Gregory

di fiorediloto87
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Marchiato dalla colpa ***
Capitolo 2: *** 2. Giro turistico ***
Capitolo 3: *** 3. Ora et labora ***
Capitolo 4: *** 4. In cupiditate motor mundi ***
Capitolo 5: *** 5. Malato nel corpo, malato nell'anima ***
Capitolo 6: *** 6. Schiavi! ***
Capitolo 7: *** 7. Rega, il mezzo-gitano ***
Capitolo 8: *** 8. La festa ***
Capitolo 9: *** 9. Amaro è il sapore della vendetta ***
Capitolo 10: *** Side story - La canzoncina gitana ***



Capitolo 1
*** 1. Marchiato dalla colpa ***


Gregory

Capitolo I: "Marchiato dalla colpa"


Serven. Primo inverno.
Lo vide per la prima volta in una piovosa mattina d’inverno, mentre sotto il portico del chiostro attendeva con gli altri il suo arrivo. Allora non aveva idea di chi fosse, di quanto profondamente gli somigliasse e di quanto dolore nascondesse dietro quella maschera superba. Aveva visto semplicemente un giovane di diciannove anni sbucare a cavallo dai portoni del monastero, chino sulla sella, rivoli d’acqua piovana a inzuppargli la fronte e il volto scoperti, e la stanchezza dipinta a chiare lettere nella sua posa sconfitta. Di lui sapeva poco, ma già troppo: che si era forato un lobo per apporvi un orecchino, simbolo della stirpe abietta dei gitani, e che era stato allontanato dal proprio convento perché sorpreso a letto con un compagno di studi più giovane.
Gregory smontò da cavallo, e nessuno gli si fece incontro per prendere le redini. Il priore aveva dato ordine di non rivolgere una parola né uno sguardo al nuovo arrivato se prima non gli avesse parlato personalmente. Ma quando questo dovesse avvenire, spettava al priore deciderlo.
Dando prova di grande pazienza, o forse semplicemente troppo smarrito per indignarsi, Gregory si guardò intorno e attese qualche istante. Non accadde nulla. – Perdonatemi, buoni fratelli, dove posso trovare un riparo e della biada per il mio cavallo? – chiese a voce alta, con sforzo, e c’era soltanto cortesia nella sua voce, ma nessuno gli rispose ugualmente.
Pioveva a dirotto. I monaci si attardavano sotto la tettoia muovendosi avanti e indietro, fingendo di avere qualche compito da svolgere che giustificasse un tale andirivieni, mentre Gregory rimaneva lì, ostinatamente fermo sotto la pioggia che scrosciava bagnandogli le labbra, le mani, il semplice saio da novizio coperto da un leggero mantello.
Raphael scalpitava. Si trovava proprio lì, a pochi metri dal novizio, immobile, quasi al di fuori della protezione della tettoia. Ogni tanto qualche goccia più impudente gli bagnava la punta del naso. Ma perché mai, si chiedeva, riservavano al nuovo arrivato un trattamento così ingiusto? Nessuno faceva niente.
Preso da un moto di indignazione, e ben conscio che quest’impudenza gli sarebbe costata cara, Raphael abbandonò il riparo e lo raggiunse sotto la pioggia. – Vieni – gli disse semplicemente, prendendo le redini del cavallo che sbuffava e scalpitava a disagio.
Lo condusse nella stalla, che per fortuna era ben riparata, tolse la sella e i finimenti all’animale e poi gli diede una buona razione di biada. – Tieni. Questa dovrebbe essere tua – disse a Gregory, porgendogli la sacca che era rimasta legata al pomo della sella.
– Ti ringrazio. – Un sospiro. – Perdonami, tu sai perché…
– … nessuno si è mosso? – Raphael scosse la testa. – La tua fama ti precede.
– Capisco. – Gregory annuì senza troppa sorpresa. I suoi capelli, umidi fino alle punte, erano più ricci e lucenti che mai. – Allora ti ringrazio doppiamente, perché credo di averti spinto a fare qualcosa che non dovevi. Io mi chiamo Gregory.
– Lo so – rispose Raphael, con un sorrisetto.
– Certo. – Gregory sospirò nuovamente. – C’è qualcosa che si ignora di me, in questo luogo? – Si asciugò la mano sul saio e poi la tese verso di lui. – Grazie comunque. Sono lieto di conoscerti.
Raphael non si mosse. – I contatti fisici sono proibiti.
– Proibiti. – A Raphael si strinse il cuore per la pena che avvertì in lui. – E dimmi una cosa, è un divieto che vale soltanto per me, oppure…
– No, no, è così per tutti. È una delle nostre regole. Ti abituerai presto, vedrai.
– … sì. Penso che lo farò.
A quel punto Raphael non si trattenne più. – È vero quel che si dice? Un lampo di timore corse negli occhi di Gregory, subito fugato. – Di cosa parli?
– Quello… quello che hai fatto. Il motivo per cui ti hanno cacciato. È vero?
– E se anche fosse? Cosa te ne importa?
Raphael fece un gesto impaziente con la mano, come ad accantonare la sua diffidenza. – È stato bello? – mormorò.
Forse Gregory scorse qualcosa in Raph che lo spinse a rispondere, forse semplicemente avrebbe detto la stessa cosa a chiunque. – Sì. Molto bello – sussurrò, abbassando lo sguardo. – Valeva tutto questo.
Raphael lo raggiunse in due passi. – Mi chiamo Raphael – disse.
– Gregory – rispose il nuovo venuto. – Devo andare dal priore. Puoi guidarmi?
– Certo che posso.
Gregory si riscosse, come colto da un pensiero improvviso. – Ma… ti puniranno! Non dovresti neanche parlare con me…
– Ormai mi hanno visto, quindi non farà differenza. E poi ci sono abituato. – Non c’era traccia di preoccupazione nella sua voce, solo un vago senso di fastidio.
Gregory annuì, un poco rassicurato. – Va bene. Ti ringrazio ancora. – Fece per voltarsi, poi ci ripensò. – Non essere così gentile con me. Passerai dei guai.
Il sorriso sulle labbra di Raphael si incrinò un poco. – Io faccio ciò che voglio – rispose con aria di sfida, superandolo. – Seguimi, ti porto dal priore.
Dopo un istante di esitazione, Gregory si buttò la sacca sulla spalla e lo seguì.
Fuori pioveva ancora ininterrottamente, e la stradina di terra era tutta una pozza di fango appiccicoso. Raphael camminava qualche passo più avanti di Gregory, lo sguardo fisso dinanzi a sé, con le spalle rigide e i pugni serrati lungo i fianchi.
– Non era mia intenzione offenderti – disse il nuovo arrivato, trotterellando un attimo per affiancarlo. – Volevo soltanto… – Si interruppe, intercettando lo sguardo di disapprovazione lanciatogli da un monaco piuttosto avanti negli anni. Chinò il capo con cortesia, malgrado lo sgarbo palese di quell’occhiata, poi riprese, abbassando la voce: – Non scherzare con queste cose. Io lo so, l’ho provato… insomma, Raph, mi ascolti?
Raphael si voltò di scatto. – Come mi hai chiamato?
– Raph – ripeté Gregory, perplesso. – Non è il tuo nome? Raphael?
– Sì… sì. – Scosse la testa. – Nessuno mi ha mai chiamato così, prima d’ora. In effetti, di solito mi chiamano “peste”.
Gregory abbozzò un sorriso. – La disciplina non è il tuo forte, vero?
– Neanche il tuo – replicò Raphael. Il nuovo arrivato si incupì immediatamente. – No, perdonami – mormorò Raphael, imbarazzato. – Non dovevo dirlo.
– Ognuno ha i suoi peccati da scontare – disse Gregory, in un sussurro appena percettibile al disopra della pioggia scrosciante. Fissò Raph negli occhi. – Io non mi pento di ciò che ho fatto. Ricordatelo sempre.
Raphael allontanò i capelli inzuppati d’acqua dalla fronte. – Perché me lo stai dicendo?
– Perché tu non pensi che sia stato il senso di colpa a spingermi a metterti in guardia. – Scosse la testa, gravida di meravigliosi riccioli sempre più fradici. – Portami dal priore, ti prego. Odio essere fissato.
Raphael alzò gli occhi. Incontrò almeno una ventina di sguardi, più o meno sfuggenti, ma tutti diretti dalla loro parte e tutti severi. Non si vedeva neanche un novizio: il riparo sotto la tettoia straripava di monaci anziani. Si disse che quel giorno la punizione sarebbe stata più dura e più sgradevole del solito.
– Sai una cosa? – disse, sorridendo brevemente. – Non ci siamo ancora salutati come si deve. – E così dicendo gli tese la mano destra, mentre rivoletti di pioggia gli scorrevano tra le dita affusolate.
Gregory esitò solo un istante. – Lo riferiranno al priore?
– Naturalmente. – Il sorriso di Raphael si allargò. – Lo faccio soprattutto per lui. Adora infliggermi qualche punizione, di tanto in tanto.
– Di tanto in tanto, dici? – Gregory prese la sua mano e la strinse. La sua stretta era forte e salda.
– Molto spesso – rispose Raphael, indugiando per un istante prima di lasciarlo. – Vieni. Non è bene che, appena arrivato, tu ti prenda un malanno.
Lo guidò fino alle porte. Al loro passaggio, i monaci assiepati sotto la tettoia si ritraevano e si disponevano in due ali piuttosto distanti, rivolgendo ad entrambi i ragazzi il medesimo sguardo arcigno, come se fossero stati riconosciuti colpevoli di indicibili sconcezze. A Raph le loro occhiate, colte di sfuggita, ricordarono quelle della folla che si era raccolta nel vicino villaggio di Widefield per assistere al rogo di una strega.
Il ragazzo proseguì senza badarci troppo e, giunto alle porte, le varcò con calma. Adesso la pioggia non li raggiungeva più, ma un vento freddo e pungente si insinuava ancora sotto i suoi abiti e li gonfiava procurandogli una sgradevole sensazione sulla pelle. Quasi senza accorgersene, Raphael fece il gesto di chiudere le braccia al petto; quando se ne avvide, le riportò subito giù con un gesto nervoso.
– Hai soltanto la camicia indosso. Sentirai freddo – disse Gregory, drappeggiandogli il suo mantello sulle spalle con un movimento avvolgente. Se avesse proseguito fino a congiungere le mani sul suo petto, si sarebbe ritrovati abbracciati.
All’interno la stoffa era asciutta e calda. – Non serve – mormorò Raphael, avvampando. – Siamo arrivati. Dentro… – Poi scosse la testa e rinunciò a qualsiasi cosa avesse in mente di dire.
Le porte, leggermente socchiuse, lasciavano filtrare fuori una sottile lama di luce giallastra. Non appena le varcarono, si trovarono davanti una decina di ragazzi tra i sette e i diciassette anni circa, dagli occhi che scintillavano di curiosità. Non cercavano neppure di nascondere il fatto che avessero spiato dalla fessura fino a quel momento.
– Questa volta l’hai combinata grossa, Raphael – scattò un ragazzino pallido con la faccia coperta di lentiggini e i capelli rossi scarmigliati. – Il priore ti farà stare in ginocchio sulle pietre per tutta la notte!
– Perché ti ha dato il suo mantello? – indagò un altro, ancora più piccolo. Si avvicinò a Gregory e gli tirò il saio per avere la sua attenzione. – Non senti freddo?
Gregory scosse gentilmente la testa. – Il monastero da dove provengo si trova sulle montagne. Lì fa molto più freddo di qui.
Sembrò che quella risposta lasciasse libero sfogo a una valanga di altre domande a cui i ragazzi dovevano aver pensato per giorni interi. Iniziarono a parlare tutti insieme e a voce alta, creando un frastuono insopportabile.
– Basta! – gridò Raphael, esasperato. Proprio in quel momento un giovane biondo dal viso butterato ne approfittò per sgattaiolare attraverso la sala comune e imboccare le scale, probabilmente diretto alle stanze del priore. Raphael non se ne curò. Sapeva per esperienza che stava andando a fare al priore un resoconto dettagliato della sua condotta negli ultimi minuti, e che non sarebbe stato lusinghiero. Non aveva importanza. – Toglietevi di mezzo – disse agli altri ragazzi, passando direttamente in mezzo al capannello che avevano creato e tirandosi dietro Gregory. Arrivò alla base delle scale, attese un secondo e poi le inforcò.
– Mi dispiace – mormorò, a denti stretti, mentre metteva un piede dopo l’altro sui gradini. – Non credevo che avrebbero fatto così.
– Non preoccuparti. – La voce di Gregory era calda e rassicurante. – Non mi hanno infastidito poi tanto.
Raphael scosse la testa. – Adesso no, ma domani lo faranno. Sai, qui non avvengono molte cose nuove. – Si tolse il mantello e glielo porse. – Ti ringrazio.
Gregory prese l’indumento con un lieve sorriso. – Anche questo… prestarti il mio mantello… è proibito?
– Non credo – rispose Raphael, corrugando la fronte. – Ma, trattandosi di me, è probabile che il priore lo disapprovi comunque.
– Questo non è giusto – mormorò Gregory, serio e indignato.
Raphael si limitò ad scrollare le spalle e a riprendere la salita. I corridoi del piano di sopra erano freddi e immersi in una lieve penombra caliginosa, come se il fumo del caminetto sottostante filtrasse attraverso il soffitto di calce e mattoni. L’aria odorava di polvere e di antico. Benché fosse mattina tarda, da fuori non proveniva che un debole lucore appannato.
– Il priore non ama perdere tempo – mormorò Raphael, rallentando un poco il passo perché Gregory lo raggiungesse. – Saprà già che sei qui.
Gregory inarcò un sopracciglio. – Eppure sono in anticipo di mezza giornata. Padre Ferdinand mi aspettava per questa sera.
– Allora perché sei venuto così presto? Avevi fretta di lasciare San Gloriano?
Inaspettatamente, il nuovo arrivato annuì. – Non era più un posto… molto accogliente, per me. Ho preferito partire presto, quando nessuno poteva vedermi.
– Il tuo… compagno? – sussurrò Raphael. Poi, rendendosi conto di quanto questa domanda fosse intima e personale, abbassò gli occhi e scosse la testa. – Perdonami. Non so che mi prenda, oggi. Di solito mi faccio gli affari miei.
Gregory non rispose. Se fastidio o tristezza gli turbarono il viso, Raphael non lo vide, perché aveva ripreso il cammino.
Giunsero allo studio del priore dopo pochi istanti. La porta era chiusa e dall’interno non proveniva alcun rumore intelligibile, alcun parlottio, quindi probabilmente padre Ferdinand doveva aver terminato di ascoltare le rimostranze su di lui. – Io non entro – disse Raphael, a bassa voce. – Ti aspetto qui fuori.
– Non è necessario. Se vuoi, puoi andare.
Raph fece un altro dei suoi sorrisetti ironici. – Finito con te, di sicuro il priore vorrà chiamarmi. Quindi tanto vale che rimanga qui.
– Come vuoi. – Gregory attese che Raphael si fosse allontanato di qualche passo, in modo che dall’interno non lo si potesse scorgere, poi batté con moderazione le nocche sulla porta. Da dentro provenne una sola parola: – Avanti –, pronunciata con flemma e freddezza. Raphael mandò un sospiro e appoggiò le spalle al muro.

Quello che si presentò agli occhi del priore Ferdinand era un giovanotto di meno di vent’anni, alto e snello, con due occhi castani troppo accesi sotto le sopracciglia folte e un naso importante, leggermente storto, dalle narici frementi – sicuro segnale di irrequietezza d’animo. Gli umidi riccioli castani, troppo lunghi e troppo curati, denotavano una vanità spinta, quasi femminea. Le labbra sottili, serrate forse per il nervosismo, recavano agli angoli due piccole rughe, quelle di chi è abituato a ridere troppo spesso.
Nel complesso, tutto quadrava. Il giovane esule di San Gloriano era certamente un individuo vanesio e poco portato alla disciplina, come il priore del suo monastero l’aveva definito, e in più aveva negli occhi l’inconfondibile luce di lussuria comune a tutti quelli che, in odio alle leggi di Dio, trovano modo di soddisfare le loro perversioni contro natura. Il priore gli riconosceva una sola attenuante: la mancanza di malizia e di falsità nello sguardo, che denotava l’assenza di una consapevole volontà di peccare.
Il giovane avanzò lentamente nella stanza, invasa dalla stessa penombra del corridoio, anche se leggermente rischiarata da una lampada posata sulla scrivania del priore, e si fermò a breve distanza dal tavolo. La stanza, nel suo arredo, era semplice e spartana: una scrivania, una libreria con pochi volumi disposti ordinatamente sulle mensole, più in là un pesante leggio con la Bibbia aperta a metà. Più di ogni altra, quella camera rispecchiava le inclinazioni e il carattere di padre Ferdinand.
Il priore si rese subito conto che Gregory aveva colto in un attimo tutti questi particolari. Doveva essere un giovane molto intelligente, perché il secondo sguardo che indirizzò al monaco anziano era più deciso e consapevole del primo. Probabilmente si era già fatto un’idea del suo nuovo priore.
– Padre Ferdinand. – Il ragazzo chinò il capo, con la mano destra sul cuore. Strano saluto, pensò il religioso. – È un piacere conoscervi.
– Benvenuto nella tua nuova casa, figliolo – rispose il priore, senza nemmeno tentare di dare una parvenza di cortesia al suo tono. Si alzò in piedi, lentamente, e accennò con la mano ad una delle due sedie poste di fronte alla scrivania. – Siediti pure.
Gregory obbedì.
– Qual è il tuo nome, figliolo? – interrogò il priore, tornando a sedersi.
Il ragazzo inarcò un sopracciglio. – Credo che lo conosciate già, priore. So che padre Lorenço vi ha inviato molte lettere riguardo a me e alla mia condotta… e mi sono già rassegnato all’idea di non avere segreti per voi. E per tutti gli altri fratelli del monastero – aggiunse dopo un attimo, con un guizzo ironico nelle pupille.
– È quello che ci auguriamo tutti, figlio mio – replicò padre Ferdinand, vagamente seccato. – Comunque sia, gradirei udire il tuo nome dalle tue labbra, se non ti dispiace.
– Certamente. Come voi già sapete, il mio nome è Gregory Field.
– Se ti voti a Dio, figliolo, il nome della tua famiglia terrena non ti serve. La tua unica famiglia sono i tuoi fratelli. Smetti di accostare quella parola insensata al nome del tuo battesimo.
Gregory serrò la mascella. – I miei genitori erano poveri contadini, che si privarono del loro unico figlio per offrirgli una vita migliore della loro. Non crediate che lo dimenticherò, priore. – Dopo aver detto questo, però, abbassò le ciglia, e padre Ferdinand riconobbe in quel gesto il tentativo di domare l’irruenza. – Eviterò di menzionare il mio cognome, se voi usate così – disse infine, in tono moderato. – Ma non dimenticherò chi mi ha generato, né tacerò il nome della mia famiglia se qualcuno me lo chiederà.
Il priore capì di non aver riportato alcuna vittoria, tuttavia, per il momento, decise di lasciar correre. – Bada, questo atteggiamento non ti porterà da nessuna parte – disse in tono blando. Poi riprese, con calma: – Sai perché sei stato mandato qui.
Stavolta il giovane non ebbe reazioni. – Sì, naturalmente.
– Ciò che hai fatto è grave…
– Ne sono cosciente, padre. Credetemi, nessuno lo è più di me. Ma vi muovo una preghiera, se posso sperare che venga ascoltata. – Gregory sospirò. – Ciò che è successo risale a due settimane fa. Da allora ho ascoltato gli ammonimenti, i rimproveri, le edificazioni dei miei maestri fino al limite della mia sopportazione e credetemi… non è facile, quando il responso è sempre lo stesso. Non voglio sembrarvi arrogante, padre, ma sono venuto qui sperando nel mio cuore che questo tormento potesse trovare fine. Se anche voi, come gli altri, pensate che non sia stato ammonito abbastanza…
Il priore inarcò entrambe le sopracciglia, sorpreso da una tale decisione, e più d’ogni altra cosa dalla sincerità vibrante nelle parole del giovane. – Forse lo penserò quando avremo terminato la lunga conversazione che ci attende – disse con lentezza. – Al momento non ti conosco, se non attraverso le parole di altri.
Gregory sembrò rilassarsi un poco. – Questo mi conforta – disse piano. – Temevo molto che vi faceste un’opinione di me senza conoscermi.
– Oh, ma io mi sono già fatto un’opinione di te – replicò il priore. – Ma certamente, se ve ne sarà modo, sarò disposto a cambiarla. In meglio o in peggio.
Gregory annuì. Era ancora piuttosto inquieto, ma meno di prima, adesso che la conversazione si era spostata su argomenti più generici. Padre Ferdinand, tuttavia, badò di riportarla sul punto che più gli premeva, e non perché gli piacesse tormentare il giovane, ma piuttosto per metterlo alla prova e scoprire che genere di elemento sarebbe stato per lui, per il monastero e per gli altri fratelli. – Ad ogni modo, credo che i padri di San Gloriano ti abbiano edificato a sufficienza circa la condotta di un servo di Dio. Tuttavia ti farò ugualmente qualche domanda.
Il giovane deglutì con evidente fatica. – Potrò riservarmi la libertà di non rispondere?
– Sappi che la considererò una grave scortesia, oltre che una mancanza di disciplina e un attacco alla mia autorità – replicò padre Ferdinand, secco.
– Attaccare la vostra autorità è l’ultima delle mie intenzioni – mormorò Gregory, mesto. Alzò gli occhi. – Vi risponderò, padre, perché voi siete il mio superiore e debbo obbedirvi. Ma nei limiti della decenza e del rispetto della mia intimità. Concedetemelo.
La questione era spinosa. Malgrado la sua affermazione, Gregory sminuiva deliberatamente la sua autorità, assentendogli solo in parte e ponendo condizioni, come se accettando gli stesse facendo una concessione. Per la prima volta da tanto tempo, padre Ferdinand era combattuto tra lo scagliarsi contro quel giovane imberbe e rivoltargli contro le sue stesse argomentazioni oppure lasciare che, per adesso, credesse di potersi comportare alla sua maniera. Alla fine ripiegò su una frase che, per il momento, gli parve neutra: – Sei sfrontato, a parlarmi così.
Gregory sembrò stupito, ma era solo un atteggiamento. – Credevo che solo nel mondo secolare la sincerità fosse disprezzata e schernita. – Corrugò la fronte. – Dio è stato buono con me, o almeno così io penso. Mi ha dato una lingua sincera e il coraggio per usarla. Io non mi vergogno di dire ciò che penso, padre. E vedete come Dio è stato ancora più generoso, facendo sì che potessi unirmi ai suoi servi, fra i quali non si deve aver timore di dire la verità sempre e comunque. Non è così che si usa in questo monastero?
– Naturalmente. – Il priore serrò le labbra. – Io non ti ho chiesto altro che di dire la verità. Sempre e comunque, mi sembra appropriato.
Gregory avvampò. – E va bene – disse piano, mentre il suo sguardo sfuggiva a quello del priore per rifugiarsi nella contemplazione della libreria. – Chiedetemi quel che volete. Se potrò, vi risponderò.
Ancora un mezzo assenso. Padre Ferdinand ne prese nota mentalmente, riproponendosi di reprimere quanto prima quella sgradevole tendenza del nuovo arrivato. – Quanto tempo è durata la vostra scandalosa vicenda?
Gregory sbatté le palpebre. – Ma, naturalmente, è successo una volta soltanto! – Poi intuì cosa passava per la mente del priore, e gli occhi gli si spalancarono fino ad assumere una luce febbrile. – È successo una volta soltanto. Eravamo in città ed eravamo soli, per la prima volta da… non so neanch’io da quanto tempo, forse da sempre, e questo… questo mi ha fatto maturare pensieri che non dovevo… sentimenti che non volevo. Amo Evan come un fratello, fin da quando eravamo fanciulli…
– Ma ti sei profittato di lui.
– Io… io ho sbagliato. Ho creduto… ho voluto credere che lo volesse anche lui, che… il vino gli avrebbe impedito di frenare i suoi desideri… mentre lui…
– Ha tentato di resistere?
Gregory alzò gli occhi, pallido. – Non poteva. Era ubriaco – sussurrò. Gli occhi del priore rimasero ostinatamente cupi. – Tu non hai fatto niente del genere. Menti per proteggere il tuo compagno?
– Io… io non sto mentendo affatto.
– Eppure ciò che mi racconti è ben altro rispetto a ciò che è stato, e lo sappiamo bene sia io che padre Lorenço. Da diverso tempo.
Gregory si fece ancora più pallido. – Che volete dire?
? Se avete commesso il peccato in città, come hanno potuto venirne a conoscenza a San Gloriano? – interrogò il priore, sviando bruscamente la domanda.
– Io… se fosse dipeso da me, nessuno avrebbe saputo nulla. – Gregory si prese gli avambracci con le mani, chiudendo le braccia al petto. – Non mi importava nulla della punizione che mi avrebbero inflitto, l’avrei scontata senza lamentarmi, però non volevo che accadesse qualcosa a Evan… non sapevo se padre Lorenço avrebbe dato la colpa anche a lui. – Alzò gli occhi lucidi. – Io posso adattarmi, ma la sua vita è lì. Non avrebbe sopportato di essere cacciato dal monastero, non adesso che mancava così poco all’inizio del suo noviziato… Mi capite?
Il priore annuì, lentamente. – Continua.
– Però Evan non riusciva a resistere, con un simile segreto nel cuore. E così, alla fine, disse tutto… non in confessione, ma in privato, al priore Lorenço. – Scosse la testa. – E poi è venuto tutto il resto.
Padre Ferdinand poggiò i gomiti sul tavolo e congiunse le punte delle dita, con lentezza. – Cosa riferì il tuo compagno a padre Lorenço?
– Io… non lo so di preciso. Ma non mi avrebbe mai accusato. Credo gli disse di essersi ubriacato con me, e che poi… nell’ebbrezza… non so che parole usò, non ci parlammo più da quella volta.
– Disse la verità, Gregory. Disse che eravate entrambi consenzienti, e che non c’era vino quella sera.
– Ma questo non è vero, lo disse per… – tentò di protestare Gregory, debolmente.
– Tu non l’avresti mai violentato, non è così?
– Ma ero ubriaco anch’io! Non ragionavo più, io… io non lo premeditai, è vero, però quando fui lì… avevamo bevuto tanto entrambi, e… ed io so solo che lo volevo fare… in quel momento, lo desideravo…
Il priore aprì un cassetto della scrivania, ne trasse un foglio di pergamena arrotolato e lo svolse rapidamente sul tavolo. Poi lesse, con voce chiara e profonda: – … il giovane Gregory ha giurato, toccati i sacri Vangeli, di aver comprato con il denaro affidatogli una o più bottiglie di vino (la quantità della bevanda acquistata non è certa, cosa di cui Gregory accusa la frenesia del momento) che avrebbe poi invitato Evan a bere, allo scopo di farlo cadere in ebbrezza... Occorre che continui?
Gregory scosse la testa. Era pallido come uno straccio. – No – mormorò.
– Hai giurato il falso con le mani sui Vangeli?
– No!
– E dunque?
– È… è la verità, quella, ve l’ho detto.
Il priore strinse le palpebre. – Che tu risponda o meno non farà differenza per il tuo compagno. I provvedimenti necessari sono già stati presi. Dunque puoi dire la verità.
– Provvedimenti? Che provvedimenti? – mormorò Gregory.
– Niente di drastico. Non sarà allontanato da San Gloriano e potrà intraprendere il noviziato. Te lo chiedo ancora: hai giurato il falso con le mani sui Vangeli?
Il giovane, combattuto tra il sollievo e l’angoscia, si arrese. – Che altra scelta mi restava? – replicò, con voce strozzata. – Se non l’avessi fatto, Evan sarebbe stato cacciato come me! L’ho fatto per una buona ragione. – Abbassò gli occhi. – Dio mi perdonerà. L’ho fatto per un innocente.
Il priore scosse la testa. – Evan non era innocente. Aveva anch’egli una colpa, ed era giusto che la scontasse. – Socchiuse le palpebre. – Si può comprendere perché tu l’abbia fatto, ma proteggere un colpevole non è un’azione che meriti l’elogio. Ad ogni modo, ti ripeto, padre Lorenço ne è a conoscenza da tempo.
– Ma allora perché…
– Ha finto di accettare le tue menzogne? Forse perché intendeva verificare fin quando avresti continuato a mentire. – Si alzò. – La prova è stata quanto mai deludente.
Gregory distolse lo sguardo. – Posso aver sbagliato, sì, ma so perché l’ho fatto e non me ne pento – mormorò. – I fratelli staranno meglio senza di me.
– Intendi provocare scompiglio anche qui a Serven, ragazzo?
– No! No, non ho mai voluto farlo… Credetemi, io voglio solo stare in pace e nient’altro.
– Bene. Questa sera dopo compieta, quando io avrò terminato le mie incombenze e tu le tue, ti confesserai da me. Inutile dirti che mi aspetto da te la massima sincerità.
Gregory chinò il capo, sospirando. – Farò ciò che volete.
– Puoi andare. Per quanto riguarda la tua sistemazione, attendi qui fuori mentre discuto con un mio studente, poi egli ti mostrerà il tuo alloggio e ti illustrerà le tue incombenze. Hai già fatto conoscenza con Raphael, mi hanno detto.
Gregory annuì, mentre un guizzo di vita tornava nei suoi occhi. – Sì… sì. È stato l’unico a mostrare un po’ di cortesia verso di me.
– La cortesia eccessiva si chiama morbosità, figliolo. Avremo modo di approfondire l’argomento un’altra volta. Adesso va’, e di’ a Raphael di venire nel mio studio.
Gregory chinò il capo, lo rialzò ed uscì dalla stanzetta.

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Capitolo 2
*** 2. Giro turistico ***


Gregory
Capitolo II: "Giro turistico"


Raphael scrutò con preoccupazione il volto di Gregory mentre il giovane usciva dalla stanza. Quando era entrato nello studio, l’espressione del giovane era stata tranquilla, forse appena nervosa. Adesso il suo viso era pallido e sconfitto come se avesse visto morire un uomo.
– Gregory? – mormorò Raphael. – Che ti è successo?
Il giovane camminò nella sua direzione, con lentezza. Quando appuntò lo sguardo su di lui, parve riprendere un poco di colore sulle guance. – Nulla – mormorò, portandosi una mano alla fronte. – Non è stato… un colloquio facile. – Accennò alla porta socchiusa. – Vuole parlarti.
Raphael fece un sorrisetto, ma poi incontrò gli occhi di Gregory e si incupì anche lui. – Che ti ha fatto? – bisbigliò, serio. – Ti ha… insultato?
– Raph?
– Che c’è?
– Hai origliato? – Gregory tornò pallido, anche più di prima. – Hai ascoltato quello che dicevamo?
Raphael scosse la testa, freneticamente. – No, no, te lo giuro. Non faccio di queste cose. Però parlavate a voce alta, e…
– Che cosa hai sentito? – ansimò Gregory, stringendogli le spalle con le mani. – Che cosa? Dimmelo!
Gli occhi azzurri di Raphael luccicarono di comprensione. – Non lo dirò a nessuno – mormorò. – Lo giuro sulla Croce. Dalle mie labbra non uscirà mai una parola sull’argomento. – Strinse i denti. – Ma adesso lasciami, per favore, mi stai facendo male…
– Giuralo di nuovo! – boccheggiò Gregory. – Di’: lo giuro sulla Santissima Trinità e sul sangue beato di Cristo!
– Lo giuro… sulla Santissima Trinità e sul sangue beato di Cristo – ripeté Raphael, e dopo si divincolò dalla sua stretta, tanto – troppo – poderosa per un monaco. Si massaggiò le spalle con le mani. – Perché non cerchi di controllarti, ogni tanto? – lo apostrofò, con stizza. – Stupido novizio…
– Perdonami! – mormorò Gregory, avvilito. – Non dovevo, tu non hai colpa… – Inaspettatamente, lo abbracciò. – Ti faccio mille scuse – mormorò al suo orecchio. – Sono una bestia. Ma… se tu sapessi ciò che mi sono lasciato dietro… Non volevo farti del male, credimi, te lo giuro.
Raphael sbatté le palpebre più volte, sorpreso e incredulo. – Va bene, ma adesso lasciami. Se ci vedesse qualcuno… con la fama che ti porti dietro…
– Sì… certo. – Gregory lo lasciò. – Il priore ti aspetta. Io ti attendo qui.
Un lieve sorriso increspò le labbra di Raph. – A più tardi, allora.
Il fatto di aver già sconvolto e tormentato Gregory sembrò spingere il priore a non essere da meno con lui. Lo rimproverò aspramente per tutte le sue infrazioni: per aver contravvenuto alla disposizione nei confronti del nuovo arrivato, per essersi comportato in modo impudico – Raphael non riuscì a capire cosa ci fosse di impudico in una stretta di mano –, per aver abbandonato senza motivo le proprie incombenze. Raphael non replicò nemmeno. D’altra parte non era particolarmente colpito, perché già se l’aspettava. Si limitò a chinare il capo (– Sì, padre Ferdinand…), e a contare i secondi che lo separavano dalla libertà.
Si odiavano a vicenda, lui e il priore, e non solo per l’irrequietezza che faceva spiccare Raph tra tutti gli altri studenti e novizi. Si erano odiati da sempre, per quanto Raphael potesse ricordare, anche quando il ragazzo era molto piccolo, in un’infanzia che ricordava assolutamente innocente e priva di mascalzonate. I suoi primi anni erano stati segnati dal terrore per quell’uomo. Tuttavia aveva cominciato a comportarsi veramente male solo quando questa paura era andata scemando, verso i nove o dieci anni.
Raph pensava sempre, per quanto strano potesse sembrare, che da allora le cose erano andate meglio. E se lo ripeteva sempre, quando una punizione più dura delle altre gli strappava qualche lacrima furiosa. Preferisco non aver paura e soffrire, si diceva, martoriando di morsi rabbiosi le labbra spaccate, che vivere bene e rannicchiarmi in un angolo per il terrore! Terrore di chi, poi? Di un uomo come un altro?
– Cosa devo fare con te, Raphael? – sospirò il priore. – Non c’è punizione che serva a farti mutare la tua condotta. Perché? Oltretutto, non ti confessi da un mese intero…
Raphael chiuse il suo volto a qualsiasi tipo di emozione. – Lasciatemelo dire, padre Ferdinand. Questo riguarda soltanto Dio e me. – Non poteva certo dirgli che, quando sentiva il bisogno di confessarsi, sgattaiolava non visto a Widefield e andava dal curato del paese, un confessore assai più comprensivo dei rigidi monaci del convento.
Il priore non rispose. – Della tua punizione parleremo dopo pranzo – stabilì. – Adesso mostrerai a Gregory la sua cella e il resto del convento. Dopodiché lo accompagnerai dal maestro bibliotecario e tornerai alle tue incombenze, che sarebbero…
Raphael sospirò. – I composti medicinali di padre Roderick.
– Esattamente. Quelli che hai lasciato a metà per correre a guardare un giovanotto a cavallo.
– Sono contento di averlo fatto – mormorò Raph, serio. – Si sarebbe preso un malanno, sotto quella dannata pioggia.
Il priore si incupì. – La tua lingua si fa più lunga e più sboccata ogni giorno che passa, Raphael. Credo di aver deciso la tua punizione. Ti recherai anche tu in biblioteca, dopo il pasto, e aiuterai padre Frederick a ricopiare i suoi preziosi manoscritti.
Raphael gemette. Non c’era niente, niente che detestasse più di quel lavoro noioso e ripetitivo, neppure gli unguenti medicinali di padre Roderick o le terribili divagazioni di padre Samuel sui benefici delle carote.
– Lo farai – disse il priore, in tono definitivo. – E se mi giungerà notizia che hai scambiato una sola parola con il giovane Gregory o con qualcun altro nella biblioteca a parte padre Frederick… So che hai capito. Bene, Raphael, puoi andare. – Detto questo, abbassò gli occhi sulle sue carte e non li rialzò più.
Raphael uscì dallo studio del priore con un’evidente smorfia di disgusto sulle labbra.
– Raph? Tutto bene? – chiese Gregory, con voce di nuovo calma e controllata. Anche il suo colorito era quello di sempre.
Raphael annuì. – Vieni, ti mostro la tua stanza – borbottò, posandogli distrattamente una mano sul braccio. La ritrasse subito, non appena sentì il calore della stoffa sotto le dita. – Scusa – mormorò, arrossendo un poco e iniziando a camminare per nasconderlo. Si chiese vagamente perché un gesto così semplice gli avesse procurato tanto imbarazzo.
Gregory scosse la testa, ma non fece commenti. Disse invece, in tono cordiale: – Questo monastero ha l’aria di essere molto antico, più di San Gloriano. E anche più grande. Dalle colline pare immenso.
– Sei stato sulle colline?
– Le ho attraversate per raggiungere Serven. – Corrugò la fronte. – Ma non è stato piacevole. Brulicano di banditi, ho corso il rischio di farmi derubare.
Raphael gli gettò uno sguardo vagamente ansioso. – E forse… uccidere? – mormorò.
– Non so – disse Gregory, alzando le spalle. Abbozzò un sorriso. – Dopotutto, perché avrebbero dovuto farlo? Sono soltanto un novizio.
– Anni fa, due dei nostri che erano scesi giù a Widefield sono stati massacrati dai gitani – disse Raphael, con voce lugubre. – Derubati e poi uccisi. E sono stati fortunati che non li abbiano catturati per venderli al mercato degli schiavi. I gitani fanno cose orribili ai loro schiavi – sussurrò, con un brivido di orrore.
Gregory non disse nulla, si limitò a svuotare i polmoni in quello che poteva essere un sospiro come uno sbuffo. Raphael gli gettò uno sguardo. – Che c’è?
Il viso di Gregory non gli comunicò niente. – Sono stanco. Cavalco dall’alba.
– Non vuoi che ti mostri il monastero? – chiese Raphael, leggermente deluso.
– Ma sì – rispose Gregory, con un lieve sorriso. – Visto che mi sembri così ansioso di farlo.
Raphael sorrise a sua volta. – Oh, bene. Sono contento. Così potrò restare ancora per un poco lontano dalla serra di padre Roderick.
– Erboristeria?
– Già. – Raphael fece una smorfia. – Non lo sopporto, sai. Anche se me la cavo bene a preparare i medicamenti… Voglio dire, non ho ancora avvelenato nessuno. Ma padre Roderick dice che non mi impegno abbastanza.
Gregory sorrise. – Ed è vero?
– Assolutamente sì. Ecco, da qui si va ai dormitori – disse Raphael, indicando una ripida scalinata di pietra. – Sta’ attento mentre sali. Alcuni scalini sono sconnessi.
Il secondo piano era scarsamente illuminato come il sottostante, anche se privo di quella lieve caligine grigiastra. Terminata la salita, Raphael e Gregory si trovarono in un lungo corridoio simile al precedente, ma più largo e con porte di legno su entrambi i lati. Un silenzio profondo e denso come burro regnava su tutto il piano.
– La tua cella è l’ultima a destra – spiegò Raphael, incamminandosi. – Non avrai difficoltà a ritrovarla.
Gregory non parlò. Giunti di fronte alla porta, Raphael premette la maniglia e dopo arretrò di un passo, dicendo con un leggero sorriso: – Se vuoi prendere confidenza con la tua stanza, ti aspetto qui.
La cella era piccola, dotata di una piccola finestra a una sola anta e due brande coperte da lenzuola bianche e pulite, in un angolo un vaso per i bisogni corporali e accostato al muro un tavolino con una brocca e un catino per le abluzioni. Nel complesso non aveva nulla di speciale, era semplicemente la stanza di un novizio. Anzi, di due novizi.
– Chi altri dorme in questa stanza?
– Iolan. L’avrai notato, è l’unico con i capelli rossi.
Gregory scosse la testa. In quella confusione di occhi curiosi e facce ostili non aveva fatto caso a niente e a nessuno, tantomeno ai capelli dei novizi. – Che tipo è? – chiese, voltandosi per sistemare la sua roba.
Raphael si girò a sua volta dall’altra parte. – Non andiamo molto d’accordo.
– Colpa sua?
– Non lo so.
Con una scrollata di spalle, Gregory tirò fuori gli abiti e i fogli dalla sacca e posò gli uni e gli altri sul tavolino. – Credi che potrò avere dell’inchiostro, Raphael?
La risposta del ragazzo giunse prontamente. – Sì, credo di sì. Più tardi andremo in biblioteca, quindi potrai chiederlo direttamente al maestro bibliotecario, padre Frederick. – Sbagliava, o c’era un po’ di fastidio nella voce di Raphael?
– Mi dispiace di recarti tanto disturbo – disse Gregory, cautamente.
– Nessun disturbo – rispose il ragazzo, ogni traccia di fastidio scomparsa. – Non era per te. Pensavo al lavoro che ci aspetta.
Gregory fece capolino fuori dalla porta. – Ci aspetta?
– Sì. Non te l’ho detto? Dopo che avremo fatto il giro del monastero ti accompagnerò in biblioteca, e… a proposito, ti piace ricopiare manoscritti? – Raphael sfoderò l’ennesimo sorrisetto.
– Sono queste le mie incombenze? – chiese Gregory, per nulla preoccupato. Scrollò le spalle. – Il priore è stato gentile.
– Gentile? – ripeté Raphael. – A me ha affidato questo lavoro come punizione… – mormorò, scuotendo la testa. – Lasciamo stare. Se hai finito con le tue cose, andiamo avanti.
– Sì, andiamo. – Alleggerito del peso peraltro lieve della sacca, Gregory si accostò a Raphael con le mani dietro la schiena. – Sono solo queste le celle? – chiese, con curiosità. – Mi sembrano poche, per un convento così grande.
– Infatti queste sono solo quelle dei novizi e dei monaci – rispose Raphael, assumendo il tono placido della guida turistica. – Il dormitorio degli studenti è al piano di sotto. – E poi aggiunse, a beneficio del suo interlocutore: – Siamo in parecchi, sai.
– Oh, me ne sono accorto – disse Gregory, facendo un sorriso. – Forse mi ci vorrà un po’ per abituarmi. A San Gloriano non sono accettati ragazzi più giovani di quattordici anni.
– Io ne compio sedici tra qualche mese – si affrettò a dire Raphael. Quando Gregory lo guardò, arrossì furiosamente. – Be’, ma… ma… niente orfani? – balbettò il ragazzo, cercando goffamente di cambiare argomento. – Non ci sono bambini?
– Orfani? – ripeté Gregory, come se non capisse. – Perché, qui a Serven raccogliete gli orfani? Da noi… voglio dire, a San Gloriano vengono mandati all’orfanotrofio. Mi sembra la soluzione più giusta, no?
Raphael non se la sentì di dirgli che sua madre, chiunque ella fosse, l’aveva abbandonato ancora in fasce alle porte di Serven. – Non so – borbottò. – Non me ne intendo di queste cose. Vieni, ti mostro il dormitorio degli studenti.
Imboccarono di nuovo la scalinata ripida. Raphael scivolava sui gradini con rapidità, ma Gregory lo seguiva più lentamente, badando a dove metteva i piedi. Oltretutto, il più grande invidiava con tutto il cuore i comodi calzoni del ragazzo, che anch’egli, finché era stato un semplice studente, aveva potuto indossare.
Tornati al primo piano, anziché proseguire verso lo studio del priore, andarono in direzione opposta. Si fermarono dopo pochi istanti, di fronte a una grande porta doppia di legno massiccio. – Questo è il dormitorio – disse Raphael, parlando con lentezza. – Vuoi entrare?
Gregory annuì. – Se non ti reca disturbo.
– Te l’ho già detto. Nessun disturbo. – Raphael spinse una delle due porte, che doveva essere stata oliata bene, perché il ragazzo non mostrò troppa fatica, e poi entrarono.
Era una camerata ampia e, a differenza del resto del monastero, ricca di finestre. Una ventina di letti, accostati da una parte e dall’altra dello stanzone, suggerivano a Gregory l’idea di un dormitorio militare, anche se non aveva mai visto un esercito ordinario e tantomeno il luogo in cui riposavano i soldati. Ma chissà perché, qualcosa in quelle file di giacigli ordinati gli comunicava un vago disagio infantile.
– Questo è il mio – mormorò Raphael, avanzando fino a un letto come gli altri, prossimo alle porte, e sedendosi. Gregory lo raggiunse dopo un attimo. – Raphael? Cos’hai?
Il ragazzo aveva appoggiato una mano sul muro appena sopra la testiera del letto, ed era rimasto fermo a fissarla, pensieroso. – Tu mi devi un favore, giusto? – mormorò.
Gregory impallidì. – Che vuoi dire?
– Se ti mostro una cosa, mi giuri che non ne parlerai con nessuno? – Gli occhi azzurrissimi di Raphael scrutarono i suoi, intenti e severi. Poi, prima che lui potesse rispondere, sorrise dolcemente, ma senza fugare quel barlume cupo dagli occhi. – Hai pensato che volessi ricattarti, vero? Invece voglio soltanto che tu mi ricambi il favore. È una cosa che non ho mai mostrato a nessuno prima d’ora.
Gregory si accoccolò sui talloni. – Ammetto di averlo pensato – sussurrò, guardandolo con aria malinconica. – E mi dispiace. Tu non mi hai dato motivo di dubitare di te.
– Non fa niente, davvero.
– Sì, invece. – Gregory gli sfiorò la mano con la sua. – Quando avrai bisogno di me, non mancherò – promise. – Qualunque cosa tu voglia mostrarmi, giuro che non ne parlerò con nessuno.
Il sorriso di Raphael si allargò. Quando sorride, pare ancora più bello, pensò Gregory, con uno strano, sottile turbamento. Era la prima volta che dava peso alla bellezza di qualcuno, compresa la propria. Evan non era bello, e neanche lui credeva di esserlo, anche se non poteva esserne certo, visto che a San Gloriano non c’erano specchi. Del resto, perché avrebbe dovuto preoccuparsene? Un novizio non bada a queste cose. Però, adesso… Quel ragazzetto biondo e magro, insignificante a suo modo, ma bello come un fiore, gli procurava strani turbamenti. Quella bellezza eterea e femminea avrebbe incantato un guerriero.
Osservò con curiosità Raphael alzarsi e scostare la branda dal muro, con un leggero stridore del metallo sulla pietra. Poi il ragazzo tuffò una mano nello spazio creato dietro il capezzale e ne trasse fuori qualcosa, stretto nel pugno.
– Guarda – mormorò.
Era un medaglione molto bello, di madreperla. Al centro del disco ovale, contornato da una piccola cornice sicuramente d’oro, un simbolo arcano campeggiava nella sua incisione scura e delicatamente rifinita.
Gregory si sentì stringere il cuore. – Come… come l’hai avuto? L’hai trovato? – Che domanda sciocca. Non poteva averlo trovato. Ma il cuore gli batteva nel petto così forte che tra poco gli avrebbe sfondato la cassa toracica, e poi doveva pur dirgli qualcosa.
– No – mormorò Raphael, carezzando la cornice con un dito senza però sfiorare l’incisione. – No. Mi è stato donato.
Certo. Per forza. – Da chi? – chiese ancora Gregory, sempre più emozionato.
Raphael lo guardò di nuovo negli occhi, con la medesima intensità, ed emozioni sconosciute si sommarono all’agitazione già presente nel cuore di Gregory. – L’anno scorso, io… ero a Widefield – disse il ragazzo. – Una donna gitana mi si è avvicinata, mi ha abbracciato e poi… e poi mi ha dato questo, dicendo che era un dono per me da parte della sua padrona.
– Non era una gitana – disse automaticamente Gregory. Si morse la lingua, ma ormai gli era sfuggito. Eppure era inconcepibile che una gitana chiamasse qualcuno padrone, a meno che… a meno che non si riferisse a se stessa, ovviamente. Gregory pensò a questa possibilità solo dopo un istante. Uno scherzo, una presa in giro?
– Era vestita come una gitana, e aveva l’orecchino – obiettò Raphael, corrugando la fronte. – Perché dici che non lo era?
– Io… io non credevo che avessero simili gioielli – mormorò. – Di solito i gitani non sono ricchi…
– Forse questa lo era – obiettò Raphael. – Dopotutto sono tutti ladri, si sa.
Gregory sospirò. – Be’… tu cosa hai fatto?
– Io le ho chiesto come faceva a conoscermi, e lei ha risposto: “Ci siamo già incontrati. Questo è il nostro legame”. E non ha detto nient’altro, anche se io le ho fatto delle domande… Poi, quando le ho chiesto chi fosse la sua padrona, mi ha sorriso ed è corsa via. – Sospirò, accarezzando ancora una volta il medaglione. – A volte, ho l’impressione che questo disegno debba significare qualcosa. – Alzò gli occhi. – Tu pensi che io commetta peccato?
– Perché me lo chiedi? – mormorò Gregory.
Raphael sospirò di nuovo, profondamente. – Sono sicuro che questo sia un amuleto maledetto dei gitani. Dovrei distruggerlo, o gettarlo via, o consegnarlo al priore… ma non ce la faccio. Questa… questa è la cosa più simile a un… un ricordo di famiglia che abbia. Non possiedo altro.
Gregory si inginocchiò sul pavimento e prese le mani di Raphael tra le sue, lasciando che il medaglione cadesse in grembo al ragazzo. Ignorò l’impulso del ragazzo a divincolarsi. – Raphael, – sussurrò – il male non è negli oggetti. È nelle persone. Soltanto nelle persone. E, per quel che posso saperne, in te non ce n’è neanche un poco.
Un timido sorriso affiorò alle labbra di Raph. – Grazie. – Deglutì. – So che è stupido, che ci conosciamo solo da un’ora, ma… tu mi fai sentire bene. Per questo, io… – Accennò al medaglione posato sulle sue gambe.
– Ho capito. – Gregory lasciò le mani di Raphael, leggermente inquieto. – Forse è meglio se andiamo. O si farà ora di pranzo e non mi avrai ancora mostrato il monastero.
Raphael rimise a posto il medaglione e riaccostò la branda al muro. – Hai ragione. Padre Roderick mi sgriderà fino a sgolarsi, se non sarò lì almeno per fingere di seguire le sue lezioni. – Si passò una mano tra i capelli. – La biblioteca è nell’ala ovest, al primo piano. Da qui non la si può raggiungere. Dobbiamo prima scendere nella sala comune… – Lo disse con imbarazzo, quasi in tono di scusa.
Gregory annuì. – La cosa non mi crea nessun problema – disse con calma.
– Bene. – Raphael sembrò sollevato.
Tornarono indietro fino alla scalinata che conduceva giù al piano terra. Dopo pochi passi sui gradini di pietra, un calore familiare e una lieve luce giallastra li avvolse, portando alle loro narici l’odore intenso della legna bruciata che aveva già invaso tutta la sala.
Stranamente, nella sala non c’era quasi nessuno: forse la curiosità per il nuovo arrivato si era già esaurita, o, più probabilmente, erano stati tutti richiamati ai propri doveri. Quale che fosse la ragione, Gregory ne fu sollevato. Gli studenti non lo disturbavano, ma gli sguardi torvi dei monaci anziani gli riuscivano pressoché intollerabili.
E infatti l’unico sguardo accigliato gli fu rivolto da un uomo sulla settantina almeno, seduto su una seggiola di legno poco distante dalle scale. Si appoggiava al suo bastone con entrambe le mani, e gli occhietti piccoli e neri scrutavano Raphael e Gregory – ma in particolare Gregory – con un’intensità che non lasciava dubbi sull’entità dei suoi pensieri.
– Possiamo avvicinarci al caminetto? – chiese Gregory, a bassa voce. – Ho le mani congelate.
Raphael aprì la bocca per dire qualcosa, forse che le sue mani erano state molto calde un minuto prima, poi la richiuse. Sembrò capire. – Sì, certo.
Si avvicinarono al fuoco e Gregory si chinò per allungare le mani verso il calore. Da quella posizione poteva scorgere il vecchio con la coda dell’occhio. Gli parve che li stesse ancora fissando. – Chi è quel monaco? – bisbigliò.
– Padre Joshua, il precettore dei novizi – mormorò Raphael, in risposta. – Perché me lo chiedi?
– Ci sta fissando.
Raphael scrollò le spalle. – Lo fa sempre. Non preoccuparti.
– Odio essere fissato – mormorò Gregory.
– Vedrai che tra un poco nessuno farà più caso a te. – Raphael sorrise, con gentilezza. – Hai finito di riscaldarti?
Gregory sospirò. – A volte penso che non basterebbe un incendio a riscaldarmi. – Poi alzò gli occhi e guardò Raph con una certa sorpresa, come se non avesse voluto parlare a voce alta. – Sì… sì, naturalmente. Cosa ci aspetta? La biblioteca?
Raphael gettò un’occhiata alle finestre. – Piove ancora. Non posso mostrarti l’orto e la cappella. – Alzò le spalle. – Sì, andiamo in biblioteca.
Attraversarono la sala, sempre sotto lo sguardo attento e indiscreto di padre Joshua, fino ad una seconda scalinata posta sul lato ovest. La imboccarono. Allora Gregory capì cos’era che gli era parso strano quando aveva posto piede a Serven.
– La pianta di questo monastero mi sembra inusuale – disse, parlando ancora a bassa voce malgrado padre Joshua non potesse più sentirli. – Ad esempio, non pensavo che un convento dovesse avere una sala comune. Non mi sembra che venga utilizzata molto.
Raphael annuì. – Molti anni fa era un castello. Apparteneva a un cavaliere di nome Gilbert Trémont. Sai chi era?
Jehba Thjem’on. Il vero nome del guerriero gitano esplose nella mente di Gregory come un lampo. – Un traditore, mi pare – disse cautamente.
– Sì. Fu ucciso alla fine della guerra, e il padre del Re Vragus donò il suo castello ai monaci di Widefield, perché ne facessero un luogo sacro. Abbatterono le torri e il ponte levatoio, riempirono il fossato e costruirono la cappella…
– Il Re Kean non era il tipo più adatto a occuparsi di cose sacre – disse Gregory, con freddezza.
Raphael lo guardò con curiosità. – Be’, non era un santo, ma sconfisse i gitani. Non è una cosa buona?
– Probabilmente – disse Gregory, e non aggiunse altro. Non aprì più bocca finché non furono di fronte alle porte della biblioteca.
– Eccoci arrivati – disse Raphael. – Sta’ attento. Dentro la biblioteca si può parlare soltanto sottovoce.
Entrarono. La biblioteca non era particolarmente affollata, ma più della sala comune. Diversi monaci, tutti anziani, erano seduti di fronte ai tavoli, chini a studiare volumi rilegati alla luce di piccole lampade. La penombra diffusa in tutto il monastero, lì era più densa e più caliginosa che in ogni altra stanza, e i numerosi lumi che si vedevano ad ogni tavolo emanavano l’odore stantio dell’olio bruciato.
Padre Frederick era seduto in fondo alla biblioteca, in direzione delle porte, riconoscibilissimo per la lunga barba bianca e l’aureola rada e canuta che circondava la tonsura – o forse l’avanzata calvizie. Guardava nella loro direzione, ma non sembrava che fosse stato il cigolio della porta a destarlo: i suoi occhi erano pensosi e distanti, segno che probabilmente il maestro bibliotecario era immerso in qualche sua riflessione personale.
Raphael e Gregory avanzarono rapidamente, senza che i loro calzari producessero più di un lieve scalpiccio sul pavimento di pietra, e gli sguardi che si attirarono furono fugaci e distratti. Giunti di fronte a padre Frederick, il maestro si decise infine ad accorgersi di loro. I suoi occhi, verdognoli, ebbero un guizzo di vivacità.
Si portò l’indice alle labbra, con lentezza, si sollevò un poco dalla sedia e la spostò indietro senza produrre rumore. Poi si raddrizzò. Fece loro cenno di seguirlo in una porticina posta proprio dietro il suo tavolo, accanto a due librerie ingombre di scansie e volumi polverosi.
Entrarono in una stanzetta spoglia, che sembrava avere come unica funzione quella di permettere di conversare senza disturbare gli altri monaci, e il maestro bibliotecario rivolse subito a Raphael uno sguardo benevolo. – Allora, Raphael, cos’hai combinato oggi? – chiese con voce ferma, sorprendentemente forte per la sua età. – Non è ora di lezioni, quindi dev’essere una consegna del priore, giusto?
Raphael arrossì fino alla radice dei capelli. Gregory se ne stupì un poco; il ragazzo non gli era mai sembrato vergognoso della sua disobbedienza, tutt’altro. – In verità, stavo accompagnando Gregory da voi, padre. È…
– Oh, sì, sì. Ricordo. – Il bibliotecario gettò un’occhiata a Gregory, uno sguardo vivace e non scrutatore, che diede al giovane un po’ di conforto. Per la prima volta da quando aveva messo piede a Serven, un monaco anziano lo guardava senza la pretesa di giudicare tutto il suo operato in una sola occhiata. – Tu sei il giovane di San Gloriano. Qualcosa mi dice che tu e Raphael diventerete buoni amici, figliolo.
Poteva essere un buon augurio o un insulto molto ipocrita, proferito con un lieve sorriso sulle labbra. Gregory preferì considerarlo un augurio. – Ne sono convinto anch’io – disse sinceramente, senza attardarsi a controllare se Raph stesse sorridendo.
– Ora, per quanto riguarda i tuoi compiti…
Raphael sospirò. – Io devo tornare da padre Roderick, maestro. Sarò qui dopo pranzo per aiutarvi.
– Oh, bene. Vai pure, figliolo.
Raphael guardò Gregory, e Gregory lo ricambiò. Nessuno dei due disse nulla. Raph fece un piccolo sorriso e uscì.
 

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Capitolo 3
*** 3. Ora et labora ***


Gregory
Capitolo III: "Ora et labora"

Gregory trovò il lavoro in biblioteca placido e rilassante. A lungo andare poteva riuscire noioso, e stancante per la mano che scriveva, ma padre Frederick era un maestro paziente e non gli metteva fretta, né diceva una parola quando Gregory posava la penna per qualche istante e si massaggiava il polso e le dita intorpidite.
Nelle brevi pause tra una pagina e l'altra, Gregory si soffermava ad ammirare la ricchezza di volumi della biblioteca. Se c'era un fascino a cui non sapeva resistere, era quello dei libri. Più volte si ripromise di chiedere a padre Frederick di lasciargliene consultare qualcuno. Nel frattempo, continuava a ricopiare con metodo il prezioso manoscritto che aveva sotto gli occhi, riempiendo fogli di pergamena con righe minute e ordinate. Era talmente immerso nel proprio lavoro che quando sentì risuonare lo scampanellio che indicava il pranzo sobbalzò violentemente, lasciando cadere una grossa macchia d'inchiostro sul foglio appena cominciato.
- Che maldestro che sono... - mormorò, imbarazzato. - Lo pulisco subito...
La voce di padre Frederick era calma come sempre. - Non preoccuparti - bisbigliò. - Lo farai dopo. Adesso andiamo a pranzo.
Il refettorio era già affollato quando lo raggiunsero, anche perché Gregory, malgrado l'insistente gorgoglio del suo stomaco, aveva offerto il braccio a padre Frederick e si era adeguato alla sua andatura non proprio spedita. Comunque fu felice di averlo fatto: il bibliotecario gli piaceva, aveva un sorriso caldo e un'espressione rassicurante in volto, e inoltre non aveva ancora fatto parola della colpa di Gregory. Era pur vero che non avevano avuto modo di conversare, perché nella biblioteca regnava il silenzio più totale, ma Gregory era certo che padre Frederick fosse un tipo riservato e che non lo avrebbe afflitto con l'ennesima predica.
- Padre - mormorò, chinandosi sul vecchio. - Dove devo sedermi?
Il tavolo era già occupato in gran parte, ma rimanevano molti posti vuoti e Gregory non aveva idea di quale dovesse essere il suo. - Devi accostarti agli altri novizi - rispose padre Frederick, lasciando il suo braccio. - A metà del tavolo.
Gregory guardò e scorse diversi giovani della sua età, abbigliati con un semplice saio come il suo. Ringraziò il bibliotecario e poi prese posto in una sedia vuota, tra un giovane biondo col viso devastato dai buchi del vaiolo e un altro di venti o ventun'anni che non pareva molto avvezzo ai digiuni, a giudicare dalla rotondità della sua faccia e di tutto il suo corpo. Gregory alzò gli occhi. Le altre facce erano comuni e non gli dicevano niente. Si guardò un po' intorno, per curiosità, ma solo dopo vari istanti si rese conto che stava cercando Raphael. Automaticamente fece per rimproverarsi, poi si disse che era legittimo, che non conosceva nessun altro del monastero. Ma questa giustificazione, sia pure legittima, non gli diede sollievo. Mi sto legando a lui più del giusto?, si chiese, turbato. Lo conosco da così poco, eppure...
Ma non poté proseguire in queste riflessioni, perché il tavolo ormai si era riempito e il priore aveva preso posto a capotavola, non troppo lontano da dove si trovava lui. Lo fissava. Dall'altra parte, anche lui poco distante, Raphael aveva posato i suoi occhi cerulei sulla massa ricciuta e sorrideva appena. Del resto, non erano i soli. Lo fissavano quasi tutti, compresi i due monaci anziani seduti ai lati del priore, quasi calvo e dalla faccia arcigna quello alla sua destra, magro come un chiodo e con un'espressione un po' svampita l'altro.
- Fratello Gregory - scandì il priore, l'unico che aveva il diritto di infrangere la regola del silenzio che vigeva durante i pasti. - Vuoi, per favore, leggere il brano di quest'oggi?
Gregory posò le mani sul tavolo e si alzò, spingendo indietro la sedia. Poi andò al pesante leggio su cui stava aperta la Bibbia, e diede una rapida occhiata alla pagina. Era il brano dell'adultera e della folla inferocita. Che l'avessero scelto in suo "onore"? Si schiarì leggermente la voce, con grazia, tirò un respiro e iniziò a leggere.
Aveva una voce forte, piena e mascolina, e il suo suono riempì subito il refettorio. Man mano che leggeva, Gregory sentì la consueta esaltazione invaderlo, la sensazione che le parole gli passassero dentro ed uscissero dalle sue labbra rafforzate nel loro significato, perché era questo il suo compito, esprimerle al meglio. Si rese conto, marginalmente, che la sua lettura si faceva appassionata, intensa, ma non aveva desiderio di moderarla in una grigia monotonia. Le sue mani, posate sui bordi del leggio, accarezzavano con i pollici la pergamena ruvida del volume, ma era un movimento, questo, di cui non era del tutto cosciente. Quando terminò, con voce profonda: - Va', e non peccare più -, quasi gli dispiacque che fosse finita.
Poi alzò gli occhi e tutti lo fissavano. Deglutendo, Gregory tornò al proprio posto.
- Molto bene - fu il commento del priore Ferdinand. - È bello vedere tanta genuina passione per le Scritture. Che gli altri novizi prendano esempio.
Gregory trasalì. Non era stato questo il suo intento. Sapeva come funzionava con i ragazzi più giovani: adesso l'avrebbero detestato. Un bell'inizio, senza dubbio. Si consolò pensando di aver fatto una buona impressione almeno al priore. - E adesso, fratelli, mangiamo pure il cibo che il Signore ci ha donato.
Prima di chinare gli occhi sulla sua scodella, Gregory intercettò due o tre occhiate velenose. Non ci badò. Quando alzò di nuovo gli occhi, fu soltanto per posarli su una persona, e quella persona non lo guardava con invidia né malanimo. Anzi, gli sorrideva ancora, con quegli occhi colore del cielo e i capelli biondi a incorniciare un viso squisitamente modellato, delicato come la porcellana che Gregory aveva visto solo una volta nella vita. Senza volerlo, ripensò a quando gli aveva preso le mani e le aveva sentite esili e tremanti, calde come il fuoco. Se le sue labbra erano altrettanto morbide, chissà che piacere baciarle...
Abbassò gli occhi di scatto. Li chiuse. Dio mio, perdonami, non dovevo permettermelo! Che pensieri osceni... Giurò a se stesso che quella sera, dopo compieta, sarebbe rimasto a pregare per chiedere perdono di quel peccato, e dopo ch'ebbe fatto questo voto si sentì meglio. Tuttavia, evitò di guardare Raphael una seconda volta. Altrimenti... cosa? Avrebbe vacillato di nuovo? Devo smetterla. Lui non è Evan.
Ma in cuor suo sapeva già che non c'era alcuna somiglianza tra Raphael e il suo compagno, e che era proprio questo ad attrarlo. Evan non l'aveva mai attirato fisicamente. Non aveva mai pensato di fare ciò che poi aveva fatto: era successo e basta. Invece, adesso... Si passò le dita sulle labbra umide e questo gesto bastò a procurargli un brivido. Non riuscì a trattenersi. Lo guardò. Raphael si portò il cucchiaio alle labbra con lentezza, scoprendo in un sorriso i denti bianchi e diritti. Non staccò gli occhi dai suoi finché non fu Gregory a farlo, e anche allora il più grande fu certo che rimase a fissarlo per un lungo istante prima di distogliere a sua volta lo sguardo.
Il pranzo fu semplice e abbondante, almeno secondo il giudizio di Gregory. Quando tutti si alzarono, in silenzio, il giovane tornò nella sala comune e si fermò, incerto. Numerosi fratelli sostavano nella sala.
- Bentornato tra i vivi - disse Raphael alle sue spalle, allegramente. - Come si ragiona a stomaco pieno?
Gregory sorrise, voltandosi. - Indubbiamente meglio - rispose. Per la verità si sentiva un po' sonnolento, e a momenti si chiedeva se non si sarebbe addormentato sull'ennesimo foglio di pergamena, ma i suoi pensieri erano abbastanza lucidi e si sentiva sereno. Non era ancora successo niente di grave che lo riguardasse, ed era ottimista per il futuro. Vedere Raphael, poi, gli donava un piacere tutto particolare, forse perché il ragazzo aveva sempre tanta allegria e sembrava desideroso di trasmettergliene un poco. - Stiamo andando nello stesso posto? - chiese, con gentilezza.
- Abbiamo ancora un po' di tempo - disse Raph. - Dopo pranzo abbiamo diritto a riposare. Vieni, sediamoci.
Lo guidò in direzione di due sgabelli lasciati vuoti in prossimità della finestra. Li trascinarono un po' discosti, per evitare gli spifferi gelidi che filtravano dagli infissi malconci della vetrata, e si sedettero. - Continuano a fissarmi - commentò Gregory, a bassa voce. - Mi chiedo se farti vedere con me non ti procurerà dei fastidi, Raphael.
Il ragazzo sorrise. - Fastidi? Cosa potrebbero mai dirmi? Non sto contravvenendo a nessuna regola.
- Però non mi guardano di buon occhio. Dopo la lettura, poi...
- Ah, non so come fosse a San Gloriano, ma qui i grandi sono sempre in competizione. Pensano che tu ne abbia scavalcati parecchi, con quello scherzetto.
Gregory inarcò un sopracciglio. - Non avevo intenzione di scavalcare proprio nessuno.
- Ma l'hai fatto. Vedi quelli? - Accennò, senza fare gesti, a un gruppetto di novizi tra cui si trovavano il biondo dal viso butterato e il grassone. - Il biondo si chiama Valerj, il ciccione Kristen. E quell'altro, quello coi capelli rossi, è Iolan, il tuo compagno di stanza. Kristen è il preferito di padre Roderick, mentre padre Joshua stravede per Iolan. Quanto a Valerj... be', lui è il segretario del priore Ferdinand.
- Ma che bel terzetto - mormorò Gregory. - Non mi fanno paura. Io non voglio dare fastidio a nessuno.
- E credi che basti? - replicò Raphael. - Non importa che tu lo voglia. Neppure oggi lo volevi, giusto? Però adesso parlano di te. E se vogliono, possono metterti in guai perfino più grossi di quelli che ti hanno portato qui.
- Ho già toccato il fondo, grazie - commentò Gregory, lugubre.
- Non lo so - mormorò Raphael, incrociando le braccia. - Non ne sarei tanto sicuro. In ogni caso... sta' attento. Valerj e il priore sono fatti della stessa pasta.
- Allora non credo che saremo mai amici - disse l'altro.
- Di certo non se continui a farti vedere con me.
Gregory alzò gli occhi.
- Cosa credi? - riprese Raph ironico. - Di essere l'unico ad avere cattiva fama?
Gregory sorrise, moderatamente. - Non mi importa di cosa pensano gli altri.
- Deve importarti - replicò il più giovane. - Devi prenderne atto. - Abbassò la voce. - E dopo fa' ciò che vuoi.
Alzò gli occhi sul terzetto che li fissava ancora, non ostile, ma come in attesa. - Si aspettano che tu vada lì e ti presenti.
- Non possono venire loro a presentarsi?
- Loro sono gli anziani.
Gregory scosse la testa. - Che cosa ridicola. Avranno vent'anni al massimo.
- Ma fra i novizi sono gli anziani - disse Raphael, a voce ancora più bassa. - Kristen e Iolan prenderanno i voti prima di Pasqua, Valerj subito dopo Natale. Non so se sopravvivrò fino a quel momento - sospirò.
- Ti dà noie?
Raphael sorrise, vagamente. - Diciamo che neanche noi saremo mai amici.
- Dunque... tu ritieni che io dovrei andare da loro? - chiese Gregory, corrugando la fronte. - Dopo ciò che mi hai detto, l'idea non mi attira.
- Oh, no, ma io non volevo... non intendevo indisporti - mormorò Raphael.
Senza rispondere, Gregory si alzò.
Diversi si voltarono dalla sua parte. Raphael, con un sospiro, dovette constatare che il nuovo arrivato aveva proprio intenzione di andare a rendere omaggio agli anziani. Era una mezza delusione, ma forse era stato lui a malgiudicarlo. Forse non era il tipo d'uomo che aveva pensato. Sospirò e rimase a guardare.
Gregory avanzò lentamente, tutti gli sguardi addosso, insopportabili. Arrivò fino al gruppo di Valerj, fece un cenno complessivo a tutti quanti, appena un lieve chinarsi del capo, non di più, poi disse con uno sbiadito sorriso: - Gregory.
- Conosciamo il tuo nome, fratello - disse Kristen. - Ti precede la tua fama.
- Non buona, immagino - replicò Gregory.
- Piuttosto inquieta - commentò Iolan, stringendo le labbra.
Valerj si intromise. - Perché infierire? La vita del nostro nuovo fratello cambia da oggi. Non è così, fratello Gregory?
- Naturalmente...
- Quando prenderai i voti?
Gregory scrollò le spalle. - A San Gloriano avevamo deciso dopo la Pasqua.
- A San Gloriano.
- Sì. Presumo che la data rimarrà la stessa.
Valerj fece uno strano sorriso, come se non capisse. - Forse ti ho fatto la domanda sbagliata, fratello. Tu prenderai i voti?
- Perché sarei qui, altrimenti?
- Ma fratello, in luce delle ultime circostanze...
- Non dovrei prenderli, forse?
Valerj esitò, indispettito dall'incalzare offeso del suo antagonista. - Di certo ammetterai che la situazione richiede una riflessione molto lunga - replicò in tono piccato. - E adeguati provvedimenti.
- Via, Valerj, non tormentarlo - interloquì Iolan, beccandosi un'occhiataccia dal compagno. - Se dice che li prenderà, li prenderà. - Scosse la testa. - O forse...
- O forse non ha ancora capito come funziona qui a Serven - sottolineò Valerj. - Ad ogni modo, i voti vanno presi al momento giusto. Non sei d'accordo, fratello? Sarebbe terribile pronunciarli senza avere la maturità necessaria.
Gregory si incupì. - Non ho mai pronunciato un giuramento senza credervi fermamente - rispose.
- Che belle parole - cantilenò Kristen, beffardo.
- Ti fanno sorridere? - chiese Gregory.
- No, oh no. Ma raramente a professioni così ardenti segue altrettanto ardore nei fatti - replicò il grassone.
Gregory strinse i denti quasi fino a farli stridere. Ma prima che Kristen potesse introdurre altro veleno nella conversazione già tossica, si affrettò a sibilare: - Con permesso, debbo lasciarvi. Ho delle incombenze da sbrigare.
Tornò da Raphael, gli disse: - Andiamo? - e si allontanarono insieme in direzione delle scale. Gregory era furente, e solo la grande dose di autocontrollo che abitualmente esercitava su se stesso gli permetteva di rimanere padrone di sé.
- Mi dispiace - provò Raphael, con discrezione.
- Per cosa? - Gli occhi di Gregory si schiarirono un poco quando andarono a posarsi sul viso del ragazzo.
- Per la loro maleducazione. Non avrebbero dovuto.
Gregory fece un gesto con la mano, come a cancellare con un colpo di spugna l'accaduto. - Tu non c'entri niente. E poi, ho sopportato di peggio.
Raphael fece un sospiro. - D'accordo. - Esitò. - Quando saremo entrati in biblioteca... non potrò parlare con te. Il priore...
- Non ti disturberò - disse Gregory. - Così lavoreremo più velocemente.
- Oh, certo. I manoscritti - disse Raphael, facendo una smorfia.
Erano arrivati. Entrarono, raggiunsero padre Frederick e il bibliotecario diede loro di che lavorare per una settimana almeno, senza fretta. Raphael emise uno sbuffo, ma non protestò e si mise subito al lavoro con celerità.
Gregory sbirciò il foglio del ragazzo e vi trovò una bella scrittura, chiara e ordinata. Poi anche lui si concentrò sul da fare.
Le ore trascorsero lente, ovattate dal silenzio profondo e dalla ripetitività del compito che svolgevano: una, due, tre, avevano perso il conto. A Gregory piaceva: dopo un po' di tempo, quando la sua mente e la sua mano assimilavano i movimenti da compiere, poteva lasciar correre i pensieri, dando al lavoro un'attenzione solo parziale. Quando riusciva a far questo, non si rendeva neppure conto di cosa stava copiando, e non era disturbato dalla curiosità di soffermarsi a leggere.
Raphael lavorava abbastanza tranquillo. Ogni tanto si muoveva sulla sedia, o stendeva le braccia verso l'alto per sgranchirle, o faceva crocchiare le dita intorpidite, ma a parte questo non dava alcun fastidio, e riempiva con diligenza le proprie pagine. Fugacemente, Gregory pensò che il priore non aveva azzeccato la punizione più terribile, stavolta... o forse aveva voluto impegnarlo in qualcosa di veramente utile. In questo secondo caso, era riuscito nel suo intento.
Quando suonò la campanella della cena, erano tutti e due stanchi e assonnati. Padre Frederick, che per tutto il pomeriggio era stato impegnato nello studio di un grosso volume dalla copertina sbiadita, invece sembrava perfettamente a suo agio, e si alzò con la solita flemma mentre Gregory e Raphael si passavano le mani sugli occhi per allontanare il torpore dalle palpebre appesantite.
- Un altro pomeriggio così e la faccio finita - borbottò Raphael quando furono fuori. - Mi arrampico sull'albero più alto e mi butto giù.
Gregory gli gettò uno sguardo divertito. - Non era poi così terribile.
- Mi prendi in giro? - replicò Raph, guardandolo in tralice. - Era peggio di... - Poi si accorse di avere padre Frederick alle spalle e rinunciò a qualsiasi cosa volesse dire. Si limitò a scuotere la testa, lentamente, con stanchezza.
- Quando ero ragazzo, mi arrampicavo spesso sugli alberi - disse Gregory, con un sorriso. - Prima di entrare in monastero, intendo.
Raphael lo guardò. - Ci sono dei bellissimi meli, nell'orto - mormorò in tono vago.
- Immagino che tu li conosca ramo per ramo.
- Quasi - rispose Raphael, con un'espressione da furbetto. - Il più alto supera i quindici piedi d'altezza. Da là sopra si gode una vista magnifica... ah, ma è inutile che te lo dica. Lo vedrai tu stesso.
Gregory scostò un ricciolo ribelle dalla fronte. - Quando?
- Quando ci salirai, ovvio.
- Tra la copia di un manoscritto e l'altra?
Raphael sorrise. - Non passerai tutto il tempo a ricopiare manoscritti. Anche in questo monastero ci prendiamo talvolta qualche ora di riposo.
- Prendiamo? Credo che intendessi dire: ci concedono. Giusto?
- Sbagliato! - disse Raphael, e il suo sorriso si allargò. Ma erano ormai in prossimità del refettorio e perciò non poterono continuare il discorso.
La cena di svolse in silenzio come al solito. Sia Gregory che Raphael mangiarono di buon appetito, stimolati dalla stanchezza. Gregory poté notare le occhiate profonde lanciategli da Kristen e Iolan, più ostili quelle del primo, neutre quelle del secondo. Valerj, invece, non lo guardò neppure una volta. Poi tutti quanti si alzarono per andare nella cappella e assistere a compieta.
Fuori aveva smesso di piovere già da diverse ore, ma il cielo era rimasto plumbeo, minaccioso, e per di più oscuro per via dell'ora tarda. Il terriccio del chiostro era una mistura fangosa e appiccicosa che rendeva difficoltosi i passi. Ciò nonostante, i monaci si incamminarono di buona lena con i calzari che quasi affondavano in quel pantano, perché la cappella aveva un solo ingresso e poteva essere raggiunta unicamente dal cortile.
L'interno era illuminato dalle numerose candele, ma non era riscaldato e perciò vi regnava un freddo pari a quello del chiostro. Quando entrarono, Raphael e Gregory avevano entrambi le braccia strette intorno al petto e le mani sprofondate nelle ampie maniche della camicia l'uno e del saio l'altro.
Sedettero ai primi due posti liberi che trovarono, dal momento che la funzione non richiedeva le rigide separazioni del pranzo, e poi la seguirono con discreta attenzione, nonostante l'odore dell'incenso rendesse l'atmosfera fumosa ancora più sonnolenta.
Al termine, Gregory si alzò con gli altri. Aveva incrociato lo sguardo del priore mentre questi si dirigeva in sagrestia, dove si sarebbe spogliato degli abiti della funzione, e intendeva attenderlo in prossimità del confessionale per confessarsi come aveva promesso.
Perciò salutò Raphael, dicendogli che si sarebbe coricato più tardi. Come unico gesto di commiato gli sfiorò una mano con le punte delle dita, anche se, dopo averlo fatto, sentì acuto il senso di colpa. Ebbe anche la sgradevole sensazione che tutti li stessero fissando. Poi si accostò al confessionale, volgendo le spalle al resto della chiesa.
Il priore arrivò quasi subito, rigido come una statua marmorea anche nell'incedere. Gli rivolse uno sguardo più benevolo di quanto lui stesso o gli altri avessero fatto fino a quel momento, poi senza una parola entrò nel confessionale e Gregory lo seguì.
La confessione fu lunga e penosa. Quando si rialzò, Gregory sentiva uno spiacevole senso di inutilità premergli dentro il petto, ma era anche in un certo modo sollevato, di quel sollievo confortante che solo la riconciliazione con Dio può dare. Inoltre, si era convinto che il priore fosse un uomo severo ma giusto, forse troppo rigido nelle convinzioni, ma leale e degno di rispetto.
- Va' a riposarti - gli disse padre Ferdinand, quando si alzarono. - Hai avuto una giornata intensa.
Gregory scosse la testa, per schiarirsi le idee. - Mi ero ripromesso di pregare un poco - mormorò. - Pensate che sia possibile?
- Naturalmente. La cappella è sempre aperta. - Poi fece girare lo sguardo per la chiesetta e si incupì. Gregory ne capì subito il motivo: Raphael era lì, inginocchiato in uno dei primi banconi, intento in preghiera.
- So cosa pensate - mormorò in fretta, con voce ansiosa. - Ma vi giuro che non l'avevo scorto. E, in ogni caso, non intendo in alcun modo...
Il priore alzò una mano per farlo tacere. - Rimani pure. Raphael si trattiene sempre nella cappella, a quest'ora.
- Una punizione vostra? - chiese Gregory, inesprimibilmente sollevato.
- Figliolo, se tra gli abitanti di Serven ce ne fosse uno cui dovessi imporre la preghiera come punizione, sta' pur certo che l'avrei già allontanato da questo monastero. - Mosse un passo verso l'uscita. - Buonanotte, Gregory.
Era la prima volta che lo chiamava per nome. Il giovane deglutì. - Buonanotte, padre. - Esitò, aggiunse piano: - Grazie.
Quando il priore se ne fu andato, Gregory si cercò un posto abbastanza lontano dal ragazzo e si raccolse in preghiera.
Non aveva idea di quanto tempo fosse passato, quando si sentì sfiorare la spalla. Trasalì violentemente.
- Scusami - mormorò Raphael, mentre il sussulto di Gregory rimbalzava comico tra le volte della cappella, infinitamente riflesso in un'eco monosillabica. - Non volevo spaventarti. Ho atteso un poco, poi, vedendo che continuavi a pregare, ho pensato di avvicinarmi... Volevo soltanto darti la buonanotte.
Gregory sospirò. - Non mi hai spaventato, solo... ero molto concentrato. - Rivolse un ultimo sguardo all'altare, segnandosi, poi si alzò. - Hai fatto bene. Adesso che mi hai distratto, mi rendo conto di quanto sia stanco.
- Oh, bene. - Raphael sorrise, poi si rabbuiò. - Io non ti stavo aspettando, sai. Intendo... prima, quando eri col priore. Vengo sempre a pregare a quest'ora. È l'unico momento in cui posso stare solo.
Gregory abbassò gli occhi, sentendosi vagamente colpevole, perché in effetti aveva creduto che quella della preghiera fosse un pretesto per rimanere solo con lui. Evidentemente si era dato troppa importanza. Superbia, vecchia nemica. Si ripromise di rifletterci sopra, prima di addormentarsi. - Capisco - disse in tono neutro. - Andiamo?
L'esterno del monastero era precipitato in un'oscurità fitta e caliginosa, appena rischiata da una luna smorta color avorio e qualche puntino di stella sparso qua e là. - Attento a dove metti i piedi - mormorò Raphael, e dopo un istante inciampò in qualcosa e dovette aggrapparsi a Gregory per non cadere.
- Dicevi? - replicò il più grande, con un bel sorriso che la penombra pudicamente nascose. Stese il braccio verso di lui. - Tieniti a me.
- Non sono un vecchio - borbottò Raphael, però prese il suo braccio e lo strinse forte, aderendo con il fianco al suo. A Gregory parve che cercasse di stargli più vicino possibile. Il pensiero gli diede un vago piacere carezzevole. - Così la prossima volta cadiamo tutti e due... - mormorò il ragazzo, allegro.
- Certo - sorrise Gregory. - Ho sempre amato rotolarmi nel fango, tu no?
- Solo nei giorni di pioggia...
Al primo piano si salutarono in silenzio, con una lieve stretta di mano e uno sguardo. Gregory intuì che Raphael avrebbe voluto fare di più, gli lesse una smania intensa negli occhi e nel modo in cui esitava a lasciarlo, avrebbe voluto dire egli stesso qualcosa, soltanto per rompere il silenzio gravido di premesse che li attorniava, ma poi il ragazzo vi rinunciò, e di conseguenza anche lui rimase zitto.
Grazie.
Esitò ancora. Doveva parlare? Meglio di no. Dalle labbra le parole gli sarebbe uscite pesanti, grevi come macigni. Non aveva mai saputo trovare un suono, una sillaba, una parola, che non fosse un macigno.
So che diverremo amici. Grandi amici.
Sorrise delle parole che in segreto sentiva di aver pronunciato, anche se non aveva aperto bocca, perché nella sua mente quelle parole erano suonate leggere e dolci come aveva voluto che fossero. Gli volse le spalle con quel sorriso ancora sulle labbra, e silenzioso se ne andò per la sua strada.

Iolan era già nella stanza di entrambi, quando Gregory arrivò. Il giovane ebbe un sussulto.
- Scusami - mormorò Gregory. - Avevo dimenticato... Credevo di essere solo.
Il giovane dai capelli rossi scosse la testa. Mosse la destra in un rapido segno della Croce, si alzò dal pavimento di pietra su cui era inginocchiato e aprì a fazzoletto le lenzuola della sua branda. Aveva indosso solo una tunica leggera. Il saio era ripiegato in ordine sullo sgabello. - Eri con la peste, scommetto - disse tetro.
Quella sera Gregory disse la sua prima bugia da quando aveva messo piede a Serven. - Raphael? No. Mi sono trattenuto nella cappella per pregare, ma non c'era più nessuno. - Sedette sulla sua branda, guardandosi intorno.
- Cerchi qualcosa?
- Devo scrivere una lettera.
Iolan sorrise senza allegria, forse solo per mostrarsi amichevole. - Devi già lamentarti della vita qui, eh?
Gregory scosse la testa. - La vita qui non è peggio di quella che mi sono lasciato dietro - rispose, serio.
- Bene. Credevo che i fratelli avessero fatto di tutto per renderti l'arrivo... quanto mai spiacevole - disse Iolan, corrugando la fronte. - A volte tutti noi ci arroghiamo il diritto di giudicare gli altri, senza prima guardarci dentro.
Gregory sorrise debolmente. - Diciamo che si sono impegnati. Ma spero sempre che col tempo la smetteranno.
- Oh, sì. Sì, ne sono certo - disse Iolan, fiducioso.
Gregory si alzò, andò al tavolino su cui aveva lasciato i fogli e la penna e posò la boccetta di inchiostro che padre Frederick gli aveva dato. La fiammella della candela tremolava fiocamente. - Se la luce ti infastidisce, posso...
- No, fa' pure - rispose Iolan, infilandosi sotto le coperte. - Io dormo.
Gregory andò allo sgabello, avendo bisogno di sedersi per scrivere, prese il saio del compagno e lo depose sul proprio letto. Solo allora notò il cilicio incrostato di sangue che l'altro aveva lasciato. Alcune macchie parevano ancora fresche. - Iolan? - mormorò, esitando. - Tu... tu porti il cilicio?
La voce dell'altro fu un sussurro ovattato. - Per mortificare la carne.
Gregory si chiese che colpe potesse mai avere un novizio di vent'anni tali da meritare una simile mortificazione.
- Dovresti portarlo anche tu - bisbigliò Iolan, abbracciando il cuscino di rozza stoffa. - Non l'hai mai usato, vero?
- Io... no. Mai - rispose Gregory.
- Il dolore della carne è il primo passo per la purificazione - snocciolò l'altro, con voce sempre più fioca. - Dopo quello che ti è successo... sicuramente il tuo compagno lo porterà. Se vuole prendere i voti...
Gregory prese la cintura uncinata con le punte delle dita, come si trattasse di una bestia pericolosa. - Non sono abituato a questi metodi - mormorò. - A San Gloriano... sì, qualcuno lo utilizzava, ma nessun novizio.
Iolan si tirò a sedere, lentamente. - Ti fa paura? - chiese. - Il dolore, ti fa paura?
- Non lo so. - Gregory posò lo strumento accanto al saio del compagno di stanza. - Ma non credo nella flagellazione.
- È una prova. Una prova di umiltà - disse Iolan, con una strana fierezza negli occhi.
Gregory scosse la testa. - Allora forse io sono un superbo. - Avvicinò lo sgabello al tavolino, lentamente, si sedette e separò un foglio dagli altri, ponendoselo di fronte. Evan che si flagellava. Evan col cilicio stretto alla vita. Evan che mischiava sangue e lacrime infliggendosi scudisciate. Si tirò i capelli indietro, nervosamente.
- Perché non glielo domandi?
Si riscosse, attonito. - Domandaglielo - ripeté Iolan. - Se mortifica la sua carne.
- Evan non hai mai fatto di queste cose - tagliò Gregory, recisamente.
- Prima - replicò il novizio. - Non le ha mai fatte, prima.
Il nuovo arrivato di Serven impiegò un'ora circa a scrivere la lettera, dopo avere a lungo tormentato la penna tra le mani e i denti, esitante su ogni parola. Alla fine, quando gli sembrò che andasse bene, lasciò il foglio ad asciugare e rimise tutto a posto com'era. Andò a sdraiarsi sul letto, vestito. Il mozzicone della candela ardeva ancora.
Iolan invece dormiva da tempo, accucciato contro il muro. Gregory ripensò alle parole di Raphael: "padre Joshua stravede per Iolan...". E come dubitarne? Quel vecchio monaco era certamente la causa della vocazione al martirio del suo prediletto. Si chiese se fosse giusto instillare in un ragazzo così giovane una simile tensione autodistruttiva. Ma subito dopo si chiese anche se fosse giusto, da parte sua, giudicare altezzosamente una pratica antica e sentita con passione tanto sincera.
Sono davvero tanto superbo da non saper vedere oltre il mio naso?, pensò. Sono davvero tanto cieco?
Tornò al tavolino e aggiunse un post scriptum.

Non so, fratello mio, cosa dovrei fare per espiare a dovere la mia colpa. Per quanto io abbia tentato - e nessuno l'ha fatto più di me - non riesco ancora a provare rimorso o pentimento per ciò che è accaduto.
Mi si suggerisce di mortificare la mia carne con la flagellazione. Ma è questa la via? È davvero questa? Ho sempre creduto, forse superbamente, forse per paura del dolore, che queste pratiche non avrebbero conseguito alcun risultato su di me. Dimmi, fratello adorato, che via hai seguito tu? Forse questa? È nella flagellazione la salvezza? Dio mi aiuti, non oso pensarlo.

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Capitolo 4
*** 4. In cupiditate motor mundi ***


Gregory
Capitolo IV: "In cupiditate motor mundi"
 

 

Vennero a svegliarli a mezzanotte, per le laudi. Gregory si era assopito sulla sua branda con il saio ancora indosso, ma fu Iolan a destarsi per primo, ai richiami di padre Joshua che passava battendo con il suo bastone alle porte di tutte le celle. Quando Gregory si tirò a sedere, distrutto dalla lunga giornata, lo trovò impegnato a rivestirsi frettolosamente.
Si alzò a sua volta, passandosi le mani sulla faccia per allontanare il sonno, e insieme si avviarono fuori dalla stanza. Padre Joshua, fermo davanti alla porta, riprese il cammino solo quando li vide uscire.
Al termine della Messa, i monaci e i novizi tornarono alle loro celle con la consegna del silenzio. Gregory, che aveva passato quella lunga ora infliggendosi dolorosi pizzicotti per tenersi sveglio, non aveva altro desiderio che andare a gettarsi sulla sua branda, di certo non chiacchierare.
Iolan invece era piuttosto sveglio. Lo rimase a guardare a lungo, mentre si spogliava con disinvoltura sotto i suoi occhi e poi si infilava sotto le lenzuola.
– Sai perché ti hanno messo in stanza con me? – mormorò, spogliandosi a sua volta.
Gregory si raggomitolò sul fianco. – No... perché? – borbottò.
– Perché io sono l'unico che non si sottometterebbe mai, se tu volessi cedere alle tentazioni – proclamò Iolan, orgogliosamente.
Il nuovo arrivato scrollò il capo, per schiarirsi le idee. Sperò di aver capito male. – Ma cosa credi... – mormorò. – Cosa ti hanno messo in testa...
– So cosa hai fatto.
– Sì... e allora?
Iolan lo guardò con pietà. – Queste tentazioni non si presentano mai una volta sola. Torneranno. Ed io sono il solo tra i novizi che sappia come affrontarle.
Gregory si voltò verso il muro. – Come vuoi tu. Ora lasciami dormire. – Non passò neanche un istante che Iolan gli si accostava, silenzioso come un gatto, facendolo sussultare.
– Io le so affrontare – bisbigliò al suo orecchio. – Perché le conosco. Le conosco bene. Sono terribili, non è vero? Certi momenti... perfino atroci. E tornano sempre...
Gregory si girò. Da così vicino, gli occhi del compagno gli apparivano in tutta la loro luce. Erano verdi e inquieti. Non si poteva dire che fosse bello, con quel viso spruzzato di lentiggini e le sopracciglia chiarissime, quasi assenti, ma aveva degli occhi splendidi. – Non ho intenzione di sedurti – scandì Gregory, con rabbia. – Non sono quello che tutti pensate... una bestia scatenata!
Iolan non abbassò lo sguardo. – Ti aiuterò io, quando sarà il momento. Puoi fidarti di me. Io non sono come Valerj, io so quant'è difficile, quando vengono. – Esitò. – Ti fidi di me?
– Non mi serve il tuo aiuto.
– E invece sì! Ah, se solo tu lo riconoscessi...
– Vai a dormire – mormorò Gregory, voltandosi verso il muro.
Iolan si alzò dal pavimento, con un sospiro. – Te ne accorgerai. Non puoi farcela da solo. Io sono stato chiamato per questo.
La sua vocazione al martirio comprendeva anche lui, adesso? Ma che cosa avevano fatto di quel ragazzo? Gregory ebbe un brivido al pensiero che l'indomani, assolutamente impreparato, avrebbe incontrato l'artefice di tutto questo, padre Joshua.
Non sarà indolore, pensò addormentandosi.

Il secondo risveglio, quello delle laudi, era sempre il peggiore. Quando andava a coricarsi dopo compieta, Gregory chiudeva gli occhi con la consapevolezza di avere solo poche ore a disposizione, dopo le quali l'avrebbero richiamato per il mattutino; ma dopo la Messa di mezzanotte, l'illusione di poter finalmente riposare faceva sì che il suo sonno assumesse una particolare profondità, cosa che rendeva il risveglio all'alba terribilmente gravoso.
Sei anni di vita in monastero non erano stati sufficienti ad alleggerirgli il peso di quella seconda levataccia.
Fu così che, durante le laudi, il bastone di padre Joshua calò per ben due volte sulle sue mani, e solo per un colpo di fortuna riuscì a riscuotersi prima che il precettore dei novizi lo sorprendesse a sonnecchiare una terza volta e gli infliggesse la ben più temibile punizione prevista in questi casi – ginocchioni sui ceci.
Si recò in refettorio ormai quasi sveglio, strofinandosi la faccia energicamente con le mani, dal momento che essersela lavata con l'acqua gelida della fontanella non era servito a riportarlo tra i vivi.
Mangiò con la faccia sprofondata nella scodella.
– Fratello, qualcosa non va? – chiese una voce imprecisata alla sua destra, vagamente beffarda.
Gregory alzò gli occhi, prese atto di chi fosse, li riabbassò. – Nulla. – Scostò i capelli dal viso, riportandoli dietro l'orecchio sinistro. – Solo stanchezza.
– Ce ne siamo accorti – replicò Kristen, sorridendo senza alcuna ragione. – Alle laudi. Quante volte? Due?
Gregory continuò a mangiare senza dargli corda. La colazione di Serven gli riusciva particolarmente gradita, dopo le ultime due settimane di continui digiuni, senza contare che quelli del giorno prima erano stati i suoi primi due veri pasti da quando quel tormento era cominciato. Non aveva alcuna intenzione di farsi guastare l'appetito da uno che, di certo, il suo non l'aveva perso mai.
– Non dovresti essere così ostile – ragionò Kristen. – Noi non abbiamo niente contro di te.
Gregory inarcò un sopracciglio. – Noi? Di chi parli?
– Non fare finta di niente, fratello Gregory. Tu credi che noi aspettiamo un tuo passo falso per darti addosso, ma ti sbagli. Ti sbagli di grosso. – Spostò la scodella avanti, incrociando le braccia sul tavolo di fronte a sé. – Noi siamo i primi a volere che del tuo spiacevole passato non rimanga traccia... per te – fece un gesto vago con la mano grassoccia – e per la buona nomea di Serven.
– Ma se io me ne andassi, il problema sarebbe risolto – mormorò Gregory, toccandosi la fronte. Un principio di emicrania minacciava di rendere la giornata peggiore di quanto i cattivi auspici la stessero già prevedendo.
Kristen fece fatica a nascondere una certa affettazione. – Fratello, non ci è mai neanche passato per la mente di...
– Di?
– ... desiderare che tu te ne andassi. Sei uno di noi, adesso.
Gregory espirò, lentamente. – Non ho scelto io di diventarlo. Io voglio vivere in pace, soltanto questo. Non intendo dare fastidi a nessuno.
Il viso grassoccio di Kristen si rilassò. – Certo, certo. È più che giusto. – Si alzò. – Vieni, adesso. Siamo gli ultimi, e padre Joshua si adirerà se arriviamo in ritardo alla sua lezione.
– Arrivare... dove? – chiese Gregory, mentre seguiva il grosso novizio, sorprendentemente agile, su per la scala a chiocciola.
– In aula, al terzo piano – ansimò Kristen.
Arrivarono in aula giusto pochi attimi prima che vi entrasse padre Joshua. Gregory, che aveva occupato l'unico posto libero al primo banco, si alzò con gli altri per salutare il maestro, con un gran sospiro di sollievo.
– Che cos'hai da sbuffare? – ringhiò padre Joshua, arrancando con il suo bastone fino alla cattedra.
Gregory impallidì. – Nulla, maestro – soffiò, senza fiato.
– Sedetevi, voi. E tu, di' il tuo nome.
– Gre...
– Non a me, alla classe.
Gregory girò su se stesso, inquieto, e guardò la classe che nella fretta non aveva degnato di uno sguardo. Contò una ventina di novizi, quasi tutti più giovani di lui, un paio perfino tredicenni. Le facce erano anonime e inespressive. – Gregory – ripeté.
– Non ti stai confessando, ragazzo! Alza la voce! – ringhiò padre Joshua alle sue spalle.
– Gregory – ripeté il novizio, più forte. Cos'era quell'espressione sul viso di Kristen? Compiacimento? Derisione? E Valerj, Valerj perché lo guardava con l'aria di compatirlo?
O stava immaginando tutto?
– Siediti.
Riprese posto lentamente. Incastrata nel suo incavo rotondo stava una boccetta d'inchiostro, e nella scanalatura del banco era posata una penna nuova. Sul piano, un foglio di pergamena pulito.
Non fece neanche in tempo a chiedersi di cosa avrebbe trattato quella lezione che padre Joshua, sollevando il bastone in direzione di qualcuno nelle ultime file, pronunciò un nome e poi ordinò perentorio: – Sesto comandamento!
Il novizio in questione si alzò in piedi, recitò perfettamente: – Non commettere atti impuri – e tornò a sedersi.
– Iolan! Quanti tipi di atti impuri esistono?
– Due tipi, maestro. Secondo natura e contro natura – snocciolò l'allievo.
Gregory sbiancò, accorgendosi che il prossimo interrogato sarebbe stato lui. Dio, Dio mio, fa' che non...
– Gregory! Qual è il più ripugnante?
Si alzò con la morte nel cuore. Perché tutto il mondo sembrava avercela con lui? – Il secondo – mormorò, e poi, vedendo che padre Joshua si preparava a rimproverarlo, ripeté più forte: – Il secondo, maestro.
Padre Joshua distolse lo sguardo e lui si risedette. Cosa ancora lo aspettava?
– La sodomia è uno dei peccati più disgustosi in assoluto. Valerj. Che posto spetta ai sodomiti nell'Aldilà?
– L'Inferno, maestro. Settimo cerchio, secondo girone...
– Terzo – lo corresse Iolan. – Violenti contro natura. Settimo cerchio, terzo girone.
– Giusto, terzo – disse padre Joshua. – Siediti, Valerj. Iolan, insieme a quali peccatori si trovano i sodomiti?
Iolan rispose con tranquillità: – I violenti contro Dio nella sua persona, i bestemmiatori, e i violenti contro Dio nell'arte, gli usurai.
– Gregory, perché?
Il giovane ristette, attonito. – Non ho capito, maestro.
– Perché si trovano nello stesso girone? – Inarcò un sopracciglio glabro, protendendosi in avanti sulla cattedra. Con quel naso aquilino sembrava proprio un vecchio rapace nell'atto di avventarsi sulla preda. – A San Gloriano non si trattano questi argomenti?
– Sì, maestro, ma...
– O forse tu non li hai studiati?
Gregory strinse i denti per un secondo. – Immagino si trovino insieme perché compartecipano della medesima colpa. Offendono Dio.
– Tutti i peccatori offendono Dio – replicò padre Joshua. – Iolan?
– I sodomiti si trovano tra i bestemmiatori e gli usurai perché hanno caratteristiche dell'una e dell'altra categoria. Bestemmiano alla natura con le loro perversioni, e come gli usurai sfruttano ciò che Dio ha dato loro, il proprio corpo anziché il denaro, per ottenere piaceri smodati e illeciti.
– Smodati e illeciti. Hai capito, Gregory?
– Sì, maestro – disse, chinando il capo.
Uscito dall'aula, non desiderava altro che rinchiudersi nella propria cella e scomparirvi. Perché, perché tutti sembravano tenerci così tanto ad umiliarlo e schernirlo? Era così impossibile cancellare le tracce di una colpa passata? Doveva portarne il peso per tutta la vita?
Gregory che è andato a letto con un uomo. Gregory il perverso. Gregory il sodomita. Gregory il pericoloso. Gregory da non avere accanto. Lo guardavano e pensavano tutto questo. Possibile che l'errore di una sera dovesse marchiarlo così per sempre?
– Gregory.
Si voltò. – Non devi abbatterti – mormorò il suo compagno di stanza. – È tutto per il tuo bene.
– Non lo credo affatto, ma non importa. Mi ci sto abituando.
Iolan fece un sorriso comprensivo. – Vieni, cammina con me. – Si avviarono lungo il corridoio sgombro, lentamente. – Padre Joshua ha dei modi un po' bruschi, ma è un sant'uomo e saprà consigliarti per il meglio, se solo ti lascerai avvicinare da lui. Dammi ascolto, è la persona più adatta a confortarti nei tuoi dubbi e nelle tue debolezze. Non mi credi?
Gregory sospirò. – Non molto, in verità.
– È stato detestabile, oggi, credi che non me ne sia accorto? Ma era tutto studiato, Gregory, dalla prima parola all'ultima, tutto per metterti alla prova...
– Per umiliarmi.
– Per insegnarti l'umiltà.
Scosse la testa. – Io non gli piaccio. È palese.
– Hai torto, Gregory. Io conosco il maestro da tanti anni ed egli è...
– Quello stesso che ti spinge a portare quell'orrore e a scorticarti la schiena a frustate? – sbottò Gregory.
Iolan si fermò. – Anche – rispose, cupo. – Tu mi giudichi, ma è evidente che non capisci. Perché?
– Perché... perché... non lo so – si arrese l'altro, aprendo le braccia. – Perché sono stanco di essere giudicato da chi non capisce me.
Il giovane si rasserenò immediatamente. – È questo? Ma io non ti giudico, no, non lo farei mai. Non è nelle mie abitudini. Puoi fidarti di me, te l'ho già detto. Sono qui per questo... per aiutarti. – Esitò. – Ancora non mi credi, vero?
Gregory abbozzò un sorriso. – Sì che ti credo.
– Benissimo – disse Iolan, con calore.
– Che cosa dobbiamo fare, ora?
– Allora... – Iolan trasse fuori dal saio un foglio di pergamena arrotolato e glielo porse. – Ti ho scritto un promemoria. È l'orario delle lezioni.
– Ti ringrazio molto. – Srotolò il foglio. – Erboristeria. Padre Roderick, giusto?
– Sì, giusto. Come lo sai?
– Me l'ha detto Raphael – disse Gregory, continuando a studiare l'orario.
Iolan rimase in silenzio.
– Cosa c'è?
– Non ti fa bene frequentare quel ragazzo – disse l'altro, a bassa voce.
– E perché mai?
– È un ribelle. Vive per minare la tranquillità degli altri.
Gregory scrollò le spalle, con leggerezza. – Con me è stato molto gentile.
– Si illude di trovare in te uno spirito affine al suo – replicò Iolan. – Per la tua cattiva fama.
Era una suggestione, o gli pareva di ricordare che gli occhi di Raphael si fossero illuminati allorquando gli aveva chiesto del suo peccato, e di nuovo menzionando i meli dell'orto e la monelleria di arrampicarcisi, e poi ancora quando aveva parlato della poca simpatia che correva tra il priore e lui?
– È solo un ragazzo – mormorò, scuotendo la testa. – Insofferente per le regole, sì, ma...
– No, Gregory, tu non lo sai. Quello è nato per distruggere tutto ciò che tocca.
Il nuovo arrivato di Serven arrotolò il foglio, pensieroso. – Ti riferisci a qualcosa in particolare?
– Sì, a un fatto che tu non conosci. Quel ragazzo ha ucciso uno dei nostri fratelli, l'anno scorso.
– Ucciso? – sussurrò Gregory.
Iolan sospirò. – Andiamo alle serre. Padre Roderick non è un tipo paziente.
E chi mai lo era, in quel monastero?
Gregory giunse a destinazione con una strana inquietudine nell'animo, ben lontana dalla pacifica accettazione che Iolan era riuscito, in un primo momento, a infondergli. Di certo Raphael non aveva nessuna colpa nell'accaduto, si diceva. L'idea che quell'angioletto biondo potesse avere la malizia di un demonio gli chiudeva lo stomaco. E perché, poi? Non era poi solo un altro degli abitanti di Serven? Niente e nessuno lo costringeva a frequentarlo.
Ma, si disse con rammarico, l'avrebbe voluto.
Quando se lo trovò accanto tra i banconi della serra sobbalzò con violenza. Il ragazzo aveva la solita espressione scanzonata e reagì con allegria.
– Nervoso? – mormorò, sorridendo senza sospetto.
Gregory si passò una mano sulla fronte, spostando indietro i lunghi ciuffi. – Un po' – ammise, cautamente.
Erano tra gli ultimi, in fondo alla serra, lontanissimi da padre Roderick, ma per una volta Gregory avrebbe voluto essere vicino ad uno degli arcigni monaci di Serven. L'idea di restare accanto a Raphael non lo faceva temere per sé – cosa mai poteva fargli? – ma dopo ciò che aveva saputo non gli andava di conversare con lui, e rischiare di mostrargli il suo indicibile turbamento.
Si impose di analizzarsi. Fino a pochi istanti fa ero pronto a fidarmi di questo ragazzo senza riserve. E adesso, per le parole di Iolan... che a conti fatti mi è sconosciuto proprio come Raphael... penso a lui come a un assassino! Ma che mi prende? Sono diventato così volubile?
Più tempo passava, più aveva l'impressione che Serven tirasse fuori il peggio di lui. Era sgarbato, ostile, cupo. Troppe volte si scopriva distratto, inquieto, sospettoso. E adesso si lasciava anche insegnare il giudizio dalle dicerie di un altro. Ma che ti prende? Che ti prende?, si chiese, angosciato. Guardò Raphael e subito riabbassò gli occhi sul tavolo, all'accorgersi che il ragazzo l'aveva ricambiato.
– Tu, di San Gloriano! – ruggì padre Roderick. – Rispondi alla domanda!
Si riscosse con un salto. Non si era accorto di aver passato gli ultimi istanti a fissare intensamente il piano del tavolo di fronte a sé.
– Allora?
– Digitale – sussurrò Raphael, a denti stretti. – Digitale!
– Può essere... la digitale? – ripeté Gregory, confuso.
Il maestro erborista parve molto seccato, tanto che Gregory si convinse di aver detto una terribile fesseria e si preparò all'umiliazione pubblica. Invece padre Roderick mollò la sua vittima con uno sbuffo arcigno e tornò alla sua lezione con voce bassa e rauca.
Con sollievo, Gregory si voltò verso il ragazzo alla sua destra e gli rivolse un sorriso. – Grazie – mormorò. – Mi hai risparmiato l'ennesima figuraccia.
Raphael non sorrise. – Così forse la finirai di guardarmi come se avessi ammazzato qualcuno – sussurrò, senza guardarlo negli occhi.
Gregory trasalì. – Ma io... io non...
– Credi che non l'abbia capito?
– Silenzio! – ringhiò padre Roderick, alla loro volta.
Raphael chiuse la bocca e non disse più una parola.
All'uscita dalla serra, Gregory non solo non aveva idea di cosa la lezione avesse trattato, perso com'era stato per tutto il tempo nei suoi pensieri, ma per giunta si sentiva più agitato e confuso di prima, e la presenza di Raphael al suo fianco – ancora per poco, perché il ragazzo stava andando via – più che intimorirlo adesso lo rattristava. Forse era stato ingiusto, ma non aveva voluto darlo a vedere.
– Raphael... – provò, senza molte speranze.
Il ragazzo si voltò, distrattamente. – Che vuoi?
– Parlarti... se me lo consenti. – Si guardò intorno, la folla degli studenti lasciava la serra in massa, e lui detestava le masse. Gli fece cenno di scostarsi un po' dal gruppo.
– Che cosa vuoi? – ripeté Raphael, senza alzare gli occhi sui suoi.
– Raphael, io... io non so ancora cosa ti ho fatto, non so come sono riuscito a offenderti, ma qualunque sia la mia colpa... ti chiedo scusa. Non volevo, davvero non volevo essere scortese. Non era mia intenzione.
Il ragazzo esitò, fissando ostinatamente il muro. – Non mi servono le tue scuse... non fintantoché continui credere a Iolan. Saprei dirti una per una le cose che ti ha raccontato su di me... saprei ripeterle con le sue stesse parole! Quel viscido... ignobile... leccapiedi! – Alzò lo sguardo. – Ti ha detto che ho ucciso io Vicent, non è vero? Bene, è falso! – Le ultime tre parole furono quasi gridate.
– Shh! – Gregory gli posò la mano sulla bocca, tirandolo più discosto dalla serra, verso il giardino. – Non ho detto che gli credo, Raphael.
– E che cosa dici? – lo sfidò il ragazzo.
– Dico che ne prendo atto, ma che non ne so abbastanza per credere a nessuno dei due. – Scosse la testa. – Non voglio credere che tu sia un assassino. Ho provato a pensarti tale, e non ci sono riuscito. Non ti basta, questo?
Raphael si ritrasse da lui. – Tu non hai idea di quanto sia pericoloso Iolan. Lui è l'unico a credere in ciò che dice, in ogni singola parola che dice. È per questo che mi fa paura.
– Raphael, non sono un bambino. So distinguere...
– No, non dire così. – Strinse i denti. – Se non starai attento, farà di te quello che vogliono, ti renderà docile come piace a loro e poi sarai il novizio perfetto, buono e disciplinato, che dà lustro al monastero, che non sgarra mai, che... che non pensa, perché non gli serve pensare, soltanto "ora et labora", e sta zitto e ubbidisce. – Abbassò gli occhi. – Se tu diventassi così, non saresti... non saresti più degli altri.
Gregory gli posò le mani sulle spalle, con dolcezza. Avrebbe voluto abbracciarlo, un gesto solo fraterno, castamente affettuoso, ma non poteva. – Che cosa è successo a Vicent? – mormorò.
Raphael rialzò gli occhi, con cipiglio. – Te lo dirò questa sera. Nella cappella, dopo la Messa.
– Ci sarò – promise Gregory.
Quel pomeriggio non ebbe modo di godersi la breve ricreazione del dopo pranzo. Non fece in tempo a sedersi sullo sgabello che aveva adocchiato vicino al fuoco, quel che ci voleva dopo il freddo del refettorio, che un novizio più giovane venne a chiamarlo da parte di padre Frederick, il bibliotecario. Quando fu salito in biblioteca, stringendosi nel saio per allontanare il gelo sempre più penetrante, scoprì che il maestro era rimasto positivamente colpito dal suo lavoro del giorno prima, dalla sua efficienza e celerità, tanto che aveva deciso di prenderlo, per un periodo di prova almeno, come suo assistente personale.
Almeno una cosa va per il verso giusto, si disse Gregory, sollevato, mentre il maestro gli spiegava quali sarebbero state da quel momento le sue incombenze in biblioteca. E gli pareva giusto e ancor più gratificante che quel po' di bene gli venisse dall'unico monaco che a Serven non aveva mostrato per lui ribrezzo né disgusto, ma solo affettuosa comprensione.
Dunque passò in biblioteca gran parte del pomeriggio, e per la restante parte si vide affidare il compito ingrato di spaccar legna per il monastero insieme a pochi altri novizi, tra i più robusti di Serven. Gregory, che non era particolarmente robusto, per quanto l'energia e la prestanza fisica non gli difettassero, si chiese pensosamente perché mai l'avessero aggregato a quelli che, evidentemente, ce la facevano benissimo da soli.
Quando suonò la campanella della cena, era più che esausto: era distrutto. Sedette al proprio posto a tavola pregustando la propria branda e il tepore delle coperte, e mormorò la preghiera di ringraziamento con il sonno sulle labbra. Fu soltanto durante la Messa di compieta che si rammentò, con un sussulto, dell'appuntamento con Raphael.
Con un sospiro stanco, si alzò alla benedizione del celebrante per poi tornare a inginocchiarsi quando tutti se ne furono andati. Signore, pensò, dammi la forza di restare sveglio ancora un po'...
Forse si era assopito sull'inginocchiatoio, perché quando si sentì toccare gli occorsero parecchi istanti per recuperare lucidità. Ma non c'era Raphael accanto a lui.
– Fratello, ti sei addormentato – mormorò Iolan, sorridendo dolcemente. – Non dovresti sfinirti così.
– Fratello... – borbottò Gregory, strofinandosi gli occhi. – Stavo... stavo pregando. È molto tardi?
– È passata forse un'ora dalla compieta. Dovresti andare a dormire, sei stremato.
Gregory si alzò, pensosamente. – No, io... io devo restare. – Si guardò intorno, cercando Raphael, ma del ragazzo non v'era traccia.
– Aspetti qualcuno? – chiese Iolan, inarcando un sopracciglio.
– A quest'ora? – Scosse la testa, sperando di riuscire convincente. – Resto ancora a pregare. Comincio a pensare che tu avessi ragione, il trattamento che mi riservano i nostri maestri mi fa pensare molto – mentì con aria compunta. – Mi fa pensare... a quello che ho fatto. – Non era neppure una vera bugia. Da quando era a Serven non riusciva a pensare ad altro.
– È doloroso?
Gregory annuì.
– Sono certo che è il primo indizio della tua guarigione – disse Iolan, ottimista. – Accogli il dolore come segno di purificazione e offrilo a Dio con una preghiera per il futuro. Le cose ti appariranno migliori.
Era davvero tanto vecchio quel ragazzo che gli parlava come un adulto e si offriva di fargli da guida spirituale, di aiutarlo nella sua purificazione? Gregory non sapeva mai se la saggezza mistica delle parole di Iolan fosse frutto di personale esperienza, o piuttosto una lezione inculcatagli a forza nella mente.
– Lo spero – rispose, guardando nuovamente l'altare ma senza arrischiarsi a gettare uno sguardo intorno. Dovunque si fosse cacciato Raphael, sperava vivamente che si tenesse nascosto. Sarebbe stato terribilmente imbarazzante, se Iolan avesse subodorato che avevano un appuntamento. Chi l'avrebbe convinto delle intenzioni castissime che li avevano avvicinati? – Ma tu va' pure, non ti tengo – aggiunse semplicemente. – Non sono l'unico stanco, qui.
Iolan annuì. – Non ti domando se vuoi compagnia. La preghiera è una comunicazione esclusiva. Se non sarai troppo stanco dopo parleremo un po', vuoi?
– Di cosa? – domandò, troppo intontito per ricordare.
– Di alcune cose che devi sapere, fratello mio – mormorò Iolan. Il nome di Raphael, non pronunciato, rimase ad aleggiare nell'aria della cappella ancora a lungo dopo che se ne fu andato.
Dove sei, angioletto?, pensò Gregory. Vuoi sbrigarti a venir fuori?
Sconfitto, tornò a inginocchiarsi e si decise a pregare davvero, questa volta. Ma non fece in tempo a terminare un Padre Nostro che gli giunsero alle orecchie i suoi passi. Alzò il capo.
– Perché hai tardato tanto? – mormorò, quando Raphael si genuflesse accanto a lui.
– Ho dovuto – rispose il ragazzo. – C'era Iolan dietro di noi, sono uscito e ho aspettato che se ne andasse anche lui. – Strinse il labbro inferiore tra i denti. – Ti sorvegliava, e forse anche me.
– Non vogliono che ci parliamo?
– Non lo so. Ma adesso è tardi per parlare. Penseranno che vogliamo fare altro. – Lo guardò e arrossì. – Non ci hanno ancora trovato insieme, per fortuna.
– Tu credi che pensino questo per la mia cattiva fama o per altri motivi che non so? – Esitò. – Legati a te?
– Entrambe le cose – disse il ragazzo. – Da quando Vicent è morto, la maggior parte di loro crede che io sia una specie di incarnazione di qualche demone della lussuria.
– Me ne parli? – chiese Gregory, con delicatezza.
Raphael annuì. – Sono qui per questo. Sediamoci. Passo inginocchiato anche troppo tempo della mia vita.

– Quando Vicent era ancora un novizio, noi eravamo buoni amici. Passavamo molto tempo insieme, eravamo d'accordo su quasi tutto ed era bravo quanto me ad arrampicarsi. Alla sera ci trovavamo qui nella cappella per pregare e fare il bilancio della giornata. Gli volevo molto bene.
E anch'egli me ne voleva, ma in un modo che non capivo, non completamente, e credevo che fosse affetto. Credevo di non meritare un amico simile, perché sentivo che il suo amore superava il mio.
Egli mi suggeriva spesso di intraprendere il noviziato. L'idea non mi entusiasmava, non l'ha mai fatto, ma ero disposto a cominciare, se non altro per amor suo. Di lì a poco avrebbe preso i voti ed io non volevo restargli così indietro... così lontano. Decisi che mi sarei fatto novizio e lo comunicai al priore.
Egli ne fu contento. Era la prima volta che cercavo di rientrare nell'ordine del monastero, e da novizio avrebbe potuto controllarmi più facilmente. Senza contare che col saio sarei stato sottoposto al controllo di padre Joshua, e a quell'uomo è impossibile sfuggire.
Il giorno stesso della sua ordinazione, a sera tarda, Vicent ed io ci trovammo qui per parlare. Gli chiesi se fosse felice, e mi disse di sì. "Perché hai preso i voti?" gli domandai. E lui: "No. Perché so che li prenderai anche tu". Io non ero ancora certo del mio futuro, ma mi dispiaceva contraddirlo. "So che non mi lascerai" continuò lui, e poi aggiunse qualcos'altro sul bene che mi voleva e sul fatto che non avrebbe potuto sopportare di perdermi. Mi sentivo felice di una simile dichiarazione: gli dissi che anch'io provavo tutti quei sentimenti, e che mi facevo novizio soprattutto per non lasciarlo, che egli era l'unica persona buona e amica di Serven ed io volevo bene soltanto a lui.
Fui incauto, ma erano tutte cose che pensavo davvero. Vicent le travisò, le volle vedere come gli piacevano, immaginò non so cosa... e mi baciò.
– Cominciò ad arrossire. – Non mi tirai indietro. Non mi aveva mai baciato nessuno e mi piaceva che fosse lui a farlo. Ma poi Vicent mi spinse disteso sul bancone e mi si buttò sopra. Iniziò a spogliarmi. Io gli dissi che non era una cosa buona, che eravamo nella casa di Dio, che eravamo... eravamo due uomini. Non si fermò. "Tu non sei un uomo, sei il mio angelo" mi disse nei baci. Sentii che mi voleva e che era troppo più forte di me. Lo pregai, gli dissi che non me la sentivo, che avevo paura. Non mi dava ascolto. "È questo tutto il bene che mi vuoi?" gridai. "Mi vuoi violentare?" "Voglio insegnarti l'amore" mi rispose, senza preoccuparsi. Vedendo che tentavo di gridare ancora, mi tappò la bocca con la mano e continuò a spogliarmi con l'altra. Allora gli diedi un morso. Vicent allentò la presa e riuscii a scivolare giù, ma mi riprese subito mentre strisciavo via, mi schiacciò sul pavimento col suo corpo e mi abbassò i calzoni. Ma mentre egli si alzava per sollevare la sua tonaca, strisciai avanti e gli diedi un colpo con la caviglia, alla cieca. Fui fortunato perché riuscii a prenderlo in mezzo alle gambe, altrimenti non so come avrei fatto. Vicent gridò, io mi misi in piedi e corsi verso l'altare. Mi raggiunse subito. Ero troppo spaventato per pensare a dove andare, ebbi un momento di esitazione ed egli se ne approfittò per spingermi sull'altare e riprendere da dove aveva lasciato. Mi aveva bloccato. Afferrai l'ostensorio che era stato dimenticato sull'altare e lo colpii alla testa, tre volte. Vicent crollò. Vidi il sangue dappertutto e corsi via, dal priore, a chiedere aiuto.

Gregory inspirò, lentamente. – Era... era morto?
– Sì – bisbigliò Raphael. – L'avevo ucciso io. – Alzò gli occhi. – Avrei dovuto lasciarmi violentare? Io lo amavo come un fratello, e lui mi aveva tradito! I voti... i santi voti, aveva voluto che li prendessi soltanto per poter disporre di me a suo piacere! Come... come un prostituto!
– Tu non hai nessuna colpa – disse Gregory, asciugandogli le guance umide con un dito. – Non devi avere rimorsi.
Raphael si ritrasse.
– Scusami – mormorò il novizio. – Dimentico sempre che non devo toccarti.
Raphael scosse la testa, un gesto cui Gregory non seppe dare un significato preciso. – Mi credi, ora?
Gregory annuì. – E tu puoi credere che non mi lascerò manovrare come un fantoccio?
– Posso sperarlo – rispose Raph. – Sei l'unico che non mi guardi come un demonio, è già qualcosa.
Gregory gli tese la mano e aspettò finché l'altro non l'ebbe stretta. – Puoi fidarti – gli disse. Sorrise brevemente. – E sai perché?
– Dimmelo.
– Perché tu sei l'unico che non mi guardi come un pervertito. E per me non è qualcosa, è tantissimo.
Raphael scosse la testa. – Credi di essere l'unico che è finito a letto con un compagno?
– Tu...?
– No – rispose Raph, recisamente. – Ma in un monastero non ci sono donne e... non si può evitare che queste cose accadano. Tu non sei il primo e non sarai l'ultimo: soltanto, a differenza di altri, ti sei fatto scoprire. Se non fosse per questo, nessuno ti guarderebbe come ti guarda. – Scosse la testa. – E per me non farebbe comunque differenza.
Gregory giunse alla propria cella barcollando per il sonno, ma felice. Aprì la porticina, lentamente. Sul tavolo ardeva l'ultimo mozzicone di una candela. Iolan, ancora vestito, si era addormentato sul letto.
Con un sorriso, il nuovo arrivato prese dall'armadio una coperta e gliela stese sul corpo raggomitolato, badando bene di coprirlo dalla gola ai piedi nudi. Meditò come tutti potessero sembrare innocui quando il sonno li teneva stretti tra le sue braccia.
Con questo pensiero, spenta la candela, andò a coricarsi anche lui.

Iolan, invece, rimase sveglio fino al mattutino, incapace di riprender sonno adesso che Gregory l'aveva destato. Ma non era tipo da buttare il proprio tempo, neppure quello notturno, e perciò passò quelle poche ore meditando sulla giornata.
Sentiva, con un certo piacere, di attaccarsi sempre più a Gregory. Il suo compagno di stanza – il primo da tanto tempo – era una persona buona, ma aveva bisogno di una guida, di un aiuto, e Iolan era sempre stato il candidato migliore per questo. Il desiderio di aiutarlo era così forte in lui, sin dal primo momento che padre Joshua gliene aveva parlato, che adesso, dopo averlo conosciuto e studiato a fondo, il suo trasporto si andava consolidando in un affetto forte e sincero.
Da molto prima di conoscerlo, Iolan si era impegnato a rendergli più facile la "convalescenza": e la dedizione che vi metteva faceva sì che l'oggetto del suo amoroso impegno divenisse per lui la cosa più importante e grata per la quale prodigarsi. Non avrebbe visto né sentito altro, finché Gregory non avesse mostrato di aver riconquistato almeno parte della sua serenità d'animo.
Perciò fu per lui il massimo della soddisfazione scorgere quella ricercata serenità sul viso del suo protetto, allorché poté spiarlo senza timore di rivelarsi. Gregory gli apparve come un giovine Cristo nella sua intimità, quieto, puro, composto. Lo guardò spogliarsi alla luce della fiammella, lo guardò con piacere. Si permise un sorriso, peraltro nascosto dall'orlo della coperta.
Il suo bel Cristo si avviava alla guarigione? Iolan pregò che fosse così, pregò che arrivasse presto il momento in cui avrebbe potuto guardarlo e non tremare intimamente al pensiero di vederlo ricadere e, forse, non riemergere più. Pregò che arrivasse presto il momento in cui entrambi sarebbero stati liberi dal timore del desiderio, più che dal desiderio stesso.
Iolan combatteva la sua battaglia con il desiderio e la vinceva, sempre; ma dal timore non sapeva come guardarsi.
Vi stava ancora pensando quando padre Joshua batté alla porta della loro cella.

 

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Capitolo 5
*** 5. Malato nel corpo, malato nell'anima ***


Gregory
Capitolo V: "Malato nel corpo, malato nell'anima"



Serven. Mezzo inverno.
Fu verso Natale che Iolan si ammalò.
La Notte Santa era passata da pochi giorni e già ci si preparava alla nuova celebrazione che attendeva il monastero, l’ordinazione di Valerj, quando Iolan cominciò a manifestare i primi segni di un male ancora indefinito.
Dapprima soltanto Gregory ne ebbe il sospetto. Si destò una notte per averlo sentito tossire a lungo, fino agli spasmi, e sul colpo più violento, temendo che si potesse strozzare, balzò giù dal letto e si affrettò a metterlo seduto. – Tutto bene? – mormorò, spiandolo con aria preoccupata.
Iolan sorrise, affaticato, e annuì. Poi, dopo averlo rassicurato che gli era soltanto andata di traverso un po’ di saliva, si rimisero a dormire.
Ma nei giorni seguenti i sintomi perdurarono e, parve a Gregory, andarono a peggiorare. Iolan cercava di nascondere la sua malattia, portava una sciarpa di lana al collo e, quando un attacco di tosse lo coglieva, se la tirava sul naso e curvava le spalle, la mano premuta sul viso, per soffocare il rumore dei colpi. Era sempre più pallido in viso, le forze iniziavano a mancargli e faceva fatica ad alzarsi dal letto. Nella notte, Gregory lo vedeva rannicchiarsi sotto le coperte con la testa sotto il cuscino e la sciarpa, che portava anche lì, premuta sulla bocca quasi fino a soffocarsi.
La sera in cui Valerj prese i voti, Gregory aveva tentato di dissuaderlo in tutti i modi dal proposito di andare. – Tu stai male, Iolan, e fuori piove così tanto da inzupparti fin dentro le ossa! Resta qui, ti terrò compagnia io.
Iolan aveva scosso la testa. – L’ho promesso a Valerj, io devo essere presente – aveva mormorato, con voce rauca. – Mi coprirò bene. Non posso mancare, il mio fratello se ne risentirebbe troppo… – E giù a tossire, ancora una volta.
Ma almeno non era una tosse sanguigna. Gregory controllava tutti i suoi fazzoletti, lo osservava bene quando aveva le sue crisi, e non una goccia rossa sprizzava dalle sue labbra: questo lo faceva sentir meglio. Non se ne intendeva di medicina, ma sapeva che l’assenza di sangue escludeva il sospetto della tisi, la sua prima e più orribile paura. Iolan era l’unico di Serven che accettasse di prestar soccorso ai tisici di Widefield, quei pochi che vivevano relegati lontano, nella boscaglia, temuti peggio dei lebbrosi, e che di certo senza una minima assistenza sarebbero morti assai prima di quelli. Se non avesse fatto attenzione, prima o poi il morbo avrebbe colpito anche lui.
Quale che fosse il suo male, Iolan si recò alla celebrazione. Gregory gli stava vicino, non lo lasciava un attimo, lo guardava con l’ansia di una madre premurosa. In quel mese aveva imparato ad affezionarsi a lui e alle sue fissazioni, e come compagno di stanza non avrebbe voluto cambiarlo con nessun altro a Serven (con una sola eccezione). – Come ti senti? – gli chiese, per la quinta o sesta volta, all’ingresso della cappella.
Iolan lo guardò con gli occhi ricolmi di affetto. – Come prima, fratello.
– Forse, se ne parlassi con padre Nathaniel…
– Ne abbiamo già discusso, io… – tossì brevemente – io non ho bisogno di un medico. È solo un po’ di tosse… passerà presto. – Le ultime parole si spensero in un sussurro fioco, e Gregory le udì appena.
Seguì la celebrazione senza trasporto: ne aveva viste tante, da quando era entrato a San Gloriano, da non contarle più. Ma si sentì felice per Valerj, anche se per lui non aveva molta simpatia. Vedeva nei suoi occhi celesti una soddisfazione pura e una gioia sincera. Il suo sguardo pareva andare oltre l’altare, a congiungersi direttamente con il Dio al quale adesso, finalmente, poteva consacrarsi.
Guardò Iolan, aspettandosi di vederlo altrettanto felice, sia per Valerj, sia per la sua prossima ordinazione. Il suo compagno di stanza sorrideva, proteso in avanti, ma aveva il viso tirato e le labbra più pallide del solito. – Iolan? – bisbigliò.
– È… bellissimo, non credi? – mormorò lui.
In quel momento dovettero alzarsi. Iolan si tirò su, lentamente, appoggiò i palmi sull’inginocchiatoio e prese un respiro, a fatica. Poi, senza preavviso e senza una parola, crollò svenuto.
– Iolan! – gridò Gregory, e la sua voce rimbalzò e rimbombò infinitamente per la cappella.
Lo portò in infermeria di peso, lui stesso, tanto poco Iolan gli gravava tra le braccia. Lì padre Nathaniel, il medico, scoprì che non solo il poverino era affetto da una forma particolarmente violenta di tosse maligna, ma la lunga trascuratezza e la salute di per sé cagionevole avevano facilitato il sopraggiungere della febbre.
Spiegò tutte queste cose a Gregory solo e a padre Joshua, perché tutti gli altri erano dovuti tornare in cappella per la cerimonia.
– Gregory, tu lo sapevi? – gli chiese poi, togliendosi gli occhialetti dal naso. – Sapevi che stava così male?
Il novizio annuì. – Gli ho detto tante volte di venire da voi, padre, ma si è rifiutato. Diceva che preferiva così.
– Preferiva star male? – chiese padre Nathaniel, sollevando le sopracciglia.
– Una mortificazione – interloquì padre Joshua, seccamente. – È lodevole che abbia preferito sopportare in silenzio il suo male, invece di cercare subito un facile ristoro.
– Fratello, non venite a dirmi che è lodevole rischiare così la vita – ribatté il medico. – È da incoscienti, quantomeno…
– La vita? – sussurrò Gregory. – Rischia la vita?
– … gli sarebbe bastato venire da me e farsi controllare. Sulle cure si sarebbe potuto discutere…
– Vedo che tu non capisci, Nathaniel – replicò padre Joshua, usando il tono pacato e freddo che Gregory aveva imparato a temere sopra ogni cosa. – Il mio allievo ha inteso questo male come una prova del cielo e l’ha affrontato da solo, senza disturbare nessuno. È il compito di ogni buon cristiano e buon monaco accettare ciò che il Signore manda, in male e in bene. O non è forse così?
Il medico inspirò ed espirò, dominandosi: su questo punto dovevano essersi confrontati molte altre volte, non senza aspra collera. – Sia quello sia – disse, – adesso dobbiamo pensare a questo ragazzo.
– Padre, vi prego – interloquì Gregory, ancora una volta, – poco fa avete parlato di rischiare la vita. È così? C’è pericolo?
– Non è così grave – rispose padre Nathaniel, – ma a trascurarla ancora sarebbe diventata una cosa seria. Già adesso non è da sottovalutare. Ora, quando si sarà ripreso, chiederò a padre Roderick di procurarmi uno dei suoi decotti fluidificanti e per prima cosa glielo daremo. Poi lo metteremo a letto. Occorrerà un adeguato riscaldamento. Per l’occasione sarà necessario procurare una piccola stufa: dobbiamo averne ancora qualcuna, se ricordo bene. E soprattutto…
– E soprattutto, non devi azzardarti a uscire dalla porta di questa cella – disse Gregory, in tono minaccioso. – Se solo ci provi, giuro che…
– Che? – sorrise Iolan, tirandosi le coperte fin sopra il naso.
– Che prendo quella tua sciarpa e ti ci impicco – concluse il compagno.
– Bene – mormorò il malato, – allora quando avrò voglia di morire saprò cosa fare.
– Mi chiedo se non ti fosse venuta davvero, la voglia – disse Gregory, corrucciato. – Questa testardaggine di non farti curare da dov’è t’è nata?
– M’è nata, m’è nata… non lo so da dove… è che non mi piace fare il malato…
– Bene, adesso lo farai per forza – replicò Gregory.
Iolan chiuse gli occhi, li riaprì. – Mi sono rassegnato. Ma tu non stare qui, va’ a vedere la fine della celebrazione, tu che puoi…
– Non se ne parla neanche – ribatté Gregory. – Padre Nathaniel mi ha eletto tuo infermiere personale, e in quanto tale veglio su di te.
– Io non ti voglio dare questo disturbo – disse Iolan, debolmente.
– Non è un disturbo, io sono contento.
– Davvero?
– Davvero.
Iolan si tappò la mano con forza per soffocare un nuovo accesso di tosse, ma quello fu più violento del previsto e lo squassò così forte da sembrare che dovesse farlo saltare dal letto. Subito Gregory gli porse un bicchiere d’acqua per calmare il bruciore alla gola.
– Va meglio? – gli chiese, preoccupato.
Quello mosse il capo su e giù, appena appena, e tornò sotto le coperte. – Allora… – sussurrò, schiarendosi dolorosamente la voce, – se non ti secca, mi prenderesti un’altra coperta? Mi sembra di congelare, qua sotto.
E dopo che Gregory gliel’ebbe sistemata per bene, fissandone un lato nella fessura con il muro e rimboccandone l’orlo appena sotto la sua gola, mandò un sospiro e disse di sentirsi già meglio.
– C’è almeno una cosa buona in questa mia malattia – soggiunse poi, socchiudendo le palpebre stanche. – Anche tu puoi godere di questo riscaldamento supplementare.
– E perché credi che abbia accettato di assisterti? – replicò Gregory, stendendo una mano verso la piccola stufetta a legna che ardeva lì accanto.
Iolan lo guardò da sotto in su, accigliato.
– Scherzavo – lo rassicurò l’amico, con un sorriso.
Nel tempo in cui Iolan rimase a letto malato, Gregory scomparve per il monastero e per Raphael, completamente assorbito dal suo impegno di infermiere. E se per il primo non si dispiaceva più di tanto, per il secondo si doleva molto. Non poteva vederlo, né parlare con lui, perché passava in cella tutta la giornata, tranne le volte in cui andava in cucina a prendere da mangiare per sé e per il compagno: alla lunga Raphael fece in modo di farsi trovare sulla strada, per poterlo salutare. Ma erano incontri rapidi e quasi furtivi, resi ancora più frettolosi dal pensiero di chi attendeva, sopra, al secondo piano, e non davano piacere a nessuno dei due. In quel periodo, che durò all’incirca due settimane, Gregory si ripromise di dedicargli in futuro tutto il tempo che gli aveva negato.
– Come sta? – gli chiedeva il ragazzo ogni volta, e forse non tanto per conoscere le condizioni di Iolan, quanto perché da queste dipendeva la “liberazione” di Gregory.
– Meglio – rispondeva lui, o – Come al solito – a seconda dei casi.
Una volta, vedendolo particolarmente sconfortato, aggiunse a bassa voce: – Presto tornerò sui meli con te – e riuscì a farlo sorridere.
– Presto, dici? – replicò Raphael.
– Presto – confermò lui.
Ci fu solo un’eccezione alla stretta assistenza che Gregory prodigava al malato. Una sera, poco prima di cena, padre Nathaniel salì a controllare le condizioni di Iolan come faceva ogni giorno, e gli disse che non aveva altri pazienti, perciò poteva rimanere a tenergli compagnia. – Vai pure a mangiare con gli altri, Gregory – concluse il giovane medico. – Farai la muffa, se resti sempre qui.
Gregory annuì, contento di lasciare la cella per un’oretta, e soprattutto reso allegro dal pensiero che avrebbe di nuovo conversato con Raphael. Lo intercettò in sala da pranzo, prima di sedersi.
Il saluto del ragazzo gli parve un po’ sbiadito. – Vai in cucina a prendere la cena?
– No. – Sorrise. – Mangio con voi.
Gli occhi di Raphael si rianimarono. – Santa Brigida, un miracolo! – sussurrò.
– Stupido, non bestemmiare. – Alzò la mano per fargli una carezza – quanto gli era mancato il morbido dei suoi capelli sotto le mani! – ma la ritirò in tempo. Non erano soli. – Dopo cena siamo insieme, d’accordo?
– Sarò tutto tuo – promise Raphael.
Un’altra di queste espressioni, e il povero cuore di Gregory si sarebbe logorato dal troppo battere.
A cena, Kristen sedette accanto a lui. – Come sta Iolan? – gli domandò in un soffio.
– Così così – mormorò in risposta. – Stabile. Padre Nathaniel è ottimista.
– Dagli questo, intesi? – Gli passò un involto sotto il tavolo. – Da parte mia e di Valerj.
Dopo, quando tutti si furono avviati verso la cappella per la compieta, Gregory si staccò dal gruppo e sgattaiolò verso la serra. La porticina non era mai chiusa a chiave. Entrò trattenendo fino allo spasimo il cigolio dei cardini poco oliati.
– Non sai fare meno rumore, vero? – bisbigliò Raph alle sue spalle.
– Richiudila tu, se sei tanto bravo! – sibilò.
Da uno dei cassettoni dell’armadio trassero fuori due coperte. Una la stesero sul pavimento, vicino al muro della serra, ci si sedettero sopra, e l’altra se la drappeggiarono addosso per ripararsi dal freddo. L’inverno era impietoso, quell’anno.
– Un giorno o l’altro ci scopriranno – mormorò Gregory. Era inquieto, ma non per la preoccupazione, piuttosto per l’euforia di riavere Raph accanto dopo tanto tempo. Si voltò, non lo vedeva. Era buio pesto.
– Gregory, che fai? – gli giunse la voce di Raphael, agitatissima.
– Che faccio? – mormorò, senza capire. Alzò una mano, sfiorandogli il viso.
– Non mi toccare! – ansimò Raphael. – Dio mio, che disgusto! – e si tirò via dalla coperta, saltando in piedi.
Gregory ristette. – Non so di cosa parli. È uno scherzo?
– Uno scherzo! – ansimò Raph. – Lo so io di cosa parlo! Che schifo! Sei… sei uguale a lui… Dio mio… – La sua voce prese a tremare. – Io… io vado via!
– Aspetta! – Lo afferrò per una caviglia, disperatamente. – Ti giuro che non so di cosa parli, Raph, ti prego!
– Ah, non lo sai? Non ti accorgi neppure di aver il… il coso, sì, l’uccello in tiro! Mollami!
Gregory spalancò gli occhi. Tuffò la mano libera sotto la coperta e tastò, attonito: subito si rasserenò, e gli scappò genuina una grossa risata. – Ma che uccello e uccello! – rise. – Vieni qui, vieni a vedere che cosa hai sentito!
Raphael deglutì. – Giura che non mi tocchi.
– Tieni. Te lo sto tendendo. Allunga una mano e prendilo.
Era il pacchetto di Kristen. – Ma… ma cos’è? – mormorò Raphael.
– Non lo so, me l’ha dato Kristen. Vieni a sederti, dai.
Il ragazzo tornò giù, lentamente. Anche nel buio Gregory capì che era tremendamente imbarazzato. – Mi… mi dispiace – bofonchiò.
– Che stupido sei – disse Gregory, con tenerezza.
– Mi perdoni?
– Certo. – Lo attirò più vicino e gli depose un bacio in fronte. Per tutta risposta, Raphael emise un sospiro e lo abbracciò.
– Scusami, scusami, scusami – mormorò. – Ho pensato a Vicent…
– L’avevo capito. Non ti imbarazzare. – Prese il pacchetto. – Piuttosto vediamo com’è fatto questo… uhm… uccello…
– Vediamo, è una parola. Non si vede nulla.
– Sembra… mah… – lo scartò pensosamente, – vetro… una bottiglietta…
– C’è un tappo… – sussurrò Raphael, tastandolo a sua volta. – Perché te l’ha dato?
– È un regalo per Iolan. – Gregory esitò. – Forse non dovremmo curiosare. È roba sua.
– Be’… non lo stiamo mica rompendo. Poi rimettiamo tutto a posto.
– Cosa sarà?
– Conoscendo Iolan, scommetterei qualche reliquia strana. Magari sangue di qualche santo…
– No, – replicò Gregory, agitando la bottiglietta, – è liquido, senti?
– Appunto: se non coagula, significa che è sangue di un santo.
– Ma chi te le mette in testa, queste idiozie?
– Ah! Chi è adesso il bestemmiatore?
– Secondo te se quei due avessero reliquie sante se le passerebbero di nascosto? Iolan la consegnerebbe subito al priore.
Un attimo di silenzio. – Tu lo conosci bene, vero?
– Abbastanza – rispose Gregory.
– Già – disse Raphael, secco.
Ancora silenzio.
– Ti infastidisce?
– Chi ti ha detto niente.
– Non mi rispondi?
– Non ce n’è bisogno.
– Se ti infastidisce, puoi dirmelo.
– Che differenza farebbe?
– Lo saprei. E ne sarei felice.
– La risposta è no.
Rimasero abbracciati, in silenzio. Inquieti. Gregory carezzava i capelli di Raphael, un gesto rilassante per entrambi. – So che non andate d’accordo, ma con me è sempre stato gentile – provò, senza troppe speranze.
– È una serpe – tagliò Raphael.
– Non con me.
– Serpe è e serpe rimane. Un rettile non può diventare un uomo.
– Non essere offensivo. – Accostò le labbra ai suoi capelli. – Gli voglio bene, ma è la tua compagnia che preferisco. E lo sai. Tu sei l’unico che mi fa stare tranquillo… che non mi mette a disagio. Tu sei il mio angelo.
Troppo tardi si rese conto di ciò che aveva detto. Raphael lo lasciò, agitato, e si allontanò da lui.
– Perdonami, ti prego – mormorò Gregory. – Perdonami, e fa’ conto che io non l’abbia mai detto. Mai detto. Sono stato uno stupido.
Raphael non parlò.
– Ti prego, Raphael, non fare così…
– Cosa dovrei fare? – ansimò il ragazzo, con voce strozzata. – Oggi è la seconda volta che mi ricordi lui!
– Ma non per mia colpa! – ribatté Gregory. – Lo sai che prima di farti del male mi taglierei un braccio! Raph? Lo sai o no?
– Io so solo che a volte mi fai paura.
Gregory strinse i denti: sentirgli dire quelle parole era penoso. – Perché? – riuscì soltanto a mormorare.
– Non lo so, non lo so…
– Raphael, io non sono lui… Io non faccio del male a chi amo!
– E adesso mi dirai che mi ami! – replicò Raphael, rabbioso.
– Sì, te lo dico: ti amo. Come un fratello.
– Anche Evan amavi come un fratello! E te lo sei portato a letto!
Silenzio.
– Scusami.
– Me ne vado a letto.
– No, no, ti prego… ti prego, Gregory, resta qui. – Si aggrappò alla sua mano, poi, vedendo che non faceva una piega, gli cinse le gambe con le braccia e gli impedì di muoversi. – Ti prego – ripeté, con voce disperata. – Parliamone!
Gregory sospirò, ma sapeva già che avrebbe acconsentito. Non poteva negargli nulla. Tornò a sedersi, e Raphael gli sistemò sulle gambe la coperta, rannicchiandosi al suo fianco, scoperto.
L’aveva fatto apposta. Gregory se lo tirò più vicino e allungò la coperta sul suo corpo, avvolgendolo con le braccia. – Hai paura che io ti voglia portare a letto? – mormorò, pacato.
La risposta di Raphael fu strana. – Ho paura che tu non voglia altro da me.
– Così mi giudichi?
– No. No, e non lo penso mai. Ma a volte… a volte mi fai pensare a Vicent. Non ti adirare!
– Non sono adirato. Ma se non ti fidi di me, forse è meglio… – esitò – è meglio se smettiamo di vederci di nascosto. Qui non ti potrebbe difendere nessuno.
– Difendere… da te? – bisbigliò Raph.
– Già.
– Io non voglio che qualcuno mi difenda da te!
– Hai o non hai paura di me?
– Non ho paura che tu mi violenti – mormorò Raphael, con decisione. – Solo prima, quando ho sentito… quella cosa… ma chiunque avrebbe avuto paura al mio posto! Io non ho paura che tu mi violenti – ripeté. – Ho paura che tu mi… mi sia diventato amico solo per portarmi a letto e poi… e poi, quando mi avrai avuto, mi butterai via. Solo di questo ho paura. – E poi, a voler fugare qualsiasi dubbio sulla ragione di questi timori, chiarì: – Non voglio perdere il mio amico. Non voglio che tu mi faccia schifo come gli altri. Poi… sarei di nuovo solo.
Gregory lo abbracciò, forte, sentendosi pervadere d’affetto per quella creatura così tenera, insicura, che riversava su di lui il suo amore tremante. – No. Non voglio questo, non l’ho mai voluto. Ti voglio come amico, solo come amico, ma se ti volessi per amante… non mi accontenterei del tuo corpo, Raphael. Mi prenderei tutto, anche il tuo cuore. Non dubitare di questo.
– Mi ami?
– Come un fratello.
Raphael si accucciò contro il suo petto e tacque, rasserenato. – Mi perdoni?
– Certo – rispose Gregory, stancamente. E in silenzio riprese ad accarezzargli il capo.

Il pacchetto di Kristen era, semplicemente, una bottiglietta di vino rosso. Lui e Valerj – Valerj più riluttante, visto che la sua recente ordinazione lo gonfiava di scrupoli per le regole – ne avevano rubato un po’ dalle cantine del monastero, quanto poteva essere nascosto dentro il saio. Era di un’annata particolare, una rarità che il monastero serbava per gli ospiti importanti.
Al rifiuto di Gregory di prenderne un po’, Iolan si portò la bottiglia alle labbra con un sorriso.
– I miei fratelli, – sussurrò, raggiante, – sanno che questa è la cosa che mi piace di più.
Pensando a cosa Raphael aveva creduto che fosse, gli riuscì naturale scoppiare in una grassa, genuina risata.

Quella notte, come altre notti, lo svegliò il tossire di Iolan. Il giovane tentava di soffocarlo in tutti i modi, per tema di disturbarlo, ma Gregory aveva il sonno leggero e si destò comunque. Si alzò e gli andò vicino. – Vuoi un po’ d’acqua? – sussurrò.
Iolan annuì, si tirò su appena per bere e subito sprofondò tra le lenzuola, tremando forte.
– Hai freddo? – mormorò Gregory. Andò nell’armadio, non c’erano più coperte. Tolse quella del suo letto e gliela drappeggiò sul corpo.
– No… – bisbigliò il malato. – Morirai di freddo così…
– Mi rivestirò – rispose Gregory, tranquillo. – Dormi, non ti preoccupare.
– No, Gregory, non voglio… – insistette Iolan. – Riprenditela… – E si tirò a sedere, tentando di spostare la coperta che altrimenti, ne era certo, il compagno non si sarebbe mai ripresa.
Ma Gregory non solo rifiutò, gli disse anche che se avesse buttato giù quella coperta lui l’avrebbe lasciata lì, e non ne avrebbe beneficiato nessuno dei due. E allora Iolan gli disse: – Vieni nel mio letto… così non soffrirai il freddo.
Gregory esitò, spiazzato. – Sei sicuro?
Iolan lo guardò con aria stanca. – Sì.
L’ex di San Gloriano, spinto forse dal freddo che aveva iniziato a far sentire i primi morsi, rassicurato dall’amicizia che avevano conservato cristallina fino a quel momento, mai turbata da pensieri meno che limpidi, gli disse di farsi un po’ in là ed entrò con cautela sotto le lenzuola. Dentro era un fuoco, un po’ per le numerose coperte ammonticchiate l’una sull’altra, un po’ per la febbre di Iolan; calore che gli riusciva piacevolissimo, dopo il gelo della cella.
– Senti ancora freddo? – gli chiese.
La brandina era stretta e non potevano fare a meno di stare uno addosso all’altro: una novità, rispetto alle consuetudini del monastero, ma Iolan pareva troppo stanco per imbarazzarsi.
– No – rispose, accucciandosi contro il suo petto.
Gregory, che non sapeva dove mettere le braccia né poteva voltarsi supino, gli passò il braccio destro sulla vita e lo lasciò lì, delicatamente. – Scusami – mormorò, – non so dove…
– Lascialo – disse Iolan, con voce assonnata, e si fece, se possibile, ancora più vicino. Fece come aveva fatto lui, gli passò il braccio intorno alla vita, e così abbracciato a Gregory emise un lieve sospiro. – Si sta bene, qui, così bene…
La notte seguente, prima di addormentarsi, Iolan gli disse: – Non vuoi dormire qui? – Stavolta c’era dell’imbarazzo nella sua voce, ma la premura era sincera. – È più caldo.
Ripensando alla sera prima, e alla serenità con la quale avevano affrontato la stretta vicinanza, Gregory si disse che non c’era nulla di male. Assentì e si infilò nel suo letto.
Il sonno tardò a venire. – Devi annoiarti parecchio, sempre in questa cella – mormorò Iolan, senza farsi avanti ad abbracciarlo.
Gregory gli posò il braccio sulla vita come la sera prima, tranquillo. – Non ti preoccupare. Leggo molto, mi aiuta a pensare. E poi mi dispensa dallo spaccar legna, non è un bel guadagno questo?
Iolan rise appena, lievemente. Mise il braccio dove l’aveva messo lui e alzò gli occhi. – Sei molto caro – bisbigliò. – Non è facile starmi accanto, io lo so bene…
– Non è facile neppure stare accanto a me – replicò Gregory, – ma mi sembra che noi due ci sopportiamo bene a vicenda, no?
– Sì, molto bene – sorrise Iolan. – Oh, Gregory, sono felice che il tempo mi abbia dato modo di conoscerti. Sei così diverso da come ti avevano descritto…
Gregory sorrise: ormai la confidenza permetteva loro anche di scherzare su quell’argomento doloroso. – Un giovane pervertito privo di pudore e di morale…
– Ma tu non sei così, grazie a Dio – bisbigliò il malato.
– Grazie a Dio – gli fece eco Gregory.
– Sai, io… io all’inizio temevo che tu fossi davvero come ti avevano dipinto. Mi inquietavi, eri sempre così agitato e nervoso…
– I primi tempi non sono stati facili per me, Iolan.
– Lo so, lo so… ma poi, in questo mese, il tempo mi ha permesso di vedere come sei davvero, quale meravigliosa creatura di Dio mi sia stata posta sulla strada… Ringrazio ogni notte per questo magnifico dono, lo sai? Per averti conosciuto…
Sorrise, imbarazzato. – Non esagerare, ti prego.
– No… non dico mai nulla che non pensi… E se ti dico che ti amo… io… – Sollevò il mento e lo baciò sulla bocca. Solo un istante, bastò che le loro labbra premessero così brevemente e Gregory poté intuire perché il suo compagno avesse tanto timore a toccarlo, e perché insistesse tanto sulle mortificazioni corporali. Usa il dolore come distrazione, si disse, spalancando gli occhi.
– Iolan – bisbigliò, chiudendogli la bocca con il palmo della mano. – Che… che fai?
Il novizio si scostò, ma non del tutto, abbassando gli occhi. – Scusami, io… io…
– È la febbre – mormorò Gregory. – Non sei lucido.
– Come posso esserlo, se la tua vicinanza mi procura queste… queste… – E si voltò verso il muro, perché il contatto non potesse più mostrare al compagno l’evidenza del suo desiderio. – Perdonami, ti prego.
Gregory rimase a lungo in silenzio, confuso. Non aveva mai pensato di poter divenire l’oggetto dei desideri di Iolan. Sì, aveva intuito che il passato del suo compagno di stanza recava di queste macchie, che più d’una volta v’era caduto e se ne tormentava ancora, ma rimanervi impigliato proprio lui…! Gregory non si riteneva bello né desiderabile, né per uomini né per donne, si considerava fondamentalmente una bellezza mediocre e come tale si reputava al sicuro da infatuazioni moleste.
Ma forse, si disse, qui la bellezza non c’entra molto.
– Non ti preoccupare – mormorò, tranquillo. – Non è niente.
Iolan si voltò, tenendosi il più possibile vicino al muro. – Mi dispiace – sussurrò, con voce prossima alle lacrime. – Io… io non…
– Lo so, Iolan. Lo so bene, credimi. – Doveva esser lui, adesso, a fare da guida spirituale al suo amico? Gregory non ne sarebbe mai stato capace, perché non ne aveva l’addestramento e perché non si sentiva abbastanza forte da guidare se stesso, figurarsi un altro. E in fondo, molto in fondo al suo animo, dove a malapena sarebbe riuscito a leggere, e non subito, sentiva del disgusto per ciò che aveva provocato nell’amico, per il suo desiderio che aveva sentito premere proprio lì, dove una volta, molto più piacevolmente, aveva accolto quello di Evan. – È meglio che dorma nel mio letto, adesso.
– Non succederà più, te lo giuro – mormorò Iolan, con voce implorante. – Puoi restare, io non…
– Credimi, è meglio così.
Quella notte non chiuse occhio.
Fu quell’episodio a decretare l’incrinatura della loro amicizia? Gregory non lo sapeva. Sapeva soltanto che adesso il turbamento di quella notte gli si ripresentava immutato ogni volta che guardava Iolan, ogni volta che si parlavano.
Non voleva essere l’oggetto del suo desiderio. Ne aveva… sì, ne aveva ribrezzo. Non osò confessarselo mai, ma era così.
Ma d’altro canto fu un bene, perché gli permise di dedicare finalmente il suo tempo libero all’unica altra persona che avesse cara a Serven. Malamente nascosti tra i rami spogli di un melo, diceva a Raphael proprio questo.
– Ti ho dedicato troppo poco tempo, lo so, me ne rendo conto e me ne accorgevo anche prima, ma non potevo fare altrimenti. Iolan aveva bisogno di me.
– È giusto, lo capisco. – Un ciuffo adorabile gli cadde sul naso. Inutilmente Raphael cercò di allontanarlo con uno sbuffo.
Voleva toccarlo. Voleva scostargli quel filo d’oro soffice dal viso. Alzò la mano… e la posò sul ramo lì accanto, rassegnato. – Che cos’hai fatto in questo tempo senza di me?
Raphael sorrise. – Ti ho aspettato.
Come dirgli quella cosa bellissima e terribile che il gesto di Iolan gli aveva fatto maturare e capire, che gli aveva reso finalmente chiara?
Come dirgli che in quel letto, nel caldo della lenzuola, lui avrebbe voluto… oh, soltanto poterlo fare…
Il prezzo era troppo alto, e il suo povero cuore non poteva permettersi di pagarlo. – L’attesa è finita – mormorò, con un sorriso rassegnato.

– Permettimi di spiegarti, ti supplico.
Gregory scosse la testa. – Ne abbiamo già parlato.
– Non abbastanza. Non… lucidamente. Ti prego, solo una parola e ti lascerò andare.
Le mani ficcate nella sua sacca, Gregory si profuse in un lento sospiro. – Dimmi – mormorò, ma senza voltarsi.
– Non ti tratterrò se vuoi cambiare camera, io… io lo capisco. Non posso volertene. Ma ti prego… Gregory, per il bene che mi vuoi, se me ne vuoi un po’, almeno non uscire da quella porta senza guardarmi in faccia. – Silenzio. – Voltati, ti prego.
Gregory obbedì. – Iolan…
– No. Ascoltami. Tutto il disgusto e il ribrezzo che provi per me, credimi, non è neanche un decimo di quello che io provo per me stesso. Per ciò che ti ho fatto… per l’orrore che ti ho fatto vivere. Mi dispiace, io non ho parole, non so come sia potuto accadere. Non… non è stato premeditato. Quando ti ho proposto di dormire nel mio letto, l’ho fatto con i migliori intenti, e mai… mai, giuro, con il proposito di indurti in tentazione. Puoi credermi almeno in questo?
– Iolan – mormorò Gregory. – Io ti voglio bene e tu lo sai. Ti credo. Ma proprio perché ti voglio bene e ti credo, so anche meglio di te che se resto tutto andrà peggio. Perché la questione è una sola. – Si avvicinò, sino a inginocchiarsi sul pavimento, di fronte a lui seduto sul letto. – Tu mi desideri?
Iolan deglutì. Chinò il capo e annuì, tra i singhiozzi.
– E allora lo vedi, non posso restare. – Gli posò le mani sulle spalle. – Tu non mi provochi disgusto né ribrezzo. Ci sono passato anch’io, lo sai, ho amato un mio coetaneo e non mi sovviene mai disgusto al pensiero. Ma tu questo non lo accetterai mai. Che il desiderio sia umano. Non lo accetti. E se resto qui ti farò impazzire. – Ritirò le mani. – È colpa mia, perché se l’avessi capito prima ti avrei risparmiato tanta sofferenza. Mi dispiace, Iolan.
Raccolse la sacca dal letto pulito e in ordine, vi ficcò dentro gli ultimi fogli e poi andò alla porta. – Mi dispiace – sussurrò un’ultima volta, prima di uscire.
 

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Capitolo 6
*** 6. Schiavi! ***


Gregory
Capitolo VI: "Schiavi!"


 

Widefield, due mesi dopo. Sul finire dell’inverno.
– Quello che ancora non capisco è perché abbiano mandato noi.
Raphael inarcò un sopracciglio. – Quello che tu non capisci è perché abbiano mandato me – puntualizzò. – Tu sei abituato a questi viaggi.
– Può darsi – concesse Gregory. – Ma io sono a Serven solo da tre mesi, e questo è un compito importante.
– No. Questo è un compito seccante – disse Raphael, scuotendo la testa bionda. – Te l’assicuro, acquistare le scorte per il monastero non è né divertente né impegnativo… soltanto molto, molto noioso. Ma già, sto parlando con l’aiutante del maestro bibliotecario…
Gregory corrugò la fronte. – E ora cosa vorresti dire? L’aiutante del maestro bibliotecario due giorni fa ha rischiato di rompersi una gamba, cadendo da uno dei meli dell’orto!
– Te la sei rotta? No. Devi ancora migliorare – lo rimbeccò Raphael, e fece per aggiungere qualcos’altro, ma uno scossone più forte del carro su cui viaggiavano gli fece mordere la lingua.
Gregory scosse la testa, nel tono di disapprovazione del fratello maggiore. – Come si chiama il mercante? Jan…?
– Ian Karsalt – rispose Raphael, in tono distratto. Le parole gli uscirono dalle labbra in uno sbuffo di vapore caldo ed evanescente. Si strinse il mantello intorno alle spalle, tremando un poco. – Questo inverno sembra non finire mai – mormorò, seccato. – Vorrei tanto un fuoco.
Gregory gli sorrise affettuosamente. – Fra poco ci scalderemo. Vedi? Siamo arrivati.
Il villaggio di Widefield riposava in una larga campagna erbosa, quasi alle porte di un piccolo boschetto ben noto ai monaci di Serven, perché ricco di piante medicinali e funghi curativi. Era un piccolo agglomerato di case contadine a pianta quadrata, le due vie principali che si intersecavano ad angolo retto nella piazza del mercato. Piccole viuzze ombrose si snodavano per i quattro rioni del paese e separavano un edificio dall’altro, la fucina del fabbro dalla bottega del fioraio, la casetta silenziosa di una vedova da quella turbolenta di una famiglia carica di bambini; tutt’intorno alla piccola piazza, un cerchio di bancarelle ravvivava il marrone dominante del terriccio e del legno delle casupole con i suoi padiglioni variopinti.
Quella mattina era giorno di mercato, come testimoniava la calca nervosa che ingombrava la piazza, eppure Gregory si era aspettato una folla molto più numerosa, per vari motivi ma soprattutto per uno. Widefield non era che un puntino in tutto il regno, però in quella regione montuosa, in gran parte isolata, era uno dei pochissimi centri d’affluenza dei mercanti della zona, che si riunivano lì soltanto una volta al mese. Gregory era partito da Serven con il timore di dover affrontare una moltitudine dieci volte più grande.
Meglio così, si disse. Scrollò le spalle e accantonò il problema come ozioso.
Arrivati quasi fin dentro la piazza, Gregory tirò le redini e scese dal carro con un salto un po’ troppo agile per uno che si era quasi rotto una gamba due giorni prima. – Aspettami. Faccio in un attimo.
Raphael si inalberò. – Stai scherzando? Sono un pezzo di ghiaccio! – E così dicendo si sporse oltre il sedile e gli posò le mani ai lati del collo, per fargli sentire quanto fossero gelate. Ma anche il viso di Gregory era gelato a causa delle continue sferzate di vento, e il più grande non fece una piega.
– Stai qui e aspettami – ripeté. – Non possiamo lasciare il carro incustodito. Cercherò di sbrigarmi, te lo prometto.
Raphael mise il broncio, ma non disse più nulla.
Considerandolo un assenso, Gregory si allontanò in direzione della piazza e si tuffò nella folla. Non fu facile districarsi in quella massa di persone nervose che sembravano fare a gara a chi gridava più forte, soprattutto per lui così abituato alla serenità e al silenzio del monastero; comunque, dopo urti, spintoni e varie bestemmie che lo fecero arrossire come un ragazzino, Gregory riuscì a raggiungere il padiglione di Ian Karsalt.
Era il più grande e il più ricco di tutti, molto più appariscente degli altri, e ben riconoscibile per il drappo di stoffa infisso su un bastone a mo’ di stendardo, con disegnata sopra quella che doveva essere una faccia larga con un bel sorriso invitante, anche se pareva più che altro uno sgorbio afflitto da qualche orribile malformazione.
Karsalt era un tipo singolarissimo. Un individuo bene in carne – fatto più unico che raro, di quei tempi – con una serie di denti storti e anneriti che si ostinava a mettere in mostra sorridendo in continuazione, due mani grassocce dalle unghie mangiucchiate, e capelli unticci, in gran parte falcidiati da una calvizie precoce. Ciò che colpiva maggiormente di lui erano gli abiti, che quanto a colori sembravano voler gareggiare con i padiglioni della piazza: una serie di camicie una sopra l’altra, arancione, rossa, gialla e infine blu, malgrado il gelo aperte sul davanti a mostrare il petto villoso, un paio di calzoni ampi rosso fuoco, delle scarpe di cuoio tinte in oro con la punta arricciata, e infine, in testa, una specie di grossa ciambella a raggi blu, rossi e arancioni, che si incontravano al centro in una punta gialla.
Gregory rimase particolarmente colpito da Ian Karsalt, e sicuramente non era il primo a cui il mercante faceva questo effetto. Ma, in particolare, rimase colpito dall’abbondanza di anelli massicci di cui aveva piene le dita. Si chiese perché un uomo così ricco non potesse spendere qualche soldo per far ridipingere il proprio stendardo… poi lo riguardò meglio e si rese conto che c’era una netta somiglianza tra il disegno sgorbio e la faccia del mercante. Si coprì la mano con la bocca per impedirsi di ridere, perché Karsalt lo stava guardando.
– Oh! Un fraticello! – esclamò il mercante, tutto gioioso, mettendo ancora una volta in mostra la sua orribile dentatura. – In che posso servirti, fratello?
– Vengo da parte del monastero di Serven – disse Gregory, chinandosi un poco sul banco del mercante per farsi sentire al disopra della folla urlante. – Devo acquistare le provvigioni per la primavera.
– Certo, certo! Come al solito, eh?
Gregory si frugò all’interno del saio. – Ecco – disse alla fine, traendo fuori un biglietto. – Questo è l’occorrente.
– Non serve, non serve! Ricordo tutto, io! – E prese ad elencare, una per una, le provvigioni che il priore aveva annotato nel biglietto, nelle quantità esatte. Alla fine gli fece un sorriso più largo del solito. – È giusto, eh? Io non dimentico mai niente! Ho un’ottima memoria, io!
Gregory annuì. – Sì, è tutto giusto. Complimenti. – Esitò, poi disse, in tono cauto: – Il priore mi aveva assicurato che ci avreste fatto trovare la merce già pronta…
– Ma certo! Potrai venire tu stesso a controllare, fratello! Io non ho mai imbrogliato nessuno, figuriamoci poi dei santi monaci… Adesso si tratta soltanto di saldare il conto e siamo d’accordo. – Si schiarì la voce. – Il tutto ammonta a…
Gregory impallidì. Voltò il biglietto, dove padre Ferdinand si era premurato di annotare anche la somma sborsata l’ultima volta: la cifra coincideva. – Ma è un furto! – esclamò. – È una rapina!
– Che?
– È semplicemente troppo! – Gregory era scandalizzato. – Mi ricordo di voi, fornivate le provvigioni anche a San Gloriano! E lì…
Il mercante corrugò la fronte. – Ehi, ehi, calmati. Sì, rifornivo anche quel monastero, e allora?
– A San Gloriano facevate pagare molto di meno! Quasi la metà!
– Oh, insomma! – esclamò Karsalt, che iniziava a scocciarsi. – La merce è mia e la faccio pagare quanto voglio. Senza contare che il periodo non è dei più favorevoli. Non troverai prezzi migliori in tutto Widefield.
– Scommettiamo? – replicò Gregory, voltandogli le spalle.
– Ehi, ehi, ehi! Fermo! – gridò il mercante, rincorrendolo e posandogli una mano sulla spalla. – Aspetta! Possiamo metterci d’accordo, no? Perché tanta fretta?
Gregory fece un sorriso cupo. – Oh, certo. Possiamo metterci d’accordo. – Posò le mani sul banco e si chinò verso l’uomo, avvicinando suo malgrado il viso a quei denti obbrobriosi. – Da un paio d’anni Serven vi compra tutta la merce. Se non ci mettiamo d’accordo, voi questa primavera non avrete venduto nulla, mentre noi possiamo sempre comprare da un’altra parte. Voglio un prezzo onesto, signor Karsalt, e vedete di sbrigarvi, perché ho fretta e mi stanno aspettando.
Il mercante era stato preso alla sprovvista. Gregory aveva detto la verità e lo sapevano entrambi. Si misero d’accordo quasi subito, e anche se alla fine la somma fu vantaggiosa per Serven, Gregory era sicuro che lo fosse anche per Karsalt. Malgrado ciò, il mercante parve molto scontento.
Non si rifiutò, però, di mandare i suoi aiutanti a che sistemassero le provvigioni sul carro. Quando ebbero terminato, era quasi ora di pranzo ed un tiepido sole era uscito a riscaldare un poco il viso di un Raphael mezzo assiderato. – Non verrò mai più a fare provvigioni – borbottò il ragazzo, sempre più irritato. – Lo giuro. Mai più!
Gregory allungò una mano per scompigliargli i capelli, un gesto che faceva sempre in monastero, quando nessuno lo poteva vedere. – Mi dispiace – sorrise. – Ma non è dipeso da me. – Spronò i cavalli per la viuzza, fino alla locanda dove avrebbero pranzato. Poi introdusse il carro nella stalla della locanda. Tese la mano a Raphael per aiutarlo a scendere. – Ti ho già detto che mi dispiace – si lamentò, vedendolo ancora imbronciato. – Vieni, su. Dentro la locanda ci sarà un bel fuoco.
Raph non riuscì a reprimere un sorriso al pensiero. Prese la mano di Gregory e saltò giù dal carro. – Poi mi spiegherai perché sei così allegro – bofonchiò, socchiudendo le palpebre a un’improvvisa folata di vento che lo aveva assalito. – Hai scoperto di avere la vocazione del mercante?
Gregory sorrise. – Più o meno.
La locanda non era bella né particolarmente accogliente, ma era calda, e di fronte a questo tutto il resto passava in secondo piano. Sembrava anche abbastanza pulita, anche se l’unico a farci caso fu Gregory, dato che Raphael corse subito verso il fuoco senza guardarsi intorno. Era piuttosto affollata, perlopiù da forestieri accorsi per il mercato.
Dopo un poco, quando si furono riscaldati a sufficienza, i due di Serven sedettero a un tavolo e ordinarono un po’ di carne e del vino.
Gregory raccontò con divertimento del suo incontro con il mercante, attardandosi a lungo a descrivere il suo aspetto eccentrico, ma per modestia si trattenne dal dare molto risalto al forte sconto ottenuto. Raphael fu molto divertito dalla storia e si congratulò con lui. Adesso che il colore era tornato sulle sue guance, era molto più allegro e disposto a sorridere. E più bello del solito, pensò Gregory, fugacemente.
A parte il tepore, comunque, la locanda non aveva molto da offrire: la carne era dura e insipida, il vino annacquato. Gregory non se ne stupì. Erano tempi duri, e anche se le scorte erano ancora abbondanti, abbastanza da lasciar fiorire il commercio, la qualità iniziava a risentirne e si sentiva. La guerra civile, debellata una volta cinquant’anni prima, pareva sul punto di riprendere e di provocare molto più dolore e sangue della precedente.
Gregory scosse la testa. Quella guerra fratricida non sarebbe finita mai, e lui non voleva pensarci. – Andiamo? – disse. – È meglio se ci mettiamo in viaggio.
Raphael guardò con rimpianto il fuoco caldo e scoppiettante, ma annuì. – Sì. Hai ragione.
Pagarono l’oste e dopo si diressero all’uscita. Ma non fecero in tempo a raggiungerla che, in quel momento, il suolo fu scosso da un boato simile a un terremoto, come un ruggito dalle viscere della terra. Gregory e Raphael si guardarono negli occhi, impallidendo. – Che succede? – balbettò Raph, stringendo il braccio del compagno. – Sembrava…
– Cavalli al galoppo. – Non appena lo disse, Gregory si sentì invadere dalla paura. – Presto! Vieni via! Dobbiamo nasconderci!
Corsero fuori. Nella piazza si era sollevato un polverone immenso, e da quella direzione provenivano urla laceranti. – Che cos’è? – gridò Raph. – Mio Dio, che succede?
– È troppo tardi! Nella stalla, presto! – Gregory lo tirò dentro la stalla e si guardò intorno, cercando un qualunque nascondiglio. – Sotto il carro!
Quando furono strisciati sotto il calesse, ansimanti e spaventati, le narici invase dal fetore della stalla, Gregory sentì Raphael gemere sottovoce. – No, non ce la faccio, Dio mio, non posso… Greg, aiutami, ti prego…
– Che c’è? Raph, che c’è?
Il ragazzo lo guardò con occhi colmi di lacrime. – Morirò se resto qui sotto… morirò, Gregory, non posso, devo uscire… fammi uscire…
– No, Raphael, calmati! – Gregory gli posò una mano sulla testa, sperando che questo servisse a calmarlo almeno un poco. Non sapeva che Raphael soffrisse di claustrofobia: se l’avesse pensato, avrebbe trovato un altro nascondiglio, ma adesso aveva troppa paura che li trovassero per cercarne un altro. – Chiudi gli occhi – bisbigliò. – Ti prego, cerca di stare calmo… Chiudi gli occhi e pensa di essere da un’altra parte.
Vide Raphael stringere le palpebre con tutte le sue forze, serrando i pugni, tremando convulsamente, e continuò a parlargli sottovoce finché gli schiamazzi e le grida terribili che prima avevano udito da lontano non li raggiunsero, soffocando ogni altro rumore. Allora si zittì, per l’orrore e la paura che sentiva macerargli il petto. Quelle urla sembravano penetrargli fin dentro l’anima.
Rimasero nascosti lì sotto per un tempo lunghissimo, o forse semplicemente così parve loro, perché il terrore dilatava ogni istante in una pantomima acustica sempre più terribile. Alla fine, quando a Gregory parve di sentire soltanto il martellare del suo petto, si decise a mormorare una parola al suo compagno: – Usciamo.
Raphael era cinereo, stravolto da un terrore cieco, ma trovò la forza di annuire. Strisciò fuori, lentamente, mentre Gregory faceva lo stesso dall’altra parte del carro.
– Ehi! Qui c’è ancora qualcuno!
Gregory si sentì morire. La voce era profonda e rude, chiaramente di un soldato, e già sentiva passi profondi avvicinarsi calcando pesanti stivali di cuoio. Ormai non potevano più nascondersi, Raphael era stato visto. Scivolò fuori, sperando che il ragazzo cercasse almeno di conservare la calma, perché nient’altro li avrebbe salvati, e raccomandò la vita di entrambi a Dio.
Il soldato era un uomo barbuto dall’aria rude e lo sguardo stolido di chi ha ucciso troppa gente in una sola vita. Dall’aspetto pareva un brigante. – Per pietà – disse Gregory, alzando le braccia. – Non ci uccidere.
Quello strizzò le palpebre. – Chi diavolo siete? – sbottò. – Che facevate qui? Stavate… – e qui un’oscenità su cui Gregory preferì non indugiare.
– Ci eravamo nascosti – confessò, non sapendo cos’altro dire. – Non potevamo fare altro. – Deglutì un po’ di saliva, poi chiese, con voce tremante: – Voi chi siete?
L’altro scoppiò in una risata sguaiata e cattiva. – Lo capirai subito. Vieni fuori. Anche tu, femminuccia.
Gregory avanzò lentamente. – Fa’ come dice – disse in Quith, vedendo che Raph non si muoveva. – Non abbiamo scelta.
– Zitto! Altrimenti ti taglierò la lingua!
Rivolgendo una seconda, più fervente, preghiera a Dio, Gregory si portò fin davanti al bandito e poi, mentre quello arretrava, uscì alla luce. Raphael era un passo dietro di lui. – Ma che bel ragazzino – commentò l’omaccione, stringendo la gola di Raph con una mano. Il ragazzo mandò un gemito. Se solo avesse voluto, l’uomo avrebbe potuto spezzargli il collo in un istante.
Invece ritirò la mano. Squadrò Gregory con aria critica, poi mostrò un sorriso ingiallito e disse, con aria soddisfatta: – Anche tu. Sei grande, ma il capo non si farà tanti problemi.
Gregory impallidì. – Che significa?
– Non l’hai ancora capito? – replicò il bandito.
Gregory, che già aveva compreso, divenne se possibile ancora più pallido. – Predoni delle montagne – alitò, senza fiato. – Siete i predoni di Ganelon!
– Ma che bravo – commentò il predone. – E adesso camminate. Il capo mi ricompenserà bene per due bei bocconcini come voi.
Per un istante Gregory fu tentato di scappare, ma poi si guardò in giro. Vide un paese trucidato, cadaveri dappertutto, sangue su ogni cosa, e predoni ad ogni angolo. Non avevano lasciato nulla. I corpi delle donne erano denudati, quelli degli uomini ripuliti di ogni avere. Era una visione che non avrebbe dimenticato mai, in tutta la sua vita. Dio santo, Dio santo, pensò, sgomento e spaventato. Come si può odiare la vita a tal punto…
Guardò Raphael. Il ragazzo tremava convulsamente. Anche lui conosceva la banda di Ganelon, e doveva sapere cosa li attendeva. Se solo avesse potuto salvarlo, risparmiargli le sofferenze che li aspettavano, l’avrebbe fatto anche a costo della vita. Ma non c’era modo, non c’era soluzione. Poteva soltanto pregare. E camminare, prima che il bandito si spazientisse e decidesse di pungolarlo con il pugnale.
– Non ti lascio, Raph – mormorò in Quith, prendendogli la mano e tenendola stretta. – Non avere paura.
– Greg, ci… ci userà come…
– Shh. – Iniziarono a camminare lungo la via che conduceva alla piazza, con il soldato alle calcagna. Su tutto Widefield era calato un silenzio innaturale, un silenzio di morte, che metteva i brividi.
Niente era stato lasciato integro. Le bancarelle, i padiglioni colorati, le mercanzie: era stato tutto rovesciato o depredato, e il risultato era uno sfacelo senza nome. In un lato della piazza, una decina di ragazzi più giovani di Raphael erano stati legati con le braccia dietro la schiena, e avvinti da un giro di corda supplementare che li univa gli uni agli altri, vanificando così ogni tentativo di fuga. Gregory sapeva già quale sarebbe stata la loro sorte. La stessa che sarebbe toccata a lui e a Raphael, a meno di un miracolo.
Ganelon era lì, al centro della piazza, circondato dai suoi fedelissimi e da uno stuolo di cadaveri che tappezzava il pavimento. Era molto alto e aveva un fisico scattante da spadaccino, una capigliatura bruna, barba incolta e due baffoni scuri sopra le labbra piegate in un sorriso cattivo; Gregory pensava che a suo modo sarebbe stato attraente, se non fosse stato per quell’espressione truce che denotava sicuramente un gusto malsano per il sadismo, e la tendenza ossessiva a stringere il pomo dello spadone nella mano.
Quando li vide, la sua smorfia già cattiva si fece ancora più crudele. – Che mi hai portato, Jerve? Due pesciolini nuovi?
Il predone sogghignò. – Appena pescati, capo. – E così dicendo diede a Gregory e a Raphael una spinta in mezzo alle scapole e li gettò a neanche un metro da Ganelon.
Il capo dei banditi si avvicinò prima a Raphael e lo studiò con evidente interesse. – Bellissimo – disse alla fine, con una luce di lussuria smodata negli occhi. Tese una mano per toccarlo tra le gambe, ma Gregory si frappose tra loro. – Lascialo stare – sibilò, con odio. – Non provare a toccarlo.
Ganelon sorrise. – Cos’è, il tuo amichetto? – Gli prese il mento con la mano, costringendolo a voltare il capo da una parte e poi dall’altra. – Anche tu non sei male. Bel lavoro, Jerve.
Gregory allontanò la sua mano con uno schiaffo. Ormai la sua paura era stata tutta sostituita dal ribrezzo.
– Ma guarda – sbottò Ganelon, guardandolo con aria divertita. – Un vermiciattolo col saio che ha voglia di menare le mani. – Fece un sorriso sadico. – Mettiamola così, monachello. Posso ficcarti un pugnale nella pancia subito, o qualcos’altro da qualche altra parte più tardi. – Si chinò sul suo orecchio, sfiorando il lobo con le labbra umide e calde. – E lo farò, stanne certo. Ho proprio voglia di scoprire quanto sei caldo. Si sa che i monaci sono i più bravi a sbattersi tra loro… – Si chinò maggiormente su di lui, stringendogli brutalmente le natiche nelle mani, e fece per baciarlo sulla bocca, ma Gregory voltò il capo di lato. Il predone affondò i denti nel suo collo, strappandogli un gemito. – Se lo farai stanotte, non te la caverai così a buon mercato – disse con voce dura. Lo lasciò andare. – Lo voglio nella mia stanza, stasera. – Guardò Raphael. – E anche lui. Adesso portateli via.
Li condussero in una delle tante case deserte, li legarono e li chiusero in una stanza. Dentro c’era puzza di morte, come in ogni altra parte del paese, perché con ogni probabilità anche gli abitanti di quella casa erano stati massacrati.
Rimasero in silenzio a lungo. Alla fine Raphael mormorò, appoggiando il capo sulla sua spalla: – Mi offrirò io. Sono più bello di te. Preferirà prendere me.
– Non farlo, Raphael, così ci prenderà entrambi. Questa gente non si accontenta mai. – Sospirò. – Se starai zitto a guardare, forse non farà caso a te.
– Come potrei farlo? Dio mio, Gregory, non voglio che…
– Shh. Per favore. Non dire niente. – Gregory scosse la testa. – Non sarà bello né piacevole, ma sopravvivrò. Sarò condiscendente con lui, gli lascerò fare ciò che vorrà, e non mi farà del male.
Raphael gemette. – Non lo pensi davvero…
– Quando mi sono messo tra te e lui non avevo idea di come fare a proteggerti, ma adesso sono contento che sia andata così. Ti darà ancora un po’ di tempo, e magari dopo potremo trovare un modo per fuggire. Non lo so. L’importante è che non ti tocchi, perché non potrei mai perdonarmelo.
Il ragazzo scosse la testa, convulsamente. Piangeva. Gregory non trovò modo di consolarlo.
Quando, anche a distanza di tempo, avesse ripensato a quel giorno, Gregory l’avrebbe collegato sempre al puzzo dei cadaveri. Lui e Raphael trascorsero in quella casa appestata tutta la giornata, fino al tramonto. Solo allora, quando il cielo perse la sua colorazione rossiccia e andò a tingersi di blu, vennero a prenderli.
Non fecero molta strada. La casa che Ganelon aveva rivendicato a suo quartier generale era poco distante, e vi arrivarono subito. Doveva essere l’abitazione del capo del villaggio, perché era notevolmente più grande delle altre: questo spiegava anche perché il capo dei predoni l’avesse presa per sé. Una volta dentro casa li sospinsero fino ad una porta, probabilmente quella della camera da letto, e bussarono.
La voce del capo rispose, rude come sempre: – Portateli dentro.
I due predoni obbedirono. Aprirono la porta, li gettarono dentro la stanza e poi se ne andarono con un cenno di saluto al capo.
La stanza era piuttosto grande, dominata da un lettone a due piazze e rischiarata da due grossi candelabri, uno posato su un comodino, l’altro su un tavolino vicino alla finestra. Il pavimento vicino ai piedi del letto era sporco di sangue secco.
Ganelon squadrò i due ragazzi ancora legati con una smorfia di compiacimento. – Molto bene – commentò. – Tu – indicò Raphael – puoi sederti sul pavimento, per ora. E tu vieni qui.
Gregory si avvicinò camminando piano. Aveva paura, ma non abbastanza da dimenticare che Raph lo stava guardando. Non si sarebbe lasciato umiliare.
– Siediti – ordinò il predone, montando sul grande letto a due piazze. Quando Gregory ebbe obbedito, Ganelon si chinò su di lui, da dietro, e gli accostò le labbra all’orecchio. – Se ti comporti bene, ti farò giocare con il tuo amichetto. Non ti va?
Gregory chiuse gli occhi. – Farò quello che vuoi – mormorò. – Lascialo stare e farò tutto quello che mi dirai.
– Lo farai comunque. – Il predone slegò Gregory, poi gli fece spazio sul letto. – Spogliati.
Il giovane lottò con se stesso per non mostrare nulla, fastidio, disgusto, niente. Si massaggiò per un istante i polsi segnati dalla corda, poi afferrò la cintura di canapa e la sciolse con lentezza. Non più trattenuto in vita, il saio si gonfiò dolcemente.
Gregory afferrò l’orlo dell’abito monacale. Gli tremavano le mani. Sollevò il saio e se lo sfilò dalla testa.
Adesso aveva indosso soltanto i calzari e una tunica leggera. Fece per togliersela, ma Ganelon lo fermò, insinuando una mano sotto la stoffa. Il capo dei predoni prese ad accarezzarlo dove Gregory aveva maggiormente temuto.
Non gli riuscì di eccitarlo. A Gregory pareva che quella parte del suo corpo fosse morta: il tocco del bandito non gli suscitava alcun piacere, alcuna aspettativa, neppure il più piccolo brivido. Il disgusto sopraffaceva ogni cosa.
Sbuffando, Ganelon ritirò la mano e ordinò, bruscamente: – Finisci di spogliarti. – Una pausa, e aggiunse: – Poi va’ dal tuo amico e slegalo.
Anche se iniziava ad intuire cosa passasse per la mente perversa di quell’uomo, Gregory si sforzò di cancellare l’ultimo brandello di pudore, gettò via la tunica, si sfilò i calzari e infine, completamente nudo, si chinò su Raphael e iniziò a slegarlo. Gli occhi di Gregory tentarono di mandare silenziosi messaggi rassicuranti, ma il ragazzo lo guardò impaurito e prese a tremare leggermente.
– Stenditi – ordinò Ganelon a Raphael. – E tu, spoglialo.
– Lascialo stare – disse Gregory. – Prendi me. Io non opporrò resistenza.
Il capo dei predoni esitò solo un istante. – Ti ho detto di spogliarlo.
Gregory deglutì. Quando sfiorò il torace di Raphael, lo sentì tremare tutto. Perdonami. Non ho scelta. Il ragazzo chinò impercettibilmente il capo. Chiuse gli occhi, mentre le mani di Gregory scioglievano lente i lacci della sua camicia e gli sfilavano prima una manica, poi l’altra, poi via l’indumento dalla testa.
Non è così che dovrebbe essere, pensò Gregory, con disperazione. Non così!
Ma Ganelon li fissava, implacabile, e lui non poteva far altro che obbedire. Socchiuse le palpebre. Quest’uomo me la pagherà, si disse. Me la pagherà cara. Lo giuro.
Raphael si mise a sedere per permettergli di togliergli la tunica, cosa che Gregory fece con quanta riluttanza non aveva mai provato in tutta la sua vita, evitando di incrociare gli occhi lucidi del ragazzo, che lo guardavano con tanta disperata innocenza da procurargli un dolore terribile ogni volta che vi si specchiava.
– I calzoni – sottolineò il bandito, spietatamente.
Tremando per il freddo, Gregory sfilò al ragazzo gli stivali. Quando infilò le dita tra i lacci dei calzoni, lo fece con gli occhi rivolti verso il comodino. – Lascia – mormorò Raph alla fine. – Faccio io. – Mise i piedi sul pavimento, si tolse i calzoni e infine rimase immobile, nudo e stupendo, senza guardare nessuno.
– Distendetevi. Tutti e due – ordinò Ganelon, che li guardava entrambi con palese desiderio. L’erezione dentro i suoi calzoni era evidente già da diverso tempo. – Tu, biondo, montagli di sopra.
Gregory si distese per primo, e scivolò verso l’interno del letto per fare posto al compagno. Non voleva che Raphael fosse alla portata del bandito, che occupava l’altra metà del giaciglio. Il ragazzo si sdraiò accanto a lui, lentamente. – Montagli di sopra, ho detto – ripeté il bandito, vedendolo esitare.
Raphael mandò giù un po’ di saliva, a fatica, ma non accennò a muoversi.
– Non preoccuparti per me – disse Gregory, in Quith. – Obbedisci. È l’unico modo perché finisca in fretta.
Raphael abbassò lo sguardo. Gli posò una mano accanto al torace, spostò una gamba oltre il suo fianco e infine lasciò che il peso ricadesse sulle ginocchia, piegate all’altezza dei lombi di Gregory. I loro genitali strofinarono nei brevi cenni di assestamento, poi Raphael si immobilizzò e quello sfiorarsi divenne un contatto fermo e tangibile, tremendamente piacevole.
Gregory chiuse gli occhi, abbandonando il capo sul cuscino. Quel piacere, che gli avevano insegnato peccaminoso, turpe, ignobile… quello era la cosa più dolce che avesse mai provato. Strinse le palpebre e si disse che se l’avesse pensato abbastanza forte, quel perverso sarebbe scomparso dalla sua vista, e sarebbero rimasti solo Raphael e lui, soli, a fare l’amore. – Baciatevi – disse la voce di Ganelon.
Gregory aprì gli occhi. No, era ancora lì. Guardò quelle labbra così dolci, che un tempo aveva sognato di baciare. Le sfiorò con le punte delle dita. Vide il dolore negli occhi di Raphael, ma non riuscì a capire se dovuto al fatto che mai avrebbe voluto fare quelle cose, o piuttosto all’orrore di farle di fronte a quel bandito.
Non poteva pensarci. Attirò Raphael giù, sentiva sul torace le costole tremanti del ragazzo, e accostò le proprie labbra alle sue. Sfiorandole appena.
– Non così – scandì Ganelon, con cattiveria. – Non fingete di non saperlo fare. Voi scopate come minimo ogni notte.
Raphael divenne rosso fuoco. – Non è vero! – esclamò. Erano le prime parole che rivolgeva al predone, e sarebbero state anche le ultime.
Ganelon lo prese per la gola e lo costrinse ad avvicinare il viso al suo. – Non mi contraddire, bamboccio – mormorò, con voce arrochita dal desiderio. – Gli premette le labbra con le sue e gli ficcò la lingua in bocca, con violenza. – Adesso fatelo voi – ordinò, crudelmente.
Raphael strinse i denti. Si passò il dorso della mano sulla bocca, a ripulirla dal suo contatto, poi si chinò su Gregory e lo baciò come gli era stato detto, solo con molta più dolcezza. Il giovane lo abbracciò, morbidamente, assaporando la dolcezza della sua bocca e la stupenda sensazione di calore del suo corpo. I genitali di Raphael premevano sui suoi, meravigliosamente, combattendo una schermaglia fiera di turgore giovanile.
– Tu – disse il predone. – Monaco. Succhialo al tuo amico.
Gregory non si scompose, anche se gli dispiacque interrompere la magnifica conversazione delle loro bocche. Si spostò di lato, lasciando a Raphael lo spazio per sdraiarsi supino, poi si insinuò tra le sue gambe. – Non voglio che tu lo faccia – mormorò Raph, in Quith. – Ti prego. Non lo fare.
– Devo – sussurrò Gregory, chinando il capo.
Se non si fossero trovati in quell’assurda situazione, sotto gli occhi di un violento pervertito, Greg avrebbe trovato meraviglioso tutto ciò che stavano facendo, la facilità con cui erano riusciti ad eccitarsi l’un l’altro, il piacere del reciproco contatto, quello che si accingeva a compiere. Raphael gli piaceva più di ogni altro; era l’unica persona che avesse mai, coscientemente, desiderato. Perciò cercò di appigliarsi a questo pensiero, che in quel contesto lontano dal monastero gli risultava confortante, e si concentrò su Raphael e sul suo corpo stupendo. Quando iniziò a vellicarlo con la lingua, il ragazzo sospirò di piacere colpevole.
Gregory sentì che il capo dei predoni si muoveva sul letto, accostandolo da dietro, e contemporaneamente le mani di Raphael gli artigliarono le spalle, in un muto segno di avvertimento. Gregory non reagì. Chiuse gli occhi, continuando nella sua opera, e si preparò al dolore.
Gridò come non aveva mai gridato in vita sua.

Stelline di dolore gli vorticavano nella testa, lampi di luce sfocati premevano sugli occhi, e la bocca… lì non c’era più saliva. La mano del predone lo schiacciava alla nuca, una voce che non era più riconoscibile ordinava: continua. Gregory non ce la faceva. Lacrime brucianti gli riempivano gli occhi spalancati, accumulandosi sull’orlo delle palpebre, ma non volevano saperne di cadere giù. Gregory non vedeva più nulla. Due mani gentili gli sfioravano tremanti le braccia nude. Sentiva da qualche parte dei singhiozzi. I suoi? No, lui non stava singhiozzando. Piuttosto morire, prima di scoppiare in singhiozzi di fronte a quello… a quel… Maledetto. Tu morirai. Sulla mia vita. Tu morirai. Con quel poco di coscienza che ancora gli era rimasta, si chinò a finire il lavoro che aveva lasciato a metà.

Gregory si sentiva squarciato. Distrutto. Con le ultime forze si era raggomitolato accanto a Raphael, voltandogli le spalle, e aveva affondato la faccia nel cuscino. Almeno lì le lacrime non si sarebbero viste. Tratteneva i singhiozzi da così tanto tempo che era certo di soffocarsi da un momento all’altro. Tanto meglio. Non voleva vedere più nulla del mondo. Morire, sì: mai la fine gli era parsa così dolce.
Poi sentì il corpo di Raphael aderire al suo, piano piano, lentamente. Sentì il petto del ragazzo toccare la sua schiena, e un braccio cingergli la vita. Oh, Raphael. Non mi toccare. Sono così sporco. Non mi toccare. Ti infetterai anche tu.
Ganelon si riaggiustava in tutta calma. Sentiva il tintinnio della sua spada mentre l’assestava alla vita. Che tu muoia, pensò, ma era una rabbia blanda, priva di forza. Non riusciva a provare altro che sofferenza, solo questo. Anche la rabbia se n’era andata via.
Solo marginalmente si accorse dei passi nel corridoio, passi veloci di stivali da guerriero. Un bussare forte fece vibrare la porta: – Capo! C’è bisogno di te!
Ganelon lanciò una bestemmia seccata. – Voi restate qui – disse come parola di commiato. Come se avessero la possibilità di scappare. Uscì lasciandoli soli.
– Gregory… – bisbigliò Raphael, tra le lacrime. – Gregory… ti prego…
– Di cosa mi preghi… – sussurrò.
– Dimmi qualcosa…
Gregory si voltò, con lentezza estrema, facendo ben attenzione a non fare peso in alcun modo sulla parte ferita. – Qualcosa – bisbigliò, con uno sbiadito sorriso. Poi lo abbracciò alla vita, lasciando riposare il capo sul suo petto, come avrebbe fatto con sua madre se solo l’avesse avuta lì.
Raphael lo strinse e continuò a piangere per entrambi. Balbettava qualcosa su un sacrificio, che non era giusto che avesse sofferto lui al posto suo, che… Gregory non lo ascoltava più. Sapeva che avrebbe detto quelle cose e non era necessario che replicasse. Non doveva presentare alcuna giustificazione.
E poi gli disse che lo amava. Nel buio ovattato in cui galleggiava, stranamente leggero, Gregory pensò che l’avrebbe detto chiunque fosse stato. Pensò: non è me che ama. Ama quello che l’ha salvato, tutto qui. Stranamente non provò alcun dolore a questo pensiero.
– Almeno ti è piaciuto? – mormorò.
– Co… cosa?
– Prima, quando… con la bocca… – Incredibile, riusciva di nuovo a imbarazzarsi. Doveva essere un buon segno. – Prima…
Raphael deglutì le sue ultime lacrime. – È stato bellissimo – sussurrò. – Bellissimo.
– Sono contento…
– Dimmi come ti senti, ti prego. Sei così lontano…
– Sono qui, Raph, ti sto abbracciando…
– Come ti senti?
Sospirò. – Mi fa male. – Avrebbe voluto vedere se aveva sanguinato, ma… che domande. Doveva aver sanguinato. Era stato troppo violento. Ma non se la sentiva di chiedere a Raphael di controllare per lui. – Passerà – bisbigliò poi. – Passa tutto…
Raphael se lo strinse al petto come una chioccia, gli baciò i capelli, e poi cominciò a sussurrare che sarebbe andato tutto a posto, sarebbe finito tutto, sarebbero tornati a casa e tutto sarebbe tornato come prima. Casa. Oh, sì, Serven. Dopo “Gregory che si è portato a letto un uomo”, “Gregory che si è lasciato fottere da un uomo”. Che allegra prospettiva. – Non voglio tornare… – mormorò, mentre la pioggia di lacrime riprendeva. – Non voglio tornare… Non capiranno… diranno che mi è piaciuto… diranno che questo schifo mi è piaciuto… che me la sono voluta… non ci crederanno che ho sofferto come un cane…
Raphael lo strinse ancora più forte. – Non è così, non è così – gli disse, premuroso. – Amore mio, calmati…
– Amore… mio – ripeté, mandando giù la saliva. Alzò gli occhi. – Dammi un bacio, ti prego…
Raphael lo accontentò, premendo le labbra sulle sue per un breve istante. – Gra… zie… – Chiuse gli occhi e dopo un poco calò in un torpore agitato.
Lo svegliò una carezza che non era una carezza, ma un ago di dolore nel punto più doloroso di tutto il suo corpo. Si riscosse con un gemito.
– Scusami – bisbigliò Raphael, alle sue spalle. – Avevi sangue dappertutto… ho trovato un fazzoletto e così…
Gregory ansimò. – Smettila. Mi fai male.
Il ragazzo non rispose. Si limitò a distendersi al suo fianco, in silenzio. Perché era stato così duro con lui? Si voltò, lentamente, e si rinchiuse nel suo abbraccio. – Scusami. Non… non mi sento bene.
Le sue labbra gli deposero un bacio in fronte, senza parlare.
– Che cos’ho addosso…
– Le lenzuola. Stavi tremando…
– … grazie – sussurrò. Ma gli sembrava di tremare ancora. Non era il freddo. – È tornato?
– Non ancora.
Lo colse il pensiero che se Ganelon fosse tornato e l’avesse trovato così… disfatto, inutilizzabile… si sarebbe gettato su Raphael. Si tirò su un gomito. Gli girava la testa. – Trovami qualcosa per vomitare… – bisbigliò.
Raphael si guardò intorno, confuso, poi sbirciò sotto il letto e trovò un vaso da notte. Vuoto, per fortuna. Gli tenne indietro i capelli mentre si liberava lo stomaco.
– Mettilo via… – bisbigliò Gregory. – Va meglio, adesso.
Raphael lo ripose dove l’aveva trovato.
– Raphael…
– Dimmi.
– Se torna… se Ganelon torna…
– Sì?
– … non ti offrire. Ti prego. Non ti offrire al posto mio…
La voce di Raphael gli suonò più decisa di quanto fosse mai stata. – Non lascerò che ti tocchi. Stai troppo male.
– Ciò che mi ha tolto – bisbigliò Gregory, – non lo riavrò mai. Per me non farà differenza. Per te sì.
Ma Raphael non voleva sentire ragioni, e non gli fece la promessa che lui aveva sperato. Con un sospiro, Gregory si accoccolò tra le sue braccia e mormorò: – È una cosa orribile. Io non voglio… non voglio che la provi anche tu. Tu sei così puro…
– Non preoccuparti – rispose Raphael, distaccato. – Me la saprò cavare.
L’arrivo di Ganelon li fece sobbalzare entrambi. Una stretta dolorosa allo stomaco fece desiderare a Gregory di avere ancora sottomano il vaso da notte, e invece dovette reprimere la nausea serrando i denti e la gola. – Via di qui. Subito – ordinò il predone.
Alle sue spalle, un ragazzino di una tredicina d’anni tremava da capo a piedi. Mio Dio. Gregory aprì la bocca a vuoto. Non ce la faceva più a respirare. Raphael scivolò giù dal letto senza parole, raccolse i propri abiti, gli gettò i suoi e si rivestì in fretta. – Vestiti – gli sibilò.
Obbedì per abitudine. Ancora con i calzari slacciati, due soldati lo tirarono via con Raphael.
Il tragitto fino alla casupola che quel pomeriggio era stata la loro prigione fu un’agonia. Ogni passo gli strappava un ansimo di dolore. I soldati sghignazzavano alle smorfie che faceva per controllarsi, Raphael lo spiava con preoccupazione. Quando lo gettarono dentro la stanzetta con un calcio – l’avevano fatto apposta, Gregory non riuscì a trattenere un grido – gli parve chiaro che al più presto sarebbe morto. Se non ucciso, per sua stessa mano.
– Che schifo… – singhiozzava, buttato sul pavimento. – Che schifo…
Raphael gli si avvicinò, gli fece poggiare il capo sulle sue ginocchia. – Almeno non ti toccherà – sussurrò, desolato.
– Ma è solo un bambino! – gridò. – Solo un bambino… che schifo…
Raphael non sapeva come consolarlo. Gli faceva paura vederlo così debole… così distrutto. Non aveva la forza per sostenerlo come Gregory aveva fatto mille volte con lui, non l’aveva e non sapeva dove cercarla. Che doveva fare?
Lo lasciò sfogare senza disturbarlo. Quando gli parve che si fosse calmato, bisbigliò solo: – Recito una preghiera. Ti unisci a me?
Recitarono un Padre Nostro senza sperare che Dio li stesse ascoltando.
 

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Capitolo 7
*** 7. Rega, il mezzo-gitano ***


Gregory
Capitolo VII: "Rega, il mezzo-gitano"



Per due giorni non li disturbarono, limitandosi a portar loro i pasti: evidentemente Ganelon aveva trovato degli amanti più soddisfacenti di loro.
Grazie alle cure di Raphael, Gregory si riprendeva velocemente, dalle ferite del corpo e da quelle dell’anima. Aveva perso quell’aria stralunata e persa che faceva dubitare Raphael della sua lucidità, era in grado di fare discorsi sensati e di pensare al futuro. Non aveva più pianto. Solo il dolore ristagnava come una goccia nera in fondo al pozzo dei suoi occhi.
Fu alla sera del secondo giorno, il terzo di prigionia, che accadde qualcosa.
– Gregory – mormorò Raphael, fermo alla finestra.
– Che c’è?
– Li stanno attaccando. I predoni. Sono attaccati.
Gregory si tirò in piedi, con cautela, e lo raggiunse alla finestra. – Dio mio – sussurrò, appoggiando le mani contro il vetro.
– Non ci libereranno, vero? – chiese Raphael, desolato. – Sarà lo stesso anche con questi…
– Non hai visto? Sono gitani – mormorò Gregory.
Raphael guardò meglio. Scorse il luccichio degli orecchini e impallidì. – Siamo finiti – alitò, appannando il vetro. – Siamo finiti. Ci faranno a pezzi… ci venderanno come schiavi…
– No! – esclamò Gregory, con un entusiasmo che Raphael aveva temuto di non vedergli mai più in viso. – No! Non capisci? Sono gitani! Gitani! Dio santo, ma allora esisti! Esisti! – E si gettò a terra e cominciò a pregare, alternando devozioni e risate e lacrime di gioia.
Con orrore, Raphael si disse che era impazzito.

I predoni combattevano per la vita, e questo dava loro una forza non indifferente, ma erano perlopiù tagliagole da quattro soldi. I gitani, invece, erano combattenti ben addestrati, armati di tutto punto, ed erano molto più numerosi. Inoltre avevano dalla loro la sorpresa, e la paura che la loro fama di guerrieri terribili incuteva su qualunque nemico.
La battaglia fu breve e sanguinosa. Alla fine, dei predoni non rimasero che corpi sventrati, spogliati dei loro averi e lasciati impietosamente a terra.
Passò un po’ di tempo, tempo nel quale Raphael si aggirò per la stanza come una belva in gabbia, mentre Gregory riprese a pregare con rinnovato vigore. Poi la porta della camera in cui erano rinchiusi si aprì di colpo.
Comparve di fronte a loro un guerriero gitano, barbuto e dall’aria forte, dall’aspetto tutto sommato rassicurante, rispetto a ciò che si erano aspettati. Non sembrava assetato di sangue, e non li guardò come se progettasse di passarli subito da parte a parte con la spada. Portava l’orecchino al lobo sinistro.
Malek – disse Gregory, istintivamente. – Malek, devinon.
L’uomo lo guardò. – Come conosci la lingua del vento, ragazzo?
Avevo ragione, pensò Gregory, con il cuore in tumulto. È un gitano! – Giura su Rabe, il padre degli dèi, che non alzerai un dito su di noi e te lo dirò.
– E sia. E adesso dimmi chi sei, tu che parli come un figlio del vento e indossi un abito da servo cristiano. Avvicinati. – Gettò uno sguardo a Raph, distrattamente. – Anche tu.
Gregory avanzò lentamente. – Parlo la lingua che mi è stata insegnata da mia madre, la ziina Fedria. Quanto al mio abito, esso rappresenta ciò che sono: un novizio. Questa parola ti dice niente, devinon?
– Sei uno spudorato e un bugiardo – ringhiò il soldato, cancellando di colpo ogni benevolenza dalla voce. – Un figlio del vento non accetterebbe mai le catene dei cristiani! Tu menti!
Gregory scosse la testa. Scostò i riccioli dall’orecchio sinistro, scoprendo il lobo forato. – Questa è la prova che dico la verità. Vedi il buco?
– Non vedo l’orecchino, però – replicò l’uomo, sospettoso.
– Tra i cristiani non lo porto. Vuoi spogliarmi per vedere se ho il tatuaggio? Se vuoi farlo, fallo – dichiarò Gregory, con fierezza.
Il soldato lo guardò con il sospetto e il dubbio negli occhi. – Il buco puoi essertelo fatto da solo. Spogliati tu stesso e mostrami il tatuaggio di tuo padre; allora ti crederò.
– Come preferisci – disse Gregory. – Sfilò un braccio fuori dalla manica, poi l’altro, infine ripiegò la parte superiore del saio sulla cintola. Il tatuaggio che portava appena sopra l’ombelico, un simbolo arcano diverso da quello inciso sul medaglione di Raphael, era del colore dell’inchiostro, vividissimo. – Ti basta?
Il soldato sussurrò una parola: – Kirin –, e poi fece un sorriso tutto storto. – Malek, devinon. La prudenza non è mai troppa. E adesso, sempre per seguire questo suggerimento, dimmi perché un figlio del vento dovrebbe portare abiti da novizio.
– Ho già risposto a questa domanda. Sono un novizio. E come hai potuto vedere, sono anche un figlio del vento. Credo nel mio sangue, ma anche nel Dio cristiano, e li venero entrambi con tutto il cuore. – Deglutì, adesso veniva la parte più difficile. – Siamo stati presi prigionieri da Ganelon, il capo dei predoni.
L’uomo posò la mano sull’elsa dello spadone ricurvo, con un gesto noncurante. – Qual è il tuo monastero, allora, devinon? – indagò.
– Si chiama Serven. È a poche ore di cammino da qui. – Gregory si ricoprì lentamente, mentre parlava. Tremava per il freddo, ma anche per la paura che aveva cercato di nascondere parlando con fermezza. Più di ogni altra cosa temeva per Raphael, paventando il momento in cui il soldato si sarebbe rivolto a lui.
– Questo ragazzo chi è? – chiese il gitano, sfoderando un piccolo pugnale da lancio e passandoselo distrattamente da una mano all’altra. – Non veste come un servo dei cristiani.
– È il mio seth-la – disse Gregory, – ed è un Senzapatria. – Si voltò verso Raphael, che era letteralmente paralizzato dall’orrore. – Raph, dammi il tuo medaglione. – Il ragazzo lo guardò per un istante come se non capisse. – Il medaglione – ripeté Gregory, nervosamente. – Ho visto che l’hai messo in tasca prima di partire. Dammelo, avanti.
Finalmente Raphael tuffò una mano nella tasca destra dei calzoni e ne estrasse l’ovale di madreperla contornato d’oro. Si avvicinò a Gregory, senza mai staccare gli occhi dal pugnaletto che volava tra le mani del soldato, e glielo consegnò.
– Questa è la prova – disse Gregory, con voce più ferma. Stese il braccio con il gioiello sul palmo. – Osservalo. – E poi aggiunse, duramente: – Fer du sendaritmon, Rabe swangorger.
Il soldato parve prenderlo sul serio. – Lo riavrai – disse, prendendo il medaglione nella mano. – Sta’ tranquillo. – Abbassò gli occhi, poi li rialzò di scatto. – A chi hai rubato questo sema? – ringhiò, con voce alterata. – Non può appartenerti!
Gregory sentì una mano tremante sfiorargli il palmo sinistro. La strinse con forza, finché non sentì le pulsazioni di entrambi mescolarsi sulle punte delle dita. – Non temere – mormorò in Quith, sapendo che Raphael avrebbe capito. – Non temere di nulla – e poi aggiunse: – fratello – usando la parola che in Quith poteva significare “amico giurato”, “figlio di mio padre”, oppure, nel significato più intimo di tutti, “compagno di vita”. Usò l’inflessione intima, deliberatamente.
Sentì lo sguardo di Raphael carezzargli il viso, la mano del ragazzo stringere la sua con ardore, e per un istante provò il desiderio di approfondire quel contatto, di stargli più vicino, ma non era né il momento né il luogo per simili pensieri. – Non l’ha rubato – disse, con fermezza. – È suo. Gli è stato donato da una ziina.
– Tu stai mentendo – replicò il soldato. – Nessuna ziina donerebbe il proprio sema a un cristiano! Questo, poi…
Gregory si incupì. – Lo farebbe, se riconoscesse in lui un Senzapatria affiliato alla propria famiglia.
Il soldato gettò uno sguardo fuori, poi ripose il pugnale dentro la manica. – Venite con me – disse alla fine. – Tutti e due. E se provate a scappare vi uccido.
L’avrebbe fatto, se fosse stato necessario, anche se ormai doveva essersi convinto dell’identità di Gregory, se pure non di Raphael. In effetti, neppure Gregory era certo di chi fosse il suo compagno. Quella del Senzapatria, un figlio del vento abbandonato tra i cristiani, gli era sembrata l’ipotesi più plausibile, in quei tre mesi che lo conosceva. Ma… la verità? Non potevano conoscerla, se non avessero prima trovato la ziina che gli aveva donato il medaglione. E Gregory conosceva una sola ziina affiliata a quella famiglia.
– Tu sei un gitano – mormorò Raphael, in Quith. La sua voce era vibrante di paura, tesa come una corda di violino. – Perché non me l’hai mai detto?
Gregory non lo guardò. – Non potevo dirtelo. Cosa avresti pensato di me? Continuavi a ripetere quello che ti avevano insegnato su quanto i figli del… i gitani siano malvagi, e immorali, e ladri, e bugiardi…
– E non lo sono?
– No. Non più di tutti gli altri, cristiani compresi. – Scosse la testa. – Sono esseri umani come gli altri.
Raphael abbassò gli occhi. – Siete. Non sono. Siete – mormorò.
Siamo, pensò Gregory, ma non lo disse. – Sei adirato, vero?
– Non lo so. – Raph fece una pausa. – Avrei voluto che me lo dicessi. Non ti sei fidato di me.
– Come potevo? – mormorò Gregory, con dolcezza. – Ti avrei scosso, disgustato, forse mi avresti odiato. Ti saresti rifiutato di frequentarmi e di conoscermi. Io non volevo perderti. Sei la cosa più bella della mia vita.
Raphael mandò un sospiro, non riuscendo del tutto a trattenere il senso di orgoglio suscitato da quell’ultima, accorata confessione. – Adesso lo so – disse piano. – E non smetterò di volerti bene per questo. – Sfoggiò un debole sorriso, venato di paura. – Non parliamone più, d’accordo?
Anche se l’oscurità copriva gran parte dell’orrore di Widefield, il lezzo di morte dei cadaveri insepolti era diventato un tanfo ormai insopportabile. Gregory e Raphael furono costretti a premersi una mano sul naso per non respirare quell’aria ammorbata. Le strade erano adesso ingombre di soldati gitani, tutti riconoscibili per gli abiti colorati e le spade ricurve poste alla cintura, oltre che per gli orecchini scintillanti.
Su Widefield era calato uno strano silenzio nervoso, disturbato da un brusio di sottofondo. La piazza era ancora piena di gente, ma non più mercanti o acquirenti, bensì soldati armati di tutto punto. – Seth-la! – gridò il soldato che li spingeva avanti, e che, adesso Gregory se ne accorgeva, doveva essere un ufficiale. – Seth-la!
Raphael accostò il viso al suo. – Che significa quella parola?
– Fratello – rispose Gregory. – Fratello per giuramento.
– Non capisco.
Gregory strinse i denti. – È un rapporto strettissimo – mormorò. – Se qualcuno tenterà di fare del male a questo soldato, il suo seth-la si getterà sull’aggressore e ne farà brandelli. Senza pietà.
– Prima tu hai detto che…
– Che sei il mio seth-la. Sì. L’ho detto perché quell’uomo sapesse che prima di toccarti dovrà passare sul mio cadavere.
Lo sentì deglutire. – Saresti capace di… di uccidere? – bisbigliò Raphael.
– Ne parliamo dopo. Lasciami sentire.
Il soldato aveva raggiunto un uomo alto e magro, con una lunga chioma biondo cenere e i lineamenti delicati, inaspriti da una smorfia dura, e gli parlava rapidamente nella lingua dei gitani. Quest’ultimo sembrava un capo, a giudicare dagli anelli alla mano destra e l’aria altera, ben diversa dalle grossolane espressioni sul viso dei soldati semplici; guardando i due seth-la affiancati, Gregory pensò che dovevano appartenere alla stessa famiglia, perché avevano in comune il naso diritto e gli occhi grigio-azzurri. Un lampo di riconoscimento gli balenò nella mente, vago, un’immagine infantile ripescata dalle sue memorie d’infanzia. Ma poteva sbagliarsi.
Parlarono per pochi istanti, nei quali il primo soldato riferì all’altro chi aveva trovato e come, poi tirò fuori il medaglione e glielo porse, esclamando in tono concitato: – Lhonde! Lhonde utwos!
– Che ha detto? – bisbigliò Raph.
Gregory, che ormai sudava freddo, gli rispose piano: – “No, non è possibile”. – In realtà il gitano si era espresso molto più volgarmente, ma non aveva voglia di tradurre alla lettera.
Il secondo soldato, quello che sembrava il capo, alzò gli occhi su di loro e li squadrò con freddezza. Poi alzò la mano destra, quella inanellata, e disse in gitano: – Avvicinatevi. Tutti e due.
– Non mentire – bisbigliò Gregory, in un soffio. – Se ti chiedono qualcosa, non mentire. – Poi avanzò e si tirò dietro Raphael, stringendogli la mano con forza.
L’uomo biondo rimase un poco a studiarli entrambi, ma dopo una prima occhiata si disinteressò completamente a lui, mentre invece si attardò ad osservare Raphael con molta attenzione. – Come ti chiami? – chiese alla fine, con una specie di rude cortesia. Aveva una bella voce profonda, da baritono. Il suo viso non dimostrava più di quarant’anni.
– Raphael – rispose il ragazzo, cercando di controllare il tremito nella voce.
L’uomo si incupì. Si voltò verso il seth-la e gli disse, in gitano: – Ha gli occhi di mia madre Kayla. – L’altro gli diede di gomito, accennando a Gregory che li fissava, e replicò: – Attento a quel che dici. Lui ci capisce.
Per la prima volta, l’uomo biondo parve interessarsi veramente a Gregory. – Sei il figlio di Fedria, ragazzo? – gli chiese in gitano. E quando lui annuì, disse una sola parola: – Rega.
Gregory serrò le labbra. – È il mio nome. Come lo conosci?
– Tua madre è morta invocando suo figlio Rega – rispose il biondo, senza espressione.
– Cosa… che stai dicendo? – mormorò Gregory, diventando tutt’a un tratto di un pallore mortale. – Mia madre…
– È morta – ripeté quello, con indifferenza. – Di febbri. Non più tardi di ieri.
– Tu menti! – gridò Gregory, facendo per scagliarsi contro di lui. Due soldati lo afferrarono per le braccia. – Stai mentendo! Cosa ne sai di mia madre? Chi diavolo sei? – Tentò di divincolarsi, mentre lacrime brucianti gli scorrevano sul viso, ma i soldati erano troppo forti per lui. – Mia madre non può essere morta! Mi rifiuto di crederlo! Non…
L’uomo biondo corrugò la fronte. Pareva vagamente divertito. – Infatti non lo è.
– Mia… cosa?
– Tua madre non è morta – disse il soldato. – La ziina Fedria sta benissimo, le ho parlato io stesso fino a pochi istanti fa. Ma adesso sono sicuro che tu sia suo figlio Rega, il mezzo-gitano. Sei impulsivo come lei, devinon.
A un cenno i soldati lo lasciarono, lentamente. Gregory si asciugò il viso. Si sentiva umiliato e preso in giro. Nessuno avrebbe mai dovuto vederlo mentre perdeva il controllo. Era una cosa che detestava con tutto il cuore. – Tu ti sei preso gioco di me – disse con astio. – Non avevi il diritto di farlo.
L’uomo scosse la testa, e con essa la lunga chioma bionda. Fece un sorriso. – Ringraziami, piuttosto, devinon. Adesso puoi star certo che non ti ucciderò.
Gregory serrò i denti. – Chi diamine sei, tu, che conosci mia madre? Io ti ho già visto.
L’altro lo ignorò. Tornò a guardare Raphael e il sorriso scomparì dalle sue labbra, sostituito da un’espressione molto seria. – Sai cos’è questo? – chiese al ragazzo, sollevando il suo medaglione.
– Non lo so – rispose Raphael, con voce nervosa. – Un simbolo, credo.
– Questo è un sema.
Il ragazzo scosse la testa. – Non ne so nulla.
– Questo dimostra la tua appartenenza a una famiglia. Una delle nostre famiglie – sottolineò il soldato. – Chi sono i tuoi genitori?
– Non lo so. Sono morti.
– Morti. – Il soldato studiò ancora una volta il medaglione, poi alzò gli occhi. – Adesso ti farò delle altre domande. Ti avverto: se mentirai, ti ucciderò – disse, lentamente. – Hai capito?
Raphael deglutì. – Sì.
– Come hai avuto questo?
– Mi è stato donato da una gitana – rispose. – Mi ha abbracciato e baciato, e poi mi ha dato questo.
L’uomo inspirò. – Bella?
– Cosa?
– Era bella? Che età aveva?
Raphael ci pensò su un attimo. – Trent’anni, credo. Sì, era bella.
– Ti ha detto il suo nome?
– No.
Il soldato annuì tra sé, pensoso. – Sai cosa c’è scritto qui sopra?
Gli occhi di Raphael andarono a Gregory, sulla scia di qualche pensiero, poi tornarono sull’uomo biondo. – No – rispose. – Non conosco la vostra lingua. Pensavo fosse un disegno, o qualcosa del genere.
– Adesso menti – disse il soldato, accigliandosi. – Il tuo seth-la è un gitano. Ti avrà rivelato il significato di questo sema.
Raphael scosse la testa, più volte. – Io non sapevo che Gregory fosse un gitano. Ci conosciamo solo da… da qualche mese.
– Abbastanza per pronunciare il giuramento e non per sapere a chi leghi la tua vita? – replicò il soldato. – Non mentire, ragazzo, di’ la verità e non ti accadrà nulla.
– No – ripeté Raphael, con ostinazione, benché il suo colorito fosse ormai terreo. – È la verità, lo giuro sulla Croce. Voi dovete credermi.
Il biondo fece una smorfia. – I cristiani mentono anche quando impegnano la parola in nome del proprio Dio.
– Ma io no – insistette il ragazzo, angosciato. Trasse fuori la Croce da sotto gli abiti. – No, ve lo giuro. Ho passato tutta la vita in monastero, tra i servi di Dio. Non lo farei mai!
– Io stesso ho udito i tuoi “servi di Dio” spiegare ai buoni cristiani che la parola data a un gitano non ha valore, perché la nostra stirpe è maledetta.
Raphael scosse la testa. – Perché non vi fidate di me? Non mi conoscete neanche. Volete uccidermi ad ogni costo, anche se non vi ho fatto nulla? – Indicò il medaglione nella mano del soldato. – A quale famiglia appartiene? Ditemelo, lo voglio sapere.
Gregory guardò il ragazzo con animo pieno di rispetto. Non avrebbe mai pensato che potesse mostrare tanto coraggio, specie di fronte a un esercito di persone che gli avevano sempre descritto come perverse e sanguinarie, e che adesso tenevano in mano la sua vita.
– Te lo dirò io – scandì una voce di donna, chiara e vibrante come un’arpa, melodiosa. Gregory faticò a vederla, nascosta com’era dai soldati, tuttavia la ziina non tardò a farsi strada. – Ti dirò io a quale famiglia appartiene.
Era una bella donna castana, non molto alta, snella e dal viso affilato. Dimostrava non più di trent’anni. Gregory la riconobbe all’istante. – Lljenae – sussurrò tra i denti. – Dunque, il soldato biondo…
– Katrina, hai lasciato i feriti per venire? – mormorò questi, con ferma gentilezza.
– Non preoccuparti – rispose Katrina, scrollando i lunghi capelli protetti sul capo da una bandana verde chiaro rifinita di perline. – Li ho lasciati in buone mani. Fedria si occupa di loro. – Rivolse a Raphael un bel sorriso. – Allora, ti ricordi di me, figlio? – Prese il medaglione dalle mani del biondo. – È una gioia sapere che l’hai conservato.
Raphael deglutì, più volte. – È lei – disse alla fine, rivolto a nessuno in particolare. – La donna del medaglione. È lei.
– Katrina? – Il soldato biondo guardò la piccola donna come se non potesse crederlo. – Hai dato il tuo sema a un fanciullo cristiano? Quando è successo?
Il sorriso di lei si allargò. – Non un fanciullo qualsiasi. Suvvia, Neekla, hai gli occhi incrostati di lordura? Guardalo! Che diamine, non scorgi niente? – Scosse la testa, poi si avvicinò a Raphael e gli posò il sema sulla mano, chiudendo le sue dita sul simbolo arcano. – La famiglia che porta questo sema è la mia. La famiglia dei ’ra Jethra.
Raphael guardò il medaglione, poi Katrina. – Io? Io sono tuo figlio? – sussurrò.
La donna gli prese il volto tra le mani e lo baciò su una guancia, poi sull’altra, poi sulle labbra. Sorrise mentre Raphael avvampava d’imbarazzo. – Sì – rispose, con calma.
Difficile dire chi fosse il più scioccato, se Gregory, o Raphael stesso, o il capo dei soldati Neekla. Tuttavia quest’ultimo, già pallido, aveva assunto una tinta gesso vagamente cadaverica. Quando il suo seth-la lo abbracciò, sembrò in procinto di crollare, sopraffatto da un’emozione che soltanto lui conosceva.
– Io… padre – Gregory lo sentì mormorare. – Dopo quindici anni, non credevo più che… Per il sangue di Rabe, Katrina, da quanto tempo lo sai? – esclamò. – Perché non mi hai detto di averlo trovato?
La donna rise, scrollando la testa in modo incantevole. – Oh, figlio mio, dimenticavo – disse, prendendo la mano di Raphael. – Quest’uomo molto sciocco, che a quanto mi è parso di capire ti ha tormentato a lungo per via del tuo sema, è il mio compagno Neekla. Tuo padre – aggiunse dopo un secondo. Prese la mano del guerriero e la unì a quella del figlio di entrambi. Poi fece un passo indietro, contemplando la scena.
Raphael non alzò gli occhi sul genitore. – Questo… questo fa di me un gitano? – mormorò, rivolgendosi alla madre. – Come voi?
– Sì. È un problema, figlio mio?
– Io… io devo pensarci. – Raphael ritirò la mano. – Ci insegnano cose orribili su… su quello che fate. Voi non lo sapete. Ci devo pensare, prima di…
Neekla si inginocchiò di fronte al ragazzo, posandogli le mani sulle spalle. Anche così, il suo viso era alla stessa altezza di quello di Raphael. – Io lo so – disse piano. – So cosa ti hanno insegnato. Però tu mi devi credere, quando ti dico che neanche la metà di quelle cose è vera.
– Tu non mi hai aiutato in questo senso – replicò Raphael, freddamente. – Se non ricordo male, volevi uccidermi, padre. – Scosse la testa. – Se davvero sei mio padre, ti devo la vita una volta, e una seconda per avermi liberato dai predoni. Per questo ti ringrazio. Ma devo pensarci. – E così dicendo si allontanò rigidamente, in direzione della locanda presso cui avevano sostato quella mattina.
Gregory sospirò. – Ha solo bisogno di un po’ di tempo – disse al guerriero, costringendosi a levigare una certa naturale asprezza che sentiva nei suoi confronti. – Lo conosco. Ti accetterà.
Ma Neekla scosse la testa. – Quel ragazzo ha ragione. Sono stato troppo diffidente con lui, quando non lo meritava.
– Comunque sia, io sono felice – interloquì Katrina, con lo stesso, immutato sorriso. – Ho ritrovato mio figlio, e per tutti gli dèi, ho voglia di festeggiare! Rega, ti prego, va’ a parlargli. Sono sicura che saprai aiutarlo. E poi digli che festeggeremo in onore suo e della vittoria.
– Possibilmente non in quest’ordine! – scherzò qualcuno, ma la piccola donna lo fulminò con lo sguardo. – Digli così, Rega – scandì. – E poi… oh, ma che sciocca che sono! Tua madre è di là, con i feriti, sarà felice di vederti. Se vuoi andare prima da lei…
Non fece neppure in tempo a dirlo che Gregory era già corso via. Sua madre! Non la vedeva da un anno intero, e gli sembrava un’eternità. L’avrebbe trovato diverso? E suo padre Julian? Era lì con lei? Non vedeva l’ora di vederla e tempestarla di domande.
Chiese a un soldato dove avessero raccolto i feriti e scoprì che avevano occupato il vecchio magazzino abbandonato. Vi si recò. Le porte erano spalancate, una divelta dai cardini, e lasciavano filtrare fuori una luce fioca di lampade a olio.
Dentro erano stati arrangiati una ventina di giacigli di fortuna, non molto distanti l’uno dall’altro. Due o tre guaritori passavano rapidamente da un ferito all’altro.
Gregory la vide subito, a pochi passi dall’entrata: e malgrado la stanchezza che le segnava il viso, la trovò bellissima come sempre.
La ziina Fedria era una splendida donna di trentasei anni, non molto alta, bruna come Gregory e con la stessa matassa di riccioli ribelli che le ricadevano sulle spalle, arrivando quasi a sfiorare le natiche tornite. Il seno, protetto da un’armatura di cuoio leggero che lasciava spazio ad una comoda scollatura, era quello generoso e morbido di una donna che aveva allattato, ma il ventre era piatto e privo di grasso, così come tutto il resto del corpo. Il viso, in assoluto la sua parte più bella, sottraeva almeno cinque anni alla sua età, soprattutto grazie agli occhi nerissimi e fondi come pozzi di catrame, che luccicavano di una vitalità assolutamente giovanile.
– Madre! – Gregory corse ad abbracciarla. Era molto più alto di lei, e per questo fece per chinarsi sul suo viso, ma poi ci ripensò, si inginocchiò e la sollevò in braccio, baciandole felice una guancia, poi l’altra, poi le labbra. Fedria scoppiò a ridere, sgambettando nel vuoto e gridando allegra: – Rega! Lasciami scendere! Mettimi giù!
– Madre! – esclamò Gregory, con un sorriso che andava da un orecchio all’altro. – Non sei cambiata per niente, lo sai?
Fedria saltò giù dall’abbraccio del figlio. – Sono più vecchia di un anno – disse, assestando a Gregory un pugno sulla spalla. – E anche tu.
– Ma vedo che non hai perso le vecchie abitudini – borbottò il ragazzo, massaggiandosi la parte colpita.
– Te lo meriti. Un anno! Meriteresti che ti prendessi a legnate! – Fedria incrociò le braccia al petto, fingendo di essere adirata, ma in realtà gli occhi le brillavano per la gioia di rivedere il figlio. – Vieni qui – mormorò, abbracciandolo a sua volta. – Mi sei mancato.
– Anche tu, madre. – Gregory la baciò e la tenne stretta per un secondo, con calore. Era veramente felice.
– Che cosa ci fai qui? Non dovevi essere sulle montagne, a San Gloriano?
Gregory scosse la testa. – È una lunga storia. Dov’è mio padre? Voglio salutarlo.
La gioia sul volto di Fedria si incrinò solo un poco. – Ecco… è qui – disse. – È stato ferito da Ganelon.
Sentire pronunciare quel nome bastò a provocare un lampo di odio puro negli occhi di Gregory, come un fulmine a ciel sereno. – Grave? – chiese, cupo, già ripromettendosi di scagliare contro l’infame tutte le più ardenti maledizioni che conosceva.
– No, no. La ferita è profonda, ma non temere, si rimetterà presto. – Scosse la testa, nel gesto che Gregory conosceva bene, con cui si scrollava di dosso la tristezza. – Tuo padre ha la pellaccia dura, accidenti a lui. Vieni.
Lo ziin Julian era un uomo robusto, forte come un toro, e altrettanto cocciuto. Per questo vederlo disteso su un giaciglio, gli occhi chiusi, il torace fasciato, fece a Gregory una certa impressione, oltre ad accrescere la sua preoccupazione. – Padre – mormorò, inginocchiandosi accanto a lui. – Padre, mi senti? Sono Rega. Mi riconosci?
L’uomo voltò il capo nella sua direzione, lentamente. Un sorriso si fece strada sulle sue labbra. – Ringrazia che non posso muovermi, – disse, con voce roca, – altrimenti ti avrei già fracassato a pugni quella testaccia vuota.
– Lo so, lo so – mormorò Gregory, portandosi la sua mano alle labbra. – Sono stato lontano troppo tempo, e mi dispiace. Ma il priore Lorenço non mi ha più permesso di venire a trovarvi, e poi… poi ho combinato un guaio, e mi hanno mandato dall’altra parte della regione… – Sbatté le palpebre per scacciare una lacrima. – Sono contento di vederti, padre. Come ti senti? La tua ferita?
Malgrado le proteste di Fedria, Julian si sollevò su un gomito e si tese verso il figlio. – Come tutte le ferite, starei meglio senza – disse scuotendo la testa. – Ma tu avvicinati e dammi un bacio, Rega, se fra le tante cose non ti hanno proibito anche questo.
Gregory sorrise. – L’hanno fatto, ma ti confesso che non me ne importa molto. – Lo abbracciò e lo baciò su entrambe le guance, commosso. Poi disse: – Devo ringraziarti, padre. Ci avete salvato la vita, tu e gli altri. – Deglutì. – Io e Raphael eravamo prigionieri dei predoni di Ganelon.
Fedria lo toccò sul braccio. – Che cosa vi ha fatto?
– Non voglio parlarne – bisbigliò Gregory, rabbrividendo.
– L’abbiamo catturato. Potrai giustiziarlo tu stesso – disse Julian, con voce dura. – È un tuo diritto.
– Io… giustiziarlo? – Gregory ripensò a tutto ciò gli aveva fatto. Sentì una vampata d’odio avvolgerlo come un sudario. – Dio solo sa quanto lo vorrei fare – mormorò, con una voce che non riconobbe come sua. – Ma non mi tentare. Un servo di Dio non fa queste cose.
– Ancora con quella storia?
– Sì, padre – rispose, con voce distaccata.
Julian sospirò. – Non riprenderò un discorso che abbiamo già chiuso, Rega. Sai come la penso.
– Sì, ma mi è venuto anche tanto bene, da questa mia decisione, quanto tu non immagini. – Gregory sorrise. – Ho conosciuto una persona che da sola, con il suo affetto, vale tutte le privazioni di questi anni. Sarai felice per me, padre, te l’assicuro.
– Oh! Una donna, finalmente! – esclamò Julian.
Gregory arrossì. – Padre! Ho fatto voto di castità, lo sai.
– E poi dici che non stai buttando via la tua vita?
Fedria li guardò entrambi e sorrise. – Insomma, Julian, devi essere cieco per non vedere che a nostro figlio brillano gli occhi di felicità. Rega, non fare caso a tuo padre. Parla pure.
– No, madre, lascia stare – disse Gregory. – Ve lo presenterò tra poco, ai festeggiamenti. Si chiama Raphael. – Fece un sorrisetto. – Non lo crederai, è il figlio di Katrina. Ma ve lo racconterò più tardi, adesso devo andare. – Li baciò entrambi e si allontanò di corsa.
Una volta, Raphael gli aveva confidato che l’unico posto dove si sentiva veramente in pace con se stesso era in cima a un albero, a guardare l’orizzonte. E dal momento che a Widefield c’erano pochi alberi, fu facile trovarlo, una piccola figuretta bionda e scarmigliata a cavalcioni sul ramo di una quercia secolare. Sembrava assorto nei suoi pensieri.
Con un breve sospiro, rimpiangendo con tutto il cuore un paio di comodi pantaloni, Gregory sollevò il saio e prese ad arrampicarsi faticosamente, messo a disagio dalla scomodità dei calzari.
Raphael gli gettò uno sguardo. – Sembri padre Samuel – mormorò, con un lieve sorriso. – Un simpatico vecchino.
– Invece di prenderti gioco di me… – ansimò Gregory – perché non mi dai una mano?
– Ma certo. – Gli tese il braccio e lo aiutò a issarsi al suo fianco, con un po’ di fatica. Tardò un istante prima di lasciare la sua mano. – Sai… stavo pensando – sussurrò.
– Ai tuoi genitori?
Raphael sospirò. – Come posso saperlo? Forse quella donna, Katrina… mia madre… mi ha mentito. O forse si è sbagliata anche lei. Come posso saperlo?
– Il sangue non mente mai, Raph. Tu e Neekla siete due gocce d’acqua.
– Questo non basta.
Gregory gli passò un braccio intorno alle spalle. – Rispondimi sinceramente: sarebbe più facile, per te, se non fossero due gitani? Li accetteresti senza riserve?
– Io… credo di no – rispose Raphael, dopo un attimo. – Però questo complica le cose, in un modo che… che mi spaventa. – Alzò gli occhi, di scatto. – Se accetto, che mi accadrà? Dovrò vivere con loro? Dovrò rinunciare alla mia fede, a tutto ciò che sono? Io non voglio questo, Gregory.
– Lo so. – Il più grande gettò uno sguardo all’orizzonte, con calma. – Ti dirò una cosa, Raph. Ti racconterò la mia storia. Quando ho detto al priore Ferdinand di essere figlio di due contadini, io non mentivo. I miei genitori si privarono veramente del loro unico figlio, cioè di me, affidandolo a qualcuno che potesse dargli una vita migliore. Ma questo qualcuno non era un monastero, e neppure un uomo di religione. – Sorrise. – Era una coppia di gitani senza figli. Allora si credeva ancora che divorassero i bambini cristiani in qualche cerimonia satanica, ma i miei genitori vollero fidarsi. Erano disperati, credo, e forse pensarono che sarebbe stato meglio per me morire in fretta in pasto a due gitani, piuttosto che lentamente di fame. Così mi affidarono a loro. Avevo tre anni circa. – Scrollò il capo. – Molti dicono che io e mia madre ci somigliamo, ma è solo una coincidenza. Non ci sono legami di sangue tra noi. Quindi, come vedi, neppure io sono un vero gitano.
Raphael sbuffò. – Che bella coppia formiamo – mormorò, facendo un sorriso. – Un cristiano cresciuto coi gitani e un gitano cresciuto coi cristiani. Chi ci crederebbe?
Gregory sorrise. – Nessuno ti costringerà a cambiare – disse piano. – Io stesso sono entrato in monastero per mia scelta. Se vorrai prendere i voti, io credo che te lo permetteranno. – Chissà perché, quando lo disse sentì un sapore amaro in fondo alla gola, come di bile. Deglutì per allontanarlo, ma non ci riuscì.
– Io non so se prenderò i voti – disse Raph. – Non voglio… non voglio rimanere tutta la vita chiuso in monastero.
– È una tua scelta – assentì Gregory.
– Però non smetterò di essere cristiano – continuò il ragazzo. – Di questo sono certo. Anche se non credo che sarei un buon monaco. Sai… vederti salire su quest’albero con il saio addosso mi ha aperto gli occhi – aggiunse, sogghignando.
Gregory gli scompigliò i capelli con la mano, un po’ più crudelmente del solito. – Fingerò di non aver sentito – scherzò, lasciando scivolare la mano giù, sulla nuca, prima di spostarla. Aggiunse, allegramente: – Credo che d’ora in poi dovrò chiamarti lljena. Significa cugino. Katrina e mia madre Fedria sono sorelle per giuramento, sai.
– Mmm… seth-la? – rammentò Raphael, dopo un attimo.
Seth-lin – lo corresse Gregory. – Se lo desideri, nel tempo libero ti insegnerò qualcosa della nostra lingua.
Raphael alzò le spalle. – Sì, credo che mi piacerebbe. – Corrugò la fronte. – Greg, adesso dovrò bucarmi l’orecchio come te? Per portare… sai…
– L’orecchino? Niente ti costringe a farlo. Di solito i genitori lo applicano ai bambini ancora in fasce.
– E tu? Ricordo… – Raphael esitò. – Prima che tu venissi, si diceva che te lo fossi fatto da solo. Per spregio.
Gregory sorrise. – Stupidaggini. Spregio di cosa? E comunque nessuno, neanche i Senzapatria ritrovati, se lo fanno da soli. È una cerimonia complessa, e… be’, te lo spiegherò un’altra volta. Io l’ho preso a tredici anni. – Inspirò una boccata d’aria fresca. – Ero già cristiano, se vuoi saperlo.
– E a San Gloriano come la presero?
Gregory si rabbuiò. – Non volevo tenerlo nascosto. Sono sempre stato orgoglioso della mia gente. Quando fui ammesso, dissi al priore Lorenço chi ero e da chi ero stato cresciuto, ma non appena feci i nomi dei miei genitori… quelli che considero mia madre e mio padre, la ziina Fedria e lo ziin Julian… padre Lorenço mi ordinò di non parlare mai più con nessuno della mia identità, pena l’allontanamento da San Gloriano. E poi mi tolse l’orecchino.
– Non l’hai più riavuto indietro?
Gregory non riuscì a nascondere uno strano compiacimento che gli apparso in viso. – Nessuno può togliere a un gitano il suo orecchino e sperare di tenerlo a lungo – mormorò. – Me lo sono ripreso diversi anni fa. Il priore Lorenço, che evidentemente non controlla i suoi cassetti troppo spesso, non se n’è mai accorto. – Infilò una mano nella scollatura del saio, tirando fuori un braccio dalla manica.
– Ma… che fai? – disse Raphael, arrossendo furiosamente.
– Aspetta un attimo e vedrai – rispose Gregory, scoprendo anche l’altra spalla con un brivido. Poi gli mostrò l’interno del saio, dove una specie di rozza tasca di stoffa era stata fissata al tessuto con due grosse spille da balia. – L’ho fatto io – disse, con un sorriso. – Quando ho smesso di portare i calzoni, mi sono chiesto come fare per non dovermi separare dai miei tesori, e così… – Trasse fuori dalla tasca un piccolo orecchino d’oro, in tutto uguale a quelli dei soldati accampati nel villaggio, e un medaglione di ossidiana purissima con un’incisione bianca. Li mostrò a Raphael con orgoglio. – Tra di noi si dice che un figlio del vento ha bisogno di tre cose per essere completo: il verinil, che lo identifica gitano, il sema, il dono della propria madre, e il poros, il tatuaggio, l’eredità del padre. – Il suo sorriso si allargò. – Non è facile possedere tutte e tre queste cose. Se perdi tuo padre prima di raggiungere la maggiore età, non avrai mai il tatuaggio. Se tua madre muore dandoti alla luce o prima che abbia finito di realizzare il tuo sema, non potrai portare il nome di famiglia. – Una folata di vento gelido lo raggiunse, facendogli venire la pelle d’oca. Si ricoprì.
Raphael ficcò una mano in tasca e ne tirò fuori il proprio medaglione. Lo accostò a quello di Gregory, rimirandoli entrambi, affascinato. Erano due ovali perfetti di colore opposto, il suo rosa tiepido, quello del compagno nero come l’ebano. Anche le incisioni erano diverse. – Non so ancora cosa significhi – mormorò. – Cosa dice il mio?
Jethra – disse Gregory, con sicurezza. – Fenice.
– Cos’è un fenice?
– Una fenice. È un uccello leggendario, fatto di fuoco, che risorge dalle proprie ceneri. Rappresenta l’eternità. – Gli sorrise con calore. – Dovresti essere contento. È una famiglia molto antica e rispettata.
– Oh. – Non molto colpito, Raphael spiò l’incisione sul sema di Gregory, valutando le differenze di quelli che ai suoi occhi non dovevano sembrare più che semplici disegni. Parve esitare.
– Vuoi sapere il nome della mia famiglia? – chiese Gregory, disinvolto.
– Io… be’, sì – confessò Raphael. – Al priore hai detto di chiamarti Field, e allora mi sono chiesto…
Un angolo della bocca di Gregory si piegò all’insù. – Non ho proprio mentito, sai. Il nome di questo ideogramma è grest, che in lingua gitana significa “campo”. E anche se non dovrei accostare il mio nome da battezzato a quello della mia famiglia, come vedi Gregory Field è corretto.
Raphael sorrise. – Pensi che dovrei fare anch’io una cosa del genere? Voglio dire, tradurre il nome e tutto il resto?
– Se tu volessi, potresti. Ma questo significa che… oppure no? Hai già deciso?
Il ragazzo arrossì. – Ancora no, però… però desidero conoscerli meglio. Katrina e… e Neekla. Potrebbero piacermi.
– Ti piaceranno sicuramente, Raph. Scusami… lljena.
Lljena – ripeté Raphael, sorridendo. – Ha un bel suono.
– E aspetta di sentire il tuo nuovo nome. Solo un attimo, vediamo… jethra, la fenice… Phoenix. Raphael Phoenix. Che te ne pare? A me sembra bello.
Raphael fece un gran sorriso. – Suona bene, e mi piace. Grazie. – Improvvisamente lo abbracciò. – Grazie – ripeté, in un mormorio.
– E di cosa? – disse Gregory, ricambiandolo.
– Io… ah… non lo so. – Lo sentì sospirare, il viso appoggiato sulla sua spalla, e rafforzare la stretta. – Sono in debito… sì, in debito con te – mormorò Raphael. – Se non ci fossi stato tu, io… con Ganelon… e poi, gli altri gitani… – Serrò i denti. – Io continuo a pensarci, e mi dico… mi dico che se fossi stato solo, sarei morto. Non so che avrei fatto.
Gregory lo tenne a sé ancora per un poco, prima di lasciarlo. – Ed io cosa dovrei dire? – sussurrò. – Eri terrorizzato ma sei riuscito a darmi conforto quando ne avevo più bisogno. È stato… è stato terribile, ma senza di te avrei perso la ragione. – Lo guardò negli occhi. – Per il resto… è stato il volere di Dio. Dovresti ringraziare Lui, lo sai, e non me.
– Lo farò – sussurrò Raph. – Lo farò. Però, prima… prima dovevo… devo… – Chiuse gli occhi e accostò le labbra alle sue, intensamente, per un lungo istante.
Gregory abbassò le palpebre. – Mi ricorda…
– Anche a me. – Raphael ripose il sema nella tasca, senza guardarlo. Si muoveva con lentezza esasperata, come se non avesse più un’oncia d’energia in corpo. – Mi dispiace – bisbigliò. – Non dovevo.
Gregory lo abbracciò, d’impulso, e lo tenne stretto al petto finché non sentì i battiti dei loro due cuori fondersi in una diacronia assordante, e stordirlo e intorpidire la sua coscienza. – Ce ne dimenticheremo – mormorò. – Dobbiamo essere grati a Dio che non ci sia accaduto nulla di peggio. E il ricordo di quel mostro ci impedirà di cadere in peccato…
– Non è vero. È un’illusione – disse Raphael.
Aveva ragione: niente avrebbe impedito loro di fare una cosa che entrambi volevano disperatamente. Era solo questione di tempo… giorni? mesi? oppure, semplicemente, ore? No. Gregory lo lasciò andare. – Torniamo. Ci stanno aspettando per i festeggiamenti.
– Non ho voglia di festeggiare.
– Ti verrà. Andiamo. – Anche se non era stata sua intenzione, vide la sua durezza riflettersi nell’espressione di Raphael e ferirlo. Sospirò. – Ci passerà – mormorò, più dolcemente. – È colpa di quel mostro, che ci ha costretto a trovarci troppo vicini, più del giusto. – Posò la mano sulla sua. – Non pensarci e passerà più in fretta.
Raphael ebbe un’espressione strana, intenta. Prese la sua mano e se la portò in mezzo alle gambe, espirando leggermente al piacere di quel contatto. Poi la lasciò. Scese giù dall’albero senza dire una parola.
Gregory, rosso in viso come se avesse corso per ore, lo seguì dopo un attimo.
 

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Capitolo 8
*** 8. La festa ***


Gregory
Capitolo VIII: "La festa"


 

I festeggiamenti furono pieni e allegri, come ci si poteva aspettare da una banda di gitani; e benché i primi momenti fossero stati spesi alla memoria dei poveri abitanti di Widefield, massacrati ingiustamente, il resto della notte trascorse nella spensieratezza, con canti e danze gitane dalle melodie complicate, accompagnate dai suoni cristallini dei tamburelli.
Quasi tutti vollero accostarsi a Raphael: un Senzapatria ritrovato era sempre un evento e una grande gioia, e il fatto che fosse anche uno studente in un monastero… l’espressione più alta della servitù cristiana, così pensavano i figli del vento… ma non disprezzasse di accompagnarsi a loro e conversare e apprendere qualcuna delle miriadi di cose che non sapeva sulla sua nuova gente, gli conferiva un fascino tutto particolare.
Gregory, invece, lo lasciò in pace. Non era un tipo chiacchierone e avere troppa gente intorno lo infastidiva, perciò badò di restare a distanza dal suo compagno, permettendogli così di rimanere al centro dell’attenzione – Raphael provava un certo piacere quando tutti gli occhi erano puntati su di lui – e permettendo a se stesso di godersi i festeggiamenti in disparte, come aveva sempre fatto. A un certo punto, quando vide diversi gitani disporsi al centro per le danze, provò una fitta di rimpianto al pensiero di non potersi unire a loro, ma fugò subito questo pensiero inutile. Che razza di spettacolo avrebbe dato, piroettando in mezzo ai colori sgargianti degli abiti gitani con la sua tonaca spenta e i calzari? Con il crocifisso che penzolava al petto, magari… Rise aspramente di se stesso.
Tornò a guardare Raphael. C’era molta meno gente intorno a lui, adesso, perché molti si erano allontanati per le danze. Qualche fanciulla gli chiese di ballare, ma Raphael scosse la testa, arrossendo, sicuramente rispondendo che non aveva mai imparato.
– Che terribile mancanza! – trillò Katrina, con voce dolce. Poi si chinò sul figlio e gli mormorò qualcosa che lo fece diventare ancora più rosso.
Poi Raph rimase solo coi suoi genitori. Meglio così, pensò Gregory, trattenendo un sorriso. Avevano molte cose da dirsi, tanti anni da ricostruire in poco tempo, ed era giusto che lo sfruttassero al massimo. Non sapeva quando sarebbero tornati al monastero.
In quel momento Fedria lo raggiunse e si sedette in silenzio accanto a lui. Si era cambiata d’abito, adesso al posto della corazza e dei calzoni impolverati portava un bel vestito variopinto con tante gonne e sottogonne di colori diversi, tagliato trasversalmente a lasciare scoperte le gambe tornite sopra il ginocchio. Sui capelli aveva legato una bandana celeste, e per l’occasione aveva anche aggiunto un gioiello al pendaglio del suo orecchino.
Gregory si portò una mano al cuore, con un sorriso. – Madre, sei splendida. – Si chinò su di lei e le baciò la fronte, con dolcezza. – Mio padre dovrebbe vederti. Si sentirebbe subito meglio.
– Oh, mi ha visto – rispose Fedria, muovendo i polsi carichi di bracciali sottili. – Gli ho portato da mangiare. Ha sbraitato che doveva prender parte ai festeggiamenti, che ha contribuito alla vittoria… ma l’ho costretto a rimanere a letto.
Gregory annuì. – Hai fatto bene. A volte papà si comporta da incosciente.
– Non è l’unico in famiglia – osservò Fedria, con un sorriso.
Gregory la guardò. – Un novizio non ha molti modi per fare l’incosciente, sai. A parte… – Scosse la testa.
– Sono accadute molte cose da un anno fa, vero? – disse Fedria. Fece una pausa. – Hai voglia di parlarne?
– Madre, non sono accadute molte cose – replicò Gregory, abbassando gli occhi. – In monastero non avvengono mai molte cose. Solo una, importante… e già la conosci. Mi hanno cacciato da San Gloriano.
Fedria prese la sua mano. – Non vuoi dirmi perché?
– Sì. Te lo dirò. Con te non mi vergogno di niente. – Alzò il capo. – Sono andato a letto con Evan.
Fedria tacque a lungo. Non sembrava scandalizzata e neppure preoccupata, solo pensierosa. – Capisco – disse alla fine. Sospirò, poi, inaspettatamente, gli domandò: – Eravate lucidi?
– Lucidi? Sobri, vuoi dire? – mormorò Gregory. – No… non molto. Ma in quel momento io lo volevo, madre, lo volevo con tutto il cuore. E anche lui mi voleva. Non so se fosse il vino a farci sentire quelle cose, non lo so davvero. Quando ci siamo risvegliati mi ha guardato in un tale modo… se tu l’avessi visto, madre! Era terrorizzato. Era sicuro che l’avrebbero cacciato da San Gloriano, ci avrebbero cacciati entrambi, io gli dissi che non era necessario lo sapessero, ma sapevo… sapevo che avrebbe confessato tutto. Non volevo che lo cacciassero, sarebbe morto di dolore. Così… ho tentato di far credere al priore di aver fatto ubriacare Evan per violentarlo.
Fedria lo abbracciò, con delicatezza. – Non ti hanno creduto, vero? Come si può credere che tu faccia una cosa del genere…
– No, madre, non ti illudere. Ci avrebbero creduto. Ma Evan ha rivelato tutto, è troppo onesto per custodire un segreto simile… e hanno capito che la verità era dalla sua parte.
Lo baciò sulla tempia. – Ti manca?
– Sì – mormorò Gregory. – Sì, madre, mi manca. Quando ho voglia di parlare con qualcuno, e non posso perché gli studenti di Serven mi considerano a metà fra un pervertito e un fenomeno da baraccone… Ma preferisco così. La mia vicinanza l’avrebbe turbato… a volte penso che basti il mio ricordo a turbarlo. Lo capisco dalle poche lettere che mi scrive. – Scosse la testa. – Meglio che mi dimentichi. Gli ho già fatto troppo male.
– Non soffrire per quello che non puoi cambiare, Rega – disse Fedria, accarezzandogli il viso. – È inutile. Il destino ci prende tutti, prima o poi.
Gregory le baciò il palmo della mano. – Non preoccuparti, madre, adesso mi sento meglio. Sono in pace con me stesso. Era da molto tempo che non mi sentivo così, ed è tutto merito di… – esitò – … di Raphael. – Accennò al ragazzo, immerso in una conversazione fitta con Neekla. Dai gesti che faceva, Gregory avrebbe detto che stesse raccontando qualcuna delle sue marachelle. – È la persona più bella e spontanea che abbia mai incontrato – mormorò. – È… sempre pieno di energia, e vitale, e… non so come definirlo. È trasparente. Sì. Anche quando prova a mentire, la verità gli si legge in viso. E dovresti sentire la sua risata, madre. Scalda il cuore.
Fedria sorrise. – Tu lo ami.
Gregory si sentì stringere il cuore, dolorosamente. – Come puoi dirlo?
– Lo vedo, Rega. – La donna scosse la testa, dolcemente. – Dal modo in cui ti brillano gli occhi quando lo guardi. Dal modo in cui sorridi. Dalla tenerezza con cui parli di lui. Pensi che non ti conosca, figlio mio? Tu ne sei innamorato. Sei legato a lui più di quanto tu stesso creda. – Attese una replica che non venne, poi chiese, con calma: – Non l’avete fatto, vero?
Gregory arrossì fino alla radice dei capelli. – Madre, tu non… – iniziò, poi rinunciò alle remore. Deglutì per darsi forza. – Ganelon… lo divertiva che ci baciassimo. Che ci toccassimo. E dopo un attimo, noi… noi eravamo… Oh Dio, ci desideravamo così tanto… – Si fermò. – Non sono abituato a parlare di queste cose. E con te, poi…
– Credevo che con me non ti vergognassi di nulla – replicò Fedria, con un sorriso.
Gregory scosse la testa. – Non l’abbiamo fatto, madre. E per il resto, non posso dire che abbiamo commesso peccato. Non possiamo controllare le reazioni del nostro corpo, non dipendono dalla nostra volontà.
– Però potreste dargli retta, ogni tanto – disse la donna. – Specie se il corpo ne sa più dalla mente.
– Madre, tu… tu non capisci – mormorò Gregory, esausto. – Non è così facile, quando si portano questa… – sollevò la Croce – … e questo. – Indicò il saio.
Alzò gli occhi, seguendo con lo sguardo i volteggi aggraziati dei danzatori finché non lo rapirono completamente, allontanandolo da qualunque altro pensiero. La madre non lo disturbò per lunghi istanti. Alla fine, però, gli toccò la spalla e disse piano: – Unisciti a loro. Lo desideri tanto.
– No… no, madre. Non danzo da anni… senza contare che sarei ridicolo, vestito così.
Fedria lo prese per mano e lo fece alzare. – Questo non è un problema. Vieni con me. – Lo condusse fino ad uno spiazzo poco distante dal magazzino eletto ad infermeria. Era pieno di carrozzoni variopinti.
– Casa… – mormorò Gregory con un sorriso dolcissimo, sfiorando il legno consunto della dimora itinerante in cui era cresciuto. Guardò la madre. – Dovremmo riverniciarlo, sai. Era così bello quand’ero bambino…
Fedria sorrise. – Lo faremo. Vieni. – Una volta all’interno, la ziina aprì un armadietto e ne trasse fuori una camicia bianca e ampia, con le maniche larghe secondo l’uso dei gitani, un paio di calzoni comodi con due spaccature all’altezza delle caviglie e decorati con frange ai lati dei tagli, e infine un paio di stivali di cuoio morbido. – Sono di tuo padre – disse con un sorriso.
Gregory era imbarazzato. – Madre, io… io non so se posso. Non porto abiti come questi da…
– Da troppo tempo – terminò la madre per lui. – Rega, per favore. Solo per stanotte. Non voglio che tu dimentichi di essere uno di noi.
Gregory la abbracciò. – Questo non accadrà mai, madre. Te lo giuro. – Prese gli abiti e gli stivali. – Farò come vuoi. Dopotutto… sarà bello indossare un paio di calzoni, dopo tanto tempo. – Esitò, imbarazzato. – Potresti voltarti?
Fedria rise piano. – Ti vergogna mostrarti nudo a tua madre? Un tempo non avevi di questi problemi.
– Madre!
– D’accordo, d’accordo… stavo solo scherzando! Io torno in piazza. Lascia pure i tuoi vestiti qui.
Rimasto solo, Gregory strinse gli abiti a sé per un attimo e ne aspirò il profumo privo di incenso e chiesa. Aveva una voglia disperata di indossarli, di sentirsi per una volta a casa, senza niente che potesse ricordargli la spaccatura profonda che cavalcava quotidianamente, nello sforzo spasmodico di fingere che due culture così opposte potessero convivere in un animo solo, senza lacerarlo… senza farlo sanguinare ogni momento. Per una notte, voleva sentirsi figlio del vento e nient’altro, un gitano tra i gitani, che mangia con loro, beve, ride, danza… fa l’amore. No, questo no. Si sentì in colpa per averlo pensato, e perché il pensiero aveva richiamato quello di Raphael. Slacciò la cintura della tonaca, si sfilò il saio (stando bene attento a svuotare prima la rozza tasca interna del suo prezioso contenuto), si tolse la tunica e i calzari e poi entrò nei calzoni, rapidamente, sentendoli subito comodi come una seconda pelle. Si infilò la camicia, che malgrado l’apparenza era pesante e calda, trasse i capelli fuori dal colletto rialzato e mosse un poco le braccia, per abituarsi alla morbida sensazione delle maniche larghe che gli ondeggiavano ai polsi. Era piacevole, almeno quanto il movimento quasi uguale all’estremità dei calzoni. Sospirò. L’orecchino e il sema, che aveva posato sul saio gettato a terra, lo guardavano dal basso, muti. Gregory si chinò, prese il primo e cercò con la punta affilata il foro nel lobo. Al terzo tentativo riuscì a indossarlo, anche se il buco, che con il tempo si era quasi completamente richiuso, fece resistenza e sanguinò un poco. Poi, sistemato l’orecchino, prese il sema e fece per ficcarlo in tasca. Allora si guardò intorno e l’occhio gli cadde su un piccolo laccio di cuoio poggiato sulla sommità dell’armadietto. Sorrise. Infilò con cautela un’estremità del laccio nel piccolo foro del medaglione, lo fece scivolare giù e poi legò la collana improvvisata dietro il collo. Il risultato lo soddisfece. Adesso portava due collane al collo, un crocifisso cristiano e un sema gitano. Sembrava una contraddizione, ma cosa non lo era, nella sua vita?
Piegò la tonaca e la sistemò nell’armadio, con cura. Poi uscì e tornò nella piazza. L’imbarazzo che aveva provato in un primo momento, prima di gettare uno sguardo fuori, svanì subito quando si accorse che nessuno lo degnava di una seconda occhiata. Si sentì felice. Era la prova che gli occorreva. Si guardò intorno per un istante: i danzatori erano aumentati di numero. Raphael parlava ancora con i suoi genitori. Fedria era in piedi accanto a loro, china sull’orecchio di Katrina. Scrollando le spalle, si avvicinò alla madre, si portò la mano al cuore e disse, con un sorriso: – Madre, vuoi insegnarmi a danzare di nuovo? Come ballerino non sono granché, temo. Cerco una brava fanciulla che non si lamenti troppo se le pesto i piedi. Fedria si alzò e prese la sua mano. – Non mi lamenterò – rispose con lo stesso sorriso. – Ma tu cerca di impegnarti. – Chinò il capo in direzione di Katrina e Neekla. – Seth-lin, avanti, prendi in braccio il tuo compagno e trascinalo a ballare. Neekla, non vorrai apparire più goffo di mio figlio, che non danza da tre anni? L’uomo scosse la testa, imbarazzato. – Non voglio lasciare mio figlio da solo… – Oh, no, va’ pure – disse Raphael. Non lo stava neanche guardando, aveva occhi soltanto per il suo compagno. Se ne accorsero tutti, tranne Gregory, naturalmente. Anche lui appariva vagamente perso. – Non preoccuparti, padre, io rimango qui. Portalo con te, madre. – Rega? – Fedria lo scosse leggermente. – Vieni? Katrina e Neekla li seguirono dopo pochi istanti.
Nonostante la bellezza della danza, che gli riempì il cuore di una gioia limpida, antica e nuova, Gregory non si concentrò sui passi quanto avrebbe voluto. Era distratto dalla costante carezza che lo sguardo di Raphael gli procurava sulla nuca, e dai brividi interni che gli attraversavano la spina dorsale ogniqualvolta, piroettando con la madre, si trova nella posizione giusta per gettargli un’occhiata e il ragazzo la ricambiava, dimostrandogli così di avere gli occhi sempre fissi su di lui. Più volte si trovò a scuotere la testa, a dirsi: Smettila. Concentrati. Non pensare a lui; ma aveva ragione sua madre, a volte il corpo ne sa più della mente, e quelle sensazioni così inquietanti eppure sottilmente piacevoli, quei piccoli brividi di piacere e di aspettativa, ne erano la prova.
E poi la musica di quella danza si spense dolcemente in un diminuendo, e Fedria lo lasciò. – Sei ancora bravissimo – disse la donna, a voce bassa. Lo baciò sulla guancia, mentre la musica riprendeva e tutte le fanciulle si allontanavano per andare a sedersi. Gregory riconobbe subito la melodia: era una danza maschile, dal timbro marziale. Avrebbe dovuto aspettarselo, dopo una vittoria in battaglia. La danza dei Giganti era doverosa.
– Ti lascio – disse Fedria. – Goditi questo ballo, perché dopo ci sarà la danza delle Amazzoni. Ma Gregory non aveva un gran desiderio di prender parte a quella danza, anche se i passi erano semplici e il ritmo piacevole. Poi vide Raphael alzarsi, trascinato dalla madre. Katrina gli strappò di dosso il mantello e lo spinse verso di lui, con entusiasmo, poi tornò da Fedria, gettandole un sorrisetto complice. In quel momento, Gregory fu certo che avessero architettato tutto insieme. Ma in compenso gli tornò il desiderio di danzare. Si avvicinò a Raphael, che si guardava intorno smarrito mentre gli altri gitani prendevano posizione, si chinò su di lui e mormorò, con un lieve sorriso: – Ti aiuto io. È facile.
Raphael sembrò ancora preoccupato. – Io non ho mai danzato, Gregory.
– Lo so. Non ti preoccupare. Imparerai subito. Si disposero l’uno di fronte all’altro, accostandosi alle due file che si erano già create, e poi iniziarono a muoversi con gli altri. Gregory gli suggeriva i passi, molto facili, che si ripetevano ad intervalli regolari; poco dopo Raphael aveva già memorizzato la sequenza. Lo vide nella crescente sicurezza con cui si muoveva, nel lieve sorriso di soddisfazione che gli era affiorato alle labbra.
In quell’istante, in quel preciso istante, mentre i movimenti della danza li portavano a sfiorarsi, provò il desiderio terribile di fare l’amore con lui. Quando anche questa melodia si spense, lasciando posto a quella più movimentata della danza delle Amazzoni, furono gli uomini ad allontanarsi dal centro. Ansante, con un velo di sudore sul viso, Gregory si accostò a Raphael e gli disse piano, all’orecchio: – Lljena, andiamo a fare due passi?
Raphael annuì.
– Non mi abituerò mai ad essere chiamato così – disse poi, mentre si allontanavano lentamente. – Sembra strano.
– Forse lo è – mormorò Gregory. – Perché tra noi non ci sono legami di sangue. Forse per questo. Ma io… io sono felice che questi legami non esistano.
Raphael lo guardò senza capire. – Non vorresti che fossimo parenti?
– No. – Gregory si fermò. Campeggiava sopra di loro la quercia su cui si erano arrampicati qualche ora prima, ma adesso c’era ancora meno luce tutto intorno. – No, non lo vorrei. Mi ripugnerebbe avere il tuo stesso sangue e allo stesso tempo… allo stesso tempo… – Lo sospinse verso l’albero, finché le spalle del ragazzo non si appoggiarono al tronco. Non osò aderire con il corpo al suo più esile, per tema che la dimensione fisica di entrambi rivelasse fin troppo sfacciatamente ciò che provava. Posò le mani sulla corteccia, ai lati del suo volto. Chiuse gli occhi. Si scoprì ad accarezzargli il collo con i pollici, un contatto lievissimo, un niente, ma che lo fece rabbrividire non appena ne prese coscienza.
– Lo so cosa vuoi fare – mormorò Raphael, implorante. – Perché esiti? Di che cosa hai paura?
– Io… non lo so.
– Non mi ami?
– Oh, Raphael, come puoi chiedermelo? – sussurrò Gregory, straziato.
– Dimmi quello che vuoi fare.
Gregory si chinò sulle sue labbra. – Ti voglio baciare.
– Dillo di nuovo.
– Ti voglio baciare, Raphael.
– E allora fallo. – Un momento di pura stasi, due cuori fermi sull’accennare del battito, l’urto di due squarci d’umidità che collimano, perfettamente, in un tripudio dei sensi. Due corpi che si modellano l’uno sull’altro, si stringono nel buio, furtivi, agonizzanti nella ricerca reciproca. Respirano, non hanno più fiato. Si separano, aspirano insieme un poco di quell’oscurità nebbiosa e campagnola che sa di natura, si riprendono più bisognosi di prima. Qualcosa, dabbasso, si è aperto, complice una mano spudorata e una sua gemella appena più timorosa. Il momento è intenso, drammatico. La tensione insopprimibile.
– È bello, è bello così… – sussurra Raphael, addossato al tronco dell’albero.
– Non ti fa schifo? Che io… che ci tocchiamo così?
– No, è bellissimo… è così… giusto… ogni cosa al suo posto, ogni cosa… come deve essere… vorrei… Gregory, farai una cosa se te la chiedo?
Il novizio gli posò le mani ai lati del collo, languidamente, e gli ricoprì di baci la guancia punteggiata di teneri ciuffi di peluria. Li contò, uno per uno, con le labbra. – Tutto quello che vuoi…
– Mettimelo tra le gambe.
Gregory esitò, piegò le gambe per aderire al suo corpo, ma Raphael lo fermò. – Dentro i calzoni – bisbigliò, ed era una fortuna che il buio nascondesse all’altro il suo viso, paonazzo com’era di vergogna. Aprì un poco le gambe, scostando dal pube i lembi schiusi dei calzoni. Con un moto di desiderio sfiorò la sua mano che lo guidava dentro, quasi a prender parte marginalmente a quella grottesca simulazione dell’atto virile. Tra le cosce infiammate sentì strofinarsi ogni centimetro della sua maschilità.
– Possiamo farlo anche così, sai – ansimò Gregory, serrato nella sua tenera stretta.
– Non ti… ah, non ti muovere.
– Ti faccio male?
– No. Fammi… fammi abbassare i calzoni.
– Qui?
– Sì…
– Raphael, non voglio che sia qui.
Si fermò. – Perché? È bellissimo, non ci vedrà nessuno…
– Ti prego, Raph, dammi ascolto, porta pazienza. Un letto, un posto qualunque… non voglio farti soffrire, qui è così scomodo…
Raphael se lo strinse addosso, con passione. – Ma non ce la faccio a lasciarti… è meraviglioso stare così, sento tutto quanto…
– Mi lasci solo per poco, e poi riprendiamo meglio di prima… Ci troviamo una casa, un letto, ci chiudiamo dentro e non ci disturba più nessuno finché abbiamo voglia. – Gregory si chinò e lo baciò a tradimento, impedendogli ogni protesta, mentre subdolamente si ritraeva da lui. Privato della vita stessa, Raphael rimase appoggiato all’albero, infelice. – Vieni – mormorò il più grande, tendendogli la mano. – Un attimo di pazienza e di me potrai fare quel che vuoi. Sarò il tuo schiavo.
Sorrise. – Non lo sei già?
– Nell’anima, sì. Ti do il corpo, che Dio mi perdoni.
– Non ha niente da perdonarci. – Lasciò il tenue conforto della quercia e lo abbracciò, di fianco, premendogli il viso contro la spalla. – Non facciamo niente di male, siamo solo due che si amano, e io ti amo quanto tu non sai, per te darei anche la vita. Dio ci ama, ti dico. È troppo bello per essere peccato.
O troppo per non esserlo?, si disse Gregory, senza osare dar voce ai suoi pensieri. Ma Raphael aveva ragione. Era troppo bello. Troppo bello per rovinarlo così.
Prese la sua mano, con decisione, e lo tirò ancora più lontano dai fuochi della piazza, da dove non giungeva neppure l’ultimo eco della musica. Fugacemente, mentre si allontanava con lui, si chiese se sua madre avesse previsto anche questo, quando si era accordata con Katrina perché buttassero Raphael in pasto alle danze e tra le sue braccia. Mentre deglutiva saliva inesistente al pensiero di fare l’amore con lui, e il vento gelido sbatteva impudico contro le sue vergogne offerte alle intemperie, strappandogli ad ogni istante un poco del suo turgore, si chiese se in quel momento la ziina Fedria stesse mormorando all’orecchio della sua seth-lin parole del tipo: – È meglio che restino un po’ da soli, adesso. Hanno molto da dirsi. – Magari calcando quell’ultima parola con un sorrisino malizioso. Sbatté le palpebre. Che diavolo importava? L’indomani tutti avrebbero saputo che avevano fatto l’amore. Tanto meglio. Così a nessuno sarebbero sorti dubbi su come stavano le cose tra loro.
Raggiunsero una delle case più lontane dalla piazza. Era oscura e silenziosa, e dall’interno non provenivano rumori né voci. Per scrupolo, Gregory bussò alla porta – socchiusa – e attese qualche secondo. Nessuna risposta. – Non c’è nessuno – mormorò. Posò il palmo sul legno freddo. L’uscio scricchiolò e cigolò e si aprì senza difficoltà.
– È vuota – disse Raphael, avvicinando il corpo al suo. Richiuse la porta, distrattamente, e si fece ancora più vicino.
Stringendo la sua mano più forte per distrarsi da quell’attesa straziante, Gregory si mosse verso una finestra e scostò una tendina sfilacciata, per lasciarvi entrare un po’ di luce e permettergli di capire dove fosse la camera da letto. Per fortuna, era una casa molto piccola. La trovò al primo colpo: la porta era ancora aperta.
All’interno regnava una gran confusione, cassetti rovesciati, sangue sul pavimento. Ma il letto era intatto, ed era delle dimensioni sufficienti ad accogliere comodamente due persone. Vagamente, in un angolo del proprio animo, Gregory si sentì male al pensiero di fare l’amore in una camera dove una coppia era stata massacrata, ma allontanò il pensiero. Se avesse continuato a ragionare così, sarebbe dovuto scappare via da Widefield per l’orrore. Forse un altro l’avrebbe fatto. Lui non ne aveva intenzione. Dentro di sé, comunque, si sentì rassicurato al pensiero che tutti i cadaveri fossero stati portati via e seppelliti. Questo mitigava in qualche modo la sensazione di dissacrare una tomba.
Chiuse la porta con un calcio, con veemenza, e abbracciò Raphael, affondando il viso nell’incavo del suo collo. Gli inflisse un morso leggero, assaporando con immenso piacere il suono del suo piccolo ansimo. Pensò, da qualche parte nella sua mente, che con Evan non era stato così. Era stata una cosa veloce e meccanica, il puro soddisfacimento di un desiderio. Era stato bello, ma niente in confronto a questo.
Con un sospiro che poi era un ansimo di gioia, gli tolse il mantello e lo gettò via, accanto al suo.
Lo fece arretrare fino al bordo del giaciglio, poi, colto da un’ispirazione improvvisa, si chinò, gli abbracciò i fianchi e lo sollevò, attorcigliandogli le gambe con le sue cosce. Caddero insieme, in un groviglio di gambe e braccia da cui si sciolsero unicamente per trovare una posizione ancora più intima, mentre sotto la schiena di Raphael il materasso si tendeva e li faceva ondeggiare leggermente. Ansimarono insieme, mentre le loro parti intime strofinavano con veemenza.
Non si scambiarono neppure una parola. Erano straziati dalla stessa eccitazione, e si mossero identicamente, l’uno sull’altro, senza pensarci. Si slacciarono le camicie a vicenda, poi a turno se le sfilarono dalla testa e le gettarono sul pavimento. Al termine di questa operazione, si abbracciarono di nuovo e rotolarono sul letto, che iniziava a intiepidirsi per il calore dei loro corpi. Soffocarono i brividi di freddo con carezze spasmodiche e affrettate, unendo le bocche più a lungo e con più foga.
Dolcemente gravato dal peso lieve del suo compagno sopra il corpo, Gregory mandò un sospiro di piacere e riprese a baciarlo. Sentiva il crocifisso di legno, appeso alla sua cordicella, appoggiarsi alla sua spalla destra, e il sema, più pesante, fare lo stesso dall’altra parte. Lo infastidivano. Con uno scatto, il giovane novizio gettò Raphael sul materasso e se li sfilò entrambi, posandoli sul comodino poco distante. Poi, a un cenno di assenso, prese anche il crocifisso di Raphael e glielo tolse, gettandolo insieme alle sue cose. Sorrise ansimante. Adesso veniva la parte più bella.
Infilò le dita tra i lacci dei calzoni di Raphael e prese a scioglierli, mentre il ragazzo faceva lo stesso con lui. Quando ebbe finito – e anche Raphael aveva fatto la sua parte – chiuse gli occhi per un istante. Gli sorsero alla mente molti pensieri, come “Questo è un momento importante” o “Non devo sciupare tutto con la fretta”, ma niente di questo aveva la minima importanza, per lui. Ci sarebbe stato tempo per riflettere su quell’istante, ci sarebbero state ore e giorni e mesi e anni… dopo. Adesso non aveva neppure un attimo per chiedersi cosa volesse di più, se dare piacere a Raphael o riceverne da lui.
Gli denudò il basso ventre dopo che Raphael aveva già scoperto il suo, e lo guardò, ma solo per un secondo. Non gli andava di fare confronti, né di chiedersi quante volte la mano di Raph lo avesse accarezzato, né se qualche fanciulla l’avesse mai accolto tra le cosce. Non gliene importava nulla. In realtà l’unica cosa che desiderava, adesso, era che il suo giovane padrone non si facesse remore ad usarlo.
Si sollevò sulle ginocchia, ignorando il proprio membro che, non più prigioniero dei calzoni, svettava verso l’alto come il pennone di una bandiera; gli sfilò gli stivali e poi i calzoni, rapidamente, poi tornò a distendersi, aspettandosi che il compagno gli ricambiasse il favore. E Raphael lo fece subito, con molto piacere e altrettanta velocità.
Alla fine, quando non fu rimasto più nulla che dividesse i loro corpi, Gregory afferrò un lembo delle lenzuola e lo tirò via, di lato. Lasciò Raphael per intrufolarsi sotto le coperte tiepide. Il ragazzo fu lesto a raggiungerlo, con il labbro inferiore sanguinante per la violenza con cui se l’era morso, allo scopo di soffocare un grido. – Ti amo – bisbigliò Raphael, baciandolo con calore.
Gregory sentì il sapore del suo sangue sulle labbra. – Quanto ancora puoi resistere? Un minuto? Due?
– Non posso. Non ce la faccio più – boccheggiò Raphael. Non scherzava e non lo diceva per compiacerlo, anche se quella era la risposta che lui voleva sentire. Con un sorriso intento, lo baciò per l’ultima volta e scivolò giù, sotto le coperte, nell’oscurità riscaldata dai loro corpi.
Raphael iniziò a gemere quasi subito. Il suo membro vergine pulsava talmente forte sotto le carezze umide della lingua del compagno da far pensare che dovesse raggiungere il piacere da un momento all’altro. Quando Gregory lo accolse in bocca, lo trovò caldo e delizioso.
Ma, quando lo fece, sentì che un gelo di piombo gli calava sul cuore. Il pensiero di Ganelon gli vorticava nella mente, lo disturbava e non riusciva a scacciarlo. Perché?, si domandò, proseguendo stoicamente. Perché quel mostro nella mia testa? Ci siamo solo io e lui… io e lui… Dio mio, allontanalo… allontanalo…
Non ce la faceva. Lo lasciò e riemerse dalle coperte, voltandogli la schiena. Lacrime brillavano nei suoi occhi.
– Gregory…
– Scusami. Non ce la faccio. Mi ricorda… mi ricorda troppo… Dio mio! – gridò, stringendo i denti. Morse il cuscino. Che uomo sono, se non so neppure dare piacere al mio amore? Che uomo sono? Maledetto… maledetto… L’inferno inghiotta la tua anima!
– Gregory… ti prego, girati – mormorò Raphael.
Obbedì, riluttante. Non voleva che lo vedesse piangere. Ma il ragazzo si fece più vicino, ancora tremendamente eccitato, chissà quanto gli costava ignorare il desiderio che per un pelo aveva soddisfatto, e gli asciugò le guance con piccoli baci. – Toccami – sussurrò.
– Raphael…
– Con le mani. Niente labbra, niente… che possa ricordarti quella notte. Ma toccami, perché sto impazzendo. Ti prego.
Gregory unì le labbra alle sue, stringendo forte le palpebre. È il mio amore, si disse. Non è lui, è Raphael, è il mio piccolo dolce Raphael… Lo accarezzò e gli parve che quel gesto gli restituisse la vita. Avvolse le sue labbra in un bacio più intenso, con il braccio libero lo attirò a sé per averlo più vicino. Quegli ansimi… quei piccoli ansimi che Raphael gli lasciava nella bocca erano dolcissimi. Si ritrasse per dargli modo di esprimersi meglio, si fermò su un labbro per mordicchiarlo con dolcezza. Sentì rifiorire il proprio desiderio.
– Amore mio… – bisbigliò, grato e felice.
Raphael tratteneva le grida tra i denti.
– Grida pure… – sorrise Gregory, che lo guardava estasiato. – Nessuno ci può sentire… piccolo mio…
– Ti amo, Gregory… ti amo!
Il viso di Raphael era un fuoco. Lo baciò tutto, mentre il ragazzo si riprendeva tra le sue braccia. Dio se lo amava. Quella creatura era… meravigliosa. Si stese sopra di lui senza pensarci.
– Voglio fare l’amore – sussurrò, ma con dolcezza, perché non suonasse come un ordine quello che era solo un dolcissimo desiderio. – Ti prego. Me lo permetti?
Raphael aprì gli occhi e annuì, con un vago sorriso. – Però giurami che farai piano… giura…
– Te lo giuro… – bisbigliò baciandolo. – Non avere paura…
– Non ho paura…
– Sarò delicato come un fiore…
– Mai visto un fiore dal gambo così grosso… – ridacchiò Raphael.
Gregory si scrollò di dosso le coperte, tanto bastava la loro passione a riscaldarli. Riprese a baciarlo e mentre lo faceva insinuò una mano tra le sue cosce dischiuse, cercando quel punto così nascosto e sensibile che desiderava tremendamente… Serrato come una conchiglia. Lo accarezzò dolcemente, senza fretta. Non poteva rischiare di fargli male. Non poteva… non a lui. La pelle di Raphael si sollevava tutta in preda ai brividi, ma non per il freddo.
– Ti faccio male? – bisbigliò, premendo leggermente.
Raphael scosse la testa, ma non riuscì a nascondergli una ruga di preoccupazione. – È così stretto… – ansimò, vergognoso.
Sì, così stretto. Gregory iniziò a sudare freddo. – Tranquillo – sussurrò. – Andrà tutto bene.
Doveva farlo. Non aveva molta scelta. Scivolò giù tra le sue cosce, divaricandole con le mani, e alle dita sostituì la lingua. Sentì la mano di Raphael affondare tra i suoi capelli, stringendoli, comunicandogli così il piacere intensissimo che gli stava dando. E Gregory era tranquillo e audace, adesso che si rendeva conto di non essere turbato da alcun pensiero molesto. Ganelon era stato ricacciato indietro, in fondo al mare dei suoi ricordi. Non sarebbe tornato, per quella notte.
Continuò finché non gli parve che dovesse andare bene, poi risalì il corpo di Raphael fino a posargli un umido bacio nell’incavo del collo. – Rilassati… – mormorò. – Sennò ti farò male… rilassati, pensa a quanto mi vuoi… Tu mi vuoi, non è così?
Raphael annuì, rispose inquieto: – Sì che ti voglio… Sapessi quanto…
Gregory si unse di saliva. Gli tremavano le mani e sperava che Raphael non se ne accorgesse… non si rendesse conto che era la prima volta che faceva una cosa del genere… da sobrio. Ma lo sguardo del ragazzo vagava nell’aria soprastante, perso. Non lo guardava. Chissà perché.
– Amore mio… – bisbigliò. – Guardami…
Raphael lo fissò negli occhi, con dolcezza.
– Andrà tutto bene… tutto bene… – ripeté Gregory, come in una cantilena, ma lo faceva per convincere Raphael o se stesso? Lo forzò mentre ancora sussurrava a fior di labbra quelle parole.
Una sofferenza inaspettata torturò i lineamenti di Raphael, fino a poco prima sereni. Il ragazzo trattenne un gemito tra i denti, stoicamente. – Tutto… bene… eh? – ansimò.
Quel tono spaventò Gregory. Adesso mi odierà, pensò. Mi odierà e non mi vorrà più. Dio mio, che ho fatto…
E invece Raphael sfoderò un meraviglioso sorriso sofferente, aprì gli occhi e mormorò: – Dovrei essere io quello… ah… senza esperienza… ma non mi sono illuso mai… che sarebbe stato indolore…
Gregory lo baciò. – Amore mio, – bisbigliò, – ho creduto che mi avresti odiato…
– Che stupido… – sorrise il ragazzo. – Io ti voglio davvero… Non l’ho detto per farti piacere…
Quanto avrebbe voluto avere l’esperienza che si era sempre negato! Per lui. Per non farlo soffrire così. Ma non l’aveva, e non poteva farci niente. Lentamente, con cautela, si prese un altro pezzetto del suo corpo.
Chiuse gli occhi per non vedere la sofferenza a stento controllata sul viso del suo compagno. Eppure lo voleva, oh sì, ne era certo: non si può mentire in momenti come quello. Conosceva quel terribile, devastante desiderio di donarsi. Sfiorava a tratti il masochismo, era un’esigenza spirituale prima che fisica, un bisogno irrinunciabile. Niente che venisse chiesto con tanta forza e dedizione poteva essere un capriccio.
Non sta soffrendo per me, si disse il giovane, ma per se stesso. Io lo so, lo riconosco: è a se stesso che fa questo, per essere ciò che vuole, per distruggere una verginità che non vuole più – e chi mai l’ha voluta? –, per essere libero di amare ed essere amato senza quel peso di schiacciante, insopprimibile angoscia… – Non ti preoccupare – mormorò, prendendogli le cosce e sollevandole alte sopra la propria schiena. Le sentì chiudersi, percepì le caviglie tremanti intrecciarsi sopra i suoi glutei. Così forse sarebbe stato più facile e meno doloroso. Rassicurato dall’espressione più calma, quasi appagata di Raphael, continuò a premere. Gli sembrava di trafiggerlo, di spaccarlo: ogni pollice di terreno che conquistava era una forzatura, paradisiaca per lui, dolorosa per Raphael. Ma continuò. Si ritrasse brevemente e di nuovo affondò tra le sue cosce perfette. Boccheggiò. Adesso era completamente sprofondato in lui, fino all’elsa. Riprese lentamente fiato.
Raphael, che lo teneva abbracciato, gli piantò le unghie nella schiena. – Continua – ansimò, con voce strozzata. – Continua. Fino alla fine. Continua.
Anche se avrebbe voluto possederlo con impeto, tanta era l’eccitazione, Gregory si trattenne fino allo spasimo e s’impose un ritmo languido, pacato, che sciogliesse le ultime resistenze del suo giovane ospite in un dolce far l’amore. Chiuse gli occhi, colto dagli spasmi, e suo malgrado affrettò il movimento. Il corpo di Raphael si contraeva a ritmo con il suo possesso, deliziosamente, e il ragazzo ansimava e gemeva, sì, ma di inequivocabile piacere. Piacere d’esser posseduto. Piacere d’essere uomo ed essere posseduto.
Sentì il corpo di Raphael rispondere in altro modo di quel piacere, donandogli la forza di un’altra, generosa erezione, che andò a premere, fiera, contro il suo ventre. Sorrise, quasi fosse un regalo per lui. Si contorse per staccare la mano del compagno che gli artigliava la schiena e la portò giù, a chiudere tutte e cinque le dita intorno a quella forma già vigorosa nella sua acerbità. Poteva ben ritardare di qualche istante il suo piacere, se in cambio poteva dargli e darsi la gioia di venire insieme, uniti in un solo amplesso!
Raphael aprì gli occhi, vagamente stupito di quella sorpresa, poi sorrise e l’assecondò, disfacendo il nodo della gambe dietro la sua schiena, aprendo maggiormente le cosce tesissime e infuocate, e inarcando la schiena per meglio offrirsi a lui.
Si baciarono mentre ognuno si dava al proprio piacere, e nella congiunzione tumultuosa delle lingue si scambiarono un reciproco grido di trionfo. L’orgasmo li scosse insieme, estremamente potente quello di Gregory, più contenuto quello di Raphael. Gregory sentì nel ventre i getti caldi del compagno, e neppure per un istante pensò al sacrilego onanismo che avevano perpetrato insieme. Sentì, e ciò avrebbe dovuto scuoterlo ancora di più, l’intimità di Raphael infuocarsi del suo seme: ma non ne provò rimorso.
Per qualche secondo non riuscì neppure a muoversi, tanto si sentiva prosciugato. Ansimavano insieme, abbandonati l’uno sull’altro, l’uno dentro l’altro. Fece per lasciarlo, ma Raphael lo trattenne a sé per un ultimo bacio.
Poi, con sforzo, si lasciò cadere al suo fianco.
Il ragazzo l’abbracciò, una gamba magra si intrufolò tra le sue e la guancia di Raphael andò ad appoggiarsi sulla sua spalla. – Ho cercato… ho fatto del mio meglio – mormorò Gregory, deponendogli un bacio sulla fronte madida di sudore. – Se tu sapessi quanto mi dispiace…
Raphael si tirò le lenzuola sulla spalla. – Cosa ti dispiace? È stato bellissimo – mormorò.
– Non sono così bravo come credevo. È stato facile l’altra volta, non avevo paura, mentre oggi ero così teso… al pensiero di farti male…
– Shh… – sussurrò Raphael, stanco.
– Ma io…
– Shh. – Raphael sospirò, tranquillo, appagato. – È giusto così. C’è sempre un prezzo da pagare. Io volevo diventare uomo con te, e l’ho pagato.
– Chi direbbe mai che questo è diventare uomo? – sussurrò Gregory.
– Io. Lo volevo e sono felice di averlo fatto. Non conta nient’altro.
Gregory chiuse gli occhi, rasserenato. – Ti ho fatto molto male? – bisbigliò dopo qualche istante.
– Solo un po’. – Raphael strisciò sul suo corpo fino ad appoggiare la guancia sul cuscino, accanto al suo viso. – Ma poi è stato bellissimo. – Lo baciò, con un sorriso meraviglioso, sereno e scherzoso, privo di dolore, paura o pentimento. – Solo, non chiedermi di rifarlo troppo presto.

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Capitolo 9
*** 9. Amaro è il sapore della vendetta ***


Gregory
Capitolo IX: "Amaro è il sapore della vendetta"
 

 

Si svegliarono verso l’alba, abbracciati insieme, nel piacevole tepore delle lenzuola. – Il mattutino… – mugugnò Raphael, con un sospiro scontento.
Gregory gli baciò il collo e mormorò che quel giorno non dovevano assistere al mattutino. Allora Raphael si riscosse. – Credevo che fossimo in monastero – mormorò, volgendosi verso di lui con un sorriso. – Me ne sarei dovuto accorgere. Il mio letto non è così caldo.
Gregory socchiuse gli occhi e se li riempì della sua immagine in penombra, appena sfiorata dalla luce soffusa del mattino. – Neanche il mio – sussurrò, abbassando le palpebre. – Sono troppo, troppo freddi, i letti di Serven… Qualcuno dovrebbe fare qualcosa per scaldarli…
– Io un’idea ce l’avrei… – mormorò Raphael, stringendosi a lui con sfrontatezza. Il risveglio lasciava sempre un segnale ben riconoscibile, lì nel basso ventre.
Era una bella mattina invernale, fredda ma soleggiata, senza vento. Quando si alzarono, già filtrava nella stanza un bel po’ di luce.
Ancora nudo, Gregory andò alla finestra, scostò le tendine e aprì le ante. Un’ondata di freddo raggelò l’aria calda della stanzetta. Richiuse, poi gettò un’occhiata a Raphael, che in quel momento si stava infilando la camicia. Alla luce del giorno, il suo corpo era più splendido e desiderabile che mai. Gregory distolse lo sguardo prima di eccitarsi. – È nevicato – commentò, andando a prendere i propri abiti, o meglio, quelli di suo padre, e indossandoli rapidamente. – Ti piace la neve?
Raphael sorrise. – Quando non devo sprofondarci dentro, sì.
Gregory ricambiò il sorriso. Si rimise al collo il sema, ma non il crocifisso. Quello lo ficcò in tasca, cupamente, e si ripromise di non pensarci per un po’.
Si accorse vagamente che Raphael faceva lo stesso. – Sei pronto ad affrontare una banda di gitani maliziosi? – mormorò Gregory, chinandosi per baciarlo. – Credo che ormai si sarà sparsa la voce.
Raphael lo abbracciò. – Sono pronto – disse allegramente.
Stretti nei mantelli, uscirono fianco a fianco dalla piccola casa, senza fretta. La luce del giorno, che si rifletteva in tutta la distesa candida di cui era ricoperta la strada, investì le loro pupille con particolare violenza.
Presero a camminare. – Hai freddo? – chiese Gregory.
– No – rispose Raphael, dopo un istante.
Si erano tutti raccolti nella piazza, quella mattina, e questo colpì Gregory molto più di Raphael. – Che strano – disse al compagno, che non capiva la sua perplessità. – Non sono mai troppo mattinieri, i figli del vento…
Ci volle loro solo un attimo per rendersi conto della ragione di tanto strepito. In mezzo ai soldati – donne e bambini non erano presenti, eccezion fatta per le Amazzoni – stava, solitario, legato e lacero, sanguinante, il capo dei predoni Ganelon.
Al vederlo, Raphael non riuscì a trattenere un brivido. Strinse la mano di Gregory come volesse spezzarla. – Lo… lo…
– Sì – mormorò Gregory, che non riusciva impedirsi di provare una cupa, feroce soddisfazione. Se gliel’avessero chiesto ora, sarebbe stato capace di ucciderlo lui stesso. A distanza di tempo, questa certezza l’avrebbe inquietato e tormentato a lungo. – È quel che si merita – aggiunse, con voce pacata.
– Ma… chi…
– Non lo so – rispose Gregory, scuotendo la testa. Come dirgli che l’avrebbe volentieri fatto lui stesso, quel lavoro?
La risposta giunse da sola. La folla schiamazzante si tacitò, mentre si avvicinava al bandito un giovane gitano dall’aria inquieta, malfermo sulle gambe e stanco, ma stretto alla sua stampella con caparbietà, il volto contratto in una smorfia di dolore e disgusto per quel rifiuto umano che gli sarebbe toccato giustiziare.
– Mi fai schifo – scandì il giovane, che non doveva avere più di venticinque anni, lasciando cadere la stampella a terra.
Ganelon lo squadrò con disprezzo e sputò ai suoi piedi.
In quel momento comparve Neekla. Aveva un’aria grave e fredda, da soldato, la stessa con la quale aveva interrogato Raphael. Scorse il figlio, si guardarono per un attimo, ma l’espressione pietosa di Raphael non mitigò in nulla la crudezza del suo sguardo. – Damian – disse al giovane, con rude cortesia. – Fai quello che devi.
I preparativi del giovane boia parvero interminabili. Mentre quello sguainava la spada – e solo Dio poteva sapere quanta poca forza gli fosse rimasta nelle braccia –, Gregory si guardò intorno, freneticamente, scorse Fedria e Katrina più in là e, accanto alla compagna, suo padre Julian.
Pareva che finalmente Ganelon si fosse reso conto di avere di fronte non un boia esperto ma un giovane distrutto, che mai e poi mai sarebbe riuscito a decapitarlo in un colpo solo. La paura tinse di follia i suoi occhi scuri, privandoli d’ogni baldanza. E cominciò a gridare.
– No – disse Neekla, con voce forte. – Spetta a Damian, è nel suo diritto. Cerca di morire con dignità, bandito!
Gregory si diresse verso i suoi, tirandosi dietro un Raphael sempre più angosciato. Non sapeva come consolarlo, se non tenendoselo vicino.
– Padre – mormorò a Julian.
Julian lo guardò, poi guardò Raphael, comprensivo. – Non costringerlo a restare, se non vuole – gli disse sottovoce.
Gregory si voltò. – Vuoi andar via?
Ma Raphael scosse la testa. – No. No. Voglio… devo guardare. – Katrina lo raggiunse alle spalle, e lo abbracciò dolcemente. Deglutendo, Raphael si strinse a lei con aria infelice.
Damian aveva terminato i suoi preparativi. Piantato sulle gambe per quanto le ferite e la stanchezza glielo permettevano, levò la spada in alto, mentre due gitani, tra cui Neekla, tenevano saldamente per le spalle il prigioniero folle di terrore, e scandì: – Questo è per Laurie, bastardo!
Il colpo, calibrato malissimo, anziché raggiungere l’incavo tra la quarta e la quinta vertebra andò a piantarsi più giù, tra le spalle. Ganelon urlò di dolore. Il medesimo ansito percorse una buona metà dei presenti, tutti soldati, è vero, ma non tutti abituati a questo genere di spettacoli.
– Dio mio – ansimò Gregory, ipnotizzato suo malgrado dalla scena della lama insanguinata che, metodicamente e senza orrore, Damian scalzava dal suo solco.
– Ce la fai? – chiese Neekla, chino sul prigioniero.
– Sì – ansimò Damian, tergendosi il sudore dalla fronte con la mano libera. Si rimise in posizione. – Sì.
Raphael mormorava accorate preghiere, con le lacrime agli occhi. Aveva le palpebre serrate e la croce era apparsa come per magia tra le sue mani. Katrina lo abbracciava stretto, pallida e turbata, ma senza tracce di orrore sul bel viso brunito dal sole.
– Dio mio – ripeté Gregory, vedendo profilarsi la replica di quanto già avvenuto. – È proprio necessario, padre? – riuscì a bisbigliare. – Che sia… così? Perché non…
– No, Rega – rispose Julian, imperturbabile. – Gli ha torturato il fratello a morte. Il ragazzo poteva far valere il suo diritto e l’ha fatto.
– Dio mio – disse Gregory, una terza volta.
Un altro colpo, stavolta meglio mirato, raggiunse la nuca di Ganelon: ma non era abbastanza forte da spiccare il capo dal collo. Comparvero al sole le vertebre insanguinate e divelte l’una dall’altra, schizzò fuori un fiume di sangue. Pallido come un morto, esasperato, Damian infierì ancora e ancora, ansimando, le lacrime agli occhi per lo sforzo, finché non ci fu più niente da fare. Era finita. Il ragazzo ondeggiò per un istante, un rivolo di sangue gli colò dalla fronte fino alla guancia, e poi svenne sul corpo del suo giustiziato.
Raphael, più pallido di lui, mandò un rantolo e svenne allo stesso modo, tra le braccia della madre.
– Lascia… lascia, lljenae, ci penso io – mormorò Gregory, felice di trovarsi qualcosa da fare.
Katrina si scambiò uno sguardo col compagno, che frattanto si rialzava dal cadavere di Ganelon, e scosse la testa. Neekla si avvicinò subito. – Non dovevi permettergli di assistere, Katri – sospirò.
– Ha scelto lui – replicò Gregory, prendendo il ragazzo tra le braccia.
– Sì. L’avevo capito – mormorò Neekla, rivolgendo al figlio una carezza sulla fronte. – Te ne occupi tu?
Gregory strinse i denti. – E chi, sennò? – Non avrebbe saputo dire perché, ma quella mattina provava per Neekla un’antipatia spiccata.
– Lascia che ti aiuti, lljenin.
– No, lljenae – disse Gregory, recisamente. – Faccio io. – E si allontanò con il suo peso tra le braccia. Mentre lo portava via, senza che se ne avvedesse, la piccola croce cadde dalla mano allentata di Raphael. Fu Neekla a raccoglierla, ma Gregory se n’era già andato.
Sistemò il giovane amante al sole, vicino a una piccola fontanella, e con l’acqua gli bagnò un poco il viso, per farlo rinvenire. Raphael riaprì gli occhi quasi subito, con un rantolo. – Gregory… – ansimò, mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime.
Gregory l’abbracciò, con un sospiro. – Come stai?
– È stato… è stato… Dio mio, non avrei mai voluto… ma dovevo… – balbettava Raphael, tremando convulsamente.
– Dovevamo guardare – disse Gregory, con decisione. – Dovevamo. Ricordi quello che ci ha fatto? – Deglutì. – Dovevamo… – ansimò un’ultima volta.
– Era pur sempre un uomo! – gridò Raphael, staccandosi dal suo abbraccio. – Perché così? Perché? Non è umano, no, non è umano che sia morto così! Non lo sopporto… – si tirò in piedi, esasperato, guardandosi intorno come una belva in gabbia, senza sapere dove andare.
Gregory gli prese il polso, dolcemente, ma lo strinse con fermezza quando lui tentò di divincolarsi. – Raphael, ti prego. Non trattarmi come se la colpa fosse mia…
– Non ce l’ho con te! – gridò Raphael, isterico. – Lasciami!
Gregory si ritrasse, di scatto. – Scusa.
Il ragazzo si allontanò in una direzione a caso, fece una decina di passi e poi si voltò. Gregory era ancora lì dove l’aveva lasciato. Tornò indietro, angosciato. – Perdonami, oh ti prego, perdonami – bisbigliò abbracciandolo. – Non lo so, non lo so che mi prende, so solo che non riesco a controllarmi, io… io…
– Non fa niente – mormorò Gregory. Ciò a cui avevano assistito giustificava tutto. – Non ti angosciare. – Perché era così calmo? Non riusciva a provare un decimo del turbamento di Raphael, e di questo si sentiva terribilmente in colpa. – Ti passerà. Devi soltanto… calmarti un poco. – Gli pose un bacio sulla fronte. – D’accordo?
– … d’accordo – bisbigliò Raphael. Alzò gli occhi. – Per un momento… per un momento, mentre guardavo, ho desiderato tornare…
– A Serven?
– Sì.
– Torneremo presto.
Raphael parve intenzionato a dire qualcos’altro, ma li disturbò l’arrivo di una persona. Si voltarono. Era Katrina.
– Madre… – mormorò Raph.
La donna sorrise dolcemente, comprensiva. – Non vi voglio disturbare. Era venuta solo per questa. – Gli porse la sua croce. – Ti è caduta, prima.
– Grazie, madre – disse Raphael, infilandola in tasca. Sorrise debolmente. – Tu non disturbi mai.
– Torno da tuo padre – disse Katrina. – Vi lascio soli.
– No, no – replicò Raphael. – Veniamo anche noi. No? – chiese conferma, spiando il volto di Gregory.
Il compagno annuì, tranquillo, e si allontanarono tutti e tre insieme.
La piazza si era notevolmente svuotata, ora che lo spettacolo era finito, ma il cadavere era stato lasciato lì, impietosamente, alla voracità degli uccelli e delle bestie che ne avrebbero divorato le carni. Al vederlo, Gregory ebbe un moto di ripugnanza viscerale, e un conato di vomito gli squassò lo stomaco e la gola. Si impose di non guardare più in quella direzione.
Neekla era tra i pochi rimasti. Osservava ciò che era rimasto di Ganelon con un misto di indifferenza e disprezzo, senza dar segni di nausea, vagamente assorto. Neekla non sapeva cosa Ganelon avesse fatto a suo figlio. Ogni volta che aveva sfiorato l’argomento, Raphael era impallidito e aveva tentato di sviare il discorso. Ma Neekla era certo che gli avesse usato violenza, e per questo gioiva cupamente della fine del bandito.
– Come ti senti? – gli chiese, riscuotendosi.
Raphael annuì. – Bene. Non è stato niente, solo un attimo… – Fece per volgersi verso il cadavere, ma Gregory lo costrinse a non guardare, cupo.
– Lascia stare – mormorò. – È meglio.
– No. – Il ragazzo scosse la testa e si diresse verso il corpo di Ganelon, rigidamente ma con decisione. La mano, ancora intrecciata con le dita di Gregory, si tirò il compagno dietro.
– È orribile – bisbigliò Raphael, con un sospiro.
Gregory lo abbracciò alle spalle, fino a sentirlo abbandonarsi alla sua stretta salda. – Perché lo guardi?
– Non lo so… Mi faceva orrore da vivo, ma adesso mi fa solo pena…
– L’hai perdonato?
– Credo… credo di sì.
– Io no. – Raphael si voltò, ma non disse nulla. – Sono contento che sia morto.
Il ragazzo esitò. – Non ti fa pena il modo in cui è stato ucciso?
– No. – Sospirò. Era una bugia. – Sì – ammise. – Ma se si fossero limitati a un unico colpo netto… sarebbe stata troppo poco. Sarebbe stato… maledettamente poco. – Quella ferocia nella sua voce suonava alle orecchie di Gregory pura e giusta come l’ira divina. Oh, no, non se ne pentiva. Non si pentiva di odiarlo. Neppure Raphael… così tenero e malinconico, così privo di cattiveria… poteva convincerlo del contrario.
Raphael lo abbracciò, con una strana angoscia in viso. Gli faceva male sentir uscire quelle parole crudeli dalla bocca del suo amato. – Ma è stato per ciò che ha fatto che adesso… adesso ci possiamo amare. – Alzò gli occhi. – O no?
La voce di Gregory era più gelida della neve in cui affondavano i loro stivali. – Credi che avessi bisogno di essere violentato per capire che ti volevo?
– No! No, io…
– Non parlarmi così, Raphael. Non giustificarlo.
Il ragazzo si strinse a lui ancora di più, annaspando. – Non lo giustifico, no… però… mi negherai che è stata la sua lascivia a farci capire quanto ci desideravamo?
– No. Non lo nego – rispose Gregory. – Ma questo non lo rende più umano ai miei occhi. Tu non lo sai. Non lo sai… – Tentò di baciarlo, per annegare il dispiacere di quel ricordo, ma Raphael voltò il viso di lato, gli occhi bassi. – Mi trovi crudele?
– Gregory… ti prego. Fallo per me. Tenta di perdonarlo. Non sopporto di vederti odiare… anche se non è me che odi, non lo sopporto, mi fa male al cuore. Ti prego…
– Forse. Forse un giorno lo perdonerò. Ma non adesso, Raph, ti prego, non me lo chiedere. È troppo presto.
Raphael annuì, rassegnato. – Non te lo chiederò più.
– Non ti rattristare, ti prego, non per quel cane…
– Non sono triste, solo… io non so odiare nessuno. Anche Vicent, io non lo odio. Prego per lui tutte le sere da quando è morto.
– Perché sei una persona buona.
– Anche tu lo sei.
– Sì, ma perdonare mi riesce difficile. – Scosse la testa. – A volte mi chiedo che ci sto a fare, in mezzo ai cristiani, quando è ovvio che la mia indole è gitana. Sono feroce come loro. Certi momenti… non mi riconosco neanche.
Raphael si tese sulle punte dei piedi e lo baciò, tenero. – Io ti amo così. Tu hai scelto di percorrere insieme due vie, ed io non voglio che tu ne abbandoni una per l’altra. Mi basta che mi ami…
Se lo strinse al petto, confortato. – Vieni – mormorò poi. – Voglio cercare i miei genitori.
Il magazzino adibito ad infermeria era silenzioso e in penombra, le porte socchiuse. Entrarono senza problemi. Dentro c’erano già due o tre guaritori in piedi, che si occupavano dei feriti, e uno di loro – un giovane di una ventina d’anni, snello e d’aspetto gradevole – li raggiunse pregandoli di non fare rumore, poi si allontanò scoccando a Gregory un sorriso che lo fece arrossire fino alla radice dei capelli. Raphael squadrò il guaritore con astio.
– Vieni – mormorò Gregory. – Mio padre è più in fondo.
Lo raggiunsero subito. Lo ziin Julian era disteso sullo stesso giaciglio dove Gregory l’aveva visto la sera prima. Fedria era seduta accanto a lui.
Si inginocchiò. – Come ti senti oggi, padre?
Julian corrugò la fronte, andando con lo sguardo da lui a Raphael. – Potrei stare meglio e potrei stare peggio.
– Raphael, padre – disse Gregory, prevenendolo. – È l’amico di cui ti ho parlato. Raphael, mio padre.
Il ragazzo si inginocchiò a sua volta. – È un piacere – mormorò cortesemente, chinando il capo.
– Anche per me – borbottò Julian, riportando gli occhi sul figlio. Un sorriso vago gli attraversò le labbra, espressione di quello che Gregory riconobbe distintamente come orgoglio paterno. – Ti sei deciso a portare il tuo verinil – commentò Julian, compiaciuto. – E a vestirti decentemente. Ti sei ricordato tutt’a un tratto chi sei?
Gregory scosse la testa, imbarazzato. – Non l’ho mai dimenticato, padre, e tu lo sai.
– Sì – rispose Julian, con voce più dolce. – Sì, lo so. – Sollevò una mano e Gregory la prese e la baciò, con affetto.
Aleggiava tra loro, indimenticato, lo spettro di ciò che avevano visto, e tutto l’affetto e la cortesia possibili non potevano bastare a cancellare il ricordo, troppo vivido, dell’orrore provato.
– Domani ripartiremo, Rega – disse lo ziin. – I carri sono pronti. Verrai con noi?
Gregory sospirò. – Non lo so, padre. Devo pensarci. – Scosse la testa. Non aveva nessuna voglia di pensare anche a questo. Si sentiva svuotato e stanco. La dolce vendetta, aveva scoperto, ha un retrogusto sorprendentemente amaro.
– Via – mormorò Julian. – Rega, doveva andare così. Le nostre leggi le conosci.
– Sì – rispose Gregory, alzando gli occhi. – Lo so, padre, lo so. E da una parte le condivido, ma dall’altra… talvolta mi chiedo quanto siano giuste. – Scosse la testa. – Non è per nulla che mi sono fatto cristiano.
Julian non commentò questa affermazione, sulla quale avevano mille volte discusso. – Anche i cristiani giustiziano i loro criminali, e quei senzadio avevano ucciso molti dei nostri, specie donne e bambini.
Gregory cascò dalle nuvole. – Quando è successo?
– Tre mesi fa. Sulle colline. Ci hanno teso un’imboscata.
Quando lui aveva lasciato San Gloriano. Gregory deglutì. Al tempo si era chiesto se fosse il caso di andare a trovare i propri genitori; non rimanevano mai a lungo nello stesso posto, ma aveva pensato che inoltrandosi tra le colline avrebbe certo trovato qualche gruppo di gitani che potesse dargli un’indicazione. Poi, però, spaventato dalla possibilità di incappare nei banditi, aveva rinunciato a malincuore. Ora si rese conto che quell’esitazione gli aveva salvato la vita.
– Abbiamo riunito l’esercito per questo – continuò Julian. – Avevamo intenzione di colpirli nel loro covo, ma poi si sono spostati. Sono venuti qui. Per fortuna abbiamo i nostri esploratori, e li abbiamo seguiti.
– Grazie a Dio – mormorò Gregory. – Non so cosa sarebbe di noi, se… se… – La mano di Raphael si posò sulla sua, delicata. La strinse. – Non ha più importanza, ora.
– A Serven non sanno ancora niente di quel che è successo – interloquì Fedria – e quando lo sapranno noi saremo già andati via. Se scegliete di partire con noi, avrete a disposizione tutto il tempo che desiderate. – Sorrise, dolcemente. – Raphael ha il diritto di passare un po’ di tempo con i suoi genitori. Se lo vuole, naturalmente.
– Ci penseremo – disse Gregory. – Te lo prometto.
Raphael spiò con vaga ansietà il viso del compagno.
– Bene – annuì Fedria.
– A proposito, – disse Gregory – dove siete diretti?
Lo ziin sorrise. – Alla capitale. Balain eil’ Drake. – Il nome della città, deformato dall’accento gitano, sembrò fare le capriole nella sua bocca.
– Balain… – mormorò Raphael, mentre si allontanavano. – Dicono sia immensa.
Gregory annuì. Raphael non aveva voglia di incupirsi, come lui, perciò si impose di cancellare quell’espressione scura dal volto. – Certo, se la paragoni a Widefield. Sei, sette… no, di più… dieci volte più grande, credo. Non ricordo bene, è passato tanto tempo.
– Tu ci sei stato? – sussurrò Raphael, con ammirazione.
– Naturalmente. Ti stupisci? – Gregory fece un sorrisetto. – Ho vissuto da gitano per tredici anni.
Raphael sorrise a sua volta. – Allora ricorderai la città. Com’è?
– In realtà, non così bella come… – Gettò uno sguardo indietro, pensoso, e si interruppe. Il ragazzo di prima lo stava ancora fissando, in un modo fin troppo chiaro che gli risultò irritante.
– Cosa… oh – fece Raphael, rabbuiandosi. – Andiamo via?
Gregory lo attirò più vicino, lo abbracciò e poi lo baciò sulle labbra. Quando guardò nuovamente nella direzione del ragazzo, notò con soddisfazione che aveva distolto lo sguardo. – Questo perché capisca che una persona soltanto può avere il mio amore – bisbigliò all’orecchio di Raphael. – Andiamo?
– Sì. – Sorrise. – Ti amo.
– È ancora presto. Vuoi tornare a letto?
– No, adesso no.
Gregory annuì. – Come preferisci.
– Per quanto riguarda la partenza… – cominciò Raphael, esitante.
– Sì?
– Io… vorrei sapere cosa ne pensi tu – concluse il più giovane.
Gregory scosse la testa, giocherellando con la mano stretta nella sua. – Non lo so. Non mi dispiacerebbe passare un po’ di tempo con i miei, non li vedo da un anno, ma…
Raphael sorrise. – E dunque partiamo?
– … Serven?
– Non lo so – disse Raphael.
– Non dobbiamo partire per sempre – soggiunse Gregory. – Torneremo.
– Vuoi tornare?
Gregory non fece in tempo a rispondere che una voce familiare li richiamò. Era Katrina.
– Come ti senti, figlio mio? – chiese a Raphael. – Sei più tranquillo. In fede mia, la vicinanza di tuo cugino opera miracoli, su di te.
Raphael sorrise, imbarazzato. – Mi sento bene, madre. – Le baciò la guancia. – Voglio… se voi lo desiderate, vorrei partire con voi. E con Gregory e i suoi. Cosa ne dici?
Katrina sorrise. – Dico che sono felice – rispose, con gli occhi che le brillavano. – Lascia che lo dica a tuo padre. Non appena gli volterò le spalle farà i salti di gioia.
– Lascia che glielo dica io. Dov’è?
Katrina indicò una casa uguale a tutte le altre. – È tornato a letto, ma non preoccuparti, ha il sonno leggero. Vai pure.
Gregory si tirò indietro. – Io ti aspetto qui, Raph.
Il ragazzo annuì e corse verso il piccolo edificio. Una volta di fronte alla porta, alzò una mano con il pugno chiuso per bussare… poi cambiò idea e pensò di fargli una sorpresa. Aprì l’uscio con una spinta decisa.
La lama fredda di un pugnale scattò contro la sua gola, pericolosamente, e fece pressione appena sotto il mento. Una voce dura scandì: – Alza le mani.
Raphael obbedì, lentamente, poi balbettò con voce tremante: – Neekla… padre… sono io. Sono… Raphael.
Il pugnale si allontanò immediatamente. – Fammi e fatti un favore, figlio mio. Non cercare mai più di prendermi di sorpresa – disse Neekla. Gli giunse davanti, e la luce che penetrava dalla porta aperta rischiarò il suo viso gradevole, atteggiato in un raro sorriso. – Ti sei ripreso, a quanto vedo.
Raphael abbassò le mani con lentezza, ancora un po’ scosso, poi mormorò, risentito: – Potevi ammazzarmi.
– Oh, no – rispose Neekla, serio. – Non uccido mai a sangue freddo.
Raphael lo guardò meglio, e si accorse con un vago sgomento che suo padre era completamente nudo. L’unica cosa che lo copriva alla vista di chiunque passasse per strada era proprio lui, in piedi di fronte alla porta. – Padre, rivestiti, ti prego – mormorò, arrossendo. – Potrebbe vederti qualcuno.
L’uomo sbatté le palpebre. – Va bene – rispose dopo un attimo. Si voltò e sparì in una porta in penombra. – Perché sei venuto? – gli chiese dall’altra stanza.
Raphael alzò un poco la voce per farsi sentire. – Ti cercavo.
– Come mai?
– Volevo parlarti di una faccenda.
Neekla tornò nell’atrio, le vergogne pudicamente coperte. Era a torso nudo, con la camicia sul braccio nell’atto di indossarla. – Ti ascolto.
– Bene. – Raphael trasse un respiro profondo, poi disse: – Gregory ed io abbiamo… preso una decisione.
Neekla si rabbuiò, ma solo un poco. – Capisco – borbottò, infilandosi la camicia dalla testa. – Me l’aspettavo.
– Non sono sicuro che tu abbia capito – replicò Raphael, perplesso. – Abbiamo deciso di non tornare a Serven. Per un po’, almeno. Verremo con voi. Hai capito, adesso?
Gli occhi di Neekla si illuminarono come quelli di un bambino. – Dici sul serio? Vuoi… vuoi… – Lo abbracciò con forza, togliendogli il respiro. – È una splendida notizia – disse, tenendolo stretto a sé. – Splendida. Sangue degli dèi, tua madre lo sa?
Raphael stentò a divincolarsi. – Sangue… uhm… degli dèi, sì. Gliel’ho già detto. Però, – lo guardò dritto negli occhi – sia chiara una cosa, padre. Io non sono uno di voi. Be’… non ancora – soggiunse, colto dal pensiero che in fondo, essere uno di loro era ciò che desiderava di più, dopo l’amore di Gregory. – E rimarrò cristiano per tutta la vita. Voglio che tu mi prometta di non dimenticarlo.
– Sì, certo. Te lo prometto – disse Neekla, annuendo. – È giusto.
Raphael sospirò. – Bene, allora… io vado.
– Non c’è… – Neekla esitò, si schiarì la voce, poi riprese: – Non c’è nient’altro che vuoi dirmi, Raphael?
Raphael scosse la testa. – No – rispose dopo un attimo. – Niente che tu non sappia già, comunque.
– Ne sei sicuro?
– Sì.
Neekla chinò il capo, senza protestare. – D’accordo.
– A più tardi, padre…
– Aspetta.
Si voltò. – Vuoi chiedermi qualcosa?
– Sì, ma ti prego di rispondere. È qualcosa che devo sapere.
Al ragazzo tremò il cuore, tuttavia mormorò: – Dimmi.
– Ganelon…
– Padre, ti prego…
– Dimmi solo se ti ha toccato.
Raphael lo guardò con occhi colmi di tristezza. – Non lo dirai a nessuno?
– Hai la mia parola.
Inspirò. – Non mi ha toccato. Gregory… Gregory si è fatto fare tutto al posto mio. – Deglutì. – Tu non lo sai, e lui non dovrà sapere mai che te l’ho detto. Ho la tua parola.
Un sollievo inesprimibile, eppure ancora cupo, tingeva il viso di Neekla. – L’hai.
Uscì dalla porta in preda a tristi pensieri.
Gregory e Katrina erano seduti nella piazza, e parlavano sottovoce. Sembravano perfettamente a loro agio, tanto che Raphael per un poco li invidiò. Lui non era ugualmente in sintonia con sua madre, non ancora: parlare con lei gli procurava sempre imbarazzo o disagio, non quanto ne provava nei confronti di Neekla, ma comunque abbastanza da rattristarlo, se ci pensava. Avrebbe voluto riuscire a pensarli coscientemente come i suoi genitori, ma era più difficile del previsto. E poi… ogni tanto… non riusciva a impedirsi di provare del risentimento nei loro confronti, per averlo lasciato in fasce alle porte di Serven. Anche se l’avevano fatto a fin di bene, per non lasciarlo morire di fame in mezzo alla guerra civile, periodo in cui solo i monasteri e il Palazzo Reale, forse, non pativano gli stenti.
Si avvicinò lentamente. Gli occhi di Gregory scattarono subito verso di lui, prima ancora che li avesse raggiunti, e si illuminarono. Quello sguardo gli procurò una fitta di amore intenso.
– Tutto fatto – annunciò, sedendosi accanto al compagno. – L’ha presa bene.
Katrina annuì. – Ne ero sicura.
– Allora è deciso. Partiremo – disse Gregory, prendendo delicatamente la sua mano e stringendola con calore. Sospirò. – Al priore Ferdinand non piacerà affatto.
– Non me ne importa nulla – ribatté Raphael, con astio. – Per quanto ne so, sarà felice di non rivederci. E anch’io lo sarò.
Gregory scosse la testa, ma non in segno di diniego. Accostò le labbra all’orecchio di Raphael e gli mormorò poche parole, con stanca dolcezza: – Torniamo a letto, lljena
Il ragazzo arrossì per la presenza imbarazzante della madre, senza pensare che così facendo aveva dimostrato in modo inequivocabile la natura del messaggio di Gregory. Comunque annuì. – Tu ci scusi, madre, vero? – disse alzandosi.
Katrina sorrise dolcemente. – È molto presto, devinoi. Due ragazzi come voi dovrebbero dormire ancora qualche ora, per recuperare le forze. Non credete?
– Sì – assentì Gregory, alzandosi a sua volta. Basta pensare ai morti, basta disperarsi per il rimorso di aver goduto della vendetta, basta con quella tetraggine che gli rovinava la mattinata! Ganelon era morto. Avrebbe dovuto festeggiare, e non sentirsi in colpa!
– Sono d’accordo con te, lljenae. Vieni, Raph. – Arrossì nel dirlo, e anche Raphael arrossì, e paonazzi in viso si allontanarono rapidamente, le dita intrecciate, una dolcissima euforia nel cuore, condivisa, e le ali ai piedi una volta che, usciti dalla visuale di Katrina, poterono darsi a una corsa veloce per giungere prima al letto da riscaldare. La mano ancora nella mano di Gregory, Raphael scivolò incauto sulla neve, e cadendo si trascinò a terra il compagno, che allegro lo sovrastò con il proprio corpo e prese a baciarlo, incurante che qualcuno potesse vederli, perso nel gioco dell’amore appena scoperto che cancellava in lui ogni pudore e preoccupazione.
– No… – lamentò Raphael, nel ridere. – Non nella neve… Dio mio, congelerò…
Gregory allora si sollevò, premuroso, lo tirò su e se l’abbracciò stretto, per riscaldarlo, riprendendo infido a baciargli il viso e le labbra, e il collo tiepido e palpitante come quello di un uccellino, e tenendo le sue mani posate sul proprio petto, per riscaldare anche quelle, per avvolgerlo tutto in un solo calore. E cos’era questa voglia di lascivia che lo prendeva d’un tratto, questo immane desiderio di sconcezza, di amarlo in qualsiasi luogo, meglio se in vista, pure in quella stradina così fredda, dove chiunque poteva passare e vederli? Avrebbe voluto amarlo nell’infermeria, davanti agli occhi di quel ragazzo che gli aveva sorriso osceno, forse pregustando chissà quali avventure con lui, forse pensando che egli, per la sola ragione di aver già amato un ragazzo, si sarebbe offerto anche a lui, con disinvoltura, come un prostituto, come uno da niente, che si buttasse via col primo che capitava! Che pazzia. Lui amava Raphael. Avrebbe voluto amarlo di fronte a quello spudorato, per dimostrarglielo una volta per tutte.
Socchiuse le palpebre mentre lo baciava e tenero immergeva la lingua nella sua bocca, dischiudendo le labbra ad accogliere la sua. Trovò due pezzetti di cielo sprofondare nei suoi pozzi scuri, l’azzurro mescersi al nero, il Cielo perdersi nella Terra. Dio mio, quanta poesia, pensò carezzandogli i lati del collo con le mani. Ed io, che mi ritenevo immune alle infatuazioni – quanto stupido sono stato! – eccomi a spasimare per lui, io tanto più vecchio, sono solo tre anni ma che pena, sembrano così tanti, e Dio sa che morirei… sì, morirei, se egli volesse lasciarmi… E cercando di soffocare l’improvviso turbamento provato a questo pensiero, gli lasciò le labbra e mormorò, commosso: – Era destino che ci amassimo. Era destino. – E anche se non aveva mai creduto al destino, quella mattina vi credette, disperatamente.
– Sì – bisbigliò Raphael, schiudendo appena le labbra rosa chiaro, così deliziose da baciare e succhiare dolcemente, finché il fluido naturale non le inumidiva ed esse mostravano alla bocca amica la loro più intima morbidezza. – Hai ragione – aggiunse, inutilmente, ma che piacere vedere quelle linee sottili muoversi appena, tremanti d’amore, in trepidazione…!
Gregory gli sorrise, ogni paura presto dimenticata. Riprese la sua mano, intrecciò piano le dita nel modo che piaceva ad entrambi, e se la portò alle labbra. Poi con lui riprese la strada, fino alla casupola ormai loro che li accolse a porte aperte, ogni cosa pregna di una luce nuova eppure familiare, dolcissima.
Sorridendo appena, lo lasciò passare per primo e se la richiuse alle spalle, piano piano, appoggiandosi con la schiena al legno solido, portando vago una mano alla camicia, al colletto ampio che sembrava non aspettare altro che d’essere scostato per mettere a nudo la carne fremente che a stento copriva.
Raph non esitò neanche un istante. Quando se lo sentì addosso, Gregory reclinò il capo contro la porta e chiuse gli occhi.
Lo fecero lì per terra, di fronte all’uscio, lontano dal letto che non pensarono neppure di raggiungere. Passata la notte, si conoscevano adesso tanto bene che non avevano più timore di farsi male. Raphael si muoveva sul suo corpo leggero e sicuro, con quel misto di delicatezza e insolenza che sempre sfoggiava, anche nell’amore; Gregory, intimamente felice – solo adesso vi rifletteva – di aver raccolto, unico fra tutti gli esseri della terra, la sua verginità, studiava con amore il modo in cui il suo corpo di ragazzo accoglieva languido gli assalti che gli infliggeva, e dolcemente si ingegnava di muovere attacchi più forti o più deboli a seconda del momento, per ascoltare rapito il suono dei suoi gemiti variare d’intensità, e cogliere tra di essi le note di piacere più intense o più tenere che sempre vi trovava, facilmente, e che sommuovevano violente la sua eccitazione.
Alla fine, quando si furono quietati, lentamente si risollevarono dal pavimento sporco del loro seme mischiato in un orgasmo sincrono, e andarono a letto, sonnolenti, si infilarono sotto le coperte fredde che presto avrebbero riscaldate, si strinsero l’uno all’altro e rimasero così, fermi, a lasciar volare via nuvolette di vapore ogni volta che un mormorio affiorava tenero alle loro labbra, una parola d’amore, un semplice sospiro.
Si erano, per una volta, invertiti le posizioni. Gregory riposava quieto con il bel capo sul petto del ragazzo, tra il cuore e la spalla, i riccioli folti erano adesso un bel cuscino su cui poggiava la guancia, e gli bastava alzare un poco il viso per affondare il naso gelato nell’incavo bianco del collo di Raphael, e strappargli così un piccolo sussulto, un lamento, a volte soltanto un sorrisetto monello. Il ragazzo, da parte sua, si divertiva ad affondare una mano in quella matassa ricciuta, attorcigliando le dita sottili con i teneri boccoli, mentre l’altra, la destra, libera da ogni impedimento percorreva la pelle di Gregory e la carezzava piano, sfiorandogli il viso e la barba rada incolta, il collo anch’esso coperto dai riccioli più lunghi, liscio – forse levigato dei suoi baci troppo impetuosi? –, il braccio che gli circondava, lento, il petto, la mano addormentata sulle lenzuola, che alla sua carezza si ridestava e muoveva piano le dita perfette a cercare le sue, a imprigionarle e condurle alla bocca tiepida per depositarvi piccoli baci.
– Ti adoro – bisbigliò Gregory, socchiudendo le palpebre, nascondendogli alla vista i due pozzi neri in cui tanto amava immergersi. – Solo all’idea di farti male tremo. Vorrei morire, prima di fartene.
Raphael sorrise, gli posò la mano sulla guancia e lì la lasciò, mentre mormorava: – Pensi ancora a te stesso, egoista! Sai che te lo restituirei con gli interessi. Hai paura.
– Sì, ho paura. Che tu ti stanchi di me.
– Perché mai dovrei? Io ti amo.
– Sì – rispose Gregory. – Ma non sai quanto c’è di meglio.
Raphael, imperterrito, deciso a non lasciarsi guastare il buonumore da queste poche parole insensate, anche se mortalmente serie, replicò con tenerezza: – Se trovando di meglio vorrò lasciarti, significherà che ti amo troppo poco. Ma siccome io ti amo da impazzire, vedi che il problema non si pone.
– La fai semplice, tu.
– E tu dubiti di me.
– No. – Gregory esitò. – Sì. Ma non nel modo che pensi tu. Se tu trovassi uno meglio di me, che ti amasse, io ti lascerei andare, anche se soffrirei tanto da sentirmi morire. Ma tu sei ancora un ragazzo – non ti offendere, ti prego, per queste parole – e se poi l’infatuazione ti passasse e volessi tornare da me? Ti accoglierei, ma quanto ancora dovrei soffrire? Sapendo che il tuo cuore non è certo di me?
Raphael gli sollevò il viso, con decisione. – Il mio cuore è certo – tagliò corto, e poi, sulla scia delle sue parole di prima, aggiunse: – Non credere di essere tanto più maturo di me, amore. Se ancora non hai capito che le tue stesse paure le provo anch’io, e che muoio al pensiero di essere il secondo per te, solo il secondo, allora non hai capito niente.
Gregory stette in silenzio, immobilizzato in quella posizione scomoda, gli occhi persi nei suoi. Poi tornò a giacere sul suo petto. – Che stupido – mormorò, senza chiarire a chi si riferisse. – Tu non sei il secondo, perché non hai nessuno con cui gareggiare. Tu sei l’unico, per me, l’unico e il solo. Con Evan… con Evan non è stato… così. Non so spiegarlo, ma sento che tutto quello che viene prima di te non conta, non conta nulla.
Raphael chiuse gli occhi, sorrise. – Lo sai perché ti amo, Gregory?
– No, perché?
– Perché in te trovo la pace. Non so… non è facile da spiegare, però è così. Tu mi completi.
Gregory inclinò il capo di lato per rimirarselo bene alla luce del mattino. – Come posso darti la pace, se non ne trovo neanche per me? – mormorò, assorto.
– Non lo so, ma è così.
– Io non so portare pace, Raphael. A quelli che amo porto solo guai.
– Be’, non a me – replicò il ragazzo. – L’amore non è mai un guaio. Magari non tutti lo capiscono, ma l’amore è l’unica cosa che ci salva, noialtri.
– Noialtri chi?
– Noialtri che non sappiamo vivere senza – sorrise Raphael, rivoltandolo sul letto per ricoprirgli di baci il viso e la barba di quattro giorni. – Lo sai che morirei se mi lasciassi – disse dopo un bacio più lungo degli altri sulla bocca. – È solo perché ti amo che ho gettato via tutto quanto… Serven e tutto il resto. Non sarei mai rimasto con Katrina e Neekla, li avrei rifiutati, e forse me ne sarei tornato al monastero e lì… lì avrei ripreso la mia vita, ma qui… con te… è tutto diverso. È tutto più bello.
Gregory lo abbracciò forte. – Tu lo sai perché ti amo, Raphael?
Il ragazzo sorrise. – Dimmelo.
– Perché quando ti guardo non mi chiedo se sia sbagliato o no. Io so che è giusto così. Così è perfetto.
Raphael espirò, felice, rotolò sul letto e se lo tirò sopra, con dolcezza, le gambe intrecciate in un intimo abbraccio, il bacino a contatto, gli attributi virili che si carezzavano morbidamente, come vecchi amici. Lo baciò e lo baciò ancora, a lungo, come a volergli succhiare dalle labbra la linfa vitale. E infine si acquietò tra le sue braccia, appagato come se avessero fatto l’amore.
– Sai a cosa penso quando lo facciamo, Greg? – mormorò. – Penso a un giorno di… non so, vent’anni a venire, quando saremo entrambi uomini… Sai, si pensa sempre che il nostro sia un amore da ragazzi, o tra un uomo e un ragazzo, e invece io mi immagino che tra vent’anni noi ci ameremo nello stesso modo in cui ci amiamo ora, e non sarà affatto vergognoso o effeminato, perché noi due non siamo effeminati, e tra me e te non c’è da chiedersi chi sia l’uomo perché lo siamo entrambi in egual misura. E vedi, io penso sempre che sarebbe bellissimo se noi arrivassimo ad amarci così tanto da poterci riconoscere da un niente… non so… il rumore di un passo, o un respiro, oppure… oppure una carezza, anche un nulla, così, uno sfiorarsi appena… io capirei che sei tu a toccarmi, e ti farei un sorriso, non mi volterei neppure, non avrei bisogno di controllare… ti prenderei la mano, ti direi sottovoce che ho voglia di fare l’amore, e non avrei paura di sbagliarmi…
Gregory gli scostò i capelli dal volto, delicatamente. – Una carezza così? – bisbigliò.
Raphael gli prese la mano, se la portò alle labbra. – Non voglio che rimanga solo una fantasia, Gregory. Giurami che non mi chiederai di tornare a Serven. – Chiuse gli occhi, trattenendo la tristezza tra i denti. – Devi solo dirmi se scegli la tua vocazione o me. Solo questo. Non puoi averci entrambi, lo sai.
– Raphael…
– Dimmelo.
Gregory alzò il capo e fissò gli occhi nei suoi, chiusi, tremanti. Come poteva chiedergli di scegliere? Non si rendeva conto che quella scelta era già stata presa da tempo? Tutto quello che era stato detto nel frattempo… erano solo pietose menzogne. – Guardami. – Raph aprì gli occhi. – Ho già scelto. Non è questo il problema.
– È la verità? O lo dici perché pensi che non potrei accettare di venire dopo del mio Dio?
– È la verità.
– Ma tu continuavi a parlare di tornare… di Serven… Forse quella vita ti manca, in fondo te la sei scelta tu, mentre io… io ti sono capitato in mezzo alla vita e forse ho rovinato qualcosa…
Gregory gli prese il viso tra le mani, sorridendo. Quante stupidaggini avrebbe ancora detto, se non l’avesse fermato? Dolcemente, fu tentato di lasciarlo continuare. Gli piaceva che dicesse quelle cose… che si mostrasse così fragilmente attaccato a lui, così insicuro, così… se stesso. Era facile essere forte accanto a Raphael, quando gli si apriva in quel modo, mostrandogli ogni sua più intima paura… mostrandosi vulnerabile.
Ma non era giusto che soffrisse così scioccamente. Lo interruppe. – Mi stimi così poco?
– Cosa… che vuol dire?
– Credi che accetterei qualsiasi cosa mi capitasse… così… senza decidere nulla? Ancora non mi conosci? – Lo baciò. – Tu sei mio perché ti ho voluto, non perché mi sei capitato. E poi non te l’ho già detto che sei la cosa più bella della mia vita? – Il sorriso si allargò. – Ho penato per tre mesi nel dubbio se fosse lecito amarti o no… e adesso che sono qui non tornerò indietro. Non voglio e non lo farò.
Raphael sospirò, debolmente. – Allora perché parlavi sempre di Serven?
– Perché non sapevo cosa fare… per te. Non riuscivo a capire cosa tu volessi, hai scoperto più cose su te stesso in un giorno che in sedici anni, e pensavo che parlarti dell’unico punto sicuro della tua vita… Serven… sarebbe servito a rassicurarti almeno un poco. A farti capire che, se vuoi, un posto in cui tornare l’avrai sempre.
– Ma tu non vuoi che io torni, non è vero? Non è così?
Gregory esitò. – Io voglio che non ti manchi mai nulla.
– E…?
– E non so come fare a darti questo… da solo. Non so che vita potremmo condurre. Se penso al futuro, vedo solo una macchia nebulosa e scura… niente di certo, niente di affidabile.
– Ma non siamo soli. Io ho i miei genitori, e tu i tuoi. No?
– Sì… questa è l’unica cosa che mi conforta un poco. Ma dovremo lasciarli, prima o poi. Almeno… io lo farò. Non voglio essere un peso per loro, so quanto è dura sfamare un figlio, e in un periodo come questo, poi…
– È questo il problema? Ci troveremo un lavoro e inizieremo una vita nostra.
– E credi sia facile? Il mondo è uno schifo, specialmente per quelli come me e te. Gitani. Ripensa a tutto quello che ti hanno insegnato, e pensa che adesso tutto questo sarà riferito a te. Ladri, sanguinari, schiavisti, stupratori, assassini… la gente ti guarderà e penserà ognuna di queste cose. Lo puoi accettare?
Raphael lo guardò con aria infastidita. – Perché stai cercando di spaventarmi?
– Ti sto dicendo le cose come stanno. Non voglio che tu possa avere sorprese… amare.
– Io voglio vivere con te, del resto non m’importa. Ma tu lo vuoi? O attribuisci a me le paure che provi solo tu?
Gregory scosse la testa. – Io so di avere paura. Ho tanta… tante paure. Ma la più grande… è come poterti mantenere. Di cosa farti vivere. Io non so fare nulla, non ho mai fatto altro che il novizio, nella vita.
– Non ho bisogno che tu mi mantenga – replicò il ragazzo. – Non sarò la sposa fedele che ti aspetta a casa!
– Non era questo che…
– Non mi hai risposto. Lo vuoi o no? Vuoi provare a vivere con me? O… cos’altro? Cosa vuoi? Non vuoi tornare a Serven, e allora cosa farai? Vuoi restare? Vuoi essere il solo a restare? Io non capisco, davvero, non capisco cosa vuoi.
Gregory lo abbracciò, d’impulso, anche se non era il momento e la discussione avrebbe richiesto che si guardassero negli occhi. Tuffò il viso nell’incavo del suo collo e lo lasciò lì. – Lo capissi almeno io… – mormorò, con voce soffocata.
– Ti prego, Gregory… anch’io ho paura. Ma se fai così mi toglierai quel poco di sicurezza che ho acquistato… quel poco di decisione che ancora conservo. – Gli sollevò il viso. – Io voglio te, tutto il resto viene dopo. Se avessi la certezza che tornando a Serven potremmo essere felici, manderei al diavolo tutto il resto. Ma io sono certo che invece, se torniamo, sarà la fine di tutto… è in base a questo che voglio decidere. In base a te. Il resto non conta niente.
– Io non voglio che tu debba soffrire di nulla – mormorò Gregory. – Ho sofferto la fame, una volta, e tu non sai… davvero, non sai quanto poco voglia che tu la provi.
– Meglio soffrire la fame che stare senza di te.
– Non posso lasciarti… lo sai che morirei. Ma se decidi di non tornare…
– Ho già deciso, Gregory.
– … devi sapere che d’ora in poi sarà tutto più difficile.
Raphael annuì. – Non ho mai avuto niente di facile, in vita mia. Quanto al mestiere, io so cantare. Ho una bella voce, se mi procuri una cetra te lo dimostro.
– Raphael, ti prego…
Ma il ragazzo scosse la testa, con decisione. – Non abbiamo alternative, amore mio, lo sai. Io non voglio dipendere dai miei genitori proprio come non lo vuoi tu: ho sedici anni, sono abbastanza grande da staccarmi dalle gonne di mia madre. – Esitò. – Specialmente perché non mi ci sono mai attaccato, e non voglio cominciare ora.
Gregory chinò il capo. Aveva ragione Raphael: non c’erano alternative. Sospirò. – Ci proveremo. Per male che vada, sappiamo leggere e scrivere: qualcosa troveremo.
Raphael lo abbracciò stretto e gli baciò le labbra serrate con così tanta passione che gli ci volle un secondo per forzarle e raggiungere con la lingua la sua dolcissima, e ad essa unirsi in un umido amplesso languido d’amore e d’angoscia. In qualche modo avrebbero fatto. Tutto, pur di non doversi separare.



All’augusto priore Ferdinand,
monastero di Serven

Reverendo padre,
è probabile che quando vi giungerà questa missiva abbiate già ricevuto notizia della distruzione di Widefield, di cui siamo stati spiacevolmente testimoni. Come immaginerete, il momento non è stato facile, e a più riprese abbiamo temuto per la nostra vita, ma grazie a Dio siamo entrambi salvi e non abbiamo sofferto di nulla, se non della paura, perciò su questo punto rassicurate pure tutti coloro che si sono preoccupati per noi.
Purtroppo le circostanze ci impediscono di tornare a Serven. Confortatevi: non ci è stato fatto alcun male, né ce ne sarà fatto in futuro. Per il resto, augusto padre, perdonate la nostra reticenza ad affidare alla pergamena fatti tanto importanti. Vi preghiamo sentitamente di non mandare alcuno a cercarci, perché non ve n’è bisogno. E se talvolta vi sovviene, pregate per noi.
Vi lasciamo con la più sincera speranza che al monastero tutti i fratelli e voi stiate bene almeno quanto noi, e che la nostra assenza non provochi turbamenti.

 

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Capitolo 10
*** Side story - La canzoncina gitana ***


Gregory
Side Story: "La canzoncina gitana"


 


Ý
– I?
– No… più lungo: ý
Ý…?
– Sì, e poi… an ljepša
Ljepša?
– Sì, bravo, e infine… ge
– Ge?
– Perfetto. Ý an ljepša ge.
Ý an… ljepša… ge. – Raphael sorrise. – Adesso mi dici cosa significa?
– “Io ti amo”.
Per difendersi dal freddo, e non solo per quello, stavano stretti nel piccolo giaciglio come se dovessero fare spazio ad una o due altre persone. L’aria tutt’intorno era talmente gelida che presto, pur trovandosi al chiuso, i loro respiri avrebbero dato vita a piccole nuvolette di vapore. Era stato in quell’abbraccio caldo che Raphael gli aveva sussurrato: – Insegnami qualcosa di gitano.
E cosa insegnargli prima del più dolce “io ti amo”? Adesso avevano un’altra lingua per dirselo.
– È una pronuncia impossibile – sorrise il ragazzo. – Non voglio neanche immaginare come si scriva…
– Non si scrive – rispose Gregory, semplicemente.
Il ragazzo sollevò gli occhi, vagamente sorpreso, le labbra distese in un breve sorriso. – Insegnami qualcos’altro. Qualcosa di… particolare.
– Particolare? – sussurrò il giovane, maliziosamente.
– In qualsiasi senso tu lo intenda.
Gregory, no, Rega, sospirò leggermente mentre metteva in moto le meningi, mordicchiandosi pensosamente l’interno della guancia. Sporse il labbro inferiore in una smorfietta che Raphael trovò deliziosa, tanto che non poté sottrarsi dal baciarlo, furtivamente, mentre lui si perdeva dietro la ricerca fatta a suo unico beneficio. Ma quando l’altro si riscosse e volle approfondire il contatto, Raphael si tirò indietro. – Allora?
– Mi è venuta in mente una canzone, ma è molto lunga e forse troppo difficile…
Il ragazzo sorrise. – Insegnami una strofa. Così possiamo cantarla insieme.
– Non ne saresti felice… non sono molto intonato.
– Allora la canterò io per te – stabilì Raphael, tranquillo. – Forza, iniziamo. Com’è il titolo?
Il giovane lo sistemò meglio nel suo abbraccio da cui, frenetico com’era, Raphael si era scomposto. Gli aggiustò la coperta sulla striscia di pelle nuda della spalla, non prima di avervi depositato un tiepido bacio. – Non ha titolo. È una canzone d’addio…
– Triste?
– Non ti piacciono le canzoni tristi?
– Mi piacciono moltissimo. Com’è la prima parola?
Gregory sorrise, un sorriso dolce e malizioso insieme, che pareva nascondere qualcosa: ma niente impediva a Raphael di pensare che questo qualcosa fosse la semplice tenerezza per ciò che stavano per condividere, e che li avrebbe avvicinati ancora un po’ nella reciproca comprensione.
– Ti insegnerò la prima strofa, e poi la tradurrò tutta insieme. Parola per parola sarebbe più difficile. La nostra è una lingua molto flessibile.
– La nostra – sorrise il ragazzo, compiaciuto.
– Stai attento perché la pronuncia è molto difficile.
– Sì, maestro – rispose Raphael.
Il più grande si assestò ancora una volta sotto di lui. Pareva lievemente emozionato, appena rosso in viso, abbastanza perché Raphael se ne accorgesse.
– Sei imbarazzato… – sussurrò, stupito ma felice.
– È… una canzone che amo molto – replicò, stirando le labbra in un sorrisetto. – Sono felice di potertela insegnare.
– E allora comincia, su! Stai perdendo tempo.
– Con calma – sorrise il più vecchio, e poi: – Ý an rucaka… i gya meštjas – scandì, con lentezza, per consentirgli di cogliere debitamente ogni capriola che la sua lingua compiva in bocca per formulare le difficili parole gitane. – È il primo verso.
Raphael ripeté, lentamente, incespicando a più riprese. Quando gli parve di essere riuscito, il sorriso di Gregory come assenso, domandò un secondo verso, come un bambino che stenda le mani anelando a un frutto prelibato.
A ý an podzgu gy jungrajg – continuò Gregory, ma non prima di aver rubato un bacio senza permesso a quelle labbra dischiuse, vicinissime alle sue; volutamente troppo veloce, così da costringerlo a domandare spiegazioni… e a dargli un altro bacio in pegno per riceverle. Una mano scivolò sulla sua schiena, mentre ripeteva con calma. Sorrise del brivido che sentì scuoterlo.
– Non distrarmi… – mormorò Raphael, ma con poca convinzione. – A ý an… – alla mano si unì l’altra – an popod… ecco, vedi… mi fai perdere il filo…
A ý an podzgu gy jungrajg – ripeté, paziente, ma senza cessare di tormentargli, sfiorando appena, la linea arcuata della sua schiena… giù… giù… fino ai lombi.
E Raphael ripeté a sua volta, impeccabilmente, pur con un tremore percepibile nella voce che si andava facendo più roca, all’intensificarsi delle sue carezze sfacciate, eppure sorprendentemente caste.
– Suvvia… siamo già a metà… – sussurrò Gregory. – A knjeci ljepšnik mý
Raphael si mosse e si sistemò per bene disteso sopra di lui. Le carezze avevano fatto effetto, ma la smorfia decisa sulle sue labbra avvertiva che non avrebbe pensato ad altro prima di aver finito con la canzone. Gregory si rassegnò tranquillamente, conscio che mancava solo un verso, e con pazienza lo scandì: – Ý an ymnu gý vidjela kegola
Raphael ripeté, velocemente, desideroso anche lui (e quanto desideroso!) di arrivare presto alla fine, e poi, dopo la conferma dell’amante che era stato bravo, azzardò domandargli che gliela canticchiasse, almeno per intuirne il motivo. Gregory assentì, ma eseguì prendendo a toccarlo in tutto il corpo senza ritegno, sfacciataggine cui Raphael non pensò nemmeno di sottrarsi. La canticchiò un attimo dietro di lui, poi, già preso da migliori propositi, si avventò sulla sua bocca come un felino e prese a divorarla, voracemente, come era solito quando di aspettare non ne poteva proprio più.
– Sei un maestro poco presente… – gli rimproverò, in un ansimo, inarcandosi per dargli modo di baciargli il petto. – Distrai… i tuoi allievi… dalla lezione…
La risposta non venne, e del resto Gregory era tutto impegnato a tormentare tra le labbra uno dei piccoli capezzoli di Raphael; le mani invece gli stringevano l’interno delle cosce, premendo per divaricarle un poco, pizzicando con le dita la carne sensibile e infuocata.
Non sarebbe stato un amore dolce né languido: avevano troppa fretta di concludere, Gregory che vi meditava da un po’, Raphael esasperato dal suo tormentarlo. Con un sospiro che era anche un gemito, appoggiandosi con le mani alle sue spalle, si lasciò scivolare su di lui.
Gregory lo ribaltò sulla schiena e si prese quel che gli era stato offerto, in tutti i sensi.
Più tardi, nella penombra ormai fitta di quel pomeriggio avanzato, Raphael gli domandò, sonnolento: – Allora… che cosa significa?
Gregory non ricordò, o finse di non ricordare. – Cosa?
– La canzone…
– Ah, la canzone… – corrugò la fronte, concentrandosi – suona più o meno così… “Tu sei la mia vita… vivo solo per i tuoi occhi… ma devo lasciarti… prima che s’alzi il sole”.
– Oh – mormorò Raphael.
– Deluso?
– Pensavo a qualcosa di più poetico.
– Ma lo è – sorrise Gregory. – Lo è, te l’assicuro.

Il mattino seguente, Raphael si era dato ad un metodico riordino del caos del loro carro. Condivideva le inclinazioni dei suoi per il disordine, in una certa parte, ma sedici anni di monastero non erano passati invano, ed egli era stato educato a mantenere sempre i suoi averi nell’ordine più asettico, pena severe punizioni. Una stanza ordinata, si sentiva dire spesso, è segno di una mente ordinata.
Raphael non credeva di avere una mente ordinata, e le regole del monastero gli erano sempre andate strette, ma in confronto ai suoi genitori era come il più pignolo dei monaci di Serven.
Così, non volendolo fare Katrina e Neekla, lo stava facendo lui. E chino sui cassetti del piccolo comodino, mentre tirava fuori e risistemava le cianfrusaglie che vi erano contenute, canticchiava la canzone insegnatagli da Gregory, allegramente, correggendosi di tanto in tanto quando gli pareva di aver sbagliato.
L’aveva memorizzata piuttosto bene, e la cantava con sicurezza, a voce piena.
– Jeevan?
La voce di Neekla lo fece riscuotere con un sussulto. – Papà – sorrise, voltandosi. – Che…
– Ma… che stai cantando?
Il sorriso si allargò. – Me l’ha insegnata Gregory. Come ti sembra la mia pronuncia? – Esitò. – Sarà penosa, scommetto, ma dovete darmi un po’ di tempo e migliorerà…
– Rega, eh? – ribatté il gitano, scuotendo la testa. – Ci avrei giurato…
– E chi altri? – replicò Raphael, imperturbabile, staccando un cassetto per rovesciarne il contenuto sul pavimento. – Tu e la mamma non vi siete mai offerti di insegnarmi… tu in particolare sei sempre occupato con le vendite…
– E di cosa parla esattamente questa canzone, Jeev? – gli giunse la domanda del padre, inaspettata, dalle sue spalle. C’era un pizzico di ironia nella sua voce, o si sbagliava?
– Non la conosci? – replicò, voltandosi. – È una canzone di addio.
– Addio, eh?
– Sì, addio… Gregory me l’ha tradotta, aspetta, lascia che mi ricordi… tu sei la mia vita… vivo per i tuoi occhi…
Neekla attraversò lo spazio ristretto del carro fino a raggiungerlo, un sorriso sempre più largo sulle labbra sottili. – Questa canzone non esiste, lo sai, Jeevan?
– Non esiste? Ma…
– No. Dice più o meno questo… – E si chinò su di lui e gliela tradusse, a bassa voce, con evidente divertimento negli occhi color del cielo uguali ai suoi.
– Gregory! – ruggì Raphael, saltando su, paonazzo. – Io ti ammazzoooooo!!!

Ho fame della tua carne
bacerò il tuo giocattolo
e caro amore mio
avrò il tuo bel sederino

 

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