L'erede di Shohoku

di fiorediloto87
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Kiminobu ***
Capitolo 2: *** 2. Hiroaki ***
Capitolo 3: *** 3. Akira ***
Capitolo 4: *** 4. Un mondo d'amore ***



Capitolo 1
*** 1. Kiminobu ***



CAPITOLO PRIMO: KIMINOBU


Ed era di nuovo inverno.
Il secondogenito dei Kogure strizzò gli occhi per difenderli da una folata di vento gelido.
Era di nuovo inverno. La stagione più odiata.
«Mio signore, non state alla finestra. Prenderete freddo.»
La voce premurosa gli giunse alle orecchie e alla comprensione con abbondante ritardo. In tempo perché il capitano lo raggiungesse - passi di soldato sul marmo guantato di tappeti - e chiudesse con delicatezza un'imposta.
«Guardavo la neve» mormorò, distante.
«Ancora un po' e ne sareste stato ricoperto» replicò il capitano, con voce affettuosa, accennando ai primi fiocchi che cadevano lenti dal cielo.
«Non sarebbe stato tanto male...» sussurrò lui.
Al capitano si strinse il cuore nel petto. «Mio signore... che cosa vi turba?» Prese la sua mano sopra il davanzale di gelida pietra, e pur attraverso il cuoio dei guanti la trovò ghiacciata. «Allontanatevi dalla finestra, vi ammalerete.» Senza abbandonare la sua mano, stretta saldamente nella destra, con la sinistra chiuse anche l'altra metà della finestra. Poi condusse il secondogenito del suo signore fino al divanetto basso vicino al camino.
«Sapete che, qualsiasi cosa vi turbi, io sono qui per ascoltarvi» insistette, gentilmente.
L'erede dei Kogure chinò il capo, nascondendosi dietro i lunghi ciuffi castani. Con un'audacia che chiunque, a castello, avrebbe disprezzato, ma che per lui era il normale agire, il capitano gli sollevò il viso con due dita. «Qualsiasi cosa» ripeté, sottovoce.
Kiminobu Kogure emise un flebile sospiro. «Proprio perché so che sei pronto a condividere con me ogni... motivo di turbamento...»
«Qualsiasi!» ripeté l'altro, accorato.
«... non voglio parlartene, Hisashi.» Scosse la testa. «Perché sei entrato?»
«Mi manda vostro padre» rispose il capitano, con una vena di tristezza per il rifiuto appena ricevuto. «Vuole conferire con voi...»
«Il capitano delle guardie Hisashi Mitsui relegato al rango di messaggero?» scherzò Kiminobu, dolcemente.
«Ho fatto in modo di essere la persona più vicina, in quel momento» rispose Hisashi, con un sorriso. Strinse più forte la mano del suo signore tra le proprie. «Vi attende nel salottino di lady Aya... nel salottino al primo piano. C'è anche vostra madre.»
Al mezzo nome della sorella, Kiminobu alzò gli occhi di scatto. «So già quello che devono dirmi. Ma perché lì?»
L'ultima volta che i reali Kogure avevano desiderato conferire con uno dei loro figli nel salottino (Ayako, quella volta), le conseguenze erano state disastrose.
Ma stavolta non sarebbe andata così. Lo sapevano, lord Takenori e lady Haruko di Shohoku. Lui non sarebbe fuggito.
Si alzò. Purché gli lasciassero continuare i suoi studi. I suoi studi, sì. Non contava nient'altro. Glieli lasciassero continuare, e avrebbe fatto come volevano. Non chiedeva di più.
«Vengo con voi.»
Davvero non chiedeva altro? Guardò Mitsui e si sentì male, come mai fino a quel momento. Avrebbe dovuto lasciare anche lui. Dèi. Si sentì straziare a questo pensiero. «No.»
Il capitano Mitsui si bloccò, sorpreso.
«Non voglio che ci sia anche tu.»
«Mio signore...»
«No, Mitsui. Questa volta no.»
Il soldato chinò il capo, in un inchino formale. «Come milord desidera. Mi è concesso almeno aprire la porta a milord?»
Kiminobu gli prese il viso tra le mani. «Quando mai ti ho nascosto qualcosa, Hisashi? Eh? Ti conosco da troppo tempo. Tu e Hiroaki siete gli unici di cui mi fidi ciecamente, e lo sai.»
Mitsui deglutì. «Ma non volete che vi accompagni.»
«Non ti piacerebbe ciò che vedresti.» Sconfitto. Piegato. Senza un briciolo di volontà. Non voglio che tu mi veda così, Sashi. Non voglio. «Saprai tutto prima di sera. È una promessa.»
«È un fatto così grave, mio signore, da togliervi la luce dagli occhi... e voi non volete che io vi sia accanto» mormorò. «Come desiderate.» Andò alla porta, l'aprì senza enfasi. «Dopo di voi, milord.»

Tre anni prima, nel salottino bianco, Ayako aveva chinato il suo grazioso capo per la prima e ultima volta nella sua vita. Era stato impressionante, per Kiminobu, vedere l'altezzosa sorella piegarsi con tanta rassegnazione. Ma una fugace strizzatina d'occhio gli aveva dato l'esatta dimensione della sua sincerità.
Cioè, nulla.
Nottetempo il bandito che le aveva rubato il cuore e la verginità, tale Ryota Miyagi, capitano del vascello corsaro nascostosi nella rada più vicina, si era infiltrato nel castello. I servi, corrotti a dovere, non avevano visto né sentito nulla. Il corsaro aveva raggiunto in silenzio le stanze della primogenita dei Kogure, l'aveva trovata vestita di morbidi calzoni di pelle, una semplice camiciola bianca, i lunghi riccioli neri legati in una coda alla foggia delle serve. Aveva una piccola valigia a mano, che poteva contenere sì e no un decimo del suo guardaroba.
L'aveva baciata a lungo e stretta a sé fino a costringersi a credere che sì, era tutto vero. Poi erano fuggiti insieme.
La mattina dopo, il vascello aveva abbandonato la rada, e Akira Sendo aveva perso la sua futura sposa.

Tutto questo, Kiminobu lo sapeva perché la sorella gli scriveva lunghe e frequenti lettere per informarlo della sua vita. Era felice. Miyagi l'amava come il principe Sendo non avrebbe fatto mai - se pure quell'uomo era capace di amare qualcuno oltre se stesso. La vita sul vascello pirata era stata dura, i primi tempi, perché nessuno sembrava disposto a farle sconti per il suo retaggio: ma Ayako non ne aveva chiesti e si era rimboccata le maniche. Si era fatta accettare per qualcosa di più che per l'etichetta di «amante del capitano».
Fu a metà del secondo anno che arrivò a Kiminobu una lettera con uno strano nastrino azzurro incollato alla busta.
Aprì e capì. Ayako era incinta.
"... Ryota ed io andiamo a vivere in Shoyo, fratellino! Hai capito bene: abbandoniamo la vita di mare, i saccheggi e i combattimenti. Del resto, il nostro bambino - me lo sento, è un maschio - non può mica nascere sul ponte della Tempesta, ed era da un po' che Ryo ed io meditavamo di lasciare questa vita. Con i soldi che possediamo potremo vivere più che bene: abbiamo pensato di aprire una locanda..."
Il bambino era nato puntualissimo, nove mesi dopo.
"... non ho pensato al nome fino all'ultimo, come vuole la tradizione. Ma quando Ryota l'ha avuto tra le braccia e ha guardato fuori, l'acero che abbiamo piantato in giardino non appena siamo arrivati qui, l'ho sentito mormorare: «Kaede». E ho deciso che quello doveva essere il suo nome."

A Kiminobu non sarebbe toccata una sorte altrettanto felice, ma lo sapeva, lo sapeva già, sin da quando si era iniziato a vociferare - era stato poco dopo la nascita di Kaede - che il principe Sendo avesse rifiutato tutte le principesse che gli erano state offerte in moglie perché incapace di dar loro figli. E, aggiungevano le voci più impudenti, incapace non perché sterile. Il principe Sendo - malignavano le malelingue - da diverso tempo preferiva i giovanotti.
Entrò nel salottino bianco, quello tanto amato da sua sorella, con la morte nel cuore.

«Maledizione!» Il boccale, ancora colmo per metà, andò a infrangersi con uno schianto contro il muro della cucina, e ricadde al suolo in mille cocci innaffiati di vino.
«Mitsui, calmati» disse Koshino, posandogli una mano sul braccio.
«Calmarmi? Mi stai chiedendo di calmarmi?» ruggì il capitano.
«Ti sto chiedendo di fare appello al tuo buonsenso» ribatté Hiroaki, senza accennare a diminuire la stretta. «Non otterrai niente facendo così.»
«Koshino, io lo ammm...!»
«Zitto! Sta' zitto!» sibilò il vice-capitano, tappandogli la bocca con forza. «Hai bevuto troppo, e straparli. È meglio se te ne torni nella tua stanza e ci dormi su.»
Mitsui si liberò della sua mano con un gesto violento. «Tu non puoi capire!» ringhiò, tirandosi su dalla panca. «Tu non provi per lui un decimo dell'affetto che io...»
«Stammi a sentire, capitano» sibilò Koshino, posando una mano pesante sulla sua nuca. «Non sei l'unico qui che gli debba la vita. Non sei l'unico che gliel'abbia consacrata. E non sei l'unico che vuole il suo bene! Quindi taci e smettila di dire scempiaggini!»
Mitsui si scostò. Era leggermente ubriaco. «Tu non puoi capire, Kosh. Non puoi capire!»
«Sei tu che devi capire. Non ha scelta.»
«L'avrebbe, se...»
«Se?» Koshino lasciò che la sua espressione si addolcisse un po', ma solo un po'. Mitsui doveva comprendere che le sue ragioni non valevano nulla, in quella circostanza. Anche a lui faceva male il cuore al pensiero di Kiminobu sposato con quell'arrogante di Sendo, ma... loro non contavano nulla. «Non fuggirà come sua sorella. Lo sai. Rassegnati,» le pupille di Mitsui si dilatarono, «sarà meglio per tutti.»
«Ma che cuore hai, Koshino?» gridò il capitano. «Dopo tutto quello che ha fatto per te... Dèi del cielo, ti ha accolto, ci ha accolti in questo castello quando l'alternativa era la forca! Sei... sei solo un ingrato, Hiroaki Koshino!»
Il vice-capitano, di molto più basso del suo superiore e amico, si alzò e con flemma gli abbatté uno schiaffo sulla guancia. «Vai a dormire, Mitsui. Se ti vedesse in questo stato, gli faresti solo schifo.»

CINQUE ANNI PRIMA

«Bene» ridacchiò Mitsui, appoggiando il capo contro la fredda parete di pietra. «Ci siamo arrivati, alla fine.»
Koshino si mosse leggermente, facendo tintinnare le catene che gli serravano i polsi. «Cosa c'è da ridere?»
«Nulla, Kosh. Assolutamente nulla. È per questo che rido.» Strinse i denti. «Per non piangere.»
«Non è giusto!» esalò Koshino, chiudendo i pugni. «Per un tozzo di pane, dèi...»
Mitsui respirò l'aria gelata e fetida di paglia bagnata della prigione, tirando su col naso. Gli sarebbe venuta la polmonite, a stare lì... Ma non ci sarebbe rimasto più di tanto, si ricordò con ironia amara. «Quanto manca?»
Koshino diede uno sguardo al cielo, tagliato a righe dalle sbarre della finestrella. Era la decima volta in pochi minuti. «Quanto mancava prima, meno qualche minuto» mormorò. «Finiscila di chiedermelo.»
«Così il tempo passa più lentamente, non lo sai?»
Koshino espirò. «Non lo sopporto. Vorrei dormire e non svegliarmi fino a domattina... sarebbe meglio.»
«È l'ultima notte, Kosh...»
«Non ha niente di speciale, è solo l'ultima» borbottò.
Ironia della sorte, avevano dato loro come ultimo pasto del pane fresco e fragrante, forse cotto apposta. E loro, che per rubarne un tozzo raffermo erano finiti in quella segreta, non avevano più fame. Tanto, non ci sarebbero arrivati comunque. La pagnotta restava, lontano tormento, a indurire da sola sul freddo vassoio di metallo.
Lo Shohoku era un regno povero, e le sue leggi contro i ladri erano le più rigide dei Quattro Regni. Ma se lo Shohoku e i suoi abitanti non fossero stati così poveri, loro non si sarebbero ridotti a dover rubare una crosta a un altro poveraccio.
«Che avresti fatto, in un'altra vita?»
Koshino si riscosse a malincuore. Era quasi riuscito a prendere sonno. «Non lo so.»
«Io avrei fatto il soldato. Non il mercenario, dico il soldato in un esercito regolare, con la mia bella uniforme e tutto, spada che luccica e stipendio puntuale. Sì. Mi sarebbe piaciuto. Tu che avresti fatto, Kosh?»
L'amico si strinse nelle spalle, pensando. «Forse... il soldato, forse sarebbe piaciuto anche a me.»
«Oppure?» insistette Mitsui, indispettito che l'altro gli copiasse il suo sogno.
«Oppure... avrei imparato a suonare uno strumento. Avrei fatto il menestrello. Mi sarebbe piaciuto anche questo.»
Mitsui sospirò, lentamente. «Sono contento di morire con te, Kosh.» Tese la mano nella sua direzione, ma era inutile, l'altro non poteva raggiungerlo.
Erano incatenati ai lati opposti della cella. Non arrivavano neppure al vassoio col pane, sadicamente posto al centro della stanza.
Nella penombra, Koshino tese la mano verso di lui. «Anch'io sono contento di morire con te, Mit» mormorò.

«Padre?»
«Mmm?» Lord Takenori Kogure di Shohoku alzò gli occhi dalle sue carte. «Cosa c'è?»
«Ripetetemi quello che avete appena detto, vi prego.»
Il Re calò gli occhiali sul naso, guardando con perplessità il suo secondogenito. Aveva un rossore strano sulle guance, insolito per il suo colorito pallido. Riprese l'ultimo foglio e rilesse: «Mitsui, Hisashi. Anni: 16. Koshino, Hiroaki. Anni: 15. Furto di: viveri. Condanna: morte».
«Sono loro!» esclamò Kiminobu, strappando il foglio di mano al padre. «Quelli che mi hanno salvato dai banditi l'altra mattina! Sono loro!»
«Ne sei certo, Kiminobu?»
«Assolutamente!» Kiminobu fissò gli occhi in quelli neri del padre, risolutamente, e sostenne il suo sguardo indagatore per un lungo istante. Solo in questo modo avrebbe potuto convincerlo. «Non li potete mandare a morte» riprese, in tono calmo. «Sono in debito con loro.»
«Kiminobu.» Il Re si sfilò gli occhiali, posandoli sul tavolo. «Non è possibile revocare una sentenza già emessa.»
«L'importante è che non sia già stata eseguita» ribatté il secondogenito, con forza. «Qui dice che moriranno... questa mattina!»
«È troppo tardi, Kiminobu» disse il Re, accennando all'alba che si affacciava nel cielo.
Aveva sempre trovato in Kiminobu un collaboratore eccellente e instancabile, malgrado la giovane età. Quella era solo una delle tante notti che avevano passato insieme, a vagliare i documenti più importanti che giungevano da ogni parte del regno.
«Non è troppo tardi» ribatté, scattando in piedi. «Datemi il permesso di revocare quella sentenza, e farò in tempo.»
«Kiminobu...»
«Dovete loro la vita di vostro figlio, mio signore. Dimostratemi quanto vale. Vi prego.»
«Kiminobu, è la legge» disse il Re, riluttante.
«Voi siete la legge, padre. Sono solo dei ragazzi, hanno rubato del cibo per non morire di fame.» Tese la mano. «Datemi il vostro sigillo. Vi prego.»
Con un sospiro, lord Takenori lasciò cadere sul suo palmo il grosso anello d'oro che portava al medio della destra, quello con il quale siglava la ceralacca dei messaggi più importanti. «Fa' presto.»
«Volerò, padre.»
Mentre correva fuori dalla stanza e lungo i corridoi del castello, Kiminobu cercò di ignorare il senso di colpa che sentiva stringerlo al petto. Non avrebbe voluto mentire a suo padre, ma non aveva avuto scelta. Non poteva lasciare che due ragazzi morissero per aver rubato un pezzo di pane. Non l'avrebbe permesso.
Esistevano le bugie, e le bugie a fin di bene. La sua, all'inizio, era stata una semplice bugia. Si era attardato da solo, la mattina precedente, senza scorta, a studiare una varietà di erbe medicinali che aveva preso a crescere spontaneamente nel bosco appena fuori città. Così tanto che, quando era tornato a casa, stanco e soddisfatto, si era trovato schierato a guerra l'intero suo corpo di guardia.
Aveva dovuto inventare la storia che alcuni banditi avevano tentato di derubarlo... ma due persone coraggiose l'avevano difeso e si erano poi dileguate senza chiedere ricompensa.
Era stata una bugia meschina, perché la sua scorta era stata punita per la sua negligenza. Suo padre li avrebbe fatti frustare tutti, dal primo all'ultimo, se non fosse stato per le preghiere di Kiminobu. Cui, bisogna dirlo, rimordeva terribilmente la coscienza.
Ma ora... questa era una bugia a fin di bene. Sì. Pronunciata per salvare due vite. Non se ne sarebbe pentito.
Stringendo nel pugno l'anello, troppo grande per le sue dita sottili, scese nelle stalle e, aperto il box di Hanamichi, il suo sauro dalla criniera fulva, gli montò in groppa senza sella, posando il piede sul puntello che aveva fatto conficcare nella parete di legno.
«Vai, bello» mormorò, malamente abbracciato al collo dell'animale. «Dobbiamo salvare la vita a due persone, capito? Corri come se avessi in groppa Ayako.»
Al nome della principessa, amazzone spregiudicata, Hanamichi diede un nitrito e uscì al galoppo dal box. Forse nominarla non era stata un'idea brillante, ma adesso era sicuro che il sauro avrebbe galoppato al massimo delle sue possibilità.

«Kosh?»
«Mmm...»
«È l'alba...»
Hiroaki alzò il viso, stancamente. Un singolo raggio di luce tagliato dalle sbarre batteva sui suoi occhi.
«Hai la faccia a righe, Kosh» mormorò Mitsui. Aveva voluto essere un sogghigno, ma il tono era tutt'altro che allegro. «Sei riuscito a dormire?» domandò.
«A tratti» rispose, con voce impastata.
Era la prima volta che vedere l'alba non gli procurava sollievo. Nella vita che avevano condotto fino a quel momento, rivedere il barlume del sole al mattino significava poter vivere ancora un giorno. Significava che nessuno ti aveva pugnalato nel sonno, per derubarti o per il solo piacere di farlo.
Ma quell'alba era messaggera di morte, non di vita.
Chiuse gli occhi, stringendo forte le palpebre.
Non avrebbe pianto. No. Se l'erano giurati. Non avrebbe pianto.
«Io non ti sto guardando, Kosh» mormorò Mitsui, alzando gli occhi al soffitto. «Non vedo e non sento niente. Quindi fai un po' come ti pare.»
Koshino annuì, confortato, e lasciò che scorressero, quelle lacrime assassine che gli bruciavano gli occhi, dagli zigomi alla gola. Non ne avrebbe ricavato un gran sollievo, ma almeno se ne sarebbe liberato.
«Stanno arrivando, Kosh.» La voce di Mitsui tremava. «Senti?»
Koshino chiuse gli occhi. I passi della sentinella al solito giro? No, quella aveva attraversato il loro corridoio pochi istanti prima. Questi erano passi diversi... concitati... più d'una persona, certamente. Avvertì il tintinnio di un grosso mazzo di chiavi.
«È la fine» sussurrò, ingoiando le ultime lacrime. Si asciugò in fretta il viso, deciso a non dare alcuna soddisfazione ai loro aguzzini, e inspirò profondamente. «Addio, Mit.»
«... addio, Kosh.»
La porta si aprì con lentezza. Da dove si trovava, Koshino non poteva vedere i nuovi venuti, finché restavano al di là della soglia. Mitsui invece li aveva proprio di fronte.
Gli parve stupito.
«Che modo è questo...» esordì una voce giovane, vibrante e indignata, «che modo è questo di tenere i prigionieri?»
«Mio signore?» Una voce profonda e riverente, catarrosa, di uomo. Il secondino, probabilmente.
«Non sapete che la sporcizia è il modo migliore per favorire le epidemie? Volete che muoiano tutti di peste?»
«Mio signore... devono morire comunque» osò protestare l'uomo, incerto.
«Questi no» ribatté la voce. Il giovane entrò lentamente nella cella. Il sole lo gratificò subito con un raggio di luce più intenso.
Era un ragazzo di una quindicina d'anni, bello ma d'aspetto dimesso, abiti di pregevole fattura, non sfarzosi, gli fasciavano il corpo magro, e corti capelli castani gli incorniciavano l'ovale del viso. Unico simbolo della sua condizione, un sottile codino castano partiva dalla nuca e si protraeva sino al centro della schiena. Portava sul naso un paio di occhiali da vista.
Lo sconosciuto rivolse un lungo, attento sguardo a Mitsui. Poi si voltò verso Koshino. «Che bisogno c'era di incatenarli?»
«Mio signore...»
«Questa, poi.» Il giovane giunse fino al centro della stanza, dove stava il vassoio con la pagnotta ormai dura e fredda. «Ci arrivate?» Guardò Koshino, poi Mitsui. «Arrivate a prenderla?»
Nessuno dei due rispose. «Ovviamente no» sibilò lo sconosciuto, tra i denti. «Altrimenti non sarebbe ancora lì.» Si voltò verso il carceriere, con cipiglio. «Liberali.»
«Mio signore?»
«Non sai dire altro? Liberali, è un ordine!» Tese nella sua direzione la mano con l'anello stretto tra pollice e indice. «Di mio padre» sottolineò.
A Koshino tremò il cuore. Il principe. Il principe, dèi del cielo! Avrebbe voluto chiedergli perché... perché li stesse graziando, ma non aveva più saliva, né voce. Gli erano tornate solo le lacrime.
E senza riuscire più a controllarsi, riprese a piangere. Dall'altra parte della stanza, Mitsui singhiozzava abbondantemente.

Il secondogenito dei Kogure guardò con un misto di tenerezza e sollievo i due ragazzi sciolti in lacrime. Aveva avuto ragione. Erano solo due ragazzi disperati. In quel momento più che mai, si convinse di aver fatto la scelta giusta, adoperandosi perché fossero graziati.
E sapeva anche cosa avrebbe fatto di loro, adesso che erano liberi.
«Voi venite con me» disse, mentre i due si mettevano faticosamente in piedi.
«Dove?» domandò il giovane più alto, con voce incerta.
Kiminobu gli rivolse un sorriso gentile. «Se preferisci, puoi sempre restare qui.»
«No, no... Altezza!» esclamò il ladruncolo. «Vi seguo pure all'inferno, ditemi voi!»
«Un po' meno in basso» disse il principe. «E tu?»
Koshino si limitò a chinare il capo leggermente, senza entusiasmo. «Comandate» borbottò.
Sospettoso. Be', era legittimo. Solo il tempo avrebbe saputo dirgli se non stava per commettere una delle più grandi sciocchezze della sua vita.
Kiminobu si era sempre fidato del suo intuito. Sempre. E non ne era stato mai tradito.
«Seguitemi.»
Lasciò la prigione con i due ladruncoli che gli camminavano dietro. Ne avvertiva i passi leggeri e... be', anche l'olezzo non propriamente fresco. Per prima cosa li avrebbe costretti a un lungo, lunghissimo bagno, meditò. Il resto, agli dèi.
«Andremo a piedi. Il mio cavallo non può portarci tutti e tre» li avvisò, mentre una guardia strattonava Hanamichi per la criniera, guidandolo nella sua direzione.
«Non dovrebbe tirarlo così» disse Koshino, seccamente. «Gli fa male.»
«È vero» assentì Kiminobu, leggermente sorpreso. Hanamichi mandò uno sbuffo indispettito e si diresse verso il padrone, cercando nella mano e nella sua tasca qualcosa da mangiare. «Abbi pazienza, Hana... Lo so che non hai ancora fatto colazione, ma qui non ho niente, d'accordo?» mormorò al cavallo, accarezzandogli la criniera rossa. «Andiamo, su...»
Si voltò verso i due graziati. Non gli piacque troppo il modo in cui Mitsui guardava la bestia. Tornò a fissare la strada.
«Vi pregherei di non tentare di rubarmi il mio cavallo» scandì, con calma. «Perché gli sono affezionato e perché lo ritroverei, e con lui voi. Ciò che vi offro è di gran lunga superiore... scusa, amico mio» sorrise, all'ennesimo sbuffo dell'animale.
«Perché?» Era stato Koshino a parlare.
Kiminobu si voltò. «Vi spiegherò mentre camminiamo. C'è un po' di strada da fare.»
«Dove ci portate?»
«Naturalmente, al castello.» Sorrise. «Dove, sennò?»


«Non sono un ingrato, Hisashi» mormorò, rimasto solo nella grande cucina del castello. Poggiò i gomiti sul tavolo, prendendosi il capo tra le mani. «Non sono un ingrato. Dèi, datemi un modo... uno solo... per evitargli questa tortura, e lo farò. Lo giuro. Lo farò.»
Muti o solo indifferenti, gli dèi evitarono di rispondere.

«Mio signore! Mio signore!»
Il bussare furioso alla sua porta e le grida straziate di Mitsui destarono Kiminobu di colpo.
Si era disteso ancora vestito sul grande letto a baldacchino, la mente svuotata, e nessun desiderio di pensare. Non aveva cenato e non era riuscito neppure ad annullarsi nei suoi studi. Niente di niente.
La disperazione nella voce del suo capitano accelerò improvvisamente i battiti del suo cuore. Girò la chiave, aprì con decisione la porta, e...
Mitsui gli cadde addosso, tanto pesantemente si era appoggiato al legno solido dell'uscio.
«Perdonatemi, mio signore, io...»
«Hisashi? Piangi?»
Il capitano si tirò rapidamente in piedi, e tirò su anche lui. Poi si accostò la porta alle spalle e lo abbracciò, di forza.
Kiminobu restò un attimo sorpreso. Poi, con un mesto sorriso, si abbandonò tra le sue braccia.
«Non sposatelo. Non sposate quell'uomo. Akira Sendo non è degno di baciare la terra su cui camminate!»
«È... è per questo che stai piangendo?» osò fiatare Kiminobu, spalancando gli occhi. Non era possibile. Sarebbe stato troppo crudele.
«E per cos'altro, mio signore?» mormorò Mitsui, straziato.
«Non decido io, Hisa...»
«Neppure vostra sorella poteva decidere, eppure...»
«Lascia perdere Ayako.» Si staccò dal suo abbraccio, lentamente. «Lascia stare mia sorella. Io... io non fuggirò come lei.» Alzò gli occhi. «Non ne ho motivo.»
Vide una sofferenza improvvisa passare nello sguardo di Mitsui, passare e subito nascondersi, tanto che credette d'essersela immaginata. Probabilmente si era immaginato anche il resto.
«Io vorrei solo che voi foste felice...»
«Anch'io, ma non mi è dato.» Kiminobu andò a sedersi sul bordo del letto, sospirando. «Non sarà una tragedia, Hisashi. Non potremo certo avere figli, nessuno si aspetterà che dormiamo insieme. E sono certo che Akira Sendo non è la bestia che...»
«È peggio, mio signore, e voi lo sapete!» esclamò Mitsui, gettandosi in ginocchio di fronte a lui. Gli prese le mani nelle proprie. «Ripensate a quello che vi scrisse vostra sorella... vi prego, pensateci!»
Kiminobu scosse la testa. Erano giorni che cercava di non pensarci. E adesso, Mitsui... «... un pervertito, Kimi. Ringrazio tutti gli dèi del cielo di avermi permesso la fuga. Non l'avrei sposato mai, mi sarei uccisa, piuttosto. Che inferno sarebbe stata la mia vita con lui? Nei suoi occhi non c'era che lussuria... il modo in cui mi guardava mi faceva accapponare la pelle. Sarei stata il suo giocattolo, finché non si fosse stancato di me...»
«Basta, Hisashi» mormorò. «È già abbastanza difficile, senza che tu...»
«Io voglio che voi non dobbiate pentirvi mai di una decisione così importante!» esclamò Mitsui, tendendosi verso di lui, accoratamente.
«Hisashi... hai bevuto, non è vero?»
«Sono sobrio, dannazione! Ascoltatemi!» Prese le sue mani e le baciò, prima una e poi l'altra, procurandogli due brividi consecutivi lungo la spina dorsale. «Voi vi fidate di me?»
Kiminobu annuì, pur non riuscendo a capire che legame avesse questo con la discussione.
«Mi avete dato una possibilità una volta... ora... vi domando, mio signore... mio splendido signore, volete darmene un'altra?» domandò, le lacrime nuovamente affiorate agli occhi.
«Una possibilità... per cosa?»
«Rispondetemi!»
Kiminobu inspirò. «Sì. Sì, Hisashi, anche se non capisco cosa... cosa... Hisashi, cosa stai facendo?»
Il capitano si tese nella sua direzione, asciugandosi con la lingua le lacrime che gli bagnavano le labbra. Quella lingua... quel movimento rosa sul pallido delle labbra avrebbe tormentato i sogni di Kiminobu a lungo, ne era certo. Non riusciva a staccarne gli occhi.
Poi Mitsui gli posò le mani ai lati del collo e dolcemente lo baciò.
L'aria si spezzò intorno a loro, e da tiepida che era si fece torrida. Kiminobu passò le mani intorno al collo di Hisashi e si strinse a lui disperatamente, lasciando vagare i palmi sulla distesa infinita della schiena, dischiudendo le ginocchia perché avvinghiarglisi meglio. Si sentì ardere.
Da quanto tempo aspettava quel bacio?
Non se n'era neppure reso conto.
«Non ti voglio lasciare...» gemette, ancora prigioniero della sua bocca dolce di vino speziato. «Non ti voglio lasciare, Sashi...»
Stava piangendo. Non sapeva da quanto. Gli sembrava che il tempo li avesse abbandonati, soli nell'infinità.
«Kiminobu... Kiminobu...»
«Trova un modo perché io non ti lasci, ti prego...» ansimò. «Ti prego...»
Hisashi gli abbandonò le labbra, solo per un momento. «Quel cane non ti avrà mai, Kiminobu! Mai! Lo giuro su questa vita che mi hai reso cinque anni fa... Ad averti sarà solo colui che amerai!» Deglutì. «Se pure tu ti accorgessi che non sono io, quella persona» aggiunse più piano.
Kiminobu lo abbracciò ancora più strettamente, appoggiando la fronte contro la sua. «Giura di amarmi, Hisashi Mitsui, e per te sarò disposto a commettere una follia. Giuralo!»
«Per gli dèi, sì» mormorò il capitano, senza fiato.
Il viso di Kiminobu era rosso per l'emozione e forse anche per l'imbarazzo, ma era splendido come al solito. «Anch'io ti amo, Sashi...» Si rituffò sulla sua bocca, con una furia che non gli era solita, e riprese a baciarlo. Una furia non priva di disperazione.
«Fuggirai con me?» bisbigliò Hisashi, guidandolo disteso sul letto.
Kiminobu annuì, lentamente. «Troveremo il modo di... di non lasciarci... Anche se il disonore...»
«È così importante?» mormorò il capitano, affranto.
Kiminobu scosse la testa. «Di fronte a... questo... niente è più importante» sussurrò, lasciandogli lo spazio per intrufolarsi tra le sue gambe.
«Kiminobu...», com'era dolce il suo nome nella bocca, l'avrebbe pronunciato fino a restare senza fiato, solo per il piacere di sentirne il suono, «Kiminobu, non te ne pentirai, vero?»
«Non me ne sono pentito, la prima volta» mormorò il principe.
«La prima... volta?» ripeté Hisashi, sbarrando gli occhi. A chi? A chi si era concesso, senza che lui ne avesse neppure il sospetto? Si sentì morire...
Gli occhi di Kiminobu ridevano dolcemente. «Mi hai detto che volevi un'altra possibilità, capitano Mitsui... ed io della prima non mi sono pentito...»
«Tu... vuoi farmi morire» sussurrò, appoggiando le labbra sulla sua guancia. Con timidezza, quasi. «Vuoi farmi impazzire, Kiminobu...»
«È chiusa, la porta?»
Mitsui alzò gli occhi. «Sì.»
«Allora...» chiuse gli occhi, attirandolo a sé, le labbra sulla sua gola, «Sashi... vuoi... vuoi insegnarmi a... fare l'amore?»
«Kiminobu... amore mio...» Con un ansimo struggente si riappropriò della sua bocca, e lasciò che le mani agissero come sapevano.

Hiroaki era passato dalla camera di Mitsui, quella accanto alla sua, per vedere come stesse. Era certo di trovarlo lì, probabilmente buttato sul letto come una bestia ferita. Avrebbe cercato di consolarlo come meglio poteva, anche se non era capace di consolare la gente. Forse la sua sola vicinanza gli avrebbe comunicato un po' di calore.
Ma non l'aveva trovato.
In preda a un cattivo presentimento, fece di corsa le scale che portavano al secondo piano, quello con le camere dei reali, e quasi si sentì male al vedere che, nel corridoio in penombra, una debole lama di chiarore proveniva dalla porta socchiusa della camera del principe.
Stava facendo qualche sciocchezza. Di sicuro, stava commettendo una sciocchezza.
Giunse di fronte alla porta e si fermò. Non voleva origliare, ma...
«Trova un modo perché io non ti lasci, ti prego... Ti prego...»
«Quel cane non ti avrà mai, Kiminobu! Mai! Lo giuro su questa vita che mi hai reso cinque anni fa... Ad averti sarà solo colui che amerai! Se pure tu ti accorgessi che non sono io, quella persona.»
«Giura di amarmi, Hisashi Mitsui, e per te sarò disposto a commettere una follia. Giuralo!»
«Per gli dèi, sì.»
«Anch'io ti amo, Sashi...»
Hiroaki osò sbirciare attraverso la sottile fessura lasciata aperta. Trovò Kiminobu seduto sul bordo del letto, e Hisashi inginocchiato ai suoi piedi, stretti nel bacio più intenso e furioso che avesse mai visto.
In silenzio, evitando anche di respirare, tirò a sé la maniglia e chiuse del tutto la porta.

«Kimi... Kiminobu...»
«Sashi...»
«I muri... sono abbastanza spessi?»
Il principe guardò il suo amante con occhi già annebbiati dal piacere. «Spessa pietra...» sussurrò. «Potremmo... gridare... non ci sentirebbe nessuno...»
«Gridare...» ripeté Hisashi, martoriandogli le labbra tra i denti. Scese sul collo, poi, repentinamente, passò a mordicchiargli una clavicola appetitosa, facendolo sussultare. «No, mio signore... non ti puoi trattenere... dammi ciò che mi hai promesso...»
«Devi fare di meglio... non mi sento in vena di grida...ahh... reeehhh...»
Kiminobu ebbe l'impulso di portarsi una mano alla bocca, e tapparla con forza. Era un tiro mancino, quello!
La lingua di Hisashi battagliava silenziosamente con il suo capezzolo sinistro, che non ne voleva sapere di tornare quieto e remissivo com'era sempre stato. Un attimo dopo, la battaglia si spostò sul destro. Kiminobu cominciò a chiedersi se i muri fossero davvero abbastanza spessi da contenere tutta la voce che sentiva premere in gola... premere per uscire nell'aria torrida della sua camera.
«Amore mio...»
Sentì la bocca di Hisashi tracciare un'umida scia lungo l'incavo appena pronunciato dei suoi addominali... giù... la lingua riempire un istante l'ombelico, strappandogli un primo grido... e poi... dèi, cosa aveva in mente quel pazzo...?
Le dita di Hisashi si fecero strada tra i lacci dei suoi calzoni, li tirarono a forza, li strapparono, fino ad allontanare quell'inutile schermo dall'oggetto del suo desiderio.
«Hisashi... toglimeli...» supplicò Kiminobu.
Il capitano obbedì. Gli sfilò gli stivali e li gettò via con i calzoni di pelle e la biancheria di Kiminobu, sul pavimento, lontani. Il caminetto crepitava poco distante, ma se pure l'avessero spento non avrebbero patito il freddo.
«Hisashi... che vuoi fare...» gemette.
«Intessere una conversazione brillante con questo vostro amico, mio signore...» rispose Hisashi, e poi si chinò e ne baciò l'umida punta, facendo fare a Kiminobu un balzo inaspettato.
«Oh dèi dèi dèi... non mi abbandonate...» implorò il principe, mentre il capitano, ridacchiando, tornava a infierire con voluta lentezza. «Dèi!»
Se quello era fare l'amore, Kiminobu si chiese perché avesse atteso tanto prima di concedersi di provarlo.
I miei studi...
Al diavolo gli studi!
, pensò, intrecciando le dita con i lunghi capelli di Hisashi. Nessuna delle piante che amava tanto gli aveva mai dato quelle sensazioni. Nessuna delle piante che amava gli aveva mai restituito amore.
«Sashi... mi stai uccidendo... Sashi...!» gridò, stringendogli i capelli così forte da distoglierlo dal suo compito.
Gli occhi neri di Mitsui si posarono sui suoi, dolcemente. «Vuoi che smetta?»
Kiminobu tentò invano di riprendere fiato. «Voglio... di più...»
Il capitano risalì il suo corpo, lentamente, strofinandocisi contro in tutta calma. «Quanto...»
«Levati i calzoni...»
Hisashi obbedì ancora una volta, senza farsi pregare. Anche se adorava sentirlo pregare.
«Io... io non ho mai... tu mi aiuti, vero, Sashi?» balbettò Kiminobu, allacciando le caviglie dietro la sua schiena.
Hisashi lo baciò, intensamente. «Certo... se tu aiuti me...» E gli passò le dita sulle labbra umide, per poi lasciarsele catturare dalla sua bocca. Un dito alla volta, gli occhi di Kiminobu scintillavano.
Non era mai stato più bello.
Lasciò scivolare la mano giù, tra i loro corpi che non aderivano perfettamente, non ancora, e spinse delicatamente un dito.
Kiminobu ansimò leggermente. Sussurrò un: «Ancora» che fece sorridere Hisashi.
Quando ne aggiunse un secondo, l'espressione cambiò in fastidio. Non molto pronunciato, ma presente. E quando azzardò aggiungerne un terzo, lo sentì irrigidirsi completamente.
«Shh...» sussurrò al suo orecchio, senza accennare a muoversi. «Stai tranquillo... Passerà presto...»
Kiminobu si rilassò.
«Non ti voglio fare male, ma un po' è inevitabile» mormorò. «Vuoi che... rimandiamo a un'altra volta?»
«E... e se non ci fosse, un'altra volta?» replicò Kiminobu, stringendolo a sé. «No... continua...»
«Ci sarà un'altra volta... ce ne saranno migliaia...» sorrise Hisashi, portandosi le sue gambe sulle spalle, con cautela.
Non era mai stato più indifeso.
Kiminobu strinse i denti e i pugni, rilasciando tutto il fiato che aveva. Dèi! Non l'aveva immaginato così... così... lacerante. Ma si costrinse a tenere gli occhi aperti. Quelli di Hisashi erano puntati sui suoi, colmi di premura e preoccupazione... Akira Sendo avrebbe avuto gli stessi riguardi?
L'avrebbe violentato come una bestia...
«Non ti preoccupare... sto bene...»
«Tra un po' starai meglio...» gli assicurò Hisashi, baciandolo. «Tra un po' sarai in paradiso...»
Ci sono già... No, non riusciva a dirlo, con quel dolore squarciante in mezzo alle natiche... dèi... Una spinta più avventata gli strappò un grido, e il suo corpo lo avvertì che erano entrambi al limite... Hisashi del suo corpo, lui del dolore. Ancora un po' e l'avrebbe implorato di smetterla.
«Tranquillo, amore mio... tranquillo...» bisbigliava Hisashi, immobile dentro di lui. Ma la sua voce non era più tanto ferma. Per la prima volta Kiminobu si rese conto che Hisashi era anche al limite della sopportazione.
«Ora... Sashi... non farmi... aspettare troppo...»
Non avrebbe neanche saputo dire in quale momento il dolore si era sfrangiato in un piacere soffuso, gradito. Ma seppe esattamente quando questo esplose in un alone di luce accecante. Fu quando si sentì violare in un preciso punto. Un'estasi.
«Dèi!» gridò, avvinghiandosi al suo corpo. «Hisashi!»
Il capitano si avventò su di lui come se non avesse atteso altro, incapace di controllarsi oltre, e come dargli torto? Nel sentirsi colpito dal calore umido dell'amore di Kiminobu, prosciugato tra le sue braccia, mandò un lungo gemito e si liberò nel suo corpo.

«Quando verrà quel bastardo di Sendo?» mormorò accarezzandogli dolcemente la schiena, nuda sotto le pesanti coperte.
Kiminobu si strinse a lui. «Non verrà. Dovrò andare io in Ryonan.»
«Perché? La tradizione vuole...»
«La nostra, sì. Ma la loro vuole che la... la sposa... si rechi dallo sposo portando con sé la propria dote.»
Hisashi lo guardò inarcando un sopracciglio. «Che dote porti, amore mio?»
«Non l'hai capito?» Kiminobu ebbe un sorriso amaro. «Lo Shohoku.»
«Dovremmo diventare sudditi di quel... quel... maledetto?» esclamò il capitano, facendo un balzo tra le coperte.
Kiminobu evitò di guardarlo. «Non finché mio padre e mia madre saranno in vita. Ma dopo... sì. Andrà così.»
«Ma tu non lo sposerai, Kimi.»
«Che cosa possiamo fare? Io... la mia volontà non conta niente, Sashi. Ho detto a mio padre che l'avrei sposato. Per il bene del regno, e...»
«Tu devi pensare al tuo bene» replicò Hisashi, sollevandogli il viso. «No, niente storie. Niente storie sul fatto che sei prima un principe e poi una persona, no, non credo più a queste stupidaggini. Tu sei Kiminobu, prima di tutto. E sei mio. Nega l'evidenza, se puoi.»
Il principe scosse la testa. «Non posso. Sono tuo. E se Sendo scoprirà che non sono più vergine... probabilmente mi ripudierà, e... sarà peggio. Peggio di prima.» Inspirò. «Prego gli dèi che non abbiamo commesso una sciocchezza.»
«Avevi detto che non te ne saresti pentito...» sussurrò Hisashi, addolorato.
«Non me ne pento. Ti amo. Tanto basta» rispose Kiminobu, baciandogli la bocca. «Ma dobbiamo pensare a cosa fare...»
«Quando dovrai andare in Ryonan?»
«Domani, verso la nona...»
«Così presto! Bene, allora fuggiremo dal castello, domattina. Ripareremo in Shoyo, da...»
«Non sarà così facile, Hisa... mio padre mi ha avvertito. Si fida di me, dice, ma dice anche che, per evitare spiacevoli inconvenienti, non uscirò più dalle mura del castello se non per andare a sposare Akira Sendo.»
«Così ti tratta?» replicò Hisashi.
«Non gli ho mai dato problemi, ma... neanche Ayako gliene aveva mai dati. Pensa che la cosa potrebbe ripetersi, e...»
«E non sbaglia» disse Hisashi, con decisione. «Troveremo il modo di fuggire. Io non ti lascio sposare quel porco, chiaro?» Gli terse due lacrime fuggitive dagli zigomi. «Ti fidi di me, amore mio?»
«Come di nessun altro» rispose Kiminobu, appoggiando il capo sulla sua spalla. «Come di nessun altro.»
 


(continua...)
 


 

Fiorediloto: Embè?
Kimi: >.< Devo sposarmi con Sendo???
Hisa: Lemon... sbav... Volevo dire... DEVE SPOSARSI CON SENDO???
Fiorediloto: Sì, ma... è in arrivo la sorpresina!!!
Kimi e Hisa: CHE SORPRESINA???
Fiorediloto: ^__- Non vi fidate di me???
Hisa: NOO!!!
Fiorediloto: Kimi!!! Amore mio!!! Almeno tu!!!
Kimi: Ehm...
Fiorediloto: Mi tradiscono tutti... ç__ç Ma io me ne vado e vi lascio stuprare tutti e due da Sendo...
Akira: Ehi! Io non li voglio 'sti due sfigati!
Hisa: Sfigato a chi, maniaco porcospino???
Hiro (rimuginante): In tutto questo mi chiedo io che farò...
Fiorediloto (di nuovo allegra): Taaaaaante cose belle!! Sì sì sì!!! *__*
Hiro: ç_ç Significa che farai stuprare anche me, lo so...
Fiorediloto: Ma nooo!!! Da quando in qua faccio queste cose?!?
Tutti (+ Gregory in trasferta dall'omonima original): DA SEMPRE!!!
Fiorediloto: ç_ç

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Capitolo 2
*** 2. Hiroaki ***



CAPITOLO SECONDO: HIROAKI


Hiroaki Koshino si destò all’alba. Aveva volutamente lasciato spalancate le imposte della sua finestra, cosicché la luce del primo mattino lo svegliò con il suo bagliore insistente. Ripensando alla sera prima, l’agitazione che l’aveva lasciato solo per poche ore – quelle in cui era riuscito a dormire – ritornò prepotente.
Vestì la divisa in fretta, assestò la spada alla cintura e uscì a passo sostenuto dalla sua camera.
Aperta. Avevano lasciato la porta aperta, senza giri di chiave. Quei due dovevano essere impazziti. Hiroaki calcò la maniglia con forza, entrò e se la richiuse alle spalle facendola sbattere.
L’immagine idilliaca dei due amanti che aveva trovato a dormire abbracciati s’infranse immediatamente.
«Cosa… chi è?» mormorò Mitsui, con voce assonnata.
«La fatina del buon risveglio» rispose Koshino, ironico. Si piazzò davanti al baldacchino, incrociando le braccia al petto. «Lor signori hanno dormito bene?»
Kiminobu, che per abitudine aveva subito indossato gli occhiali, arrossì abbondantemente. Ma a Mitsui il tono sarcastico dell’amico diede solo fastidio.
«Che accidenti vuoi, Kosh?»
«Ma siete impazziti?» gridò Koshino. «Capisco che tu abbia la segatura nel cervello, ma voi! Altezza!»
Mitsui si tirò a sedere, indispettito. «Ehi, ma tu come facevi a sapere che…»
Hiroaki arrossì appena.
«Ci hai spiati?»
«Ti stavo cercando, pezzo d’idiota, ti stavo cercando per… maledizione, per consolarti! Ma vedo che ci hai già pensato da solo! E va bene, d’accordo, va bene, fate quel che volete… ma potevate almeno chiudere quella stramaledetta porta!»
Kiminobu avvampò. «Non… ci abbiamo pensato.»
«Me ne sono accorto! E se non fossi passato io, ma vostro padre?»
«Senti, è inutile che tu ci faccia la ramanzina» disse Mitsui. «È andata così. Che altro vuoi?»
Hiroaki si costrinse a moderare il tono. La rabbia non l’avrebbe portato da nessuna parte. «Sapere cosa avete in mente. Non credo che vorrete ancora sposare Akira Sendo, dico bene, Altezza?»
«Dici bene» ammise il principe, con calma.
«Allora?»
«Dobbiamo farlo scappare» disse Mitsui.
«D’accordo, ma come? E quando?»
«Questo è il problema» sospirò Kiminobu, abbandonandosi sul cuscino.
Hiroaki strinse il pugno, con decisione. «A quando la partenza?»
«Oggi pomeriggio, dopo la nona.»
«Perché dopo la nona?»
«La tradizione del Ryonan vuole che i matrimoni si celebrino al tramonto, prima… prima che vengano consumati. Vis non è lontana, in un giorno di viaggio saremo lì, e poi…» Inspirò. «E poi agli dèi» aggiunse sottovoce.
«Tu non ci sarai» disse Mitsui, passandogli protettivamente un braccio intorno alle spalle. «Per allora saremo già lontani, Kiminobu…» Senza curarsi di Hiroaki, chinò il capo e lo baciò sulle labbra, per un istante.
«Rivestitevi» borbottò Hiroaki, guadagnando la porta. «Io resto qui davanti, casomai a qualcuno venisse voglia di curiosare.» Si richiuse la porta alle spalle prima di ricevere risposta.

Akira Sendo… Le notizie che il vento portava sul suo conto erano poco lusinghiere. Parlavano di un giovane privo di pudore e morale, avvezzo a prendersi ciò che gli piaceva, ignaro di rispetto e premura. Incapace di amare.
Hiroaki poteva sembrare scostante o freddo, a volte persino malvagio. Ma se c’era una persona per la quale era sempre stato disposto a dare la vita, la sua nuova vita, quella era Kiminobu. E non solo perché l’aveva salvato una volta… un capriccio da nobile, due giovani età che l’avevano mosso a compassione, niente di più.
Hiro gli doveva molto più di questo: gli doveva cinque anni di gesti affabili, sguardi gentili, sorrisi gratuiti. Gli doveva la dolcezza e la bontà che egli stesso non avrebbe saputo mai tirar fuori, perché non le possedeva.
Kiminobu era la persona migliore che avesse mai calpestato suolo umano, e non meritava altro che fiori lungo il suo cammino.
Koshino non sapeva se Mitsui avrebbe sparso fiori sempiterni o denti di leone che morivano al primo soffio di vento. Ma Akira Sendo e le sue erbe velenose dovevano stargli lontano.
Era disposto a lottare per questo. A rischiare. A mettere in gioco tutto ciò che aveva.
E l’avrebbe fatto.

«Ci sono.»
«Hai pensato a qualcosa?»
«Sì. Statemi a sentire.» Il campo d’addestramento era tutto un clangore di armi che cozzavano, ansimi, brevi grida e incitamenti. Il posto perfetto per chi volesse parlare a bassa voce senza timore di essere spiato.
Koshino alzò gli occhi su Mitsui, che si era soffermato a guardarli. Gli fece cenno di restare dov’era.
Il capitano doveva occuparsi delle sue reclute. Anche il vice-capitano doveva, in realtà, ma Hiroaki doveva esporre al principe la sua idea, e sarebbe passato maggiormente inosservato.
Per fortuna, era abitudine comune per il principe soffermarsi e assistere agli allenamenti.
Piantò la spada sul terreno e si accoccolò sui talloni. Kiminobu stava seduto su un grosso ceppo di legno, un libro tra le mani, ma solo perché non lo si era mai visto girare senza.
«L’idea è questa» spiegò, sbrigativo. «Avete detto che il re e la regina non presenzieranno, giusto?»
Kiminobu annuì. Solitamente, quando il re aveva necessità di lasciare lo Shohoku, era lui a sostituirlo. Ma in quel caso, non ci sarebbe stato nessuno in grado di prendere il suo posto, e lo Shohoku aveva troppi problemi per permettersi di perdere il suo regnante… sia pure per un giorno solo.
«E voi non siete mai stato in Ryonan. È corretto?»
«Corretto.»
«E neppure avete mai voluto che vi ritraessero, dunque non esistono vostre effigi in circolazione, è esatto?»
«Esatto, Hiroaki. Dove vuoi arrivare?»
«Ci sono, mio signore. Faremo uno scambio.»
«Uno… e con chi vuoi sostituirmi, Hiro?»
Il vice-capitano delle guardie si sollevò in piedi. «Alzatevi. L’altezza è la stessa, ed è la cosa più importante. I capelli e gli occhi sono diversi, ma non hanno grande importanza. La vostra coda… è uso reciderla prima del matrimonio, non è così?»
«Ma tu sei molto più muscoloso di me…»
«L’inganno deve durare soltanto poche ore, Altezza. Prima che si accorgano di essere stati giocati, sarò già fuggito via.» Si lasciò scappare un flebile sorriso. «O credete che voglia restare sposato ad Akira Sendo?»
Kiminobu scosse la testa, accigliato. «È un piano ingegnoso, ma ci sono troppi rischi… E poi dal matrimonio al talamo non ci sono tappe intermedie. Come farai a fuggire prima di… di…» Sbarrò gli occhi, notando la sua espressione. «Non dirmi che hai pensato anche a questo, Hiro, non dirmelo.»
Il sorriso di Hiroaki si deformò in una smorfia amara. «Sono un soldato, mio signore. Non mi farò mettere sotto tanto facilmente.»
«No.» Kiminobu scosse il capo, con decisione. «Questo no, Hiro. Non te lo concedo. No!»
«Mio signore, il piano non è perfetto, ma è il migliore che abbiamo, e se voi lo bocciate… l’alternativa è il matrimonio. Decidete.»
Gli parve che il campo fosse scomparso, risucchiato nell’incredibile tristezza degli occhi di Kiminobu.
Si stava chiedendo quanto male avrebbe dovuto procurare (a lui, ai suoi genitori, a chissà quanti altri) per avere un po’ di bene per sé. Kiminobu non era mai stato egoista, e desiderare per sé a scapito degli altri lo spaventava, enormemente.
«Non voglio che tu debba soffrire, Hiro…»
«Soffrirei di più sapendovi sposato a Sendo. Credetemi.» Inspirò. Estrasse la spada dal terreno, ne lucidò la punta con un fazzoletto che portava sempre infilato nella cintura, poi raggiunse Mitsui che si stava allenando con una recluta.
«Capitano, il principe chiede di voi.»
«Subito. Continuate.»
La recluta scrutò Koshino con aria timorosa. A occhio e croce non sembrava granché, ma l’apparenza poteva ingannare. In ogni caso, quella mattina Koshino non si sentiva propenso a fargli sconti. «Il tuo nome, cadetto» ordinò.
«Ya… Yasuda, signore.»
E se avessi davanti Akira Sendo?
«Bene, Yasuda. Io farò sul serio. Se non ti senti pronto, torna al fantoccio ed esercitati nell’attacco. Allora?»
«Ah… i-io… credo… che… vorrei esercitarmi ancora un po’… s-signore. Se non vi dispiace.»
Koshino scosse la testa. «Vai.»
Aveva un’aria così truce?

Avrebbero dovuto comportarsi normalmente, quel giorno, ma non ci riuscirono. Le mani di Kiminobu tremarono continuamente, mentre vergava righe d’inchiostro sbilenco, mentre rileggeva a vuoto la stessa riga, mentre portava cucchiaiate prive di sapore alle labbra.
Mitsui si chiuse in un silenzio ostinato. Fu possibile strappargli solo qualche grugnito di approvazione o disapprovazione, e scarsi monosillabi. Il che, per un individuo solitamente allegro come lui, era un cambiamento radicale.
Quanto a Koshino, il vice-capitano badò bene di sfiancarsi nella scherma per tutta la mattina. Batté tutte le reclute e gli effettivi che accettarono di sfidarlo, parecchi, e alla fine dovette constatare che la sua spada aveva bisogno di essere affilata di nuovo.
Si rilassò con un bagno caldo e passò il resto del tempo, dalla sesta alla nona circa, ciondolando nello studio con Kiminobu.
«Kiminobu» mormorò Mitsui, entrando nella stanza. «Devi prepararti. I servi… ti aspettano nella tua stanza.»
Il principe si alzò. «Va bene. Andate a prepararvi anche voi.» Raggiunse Mitsui, lo strinse in un bacio languido e poi scivolò fuori dalla stanza.
Il pallore sul viso di Mitsui non gli era abituale. «Andrà tutto bene» disse Koshino, elargendogli una pacca sulla spalla.
«E se non fosse così?»
«Andrà bene. Il piano è mio» disse Koshino. «Andiamo, capitano.»
Probabilmente i suoi amici non avrebbero avuto altrettanta fiducia in lui, se si fosse dimostrato nervoso, spaventato, inquieto. Come davvero si sentiva.
Il capitano e il vice-capitano indossarono l’alta uniforme e si presentarono nel cortile del castello, in attesa. Quanto a Kiminobu, quando Mitsui lo vide parve in procinto di svenire.
Non c’erano altre parole per definirlo. Era bellissimo.
Fasciato nell’abito bianco da cerimonia donatogli tre anni prima dal principe Maki di Kainan, un abito ampio e morbido che gli ricadeva sul corpo in larghe volute, a una prima occhiata sarebbe potuto sembrare un candido fagotto informe. Ma in realtà la stoffa aderiva al suo corpo più di quanto fosse possibile – era una magia? – accentuando l’offerta di tutto ciò che avrebbe dovuto dissimulare (la vita stretta, le gambe snelle, le natiche perfettamente modellate).
Non visto, Hiroaki piantò un gomito nelle costole del suo capitano e amico.
Mitsui si riscosse bruscamente, si fece avanti e strappò dalle mani del servo il mantello candido, bordato di pelliccia. Giungendo alle spalle di Kiminobu, glielo drappeggiò morbidamente addosso. «Copritevi, mio signore. Qui fuori è un gelo» disse a voce alta, e poi sottovoce: «Sei uno splendore, amore mio».
Solo allora, quando Kiminobu si mosse per lasciarsi sistemare sulle spalle il mantello, Hiroaki si rese conto che il principe stringeva nella mano il suo lunghissimo codino castano, ormai reciso, ma ancora trattenuto dai nastri.
Kiminobu superò tutti quanti e in silenzio raggiunse il piccolo altare di pietra posto di fronte ai cancelli. Il vento ululava. Posò la coda sul basamento, s’inginocchiò sul cuscino candido disposto ai suoi piedi. Raccolse la fiaccola sacra che ardeva lì accanto. Per un istante parve che il vento si ritirasse, per permettergli di portare a compimento il sacrificio. Kiminobu inclinò leggermente la fiaccola, e il fuoco divorò in un istante l’intera coda, spargendo nell’aria un odore intenso di bruciato.
Con devozione, Kiminobu mormorò la sua preghiera e si rialzò.
«Possiamo andare» disse, senza guardare nessuno.
Sembrava trasfigurato.

Il piano, nella sua semplicità, aveva tenuto conto di tutto ciò che era possibile prevedere. Tempi, luoghi e persone. Hiroaki vi aveva pensato per un’ora, meditando pro e contro.
Il loro arrivo in Ryonan avrebbe seguito un rituale preciso che non poteva essere cambiato, perché la tradizione è tradizione e nessuno teneva alle tradizioni più del Ryonan.
La portantina che recava il principe Kiminobu sarebbe stata depositata nell’anticamera della sala delle cerimonie del castello. I servi che l’avevano trasportata si sarebbero ritirati. Il principe Sendo, a quel punto, avrebbe dischiuso le tende che nascondevano il suo sposo alla vista e l’avrebbe condotto con sé nella sala, dove il re Jun avrebbe celebrato il matrimonio alla presenza dei dignitari di corte e dei rappresentanti dello Shohoku – Mitsui e Koshino, in questo caso.
Ma Mitsui e Koshino si sarebbero dileguati prima dell’inizio della cerimonia.
Per il viaggio, Hiroaki si era intabarrato in una pesante sciarpa di lana; inoltre, cosa insolita, aveva calcato sulla testa un cappello a tesa larga, molto elegante, con una lunga piuma nera cucita all’interno del nastro. La causa era stata un improvviso abbassamento di voce.
Mitsui, da bravo attore, aveva finto di prenderlo in giro, dicendogli che così combinato poteva passare per un bandito. Facendo esclusione per l’alta uniforme e la spada pregevolissima che portava al fianco, naturalmente.
I portantini si alternarono nel compito di sorreggere la lettiga del principe per tutto il viaggio. Era una costruzione molto pesante, di legno massiccio, ornata di sete preziose ricamate d’oro: un regalo personale del principe Kenji Fujima di Shoyo, il regno d’Oriente, rinomato per le stoffe e l’artigianato.
Al tramonto Mitsui diede l’ordine di preparare l’accampamento e l’intero gruppo si fermò. Fu l’unico momento in cui Kiminobu poté lasciare la sua bella lettiga, la sua prigione, e mangiare insieme agli altri.
Ma neppure le sciocchezze che Mitsui sfornava per farlo ridere riuscirono a smuoverlo dalla sua malinconia.
Al momento di coricarsi, Kiminobu disse, a voce alta: «Hisashi… seguimi un istante. Devo parlarti».
Il capitano lo seguì nella portantina, ma Hiroaki dubitava che avrebbero parlato molto. Mitsui ne uscì dopo poco tempo e si sedette con lui accanto al fuoco.
Quella notte, nessuno dei tre avrebbe dormito.
Il giorno seguente passò nell’inerzia: nessun fatto saliente turbò lo scorrere tranquillo del viaggio. Abbandonate le colline e le valli dello Shohoku, si aprivano dinanzi a loro le fertili pianure del Ryonan, mai sfiorate da un alito di neve e perciò nude, del loro colore naturale, il verde gioioso dell’erba.
Il giorno passò e venne il tramonto, e fu allora che Hiroaki si accostò al suo capitano.
«Mitsui, è il momento» sussurrò nella sciarpa. I tetti della capitale e le torri alte del castello erano ormai prossimi.
Il capitano annuì. Stringeva le redini così forte da far credere che volesse spezzarle. Alzò il braccio, comunicando al gruppo di fermarsi.
La mano bianca di Kiminobu fece capolino tra le tende bordate d’oro.
Hiroaki accostò il cavallo, fece finta di ascoltare e annuì. Poi fece cenno ai servi di mettere giù la portantina.
Entrò nella prigione di cuscini che aveva rinchiuso il principe per tutto il viaggio.
«Hiro… Hiro, non so se stiamo facendo la cosa giusta» sussurrò Kiminobu, torcendosi le mani.
Ma Hiroaki si era già tolto cappello e sciarpa, e aveva iniziato a slacciare il mantello. «Mio signore, questa è la cosa più giusta che potete fare. Sbrigatevi o si insospettiranno.»
«E se qualcosa va storto? Hiro, io… dèi, tu rischi la vita!»
«E sono pronto a perderla, se è il caso» ribatté Hiroaki, porgendogli il corsetto e la camicia che si era sfilati di dosso. Ma le mani di Kiminobu tremavano convulsamente. Senza chiedere il permesso, Hiroaki infilò le dita gelide nel colletto del suo abito e iniziò a slacciarlo. «Niente ripensamenti, mio signore. Non ve li permetto. Siate egoista, per una volta.»
«Non… non ci riesco!»
«È la cosa più facile del mondo. Pensate a quell’idiota di cui vi siete innamorato e sarà tutto facile. Pensate che l’avrete tutto per voi… Ma non fatemi dire altro, mi sento male già al pensiero, uh?»
Kiminobu ridacchiò, tra le lacrime. «Andrà tutto bene, Hiroaki? Me lo prometti?»
«Andrà tutto bene.» Si sfilò i calzoni e glieli porse, facendosi dare i suoi. «Ricordatevi che io raramente guardo in faccia, quando parlo. E che parlo poco. Anzi, non parlate proprio, ufficialmente il mal di gola mi ha tolto la voce.»
Lo scambio era completo, adesso. Hiroaki raccolse la sciarpa e gliela fece correre due volte intorno alla bocca, ficcandone i lembi all’interno del mantello. Poi gli calcò il cappello sulla testa.
«Andrà tutto bene» ripeté. «Andate.»
Kiminobu lo abbracciò. «Gli dèi ti ricompensino, amico mio… per questo sacrificio.»
«Sempre al vostro servizio» sussurrò Hiroaki, tergendosi una lacrima solitaria dall’orlo delle ciglia. «Andate, presto.»
Rimasto solo nella lettiga buia, contò i secondi. Kiminobu giù dalla portantina… raggiunge il cavallo… piede nella staffa… gamba al di là della sella… in sella… stringe le redini… dèi, siate clementi…
«Ripartiamo!» La voce di Mitsui suonò carica di nuova forza. La prima parte, almeno per il momento, sembrava conclusa con successo.
Ma niente era detto. Hiroaki si distese tra i cuscini della portantina leggermente instabile, strofinandosi forte la faccia con le mani. Niente era detto. «Andrà tutto bene» ripeté a se stesso.
Aveva indotto due persone a credere a quel mantra. Ma lui stesso… lui stesso, vi credeva?

Il Ryonan, il regno d’Occidente, era il più ricco e il più fertile dei Quattro. Lo Shohoku il più povero. Ciò nonostante, un’unione tra i due sarebbe risultata vantaggiosa per entrambi. Lo Shohoku ne avrebbe ricevuto maggiori capitali e modernizzazione. Il Ryonan avrebbe guadagnato i giacimenti di zolfo e rame dello Shohoku, poco sfruttati in mancanza di grandi mezzi d’estrazione, e uno sbocco sul mare, con il quale avrebbe potuto contendere allo Shoyo la supremazia sul golfo di Kanagawa.
Takenori Kogure aveva anelato a questa unione per anni, e adesso, con Kiminobu, era divenuta possibile. Il tradimento di Ayako gli si era marchiato a fuoco nel cuore. Ma Kiminobu non sarebbe stato così impudente. Aveva domandato soltanto che gli lasciassero proseguire i suoi studi di botanica.
Gli aveva risposto che nessuno avrebbe avuto interesse ad ostacolarlo, e aveva aggiunto che il Ryonan era ricco di varietà di piante che lo Shohoku non aveva mai visto.
Gli occhi di Kiminobu si erano leggermente illuminati, a questo pensiero.
Sì, pensò lord Takenori, rilassandosi sul suo alto scranno e ricreando nella mente l’immagine del figlio lontano, di certo ormai giunto a destinazione. Il suo sogno si era avverato.

Rinchiuso nella portantina dalla quale non poteva uscire, Hiroaki meditava come il cuore fosse la macchina più dolorosa e imperfetta di tutto il corpo umano.
Le aveva imposto di calmarsi, di tenere un ritmo lento e controllato: come al solito, insomma. E quella non aveva ascoltato, anzi. Aveva accelerato i suoi battiti sino a raggiungere una frequenza assordante. Il sangue gli rombava nel petto e nelle tempie, stordendolo. Se stringeva le mani insieme, lo sentiva persino sulle punte delle dita.
Chiuse gli occhi, imponendosi una calma artificiale ma credibile. Tra pochi istanti il principe Sendo sarebbe venuto a prenderlo, e poi… e poi agli dèi, come diceva sempre Kiminobu.
«Mio sposo? Vi siete addormentato?»
La voce maschile e beffarda lo colpì prima ancora della luce delle torce, finalmente penetrata nel cerchio di tende della portantina. Una mano grande, dalle dita affusolate, era tesa verso di lui.
Alzò gli occhi. Uno degli uomini più belli che avessero mai calcato suolo mortale lo guardava con un misto di arroganza e noia, il viso perfetto, chiaro, dall’ovale ben disegnato, leggermente inclinato nella sua direzione. Occhi neri, profondi e frivoli, lo studiavano con aria di divertimento. In fondo al pozzo delle pupille, però, baluginava una lieve apprensione, ben mascherata.
I capelli neri, corti come si usava in Ryonan, svettavano verso l’alto in piccole ciocche accuratamente modellate.
«No, vedo che siete ben sveglio» riprese Akira Sendo, lasciando che il suo sorriso si allargasse leggermente. «E siete bello come mi avevano detto, principe Kiminobu.»
Hiroaki avvampò, inaspettatamente, al primo complimento che avesse mai ricevuto sul proprio aspetto. Si impose di rimuovere, immediatamente, qualsiasi sensazione comunicatagli da quelle parole. Posò la mano sulla sua e si lasciò guidare fuori dalla portantina.
«Devono avervi informato male, allora» disse piano, «perché io non sono affatto bello.»
«E modesto. Mi avevano detto anche questo.» Passò una mano tra i capelli corvini di Hiro, accostandovi il viso. «Avete dei capelli meravigliosi, mio…»
Hiroaki gli afferrò la mano e la scostò, in preda a un brivido. «Non siamo ancora sposati» borbottò.
«A questo rimedieremo subito, piccolo ritroso. Volete seguirmi?»
No, pensò Hiroaki, facendo stridere i denti gli uni sugli altri. No! Ma chinò il capo con quanta più grazia riuscì a racimolare, e posando la mano sinistra sul dorso della destra di Sendo, fece con lui il suo ingresso nella sala delle cerimonie.

La sala straripava di astanti, e Hiroaki non odiava niente più delle folle. Quando, al loro passaggio, le due ali di spettatori presero ad inchinarsi, come due servili maree umane, gli parve che l’aria sollevata dallo svolazzare dei loro abiti congelasse il suo respiro.
«Non siate teso, sposo mio» sussurrò Akira contro il suo collo, il tono eternamente beffardo. «So che non vi piacciono le cerimonie, ma tutta questa gente è qui per voi. Non sorridete loro?»
«Vi siete informato bene. E quante altre cose sapete di me?» sibilò Hiroaki.
«Parecchie, mio splendido consorte. Ad esempio, che portate gli occhiali… ma sul vostro bel naso non ne vedo.»
Hiroaki si morse la lingua. «Non sono così cieco da non poterne fare a meno.»
«Non sarà forse che vi infastidisce vedere tutto questo?»
Inspirò. «Anche.»
«Peccato,» concluse Sendo, assestandogli un morsetto leggero dietro l’orecchio, che lo fece sussultare, «perché dovrete abituarvici. Io adoro le feste.»
La camminata interminabile era giunta alla fine, grazie agli dèi. In preda a un tremore leggero, Hiroaki fissò gli occhi in quelli castani di Jun Sendo di Ryonan.
L’uomo era un gigante, più alto anche del figlio, che pure superava Hiro di tutta la testa, ma non sembrava malvagio, né sadico come il suo erede. La regina, invece, seduta al suo fianco, aveva negli occhi e nella posa delle labbra la stessa espressione del giovane Sendo: fredda, ironica, sprezzante. Era una donna bellissima, dall’incarnato pallido e i capelli lunghi e corvini raccolti in uno stretto fermaglio alla sommità della testa. Ma sembrava più fredda della neve che ricopriva le loro colline.
Il re si alzò dallo scranno e si avvicinò loro. Guardò il principe con una luce di inconfondibile orgoglio negli occhi, poi spostò lo sguardo su di lui. E sorrise, leggermente.
«Siamo qui riuniti per testimoniare allo scambio delle promesse nuziali tra questi due giovani. Le loro promesse sono di amore, rispetto, fedeltà. Le loro promesse sono eterne e non potranno essere sciolte in alcun modo.»
Eterne… in alcun modo… A Hiroaki iniziò a girare leggermente la testa. Fuggire. Voleva soltanto fuggire via.
La regina scese con grazia dal suo scranno, recando un cuscino di velluto blu sul quale riposavano due anelli d’oro purissimo e bianco.
«Akira Sendo, figlio di Jun e Yuriko Sendo, sei consapevole di ciò che stai per promettere?»
La voce di Akira suonò ironica come sempre. «Naturalmente.»
«Kiminobu Kogure, figlio di Takenori e Haruko Kogure, sei consapevole di ciò che stai per promettere?»
Hiro si fece forza. Era solo un’insignificante parola. «Sì.»
«Da questo momento, tutto ciò che sarà detto avrà valore indissolubile per gli uomini, e solo gli dèi potranno porre veto. Se qualcuno è a conoscenza di qualche ragione per la quale questi due giovani non dovrebbero unirsi in matrimonio, parli ora o taccia per sempre.»
Hiroaki chiuse gli occhi, lentamente. Implorò gli dèi – tutti gli dèi, del cielo, della terra, degli inferi – che non si levasse alcuna voce… che nessuno osasse parlare per smascherarlo. Era la prima volta, da quando Kiminobu gli aveva ridato la vita, che provava veramente paura.
Il silenzio assoluto della sala gli restituì la facoltà di respirare.
«Mi dispiace per voi» sussurrò Sendo al suo orecchio. «Nessuno ha niente da ridire.»
Hiroaki costrinse le labbra a un sorriso parimenti beffardo. «È un sollievo, principe» sibilò.
«Akira, giuri di amare e rispettare il tuo sposo per tutti i giorni della tua vita, finché morte non vi separi?»
Sendo si voltò verso di lui, prendendo la prima fede dal cuscino. «Lo giuro.» Lasciò scivolare l’anello al dito di Hiroaki.
«Kiminobu, giuri di amare e rispettare il tuo sposo per tutti i giorni della tua vita, finché morte non vi separi?»
Fuggirò. Devo solo avere pazienza. Perché questa tortura finisca… finirà, oh sì, finirà, finirà presto…
«Kiminobu?»
Prese la fede rimasta e la mise al dito di Akira Sendo. «Lo giuro» disse, con decisione.
«Le promesse sono state pronunciate. Io vi dichiaro sposi, Akira Sendo e Kiminobu Kogure Sendo di Ryonan.» Il re sorrise al figlio. «Puoi baciare lo sposo.»
Non c’era un velo tra i capelli di Hiroaki che potesse essere spostato, ma non aveva importanza. Il momento parve dilatarsi all’infinito. Hiro vide il viso di Akira imporporarsi leggermente, e strano, pensò, non si sarebbe mai aspettato che fosse capace di arrossire.
Le dita della mano destra di Sendo si intrufolarono tra i suoi capelli, quelle della sinistra gli si posarono sulla nuca. Hiroaki chiuse gli occhi e, completamente immobile, le braccia rigide lungo i fianchi, si lasciò baciare.
All’inizio fu uno sfiorarsi tenue. Le labbra di Sendo, gentili come il loro padrone non era, gli domandavano delicatamente permesso. Hiroaki non voleva, davvero non voleva lasciar loro spazio, ma si trovò a dischiudere leggermente le sue. Non aveva voluto, e allora perché…?
La sinistra di Sendo scivolò lungo il suo corpo, procurandogli un brivido, e andò a catturare la sua mano destra, stretta a pugno. Ne dischiuse le dita, poi la prese e se la posò sulla spalla.
Le sue labbra si erano fatte più audaci… troppo. Hiroaki dischiuse loro le proprie e sentì un’umida intrusa sfiorargli la lingua, vezzeggiarla, giocarci in un intrico di spirali calde e continue. Si ritrovò a stringere con la mano la base del collo di Sendo. Osò portare le dita su, tra i suoi capelli corti, ad accarezzarli.
Doveva essere impazzito… ma già che c’era poteva continuare a fare il pazzo ancora per un po’… solo per un po’…
E poi Sendo rovinò tutto, lo strinse con una brutalità improvvisa che gli mozzò il fiato, e spinse la lingua della sua bocca in modo così violento che gli procurò un moto di soffocamento. Si ritrasse, piantandogli le mani nel petto e scostandolo di forza.
Il viso di Akira Sendo era rosso per l’eccitazione. Il principe ansimava leggermente. «Però,» sussurrò, sfoderando l’ennesimo sorriso, «forte… il nostro studioso di botanica.»
«Alcune piante uccidono, Akira Sendo» sibilò, asciugandosi la bocca con il dorso della mano.

Akira riprese la sua mano – l’afferrò, più che altro, perché Hiroaki non aveva intenzione di lasciarsi toccare ancora – e ripercorse con lui a ritroso la strada fino alle porte della sala.
Alle sue spalle Hiroaki avvertiva i passi del re e della regina. La tradizione voleva che gli sposi fossero accompagnati fino al talamo nuziale, ma di fronte alle porte spalancate Sendo si fermò. E alzò la mano destra, indice e medio uniti, in un gesto di cui Hiroaki non comprese il senso.
«Un po’ di intimità, vi prego» disse a voce alta. «Questa parte del rituale si può anche omettere.»
Sentì alle sue spalle un coro di mormorii concitati. La tradizione in Ryonan era sacra. Per quale ragione il principe voleva omettere una parte del rituale?
«Il mio sposo non condivide le nostre usanze. Non spaventiamolo» disse Sendo, affabile.
Dopo un istante, il re assentì. «È giusto. Che vadano soli. Ritiratevi.»
Mentre Sendo lo conduceva attraverso i corridoi pieni di luce rossa, la luce del tramonto, Hiroaki mormorò: «Non l’avete fatto certo per me».
«No» ammise Sendo, alzando le spalle. «Volevo un po’ più di intimità. Non siete contento?»
Hiroaki trattenne un sospiro tra i denti. «Lasciate la mia mano.»
«Per quale motivo?»
«Non mi piace che la stringiate.»
Akira Sendo si fermò, spingendolo con poca delicatezza contro la porta vicina. «Tra poco stringerò, bacerò e morderò tutto ciò che mi piacerà, piccolo sposo riluttante. Che vi piaccia o no, adesso voi siete mio, e mi dovete obbedire.»
«Io obbedisco solo a me stesso» ringhiò Hiroaki.
«Questa, Kiminobu Kogure, è la tua personalissima opinione.»
Abbassò con la mano la maniglia della porta, e Hiroaki barcollò, privo di appoggio, ma non perse l’equilibrio.
Akira Sendo richiuse la porta in tutta tranquillità, diede due scatti alla serratura e poi fece scivolare la chiave sotto la fessura della porta. «Non vorrei che la paura della prima notte potesse farti venire cattivi pensieri, sposo mio. Nessuno è mai fuggito da me, ma c’è sempre una prima volta.»
Hiroaki inspirò ed espirò, rapidamente. Non sapeva cosa fare. Era con le spalle al muro.
Si era detto pronto anche a questo, aveva pianificato tutto con cura, aveva accettato il probabilissimo rischio cui sarebbe andato incontro. Ma adesso aveva solo paura. Quell’essere ripugnante… non si sarebbe fatto scrupoli a prendersi il suo corpo. Non se ne sarebbe fatto alcuno.
«Ora, mio sposo, hai due possibilità» disse Akira, sfilandosi l’elegante giacca nera e gettandola sul divanetto vicino. «Io sono deciso a fare di questo matrimonio un matrimonio a tutti gli effetti, dunque o accetti il fatto che stanotte, e tutte le altre volte che vorrò, io ti farò mio, e di conseguenza collabori, oppure non risponderò della tua incolumità.» Aprì i polsini della camicia e i primi bottoni sul torace. «Decidi con calma. Non c’è fretta… ancora.»
Ciò detto, si avvicinò al letto dalla sua parte, e prese uno dei due calici posati sul comodino. Lo riempì con un liquido aranciato, contenuto di una bottiglia immersa in un secchiello di ghiaccio lì accanto.
Girando intorno al letto, posò il calice sull’altro comodino. «Nel caso decidessi di accettare, quello ti risolverà tanti problemi.»
«Cos’è?» chiese Hiroaki, incrociando le braccia al petto.
«Un piccolo aiuto per gli amanti ritrosi come te.»
«Mi vuoi drogare?»
«Che gusto ci sarebbe? No, serve solo per… riscaldarti un po’.»
Hiroaki si strinse nelle spalle, tremando per il nervosismo. Quell’uomo gli faceva schifo. Intensamente, profondamente schifo.
Eppure, prima…
Era stata una debolezza. Aveva ceduto al suo bell’aspetto e alle lusinghe delle sue labbra.
Ha delle labbra meravigliose…
Era una serpe. Una viscida serpe, voleva solo violentarlo e nient’altro.
Potrebbe essere un amante gentile…
Hiroaki non voleva scoprirlo. Non voleva dividere il letto con lui, voleva solo… fuggire. Subito.
Hai scelta?
Non ne aveva.
Hai avuto la tua scelta…
Era stato lui a pianificare tutto, lui a decidere, lui a stabilire come, quanto e cosa. Come agire, quanto perdere, cosa immolare. Era stata una sua scelta. Si era detto che, se non avesse avuto alternative, sarebbe stato disposto anche a perdere la dignità, per Kiminobu. Se l’era detto e giurato. E ora, ora che si era reso conto che alternative non ce n’erano…?
Raggiunse il bordo del letto, senza guardarlo. Prese il calice e lo vuotò con una sola sorsata. Il sapore era dolce, di fragola.
«Sei intelligente come mi avevano detto…» sussurrò Akira Sendo, baciandogli il collo.
«Che cos’ho bevuto?»
«Un leggero afrodisiaco… non tanto leggero, in verità. Ma non è una droga e ti farà solo bene… mmm?» Gli accarezzò i capelli corti sulla nuca con la punta del naso. La pelle di Hiroaki si sollevò in preda a un brivido.
«Rilassati, piccola belva… te ne do ancora un po’.»
«Non ne voglio.»
«Sì che ne vuoi.» Riempì il calice e tornò a porgerglielo, inginocchiandosi sulle coltri morbide del letto nuziale.
«Non sarebbe meglio se tu ti voltassi?» soffiò al suo orecchio.
Hiro si impose di controllarsi. Quel fiato caldo nel collo lo stava facendo impazzire. Riprese a sorseggiare, cautamente. «Tu non bevi?»
«Per riscaldarmi? Io sono già abbastanza caldo…»
«Allora devo credere che mi stai avvelenando?» ribatté Hiroaki, voltando il capo per guardarlo.
Akira Sendo rise dolcemente. «E sia… ma è l’ultimo capriccio in cui ti accontento, Kiminobu Kogure.» Riempì anche il proprio calice e si accostò a Hiroaki. «Adesso voltati. Non mi fare aspettare.»
Hiroaki si girò in modo da guardarlo in faccia. Quella roba doveva essere davvero potente… cominciava ad avvertire strani brividi sotto pelle, e i margini del suo campo visivo andavano sfocandosi.
«C’era alcool, vero?» mormorò, sbattendo le palpebre.
Akira Sendo vuotò il suo calice e se lo gettò alle spalle. Il vetro si schiantò contro il pavimento e andò in mille pezzi che nessuno dei due vide cadere. Senza una parola lo spinse contro i cuscini e lo baciò.
La sua bocca sapeva di fragola e di urgenza. Abbracciandolo, Hiro ricordò di avere ancora in mano il suo calice, pieno per metà. Scostò Akira, mandò giù il restante e gettò il bicchiere lontano. Un nuovo, fragile schianto li avvertì che anche quello era andato perduto.
«Hai le idee più chiare, adesso?» mugolò Sendo, mordicchiandogli un lobo arrossato dal suo infierire.
Hiroaki l’avrebbe strozzato, per il suo tono sprezzante, ma in quel momento aveva bisogno di lui. Quell’afrodisiaco forse non era una droga, ma le sensazioni… dèi, quello struggimento che sentiva era pari all’astinenza più feroce. Senza voler pensare, si avventò sul suo collo e prese a baciarne la pelle candida. Con una spinta del bacino – brutta, brutta scelta – lo rivoltò sulla schiena e trasformò i baci in morsi tutt’altro che amorevoli. Se Akira Sendo pensava di essersi portato a letto un dolce, timido studioso di piante…
Scostò la camicia per attaccare un piccolo capezzolo puntuto che implorava attenzioni tra la stoffa bianca. Le mani di Akira Sendo vagavano per la sua schiena, sotto il corsetto dell’abito da cerimonia. Una si intrufolò più giù. Hiroaki ebbe un sussulto.
«Non hai niente, sotto…» sussurrò Akira Sendo, meravigliato. «Chi l’avrebbe mai detto… sei un piccolo perverso…»
Hiroaki avvampò. D’accordo, aveva trascurato un dettaglio, ma non era colpa sua se i nobili e le altezze reali avevano la fissazione di coprirsi con cento veli! Non era certo un signore, lui!
«Che hai da ridire?» ribatté, colorandosi di rosso fino alle orecchie.
Akira lo rivoltò sul letto. «Assolutamente niente, mio caro… Non sono un tipo che si formalizza… anzi… visto che senti caldo…» Gli slacciò con impeto il corsetto candido dell’abito, quello stesso che Hiroaki aveva slacciato a Kiminobu per indossarlo al suo posto. Si torse per permettergli di sfilarglielo di dosso, una manica prima, poi l’altra, e rimase a torso nudo sotto di lui.
Le bocca di Akira Sendo era meravigliosa, sì. Quando non la impiegava per parlare, quando non la sporcava con il veleno delle sue parole, quella bocca era il paradiso. Come in quel momento.
Accettato che avrebbe fatto l’amore con lui, Hiroaki aveva sperato di riuscire a conservare almeno un briciolo di dignità… solo un briciolo, quel tanto che sarebbe potuto servirgli, dopo, per dire a se stesso che era stata tutta colpa di Sendo e del suo afrodisiaco maledetto.
Invece si ritrovò a pregarlo.
«Maledizione, Sendo… mi stai facendo morire…»
Akira si strusciava contro di lui da un’eternità, ma non accennava a voler finire di spogliarlo. «Qualcosa non va, caro?»
«Sendo…»
«Sì…?»
«Sbrigati, dannazione!»
«Ma come siamo volgari…» ridacchiò Akira Sendo, infilando le dita dentro i suoi calzoni.
«Sendo…» gemette Hiroaki.
«Sì, chiamami… fammi sentire come hai imparato il mio nome…» mugolò, riprendendo a mordere con violenza un punto particolare del suo collo, quello che gli strappava sempre i lamenti più forti.
«Akiraaahhh…» gridò il vice-capitano delle guardie, straziato dalla doppia carezza, subdola, con la quale l’altro lo stava costringendo a svendere il suo orgoglio. Portò una mano ai calzoni e li aprì, di forza, sentendo la stoffa lacerarsi sotto le dita. «Fai presto…»
«Presto?» ripeté il principe, leccando con voluttà il segno pronunciato che gli aveva lasciato sul collo. «Non ne ho alcuna intenzione…»
Hiroaki si disse che quell’uomo gli avrebbe fatto perdere la ragione.
La discesa della bocca di Akira lungo il suo corpo fu, per Hiroaki, l’agonia di una discesa agli inferi. Lì sotto non poteva esserci che l’inferno: infuocato, straziante e – gemette – governato da un terribile diavolo mascherato da angelo. Si inarcò e gridò come uno spudorato, e sapeva bene che dopo se ne sarebbe vergognato, ma non aveva tempo di pensarci.
«Adesso però facciamo sul serio…» disse Akira, infiniti secondi dopo. Aveva la voce ansante. Si sfilò la camicia, gettandola via, poi liberò entrambi dei vestiti in eccesso, finché non furono completamente nudi su quel letto di cui non avevano neppure scostato le coltri.
«Non ti muovere» ordinò Akira, comando peraltro superfluo, perché se Hiro avesse avuto la facoltà di muoversi, l’unica direzione in cui sarebbe andato sarebbe stata la sua, per avere da lui la soddisfazione che tardava ad arrivare.
Quando vide l’ampollina nelle mani del principe, gli si annebbiò la vista. Ma ormai non si poteva più tirare indietro.
Sentì le dita di Sendo, viscide e calde, raggiungerlo nell’intimità e violarlo senza troppi complimenti. Strinse le lenzuola nelle mani e il labbro inferiore tra i denti, tormentando le une e l’altro con violenza. Sendo non poteva più aspettare, ma il suo corpo non era fatto di pietra e per gli dèi, lo stava lacerando…
Gridò. Per un attimo nella sua mente non ci fu posto che per il dolore. Senza riguardo, senza avvertirlo, senza un minimo di attenzione, Akira Sendo l’aveva… preso.
Così.
Al dolore si mischiò la rabbia.
«Maledetto, non… ah… non potevi fare… più attenzione?» ringhiò.
«Sì, ma avevo fretta» ansimò Sendo al suo orecchio. «L’uomo non è di legno…»
«Questa me la paghi, bastardo!»
«Sta’ zitto.» Gli prese la bocca con la propria, costringendolo al silenzio, e iniziò a muoversi nel suo corpo. Hiroaki spalancò gli occhi. Era terribile. Come avere una lama conficcata nelle viscere. Chiuse le palpebre, serrandole con tutte le sue forze. Aveva ricevuto ferite peggiori. Come quella volta… non ricordava più dove… che quel bandito gli aveva conficcato il pugnale nel fianco, e poi… e poi… l’aveva rigirato due volte, prima di estrarlo… o quella volta, che… l’oste di quella bettola aveva tentato di farlo fuori per derubarlo, e ci aveva rimediato un’altra pugnalata… nella schiena, vicino al polmone…
Aveva la faccia umida, ma il dolore in basso era scemato in un lungo, velato piacere. Aprì gli occhi, sorpreso. Incontrò quelli di Sendo, appena divertiti al di là della maschera di piacere che era il suo viso.
Sendo gli prese la mano e la guidò dove doveva stare, poi gli ordinò, in un sussurro roco: «Toccati».
Hiroaki dischiuse le labbra e obbedì ed era tanto lo strazio del suo corpo, che dopo pochissimo si sentì al limite. Akira si inarcò. L’orgasmo li prese entrambi mentre erano stretti nel bacio più languido e intenso che si fossero mai scambiati.

Hiroaki guardò solo un momento l’amante che si lasciava cadere al suo fianco, spossato. Era così bello…! Solo per questo gli sarebbe dispiaciuto lasciarlo. Chiuse gli occhi, raggomitolandosi sul fianco. Aveva bisogno di dormire. Al resto avrebbe pensato l’indomani.
«Buonanotte… sposo» mormorò Akira Sendo, baciandogli la spalla.
Hiroaki non rispose, neanche lo sentì. Dormiva già.
 


Fiorediloto: Eh? Eh? Eh? ^____^
Hiro: ç_ç Lo sapevo...
Aki: ^_________________________________^
Fiorediloto: Hiruccio della mamma!!! Non sei contento???
Hiro: >.< NO!!! TI ODIO!!!
Fiorediloto: Ma... ma... Akira aveva detto...
Aki (con una faccia buffa): Shhh!!!
Hiro: Cosa aveva detto Akira?
Fiorediloto: Ehm...
Hiro: Parla o nel prossimo capitolo vado in sciopero!!!
Fiorediloto: Pietà!! Devo mangiare anch'io!! Confesso: Akira mi avevi detto che tu avevi tanta tanta voglia di una lemon... ehm... non troppo consenziente...
Hiro: Avevo voglia di COOSAAAAAAAAA????
Akira: No, Hiro... non è come pensi... p-posso... spiegarti tutto... Ahhhh!!! Hiro mi fai maleeeeeee!!!
Fiorediloto (andando a prendere i popcorn): Mi piace l'amore violento!! Gnam... mmmbuoni... Soffio ne vuoi?
Soffio (sistemando la poltrona): Grazie... gnam!
Fiorediloto: ^__^ Chissà che non mi facciano venire qualche idea per il prossimo capitolo... che per inciso si chiama "Akira"!!! Alla prossima gente!!!
Akira: Ahi... grazie per aver... pensato a me... Posso svenire, adesso? ç_ç

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Capitolo 3
*** 3. Akira ***



CAPITOLO TERZO: AKIRA


Il risveglio fu molto meno piacevole, probabilmente perché evocato da un sonoro ceffone sulla bocca.
Hiroaki saltò a sedere senza neppure ricordare chi fosse e dove fosse. «Ma che…» Vide Sendo e d’un tratto ricordò, intuì, impallidì.
Il principe di Ryonan aveva un’espressione ben diversa da quella beata che gli aveva lasciato come ultimo ricordo di sé.
«Molto bene» disse, sistemandoglisi sopra a cavalcioni, e bloccando i suoi polsi contro la testiera del letto. «Adesso puoi anche dirmi chi sei.»
Hiroaki strinse i denti. Era tremendamente imbarazzante averlo addosso in quel modo… anche se Sendo indossava una vestaglia e tra loro c’erano le coperte… coperte che Hiroaki non ricordava d’aver avuto sul corpo, quando si era addormentato, ma quella era un’altra faccenda.
«Chi vuoi che sia? Kimi…»
«Credi che sia stupido?» ruggì Sendo, stringendogli i polsi con più forza. «Tu sei tutto tranne un principe!»
Hiroaki fece una smorfia sarcastica. «E cosa sarei?»
«Vista la tua forza, il tuo linguaggio, le tue cicatrici e queste mani piene di calli, a occhio e croce direi un soldato. Davvero credevi che ci sarei cascato?»
«Ieri non mi sembravi preoccupato della cosa» ribatté Hiroaki, avvampando al ricordo.
«Vedi di non parlare troppo, puttanello, quella lingua posso sempre fartela tagliare» minacciò Sendo. «E adesso dimmi chi sei!»
Hiroaki voltò il capo di lato, senza rispondere.
«Ti ho fatto una domanda…»
«Ho capito, non sono sordo.»
Sendo spalancò gli occhi. Mai – mai – da quando aveva memoria qualcuno aveva osato disobbedire a un suo ordine. A maggior ragione uno che si era portato a letto la notte prima!
Solo dopo che avevano fatto l’amore, quando si era fermato a guardarlo immerso nel sonno, tutti i piccoli particolari cui al momento non aveva dato peso si erano composti in un mosaico unitario. L’assenza degli occhiali, le cicatrici sparse in tutto il corpo… quelle mani callose e ruvide che uno studioso non poteva avere. Kiminobu Kogure non aveva mai toccato una spada, era risaputa la sua antipatia per le arti guerresche. E allora, con chi aveva fatto l’amore?
«Dimmi il tuo nome, o ti faccio frustare a sangue!» ringhiò.
«Non mi fai paura. E se davvero sono un soldato sarò abituato a ben altro che le frustate, Altezza!» rispose, con sarcasmo.
«Dov’è Kiminobu Kogure?»
«Per servirvi» rispose quello, serafico.
Sendo sentì qualcosa di molto simile alla frustrazione – sentimento sconosciuto, ma di cui aveva sentito molto parlare – farsi strada tra le pieghe del suo animo. «Dov’è – Kiminobu – Kogure» chiese, sillabando ogni parola. «Perché ti sei sostituito a lui? È stata un’idea sua?»
Lo sconosciuto lo fissò con calma e non rispose.
Era troppo, per Akira Sendo. Non solo aveva dormito poco e niente, tormentato dal pensiero di quello sconosciuto che gli dormiva al fianco, ma adesso quell’impudente lo prendeva anche per i fondelli, no, oh no, ne aveva abbastanza! Scese giù dal letto e gli sbatté in faccia i suoi abiti, neppure suoi, le vesti da cerimonia che dovevano essere del suo sposo. «Vestiti. Vediamo se qualche tempo giù nelle segrete ti fa passare la voglia di fare lo spiritoso.»
Hiroaki scese dal letto e si rivestì, in tutta calma. Adesso che tutto era stato compiuto, si sentiva estremamente calmo. La fuga si progettava più difficoltosa del previsto, ma ciò che aveva temuto di più – e che gli aveva lasciato un dolore ancora intenso, risvegliatosi coi movimenti del corpo – era finalmente passato.
Quel borioso di Akira Sendo avrebbe dovuto strapparsi una per una tutte le sue ciocche da porcospino, prima di cavargli una parola di bocca.
Recuperò uno stivale – l’altro gli fu tirato in faccia dal suo regale “sposo” – e li indossò entrambi. Poi alzò gli occhi, tranquillo, e attese.

Se quello sconosciuto non fosse stato così bello, Akira Sendo l’avrebbe preso a schiaffi fino a fargli passare quell’espressione dalla faccia. Nessuno poteva osare trattarlo in quel modo, per gli dèi! Era l’erede al trono di Ryonan, non un uomo qualsiasi!
E lo sconosciuto non lo guardava come un uomo qualsiasi. Lo guardava peggio. Lo guardava come l’ultimo scarafaggio, l’ultimo verme strisciante, l’ultima immonda e schifosa creatura che camminasse sulla terra. Lo odiava e lo disprezzava. E Akira questo non riusciva a tollerarlo.
Tirò il cordoncino posto accanto al letto e dopo alcuni istanti un servitore fece il suo ingresso da una porticina secondaria. «Mio signore, comandate.»
«Di’ a Fukuda che voglio vederlo. Subito» ordinò, imperioso.
Il servitore si ritirò in fretta.
Akira si voltò verso l’impostore, squadrandolo con aria critica. «Adesso tu te ne vai nelle segrete, e vediamo se qualche giorno al fresco ti farà sciogliere la lingua, uh?» Gli si accostò, prendendogli il volto nella mano. Dèi, era così bello…! Perché non poteva semplicemente essere quello che aveva creduto, il suo sposo? Perché la sua vita doveva essere tanto complicata?
Non aveva rifiutato le principesse di Kainan e Shoyo per trovarsi nel letto un impostore. Aveva accettato di sposare Kiminobu Kogure perché era il meno peggio che potesse capitargli, ma quello era uno sconosciuto plebeo!
«Non contarci» sibilò lo sconosciuto, tra i denti.
«E magari ti insegnerà il rispetto» proseguì Akira, stringendolo più forte alla gola. «Kiminobu o no, tu adesso sei mio, e di te…», appoggiò le labbra sulle sue, «posso fare ciò che… ah!» Si ritrasse. Quel piccolo bastardo l’aveva morso! Si portò la mano libera alla bocca e la ritirò sporca di sangue. «Tu sei il mio giocattolo, è chiaro?» ringhiò, accentuando la stretta.
L’altro impallidì e si irrigidì, rantolando. Lo salvò un bussare deciso alla porta della camera da letto.
Akira Sendo lo lasciò immediatamente, con malagrazia. Non aveva voluto… per gli dèi, lo stava strozzando… lui che non aveva mai ucciso un uomo… «Avanti!» gridò, cancellando in fretta la confusione dal volto per riprendere la solita aria decisa.
«Ai vostri ordini, mio signore» disse Kitcho Fukuda, senza muoversi dalla soglia.
«Chiudi la porta e avvicinati.»
Il capitano delle guardie reali di Ryonan obbedì.
«Tu eri presente al matrimonio.»
«C’ero, Altezza.»
«Sei mai stato nella capitale dello Shohoku, Honor?»
«Sì, mio signore.»
«E hai mai visto il principe Kiminobu?»
L’uomo alzò gli occhi, d’un castano scurissimo, su quelli del principe. «Altezza… lo vedo come lo vedete voi, in questa stanza…»
«No, idiota! In quell’occasione, hai visto o no Kiminobu Kogure?»
Il capitano parve pensarci un attimo. «No, Altezza. Mi pare di ricordare che il principe fosse indisposto, in ogni caso non si presentò al banchetto.»
«Dunque non sapresti riconoscerlo, se lo vedessi.»
«Suppongo… di no, Altezza.»
Akira Sendo indicò l’impostore. «Prendilo e sbattilo nelle segrete.»
«Altezza?»
«Subito! E non discutere.» Gli occhi del principe fiammeggiavano. «Questo non è il figlio dei Kogure.»
Pur sconvolto, Fukuda fece un breve inchino e mosse un passo verso lo sconosciuto che restava, a testa alta, a fissare negli occhi il regale sposo. «Come ordinate, mio signore.» Afferrò il giovane per un braccio e lo trascinò fino alla porta.
«Fukuda?»
«Mio signore.»
«Che non lo sappia nessuno. Ficcagli un sacco in testa o fa’ come ti pare, ma che nessuno lo veda. Siamo intesi?»
«Comprendo perfettamente, Altezza. Eseguirò.»
«Sendo?»
Era stato l’impostore a parlare. Fukuda si fermò.
«Hai cambiato idea?» sbottò Akira, ironico. «Ti si è sciolta la lingua?» Per qualche ragione, sentiva che una resa così puntuale avrebbe tolto gran parte del suo fascino a quell’orgoglioso prigioniero.
Ma l’altro si limitò a sfilarsi la fede dall’anulare e scagliarla sul pavimento, ai suoi piedi.
«Portalo via» ordinò Akira Sendo, voltandosi verso la finestra.
Stava seriamente iniziando a considerare l’ipotesi di andare su tutte le furie.

Rimasto solo nella camera da letto, Akira Sendo chiamò le sue servitrici preferite e si permise di rilassarsi con un lungo bagno caldo, mentre le loro mani delicate massaggiavano la sua pelle. «Andate» disse poi. Restò nella vasca bollente finché non sentì tutte le tensioni abbandonare i suoi muscoli, anche se quelle della mente non lo abbandonarono neanche per un momento.
Sarebbe dovuto andare da suo padre e informarlo dell’accaduto. Se davvero Kiminobu Kogure aveva operato quello scambio per non sposarlo, be’… lo Shohoku avrebbe pagato cara quell’offesa. Nessuno poteva pensare di prendersi gioco del Ryonan in quel modo, tantomeno quel regno di morti di fame…
Sospirò. Il pensiero lo riportava allo sconosciuto che aveva avuto tra le lenzuola. Comunque andasse, per quel giovane ci sarebbe stata la pena capitale, e lui non voleva… che gli fosse fatto del male.
Si riscosse. Non voleva che gli fosse fatto del male? Quello era un impostore, uno sporco traditore che aveva creduto di prendersi gioco di lui e farla franca! E come l’avevano sfidato, quegli occhi! Quel cane orgoglioso era tanto impudente quanto bello, e Akira Sendo non poteva certo permettersi di fargli passare impunite tutte le sue ingiurie! L’avrebbe fatto frustare a sangue, tanto per cominciare. Soldato o no, avrebbe implorato pietà. Si sarebbe prostrato di fronte a lui e l’avrebbe pregato tra le lacrime di risparmiarlo…!
E lui l’avrebbe risparmiato, magnanimamente, perché adesso era il suo schiavo e, per gli dèi, gli piaceva. Gli piaceva tanto, troppo, più di qualsiasi altro amante che avesse mai avuto… L’avrebbe risparmiato e l’avrebbe tenuto per sé, l’ennesimo giocattolo prima di stancarsene.
Kiminobu Kogure, dovunque fosse, poteva aspettare.

E così, per la prima volta da quando riaveva la vita, Hiroaki era di nuovo in cella.
Gettato di malagrazia nella segreta buia, senza finestre, si guardò per prima cosa intorno. Se non altro, sembrava meglio dell’ultima in cui era stato. C’era una brandina, in fondo, accostata al muro, e un catino per i bisogni dall’altra parte. L’aria era gelida e odorava di pietra e urina. Il respiro si congelava in dense nuvolette di vapore biancastro. Con un sospiro, andò a sedersi sulla branda… ma il suo corpo protestò con un’acuta fitta di dolore, e scattò in piedi.
Adesso che l’avevano sbattuto in cella, la realtà aveva preso una forma molto più spiacevole, e la sua tranquillità era evaporata.
Gli pareva che, a questo punto, gli si aprissero davanti due sole possibilità: che Akira Sendo si stancasse di lui e lo facesse uccidere dopo avergli strappato la verità con la tortura, o che decidesse di tenerlo come suo schiavo e goderselo quando ne aveva voglia.
Sinceramente non sapeva quale delle due fosse peggiore.
La notte era passata… meravigliosamente. Doveva ammetterlo, almeno con se stesso. Con la sua coscienza era sempre stato estremamente sincero. Era stata una notte bellissima. Akira Sendo a letto sembrava rinunciare a buona parte della sua arroganza, per trasformarsi in un amante attento e generoso. Tranne in quel singolo momento, che aveva già dimenticato. Anche il solito sarcasmo aveva rivelato una nota diversa, più dolce, più… umana.
Scosse la testa. Akira Sendo poteva tenere ai suoi amanti, ma era lo stesso affetto malato di un bambino per l’animaletto di turno, con il quale giocare prima per poi straziarlo con le torture più atroci. Ne era sicuro. Akira Sendo avrebbe fatto brandelli di lui.
Sperò che almeno Kiminobu e Hisashi fossero in salvo. Se avessero scoperto anche loro… non voleva pensarci. Non voleva pensare che fosse stato tutto inutile.

«Akira, perché il tuo sposo non è presente?»
Akira Sendo si riscosse bruscamente. Se n’era dimenticato. Aveva dimenticato che il primo giorno dopo le nozze prescriveva che la sposa pranzasse con il marito, i suoceri e tutti i più alti dignitari di corte al banchetto ufficiale.
Aveva fatto il suo ingresso con aria distratta, solo, senza curarsi neppure dell’araldo che lo annunciava.
«Kiminobu si scusa, ma si sentiva molto stanco» rispose, a voce alta. E poi, piano, permettendosi un sorrisetto: «È stata una lunga notte, padre».
Jun Sendo si rilassò. Per quel matrimonio stavano facendo numerose eccezioni al rituale, ma nessuna di gran conto, in fondo. La felicità di suo figlio veniva prima. «È andato tutto bene?» domandò, passandogli un braccio intorno alle spalle.
«Come mai questa curiosità, padre?»
«Perché hai delle occhiaie molto eloquenti, figlio mio» sorrise il re di Ryonan.
«Anche il vostro genero, ve l’assicuro» rispose Akira, con una falsa allegria che stava cominciando a inacidirgli il sangue.
«Sono lieto di sapere che andate d’accordo. Ieri il principe Kogure non mi era sembrato… felice.»
«Ieri era ieri, e oggi è un altro giorno. Abbiamo… appianato… le nostre divergenze» sorrise Akira.
Jun Sendo prese due calici pieni dal vassoio di un servitore, e gliene porse uno. «Signori» disse, con una voce forte che tuonò per tutta la sala, «un brindisi a nostro figlio Akira, e che gli dèi guardino con benevolenza il suo matrimonio con il giovane Kogure!»
«Al principe Akira! Agli sposi!» ruggì la sala, levando i bicchieri ricolmi.
Akira sorrise senza sentimento, e mandò giù tutto d’un fiato. Gli sposi? Se solo suo padre avesse saputo… Ma c’era ancora tempo per dirglielo.
L’augurio della sala gli giunse alle orecchie talmente stonato che cercò in tutti i modi di dimenticarne il suono. Cosa che non gli riuscì.

Andò a trovare il suo prigioniero verso il vespro. In verità aveva pensato a lui per tutto il giorno, ma non si era permesso di scendere nelle segrete come avrebbe voluto. Voleva che la prigione iniziasse ad addolcirlo, perché ciò che aveva visto lo induceva a pensare che lo sconosciuto fosse troppo testardo anche per lui.
Ammissione, questa, che, circoscritta al buio della sua mente, dalla sua bocca non sarebbe uscita mai.
Lo trovò addormentato sulla branda, scomodamente raggomitolato su un fianco, i vestiti stretti intorno al corpo per trattenere un po’ di calore. Fece un passo nella segreta e quello si tirò a sedere, di scatto, squadrandolo con occhi ben vigili.
Forse non stava dormendo. O forse era davvero un soldato, e come i soldati dormiva con gli occhi aperti.
«Ben svegliato» lo motteggiò, incrociando le braccia al petto.
«Che vuoi?»
«Sono venuto in visita. Non sei contento?» ironizzò, raggiungendolo.
Lo sconosciuto strinse le palpebre sino a ridurle a due fessure sottili.
Akira Sendo sedette sulla branda, accanto a lui. Alzò una mano per accarezzargli i capelli, ma il prigioniero gli schiaffeggiò la mano, allontanandola con violenza.
«Non mi toccare» ringhiò.
«Ieri non eri così ostile… Forse ti ci vuole qualcos’altro per riscaldarti, uh?»
«L’unico modo in cui puoi farmi piacere la tua compagnia» sibilò l’altro, insinuando con gusto una nota ironica.
Sendo prese la sua mano, quella con cui l’aveva respinto, e la strinse forte. Si chinò sul suo viso. «Tutto questo odio, perché?» sussurrò. «Non ti ho trattato bene? Non mi sono fatto mille scrupoli, per te? Non per tutti mi sono prodigato in questo modo, piccolo impudente!»
Il prigioniero deglutì. «Mi fai soltanto schifo» scandì.
«Invece tu mi piaci, e tanto…» Di prepotenza, Akira gli ficcò la lingua in bocca e prese a baciarlo. A dispetto del suo carattere gelido, la bocca del prigioniero era così calda… Gli strinse le mani, intrecciando le dita con le sue, per riscaldarle. Dèi, si gelava, là sotto…
Si riscosse solo quando si rese conto che l’altro era rimasto immobile, senza ricambiare. «Sei un testardo, eh?»
L’altro voltò il capo e sputò, disgustato.
«Dimmi il tuo nome.»
«No.»
«Dimmi il tuo nome, non me ne faccio niente.»
«E allora perché lo vuoi?»
«Perché non ho un modo con cui chiamarti.»
Un sorriso tutto storto inarcò le labbra del prigioniero. «Chiamami “schiavo”, visto che non sono altro.»
«Un giorno in cella non ti ha addolcito, quindi.» Akira Sendo si tirò in piedi, aggiustandosi gli abiti addosso. «A domani, schiavo» lo salutò, sprezzante.
«A domani, padrone» sibilò il prigioniero.
Ma non appena fu fuori dalla cella, il sorriso sparì dalle labbra di Akira Sendo. «Dategli una coperta» mormorò alla guardia di turno, prima di lasciare il corridoio.

Quella notte dormì solo, e di conseguenza male. Non era abituato a quel posto freddo accanto al suo. C’era sempre un corpo caldo e docile ad occuparlo.
Poi si svegliò in mezzo alla notte, da un sonno agitato e convulso. Non sapeva cosa stesse esattamente sognando, ma non era certo piacevole, visto il tremore che si scoprì addosso. Si strinse nelle coperte. La notte mormorava e ticchettava intorno a lui con mille allucinati rumori. Lui odiava svegliarsi in mezzo alla notte, se non c’era qualcuno a cui stringersi.
Con un sospiro scivolò fuori dalle coperte, raccolse la vestaglia dalla cassapanca, la indossò e infilò le pantofole. Fece per uscire, poi tornò indietro e tolse al letto la coperta di pelliccia, drappeggiandosela sulle spalle. Attraversò i corridoi in preda a una lucidità che rasentava la follia, probabilmente indotta dalla prolungata insonnia. Quando scese nelle segrete, il gelo intenso gli sferzò le gambe nude.
Strappò il mazzo di chiavi di mano alla guardia addormentata e le provò tutte, una per una, finché la serratura non si decise a scattare.
Il prigioniero si era già svegliato al tintinnio furioso delle chiavi, ma era rimasto immobile, a fissarlo al di là delle sbarre. Sendo lo raggiunse senza una parola, si tolse di dosso la coperta di pelliccia e gliela stese sul corpo, che sentì tremante malgrado la coperta che lo fasciava.
Così, con solo la vestaglia indosso, rimase a fissarlo. «Sento freddo» disse alla fine, ficcandosi le mani sotto i gomiti per riscaldarle.
L’altro non si mosse né parlò.
«Oh… al diavolo! Piccolo ingrato» borbottò Sendo, aprendo il tiepido nido di coperte e ficcandocisi sotto, a forza, le pantofole abbandonate sul pavimento lurido della cella, la vestaglia ancora indosso. «Hai freddo?»
Il prigioniero scosse la testa.
«Bene, perché io ho i piedi gelidi, e tu invece caldi, quindi…» Intrufolò i piedi tra i suoi, ignorando la sua esclamazione di fastidio. «Ti ho portato la mia coperta preferita. È il minimo che tu possa fare per ricambiarmi, non pensi?»
Non ricevendo proteste, lo abbracciò delicatamente. «Sicuro che non hai freddo?»
«Che vuoi da me?»
«Non mi piace dormire solo.» Sorrise. «Mi fa venire gli incubi.»
«Peggio di un bambino» borbottò lo sconosciuto, in tono meno cattivo del solito.
«Ognuno ha le sue debolezze. Io ho questa. E tu?»
L’altro si limitò a guardarlo negli occhi e non rispose.
«La loquacità, evidentemente» borbottò Akira, e quasi non volle credere ai suoi occhi quando vide un sorriso tranquillo, bellissimo, apparire come un’alba radiosa su quelle labbra. Subito scomparve, ma Akira se ne sentì rallegrato.
«Allora sei capace di sorridere anche tu…» mormorò, baciandolo piano, con rispetto.
«Adesso ho capito cosa vuoi» sibilò quello, ritraendosi.
Akira si fermò, come avesse ricevuto un pugno nello stomaco. «No.»
«Ah, davvero?»
«Davvero.» Se lo strinse al petto con calore, deponendogli un bacio sulla fronte. «Sempre che tu non voglia…»
«Scordatelo, Sendo.»
Akira sospirò, passandogli le dita tra la seta nera dei capelli. Avevano lo stesso profumo della prima volta che l’aveva visto… un profumo appena percepibile, ma dolce e inebriante. Delizioso. «Sono contento che tu e Kogure vi siate scambiati, sai?»
L’altro non si mosse.
«Mi hanno detto che Kiminobu Kogure è bello, ma…» esitò un istante, «tu mi piaci di più.»
«Non l’hai neanche visto, come fai a dirlo» mormorò il prigioniero.
«Non lo so, lo sento.» Sorrise. «Gli studiosi non mi piacciono più di tanto… invece i soldati hanno un loro fascino… testardo. Non sei d’accordo?»
«Non lo so. Non ho mai amato un soldato» mormorò lui.
«Ed io che sono?» Akira chinò il capo per guardarlo in viso. «Sono il primo spadaccino del regno, è risaputo.»
«Ah…», un sorriso ironico storse le labbra dello sconosciuto, «qui in Ryonan dite soldato?»
«Perché, voi come dite?» chiese Akira, confuso.
«Damerino.»
«Sei insopportabile, lo sai… qualunque sia il tuo nome!» sbottò il principe.
L’altro sorrise di nuovo, un altro sorriso sincero sulla sua bocca troppo triste. Akira non resistette e lo baciò di nuovo, con dolcezza. «Non ti sto mica violentando…» mormorò, sentendolo irrigidirsi. «Stai calmo…»
«Non mi piace.»
Akira sospirò, rassegnato. «Dormi» mormorò, e abbracciandolo guidò il suo viso contro il proprio petto.
L’alito caldo del prigioniero, che si insinuava subdolamente dentro le pieghe della sua vestaglia, l’avrebbe tormentato per tutta la notte. Ma non aveva importanza.
Chiuse gli occhi e dopo un attimo già dormiva.

Il giorno successivo, Akira sembrò aver recuperato il suo solito buonumore. Si era svegliato con il suo prigioniero ancora tra le braccia, immerso in un sonno profondo e calmo, e non era riuscito a trattenere un sorriso intenerito.
D’accordo, non doveva. Era una cosa sbagliata e stupida.
Ma gli si stava affezionando.
Gli aveva deposto un bacio in fronte, a fior di labbra, ed era scivolato silenziosamente fuori dalle coperte e dalla cella. Più tardi, dopo essersi lavato e vestito, aveva deciso che da quel momento l’avrebbe preso con le buone.
Cos’aveva detto? Con le buone? Lui, Akira Sendo?
Si guardò allo specchio, vagamente sorpreso. Quel ragazzo stava avendo un cattivo effetto su di lui… deleterio. Si stava raddolcendo troppo. Stava quasi dimenticando che quello era un traditore e che avrebbe dovuto fargli scorticare la schiena a frustate e…
No, no, no. Lui non era un sadico. Se lo fosse stato, non avrebbe dato ordine di dargli quella coperta, né tantomeno si sarebbe limitato ad abbracciarlo, la notte precedente, quando bruciava dalla voglia di fare l’amore con lui un’altra volta.
Era un giorno e mezzo che non lo faceva, e poteva sembrare un’inezia, ma non era stato troppo piacevole ignorare il desiderio, la notte prima, con quel corpo così piacevolmente stretto al suo… Scosse la testa, imponendosi di non pensarci. Avrebbe potuto prendersi un amante, ma non ne aveva voglia. Non finché quel ragazzo restava, indomato, nelle segrete.
Il giorno passò e a sera, ancora vestito, scese nelle segrete con un piccolo regalo per il suo amante ritroso.
«Buonasera» lo salutò, con un bel sorriso. «Come stai?»
Quello si limitò a guardarlo, da sotto la montagnola di coperte.
«Ti ho portato un regalo. Adesso arriva.»
Vide la curiosità, sospettosa, negli occhi dell’altro.
«È una cosa che ti farà solo piacere, te l’assicuro… ah, ecco qui.» Tolse dalle mani della guardia l’otre di pelle, riempito d’acqua bollente, e la congedò. Si avvicinò alla branda, sollevò le coperte in corrispondenza dei piedi e lo sistemò per bene.
«Che te ne pare?»
Non ricevette risposta, ma ormai c’era abituato. Si spogliò rapidamente, restando con indosso solo la biancheria intima, ed entrò nel calore delle coperte. Il caldo era piacevolmente soffocante.
«Sicuro che non vuoi…»
«Scordatelo.»
Akira sospirò, senza perdere il sorriso. «Fatti baciare, almeno…» E così dicendo gli sollevò delicatamente il viso e si appropriò della sua bocca. Ma l’altro non lo ricambiava e smise presto.
«Dormi» sussurrò.
Passò così una settimana, e guardandosi indietro Akira si sarebbe chiesto come aveva fatto a resistere per sette giorni con quel corpo caldo tra le braccia senza forzarlo a fare l’amore.
La mattina dell’ottavo, comunque, aveva preso una decisione. Se una settimana di prigione non era stata sufficiente a domarlo, e difatti il ragazzo era ancora testardo e indomito come prima, dubitava che anche un mese ci sarebbe riuscito.
Chiamò Fukuda e diede ordine di farglielo trovare, lavato e profumato, in quella stessa camera.
Anche quel giorno, a colazione, suo padre gli domandò di quello che credeva essere Kiminobu Kogure.
«Un lieve raffreddamento e un po’ di febbre» rispose con noncuranza, imburrando una fetta di pane. «Quest’inverno è particolarmente rigido, e Kiminobu è di salute un po’ cagionevole…»
«Non mi era sembrato» borbottò Jun Sendo, aggrottando la fronte. «Niente di grave, vero?»
«Assolutamente. In un paio di giorni sarà di nuovo in piedi» concluse Akira, sfoggiando uno dei suoi migliori sorrisi.
Tornò nella sua camera con leggera trepidazione.
Lo trovò lì, seduto sulla cassapanca ai piedi del suo letto, i gomiti sulle ginocchia e lo sguardo attento. Corrucciato, come al solito, e guardingo.
«Come va, oggi?» domandò, sorridendogli.
L’altro si limitò a inarcare un sopracciglio.
«Bene? Male? Accetto anche “meravigliosamente” come risposta.»
Silenzio.
«Ti ho liberato, per gli dèi, potresti almeno ringraziare!» sbottò Akira Sendo.
«Visto che mi ci hai sbattuto tu, lì sotto, non vedo proprio perché.»
«Perché non ho ancora parlato con mio padre, ad esempio. Per questo mi potresti ringraziare.»
Il prigioniero scosse la testa. «Perché non ti privi dell’opportunità di giocare al padrone e al servo con me? In fede mia, generoso.»
«Quindi, dato che sai tutto, sai anche spiegarmi per quale ragione non ti ho ancora fatto mio?»
Lo sguardo dell’altro si fece distante. «Evidentemente non ne avevi voglia» rispose, con voce pacata.
«Sai benissimo che ne avevo voglia, e sai anche quanta.»
Il prigioniero non rispose.
«Sto avendo per te più cura che per chiunque, quindi, fammi il favore di mostrarti riconoscente, è chiaro?»
L’altro sorrise ironico. «Ma io sono riconoscente. Non si vede?»
Akira gli si avvicinò, a passi larghi. «Potresti dimostrarlo in modi migliori…» sussurrò, sulla sua bocca.
«Non ci tengo» rispose quello, scivolando fuori dalla sua portata.
Akira scosse la testa. Quel ragazzo l’avrebbe fatto impazzire, ne era certo. «Ad esempio, tentando di mettere in fila più di quattro parole?»
«Ma l’ho fatto.»
«Senza insultarmi?»
«Difficile.»
Akira andò a sedersi sul letto, ridacchiando. L’avrebbe fatto impazzire, sì, ma per qualche ragione non si sentiva preoccupato. «Siediti, via. Non ti tocco.» Alzò lo sguardo. «Che fai, non ci credi?»
«Dovrei?»
«Sì. Volendo, l’avrei già fatto.»
Il prigioniero gli si sedette accanto, con cautela.
«Credo che sia meglio ricominciare da capo, sei d’accordo?» Gli tese la destra. «Akira Sendo, lieto di conoscerti. Come ti chiami?»
Quello non si mosse.
«Akira Sendo…» ripeté il principe, afferrandogli la destra, «… tu come ti chiami?»
«Perché dovrei dirtelo?»
«Perché non dovresti?»
L’altro si riprese la mano. «Che cosa vuoi da me, Sendo? Dillo chiaramente, una volta per tutte.»
«Il tuo nome» rispose Akira. «Voglio il tuo nome.»
«E quando l’avrai saputo?»
«Il motivo per cui hai fatto tutto questo.»
«E poi?»
«Ti chiederò di restare con me.»
«E… se dirò di no?»
«Ti terrò con la forza.»
Qualcosa di molto simile alla delusione passò sul viso dell’altro. «Non ti smentisci mai, Akira Sendo, non è vero?»
«Ma insomma, cos’altro vuoi? Dovrei denunciarti e invece ti sto dando l’opportunità di appartenere a me… Sai quanti darebbero un braccio per questo?»
Il prigioniero scosse la testa. «Io non sono uno dei tuoi leccapiedi.»
«Leccapiedi?»
«Quella gente che ti venera e che darebbe un braccio per farsi sbattere da te. Sai una cosa? Se ti conoscessero davvero, ti fuggirebbero come la peste. Come ha fatto Kiminobu. Sono felice di aver preso il suo posto, perché anche solo un istante con te è un veleno per l’anima, e la sua è troppo bella per insozzarsi con la tua vicinanza.»
Akira Sendo spalancò gli occhi e un’espressione mai vista gli si dipinse in viso. Qualcosa come… angoscia. Angoscia mista a rabbia. Hiroaki strinse i denti, preparandosi ad essere colpito e forse anche violentato, ma l’altro non lo toccò.
Si alzò, senza una parola, andò alla porta e se la chiuse alle spalle facendola sbattere.
Dall’altra parte, nessuno scatto di chiave avvisò Hiro di essere stato chiuso dentro.
I suoi occhi scintillarono.

Come aveva pensato… aperta. Il cuore di Hiroaki perse un battito, poi iniziò ad accelerare le pulsazioni. Dèi. Aprì cautamente la porta, facendo capolino nel corridoio. C’erano alcuni domestici, ma Sendo non era in vista.
Se aveva capito bene, gli unici a conoscenza dello scambio erano Sendo e Fukuda, per cui gli sarebbe bastato guardarsi da loro due, e sarebbe stata fatta. Uscì nel corridoio cercando di ostentare un’aria naturale.
«Altezza» si inchinò una domestica. «Vi siete ripreso?»
«Ah… sì. Sì, sto benissimo, grazie.» Naturale, Sendo doveva essersi inventato qualche malattia per giustificare la sua prolungata assenza. Accelerando il passo, raggiunse le scale che conducevano al piano di sotto.
«Principe Kiminobu!»
Dèi del cielo, dèi del cielo, proprio lui no… lui no…
Il re Jun Sendo lasciò calare una pacca affettuosa sulle spalle del presunto genero, togliendogli all’istante il fiato. «Come mai siete in piedi? Mio figlio mi ha detto che siete indisposto, non dovreste rimanere a letto?»
«Maestà!» gemette Hiroaki, tentando di ricomporsi. «Vostro figlio si preoccupa troppo. Mi sento molto meglio, oggi, davvero…»
«Ne siete sicuro? Vi vedo pallido, mio caro. Avete mangiato?»
«Oh, sì, sì. Anzi, avevo intenzione di scendere in giardino a prendere una boccata d’aria… Sapete, stare chiuso in camera con questo bel sole…»
«Principe, oggi c’è tutto tranne il sole… è piuttosto nuvoloso, non ve ne siete accorto?»
«Dite davvero? Ah, be’… meglio! Preferisco le giornate di pioggia, sapete? Se volete scusarmi…» Si liberò del suo braccio e corse giù per le scale, implorando tutti gli dèi che non gli ponessero davanti un altro contrattempo. Il sangue gli rombava nelle tempie, assordandolo.
Parve che gli dèi l’avessero ascoltato, perché raggiunse il cortile senza che nessuno lo fermasse. Si guardò intorno. Dove mai potevano essere le stalle? Poi sentì un lieve nitrito, in lontananza, e si avviò in quella direzione, circospetto.
Gli dèi lo amavano. Erano proprio le stalle. Vide di fronte a sé un bellissimo morello, già sellato, pronto ad essere montato, con una faretra e un arco sistemati alla sella. Chissà chi l’aveva preparato. Be’, non aveva importanza. Lo raggiunse, mise il piede nella staffa e…
«Dove credi di andare?» gridò una voce conosciuta.
Hiroaki buttò la gamba destra al di là della sella e strinse le redini. Poi affondò con decisione i talloni nei fianchi dell’animale. Quello, obbediente e forse fermo da troppo tempo, mandò un nitrito felice e partì al galoppo.
Quando passò i cancelli del castello, Hiroaki non poté fare a meno di lanciare un mezzo grido di gioia. Libero. Era libero. Le lacrime gli offuscarono la vista.

Se quell’impudente, piccolo bastardo credeva di farla franca in modo così barbaro, bene, era evidente che non conosceva Akira Sendo. Il principe raccolse subito un’altra sella, la sistemò con mani febbrili sul dorso della sua cavalla Anya e strinse le cinghie.
Gliel’avrebbe pagata carissima, questa volta. Montò in sella e lo inseguì fuori dai cancelli.
Era stato talmente stupido da dimenticare la porta aperta, colpa sua, ma la rabbia gli aveva impedito di ragionare. Aveva lasciato quella camera perché l’alternativa sarebbe stata picchiarlo fino allo stremo delle forze, e non voleva. Per lui! Solo per lui aveva deciso di mordersi la lingua e uscire, fare una cavalcata e andare a caccia per qualche ora.
Al ritorno, si sarebbe sentito meglio e avrebbero potuto parlare con più civiltà.
Per lui! Per quel maledetto che non aspettava altro che il momento opportuno per scappare!
Akira giurò a se stesso che, non appena l’avesse preso, per prima cosa se lo sarebbe sbattuto. Se l’era vietato per una settimana, per gentilezza, ma stavolta non avrebbe avuto pietà. E poi l’avrebbe riportato a castello, denunciato a suo padre e stabilito la punizione per lui: non la morte, ma la schiavitù vita natural durante. Sarebbe stato il suo schiavo da letto finché gli fosse piaciuto.
E Kiminobu Kogure… ah, solo il tempo di riprenderlo, e anche lui si sarebbe pentito di aver tentato un simile scherzo! Avrebbe dovuto piangere tutte le sue lacrime per la sorte del suo amico… il suo amico che gli voleva così bene da avergli immolato la verginità! Ah! I propositi di vendetta si affastellavano l’uno sull’altro nella mente di Akira Sendo.
Così ragionando, le redini strette tra le mani e i talloni ficcati nei fianchi di Anya, seguì la scia lasciata dagli zoccoli di Hikoichi.

Hiroaki sapeva di avere Akira Sendo alle calcagna, e proprio per questo era consapevole di non potersi fermare neanche un istante. Il morello che cavalcava era sovreccitato, il che era solo un bene, ma a quell’andatura si sarebbe stancato presto, e non poteva cambiarlo, perché recava il marchio di proprietà del re e l’avrebbero scambiato per un ladro. Invece Akira Sendo poteva usufruire di qualunque posta volesse.
Hiroaki si impose di pensare con calma.
Fra non molto sarebbe giunto ai cancelli della città… avrebbe dichiarato la sua finta identità e sarebbe passato, poi al momento giusto si sarebbe accampato in un luogo nascosto. Se necessario, avrebbe abbandonato il cavallo e proseguito a piedi. Sì.
Il cuore gli era impazzito nel petto, ma doveva restare lucido. Kiminobu. Riabbracciare Kiminobu. Riabbracciare Kiminobu, si ripeté, come un mantra. Il pensiero del principe non lo calmò, ma gli riempì di calda luce la mente. Li avrebbe riabbracciati, lui e quell’idiota di Mitsui. Li avrebbe riabbracciati presto.
L’importante era crederci.
Non ci credevano però le guardie poste ai cancelli, aperti, che già a distanza gli intimarono di fermarsi. Hiroaki affondò con violenza i talloni, curvandosi sulla sella. Se avesse permesso loro di fermarlo ora, Sendo l’avrebbe ripreso.
Sendo… No! Il morello nitrì, scontento, ma accelerò. Il vento sferzò sul suo muso e sul viso di Hiroaki. I cancelli si stavano chiudendo… dèi…
«Vai!» gridò Hiroaki, implorando il cavallo o gli dèi, non lo sapeva più.
… Passati! Erano passati! Hiroaki si consentì una fuggevole occhiata indietro, e vide in lontananza la sagoma di Akira Sendo a cavallo, ormai in prossimità dei cancelli. Diede ancora di sprone e ringraziò tutti, gli dèi e il cavallo, perché evidentemente quello era il suo giorno fortunato.
Tuttavia, circa un’ora dopo, Akira Sendo lo stava ancora tallonando, e Hiroaki cominciava seriamente a preoccuparsi. Aveva intenzione di seguirlo fino in Shoyo?
Aveva deciso con Mitsui e Kiminobu che si sarebbero trovati ai cancelli del confine ovest dello Shoyo, il giorno seguente alle nozze, e anche se aveva mancato l’appuntamento Hiroaki conosceva il nome della locanda di lady Ayako, nella capitale Iustitia. Li avrebbe ritrovati in ogni caso.
Ma Akira Sendo…? Doveva seminarlo.
Il morello aveva la lingua fuori dai denti e stava iniziando a rallentare il ritmo. Non andava bene, no, non andava affatto bene. Hiroaki si guardò intorno. Quella campagna si estendeva per miglia, piatta e tutta uguale, ma forse… Gli dèi si erano intestarditi a proteggerlo, quel giorno. A est riposava un piccolo boschetto… di querce, a prima vista.
Con un sospiro riconoscente, Hiroaki vi si diresse. Sapeva che Akira Sendo l’avrebbe seguito, ma doveva necessariamente fare una sosta e lì avrebbe potuto nascondersi. Sperando nella buona sorte che non l’aveva ancora abbandonato, si immerse nell’ombra fredda degli alberi.

Akira Sendo strinse i denti. Quello stupido! Si era andato a cacciare nel bosco infestato dai banditi! Non poteva saperlo, evidentemente.
Se avesse voluto soltanto una sbrigativa vendetta, avrebbe potuto lasciare che quei banditi lo uccidessero. In fondo, quel ragazzo gli aveva creato più problemi di chiunque prima e anche la morte sarebbe stata una punizione ragguardevole. Si sarebbe potuto trovare amanti migliori e vendicarsi personalmente di Kiminobu Kogure.
Ma la verità… la verità era che nessuno poteva osare toccare quel ragazzo, perché era suo. Suo. Non voleva che nessuno gli facesse del male.
Strinse le redini. Si era innamorato di lui?
Lo conosceva solo da una settimana.
Senza volerci pensare, diede di sprone ad Anya e si tuffò nel bosco dietro di lui.

A Hiroaki la calma di quel bosco non piaceva affatto. Dov’erano finiti i piccoli rumori prodotti dagli animali, i versi degli uccelli, lo scricchiolio dei rami spezzati? Non si udiva niente, solo l’ululato del vento. Brutto, bruttissimo segno.
Rallentò un po’ l’andatura, guardandosi intorno. Doveva trovare un posto in cui accamparsi, il morello era stremato. Forse, quella radura…
Sentì alle sue spalle lo scalpitio degli zoccoli di un altro cavallo. «Stupido! Vieni via subito!» gridò Akira Sendo.
«Scordatelo! Non mi avrai!»
«Non è per questo, idiota! Questo bosco è infestato dai…» Qualunque cosa avesse voluto dire, gli morì in gola. Hiroaki si voltò di scatto. Impallidì.
Non avrebbe saputo dire da dove fossero sbucati fuori, ma adesso cinque banditi a piedi avevano circondato il principe.
«Guarda un po’ cosa abbiamo qui…» gli giunse la voce di uno di loro, «il principino Sendo! Che bella caccia!»
«Che diavolo aspetti?» gridò Akira Sendo, stringendo saldamente le redini del suo cavallo. «Scappa!»
Hiroaki si maledisse. La sua buona sorte stava esagerando, decisamente. Gli dèi lo amavano, d’accordo, ma non c’era bisogno di ammazzare Akira Sendo! Staccò l’arco dal gancio della sella e trasse fuori una freccia dalla faretra, incoccandola.
Se sapeva tirare ancora bene… Occhi aperti… Scagliò e pregò. Un urlo e il bandito si abbatté al suolo. Morto.
«Meno uno!»
Due banditi si mossero nella sua direzione, le spade sguainate, mentre gli altri si avventarono su Akira. Raccogliendo un’altra freccia, Hiroaki prese la mira e scoccò. Ma le mani gli tremarono e anziché nel cuore, la freccia si piantò solo nella spalla del bandito, che la estrasse rabbiosamente.
Prese le redini in una mano sola e diede uno strattone. Il morello, spaventato dal gesto inconsulto e dal baluginare delle spade, cui non era abituato, si impennò, abbattendo il bandito già ferito con un colpo di zoccolo. L’altro schivò e gli passò al fianco, ma Hiroaki gli assestò un calcio sulla bocca e poi smontò da cavallo con un salto, arrivandogli addosso. Gli strappò la spada di mano e gliela conficcò nel cuore.
Un grido straziato lo avvertì che Akira era stato ferito. Con una stretta al cuore, Hiroaki corse nella sua direzione e piantò la spada nella schiena di quello che l’aveva ferito. L’ultimo, vedendo il disastro, pensò bene di scappare nel folto degli alberi.
«Non sai… neanche difenderti… da cinque banditi?» ansimò Hiroaki.
Akira Sendo mormorò qualcosa, poi cadde riverso sulla sella. Svenuto. Gli occhi di Hiroaki si spalancarono alla vista della larga macchia rossastra che andava allargandosi sul suo fianco.

«Do… dove sono?»
«Al sicuro. Sta’ zitto e lasciami fare.»
«Che… che stai…?»
«Devo ricucire, ma se preferisci ti lascerò lo squarcio aperto.»
Akira Sendo strizzò gli occhi per abituarsi alla nuova luce. Giaceva prono, la faccia su un cuscino dai bordi sfilacciati, e il suo sguardo non andava molto al di là della stoffa bianca. Alzò gli occhi. Tutt’intorno vide una stanza modesta, forse una casa di contadini. Accostato al letto su cui giaceva, un piccolo tavolino con una candela accesa.
«A che serve la… ah!» Soffocò un grido nella stoffa del cuscino.
«Lo so che fa male, ma parlare non ti aiuta. E neanche gridare. Tieni.» Gli porse un piccolo legnetto, il pezzo di un ramo che aveva raccolto nel bosco. «Tienilo tra i denti.»
«E… aiuta?» gemette Sendo.
«Un po’» rispose, riprendendo a cucire. Aveva le mani abbondantemente lorde di sangue, e non sapeva se la ferita si sarebbe infettata, dopo. L’aveva ripulita con estrema cura, ma lì non era come al castello, dove i medici facevano tutto il lavoro – un lavoro pulito, sicuro, da esperti.
Lui aveva imparato per necessità, non per passione.
«Fatto» mormorò, dopo quella che parve a entrambi un’eternità. «Adesso fatti bendare. Sendo…?» Gli toccò la spalla. Era svenuto. Così distrutto, il viso madido di sudore, aveva un’aria poco detestabile. Hiroaki gli scostò una ciocca domata, piegatasi come il gambo di un fiore sulla sua fronte.
Non doveva pensarci. Gli tolse il legnetto dalla bocca e, con qualche difficoltà, gli fece passare la garza tutt’intorno all’addome.
Poi sedette sulla seggiola accostata al letto, con un sospiro. Era stanco e non aveva mangiato nulla.
Adesso se ne sarebbe potuto andare, lasciando Akira in mano all’anziana coppia di fattori che aveva accettato di dar loro ospitalità. Non gli avrebbero fatto del male, sembravano persone degne di fiducia. Quando la ferita l’avrebbe permesso, Akira se ne sarebbe tornato a casa con il suo cavallo, mentre lui, con il morello ormai riposato, avrebbe raggiunto il confine e i suoi amici.
E allora, si chiese, gettando uno sguardo pensieroso al soffitto, perché resto ancora qui?
La ferita potrebbe infettarsi, si rispose, dopo un lungo istante.
Incrociò le braccia al petto e rimase ad aspettare che Akira Sendo si svegliasse.

«Finalmente si sta riprendendo… credevo che non si svegliasse più.» Una voce di donna, in là con gli anni. Apprensiva e dolce.
«Tranquilla, nonnina. Questo qui ha la pellaccia dura.» La sua voce. Molto più gentile di come la ricordasse.
Akira aprì gli occhi, lentamente. Dapprima vide solo il viso del suo prigioniero, chino sul suo, e nient’altro. Gli sorrise. «Grazie» sussurrò, sfiorandogli una guancia con le dita.
L’altro, colto di sorpresa, fece un balzo all’indietro, permettendogli così di vedere anche la donna anziana che aveva accanto. Forse la padrona di casa.
Akira tentò di muoversi, ma non appena cercò di far leva sul gomito per tirarsi su, una fitta di dolore dal fianco gli ricordò perché si trovava lì. Chiuse gli occhi. Gli doleva il collo per la prolungata immobilità, ma a quanto pareva non poteva cambiare posizione.
«Ti aiuto io» disse il ragazzo, facendosi avanti. Gli passò un braccio sotto la testa, portandolo ad appoggiarsi alla sua spalla, e con estrema delicatezza l’aiutò a voltarsi supino.
«Vado a prepararvi qualcosa da mangiare» disse la nonnina, allegramente, e uscì chiudendosi la porta alle spalle.
«Senti…» mormorò Akira, ancora appoggiato a lui. «Io… sei libero, d’accordo? Non ti seguirò.»
«Ti sei già stancato della corsa?» ribatté l’altro, sferzante.
Akira lo guardò con calma. «Non potrei seguirti neppure volendo. E in ogni caso non voglio. Ti devo la vita, e… questo significa qualcosa anche per un pervertito come me, sai?»
L’altro si morse la lingua, evitando di guardarlo.
«Mi dici almeno come ti chiami? Vorrei… portare indietro il tuo nome, insieme al tuo ricordo.»
L’ex prigioniero sospirò. «Hiroaki Koshino. Vice-capitano delle guardie di Sua Maestà Kogure di Shohoku» mormorò.
«Avevo ragione, allora… sei un soldato…» sussurrò Akira, sorridendo. «È stata del principe, l’idea?»
«È stata mia.»
«Lo ami così tanto?»
«Non si può non amarlo. Ed io… gli dovevo troppo.»
«La sua anima è troppo bella per insozzarsi con la mia vicinanza…»
Hiroaki lo guardò, con calma. Akira Sendo era bello, ma senza l’arroganza che lo contraddistingueva era splendido. E quella luce dolorosa negli occhi faceva di lui una meraviglia rara. «Sai essere migliore di così» mormorò.
«Se dovessi giudicare in base alle tue reazioni, non lo direi.»
«La verità è che sei un arrogante, Akira Sendo, e un prepotente. Ma sai anche non esserlo, quando vuoi. E allora sei migliore.»
Akira sospirò, chiudendo gli occhi. Dunque aveva sbagliato tutto. E ormai… ormai era troppo tardi per ricominciare.
«Hiroaki… se io te lo chiedessi… gentilmente… resteresti con me al castello?»
«Perché?» chiese Hiroaki, sospettoso.
«Perché mi farebbe piacere.»
«Non sarò uno dei tuoi concubini, Sendo.»
«Tu sei il mio sposo.»
«Tu hai sposato Kiminobu Kogure…»
«Io ho sposato te con un altro nome.»
Hiroaki scosse la testa. «Non dovevo esserci io, lì. Tu avresti sposato Kiminobu e basta. Io non c’entravo niente.»
«Ma gli dèi hanno messo te al suo posto, e sono tuoi gli occhi che ho guardato per tutto il tempo… ed è tua la mano che ha ricevuto il mio anello… ed è a te che ho fatto le mie promesse… Hiroaki, non mi vuoi dare neanche una possibilità? Una sola?»
Hiroaki esitò. «Tu la tradirai. Non sei fatto per il matrimonio.»
«Io brucio quando ti vedo, Hiroaki. Nessun altro mi fa ardere in questo modo.»
«E quando avrò smesso di farti bruciare? Quando ti sarai raffreddato?»
«Questo non succederà…»
«Ti stancherai di me.»
Si alzò, adagiando il suo capo sul cuscino, e andò alla finestra, a scrutare senza scopo la campagna sconfinata.
«Dimmi come te lo posso dimostrare.»
Il vice-capitano si voltò, sorpreso.
«Dimmi come te lo posso dimostrare» ripeté Sendo. «Ed io lo farò.»
Hiroaki tornò a fissare il panorama. «Che cosa farà tuo padre, quando saprà che non hai sposato Kiminobu?»
«Andrà su tutte le furie, credo… e vorrà la testa dei responsabili e che lo Shohoku ripaghi l’offesa.»
«Dunque, che sarebbe di me?»
«Ti difenderei io, Hiroaki. Nessuno potrebbe toccarti. Tu sei il mio sposo» ripeté, «e per gli dèi i nomi non contano. Io ho sposato te e adesso tu sei il principe consorte. I nostri riti sono chiari e definitivi.»
«Parecchi avranno da ridire, su questo.»
«Che dicano. A me non importa.»
«Perché ti accanisci così?»
«Non l’hai ancora capito, stupido?… Io ti amo.»
Hiroaki non si voltò. Fu solo dopo un infinito silenzio che Akira lo sentì mormorare: «Non mi fido di te, Akira Sendo.»

«Non saresti più mio prigioniero… potresti andartene in qualsiasi momento. So che mi disprezzi, ma io ho una parola sola.»
Hiroaki non si mosse. Perché, perché era così insistente? Lo conosceva appena e diceva di amarlo… che pazzia! Anche se le ultime sette notti erano state un abisso di dolcezza, lui non…
Si passò una mano sul viso. Che gli stava succedendo? Possibile che avesse iniziato a provare qualcosa per quel… quello sbruffone?
«Io devo andare a Iustitia. Quando tornerò… forse ti farò visita.»
«Lo prometti?»
«No.»
Il principe sospirò. «Avvicinati. Devo darti una cosa.» Hiroaki si sedette sul bordo del letto. «Chiudi gli occhi.»
«Per far che?»
«Chiudili e basta.»
Hiroaki sentì che l’altro gli prendeva la mano sinistra tra le sue, e poi… il freddo di un anello contro l’anulare. Aprì gli occhi. «L’hai conservata» mormorò.
«Quando il tuo viaggio sarà finito, devi comunque tornare da me. Se non vuoi essere il mio sposo devi ridarmela, è la tradizione.»
«Credo che questa tradizione te la sia inventata, Sendo.»
«Può darsi, ma non sono il principe per nulla.» Sollevò una mano, ad accarezzargli la guancia, e Hiroaki vide un lieve stupore tingergli di rosso le guance quando si accorse che non si ritraeva. «Perché mi permetti di toccarti?» sussurrò.
Hiroaki non lo guardò. «Un esperimento.»
«Che esperimento?»
«Niente. Continua.»
Le dita di Akira si attardarono sulla guancia, sfiorarono il lobo dell’orecchio e poi scesero, lungo il collo, sfiorando la pelle fresca del suo sposo. La blusa era leggermente aperta sul davanti… Akira ne sciolse un laccio e lasciò vagare le dita sul torace, caldo stavolta, fino a un capezzolo che parve implorarlo di attardarsi… ma Akira passò al gemello, un istante, e poi lasciò risalire la mano sino alla nuca di Hiroaki, dove la posò.
Hiroaki era arrossito. «Non me lo daresti un bacio d’addio?» mormorò Akira.
«Non sto ancora andando via…»
«Sì, invece. Nella tua mente mi hai già lasciato, e non tornerai più.»
«Non è vero, io…»
«Non lo è?»
Hiroaki avvampò, smascherato. «Sei un bastardo, Akira Sendo…»
«Damerino. Sono un damerino…» sussurrò, piegandoselo addosso.
 

(continua...)


 

Fiorediloto: Oh oh oh (l'Anzai virus è in giro insieme all'influenza)!! Non vi potete lamentare, stavolta!! ^____^
Hiro (riluttante): E va bene... però mi hai fatto fare una settimana di prigione, sadica che non sei altro!!!
Aki: Cucciolinooooo!!! C'ero io a riscaldarti i piedini!!! ^__________________^
Hiro: Stammi lontano tu!
Aki: Ma... ma... ce l'hai ancora con me per quello scherzetto, cucciolino???
Fiorediloto (sospirando): Ah... pene di cuore... o era CUORE DI PENE???
Aki & Hiro: O.O
Fiorediloto: ^/////^ Ihih, come sono volgare...
Aki & Hiro: O.O
Fiorediloto: Ehi? (schiocca le dita) Potete anche svegliarvi...
Aki & Hiro: O.O
Fiorediloto: Andati... vediamo se così si svegliano... (va al computer e inizia a digitare, leggendo a voce alta) Fu allora che nella casetta irruppe Jun Sendo, incazzato come un caimano, che per punizione al figlio e all'amante fedifrago decise che li avrebbe entrambi inc...
Aki & Hiro: AAAAAAAAAAAAHHHHHHHHHHHHH!!!
Fiorediloto: ... atenati nelle segrete!!! Fatta sotto, eh???
VOCE FUORI CAMPO: Ci scusiamo per l'interruzione, ma l'autrice è stata improvvisamente rapita dai suoi personaggi e... gulp!... parecchie fonti indicano che non tornerà per MOLTO, MOLTO tempo...
Hisa & Kimi: ç_ç E noi siamo stati dimenticati...

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Capitolo 4
*** 4. Un mondo d'amore ***



EPILOGO: UN MONDO D'AMORE


Ayako Kogure Miyagi si destò di buon'ora, con la delicata pressione della mano di Ryota sul suo fianco. Sorrise alla penombra, intrecciando le dita con quelle del marito.
«Dobbiamo aprire la locanda…» sussurrò l'ex pirata, deponendole un bacio sul collo.
«E come mai tanta solerzia? Di solito devo toglierti le coperte di dosso…"»sorrise Ayako, divertita.
«Niente, solo… mi sento allegro, oggi.»
Ayako si girò, posandogli sul collo una mano irruvidita dal lavoro, ma ancora sottile e affusolata. Sfiorò l'orecchino che lui portava al lobo sinistro. «E perché?»
«Perché lo sei tu…» mormorò Miyagi, baciandole la bocca.
Ayako sorrise. Non era allegra, era felice. «Magari oggi apriamo più tardi, che dici…» mugolò, infilando le gambe tra le sue.
«Mmm… se proprio insisti, principessa…»
E che cos'era quel corpicino caldo che d'un tratto… Abbassarono gli occhi. Manco a dirlo, Kaede si era intrufolato sotto le coperte, dalla parte dei piedi, andando a ficcarsi con geometrica precisione tra di loro.
«Kaede… Mamma e papà stavano parlando…» disse Ryota, con voce già rassegnata.
Inutile, il bimbo si era già riaddormentato. Ayako lo prese in braccio. «Vai ad aprire, io lo rimetto nella culla» mormorò.
Ryota diede un bacio al bimbo e uno alla madre, e scivolò fuori dalle lenzuola. Ma come aveva fatto Kaede a uscire dalla culla, protetta da solide sbarre di legno su tutti i lati? Grattandosi la testa, raccolse i vestiti abbandonati sulla seggiola la sera prima, e li indossò sbadigliando.
Nella stanza accanto, che pomposamente amavano definire stanza degli ospiti, ma era un po' di tutto, cucina, salotto, sala da pranzo, un respiro leggero ed un russare placido si mescolavano sul divano.
Ryota si fermò a guardarli per un attimo, i loro ospiti. Erano una coppia ben strana… il principe e quel buffo capitano delle guardie. Ma lui, di coppie strane, ne sapeva anche troppo. E poi Hisashi sapeva tirare di scherma, e anche se Ryota da un anno e mezzo aveva appeso la spada al chiodo, gli piaceva esercitarsi con lui. Non aveva perso del tutto il suo tocco… ma da quando era nato Kaede dubitava che sarebbe più stato capace di uccidere qualcuno.
«Mmm?»
Naturale, si era svegliato sentendo i suoi passi. Era un vero soldato, quel Mitsui. Ryota alzò una mano in cenno di saluto, distrattamente, e si diresse verso le scale.
Di nuovo solo con il suo Kiminobu, Mitsui gli sfiorò la fronte con un bacio. Non voleva svegliarlo, ma il principe si destò subito, mugolando dolcemente. «È giorno…?» mormorò, gli occhi chiusi.
«Sì, è l'alba…»
«Presto…»
«Dormi ancora un po'… io vado ad aiutare Ryota…»
Kiminobu aprì gli occhi. «Ti stai appassionando al mestiere?»
«Mi piace il contatto con la gente…»
«Vedi di non… avere troppi contatti con le belle clienti, Hisashi Mitsui…» sussurrò Kiminobu, arrossendo. Era da quando erano arrivati, una settimana, che le damigelle non facevano altro che mangiarselo con gli occhi. E non poteva dar loro torto, ma Hisashi era suo, chiaro.
«Quante sciocchezze, principe…» mormorò il capitano, baciandogli quella bocca così dolce e stupida. «Questa gelosia… immotivata… Vostra Altezza sa benissimo che io amo una persona sola…»
Kiminobu si alzò a sedere, di scatto. «Dov'è Kaede?»
Si erano addormentati, la sera prima, con il bimbo accoccolato tra le braccia. Kaede aveva dimostrato una predilezione sconfinata per Kiminobu, sin dal primo istante che l'aveva visto. E la sera prima aveva pianto così tanto, lui di solito così silenzioso, che alla fine Kiminobu l'aveva preso in braccio e portato sul divano, con loro. Ora il bimbo non c'era più.
«Tranquilli… L'ho rimesso nella culla» disse Ayako, affacciandosi sulla porta in camicia da notte e vestaglia. «Quel piccolo delinquente si era ficcato nel nostro letto…»
«Bene… mi ero spaventato» disse Kiminobu.
«Fratellino, io l'ho sempre detto che quello con l'istinto materno eri tu» ridacchiò Ayako, andando a raggiungere il marito al piano di sotto.
Hisashi depositò un ultimo bacio sulle labbra di Kiminobu. «Mi alzo. Oggi… oggi parto, Kimi» disse piano, senza sorridere.
Kiminobu annuì. «Pensi che stia bene, Sashi?»
«Hiro è un osso duro. Starà meglio di noi.»
«Vorrei poterci credere…»
«Il viaggio da Vis richiede quattro giorni. Avrà avuto inconvenienti lungo la via. In ogni caso, alla capitale saprò qualcosa. Stai tranquillo, se fosse accaduto qualcosa di veramente grave al castello lo sapremmo. Le notizie corrono.»
Poco rassicurato malgrado le sue stesse parole, Hisashi scivolò in piedi e si vestì rapidamente. Avrebbe voluto avere notizie certe sulla sorte di Hiroaki. Era una settimana che facevano congetture e stava iniziando seriamente a preoccuparsi.
Rimboccando le maniche della camicia, scese anche lui al piano di sotto.
Ryota era alle porte, intento a parlare con qualcuno ancora al di là della soglia. Un cliente, probabilmente. «… sì, sono io. Volete entrare? Stavamo aprendo.»
«Mpf. Da lady Ayako mi aspettavo un gusto migliore, ma comunque.»
«Cosa… ma chi diavolo siete?»
L'altro fece per scostarlo da parte con un braccio, ma Miyagi lo trattenne. «Chi siete?» ripeté, con voce pericolosa.
Gli occhi dello sconosciuto andarono oltre il padrone della locanda, a Mitsui che si stava avvicinando in quel momento, attirato dalla voce. «Mitsui, dici al pirata di farmi passare? Si gela, qua fuori.»
«Hiro! Lascia, Ryota, è il nostro amico!»
Il locandiere si fece da parte, comprendendo. «È quello che…»
«Sono famoso?» chiese Hiroaki, entrando nella locanda. Aveva un'aria tranquilla e sana, e abiti nuovi indosso, anche se non propriamente puliti.
«Sì, sei famoso, e anche puzzolente, se lo vuoi sapere!» esclamò Mitsui, abbracciandolo.
«Mmm… non ho avuto il tempo di cambiarmi» borbottò Hiroaki, ricambiando la stretta con minore entusiasmo, ma con gioia sincera. Alzò gli occhi sulla sala. «Lady Ayako…»
«Hiro! Ti trovo cresciuto, sai?» disse Ayako, con un sorriso.
Hiroaki arrossì fino alle orecchie, visto che i commenti sulla sua altezza non l'avevano mai deliziato troppo. Ma il più felice fu Kiminobu, che gli si gettò addosso correndo giù dalle scale.
«Amico mio!» gridò, soffocando la voce sulla sua spalla. «Dimmi come stai!»
Hiroaki sorrise, sentendo il principe sciogliersi in lacrime nel suo abbraccio. «Bene, Altezza. Ve l'assicuro. Meravigliosamente bene.»
A quelle parole ricevette un coro di sguardi stupiti… e un urlo disperato da Kaede, che, abbandonato al piano di sopra, reclamava attenzioni.
«Quel delinquente…» sorrise Ayako. «Vado a prenderlo, così non si sente solo e fate conoscenza.»
Decisero che per un giorno la locanda poteva restare chiusa, e pranzarono insieme, con calma, mangiando il pasto preparato da Miyagi. Ayako aveva imparato a cucinare facendo la cambusiera sulla Tempesta, ma Miyagi, per qualche strana ragione che nessuno aveva compreso, era molto più bravo di lei. Talento naturale, forse.
Sistemarono Kaede in una strana seggiola che Ryota gli aveva fabbricato apposta, una sedia di legno imbottita di stoffa, con un piccolo vassoio agganciato sul davanti che impediva al piccolo di cadere giù, e si misero a tavola.
«Allora, com'è andata con quel bastardo di Sendo? Li hai giocati tutti, non è vero?» disse Mitsui, dando di gomito all'amico… che nel tentativo di portare il cucchiaio alla bocca si inondò la faccia di zuppa.
«Grazie, Hisashi» disse Hiroaki, ripulendosi con un tovagliolo.
«Scusami. Allora? Racconta!»
Hiroaki inspirò. «È andata bene. Se sono qui…»
«E quel "meravigliosamente"?» insistette Mitsui, caricando la parola di un tono femmineo e svenevole.
«Ho salvato la pelle, non ti sembra un buon motivo?» ribatté Hiroaki.
«Tu mi nascondi qualcosa» disse il capitano. «Ti conosco troppo bene.»
Kiminobu diede un pizzicotto al compagno sotto il tavolo, poi domandò con gentilezza: «È la fede, quella, vero?»
Hiroaki annuì, rigirandola alla base del dito con aria assorta.
Seguì un lungo silenzio, rotto solo dai versacci che Ryota faceva al piccolo nel tentativo di farlo mangiare. «Guarda cosa abbiamo qui… un vascello pirata!… che entra nella caverna… apri la caverna… apri la caverna, Kaede, sennò i pirati restano fuori… apri… ammm! È buono, sai? L'ha cucinato papà… Kaede… i pirati stanno morendo di noia…»
Hisashi non poté fare a meno di scoppiare a ridere, ancora una volta. Erano lì da una settimana, ma ogni giorno vedere il pirata Miyagi implorare il figlio di mangiare era uno spettacolo esilarante. «Il pirata del cucchiaio!» lo apostrofò, sghignazzando. «Il terrore di tutte le pappe!»
«Sashi!» sussurrò Kiminobu, severo.
Ma lo scherzo servì a distogliere l'attenzione dal discorso di Hiroaki, e il nuovo venuto ne fu contento. Non aveva voglia di parlare di ciò che gli era accaduto. Solo più tardi, Kiminobu lo prese da parte e volle accertarsi che stesse davvero bene come diceva.
«Sendo?» mormorò il principe.
«È… diverso.»
«Diverso?»
«Da come pensavamo.»
«Hiro… ti sei affezionato a lui?»
Il vice-capitano non negò né assentì. «Forse» rispose, sinceramente.
«L'ho capito quando ho visto che non toglievi la fede…»
«Altezza, vostro padre?» domandò, cambiando bruscamente argomento.
Kiminobu capì e non insistette. «Gli ho inviato una lettera. Spero… che capisca.»
«Capirà.»
«Come fai a dirlo?»
«Perché non ha scelta. Dovrà capire per forza. Voi siete felice?»
«Molto.»
«E gliel'avete scritto?»
«Quattro o cinque volte, sì.»
«Allora capirà, Altezza.»
«Kiminobu.»
«Kiminobu.»
«Tornerai da lui?»
Hiroaki sorrise, leggermente. «Domattina, appena albeggia.»

Al re Takenori quasi venne un colpo quando la lettera giunse a destinazione. Quanto al re Jun, quando Akira si degnò di dirgli la verità Hiroaki non era ancora tornato, e per quanto ne sapeva il principe, c'era la possibilità che non tornasse mai più.
Anche al re Jun era venuto un colpo. Si era comportato esattamente come aveva previsto il figlio: era andato su tutte le furie, aveva chiesto la testa dei responsabili su un vassoio d'argento, minacciato punizioni indicibili per il figlio che aveva taciuto una settimana intera, e infine promesso vendetta contro lo Shohoku.
Poi si era calmato.
Akira Sendo gli aveva esposto con calma la sua idea, condendola di buoni argomenti e forza di persuasione, e gli aveva suggerito di recarsi a Honor, la capitale dello Shohoku, per discuterne con il re Takenori. Il re Jun, dopo lunga titubanza, aveva accettato.
E Akira era rimasto solo con la madre, a gestire il regno e ad attendere l'arrivo di Hiroaki, che forse non sarebbe avvenuto mai. E in quel caso anche il suo piano sarebbe andato in fumo.
Fu la prima e unica volta che pregò gli dèi di qualcosa.
E gli dèi lo ascoltarono.

«Mio signore… è tornato.» Gli occhi di Fukuda erano spalancati, nel dirlo.
Akira abbandonò tutte le carte che stava consultando, nella foga gettò sul pavimento metà del contenuto della scrivania e vi versò sopra l'intera boccetta di inchiostro.
Corse fuori, dove un Hiroaki più splendido che mai varcava con flemma, e circospezione forse, i cancelli da cui era uscito galoppando con la morte alle calcagna.
«Hiroaki!»
«Sendo!» La voce di Hiroaki sembrava… adirata?
«Lo sapevo! Non potevi resistere al mio fascino…» Un calcio in faccia da parte del suo amore gli ricordò che Hiroaki era molto permaloso.
«Idiota!» esclamò Hiroaki, smontando da cavallo. «Perché sei in piedi? Non dovresti essere a letto? Una settimana fa avevi uno squarcio nel fianco…!»
Akira si tamponò il naso sanguinante con una mano. «È l'amore che fa miracoli…» sorrise, dolorante. «E tu… ci sei riuscito, alla fine!»
«A far che?»
«A mettere in fila così tante parole senza insultarmi…» Si fece avanti per baciarlo, ma Hiroaki si ritrasse. «Non ricominciamo, eh…»
Il vice-capitano scrollò le spalle. «Abitudine.»
«Vieni qui, guerriero…»
Quando sentì le braccia di Hiroaki chiudersi intorno al suo collo, gli parve che l'attesa, così lungamente trascorsa, si fosse annullata in un attimo. E l'avrebbe preso in braccio e portato di peso a letto, quel letto rimasto gelido senza di lui, se ne avesse avuto la forza, ma davvero rischiava di strappare i punti e ritrovarsi dissanguato… e non poteva permettere che il suo amore rimanesse vedovo così presto.
A letto ci andarono, ma con calma, e ognuno coi suoi piedi. Non che avesse importanza: l'importante era arrivarci. Akira diede due scatti alla serratura, e stavolta lasciò la chiave al suo posto. Non c'era più timore che lo sposo scappasse…
«Tuo padre sa tutto?» gli chiese Hiroaki, dopo. Una mano vagava sul torace liscio di Akira, accarezzandolo.
«Sì. Adesso è a Honor, per parlare con il vostro re.»
«Di cosa? Milord non ha altri figli…»
«… no. Teoricamente no, però…»
«Però?»
«Hiroaki, non ti adirare, d'accordo? L'ho fatto perché era l'unica possibilità che ci rimaneva…»
«Che cosa hai fatto, Akira?» domandò Hiroaki, con voce pericolosamente bassa.
«Io… ho detto a mio padre di… proporre a lord Takenori…»
«… cosa, Akira?»
«Ecco, visto che il nostro matrimonio è già stato celebrato, e… insomma, io speravo che tu saresti rimasto con me... perché tu rimarrai, non è vero, Hiro?» chiese Akira, guardandolo con aria talmente innocente e preoccupata che Hiroaki non riuscì a restare adirato.
«Stupido» borbottò. «Ma cosa hai detto a tuo padre?»
«Be', io… ho pensato che sarebbe stata una buona idea se… lord Takenori ti avesse… adottato, ecco.»
«A… adottato?» ripeté Hiroaki, trasecolando.
«Sì… Tu sei il mio sposo, quindi…»
«È… è folle» disse Hiroaki, abbandonandosi tra le coperte.
Akira lo guardò, senza capire la ragione di tanto sconvolgimento. «A me è sembrata una buona idea, e anche a mio padre. Se tu diventassi principe non ci sarebbero problemi… sarebbe come se avessi sposato Kiminobu Kogure… però avrei te» concluse, baciandogli dolcemente una spalla. «Così saremmo tutti contenti… Kogure figlio e il suo soldato, Kogure padre, mio padre, io e te…»
Hiroaki si voltò, prendendogli il viso tra le mani. «Allora c'è qualcosa, in quella testa… oltre alle radici ramificate dei tuoi capelli…»
«Cos'hai da ridire sui miei capelli!» proruppe Akira, offeso.
«Niente. Proprio niente» sorrise Hiroaki, tranquillo.
«Te l'ho detto che sei bellissimo quando sorridi?»
«E io ti ho detto che se mi tradisci sei morto?»
Akira lo baciò, deliziato. «Un paio di volte, sì. Ed io alla vita ci tengo…»
«Ecco… continua a tenerci…»
Una mano di Akira scivolò dove non doveva, facendolo sussultare e arrossire di colpo.
«Questa mania di arrossire…» blaterò Akira, prendendolo in giro, «vediamo se riesco a fartela passare…»
«Akira, stai attento… alla ferita…»
«Non ho ferite in bocca» sussurrò Akira Sendo, con un sorriso sibillino.



Fiorediloto: AAAAAAHHH!!! Finalmente finita!!! Mi stavo friggendo il cervello... O.O Allora, truppa: a rapporto!! Vi è piaciuta o no???
Kimi: *__*
Hisa: *__*
Aki: *__*
Hiro: Insomma...
Fiorediloto: AAAAAAAAHHHHHHH!! INGRATOOOOOO!!! NON TI AZZARDARE SAIIIII??? MA IO TI SQUARTOOOOOOOOOOOO.....!!!!!!!!!!
Hiro: Insomma... meno peggio del solito...
Fiorediloto: Ma... ma... è solo... la seconda... ç____ç ... Nessuno mi ama...
Kimi: Su, su... non fare così...
Fiorediloto: Sniff... tu almeno mi ami, Kimikimi??? Eh? Eh? Eh? ç_ç
Kimi: Massì...
Fiorediloto: E tu, Sashisashi??? ç_ç
Hisa: Ehm... sì... sì, certo!
Fiorediloto: *__* D'ora in poi scriverò solo di voi due!!! Ecco!!!
Aki: Ma... ma... ma...
Fiorediloto: Mi dispiace, Aki, parla con il tuo koi! Non è colpa mia se lui mi odia!!! ç___ç
Aki (spingendo Hiro sotto minaccia di atroci torture): Eccolo qui!! Ha detto che ti ama immensamente!!!
Fiorediloto: Nonono!! Deve dirlo lui PERSONALMENTE!!! Altrimenti il mio cuore ferito non potrà risanarsi... ecco... ç__ç
Hiro: Pure questa... e va bene...
tivogliobene
Fiorediloto: Non ho sentito!!
Hiro: ...
tivogliobene
Fiorediloto: Non ho sentito!!
Hiro: uffa...
tivogliobene
Fiorediloto: Hai problemi alla voce, caro? Non ho sentito!!!
Hiro: TI VOGLIO BENE!!!
Fiorediloto: ^O^ Che bello!! Queste manifestazioni di affetto spontaneo mi riempiono sempre di amore!! E adesso sapete che vi dico, a tutti e quattro??
Kimi, Hisa, Aki & Hiro: Cosa?
Fiorediloto: Andate a quel paese! Nel seguito farete solo le comparse!!! Buahuahuhauha!!!
Kimi, Hisa, Aki & Hiro: ^^'

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