What a bored Shinigami can do

di PattyOnTheRollercoaster
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** The beginning of Annika's mission ***
Capitolo 3: *** A detective job ***
Capitolo 4: *** Noodle is not just pasta ***
Capitolo 5: *** Conquest and failures of Mihael Keehl ***
Capitolo 6: *** Preparations ***
Capitolo 7: *** Searching for the chosen ***
Capitolo 8: *** The picture of Mail Jeevas ***
Capitolo 9: *** White trap ***
Capitolo 10: *** Play by the rules ***
Capitolo 11: *** Penfriend ***
Capitolo 12: *** Crucial moments ***
Capitolo 13: *** Kids ***
Capitolo 14: *** The undead boy ***
Capitolo 15: *** Time is precious ***
Capitolo 16: *** Night is too long ***
Capitolo 17: *** Put out the fire ***
Capitolo 18: *** Cheers ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


A ,
cui l'autrice deve un bacio ogni giorno.

What a bored Shinigami can do










Prologo
Four different personalities





Ogni volta la stessa storia. Roger, dopo diversi anni, si era detto che doveva smetterla di preoccuparsi: non ve n’era mai una concreta ragione. Ogni volta, era sempre la stessa storia. L accettava un caso, qualcuno cercava di ucciderlo, e allora Roger dava fuori di matto!, ma nessuno ci andava mai nemmeno vicino. Dopo di che L ritornava alla Whammy’s House, anche solo per un breve periodo, e non faceva altro che vantarsi velatamente di quanto fosse abile, scaltro e intelligente. Certo nel caso Kira aveva realmente rischiato, avevano perso Watari e per di più L aveva pensato bene di coinvolgere anche Near.  Aveva risolto il caso, ma questo non lo avrebbe comunque scagionato dalla freddezza di Roger al suo ritorno.
Mello era andato su tutte le furie. Per due mesi era stato intrattabile e non aveva parlato con nessuno a parte Matt. Tuttavia anche a lui rispondeva in modo sgarbato, gridava per ogni piccola cosa, picchiava i compagni per un non nulla. Finché il caso non fu terminato. Matt, per parte sua, fu felicissimo che la cosa si fosse risolta relativamente presto perché non poteva sopportare Mello in quello stato, così si limitava a giocare con il suo game boy e rinchiudersi nel mutismo ancora più spesso del solito. Non che facesse molto per alleviare lo stato mentale di Mello, anzi la sua totale indifferenza a quella che lui chiamava la più grande ingiustizia del mondo rendeva il ragazzo ancor più collerico.
Quella volta, dopo aver parlato con Roger per lungo tempo della gestione della Whammy’s House, L decise che aveva bisogno di riflettere come si deve. Andava spesso all’orfanotrofio, ma pochi dei bambini sapevano chi lui realmente fosse. Molti credevano che si trattasse di un giovane amico di Watari che ogni tanto andava a trovarlo. Mello e Near sapevano la verità solo perché erano perennemente in lotta per il posto di successore, ed L qualche anno prima aveva espresso il desiderio di parlare con loro faccia a faccia. Quando si erano trovati di fronte il cosiddetto amico di Watari Mello era quasi svenuto. Sapere che aveva avuto di fronte L per tutto quel tempo senza mai scambiarci nemmeno una parola era stato per lui un tremendo affronto. Near era rimasto stupito, ma aveva preferito non darlo a vedere. Per Matt era diverso invece: lui già sapeva, da sempre. Quando L stava per lasciare la Whammy’s House per la prima volta, lui ci era appena arrivato. Non ci era voluto molto per fare due più due e notare che i titoli sui giornali, recanti la buona risoluzione del caso famigerato detective L, coincidevano con il ritorno dello stesso L, il piccolo e per nulla famoso ragazzino della Whammy’s House.
Matt, come i suoi vistosi capelli rivelavano, era di origini irlandesi. I suoi genitori erano due giovani ragazzi profondamente innamorati come solo degli adolescenti possono esserlo, e come tali inesperti e impreparati. Avevano tutti e due solo sedici anni quando lui era nato, arrivato come un fulmine a ciel sereno nelle loro vite spensierate, ma accolto con calore  un pizzico di timore che nessun genitore si è mai risparmiato. Per qualche tempo Matt era rimasto assieme a loro, abbastanza tempo persino per ricordarsi di com’erano, soprattutto i loro volti. Non aveva foto dei suoi genitori, però conservava il vago ricordo di una minuscola casa che odorava perennemente di fritto misto a vino, e quando tentava di immaginarli riusciva a farlo con tratti idealistici mischiati a vaghe consapevolezze: vedeva due ragazzetti dal sorriso facile che lo facevano ridere di continuo. Matt era troppo piccolo per ricordare anche le occhiate cariche di rancore che ogni tanto i due si lanciavano, così come aveva scordato le interminabili ore nelle quali lo lasciavano solo. Rimase con loro quasi fino all’età di sette anni finché un giorno, semplicemente, sparirono. Solo dopo diversi anni Matt si era reso conto che non si era trattato certo di un caso. A loro non era accaduto niente per non farli tornare a casa la sera, non un incidente, non una rapina. E Matt era rimasto nella casa vuota, stranamente fornito di enormi pacchi di panini, dolci, bevande, latte, carne in scatola, patatine, caramelle, prosciutto, e una marea di altri cibi a lunga conservazione per una scorta che sarebbe potuta durare per molto tempo ancora. Si era chiesto dove fossero finiti i suoi genitori. Per la prima settimana. Dopo di che aveva smesso di aspettarli e aveva cominciato a riversare il suo talento artistico sulla casa, disegnando sopra i mobili, le pareti, il divano, la televisione (cosa di cui poi si era amaramente pentito) e il parquet scivoloso. Dopo diciannove giorni qualcuno bussò alla porta. Matt aprì, perché nessuno dei suoi genitori gli aveva mai spiegato che non si apre agli sconosciuti, e così si ritrovò davanti un signore dall’aria gentile che disse di chiamarsi Watari. Pochi mesi dopo l’arrivo di Matt alla Whammy’s House  L se ne andò per la prima volta dall’orfanotrofio, a  risolvere un caso che fu poi soprannominato ‘Trinity’*. Mentre la leggenda di L si diffondeva e i ragazzi crescevano, arrivarono Mello e Near. Mello era di tre anni minore di Matt, Near di quattro.
Non erano mai stati un gruppo omogeneo, L era il più grande di tutti e spesso stava via per molti mesi. A venticinque anni non aveva ancora imparato a gestire la sfera dei rapporti sociali né a vivere in maniera umanamente accettabile, cosa ampiamente dimostrabile dalle sue numerose stramberie. Ogni tanto gli sarebbe piaciuto sapere bene che cosa c’era in lui che lo rendeva diverso dagli altri. Aveva sempre visto la gente attorno a sé divertirsi tutti assieme, cercare di amalgamarsi gli uni con gli altri per entrare a far parte di questa società. Lui assieme agli altri si sentiva solo a disagio, come se tutti potessero vederlo in ogni suo singolo movimento, pronti a deriderlo al minimo accenno di quella sua evidente singolarità. Per questo preferiva stare solo, pensare per conto suo e cavarsela con i suoi mezzi. C’erano ben poche persone con cui  riusciva a sentirsi bene, e le si potevano contare sulle dita di una mano.
Subito dopo di lui c’era Matt, vent'anni. Assolutamente fuori dal mondo per quanto riguardava il parlare con gli altri; passava la maggior parte del suo tempo a giocare con qualsiasi gioco elettronico. Per lui i computer non avevano segreti: da quando aveva preso in mano il primo pc si era reso conto che quegli apparecchi erano molto più comprensibili di qualunque essere umano. In poco tempo era riuscito a capire da solo quello che un tecnico doveva studiare per apprendere, e in pochi anni era diventato un hacker professionista. Adorava entrare nel computer di altre persone, solo per vedere se sarebbe riuscito a non farsi scoprire, e per una certa sua propensione a ficcanasare. Certe volte scombinare i file di un computer era la cosa più divertente che potesse fare in tutta una giornata. Certo quel lavoro accurato lo faceva solo con chi gli stava antipatico o con chi, secondo la sua personalissima teoria della giustizia, se lo meritava. Altrimenti gli piaceva entrare nel database di grande organizzazioni, come ad esempio aveva fatto con la marina inglese. Creava anche programmi suoi mirati al solo scopo di distruggere in pochi secondi un pc e renderlo inutilizzabile senza via di scampo. Era famoso in rete per questo, ed era conosciuto con il nome di Fermat. Gli piaceva il nome Fermat: era il nome di un matematico del 1600 che era riuscito a far diventare tutti matti con una semplicissima variazione del teorema di Pitagora. La dimostrazione la sapeva solo lui ma non l’aveva mai detta ad anima viva. Molti suoi colleghi si erano spaccati il cervello per confutare il suo teorema, ma nessuno di loro ci era mai riuscito. A Matt piaceva pensare di essere come Fermat, l’hacker che mandava tutti nel caos ma che nessuno riusciva a fermare.
Mello, invece, a volte cadeva nella più profonda depressione. Soprattutto quando L tornava alla Whammy’s House. Viveva nella continua speranza di superare Near per poter diventare l’erede di L. E quando se ne rendeva conto la sua vita diveniva ad un tratto insignificante. Possibile che non avesse un altro scopo? Qualcos’altro di meglio da fare? Forse diventare l’erede di L non doveva essere il massimo delle sue ambizioni, forse dover prendere il posto di qualcun altro non era proprio il massimo in generale. A volte si diceva che doveva crearsi uno scopo tutto suo, come ad esempio diventare il più grande inventore del mondo, in questo modo al posto di risolvere casi come detective sarebbe potuto diventare lo scienziato più importante: avrebbe scoperto un sacco di nuove formule e cose del genere. Quasi si vedeva già mentre le persone lo idolatravano. L’importante, si diceva, è comunque essere il numero uno in quello che faccio, qualsiasi cosa faccia. Che senso ha altrimenti fare qualcosa se non si è i migliori? Ad esempio L è il miglior detective del mondo… E di nuovo tornava a ruotare attorno all’argomento L, era come la luna che ruota attorno alla terra; non può fare a meno di farlo perché è nella sua natura. Recentemente Mello desiderava essere un po’ più grande del satellite che fino ad allora aveva interpretato.
Infine, all’alba dei suoi quindici anni, Near ancora non aveva formulato pensieri filosofici di alcun genere. O almeno, pensieri filosofici inventati di suo pugno. La cosa che più Near preferiva era di sicuro imparare. Fin da piccolo si era interessato alla geografia e alla storia poi, un po’ più grandicello, alla matematica e alla fisica. La sua più recente passione era diventata la filosofia. Forse perché era inconsapevolmente entrato nella sua fase adolescenziale che, volente o nolente, anche un genio deve passare; fatto sta che gli sembrava che la filosofia fosse una branca di conoscenza che andava al di là di qualsiasi altra cosa. Conosceva moltissimi filosofi, le loro teorie e la loro vittorie, sapeva a menadito tutto ciò che avevano detto Socrate, Nietsche, Marx, San Tommaso, Kant, e potrei continuare a citarne altri. Ma quel che non riusciva a ficcarsi in testa assieme a tutte quelle teorie era la ragione fondamentale della filosofia: il perché. Perché tutti questi uomini si erano dedicati a studi di quel tipo? Il significato della vita, l’essenza dell’esistenza, Dio, l’amore, il sentimento. L’uomo! L’uomo, secondo Near, non aveva niente di particolare: era solo un ammasso di cellule e sangue, a volte bello, a volte persino brutto. Scoprì con molta difficoltà di essersi sbagliato. Si era reso conto di potersi rispecchiare in certe cose che un uomo barbuto aveva detto secoli addietro. Come poteva essere che in un tempo tanto lontano, in una società tanto diversa, ci fossero cose nel genere umano che non erano mai cambiate? Near si chiese se per caso l’uomo non fosse davvero un argomento di studio che valesse la pena trattare. A volte a forza di pensare si diceva che gli studi dei grandi filosofi erano soltanto parole vuote dette da persone che non avevano nulla da fare se non perder tempo. Altrimenti perché dedicarsi a capire qualcosa che sappiamo già in partenza non potremmo mai vedere davvero? Near non lo sapeva. Era probabile che tutto il fascino che provava per quella nuova appassionante materia di studio provenisse solo dal fatto che non era qualcosa di logico che poteva imparare a memoria e poi manovrare con sicurezza. Non c’erano regole nella filosofia, non c’era giusto o sbagliato. Tutto dipendeva dalla capacità di ragionamento di una persona e da una non indifferente capacità sofistica.
Quattro persone con quattro differenti personalità. Andavano d’accordo per quando dovevano stare assieme poche ore al giorno. Spesso ognuno si faceva i fatti propri, ma fra loro si capivano. Chissà se sarebbero stati in grado di resistere ad un incontro ravvicinato, conoscendosi a fondo?

L passò in cucina, si fece tagliare una generosa fetta di torta e andò nel cortile interno a sedersi su una panchina. Si mise a mangiare, rimuginando su cosa avrebbe voluto fare. Il caso Kira gli aveva fatto capire diverse cose: era per la prima volta divenuto consapevole della sua esistenza fisica e del fatto che il suo istinto di attaccamento alla vita non era ancora scomparso del tutto. Nonostante lavorasse come detective e avesse a che fare molte volte con omicidi, suicidi, feriti gravi e situazioni del genere, non gli era mai successo di essere lui a correre il pericolo. Aveva inconsciamente sviluppato un ideale errato, e cioè che lui fosse quasi una sorta di intoccabile incognita nel mondo, quel mondo che andava avanti attorno a lui come se non esistesse nessun L, come se non intaccasse il divenire delle cose, come se fosse solo un punto immobile in tutto quel divenire, un punto comparso venticinque anni fa che prima o poi sarebbe sparito senza che quello stesso mondo che gli si muoveva attorno se ne accorgesse o ne sentisse la mancanza. Questo gli aveva fatto gradualmente perdere la cognizione del suo essere umano, con dei progetti per il futuro, delle passioni, delle voglie, delle paure e dei rimorsi. Ma quando si era giocato il tutto per tutto, quando si era esposto per la prima volta -all’inizio essendo sicuro che non ci fosse nessun pericolo, ma poi azzardando sempre di più- aveva sentito, forse per la seconda volta in tutta la sua vita, la paura. Aveva creduto di morire, aveva visto Watari morire, e all’improvviso gli erano tornati alla mente tutti i sogni che aveva da bambino, i progetti dell’adolescenza e poi il buio, che era arrivato con la prima età adulta come un manto oscuro a coprire tutto ciò che era stato. Quando grazie all’aiuto di Near era riuscito a smascherare Light Yagami e a catturarlo la sua anima aveva tirato un grosso sospiro di sollievo e aveva deciso che ci avrebbe pensato.
Mantenne la promessa. Pensò a lungo, seduto nel cortile interno, finché il sole non divenne arancio intenso vicino all’orizzonte. La decisione che prese fu: avrebbe fatto una pausa dal lavoro di investigatore, per capire se voleva continuare a perseguire il suo sogno di ragazzino o se per caso agognava altri progetti. Nel frattempo, siccome non gli andava di rimanere troppo solo a rimuginare, sarebbe rimasto alla Whammy’s House.

Le inconfondibili ciocche così chiare da sembrare quasi bianche, ad un primo impatto sembrarono a Mello il frutto di un’allucinazione. Si, di sicuro quel nano in pigiama era entrato nel suo cervello con una tale forza da rimanerci. Poi, quando vide che la visione non scompariva, guardò esterrefatto Near salire la scale assieme a Roger, trascinandosi dietro un piccolo trolley e un pupazzo fra le braccia. Mello si chiese a cosa diavolo gli servisse il trolley se indossava sempre solo il pigiama. Forse ne aveva dieci tutti uguali. Ciò che stupì più di tutto Mello fu che quando lo vide non lo colse la rabbia che per quasi due mesi lo aveva fatto impazzire, piuttosto tutto sbollì all’improvviso. Era a conoscenza del fatto che sia lui che L avevano rischiato la vita nel caso Kira e, in un certo senso, era felice che non gli fosse successo nulla, anche se restava comunque il nano che gli usurpava il primo posto. Per prima cosa Mello si recò in biblioteca a posare dei libri che aveva terminato di leggere, in una calma che stupì persino sé stesso. Poi andò verso la camera di Near e quando questi gli aprì la porta il ragazzino esordì con un: “Mello. Immaginavo che fossi tu”.
“Posso?”, domandò Mello senza staccare lo sguardo da lui.
“Certo”.
Mello entrò nella stanza. Ci era stato tante volte, e poche di sua spontanea volontà. Molte volte perché Roger lo aveva obbligato a chiedere scusa a Near per qualche stupido scherzo che gli aveva fatto, altre volte invece riuscivano pacificamente a parlare, anche se non mancava mai un po’ di astio. Ad un’analisi superficiale i due si odiavano con tutto l’animo. In realtà potevano definirsi amici.
“Quindi ce l’avete fatta”, esordì Mello come se la faccenda non lo interessasse veramente.
“Si.”
“Ce l’hai fatta.”
Near esitò. “Si.”
Mello fece un debole sbuffo e distolse gli occhi di ghiaccio da quelli neri come il carbone di Near. Aveva sempre giudicato incredibile che avesse i capelli bianchi come il latte, la carnagione di una mozzarella, eppure avesse quei grandi occhi neri e profondi, che scrutavano la gente con attenzione, senza giudicare ma con un’intensità che riusciva a scombussolarti tutto.
“E ora?”, domandò Mello.
“L non mi ha detto niente. Non credo di essere diventato il suo erede a vita, se è questo che ti preoccupa.”
“Non sono preoccupato”, disse Mello a denti stretti. Odiava Near quando faceva così. Capiva i suoi punti deboli e glieli faceva notare con noncuranza. Gli faceva capire che lui li vedeva facilmente, e che sapeva dove colpire.
“Vuoi sapere com’è stato? Lavorare con L?”
A quel punto il lato razionale di Mello, che già di per sé era poco, andò completamente a farsi benedire. Prese Near per il colletto e lo sbatté contro la parete. Near per tutta risposta si lasciò trascinare dolcemente, un po’ perché non se lo aspettava e non ebbe tempo di reagire, d’altra parte lui non reagiva mai, si faceva semplicemente trascinare via dalla vita e dalle sue situazioni.
“Mi stai prendendo in giro per caso?!”, gli urlò in faccia Mello. “Certo che voglio saperlo! E mi fa incazzare da matti il fatto di non essere stato scelto!” Rimase a due centimetri dal viso pacato e per niente sconvolto di Near poi, allontanandosi da lui con un gesto secco di stizza, fece per andarsene.
Prima che potesse aprire la porta Near lo fermò. “Mello”, disse con la sua voce candida. Il ragazzo non diede segno di averlo sentito ma si fermò, senza tuttavia voltarsi. “L è qui. Credo che resterà per un po’.”
Mello si voltò con espressione stupita e rabbiosa. Il solo pensiero che L e Near fossero diventati qualcosa come due amici durante quelle poche settimane assieme e che L si confidasse con lui era qualcosa di intollerabile. “Come lo sai?”, chiese boccheggiando.
“Non lo so infatti, ma ho intenzione di domandarglielo.”
“Dov’è?”
“Non lo so. Se mi aspetti andiamo a cercarlo.”
“Cosa devi fare?”
“La doccia.”
Una risposta così disarmante nella sua semplicità, che Mello sorrise. A volte quasi si dimenticava che anche Near era un essere umano, abituato com’era a considerarlo solo un ingombrante scoglio fra lui e la sua nomina ad L. “Vado ad avvisare Matt”, disse uscendo.

Mello ci mise quasi mezz’ora per trovare Matt, stava giocando in un angolo del salottino davanti all’ufficio della direzione. “Matt! Cosa fai qui? Devi parlare con Roger?”, domandò quando lo vide, attraversando la sala con passo cadenzato.
“No”, disse Matt alzando lo sguardo verso l’amico.
“E allora?”
“Mi piacciono queste poltrone”, rispose il ragazzo alzando le spalle.
Mello non poté fare a meno di sorridere, dicendo: “L e Near sono tornati”.
“Come lo sai?”, domandò Matt stupito.
“Ho appena avuto un incontro ravvicinato con il nano. Non so dov’è L, ma Near dice che vuole restare qui per un po’. Ci troviamo qua davanti non appena Near ha finito.”
“D’accordo”, disse Matt alzandosi.
Un quarto d’ora dopo erano tutti in giro per i corridoi, a scervellarsi su dove potesse trovarsi L e a cercarlo con lo sguardo. Andarono a controllare nelle cucine, nel salottino della ricreazione, nel cortile, nella piccola cappella dai vetri colorati, persino alla mensa e, solo alla fine, nel cortile interno. Non appena uscirono nel porticato che circondava il cortile lo videro, in un angolo, seduto nella sua tipica posa da avvoltoio, a fissare il vuoto con mani poggiate sulle ginocchia. Tutti e tre si avviarono verso di lui, che non diede segno di averli visti finché non si sedettero e rimasero pazientemente in silenzio.
“Sapete una cosa?”, disse poi L guardandoli uno ad uno. “Questa volta pensavo di restare qui un po’ più a lungo.”



















Credits:
*Trinity. Nome che ho ripreso dalla quarta stagione del telefilm "Dexter", solo per fare un piccolo omaggio alla produzione.

Ciao, sventurato lettore che sei capitato per caso su questa pagina! :D
Allora, che dire? Questa storia è stata scritta l'anno scorso, ma ho deciso di postarla ora dopo una minuziosa revisione (ancora non del tutto terminata, fra l'altro). Torno nel fandom di Death Note come autrice dopo una lunga assenza, cimentandomi con un giallo soprannaturale, com'è tipico del genere del nostro manga preferito :)
Questo è il Prologo, che è un po' lungo rispetto all'idea generale che di solito la gente ha di 'Prologo', ma spero che abbiate la pazienza di aspettare il seguito. Per non deludervi, nel frattempo, è già disponibile sul mio blog l'anticipazione del primo capitolo a questa pagina. Cliccate se per caso siete frementi di sapere, ma vi avviso che sarà una crudele anticipazione che vuole mettervi solo curiosità addosso. Mhuahahah! XD
In questa storia mi piacerebbe trattare un po' tutti i personaggi in modo approfondito, infatti come avete potuto leggere ci sono descrizioni dettagliate della loro personalità già in questo prologo. Tuttavia mi sono presa la libertà, più avanti, di apportare dei leggeri cambiamenti, perchè i personaggi evolvono nel corso della storia, e questa evoluzione si ripercuote sul loro carattere. Detto questo, spero vivamente di non andare OOC, nel caso lo facessi significa che ho fallito miseramente nel mio intento, e allora dovete dirmelo. Anche tramite insulto se vi va... XD
Comunicazioni di servizio: ho intenzione di postare ogni Lunedì un nuovo capitolo, spero di riuscire ad essere il più puntuale possibile, soprattutto in queste prime due o tre settimane, perchè devo ancora dare un paio di esami e studiare pesantemente (cacchio!). Voi vi chiederete quindi: "Perchè non hai aspettato a mettere la storia?". E io vi rispondo: perchè mi prudevano le mani in una maniera assurda e volevo assolutamente pubblicarla °.° Oltretutto è già pronta da un pezzo, ho aspettato anche troppo! :D Comunque, vi fornirò il link alla pagina delle anticipazioni in ogni capitolo, se volete potrete andare a leggere, se invece preferite la suspance... insomma, come volete! Inoltre conto di fare qualche osservazione sulla storia sul blog, se mai me ne venisse voglia; nel caso vi lascerò il link. Comunque saranno osservazioni non indispensabili alla lettura.
Se qualche anima gentile lasciasse una recensione sapete che sono sempre disposta a rispondere, come ogni volta, ad ogni tipo di recensione; neutra, negativa o positiva che sia! :)
Detto questo un grazie a te, si proprio a te, che sei arrivato fino a qui, in fondo in fondo alla pagina ^^
A Lunedì, piccoli Shinigami! Ricordate di dare una mela al vostro Ryuk e scarabocchiare qualche nome sul quaderno per tenervi vivi (ed essere presenti al mio prossimo capitolo, uhuhuh! XD).
Un saluto a tutti,
Patrizia

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Capitolo 2
*** The beginning of Annika's mission ***


Capitolo uno
The beginning of Annika’s mission





Esiste un luogo lontano dalla mente di tutti gli uomini dove vivono alcuni dei più fondamentali esseri che operano per l’ordine dell’universo. Sono déi, gli unici che possano decidere della vita o della morte di una persona. Sanno come, quando, e perché morirà. Sanno l’ora, il luogo, e la data del decesso. E possono saperlo perché sono loro a deciderlo. Vivono in un mondo arido senza alcuna attrattiva, e così passano il tempo a giocare a carte o a farsi tra loro scherzi idioti. Un tempo questi esseri erano uomini, uomini ormai morti scelti dal caso per divenire Shinigami. Ma ci sono delle regole da seguire per ogni Shinigami appena arrivato: un uomo che diventi Shinigami dovrà accedere al Mu in forma umana, gli sarà consegnato un Death Note e verrà dotato degli occhi, ma non potrà esercitare finché non si trasformerà del tutto. Nel corso della trasformazione l’uomo perde gradualmente la memoria assieme ad essa la sua umanità, sia fisica che mentale. Diventa tutto estremamente più semplice e una mera questione di sopravvivenza uccidere esseri umani quando non si è a conoscenza del fatto di essere stato uno di loro.
Da qualche mese nel Mu era arrivato un uomo nuovo, un tale di nome Stephen Tempor. Non parlava mai con nessuno a parte lo Shinigami Ryuk, il quale gli aveva svelato di essere stato il fautore della sua morte. In realtà tutto faceva parte di un piano più grande, Ryuk era arrivato solo a misfatto ormai compiuto. Aveva visto quell’uomo sul letto dalle coperte bianche e infeltrite dell’ospedale, e aveva considerato quel letto molto simile a molti altri letti di morte. Aveva scritto sul suo Death Note ‘Stephen Tempor, ferita da arma da fuoco’. I medici dicevano che c’era un briciolo di speranza che lui sopravvivesse, fino a che la sua ferita non si era infettata per cause ancora non ben chiarite: da allora il signor Tempor non ebbe alcuna speranza. Se non fosse stato per il tempestivo intervento di Ryuk, che non vedeva perché mai sprecare così un incidente già avvenuto, forse non sarebbe mai diventato uno Shinigami.
“Forse, se avessi saputo che saresti diventato Shinigami, non ti avrei mai ucciso Stephen”, disse Ryuk una volta osservando il paesaggio desertico del Mu. Stavano seduti su una roccia aspra e attorno a loro non c’era altro che la sabbia e la noia.
“Se non lo avessi fatto non sarei mai diventato Shinigami”, aveva replicato l’uomo con logica schiacciante. “Non fartene un cruccio Ryuk, in fondo sei qui per questo.” Stephen aveva sospirato. “Solo una cosa mi spiace: non aver preso quel bastardo che mi ha sparato. Sapevo che dietro questo caso c’era molto più di quel che non apparisse. E l’avevo capito, per davvero! Per questo ora sono qui.” Stephen sospirò e storse il naso, il volto piegato in una smorfia di malinconia.
Stephen Tempor lavorava per la CIA, e da sette mesi prima della propria morte aveva seguito un caso all’apparenza facile, che contro tutte le previsioni si complicò sempre di più ogni qualvolta scoprivano qualcosa di nuovo. Proprio quando aveva incominciato a scavare nei documenti giusti, a fare domande alle persone giuste, allora aveva intuito di stare arrivando a loro, quindi loro avevano deciso di eliminarlo. Non lo avevano fatto molto bene, dopo tre giorni i medici dicevano che l’uomo avrebbe potuto riprendersi entro un mese, ma proprio in quel momento era spuntato Ryuk.
“Ci vorrebbe l’aiuto di mia figlia”, disse Stephen guardando il paesaggio brullo e desolato.
“Tua figlia? Perché?”, domandò Ryuk.
“E’ una ragazza molto intelligente”, cominciò l’uomo con orgoglio nella voce, “forse non altrettanto brava con le persone, ma se la cava quel che basta. E’ la più intelligente del suo corso, all’università. Mi piacerebbe poter vedere che fa adesso.”
“Lo puoi fare”, disse Ryuk illuminandosi un poco.
Stephen fece scattare la testa verso di lui. “Davvero?”
“Puoi vederla. Attraverso la finestra che usiamo per arrivare sulla terra. Basta che pensi a lei.”
Detto fatto; dopo aver avuto quella rivelazione Stephen Tempor non poté fare altro dalla mattina alla sera. Sua moglie era morta quando erano giovani, sua figlia adesso aveva diciannove anni, e da qualche mese doveva provvedere a sé stessa da sola. Stephen scoprì, suo malgrado, che non lo faceva per niente bene. Era sempre stata una ragazza un po’ strana a dirla tutta, un po’ asociale, ma scoprire che aveva smesso di andare all’università per rovistare fra i documenti del suo ultimo caso e sul suo computer era per lui motivo di profondo stupore. Si chiese il perché: come mai sembrava così indaffarata, perché la notte dormiva male, perché aveva lasciato il lavoro part-time che aveva trovato poco fa alla biblioteca, e per quale motivo si ostinasse ad andare al suo ufficio per vedersi ogni giorno cacciata via. Sua figlia lo sapeva meglio di chiunque altro quanto il lavoro di Stephen fosse difficile, soprattutto perché non poteva mai parlarne con nessuno, e si rivelava alquanto invadente nella sua vita privata pur essendo così top secret.
Stephen avrebbe tanto voluto parlare con lei, ma non poteva. Così, prese una decisione. “Ryuk, ho bisogno che tu mi faccia un favore.”
“E sarebbe?”, domandò Ryuk.
“Vorrei che tu andassi da mia figlia e scoprissi cos’ha intenzione di fare. Io non posso muovermi di qui, devi farlo tu.”
Ryuk ci pensò su un secondo. “Voi umani avete sempre questa brutta abitudine”, osservò alla fine con tono duro.
“Quale?”
“Sempre a dare ordini, a noi Shinigami. Ma devi sapere una cosa: io non prendo ordini da nessuno.”
“Ryuk, te lo sto chiedendo per favore”, disse Stephen, aggrappandosi all’ultimo raggio di speranza che aveva.
Lo Shinigami fece una smorfia incerta. “E sia!”, esclamò alla fine. Si alzò in volo e attraversò il varco che lo separava dalla terra.
Dopo due settimane Ryuk era di ritorno. La figlia di Stephen Tempor, Annika Tempor, era una di quegli esseri umani che poteva anche valere la pena di ricordare. Ne aveva conosciuti davvero pochi come lei, uno era recentemente morto mentre conduceva una battaglia di intelletti contro l’unico altro essere umano da tenere in considerazione. Tuttavia, quando tornò nel Mu e andò a cercare Stephen, Ryuk vide che la trasformazione aveva fatto passi da gigante. L’uomo si era stranamente allungato, era come dimagrito repentinamente e le sue fattezze erano più cadaveriche che nella tomba.
“Stephen, forse ho qualcosa che potrebbe interessarti”, esordì Ryuk.
L’uomo lo guardò con occhi smarriti. “E cioè?”
“Annika sta tentando di risolvere il caso al posto tuo.”
Di nuovo, Stephen non mostrò di aver capito alcunché. “Cosa stai dicendo?”
“Tua figlia Annika”, insisté Ryuk, a cui non andava giù di aver fatto un viaggio a vuoto. Per un secondo, gli occhi di Stephen si allargarono di comprensione, ma Ryuk pensò di esserselo solo immaginato, perché la loro luminosità sparì così com’era venuta.
“Non so di che parli Ryuk”, disse Stephen voltandosi e incamminandosi verso degli altri Shinigami. “Vado a farmi una partita a dadi con gli altri. Vieni anche tu?”
“No, grazie.”
Ryuk tornò al grande specchio che usavano come finestra sugli altri mondi e cominciò ad osservare Annika Tempor che, ancora una volta, cercava di distruggere la rete operativa dei computer della CIA. Con scarsi risultati, potrei aggiungere. Fu allora che Ryuk prese una decisione.
Ancora una volta, si stava annoiando.

Annika Tempor era una ragazza estremamente magra e bassa, ma nascondeva una forza da vero elefante, che era andata aumentando nell’ultimo periodo. Da quando suo padre era morto tutto il suo tempo si era concentrato su poche cose essenziali: tentare di scovare informazioni sul caso di suo padre, perfezionare il suo libro sul calcolo infinitesimale che si accingeva a pubblicare (e che le avrebbe fruttato fior fior di quattrini), e la boxe. Abitava ancora nella casa di famiglia, un appartamento abbastanza grande per viverci comodamente in due, che era improvvisamente diventato enorme per una persona sola. Suo padre le aveva lasciato i risparmi di una vita, che le sarebbero potuti bastare per cinque o sei anni, senza lavorare e continuando l’università, ma aveva preferito perfezionare i punti deboli del suo libro e inviarli ad una redazione. La risposta era prontamente arrivata due settimane più tardi: erano entusiasti, ma volevano che approfondisse alcune parti. Avrebbero pubblicato entro breve per un pubblico selezionato di professori e scienziati. Puntavano più che altro sull’audacia di certe affermazioni, e sul fatto che lei non avesse superato l’età adolescenziale per vendere il libro come il primo scritto di un genio diciannovenne.
Erano le sette e faceva già buio quando Annika, la sera del 23 di Dicembre, scese in strada e andò nel negozio all’angolo aperto 24 h su 24 gestito da Juan, un messicano dai folti baffi, per comprare i rifornimenti di Natale. Comprò pane, latte, tre confezioni di pizza surgelata, arance, fagiolini, formaggio fresco, un etto di speck, uova, una confezione di lattine di birra da sei, una pacchetto di Pall Mall blu, una nuova matita per gli occhi, due pacchetti di dentifricio, uno di bagnoschiuma e, concedendosi un lusso per le feste, una bottiglia di spumante. Augurò un Buon Natale a Juan e si avviò verso casa.
Quando rientrò, dopo aver messo a posto la spesa, entrò nello studio dove lei e suo padre tenevano il computer e centinaia di libri, si sedette alla scrivania accompagnata da una birra fresca e un piatto di pasta al ragù. Aprì il portatile e la prima cosa che vide fu un quaderno nero con una scritta bianca, incastrato fra lo schermo e la tastiera. Death Note. A chiunque appartenesse aveva una pessima calligrafia, fu il primo pensiero che ebbe Annika. Poi si bloccò: qualcuno era entrato in casa sua. Era improbabile che quel qualcuno fosse ancora lì, se si era preso la briga di sistemare un quaderno proprio dove sapeva che lei l’avrebbe trovato. Oltretutto, doveva essere qualcuno che la conosceva, altrimenti come avrebbe fatto a sapere che lei utilizzava spesso il computer? Peggio ancora poteva essere qualcuno che la spiava, uno stalker con manie di perversione.
Aprì il quaderno e sulla prima pagina lesse delle assurde regole secondo le quali un nome scritto in quelle pagine avrebbe fatto morire il povero malcapitato che lo portava nel modico tempo di 40 secondi. Si poteva persino decidere che fine avrebbe fatto il poveretto! Quando Annika aprì la prima pagina trovò una scritta, con quella calligrafia orribile ma leggibile: non gridare.
Annika, a quelle parole, raggelò. Voleva dire che lo sconosciuto era ancora in casa, e le intimava anche di non urlare quando l’avrebbe visto. Già che c’era poteva anche chiederle se per cortesia non lo avrebbe denunciato, e se poteva passargli la collezione di swarosky di sua madre. Un rumore fece voltare Annika di scatto. Quel che vide non la fece urlare solo perché tutto il suo corpo, comprese le corde vocali, si era paralizzato. Un mostro alto almeno due metri, con il corpo curvo e una struttura ossea del tutto in vista, e così palesemente sbagliata, stava di fronte a lei. La sua bocca pareva sorridente, di un sorriso malato e pazzo, gli occhi erano grandi come i pugni di un uomo adulto, gialli e sporgenti.
“Annika Tempor. Mi chiamo Ryuk, sono uno Shinigami.”
Nonostante il mostro mantenesse un aria calma e pacifica, e molto probabilmente avesse detto quelle cose solo per tranquillizzarla, il fatto che uno Shinigmi sapesse il suo nome rendeva la ragazza solo più nervosa.
“Conosco tuo padre”, continuò Ryuk.
A quelle parole, Annika fu certa che il mondo celasse davvero tante sorprese. Tuttavia siccome si parlava di Stephen non poté fare a meno di chiedere, seppur con voce spezzata: “Come lo conosci? E come sai il mio nome?”
“Anche lui sta diventando uno Shinigami, ma non ricorda già più nulla della sua vita sulla terra. Mi ha mandato qui qualche giorno fa per vedere cosa facevi: voleva sapere per quale motivo ficchi il naso nel suo lavoro. Quando sono tornato stava già dimenticando tutto, e non ha capito una parola di quel che gli ho detto.”
“Perché sei qui?”
“Perché voglio darti una mano. Voglio aiutarti a trovare chi ha ucciso Stephen.”
Annika teneva le sopracciglia corrugate e si muoveva in continuazione, come se non potesse farne a meno. “E come farai?”, sputò lì osservando le mani del mostro.
“Non è che per caso avresti una mela?” Ryuk non ne mangiava da settimane, forse quella ragazza avrebbe potuto dargliene almeno una: stava andare in astinenza.
Annika strabuzzò gli occhi. “Una mela?”
“Io adoro le mele”, disse Ryuk con occhi scintillanti.
“Hm… dovrei averne ancora un paio”, disse Annika pensosa. Voleva accontentare il mostro di nome Ryuk, ma si pentì quando dovette compire il tragitto studio-cucina con le sue zanne lunghe trenta centimetri alle spalle. Trovò le ultime tre mele in fondo alla vaschetta della frutta, le lavò e le mise in un piattino sul tavolo assieme ad un coltello. Si sedette e osservò Ryuk che le mangiava, senza ausilio del coltello, in soli due bocconi.
Mentre lo Shinigami mangiava Annika si prese del tempo per pensare. C’erano dei lati positivi e dei lati negativi in quella faccenda. Lati postivi: il mostro non era lì per farle del male, e a giudicare dalla sua passione per la frutta non l’avrebbe uccisa per sé o per i suoi cuccioli, per di più aveva appena detto di essere lì per aiutarla. Lati negativi: vedere un dio della morte venuto per conto di tuo padre ad aiutarti, dopo aver passato due mesi a ossessionarti sul quel tuo stesso padre morto, non era di sicuro un segno di stabilità mentale. Faceva tanto bambina problematica e il suo amico immaginario, anche se Annika faticava nel vedere Ryuk come un degno amico virtuale.
La ragazza incrociò le braccia al petto. Se Ryuk era lì per darle una mano allora tanto valeva cominciare subito. “Quindi… cosa dovrei fare secondo te?”
Il mostro ingollò il secondo torsolo di mela e la osservò. “Ah… il quaderno che ti ho dato, ora ti appartiene. Ho visto un essere umano utilizzarlo con molto ingegno per portare a termine la sua missione. Hai letto le regole? Sono scritte nella tua lingua.”
La ragazza chinò la testa sul quaderno, che teneva in mano da quando lo aveva trovato nello studio. Aprì di nuovo la pagina ed elencò: “Volto, nome, quaranta secondi, arresto cardiaco…” A quel punto la ragazza fece due più due. Le regole corrispondevano. Alzò lo sguardo su Ryuk e domandò con occhi indagatori e increduli: “Kira?”
“Esatto.”
“Questo quaderno è di Kira? Quello che ha usato per compiere tutti gli omicidi?”, chiese sfogliando le pagine.
“No, quello è uno dei miei quaderni. E’ nuovo, quasi non ci sono nomi.”
Annika lo sfogliò e, assieme ad altri nomi, vi trovò scritto a grandi lettere incerte: Stephen Tempor, ferita da arma da fuoco. Gli occhi le si allargarono per lo stupore, face scattare la testa verso il mostro e domandò: “Sei stato tu?!”
Ryuk fece segno di sì con la testa mentre prendeva l’ultima mela dal piattino. “Non mi accusare tanto in fretta piccola umana. E’ il compito di noi Shinigami, esistiamo proprio per questo.”
Annika boccheggiò. “Ma tu… se tu…”.
Ryuk non le per permise di terminare la frase: “Il mondo non è stato fatto con i ‘se’. Non ho colpa di quello che è il mio compito.”
La ragazza abbassò lo sguardo e ricacciò indietro a forza delle lacrime insidiose che aveva minacciato di uscire. Fece un profondo sospiro, ma non disse nulla. Rilesse velocemente le regole del Death Note tanto per dare tempo al groppo che aveva alla gola di sparire, poi domandò: “Quindi… vuoi dire che per trovare le informazioni che voglio devo uccidere delle persone? E’ questo il piano per caso?”
“E’ un inizio.”
“Io non sono un’assassina, non voglio uccidere nessuno”, disse duramente Annika scuotendo la testa.
“Non volevi vendicare tuo padre? Ti basterebbe sapere volto e nome di quella persona per poter finalmente riabilitare la sua memoria.”
Annika strinse le labbra. Ryuk sapeva dove stava la piaga, e non esitava a rigirarci il dito per il proprio divertimento. Annika non era mai stata una persona troppo sentimentale. Quando era morto suo padre certo era stata molto triste, e lì lì per cadere in depressione, ma nemmeno quattro giorni dopo sapeva benissimo cosa doveva fare. A cosa serviva starsene con le mani in mano? Così aveva tentato di scoprire a cosa lavorava suo padre e aveva scovato un po’ di materiale, ma non bastava. Aveva tentato, senza troppe speranze, di aggrapparsi al buon animo dei colleghi che avrebbero potuto fornirle informazioni, ma quello era un lavoro top secret, e l’unica cosa che ottenne furono diverse chiamate alla sicurezza per farla uscire dall’edificio. Aveva persino provato ad introdursi, tramite il portatile di suo padre, alla rete informatica della CIA, ma lei non era un esperta di computer, se la cavava e basta giusto per semplici lavori, e quando aveva capito che poteva lasciare tracce del suo passaggio aveva lasciato perdere. Adesso aveva una nuova possibilità, che appariva tanto potente quanto distruttiva, ma anche lì non sapeva da dove cominciare. Decise che avrebbe dovuto sapere di più su quel fantomatico Death Note.
“Dimmi, qual è la fregatura? Cosa succede se faccio fuori una persona con questo?”, e sventolò il sottile quaderno sotto le zanne di Ryuk.
“B’è… prima di tutto, devi stare molto attenta”, cominciò Ryuk prendendo un’altra mela, “perché chiunque tocchi il Death Note potrà vedermi e sentirmi. Se lo usi, alla tua morte non accederai né al Paradiso né all’Inferno. Andrai nel Mu.”
“Che cos’è il Mu?”, domandò Annika, già orripilata solo all’idea.
“Nulla. E’ una specie di limbo.”
“E poi? C’è altro?”
“Mh… per il modico prezzo di metà della tua vita potrai avere gli occhi di uno Shinigami, e conoscere il nome di una persona non appena la vedrai in faccia.”
Annika sbuffò. “Non sono così disperata. E di sicuro non mi servono per ora.” La ragazza lanciò il quaderno sul tavolo e si mise le mani nei capelli. Non poteva essere accaduto sul serio: doveva saperlo fin dal principio che non era sano stare troppo davanti al pc, così come lo erano tutte le pizze che aveva mangiato: alla fine era diventata pazza. “Non mi va di andare nel Mu”, disse, traendo le sue conclusioni. Sospirò e guardò Ryuk. “Mi piacerebbe solo poter sapere a cosa lavorava mio padre, poi potrei decidere se ne vale veramente la pena.”
“Ti servirebbe conoscere qualcuno che può avere queste informazioni.”
“Quello della CIA era papà, non io. Nessuno mi dirà nulla, nemmeno il suo migliore amico.”
“Ah, ma io credo di avere un modo: devi solo trovare la persona adatta.”
Annika alzò lo sguardo, certa che ci fossero altre complicazioni. “Davvero?”, domandò scettica, “Cioè?”
“Perché non vai a cercare L?”
Annika sbuffò. “Che ne sai tu di L? Magari potessi trovarlo così facilmente.”
“Ho avuto l’occasione di incontrarlo, una volta, e anche lui dovrebbe ricordarsi di me. Ne conserva la memoria.”
“E chi mai potrebbe scordarsi di te?”, domandò Annika con una smorfia.
Ryuk ridacchiò. “Se tu decidi di rinunciare al Death Note e non usarlo mai più perderai tutti i ricordi su di esso.”
“Quindi... vuoi dire che L quando ha smascherato Kira è venuto a sapere tutto sul Death Note?” Annika riordinò le idee.
Da quasi un anno di Kira non si sapeva più nulla, il mondo stava lentamente ritornando alla normalità. Alcuni credevano che si fosse solo preso una pausa, altri che fosse scomparso così misteriosamente com’era venuto. Ma la polizia non aveva detto nulla riguardo alla sua morte o alla sua cattura, così il mondo proseguiva in congetture azzardate.
“L ha smascherato Kira quindi. Sa tutto del Death Note e si ricorda di te. E Kira?”
“Morto.”
“Menomale.”
“Quindi? Hai deciso cosa vuoi fare?”
“Puoi portarmi da L?”
“Posso dirti dov’è adesso, ma non ti dirò chi è né qual è il suo nome.”
“Perché no?”
“Potresti minacciarlo di ucciderlo con il Death Note, in quel caso è compito tuo scoprire il suo nome. E ti dirò: non è un compito facile.”
Annika ci rimuginò su. In fondo, che cosa aveva da perdere? Se non lo avesse trovato almeno poteva dire di averci provato, e se lo avesse trovato avrebbe fatto un grande passo avanti. “All’utilizzo di questo tuo quaderno ci penserò dopo, per ora dimmi dove si trova L.”
“Whammy’s House. Londra.”

La vigilia di Natale fu un giorno impegnativo per Annika Tempor. Andò in banca a ritirare dei soldi, prenotò via internet un posto su di un aereo di linea che partiva dall’aeroporto internazionale Boston Logan e atterrava a Londra, Heathrow. Poi fece le valigie, riempiendo un grosso borsone del peso di 13 kg e 8 che avrebbe fatto imbarcare, e un bagaglio a mano che conteneva il portatile del padre, soldi, documenti, un cambio d’abiti, un libro, il manoscritto che stava revisionando a mano, il pacchetto di Pall Mall, un paio di mele e un pacchetto di grissini.
Dopo aver scoperto che il mostro doveva restare appiccicato a lei almeno finché non rinunciava al Death Note o fino alla sua morte, aveva chiesto a Ryuk se avrebbe viaggiato nell’aereo o l’avrebbe terrorizzata facendosi vedere ogni tanto svolazzare fuori dagli oblò, al che lui aveva risposto: “Non ho mai viaggiato in aereo.” Il che non rispondeva assolutamente alla domanda di Annika, ma preferì non continuare il colloquio. Era già abbastanza irritata con Ryuk a causa della giornata infernale che le aveva fatto passare: in giro per tutta la città facendo finta di non vedere né sentire quel mostro chiacchierone che la distraeva di continuo. Era sicura di aver fatto almeno un paio di figuracce per starlo a sentire.
Annika Tempor uscì di casa con largo anticipo il 25 di Dicembre, diretta all’aeroporto. Arrivò tre ore prima della partenza del suo volo e rimase ad attendere per un ora e mezza, con qualche pausa ogni tanto per fumare una sigaretta, andare in bagno, o nascondersi in un angolo per far mangiare Ryuk. Poi imbarcò la valigia, fece il check in e rimase in attesa, rileggendo attentamente il suo manoscritto. Quando il volo partì non era per nulla nervosa, aveva viaggiato altre volte e l’unica cosa che davvero la preoccupava era che Ryuk combinasse qualche guaio. Quando erano ormai a duemila metri d’altezza, guardando Ryuk con al coda dell’occhio che ficcava la testa fuori dall’aereo si diede della stupida: lei non era certo responsabile per un dio della morte, che di sicuro doveva essere molto più vecchio e responsabile di lei.
Atterrò all’aeroporto di Heathrow alle sei e ventidue del pomeriggio del giorno di Natale, chiamò un taxi e si fece portare nel pieno centro città, in Osborne Street numero 17. La Whammy’s House. Il taxi l’abbandonò nel freddo del tardo pomeriggio londinese, davanti al cancello in ferro battuto.
L’edificio a parere di Annika era cupo e solitario, a vederlo chiunque avrebbe detto che si trattava di un luogo inospitale e triste. Decise che non voleva entrare subito, si rifugiò nell’unico caffè che trovò aperto a Natale, gestito da un vecchio dall’aria burbera, e accese il pc. Dopo una breve ricerca su internet apprese che la Whammy’s House era un orfanotrofio, fondato dall’inventore -recentemente deceduto- Quillish Whammy nei primi anni sessanta. L’edificio ospitava 245 stanze per bambini e ragazzi, singole o doppie ognuna completa di servizi, più di 15 alloggi per il personale che desiderava alloggiare sul posto di lavoro, ed inoltre era fornito di una vasta biblioteca, 20 aule, compresa quella ospitante i computer, una mensa, le cucine, degli spazi riservati alle attività ricreative e anche una piccola cappella. Annika apprese che ai bambini veniva data un’istruzione molto buona, ma non riuscì a trovare nient’altro che riguardasse l’orfanotrofio a parte alcune leggende metropolitane: a quanto pareva potevano accedervi ragazzi e bambini con un quoziente intellettivo pari a quello di Einstein, ma non si sapeva nulla di concreto riguardo a queste peculiarità dell’orfanotrofio. Il tutto risultava molto contraddittorio. Perché aprire un orfanotrofio per bimbi intellettualmente dotati e non farlo conoscere al mondo intero? Quanti orfani superdotati dovevano esserci in giro per il mondo? Di sicuro abbastanza perché la Whammy’s House ricevesse ingenti sussidi da parte del governo. Ai governi piace avere dei geni sul loro territorio, ancora di più se sono geni controllabili come dei bambini. Annika arrivò alla conclusione che la Whammy’s House doveva aver ospitato L da bambino, e che per qualche motivo ci era tornato. Si alzò dal tavolo, pagò il suo caffè macchiato e uscì, con Ryuk che la seguiva da vicino.
Camminando verso l’orfanotrofio si rivolse allo Shinigami: “Ryuk, anche se vuoi mantenere un profilo basso in questa storia, non è che potresti dirmi qualcosa in più su questa Whammy’s House?” Le sembrava di dover entrare in un covo di persone pericolose, quelle storie dal taglio misterioso l’avevano suggestionata.
“Ti dirò una cosa fondamentale, che non sa nessun’altro. Sai perché la Whammy’s House ospita bambini con intelligenza superiore al normale, e perché è così riservata?”
“Perché?”
“Perché ci è stato L. E adesso negli orfani ospiti di quel posto cerca un erede. Per questo tutti là dentro usano degli pseudonimi.”
“Pseudonimi.”
“Si. I loro nomi non sono registrati da nessuna parte. Metti caso ad esempio che un bambino venga abbandonato dalla famiglia, e arrivi ad un orfanotrofio con il nome di… Timothy Ulrich.”
“Si”, disse Annika concentrata.
“Se per caso venisse trasferito alla Whammy’s House non verrebbe registrato, tutto qui. Timothy Ulrich esisterebbe ancora sì, ma per gli anni trascorsi alla Whammy’s House, se facessimo su di lui un’attenta ricerca, non troveremmo niente, ci sarebbe un buco nella sua vita. Tutti i bambini che sono lì dentro… è come se non ci fossero, in realtà. Non esiste alcun tipo di documentazione su di loro.”
“Cioè… la Whammy’s House  educa bambini intellettualmente dotati senza che nessuno ne sappia nulla?”
“Esattamente.”
“E hanno un soprannome.”
“Per non far sapere a nessuno la loro identità.”
“Nel caso diventassero eredi di L.”
Annika era arrivata di nuovo di fronte all’edificio, che adesso aveva acquistato un nuovo, inquietante significato. Una orfanotrofio fantasma, che di fatto non esisteva. O meglio, non esistevano i suoi inquilini. Un orfanotrofio infestato dai fantasmi.
Non importava, Annika era lì per ben altro motivo. Doveva trovare L e convincerlo a dargli una mano. Forse con l’aiuto e i suggerimenti di Ryuk avrebbe anche potuto avere qualche vantaggio in più. Il fatto che fosse coinvolto lo Shinigami doveva far pensare al detective che ci fosse anche un Death Note, e se in giro ce n’era uno L non poteva restare impassibile. Forse avrebbe avuto paura di lei. In effetti non era sua intenzione spaventare il più grande detective del mondo, al contrario doveva essere gentile.
“Ryuk, ti spiacerebbe non farti vedere da L per il momento?”
“Devo starti vicino.”
“Non ti dico di andartene dall’altra parte del mondo. Solo, lontano da L.”
“D’accordo.”
“Grazie.”
Annika guardò un secondo l’edificio, poi suonò il campanello.




















Ed ecco qui per voi, miei piccoli Shinigami, il primo primissimo capitolo della storia!

Spero vi sia piaciuto questo cambiamento improvviso e radicale di scena. Mi serviva per andare ad introdurre il nuovo personaggio. Ho pensato che una ragazza, in questo mare di feromoni maschili, ci stesse bene, giusto per dare un tocco di femminilità (anche se Annika è tutto fuorché femminile, verrà descritta nel prossimo capitolo). Riguardo a questo personaggio vi chiedo un favore enorme: dovete assolutamente dirmi se è ben costruito. Insomma, ho paura che possa essere una Mary Sue coi fiocchi, anche perchè ha già due caratteritiche tipiche della Mary Sue DOC: è ricca, è intelligente. L'unico modo in cui giustifico queste peculiarità della mia creatura è:
-primo; è ricca perchè suo padre è della CIA. Mi pare che li debbano pagare bene quelli, altrimenti chi glielo fa fare di rischiare la vita ogni due per tre?
-secondo; volevo che fosse al livello intellettuale degli altri protagonisti, altrimenti ce li vedo benissimo i quattro geni dell'orfanotrofio a declassarla come mente inferiore. Che cattivoni! u_u
Spero che quando il personaggio verrà descritto meglio potrete capire se è fatto bene si o no ^^
La scena fra Annika e Ryuk è stata abbastanza complicata da scrivere, perchè proprio non riuscivo ad immaginare come si può reagire in una situazione del genere (sapete com'è, mai avuto uno Shinigami in casa XD). Insomma, alla fine ho fatto civilmente parlare i due senza troppi sconvolgimenti emotivi del tipo "Oddio, c'è un mostro nel mio salotto, non è possibile", e ho preferito concentrarmi sulla faccenda del padre di Annika.
A parte questo vorrei precisare che questo primo capitolo si svolge a Natale, mentre il Prologo era ambientato in primavera. E' molto importante il tempo trascorso, ma si capirà più avanti il perchè.
Riguardo alla notizia sugli uomini che diventano Shinigami, devo ammettere di non essermelo inventata del tutto. A questo punto della lettura c'è un'avvertenza: spoiler sullo speciale da due ore di Death Note. Nella puntata aggiuntiva uno Shinigami mai visto prima d'ora parla con Ryuk. Alcuni hanno ipotizzato che si tratti di Light. Allora ho pensato: nel caso Light fosse diventato Shinigami, perchè non fare che gli Shinigami sono uomini ormai morti scelti a caso per diventare dèi della morte? E così è nata l'idea di Stephen Tempor.
Un punto saliente: la Whammy's House non si trova a Londra, bensì a Winchester. E' vero, è imperdonabile. Non so come giustificarmi per questo, non c'è una vera giustificazione, ho dato per scontato che fosse lì... non so bene per quel motivo. Comunque la collocazione dell'edificio è ben poca cosa nella storia. Le notizie riguardo alla costruzione sono inventate, ovviamente, siccome non ci è dato sapere nulla di particolare sull'orfanotrofio.
Vorrei fare una piccola precisazione: Light è morto. Me l'hanno chiesto e, nel caso qualcun'altro volesse avere la certezza, lo dico qua così lo leggete tutti.
Vi lascio lo spoiler al capitolo due: se siete curiosi cliccate qui.

Bene, ringrazio moltissimo le due persone che hanno commentato il Prologo, e spero che qualcuno si aggiunga nello scrivere anche solo un piccolo parere ^^ Tutto è bene accetto e risponderò sicuramente!

A Lunedì prossimo miei piccoli Shinigami! Mi raccomando, tante mele altrimenti poi andate in astinenza! XD Ciao ciao!
Patrizia

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Capitolo 3
*** A detective job ***


Capitolo due
A detective job





Matt preferiva di gran lunga il suo computer a quelli dell’orfanotrofio: erano dei vecchi modelli, molto lenti e per di più non forniti di programmi adeguati. Su richiesta di Roger, però, era lui ad occuparsi del loro mantenimento, piuttosto che pagare un tecnico per farli aggiustare.
Erano passati pochi giorni da Natale, quando era arrivata una strana ragazza dall’aria trascurata. Era rimasta a lungo nell’ufficio di Roger, e quando era uscita tutti erano rimasti stupiti del fatto lui le avesse dato uno degli alloggi del personale. Qualcuno aveva chiesto se per caso fosse una nuova insegnante ma Roger aveva risposto di no, dicendo a tutti che era una vecchia conoscenza che desiderava ospitare per un po’. Tuttavia a Matt, Near, Mello ed L non era sfuggito che l’uomo fosse scosso, ed erano andati a chiedergli spiegazioni. Tutto quel che avevano ottenuto erano state delle banali rassicurazioni e un vago Buon Natale.
Matt non aveva più visto la ragazza se non seduta fra i divanetti sparsi lungo l’edificio, a leggere plichi di documenti o al computer. Era una ragazza piuttosto strana, a vederla. Era bassa e mingherlina, portava i capelli biondi corti e disordinati, era pallida e aveva diversi piercing alle orecchie. Gli occhi erano grigi, le labbra sottili, le mani affusolate. Eppure tutta questa delicatezza non convinceva affatto Matt, che aveva anche avuto l’occasione di scorgere delle braccia ben allenate. Infine, un fattore da non prendere sottogamba, era il vestiario della ragazza: nero ed essenziale. Come quello di un ladro. Portava spesso pantaloni dall’aria comoda, felpe e maglioni dello stesso colore non troppo appariscente e sotto, l’unica volta che Matt aveva potuto vederla, indossava magliette a tinta unita con frasi ad effetto come: I killed Barbie, she was a bitch.
Matt stava soccorrendo un pc estremamente vecchio quando la vide entrare nell’aula computer. La guardò con la coda dell’occhio e registrò il fatto, tuttavia non vi fece caso e continuò il suo lavoro. Nella sala c’erano solamente loro due e un ragazzino silenzioso che si faceva chiamare Burnt. Per altri dieci minuti continuò a cancellare i file danneggiati del computer, poi si rese conto che doveva accendere quello centrale per risolvere il problema. Lo fece, e dopo nemmeno cinque minuti si rese conto che ci si era infilato qualcuno. Era qualcuno sufficientemente in gamba, perché non aveva prove di quando fosse stato lì, se ci fosse ancora, e cosa avesse fatto. Passò allo scanner tutti i file, e constatò che il pc era sano. Quindi non era qualcuno che ci aveva messo un virus. Fece finta di niente e quando sia la ragazza che Burnt se ne furono andati cercò cosa ci fosse che non andava. Ecco: qualcuno aveva copiato l’hard disk del pc centrale. Quei computer erano utilizzati solo dagli alunni, ma da ognuno di quelli si poteva accedere a quello centrale che era stato violato, dal quale, a sua volta, si poteva accedere a tutti gli altri computer della rete. Non al suo, perché il suo era protetto, ma a quello dell’orfanotrofio che si trovava nell’ufficio di Roger. Questo valeva a dire documenti, attestati, informazioni, in poche parole… prove del fatto che la Wammy’s House non era un orfanotrofio come gli altri.
Non c’era motivo perché Burnt o altri ragazzi dell’istituto facessero una cosa del genere, quindi non poteva che essere stata lei.
Matt imprecò, uscì dall’aula e si precipitò al suo powerbook.

L usava ormai sedersi quasi tutti i pomeriggi a fissare il vuoto e creare con la mente il suo libro. Un giallo. Non lo stava ancora scrivendo, lo stava solo elaborando, ma questa era di sicuro la cosa più importante, pensava lui. Ogni tanto passava del tempo con Mello, Near o Matt, che erano felici che lui fosse lì, anche se ovviamente non glielo dicevano mai; piuttosto lo dimostravano con metodi decisamente poco ortodossi e molto personali. Anche L era segretamente soddisfatto della sua decisione di rimanere alla Wammy’s House, e pensava che forse fare il detective non era poi la cosa più importante che dovesse esserci nella sua vita.
A volte gli mancava. Risolvere enigmi, ragionare, trovare i più piccoli dettagli che avrebbero potuto rivelare ogni cosa era stato da sempre il suo lavoro, la cosa che sapeva fare meglio. Però poi, quando sedeva sulla sua panchina o sulla poltrona da lui prontamente prenotata a discapito di altri ragazzini, e s’immergeva nel suo mondo di calcoli matematici, di personaggi fuorvianti e di intuizioni geniali, sentiva di aver trovato qualche altra cosa che gli piaceva fare. Non aveva mai sentito dire che le passioni di una persona dovevano essere singole. E non aveva mai nemmeno preso il suo lavoro da detective come una passione. Forse era incominciata così, ma quando i casi da due erano diventanti venti e aveva avuto la prova fin troppo tangibile di come fosse crudele il mondo, la sua passione si era trasformata in un obbiettivo: distruggere la criminalità. Questo, L lo sapeva bene, sarebbe stato impossibile. Il caso Kira glielo aveva dimostrato ampiamente: nemmeno con uno strumento come il Death Note Kira era riuscito ad eliminare tutti i malviventi. Ma gli piaceva pensare di poter essere una persona in più che collaborava per quello scopo assieme a molti altri. Poco a poco anche il suo obbiettivo si era trasformato in qualcosa di trascurabile: svolgere le indagini non era più così emozionante come lo era all’inizio e il detective si diceva sempre più spesso che il suo fine era qualcosa di irraggiungibile.
Un giorno, mentre mangiava fragole e fissava il vuoto seduto su una poltrona nel salottino di ricreazione, si accorse ad un tratto che qualcuno gli stava parlando. Non aveva fatto caso alla vicinanza di una persona, perché era qualcosa che non lo interessava, così aveva relegato il fatto in un angolo trascurato della sua mente e aveva tirato avanti con i suoi ragionamenti. Ma, chiunque fosse, ora gli stava dicendo qualcosa. Si voltò, gli occhi spalancati come suo solito, e vide la ragazza bionda che tanto aveva turbato Roger. Sembrava fresca di doccia e quel giorno indossava una maglietta con scritto "I’m with genius”, e una freccetta che indicava il suo viso.
“Come?”, domandò L.
“Il poliziotto è una spia”, disse lei con voce ovvia.
Il ragazzo la guardò senza capire.
“Ah scusa, è che parlavi ad alta voce. Sussurravi…”
“Davvero?”, chiese L stupito allargando gli occhi ancora di più. Si domandò quante altre volte lo aveva fatto, e si ripromise di non farlo mai più. Era troppo pericoloso.
La ragazza annuì. “Volevi sapere come mai le informazioni sono passate… magari il poliziotto è una spia.”
“E’ possibile.”
“Di cosa parlavi?”
“Un libro. Giallo. Traffico di armi.”
“Omicidi?”
“Molti.”
“Un traditore?”
“Forse.”
“Vincono i buoni?”
“Ovvio.”
La ragazza fece un sorriso storto e tese una mano. “Piacere, mi chiamo Noodle.”
L le strinse la mano, per niente impressionato dal fatto che la nuova arrivata avesse già uno pseudonimo. Si presentò dicendo: “Ryuzaki”. Gli piaceva il suono di quel nome, ma si disse che forse doveva smettere di usarlo, per ragioni di pura sicurezza.
“Non sei un po’ grande per stare ancora qui? Quanti anni hai?”
“Venticinque. E tu?”
“Diciannove.”
“E’ un luogo adatto per pensare, per questo sono qui. E tu cosa fai?”
Gli occhi di Noodle si affilarono. “Cerco una persona.”
“Chi?”
“Non posso dirlo, a meno che quella persona non sia tu.”
L rimase stupito ma non lo diede a vedere. Non gli sembrava strano che qualcuno lo cercasse in segreto, gli era successo milioni di volte. Non pensava però che qualcuno lo avrebbe mai davvero trovato, soprattutto alla Wammy’s House. In realtà Annika aveva giocato sporco. Prima era entrata nel database del computer dell’orfanotrofio per vedere se riusciva a ricavarne qualche informazione. Ryuk aveva ragione, non c’erano da nessuna parte fascicoli che trattassero i dati sensibili degli orfani della Wammy’s House, né dei suoi dipendenti. Però ora sapeva a quale livello d’intelligenza fossero quei ragazzi. Forse non sarebbero stati i primi della classe, ma avrebbero tranquillamente potuto frequentare il suo stesso corso di laurea, l’unica anomalia era che si trattava di ragazzini per la maggior parte dai sette ai dodici anni. D’altronde erano ancora piccoli, ma chissà cosa sarebbero potuti diventare una volta cresciuti. Aveva scoperto una specie di classifica, una lista di tutti i bambini, e poté comprovare che aveva un ordine ben preciso: intelligenza, logica, cultura. Il primo era un certo Near, poi Mello, al terzo posto Matt. Ma ancora non era riuscito a capire chi fosse L, né aveva trovato il suo nome sulla lista. Era lì, Ryuk glielo assicurava con un ghigno sempre più largo ogni volta che lei perdeva le staffe, ma Annika non vedeva come potesse capire quale, di tutti quei bambini o ragazzi, fosse lui. Aveva tutti gli pseudonimi utilizzati nella Wammy’s House, ma il vero problema stava nel collegarli a dei volti. Dopo una settimana di ricerca aveva convinto Ryuk, con un vero fare da sofista, a dirgli chi fosse L. Ryuk aveva ceduto: si annoiava troppo, e attendere che Annika capisse chi fosse il vero L fra tutti gli abitanti dell’orfanotrofio equivaleva ad un lungo periodo senza divertimento alcuno.
“Ti assicuro che so mantenere un segreto”, disse L. Poi prese la ciotola che aveva affianco e la porse a Noodle come in segno di amicizia. “Fragola?”
“Grazie”, disse la ragazza prendendo un frutto. Lo mangiò in silenzio e con calma. “Sto cercando te. So chi sei”, disse poi.
“Chi sono?”, domandò Ryuzaki con sguardo intenso, quasi non lo sapesse nemmeno lui.
“L.”
“Hai ragione.” Perché negarlo? Ormai sapeva, ed era sicuro che nessuna negazione l’avrebbe mai fatta vacillare. “Perché mi cerchi?”
“Voglio che tu mi dia una mano a risolvere un caso.”
“Sei un detective?”, domandò L.
“No.”
“Polizia?”
“No, non sono nessuno. E’ per questo che mi serve il tuo aiuto. Non posso accedere alle informazioni da sola. Se solo volessi accettare il caso allora saprei almeno di cosa si tratta.”
“Perché?”
“Tu sei un detective, è il tuo lavoro”, disse Noodle come se fosse ovvio.
“Intendo dire: perché vuoi risolvere il caso? Se non sei nessuno…”
“Mio padre lavorava al caso. Faceva parte della CIA e l’hanno ucciso. So solo che si trattava di un duplice omicidio che, inizialmente, era stato affidato alla polizia ma continuavano a spuntare fuori storie sempre più strane, così passò dalla omicidi alla CIA. Mio padre sapeva qualcosa, ci stava arrivando. E l’hanno ucciso.”
“La vendetta è un piatto che va servito freddo.”
“Sono passati già dei mesi…”, affermò Noodle spazientita e rigida.
L rimase un secondo pensieroso, poi si alzò e se andò dicendo: “Sono in pausa”.

Mello indossò i pantaloncini, la maglietta senza maniche e le scarpe da ginnastica, poi si avviò verso la palestra. Fino a poche settimane prima era scettico riguardo alla palestra ma, da quando aveva scoperto di fare fatica a sollevare una cassa che Roger gli aveva chiesto di portare al secondo piano, si era domandato se non fosse il caso di potenziare i suoi muscoli. Quel giorno era tornato in camera e dopo aver constatato che Matt non c’era si era messo in mutande davanti allo specchio. Era magro. Molto magro. Non aveva un muscolo. All’improvviso quella mancanza di massa muscolare lo aveva fatto preoccupare. Il giorno dopo si era messo in tuta ed era andato in palestra. Aveva scoperto che c’erano diversi attrezzi che non lo attraevano per niente, sembravano grosse macchine per body builder. Alla fine, quando stava quasi per perdere le speranze e pensava che, dopotutto, non c'era nulla di male nel suo fisico, aveva individuato qualcosa che forse poteva fare al caso suo. Appeso alla bacheca c’era un avviso: un corso di boxe della durata di sei mesi, che si sarebbe tenuto ogni martedì e giovedì dalle cinque alle sette. Chiunque lo desiderasse poteva iscriversi e Mello vide che c’era già una lista abbastanza nutrita di una dozzina di persone. Era troppo pigro per andare a fare palestra di sua spontanea volontà, un corso almeno lo avrebbe obbligato. La boxe non lo aveva mai particolarmente interessato a dire il vero, ma da bambino spesso si era dedicato al sistematico pestaggio di qualche sfortunato che lo faceva particolarmente arrabbiare. Mello sapeva di essere un attaccabrighe, ed era anche conscio del fatto che non fosse proprio un pregio. Forse imparare un po’ di metodo gli avrebbe insegnato qualcos’altro, oltre che a menar le mani. In fondo era uno sport riconosciuto a livello mondiale, e forse sarebbe servito al duplice scopo di tenerlo allenato e fargli scaricare la tensione. Non trovava strano che la Wammy’s House organizzasse un corso tenuto da un esterno, lo facevano spesso e non era mai successo niente. Scrisse Mello in fondo alla lista e se ne andò.
Il primo Martedì alle cinque lui era in palestra, con i pantaloncini, la maglietta senza maniche e le scarpe da ginnastica. Scoprì assieme a lui dei ragazzi  e anche un paio di ragazze che conosceva, alcuni dei quali sembravano piuttosto intimoriti del fatto che ci fosse anche Mello. Era stato montato un piccolo ring in un’ala della palestra e tutti bighellonavano lì attorno aspettandosi di veder arrivare un sosia di Mike Tyson con un orecchio in mano tenuto come un trofeo. Quando il maestro arrivò si zittirono e lo studiarono: era un uomo sulla trentina, con corti capelli spartani e una muscolatura evidente, non era eccessivamente alto ma parecchio robusto. Mello notò che aveva il naso leggermente storto, probabilmente era un ex boxeur e quel naso era il risultato di una serie di pugni ben assestati.
“Bene ragazzi”, esordì battendo le mani e dando un’occhiata a tutti loro, “mi chiamo James Devon Furthith, ma voi chiamatemi pure, soltanto James. Allora, quel che voglio che capiate, perché è la cosa più importante, è che la boxe è uno sport serio. Insomma, non pensate di venire qui solo perché potrete picchiare la gente. Al contrario! La boxe insegna, prima di tutto, la difesa.” Fece una pausa, il suo sguardo vagò su tutti i suoi nuovi alunni, poi riprese. “Ogni boxeur deve seguire quattro regole fondamentali: muoversi”, e alzò il pollice, “continuamente, non smettere mai, il movimento di gambe e braccia è molto importante. La velocità: è fondamentale in un incontro”, e alzò il dito indice. “Parare prima di colpire”, medio, “e infine, riconoscere quando è l’ora di finirla”, e tirò su l’anulare. Mello poté individuare la striscia bianca sul dito dove poco prima doveva esserci una fedina matrimoniale. “E’ importante riconoscere la propria sconfitta, può essere molto pericoloso ostinarsi a combattere. Ognuno di noi internamente sa quando non ce la può fare, allora si va al tappeto… e ci si resta.” James contò i ragazzi, in tutto erano sedici, un numero pari per fortuna. “Cominciamo con un po’ di riscaldamento. Andate a prendere le corde per saltare, e salterete finché non ve lo dirò io!”
Ci fu un fuggi fuggi verso le corde e quando tutti furono sistemati sparsi nella palestra, assieme alle loro corde, saltarono quasi ininterrottamente per cinque minuti. Non era molto in realtà per una persona allenata, ma Mello sentiva di essere già esausto dopo quello che doveva essere il cinquantesimo salto. Il suo però era uno di quei caratteri particolarmente agguerriti -o cocciuti, che dir si voglia-: non era stufo, al contrario era arrabbiato con sé stesso per avere così poca resistenza. E continuò a saltare, cosciente del fatto che il giorno dopo i suoi polpacci lo avrebbero punito.
“Bene, basta così!”, gridò James. Ci fu un generale sospiro di sollievo, almeno finché non disse: “Via le corde, a terra. Voglio stretching e poi flessioni!”. James sapeva che quel che stava facendo poteva essere anche considerata tortura, ma gli allenamenti di un boxeur non sono mica una passeggiata!, così decise che per temprarli li avrebbe fatti sudare finché non fossero stati pronti.
I ragazzi continuarono per un'ora di riscaldamento, durante la quale fecero tre serie di flessioni (prima con tutte e due le braccia, poi solo col sinistro e viceversa con il destro), sei serie da dieci di addominali e poi esercizi per le gambe. Alla fine i ragazzi erano sfiniti e James diede loro una pausa, tirando fuori un sacco di plastica e dicendogli di scegliere i guantoni. “Teneteveli stretti, vi terrete quelli che vi toccheranno fino alla fine del corso. Se li perdete, li ricomprerete! Se li rompete, li ricomprerete! Se vi ci siete affezionati… me ne comprerete un paio nuovi.” Qualche sorriso si sparse per la sala. James Devon era un uomo rude ma simpatico.
Solo una persona se ne stava in disparte quando James la raggiunse con il sacco. Mello si rese conto che era quella nuova ragazza arrivata a Natale. “Non prendi i guantoni?”, le domandò James.
“No grazie, ho già i miei.” E così dicendo tirò fuori da un borsone dei guantoni marrone chiaro, evidentemente molto utilizzati in passato.
James Devon incrociò le braccia al petto e sorrise. “Tiri di boxe?”
“Da quando avevo quattordici anni.”
“Quindi quanti anni?”
“Cinque.”
James si guardò attorno. C’erano a disposizione in tutto cinque sacchi. “Suppongo che una lezione base su come parare, attaccare e sul gioco di piedi non ti sia utile.”
“Non credo.”
“Facciamo così. Tu vai al sacco mentre io spiego a loro, ma dai un’occhiata a quel faccio, così gli ultimi dieci minuti posso dare una dimostrazione pratica.” Noodle annuì, mise i guantoni e corse verso il sacco più vicino. Mello la seguiva con lo sguardo.
Per i restanti tre quarti d’ora i ragazzi impararono le mosse base per l’attacco, ma soprattutto per la difesa. Fecero esercizi per abituarsi a tenere alta la guardia, la posizione del corpo corretta e come si dovevano muovere i piedi. Alla fine della lezione James Devon aveva già intuito quali erano i migliori del corso, quelli che capivano in fretta e che erano particolarmente portati per la disciplina della boxe. Non erano molti in effetti, solo tre. Uno era un ragazzo alto e dinoccolato di nome Piper (preferì non indagare il perché di quegli strani nomi, così come gli era stato chiesto), aveva una buona difesa e muscoli scattanti. L’altro era un mingherlino di nome Mello, che James era sicuro con un po’ di allenamento si sarebbe rivelato forte abbastanza da poter sostenere un vero round. Il suo punto forte era la velocità. Si muoveva con la stessa eleganza e velocità di una gazzella, un momento era lì, l’attimo dopo si era già spostato. L’ultima perla era una ragazza, Noodle, a quanto pareva una boxeur già allenata.
“Bene ragazzi per oggi è tutto! Ben fatto, davvero! Ci vediamo giovedì alle cinque. Adesso andate a cambiarvi e poi tornate qui, voglio farvi vedere una cosa.”
Tutti uscirono dalla palestra, stanchi ma curiosamente soddisfatti. James Devon si avviò verso Noodle, che per un’ora si era ininterrottamente allenata al sacco, con una determinazione simile a quella che lui avrebbe usato se avesse avuto davanti un avversario cocciuto che non voleva andare K.O. “Noodle?”, chiamò incerto, leggermente a disagio nel dover usare dei soprannomi.
“Si?”, domandò la ragazza fermandosi. Le mancava un po’ il fiato e le guance erano rosse e calde.
“Facciamo questa dimostrazione allora?”
“D’accordo.”
“Hai visto le mosse che ho fatto oggi? Sono abbastanza semplici.” Noodle annuì, poi fece per togliere i guantoni. “Ti aiuto”, disse James tenendo fermo il guantone che lei cercava di sfilare.
Noodle bevve un po’ d’acqua, si asciugò il sudore sulla fronte e sulla schiena e si rimise i guantoni. Salì sul ring e rimase appoggiata alle corde. James Devon era abbastanza curioso di sapere come quella ragazza alta appena un soldo di cacio, che probabilmente poteva sollevare con il minimo sforzo, poteva anche solo pensare a tirare di boxe. Così tolse la maglietta e rimase in pantaloncini e canottiera larga, mise i guantoni e propose, sorridendo: “Ti va di farmi fare un po’ di riscaldamento prima?”.
Noodle annuì e fece un debole sorriso, si alzò dalle corde e si mise su un lato del ring. “Ci sono.”
In quel momento Mello uscì dallo spogliatoio. Fu il primo, e quel che vide segnò una decisione ferma. Dopo aver visto Noodle, così innocua e all’apparenza persino indifesa, volare alla velocità di un falco sul ring, schivare con maestria i colpi, avanzare assieme a tutto il corpo con passi decisi e pugni secchi e mirati, si rese conto che, se una ragazza poteva avere la passione per la boxe, allora anche lui poteva avere una passione per sé stesso. Una passione tutta sua, qualcosa che lo distinguesse dagli altri, che lo rendesse più… Mello. Non voleva essere l’erede di qualcuno, voleva solo essere Mello.

Near stava fissando il suo armadio ma in realtà vedeva tutt’altro. Vedeva una serie infinita di date, luoghi, fatti, persone. Azioni. Conseguenze. Così funzionava la storia. Qualcuno decide di fare una mossa e cambia il destino di milioni di persone. Altri invece, deboli e poco intelligenti, si muovevano di conseguenza, di conseguenza a coloro che avevano abbastanza fegato per cambiare il mondo.
A Near piaceva scervellarsi su queste cose, gli dava come il senso di essere una persona matura, quando invece era ben conscio del fatto di non essere maturo neanche un po’. Non perché giocasse con i robot o perché gli piaceva guardare i cartoni animati, quello lo rendeva soltanto un po’ strano. Più che altro era a causa della sua poca conoscenza del mondo e la sua avversione per esso. Molta della sua immaturità dipendeva anche dall’epica battaglia contro Mello. Gli piaceva essere il migliore, ma non lo avrebbe mai ammesso. Gli piaceva provocare Mello e vederlo infuriarsi come un cane rabbioso mentre lui manteneva la calma. A volte si diceva però che Mello era migliore di lui, in fondo: almeno faceva vedere le sue emozioni, anche se spesso non era necessario né utile. Invece lui, Near, era finto.
Qualcuno bussò alla porta e lo distolse dalle sue farneticazioni filosofiche. Near si alzò e andò ad aprire. “Matt.” Lo fece entrare, si sedette sul letto e domandò: “Cosa c’è?”.
“Ho bisogno di aiuto. Ti devo parlare di quella ragazza. Quella che è arrivata a Natale.”
“Noodle.”
“Lei. Credo che si stia immischiando negli affari della Wammy’s House, ma non riesco a capirne il motivo. L’altro giorno so per certo che è entrata nel database centrale dell’orfanotrofio; ma ho controllato, non ci sono virus, non manca niente. A quanto pare ha dato solo un’occhiata.”
Near ci pensò su un po’. “Perché vieni a dirlo a me?”
Matt scrollò le spalle. “Non lo so… Non capisco perché Roger non la mandi via, era terrorizzato quando è arrivata. Credi che abbia a che fare con la Wammy’s House? E se volessero farla chiudere?”
“Non lo so. Forse dovremmo fare qualche ricerca su di lei. Chiama Mello, ci può aiutare.”
“L?”
“Non credo che sarà interessato. Forse è meglio non coinvolgerlo in questa faccenda, ha già i fatti suoi a cui pensare. E poi voleva prendersi una pausa, no?”
“Sì, forse hai ragione”, disse Matt facendo una smorfia. Si alzò dal letto e disse: “Vado a chiamare Mello”.

Per la prima volta Mello e Matt si ritrovarono nei panni di Near ed L durante l’indagine al caso Kira. Dovevano scoprire tutto su di una persona a partire da zero. Non conoscevano nemmeno il vero nome di Noodle, così cominciarono la ricerca dalle basi. C’erano dei ruoli ben definiti all’interno del gruppo di ricerche: Near snocciolava un’ipotesi dopo l’altra, giocava con i suoi robot e proponeva che cosa fare, e qui entravano in scena gli altri due, Mello seguiva Noodle ovunque lei andasse e il 90% delle volte riusciva anche a non farsi notare, invece Matt faceva ricerche su tutto ciò che passava per la testa ai tre.
Il loro primo incarico fu di una certa portata.
Near si dondolava lentamente su una poltrona, era l’una e venti di notte e tutti e tre avevano sparato ipotesi a raffica su chi fosse realmente Noodle e sul perché fosse lì. Alla fine il più giovane si era stufato. “Spero che vi rendiate conto che non possiamo andare avanti così. Sono passate quasi due settimane.”
Mello sbuffò e mise le mani dietro la testa. “E che cosa dovremmo fare scusa? Non abbiamo nemmeno una cazzo di base da cui partire.”
“Forse Roger la conosce. Perché non chiediamo a lui? Insistiamo”, propose Matt.
Mello assunse un'aria furba. “Forse nell’ufficio di Roger c’è qualcosa di interessante.”
“Vorresti frugare nell’ufficio di Roger?”, domandò Matt incredulo e indignato al tempo stesso.
Mello alzò le spalle. “Che c’è di male? Se lui non ce lo vuole dire…”
“Se possiamo permetterci di guardare nell’ufficio di Roger, perché non guardare direttamente nella stanza di Noodle?”, domandò innocentemente Near.
Matt e Mello si guardarono, poi il rosso indicò il compagno: “Ci vai tu.”
“Perché io?”
“Perché sì.”
“No aspetta, perché invece non facciamo così: io la distraggo, in fondo facciamo boxe assieme da quasi tre settimane, potrò avere il diritto di parlarle senza che s'insospettisca, no? Nel frattempo tu entri nella sua stanza e cerchi quel che devi cercare.”
Matt soppesò l’idea, poi si alzò e si mise a cercare nei cassetti della scrivania, cercando un cd. Quando lo trovò, un cd verde con sopra scritto a pennarello Crow, lo mostrò agli altri due e disse: “Con questo copio l’hard disk del suo pc e riesco ad averci accesso illimitato a tempo indeterminato”.
“Cosa vuol dire indeterminato?”, domandò Mello.
“A meno che non mi scopra e mi cacci fuori a calci -cosa impossibile ve lo assicuro- o che non cambi computer.”
Near allungò il collo, incuriosito. “Che cosa fa esattamente?”
“Se lancio questo programma copio l’hard disk e immetto una serie di file che mi permetteranno, quando trasferirò tutti i dati sul mio pc, di entrare nel suo computer dal mio powerbook. Potrei guardare in tempo reale a cosa lavora e lei non se ne renderebbe assolutamente conto.”
“C’è la seppur minima possibilità che lei ti scopra?”
Matt si strinse nelle spalle e fece una smorfia, alla fine disse: “Il programma rende il pc più lento di qualche millesimo di secondo quando sono nel suo hard disk, quindi in teoria quando lei ha il pc acceso potrebbe rendersene conto. Ma non credo che ci sia pericolo, non sembra un genio. L’ho scoperta in meno di cinque minuti”.
I tre rimasero in silenzio, a pensare. Infine fu Near a prendere la parola: “Mello allenati bene per il prossimo giovedì.”

Near aveva organizzato tutto fin nei minimi dettagli. Si era procurato una piantina dell’edificio completa di condotti di aereazione e tubature. Aveva studiato il percorso che avrebbe dovuto fare nel condotto dell’aria per arrivare alla stanza di Noodle. Purtroppo il tragitto era troppo lungo da ognuna delle loro stanze, così avevano deciso che sarebbero partiti da un bagno che stava da quelle parti. Fece una fotocopia della piantina a Matt e gli chiese di controllare non solo il computer ma tutti i documenti che c’erano nella stanza e fargli delle foto, se per caso risultavano interessanti. Così, giovedì alle cinque, dopo una conferma telefonica di Mello che Noodle fosse in palestra, Matt partì dal bagno per i ragazzi al secondo piano, con un marsupio contenente il cd di crow, una copia della piantina del sistema di aereazione, una macchina fotografica digitale, un cacciavite e il cellulare, in caso di emergenza. Non voleva pensare a cosa sarebbe successo se quella ragazza lo avesse beccato in camera sua a fare foto ai suoi effetti personali e a copiare l’hard disk del suo computer. Mello gli aveva detto che era estremamente portata per la boxe.
C’era stato un profondo dibattito nella coscienza di Matt per quanto riguardava quei condotti di areazione. Sapeva benissimo di essere probabilmente la persona più indicata per quanto riguardava il computer di Noodle, ma sapeva anche bene che le forme longilinee di Mello non reggevano il confronto con le sue nello strisciare nei condotti per l’aria. Non c’era paragone. Ci mise venti minuti buoni, strisciando e sbuffando, avanzando centimetro per centimetro in quel condotto quadrato che non gli permetteva di piegare le gambe abbastanza per avanzare decentemente. Si sentiva quasi come un soldato, che doveva superare una corsa ad ostacoli, il movimento che doveva fare era più o meno quello, quando i soldati passavano a tutta fretta sotto una rete, mimando un’avanzata strisciata a terra per non venire colpiti dai proiettili nemici. Gomito sinistro e ginocchio destro avanti, gomito destro e ginocchio sinistro a seguito. Testa bassa, sempre, altrimenti i proiettili nemici gli avrebbero fatto un buco nel cervello, che era come dire che avrebbe picchiato la testa infinite volte, e avrebbe fatto un rumore del diavolo.
Doveva passare attraverso altre due camere per arrivare a quella di Noodle. Fra l’altro, Matt se lo ricordava bene, quelle che doveva attraversare erano le stanze di due ragazze. Quando arrivò alla prima si fermò davanti alla grata a dare un’occhiata. Vuota. Alzò mentalmente le spalle e continuò la sua traversata. Quando arrivò alla seconda stanza sbirciò per pochi secondi alla grata e quel che vide lo lasciò estremamente deluso: Cinzia, una ragazzina di circa quattordici anni, stava semplicemente leggendo un libro stesa a letto. Matt stava per andarsene il più silenziosamente possibile, era stupito che nessuno ancora lo avesse sentito, ma si fermò, quando qualcuno aprì la porta del bagno. Una ragazza che Matt ricordava chiamarsi Freak, dai capelli neri, lunghi e dritti come fuso, uscì direttamente dalla doccia con i capelli ancora umidi, che stava asciugando vigorosamente a mano. Ma la cosa che Matt notò era che portava solo slip e reggiseno. Si chiese se fosse il caso di scattarle una foto, ma poi si disse che probabilmente era meglio di no, forse lo avrebbero scoperto. Così si limitò ad osservarla beato, mentre lei sceglieva i vestiti. Mise gli occhialini da sub colorati gialli, che a suo parere davano al mondo un aspetto più interessante. Quando finì sospirò, guardò davanti a sé lungo il tubo per controllare ancora quanta strada ci fosse da percorrere e ricominciò a strisciare.
Quando arrivò alla stanza di Noodle si fece scivolare in mano il marsupio, che fino a quel momento era stato sulla schiena allacciato di traverso su una spalla, e tirò fuori il cacciavite. Avevano controllato come aprire i condotti in camera di Near, così si erano armati di cacciavite a stella e pinze, nel caso il lavoro si facesse più complicato del previsto. Quando Matt riuscì ad aprire la grata quella penzolò in giù, e lui cominciò a calarsi a terra. Per fortuna si trovava quasi sopra il letto, e non gli fu difficile saltarci sopra. Matt si guardò attorno, individuò il computer sulla scrivania e lo accese. Mentre quello si avviava cominciò a rovistare con metodo nei cassetti. Vi trovò un manoscritto, diversi libri di testo che potevano essere utilizzati all’università, molto probabilmente in una facoltà scientifica, di autori che Matt aveva sentito citare raramente. Fra i documenti cercò disperatamente una carta d’identità, un passaporto o la patente, ma poi si disse che molto probabilmente Noodle non poteva essere così stupida da lasciare in camera dei documenti che attestassero la sua identità in un luogo dove tutti la tenevano segreta. Trovò delle carte riguardo la morte di un certo Stephen Tempor. Matt fece delle foto ai documenti, lanciò crow e copiò in quindici minuti tutto l’hard disk del computer di Noodle in modo da potervi avere libero accesso. Mise via il cd, poi si guardò attorno. Forse non c’era nient’altro che valesse la pena di controllare, in fondo nella stanza c’erano soltanto una scrivania, un letto, un comodino, un armadio e il bagno. Dove altro potevano esserci delle cose di rilevante valore? Ogni stanza era dotata di una piccola cassaforte, ma Matt dubitò di riuscire a trovare il codice per aprirla. Poteva essere qualcosa di estremamente personale e lui non era mica uno scassinatore. Di solito lui e Mello usavano la cassaforte per mettervi dentro tutte le loro cose compromettenti: alcool, sigarette, preservativi, giornaletti pornografici. Oppure cose che avevano un significato affettivo particolare, come ad esempio fotografie, e più raramente lettere.
Matt guardò l’ora: aveva ancora tempo. Sapeva che il corso di boxe sarebbe finto di lì a dieci minuti circa, Mello gli aveva detto che Noodle di solito ce ne metteva altri venti per fare la doccia, cambiarsi e uscire. Contando poi sul fatto che Mello l’avrebbe trattenuta per un’altra mezz’ora aveva circa un’oretta a disposizione prima di dover pensare a risalire per il condotto dell’aria.
Matt aprì l’armadio, ma vi trovò solo pochi vestiti, quasi tutti esclusivamente neri, fra i quali individuò una maglietta con la scritta: Grazie per il drink. Nel primo cassetto del comodino c’erano libri e cd, nel secondo biancheria intima. In bagno non c’era nulla di strano, così Matt si chiese se non fosse meglio andare. Cercò con lo sguardo la cassetta di sicurezza e vide che era incastrata fra l’armadio e la scrivania. La freccia della serratura era puntata sul sette. Matt non voleva passare guai, ma non sapeva nemmeno perché lo stava facendo: poggiò l’orecchio sul metallo freddo della cassaforte e ascoltò attentamente. Non sapeva che cosa stava aspettando, forse un click delicato della serratura, ma ad un tratto un suono lo fece sobbalzare. Non una serratura che dettava la riuscita della sua impresa, ma un cellulare. Un messaggio da parte di Mello: sta tornando in camera.

Dopo un pugno micidiale Mello si rialzò, stordito. Davanti a lui stava Noodle, che saltellava tenendo alta la guardia. Il ragazzo mise una mano davanti a sé e disse senza fiato: “Pausa, eh?”.
“Come preferisci”, ghignò Noodle.
Purtroppo per lui quello era l’unico modo che Mello aveva trovato per trattenerla, e se continuava così non l’avrebbe fermata che per altri cinque minuti. Era già la seconda volta, in pochissimo tempo, che finiva per terra. All’inizio non gli pareva di andare così male, ma poi un destro ben assestato da parte di Noodle lo aveva completamente scombussolato. Da quel momento in poi, l’incontro era andato a rotoli.
Quando l’ora e mezza di boxe era finita, mentre tutti si avviavano negli spogliatoi, Mello aveva raggiunto Noodle in fretta. “Noodle aspetta!”
La ragazza si era voltata e, inaspettatamente, quando se l'era ritrovato davanti aveva sorriso. “Mello.”
Il biondo era stupito del fatto che conoscesse il suo nome perché Noodle non dava l’impressione di interessarsi ad altro che al suo personalissimo mondo, che escludeva qualsiasi cosa o persona che non le interessasse. Così Mello aveva ricambiato il sorriso, e detto: “Volevo chiederti se ti va di fare un giro magari.”
“Adesso?”, aveva chiesto Noodle alzando le sopracciglia. “E dove?”
“Non lo so.”
“Ma voi potete uscire da qui?”
“Dipende. Io ad esempio sì, quando voglio. Perché ho diciassette anni. I più piccoli hanno bisogno del permesso.”
Noodle si era appoggiata con il gomito ad una cyclette, aveva ghignato e aveva chiesto: “E dove vorresti andare?”
“Non lo so, a fare un giro.” Noodle aveva fatto un’espressione curiosa, che Mello non riusciva ad interpretare, così si affrettò ad aggiungere: “Ma possiamo anche rimanere qui per oggi, e mi spieghi perché siamo alti uguali, forti uguali, e nonostante tutto io faccio più fatica di te a mandare al tappeto quel cretino di Stan.”
A quel punto Noodle parve più interessata. “Sta tutto nella difesa. Tu sei veloce, ma ti dimentichi di tenere alta la difesa, così incassi un sacco di pugni che potresti benissimo evitare, che ti indeboliscono. Vieni, ti faccio vedere”, aveva detto avviandosi sul ring e rimettendo i guantoni.
…e così Mello si trovava, per la seconda volta, a vedere il mondo capovolto, mentre volava all’indietro e non capiva bene che cosa fosse accaduto. Solo dopo, a terra, poteva sentire un sordo pulsare allo zigomo. In altre circostanze si sarebbe arrabbiato moltissimo ad essere stato mandato al tappeto da una ragazza, ma quella volta considerava che Noodle faceva boxe da anni, che era più in forma di lui, che era più grande di lui, e che avrebbe staccato la testa a Matt se lo avesse trovato nella sua stanza a frugare fra le sue cose.
Una volta in piedi Mello riprese fiato, quando nel suo campo visivo apparve una bottiglietta d’acqua naturale. Alzò lo sguardo e vide Noodle, che sorrise dicendo: “Tieni, la prossima volta se vuoi riproviamo.”
Mello prese l’acqua e ne bevve a grandi sorsate, finché non ebbe placato la sete, ma poi si rese conto che Noodle stava andando via. Imprecò mentalmente e la seguì. “Te ne vai?”
“Per oggi mi sa che basta così, o no? Non dovresti esagerare, e non diventare fanatico.” Detto questo la ragazza si rinchiuse negli spogliatoi femminili e Mello rimase fuori. Decise se aspettarla e convincerla in qualche modo a restare, o magari avvisare Matt. La verità però era che non poteva più bloccarla senza che lei non sospettasse nulla, così prese il cellulare e scrisse un messaggio.

Matt salì sul letto, sperando di non lasciare tracce di sporco con le scarpe, poi saltò, tentando di arrampicarsi sul condotto dell’aria. Ci arrivò per un pelo, dopo tre salti sul materasso, e vi si aggrappò con tutte le sue forze. Si fece dondolare un po’, rinsaldò la presa, si issò e sgusciò dentro il condotto. Per la fretta e la paura si dimenticò di girarsi verso il lato opposto dal quale era venuto, ma non ci pensò, così dopo aver risistemato la grata si ritrovò girato dalla parte sbagliata. Non poteva voltarsi, e non poteva evitare di fare molto rumore se procedeva al contrario, così decise di andare avanti. Prima o poi, si disse, avrebbe trovato la camera di qualcuno che conosceva. Passò alla stanza successiva, dove non c’era nessuno, andò ancora avanti, ma c’erano delle bambine che aveva visto solo di rado: se fosse piombato nella loro stanza lo avrebbero subito detto a Roger. Passò in tutto cinque stanze, e stava quasi per perdere la pazienza e rinunciare, uscendo nella prima che gli fosse sembrata propizia, anche a costo di farsi scoprire da Roger. All’improvviso però vide dall’alto una stanza che riconosceva. L.
Non c’era nessuno nella camera, ma L avrebbe di sicuro capito, non si sarebbe arrabbiato. Cominciò a lavorare di cacciavite, a quel punto era disperato e desideroso di uscire. Gli stava quasi prendendo un attacco di claustrofobia, e dire che lui non ne aveva mai sofferto. Staccò la prima vite, che cadde con un rumore metallico, staccò anche la seconda e la grata si aprì. Matt, letteralmente, si gettò nell’apertura e in quello stesso istante dal bagno uscì L, fresco di doccia e con addosso i soliti jeans lisi.
Quel che vide fu una figura cadere dal suo soffitto con un rantolo terrificante. La vide rotolare sul pavimento dopo una caduta ad angelo dall’altezza di circa tre metri, emettere un grido, e tenersi il braccio. Solo in quell’istante riconobbe Matt. Il ragazzo era pallido come un lenzuolo, leggermente tremante, il viso contratto in una smorfia di dolore. Aveva tutti i vestiti impolverati e portava un marsupio di traverso sulla schiena. Quando il ragazzo aprì gli occhi L vide che stava quasi per piangere. Erano tutti lucidi e contratti dal dolore.
“L! Scusa, scusa! Non volevo disturbarti!”
“Ciao”, rispose L prendendo una maglietta bianca a maniche lunghe da un cassetto e indossandola. “Ah, è vero!”, disse poi illuminandosi, “Oggi è il tuo compleanno. Auguri.”




















Salve bella gente! :D
Allora, per prima cosa vorrei ringrazie tantissimo le persone che hanno recensito, grazie per aver dato la vostra opinione perchè è davvero molto bello sapere che qualcuno s'interessa tanto alla storia da lasciare scritta un'opinione :)

Passo ad alcune precisazioni sul capitolo.
Il soprannome "Noodle" non me lo sono inventato. Noodle è il nome di certi spaghetti cinesi, ma in particolare quando l'ho deciso mi riferivo alla chitarrista della cartoon band Gorillaz, perchè lei è un personaggio davvero divertente e mi piaceva come psudonimo.
Le magliette di Annika; anche quelle sono inserite solo perchè mi fanno ridere. Le prime due me le sono inventate, l'ultima, "Grazie per il drink", l'ho ripresa dall'anime di GTO (non so bene dove fosse scritto, ma c'era).
Per il programma di Crow mi sono liberamente ispirata alla descrizione del programma che viene utilizzato in "La ragazza che giocava con il fuoco", di Stieg Larsson, perchè io sono una cippa con i computer, quindi tutte le mie informazioni riguardo ad hacker e simili o sono riprese da qualche lettura o sono inventate sperando di non fare un grosso buco nell'acqua e dire cose che non stanno né in cielo né in terra.
Passo a qualcosa di più importante, che ho molto a cuore: vorrei sfatare il mito dell'L detective. Non so esattamente perché, ora non uccidetemi. Ho voluto che ognuno dei personaggi compisse un percorso, e quello di L è lontano dal suo lavoro di detective; gli permette di scoprire una parte di lui diversa da quella che conosceva tanto bene. Già nel prologo venivano mostrati i suoi dubbi riguardo alla sua carriera, e adesso viene presentata un'alternativa a quella, qualcosa che potrebbe diventare una vocazione per lui. Siccome stiamo parlando di L, comunque, è ovvio che non può fare le cose come i comuni mortali, e prima di mettersi a scrivere penserà a tutta la trama del suo libro senza toccare una biro xD
E infine arriva Mello. xD Anche per lui ho pensato a qualcosa di particolare, e siccome mi è sempre dispiaciuto un po' del fatto che tentasse di diventare erede di L e non ci riuscisse mai (anzi, finisce proprio male, poveraccio!) allora ho pensato di procurargli quache altro interesse. Fra l'altro, è stato divertentissimo parlare di Mello che non ha fisico! xD L'immagine di lui che sale le scale spompato mi fa troppo ridere!
A proposito di boxe: James Devon all'inizio doveva avere un ruolo più ampio anche nei prossimi capitoli, ma alla fine ho lasciato perdere... forse perchè non mi stava troppo simpatico. Inoltre, non ho mai partecipato ad una lezione di boxe in vita mia, ma spero di non aver fatto gaffe (più avanti ci saranno anche delle scene di lotta, non avete idea di quanti video su you tube abbia guardato per capire come si muovo i boxeur xD).

Avviso importante per il futuro: i nomi di tutti gli orfani della Wammy's House saranno svelati in giro per la storia. Vi avviso nel caso ancora non li sappiate e non vogliate rovinarvi la sorpresa!

Per parlare di cose più divertenti, se vi va di vedere qualche disegno idiota su questa fanficiton andate su questa pagina. Se invece volete leggere un piccolo spoiler andate qui.

A questo punto credo di aver detto abbastanza :)
A Lunedì prossimo Shinigami, abbiate pietà delle anime altrui!
Patrizia

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Capitolo 4
*** Noodle is not just pasta ***


Capitolo tre
Noodle is not just pasta





Il braccio di Matt si era rotto in due punti diversi del radio: all’altezza del gomito e poco più sotto. Ci erano volute tre ore per ingessarlo e Matt era talmente agitato che prima avevano dovuto riempirlo di antidolorifici, poi era quasi svenuto. Cadendo, il ragazzo aveva messo le mani di fronte a sé d’istinto, ma non aveva fatto i conti con il pavimento fatto di piastrelle. A causa della posizione del braccio e dell’urto molto forte che aveva avuto, l’osso si era mosso contro il legamento del gomito, incrinandosi, e poi più sotto si era spezzato di netto. Se Mello ripensava all’amico mentre i dottori gli si affaccendavano attorno gli venivano le lacrime agli occhi dalle risate.
Solo Near, Mello, L e ovviamente Matt sapevano come si era rotto il braccio, ma la versione ufficiale che diedero a Roger era che Matt fosse andato a trovare L per chiedergli un favore e, a causa della sua naturale sbadataggine, era scivolato. Matt non possedeva una particolare sbadataggine ma i ragazzi contavano sul fatto che Roger non lo sapesse. L aveva acconsentito a non dire nulla su cosa fosse successo in realtà e doveva ammettere con sé stesso che questa storia gli piaceva parecchio: nascondere qualcosa a Roger lo faceva tornare un ragazzino come gli altri lì alla Wammy’s House. “Mi spiegherete poi”, aveva accennato, ben sapendo che i ragazzi nutrivano per lui un certo rispetto e che quindi gli avrebbero detto la verità senza troppi ripensamenti.
Dopo due giorni e una notte Matt fu dimesso dall’ospedale e poté tornare alla Wammy’s House, sotto lo sguardo attento delle infermiere, con un gesso che doveva tenere per un mese e mezzo. Il gesso partiva da sopra il gomito, piegava in corrispondenza di esso e proseguiva fino a lasciar libero il polso, che era rimasto indenne. Di questo Matt si rallegrava, perché almeno poteva stare al pc piuttosto liberamente senza dover faticare anche per muovere le dita. Ma il primo giorno dal suo ritorno all’orfanotrofio ebbe altro da fare.
Stavano tutti in camera di Near a controllare la documentazione che avevano sottratto a Noodle. Fecero delle ricerche su Stephen Tempor, ma non trovarono poi molto a parte notizie generiche come il fatto che fosse nato cinquantadue anni fa in Oklahoma e morto nel Settembre dell’anno appena passato. Non c’erano dati che rimandavano ad un lavoro, una famiglia, un’abitazione, nulla. Nemmeno entrando negli archivi degli uffici appositi riuscirono a scovare niente su quell’uomo. Poteva essere chiunque per quel che ne sapevano: un barbone o un principe. Era una persona che era esistita, tutto qui, ma a quanto pare non aveva lasciato tracce del suo passaggio.
“Ma questo è impossibile”, attaccò Matt scoraggiato, per la trentesima volta, a mezzanotte e quarantatré minuti. “Tutti lasciano tracce! Cos’ha fatto quest’uomo per tutta la sua vita? Niente? E anche se fosse dovrebbe esserci qualcosa lo stesso. Dovrebbe esserci scritto, da qualche parte, che era un coglione che amava perder tempo!” Matt riprese a sbuffare, contrariato.
Mello rilesse per la centesima volta l’attestato di morte di Stephen Tempor. “Morte causata in seguito a ferita da arma da fuoco. Questo già ci dà un indizio: poteva essere un poliziotto, o un criminale.”
“Può anche essersi trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato”, osservò Matt con aria svogliata. Near scivolò al suo fianco e si mise il suo braccio ingessato sulle ginocchia. Matt non ci diede più di un’occhiata e lo lasciò fare, girandosi a parlare con Mello. “Facciamo così, vediamo se troviamo qualcosa sul pc di Noodle, altrimenti non so più cosa fare. Prendi crow e avvialo.”
Mello avviò crow e quello cominciò a trasferire una copia dei file del pc di Noodle. A circa metà lavoro richiese dei codici, così Matt disse: “Passa…” Fece per alzare il braccio ingessato e lanciò un’occhiata a Near. “Ma che cazzo stai facendo?!” Near sorrise soddisfatto, alzò il pennarello dal gesso e ammirò la sua opera. Un robot disegnato con indelebile rosso scuro campeggiava sull’avambraccio di Matt, con due antenne, due occhi luminescenti e un corpo e degli arti quadrati. “Deficiente”, borbottò Matt. Mello osservò il disegnino e ridacchiò, passandogli il portatile.
Matt scrisse dei codici, schiacciò qualche pulsante e il processo raddoppiò velocità. In cinque minuti aveva finito. “Allora”, mormorò il ragazzo, gli occhi fissi e tondi sullo schermo, “vediamo cosa c’è in quel pc.” Passarono altri cinque minuti, poi gli altri due videro che Matt aveva corrugato le sopracciglia.
“Cosa c’è?”, domandò Mello, che era scattato sull’attenti e si era messo al fianco dell’amico. Vedeva una schermata che doveva essere quella del pc di Noodle, sovrastata da diversi codici che Mello non riusciva a comprendere, su quella Matt si muoveva con il proprio mouse.
“E se il suo pc fosse acceso in questo momento?”, domandò Near.
“Non mi può vedere”, disse velocemente Matt. Il ragazzo fece una pausa e si volse verso gli altri due con le sopracciglia aggrottate. “Questo computer non è di Noodle. E’ di Stephen Tempor.”
I ragazzi si guardarono esterrefatti, infine Near parlò: “Stephen Tempor muore in seguito a colpo di arma da fuoco, poco dopo una ragazza appare qui con il suo pc. L’ha ucciso lei?”

Tre giorni dopo i ragazzi avevano dipinto un interessante e quanto mai ricco quadro a proposito di Noodle. Erano tutti d’accordo, da alcune osservazioni che Matt aveva fatto nella camera della ragazza e dai file nel suo computer, che Noodle fosse una sorta di genio, come loro. Intimamente tutti e tre la ritenevano più genuina. Forse perché lei non era stata sottoposta a test fin dall’infanzia per poi finire in un orfanotrofio perché ‘potenziassero’ le sue capacità, forse perché immaginavano venisse da una famiglia come le altre, che i genitori la incoraggiassero a dare del suo meglio, qualcosa che nessuno di loro aveva mai avuto. Erano giunti a quella conclusione soprattutto dopo che Matt aveva rovistato nel suo pc con cura certosina, e aveva trovato un testo inserito dopo la morte di Stephen Tempor -doveva essere quindi per forza di Noodle- che riportava un tesi scientifica a quello che era il livello di un matematico di professione. Near lo lesse con interesse quasi maniacale, ne stampò una copia e per almeno una settimana se lo portò dietro assieme ad un piccolo quaderno, nel quale scriveva esercizi complicati, copiava dimostrazioni, poi cancellava tutto e ricominciava daccapo.
Matt ricercava con costanza informazioni su Stephen Tempor, sia nel pc di Noodle che altrove. Aveva scoperto che Tempor doveva essere un uomo importante, un poliziotto che lavorava ad un caso particolare, oppure persino un agente dei servizi segreti americani. I ragazzi avevano sgranato gli occhi quando si resero conto che potevano essere implicati nomi quali FBI o CIA, e un caso che a quanto pare coinvolgeva droga e prostituzione. Si chiesero che cosa diavolo potesse c’entrare tutto questo con la Wammy’s House. Nel computer di Tempor trovarono, ovviamente, pochissime informazioni, se non quelle basilari che non dovevano essere secretate e si potevano probabilmente trovare in un qualsiasi ufficio della polizia, se non addirittura sui giornali. In compenso avevano qualcosa da dove sarebbero potuti partire per le ricerche sul caso che seguiva, che forse avrebbe potuto aiutarli a capire chi fosse il suo assassino, perché lo avesse ucciso, e chi fosse realmente lo stesso signor Tempor. Oltre che trovare un legame fra lui e Noodle e fra Noodle e l’orfanotrofio. Diversi documenti che parlavano di trafficking e di vendita di grosse quantità di droga facevano spesso allusione a qualche cosa di più grande, e i ragazzi trovarono spesso citato il nome di un giudice: Harold Gebert.
Harold Gebert, secondo le ricerche realizzate da Matt, era un uomo di sessantaquattro anni, un giudice tutelare che abitava a New York. Sposato da quarantadue anni con un’avvocatessa, che poco dopo il loro matrimonio aveva smesso di esercitare, aveva due figli ormai grandi. Era considerato una persona estremamente capace nel suo mestiere, specializzato in casi che trattavano bambini dalla prima infanzia ai dieci anni circa. Matt scoprì dove lavorava e contattò un altro hacker, che sapeva essere statunitense, per poter accedere ai dati riguardati Harold Gebert e i suoi casi. Una settimana dopo, previo pagamento di una grossa somma che poté saldare solo grazie ai lavori di hacking su commissione, ebbe libero accesso ai pc dell’ufficio tutelare, compreso quello del giudice Gebert.
Nel frattempo Mello si dedicava ad un altro tipo di ricerca. Ogni Martedì e Giovedì si trovava a prendere più botte di quante non ne avesse mai ricevute in vita sua. Nemmeno quando abitava con suo padre riceveva tanti scapaccioni, ma al contrario di quelli che avevano costellato la sua infanzia, per i nuovi era preparato, e la cosa che gli piaceva di più era poter rispondere per le rime. Dopo la prima seduta lui e Noodle avevano preso l’abitudine di rimanere sul ring altri quindici o venti minuti per boxare ancora un po’. Mello era soddisfatto dei risultati, prima di tutto perché vedeva il suo corpo longilineo e delicato farsi più muscoloso e resistente, ma anche perché era in costante miglioramento con le tecniche sportive.
Un giorno, dopo un’extra seduta di box, Mello sedette sul ring e appoggiò la schiena alle corde. Tolse i guantoni, sorridendo soddisfatto, e chiuse gli occhi.
“Mello.”
Il ragazzo aprì gli occhi e Noodle gli lanciò una bottiglietta d’acqua. “Grazie”, disse lui, poi bevve avidamente. Quando fu dissetato si bagnò il viso e la base del collo. “Noodle, ma che fai qui tutto il giorno?”, domandò per pura curiosità.
La ragazza alzò le spalle e non rispose. “Quello che fai tu.”
“Quindi un bel niente”, disse Mello ridendo. “A proposito, la mia proposta è ancora valida, sappilo.”
“E quindi che vogliamo fare?”
“Non lo so”, Mello si strinse nelle spalle. “Andiamo a bere qualcosa.”
Noodle esitò, poi sorrise debolmente e disse: “Ti va di farmi compagnia domani sera? E’ il mio compleanno”.
“Sul serio?”, domandò Mello stupefatto. “E quanti ne fai?”
“Venti. Tu quanti ne hai?”
“Diciassette, compiuti da poco. A Dicembre.”
“Allora ti va se domani usciamo?”
“A me va benissimo”, disse Mello alzandosi. “Domani alle 8.00 davanti all’uscita. Ti porto fuori a cena per festeggiare.” Il ragazzo abbozzò un sorriso, non diede neanche il tempo a Noodle di replicare che era già fuori dalla palestra.

Era il 13 Febbraio. Il giorno del suo compleanno. Noodle si era svegliata da sola, in un letto che non era il suo, in un luogo che non conosceva, con accanto uno Shinigami che la guardava ad occhi sgranati e sorrideva di quel sorriso terribile, spingendo verso di lei una torta.
“Ryuk, dove l’hai presa quella?”, domandò Noodle strofinandosi gli occhi quando realizzò che, probabilmente, una torta se n’era andata in giro svolazzando a mezz’aria agli occhi di tutti.
“L’ho presa dalla cucina. I dolci degli umani sono molto grassi, preferisco le mele. Però questo ce le ha dentro.” Lo Shinigami osservò la torta e la spinse nuovamente verso Noodle. “Tagliala. Ti ho portato anche il coltello.”
Fu strano mangiare una torta per festeggiare il suo compleanno assieme ad uno Shinigami, ma Noodle era talmente giù di morale che considerò addirittura una fortuna che Ryuk fosse lì. In realtà lei non aveva mai dato grosse feste per i suoi compleanni, anche perché non avrebbe avuto molta gente da invitare, però suo padre aveva sempre insistito per festeggiare e ogni anno la portava a fare qualsiasi cosa lei volesse. Ricordava le giornate memorabili passate al parco divertimenti da bambina, o quando era più grande al ristorante giapponese o messicano e poi in giro per la città a vedere qualche spettacolo, oppure in macchina fino ad Atlantic City. Il suo ventesimo compleanno, tuttavia, si dimostrò diverso da come poteva immaginarlo anche nelle sue fantasie più sfrenate.
Da quando era arrivata Noodle tentava di convincere L a prendere il caso, ma lui era irremovibile. Diceva che non avrebbe più lavorato come detective almeno per qualche tempo. Parlava di anni. Lei aveva cercato di convincerlo con argomentazioni logiche, poi aveva tentato di smuoverlo con la pietà, infine si era addirittura detta disposta a qualsiasi cosa lui volesse purché le desse una mano. Ma cosa poteva volere un ricco detective da lei? Semplicemente, L non aveva voglia di farlo, e non lo avrebbe fatto solo perché lei glielo stava chiedendo per favore.
Alla fine Noodle aveva preso in mano il Death Note e si era seriamente chiesta se non fosse stato il caso di usarlo. Dopotutto aveva un’arma potentissima di cui poteva disporre come voleva, e non la utilizzava. Chiunque altro avrebbe ucciso per un potere del genere. Kira, ad esempio. Fatto sta che non sapeva nemmeno come utilizzarla. Senza quasi accorgersene Noodle si alzò, andò all’armadio, aprì un cassetto e sollevò il doppiofondo che aveva costruito lei stessa. Era quasi impossibile da individuare, e nascondeva il quaderno in una fessura dell’armadio. Per nasconderlo bastava infilarcelo dentro, riprenderlo era un po’ più complicato ma ne valeva la pena. Si sedette sul letto e lo guardò, stringendolo forte fra le mani mentre Ryuk la guardava con un misto di curiosità e speranza. Tutto sarebbe stato estremamente più interessante se Noodle avesse deciso di utilizzare il Death Note.
Per un po’ Noodle non si era posta il problema, ma qualche tempo dopo aveva pensato di dover’ essere impazzita. Vedere uno Shinigami non era segno di sanità mentale, e il fatto che lei avesse fatto un viaggio dall’altra parte del mondo su consiglio di questo essere era anche peggio. Si chiese se per caso non dovesse temere per la sua salute e quella di chi le stava attorno. C’era un solo modo di verificare la sua sanità mentale: utilizzare il Death Note ed essere sicuri che funzionasse.
“Ryuk… come faccio a controllare che questo funzioni senza utilizzarlo?”
“Fallo usare a qualcun altro.”
“Ma se lo utilizza qualcun altro allora ti vedrà… e poi non voglio che quando muoia vada nel Mu, e non voglio nemmeno che muoia un’altra persona. A meno che non sia un pazzo assassino psicopatico, allora potrei anche sacrificarlo per questa causa.” Noodle rimase pensosa per un po’. “Scommetto che anche Kira diceva così.”
Ryuk si strinse nelle spalle. “Lui era di vedute particolari.” Ryuk rimase un attimo in silenzio. “Potresti sempre resuscitare qualcuno e avere la prova che funziona.”
Noodle alzò la testa di scatto. “Resuscitare? Andrei lo stesso nel Mu? Come funziona? Come faccio a sapere che le persona morta è resuscitata?” Si illuminò improvvisamente. “Posso richiamare papà!”
Ryuk piegò la testa senza distogliere lo sguardo dalla ragazza, come un grottesco cane con il padrone. “Ah… vedi, qui ci sono dei piccoli imprevisti.”
“Ossia?” Noodle si rabbuiò.
“Be’ tuo padre adesso è uno Shinigami, non può più tornare indietro.” Rimasero un secondo in silenzio poi Ryuk, intuendo che Noodle aveva avuto, anche solo per un secondo, la speranza di poter riportare in vita suo padre, che era stata prontamente da lui distrutta, colto da un attimo di pietà continuò il discorso distogliendola dai suoi pensieri. “La persona resuscita nel luogo in cui è morta.”
“Ed è cosciente di essere resuscitata? E della sua vita passata, eccetera? E se fosse morta per una ferita?”
“Il corpo è completamente nuovo, la coscienza è la stessa.”
“E finirei nel Mu?”
“Purtroppo si. Chiunque utilizzi il quaderno finirà nel Mu, senza eccezioni su come lo utilizza.”
Noodle rimase pensosa, poi aprì il Death Note. Trovò subito una pagina che le interessava: Stephen Tempor. Sfogliando altre pagine e almeno una cinquantina di nomi dalle morti più fantasiose trovò anche altro: Misa Amane. Aprì il pc e cominciò a fare una ricerca.
Mezz’ora dopo sapeva che Misa Amane era una modella e attrice molto famosa e apprezzata nel suo paese. Tokio, Giappone. Aveva partecipato a diversi film e fatto anche un cd musicale… Era morta l’anno prima.
“Ryuk perché hai ucciso questa ragazza? Si può sapere?”
Ryuk sghignazzò. “Era giunta la sua ora. Non ci ho guadagnato neanche tanto, le rimanevano solo due anni.”
“Ma che vuol dire?”, disse Noodle sbuffando. “Per quale motivo doveva essere giunta? Aveva un anno in meno di me, santo cielo! Avrebbe avuto la mia età se fosse viva adesso!”
Ryuk fece una faccia strana e disse: “Puoi resuscitarla se vuoi, ecco la gomma.” E le tese una gomma bianca rettangolare, un po’ smussata agli angoli. Voleva dire che era stata usata in passato. Per chi?
Noodle la prese in mano, dubbiosa. Non voleva immischiarsi in faccende più grandi di lei, cose trascendentali, cose spirituali. Personalmente non ci aveva mai creduto, non aveva mai nemmeno creduto in Dio, ma l’incontro con lo Shinigami gli aveva donato un nuovo pensiero riguardo a certi argomenti.
Prese in mano la gomma e la poggiò sul foglio. Ryuk fece uno strano singulto. La ritrasse.
Non serviva a niente resuscitare una ragazza giapponese tanto famosa, avrebbe soltanto scatenato il caos. E quella era l’ultima delle sue ambizioni. Mise via la gomma e nascose nuovamente il Death Note.
“Ci penserò un’altra volta”, disse dirigendosi in bagno. “Voglio prepararmi subito per stasera, altrimenti faccio come al solito le cose all’ultimo minuto.”
Quel giorno Noodle uscì e pensò se non era il caso di comprarsi dei vestiti nuovi siccome indossava sempre gli stessi. In fondo era il suo compleanno, poteva benissimo farsi un regalo. E poi era un’occasione speciale, no? Non aveva la minima idea di dove Mello volesse portarla, ma non gli sembrava affatto un tipo da posti eleganti. Durante la campagna di conquista degli abiti nella via di Londra più trafficata che avesse mai visto (nonché una delle poche che conoscesse) si disse che i negozi erano troppi per lei e le sue scarse doti di shopping-maniaca, così deviò verso un bar e ordinò una  Guinness. Rimase lì quasi un’ora senza fare nulla di particolare, prima di alzarsi, pagare, e uscire di nuovo. Almeno si sarebbe comprata delle scarpe, aveva deciso in quell’ora. Diede un’occhiata ai negozi senza troppo entusiasmo e alla fine, quasi per disperazione, comprò un maglione di due taglie più grande color grigio scuro, delle collant e una minigonna nera a palloncino. Si fermò a comprare un trancio di pizza e tornò all’orfanotrofio per le tre e mezza. Fece la doccia, si depilò, si truccò, infilò in una borsa tutto quel che le serviva e infine si guardò allo specchio.
Il primo pensiero che le passò per la testa era di non essere proprio da buttar via. Il secondo, che era una cretina.
Perché mai sprecare una giornata intera per un appuntamento con un ragazzino di diciassette anni? Non lo conosceva neanche, non le interessava conoscerlo, e probabilmente lui l’aveva invitata ad uscire solo per pietà. E poi, Cristo!, aveva diciassette anni! Fu tentata di andare a cercare Mello e di disdire tutto quanto, tornare in camera sua, finire la torta alle mele, fare qualche altra ricerca al computer e poi mettersi a letto. Ragionando meglio si disse che probabilmente quello l’avrebbe solo fatta stare peggio, invece uscire le avrebbe fatto bene. Non vedeva la luce del sole se non per andare a comprare il minimo indispensabile per mangiare dato che Roger, per puro dispetto, non le passava la mensa dell’orfanotrofio.
Ryuk, mentre lei si chiudeva la porta alle spalle, disse: “Non ho voglia di andare in giro, resto qui.”
Noodle lo guardò perplessa dal corridoio e disse a voce bassa per non farsi udire da nessuno: “Ma non mi dovevi seguire dappertutto?”
“Ricordati che c’è anche L qui, posso stare anche dove c’è lui.”
“Non lo sapevo.” Si strinse nelle spalle: “Be’ non farti vedere. A domani Ryuk”.

“Dove vai vestito come uno stripper? Sembra che devi dare uno spettacolo sadomaso al Mouline Rouge”, disse Near con voce piatta osservando Mello che infilava le scarpe.
Il ragazzo gli lanciò un’occhiata storta ma alla fine decise di non rispondere. Si, è vero, aveva addosso dei pantaloni di pelle stretti neri, anfibi, una maglietta nera a maniche lunghe e un cappotto di pelle. Non c’era motivo però di fare tutto quel chiasso, in fondo erano i suoi vestiti di sempre; solo che quella volta ci aveva messo un’attenzione tutta particolare nel prepararsi.
Matt sghignazzò e disse, senza staccare gli occhi dal game boy: “Mello esce con una”.
“Davvero? Con chi?”
Matt mise pausa e alzò lo sguardo. “E’ vero, con chi?”, domandò guardando Mello. “Non me lo vuoi dire?”
“Col cazzo.”
“Che vuol dire col cazzo?”, scimmiottò Matt in una pessima imitazione dell’amico.
“Vuol dire che devi farti gli affari tuoi”, rispose Mello acido tastandosi le tasche per controllare di avere tutto.
Matt alzò le braccia in segno di resa. “Okay. Dimmi solo una cosa: devo lasciarti la stanza libera stasera?”
“No, non credo”, disse Mello passandosi una mano fra i capelli biondi e dandosi un’ultima occhiata allo specchio. Non era vanitoso, solo stranamente indeciso.
“Okay… sei sicuro? No perché guarda che vado a dormire io, eh? Se entri in camera per farti una guarda che ti caccio.”
“Dovrei essere io a cacciare te”, disse Mello sbuffando. “Quante volte me ne sono dovuto venire qui da Near perché tu avevi da fare? Ma andare in un motel?”
“Ecco. Appunto. Tienilo presente semmai stasera avrai da fare.”
“No, no tranquillo.” Mello prese le chiavi della loro stanza. “Se arriva Roger usate la solita scusa. A domani”, disse.
Near e Matt fecero un laconico 'ciao' e continuarono le loro occupazioni.
Erano precisamente le otto, e nemmeno due secondi dopo Noodle era con lui. Era vestita quasi completamente di nero, portava una gonna e un maglione pesante che le stava larghissimo. Mello si alzò dal bracciolo del divano e la raggiunse.
“Ciao.”
“Ciao. Dove andiamo?”, chiese Noodle.
“A mangiare, conosco una pizzeria dove fanno una pizza buonissima.” Mello sorrise apertamente, era come se non potesse farne a meno, non riusciva a rimanere serio.
Presero la metropolitana fino a Piccadilly, girarono per qualche piccola vietta sconosciuta e alla fine Mello entrò in una pizzeria nascosta in un angolo. Tenne aperta la porta a Noodle e lei disse sorridendo: “Grazie”. Ordinarono una pizza ai funghi e una con il prosciutto, due coca cole e della salsa piccante per Noodle da aggiungere alla pizza.
“Allora”, disse Mello non appena il cameriere se ne fu andato con le loro ordinazioni, “ho qui il tuo regalo.”
Noodle lo guardò con occhi sgranati. “Non ci credo.”
Mello annuì come se avesse fatto un grosso sacrificio. “Eh già. Non so se ti possa piacere, però, insomma, di solito sei sempre a leggere cose strane… Cioè, voglio dire! Non che ci sia niente di sbagliato nella... matematica. Anzi! Anche io l’ho studiata, e fra parentesi sono anche bravo, insomma, tieni.” E mollò il pacchetto in mano a Noodle.
La ragazza, abbastanza divertita da tutto quel parlare, aprì il pacchetto sorridendo. Scartò il pacco avvolto in carta blu e non fu capace di trattenere un sorriso. “Wow! Grazie Mello.” Rigirò il libro per guardare il retro. “Oddio non ci crederai mai, ma è lo stesso che ho visto l’altro giorno e volevo comprarlo, solo che non avevo abbastanza soldi.”
“Sul serio?”, chiese Mello compiaciuto.
Noodle annuì. In un gesto di pura cortesia si alzò, si sporse in avanti e diede un bacio sulla guancia ad un impreparato Mello, “Grazie”, che accolse il bacio con stupore e lottò per non arrossire. Gli uomini non arrossiscono. Mello non arrossisce. Che razza di cretino sarebbe sembrato?
Storia della matematica, dall’antichità ai giorni nostri”, recitò Noodle guardando il libro soddisfatta.
“Mamma mia, ci ho azzeccato”, disse Mello asciugandosi mentalmente il sudore dalla fronte.
“In pieno”, disse Noodle mettendo via il libro, prima nella busta e poi nella borsa.
Arrivarono le pizze e iniziarono a mangiare con calma. “Vuoi assaggiarne un pezzo?”, chiese d’un tratto Mello. “Facciamo che io te ne do un quarto della mia, e tu un quarto della tua.”
“D’accordo.” Si scambiarono le pizze, poi diedero le loro gastronomiche osservazioni al riguardo. Quando uscirono dalla pizzeria, dove galantemente aveva pagato Mello, passeggiarono un po’ per le vie del centro, per poi andare a finire in un locale.
Noodle si sedette ad un tavolino, dalla parte dove scorreva un divanetto. Mello si sedette di fronte a lei, su una sedia. “Vuoi che ordini io? Prendo qualcosa e poi te lo passo, scommetto che se stiamo attenti i camerieri non si rendono conto di niente.”
“Si grazie”, disse Mello, maledicendo la sua minore età.
“Cosa prendi?”
“Whiskey liscio.”
“Perfetto.” Noodle richiamò l’attenzione di una cameriera e ordinò un whiskey liscio e una coca. Quando le ordinazioni arrivarono la coca rimase lì, mente in due bevvero il whiskey. Alla fine ne ordinarono altri due, allungandoli con la coca cola. Il risultato fu che alle undici e mezza di sera erano ambedue brilli.
“Mello non stare lì, vieni a sederti qua sulla poltrona, è comoda!”, disse Noodle saltellandoci sopra con il sedere e non sentendosi affatto imbarazzata. In casi normali non avrebbe mai fatto ballonzolare il suo sedere su nessuna poltrona.
Mello, con un sorriso beato stampato in viso si alzò, si riprese dal giramento di testa che gli era venuto muovendosi all’improvviso e la raggiunse. “Dimmi una cosa Mello”, cominciò Noodle, “perché sei tu Mello?”
“Quello che chiamiamo Mello, con un altro nome avrebbe lo stesso viso”*, proseguì il ragazzo con voce falsamente pomposa. I due scoppiarono a ridere.
“Esatto! Ah! Che bello Shakespeare, mi piace.” Noodle sospirò e si gettò sul divanetto. Pochi secondi dopo Mello la raggiunse e rimasero per qualche nebuloso istante a fissare la gente attorno a loro. “Andiamo a fare un giro?”, propose la ragazza.
“Dai.”
Si alzarono incerti, barcollarono un po’, poi Noodle andò a pagare. Una volta fuori, nell’aria fresca della sera, in mezzo alla gente e alle luci, i due si presero noncuranti a braccetto e cominciarono a camminare allegri. Tornarono alla Wammy’s House solo a notte fonda e quando arrivarono di fronte all’edificio Noodle osservò il grande cancello di ferro, un ostacolo insormontabile al suo letto. “E adesso come rientriamo?”, domandò sconsolata ma nemmeno troppo preoccupata.
“Vieni con me, e che ti serva da lezione per la prossima volta okay?”, disse Mello prendendola per la mano e trascinandola verso una via laterale. C’era un minuscolo cancelletto che potevano facilmente scavalcare, se le loro condizioni non fossero state così disastrose. Mello andò per primo, poi si mise in piedi per aiutare Noodle. La ragazza scavalcò e cadde addosso a Mello, entrambi caddero a terra e rimasero distesi l’uno affianco all’altro, ridendo silenziosamente in un odore di alcol e allegria ingiustificata. Poi tutti e due cominciarono a dire shhh! all’altro, e così via a ridere di nuovo.
Attraversarono il minuscolo cortile e passarono attraverso una finestra che stava all’altezza del terreno, che portava alle cantine dove venivano messe le scorte della mensa. I due, calandosi dalla finestrella, finirono sopra dei pacchi, diedero qualche imprecazione a voce bassa e poi, nel buio più totale, si aggrapparono l’uno all’altro e avanzarono a tentoni. Riuscirono a trovare le scale e infine raggiunsero la tranquillizzante familiarità dei corridoi del piano terra.
“Ci vediamo domani allora”, disse Noodle lasciando la mano di Mello e salutandolo. “Grazie, eh, per il regalo.”
“Figurati”, disse Mello sorridendo. “Buonanotte.” Sentirono una pendola suonare, e proprio in quel momento Mello disse: “E Auguri.”
“Non è più il mio compleanno”, fece notare Noodle.
Mello si strinse nelle spalle. “E che importa?” Si sporse, diede una bacio sulla guancia alla ragazza e sussurrò in un modo fin troppo serio per l’occasione: “Buona notte.”
“Notte.”




















*Citazione storpiata: "Oh Romeo, perchè sei tu Romeo? [...] Quella che chiamiamo rosa anche con un altro nome avrebbe il suo profumo."; Giulietta Capuleti in "Romeo e Giulietta" di William Shakespeare, Scena II.

Ciao a tutti! ^^
Allora, come al solito alcune precisazioni.
Dai prossimi capitoli ho deciso che chiamerò il più possibile Annika, Noodle, per non usare due nomi che potrebbero confondere.
Chi di voi adora Misa, non illudetevi. Non la farò tornare indietro, sia per i motivi che ha elencato Noodle, sia perchè non ci azzecca molto con questa storia ed è un po' scema (non mi sta particolarmente simpatica).
Sembrerà stupido, ma il commento di Near sul vestire di Mello... ecco, ho esistato molto a metterlo, perchè non sembra un commento che farebbe. Per giustificarlo ho pensato che lo potesse dire con poco o niente interesse, però per qualche motivo non ci volevo rinunciare (valli a capire 'sti autori xD).
Passiamo al fulcro del capitolo: l'appuntamento fra Noodle e Mello. Prim di tutto vorrei precisare che, nonostante Mello lo volesse, il loro appuntamento non è proprio perfetto. Insomma, fra Mello che voleva ubriacarsi a tutti i costi nonostante la sua giovine età e la Wammy's House chiusa... I due considerano l'uscita più come una cosa fra amici. Non nego che fra Mello e Noodle il più interessanto sia lui, ma solo superficialmente. Invece Noodle considera Mello un tipo divertente e basta. La storia potrebbe continuare nei prossimi capitoli, ma non è la parte centrale della fiction per cui vi saranno dedicate alcune parti qua e là ^^

Nota importante per il prossimo capitolo (e per lo spoiler sul blog): verrà svelato il nome di Mello, chi non lo sapesse si prepari psicologiamente xD

Se volete qualche spoiler sul prossimo capitolo, ecco qua il link.

Grazie mille a chi lgge e a chi lascia una recensione :)
A Lunedì prossimo,
Patrizia

P. S. Ma qualcuno sa se il plurale di coca cola è coche cole o coca cole? xD

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Capitolo 5
*** Conquest and failures of Mihael Keehl ***


Capitolo quattro
Conquests and failures of Mihael Keehl





Ansgar Keehl abitava a Berlino, in una zona industriale ricca di fabbriche nelle quali -sembrava ovvio fin da quando era un bambino- avrebbe in futuro lavorato.
Era sempre stato un uomo dal carattere molto difficile: aveva sbalzi di umore di continuo, si arrabbiava per un non nulla; talvolta, con un ristretto gruppo di persone, poteva anche ad essere garbato e piacevole. Il grande cambiamento avvenne però dopo essersi sposato. Tutti dicevano che era diventato più facile stare assieme a lui. Sua moglie Mona aveva fatto miracoli, e il pessimo carattere di Ansgar pareva solo un ricordo giovanile.
Andava tutto benissimo finché non nacque il piccolo Mihael, nato leggermente in ritardo rispetto a quanto ci si aspettava. Mona ebbe un parto difficile alla fine del quale era in fin di vita. Mihael fu subito portato via dai medici per controllare il suo stato di salute. I dottori fecero i consueti controlli e constatarono che il piccolo era in forma smagliante. Quando lo portarono in sala operatoria per farlo stringere per la prima volta dalla madre scoprirono di essere arrivati troppo tardi.
Tre settimane dopo venne celebrato il funerale di Mona Keehl, due giorni prima del battesimo di Mihael Keehl.
Mihael non era un bambino vivace, tendeva piuttosto a restarsene nell’ombra e a fare il bravo, come tutti gli adulti che incontrava gli dicevano di fare. Visse la sua prima infanzia, fino all’età di cinque anni, nascondendosi da tutto e da tutti. Primo nella lista delle sue preoccupazioni era suo padre. Da quando la moglie era morta Ansgar Keehl era tornato l’uomo intrattabile di una volta, se non peggio. Dopo pochi mesi dalla sua scomparsa aveva iniziato a bere, per questo motivo aveva perso il lavoro alla fabbrica di ricambi per automobili. Sopravviveva con il sussidio per i disoccupati, che gli serviva più che altro per pagarsi il suo vizio. Ogni qual volta si sentiva frustrato, o annoiato, l’uomo sentiva un bisogno di sfogarsi in maniera quasi fisica, lo sentiva come una sorta di calore al corpo. Se la prendeva con Mihael, l’essere umano più inerme che aveva a portata di mano. La cosa che preferiva di più in assoluto, quella che gli dava più soddisfazione, era accusarlo della morte della madre. Fu per quel motivo che Mihael crebbe nell’errata convinzione di essere stato lui ad ucciderla. Per diversi anni si ritenne una brutta specie di cancro che distruggeva tutto ciò con cui entrava a contatto, come un germe, un parassita, qualcosa di orrendo che viveva a spese degli altri e uccideva la gente perbene.
Le cose cambiarono quando Mihael, per la prima volta, venne picchiato da un compagno più grande.
Accadde in prima elementare, lui aveva sei anni, l’altro bambino otto. Il litigio nacque perché Mihael si rifiutava di dargli il suo pranzo, a cui teneva moltissimo dato che non mangiava un pasto che si potesse definire tale da quasi due giorni: la sera prima suo padre si era dato la pena di portare a casa del pane, del latte e dei salami, altrimenti la cucina in casa Keehl ospitava soltanto cibo in scatola, frutta secca, birra e delle volte patatine. Dopo aver ricevuto un pestaggio come si deve e aver saltato il pranzo, una volta tornato a casa Mihael ascoltò senza fare una piega il commento maligno e noncurante di suo padre: “Non sai neanche fare a botte, inutile bastardo”. Il bambino accusò ancora una volta il colpo, ma in modo diverso. Non poteva cambiare il fatto di essere stato lui il colpevole per la morte della sua povera madre, ma poteva cambiare il fatto di essere una schiappa.
Quando le ferite furono guarite Mihael si procurò una mazza da golf rotta che aveva trovato per strada, il che non stupì nessuno dato che poteva benissimo essere una sorta di gioco da bambini. Nessuno si stupì neanche quando la portò a scuola. Cominciò a nascere qualche dubbio quando le maestre lo colsero nell’atto di insultare il compagno che qualche giorno prima lo aveva picchiato, più grande di lui di diversi centimetri e anche più robusto. E divenne decisamente pericoloso quando Mihael gli si gettò addosso con la mazza, colpendolo con tutta la forza che aveva nelle piccole braccia magre. Ci vollero quasi dieci minuti di intenso lavoro da parte degli insegnanti per staccare Mihael dal compagno, ma alla fine la prognosi era un vittorioso, esausto, ma felice Mihael, che con un labbro spaccato e dei morsi su un braccio sorrideva beffardo nel vedere il compagno ridotto a condizioni molto peggiori delle sue. Quando avvisarono suo padre per telefono il bambino era quasi estasiato. Sapeva di aver fatto la cosa giusta, sperava che suo padre fosse fiero di lui. Poteva quindi redimersi dal suo peccato originale. Ma invece di ricevere lodi l’unica cosa che ottenne quando tornò a casa fu una serie incredibile di scapaccioni e sberle e urla da parte di quell’uomo, che non fecero altro che renderlo ancora più sconfortato, confuso e gonfio di lividi.
Da quella volta Mihael visse momenti di intensa gloria nei corridoi della scuola, in un turbine di pugni e morsi fieri e avventurosi. Quei momenti quasi lo consolavano da quelli di pericolosa paura che trascorreva in casa. Ansgar Keehl aveva trovato un nuovo passatempo che più lo ricompensava delle accuse infondate: le botte.
La cosa che più faceva pensare le insegnanti non erano i grossi lividi sulle braccia di Mihael, che lui tentava comunque di nascondere alla bell’e meglio e che loro spesso attribuivano alle zuffe con i compagni, ma il comportamento che il bambino teneva in classe. Era attento, era vigile, non rispondeva mai a nessuna domanda ma intimamente conosceva la risposta, e se qualcuno gli domandava di rispondere lui lo faceva correttamente e senza esitazioni. Apprendeva velocemente, nei compiti in classe era sempre il primo, e ricordava molte informazioni, anche dettagliate, a distanza di mesi. Durante i primi tre anni di scuola osservarono il suo comportamento impeccabile all’interno della classe e pericoloso all’esterno, ma nessuno fece niente finché Mihael non si presentò più a scuola per tre settimane.
Non si avevano più notizie di lui, ed un’insegnante che aveva particolarmente a cuore la situazione andò a cercarlo a casa sua. Quello che vide la fece correre ai servizi sociali a gambe levate: Mihael Keehl, in una casa sporca e vuota, assieme ad un uomo dalla barba sfatta e l’alito puzzolente di birra, che giaceva nel letto pieno di ecchimosi e piccole ferite sanguinanti.
Un settimana dopo Mello veniva ospitato alla Wammy’s House per la prima notte, in stanza assieme ad un bambino di nome Matt.
Mihael non ci aveva messo molto ad imparare l’inglese e riuscire a partecipare attivamente alle lezioni. Aveva presto capito che il posto dove lo avevano mandato era diverso dalle altre scuole. Era un posto che non gli piaceva, non perché fosse lontano da casa o perché non conoscesse e non parlasse con nessuno, più che altro perché gli era più complicato di prima eccellere. Era sempre stato il primo della classe nella scuola che aveva frequentato, e anche se non lo dava a vedere e non gli piaceva intervenire in classe, sapere di essere il migliore gli aveva sempre dato soddisfazione, forse perché finalmente aveva trovato qualcosa di positivo da fare piuttosto che uccidere le giovani donne. In quella Wammy’s House invece essere il primo della classe era un po’ più difficile. Nonostante questo lo faceva egregiamente e la cosa gli dava ancora più soddisfazione. Aveva smesso di pestare i compagni e se ne andava in giro per i corridoi con il petto gonfio di superbia senza il bisogno di spaventare nessuno. Aveva stretto amicizia con Matt quasi subito, perché con lui riusciva a parlare facilmente. Lo metteva a proprio agio ed era talmente rilassato che riusciva a far calmare anche lui nella maggior parte delle situazioni che lo mettevano a disagio o in agitazione. Era divenuto il primo nella graduatoria della scuola e questo era fonte di grande orgoglio. Gli sarebbe piaciuto moltissimo diventare erede di L, quel misterioso detective che tutti rispettavano e in qualche modo temevano. Sarebbe stato meraviglioso se tutti quei marmocchi della Wammy’s House lo avessero temuto e rispettato allo stesso modo. E tutto era stato perfetto, stava quasi per arrivarci… finché non era arrivato Near. Da qui in poi la storia è risaputa: la superbia nel petto di Mihael si era spenta un poco e l’unica persona che aveva iniziato a schivarlo nei corridoi per paura di ricevere uno sgambetto, fu Near.
Almeno per il primo anno e mezzo in cui Mello abitò nella Wammy’s House, la notte si svegliava spesso con gli incubi. Sognava suo padre, che lo picchiava e lo accusava, e sognava qualcosa che poteva essere sua madre, come una presenza senza forma che lo malediceva perché l’aveva fatta morire fra dolori e urla. Dopo qualche tempo aveva smesso, quando il suo nuovo cruccio era stato quello di divenire il solo e unico erede di L.
All’età di quindici anni era arrivata la sua prima lei. Si chiamava Ruth. Anche lei veniva dalla Germania e si trovarono bene a parlare in tedesco negli angoli più sperduti della scuola. Parlavano di tutto e di più, senza fare eccezioni su Roger e alcuni degli studenti più antipatici della Wammy’s House. Ruth aveva la sua stessa età, capelli biondi ondulati lunghi fino alle spalle, gli occhi erano grigi, il sorriso contagioso. Fu a lei che Mello diede il suo primo bacio. Per quella volta si fermò lì ma dopo quel bacio ne vennero altri, più audaci e curiosi, però alla fine smisero di vedersi assiduamente e rimasero amici.
A sedici anni fu il turno della sua prima fidanzata, una ragazza che non apparteneva alla Wammy’s House. Si chiamava Eleanor. Anche lei aveva i capelli mossi, ma rossi, e aveva le lentiggini sul naso. Erano stati assieme sette mesi, e con lei Mello aveva sperimentato il suo primo rapporto. Il primo, in realtà, era stato alquanto disastroso, ma con un po’ di pratica divenne più abile.
Delle volte Mello sognava ancora i suoi genitori, e riusciva ad immaginarseli solo nell’atto di insultarlo. Ma quella notte, dopo la cena assieme a Noodle, sognò un’altra cosa. Sognò sé stesso e la ragazza. E sognò anche, per qualche strana ragione, un lungo deserto soleggiato, nel quale camminavano senza sosta senza . Ma non soffrivano il caldo…

“Mello! Ti vuoi alzare? A che ora sei tornato ieri?” Matt sciacquò ancora la bocca, posò lo spazzolino, poi salì due dei gradini a pioli per raggiungere il letto di Mello. Stava per scuoterlo, anche se sapeva che gli dava parecchio fastidio essere disturbato mentre dormiva, ma erano già le dieci e mezza del mattino e loro dovevano già essere svegli. Rimase però stupito quando vide Mello a faccia in su, a fissare il soffitto con sguardo serio. “Che ti è successo? Ieri sera non ti si rizzava?”, domandò Matt.
Mello si voltò verso di lui indispettito, disturbato nelle sue importanti riflessioni. “Zitto, demente.”
Matt ridacchiò, gli diede una leggera botta alla spalla e disse, scendendo le scale a pioli: “Dai muoviti, dovevamo essere da Near un’ora e mezza fa”. Il ragazzo tornò a lavarsi e quando fu davanti allo specchio domandò: “Con chi sei uscito ieri?”.
“Affari miei.”
“Dai perché non me lo vuoi dire? E’ una che conosco. La conosco, vero?”, aggiunse con un ghigno.
Mello, sceso dal letto, lo guardò accigliato. “Ho detto che sono affari miei.”
“Solo un indizio!”
“No.”
“Ma almeno dimmi perché no.”
“Perché non mi va di dirtelo”, disse Mello facendo una smorfia, evitando lo sguardo di Matt e stringendosi nelle spalle.
“Come vuoi, però adesso muoviti.”
In realtà Matt non aveva affatto desistito, aspettava soltanto di avere l’appoggio di Near e di poter così contare sul fattore amore-odio che c’era fra i due che faceva letteralmente impazzire Mello. Forse quello gli avrebbe fatto sfuggire qualche informazione. Purtroppo quando furono in camera di Near, con un pacchetto di patatine da un lato e una bottiglia di coca cola dall’altro, vennero presto interrotti da un leggero bussare. Near aprì la porta e si trovò davanti L.
“Ciao”, disse Near spostandosi per farlo passare.
L salutò, gettò uno sguardo alle cibarie dei ragazzi e piegò le labbra all’ingiù, leggermente triste. “Dobbiamo parlare”, disse poi.
“Esattamente!”, esclamò Matt indicandolo di scatto. “L, sei proprio l’uomo che cercavo! Sei in missione, devi cercare di scoprire con chi è uscito Mello ieri.”
Il biondo quasi si strozzò con la coca cola nel sentire quelle parole, poi prese il cuscino dal letto di Near e lo lanciò addosso a Matt, che si protesse con il braccio sano ridendo. Near, dopo aver seguito lo scontro, tornò pensoso alla sua postazione mentre L li guardava accigliato. “Con Noodle, no?”
Il mondo parve fermarsi. Near e Matt alzarono entrambi lo sguardo su di lui, Matt esterrefatto, Near accigliato. Poi Matt si voltò verso Mello: “E’ vero?”. Mello non rispose, così il ragazzo interpretò il suo silenzio nell’unico modo che poteva. Sgranò ancora di più gli occhi e disse: “E cos’hai scoperto?”. Poi, ripensandoci, “E che cazzo aspettavi a dircelo?!”
Near, seduto sulla sedia girevole, si spinse con i piedi e finì accanto a loro. Guardò Mello con aria truce, ma poi L parlò ancora. “Perché fate delle ricerche su Noodle?”
“Vogliamo sapere come mai è qui alla Whammy’s house”, disse distrattamente Matt.
“Oh.” L abbozzò un sorrisino che nessuno notò. “E l’avete scoperto immagino.”
“Assolutamente no. Ma è collegata al nome di Stephen Tempor, crediamo che l’abbia ucciso.”
L s’irrigidì. “Stephen Tempor?”
I ragazzi si voltarono verso di lui. “Si, lo conosci?”, domandò infine Mello.
“E’ un agente della CIA. Perché dite che l’ha ucciso?”
“C’è un certificato di morte, indica che è stato ucciso a colpi di arma da fuoco a Settembre dell’anno scorso”, cominciò Near. “Lavorava a qualcosa che aveva a che fare con degli omicidi e traffico di droga, o armi o cose simili, e per qualche motivo c’è implicato un giudice tutelare americano che si chiama Harold Gebert. Non sappiamo cosa c’entri in tutta questa storia, forse voleva fare dei guadagni extra, ma ci pare che sia pulito. Noodle è arrivata qui con il pc di Stephen Tempor a Natale, quindi dopo che lui è morto. Perché dovrebbe avere con lei quel pc? E poi cosa ci fa qui?”
L rimase un secondo pensoso.

“E’ mia figlia. Ti piacerebbe un sacco, è una delle più brave della classe.”
“Quanti anni ha?”
“Tredici.”
“Sembra più grande. Come si chiama?”
“Annika.”

L riprese il telefono. Era la terza chiamata che perdeva. Sempre Watari. “Pronto?”
“Hanno scoperto dove ci troviamo, dovete uscire.”
“Dose sei?”
“Al sicuro. Tu e gli altri uscite.”
“Loro dove sono?”
“Non lo so.”
Un rumore di spari proveniente da lontano fece alzare la testa al giovane detective e agli agenti. L si voltò verso di loro e disse: “Non andate: sono armati. Dovremmo uscire da qualche altra parte”.
“Passiamo per la porta di servizio, poi per la scala anti incendio”, propose qualcuno.
“Dobbiamo prendere con noi i computer.”
“Watari ha una copia di tutto quanto e provvederà a cancellare ogni cosa da dove si trova adesso. Andiamo.”
I sei agenti ed L uscirono tutti per la porta di servizio e finirono in un corridoio bianco. Uno di loro aprì una porta e si trovarono sul pianerottolo delle scale anti incendio, fuori dall’edificio, a venticinque metri dalla strada. Cinque degli agenti scendevano in fretta un gradino dopo l’altro e cominciarono a chiamare la centrale e tirare fuori le pistole in dotazione. I loro piedi sul metallo erano rumorosi. Gli ultimi nella fila erano L e Stephen Tempor. All’improvviso i passi di una ventina di persone dietro di loro indicava che gli inseguitori li avevano trovati. L aveva sceso già una rampa e mezza di scale. In quel momento la faccia baffuta di un uomo sulla trentina spuntò da una finestra, l’uomo tirò fuori una pistola e sparò.
Il proiettile mancò L di poco e il ragazzo, sul volto una smorfia di paura, ricominciò a scendere scivolando di qualche gradino. Quando si guardò indietro vide Stephen Tempor urlargli: “Vai, vai, vai!”. Tornò a guardare avanti, scese altri quattro gradini, un dolore lancinante lo raggiunse e gli mozzò il fiato. L cadde in avanti e rotolò per l’ultimo tratto di scala. Il dolore si era moltiplicato. Stephen Tempor lo raggiunse sul pianerottolo della scala antincendio del primo piano. Dava sulla strada. Un altro sparo colpì il metallo mentre Stephen si chinava e lo prendeva in braccio. Pensò che il ragazzo era talmente fragile e leggero da sembrare una piuma. “Ce la fai?”, domandò agitato guardandolo con occhi spalancati.
“Mi fa mal-e… quando respiro”, disse L con il fiato mozzo e gli occhi chiusi forte. Il suo corpo non gli era mai sembrato tanto fragile.
Stephen Tempor guardò giù nella strada sotto di loro, poi verso l’alto gli inseguitori. Vide un camion passare, trasportava quelli che sembravano sacchi pieni di legumi. Senza esitare, tenendo stretto il diciassettenne L, si lanciò.
Il ragazzo, sopraffatto dal dolore, non capiva cosa stesse succedendo. Quel che percepì fu solo un’esplosione di male atroce attraversargli il petto. Poi udì una voce che lo chiamava: “L? Ti senti bene? Andiamo all’ospedale adesso, tranquillo ci arriviamo, non è nulla di grave. Cosa senti?”
“Male -le costole.”
“L? Ci sei?”
“L? Ci sei?”
Il detective si riscosse. Osservò Matt, Mello e Near con occhi scintillanti. “Annika Tempor è la figlia di Stephen Tempor.”
“E chi cavolo è Annika Tempor?”, domandò Matt.
“Noodle”, disse Near in un lampo di comprensione.
L si precipitò fuori dalla porta, seguito dagli altri tre ragazzi che gli lanciavano domande a raffica, ma lui non li ascoltava. Andò dritto verso la camera di Noodle bussò alla porta e poi provò ad aprirla. La porta si spalancò, i quattro ragazzi irruppero all’interno, trovando una Noodle ancora in pigiama che si arrabattava sul computer. “Annika.”
Lei guardò i ragazzi con sorpresa, poi si ricordò che sopra l’armadio c’era Ryuk, sdraiato a leggere un giornaletto per ragazzi. Il suo sguardo terrorizzato passò da L e Ryuk, così il detective guardò in alto. Non fece una piega nel vedere il mostro, ma la sua fronte si corrugò. Al tempo stesso Near fece un debole sussulto. “Cosa c’è?”, domandò Matt.
L guardò Noodle. “Perché ce l’hai tu?”
La ragazza sputò tutto con una tale facilità da stupire persino L. “Me l’ha dato lui. E’ stato lui a suggerirmi di venire a cercarti per risolvere il caso, e mi ha detto anche chi eri.”
“L’hai usato?”
“No.”
Ryuk ridacchiò dall’alto, godendosi la scena, e si sporse verso i ragazzi. “Ciao L!”, esclamò sorridendo.
Mello e Matt guardavano da una parte all’altra, senza capire nulla di quel che i due si dicevano  senza poter vedere lo Shinigami, che L, per altro, ignorò.
“Sei la figlia di Stephen Tempor? Tu sei Annika Tempor?”
“Conosci mio padre?”, domandò Noodle stupefatta.
Lo sguardo di L si addolcì un poco ma non un sorriso affiorò sulle sua labbra. “Ho lavorato con lui. Mi ha salvato la vita una volta.” Il ragazzo si sedette sul letto e abbozzò un sorriso debole, quasi inesistente: “Mi parlava spesso di te, mi ha anche fatto vedere una tua fotografia. Sei cambiata molto in questi anni, non ti avevo riconosciuta”. Fece una piccola pausa e tornò serio. “Il minimo che possa fare per ripagare tuo padre è aiutare sua figlia, immagino.”

“Siete entrati nella mia stanza?”, domandò Noodle, la voce vibrante di rabbia.
I tre ragazzi si fecero piccoli piccoli di fronte alla sua furia, ma non osarono mentire. “Io… era per… credevamo che, sai… capito?”, balbettò Matt.
“No non ho capito bene una parte, scusa rispiegamela”, disse Noodle sarcastica.
“Non avete trovato il Death Note?”, domandò L curioso.
“Ci mancava solo quello!”, esclamò Noodle esasperata voltandosi verso di lui.
“Perché?”
“Sta fra la mia biancheria intima!”
L si voltò, senza capire perché mai quello dovesse essere un fattore rilevante ai fini della ricerca. Era un sentimento del tutto sbagliato, ma sentiva quasi di conoscere Noodle più di tutti gli altri; persino più di Mello, il quale passava con lei solamente due ore alla settimana circa, ma era sempre meglio di niente. Forse perché aveva conosciuto suo padre, e indirettamente credeva di conoscere anche lei. Ovviamente sapeva che non era così, ma nemmeno lui poteva sottrarsi a certe sensazioni tipiche dell’uomo. La verità era che l’unica cosa che aveva mai visto di Noodle era la foto di una ragazzina con un mezzo sorriso esitante e i capelli corti da maschiaccio. Ora la stessa ragazzina gli stava davanti con delle gambe magre e lunghe, un’espressione decisa sul volto, e un caso complicato fra le mani.
“Come hai fatto a sapere che siamo usciti l’altra sera?”, domandò Mello al detective.
L lo osservò. “Vi ho visti dalla mia finestra.”
“Ora che ci penso, tu, Ryuk, hai visto tutto. Hai visto lui che frugava tra le mie cose, e non mi hai detto niente”, osservò Noodle guardando risentita lo Shinigami. Quasi si sentiva offesa: credeva che Ryuk fosse il suo aiutante, dopotutto. Non aveva capito che era solo uno spettatore esaltato.
Ryuk sghignazzò e disse: “Io in teoria non avrei dovuto esserci, quindi le cose sono andate come dovevano andare”.
Noodle sbuffò e incrociò le braccia. “Se tu non ci fossi nessuno di noi sarebbe qui adesso”, rimbeccò.
“Ricapitolando”, cominciò L, “tuo padre lavorava ad un caso di cui sappiamo solo che sono state uccise due persone, una coppia New Yorkese. Oltretutto c’è in ballo un traffico di armi e droga non ben riconosciuto, e…”
“Che vuol dire non ben riconosciuto?”, domandò Mello, indignato che la loro parte di lavoro fosse presa così poco in considerazione. “C’era della documentazione su quel computer.”
“Non ne siamo del tutto certi, ma molte fonti che ho trovato parlavano di vendita illegale di diverse armi da fuoco”, disse Noodle.
“…e un giudice tutelare di nome Harlod Gebert”, concluse L. “Però quella documentazione non è attendibile ai fini della nostra ricerca.”
“E perchè?”, domandò Noodle.
“Chiamo Roger, lo avviserò della nostra assenza. Prenotiamo un volo il più presto possibile, devo parlare con la CIA”, disse L ignorandola.
“Dove andiamo?”, domandò Mello. Era eccitato di essere stato ammesso nella collaborazione senza fare una piega.
“A New York. Partiamo il più presto possibile. Dobbiamo passare per lo Yorkshire a recuperare alcune cose, poi possiamo andare. Senza più Watari devo organizzare tutto da solo”, L rimase pensoso. “Non sono abituato”, mormorò infine più a sé stesso che agli altri. “Prenoto il volo per cinque persone, voi fate le valigie. Nel frattempo dobbiamo iniziare a pensare a dove nascondere questo Death Note, dove stabilirci a New York e devo anche contattare la CIA. Non posso farlo da solo, qualcuno dovrà interpretare Watari.”
“Perché? Chi è Watari?”, domandò Noodle.
“Era il mio assistente”, disse L. “Mi aiutava nelle faccende pratiche… E’ morto qualche mese fa.”
“Ah… e… e com’era questo Watari?”
“In genere nessuno conosceva né il suo volto né il suo nome, come per me, e si presentava come mio emissario coperto da capo a piedi. Mi forniva di qualunque cosa avessi bisogno.”
“Se nessuno conosceva né il suo volto né il suo nome allora potrei farlo io Watari”, propose Noodle con un’alzata di spalle. Non vedeva l’ora di fare qualcosa.
L la osservò con occhio critico. “Sei troppo magra e anche troppo bassa. Lo farà Matt.”
“E cosa dovrei fare?”, domandò il ragazzo.
“Ti darò un microfono nel quale parlare, dovrai modificare la tua voce di modo che assomigli a quella di Watari. Ti darò il suo computer. Dovrai contattare la CIA e dire che sono interessato all’omicidio Jonsson.”
“Aspetta, ho una domanda”, disse Near. L lo guardò. “Cosa andiamo a fare nello Yorkshire?”
“Ci sono le attrezzature come i microfoni e i computer, sono in casa mia. A proposito, chi mi accompagna a caricare tutta la roba?”
“Io!”, disse subito Mello.
“Io immagino di dover restare qui a fare Watari”, osservò Matt.
“Mello e Noodle mi accompagnano a prendere le attrezzature, Matt prendi contatti con la CIA sotto il nome di Watari. Near… prenota il volo, trova un posto dove stare, e avvisa Roger della nostra imminente partenza.”
“D’accordo”, dissero obbedienti i quattro ragazzi.



















Eccomi qua!  =)
Allora, questa storia, sebbene non sia fra le più popolari che ho scritto, mi sta dando delle grandi soddisfazioni, e devo tutto quanto alle persone che recensiscono, che hanno sempre un parere chiaro e non chiedono solo di aggiornare o commentano la 'figaggine' dei personaggi. Insomma, grazie mille a chi recensisce, perché mi fa notare sempre nuovi particolari, mi dà un punto di vista fresco che non avevo considerato e mi permette quindi di migliorarmi ^^

Dopo questa dichiarazione d'affetto xD passo ai commenti del capitolo.
L'infanzia di Mello, in primis. Io credo che si adatti al carattere del personaggio, che è sempre un po' scorbutico e dà fiducia a poche persone perché, fin da piccolo, ha imparato a non fidarsi troppo delle persone. Scusatemi tanto se vi ha fatto tristezza, o se vi ha fatto schifo a causa delle tematiche, ma non dimentichiamo che la Wammy's House è prima di tutto un orfanotrofio, che come tale ospita bambini che hanno un pessimo passato alle spalle, e questo è un postulato sicuro. Comunque sia, ditemi che cosa ne pensate se vi va.
Il sogno di Mello, poi, non ha alcun senso. Veramente, non so per quale motivo l'ho inserito, insomma non c'è nulla di simbolico nel deserto, nel caldo né in niente di niente. Pensavo solo che fosse un bel finae per il paragrafo xD (viva la sincerità).
Parliamo di L adesso (il magnifico L *o* si è capito che è il mio personaggio preferito? xD). So bene che il primo caso in cui L mostra il volto a qualcuno è il caso Kira, tuttavia in questa fanfiction c'è almeno un precedente, ossia il caso nel quale lavora con Stephen Tempor. L'ho fatto per dare ai due la possibilità di conoscersi, volevo che L sapesse chi fosse Stephen e anche se si sentisse in debito con lui. Mi è sembrato naturale che Stephen gli salvasse la vita durante un caso, altrimenti non riesco a pensare a nient'altro per cui L potrebbe indebitarsi con qualcuno. Lui poi accetta il caso di Noodle perché vede quella possibilità come il modo per sdebitarsi. Ho puntato sulla sua forte moralità :D
A proposito di L. mi è piacuto un sacco scrivere della sua fuga dal palazzo! Rendere il personaggio un po' più fisico e meno mentale è stato bello, un po' come quando si picchia con Light nell'anime. Inoltre, ricordare la paura provata da L citata nel prologo della fanfiction? Be', è questa. Chi non avrebbe paura di morire, d'altronde? Le uniche due occasioni in L ha avuto paura è stato quindi da giovane agli esordi, e poi da adulto quando ha considerato la fine della sua carriera, sempre per lo stesso motivo.

Ora basta con questa pappardella, vi sarete già stufati di brutto delle mie pappardelle a fine capitolo, ma non riesco a farne a meno! xD Ora sarò ermetica dunque:
A voi lo spoiler.
A voi l'augurio di una buona settimana, e a Lunedì prossimo! =)
Patrizia

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Capitolo 6
*** Preparations ***


Capitolo cinque
Preparations





Erano le cinque del pomeriggio quando L, Mello e Noodle arrivarono nello Yorkshire. Quella che L aveva definito nient’altro che ‘una piccola casupola di campagna’ somigliava più che altro ad un’abitazione campagnola patrizia. Vi era un immenso giardino, una casa principale su due piani, compresa di terrazzo, box e capanno degli attrezzi, e una piccola casetta per gli ospiti poco distante, piccola ma sicuramente confortevole.
Scendendo dall’auto L, le mani in tasca e la schiena leggermente curva, osservò la casa e disse voltandosi verso gli altri: “Orma è tardi per ripartire. Andiamo dentro a mettere in ordine la roba. Domani ci svegliamo presto a caricarla e torniamo a Londra”.
I tre si avviarono verso la grande casa padronale. Era davvero bella, con il tetto rosso a spioventi, le finestre dipinte di verde bottiglia e la facciata color pesca. L’entrata dava nell’enorme salotto, con un bel mobile tv color mogano, un tavolino ed un divano ad angolo bordeaux. Sulla destra c’era un corridoio che portava alla cucina, collegata alla sala da pranzo, e un bagno. Al piano superiore c’erano due camere da letto completamente arredate, uno studio, un grosso bagno con jacuzzi e un guardaroba che poteva benissimo contenere i vestiti di una persona dalla nascita alla tomba. Mello si chiese che cosa se ne facesse L di un armadio così, ma preferì non fare domande. All’ultimo piano c’era una soffitta con diversi scatoloni e molta, molta polvere. Nel sottosuolo erano incastrati una lavanderia, una cantina e un box con posto per tre auto. Su tutto aleggiava un odore di chiuso e la polvere si era depositata blandamente sui mobili, a rendere ogni cosa più antica.
Dopo aver fatto un giro panoramico della casa e aver posato una piccola borsa in sala, Noodle domandò: “Dove sono le cose da portar via?”.
“Nello studio”, rispose prontamente L. “Mello, va’ in soffitta a prendere qualche scatolone vuoto.”
“Okay.”
Mentre il ragazzo eseguiva, Noodle ed L cominciarono a staccare fili, cavi, cavetti e quant’altro per imballare un computer fisso, tre portatili (uno dei quali nuovo di zecca), una stampante, una fotocopiatrice, una quantità spropositata di chiavi USB, cd d’installazione di vari programmi, moltissime telecamere, un modem wireless e un videoregistratore completo di DVD. Solo con quelli riempirono cinque scatole. Poi fu la volta di ricetrasmittente, registratori vocali portatili, una videocamera grande come un’unghia, una macchina fotografica digitale professionale, qualche binocolo e -a quel punto Mello si esaltò più del dovuto- una Beretta semiautomatica. E così altre due scatole furono piene.
“Ci sono solo due posti letto in casa, ma se volete ve li cedo, io sto sul divano. Ci sono delle lenzuola pulite nella lavanderia, nel caso ne aveste bisogno”, disse L quando ebbero finito. “E comunque se ho sonno posso sempre andare nella casa per gli ospiti.”
“Sei sicuro?”, domandò Noodle.
“Sì, sicuro. Lui non dorme mai”, rispose Mello per il ragazzo.
“Ordino la cena”, disse L illuminandosi leggermente.
Alle 21.02 un fattorino portò una pizza al prosciutto, un cheesburger con contorno di patatine fritte, una torta di compleanno, tre barrette di cioccolata extra fondente e due bottiglie d’acqua naturale. Si sedettero attorno al tavolo da pranzo e mangiarono solennemente.
“Come pensi di procedere nelle indagini?”, domandò Noodle mangiucchiando una patatina.
Quasi non credeva alla fortuna che aveva avuto. Ovviamente non sapeva che suo padre avesse mai lavorato con L, e si chiese come mai ci aveva messo così tanto per tirar fuori il nome di Stephen Tempor. Se glielo avesse detto subito avrebbero incominciato le ricerche settimane fa! Non le piaceva tanto il fatto che fossero coinvolti anche tre ragazzini di cui non sapeva nulla, a parte Mello. Aveva cominciato a fidarsi di lui, pian piano, molto prima della neonata collaborazione con L. Le continue ore di boxe erano servite ad entrambi per conoscersi, oltre che per rafforzare le cascante muscolatura del ragazzo, e Noodle poteva affermare che lui era un tipo a posto. Solo un piccolo dubbio gli era giunto quando aveva saputo che lui, Matt e Near stavano indagando su di lei: perché Mello l’aveva invitata a cena? Solo per avere informazioni sulla sua vita? Su di lei? Sulla presunta assassina di Stephen Tempor? Una voce nella sua testa, quella più razionale e disillusa, le diceva di sì, che dopotutto era solo un ragazzo di diciassette anni con l’hobby per i gialli americani. Ma un’altra parte di lei, ancora speranzosa, si diceva che per tutta la sera non aveva introdotto l’argomento, e quindi forse era uscito solo con l’innocente intento di festeggiare il suo compleanno. Ma queste cose erano fuori luogo al momento: Noodle era impaziente di cominciare le ricerche.
“Prima di tutto ho intenzione di leggere tutto ciò che ha scoperto la CIA. Questa storia non è un semplice omicidio, deve avere radici più profonde per smuovere un reparto specializzato di una delle più segrete società americane contro la criminalità. Forse sono coinvolti personaggi famosi, o si tratta di un segreto di stato -servizi segreti o cose del genere-. Dell’omicidio Jonsson sappiamo solo che erano una coppia di New York, sposata da sette anni.
“A quanto pare il killer era abile, ed era lì unicamente per ucciderli: non ha rubato niente, non vi sono le sue tracce da nessuna parte. I giornali hanno detto che i cadaveri stavano proprio all’entrata dell’appartamento, uno di fronte alla porta, l’altro poco più in dietro, si affacciava al corridoio. Questo significa che il killer è rimasto sulla porta. Sfido io che non abbia lasciato tracce.” L prese una fragola, la immerse nella panna montata in un angolo della torta, e la mangiò.
“Ma ancora non mi spiego il traffico illegale di armi e il giudice tutelare”, intervenne Mello. “E’ possibile che una coppia qualunque sia collegata ad un intrigo nazionale?”
“Tutto è possibile.”, disse L, “Ma abbiamo bisogno di più informazioni, così su due piedi non posso dire nulla di certo.”
“Dobbiamo partire il più presto possibile. La CIA lavorerà con noi?”, chiese Noodle.
“Non lo so, siamo già abbastanza. Non credo avremmo bisogno di loro, e in quel caso penseremo a chiedere loro aiuto a tempo debito. Per ora possono cominciare le indagini per conto nostro.”
Noodle rimase pensosa. “Il vantaggio di lavorare con la CIA… è che ti dà accesso a tutto, qualsiasi cosa tu cerchi. Niente ti verrà negato finché sei un’agente della CIA. Immagina invece se noi dovessimo lavorare sotto copertura: non avremmo nessun distintivo da tirare fuori a tempo debito. Se potessi contattare dei colleghi di papà…”
“Su questo ha proprio ragione, ammettilo”, la interruppe Mello scartando una barretta di cioccolato. Noodle si zittì, osservando L per sapere cosa ne pensava.
Il detective rimase pensoso. Senza più Watari aveva bisogno di qualcuno che sapesse muoversi, che potesse muoversi, e che avesse la competenza e le facoltà per lavorare con lui. “Sì, va bene. Allora faremo così… un solo agente, uno solo.”
“Il più qualificato”, osservò Noodle con approvazione.
“Sì, sì esatto.”
Quando ebbero finito Mello e Noodle si avviarono al piano superiore, in silenzio. Prima di entrare in camera Noodle non poté resistere, quindi chiamò: “Mello”.
Il ragazzo si voltò, facendo muovere il caschetto biondo e guardandola con quegli occhi azzurro ghiaccio che spesso erano decisivi per conquistare le ragazze. Erano molto belli. Potevano essere così freddi e così caldi, a seconda di come si sentiva, che parevano non appartenere alla stessa persona. Quando sorrideva c’era una luce magica in quegli occhi, ma sapevano anche gelarti dentro se solo volevano, e farti venire i brividi per una settimana. “Sì?”
“L’altro giorno sei uscito con me solo per scoprire la verità su mio padre?” Meglio essere diretti, meglio dirle subito le cose.
Mello abbassò lo sguardo. Non era bravo a parlare, non era bravo a dire cosa provava, a dire cose smielate, a dire ti voglio bene o stronzate simili. Non era bravo a esprimersi in quella maniera, non l’aveva mai fatto se non una o due volte nella sua intera vita. Quindi si limitò a sorridere  debolmente, alzò gli occhi e disse solo: “No”. Entrò in camera.

Il lavoro di Near era quanto di più complicato potesse mai esserci. Non aveva la minima idea di quanto sarebbe stato complicato organizzare un viaggio, o anche solo avere a che fare con gli enti pubblici; se così fosse stato avrebbe tentato di fare a cambio con Matt per il ruolo di Watari.
Per prima cosa cercò un hotel dove alloggiare, poi cambiò idea e decise che siccome erano in tanti avrebbe cercato una casa a noleggio a New York. I prezzi erano proprio da far paura, ma poi si disse che tutti assieme di sicuro avrebbero potuto permetterselo. A dir la verità gli unici che non avevano uno stipendio erano lui e Mello, ma non importava poi tanto. L era pieno di soldi, Matt stava sulla via del benessere economico e, prima o poi, si disse, li avrebbero ripagati. Affittò con un anticipo di quattro mesi una casa nel centro di New York, il cui proprietario era un signore che non la usava quasi mai. Dava sulla spiaggia, era concepita come una specie di casa per la vacanze, con tanto di terrazza sul lato più caldo della casa, probabilmente studiata per prendere il sole. Peccato fosse inverno. Comunque era perfetta, ci sarebbero dovuti entrare tutti quanti comodamente. Già questa operazione, contattare il proprietario e mettersi d’accordo, gli prese diverso tempo. Inoltre aveva versato una grossa somma per poter entrare nella casa il più presto possibile. Alla fine trasferì il denaro sul conto e poi chiuse l’affare. Per il viaggio… era un altro paio di maniche.
Prenotò cinque posti sul volo di linea 50677, che partiva da Heathrow, Londra, e atterrava alle ore 20.35 al John F. Kennedy International Airport di New York. Per le valigie fu un disastro, non aveva idea di cosa volessero portare gli altri, ma di sicuro qualcosa di cospicuo dato che sarebbero rimasti lì per un po’. Il risultato? Near stava scavando fra le valigie di tutti loro per scoprire quanto erano grandi i loro bagagli a mano. Quando finì il lavoro decise non avrebbe mai più fatto una cosa del genere, e piuttosto si sarebbe rivolto ad un’agenzia di viaggi.
Matt, al contrario, se la cavava egregiamente. Dopo aver ascoltato alcune registrazioni sul pc di Quillish Wammy impostò la voce di Watari al computer, con il suo powerbook contattò la CIA e disse che L era interessato a seguire il caso Jonsson. Dopo aver chiesto a Near quando sarebbero partiti disse al capo di organizzare una riunione, con la presenza di tutti gli agenti che lavoravano a quel caso, di lì a cinque giorni. Si sarebbe presentato con un computer per dare le direttive di L alle 7 del mattino di Martedì. Ricordando vagamente un’immagine di quello che doveva essere Watari agli occhi degli altri andò a comprare un impermeabile marrone, un cappello dello stesso colore, delle scarpe nere lucide e un completo grigio. Si provò tutto allo specchio e trovò il risultato per niente male. Sembrava proprio Watari. Si disse che probabilmente nessuno avrebbe fatto caso ai tre o quattro centimetri in meno che aveva in altezza rispetto al vero Watari. Alle quattro del pomeriggio Matt si stiracchiò, cercò il suo game boy e si diede al meritato riposo.
Il riposo non durò altro che qualche secondo dato che, poco dopo, Near entrò in camera sua con una strana flemma rassegnata e un metro a nastro in mano.
“Che cazzo stai facendo?”, domandò lentamente Matt guardandolo con tanto d’occhi mentre lui cercava qualcosa.
“Devo controllare le vostre valigie. Te lo dico una volta e non lo scordare: non potete portare oltre 25 kg nel bagaglio che imbarcherete, a meno che non vogliate pagare di più. Il bagaglio a mano non può pesare più di 10, e non potete portare acqua o strumenti affilati. Ce l’hai una valigia tu?”
Matt rimase senza parole, poi indicò con il braccio l’armadio. Near vi si diresse subito, chiaramente stufo di tutta quella storia, ma tirò fuori due valigie, una di Matt e l’altra di Mello. Le misurò e disse in un sussurro: “Dovrebbero andar bene, ma non riempietele troppo capito?”.
Matt, non osando replicare, annuì. Near stava per andarsene, quando il ragazzo lo fermò ghignando: “Da dove viene tutta questa laboriosità?”.
“Non lo so, sono ordini di L”, borbottò lui chiudendosi la porta alle spalle. Poteva sembrare vagamente infastidito ad una prima occhiata, ma chi lo conosceva bene non dava mai nulla per scontato.
Solo nella stanza, lo sguardo rivolto alla porta, Matt fece una risatina. Allungò un braccio verso la mensola, prese una pacchetto di sigarette, ne accese una e si mise comodo sulla sedia girevole.

Near era alquanto soddisfatto di sé quando si accorse che il volo era andato alla perfezione, e non gli passò per l’anticamera del cervello nemmeno una volta che fosse stato grazie al pilota. Aveva anche organizzato la spedizione dei loro pacchi tramite Fed Ex e desiderava ardentemente che non venissero persi nel mare come era successo a Robinson Crusoe, ma piuttosto che arrivassero sani e salvi a casa loro il giorno dopo come avevano concordato. Quando arrivarono a casa e si furono sistemati Near crollò soddisfatto sul divano di pelle bianco che si trovava appena all’entrata, mentre gli altri si guardavano attorno e le loro valigie si disperdevano disordinate sul pavimento.
“Dopodomani alle sette andrò dalla CIA”, annunciò Matt infilando una sigaretta fra le labbra.
“Bravissimo Matt”, disse L avviandosi subito verso la cucina.
“Ho già i vestiti di Watari.”
“Come sei organizzato”, osservò Mello.
“Ho già predisposto il collegamento fra il computer di Watari e quello di L, impostato la voce e pensato a tutto.”
“Hai fatto veloce”, disse Noodle guardandolo con approvazione.
Near sospirò. Nessuno si complimentava con lui, neanche dopo tutta la fatica che aveva fatto! Ingrati, non avevano idea… Il ragazzino aprì la valigia, prese "L’apologia" di Socrate e un robot di plastica rosso, bianco e blu e se ne andò nella prima stanza che trovò.
“Non mangi Near?”, lo raggiunse la voce di Noodle appena prima che si chiudesse la porta alle spalle.
“Non ho fame!”, rispose lui senza far trapelare alcuna emozione nella voce.
Slam!
Gli altri si guardarono per qualche attimo, poi Mello alzò la spalle.
La casa era molto grande e ariosa, arredata con mobili moderni e sui colori freddi del metallo. Non c’era nulla in frigorifero, nulla nella dispensa e niente di niente neanche nel forno. “Dobbiamo andare a fare la spesa”, osservò Noodle. “Oggi se permettete sono stanca, ma se volete mi occuperò io della casa. Però sia chiaro: non aspettatevi che cucini per voi, questo no. Già è tanto se cucino per me”, Noodle alzò gli occhi al cielo, prese una sigaretta e l’accese, “è solo che non voglio che diventi tutto un porcile. Ah, e ognuno penserà alla propria stanza.”
I ragazzi la guardarono in silenzio per un solo secondo, poi tutti quanti scoppiarono contemporaneamente in richieste assurde. “Prendi della cioccolata.” “Compra qualsiasi cosa serva per fare dei dolci.” “Non è che potresti prendermi anche le sigarette?” “Ah, sì anche della frutta, ma quella fresca, buona…” “Non quelle leggere, che non si sente il sapore!” “…fondente e senza nocciole.” “Ti dò i soldi, ma ricordati: PSP…” “E del latte, uova, nocciole, amaretti…” “Quello migliore è importato dalla Svizzera.” “…sì anche quello. E vai anche a vedere i prezzi dei nuovi componenti per pc...” “…e questo è tutto credo.” “Ah no! Dimenticavo lo zucchero a velo.”
Noodle rimase a guardarli con tanto d’occhi, poi raccolse la sua roba, se la mise in spalla e uscì dicendo qualcosa come ‘…coglioni disadattati’. I ragazzi si guardarono senza capire, poi decisero di cercare una stanza.
Il giorno dopo tutti avevano qualcosa da fare. Arrivarono i pacchi di computer e altre cose, che vennero recapitati direttamente a casa, e allora fu tutto un darsi da fare per mettere a posto. Il più felice in quel caso era Matt, che iniziò a decantare le varie e tante qualità dei prodotti informatici di L. Nel frattempo Noodle si dava all’esplorazione della casa, segnandosi che cosa mancava, dopodiché si fece dare da ognuno trenta dollari -e qualche cosa in più da Matt per le sue spese extra-, ed uscì a comprare tutto quel che serviva. Nel frattempo L decise che avevano bisogno di una macchina, così inviò Mello a comprarne una da pagare a nome suo. Con un cospicuo pagamento anticipato, ma non senza sospetti, il ragazzo si portò subito a casa una Mercedes classe M nera, con gli interni in pelle bianchi. Quando fu davanti a casa si fermò un secondo, poi prese il cellulare e chiamò Noodle.
“Sì?”
“Noodle dove sei? Ho la macchina, ti vengo a prendere.”
“Sono in un centro commerciale, Time Warner Centre mi pare che si chiami. Ci vediamo al negozio di elettronica, devo prendere una cosa per Matt.”
Mello si avviò, trovò in fretta parcheggio, e andò a cercare Noodle. Quando la trovò si stava divertendo a giocare in un negozio di videogames ad un picchia duro con i personaggi famosi. Cameron Diaz stava letteralmente soccombendo sotto la potenza brutale di Emma Watson. “Tu chi sei?”, domandò Mello.
“Cameron.”
“Vuoi una mano?”
“Te lo regalo”, disse Noodle passandogli il gamepad.
Non appena Mello ebbe incominciato a giocare il match si ribaltò in favore di Cameron. Emma Watson ricevette tanti di quei calci in faccia che non aveva neanche il tempo per riprendersi. Il culmine della partita avvenne quando Cameron, dopo un complesso pigiare di tasti da parte di Mello, saltò in aria e atterrò Emma con un gomito.
La scritta The Winner campeggiava lampeggiando su tutto lo schermo, mentre una trionfante Cameron Diaz alzava le braccia in segno di vittoria.
“Wow”, disse Noodle con le mani in tasca.
“Frutto di anni e anni di allenamento con Matt. Dovresti vedere lui con questi giochi, ci passa le ore.”
Noodle osservò un secondo lo scaffale con il gioco. Star Fight. “Lo compriamo?”, domandò a Mello sorridendo.
“Un regalo in più per Matt”, acconsentì Mello prendendo il gioco.
Passarono a vedere dei piccoli aggeggi per computer che Matt aveva chiesto a Noodle di controllare, e tutti e due memorizzarono i prezzi e le caratteristiche dei più interessanti. Quando furono in macchina, le borse caricate nel portabagagli, Mello si mise alla guida.
“Da quanti tu e Matt vi conoscete?”
Mello sbuffò. “Non saprei, sono anni ormai… sono… una decina credo.”
“Wo… e Near?”
“Near un po’ meno.”
“E’ un tipo strano”, disse Noodle tirando fuori sigarette ed accendino. “Ti spiace se fumo?”
“A me no, ma credo che ad L non faccia molto piacere.”
“Ah, d’accordo.” Rassegnata, Noodle posò pacchetto e accendino sul cruscotto.
Dopo un po’ Mello si strinse nelle spalle. “Near è fatto così, è un tipo strano, ma è solo perché lui la vede in un certo modo. E’ a posto.”
“Ci credo.”
“Il fatto strano è che di lui non so niente… né di lui né di L, ma L è un caso a parte.” Mello sorrise alle sue stesse parole.
 “Come mai?”
“Nessuno sa assolutamente nulla di L, del suo passato intendo. Credo che solo Watari sapesse, e forse Roger non sa tutto.”
“E tu e Matt?”
A Mello non piaceva parlare di sé, ma sapeva che a Matt non dava fastidio se glielo chiedevano. Ormai Matt non provava più rancore per i genitori, quasi li capiva e li perdonava. In realtà aveva una visione molto particolare, o forse ottimista, di loro: era convinto che fossero stati loro a chiamare Watari e a farlo venire a prendere, altrimenti non si spiegava come poteva essere uscito da quella casa dopo esservi stato rinchiuso per tre settimane e due giorni. Si diceva che quei due ragazzetti avevano fatto quel che era meglio per lui, e cioè lasciarlo alle cure di un orfanotrofio per cervelloni, perché loro lo sapevano che Matt non era come gli altri bambini. Era troppo sveglio, apprendeva troppo in fretta, ricordava le cose da subito. A due anni aveva un vocabolario vasto quasi quanto il loro e a tre aveva iniziato a leggere. La visione rosea di Matt era che i genitori lo avevano affidato alle cure di chi poteva permetterselo facendo un grande sacrificio. Per questo non gli dava fastidio parlarne. Per Mello la faccenda era diversa, preferiva non ricordare gli anni passati in Germania con suo padre.
“Matt è irlandese”, cominciò Mello. “I suoi genitori erano una coppia di ragazzi, l’hanno abbandonato in casa per quasi un mese prima di chiamare Watari.”
“Dici davvero?”, domandò Noodle senza sapere esattamente cosa pensare.
“Non è stato un caso”, osservò Mello lanciando un’occhiata e un sorrisino alla ragazza. “Lo hanno lasciato lì con il necessario per sopravvivere e con tutti i suoi documenti, ma senza niente che riguardasse loro. Io, personalmente, credo che non potessero o non volessero più tenerlo, e che lo abbiano lasciato lì per poi chiamare le autorità e farlo andare a prendere. Ovviamente non volevano finire in prigione e quando sono andati a prenderlo saranno stati lontani miglia e miglia. Matt crede che volevano farlo andare alla Wammy’s House per fargli avere un’educazione adatta a lui che loro non potevano permettersi.” Mello fece una smorfia e si strinse nelle spalle. “Punti di vista immagino.”
Noodle rimase con gli occhi fissi sul vetro della macchina. Forse sentire quelle storie non era il modo migliore di fare conversazione, ma poi fu Mello a continuare. “Sono tedesco sai?”, disse, abbozzando un sorriso.
Noodle si volse, interessata. “Davvero? Lo parli ancora?”, domandò con un sorriso.
“Si, direi anche bene. Sono vissuto a Berlino da piccolo, fino a sette anni quasi.”
“Davvero? E com’è? Non ho mai viaggiato molto, sono stata solo a Roma quando avevo otto anni in vacanza con mio padre, e poi a Londra per venire a cercare voi.”
“Veramente non ricordo molto la città, ero troppo piccolo e poi abitavamo in quartiere abbastanza povero, di periferia. Berlino centro l’ho vista solo qualche volta.”
“Ah.”
“Mia… mia madre è morta di parto.” Mello ammutolì dopo averlo detto, e pensò che forse non era nemmeno il caso di dirlo. In fondo, a Noodle che poteva importare?
La ragazza per parte sua rimase in silenzio. Non si sa mai cosa dire in questi casi. Pensò che, forse, siccome Mello lo aveva detto di sua spontanea volontà, allora gli andava di parlarne. “Non hai una fotografia di lei?”
Mello abbozzò un sorrisino, grato che  Noodle avesse rotto il silenzio. “Una.” Il ragazzo mise la mano in tasca e tirò fuori il portafoglio, che porse a Noodle. Dentro, la ragazza poté vedere la fotografia vecchia e lisa, ma tenuta con un atteggiamento quasi reverenziale, di una donna alta e bionda, con occhi azzurri e un sorriso da parte a parte. Aveva qualche lentiggine sul naso, e in mano teneva un bicchiere di qualcosa di ghiacciato con dentro due fette di limone.
Noodle sorrise. “Era molto bella. Le somigli.”
Mello non seppe cosa rispondere, così imbastì un’aria corrucciata, si riprese il portafoglio che Noodle gli porgeva e cercò di coprire il volto con i capelli.
Una volta in casa, mentre Noodle sistemava la spesa e Mello snocciolava a Matt pro e contro dei componenti per pc che avevano visto, Near, con il computer di Watari, leggeva i messaggi a loro inviati dalla CIA. “Ci hanno mandato la scheda dell’agente della CIA che ci affiancherà.”
Tutti si radunarono attorno al pc. “Chi è?”
“Si chiama Diane Colfer.”
Il pc mostrava la foto di una giovane donna che poteva avere poco più dell’età di L. La scheda la classificava come una delle migliori agenti, lavorava alla CIA da otto anni e a giudicare dal documento era perfetta. L fissava lo schermo e disse, muovendo una mano per aria: “Matt fai una ricerca”.
“Subito.”
Matt si mosse velocemente e Near lo seguì con gli occhi. “Vedi se le informazioni che ci sono in questa cartella sono vere”, disse velocemente avvicinandosi a lui e osservando ciò che faceva.
“D’accordo”, disse lentamente Matt. “Non vogliamo sapere qualcosa su di lei? Vita privata, scheletri nell’armadio…?”
Near si affrettò a negare. “La CIA avrà già indagato, meglio non perdere tempo in queste cose.”
“Dovrete dirgli ogni cosa?”, domandò Noodle guardando L.
“No”, decise subito lui. “Ci affiancherà, non significa che dovrà per forza lavorare con noi. La utilizzeremo per avere contatti con la criminalità del posto, sicuramente saprà tutto delle bande criminali che ci sono qui, così se saranno implicate siamo a posto. Poi possiamo utilizzarla per farle avanti e indietro, interrogare testimoni eccetera.”
“Basterà darle informazioni via Watari”, disse Near.
“Hey mi pare che Watari debba fare un sacco di giri nei prossimi giorni”, commentò Matt con lo sguardo fisso sullo schermo.
“Non fai altro che lamentarti”, osservò Mello pacato lanciandogli un’occhiata. Si diresse ai sacchetti del supermercato, frugò in cerca di una barretta di cioccolato e la scartò. Puro cioccolato fondente. E Svizzero, come aveva detto a Noodle! Il paradiso.
Noodle tornò a rimettere a posto la spesa, mentre gli altri ancora non avevano collegato tutto l’impianto di sicurezza che aveva in mente L per la protezione della casa e della rete di computer. Si organizzarono per il giorno dopo: mentre Matt sarebbe andato ad interpretare Watari, L avrebbe depositato il Death Note in una cassetta di sicurezza, gli altri erano liberi.
La notte prima avevano dormito sparpagliati per la casa, qualcuno sul divano, qualcuno sul primo letto che aveva trovato, mentre qualcuno aveva già prenotato la propria camera. Quella sera, tuttavia, ebbero tempo per esaminare tutte le stanze di quell’enorme casa e litigarsele. C’erano abbastanza stanze per tutti, senza contare che L non avrebbe utilizzato molto la sua. Vi era una stanzetta appena sotto il tetto che si era aggiudicato Matt, poi una nel sottoterra che aveva preso Near, e altre tre, due delle quali comunicanti tramite una porta, che avevano preso gli altri. L si era preso la stanza singola, che era piccola ma adatta a lui. Mello e Noodle, inconsapevolmente, si erano presi le stanze comunicanti.
“Notte”, biascicò Noodle -a chiunque passasse di lì- chiudendosi la porta alle spalle. Una volta entrata in camera si tolse scarpe e calzini, levò la maglietta e rimase in reggiseno e jeans. Gettò i vestiti da lavare in un angolo e si chinò sulla valigia non ancora sfatta a prendere una maglietta di suo padre che spesso usava come pigiama, assieme ad alcuni pantaloncini da calcio. Stava con il sedere in bella vista, accovacciata sulla valigia a gambe larghe, uno spettacolo non troppo sexy a dire il vero, quando sentì dietro di lei una porta aprirsi. Si voltò stupita e scorse Mello, che si guardava incuriosito attorno. Quando la vide il ragazzo fece una smorfia che Noodle non riuscì ad interpretare, ma che non pareva collegata alla sua posa poco femminile da orso.
“Hai visto? Comunichiamo”, disse Mello con un vago ghigno.
Noodle lo guardò con espressone dura. “Fuori.”
Mello ghignò. “Scusa, ma non hai niente che non abbia già visto.”
“Ah be’, nei giornali porno oggigiorno c’è di tutto. Scommetto che tu li collezioni, devi saperne un sacco.”
“Ma quali giornali porno? Tutta roba vera”, disse Mello appoggiandosi allo stipite della porta.
Noodle lo guardò affascinata. “Ma come fai ad essere così cafone?” Si avvicinò a lui e mise una mano sulla maniglia. “Avanti fuori, o vuoi che ti faccia uno strep tease?”
“Se non ti dispiace… Ahia!” Uno scapaccione dalla potenza non trascurabile si abbatté sulla nuca di Mello.
“Va a quel paese!”, disse Noodle infastidita, spingendolo nella sua stanza e chiudendo la porta.





















Allora, un'importantissima comunicazione di servizio prima di iniziare:
L'aggiornamento di Lunedì prossimo è rimandato perché (finalmente) vado in vacanza. Quello del Lunedì dopo ancora non so se riuscirò a farlo perché, o torno il giorno dopo, o torno nel tardo pomeriggio di Lunedì, quindi non so se avrò la forza di postare. Comunque sia se non è Lunedì 15 ci vediamo Martedì, che dovrei essermi totalmente ripresa dal lungo viaggio xD

A parte questo, passiamo al capitolo ^^
Spero che non sia noioso perché, a ben vedere, non succede granché. Ma prometto di rifarmi con il prossimo! Se intanto siete curiosi e volete qualche anticipazione cliccate sulla faccina ---> *w* E' così fica! Come si fa a non cliccarla! Credo di amarla...
A parte questo, una cosa a cui tengo particolarmente ^^ Vedere Near alle prese con qualcosa di organizzativo... lo so, è sadico da parte mia, l'ho fatto apposta perché sembra un tipo completamente fuori dal mondo, e nell'anime dice anche di non essere pratico di viaggi xD Comunque, ha reagito con la sua solita apatia e un tocco di fastidio ben celato.
Non sono mai stata in Inghilterra (purtroppo, ma un giorno ci andrò!) né a New York, ma la maggior parte dei luoghi citati esistono. Nel caso invetassi qualcosa potrei anche dirlo, se me lo ricordo.
Per il gioco di Star Fight mi sono isprata ad un gioco che esiste davvero, però non ricordo bene come sia perché l'ho visto giocare parecchi anni fa a dei miei amici. Se non sbaglio ci sono i cantati rap che combattono, o qualcosa del genere... mah! Ah, e non ho niente contro Emma Watson, è stato il caso a scegliere che perdesse xD
Se qualcuno vuole fare qualche ipotesi sulla storia, vi lancio un mini-indizio (che però non vi rovinerà nulla della trama futura, sappiatelo): avete notato uno strano comportamento da parte di Near in questo capitolo? Uhuh! Avanti alle supposizioni!

Be', vi saluto! Ci vediamo fra uno o due Lunedì!
Buone vacanze a tutti!
Mi raccomando, lasciate un recensione piccina picciò mentre non ci sono, così quando torno le vedo e faccio *o* ohhh!
Patrizia 

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Capitolo 7
*** Searching for the chosen ***


Capitolo sei
Searching for the chosen





Watari si presentò davanti ad un auditorium semibuio con una ventina di agenti, in gran segreto da tutte le unità della CIA che non fossero coinvolte nel caso Jonsson. Nel suo cappotto, con il cappello calato sulla fronte e le scarpe lucide, nessuno si accorse che era un giovane di vent’anni, per di più pel di carota. Watari poggiò un computer di fronte a sé, premette qualche tasto, collegò un filo e voltò il computer. Una grande L, nero su bianco, campeggiava sullo schermo. La voce metallica riempì tutta la sala.
“Buongiorno agenti della CIA, è L che vi parla.” La voce lasciò che gli agenti digerissero la notizia di essere in linea diretta con il detective più famoso e meno conosciuto del mondo allo stesso tempo. “Sono interessato a seguire il caso Jonsson al quale ora lavorate. Vorrei che passaste tutte le informazioni che possedete a Watari, e che mi teniate costantemente aggiornato sui vostri risultati. Se lo desiderate potremmo scambiarci i risultati che ognuno di noi ha ottenuto. Una vostra collega lavorerà con me e Watari al caso, la signorina Colfer Diane. Bene, spero che non l’abbiate a male se vi sottraggo della forza lavoro.”
Il capo delle indagini non poteva essere più felice della piega che stavano prendendo le cose, così intervenne con gioia: “Non si preoccupi. Per lei L, questo ed altro. Vi invieremo ogni mese un resoconto dettagliato di come proseguono le indagini, e se voi vorrete fare lo stesso ci fareste un grande onore”.
“Grazie mille capitano. Al prossimo incontro allora.”
Lo schermo divenne bianco e la sala esplose in un leggero brusio. Il capitano delle indagini, un uomo alto e baffuto, si avvicinò a Watari. “Signor Watari, saremmo lieti di passarvi ora tutte le informazioni. Se volete seguirmi…”
“Grazie mille”, disse Matt con le labbra nascoste dietro al cappotto. Un orecchio attento avrebbe sentito un leggero accenno di accento Irlandese, ma il capitano era americano da ben sette generazioni, e non distingueva l’accento irlandese da quello inglese.
Il capitano e Watari andarono nel suo ufficio, dove l’uomo richiese subito una copia di tutti i file da poter dare al signor Watari. “Fra poco saranno pronti. Si sieda, prego. Vuole qualcosa, un caffè?”
“No grazie, non prendo niente.”
I due sedettero uno di fronte all’altro, e Matt incassò la testa nelle spalle. Certo che il capitano poteva vederlo, e anche abbastanza bene, ma non poteva di sicuro capire molto della sua faccia se l’unica cosa che poteva osservare di lui erano degli occhiali scuri e un po’ di naso.
“Vorrei parlarle dell’agente Colfer.”
Matt si aspettava di tutto, ma non questo. Nella sua mente aveva relegato l’agente Diane Colfer come una sottospecie di fattorino per le commissioni. Una pedina di poca importanza. “Sì? C’è qualcosa che non va?”
“No, no, non mi fraintenda; è una delle migliori agenti che abbiamo, è svelta, capisce in fretta, esegue gli ordini senza fiatare. Solo… difetta in curiosità. Io avevo suggerito qualcun altro per seguire il caso assieme ad L. Alcuni di noi hanno lavorato con lui in precedenza, e sappiamo che spesso si tratta solo di seguire ordini da un computer. Temo che all’agente Colfer non basti, voglio solo avvisarvi: potrebbe essere un problema per voi. Temo che potrebbe non adeguarsi alle vostre regole e voglia fare di testa di sua, forse anche per scoprire qualcosa sullo stesso L.”
Watari rimase un secondo in silenzio. “E cosa ci consiglia di fare? Suppongo che comunque l’agente sia in grado di mantenere la faccenda segreta, altrimenti non potrebbe lavorare per questa organizzazione. Nessuno di coloro con cui abbiamo lavorato a stretto contatto, in Giappone l’anno scorso ad esempio, hanno dato problemi.”
“Be’ a mio parere avete due opzioni: uno, accettate di lavorare con lei e di ammetterla a tempo pieno nelle indagini; due, sperate che non ficchi troppo il naso.”
Di nuovo silenzio da parte di Watari. Matt invece ragionava. Non vedeva perché mai una persona come Diane Colfer, se davvero era come il suo capo l’aveva descritta, facesse parte della CIA. Ma non era importante in quel momento, quel che interessava davvero Matt era il fatto che potesse causare problemi. Decise di vedere come andavano le cose, e se Diane Colfer si faceva troppo spinosa allora l’avrebbero sollevata dall’incarico. Nulla di più semplice.
In quel momento arrivò un agente con un cd in mano e qualche fascicolo da consegnare a Watari. L’uomo li prese e li mise nella borsa dove teneva anche il pc. Si alzò e tese la mano al capitano dicendo: “Grazie mille della dritta capitano, le farò sapere se qualcosa va storto”.
“Dovere, signor Watari.” Si strinsero la mano, poi Watari uscì dall’ufficio.
Il capitano si sedette alla scrivania e mandò a chiamare Diane Colfer. Dieci minuti dopo la donna era seduta rigidamente davanti a lui in un completo grigio da uomo, e aspettava di sapere come mai fosse stata chiamata dal suo capo.
“Diane, ho appena fatto una chiacchierata con Watari.” Lasciò che l’informazione fluttuasse nell’aria tesa fra di loro. “Sono completamente in altro mare, mi ha rivelato confidenzialmente. Vorrei che tu facessi del tuo meglio. Devi aiutarli il più possibile, devi lavorare il doppio di quanto ti viene richiesto. Non guasterebbe un po’ di iniziativa personale immagino.”
Diane Colfer lo osservò con occhi duri. “Non si preoccupi capitano, so cosa fare.” Si alzò e lasciò l’ufficio.
Il sorrisetto untoso del capitano si sciolse in una brutta smorfia.

Matt tornò a casa con il cd e cominciò a trasferire le immagini e i documenti, nel frattempo si toglieva il costume di Watari.
“Allora? Che hanno detto?”, domandò Mello scartando una tavoletta fondente.
“Erano contentissimi. Hanno detto che quell’agente Colfer è una ficcanaso, che forse vorrebbe scoprire chi siamo”, disse Matt riponendo giacca, pantaloni e microfono all’interno di un minuscolo ripostiglio.
“Sul serio?”, domandò Noodle stupefatta.
“Sì, il capitano ha detto che dovremmo stare attenti.”
Near, seduto su una poltrona, aprì la bocca per commentare. Dopo un veloce ragionamento la richiuse e tornò a fissare i lego sul tavolino.
Dopo aver caricato le informazioni Matt creò una rete che comprendeva i pc di tutti loro. Il suo era quello centrale. Condivise tutti i file relativi all’inchiesta con tutti gli altri computer della rete e si sedettero al tavolo a leggere.
Dopo tre ore di lettura continuata di rapporti dedussero che:
Una coppia New Yorkese era stata assassinata da un sicario esperto che non aveva lasciato alcuna traccia a parte due corpi uccisi in maniera precisa e letale. Probabilmente erano morti all’istante, con un colpo alla testa per l’uomo e uno al petto per la donna. Dalla casa non era stato rubato nulla di valore, niente soldi, niente gioielli, niente di niente. Quel che la polizia aveva insabbiato - i giornali non ne avevano riportato notizia- era probabilmente la notizia più importante per le indagini, ed era questa: i due coniugi avevano una figlia, una bambina che era stata rapita. Si chiamava Georgie Jonsson e aveva sette anni. Non era la vera figlia dei due coniugi, era stata affidata a loro dall’età di cinque anni. Qui entrava in gioco il giudice tutelare, il signor Harold Gebert. Georgie aveva un fascicolo alquanto complicato. La madre naturale era un’alcolista e del padre non si sapeva nulla. Dopo che una vicina aveva denunciato la situazione ai servizi sociali erano andati a prendere Georgie e l’avevano portata via, affidandola alle cure di un orfanotrofio per bambini al di sotto dei tredici anni. Lì si avevano i primi documenti riguardo a diverse anomalie nel comportamento di Georgie Jonsson. Stando a diverse cartelle non riusciva a relazionarsi con gli altri bambini, stava spesso da sola e, se qualcuno provava ad avvicinarla, lei lo minacciava di morte. Era comunque una bambina nella media, e se ne resero conto presto: faceva i compiti come tutti gli altri e ogni tanto trovava qualche difficoltà, le piacevano le stesse cose che piacevano alle bambine della sua età e giocava nello stesso modo. I dottori conclusero che quel che la faceva agire diversamente non era un handicap di tipo mentale. Il giudice Gebert, esaminato il suo caso, decise che forse un ambiente familiare adeguato l’avrebbe aiutata ad integrarsi nella società, e probabilmente a superare il trauma degli anni passati assieme alla madre. Fu affidata ai coniugi Jonsson, ma il primo anno che trascorse con loro fu più dentro agli ospedali che dentro la casa dei genitori adottivi. Dopo alcuni mesi, siccome i disturbi della bambina non accennavano a cessare, decisero che sarebbe stato meglio se avesse visto uno psicologo infantile. Le terapie ebbero successo e Georgie Jonsson parve guarire. Il suo psicologo era un eminente dottore di nome Yann D. Carter, specializzato in psicologia infantile. Le cartelle a proposito di Georgie dicevano che era una bambina taciturna ma attenta, e che soffriva di schizofrenia. Affermava di poter vedere la vita delle persone e che sapeva quando sarebbero morte. Insisteva anche nel dire di poter vedere mostri che succhiavano la vita della gente. Lei poteva parlare con loro, alcuni erano simpatici, altri meno.
Non appena ebbero finito di leggere i quattro ragazzi si osservarono l’un l’altro con espressioni stupite e quasi spaventate. L aveva una ruga profonda proprio in mezzo alla fronte, segno di grande preoccupazione, che lo rendeva più vecchio e stanco. Erano rare le volte in cui quella ruga compariva, e spesso era segno di grossi guai. Tutti avevano intuito che cosa poteva essere successo.
“Ryuk”, chiamò L.
Lo Shinigami si avvicinò con passo lento. “Sì?”
“Ci sono altri Shinigami che vanno in giro a dare Death Note alle persone?”
Il mostro scosse la testa, gli occhi fissi sul detective. “Non che io sappia.”
“Sei sicuro?!”, intervenne impetuoso Mello. “Allora come cazzo è possibile che una bambina abbia gli occhi dello Shinigami?” Ryuk fece un ghigno malevolo in direzione del ragazzo ma non disse nulla.
Noodle avanzò un’ipotesi. “E' possibile che la bambina abbia fatto lo scambio degli occhi, un po'... come un gioco, per sbaglio. O... che tu sappia Ryuk, possono esistere umani nati con gli occhi dello Shinigami?”
“Ah!”, esclamò Ryuk, poi cominciò a ridacchiare. “Oh si! Sono loro, i prescelti. Sono sempre di più nelle ultime centinaia d’anni.”
“Ma perché?”, domandò Matt.
“Sono loro a dover guidare gli uomini ad un epoca di pace, o almeno così dice la leggenda.”
“E qualcuno ci è mai riuscito?”, domandò Near ad occhi bassi.
“Non proprio. Molti impazziscono completamente, altri invece fanno grandi cose, belle o brutte, ma grandi sicuramente. Però nessuno di loro è riuscito davvero.”
“Ma loro lo sanno? Di dover guidare il mondo?”, domandò Matt.
“Se vengono avvisati forse sì”, disse lo Shinigami stringendosi nelle spalle. “Devono essere avvisati da uno Shinigami, altrimenti come fanno a saperlo?”
“Ma cosa significa grandi cose?”, domandò Mello rapito, fissando lo Shinigami.
Ryuk sghignazzò. “Napoleone Bonaparte. Prima di lui la strategia militare era come bere un tè dalla regina d’Inghilterra. Elvis Presley, ha rivoluzionato la vostra musica se non sbaglio, ha cominciato ad andare in rovina quando uno che conosco gli ha rivelato la fine della sua vita. Pablo Picasso, era una grande pittore e senza di lui l’arte moderna non esisterebbe, non è vero? Questi sono alcuni dei più famosi. Ce ne sono stati molti altri, anche in antichità, ad esempio Platone, e credo anche Dante Alighieri, quello che ha scritto... quella cosa, quel viaggio all'Inferno.” Ryuk ci pensò su un attimo poi scosse la testa. "Non ci ha azzeccato nemmeno un po'."
I ragazzi si guardarono sbigottiti. Non potevano credere alle loro orecchie. Che Pablo Picasso fosse un tantino visionario era accettabile, in fondo era il padre del cubismo, un movimento artistico che aveva portato l’arte al di là di qualsiasi altra cosa. Ma Dante? Napoleone Bonaparte? Come accettare che un così grande stratega stesse organizzando la battaglia di Waterloo mentre mangiava mele assieme a Ryuk? Forse per questo a Waterloo aveva perso.
“Ryuk, sei sicuro?”, domandò Noodle come ultima speranza. Come se si aspettasse che lo Shinigami gli rivalesse di avergli fatto un pesce d’aprile fuori stagione.
“Assolutamente.”
“Tu sai chi sono? I prescelti?”
“Personalmente non ne ho mai incontrato uno. Ma se uno di noi si rende conto di essere visto può pensare due cose: l’umano è in possesso di un Death Note o è un prescelto”, disse Ryuk prendendo una mela e ingollandola tutta intera.
“E se ti dessimo il nome di uno di questi prescelti, tu andresti a cercarla?”
“Io non sono né dalla vostra parte, né dalla parte di nessuno”, disse Ryuk solennemente. “E soprattutto non sono la vostra mascotte.”
“Come facciamo a trovarla?”, domandò Mello infastidito e sconfortato.
“Prima di tutto, dobbiamo chiederci chi avrebbe mai potuto rapirla”, domandò L.
“Qualcuno che sapeva del suo potere”, disse Near.
“Ossia lo psicologo, il giudice tutelare, e anche i docenti dell’orfanotrofio forse”, snocciolò Noodle contandoli sulle dita.
“Dovremmo andare a parlare con ognuna di queste persone”, disse Matt. Ci pensò un secondo. “Non possiamo dire in giro che siamo aiutanti di L, credo che dovremmo ripiegare su Diane Colfer.”
“Cosa vuoi dire?”, domandò Mello.
“Dovremmo farci accompagnare da lei. E’ della CIA. Noi saremo presenti solo in quanto suoi aiutanti agli occhi degli altri, ma potremmo chiedere ai sospettati quello che vogliamo noi. Che ne dite?”
“Vuol dire che dobbiamo rivelarle chi è L?”, domandò Near.
“No, noi diamo un incarico e lei lo dovrà eseguire, semplice.”, sopraggiunse L. “Cambierò nome. Non le diremo chi è L, non le diremo dove alloggiamo, e non starà mai con uno di noi più del necessario. Non entrerà in questa casa, non parleremo con lei nemmeno dell’indagine.”
“D’accordo. Allora facciamo così.”, approvò Noodle, “Ci serve una lista delle persone che sono a conoscenza del potere di Georgie Jonsson, dobbiamo contattarle e fissare un appuntamento. Poi dobbiamo avvisare Diane Colfer e spiegarle la situazione. Le diremo solo il minimo indispensabile. Siamo tutti d’accordo?” Cercò uno sguardo d’intensa, e i ragazzi annuirono.
“Quale sarà il tuo nuovo nome L?”, domandò Mello.
L ci pensò un po’ su, poi sorrise leggermente e disse: “Un nome americano. Adam”.
“Non possiamo continuare a chiamarti L fra noi?”, domandò Matt disgustato.
“Non ti piace?”, chiese L.
“No è che non ci sono abituato.”
“Come volete. Noodle?”
“Sì?”
“Sai come si preparano i bignè?”
“No.”
Adam la fissò disgustato.

Diane Colfer, trentacinque anni, era una donna bionda, alta, forte -sia caratterialmente che fisicamente- con una carriera in ascesa e un fidanzato con il quale stava da otto anni. La sua vita poteva dirsi perfetta, se non fosse stato per un particolare.
Qualche mese fa aveva ascoltato per errore una telefonata del suo capo. Il suo computer aveva una qualche anomalia e captava segnali radio e telefonate dell’ufficio, dato che era una rete privata. Dalle casse audio aveva sentito una conversazione fra il suo capo e un uomo di cui non aveva capito l’identità. Le erano bastati quei cinque minuti di telefonata per capire che rubavano soldi all’azienda. Aveva controllato la contabilità di alcuni settori, ne aveva parlato con gli agenti addetti alla supervisione degli interni, ma non c’erano prove di nessun tipo, solo conti che non tornavano e dati che non quadravano, il che faceva solo mettere le mani nei capelli ai contabili.
Dopo aver scoperto che quella donna indagava su di lui Taylor Filler aveva cercato in tutti i modi di metterle i bastoni fra le ruote. Le aveva affibbiato lavori complicati, quasi impossibili, ma lei era sempre riuscita a venirne a capo. Aveva sparso cattive voci su di lei all’ufficio, ma nemmeno quello aveva funzionato. Stava per rassegnarsi, quando all’improvviso era saltato fuori il caso Jonsson e la collaborazione con L. Filler sapeva che Diane Colfer era una buona agente, corretta e minuziosa, che non esitava a prendere l’iniziativa, ma che sapeva anche quando lavorare sodo e tenere la bocca chiusa. Tirando un po’ i fili sperava di condurla ad una falsa pista, sperava che L si sarebbe lamentato di lei, così almeno avrebbe avuto una scusa per licenziarla, o al limite trasferirla. Diane Colfer però sapeva che quell’uomo cercava di sabotarla, così come sapeva di dover stare attenta. Non si sarebbe lasciata ingannare da uno dei suoi trucchi, però doveva ammettere, a malincuore, che L sembrava piuttosto disorganizzato.
L’appuntamento era per le tre e quaranta al bar Frankyie’s, ma aveva ben venti minuti di ritardo. Qualche giorno prima Watari l’aveva contatta tramite mail per dirle dell’appuntamento, e che  tutto le sarebbe stato spiegato allora.
Diane Colfer era una donna che credeva nell’organizzazione minuziosa del lavoro e anche della vita privata. Era difficile dire quale fosse, per lei, quella che aveva più bisogno di cure assidue. Il suo passato l’aveva in particolare convinta a controllare la sua vita privata in maniera alquanto minuziosa. Fatto sta che non tardava ad un appuntamento dall’età di tredici anni. Diane Colfer non era nemmeno una donna troppo paziente, e dopo due caffè e almeno cinquanta occhiate all’orologio che portava al polso sinistro (un regalo di anniversario del suo fidanzato), la rabbia cominciava a salire. Aumentò quando un indisciplinato giovane uomo, forse addirittura senzatetto, sedette al suo tavolo con noncuranza.
“Buongiorno”, disse il ragazzo sedendosi con le scarpe sulla sedia, in una posizione che le ricordò quella delle rane.
Diane rimase a guardarlo con tanto d’occhi, poi si riscosse e disse duramente: “Via dal mio tavolo! Sto aspettando una persona”.
L la osservò accigliato. Si sporse, chiamò la cameriera e ordinò una fetta di torta al cioccolato. Poi si rivolse a Diane, che era rimasta a guardare a bocca aperta ribollendo di rabbia alla sua sfacciataggine, e le porse la mano. “Piacere, sono Adam Livret. Mi manda L in persona.”
A quelle parole Diane spalancò ancora di più gli occhi ma tese automaticamente una mano, stringendo quella del ragazzo senza dire nulla. Analizzò velocemente la situazione: come poteva fidarsi di quell’essere così poco raccomandabile? Certo, nessun’altro sapeva di quell’incontro, quindi doveva essere per forza stato mandato da L. Diane decise di aspettare ancora e vedere cosa succedeva, e si appoggiò contro lo schienale della sedia.
“Sono qui per informarla di come intende procedere L”, continuò il ragazzo. “Ovviamente lei sa tutto sul caso Jonsson, e saprà anche della piccola Georgie. Abbiamo bisogno di parlare con diverse persone che hanno avuto modo di conoscerla, e lei dovrà essere presente ai colloqui.”
“Questo è già stato fatto dalla nostra squadra e non è stato trovato nulla. Avrete letto i fascicoli immagino, abbiamo conservato tutti gli interrogatori sia in documento scritto che in registrazione e video. Perché dovremmo rifarlo?”
L era incerto su cosa dire. Pensava che forse, se non le avesse detto nulla, la Colfer avrebbe fatto altre domande, ma se le avesse svelato troppo sarebbero stati costretti a rivelarle ogni singolo dettaglio o ad estrometterla completamente dal caso. Decise per una via di mezzo: “Lei è un’agente della CIA. Questo può aprire molte porte. Invece L non può presentarsi con il tesserino di detective privato e pretendere spiegazioni in quanto L: rischierebbe troppo. Lui ha bisogno di parlare con queste persone e di
avere delle risposte che nei vostri fascicoli non ha trovato, non gli basterà certo leggere qualche riassunto”.
A Diane questa motivazione andava più che bene, ma aveva altre domande più generali. Non era un’impicciona. Voleva conoscere il motivo per cui faceva certe cose solo per potersi muovere più facilmente nel suo lavoro. “Mi stavo chiedendo quale fosse esattamente il mio compito per voi.”
L la esaminò. Tutto ciò che il suo capo aveva detto su di lei si stava rivelando fastidiosamente vero. Quella donna voleva sapere molte cose che altri agenti, se si fossero trovati faccia a faccia con L -anche a loro insaputa- non avrebbero mai domandato, essendo soddisfatti di essere già a quel punto: sarebbe stata considerata una svolta alla loro carriera. L decise di rispondere con franchezza e un pizzico di fastidio. “E’ questo il suo compito. Aprirci le porte di ogni ente pubblico o privato, mostrare il tesserino e far parlare le persone. Non ci saranno lavori di ricerca per lei, il team è già ben organizzato. Nonostante questo, comunque, non mi pare che lei si possa lamentare, o sbaglio? E’ un lavoro ben retribuito rispetto ai suoi colleghi che seguono il caso per la CIA.”
Diane Colfer aggrottò le sopracciglia. Non sapeva se lavorare per L le facesse poi così piacere.

Le persone che potevano aver avuto stretti rapporti con Georgie Jonsson e che potevano averla conosciuta meglio erano davvero poche. A parte i genitori adottivi, ai quali non si poteva più porre alcuna domanda, c’erano la direttrice dell’orfanotrofio dove era stata ospitata per circa un anno, la signora Rosa Tate; lo psicologo Yann D. Carter che l’aveva avuta in cura; il giudice tutelare Harold Gebert che conosceva tutta la sua storia psichica fin nei minimi dettagli; infine la madre biologica, Francy Newman, che Mello stava tentando di rintracciare.
Prima di tutto videro lo psicologo, colui che aveva meglio compreso la mente di Georgie, e forse ci aveva visto qualcosa che poteva interessarlo in senso non propriamente accademico.
Per il secondo incontro con Diane venne scelto Matt, che si premurò di essere puntuale. Si trovarono all’angolo fra la cinquantesima e la Lang, davanti ad un negozio di giocattoli. Era inconfondibile, pensò Matt vedendo quella donna. Chiunque avrebbe detto che fosse perlomeno una poliziotta, o anche qualche altra figura pubblica detestabile, come l’insegnante o la vigilessa. Invece, Diane non gettò un solo sguardo al ragazzo alto, rosso di capelli e dall’aria furba che le si avvicinò. Matt non si presentava come un tipo del tutto a posto, a giudicare dagli occhialini da aviatore colorati di giallo che portava sulla fronte e ai guanti di pelle che facevano pensare ad un motociclista di Ducati Monster a corto di benzina.
“Salve, Diane Colfer?”, domandò tuttavia affabilmente con un sorriso cortese. Matt aveva la particolare capacità di riuscire a relazionarsi con tutti ad un primo impatto, a prescindere dall’età, dal sesso, dalla razza, o da qualsiasi altra cosa che lo differenziasse da quella persona. Spesso Mello pensava che, se non fosse stato per la sua fissa per videogiochi, computer e mondo virtuale in generale, ossia il motivo per il quale non usciva molto spesso, Matt avrebbe avuto tantissimi amici.
“Sì sono io, tu sei?”, domandò la donna con voce austera e sopracciglia severamente corrugate. In realtà dentro di sé era agitata, ma preferiva non darlo a vedere. Il primo incontro con quell’Adam non le era piaciuto neanche un po’, ma non poteva certo lamentarsi, in fondo stava lavorando per L. Anche se si aspettava qualcos’altro di strano e inusuale Diane avrebbe preferito trovarsi di fronte il solito, vecchio, panciuto investigatore, con folti baffi e un abbigliamento alla Ispettore Gadget. Invece, ancora una volta, un giovanissimo ragazzo dall’aria stramba.
“Mi chiamo Matt. Andiamo?”
“Yann D. Carter, non è vero?”, domandò Diane. “L’ospedale dove lavora è a pochi isolati da qui, nel frattempo potrò aggiornarti su di lui.”
Matt la guardò con un sorrisino, mise le mani in tasca e cominciò a camminare. “Ma certo.”
“Yann Dimitri Carter nasce quarantotto anni fa da padre americano e madre russa, studia alla Foxton Elementary School, poi frequenta il liceo alla Hamerty, e infine si laurea in psicologia con master sulla psicologia infantile a Yale. Non vi sono grandi notizie su di lui, poiché non ha avuto una vita molto turbolenta. Guadagna molto, è richiesto in diverse parti del paese per casi complicati di malattia infantile, e risolve tutto il risolvibile. Ha una moglie e due figli, il maggiore dei quali attualmente non abita più con lui. Ha scritto due libri, uno dal titolo La psicologia del bambino - dalla prima infanzia ai tre anni, e un altro, Esempi di casi di schizofrenia infantile. In questo ultimo libro, in particolare, vi sono chiari riferimenti a Georgie Jonsson. Ovviamente tutto è vincolato dal contratto di segretezza che c’è fra medico e paziente, ma per chi già conosce il caso di Georgie le allusione sono chiare. Ne ho comprato una copia e l’ho letta tutta, ho messo il segno ed evidenziato le parti riguardanti la Jonsson. Tutto coincide perfettamente con quello che il dottore ci ha già detto su di lei.” Dicendo queste ultime parole Diane tirò fuori dalla borsa un libro con diversi segna pagina colorati e lo passò a Matt.
Il ragazzo era parecchio stupito e soddisfatto che Diane Colfer si applicasse così al caso, e velocemente ridimensionò tutta la figura che si era fatto di lei nella mente. Prese il libro e cominciò a leggiucchiarne parti a caso, camminando lentamente. “Bel lavoro”, disse infine.
“Grazie molte.”
Quando arrivarono allo studio di Yann Carter, Matt e Diane si sedettero nella sala d’aspetto, arredata con giochi sparsi a terra e mobili e pareti color pastello. Rimasero lì quasi tre quarti d’ora, nonostante Diane avesse chiesto più volte del dottor Carter. La sua segretaria aveva avvisato il dottore e detto di lui che una donna di nome Diane Colfer voleva parlargli a tutti i costi, tuttavia il dottore in quel momento non era disponibile, e la segretaria disse loro che dovevano aspettare ancora un po’. Nel frattempo Diane rileggeva almeno per la decima volta il rapporto sul caso Jonsson, invece Matt leggeva le parti del libro Esempi di casi di schizofrenia infantile che Diane aveva evidenziato.
Quando finalmente, una volta che tutti e due si erano annoiati e cominciavano a pensare che forse uno di loro avrebbe dovuto tirar fuori un argomento di conversazione, il dottor Carter uscì dallo studio, congedò una donna e un bambino piccolo e li guardò accigliato: nessuno di loro due poteva certo essere considerato un bambino.
Yann Dimitri Carter era un uomo alto dai capelli biondi, che stavano già iniziando a sfoltirsi, un naso aquilino e un mento pronunciato. Indossava un maglione a collo alto beige chiaro con ricami blu, un accostamento di colori che tutti, compresa sua moglie, giudicavano orrendo. Ma lui, incurante della sua mancanza di gusto estetico, sfoggiò un sorriso. “Voi dovete essere il detective Diane Colfer e…”, rimase in attesa che Matt gli dicesse il suo nome.
“Sono il suo aiutante, mi chiamo Sacha Granfking”, disse Matt stringendogli seccamente la mano ed esibendosi in un sorriso cordiale. Diane, da brava agente, non diede segni di stupore a quella nuova piega che stavano prendendo le cose.
“Piacere di conoscervi”, disse il dottore. “Prego, venite nel mio ufficio.” Li accolse in una stanza che non pareva avere niente a che fare con la medicina. C’era una libreria, c’erano diversi giocattoli in alcuni scatoloni in un angolo, c’era un grosso tappeto colorato con il disegno di una città vista dall’alto, nel quale si sarebbero potuti sedere per giocare con le macchinine, poi una scrivania bassa con davanti due comode poltrone e, dietro, uno scaffale pieno di fascicoli. Il tutto colorato e allegro. Il dottor Carter si sedette dietro la scrivania, mentre Diane Colfer e il suo apprendista, Sacha Granfking, sedevano di fronte a lui.
“Allora, so che dovete farmi qualche domanda a proposito di Georgie Jonsson”, disse il dottore con tono greve.
“Esatto.”, incominciò Diane assumendo un atteggiamento serioso. “Per quanto tempo l’avete avuta in cura?”
“Dall’età di sei anni. Le sedute e le terapie sono durate in tutto quasi un anno intero.”
“Vorremmo che ci spiegasse bene nei dettagli il percorso che ha fatto con lei. Abbiamo a disposizione il suo fascicolo, compilato da lei stesso, ma vorrei conoscere meglio i sintomi e i comportamenti di Georgie.”
Il dottor Carter fece un grosso respiro e incassò la testa fra le spalle, poi cominciò a raccontare. “Quando venne da me Georgie aveva da poco compiuto i sei anni, conosciuto dei nuovi genitori, e non aveva un passato molto roseo. A volte questo tipo di disturbi mentali possono essere causati da traumi infantili, oppure può essere una malattia ereditaria. E’ raro, tuttavia, che si manifesti così presto in caso di ereditarietà, quindi sarei più propenso a pensare ad un trauma. Il problema è che non sono mai riuscito ad analizzare Georgie tanto a fondo da trovare la causa primaria di ogni cosa. Forse ho usato l’approccio sbagliato, ma non ho mai trovato il principio dei suoi disturbi.” Il dottore fece una pausa. “Georgie era una bambina normale in fin dei conti, faceva quello che le chiedevamo di fare. Mi raccontava senza problemi tutto ciò che le chiedevo di dirmi. La storia era sempre la stessa, e a quanto pare ha sempre avuto queste visioni. Georgie mi disse che, da quando lei ricordava, vedeva questi mostri, dei mostri che volavano per aria e che solo lei poteva vedere e solo lei poteva parlare con loro. Diceva che ce n’erano di diversi. Non le facevano del male, o almeno, non a lei. A volte parlava con loro, diceva che alcuni parlavano la sua lingua e altri no. Mi disse che questi mostri potevano decidere chi dovesse morire, quando, e come. Siccome sapevo di alcuni litigi con i bambini dell’orfanotrofio feci pressioni su di lei, e mi disse anche che vedeva quando la gente sarebbe morta. Ad esempio, se guardava qualcuno in faccia poteva vedere dei numeri che, se convertiti, riportavano la data e l’ora della morte di una persona. Disse che tutto questo le era stato insegnato da uno di quei mostri.
“Io prima cercai di capire come mai ci fosse questo problema, poi le spiegai che la maggior parte della gente non vede ciò che vede lei, e che di solito le persone si spaventano a parlare della morte, perché non la conosciamo. Da quel momento era come se avesse smesso di vedere alcunché, non aveva più problemi, non litigava più con i compagni, non parlava più da sola. Era come se fosse guarita all’improvviso. I risultati delle analisi non hanno mai mostrato problemi al cervello, in poche parole, non so se Georgie fosse davvero guarita o se avesse semplicemente capito che non poteva andare avanti così, e che le sarebbe costato troppo continuare a dire agli adulti ciò che vedeva. Ma non c’era più ragione di tenerla in ospedale né di sottoporla ad altri esami, così la lasciammo andare.”
Matt rimase un attimo pensoso. “Che cosa disse Georgie a proposito della morte?”, chiese Sacha Granfking.
Il dottor Carter giunse le mani sulla scrivania. “E’ curioso che me lo chieda, fu una cosa assurda. Disse che lei non aveva paura della morte perché era sicura di avere ancora molto tempo davanti a sé, il che è comprensibile da un lato, ma è comunque molto strano che un bambino abbia pensieri di questo tipo. Disse anche che dopo non c’è nulla di cui aver paura. Era talmente sicura che mi sconvolse”, disse il dottore spalancando gli occhi per una frazione di secondo.
“Certo sono affermazioni pesanti da digerire, sentite da una bambina di sei anni”, commentò Diane alzando le sopracciglia. “Mi racconti meglio della sua guarigione.”
“In genere ci possono volere mesi o più probabilmente anni per curare una malattia simile, semmai ci fosse una soluzione. E oltre a questo si ha bisogno di cure adeguate, medicinali, psicofarmaci, oltre che le sedute. Georgie invece sembrava aver capito che il suo comportamento, in questa società, non era accettato, e che doveva smetterla se voleva vivere in pace. E lo fece. Lo fece, non disse più una parola riguardo a mostri e morte. Era come se per tutto il tempo avesse… finto una malattia, e poi avesse smesso perché aveva capito che era uno scherzo di cattivo gusto.” Il dottor Carter prese ad accarezzarsi il mento e fissò lo sguardo da un’altra parte.
“Riflessioni personali?”, domandò a quel punto Sacha Granfking.
Yann Dimitri si riscosse. “B’è…”, ricongiunse le mani e restò in silenzio per un po’. “Non saprei proprio, è stato uno dei casi più curiosi a cui abbia mai assistito. Credo che Georgie fosse una bambina molto complicata e che le radici del suo trauma siano da annoverare alla famiglia. Ha avuto una prima infanzia molto sfortunata, ma aveva trovato dei genitori che le volevano bene. E’ stato terribile quel che è successo, mi chiedo chi possa averlo fatto. Quale motivo c’era?”, chiese l’uomo alzando le spalle in un’ingenuità degna di un bambino.
“Non si preoccupi dottore, il motivo lo troveremo”, disse decisa Diane Colfer.

Qualche minuto dopo Matt e Diane bevevano un caffè in un bar, in silenzio. Matt pensava al prossimo da interrogare, di sicuro Harold Gebert, che doveva essere bene informato sulla salute mentale di Georgie, in modo dettagliato e approfondito. Non credeva che il dottore fosse un complice, gli era bastato guardarlo e sentirlo parlare per convincersene. Oltretutto, assieme agli altri, aveva già fatto una ricerca che pressoché somigliava a quella di Diane Colfer, e potevano affermare che il dottore non aveva precedenti penali di alcun genere.
“Allora, quella storia di Sacha Granfking?”, domandò Diane interrompendo il silenzio.
Matt alzò lo sguardo su di lei e sorrise. “Oh sì, scusami per non averti avvisato prima. Mi è venuto in mente al momento. Ho pensato che uno pseudonimo non potesse andar male. Comunque, direi che è andata bene. Sei stata formidabile.”
“Credi che Carter sia implicato?”
Matt scosse la testa. “Non ha precedenti penali e non ha movente. Inoltre l’assassino ha lasciato orme di piede, anche se non si è dato la pena di lasciare anche del DNA, e sono troppo piccole rispetto al piede di Yann Carter. Così, a occhio e croce, lui porterà un quaranta o un quarantadue di piede.”
“Chi è il prossimo? Harold Gebert suppongo.”
“Esattamente.”
Diane esitò. “Chi verrà con me, la prossima volta?” La verità era che non le piaceva tutto quello scambio di partner. Lavorava alla CIA da anni ed aveva sempre avuto con un compagno fisso per ogni caso, o lavorato in team.
“Se vuoi, posso chiedere ad L di venire sempre io con te”, disse Matt alzando le spalle.
Diane Colfer si appoggiò sullo schienale e affilò lo sguardo. “Mi farebbe piacere, Matt.”




















Eccomi tornata, dopo un isolamento quasi totale dal mondo! Ho affrontato ore di viaggio interminabili, corse per non perdere il treno, attese lunghe e noiose perché il suddetto treno era in ritardo (100 minuti di ritardo?! Poi si scusano all'altoparlante... Balordi.) ma finalmente sono di nuovo qui, a postare un nuovo capitolo! Yaiii!

Allora, non ho molto da dire riguardo a questo capitolo qui sopra, credo che parli da solo. Come vedete tutte le informazioni che in "Preparations" vi erano state brutalmente negate qui abbondano, e spero che non abbondino troppo! A questo proposito, cosa ne dite? Un po' pesante come capitolo, proprio per le lunghe spiegazioni? Dite, popolo, dite!
A parte il fatto che qui Ryuk dimostra una certa inaspettata cultura (mai sottovalutare uno Shinigami xD), mi sono divertita un sacco a parlare dei prescelti più famosi! Cioè, è stato divertente pensare a delle personalità che potevano essere prescelti. Il povero Elvis, se nessuno gli avesse rivelato la sua morte magari non sarebbe ingrassato tanto... u_u xD
La storia dei prescelti, poi, è tutta inventata ovviamente, non è ripresa né dal manga né da altro, mi è solo venuta in mente. Se da qualche parte è accennata, è una coincidenza enorme O.O

Cliccate qui se volete leggere lo spoiler sul blog, che non è così emozionante come al solito perché sono stanca e non mi va di cercarlo -.-'' Pardon.
E Buon Ferragosto a tutti! ^^
Patrizia

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Capitolo 8
*** The picture of Mail Jeevas ***


Capitolo sette
The picture of Mail Jeevas





“Credevo che non volessi uscire troppo”, osservò L alzando lo sguardo da una fetta di melone che si stava impegnando a tagliare con una certa cura.
“Si è vero, ma credo che la Colfer si senta a disagio con tutti questi continui cambi di persona. E poi è una a posto, non mi pare che dovremmo stare a sentire quel che ha detto di lei il capo.” Matt stava seduto sul divano a giocare con Star Fight, nel quale Madonna stava perdendo, nonostante i calci ben assestati, contro un formidabile Snoop Dogg abilmente maneggiato da Matt.
“Se va bene a te”, mormorò L tornando al melone.
Near fece scivolare lo sguardo su Matt e aprì bocca, ma alla fine preferì non dire nulla e tornò a guardare fuori dalla finestra, pensieroso. Era già la seconda volta che quasi si lasciava sfuggire dei commenti su Diane Colfer, ma ripensandoci meglio si disse che, forse, sarebbe stato più pratico che le cose si evolvessero da sole con Matt, senza che lui ci ficcasse lo zampino già più del dovuto.
Noodle stava seduta lì affianco a leggere una lettera dei suoi editori, quando ad un trattò parlò. “Allora adesso dobbiamo solo aspettare che Matt scopra qualcuno che sappia del potere di Georgie.”
Si erano divisi il lavoro. Da quel momento Matt sarebbe stato incaricato di accompagnare Diane Colfer, qualunque fosse il suo incarico. Noodle e Mello si dedicavano alle ricerche sulla madre biologica della bambina, Francy Newman, la quale pareva essere sparita dalla faccia della terra. Invece L e Near pensavano ai genitori adottivi. Nonostante fossero morti, scavare nel loro passato poteva essere molto utile. Per quanto riguardava il padre biologico di Georgie, non c’era alcuna speranza di trovarlo negli archivi o simili, e forse l’unico modo di sapere qualcosa su di lui era parlare direttamente con Francy Newman.
“Aspettiamo”, disse L, “poi vedremo cosa fare.”
Noodle si sedette in cucina, finendo di leggere la lettera. Il suo libro sarebbe stato pubblicato di lì a due settimane. A quanto pare prometteva bene, soprattutto per la grossa pubblicità e l’inusuale precocità dell’autrice. Suscitava già curiosità in diverse comunità scientifiche, nelle quali era stato annunciato con clamore.
“Che leggi?” Mello si era seduto di fronte a Noodle, e stava scartando una tavoletta.
“Una lettera dei miei editori. Ma qui nessuno a parte me e Matt mangia qualcosa di normale?”, aggiunse dopo una fugace occhiata al pasto di Mello.
Il ragazzo si bloccò a metà morso. “Che vuoi dire?”
“Non so come fai a non pesare 100 kili. E anche L, perché i suoi livelli di zucchero nel sangue non lo hanno ancora fatto finire all’ospedale?”
Mello ridacchiò. “Non lo so, siamo fortunati.”
“E Near invece dovrebbe morire di anoressia. Siamo qui da due settimane l’ho visto mangiare solamente una volta.”
“Near mangia come un maiale!”, precisò Mello piccato. “E’ solo che lo fa nella sua stanza. Ti sei mai chiesta che fine fanno i pacchetti di patatine, i toast, il formaggio morbido che si spalma e i succhi di frutta?”
“E perché non mangia mai con noi?”, domandò Noodle.
Mello si strinse nelle spalle. “Non lo so, mangia quello che gli va quando ha fame, quindi suppongo anche la notte, se gli capita.”
Durante i pochi giorni di convivenza Noodle pensava di vivere assieme ad un branco di bambini solo apparentemente cresciuti. Non sapeva chi fosse il caso più disperato; concorrevano tutti per il primo posto alla corsa di inettitudine nel mondo. L non sembrava in grado di rapportarsi con qualsiasi altra cosa che non fosse cibo, rimaneva ore e ore a fissare il vuoto, perso nei propri pensieri. Near non usciva quasi mai dalla sua stanza, e spesso lo trovavano a leggere, giocare o costruire torri con qualsiasi cosa avesse a tiro in un luogo caldo e accogliente della casa. Mello non era messo poi tanto male, era entusiasta del suo nuovo impiego e non faceva altro che fare ricerche, proporre idee e piani, anche se Noodle dubitava seriamente che potesse essere autonomo se non fossero stati lei o Near (che alla fine ci aveva preso gusto) ad occuparsi delle faccende burocratiche. Invece Matt, semplicemente, faceva quello che gli si diceva di fare, ma almeno lui consumava pasti decenti, si diceva sempre Noodle come scusante. I ragazzi pensavano che Noodle fosse una ragazza a posto, che fosse acuta e gentile, ma anche che fosse un po’ troppo acida delle volte. Il fatto è che Noodle non era abituata a trattare con loro, che erano sempre stati in un posto dove non avevano responsabilità, dove non si dedicavano ad altro che ai loro interessi. Ma ben presto si resero conto che lei sola non poteva fare le veci di un intero orfanotrofio, e così si trovarono costretti a fare qualcosa per conto loro. Fu un esperienza nuova e disastrante per tutti, ma portò le sue soddisfazioni.
“Noodle”, Mello richiamò la sua attenzione. “Che ne dici se andiamo a cercare una palestra per allenarci anche qui? Per rilassarci ogni tanto. Gli altri lo fanno.”
Noodle alzò un sopracciglio. “E cosa fanno di preciso?”
Mello alzò le spalle. “Matt gioca, Near gioca, L scrive… mentalmente almeno.”
Noodle  fece un piccolo sbuffo. Non gli sembrava fossero grandi occupazioni e si chiese perché mai non lavorassero al caso 24h su 24. Dopotutto lei lo faceva, quando non era impegnata nella casa o in altre attività che non poteva rimandare. Tuttavia non aveva idea che il lavoro di ricerca fosse così stancante, soprattutto quando i risultati scarseggiavano, e si chiese se non dovesse avere una valvola di sfogo. “Sì, va bene. Ormai è tardi”, disse la ragazza alzando gli occhi all’orologio, “ma domani potremmo andare a cercare una palestra.”
“D’accordo.”
Mello era felice che lui e Noodle condividessero una passione. Non aveva mai avuto altra passione se non quella di battere Near, ma ora che stavano seguendo assieme il caso non sembrava più così importante. Forse, se non ci fosse stata Noodle, avrebbe ancora voluto primeggiare, far vedere ad L che lui era più intraprendente, intelligente, svelto, laborioso, e un sacco di altri aggettivi positivi. Ma ora non gli interessava più di tanto. Era lì con loro, i suoi pochi, in un certo strano modo, amici, e voleva più che altro far vedere a Noodle che era un tipo a posto, un tipo adatto a lei. Forse non lo sapeva ancora neanche lui, forse non sapeva nemmeno il motivo per il quale si comportava così, però voleva piacergli, voleva essere alla sua altezza, voleva stupirla e fare impressione su di lei. Voleva che la prima persona che cercasse, quando si alzava dal letto, fosse lui.
Purtroppo, per il momento quel suo desiderio non si avverava. “Io me ne vado nello studio, qui c’è troppa gente”, disse Noodle burbera alzandosi e uscendo dalla stanza. Mello sospirò, poggiò la guancia alla mano e rimase seduto a guardare il vuoto, pensare, e mangiare cioccolata fondente.
Quasi un’ora dopo, senza dire niente a nessuno, L si alzò e si diresse allo studio. La porta era aperta e Noodle stava seduta alla scrivania a leggere un grosso tomo che L riconobbe come il libro che Mello le aveva regalato per il suo compleanno. Rimase sulla porta, gli occhi spalancati, fissi sulla schiena di lei. Stava lì da un quarto d’ora in silenzio, quando si decise ad alzare una mano e bussare piano allo stipite della porta.
Noodle si voltò. “Ciao”, disse chiudendo il libro e voltandosi nello stesso istante.
“Come va?” Di solito L non faceva queste domande, era stato amico di poche persone e si era confidato con una sola di loro, che non aveva più il piacere di poter ricordare la loro conversazione. Comunque aveva voglia di conoscere meglio Noodle, forse perché sentiva ancora di avere un debito con suo padre, e forse perché a volte poteva scorgere sul suo volto un’aria triste e gli dispiaceva che vi fosse. Il ricordo della sua foto da ragazzina era così diverso dalla figura della donna che aveva di fronte, e quello sguardo un po’ impertinente e un po’ insicuro che aveva da bambina era migliore di quello gelido che portava impresso sul viso in ogni istante, ora che era cresciuta. Ad L sarebbe molto piaciuto rivedere il viso della foto.
“Bene, tutto bene”, rispose Noodle.
L si sedette su una sedia che stava al suo fianco, rivolta verso di lei. “Sei soddisfatta di come vanno le indagini? Adesso andiamo un po’ a rilento, ma ti assicuro che entro la fine della settimana avremo finito di interrogare tutti coloro che hanno avuto contatti con Georgie Jonsson. Allora avremo sicuramente una pista. Secondo i rapporti che ha lasciato alla CIA tuo padre aveva fatto la stessa cosa e aveva anche scoperto il colpevole. Utilizzare il suo stesso metodo non può che essere una buona soluzione.”
“Lo so”, disse Noodle con voce fredda.
Erano mesi che tentava di risolvere il caso per conto suo, poi aveva provato a contattare L. Sapeva che non si trattava di settimane prima di poter giungere ad una conclusione, ma anche così si sentiva frustrata, insoddisfatta. Le pareva che tutto fosse troppo statico, che non stesse facendo nulla per aiutare suo padre. Ormai, certo, nessuno avrebbe più potuto aiutarlo, ma sentiva di dovergli lo stesso qualcosa. Stephen Tempor era un uomo dalla vita infelice, si era ritrovata a pensare più volte. Aveva un lavoro che assorbiva tutta la sua vita, una moglie che era morta dopo appena sette anni di matrimonio e lo aveva lasciato con una figlia a cui badare. Tutti i genitori hanno segreti che i figli non scopriranno mai, e che forse non vorrebbero mai riportare alla luce, ma da ciò che aveva sempre visto, Noodle pensava che suo padre fosse un uomo senza una propria vita, o meglio, con una vita dedita al lavoro e, nel poco tempo libero da esso, alla famiglia. A lei. E se avesse avuto altri interessi e non avesse potuto coltivarli? Se per caso gli fosse piaciuto tanto andare a pesca, ma non avesse mai potuto farlo? Noodle era una persona razionale, non credeva fosse colpa di nessuno, meno che mai sua. Suo padre aveva scelto consapevolmente la sua carriera e sapeva a cosa andava incontro quando l’aveva scelta. La morte della mamma aveva stravolto il suo sogno di vita felice probabilmente, ma era andato avanti, ancora conscio di quanto il futuro sarebbe stato duro. Ma avrebbe potuto scegliere di dedicarsi alla carriera e basta, invece passava ogni minuto libero assieme a Noodle. Era una sorta di sacrificio ben accetto. O almeno, Noodle la pensava così, ma questo non toglieva il fatto che si sentisse in debito. Se lui l’amava così incondizionatamente da rinunciare alla propria vita, alla ricerca di un’altra donna che non fosse lei, da rinunciare alle sue passioni, allora glielo doveva.
Per lui.
Per sentirsi meglio con sé stessa.
“L, questo caso sta prendendo pieghe inaspettate, non è così?”, domandò Noodle.
“E’ vero. Georgie è una dei prescelti, e questo ci porta più vicini a qualcosa di surreale che ad un caso tradizionale. Ma c’è sempre un delitto, e il mio compito è quello di trovare l’assassino dei Jonsson e il rapitore di Georgie.”
Noodle abbozzò un sorriso. “Credevo che non fossi più un detective.”
“Infatti. Non è un caso è un favore.”
Molti sentivano di essere in debito con Stephen Tempor.
“Posso chiederti io qualcosa?” Noodle alzò il mento piccolo in atteggiamento fiero. L le fece segno di continuare. “Quando troveremo l’assassino di mio padre, voglio che lo lasciate a me.”
“Perché?”
“Lo ucciderò.”
Lo disse così semplicemente che, per qualche secondo, L non capì il vero significato delle sue parole. Poi, quando comprese, scrutò nei suoi occhi bui per cercarvi qualcosa, qualcosa che gli confermasse che ciò che la guidava non era solo cieca, furiosa vendetta. “Quel che dici è molto grave Noodle, forse sei ancora troppo giovane per capire cosa significa davvero. Ma posso dirti che chiunque sia stato avrà la punizione che si merita. Però… non dovresti essere così affrettata nelle tue decisioni, la morte non è giustificabile in nessun modo e in alcuna situazione che non sia estrema legittima difesa.” Il parere del detective era sempre in linea con la legge.
Noodle, cui avevano insegnato che non si interrompe nessuno quando parla, non disse nulla finché lui non terminò. “Se credi che non sappia cosa vuol dire la morte perché sono troppo giovane, ti sbagli. La morte si può conoscere a qualsiasi età, e ti concedo che non sempre, una volta che si è conosciuta, le si dà il giusto significato. Ma puoi star certo che io la conosco. E voglio che quel bastardo veda calpestati tutti i suoi sogni, che sappia che il suo futuro verrà cancellato, che non potrà mai realizzare quel che voleva e sarà morto senza neanche averci provato. Come mio padre.” La ragazza serrò la mascella e guardò L con atteggiamento di sfida, come a vedere se osava ribattere.
L la osservò serio per qualche secondo, poi abbassò gli occhi e soppesò fra le mani un anello con cui stava giocherellando. “Sembri conoscere molte cose della morte Noodle. Ma non credo che tu conosca altrettante cose sulla vita.” Così detto il detective si alzò e se ne andò, lasciando Noodle a vagare nei propri pensieri.

Dopo una settimana Matt e Diane avevano finito di interrogare tutti coloro che avevano avuto rapporti con Georgie Jonsson e che sapevano della sua presunta schizofrenia. Avevano contattato il giudice Harold Gebert, un uomo pelato e panciuto che li aveva trattati con modi untosi e troppo gentili ma che, dopotutto, a Matt non sembrava rappresentare alcun pericolo. Era solo un uomo troppo attaccato alla sua poltrona che tuttavia svolgeva un buon lavoro come giudice tutelare. Infine, senza molte speranze, avevano contattato la direttrice del primo istituto che Georgie aveva frequentato, ma lei si limitava a descrivere la bimba come una pazza senza rimedio alcuno.
Matt pensava intensamente, di fronte ad una tazza di caffè bollente molto amaro. Di fronte a lui Diane Colfer lo osservava dubbiosa da qualche minuto. Matt alzò lo sguardo e incontrò i suoi occhi. “Cosa c’è?”
“Perché credete che qualcuno possa aver rapito Georgie solo per la sua malattia?”, chiese Diane con tono deciso.
Matt sbatté le palpebre più volte. Quella donna era più astuta di quanto pensasse. Probabilmente doveva aver prestato molta attenzione agli interrogatori e notato che cos’avevano in comune, il punto su cui Matt -o Sacha Granfking- si dilungava di più. Per una mente bene allenata come quella di Matt la cosa sarebbe risultata evidente da subito ma Diane aveva tratto le sue conclusioni solo dopo aver assistito a tutti gli interrogatori. Invece Matt aveva commesso un errore: i membri della Wammy’s House, abituati ad essere trattati come menti geniali, avevano cominciato a pensare che la maggior parte delle persone avessero abilità intellettuali molto inferiori alle loro, e tendevano a sottovalutare tutti da quel punto di vista. Per Matt si rivelò un pericolo.
“E’ il motivo più probabile”, tirò fuori il ragazzo, improvvisando.
“Perché dei criminali dovrebbero interessarsi alle malattie psichiche infantili?”, domandò Diane. Stava appoggiata allo schienale morbido della sedia del bar, teneva le braccia conserte sul petto; la sua posizione preferita.
A quel punto Matt pensò di usare la scusante per le emergenze. “Il motivo non posso dirtelo, ordini di L.”
Diane sbuffò. “Ogni volta che ti domando qualcosa ti nascondi dietro alla scusa che sono ordini di L. Perché non volete che sappia? Potrei aiutarvi molto di più se fossi meglio informata”, disse la donna sporgendosi in avanti con le sopracciglia sottili alzate.
Matt la osservò, poi sospirò e abbassò lo sguardo. “E va bene. Ci avevano avvisato che questo sarebbe successo.”
“Che cosa?”, domandò Diane.
“Il tuo capo ci ha detto che sei una vera ficcanaso, e devo dire che ha ragione. Mi spiace Diane, ma abbiamo bisogno di qualcuno che esegua gli ordini senza porsi troppe domande. Riceverai comunque un compenso”, disse Matt tentando di essere rassicurante.
“Il mio capo?!”, domandò Diane esterrefatta e molto, molto arrabbiata.
“Mi dispiace Diane. Non devi cercarci più.” Matt si alzò e fece per andarsene.
“Aspetta!” Diane afferrò il polso del ragazzo e lo bloccò, guardandolo con aria quasi supplicante. “So perché vi ha detto quelle cose, ma non è vero. Posso continuare a lavorare per voi, non farò domande.”
Matt si liberò cauto dalla stretta. “E perché avrebbe dovuto dirci quelle cose?”, domandò lentamente.
“Perché quell’uomo è un criminale e io so del suo segreto”, disse Diane. Per un attimo la sua voce aveva preso un tono distaccato ma poi tornò a incrinarsi quando disse: “Lascia che ti racconti, per favore. Poi potrai fare quel che vorrai”.
Matt la osservò dubbioso per qualche secondo, poi, lentamente, sedette al tavolino del bar.
Diane raccontò ogni cosa con dovizia di particolari. Matt venne a sapere di agenzie, soldi sporchi, alleanze fra personaggi mai sospettati che si nascondevano dietro a piccoli personaggi minori, venne a sapere di ricatti, di vendita di materiale confiscato, di licenziamenti improvvisi e mai de tutto giustificati. Diane disse ogni cosa, parlò di cifre, numeri e rendiconti bancari, ma non aveva la seppur minima prova di quel che affermava. Matt ascoltò con attenzione, studiò il linguaggio del corpo di Diane Colfer, che aveva imparato a conoscere bene, e pensò che non stava mentendo. Non sapeva se fidarsi del tutto di lei, con quel che gli avevano raccontato, così decise di fare una prova.
“Diane, queste prove… dove possono trovarsi?”
“Non lo so, forse nel computer di Filler.”
Matt pensò molto a lungo a quel che stava per fare. Non sapeva cosa lo fece parlare, ma parlò. E ciò che disse fu: “Hai mai sentito parlare di Fermat?”.
“No”, disse Diane confusa.
“Era un matematico del ‘600”, tagliò corto Matt distogliendo lo sguardo dal suo.
Ovviamente non voleva che lei sapesse che era un hacker: poteva anche decidere di arrestarlo. Era sicuro che anche facendo qualche ricerca non avrebbe trovato altro che il matematico Pierre de Fermat, e non l’hacker più anonimo del mondo. In pochi lo conoscevano, ossia coloro con i quali decideva di manifestarsi e per i quali compiva lavori di hacking a pagamento, in totale erano una cifra insignificante sparsa per il mondo, ridicola in confronto ai sette miliardi di abitanti terrestri. Nonostante queste persone sapessero della sua esistenza nessuna di loro, finito il lavoro, poteva contattarlo. L’hacker Fermat spariva semplicemente dal loro hard disk e non se ne avevano più tracce. Matt stava molto attento a non contattare la stessa persona due volte, e a far trasferire il denaro su un conto particolare.
“Cosa c’entra adesso?”
“Niente, volevo solo controllare la tua cultura generale”, disse Matt ad occhi chiusi massaggiandosi la base del naso. “Cosa fai domani?”
“Pensavo di fare una ricerca a proposito di Francy Newman, ma mi hai detto che la state già conducendo voi. Però posso sempre vedere di trovare altro. Gli archivi della polizia…”
“Lascia stare. Piuttosto vediamoci domani e ti dirò cosa fare per risolvere questo problema.” Matt alzò un braccio e chiese il conto. Diane fece per prendere il portafoglio, ma Matt la fermò dolcemente con un sorriso e una mano sul polso. “Oggi offro io.”

Diane Colfer bussò all’ufficio di Taylor Filler, promosso nove anni fa a capo delle forze speciali di ricerca della CIA, primo di due complici che da oltre dieci mesi derubavano l’azienda. Diane attese qualche secondo la risposta del suo capo, poi entrò. Mr. Filler stava seduto dietro la scrivania, leggeva delle carte e quando la donna entrò alzò lo sguardo. Si esibì nel sorrisetto più unto e falso che poteva fare. “Diane! Che piacere vederti, siediti.”
Diane fece un mezzo sorriso storto e si chiuse la porta alle spalle. “Ti ho portato una caffè Taylor. Macchiato, con molto zucchero.”
“Ah! Conosci i miei gusti meglio di me”, disse Taylor prendendo il caffè che Diane gli porgeva. “Allora, a cosa devo la tua visita?” La donna poggiò il porta bicchiere di fronte a sé, accanto al pc di Filler.
“So cos’hai detto di me ad L. Che sono un’impicciona che potrebbe intralciare i loro piani.” Il sorriso storto di Diane scomparve, così come quello unto di Taylor Filler. Diane spostò il pc che si trovava di fronte a lei, si sporse in avanti, appoggiandosi con le mani strette attorno al caffè starbucks alla scrivania, e disse lentamente scandendo ogni parola: “Non esiste alcun modo perché tu riesca a licenziarmi Taylor. Io so cos’hai fatto, e ne avrò presto le prove”.
La faccia di Taylor Filler stava diventando rossa di rabbia, sembrava che l’uomo non riuscisse a respirare dalla collera, gli deformava il viso in una brutta maschera di odio e furia. “Non ci sono prove!”, sbraitò con voce secca e agitata, “Stai bluffando. Prima che tu possa anche solo capire come si sono svolti i fatti io sarò già fuori di qui!”
Diane ghignò di nuovo, si ritrasse e si alzò, lasciando il caffè sulla scrivania accanto al computer di Filler. “A domani Taylor, riguardati.” E così dicendo uscì dall’ufficio.
Continuò a camminare lungo il corridoio, per le scale, nella grossa hall. Non si fermò finché non fu fuori dall’edificio e anche lì proseguì verso la sua destra per altri duecento metri. S’infilò nella prima metropolitana che trovò, prese la linea verde e scese a Bleecker St., cambiò con l’arancione e si diresse a Lower East Side. Uscì dalla metrò, camminò un altro po’, attraversò la strada e s’infilò in un caffè. Individuò chi cercava e si sedette al tavolo di fronte a Matt.
“Hai fatto?”
“Sì.”
“Non si è accorto di niente?”
“Niente.”

“Questo programma si chiama Crow”, disse il ragazzo sventolando in mano una chiavetta USB, “l’ho avuto tramite internet”, disse in fretta. “Può copiare l’hard disk di un pc senza che nemmeno il proprietario se ne renda conto. Questa in realtà è un versione semplificata e modificata, da me. E’ studiato appositamente perché tu lo metta nel pc di Filler. Non se ne accorgerà, puoi farlo anche di fronte a lui ma devi assicurarti che abbia il computer acceso. Per farla breve… Hai presente quando lanci un programma sul tuo computer? E si apre una finestra?”
“Sì”, disse Diane concentrata. Nonostante il suo lavoro richiedesse l’uso del pc non si poteva dire esattamente un’esperta.
“Ecco, questo non lo fa. Basta che trovi il modo di infilare questa chiave nel pc di Filler, e questo copierà tutto il suo hard disk in pochi secondi, quaranta al massimo, per poi fornirmi un modo di accedere al suo computer. Lo puoi fare?”
“Certo”, disse Diane, prendendo la chiavetta che Matt le porgeva.

“Ecco qui, tutte le prove che ti servivano”, disse Matt soddisfatto aprendo documenti su documenti sul suo portatile.
“Oh mio Dio”, disse piano Diane osservando lo schermo ad occhi spalancati.
“E’ tutto tuo. Se vuoi farne una copia…”
“Sì, subito.” Diane, le sopracciglia corrugate, non staccava gli occhi dallo schermo.
“Hai un portatile?”
“Ne ho uno al lavoro. Ma preferirei tenere questi documenti in casa mia, sul fisso”, disse Diane apprensiva.
Matt ridacchiò. “Non ti fidi più?”
“Certo che no. Vieni a casa mia?” Diane si alzò e sorrise. Matt in quell’espressione riconobbe qualcosa, ma non seppe dire esattamente cosa perché sparì in un lampo, fu come una sensazione. La sensazione di qualcosa di già vissuto. Quando sorrideva, Diane diventava più bella di qualunque altra donna Matt avesse mai visto.
“Adesso?”
“Ti invito a cena.”
“Dove abiti?”
“Dalle parti di Central Park.”
“E’ un po’ lontano da dove sto io. Mi farò venire a prendere.” Matt telefonò, si accordò perché Mello passasse a prenderlo alle dieci di sera, lo informò della via, poi attaccò. “Andiamo?”
La casa di Diane Colfer e Kenneth Grobson era accogliente e calda. Non appena Matt entrò tolse la giacca e la appese vicino alla porta. In quel momento un cagnolino di razza barboncino, dal pelo bianco e soffice, corse verso di loro abbaiando e scodinzolando.
“Questa è Biancaneve”, disse Diane chinandosi sul cane accarezzandola. “Spero che tu non abbia paura dei cani. Mi sono dimenticata di dirtelo.”
“No, tranquilla.” Matt si chinò e accarezzò Biancaneve sulla testa. “Sembra simpatica”, sentenziò infine.
“E’ del mio fidanzato, adesso è un po’ vecchia ma ancora non si stanca mai. Cosa vuoi mangiare?”, domandò infine Diane.
Matt si strinse nelle spalle. “Quello che vuoi tu, decidi tu.”
“D’accordo. Il pc è in nello studio, per qualsiasi cosa chiedimi pure tutto quel che vuoi”, disse Diane camminando veloce per il corridoio. In un ampia stanza, fornita di una grande finestra e una libreria che correva su tre pareti, c’era anche una scrivania con un computer fisso abbastanza moderno.
“Aspetta, dimmi quali documenti ti servono”, disse Matt appoggiando la borsa al letto e prendendo il suo powerbook. “Ti conviene non copiarli tutti, altrimenti ti prenderà spazio inutile.”
Matt non ci mise molto a copiare i file che interessavano a Diane nel suo pc, che pure era molto lento rispetto al suo, almeno dal suo punto di vista. Mentre Diane, seduta di fronte alla scrivania, revisionava i file, Matt stava seduto sul bordo del letto e si rigirava le mani l’una nell’altra nervosamente. “E’ perfetto, è tutto quel che mi serviva. C’è dentro di tutto qui”, mormorava intanto Diane, le sopracciglia corrugate.
“Ehm… Diane?”, chiamò Matt incerto. Lei si volse. “Io… non lo dirai a nessuno, vero?”
Diane sospirò e si allontanò dalla scrivania, spingendosi via sulla sedia girevole. “Mi stai dicendo che l’hai ideato tu quel programma?” Matt non proferì verbo. “Comunque si capiva. Non è legale Matt, la pirateria informatica è punita per legge.” Il ragazzo trasalì.
Non avrebbe mai dovuto fidarsi di una persona che conosceva da così poco tempo. Perché lo aveva fatto? Eppure aveva aiutato Diane al massimo delle sue capacità, si era impegnato tanto, creando persino una variante di Crow in una sola notte. E lei lo avrebbe denunciato. Non era preoccupato per sé, perché sapeva che nessuno avrebbe potuto trovarlo: nessuno sapeva il suo nome, e lui poteva scomparire facilmente. Diane gli piaceva, anche se aveva l’aria severa e una pessima immaginazione per i nomi degli animali, si sentiva quasi tradito dal suo comportamento.
“Tranquillo Matt, non lo dirò a nessuno.” Diane sorrise complice, e di nuovo il suo viso si illuminò.
Matt trasse un sospiro di sollievo, stupito. “Grazie.”
“Figurati. Vado a preparare la cena. Ti piace il pollo?”
“Certo. Arrivo, aspetta che spengo e metto via.” Matt rimase da solo nella stanza, spense il portatile e il fisso. Rimise a posto il power book nella borsa e lo poggiò accanto all’uscita. Poi raggiunse Diane in cucina.
“Dov’è il tuo fidanzato?”, domandò, appoggiandosi allo stipite della porta.
“E’ via per lavoro, torna mercoledì”, disse lei mentre si affaccendava attorno a due pezzi di carne.
“Che lavoro fa?”
“Lavora per un’azienda pubblicitaria, si occupa dei contratti con i clienti.”
“Ti do’ una mano?”
“No, no siediti.”
Matt sedette e rimase a guardare mentre Diane preparava due bistecche di pollo, patate e verdure bollite. Poi apparecchiò, e Matt decise che poteva essere d’aiuto almeno in quello, ma si rassegnò e sedette di nuovo quando si rese conto che Diane lo sorpassava gentilmente e svolazzava per tutta la cucina evitando di pestargli i piedi e dicendo continuamente permesso e scusa. Mangiarono con calma, chiacchierarono tutto il tempo. Quando ebbero finito Matt si alzò. “Dov’è il bagno?”
“Affianco allo studio”, disse prontamente Diane.
“Torno subito.” Andò in bagno e cercò anche di capire se per caso qualcosa gli si era incastrato fra i denti. Si sciacquò la bocca più volte, poi uscì.
Matt era davvero un ragazzo curioso e quello era uno dei motivi principali, oltre ai soldi, per cui aveva incominciato a fare l’hacker informatico: sbirciare nella vita della gente era quasi divertente. Non poté proprio resistere quando, invitante come una torta con panna e fragole per L, vide lungo il corridoio una stanza socchiusa, la camera da letto. Sperando che non facesse rumore spinse piano la porta che, evidentemente bene oliata, non emise un lamento e si aprì. La stanza era illuminata dalla luce dei lampioni e della luna che venivano da fuori, e quando gli occhi di Matt si furono abituati alla penombra il ragazzo si guardò attorno. Non c’era nulla di sconvolgente nella stanza, era un’ordinaria camera da letto. C’erano un grosso armadio, un letto a due piazze e due piccole poltrone. Su quello che doveva essere il comodino di Diane (c’era ancora la copia del libro di Yann Carter) c’erano delle foto e Matt si avvicinò per osservarle: era curioso di vedere com’era il suo fidanzato. Vide la foto di un cane, una con Diane assieme ad un uomo alto dai capelli neri, che doveva essere per forza il suo fidanzato a giudicare dalla cornice a forma di cuore, poi vide anche Diane da giovane, con i capelli rossi e lisci, che rideva. Matt spostò lo sguardo sull’ultima cornice, poi si bloccò.
C’era un fotografia, in una cornice di metallo liscio, ed evidentemente piegata da un lato, siccome mancava una buona parte di una delle due persone ritratte. La foto mostrava un bambino, a terra, in mezzo a mille peluche. Sorrideva, con due fossette sulle guance e in mano degli occhialini da piscina trasparenti.

“Mail! Dai Mail sorridi, fammi fare la foto.”
“Mail avanti, levati gli occhialini, non siamo più in piscina.”
“Seamus vai da lui, fagli togliere quegli occhiali.”
Seamus si era inginocchiato sul pavimento. I corti capelli biondo cenere che si muovevano con lui e un sorriso largo stampato sul volto. “Mail, andiamo, togli gli occhialini, perché non vuoi levarli?”
“Mi piace di più così”, aveva detto Mail stringendo le manine attorno agli occhiali.
“Facciamo così, adesso prendiamo tutti i tuoi giocattoli, e li mettiamo tutti sul tappeto. Ecco guarda, l’orso, la macchina, poi c’è… il cavallo”, e così Seamus andava elencando pupazzi e giocattoli di plastica che disponeva tutto attorno al piccolo Mail Jeevas, che li osservava estasiato, come stupito di possederne tanti. “Per caso qualcuno di loro porta gli occhiali?”, domandò Seamus.
Mail scosse la testa. “No.”
“Loro vogliono fare la foto assieme a te, ma devi toglierti gli occhiali, altrimenti non ti riconosceranno poi, quando la riguarderanno.”
“Davvero?”
“Ma certo, tu credi che questo qui possa vedere bene?”, aveva chiesto Seamus Jeevas prendendo in mano un pagliaccio dall’aria buffa. “Ma certo che no, certo che no!”, aveva urlato lanciando via il pupazzo e cominciando a fare il solletico a Mail. Lui rideva, rotolava a terra e si contorceva, quasi gli mancava il fiato dal ridere. Lui rideva, il suo papà rideva, la sua mamma rideva. Ridevano tutti, e Mail pensava che fossero felici.
Il bambino tolse gli occhiali e si voltò verso sua madre, quella ragazza dai capelli rossi e lisci. “Sorridi Mail!”
Sorrise. Due piccole fossette si formarono nelle guance piene.

“Matt, ho trovato del gelato!” La voce di Diane Colfer raggiunse l’ormai cresciuto Mail Jeevas come un tuono e lo riportò bruscamente alla realtà. Rimbombò nella sua testa e lo scosse come una scarica elettrica. Il ragazzo fece cadere la foto, il vetro della cornice colpì uno spigolo del comodino e si ruppe.
Tutto avveniva come in una trance. Matt non poteva muoversi, non sapeva cosa fare. Era la prima volta in tutta la sua vita che non sapeva che cosa fare. Non sapeva più pensare, né respirare, né capire. Udì i passi di Diane avvicinarsi alla stanza. Il cuore prese a battergli forte, poteva sentire il sangue pulsare nelle orecchie. Un doloroso groppo in gola lo sopraffece, impedendogli di ingoiare la saliva che si faceva sempre più pastosa in bocca. Il caldo si diradò sul suo viso e sugli arti, e si lui sentì ribollire.
“Matt cosa fai qui?” Sua madre lo osservava allibita, accese la luce della stanza e rimase sulla porta, una vaschetta di gelato in mano, senza capire che cosa stesse succedendo. Registrò il viso paralizzato di Matt e una fotografia a terra.
Mail Jeevas vide la donna dai capelli biondi, così diversi da quelli rossi che portava da giovane. In fondo agli occhi però, e nella forma del viso, nelle labbra che si stiravano nei sorrisi più dolci che Matt avesse mai visto, si riconosceva la ragazzina che era stata. Matt la riconobbe, e il suo corpo bollente si gelò all’improvviso, di paura, e il suo cuore prese a battere ancora più disperatamente. Poi, come se avesse ad un tratto recuperato l’uso del corpo e della parola, sbatté le palpebre. Una lacrima calda gli cadde sulla guancia ma lui la nascose: abbassò la testa con uno scatto repentino e si portò una mano al viso. Asciugandosi con la manica fece tre passi veloci per uscire dalla camera, oltrepassando Diane e curandosi non sfiorarla, di non guardarla, di fare come se non esistesse. Si diresse alla porta senza dire una parola mentre Diane Colfer, sua madre, lo seguiva a passetti affrettati, senza aver realmente capito che cosa fosse accaduto.
Mail Jeevas, figlio di Seamus Jeevas e di Diane Colfer, uscì dalla porta inciampando su un tappeto marrone e scese velocemente le scale del palazzo.
Il rumore delle sue scarpe sul marmo grigio era assordante.




















Ciao a tuttiii!
Cavolo, forse questo è il capitolo che più fremevo dalla voglia di postare! Mi piace un sacco la storia di Diane e Matt, e mi farebbe piacere sapere che cosa ne pensate voi (so che ci siete, lettori silenziosi!). Le indagini riprenderanno nel prossimo capitolo, per il momento ci dedichiamo ai drammi familiari, spero di avervi stupiti almeno un po' ^^

Il titolo dal capitolo ovviamente è ripreso dal titolo inglese del "Ritratto di Dorian Gray" ("The picture of Dorian Gray", appunto) di Oscar Wilde. Mail Jeevas è il nome vero del nostro Matt e riguardo a 'picture' mi riferisco alla fotografia che gli ha fatto ricordare quell'episodio della sua infanzia.
Oddio, sono così curiosa di sapere cosa ne pensate!
La frase di L a Noodle, sul fatto che lei sappia molte cose della morte ma non della vita, è ripresa da "Gran Torino", un film di Clint Eastwood del 2008. Non so bene come o dove la dicono, ma il senso è quello e le parole credo più o meno le stesse. Adoro quel film!
Bene, con le note ho finito, e vi lascio qui lo spoiler.
Statemi beeeneee! A settimana prossima! =)
Patrizia

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Capitolo 9
*** White trap ***


Capitolo otto
White trap





Near si svegliò di soprassalto. Un brutto sogno. Ancora popolato da quelle visioni di giganti ombre scure che lo circondavano e poi lo pungevano, lo gettavano a terra. E lui rimaneva lì, inerme, a farsi punzecchiare. Non faceva nulla per difendersi, come d’altronde non aveva mai fatto nulla per difendersi in alcuna occasione anche da sveglio. Quando Mello lo picchiava da bambino non si difendeva, aspettava di essere malconcio e umiliato per andare a dire ogni cosa a Roger. Non si difendeva da adulto, quando, le rare volte che usciva per strada, la gente lo additava e lo derideva.
Near tese l’orecchio e avvertì un pigolio proveniente dal piano di sotto. I suoi occhi si abituarono al buio e lui scese dal letto per andare a vedere chi fosse. In salotto, immerso in una luce fredda proveniente dalla tv, c’era Matt, che giocava ad un videogioco con una sigaretta appoggiata al posacenere e delle patatine affianco. Quando Near arrivò stava premendo frettolosamente pulsante su pulsante, ma nonostante questo il suo personaggio, un giovane muscoloso dai capelli bianchi e dotato di due grosse spade ricurve, venne sopraffatto. Matt sbuffò, lanciò il gamepad sul tavolino e prese la sigaretta, poi appoggiò la schiena sul divano e rimase lì, illuminato solo dalla luce artificiale della televisione che lampeggiava un game over.
Una sera Mello era uscito a prendere Matt a Central Park, ma prima che lui tornasse il ragazzo era rientrato a sorpresa a casa e si era chiuso in camera sua. Per circa quattro giorni non aveva parlato con nessuno. Non mangiava, non partecipava alle indagini, non usciva dalla sua stanza. L’unico che aveva avuto il coraggio di provare a parlargli era stato Mello, e il risultato che aveva avuto era stato di rimanere per due ore davanti alla sua porta. Prima a dirgli di uscire, poi a supplicarlo, poi a imporglielo. Le altre due ore le aveva passate in bagno, a tentare di lavare via dai capelli e dal viso la vernice bianca per muri che Matt aveva trovato in un angolo della stanza e che gli aveva gettato addosso. Poi, dopo un po’, Matt era uscito da solo dal suo auto-esilio, e come se niente fosse aveva ricominciato a collaborare alle indagini, a mangiare, a giocare con i videogame. Era più taciturno, spesso pensava ai fatti propri e sembrava che il resto del mondo per lui svanisse. Gli altri erano felici che fosse finalmente uscito dalla stanza e che il momento peggiore fosse passato, ma nessuno di loro era uno psicologo o comunque una persona con buoni precedenti nei rapporti interpersonali, così non gli chiedevano nulla per paura di peggiorare la situazione. Neanche Mello osò parlargli, e preferì seguire la scelta dell’amico e fare finta di niente.
Near avanzò fino al divano e si sedette affianco a Matt. Per un po’ nessuno di loro parlò e l’unico rumore che si sentiva era quello della plastica del sacchetto di patatine, al quali entrambi mettevano mano. Poi, con voce simile ad un sibilo, Matt disse: “Diane Colfer è mia madre”.
Near rimase un secondo in silenzio, ragionando. Non riusciva a vedere la cosa se non dal punto di vista logico. La cosa avrebbe dovuto fargli piacere, o almeno così aveva sempre pensato. “Posso capire che tu sia sconvolto, ma credevo che la scoperta ti avrebbe reso felice.”
Matt rimuginò ancora. “Infatti. Non so perché ho reagito così.”
“Come l’hai scoperto?”
“In casa sua c’era una foto mia e di mio padre. Credo che a questo punto anche lei se ne sia accorta.”
Rimasero in silenzio per un po’, poi Near chiese: “Cosa vuoi fare?”.
“Non lo so.”

Mello e Noodle avevano cercato per settimane di scoprire dove si trovasse Francy Newman, ma senza l’aiuto di Matt, prima impegnato con Diane Colfer e poi misteriosamente auto-reclusosi in camera sua, le ricerche procedevano a rilento. Alla fine erano riusciti a delineare grossomodo un quadro della vita della donna e trovato la sua abitazione.
Francy Lois Newman era nata nel New Jeresy ventisei anni prima. Aveva frequentato lì le scuole elementari e poi le medie. Aveva iniziato il primo anno di superiori, ma non l’aveva mai terminato. Pochi mesi dopo era scappata di casa, probabilmente a causa di problemi familiari: il padre era morto quando lei aveva tredici anni, e la madre si era risposata da poco. A diciannove anni era rimasta incinta di un uomo sconosciuto e aveva avuto Georgie. Si era trasferita a Las Vegas dove, molto probabilmente, manteneva sé stessa e la bambina prostituendosi, e occasionalmente ballando nei locali. Appena un anno dopo era andata a New York, ed era scomparsa dopo che gli assistenti sociali le avevano portato via la bambina.
“Abita fuori New York, a Berksville, in un bilocale di una palazzina. 34, Casedon St.”, recitò Mello voltandosi verso L.
Il detective rimase pensoso. “Matt e la Colfer andranno ad interrogarla domani.”
Matt alzò di scatto la testa. “Perché io?”
“Ha chiesto espressamente di te. E a te andava bene”, osservò L.
“Non ci voglio più andare.” Matt si alzò e andò in camera sua, sbattendosi la porta alle spalle.
L rimase a guadarlo perplesso. Aveva una mezza idea di ficcare la testa nella sua stanza e dirgli che domani ci sarebbe andato, nolente o volente, ma infine intervenne Near. “Perché non Mello e Noodle?”
“Dovremo saltare gli allenamenti di domani”, osservò Mello, esultando internamente.
“Non importa, forse troveremo una pista. Quanto ci vuole da qui per arrivare fino a Berksville?”, domandò Noodle.
Mello controllò velocemente su internet. “Un po’. Se partiamo presto, verso le otto, potremmo essere lì per le quattro di pomeriggio.”
Noodle scosse le spalle. “Andiamo fino a là a cercarla, e per la notte potremmo restare in qualche hotel e ripartire il giorno dopo.”
“Perfetto. Vado a controllare la macchina.”
Quel pomeriggio Mello fece una revisione completa alla Mercedes classe M, che stava man mano diventando il suo orgoglio, nonostante non fosse nemmeno intestata a lui. Poi preparò una borsa con della cioccolata, un cambio d’abiti, telefono e caricabatteria, il suo portatile e 300 dollari in contanti, più carta di credito e documenti. Noodle fece lo stesso.
Il mattino dopo, alle sette in punto, la sveglia di Mello suonò. Il ragazzo si alzò, fece colazione (cioccolato extra fondente proveniente direttamente dalla Svizzera) e una doccia veloce, poi prese il suo borsone e si mise davanti alla porta. Nemmeno due minuti dopo udì i passi secchi di Noodle che scendevano le scale. “Hai tutto?”, domandò Mello.
“Sì”, disse Noodle.
Tutti e due erano eccitati all’idea di andare a cercare e interrogare Francy Newman, per un mix di motivi diversi e diverse speranze. Mello era felice che finalmente L gli avesse assegnato un compito tanto importante, anche se si rendeva conto che era stato dettato dalle circostanze. In più gli piaceva l’idea di trascorrere tanto tempo assieme a Noodle da soli. In quelle settimane si era reso conto che lei era una di quelle rare ragazze che potevano interessargli. Interessargli davvero, non una di quelle che definiva ragazze-scopata. In realtà non ne aveva avute così tante, ma aveva la sua fetta di esperienza nel campo e riusciva a distinguere una ragazza carina da una ragazza bella. Noodle era decisamente bella. Non sapeva il perché, ma d’altronde nessuno conosce il motivo per il quale una persona diventa così speciale per noi, però gli piaceva il modo di fare di Noodle.
La ragazza invece non vedeva l’ora di fare qualcosa di concreto, e quando salì su quella macchina venne presa da una sorta di soddisfazione orgogliosa. Quando aveva lavorato da sola, seppur per poco tempo e con scarsissimi risultati, paradossalmente si era sentita più attiva di quanto non lo fosse quando aveva preso a lavorare assieme ad L. Le sembrava di non fare nulla di utile, anche se faceva molte ricerche e le indagini lentamente progredivano, ma sentiva di poter fare più di quello, di doverlo fare. Così, quando fu la volta di viaggiare, interrogare, scoprire, per Noodle quello fu il vero inizio delle indagini. Era anche abbastanza soddisfatta che non le toccasse andare assieme ad L o Near. Matt sarebbe andato bene, ma quello con il quale aveva davvero legato di più era Mello. Era un ragazzo particolare, non aveva mai conosciuto nessuno come lui. Si arrabbiava facilmente, a volte rispondeva in modo acido che le faceva venire voglia di strozzarlo, ma era anche molto empatico e sapeva quando doveva stare zitto, quando una parola in più sarebbe significato oltrepassare il limite. Lo apprezzava molto per questo.
Viaggiarono fino all’una facendo solo una sosta in autostrada per fare in modo di sgranchirsi un po’ le gambe, e siccome aveva guidato Mello fino ad allora, per proseguire fecero cambio e Noodle andò al volante. A quell’ora ne approfittarono anche per pranzare dato che lo stomaco della ragazza brontolava rumorosamente. Personalmente Noodle se ne vergognava un po’.
“Cos’è stato?”, domandò Mello alzando la testa di scatto con gli occhi spalancati.
“La mia pancia”, disse Noodle controvoglia.
Mell ridacchiò e disse: “E’ per questo che anche tu dovresti mangiare la cioccolata. E’ buona, nutriente, e non ingrassa”.
Noodle si accigliò. “Credo che tu sia ipertiroideo, e anche male informato.”
“Perché?”, domandò Mello stupefatto.
“Solo tu non ingrassi con la cioccolata. E ne mangi a valanghe. Mi chiedo come sia possibile, è del tutto contro natura.”
“Faccio sport”, disse Mello, come se quell’osservazione bastasse a fugare tutti i dubbi. Il ragazzo adocchiò un cartello. “Fra un po’ ci possiamo fermare a mangiare. Mezz’ora forse.”
Dopo ventitré minuti Mello aveva parcheggiato la macchina di fronte ad un motel con ristorante, benzinaio e negozio per i souvenir lungo l’autostrada. Seduti uno di fronte all’altro, su un tavolo in finto legno, Noodle ordinò: “Un piatto di spaghetti al ragù, una porzione di pollo fritto e un’insalata grande. Da bere una bottiglia d’acqua naturale da un litro e vorrei anche la salsa piccante, grazie”.
La cameriera scrisse tutto, poi si rivolse a Mello. “Per te?”
“Niente, grazie.”
“Consumazione obbligatoria minima di tre dollari”, disse lei indicando un cartello appeso sul vetro del ristorante che tuttavia era leggibile anche al contrario. “Se vuole può ordinare un menù giornaliero da dodici dollari e riceverà un buono da cinque dollari da usare al negozio di souvenir, oppure un menù classic da dieci dollari con dolce gratis a scelta, può anche prendere un menù maxi pollo con o senza birra, con sono sedici dollari, senza quattordici, e riceverà un regalo omaggio.”
Mello rimase a guardarla per qualche secondo senza capire. Quindi, imbronciato, prese in mano il menù e ordinò bruscamente: “Una coca”.
“E basta?”
“Sì.”
Noodle sorrise dietro le mani, tentando di non farsi vedere da Mello, ma lui la vide lo stesso e un po’ del suo malumore svanì. “Non si direbbe, sai, che una piccola come te possa mangiare così tanto.”
Faccio sport”, scimmiottò Noodle.
Dopo che ebbero mangiato, i ragazzi gironzolarono un po’ nel negozietto di souvenir, che consisteva in cappellini, piccoli peluche per la macchina, adesivi, giochi per bambini, riviste di ogni genere e cibarie dal dubbio gusto. Poi uscirono, e Noodle si accese una sigaretta.
“Cosa ne pensi di questa indagine?”, domandò la ragazza.
“Credo che la cerchia di sospettati non può che essere infinitesimale. Immagino che sia un vantaggio e uno svantaggio al tempo stesso. Insomma… quante persone ci possono essere a conoscenza dell’esistenza di Shinigami? E degli occhi dello Shinigami? E anche se fosse: a cosa serve se non hai un Death Note?” Mello esitò. “Tuo padre…”
“Sapeva?”, lo anticipò Noodle. “Non lo so. Forse non sapeva nulla, ma era sulla strada giusta comunque. Forse invece sapeva ogni cosa. Entrambi due buoni motivi per ucciderlo.” Noodle aspirò il fumo amaro e lo buttò fuori, un po’ dalla bocca e un po’ dal naso, sospirando. “Cosa faremo se neanche Francy Newman sarà una possibile sospettata?”
“Ricominceremo daccapo. Se tuo padre, quasi da solo, è riuscito a scoprire qualcosa, non vedo perché non dovremmo noi tutti assieme. Se i sospettati non sono fra le persone che abbiamo interrogato allora dev’esserci sfuggito qualcosa; un collegamento, un movente, un fatto microscopico. Ricominceremo da capo e allora lo troveremo.” Mello stava in piedi di fronte a Noodle e osservava la strada con occhi fissi. Non vedeva altro che la sua mente, in un lavorio continuo.
Noodle terminò la sigaretta, si stiracchiò e disse: “Vuoi che ti dia il cambio?”.
“Magari.” Mello le porse le chiavi e Noodle entrò in macchina.
Arrivarono a Berksville alle sedici, e gli ci volle un’altra mezz’ora per trovare il numero 34 di Casedon St. Suonarono al campanello tre volte ma nessuno aprì, così decisero di fare un giro. In un negozio di elettronica si misero a giocare a Guitar Hero ma nessuno dei due era poi troppo bravo. L’unico motivo per cui vinse Noodle fu che, a metà canzone, il cellulare di Mello squillò e lui abbandonò il gioco.
“Sì, pronto? Metti pausa”, bisbigliò a Noodle.
“Non so come si fa!”, disse lei ridendo senza controllo.
“Siamo qui, siamo arrivati mezz’oretta fa. La Newman non è in casa. Poi ci torniamo.” Pausa. “Ci fermeremo in un motel per la notte, non c’è problema.” Pausa. “D’accordo. A domani.” Chiusa conversazione.
Quando, fra una lamentela e l’altra di Mello e la sua richiesta di una rivincita, tornarono alla casa di Francy Newman e suonarono il campanello, una voce roca di donna rispose subito. “Sì? Chi è?”
“Signorina Newman siamo dell’ufficio Assistenza Cittadini, vorremmo farle qualche domanda”, disse Mello al citofono. Francy Newman non rispose e il cancelletto si aprì con uno scatto pochi secondi dopo.
All’ultimo piano dello stabile c’erano quattro monolocali e un bilocale, nel quale abitava Francy. La donna che aprì la porta poteva avere anche più di trent’anni tanto era sfatta, ma dalle loro ricerche risultava solamente sei anni più vecchia di Noodle. Era secca e filiforme, aveva capelli biondi che le cadevano flosci sulle spalle, due occhiaie nere e un rossetto sgargiante e volgare. Portava un maglione azzurro a collo alto e dei pantaloni neri molto stretti. “Si?”, domandò Francy Newman appoggiata allo stipite della porta con un braccio, osservando i due strani personaggi che, lei sapeva, dovevano prima o poi arrivare. Li aveva visti dalla finestra quando erano passati prima, ma non aveva risposto. Erano i suoi ordini, e per qualche biglietto da cento questo e altro.
Questa volta parlò Noodle. “Vorremmo farle qualche domanda signorina Newman, possiamo entrare?”
Francy Newman ghignò. Si scostò dalla porta e disse con voce roca: “Ma certo”.

La casa era composta da un salone, un cucinotto, un minuscolo bagno e una camera da letto. In salotto, sul divano, sedevano Noodle e Mello, di fronte a loro, su una sedia, Francy Newman madre naturale di Georgie Jonsson, teneva una sigaretta mollemente in bocca. Li osservava con occhi diffidenti.
“Quindi lei ora non sa nulla di sua figlia”, ripeté Noodle.
Francy fece segno di no con la testa. “Non mi hanno fatto sapere più niente di lei. Quei bastardi dell’Assistenza Sociale se la sono portata via. Non la vedo da allora.” La donna fissò lo sguardo lontano. “Sono quasi tre anni”, affermò poi.
“Sua figlia aveva disturbi psichici. L’ha mai portata da uno psichiatra?”, continuò Noodle.
Francy fece scattare lo sguardo su di lei. “Mia figlia non aveva problemi psichici. Era una bambina, i bambini giocano, hanno amici immaginari! Me lo hanno detto i giudici, hanno detto che mia figlia era schizofrenica”, sputò fuori Francy Newman con sguardo di scherno, come se fosse ridicolo quel che le avevano detto. “Mi hanno accusata di maltrattamenti, dicevano che era colpa mia!”
Mello e Noodle, dopo quell’improvviso lampo d’ira, stavano sull’attenti. Mello sapeva per esperienza personale come reagisce un alcolista e sapeva che poteva diventare pericolosa. Certo a vederla così Francy Newman non rappresentava un grosso pericolo, ma poteva avere un’arma, e siccome era fuori di testa un motivo per usarla l’avrebbe trovato senza difficoltà. Mello la osservava con occhi esperti e registrava ogni sua mossa, che poteva essere potenzialmente violenta.
“E secondo lei perché allora Georgie s’inventava le cose?”, tentò di nuovo Noodle.
Francy Newman si strinse nelle spalle e spalancò gli occhi, allargando le braccia. “Non lo so. Ma Georgie non è schizofrenica, ha tanta immaginazione! Dovevano lasciarla con me, l’hanno data in affidamento a quei due stronzi, e infatti adesso non si sa più che fine abbia fatto. Un bambino deve stare con i propri genitori.”
Noodle e Mello si scambiarono un’occhiata. Quella donna era strana e poteva esserci una piccola possibilità che fosse stata lei stessa a rapire Georgie e uccidere i suoi genitori adottivi. Prima di tutto la sua indole incerta suggeriva un carattere impulsivo, come quello di Mello ma senza la vena furbesca, poi pareva molto arrabbiata del fatto che le avessero portato via la bambina. Né Mello né Noodle escludevano il fatto che la donna stesse facendo una sceneggiata, e non nascondesse per caso Georgie Jonsson in qualche sgabuzzino o da qualche complice. Sarebbe significato che nulla aveva a che vedere con il fatto che Georgie fosse un prescelto, e questo in qualche modo consolava i due ragazzi. Noodle ricordò che Ryuk aveva detto che i prescelti spesso vivono vite difficili. Comunque Mello e Noodle sapevano che il procedimento da fare era lungo, avrebbero dovuto continuare le ricerche sulla Newman per un altro po’, per controllare che fossero sulla giusta strada. Non potevano permettersi di procedere alla cieca in un caso così complicato.
“Quindi lei non crede che Georgie fosse malata”, affermò Mello.
Francy Nweman scosse la testa. “Non era malata, cercavano solo un pretesto per portarmela via.”
I due ragazzi giudicarono inutile continuare quella conversazione: era chiaro che la Newman aveva qualche rotella fuori posto, non raro per una persona che abusava di droghe e alcool. Mello si alzò per primo e strinse la mano alla donna. “Grazie mille signorina Newman, ci è stata di grande aiuto.”
“Di nulla”, rispose lei stringendo le mani ad entrambi e andando verso la porta. Mentre i due aspettavano che aprisse la doppia serratura e togliesse il catenaccio non si guardavano nemmeno, per paura di farsi scorgere a scambiarsi sguardi complici. “Non si apre…”, borbottò Francy spazientita colpendo la porta con il palmo della mano. La serratura scattò.
Un braccio fasciato di bianco passò davanti a Noodle e le bloccò il collo. La ragazza sgranò gli occhi e smise di respirare per qualche secondo, sorpresa. Poi reagii. D’istinto aveva portato le mani al braccio del suo aggressore, per allontanarle dal collo. Lo morse, e quello si allontanò da lei, senza un gemito. Noodle si voltò. Una figura tarchiata, completamente vestita di bianco in un completo aderente, che somigliava a quello dei tiratori di scherma, le stava di fronte. Il volto era coperto da una maschera, totalmente bianca anch’essa e senza espressione. Noodle, istintivamente, si mise in posizione di difesa ma prima che potesse del tutto alzare la braccia fino al viso un pugno fulmineo la colpì allo zigomo sinistro. La ragazza finì contro il muro, picchiò la testa. In una confusione sfocata vide Francy Newman che si allontanava da loro e Mello che fronteggiava l’aggressore. Per un po’ andò bene, poi un calcio lo colse impreparato sul lato sinistro. La violenza della scarpa che si abbatteva sulla tempia di Mello fece esplodere nel ragazzo un dolore rimbombante alla testa e all’occhio. Si portò una mano al viso, indietreggiando, e la premette contro la palpebra sinistra chiusa forte. Quando tentò di riapre gli occhi vide mezzo mondo sfocato, dalle lacrime che uscivano dall’occhio colpito. Una figura bianca avanzava verso di lui e avvertì altri due colpi, uno alla mascella, uno al naso. Nel frattempo Noodle si era ripresa e si lanciò con furia sulla figura biancovestita. Più preparata, pronta al combattimento, la ragazza si muoveva veloce e precisa. Era come un allenamento.
Difesa. Attenzione. Cautela. Previsione delle mosse dell’avversario, se possibile. Difesa. Attacco. Attacco. Difesa. Attacco. Avanzare. Attacco. Avanzare. Difesa. Ci vollero pochi secondi perché Noodle capisse che l’avversario che aveva davanti era esperto. Non particolarmente veloce, ma molto forte. Le sue mosse venivano anticipate dalle sue movenze, e Noodle aveva così un piccolo vantaggio. In compenso, quando l’avversario colpiva, lo faceva con tanta forza e precisione che i colpi successivi andavano tutti a segno, poiché Noodle rimaneva stordita per qualche secondo.
Quando Mello riprese coscienza di ciò che stava accadendo si fiondò sulla porta gridando: “Noodle! Andiamo!”. La ragazza, che era riuscita ad assestare un paio di pugni, corse via assieme a Mello.
Quando uscirono dal palazzo era quasi buio. Il cielo era blu scuro e la strada illuminata solo dalla luce troppo intensa dei lampioni. Non c’era nessuno. Mello e Noodle correvano senza sosta, la seconda più ammaccata del primo. La macchina stava a circa cento metri, in una traversa a fondo chiuso. Dei passi dietro di loro, chiaramente diretti a raggiungerli, li fecero correre più veloce. Non c’era nient’altro che la strada che scivolava sotto i loro piedi e la certezza che non dovevano rallentare.
Mello, le orecchie piene del battito cardiaco e del rumore sordo delle sue scarpe sull’asfalto, raggiunse la macchina e tirò fuori le chiavi, impacciato e con le mani tremanti. Aprì le porte e si fiondò dentro. Mise in moto, uscì dal vialetto, guardando la strada dove doveva esserci Noodle. La cercò nel buio, accese i fanali, non la vide. Imprecò.
Quel maledetto in bianco l’aveva presa, senza che nemmeno se ne rendesse conto. Si chiese come diamine aveva fatto. Noodle correva solo a due o al massimo tre metri di distanza da lui! Come poteva non aver sentito nulla? Evidentemente il loro intento era catturare tutti e due. Era stato un piano ben architettato. Sapevano che sarebbero arrivati, li avevano colti di sorpresa organizzando ogni cosa alla perfezione. Chi altri sapeva della loro venuta lì? Diane Colfer? Possibile. Il rapitore di Georgie e assassino dei Jonsson poteva aver anticipato le loro mosse? Non c’erano molte tracce che avrebbero potuto seguire e probabilmente l’organizzatore di quella farsa sapeva ad intuizione chi loro potevano voler interrogare, immaginò Mello. Probabilmente si era messo d’accordo con Francy Newman, promettendole dei soldi o qualcosa di simile. E se fosse stata la stessa Francy ad architettare tutto quello? Ma non era una donna piena di risorse economiche, e solo le persone con un discreto capitale potevano assumere un assassino o comunque un professionista che portasse a termine il lavoro sporco. E quello che c’era la dentro sembrava proprio un professionista.
Se Mello fosse tornato a prendere Noodle, considerato lo stato in cui era, probabilmente ne avrebbe prese ancora e si sarebbe fatto imprigionare assieme a lei. Che cosa le avrebbero fatto? Non volevano ucciderla, molto probabilmente volevano utilizzarla per ottenere informazioni su chi li stava cercando e a che punto erano con le indagini. Non l’avrebbero uccisa prima di sapere qualcosa.
In questi pensieri passarono circa quattro secondi. Mello imprecò di nuovo, picchiando una mano sul volante e stringendo i denti. Una goccia di sangue volò sul finestrino e il ragazzo si toccò il viso. Il naso e la bocca erano umidi di saliva e sangue, che scendeva a fiotti fino a macchiargli i vestiti. Mello mise la mano sul cambio, lasciò andare la frizione e fece un’inversione a U. Schiacciò il piede sull’acceleratore diretto alla statale.




















Heylà!
Allora, due cose proprio piccole piccole sul capitolo:
La parte del ristorante fra Mello e la cameriera non è tutta farina del mio sacco. Me l'ha ispirata "City", di Alessandro Baricco. E' un libro bellissimo, comunque c'è una scena molto simile (anche se la sua ovviamente è molto più divertente della mia xD).
Poi, la questione del cibo in Death Note xD E' una cosa scemissima da mettere in una nota e anche nella fanfiction, lo so, ma è una cosa che mi fa impazzire! xD Cioè, Mello mangia solo cioccolata! Deve avere qualche problema xD
A parte questo, cliccate qui per lo spoiler e ditemi cosa ne pensate del capitolo se vi va =) Soprattutto del combattimento fra Noodle e l'uomo misterioso: non ho mai descritto combattimenti corpo a corpo come questo e sono curiosa di sapere se si capiva cosa stessa succedendo xD
Be', a parte questo adieu! Addio! Adios! Al prossimo capitolo (quindi non proprio addio)!
Patrizia

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Capitolo 10
*** Play by the rules ***


Capitolo nove
Play by the rules





Near era ancora indaffarato come non mai. Si era messo l’anima in pace e aveva capito che nessuno meglio di lui avrebbe mai potuto organizzare un trasferimento. Cercò una seconda casa in affitto a Berksville e la pagò con tre mesi di anticipo, insisté con tutti perché non chiamassero nessuno che li aiutasse a fare tutti i bagagli, quindi inscatolarono di nuovo ogni cosa loro stessi. Poi il ragazzo noleggiò una macchina per il trasporto di tutte le attrezzature, per le quali la Mercedes non bastava. Terminò di organizzare tutto in soli due giorni. Si stava facendo un esperto.
Mello era tornato alle quattro di mattina della scorsa notte. Bussava alla porta disperatamente e quando L andò ad aprire lo trovò accasciato sullo zerbino, il viso pallido e la maglietta zuppa di sangue scuro. Mello aveva accennato ad un uomo vestito di bianco, a Francy Newman, e aveva detto che Noodle era stata rapita. L gli aveva ficcato della cioccolata in bocca per farlo stare zitto e aveva chiamato il 911. Mello aveva perso parecchio sangue, si era rotto il naso e l’occhio sinistro aveva dovuto subire un’operazione con il laser perché la retina dell’occhio si era staccata. Quando si era svegliato, poco più di dodici ore dopo, aveva trovato Matt al suo fianco. Gli aveva raccontato per filo e per segno cosa fosse successo a casa di Francy Newman e, dopo aver ricevuto le informazioni, L aveva deciso che sarebbe partito lui stesso per Berksville ad interrogare Francy.
Purtroppo quando arrivò era troppo tardi e trovò la casa della Newman circondata da poliziotti, curiosi e nastro giallo con sopra scritto ‘do not cross’. Francy Newman era stata trovata morta qualche ora prima da un uomo che voleva entrare nel suo appartamento. La polizia affermava che era stata assassinata con un coltello e propendeva per credere che fosse stato uno dei clienti della Newman, che si prostituiva, uscito fuori di testa per qualche ragione sconosciuta.
L contattò Diane Colfer e le chiese di controllare tramite satellite le persone che usavano fare visita alla casa di Francy Newman. Scoprirono che aveva pochi clienti affezionati, ma che tutti loro abitavano a Berksville. Se davvero era stato un cliente della Newman ad ucciderla allora era molto probabile che l’avesse già vista più volte, almeno due. Molti dei clienti di Francy invece venivano da fuori città, e dopo una prima visita non tornavano mai. Solo tre persone erano assidui frequentatori del suo appartamento. Tramite le registrazioni L individuò tre auto che portavano ad altrettante case: una di quelle era dell’assassino di Francy, che con molte probabilità era la stessa persona che aveva rapito Noodle.
Near terminò di caricare gli scatoloni con le sue cose nella macchina. Avrebbero iniziato il viaggio il giorno dopo. In una macchina Matt ed L, nell’altra Mello e Near. Il ragazzo rientrò in casa ed esitò qualche secondo di fronte alla porta della camera di Matt. Infine decise e s’intrufolò dentro. Prese il computer del ragazzo e, come sperava, trovò diversi programmi aperti, compresa la pagina delle e-mail di Watari. Una fortuna sfacciata! Scrisse una mail velocemente, indirizzata a Diane Colfer, e lasciò tutto come l’aveva trovato.
Avrebbero iniziato il viaggio il giorno dopo, in una macchina Matt ed L, nell’altra Mello, Near e Diane Colfer.

Da qualche giorno il mondo era tutto in bianco e nero per Noodle.
Bianco. Come la stanza nella quale si trovava. Senza colore odore o una personalità. Annullante.
Nero. Come ciò che la circondava ogni volta che decidevano di portarla in un luogo a lei sconosciuto, quando veniva bendata e trasportata di peso. Le facevano domande, lei non rispondeva. La lasciavano senza cibo per tre o quattro giorni, lei non rispondeva. Non la facevano dormire la notte facendo rumori forti nella stanza, lei non rispondeva. Era quasi certa dopo un po’ che avrebbero anche potuto fare a meno di lei se non avesse dato segni di collaborazione, e allora non avrebbe mai più risposto a nessuno.
Bianco. Come il vestito di quella donna che ogni volta la prelevava.
Nero. Come il volto di quella donna che ogni volta la guardava con una sorta di luce maligna negli occhi.
Noodle non sapeva dire da quanti giorni fosse lì. Per lei potevano essere passati mesi, ma se avesse scoperto che erano, invece, solamente undici giorni, quattro ore, e nove minuti da quando era lì, avrebbe potuto mettersi a urlare sino a farsi sanguinare la gola.
Non sapeva chi fosse quella donna, non sapeva chi fosse a farle quelle domande insistenti, non sapeva che cosa le avrebbero fatto quando avrebbero capito che non avrebbe mai proferito parola. L’unica cosa che tenne Noodle lontana dalla pazzia, in quella stanza, fu il suo cervello. Ragionava, ragionava furiosamente ma non riusciva a capire nulla di ciò che stava succedendo.
Francy Newman era, molto probabilmente, solo una piccola pedina nelle mani di qualcuno più grande. Qualcuno che sapeva del potere di Georgie Jonsson e aveva deciso di rapirla per poterla sfruttare, e che sapeva anche qualcuno della levatura di L o della CIA stava indagando su di lui. Avevano rapito lei, Noodle, per ottenere informazioni, e molto probabilmente per ricattare il detective o l’agenzia che c’era dietro quella storia. Noodle era sicura che L e tutti gli altri sarebbero andati a riprendersela, ma non credeva che qualcuno le avrebbe cortesemente detto quando sarebbero arrivati. Poteva solo sperare che stessero già organizzando un piano, ma le ore scivolavano via con le pesantezza di anni interi.
La porta si aprì silenziosamente. Noodle, gli occhi fissi sulla parete bianca, seduta su una sedia, era concentratissima ad enumerare tutti i teoremi matematici che le venivano in mente per contrastare la solitudine, la noia e l’intorpidimento delle sue membra. La donna in bianco con il volto nero entrò e rimase a guardarla in silenzio, in attesa che terminasse. Noodle bisbigliava senza rendersene conto e la donna ascoltò le sue ultime parole: “…uguale all’integrale di roh fratto lambda al quadrato per x in dx.” Noodle si fermò e si voltò verso la donna. Lei non disse una parola, la prese per un braccio e la trascinò fuori dalla porta. Senza bendarla, senza coprirle il volto in alcune modo o bloccarle la vista. Noodle si guardò attorno freneticamente, cercando di memorizzare ogni dettaglio possibile del luogo in cui si trovava.
Una casa. La stanza dove la rinchiudevano si trovava sottoterra. Dal lato della casa opposto ad un albero di pino, un giardino forse, non sapeva dire se sul retro o sul davanti dell’abitazione. C’erano altre tre stanze come la sua. Solo una era chiusa. Salì le scale, passò un corridoio con tre porte, due a destra e una sinistra, venne portata in un grosso bagno azzurro e bianco dal soffitto alto e venne chiusa dentro a chiave.
Noodle si guardò attorno. Facendo finta di esaminare il bagno, lussuoso e spazioso, cercò invece con gli occhi una telecamera e individuò con la coda dell’occhio l’unica finestra che c’era nella stanza. Vide che era aperta, ma c’erano delle pesante sbarre a impedirle l’uscita. Oltretutto una telecamera di sicurezza appesa in alto in un angolo vicino al soffitto non lasciava spazio per effettuare delle manovra di nascosto; era progettata e installata appositamente per non lasciare che nessuno potesse uscire dall’obbiettivo in nessun punto del bagno. Noodle notò che la seguiva ovunque nei suoi movimenti lungo il grande bagno. Andò alla finestra e guardò fuori. Vide solo un giardino ben curato e, di fronte e ai lati, altri giardini come quello. Tornò indietro. Il bagno aveva un lavandino sulla destra, sulla sinistra di fronte un bidet e un wc. Più in là una cabina doccia occupava poco spazio, mentre invece un intero angolo era occupato da una grossa vasca. Appesi ad un paravento, che si trovava appena sotto alla telecamera di sicurezza, c’era la custodia di un vestito, una scatola da scarpe e un porta gioie.
Noodle ragionò qualche attimo. Anche la persona più ottusa si sarebbe resa conto che la telecamera non era stata esattamente nascosta. Era una sorta di gioco. Loro volevano che lei sapesse che veniva osservata, ma la mandavano in un bagno a lavarsi: volevano metterla alla prova. Volevano vedere se stava al loro gioco, era come un codice. Se Noodle si rifiutava di spogliarsi allora non avrebbe collaborato con loro, se invece faceva un bel bagno riposante e indossava quell’abito che molto probabilmente, a giudicare dalle scarpe, era un abito da sera, voleva dire che collaborava con loro.
Cosa fare? Poteva riuscire a fare il doppiogioco? Fare finta di lavorare per quel team? Erano comunque criminali, che l’avevano tenuta a pane e acqua -e a volte anche meno- per un tempo infinito. E quindi proprio per questo doveva almeno tentare. Noodle si disse francamente che era troppo giovane per morire, e che desiderava fare ancora troppe cose perché la sua vita venisse fermata in quel momento. Prima fra tutte, voleva vendicare suo padre. Dato che ne aveva la possibilità, perché non infiltrarsi fra le schiere nemiche per scoprire qualcosa di utile? Era anche, molto probabilmente, l’unica possibilità che aveva. Forse avrebbe incontrato l’assassino di suo padre. Noodle era comunque sicura che quella fosse la sua ultima chance, che stessero tentando il tutto per tutto per avere da lei informazioni, portandola persino dalla loro parte e rischiando che facesse il doppiogioco. Ma se non ci fossero riusciti, chissà che non si stufassero?
Noodle stirò le mani lungo i fianchi, osservò la vasca e si chinò a regolare la temperatura dell’acqua. Aggiunse, mentre ancora la vasca si riempiva, sali da bagno profumati di camomilla e un bagnoschiuma che fece nascere una candida montagnola bianca di bolle e schiuma. Mentre dava il tempo alla vasca di riempirsi Noodle si disse che, pur volendo entrare nelle loro grazie, non doveva per forza mostrar loro le sue. Era anche un modo per fargli capire che non era stupida, che sapeva che la osservavano, e non si sarebbe donata tanto facilmente a loro. Prese il paravento e lo spostò in un punto dove, grazie ad esso, poteva restare nascosta fino a che non fosse stata nella doccia.
Per quasi quaranta minuti Noodle restò immersa nell’acqua, a lavarsi e a pensare. La grande nuvola di schiuma bianca pian piano si sgonfiò fino a lasciare solo una coperta piatta e bianca sopra il pelo dell’acqua. Noodle uscì, si asciugò i capelli e il corpo con due asciugamani azzurri che aveva trovato a disposizione per lei, indossò della biancheria intima nuova e appoggiò accuratamente i suoi vestiti in una cesta. Segno di rispetto, perché non li aveva lasciati gettati a terra, e che meritava rispetto, poiché desiderava rivederli lavati e stirati. Contava che questo linguaggio dei segni venisse compreso, non lo dubitava, e si chiedeva in quale lingua si sarebbero parlati, se con qualcuno era destinata a parlare, dopo tutti quei preparativi. Si vestì con un abito lungo, color beige molto chiaro, indossò le scarpe con tacco che le erano state messe a disposizione e anche il profumo che trovò accanto al lavabo. Sicura che sapessero che aveva finito, si mise davanti alla porta e attese. Anche loro mandavano segnali. Noodle era sicura che niente di quel che aveva fatto era passato inosservato, ma alla porta la fecero attendere qualche minuto prima di aprire, e quello che voleva dire era: noi non prendiamo ordini.
Quando la donna in bianco venne ad aprirle la porta non la toccò più. Né diede segno di volerle dire alcunché, o di essere più magnanima nei suoi confronti. La scortò fino ad una sala dal soffitto alto, con un tavolo apparecchiato per due, in una grottesca imitazione di una cena romantica, con tanto di candele accese e champagne tenuto al fresco nel ghiaccio. Noodle si sedette e attese. Poco dopo arrivò un giovane dalle fattezze orientali, doveva avere qualche anno più di lei. Le si sedette di fronte e sorrise.
“Ciao, sono Eikichi. Come ti chiami?”, domandò il ragazzo tendendo la mano. La sua voce aveva la consistenza del miele e Noodle capì che quell’uomo era più pericoloso nei gesti che nel fisico, che non era eccessivamente allenato.
“Sono Noodle, molto piacere.” Aveva pensato a lungo a cambiare il suo pseudonimo, ma alla fine aveva pensato che, nel fortuito caso che L e gli altri avessero sentito parlare di lei da parte di questa banda di criminali, avrebbero capito che stava bene e che si era infiltrata nelle file nemiche. La conosceva abbastanza da capire che voleva sfruttare la situazione.
“Hai fame? Immagino di sì”, disse il ragazzo. In quel momento comparve un cameriere, che posò davanti a loro due piatti pieni di un riso giallo fumante, con un’allegra decorazione colorata di cipolle e una carotina intagliata a forma di cuore. Noodle cominciò a mangiare in silenzio, voleva che fosse lui a cominciare a parlare, per capire meglio che intenzioni avesse. Infatti, dopo qualche secondo, Eikichi alzò lo sguardo e disse: “Noodle sei molto giovane. Che lavoro fai?”.
Voleva sapere per chi lavorasse, e forse anche come erano giunti a trovarli. “Sono un detective privato”, disse Noodle senza battere ciglio.
“Capisco. Chi ti ha affidato questo caso?” Parlava senza mezzi termini: era inutile ormai nascondere cosa voleva.
“Me lo sono affidato da sola.”
Eikichi appoggiò una mano davanti alla bocca e la osservò pensoso, le sopracciglia corrucciate, quasi arrabbiato. “Tu credi che io abbia rapito Georgie Jonsson?”
“Sì. Ora più che mai.”
“Perché?”
“Perché proprio nella casa della madre di Georgie ci hai aggrediti, quando noi eravamo andati soltanto a fare qualche domanda alla signorina Newman.”
Eikichi sospirò. “Sì, Dayo può essere molto… rude, delle volte.”
“Questo non toglie il fatto che sei rimasto turbato dalla nostra visita. Sapevi che ti avremmo trovato, hai contattato quella donna e ci hai teso una trappola. Astuto, devo ammettere: non ce lo aspettavamo. In questo modo però abbiamo capito che siamo sulla strada giusta.”
“Chi era il ragazzo con te?”
“Il mio assistente. Ma non credo si muoverà senza di me, se è questo che ti preoccupa.”
“Non sono preoccupato.” Eikichi sorrise.
“Ma certo”, disse Noodle ricambiando.
Rimasero in silenzio per un po’, lanciandosi occhiate curiose ogni tanto e continuando a mangiare, come se quella faccenda fosse del tutto normale. Tutti e due giocavano allo stesso gioco: nessuno avrebbe commesso un passo falso che sarebbe potuto risultare scortese e dimostrare la non collaborazione fra le due parti. Sarebbero stati, perlomeno in facciata, soci.
Quando la prima portata fu terminata il cameriere ritirò i piatti e portò un sorbetto color verde pallido. Noodle credeva fosse un gelato, e lo osservò curiosa. “Serve per rinfrescare il palato fra una portata e l’altra”, disse Eikichi accennando un sorriso. Noodle prese il cucchiaio e cominciò a mangiare. “Noodle, mi piacerebbe sapere che cos’avete scoperto, tu e il tuo assistente. Se stavate ancora ricercando devo supporre che fosse un caso complicato.”
“Hai assolutamente ragione, inutile nasconderlo.”
“Allora?”
“I coniugi Jonsson avevano adottato Georgie, una bambina fortemente disturbata che prima abitava con la madre alcolizzata, Francy Newman. Marito e moglie sono stati uccisi con precisione, devo supporre da… Dayo.” Eikichi confermò, annuendo. “A quanto pare la bambina, secondo alcune voci di corridoio, aveva visioni che sarebbero potute interessare a qualche… credulone dell’aldilà e sciocchezze simili.” Per sembrare credibile Noodle doveva dire di avere scoperto qualche cosa a proposito del caso, altrimenti Eikichi si sarebbe insospettito, ma non aveva intenzione di parlare di Shinigami o Death Note. Quell’uomo sapeva tutto del prescelto, degli occhi dello Shinigami e probabilmente anche del quaderno della morte. Se aveva tentato di procurarsi gli occhi tramite Georgie poteva essere che avesse già un Death Note. Se aveva Georgie e aveva un Death Note allora, nel caso la bambina l’avesse vista, non mancavano che poche ore alla morte di Noodle. Questo lei lo sapeva, aveva anche pensato che invece di una collaborazione volessero farle confessare chi era e per chi lavorava, in modo da sapere chi dovevano eliminare e poi procedere.
Eikichi sorrise e disse: “Noodle, so che sei una ragazza intelligente. Vorrei farti una proposta”.
“Parla pure.” Noodle sorrise.
“Se lavorerai per me ti prometto una somma che, sono sicuro, non hai mai immaginato. Quel che mi serve da te è solo un piccolo aiuto per Dayo. Mi ha informata che sei dotata nelle… abilità fisiche. E’ vero?”
“Faccio boxe. Continua… perché dovrei? Io ti stavo dando la caccia, e adesso credi che ti aiuterò? Preferirei tornare nella stanza.” Noodle non aveva alcuna intenzione di tornare in quella orribile stanza, ma calcò un po’ la mano giusto per risultare credibile.
“Noodle sono sicuro che capisci la situazione. Possiamo entrambi trarre vantaggio da questo accordo. Io ho bisogno di una persona che aiuti Dayo e tu… a dir la verità non hai molta scelta. In effetti hai ragione, hai solamente due possibilità. Uno: collabori con me, e non dovrai mai più pensare a lavorare per il resto della tua vita. Due: torni nella stanza ancora per un po’, e sta’ pur certa che prenderò provvedimenti per questa tua… cocciutaggine. Se non vuoi collaborare per me sei inutile.” E verrai uccisa.
Noodle fissò lo sguardo in quello di Eikichi. Avevano un taglio deciso e affilato, un colore a metà fra il marrone scuro e l’oro. La ragazza rimase pensosa, terminò il suo sorbetto in silenzio, si pulì le labbra con un tovagliolo e bevve un sorso di vino. Posato il bicchiere tese la mano e disse: “Sarà un piacere”.
Eikichi, una luce trionfante e maligna negli occhi, la strinse forte. “Piacere mio.”

Da un mese ormai, tutti i giorni, Noodle si allenava nella boxe e nella lotta libera assieme a Dayo, che aveva una filosofia del gioco un po’ diversa da quella che le avevano sempre insegnato.
Dayo le stava di fronte, muoveva le gambe lentamente per spostarsi in circolo, gli occhi fissi su di lei senza perderla mai di vista, i muscoli in tensione, tutto il corpo teso verso il proprio avversario. Le mani stavano di fronte al petto e non al viso, una mancanza che Noodle non le voleva perdonare, le ginocchia erano piegate e le gambe pronte a scattare. Anche Dayo aveva imparato qualcosa dagli allenamenti assieme a Noodle. Non marcava più in modo evidente le sue mosse, e Noodle non aveva più la possibilità di prevederle. La situazione era così ferma da alcuni minuti.
Noodle scattò, veloce, e si gettò su di lei con tutta la forza che celava nel braccio destro, concentrata sul pugno, che disegnò con precisione una traiettoria in aria leggermente curva per andare a parare con forza e precisione sullo zigomo di Dayo. La donna non fece in tempo a reagire e indietreggiò di alcuni passi. Noodle, che in realtà desiderava avere su di lei una piccola vendetta personale per tutti gli incontri che aveva perso, cominciò ad avanzare velocemente. Piede sinistro, pugno sinistro, zigomo destro. Piede destro, pugno destro, orecchio sinistro. Piede sinistro, pugno sinistro, fianco destro. Fianco sinistro. Fronte, in mezzo. Il collo di Dayo si piegò all’indietro e tutta la sua testa disegnò un perfetto arco in aria. Per un attimo, minuscolo, Noodle ebbe paura di aver esagerato. Si fermò un secondo, facendo finta di riprendere fiato, mentre controllava Dayo. Nel frattempo la donna riprese velocemente fiato, si rialzò quel tanto che bastava e cominciò una raffica di colpi sulle tempie che non andarono a buon fine, siccome Noodle si riparava dietro le braccia. Successivamente Dayo iniziò a colpire sui fianchi, abbastanza vicino e forte da colpire l’osso sacro. A Noodle si mozzò il fiato. Sgranò gli occhi e cominciò ad indietreggiare fino a che non incontrò il muro, allora cercò di schivare i colpi.

“Se giochi secondo le regole, e il tuo avversario vede che sei troppo attaccata ad esse, allora se ne approfitterà”, disse Dayo masticando una gomma.
“Le regole servono a fare una buona partita. Una partita senza regole viene male, serve solo per decidere chi dei due vorrà fregare l’altro per primo, chi sarà il primo ad essere sopraffatto dalla voglia di vincere.” Noodle si accese una sigaretta e soffiò via il fumo velocemente, guardando la donna di traverso.
“Non so come fai a fare sport se fumi. I tuoi polmoni sono pieni di quella merda! Dovrebbero essere senza fiato ogni volta che muovi quel tuo culo bianco.”
“E’ bello sapere che una criminale che non segue nemmeno le regole del Monopoli vuole dire a me che fumare fa male.”

Noodle non era mai stata tanto cosciente di avere un corpo, fatto di carne e sangue. I colpi di Dayo erano precisi e colpivano esattamente nello stesso punto, cosicché  la carne già tumefatta e ferita veniva nuovamente colpita e sempre più schiacciata.

“Se tieni la difesa bene alta allora non avrai problemi a reagire quando ti attaccheranno.” Noodle e Dayo stavano una di fronte all’altra. Dayo annuì. “Se ti attaccano in questo modo”, Noodle fece un movimento, e andò a toccare leggermente la spalla di Dayo, “allora tu alzi la difesa così”, ed eseguì un altro movimento. “Proviamo.”
Eseguirono esattamente ciò che Noodle aveva detto di fare ma alla fine, al posto di parare e basta, Dayo andò a bloccare l’avambraccio di Noodle, le spinse il gomito che la costrinse a girare il corpo per non farsi del male. In quel modo Noodle le dava la schiena, aveva il braccio bloccato e Dayo la sovrastava trionfante.
“No! Questa non è difesa!”, urlò spazientita Noodle sciogliendosi dalla presa e voltandosi verso Dayo.
La donna stava ghignando soddisfatta e la osservava. “Non serve la difesa se l’attacco è buono.”
“E se avessi contro due o tre avversari? Non puoi contare solo sull’attacco. Devi imparare a …”
“Imparare? Io devo imparare? Se non sbaglio qui quella che perde di più sei tu. E’ una questione di logica, non te l’hanno insegnato alla scuola dei bianchi?”
“Non è logica, è imbrogliare. Perdo perché tu infrangi le regole!”
“Se questo serve a vincere, ben venga”, disse Dayo stringendosi nelle spalle. “Ricominciamo, stupiscimi, fammi un po’ vedere cosa sai fare con quelle tue regole.”
Noodle ghignò e si sistemò meglio la protezione fra labbra e denti, poi indossò i guantoni e biascicò: “Vedrai. Credi di essere nera adesso? Aspetta ancora un po’ e sarai peggio di Kunta Kinte*”.

Noodle sentiva di star per arrivare alla fine. Fra un po’ avrebbe dovuto chiedere a Dayo di smettere, e quella era di sicuro la cosa peggiore che le sarebbe mai potuta capitare. Il suo orgoglio, e l’antipatia che provava per quella donna, le impedivano di chiedere una tregua.
Intanto, Dayo continuava a colpirla senza lasciarle un attimo di respiro.

“Ascolta un po’ me, perché ti impunti tanto su queste regole?” Dayo la osservava, mentre prendeva grandi morsi di un sandwich con pollo, insalata, pomodori e maionese.
“Le regole servono per fare un gioco alla pari. Se giochi secondo le regole e vinci allora sai che sei il migliore, perché pur con delle limitazioni hai vinto. Ma se imbrogli… allora hai vinto perché eri in vantaggio.”
“Però hai vinto”, asserì Dayo con la bocca piena. “Mi passi un tovagliolo?”
“Sì, però questo non significa che sei il migliore”, disse Noodle allungando un braccio.
“Quindi è per questo che lo fai: per l’appagamento. Per avere una prova del fatto che sei la migliore.”
“E vincere non è la stessa cosa? Una prova del fatto che sei superiore al tuo avversario.”
“La gente non segue le regole, le regole sono fatte da poveri stronzi che non hanno niente da fare. E sono seguite solo da scemi come te che ci cascano. Le regole sono fatte per tenerci tutti buoni, come pecore.”

Un colpo sulla sinistra stava per arrivare, Noodle lo vide come al rallentatore. Il braccio di Dayo era piegato, ma in modo errato, lontano dal corpo. Noodle lo vide come un ancora alla quale aggrapparsi. Se Dayo non seguiva le regole e non voleva imparare neanche le più elementari norme per un combattimento leale, allora non l’avrebbe fatto nemmeno lei. Il pugno stava arrivando, sempre con quel gomito troppo sporto all’infuori. Noodle allungò un braccio e la colpì dal basso, deviando il pugno verso l’alto, nel contempo si abbassò, così schivò il primo attacco. In quell’istante Dayo si trova di fronte a lei, con la parte destra del corpo completamente scoperta. Noodle si accanì, a forza di pugni, contro i fianchi e la schiena, quando poi Dayo fece per risollevarsi, preparando un sinistro che di sicuro sarebbe stato molto potente, lei la anticipò e la colpì con un destro, precisamente fra l’orecchio e lo zigomo, poi dall’altra parte, nello stesso identico punto. Dayo si risollevò di nuovo e Noodle assestò un’altra scarica di colpi allo stomaco. Cominciava a sentire la fatica e voleva finire quell’incontro. In qualità di vincitrice. Vedendo le condizioni di Dayo molto probabilmente le sarebbero bastati due pugni ben assestati nei posti giusti.
Dayo attaccò di nuovo e Noodle schivò, spostandosi sulla sinistra dell’avversario. Contava di assestarle un pugno da destra proprio quando si fosse voltata. Ma Dayo lo vide in anticipo e lo schivò, abbassando la schiena. Noodle, d’istinto, fece partire un colpo dall’alto e la prese sulla nuca. Dayo si accasciò a terra.
Uno, due, tre secondi. Non si alzava. Quattro, cinque secondi. Sei, sette, otto e nove. Dieci. Aveva vinto. Per sicurezza Noodle non si avvicinò, invece disse con il fiatone: “KO, eh?”.
Dayo sbuffò e sputò a terra la protezione per la bocca. “Porca puttana. Sei una ragazzina bianca niente male”, disse togliendosi i guantoni.
Noodle ghignò, il viso deformato dalla protezione per testa e mascella, e prese dell’acqua.

Eikichi terminò di scrivere, posò la biro sul tavolino dopodiché rilesse con attenzione. Corresse alcuni piccoli errori di sintassi (dopotutto, quella non era la sua lingua madre), poi trascrisse a computer e stampò. Imbustò la lettera, senza nome né indirizzo, e chiamò Dayo.
“Deve arrivare alla CIA. So che stanno seguendo il nostro caso e che uno di loro aveva anche scoperto qualcosa. Quell’agente che è venuto da noi mesi fa. Adesso che la faccenda del rapimento si è un po’ calmata potremmo procedere con il nostro piano.” Dayo annuì e prese la lettera.
“A chi devo inviarla?”
“Direi… alla ABC News. E’ una grande rete televisiva, non si faranno scappare l’occasione di milioni di ascoltatori.”
“D’accordo.” Dayo prese la lettera, mise portafoglio e telefono in tasca e fece per uscire. Sulla soglia, seduta sulle scale di fronte alla porta d’entrata, trovò Noodle.
Avevano preso grandi misure di sicurezza perché la ragazza non fuggisse e non riuscisse a comunicare con nessuno al di fuori della casa. Si limitava a guardare nel giardino sul retro senza poter mai raggiungerlo e, a parte gli allenamenti con Dayo, non parlava molto spesso. Pensava a molte cose in quei giorni. Pensava suo padre, a Mello, a Matt, ad L e Near. Si chiedeva che cosa stessero facendo loro, se per caso la cercavano ed erano sulla pista giusta, o se invece formulavano ipotesi che erano giganteschi buchi nell’acqua. Quando Dayo la vide, con gli occhi fissi sulla porta come una carcerata che stava progettando l’evasione, si fermò a guardarla e disse, puntandole contro un indice: “Non pensare di scappare mentre io non ci sono piccola bastardella, ok?”.
“No, non preoccuparti, non potrei mai oltrepassare tutte le misure di sicurezza”, affermò Noodle annoiata.
“No, infatti.” La donna si voltò e le diede le spalle.
“Dayo?”
“Hm?”
“Sei tu che hai sparato ad un agente della CIA qualche mese fa?”
Dayo si voltò e la osservò sospettosa. “Perché me lo chiedi?”
“Ho saputo la notizia, sono un detective. So che la CIA seguiva il caso e che uno dei loro agenti era stato fatto fuori. Allora, sei stata tu?”
Dayo si strinse nelle spalle. “Tesoro è il mio lavoro, loro ordinano e io faccio quello che posso. Se delle volte ci scappa un morto non programmato io non posso farci niente. In ogni modo, quello non doveva seguirci fino a qui. Non era nei miei piani, però mi aveva vista entrare in questa casa. Era uno bravo, uno tosto. Si è appostato dietro il muretto ed è rimasto lì piegato per quasi sei ore prima di provare ad entrare. Non so perché non abbia chiamato i rinforzi o non si sia memorizzato l’indirizzo. Comunque, era un bianco con le palle.”
Noodle fece cadere la cenere nella scatoletta che aveva affianco. “Non hai neanche un po’ di rimorso?”
“Cerco di non pensarci.” Dayo prese la chiavi e aprì la porta.
“Hey, figlia illegittima di Nelson Mandela!”, chiamò Noodle.
“Che vuoi piccola bianca? Non lo vedi che devo andare? Cosa credi, che solo perché sono nera allora devo servirti?” Dayo era infastidita ma non fino in fondo, non del tutto.
Nel poco tempo in cui si erano conosciute avevano imparato a rispettarsi, si erano trovate bene l’una con l’altra nonostante i battibecchi, che invece facevano parte del loro gioco, e anche se appartenevano a fazioni differenti si apprezzavano per le rispettive qualità. E nonostante le consuete battute sul colore della pelle nessuna di loro aveva mai pensato, nemmeno per un minuto, all’etnia dell’altra.
“Me la compri un po’di cioccolata?”
“Sapevo che ti piaceva la cioccolata!”, esclamò Dayo sorridendo, i grandi denti candidi in forte contrasto con la pelle scura.
“Cioccolato bianco”, precisò Noodle.
Dayo sbatté le palpebre e si strinse nelle spalle. “Un po’ di bianco ci vuole sempre.”




















*Kunta Kinte è il nome del protagonista del romanzo di Alex Haley "Radici", del 1976. Parla di un uomo africano che viene deportato in America come schiavo.

Ciao a tutti!
Wo! Allora, in questi giorni sono parecchio impegnata, quindi è un miracolo se sono riuscita a trovare del tempo per postare oggi, temevo di dover rimandare!
Un paio di appunti:
Spero che la parte dove si parla di Noodle imprigionata non sia stata troppo noiosa. Ho sempre paura di esagerare quando ci sono lunghe parti descrittive senza nemmeno un dialogo. La formula matematica che Noodle finisce di recitare è un'azzardo, l'avevo letta da qualche parte, ma non ho la più pallida idea di cosa sia o se sia giusta o meno! xD Ho sempre fatto schiefo in matematica, per di più mi sa quella non si studia al liceo.
Sorpresa delle sorprese: l'uomo in bianco era una donna! E per di più di colore, proprio il contrario di quello che ci si può aspettare u_u Uhuh! L'ho fatto apposta! xD Nessuno se lo sarebbe immaginato, no? =D Credo. Spero.
Sono aperte le scommesse su Eikichi, chi sarà mai costui?!  Non vi dò indizi, ma credo che qualcuna di voi potrebbe benissimo indovinare (per non dire tutte voi).
Ci tengo a precisare che i commenti di Noodle e Dayo che possono sembrare offensivi sono chiaramente fatti apposta (anche se sono stati un po' strani da scrivere) ma, com'è detto alla fine del capitolo in modo -mi sembra- palese, questi commenti non hanno alcun intento razzizta, infatti Noodle e Dayo lo fanno solo per pizzicarsi a vicenda, ma fra di loro nasce del reciproco rispetto.
Detto questo vi lascio lo spoiler e vi auguro una buona settimana (anche se forse qualcuno di voi rinizierà la scuola o a lavorare... hmmm.... be', a maggior ragione!).
Saluti a tutti,
Patrizia

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Capitolo 11
*** Penfriend ***


Capitolo dieci
Penfriend





Diane Colfer leggeva le sue mail, ma non era veramente concentrata. Sperò con tutte le sue forze che Matt non la stesse guardando in quell’istante e poi spostò gli occhi impercettibilmente verso di lui. Distolse lo sguardo. Guardò distrattamente una mail. Lo osservò, distolse lo sguardo. Lo osservò di nuovo e questa volta si concesse il lusso di restare a guardarlo per qualche secondo. Era da quasi mezz’ora che andava avanti in quel modo, non capiva perché non poteva semplicemente andare lì, e parlargli. Inoltre prendeva precauzioni perché lui non la notasse mentre compiva quelle complicate manovre; cosa del tutto inutile, si disse poi, perché il ragazzo non dava segno di volerle rivolgere uno sguardo.
Da quando aveva scoperto che era suo figlio, in una maniera alquanto sconvolgente per entrambi, non era riuscita più nemmeno a guardarlo in faccia. Aveva iniziato a lavorare praticamente da sola da quando Watari l’aveva contattata per trasferisti a Berksville. Stava in mezzo a quei quattro ragazzi che, a quanto le avevano spiegato, erano il detective L e i suoi sottoposti. Gli era costato fatica credere che lo fossero, e anche mandare giù la storia incredibile di quaderni della morte e Shinigami, che gli avevano raccontato come se stessero parlando di Cappuccetto Rosso; ma non aveva potuto ribattere quando aveva visto Ryuk l’Ingurgita Mele e si era impegnata a non raccontare la verità ai suoi compagni della CIA, contribuendo invece a tenere la cosa segreta.
Tuttavia la parte più strana di tutta quella storia rimaneva assolutamente e senza dubbio Matt. Non poteva credere che suo figlio fosse diventato un sottoposto di L e, soprattutto, che il caso li avesse portati ad incontrarsi in quelle strane circostanze. Era contenta per quello, probabilmente era il lavoro più adatto a lui. Gli piacevano i computer, gli piacevano i videogiochi e risolveva complicati enigmi. Ripensando a Matt da piccolo, il volto paffuto che sorrideva mentre giocava a scarabeo all’età di soli tre anni, decise che quello probabilmente era il suo destino. Come madre, doveva essere felice. Non aveva altri figli oltre a lui e quel che provò quando scoprì di essere in contatto da settimane con il suo unico -e fino a quel momento perduto-  figlio senza nemmeno saperlo, fu un moto di tristezza infinta. Pensò a come sarebbe la sua vita se invece di abbandonarlo come avevano fatto l’avessero tenuto. Se lei l’avesse tenuto. Come sarebbe stata la loro vita. Assieme. Forse tutti e due avrebbero fatto parte della CIA. Avrebbero risolto casi la mattina e la sera sarebbero ritornati a casa, e lui le avrebbe presentato la sua fidanzata, e sarebbero andati a cena fuori. Assieme.
Diane Colfer si riscosse da questi pensieri. Stupida!, si disse. Non sapeva perché lui non le volesse parlare (d’altronde nemmeno lei si azzardava a dirgli una parola), forse Mail credeva che lei sapesse tutto e non avesse voluto riprendere contatti con lui nonostante ce ne fosse stata l’occasione. Invece Diane era all’oscuro di ogni cosa. Non aveva pensato neanche per un momento che il giovane alto e affascinante, così simpatico e intelligente, dai capelli rosso fuoco e dal sorriso largo, fosse il suo Mail. Quando lo immaginava lo vedeva come una ragazzotto muscoloso che, con in spalla lo zaino, se ne andava a scuola allegro mentre salutava dei genitori adottivi, che avevano una casa grande con un giardino davanti, ed erano una famiglia felice. Una felice famiglia irlandese.
Il cellulare squillò e Diane fece un salto alto un metro. Trafficò goffamente nella tasca dei pantaloni e rispose con affanno: “Pronto?”.
“Diane?”
“Eccomi capitano.” Il nuovo capitano delle indagini era Jackson Swarrow, che aveva preso il comando dopo il licenziamento di Tyler che in quei giorni se la stava vedendo in una causa giudiziaria contro la CIA.
“Diane abbiamo notizie incredibili. Accendi su ABC News.” Diane si alzò e cercò il telecomando, in un disordine di briciole di pane, caramelle e giocattoli per bambini. Accese la tele e rimase a guardare.
Un reporter pelato e molto atletico, nero, che parlava con sicurezza e disinvoltura di fronte alle camere, non poteva celare la sua eccitazione di fronte ad una notizia di tal portata. “Siamo tornati ai tempi del caso Kira. Ancora un volta, un criminale sfida il celebre detective L. Una lettera anonima, inviata alla redazione di ABC News, ci invita a leggere in diretta queste parole.” Il giornalista si portò agli occhi un foglio. “Questa che vado a leggere è la lettera originale inviata alle redazione di ABC News.
L, so che certamente avrai sentito parlare del rapimento della piccola Georgie Jonsson. Ti propongo uno scambio: la bambina, per il tuo blocco appunti.” Il giornalista alzò gli occhi e abbozzò un sorriso a mo’ di scusa. “Non abbiamo idea di cosa vogliano dire queste parole, ma speriamo che il sagace detective L riesca a capire il messaggio e salvi la piccola Georgie Jonsson, rapita ben otto mesi fa, della quale non si hanno più notizie da allora. Come ricordiamo, i genitori della piccola erano stati brutalmente uccisi nella loro casa, a New York, e i cadaveri ritrovati da un vicino, che aveva udito rumore di spari. Stasera ABC News vi propone un focus sul caso Jonsson, diretto da Sabrina Langer, dopo il notiziario delle 21, per esaminare meglio i dettagli di questo spaventoso omicidio.”
Mello osservava con gli occhi spalancati. Il cellulare di Diane, intanto, continuava a parlare da solo. La donna si riscosse, portò il telefono all’orecchio e disse: “Scusa Jackson, eccomi.” E così dicendo si avviò in un’altra stanza.
Near, che era rimasto tutto il tempo ad osservare lo schermo, si accoccolò sul divano e aprì un pacchetto di patatine, facendo poi sedere accanto a sé uno dei suoi robot. L girava per la stanza sulla poltrona girevole, spostandosi da una parte all’altra con forti spinte dei piedi e pensando. Alla fine trasse le sue conclusioni.
“Chiunque sia questa persona, sapevamo già che era al corrente dei Death Note e degli Shinigami, ma sa anche che posseggo un Death Note. E le uniche due persone che sapevano questo sono ambedue in questa stanza.” Gettò un’occhiata a Near. La sola idea di dubitare di lui non gli sfiorò nemmeno la mente.
“Tu ne hai uno?”, domandò Matt rizzandosi a sedere sul divano, dov’era gettato scompostamente.
L annuì. “Mi è rimasto quello di Light Yagami quando è morto. Infatti Ryuk ne ha avuto uno nuovo immagino, o sbaglio?”
Ryuk, che era arrivato in salotto dal suo giro giornaliero per i dintorni, dopo aver sentito le novità del caso disse: “Infatti. Il mio quaderno è nuovo”. E così dicendo tirò fuori dalla piccola borsa che teneva sempre appesa alla cintura il suo quaderno nero.
“Dubito che voglia davvero scambiare Georgie con il Death Note.”
“Dov’è il tuo Death Note?”, domandò precipitosamente Mello.
“In una cassetta di sicurezza a Puuwai.”
“Puuwai?”, fece Matt con una smorfia.
“E’ una delle città più turistiche delle isole Hawaii dopo Honolulu”, li informò Near.
“Grazie”, disse Mello fra i denti. Si chiese come mai quello dovesse sapere sempre ogni cosa.
“Per di più lui ha Noodle, ma non ha fatto parola di lei.” L si morse l’unghia del pollice e corrugò la fronte. Mello si voltò verso di lui, cercando di intuire i pensieri del detective. Dopo che era tornato, a parte andare in ospedale a farsi medicare, prescrivere una ricetta per degli antidolorifici e una pomata antiinfiammatoria, si era dedicato al caso con ancor più vigore. Aveva raccontato a tutti cos’era successo a casa di Francy Newman e tutti avevano tratto la stessa conclusione: una trappola.
“Forse non né parla perché non vuole introdurre l’argomento. E’ una specie di avvertimento per farci capire che non è disposto a ridarcela”, azzardò Matt.
Mello si guardò attorno boccheggiando. “Ma è assurdo! Faremmo a cambio di un Death Note con la bambina e non ci riprendiamo Noodle? Che razza di accordo è?”
“Si tratta di dosare la vita su un bilancino”, disse Near freddo. Mello face scattare la testa verso di lui, gli occhi spalancati per l’incredulità e un vago presentimento rabbioso nell’animo. “Georgie è ancora una bambina, ha più tempo rispetto a…” Nel momento esatto in cui Near aveva iniziato la frase tutti i presenti sapevano che aveva osato troppo, persino lo stesso Near. Lui non voleva certo che Noodle rischiasse la vita, però aveva imparato che delle volte bisognava ragionare freddamente e scegliere la soluzione migliore che andasse bene per la maggioranza, anche se si trattava di sacrificare qualcuno. Ma, evidentemente, Mello non la pensava alla stessa maniera.
Con gli occhi spalancati e folli si lanciò sopra Near, schiacciandolo contro al divano. Calibrando benissimo la forza del destro e mirando alla faccia di Near, dritto sul naso, Mello colpì con la massima forza che aveva. Un pugno, un altro pugno, che arrivò questa volta sulla mascella inferiore, parte destra. Zigomo sinistro. Spalla, clavicola. Solo allora Matt riuscì a fermare Mello, prendendolo da sotto le ascelle e allontanandolo da Near, che rimaneva rannicchiato sul divano, le braccia davanti al viso a proteggersi.
“Mello, Mello calmati! Near non intendeva dire quello!”, gridò Matt trascinando Mello oltre una poltrona, mentre quello agitava ancora le gambe per liberarsi.
“Lasciami! Lo so benissimo cosa intendeva! Stronzo! Sei uno stronzo!” Mello gridava con tutto il fiato che aveva in gola, il viso era diventato rosso, e le vene sul collo gonfie dallo sforzo di urlare. “Vuole lasciarla là a morire! Non te ne frega un cazzo di lei!” A quel punto Matt lo aveva lasciato, e Mello stava piegato in avanti ad urlare contro Near. Calò il silenzio nella stanza. Mello si voltò per andarsene, prese uno dei giocattoli di plastica di Near che stava su una mensola e lo lanciò con tutte le sue forze contro il muro. Prese la giacca, e uscì.
L si alzò dalla sedia mentre Diane, tornata in sala quando aveva sentito le urla, si avvicinava al divano. “Come ti senti Near?”, domandò osservando il ragazzo stropicciato sul divano con gli occhi spalancati.
“Diane, c’è una cassetta del pronto soccorso in bagno”, disse L chino su Near. “Matt, richiedi una casella postale e invia un messaggio di risposta per Killer Jonsson alla ABC News, digli che da questo momento in poi ci scambieremo corrispondenza tramite quella casella.”
Matt osservava Near preoccupato ma, in quel momento, avrebbe voluto più che altro seguire Mello e convincerlo a calmarsi. Tuttavia gli ordini di L venivano prima, soprattutto in un momento come quello, così ricacciò le sue voglie in gola e chiese al detective: “Gli chiedo se Noodle sta bene?”.
“No, fai finta di non sapere nulla di lei.”
“Perché?”
“Di sicuro non sa che lavorava per L. Se Noodle è furba come credo starà tentando di raccogliere informazioni. Non la voglio intralciare.”

Il metodo di comunicazione di L ed Eikichi era molto semplice. Ambedue avevano una casella postale della quale l’altro conosceva il numero. L scriveva alla casella numero 14-89, Eikichi alla 26. Erano situate ai lati opposti della cittadina e le lettere venivano spedite tramite corriere. Ogni volta che i detective ne ricevevano una quella veniva letta con la massima attenzione e poi inviata alla scientifica della CIA. Ma nessuno trovava mai tracce di impronte digitali, neanche parziali, né fibre, capelli, o qualunque altro indizio che potesse aiutare a scovare chi fosse o da dove inviasse il mittente.
La prima lettera di L, che aveva inviato dopo essersi messi d’accordo tramite ABC News sull’uso delle caselle postali, recitava così:

Buongiorno, sono L.
Come posso essere sicuro che restituirai Georgie Jonsson se io ti consegnerò il mio Death Note?
L

Salve L,
chiamami Eikichi.
Non ho interesse a tenere con me la bambina, a meno che tu non cerchi di ingannarmi. Non appena mi restituirai il Death Note proverò la sua autenticità. Solo se è quello vero ti consegnerò Georgie Jonsson.
Dove e quando vogliamo incontrarci? Voglio che ci sia tu, non qualcuno che si spaccia per te. Se non ci sei, l’accordo salta.
Eikichi

Dopo quel messaggio erano rimasti tutti alquanto turbati. Si poteva leggere molto di più di quel che non si vedeva in quella lettera. Prima di tutto, Eikichi aveva scritto restituirai, e ciò poteva essere inteso come un errore di distrazione ma, come diceva Freud, non esistono errori, i lapsus sono manifestazioni dell’inconscio, ed esprimono ciò che noi pensiamo veramente. Stando a questa teoria (che era stata leggermente contestata da Near in quanto credeva che Freud fosse un pervertito ossessionato dai simboli fallici) Eikichi era una persona che aveva già avuto un Death Note, e per qualche motivo ne voleva due, o forse aveva perduto il precedente. Per di più, era qualcuno che sapeva molte cose su L. Prima di tutto sapeva che aveva un Death Note, e a quanto pare conosceva anche il suo volto, altrimenti come poteva essere così sicuro di sé stesso nel far saltare l’accordo se non si fosse presentato L stesso?
“Questo Eikichi mi pare molto interessato anche a te oltre che al Death Note”, aveva osservato Matt con fastidio. L era rimasto pensoso.
“Rapire Georgie Jonsson non è stato un caso”, era intervenuto Mello. “Non è possibile che uno dei pochissimi esseri umani sulla terra che sappia del Death Note rapisca per sbaglio una bimba con gli occhi dello Shinigami. Se andiamo là ci uccideranno. Georgie Jonsson è solo una bambina, gli dirà i nostri nomi e lui ci ucciderà con il Death Note. E se la riprenderà quaranta secondi dopo. E ancora non sappiamo niente di Noodle.”
“E’ chiaro che è questo il suo piano. Scrivere i nostri nomi per provare che il Death Note è vero, con Georgie Jonsson non gli serve nemmeno uno Shinigami dalla sua parte o sacrificare metà della sua vita per gli occhi.” L prese un cucchiaino e mangiò un po’ di torta gelato con fragole e panna. Il pan di spagna era particolarmente gustoso e morbido. “L’elemento più pericoloso per noi è Georgie Jonsson. Abbiamo bisogno che Noodle rimanga lì a fare da infiltrata, se le è possibile, ma dobbiamo metterci in contatto con lei.”
“Come facciamo? Non sappiamo neanche dove sia”, obbiettò Mello.
“Non abbiamo nessun tramite, nessun contatto”, disse Matt.
L li osservò per un secondo e Mello s’illuminò. “Le caselle postali!”, esclamò trionfante.
“Qualcuno dovrà accostarsi alle caselle postali. Non ci sono molti uomini a disposizione. Mello, ti hanno visto, io sono già conosciuto a quanto pare, e Near, oltre che ad essere fisicamente debilitato… c’è una piccola possibilità che abbiano visto anche lui. Ha lavorato con me per diversi mesi al caso Kira e non sappiamo se questa persona possa conoscerlo o meno. E’ possibile anche che lo abbia incontrato in quell’occasione.” A quel ricordo Mello storse il naso, ma non ci pensò poi molto considerato che il naso di Near, invece, era rimasto insanguinato per un bel po’.
“Quindi, il cerchio dei sospettati si restringe”, disse Matt.
“Be’ coloro che sanno del Death Note, e che sono ancora vivi, sono solo gli agenti di polizia giapponesi con i quali abbiamo lavorato a stretto contatto l’anno scorso. Ma sono troppo ingenui per fare qualcosa del genere. Non credo che sia uno di loro.”
“E chi potrebbe essere? Non c’è nessun’altro?”
“Per ora non so di nessuno.” L fece una piccola pausa, poi sospirò. “Matt e Diane, farete i turni. Controllerete la casella postale numero 14-89 notte e giorno.”
“E dove si trova?”, domandò Diane, che aveva sentito ogni cosa ma aveva preferito rimanere in silenzio. Era rimasta ad ascoltare tutta la conversazione capendo solo per sommi capi i ragionamenti troppo veloci di quei giovani.
“Se non sbaglio Matt eri già entrato nel database delle poste comunali, non è così?”, domandò L voltandosi verso di lui.
“Sì.”
“Non possiamo setacciare tutte le caselle postali della città, ci serve una mappa delle caselle direttamente dagli uffici della posta. Mello cercala tu.”
“Subito”, disse il ragazzo annuendo serio.
“Matt, Diane. Vi alternerete alla casella postale; non voglio che rimanga incustodita per un solo minuto, d’accordo?” I due annuirono. “Matt, qualche volta fai anche Watari, sarà meglio.”
“D’accordo.”
Diane lo guardò stupefatta: non aveva idea che lui fosse anche Watari, non lo aveva mai notato. Ogni giorno scopriva cose riguardo suo figlio che non sapeva se dovevano renderla orgogliosa o pensierosa.
“Allora, se per caso vedete un corriere che ritira la posta, allora seguitelo, ma non entrate assolutamente in qualsiasi posto nel quale consegnerà la lettera. Memorizzate l’indirizzo e tornate indietro. Penseremo assieme ad un modo per contattare Noodle. Nel frattempo la tireremo lunga con questo incontro. Matt, portami carta e penna.” Matt si diresse verso il tavolo pieno di carte, documenti e altro. “Ah! E… Matt?”
“Sì?”
“Un’altra fetta di torta, grazie mille.”

Eikichi aprì la busta con una sottile lama affilata e lesse.

Salve Eikichi,
non credermi uno stolto: so chi è Georgie Jonsson e non mi esporrò mai ad un rischio tanto alto, come tu sicuramente già saprai. Io ci sarò, ma solo alle mie condizioni.
L

Eikichi lesse, e il suo viso si contorse nella rabbia. L voleva dettare le regole? Credeva di essere in condizioni da poter decidere come condurre il gioco? Si sbagliava. Il coltello dalla parte del manico ce l’aveva lui, e l’avrebbe utilizzato. Avrebbe avuto il Death Note, Georgie Jonsson, e avrebbe trafitto L più e più volte con quel coltello che teneva fra le mani. Lo avrebbe ucciso una volta per tutte, e allora il suo sogno sarebbe stato possibile, senza alcun detective fra i piedi e nessuno ad ostacolarlo.
Eikichi si chiese anche come mai L parlava di condizioni e poi non le dettava. Forse voleva solamente sapere se lui era d’accordo, o saggiare il terreno. Stava comunque perdendo tempo! Eikichi avrebbe voluto che l’incontro ci fosse subito. Il suo piano era perfetto e non c’era margine di errore. Prese una biro e un foglio.

L,
non credo che tu sia in grado di dettare alcuna condizione. Io ho Georgie Jonsson, e decido io come e quando si svolgerà l’incontro.
Eikichi

Eikichi,
stai sbagliando. Se avessi voluto prendere questo caso allora lo avrei fatto tempo fa, quando i coniugi Jonsson sono morti. Per quanto mi dispiaccia che Georgie Jonsson sia nelle tue mani, con lei sola non puoi fare niente. Io ho qualcosa che tu vuoi ardentemente, tu non hai nulla che a me interessi.
Le condizioni che propongo sono di incontrarci solamente io, te e Georgie. La voglio bene in vista e con gli occhi coperti. Ho già trovato il luogo perfetto, si trova al numero 57 di Churchner Street. E’ un magazzino di hangar abbandonato. Quando io ti consegnerò il Death Note tu vedrai lo Shinigami e non servirà altra prova del fatto che è quello reale, o sbaglio? Non voglio che lo utilizzi davanti a Georgie Jonsson.
Ti dirò poi ora e data dell’incontro.
L

Ancora una volta il volto di Eikichi si deformò dalla rabbia quando lesse e le sue mani si contrassero con ancora in mano la lettera. Respirò affannosamente qualche minuto, ragionando febbrilmente. Certo che se L la metteva in quei termini, allora era lui quello in vantaggio. Ragionava Eikichi, ragionava. Che cosa poteva fare contro uno che aveva tutto quel che serviva? Di sicuro aveva già provveduto a controllare il posto dell’incontro e forse aveva addirittura installato delle telecamere. Avrebbe visto se Georgie aveva il viso coperto sì o no, se era davvero lei, se non poteva vederlo in qualche modo. Il piano infallibile di Eikichi aveva una pecca: L riusciva a rigirare tutto come voleva lui. Come gli piaceva, come andava a suo vantaggio. Se non avesse fatto qualche mossa azzardata allora sarebbero rimasti in quella fase di stallo per sempre.
Rimase per un minuto seduto alla scrivania, in silenzio. Fuori dalla finestra un cane abbaiò, una donna bionda passò correndo, in una tuta stretta, con delle cuffie bianche nelle orecchie. Ecco.
Eikichi si alzò, scese frettolosamente le scale e andò cercando, quasi correndo, di stanza in stanza. Alla fine trovò quel che cercava. “Noodle, ho bisogno del tuo aiuto.”
La ragazza alzò lo sguardo da un libro che stava leggendo e domandò, leggermente nervosa: “Cosa devo fare?”.
Eikichi sorrise ammaliante e si chinò affianco a lei, che stava sprofondata in una poltrona. Le mise una mano sulla spalla e disse: “Non ti preoccupare, non è niente di pericoloso”.

Il piano di Eikichi era molto semplice. Lui avrebbe portato Georgie, bendata, all’incontro con L, e gliel’avrebbe consegnata. Avrebbe preso del tempo per dare la possibilità a Dayo e Noodle di ispezionare i dintorni e di trovare qualche alleato di L. Non era previsto il loro intervento, in origine, ma per come stavano le cose Eikichi aveva deciso di mandarle in campo. Nel caso trovassero dei collaboratori di L dovevano ucciderli e aspettare che il detective uscisse con la bambina. Non potevano essere molti i suoi collaboratori, il detective amava lavorare in un piccolo team, tuttavia Eikichi non dubitava che vi fossero. Una volta uscito dal magazzino Noodle e Dayo avrebbero preso in ostaggio L e la piccola e li avrebbero riportati nel loro quartier generale.
Il giorno fissato era Mercoledì 12 Maggio, alle ore 18.30. Prima di partire, sulla Chevrolet Spark di colore grigio chiaro metallizzato, ci fu un piccolo cambiamento dei piani. Eikichi fece uscire Georgie Jonsson dalla una delle stanze che avevano ospitato anche Noodle, solo che quella della bambina era come una piccola sala giochi. C’erano peluche, un computer pieno di videogiochi, un pallone di spugna e un canestro attaccato alla parete, una casa delle Barbie, dodici Barbie e quattro Ken, due bambole complete di culla e vestitini, tv, cartoni animati e dvd. Oltre ad un piccolo bagno privato e un cucinino. Chi si occupava più spesso della bambina era Dayo, che passava assieme a lei diverse ore al giorno, o almeno, quanto era il tempo che aveva a disposizione fra un impegno e l’altro. Nel garage, di fronte alla macchina, Eikichi tirò fuori una pistola. Colt semiautomatica modello 1911. La consegnò a Dayo. “E’ munita di silenziatore, se qualcuno sgarra sparagli.” Era evidente a tutti che per qualcuno Eikichi intendeva Noodle. “Andiamo.” Guidarono per quaranta minuti fino ad una zona desolata. Un silenzio teso ed irreale si respirava come aria viziata nel piccolo abitacolo. Un kilometro prima di arrivare al posto esatto Eikichi si fermò. “Scendete, non dovete farvi vedere da nessuno. Ci raggiungerete a piedi.” Noodle aprì la portiera e scese, Dayo stava per seguirla quando Eikichi chiamò: “Dayo.” La donna si voltò. “Mi raccomando”, disse con voce dura e sguardo ancor più gelido.
“Certo”, disse Dayo di rimando, annuendo. Scese dall’auto e raggiunse Noodle.
A passo sostenuto, in silenzio, arrivarono in dieci minuti ad un deposito merci abbandonato. C’erano quattro enormi hangar malmessi uno di fianco all’altro. Le due varcarono un portone di metallo che era già aperto, probabilmente lasciato lì da Eikichi. Videro che uno solo degli hangar era aperto. Il secondo. Dayo fece segno a Noodle di stare dietro di lei e di fare silenzio, e Noodle obbedì. Le due camminarono guardandosi attorno, cercando sottoposti di L che potessero rovinare il piano. Ambedue erano vestite di bianco e portavano la maschera dei tiratori di scherma.

Near, seduto dentro ad un camion attrezzato con due modesti televisori che inviavano ognuno sei immagini dalle dodici telecamere che avevano piazzato nel luogo due giorni prima, prese in mano ricevitore e microfono quando le vide, e accese. Matt si voltò verso di lui, seduto al posto di guida, e domandò: “Cosa c’è?”.
“Ci sono due persone lì attorno. Una di loro ha una pistola.” Near parlò nel microfono. “Mello, Diane. Ci sono due persone vestite di bianco. Sono dall’altra parte dell’hangar nella quale siete voi, e vengono verso la vostra destra.”
Una voce bassa e gracchiante con un sussurro avvisò Near: “Ricevuto”.
Matt osservò per un attimo le immagini, nervoso. “Fammi vedere”, disse, rotolando con malagrazia nella parte retrostante del camion. Non gli andava che Diane, anche se non si parlavano più, andasse incontro ad un personaggio in bianco con una pistola probabilmente carica.
Diane fece segno a Mello di andare dalla parte opposta per coglierli di sorpresa alle spalle. Mello scosse la testa, ma alla fine lei lo convinse, o meglio lo obbligò. Il ragazzo fece il giro dell’hangar, correndo silenzioso e guardandosi le spalle di continuo, in trenta secondi circa, mentre le altre due figure procedevano piano. Quando arrivarono all’angolo le due figure in bianco si fermarono. A pochi metri da loro, esattamente voltato l’angolo, c’era Diane Colfer ad aspettarle.
Nel microfono, Near disse: “Diane sei di fronte a loro, Mello tu sei dietro.” Infatti Mello aveva continuato ad avanzare, fermandosi dietro ogni spessa colonna bianca dell’hangar a sbirciare che non lo avessero scoperto.
“Ora”, disse Near.

Dayo sentì un proiettile colpire qualcosa in lontananza. Qualcuno sparava, ma aveva una pessima mira. Si voltò e corse via, da dove erano arrivate, facendo segno a Noodle di seguirla. “Dietro la colonna”, le disse.
Noodle lo prese come un segnale. Si tolse il casco e attaccò Dayo. Le prese la testa e la sbatté contro all’hangar, non troppo forte da farle male, ma abbastanza da stordirla. Tuttavia Dayo resistette e si volse incerta sulle gambe, verso di lei. “Piccola stronzetta”, sputò rabbiosa puntandole addosso la pistola. Noodle rimase lì con gli occhi spalancati, la bocca secca e le braccia paralizzate.
Mello camminò in silenzio dietro di lei, e quando raggiunse la giusta distanza tirò fuori la Beretta e la puntò contro la nuca di Dayo, forte. “Lascia la pistola.”
Dayo si paralizzò. Fu il suo turno di tremare. La forma pesante della bocca della pistola premuta contro la base del collo, talmente forte da farle quasi male, concentrava tutta la sua attenzione. Non voleva morire. Non poteva morire.
“Metti giù la pistola.”
Dayo abbassò lentamente l’arma e la posò a terra.
“Calciala lontano.”
Dayo la fece scivolare fino a Noodle. La ragazza la raccolse e la puntò contro la donna. Distolse lo sguardo: Dayo la guardava con la stessa incredulità e rabbia di quando si guarda un traditore, e per qualche strano motivo Noodle si sentiva esattamente così. In quel momento Diane spuntò da dietro Noodle e tirò fuori delle manette. Ammanettò Dayo con le mani dietro la schiena e tutti e tre la condussero fuori, lontano dagli hangar, dentro ad un camioncino bianco. Lì c’erano due dei ragazzi più singolari che Dayo avesse mai visto: un piccoletto albino con in mano un microfono che guardava delle immagini dagli hangar e un ragazzo con degli occhialetti colorati, simili a quelli degli aviatori, tenuti sopra la testa.
“Noodle”, salutò Matt con un sorriso.
“Ciao Matt”, rispose lei. Sorrise a Mello, che ricambiò, e fece un cenno di saluto a Near e a Diane Colfer, che aveva visto per la prima volta solo qualche giorno prima. Si chiese quanto le cose fossero cambiate dal suo rapimento.
“A che punto siamo Near?”, domandò Mello facendo sedere Dayo in un angolo, sempre ammanettata a Diane.
“Non lo so, non riesco a vedere dentro. Qualcuno ha spostato davanti alla nostra telecamera qualcosa. Di sicuro l’avranno fatto apposta”, disse Near concentrato, senza distogliere gli occhi dallo schermo. “Come abbiamo fatto a non accorgercene? Da quando le telecamere sono state istallate abbiamo fatto dei turni per osservarle.” Per un secondo, Matt abbassò la testa e fece scivolare lo sguardo altrove, leggermente colpevole.
Mello si volse verso Dayo. “Il tuo capo è già stato prima al luogo dell’incontro?”
La donna non parlò. Si guardò ostile attorno, poi decise che rispondere poteva essere più saggio. “Sì”.
“Allora è stato lui”, disse Mello guardando le immagini da dietro la spalla di Near. “Tu l’hai visto Noodle?”
“Sì, si chiama Eikichi. Ma non so niente di lui, non so neanche se sia il suo vero nome”, disse la ragazza scuotendo la testa.
“E’ giapponese?”, domandò Near voltandosi.
“Credo di sì.”
Il ragazzo si volse di nuovo, osservando gli schermi e pensando. “Mello, è meglio che torni di là”, disse poi.
Mello annuì, rivolse uno sguardo a Diane e Noodle, mise la Beretta nella custodia e uscì nuovamente dal furgone, chiudendosi rumorosamente la portiera alle spalle.

L teneva in mano il Death Note e s’incamminava lentamente fra le grosse costruzioni. Raggiunse la seconda e prese un grosso respiro. Entrò. Si chiuse la porta alle spalle. Ci mise qualche minuto ad abituarsi al buio, e si disse che era stato sciocco da parte sua chiudere la porta in quel modo. In quegli istanti era inerme.
“Sei venuto.” Una voce familiare lo raggiunse ma lui non capì di chi si trattava.
“Dove sei Eikichi?”, domandò, come se parlasse ad un vecchio amico.
“Ecco Georgie”, disse la voce. L affilò lo sguardo, ormai abituatosi all’oscurità, e vide una bambina dai capelli lunghi, biondi e lisci come fuso. Come da accordo, era bendata. C’era una mano sulla spalla della piccola.
L risalì con lo sguardo colui che l’accompagnava. Indossava un completo blu da uomo molto elegante. Era alto, snello, e sotto le vesti si poteva vedere un fisico abbastanza atletico ma non troppo allenato. L alzò ancora lo sguardo e scorse due occhi dai tratti asiatici, dei capelli castano chiaro, un sorriso abbacinante e infido allo stesso tempo. Spalancò gli occhi. Non poteva essere. “Tu.”
“Ciao L.” Il sorriso di Light Yagami si trasformò in un ghigno.




















Hello!
Forse qualcuno di voi se lo aspettava. Insomma, ho fatto risorgere uno dei personaggi chiave del manga, nonché la spina nel fianco di L, alla faccia della fantasia! xD
Riguardo al capitolo, non ho niente da dire, a parte che la scena d'azione finale mi esalta un casino xD Anche nel prossimo ci sarà un po' di azione, e saranno spiegate alcune cose, ad esempio come si sono organizzati i quattro ragazzi della Wammy's House e Diane Colfen con Noodle, che era rinchiusa. Spero che sia tutto chiaro, perché credo che questo sia un capitolo un po' incasinato, non so... Credo che avrei potuto farlo meglio, o diverso.

Comunicazione di servizio: a momenti, ma non mi è dato sapere quando, mi toglieranno internet per una decina di giorni. Se per caso un Lunedì non vedete comparire il capitolo settimanale, tranquilli, non vi ho abbandonati, ma dovrete aspettare un po'. Spero siano solo una decina di giorni, comunque credo che sopravviverete, no? xD

A parte questo... Ecco lo spoiler, che vi fa l'occhiolino perché ci sta provando ---> ;)
A Lunedì prossimo (spero).
Patrizia

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Capitolo 12
*** Crucial moments ***


Capitolo undici
Crucial moments





Light Yagami era stato Kira, ed era stato scoperto e sconfitto da L stesso dopo tre anni di indagini. Light Yagami era morto il Gennaio dell’anno scorso, ed L aveva visto la sua salma che veniva sotterrata in un cimitero di Tokyo, sotto cinque metri di terra fredda. Light Yagami era l’essere più astuto e più malevolo che L avesse mai conosciuto, e stava di fronte a lui.
L lo osservava con occhi spalancati. Light rideva. Il ragazzo prese a misurare la stanza con passi lunghi e lenti, senza abbandonare mai quel sorrisino di trionfo sul volto. “Ti starai chiedendo come faccio ad essere qui.”
L si ricompose, anche se non capiva a che gioco voleva giocare Light, il suo vecchio avversario. Ma l’aveva battuto una volta e poteva farlo di nuovo. Non doveva temere nell’immediato per la sua vita: Light Yagami non aveva mai mostrato di volerlo uccidere con le proprie mani. Piuttosto, doveva ricominciare a preoccuparsi della sua identità. Il detective registrò che la bimba affianco a Light era bendata e stava con le braccia molli lungo i fianchi; quindi non doveva preoccuparsi nell’immediato nemmeno di Georgie. “Sono molto curioso di saperlo”, rispose pacato, “Potresti essere considerato un miracolo della medicina.”
Light rise sommessamente e gli scoccò un’occhiata. “Infatti. Un cadavere che torna in vita, con tutte le funzioni biologiche e mentali in perfetto stato.” Fece una piccola pausa e il suo sorriso si sciolse per un istante. Agitò l’indice contro L, come ad ammonirlo. “Veramente non so spiegarmi neanche io il perché di questa resurrezione. Nel corpo e nell’anima, come Cristo! Be’…”, allargò le braccia e sorrise ancor più apertamente, “direi che questa è la prova tangibile che sono diventato un vero Dio.”
“Se fossi davvero Dio sapresti come mai sei qui”, disse L, sperando di farlo arrabbiare. Nel corso delle indagini su Kira aveva scoperto che Light non ragionava più quando si arrabbiava. Tutte le sue azioni erano dettate solo dal desiderio di vincere e di mostrarsi superiore ad L, non erano realmente ragionate.
Ma questa volta Light non parve prendersela. Si volse verso L e, continuando a sorridere, replicò: “Oh, ma io so perché sono qui. E’ sempre lo stesso motivo”. Riprese a camminare, allontanandosi da Georgie. “Sai, L? Suppongo che questa sia una seconda possibilità. E se me ne è stata data un’altra significa che il destino desidera che sia io a vincere. E poi credo che se esiste una persona che può batterti in astuzia, quello sono io.”
L lo guardò senza capire. “Perché questo fantomatico destino ha sprecato così tanto tempo per permetterti la vittoria? Forse vuole solo prendersi gioco di te: dopotutto… la volta scorsa ho vinto io.”
“Solo grazie all’aiuto di Near”, precisò Light. “Adesso, la prima cosa che farò, sarà lasciarti totalmente solo, senza alcun appoggio. Già ci ero riuscito prima con Watari. Quillish Whammy. Non ci è voluto poi molto scoprire chi era, dopo aver saputo che eri un orfano. Più che altro, è stata una specie di intuizione. Solo una persona senza famiglia rischierebbe il tutto per tutto.”
“Credevo che non fosse conveniente per un criminale anticipare le proprie mosse.”
“Io non le sto anticipando. Piuttosto dovresti dirmi grazie.” Di nuovo, L non capì, così Light si diede la pena di spiegare: “Ti sto dando un avvertimento. Presto resterai solo e senza alcun aiuto, allora non saprai cosa fare. Quindi io vincerò questa sfida L. E finalmente, senza più te fra i piedi, sarà tutto più facile. Non ci vorrà molto a far tornare il mondo com’era quando imperversava Kira. Hai visto com’è adesso?”, domandò con sguardo desolato e gli angoli della bocca rivolti all’ingiù. “E’ tornato tutto come prima. Questo non è un mondo sicuro.” Light rimase qualche secondo immobile, a pensare.
“Facciamo questo scambio Light, fai venire qui la bambina.”
“Fammelo vedere.” Gli occhi di Light brillarono nella fioca luce dell’hangar.
L mise una mano nella tasca sul retro dei jeans, poi tirò fuori un quaderno nero arrotolato. Lo dispiegò, e lo mostrò a Light. Death Note. Light ghignò.  “Mettilo per terra, qua in mezzo”, disse, indicando un punto ad un paio di metri da dove si trovava. Fece un sussurro alla bambina che le stava affianco, che per tutto il tempo non aveva detto nulla ed era rimasta nell’ombra. La indirizzò lontano da lui e le disse di camminare lentamente, con le braccia tese in avanti. Quando Georgie arrivò ad una distanza adatta per non essere subito riacchiappata da Light, L aveva posato il quaderno sul pavimento polveroso. Tornò indietro, prese la bambina per mano e si rivolse a Light. “Arrivederci Light-kun.” E uscì dall’edificio.
Light sorrise mesto, alzando lo sguardo verso Ryuk che si era appostato sopra alcune casse. “Light-kun! Che sorpresa!”, esclamò lo Shinigami.

“Io ed Eikichi faremo lo scambio, faccia a faccia come avevamo accordato. Near, tu controllerai le telecamere che abbiamo piazzato. Matt, alla guida del furgoncino. Invece Mello e Diane fuori, a controllare i sottoposti di Eikichi.”
L si alzò, aprì un cassetto, e tornò indietro con una scatola nera che diede a Mello. Era pesante. Mello la aprì. Dentro c’era una pistola nera, con una parte di manico in legno, la stessa che avevano preso a casa di L in Inghilterra prima di partire. Mello la osservò con occhi sgranati, passò le dita sopra il metallo lucido e freddo. Esitò. La prese in mano. Era più fredda di quanto pensasse, ed era anche molto pesante. “Tu e Diane andrete al poligono di tiro, suppongo che tu sappia già come si fa, no Diane?”, domandò L rivolto alla donna. Diane annuì. “Perfetto. Quando sarò lì dentro…”
“Aspetta!”, lo interruppe Mello. “Cos’hai detto a Noodle?”
“Giusto. Ci siamo già messi d’accordo con lei tramite Matt. La tua idea di far penetrare nell’edificio un cellulare è stata azzeccata, e molto semplice da attuare.”
Qualche giorno prima Mello e Near avevano discusso sulla possibilità di contattare Noodle tramite computer, aiutati da Matt. Avevano comperato un telefono con connessione ad internet illimitata per un mese, e avevano mandato Diane a consegnarglielo. Diane si era messa una tuta, aveva legato i capelli in una coda alta e aveva girato l’intero quartiere con un i-pod nelle orecchie facendo finta di fare jogging e ascoltare musica. Alla fine aveva visto uscire dalla casa che era il suo obiettivo una donna robusta di colore. L’altezza e la corporatura coincidevano con la descrizione che Mello aveva dato della persona che aveva aggredito lui e Noodle, e pensò che doveva essere l’unica guardia del corpo che c’era, così si appostò attorno alla casa, adocchiando le pareti per controllare l’esistenza di telecamere. Non vi erano da nessuna parte, così Diane, aiutata dal buio che nel frattempo era calato, si era infiltrata nel giardino e aveva tentato di entrare in casa. Per una fortuna sfacciata aveva visto in quel momento Noodle, che riconobbe tramite una foto che le avevano mostrato, guardare fuori da una finestra del secondo piano. Mandando all’aria il piano ben congegnato di Mello e Near, Diane si era guardata furtivamente attorno, aveva spiato le altre finestre e, constatato che non c’era nessuno, si era sbracciata per farsi vedere da Noodle. Quando la ragazza l’aveva notata aveva preso il cellulare dalla tasca e, facendosi vedere bene, lo aveva posizionato all’interno di un vaso che stava nel giardino. Noodle lo aveva recuperato qualche giorno dopo, quando aveva convinto Dayo a fargli fare almeno un giro fuori nel cortile.
“Noodle vi aiuterà con la donna che ci ha detto chiamarsi Dayo, non appena vi vedrà e sarà sicura che ci siete.”
“D’accordo”, disse Mello con occhi concentrati.
“Bene. Dopo che l’avrete presa portatela al furgoncino. Non vi dovrete preoccupare di essere sorpresi, Near controllerà le telecamere e comunicherà con voi, vi dirà tutto quel che dovete sapere”, L guardò Mello e Diane, “tramite microfono e auricolari. Abbiamo dei piccoli aggeggi di questo tipo a disposizione, sono comodi, simili a quelli usati nelle trasmissioni in tv. Potrete ricevere e comunicare con Near. Dopo che sarò uscito porterò Georgie nel furgone, ma voi due tornerete fuori, e aspetterete che esca Eikichi. Quando esce, catturatelo. Non sarà difficile, non avrà più nessuno che lo protegga, se tutto va secondo i piani. E’ tutto chiaro?”, domandò L.
Gli altri annuirono.

Dopo che Mello era uscito Diane aveva ammanettato Dayo nel furgone, in modo tale che non si potesse spostare nemmeno di un millimetro. Poi, assieme a Noodle, era uscita dal furgone bianco e avevano svoltato l’angolo guardandosi ancora una volta attorno, sospettose. Diane e Mello, che nel frattempo le aveva attese fuori, dovevano aspettare che Eikichi uscisse, per rapirlo e riprendersi il Death Note. Noodle doveva convincerlo a uscire dall’hangar, anche se lui aveva espresso il desiderio che fosse Dayo ad avvertirlo: ancora non si fidava del tutto di lei. Aveva ragione.
“Tu pensi che uscirà?”, domandò Noodle a Mello.
“Se anche non fosse entreremo noi. E poi non può restare lì dentro per sempre.” Per parte sua Mello pensava che quel piano fosse un’ottima maniera di mostrare ad L tutte le sue qualità nelle indagini. Oltre ad essere stato molto attivo nella ricerca fino ad allora, avrebbe anche dimostrato di avere un talento innato per l’azione sul campo, al contrario di Near.
Camminarono fino all’hangar e, nascosti dietro ad una colonna, videro L uscire tenendo per mano una bambina dai lunghi capelli scuri. L gli gettò solo uno sguardo, ma fece finta di non vederli, e proseguì per la sua strada. Attesero qualche minuto. Diane e Mello si disposero uno da un lato dell’uscita e uno all’altro. Noodle aprì la porta ed entrò.
“Eikichi”, chiamò.
“Noodle”, disse quello con un sorriso affabile. “Come mai sei qui? Dov’è Dayo?”
La ragazza registrò che Ryuk stava seduto sopra un’alta pila di casse in bilico ma non diede segno di vederlo né di sentirlo quando lui sghignazzò divertito. Eikichi non doveva sapere che lei lo vedeva. “Dayo è rimasta ferita da uno dei sottoposti di L, erano in due. Ma lo abbiamo preso. E’ in macchina, assieme a Georgie e Dayo.”
“Dayo l’ha sbendata?”, domandò Eikichi precipitosamente.
“Non lo so, io sono venuta qui subito dopo aver portato alla macchina L. Sta perdendo molto sangue, Dayo.”
Eikichi affilò lo sguardo. Sentì che qualcosa non andava. Ma sembrava fatta, dopotutto. “Va bene”, disse. Attese che Noodle uscisse dall’hangar, poi mise un piede fuori.
Nel momento esatto in cui la sua figura sbucò fuori dalla porta vide un ragazzo biondo dall’aria scontrosa che gli puntava addosso una pistola. Dall’altro lato una donna faceva lo stesso. Si fermò. Fulmineo, si gettò in avanti prima che Noodle si allontanasse troppo e la tirò a sé tenendola dai vestiti. Le passò un braccio sul collo e si voltò indietreggiando, ritrovandosi faccia a faccia contro i suoi aggressori. Noodle reagì subito, mosse un calcio contro di lui prima potesse rafforzare troppo la presa e fuggì dalle sue braccia. Nei due o tre secondi in cui tornò fra i suoi compagni, che la osservavano preoccupati e non osavano sparare per paura di colpirla, Light scattò e fuggì dietro ad una colonna. La prima a reagire fu Diane, corse dietro di lui ma non lo vide più dopo appena qualche metro. Impossibile che fosse già andato via. Doveva essere lì nascosto da qualche parte. Si guardò cautamente attorno ma non vide nulla.
Light avanzava carponi dietro ad un muretto composto da casse sporche e male impilate l’una sull’altra. Doveva solo raggiungere la fine di quel muretto e poi correre dietro all’altro hangar, che distava solo qualche metro. Quando arrivò all’estremità provò a controllare cosa stesse facendo la donna che lo inseguiva. Si arrischiò a guardare. Si nascose. In quel momento stava camminando lentamente, inconsapevolmente,  verso di lui, guardandosi circospetta attorno, la pistola puntata davanti agli occhi e le braccia tese. Light avanzava carponi, il Death Note arrotolato e infilato in una tasca interna della giacca. Certo non aveva le scarpe adatte a correre. Diede un’altra occhiata alla donna e la vide voltata a controllare un cumulo di vasellame vecchio ammonticchiato in un angolo. Non avrebbe mai avuto un’occasione migliore. Scattò, raggiunse l’altro hangar ma non si fermò lì. Continuò a correre, sentendo che la donna lo aveva visto e lo inseguiva. Vide la macchina e vi saltò dentro. Come pensava, non c’erano né L, né Georgie, né una sanguinante Dayo ad attenderlo. Gli avevano teso una trappola, e l’avevano architettata proprio con la sua prigioniera, proprio in casa sua! Sotto i suoi occhi! Non se n’era nemmeno accorto. Quella Noodle doveva essere complice di L fin dall’inizio, ma lui non lo aveva nemmeno ipotizzato. Che si fosse fatta catturare apposta? Che avesse avuto una microspia incastrata da qualche parte fra i denti o sottopelle? Light iniziò a dubitare di ogni cosa. Ma non era quello il momento per pensarci, era salito in macchina e doveva fuggire.
Mise in moto e uscì dal deposito, il buio cominciava a scendere sulla piccola cittadina di Berksville. Ma Light non poteva più restare lì, ora che Noodle sapeva dove si trovava la sua casa. Forse lo sapeva anche L. Uscendo con il piede pigiato sull’acceleratore scorse un furgone bianco parcheggiato a lato della strada. Doveva tornare in quella casa, prendere lo stretto indispensabile e trasferirsi altrove.
Non importava ormai dove. L’importante, una piccola vittoria, era che aveva il Death Note. Dietro di sé, nello specchietto retrovisore, vide apparire Ryuk, la schiena ancora più curva per entrare nell’auto.
“Light, non pensavo ti avrei mai rivisto”, disse lo Shinigami con voce roca.
“Nemmeno io Ryuk, è un piacere.”
Light tornò a guardare avanti. In fondo, la piccola Georgie non gli serviva poi così tanto, poteva trovare altri metodi per scoprire il nome di L. Ma come aveva già deciso, prima doveva disfarsi dei suoi sottoposti. Primo fra tutti, Near. Quel ragazzino silenzioso che riusciva sempre a capire le cose più improbabili, nonostante sembrasse vivere in un mondo a parte. Poi, per puro dispetto nei suoi confronti, quella ragazzetta di nome Noodle, che l’aveva giocato come un bambino. Light accelerò, tolse il Death Note dalla tasca interna e lo poggiò sul sedile anteriore al suo fianco.
Aveva l’arma perfetta.

“Ve l’ho già detto, non so niente di lui”, ripeté Dayo per la ventitreesima volta. La donna chiuse gli occhi, stanca, e sospirò.
Noodle si avvicinò ad L e sussurrò con cipiglio preoccupato: “Andiamo, credo che dica la verità. Perché dovrebbe sapere qualcosa di lui? Era una complice sì, ma probabilmente non sapeva nulla. Light l’avrà usata senza dirle niente d’importante. L’avrà pagata con un mucchio dei soldi: è un sicario professionista”.
L ci pensò su un attimo. “Cosa sai di qualcosa chiamato Death Note?”
“Non l’ho mai sentito nominare”, disse Dayo.
“E sai perché hai dovuto rapire Georgie Jonsson?”
“No!”, disse Dayo, ormai senza pazienza. “Ai miei clienti piaccio per questo. Loro ordinano e io eseguo. Senza nessuna domanda.”
“Quindi tu eseguivi solo gli ordini?”, domandò L. “Anche se sapevi che il capo è un pazzo criminale.”
Dayo lo guardò con stizza. “Non venire a farmi la predica, detective! Non la accetto da un uomo che lega una donna ad una sedia.”
Diane si appoggiò al tavolo, gli occhi stanchi e i capelli in disordine. “Anch’io credo che non sappia nulla, è inutile tenerla ancora qui. Chiamiamo la CIA, raccontiamogli che cos’è successo e sbattiamola in un tribunale.”
L si mordicchiò il pollice. Dopo un attimo di esitazione: “D’accordo”.
In quel momento gli occhi di Dayo si spalancarono, la donna emise un gemito soffocato e si irrigidì su quella sedia, dove era legata da quasi sette ore. Una linea scura di sangue le uscì dall’angolo della bocca e scivolò melmosamente verso il mento. Quando macchiò il vestito bianco di Dayo, lei era già morta.
Noodle si precipitò verso di lei. “Dayo. Dayo!”, chiamò urlando. La slegò, veloce, e la sostenne quando il suo corpo si accasciò su di lei. “No, no”, mormorò. “Dayo apri gli occhi!”, disse reggendole il busto e sollevandole la testa. Tutti osservavano agghiacciati, incapaci di dire una parola o di fare alcunché. Alla fine Matt li superò e raggiunse Noodle, che continuava a tentare di svegliare quella che era diventata, nelle lunghe ore di allenamento, la cosa più simile ad un amico in quella strana prigione. Matt scostò delicatamente Noodle e prese in braccio Dayo, la sollevò e la mise sdraiata sul divano. Esitò, poi le chiuse gli occhi con un gesto della mano. Rabbrividì e si strofinò la mano istintivamente.
“Chiamate qualcuno per portarla via”, disse Near voltandosi, uscendo dalla stanza.
Mello si avvicinò a Noodle, che era rimasta in ginocchio di fronte alla sedia sulla quale L aveva insistito così tanto per interrogare Dayo, senza ottenere alcuna risposta. Mello le cinse le spalle e la portò in camera sua. Noodle si sedette alla scrivania e rimase lì, le mani affondate nei corti capelli biondi. Mello rimase per qualche attimo sulla soglia, senza sapere bene che cosa fare. Alla fine decise di prendere una barretta di cioccolato al latte, una delle poche che aveva, e la lasciarla sulla scrivania accanto a Noodle. Si voltò e uscì, chiudendosi piano la porta alle spalle.
Noodle osservò la tavoletta di cioccolato con rabbia. In quel momento non c’era una sola cosa che poteva risollevarla di morale. Dall’inizio di quel caso era andato tutto storto! Kira era tornato dal regno dei morti, e aveva con sé il Death Note di L. Loro avevano ripreso la bambina, ma Light Yagami aveva un vantaggio enorme su di loro. Aveva il quaderno, e anche se non conosceva i loro nomi avrebbe potuto scoprirli. C’erano molti modi che poteva architettare. Con il Death Note in mano e nessun rimorso ad usarlo -al contrario di loro-, aveva già una potentissima arma a suo vantaggio. E loro che cosa avevano? Un detective che non si faceva vedere mai da anima viva, tre ragazzi inesperti e un’agente della CIA. Per non tenere in conto un cadavere sul divano e una bambina con gli occhi dello Shinigami che dormiva al piano di sopra. L’unica cosa che dovevano evitare, ossia consegnare ad un assassino l’arma di distruzione di massa più potente del mondo, era accaduta.
Noodle prese la barretta di cioccolato e la osservò per qualche secondo, soppesandola sul palmo di una mano. Poi, presa da rabbia tremenda, la scagliò con tutte le forze che aveva dall’altra parte della stanza, i denti stretti per la rabbia. Si gettò sul letto, raggomitolandosi su sé stessa, furiosa e disperata allo stesso modo. Avrebbe voluto che non fosse mai accaduto nulla, avrebbe preferito non aver mai incontrato Ryuk, e rimanere all’oscuro di tutto. Ma più di ogni altra cosa, avrebbe voluto che suo padre fosse lì con lei. Le avrebbe preparato una tazza di tè, come faceva quando aveva la febbre, e le avrebbe detto di riposare, lasciandola sola nella stanza con i suoi libri. Ma anche se non era presente lì vicino a lei Noodle sapeva che c’era, appena oltre la porta, per qualsiasi cosa di cui avesse avuto bisogno.
Quasi senza accorgersene, Noodle si addormentò.

“C’è bisogno di un posto sicuro dove tenere Georgie”, disse L pensieroso.
“La Wammy’s House”, disse subito Mello.
“Light sa della Wammy’s House, non sarebbe prudente”, osservò Near.
Mello lo guardò con astio. Perché cavolo non ci aveva pensato lui? “E quindi?”, domandò tagliente.
“Quindi credo che la migliore soluzione sia tenerla qui con noi”, concluse L. “Dopotutto la casa è grande abbastanza, non ci sono problemi, non è vero?”
“Veramente la casa ha solamente quattro stanze da letto, compreso quel buco di soffitta”, obbiettò Mello.
“Io posso continuare a dormire sul divano”, disse L.
“Se c’è la soffitta, posso stare in soffitta?”, domandò Matt. “E’ pulita, basterà trasportare di sopra le mie cose.”
“Vuoi dire il televisore, la psp, il computer, l’x-box, i tuoi vestiti e il dvd?”, domandò con scherno Mello. Matt annuì. “Te lo scordi. Tu resti dove sei. Allora…”, si guardò attorno. “L sul divano. Ma le restanti quattro stanze sono occupate da noi… Matt, dormiremo assieme, la mia camera sarà di Georgie.”
“E io?”, domandò Noodle.
“Tu in soffitta.” Noodle sbuffò. Non sapeva se quella sistemazione le piaceva, ma era quello che passava il convento.
“A me sta bene”, disse Matt. “Ho passato praticamente tutta la vita in camera con te.”
Solo in quel momento Georgie si voltò verso di loro. Stava seduta al tavolo e disegnava su un grande foglio che Diane le aveva procurato. “Posso vedere la mia stanza?”, domandò.
“Ma certo”, rispose Mello. “Vieni, ti faccio vedere”, disse il ragazzo porgendole la mano e sorridendo velatamente.
Senza che nessuno se ne rendesse conto, e senza fare nulla di eclatante, Georgie Jonsson era diventata in pochi giorni la mascotte della squadra d’investigazione. Era una bambina alquanto silenziosa, passava la maggior parte del tempo a disegnare casette e prati dalle improbabili forme e dimensioni e a guardare cartoni animati in tv. Forse proprio per questa sua calma tutti la apprezzavano. Se avessero dovuto badare ad un bambino irrequieto probabilmente lo avrebbero affidato a qualcun altro. L delle volte si domandava se Georgie non sarebbe stata la felicità di Watari.
Georgie guardò Mello per qualche secondo poi, ignorando la mano tesa, scese dalla sedia e raggiunse Near. “Mi accompagni a vedere la mia stanza Near?”
Near distolse lo sguardo dalla finestra. Sorrise un poco. “Ma certo.” Prese per mano Georgie e l’accompagnò. Per puro dispetto, in ricordo dei tempi passati, quando passò accanto a Mello gli fece un sorrisino furbo.
Mello, per tutta risposta, sbuffò arrabbiato. “Sì, sì vai! Vai a fare il baby sitter!”, gli urlò dietro. Poi si voltò, arrabbiato, e uscì nel terrazzo.
Era sempre così, sempre la solita storia! Near rimaneva il solito odioso nano bianco anche durante un caso. Lui era il migliore in tutto, lui dava le idee vincenti, lui era il preferito di Georgie, lui controllava che tutto fosse a posto prima di agire. Solo, lui, lui, lui. Probabilmente non ci metteva la metà dell’impegno che ci avrebbe messo Mello se fosse stato al posto suo! O almeno, questo era quello che pensava il ragazzo. Per tutta la sua vita Mello non era mai stato il primo. Se solo avesse potuto ribaltare i ruoli…
Mello si voltò quando udì dei passi dietro di sé. Noodle lo raggiunse sulla terrazza e appoggiò i gomiti al muretto, accanto a lui. “E’ mai possibile che non c’è niente in cui riesca meglio degli altri?”, domandò ad un tratto Mello con voce critica guardandola con la coda dell’occhio.
Noodle sorrise mesta. Dal tono di Mello si capiva che non era arrabbiato, almeno in quel momento, ma più che altro faceva una constatazione. “E’ solo che non l’hai ancora trovato”, disse la ragazza.
“Di questo passo non lo troverò mai.”
“Ma lo sai che Isabel Allende ha cominciato a scrivere quando aveva quarant’anni? E Morgan Freeman ha fatto il suo primo film a quasi trent’anni.”
Mello la guardò. “E che c’entra, scusa?”
“C’è tempo per trovare qualcosa che sai fare meglio, non è detto che siano cose scontate.”
Mello la osservò con un po’ di acidità. “Sarebbe magnifico, a trent’anni, scoprire che sono un buon spazzacamini.”
“Ah, Mello! Certo che quando non vuoi capire ti ci metti proprio d’impegno!”, sbottò la ragazza spazientita.
Il ragazzo si rabbuiò, poi si appoggiò con i gomiti al muretto del terrazzo e guardò la piccola cittadina di Berksville dall’alto. “Secondo te cosa dobbiamo fare adesso?”
“Non lo so”, disse Noodle sospirando. “Dobbiamo riprenderci il Death Note, questo è certo. E mi chiedo anche che cosa dovremmo fare con un criminale che, per la legge, è già morto.”
“Hm… Immagino che dovrà morire di nuovo.” Per qualche secondo quelle parole rimasero nell’aria, e i ragazzi pensarono a due cose totalmente opposte. Mello si bloccò, pensando al vero significato delle sue parole. Se Light Yagami doveva morire, e di sicuro nessuno di loro avrebbe usato il Death Note, allora quello voleva dire che qualcuno doveva ucciderlo. Che qualcuno doveva porre fine alla sua vita per sempre. Per un secondo Mello capì l’imponenza del pensiero che aveva fatto, e si sentì pieno di angoscia e terrore. Poco dopo quella consapevolezza sparì, e al ragazzo rimase solo un leggero senso di inquietudine. Invece, dentro di sé, Noodle esultava. Light Yagami doveva morire, e non venire condannato in un tribunale all’ergastolo o alla sedia elettrica. Doveva morire per mano loro, non potevano consegnare un morto alla legge, sarebbero sorte domande scomode. Quindi lo avrebbe ucciso lei. Lei avrebbe posto fine alla sua vita per sempre. Per un secondo Noodle capì l’imponenza del pensiero che aveva fatto, e sentì il cuore scoppiare dal potere che provava nelle mani. Le mani che avrebbero ucciso l’assassino di suo padre. Formicolavano per la voglia e l’impazienza.
“Noodle”, Mello la chiamò, notando il suo sguardo perso nel vuoto.
“Sì?”, domandò lei riscuotendosi dai suoi pensieri.
“Ti va di accompagnarmi a fare un giro?”
“Sì.”
La sera stava scendendo e i lampioni cominciavano ad accendersi, ancora pallidi, per le strade. Mello e Noodle camminavano uno affianco all’altro, in silenzio, entrambi con le mani in tasca, entrambi con il mento alto di chi vuole mostrarsi fiero di sé, ed entrambi con i pensieri altrove. Senza rendersene conto capitarono nel centro della cittadina, dove c’era un po’ di movimento. Diverse persone in giro, alcuni negozi aperti e già qualche insegna luminosa che doveva attirare clienti la notte. Noodle sbriciò la strada, si fermò e chiese: “Mello, ti va un gelato?”.
Il ragazzo osservò la gelateria di fronte alla quale si erano fermati. Sorrise e disse: “Al cioccolato”.
“Ovviamente.”
Noodle ordinò un cono piccolo con yogurt e pistacchio, Mello un cono grande da tre gusti pieno solo di cioccolata fondente, sul quale volle anche il biscottino. Pagarono un dollaro e cinquanta e due dollari e settantacinque centesimi. Il gelato era molto buono.
Ripresero la strada e ricominciarono il cammino. Arrivarono fino in fondo alla grossa via principale, senza parlare, mangiando il gelato. Infine raggiunsero la piazza del municipio, affianco della quale c’era un parco giochi e una chiesa. Erano già le otto di sera quando arrivarono lì, e c’era buio. Il parco era deserto.
“Andiamo? Ti va?”, domandò Mello. Noodle si strinse nelle spalle. Mello scavalcò il basso steccato, con ogni listello di legno dipinto di un colore diverso. Nel parco giochi c’erano uno scivolo, quattro altalene, un girello, tre animali a molla di legno, un percorso e due campetti: uno da calcio, uno da pallavolo e basket. Oltre a quello c’erano cinque o sei panchine immerse nel buio sparse lungo l’erba. Mello si avviò verso il girello dipinto di verde e rosso, che nel buio della prima sera non pareva tanto allegro. Si sedette e Noodle lo raggiunse, sistemandosi di fronte a lui. Era incredibile come sembrasse minuscolo quel gioco, che invece sembrava così spazioso ai loro occhi quando erano bambini, ci entravano in cinque o sei, e se non giravano tutti la grossa maniglia al centro era considerata una vera ingiustizia punibile per legge. Mello diede un paio di giri alla ruota centrale, poi lasciò che girasse da solo.
“Da piccola facevamo girare la ruota il più velocemente possibile, poi saltavamo fuori quando era ancora in movimento”, ricordò Noodle con il viso alzato, godendosi l’aria fresca che le arrivava addosso. “Era una prova di coraggio: chi non saltava era un codardo.”
Mello ridacchiò. “Anche noi lo facevamo alla Wammy’s House.”
“Non ho visto un parco giochi”, obbiettò Noodle guardandolo, mentre il girello rallentava.
“Sta dietro il campetto da calcio.” Rimasero un secondo in silenzio, poi Mello disse: “Sai cosa dovremmo fare? Per riprenderci il Death Note?” Noodle lo guardò interrogativo. “Qual è il punto debole di Light? Dovremmo chiedercelo con calma e scoprirlo. Solo così riusciremo a pensare un piano adatto.”
Noodle ci pensò di nuovo. “Be’, di sicuro è molto intelligente e non manca di denaro. Mi chiedo come abbia fatto però ad ottenerlo.”
“Forse l’ha rubato.”
“E’ molto probabile. Ma questo non va contro la legge? Non lo rende un criminale punibile da Kira? Il che è un paradosso dato che lui stesso è Kira.”
“Lui vuole il bene nel mondo ma per ottenerlo non esita a uccidere persone innocenti: coloro che gli danno la caccia. E’ una logica non troppo difficile da capire che è praticamente uguale a quella di un bambino capriccioso. Non si cura del paradosso, lui.” Mello si infastidì leggermente nel dire quelle parole.
“Vorrei sapere anche come ha scoperto Georgie Jonsson.”
“E come ha fatto a ritornare in vita”, continuò il ragazzo.
“Sai cosa dovremmo fare?”, domandò Noodle con fare retorico. “Dovremmo scoprire tutte queste cose per attaccarlo come si deve. Scoprire come e perché sia tornato a vivere forse potrebbe aiutarci a farlo tornare nel Mu ancora una volta…”
“Sostiene di non saperlo neanche lui.”
“Non importa, lo scopriremo noi. Poi… Come ha fatto a scoprire Georgie Jonsson, dove ha preso tutti i soldi che ha speso per quella casa, e forse per viaggiare, e per ingaggiare Dayo, eccetera.”
“E da dove incominciamo?”
“Be’ potremmo cominciare a fare un ricerca su Light Yagami, anche se probabilmente avrà cambiato nome. E forse non è nemmeno Eikichi il nome che usa, lo ha usato con noi.”
“D’accordo, ma nessuno sa dei prescelti. Come avrebbe potuto sapere di Georgie?”, domandò Mello con sagacia.
“Interrogheremo di nuovo tutti coloro che sapevano della sua malattia. Gli chiederemo se per caso sono entrati in contatto con lui. Se sapeva delle visioni di Georgie, non ci avrà messo molto a fare, come noi, due più due”, osservò Noodle facendo un espressione di tale ovvietà che Mello si sentì in parte stupido per non averci pensato.
“Va bene, lo diremo ad L quando torniamo”, acconsentì Mello. Tese la mano per ricominciare a girare la ruota, ma Noodle lo fermò.
“Aspetta, no.”
“Cosa?”
“Ho freddo”, disse la ragazza passandosi le mani sulle braccia per scaldarsi. Mello la squadrò. Noodle indossava una felpa non troppo pesante e sotto una maglietta a maniche lunghe con scritto ‘Oggi c’è il sole. Domani sarà l’armageddon.’ Mello si avvicinò a lei e tolse la giacca di pelle. “No, no. Così hai freddo tu poi”, replicò Noodle. Mello si strinse nelle spalle e le gettò addosso la giacca. Noodle sorrise, poi si strinse di più a lui e gettò la giacca addosso a tutti e due. Il braccio sinistro le restava fuori ed era gelato, ma lei non ci faceva caso. Esitò, poi si fece scivolare più in basso e appoggiò la testa alla spalla di Mello. Il ragazzo rimase per qualche istante fermo, come una statua di sale, poi, lentamente, appoggiò la testa a quella di Noodle. Sotto la giacca c’era un caldo particolare. Mello mosse la mano e cercò Noodle, lei si mosse e cercò Mello. Le loro mani si unirono e intrecciarono le dita, sotto la giacca. Il cuore di Mello batteva per l’agitazione, non sapeva che cosa sarebbe successo. Noodle invece era calma, in quel momento non le interessava che cosa sarebbe successo.
Rimasero lì ad osservare le poche stelle che si vedevano dalla cittadina di Berksville. Non erano molte, ma non se ne accorsero, in realtà non vedevano nulla. Solo i loro pensieri. Non c’era stato bisogno di dire nulla, perché a che servivano le parole in un momento così? A volte la gente si sente a disagio quando c’è silenzio, ma loro si godettero quello scambio muto senza pentimenti.
Dopo un tempo che ai due parve un secondo e un’eternità Noodle si mosse e il sogno parve spezzarsi. “Andiamo a casa?”, domandò allora Mello.
“D’accordo.”
I due si avviarono a piedi nel buio della città. La gente era diminuita, solo pochi negozi restavano aperti, a testimonianza dell’ora tarda. I due camminavano senza parlare. Mello fece sfiorare più volte le loro mani, che camminavano volutamente l’una di fianco all’altra, così vicine da scontrarsi più spesso del previsto. Prima che una delle dita di Noodle potesse sfuggire, Mello la prese, poi le loro dita si intrecciarono di nuovo, fuori dalla giacca. Nessuno dei due guardava l’altro, era come un tacito compromesso. Non si guardavano, ma sentivano le loro mani. La leggera pressione delle dita di Mello, sottili ma forti. La delicatezza di quelle di Noodle sulle nocche del ragazzo. Quella sensazione simile al solletico che entrambi provavano, quando le dita si sfioravano per tutta la loro lunghezza.
Quando arrivarono a casa Mello aprì la porta con la sua chiave. Era tutto buio all’entrata, solo una luce soffusa proveniva dalla cucina. Probabilmente era L. “Ti accompagno di sopra”, disse Mello in un bisbiglio. Noodle annuì. Salirono al piano superiore e s’incamminarono verso la soffitta, in realtà più simile ad una taverna, raggiungibile tramite un scala a chiocciola. La salirono per metà, prima che Mello potesse vedere la stanza di Noodle. Il ragazzo sorrise debolmente, divertito. “Posso riavere la mia giacca?”
“Oh, scusa.” Noodle si affrettò a restituirgliela. “Non mi ero accorta di averla ancora addosso”, disse con un mezzo sorriso di scuse.
“Non importa.” Mello la riprese, sorrise e tenne ancora la mano di Noodle, stringendola, facendole sentire la pressione, il desiderio e la forza con cui la voleva. Mello si abbassò leggermente: era di un po’ di centimetri più alto di lei. Lento, l’abbracciò. La giacca cadde a terra ma nessuno dei due vi fece caso. Si abbracciarono.
In quel momento Mello non riusciva a pensare a niente. Poteva solo concentrarsi su Noodle. Sentiva quanto era piccolo il suo corpo, com’era fragile e perfetto fra le sue braccia. Ma sapeva anche che poteva essere forte, e la strinse di più, con gli occhi chiusi. Non vedeva nulla, tranne che la sensazione del corpo di Noodle stretto al suo. Piano, lento, cominciò a scostarsi da lei. Il suo viso si ritirò, le loro guance si toccarono, si sfregarono. Mello si allontanò ancora leggermente e cercò, esitante, le labbra di Noodle con le sue.
Un bacio. Labbra contro altre labbra. Respiri che si mescolavano. Occhi chiusi che vedevano un mondo intero.
Un altro bacio. Ancora lento, ancora esitante. Perché nessuno dei due sapeva se l’altro lo voleva. E nessuno dei due avrebbe mai fatto nulla che l’altro non voleva.
Un altro ancora. Fiati umidi che s’incontravano. Lingue, che si toccavano esitanti e subito si ritraevano.
Ancora. Più deciso, più desideroso di sentire e di far sentire. Che cosa provava Noodle? Non lo sapeva, ma voleva che anche Mello sentisse lo stesso, perché era una sensazione meravigliosa, che le gonfiava il petto e le piegava le labbra in un sorriso spontaneo. E cosa sentiva Mello? Sentiva un mondo così dolce che non gli parve giusto tenerlo solo per sé: voleva farlo assaporare a Noodle e farle sentire com’era bello, perché voleva che lei fosse felice.
Caldo e fresco. Afrodisiaco. Era come saggiare la consistenza dell’infinto in un istante. Sembravano passare anni e secoli nelle sensazioni, ma quando si separavano non erano passati che pochi secondi.
Mello poggiò la fronte a quella di Noodle, continuando a tenere gli occhi chiusi e sorridendo. Noodle invece guardava giù, ai loro piedi. Vederli tanto vicini era piacevole. Mello le accarezzò i capelli, mentre Noodle quasi si sorreggeva sulle sue braccia.
“Buonanotte”, disse Mello scendendo le scale senza voltarsi a guardarla.
Noodle salì in camera. Come in un rito si spogliò, piegò i vestiti puliti e mise quelli sporchi nella cesta dei panni da lavare. Indossò degli slip nuovi, una maglietta con le maniche corte, dei pantaloni di cotone e delle calze. Si lavò i denti, sciacquò il viso, passò inutilmente la spazzola fra i capelli: erano troppo corti, non serviva a nulla pettinarli. Si diresse a letto e accese la lampadina del comò, poi andò dall’altra parte della stanza e spense l’interruttore della luce. Il giallastro della lampadina illuminava ogni cosa e la rendeva ancora più massiccia, e la strada per raggiungere il letto era diventata più lunga.
In piedi dall’altro capo della stanza Noodle sentì una curiosa sensazione allo stomaco e un’altra nel petto. La prima era sgradevole, come se le si stringessero le budella, la seconda era piacevole, e Noodle sorrise involontariamente, pervasa dalla felicità.




















Ciao a tutti! ^^
Posto con un giorno di anticipo per vari motivi, ma più che altro perché fra poco ricomincia l'università, quindi non avrò più i Lunedì liberi. Da oggi in poi posterò tutte le Domeniche =)

Sul capitolo posso dire solo che voglio proprio sapere che cosa ne pensate, e mi farebbe molto piacere una recensione (ne approfitto per ringraziare di cuore tutti coloro che hanno recensito fin'ora, siete proprio gentilissime ad usare un po' del vostro tempo per commentare questa storia, e le vostre osservazioni, i consigli e le correzioni sono sempre utili e molto gradite. Grazie! ^^). Ho quindi alcune domande per voi lettori riguardo a questo capitolo:  prima di tutto vorrei sapere se Light è abbastanza IC, e se vi è piaciuto il suo ritorno; poi sono curiosa di sapere che cosa ne pensate di Noodle e Mello. Ho speso una marea di tempo per scrivere quella scena, non so nemmeno se è venuta come volevo io, è venuta fuori così, come voleva lei, e basta! Allora? Vi piacciono Mello e Noodle e il loro primo bacio? ^^
Aspetto recensioni!

Nello spoiler ci sono alcune divagazioni mentali, riguardo al capitolo, le fanfictions e lo scrivere in generale, se non volete leggerle siete padronissimi di non farlo, non c'entrano niente con la storia! xD
Ci vediamo Domenica prossima (sempre che internet non cada, come vi ho già avvisati)!
Patrizia

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Capitolo 13
*** Kids ***


Capitolo dodici
Kids





“Near! Near! I rosa elefanti*!” Georgie si precipitò nella stanza del ragazzo, spalancando la porta con malagrazia e arrampicandosi sul letto. “Near!” Controllò che fosse lui, per non imbattersi per puro caso nella causa della sua fuga dal salotto. Le batteva forte il cuore, come solo ad un bambino può battere per qualcosa che non esiste. Quando ebbe appurato che si trattava di Near, Georgie prese le coperte pesanti fra le quali era avvolto e si coprì integralmente. Un piede scappava dalla coperta! Lo nascose.
Near si sollevò dal letto, assonnato. “Georgie?” Prese la coperta e ne sollevò un lembo. Georgie la riprese e si coprì di nuovo. “Georgie cosa c’è?”
“Non voglio che mi vedano”, disse la bambina con tono soffocato da sotto le coperte.
“Chi?”, domandò Near tentando di farla uscire, cercando il lembo della coperta. Si strofinò gli occhi un secondo prima di riprendere la ricerca di Georgie. “Non ti preoccupare, ti proteggeremo noi. Siamo qui apposta. Chi è che ti segue?”
“I rosa elefanti”, sussurrò la bambina nel tentativo di non farsi sentire.
Dumbo. Nemmeno a Near erano mai piaciuti i rosa elefanti. Aveva sempre avuto un dilemma con quel cartone animato. Non gli piaceva Dumbo, ma la canzone dei rosa elefanti era la migliore parte del film. Era anche la più spaventosa. Da piccolo aveva sempre avuto paura dei rosa elefanti. Non son tipo da svenire o da farmi intimorire, ma vedermi comparire i rosa elefanti mi fa mal! Già il fatto che un cucciolo di elefante si ubriacasse aveva dato a Near, una volta cresciuto, diversi dubbi sulla natura di quel cartone. Ma lui aveva comunque trovato un metodo, da bambino, contro i temibili elefanti rosa. “Georgie?”, chiamò il ragazzo.
“Shhh!”, lo rimproverò la bambina.
“Ascolta dimmi solo una cosa. Qual è il tuo animale preferito?”
“L’orso.”
“Lo sai che i colori combattono fra di loro?”, domandò Near rinunciando a scoprire Georgie. “Ad esempio, lo sai qual è il nemico giurato del rosa?” La bambina non rispose ma Near non vi fece caso, e continuò. “E’ il verde.” In realtà non era proprio vero: il verde era il complementare del rosso magenta, ma il rosa ci andava comunque vicino, e Georgie di sicuro non poteva conoscere la teoria dei colori. “Quindi, ecco cosa succede: gli elefanti rosa vengono battuti dagli orsi verdi. Ci sono degli orsi enormi, davvero grandi… che abitano in Africa. E sono verdi. Potrei scrivergli sai? Io li conosco. Possiamo scrivergli assieme. Gli diremo che gli elefanti rosa hanno ancora attaccato, e che devono andare a riprendersi il loro territorio, l’Africa.” Near fece una piccola pausa. “Allora?” Georgie alzò le coperte solo d’uno spiraglio e osservò Near.

Caro Re degli Orsi Verdi,
le mandiamo questa lettera per avvisarla di un pericolo imminente! Gli elefanti rosa stanno invadendo il vostro territorio. E’ richiesta un’azione immediata.
Con affetto,
Georgie e Near

Per prima cosa, sotto gli occhi attenti di Georgie, Near imbucò la lettera, sulla cui destinazione la busta recitava solo: Africa. Poi, non appena la bambina fu impegnata in altri giochi, Near andò a cercare fra i cd masterizzati di Matt, che si era tanto impegnato per trovare qualche cartone animato per Georgie. Una volta trovato Dumbo lo nascose nel più buio degli angoli della casa. Solo allora tornò tranquillo.
“Che cosa fai?”, domandò L quando vide Near arrampicato intento a lanciare un cd sopra un mucchio di scatole, nel ripostiglio.
“Niente più Dumbo qui: è malsano!”, disse il ragazzo.
L sorrise lievemente, illuminandosi, poi se ne andò canticchiando qualcosa come: ‘…ma i rotondi pachidermi mi fan rabbrividir!
Near fece appena in tempo a uscire dallo sgabuzzino che udì una voce urlare il suo nome. Sospirò, ma non di stanchezza. “Georgie?” Passò il resto del pomeriggio a giocare con un robot ed una bambola, nella loro fantasia Mr. Cosciotto e Miss Coda Lunga.
A Near piaceva stare assieme a Georgie, non erano passate che poche settimane da quando era arrivata, ma si era già affezionato a lei. Non come gli altri però, loro vedevano solo un bella bambina, timida e silenziosa. Near sapeva che non era affatto così. Georgie non era timida, una volta che la si conosceva bene. Ci si doveva meritare la fiducia di Georgie, e Near aveva capito che non era affatto facile né scontato come lo era per gli altri bambini, ai quali bastava un regalo o magari essere simpatici e gentili con loro per avere fiducia. Con Georgie ci si doveva impegnare, si doveva essere davvero delle brave persone.
Il motivo per cui Georgie aveva imparato a non parlare molto con gli altri, e lo stesso motivo per il quale preferiva non affezionarsi a molta gente. Era perché, lei lo sapeva: le persone muoiono. Nessuno aveva mai avuto la consapevolezza, fin dalla sua tenera età, che la vita fosse così limitata. Ma lei poteva vedere il nome delle persone, la durata della loro vita, e sapeva benissimo come andavano le cose. Forse lo sapeva meglio di molti adulti. Glielo aveva detto una volta uno Shinigami, le aveva spiegato ogni cosa. Era piombato dal cielo quando aveva appena tre anni e mezzo e lei aveva creduto che fosse un angelo. La mamma le parlava spesso degli angeli, diceva che salvavano le persone. Quell’angelo, molto probabilmente, era lì per salvare la sua mamma. La sua mamma lavorava sodo e la sera era sempre troppo stanca. Ma si sbagliava. Quando glielo aveva domandato l’angelo aveva detto solo che lui non era affatto un angelo. Era uno Shinigami. Un Dio della Morte. Le aveva spiegato come mai lei conosceva subito il nome delle persone non appena le guardava, e come mai dei curiosi numeri stavano sollevati sopra le loro teste. Le insegnò come calcolare in data umana gli anni di vita delle persone. Dopo aver imparato (la parte più difficile fu di sicuro fare le somme) Georgie lo faceva quasi come un gioco, un divertimento. Aveva smesso quando aveva conosciuto un compagno di scuola, un bambino della sua età. Si chiamava Paul Hertly e quando lo conobbe aveva ancora qualche ora di vita. Quando la mamma di Paul Hertly lo venne a prendere, dopo una giornata durata otto lunghe ore lavorative, durante le quali Paul aveva duramente disegnato e giocato con i trattori della scuola materna, non appena aveva visto la mamma dall’altra parte della strada era corso da lei. L’incidente sembrò quasi scontato, per Georgie. Da allora non guardava più la gente in viso, se non quando era obbligata. E non aveva mai più calcolato nessuna data di morte.
Ma con quei ragazzi era diverso. Lei non sapeva il perché, ma non poteva leggere la data della loro morte quando li osservava. Semplicemente non si vedeva. Georgie non sapeva che era solo perché erano entrati in contatto con un Death Note. Tutti lo avevano toccato, almeno una volta, per poter vedere Ryuk e parlare con lui. L’unica conclusione alla quale Georgie era potuta giungere era semplice: loro non sarebbero mai morti. Diane Colfer. Mihael Keehl. L Lawliet. Mail Jeevas. Annika Tempor. Nate River. Tutti immortali. Tutti come lei. Tutti sarebbero rimasti assieme a lei per sempre.

Matt si svegliò con la sensazione di aver combinato un guaio. Uno bello grosso. Non sapeva perché, ma sentiva di essere in gran torto, verso tutti. Verso Mello, perché non era mai stato un grande amico dopotutto, non era bravo a consolare e nemmeno a dire parole incoraggianti. Verso Near, perché quante volte si era ritrovato assieme a Mello a fargli vedere l’inferno, da bambini, solo per il gusto di farlo? Verso L, perché s’intrometteva nelle sue indagini e non ne era realmente interessato. Verso Noodle, e di questo non sapeva nemmeno il motivo. Era davvero una giornata nera per Matt, che si sentiva come l’unico peso in più che il mondo dovesse sostenere. Se lui non ci fosse stato sicuramente ogni cosa sarebbe andata al suo posto. Sicuramente nessuno sarebbe stato più infelice. Se non ci fosse stato lui, pensò, preso in quell’attacco di folle tristezza, di sicuro la fame nel mondo sarebbe finita, così come un geniale dottore avrebbe trovato una cura contro ogni tipo di cancro. E probabilmente, se non fosse mai esistito, Diane Colfer ora non sarebbe stata in quella casa. Forse sarebbe stata a casa propria, con il suo fidanzato, magari sarebbero stati più felici. Magari lei sarebbe stata più felice, avendo avuto un passato roseo e allegro alle sue spalle. Niente bambini non programmati, niente parti a quindici anni, niente fughe da casa e trasferimenti dall’altra parte del mondo.
Matt udì un rumore proveniente dal letto sopra il suo. Da quando lui e Mello avevano deciso di condividere la stanza L aveva comprato loro un letto a castello, forse per farli ripensare ai tempi passati della Wammy’s House. Mello aveva ancora avuto il letto di sopra. Matt lo udì stiracchiarsi, sbadigliare rumorosamente e, pochi istanti dopo, vide spuntare dei piedi dalla scala a pioli. Mello scese e gli si piazzò di fronte in tutta la sua eleganza mattutina, le gambe divaricate e le mani sui fianchi. Un sorriso soddisfatto come di chi ha vinto una gara campeggiava sul suo volto. Erano rare le volte in cui Matt aveva visto l’amico così di buon umore. “Che è successo?”, domandò senza volerlo sapere veramente.
“Io e Noodle ci siamo messi assieme.” Mello sorrise ancora di più e Matt giudicò la cosa con interesse quasi scientifico: come delle labbra possono divenire tanto ampie in un soggetto? E’ possibile che l’endorfina renda il tessuto della pelle più elastico?
“Davvero? Quando?”
Mello esitò, le sua mani scesero a penzoloni lungo i fianchi. “Non lo so esattamente, non è ancora una cosa ufficiale. Credo.”
“Ah, quindi è una cosa seria.” Matt si tirò su sopra il cuscino, facendo leva con i gomiti. “Ma quando?”
“Ieri sera.” Mello sorrise eccitato. “Ci siamo baciati.”
“Tutto qui?”, domandò Matt piegando le sopracciglia in un’espressione annoiata.
Mello sbuffò e cominciò a prendere i vestiti. “Ma che vuoi? Voglio fare le cose per bene. Magari usciamo qualche volta.”
Matt si rigettò sul letto, le mani dietro la testa. “Magari.” Esitò un secondo. Forse Mello si sarebbe arrabbiato perché non gliel’aveva detto prima. Decise di non correre troppi rischi e attese che fosse dentro il bagno, probabilmente intento a lavarsi, quando chiamò: “Mello!”.
Shi?” La voce soffocata del ragazzo lo raggiunse, dandogli la conferma che non lo poteva attaccare per quel che avrebbe detto: era troppo impegnato a lavarsi i denti.
“Lo sai che Diane Colfer è mia madre?!”
Dal bagno non provenne alcun suono, solo lo scrosciare dell’acqua del lavandino. Dopo qualche secondo: “Veramente?”.
“Sì!”
“Da quanto lo sai?”
“Da un mesetto più o meno.”
Dopo pochi minuti Mello uscì dal bagno asciugandosi il viso e osservandolo, sulla soglia, con aria stranita. “Perché non me lo hai detto prima?”, domandò con aria leggermente contrita.
Matt si strinse nelle spalle. “Non lo so. Cosa dovrei fare?”
“Vai a par… E’ per quello che non le parlavi più?”, domandò Mello con sguardo allucinato. L’amico assunse un’aria talmente colpevole che non ci sarebbe voluto l’intuito di Mello per capire quale fosse la riposta. “Che coglione!”, commentò l’amico. “Lei lo sa?”
“Sì.”
“Che due coglioni.”
“Non parlare di mia madre a quel modo!”, lo ammonì Matt puntandogli contro un indice. Mello ridacchiò, infilò pantaloni, maglietta e uscì dalla stanza. “Hey guarda che dico sul serio!”, fece in tempo a gridargli Matt. “Porta rispetto!” Sbuffò quando il ragazzo si chiuse la porta alle spalle senza rispondere, e si gettò ancora sul letto.
Perché non voleva parlarle? Diciamoci la verità, si disse. Perché aveva ritrovato la madre che credeva perduta, introvabile per sempre, e non voleva avere rapporti con lei? Be’, la ragione era principalmente una. Diane Colfer era ormai ufficialmente americana, rendeva un servizio agli Stati Uniti non indifferente, lavorava con uno staff di altissimo livello, i migliori che l’America avesse mai visto in tutti i campi. Quindi, se ne aveva avuto la possibilità, perché non lo aveva cercato? Era da diversi anni che lavorava per la CIA. Matt era sicuro che se lo avesse cercato bene avrebbe potuto contattare Watari, e quello non gli avrebbe certo negato di rivedere il suo legittimo figlio. Ma potevo cercarla anch’io. In fondo sono un hacker informatico, si disse Matt nemmeno due secondi dopo. Poi arrivò alla conclusione che per fare ricerche su una persona si sarebbe dovuto incominciare dal suo luogo di nascita, e lui non era mai stato -né aveva manifestato il desiderio di andare- in Irlanda. Lavò così via dalla sua esistenza ogni colpevolezza. Semplicemente, si vedeva ormai nello schema dell’orfano per la vita. Aveva già inquadrato tutta la sua esistenza senza genitori, senza alcun tipo di parentela così stretta e salda. Un amore talmente incondizionato… Orfano. Era quella la sua categoria e non credeva che sarebbe cambiata, non ne concepiva nemmeno la possibilità. Per quel motivo non aveva mai cercato sua madre, o suo padre. Non era curioso averla rincontrata così? Non era stato magnifico? Per sbaglio… per puro caso. Ma ora che l’aveva rincontrata, cosa desiderava fare? Matt se lo domandò per un po’, finché non trovò la vera risposta. Ce n’era solo una.
Il ragazzo si alzò dal letto e s’infilò in bagno. Dopo essersi lavato e vestito uscì dalla stanza e andò a cercare Diane per la casa. La trovò in cucina, in vestaglia, a prepararsi un caffè. “Diane?” La donna si voltò, e quando lo vide parve diventare piccola e insignificante, quasi avesse paura di lui. Non sapeva che a Matt accadeva la medesima cosa nei suoi confronti.
“Sì?”
“Perché non ti cambi? Ti offro una colazione.”
Solo un attimo di silenzio. “Va bene.”
Matt si sedette ad aspettare sul divano. Controllò quanti soldi aveva nel portafoglio. Abbastanza. Guardò fuori dalla finestra. Non riusciva a pensare a nulla di concreto. I pensieri si mescolavano e si sovrapponevano nella sua testa, come tanti pezzetti di carta strappati. Nessun pensiero intero, nessun ragionamento comprensibile o con un filo logico.
Fuori c’era il sole. Era fine maggio e la temperatura aveva iniziato ad alzarsi. Mello aveva cominciato a sfoggiare le magliette senza maniche, Noodle aveva abbandonato i maglioni pesanti, Near indossava ancora abiti integralmente bianchi, ma erano camicie a maniche corte e pantaloncini, L invece si era dato alle magliette senza maniche con i soliti jeans lisi. Matt aveva semplicemente messo via il gilet imbottito e le magliette a righe a maniche lunghe, mentre aveva preso quelle a maniche corte e pantaloncini che gli arrivavano fino al ginocchio. Tuttavia quando Diane Colfer fece la sua entrata Matt si disse che nessuno poteva essere più primaverile di lei: indossava delle scarpe comode aperte e un vestito giallo a fiori che risaltava le sue forme piene e le arrivava al ginocchio. Matt pensò che pareva un sole. Il suo sole. Poteva pensare il suo sole? Ne aveva il diritto? Il suo sole. Il suo sole, il suo…
Il ragazzo si alzò di scatto e si avviò alla porta. “Andiamo?”
“Certo.”
Camminarono in silenzio fino ad un bar molto grazioso. Sedettero ad un tavolo e Matt ordinò una spremuta di arancia, delle uova strapazzate e anche una brioche. Diane prese solo un caffè e una treccia al cioccolato. Matt sorrise. Sono circondato da amanti del cioccolato, pensò. Dopo aver ordinato il ragazzo si mise comodo sulla sedia e poggiò le mani sulle ginocchia, evitando lo sguardo della madre. Ma era lui che, dopo mesi di mutismo, le aveva chiesto di uscire assieme, era lui che doveva parlare per primo. Si schiarì la gola. “Io…” Si bloccò.
“Sì?”, domandò Diane subito. Veloce come il vento, prese al volo la frase di Matt come l’inizio di una lunga conversazione a cuore aperto.
Il ragazzo si schiarì di nuovo la voce. “Io volevo chiederti solo… se ti piace la casa.” Stupido.
“Oh.” Diane Colfer rimase stupita, e forse intimamente delusa. E forse intimamente sollevata. “Sì, sì mi piace molto. La mia camera è spaziosa, e dà proprio sul verde. Insomma, è una bella vista. Poi c’è anche il balcone. E tu?”
“Sì, sì. Sto tranquillo.”
“Non ti da’ fastidio dover dividere la camera con Mello?”
Matt alzò le spalle. “Lo faccio da quando sono arrivato all’orfanotrofio.” Deficiente.
Diane si zittì alla menzione di quel luogo, che celava dietro di sé una serie di storie e di dolori, e di cose non dette, e di segreti. Tutto in una sola parola.
Arrivarono le ordinazioni e la donna cominciò ad occuparsi con insano interesse del suo caffè. “Le indagini stanno andando bene, no?”, buttò lì ad occhi bassi.
“Sì certo. Svolte inaspettate.”
“Quando il caso finirà dove andrà a finire Georgie, secondo te? Se ne occuperà L?”, domandò Diane.
Matt la osservò stupito. “Della bambina? No, no, non credo proprio.”
“No, voglio dire: si occuperà lui di trovarle un posto dove stare?”
“Ah. Non lo so. Potrebbe farlo qualcuno di noi. Forse Near, a quanto pare a lui piace, e anche a Georgie piace Near.” Matt mangiò le uova strapazzate e bevve della spremuta. “Forse una famiglia adottiva, sempre a New York. Spero solo che capiti qualcuno di adatto, insomma... dopo tutto quello che ha passato. Spero che qualcuno la voglia con sé: non ha un curriculum edificante.”
“Io la prenderei con me”, disse Diane convinta, senza pensare.
Matt sorrise amaramente. Non c’era ombra di felicità sul suo volto. “Adesso sì, eh? E’ un buon periodo per avere figli.” Coglione.
Diane arrossì violentemente e abbassò lo sguardo. “Io, io…”
Matt non sapeva perché doveva arrabbiarsi così tanto. Una piccola parte di lui lo faceva apposta.
Forse, se sua madre fosse stata una donna che vendeva fiori, che abitava in una casetta molto piccola e accogliente e che aveva l’hobby di cucinare torte, non gli avrebbe dato fastidio dopotutto. Ma vedere Diane Colfer… Così bella, con una vita così perfetta, con un fidanzato, un cane, un lavoro che gli forniva un reddito più che sufficiente per vivere nella zona di Central Park, in un appartamento che non poteva costare meno di settemila dollari al mese, se non più, era stato come una coltellata nello stomaco. Le viscere di Matt si erano dilaniate e avevano gocciolato sangue ovunque attorno a lui, era rimasto inerme a guardare quella donna bella e perfetta. Ma solo dopo aveva capito il perché di tanto fastidio. Diane Colfer aveva abbandonato suo figlio per una vita migliore. Una vita che non comprendeva lui, una vita felice. Senza di lui. Non avrebbe dovuto, una madre, scegliere prima di tutto per il bene del suo bambino? Che razza di egoismo era quello? Matt non poteva sopportare il peso della verità: la verità che i suoi genitori avrebbero potuto benissimo continuare a tenerlo, facendo certo qualche sacrificio, ma avevano scelto di abbandonarlo perché preferivano loro stessi a lui. Non gli volevano bene abbastanza.
Matt si alzò dal tavolo, lasciò una banconota da venti dollari e se ne andò a passi svelti. Non appena fuori dal bar si mise le mani nei capelli e s’infuriò con sé stesso. Animale che non sei altro! Non ne fai una giusta! Dovevamo fare pace, dovevamo andare d’accordo! Nemmeno due secondi dopo i passi leggeri di Diane lo raggiunsero. Lui si volse stupefatto e si ritrovò a guardare il viso addolorato di sua madre. “Mail! Mail aspetta! Aspetta lascia che ti racconti com’è andata!”
“Non voglio sentire”, disse il ragazzo riprendendo a camminare a grandi falcate, le mani ficcate in tasca e la testa bassa. Diane lo inseguì senza troppa fatica e lo affiancò, mantenendo il suo passo.
“Hai ragione, è stato sbagliato. Noi eravamo stupidi e tu ne hai pagato le conseguenze. Ma adesso che ci siamo ritrovati voglio stare con te! Voglio farmi scusare, io… io…”
Matt si fermò e parlò a voce bassa e sibilante, tentando di nascondere la rabbia che voleva sfogare dando pugni a tutto ciò che vedeva attorno a sé, distruggendo ogni cosa. “Smettila Diane, smettila! Non è una giustificazione valida, non ti scuserò dopo tutti questi anni solo perché mi dici che è stato un errore giovanile. Lo so bene di essere un errore, sono nato per sbaglio. Io non dovrei esistere, sono un cazzo di imprevisto! Uno stronzissimo errore! Ma io c’ero e voi avevate il sacrosanto dovere!, di prendervi cura di me. Cos’è? Ve ne siete andati perché dopo un po’ vi siete stufati? Perché avete capito che non ero come un cane, che ero troppo impegnativo per voi?” Matt puntò il dito indice contro Diane, che nel frattempo si era fatta minuscola di fronte a lui e lo ascoltava terrorizzata, senza riuscire a staccare gli occhi da Matt, senza profferire parola e senza poter impedire agli occhi di cominciare bruciare. “E’ per colpa vostra che sono vissuto in un orfanotrofio per tutta la vita. Perché, cosa facevo? Infrangevo i vostri sogni? Non avreste potuto diventare medici con un figlio come me? Non avreste avuto una grande carriera da avvocati? O da agenti della CIA? Tu…” la mano di Matt tremò, stretta a pugno lungo i suoi fianchi, il suo viso si contorse in una smorfia, “non hai idea di quanto io vi volessi bene, e di quanto mi siate mancati. E di come vi perdonassi prima di incontrarti. E non hai idea dell’inferno che ho passato chiuso in un cazzo di orfanotrofio!” Gli occhi di Matt ormai lacrimavano senza ritegno, la gente che passava di lì lo osservava come si guarda uno squilibrato. “E’ stato una merda senza di voi, va bene? E credevo che per voi fosse lo stesso! Invece adesso scopro che volevate solo liberarvi di me, e che non ve ne fregava un cazzo. Pensavo…”, Matt rise amaramente, abbassando lo sguardo e stirando le labbra senza allegria, “pensavo che non poteste più mantenermi e aveste deciso di lasciarmi alle cure di chi poteva. Che stupido coglione.” Matt prese fiato e si asciugò le lacrime con il dorso della mano. Tentò di parlare di nuovo, ma non sapeva che cosa dire. Aveva già detto tutto, aveva già esaurito tutte le parole che poteva dire a quella donna, tirando fuori dei pensieri che lo tormentavano ormai da mesi. Ormai, inconsapevolmente, da anni, e che parevano distendersi molto più in là della sua età.
Diane Colfer era rimasta zitta e ferma tutto il tempo. Non sapeva cosa dire, non sapeva come rassicurare quel ragazzo ormai troppo grande e troppo sconosciuto per poter essere rassicurato da lei. “Mi dispiace”, disse con voce tremula. Allungò le braccia e gli prese il viso fra le mani, toccando la pelle liscia e appena rasata del ragazzo, e guardandolo negli occhi per fargli capire che stava dicendo la verità. “Non accadrà mai più Mail. Non ti lascerò mai più solo.”
Il ragazzo la osservò in viso per un po’, senza capire davvero che cosa avesse detto. Poi Diane lo prese fra le braccia e lo strinse.
Matt si sentì così piccolo, nonostante la superasse di parecchi centimetri in altezza. Era pieno di lei, non era come lo stesse solo abbracciando, ma come se gli stesse entrando nel petto. Non aveva sentito quel calore in corpo se non anni addietro. Si sentì al sicuro, come se non avesse mai più dovuto pensare a nulla. Sua madre era lì, era lì con lui.
Era di nuovo un bambino.




















*I rosa elefanti sono presi dal cartone animato della Disney, potete vede l'inquietante video che ha spaventato Georgie qui

Buondì!
Allora, questo è il capitolo che tanto fremevo per postare, come vi ho spiegato nello scorso spoiler. Ci sono un po' di cose che vorrei dire, la più scema delle quali è di sicuro che adoro vedere L che canta la canzone degli elefanti rosa! xD
A parte questo, vorrei spendere due parole per Near, una volta ogni tanto. Come avevo già detto quando ho iniziato questa fanfiction, tutti i personaggi compiono un certo percorso, e Near non ne verrà certo esulato: il suo rapporto con Georgie è molto importante, lei riuscirà infatti a dargli qualcosa che Near credeva ormai perduto, ma non voglio ancora anticiparvi nulla, e questo tema verrà approfondito nei prossimi capitoli.
La visione della vita di Georgie, il fatto che creda che i ragazzi della Wammy's House, Noodle e Diane, rimarranno per sempre con lei, è magari un po' triste dato che noi sappiamo che non è così, ma siccome Georgie è ancora piccola ho pensato che poteva immaginare qualcosa del genere. Mi mette un po' di tristezza a pensarci, ma in questo capitolo va così u_u
Infine, Mello e Diane! Ho letto e riletto fino allo sfinimento il monologo di Matt quando esce dal bar, e vorrei proprio sapere che ne dite voi lettori =) Personalmente, adoro questo capitolo, soprattutto per la sfuriata/confessione di Matt. Non so nemmeno che altro dire a proposito di questo, spero che sia piena zeppa di emozioni, perché io ho cercato di renderla tale, è uno dei nodi della fanfiction.
Be', ditemi un po' cosa ne pensate!
Intanto ecco il link allo spoiler del prossimo capitolo. E per oggi basta così.
Patrizia

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Capitolo 14
*** The undead boy ***


Capitolo tredici
The undead boy





Light Yagami era risorto nemmeno un anno dopo essere morto di arresto cardiaco per mano dello Shinigami Ryuk. Ricordava tutto ciò che era avvenuto durante la sua ‘vita passata’: il ritrovamento del Death Note, l’incontro con Ryuk, la decisione di ripulire il mondo dal male, l’inizio della sua vita da Kira. Poi l’incontro con L, le indagini su di lui, la rinuncia del Death Note e lì!, era lì che qualcosa era andato storto! L aveva scoperto dei particolari che lui, Light, aveva tralasciato, aveva parlato con Rem, le aveva promesso che non avrebbe fatto del male a Misa, e che anzi, avrebbe fatto in modo che rimanesse al sicuro per il resto dei suoi giorni. Dopotutto, lui era L. Poteva smuovere le masse con una sola parola. E quello stupido Shinigmi ci aveva creduto, e gli aveva confessato ogni cosa. L aveva capito in anticipo il suo piano: dopo aver parlato con Rem aveva avuto molte informazioni in più riguardo al Death Note e aveva intuito cosa voleva fare Light. Le regole false del quaderno erano state il punto debole del ragazzo, e sicuramente l’amore che Rem provava per Misa non aveva giocato a suo vantaggio. L aveva agito di conseguenza alle sua scoperte. Con la promessa di Misa al sicuro lo Shinigami era a completa disposizione del detective. Con l’aiuto di Near, per di più, che molto probabilmente lo aveva aiutato in decisioni e intuizioni vitali, avevano finito per incastrarlo, e trovare delle prove che non mettevano più in dubbio la sua colpevolezza. Lui era Kira. Dopo di che Ryuk, come aveva già avvisato tempo addietro, una volta giunta l’ora di Light aveva scritto il suo nome sul suo Death Note. Dopo quaranta secondi l’ossigeno non aveva raggiunto il cuore a causa di una contrazione errata dei muscoli, dopo altri dieci secondi era morto.
Non ci era voluto, in tutto, nemmeno un minuto perché Light Yagami smettesse di respirare.
Quando era tornato in vita si trovava nel cimitero dove era stato sepolto. Fu come svegliarsi da una profonda ma confusa dormita, come se fosse andato a dormire alle dieci di sera e si fosse svegliato qualche ora dopo credendo che fosse già mattino. Si sentiva confuso, non capiva cosa fosse successo, non sapeva esattamente se ciò che viveva era realtà o finzione. Forse quello che vedeva era un altro Mu. Era un’altra facciata del Mu, il luogo in cui era finito alla morte. Non vi era nulla in quel luogo: solo lui e il deserto. Non esisteva il tempo, così gli pareva di essere lì da secondi, o da anni interi. Forse quel cimitero, con la sua lapide grigia al tramonto del sole, non era altro che uno scherzo di cattivo gusto di quegli Shinigami che tanto si divertivano a giocare con la vita -e la morte- degli umani. Aveva vagato per Tokyo, stupito di scoprirla esattamente com’era da quando l’aveva lasciata. Non sembrava il Mu. Infine aveva raggiunto, con gambe stanche, la sua vecchia casa. Vi era un’altra famiglia. Immaginava che dopo la sua morte i genitori e sua sorella avevano preferito trasferirsi. Ma suo padre sapeva…
In meno di una settimana Light Yagami si era ripreso dall’iniziale stupore dubbioso che l aveva colto quando era tornato in vita, e aveva effettuato ricerche sulla sua famiglia. Aveva trovato la loro nuova abitazione e avvicinato suo padre. Senza farsi vedere in viso gli aveva estorto informazioni sul Death Note e su L. Ovviamente Yagami-san non sapeva nulla di significativo, ma credeva che L fosse in Inghilterra, assieme a Near, ed era sicuro che il Death Note fosse rimasto a lui. Nessuno degli agenti lo aveva voluto tenere, e comunque di sicuro L non avrebbe permesso a nessuno di loro di tenerlo. Dopo avergli estorto tutte le informazioni possibili Light aveva lasciato andare suo padre e non aveva più cercato di contattare in alcun modo i suoi consanguinei. Si era procurato dei documenti falsi, aveva prelevato tutti i soldi dal suo conto, che per qualche ragione i suoi genitori non avevano ancora chiuso, e ne aveva aperto uno nuovo a nome di Eikichi Kazuro. Stava per andare in Inghilterra. Aveva bisogno di soldi e voleva trovare un lavoro redditizio. In fondo aveva una laurea da far invidia a chiunque, certo quella di Eikichi Kazuro era del tutto falsa, ma le sue conoscenze erano vere e bastava poco per testarle. Una volta viste le sue capacità nessuno avrebbe più fatto caso ai suoi studi, le grandi aziende se lo sarebbero conteso. Forse quella era un’altra possibilità che gli era stata donata: forse poteva ancora salvare il mondo dal male.
Per puro caso aveva letto un libro del dottore americano Yann D. Carter, ‘Esempi di schizofrenia infantile’. Vi aveva trovato un caso molto interessante. Un paziente del dottore aveva manifestato visioni, la piccola paziente vedeva mostri e sapeva quando la gente sarebbe morta. Questo aveva attratto Light come le api lo sono dal miele. Aveva cambiato il suo volo da Tokyo a Londra con uno diretto a New York. Era andato a trovare il dottor Carter, dicendogli che era uno studente di psicologia, e si era detto molto interessato al suo libro. Yann Dimitri era rimasto molto lusingato, e si era lanciato con entusiasmo in spiegazioni, in racconti e in analisi di cartelle cliniche. Quando era arrivato a quella di Georgie Jonsson, Light aveva semplicemente memorizzato il suo nome. Dopo aver fatto alcune ricerche e aver guadagnato diversi dollari grazie alla risoluzione di alcuni casi in America e furtarelli informatici a qualche malcapitato malvivente (dopotutto era per il bene superiore*), aveva affittato una villa, ingaggiato Dayo, e rapito Georgie Jonsson. Poi aveva pensato a come contattare L. Non aveva la minima idea che la ragazza che aveva rapito, Noodle, fosse una di loro, sapeva solo che qualcuno era sulle sue tracce. Aveva risentito il dottor Carter, e questi gli aveva accennato ad un incontro con due detective, un uomo e una donna. Light aveva cercato di sapere di più, ma quando il dottore aveva cambiato argomento non aveva più domandato nulla, se non altro per non far nascere in lui dei sospetti. L’unica persona che avrebbe accettato di collaborare con lui e che i detective dovevano per forza interrogare, era Francy Newman. L’aveva trovata e, in cambio di denaro, aveva fatto appostare Dayo nella sua casa per due settimane quando finalmente due detective, un uomo e una donna, erano andati a bussare alla sua porta.
Sarebbe stato meglio però non rapire mai quella ragazza. A causa della negligenza di Dayo era riuscita a mettersi in contatto con L e gli aveva svelato il suo piano. Così era andato tutto a monte! Light aveva il Death Note adesso, ma non aveva più Georgie, non aveva più gli occhi dello Shinigami. Quando aveva saputo di Georgie Jonsson era rimasto estasiato all’idea di poterla avere con sé. Avrebbe risolto molti problemi facilmente. Non avrebbe mai dovuto effettuare lo scambio degli occhi e non avrebbe mai dovuto convincere qualcuno a farlo per lui. Inoltre il fatto che i suoi personalissimi Occhi dello Shinigami fossero una bimba di appena sette anni andava assolutamente a suo favore: i bambini sono molto più semplici degli adulti, e nulla gli impediva di adottare Georgie legalmente.
Quando era fuggito con Ryuk al seguito, dopo essere passato per la casa e aver preso tutto il necessario, lo Shinigami, dal retro dell’auto, gli aveva ancora una volta rammentato una delle regole fondamentali del quaderno della morte. “Light, puoi sempre fare lo scambio tu stesso.”
“No, Ryuk. A cosa servirebbe diventare Kira per poi morire subito? Non avrebbe alcun senso.”
“Potresti richiamare Misa.”
Light rimase un secondo zitto. “Richiamare?”
“Puoi cancellare il suo nome dal Death Note. In questo modo tornerebbe in vita.”
“E’ così che anche io sono tornato?”, domandò Light senza smettere di guidare, imboccando l’autostrada.
“Probabilmente sì, è l’unico modo. Ma non so chi sia stato a farlo, io no di certo.”
“Non ne ho dubbi Ryuk.”
Lo Shinigami ridacchiò con un brutto suono gutturale. “Il mio vecchio quaderno era finito, ne ho avuto uno nuovo.”
“Quindi non hai idea di chi possa essere stato?”
“Assolutamente no.” Rimasero un po’ in silenzio. “Quindi niente Misa?”
Light sbuffò. “Per carità! Misa causava più guai che altro. Ho bisogno di una persona intelligente, che capisca al volo e che rispetti i miei comandi. Il guaio è che una persona così, difficilmente rinuncia a metà della sua restante vita.” Light rimase ancora pensoso. “E’ passato poco più di un anno dalla scomparsa di Kira, ma avrà ancora qualche fedele seguace, no?” Ryuk si strinse nelle spalle. “Sicuramente, è stato un fenomeno di portata mondiale, è passato come un terremoto per tutto il mondo. Dovrei trovare un seguace di Kira disposto a sacrificarsi, qualcuno di adatto. Comunque, ho bisogno anche di sapere qualcosa a proposito di L e Near, e tutti quegli altri che lavorano per lui. Assieme sono pericolosi.” Light rimase per un attimo in silenzio. “Ryuk sei ancora così sicuro di non volermi dire proprio nulla?”
Ryuk ridacchiò. “In effetti ho dato un piccolo aiuto alla squadra avversaria. Due volte!** Quindi suppongo di poterlo fare anche con te. L e la CIA collaborano. Oltretutto, credo che tu possa trovare informazioni su di lui alla Wammy’s House, a Londra.”
Light sorrise maligno e accelerò, mentre Ryuk sorrideva soddisfatto. Quelle indagini stavano decisamente prendendo una piega inaspettata. Ryuk non avrebbe mai creduto che un favoruccio per Stephen Tempor potesse trasformarsi in qualcosa di così spassoso.

Roger sedette dietro la scrivania, di fronte a quel ragazzo asiatico dall’aria contrita. “Sì?”, domandò l’uomo con il suo tipico sguardo perennemente preoccupato.
Eikichi Kazuro tirò fuori un tesserino e lo mostrò per pochi secondi all’uomo. Recava il suo nome, un timbro dall’aria ufficiale e il marchio della CIA. “Sono qui per conto di L, lavoro al caso Jonsson assieme a lui, sono uno degli agenti della CIA scelti da lui personalmente. Sono venuto qui per informarla… di qualcosa che è accaduto.” Eikichi Kazuro si umettò le labbra in segno di leggero nervosismo. La sua espressione era vagamente preoccupata e un po’ timorosa. “L non è potuto venire, non si può muovere dal quartier generale, così ha mandato me.” Roger lo ascoltava attentamente, con il forte presentimento di cattive notizie. “Near è morto.”
Roger chiuse gli occhi per un istante e fece un respiro profondo. Inalò aria, poi la ributtò fuori come se così facendo avesse potuto buttare fuori dal naso tutti i suoi dolori. Riaprì gli occhi e disse: “Sono molto dispiaciuto”.
Eikichi Kazuro si torse le mani e guardò altrove. Roger vide che era così giovane e inesperto, provò un po’ di compassione per lui, chissà come doveva essere spaventato e agitato. “Io…”, cominciò il ragazzo incerto, “Mi piaceva Near. A dir la verità non ci ho mai parlato spesso, però era così intelligente! L’ho sempre ammirato per questo”, aggiunse emozionato. “Non sapevo fosse orfano”, concluse con occhi bassi. “Mi dispiace molto.”
Roger si spinse gli occhiali sul naso e giunse le mani sulla scrivania. “Quella di Near è una storia triste, come d’altronde le storie di tutti i bambini qui alla Wammy’s House. Era molto piccolo quando arrivò qui…”
Light aguzzò l’udito e si sporse in avanti, preparandosi ad ascoltare meglio la storia.

Near nacque nell’Inghilterra del sud, in una piccola cittadina che dava sul mare, proprio sulla Manica, per questo i suoi genitori, spesso, facevano le vacanze in Francia. Erano un avvocato e un’infermiera, entrambi avevano ventotto anni quando avevano avuto Near, e lo allevavano con una cura e un amore tanto grandi da colmare il cuore di Near, fin da bambino, dello stesso amore e della stessa gioia. Near era sempre stato un bimbo esuberante, irrequieto, correva dappertutto e non si stancava mai. Giocava a qualsiasi ora, con chiunque e con qualsiasi cosa. Aveva, in camera sua, due scatoloni colorati pieni di giocattoli, che condivideva senza problemi con i suoi amici quando andavano a trovarlo. Near aveva molti amici, ne aveva un infinità. Li vedeva almeno una volta alla settimana. Andava a casa loro, o loro andavano a casa sua, e c’era sempre qualcuno che, puntuale, alle quattro del pomeriggio preparava loro la merenda. Conosceva tutti i bambini che abitavano nella sua stessa via, anche un paio che abitavano nello stesso quartiere. Al parco giochi giocava con tutti, ma non con le femmine! Perché erano noiose, perché a loro non piacevano gli stessi giochi che facevano i maschi, e perché volevano sempre darti un bacio sulla guancia, e a Near quello faceva proprio schifo!
Già dall’età di tre anni i genitori di Near si erano resi conto, quando lo avevano mandato all’asilo, che il loro figliolo era molto precoce e superava spesso gli altri bambini con facilità. Le maestre lo avevano voluto sottoporre ad un piccolo test che saggiasse la sua capacità logiche e, con il permesso dei genitori di Near, il bambino lo eseguì. Ne risultava un bimbo geniale, e i due coniugi discussero molto sul mandarlo ad una scuola speciale, che l’asilo di Near aveva trovato per loro. La mamma di Near sosteneva che in quel modo sarebbe cresciuto lontano da una vita normale, simile a quella di tutti gli altri bambini, mentre invece il suo papà credeva che fosse un’occasione da cogliere al volo, in modo che Near divenisse subito abile nell’apprendimento, e in questo modo avrebbe avuto il resto della sua carriera scolastica, e anche lavorativa, spianata da ogni ostacolo. Dopotutto, se era tanto dotato, perché non incoraggiarlo? Alla fine, dopo molte indecisioni, Near fu iscritto ad  una scuola privata che comprendeva asilo nido, elementari e superiori, e che proponeva un programma adatto a bimbi con un intelletto superiore alla media, al prezzo di novemila sterline annue, ossia mille al mese, per non contare le tasse di iscrizione, i libri e tutto ciò che poteva servire. Ma i genitori di Near non si lasciarono certo scoraggiare e cominciarono a risparmiare e lavorare sodo per il loro bambino. Si rendevano conto, da ciò che Near faceva in quella scuola, che era un bambino molto dotato, e ogni volta che lo vedevano intento a fare i suoi compiti si motivavano ancora di più. Anche alla nuova scuola Near aveva molti amici, molti bambini con cui parlare di cose interessanti e fare giochi sempre nuovi, assieme anche alle maestre e ai tanti professori che spesso incontravano.
Quando Near aveva sei anni, nel Gennaio del suo primo anno alla scuola elementare, avvenne ciò che segnò per sempre la sua vita. Near era rimasto a casa da alcuni amici dei genitori, perché aveva avvisato che sarebbero tornati tardi. Sua mamma e suo papà avevano fatto la spesa ed erano di ritorno a casa. Erano le 6.22 del pomeriggio, il sole già non si vedeva più da un pezzo e il loro portabagagli era pieno di buste bianche e arancioni. Un’autocisterna sbandò a causa di un’irregolarità della strada e i ganci che tenevano fermo il grosso tubo metallico assicurato dietro al posto del guidatore si allentarono alla prima sbandata. Alla seconda il grosso tubo si mosse, provocandone una terza, nella quale il tubo colmo di un liquido infiammabile si staccò del tutto e rotolò in strada.
Come fu crudele il destino: i genitori di Near capirono perfettamente cosa stava succedendo prima che la loro auto venisse investita dall’enorme tubo, ma non fecero mai in tempo a dirsi addio.

Roger sospirò. “La scuola ci contattò e Near venne trasferito qui, ma non era più lo stesso, secondo le maestre che ogni tanto venivano a trovarlo.”
“Perché?”, domandò Eikichi.
“Non era più esuberante come una volta: era chiuso, non parlava mai con nessuno, non aveva più amici. A sentire ciò che dicevano le insegnati dell’altra scuola, Near era sempre stato un bambino molto vivace, con tanti amici… un bambino nella media. Da quando arrivò qui invece non ne ebbe uno, non uno.”
“Sono morti tutti e due?”
“No, non tutti e due”, disse Roger scuotendo la testa. “La madre morì sul colpo, invece il padre è vivo, ma Near non ha mai manifestato il desiderio di andare a trovarlo.”
“Perché no?”
“E’ in stato comatoso da allora. Sono una decina d’anni ormai. Le possibilità che si svegli sono talmente poche… è impossibile, direi.” Roger abbassò la testa, ed Eikichi lo imitò. Intanto, Light sorrideva.
“Be’, forse è meglio che io vada. Ho un volo per New York fra quattro ore e Dio solo sa quanto traffico c’è in giro”, disse Eikichi alzandosi. Tese la mano e strinse quella di Roger. “Arrivederci signore.”
“Sarebbe stato meglio conoscerci in un’occasione migliore”, osservò Roger con occhi tristi.
“Sì. Dirò ad L che lo saluta.” E così dicendo, Eikichi uscì.
Fuori dall’orfanotrofio Light allungò una mano per chiamare un taxi, entrò nell’abitacolo caldo e disse al conducente: “Alla stazione dei bus”.
C’erano molte città nell’Inghilterra del sud, ma Roger, seppur fosse stato molto attento a non nominare il nome di Near, né dei genitori e tantomeno della città dove abitava o della scuola che aveva frequentato, era inciampato in una mancanza: lo aveva informato che andavano spesso in Francia per le vacanze, indi per cui abitavano sicuramente in una delle città più vicine al blocco europeo. Inoltre questa città doveva essere fornita di una prestigiosa scuola per menti superiori. C’erano principalmente due possibilità: Dover e Deal. Dover era un poco più vicina e aveva anche una rinomata scuola, c’erano più possibilità che fosse lei la città natale di Near così Light decise di provare prima quella. Arrivò a Dover il giorno dopo e, in una cabina telefonica, trovò l’indirizzo di un solo grande ospedale, facilmente raggiungibile da ogni parte del paese. Armato di portatile Light passò oltre le mura dell’ospedale e si collegò alla rete wireless che copriva tutto il territorio. Poté così constatare, tramite una facile infiltrazione nel sistema, che nell’ospedale erano ricoverati due uomini entrati in coma in seguito ad incidente circa dieci anni prima: Thomas Cadilly ed Anthony River. Si trovavano entrambi nella stessa camera, la numero 31 del reparto di lungodegenza. Light si diresse a passi svelti e passò lungo l’intero ospedale per giungere a quel reparto. Cercò la camera, eludendo la non troppo stretta sorveglianza delle infermiere, ed entrò nella stanza. C’erano solo due uomini, e uno lo escluse subito: doveva essere di origini africane. All’altro diede una breve occhiata e prese la cartella clinica che stava ai piedi del suo letto: Antony River.
Perfetto, non aveva  più bisogno di restare lì. Light uscì dalla stanza e un dottore lo riprese. “Signore! Non è orario di visite, mi spiace, deve andarsene.”
Light si girò e disse con tono affabile: “Mi scusi dottore, sono nel posto sbagliato. Dove si trova il reparto pediatria?”.
“Deve uscire da questo edificio e andare a destra. E’ il terzo da qui, se non sbaglio, cerchi il numero 7.”
“Grazie mille dottore.” Light si avviò e seguì le indicazioni fino ad uscire dall’ospedale. Da lì prese un taxi e si fece portare al motel più vicino, dove affittò una stanza e cominciò le ricerche. In poco tempo scoprì che Anthony River era stato un avvocato di grande successo negli ultimi anni ottanta e nei novanta, vincendo non meno di trentasette cause; molte, per la sua giovane età. Aveva sposato una donna il cui nome da ragazza era Jackie Obate che, quando si era sposata, aveva cambiato il suo cognome in River. I due, dopo quasi quattro anni di matrimonio avevano avuto un figlio, Nate River.
Dalle sue spalle Ryuk lo osservava. “Ucciderai Near adesso?”
“No”, disse Light.
“No?” Lo Shinigami parve curioso.
“Non subito. Ho bisogno di Near per poter avere il nome di tutti coloro che lavorano per L. Se collabora con la CIA è possibile che molti agenti sappiano del Death Note, e vorrei sbarazzarmi di tutti prima di tornare ad essere Kira.”
Light rimase un secondo in silenzio, il mento appoggiato alla mano. “Devo solo capire come fare, ci vuole un piano senza falle.”

Mello e Noodle stavano seduti sul divano con dei grossi cuscini sulla pancia, guardando di fronte a loro la parete divisoria della cucina. Era da cinque giorni che stavano assieme, ma l’unico che lo sapeva era Matt, che però non si era dato la pena di dirlo a nessuno. Da quando era andato con sua madre a colazione, durante la quale nessuno sapeva che cosa fosse successo o cosa si fossero detti, erano sempre assieme. Preso da questa ritrovata famiglia Matt, che a dispetto delle apparenze era uno dei peggiori pettegoli che Mello conoscesse, non si era assolutamente curato di raccontare a nessuno quel che l’amico gli aveva svelato riguardo alla sua neonata relazione.
“E se andassimo a bere qualcosa?”, propose Noodle.
“Sono d’accordo.” I due ragazzi si guardarono per qualche secondo, poi avvicinarono i visi e si scambiarono un bacio. Non passarono neanche due secondi, non ebbero nemmeno il tempo di assaporare l’uno le labbra dell’altro, che una vocetta acuta e divertita si alzò nella casa, raggiungendo ogni angolo e informando tutti gli abitanti del loro misfatto.
“Noodle e Mello si amano! Noodle e Mello si amano! Si stanno baciando, si stanno baciando in salotto!” Georgie corse su per le scale quasi a quattro zampe, entrò prima nella camera di Matt, intento al computer. “Noodle e Mello si amano, si stanno baciando in salotto”, annunciò trionfante come in una cantilena.
Matt fece un piccolo ghigno divertito. “Ma davvero?”
“Sì, sì. Li ho visti io, in persona”, disse Georgie annuendo vigorosamente e mostrando la candida, piccola dentatura. Poi corse via, dicendo: “Vado a dirlo agli altri!”.
“Sì brava, dillo a tutti!”, le gridò dietro Matt.
La lieta novella raggiunse Near, che non fece commenti, Diane, che disse ‘Oh! Ma che bella notizia!’, ed L, che replicò ‘Lo supponevo.’ Poi, come se i due interessati non fossero già al corrente della cosa, Georgie li raggiunse con un sorrisetto furbo in viso. “Perché vi date i bacini con la bocca aperta?”, domandò.
Noodle sgranò gli occhi e Mello, incerto su cosa rispondere, sbottò soltanto: “Va’ a chiederlo a Near”. La bimba lasciò la stanza, poi Mello scoppiò a ridere.
“Cosa c’è?”, domandò Noodle guardandolo.
“Chissà cosa le dirà Near”, disse Mello senza riuscire a smettere di ridere.
Noodle ridacchiò, poi disse: “Hai mai visto un incontro di boxe dal vivo? Con dei professionisti?”
“No.”
“Dovresti. S’imparano un sacco di cose.” Noodle sorrise proponendo: “Perché non andiamo a cercare i biglietti per un incontro?”.
“Hai assolutamente ragione, dovrei vederne uno”, disse Mello alzandosi. Forse non era il classico appuntamento romantico, ma a loro piaceva.
Mello non riusciva a capacitarsi di quello che stava succedendo. Non gli era mai capitato di essere così emozionato per una ragazza. Certo non poteva fare troppi paragoni siccome aveva avuto due ragazze in vita sua, o una e mezzo, come amava precisare Matt -che Mello considerava alla stregua di un libertino in confronto a sé stesso. In quei pochi giorni tuttavia si era sentito felice come non mai. Si alzava la mattina ed era felice senza un’apparente ragione, la cioccolata era più buona, il sole fuori splendeva più forte, non faceva troppo caldo e ogni cosa sembrava al proprio posto. Con la mente era altrove. Si ritrovava a cercare qualcosa senza più ricordarsi cosa, qualcuno gli parlava ma lui non recepiva subito la sua voce, una volta stava quasi per perdere la fermata della metro perché pensava ad altro. Stranamente, Mello paragonava quella felicità alla fatica che faceva quando si dedicava alle indagini, anche se le due cose erano ben diverse. Ma Mello aveva una visione particolare: quando le indagini erano difficili lui era sempre più abbattuto, ma per sua natura s’impegnava di più, e prima o poi qualche risultato arrivava. Era stato così anche con Noodle: all’inizio non capiva chi fosse, poi l’aveva conosciuta più a fondo, aveva vissuto con lei e ne aveva imparato a memoria tutte le maniere di muoversi, di parlare e di pensare. Aveva tentato di avvicinarla e, sebbene all’inizio la ragazza non lo vedesse che come un amico, alla fine qualche risultato era arrivato.
Noodle si stava mettendo la giacca mentre Mello cercava le sue chiavi di casa, in quel momento però L sbucò all’entrata e li osservò con occhi tondi. “Uscite?”
“Andiamo a vedere un incontro di boxe”, disse Noodle. L li osservò e fece segno di no con la testa. “Perché no?” Mello abbandonò la ricerca della chiavi e si volse verso il detective.
“Riunione generale, andiamo in cucina. Ho appena finito di preparare una torta alla panna”, annunciò L con solennità.
“E cosa c’entra?”
“Non c’è riunione senza cibo. Come credi si possa pensare bene se non c’è carburante per il cervello?”, domandò il giovane picchiettandosi l’indice su una tempia con l’espressione di chi dice ovvietà ad uno sciocco. E così dicendo si defilò. I due ragazzi si scambiarono un’occhiata, poi lo videro passare con diversi piattini, tovaglioli e cucchiaini diretto al tavolo.
Noodle sospirò e tolse la giacca. “Immagino che rimanderemo.”

Al piano di sopra uno sconvolto Near fissava Georgie, che gli aveva appena domandato: “Perché Noodle e Mello si danno i bacini con la bocca aperta?”.




















* Il "bene superiore" è ripreso da Harry Potter e i Doni della Morte (non sto a spiegarvi come, quando e dove altrimenti rimaniamo qui fino a domattina).
** Gli aiuti che Ryuk ha dato agli altri, e per i quali vuole 'pareggiare' aiutando Light, sono quelli dati ad Annika all'inizio della fanfiction: 1) le ha detto dove si trovava L; 2) le ha detto chi era L fra tutti quelli che c'erano alla Wammy's House, altrimenti lei sarebbe ancora lì a quest'ora xD

Oh! Finalmente sono tornata! Vi avevo detto che mi avrebbero tolto internet per un po', e infatti eccomi qua con un po' di ritardo.

Light è tornato alla ribalta, e abbiamo visto come ha sfruttato alla grande le due informazioni che Ryuk gli ha dato (quel ragazzo è davvero diabolico u.u). Per quanto lo detesti, preferisco farlo rimanere IC, e purtroppo è abbastanza sveglio da fare qualcosa del genere u.u
Ciò di cui mi preme parlare è ovviamente la parte dell'infanzia di Near. Ovvio che me la sono inventata di sana pianta, e siccome Near mi sembra un ragazzo alquanto incasinato, ho pensato che qualche tristissimo trauma infantile avrebbe potuto renderlo così com'è. La sua vita non poteva essere tutta rose e fiori, siccome è orfano, ma, per contrasto agli altri due (Matt e Mello), che hanno avuto infanzie tristi ma bene o male lo hanno superato, lui al contrario ha avuto un'infanzia felice, e forse è proprio per questo che non riesce a lasciarsela alle spalle. Al contrario degli altri ha abbandonato un futuro perfetto, o quasi, per qualcosa di molto ma molto peggio.
Ultima cosa: l'ultima frase con un Near sconvolto e una piccola Georgie che indaga sui baci alla francese... mi fa morire dalle risate a pensarci! xD Muahahahah!

A parte questo, cliccate pure qui per lo spoiler e ci vediamo Domenica - questa volta puntuali!
Ciao a tutti e grazie per le meravigliose recensioni che lasciate, siete sempre gentilissimi e così cari *.* Un bacio a tutti quanti!
Patrizia

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Capitolo 15
*** Time is precious ***


Capitolo quattordici
Time is precious





Giovedì 24 Giugno, Hotel Moon
Nate River, 2 Luglio ore 18.25
Il 26 di Giugno, alle ore 10.30 del mattino, si reca all’incrocio fra la 24esima e Wallemby St. Lì incontra un uomo e uno Shinigami ed effettua lo scambio degli occhi con quest’ultimo. Riceve un pezzo di Death Note dall’uomo e, tornato alla sua abitazione, scrive sul foglio tutti i nomi dei suoi colleghi investigatori, ordinando che muoiano esattamente 5 minuti prima di lui, lo stesso giorno.

Sabato 26 Giugno, base operativa del detective L
Near si alzò presto quel giorno, fece la doccia con cura, si lavò, si vestì, prese portafoglio, chiavi di casa e cellulare, e annunciò: “Io esco!”. Nessuno trovò nulla da ridire, sebbene il fatto che mettesse il naso fuori di casa fosse già di per sé una notizia. In meno di venti minuti, Near, pagando un dollaro e venti centesimi per il biglietto della metropolitana, si trovò in Wallemby Street e proseguì a piedi fino all’incrocio con la 24esima. Erano le 10.30 del mattino, il sole già riscaldava la città, e Light guardò il suo orologio da polso quando vide Near arrivare da lontano. Sorrise. Puntuale.
“Near, immagino che ti ricordi di Ryuk e di me.” Light sorrise, e lo Shinigami dietro di lui sghignazzò.
Near li osservò per un secondo con una curiosa espressione in viso che Light non seppe decifrare, ma alla fine annuì e disse: “Sì”.
“Allora suppongo che tu sia pronto. Ryuk?”, disse Light sorridendo malevolo, gettando un’occhiata allo Shinigami.
“Eccomi”, disse Ryuk avanzando. “Desideri fare lo scambio degli occhi con me, Nate River?”
“Sì”, disse Near senza indugiare.
Per una persona che non poteva vedere Ryuk, c’era solo un bel ragazzo asiatico che parlava con un mingherlino vestito di bianco, un po’ spaesato e dall’aria di non sapere nemmeno dove si trovava.
Quando Ryuk si allontanò da lui si erse in tutta la sua altezza, come stiracchiandosi. Lo Shinigami non li sentiva nemmeno gli anni di vita in più che gli erano stati donati, ma sapeva di averli, perché vedeva la vita di Near ridotta ad un miserabile mucchio di giorni.
Near sbatté le palpebre più e più volte. Osservò il ragazzo di fronte a lui. Light Yagami. Nessuna data di morte. Era normale, dopotutto se Light possedeva un Death Note allora non poteva vedere la sua vita, ma solo il suo nome.
Light sorrise benigno, come se stesse osservando una sua creazione per la quale aveva impiegato tempo e sofferenze. “Nate, prendi questo pezzo di Death Note. Sai già cosa devi fare, non è così?”
Near prese il pezzo di carta, piegato a formare un quadratino, che Light gli porgeva. “Devo scrivere il nome dei miei collaboratori nelle indagini. Tutti.”
“Esatto. Tieni, consegna questa lettera ad L”, così dicendo Light consegnò a Near una busta. Il ragazzo la prese e la mise in tasca. Si volse per tornare a casa sua.

L non fece domande quando Near gli consegnò la lettera. Aprì la busta e lesse:

L,
abbiamo bisogno di incontrarci di nuovo. Vuoi il Death Note, non è vero? Ti darò l’occasione di riprendertelo.
Mandami una risposta alla solita casella postale.
Light

“Non dobbiamo andarci”, disse subito Mello. “E’ una trappola, è chiaro come il sole.”
“Lo credo anch’io”, disse L. “Questo non toglie un fatto.” Tutti lo guardarono, interrogativi. “Light sa dove abitiamo.”
Matt s’irrigidì. “Dobbiamo trasferirci di nuovo?”, domandò. Sembrava un bambino piccolo a cui i genitori hanno detto che deve lasciare gli amici per andare in una città diversa.
“Abbiamo la casa di New York nella quale andare. Dopotutto è ancora nostra. Non credo sia necessario comunque portare troppa roba con noi. Possiamo benissimo portare solo lo stretto indispensabile.” Era come se L sapesse qualcosa che agli altri sfuggiva. Il detective rimase pensoso per qualche istante, poi riprese a parlare. “E’ possibile che Light abbia trovato un altro complice che ci tiene d’occhio. E suppongo che abbia anche trovato qualcuno che ha fatto lo scambio degli occhi, altrimenti non avrebbe mai voluto un altro incontro.”
“Quindi cosa facciamo?”, domandò Noodle sperando in una gloriosa intuizione del famigerato detective.
“Gli diremo che non ci incontreremo, per adesso. Forse è addirittura meglio che lasciamo il paese e continuiamo le indagini altrove”, ragionò L mordicchiandosi un’unghia.
“Come possiamo lasciare il paese se siamo sorvegliati?”, domandò Mello. “Probabilmente conoscono ogni nostra mossa.”
L, pensieroso, si voltò verso la finestra e non disse più nulla. I ragazzi erano abituati alle sue stravaganze, e sapevano che bastava lasciarlo in pace. Diane accennò al fatto che, in vista del ritorno a New York, avrebbe fatto le valigie. Uscirono tutti dalla stanza, ma non senza premurarsi di lasciare bene in vista delle fette di melone su un piattino.
Near, in silenzio, prese un pupazzo e si diresse alla sua camera. A metà strada Georgie lo fermò. Georgie Jonsson, lesse Near. “Near, facciamo il gioco delle macchinine?”, domandò la bambina con gli occhi lucenti.
Near sorrise un poco, ma si trovò costretto a rispondere: “Mi spiace Georgie, ho da fare adesso. Aspetta un attimo, vengo a chiamarti fra qualche minuto. Tu prepara tutto”.
Georgie sorrise felice e disse: “D’accordo”, correndo via verso la sua cameretta.
Near entrò in camera sua e chiuse la porta a chiave. Prese una biro nera dalla scrivania, si sedette sul letto, e pensò. Diane Colfer, quello lo sapeva già, così come Annika Tempor. Mail Jeevas, un nome quanto mai appropriato. Mihael Kheel, lui preferiva Mello. E, per ultimo, ma non per questo meno importante -anzi, era quello fondamentale: L Lawliet. Near sorrise: L. Li aveva fregati tutti con quel suo nome strano. La gente cercava di scervellarsi per scoprirlo e alcuni si chiedevano: inizierà con la L? Magari c’è una doppia L? Near scosse la testa, ancora sorridendo.

Si recano ad un incontro il 2 Luglio e muoiono alle ore 18.20

Non era stato difficile, si disse Near. Si alzò, aprì la porta della sua stanza e uscì in cerca di Georgie.

Domenica 27 Giugno, base operativa del detective L
L si svegliò di soprassalto, diede un’occhiata in giro e vide che era ancora tutto buio. Si stropicciò gli occhi, si stiracchiò e si alzò. Guardò l’orologio appeso al muro. Erano le 5.02 del mattino. Avevano deciso che il giorno dopo sarebbero partiti per New York, non gli ci sarebbero voluta più di una giornata. Andò in cucina e aprì le persiane, facendo entrare quel blu leggero del mattino. Si preparò un tè e si tagliò una fetta di torta, poi sedette al tavolo della cucina e, immerso nel silenzio, di fronte alla finestra aperta, aspettò che gli altri si svegliassero, osservando il mondo che si riempiva lentamente di luce e che iniziava una nuova giornata nella parte nord occidentale del globo.
I primi rumori che udì furono quelli della strada, le prime macchine che passavano, poi qualche leggero passo sul marciapiede. Udì gli uccelli svegliarsi dal sonno e cominciare a rumoreggiare lungo gli alberi dei giardini del vicinato. Poi cominciò a sentire i primi rumori in casa. Di sicuro Diane, poi veniva Noodle, in seguito Georgie, che irrimediabilmente svegliava Near, poi Mello e infine Matt, che si svegliava tardi perché passava tutte le notti al computer o davanti ai videogames. Circa mezz’oretta più tardi Diane e Noodle comparvero sulla porta.
“Buongiorno”, disse la donna sorridendo, vestita di tutto punto e già con gli occhi bene aperti.
“Ciao”, disse Noodle sbadigliando, ancora in pigiama, con gli occhi gonfi e i capelli spettinati.
“Buongiorno”, disse pacato L.
Nessuno parlò più, e Noodle e Diane si prepararono un caffè, tirarono fuori i biscotti, la torta e i panini dolci, e sedettero a mangiare in silenzio. Dopo qualche secondo di esitazione L alzò lo sguardo e disse: “Ho cambiato idea. Credo che dopotutto ci convenga incontrare Light-kun. Dobbiamo sapere cosa vuole, dice che vuole ridarmi l’opportunità di riprendermi il mio Death Note”. L rimase in silenzio, mentre Diane lo osservava con la fronte corrugata. “Di sicuro vorrà dettare delle condizioni, prima di rifiutare dobbiamo almeno sapere che cos’ha in mente.”
“E’ una trappola, come ha detto Mello. Sarebbe lo stesso buttarsi nella tana dei leoni”, osservò Noodle.
“Light ha un piano che non andrà a nostro favore, questo è sicuro, ma con la fretta con cui l’ha redatto sono certo che ci sia una falla da qualche parte”, disse L. “Ormai lo conosco. E’ un personaggio impulsivo, non pensa realmente alle conseguenze di ciò che fa, o almeno non ne analizza tutti gli aspetti: immagina che le cose vadano solo nel verso in cui fa comodo a lui.”
Noodle e Diane rimasero pensose. Poco dopo scesero in cucina Georgie e Near, quest’ultimo con aria spenta e stanca. Quando anche Mello fu sceso L gli intimò di svegliare Matt e di venire di sotto a fare colazione assieme. Il ragazzo non se lo fece ripetere -erano ordini di L- e trascinò giù dal letto l’amico. Quando tutti furono seduti, nonostante Diane e Noodle fossero già a conoscenza della decisione del detective, L ripeté la notizia con cautela. Le reazioni furono varie. Matt si strozzò con il caffè amaro, mentre Mello si fermò a metà di un morso di cioccolata per osservare L rapito -era sicuro che dietro ci fosse un piano perfetto, non poteva essere altrimenti-, Georgie continuò a fare colazione senza rendersi conto del silenzio glaciale che era sceso sul tavolo quadrato, invece gli occhi di Near furono illuminati da un breve lampo.
“Perché?”, domandò Matt.
“Come ci muoviamo?”, chiese Mello.
L li osservò tutti con calma. “Organizziamo l’incontro e vediamo cosa ci propone Light”, disse semplicemente stringendosi nelle spalle.
Lo sguardo illuminato di Mello si afflosciò all’istante. “Sì ma… qual è il piano?”
“Ci organizziamo e andiamo.”
Mello corrugò le sopracciglia. Forse quello era uno strano gioco di L per vedere come reagivano lui e Near? Era per caso in corso una silenziosa sfida della quale nessuno dei due giocatori era stato avvisato? Mello non avrebbe perso, così passò all’attacco. “Bene, allora faremo così: suppongo che Light voglia incontrare te e molto probabilmente Georgie, quindi io, Noodle e Diane ci disporremo…”
“No.” L scosse la testa. Mello chiuse la bocca. “Andremo tutti quanti, assieme.”
“Anche Georgie?”, domandò Noodle.
“Anche lei”, asserì il detective. “Qualcuno mi prenda carta e penna, devo scrivere una risposta.”

Light-kun,
nonostante sappia bene che il tuo è un piano, suppongo che non sia ben architettato, per questo accetto la tua richiesta. Mi presenterò assieme ai miei collaboratori dove vorrai, quando lo vorrai.
L

L,
voglio che porti assieme a te Georgie Jonsson, puoi anche bendarla o farne ciò che vuoi, non desidero assolutamente che possa vedere il tuo nome o quello dei tuoi complici, nel caso non li avesse già visti.
Ci incontreremo il 2 Luglio alle ore 18.00 all’Holy Cross Cementary, davanti alla tomba di Louis Capone.
Distinti saluti,
Light Yagami
P.S. Credo che troverai il mio piano formidabile.

Venerdì 2 Luglio, Hotel Moon
La mattina del 2 Luglio Light Yagami si alzò dal letto con la sensazione, o piuttosto la consapevolezza, che quel giorno avrebbe riacquistato molto del tempo perduto nel tentativo di uccidere L. Già si chiedeva cos’avrebbe potuto fare quando, finalmente, avrebbe avuto a completa disposizione sia Georgie Jonsson che il Death Note. Come fare per riprendere il controllo sulla popolazione mondiale. Prima di tutto voleva che tutti sapessero che aveva incastrato e ucciso L, così decise che avrebbe inviato una traccia audio, ovviamente con la sua voce falsata, nella quale affermava di essere tornato e di poter riprendere il potere nel modo più assoluto siccome L era stato eliminato da lui personalmente. Era consapevole del fatto che molti lo avrebbero giudicato uno scherzo, ma quando i criminali sarebbero incominciati a morire di nuovo, allora il mondo intero si sarebbe prostrato dinanzi a lui una seconda volta. E nessun L sarebbe mai andato a reclamare giustizia. La seconda cosa che avrebbe fatto sarebbe stato sciogliere la Wammy’s House, era un luogo pericoloso e pieno di occulte macchinazioni contro la sua persona. Poi poteva iniziare la sua crociata di pulizia del mondo dal male.
Verso le undici di mattina Ryuk tornò da una scampagnata chissà dove, osservò Light e rise sguaiatamente. Il giovane lo osservò truce. “Cosa c’è di così divertente Ryuk?”
“Oggi è il gran giorno, non è così?”, disse lo Shinigami con voce gutturale, lo sguardo fisso su di lui.
“Infatti.” Light abbozzò un piccolo sorriso. “Vuoi venire a vedere?”
“Credo di sì”, disse Ryuk. “Sarà interessante.”
“Interessantissimo. Ti spiegherò una volta per tutte come ho fatto a battere L. E’ stato un vero colpo di genio, te lo assicuro. Questa volta non ho tralasciato nulla.”
“Devo ammettere di essere molto curioso.”
“La tua curiosità sarà ripagata Ryuk, piuttosto… Non vuoi salutare L e tutti gli altri per un’ultima volta?” Light accennò un ghigno famelico.
“Sì, mi piacerebbe rivederli”, disse Ryuk pensoso. “Quando?”
“Oggi! Alle 6 all’Holy Cross Cementary. Ci saranno tutti loro, anche Georgie Jonsson.”
“Porterai con te il Death Note?”
“Non lo so, è già tutto fatto. In realtà potrei aspettare qui seduto che L e i suoi muoiano, ma voglio godermi lo spettacolo e prendermi la rivincita che mi spetta.” Light si sedette su una sedia e incrociò gambe e braccia, osservando lo Shinigami che svolazzava in alto.
“Hai detto che hai già fatto. Come?”, domandò Ryuk stupefatto. Lo osservava con occhi stretti e nel frattempo ragionava febbrilmente. Certo lui era uno Shinigami e solo uno spettatore a quel gioco di ingegno e potere, ma sapeva cose che nessun’altro sapeva. Lui poteva vedere le vite altrui anche se questi avevano toccato un Death Note, e si chiese come mai Light nel suo piano, a suo parere perfetto, fosse incappato in una falla. Lo vedeva bene che una falla gigantesca doveva esserci da qualche parte, lo vedeva solo guardandolo in viso…
“Be’, come sai sono andato a cercare notizie su Near, e per farlo ho raccontato al direttore della Wammy’s House quella storia sulla sua morte. L si isola quando lavora ad un caso e non vedo perché mai i due avrebbero dovuto sentirsi, per cui il direttore non saprà mai della bugia, e nemmeno L. Ho scovato informazioni su Near e poi l’ho usato con il Death Note. Ho scritto che facesse lo scambio degli occhi, ricevesse un pezzo di Death Note e scrivesse il nome dei suoi collaboratori, L compreso, in modo che morissero esattamente cinque minuti prima di lui.” Light osservò soddisfatto lo Shinigami. “Ho organizzato l’incontro in quel giorno. Mi riprenderò Georgie Jonsson una volta che saranno morti tutti.”
“E’ stato astuto”, osservò Ryuk.
“Grazie mille.”
Light Yagami si preparò ad uno dei più importanti incontri della sua nuova vita, rinnovata per incanto qualche mese prima, in modo semplice ma godendosi la giornata, come se fosse l’ultima della sua esistenza. Mangiò in un ristorante italiano, ordinò pasta alle vongole, bistecca alla milanese e un dolce tiramisù. Poi comprò un nuovo abito, giacca e pantaloni grigi, e una cravatta rosso scuro. Quando tornò nel suo hotel fece un rilassante bagno della durata di un’ora e dieci minuti circa, durante il quale si concesse il lusso di assaporare un vino rosso californiano secco e pungente. Poi indossò una camicia bianca, il completo nuovo e delle lucide scarpe nere. Prese con sé i documenti di Eikichi Kazuro, la sua carta d’identità, la patente e una carta di credito. Da quando aveva recuperato il Death Note il suo conto si era rimpinguato di parecchi dollari. Aveva dato disposizioni a potenti e ricchi criminali perché, prima di morire per malattia o qualche altra strana ragione, versassero cinquecento dollari l’uno su diversi conti bancari sparsi per il globo ed intestati a persone diverse. Erano tutti gestiti da Kazuro Eikichi.
Prima di uscire dalla sua stanza d’hotel il ragazzo fu inspiegabilmente travestito da un brivido freddo. Si fermò qualche secondo, gli occhi fissi sulla moquette senza in realtà vederla. Fece dietro front e prese il Death Note.
Mentre sgusciava nel traffico cittadino di una New York ancora piena di andirivieni, Light pensò al luogo dell’incontro. Immaginava che L avesse realizzato qualche teoria riguardo a quella sua scelta, ma la verità era che l’aveva fatta a caso. L non avrebbe estrapolato alcunché a proposito della sua personalità da quel misero dettaglio. E anche se avesse fatto qualche teoria si sarebbe rivelata sbagliata e inutile. Il destino del detective era già segnato.
Giunse al cimitero Holy Cross con quasi un quarto d’ora di anticipo e sperò di essere arrivato prima degli altri. Voleva dare l’impressione di essere eterno, di essere ovunque in qualsiasi momento. Di essere tale e quale a Dio, la qual cosa, secondo il parere di Light, non era poi molto lontana dalla realtà.
Sedette sopra la lapide di Louis Capone, sopra la quale una madonna di pietra dal viso imperturbato lo invitava a pregare per il defunto, e attese.
L, Near, Diane Colfer, Matt, Mello e Noodle arrivarono sette minuti dopo. Da lontano videro Light, seduto con eleganza sulla tomba di uno dei più famosi e spietati mafiosi New Yorkesi degli anni ’30 e ’40. Ovviamente, L aveva intuito, Light non aveva simpatia per un criminale, ma voleva che la sconfitta finale e decisiva di L, che credeva di realizzare qual giorno stesso, avvenisse di fronte al luogo di sepoltura meno indicato per un detective legato alla giustizia come lui. Era una sorta di dispetto infantile.
Il gruppo si avvicinò e Light Yagami si alzò e andò loro incontro sorridendo affabilmente. “Buongiorno. Credo di conoscere L”, e fece un cenno verso di lui, “Near ovviamente, e Noodle.” Pareva quasi felice, come se quello fosse un incontro fra amici. “Ma non conosco gli altri.”
“Loro sono Mello, Matt e Diane”, elencò L senza espressione. “Tutti miei collaboratori. Allora, mi parlavi di un piano infallibile, perché non me lo racconti Yagami-kun?”
Light sorrise. “Non c’è bisogno di tutta questa formalità. Chiamami pure per nome. Piuttosto, vorrei sapere dove si trova Georgie Jonsson. Il nostro patto diceva che doveva essere qui.”
“In questo momento ci aspetta in macchina.” Mello fece un impercettibile movimento con la mano, tendendo i muscoli e stringendo il pugno destro.
Light alzò le sopracciglia, sorpreso. “Davvero? Non è sano e nemmeno responsabile lasciare un bambino in una macchina da solo per lungo tempo.”
“Veramente non credevamo di metterci molto”, disse Noodle a denti stretti. Non lo dava a vedere, ma fremeva di paura e di rabbia. Se per caso qualche intuizione del detective non fosse stata corretta, allora avrebbe significato la loro morte. Erano stranamente lucidi, pur sapendolo. Ma Mello, Matt e Near si fidavano ciecamente del detective, e tutti e tre lo avevano dimostrato largamente, qualcuno più di qualcun altro. Noodle sperò con tutte le sue forze che L avesse ragione, per poter finalmente vendicare suo padre.
Light sorrise, abbassando lo sguardo. “Infatti”, disse guardando il suo orologio da polso. “Non ci metterete molto, morirete tutti fra sedici minuti esatti.”

Nulla dava a vedere che i sei detective fossero stati minacciati di morte. Nessuno di loro si mosse, rimasero invece a guardare Light Yagami, Kira, senza spiccicare parola.
Alla fine L domandò: “Cosa te lo fa dire?”.
“I vostri nomi sul Death Note scritti da Near.” Gli occhi di L si allargarono ancor più del normale, mentre gli altri si osservavano nervosi. Light ridacchiò di gusto. In quel momento l’ombra di Ryuk, che svolazzava sopra di loro, catturò l’attenzione di Diane e Mello, che alzarono lo sguardo. Noodle fissava invece Light con un odio crescente sottopelle. L rivolse uno sguardo carico di significato a Near e il ragazzo annuì velocemente. Kira non aveva visto quel fugace scambio di sguardi.
L riprese parola. “Allora dicci, come hai fatto a corrompere Near?”
“Ho scoperto il suo nome, e dato disposizioni sul Death Note perché facesse lo scambio degli occhi, ricevesse un pezzo di quaderno da parte mia, e scrivesse i vostri nomi.”
“Quando hai scritto questo?”, domandò L.
“Il 24 di Giugno. Come sai il Death Note dà un margine di 28 giorni per agire.”
L sorrise un pochino. Anche se, certo, era stata tutta fortuna, avevano fatto appena in tempo.

22 Giugno, base operative del detective L
Georgie si infilò sotto al tavolo per andare fuori dalla portata di Mello. Nella fuga urtò il pc di Matt, che assunse uno sguardo terrorizzato ma non fece in tempo a dire nulla, poi Georgie si chiuse nella stanza di Near e si arrampicò sul letto. In mano, il suo premio: cioccolata al latte con nocciole, una delle barrette di Mello. Riuscire a prenderla era stato quasi un suicidio, ma Georgie ci era riuscita. Scartò il dolce e cominciò a mangiucchiarlo.
Mello sbuffò e sedette accanto a Noodle. In quel momento la ragazza stava osservando con occhi nebulosi L e si chiedeva se per caso non avesse sbagliato detective.
L alzò lo sguardo dal suo piatto ricolmo di frutta fresca e disse: “Ho cambiato idea. Credo che Georgie abbia bisogno di un luogo più tranquillo dove stare… e anche noi”, aggiunse alla fine.
“La porterai in orfanotrofio?”, domandò Diane. “Credevo non fosse sicuro.”
“Chiamerò Roger, gli dirò di aumentare la sicurezza della Wammy’s House, poi vedremo di far venire qualcuno a prenderla.” L prese il cellulare e scelse in fretta uno dei pochi numeri facenti parte della sua personale rubrica telefonica.
Dopo tre squilli la voce stanca di Roger rispose con tono stupefatto. “L?”
“Sono io Roger, ho bisogno che tu faccia una cosa.”
“Che cosa?”, domandò l’uomo sempre più stupito. L non lo aveva mai coinvolto nelle indagini.
“Vorrei che aumentassi la sicurezza della Wammy’s House, voglio mandarti una bambina da tenere in custodia. E’ una persona importante, è molto probabile che venga cercata per un rapimento e mi fido solo di te.”
“Ah… va bene, non c’è problema.”
“Ti farò un bonifico bancario non appena posso, prendi tutte le misure di sicurezza che puoi. Quando avrai finito mandami una mail al solito indirizzo e io ti farò arrivare la bambina con qualcuno, o magari potresti mandare tu qualcuno di fidato.”
“D’accordo. L?”
“Sì?”
“So che non potresti dirmelo, soprattutto per telefono, ma… come stanno andando le indagini?” L stava per rispondere a Roger molto gentilmente di farsi gli affari suoi, quando il vecchio aggiunse: “Ho saputo di Near”.
L rimase per un secondo in silenzio, immobile. Che a Near fosse accaduto qualcosa senza che lui lo sapesse? Improbabile. Che Roger sapesse qualcosa prima di lui? Impossibile. Osservò Near con occhi tondi, seduto sul divano a impilare dei dadi. “Che cosa hai saputo?”, domandò lentamente.
“Ho saputo… della sua morte. Quell’agente Kazuro è venuto a dirmi tutto.”
Nella mente di L cominciò a formarsi un sospetto. “Nome?”
“Mi pare Eikichi Kazuro.”
“Quando è stato lì?”
“Tre giorni fa.”
L ragionava febbrilmente. “Che cos’ha detto?”
“Che Near è morto durante le indagini, che è stato assassinato.” A questo punto anche Roger cominciava ad avere qualche dubbio.
“Che cosa gli hai detto?”
“Mi ha chiesto di Near e io gli ho  raccontato di quando è arrivato qui da piccolo e dei suoi genitori.” Ecco. “Che cosa succede L?”, domandò Roger. Il detective non rispose. “L? Pronto?”
L mise giù il ricevitore e osservò Near. “Abbiamo un problema.”




















Buonsalve.
Mamma mia oggi sono andata in collina a raccogliere le castagne, che fatica! Il colmo è che a me le castagne non fanno nemmeno impazzire! Vabbé, a parte questo, che scommetto non ve ne frega niente, passiamo alla fanfiction.

Se qualcuno di voi ha fatto attenzione alle date che ho scritto ad ogni paragrafo allora potrebbe immaginare che cosa succederà nel prossimo capitolo, o per lo meno come si risove la faccenda alla fine. Spero di avervi messo addosso un po' di curiosità, e magari anche un lieve sospetto: che cosa succederà? Ormai i giochi sono fatti, com'è possibile che i detective risolvano la cosa se Light ha già scritto il nome di Near sul suo Death Note, e Near ha scritto i loro nomi di modo che morissero tutti? Insomma, c'è ancora qualcosa da fare? Lo scopriremo... nel prossimo capitolo! No, non è vero, in quello dopo ancora ad essere sinceri (nel prossimo se state bene attenti alle date che ho scritto qui).
Siccome da qui in avanti è un po' contorta la storia, sullo stile di Death Note, se per caso non capite qualcosa ditemelo che non esiterò a spiegarvi ^^

La fanfiction comunque, come avrete già immaginato, sta volgendo al suo termine. Finisce con il diciassettesimo capitolo, e devo dire che è stato come un parto! Anzi, peggio di una gravidanza! Perché questo, fra scrittura, revisione e postaggio è durato ben più di nove mesi! Però sono orgogliosa del mio figlio virtuale alla fine xD
Comunque, per gli sbrodolosi grazie che vi riverserò addosso aspettiamo, perché c'è ancora qualche settimana prima della fine di tutto, quindi rimandiamo le sbrodolosità ad un domani e per ora vi ringrazio in maniera più contenuta u.u
...
Grazie! Grazie! Grazie! *o* Vi amo tutti! Bwahhh! T^T Mi fate commuovere ogni volta che leggo le recensioni, e anche chi non scrive nulla, vi adoro perché avete messo la storia fra le Preferite, o le Seguite, o le Ricordate! Grazieeeee! *ora mi ritiro nel mio cantuccio a vergognarmi per tutta questa scenata*

Ecco qui lo spoiler, e ci vediamo Domenica prossima, ciao!
Patrizia

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Capitolo 16
*** Night is too long ***


Capitolo quindici
Night is too long





Noodle faceva grossi passi per la stanza, mentre Mello la osservava pensieroso con sguardo annebbiato, quasi fosse sotto l’effetto di qualche calmante. Matt lavorava febbrilmente al computer, Diane Colfer osservava Near di sottecchi: nel caso avesse tentato di muovere un solo muscolo in modo sospetto, lei avrebbe agito. L guardava fisso di fronte a sé, perso in un altro universo di calcoli, supposizioni, esempi, eventualità. Appena due secondi dopo la chiamata di Roger, si era scatenato il caos.
Near stava seduto in cucina con una tazza di tè fra le mani. Dava la schiena a tutti loro e tentava di concentrarsi sui granelli di zucchero caduti sul tavolo, piuttosto che su altro.
Matt ruppe il silenzio. “Sono riuscito ad accedere ai dati sensibili di Near in meno di dieci minuti con le informazioni che mi hai dato.”
“Che cosa facciamo quindi?”, domandò Diane con sguardo aspro.
“I rischi sono molti”, cominciò Noodle. “Se Kira ha scoperto il nome di Near vuol dire che potrebbe ucciderlo.” Esitò, dando un’occhiata obliqua a Near. Lui sapeva quali erano i rischi, li capiva forse meglio di lei, quindi era inutile barricarsi dietro false speranze e non parlare chiaramente. “Potrebbe addirittura usarlo per uccidere tutti noi.”
“Conta sicuramente sul fatto che nessuno di noi sospetti nulla a proposito di Near”, osservò Mello.
“Ragioniamo. Purtroppo in questo caso Georgie non può aiutarci: Near ha toccato il Death Note come tutti noi, quindi la sua vita non viene visualizzata, in parole povere non sappiamo se sia già sotto il controllo del Death Note. Dobbiamo chiederci come può agire Light, ed elaborare una strategia”, disse L.
Noodle rifletté per un po’. “Se fossi in lui cercherei di far uccidere te, L. Ma di sicuro non fisicamente. Oltretutto, Kira potrebbe sospettare che tu abbia più di un collaboratore, conosce già Near, ha visto me, Mello e Diane.” A quelle parole Noodle realizzò che cosa significava. Lanciò un’occhiata a Mello e scacciò tutti i pensieri al riguardo. “Non sa quanti siamo, quindi potrebbe credere che siamo tutti qui, o che siamo anche un ventina o una cinquantina, anche se suppongo sappia che tu lavori con una cerchia ristretta di personale.” L annuì. “Ha a disposizione un Death Note e Near.” Finito di ricapitolare, Noodle rimase in silenzio. Non sapeva davvero che cosa pensare né come avrebbe dovuto agire in una circostanza come quella.
Diane fu attraversata come da un fulmine. “Obbligherà Near a scoprire i nostri nomi, per poi riferirglieli!”, disse con semplicità.
Matt si voltò ad osservarla. Ora non aveva assolutamente dubbi sul fatto che Diane Colfer fosse sua madre. Si chinò verso Mello e disse con un sorriso di chi la sa lunga: “Tale figlio, tale madre”. Mello lo guardò come si osserva un cretino.
“Potrebbe farlo facilmente.” Noodle si volse piano verso la donna.
“Noi abbiamo Georgie. Potrebbe obbligarlo a minacciarla e dirgli di svelargli i nomi”, rifletté Mello.
“No, non credo. Se lo facesse noi sicuramente lo verremmo subito a sapere da Georgie stessa, e sospetteremmo di lui”, obbiettò Noodle. “Light userà Near nel modo più discreto possibile, lui ha pieno accesso ad ogni cosa qui, ed è di questa sua peculiarità che Kira si servirà, no?” Molto raramente Mello era felice quando veniva contestato su qualcosa ma, osservando Noodle, pensò che quella volta in particolare valeva la pena di essere contraddetti.
“In effetti Near può uscire ed entrare quando vuole”, osservò sommessamente Diane.
In quel momento, Mello si illuminò. “Near farà lo scambio degli occhi.”
Ogni testa si volse a guardarlo, tranne quella di Near. Per la prima volta, pensò il ragazzino seduto al tavolo della cucina, in un auto-isolamento quasi totale, Mello ha preso in considerazione un’ipotesi a cui non avevo pensato. Near sorrise.
“In questo modo l’unica maniera per tutelarci sarebbe cacciare Near immediatamente”, disse Diane Colfer. “So che non è il tuo modo di fare L, ma…”
“E’ un modo di fare molto usato dalla CIA”, disse il ragazzo pensieroso, guardando il soffitto con un indice sulle labbra. “Possiamo fare una sola cosa, usare le stesse armi di Light.”
“Il mio Death Note!”, esclamò Noodle. “Lo useremo? In fondo sappiamo che Light Yagami è Kira, possiamo semplicemente scrivere il suo nome adesso, e poi il caso sarebbe chiuso.” Noodle si guardò attorno, cercando l’approvazione degli altri. Sembravano non trovare obiezioni.
“Questo non è possibile”, disse Near pacato. Si alzò dalla sedia, mise la tazza di tè e il cucchiaino nel lavabo, lo zucchero al suo posto sulla mensola. Si voltò verso i suoi colleghi. “Una volta scritto qualcosa su un Death Note, anche se questi viene distrutto, si verificherà. Non possiamo sapere se Light ha già scritto qualcosa sul suo Death Note, in quel caso sarebbe ormai troppo tardi. Morirebbe Light, sì, ma anche tutti noi.”
“Ma se noi tratteniamo Near in modo che non s’incontrino mai sarebbe per lui impossibile fare lo scambio degli occhi…”, osservò Diane a denti stretti. In quei casi di pericolo era abituata ad agire, non riusciva a comprendere per quale motivo i detective si ostinassero a non fare nulla.
“Potrebbe essere una soluzione, ma in questo modo non sarete mai sicuri di aver vinto prima che non sia passato un mese, dato che, come sapete, quello è il margine di tempo in cui si può utilizzare un Death Note. E’ possibile che ormai io sia destinato, in qualche modo, a fornire le informazioni a Light, così avrebbe altri nomi da associare ad altrettanti volti, e potrebbe comodamente usarli come userà, o come ha già usato, me.” L lo osservò con curiosità, attento ad analizzare ogni sua parola. Sospirò senza farsi notare: Near era davvero un buon detective. “Insomma, se anche io muoio non potete avere la garanzia che io non abbia detto niente.”
“Ma avremmo la garanzia che Kira sia morto. Non basta?”, domandò Noodle piccata, ma venne ignorata.
“E cosa dovremmo fare?”, domandò Matt allargando le braccia. “Non vedo altra soluzione Near, mi dispiace. E poi è solo un mese, possiamo aspettare.”
“Noodle ha ragione. Noi abbiamo un Death Note e possiamo benissimo usarlo.”
“Quale sarebbe il vantaggio?”, chiese Mello con sagacia.
“Uccideremo Light Yagami per prima cosa, questo è certo. Ma potremmo anche rivoltare il suo stesso piano contro di lui. Vedete, molto probabilmente Light mi farà fare lo scambio degli occhi, poi farà in modo che io gli riferisca i nomi. Vorrà incontrare di nuovo L, gli serve soltanto per umiliarlo, per spiegargli il suo piano e dimostrargli che lui è il migliore. Ma la cosa più importante è che non sa dove sia Georgie Jonsson, e se organizza un incontro potrà riprendersela.”
“Quindi, perché noi dovremmo attenerci a questo suo stupido piano? Uccidiamolo subito”, insistette Noodle.
“No”, disse L. “Chiederò a Light di portare il suo Death Note, nel caso mi contattasse. Ecco cosa succederà nel piano di Kira. Light darà ordini a Near per sapere i nostri nomi, Near li eseguirà, ci recheremo all’incontro che sicuramente avrà programmato. Lui si libererà di noi e potrà riprendersi Georgie Jonsson. Ma… se noi scriviamo il suo nome, comunque sia Light morirà, rimane solo un interrogativo: adesso Near è sotto le sue direttive?” Tutti, istintivamente, si volsero verso il ragazzo. “Non possiamo saperlo con certezza, quindi è possibile che tutti noi moriremo a quell’incontro.” Un brivido si diffuse lungo le schiene di tutti i presenti, compreso l’inespressivo detective L. “Per cui, all’incontro, ordineremo che Light porti il Death Note, faremo in modo che muoia prima di noi, e in questo modo bruceremo subito i due quaderni. Altrimenti nel caso morissimo e riuscissimo a bruciare solo il nostro ne resterebbe almeno un altro sulla terra, quello di Light.”
“Chi scriverà sul quaderno?”, domandò Noodle.
“Lo farò io”, disse Near.
“No lo faccio io”, obbiettò la ragazza scuotendo la testa. “Voglio farlo”, disse con occhi grandi, pieni di odio. Non avrebbe mai potuto mettere le mani sull’assassino di suo padre, ma almeno poteva ucciderlo con un quaderno, anche se non era proprio quello che aveva immaginato di fare. Avrebbe preferito infliggergli una morte dolorosa con le sue stesse mani, ma alla fine, voleva solo vendetta.
“Noodle tu sai che cosa significa, vero?”, domandò L.
“Certo che lo so”, disse Noodle alzando il mento, fiera. “Ma posso fare questo sacrificio. Ne varrà la pena.”
Mello si alzò e trascinò Noodle da parte, corrucciato. “Non fare la stupida”, sibilò arrabbiato, le sopracciglia contratte. “Che cosa ci guadagnerai? Basta che muoia, no?”
“Non è la stessa cosa”, ribatté Noodle con occhi di fuoco.
“No, no! Lo farò io piuttosto. Tu devi restarne fuori.”
“Credo di averne il diritto. Anche se poi dovrò andare nel Mu.”
Mello la guardò, mordicchiandosi il labbro inferiore. “Non…” Chiuse gli occhi e fece un lungo sospiro. Quando li riaprì annuì, le diede una leggera botta sulla spalla e le fece segno di tornare in sala. In realtà il ragazzo non voleva affatto lasciar correre, e decise che avrebbe torchiato Noodle più tardi.
“Ricapitoliamo”, disse Diane, un tantino confusa: era difficile per lei seguire i ragionamenti troppo veloci di quei ragazzi. “Noodle scriverà il nome di Light Yagami ordinandogli di portare il suo quaderno all’incontro, in modo da bruciarlo e da uccidere Kira. Allo stesso tempo però Light ordinerà a Near di comunicargli i nostri nomi, ma noi lo fermeremo: come? Insomma, Near potrebbe già essere in collaborazione con lui, ma mettiamo che non lo sia. Se non fa esattamente ciò che il Death Note di Light gli ha ordinato, allora di sicuro lui sospetterà qualcosa.”
Un silenzio greve scese nella stanza. Quasi si potevano vedere gli ingranaggi dei detective che lavoravano ad una soluzione. Alla fine, Near prese la parola. “Abbiamo due alternative. Uno: il Death Note mi controlla ora, in quel caso ormai non resta che uccidere Light e aspettare di morire anche noi tutti. Due: possiamo organizzare noi stessi l’incontro con Light e ucciderlo con il Death Note, ma dobbiamo fare in modo che lui creda che io sia sotto le sue direttive. In entrambi i casi Light morirà, se Noodle accetta di finire nel Mu.” Near lanciò un’occhiata alla ragazza e lei annuì, decisa. “Ma nel caso fossi già sotto il suo controllo, allora non potrò fare a meno di comunicare i vostri nomi a Light, e lui potrà uccidervi. Invece, se siamo ancora in tempo, potreste salvarvi. L’unica pedina che Light ha sono io, lui crede che utilizzerà me per scoprire i vostri nomi.”
L assottigliò lo sguardo e osservò Near. Iniziava ad intuire dove voleva arrivare il ragazzo.
“In entrambi i casi”, continuò Near imperterrito, “per essere sicuri di riuscire dovremmo avvantaggiarci su di lui.”
Di nuovo scese il silenzio, gli occhi di tutti si incrociavano, pieni di sentimenti contrastanti, tranne quelli di Near, che erano puntati a terra. La consapevolezza si introdusse nelle menti di tutti, e inorridirono al solo pensiero. “Scrivete il mio nome sul Death Note”, disse Near.

Light Yagami, 2 Luglio ore 18.20. Organizzerà un incontro al quale porterà il proprio Death Note, venti minuti prima di morire.

Nate River, 12 Luglio* ore 18.30. Seguirà le istruzioni che Light Yagami gli impartirà nel suo Death Note ma falsificherà i nomi che egli gli chiede di scovare.

La notte fra l’1 e il 2 di Luglio nessuno dormì.
Georgie Jonsson si trovava sull’aereo che l’avrebbe portata a Londra, in un posto che chiamavano Wammy’s House. Near le aveva assicurato che era un bel posto dove stare. Georgie era reticente all’inizio, ma quando alla fine il ragazzo le disse che quando aveva la sua stessa età ci era andato anche lui, aveva accettato di vedere com’era. In realtà sarebbe stata più felice di rimanere assieme a Near e agli altri, ma voleva fare un piacere al ragazzo. Voleva fargli vedere che era grande ormai, ed era capace di cavarsela da sola. Aveva già sette anni, accidenti! La poltrona alta sulla quale era seduta era morbida e molto comoda, invitava al sonno, ma Georgie non voleva addormentarsi, nonostante avesse già mangiato molto bene e fosse stata il gioiellino delle hostess durante le precedenti cinque ore di volo. Le avevano portato da mangiare, un libro da leggere -o meglio, guardare le figure, perché lei era un tantino pigra per impegnarsi a leggere-, un album da colorare e anche un gioco da tavolo, che una signorina in abito blu e fazzoletto rosso al collo si era impegnata a giocare con lei. Nonostante questo la bambina non era ancora stanca. Ripensava a ciò che le aveva detto Near e anche se non comprendeva le sue parole, prevedeva che qualcosa di terribile stava per accadere. Ciò che Near aveva detto, prima che lei salisse in prima classe sul volo n° 028714, era: “Mi raccomando Georgie, cerca di fare la brava. Ti aspetterà un uomo di nome Roger all’arrivo. Non andare a cercarlo in giro per l’aeroporto d’accordo? Ti troverà lui e di sicuro qualcuno ti accompagnerà giù”. Georgie aveva annuito. “Sei una brava bambina Georgie, mi mancherai molto.”
A quel punto Georgie aveva domandato, sconcertata: “Non tornerò più qui? Non potrai venire a trovarmi?”.
Near aveva sorriso. “Ma certo, prima o poi ci rivedremo. Tu non preoccuparti per me. Adesso hai sette anni, sei grande, pensa a finire le elementari, poi diventerai la migliore ballerina del mondo.” Near sapeva tutto di lei, sapeva che quello era il suo sogno, e che lei avrebbe ballato Il lago dei cigni quando sarebbe diventata grande, ossia, secondo Georgie, all’età di undici o al massimo dodici anni. “Mi prometti che lo farai? Verrò a vederti ballare a teatro.”
“D’accordo.” Georgie aveva annuito e Near le aveva dato un spintarella verso l’aereo. Georgie si era voltata solo in cima alla rampa metallica e aveva visto il giovane camminare a passi lenti lontano dalla pista di decollo. Una figuretta bianca sottile che spiccava nel buio.
Near aveva preferito così. Non voleva voltarsi a guardarla, perché dirle addio mentendo era stata una bugia troppo grossa per lui. Le aveva promesso che si sarebbero rivisti, quando sapeva benissimo che non era affatto vero. Lui sarebbe morto il giorno dopo alle ore 18.30 precise.
Si girava e si rigirava nel letto, Near, incapace di prendere sonno, la mente invasa da pensieri troppo pressanti per lasciarlo dormire. Stavano rischiando tutto. Ma certo, gli altri rischiavano. Lui invece no: sapeva già a cosa andava incontro, e in un certo senso era rassicurante. Si era offerto egli stesso per quella causa. Si sarebbe sacrificato, ma nessuno al mondo avrebbe saputo del suo sacrificio, non sarebbe stato ringraziato, non avrebbe avuto ovazioni né alcun tipo di riconoscimento. Tutta la sua vita era passata così, senza che nessuno se ne rendesse conto. All’improvviso Near si sentì le spalle schiacciate da un male troppo pesante per essere retto, e il cuore stretto in una morsa che lo avrebbe costretto a fermarsi. Finiva così la sua vita. La sua vita insulsa. La sua vita senza alcuna cosa buona fatta ad alcuno. Se il destino esisteva, allora lui era nato solo per quello? Solo per morire? Cosa c’era in mezzo? Aveva portato qualcosa al mondo? Aveva aiutato qualcuno? Qualcuno lo amava? Lui amava qualcuno?
Near si mise a sedere sul letto e accese la lampada del comò. La luce troppo intensa per qualche secondo lo accecò. Quando si fu abituato scorse un biglietto accuratamente piegato sul suo comodino, sopra il libro Panegirico di Guy Debord, filosofo contemporaneo. Lo aprì e vi trovò scritta una corta lettera a caratteri grossi e disordinati.

Caro Nate,
ciao, sono Georgie. Te lo scrivo, così capisci subito che sono io. Ma tanto sei bravo e lo capisci lo stesso.
Voglio dirti che sono contenta che ti ho incontrato, perché sei il mio migliore amico. Adesso tutti mi dicono solo che devo partire e non mi dicono quando tornerò. Ma io so che ci rivedremo perché ho imparato a memoria dove sta questa casa e tornerò qui a trovarti. Porterò dei giochi nuovi e mi farò dare delle nuove pistole, così potremmo ancora giocare a Spara e Schiatta.
Ti voglio bene,
Georgie.

Near ripiegò la lettera piano, come se avesse paura di sgualcirla. Rimase un secondo con gli occhi fissi sul muro di fronte a sé, illuminato dalla luce fredda della lampada. Un tornado di sensazioni lo assalì, e durarono solo un secondo. Quando fu di nuovo calmo mise la lettera sotto il cuscino, spense la luce e si stese. Nel giro di pochi minuti, Nate River si addormentò.

A poche camere di distanza si consumava un delitto: il personaggio di Matt uccideva brutalmente quello di Diane. Quando lo scontro terminò la donna gettò sbuffando il gamepad sul letto. “Non so come fai, sei mostruoso.”
“Anni di esperienza”, disse Matt con un sorrisino soddisfatto sulle labbra. Il ragazzo si allungò e prese un biscotto al cioccolato. “Sono davvero buoni, complimenti”, aggiunse poi.
“Almeno a qualcuno piacciono”, disse Diane.
“A L piacciono.”
“L mangia qualsiasi cosa contenga zuccheri. Persino Mello me li ha rifiutati”, disse la donna sconsolata.
“Perché?”
“Dice che si sente poco il sapore della cioccolata.”
Matt rise forse ma poi scosse la testa. “Tipico di Mello, non ci fare caso.”
“A proposito…”, cominciò Diane all’improvviso. “Cosa farai quando il caso sarà finito?” Assieme, avevano il tacito accordo di non considerare l’opzione B, ossia che quando il caso sarebbe finito nessuno di loro sarebbe stato vivo.
Matt si strinse nelle spalle. “Non lo so. Ho un bel po’ di soldi da parte. Credo sia meglio andarmene dalla Wammy’s House, tanto è inutile restare lì a fare l’erede di L. Non sarò mai l’erede di L, sarà Mello o…”, si bloccò, prima di pronunciare il nome di Near. Matt si passò la lingua sulle labbra e fece scattare gli occhi altrove, lontano dal viso di Diane. Non voleva che vi leggesse cosa pensava. “Insomma, a me non interessa neanche a dire il vero”, proseguì tentando di cambiare discorso. “Inoltre sono troppo grande per rimanere lì, ormai. Ci sto solo perché ci stava Mello, aspettavo che compisse diciotto anni.”
“E quindi? Cosa farai? Potresti benissimo lavorare come tecnico dei computer, potresti anche trovare lavoro nelle più grandi compagnie, volendo.”
Matt ci pensò su. “Sì, probabilmente sì…”, disse lentamente giocherellando con un elastico. Non aveva mai pensato a quell’ipotesi, in realtà non aveva mai pensato al suo futuro.
“Tornerai in Inghilterra?” Era quello ciò che Diane voleva davvero sapere, e lanciò la domanda come una bomba a mano, all’improvviso.
“Eh?” Matt si volse verso di lei.
“Insomma, pensavo che ora… pensavo che potevi stare da me. Se ti va ovviamente, se non ti va ti capisco. Ormai sei grande, sei indipendente. Però pensavo che forse, insomma, poteva interessarti l’offerta.” Parlò in modo tanto confuso e complicato che Matt, per un momento, non capì che cosa stava dicendo. Rimase in silenzio per un po’ e cominciò a fissare sognante la televisione accesa. “Certo era solo un’idea, se non ti va puoi dirmelo, non mi offendo mica”, disse Diane con una risatina forzata e nervosa, vedendo che Matt non proferiva parola.
Matt si volse verso di lei e sorrise. “Ho visto una bella casa in vendita dalle parti di Central Park, che ne dici se mi accompagni a fare un salto a vederla?”
Diane rimase un secondo in silenzio. Chiuse la bocca, che si era resa conto di aver lasciato aperta per lo stupore. “E’ una bella zona”, disse alla fine sorridendo timidamente, e spostandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
“I vicini sono simpatici”, concordò Matt con un sorriso.

A qualche camera di distanza, nella penombra di una lampada giallastra, Noodle decise di porre una domanda diretta. “Tu credi che moriremo?”
Mello si volse a guardarla e si strinse nelle spalle. “Non lo so”, disse onestamente. “Immagino sia solo questione di fortuna.”
Noodle tornò a guardare il soffitto. Erano stesi a pancia in su sul letto e tutti e due fissavano senza vederle le grosse assi di legno che attraversavano il sottotetto. “Se potessi sapere che questa è la tua ultima notte di vita, cosa faresti?”
Mello rimase un attimo in silenzio. “La passerei con te.”
Noodle ruotò la testa verso di lui e sorrise. “Anch’io credo che farei la stessa cosa.” Rimase in silenzio per un altro po’. “E se invece non fosse l’ultima, cosa faresti dopo? Tornerai alla Wammy’s House?”
“No, non credo proprio. Non voglio più diventare l’erede di L.”
Noodle si puntellò sui gomiti. “Perché no?” Era sinceramente curiosa.
“Non lo so, è come se mi fosse passata la voglia… all’improvviso. E’ che”, Mello si fermò, cercando le parole adatte, “non m’interessa più, non è bello come pensavo.”
“Non ti piace indagare?”
“No, al contrario mi piace un sacco! Ma non voglio dover rinunciare a tutto, a tutta la mia vita, per diventare L. Nessuno mi ringrazierà alla fine, per quanto mi sforzi, nessuno mi… nessuno saprà quel che faccio. Invece mi piacerebbe… non so, fare in modo di essere orgoglioso del mio lavoro. Mi piacerebbe che tutti sapessero quello che faccio, perché lo faccio, e vedessero quanto sono bravo.” Noodle lo guardò, sorridendo. Era più forte di lei. Mello fece una smorfia e chiese: “Ho per caso peccato di superbia?”.
Noodle si strinse nelle spalle. “E allora? Potresti fare il detective nella polizia.”
“I poliziotti sono degli incapaci”, sentenziò Mello. “Sai cosa mi piace?”, domandò poi con occhi eccitati e furbi. “Mi piace risolvere gli enigmi, il ragionamento. Mi piace elaborare strategie, esaminare una situazione e trovare il modo… di risolverla.”
“Quindi non il lavoro investigativo sul campo.”
“No, non proprio. Qualcosa che ci va vicino. Penso, più che altro, agli avvocati. Non so perché mi vengono in mente.” Mello restò un secondo immerso nel silenzio, poi disse: “E tu? Cosa facevi prima di finire in tutto questo casino?”.
“Studiavo all’università. Facevo matematica, ero al secondo anno. Immagino che adesso però dovrò recuperare un bel po’ di corsi”, osservò Noodle alzando le sopracciglia.
Mello sbuffò. “Scommetto che non ti ci vorrà niente. Riprenderai?”
“Sì credo di sì. La voglio finire l’università.”
“E poi?”
“Poi… non lo so. La matematica mi piace. M’interessa. Mi piacerebbe scoprire un sacco di formule nuove, elaborare un sacco di teoremi, e scoprire qualcosa di nuovo.”
“Potresti farcela”, disse Mello. “Credo che tu abbia grandi capacità.”
“Dici sul serio?”, domandò Noodle con una smorfia. “Non lo dici solo perché sono io.”
“Noodle, tu sei come me: sei intelligente, t’impegni. Se continui così potrai fare quello che vuoi. Potresti diventare sia una dottoressa che una matematica, potresti studiare fisica e astronomia!”
“Shhh”, lo ammonì Noodle. La casa era buia e silenziosa, non voleva svegliare nessuno.
Mello continuò bisbigliando: “Voglio dire che basta che scegli cosa fare. Tu sei molto intelligente.”
Noodle sorrise grata e tornò distesa, con gli occhi a fissare il soffitto: nuove prospettive si aprivano di fronte a lei, e prendevano il posto delle tavole di legno sul tetto.
“Noodle?”
“Sì?”
“Se fosse l’ultima notte della tua vita… Noi assieme. Che cosa faresti?” Mello, lo sguardo fisso al soffitto, inghiottì la saliva, temendo di aver osato troppo.
Noodle rimase un attimo in silenzio, poi disse: “La passerei con te”. Si allungò, spense la luce della lampada e cercò le labbra di Mello nel buio.
Si scontrarono, con la stessa energia dell’onda che si infrange sulla roccia. I loro corpi si inondarono l’uno dell’altra, si riempirono di forza, di gratitudine, di speranze. I loro occhi, legati fra loro, si compresero all’istante. La loro pelle bruciava, così come il loro cuore. E al momento del piacere i respiri si mescolarono pronunciando parole d’amore.

Fine.
L tracciò le quattro lettere nella sua mente.
Fine.
Sarebbe stato più bello assaporarle sulle labbra.
“Fine.”
Il giovane detective sorrise appena nel sentire la sua voce, sussurrata e leggermente roca, pronunciare quella parola. Sapeva di orgoglio.
L aveva finito di tracciare la dettagliata trama del suo libro. Era molto soddisfatto del risultato, ci aveva pensato e ripensato, aveva ragionato e preso in considerazione ogni possibilità, scartando le più improbabili e gettando via nel cestino della sua memoria le più scontate. Ragionava come se fosse un caso al quale lavorava lui, non il suo personaggio.
Già, il suo personaggio. Era perfetto, aveva una storia, una personalità, dei difetti, delle manie, aveva un aspetto che L aveva già deciso, ma gli mancava ancora una cosa per essere completo. Non aveva ancora un nome, nella sua testa lo vedeva semplicemente come un’entità. Ma ne aveva bisogno, cavolo!, era essenziale. Il protagonista doveva avere un nome, ma doveva essere adatto. Doveva dimostrare quanto valesse. L aveva preso in considerazione tante ipotesi, ma aveva finito per scartarle tutte. Nessun nome lo convinceva. Nessuno andava bene, non rispecchiava la sua personalità.
Il detective si alzò dal divano e raggiunse il pc fisso che si trovava in salotto. Lo accese e attese che si avviasse. Nel frattempo pensava ad un nome adatto.
Come un lampo gli venne in mente!, come una rivelazione. Il suo stomaco sobbalzò alla consapevolezza che doveva fare così. Assolutamente. Quello era il suo nome, e nessun’altro. A volte le soluzioni appaiono all’improvviso e si riconoscono subito come le più adatte. Era la cosa giusta.
L Lawliet aprì un nuovo documento di word, allungò le mani dalle lunghe dita pallide e sottili sopra la tastiera e rimase fermo qualche secondo, senza osare poggiarvi sopra i polpastrelli, osservando i tasti. Ritrasse un secondo le dita, poi prese un grosso respiro e cominciò a scrivere:

Nate River guidava lungo la statale 62 quando il suo cercapersone lo avvisò di aver ricevuto un messaggio…




















Ciao, eccomi qua =)
Allora, su questo capitolo non ho molto da dire, credo che sia chiaro cosa significhi: è l'evoluzione personale e privata dei personaggi. Ognuno di loro in quella notte, che potrebbe essere l'ultima della loro vita, hanno comportamenti diversi, perché hanno capito che i cambiamenti nella loro esistenza hanno portato loro qualcosa di diverso che è diventato molto importante. Ognuno cerca di sfuttare questa notte in maniera diversa, personale, e di godere di ciò che hanno scoperto essere una parte importante della loro vita.
Riguardo a Near, il prossimo capitolo sarà dedicato interamente a lui e spiegherà anche che cosa ne penso io del personaggio (almeno nel contesto della fanfiction), ma intanto mi farebbe piacere sapere come vi sembra questa svolta, e anche se si è capito che cosa intendono fare xD (ho tentato di speigarlo al meglio delle mie capacità, ma ho sempre paura di non essere stata in grado e aver fatto solo un gran casino).
Quindi vi lascio lo spoiler e un ciao! Alla prossima settimana!
Patrizia

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Capitolo 17
*** Put out the fire ***


Capitolo sedici
Put out the fire





Light Yagami fissò interdetto L, senza capire. Com’era possibile? Non era vero, lo prendevano in giro, tutti quanti! Erano lì solo per confonderlo, per farlo arrabbiare. Ma presto sarebbero morti, uno dopo l’altro. Una questione di pochi minuti. Rasserenò lo sguardo e domandò: “Come faccio a crederti L? Io so per certo di non aver sbagliato nulla. E’ un bluff”, disse, tentando di convincere più sé stesso che di smascherare L.
L scosse la testa piano, senza perderlo di vista. “No, è come ti ho spiegato.”
Light digrignò i denti. “E se così fosse… come hai fatto a sapere che era il momento giusto per usare il quaderno? Sei un veggente, forse? Questo spiegherebbe molti dei tuoi casi risolti.”
“Ho dovuto chiamare Roger, alla Wammy’s House, e lui mi ha raccontato ogni cosa. Near era vivo e vegeto nella stessa stanza con me nel momento in cui lui mi faceva le condoglianze. Abbiamo subito pensato che eri stato tu: ti sei ancora una volta presentato come Eikichi Kazuro. Roger ci ha detto tutto ciò che ti aveva raccontato su Near. In quel modo deve essere stato facile scoprire il suo nome, no?” L sorrise velatamente, aveva il cuore gonfio di trionfo, orgoglio e tranquillità. Ma non lo dava a vedere, preferiva far pensare a Light che era stata una passeggiata sconfiggerlo. “Abbiamo pensato a come lo avresti usato, probabilmente per scoprire i nostri nomi, così abbiamo fatto in modo che Near ti desse quelli falsi.” L aggiunse, per puro dispetto: “Ancora una volta ti sei scoperto troppo, è stato un tuo errore”.
“Non è vero! Non si può ingannare un Death Note!”, esclamò Light sputacchiando.
“Invece sì”, intervenne Near. “Con un altro Death Note.” Così dicendo tirò fuori dalla tasca il Death Note di Noodle e lo fece vedere bene a Light. Il ragazzo rimase zitto, gli occhi incollati al quaderno nero che penzolava di fronte a lui.
“I nomi che Near ha scritto come nostri erano dunque:”, L si frugò nei jeans e tirò fuori un pezzetto di carta spiegazzato, “Leander Foster, John Galber, Hans Nieminen, Jennifer Tipes e Irina Kamberg.” L alzò lo sguardo e lo osservò come se fosse dispiaciuto. “Non sono i nostri. Near ha falsificato i nomi, scrivendo quelli di cinque criminali che dovevano morire oggi. E invece ha scritto il tuo, sul nostro Death Note. Per questo hai organizzato l’incontro, te l’abbiamo ordinato noi. Nulla di tutto questo è stata una tua idea, Light-kun.”
Light Yagami era furioso. Non era mai stato tanto arrabbiato in vita sua. Non poteva credere di essere stato ancora una volta battuto da L. Un’altra vita, un’altra possibilità, un altro Kira, un altro Dio!... e lui se lo era fatto sfuggire di nuovo. Possibile? No, no, quello era un demonio, non un essere umano. Un demonio che lo avrebbe perseguitato finché lui non avesse ceduto, finché non avesse implorato pietà, finché non fosse morto piuttosto di non sentirsi più perseguitato da lui.
In quel momento qualcosa, nella mente di Light Yagami, si spezzò. Dimenticati gli affetti che credeva ancora di avere e che consistevano solo nella sua famiglia, dimentico del suo scopo, la ragione prima per cui era al mondo, dimentico persino del luogo dove si trovava e del perché si trovava lì, osservò quegli occhi scuri e senza fondo, quegli occhi in cui non aveva mai trovato un’espressione umana. La sua rabbia esplose, come non l’aveva mai provata prima, gli strinse le ossa e le fece bruciare, gli divampò nella mente e bruciò ogni traccia di razionalità, ogni piano ben congegnato, tutto ciò che lo mandava avanti. Ora l’unica consapevolezza che aveva era quella di odiare l’uomo che aveva di fronte a sé.
Non vedeva gli altri -erano esseri senza importanza ai suoi occhi- vedeva solo L. All’improvviso capì la vera ragione del perché era lì. Sì, per ucciderlo. A qualsiasi costo. In qualunque modo. Era un essere sbagliato, non sarebbe mai dovuto esistere, non poteva esistere, era un mostro sulla terra, un demone arrivato da chissà dove solo per lui, per perseguitarlo, per dargli fastidio, per non farlo dormire la notte. All’improvviso lo vide per quel che era veramente. Qualcosa di grottesco che gli impediva di vivere, un mostro. In quella frazione di secondo Light smise di respirare e prese una decisione: lo avrebbe ucciso.
Desiderava che morisse, con dolore assordante e brutale. Lo avrebbe preso per la gola, avrebbe stretto. Avrebbe annullato ogni suo sforzo per salvarsi, proprio come aveva fatto lui con il suo sogno, con il suo ideale di mondo perfetto. Lui lo aveva preso, strappato in mille e pezzi e calpestato, davanti ai suoi occhi, ridendo sadicamente, mentre Light non aveva potuto fare nulla per impedirglielo. E dopo aver vanificato tutti i suoi tentativi di salvezza, Light Yagami decise che avrebbe osservato i suoi occhi spegnersi, lentamente e con terrore. E si sarebbero guardati negli occhi, ed L avrebbe avuto paura di lui, no si sarebbe sentito inferiore, e gli occhi di Light pieni di furia e rabbia e crudeltà sarebbero stati l’ultima cosa che avrebbe visto, sarebbero stati l’ultima immagine che si sarebbe portato fino all’inferno. Perché, dopotutto, un demone come lui dove altro sarebbe potuto andare a finire?
Mentre pensava a tutte queste cose Light stringeva i pugni e le labbra, fissando L. Stava per muoversi, quando all’improvviso si rese conto che il demone stava parlando.
“…in questo modo potremmo bruciare i due Death Note.” Light non aveva sentito, non seguiva le parole di quell’essere, e lui riprese a parlare. “Sai perché sei vivo?”
Questa domanda arrivò forte a Light, come una bomba scoppiata direttamente nelle sue orecchie. “No.”
“Qualcuno si è appropriato del Death Note di Ryuk e ha cancellato il tuo nome con una gomma, usata appositamente per questo scopo dagli Shinigami”, disse L pacato. Fece una pausa ad effetto. “Tu questo non lo sapevi.” Il detective sapeva benissimo che in questo modo avrebbe solo fatto arrabbiare Light Yagami, e che sottolineare certe sottigliezze di sicuro non sarebbe servito a nulla di particolare, se non al solo scopo di batterlo, ancora una volta, in un confronto verbale. L’ultimo.
“Come potevo saperlo?”, sputacchiò Light fra i denti facendo una brutta smorfia.
“Io lo so.” L fece un sorrisino. “So una cosa che tu non sai.” Aveva preso un eccessivo tono canzonatorio, come se fossero bambini di dieci anni. “Questo significa che io sono superiore a te. Ma Dio… non è il grado più alto che esista sulla faccia della terra?, e oltre, direi.” Light lo osservava truce, non aveva capito dove volesse arrivare -non era da lui- ma non gli importava, non ascoltava realmente le sue parole. “Questo dimostra che tu non sei affatto un Dio, perché Dio dovrebbe sapere ogni cosa. Piuttosto… io sono un Dio.”
A quelle parole Light Yagami scattò in avanti, le braccia tese e un ringhio che gli saliva in gola. Agguantò L per il collo e lo trascinò a terra per la violenza dell’impatto. Le sue mani stringevano implacabili. Il detective, a terra, si divincolava e graffiava le mani di Light, ma non riusciva a spostarlo neanche di un millimetro. La gola gli doleva per quanto il ragazzo premeva forte le dita contro la trachea, e la sensazione così improvvisa, così forzata, di non poter respirare, lo mandò nel panico. Si guardavano negli occhi, L e Light, e in quel momento il detective capì che il giovane era impazzito. I suoi occhi erano vacui, parevano addirittura vuoti, non c’era più Light Yagami là dentro, ma una persona senza ragione, impossessata da qualcosa di assurdo e maligno.
Death Note.
Tutti scattarono. Matt si buttò addosso a Light e lo prese per il torace, cercando di staccarlo da L. Allo stesso modo Noodle si abbatté sulle sue mani, graffiandole e stringendole sempre di più, tentando di allentare la sua stretta. Grida esagitate e mani frenetiche si confusero di fronte ad L. Il detective sentiva più male alla gola, tentava di respirare freneticamente ma l’aria non riusciva a passare lungo la trachea: il pomo d’Adamo vi premeva dolorosamente contro. L cominciava a vedere il mondo dileguarsi attorno a lui, mentre gli angoli degli occhi venivano invasi dal bianco, che cancellava tutto il resto, e da puntini di colore che apparivano qua e là, e subito dopo come fantasmi sparivano di nuovo.
All’improvviso Light Yagami si bloccò. Matt lo tirò su, sorreggendolo per le ascelle, e si rese conto che il ragazzo aveva gli occhi spalancati, la bocca aperta in un grido e un’espressione di sorpresa terrorizzata sul volto. Si portò una mano al petto, lasciandosi sorreggere da Matt, ed emise un suono gutturale con la gola, osservando di fronte a sé una lapide. Il dolore al petto esplose e si dipanò presto in tutto il corpo. All’improvviso Light si sentì molto stanco e infelice. Chiuse gli occhi e buttò fuori dai polmoni tutta l’aria che aveva in corpo.
Morì.

Diane Colfer e Noodle erano tornate alla macchina senza dire una parola. Sapevano che cosa sarebbe successo di lì a poco, ma non avevano voglia di restare a guardare, o di parlare con Near, di consolarlo, di salutarlo. Avevano detto solo ‘ci vediamo a casa’, come se fosse tutto normale, come se fra qualche ora tutti sarebbero tornati facendo gracchiare la serratura della porta d’ingresso, e li avrebbero visti incorniciati alla porta, che entravano a piccoli passi. Ma tutte e due sapevano che non sarebbe andata così.
Diane decise di guidare e le due fecero il viaggio in silenzio, senza sapere che cosa dire o se fosse il caso di dire qualcosa, se per caso non avessero dovuto consolarsi l’una con l’altra o forse se fosse stato meglio continuare a rimanere zitte. Forse era così, non era opportuno parlare in quei casi. Non si sa mai cosa dire, e si finisce sempre per imbarazzarsi di più e dire cose inopportune e stupide.
Noodle, nel sedile del passeggero, guardava fuori dal finestrino. Era ancora giorno. Faceva caldo. Era Luglio, la gente per strada aveva le maniche corte, i pantaloncini e gli occhiali scuri. Il sole splendeva forte sopra New York, riscaldava più del dovuto. E il caldo, l’afa e il sudore appiccicoso erano insopportabili. Noodle aprì il finestrino e si fece scorrere l’aria fresca sul viso, osservando le persone che passavano, le macchine che andavano più forte di loro e le biciclette che si lasciavano indietro. Pensò a Near, ma non guardò l’orologio. Non lo conosceva troppo bene, non lo aveva mai conosciuto più di tanto, più di quel che lui voleva farsi conoscere, ma non sapeva se essere triste o sollevata. Near sembrava soffrire la vita stessa, la sua essenza, più di ogni altra cosa al mondo. Noodle aveva paura della sua solitudine, le dava angoscia perché le dispiaceva per lui. Aveva provato quella solitudine solo dopo che era morto suo padre, nelle settimane appena successive al decesso. Una solitudine senza motivazioni, abbastanza pressante da farti sentire abbattuto, ma non troppo da farti desiderare la compagnia di qualcuno. Una solitudine che lasciava uno spazio infinito fra sé stessi e il mondo. In quel periodo Noodle non credeva che la vita avesse un senso, e sentiva di trascinarsi avanti giorno dopo giorno, senza una mèta, senza un ragione, senza una motivazione. Nonostante nessuno sappia qual è lo scopo della propria esistenza si va avanti, e lo scopo si trova lungo il tragitto: i sogni, gli affetti… Noodle, subito dopo la morte di Stephen, aveva trovato la sua motivazione nella vendetta, e in seguito anche in Mello. Ma aveva paura della solitudine di Near: sembrava doversi protrarre per sempre. Per questo era divisa in due: non sapeva se essere sollevata perché Near aveva smesso di essere solo, o triste perché non aveva avuto la possibilità di trovare qualcosa per cui rinascere. Nonostante la calura estiva un brivido freddo gli passò lungo la schiena.
Quando arrivarono a casa Diane la informò: “Io faccio una doccia. Vuoi mangiare?”.
“No grazie, ci penso da sola. Adesso non ho fame”, rispose Noodle dirigendosi in camera sua.
“D’accordo”, sussurrò Diane, più a sé stessa che alla ragazza. Si diresse in camera sua, prese il pigiama e l’accappatoio, poi si diresse in bagno. Voleva fare una doccia veloce, era dall’età di undici anni che non faceva il bagno, ma a metà strada dalla stanza alla doccia cambiò idea, virò il suo tragitto e si diresse al bagno con la vasca. Cominciò a far scorrere l’acqua con il bagnoschiuma. Attese pazientemente che la vasca si riempisse e osservò le bolle profumate aumentare di volume ad ogni secondo. Quando fu piena chiuse l’acqua e decise di concedersi una sciccheria: andò in cucina e si servì un grosso bicchiere di vino rosso, secco e pungente. Tornata in bagno si spogliò e posizionò il bicchiere accanto a sé.
Quando si immerse nella vasca fu all’improvviso assalita dall’angoscia. Pensò a Matt e poi a Near. Era felice di aver ritrovato suo figlio, era di sicuro la cosa migliore che le fosse mai capitata, ma ad un tratto ebbe paura: che cosa faceva Matt in quell’istante? Che cosa pensava? Che cosa voleva fare? Pensò che se avesse perso Mail, così come qualcun altro che non conosceva aveva perso Near, allora la vita non valeva più la pena di essere vissuta. Che cosa l’avrebbe portata avanti senza di lui? Mail, Mail Jeevas. Come aveva potuto pensare ad un nome tanto strano? Avrebbe potuto chiamarlo John, o Michael, o magari Steven. Perché Mail? Diane sospirò e prese il bicchiere. L’odore del vino era forte e il sapore si appiccicò nella sua bocca.
Perché dovevano accadere cose come questa? Un ragazzo era morto, senza una reale motivazione. Era assurdo, no? Ogni morte era assurda, sia quella degli anziani che quella dei ragazzi. Nessuno poteva capire l’intricata ragnatela in cui ci eravamo tutti cacciati fin dalla nascita. Alla fine Diane sospirò e rilassò i muscoli, e pensò che non valeva la pena fare così, sentire quella tensione e quella angoscia ogni ora, ogni giorno. Tutti i fili della ragnatela potevano rompersi quando meno ce lo aspettavamo… Forse era più sano continuare a vivere senza queste paure, per godersi appieno ogni momento. Ed ogni persona.

Near sedette a terra, la schiena poggiata contro il tronco di un albero, la testa abbandonata all’indietro e gli occhi fissi sulle foglie verdi, immobili nella calura di quel giorno d’estate. Accanto a lui, piano piano, arrivarono L, Mello e Matt. Sedettero al suo fianco e rimasero per un po’ in silenzio. L teneva in mano un accendino e nell’altra i Death Note di Noodle e di Light Yagami. Li porse a Near. “Sai benissimo che sei ancora in tempo, potremmo cancellare il tuo nome senza sforzo.”
Poco opportunamente, Ryuk si intromise. “Ho qui la gomma se cambi idea, Nate”, e così dicendo tirò fuori dal tascapane una normalissima gomma bianca, leggermente consumata agli angoli.
Near scosse la testa, e invece prese in mano il Death Note di Noodle e l’accendino. “Bruceremo il nome di Light Yagami assieme a questo quaderno, così non potrà più tornare.”
“Siccome hai fatto lo scambio degli occhi, moriresti presto anche se il tuo nome non fosse scritto, Near. Ma una volta morto si potrebbe strappare il foglio con il tuo nome prima di bruciarli!”, osservò Ryuk. “Solo il tuo, così potresti tornare…”
“No”, ripeté Near. “Non è giusto riportare in vita i morti, è contro natura.”
“Ma non dovresti nemmeno andartene così, anche questa morte è contro natura”, osservò Matt. Near lo guardò in viso, poi scosse la testa. “Come vuoi…”
Near mise i due quaderni a terra, in uno spiazzo di terra battuta dove le fiamme non avrebbero potuto alimentarsi. Accese il fuoco e lo appiccò. Lentamente, di fronte a loro, i due quaderni iniziarono a bruciare. Il fuoco crebbe in poco tempo e il fumo che emanava aveva il puzzo acre e soffocante di qualcosa di marcio. Il calore sprigionato dalle fiamme erano strano, non scaldava, e la sua luce era stranamente fredda sul viso dei ragazzi, che osservavano in silenzio.
Mello maledisse sé stesso per il dolore che avvertiva all’altezza del petto e della gola. Non voleva farsi vedere da Near, anche quella volta era come darla vinta a lui!
Delle volte aveva seriamente creduto di odiarlo, ma si rese conto solo allora che, al contrario, Near era prezioso come l’oro. Gli sarebbe mancata quella sfacciataggine tipica del ragazzo, che usava con lui solo per farlo arrabbiare. E quegli occhi luminosi e divertiti quando riusciva nel suo intento di farlo uscire dai gangheri. Near era sempre stato un ragazzo complicato, solo e taciturno e, forse anche a causa della sua intelligenza, un po’ lasciato da parte, perché un po’ troppo strano. Alla fine dei conti Mello era felice di averlo conosciuto, era fiero di essergli stato amico. Sì, perché questo erano, erano amici, anche se un genere di amici molto strano… amici-nemici. Ma era fiero perché un giorno avrebbe potuto dire di conoscerlo; lui era uno dei pochi a conoscere Near. Effettivamente le uniche persone a conoscere veramente Near quel giorno erano riunite tutte nello stesso punto. Mello era uno di loro e sapeva che cosa turbava il ragazzo, che cosa lo rendeva triste o preoccupato, sapeva come tirarlo su di morale, o per lo meno distrarlo. Il metodo migliore era fare finta di avercela con lui, far finta di prenderlo in giro, di essere irritato dalla sua presenza: cominciava uno scambio di battute -per altro vinte quasi sempre da Near- che per un po’ lo facevano pensare ad altro. Tutti e due sapevano che era solo un gioco, solo un modo per farlo più allegro, per togliergli dalla mente quei brutti pensieri che a volte lo riempivano e gli soffocavano il respiro.
Ad un tratto un pensiero terribile -un pensiero orrendo- invase Mello, e lo fece tremare di paura. Near non è mai riuscito a dimenticare la sua vecchia vita.
Il dolore alla gola di Mello si era fatto più forte, quello al petto era diventato come un tamburellare sordo, che sarebbe continuato assieme al suo cuore finché non avesse smesso di battere.
Non voleva farsi vedere da Near, sarebbe stata come dargliela vinta ancora una volta… Per questo motivo, quando una lacrima sfuggì agli occhi di Mello, il ragazzo si voltò infastidito per non farsi vedere.

Quando Mello si volse di scatto dalla parte opposta a Near, come se ce l’avesse con lui, di nuovo come se avessero litigato per qualcosa, Matt registrò il fatto con una parte della mente, in modo meccanico.
Era come se il suo cervello fosse intorpidito, come quando stava per arrivare il formicolio alle gambe ma ancora non veniva, e ad ogni movimento gli sembrava che quegli arti non fossero i suoi, che fossero separati dal suo corpo. Era esattamente così che si sentiva: separato dal corpo, separato da tutto in realtà. Era come se ciò che stava vivendo stesse capitando ad un altro, un altro Matt, uno diverso da lui.
Senza capire niente di ciò che gli succedeva intorno, Matt guardò Near. Lo fissava, mentre il ragazzo guardava il fuoco bruciare, gli occhi ipnotizzati dal danzare delle fiamme. Matt, invece, era ipnotizzato dal suo volto.
In quell’istante si rese conto di quanto Near fosse giovane, e bello, e intelligente. Si rese conto che lui possedeva tutte queste qualità e si domandò come mai una persona così speciale, una così fortunata e strabiliante, fosse lì con lui in quel momento. Forse era così che andavano le cose. Era semplicemente questo lo schema con cui si svolgevano, lo schema deciso da Dio, o da chi per lui comandava. La regola era semplice: persone troppo speciali non potevano restare per molto in questo universo.
Matt non aveva mai creduto in Dio, nel Diavolo, nell’Aldilà e in tutte quelle cose. Le considerava sciocchezze per persone troppo deboli, per persone che sentivano il bisogno di votare l’anima a qualcosa, o qualcuno. Sciami di deboli che si illudevano di poter vivere anche dopo la morte. Non lo aveva mai creduto, no, ma in quel momento sperò con forza che invece fosse il contrario. Che il debole fosse lui perché non era riuscito a credere incondizionatamente, senza prove. Se così fosse stato per lo meno significava che Near sarebbe andato fra i beati, fra le braccia di San Pietro e del Signore stesso! Perché? Perché era impossibile che fosse altrimenti. Lui era Near, era quello speciale, era quello che, per qualche strano gioco della sorte, aveva tutto e niente.
Lui era intelligente ma triste, giovane ma disperato, bello ma solo. Vivo. Ma morto.
Matt era sicuro che Near non fosse mai stato del tutto fra i vivi. Una parte di lui se n’era andata nell’incidente di quando aveva appena sette anni, al quale non era nemmeno presente. Matt desiderò ancora che non fosse così, che in fondo Near avesse vissuto una vita bella, piena, felice. In quel momento Mail desiderò molte cose, ma non seppe mai se i suoi desideri fossero reali, se quel che desiderava fosse successo davvero.
Near era bello, giovane e aveva un gran cervello. E ancora un minuto di vita.

Nella mente di L si accavallavano immagini su immagini. Pensieri, scritte, sentimenti, cose che aveva visto, cose che avrebbe voluto vedere, persone che aveva incontrato, fatti, date, libri lasciati a metà, sogni, sorrisi. Tutto si accavallava con una velocità che lui non riusciva a controllare e che lo lasciò per un secondo stordito.
Quando il detective si riscosse il suo sguardo cadde sul fuoco. Bruciava, e la danza intricata delle fiammelle catturava il suo sguardo. Pensò che voleva guardare l’orologio, vedere quanti minuti -o secondi- di vita rimanevano a Near. Per tutto il tempo che guardò il fuoco ebbe l’impulso di mettere la mano in tasca e guardare l’ora. Ma non lo fece.
Era come se il suo braccio fosse troppo pesante. Non aveva voglia di alzarlo, di compiere il movimento, di sentire la mano passare delicatamente attraverso la stoffa dei jeans, di afferrare il cellulare freddo. Di rendersi conto di come il tempo scorresse veloce e crudele, beffandosi di loro. Scorreva più veloce quando avevano ancora tanto da fare, e tremendamente lento quando aspettavano qualcosa. Seppur fosse qualcosa di terribile.
L Lawliet non aveva mai pensato a quanti orfani ci fossero al mondo. Sapeva che erano molti. E sapeva anche che un consistente numero era assurdamente dotato di capacità intellettive superiori alla media. La Wammy’s House era sempre stata per lui un luogo quasi sacro, forse perché fin da piccolo lo aveva ospitato e, nonostante le ore buie e tristi, nonostante i visi fintamente allegri dei compagni che vedeva ogni giorno, quel posto gli piaceva. Era calmo, distendeva i nervi, e soprattutto in quel luogo c’erano persone come lui. Non persone geniali, non persone intelligenti no, non intendeva quello. Alla Wammy’s House c’erano bambini orfani. C’erano bambini soli.
Molte volte L aveva peccato di superbia, ritenendosi migliore di altri, ma non lo aveva mai fatto alla sua Wammy’s House, nemmeno con il più piccolo dei bimbi. Sentiva come se un destino comune li unisse tutti, loro, gli orfani della Wammy’s House. Li sentiva suoi pari.
Il fatto che ci fosse una graduatoria fra loro, e quella specie di assurda gara per divenire il miglior detective del mondo, non era che una farsa, un modo per spronarli sempre di più, incentivare il loro intelletto e insegnare loro cose che in altri istituti non avrebbero potuto apprendere, e in pochi l’avevano preso sul serio. Effettivamente, chi l’aveva presa davvero sul serio, erano stati Near e Mello. Gli altri bambini avevano priorità diverse, volevano frequentare Harvard, diventare scienziati o, meglio ancora, astronauti e ballerine. L preferiva di gran lunga che un bambino gli dicesse che voleva diventare un calciatore piuttosto che il suo erede. Questo perché sapeva bene quali sacrifici comportava diventare L. La solitudine. Una solitudine che avrebbe volentieri risparmiato a tutti quei bimbi, che potevano ancora anelare ad un futuro migliore di com’era stata la loro infanzia.
Secondo L era sempre stata una specie di ironia della sorte che il primo e il secondo nella graduatoria fossero i più interessati a quel ruolo, mentre gli altri bambini, sebbene a molti piacesse l’idea, lasciavano perdere al massimo dopo qualche anno, e pensavano ad altri e più genuini interessi.
L Lawliet era profondamente dispiaciuto per Near: non sarebbe mai potuto diventare L. Forse, solo per accontentarlo e per far sì che tutti i suoi sacrifici non fossero stati vani, avrebbe ceduto il posto a Mello. Lui, d'altronde, aveva già deciso che non voleva più essere L, il detective. Preferiva essere piuttosto L Lawliet, lo scrittore.
L Lwaliet alzò lo sguardo su Near. Quasi si sentiva dispiaciuto, come se gli avesse mentito, come se gli avesse promesso il paradiso per poi strapparglielo dalle mani. Sospirò, e abbassò lo sguardo.
Non controllò l’ora.

All’improvviso, Near capì come dovevano essersi sentiti i suoi genitori, quando era nato. Una pace si impossessò della sua anima con fermezza, ma in modo delicato. E allo stesso tempo una leggera inquietudine, la paura di non sapere che cosa ci aspetta dopo, lo avvolse. Ma Near non aveva paura.
Aveva sempre pensato che la sua vita era stato un funesto racconto fin dal principio. La morte dei suoi genitori, la Wammy’s House, la solitudine, l’essere stato preso di mira dagli altri bambini. L’essere stato picchiato più e più volte da Mello. Ad un tratto si riscosse e proprio quell’ultimo pensiero gli fece ribaltare completamente il suo punto di vista. C’era dell’altro nella sua vita. C’erano i suoi genitori, con tutto il bene che gli avevano voluto, poi c’erano Mello e Matt che, sebbene portassero avanti contro di lui una simbolica crociata, erano lì in quel momento, poi c’era L il suo beniamino, che non lo aveva mai deluso. E, ultima, ma non per questo meno importante, c’era Georgie, che gli aveva fatto ricordare esattamente com’era essere bambini. Georgie, che non era mai giù di morale, che vedeva sempre il lato positivo in tutto. Con lei aveva giocato, aveva riso, e si era reso conto di tutto il tempo che aveva perso da bambino, alla Wammy’s House. Essere bambini capita una sola volta nella vita e la si deve sfruttare al massimo. Near si era reso conto di aver avuto una seconda possibilità assieme a Georgie, e la ringraziò per quello che era stata capace di donargli. Era lei che aveva reso la sua visione del mondo diversa, migliore, lo aveva influenzato. E per di più gli aveva voluto bene, così come ne aveva voluto Near a lei.
Mentre i quattro ragazzi si stringevano ancora di più l’uno all’altro, come se tremassero dal freddo nonostante il sole di Luglio, i due Death Note -gli unici sulla terra- si convertivano in cenere, e nulla più restava di loro.
Nessuno si accorse di quando Ryuk, lo Shinigami, se ne andò silenziosamente osservando con fierezza e una luce ironica negli occhi gli umani seduti stretti vicino al grosso albero. Tese le ali senza fare rumore e spiccò il volo. Nessuno poteva più vederlo.
Nate River, o meglio Near, osservò le ultime fiammelle. Un’ondata di caldo e felicità lo raggiunse, e lui chiuse gli occhi con il sorriso sulle labbra, esalando l’ultimo respiro della sua vita.
Near si spense, assieme al fuoco di fronte a lui.




















Allora, buon salve a tutti e spero che abbiate capito cos'è successo: quando Near ha fatto lo scambio degli occhi e ha letto i nomi di tutti quanti, semplicemente li ha solo letti, e infatti mi sono curata di non dire che lui stesse scrivendo quei nomi. Inoltre, nello scorso capitolo, avevo detto che Near sarebbe morto il 12 Luglio, ma muore il 2 perché dopo lo scambio degli occhi la sua vita è dimezzata. Io lo scrivo perché non si sa mai, all'inizio nemmeno a me è venuto in mente e ho cambiato la data in un secondo momento. Tutto chiaro? Spero di sì. Nel caso qualcuno avesse delle perplessità ditemelo, sarò lieta di rispondere! ^^
Ho deciso che Light sarebbe impazzito alla fine, perché mi è sempre sembrato fattibile. Insomma, il Death Note lo cambia, perché il Light che era all'inizio della storia originale è diverso da quel che è diventato alla fine. E la cosa che lo ha fatto cambiare è il Death Note, è per questo che ho fatto questa sceneggiata! xD Devo dire che è stato anche divertente, io odio Light! Ahah!
Poi, spero che questo capitolo, che è all'85% introspezione, non vi abbia annoiato più di tanto.

Vi lascio lo spoiler del prossimo capitolo, che sarà anche l'ultimo. Un capitolo/epilogo che rivelerà le ultime due domande rimaste nella storia (una delle quali è la più interessante, ossia: chi cavolo ha resuscitato Light?) e ci spiegherà che cosa ne è stato dei nostri protagonisti.

A parte questo, voglio ringraziare AliYe, che ha segnalato la storia all'amministrazione per essere inserita fra le scelte dela sezione di Death Note. Ancora grazie mille per questa opportunità!

Non so che altro dire, insomma, domenica prossima sbrodolerò parole zuccherose da ogni sillaba perché è l'ultimo capitolo, quindi per oggi ve le risparmio!
Ciao a tutti,
Patrizia

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Capitolo 18
*** Cheers ***


Capitolo diciassette
Cheers





I palazzi di Berlino si estendevano come tante formichine sotto Annika Tempor e Mihael Keehl, che li osservavano dall’alto in silenzio, attraverso l’oblò dell’aereo. Entro tre ore sarebbero atterrati all’aeroporto di Luton, Londra, alle ore 16.51.
Era il 22 Agosto, e sarebbero mancati due giorni al ventitreesimo compleanno di Nate River se  lui fosse stato ancora con loro.
Quando il secondo caso Kira, la cui archiviazione si era svolta in gran segreto, era terminato, era come se tutti sapessero che cosa fare.
Annika Tempor decise che voleva terminare gli studi, Mihael Keehl che desiderava tornare in patria. I due desideri si conciliarono in una maniera estremamente semplice, e i due decisero che sarebbero andati a cercare casa a Berlino assieme. La vecchia casa di Ansgar Keehl era di proprietà del figlio, e siccome l’uomo doveva scontare diversi anni di prigione per violenza aggravata e omicidio colposo a danni di un povero malcapitato che, un giorno di qualche anno prima, aveva attraversato la sua strada ubriaca e barcollante, la casa era libera da circa due anni e lo sarebbe stato per altri due e mezzo.
Ma prima di stabilirsi nella zona più oscura della capitale tedesca Annika Tempor decise di fare un viaggio a casa. Vendette il grosso appartamento ormai di sua proprietà ad una cifra molto buona, lo svuotò delle poche cose che desiderava tenere con sé, lasciò l’università che frequentava compilando tutti i documenti per un trasferimento all’estero e infine scrisse una lettera. Era indirizzata a Stephen Tempor. La lettera rimase sepolta nel terreno di fronte alla tomba dell’uomo per sette mesi, prima di decomporsi del tutto.
Con i soldi di Annika lasciatigli dal padre, assieme a Mihael fecero un vero restauro di quella piccola casetta piena di polvere e incubi. Mihael avrebbe voluto andare a vivere da un'altra parte, ma doveva affrontare la realtà, ossia che non avevano abbastanza denaro. Per più di un anno Mihael covò la speranza di andarsene, e grazie ad alcune raccomandazioni da parte di un certo detective soprannominato L, divenne criminologo e cominciò a lavorare per la polizia segreta tedesca. In poco tempo ebbe a disposizione un capitale più che sufficiente per comprare una casa molto spaziosa, troppo spaziosa per sole due persone, vicino alla Porta di Brandeburgo nel centro di Berlino.
Annika, dopo aver imparato correttamente la lingua -cosa per cui non impiegò più di due mesi-, si iscrisse alla Technische Universitat Berlin, Università interamente dedicata alle scienze, nella facoltà di matematica. Poco dopo essersi laureata divenne insegnante nella stessa, e scrittrice di saggi incomprensibili ai più dedicati all’infinito mondo dei numeri, così logico e così perfetto che era impossibile non amarlo!
Un giorno Mihael, rovistando nel suo vecchio pc, ebbe l’idea di entrare nella casella postale intestata a Near che Matt gli aveva aperto quando erano ancora alla Wammy’s House. Non ebbe idea di come, forse fu il caso, ma trovò diverse mail da parte di un funzionario statale americano. A quanto pare qualcuno che doveva dei favori a Near, poiché non esitava a fornirgli informazioni riservate. Per i primi scambi di mail Mihael non ebbe niente di che ridire, ma quando arrivò ad un certo punto cominciò a leggere con più interesse. Quando ebbe finito e riletto le ultime mail due volte, spalancò gli occhi in un’espressone di sorpresa e comprensione.
“Annika!” Il ragazzo si alzò, trascinando il computer con sé. “Annika è stato Near! E’ stato Near!” Corse nello studio e trovò la ragazza intenta a studiare, china su dei grossi libri. “E’ stato Near! Con Matt, e Diane!”, esclamava estasiato, confondendo le parole e sorridendo.
“Che cosa?”, domandò la ragazza senza capire.
“E’ stato Near. Near ha scoperto che Diane Colfer era la madre di Matt! Ed è stato lui a convincere L che era la migliore da assoldare per il secondo caso Kira.”
Annika rimase sorpresa. “Dici davvero?”
“Sì, sì!”, esclamò Mello entusiasta spazzando via i libri di Annika e poggiando il computer sulla scrivania. “E’ tutto scritto qua, guarda. Leggi queste.”
Dopo aver scorso alcune mail, sotto l’attenta supervisione di Mihael che le teneva le mani sulle spalle, Annika si morse un labbro. “Dovremmo dirlo a Mail?”
“A Matt?”, domandò il ragazzo. Rimase pensieroso un secondo, poi si strinse nelle spalle. “No, perché? Meglio lasciarlo pensare che sia stato… che ne so, il destino.”
A dir la verità non sentivano Mail da quando si erano separati, alla fine del caso. Si mantenevano in blando contatto, scambiandosi ogni tanto qualche e-mail.
Mail Jeevas era residente a New York, in un alto palazzo dai vetri che riflettevano il mondo circostante, a soli pochi isolati dalla casa di Diane Colfer. Grazie alla madre aveva ottenuto un posto alla CIA, nel reparto spionaggio, ed era specializzato in intercettazioni di carattere informatico. In parole povere, era un hacker. Ma questa volta era più o meno legalizzato. Non aveva pensato a rinunciare al suo nome di hacker Fermat nemmeno una volta, ma pian piano aveva iniziato a selezionare sol i clienti dai casi più interessanti e aveva abbassato notevolmente il suo onorario. In otto anni era riuscito a collezionare un numero incredibile di consolle e videogiochi, che entravano comodamente nel suo appartamento al trentottesimo piano. Ogni mattina si alzava alle otto e tornava alle sei di sera, tranne quando qualche caso particolare lo costringeva a fare gli straordinari. Era riuscito ad inventare un gioco di logica e azione per pc, nel quale si arrivava all’ultimo livello a forza di pistole e dopo aver superato parecchi enigmi.
Mail Jeevas, assieme a Diane Colfer e qualche altro collaboratore, formavano una delle migliori squadre che si erano mai viste alla CIA. Veloci, efficienti, e attaccati al lavoro più di una cozza allo scoglio. Per Mail non era un grosso problema: quel lavoro conciliava perfettamente con il suo hobby. Non tanto il frugare nella vita privata di qualcun altro, ma piuttosto riuscire a superare gli ostacoli della rete senza farsi scoprire.
Per Diane Colfer invece era stato problematico all’inizio tornare al lavoro a tempo pieno: aveva dovuto riabituarsi ai ritmi serrati dell’ufficio, e dopo aver formalmente adottato Georgie Jonsson era diventato ancor più complicato e faticoso. Ciò nonostante Georgie Colfer aveva finalmente trovato una sede stabile, di fronte a Central Park, assieme al piccolo cane nervoso Biancaneve e con due genitori che, sebbene sapesse benissimo che erano adottivi, le davano tutto quel che fino ad allora le era stato negato. Dopo aver frequentato con successo le scuole elementari ed aver preso posto stabile in una scuola di danza classica si era iscritta all’istituto di istruzione media più vicino, che stava esattamente a metà fra casa sua e quella dello ‘zio Mail’. Mail aveva cercato di spiegarle decine di volte che non era suo zio, e che piuttosto doveva considerarlo un fratello, o per lo meno un fratellastro, ma Georgie non aveva voluto cedere di un passo. Spesso andava a casa dello zio per farsi dare ripetizioni di geometria, materia nella quale andava peggio. Era contenta che suo zio fosse tanto bravo in quelle cose, perché così non avrebbe dovuto pagare nessun insegnante privato, e per di più passare del tempo con lui le piaceva.
Né Mail, né Diane né tantomeno Georgie si erano dimenticati di Mello, Noodle, L e soprattutto di Near, ma si sentivano solo ogni tanto tramite computer. Per un po’ avevano sentito solo Mello e Noodle, e si erano a fatica abituati a pensare a loro come Annika e Mihael. Sapevano che erano entrambi a Berlino e vivevano assieme. Ogni tanto arrivava nel nuovo continente qualche eco di un saggio scritto dalla matematica Annika Tempor, ma siccome nessuno di loro ci capiva poi molto, si limitavano a leggere il trafiletto sul giornale del mattino con un mezzo sorriso.
Di L avevano perso tutte le tracce.
Un giorno, quasi due anni dopo il secondo caso Kira, Georgie e Mail andavano in giro per il centro città, e mentre Georgie non faceva altro che mendicare un gelato Mail la trascinò dentro alla libreria nella quale lavorava una commessa molto graziosa, con la promessa che poi le avrebbe comprato quello alla crema e alla fragola che le piaceva tanto. Mail gironzolò per la grande libreria per un po’, fingendo a momenti di guardare i libri, e a momenti aguzzando lo sguardo azzurro di lenti colorate per scorgere la graziosa commessa. Quando la vide e la raggiunse, tentando di ostentare tutta la noncuranza di cui era capace, lei stava sistemando dei libri lungo uno scaffale.
“Ciao”, esordì Mail.
“Ciao. Ancora qui, eh?”, disse la ragazza sorridendo, senza smettere di fare il suo lavoro e indirizzando solo un’occhiata a Mail.
“Eh già. Non ho ancora trovato il libro giusto per me. Mi consigli qualcosa?” Mail si appoggiò allo scaffale.
“Dipende che cosa t’interessa.”
“Computer. Giochi…”, disse vagamente Mail, temendo di non sembrare interessante.
“Se ti riferisci ai manuali, mi spiace ma non posso aiutarti in maniera molto tecnica, però posso dirti dove andare a cercare. A dire la verità sono specializzata nella sezione romanzi”, disse la graziosa commessa senza smettere di sorridere.
“Be’, vediamo… i gialli ad esempio. Fatti bene però, mi piace scoprire chi è il colpevole.”
“Oh, un detective. E quanti gialli hai letto fin ora?”
“Veramente nessuno, però ho guardato molti film”, disse Mail come se quello fosse un valido sostitutivo.
La ragazza si fermò e gli gettò un’occhiata critica, la lingua fra i denti come se stesse trattenendo una risata. Al posto di sistemare l’ultimo libro sullo scaffale lo tenne in mano e lo porse a Mail. “Se davvero t’interessa prova a leggere questo”, gli mise in mano il pesante volume. “E’ di un autore inglese esordiente, dicono che là in Europa abbia fatto il giro di tutte le librerie. Adesso scusami ma devo andare.”
Mail sorrise e sventolò il libro. “Okay d’accordo. Quando lo finisco torno! Ti dico cosa ne penso!”
“Mi farebbe molto piacere”, disse la graziosa commessa in risposta, voltandosi a guardarlo. Sparì dietro l’angolo e Mail diede un’occhiata al libro.
Cosa può fare uno shinigami annoiato, di Adam Livret.
Il ragazzo sgranò gli occhi e aprì la prima pagina.
Nate River guidava lungo la statale 62 quando il suo cercapersone lo avvisò di aver ricevuto un messaggio…
Tornò a casa e lesse fino a notte fonda.

Alla fine di ogni caso L Lawliet sentiva un senso di spossatezza e smarrimento invaderlo. La spossatezza poteva forse spiegarla come un effetto collaterale dovuto alla mole di lavoro che lo aveva appena investito con la stessa forza di un camion, e alle ore di sonno che anche lui a volte necessitava di recuperare. Quello poteva risolverlo. Ma non lo smarrimento; era un problema del suo cervello, che si perdeva terribilmente nella semplicità della vita quotidiana. Per quanto fosse astuto e colto, anche di psicologia, non aveva idea di come togliersi quella fastidiosa sensazione di dosso. Per qualche giorno vagava per la sua casa di campagna dello Yorkshire, fra i mobili in legno, i soffitti alti e le finestre così piene di campagna, senza sapere cosa fare o dove andare per cercare pace a quella sensazione di perdita e di confusione che sentiva. Era come noia, mescolata a qualcosa di più grande che non riusciva a controllare.
La fine del secondo caso Kira tuttavia fu diverso. Non c’era stanchezza, non c’era perdita ad invaderlo. Più che altro… fremeva. Fremeva di curiosità, di ansia, di voglia di cominciare. Cominciare a scrivere naturalmente. L’ultima notte prima di incontrare Light Yagami aveva scritto sei pagine in poco più di un’ora. Poi non aveva più toccato il pc se non prima di stabilirsi nella casetta di campagna.
Era stato un rituale: era arrivato alle 8.27 del mattino, aveva messo tutti suoi averi al proprio posto. I vestiti, il pc con tutti i suoi cavi e le sue prese. Aveva fatto un’abbondante spesa, aveva messo un po’ a posto la casa e si era preparato un dolce al cioccolato. Aveva preparato un tè verde e acceso il computer. Si era seduto davanti al pc con una fetta di torta e una tazza di tè affianco. Poi aveva iniziato a scrivere. Aveva scritto ininterrottamente per sei ore, poi si era ricordato della torta.
Un anno dopo, a libro terminato, aveva inviato il manoscritto ad una piccola casa editrice. Loro lo avevano preso, redatto, gli avevano consigliato di apportare qualche modifica e lui aveva coraggiosamente difeso le sue idee, decidendo poi per un leggero cambiamento al titolo della storia. Aveva scelto uno pseudonimo e la casa editrice aveva stampato cinquecento copie del suo manoscritto. La carta usata era sottile, la copertina molle, le pagine 639. Costava 9 sterline e 55 cents. Cinque mesi dopo un editore di un’importante catena editoriale lo aveva notato e gli aveva proposto di stampare il libro con la loro casa. L aveva accettato.
Dopo un’ampia pubblicità e diversi incontri con il suo editore le pagine erano diventate di una carta un po’ meno fragile ed erano aumentate con il diverso formato del libro. La copertina era rigida e il prezzo era lievitato. La prima ristampa si era avuta dopo appena due mesi dall’uscita ufficiale.
Otto anni e tre libri dopo, Adam Livret, alias L Lawliet, scese dal bus che lo aveva portato nella città di Dover, nel sud dell’Inghilterra. Era la città più vicina alla Francia, da lì si poteva raggiungere il blocco europeo anche a nuoto, se si era abbastanza allenati, era un cittadina rispettabile e piena di gente per bene, nonché luogo di nascita di Nate River.
Quando L scese dall’autobus mancava un solo giorno al grande giorno. Chiamò un taxi, si fece portare all’hotel nel quale aveva affittato una stanza e si mise subito a letto. Una volta tanto era stanco anche lui.
La sveglia suonò il mattino dopo alle nove in punto. L si alzò, andò in bagno, fece la doccia e scese a fare colazione. Mangiò brioches al cioccolato e bevve latte fresco, poi si ritirò nella sua stanza. L’appuntamento era all’una, per pranzo, in un elegante ristorante. Decise che avrebbe fatto un giro per Dover, così prese portafoglio, cellulare e giacca, e uscì nella tipica mattinata inglese. Quel giorno fece follie: comprò un paio di jeans, un libro fantasy per un pubblico adulto (per sperimentare nuovi generi) e dei pasticcini alla cannella. Poi prese un taxi e si fece portare al ristorante. Di fronte all’edificio c’era un piccolo parco giochi con delle panchine. Scelse una posizione strategica, per vedere la porta del ristorante, e si immerse nel suo libro. Quando alzò lo sguardo la prima volta erano passate ventisette pagine e non vide nulla di interessante, a parte un gruppo di ragazzi vestiti di borchie e catene che passavano per strada. S’immerse di nuovo. Alla seconda occhiata vide una coppia che si teneva per mano. Erano biondi, e a giudicare dal loro abbigliamento soffrivano parecchio il caldo che ristagnava nella città. L mise via il libro, si alzò, e li raggiunse. Quando era vicino a loro udì l’ultima parte del discorso di lei in una lingua secca. Tedesco. L si avvicinò e sorrise, gli occhi grandi e tondi. “Mihael. Annika”, salutò annuendo in segno di saluto.
I due si voltarono, in viso un’aria stupita e allegra. “L!”, salutò Annika abbracciandolo. “Come stai? Tutto bene? Ma lo sai che abbiamo tutti i tuoi libri a casa?”
“Oh grazie mille. E voi?” Si staccò da Annika e scambiò una vigorosa stretta di mano con Mihael.
“Tutto bene. Proprio tu, dovresti saperlo no? Se non ricordo male qualcuno mi ha raccomandato.”
L fece un sorrisino e distolse lo sguardo. “Non sono più nel ramo delle indagini.”
“Ma potresti riprendere quando vuoi. Con me e Matt puoi scegliere: America o Germania?”, disse Mihael ghignando.
L stava per rispondere, quando vide tre persone camminare verso di loro a passo svelto. Una ragazzina che poteva avere si e no quattordici anni corse verso di loro. “Ciao!”, salutò.
Annika la osservò corrugando le sopracciglia. “Georgie”, disse, portando gli occhiali da vista dalla fronte al viso. “Sei cresciuta”, constatò.
Georgie sorrise, nel frattempo li raggiunsero Mail e Diane. “Mihael!”, esclamò il ragazzo. “Come stai? Annika, ciao.”
Quando i saluti furono terminati Diane domandò: “Entriamo? Ho prenotato un tavolo settimane fa”.
La prenotazione era a nome Colfer. Il cameriere, un giovane dall’aria cortese, li fece sedere ad un tavolo rettangolare. Ordinarono piatti tipici del luogo e quando ebbero consumato tutto e i camerieri ebbero liberato il tavolo, le pance di ognuno erano piene e tutti sapevano tutto dei compagni che non vedevano da anni.
Un cameriere arrivò con altri tre menù e domandò: “Desiderate il dolce?”.
“Io sì grazie”, disse Georgie allegra.
“Anch’io”, disse L.
Il cameriere porse loro le liste e domandò. “Qualcun altro?” Tutti scossero la testa. “Caffè?”
“Sì grazie”, disse Annika. Si unirono a lei altre quattro voci.
“Torno subito”, disse il cameriere.
“Un altro po’ di vino?”, domandò Mihael.
“Posso berlo anch’io?”, domandò Georgie. Diane per un secondo parve replicare, ma Mihael fu più veloce e versò qualche goccio di vino alla ragazzina.
“Vogliamo brindare?”, domandò infine il ragazzo. Tutti alzarono i loro calici e attesero che qualcuno parlasse. Fu Mihael a prendere la parola, e tutti pensarono intimamente che fosse il più adatto. Non disse poi molto, in realtà, ma fu come se invece stesse facendo un discorso lungo e profondo. “A Nate.”
“A Nate”, ripeterono tutti.

Appena dopo che Ryuk scomparve ritornò nel Mu tramite la porta che lo separava dal mondo degli umani, e da altri mondi che non possiamo neanche immaginare. Quando ritirò le ali nere era di nuovo nel deserto desolato e triste che conosceva bene. Fece un grosso sospiro e ghignò.
Era impressionante come una minuscola azione potesse condizionare in modo tanto radicale la vita di più persone. Gli umani potevano diventare esseri straordinari, pensò Ryuk, sia nel bene che nel male. Non stava a lui giudicare cosa fosse bene e cosa male, tuttavia aveva una particolare predilezione per i malvagi. E comunque stessero le cose gli umani erano sempre inferiori ad uno Shinigami, ragionò il dio della morte. Se l’azione di un uomo poteva causare tanti cambiamenti, quella di uno Shinigami poteva sconvolgere un mondo intero. Per un secondo Ryuk si sentì orgoglioso di questa sua capacità. Ricordò quando tutto era cominciato: da quando aveva fatto cadere il suo vecchio Death Note e Light Yagami l’aveva raccolto. Si annoiava, il motivo era soltanto quello. Ancora non aveva idea di come lui fosse potuto tornare, ma scacciò il pensiero.
Si diresse verso gli altri, che giocavano a dadi sotto la carcassa di un enorme animale non meglio identificato. “Ciao Ryuk!”, disse uno di loro.
“Ciao! Come va qui?”
“Ah, tutto come al solito.”
“Stephen, come stai?”, domandò Ryuk guardandolo intensamente.
Era totalmente cambiato da quando lo aveva visto l’ultima volta. Se quando era partito poteva sembrare ancora un uomo dalle bizzarre fattezze, ora nulla in lui denotava che una volta era stato un esponente della razza umana. Aveva la pelle di un colore verde marcio e bianca, i capelli di un verde più scuro e una sorta di elmetto di osso gli copriva la parte superiore del viso. Aveva lunghe braccia e gambe, ma al contrario di molti altri Shinigami camminava dritto, ergendosi in tutta la sua statura. Aveva una tasca naturale sulla schiena, e dentro Ryuk vi scorse un Death Note nuovo di zecca.
Lo Shinigami si volse verso di lui e accennò un sorriso storto e deforme. “Tutto bene Ryuk. Anzi! Oggi mi sento più in forma del solito.”
“Sono contento Stephen, sono contento per te.”
“Hey Ryuk!”, gridò un altro mostro. “Il Grande Capo ti cerca!”
Ryuk si congedò, passando dietro a Stephen e dandogli una pacca sulla spalla, diretto dal Re degli Shinigami. Lo cercò per molto tempo. O forse per poco. Il tempo, nel Mu, era qualcosa di relativo e di scarsa importanza. Passava appiccicoso e melmoso sulle loro pelli secche.
Quando Ryuk trovò il Re quello stava seduto su uno scranno, leggendo nomi da un Death Note. Quando si accorse della sua presenza alzò lo sguardo. “Ryuk, mi hanno detto della tua scampagnata sulla terra. Divertito?”
“Abbastanza”, rispose lui.
“Ryuk, mi chiedevo…”, il Re si chinò su di lui con fare misterioso. “Mi hai portato qualche mela?”
Lo Shinigami sghignazzò. “Ma certo vostra altezza.” E così dicendo tirò fuori dal tascapane diversi frutti e li porse al re.
“Ah!”, esclamò l’altro fregandosi le mani. “Eccellente, bravo Ryuk.”
“Di nulla signore.” Lo Shinigami fece per andarsene, sicuro che il suo Re volesse solo un po’ di mele succose e dolci, ma il mostro lo richiamò indietro.
“Ryuk?”
“Signore?”, domandò lui voltandosi.
“Un po’ di tempo fa stavo sfogliando un tuo vecchio Death Note, sai che li tengo tutti io. Be’… ovviamente questo non influirà sugli anni che hai sottratto a quell’umano ma… ho cancellato un nome. Spero non ti dispiaccia.”
Ryuk si volse, interessato. “Quale nome?”
Il Re ci pensò su un attimo, dando una morso ad una mela. “Non ricordo bene, era morto da pochi mesi, era un uomo giapponese.”
“Posso chiedere a vostra maestà… perché l’ha fatto?”
Lo Shinigami si strinse nelle spalle. “Mi annoiavo”, rispose solo.
Ryuk non poté trattenersi dall’esplodere ina una sguaiata risata. Tu guarda cosa può causare uno Shinigami annoiato!










Sergio,
che sta affianco all'autrice
ogni giorno.





















Fine
Questa storia non è stata scritta a fini di lucro.
Molti personaggi appartengono a Tsugumi Oba e Takeshi Obata, autori di Death Note e proprietari di tutti i diritti.










Oh mio Dio.
Non posso crederci che sia finito.
Cacchio! O.O
...
Ecco, sono rimasta in sospeso per un po', ora ci sono.
Allora, che dire? Veramente non c'è molto da dire, o, in realtà, mi sono già spremuta abbastanza in quest post del mio blog. Nel caso non abbiate voglia di leggere ve lo ridico qua:
Un gigantesco grazie a tutte le persone che hanno seguito la storia, settimana dopo settimana, mese dopo mese. Grazie a chi ha solo letto, grazie a chi ha scritto una recensione, grazie a chi aspettava che postassi un altro capitolo, grazie a chi leggeva e voleva sapere come continuava la storia. Adesso è finita, veramente finita, e io non so ancora dirvi quante vagonate di grazie vi riverserei addosso! Una tonnellata, o giù di lì.
Quindi, cominciamo con il primo:
Grazie!
Un saluto a tutti,
Patrizia

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