessa. So bene di non poter fare nulla per coloro che morirono in quei giorni di fuoco, ma dovevo pur cominciare a fare qualcosa.»

«Quindi, tu vuoi…? Vuoi uscire?» domandò a quel punto lui, stringendo entrambe le mani della dea, quasi temette di precipitare, di risvegliarsi da un sogno che non poteva credere come reale.

Lei assentì con un sorriso e, arrossendo suo malgrado, ammise: «Ho peccato di presunzione e superbia, pensando di poter risolvere qualcosa, comportandomi così. Invece, ho fatto vivere nell’ansia per decenni i miei genitori, ho obbligato Esculapio a tenermi continuamente sott’occhio e ho ingiuriato a male parole… beh, i tuoi fratelli e tuo padre!»

Ciò detto, emise una breve risatina nel rendersi conto di quel particolare e Alekos, ridendo con lei, asserì: «Dovrai farmi un elenco dei fratelli che hai ingiuriato, visto che ne ho moltissimi... e, tra poco, avrò anche una nuova sorellina.»

«Davvero?» esalò sorpresa Astrea prima di aggiungere: «Sarò lieta di conoscerla, se me lo consentirai.»

Prima di lanciarsi in commenti di cui avrebbe potuto pentirsi, Alekos si limitò a domandare: «Prima dobbiamo guarire tutti, vero?»

«Sì. Quando anche l’ultimo umano di questo mio mondo sarà guarito, io sarò libera» annuì la dea con vigore.

Alekos non riuscì a credere alle proprie orecchie. Libera.

Astrea aveva davvero detto quella parola, e lo aveva fatto con il sorriso sulle labbra, conscia di ciò che lui aveva voluto dirle e di quello che lei aveva fatto, sbagliando.

Aveva compreso l’inutilità della propria reclusione, accettando il peso del proprio errore e ponendo le basi per rimediare al dolore che aveva causato a coloro che l’amavano.

Afferratala per la vita, ebbro di gioia, la sollevò all’improvviso per farle fare un mezzo giro in aria – facendola scoppiare a ridere per la sorpresa – finché, dopo averla riportata a terra, non le disse: «Io ti aiuterò. Sempre.»

Ciò detto, le diede un bacio pieno di promesse sulle labbra, cui seguì una corsa frettolosa – o fuga? – verso i pazienti ricoverati nel capannone.

Astrea lo lasciò andare, troppo stordita da quel bacio per poter fare alcunché e, mentre osservava Alekos piegarsi su un ferito per medicarlo coi suoi poteri benefici, un lento sorriso speranzoso le sgorgò sul volto.

***

Sapeva di essere stato un emerito idiota ad averla baciata a quel modo, senza alcun preavviso – senza neppure chiederglielo! – ma gli era venuto spontaneo. E, se c’era una cosa che aveva imparato da quel folle di Dioniso, era che la spontaneità era bella e, a volte, necessaria.

Inoltre, anche suo padre gli aveva detto di non tentennare, in merito ai suoi sentimenti. Si sarebbe scusato in seguito, con Astrea, nel caso in cui lei si fosse ritenuta offesa da quel bacio ma, in quel momento, era contento di averglielo dato.

La sorpresa di vederla nuovamente in sé, unita al fatto di aver finalmente udito quella parola – libera – sgorgare dalle sue labbra, lo aveva inebriato come un vino pregiato bevuto in un sol sorso.

Baciarla aveva avuto lo stesso effetto. Era tuttora ebbro di euforia, pur se erano passate ormai ore da quel suo colpo di testa, e con Astrea non si erano più parlati a causa del gran daffare che avevano avuto da portare a termine.

Risollevandosi quando anche l’ultimo dei suoi pazienti svanì da sotto le sue mani, completamente risanato dagli effetti della bomba, Alekos si guardò intorno, e solo per trovare accanto a sé una delle ancelle di Astrea.

La giovane – mera emanazione della mente della dea – gli si inchinò ossequiosa, mormorando subito dopo: «La mia signora vi attende a Nagasaki.»

«Ti ringrazio» disse Alekos, concentrandosi sulla scintilla vitale di Astrea per trovarla nel dedalo di input di cui era composto il suo subconscio.

In un attimo fu quindi da lei, in piedi lungo la scalinata del tempio buddista di Reisenji, con il sole volto a ovest e che tingeva di rosso fuoco le bianche mura della costruzione.

Lì, all’imbocco del tempio, vide infine Astrea, splendente al pari dell’astro che le stava arrossando le gote e apparentemente paga, fiera di essere giunta ove ora si trovava.

Il lungo peplum che indossava ondeggiava lieve al passaggio della brezza serale e, mentre Alekos annullava la distanza che li separava, Astrea iniziò a dire: «Vinta giace la bontà, e la vergine Astrea, ultima degli dei, lascia la Terra madida di sangue… così cantò di me Ovidio nelle Metamorfosi, e io fui così sciocca da dargli ragione.»

Alekos la raggiunse, prese tra le sue le mani protese di Astrea, che aggiunse: «Avrei dovuto lottare per la bontà, non cedere al sangue che mi ero vista grondare sulle mani. Tu mi hai fatto capire che, da un errore anche grave, ci si può risollevare e si può puntare a migliorare se stessi per non commettere più lo stesso inciampo. Forse inciamperò ancora, ma ancora mi rialzerò, grazie a te.»

«E io ti aiuterò» mormorò lui, portando le mani di lei sul proprio torace.

Astrea allora sorrise nel sentire il battito feroce del cuore di Alekos, la sua forza, la sua umanità e la sua divinità e, nel poggiare le labbra su quelle sorprese di lui, mormorò: «Lo speravo.»

Quando le loro due bocche si unirono, una luce sfolgorante li avvolse, accecando completamente Alekos che, colto di sorpresa, si coprì il volto per proteggersi, lasciando così andare le mani di Astrea.

L’attimo seguente, la luce svanì e con essa la dea e, sotto gli occhi sconcertati di Alekos, il mondo imperfetto che fino a quel momento li aveva circondati, cominciò a sgretolarsi sotto i suoi piedi.

«Certo che non conosce mezze misure!» sbottò lui, concentrandosi per scappare da quel mondo onirico per non venirne schiacciato.

***

Esculapio dovette poggiarsi alla scrivania del proprio studio per non cadere a terra e, sorpreso quanto confuso, si domandò cosa stesse scuotendo in modo così totale Ras Alhague.

Quando, però, percepì nettamente l’energia di Astrea espandersi come un’onda tutt’attorno a lui, corse fuori dallo studio per comprendere cosa stesse succedendo alla sua paziente più difficile. Per produrre un simile concentrato di potere, Astrea doveva essere…

Bloccandosi a metà di un passo, Esculapio esalò sgomento: «E’ mai possibile?»

Non concedendosi altro tempo per rimuginare sui propri dubbi, Esculapio riprese la corsa per raggiunse in fretta il corridoio ove si trovava la stanza di Astrea.

Lì, pieno di sorpresa, vide sgorgare da sotto la porta un’intensa lama di luce e, preso dall’euforia, aprì la porta nella speranza di vedere nuovamente Astrea viva dopo tanti decenni di inutili viaggi nel suo subconscio.

Quel che però gli si parò innanzi lo bloccò a metà di un passo e, scoppiando a ridere per l’immensa sorpresa e la gioia, esalò: «Questa poi!»

Piegato in ginocchio accanto al letto di Astrea, Alekos stava baciando una ridesta divinità che, possessiva, teneva una mano sul collo del giovane perché non interrompesse il contatto con lei.

La risata di Esculapio, però, mandò in frantumi il momento romantico e, pian piano, la luce creata dalla dea scemò fino a scomparire del tutto, lasciando al suo posto solo due giovani assai imbarazzati.

Ridendo pieno di soddisfazione, Esculapio si avvicinò alla coppia e disse: «Se avessi saputo che sarebbe bastato inscenare La Bella Addormentata nel Bosco, avremmo risolto molti anni fa il tuo problema.»

«Prima, doveva nascere Alekos» sottolineò Astrea, scoppiando a ridere assieme al proprio medico.

Avvicinandosi quindi al letto mentre Alekos si discostava un poco per poter farlo passare, Esculapio sorrise alla sua paziente e mormorò: «Scherzi a parte, come ti senti?»

Astrea si lasciò controllare senza protestare e, docile sotto le mani attente del medico, disse: «Mi sento viva. Era da un bel po’ che non assaporavo questa sensazione.»

«E serviva questo bel ragazzo, eh, per fartelo capire?» ammiccò Esculapio, strizzando l’occhio ad Alekos, che ridacchiò imbarazzato.

«A quanto pare, sì» annuì lei, sollevandosi in piedi grazie all’aiuto del dio della medicina.

«C’è ancora una cosa da fare, però» intervenne Alekos, sorprendendo entrambi.

«Cos’altro dovresti fare? Lei è qui, sta bene e…» tentennò Esculapio.

Sorridendo comprensivo ad Astrea dopo aver tranquillizzato con lo sguardo il teso dio della medicina, lui disse: «Deve piangere i tuoi morti.»

Astrea annuì a quelle parole piene di verità, prese tra le sue le mani del giovane che aveva saputo liberarla e, osservando un turbato Esculapio, asserì: «Alekos ha ragione. Se non compissi l’ultimo passo, potrei ricadere vittima dei miei stessi errori. Devo apporre l’ultima pietra del mio nuovo tempio.»

Ciò detto, svanirono entrambi da Ras Alhague ed Esculapio, con un gran sospiro, borbottò: «E ora chi glielo spiega, a Eos, che sua figlia è sparita di nuovo

***

L’onda energetica prodotta dall’implosione del mondo onirico di Astrea aveva riverberato nei regni celesti di ogni pantheon, e questo richiamò a Ras Alhague una speranzosa Eos quanto un fiducioso Astreo.

Esculapio dovette però smorzare in parte la loro gioia. Con dovizia di particolari, spiegò loro cosa fosse successo, quando la sua bolla onirica era esplosa, ma anche i motivi della momentanea assenza della figlia.

Sbrigativa, quindi, Eos fece per trasmutare, già pronta a raggiungere la figlia ma Esculapio, afferrandola gentilmente a un braccio, scosse il capo e replicò: «Non credo sia il caso di disturbarli proprio ora. Hanno compiuto questo viaggio insieme, e debbono terminarlo assieme. Inoltre, credo debbano dirsi anche altro…»

«In che senso?!» sbottò Eos, irritandosi immediatamente e scacciando in malo modo la mano del dio della medicina.

Astreo sospirò, scosse il capo e borbottò: «E poi ti domandi perché non sto più con te, e anche Orione ti ha dato il benservito dopo che vi eravate ritrovati? Se non ti dai una calmata, Eos, farai scappare tutti gli uomini della tua vita, e non solo loro… anche Astrea potrebbe decidere di darsi nuovamente alla macchia, se tu darai di matto così tutte le volte!»

Eos lo frizzò con uno sguardo glaciale, già pronta a ribattere alle sue accuse, quando questa svenne a sorpresa tra le braccia di un sorpreso Astreo.

Subito sgomento, il titano scoppiò in una gaia risata quando vide una siringa ipodermica comparire nella mano destra di Esculapio. Evidentemente, il dio-medico doveva aver previsto le proteste della dea, e si era premunito di qualcosa che potesse bloccarla.

Spiacente, Esculapio disse: «Dormirà qualche ora, così lascerà il tempo ad Astrea e Alekos di terminare ciò che stanno facendo. Non potevo davvero permetterle di raggiungerli, mi spiace.»

«Dovrai sorbirti una reprimenda coi fiocchi, al suo risveglio» gli ricordò Astreo.

«Non ricorderà nulla» lo rassicurò Esculapio, indicando poi ad Astreo dove distendere l’ora innocua Eos. «Quanto al resto, credo che Astrea sarà finalmente felice, adesso, e anche il suo carattere riottoso troverà requie… per un po’.»

«Dovrò abituarmi a rivedere spesso quel giovanotto, allora?» ironizzò Astreo.

«Credo di sì.»

***

L’aria frizzante di quella tiepida mattina le ricordava molto quella di settantasette anni addietro, quando il suo incubo a occhi aperti aveva avuto inizio.

Istintivamente, Astrea sollevò gli occhi verso il cielo terso e vide le scie di diversi aerei tingere quell’azzurro apparentemente innocuo. Ma nessuno, quella mattina, avrebbe sganciato la bomba.

Per la prima volta da quella tragica mattina, non avrebbe udito quel tuono mortifero, non avrebbe sentito il fuoco sulla pelle, non avrebbe ascoltato le grida di terrore delle genti.

Tutto, in quella città che tanto l’aveva colpita, sembrava non aver mai percepito la potenza del fuoco divino che si era abbattuto su di lei, quasi l’uomo avesse operato una magia su quella terra martoriata.

Avevano agito per correggere il torto subito e, a distanza di così tanti decenni, nulla sembrava essere accaduto. Gli uomini avevano saputo rialzarsi anche da una caduta così rovinosa.

Quando, però, vide in lontananza la sagoma a lei familiare del Genbaku Dome, se ne stupì e, lanciata un’occhiata dubbiosa ad Alekos, domandò: «Perché è ancora in piedi?»

«E’ un monito per tutte le genti, affinché non accada mai più una cosa simile» le spiegò lui indicandole poi di imboccare l’Honkawa Bridge, così da raggiungere la piccola isola nel mezzo del fiume, ove si trovava il Parco del Monumento alla Memoria.

Astrea si incamminò con lui sempre tenendolo per mano, il caos della città che ancora la turbava e la rendeva sempre più consapevole di quanto si fosse persa, nel corso degli anni.

Tutto le appariva così diverso, così lontano dai propri ricordi, quasi alieno, eppure sapeva di trovarsi ancora su quella Terra per cui tanto aveva pregato e spasimato.

Si sarebbe riabituata, comunque e, stavolta, lo avrebbe fatto con occhi più consapevoli, anche grazie all’aiuto di Alekos.

Raggiunto finalmente il parco, il rumore delle auto andò scemando e, complice la neve appena caduta sulla città, l’ambiente si fece più ovattato e tenue, quasi trascendente.

Il rumore dei loro passi sul selciato perfettamente pulito si intervallava a quello delle auto in lontananza, o a quello più delicato degli uccelletti che si involvano tra una pianta e l’altra.

Tutto sembrava essere stato concepito per portare pace a coloro i quali si fossero avventurati in quel piccolo boschetto, ricreato appositamente per dare degno riposo alle vittime dell’atomica.

Le linee minimaliste e squadrate dei muriccioli si intervallavano ai curvilinei sentieri del parco, che conducevano tutti alla lunga vasca ricolma d’acqua – ora ghiacciata – culminante con il Cenotafio della Memoria.

Lì, sotto un imponente arco di pietra grigia, Astrea scorse infine una Fiamma Eterna che, come le spiegò Alekos, era stata accesa per la prima volta nel 1964, in memoria di tutti i caduti.

Dinanzi alla fiamma, grandi fioriere di pietra adornavano il luogo di preghiera lì eretto e, appese ad alcune di esse, collane di gru di carta accompagnavano le invocazioni silenziose di coloro che le avevano lasciate.

Astrea le fissò con occhi ricolmi di lacrime e, non potendo evitarlo, si lasciò cadere in ginocchio e pianse.

Alekos le rimase accanto, inginocchiandosi a sua volta e, finalmente, vide calde lacrime sgorgare dagli occhi di colomba di Astrea. Una dopo l’altra, quelle lacrime andarono a cancellare le ferite accumulate dopo più di settant’anni di penitente castigo.

Una a una, tersero il suo animo piagato e, attimo dopo attimo, le piaghe si rimarginarono sotto gli occhi sempre più sereni e fiduciosi di Alekos.

Astrea non si sarebbe persa una seconda volta. Finalmente, era davvero libera.

«La perfezione non esiste, neppure per le divinità, e l’uomo ci ricorda che, per quanto possiamo essere potenti, neppure noi siamo in grado di controllare ogni cosa» mormorò Alekos, reclinando poi il viso per una muta preghiera.

Astrea annuì e, nel tergersi le lacrime dal volto, disse: «Hanno saputo rialzarsi dalla sconfitta e dall’annientamento come io, invece, non sono stata in grado di fare senza di te. Hanno dimostrato di essere ben più potenti di un dio.»

«Avevano dalla loro l’incognita offerta dal tempo. Nessuno di loro poteva perderne, e così si sono rimboccati le maniche e sono andati avanti» chiosò Alekos, offrendole una mano per risollevarsi da terra quando la dea si sentì pronta per farlo.

Annuendo, la dea si elevò al pari del giovane e asserì: «Io, invece, potevo disporre di tutto il tempo del mondo ma, invece di sfruttarlo per riportare la bontà e la gioia, l’ho sfruttato per produrre dolore. Sono stata una ben misera dea.»

Lui emise un risolino e, con ironia, replicò: «Devo ricordarti che io, nei miei momenti di onnipotenza suprema, stavo per uccidere mio padre e tutti coloro che erano legati all’oscurità? Volevo persino mettere sul trono dell’Olimpo mia madre, e trovarle un compagno che io ritenessi degno di tale nome!»

Astrea sorrise di quel commento autoironico, ribattendo: «D’accordo, anche tu non hai scherzato, lo ammetto. E credo che tua madre ti avrebbe ucciso, prima di concederti il dubbio onore di trovarle un uomo.»

Lui assentì nel tornare serio e, dopo averle sistemato la sciarpa che indossava attorno al collo – ottenendo in risposta un dolce sorriso –ammise con tono fiacco: «Ho avuto paura per tutto il tempo, fin da quando Eris mi ha riportato alla vita. Temevo di tornare a sbagliare, di ricadere nei vecchi errori ma, quando ho saputo di te e di ciò a cui ti eri sottoposta volontariamente, ho capito di poterti aiutare e, grazie a te, avrei potuto aiutare anche me stesso a diventare una persona migliore.»

«E ci sei riuscito? A diventare una persona migliore?» gli domandò lei.

«Non lo so. Ma lavorerò ogni giorno per diventare ciò che io penso sia una persona migliore. Il tempo non mi manca» ammiccò lui arrischiandosi ad abbracciarla.

Astrea ricambiò l’abbraccio e poggiò il capo contro la sua spalla, assaporando il suo calore, la sua presenza, il tenero sentimento che sentiva nel suo cuore nuovamente riaperto alla vita.

Mai avrebbe pensato che proprio lei, la vergine giustizia, avrebbe avuto bisogno di aprirsi all’amore, per capire, eppure era accaduto.

Alekos era stato l’unico in grado di infrangere la barriera di puro dolore che aveva eretto dinanzi e tutt’attorno a sé, e lo aveva fatto mostrando soltanto se stesso. Aveva messo sul piatto della bilancia i suoi difetti, non ne aveva fatto mistero, facendole comprendere come chiunque di loro fosse fallibile, anche una creatura votata alla luce.

Sorridendo, infine mormorò: «Dovrò chiedere scusa a Eris… l’ho sempre giudicata male, fiera com’ero del mio essere la Giustizia, ma ora capisco che anche lei ha sempre avuto un ruolo decisivo, perché ciò che rappresentavo potesse compiersi. Anche quando spingeva qualcuno verso l’abisso, altri venivano spinti ad agire per il bene. Tutto era interconnesso.»

Lui sorrise nello sciogliere l’abbraccio dalla dea e, ammiccando, chiosò: «Dubito che se ne farà qualcosa, delle tue scuse. Non le ama molto. Ma, se la libererai da Dioniso, ti sarà eternamente grata.»

Scoppiando a ridere, Astrea esalò: «Ma… proprio non vuole il suo spasimante?»

Grattandosi pensieroso una guancia, Alekos ammise: «Per la verità, credo le piaccia essere tampinata nel modo in cui sta facendo Dioniso, ma è troppo orgogliosa per ammetterlo. Inoltre, credo che sfuggirgli la diverta, esattamente come diverte Dioniso il rincorrerla.»

Astrea fece per commentare quando, di colpo, rise di se stessa e celiò: «Stavo per ridere della cosa, ma io dovrei davvero tacere, quanto a questo.»

«E perché?» volle sapere Alekos.

La dea, allora, levò i suoi dolci occhi fumosi su di lui e mormorò: «Io ho trovato l’amore sotto le bombe, e ho quasi mandato al Creatore colui che ha toccato il mio cuore, liberandomi dalla prigionia che mi ero imposta. Chi sono, dunque, per criticare il modo in cui Eris e Dioniso gestiscono la loro relazione?»

Alekos non disse nulla, limitandosi a chinare il capo per baciarla ed Eros, dal suo privilegiato punto di avvistamento, reclinò il binocolo con cui li aveva tenuti d’occhio fino a quel momento e si dichiarò soddisfatto del risultato.

Psiche, seduta accanto a lui sul terrazzino dell’appartamento che stavano temporaneamente utilizzando per il loro appostamento, domandò: «Era davvero il caso di venire a spiarli?»

«Con i loro precedenti? Era obbligatorio!» ironizzò Eros, offrendole un drink mentre, per sé, prendeva una fragola ricoperta di cioccolato da un cestino d’argento.

Per quell’appostamento ideato tra capo e collo, Eros non aveva comunque voluto rinunciare alle comodità perciò, dopo aver trovato un appartamento nella posizione ideale per spiarli, aveva creato quel piccolo buffet. Perché stare scomodi, quando si poteva evitarlo?

«Sono entrambi dei neofiti, nel campo dell’amore, e dovevo per forza tenerli d’occhio ancora un po’» dichiarò dopo qualche istante, sorseggiando del buon prosecco veneto.

Psiche allora gli sorrise divertita, si allungò per dargli un bacio al sapore di vodka e replicò: «Dillo, che ti piacciono i lieti fine.»

«Sono o non sono il dio dell’amore?»

La dea assentì con un risolino e, nell’afferrare il binocolo di Eros, lo puntò in direzione del parco per poi cercare la coppia appena formatasi.

Nel vederli avviarsi mano nella mano, le teste vicine mentre si guardavano vicendevolmente con occhi pieni di speranza, domandò: «Credi che dovremmo andare da loro?»

«Naah. Lasciamoli soli. Per qualche ora ancora, possiamo lasciarli stare, poi potremo cominciare a prenderli in giro» ammiccò Eros, facendola scoppiare a ridere.

«Non vedo l’ora» celiò Psiche prima di poggiare il binocolo, lanciare uno sguardo infuocato al suo uomo e mormorare: «Mentre aspettiamo che loro tubino un po’, potremmo inventarci qualcosa. Che dici?»

Eros non ci pensò sopra due volte. Con un balzo, si levò dallo sdraio su cui si era sistemato, prese tra le braccia una già eccitata Psiche e, nel chiudersi dentro la stanza da letto dell’appartamento, si chiese fuggevolmente quando sarebbero rientrati i padroni di casa.

Farsi beccare in atteggiamenti intimi da dei perfetti sconosciuti, poteva essere divertente.


 

 

 




N.d.A.: la frase di Ovidio citata da Astrea è stata la spinta per scrivere di lei e del mondo onirico da lei creato. E' stata anche la spinta giusta per creare il legame tra Astrea e Alekos. Spero che le mie scelte abbiano incontrato il vostro favore o che, per lo meno, vi abbiano fatto passare un po' di tempo in sano relax. Con il prossimo capitolo, giungeremo alla fine di questa lunghissima (almeno per i miei standard) storia ... sempre che a qualche divinità non venga in mente di farmi scrivere altro! A presto!

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Capitolo 65
*** Astrea - 8 - ***


 

Epilogo.

 

 

14 febbraio 2023 - Santa Cruz (Moore Creek Preserve)

 

La villa di Athena ed Érebos era gremita di persone ormai da giorni e, nel parco della tenuta di proprietà della coppia, le tende si sprecavano. L’intero complesso rassomigliava molto a un accampamento di stampo militare e Achille, che di campi se ne intendeva, aveva seguito la nascita di questo assembramento già dalle sue primissime fasi.

Raggiunta la sua dea alle prime avvisaglie dell’imminente parto, Achille, Alessandra e il piccolo Alessandro erano stati i primi, assieme ad Astrea e Demetra, ad aiutare Alekos nella gestione dell’arrivo di parenti e amici.

Nel giro di un paio di giorni, la voce secondo cui Athena fosse prossima al parto era volata da un angolo all’altro del Globo, complice anche la lingua lunga di Hermes. In questo modo divinità, semidivinità, parenti umani e pantheon stranieri erano stati avvisati dell’imminente arrivo di un nuovo pargolo divino.

Alekos era stato letteralmente subissato di baci, abbracci e auguri mentre i diretti interessati – Athena ed Érebos – si erano per lo più dati alla macchia, preferendo rimanere entro l’abbraccio sicuro della camera da letto.

Lì, Demetra aveva istituito una sala parto degna del miglior ospedale umano e, complice anche la presenza di Apollo ed Esculapio, il tutto era stato seguito con scrupolo quasi religioso.

Solo alla rottura delle acque, i due dèi erano stati gentilmente invitati a uscire, in modo tale che, all’interno della stanza, rimanessero soltanto la partoriente, il futuro padre, Demetra e Astrea, che si era offerta di aiutare.

Da diversi giri di clessidra, infatti, il parto della dea della guerra aveva avuto il suo inizio e, senza che Alekos potesse far nulla per aiutare la madre, al giovane non era rimasto altro che occuparsi dei suoi ospiti.

La sola cosa che gli impediva di impazzire, era il sapere Astrea al fianco di sua madre. Si fidava di Demetra – come non avrebbe potuto? – ma saperla lì gli era di conforto.

Dopo aver lanciato per l’ennesima volta uno sguardo alle scale che portavano al piano superiore, Alekos uscì dalla villa per prendere una boccata d’aria e, ben presto, venne raggiunto da Eris che, dopo una semplice occhiata, sorrise e disse: «Sopravvivrai, tranquillo. E riprenderai anche un colore decente.»

«Ora a che tonalità sono arrivato? Due ore fa, Ares mi ha detto che sembravo una melanzana, mentre Aiolos mi ha riferito che, poco fa, avevo il colore di un cetriolo» ironizzò il giovane, sapendo bene di non avere un bell’aspetto.

«Diciamo che tendi al verdognolo, quello di un’oliva, ma non stai peggio del tuo nonnino, che è laggiù a rigirarsi la barba da più di un’ora, mentre il buon, vecchio Carlos cerca di fargli provare uno dei suoi sigari» gli confidò Eris, mostrandogli come Zeus stesse gestendo malissimo il parto della figlia.

La visione del possente padre degli dèi, chino su una sedia da giardino, con il viso pallido e la barba resa ispida dai suoi troppi passaggi di mano, lo fece sorridere. In fondo, anche il potente dio dei fulmini aveva un cuore, e in quel momento era tutto per la figlia.

Dopotutto, non era stato presente durante la gravidanza che aveva visto la non-nascita di Alekos, e perciò ora si sentiva doppiamente in ansia.

«Forse, dovrei imitare Ares e ubriacarmi» chiosò Alekos, lanciando un’occhiata al ridente zio che, in quel momento, stava servendo da bere ad Achille e Hermes.

Eris rise sommessamente a quella vista però scosse il capo e replicò: «Tu e le sbronze non siete grandi amici. L’ultima volta che ti sei ubriacato hai quasi fatto esplodere il mondo perciò, se proprio vuoi svagarti, fai una passeggiata nel parco o chiacchiera con Acaste. E’ più salutare, per te.»

«Già… meglio se non mi attacco alla bottiglia» ammise Alekos prima di guardarsi intorno curioso e domandare: «Scusa, ma… dove hai infilato Dioniso? Di solito, dove sei tu, lui non è molto distante.»

Eris sospirò irritata, a quel commento vagamente ironico e, grattandosi nervosamente una guancia, borbottò: «L’ho legato a una pianta con uno dei lacci di Artemide, che lei mi ha gentilmente prestato. Era l’unico modo per tenerlo lontano dal mio sedere.»

Alekos fece tanto d’occhi, di fronte a quell’uscita imprevista e la dea, sospirando in modo ancora più esasperato, aggiunse: «Dice che ho delle natiche adatte per essere palpate. Parole sue, non mie.»

«Non confuterò la cosa, perché non voglio prendermi uno schiaffo…» ironizzò Alekos, guadagnandosi un’occhiata raggelante in risposta. «…ma confido che, prima o poi, lo libererai.»

«Non lo farò morire di fame, promesso» si limitò a dire lei con una scrollatina di spalle. «Quanto alla tua adorabile biondina, dille che se riprova a chiedermi scusa, la rispedisco nel buco cosmico in cui si è rintanata per oltre settant’anni, e farò in modo di farla rimanere lì.»

Scoppiando a ridere di gusto di fronte alla minaccia atona e serafica della dea, Alekos si asciugò una lacrima di ilarità ed esalò: «Astrea ci ha riprovato?»

«In questo, ha tendenze simili a Dioniso, lo ammetto. Ha una perseveranza davvero encomiabile, e infatti mi ha già esasperato oltre ogni limite da me accettabile» chiosò Eris. «Davvero, …mi fa piacere non avere più le sue maledizioni dentro le orecchie, e sono contenta che non mi ritenga più la peste incarnata… ma deve smetterla di farmi gli agguati

«Gli… agguati?» esalò sorpreso Alekos, sbattendo furiosamente le palpebre per lo shock.

Annuendo, Eris proseguì con tono vagamente irritato. «E’ normale che io e lei si sia arrivate spesso allo scontro, visto ciò che gestiamo, e sono contenta che ora abbia capito anche il mio punto di vista, ma allearsi con Dioniso ed Eros per cogliermi di sorpresa, è davvero un gesto meschino.»

Ridendo sommessamente di fronte a quello scenario davvero paradossale, Alekos ammise: «Beh, ha settant’anni da recuperare, quanto a divertimenti e relazioni sociali, perciò non mi stupisce che ora voglia darsi da fare.»

«E io sono il suo capro espiatorio?» gracchiò Eris, facendo tanto d’occhi.

Scrollando le spalle, Alekos asserì con semplicità: «Da qualcuno bisogna pur cominciare e, visto che Eros ci tampina quasi quotidianamente per essere sicuro che non facciamo casini, era scontato che lei approfittasse della sua presenza.»

Eris scosse il capo con espressione dolente e, nel passarsi una mano sul volto, borbottò: «Sopporterò perché ti sta a cuore, ma non ti stupire se una di queste volte le sguinzaglierò dietro le mie arpie.»

«La avviserò» le promise lui prima di darle a sorpresa un bacio sulla guancia e aggiungere: «Grazie per avermi distratto. Sei molto brava nel tuo ruolo di disturbatrice.»

Scansandosi con aria irritata, Eris gli diede uno schiaffo sulla spalla, sbottando: «Non ti ci mettere anche tu, con questi gesti svenevoli!»

Ciò detto, se ne andò a grandi passi ma, prima di svoltare dietro casa per raggiungere Dioniso, gli lanciò un sorriso e una strizzatina d’occhio.

Alekos sorrise divertito nello scuotere il capo. Con lei, sarebbe sempre stato così, ma almeno sapeva che ora anche il suo equilibrio era tornato, e che non soffriva più a causa degli squilibri cosmici che lui stesso aveva creato con il suo alter-ego assolutista.

Alessandra gli si avvicinò in quel mentre – lo sguardo che ogni tanto correva a Buffy e Xena che, diligenti, tenevano in braccio il piccolo Alessandro – e, nel sorridergli, disse: «Vedrai che, tra poco, sarà tutto finito. Demetra mi aveva mostrato le ultime ecografie di Athena, nei giorni scorsi, e la bimba non le creerà troppi problemi, a uscire.»

Annuendo, il giovane si passò una mano tra i riccioli scuri e asserì: «Sarà anche tutto vero, ma starò tranquillo solo quando ogni cosa sarà finita.»

La donna gli diede una pacca sulla spalla a mo’ di incoraggiamento e, nel guardarsi attorno, mormorò: «Con un tale concentrato di amore, non potrà che andare tutto bene. Guarda quante persone sono qui per attendere l’arrivo della tua sorellina, e quante pregano perché vada per il meglio! Non credo che, con così tante energie positive, qualcuno possa riuscire a far andare male questo parto.»

Alekos assentì meccanicamente, e lo sguardo corse all’autentica folla che assiepava il cortile della villa, oltre l’interno della casa.

Il Pantheon tutto si trovava lì per loro, oltre alla numerosa famiglia Rodriguez e ai venti di Aiolos che, per quell’occasione, avevano ricevuto il permesso di Zeus a presenziare.

Oceano e Teti erano presenti con una delegazione di oceanine e potamoi, mentre le iadi della Tracia erano venute in massa e si davano il cambio per servire libagioni ai presenti.

Persino Latona aveva deciso di presenziare e, strano a dirsi, Era non aveva mosso obiezioni in tal senso. Il tutto senza che Alekos avesse alzato un dito per convincere la nonna a intercedere per un tale evento.

Memnone e i suoi ibis stazionavano al limitare del bosco, anch’essi in attesa di un responso, mentre Orione, Eos e Astreo parlottavano tra di loro nei pressi dell’entrata della villa.

Il loro era davvero uno strano triangolo e, da quando aveva iniziato la sua relazione con Astrea, aveva avuto maggiori occasioni per avere a che fare con Eos e i suoi amanti.

Come l’aurora in cielo, di cui era personificazione, anche Eos era impermanente e volubile, e questo si rifletteva anche sui suoi rapporti interpersonali. Poteva passare dalla gioia al pianto in un batter di ciglio, e desiderare la compagnia di Orione o di Astreo in base a ragionamenti tutti suoi.

Non era una cattiva persona, ma ammetteva senza alcuna fatica quanto fosse difficile relazionarsi con lei, con tali e tanti cambi di umore.

“Alekos… vieni” mormorò all’improvviso Astrea nella sua mente, il tono tranquillo ma fermo.

Senza darsi pena di chiedere nulla, Alekos si scusò con Alessandra e corse in tutta fretta all’interno della casa, scatenando così la curiosità e l’ansia in tutti i presenti.

Scansando persone e scavalcando oggetti – facendo anche cadere un paio di lampade da tavolo, nel frattempo – Alekos si catapultò quindi al piano superiore e lì, trovando la porta della stanza già aperta, vi si riversò dentro per poi esalare: «Mamma! Va tutto bene?!»

Athena gli sorrise dal letto mentre, con gesti teneri, si portava la neonata al seno e Alekos, poggiandosi contro il muro per non crollare a terra, esalò: «E’ nata…»

Astrea lo raggiunge in fretta, prendendolo sottobraccio per accompagnarlo accanto alla madre mentre Érebos, carezzando il capo di rossi capelli della piccola neonata, mormorava emozionato: «Pensavamo volessi salutare Chlóe.»

Annuendo, Alekos si lasciò cadere sul bordo del letto e, con occhi pieni di lacrime gioiose, reclinò il capo per baciare quello della sorellina, mormorando: «Ben arrivata. Io sono Alekos, tuo fratello, e ti proteggerò sempre.»

La bimba gorgogliò nello scostare il capo dal seno della madre e, allungata una manina paffuta, picchiettò le dita sul viso del fratello, portandolo a piangere senza ritegno.

Athena ed Érebos si sorrisero orgogliosi mentre Alekos carezzava delicatamente la sorellina, impegnata a conoscere per la prima volta il fratello maggiore.

Nell’osservare quella scena, Astrea sospirò e disse a Demetra: «E’ valsa la pena di perdonare me stessa, visto quello a cui sto assistendo.»

La dea annuì nell’avvolgerle le spalle e, sorridendo di fronte alla famiglia riunita, chiosò: «Vale sempre la pena concedersi un’altra occasione.»

***

Seduto su una poltrona nel silenzio del salotto con la piccola Chóe tra le braccia mentre, all’esterno della villa, i festeggiamenti andavano avanti da ore, Alekos sorrise nel veder giungere Astrea con un paio di bibite.

I neo genitori erano ancora impegnati a ricevere le congratulazioni da parte di parenti e amici e, nel cielo, Pallade volava in cerchio insieme a tutti gli uccelli sacri appartenenti agli dèi presenti quella notte. Uno spettacolo a dir poco curioso, oltre che vagamente inquietante, ma a nessuno parve strano, tanto le persone erano perse nei festeggiamenti.

«Ehi! Sei riuscito a farla dormire! La tua prima conquista» sussurrò la dea, accucciandosi contro la poltrona su cui era seduto Alekos per poter osservare la piccola.

Lui annuì debolmente e, carezzando ammirato una guancia rosea della sorellina, mormorò: «Ancora fatico a credere che sia qui. Se penso che avrei potuto rovinare ogni cosa e…»

Astrea lo azzittì poggiando un dito sulle sue labbra e, nel sorridergli comprensiva, disse: «Non farti soffocare dai se e dai ma. Non è successo, e ora la tua sorellina avrà sempre al fianco un fratello amorevole che la proteggerà. Solo questo conta.»

Alekos annuì, ma le domandò: «E tu? Nessun rimpianto?»

La dea scosse il capo e replicò: «No, nessuno. La mia prigionia era solo uno sciocco e inutile tentativo di non vedere la verità, non la soluzione a ciò che tanto mi aveva sconvolto. Avrei dovuto agire fin da subito, prodigarmi perché le popolazioni coinvolte ricevessero le cure migliori, invece mi sono arenata nel dolore e non ho combinato niente di buono. Per questo ho parlato con Demetra, e ho scoperto del suo impegno costante all’interno dell’OMS. Pensavo perciò di rendermi utile anch’io, stavolta, e di apportare dei cambiamenti nella mia vita.»

«Sarebbe bello… ma intendi studiare tra gli umani come ha fatto lei, o pensi di creare ad hoc la documentazione necessaria per passare inosservata?» sottolineò lui, scostando leggermente un braccio per sistemare meglio la sorellina.

Ammiccando, Astrea allora disse: «Un uccellino mi ha detto che una certa persona voleva iscriversi all’università per studiare medicina, perciò mi sono detta… perché non farlo a mia volta

Sorridendo pieno di divertimento – evidentemente, sua madre aveva spifferato tutto ad Astrea – Alekos annuì e disse: «Ho ammirato molto il lavoro di Esculapio alla sua clinica, e così ho pensato che un indirizzo di Psicologia potrebbe andar bene, per me.»

«Con me, sei stato bravissimo» ammiccò Astrea prima di volgersi a mezzo quando udì la porta-finestra aprirsi.

Alekos sorrise al padre quando lo vide rientrare in casa, evidentemente stanco di bere ogni volta che qualcuno si complimentava con loro. Dioniso era stato perentorio, su questo, e Ares gli aveva dato man forte.

Avvicinatosi alla coppia e alla figlia, il dio Ctonio li osservò compiaciuto e mormorò: «Ti affitterò come baby sitter, questo è sicuro.»

«Lo farò volentieri» ammiccò il giovane prima di domandargli: «Sai già chi diventerà?»

Érebos annuì nello sfiorare il visino della piccina e, con un dolce sorriso, disse: «Sarà una oneiroi, e si occuperà delle creature mistiche che appaiono nei sogni. Sarà la guardiana dei folletti, delle fate e degli unicorni, per intenderci.»

«Avrà un bellissimo ruolo» mormorò Astrea. «E avrà anche un nome d’arte come i suoi fratelli?»

«Lei sarà kósmios, l’Avvenente» annuì la divinità Ctonia mentre Chlóe, con uno sbadiglio, si svegliava tra le braccia del fratello. «Ciao, piccolina! Hai dormito bene?»

La neonata si stiracchiò per bene prima di richiedere le braccia del padre che, teneramente, la prese a sé per poi iniziare a cullarla.

«Senti, papà…» iniziò col dire Alekos, attirandone l’attenzione. «… Astrea vorrebbe iniziare l’università, ma ci sarebbe il problema dei libretti scolastici. Non è che…»

«Ci ho già pensato, non temere. Domani studieremo con calma le scuole migliori, e lì la inseriremo. Dopodiché, mi direte dove intendete intraprendere i vostri studi» sorrise loro il dio, cullando nel frattempo la neonata.

«Grazie, papà» mormorò grato il giovane.

Érebos gli tributò un grande sorriso, limitandosi a dire: «Sei mio figlio, e ora lo è anche Astrea, perciò non pensare mai che non smuoverei il mondo, per voi due.»

«Per me, lo hai già fatto» ammise Alekos, levandosi in piedi per poi prendere la mano di Astrea e aggiungere: «Raggiungiamo gli altri?»

«Sì. Presentiamo al mondo la nuova arrivata, e salviamo tua madre da ulteriori bevute» dichiarò lei, ed Érebos assentì con un risolino.

Insieme, quindi, si incamminarono verso l’esterno, verso la loro grande famiglia, verso il loro nuovo futuro.

 

 

N.d.A.: Con questo capitolo, chiudo qui le vicende degli dèi Olimpici. Siamo partiti con Thanatos (la morte di Miguel e il dolore di Athena) e abbiamo terminato con Eros (la nascita di Chloé e la gioia di Athena), rispettando una delle regole freudiane più conosciute (anche se letta al contrario, visto che si parla di "Eros e Thanatos") e dando voce agli impulsi più classici dell'animo umano, le pulsioni di vita e morte. In questi racconti abbiamo toccato in vari modi questi due estremi e, spero, anche ciò che sta nel mezzo, e cioè il divertimento, la risata, le lacrime, la rabbia, il perdono e mille altre emozioni, che sono state - spero, credibilmente - interpretate dagli dèi che qui vi ho presentato.

Grazie per avermi seguita in questa folle avventura! Per ora, mi prenderò una pausa e, per chi mi seguisse nei miei racconti di licantropi, la prossima storia che posterò sarà il seguito di "Claire de Lune", lo spin-off americano della Trilogia della Luna. Vi avviso fin da subito che sarà un crossover con le storie di Rohnyn, Stheta, Krilash e Litha mac Lir, narrate nella Saga dei Fomoriani. Se volete seguire la prossima storia senza perdervi nulla, urge forse un ripassino delle avventure dei fomoriani, prima.

A presto!

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