Changes

di Neal C_
(/viewuser.php?uid=101488)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Libano 1980 ***
Capitolo 2: *** Dundee 1984 ***
Capitolo 3: *** Luxembourg 1988 ***
Capitolo 4: *** Londra 1993 ***
Capitolo 5: *** New York 1997 ***
Capitolo 6: *** San Remo / Nizza 2001 ***
Capitolo 7: *** Paris 2005 ***
Capitolo 8: *** London 2009 / 2015 ***



Capitolo 1
*** Libano 1980 ***


 


Ch-ch-Changes
Just gonna have to be a different man
Time may change me
But I can't trace time

 

 

Istruzioni per l’uso
Questa vorrebbe essere una raccolta di One-shots, incentrata sul personaggio di Brian Molko.
Il tema dell’intera raccolta è nei versi di  “Changes”, di David Bowie, il cambiamento, inteso come maschera che si evolve nel tempo, sia che ne siamo consapevoli sia che ne siamo all’oscuro, che lo vogliamo o no, e non si torna indietro.
Dato che non sono riuscita a trovare una biografia organica ho scorso un po’ di interviste, archivi del sito ufficiale, biografie di siti amatoriali.
Quindi scusate le incoerenze ma se dovevo leggermi prima tutto il materiale editoriale sui Placebo e sul loro leader allora mi passava la voglia di scriverla sta’ storia! ^^
Abbraccerà diversi periodi della sua vita, ancora non so se in maniera cronologica o no, e potranno esserci accenni di Mowie o altri pairing, sicuramente qualcosa Brian-Helena Berg.
Il ratig potrebbe alzarsi ma per ora è GIALLO.
Quale mostruosità-porcheria-roba illeggibile ne uscirà, non so!
Giudicherete voi ù.ù

Disclaimer
Nessuno dei personaggi qua nominati mi appartiene, più che sicuramente non sa nemmeno che esisto e ammesso che abbia fatto/detto/pensato queste cose non è venuto a raccontarlo a me.


*******************

 

 

Libano 1980



“Brian!
Pour l’amour de Dieu, qu'es que tu fais?!*”

La voce alterata della signora Lancer Farrel risuona nella cameretta del figlio minore ma la donna si affaccia semplicemente sulla soglia senza entrare: il suo bambino non è a letto come dovrebbe essere, anzi, non sembra essere nemmeno in camera.

La donna cerca ansiosamente il figlio fra le pareti bianche semi-spoglie se non fosse per qualche foto di famiglia e di classe, qualche acquerello della sua infanzia e qualche disegno a pennarello attaccato con lo scotch, alle pareti.
Il giorno che Brian ha deciso di attaccare i suoi disegni al muro in quel modo barbaro, Georges lo ha severamente redarguito.
Lui non ha detto niente, ha ascoltato pazientemente, stringendo gli occhioni un momento prima cerulei, qualche secondo dopo quasi grigi, incostanti come un cielo che si va annuvolando e poi rischiarando. 
Quel giorno la donna si era sentita in colpa perché Brian le aveva chiesto da tempo se poteva far incorniciare quei disegni a cui lui sembrava tenere un sacco, schizzi di colore astratti, linee gettate quasi per caso su un foglio.
Ma lei se ne era sempre dimenticata perché troppo presa dalla casa, dall’attività della parrocchia, dal corso di cucina che organizzava con le sue amiche almeno due giorni a settimana.
Lì, in Libano, la vita di tutta la famiglia ruotava intorno all’ambasciata franco-inglese, le sue conoscenze non erano altro che mogli di ambasciatori, consoli, banchieri, impresari libanesi, inglesi, americani o francesi, colleghi di suo marito.
E poi naturalmente c’era la scuola primaria dell’ambasciata dove Brian studiava, giocava e passava il tempo con i figli dei suddetti colleghi di suo marito.
D’altronde Kate sapeva già che entro pochi anni si sarebbero trasferiti e stavolta sperava che sarebbero tornati in Europa, dove si sentiva a casa.
In questi paesi del sud asiatico faceva più caldo, tutto era più luminoso, forse meno deprimente delle giornate piovose e nuvolose della sua Scozia, ma anche più agitato e caotico… quasi barbaro per certi aspetti.
Certo, non negli ambienti che frequentava lei.
Anzi, Georges stava portando a termine parecchi investimenti con società finanziarie statali locali, tutte impegnate nella ricostruzione della capitale e nei progetti di grandi opere pubbliche che avrebbero dato un nuovo volto al Libano e, perché no, al Medio Oriente.
Ma non poteva non sentire la nostalgia, la sensazione di essere fuori dal mondo, tagliata fuori dall’Europa.
Intendiamoci bene, non che prima Kate Lancer Farrel fosse una donna libera e emancipata, la protagonista dei salotti o la celebrità dei circoli, di qualunque argomento questi si interessassero.
Era una persona dalla fantasia limitata e dalle aspirazioni modeste, che amava alla follia i suoi figli, specie il minore che cresceva bene, educato e rispettoso della tradizione cristiana di famiglia.
Aveva avuto la fortuna di incontrare un uomo benestante e intraprendente, severo e corretto, religioso almeno quanto lei, con quel pizzico di esotismo che all’inizio l’aveva affascinata: le sue origini italo-francesi.
Aveva cercato in tutti i modi di addolcire il suo accento scozzese, duro e alle volte sgradevole, aveva imparato il francese e aveva preteso che entrambi i suoi figli si abituassero sin da piccoli a capire e a rispondere in francese quanto in inglese. Il maggiore, poi, parlava anche un po’ di italiano.
Barry e Brian avevano dieci anni di differenza.
Quell’anno Barry aveva compiuto diciotto anni e, poiché si erano trasferiti da poco, i corsi erano iniziati prima che potesse presentare l’iscrizione all’ American University of Beirut.
Perciò aveva espresso il desiderio di andare a studiare all’estero e si era trasferito a Luxembourg.
Kate era stata orgogliosa di lui e aveva sbandierato la cosa ai quattro venti, vantandosi dei suoi figli meravigliosi e gonfiandosi come un pavone ad ogni complimento che le veniva fatto.
A Brian non era piaciuto per niente e la madre ancora non riusciva a spiegarsi tutto quell’attaccamento improvvisamente dimostrato dal figlio minore che lei pensava di conoscere a perfezione.
E adesso non lo trovava neppure in camera sua, a letto, dove sarebbe dovuto essere, alle nove e mezza di sera.

“Brian!

Mon coeur, où etes-vous?!”

La madre lancia un altro richiamo al figlio, stavolta a tono più alto e inquieto.

è sola in casa ed è la prima volta che Brian sparisce senza avvertire.
Ogni tanto si infilava in un armadio, nello stanzino, in un anfratto di quella casa, larga e spaziosa, adesso troppo vuota per due persone.
Georges non è quasi mai a casa e non conta come terzo.
Giocava a nascondino, Brian, come tutti i bambini;
i piccoli vogliono l’attenzione di tutti coloro che li circondano, vogliono sentir parlare di loro, sentirsi lodati e vezzeggiati.
Suo figlio non faceva eccezione e proprio per questo suo madre lo adorava: perché era un bambino di otto anni assolutamente normale.
E in quella casa le stranezze non erano ben viste.
Poi in un attimo un’idea si insinua nella mente della signora Molko.
Potrebbe forse essere salito sul tetto? La sola idea le mette i brividi.
Ecco una brutta abitudine che aveva preso da quando era partito suo fratello:
andarsi ad appollaiare là sopra, a pensare, a guardare nel vuoto.
Cosa aveva da pensare? Per Kate era un mistero.
La loro vita era magnifica, sempre varia, piena di gente importante che riempiva le loro giornate, di persone fidate e amiche, in un ambiente protetto, “sotto la benedizione del Signore” come lei stessa amava ripetere, facendo l’eco del marito, a chiunque si rivolgesse.
Era come una bolla di sapone che non ne voleva sapere di scoppiare, appoggiata ad una solida superficie, le pareti trasparenti si increspavano leggermente quando un filo di vento cercava di portarla via o di infrangerla.
Ma prima o poi tutte le bolle di sapone scoppiano, almeno come tutti i nodi vengono al pettine: proverbi sempre veri, dei veri e propri assiomi della fisica e della vita.

Sale sul terrazzo del tetto e lo trova lì, avvolto in una coperta, con lo sguardo vacuo, e gli occhi stanchi, semi-socchiusi dal sonno e da una malinconia che ancora una volta lei non si sa spiegare.


“Brian!

è almeno la decima volta che ti chiamo!
Cosa fai qui?! Dovresti essere a letto!”

Lo sgrida con voce dura senza riuscire a nascondere quanto sia seccata di questo inconveniente.

Ma quando ci si occupa dei figli bisogna dedicare tempo anche a questi momenti di tempesta fin quando se ne ha l’occasione.
L’indomani tuo figlio ti giudicherà, rifiuterà l’aiuto che non gli hai mai dato e che gli offri per la prima volta; ma è troppo tardi per lui che ormai rivendica il suo essere adulto e, per questo,  ha il diritto di fare e pensare ciò che vuole, anche quello di calpestare i tuoi sentimenti di genitore.
Ma Kate vede solo che suo figlio si gingilla alle dieci meno un quarto di sera sul terrazzamento del tetto, e non le sta bene.

“Brian, domani devi andare a scuola e sono quasi le dieci!

Cosa abbiamo detto sull’andare a letto? Quante ore devi dormire a notte?”
“Mamma… mi manca.”

La risposta di Brian è un pigolio, il verso di un uccellino piccolo, infreddolito, spennacchiato, che attende la mamma nel nido, stringendosi ai fratelli per riscaldarsi e farsi coraggio: anche Brian lo farebbe se avesse Barry lì con sé.

Kate, invece, si limita ad inarcare il sopracciglio destro e a scuotere il capo, ancora contrariata e spazientita:

“Amore, che cosa? Che stai dicendo?

Lo vedi che sei stanco e devi andare a dormire?”
“Mamma, quando ci trasferiamo?”
“Tesoro, non lo so.”

L’ennesima risposta vaga lascia negli occhi di Brian tracce di profonda insoddisfazione e un’irritazione che Kate non aveva mai visto.

E per la prima volta non sa bene cosa rispondergli, teme che la sua piccola bocca carnosa possa sputare fuori altre domande, con un risentimento che i bambini, chiusi nella loro logica infantile, non riescono a provare a lungo.
Non sembra una cosa passeggera quella che vede negli occhi di suo figlio, più cupo di quanto ricordasse.

“Andrà tutto bene! Ti farai tanti nuovi amichetti!

Ho conosciuto delle persone splendide, delle signore davvero simpatiche.
Vedrai che anche i tuoi compagni saranno adorabili come i loro genitori.
Non ti preoccupare, tesoro, sarà come le altre volte, ok?”
“Come le altre volte, eh? allora non ho niente di cui preoccuparmi.”

Kate rimane spiazzata dall’ironia sferzante di quei toni amari e cupi.

C’è qualcosa di strano nell’aria e la madre non riesce a capire cosa sia.
Questa notte, nuvoloni grigiastri incombono, sembrano voler divorare madre e figlio che sfidano il fresco serale per parlare sul tetto di casa.
è opprimente e affascinante allo stesso tempo, almeno quanto le raffiche di vento che spettinano violentemente il caschetto castano di Brian.
Kate sbatte le ciglia più volte, ancora in piedi, indecisa sul da farsi.
Il bambino non le sta più dedicando attenzione, ma osserva la città dall’alto senza passione, inespressivo, spento come un fuoco da campo i cui bagliori sono stati soffocati, a poco a poco.

“Mamma, non possiamo…fermarci?”

“Fermarci qui?! Ti piace Beirut?!”
“Non per forza qui. Solo…fermarci.
Mi va bene dovunque, vorrei solo non dover cambiare sempre casa.”
“Amore, lo sai che papà lavora, vero?
Per lui è molto importante…”
“e quando mai no.”

Stavolta Kate non si lascia sconvolgere dalle insinuazioni del figlio, piccole provocazioni che le sue orecchie non erano abituate a sentire.

Possibile che il suo piccolino, il suo Brian, il suo adorato bambino innocente avesse qualcosa da ridire sulla loro vita?
Ma stavolta ribatte, ferma e quasi severa, resistendo alla tentazione di mordersi il labbro.
Deve essere dura e incisiva, deve trasformarsi nell’educatrice, in quella che scrive le regole del gioco.
Il segreto sta nel controllare la situazioni, far si che queste regole vengano rispettate.

“Amore adesso basta con questi pensieri.

Un giorno sicuramente ci stabiliremo, forse torneremo in Belgio.
Ma tu non devi preoccuparti di questo, ok?
L’importante è la tua famiglia e noi siamo qui, vicino a te.”

Per ribadire il concetto finalmente muove qualche passo avanti e va ad accarezzare la testa del suo ometto di otto anni.

Poi gli sfiora la spalla, scuotendola dolcemente in un muto richiamo.
Lui sembra rimettersi docilmente in piedi mentre la coperta che ha addosso struscia per terra con un fruscio.
Kate si abbassa e lo abbraccia, stringendolo e riscaldandolo con il suo corpo ma il piccolo non sembra veramente ricambiare quell’abbraccio;
rimane inerte, poi si irrigidisce e infine si stacca, con un mormorio di scusa, un “mi stritoli, mamma”  molto timido.
Insieme si avviano per le scale, entrano nella cameretta e poco dopo, Brian è al calduccio, nel suo letto e Kate gli rimbocca le coperte.

“Tesoro, buona notte. Sogni d’oro.”

“Mamma, mi sento triste.”

Davanti a questa confessione la madre scuote il capo con un sorriso dolce e comprensivo, ma servono a poco le rassicurazioni della mamma, stavolta.

Brian sente solo parole vuote, le stesse di sempre, maledettamente familiari, eppure è la prima volta che ci riflette veramente.

“…papà sta facendo il suo dovere…

Non sarai mai solo, amore mio.
E quando ti senti abbandonato  devi confidare in Dio.
Prova a parlargli, lui è lì da qualche parte, vuole solo ascoltarti e guidarti.
Adesso mi prometti che dormi?”
“Si.”
“Buona notte, Bri.”

Kate spegne la luce, e dopo avergli dato il bacio della buona notte, si alza dal letto che cigola leggermente e, in punta di piedi, scivola via, lanciando ancora occhiate amorevoli al bambino che la osserva con quegli occhi chiari, spalancati.

Brian sente il click dell’interruttore, sbatte le palpebre per abituarsi al buio, tutto gli appare ombroso, quasi spaventoso.
Poi sente la porta che si chiude, la serratura scatta, sulle scale i passi della madre si fanno ancora sentire deboli, oltre i muri della sua stanza.
Quando  finalmente non sente più rumori di sorta, scalcia la coperta e si tira su.
Mette a soqquadro i cassetti della scrivania a misura di nano e ne tira fuori un foglio a righe e una penna.

 

 

Caro Dio,
mamma mi ha detto di scriverti ma non capisco perché dovrei scrivere a te.
Non è con te che parlo di solito, anche se tutti, mamma, papà, il prete, i maestri dicono che bisogna rivolgersi a te.
Io in realtà non parlo con nessuno ma quando l’ho fatto è stato sempre Barry ad ascoltarmi.
Come quella volta che ho rubato un CD  in quel negozio, a Glasgow, prima di partire per il Libano.
Non te l’ho nemmeno detto, la settimana dopo, quando mamma mi ha portato dal confessore.  Mi stava antipatico quel confessore.
Ho pensato che non potevi averlo scelto tu quello lì, altrimenti come Dio non valevi niente.  In ogni caso Barry l’ha saputo prima di te.
Ma c'è una cosa che potresti fare.
Visto che sei Dio, fai arrivare il mio messaggio a Barry.
Non lo posso spedire perché altrimenti mamma e papà sicuramente lo leggerebbero e io non voglio.

Caro Barry…



Angolo dell’autrice

*Glossario1: Brian, per l'amor di Dio, che fai?!?!?!
*Glossario2:  Brian, cuore mio, dove sei?!?!


Eh si, altre note.
Ma c‘è ancora qualcosina da  precisare.
First, questa è la mia prima storia della sezione Placebo che sto leggiucchiando da un pezzo, probabilmente i miei personaggi saranno un po’ abbozzati, forse un po’ OOC ma per qualunque cosa non esitate a farmi sapere se sono uscita dai binari o cosa ;)
Second, vi avverto,  la mia politica in fatto di aggiornamenti durante l’anno è la seguente: i tempi sono lunghi e quest’anno più che mai perché è anno di esame e per di più è già straincasinato per conto suo.
Third, i nomi dei genitori sono amenamente inventati, il cognome da nubile della madre no (intervista su placeboworld.co.uk/archive ), e nemmeno quelle quattro righe di ambientazione (fatta un po' con i piedi tra l'altro), diciamo che quasi tutto è abbastanza verosimile o comunque non impossibile.
At last, devo ringraziare alcune autrici che ho letto e che mi hanno fatto innamorare dei loro personaggi, specie di Bri a cui ho appunto dedicato la raccolta:
Stregatta (ho amato la Mowie più di tutte le altre),  Leni (le sue Mollamy *_* ), chemical_kira (ho amato Nancy boy, è una delle mie “seguite” preferite) e soprattutto nainai (per me il suo The Rerum Natura è una delle fic più belle della sezione).
Un giorno vi scriverò una recensione, lo giuro.
Inutile dire che quando vorrete sarò entusiasta di sentire i vostri pareri, anche una caterva di insulti seguiti dal lancio della frutta va bene.

Misa

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Dundee 1984 ***




Dundee 1984

 

“Brian!
Ma mi stai ascoltando?!”

Eloise arriccia le labbra in un’espressione corrucciata e sbuffa come uno di quei stalloni da corsa che hanno fiato da vendere.
Il suo amichetto non la sta affatto ascoltando, è troppo concentrato su uno stupido manuale di scienze mentre segue il segno con un dito e legge velocemente, ogni tanto sbadiglia e strizza gli occhi come se non volesse addormentarsi sul più bello.
Probabilmente non l’ha ascoltata nemmeno prima, mentre lei si dava da fare per spiegare quanto fosse bello il locale nuovo che avevano aperto poche strade più in là.
Stasera c’era l’inaugurazione e lei voleva esserci.
Alla fine lei gli si avvicina e gli assesta un paio di schiaffetti sul braccio che sorregge la testa mezza addormentata dalla noia.
Il ragazzino si irrigidisce e ritira il braccio, d’istinto; alza lo sguardo sulla seccatrice, le sopracciglia aggrottate, palesemente irritato.
Lei di contro piagnucola, quasi petulante:

“Brian!”
“Che vuoi?”
“Uffa, era ora che ti accorgessi di me!”
“Sai com’è sono a casa tua, è difficile che non mi accorga di te.”
“Intendo dire…non mi stavi proprio ascoltando!”
“Forse perché mi stavi raccontando un mucchio di stronzate?”

Lei non sembra particolarmente ferita o seccata dal tono ironico e strascicato dell’amico, come se gli costasse anche solo aprire la bocca.
Anzi, sembra abbastanza soddisfatta di aver finalmente attirato la sua attenzione.
Incurante delle occhiate infastidite che lui le manda,  Eloise continua a punzecchiarlo sul braccio con insistenza.

“Allora stasera vieni?”
“Dove?”
“Lo vedi che non mi stavi ascoltando?!”
“…”
“Allora non sei curioso di sapere?”

Brian alza gli occhi al cielo e spinge via il manuale di scienze che cade giù dal letto e si apre in due.
Si sistema meglio sulla pancia appoggiando la testa fra le mani, i gomiti puntati sul piumone colorato del letto.
Dopodiché finalmente le concede la sua attenzione, puntandole gli occhi addosso.
è abbastanza sgradevole e inquietante essere fissati in quel modo e Brian lo sa, ma lui lo fa sempre. Crea uno strano disagio nelle persone che in genere tendono a distogliere lo sguardo, a non rispondere, a troncare la conversazione, oppure nella peggiore delle ipotesi si risentono per quella provocazione e quell’arroganza e reagiscono in malo modo.
Non è una persona simpatica, Brian.
Non è solare, non è più un bambino dalle guancia pienotte e dal caschetto liscio, bruno e biondiccio. Tutto di lui è più scuro, più sottile e affilato.
La ragazzina ridacchia, una risatina un po’ stupida e commenta, con leggerezza:

“Tu sei strano forte…fai paura.”
“Allora?”
“Allora stasera c’è l’inaugurazione del London Nightclub.
 Mark Callway ha detto che mi porta, insieme al suo gruppo.”
“Buon per te.”
“Tu non hai mai conosciuto Mark? È uno del quarto anno, però lo scambiano sempre per un universitario perché è altissimo.”
“E io che c’entro?”
“Vuoi venire?”
“Devo studiare.”

Lo dice senza nessuna convinzione, anche se la ragazzina non se ne accorge.
Ha una voce neutra, osserva con grande attenzione i manifesti di due star del momento a caso, Madonna e Cindy Lauper sulla parete di fronte, con un po’ troppo interesse, conoscendo il tipo.
Pensa che non vuole passare la serata con quel Callway del quarto anno, lo ha visto un paio di volte, è un ragazzotto alto e ben piazzato che ama mettersi addosso maglie nere aderenti per sfoggiare qualche pettorale in via di sviluppo, i pantaloni a vita alta con una cintura che lo strizza in vita e un chiodo di pelle. Non è un mistero quanto sia appassionato di Grease e le ragazze lo amano anche per questo.
Pensa che si sentirebbe il ragazzino della situazione e non gli sta bene.
Lui vuole attirare l’attenzione, in un modo o nell’altro, vuole far parlare di se;
se c’è una cosa che odia è essere ignorato.
Non si accoderà mai ad un gruppo, semmai ci va da solo.

“Eddai! Non te ne è mai fregato niente dello studio, Brian!
Non conosco nessuno! Per piacere!”
“Perché non lo chiedi alle tue amichette?”
“Perché i genitori non le mandano e se si imbucano di nascosto le sorelle le riconosceranno e spiffereranno tutto!”
“Anche mio fratello va.”
“Ma tuo fratello non fa la spia! Tu non le conosci quelle due! Sono delle stronze!
L’altra volta hanno spifferato anche a mia madre che ci eravamo imbucate alla festa di Mark e ha raccontato che ci eravamo truccate ‘come delle troiette da marciapiede’ ! Parole testuali! ”
“Non mi va.”
“Secondo me ti vergogni.”
“Mettici più impegno, non sei convincente.”
“Eddai, Brian!”
“Ti ho detto che c’è mio fratello.
 Non ho nessuna intenzione di farmi beccare da lui.”
“Ma non ti riconoscerà mai!”
“Difficile, visto che mi conosce da dodici anni.”
“E allora…ti travestirai!”

Questa volta Eloise è riuscito a prenderlo di sorpresa.
Con sua grande soddisfazione può vedere gli occhi del compagno spalancarsi, la sua bocca aprirsi, come per dire qualcosa e poi richiudersi lentamente, senza parole.
Perché non ci ha pensato prima?
Eppure sembra una pazzia, una vera pazzia.
Travestirsi da cosa poi?
La domanda sorge spontanea, e per un attimo a Brian sembra di avvertire un tremolio nella voce che non  gli piace neanche un po’.

“In che senso?”
“Uff, non lo so, qualcosa con cui non ti riconoscerebbe mai!”
“Puoi mettermi un lenzuolo in testa e giocare a fare la strega e il fantasmino, la notte di Hallowen.”
“Ci sto pensando, d’accordo? Non fare lo stronzo!”
“…”
“Allora, intanto potrei truccarti! Tuo fratello non penserebbe mai che quello sei tu.”
“Si, se vado con la stessa maglia con cui sono andato a scuola.”
“Beh, allora ti devi cambiare!”
“…”
“Puoi mettere una delle mie!
Abbiamo anche la stessa taglia!”

Le labbra di Brian per poco non si incurvano in un sorriso divertito.
Gli eventi stanno prendendo una piega davvero inaspettata.
Improvvisamente questo non sembra un altro dei grigi pomeriggi passati ad ascoltare le chiacchiere infinite di una delle sue amiche di infanzia.
La famiglia di Elizabeth Brown, detta per qualche strana ragione Eloise, è sempre stata grande amica dei Lancer Farrel.
Kate Molko, che all’epoca era a Brussels, incinta del minore, fu la prima a sapere che la sua cara amica d’infanzia, Charlotte si era scoperta incinta di tre mesi e aveva dovuto sposare Walter Brown di grande urgenza.
E, un anno dopo, Kate era tornata in Scozia per vedere la piccolissima Elizabeth e per riabbracciare la  “Zia Charlotte” , come era conosciuta in casa Molko.
Tutto sommato Eloise era una cara ragazza, entusiasta della vita, sapeva fare la stupida quando serviva ma non lo era affatto., era una ragazzina che si adattava bene ad ogni situazioni, alle volte con un pizzico di ingenuità, alle volte con straordinaria maturità.
Per un attimo Brian cerca negli occhi della compagna tracce di malizia ma non ne trova.
Lei gli sorride, divertita dallo stesso gioco che si apprestano a portare avanti, come se si trattasse di organizzare qualcosa per una festa di carnevale.

“Mi stai proponendo di vestirmi…da donna?”
“No, assolutamente no!
è ovvio che sceglierò una delle magliette più maschili che ho!”

Smette di pungolargli il braccio di botto, e si alza dal letto per precipitarsi all’armadio.
Comincia a tirare fuori decine e decine di maglie, camicette, pezze varie dai colori più disparati.
Brian non può fare a meno di stupirsi di quanti impicci hanno le ragazze nei loro armadi, alcune sottratte ai guardaroba sterminati delle madri, delle zie, altri presi in prestito dalle cugine e mai restituite, altre ancora scambiate con le compagne del proprio gruppetto.
C’è un’incredibile varietà nell’armadio di una ragazza, molta più di quanta ce ne sia nel cassetto di un ragazzo.
E lì pensò alle sue magliettone a maniche corte, bianche, nere, con qualche slogan, al pullover di lana, alle tre camicie bianche, al suo unico paio di jeans, al completo da sera e alla grigia uniforme scolastica, tutti ordinatamente ripiegati in un cassetto, assieme alla biancheria.
Pensa quanto è invece affascinante, la mattina, prima di uscire, decidere cosa mettere, che colori sfoggiare, come presentarsi al resto del mondo, ogni volta con una veste diversa perché questo non possa mai prevedere chi saresti stato quel giorno.
Ma quando Eloise tira fuori  una maglietta a mezze maniche bianca tutta spiegazzata, con uno scollo a barca , il ragazzo storce il naso.

“Provati questa.”
“Mi sta male.”
“Ma non l’hai nemmeno provata!”
“Non mi piace.”
“Questo passa il convento.”

La ragazza si arrende e incrociando le braccia al petto, brontola indicando con il mento la porta dell’armadio di ciliegio alle sue spalle.
Brian è costretto ad alzarsi e a rovistare personalmente in quell’armadio che lo lascia abbastanza deluso. Non è colorato, spumeggiante, esagerato come se lo era immaginato.
Per un attimo, nella sua mente, aveva pensato di trovare i colori psichedelici, i tagli stretti e aderenti, i costumi cangianti pieni di lustrini di David Bowie, le piume di Marc Bolan, il maculato di Rod Stewart.
Si rimprovera per essere stato così stupido e replica infastidito, con un moto di stizza:

“Ma cosa vi mettete voi ragazze per andare in discoteca?
L’uniforme scolastica?”
“I vestiti”
“Questa roba nera la chiami vestito?
Io la chiamo tenda.”
“E comunque non sono cazzi tuoi!
Tu certo non ti puoi mettere un vestito!
Anzi, a pensarci bene non ce li ho nemmeno dei pantaloni per te…”
“E allora fammi provare una gonna.”

Adesso è il turno di Eloise di rimanere a bocca aperta.
Lo guarda come se fosse improvvisamente impazzito, come se le avesse detto che il genere umano sta per estinguersi come i dinosauri.
Anzi, forse in quel caso, si sarebbe ripresa prima.
Il ragazzo aggiunge velocemente, sfrontato:

“Facciamo una scommessa.
Mi presenterai a Marc Callway come una tua amica.
E vediamo se Barry o qualcuno del locale non mi scambia per una ragazza.”
“Brian, sei pazzo?”
“No, solo annoiato. Allora, scommettiamo?”
“E va bene! Scommettiamo cinque sterline!”
“Ok, allora se perdo dovrai aspettare fino alla fine del mese, lo sai vero?”
“Si, si tranquillo.”
“Però a patto che mi aiuterai ad essere una ragazza perfetta.”
“Affare fatto!”

********************

Lo scherzo per Brian  era diventato una sfida.
Voleva essere scambiato per una ragazza, voleva vincere questa scommessa, voleva ridere dei ragazzi che lo guardavano con interesse.
Non era mai successo e la cosa lo eccitava, lo faceva sentire importante, desiderato.
Era da tantissimo tempo che non si divertiva così.
Quando lui ed Eloise avevano finito era assolutamente irriconoscibile.
Il caschetto castano era stato vivacizzato a colpi di spuma e phon, le sopracciglia erano state spuntate e ridotte a due sottili linee scure , il volto era un maschera di fondotinta con una spolverata di fard, trucco pesante intorno agli occhi fra ripetute pennellate di mascara, passate di matita, ombretto scuro e eyeliner  glitterati ma le labbra erano stato il capolavoro di Eloise.
Disegnate da una vistosa matita rossa e riempite da strati e strati di rossetto e lucido si erano inturgidite, gonfie e carnose come lui non le aveva mai viste.
Quando avevano incontrato Marc Callway e il suo gruppo Eloise l’aveva presentato come Michelle, una sua cara amica francese, venuta a farle visita.
Brian era dovuto rimanere in silenzio, soffocando le risate e accontentandosi di lanciare degli sguardi intensi, con un velo di malizia, e increspare le labbra in sorrisi accennati.
Sapeva che se avesse aperto bocca avrebbe rotto l’incantesimo.
Quella sua voce nasale, aspra e palesemente maschile non doveva uscire, ma rimanere confinata in gola, dove nessuno l’avrebbe mai sentita quella sera.
Per precauzione ora tutto il gruppetto pensava che la misteriosa ragazza francese fosse muta.
Marc li aveva introdotti nel locale garantendo per tutto e dichiarandosi un più che ventenne e, come era previdente nessuno si prese la briga di controllare.
Il locale, inaugurato da poco, aveva quattro stanzoni in cui si affollavano schiere e schiere di universitari, in jeans e camicia larga, pullover colorati, su cui si riflettevano i lampi di luce psichedelica del locale della pista. Il resto del locale era avvolto nel buio.
La musica era ritmata,  frastornante tanto era alta, e la pista pian piano si andava riscaldando, mentre le persone sfilavano, passando dalla pista al bancone che serviva pinte di birra e anche qualche alcolico dai colori psichedelici per i più coraggiosi.
Per un attimo Brian aveva cercato suo fratello fra i ragazzi del locale e lo aveva trovato, appartato, con la sua ragazza, Leah. 
Poi era stato distratto da un ragazzotto della banda, un tale Steve che distribuiva pillole in busta e gliene stava agitando una davanti al naso.

“Ehi, piccola, vuoi provare?”

Brian aveva sfoderato la più innocente delle espressioni, scuotendo il capo in un debole rifiuto, ma quello non si era lasciato ingannare da quella finta ritrosia.

“Ti piacerà, è una favola.
C’est magnifique.
As tu compris? ”

Parlava un francese rozzo, masticato, e si era mangiato le finali delle parole tanto che il suo interlocutore aveva dovuto sforzarsi per ricostruire le sue parole.
Ma il ragazzo non aveva aspettato nemmeno conferma e aveva afferrato Brian per il polso;
con fare sbrigativo gli aveva cacciato nel palmo una bustina di plastica con la pillola grigiastra, e gli aveva chiuso le dita perché questi la stringesse , quasi temesse  che “la ragazza francese” l’avrebbe gettata per terra.

“Prova”

E Brian non se l’era fatto ripetere. Aveva estratto la pillola dalla busta e l’aveva messa in bocca.
Grattava sulla lingua come una normale mentina ed  aveva un retrogusto amaro.
Poi era stato richiamato da Eloise che per poco non aveva rovinato tutto, pronunciando il suo nome, per poi correggersi con un mezzo colpo di tosse soffocato.
Ma c’era troppo fracasso per attirare davvero l’attenzione.

 


È  più di un’ora che stanno là dentro e Brian è costretto ad appoggiarsi ad una parete di cartongesso.
I tacchi gli stanno martoriando i piedi, sente le gambe sudate, i collant  gli irritano la pelle sulle cosce che la gonna a balze blu è troppo corta per coprire come si deve, le ruches della camicetta bianca sembrano appiccicarsi al petto e sopra la giacca bombata argentea sembra opprimerlo ancora di più, ma non osa toglierla per paura che il sudore riveli il petto liscio e maschile.
Chiude gli occhi per un attimo: strane immagini, colori accecanti gli ballano davanti agli occhi, lo abbagliano e non trova pace nemmeno con le palpebre serrate.
Dopo un po’ sembra abituarsi ai fari luminosi che lo investono e le luci si fanno più tenui.
Apre gli occhi e intorno a lui ci si sono centinaia di persone che si tengono per mano, che ballano freneticamente.
Stira le labbra in un sorriso beato mentre cerca di rimettersi saldo in piedi.
Ma le caviglie lo tradiscono e cade per terra atterrando con un tonfo sul pavimento.
Si morde a sangue la lingua mentre pensa di essersi smascherato davanti a tutto il locale.
Ma il grido strozzato che ha lanciato prima di atterrare di peso a terra non sembra essere stato udito da nessuno.
Non riesce ancora a rimettersi in piedi, non ci prova neppure mentre vede lampi di luce che investono le persone nella sala e improvvisamente una di queste sembra venire verso di lui, a passo sostenuto, come allertata da qualcosa.
Attorno a quello che si rivela essere un uomo Brian crede di vedere una nuvola dorata, un luccichio che lo lascia conquistato, come se stesse ammirando una creatura divina, come una Madre Teresa in piena estasi.
Risuona, amplificata la voce di quell’uomo, roca e grattata, Brian non sa se ha capito ma non gli importa. Si lascia sollevare per i fianchi da quell’angelo sconosciuto e si aggrappa a lui cercando di rimanere saldo sulle gambe.
L’uomo gli carezza il viso, dicendogli qualcosa, con un sorriso più simile ad un sogghigno ma Brian ormai non riesce più a vedere le cose come stanno. Quel sogghigno è per lui il sorriso più luminoso, caldo e sensuale che abbia mai visto e così anche lui risponde stirando le labbra timidamente, allungando il collo come una preda che, in un momento di follia, offre la giugulare scoperta al suo cacciatore.
Sente il calore inondarlo mentre la mano dell’uomo lo carezza sulle gambe magre, risale le sue cosce sudate e imprigionate nel nylon della calza.
L’uomo  scosta quasi distrattamente alcune ciocche sudate che si erano appiccicate al lucido delle labbra e poi preme con decisione la sua bocca su quella di Brian.
I due corpi arretrano verso il muro, la giacca e la camicia del ragazzino sono incollate fra la schiena e il cartongesso, mentre quell’uomo gli si spalma addosso cercando di infilare le mani sotto la gonna.
Poi in un attimo Brian si vede strappare via il suo angelo di dosso che finisce dritto, disteso sul pavimento, battendo la schiena per terra.
Le guancie gli si infiammano mentre mani forti, grosse, gli schiaffeggiano violentemente il volto.
Un urlo ferisce le sue orecchie ma ancora una volta lui non riesce o non vuole sentire le parole.
Quelle stesse mani lo tirano su, in braccio e lo portano in mezzo ai corpi, decine e decine di corpi rosso-arancioni, enormi, altissimi che torreggiano sulla figura piccola, fragile e spezzata di Brian.
Viene depositato in lungo sul sedile di un’automobile mentre il proprietario di quelle mani raggiunge il posto di guida, sedendosi accanto ad una bionda ossigenata.
Le immagini continuano a galleggiare, gli sfondi cambiano colore, la sensazione di stordimento e straniamento è sempre più forte, quasi piacevole.
Brian appoggia la testa sul sedile e sorride, beato.

********************

Quando Barry Molko varca la porta di casa, alle due di notte, è ben attento a non svegliare la madre e il padre che ormai sarà rientrato per la notte.
Trasporta il fratello minore in braccio, semiaddormentato, che ogni tanto solleva la testa, apre gli occhi ma il suo sguardo è più vacuo che mai.
Dietro di lui entra in casa Leah che chiude a chiave la porta di casa e segue il suo ragazzo ancora sconvolta dalle scene a cui ha assistito nemmeno un quarto d’ora fa.
Barry sale al piano di sopra e appoggia sul letto, con delicatezza quello sciagurato fratello conciato in quel modo vergognoso, strafatto di chissà quale schifezza che per poco non diventava la puttanella della serata di uno dei depravati che girano per locali.
Barry non vuole pensarci e sembra irritarlo l’occhiata sconsolata e scandalizzata che gli lancia la sua ragazza, mentre osserva quel ragazzino dal trucco sbavato, con quelle labbra sensuali semi-aperte, che ha rovinato la sua serata.

“Ma come...”
“Sta’ zitta. Andiamo a letto.”
     
  

Angolo dell’Autrice

Glossario: è magnifico. Hai capito?

Ovviamente i personaggi di Eloise con tutta la famiglia Brown, i vari Marc e gruppetto e Leah, sono beatamente inventati come lo è anche l’episodio.
Dundee è la cittadina della Scozia in cui la famiglia Molko si è trasferita dopo il soggiorno in Libano e lì Brian ha vissuto circa un paio di anni.
è invece vero che Brian ha cominciato a truccarsi all’età di dodici anni (ennesima intervista su placeboworld.co.uk) anche se questo non centra molto con le scene che ho immaginato io.
Diciamo che dovrebbe valere come una sorta di iniziazione ad un Brian che ricorderà tantissimo quello di “The Rerum Natura”  a cui non posso fare a meno di ispirarmi, condividendone in tutto e per tutto la costruzione del personaggio.
Credo sia intuitivo che le allucinazioni sono dovute ad un acido e per ricostruire più o meno l’ambiente primi anni ’80 (pallidamente abbozzato) ho dato un’occhiata all’aria che si respira nel primo quarto d’ora di “Christiane F., noi e i ragazzi dello zoo di Belino” visto da poco.
Ringrazio tutti quelli che eventualmente si fermano a leggere, specie nainai che segue la raccolta.
Quando volete fatevi vivi: non mordo! *_*

Misa

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Luxembourg 1988 ***



Luxembourg 1988





“Brian,
dove cazzo è questo posto?!”

Il ragazzo biondo al fianco di Brian comincia ad essere stanco di andare in giro così, senza meta, rincorrere gli autobus, camminare per i larghi viali del centro, guardato in malo modo da tutte le vecchine del quartiere che li squadrano e borbottano qualcosa sulla “gioventù moderna, sfaticata e perditempo”.  Se fosse per lui probabilmente nessuno farebbe caso alla sua presenza;
è alto per la sua età, può passare tranquillamente per un giovane universitario, occultando semplicemente lo stemma dell’uniforme dell’American International School of Luxembourg, con una  semplice tracolla di tela blu scuro, la camminata lunga e decisa e una maturità stampata in faccia che non si trova tutti giorni in una classe di sedicenni in erba.
Ma il suo compagno non può assolutamente passare inosservato, in gonna corta di tartan rosso con apertura a portafoglio da cui spuntano le calze nere spesse ravvivate da scaldamuscoli di lana color panna e oro, e sopra l’immancabile chiodo di pelle.
A guardarlo di sfuggita sembra una graziosa ragazzina, forse una quindicenne, che ha marinato la scuola e che a stento riesce a stare dietro alle lunghe falcate del suo ragazzo.
Ogni tanto il biondo è costretto a rallentare per consentire a Brian di stargli dietro, anche perché non ha la più pallida idea di cosa gli frulli nella testa.
A Brian piace tenerlo sulle spine, ha eluso tutte le sue domande fino ad ora e ancora gongola perché è riuscito facilmente a distoglierlo dalla prospettiva di un’altra noiosa giornata di scuola.
Oggi non c’era nemmeno il laboratorio di teatro e poi era da tempo che il moro voleva farlo.

“Mi sono rotto! È da stamattina che siamo in giro, che cazzo!”

Il biondo si pianta come un palo della luce in mezzo alla strada e sembra non avere nessuna intenzione di proseguire. Brian è costretto a fermarsi e  sfoggia il solito broncio che affiora sul viso ogni qualvolta che qualcosa non va come dovrebbe andare.

“Siamo arrivati Jules, è in fondo a questa strada.”
“Che cosa c’è in fondo a questa strada, Brian?! Cosa?!”

Sillaba quel “cosa” con veemenza e incrocia le braccia la petto non accennando a muovere di un passo. È arrabbiato con lui, e Brian sa che non è solo una questione di chilometri a piedi.
è incazzato perché ancora una volta lui non lo ha avvertito che avrebbero fatto filone, e così il biondo adesso era in uniforme, con la tracolla stracarica di libri e il fiato corto.
Ancora una volta “non avevano preso le decisioni insieme”. 
Era una nuova mania che gli era venuta ultimamente.
Un giorno il biondo era venuto da lui, tutto emozionato e tronfio come se avesse scoperto l’America, e aveva attaccato tutto un discorso sui ruoli della coppia, sulla necessità di capirsi, di accettare l’uno i bisogno dell’altro, confidarsi e dare fiducia all’altro, consultarsi per qualunque tipo di decisione.
Quest’ultimo argomento sembrava stargli particolarmente a cuore e così tutto doveva essere discusso e concordato.
Brian all’inizio aveva lasciato fare e, come previsto, la situazione non era molto cambiata;
lui si limitava a fare comunicazioni, dava l’impressione di ascoltare le argomentazioni del suo ragazzo, e alla fin fine il discorso cadeva e il moro l’aveva sempre vinta.
Ma adesso stava diventando tutto più complicato, quegli atteggiamenti protettivi, quei continui controlli cominciavano ad irritarlo.

“Su, tesorino, cinquanta metri e ci siamo.”
“Io non mi muovo finché non mi fai capire.”
“Amore, è una sorpresa! Altrimenti che gusto ci sarebbe?”

Brian cerca lo sguardo del compagno mentre questo tenta di mostrarsi intransigente e deciso, senza riuscirci veramente. Gli occhi del moro sembrano rivolgergli una muta preghiera, come se un rifiuto potesse davvero ferirlo. Ancora una volta Jules Mertens maledice quell’aria innocente, da cucciolo smarrito che il suo ragazzo tira fuori quando gli fa più comodo e lui, nonostante conosca benissimo il suo gioco, finisce sempre per cedere.
Anche stavolta, sbuffa, avvilito e si lamenta mentre riprendono a camminare, più lentamente:

“Che palle, oggi è pure il mio compleanno! Avrò il diritto di passarlo come voglio?! E invece no! Devo seguire te, in culo al mondo, e non hai nemmeno la decenza di dirmi dove.”

è tanto impegnato a lamentarsi che non si accorge nemmeno di Brian che scivola in uno dei negozi dalle vetrine opache, con quel triste sfondo bianco o grigiastro come l’asfalto, ingombre di oggetti, quasi in disordine.
Per un attimo lo osserva, perplesso, aldilà della porta di vetro mentre questo sembra parlare con una giovane commessa, una smorfiosa dal sorriso falso e scialbo, per di più.
Getta un’occhiata al nome del negozio “Music Shop Cavem Sarl” e si dice che lo ha già sentito da qualche parte. Poi finalmente raggiunge il compagno nel negozio che stringe fra le mani un pacchetto, incartato in una bella carta da regalo bianca e verde acido.

“Tesorino, questo è per te.”
 
Jules rimane a bocca aperta mentre Brian gli tende il pacchetto delle dimensioni di un libriccino di un centinaio di pagine. Non fa caso al tono con cui l’altro lo ha apostrofato; il tono di chi è sollevato di avere una seccatura in meno.
D’altra parte Brian non è mai stato dolce con lui, né con nessun altro che lui conosca o ricordi.
Il biondo è abituato ad essere strapazzato, riempito di attenzioni o ignorato a seconda del momento.

“Brian...grazie...”
“Apri”

Anche questo suona più come un ordine che come una vera esortazione e subito Jules ubbidisce, velocemente strappando quella bella carta, senza remore.
Appallottola i fogli di carta in una mano mentre nell’altra stringe una piccola armonica a bocca di quelle cromate, argentea e ben lucidata.

“Oddio, come...come lo sapevi? Era da secoli che la volevo!”
“Ti piace?”
“è...grandiosa.  Davvero, come lo sapev...”

L’indice di Brian si posa sulle sue labbra, interrompendolo, e accarezzandogli poi la guancia con la delicatezza di una farfalla che si posa su un davanzale.
Poi il moro si sporge in avanti soffiando con il suo alito caldo sul collo dell’altro e sussurra, indugiando, con malizia, a pochi centimetri dal suo orecchio:

“Parli nel sonno.”

Sollevandosi sulle punte, gli ruba un bacio innocente, un leggero contatto di labbra, e poi un morsetto sull’angolo della bocca. Jules arrossisce violentemente e si ritrae, trasudando vergogna da tutti i pori.

“Cristo! Ti ho detto miliardi di volte che non mi piace che ci vedano!” 

Si strofina il dorso della mano sulla bocca, resa appiccicosa da quell’infernale lucido che Brian si mette puntualmente ogni mattina.
L’altro ridacchia, con il divertimento dei bambini che sanno di star facendo un dispetto a qualcuno,  fa spallucce e si volta,  lasciandolo a tormentarsi le labbra, a passarsi la lingua sulle sbavature di rossetto, cercando di cancellarle con la stessa furia con cui Lady Machbeth cercava di lavare il sangue dalle mani.
Jules si chiede se sia il caso di cercare uno specchio. Magari lì, in negozio hanno una toilette.
Non gli è mai veramente andata giù quella disinvoltura con cui Brian tratta la loro relazione, quelle libertà fisiche che si prende in pubblico, magari davanti a gente che conosce.
E tutto per il mero gusto di provocare.
Al biondo non piacciono affatto le “trasgressioni”, anzi, preferisce la sua tranquillità, la sua vita quotidiana, abitudinaria che non riesce tanto a conciliare con quel ragazzetto e i suo atteggiamenti da sciacquetta di marciapiede.
Ma inevitabilmente il proibito, la ribellione e una buona dose di ambiguità hanno il loro fascino.
Alla fine, seccato, decide di lasciar perdere e di raggiungere il compagno che ascolta, molto interessato quell’ochetta della commessa che sembra snocciolargli a memoria la lista della spesa.

“…custodia compresa, si. In tutto verrebbero duecentottanta franchi, al prezzo di catalogo.
Scontata  duecentotrenta. ”
“duecento”
“come prego?”
“faccia duecento.”
“Non siamo al mercato. Io non faccio proprio niente.”
“Ah”

Jules osserva l’espressione irritata della commessa e improvvisamente gli sembra meno stupida di poco fa. Ha capito che ha a che fare con un cattivo cliente.
Di fronte a lei c’è Brian, scuro in volto, che osserva l’oggetto desiderato, una ESP Telecaster nera e bianca, un modello dell’82, nemmeno tanto rovinata, ha un paio di scheggiature appena sotto il pick up e ai lati del ponte. Anche se basta questo a rovinare l’effetto nero lucido del body e giustifica il prezzo decisamente ribassato.

“Brian, è già scontata di cinquanta franchi…non credo sia il caso…”
“Mi tolga una curiosità, a chi crede di venderla?”

Come prevedibile, Brian non si arrende e si rivolge alla commessa con dolcezza, con il tono mellifluo, una voce affettata e un piglio ironico, canzonatorio, quasi volesse compatire la stupidità di quella povera ragazza.
Jules per un attimo la vede in difficoltà mentre si aggiusta dietro le orecchie una lunga ciocca bruna, fa un respiro e cerca di mantenersi calma e posata davanti all’ennesimo cliente stravagante.
Forse starà pensando che sarebbe dovuta andare a lavorare in un negozio di vestiti, alla peggio in una drogheria, così almeno avrebbe avuto una clientela normale.
I musicisti sono sempre svitati, pieni di pretese, boriosi e questo qui è anche impudente oltre che ridicolo e grottesco, conciato in quel modo.
Si guarda per un attimo intorno; forse spera che il proprietario del negozio sia tornato.
Aveva detto che stava via cinque minuti e lei, con tranquillità, si era detta che  in fondo cinque minuti erano troppo pochi perché succedesse qualcosa.
La risposta è secca, come un punto che vuole mettere fine ad un discorso, che non lascia possibilità di ribattere, che vorrebbe essere definitivo. 

“Non sono affari tuoi.”
“Lei non si intende molto di musica.
Sbaglio?”

Quel Lei è fastidioso, è inappropriato almeno quanto quel ragazzino che adesso è passato alla delegittimazione personale, all’insinuazione sottile, al solo scopo di esasperare.
Persino Jules avverte una sorta di fastidio, per l’invadenza del compagno, per il suo essere così strafottente e l’innocenza del suo volto che stona con la malignità delle sue frecciate.

“No. E non me ne frega niente.”
“E non gliene ne frega niente nemmeno del suo lavoro, immagino.”
“Senti, frocetto, che cazzo vuoi?!”
“Lei deve vendere un prodotto che messo come lo vede non vale nemmeno la metà del prezzo di catalogo. E io mi sto offrendo di pagarlo duecento franchi, un’offerta generosa. 
Non sarà un’esperta di musica ma questo mi pare solo buonsenso.
Non si intende nemmeno di quello? ”
“Brian…”

Jules vorrebbe dire che il suo compagno come al solito esagera, si diverte a mettere in difficoltà le persone, mette su quelle stupide sceneggiate forse per noia, forse per puro desiderio di esibizionismo;
vorrebbe dire che come al solito il suo ragazzo ha gonfiato la realtà, che le scheggiature di quella chitarra non vanno a intaccare il suono e il normale funzionamento dello strumento, che possono essere semplicemente occultate con un paio di verniciature e del copale trasparente.
è giustificato un piccolo sconto per risarcire il danno ma non per questo adesso lo strumento vale la metà del prezzo. E cinquanta franchi di sconto sono tanti.
Ma come al solito la sua voce si perde, ammutolita da un’occhiata fredda e ammonitoria di Brian.
Nel frattempo la povera commessa si guarda intorno come un animale in gabbia e stavolta la risposta è meno combattiva del solito:

“Senti, non lo so, ok? Quando torna il mio capo poi parli con lui.”
“Lei non fa le veci del suo capo, in sua assenza?”
“Si…ma…”
“E allora per quale motivo dovrei perdere tempo ad aspettarlo?
Crede di essere troppo stupida per trattare la vendita di una chitarra?”
“Mi stai dando della stupida?! Chi cazzo ti credi di essere?!”
“Se non è capace di vendere una chitarra o è stupida o ha una bassissima autostima.”
“BRIAN!”

Adesso ha esagerato. Se era un gioco è durato troppo. Se invece era davvero una contrattazione sta sfiorando livelli vergognosi. Jules non può fare a meno di intervenire in aiuto di quella povera ragazza che è rimasta decisamente sconvolta da quella conversazione surreale che nessuna persona ammodo avrebbe mai portato avanti.
 Per un attimo regna un silenzio imbarazzante.
Non sono passati nemmeno cinque minuti eppure questa messinscena sembra andare avanti da ore.
Fuori è ancora nuvoloso, la gente passa e va di fretta, nessuno si ferma a guardare la vetrina, nessuno entra, il mondo è troppo impegnato a girare per accorgersi che da “Cavem Sarl” il tempo va a rilento in modo straziante, come una goccia di rugiada che scivola faticosamente giù da un filo d’erba.

“Mi fa duecento?
Per favore…”

Questa volta la voce è gentile, quasi infantile, il ritratto dell’innocenza e della purezza.
Basta questo a confondere ancora di più la povera commessa.
è stordita, incredula e per un attimo le sembra la cosa più sensata da fare; annuisce, stancamente, abbandonando la battaglia.
Jules si aspetta che Brian esulti, la derida, magari infierisca ma stavolta rimane deluso.
Sembra lo specchio dell’umiltà, un’altra persona anzi la cortesia in persona, con tanto di sorriso d’incoraggiamento che gli illumina il volto.
La ragazza si muove meccanicamente, batte sulla cassa la cifra pattuita  e il cassettino di metallo si apre con un click, una nota di vivacità, finalmente.
Brian tira fuori cinquanta franchi e li posa sul banco, poi candidamente si rivolge al suo ragazzo:

“Jules, mi presti centocinquanta franchi?”
“Mi servono per ritirare il vestito di mia madre dalla sarta!”
“Te li rendo.”
“Ma mi servono oggi, Brian!”
“Ho detto che te li rendo.”
“Oggi?”
“Forse.”
“Ma…”
“Amorino, non vogliamo disturbare ancora, no?”

C’è un che di minaccioso nella serafica risposta di Brian e tanto basta perché Jules perda la voglia di aprire un’altra questione.
Adesso vuole solo uscire da questo posto, scomparire e non entrarci più per nessun motivo.
Pensa che questo è uno dei compleanni peggiori mai passati, ma pensa anche che, da un po’ di tempo a questa parte, ogni giorno è sempre peggio.
Da quando ha conosciuto Brian per l’esattezza.
Ma Brian gli ha fatto un regalo. Non gliene aveva mai fatto uno.
Lui lo riempiva di attenzioni, gli offriva il pranzo, pagava l’ingresso dei locali, gli aveva persino regalato dei fiori, una volta, perché con le ragazze si usava fare così.
A natale gli aveva regalato un walkman, al suo compleanno l’ultimo cd dei Sonic Youth.
Ma era la prima volta in più di sei mesi che Brian gli faceva un regalo.
Tutto sommato è una bella giornata questa, pensa Jules mentre sborsa centocinquanta franchi.


****************


Sono le dieci e mezza di sera, è relativamente presto, la vita notturna comincerebbe adesso se mai ce ne fosse una. Invece, nei giorni feriali, le strade sono semi-deserte, i tavoli dei locali sono vuoti o popolati da bande e gruppetti sparuti, qualche birra nei pub, qualche schiamazzo da parte dei più vivaci, ma questo è tutto.
è una cittadina deprimente, almeno quanto lo è l’adolescenza di Brian che perde tempo, seduto sul marciapiede, all’uscita di un locale, con una sigaretta fra le labbra, la quinta della serata, la decima della giornata.
Jules è andato a rimediare da bere, magari qualche lattina di birra, magari qualcosa di più forte.
Brian non è voluto entrare perché non ha i soldi per pagare il tavolo.
Ovviamente la birra la offre Jules.
Lui ha speso tutto stamattina per comprare la sua nuova ESP che potrà collegare agli amplificatori che gli ha passato Nick, il migliore amico del suo ragazzo.
Adesso ha tutto e ripensa alle note vibranti di “Teenage Riot”  che gli suonano in testa da un pezzo.
Fino a questo momento aveva provato sulla chitarra di Jules e in effetti era per questo che avevano iniziato a frequentarsi. Anche se Mertens aveva tradito i Sonic Youth con i R.E.M e poi ancora se n’era disinnamorato scoprendo Lou Reed.
Brian invece voleva e vuole imparare suonare, vuole provare a cantare sulle voci di Thurston Moore o Lee Ranaldo, a strimpellare sulle orme di Kim Gordon e rompere l’apatia che lo invade, con le note di  “Hey Joni”, “The Sprawl”, “Eric’s Trip”.
Adesso la sua nuova chitarra è a casa di Jules ed è lì che Brian ha intenzione di dormire stanotte, quando tornerà a casa, non prima di l’una di notte.
Cosa farà intanto? Fumerà, berrà, scambierà qualche parola con il suo ragazzo, con un orecchio ascolterà una nuova band che suona nel locale, una formazione buona, tutto sommato, anche se poco originale e appassionata di cover.
E magari passerà qualcuno del gruppo di Jules con cui intrattenersi per un po’, chissà.
Già vede un certo movimento per la via:
cinque o sei ragazzi che si trastullano vicino ai pali della luce, che rovesciano un cestino dell’immondizia, che ridono sguaiatamente, che fischiano al passaggio di qualche ragazza che cammina a passo svelto sull’altro lato del marciapiede.
Si dirigono proprio verso il “The Tube”, pub della città famoso perché gestito da Thomas Dicher, noto chiacchierone e ficcanaso, “peggio di una zitella pettegola”, dicono.
Ma non sono amici di Jules, quelli, e purtroppo non sono nemmeno perfetti sconosciuti.
Da bravi conoscenti e rispettosi compagni di classe, si fermano a salutare:

“Ehi, ragazzi, guardate chi c’è? Mss Molko!”

Un coro di risate, acute e gravi, roche e stridule, tutte di scherno e su questo non ci piove.
A parlare è un ragazzotto paffutello, con i capelli tirati indietro e l’aria compita, in camicia, jeans scuro e pullover blu di cashmere che porta stampata la firma della sua fortuna e che grida a gran voce “io sono un riccastro e me ne vanto.” .  
Lui si fa avanti mentre alcuni sono rimasti indietro come tante pecore al pascolo, altri si radunano intorno al loro capo, a semicerchio, come un gruppo di coreuti.

“Ma quanto siamo carini, stasera, Miss! Un bijou! I clienti hanno apprezzato?”

Fra la scia delle risatine emerge il tono basso e masticato di Brian che arriccia le labbra in un sorriso provocatorio mentre tira una lunga boccata e caccia fuori una nuvola di fumo, come se volesse fare nebbia intorno a sé.

“Stasera sei il primo.”

La risposta non sembra piacere. Un mormorio percorre il gruppo, molte le occhiate di disprezzo, qualcuna anche di disgusto. Ma il capo mette a tacere i commenti, avvicinandosi lentamente, respirando a pieni polmoni il fumo della sigaretta di Brian, mentre sillaba, con malignità:

“Io non mi sbatto frocetti in crisi d’identità.”
“La tua prima volta? Niente paura, farò piano.”

Stavolta il ragazzotto non la prende bene. Chiuso il pugno in una morsa, lo abbatte sulla guancia di Brian mancandogli di poco il naso. Il moretto reagisce allo spavento e al dolore lasciando cadere per terra il mozzicone di sigaretta e mordendosi il labbro a sangue, in un gesto inconsulto.
Non ha neppure il tempo di massaggiarsi la guancia che l’altro lo afferra per il colletto della camicia e lo scuote violentemente spostando poi la presa sul collo e facendo pressione.

“Oggi abbiamo voglia di scherzare, eh?
 Facci ridere ancora, Molko.”
“Ma… qua-anta-a…free-e-tta…di-i alu-lu-ungare-e le m-mani, Va-an-nden.”

La stretta di Vanden gli toglie il respiro mentre le sue unghie laccate di nero cercano di graffiare i polsi e le mani dell’altro, strette al suo collo. Il commento è un sussurro rauco, seguito da una sfilza di colpi di tosse che fanno pensare che si possa strozzare da un momento all’altro.
Riceve come risposta un altro pugno, stavolta nello stomaco e viene sbalzato indietro;
se la gola è libera quel colpo in pancia gli ha mozzato il fiato.
Brian annaspa, il petto si alza e si abbassa a singhiozzo e passano in secondo piano i calci alle gambe, alle braccia, alla schiena, mentre il ragazzino si mette su un fianco, cercando di proteggere almeno un lato di quel suo corpo maledettamente sottile e schifosamente fragile, che viene sempre meno in questi momenti.
Vanden incalza, i suoi colpi si susseguono sotto agli sguardi famelici dei suoi compagni, come iene che attendono il loro turno per gettarsi sulla preda.
Dovranno attendere che il leone finisca di dilaniare la sua vittima.
Ma bastano tre colpi di clacson per metterli in fuga mentre i fari di un’automobile illuminano l’ingresso del locale e, sul marciapiede, poco più avanti la sagoma di Brian, scossa da brividi e tremori.

“Ce la fai ad alzarti? Ormai pesi.”

Barry tende una mano a suo fratello, stancamente, ignorando le ultime scie del gruppetto di avvoltoi che si è dileguato per la Rue Sigefroi*.
Brian si stringe nelle spalle e poi si tira a sedere lasciando la mano del fratello a mezz’aria.
Si massaggia le gambe piene di lividi dolenti, aggiusta i capelli neri dietro le orecchie, e fa un paio di sospiri per calmare il battito cardiaco che va a mille, per lo spavento, la paura, la rabbia e la frustrazione.

“Che fai qui?”
“Ero venuto a cercare te.”
“Ah”

Finalmente il cuore si è calmato, il respiro è regolare, adesso comincia a farsi sentire l’indolenzimento, il dolore dei colpi sulla schiena.
Non c’è niente di meglio di una buona sigaretta per distrarre il suo cervello, per ritrovare nei gesti meccanici un po’ di sana tranquillità.
Si accende l’undicesima bionda della giornata mentre il fratello lo osserva, con un misto di malinconia e pietà.

“Andiamo a casa?”
“Sono le undici meno un quarto.”
“Embè? Cosa c’è?  non è abbastanza ‘da grandi’ andare a letto alle undici?”
“C’è che non ho sonno. E poi papà torna a casa a quell’ora.”

Per qualche secondo si sente solo qualche schiamazzo solitario accompagnato dall’ululato straziante di una tromba malinconica che fuoriesce dall’ingresso del “The Tube”. Probabilmente sono solo le note di un 45 giri, messo su per riempire il vuoto lasciato dalla band di esordienti che ha dato fondo al suo repertorio; è lì per rilassare l’orecchio e concedere a qualche coppietta un momento speciale.
L’essenziale è riempire il silenzio, pensa per un attimo Barry mentre si va a sedere accanto al fratello, rassegnato; è evidente che quello non ha nessuna intenzione di alzarsi.

“Che ci fai qui?”
“Te l’ho detto. Sono venuto a cercarti.”
“Che vuoi?”
“Adesso ho bisogno di una giustificazione scritta per stare con mio fratello?”
“Non raccontarmi stronzate, Barry.”
 “Sei sempre stato tu quello che diceva stronzate, Brian.
Anzi, peggio, FAI stronzate, ti cacci nei guai e poi tocca a me venirti a recuperare.”
“Nessuno te lo chiede.”
“Tu non chiedi mai. Prendi e basta.”


Silenzio. Adesso la tromba si è lanciata in un acuto ancora più lento e straziante, un virtuosismo del musicista che domina la scena da grande solista, come il personaggio principale nel bel mezzo di un lungo e contorto monologo. 
Barry pensa che in fondo parlare con Brian è sempre stata un po’ come parlare da soli, convinti che il proprio monologo sia un dialogo acceso, un confronto serrato, una battaglia all’ultimo sangue. Poi vede l’indifferenza e l’apatia nei suoi occhi, segno che in lui non è cambiato niente, che non ha fatto nessuna differenza.
Barry pensa che lui non era così da ragazzino. Era un po’ irrequieto, insoddisfatto della sua vita, aveva grandi sogni, grandi aspirazioni, continuamente frustrate dai continui cambi di residenza, dagli spostamenti e dalle incombenze familiari che lo tenevano perennemente sradicato, come il gambo di una rosa tagliata, lasciata a seccare nel pantano di un vaso di vetro.
Poi un giorno aveva seguito il consiglio di suo padre, si era interessato del suo lavoro, di finanza, di banche e di aziende e adesso era un cittadino rispettabile, di quelli che vestivano in completo nero e leggevano la pagina delle azioni in borsa, con una portadocumenti sempre appresso.
E non era mai stato così felice.
Aveva una compagna adorabile con cui meditava di sposarsi prima dell’inizio del nuovo decennio.
Perché Brian non voleva essere felice?

“Ho bisogno di centocinquanta franchi.”
“Che ci devi fare?”
“Me li sono fatti prestare da Jules, adesso devo restituirglieli.”
“Perché te li sei fatti prestare?”
“Per comprare una chitarra.”
“Tu sai suonare la chitarra?”
“Imparerò.”
“E il teatro come va?”
“Come al solito.”
“Continua a piacerti come sempre?”

Brian lancia al maggiore uno sguardo seccato e getta il mozzicone di sigaretta, spento, per terra.
Fa per pescarne un’altra dalla tasca quando si accorge che sono finite.
Ha un moto di rabbia, un po’ stizzoso, e getta per terra anche il pacchetto vuoto, calpestandolo con la gomma spessa degli anfibi neri.

“Non dovresti fumare così tanto.”
“Cazzi miei.”
“Ho parlato con la mamma, oggi, prima di venirti a prendere.”
“Io ci parlo tutti i giorni, purtroppo.”
“Mi ha detto che non le rivolgi quasi la parola, che mangi pochissimo, che non sei mai a casa e che non l’accompagni più in chiesa la domenica.”
“Non abbiamo niente da dirci. Cucina uno schifo.
Avrò di meglio da fare, che dici?
Ah, dimenticavo…sono una checca isterica, ricordi?
Finirò all’inferno.”
“Brian, chi te l’ha…”
“Lei me lo ha detto. Chi altri?”
“è perché ti conci in questo modo, pittandoti in faccia come una ragazzina dark e indossando certe gonnelline striminzite che lasciano davvero poco all’immaginazione. Salvo poi scoprire che sei un uomo, cosa che la maggior parte della gente che ti guarda di sfuggita non capisce!”

Sul volto di Brian si allarga un sorrisetto soddisfatto, quasi gli avesse fatto un complimento.
Poi si tira su, le gambe intorpidite protestano, i lividi bruciano ancora, e fa un cenno a Barry, di saluto.  Anche stavolta cerca di fuggire, pensa Barry. Come un’anguilla che ti scivola dalle mani, anche quando la afferri saldamente per il collo.

“Ti accompagno.”
“Sopravvivo da solo, grazie.”
“Si è visto.”
“Era normale amministrazione.”
“Era bullismo, Brian.”
“Appunto.”

Adesso Barry comincia ad irritarsi di quelle frasi strappate al fratello, a singhiozzi.
Si chiede perché ha deciso di venire a prenderlo, di parlarci.
Non parlano veramente da mesi, forse un anno, forse di più.
Lui, Barry, ha la sua vita, ha Leah che lo aspetta a casa, Leah che torna dalla scuola superiore in cui insegna inglese e francese, con le buste della spesa, che gli fa trovare il piatto caldo a tavola anche alle dieci e mezza di sera, quando di solito lui rincasa, che si lamenta perché il gatto sporca, perché i prezzi salgono e quel “pezzo grosso” di suo marito non può fare nulla per impedirlo.
Non gli manca molto la sua famiglia; in fondo sua madre si è realizzata abbracciando la comunità cattolica e il club di cucina e non è capace di parlare d’altro, parlare con suo padre significa parlare di lavoro e per di più sentirsi in soggezione davanti a lui e sorbirsi sermoni infiniti sul mercato che è “volubile come la femmina”.
Rimaneva suo fratello ma ormai non ne è più tanto sicuro.

“Non vuoi proprio tornare a casa?”
“…”
“Vuoi venire da me?”
“Barry, che cazzo vuoi?”
“Avevo voglia di vederti.”
“Io, nessuna. E comunque hai lasciato la macchina in divieto di sosta.”
“Starò via pochissimo. Giusto il tempo di accompagnarti.”

Barry cammina seguendo il passo svelto del minore che sembra ansioso di liberarsi di lui.
Tra le altre cose casa di Jules non è affatto lontana,  una traversa più in là, in un bel palazzo ottocentesco, dalle ampie finestre, un posto luminoso, con vista sul viale che di giorno brulica di vita, ma che può diventare anche un rifugio, basta tirare le tende.
C’è un accenno di liberty nei fregi del portone, nota Barry quando si fermano davanti all’entrata.

“I genitori di Jules lo sanno?”
“No. In realtà non sanno nemmeno che sono in casa.”
“Ma come…”
“Semplice. Non ci sono mai.”

Il moretto tira fuori una chiave nuova di zecca, rifatta da poco, forse apposta per lui.
Mormora un  “Buonanotte” mentre si infila nel portone senza degnare di uno sguardo il fratello.
Ma ancora prima che abbia chiuso la porta, 

“Brian…!”
“Che c’è?”
“I centocinquanta franchi te li lascio nel cassetto della scrivania?”
“Va bene.”
“Buonanotte.”

Poi il portone si richiude.
A Barry non resta che ripercorrere la stessa strada dell’andata, solo e con l’amaro in bocca.
Avrebbe voluto abbracciarlo, anche solo una stretta simbolica per ricordare i tempi in cui, per qualunque cosa, il piccolo Brian correva dal fratellone e cercava conforto fra le sue braccia.
Stavolta nemmeno il più piccolo contatto, neanche di sfuggita.

Come sei diventato gelido, fratellino.






 







 


Note

*Per intenderci, il The Tube è un locale di Lussemburgo (8 rue Sigefroi) e non me lo sono inventato ma storicamente è stato fondato nel 1999 quindi questo qui consideratelo un antenato.
Sicuramente l’indirizzo è quello ù.ù
E poi mi piaceva il nome!

* Le canzoni citate sono dei Sonic Youth, uno dei gruppi prediletti di Brian nel periodo incriminato.
 Sono citati i membri principali della band (il batterista no, perchè siamo razzisti u.u) e nomi universalmente noti come i R.E.M e Lou Reed e se mi appartenessero li terrei tutto il giorno segregati in cantina a cantare per me, se li conoscessi verrei arrestata per stolkeraggio ai loro danni e blablabla...

Buongiorno, anzi buona sera anzi buona notte.
Non sono per niente soddisfatta di questa One ma non riuscirei a scriverla in nessun altro modo.
Mi spiace essere un po’ ripetitiva nelle tematiche ma siamo in pieno periodo adolescente-tormentato-NessunoMiCapisce-SonoSoloAlMondo e quindi una tendenza alla stronzaggine oltre che al nichilismo radicale è inevitabile <.<
Disclaimero tutto ovviamente anche se in effetti è proprio a 16 anni che Bri si procura la sua prima chitarra elettrica (o almeno secondo interviste/siti/FontiPiùDisparateSuInternet etc.), ha la sua prima relazione omo,  ha appena cambiato scuola ed è andato all’AISL senza tuttavia migliorare più di tanto la sua condizione di “soggetto” (e parlo dei bullismo, intendiamoci) e posso rivendicare come miei i personaggi di Leah, Vanden e Jules.
Qualcos’altro? No, direi di no.
Sono a posto, grazie.
Notte

Misa

p.s i migliori ringraziamenti a _Lilla_ e nainai  *_* 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Londra 1993 ***


Londra 1993



è un’ora indecente per tornare a casa e lo sanno tutti e due.
L’unica speranza è che i genitori siano andati a dormire senza preoccuparsi troppo, senza chiamare la polizia o mettere in allarme tutto il quartiere.
Sua madre l’avrebbe fatto una volta, pensa Brian, mentre si infila in uno dei vicoli oltre la stazione della tube, lasciandosi alle spalle la zona più “in” del quartiere, l’imponente Exhibition Road, storica arteria di epoca vittoriana, dove svettano maestosi celeberrimi edifici in stile Imperial, tutti sede di un qualche museo o college importante.
Dietro di lui, Nick si lamenta, con voce impastata e un alito che farebbe arricciare il naso a chiunque ma non il suo, in quel momento chiuso dal catarro,  in preda al raffreddore invernale.
Non che gli cambi la vita; la sua è sempre stata una voce nasale.
Quello che potrebbe spedirlo a letto una volta per tutte sono invece gli scrosci d’acqua piovana che vengono giù mentre i due ragazzi si addossano ai muri e alle porte dei negozi privi di luce e di vita, con le serrande chiuse da tempo.
Quando finalmente arrivano davanti alla porta del loro palazzo, Brian scrolla il compagno che a stento cammina e ogni tanto si aggrappa al suo braccio, con tutto il suo peso, sbilanciandolo.

“Nick! E piantala! Le chiavi, Nick!”

Ma quello si mette a blaterare cose senza senso, su come le chiavi gli cadono sempre nei tondini, di come sia difficile cambiare le serrature, di quanto sono stronzi i ferramenta che ti fanno le copie perché in genere non funzionano mai e spendi fior di quattrini prima che ne azzecchino una.
Brian alza gli occhi al cielo e, senza complimenti, infila le mani nelle tasche della giacca dell’amico e poi in quelle dei jeans, fino a tirarle fuori.
Traffica un po’ con la serratura e poi spinge dentro un Nick fradicio con un gesto un po’ brusco, ansioso di mettersi a riparo dai torrenti che gli hanno inzuppato i capelli neri ormai crespi  e arricciati.
Nick parla, biascica, ridacchia in maniera sconclusionata; è una specie di spugna ambulante.
Brian, in compenso, l’ha quasi smaltita un paio d’ore fa, la sbornia;
è il turno dei mal di testa lancinanti, dello stomaco che si rivolta, il sapore di vomito ancora in bocca e, ora che ha un peso semi-morto da mettere a letto, è anche di pessimo umore .
Lo trascina per le scale fino al terzo piano, all’appartamento dei signori Deckert, pregando di non svegliare nessuno e cercando di evitare il rumoroso sferragliare della chiave nel piccolo ingresso.
Lascia le scarpe vicino allo zerbino, sulla soglia ed è costretto ad abbassarsi per slacciare le sneakers dell’amico;  se quello provasse ad abbassarsi  cadrebbe come una pera  svegliando tutta la casa.
Ma la casa è già sveglia e Brian non fa in tempo a rialzarsi che la signora Deckert è lì, davanti a loro, in vestaglia di flanella bordeaux, nel pieno fiorire dei suoi quarantotto anni.

“Vi sembra questa l’ora di tornare a casa?!”

Per poco non urla, rischiando di svegliare il marito, tanto che Brian non può trattenersi dal zittirla con uno  “shhhhhh” decisamente poco educato. Quella inarca appena il sopracciglio ma abbassa la voce, continuando a parlare in modo concitato, puntando quei due occhi accusatori su Molko.

“Potevate almeno avvertire, Cristo santo! Almeno tu, Brian!”
“Signora Deckert, mi dispiace, ha tutte le ragioni per infuriarsi...”
“Una telefonata, Brian! Cosa vi costava una telefonata?! E perché mio figlio se ne sta lì come un debosciato? Che venisse ad affrontare sua madre per una volta, vigliacco che non è altro!”

Brian da un pugno sulla spalla a Nick nella speranza che si riprenda almeno un po’, che dia un segno di vita cercando di apparire il più sobrio possibile. Speranza vana.
Anne Deckert si avvicina minacciosa, evitando Brian per quanto questi cerchi di coprirle la vista.
Non è certo una stupida, non può non accorgersene. La mano scatta rapida e il povero Nick incassa due schiaffi  sonori sulle guance che lasciano due impronte rossastre.

“Tu! Non solo rientri in questa casa alle quattro e mezza del mattino ma sei anche ubriaco fradicio!
Sei uno schifoso, buono a nulla, un celenterato! Vergognati! Mio figlio!”
 “Signora Deckert...”
“Continua pure a rincoglionirti! Il giorno che ti sarai fottuto il cervello non avrai nemmeno i neuroni per stare in piedi! Mio figlio ha un futuro come verme strisciante!”
“Signora Deckert!”

Brian si fa avanti temerario e per poco non rischia anche lui una sberla in faccia.
Ma questa donna adesso sta facendo troppo casino, non riesce più a controllare la voce che si fa sempre più alta e rabbiosa e in più Nick si è lasciato cadere per terra, raggomitolato su se stesso, piagnucolando come un lattante; per un attimo, in effetti, non gli sembra poi così diverso da un verme strisciante.
Mentre cerca di relegare quei pensieri insensati nella sua testa, ancora dolorante,  fa notare, aspro:

“Sveglierà tutto il palazzo se continua così.”
“Tu ringrazia di non essere mio figlio! Altrimenti avrei menato pure te! Vi ci vuole ogni tanto a voi, stupidi ragazzini senza cervello, una bella sberla!”

La padrona di casa si allontana impettita, un’espressione di disprezzo dipinta sul volto olivastro su cui cominciano a disegnarsi le prime rughe a cui si aggiungono le occhiaie, il volto tirato dalla stanchezza, dopo una  notte, quasi insonne, passata ad appisolarsi, risvegliarsi, attendere con ansia i due ragazzi e poi di nuovo addormentarsi  e svegliarsi, sobbalzando ad ogni rumore sospetto, fissando insistentemente l’orologio a cucù da parete che ogni ora suonava e cinguettava.
Mai come quella notte Anne Deckert aveva odiato quell’orologio, un regalo dei genitori del marito, orribile, fastidioso, rumoroso, dal ticchettio snervante.

“Portacelo pure tu a letto. A vent’anni suonati che non si aspetti che io mi rompa la schiena per mettere a dormire un alcolizzato. E chiamami Anne, Cristo! Sono cinque anni che ci conosciamo!”

La voce della donna rimbomba sulle scale come una specie di lungo sibilo e a Brian sembra ancora di sentirla, carica di astio, mentre si appoggia al corrimano, sostenendo il peso dell’amico su una spalla, aggiustando continuamente intorno al proprio collo il braccio dell’altro, che minaccia di scivolare giù.
Quello non gli rende certo la vita facile; è  poco più basso di Brian, quasi tozzo ad una prima occhiata, con due occhi scurissimi, i capelli castano mogano, lineamenti mediterranei e una barba più o meno curata, con qualche sfumatura rossiccia. Ma soprattutto è uno di quei personaggi che non si vorrebbe mai portare in braccio: non grasso, ma “robusto”.
Molko tira un sospiro di sollievo quando finalmente varca la soglia della camera che dividono, per un paio di week-end al mese.  Week-end mai troppo tranquilli, ma almeno, le volte scorse avevano avuto un po’ di accortezza, la decenza e l’intelligenza di avvisare, con tono vago e generico, che “avrebbero fatto un po’ tardi”. Cosa gli era successo oggi? Dove diamine aveva la testa?
Lo mette seduto sul letto e lo fa sdraiare, mentre quello continua a piagnucolare scuse, giurando e spergiurando che non lo farà più, che vuole bene alla sua mamma.
Quando Brian fa per alzarsi e lasciarlo ai suoi lamenti, quello si aggrappa al suo braccio istericamente, pregando “la sua mamma” di non lasciarlo solo.
Ma Brian è stanco e improvvisamente gli viene una gran voglia di scostarsi bruscamente, di urlargli di lasciarlo in pace, di inveire contro di lui e uscire sbattendo la porta.
Odia prendersi cura delle persone, ai suoi occhi  sono solo zavorra che ha la capacità di farti sentire in colpa appena gli rifiuti qualcosa,  che non sanno mai veramente quand’è il momento di farsi avanti e quando quello di sparire dietro le quinte, ma soprattutto si aspettano che tu ti preoccupi per loro, li ascolti, li capisci, ti interessi della loro esistenza, prendi a cuore i loro problemi come fossero i tuoi, dedichi a loro il tuo tempo. E quando invece ti sottrai ti accusano di freddezza, di indifferenza, di egocentrismo, di egoismo, ma sono loro che non si sforzano neppure di venirti incontro e di moderare le loro pretese.
Semplicemente si affidano al tuo buon cuore, come sta facendo Nick in quel momento, pensa Brian mentre delicatamente si libera dalla presa del suo migliore amico.
Spegne la luce che gli affatica gli occhi, preferisce abituarsi al buio, e prima di andare a letto mette i tappi per le orecchie, preferisce il silenzio ai mugolii di Deckert.

**************
 
“Ok, ho bisogno di una pausa.”
“Dio, Molko, ma abbiamo iniziato giusto un’ora fa!”
“Ti va un caffè? Ne fanno uno niente male alla stazione.”
“La mia esperienza mi dice che farà schifo come tutti gli altri.”
“Non puoi paragonare un caffè londinese ad uno italiano, Marion.”
“L’hai mai assaggiato?”
“Quello italiano? No.”
“Ecco appunto...”
“Quindi?”
“Quindi prendo un the!”
“Puoi prendere quello che vuoi basta che muoviamo il culo da qui.”

Marion sorride appena mentre la bibliotecaria li punta con il suo sguardo assassino e li zittisce, soffiando come una biscia infuriata.
Raccolgono i fogli svolazzanti, i quaderni  pieni appunti, ordinati e dalla curata calligrafia tonda, quelli di lei,  scarabocchiati e dai tratti spigolosi, quelli di lui,  ripongono evidenziatore, penne e matite, lei in un piccolo borsellino di plastica, lui infilandole a caso nella borsa, poi riconsegnano due o tre volumi mentre, recitando la parte dello studente zelante, Brian chiede:

“Scusi, Miss, posso prendere in prestito questo?”

La bibliotecaria, dal volto un po’ rugoso e l’espressione altera, lo squadra per un attimo, osservando il volume dell’opera omnia di William Shakespeare, rilegato in tela rossa, dopodiché richiede la tessera e comincia a scrivere furiosamente sul suo registro, pieno di cifre e numeri di serie.

“Questo è l’Oxford Shakespeare*, lo tratti con particolare cura, Mr. ... Molko.”

Entrambi ringraziano educatamente, lasciandosi alle spalle la  donna grigia e arcigna, alla volta della stazione che è poco lontana dalla biblioteca, non più di seicento metri a piedi.

“Ricordami perché il tuo amico non è venuto?”
“Aehm...forse non si sentiva molto bene.”
“Forse? Ma non abitate insieme?!”
“Si, ma non sono mica sua madre!”
“Uhm...mi nascondi qualcosa.”

Brian le riserva un sorrisetto divertito, un po’ misterioso, mentre fra sé e sé pensa che Nick gli deve un favore. È da quando l’ha vista quella volta, ad una festa, una di quelle festicciole fra amici, che desidera rivolgerle almeno la parola e quando ha scoperto che lui la conosceva, lo ha pregato di presentargliela.
 E raccontarle che aveva dovuto trascinarlo a letto, ubriaco fradicio, mentre rantolava e gemeva dopo una sfuriata della mammina  non è certo un granché come biglietto da visita.

“Forse ci raggiunge.”
“Uhm...”
“E poi siamo qui per lavorare, diamine.”
“Ma smettila! Sei tu quello che  dopo un’ora è talmente esaurito che non sopravvive senza il caffè!”
“Non ho fatto colazione...”
“Povero bimbo, trascurato! E non riesce a far funzionare il cervellino senza!”

Brian sembra intuire il tono canzonatorio della sua compagna di studi e finge una smorfia offesa, mentre entrano nella stazione che, in pieno orario di punta, brulica di vita, di facce;
uomini, donne, famiglie che cercano l’uscita per Hyde Park,  giovani studenti in dipartita, alla ricerca di zone più cheap dove rimediare un panino, signore che tornano da una gita in centro con qualche busta di Mark & Spencer, Debenhams, Harvey Nichols o  Crabtree & Evelyn, turisti che esplorano la cartina del quartiere, un po’ spaesati e incerti su cosa visitare per primo, il Victoria & Albert Museum, il  Natural History Museum o il Science Museum.

“All’inizio del secondo atto entri tu, insieme ad Anthony, ok? 
Lui ti da la notizia che il duca di Cornovaglia, cioè Mark, e la duchessa Regana, cioè Alison, arriveranno a Gloucester per sera. Poi c’è quella storia della guerra fra il duca di Cornovaglia e quello d’Albania, cioè Jean-Paul. Poi entra Edgard, cioè George... *”
“Frena, frena,  perché io devo fare il fratello stronzo, bugiardo, maligno e seduttore mentre lui fa la povera vittima e l’eroe della situazione? Tra parentesi è lui lo stronzo.”
“Brian, non ricominciamo. A te esce naturale, quella parte la sai fare meglio di chiunque altro.
 Inganneresti mezzo mondo se ci provassi.
E non mi interrompere! Concentrati!
Poi entra George, tuo fratello, e tu fai finta di aiutarlo a scappare, ma racconti una balla a Re Lear, cioè Pablo,  dicendogli che è fuggito e gli mostri una ferita al braccio che ti sei auto inferto per rendere più credibile la sceneggiata. Lui ti ordina di inseguirlo...”

Per un attimo Brian la lascia parlare, a ruota libera.
Quando Marianna Dessau parte in quarta è difficile se non pericoloso tentare di fermarla;
specie quando si tratta di teatro, soprattutto quando si parla della rappresentazione che dovranno mettere in scena  alla fine del secondo trimestre. Inutile dire che Marianna, detta Marion, è una delle migliori del suo corso, oltre che la più entusiasta.
Gli viene da sorridere:  pensa al tono autoritario che quella donna sa sfoggiare quando tenta di coordinare il lavoro del loro gruppo,  al suo cipiglio scuro quando qualcosa non le va a genio,  alla sua crudeltà mentale quando li costringe a ripetere le parti allo sfinimento, e in quei momenti devono mostrare tutta la loro disponibilità a collaborare e a recitare al meglio altrimenti rischiano di vedere ancora una volta il suo malefico sopracciglio inarcarsi e le sue labbra scandire un “ripeti” che non ammette repliche.
Forse l’unico assolutamente ineccepibile è proprio George Harrison, odioso inglesino dall’accento impeccabile, cavaliere senza macchia più che senza paura , campione di falsa modestia e di irritanti, mielose ipocrisie. Nessuno può dire di aver mai litigato con lui, nessuno ha mai niente da rimproverargli, nessuno ne parla mai male; sarà che non colgono la strafottenza, la supponenza, la boria che c’è sotto e che contribuiscono a rendere il suo ego smisurato a livelli planetari.
Ma a Brian non sono nuovi questi aspetti; potrebbe riconoscerli abbastanza facilmente nel proprio comportamento, alle volte intrattabile, ma non li ammetterebbe mai.
Certo, in lui sono volutamente manifesti, sbandierati con sarcasmo in faccia alla gente, fatti per ferire, ma sono meno velenosi di Harrison.
Se ripensa a quello che ha fatto a David Duchamp  e Margareth Dawson...

“Cristo, ma come fai a difenderlo sempre!? E che dici di Meggy e Dave?
Come me la spieghi questa?”
“Uffa, ma quante volte devo ripetertelo, Brian! Lei si era stancata di lui e se ne è andata con un altro! Che poi questo altro sia il povero George non conta molto! Poteva essere chiunque! Potevi essere tu!”
“Nossignore. Io non mi sarei mai fatto la donna di un mio amico di infanzia.”
“Ah no? E quella lì,  Munro, dove la metti?”
“Non cambiare discorso.”
“Senti chi parla!”
“E comunque ti dico che è stato lui a soffiare la ragazza a Dave, riducendolo sull’orlo della depressione.
Non capisco cosa non sia chiaro.”
“E sentiamo, Sherlock Holmes, perché l’avrebbe fatto?”
“Perché l’altra volta era incazzato con il mondo e gli ha fatto una scenata per una stronzata. Appunti, forse...”
“Ma ti senti? E che avrebbe voluto dimostrare così?”
“Che non si lascia trattare così da un francesino da quattro soldi che non è nemmeno capace di tenersi stretta la fidanzata.”
“Brian, giuro che questa è la più grande stronzata che io abbia mai sentito uscire da quella tua bocca! Parola mia! Ma ti rendi conto che...”

Blablablabla. Eccola che riattacca.
Brian allunga il passo per raggiungere il caffè, dietro le panchine di attesa occupate da uno stuolo di vecchiette che bisbigliano fra loro, troppo prese dalla conversazione per pensare ad altro.
Ma le gambe di Marion non sembrano zampettare veloci come la sua lingua e quindi è costretto a girarsi per richiamarla e indicarle  il locale, impaziente.
Poi si ferma un attimo ad osservare un tizio che con svogliata lentezza per sbaglio incrocia il passo con Marion, poi si ferma per lasciarla passare. È un biondo dall’aria terribilmente familiare e non bastano un paio di anni nella capitale inglese per dimenticare lui e la sua squadra di basket all’AISL*  

“...che altro poteva fare George? Rimandarla a casa con tanti auguri?
La verità è che tu sei paranoico! E quando ti fissi con queste scemenze è impossibile farti ragionare...”
“Non può essere...ma quello è Stefan Olsdal!”
“Brian...cosa?”
“OLSDAL! STEFAN OLSDAL!”

Molko attira l’attenzione del biondo che gli aveva dato le spalle e che, al richiamo,  si volta nascondendo a malapena l’aria infastidita di chi ha a che fare con uno scocciatore.
Poi strabuzza gli occhi per lo stupore e rimane lì, fermo, a fissare per un attimo il ragazzino dal caschetto nero.

“Cazzo...tu sei...Molko.”
“Beh, si.”

Cala un silenzio carico di imbarazzo; Stefan distoglie lo sguardo e sembra accorgersi della presenza della ragazza e sembra trovarlo un piacevole diversivo, una via di fuga, per rompere quello stupito silenzio che decisamente lo mette a disagio come non mai.

“Ah, sei tu il famoso amico di Brian? Quello che doveva raggiungerci oggi?”
“Veramente noi non ci vediamo da un po’. Almeno tre anni. ”
“Oh, che sorpresa! Piacere, Marianna Dessau, o semplicemente Marion.”
“Piacere, io sono Stefan Olsdal, anche se probabilmente adesso tutta la stazione ne è al corrente.”

Il biondo ha dedicato tutta la sua attenzione alla ragazza, ignorando volutamente Brian. È di tre quarti eppure è come se gli avesse voltato le spalle da un pezzo mentre il moro lo esamina come una cava da laboratorio.  è rimasto il belloccio allampanato che ricordava, per di più sembra aver smesso il basket da un pezzo e sembra essersi assottigliato dall’ultima volta che lo ha visto, anche se solo di sfuggita.
D’altronde lui e Stefan Olsdal non avevano mai avuto niente in comune, né gli interessi, né gli amici e non si potevano nemmeno considerare “conoscenti”.
E adesso lo osserva, quasi incredulo, mentre quello dondola, spostando il peso da un piede all’altro, e facendo oscillare la chitarra che porta sulla schiena, a mo’ di zaino.
Sorride con quell’aria semplice e simpatica dei tipi sportivi, tipici bravi ragazzi,  tipi “a posto” per così dire, e ogni tanto ammicca con aria complice e una risata quasi sincera se non fosse per una punta di nervosismo, anche se ben dissimulato. Ma a Brian riesce facile cogliere queste cose, come un attore navigato che facilmente interpreta le maschere dietro cui si nascondono coloro che lo circondano.
Si stupisce che invece Marion non colga il loro imbarazzo, continuando a chiacchierare, spigliata e allegra, animando la conversazione come solo lei sa fare.

“Ma che ne dite se ci andiamo a sedere? ”
“Uhm…ok, ti offro un caffè, vuoi?”
“Ma che galante. Vedi, Brian, lui mi conosce da nemmeno cinque minuti e già mi offre un caffè.
Hai molto da imparare!”

L’essere chiamato in causa sembra riscuotere Brian dai suoi pensieri e mentre cominciano ad avviarsi verso  l’entrata del caffé, cerca di richiamare l’attenzione di Stefan, meravigliato dal fatto che lui suoni la chitarra.
Ma quello sembra volutamente ignorarlo, colto da un momento di incertezza, poi continua a ridere di una strana storiella che gli sta raccontando la sua nuova amica che  gesticola in maniera concitata.
La cosa sembra irritare Brian come non mai mentre dimostra il suo disappunto inarcando il sopracciglio e stringendo le labbra che si assottigliano pericolosamente in un’espressione ostile.
Dalla sua bocca esce un ringhio, la voce alterata che scandisce le parole una per una, con una lentezza  che raggela:

“Ti ho chiesto se suoni la chitarra.”

Questa volta Stefan è costretto a girarsi verso di lui e a prestargli attenzione, con un’aria colpevole  che riesce ad addolcire l’ostilità del moro.
La sua reazione sembra lasciare perplessa Marion che finalmente tace e così ancora una volta Brian impone la sua presenza mentre cala ancora una volta un silenzio imbarazzato.
Il biondo dal canto suo quasi balbetta quando risponde, tentando di rabbonire il compagno con una sorta di sorriso di riconciliazione, una muta richiesta di pace:

“Da poco. Da tipo qualche anno.”
“Anche io suono. In una specie di gruppo.”

Questo sembra stupire anche Stefan come se non riuscisse proprio ad immaginarsi un Brian Molko che condivide una sua passione con qualche altro essere umano, mettendo da parte almeno per qualche momento sé stesso e adeguandosi ai “ritmi” degli altri.
Da quel poco che sa di lui, Molko non gli ha mai ispirato simpatia e la scenetta di qualche secondo fa sembra aver rafforzato i suoi pregiudizi su quel ragazzino umorale, quasi infantile nelle sue pretese di attenzione.

“E che musica fate?”
“Non quell a che vorrei, a dir la verità.
In genere cover tipo Depeche Mode,  Radiohead e poi Steve ha una vera passione per i Nick Cave & The Bad Seeds  ma dubito che riusciremo mai ad adattare qualcosa di simile.
E poi più che un gruppo la nostra è una collaborazione che va e che viene.”
“Steve?”
“Si, Steve Hewitt. Un amico.”

Ma nonostante la risposta laconica la conversazione ormai è avviata.
Quando si parla di musica è tutto più facile e, nonostante le proteste di Marion che, totalmente ignorante in materia, rivendica il suo diritto a conversare del più e del meno senza entrare nello specifico, la musica continua imperterrita a monopolizzare i discorsi del tavolo.
Alla fine la ragazza annuncia che deve fare una telefonata e si avvia all’uscita del locale, ottenendo giusto un cenno da Stefan. Ma nessuno dei due sembra trovare strano che Marion rimanga fuori quasi un quarto d’ora, parecchio per una telefonata.
Quando rientra e lì trova ancora lì, la ragazza sembra spazientirsi, indispettita e annoiata:

“Brian, noi abbiamo da lavorare o sbaglio?”
“Uhm…”
“Già, anche io dovrei andare.”
“Allora se ti va stasera vieni, ok?”
“Ok, se posso vengo.”
 
 Stefan si alza e si rimette in spalla la chitarra senza fretta, molto più rilassato di quando non era entrato in quel benedetto caffè. Rivolge un saluto ad entrambi con la mano e un cenno del capo mentre Marion gli ricorda di chiamarla per un aperitivo uno di questi giorni e riceve in risposta un altro dei suoi sorrisi ammiccanti.
Nel frattempo Brian sta raccogliendo i granelli di zucchero che ha sparso sul bordo del piattino quando, troppo impegnato a seguire la conversazione con Stefan, per poco non ha rovesciato la bustina tutta fuori dalla tazza. Mastica a vuoto per un po’ e poi commenta  sovrappensiero:

“Quand’è che gli hai dato il tuo numero?”
“Mentre tu eri troppo occupato ad osservare la chitarra o il fondoschiena, non saprei bene quale dei due ti attraesse di più.”
“Non è il mio tipo”    sbuffa Brian, inclinando il capo  e osservando sempre più interessato i granelli recidivi che gli scivolano dalle dita.

“Bene, allora è mio?”
“Fai con comodo.”
 
************************

“Lo sai, non credevo che saresti venuto.”
”Ti fidi così poco del genere umano, Molko?”
“Molto divertente, Olsdal.”

Brian arriccia il naso e le labbra in una smorfia ma non mette i panni dell’offeso.
Non gli riesce di recitare quella parte, non dopo cinque o sei bicchieroni di Guinnes che giacciono vuoti sul suo lato del tavolo. Stefan dal canto suo non è messo molto meglio e ridacchia appoggiandosi allo schienale della sedia di legno nel pub e dando le spalle al palco dove poco prima Brian aveva cantato.
Circa due ore prima il biondo, subito dopo qualche applauso divertito del modesto pubblico del locale, si era avvicinato al palco e aveva visto lo sguardo di Brian illuminarsi quando si era complimentato con lui. Gli era piaciuta la sua chitarra che si sposava a perfezione con la sua voce, una voce singolare che, aveva ammesso Stefan dopo qualche riflessione, gli aveva fatto salire i brividi lungo la schiena e non assomigliava a niente di quello che aveva sentito fino ad ora.
Poi gli aveva proposto di formare una band e avevano passato il tempo a pianificare, organizzare  incontri,  a proporre canzoni da adattare e nuove melodie da inventare con l’entusiasmo di due dodicenni che mettono su una squadra di calcio.
Tutta quell’ eccitazione annaffiata con un po’ di sano alcol li aveva avvicinati parecchio, sciogliendo  il disagio iniziale e mettendo da parte le beghe scolastiche che li avevano sempre tenuti lontani.
Erano passati dalla musica ai ricordi di compagni di scuola, professori, ridendo di loro fino alle lacrime e snocciolando aneddoti improbabili, leggende che giravano fra le aule e il cortile , per poi ripiegare sui commenti maligni e i pettegolezzi sulle bellezze della scuola.
Ora Stefan agitava il braccio per l’ennesima volta, chiedendo ad una moretta in top e grembiulino a strisce di portare ancora da bere mentre Brian si stiracchiava e, gomiti sul tavolo, appoggiava la testa sui dorsi delle mani dalle dita intrecciate.
Stefan con un sorriso ebete caccia un pacchetto di sigarette dalla tasca del giaccone e ne offre una al nuovo compagno di band.  Questi annuisce e poi si sporge perché sia l’altro ad accenderla.

“Allora che farai? Chiamerai Marion?”
“Chi?”
“Quella di stamattina, al caffè...”

si interrompe per soffiare via il fumo che si addensa davanti al suo musetto rilassato in un’espressione pigra e lasciva. Se Stefan fosse poco più vicino potrebbe vedere l’impronta di rossetto scuro sul filtro e quelle labbra che lambiscono la sigaretta con dolcezza.
Ma c’è un che di troppo femminile in lui perché il biondo possa davvero trovarlo interessante.
Indubbiamente ha fascino, è intrigante, sensuale, all’apparenza fragile come una bambola di porcellana ma non è questo che lo attira in un uomo.   
Scuote il capo mentre osserva, con la coda nell’occhio, Brian che arrotola una ciocca di capelli intorno al dito con lentezza esasperante, e gli viene da ridere:

“Naaaa.”
“Perché no? È carina.”
“Credo di essere gay.”

Studia per un attimo la sua reazione mentre il compagno abbandona la ciocca e fa un altro tiro dalla cicca quasi consumata.
Non che sia veramente preoccupato di quello che possa pensare Brian ma forse non lo avrebbe detto così alla leggera se la birra non gli avesse sciolto la lingua.
Il moro rimane in silenzio per qualche secondo ancora poi stira le labbra in un sorriso appena accennato e commenta, sussurrando con una punta di malizia:

“Forte...anche perché io sono bisessuale.*”
“Non sei il mio tipo.”

assicura il biondo, ridacchiando, sempre più divertito dalle moine del cantante.
Quella farsa gli piace, funzionerebbe su un palcoscenico;
lascerebbe perplesso il loro pubblico, li confonderebbe fino a farli dubitare delle loro capacità di giudizio e allora vorrebbero saperne di più, vederli ancora, controllare se si possono fidare dei loro occhi, discutere animatamente additando quella pallida e sottile bambola di porcellana, chiedendosi “ma è un uomo? O è una donna?”.
Sarebbe il colmo, pensa Stefan, se, una volta famosi, fossero inseguiti da schiere di giornalisti che attendono il loro momento per chiarire questo mistero agli occhi del mondo.
Sarebbe divertente ma a lui tutto ciò che interessa è fare musica.
E quel ragazzetto effeminato lo ispira.   Strano ma vero, adesso hanno qualcosa in comune.

***********************



NOTE

* Famosa edizione dell’opera omnia di Shakespeare, stampata appunto dalla Oxford University Press e nota perché riporta i testi delle opere rappresentate e non quelli della prima edizione stampata, il famoso First Folio del 1623, intitolato “Mr William Shakespeares Comedies Histories & Tragedies” .
Ovviamente quella in questione è la seconda edizione del 1986.

* Marion descrive il secondo atto di “Re Liar”, una delle più famose tragedie di Shakespeare, con una galleria di personaggi, di vicende e sotto vicende, trame e sottotrame che farebbero invidia a qualunque telenovela americana odierna xD  
http://it.wikipedia.org/wiki/Re_Lear

* American International School of Luxembourg, la scuola che hanno frequentato Stefan e Brian senza mai conoscersi.

* Adattato da  un’intervista su placeboworld.de, classe 1998:

-  "And after the gig Stefan came up to me and said 'I really like what you're doing -- let's make some music together and see what happens.' And two people who thought they would have absolutely nothing in common whatsoever found we had a really common bond between us. Because five minutes into our drink, Stefan turns round to me and says, 'I think I'm gay.' And I said, 'That's cool because I'm bisexual.' And then BANG we hit it off like that. Finally we'd find something tangible that we had in common."  -
 

Angolo dell’autrice

Et voilà! Ed ecco come nascono I Placebo!
Ebbene come al solito ho mandato all’inferno I buoni propositi ergo non far passare un anno prima di pubblicare ma devo ammettere che non è stato facile farsi un’idea di come è andata la vicenda e poi scriverci su qualcosa di decente xD
Quindi chiedo umilmente perdono per il mio ritardo cosmico T.T        * Occhioni dolci da cerbiatto in amore*
Aehm...inoltre auguri di natale, capodanno, epifania, tutti insieme!  
Non ho molto da commentare stavolta ma piuttosto spero nei vostri commenti *_*
Al solito ringrazio quelle che mi seguono e lasciano un segno del loro passaggio, ya woll!
Passate buone vacanze e alla prossima,

Misa

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** New York 1997 ***


New York  1997




Iman chiude alle sue spalle la porta con un sorriso stanco.
Finalmente è a casa, dopo due settimane di lavoro nella capitale parigina, dopo i provini, le sfilate, le prove trucco, i servizi fotografici, le interviste, le visite di rappresentanza, i party “aziendali” per così dire; il mondo della moda, il mondo del cinema, della televisione, della musica.
Eppure ancora ora le sembra di vedere tanti sorrisi di plastica , tanti gesti falsi, voci affettate, risate fragorose e vuote, tanta solitudine.
Chissà come sono quei bellimbusti quando tornano a casa dalla propria famiglia, se quelle donne sculettanti dalle labbra gonfie e i seni di silicone sono delle brave mamme, se quei ragazzini prodigio, diventate tante piccole celebrità,  escono ancora il pomeriggio per un’innocente partita di pallone con gli amici. Sono tutti  così impersonali alla luce di un riflettore.
Lei forse vorrebbe una famiglia ma ancora non lo sa con certezza.
Quando David sarà pronto lei accetterà con gioia.
Appoggia il cappotto su una poltrona, non disfa nemmeno la valigia perché è troppo stanca per mettersi a trafficare con i bagagli.  Fa un sospiro, tanto sa che non dormirà.
è una sensazione familiare, un nervosismo ricorrente e un turbinare di pensieri che la costringe spesso a rigirarsi nel letto, a sbadigliare e sbatte gli occhi mentre il sonno, che porta con sé la tanto agognata incoscienza, si fa desiderare.
In quei momenti sposta sempre lo sguardo su David che dorme beato accanto a lei, con l’occhio allungato semichiuso, e sente il desiderio di accarezzargli le guancie rosate, la pelle più o meno liscia, ancora unta di crema idratante, quasi giovane per un uomo di cinquant’anni suonati.
Così lo sveglierebbe e magari si sentirebbe meno sola ma poi non lo fa mai.
Al pensiero, sorride fra sé e sé mentre, in pigiama, si avvia in bagno.
Dalla porta socchiusa filtra la luce folgorante dei lumini montati intorno all’enorme specchio rettangolare che prende quasi tutta la parete e che sovrasta i lavandini quadrati di pietra, esattamente di fronte alla porta del bagno.
David ama alla follia il bagno e aveva scelto quell’appartamento fra migliaia solo perché quel bagno è la stanza più bella della casa, più grande della cucina, con una grossa finestra che affaccia sul giardinetto interno del palazzo e che illumina le pareti di pietra bianca, i lavandini di pietra grigia e i separè giapponesi in carta di riso con delicati disegni panna e neri.
La luce è accesa. Cosa ci fa David sveglio a quest’ora?
Iman è quasi contenta.  Già si preannunciava una notte insonne, in attesa trepidante del momento in cui lui si sarebbe svegliato, si sarebbe infilato sotto la doccia e, una volta tornato a letto , avrebbe trovato i vassoi della colazione pronta.
Allora lui le sarebbe corso incontro con quel suo sorriso luminoso e la felicità dipinta negli occhi chiari, color del ghiaccio. D’altra parte, ogni volta che si separavano, poi al suo ritorno lui le concedeva quelle piccole attenzioni e i suoi sorrisi che affascinavano lei quanto il resto del mondo.

“David, amore! Sono tornata con qualche ora di anticipo!”

Si annuncia prima di spalancare la porta del bagno.
C’è effettivamente qualcuno che si specchia, passandosi le dita bagnate sulle labbra, cercando di cancellare insistenti tracce di rossetto rosso, sbavato sulla bocca.
Ma non è David.  È più basso, più  piccolo, anche se ugualmente sottile e femmineo.
Ha una massa disordinata di capelli scuri, un caschetto corto che avrebbe bisogno di una bella sforbiciata ogni tanto,  per di più scarmigliato, come di chi si è appena alzato dal letto.
Iman si impietrisce, osservando quella figurina che continua tranquillamente ad analizzare la propria immagine allo specchio con aria critica.
Poi la sua voce la coglie di sorpresa. Se la aspettava più dolce, più femminile.

“Sei Iman?”
“Si, sono io.”
“Sei tornata presto.”
“Si…”

è una situazione assurda. C’è un ragazzino mezzo nudo che si strucca nel suo bagno, che parla come se la conoscesse da sempre, come se l’avesse attesa fino a questo momento.
Iman cerca di ricordare se lo ha già visto da qualche parte ma la stanchezza si fa sentire e poi forse non le interessa nemmeno tanto. 
Non dopo quasi otto ore di volo, da Parigi, anche se in prima classe.

“Hai dello struccante?”
“Cosa?”
“David lo ha finito.”

Con movimenti meccanici, ancora confusa e disorientata, Iman annuisce e apre lo sportello del mobiletto attaccato alla parete, affianco alla porta del bagno.
Glielo porge esitante mentre il ragazzino finalmente si degna di guardarla.  Non che le dicano molto quel volto impassibile e quel contegno così freddo: sembra un personaggio più che una persona.
A Iman tornano in mente tutti quegli individui che ha incontrato giusto poche ore fa  e rimpiange di non essersi confezionata anche lei una maschera così efficace.
Lui la ringrazia con un tono gentile, cortese, quasi affettato ma quella voce le risulta troppo profonda e sgradevole. Anzi, quel “grazie”,  più che sincero, le sembra un’insignificante parolina dettata dalla convenzionale cordialità dei rapporti civili.
Quel piccolo estraneo inquietante la sta aggredendo in casa sua o forse ha bevuto troppo champagne sull’aereo?
Quello intanto ha preso un dischetto di cotone, ci ha spruzzato sopra  il liquido struccante e bluastro e se lo sta passando sulle labbra. Se l’è scelto apposta quello struccante, al profumo di rosa, dalla collezione Nuxe, delicato al punto giusto e non eccessivamente grasso.

“Io ti ho già visto da qualche parte. Di recente.”
“Sono un amico di David.”
“Questo lo immaginavo.”

Un’altra domanda sorgerebbe spontanea ma aleggia nell’aria e rimane sospesa senza che lei osi domandare né lui osi risponderle. Cosa ci fa qui?
Intanto lei si sforza di ricordare:

“Aspetta…dove ti ho incontrato? Forse alla festa…*”
“Si,  mi ha chiesto lui di suonare”
“Ah si! Tu sei B…Brett? No…Brad…”
“Brian. Brian Molko.”

Click.
 Lui ritappa lo struccante rapidamente e glielo porge, lei se lo riprende e sta per riporlo quando coglie, con la coda nell’occhio i movimenti di Brian, che sfila via verso la porta del bagno, passandole davanti.

“Dove vai?”
“A fumare una sigaretta.”


Come promesso lei lo ritrova in poltrona, le gambe bianche accavallate, lasciate ampiamente scoperte dalla maglia di intimo bianco XXL che arriva a metà coscia e copre gli slip, conservando una parvenza di decenza. Lui sembra il ritratto dell’indolenza , con l’aria sorniona di un gatto soriano, con la schiena pigramente abbandonata contro la pelle rossa della poltrona di David, e, alle volte, quando si muove per portare il fumo alla bocca, la sua camicia da notte improvvisata si accorcia pericolosamente facendo guadagnare qualche centimetro di pelle in più alle gambe magre.

“Non ti disturba se fumo?”

Chiede con noncuranza ma il messaggio è chiaro: anche se a lei desse fastidio lui non rinuncerebbe volentieri e forse se la prenderebbe. Per il momento sembra mansueto, come una vipera che se ne sta acquattata sotto un masso di montagna, ancora indisturbata.
Di tutta risposta lei tira fuori le sue di sigarette, light, una boccata d’aria rispetto alle Winston rosse del ragazzo.

“Da quanto tempo conosci David?”
“Qualche mese. Forse quattro. Ma lo ascolto da quando ero ragazzo.”
“Perché adesso sei vecchio?”

Sorride benevolmente pensando ai suoi quarantadue anni, portati benissimo per carità, ma pur sempre un’età per il mondo della moda. Lei è una delle tante che si cospargono di cipria, che si imbrattano di fondotinta, che fanno cure ringiovanenti, che passano il tempo libero nei centri benessere, dal dietologo, che ogni mattina o pomeriggio vanno a fare jogging con l’Ipod nelle orecchie oppure leggono l’ultimo best-seller su come smettere di fumare.
E poi, rispetto a quelli del suo interlocutore, le sembrano comunque tanti i suoi di anni.

”Quanti anni hai? Diciannove? Venti?”
“Venticinque”

Questo non la stupisce troppo.
David non è troppo il tipo da ragazzino inesperto e imberbe, quelli che somigliano troppo ai lattanti lo annoiano, non ha mai amato fare da baby-sitter a qualcuno, sempre troppo pieno di sé, desidera sempre essere al centro dell’attenzione.
E poi lui è l’innocenza, il candore fatta persona, l’agnellino di Blake; vuole sentire su di sé un tocco dolce ma sicuro, vuole un attore navigato che sappia esattamente come prenderlo, che sappia condurlo alla sua spiaggia e che sappia osare e stupirlo.
Si ritrova a pensare, a malincuore, Iman,  Quello che dovrei fare io;

“Sei tornata da Parigi, vero?”
“Si.”

Non sa come quel ragazzino sappia che lei era a Parigi ma non se ne stupisce molto:
in quanto personaggio pubblico è abituata ad avere intorno gente che crede di sapere tutto di lei, più di quanto lei stessa non sappia di sé. Ma sicuramente è stato David a dirgli tutto.
Sorride intenerita poiché ricorda benissimo la prima notte con lui;
dopo aver fatto l’amore, David si era appoggiato su un fianco, sorreggendosi la testa,  e si era messo a parlare, a parlare di sé, degli altri, di tutto quello che gli veniva in mente e, pensava, gli venivano in mente tante cose. Quando gli balenava in testa quell’idea geniale che stava aspettando  scattava in piedi, rapido come un segugio che ha fiutato una preda e correva ad appuntarsela.
Poi tornava a ristendersi beato ed ecco che ricominciava a parlare con lei, oppure si dedicava a lunghi e appassionati monologhi che assomigliavano più a delle confessioni:
sarebbe stata una perfetta geisha con la sua conversazione  vivace e brillante, se non fosse stato per quella sua tendenza a mettersi a nudo.
Lei, ad esempio, non si sarebbe mai esposta con quello sbarbatello ventenne che  adesso infestava il suo salotto.

“Oh, io adoro Parigi! E come è andata?”
“Presentavo una nuova crema antirughe Yves Saint-Laurent e la nuova linea trucco naturale”
“Oh, adoro anche i trucchi. Dimmi, per caso, il tuo Yves ha inventato un tempera matite decente?
La maggior parte di quelli che ho provato si intasa con schegge di matita finendo per temperarle uno schifo.
Assolutamente controproducente.”
“Beh, in realtà…”
“Uno di buona qualità che dura a lungo e tempera bene è sicuramente quello della Shisheido. Anche se spendere sette sterline per  una cosa del genere è un furto. Non è altro che un pezzo di plastica e metallo che finisce sempre per distruggersi, in un modo o nell’altro.”

Incalza quello e per poco non lancia un urletto appassionato , da ragazzina adolescente in estasi.
Iman lo osserva quasi sconcertata come se, nello scintillio gaio di quegli occhi, potesse scavare e capire cosa voglia quel ragazzo da lei. Ma quello continua, imperterrito:
 
“Quando vi siete conosciuti tu e David?”
 “Nel 1987, lo stesso anno che ho divorziato da mio marito.
 Eravamo ad una specie di party di beneficenza e ci annoiavamo tutti e due. Fortunatamente c’era una splendida terrazza con una panoramica di Manhattan da capogiro.
Mai stato al Gansevoort*? ”  lui scrolla le spalle e scuote la testa, laconico.
“Uno spettacolo. Ma David aveva occhi solo per me.
Ho sentito il suo sguardo che mi cercava tutta la sera e ci siamo trattenuti piacevolmente, a parlare fino a tardi.”
“E l’indomani lui ti ha portato a pranzare all’Hangawi*, vero?”
“Come fai a saperlo?!”
“Ha portato anche me.”

Iman fa un tiro e sente il fumo invaderle la bocca, poi la gola e i polmoni.
Non c’era malizia nella sua voce, o si?  No, però la provocazione è chiara, trasparente.
Ma se vuole litigare lei no ha intenzione di farsi prendere per una pazza isterica, eccessivamente gelosa del marito.
Cerca di sorridergli anche se riesce solo a stirare qualche ruga che si annida timida, sulla sua pelle color cioccolata.

“Oh, e ti è piaciuto? Io trovo si mangi benissimo.
E così sei vegetariano?”
“Si, ottimo davvero. Specie le insalate e il tofu al sesamo.”
“Io odio il tofu. Non sa assolutamente di niente. ”
“Io lo trovo buono, purché sia fresco. Non certo quello surgelato.”
“Io non mangio surgelati.”

Quest’ultimo è quasi un sibilo.
Vorrebbe rimanere calma ma non ci sta riuscendo.
Ogni parola le sembra un’insinuazione, ogni sguardo le sembra un’occhiata derisoria. Lei stessa si sente totalmente fuori posto. Possibile che stiano discutendo di tofu, in salotto, da un quarto d’ora? Nel SUO salotto, dopo che lui ha usato il SUO struccante, che si è struccato nel SUO bagno, forse uscendo dalla camera di SUO marito.

“Oh, io si. Sono molto più comodi quando si è di fretta.”
“Senti, ti dispiace finire quella sigaretta e andartene?”

Questo sembra lasciarlo quasi costernato, stupito della scortesia e dalla freddezza che improvvisamente dimostra la sua ospite. Brian non si sente affatto d’impiccio, anzi, si sta divertendo un mondo. Quella donna, con le sue preoccupazione da perfetta mogliettina, lo esilara.
Ma, come al solito, non è cattiveria, è solo un modo per impiegare il tempo e arrivare alla mattina dopo, senza essere costretto a rigirarsi nel letto e a pensare.

“Ti do fastidio? Forse vorresti andare a riposare?
Avrai fatto almeno sette ore di volo.”
“Già. Hai lasciato qualcosa?”
“Dove?” lei quasi gli ringhia addosso
“In camera di David.”
“No, tranquilla, è tutto in bagno.
Quando sei arrivata me ne stavo andando.”
“Bene, certo non volevo trattenerti oltre.
Anche tu sarai stanco.”
“Assolutamente no.
Mi fa piacere scambiare due parole con te.”

A me no.
Quello non sembra intenzionato ad alzarsi.
Iman si chiede se le toccherà cacciarlo a calci dal suo salotto oppure se avrà il buon senso di non infierire oltre.

“Allora te ne vai?”
“Questo appartamento è tuo o di David?”
“è di David. E questo che cosa c’entra?”
“Lo immaginavo. È proprio nel suo stile. Specie il bagno.”

Questo la lascia disorientata. Come fa a sapere quali siano i gusti di David? Oppure hanno discusso anche di questo nell’ultima settimana, in camera sua, mentre lei era assente, in mano ad acide costumiste e solidali truccatrici?
Quello che Iman non immagina nemmeno è che passerà ancora un paio d’ore, fino all’alba, a parlare di case, appartamenti, di design.
E lui si mostra sempre un buon conversatore, saltando da un argomento all’altro con disinvoltura, quasi senza darle tregua.  Più di una volta lei arriva al punto di chiedergli di andarsene, per l’ennesima volta ma poi non lo fa e continuano a parlare, di tutto, di niente, del più e del meno.
Lei le racconta della sua infanzia in Somalia, dei suoi anni da universitaria a Nairobi, in Kenya, del suo primo provino del 1975, quando è venuta a New York per la prima volta, e di lei si sono innamorati il fotografo Peter Beard e lo stesso Yves Saint-Laurent, dei suoi iniziali screzi con Donatella Versace e di come siano passati anni prima che potesse sperare di sfilare nella sua collezione primavera-estate.
Brian dal canto suo le racconta del suo gruppo, della sua profonda improbabile amicizia con lo svedese Stefan Olsdal, e quella con Steve Hewitt, più vecchia ma forse anche più ragionata. Le racconta anche di avere una moglie e un figlio che vivono in Belgio, insieme alla sua famiglia d’origine, sua moglie è italiana, ma lui non parla italiano, capisce bene e spiccica solo qualche parola. Suo figlio ha appena due anni e forse un giorno lui si trasferirà in Belgio con loro. Racconta di avere un fratello banchiere che non vede da secoli, di quanto sua madre sia rigorosa e religiosa e spera che suo figlio crescerà bene, amato e coccolato in quella casa.
Man mano che fluiscono dalla sua bocca quelle bugie a Brian sembrano quasi prendere vita negli occhi meravigliati di Iman che sorridono amorevoli, al pensiero di un bambino di due anni e mezzo che vive con la mamma, mentre suo padre è costretto a stare fuori, per lavoro, costretto dalla macchina dello showbiz, ma che gioca tutto il giorno e ubbidisce diligente alla nonna che lo alleva nel nome dei precetti cristiani.
Lui continua a inventare, lo fa sentire bene, lo diverte, come un bambino che presenti alla mamma il suo amichetto immaginario con il tono più convinto che ci sia.


**************



“Dimmi, un po’, da quand’è che sei sposato?”
“Cosa?”

Brian si mostra sinceramente stupito da quella domanda, assolutamente fuori luogo.
Lui sposato? Lui non si sposerà mai. E con chi poi? Certo non con la sua ragazza.
è già tanto se riesce a dirle che la ama,anzi, in questo periodo, non si sforza nemmeno.
Che qualche giornale abbia messo in giro la falsa notizia, solo per vendere qualche copia in più o per vedere quale sarà la reazione del “sensuale frontman dei Placebo”?
Inarca un sopracciglio perplesso e osserva David che spezza un grissino per ingannare la fame.
Si è gettato subito sul cestino del pane, non appena il cameriere, un rosso pieno di efelidi e lentiggini, lo ha appoggiato sul banco con uno sguardo incuriosito.
Non si è ancora accorto che sta servendo David Bowie, se mai la sua generazione potrebbe riconoscerlo. O forse quella curiosità ha altre radici; magari si chiede perché un uomo e un adolescente, o giù di lì, sono seduti a tavola a conversare amabilmente, se sono parenti, magari uno zio e un nipote.

“Chi te l’ha detto?”
“E tu perché racconti stronzate a mia moglie?”

Finalmente tutto si fa chiaro e Brian scoppia a ridere in faccia al cameriere che ha portato da bere, un’acqua frizzante e un quarto di rosso. Oggi è giorno di bistecca per David, ormai diventato praticamente dipendente del suo dietologo. Non che la star del glam abbia bisogno di dimagrire ma ormai, fra le celebrità over cinquantenni va di moda seguire quasi fanaticamente le diete salutiste fatte su misura per loro da costosi dietologi e esperti di alimentazione.
Ma, dieta o non dieta, un dito di vino si sposa magnificamente con una bistecca.
Il rosso, per parte sua, è arretrato dopo aver appoggiato il vassoio e ha avuto un attimo di esitazione prima di riavvicinarsi e mettere le cose in tavola, quasi volesse assicurarsi che i due commensali continueranno ad ignorarlo, come da copione.

“Me ne stavo andando, è arrivata lei e ci siamo fermati a chiacchierare.”
“Si, questo me lo ha detto. E tu hai deciso che dovevi inventarti una delle tue messinscene e far credere ad Iman che il tuo è il prototipo della famiglia perfetta. Che diamine ti è saltato in testa?”
“Non è stato divertente? Intendo, ascoltarla mentre ti raccontava un mucchio di idiozie?”
“…”
“Io mi sarei rotolato dalle risate.”
“Hai un concetto singolare del divertimento, non c’è che dire.”

David ha finito il grissino e ha attaccato con una fetta di pane, con quella mollica spumosa che sa di plastica. Non c’è niente da fare, anche se vai in un ristorante italiano, spagnolo, argentino e chissà quante altre cucine simili che ti promettono un pasto da re, il pane lì a New York fa sempre abbastanza schifo. Se lo riscaldassero o lo tostassero magari sarebbe almeno decente, pensa Brian, mentre lascia che il compagno, pezzo per pezzo finisca il cestino.
Stavolta hanno scelto un posto adatto un po’ a tutte le tasche, senza pretese e con una fama discreta, frutto del passaparola più che di una imponente campagna pubblicitaria.
La conversazione langue, il cibo non arriva, la fame aumenta e con lei anche l’impazienza di David.
Come al solito è Brian a rompere il silenzio e parlare di musica non li stanca mai:

“Io e il gruppo abbiamo in cantiere un progetto.”
“Un nuovo disco?”
“Quello è già pronto. Uscirà tra poco, credo.”
“Fossi in te mi rimetterei subito a lavoro. Non vorrai che l’onda passi e i Placebo scompaiano dopo appena due dischi e cinque o sei tour.”
“Mi ha contattato Michael Stipe, o meglio ha contattato Alex.”
 “Alex? Stipe quello dei R.E.M?”
“Quello Stipe. Alex è la nuova manager che ci ha scovati e ha proposto ‘Without you I’m nothing’ alla Virgin. Credo che siamo piaciuti ma non lo so ancora.”
“E Stipe che voleva?”
“Ci ha proposto una parte in un film. Ci stiamo lavorando.”
“In che senso? L’hanno proposto a te?”
“No, al gruppo. Interpretiamo una piccola band glam dal nome impossibile.
Siamo solo comparse. Non avremo più di tre scene e suoneremo una cover dei T. Rex.”

Lancia un’occhiata distratta a David, come se avesse pronunciato delle paroline magiche.
Ma il re del glam non reagisce alla notizia, come se fosse in trance e si limita a staccare piccoli pezzettini dal tovagliolo di carta blu, carta di buona qualità e non quella da cucina; non è scottex per intenderci, studiato apposta per ravvivare la tovaglia color crema e sposarsi a perfezione con il metallo argenteo delle posate. Ma aldilà del danno estetico, di poca rilevanza, la cosa che lascia Brian perplesso è di fatto che per la prima volta si sente ignorato da lui.
Ricorda i primi inizi, quando si erano conosciuti e avevano deciso di vedersi per un caffè, poi per cena e poi per una notte, e, a quei tempi, Brian lo adorava al punto che più volte si era pentito della propria accondiscendenza davanti alle sue pretese da star navigata, dei continui colpi e le cadute di stile che aveva incassato, con una scrollata di spalle.
Poi i ruoli si erano invertiti. Aveva avuto tante piccole soddisfazioni, aveva deciso lui dove andare, quando andare, cosa fare, e David aveva sempre accettato, con un entusiasmo che ricordava davvero l’innocenza infantile. Lui aveva condotto il gioco e l’altro, forse stanco e contento di farsi “tiranneggiare”, gli aveva sempre riservato tutta la sua attenzione, la sua approvazione, il suo appoggio. Adesso invece era come se non lo ascoltasse veramente e questo preoccupava Brian più di quanto lo irritasse.

“Quale suonate?”
“Si chiama 20th Century Boy.”
“Molto adatta,  non c’è che dire.
Un giorno mi piacerebbe suonarla con voi.”
“Vedremo.
Senti, che c’è? È successo qualcosa?”

 

Si guadagna un’occhiata stranita dell’altro e una risata, calda e melodiosa come la sua voce.
Quella si che è una voce seducente, ha spesso pensato Brian quando lo ascoltava cantare o semplicemente chiacchierare amabilmente, gesticolando quel poco che bastava a mantenere viva l’attenzione del suo pubblico. La sentiva dolce e avvolgente come un piumino in pieno inverno e soprattutto diversa dalla sua di voce,  troppo sgraziata, tremendamente nasale e stridente. 
 Nel frattempo finalmente arrivano la sua insalata e la bistecca di David, cosa che finalmente sembra ravvivare il suo interesse per questo mondo.
Forse è semplicemente lui che si preoccupa troppo per  il suo amico e mentore, magari è solo affamato, si è svegliato male stamattina, forse non pensava di trovare la moglie a casa.
Per un attimo Brian sorride fra sé e sé all’idea che se la sia presa perché non lo ha trovato accanto a sé. Lo gonfierebbe di orgoglio come un tacchino e accrescerebbe il suo già notevole egocentrismo, ma fortunatamente è abbastanza in sé per tenere al guinzaglio entrambi.
Condisce l’insalata con un filo d’olio e di aceto.

“Ho parlato con Stefan.”

Questo basta a farlo sbuffare, mentre si mette in bocca qualche foglia.
è un periodo che mangia solo insalate: insalata verde, di pomodori, di pasta, di patate.
Ma nessuna batte quella di lattuga, songino, spinacino, rucola, feta, olive, pomodori e quello strano prosciutto montano italiano, leggermente salato, con un pizzico di pepe.
Ad ogni modo non replica, continuando a masticare a vuoto, quasi che il boccone in bocca lo esenti dal rispondere.


“Mi ha raccontato del vostro ultimo tour in Inghilterra.”
“Ah si. Scusa se non ti ho mandato una cartolina.
Magari avevi nostalgia di casa.”  replica acido. Non gli piace dove sta andando a parare il discorso.
“Mi ha detto che hai speso circa settecento sterline a settimana in bianca… e in pasticche, tanto per cambiare un po’ ”
“Vero. Cos’altro ti ha raccontato Papà Stefan?”
“Hai voglia di scherzare? Come va con la tua depressione?”

Il cameriere rosso sembra captare qualche parola e sbarra gli occhi, stralunato.
Brian lo incenerisce con lo sguardo e gli lancia un messaggio chiaro: fatti i cazzi tuoi.
Quello si limita a lasciare il  secondo quarto di vino sul tavolo, dopo che David, solo soletto e in silenzio, si è scolato la prima brocca. Ma ci vorrebbe ben altro per farlo ubriacare.
Molko  spalanca gli occhi di un finto stupore e alza la voce, teatrale.

“Ma come! David! Mi meraviglio di te!
Non si chiede una cosa del genere ad uno gravemente malato di depressione!”
“Beh, finché ti imbottirai di coca dubito che cambierà qualcosa.”
“Io non mi imbottisco di coca.”
“Stefan mi ha anche detto che ti sei rifiutato di farti visitare, che mangi solo stupide e insipide insalate, che soffri di insonnia, che non fai altro che bere caffè e sei intrattabile.
è già nata la leggenda di Brian Molko, star isterica, rompicoglioni e perennemente mestruata.”
“Ma si, già che ci siamo.
Sono donna, sono mestruata e faccio pompini gratis.
è questo che pensano di me.”
“Tu glielo lasci pensare.”

Questo è un colpo basso.
Tutta questa conversazione è diventata un colpo basso, da quando David ha  deciso che doveva fargli la paternale, come ai tempi del liceo, quando suo fratello aveva sempre qualcosa da ridire sulla sua vita.
Ci era voluto un pezzo, ma poi, con il tempo si era accorto che David Bowie non era veramente un alieno sceso da Marte,l’invasore spaziale, una puttana del rock’n’roll*, né la signora polvere di stelle o la femme fatales* dispensatrice di oscurità che cantava di essere. David non era Ziggy Stardust e per quanto lui si fosse sforzato di tirarsi via quell’etichetta appiccicatagli addosso sin dai suoi primi giorni sui palchi di tutto il mondo c’erano ancora stupidi ragazzini come Brian che si ostinavano a vedere solo il personaggio.
Ma adesso lui conosce il suo creatore,  David Robert Jones, di professione cantante, artista e uomo di spettacolo, uno dei migliori a raccontare favole come i menestrelli che declamano lunghi e appassionanti poemi epici; ma non riesce ancora a rassegnarsi del tutto che Bowie è umano e ha diritto anche lui a mostrare emozioni normali, fosse semplicemente la preoccupazione per un amico.
Come al solito Brian litiga con le emozioni che vorrebbe tenere fuori dalla sua vita.
E, con la fatica che sta facendo per mantenersi indifferente davanti al suo idolo d’infanzia, finirà per passargli la fame, una buona volta che ce l’aveva.
Poi l’atmosfera si scioglie in un attimo, con l’ennesimo sorriso di David che sembra illuminare le stanze di quel piccolo e discreto ristorante:

“E poi come pensi di sopravvivere fino a cinquant’anni? Guarda me! O…che ne so, Mick Jagger!”
“A proposito di Mick Jagger…ti ho mai detto quanto siete sexy in ‘Dancing in the Street’ ?”
“Ma  a lei, Mister Molko, solo i vecchi piacciono? Qualche giovanotto ventenne, suo coetaneo no?
E poi che novità! Quel video risale almeno ad una decina di anni fa*!”
“Vuol dire che lo ha rinnegato, Mister Bowie?”
“Oh mai.”
“Immagino come è andata a finire.”
“Ah si?”
Let’s spend the night together,
I need you more than ever,
let’s spend the night together now*


Bowie scoppia a ridere, non riesce a trattenersi davanti ad un Brian che, più smorfioso e provocante che mai, canta in falsetto,  al massimo volume quelle tre frasi che fanno decisamente arrossire il famoso cameriere rosso che ormai li osserva come se fossero bestie strane e materiale esplosivo, allo stesso tempo.


 **************



“Ragazzi! Un brindisi! Festeggiamo la band più glam degli ultimi dieci anni!
Di un kitch inguardabile!”

Uno scroscio di risate inonda gli studios mentre una ventina di persone alza i bicchieri di plastica pieni di champagne, comprato al supermarket, dopo aver fatto una colletta, ad insaputa del solo Michael Stipe che, a metà fra lo stupito, l’euforico e l’incazzato, ancora si chiede perché diavolo sono state interrotte le riprese.

“Aehm…Steve! Magari che ne dici se brindiamo al regista o almeno a qualcuno degli attori protagonisti?”
“Naaaaaaaa. Voglio un ruolo di primo piano!”

L’intervento di Stefan non serve a molto, mail resto del gruppo asseconda tranquillamente Steve Hewit che si aggira, ancora vestito di sbrilluccicosi brillantini neri, con un boa di pelliccia rosso fuoco e una tuba in testa, rubata a Brian in un momento di distrazione e che fa un figurone sulla parruccona cotonata biondo-rossiccia. Steve si sbraccia per riempire i bicchieri di tutti, Michael cerca, complice il regista Todd Heynes, di riportare all’ordine Ewan McGregor e Christian Bale che imitano la band, cantando a squarciagola, senza pietà per le orecchie altrui, mentre Toni Collette si intrattiene con Stefan e Johnathan Rhys Meyers che ha l’aria di non aver dormito molto la notte prima.
I tecnici e il resto della troupe è divisa in due fazioni: quelli che vorrebbero appoggiare il povero Stipe che vuole tornare a girare, e quelli che non vedevano l’ora di fare una pausa.

“Che diamine, Coach, abbiamo fame! Pausa pranzo!”
E all’urlo di Ewan si aggiungono un po’ tutti mentre saltellano come grilli.
“P-A-U-S-A-P-R-A-N-Z-O! P-A-U-S-A-P-R-A-N-Z-O!”

Mentre Michael sembra rendersi conto che è una battaglia persa quella di riportare sulla scena quel branco di squilibrati, Stefan scorge il suo frontman che si è spogliato dei panni della sua mascherata, rimanendo in jeans neri e maglietta di pajette; accanto a lui la fotografa con cui hanno fatto l’ultimo servizio fotografico e che, ha scoperto, curerà anche un piccolo book del backstage di Velvet Goldmine.
Stefan è contento di vedere che Brian sorridere con una tenerezza e una spontaneità più uniche che rare. Con tutto il fracasso che c’è non riesce a sentire cosa si stiano dicendo ma sicuramente qualcosa di divertente. Capta anche gli sguardi magnetici, che si inseguono: non riescono a staccare l’uno gli occhi dall’altra.
Il resto della troupe si sta già preparando ad uscire per andare a mangiare qualcosa e per fumarsi una sigaretta e a Stefan quasi dispiace di dover richiamare il suo cantante che ormai sta veleggiando per altri lidi, incurante di ciò che accade intorno a lui.
Ma basta poco per riportare Brian sulla terra.
Fra  la folla che ancora si attarda davanti alla porta senza decidersi ad uscire si fa strada una ragazza, una venticinquenne biondo cenere, con passo sconnesso, un cartellino con sopra stampato “ospite” a caratteri cubitali, e un’espressione rabbiosa come quella di un animale ferito.
In un attimo è alle sue spalle, reggendosi sbilenca sui tacchi undici, lo richiama perentoria, e quando questo si gira, sorpreso di riconoscere quella voce, lei lo colpisce con forza sulla guancia, con uno schiaffo.
L’attenzione della sala viene automaticamente canalizzata sulla coppia, lei che si regge a stento sulle gambe come se avesse messo in quello schiaffo tutta la sua forza, lui che da le spalle al muro e per poco non ci sbatteva contro,  accanto a lui Helena che osserva quella scena sbigottita.

“Brian! Io non ce la faccio più! Non…
è una settimana che non torni a casa!
Io ti ho aspettato per giorni! Per giorni senza una notizia!
Dio…”

Poi, in quella tipa che grida come una gallina spennata e si scioglie in lacrime, Brian riconosce quella che dovrebbe essere la sua fidanzata, Christiane Girard.
Gli si riaffaccia alla memoria la sua vita, in quell’appartamento di Brixton che lui condivide con Christine da quasi due anni. E prima di quei due anni di convivenza c’erano stati tre anni di fidanzamento. Cerca per un attimo di ricordare perché ama Christiane, cosa ama di lei.
Non gli viene in mente niente. Gli si affollano solo le immagini dell’ultimo mese in cui lei non ha fatto altro che lamentarsi; lui non era mai a casa, lei non era ispirata e non riusciva a scrivere, lui non voleva fare sesso con lei, frustrata perché, da un po’ di tempo a questa parte, era costretta a tradurre svogliatamente dal francese stupidi romanzetti rosa. E poi, ogni volta che lui proponeva qualcosa di nuovo, lei diceva di essere stanca, diceva che aveva da fare, che non si sentiva bene e passava le sue ore a telefono a parlottare con le amiche o chissà chi altro.
Una così è inutile, pensa Brian, inutile e deprimente.

“Noi dovevamo sposarci, Brian! Ne avevo parlato talmente tante volte con tua madre!
Dovevamo avere un bambino, vivere felici, insieme!”

Ne avevo parlato talmente tante volte con tua madre.
Improvvisamente Brian prende una decisione. La vuole fuori dalla sua vita, subito.
Inutile, deprimente e, ancora peggio, sfrontata.
Come si permette di irrompere lì, in quel modo, nel bel mezzo del suo lavoro e di rovesciargli addosso la stessa merda con cui lo ricopre a casa, la sera?
Non ha voluto aspettare di chiarire le cose a quattrocchi, non ha voluto richiamarlo con lo sguardo, con discrezione, ha voluto il set come scena e i suoi amici e colleghi come pubblico della sua stupida sceneggiata. E lo ha fatto con quella stupida irritante frase sulle labbra, chiamando in causa sua madre che non dovrebbe nemmeno sapere della sua esistenza.

“Brian…”

Stefan lo chiama, con un filo di voce, visibilmente preoccupato, forse perché ormai la faccia dell’amico è fin troppo eloquente.
Il biondo si è avvicinato, aggirando Christiane che con quei trampoli e quasi più alta di lui, ed ora è al suo fianco,  pronto a mettersi in mezzo se qualcosa va storto.
Brian le sorride, con una smorfia,  gelido e pungente, un iceberg.

“No, Stef, lasciala parlare.
Amore,  e così hai conosciuto mia madre, eh?
è simpatica? Siete diventate subito amiche?”
“Lei…ha chiamato sei mesi fa.
Era così gentile e mi ha raccontato tante cose di te.
Mi ha aiutato a capirti.” 
Questo basta ad irritarlo ancora di più e non le risparmia una battutina caustica
“Oh, splendido. Mia madre mi capisce.
E ti ha suggerito lei di venire qui a piantare questa scena mentre sto lavorando?”
“No. Io…ero esasperata, Brian!
Tu eri sparito! Non rispondevi al cellulare!
Non sapevo cosa fare!”
“E così hai spifferato tutto a mia madre...”

Non da nessuna soddisfazione questa ragazzetta.
Brian ancora non può credere di aver passato quasi cinque anni della sua vita con questa biondina che singhiozza fino a tremare, che accetta con gratitudine un fazzoletto da Stefan, che frigna come una stupida bambina.  Il moro non ha voglia di perdersi in chiacchiere.
La tensione è salita alle stelle, gli sguardi di tutti sono ancora puntati su di loro, per vedere chi la spunterà e la giovane fotografa alle sue spalle è chiaramente a disagio.
Avrebbero potuto lasciarsi amichevolmente, con qualche augurio di riuscire, lui nella musica, lei nella letteratura, le avrebbe augurato di avere una vita felice magari con qualcuno che la meritasse di più o che almeno non ne fosse nauseato come lo è al momento Brian.
Ma lei ha messo su un teatrino e il personaggio di Brian Molko non può permettersi di perdere la faccia sotto i riflettori, non dopo tutti i suoi sforzi, i suoi tentativi di controllare tutto ciò che avviene sulla scena.  Deve troncare e farlo in modo crudele.
Muove qualche passo verso di lei, con leggerezza affettata e un’espressione conciliante che non dice niente di buono, poi all’ultimo punta Stefan, mettendosi di fronte a lui, il collo leggermente torto verso la sua interlocutrice mentre affonda la sua lama, con quel piglio beffardo che non lo tradisce mai:

“Perché non racconti anche questo a mia madre?”

Lo dice lentamente e, allo stesso dolce ritmo, accarezza la guancia rasata del suo bassista, circonda il suo volto fra le mani, e indugia un attimo, per stuzzicare le sue labbra, passandoci sopra le dita piccole e smaltate di nero.
Le distanze si annullano, Stefan non può credere che Brian lo stia facendo veramente, eppure adesso sente il suo fiato sul collo, poi sul viso, un calore che gli imporpora le guance. Quando le labbra del moro si spingono sulle sue con dolcezza e un’urgenza ben simulata il biondo si irrigidisce e serra i denti, ricacciando indietro la lingua in tempo perché non venga catturata da quella del suo cantante.
Quello continua per diversi secondi ad incollarsi al suo petto, carezzando il suo collo, mordendo e leccando, ostinandosi a tentare di penetrare la bocca dell’altro, a vincere anche questa sfida, e strusciandosi prepotentemente contro il suo ventre, lo costringe ad indietreggiare verso il muro.   
Non si ferma finchè non ode il singhiozzo soffocato della ragazza dietro di sé che gira le spalle e corre via, affranta e piagnucolosa come non mai, nota Brian, con maligna soddisfazione.
Quando si è accertato che lei non è più nella stanza, lentamente tira indietro il collo, lasciando a Stefan la possibilità di respirare. Il biondo tira un lungo sospiro per calmare il respiro accelerato che, nonostante tutto, gli ha procurato la piccola recita di Brian, e scrolla le spalle per dissipare gli ultimi tremolii.

“Baci bene.”  

Commenta, piatto e riceve in risposta un sussurro e una risatina languida, le sue labbra ancora troppo vicine perché il bassista sia di nuovo a suo agio:

“Grazie.
Tu invece potevi essere più accomodante.
Ho dovuto fare tutto da solo.”

Termina allegramente, con la leggerezza di chi si è tolto un terribile peso e finalmente si distacca con nonchalance dall’amico, captando gli sguardi stupiti, imbarazzati e decisamente a disagio della troupe spettatrice. Quasi dimentico di tutto e di nuovo innocente, regala un sorriso, stavolta caldo e rassicurante, ad Helena Berg, commentando:

“Tutto questo lavoro mi ha messo fame.
Posso invitarti a pranzo?”



*********************
 


NOTE

*La festa in questione è il festeggiamento dei cinquant'anni di Bowie a cui partecipano e suonano i Placebo.

*Hotel di lusso di Manhattan (NY), chiccosissimo se non si era capito...

*Famoso e costoso ristorante vegetariano della Big Apple.


*Cit. da “Moonage Daydream” 
I'm an alligator, I'm a mama-papa coming for you
I'm the space invader, I'll be a rock 'n' rollin' bitch for you
Keep your mouth shut,
you're squawking like a pink monkey bird
And I'm busting up my brains for the words

Sono un alligatore, sono un mamma - papà venuto per te
Sono l’invasore spaziale, sarò una puttana del rock’n’roll per te
Tieni chiusa quella bocca,
stai urlando come un uccello scimmia rosa
E mi sto friggendo il cervello per trovare le parole


*Cit. da “Lady Stardust”
Femme fatales emerged from shadows
To watch this creature fair
Boys stood upon their chairs
To make their point of view
I smiled sadly for a love I could not obey

Femmina fatale emersa dalle ombre
Per guardare questa bella creatura
I ragazzi stavano in piedi sulle proprie sedie
Per avere il loro punto di vista
Io sorrisi triste per un amore al quale non potevo
obbedire


* Dancing in the Street, video del 1986, con Mick Jagger e David Bowie   

*Let’s Spend The Night Together, originale dei Rolling Stones ma cantata (benissimo *_*) anche dal duca bianco.



Angolo dell’autrice

Ebbene si, stavolta mi sono data al citazionismo e vi ho postato un po’ di video e di spunti di canzoni varie. So che non è la sede giusta ma la verità è che da poco ho scoperto un sito che si chiama proprio Velvet Goldmine che riporta tutti i testi di David Bowie con tanto di traduzione, fatta benissimo poi!
Bene, questo è un capitolo all’insegna della doppiezza, con continui cambi di umore, comportamenti incostanti e contrastanti e poi come al solito l’incapacità di giocare a carte scoperte, la paura di apparire deboli agli occhi degli altri che stanno diventando un must nella vita del mio Brian che decisamente si va formando per conto suo senza nemmeno degnarsi di seguire il tema della mia raccolta! Non c’è niente da fare, per il momento tutto quello che sono riuscita a dimostrare è che con tutti i cambiamenti di questo mondo le “arkai” rimangono quelle, cioè i suoi tratti caratteriali e psicologici sono definiti e io fatico a piegarli ai miei voleri! Ò.ò
è  tutto abbastanza realistico, niente è mai vero, né si avvicina al vero.
Comunque avverto che non credo che diventerà mai una Molsdal...non è un pairing che mi entusiasma.
Un grazie stratosferico a chi mi segue e chi mi ha recensito in precedenza, expecially la Nai, GiadaRock e la DAMA BIANCA.
That’s all people!

Misa

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** San Remo / Nizza 2001 ***




San Remo / Nizza  2001




San Remo, 2 marzo



Stefan osserva impressionato la hall del teatro Ariston di San Remo, con i suoi pavimenti in marmo bianco e policromo, i lampadari di simil-cristallo, la scala monumentale che porta alla zona palchi e al foyer , i pilastri squadrati e la serie di tendaggi rossi che incorniciano le soglie delle porte.
Non è pratico, non ha mai frequentato teatri, al massimo qualche vecchio cinema, modesto e scuro, dalle sale piccole e allungate, con uno schermo piccolo rispetto a quelli che troneggiano negli enormi multisala.
Ma lui è un nostalgico, uno di quelli che collezionano vinili e che quasi disdegnano i CD o ancora peggio gli mp3 e la nuova musica digitalizzata. Quando può si prende un’oretta libera per andare a curiosare nei vecchio mercatini dove i 33 e i 45 giri cominciano a comparire sempre più spesso, LP graffiati, con le copertine consumate, qualcuna strappata o imbustata nella plastica.
Improvvisamente sente uno strano disagio: questo non è posto per un concerto, non per il genere di musica che si apprestano a suonare. Manca ancora un quarto al loro turno, almeno a detta del tizio che li ha condotti lì, lasciandogli confuse istruzioni in un inglese pessimo e stentato.
Nel frattempo i tecnici staranno sistemando gli strumenti, la presentatrice starà intrattenendo il pubblico con qualche battuta e i giudici si staranno consultando fra loro per buttare giù una prima classifica delle musiche che hanno ascoltato.
Lo ha letto da qualche parte, pare che sia il festival della canzone italiana e che venga premiata la migliore; e loro sono ospiti, ospiti indesiderati a giudicare da come sono trattati.
Adesso sono sul retro del parco, mancano ancora almeno dieci minuti, e Stefan si accomoda su una sedia insieme ai suoi compagni di band.
Con la coda nell’occhio osserva Brian accendersi una sigaretta con gesti nervosi e affrettati.
Alle sue spalle un cartello sembra guardarlo minaccioso: è severamente vietato fumare.
A Stefan scappa una risata bassa, Steve si agita sulla sedia, sporgendosi verso il tendone che li separa dalla scena e Brian lo osserva per un attimo, perplesso, con il sopracciglio pericolosamente inarcato.
Poi squilla un telefono, il cellulare di Brian e lui lo cerca un po’ nelle tasche del chiodo di pelle nera prima di rispondere, sorpreso:

“Marion?”
“Brian!
Sei in Italia e non mi hai detto niente!”
“Per lavoro. E tu come lo sai?”
“Me l’ha detto Cody!”
“Ah. Si, sono in un posto sperduto della…dov’è che siamo, Sté?”

Parla in tono strascicato, mastica la sua sigaretta e appoggia il telefono fra la spalla e l’orecchio per aggiustarsi il pantalone di pelle aderente basso sui fianchi.

“Boh, comunque è circa un’ora e mezza da Nizza.”
“Suonate?”
“Si, come ospiti ad uno strano festival italiano.
Non so che diamine ci facciamo qui, a dirla tutta.”
“Non mi dire…mica siete a San Remo?”
“Ecco brava, là.”
“Oddiiiio! Dico a mia madre di registrarvi!”
“Per carità. Odio rivedermi.”
“Egocentrico. Ovviamente io e Cody vogliamo vedervi.”
“è lì con te?”
“Si, ti saluta.”
“Scusa, mi fanno segno di chiudere.”
“Ok, buona fortuna! ”
“Grazie, ci sentiamo.”

Chiude con un sorriso, un segno di buon umore dopo due giorni di viaggio da dimenticare.
In realtà tutto  il tour di promozione del loro nuovo singolo, “Special K” , è stato un inferno, specie l’arrivo a San Remo che, fino a ventiquattrore prima era ancora un opzione e non una realtà.
Ma come diavolo li organizzano i Festival questi italiani?
Brian ignora lo sguardo di disapprovazione di un tizio in giacca e cravatta rossa che cammina avanti e dietro per la sala, lanciandogli ogni tanto occhiate di sottecchi.
Ha un’aria grave, come se gli avessero assegnato da gestire un tremendo onere, e si agita nervosamente; forse pensa così di dimostrare che sta lavorando indefessamente.
Gli si avvicina, concitato e parla velocemente, incomprensibile:

“Ahò, tra cinque minuti ce state voi, eh.
E comunque qua dietro non se po’ fumà, eh.”
“Pardon, Sir?”
“Oh, ma hai capito, mister?! Qua non se fuma!”
“I’m sorry, Sir, I can’t speak italian. ”
“Anvedi sti’ inglesi. Non capiscono na’ mazza.
AH MARCO! Com’è che se dice in inglese che non possono fumà?”

Il “manager” si gira, dando le spalle al gruppetto mentre Brian sbuffa infastidito e fa per spegnere la sigaretta contro il bordo del tavolino, quando Steve lo ferma, guadagnandosi un’occhiata di fuoco.
Nel frattempo una voce fuori campo interviene, in risposta al tizio nervoso e incravattato:

“E che ne so! Aspettà oh, me pare che se dice you don’t smoke…no…you can’t smoke.
Comunque mo’ è er turno loro!”
“Ok.   Oh, voi, moveteve che tocca a voi.”
“Excuse me, Sir, do you have an ashtray…something for cigarettes, you know?*”
“Marco, questi proprio non me capiscono!
IN SCENA! IN SCENA!  OUT! THERE! SINGING, capito?”

Il tizio indica a più riprese il tendone in direzione del palco e comincia seriamente ad agitarsi, come un pazzo, facendosi rosso come un pomodoro.
Nella confusione Brian lascia cadere la sigaretta a terra, ancora accesa, e si alza di scatto, quasi allarmato. Da quel poco che ha capito tocca proprio a loro.
Si avviano, accelerando il passo, e compaiono sulla scena, alla luce dei riflettori, mentre si fanno largo fra la fitta foresta di amplificatori e strumenti con relativi cavi, aggirando la batteria dove Steve prende rapidamente posto.
Sistematosi per primo, Steve Hewitt osserva stranito la folla di persone sedute sulle poltroncine rosse, i pannelli di vetro e le arcate della scena dall’aspetto futuristico, la sala piuttosto grande e lancia un’occhiata prima interessata poi delusa al sedere sculettante di Megan Gale che li presenta, con voce entusiasta e un forte accento inglese.
Sarà pure uno schianto ma sembra avere il culo di un cavallo con quell’orrendo pantalone nero, completo di tasche sulle chiappe, pensa Steve, poi con quel top, la coda di cavallo e il cappello country è inguardabile.
Osserva il suo cantante che si sistema a tracolla la chitarra e coglie di sfuggita qualche parola isolata “Bowie” , “rock” , “Special K” e “Sanremo”e infine l’urlo entusiasta della Gale che si gira verso l’orchestra, al lato del palco e che sposta la sua attenzione sul terzetto.
Adesso siamo al completo, pensa Steve, mentre parte un debole applauso di incoraggiamento.
Brian parte,  strimpellando con ampi gesti, anche troppo evidenti e quasi si piega in due quando attaccano Stefan e  Steve con la batteria.
Fari bianche e blu lampeggiano e cambiano d’intensità, mentre, intorno al palco tutto è avvolto in una soffusa luce violacea.
Ma quando Brian si avvicina al microfono, cingendolo con la mano con la dolcezza di un genitore, comincia a capire che c’è qualcosa che non va.
Spalanca gli occhi, disorientato e per un attimo le sue labbra non pronunciano quelle parole che lui sente risuonare comunque, a volume frastornante, provenienti dalle casse alle sue spalle.
è svelto a riprendere il controllo e suona le corde dell’elettrica svogliatamente, mentre quelle vibrano a vuoto.  Sta suonando in playback.
Cerca di concentrarsi e fare esattamente quello che si sforza di fare al meglio ogni giorno: recitare la sua parte.
Scarica la sua rabbia su una povera camerman che li sta riprendendo dal basso e le riserva un bel dito medio.
Non gli resta che scandire le parole, ondeggiando avanti e indietro, avvicinando e allontanando al microfono  le labbra sottili e lucide e facendo saettare la lingua, provocatorio, al suono del “paralaaa” che segue le strofe. È costretto ad uno scatto repentino, un salto felino, per giustificare un “graaavity” troppo ben scandito per una voce così lontana dal microfono.
Da quel momento cerca di mantenersi più vicino possibile al ricevitore per evitare altre cadute di stile e comincia a pestare le corde della povera chitarra, quasi gioca a prendere al volo gli accordi, come nei primi tempi, quando ancora si esercitava con i power chords, con i barret e le posizioni lungo i ventitré tasti.
Non c’è niente di emozionante in questa esibizione, per quanto lui si sforzi di riuscire in una delle prove più difficili per un attore: il mimo.
La musica dovrebbe esaltarlo, dovrebbe pompare sangue nelle vene e accelerare il battito cardiaco, spingerlo a muoversi e a ruggire con trasporto e invece è costretto a sentire quella sua voce nasale, orribilmente smielata e leziosa.
Davvero è così tremenda la sua voce? , pensa fra sé e sé, mentre il pezzo volge alla fine.
Gli da il voltastomaco tanto è affettata e patetica.
Il risentimento aumenta man mano che lancia occhiate di disprezzo al suo pubblico, tutti almeno sopra i quaranta, o anche i cinquanta. Ha gli occhiali da sole e non possono vedere quanto quella pagliacciata organizzata da questi italiani lo disgusti.
Poi gli balena un’idea, e di scatto, mentre la musica comincia a sfumare afferra con violenza per il manico l’elettrica, sfilandosi via la fascia dal petto.
La brandisce come un’arma, arretra e si accanisce contro un amplificatore Marshall, colpendolo a più riprese con il body dello strumento.
è partito qualche applauso, qualche urlo d’incitazione ma ben presto tutto si spegne e si sentono i colpi feroci della plastica e del metallo, poi il rovinare rumoroso dell’amplificatore per terra.
Inveendo contro la pioggia di applausi e urla di scherno - qualcuno poi urla “bravooo!” fischiando a più non posso -  Brian finge un’uscita di scena.  
Si china accertandosi, con un’occhiata rapida del danno che ha provocato,  poi, sprezzante, invocando gli applausi di quella gente, torna in scena, spingendosi sul bordo del palco,  allargando le braccia come un attore che si presenta a fine spettacolo.
 Non può capire i cori di “scemo” , “buffone” , “pezzo di merda” ;
torna indietro a raccogliere gli occhiali da sole e la tracolla della chitarra che ha quasi sfasciato.
Fa  un profondo e cerimonioso inchino al pubblico, più rumoroso e incattivito che mai, dopodiché finalmente esce di scena con passo prepotente, dominatore del campo.
Uno dei manager lo afferra per il polso mentre stanno scomparendo nel retro ma lui scrolla il braccio, sdegnoso.  
Alle sue spalle Megan Gale entra in scena con un sorriso stampato dipinto in faccia, non sa bene dove guardare mentre annuncia con il cinguettio di un usignolo e il solito entusiasmo a buon mercato:  

“La Liguria è bellissima!”


********************
 

 

Nizza, 4 marzo





 Una chiara luce mattutina filtra prepotente dalle persiane automatiche che scorrono sopra lentamente, cigolando.
Brian apre un occhio, faticosamente, e poi sbadiglia, serrando di nuovo le palpebre, infastidito.
Quel cigolio è come lo stridere di un gesso sulla lavagna e la luce lo acceca sebbene sia ancora piuttosto fioca.
Lui è solito dormire con le persiane completamente abbassate perché la luce non lo svegli ma stavolta ha dormito troppo.
è arrivato il giorno prima a Nizza che ancora pioveva, subito si è fiondato in hotel, ha preso una camomilla e un sonnifero e ha dormito un giorno intero.
Di colpo si ricorda dell’aereo che partiva per Londra alle 18. 30 del 3  marzo e si chiede se è ancora in tempo per prenderlo. Poi decide che non gli importa e si gira dall’altro lato, dando la schiena alla finestra e raggomitolandosi ancora di più nelle lenzuola, sotto il piumino.

“Brian, è quasi mezzogiorno.
Non vorrai rimanere tutto il giorno a poltrire come un ghiro.”

Una voce bassa e melodiosa, molto femminile, con un accento esotico, lo rimprovera dolcemente.

“Mhm…Quand’è l’aereo?”

Cerca di scandire le parole, cosa non facile con la bocca impastata che si ritrova e non solleva neppure la testa per controllare chi è la sua interlocutrice.

“Ho chiesto ad Alex due giorni di tregua. L’aereo è domani, alle dieci.
Su, alzati, abbiamo un sacco di cose da fare!”

Brian si tira su, appoggiando la schiena alla testa del letto e inquadra Helena Berg alla piena luce del giorno, mentre lei spalanca la finestra, per cambiare l’aria viziata della stanza.
Per un attimo è confuso, crede di stare ancora sognando:

“ Ma…tu che ci fai qui?”
“Mi ha chiamato Alex. Ha detto che eri molto stressato.
Sono venuta a vedere come stavi.”
“…”
“Hai un aspetto tremendo.”
“Grazie tante.”

La donna si lascia scappare una risata argentina alla vista della smorfia di Brian che si strofina gli occhi con il dorso della mano e inumidisce le labbra secche.
Indispettito, l’uomo si caccia sotto le coperte, raggomitolandosi come un gattino che cerca riparo nel cesto dei gomitoli di lana. Il letto cigola leggermente quando al peso del cantante si aggiunge anche quello della fotografa che si stende accanto a lui. Sono alti praticamente allo stesso modo, anzi, lei, con un filo di tacco, è anche leggermente più alta, quel tanto che le basta per slanciare le sue gambe sottili.

“Briiiiii, vuoi giocare a nascondino?”

Lo canzona lei, ancora ridacchiando alle sue spalle e riceve in risposta il lamento attutito di Brian, soffocato dalla stoffa delle lenzuola avorio:

“Vattene, lasciami in pace…”

Helena si infila lentamente sotto le lenzuola e rotola addosso a quel fagotto di cotone del suo compagno, lo afferra per i fianchi e gli fa il solletico.
Brian protesta, senza riuscire a soffocare le risate, e tenta di ritrarsi ma la sua donna lo tiene ben saldo. Cominciano a ruzzolare per il matrimoniale come i sassi che rotolano nel letto di un fiume, finché l’uomo blocca Helena per i polsi e si sistema sopra la pancia di lei, rimanendo a guardare i suoi occhi scuri che ridono, la frangetta bruna, asimmetrica e sbarazzina, come il suo caschetto lungo, stretto sulla nuca in un codino. La donna fa resistenza e lui allenta la presa sulle mani lasciando che lei gli accarezzi le guance ispide, con la barba di un giorno e due notti.

“Non mi piaci con la barba.
Pizzichi.”
“Je suis un homme, mon amour.” *
“Oh, smettila.”

Brian incassa un pugno debole, scherzoso, sul petto, e striscia delicatamente su di lei per fronteggiare il suo volto. Avvicina il proprio viso a quello della donna e poi strofina la punta del proprio naso su quello di Helena. Che differenza abissale: quello di lei è egiziano, quello del cantante è quasi a patata. Mantiene quelle distanze ravvicinate, sorridendo, beato:

“Ma lo sai che hai la proboscide di Cleopatra?”
“Screanzato! E tu lo sai che hai una selva selvatica in testa?”

Lui ridacchia e soffia dolcemente il suo alito caldo sulle labbra di Helena, un alito che sa ancora di notte, tanto che lei arriccia il naso in una smorfia disgustata e allo stesso tempo buffa.

“Oddio, Bri, vatti a lavare i denti, ti prego. Hai un alito pestilenziale!”  
“Uff e va bene, razza di scocciatrice che non sei altro…”

Ma nonostante ciò non si muove, continua a specchiarsi negli occhi castani della compagna, le alita sul collo e ogni tanto le accarezza il naso con il proprio.
Rimangono così per un po’, poi Helena lo punzecchia dolcemente sulla spalla, un po’ preoccupata, mentre gli occhi di Brian si sono incantati, persi nei suoi, e sembra assorto in chissà quali pensieri.

“Brian, mi si rovina il vestito.
È quello che ti piace tanto.”
“Ti amo, Helen”
“Anch’io ti voglio bene.”
 
Adesso è il turno di Brian, di arricciar il naso, stringendosi nelle spalle e sbuffando contrariato;
una ciocca di capelli neri, dalla consistenza della paglia, si insinua fra loro solleticando le labbra della fotografa mentre il compagno si lamenta, mettendo il broncio:

“Solo questo? Mi vuoi…bene?!”
“Potrò dire di amarti solo quando ti sarai fatto una doccia.”
“Sei cattiva.”
“E tu puzzi.”
“…”
“Briiiiiian! A farti una doccia! Marsch!”

Finalmente ottiene il risultato sperato anche se Brian passa circa mezz’ora in bagno, prima di riemergere, con i capelli bagnati, a piedi nudi sulla moquette, avvolto in un accappatoio di spugna bianco. Traffica nella valigia e finalmente tira fuori un phon con il beccuccio sottile e una grossa spazzola rotonda dalle setole morbide.
Si sistema su una sedia, accanto ad una spina, e fa per accendere quando Helena gli si avvicina e gli toglie il phon di mano, con mano esperta.

“Fai fare a me…
Bri, ho dato un’occhiata al tuo guardaroba. Ma non hai qualcosa da mettere che non sia nero?”
“No. Alex dice che mi sta bene.”
“Brian, Alex cura la tua immagine. Il nero dimagrisce. È logico che te lo consigli!”
“Mhm…”
“Tra l’altro non hai affatto bisogno del nero per apparire magro! E hai le guance incavate!”
“Mhm…amore, la smetti di rimproverarmi?”

Per un attimo il suo compagno le appare talmente tenero che Helena sorride, con fare materno e gli accarezza la fronte, poi dissimula il gesto fingendo di sistemargli un ciuffo, diritto davanti agli occhi.

“Helen, mi da fastidio!”
“Zitto! Fai fare a me!”

Lei accende il phon e da prima un’asciugata generale alle radici rovinate dalla tintura nera che lui si fa regolarmente. Stanno ricominciando a crescere i capelli castani, occorre un altro trattamento.
Almeno adesso la sua testa odora di quell’olio di cedro che si mette in testa per ingrassarli un pochino ed evitare che si rinsecchiscano. Smuove i capelli sulla nuca e passa un pettine per sciogliere i nodi attorcigliati. Quel taglio scalato, cortissimo sulla nuca e lungo sulle orecchie lo costringe a lisciarsi i capelli per non assomigliare ad un palloncino rigonfio.
Poi lentamente arrotola la spazzola intorno ai capelli e ci passa sopra l’aria calda del phon, tirando e allisciando le ciocche, una ad una, come ha imparato a fare da ragazzina, con le sue amiche.
Lei non ne ha mai avuto veramente bisogno, solo ogni tanto, quando uscivano troppo crespi, oppure c’era brutto tempo e l’aria pesante che sapeva di pioggia le gonfiava i capelli.
Allora li portava lunghi fino a metà spalla ma erano pesanti, lunghi da asciugare e noiosi da curare.
In più davano al suo volto allungato, dai tratti orientali, un’aria un po’ scialba e insignificante.
Li portava spesso legati in un morbido chignon e così ha conosciuto Brian, circa cinque anni prima.
Qualche mese dopo che avevano cominciato a frequentarsi più seriamente, lei si era fiondata dal parrucchiere e si era fatta fare un bel caschetto semi-corto che aveva ritoccato circa ogni mese.
Da un ultimo colpo di spazzola e sistema la riga quasi al centro, cercando di mimetizzarla con qualche ciocca.  Non è facile, Brian non ha molti capelli e rischia che le calvizie si presentino sulla soglia dei quant’anni.
Ci spruzza su la lacca perché mantengano una forma bombata e tondeggiante, lasciando qualche ciuffo ribelle che gli incornicia il volto.
Soddisfatta e orgogliosa di non aver perso la mano, ripone il phon, le spazzole e le varie bottiglie di shampoo, olio per capelli e lacca nel beauty case, in valigia.
 
“Amore, sopra sono tutti elettrizzati!”
“Tsk, non avresti saputo fare di meglio.”
“Scommettiamo?”
“Non scommettere con me, Brian Molko. Potresti pentirtene.”
“Che paura.”
“Bri, vatti a fare la barba e sbrigati! Voglio uscire!”
“Non me la voglio fare.”

Helena spalanca gli occhi mentre osserva il suo uomo in boxer che infila un paio di vecchi jeans a vita bassa, i più alti che ha, una T-shirt nera di cotone e un maglione peloso, color panna con le trecce che gli va un po’ largo.

“Allora ce l’hai qualcosa che sia largo e…diciamo colorato!”
“Non mi hai visto a San Remo. Ero strizzato in un completo di pelle che tra l’altro non mi donava nemmeno.”
“Ok, scherzi a parte, perché non vuoi farti la barba?”

Intravede un sorriso maliardo, accompagnato da un tono suadente:

“Perché voglio darti fastidio.”



Helena insiste con quella storia una ventina di minuti, quanto occorre a Brian stendere una tonnellata di correttore,  per truccarsi con un filo di matita nera, con una coda leggermente sfumata che allunga l’occhio e passarsi il mascara nero.
La Berg scalpita ancora mentre il suo uomo continua a pavoneggiarsi allo specchio e si passa un dito di lip gloss sulle labbra.
Lei lo avvolge in una sciarpa di lana rosso vino, gli fa indossare il cappotto grigio chiaro e lo spinge fuori dalla stanza d’albergo. Resiste alle sue implorazioni, si rifiuta di fargli fare colazione decretando che mangerà quando saranno arrivati.
Non è così crudele da tenergli nascosta la loro meta, anche perché non vuole tirare troppo la corda.
In fondo, fino a poche ore fa, quando Alex l’ha chiamata, la situazione era nera, tutto il gruppo era tremendamente stressato dall’ultima fatica del tour, che avevano affrontato imbottendosi di caffeina. Lei ha scoperto che il caffè ha un pessimo effetto su Brian a cui basta poco per far saltare i nervi. Inoltre ne beve quantità spaventose e poi gli viene difficile prendere sonno.
Quando lui è a casa, a Londra, lei adotta tante piccole strategie:  non compra caffè, nasconde la macchinetta e finge di averla persa, mette fuori uso la moka Nespresso che Brian si è fatto spedire da un sito italiano e quando il compagno torna a casa con una confezione da dodici buste di caffè le fa sparire distribuendole fra i vicini finchè lui non si accorge che sono misteriosamente finite tutte e dodici.
Ma quando Brian è in tour, in giro per il mondo, lei non può controllarlo; può solo sperare che ogni tanto ci pensino Stefan o Steve a fermarlo.
Né lei vuole angustiarsi più di tanto. Non è proprio nella sua natura.
Sorride, tronfia come un gallo nel pollaio, quando Brian rimane sbalordito alla vista della cascata di Gairaut* . Sopra si erge un grosso padiglione, una specie di chalet di collina dai tetti spioventi, con le imposte e le balconate di legno intagliato, le pareti in muratura e il camino.
Lo chalet è a picco su uno zoccolo di rocce artificiali, che formano tanti gradoni da cui scende la cascata,  larga ma tutto sommato quasi piccola rispetto a quelle tropicali che Helena ha intravisto di sfuggita in qualche documentario sulle foreste pluviali.
Attorno è un trionfo di verde, pini, querce, qualche olivo, e, nel bacino artificiale sotto la cascata, simile ad una piccolo lago, sguazzano anatre e paperelle fra le rocce e i papiri.
Passano sotto lo chalet, su un piccolo ponte sospeso sulle cascate e si fermano a guardare l’acqua che schiuma e poi viene risucchiata verso il basso dalla gravità, con un gorgoglio fragoroso.
Ma il bel gioco dura poco.
Dopo essere rimasti abbracciati per un po’ sul ponte ad osservare l’acqua in perenne movimento, Brian comincia a lamentarsi come un piccolo moccioso impaziente.
Le tocca andare alla ricerca di un posto dove sfamare la piccola bestiola che si tira dietro e poco lontano da lì c’è un delizioso baretto, forse un po’ turistico, con la musica a palla, “per di più inascoltabile” commenta Brian,  apostrofando così l’ultimo successo degli Oasis*.
Comperano un paio di sandwich, due macedonie, una birra per lui e una bottiglia d’acqua frizzane per lei, e si allontanano, andando a zonzo per il parco nei pressi dello chalet per fare un picnic in solitaria.
Brian si toglie il cappotto, lo mette a terra e ci si siede sopra, mentre l’erba umida lascia sulla stoffa grigia letali macchie d’erba. Helena lo osserva divorare avidamente ben tre sandwich doppi e una macedonia, con l’appetito di un ragazzino appena tornato da un allenamento sportivo.

“abbiamo ancora un sacco di cose da vedere;
Ci mancano ancora Boulevard de Cimiez, Basilique Notre Dame, Place Massena, il Marc Chagall Museum...”
“No, ti prego non andiamo a rinchiuderci in un museo!”
“Brian, non fare lo zotico. Marc Chagall è un genio, un surrealista, un simbolista, un sognatore...”
“Amore, ci andiamo un’altra volta, ok? Ti giuro che quando torneremo a Nizza sarà il primo posto dove ti porterò.”
“Ma...”
“Qualcosa di più...alla mano?”
“Boh... il Candy Shop at Rue Pairoliere.”
“Perfetto! Ci andiamo?!”

Helena sospira, alzando gli occhi al cielo, e annuisce, nascondendo l’ennesimo sorriso sotto i baffi.
Rianimato dalla prospettiva di una manciata di dolcetti, Brian sopporta pazientemente le occhiate stranite che la gente gli rivolge in autobus. Non è cosa da tutti giorni un tizio truccato di tutto punto con la barba un po’ selvaggia e il cappotto pieno di macchie di erba sulla schiena.
Pian piano la campagna lascia il posto all’intrigo di piccole vie della città vecchia, alle spalle dei grossi viali che costeggiano le spiagge di sabbia bianca e finissima, chiuse per la stagione invernale. Solo i ristoranti dei lidi funzionano e i bar mettono graziose file di tavolini e di ombrelloni in riva al mare per i turisti.
Si addentrano nella città vecchia, fra le stradine popolari, piene zeppe di negozietti, dagli alimentari con i tavolini di plastica bianca e le tovaglie di carta a quadrettoni rossi, al negozio di scarpe di pelle italiane, ciascuno con le serrande alzate e, a furia di scorrere le insegne arrivano al Candy Shop.
Sulla soglia c’è un pirata di plastica, con tanto di sciabola e uncino, e all’interno ci sono file e file di botti da vino ricolme di caramelle e dolci.
Helena commenta, piccata, mentre il suo compagno ha afferrato cinque o sei sacchetti che sta riempiendo a dismisura:

“Ma non perderai la tua invidiabile linea abboffandoti di gelatine alla fragola?”
“Non c’è problema. Costringerò anche Stef e Steve ad abboffarsi con me.
E, se me la gioco bene, anche Alex cederà quando le regalerò quei confettini verdi e gialli!”
“Bri, non è che esageri?”
“Amore, preferisci l’interno al cocco o al cioccolato bianco?”
“Odio il cioccolato bianco.”
“Perfetto, allora cocco.”

La donna non riesce a contenerlo ed è costretta a vederlo mentre spende quasi quindici euro di dolcetti e schifezze varie. Già sente gli strepiti della loro manager e del dentista, un vecchio e caro amico di casa Berg.  Ha praticamente adottato Brian da quando ha conosciuto la sua dentatura, non bella ma, a detta sua, una delle più pulite e curate della sua carriera.
Lui è praticamente al settimo cielo mentre cammina fuori, dondolando il sacchetto di plastica, entusiasta e Helena sa che deve passare al piano B.
Sono ancora in tempo per il marché aux fleurs, il mercato dei fiori.
A pochi passi dalla costiera si apre un modesto viale, ombreggiato da tanti tendoni a righe rosse, blu e gialle e sotto ci sono file di vasi disposti per terra, uno accanto all’altro, fino a formare una sorta di tappeto fiorito, e poi ancora  le cassette colme di fiori avvolti nella carta e nella plastica a mazzi, persino qualche bouquet.
Brian si ferma a parlare con un tizio, un giardiniere panciuto, alla ricerca di una qualche pianta comoda da tenere in un appartamento di settantacinque metri quadri a Brixton, nella Londra piovosa.  Ha deciso che vuole ravvivare un po’ casa loro, sempre troppo vuota e grigia.

“Fiori invernali?
Signò, ma voi tenete un balcone? No?
Vabbè, allora le camelie. Basta che le tenete all’ombra.
Non sono troppo delicate e stanno bene al freddo.
Vedete queste bianche che tengo? Belle eh?
Un vaso di quelli medi ve lo faccio trenta.”
“Non ce le ha più colorate?”
“Come no! Bianche, rosse, pure gialle se volete.
Però le gialle quaranta, che sono rare.”
“Helen, che ne pensi?” *


Helena non parla francese, né lo capisce molto.
In più Il venditore di fiori borbotta con voce bassa e profonda con uno strano accento, si mangia le parole e ogni tanto si interrompe per ridere gongolando e rollando i baffi.
Non risponde, sta ancora osservando un bel gelsomino giallo quando sente la mano di Brian sul suo braccio. Si gira confusa verso il compagno mentre questo le dice qualcosa:
 
“Qu'en penses-tu ?”
“Cosa?”
“Le fleurs, mon cherì”  *  
“… cosa?”
“I fiori, Helena! Ti vanno bene quelle camelie o no?”
“Camelie?! Vuoi comprare delle camelie?!
E dove le mettiamo?! Come ce le portiamo?!”
“Ce le facciamo spedire e le mettiamo in casa.
Quell’appartamento è vuoto, ci vuole un po’ di vita.”
“Bah, per quello si prende un cane, al massimo facciamo un figlio!”

La risposta esce di getto dalle labbra della donna, seguita da una risatina nervosa, e lascia Brian di sasso. La fotografa si affretta ad aggiungere che scherzava davanti allo sguardo allucinato del cantante che ha spalancato gli occhi e la osserva sconcertato senza sapere se deve ridere della battuta o no. Almeno questo lo distrae dal suo malefico intento ed Helena riesce persino a salutare in fretta e furia il venditore di camelie che deve chiudere bottega.
La giornata di relax volge al termine e finisce in bellezza con un cenetta deliziosa a lume di “zucca” ,  a base di legumi e ortaggi, in un piccolo ristorante vegetariano.
Per sfuggire agli schiamazzi degli ultimi giorni del carnevale, con le sue mascherate e le sfilate dei carri, si rifugiano in riva al mare, seduti a gambe incrociate sulla sabbia a guardare lo spettacolo di fuochi artificiali che il comune di Nizza regala loro.
Helena sbadiglia, nascondendosi pudicamente dietro ad una mano e si accoccola sul petto di Brian, strofinando la guancia sulla lana del cappotto per riscaldarsi.

“Helena, eri seria?”
“Quando?”
“Quando…parlavi del bambino…”
“Bri, era uno scherzo. Scherzavo!”
“…sicura? Non è che sei…”
“Ma no!”

Brian vede la sua compagna ridere di lui e sospira, sollevato.


Ma come mi è venuto in mente?  Certo che no.




*******************




Note

* GLOSSARIO (battute di Brian): “Come prego?” ;  “Mi dispiace, non parlo italiano” ;  “Scusi, avete per caso un posacenere… qualcosa per le sigarette, ha presente?”

* Festival di San Remo 2001, “Special K”, live dei Placebo di cui sopra.
 

* GLOSSARIO: “Sono un uomo, amore mio.”

* Go Let It Out, Oasis
“Life is precocious in a most perculiar way
 Sister psychosis don't got a lot to say
 She go let it out, she go let it in, she go let it out “

 
* Una bella panoramica delle cascate di Gairaut
 
* dialoghi  in francese.

* GLOSSARIO (battute di Brian) : “Che ne pensi?” ;  “I fiori, mia cara.”



Angolo dell'autrice

Salve gente,
premetto che ho parecchie cose da dire, a parte i soliti disclaimer (i personaggi sono solo personaggi, le vicende sono beatamente inventate ecc.).
La parte “San Remo 2 marzo” è ispirata (non troppo) liberamente ad un episodio veramente accaduto e registrato nel video nelle note,  ed è ispirata ad un racconto che Stefan ha fatto in un’intervista pescata sul web (non la riporto, se ci tenete a leggerla scrivetemi pure, ve la manderò xD). La seconda parte è inventata ma i luoghi sono veri e ho cercato di dare un carattere anche a Nizza benché  non sia una città a me familiare né ci sono mai stata. Se poi risulta troppo pesante, noioso ecc. mi consolo pensando che ci ho provato... volevo rendere l’atmosfera!
Ho reso le battute dei manager italiani in “dialetto romano” perché non volevo impicciarmi con dialetti liguri o del nord che non conosco e poi ho pensato che è possibile che gli organizzatori del festival e sottoposti vengano dalla capitale.
Non ho voluto offendere nessuno: non amo né il festival di sanremo né la musica italiana degli ultimi anni ma questa non è una crociata contro nessuno dei due, è solo quello che verosimilmente potrebbero aver pensato i Pla (e cito Nai *_*) quando sono stati catapultati nel mezzo del nulla ad un festival sconosciuto ecc. e perciò hanno dato di matto. Non posso dire con certezza che Brian ha cantato in playback come ho letto sul web, e se non è così invoco la licenza d’autore.
Riguardo il venditore di fiori, il voi suonava meno ridicolo del lei in bocca ad un coltivatore di camelie.   
Infine quelle quattro righe di lyrics sono per la DAMA BIANCA, gliele devo! *_*
Grazie a tutti coloro che leggono, seguono e soprattutto commentano nonostante le lunghe attese.
Au revoir,

Misa  

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Paris 2005 ***


Paris 2005


[Stansted Airport,  London,
31 Agosto 2005 ]

Brian sorride rilassato e si allunga sul sedile, stringendo i braccioli e gettando l’occhio accanto a sé, ad Alex che traffica con il telefono, un po’ affannata, cercando di scrivere una mail.
C’è aria di vacanza, fa caldo, un caldo afoso e l’aria condizionata è d’obbligo.
Il cantante controlla il bocchino dell’aria, sopra la sua testa e lo regola in modo che un soffio gelido gli rinfreschi la fronte, il viso, il collo.
Sta per abbassare la temperatura quando  riceve uno sguardo seccato dalla sua compagna di viaggio e  uno schiaffo leggero sulla mano. Ritira in fretta il braccio come se si fosse scottato  scrolla le spalle e sbuffa,  facendo l’offeso.
Alex sa che sta fingendo e non gli presta la minima attenzione, anzi, lo redarguisce acidamente:

“Ti dispiace evitare di ammalarti? Vorrei passare la prossima settimana in vacanza e non al tuo capezzale, se permetti.”
“Poi mi toccherà mettere la maglia di lana?”
“Tutto quello che vuoi. Basta che non mandi a puttane la mia vacanza con Tom in Grecia.”
Voglio farmi un bagno, voglio mangiare pane, feta e olive e voglio bere retsina tutto il tempo, ok?”

Brian ridacchia e lancia un’occhiata ad uno steward che, alla testa dell’aereo, con movimenti meccanici e poco entusiasti, mostra il protocollo di emergenza.
Se ne stanca presto, caccia la mano nella tasca del sedile davanti, cerca una rivista ma non c’è.
Prende addirittura in mano la carta plasticata delle procedure di salvataggio ma non è uno spettacolo esaltante seguire sulla carta i gesti spassionati del moro che mostra ad una folla disinteressata come infilarsi una maschera per l’ossigeno.
Comincia a strappare piccole strisce di carta dal sacchetto anti-vomito.

“Mio dio, vuoi stare fermo?! Sembri mio figlio a cinque anni!”
“Uhm…e adesso quanti ce ne ha?”
“Quindici.”
“Sei vecchia.”
“Ho cinque anni più di te, Brian.
Sei tu che sei in ritardo.”

Questo lo infastidisce più di quanto lui dia a vedere e Alex sorride sotto i baffi, perfida.
Approfitta della sua distrazione per togliergli di mano il sacchetto di carta e nasconderlo di nuovo nella tasca davanti a lui. Il cantante mugugna, affondando ancora di più nel sedile:

“Non era affatto programmato.”
“Sarebbe stato strano il contrario.”
“Davvero non mi ci vedi come padre?”
“Tu si?!”

Brian non ha voglia di rispondere a questa domanda perché non sa cosa ribattere; fosse per lui, non ci penserebbe più di tanto ma ormai la paternità è alle porte.
Preferisce concentrarsi sul ticchettio fastidioso dei tasti del cellulare della sua manager che da ore sta scrivendo una semplice mail, forse al suo compagno, forse alla casa discografica, forse a suo figlio, al suo medico di base oppure alla sua amica veterinaria che si prende cura del suo cane quando sia lei che Tom sono in viaggio.
Intanto sono in aereo, con due ore scarse di volo che li separano dalla Francia e da casa, ma a lui sembrano un’infinità;   non ha con sé né libri, né giornali, e non ricorda in quale tasca a messo il suo mp3 che potrà usare solo quando i segnali rossi sopra la sua testa si saranno spenti.

“Dove andrete in Grecia?”
“La pianti di farti gli affari miei?”
“Non ho nulla di meglio da fare.”
“…”
“Quanto state?”
“Cazzi miei.”
“Dove alloggiate?”
“…”
“Andate in compagnia o soli soletti?”
“BRIAN!”

Alza la voce quel tanto che basta a provocare strane occhiate di vago interesse da parte dei passeggeri vicini. Brian si porta un dito sulle labbra facendole segno di fare silenzio, con un’aria di finto rimprovero che non ingannerebbe nessuno.
Quanto ad Alex, lo guarda in cagnesco per un po’ e poi ritorna a fare quello che stava facendo.
Il cantante lancia uno sguardo annoiato e sconsolato ai sedili di dietro sperando di incrociare lo sguardo dei suoi compagni di sempre ma Stefan è immerso nella lettura di un romanzo, uno di quei thriller psicologici alla Stephen King o alla John Grisham e Steve sta giocando al Nintendo DS, l’ultimo ritrovato della tecnologia.
Fortunatamente la sua manager non vede Steve, tutto concentrato, mentre cerca di superare uno dei primi livelli di Super Mario, imprecando continuamente e accusando Mario di essere “uno stupido ammasso di pixel incapace e…brutto pezzo di merda! ”.
Il suo batterista sembra retrocesso all’età di sette anni;  all’inizio, quando lo aveva comprato per suo figlio, aveva ritenuto suo dovere di genitore responsabile provare il nuovo gioco.
Ma Brian trova molto più divertente stuzzicare Alex che contare le volgarità che escono dalla bocca di Hewitt.

“Non dovresti agitarti così tanto. È solo una settimana al mare.”
“Non è per quello che sono agitata.”
“E per cosa allora?”
“Lascia stare. Piuttosto…
 Indovina un po’ chi mi ha scritto?”
“L’estetista ti ha annullato l’appuntamento?”
“Se si azzarda lo ammazzo con le mie mani;
 ho bisogno di una cera. Sono uno yeti.”
“Affascinante.”
“Mi ha contattato il manager dei Limp Bizkit.”

Brian alza gli occhi al cielo davanti all’espressione severa di Alex e poi sposta la sua attenzione sulle sue unghie smaltate di nero che hanno decisamente bisogno di un po’ di “manutenzione”:

“Ancora con quella storia?!”
“Certo che no! Quella storia, Brian, l’abbiamo chiusa quattro anni fa.
Al K Rock, davanti a centinaia di persone!”
“Dio, ne fecero un affare di stato. Alla fine quel tizio è solo un coglione un po’ attacca brighe che quel giorno era in vena di esibizionismi.”
“Avrei giurato che quello fossi tu.”
“Ora più che mai capisco Trent Reznor* .“
“E perchè?”
“Gli ha dato dell’idiota  e ha detto che poteva infilarsi un pezzo di legno su per il culo, per quanto gli riguardava.”

Il cantante scoppia a ridere, maligno, come una pettegola che si delizia dal parrucchiere il sabato mattina e neppure Alex riesce a resistere, lasciandosi sfuggire una risatina nervosa.
Brian ha sempre il potere di toglierle autorità, di trasformarla in una compagna di giochi, complice di scherzi, confidente e amica, scavalca tutte le sue pretese di professionalità, cosa che la fa quasi sentire in colpa. Nel capodanno dell’ultimo anno, era riuscita a farla ubriacare con qualche innocuo drink e  mezzo bicchiere di champagne, quando lei era notoriamente astemia, poi l’aveva invitata a ballare sui tavoli del locale dove avevano festeggiato. Aveva rimesso l’anima tutta la notte  e si era svegliata con la peggiore emicrania della sua vita per poi apprendere dalle labbra del suo compagno, infuriato che ballavano talmente vicini da sembrare una coppietta in amore.
Lei si era beccata la scenata di gelosia di Tom che l’aveva tormentata per una settimana, rinfacciandole la cosa in ogni momento.
Ciò nonostante lui c’era sempre stato,  per il funerale di sua madre e per il periodo in cui avevano traslocato nella nuova casa in campagna, a qualche chilometro da Londra.
La aveva convinta a non rivendere il suo piccolo appartamento da single, nel cuore della capitale inglese, e questo le era tornato molto utile per piccole fughe, anche in compagnia.
Era prima di tutto un amico ormai, per quanto le costasse ammetterlo.
Per non parlare della marea di guai in cui la cacciava, lei, la sua agente e manager.
Aveva ricevuto centinaia di lamentele, sottoforma di lettera, di e-mail, di messaggi vocali, fax o visite di “cortesia”, trovandosi faccia a faccia con uomini in completo nero e cravatta rossa, il ritratto del perfetto manager, che sembravano perseguitarla come un’ombra.
Da donna, sapeva perfettamente che il suo lavoro era ancora più difficile.
La parità dei sessi era di quanto più vicino c’era ad una bella favoletta per i bambini sotto i cinque anni. Non che si sentisse discriminata, non lo avrebbe mai permesso.
Ma qualche volta si sentiva stanca all’idea di dover combattere con l’uomo di turno, dal sorriso affascinante  o il cipiglio da comandante e la lingua biforcuta.
C’era sempre in agguato lo sguardo condiscendente, l’aria di superiorità, le manie di grandezza che li portavano a pensare che lei sarebbe caduta ai loro piedi ancora prima di stringersi la mano e fare le presentazioni.
Brian non l’aveva mai aiutata in questo. Se voleva, creava scandalo, se voleva, rispondeva male, se voleva, li cacciava via ancora prima che avessero aperto bocca.
Poi arrivavano le rimostranze della casa discografica, dei produttori dall’alto, quelle dei tecnici e degli strumentisti dal baso, quelle del truccatore, del costumista, dell’ultima delle guardie giurate che magari si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Gli unici che lo amavano alla follia erano i fan, qualunque cosa facesse.
Giusto quattro anni prima Alex aveva avuto il suo bel daffare litigando furiosamente con l’agente dei Limp Bizkit, dopo quello che era successo al New York K Rock Show.
Era rimasta sconvolta dalla mascherata che avevano organizzato per  introdurre il concerto e si chiedeva quale band si sarebbe mai prestata ad una pagliacciata di quel genere.
Al momento di andare in scena, lei era fuori di testa perché il suo cantante era ancora dio sa dove nel campus a fare chissà cosa. In genere Brian non era così sadico da lasciarla agonizzante, ad un passo dalla folla impazzita sotto i palchi, mentre i minuti passavano inesorabili, ma questa volta mancava davvero poco e avrebbe avuto un esaurimento nervoso.
Poi Fred Durst si era avviato in scena tutto tronfio, dando ordini a destra e manca,  affinché, dopo di lui, comparissero una specie di nano, con arie da rapper e ballerino hip-hop, che navigava in una tuta nera tre volte più grande di lui, con quelle enormi scarpe da ginnastica bianche, a strisce multicolor che si accendevano come luci al neon, e una coppia di ballerine di streep-tease farcite di piume e brillantini ovunque.
Lei gli si era avventata contro come un avvoltoio che ha puntato la sua carcassa e gli aveva chiesto, non troppo gentilmente, chi cazzo fosse.
Non gli aveva lasciato il tempo di spiegarsi tanto era furiosa con tutti, con il suo cantante che non arrivava, con la sicurezza che non sapeva tenere a bada i fan e con quell’ idiota che davvero credeva di passarla liscia, strisciando ratto come un sorcio per il backstage,  forse per chiedere un autografo, forse per avere l’esclusiva di una foto, un bacio, una qualunque di quelle idiozie per cui stravedono i fan.
Lo aveva fatto portare via di peso salvo poi ritrovarselo in prima fila, a concerto finito, mentre urlava in mezzo alla folla insieme al suo team “I Placebo fanno schifo!”.
Quando Brian, dal palco lo aveva incitato ad avvicinarsi e a dire la sua Fred Durst si era rivelato QUEL Durst, presentatore della loro serata. E Molko gli aveva riso in faccia.
In quel momento Alex avrebbe voluto ammazzarlo.
Non solo lei si stava mangiando le mani al pensiero che non aveva riconosciuto il cantante dei Limp Bizkit ma adesso il SUO cantante trasformava un piccolo incidente diplomatico in una offesa plateale, preda per le televisioni, delizia dei giornaletti scandalistici, chiacchiera di tutto il mondo dello spettacolo in cui erano costretti a sguazzare, come tanti anatroccoli nello stagno.
Più tardi, al campus, mentre lei cercava inutilmente di tenere a bada il manager di Fred che le rovesciava addosso una caterva di insulti, quella stupida ragazzina, una delle rodie che gironzolava intorno a Steve da un pezzo, aveva attaccato briga con un tizio dell’enturage di Durst.
Tutto era andato storto e Alex, sepolti i sensi di colpa con una buona dose di pragmatismo da donna in carriera, era più che convinta che era stata tutta colpa di Brian.
Era arrivata quasi a giustificare la reazione di Fred Durst quando ripensava a come Molko gli aveva riso in faccia. Se c’era qualcosa che poteva farti sentire l’essere più stupido, inutile, ridicolo e degno solo di disprezzo dell’universo quella era la risatina ironica di Brian che cominciava sommessa e poi si faceva sempre più sonora, acuta e nasale, come se dovesse perforarti l’orecchio.
Lui fingeva di trattenersi, con quell’aria vezzosa che lo contraddistingueva, e la mano davanti alla bocca, poi chinava il capo e le spalle erano scosse da leggeri tremolii e deboli risatine.
Infine rovesciava il capo all’indietro, la bocca spalancata, tutti e trantadue i denti in mostra e terminava l’accesso di risa con un respiro, come se non avesse preso fiato fino a quel momento.
Più era falsa e caricata e più evidente era il disprezzo,  sembrava comunicare, e  siccome era una sensazione comune, Alex non aveva mai pensato, nemmeno per un attimo che potesse essere una sua suggestione.
Per il resto Brian, nell’ ultimo anno, era stato una perla.
In tour, alle sei del mattino, era già in piedi, quasi come se si godesse i primi raggi del sole e i campus deserti prima che diventassero un formicaio di attività.
Un paio di volte aveva anche preparato la colazione o era uscito per rimediare da qualche parte dei cornetti, aspettando almeno le nove,  perché anche il resto del campus fosse sveglio. 
Con grande sollievo della sua manager aveva abbandonato i vestitini e aveva optato per comodi jeans scuri, abbinati con la classica camicia bianca e giacca nera.
Non le era mai parso così “acqua e sapone” come in quel periodo: niente rossetti, niente lucido, niente trucco pesante, solo una punta di matita grigia, un filo di burro di cacao e una buona crema idratante.  L’ultima battaglia era convincerlo a tagliare quella lunga chioma nera che gli arrivava alle spalle e che lui portava sempre legata in una coda di cavallo con due lunghe basette lisce che gli incorniciavano il viso.
Era quasi gentile e sempre professionale con il resto del mondo, con loro poi era amabile.
Una rivoluzione.
Da quando si erano conosciuti Alex non aveva mai creduto di sopravvivere tanto a lungo per raccontarlo.  Era arrivata alla conclusione che, uno di quei giorni,  sarebbe scoppiato, come un vulcano spento e innocuo esplode in un’eruzione pliniana.

“Alex?!”
“Che vuoi?”
“Ma mi hai sentito?”
“Parlavamo del mio parrucchiere.”
“Estetista, Alex. Quello che ti ricostruisce le unghie, che ti fa la colata di gel, la cera, la lampada…”
“Dio! Lo so cos’è un’estetista!”
“E comunque non parlavamo di questo.”
“Ah no?”
“Ho detto che voglio stare a Parigi.”
“Quanto?”
“Voglio lavorare lì al prossimo album.”
“CHE COSA?!”

Per poco non le cade il cellulare di mano, cerca di ricordare le sue ultime parole, ma non le è sembrato di aver sentito nominare Parigi fino a quel momento.
Ci risiamo, stavi andando così bene fino a qualche minuto fa, pensa fra sé e sé, quasi sconsolata all’idea di dover sostenere una nuova valanga di pretese.
Ma non ha intenzione di cedere, è o non è la sua manager, dal pugno di ferrro?

“Non se ne parla neanche.”
“Andiamo!”
“Enne O.”
“Ho un’ottima ragione! Non puoi negarmelo!”
“E quale sarebbe?”
“Helena è a Parigi, dalla cugina.
Non tornerà a Londra per la gravidanza, non al settimo mese.”
“Amorino, non sai quanto mi dispiace. Non c’era forse scritto nel contratto che ogni tanto saresti dovuto stare lontano da casetta tua? ”
“Alex, sto per diventare padre!”
“Brian, per amor del cielo! E questo mi autorizza, a detta tua, ad annullare la prenotazione dello studio di registrazione di Londra pagando la penale annuale, a pagarti le spese per l’hotel, i locali e tutte le belle cosette a cui siete abituati, oltre alla strumentazione per un centinaio di sessioni di registrazione!”
“L’euro costa meno*.”
“Poi io presento il conto e Frank and Co. Mi fanno il culo.”
“Bene, allora trovami una casa discografica che accetti le mie condizioni.
 Cambiamo.”
“Brian, vuoi litigare?”
“Non lavorerò lontano da mio figlio. Gli altri possono andare a farsi fottere.”
“Spero che tuo figlio non venga su come te…”


**********************
 

Il cellulare squilla, ha una suoneria irritante, come quella dei carillon per bambini.
è il risultato di uno stupido gioco che avevano messo su Stef e Steve, in un noioso pomeriggio di pioggia, qualche mese prima del tour “Once more with feeling”, durante un trasferimento da Lione a Marsiglia.
Giocare a carte aveva stufato tutti; cercando disperatamente di impiegare il tempo, erano finiti a giocare a  nomi-cose-città, al gioco della bottiglia, alla battaglia dei cuscini.
A furia di agitarsi, avevano ridotto le cuccette un campo di battaglia: letti sfatti, vestiti ammassati per terra, qualche libro abbandonato negli angoli, carte di merendine, buste di patatine, bicchieri di plastica che gocciolavano ancora caffè sul pavimento, bottigliette semi-vuote di aranciata e coca cola. Lo stereo trasmetteva una qualche lagnosa canzone francese (a detta di Brian, bisognava “calarsi nell’atmosfera” del posto) e, paradossalmente, cantava a squarciagola di campi di grano e giornate soleggiate.
Dopo una serie di battute demenziali, i Placebo erano abbandonati per terra e ridevano a crepapelle.
Stefan aveva approfittato dello stato del suo frontman, troppo impegnato a tenersi la pancia e ad asciugarsi le lacrime, aveva afferrato il suo cellulare e aveva scaricato quella stupida tintinnante suoneria.
Brian avrebbe voluto riprendersi il telefono ma, bloccato da quel colosso del suo bassista, a furia di solletico era stato costretto a promettere che l’avrebbe mantenuta per un anno, a partire da quel momento. Come suo solito, Molko alla fine aveva accettato la sfida.

“Briaàn?”
“Yes, Brian speaking.”
“Je suis Carry.”

Dopo un primo momento di sorpresa, Brian passa rapidamente al francese, con una risatina garbata e una studiata disinvoltura.

“Carry! Siamo appena atterrati.
Il tempo di mangiare qualcosa e siamo da voi.”
“Ok, magnifico.”
“Come sta?”
“è un po’ stanca, ma credo sia normale.
Non fate troppo tardi. Deve riposare.”
“Certamente. A dopo.” *

Chiude la chiamata con un click ed è richiamato da Steve all’ordine, mentre sul nastro trasportatore scorrono i bagagli e le persone si accalcano scrutando con un misto di ansia e noia le valigie che escono, controllando modelli, colori, le targhette con i nomi.
Quando escono nella sala arrivi, Brian e Steve sono in compagnia dei loro borsoni da viaggio, Stefan e Alex dei trolley. I trolley sono scomodi, sono rigidi, non hanno mai abbastanza tasche, hanno maniglie troppo corte, sono poco pratici per essere infilati in un autobus, ha sempre pensato Brian, e per questo ha scelto un borsone, di quelli a rotelle, si intende.
Ora come ora vorrebbe solo seguire il consiglio di Carry, fiondarsi a mangiare un boccone e raggiungere Helena perché ha voglia di vederla. Non sa, in un mese quanto possa essere cambiata ed è preoccupato per la sua donna, quasi all’ottavo mese di gravidanza.
Ma, quando la macchina li lascia in albergo, Steve propone di andare a bere qualcosa, alle quattro del pomeriggio e Stefan insiste per provare quel piccolo localino che gli ha consigliato il suo ragazzo, il caro Dave, in una delle traverse di Boulevard St German.
Quando Alex aveva prenotato il loro soggiorno a Parigi non aveva prestato molto attenzione alle richieste del suo frontman, benché sapesse bene quanto potesse rivelarsi pericoloso ignorare Brian. Anche stavolta l’aveva spuntata e, una volta a Londra , aveva approfittato del suo buon umore per informarlo che il loro albergo era in centro città, a più di tre quartieri di distanza da casa di Carry, dove alloggiava Helena.
Brian non vorrebbe perdere troppo tempo ma non hanno ancora avuto occasione di festeggiare la fine dei tour estivi, il successo in Chile, in Argentina, in Messico e in Brasile.
Strappa loro la promessa che non si tratterranno a lungo, che eviteranno come la peste ristoranti di lusso, locali famosi dove qualche fan a caccia di autografi possa riconoscerli.
Da quando sono atterrati a Parigi si sente finalmente invisibile, un uomo normale, anzi, ancora meglio, un uomo in vacanza. Non ha voglia di incontrare gente, di perdere tempo in chiacchiere inutili e vorrebbe ricordarsi il nome di quella famosa brasserie che faceva quei dolcetti al miele e mandorle divini.
Sicuramente Carry apprezzerebbe il pensiero e Brian le deve molto.
Le è stata vicina dal mese di Aprile, quando lui e la band sono partiti per l’America Latina e lo ha molto rasserenato sapere che lei aveva preso il coraggio a due mani ed era partita insieme a Marion e Cody per la Francia e che sarebbe stata da sua cugina;
sarebbe andata al parco, avrebbero preso un aperitivo insieme,avrebbe scattato fotografie, sarebbero andate a caccia di gallerie di arte e negozietti vintage.
Ma i suoi buoni propositi si vaporizzano rapidamente dopo un pentolino di fondue, una crème brulée e una bottiglia di Pinot Noir di Vougeot *.
è Alex a ripescarli, verso le sette di sera, dopo tre ore passati a gozzovigliare, in giro,  nei pressi dei Jardin du Luxembourg.
Ricevono una bella strigliata, è la quinta volta che li chiama e nessuno di loro risponde.
Brian trova sul cellulare ben otto chiamate perse da parte di Carry ma questo non basta a cancellare il suo inguaribile buon umore e i suoi sorrisi da brillo.
Ci mettono almeno mezz’ora ad attraversare la città con la metrò, il più efficiente mezzo di trasporto in città ma non una bacchetta magica: oramai il danno è fatto.
Montmatre è uno dei quartieri più suggestivi, ha un’atmosfera da belle epoque ottocentesca che aveva affascinato molto Helena e prima di lei Carry e Marion;  avevano entrambe comprato casa in uno di quei viali, con i suoi imponenti palazzi liberty, neoclassici ed eclettici, dai colori chiari, grigio, arancio, panna, bianco, i caminetti sui tetti di tegole spioventi, gli steccati di legno bianco delle aree verdi, i tronchi sottili dei tigli verdi che allungano i rami verso il cielo come se volessero staccarsi da terra, i lampioni di due secoli addietro e le scale di pietra con i loro corrimano in ferro battuto.
Cominciano ad illuminarsi le insegne nonostante non sia ancora calato il buio sulel tende a cappottina, blu o verde scuro, dei caffè.  Turisti e parigini sono amabilmente seduti ai tavolini tondi dei caffè mentre fanno uno spuntino e discutono su dove andare a cena.
Se avessero fatto un passaggio per Place du Tertre sicuramente avrebbero trovato ancora gli stand e l’esposizione di disegni, dipinti ad olio, acquerelli, cartoline, ritratti, vedute della città, pittura classica, realistica e figurativa oppure moderna, astratta dai colori squillanti e forme pseudo-geometriche. 
Ma non hanno tempo né la lucidità per guardarsi in giro;
bussano al palazzo di Carry che non li aspettava più e saltellano per le scale, non c’è  ascensore e l’appartamento è all’ultimo piano.
Helena è a letto, con un vassoio stretto al petto mentre beve del brodo caldo e del riso con latte di soia. Ha avuto qualche problema di stomaco e preferisce tenersi leggera, ma non riesce a rinunciare al latte di soia freddo che prende a temperatura ambiente almeno tre volte al giorno.
Brian vorrebbe scusarsi con Carry ma gli viene da ridere. È improvvisamente felice di essere arrivato a casa, incurante del ritardo, di aver dimenticato di portare almeno un dolce per la padrona di casa. La saluta allegro, con un bacio per guancia e si avvicina al letto, chinandosi sulla figura gonfia di Helena per stamparle un bacio sulle labbra.

“Brian…”
“Come stai, amore? Come sta Junior?”
“Non lo chiamare così! É…orribile.”
“Mon amour, cerco solo di mandare avanti la schiatta dei Molko e di seguire le tradizioni di famiglia.”

Helena è stupita. Tutta quell’ilarità, quel tono leggero, senza un velo di ironia la insospettiscono, specialmente dato l’argomento; il suo compagno non ama (per usare un eufemismo) parlare di “tradizioni di famiglia” o di “schiatta dei Molko”.
Si gode il suo sorriso addolcito dall’alcool, gli occhi lucidi e arrossati e sente la fiatata “profumata” del Pinot Nero. Lancia un’occhiata di scusa alla cugina che vorrebbe portarle via il piatto ma Brian le impedisce di passare e riprendersi il vassoio.
Sulla porta ci sono ancora Stefan e Steve che sorridono come due ebeti, facendo commenti sull’arredamento della casa, sulla tappezzeria, sul colore delle pareti, come fossero improvvisamente diventate due checche isteriche.

“Bri, spostati. Carry deve prendere il piatto.
Perché avete fatto così tardi?”

Brian si discosta appena e, non appena la donna si è impadronita del vassoio, lui si accosta al letto, sedendosi sul bordo e allungando le braccia per stringere la compagna in un abbraccio.

“Hai ragione, amore. Non lo farò più lo prometto. Non ti lascerò mai mai mai più…”
“Dio, ma quanto avete bevuto?! Lasciami, mi fai male.”
“mai mai mai…”
“Brian, la pancia! LA PANCIA!”

La Berg lo spinge via, spaventata dalla pressione che il compagno faceva con il torso, sul suo corpo.
Si sente fragilissima, delicata come le ali di una farfalla, come  un foglio di carta ormai incenerito, come una sfoglia di papiro che si sfalda con una leggera, insignificante tocco di dita.  È stanca, lo ha aspettato tutto il pomeriggio, non ha riposato perché pensava che sarebbe arrivato da un momento all’altro e non aveva nemmeno troppa fame quando si è fatta ora di cena.
Annoiata si è messa a leggere e adesso le bruciano gli occhi e comincia ad accusare il mal di testa.

“Briaàn! Garde toi! si’ll vous plait! *”

Brian è saltato giù dal letto, arretrando e per poco non è andato addosso a Carry che stava riportando il vassoio con una tazza di tisana e una fettina di carne fumante, appena uscita dalla padella. La donna scivola indietro appiattendosi contro il comodino, di fianco al letto, stringendo al petto il portavivande, tanto che i lunghi capelli biondo cenere quasi scendono nel piatto.  Getta il capo all’indietro, scrollando la testa perché la chioma si acquatti dietro le spalle strette, poi lancia uno sguardo di rimprovero a Brian che in quel momento ha occhi solo per Helena. Ignora i suoi compari e colleghi che si intrattengono in soggiorno, probabilmente spaparanzati sui divani, mentre si lamentano che è ora di cena, e divorano i biscotti del tavolino davanti al sofà, senza nemmeno domandare il permesso.


“Carry, per piacere, puoi dire a Stefan e Steve che se vogliono tornare in albergo, Brian li raggiunge dopo.”
“Helen…”
“Brian, scusami, tesoro, ma mi hai spaventata.”
“Va tutto bene. Shshshsh.
Lo sai che voglio trasferirmi qui?”
“Helenaà, Stefaàn e Steveèn hanoò dettoò che possoòn aspetaàr, oui.”
“Stef! Steve! Che cavolo fate?  Venite no?”
 “No, non c’è bisogno, Bri. Vorrei solo un attimo parlare con te.”
 “Hai capito? Ci trasferiamo qui! Lavoreremo qui! E staremo insieme, io, te e…come lo abbiamo chiamato?”
“Non lo so. Dobbiamo discutere anche di questo.”
“Ti piace Bruce? Come suona Bruce Moko?”
“Amore, è orrendo.”
“O Kenneth!”
“Adesso lasciamo perdere. Ne riparliamo.”
“Voglio affittare una casa da queste parti. Chiederò ad Alex. E potremmo cenare con Marion e Cody una di queste sere.
Loro sono già arrivati?
Tu riesci ad alzarti dal letto?”
“Si, abbastanza.
Loro…Marion è in città.”
“Perfetto! Un’oretta massimo, tesoro, non ti devi stancare troppo.”

Helena è disperata, non riesce a fermare l’entusiasmo del compagno. Vorrebbe che stesse un momento zitto, che si annodasse la lingua, che se la mordesse, qualunque cosa purchè facesse silenzio. Si limita a sistemarsi meglio il vassoio con la carne in grembo, ma in questo momento non riuscirebbe ad ingoiarne un solo boccone.
Prende fiato, deve riuscire ad attirare la sua attenzione per almeno due minuti, il tempo di spiegare.

“è  successa una cosa a Cody. Una settimana fa.”
“Vuoi che li chiamo? Così ci organizziamo.”
“Brian, mi hai sentito?”
“E cosa è successo, cosa vuoi che sia successo! È Marion che è la regina dei drammi da quando avevamo vent’anni scarsi!”
“…”
“Il numero non è attivo? Cody ha cambiato numero per caso, ultimamente?”


 **************

[ Gennaio 1993, Cabina telefonica a Wembley, London ]



“Pronto, parla Brian Molko.”
“Brian! Dove sei?”
“Tom, c’è Steve da te?”
“Si”
“Me lo passi?”
“STEEEEEEVE!! BRIIIIAAAN A TELEFONO!”
“Brian! Come va? Dov…”
“Steve, dove sono le mie chiavi?!”
“aehm… non le trovi?”
“Stavano nella mia borsa. Sono SEMPRE lì.”
“Oh…forse le hai diment…”
“IO NON LE HO DIMENTICATE, STEVE!”
“Ah…”
“Hewitt, voglio entrare in casa. Sono stanco, fa freddo e ho fame.”
“Vieni da noi! Siamo da Tom! Anzi no, raggiungici al teatro vecchio.”
“Ma sei stupido o cosa?! Ho detto che sono stanco e che voglio andare a letto!
Quindi adesso tu vieni e mi porti le chiavi.”
“Eh…è che…c’è un problema…”
“Che problema?”
“Non…però non ti incazzare, ok?”
“Senti, ho già speso trenta pence, non ho tempo per le tue stronzate.”
“Ho dato le tue chiavi a Joel e Angie.”
“CHE COSA HAI FATTO?!?!?!?”
“Me l’hanno chiesto…è la prima volta che me lo chiedono!”
“COGLIONE! E IO COME CAZZO MI CAMBIO?!?!?!?!”
“Domani mattina ci incontriamo verso mezzogiorno, alla White City Station e Joel ce le riporta.”
“…”
“ Comunque è inutile che sali a bussare, non sono ancora tornati.
Ti cambi domani, ok?”
“…”
“Brian?
Allora vieni?”
 
TU-TU-TU-TU-TU



[Due ore dopo, Vecchio Teatro,  Brixton, London]


“Mooooolks! È arrivata la nostra star di Hollywood!”
“Piantala, Steve, sono già abbastanza incazzato con te. Non peggiorare la situazione.”
“Arrrr, stasera Molks morde!”

Brian gli aveva scoccato un’occhiata gelida, aveva buttato a terra il borsone da viaggio e si era lasciato cadere per terra, spalle al muro.
Sotto il palco, davanti a lui c’era una cassa che vibrava al ritmo spiritato di un basso elettronico, un perpetuo rumore di sottofondo che lo frastornava.
Poi aveva attirato la sua attenzione un ragazzo che strascicava i piedi, con in mano un bicchiere di liquido verdino, probabilmente assenzio, e si accucciava vicino a lui.

“Ehi”
“Cody, ciao.”
 “Come va?”
“Sei sobrio.”

Cody era scoppiato a ridere davanti allo sguardo indagatore dell’amico che passava velocemente dal suo bicchiere alla faccia accalorata. Nonostante il freddo, Cody sembrava sentirsi piuttosto a suo agio in maniche corte, con il viso chiazzato di rosso, accaldato.
Brian lo osservava mentre si girava, si sistemava a sedere senza riuscire a trovare una posizione comoda,  si agitava inutilmente e ridacchiava anche in maniera piuttosto idiota.
Gli occhi verdi erano lucidi e spalancati, le pupille che guizzavano da un punto all’altro della stanza non erano mai state così grandi.
Brian aveva distolto lo sguardo dall’amico, aveva appoggiato la testa al muro, con un sospiro e aveva commentato, laconico:

“Sei fatto di coca.”
“Oh, si! Tranquillo” agitando il bicchiere, con movimenti rapidi, quasi a scatti
“tutta scena…cosa?”
“Coca…sei fatto.”
“Forse un pochino!”

E aveva ripreso a sghignazzare, stavolta sguaiatamente.
Molko aveva chiuso gli occhi cercando di ignorare il fracasso che li circondava.
Per un attimo aveva sentito il puzzo del sudore di Cody, a pochi centimetri da lui, e aveva percepito la nausea che gli risaliva in gola. Aveva la bocca impastata come se si fosse appena alzato.
Stava dormendo in piedi.
Poi improvvisamente una mano era calata sulla sua clavicola, dandogli pesanti pacche sulla spalla e facendolo trasalire. Aveva digrignato i denti e aveva afferrato quella mano, spingendola via con veemenza, mentre l’altro tentava di scuoterlo:

“Ehi! Ma stai dormendo!”
“Si, sto dormendo. Mi va bene anche un fottuto muro come letto.
 Basta che mi lasci in pace.”
“Bru-Bro-Bra-Bre-Briiiiiiiiaaaaan!”
“Stai zitto…”
“Domani suonaaaaate!”
“Davvero?”
“Siiiii, me lo ha confermaaaato il tizio del locaaaaale. Apriiite il concerto di una band del posto!”
“Non mi prendi per il culo…?”
“Noooooo, te lo giuro su mia maaaaadreee.”

Quanto si poteva fidare delle parole di Cody?  Stava sparando stronzate?
I suoi belati non promettevano niente di buono e poteva giurare su quello che voleva ma godeva davvero di poca credibilità in quel momento.

“Ok, ci penserò domani. Adesso ho sonno.”
“Ma tira un po’, vedi come ti passa!”

*******************

[ 31 Agosto 2005, Montmatre, Paris,
Ore 21:30 ]



Con incredibile lentezza, la chiave gira e la serratura scatta con un CLACK fastidioso.
Brian spinge avanti via la porta di casa, per poco non sbatte contro il muro e lascia un segno su quelle pareti bianco-ospedale. Fin dal primo giorno in cui ha messo piede in quell’appartamento gli è sembrata la sala di attesta di un dentista o di un medico di base. Ci sono persino le riviste di moda, di pettegolezzo scandalistico, i quotidiani e i giornaletti su moda, casa, viaggi, fotografia e centinaia di altre pubblicazioni, ammassate in un cestino, accumulate nel tempo, alcune sembrano avere almeno un paio di anni.  È triste e deprimente, non si spiega come Helena ha potuto trascorrere quasi sei mesi in un posto del genere.
Ha spedito Stefan e Steve in hotel, ha ripetuto loro, con tono cantilenante, quasi stesse cantando una ninna nanna a due bambini in fasce per tranquillizzarli, che stava bene, che non era niente, che era un attimo di emozione e che si era ripreso in fretta. Lo stavano soffocando con la loro presenza, con i loro drammi patetici che sapevano di sbornia triste. Non avrebbero dovuto bere tutto quel vino e magari lui avrebbe capito prima cosa era successo, senza che si agitasse per la casa, qua e là, impugnando il cellulare con decisione e battendo nervosamente sui piccoli tasti.
Ha passato le ultime due ore a girovagare per strade di Parigi mai sentite, mai viste,alla cieca, battendo ossessivamente sempre gli stessi numeri, e in testa il prefisso di Londra.
A ripensarci, si sente molto stupido, un idiota che non ha versato nemmeno una lacrima, che ha continuato a blaterare per un po’ le cifre di quel numero e che non riesce a sentire niente, a provare dolore, dispiacere, qualunque cosa che non sia vuoto, vuoto stordimento.
Con la coda nell’occhio vede Carry che gli augura la buona notte e sale le scale, al piano di sopra, nella zona notte. Rimane per un attimo in soggiorno, si toglie la giacca e la abbandona su una poltrona ignorando il funzionale armadio-appendiabiti nell’angolo, a due metri scarsi dalla porta d’entrata. Dopo un po’, quando la padrona di casa è già scomparsa, sale anche lui, sente il bisogno di appoggiarsi al corrimano, di sentire il calore freddo del legno, mentre si muove meccanicamente verso la camera, verso il letto di Helena, mezza addormentata, con la schiena ancora appoggiata alla testa del letto, schiacciando il cuscino.
La sua testa è leggermente abbandonata di lato, la bocca e le palpebre socchiuse, sembra che stia ancora lottando contro il sonno o che si sia assopita solo un momento.
Brian pensa che le verrà il torcicollo se rimane in quella posizione ancora un po’ e delicatamente la spinge giù, le solleva la testa, lasciando che lei si riassesti e si lasci scivolare in posizione orizzontale. Le aggiusta il cuscino sotto la nuca, le rimbocca le coperte e coglie appena una sua fievole richiesta: latte.
Non perde tempo a pensare che Helena potrebbe essere troppo stanca per bere e si avvia lentamente in cucina. Non si chiede nemmeno se lo deve scaldare, lo versa in un bicchiere, ancora freddo di frigo,  e fa per salire al piano di sopra.
DLIN DLON
Il familiare carillon trilla ancora una volta, vibra prepotente dalla tasca dei jeans, solleticandogli la natica destra. Per un attimo si ferma, in cima alle scale, passa il bicchiere di latte nella sinistra, afferra il cellulare con urgenza, come divorato dall’attesa e legge avidamente il mittente della chiamata. Finalmente il telefono rompe il mutismo che si ostinava a mantenere, scandito dal tu-tu-tu-tu della linea staccata, ma solo per allargare il baratro silenzioso che sembra inghiottire tutto, lui, Brian, le scale, il corridoio, la casa, Montmatre, Parigi. 
Dopo qualche squillo, Brian recupera il sangue freddo;  stringendo il vetro del bicchiere sembra ricordarsi della sua missione, ma quando arriva ai piedi del letto ormai la sua compagna sta dormendo profondamente.
Dal piccolo balconcino-finestra, in fondo alla stanza, l’aria comincia a farsi fresca e notturna,  cosa insolita per un giorno di agosto in una metropoli continentale, ed è così invitante che Molko scivola fuori, cercando di non smuovere troppo i cardini rumorosi della finestra.
Si appoggia alla ringhiera, sorseggia il latte e segue con le pupille piccole, che inseguono la poca luce, i bagliori delle insegne, dei neon, dei lampioni, di qualunque cosa che luccichi.
Il carillon si fa sentire, annuncia un messaggio nella segreteria telefonica, “per ascoltarlo premere uno…”
CLICK

“Brian, sono Barry. Ho saputo dalla tua manager Alex che sei a Parigi.
Ho notizie importanti, da parte di nostra madre.
Perché non ti fai sentire? Lei neppure sapeva!
Vorrei parlarti il prima possibile. Richiamami quando senti questo messaggio, ti prego…”
 
Con un insignificante piccolo gesto, un tasto premuto, un altro debole click, Brian elimina il messaggio e spegne il cellulare, poi continua a  succhiare il latte aggrappato al bordo del bicchiere.
  

**************** 




Note

*Cantante e fondatore dei Nine Inch Nails. Ha avuto diversi diverbi con Fred Durst, frontman dei Limp Bizkit e, in un’intervista a Rolling Stone Magazine del 1999, ha rilasciato le dichiarazioni di cui sopra.

* della sterlina ndr.

* Dialoghi in francese.

*Vino rosso della Borgogna, regione di Côte d'Or.

*GLOSSARIO: Brian! Stai attento!  per piacere!


Angolo dell’autrice

Non comincerò scusandomi per l’impossibile ritardo, due mesi di inferno, e l’orologio che mi sbeffeggiava mentre io mi affannavo a cercare un po’ di tempo per questa mia piccola creatura…
ok, l’ho già fatto,  depenniamolo pure dalla lista dei buoni propositi.
Se siete rimasti fedeli nonostante l’attesa millenaria allora siete dei coraggiosi e valorosi e non meritate un capitolo così…deludente.
Me lo dico da sola, sono scaduta malamente nel sentimentale, nel compatimento, nel pietismo, non so che diamine mi è successo ma questa atmosfera da melodramma mi ha quasi uccisa, quindi figuriamoci voi che leggerete.
Ma stavolta è andata così, se ci siete battete un colpo e datemelo forte sulla zucca, me lo merito.
Merci a tout vous e un benvenuto a fedenow, in questa valle di lacrime.
A bien tot, Je l'espère,

Misa

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** London 2009 / 2015 ***


London  2009






L’album non era neanche uscito e già programmavano un concerto di promozione.
Era stata un’idea geniale di Bill*, un paio di giorni prima che Battle for  the Sun andasse in onda sulla BBC Radio 1,  dopo una sessione particolarmente fortunata,  a casa di Steve.
Non erano certo partiti con il piede giusto, considerato che quella mattina Brian non era esattamente di buon umore.
Era la prima volta che andavano  a casa di Steve, il loro nuovo batterista in erba, in gamba per essere così giovane, anche se era evidente la differenza di età che correva fra i membri storici della band e il nuovo arrivato. Quei quindici anni di differenza erano tutti in quell’appartamento di Londra, a Soho, nel caos più totale, al confine con Chinatown, e circondato da locali, disco club, pub e strip club, oltre che bar affollati da studenti che digitavano freneticamente su piccoli laptop oppure sottolineavano di giallo libri universitari o manager  che si sentivano ancora giovani  e si prendevano una pausa, magari attaccando bottone con qualche cameriera .
L’appartamento di Forrest era al quarto piano e assomigliava terribilmente ad una casa per studenti, con una scalinata squallida, un affaccio su cortile interno, grigio e con vista sui cassonetti della spazzatura, ma almeno la stanza principale, una specie di soggiorno con angolo cottura e zona batteria, era luminosa.
Quando però Brian aveva visto il bagnetto scuro e senza finestre aveva arricciato il naso e aveva commentato che non c’era il bidet. In realtà non ci sarebbe stato spazio per il bidet, avrebbe voluto far notare Steve, ma qualcosa nello sguardo del suo frontman lo aveva convinto a tacere.
Poi si erano subito messi al lavoro e, dopo un’oretta di prove, erano piombati in casa due o tre venticinquenni  che avevano intenzione di invitare Forrest a giocare a pallone.
Era una bella giornata, primaverile e stranamente non umida e piovosa come ci si sarebbe aspettati da un marzo londinese: un’occasione da non perdere.
Quelli si erano trattenuti a bere una birra in compagnia e Stefan e Bill li avevano trovati anche simpatici, ma Brian li aveva scrutati in silenzio, pazientemente, cordiale ma terribilmente formale.
Stefan per un attimo aveva pensato che non sarebbe riuscito a trattenersi dal ridere, gli sembrava di assistere ad una scena comica: da un lato quei due ragazzi con le creste colorate, in jeans stracciati e maglietta che ridevano a crepapelle, farneticando qualcosa in slang e mangiandosi le parole, e un Brian Molko trentasettenne che sfoggiava un sorriso di circostanza, completamente vestito di nero, in giacca e scarpe di vernice, che alle volte scandiva le parole, alle volte trascinava le frasi lentamente, a metà fra un dandy di fine secolo e un damerino.
Dopo più di mezz’ora di gaudio intrattenimento Molko si era fatto sentire, sostenendo che dovevano tornare alle prove e non volevano testimoni.
Steve  aveva protestato, in fondo Karl e Dereck non davano nessun fastidio e amavano ascoltare la buona musica. Se era un tentativo di lusinga, Brian non ci era cascato e  Stefan aveva pensato, un po’ meno divertito, che adesso il suo compare avrebbe piantato una grana rovinando a tutti la giornata.
Fortunatamente era intervenuto Bill che aveva appoggiato entusiasticamente l’idea di  Steve e aveva proposto di “allargare la cerchia dei partecipanti”, il giorno stesso dell’uscita dell’album,  e stupire i fan con un concerto segreto,  magari proprio da quelle parti, a Soho Square, dove l’estate scorsa era andato a vedere un piccolo festival di band emergenti che si erano sfidate fin all’ultima nota per vedere pubblicato il loro primo singolo.
William Lloyd, tu si che sei un genio, avevano pensato, all’unisono il bassista e il batterista dei Placebo, quel giorno,  e pensano ancora, in quel momento, davanti agli sguardi stupiti ed esaltati dei fan, stupiti e incuriositi di chi non li ha mai sentiti, stupiti e irritati delle nonnette, delle coppiette o delle famigliole che non riescono a calmare i loro figli e nipoti scatenati.
Sono almeno una cinquantina di persone, la giornata merita e c’è un sole primaverile che ha finalmente forzato la barriera di nuvoloni grigiastri, residuo della Londra continentale e umida nella stagione fredda.
Al sole si può intravedere la rugiada sull’erba intorno alle panchine di legno, le querciole sono ancora spoglie come fragili scheletri ma già si intravede qualche fogliolina coraggiosa.
Nonostante l’erba sia ancora umida la gente è comodamente seduta sul prato a gambe incrociate ma qualcuno già si alza per osservare meglio quegli omini che trascinano  strumenti di amplificazione con relativi cavi sul  palchetto di ferro per piccole esibizioni estive.
A Stef sembra di essere ritornati al tempo delle piccole serate nei sottoscala, davanti a sconosciuti che il più delle volte cercavano solo una buona birra e un po’ di compagnia da osteria, su quei palchetti piccoli, fragili a vedersi, così diversi dalle immense arene che ormai ospitano i loro concerti in tutta Europa e nel mondo.
Arriva a chiedersi se riusciranno a starci tutti, Bill Lloyd, con il basso a tracolla, mentre getta uno sguardo apprensivo alla pianola che viene trasportata su per le scalette del retro, Fiona Brice, dall’altro lato del palchetto si stringe misurando quanto spazio le serve per far scivolare l’archetto sulle corde del violino e allo stesso tempo cantare nel microfono. Senza di lei le voci femminili  e anche leggermente spettrali di “Running Up That Hill” non sarebbero realtà.
E infine Nick Gavrilovic che accorda la sua chitarra, allungando l’orecchio contro la cassa dello strumento per sentire il suono fioco delle corde, almeno finché non hanno finito di attaccare gli amplificatori.
C’è voluta una buona mezz’ora per preparare il campo di battaglia, qualcuno se ne è andato sperando di salvare le orecchie, borbottando contro la rumorosa musica dei giovinastri moderni, qualcuno è andato a diffondere la notizia, qualcuno già ha twittato l’evento ma il pubblico non sembra troppo agitato.
è pur sempre Soho, il quartiere più “underground” e all’avanguardia di Londra, o almeno questa è la sua fama.
Ci avranno fatto l’abitudine , riflette Brian, con una scrollata di spalle, mentre cerca di mantenersi appartato,  dietro il palco, stringendosi  nel cappotto grigio, calandosi la visiera della coppola sul viso nascosto dietro ad un paio di Ray-ban,  come un agente in incognito o semplicemente un ragazzino raffreddato.  Non vuole attirare l’attenzione, e in cuor suo, se potesse rimprovererebbe Stefan che si aggira tranquillo per il palco, uno spilungone pelato che non teme di essere riconosciuto e che non passa certo inosservato.  Anche Steve Junior sta prendendo posto dietro la batteria che è stata lentamente assemblata. Sembra davvero che manchi solo lui in scena.
Abbandona  cappotto e sciarpa ma non rinuncia al berretto e agli occhiali, sale sul palco ricevendo la chitarra accordata e collegata fra le braccia.
La lascia pendere sul grembo, prova il microfono schiarendosi la voce e ticchettandoci sopra le dita per provarlo provocando un fastidioso eco.  L’impianto stereo è  modesto, valuta in un attimo,  reprimendo a stento una smorfia, deve ricordarsi che è in pubblico.
Gli  basta un cenno, la scaletta è concordata, si alternano vecchi successi  e le canzoni del nuovo album  in ordine di copertina, più o meno, e le bacchette di Steve ticchettano l’una contro l’altra in un esercizio di stile che ha visto più volte ripetere al suo nuovo batterista prima di iniziare una sessione di lavoro. 
La prima volta in cui lui e Stefan avevano presentato quella canzone alla band che ormai  si era allargata a ben sei elementi, sé stesso incluso,  Steve aveva salutato la nuova uscita con quello sfrigolare di bacchette che lo aveva piacevolmente sorpreso. Calzava a pennello con l’attacco della chitarra elettrica,  e già sentiva che la canzone era meno sua e più loro.
Adesso attacca Stef,   e subito lo stoppato di Olsdal e Bill Lloyd segue il corso dei suoi pensieri , già gli sembra di attirare l’attenzione del suo pubblico con quel ritmo cadenzato  che cattura, ipnotico.
Potrebbe continuare così all’infinito, potrei anche non cominciare mai a cantare;
il senso di attesa si fa urgente, nel  frattempo prova qualche effetto di distorsione alla chitarra, tormenta una corda, ricostruendo la sigla iniziale, accarezzandola  e poi stritolandola.
 Con un occhio osserva Junior  che muove la testa al ritmo della chitarra e quasi quasi vorrebbe rimandare la partenza  per osservare i suoi scatti frenetici  ancora un po’.
Lo diverte, è un comportamento da ragazzino,  con un entusiasmo che lui non riesce più a provare, non così verace, così genuino e quasi tenero.
Tutto sommato gli pesa avere lì, dietro le sue spalle quel biondino scattante che si agita sul suo sgabellino e nonostante tutto l’ottimismo che predica la nuova campagna pubblicitaria del nuovo album,  oggi, Brian Molko si sente tutto tranne che sereno e ottimista.
“Hi, we are Placebo from London”  suona un po’ meccanico e poi, stupido che non è altro si ricorda che è a Soho che, guarda caso,  è un quartiere di Londra;
Cristo, Brian, concentrati, idiota che non sei altro,  “ the album is called Battle for the Sun.  This is the title track, thank you.”
Forse poteva dire qualcosa di meglio per presentare il nuovo album, pensa fra sé e sé Steve e sa , dagli sguardi di tutti che il pensiero è condiviso.  Quindi scatta in avanti con le bacchette,  pizzicando i tamburi della batteria, qualche colpetto alle guarnizioni in metallo e poi i piatti.
Osserva il suo frontman avvicinarsi al microfono, eloquente,  e cominciare a sospirare con voce sofferta  il pronome personale di prima persona singolare che rimbomba sul pubblico attonito.
Strano, si sono zittiti tutti, anche i bambini che osservano curiosi il primo concerto della loro vita, perché Steve dubita fortemente che qualcuno di questi  lattanti abbia mai visto un concerto, neanche nella mondanissima Londra. Anzi, i londinesi, fra tutti gli inglesi, specie quelli che frequentano i  giardini pubblici, sono forse una delle specie più snob della terra.
i peggiori sono i bambini snob che abitano a Nothing Hill, pensa con un mezzo sorriso mentre, dopo parecchi sospiri che accarezzano il microfono  in modo conturbante, finalmente Brian arriva alla fine della frase.

No fun if you, you, you, you, you,
you are a cheap and nasty fake
 Fake, fake, fake, fake, fake, fake
And I, I, I am the bones you couldn't break
Break, break, break, break, break, break, break

Finalmente  l’atmosfera comincia a riscaldarsi anche se, nota Steve con una punta di irritazione, Brian continua a tenere gli occhi semi chiusi, ogni tanto digrigna i denti mentre canta, ha il collo incassato nelle spalle e stringe rigidamente le braccia, dondolando avanti e indietro.
Il biondo non saprebbe dire se il suo cantante  sia veramente coinvolto nello show,  sembra rigido come un pezzo di legno, per niente scenografico, non certo trascinante.
Lui nel frattempo sente i muscoli gonfiare  i tatuaggi rossastri che gli ricoprono tutto il torace e le braccia, li esibisce fiero, senza maglietta, così sta comodo e non soffre il caldo, pensa ironico Brian mentre interpreta i suoi movimenti.  Vuole vedere come se la cava Forrest alle prese con il suo primo live e, suo malgrado,  constata di non essere abituato a tutta quell’esplosione di energia, quella giovinezza e quella attitudo macho così ostentata. 
Sei la quintessenza dell’etero Forrest,  dice a sé stesso e sorride alla folla mentre pronuncia ancora una volta il titolo del loro primo singolo, soffermandosi sul  “sun”  con un soffio sensuale.
Intorno a loro il paesaggio è cambiato, Stefan nota che sono accorsi un sacco di nuovi personaggi, per lo più trentenni, qualche ragazzino in più, magari attirato per la prima volta dalla musica prorompente che sa farsi sentire anche attraverso mediocri altoparlanti comunali.
 L’età media saranno i venticinque anni,  pensa fra sé e sé,  non a torto, poiché dal 1994 ne hanno fatta di strada.  L’applauso è tiepido, i fedelissimi sono pochi,  ancora non sono stati invasi dai fan agguerriti.
“Thank you, people! Next song is … an old song. ” 
Stefan nota con piacere che Brian comincia ad entrare nello spirito della cosa anche se non accenna a levarsi quello stupido cappello . E pensare che lui comincia a sudare sin dentro ai pantaloni,  ha una canotta bianca e una  sottile sciarpetta di seta cangiante con l’orlo glitterato, rosa e a tratti violetto.
Stefan è tremendamente gay oggi, sorride Brian mentre prende fiato, già gli manca il respiro dopo neanche una canzone, al prossimo intervallo si prenderà un bicchiere d’acqua.
“Ladies and Gentlemen! Every me and Every you!”
Ecco che Stefan abbassa lo sguardo sul manico seguendo attentamente il plettro che pizzica, rapido e indolore,  Bill lo accompagna serafico passeggiando accanto alla tastiera che lo segue con un timido accompagnamento  amplificato dal pedale;  poco lontano Fiona scompare per un attimo sul retro lasciando il suo violino appoggiato per terra e  Steve comincia a pestare  sulla batteria, contorcendo persino la schiena e squarciando l’aria con i piatti.

Sucker love is Heaven sent
You pucker up, our passion's spent
My hearts a tart, your body's rent
My body's broken, yours is bent

Pesta troppo il biondo per I suoi gusti, Brian si ritrae per un attimo, ritardando la ripresa della battuta, e lasciando sconcertato Stefan che  si esibisce in un piccolo riff fuori programma  per  tappare il buco.
Gli arrivano sguardi assassini  che chiedono a gran voce  “che cazzo fai?” “ Ma sta attento!”  “segui il ritmo!” . Ma Brian è distratto dal ciuffo biondo del suo batterista che salta su come un delfino dall’oceano e poi gli ricade sugli occhi, grondando sudore.   Poi riprende, biascicando ferocemente:
  
Carve your name into my arm
Instead of stressed, I lie here charmed
'Cuz there's nothing else to do
Every me and every you  


La canzone sembra andare avanti senza intoppi e altrettanto Kitty Litter, poi di nuovo una nota stonata in The Bitter End, Brian va fuori tempo  e cerca di riparare nervosamente .
Steve Forrest comincia a pensare che Brian abbia un tic. Si gira molto spesso nella sua direzione e segue l’ondeggiare della sua lunghissima frangetta piastrata, poi, con un gesto inconsulto riprende a cantare.
Non può andare così a lungo,  il loro primo show dopo tanto tempo sta per ridursi ad una barzelletta,  pensa  Stefan mentre scarica la sua frustrazione sulla chitarra cercando di riparare ai momenti di apatia di Brian.
“…every meeeee”
Brian coglie Bill che ha abbandonato la chitarra e fa il segno di time out, dopo appena quattro canzoni.
E pensare che quello doveva essere lo show di presentazione del loro  nuovo disco ma, non  capisce perché, Brian non riesce ad andare a tempo.
Fa segno ai tre componenti principali della band di seguirlo fuori di scena, sotto il palco, al riparo dalla folla che commenta sorpresa quell’interruzione, folla  che comincia a scalpitare.
Che diavolo ha quel tizio lì sul palco? È diventato sordo e strabico? ,  Pensano alcuni.
Che diavolo ha Molko? Si è drogato? , pensano i  fan.
Qualcuno abbandona il campo, si è fatta quasi ora di pranzo e non ha tempo per ascoltare  quattro o cinque fessi  over trenta che giocano sui palchetti per esordienti, altri ne approfittano per prendersi qualcosa da bere e un panino da consumare nel mentre la band si riunisce a consiglio per salvare lo spettacolo.
“Brian, si può sapere che cazzo fai?!”
“Bill… Mi dispiace, ragazzi. Non so cosa mi ha preso…”
“NON SAI COSA TI HA PRESO?! MI STAI PRENDENDO PER IL CULO?!”
“Stefan, Bill, calma… ”  è il biondo a salvarlo dalla furia dei suoi  più fedeli collaboratori “Brian… c’è qualche cosa che non va… con me?”
Stefan e Bill si pietrificano.  Poi lentamente prendono coscienza della situazione,  che è il loro primo serio concerto insieme, e che il loro sole è offuscato da un ombra.
Persino Brian impallidisce e digrigna i denti seccato.
“Non dire idiozie, Junior ”
Cade un silenzio imbarazzante  mentre le parole di Brian puzzano di bugia lontano un miglio.
Steve sembra ferito.  Non ama affatto quel soprannome, pensava fosse solo uno scherzo quando per la prima volta il suo frontman lo aveva chiamato così per poi riderci sopra. E da allora gli si era sempre rivolto con quel nomignolo , aveva notato Steve con fastidio ogni qual volta che capitava.
Perché non poteva essere come in studio? Con quell’atmosfera rilassata  e il fancazzismo dilagante?
Che differenza c’era? Tutta quella gente sapeva perfettamente che adesso era lui il batterista dei Placebo.
Lo avevano ufficializzato almeno un anno fa. Avevano avuto almeno dieci mesi per abituarsi all’idea.
Oppure era Brian che doveva ancora abituarsi all’idea?
“Bene, allora vedi di svegliarti, Molko. Se preferisci mettiti a contare ma intervieni a tempo.
Stai cantando di merda.”    Gli fa notare Steve, con rancore.
Bill li rimanda in scena, facendo sfociare il contenzioso in una bella pacca sulla spalla a favore di Brian e un sorriso  poco rassicurante nei confronti di Steve.
Brian barcolla sul palco fino al microfono, dapprima svogliato, poi lancia un’ occhiata penetrante a quello sbarbatello biondo di Forrest che se ne sta rilassato, le braccia forzute abbandonate come salsicciotti appesi alle travi della macelleria e osserva il pubblico vacuo.
Si riscuote, ha una sfida da raccogliere.
“Here we are, people!  And now… we do it for real!

The end of the century
I said my goodbyes
For what it’s worth
I always aim to please
But I nearly died *



***********************





London  2015




“Brian! Suonano alla porta!”
Brian lo ha sentito benissimo lo scampanellio, ma non ha nessuna voglia di alzarsi dal divano. Con lo sguardo pensoso osserva il suo compagno di band, Steve Forrest che è seduto a gambe incrociate nel salotto di casa Molko, mentre stringe appassionatamente un joystick per PlayStation3 e sfida suo figlio, Cody, a Grand Theft Auto.
“Muori! MuoriMuoriMuoriMuori! Brutta troi…Ops, scusa Brian…Fanc…ehm. No!”
Il biondino si agita scuotendo desolato il capo con tanto di cresta al profumo di gel e dà un pugno al pavimento, forse si sbuccerebbe le nocche se il colpo non fosse stato attutito dal tappeto.
“SI! HO VINTO!” urla di gioia il bambinetto estasiato, lasciando di corsa il joystick e saltando su come un grillo, le braccia al cielo in segno di trionfo.
“SISISISISI! Papà, papà, hai visto?!”
Brian si riscuote, poco entusiasta davanti alla palese euforia filiale, mentre si passa una mano fra i lunghi capelli neri, lisci come la chioma di una geisha, scostandoli dal collo sudato. Quando Cody cerca conferma nel volto paterno, il cantante si tira su a forza e sorride con finto entusiasmo:
“Grandioso! Sei forte! Dammi il cinque, campione!” esclama, la voce nasale e vagamente rauca, come di chi non parla da un pezzo.
Il bambino lo osserva con un’espressione indecifrabile, scrutando il palmo alzato del genitore che aspetta in risposta il suo batticinque. Passa un secondo di più, un momento di gelo in cui Brian pensa che il figlio ha compreso tutto, che a lui non importa una mazza di quella vittoria, un fuoco di paglia, una gioia effimera, tutto per una cretina invenzione che si chiama videogame.
A lui non sono mai interessati i videogame; quando aveva otto anni, ancora non esistevano e quando negli anni ’90 hanno preso piede – o meglio, a metà degli anni ’90 – lui aveva da lavorare, certo non poteva perdere il suo tempo giocando ai videogame.
Ma dopo quella frazione di secondo, un attimo di panico in cui Brian non riesce nemmeno a pensare cosa accadrà se Cody non ricambia, il bambino gli sorride fiero e trionfante e si avventa contro la sua mano, colpendola con forza con il proprio palmo.
“Brian! La porta! Oh, non importa! Vado io!”
Annuncia la voce stridula di Helena Berg, che emerge dalla cucina, quasi seccata di dover fare tutto sempre lei. Ogni tanto vorrebbe avere un po’ di collaborazione da parte del suo ex compagno in occasione delle grandi rimpatriate.
Questo sarà Andrew, pensa Helena. Sarebbe proprio ora che tornasse dal lavoro, che avesse chiuso l’ufficio e la galleria.
La sua espressione di delusione è palese quando dietro la porta la aspetta una figura alta e magra, oblunga, dallo sguardo obliquo, il viso da criceto, con la barba mezza rasata e mezza in ricrescita e i capelli con le radici color topo e le punte rossicce.
E quel che è peggio è che la sua  è la faccia che spopola su tutti i giornali nelle rubriche ‘musica’, addirittura “Rolling Stones USA” gli ha dedicato una prima di copertina.
“Ma tu sei Matthew Bellamy!” esclama più che stupita Helena gettando un’occhiata perplessa alla sua vecchia tuta grigio scuro adidas, le Nike new balance giallo evidenziatore e la maglietta rosa porcellino.
“Oh, ciao. C’è Brian?” chiede lo spilungone senza mezzi termini sbirciando appena dietro di lei la parete bianca dell’ingresso e in lontananza i tre divani che occupano il centro dell’enorme salone. Matt non può vedere le figure stravaccate dietro la schiena dei divani né i due contendenti sul tappeto, ma può sentire il tono autoritario di Cody che ordina:   “Jun, facciamone un’altra”.
Sente la voce poco familiare di Forrest che protesta davanti al nomignolo affibbiatogli da quel moccioso. E’ stufo di sentirsi chiamare “Junior”, lo fa sentire l’ultimo arrivato e già è difficile pensare alla differenza di età con i membri storici della band senza bisogno di infierire.
Bellamy annuisce semplicemente davanti ad una domanda di Helena, non saprebbe bene dire quale e si concentra piuttosto sul suo profilo affiliato e orientale mentre lei si volta, sulla grazia del suo nasino, dei suoi capelli fini e scuri avvolti in un solido chignon come le parrucche delle creature di cera di Madame Toussad. La camicetta bianca ha le maniche rimboccate, sotto indossa una gonna grigia al ginocchio e sopra il grembiule bianco a quadri rossi  - o forse rosso a quadri bianchi?  - stonano un po’ gli zoccoli di peluche verde foglia, in compenso sembrano molto comodi e caldi di novembre.
Brian, annoiato dai suoi capelli che gli ingombrano la cervice adocchia una pinza d’argento, forse di Helena, abbandonata nel piatto di pietra che troneggia su un ripiano della libreria di mogano, in mezzo alla stanza; la libreria fa da spartiacque tra il salotto e la zona pranzo. Dividere gli ambienti con enormi librerie invece che spessi muri di cartongesso è estata una geniale idea di Helena che, come ogni fotografa che si rispetti, ha un senso estetico impagabile oltre che un’innata eleganza.
Si alza di malavoglia dal divano, smuovendo i cuscini che lo ricoprono e nel frattempo lancia uno sguardo di disapprovazione allo schermo dove, nel mirino dei due sfidanti si susseguono pericolosi gangster ghignanti, puttane in bikini e nonnette innocenti, vittime dell’assalto indiscriminato, tutto condito con un po’ di sangue finto che non impressionerebbe nessuno.
Forrest reprime a stento le peggiori bestemmie e Brian è costretto ad ammettere che suo figlio se la cava davvero bene con quel pessimo gioco.
E’ veloce, concentrato, preciso, tremendamente serio, come se ne andasse della sua vita, non esulta continuamente ma prima si assicura di aver distrutto il suo avversario con rapidità ed efficienza; gli fa quasi paura quel ragazzino. Si specchia nel vetro della finestra, sulla parete accanto alla libreria e si sistema la pinza fra i capelli, rimirandosi come una sposa a poche ore dal suo matrimonio. Caccia via le ciocche ribelli dietro le orecchie e si ripromette di chiedere in prestito alla ex compagna quella pinza comodissima, e forse anche qualche forcina qua e là.
Con suo grande stupore vede comparire riflesso nel vetro Matt Bellamy di tre quarti che osserva la scena di Cody e Steve mentre, nel frattempo, è sopraggiunto Stefan con un giornaletto di enigmistica in mano e una penna. Il biondo si sbraca sul divano.
“Uhm… lo è un seccatore? Tu che dici, Helen?“
“Quante lettere Stef? Intanto assaggi la pasta, dici che è pronta?”
“Sette lettere, la quarta e la quinta sono -an”
“-an, -an, -an, -an-an…”
“Potrebbe essere pedante”
“Si, ci sta…ma tu sei Bellamy.”
Matt rivolge un tiepido e timido sorriso a Stefan, che ha abbandonato sul fianco l’enigmistica e la penna e si è alzato per salutare, porgendogli la mano.
“Si, ciao”
“Stefan Olsdal, non so se ti ricordi di me.”
“Ma certamente. Ci siamo visti…sarà stato quattro anni fa?”
“Si, non ci si incrocia tanto spesso.”
“Già.”
Stefan è sorpreso di vedere Bellamy da queste parti, non gli risulta che sia amico di Brian né di Helena, lui certo non c’entra nulla e tantomeno Steve.
Ma allora chi ha invitato il cantante dei Muse a casa Molko per festeggiare il compleanno di Cody?
Tra l’altro Matt non si è certo agghindato a festa. E’ più trasandato che mai, sembra il patetico volto di una star senza trucco.
“Come mai da queste parti?” si arrende, non vuole giocare agli indovinelli ancora a lungo, ma Brian precede la risposta esitante di Matt che non saprebbe neppure bene come chiamare il loro inspiegabile rapporto “amicizia”.
“Ma non dovevi essere in Australia tra i canguri a quest’ora?”
Non è sferzante o cattivo ma nemmeno scherzoso. E’ neutro e quasi formale, potrebbe quasi dargli sui nervi se Matt non conoscesse Brian e il suo tono brusco o fintamente annoiato a seconda delle occasioni.
“Parto stasera, tra otto ore.” Risponde istintivamente mentre Stefan segue quello scambio con rinnovato interesse e una nuova consapevolezza: quei due si conoscono molto meglio di quanto tutti loro e il mondo intero avrebbe mai potuto immaginare.
“Ce l’hai un minuto per me?” indica poi lo schermo al plasma, l’apparato della Play, lanciando uno sguardo significativo a Cody.    “Non qui, però”
Brian annuisce mettendo a tacere ogni occhiata curiosa che il suo migliore amico gli riserva. Sotto le mentite spoglie di un riflessivo, biondissimo bassista svedese, si nasconde l’animo pettegolo di Stefan, come Brian ama chiamare l’interessamento morboso dell’amico per la sua vita privata; è come se si divertisse a psicanalizzarlo seguendolo con l’insistenza di un ex fidanzato geloso.
Da quando Steve se ne è andato, Stefan sa che Brian non è più lo stesso e l’americano sa che lui sa.
Che casino, pensa Brian, mentre conduce Matt per le scale fino al suo studio.
Ha voluto quella camera perché da lì si accedeva direttamente al terrazzo e così poteva ritirarsi a pensare ogni qualvolta ne aveva bisogno. Gli ricordava un po’ la sua infanzia in Libano, quando si appollaiava lassù al riparo dai suoi genitori, avvolto in una coperta ad osservare le stelle con pallida malinconia.
Ha una specie di oculo tondo, chiuso da un vetro e una scala a chiocciola di legno al centro della stanza; al lato c’è la scrivania con il computer, l’impianto stereo, la parete delle chitarre – alcune appese, altre esposte sul pavimento, in piedi, in bella vista -.
Accanto alla porta  poi ci sono una serie di scatoloni di cartone che mascherano una console per Dj, comprata quell’estate, che non ha ancora avuto occasione di provare.
“Il tuo regno”  commenta compiaciuto Matthew, come se stesse facendo un complimento per rompere il ghiaccio, o semplicemente per dire qualcosa.
“Volevi un minuto? Sono tutto tuo. Ma sappi che fra poco ci sarà la torta.”
Matt inarca il sopracciglio profondamente stupito. Come se un dolce avesse mai fatto la differenza per Brian! Anzi, in tempi non sospetti quando è tornato a Londra lo aveva ritrovato salutista, vegetariano, più o meno astemio, quasi atletico e insolitamente a dieta, fino a negarsi leccornie come il burro a colazione e la pasta a cena.
Tra l’altro le due cose si possono facilmente coordinare: non a caso Matt Bellamy è un fan della pasta al burro. La sua profonda storia d’amore con il burro è poi di fatto qualcosa che Bellamy può tranquillamente permettersi sfoggiando un metabolismo che farebbe invidia a chiunque.
Il burro lo aiuta a iniziare bene la giornata, a rallegrarsi durante uno spuntino, a far rosicare Kate che lo guarda con occhi umidi e desiderosi mentre stancamente mastica carote crude e insalata scondita con il mais in scatola.
In quel momento Matt Bellamy vorrebbe un po’ di burro, è un desiderio improvviso, repentino, furtivo come un ladro e assolutamente insensato come le voglie di una donna incinta.
“Matthew, so che sei impegnato a riflettere sulle sorti della specie umana, ma è il caso che tu ti dia una mossa. Quando mio figlio spegnerà le sue nove candeline vorrei essere presente.”
Ecco spiegato il mistero. Il compleanno di suo figlio.
Matt cerca di ricordare a fatica tutto il discorsetto che si era preparato, ma ben presto capisce che dovrà improvvisare.
“A proposito di tuo figlio, non mi avevi mai parlato di lui.”
La risposta è indifferente e la voce misurata anche se quel tono ironico continua a farsi sentire in maniera irritante.
“Non mi hai mai chiesto se avessi figli”
“Si, invece”
“Ah si? E quando?”  
“Nel 2004, quando ci siamo incontrati a quella festa”
“La festa di Stipes”  
“Quella”
“Cody è nato nel 2006. Tecnicamente l’ultima volta che me lo hai chiesto non avevo  figli”
“Beh, avresti dovuto dirmelo quand’è nato. Nel 2006 già ci frequentavamo.”
Questa volta la voce di Brian è profondamente seccata e a questo si aggiunge una tendenza un po’ aggressiva ad accanirsi contro il labbro inferiore in una smorfia di irritazione:
“Non avrei dovuto proprio fare un cazzo, Bellamy”
“Molla tutto e vieni in Australia con me” suggerisce Matt, ignorando il suo palese scatto di ira e frustrazione.
“Che cosa?”
Matt sorride. Ama prenderlo di sorpresa. Lo intenerisce osservare quei pozzi blu – o azzurri o grigi alle volte – che si spalancano meravigliati quando si blocca per un attimo incapace di continuare a far finta di niente e a far finta di ignorarlo, quando contrae i muscoli del volto e tante piccole deliziose rughette ondeggiano sulla fronte. Lo delizia l’idea di averlo stupito confermandosi ancora una volta il bambino della coppia, quello che non è mai cresciuto e che non si prende responsabilità nei confronti della vita e degli altri.
“Non stai dicendo sul serio” conclude l’altro con uno sbuffo mentre si sposta verso la sua scrivania, prende a frugare in uno dei cassetti, piccolo ma profondo.
E’ una scrivania d’epoca, l’unico mobile antico di tutta la casa che brilla per il gusto ultramoderno, i colori opachi e neutri, gli spazi bianchi e l’essenzialità degli arredi.
Quella scrivania si impone sovrana nello studio come un altezzoso nobile decaduto che naviga in un ricco salotto borghese, rimessa a nuovo, restaurata, con il ripiano in pelle e i ritocchi al legno riverniciato, esibisce solo qualche piccola cicatrice, tonda e discreta, frutto dell’azione vorace dei tarli.
Eppure è un acquisto recente, comprata ad un robivecchi parigino, sotto casa di Marion a Montmartre.
Brian, con urgenza, fruga nel cassetto affastellato di carte, di buste, scartoffie e una scatola di pennarelli sequestrata a Cody quando aveva deciso di decorare le pareti della cucina, non contento del muro di cartongesso di camera sua, tutto imbrattato e dedicato a scarabocchi e adesivi.
 I compagni di Cody erano stati talmente entusiasti della parete che avevano firmato tutti, lasciando un loro contributo. Ma certo Helena non poteva permettere che i divani bianchi fossero lasciati incustoditi alla mercè del figlio.
“Sono serissimo. Lascia tutto e vieni con me.”
“Il lavoro?”  
“Ti ritiri per un po’.”
“La mia famiglia?”  
“Dì loro che sei in tour.”
“E io?”  
“Sarai con me.”
Risponde semplicemente Matt muovendo qualche passo verso Brian, ma questi si discosta dalla scrivania suggerendogli di non avvicinarsi oltre.
“Non ci posso credere, Matthew. Come ti viene anche solo in mente che io possa rinunciare a tutto per te?”
Improvvisamente Matt sente l’amaro in bocca e lo stomaco chiuso.
Non ha nessuna intenzione di portarsi Brian in Australia. L’aeroporto di Sydney, il sorriso del suo vecchio con la barba bianca accorciata di fresco – e l’orrido dopobarba al Pachouli – la loro Jeep che sfreccia dapprima sul cemento rigidamente diviso dalla striscia bianca di corsia e poi sullo sterrato, verde e selvaggio o terroso e polveroso; la spiaggia e le nuotate sul Pacifico, la pesca subacquea, la caccia, il tiro agli uccelli, facendo attenzione ad evitare le riserve.
Trova ridicola la sola idea del suo uomo che impugna un fucile da pesca o che mira ad un qualsiasi volatile. E’ un pensiero tenero, ma Brian scambia il suo sorriso per l’ennesima azione di spavalda impudenza del compagno:

“Si può sapere che cazzo hai da ridere?! Ma perché con te non si può mai parlare sul serio?”
“Ok, sono serio. Allora ci vieni o no?”
E’ tanto tempo che non discutono, che non litigano, che non sbattono le porte, che non fanno scenate e non annunciano con tono stridulo e isterico “E’ finita!” oppure “Sei uno stronzo!” ; anzi, a conti fatti si dicono anche di peggio, sboccati come carrettieri.
Alla fine Matt è deciso a mantenere il punto.  è una questione di principio, l’ennesima occasione per chiarire, tanto auspicata da Brian e, sempre a detta del compagno, tanto rifuggita da Matt.
Matthew Bellamy  è assolutamente serio. Ama pensare a Brian con il brivido di chi attende l’amante nel suo vecchio appartamento da single dopo aver raccontato alla moglie che andava dagli amici a vedere la partita.
Ma ora più che mai, dopo diverse notti insonni, si è deciso:  ha intenzione di chiedergli qualcosa di più.
Si sente pronto per sperimentare la convivenza.
Mentre Brian gli urla contro che per lui Matt è solo uno bravo a letto, la cotta estiva di una lunghissima vacanza che dura da molti anni, Matt invece vuole convivere con il vero Brian, quello che compone, che si alza alle sei del mattino per fare la doccia, che beve quantità industriali di succo Ace o di arance rosse e che lascia per terra i vestiti sporchi del giorno prima, ai piedi del letto, per raccattarli la mattina dopo, quando va in bagno a lavarsi, facendo un passaggio per il cesto dei panni sporchi.
Coglie solo qualche parola dell’infinita filippica che il compagno riversa su di lui. Continuerebbe ancora a lungo se non fosse che il display del suo cellulare si illumina insistente, vibrando sulla scrivania con il ronzio di una fastidiosa zanzara.
“Helen?”  
“Brian, ma dove siete finiti? Cody vuole spegnere le candeline! Hanno già cominciato a cantare ‘Tanti Auguri’”
“Arriviamo”
 chiude la comunicazione lapidario, lasciando scivolare l’apparecchio nella tasca del comodo jeans da casa, stravecchio, ma sempre fedele in occasione dei suoi ritiri casalinghi. Matt non ha voglia di scendere e si sente infastidito dalle continue interruzioni di Helena, poi di Cody, della sua famiglia, della sua vita, un contesto da cui lui si sente automaticamente escluso. Stranamente invece Brian non ha mai avuto da ridire sulle sue uscite con Dom e Chris, le sue vacanze dal padre, i weekend con Kate,  i suoi brevi soggiorni in Italia, dalle parti di Como, dove porta in vacanza la madre e passa le giornate a leggere alternando thriller e romanzi di fantascienza con opuscoli sul paranormale e la telecinesi. Brian non ha urgenza di entrare nella sua vita e di riempirne ogni aspetto, ha una maturità e un’indipendenza che sono quasi fastidiose.
“Matthew, ti levi davanti e ti sbrighi? Che cazzo stai guardando? E scordati questa storia dell’Australia”
Brian fa per sorpassare il compagno che si erge come un palo della luce fra lui e la porta dello studio, ma Matt lo spintona sulle spalle, respingendolo a mo’ di provocazione.
“Ti farò scendere quando accetterai di venire in Australia con me.”
“Matt, piantala di fare il cretino.”
Brian si fa avanti senza temere di essere respinto, ma Bellamy ha preso coraggio e lo spinge una seconda volta sbilanciandolo indietro.
Brian si fa più minaccioso, lo afferra per un braccio e a sua volta lo spintona con violenza per intimargli a farsi da parte. L’altro reagisce irrigidendosi, dandogli una manata sul petto, di scatto.
Molko è incredulo e inferocito.  Grida Ahia e rimane per qualche secondo fermo.
Va a massaggiarsi il petto che pompa a tutto spiano sangue e aggressività.
Carica un colpo sul naso con la violenza di chi vuol far male.   Non si ferma lì.
Gli sferra un secondo pugno sulla clavicola destra e si accanisce sulle braccia di Matt, che cerca di bloccargli i polsi. Bellamy sente il naso scricchiolare pericolosamente e ricorda che non è mai stato bravo a fare a botte; troppo mingherlino, troppo alto e gracile, un personaggio troppo bislacco per incutere timore in chiunque.
Brian, invece, che ha sempre reagito ad unghiate e morsi, soffiando come un gattino prevaricato e ferito nell’orgoglio oltre che nel fisico, è maldestro nei movimenti;   gli bruciano le nocche e si butta avanti con tutta la sua forza per poi cadere a terra sbucciandosi i palmi delle mani.
Fa per rigirarsi sul fianco ed alzarsi quando è spinto pancia a terra da Matt, che si siede sulla sua schiena, ancorandolo prono al suolo.
Brian scalcia, aggredendo le lunghe gambe di Matt sul fianco, quando Bellamy si avvinghia al collo.
Nella tasca di Brian il cellulare vibra forsennatamente mentre i due rotolano in una danza di calci e pugni, persino qualche morso di Brian che addenta il fianco di Matt come se si trattasse di vita e di morte.
Dopo un po’ sono entrambi senza fiato. Si sentono i loro ansiti, ciascuno abbandonato su un fianco in un momento di tacita tregua, poi il ticchettio acuto di un paio di zoccoli sulle scale.
Matt sente la faccia che gli formicola, le gambe malferme, ha un labbro spaccato e la maglietta ancora più insozzata di quando si era presentato.
Nonostante tutto si tira su rapidamente con una smorfia, giusto in tempo per accogliere con indifferenza Helena Berg, stufa di attendere, visibilmente preoccupata dal loro ritardo e forse irritata dalla loro negligenza che sta facendo attendere tutti.
“Si può sapere cosa facevate? Abbiamo sentito dei colpi sul pavimento”
Matt fa il giro della stanza con lo sguardo e accenna alla figura del compagno che si sta tirando su con lentezza e una smorfia che tradisce la stanchezza.
“Niente, Helen, tranquilla. Stavamo…”
“E’ scivolato. Sul pavimento.”
Matt indica il parquè di legno con disapprovazione come fosse stata appena passata della cera e non si fossero premurati di apporre l’avviso ‘pavimento scivoloso’.
Helena scoppia a ridere, incredibilmente divertita dalla scusa infantile di Matt.
Strizza l’occhio furbescamente, lasciando intendere di aver capito tutto e lascia un’occhiata eloquente alla camicia di Brian che, nella rissa, ha perso almeno un paio di bottoni e pende un po’ strappata.
Con un sorriso amabile e la complicità di una bambina, si rivolge al cantante dei Muse, forse un po’ leziosa, indicando le scale mentre Brian, già in piedi, ancora paonazzo in faccia e senza fiato, si precipita di sotto, facendo rimbombare i suoi passi, solitamente leggeri e aggraziati.
“Mi dispiace interrompervi, tra ventiquattr’ore sarà tutto tuo, Matt, ma adesso è il compleanno di Cody.”
“Capisco. Si, scusa se ho disturbato.”
Fa una strana sensazione sentirsi chiamare con il suo soprannome e con una certa dolcezza da quella donna così distante e esotica.
E’ davvero una bella sensazione, capisce perché un tempo aveva potuto affascinare uno come Brian.
Ma prima di precederla – poiché chiaramente lei non ha intenzione di avviarsi se non per ultima, controllando i suoi movimento con un piglio carismatico che lo mette quasi in soggezione – si volta di tre quarti, fermo sul primo gradino a guardarla e a chiedere:
“Puoi, per favore, dirgli che ci pensasse?”
“A fare cosa?” curiosa involontariamente la donna
“Se vuole venire a vivere con me. Da me.”  
“Va bene”
“So che manterrai il segreto”  
“Ma certamente”
Ha la sua complicità, lo sa.   Il suo affetto per Brian è evidente e c’è qualche gioia infantile che la muove, il brivido del segreto scambiato con un’amica sotto le coperte, a luce spenta,  e una strana pace nell’aria che fa il resto.


Avviene tutto in un momento.
Matt si dilegua senza nemmeno  fare gli auguri a Cody mentre di là tagliano la prima fetta di un grosso millefoglie al limone.
C’è una vasta scelta:  per mamma e papà il millefoglie, per il festeggiato la torta alla nutella, per Stef la crostata di pere e ricotta, una specialità di Helena.
La torta di brioche alla nutella e la crostata sono opera della mamma ma il millefoglie al limone che tanto piace a Brian è troppo anche per lei.
Cody nota che  la mamma ha bruciato leggermente la base del dolce, sembra appena uscito al forno, o forse è riscaldato al microonde,  scotta sul palato, che importa, in fondo la nutella è calda e la brioche è croccante.  Il piccolo osserva divertito Steve che si lecca le dita e ripulisce il piatto con le mani; a lui la mamma l’ha sempre vietato fin da piccolo.
Papà ride dicendo che Junior ha una pessima influenza su suo figlio e Cody vorrebbe ribattere che almeno Steve sa giocare ai videogiochi;  ma non sarebbe giusto nei confronti del padre che si sforza così tanto di tornare bambino, vivere un secolo che non gli appartiene al fianco di suo figlio, cercando, anche solo per un attimo, di mettere da parte quella sua musica che gli piace tanto.
Ma a Cody non piace né la chitarra né la batteria,  ogni tanto forse strimpella il piano.
Prende ancora lezioni, controvoglia, alle volte con un’intima soddisfazione quando finisce un pezzo nuovo e lo suona per intero, per prepararsi ai saggi, l’evento mondano dell’anno.
Dopo la torta, gli abbracci e i festeggiamenti di tutti, il papà lo prende da parte un attimo con un pacchetto dietro la schiena. Cody si sporge a destra e a sinistra, impaziente e fra sé e sé  spera che non sia un cd musicale,  l’ennesimo.
Non riesce a nascondere la delusione quando stringe fra le mani un’antologia dei migliori pezzi dei  Joy Division ma ringrazia con il senso del dovere che hanno tutti i bambini beneducati.
“Questo è il mio regalo. E questo è il tuo.”   Ridacchia il papà tirando fuori un secondo disco dalla busta, o forse un DVD. 
“WOW! PES 15! Grazie papà! Ma dicevi che non volevi che giocavo a questo gioco.”
Brian sorvola sul congiuntivo, indulgente, abbassandosi ad abbracciarlo e rivelandogli con voce carezzevole:
“ringrazia anche Stef, mi ha convinto lui. Ti vuole troppo bene.”
Cody vorrebbe andare ad abbracciare lo “zio”, per così dire, ma il papà lo trattiene ancora un attimo fra le braccia aggiungendo  “ma mi prometti che proverai ad ascoltare anche il mio regalo?”
Il bambino prometterebbe qualunque cosa, ha fretta di liberarsi del padre e alla sua promessa entusiasta Brian non da molto peso.
Cody fila via come una scheggia, precipitandosi verso il suo compagno di giochi preferito che sta facendo il bis di torta alla nutella.
“Jun! Vieni, giochiamo?”  esclama lui sotto lo sguardo di disapprovazione e di stupore di Helena che, per una volta, non è stata messa al corrente di un’iniziativa di Brian, viepiù riguardante suo figlio e decisamente diseducativa.


Quando lei rientra in cucina il cantante è lì, seduto su una sedia, ingobbito, a ticchettare contro una piccola ceneriera di ceramica bianca le lunghe piccole  dita nervose.
Adesso che ne ha l’occasione osserva oltre la camicia, sul collo, la pelle arrossata, un livido sotto il mento, un’occhiaia più pronunciata dell’altra, a sinistra, e le sbucciature lungo le braccia e sui palmi delle mani.
Non appena la vede lui salta in piedi con un sospiro e prende a mordicchiarsi l’unghia dell’indice,  e Helena si prepara ad ascoltare una lunga confessione con la flemma di un’insegnante della scuola materna.
“Ho assolutamente bisogno di una sigaretta.”
“Ma avevi smesso.”
“Non importa. Ricomincio.”
“Brian…”
Lui la guarda e socchiude gli occhi, un sospirone profondo, di nuovo, accompagna il sussulto delle palpebre, poi ritorna a picchiettare le dita, stavolta sul tavolo.
“Helena, sono serio.”
Ma prima ancora di iniziare quella battaglia, la sua ex moglie si è già mossa diligente e dopo qualche minuto di là torna con un pacchetto di Lucky Strike alla menta.
Brian odia le sigarette aromatizzate. Sono più costose, sono puzzolenti, lasciano la stessa sensazione delle gomme da masticare, grattano sulla lingua.
Le accoglie con una smorfia di schifo palese, con l’espressione di chi borbotta “come puoi fumare una porcheria simile?”.
Nonostante tutto apre con urgenza il pacchetto e accarezza l’accendino con rinnovata serenità mentre si accende la sigaretta e alita nel tubicino, una nuvola di fumo danza nell’aria.
“Bri, non cambierai mai.”
Con un mezzo sorriso Brian scrolla le spalle sovrappensiero e un filo di fumo alla menta fugge fra i denti.
Dopo due anni e tre mesi di astinenza da fumo ad Helena sembra già di vederli, di nuovo gialli, come un tempo.

****************


The End





Note

*William Lloyd, seconda chitarra dei Placebo, all’occorrenza basso o pianoforte, ormai diventato membro a tutti gli effetti della band ed è letteralmente adorato da Brian. Si sono conosciuti in occasione dell’uscita di “Without you I’m Nothing” , nel ’98 ed è stato amore a prima vista (perché non ci ho pensato prima?)

*TRADUZIONE
“Alla fine del secolo
ho detto i miei addii,
per quello che vale,
ho sempre voluto piacere
e sono quasi morto. “

- Per la descrizione del live di "Battle for the sun" mi sono ispirata a questa versione , colonna video-sonora : "Soulmates never die - Live in Paris 2003"  .


Angolo dell’autrice

Si, è finita. Aggiungerei finalmente.
La stavo trascinando come mio solito.  Stavo diventando crudele con questa fiction.
Eppure, nonostante abbia forzato un po’ la mano con questo capitolo non sono convinta che sia uscito poi così male. La parte che meno mi convince tanto è l’allusione al cambiamento Hewitt-Forrest che è stata vissuta in modo abbastanza traumatico da far arrancare Brian  nel momento  in cui si tratta di cantare vecchi  successi, orribilmente familiari. Ma ancora una volta tocca affrontare la realtà e tanti saluti.
Ho tradotto solo le lyrics di “For What It’s Worth” perché sono le uniche che hanno senso nel contesto in cui sono cantate.  Devo smettere con le song-fic , mi fanno male.
E poi c’è l’ultimo capitolo, scritto pochi giorni prima di , ancora prima di potermi informare e scoprire che Bellamy, felicemente sposato, ha un adorabile figliolo che, con il suo battito cardiaco, fa da sottofondo musicale in una delle tracce del nuovissimo e sconvolgente  “the 2nd law”.
*Wow,  Matty, hai scomodato la seconda legge della termodinamica! *
Ergo, se trovate che alcune situazioni siano assolutamente irreali dovrete chiudere un occhio <.<
è come se fosse finito un ciclo, mi sento soddisfatta e in pace con me stessa  e ancora eccitata se ripenso a quale splendida serata mi hanno fatto passare questi bravi ragazzi , il due agosto, alle capannelle, hanno saputo farmi apprezzare PERFINO  “battle for the sun”  che considero il peggior album che hanno scritto fin ora!
Però di una cosa mi complimento con me stessa, l’ultima scena è una signora chiusura.
Graziegraziegrazie, un grazie stratosferico a chi ha voluto pazientare così tanto, forse avrete sperato in una fine, ma sappiate che, proprio quando si tratta di mettere la parola  “the end” sono negata e non do soddisfazione.
Bene, ho finito, colpa delle tre di notte, dimenticate quello  che ho detto,  It doesn’t make any sense.
Adios,

Neal C.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=855183