Ti brucierai, piccola stella senza cielo.

di JulietStarLight96
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introducing me. ***
Capitolo 2: *** it's on. ***
Capitolo 3: *** Two of me. ***
Capitolo 4: *** Eyes. ***



Capitolo 1
*** Introducing me. ***


La sveglia suonò, fin troppo puntuale per i miei gusti, e la canzone che avevo scelto quella mattina per darmi la carica partì senza esitazione. Ero carica, carica come non mai, anche se svegliarmi alle sei e mezzo, era sempre qualcosa di traumatico. Tutto mi ricordava che era il primo giorno di scuola. A partire dalla familiare immagine del mio zaino appoggiato alla scrivania, fino al vuoto lasciato dai libri degli anni prima sulla mensola. Mi diedi un’occhiata veloce davanti allo specchio. C’erano tante cose che non mi piacevano di me, fin troppe, e non avevo ancora imparato a conviverci; almeno non con tutte. Odiavo le lentiggini che mi invadevano gli zigomi come zucchero a velo, odiavo la mia carnagione troppo chiara per potermi abbronzare come le persone comuni, e odiavo la mia corporatura troppo minuta per essere presa sul serio: ero sempre stata magrolina e bassina, e il colorito pallido mi faceva sembrare sempre vagamente malaticcia. Anche se avevo sempre amato i miei capelli, neri come la notte, che scendevano morbidi in lunghi boccoli, e i miei occhi da cerbiatta, almeno quello potevo concedermelo, verdi smeraldo. Tutti si innamoravano sempre dei miei occhi.
Mi fiondai giù a fare colazione, mi lavai e indossai i jeans lunghi neri e la maglietta rossa a maniche corte che avevo preparato da fin troppo tempo ormai, poi mi diedi un filo di matita e un velo leggero di mascara, e tornai a prendere il mio Eastpack nero, in tempo per sentire il rumore delle gocce di pioggia che ticchettavano sul vetro della mia camera. Merda. Proprio oggi doveva piovere? Mi infilai la felpa nera della Duff, entrai imprecando in garage e mi infilai il casco stando ben attenta a fare in modo di fargli contenere tutti i miei capelli, per non farli bagnare; salii sulla mia Vespa, non era un granché ma per andare a scuola andava benissimo, e guidai tra una goccia e l’altra fino a raggiungere quel grande edificio giallo dove avevo sempre aspirato di andare. Una grande targa di ottone di fianco all’ingresso diceva: ‘Liceo Classico’.
Parcheggiai il motorino tra le due righe bianche e corsi nel cortile, i capelli dentro il cappuccio, appena in tempo per sentire il mio nome e la mia classe: mi unii ai miei futuri compagni di classe senza parlare, eravamo lì sotto la pioggia come dei deficienti, ma a quanto pare a nessuno degli insegnanti pareva importare. Okay, questa cosa iniziava già male. Però erano tutti così presi dalla nuova scuola, dalle persone nuove, dai nuovi colori e visi che a nessuno fotteva niente se eravamo lì a gelare come degli idioti.
Dopo quelle che mi parvero ore, finalmente una donna sulla quarantina, probabilmente una delle nostre future prof, ci chiamò e ci portò dentro fino alla nostra classe, un rettangolo di dieci metri quadrati dai muri arancioni (già, arancioni) indicandoci i banchi e facendoci cenno di sederci; io buttai il mio zaino sulla prima sedia che trovai libera, nell’ultima fila, e mi sedetti lì aspettando che qualcuno decidesse di condividere la prima settimana di scuola con me. Un paio di minuti dopo, due occhi azzurro ghiaccio mi fissavano dalla sedia accanto alla mia, circondati da un caschetto riccio riccio castano scuro: «Ciao, io sono Silvia, piacere» disse sorridendomi. «Margherita.» «Non conosci nessuno qui?» scossi la testa, ero venuta lì anche per quello. L’anonimato. Ricominciare da capo. Non avevo voglia di tutte quelle etichette che mi avevano dato alle medie, non avevo voglia che fosse qualcun altro a parlare per me, volevo una vita nuova. Certo, mi piaceva scrivere, anche se l’idea di fare greco non mi allettava particolarmente, ma era stato quello il motivo principale per cui ero venuta lì. La nostra prof di italiano intanto, una donna avvizzita dagli occhi che sembravano due spilli, aveva iniziato a spiegarci come funzionava lì, ci aveva dato il nostro orario provvisorio, ci aveva spiegato chi avremmo conosciuto domani e ci aveva fatto fare il giro della scuola.
Sentivo gli sguardi dei miei compagni scivolarmi addosso, avevo passato tutta la mattina ad ascoltare quella svampita che avevo di fianco, che mi faceva una domanda e poi rispondeva da sola andando avanti per mezz’ora buona, mentre io scrivevo frasi di canzoni sul mio diario, lo decoravo e coloravo per renderlo un po’ più allegro di com’era prima. Già prima di iniziare la scuola ci avevo annotato cose, attaccato adesivi, era sempre stata una specie di tradizione, mi piaceva prendere il diario a Luglio e passare il mese e mezzo successivo a scriverci compleanni, incollarci foto e roba del genere. Mi era sempre piaciuto, lo faceva sentire più mio. Per adesso c’era qualche motivo dei The Pretty Reckless e dei Green Day, di Taylor Swift e dei Coldplay; c’era un po’ di tutto, un po’ di me, anche semplici frasi di telefilm che mi piacevano o immagini di attori che amavo. Era un po’ me, quel diario.
Quando finalmente alle dodici suonò la campanella la sentii come una specie di promessa di libertà (ero lì dentro da sole quattro ore e già non vedevo l’ora di uscire),  rimisi il mio astuccio nero e la mia Smemo ultra-decorata nello zaino e feci per andarmene; non avevo guardato in faccia quasi nessuno, tranne la mia vicina di banco, che avevo deciso essere una specie di bambola dagli occhi grandi troppo immatura per anche solo pensare lontanamente di poter diventare mia amica. Stavo per andarmene, ero già davanti all’uscita, le chiavi della Vespa in mano, quando mi sentii tirare per il gomito: ero lì lì per girarmi e urlare  a Silvia che non ne potevo più della sua vocina fottutamente dolce, quando mi accorsi che gli occhi che mi fissavano erano della tonalità sbagliata. Riemersi da quel mare color miele per notare che appartenevano a una ragazza molto alta, con lunghi boccoli neri che le scendevano lungo le spalle: «Tu sei Margherita no? Piacere, io sono Francesca.» aveva un tono che ti spingeva a risponderle, quella vena di comando si sentiva fin troppo bene. «Cosa vuoi da me?» le risposi con lo stesso tono. «Niente, soltanto che hai la stessa aria che avevo io quando sono arrivata qui. Non conosci nessuno, vero?» ora capii perché non l’avevo mai vista; insomma, dei boccoli così scuri non passavano inosservati. Semplicemente perché non era in classe con me.  Scossi la testa, mi ero stufata di passare per quella spaesata che non sa dove si trova o quale sarà la sua prossima mossa. «Non conosco nessuno, ma non mi serve neanche conoscere qualcuno.»
Pensando di averla sistemata feci per andarmene, ma lei mi disse: «Mi piaci, ci vediamo domani mattina a ricreazione alla macchinetta del caffè del primo piano.» poi si allontanò sorridendo, i fianchi che ondeggiavano fasciati da jeans bianchi e le Converse che fischiavano sul pavimento umido. Quando uscii dal portone un ragazzo con gli occhiali alla Harry Potter mi fece un cenno con la mano, che io ricambiai immaginando fosse uno in classe con me. Gran bel primo giorno, devo dire. Non conoscevo nessuno dei miei compagni, l’unica con cui aveva parlato era una specie di bambina molto alta che aveva una voce da fatina dei boschi, ed ero già stata contattata da una ragazza che era già tanto se non si metteva il tacco 12 anche a venire a scuola. Probabilmente, una volta arrivata a casa, acceso il portatile mi sarebbero arrivate le richieste di amicizia dei miei brufolosi compagni di classe che volevano farsi i fatti miei e guardare le mie foto per vedere com’ero prima di conoscerli. Se si può dire che li abbia conosciuti.
Mi infilai rassegnata il casco, maledicendo quella fottuta legge che proibiva l’uso dell’iPod in motorino, e rimpiangendo la mia bella bici rosso scuro che ora se ne stava a fare la muffa in garage da quando la mia bella Vespa l’aveva sostituita. Legai velocemente i capelli in uno chignon fatto male, e li nascosi dalla pioggia, uscii dal cancello arrugginito del parcheggio della scuola e voltai a sinistra, per poi ritrovarmi a terra di fianco ad un ragazzo, mentre il mio mezzo di trasporto era volato poco più avanti. Che cazzo era successo? Probabilmente avevo beccato una buca o avevo slittato sul terreno bagnato, travolgendo quel poveretto; bofonchiai delle scuse e mi rialzai di corsa, il viso rosso rosso, per fortuna nascosto dalla visiera, mentre lui si tirava su a fatica imprecando sotto voce. Cercai di imprimermi bene nella mente i suoi riccioli neri, gli occhi blu come il mare e la sua corporatura, in modo da poter cambiare lato della strada se per caso lo avessi visto, poi partii senza nemmeno aiutarlo ad alzarsi. Era decisamente un pessimo inizio.



Come primo capitolo è un po' cortino e non è un granchè, ma serviva appunto per presentare la protagonista, per presentarmi. Spero vi sia piaciuto e vi abbia incuriositi almeno un po' :3

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Capitolo 2
*** it's on. ***


Arrivai di corsa nel punto di ritrovo che avevamo deciso essere il nostro, anzi, che aveva deciso, e la salutai con la mano. Un altro giorno di scuola. Lei mi abbracciò e iniziò a raccontarmi cosa aveva fatto nelle ultime ore, da quante volte si era sfregata i denti a che colore erano le sue mutande; avevo già chiuso le mie orecchie per sopravvivere ad un’altra giornata come sua compagna di banco, quando vidi qualcosa che attirò la mia attenzione. Da brava curiosa, non potei fare altro che chiederglielo: «Chi sono quelli?» un gruppetto di ragazzi e ragazze stava ridendo rumorosamente dall’altro lato della scuola, tutti vestiti firmati e quasi tutti sembravano più grandi di me.
Lei si mise a ridere, ma quando si accorse che ero seria mi guardò con una di quelle espressioni “sul serio non sai chi sono?”. Non mi ero mai preoccupata tanto di sapere chi comandava in città. Se si può dire così. «Loro sono quelli del Sant’Antonio.» le mie sopracciglia si alzarono scettiche. «E perché dovrei conoscerli?» di nuovo la sua risata fastidiosa si levò alta nell’aria. Per fortuna la campanella suonò, salvandomi da quel gazzettino della scuola almeno per cinque minuti. Le prime tre ore passavano fin troppo lente, la nostra prof di italiano ci considerava bambini dell’asilo e continuava a farci fare esercizi sull’uso dell’apostrofo, sulle doppie e gli accenti. L’avevo disegnata morta già da un paio di ore, quando finalmente arrivò la ricreazione. Il profumo di cibo che si disperse nell’aria mi ricordò del mio appuntamento alla macchinetta del caffè, così mi infilai le cuffiette bianche, accesi la riproduzione casuale e mi spremetti la memoria per ricordare a che piano era. «Hai bisogno di una mano?» Silvia arrivò fin troppo puntuale alle mie spalle, e io andai avanti fingendo di non averla neanche sentita. Finalmente arrivai al primo piano, e fu come se fossi appena arrivata alla terra promessa.
Lei era lì, nei suoi soliti jeans bianchi, una maglia larga che le scopriva una spalla e delle ballerine nere; mi salutò con la mano, come se mi stesse aspettando, e io ficcai l’iPod nella tasca. «Hei.» la salutai quando le arrivai vicino, ancora non sapevo perché avevo accettato di venire, quella ragazza mi metteva in soggezione. «Ciao. Ti ho vista in giro, quest’estate.» wow, allora se mi hai visto... «Parliamo chiaro, che cosa vuoi da me?» lei si mise a ridere, la stessa risata di Silvia. «Davvero non sai chi sono?» oddio, ricominciavano? Ma cosa pretende la gente, che io stia ventiquattrore al giorno attaccata ad uno schermo di un pc per poter riconoscere quelli che vedo per strada o a scuola? «Dovrei?» mi stavo spazientendo, la mia seconda ricreazione sembrava non finire più. «Sono la migliore amica di Carlotta.» okay, non la sopportavo più. O la strangolavo, oppure le facevo capire chiaro e tondo che non sapevo perché ero lì. «Che è...?» «Oddio, non dirmi che hai scelto questa scuola perché ha una bella fama di studio, vero?» il suo sorriso falso era fin troppo tirato. Il mio silenzio però lo spense.
«Ti parlerò chiaro, okay?» oh, grazie a dio. «Sono stata mandata qui dal mio gruppo, ci piaci, ti vogliamo con noi.» «Cos’è, un gruppo rock o cosa?» lei si mise a ridere, era ufficiale, odiavo la sua risata. «Siamo quelli di Sant’Antonio.» rimasi un attimo scioccata. (*) Questa davvero non me l’aspettavo. Che voleva un gruppo come il loro da me? Non ero mai stata una tipa da feste o grandi compagnie, avevo i miei amici, che si potevano contare sulle dita di una mano. E fu anche per questo che quella proposta mi allettò. Gruppo nuovo, nuove amicizie, grande compagnia, che sarà mai? Ci divertiremo, pensai. E le sorrisi. La peggiore cosa che io abbia mai fatto. «Come mai me?» fu la prima cosa che mi venne in mente. «Perché tu sei diversa, proprio come avevo immaginato.» la campanella la salvò da altre spiegazioni, e io fui costretta a ritornare in classe con le idee più confuse di prima.
Durante l’ora di mate, mentre facevo disegnini sul diario, mi feci raccontare dalla mia compagna di banco com’era quel gruppo, cosa si diceva in giro di loro, ignorando i suoi continui avvertimenti della serie “non si entra senza invito” o cose del genere. Neanche fossero un final club. Scoprii così buona parte dei loro nomi e dei loro caratteri, quella ragazza sapeva davvero tutto, probabilmente aveva provato a entrarci e loro non l’avevano accettata.
Francesca, quella con cui avevo parlato, aveva una storia di anoressia dietro; mi aveva raccontato che lei era molto grassa, e che per dimagrire non aveva trovato niente di meglio che ficcarsi un dito in gola e vomitare quello che aveva mangiato, e adesso le sue forme erano (quasi) normali, visto che era ancora un po’ cicciottella. Lei è la sua migliore amica Carlotta erano quelle che comandavano, per dire. Carli (com’era soprannominata) era sempre stata molto magra, il suo passatempo preferito era quello di collezionare ragazzi. E poi c’era Michele. Lui era un po’ il rubacuori del gruppo, era uno di quelli di quarta con cui le due giravano per sentirsi fighe, e andava in una scuola privata, la Sant’Antonio appunto. Neanche un’ora e già avevo dei ripensamenti sull’aver accettato di unirmi a quel gruppo. Non potevo capitare con della gente migliore.
Fortunatamente avevo solo quattro ore oggi, ma per bilanciare la troppa (s)fortuna di oggi il mio bel motorino era rimasto a casa dopo che mia madre mi aveva ordinato di andare a piedi perche “c’era il sole”. Notai subito che una delle ragazze in classe con me aveva preso la mia stessa strada, camminava parecchio più avanti a me, il caschetto di riccioli nero che le rimbalzava attorno al viso, e le scarpe da ginnastica bianche che saltavano le pozzanghere rimaste dal giorno prima. Sforzai di ricordarmi il suo nome, e quando finalmente si accese una scintilla nella mia testa, la chiamai: «Ginni!» mi ricordavo bene come si chiamava perché aveva un nome strano, Ginevra, e fin da subito aveva chiarito che voleva che la chiamassimo Ginni. Mi piaceva molto come persona, era magrolina e soffriva di una terribile forma di allergia che si presentava come asma; era molto dolce e carina, e scriveva delle storie durante le ore di lezione con la sua calligrafia a ghirigori.Lei si fermò per vedere chi l’aveva chiamata, e quando mi riconobbe il suo viso si illuminò. «Ciao Maggie!» mi urlò da lontano. Affrettai il passo per raggiungerla, e io le chiesi subito: «Che strada devi fare per andare a casa? Possiamo farla assieme.» le sorrisi, lei mi sorrise, e ci incamminammo insieme verso il suo appartamento che non era molto lontano dalla scuola.
Parlammo di tutto e di niente, delle medie, dei nostri amici pressoché inesistenti, del voler ricominciare, di quanto ci piaceva scrivere, delle nostre compagne di banco, dei professori; chiacchierammo dei nostri futuri, dei tagli di capelli e dei piercing e dei tatuaggi che avremmo voluto avere, dei nostri difetti, dei nostri problemi. Quella camminata fu la più lunga e la più corta della mia vita allo stesso tempo. Avrei voluto stare lì a conversare con lei per tutto il pomeriggio, ma il mio microonde mi reclamava, così la salutai con un bacio leggero su una guancia e me ne andai, la scimmietta dentro alla mia testa che saltellava per aver trovato una nuova amica, dimenticandosi completamente del Sant’Antonio.



Okay, questo capitolo non mi piace molto, ma spero che almeno a voi sia piaciuto e.e Mi farebbe molto piacere se lasciaste un segno del vostro passaggio recensendo questo capitolo :3
Grazie a tutti quello che lo leggeranno e in particolare alla mia Pru, a @Black_Bohemian e a @nuage91 per aver recensito il precedente. Un grosso bacio a tutti<3

 

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Capitolo 3
*** Two of me. ***


Scesi dalla mia Vespa, che avevo parcheggiato dove l’avevo messa il primo giorno, e mi avviai verso il punto dove Silvia mi aspettava, come tutte le mattine. Stavo per salutarla con un bacio sulla guancia, quando vidi, dall’altra parte della strada, Francesca che mi faceva dei cenni di saluto, voleva che mi unissi a loro; piuttosto che passare un’altra mattinata con lei, sarei stata perfino con degli ubriachi, e le risate che provenivano dal gruppone riunito lì davanti erano molto più allettanti della parlantina della mia compagna di banco, così la salutai con la mano e tirai dritto, attraversando incurante delle macchine. I ragazzi riuniti lì sul marciapiede mi guardavano, sentivo i loro sguardi appiccicati addosso come se fossi una calamita; sapevo che stavano valutando se il mio era un suicidio, un tentativo di attaccarmi al gruppo in cui (a quanto pareva) era impossibile entrare, o se quelli avessero sul serio invitato una di prima. Ero piuttosto preparata a questo, per cui mi ero messa i miei vestiti migliori, un paio di jeans neri attillati, che mi slanciavano un po’, le mie Coq bianche che ormai erano bianco sporco, e una canotta grigia molto stretta; quella fu indubbiamente la camminata più lunga della mia vita, dubito fortemente che le modelle alle sfilate abbiano così tanti occhi addosso come li ho avuti io in quel momento.
Appena arrivai là, lei mi prese sotto braccio iniziando a presentarmi tutti, spiegandomi che questa era solo una parte del gruppo, quelli che frequentavano la mia scuola; riconobbi subito Carlotta, i capelli lunghi e lisci come spaghetti, di un castano spento, certo, niente di che, ma la sua simpatia e la voce bassa potevano catturare, in qualche modo a me sconosciuto. Pronunciò una sfilza di nomi che restavano sospesi nell’aria, per poi cadere lentamente sui visi dei proprietari, come piccole etichette si attaccavano sulla fronte: Mec, Edo, Giu, Cate, Carlo, Jenny. Cose così. Ognuno rispondeva con un cenno della mano, ognuno mi faceva un’impressione diversa, ognuno era vestito in modo diverso, ma comunque con qualcosa di costoso. Continuavo davvero a non capire perché avevano scelto proprio me, quando c’era gente che aveva molti più capi firmati di me, o comunque che ci teneva a stare lì più di me. Avrei scommesso che Silvia avrebbe saputo dirmi nome, cognome, anno di scuola e storia personale di ognuno di loro, persino se erano fidanzati o meno.
Stavo guardando le porte aspettando che la campanella suonasse, ascoltando distrattamente i loro discorsi che riguardavano una festa che ci sarebbe stata tra due weekend, quando sentii un ‘ciao’ detto con accento leggermente straniero; mi girai e una ragazza che pareva una bambola stava in piedi davanti a me, un sorriso sicuro sul volto pallido e i capelli biondi raccolti in una coda alta che glieli faceva svolazzare ad ogni movimento della testa. Aveva gli occhi verde acqua che cercavano qualcosa nei miei, sulla sua fronte, sotto il ciuffo, riuscivo ancora a leggere il suo nome, Jenny. Sì, lei era proprio Jenny. Aveva le labbra fin troppo cariche di lucidalabbra, sembrava una delle ragazze rifatte già da giovani, ma tutto sommato aveva quella vaga timidezza nei tratti, qualcosa che mi intenerì. «Ciao.» le dissi sorridendo a mia volta. «Tu sei Jenny, vero?» lei annuì, si vedeva che le faceva piacere essere riconosciuta, e io le stavo dando quello che voleva sentirsi dire. Il suo vestitino corto a fiori svolazzò quando si voltò per controllare che la campanella non fosse ancora suonata; mi prese sottobraccio e attraversammo la strada insieme, seguite dal resto del gruppo, mentre io non potevo fare altro che notare tutto lo stupore e l’ammirazione negli occhi dei liceali a cui passavamo di fianco. «Ti ci abituerai.» mi disse lei con quello strano accento, mentre superavamo un paio di ragazzine che si misero a parlottare subito dopo che fummo passate. «Intendo a tutto questo. Alle occhiate, allo stupore. Non scegliamo quasi mai gente di prima, e loro lo sanno. Per questo sono così.» disse sorridendo come una regina al suo popolo continuando a camminare. Indubbiamente ci sapeva fare.
Mi accompagnò fino al corridoio dove c’era la mia classe, ed entrò salutandomi con la mano in un’aula vicino alla mia; quando vidi arrivare Ginni dalle scale le corsi incontro, e la baciai leggera sulla guancia, il suo profumo era dolce, buonissimo, sapeva di magnolia e vaniglia, come una specie di giardino delle fate. Probabilmente lei era una fata, di quelle buone, con i vestitini lilla e le alette che lasciano brillantini. Mi lasciò tracce di lucidalabbra sul viso per salutarmi, poi si mise a parlare di come fosse contenta di essere mia amica, e se poteva mettersi di fianco a me perché il suo compagno di banco era praticamente muto; sentire la sua voce allegra di prima mattina era meglio di un caffè, mi mise subito di buon umore, tant’è che la feci sedere di fianco a me spiegando a Silvia che Simone, il suo ex compagno di banco, era molto simpatico e lei si sedette allegra di fianco a lui. Il muto e il gazzettino, bella coppia.
Passai quelle pesantissime cinque ore a chiacchierare con lei, a fare disegnini e a giocare a Tris e all’Impiccato, passammo anche la ricreazione insieme a guardare fuori dalla finestra i passanti, provare ad indovinare nomi e professioni, come un gioco che facevo da bambina. Mi sembrava di essere due persone diverse, una era la Maggie che usciva quando ero con lei, la vera me, quella che rideva e scherzava e non si preoccupava di cantare ad alta voce e faceva disegnini ovunque trovasse un foglio bianco, mentre con quel nuovo gruppo ero un’altra Maggie, ero quella che usava vestiti attillati, che evidenziava i propri pregi, che non faceva nulla di ‘socialmente disdicevole’, che si curava dell’impressione degli altri.
Passarono così due settimane, due settimane in cui tutte le mattine mi riunivo con il gruppo, in cui parlavo con Jenny o Carlotta, visto che gli altri non mi consideravano ancora molto, e a ricreazione guardavamo la gente fuori dalla finestra, una cuffietta dell’iPod per una, parlando di tutto. Al pomeriggio facevo i pochi compiti che ci davano mangiando biscotti, una playlist diversa ogni volta. Mi piaceva stare da sola ascoltando la musica, era parte di me, era come se riempisse il bianco della mia vita, le parti non disegnate, i sorrisi mancati, era come se mi desse l’ispirazione, la carica, come se mi liberasse le lacrime quando serviva e mi coccolava prima di addormentarmi. Furono due settimane da favola, come quelle dei film, con una canzone in sottofondo e immagini calde sullo schermo.
Finché un Sabato mattina quelli della scuola privata Sant’Antonio non avevano lezione, e vennero lì, per riunirsi con noi prima che entrassimo a scuola, e questo significava nuovi nomi, nuove facce. Jack, Stef, Nora, Tommi. Mi fermai al proprietario dell’ultimo nome, qualcosa mi aveva catturato; cercai disperatamente di ricordare perché avevo già visto quel ragazzo. Capelli neri, occhi blu come il mare in tempesta, riccioli che circondavano leggeri il suo viso. Merda. Era il ragazzo che avevo investito il primo giorno. E a quanto pare anche lui mi aveva riconosciuto.


Cercate di non morire di suspance xD Già, il ragazzo che ho investito si chiama Tommaso, detto Tommi, e sì, frequenta il Sant'Antonio. Sfiga peggio della mia non c'è ahahahah Anyway, spero che questo capitolo vi sia piaciuto, e che vogliate dirmi cosa vi abbia colpito/cosa non vi è piaciuto lasciando una recensione, anche poche righe, tanto per dire 'hei, ho letto la tua storia'. Ve ne sarei molto grata :3
Grazie anche alla mia Pru, che probabilmente sarà la prima a leggere questo capitolo, a Black perchè le piace quello che scrivo e a nuage91 per i consigli che mi ha dato per l'università :) Un bacione anche a quelle tre folli persone che hanno messo questa storia tra le seguite, grazie a tutti<3


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Capitolo 4
*** Eyes. ***


Sentivo il suo sguardo su di me, i suoi occhi che tentavano di capire dove aveva già visto la ragazza sotto quei riccioli; ogni tanto smettevo di parlare con Jenny per accertarmi che lui non si mettesse in testa cose strane come venire a parlarmi o avvicinarsi. Ero quasi riuscita a sgattaiolare a scuola senza farmi notare, stavo per attraversare la strada per raggiungere la mia fatina in classe per non uscirne fino a quando non fossi stata sicura che tutti erano tornati a casa, quando sentii qualcuno afferrarmi per il gomito per farmi voltare. Trattenni una bestemmia e mi girai con lo sguardo più scocciato e menefreghista che riuscii a fare, pronta ad affrontarlo, ma appena i nostri occhi si incontrarono mi resi conto che c’era qualcosa in quella sfumatura di blu che mi disarmava totalmente, sentii distintamente il mio cuore perdere un battito. «Puoi saltare la prima ora? Vorrei parlare un po’ con te.» sperai che non se la fosse legata al dito, insomma, l’avevo solo fatto cadere, niente di che. «Certo che posso restare fuori.» dissi cercando di fare la disinvolta, non avevo mai falsificato una giustificazione ma c’era sempre una prima volta.
Ci incamminammo fianco a fianco in silenzio, ogni tanto si voltava verso di me, mi studiava, come se tentasse di leggere i miei pensieri; tuttavia non avevo ancora capito perché voleva che andassi con lui, perché aveva scelto proprio me, perché non era venuto anche qualcun altro della compagnia. «Dove stiamo andando?» gli chiesi poco dopo, sapevo che eravamo vicini al Sant’Antonio ma non conoscevo nessun posto dove saremmo potuti andare; «C’è un bar qui vicino, strano che tu non lo conosca, noi ci andiamo sempre.» decisi di fidarmi e di seguirlo semplicemente, ormai non potevo più tirarmi indietro. Lui aveva sempre questo strano sorriso da so-tutto-io stampato sul volto, e un profumo di dopobarba, e pino, e sigarette che lo avvolgeva come una nuvola, ogni folata di vento la portava fino a me. Stavamo entrambi in silenzio, si poteva quasi sentire il rumore delle nostre suole strascicare per terra; ero lì lì per chiedergli quanto mancava ancora al posto in culo ai lupi in cui mi voleva portare, quando mi indicò un tavolino nero fuori da un barettino dall’aria piuttosto moderna con un’insegna che mi informava che il suo nome era ‘Gocce di caffè’. «Fumi? Vuoi una sigaretta?» disse non appena ebbi appoggiato lo zaino a terra, porgendomi un pacchetto di Lucky Strike che mi tentavano più di quanto non volessi ammettere. Senza pensarci troppo allungai la mano e ne presi una, la accesi con fare da esperta e aspirai come avevo visto fare mia madre. Riuscii addirittura a mandare giù un po’ di fumo senza tossire, poi feci cadere la cenere a terra con nonchalance; mi sentivo quasi fiera di me stessa, poi ricordai quello che stavo facendo e il mio umore cambiò completamente. «Perché sono qui?» lui mi stava sorridendo come se avessi appena superato un esame, ma quando sentì la mia domanda si mise a scuotere la testa. «Allora è vero, tu sei diversa.» pronunciò quell’ultima parola indeciso se annoverarlo tra i pregi o tra i difetti, il sorriso spavaldo che ricompariva sul suo viso.
«Tu sei con noi perché l’ho voluto io. Sei nel nostro gruppo perché sono stato IO a chiedere di farti entrare.» rimasi un attimo a bocca aperta, non capivo se mi stava prendendo in giro o cos’altro. Oggi davvero non era giornata. «Ti ricordi quando mi hai urtato in motorino?» annuii, come dimenticarselo. «Ho subito voluto sapere chi era quella ragazza che, pur avendo scelto questa scuola, non si sbriga a chiedermi subito mille volte scusa e non da’ neanche segno di avermi riconosciuto. Ti volevo con noi, ti volevo con noi perché non sapevi chi eravamo.» l’arrivo di una cameriera fu provvidenziale, mi diede il tempo di riordinare un po’ le idee e riprendere la mia aria strafottente. «Ti ha mai detto nessuno che sei un bastardo presuntuoso ed egoista?» «Me l’hanno detto in tanti, mia cara, ma tutti alle spalle. Quei pochi che hanno avuto il coraggio di dirmelo in faccia sono amici di vecchia data.» mi accorsi di essere quasi sollevata dal fatto che stava ancora sorridendo e non pareva arrabbiato. «Ma chi credi di essere?» non mi rispose, si limitò a guardarmi come per dire ‘lo scoprirai presto’. Rimanemmo in silenzio a guardarci, i suoi occhi erano fin troppo penetranti e blu per i miei gusti. Ero catturata da come riusciva a buttare fuori il fumo, da come squadrava tutti da capo a piedi, e anche da come sapeva che lo stavo guardando ma non lo dava a vedere. Finii velocemente la sigaretta che aveva appena superato la metà, non volevo più continuare, e non la spensi neanche per non paura di lasciare una traccia sotto la suola della mia scarpa da ginnastica.
Quando finalmente arrivò la mia cioccolata calda iniziai a berla con foga anche se era bollente per cancellare il gusto di secco e di sporco che mi aveva lasciato. «Se non ti piace il sapore perché fumi?» si riusciva perfettamente a capire, dal suo sorriso sornione, che si era accorto benissimo che non l’avevo mai fatto prima, voleva solo prendermi in giro. Lo odiavo, ritirai tutto quello che avevo pensato prima, era solo qualcuno che credeva di essere importante perché nessuno lo considerava, qualcuno che in realtà si crea una immagine da figo, una falsa identità, perché realmente non è nessuno. Presi una grande boccata d’aria prima di rispondere, volevo dirgli qualcosa di adeguato. «Perché mi piace il calore che mi da’.» già, il calore. Avrei voluto accendermene un’altra solo perché aveva riempito un vuoto dentro di me, mi aveva davvero scaldato l’animo come nient’altro era mai riuscito a fare. Fu allora che il mio pensiero corse a Ginni che mi aspettava in classe. A tutti quelli che mi ero lasciata alle spalle, perfino quelli più antipatici, che comunque non si erano mai ridotti come me, a bere cioccolata calda in un bar con un egoista sconosciuto quando invece dovrei essere a scuola, a bramare una sigaretta neanche fosse aria. E fu in quel momento che presi una delle decisioni peggiori della mia vita: dato che ormai ci ero dentro, era meglio fare le cose per bene. «Me ne daresti un’altra?» 

Ammetto che questo capitolo è leggermente più corto dei precedenti, ma mi piaceva finirlo così e non avrei saputo dove mettere le mani per allungarlo un po'. Spero che tutto sommato vi sia piaciuto, questo è stato davvero uno dei giorni peggiori della mia vita, spero che leggendo quest FF non vi vengano idee strane perchè non vorrei avervi sulla coscienza! Spero anche che molti di voi non siano rimasti scioccati, sopratutto quelli che mi conoscono relativamente bene, e che comunque non potevano saperlo. Sappiate che vi voglio bene e che sono sempre io.
Detto questo, mi farebbe un ENORME piacere se recensiste o lasciaste anche solo un segno del vostro passaggio qui sotto, perchè mi piace vedere che comunque qualcuno legge/si appassiona alle mie storie :3 Un bacione a tutti quelli che lo faranno, al prossimo capitolo<3

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