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“Non c’è incubo dal quale non ci si possa risvegliare”
“Non è vero. Dal mio, non mi sono mai risvegliato.
Continuo a sognarlo, anche da sveglio:
quell’incubo, si chiama Vita”
Il lampadario della stanza
cominciò a tentennare, quasi impercettibilmente. Nessuno se ne sarebbe accorto
in un normale frangente, ma la ragazza seduta sul letto matrimoniale dei suoi
genitori sì. Normalmente, non l’avrebbe neanche considerato quel movimento, ma
in quel momento era particolarmente annoiata e qualsiasi cosa avrebbe attirato
la sua attenzione: perfino un granello di polvere che si muoveva invisibile
nell’aria.
Tutto, qualsiasi cosa, pur di
distrarla dal libro che stava leggendo.
Il “Faust” di Goethe – il primo volume – stava aperto sulle sue
ginocchia, fermo da tempo sulla pagina trenta e bloccato al secondo verso. Da
un tempo incalcolabile aveva deciso di ignorarlo, non tanto per cattiveria,
quanto per noia. Tirò un nuovo sbuffo, più rumoroso di quelli precedenti e più
infastidito, e volse lo sguardo all’orologio sul comodino: le cinque e mezza.
Ormai, si era già dimenticata
del lampadario che continuava a dondolare, lentamente, spinto da una forza
sconosciuta che si trovava al piano di sopra. Su in soffitta.
Si sdraiò del tutto sul letto,
la cui morbidezza donava un senso di pace al suo corpo esausto: non aveva fatto
praticamente nulla che impiegasse la sua forza fisica, ma dopo una giornata di
due ore di latino e greco, una di inglese e una di geografia – se vogliamo
contare perfino un’ora e mezzo di ripetizioni di matematica – era piuttosto
giustificabile ritrovarsi mentalmente a pezzi a metà pomeriggio. Ancora peggio
se si è costretti a leggere un testo che odi.
Girò gli occhi intorno alla
stanza e svuotò la mente, ancora una volta, per udire i rumori della casa. Un
appartamento a due piani dove vivevano due famiglie – di cui una si era al
momento trasferita –, un piccolo orto nel retro della casa dove due zucche
crescevano placidamente. Circondata da asfalto e qualche olivo maturo, appariva
all’esterno come una triste struttura grigia, priva di colore e piena di crepe.
L’interno, ovviamente, non migliorava: almeno non nelle stanze in cui si
trovava lei. Un bagno, due camere da letto – di cui una funge da studio per lei
e da stanza per la sua nonna –, una cucina, un soggiorno e un piccolo ingresso
in cui erano accatastati oggetti di tutte le dimensioni e i tipi. Sembrava la
casa di un gruppo di terremotati scampati da una calamità naturale. In verità,
erano “momentaneamente” trasferiti a casa della sua nonna paterna in attesa che
la loro nuova abitazione fosse ristrutturata; peccato che erano ormai due anni
che erano accampati lì e nella nuova casa non c’era ancora stata ombra di
ristrutturazione.
Camere spoglie, spente,
vecchie. Morte. Come se i suoi abitanti fossero deceduti con loro e vagassero
sotto forma di fantasmi, nascosti fra i mobili scricchiolanti e le porte che si
aprivano o chiudevano da sole. Anche la stanza da letto in cui si trovava, che
condivideva con i suoi genitori e suo fratello, non era migliore delle altre:
tre letti, di cui due matrimoniali e uno piccolo e stretto – ma di chi era quel
letto? Di suo fratello? Certo che no –; un comodino attaccato alla parete
ammuffita e di un bianco spento; due cassettoni su sui erano appoggiati un
televisore, una stampante e un computer; tre armadi che ne costituivano uno
solo; uno scaffale di libri traballante vicino al suo letto e il suo personale
comodino, su cui erano riversati altri libri e indumenti di biancheria intima.
Ciò che le esprimeva ogni
volta che guardava questa stanza era una profonda tristezza.
La ragazza – il cui nome non
era stato ancora citato per un motivo ben preciso, ma che per ora continueremo
a chiamare semplicemente “ragazza” – pensò che era ingiusto passare la notte di
Halloween da sola, senza nessuna presenza viva in casa che la confortasse o le
facesse compagnia. I suoi genitori erano andati via con suo fratello, forse a
una cena, e sua nonna era a soggiornare da alcuni suoi parenti.
Lei, invece, era sola. In
quella casa di fantasmi del passato, piena di rumori e spifferi, di porte
cigolanti e di lampadari che tentennavano senza che nessuno avesse mosso un
passo.
Sola, a leggere un noioso
testo di letteratura che il suo professore le aveva dato per noia. Due tomi che
formavano un solo libro.
Gettò uno sguardo furente al
libro aperto di fronte a lei e lo scaraventò lontano, chiudendolo di scatto e
perdendo così il segno a una storia che non avrebbe mai continuato.
‘Fanculo Faust.
Camminò velocemente fino al
suo studio e prese il cellulare, cercò nella rubrica ciò che voleva e premette
il tasto di chiamata. Il telefono iniziò a squillare.
“Pronto?”
“Ciao, Greta. Che fai?”
“Oh, che bello risentirti!
Stavo per andare agli allenamenti di pallavolo, ma alle sette dovrei aver
finito. Dopo che farai?”
“In casa sono da sola e, anche
se mi costa ammetterlo, ho paura. Forse perché è Halloween, non so… Ho i
brividi. Sento una strana adrenalina scorrermi nelle vene”
“Ti fai coinvolgere troppo da
questa festa. Che ne dici se la passiamo insieme? Io e te, a casa tua. Film
horror e…”
“Allora puoi restare anche a
casa”
“Va bene, qualcosa di leggero…
Biancaneve e i sette nani?”
“Ti uccido”
“Ahahah, d’accordo… Nightmare
Before Christmas? Un classico”
“Accordato! Vengo a prenderti
alla palestra, ok?”
“Certo! Ma non avevi da
leggere quell’enorme libro? Quel coso del patto con il Diavolo…”
“Senti, è Halloween e di
mostri e demoni ne vedrò abbastanza stasera. Preferirei evitare di leggerli, se
è possibile, almeno per questa notte…”
“E’ la notte delle streghe,
dove tutto è possibile!”
“Sì, certo. Ci vediamo dopo”
La ragazza riattaccò e guardò
l’orologio: le 17:45. C’era tempo.
Andò in salotto e si distese
sul divano, sentendo gli occhi che si chiudevano. Aveva acceso la luce per una
sciocca paura, ma adesso si accingeva a spegnerla. Vide dai vetri appannati
della finestra che il buio stava lentamente calando; il manto oscuro portava
con sé Caos e incubi, gli ultimi di cui aveva bisogno.
Quello che le aveva detto
Greta le tornò in mente.
E’ la notte delle streghe, dove tutto è possibile!
Scacciò a fatica questo
pensiero e spense la luce. Adesso voleva solo chiudere gli occhi, liberare la
mente e dormire. O forse sognare, se ci fosse riuscita. Ciò che vedeva in
quelli che gli studiosi chiamano “sogni” era uno spazio infinito e nero, privo
di contorni e di forme, dove l’orientamento era abolito. Il Nulla assoluto.
Da quando aveva memoria, non
aveva mai sognato.
C’era chi le diceva che non
era possibile non sognare, semplicemente non ricordava. Lei non ci aveva mai
creduto.
Il suo sogno era il Nulla
stesso, il Caos. E per una volta tanto, desiderò tuffarsi per poi non uscirne
più.
E fuori, anche l’ultimo
bagliore di luce si spense e la notte inghiottì ogni cosa.
Il mondo bruciava. Case,
strade, palazzi. Ogni cosa, perfino le persone, erano divorate dalle fiamme di
quel terribile incendio. Vedeva milioni di formiche nere che correvano in preda
al panico, dalle cui labbra uscivano grida prive di suono.
La città bruciava in silenzio,
senza che nessuno chiedesse aiuto o pregasse un Dio vendicatore che aveva
voluto questo.
Lei stava osservando questo
spettacolo dall’alto, quasi sospesa nel vuoto: le pareva di volare, si sentiva
così leggera… Guardava quelle persone con indifferenza, con una freddezza quasi
inumana, comese non li avesse mai
conosciuti. Eppure, erano tutte persone vicine a lei: i suoi genitori, suo
fratello, i suoi amici. Bruciavano, e lei non faceva niente per impedirlo.
Semplicemente, osservava
quelle fiamme con innocente curiosità, come un bambino potrebbe assistere a un
singolare spettacolo. Ad esempio, la morte dell’umanità.
E intanto il cielo nero
inghiottiva ogni luce, assorbiva il fumo e si ingigantiva ogni secondo di più.
Da esso, si riversavano sulla Terra esseri mostruosi dagli occhi bramosi, con
pupille simili a quelle di un gatto furioso. Si gettavano con violenza sugli
umani ormai carbonizzati e li divoravano con quelle bocche dai denti cesellati.
Demoni che scendevano dal
cielo e portavano Caos a quel mondo ormai distrutto.
Lei continuava a osservare,
anche quando i suoi genitori cadevano fra le grinfie ingorde di quegli esseri.
Uno di essi si fermò e la
notò, da lontano. Lei non gli rivolse la minima attenzione, troppo concentrata
com’era sullo spettacolo che accadeva di sotto.
Il demone deviò la sua discesa
e si avvicinò a lei, volando con un’agilità impressionante. Le si mise vicino
ed entrambi osservarono in silenzio la caduta di un mondo.
Gli umani sono troppo fragili…, disse quel demone.
Lei non rispose, ma si decise
a distogliere gli occhi dal basso per rivolgersi al suo misterioso
interlocutore. La sua immagine apparve sfocata e non ne capì il motivo finché
non sentì qualcosa di umido scendere sul suo volto.
Piangeva. Piangeva da quando
era lì, ma non se ne era accorta fino a quando quel demone non le aveva rivolto
la parola. Era caduta in uno stato quasi catatonico.
Forse il demone sorrise,
almeno così intuì. Distingueva solo una macchia rosa e una bianca, enorme, che
ricopriva l’intero corpo del demone.
Volle fargli una domanda, ma
neppure una parola uscì dalle sue labbra. Eppure, era così ovvia… Ciò che
accadeva di sotto, quell’incendio, quei demoni, quelle fiamme… C’era qualcosa
di strano, in tutto ciò.
Hai paura?, domandò nuovamente.
Lei scosse la testa in segno
di diniego, ma indicò lo spettacolo di sotto. Indicò le fiamme.
Il demone parve capire e annuì
solennemente.
Tu potresti fermare tutto ciò.
E come?
Il demone rise beffardo e la
indicò con scherno, agitando quella macchia rosa che probabilmente teneva in
mano.
Hai il potere!
Quale?
No, non è ancora il momento: non c’è fretta, nessuna fretta! Ci
possiamo ancora divertire insieme… Ma più tardi. Adesso, è meglio che ti
svegli.
Cosa…?!
Non si seppe mai cosa avrebbe
potuto dire la ragazza che volava sopra il mondo in fiamme, né quale
interrogativo la agitava tanto. Il demone forse lo sapeva già, o non gli
interessava scoprirlo: sono talmente volubili e capricciosi i demoni…
Si limitò solo ad agitare la
macchia rosa davanti agli occhi della ragazza e a dire delle strane parole, una
formula. La ragazza soffocò un grido.
Eins, Zwei, Drei!
La ragazza cadde e il buio la
sommerse, inghiottendo perfino il demone e la città in fiamme.
Si svegliò con un sussulto e
si sentì soffocare. Contò fino a tre e tentò di riacquistare una respirazione
normale, alzandosi lentamente dal divano che, sebbene fino a un attimo fa era
la cosa più confortevole che ci fosse in quella casa – senza contare il letto –,
adesso le appariva duro.
Era madida di sudore e tremava,
scossa da violenti tremiti. Le sue guance erano bagnate di un liquido salato:
lacrime. Aveva pianto nel sonno, e stranamente ricordava ciò che aveva sognato.
Il mondo in fiamme, i suoi genitori che bruciavano, i mostri che scendevano dal
cielo, il demone che le aveva parlato…
E delle fiamme blu. La città
ardeva di un fuoco blu.
Perché le fiamme erano blu?
Guardò l’orologio da polso e
imprecò ad alta voce: le sette. Greta la stava aspettando all’uscita della
palestra e ci volevano almeno quindici minuti a piedi per arrivare lì. Ed era
notte fonda.
Indossò subito la sua giacca
di pelle nera e la sciarpa viola, il suo colore simbolo. Afferrò al volo l’iPod,
aprì la porta e si fiondò giù dalle scale. Chiuse il portone dietro di sé e
iniziò a camminare velocemente. Il suo cammino era illuminato da pochi e rari
lampioni sulla strada, mentre una fitta nebbiolina avvolgeva gli edifici,
facendoli apparire come degli spettri dalle strane forme. Da lontano sentì
qualche botto e intuì che i festeggiamenti erano già iniziati. Dopotutto, era Halloween
e la notte era da poco cominciata: la notte delle streghe, delle ombre e dei
demoni.
Demoni orribili dalle zanne
avvelenate e i denti che laceravano la carne. Demoni vestiti di bianco e con un
“coso” rosa che vorticava intorno ai
propri occhi. Demoni beffardi, demoni ingannatori.
Incubi. Come il suo.
Dentro si sé, maledisse il Faust per averle causato quel sogno e
rimpianse di non aver sognato nulla come al solito.
Da lontano, ma forse era stata
solo un’allucinazione uditiva, le parve di udire un singhiozzo strozzato e una
risata beffarda, alternate. Era molto simile a quella del demone del suo sogno…
“Stupidaggini” sussurrò, e si
addentrò nella nebbia.
SPAZIO DELL’AUTRICE:
premetto che ho buttato giù
questa sciocchezza ieri sera, alle dieci e mezzo, mentre guardavo “SweeneyTood”, quindi non
assicuro il risultato. Mi è venuta di getto e come storia sembrava carina, ma
non sta a me giudicare… Fatelo voi al posto mio!
Questa ragazza, il cui nome
non è stato citato per motivi che saranno in seguito chiariti, ha dei tratti un
po’ autobiografici, ma forse proprio perché mi sembra di scrivere la mia storia
sono particolarmente attaccata a questo personaggio… E poi, chi sarà mai il
misterioso demone vestito di bianco e con un “coso” rosa in mano? XD
Spero che abbia attirato la
vostra attenzione. Ed ora, mi ritiro!
La voce gracchiante di Marilyn Manson
rimbombava nella sua testa e dall’esterno le sembrava che tutte le strade
risuonassero di quella canzone. Camminava – o meglio, correva – da circa
quindici minuti e aveva fatto solo metà della strada; le vie buie di Agliana,
la sua nuova casa, erano quasi del tutto deserte, se non fosse stato per
qualche gatto randagio che fuggiva al minimo rumore e per un gruppo di piccole
streghe e diavoletti che danzavano fra le strade, smaniosi di dolci e dispetti.
Aveva appena superato uno di questi gruppi e si era accorta immediatamente del
sinistro ghigno – quasi inumano – dipinto sui loro volti. Erano solo maschere,
no?
I lampioni sul marciapiede parevano
silenziose sentinelle che illuminavano il cammino dei viandanti; lavoro che
svolgevano per metà, dato che alcuni erano fulminati, mentre altri lanciavano
bagliori fugaci a intermittenza.
La ragazza girò distrattamente la
testa indietro, per vedere se al bar che aveva appena superato – l’accogliente
e sporco “La Belle Vie”, ritrovo giornaliero di vecchi bavosi piazzati davanti
alla partita e ragazzi che perdono tempo, prima di spostarsi a bere al pub
accanto “Sherlock Holmes” – c’era qualcuno che conosceva. In realtà,
controllava solo se lui la stava
ancora seguendo.
E infatti, eccolo lì, a pochi passi di
distanza dietro di lei, che trotterellava tranquillo seguendo fedelmente il
passo della ragazza.
Si trattava di un semplice cane, di
stazza piccola, bianco e con il pelo lungo, con due orecchie appuntite e pronte
a cogliere qualsiasi suono, che aveva iniziato a seguirla poco dopo che era
uscita di casa. Quando l’aveva incontrato, era disteso supino sull’asfalto,
vicino a un lampione, e non appena si era avvicinata per superarlo, lui aveva
drizzato le orecchie abbassate e si era rimesso a quattro zampe, per poi
seguirla a pochi passi di distanza. Sembrava che la stesse aspettando.
Non le si era mai avvicinato troppo al
punto da entrare nel suo raggio d’azione per un calcio, né aveva mai mostrato
intenzioni ostili: ma quella presenza cominciava a infastidirla.
I am the one hiding under your bed
teeth ground sharp and eyes glowing red.
I am the one hiding your stairs
fingers like snakes and spiders in my
hair.
Arrivata sul ciglio della strada, si
guardò intorno per vedere se c’erano machine in arrivo. Il cane si fermò con
lei.
In lontananza sentì il rombo
silenzioso di una Mercedes che si avvicinava: quello che aspettava. Quando capì
che era abbastanza vicina, attraversò di scatto ma abbastanza in tempo per
vedere il cane indugiare sul ciglio e infine attraversare la strada per
raggiungerla. Due fari gialli emersero dalla nebbia proprio nel momento in cui
il cane si trovava a tiro di pneumatici.
Investilo,
investilo, investilo!, ordinò mentalmente al conducente e chiuse
gli occhi per evitare lo spettacolo del piccolo corpo immerso in una pozza di
sangue.
Non ci fu la frenata, né lo
scricchiolio delle ossa sotto le ruote. Niente. La macchina continuò il suo
giro tranquilla.
Aprì gli occhi e fece qualche passo
indietro, sorpresa nel rivedersi davanti il suo cane inseguitore. Come aveva
fatto a evitarla quando la ruota era proprio sopra di lui?
Sbuffò infastidita nel vedere che il
suo piano non era andato a buon fine. Il cane la osservava, aspettando che lei
facesse qualcosa, e altrettanto faceva lei: notò solo ora l’enorme foulard rosa
a pois legato al collo e con una strana spilla colorata – forse indicava il
nome del proprietario? –, come si accorse ora delle occhiaie piuttosto marcate
sotto gli enormi occhi che scintillavano nell’oscurità. Occhi verdi, no,
gialli…
Gialli?
Dal canto suo, il cane la squadrava
dall’alto in basso, cosa piuttosto anormale per un cane di quelle dimensioni:
sembrava che la stesse giudicando. A questo pensiero, un brivido gelido la
scosse.
“Vuoi seguirmi ancora per molto?”
chiese la ragazza senzaaspettarsi una
risposta.
Il cane rimase in silenzio, sempre
guardandola. Poi, mettendo a dura prova la lucidità mentale della ragazza, le
fece l’occhiolino e le sorrise.
Ha
ammiccato? Mi ha sorriso?! Quello si poteva considerare un sorriso?
Si guardò intorno spaesata, in cerca
di un aiuto che la cavasse da quell’impiccio. Poi rivolse lo sguardo malevolo
al cane.
“Non ammiccare: mi fai senso. E poi,
lo sai che sei proprio brutto?”
Il cane, per tutta risposta, abbassò
le orecchie deluso e la guardò in modo ostile e piuttosto seccato. Sembrava
essersi offeso. La ragazza sorrise vittoriosa e, guardando distrattamente
l’orologio, si ricordò dell’impegno.
“Cavolo, Greta! E io che sto a perdere
il mio tempo a parlare con un cane…”
Iniziò a correre, dimenticandosi
completamente del suo compagno a quattro zampe, il quale la riprese subito e
riuscì a starle dietro per un buon tratto. Quando sentì l’aria gelida che le
pungeva i polmoni, rallentò il passo e riprese il fiato; altrettanto fece il
cane.
Volgendo la testa a destra, si pentì
subito di questo gesto: un gruppo di ragazzi, appoggiati tracotantemente al
palo della fermata dell’autobus, ridevano sguaiati e lanciavano ogni tanto
degli “ululati” rozzi. Pregò il cielo e tutti gli dèi delle religioni che
quegli individui non la notassero. Accelerò il passo, senza però darlo a
vedere, e assunse un’aria orgogliosa. Tutto ciò, però, fu inutile.
“Oi, sgualdrina!”
Ecco…
Non si voltò per rispondergli, né
rallentò. Si trovavano dall’altra parte della strada, erano abbastanza lontani.
Per ignorarli ancora di più, prese l’iPod e alzò il volume al massimo: le sue
orecchie iniziarono a fischiare.
This is Halloween, this is Halloween
Halloween,
Halloween…
I ragazzi continuarono a urlare
insulti e improperi, di cui riuscì a coglierne solo qualcuno, accompagnandoli
con risate sempre più sguaiate. La ragazze strinse i pugni fino a sentire il
sangue caldo scorrere lungo il palmo. Ignorarli, doveva ignorarli, doveva
andare avanti. Greta. Sì, doveva andare a prendere Greta. Avrebbero festeggiato
insieme Halloween. Si sarebbero divertite. Insieme. Forse avrebbe preso quel
cane con sé, visto che non si staccava da lei. Ma la casa era troppo piccola.
Sua nonna era allergica ai cani. Ma avrebbe trovato un modo. Ah, il sogno…
Fiamme
blu.
Un tremito la scosse e si fermò del
tutto. Sentì le palpitazioni aumentare e la vista appannarsi. Non riuscì più a
respirare e quasi si strozzò, cercando di ricordare come si facesse. Un rantolo
soffocato le uscì dalla bocca: non sembrava neanche la sua voce…
Sentì un ringhio, all’inizio debole,
quasi un sussurro. Pensò che fosse il cane. Poi sempre più forte, fino a
divenire un ruggito. Era vicino a lei, molto vicino…
Fiamme blu danzavano davanti ai suoi
occhi. La città in fiamme si ripresentava nuovamente con violenza nella sua
mente.
…
Halloween, Halloween!
Un forte colpo alla nuca le fece
perdere i sensi e subito quattro corpi massicci le furono addosso. Sentì un
forte odore di alcool, e anche di qualcos’altro: droga.
Uno dei ragazzi la prese per i
capelli, un altro le strappò dalle orecchie le cuffie e Marilyn Manson volò
lontano. Provò un lieve dolore, ma non un gemito uscì dalle sue labbra ormai
secche. Le loro risate, quasi inumane, le giunsero alle orecchie: sembravano
delle bestie.
Cercò di distinguere i loro volti: e
il suo cuore perse un battito. Denti aguzzi che sporgevano dalle labbra
violacee, occhi gialli e rossi ridotti a due spille, orecchie a punta e due
corna prominenti che spuntavano dalla testa. E una lingua spropositamene lunga
e sottile, piena di bava, fuoriusciva da quella bocca piegata in un ghigno sinistro.
Demoni. Il suo incubo.
Vi
prego, ditemi che sono solo maschere…
Dissero qualcosa, e poi il buio eterno
la circondò e non vide né sentì più niente. Proprio ciò che desiderava.
Pensò a Greta, al cane… Non ai suoi
genitori, né ad altri parenti. Pensò al Faust, ad Halloween, alle streghe e ai
demoni. E si ricredette.
Pensò a tante altre cose, ma non
riuscì mai a ricordarsele, poiché troppo stordita per rifletterci a lungo.
Infine, pensò al sogno e alle fiamme
blu. Pensò al demone, e desiderò con tutta se stessa che quelle stesse fiamme
bruciassero i corpi impuri dei suoi persecutori e che quel demone divorasse le
loro carni. Per la prima volta in vita sua, desiderò quel potere di cui parlava
il demone.
Il potere della Distruzione. Il potere
del Caos.
Perché
questo? Perché a me? C’è qualcosa di sbagliato in tutto ciò…
SPAZIO DELL’AUTRICE:
in ritardo, lo so, anche se avevo in mente questo capitolo già fin
dall’inizio… Purtroppo, la scuola mi impedisce di aggiornare più spesso, quindi
abbiate pazienza ^^”. La storia comincia ad entrare nel vivo e alcuni segreti –
come il nome della protagonista – cominceranno a essere svelati. Ad esempio,
chi è quel piccolo e brutto cane con il fiocco a pois che seguiva la
protagonista? Lo scoprirete nella prossima puntata!
ma
bastavano l’ansia di verità e la voglia di illudersi.
Dammi
di nuovo quegli impulsi indomiti,
quella
felicità profonda e dolorosa,
il
vigore dell’odio, la potenza d’amore:
dammi
di nuovo la mia gioventù!
[Faust, J. W. Goethe]
Tum. Tum. Tum.
Un rullo di tamburi, sempre più
distante, che si perde nel cuore della notte. Un suono lontano che richiama
alla notte dei tempi. Un suono gutturale che ti ipnotizza nel suo monotono
andamento.
Tum.
Tum. Tum. Tum.
Ma era davvero notte? Che ore erano?
Dove si trovava?
Erano queste le domande che in quel
momento la faceva rigirare nel sonno: ma poteva chiamarsi sonno
quell’intorpidimento alle gambe, alle braccia e quelle immagini confuse che si
muovevano dinanzi ai suoi occhi?
Sentiva la testa pesante e sul punto
di esplodere.
Dove
sono?
Poi ricordò. Marilyn Manson. I ragazzi
– o i demoni? Come doveva chiamarli? – che l’avevano assalita da dietro. Il
cane bianco. E poi? Solo buio, e nulla più. Le ultime cose che aveva sentito
erano state un forte colpo alla nuca e delle risate isteriche e inumane, poi
aveva perso i sensi.
Le veniva da vomitare e piangere se ci
ripensava.
Tu-tum. Tu-tum. Tu-tum. Tu-tum.
Il rullo di tamburi aumentava di
velocità, seguendo quasi il ritmo del suo cuore.
Tentò di aprire gli occhi di scatto,
ma non ci riuscì: sentiva le palpebre troppo pesanti. Le orecchie le
fischiavano, forti fitte al petto le lasciavano sfuggire dei deboli gemiti. Era
ancora troppo intorpidita per fare movimenti strani.
Aprì intanto un occhio e tentò di
rigirarsi da un lato, senza però riuscirci. Solo in quel momento capì il perché
e si rese conto almeno in parte della situazione in cui si trovava: braccia e
gambe erano legate saldamente a dei ganci sigillati sul pavimento di granito
freddo, polveroso. Poteva sentire i legacci che le stringeva e graffiavano la
pelle pallida e un rigolo di sangue macchiare le corde.
Era in trappola. Non poteva fuggire.
La sua mente, sebbene si trovasse
ancora in stato confusionale, cominciò a schiarirsi e a poco a poco anche tutti
gli altri sensi si risvegliarono. Un forte odore di bruciato, di cera e di
nauseante incenso le arrivò alle narici e trattenne un conato di vomito;
insieme al ritmo monotono dei tamburi riconobbe di sottofondo dei versi quasi
animaleschi, simili alle conversazioni che si avrebbero fra due scimmie o fra
due avvoltoi, accompagnate da nuove risate, sempre più fragorose e macabre. Poi
una preghiera, di cui non distinse le parole, venne cantilenata al ritmo dei
tamburi.
Con grande sforzo, aprì entrambi gli
occhi e alzò tremante la testa di piombo.
Un grido le morì in gola.
Mio
Dio. Fa che sia solo un sogno…
La stanza, piccola e circolare, era
ricoperta da tende di tessuto bordò e nero, sulle quali erano ricamati in oro
disegni arcaici di esseri mostruosi che ballavano in una macabra danza intorno
a un falò. Candele ormai consumate erano sparpagliate in circolo, le cui
fiammelle tremavano debolmente e lanciavano fugaci bagliori, illuminando di
poco quello spazio immerso nella più totale oscurità. Ombre nere si allungavano
sulle pareti, alcune curve e piegate su loro stessi, altre che si gettavano
all’indietro, ridendo o lanciando ululati a una luna inesistente. Sulle pareti
che erano sfuggite a quel sinistro arredamento erano disegnati strani cerchi
con pentagrammi, lettere greche e arabe e parole la cui pronuncia avrebbe
scomunicato un prete. Tutte scritte con un liquido rosso: sangue.
Intorno a lei erano raccolti sei
individui ricoperti da una lunga veste nera e con un cordone d’oro legato alla
vita, alcuni che tenevano in mano degli oggetti – chi un enorme libro ormai
consumato dal tempo, chi un calice di bronzo, chi un panno rosso che celava un
altro oggetto dalla forma allungata… - e altri che le ridevano in faccia. I
loro volti nascondevano la loro vera natura.
In un angolo, nascosti dall’oscurità
di quel luogo, c’erano un vecchio stereo da cui provenivano i tamburi e una
gabbia arrugginita, dalla quale uscivano deboli miagolii di dolore e paura.
Stringendo gli occhi, distinse una figura nera e sinuosa che tremava in un
angolo, terrorizzata, e una macchia bianca, in piedi e con un fierezza
impressionante per un animale di quella stazza. Un gatto nero e il cane che
l’aveva seguita fino a poco fa. Alla fine, avevano preso anche lui…
La ragazza cominciò ad agitarsi,
sempre più spaventata, tirando con tutte le sue forze per liberarsi dalla sua
prigionia; il cuore, intanto, minacciava di scoppiare da un momento all’altro.
Non doveva andare a finire così, non
doveva! Non sapeva nemmeno lei come ci era finita in questa situazione, quale
divinità avversa le avesse inflitto un simile destino. Doveva solo andare a
prendere una sua amica alla palestra – e Greta? Cosa penserà quando non la
vedrà arrivare? – e festeggiare con lei Halloween. Doveva solo percorrere
quindici minuti di cammino ed era successo di tutto: un cane che la seguiva,
dei tipi drogati che avevano riso di lei, l’avevano derisa e infine catturata e
portata lì.
In una setta satanica.
Ne aveva sentito parlare molto
recentemente, sui giornali e in televisione: molti erano i casi di sacrifici
umani e animali, di persone – in particolare adolescenti – che sparivano dalla
circolazione per lungo tempo e che venivano ritrovati fra i resti di un rogo o
di un pentagono disegnato a terra. Riti dediti al culto di Satana, che mai
avevano avuto una riuscita e che mai nessuno era riuscito a fermare in tempo.
Questi fatti, così lontani dalla sua
realtà, le sembravano talvolta solo delle favole ben costruite per spaventare i
bambini la notte e metterli in guardia dalle insidie del mondo. Ora, come la
storia delle streghe, si dovette nuovamente ricredere: ne era diventata una
vittima sacrificale, insieme al suo compagno canino e a uno sfortunato gatto
randagio, la cui sorte era segnata fin dal momento in cui era incappato sul
cammino di questi satanisti.
Si sentiva in trappola, priva di forze
e debole. Come odiava sentirsi così, come odiava quando gli altri la facevano
sentire così…
Tutti…
Dovrebbero morire tutti!
Uno degli incappucciati le si avvicinò
al viso e si tolse il cappuccio: una maschera piegata in un ghigno
agghiacciante le fece accapponare la pelle e, come se non fosse già spaventosa
di per sé, le sorrise e le sputò in faccia, con disprezzo. Una furia
incontrollata, più potente della paura che l’attanagliava, la fece fremere sul
posto e desiderò una morte atroce per quell’individuo. Lo stesso che aveva
visto poco prima di svenire, fra i ragazzi.
Gli altri individui imitarono ciò che
aveva fatto il loro compagno: volti demoniaci, che avevano perso ogni traccia
di umanità, la osservavano ghignanti e, lentamente, si avvicinavano a lei.
Perché
non ci sono loro al mio posto? Uccidetevi a vicenda, bastardi!
Tutti uomini, di questo era certa,
forse erano in principio ragazzi della sua età, ma non ne era del tutto sicura.
Altra cosa strana che vide – come se non ce ne fossero già abbastanza – fu una
nuvola nera che si muoveva intorno ai loro corpi: uno strano e fastidioso
ronzio proveniva da quella nuvola di moscerini, o chissà quale altri animali
microscopici che abitavano quella stanza.
Uno dei ragazzi che teneva il panno
rosso, lo srotolò e ne fece uscire una lama scintillante, il cui bagliore la
accecò per un attimo. Un pugnale ben modellato, con l’impugnatura cesellata di
rubini e la lama sporca di sangue nero, era tenuto con mano mal ferma dal
ragazzo, il quale lo alzò con gesto solenne e, confermando la sua più grande
paura, lo abbassò velocemente su di lei. Chiuse gli occhi e si preparò al
colpo.
No,
ti prego! Che qualcuno…
Che non arrivò. Anzi, si sentì più
libera.
Aprì lentamente gli occhi e si accorse
che i legacci alle mani e ai piedi erano stati tagliati di netto: finalmente il
dolore lancinante alla pelle era terminato. Almeno per ora.
Il ragazzo con il pugnale la prese
malamente per un braccio e la alzò in piedi con violenza, prendendola poi con i
capelli e lasciandole sfuggire un gemito di dolore. Il ragazzo indemoniato
rise.
“Apri gli occhi, umana, e osserva!” le
ordinò una voce cavernosa che proveniva dalla bocca del ragazzo. Non sembrava
neanche umana.
La ragazza, più terrorizzata dal tono
di voce che dal ragazzo con il pugnale, guardò in basso, nel punto in cui si
trovava prima, e il suo cuore perse un altro battito.
Un enorme cerchio con all’interno una
stella e altri simboli mal tracciati era stato disegnato con il sangue – ne era
certa, lo avvertiva dall’odore – e altri oggetti erano posti su ciascuna delle
cinque punte: piume, ossa biancheggianti, viscere di animali, una strana
polvere colorata e una croce spezzata. Le strane iscrizione tutte intorno le
fecero girare la testa, quasi fossero una delle versioni di greco che doveva
tradurre, dove le parole le vorticavano intorno agli occhi.
Il ragazzo la strattonò di nuovo e un
nuovo gemito le uscì dalle labbra.
“Umana, presto prenderai parte al
nostro rito: sii fiera, sarai una delle vittime designate per il ritorno del
nostro padrone!”
Una nuova risata proruppe da quegli
individui non più umani. La ragazza cercò di divincolarsi, senza risultati;
avrebbe voluto gridare, strappargli quel pugnale dalle mani e fare strage di
quei folli, per poi tornare a casa sua e dimenticare tutto. Eppure non poteva,
perché era troppo debole. Non aveva la forza necessaria nemmeno per parlare.
Quanto
mi odio…
Il ragazzo che la teneva disse alcune
parole in una lingua sconosciuta a uno dei suoi compagni e quello, voltandosi
verso la gabbia dove si trovavano le due povere bestie, la alzò in alto e da
essa tirò fuori il gatto nero. L’animale, avvertito il pericolo, iniziò a
soffiare e miagolare disperato, graffiando a vuoto nell’aria e tentando di
liberarsi, senza però riuscirci. Anche lei era come quel gatto… Impotente.
Il ritmo dei tamburi si fece più
veloce. La ragazza avrebbe voluto tapparsi le orecchie.
Il ragazzo che reggeva il libro
cominciò a recitare una strana preghiera, mentre quello con il calice si
avvicinò al cerchio e lo tese al centro, in attesa. Il ragazzo che la teneva
passò il pugnale a quello con il gatto, il quale, sghignazzando, si posizionò
al centro del pentagono e, alzando l’arma e l’offerta, aprì la povera bestia in
due.
Il sangue si rigettò sul simbolo e una
parte del corpo si fracassò sul pavimento. L’altra parte era ancora fra le mani
dell’assassino, che rideva smanioso, mentre il suo compagno con il calice
raccoglieva quel fiume di linfa vitale estratta con la forza da un essere
vivente.
Una volta riempito il calice, tutti e
sei se lo passarono e ne bevvero un sorso, recitando ciascuno alcuni versi di
una preghiera.
La ragazza osservava questo
raccapricciante spettacolo in silenzio. Sentì le forze mancarle, ormai del
tutto, e un violento conato di vomito la fece piegare in due. Aveva assistito a
ciò senza aver potuto fare nulla; aveva assistito al sacrificio ingiusto di una
bestia. Aveva assistito a un sacrificio. Di un gatto. Nero.
Lei amava i gatti.
Il mondo intorno a lei sparì e, di
nuovo, tutto venne avvolto dall’oscurità. Il suo corpo si mosse da sola, ma la
sua mente, entrata in uno stato di trance a cui era ormai abituata, era ben
lontana da quel luogo: piangeva in un angolo per la morte di quell’essere e si
rammaricava per non aver agito in tempo.
In quell’istante – che a lei parve
eterno – le parve di sentire delle grida disumane, delle imprecazioni e il
rumore della carne tagliata e di ossa rotte. Il suo corpo fece tutto da solo, e
lei si fece cullare da quella sensazione di assoluta calma. Il rumore dei
tamburi si spense all’improvviso. Poi sentì qualcosa di morbido fra le mani, qualcosa
di peloso.
Aprì gli occhi e tutto tornò come
prima. La stanza. Il cerchio. Il gatto diviso in due. E quattro corpi distesi a
terra, in una pozza di sangue. Due erano ancora in piedi, in ginocchio, piegati
sulle ferite di arma da taglio subite.
Le immagini di prima tornarono con
violenza nella sua mente confusa e un nuovo conato di vomito le salì in gola.
Quando vide il pugnale bagnato di sangue fra le sue mani e le sue vesti tinte
del medesimo liquido, si sentì svenire e le forze l’abbandonarono.
Ma non appena vide la piccola palla
bianca del cane, suo fedele compagno di vita e morte, fra le sue braccia, un
senso di tranquillità la pervase: almeno lui era salvo. Era incredibile il
fatto che desse più importanza alla vita di un cane randagio che alla sua, ma
in un modo o nell’altro si sentivano compagni di sventure, e se sarebbero
morti, lo avrebbero fatto insieme: come due condannati in prossimità del
patibolo.
“Almeno non morirò da sola” sussurrò con
un filo di voce. Si accorse che stranamente la voce non le tremava.
Uno dei ragazzi a terra – quelli almeno
ancora vivi – si rialzò ansante e si avvicinò a lei con fare minaccioso,
fulminandola con gli occhi gialli iniettati di sangue. Senza troppo sforzo, le
prese il coltello dalle mani e glielo puntò alla gola, pronto a recidere le
carni e la vita.
La ragazza non si ritirò, né gridò
invano al vento. Se quella era la sua morte, se quello doveva essere il modo in
cui doveva morire, almeno aveva combattuto per difendersi. E se le fosse
rimasto un ultimo alito di vita, avrebbe nuovamente strappato il pugnale dalle
mani del suo assassino e avrebbe fatto giustizia. Stavolta per sempre.
È
successo di nuovo: ho perso il controllo. Ma almeno stavolta mi è servito a
qualcosa, o a nulla, dipende dai punti di vista…
“Puttana… Hai ucciso i miei compagni,
hai interferito nel rito… Ma non ti preoccupare, raggiungerai presto l’Inferno!”
Spero
solo che Greta stia bene. Spero che sia tornata a casa sana e salva, senza aver
incontrato le streghe le danzano, come diceva lei…
“Ora compirai l’ultimo atto…”
Chissà
perché non le ho mai creduto: eppure, i demoni sono sempre stati qui, vicino a
me, e non me ne sono mai accorta… Ma tutto ciò lo trovo…
“… Della tua misera esistenza!”
…
Dannatamente ingiusto. Perché devo morire io?
Strinse il cane più forte e si
costrinse a non chiudere gli occhi: voleva vedere la Morte in faccia fino alla
fine. Il cane alzò il piccolo muso verso di lei e i loro occhi, per una seconda
volta, si incrociarono. Sembrava calmo e impassibile, forse non conscio della
situazione in cui si trovava.
Infine le ammiccò di nuovo e fece
quello strano sorriso, che – forse per la stanchezza o per l’approssimarsi
della fine – le sembrò pieno di scherno. Forse verso di lei, o verso la vita.
Anche lei ricambiò e gli rivolse
quelle che furono le sue ultime parole.
“Mi dispiace di non averti potuto
proteggere fino alla fine: ci vediamo in un’altra vita, spero…”
La lama scese di scatto, accompagnata
da un nuovo grido disumano.
La ragazza chiuse gli occhi di scatto,
rammaricandosi di questo, e aspettò il dolore e il buio eterno con pacata
sicurezza.
Che non arrivarono mai.
“Sei svenuta?”
Una voce maschile, sconosciuta e
stranamente più umana rispetto a quelle sentite finora, la destò dal suo
incubo. E la fece precipitare in uno peggiore.
Non appena aprì gli occhi, vide dei
corpi carbonizzati e una stanza che andava lentamente a fuoco: fiamme blu
riducevano in cenere ogni cosa che testimoniasse il rito di quella notte,
gettando polvere al vento e parole nel vuoto.
Fiamme blu. Ovunque. Anche sulle sue
mani.
Lanciò un grido, il primo di quella
serata, e sentì per la prima volta in assoluto il vero suono della sua voce:
acuto, quasi fastidioso. Almeno la pensò così l’individuo vicino a lei,
tappandosi le orecchie con fastidio.
Un uomo alto – troppo alto – si ergeva in tutta la sua figura nella stanza,
donando qualche nota di colore a quel luogo spento; prevalentemente vestito di
bianco, con un lungo mantello del medesimo colore che lo ricopriva interamente;
stivali a punta fucsia e calze a righe rosa; un panciotto bianco, sui cui
spiccavano un enorme foulard rosa a pois bianchi e una spilla stranamente
familiari; infine, un cappello bianco che le ricordò tanto Alice nel Paese delle Meraviglie e non si sarebbe sorpresa se quello
strano individuo avesse tirato fuori dal nulla una teiera e una tazza di tè.
Che fu quello che fece, non appena
vide che lei si era calmata.
Estrasse un servizio da tè dal
cappello e, versando il liquido dal dolce aroma nelle apposite tazze, gliene
offrì una, con un profonda riverenza. Teiera, zuccheriera e tutto rimasero
sospesi nel vuoto. La ragazza prese la tazza, senza sorprendersi più di tanto,
ormai abituata a tutto.
Le fiamme sul suo corpo, intanto,
cominciavano a estinguersi non appena beveva la misteriosa bevanda – era davvero
tè?
“È una fortuna che queste scocciature
abbiano raggiunto il Creatore, non credi? Ti sono debitore, anche se parte del
lavoro l’ho fatto interamente io” affermò soddisfatto, lanciandole ogni tanto
occhiate che non seppe decifrare.
Che
ego enorme… Che fine ha fatto il cane?
“Un enorme potere in un così minuscolo
corpo… Strabiliante, non è vero?” ghignò, fissandola.
Infine, lei li vide: gli occhi, le
occhiaie. Gli occhi gialli.
“Il cane…” riuscì ad articolare.
L’uomo la guardò sorpreso, per poi
scoppiare in una fragorosa risata: almeno lui sembrava divertirsi, nonostante
tutto andasse a fuoco.
“Ebbene, eccomi qui, mia cara!
Sorpresa?”
“No… Anzi, sì, ma non riesco a
sorprendermi più di tanto, mi dispiace…”
“Non importa. Dopo questa esperienza,
ciò che vedrai da qui in poi ti sembrerà normale!” sorrise cordiale.
Ancora lo osservava, incapace di
muoversi o di fare altro. Osservava lui e le fiamme, con la domanda ovvia
stampata sulla faccia. Per questo, l’uomo la prese in giro.
“Non ti spieghi ancora come sia potuto
accadere ciò? Non ti viene in mente niente? Cielo, gli umani di questa epoca
sono davvero lenti…”
“Chi sei…?”
“Un umile passante che, dopo aver
udito le grida di una giovane donna in pericolo, è accorso in suo aiuto e ha
trovato il lavoro già fatto!” ghignò di nuovo, aspettandosi una reazione.
“No, intendevo il tuo nome… Sei un
demone, vero?”
Il
sogno. Il demone. Le fiamme blu. Ogni cosa… Comincia a realizzarsi… Aiuto.
Il demone bianco sorrise, con più
dolcezza – per quanto gli fosse possibile – e si tolse il cappello,
inchinandosi fino a toccare terra.
“Esatto, mia cara, arguta risposta! Ti
ricordi di me, vero?”
“Più o meno”
“Allora, perdona i miei modi scortesi.
Il mio nome è MephistoPheles,
un umile demone che si stava
annoiando. Onorato di conoscervi, mia cara”
Mephisto…
Un demone.
Subito, l’immagine della copertina del
libro che aveva gettato le riapparve agli occhi: il Faust. Il Diavolo si chiamava Mephistofele.
E si trasformava in un cane.
Oddio,
sto parlando con un Diavolo… Il rito ha funzionato?
“E voi, di grazia, come vi chiamate?” chiese
gentilmente, senza però una punta di scherno nella voce. Si aspettava di già la
risposta.
No, non gli avrebbe dato
soddisfazione. Voleva cancellare quel ghigno dalla sua faccia.
“Faust”
Ci riuscì. Mephisto
la guardò stupito e, per un attimo, non seppe cosa rispondere: l’aveva colto in
fallo.
“Come, prego?”
“Faust. È questo il mio nome, perché?”
Adesso era lei a ghignare. Questo
sembrò fare piacere al demone, che la osservò per un attimo prima con
curiosità, poi con divertimento.
Le tese un braccio per aiutarla a
rialzarsi e, non appena lei glielo prese, la tirò a sé, facendole fare delle
piroette in mezzo alle fiamme. Un folle valzer che solo i demoni potevano
permettersi.
Cosa che la sorprese, più di quel
gesto inatteso, fu il fatto che le fiamme non la scottavano. Anzi, erano
piuttosto piacevoli…
“E sia, mia cara Faust! Stanotte
iniziamo il nostro folle e indimenticabile valzer della notte, dove faremo
cadere il mondo in rovina o, chissà, lo salveremo… Non odi anche tu le grida di
fuori? Ebbene, la notte è appena iniziata, così come il tuo viaggio. Anzi, il nostro!”
E continuavano a ballare, con sinistra
allegria. Faust si lasciava guidare, incapace ancora di articolare un discorso
di senso compiuto.
Era stata salvata da un demone, o
chissà che altro. Da un Diavolo, per giunta. E quelle fiamme… Le aveva create
lei? Da quello che diceva il Mephisto, sembrava di sì.
Ma cosa più importante, era salva. Era
viva. E se per questo doveva ringraziare gli Inferi, così sia: sarebbe presto
tornata a casa, da Greta. Dalla sua famiglia. E avrebbe infine dimenticato.
D’improvviso, Mephisto
si fermò e la guardò. La differenza di altezza fra i due era abissale.
“Bene, e ora parliamo di affari. Vuoi
sapere qualcosa di più sui tuoi poteri, o su ciò che avverrà stanotte? Vogliamo
stringere questo maledetto contratto?”
Contratto?
In quale situazione si era cacciata? E
non poteva più sfuggirne, oramai…
Commento dell’autrice:
premetto, premetto, premetto che non ho la più pallida idea di come
si svolga un rito satanico: mi sono lasciata andarealla fantasia, e forse non è venuto affatto
bene come volevo…
Da adesso in poi la storia di fa più movimentata, spero che molti
di voi mi vogliano seguire fino alla fine ^^. Con questo, al prossimo capitolo!
Gli
altri bambini erano sempre stati cattivi con lei: mai una volta che avessero
giocato con lei, mai una volta che le avessero teso una mano quando cadeva. Lei
era sempre rimasta da sola, senza amici.
La
bambina era sempre seria, non sorrideva mai né provava a ridere; non le
piacevano i giochi che facevano i suoi coetanei e, non appena era il momento di
scegliere i componenti delle squadre, lei fuggiva via potandosi dietro un libro
e non si vedeva più fino al crepuscolo, quando tornava con i vestiti sporchi e
stracciati e la pelle piena di graffi. I suoi genitori pensavano ingenuamente
che giocasse sempre con i suoi amici e la rimproveravano dolcemente quando la
ritrovavano in questo stato. Ma la bambina in realtà non aveva amici, e nascondeva
questa piccola verità in modo molto astuto.
Mentiva
ogni volta che parlavano con lei. Fin da quando aveva memoria, le cose che
sapeva fare meglio erano solo due: mentire e vedere i mostri. Anche se avrebbe
fatto volentieri a meno di questo secondo dono…
La
bambina vedeva cose che gli altri non riuscivano a scorgere e nemmeno lei
riusciva a spiegarsi il perché. Erano ovunque: nascosti sugli alberi del parco
in cui andava a giocare, negli angoli delle strade, nelle vie buie della città,
nella sua soffitta… Trovava sempre dei piccoli esserini verdi che le
sorridevano bonariamente, mostri privi di un volto che lasciavano al loro
passaggio una lunga scia di bava, fantasmi che rubavano degli indumenti o
facevano cadere i passanti. Di solito facevano solo degli scherzi innocenti –
perfino a lei – e forse piuttosto fastidiosi, ma talvolta causavano la morte
involontaria di molte persone con i loro dispetti e, inconsapevoli dell’azione
commessa, sghignazzavano sommessamente.
Quando
facevano così, la spaventavano. Per questo li evitava, smetteva di parlarci e
tentava di avvisare gli altri quando i mostri stavano per fare del male a
qualcuno. Come risultato, otteneva le risate e le beffe delle persone che la
ascoltava: perfino dei suoi genitori. Di conseguenza, attirava anche le
vendette dei mostri adirati.
Ogni
volta che accadeva la bambina piangeva perché nessuno le voleva credere. Così,
decise di smettere di avvisare gli altri: la ritenne una giusta punizione.
Infatti, quando i mostri si avvicinavano agli uomini, lei distoglieva lo
sguardo colpevole.
Ma
le voci su di lei iniziarono a circolare fra i suoi compagni, che la evitavano
e la prendevano sempre in giro per questo; talvolta, le facevano scherzi ancora
più crudeli di quelli dei mostri. E lei subiva in silenzio, forse perché
pensava che era giusto così, che era sbagliato vedere quelle cose: lei era un
errore. In lei c’era sicuramente qualcosa di anormale, e per questo doveva
essere punita.
Così
viveva la bambina: in eterno conflitto con tutti, rinnegata da entrambi le
parti e sola.
Sempre
sola.
“Faust?”
Cosa?
Chi è Faust?
Aprì gli occhi lentamente, sentendo
dietro la schiena la dura corteccia dell’albero e il bagnato dell’erba sotto i
palmi delle sue mani. La fredda aria della sera la riportò del tutto alla
realtà e, per la prima volta da quando era uscita di casa, si sentiva bene: non
avrebbe mai pensato che il vento gelato e portatore di mille odori potesse
sembrarle così benefico in quel momento.
Poi, sottili gocce salate scendevano
lente dalle guance. Vedeva appannato, come se si trovasse in piscina e il cloro
le bruciasse gli occhi: stava piangendo. Di nuovo.
Improvvisamente, la sua mente contorta
le aveva riportato a galla uno dei ricordi più profondi, che credeva di aver
soppresso per sempre in quel mare di memorie che era la sua anima. Un frammento
di un’infanzia triste, di un passato che voleva rinnegare e infine riscrivere.
Si asciugò in fretta gli occhi e capì
dove si trovava: all’aria aperta, nel parco di fronte a casa sua. La stanza di
prima, gli adepti della setta, il gatto morto, il pentagono… Ogni cosa era
svanita, come la nebbia al mattino. Si sentì finalmente sollevata di essere
uscita da quell’incubo. Per poi ricordarsi di essere entrata in uno ancora
peggiore.
“È maleducazione ignorare chi ti sta
rivolgendo la parola, sai?” disse infastidito Mephisto.
Odiava quando qualcuno non gli prestava attenzione mentre parlava.
Con gli occhi ancora stralunati, la
ragazza gli rivolse uno sguardo interrogativo: chi sei?, volevano dire quei due lapislazzuli accesi nella notte
più profonda. Nonostante la mancanza di luce brillavano come due gemme preziose:
affascinanti, si ritrovò a pensare il
demone, osservandoli con più attenzione.
Affascinanti come la sua anima, ma non
altrettanto come il resto del corpo.
Capelli corvini tagliati corti e
raccolti in soffici boccoli che gli ricordavano quelle parrucche che aveva
visto una volta a un ballo a Vienna, viso rotondo e pallido, occhiaie viola
dovute alla pelle chiara – e osava dire di lui? Che insolenza! –, il tutto
accompagnato da un corpo slanciato e troppo magro avvolto in una lurida giacca
nera. In complesso, un’umana nella media, nemmeno troppo attraente.
Ma la sua anima…
D’altro canto, la ragazza non aveva
certo una buona opinione di lui: anzitutto, per tutto questo tempo l’aveva
creduto un cane che si era affezionato troppo a lei, poi si ritrovava un uomo
vestito di bianco che le offriva una tazza di tè mentre intorno si consumava un
incendio. E le si presentava come un demone: MephistoPheles.
E lei era Faust: ora ricordava.
In tutta questa faccenda c’era
sicuramente qualcosa di anormale, di strano… Ma da come era iniziata questa
serata, non poteva certo lamentarsi.
Si rialzò a tentoni, appoggiandosi con
tutto il suo peso al pino che le faceva da supporto, e quando si fu assicurata
di aver ritrovato del tutto il suo equilibrio, cominciò il suo interrogatorio.
“Chi sei?” chiese guardinga,
mantenendo una certa distanza tra loro.
Il demone si accorse di questa sciocca
precauzione e ne sorrise compiaciuto: lo temeva, almeno in parte. Bene, era ciò
che voleva fin dall’inizio.
“Come ho detto prima, sono un umile
demone che…” cominciò Mephisto, venendo però subito
interrotto dalla ragazza. Che fastidio!
“Questo lo so, ma voglio sapere nel
dettaglio: sei Mephistofele, il diavolo che tenta
l’anima di Faust? L’Arciduca infernale?” un po’ di cose le aveva scoperte
grazie a Greta, appassionata di occulto. Non avrebbe mai pensato che le
sarebbero tornate utili…
Mephisto si
rabbuiò e i suoi occhi brillarono nell’oscurità come quelli di un gatto. Faust
indietreggiò, spaventata da quel bagliore sinistro: sembrava quasi che volesse
mangiarla.
Ma il demone si ricompose subito,
resosi conto di averla spaventata troppo.
“Gradirei che non mi chiamassi in quel
modo: lo trovo troppo all’antica e anche troppo formale… Fra noi ci deve essere
un rapporto di amicizia e fiducia, no?” disse sorridendo amichevolmente.
“Perché un diavolo vorrebbe essere mio
amico?”
“Non conosci il detto: Tieniti stretto il Diavolo perché non ti
ricapiterà di riacciuffarlo? Lo stesso ti conviene fare con me. Non sono
certo al livello di mio Padre, questo purtroppo lo devo ammettere, ma sono
abbastanza annoiato per essermi stancato della compagnia di laggiù e ricerco
quella di voi umani. Approfittane!” ghignò perverso, avvicinandosi di un passo.
In breve, Mephisto
si ritrovò alla gola il pugnale da cerimonia incrostato di sangue e fu
costretto a ritornare al suo posto, vedendosi sfumate ogni possibilità di
attirarla a sé con il suo metodo. Gli occhi con cui la ragazza lo guardava lo
mettevano a leggero disagio: freddi, troppo
freddi per un comune umano. E crudeli.
“Non m’importa se sei un demone o il
Diavolo in persona, ma giuro che se provi a riavvicinarti, ti stacco la testa
con le mie mani!” sibilò Faust, in preda a una scarica di adrenalina.
Stranamente, le mani non le tremavano e si sentiva piuttosto sicura di sé.
“Sono immortale” puntualizzò Mephisto, scostandosi la lama dalla gola.
“Però ho tempo per fuggire” adesso era
lei a ghignare.
Il demone ne rimase compiaciuto.
“Va bene, resterò al mio posto. Ma
questo non mi impedisce di spiegarti la situazione in cui ci troviamo e…”
“Ci?
Cosa c’entri tu?”
“Oh, mia cara, io c’entro eccome in
tutta questa faccenda. Ma tu, tu sei la chiave di ciò, sei il centro della
vicenda! Sei l’Inizio e la Fine!”
“Non girarci troppo intorno e parla
chiaro, ho fretta”
“La tua amica si sarà ormai
spazientita e dubito che la ritroverai al vostro luogo d’appuntamento”
Faust non rispose, ma si limitò a
guardarlo a occhi sbarrati. Mephisto sorrise
soddisfatto: finalmente aveva colto la sua attenzione.
“Che vuoi dire?” chiese lentamente la
ragazza.
Il demone la vide impallidire di
fronte alla verità che l’attendeva e di questo ne sorrise.
“Questa è la notte di Halloween, una
notte che incita le tenebre dell’animo a insorgere e a ballare in una macabra
danza che si concluderà solo alle primi luci dell’alba. Ma stavolta, non è
sicuro che ci sia una nuova luce…”
Di fronte alla perplessità della
ragazza, Mephisto fece una mezza piroetta su se
stesso e indicò l’ambiente circostante.
“Osserva tu stessa!”
Così lei fece e inorridì. Le case, gli
alberi, i negozi apparivano come delle sagome di nero cartone che si ergevano
su un cielo rosso sangue; una mezza luna occupava quasi tutto il firmamento e,
osservandola con più attenzione, le pareva che avesse due occhi e un ghigno
folle, da cui grondava un denso liquido rosso. Nell’aria volavano piccoli
esserini neri con il loro fastidioso ronzio, che riconobbe come gli stessi di
quella stanza; le strade erano illuminate da radi lampioni piegati su loro
stessi, che lanciavano fugaci bagliori nella notte. Il tutto ricordava
vagamente un quadro di Much. Nei vicoli esseri
striscianti similia serpenti e gatti a
due code con gli occhi spiritati vagavano incuranti delle due presenze umane
nel parco. L’aria gelida portava ogni genere di rumore, da grugniti sommessi a
ringhi feroci.
Faust gridò con tutto il fiato che
aveva in gola, attirando l’attenzione di altri esseri informi che passavano di
lì; uno di loro, un grosso gargoyle dalla lingua
biforcuta, la osservò famelico.
La ragazza cominciò a tremare, senza
controllo, e tutte le si fece più confuso, come se il mondo le vorticasse
intorno. Una forte nausea la colpì e, dimenticandosi di Mephisto
che la osservava stupito e del gargoyle che le si
avvicinava, si lasciò cadere a terra, abbandonandosi a quella lenta agonia che
ci attanaglia.
No…
Di nuovo! Vedo quelle cose… Quei demoni… Perché io? Perché devo vedere queste
cose? Pensavo che tutto fosse finito dopo quel giorno…
Il gargoyle
si avvicinava pericolosamente. Successivamente si aggiunse un enorme verme
privo di occhi, ma con una bocca provvista di canini cesellati, che scendeva
dall’albero a cui era appoggiata e apriva vorace la bocca pronto per divorarla.
Mephisto, invece, stava al suo posto, spostando lo
sguardo impassibile dalla ragazza tremante ai due demone che attentavano alla
sua vita. Sembrava attendesse qualcosa.
Aiuto,
ho paura… Aiutatemi! Mamma, babbo, Greta… Non voglio morire! Non voglio, cazzo!
Greta… Greta è in pericolo a causa mia!
“Greta…” sussurrò con un filo di voce,
senza ricevere però risposta.
Il verme era ormai sopra di lei, aprì
le fauci e si preparò al pasto. Che però non poté mai assaporare.
Il demone venne tranciato di netto e
una parte del suo corpo volò lontano, mentre quella che doveva costituire la
testa cadde ai piedi della ragazza che, vedendola, lanciò un nuovo urlo. Poi
qualcuno la prese per le spalle e cominciò a scuoterla, ripetendo parole vuote
che non giungevano alle orecchie di Faust.
La paura le raggelava i sensi.
“Se ti spaventi per così poco, non oso
immaginare a quello che troverai dentro le case!” esclamò un voce con tono di
scherno.
D’improvviso, tutto si fece più chiaro
e limpido e la paura scivolò via dalle sue membra, così come era accaduto
dentro la casa: adesso uno strano senso di pace l’aveva avvolta. Alzando gli
occhi, incontròquelli verdi – o forse
erano gialli? – di Mephisto e per la prima volta si
accorse di quanto avessero da raccontare quelle iridi accese: sembravano
antiche, come di chi è intrappolato nel passato, ma vive costantemente nel
presente, cogliendo quell’attimo che la gente si lascia spesso sfuggire. Quegli
occhi, che esprimevano tanto scherno, le parvero i più belli e i più
interessanti che abbia mai visto; ma sapeva che non lo avrebbe mai ammesso,
almeno non in sua presenza.
Inoltre, era la seconda volta che il
tocco di quel demone la tranquillizzava. Sembrava in qualche modo influire sulla
sua anima…
“Mi hai salvato?” chiese Faust con un
filo di voce.
“Ovvio. Un gentiluomo non
permetterebbe mai che qualcuno faccia del male a una signorina!” detto ciò,
sorrise enigmatico e la prese in braccio, cullandola dolcemente.
Nonostante quel gestoimprovviso l’avesse messa in estremo
imbarazzo e avesse fatto salire la sua bile, si sentì in qualche modo protetta
e ritornò alla sua infanzia, quando sua madre… Ma sua madre l’aveva mai cullata
in questo modo? Che ricordava, no… Ma allora perché questo gesto le era così
familiare?
Intanto il demone, resosi conto di
averla calmata, gettò uno sguardo adirato al gargoyle
che intanto aveva fermato la sua avanzata, dopo aver visto la fine del suo compagno.
Infatti, in breve anche questo demone volò via, spaventato dall’individuo
vestito di bianco e con l’ombrello rosa macchiato di sangue nero.
Così Mephisto
iniziò il suo discorso, attuando tutte le sue tecniche migliore per sedurre un’anima.
Aveva compreso la situazione generale e sapeva quali parole usare: la ragazza
era spaventata, ma manteneva ugualmente una sua lucidità. Questo perché c’era
un pensiero constante nella sua mente.
“Tu potresti fermare tutto ciò, sai?
Hai un potere immenso, che perfino io ti invidio…” iniziò a lusingarla,
sussurrandole all’orecchio.
Faust sentì le palpebre abbassarsi e
cominciò a sentire l’effetto soporifero delle parole del demone. Si limitò
quindi a bofonchiare un debole: “Quale?”
Mephisto sorrise. Ci siamo!
“Hai ciò che noi demoni chiamiamo
comunemente tocco di Satana – sai chi
è Satana, vero? – e che viene passato dal Sovrano delle Tenebre solo alla sua
discendenza. Tranquilla, non sei un demone o niente di che, ma devi aver avuto
un contatto ravvicinato con lui per possedere le fiamme blu…”
Fiamme
blu? Come quelle del sogno…
Il ricordo delle fiamme che bruciavano
ogni cosa – la città, le persone – le riaffiorò e la scosse un fremito di
paura; poi, l’immagine di quelle stesse fiamme che ardevano sui corpi impuri di
quei ragazzi, la calmò di nuovo. Forse non erano del tutto malvagie se le
avevano salvato la vita…
“Non rammenti nulla? Magari hai
assistito a qualche evento di autocombustione umana o animale dove c’erano queste
fiamme dal colore inusuale?”
Faust ci pensò, per quanto poteva
farlo nello stato di intorpidimento in cui si trovava. Qualcosa era successo,
che aveva a che fare con le fiamme: non era la prima volta che le vedeva. Ma il
ricordo era troppo doloroso per risalire in superficie. Si limitò solo ad
annuire, sentendo la lingua impastata.
“E sei stata per caso attaccata da
queste fiamme?”
Faust annuì di nuovo, reprimendo un
brivido.
Mephisto ghignò
maligno, ripensando a una scena a cui aveva assistito.
“Ma non ti hanno bruciato, altrimenti
non saresti qui a parlare con me. Bene, mia cara, la situazione è questa: hai
assorbito il potere demoniaco di Satana e adesso si trova celato nel tuo animo,
pronto a divampare a un tuo ordine! Come vedi, si è già manifestato”
“Ma le fiamme… Uccidono…” biascicò la
ragazza, sentendo un calore che ricopriva il suo corpo. Che fosse il fuoco
demoniaco?
“Non se le sai controllare bene, e io
posso insegnarti! Sai, in questa notte si concentrano un sacco di demoni in un’unica
città e fanno cadere gli umani in un sonno assai profonda, dal quale rischiano
di non risvegliarsi mai più. Intanto, loro approfittano di questa occasione per
divorare delle anime e per potenziarsi. A questo punto, entro in gioco io: ho
il compito di eliminare questa massa anonima di demoni entro l’alba e di
salvare centinaia di vite umane, ma da solo è chiaramente un’impresa
impossibile! Per questo, quando ti ho scovato, ho pensato di sfruttare il tuo
potere… Che ne dici di unirci in una breve alleanza?”
“Ma se questo è tutto un sogno… Prima
o poi si risveglieranno! Dopotutto, non c’è incubo dal quale non ci si possa
risvegliare”
“Ma da questo si rischia di dormire
per l’eternità”
“E perché io sono sveglia?! O forse
sto dormendo anch’io…”
“No, mia cara, tu sei sveglia. Devi
sapere che me la cavo abbastanza bene con la magia: non è stato difficile
isolarti dal resto del mondo…”
“Per questo mi seguivi” concluse Faust,
cominciando a vedere chiaro in questa assurda faccenda.
“Io ho bisogno di me come tu necessiti
della mia presenza! Senza il mio aiuto, non puoi controllare né risvegliare i
tuoi poteri demoniaci…”
“Ma non voglio risvegliarli! Io sono
un’umana!” dichiarò disperata Faust, ricordandosi amaramente di aver dubitato
più volte della sua natura in passato. Ma adesso non era più una bambina.
“Quando si ha a che fare con i demoni,
non si è mai del tutto umani, ricordatelo! Soprattutto con Satana. Lasciati
andare a me e io ti donerò tutta la forza che vuoi”
“No!” urlò la ragazza, sciogliendosi
da quello strano abbraccio e allontanandosi da lui con uno scatto.
Mephisto si doveva
essere aspettato quella mossa, perché riapparve subito al suo fianco, ghignando
maligno. Faust non riuscì più a muoversi e se ne stesse lì, mentre il demone le
prendeva fra le mani il volto e la fissava dritta negli occhi, come per
leggerle nell’anima.
“Tu in realtà vuoi questo potere, non
è vero? Magari per diventare più forte, o forse per proteggere qualcuno…”
Faust cercò di abbassare lo sguardo,
ma Mephisto glielo impedì dandole uno scossone: era
impossibile sottrarsi a quegli occhi indagatori.
“… Una persona a te cara, forse?
Avanti, non dirmi che non hai nessuno da proteggere!”
Il tono canzonatorio la fece
imbestialire ancora di più, ma dovetteammettere che aveva ragione.
Greta, l’unica persona per cui avrebbe
dato la vita, era in pericolo per causa sua: forse, se fosse arrivata in tempo
da lei, tutto ciò si sarebbe potuto evitare. Il pensiero della sua amica la
fece per un attimo rilassare, donandole un nuovo senso di pace e tranquillità.
Il demone se ne accorse, perché si allontanò dal suo volto e le tese una mano
inguantata di viola con fare di uomo d’affari.
“Allora?” le chiese, allargando il suo
sorriso sornione.
Faust guardò la mano e poi guardò lui.
Infine getto un’occhiata veloce ai demoni che passavano sulla strada, alle case
di cartone e alla luna ghignante.
Pensò a Greta e ogni preoccupazione
svanì.
Greta era la sua migliore amica, l’unica
persona per cui avrebbe dato la sua stessa anima al Diavolo. Perfino a Mephisto.
Per questo, quando pronunciò le parole
fatali, lo fece con un sorriso sereno sulle labbra, con l’immagine fissa dell’altra
ragazza nella sua mente: finché era per lei, avrebbe sterminato quei demoni
fino all’esalazione dell’ultimo respiro, solo per sapere infine che almeno
Greta stava bene. Solo per questo.
Della sua vita, della sua anima le
importava il giusto. Le aveva donate solo a Greta.
Per lei, poteva morire felice.
“D’accordo, Mephisto,
facciamo una scommessa?” disse, tendendogli la mano.
Il demone sorrise felice: ci era
riuscito, di nuovo.
“Adoro le scommesse! Prestami il tuo
corpo e io ti donerò il mio potere, solo per una notte: in cambio, tu riavrai
la tua amica e la città, mentre io avrò eseguito il mio lavoro e mi prenderò
come ricompensa la tua anima!”
“Accetto!” disse ingenuamente Faust,
senza pensare alle dovute conseguenze.
Dopotutto, lo faceva per un’amica, no?
E così i due contraenti si strinsero
la mano e il patto venne stipulato. Una luce accecante investì Faust, che ebbe
solo il tempo per un ultimo pensiero.
La
sua mano… Brucia come le fiamme dell’Inferno. Strano, pensavo che al Nono
Girone facesse freddo…
SPAZIO DELL’AUTRICE:
sono in ritardo, lo so, ma pubblico finché me lo permette la scuola
^^”. E poi, devo ammetterlo, questo capitolo ha richiesto una lunga e ponderata
meditazione… Ma alla fine ce l’ho fatta!
Mephisto mostra i suoi veri
obbiettivi, il passato di Faust comincia a essere svelato: insomma, ho grandi
progetti per questa storia! Inoltre, il rapporto tra Faust e Greta gioca un
ruolo fondamentale qui, perché Greta ha costituito una figura di grande
importanza nell’infanzia della protagonista. E Mephisto
ne sa qualcosa.
Tocco di Satana… E’ una brutta
scopiazzatura delle fiamme di Rin, lo so, ma non
avevo idee migliori… Bene, detto questo, ringrazio coloro che ancora mi seguono
e ci vediamo al prossimo capitolo!
Dopo quella luce accecante, ogni cosa
era stata avvolta dall’oscurità: di nuovo.
Solo una macchia di colori e luce era
visibile in lontananza, quasi irraggiungibile per chi avesse perso le speranze
di ritrovare un’uscita da quell’oscuro corridoio. E lei ancora non aveva perso.
Si diresse, nuotando nelle tenebre, fino a quel punto di luce e vide se stessa.
Era un’immagine talmente irreale che non poteva essere frutto di un suo ricordo,
poiché da quando aveva memoria non ricordava di aver dormito così beatamente
riscaldata dai raggi del sole: vedeva che il suo falso riflesso si trovava in
un bosco, almeno così sembrava all’apparenza, appoggiata a un albero, con le
mani giunte sul petto, come in atto di preghiera. Per chi pregava? Per un Dio
che l’aveva fatta cadere in quella orribile situazione?
Eppure, su quel volto non c’erano
tracce di preoccupazione, di ansia o di tristezza: sembrava serena, in pace con
il mondo e con se stessa. Anche lei avrebbe voluto essere così: la invidiava
per questo.
Sorrise dentro di sé, perché trovava
buffo invidiare il proprio io. Ma avrebbe dato veramente qualsiasi cosa per
fare cambio con il riflesso. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per sentire quel
tiepido calore benefico.
Eppure, perfino lei adesso sentiva
ardere dentro di sé un fuoco, ma non era come quello del sole: sembrava più
violento, come se avesse voluto prendere possesso di tutto il suo corpo. Ma lei
non volle reprimerlo, perché sentiva che era da tempo che divampava dentro di
lei, ma non aveva mai potuto ribellarsi completamente. Ma adesso era il momento
di risvegliarsi.
Decise così di lasciare a malincuore
quella macchia di luce e quell’immagine così falsa che la rifletteva in un
passato lontano, o forse in un futuro prossimo. Si immerse ancora di più
nell’oscurità, lasciando che quel fuoco misterioso cominciasse ad ardere e
ricoprire quel corpo freddo, così diverso da quello della sua se stessa nel
bosco. Vide delle tenui fiamme blu che fuoriuscivano con timidezza dal suo
corpo, per poi divampare con forza intorno a lei. Lentamente, si ritrovò
circondata da fuochi fatui blu.
Ma non era preoccupata, o spaventata,
perché sapeva che quelle fiamme non le avrebbero mai fatto del male: dopotutto,
erano una parte di lei. Anzi, si lasciò andare a questo calore che non
bruciava, ma appariva piacevole e quasi soporifero. Una parte di sé, quella più
razionale, avrebbe voluto ribellarsi al giogo demoniaco; ma quell’altra, quella
appunto che deriva dalla sua vera natura che non era mai perita, la intimava a
rilassarsi e a seguire l’esempio del suo riflesso. E così lei fece.
Pensò solo, con tristezza, che non
avrebbe mai raggiunto la pace della sua se stessa dell’immagine, poiché si era
addossata un fardello forse troppo pesante per lei; ma finché quelle fiamme non
l’avessero abbandonata, era sicura che ce l’avrebbe fatta.
Che fosse speranza, o che fosse
disperazione quella che la guidava, non ne era sicura nemmeno lei: ma sapeva
più di chiunque altro che non sarebbe comunque rimasta da sola. Fino all’ultimo
alito di vita, avrebbe combattuto per riportare le cose alla normalità, avrebbe
combattuto per lei.
E chissà, forse riuscirà a raggiungere
quel frammento di anima nel bosco, al momento profondamente addormentato per
lasciare spazio al demone che c’era sempre stato in lei. Era sicura che la sua
anima l’avrebbe attesa fino alla fine, con pazienza.
Era sicura che un giorno l’avrebbe
ritrovata lì e che finalmente si sarebbero potute addormentare insieme. Con la
pace agognata nel cuore.
Non appena riaprì gli occhi, Faust si
ritrovò in mezzo alla strada, di fronte a un incrocio: la destra portava in
piazza, con la forma storta del campanile che si piegava su se stesso; la
sinistra invece conduceva verso un viale circondato da case che un tempo
appartenevano alle persone ricche, mentre adesso erano solo il triste residuo
di una città di cartone dove la mano capricciosa di un Dio infantile era
passata su di essa, distruggendola.
E non era da sola. Demoni di qualunque
forma, di qualsiasi incrocio la osservavano digrignando le zanne, con occhi
spiritati e l’istinto animalesco nello sguardo. Ma alcuni di loro apparivano
anche titubanti ad attaccarla, quasi fossero spaventati. Non capendone il
motivo, Faust si guardò le mani, ora inguantate di un lilla acceso, e fece un
passo indietro, sorpresa: non ricordava di essersi cambiata d’abito.
Cercò una superficie riflettente, per
vedere cosa diavolo era successo dopo quella luce accecante. Inoltre, Mephisto era sparito, lasciandola sola in balia dei demoni.
Trovò una finestra rotta di una casa e
vide finalmente il proprio riflesso. Ciò che le si dipinse sul volto, era una
smorfia di disgusto e di disappunto: odiava il rosa. La sua giacca di pelle
nera era sparita, così come i suoi jeans e la sua amata sciarpa viola; al loro
posto, uno stile a dir poco “medievale” la rifletteva sulla superficie liscia e
rotta della finestra: stivali bianchi che non arrivavano nemmeno al ginocchio,
accompagnati da calze azzurre a pois bianchi – calze a pois?! – che, nonostante il gelo della notte, la riscaldavano
abbastanza; pantaloncini corti, bombati e di un fucsia molto acceso, così come
il sopra; una cintura di cuoio, alla quale era legato un piccolo sacchetto di
stoffa, le circondava la vita divenuta incredibilmente sottile; una giaccia del
medesimo colore dei pantaloncini la stringeva ai fianchi, con ricamate ai lati
sottili strisce dorate che formavano piccoli ovali; dietro, un lungo mantello
bianco, con l’interno viola scuro, legato al collo e con i risvolti alzati in
aria, la ricopriva completamente; infine, un singolare cappellino bianco che le
circondava a mala pena la testa era ornato da due lunghe piume rosa piegate
indietro, in modo da non ostruirle la visuale. Il tutto, però, dovette
ammettere che era ben coordinato, soprattutto per le tonalità di colori, e
forse si trattava anche di un abito abbastanza elegante per la moda di altri
tempi.
Ma la sua reazione non cambiò
ugualmente. Era indecisa se vomitare o infamare colui che le aveva rovinato la
propria immagine solo per il gusto di fare.
“Mephisto,
dannato demonio! Dove sei?” urlò in preda alla rabbia e al disgusto.
Notò che la sua voce si era fatta più
acuta e, ispezionando la bocca con la lingua, si accorse che aveva dei canini
più appuntiti rispetto alla norma: delle zanne, poté appurare in seguito.
Una voce maliziosa e piuttosto
divertita le rimbombò in testa.
“Qui, mia cara. Proprio dentro di te!
Come dite, voi umani? Più vicino di così si muore!” disse prorompendo in una
nuova risata.
Faust si tappò le orecchie, gettando
sguardi persi intorno a lei: dov’era quel demonio?
“Maledetto, cosa hai fatto al mio
corpo? Questa non sono io!”
“Infatti, questa forma è frutto della
nostra unione, anche se non è il termine adatto per indicarla: possessione,
direi. Ho preso in prestito il tuo corpo e questo è ciò che ne è uscito: non è
fantastico?” esultò il demone, piuttosto euforico.
Faust avrebbe voluto staccargli la
testa a morsi, adesso che possedeva perfino delle zanne; ma nella situazione in
cui si trovava, la scelta giusta da fare era quella di stare al suo gioco: se
questo pagliaccio aveva il potere di aiutarla, si sarebbe piegata a qualsiasi
decisione. Ma c’era una cosa che non poteva accettare.
“Allora spiegami perché sono vestita
di rosa!” urlò al vento, sentendo una
furia cieca risalire in superficie. Insieme però a qualcos’altro.
“Questione personale di gusti. Devi
sapere che, quando incontrai per la prima volta il Dottor Faust, ero vestito
esattamente così: adoro questi abiti, ma non ho più avuto occasione di
indossarli… Inoltre, mi sento stranamente a mio agio in questo corpo e, come
forma di ringraziamento, ho voluto donarti questa forma decisamente più
attraente e potente…” disse, continuando a elencare altri motivi che l’avevano
spinto a prendere questa decisione.
Ma Faust non ci vide più. Così,
abbandonandosi a quella rabbia, mista al disappunto e a una buona dose di
vergogna, liberò tutti i suoi poteri demoniaci da tempo assopiti, prorompendo
in un grido quasi animalesco. Fiamme blu circondarono il suo corpo e vennero
aizzate contro quegli sfortunati demoni che si erano ritrovati a passare di lì,
attratti da tale confusione: ogni cosa venne bruciata, come voleva la natura
distruttiva del fuoco demoniaco.
Faust, vedendo ciò che aveva fatto,
tentò di imporsi la calma, senza però riuscirci: le fiamme continuavano a
prorompere dal suo corpo, con la stessa violenza di un vulcano in eruzione.
Pensò a Greta, ma la situazione non mutò; Mephisto,
resosi conto della difficoltà della ragazza, trattenne una risata e pronunciò
una formula in una lingua sconosciuta. A quelle parole arcane, le fiamme blu si
acquietarono, riducendosi a lievi scintille sulla testa della ragazza, simili a
corna. Intanto, Faust si accorse con orrore che una cosa nera spuntava da
dietro il mantello, muovendosi sinuosa e con una scintilla blu posta sulla
punta.
“Cos’è questa cosa?!” urlò rivolta a
se stessa, o più precisamente a Mephisto, prendendosi
la coda.
“La tua coda” rispose semplicemente il
demone.
“Questo lo vedo anche da me, ma perché
ho una coda?”
“Perché adesso sei un demone, proprio
come me! E se vuoi un consiglio disinteressato, faresti meglio a nasconderla: è
un punto debole per noi”
“Ma io sono umana…” gemette Faust,
prendendosi il viso fra le mani.
“Ogni essere umano ha una parte
demoniaca dentro di sé, che cela i suoi desideri più oscuri. Anche le persone
di questa città la possiedono, e imparerai presto a conoscerla” disse, bisbigliando
queste ultime parole.
Nonostante lo sconvolgimento, Faust
tirò un sospiro di sollievo nel sentire che non aveva ereditato nessun pizzetto
con la possessione: almeno per quello, manteneva la sua femminilità. Però,
osservandosi meglio al vetro, si accorse dei suoi occhi: non erano mutati in
sé, ma riconobbe una piccola punta di scarlatto, proprio al centro della
pupilla, che riluceva sinistra. Per il resto, ad eccezione delle orecchie a
punta, dei canini e della coda, non era cambiata più di tanto.
“Alla fin fine, non importa quale
aspetto assuma se la mia anima resta inalterata”
“Se riesci a mantenere vivo questo
pensiero, non perderai mai te stessa…” sentì sospirare Mephisto.
Faust sorrise e distolse lo sguardo
dal suo nuovo aspetto, decisa a ignorarlo per un po’. Si concentrò invece sul
bivio che aveva di fronte, sinceramente indecisa su quale strada scegliere; per
un attimo, si sentì come il povero Don Abbondio, posto anche lui dinanzi a un
bivio simbolico dove solo una delle due strade poteva concedergli la salvezza,
mentre quell’altra l’avrebbe portato inevitabilmente fra le braccia del Male.
Ma per lei stavolta non c’era scelta: entrambe l’avrebbero comunque portata in
grembo agli incubi.
“Allora, quale strada sceglierai?” la
destò Mephisto, avendo intuito i suoi pensieri.
Faust preferì evitare la piazza dove
di sicuro c’era un accumulo maggiore di demoni; inoltre il profilo ora sinistro
del campanile della chiesa le mise i brividi. Optò quindi per la strada che
conduceva alle residenze, incuriosita da quello che avrebbe potuto trovare
nelle case di cartone e decisa a fare un po’ di pratica con i suoi nuovi
poteri.
Camminando nella via silenziosa,
illuminata debolmente da qualche lampione storto, poté osservare meglio i
cambiamenti avvenuti nel giro di poche ore: un paesaggio da incubo le si apriva
davanti agli occhi, dove la vivacità e i colori che predominavano in precedenza
sui muri delle case, adesso erano solo spettri di un lontano splendore. Gli
orrori dell’animo umano si mostravano in tutta la loro violenta e cruda realtà.
Fra i giardini, un tempo di un verde
lussureggiante, strisciavano enormi vermi simili a quello che aveva tentato di
divorarla, mentre sui tetti spigolosi erano appollaiati gargoyle,
inquietanti cherubini dalle ali nere e gli occhi insanguinati, arpie invasate e
con le zanne ben in vista, pronte a gettarsi sulla loro prossima preda. Faust
li guardò uno ad uno, imponendosi un freddo autocontrollo e chiedendosi
cos’altro avrebbe potuto trovare in quella notte.
Poi si fermò d’improvviso di fronte a
una casa che non si distingueva in nulla dalle altre, ma che ai suoi occhi
aveva un aspetto ben diverso. Prima di questa notte, lei e Greta la chiamavano
la casa rosa e il nome scelto non era
certo casuale: la vernice rosa ricopriva quell’abitazione, rendendola
riconoscibile da lontano perfino di notte; il cancello era bianco, così come i
tavoli e le sedie esposte fuori, abbellite da qualche enorme fiocco di raso
bianco e rosa confetto legato qua e là, a rendere quella visione ancora più
dolce; Biancaneve e i sette nani si ergevano sul terreno, come antiche
sentinelle di quella casa; un cartellino appeso al cancello riportava questa
amichevole scritta: Ti auguro tutto ciò
che pensi di me. L’interno, inoltre, non si distingueva dall’esterno:
pareti fucsia, con affissi dei piattini bianchi con disegnati sopra gatti e
cani; peluche posti ordinatamente sulle mensole; mobilia di tutte le tonalità
di quel fausto colore…
Un enorme confetto, ecco cos’era. Se
non ricordava male, ci abitava una vecchia conoscente di suo padre, anch’essa
altrettanto singolare come la sua abitazione, ma di cuore gentile e mente
acuta.
“Entriamo” disse Faust, dirigendosi
verso il cancellino ora nero, arrugginito e piegato all’interno.
“Perché proprio qui?” domandò
incuriosito Mephisto.
“Perché questa casa, nella realtà,
rispecchierebbe i tuoi gusti”
Ignorando le bestie che la fissavano
malamente, Faust mise la mano sul pomello della porta squadrata e il dubbio di
trovarla chiusa la assalì. Quando però la serratura scattò e la porta si aprì
con un lento cigolio, un sentimento di sollievo misto a terrore la fece
fremere. Ma l’eco della risata di Mephisto, la
riportò violentemente alla calma: non voleva mostrarsi debole di fronte a quel
demone.
La porta si apriva sul vuoto, dove
l’oscurità aveva inghiottito ogni cosa: nero totale in quella casa dai gioiosi
colori. Ora come non mai avrebbe desiderato vedere quel rosa acceso.
Chissà
cosa troverò dentro…
“Prepara la tua mente, perché ciò che
vedrai sono le immagini partorite dalla mente umana, i desideri più nascosti
dall’animo, le brame oppresse dal proprio cuore: non lasciarti tentare da
nessuna di queste!” la raccomandò Mephisto.
Faust strinse gli occhi per riuscire a
scorgere qualcosa in quel buio perenne, ma null’altro che oscurità le si parava
dinanzi: perfino il suo futuro, da lì in poi, era incerto e oscuro come questo
corridoio.
Liberando così la mente da ogni futile
pensiero, di modo che qualunque cosa trovasse non potesse farle perdere la
ragione, sospirò rassegnata e si gettò nelle tenebre, abbracciandole come se
fossero vecchie amiche. Non si sarebbe mai immaginata che fossero così
inconsistenti e fredde…
La porta dietro di lei si richiuse
seccamente, privandola di ogni debole luce in quel mare nero. Continuò solo a
cadere, sperando solo che finisse quella lenta e lunga agonia che ritrovava
perfino nei suoi incubi.
Sperò solo che tutto ciò finisse il
prima possibile.
SPAZIO DELL’AUTRICE:
buonasera! – Perché come al solito i capitoli li pubblico di notte…
La storia sta andando per le lunghe, me ne accorgo perfino io: un
po’ perché è difficile amministrare il tempo e i capitoli, un po’ perché mi
servono fonti per i prossimi demoni che Faust dovrà sterminare. Anche se un’idea
cominciò già ad averla….
Capitolo abbastanza noiosetto e forse inutile, ma ci tenevo a farlo
soprattutto per parlare della possessione: quando ho visto per la prima volta
gli abiti di Mephisto quando incontra Faust, la mia
prima reazione è stata lo shock per quelle calze, poi ho pensato: “Quell’abito
lo devo mettere addosso a un mio personaggio!”. Ed ecco come è partorita l’idea
della possessione. Detto questo, vi saluto!
“Ma
io non voglio andare fra i matti”, osservò Alice.
“Be’,
non hai altra scelta”, disse il Gatto
“Qui
siamo tutti matti. Io sono matto. Tu sei matta”.
“Come
lo sai che sono matta?” disse Alice.
“Per
forza,” disse il Gatto: “altrimenti non saresti venuta qui”
[Alice
nel Paese delle Meraviglie, Lewis Carroll]
Non seppe dire con precisione per
quanto tempo stesse cadendo, ma nell’attimo in cui toccò terra le parve che
fosse passata un’eternità. Si sentiva come una piccola Alice, indifesa e
innocente, caduta nella tana del Coniglio e catapultata nel Paese delle
Meraviglie: solo che lei non aveva niente dell’Alice di Lewis Carroll, né la
sua innocenza né la sua ingenuità.
Mentre tornava con la mente alle
letture della sua infanzia, una luce improvvisa la investì, accecandola, e
l’oscurità di quel luogo venne dissipata. Quando riaprì lentamente gli occhi,
Faust vide finalmente ciò che per ogni demone diviene infine cibo: i desideri e
le tenebre dell’animo umano. E quelle della donna che abitava la casa rosa
erano particolarmente inusuali, al punto da farle credere di essere finita
veramente nel Paese delle Meraviglie.
Gli edifici, che si perdevano in un
soffitto infinito, erano costituiti non da grigi mattoni, bensì da ciambelle glassate
di rosa, arancio, azzurro e con caramelle dei colori dell’arcobaleno sparse
sopra, poste una sopra l’altra a creare una pericolosa e pendente torre di
Pisa; torte di oltre venti piani con la crema che fuoriusciva dalle fessure di
pandispagna, come un vulcano in eruzione, si piegavano in avanti, facendo
colare la cera delle candele rosa, mentre altre si appoggiavano alle loro
vicine, sorreggendosi a vicenda. Da un punto imprecisato del soffitto piovevano
altre caramelle, insieme a coriandoli colorati che si ammucchiavano in un unico
punto della strana città; il viale che le si apriva dinanzi era costeggiato da
numerosa porte viola, ognuna riportante un numero romano, e le mattonelle a
scacchi, di cui il viale era formato, si illuminavano a scatti, cambiando
tonalità di colore. Altre montagne di numerosi oggetti – fra cui aghi e
bottoni, peluche sorridenti, bambole vestite a festa, perle e pietre preziose –
erano poste senza un ordine preciso, nascoste dalla poca oscurità rimasta come
oggetti dimenticati; nell’aria volavano animali simili a farfalle, ma dai
colori spenti e privi di un’ala. Luci rosa e di altre tonalità del medesimo
colore illuminavano quell’ambiente strano, che rimandava forse al carattere e
ai gusti dolci e femminili della donna. Tutto ciò era forse una prigione
d’avorio della sua anima, intrappolata perennemente nei ricordi d’infanzia?
Così forse si spiegavano tutti quegli oggetti…
D’improvviso, tutte le porte sul viale
si aprirono di scatto e di lì uscirono degli enormi orsi di pezza, con toppe
grigie che bloccavano le fuoriuscite di gommapiuma e ognuno privo di un arto.
Così questi inquietanti esseri zoppicavano allegramente per il viale, per poi
dirigersi tutti insieme verso quella pioggia di confetti e coriandoli; quelli
che potevano alzare le braccia – o il braccio – tentavano di afferrare quelle
delizie, mentre gli altri spalancavano la loro bocca perennemente aperta e
ingoiavano ciò che capitava loro di prendere.
Faust, incuriosita da quello
spettacolo, si avvicinò senza fare troppo rumore al branco, sbirciando di tanto
in tanto le porta viola che si erano da subito richiuse, sperando che si
riaprissero di nuovo per poterci entrare.
Questo
luogo è così strano… Dopotutto, rispecchia la personalità della persona che ci
abita.
“Sarebbe questo un incubo? Ah, spero
che d’ora in avanti siano tutti così!”
“Invece di ridere, guarda cosa sta
accadendo a quei giocattoli…” le consigliò cupo Mephisto.
Richiamata all’attenzione, Faust volse
gli occhi al branco di peluche e sentì un grido morirle in gola: i corpi senza
vita degli orsi giacevano in una pozza di sangue cremisi sul viale, mentre quei
pochi che erano ancora in piedi, non appena ingoiavano quelle caramelle,
cadevano anch’essi con un secco tonfo. Tutti vomitavano sangue dalla loro bocca,
mantenendo però quel sorriso immutabile sul volto di pezza. Altri ancora,
invece, cominciavano a prendere lentamente fuoco al tocco dei coriandoli,
facendo salire alle narici della ragazza un nauseante odore di carne bruciata.
Carne?
Com’è possibile…?! Sono di pezza, non sono umani!
Faust si portò le mani alla bocca per
trattenere un conato di vomito, intimandosi nuovamente la calma che però non
arrivava.
“Non stare lì impalata, vai a vedere
cos’è quella pioggia assassina!” le ordinò Mephisto, riscuotendola
dalla sua trance.
Facendosi largo fra i cadaveri degli
orsi, Faust tese una mano per toccare la pioggia e la ritrasse subito,
trattenendo un gemito di dolore; si guardò la mano ferita e si rese finalmente
conto della pericolosità di quel luogo: non erano caramelle né coriandoli, ma
puntine colorate e scintille di fuoco pronte a esplodere al minimo contatto.
Sentendo la paura salire, indietreggiò
e inciampò su uno dei cadaveri, bagnandosi di quel liquido tanto caro agli
umani e assai gradito dai demoni. Lanciò un urlo, che si espanse per i palazzi
di quella città, e tentò di fuggire via, mantenendo l’equilibrio sulle sue
gambe malferme.
Lo stava facendo di nuovo: fuggiva di
fronte alle sua paure, lasciando le cose come erano. Per punire se stessa, per
punire gli altri.
“Aaaah, scappate! Sta arrivando il mostro!” urlò un bambino.
“Arriva
la bambina che vede i fantasmi! Stalle lontano, altrimenti ti attaccherà una
maledizione…” incalzò un altro bambino.
Ogni
giorno l’arrivo della povera bambina era accompagnato da queste crudeli grida
di finto terrore, che intimavano gli altri a farle ala mentre passava. Anche se
voleva piangere e sfogarsi, battere pugni e calci a terra, la bambina
tratteneva questi sciocchi impulsi che erano naturali per un bambino della sua
età. Lei era forte e, anche se stava male, non doveva mai mostrarsi debole di
fronte agli altri.
Un
giorno, un bambino temerario le lanciò un piccolo sasso e questo scatenò una
guerra a chi lanciasse il sasso più grosso al mostro: la colpivano in viso,
alla stomaco, sul collo, sulle braccia… Per questo tornava a casa sempre piena
di lividi viola. Ma anche se sentiva un forte dolore e una cieca rabbia, la
bambina non diceva mai nulla, né si difendeva.
I
demoni, però, sentivano i suoi sentimenti avversi e, attratti da questa forte
aura negativa, attaccavano sia lei che gli altri bambini. Questi fuggivano
urlando e piangendo, mentre la bambina osservava il vero spettacolo senza fare
nulla per impedire ciò: loro le avevano fatto del male, quindi dovevano pagare.
Ma
ogni volta che succedeva una cosa del genere, non riusciva a guardare la scena
fino in fondo e fuggiva anche lei, non perché era inseguita da un demone, ma
per non farsi vedere piangere da nessuno. Non appena sentiva le lacrime che le
annebbiavano la vista, si rifugiava nel suo amato bosco e di lì non usciva fino
al crepuscolo.
Nessuno
sapeva cosa faceva veramente, ma di una cosa erano tutti certi: lì da sola non
poteva fare niente, se non piangere.
Nessuno
però sapeva un’altra cosa di quel bosco: che ogni volta che ci entrava, almeno
lì, non era mai veramente da sola.
“Perché fuggi?” le domandò tranquillo Mephisto, nonostante la situazione stesse precipitando.
Faust non rispose, ma continuò a
correre per il viale a scacchi, che avevano smesso di cambiare colore e si
erano fermati sul nero e sul bianco. Il mantello che svolazzava le era di
impaccio e avrebbe voluto toglierselo, se un ringhio sommesso di Mephisto non l’avesse desistita dal suo proposito. Ritenne
che la scelta migliore era quella di aprire una delle porte viola; ma non
appena posò una mano su un pomello, tutte le porte cominciarono a muoversi
vorticosamente, scambiandosi fra loro e circondando la ragazza spaventata.
Infine, tutte si unirono in un’unica enorme porta, alta quanto i palazzi di
torte, e si piantò di fronte a Faust, impedendole la fuga.
La ragazza sentì le gambe cedere e
cadde in ginocchio, più terrorizzata che rassegnata, di fronte a quel colosso,
mentre la città intorno a lei stava lentamente cadendo in rovina: i palazzi e
le montagne di giocattoli crollavano come tasselli di un domino; le bambole
riccamente vestite voltarono di scatto la loro testa verso Faust, guardandola
con occhi vitrei, e spalancarono le loro bocche, facendo uscire un suono
stridulo simile a una risata e mostrando dei denti aguzzi e biancheggianti; le
farfalle spente iniziarono a volare sempre più vorticosamente, ricoprendo il
corpo di Faust. Queste graffiavano con le loro ali la pelle della ragazza e
spargevano una polverina che corrodeva la pelle.
Faust tentava di coprirsi con il
mantello, senza però riuscire a trovarlo, e intanto subiva quel doloroso
bruciore e quelle risate isteriche che le perforavano i timpani. Non urlava
più, né osava piangere, ma sussurrava in preda ai singhiozzi parole sconnesse,
nel disperato tentativo di uscire da quell’incubo che la stava uccidendo.
Mephisto sapeva
che se non avrebbe aiutato la ragazza, questa o sarebbe impazzita, o l’avrebbero
divorata i demoni. E ciò, per lui, era un’enorme fonte di problemi e di
complicazioni che avrebbe preferito evitare. Sebbene quella ragazza fosse
forte, la sua mente era troppo fragile e forse non pronta a sopportare le
oppressioni dell’animo altrui; forse era stato troppo precipitoso a concederle
tutto quel potere.
Ma oramai era troppo tardi per i
rimpianti.
“Ascolta, Faust, tu vuoi morire?”
domandò gentilmente Mephisto, scandendo bene ogni
parola, di modo che raggiungessero la sua mente sul punto di crollare.
Faust non rispose, ma annuì scuotendo
più volte la testa, un po’ per liberarsi di quelle farfalle, un po’ per
rispondere alla domanda.
“Vuoi salvare Greta, la tua migliore
amica?”
Stessa reazione di prima, stavolta più
convinta.
“Allora, se qualcuno ti offre dei
poteri non alla portata di un comune umano, sfruttali! Possiedi il tocco di
Satana, usalo! Ospiti nel tuo corpo un demone come me, e questo stesso demone
si mette al tuo completo servizio! Cosa aspetti? Scatena il tuo vero
potenziale!” gridò Mephisto, fra un misto di
incitazione e curiosità.
Appena queste parole raggiunsero il
subconscio della ragazza, una fiammata blu ricoprì il suo corpo e si espanse in
tutta la città, incenerendo le farfalle velenose e bruciando ogni cosa che
prima era parsa tanto piacevole al suo occhio. Perfino le bambole indemoniate
vennero investite da quel fuoco, sciogliendosi poi in fiumi di cera grigiastra.
Un odore di carne bruciata giunse alle narici della ragazza.
Ma stavolta le fiamme non si
acquietarono. Faust le lasciò andare, sentendosi per la prima volta libera e
potente. Potente, lei, da sempre una debole che fuggiva dalle sue paure: finalmente
le era permesso affrontarle.
Lasciò quindi che le fiamme di Satana
le ricoprissero il corpo, come un’armatura, e che il sangue demoniaco le
scorresse libero nelle vene, per raggiungere finalmente la consapevolezza della
debolezza dell’animo umano: ognuno avevo una parte demoniaca dentro di sé,
pronta a risvegliarsi alla prima occasione.
Mephisto, a questa
esplosione di energia, parve eccitato come lo può essere un bambino dopo aver
scoperto qualcosa di strano, e, dentro di sé, confermò i suoi sospetti: per
accendere la miccia, bastava solo incitarla. E nominare Greta. Non pensava che
questo nome gli sarebbe tornato poi utile, un giorno…
“Mephisto!”
lo chiamò Faust.
“Dimmi, mia cara fraulein?”
“I tuoi poteri… Mi permetteresti di
usarli? Hai detto di essere al mio completo servizio, no? Bene, adesso puoi
dimostrarmi la veridicità dietro queste parole!”
Mephisto rimase in
silenzio, soppesando la situazione: certo, aveva numerosi assi nella manica, ma
non voleva sfruttarli tutti con questa ragazza. Optò quindi per la decisione
più saggia e giusta, almeno a suo parere: prestarle una minima parte dei suoi
poteri, che lei avrebbe potuto giostrare a suo piacimento.
“Molto bene, Faust. Ritieniti
fortunata, non a tutti prometto un simile privilegio”
Detto ciò, ai piedi di Faust comparve
un pentagono che lanciava bagliori rosa e dal quale usciva, seppur lentamente,
il manico di quello che sembrava uno scettro. Faust, rimasta un poco interdetta
da questa apparizione, si riprese dallo stupore e afferrò con entrambe le mani
lo strano oggetto, tirandolo a sé.
Lo scettro sembrava che provenisse
dalle profondità della terra stessa e Faust durò non poca fatica ad estrarlo
dal tutto; quando infine ci riuscì, ciò che si ritrovò fra le mani indolenzite
era un lungo e pesante scettro d’oro, finemente lavorato e liscio al tatto, con
l’estremità a punta e un’enorme rubino scintillante incastonato in cima, che
lanciava bagliori fugaci e rifletteva l’immagine cremisi della ragazza. Una
volta che lo scettro era stato estratto del tutto dal terreno, il pentagono
svanì, insieme alla luce rosata, che sicuramente era un tocco personale di Mephisto.
Faust, fissando lo scettro, non
riusciva a capire come questo soprammobile potesse esserle d’aiuto nella sua
situazione attuale; doveva ammettere che era pesante, ma riteneva che darlo in
testa ai demoni non sarebbe stato sufficiente. Mentre rifletteva sul da farsi,
una delle bambole investite dal tocco di Satana – ora ridotta a un ammasso di
cera informe, ma ancora in grado di muoversi – si distaccò dal mucchio delle
sue sorelle in fiamme e, lanciando uno sguardo pieno d’odio dall’unico occhio
rimasto alla sua carnefice, spiccò un salto di un paio di metrie si avventò sulla ragazza, facendo uscire
dalla bocca storta un grido agghiacciante. Spalancò le fauci e mostrò al nemico
le sue bianche zanne, pronte a lacerare la carne.
Faust distolse lo sguardo dallo
scettro e si accorse di quella visione da incubo che incombeva su di lei. Sul
suo volto si dipinse una maschera di nuovo terrore, facendola ricredere
sull’innocua natura delle bambole; d’istinto alzò lo scettro, tentando di
proteggersi da quelle tenaglie, e un nuovo pentagono dai contorni rosa comparve
davanti allo scettro, intromettendosi fra la preda e il predatore. Non appena
la bambola toccò quel disegno, venne respinta e scaraventata lontano, finendo
contro un edificio di marzapane che crollò dopo il violento impatto,
seppellendola fra le dolci macerie.
Faust osservò stupita lo scettro e poi
il pentagono che l’aveva protetta, fungendo da barriera. Anche se non poteva
vederlo, era certa che Mephisto in quel momento stava
ghignando soddisfatto: fin dall’inizio sapeva che non ci sarebbero stati
problemi.
Dopo la misera fine della compagna,
altre bambole carbonizzate iniziarono ad attaccarla da tutti i lati,
costringendo Faust a eseguire contorti movimenti per respingere tutti quegli
attacchi. Ogni bambola, al contatto con quella barriera, veniva scaraventata
addosso ai palazzi o finiva in pezzi ai piedi della ragazza. Faust cercava di
ignorare i resti inumani che le si ammucchiavano davanti e si costrinse a
pensare che non erano persone reali e che il tanfo di carne bruciata era solo
frutto della sua mente ormai spossata.
Mephisto cominciò
a mostrare segni di impazienza, chiedendosi quando sarebbe comparso il vero boss della partita.
“Per quanto tempo vuoi restare sulla
difensiva? Attaccali!” le ordinò sbuffando.
“E come dovrei fare, di grazia? Non mi
lasciano un momento di respiro e non posso certo usare questo bastone per darlo
in testa!” obiettò Faust, ansimando per la fatica e la concentrazione.
“Come osi chiamare questo raffinato
oggetto bastone? E poi, basta che usi
le fiamme come diversivo e infine lo scettro per colpirli. Ah, per la
precisione, non devi darlo in testa a nessuno”
“Allora cosa dovrei fare?” chiese
disperata Faust.
“Usa un po’ di immaginazione!” disse
semplicemente Mephisto, come se fosse la cosa più
ovvia del mondo.
Faust, sebbene le scocciasse ammettere
che lui aveva ragione, fece quello che le aveva detto il demone: concentrò –
non con poca difficoltà – le fiamme davanti a lei e le fece esplodere come un
fuoco artificio, bruciando nuovamente le finte carni oramai distrutte delle
bambole, che caddero con un secco tonfo a terra, estinguendosi insieme alle
fiamme. Quelle poche sopravvissute si arrestarono, intimorite di subire
anch’esse quella sorte. Faust ne approfittò per escogitare una strategia
efficace. Osservò lo scettro, ammirando la lucentezza e la bellezza del rubino:
sembrava un enorme occhio perennemente aperto sul mondo.
Se
solo avessi un’arma più potente…
Le tornarono poi in mente le parole di
Mephisto, così prive di senso all’apparenza: Usa un po’ di immaginazione. Forse non
era del tutto folle il suo consiglio; dopotutto, era un demone esperto della
magia, uno dei più forti – a quanto sapeva – dell’Inferno, dopo Satana: che non
avesse progettato un’arma tanto potente da contrastare i suoi simili, le
sembrava alquanto strano.
Facendo questi pensieri, non si
accorse delle bambole che stavano puntando di nuovo su di lei, né degli
ammonimento preoccupati di Mephisto.
“Pensa in fretta…” gli sentì dire,
quasi in un sussurro.
Faust non gli prestò molta attenzione,
intenta com’era a fissare quell’arcano oggetto e a rimuginare sul da farsi.
Le bambole approfittarono della sua
distrazione e si gettarono nuovamente su di lei, più agguerrite di prima. Ma
Faust non le degnò di uno sguardo, chiusa nei suoi pensieri.
“Arrivano!” urlò Mephisto,
tentando di risvegliarle la coscienza, invano.
Se
avessi un’arma…
Le bambole erano ormai a un passo. Una
di loro si distanziò dalle altre, puntando vorace alla testa della ragazza:
pochi centimetri le separavano.
…
Sarebbe di sicuro un’arma da fuoco, visto che sono in grado di usare il tocco
di Satana. Un fucile, ad esempio!
Non appena questo pensiero le
attraversò la mente, una leggera scossa la fece fremere sul posto, eccitando i
nervi; non appena la sentì svanire, lo scettro cominciò a liquefarsi, a
ricomporsi, a liquefarsi di nuovo, come se cercasse una forma precisa. Faust,
terrorizzata per la sua mano, tentò di lasciar andare quell’ammasso informe di
metallo dorato, senza però riuscirci; una nuova scossa le pizzicò i nervi, come
se stesse scavando nella sua mente alla ricerca di un’immagine. Quando infine
sembrò averla trovata, ciò che restava dello scettro iniziò a prendere una
forma, allungandosi, tingendosi di argento, fino a trovare finalmente la sua
vera essenza: un fucile napoleonico, con una canna lunga e di peso leggero, con
un piccolo pentagono inciso sul manico e un rubino incastonato al centro della
stella, che se poggiata a terra l’arma avrebbe potuto superare Faust in
altezza.
Era sorpresa. Alla fine, il suo
desiderio era stato realizzato. Che fosse per merito di Mephisto
o di qualche altro diavolo, non le importava: il solo pensiero di avere un’arma
per proteggersi, per salvare Greta – e, ovviamente, i suoi genitori – le dava
una sicurezza e una forza che prima non possedeva. Ogni paura venne calpestata
da questi nuovi sentimenti che si agitavano nel suo animo. Sentì le fiamme blu
crepitare dentro di lei, desiderose di venire nuovamente liberate e di spargere
una scia di distruzione sulla solo strada.
Così, quando puntò la canna del fucile
contro quella bambola e premette il grilletto, non trattenne un ghigno malefico
e beffardo, con una debole scintilla di follia negli occhi. Mephisto
la notò e pensò cupamente che ben presto quella scintilla sarebbe diventata una
fiamma al pari di quelle di suo padre.
Lo sparo riecheggiò sinistro, facendo
arrestare le altre bambole. Faust non sentì il rinculo e di questo parve
soddisfatta.
Il
mio corpo sembra che non abbia più niente di umano… Dovrei esserne felice?
Scacciò questo fastidioso pensiero
privo di risposta e liberò del tutto la mente, concentrandosi solo su una
parola che per lei stava assumendo un nuovo e incredibile significato:
sterminare. Se li avesse sterminati tutti, Greta si sarebbe salvata: ciò che
doveva fare era solo abbandonare ogni istinto umano e lasciarsi andare al suo
nuovo potere.
Così fece. Sparò altri quattro colpi,
centrando perfettamente le teste delle bambole – nonostante non avesse mai
avuto un’ottima mira –, e gettò via il fucile, ormai scarico; quasi
immediatamente, ne uscì un altro dal terreno, accompagnato da un nuovo
pentagono, e Faust fece la stessa cosa di prima. Per quanti fucili gettasse, ne
comparivano di nuovi e avrebbe potuto continuare così all’infinito se le
bambole non fossero scomparse del tutto, decimate dalla forza distruttrice
dell’arciduca demoniaco.
Ciò che sorprese Mephisto,
osservando in silenzio il macabro sterminio, era l’agilità impressionante – mai
posseduta – con cui la ragazza eseguiva i movimenti, aggraziata come pochi, ma
con una forza che lo preoccupava; ma ancora di più, era la follia che
lentamente stava prendendo il possesso della sua mente a intimorirlo: se fosse
impazzita, quel corpo non le sarebbe più servito.
Sterminate le bambole, l’enorme porta
al centro del viale si tinse di nero e si aprì all’improvviso. Faust,
nonostante fosse infervorata, tese i muscoli fino allo spasmo.
“Eccolo… Sta arrivando il vero boss:
il creatore di questo folle mondo!” pigolò eccitato Mephisto.
Dalla porta uscì fluttuando un piccolo
coniglio bianco di peluche, malamente cucito e in pessime condizioni: la metà
di un orecchio era stata strappata via con violenza, mentre il resto era cucito
con toppe colorate e ricami fatta da una mano malferma ; mancava un occhio,
mentre quell’altro lanciava fugaci bagliori scarlatti che non avevano niente di
rassicurante; un panciotto logoro, nero, era slacciato e lasciava intravedere
la cordicella d’oro di un orologio da taschino, nascosto sotto gli abiti; il
tutto completato da un enorme papillon rosso e un sorriso tipico dei peluche.
Faust lo guardò interdetta e un moto
di delusione la sorprese: si aspettava forse una creatura più forte solo per il
puro piacere di farla a pezzi? La sua possessione aveva cambiato molti tratti
del suo carattere…
Mephisto, però,
era guardingo di fronte a quel nemico. Sperò solo che la ragazza, presa dai
suoi poteri, non facesse qualche follia.
“È vero, è piccolo, ma non farti
ingannare dalle apparenze. Avverto uno strano intento omicida e un intenso
rancore, ma non credo che siano rivolti a te… È meglio aspettare una sua mossa,
prima di…” ma non fece mai in tempo a finire la frase che Faust fece uno scatto
fulmineo in avanti, raggiungendo il coniglio, e gli puntò il fucile sul muso.
La bestia non fece niente per
difendersi, quando ricevette il colpo. La testa del peluche si aprì in due e
cadde a terra, senza fare rumore, mentre una pozza di sangue si spandeva sul
viale. Faust fece una smorfia di disgusto e si voltò, decisa ad andarsene. Non
sentì le repliche di Mephisto sul suo comportamento,
né sentì lo strano rumore – come quello di una persona che si stesse strozzando
– provenire da dietro le spalle. Ancora non riusciva ad uscire da quello stato
di trance.
Non si accorse del coniglio che si era
rialzato e aveva spalancato la minuscola bocca, facendone uscire con un
singulto di sangue un enorme verme che si estendeva per tutta la città: a
strisce bianche e nere, con una maschera bianca che mostrava un ghigno malefico
e due occhi storti, spalancò anch’esso le fauci e inghiottì Faust.
Il demone, essendosi mostrato per ciò
che era veramente, rise sguaiatamente e iniziò a distruggere tutti i resti di
quella città di torte e giocattoli, mosso da una feroce rabbia che solo un
altro folle potrebbe comprendere. Ad un tratto si fermò davanti a un palazzo di
ciambelle, preso da un lancinante dolore, e si erse in tutta la sua altezza,
spalancando la bocca per farne uscire un rantolo strozzato.
Poi le fiamme di Satana lo avvolsero
nella loro morsa mortale, bruciandolo da dentro; infine, un taglio netto lo
separò, facendo cadere le due metà del corpo colossale in due punti differenti
della città. Dall’apertura creatasi, ne uscì Faust con una falce dalle forme
spigolose, di un rosso acceso e dalla lama sanguinante, con un enorme occhio posto
in cima, la cui pupilla a spillo si dilatò al contatto con il nero sangue.
Faust, per nulla sconvolta dal viaggio
nell’apparato digestivo del demone, atterrò con grazia sul viale, osservando
con aria schifata il mostro. La testa era rivolta verso di lei e ogni traccia
di follia era svanita da quegli occhi spiritati, adesso ricolmi di una
tristezza e di una malinconia strazianti, e di qualcosa di molto più profondo:
pentimento. Calde lacrime di sangue scesero da quel volto pallido e singhiozzi
strozzati provenivano da quella gola vorace che tanto aveva divorato, senza mai
accontentarsi.
Faust, per nulla impietosita da questa
scena, alzò la falce in alto, pronta a fare l’atto estremo. Mephisto,
da dentro, non disse nulla, ma guardò gli occhi della ragazza e notò la
differenza dalla prima volta che l’aveva incontrata: un cieco odio e un folle
desiderio, misto a una forte speranza, esprimevano quei due lapislazzuli, le
cui pupille rosse rivelavano la loro natura demoniaca.
Per un attimo, Mephisto
provò compassione per quel demone che stava per passare sotto la lama di quella
che gli uomini chiamavano “giustizia”.
“Intrappolata nella tua infanzia, non
sei riuscita ad affrontare il mondo crudele degli adulti e sei ricaduta negli
abissi della follia. Ciò che ti resta, ora, è solo un folle odio privo di senso
verso ciò che prima amavi, e che poi ti ha ridotto così: la tua infanzia, con i
tuoi peluche e le tue torte, è stata la tua stessa rovina. Per questo, ora ti
libero dal tuo incubo” recitò Faust, pronunciando parole che pensava non
avrebbe mai detto: da dove venivano? Era forse Mephisto
a suggerirle?
Calò la sua falce, ignorando gli occhi
spaventati del demone, e compì l’atto estremo. L’incubo della donna della casa
rosa terminò.
Mentre il corpo del demone svaniva,
anche il resto del meraviglioso mondostava lentamente cadendo a pezzi, rivelando ciò che era in realtà:
un’immensa landa di oscurità, ciò che ci aspetta prima del risveglio.
Ben presto Faust si ritrovò sospesa in
queste tenebre, con i palazzi di torte, il viale a scacchi e i cadaveri dei
giocattoli svaniti. Solo a quel punto tornò in sé, sentendo quella parte che
l’aveva controllata finora nascondersi negli antri più remoti della sua anima.
Solo a quel punto, si rivolse finalmente a Mephisto.
“È tutto finito?” domandò con un filo
di voce.
“Mia cara, siamo appena agli inizi, e
manca ancora molto all’alba! Il divertimento deve ancora venire!” disse
giocoso.
Faust si abbandonò all’oscurità,
sicura che prima o poi sarebbe finita. Allora, le tornò in mente il volto del
demone: sembrava che stesse piangendo per ciò che aveva fatto, e che le stesse
chiedendo scusa. E anche qualcos’altro.
Ti
prego, non farlo!, sembravano dire i suoi occhi. Quando chiese
di questo a Mephisto, lui non le rispose. Al contrario,
canticchiò una canzone appena inventata da lui su una bambina curiosa e su un
coniglio bianco: l’intento era quello di tranquillizzare l’animo inquieto della
ragazza.
Faust si addormentò, cullata dalla
voce del demone, e sperò nuovamente di non sognare niente, come faceva sempre.
Ma aveva riiniziato a farlo in questa notte, quando il suo piccolo mondo cadde
in rovina.
Forse, se qualche ora fa non avesse
sognato, tutto ciò si sarebbe potuto evitare.
SPAZIO DELL’AUTRICE:
capitolo molto lungo e molto sofferto… Arrivata a un certo
punto, tutto filava liscio ma quando sono giunta alla descrizione della battaglia
contro le bambole indemoniate, mi sono bloccata. È stato difficile scegliere
l’arma adatta a Faust, ma alla fine ho optato per uno scettro in grado di
cambiare la materia! E non sarà solo quella una delle armi…
Vi è piaciuto questo incubo? Io mi sono divertita a
descriverlo, spero che anche voi vi siate divertiati
a leggerlo ^^. Per alcuni tratti mi sono ispirata a MahouShoujoMadoka
Magica – appena finito di vedere – e per altri ai giocattoli che tengo in
camera: tranquilli, non ci sono bambole assassine! Sono indecisa se mettere
altri incubi, ma così rallenterei la storia… Voi che ne pensate?
Dai, commentate! Le critiche, sia negative sia positive,
sono ben accettate. Ora me ne vado davvero: al prossimo capitolo!