This is Halloween!

di Violet 95
(/viewuser.php?uid=97274)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 31 Ottobre ***
Capitolo 2: *** Qualcosa di sbagliato ***
Capitolo 3: *** Mephisto e Faust ***
Capitolo 4: *** Scommessa ***
Capitolo 5: *** Possessione ***
Capitolo 6: *** Nella tana del Coniglio ***



Capitolo 1
*** 31 Ottobre ***


31 Ottobre

 

 

“Non c’è incubo dal quale non ci si possa risvegliare”

“Non è vero. Dal mio, non mi sono mai risvegliato.

Continuo a sognarlo, anche da sveglio:

quell’incubo, si chiama Vita”

 

 

Il lampadario della stanza cominciò a tentennare, quasi impercettibilmente. Nessuno se ne sarebbe accorto in un normale frangente, ma la ragazza seduta sul letto matrimoniale dei suoi genitori sì. Normalmente, non l’avrebbe neanche considerato quel movimento, ma in quel momento era particolarmente annoiata e qualsiasi cosa avrebbe attirato la sua attenzione: perfino un granello di polvere che si muoveva invisibile nell’aria.

Tutto, qualsiasi cosa, pur di distrarla dal libro che stava leggendo.

Il “Faust” di Goethe – il primo volume – stava aperto sulle sue ginocchia, fermo da tempo sulla pagina trenta e bloccato al secondo verso. Da un tempo incalcolabile aveva deciso di ignorarlo, non tanto per cattiveria, quanto per noia. Tirò un nuovo sbuffo, più rumoroso di quelli precedenti e più infastidito, e volse lo sguardo all’orologio sul comodino: le cinque e mezza.

Ormai, si era già dimenticata del lampadario che continuava a dondolare, lentamente, spinto da una forza sconosciuta che si trovava al piano di sopra. Su in soffitta.

Si sdraiò del tutto sul letto, la cui morbidezza donava un senso di pace al suo corpo esausto: non aveva fatto praticamente nulla che impiegasse la sua forza fisica, ma dopo una giornata di due ore di latino e greco, una di inglese e una di geografia – se vogliamo contare perfino un’ora e mezzo di ripetizioni di matematica – era piuttosto giustificabile ritrovarsi mentalmente a pezzi a metà pomeriggio. Ancora peggio se si è costretti a leggere un testo che odi.

Girò gli occhi intorno alla stanza e svuotò la mente, ancora una volta, per udire i rumori della casa. Un appartamento a due piani dove vivevano due famiglie – di cui una si era al momento trasferita –, un piccolo orto nel retro della casa dove due zucche crescevano placidamente. Circondata da asfalto e qualche olivo maturo, appariva all’esterno come una triste struttura grigia, priva di colore e piena di crepe. L’interno, ovviamente, non migliorava: almeno non nelle stanze in cui si trovava lei. Un bagno, due camere da letto – di cui una funge da studio per lei e da stanza per la sua nonna –, una cucina, un soggiorno e un piccolo ingresso in cui erano accatastati oggetti di tutte le dimensioni e i tipi. Sembrava la casa di un gruppo di terremotati scampati da una calamità naturale. In verità, erano “momentaneamente” trasferiti a casa della sua nonna paterna in attesa che la loro nuova abitazione fosse ristrutturata; peccato che erano ormai due anni che erano accampati lì e nella nuova casa non c’era ancora stata ombra di ristrutturazione.

Camere spoglie, spente, vecchie. Morte. Come se i suoi abitanti fossero deceduti con loro e vagassero sotto forma di fantasmi, nascosti fra i mobili scricchiolanti e le porte che si aprivano o chiudevano da sole. Anche la stanza da letto in cui si trovava, che condivideva con i suoi genitori e suo fratello, non era migliore delle altre: tre letti, di cui due matrimoniali e uno piccolo e stretto – ma di chi era quel letto? Di suo fratello? Certo che no –; un comodino attaccato alla parete ammuffita e di un bianco spento; due cassettoni su sui erano appoggiati un televisore, una stampante e un computer; tre armadi che ne costituivano uno solo; uno scaffale di libri traballante vicino al suo letto e il suo personale comodino, su cui erano riversati altri libri e indumenti di biancheria intima.

Ciò che le esprimeva ogni volta che guardava questa stanza era una profonda tristezza.

La ragazza – il cui nome non era stato ancora citato per un motivo ben preciso, ma che per ora continueremo a chiamare semplicemente “ragazza” – pensò che era ingiusto passare la notte di Halloween da sola, senza nessuna presenza viva in casa che la confortasse o le facesse compagnia. I suoi genitori erano andati via con suo fratello, forse a una cena, e sua nonna era a soggiornare da alcuni suoi parenti.

Lei, invece, era sola. In quella casa di fantasmi del passato, piena di rumori e spifferi, di porte cigolanti e di lampadari che tentennavano senza che nessuno avesse mosso un passo.

Sola, a leggere un noioso testo di letteratura che il suo professore le aveva dato per noia. Due tomi che formavano un solo libro.

Gettò uno sguardo furente al libro aperto di fronte a lei e lo scaraventò lontano, chiudendolo di scatto e perdendo così il segno a una storia che non avrebbe mai continuato.

 

‘Fanculo Faust.

 

Camminò velocemente fino al suo studio e prese il cellulare, cercò nella rubrica ciò che voleva e premette il tasto di chiamata. Il telefono iniziò a squillare.

 

“Pronto?”

 

“Ciao, Greta. Che fai?”

 

“Oh, che bello risentirti! Stavo per andare agli allenamenti di pallavolo, ma alle sette dovrei aver finito. Dopo che farai?”

 

“In casa sono da sola e, anche se mi costa ammetterlo, ho paura. Forse perché è Halloween, non so… Ho i brividi. Sento una strana adrenalina scorrermi nelle vene”

 

“Ti fai coinvolgere troppo da questa festa. Che ne dici se la passiamo insieme? Io e te, a casa tua. Film horror e…”

 

“Allora puoi restare anche a casa”

 

“Va bene, qualcosa di leggero… Biancaneve e i sette nani?”

 

“Ti uccido

 

Ahahah, d’accordoNightmare Before Christmas? Un classico”

 

“Accordato! Vengo a prenderti alla palestra, ok?”

 

“Certo! Ma non avevi da leggere quell’enorme libro? Quel coso del patto con il Diavolo…”

 

“Senti, è Halloween e di mostri e demoni ne vedrò abbastanza stasera. Preferirei evitare di leggerli, se è possibile, almeno per questa notte…”

 

“E’ la notte delle streghe, dove tutto è possibile!”

 

“Sì, certo. Ci vediamo dopo”

 

La ragazza riattaccò e guardò l’orologio: le 17:45. C’era tempo.

Andò in salotto e si distese sul divano, sentendo gli occhi che si chiudevano. Aveva acceso la luce per una sciocca paura, ma adesso si accingeva a spegnerla. Vide dai vetri appannati della finestra che il buio stava lentamente calando; il manto oscuro portava con sé Caos e incubi, gli ultimi di cui aveva bisogno.

Quello che le aveva detto Greta le tornò in mente.

E’ la notte delle streghe, dove tutto è possibile!

Scacciò a fatica questo pensiero e spense la luce. Adesso voleva solo chiudere gli occhi, liberare la mente e dormire. O forse sognare, se ci fosse riuscita. Ciò che vedeva in quelli che gli studiosi chiamano “sogni” era uno spazio infinito e nero, privo di contorni e di forme, dove l’orientamento era abolito. Il Nulla assoluto.

Da quando aveva memoria, non aveva mai sognato.

C’era chi le diceva che non era possibile non sognare, semplicemente non ricordava. Lei non ci aveva mai creduto.

Il suo sogno era il Nulla stesso, il Caos. E per una volta tanto, desiderò tuffarsi per poi non uscirne più.

E fuori, anche l’ultimo bagliore di luce si spense e la notte inghiottì ogni cosa.

 

 

 

Il mondo bruciava. Case, strade, palazzi. Ogni cosa, perfino le persone, erano divorate dalle fiamme di quel terribile incendio. Vedeva milioni di formiche nere che correvano in preda al panico, dalle cui labbra uscivano grida prive di suono.

La città bruciava in silenzio, senza che nessuno chiedesse aiuto o pregasse un Dio vendicatore che aveva voluto questo.

Lei stava osservando questo spettacolo dall’alto, quasi sospesa nel vuoto: le pareva di volare, si sentiva così leggera… Guardava quelle persone con indifferenza, con una freddezza quasi inumana, come  se non li avesse mai conosciuti. Eppure, erano tutte persone vicine a lei: i suoi genitori, suo fratello, i suoi amici. Bruciavano, e lei non faceva niente per impedirlo.

Semplicemente, osservava quelle fiamme con innocente curiosità, come un bambino potrebbe assistere a un singolare spettacolo. Ad esempio, la morte dell’umanità.

E intanto il cielo nero inghiottiva ogni luce, assorbiva il fumo e si ingigantiva ogni secondo di più. Da esso, si riversavano sulla Terra esseri mostruosi dagli occhi bramosi, con pupille simili a quelle di un gatto furioso. Si gettavano con violenza sugli umani ormai carbonizzati e li divoravano con quelle bocche dai denti cesellati.

Demoni che scendevano dal cielo e portavano Caos a quel mondo ormai distrutto.

Lei continuava a osservare, anche quando i suoi genitori cadevano fra le grinfie ingorde di quegli esseri.

Uno di essi si fermò e la notò, da lontano. Lei non gli rivolse la minima attenzione, troppo concentrata com’era sullo spettacolo che accadeva di sotto.

Il demone deviò la sua discesa e si avvicinò a lei, volando con un’agilità impressionante. Le si mise vicino ed entrambi osservarono in silenzio la caduta di un mondo.

 

Gli umani sono troppo fragili…, disse quel demone.

 

Lei non rispose, ma si decise a distogliere gli occhi dal basso per rivolgersi al suo misterioso interlocutore. La sua immagine apparve sfocata e non ne capì il motivo finché non sentì qualcosa di umido scendere sul suo volto.

Piangeva. Piangeva da quando era lì, ma non se ne era accorta fino a quando quel demone non le aveva rivolto la parola. Era caduta in uno stato quasi catatonico.

Forse il demone sorrise, almeno così intuì. Distingueva solo una macchia rosa e una bianca, enorme, che ricopriva l’intero corpo del demone.

Volle fargli una domanda, ma neppure una parola uscì dalle sue labbra. Eppure, era così ovvia… Ciò che accadeva di sotto, quell’incendio, quei demoni, quelle fiamme… C’era qualcosa di strano, in tutto ciò.

 

Hai paura?, domandò nuovamente.

 

Lei scosse la testa in segno di diniego, ma indicò lo spettacolo di sotto. Indicò le fiamme.

Il demone parve capire e annuì solennemente.

 

Tu potresti fermare tutto ciò.

 

E come?

 

Il demone rise beffardo e la indicò con scherno, agitando quella macchia rosa che probabilmente teneva in mano.

 

Hai il potere!

 

Quale?

 

No, non è ancora il momento: non c’è fretta, nessuna fretta! Ci possiamo ancora divertire insieme… Ma più tardi. Adesso, è meglio che ti svegli.

 

Cosa…?!

 

Non si seppe mai cosa avrebbe potuto dire la ragazza che volava sopra il mondo in fiamme, né quale interrogativo la agitava tanto. Il demone forse lo sapeva già, o non gli interessava scoprirlo: sono talmente volubili e capricciosi i demoni…

Si limitò solo ad agitare la macchia rosa davanti agli occhi della ragazza e a dire delle strane parole, una formula. La ragazza soffocò un grido.

 

Eins, Zwei, Drei!

 

La ragazza cadde e il buio la sommerse, inghiottendo perfino il demone e la città in fiamme.

 

 

 

Si svegliò con un sussulto e si sentì soffocare. Contò fino a tre e tentò di riacquistare una respirazione normale, alzandosi lentamente dal divano che, sebbene fino a un attimo fa era la cosa più confortevole che ci fosse in quella casa – senza contare il letto –, adesso le appariva duro.

Era madida di sudore e tremava, scossa da violenti tremiti. Le sue guance erano bagnate di un liquido salato: lacrime. Aveva pianto nel sonno, e stranamente ricordava ciò che aveva sognato. Il mondo in fiamme, i suoi genitori che bruciavano, i mostri che scendevano dal cielo, il demone che le aveva parlato…

E delle fiamme blu. La città ardeva di un fuoco blu.

 

Perché le fiamme erano blu?

 

Guardò l’orologio da polso e imprecò ad alta voce: le sette. Greta la stava aspettando all’uscita della palestra e ci volevano almeno quindici minuti a piedi per arrivare lì. Ed era notte fonda.

Indossò subito la sua giacca di pelle nera e la sciarpa viola, il suo colore simbolo. Afferrò al volo l’iPod, aprì la porta e si fiondò giù dalle scale. Chiuse il portone dietro di sé e iniziò a camminare velocemente. Il suo cammino era illuminato da pochi e rari lampioni sulla strada, mentre una fitta nebbiolina avvolgeva gli edifici, facendoli apparire come degli spettri dalle strane forme. Da lontano sentì qualche botto e intuì che i festeggiamenti erano già iniziati. Dopotutto, era Halloween e la notte era da poco cominciata: la notte delle streghe, delle ombre e dei demoni.

Demoni orribili dalle zanne avvelenate e i denti che laceravano la carne. Demoni vestiti di bianco e con un “coso” rosa che vorticava intorno ai propri occhi. Demoni beffardi, demoni ingannatori.

Incubi. Come il suo.

Dentro si sé, maledisse il Faust per averle causato quel sogno e rimpianse di non aver sognato nulla come al solito.

Da lontano, ma forse era stata solo un’allucinazione uditiva, le parve di udire un singhiozzo strozzato e una risata beffarda, alternate. Era molto simile a quella del demone del suo sogno…

 

“Stupidaggini” sussurrò, e si addentrò nella nebbia.

 

 

 

 

SPAZIO DELL’AUTRICE:

premetto che ho buttato giù questa sciocchezza ieri sera, alle dieci e mezzo, mentre guardavo “Sweeney Tood”, quindi non assicuro il risultato. Mi è venuta di getto e come storia sembrava carina, ma non sta a me giudicare… Fatelo voi al posto mio!

Questa ragazza, il cui nome non è stato citato per motivi che saranno in seguito chiariti, ha dei tratti un po’ autobiografici, ma forse proprio perché mi sembra di scrivere la mia storia sono particolarmente attaccata a questo personaggio… E poi, chi sarà mai il misterioso demone vestito di bianco e con un “coso” rosa in mano? XD

Spero che abbia attirato la vostra attenzione. Ed ora, mi ritiro!

Eins, Zwei, Drei! *Puff

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Qualcosa di sbagliato ***


Qualcosa di sbagliato

 

 

 

 

 

Boys and girls of every age

wouldn’t you like to see something strange?

Come with us and you will see

this, our town of Halloween.

 

 

La voce gracchiante di Marilyn Manson rimbombava nella sua testa e dall’esterno le sembrava che tutte le strade risuonassero di quella canzone. Camminava – o meglio, correva – da circa quindici minuti e aveva fatto solo metà della strada; le vie buie di Agliana, la sua nuova casa, erano quasi del tutto deserte, se non fosse stato per qualche gatto randagio che fuggiva al minimo rumore e per un gruppo di piccole streghe e diavoletti che danzavano fra le strade, smaniosi di dolci e dispetti. Aveva appena superato uno di questi gruppi e si era accorta immediatamente del sinistro ghigno – quasi inumano – dipinto sui loro volti. Erano solo maschere, no?

I lampioni sul marciapiede parevano silenziose sentinelle che illuminavano il cammino dei viandanti; lavoro che svolgevano per metà, dato che alcuni erano fulminati, mentre altri lanciavano bagliori fugaci a intermittenza.

La ragazza girò distrattamente la testa indietro, per vedere se al bar che aveva appena superato – l’accogliente e sporco “La Belle Vie”, ritrovo giornaliero di vecchi bavosi piazzati davanti alla partita e ragazzi che perdono tempo, prima di spostarsi a bere al pub accanto “Sherlock Holmes” – c’era qualcuno che conosceva. In realtà, controllava solo se lui la stava ancora seguendo.

E infatti, eccolo lì, a pochi passi di distanza dietro di lei, che trotterellava tranquillo seguendo fedelmente il passo della ragazza.

Si trattava di un semplice cane, di stazza piccola, bianco e con il pelo lungo, con due orecchie appuntite e pronte a cogliere qualsiasi suono, che aveva iniziato a seguirla poco dopo che era uscita di casa. Quando l’aveva incontrato, era disteso supino sull’asfalto, vicino a un lampione, e non appena si era avvicinata per superarlo, lui aveva drizzato le orecchie abbassate e si era rimesso a quattro zampe, per poi seguirla a pochi passi di distanza. Sembrava che la stesse aspettando.

Non le si era mai avvicinato troppo al punto da entrare nel suo raggio d’azione per un calcio, né aveva mai mostrato intenzioni ostili: ma quella presenza cominciava a infastidirla.

 

 

I am the one hiding under your bed

teeth ground sharp and eyes glowing red.

 

I am the one hiding your stairs

fingers like snakes and spiders in my hair.

 

 

Arrivata sul ciglio della strada, si guardò intorno per vedere se c’erano machine in arrivo. Il cane si fermò con lei.

In lontananza sentì il rombo silenzioso di una Mercedes che si avvicinava: quello che aspettava. Quando capì che era abbastanza vicina, attraversò di scatto ma abbastanza in tempo per vedere il cane indugiare sul ciglio e infine attraversare la strada per raggiungerla. Due fari gialli emersero dalla nebbia proprio nel momento in cui il cane si trovava a tiro di pneumatici.

 

Investilo, investilo, investilo!, ordinò mentalmente al conducente e chiuse gli occhi per evitare lo spettacolo del piccolo corpo immerso in una pozza di sangue.

 

Non ci fu la frenata, né lo scricchiolio delle ossa sotto le ruote. Niente. La macchina continuò il suo giro tranquilla.

Aprì gli occhi e fece qualche passo indietro, sorpresa nel rivedersi davanti il suo cane inseguitore. Come aveva fatto a evitarla quando la ruota era proprio sopra di lui?

Sbuffò infastidita nel vedere che il suo piano non era andato a buon fine. Il cane la osservava, aspettando che lei facesse qualcosa, e altrettanto faceva lei: notò solo ora l’enorme foulard rosa a pois legato al collo e con una strana spilla colorata – forse indicava il nome del proprietario? –, come si accorse ora delle occhiaie piuttosto marcate sotto gli enormi occhi che scintillavano nell’oscurità. Occhi verdi, no, gialli…

 

Gialli?

 

Dal canto suo, il cane la squadrava dall’alto in basso, cosa piuttosto anormale per un cane di quelle dimensioni: sembrava che la stesse giudicando. A questo pensiero, un brivido gelido la scosse.

 

“Vuoi seguirmi ancora per molto?” chiese la ragazza senza  aspettarsi una risposta.

 

Il cane rimase in silenzio, sempre guardandola. Poi, mettendo a dura prova la lucidità mentale della ragazza, le fece l’occhiolino e le sorrise.

 

Ha ammiccato? Mi ha sorriso?! Quello si poteva considerare un sorriso?

 

Si guardò intorno spaesata, in cerca di un aiuto che la cavasse da quell’impiccio. Poi rivolse lo sguardo malevolo al cane.

 

“Non ammiccare: mi fai senso. E poi, lo sai che sei proprio brutto?”

 

Il cane, per tutta risposta, abbassò le orecchie deluso e la guardò in modo ostile e piuttosto seccato. Sembrava essersi offeso. La ragazza sorrise vittoriosa e, guardando distrattamente l’orologio, si ricordò dell’impegno.

 

“Cavolo, Greta! E io che sto a perdere il mio tempo a parlare con un cane…”

 

Iniziò a correre, dimenticandosi completamente del suo compagno a quattro zampe, il quale la riprese subito e riuscì a starle dietro per un buon tratto. Quando sentì l’aria gelida che le pungeva i polmoni, rallentò il passo e riprese il fiato; altrettanto fece il cane.

Volgendo la testa a destra, si pentì subito di questo gesto: un gruppo di ragazzi, appoggiati tracotantemente al palo della fermata dell’autobus, ridevano sguaiati e lanciavano ogni tanto degli “ululati” rozzi. Pregò il cielo e tutti gli dèi delle religioni che quegli individui non la notassero. Accelerò il passo, senza però darlo a vedere, e assunse un’aria orgogliosa. Tutto ciò, però, fu inutile.

 

“Oi, sgualdrina!”

 

Ecco…

 

Non si voltò per rispondergli, né rallentò. Si trovavano dall’altra parte della strada, erano abbastanza lontani. Per ignorarli ancora di più, prese l’iPod e alzò il volume al massimo: le sue orecchie iniziarono a fischiare.

 

 

This is Halloween, this is Halloween

Halloween, Halloween…

 

 

I ragazzi continuarono a urlare insulti e improperi, di cui riuscì a coglierne solo qualcuno, accompagnandoli con risate sempre più sguaiate. La ragazze strinse i pugni fino a sentire il sangue caldo scorrere lungo il palmo. Ignorarli, doveva ignorarli, doveva andare avanti. Greta. Sì, doveva andare a prendere Greta. Avrebbero festeggiato insieme Halloween. Si sarebbero divertite. Insieme. Forse avrebbe preso quel cane con sé, visto che non si staccava da lei. Ma la casa era troppo piccola. Sua nonna era allergica ai cani. Ma avrebbe trovato un modo. Ah, il sogno…

 

Fiamme blu.

 

Un tremito la scosse e si fermò del tutto. Sentì le palpitazioni aumentare e la vista appannarsi. Non riuscì più a respirare e quasi si strozzò, cercando di ricordare come si facesse. Un rantolo soffocato le uscì dalla bocca: non sembrava neanche la sua voce…

Sentì un ringhio, all’inizio debole, quasi un sussurro. Pensò che fosse il cane. Poi sempre più forte, fino a divenire un ruggito. Era vicino a lei, molto vicino…

Fiamme blu danzavano davanti ai suoi occhi. La città in fiamme si ripresentava nuovamente con violenza nella sua mente.

 

 

… Halloween, Halloween!

 

 

Un forte colpo alla nuca le fece perdere i sensi e subito quattro corpi massicci le furono addosso. Sentì un forte odore di alcool, e anche di qualcos’altro: droga.

Uno dei ragazzi la prese per i capelli, un altro le strappò dalle orecchie le cuffie e Marilyn Manson volò lontano. Provò un lieve dolore, ma non un gemito uscì dalle sue labbra ormai secche. Le loro risate, quasi inumane, le giunsero alle orecchie: sembravano delle bestie.

Cercò di distinguere i loro volti: e il suo cuore perse un battito. Denti aguzzi che sporgevano dalle labbra violacee, occhi gialli e rossi ridotti a due spille, orecchie a punta e due corna prominenti che spuntavano dalla testa. E una lingua spropositamene lunga e sottile, piena di bava, fuoriusciva da quella bocca piegata in un ghigno sinistro.

Demoni. Il suo incubo.

 

Vi prego, ditemi che sono solo maschere…

 

Dissero qualcosa, e poi il buio eterno la circondò e non vide né sentì più niente. Proprio ciò che desiderava.

Pensò a Greta, al cane… Non ai suoi genitori, né ad altri parenti. Pensò al Faust, ad Halloween, alle streghe e ai demoni. E si ricredette.

Pensò a tante altre cose, ma non riuscì mai a ricordarsele, poiché troppo stordita per rifletterci a lungo.

Infine, pensò al sogno e alle fiamme blu. Pensò al demone, e desiderò con tutta se stessa che quelle stesse fiamme bruciassero i corpi impuri dei suoi persecutori e che quel demone divorasse le loro carni. Per la prima volta in vita sua, desiderò quel potere di cui parlava il demone.

Il potere della Distruzione. Il potere del Caos.

 

Perché questo? Perché a me? C’è qualcosa di sbagliato in tutto ciò…

 

 

 

SPAZIO DELL’AUTRICE:

in ritardo, lo so, anche se avevo in mente questo capitolo già fin dall’inizio… Purtroppo, la scuola mi impedisce di aggiornare più spesso, quindi abbiate pazienza ^^”. La storia comincia ad entrare nel vivo e alcuni segreti – come il nome della protagonista – cominceranno a essere svelati. Ad esempio, chi è quel piccolo e brutto cane con il fiocco a pois che seguiva la protagonista? Lo scoprirete nella prossima puntata!

E ora, mi dileguo.

Eins, Zwei, Drei! *puff

 

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Mephisto e Faust ***


Mephisto e Faust

 

 

Non possedevo nulla,

ma bastavano l’ansia di verità e la voglia di illudersi.

Dammi di nuovo quegli impulsi indomiti,

quella felicità profonda e dolorosa,

il vigore dell’odio, la potenza d’amore:

dammi di nuovo la mia gioventù!

[Faust, J. W. Goethe]

 

 

Tum. Tum. Tum.

 

Un rullo di tamburi, sempre più distante, che si perde nel cuore della notte. Un suono lontano che richiama alla notte dei tempi. Un suono gutturale che ti ipnotizza nel suo monotono andamento.

 

Tum. Tum. Tum. Tum.

 

Ma era davvero notte? Che ore erano? Dove si trovava?

Erano queste le domande che in quel momento la faceva rigirare nel sonno: ma poteva chiamarsi sonno quell’intorpidimento alle gambe, alle braccia e quelle immagini confuse che si muovevano dinanzi ai suoi occhi?

Sentiva la testa pesante e sul punto di esplodere.

 

Dove sono?

 

Poi ricordò. Marilyn Manson. I ragazzi – o i demoni? Come doveva chiamarli? – che l’avevano assalita da dietro. Il cane bianco. E poi? Solo buio, e nulla più. Le ultime cose che aveva sentito erano state un forte colpo alla nuca e delle risate isteriche e inumane, poi aveva perso i sensi.

Le veniva da vomitare e piangere se ci ripensava.

 

Tu-tum. Tu-tum. Tu-tum. Tu-tum.

 

Il rullo di tamburi aumentava di velocità, seguendo quasi il ritmo del suo cuore.

Tentò di aprire gli occhi di scatto, ma non ci riuscì: sentiva le palpebre troppo pesanti. Le orecchie le fischiavano, forti fitte al petto le lasciavano sfuggire dei deboli gemiti. Era ancora troppo intorpidita per fare movimenti strani.

Aprì intanto un occhio e tentò di rigirarsi da un lato, senza però riuscirci. Solo in quel momento capì il perché e si rese conto almeno in parte della situazione in cui si trovava: braccia e gambe erano legate saldamente a dei ganci sigillati sul pavimento di granito freddo, polveroso. Poteva sentire i legacci che le stringeva e graffiavano la pelle pallida e un rigolo di sangue macchiare le corde.

Era in trappola. Non poteva fuggire.

La sua mente, sebbene si trovasse ancora in stato confusionale, cominciò a schiarirsi e a poco a poco anche tutti gli altri sensi si risvegliarono. Un forte odore di bruciato, di cera e di nauseante incenso le arrivò alle narici e trattenne un conato di vomito; insieme al ritmo monotono dei tamburi riconobbe di sottofondo dei versi quasi animaleschi, simili alle conversazioni che si avrebbero fra due scimmie o fra due avvoltoi, accompagnate da nuove risate, sempre più fragorose e macabre. Poi una preghiera, di cui non distinse le parole, venne cantilenata al ritmo dei tamburi.

Con grande sforzo, aprì entrambi gli occhi e alzò tremante la testa di piombo.

Un grido le morì in gola.

 

Mio Dio. Fa che sia solo un sogno…

 

La stanza, piccola e circolare, era ricoperta da tende di tessuto bordò e nero, sulle quali erano ricamati in oro disegni arcaici di esseri mostruosi che ballavano in una macabra danza intorno a un falò. Candele ormai consumate erano sparpagliate in circolo, le cui fiammelle tremavano debolmente e lanciavano fugaci bagliori, illuminando di poco quello spazio immerso nella più totale oscurità. Ombre nere si allungavano sulle pareti, alcune curve e piegate su loro stessi, altre che si gettavano all’indietro, ridendo o lanciando ululati a una luna inesistente. Sulle pareti che erano sfuggite a quel sinistro arredamento erano disegnati strani cerchi con pentagrammi, lettere greche e arabe e parole la cui pronuncia avrebbe scomunicato un prete. Tutte scritte con un liquido rosso: sangue.

Intorno a lei erano raccolti sei individui ricoperti da una lunga veste nera e con un cordone d’oro legato alla vita, alcuni che tenevano in mano degli oggetti – chi un enorme libro ormai consumato dal tempo, chi un calice di bronzo, chi un panno rosso che celava un altro oggetto dalla forma allungata… - e altri che le ridevano in faccia. I loro volti nascondevano la loro vera natura.

In un angolo, nascosti dall’oscurità di quel luogo, c’erano un vecchio stereo da cui provenivano i tamburi e una gabbia arrugginita, dalla quale uscivano deboli miagolii di dolore e paura. Stringendo gli occhi, distinse una figura nera e sinuosa che tremava in un angolo, terrorizzata, e una macchia bianca, in piedi e con un fierezza impressionante per un animale di quella stazza. Un gatto nero e il cane che l’aveva seguita fino a poco fa. Alla fine, avevano preso anche lui…

La ragazza cominciò ad agitarsi, sempre più spaventata, tirando con tutte le sue forze per liberarsi dalla sua prigionia; il cuore, intanto, minacciava di scoppiare da un momento all’altro.

Non doveva andare a finire così, non doveva! Non sapeva nemmeno lei come ci era finita in questa situazione, quale divinità avversa le avesse inflitto un simile destino. Doveva solo andare a prendere una sua amica alla palestra – e Greta? Cosa penserà quando non la vedrà arrivare? – e festeggiare con lei Halloween. Doveva solo percorrere quindici minuti di cammino ed era successo di tutto: un cane che la seguiva, dei tipi drogati che avevano riso di lei, l’avevano derisa e infine catturata e portata lì.

In una setta satanica.

Ne aveva sentito parlare molto recentemente, sui giornali e in televisione: molti erano i casi di sacrifici umani e animali, di persone – in particolare adolescenti – che sparivano dalla circolazione per lungo tempo e che venivano ritrovati fra i resti di un rogo o di un pentagono disegnato a terra. Riti dediti al culto di Satana, che mai avevano avuto una riuscita e che mai nessuno era riuscito a fermare in tempo.

Questi fatti, così lontani dalla sua realtà, le sembravano talvolta solo delle favole ben costruite per spaventare i bambini la notte e metterli in guardia dalle insidie del mondo. Ora, come la storia delle streghe, si dovette nuovamente ricredere: ne era diventata una vittima sacrificale, insieme al suo compagno canino e a uno sfortunato gatto randagio, la cui sorte era segnata fin dal momento in cui era incappato sul cammino di questi satanisti.

Si sentiva in trappola, priva di forze e debole. Come odiava sentirsi così, come odiava quando gli altri la facevano sentire così…

 

Tutti… Dovrebbero morire tutti!

 

Uno degli incappucciati le si avvicinò al viso e si tolse il cappuccio: una maschera piegata in un ghigno agghiacciante le fece accapponare la pelle e, come se non fosse già spaventosa di per sé, le sorrise e le sputò in faccia, con disprezzo. Una furia incontrollata, più potente della paura che l’attanagliava, la fece fremere sul posto e desiderò una morte atroce per quell’individuo. Lo stesso che aveva visto poco prima di svenire, fra i ragazzi.

Gli altri individui imitarono ciò che aveva fatto il loro compagno: volti demoniaci, che avevano perso ogni traccia di umanità, la osservavano ghignanti e, lentamente, si avvicinavano a lei.

 

Perché non ci sono loro al mio posto? Uccidetevi a vicenda, bastardi!

 

Tutti uomini, di questo era certa, forse erano in principio ragazzi della sua età, ma non ne era del tutto sicura. Altra cosa strana che vide – come se non ce ne fossero già abbastanza – fu una nuvola nera che si muoveva intorno ai loro corpi: uno strano e fastidioso ronzio proveniva da quella nuvola di moscerini, o chissà quale altri animali microscopici che abitavano quella stanza.

Uno dei ragazzi che teneva il panno rosso, lo srotolò e ne fece uscire una lama scintillante, il cui bagliore la accecò per un attimo. Un pugnale ben modellato, con l’impugnatura cesellata di rubini e la lama sporca di sangue nero, era tenuto con mano mal ferma dal ragazzo, il quale lo alzò con gesto solenne e, confermando la sua più grande paura, lo abbassò velocemente su di lei. Chiuse gli occhi e si preparò al colpo.

 

No, ti prego! Che qualcuno…

 

Che non arrivò. Anzi, si sentì più libera.

Aprì lentamente gli occhi e si accorse che i legacci alle mani e ai piedi erano stati tagliati di netto: finalmente il dolore lancinante alla pelle era terminato. Almeno per ora.

Il ragazzo con il pugnale la prese malamente per un braccio e la alzò in piedi con violenza, prendendola poi con i capelli e lasciandole sfuggire un gemito di dolore. Il ragazzo indemoniato rise.

 

“Apri gli occhi, umana, e osserva!” le ordinò una voce cavernosa che proveniva dalla bocca del ragazzo. Non sembrava neanche umana.

 

La ragazza, più terrorizzata dal tono di voce che dal ragazzo con il pugnale, guardò in basso, nel punto in cui si trovava prima, e il suo cuore perse un altro battito.

Un enorme cerchio con all’interno una stella e altri simboli mal tracciati era stato disegnato con il sangue – ne era certa, lo avvertiva dall’odore – e altri oggetti erano posti su ciascuna delle cinque punte: piume, ossa biancheggianti, viscere di animali, una strana polvere colorata e una croce spezzata. Le strane iscrizione tutte intorno le fecero girare la testa, quasi fossero una delle versioni di greco che doveva tradurre, dove le parole le vorticavano intorno agli occhi.

Il ragazzo la strattonò di nuovo e un nuovo gemito le uscì dalle labbra.

 

“Umana, presto prenderai parte al nostro rito: sii fiera, sarai una delle vittime designate per il ritorno del nostro padrone!”

 

Una nuova risata proruppe da quegli individui non più umani. La ragazza cercò di divincolarsi, senza risultati; avrebbe voluto gridare, strappargli quel pugnale dalle mani e fare strage di quei folli, per poi tornare a casa sua e dimenticare tutto. Eppure non poteva, perché era troppo debole. Non aveva la forza necessaria nemmeno per parlare.

 

Quanto mi odio…

 

Il ragazzo che la teneva disse alcune parole in una lingua sconosciuta a uno dei suoi compagni e quello, voltandosi verso la gabbia dove si trovavano le due povere bestie, la alzò in alto e da essa tirò fuori il gatto nero. L’animale, avvertito il pericolo, iniziò a soffiare e miagolare disperato, graffiando a vuoto nell’aria e tentando di liberarsi, senza però riuscirci. Anche lei era come quel gatto… Impotente.

Il ritmo dei tamburi si fece più veloce. La ragazza avrebbe voluto tapparsi le orecchie.

Il ragazzo che reggeva il libro cominciò a recitare una strana preghiera, mentre quello con il calice si avvicinò al cerchio e lo tese al centro, in attesa. Il ragazzo che la teneva passò il pugnale a quello con il gatto, il quale, sghignazzando, si posizionò al centro del pentagono e, alzando l’arma e l’offerta, aprì la povera bestia in due.

Il sangue si rigettò sul simbolo e una parte del corpo si fracassò sul pavimento. L’altra parte era ancora fra le mani dell’assassino, che rideva smanioso, mentre il suo compagno con il calice raccoglieva quel fiume di linfa vitale estratta con la forza da un essere vivente.

Una volta riempito il calice, tutti e sei se lo passarono e ne bevvero un sorso, recitando ciascuno alcuni versi di una preghiera.

La ragazza osservava questo raccapricciante spettacolo in silenzio. Sentì le forze mancarle, ormai del tutto, e un violento conato di vomito la fece piegare in due. Aveva assistito a ciò senza aver potuto fare nulla; aveva assistito al sacrificio ingiusto di una bestia. Aveva assistito a un sacrificio. Di un gatto. Nero.

Lei amava i gatti.

Il mondo intorno a lei sparì e, di nuovo, tutto venne avvolto dall’oscurità. Il suo corpo si mosse da sola, ma la sua mente, entrata in uno stato di trance a cui era ormai abituata, era ben lontana da quel luogo: piangeva in un angolo per la morte di quell’essere e si rammaricava per non aver agito in tempo.

In quell’istante – che a lei parve eterno – le parve di sentire delle grida disumane, delle imprecazioni e il rumore della carne tagliata e di ossa rotte. Il suo corpo fece tutto da solo, e lei si fece cullare da quella sensazione di assoluta calma. Il rumore dei tamburi si spense all’improvviso. Poi sentì qualcosa di morbido fra le mani, qualcosa di peloso.

Aprì gli occhi e tutto tornò come prima. La stanza. Il cerchio. Il gatto diviso in due. E quattro corpi distesi a terra, in una pozza di sangue. Due erano ancora in piedi, in ginocchio, piegati sulle ferite di arma da taglio subite.

Le immagini di prima tornarono con violenza nella sua mente confusa e un nuovo conato di vomito le salì in gola. Quando vide il pugnale bagnato di sangue fra le sue mani e le sue vesti tinte del medesimo liquido, si sentì svenire e le forze l’abbandonarono.

Ma non appena vide la piccola palla bianca del cane, suo fedele compagno di vita e morte, fra le sue braccia, un senso di tranquillità la pervase: almeno lui era salvo. Era incredibile il fatto che desse più importanza alla vita di un cane randagio che alla sua, ma in un modo o nell’altro si sentivano compagni di sventure, e se sarebbero morti, lo avrebbero fatto insieme: come due condannati in prossimità del patibolo.

 

“Almeno non morirò da sola” sussurrò con un filo di voce. Si accorse che stranamente la voce non le tremava.

 

Uno dei ragazzi a terra – quelli almeno ancora vivi – si rialzò ansante e si avvicinò a lei con fare minaccioso, fulminandola con gli occhi gialli iniettati di sangue. Senza troppo sforzo, le prese il coltello dalle mani e glielo puntò alla gola, pronto a recidere le carni e la vita.

La ragazza non si ritirò, né gridò invano al vento. Se quella era la sua morte, se quello doveva essere il modo in cui doveva morire, almeno aveva combattuto per difendersi. E se le fosse rimasto un ultimo alito di vita, avrebbe nuovamente strappato il pugnale dalle mani del suo assassino e avrebbe fatto giustizia. Stavolta per sempre.

 

È successo di nuovo: ho perso il controllo. Ma almeno stavolta mi è servito a qualcosa, o a nulla, dipende dai punti di vista…

 

“Puttana… Hai ucciso i miei compagni, hai interferito nel rito… Ma non ti preoccupare, raggiungerai presto l’Inferno!”

 

Spero solo che Greta stia bene. Spero che sia tornata a casa sana e salva, senza aver incontrato le streghe le danzano, come diceva lei…

 

“Ora compirai l’ultimo atto…”

 

Chissà perché non le ho mai creduto: eppure, i demoni sono sempre stati qui, vicino a me, e non me ne sono mai accorta… Ma tutto ciò lo trovo…

 

“… Della tua misera esistenza!”

 

… Dannatamente ingiusto. Perché devo morire io?

 

Strinse il cane più forte e si costrinse a non chiudere gli occhi: voleva vedere la Morte in faccia fino alla fine. Il cane alzò il piccolo muso verso di lei e i loro occhi, per una seconda volta, si incrociarono. Sembrava calmo e impassibile, forse non conscio della situazione in cui si trovava.

Infine le ammiccò di nuovo e fece quello strano sorriso, che – forse per la stanchezza o per l’approssimarsi della fine – le sembrò pieno di scherno. Forse verso di lei, o verso la vita.

Anche lei ricambiò e gli rivolse quelle che furono le sue ultime parole.

 

“Mi dispiace di non averti potuto proteggere fino alla fine: ci vediamo in un’altra vita, spero…”

 

La lama scese di scatto, accompagnata da un nuovo grido disumano.

La ragazza chiuse gli occhi di scatto, rammaricandosi di questo, e aspettò il dolore e il buio eterno con pacata sicurezza.

Che non arrivarono mai.

 

 

“Sei svenuta?”

 

Una voce maschile, sconosciuta e stranamente più umana rispetto a quelle sentite finora, la destò dal suo incubo. E la fece precipitare in uno peggiore.

Non appena aprì gli occhi, vide dei corpi carbonizzati e una stanza che andava lentamente a fuoco: fiamme blu riducevano in cenere ogni cosa che testimoniasse il rito di quella notte, gettando polvere al vento e parole nel vuoto.

Fiamme blu. Ovunque. Anche sulle sue mani.

Lanciò un grido, il primo di quella serata, e sentì per la prima volta in assoluto il vero suono della sua voce: acuto, quasi fastidioso. Almeno la pensò così l’individuo vicino a lei, tappandosi le orecchie con fastidio.

Un uomo alto – troppo alto – si ergeva in tutta la sua figura nella stanza, donando qualche nota di colore a quel luogo spento; prevalentemente vestito di bianco, con un lungo mantello del medesimo colore che lo ricopriva interamente; stivali a punta fucsia e calze a righe rosa; un panciotto bianco, sui cui spiccavano un enorme foulard rosa a pois bianchi e una spilla stranamente familiari; infine, un cappello bianco che le ricordò tanto Alice nel Paese delle Meraviglie e non si sarebbe sorpresa se quello strano individuo avesse tirato fuori dal nulla una teiera e una tazza di tè.

Che fu quello che fece, non appena vide che lei si era calmata.

Estrasse un servizio da tè dal cappello e, versando il liquido dal dolce aroma nelle apposite tazze, gliene offrì una, con un profonda riverenza. Teiera, zuccheriera e tutto rimasero sospesi nel vuoto. La ragazza prese la tazza, senza sorprendersi più di tanto, ormai abituata a tutto.

Le fiamme sul suo corpo, intanto, cominciavano a estinguersi non appena beveva la misteriosa bevanda – era davvero tè?

 

“È una fortuna che queste scocciature abbiano raggiunto il Creatore, non credi? Ti sono debitore, anche se parte del lavoro l’ho fatto interamente io” affermò soddisfatto, lanciandole ogni tanto occhiate che non seppe decifrare.

 

Che ego enorme… Che fine ha fatto il cane?

 

“Un enorme potere in un così minuscolo corpo… Strabiliante, non è vero?” ghignò, fissandola.

 

Infine, lei li vide: gli occhi, le occhiaie. Gli occhi gialli.

 

“Il cane…” riuscì ad articolare.

 

L’uomo la guardò sorpreso, per poi scoppiare in una fragorosa risata: almeno lui sembrava divertirsi, nonostante tutto andasse a fuoco.

 

“Ebbene, eccomi qui, mia cara! Sorpresa?”

 

“No… Anzi, sì, ma non riesco a sorprendermi più di tanto, mi dispiace…”

 

“Non importa. Dopo questa esperienza, ciò che vedrai da qui in poi ti sembrerà normale!” sorrise cordiale.

 

Ancora lo osservava, incapace di muoversi o di fare altro. Osservava lui e le fiamme, con la domanda ovvia stampata sulla faccia. Per questo, l’uomo la prese in giro.

 

“Non ti spieghi ancora come sia potuto accadere ciò? Non ti viene in mente niente? Cielo, gli umani di questa epoca sono davvero lenti…”

 

“Chi sei…?”

 

“Un umile passante che, dopo aver udito le grida di una giovane donna in pericolo, è accorso in suo aiuto e ha trovato il lavoro già fatto!” ghignò di nuovo, aspettandosi una reazione.

 

“No, intendevo il tuo nome… Sei un demone, vero?”

 

Il sogno. Il demone. Le fiamme blu. Ogni cosa… Comincia a realizzarsi… Aiuto.

 

Il demone bianco sorrise, con più dolcezza – per quanto gli fosse possibile – e si tolse il cappello, inchinandosi fino a toccare terra.

 

“Esatto, mia cara, arguta risposta! Ti ricordi di me, vero?”

 

“Più o meno”

 

“Allora, perdona i miei modi scortesi. Il mio nome è Mephisto Pheles, un umile demone che si stava annoiando. Onorato di conoscervi, mia cara”

 

Mephisto… Un demone.

 

Subito, l’immagine della copertina del libro che aveva gettato le riapparve agli occhi: il Faust. Il Diavolo si chiamava Mephistofele. E si trasformava in un cane.

 

Oddio, sto parlando con un Diavolo… Il rito ha funzionato?

 

“E voi, di grazia, come vi chiamate?” chiese gentilmente, senza però una punta di scherno nella voce. Si aspettava di già la risposta.

 

No, non gli avrebbe dato soddisfazione. Voleva cancellare quel ghigno dalla sua faccia.

 

“Faust”

 

Ci riuscì. Mephisto la guardò stupito e, per un attimo, non seppe cosa rispondere: l’aveva colto in fallo.

 

“Come, prego?”

 

“Faust. È questo il mio nome, perché?”

 

Adesso era lei a ghignare. Questo sembrò fare piacere al demone, che la osservò per un attimo prima con curiosità, poi con divertimento.

Le tese un braccio per aiutarla a rialzarsi e, non appena lei glielo prese, la tirò a sé, facendole fare delle piroette in mezzo alle fiamme. Un folle valzer che solo i demoni potevano permettersi.

Cosa che la sorprese, più di quel gesto inatteso, fu il fatto che le fiamme non la scottavano. Anzi, erano piuttosto piacevoli…

 

“E sia, mia cara Faust! Stanotte iniziamo il nostro folle e indimenticabile valzer della notte, dove faremo cadere il mondo in rovina o, chissà, lo salveremo… Non odi anche tu le grida di fuori? Ebbene, la notte è appena iniziata, così come il tuo viaggio. Anzi, il nostro!”

 

E continuavano a ballare, con sinistra allegria. Faust si lasciava guidare, incapace ancora di articolare un discorso di senso compiuto.

Era stata salvata da un demone, o chissà che altro. Da un Diavolo, per giunta. E quelle fiamme… Le aveva create lei? Da quello che diceva il Mephisto, sembrava di sì.

Ma cosa più importante, era salva. Era viva. E se per questo doveva ringraziare gli Inferi, così sia: sarebbe presto tornata a casa, da Greta. Dalla sua famiglia. E avrebbe infine dimenticato.

D’improvviso, Mephisto si fermò e la guardò. La differenza di altezza fra i due era abissale.

 

“Bene, e ora parliamo di affari. Vuoi sapere qualcosa di più sui tuoi poteri, o su ciò che avverrà stanotte? Vogliamo stringere questo maledetto contratto?”

 

Contratto?

 

In quale situazione si era cacciata? E non poteva più sfuggirne, oramai…

 

 

 

Commento dell’autrice:

premetto, premetto, premetto che non ho la più pallida idea di come si svolga un rito satanico: mi sono lasciata andare  alla fantasia, e forse non è venuto affatto bene come volevo…

Da adesso in poi la storia di fa più movimentata, spero che molti di voi mi vogliano seguire fino alla fine ^^. Con questo, al prossimo capitolo!

Eins, Zwei, Drei! *puff

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Scommessa ***


Scommessa

 

 

 

 

 

Gli altri bambini erano sempre stati cattivi con lei: mai una volta che avessero giocato con lei, mai una volta che le avessero teso una mano quando cadeva. Lei era sempre rimasta da sola, senza amici.

La bambina era sempre seria, non sorrideva mai né provava a ridere; non le piacevano i giochi che facevano i suoi coetanei e, non appena era il momento di scegliere i componenti delle squadre, lei fuggiva via potandosi dietro un libro e non si vedeva più fino al crepuscolo, quando tornava con i vestiti sporchi e stracciati e la pelle piena di graffi. I suoi genitori pensavano ingenuamente che giocasse sempre con i suoi amici e la rimproveravano dolcemente quando la ritrovavano in questo stato. Ma la bambina in realtà non aveva amici, e nascondeva questa piccola verità in modo molto astuto.

Mentiva ogni volta che parlavano con lei. Fin da quando aveva memoria, le cose che sapeva fare meglio erano solo due: mentire e vedere i mostri. Anche se avrebbe fatto volentieri a meno di questo secondo dono…

La bambina vedeva cose che gli altri non riuscivano a scorgere e nemmeno lei riusciva a spiegarsi il perché. Erano ovunque: nascosti sugli alberi del parco in cui andava a giocare, negli angoli delle strade, nelle vie buie della città, nella sua soffitta… Trovava sempre dei piccoli esserini verdi che le sorridevano bonariamente, mostri privi di un volto che lasciavano al loro passaggio una lunga scia di bava, fantasmi che rubavano degli indumenti o facevano cadere i passanti. Di solito facevano solo degli scherzi innocenti – perfino a lei – e forse piuttosto fastidiosi, ma talvolta causavano la morte involontaria di molte persone con i loro dispetti e, inconsapevoli dell’azione commessa, sghignazzavano sommessamente.

Quando facevano così, la spaventavano. Per questo li evitava, smetteva di parlarci e tentava di avvisare gli altri quando i mostri stavano per fare del male a qualcuno. Come risultato, otteneva le risate e le beffe delle persone che la ascoltava: perfino dei suoi genitori. Di conseguenza, attirava anche le vendette dei mostri adirati.

Ogni volta che accadeva la bambina piangeva perché nessuno le voleva credere. Così, decise di smettere di avvisare gli altri: la ritenne una giusta punizione. Infatti, quando i mostri si avvicinavano agli uomini, lei distoglieva lo sguardo colpevole.

Ma le voci su di lei iniziarono a circolare fra i suoi compagni, che la evitavano e la prendevano sempre in giro per questo; talvolta, le facevano scherzi ancora più crudeli di quelli dei mostri. E lei subiva in silenzio, forse perché pensava che era giusto così, che era sbagliato vedere quelle cose: lei era un errore. In lei c’era sicuramente qualcosa di anormale, e per questo doveva essere punita.

Così viveva la bambina: in eterno conflitto con tutti, rinnegata da entrambi le parti e sola.

Sempre sola.

 

 

“Faust?”

 

Cosa? Chi è Faust?

 

Aprì gli occhi lentamente, sentendo dietro la schiena la dura corteccia dell’albero e il bagnato dell’erba sotto i palmi delle sue mani. La fredda aria della sera la riportò del tutto alla realtà e, per la prima volta da quando era uscita di casa, si sentiva bene: non avrebbe mai pensato che il vento gelato e portatore di mille odori potesse sembrarle così benefico in quel momento.

Poi, sottili gocce salate scendevano lente dalle guance. Vedeva appannato, come se si trovasse in piscina e il cloro le bruciasse gli occhi: stava piangendo. Di nuovo.

Improvvisamente, la sua mente contorta le aveva riportato a galla uno dei ricordi più profondi, che credeva di aver soppresso per sempre in quel mare di memorie che era la sua anima. Un frammento di un’infanzia triste, di un passato che voleva rinnegare e infine riscrivere.

Si asciugò in fretta gli occhi e capì dove si trovava: all’aria aperta, nel parco di fronte a casa sua. La stanza di prima, gli adepti della setta, il gatto morto, il pentagono… Ogni cosa era svanita, come la nebbia al mattino. Si sentì finalmente sollevata di essere uscita da quell’incubo. Per poi ricordarsi di essere entrata in uno ancora peggiore.

 

“È maleducazione ignorare chi ti sta rivolgendo la parola, sai?” disse infastidito Mephisto. Odiava quando qualcuno non gli prestava attenzione mentre parlava.

 

Con gli occhi ancora stralunati, la ragazza gli rivolse uno sguardo interrogativo: chi sei?, volevano dire quei due lapislazzuli accesi nella notte più profonda. Nonostante la mancanza di luce brillavano come due gemme preziose: affascinanti, si ritrovò a pensare il demone, osservandoli con più attenzione.

Affascinanti come la sua anima, ma non altrettanto come il resto del corpo.

Capelli corvini tagliati corti e raccolti in soffici boccoli che gli ricordavano quelle parrucche che aveva visto una volta a un ballo a Vienna, viso rotondo e pallido, occhiaie viola dovute alla pelle chiara – e osava dire di lui? Che insolenza! –, il tutto accompagnato da un corpo slanciato e troppo magro avvolto in una lurida giacca nera. In complesso, un’umana nella media, nemmeno troppo attraente.

Ma la sua anima…

D’altro canto, la ragazza non aveva certo una buona opinione di lui: anzitutto, per tutto questo tempo l’aveva creduto un cane che si era affezionato troppo a lei, poi si ritrovava un uomo vestito di bianco che le offriva una tazza di tè mentre intorno si consumava un incendio. E le si presentava come un demone: Mephisto Pheles.

E lei era Faust: ora ricordava.

In tutta questa faccenda c’era sicuramente qualcosa di anormale, di strano… Ma da come era iniziata questa serata, non poteva certo lamentarsi.

Si rialzò a tentoni, appoggiandosi con tutto il suo peso al pino che le faceva da supporto, e quando si fu assicurata di aver ritrovato del tutto il suo equilibrio, cominciò il suo interrogatorio.

 

“Chi sei?” chiese guardinga, mantenendo una certa distanza tra loro.

 

Il demone si accorse di questa sciocca precauzione e ne sorrise compiaciuto: lo temeva, almeno in parte. Bene, era ciò che voleva fin dall’inizio.

 

“Come ho detto prima, sono un umile demone che…” cominciò Mephisto, venendo però subito interrotto dalla ragazza. Che fastidio!

 

“Questo lo so, ma voglio sapere nel dettaglio: sei Mephistofele, il diavolo che tenta l’anima di Faust? L’Arciduca infernale?” un po’ di cose le aveva scoperte grazie a Greta, appassionata di occulto. Non avrebbe mai pensato che le sarebbero tornate utili…

 

Mephisto si rabbuiò e i suoi occhi brillarono nell’oscurità come quelli di un gatto. Faust indietreggiò, spaventata da quel bagliore sinistro: sembrava quasi che volesse mangiarla.

Ma il demone si ricompose subito, resosi conto di averla spaventata troppo.

 

“Gradirei che non mi chiamassi in quel modo: lo trovo troppo all’antica e anche troppo formale… Fra noi ci deve essere un rapporto di amicizia e fiducia, no?” disse sorridendo amichevolmente.

 

“Perché un diavolo vorrebbe essere mio amico?”

 

“Non conosci il detto: Tieniti stretto il Diavolo perché non ti ricapiterà di riacciuffarlo? Lo stesso ti conviene fare con me. Non sono certo al livello di mio Padre, questo purtroppo lo devo ammettere, ma sono abbastanza annoiato per essermi stancato della compagnia di laggiù e ricerco quella di voi umani. Approfittane!” ghignò perverso, avvicinandosi di un passo.

 

In breve, Mephisto si ritrovò alla gola il pugnale da cerimonia incrostato di sangue e fu costretto a ritornare al suo posto, vedendosi sfumate ogni possibilità di attirarla a sé con il suo metodo. Gli occhi con cui la ragazza lo guardava lo mettevano a leggero disagio: freddi, troppo freddi per un comune umano. E crudeli.

 

“Non m’importa se sei un demone o il Diavolo in persona, ma giuro che se provi a riavvicinarti, ti stacco la testa con le mie mani!” sibilò Faust, in preda a una scarica di adrenalina. Stranamente, le mani non le tremavano e si sentiva piuttosto sicura di sé.

 

“Sono immortale” puntualizzò Mephisto, scostandosi la lama dalla gola.

 

“Però ho tempo per fuggire” adesso era lei a ghignare.

 

Il demone ne rimase compiaciuto.

 

“Va bene, resterò al mio posto. Ma questo non mi impedisce di spiegarti la situazione in cui ci troviamo e…”

 

Ci? Cosa c’entri tu?”

 

“Oh, mia cara, io c’entro eccome in tutta questa faccenda. Ma tu, tu sei la chiave di ciò, sei il centro della vicenda! Sei l’Inizio e la Fine!”

 

“Non girarci troppo intorno e parla chiaro, ho fretta”

 

“La tua amica si sarà ormai spazientita e dubito che la ritroverai al vostro luogo d’appuntamento”

 

Faust non rispose, ma si limitò a guardarlo a occhi sbarrati. Mephisto sorrise soddisfatto: finalmente aveva colto la sua attenzione.

 

“Che vuoi dire?” chiese lentamente la ragazza.

 

Il demone la vide impallidire di fronte alla verità che l’attendeva e di questo ne sorrise.

 

“Questa è la notte di Halloween, una notte che incita le tenebre dell’animo a insorgere e a ballare in una macabra danza che si concluderà solo alle primi luci dell’alba. Ma stavolta, non è sicuro che ci sia una nuova luce…”

 

Di fronte alla perplessità della ragazza, Mephisto fece una mezza piroetta su se stesso e indicò l’ambiente circostante.

 

“Osserva tu stessa!”

 

Così lei fece e inorridì. Le case, gli alberi, i negozi apparivano come delle sagome di nero cartone che si ergevano su un cielo rosso sangue; una mezza luna occupava quasi tutto il firmamento e, osservandola con più attenzione, le pareva che avesse due occhi e un ghigno folle, da cui grondava un denso liquido rosso. Nell’aria volavano piccoli esserini neri con il loro fastidioso ronzio, che riconobbe come gli stessi di quella stanza; le strade erano illuminate da radi lampioni piegati su loro stessi, che lanciavano fugaci bagliori nella notte. Il tutto ricordava vagamente un quadro di Much. Nei vicoli esseri striscianti simili  a serpenti e gatti a due code con gli occhi spiritati vagavano incuranti delle due presenze umane nel parco. L’aria gelida portava ogni genere di rumore, da grugniti sommessi a ringhi feroci.

Faust gridò con tutto il fiato che aveva in gola, attirando l’attenzione di altri esseri informi che passavano di lì; uno di loro, un grosso gargoyle dalla lingua biforcuta, la osservò famelico.

La ragazza cominciò a tremare, senza controllo, e tutte le si fece più confuso, come se il mondo le vorticasse intorno. Una forte nausea la colpì e, dimenticandosi di Mephisto che la osservava stupito e del gargoyle che le si avvicinava, si lasciò cadere a terra, abbandonandosi a quella lenta agonia che ci attanaglia.

 

No… Di nuovo! Vedo quelle cose… Quei demoni… Perché io? Perché devo vedere queste cose? Pensavo che tutto fosse finito dopo quel giorno…

 

Il gargoyle si avvicinava pericolosamente. Successivamente si aggiunse un enorme verme privo di occhi, ma con una bocca provvista di canini cesellati, che scendeva dall’albero a cui era appoggiata e apriva vorace la bocca pronto per divorarla. Mephisto, invece, stava al suo posto, spostando lo sguardo impassibile dalla ragazza tremante ai due demone che attentavano alla sua vita. Sembrava attendesse qualcosa.

 

Aiuto, ho paura… Aiutatemi! Mamma, babbo, Greta… Non voglio morire! Non voglio, cazzo! Greta… Greta è in pericolo a causa mia!

 

“Greta…” sussurrò con un filo di voce, senza ricevere però risposta.

 

Il verme era ormai sopra di lei, aprì le fauci e si preparò al pasto. Che però non poté mai assaporare.

Il demone venne tranciato di netto e una parte del suo corpo volò lontano, mentre quella che doveva costituire la testa cadde ai piedi della ragazza che, vedendola, lanciò un nuovo urlo. Poi qualcuno la prese per le spalle e cominciò a scuoterla, ripetendo parole vuote che non giungevano alle orecchie di Faust.

La paura le raggelava i sensi.

 

“Se ti spaventi per così poco, non oso immaginare a quello che troverai dentro le case!” esclamò un voce con tono di scherno.

 

D’improvviso, tutto si fece più chiaro e limpido e la paura scivolò via dalle sue membra, così come era accaduto dentro la casa: adesso uno strano senso di pace l’aveva avvolta. Alzando gli occhi, incontrò  quelli verdi – o forse erano gialli? – di Mephisto e per la prima volta si accorse di quanto avessero da raccontare quelle iridi accese: sembravano antiche, come di chi è intrappolato nel passato, ma vive costantemente nel presente, cogliendo quell’attimo che la gente si lascia spesso sfuggire. Quegli occhi, che esprimevano tanto scherno, le parvero i più belli e i più interessanti che abbia mai visto; ma sapeva che non lo avrebbe mai ammesso, almeno non in sua presenza.

Inoltre, era la seconda volta che il tocco di quel demone la tranquillizzava. Sembrava in qualche modo influire sulla sua anima…

 

“Mi hai salvato?” chiese Faust con un filo di voce.

 

“Ovvio. Un gentiluomo non permetterebbe mai che qualcuno faccia del male a una signorina!” detto ciò, sorrise enigmatico e la prese in braccio, cullandola dolcemente.

 

Nonostante quel gesto  improvviso l’avesse messa in estremo imbarazzo e avesse fatto salire la sua bile, si sentì in qualche modo protetta e ritornò alla sua infanzia, quando sua madre… Ma sua madre l’aveva mai cullata in questo modo? Che ricordava, no… Ma allora perché questo gesto le era così familiare?

Intanto il demone, resosi conto di averla calmata, gettò uno sguardo adirato al gargoyle che intanto aveva fermato la sua avanzata, dopo aver visto la fine del suo compagno. Infatti, in breve anche questo demone volò via, spaventato dall’individuo vestito di bianco e con l’ombrello rosa macchiato di sangue nero.

Così Mephisto iniziò il suo discorso, attuando tutte le sue tecniche migliore per sedurre un’anima. Aveva compreso la situazione generale e sapeva quali parole usare: la ragazza era spaventata, ma manteneva ugualmente una sua lucidità. Questo perché c’era un pensiero constante nella sua mente.

 

“Tu potresti fermare tutto ciò, sai? Hai un potere immenso, che perfino io ti invidio…” iniziò a lusingarla, sussurrandole all’orecchio.

 

Faust sentì le palpebre abbassarsi e cominciò a sentire l’effetto soporifero delle parole del demone. Si limitò quindi a bofonchiare un debole: “Quale?”

Mephisto sorrise. Ci siamo!

 

“Hai ciò che noi demoni chiamiamo comunemente tocco di Satana – sai chi è Satana, vero? – e che viene passato dal Sovrano delle Tenebre solo alla sua discendenza. Tranquilla, non sei un demone o niente di che, ma devi aver avuto un contatto ravvicinato con lui per possedere le fiamme blu…”

 

Fiamme blu? Come quelle del sogno…

 

Il ricordo delle fiamme che bruciavano ogni cosa – la città, le persone – le riaffiorò e la scosse un fremito di paura; poi, l’immagine di quelle stesse fiamme che ardevano sui corpi impuri di quei ragazzi, la calmò di nuovo. Forse non erano del tutto malvagie se le avevano salvato la vita…

 

“Non rammenti nulla? Magari hai assistito a qualche evento di autocombustione umana o animale dove c’erano queste fiamme dal colore inusuale?”

 

Faust ci pensò, per quanto poteva farlo nello stato di intorpidimento in cui si trovava. Qualcosa era successo, che aveva a che fare con le fiamme: non era la prima volta che le vedeva. Ma il ricordo era troppo doloroso per risalire in superficie. Si limitò solo ad annuire, sentendo la lingua impastata.

 

“E sei stata per caso attaccata da queste fiamme?”

 

Faust annuì di nuovo, reprimendo un brivido.

Mephisto ghignò maligno, ripensando a una scena a cui aveva assistito.

 

“Ma non ti hanno bruciato, altrimenti non saresti qui a parlare con me. Bene, mia cara, la situazione è questa: hai assorbito il potere demoniaco di Satana e adesso si trova celato nel tuo animo, pronto a divampare a un tuo ordine! Come vedi, si è già manifestato”

 

“Ma le fiamme… Uccidono…” biascicò la ragazza, sentendo un calore che ricopriva il suo corpo. Che fosse il fuoco demoniaco?

 

“Non se le sai controllare bene, e io posso insegnarti! Sai, in questa notte si concentrano un sacco di demoni in un’unica città e fanno cadere gli umani in un sonno assai profonda, dal quale rischiano di non risvegliarsi mai più. Intanto, loro approfittano di questa occasione per divorare delle anime e per potenziarsi. A questo punto, entro in gioco io: ho il compito di eliminare questa massa anonima di demoni entro l’alba e di salvare centinaia di vite umane, ma da solo è chiaramente un’impresa impossibile! Per questo, quando ti ho scovato, ho pensato di sfruttare il tuo potere… Che ne dici di unirci in una breve alleanza?”

 

“Ma se questo è tutto un sogno… Prima o poi si risveglieranno! Dopotutto, non c’è incubo dal quale non ci si possa risvegliare”

 

“Ma da questo si rischia di dormire per l’eternità”

 

“E perché io sono sveglia?! O forse sto dormendo anch’io…”

 

“No, mia cara, tu sei sveglia. Devi sapere che me la cavo abbastanza bene con la magia: non è stato difficile isolarti dal resto del mondo…”

 

“Per questo mi seguivi” concluse Faust, cominciando a vedere chiaro in questa assurda faccenda.

 

“Io ho bisogno di me come tu necessiti della mia presenza! Senza il mio aiuto, non puoi controllare né risvegliare i tuoi poteri demoniaci…”

 

“Ma non voglio risvegliarli! Io sono un’umana!” dichiarò disperata Faust, ricordandosi amaramente di aver dubitato più volte della sua natura in passato. Ma adesso non era più una bambina.

 

“Quando si ha a che fare con i demoni, non si è mai del tutto umani, ricordatelo! Soprattutto con Satana. Lasciati andare a me e io ti donerò tutta la forza che vuoi”

 

“No!” urlò la ragazza, sciogliendosi da quello strano abbraccio e allontanandosi da lui con uno scatto.

 

Mephisto si doveva essere aspettato quella mossa, perché riapparve subito al suo fianco, ghignando maligno. Faust non riuscì più a muoversi e se ne stesse lì, mentre il demone le prendeva fra le mani il volto e la fissava dritta negli occhi, come per leggerle nell’anima.

 

“Tu in realtà vuoi questo potere, non è vero? Magari per diventare più forte, o forse per proteggere qualcuno…”

 

Faust cercò di abbassare lo sguardo, ma Mephisto glielo impedì dandole uno scossone: era impossibile sottrarsi a quegli occhi indagatori.

 

“… Una persona a te cara, forse? Avanti, non dirmi che non hai nessuno da proteggere!”

 

Il tono canzonatorio la fece imbestialire ancora di più, ma dovette  ammettere che aveva ragione.

Greta, l’unica persona per cui avrebbe dato la vita, era in pericolo per causa sua: forse, se fosse arrivata in tempo da lei, tutto ciò si sarebbe potuto evitare. Il pensiero della sua amica la fece per un attimo rilassare, donandole un nuovo senso di pace e tranquillità. Il demone se ne accorse, perché si allontanò dal suo volto e le tese una mano inguantata di viola con fare di uomo d’affari.

 

“Allora?” le chiese, allargando il suo sorriso sornione.

 

Faust guardò la mano e poi guardò lui. Infine getto un’occhiata veloce ai demoni che passavano sulla strada, alle case di cartone e alla luna ghignante.

Pensò a Greta e ogni preoccupazione svanì.

Greta era la sua migliore amica, l’unica persona per cui avrebbe dato la sua stessa anima al Diavolo. Perfino a Mephisto.

Per questo, quando pronunciò le parole fatali, lo fece con un sorriso sereno sulle labbra, con l’immagine fissa dell’altra ragazza nella sua mente: finché era per lei, avrebbe sterminato quei demoni fino all’esalazione dell’ultimo respiro, solo per sapere infine che almeno Greta stava bene. Solo per questo.

Della sua vita, della sua anima le importava il giusto. Le aveva donate solo a Greta.

Per lei, poteva morire felice.

 

“D’accordo, Mephisto, facciamo una scommessa?” disse, tendendogli la mano.

 

Il demone sorrise felice: ci era riuscito, di nuovo.

 

“Adoro le scommesse! Prestami il tuo corpo e io ti donerò il mio potere, solo per una notte: in cambio, tu riavrai la tua amica e la città, mentre io avrò eseguito il mio lavoro e mi prenderò come ricompensa la tua anima!”

 

“Accetto!” disse ingenuamente Faust, senza pensare alle dovute conseguenze.

 

Dopotutto, lo faceva per un’amica, no?

 

E così i due contraenti si strinsero la mano e il patto venne stipulato. Una luce accecante investì Faust, che ebbe solo il tempo per un ultimo pensiero.

 

La sua mano… Brucia come le fiamme dell’Inferno. Strano, pensavo che al Nono Girone facesse freddo…

 

 

 

 

SPAZIO DELL’AUTRICE:

sono in ritardo, lo so, ma pubblico finché me lo permette la scuola ^^”. E poi, devo ammetterlo, questo capitolo ha richiesto una lunga e ponderata meditazione… Ma alla fine ce l’ho fatta!

Mephisto mostra i suoi veri obbiettivi, il passato di Faust comincia a essere svelato: insomma, ho grandi progetti per questa storia! Inoltre, il rapporto tra Faust e Greta gioca un ruolo fondamentale qui, perché Greta ha costituito una figura di grande importanza nell’infanzia della protagonista. E Mephisto ne sa qualcosa.

Tocco di Satana… E’ una brutta scopiazzatura delle fiamme di Rin, lo so, ma non avevo idee migliori… Bene, detto questo, ringrazio coloro che ancora mi seguono e ci vediamo al prossimo capitolo!

Eins, Zwei, Drei! *puff

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Possessione ***


Possessione

 

 

Siamo tutti esuli del nostro passato.

Fëdore Dostoevskij

 

 

Dopo quella luce accecante, ogni cosa era stata avvolta dall’oscurità: di nuovo.

Solo una macchia di colori e luce era visibile in lontananza, quasi irraggiungibile per chi avesse perso le speranze di ritrovare un’uscita da quell’oscuro corridoio. E lei ancora non aveva perso. Si diresse, nuotando nelle tenebre, fino a quel punto di luce e vide se stessa. Era un’immagine talmente irreale che non poteva essere frutto di un suo ricordo, poiché da quando aveva memoria non ricordava di aver dormito così beatamente riscaldata dai raggi del sole: vedeva che il suo falso riflesso si trovava in un bosco, almeno così sembrava all’apparenza, appoggiata a un albero, con le mani giunte sul petto, come in atto di preghiera. Per chi pregava? Per un Dio che l’aveva fatta cadere in quella orribile situazione?

Eppure, su quel volto non c’erano tracce di preoccupazione, di ansia o di tristezza: sembrava serena, in pace con il mondo e con se stessa. Anche lei avrebbe voluto essere così: la invidiava per questo.

Sorrise dentro di sé, perché trovava buffo invidiare il proprio io. Ma avrebbe dato veramente qualsiasi cosa per fare cambio con il riflesso. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per sentire quel tiepido calore benefico.

Eppure, perfino lei adesso sentiva ardere dentro di sé un fuoco, ma non era come quello del sole: sembrava più violento, come se avesse voluto prendere possesso di tutto il suo corpo. Ma lei non volle reprimerlo, perché sentiva che era da tempo che divampava dentro di lei, ma non aveva mai potuto ribellarsi completamente. Ma adesso era il momento di risvegliarsi.

Decise così di lasciare a malincuore quella macchia di luce e quell’immagine così falsa che la rifletteva in un passato lontano, o forse in un futuro prossimo. Si immerse ancora di più nell’oscurità, lasciando che quel fuoco misterioso cominciasse ad ardere e ricoprire quel corpo freddo, così diverso da quello della sua se stessa nel bosco. Vide delle tenui fiamme blu che fuoriuscivano con timidezza dal suo corpo, per poi divampare con forza intorno a lei. Lentamente, si ritrovò circondata da fuochi fatui blu.

Ma non era preoccupata, o spaventata, perché sapeva che quelle fiamme non le avrebbero mai fatto del male: dopotutto, erano una parte di lei. Anzi, si lasciò andare a questo calore che non bruciava, ma appariva piacevole e quasi soporifero. Una parte di sé, quella più razionale, avrebbe voluto ribellarsi al giogo demoniaco; ma quell’altra, quella appunto che deriva dalla sua vera natura che non era mai perita, la intimava a rilassarsi e a seguire l’esempio del suo riflesso. E così lei fece.

Pensò solo, con tristezza, che non avrebbe mai raggiunto la pace della sua se stessa dell’immagine, poiché si era addossata un fardello forse troppo pesante per lei; ma finché quelle fiamme non l’avessero abbandonata, era sicura che ce l’avrebbe fatta.

Che fosse speranza, o che fosse disperazione quella che la guidava, non ne era sicura nemmeno lei: ma sapeva più di chiunque altro che non sarebbe comunque rimasta da sola. Fino all’ultimo alito di vita, avrebbe combattuto per riportare le cose alla normalità, avrebbe combattuto per lei.

E chissà, forse riuscirà a raggiungere quel frammento di anima nel bosco, al momento profondamente addormentato per lasciare spazio al demone che c’era sempre stato in lei. Era sicura che la sua anima l’avrebbe attesa fino alla fine, con pazienza.

Era sicura che un giorno l’avrebbe ritrovata lì e che finalmente si sarebbero potute addormentare insieme. Con la pace agognata nel cuore.

 

 

Non appena riaprì gli occhi, Faust si ritrovò in mezzo alla strada, di fronte a un incrocio: la destra portava in piazza, con la forma storta del campanile che si piegava su se stesso; la sinistra invece conduceva verso un viale circondato da case che un tempo appartenevano alle persone ricche, mentre adesso erano solo il triste residuo di una città di cartone dove la mano capricciosa di un Dio infantile era passata su di essa, distruggendola.

E non era da sola. Demoni di qualunque forma, di qualsiasi incrocio la osservavano digrignando le zanne, con occhi spiritati e l’istinto animalesco nello sguardo. Ma alcuni di loro apparivano anche titubanti ad attaccarla, quasi fossero spaventati. Non capendone il motivo, Faust si guardò le mani, ora inguantate di un lilla acceso, e fece un passo indietro, sorpresa: non ricordava di essersi cambiata d’abito.

Cercò una superficie riflettente, per vedere cosa diavolo era successo dopo quella luce accecante. Inoltre, Mephisto era sparito, lasciandola sola in balia dei demoni.

Trovò una finestra rotta di una casa e vide finalmente il proprio riflesso. Ciò che le si dipinse sul volto, era una smorfia di disgusto e di disappunto: odiava il rosa. La sua giacca di pelle nera era sparita, così come i suoi jeans e la sua amata sciarpa viola; al loro posto, uno stile a dir poco “medievale” la rifletteva sulla superficie liscia e rotta della finestra: stivali bianchi che non arrivavano nemmeno al ginocchio, accompagnati da calze azzurre a pois bianchi – calze a pois?! – che, nonostante il gelo della notte, la riscaldavano abbastanza; pantaloncini corti, bombati e di un fucsia molto acceso, così come il sopra; una cintura di cuoio, alla quale era legato un piccolo sacchetto di stoffa, le circondava la vita divenuta incredibilmente sottile; una giaccia del medesimo colore dei pantaloncini la stringeva ai fianchi, con ricamate ai lati sottili strisce dorate che formavano piccoli ovali; dietro, un lungo mantello bianco, con l’interno viola scuro, legato al collo e con i risvolti alzati in aria, la ricopriva completamente; infine, un singolare cappellino bianco che le circondava a mala pena la testa era ornato da due lunghe piume rosa piegate indietro, in modo da non ostruirle la visuale. Il tutto, però, dovette ammettere che era ben coordinato, soprattutto per le tonalità di colori, e forse si trattava anche di un abito abbastanza elegante per la moda di altri tempi.

Ma la sua reazione non cambiò ugualmente. Era indecisa se vomitare o infamare colui che le aveva rovinato la propria immagine solo per il gusto di fare.

 

Mephisto, dannato demonio! Dove sei?” urlò in preda alla rabbia e al disgusto.

 

Notò che la sua voce si era fatta più acuta e, ispezionando la bocca con la lingua, si accorse che aveva dei canini più appuntiti rispetto alla norma: delle zanne, poté appurare in seguito.

Una voce maliziosa e piuttosto divertita le rimbombò in testa.

 

“Qui, mia cara. Proprio dentro di te! Come dite, voi umani? Più vicino di così si muore!” disse prorompendo in una nuova risata.

 

Faust si tappò le orecchie, gettando sguardi persi intorno a lei: dov’era quel demonio?

 

“Maledetto, cosa hai fatto al mio corpo? Questa non sono io!”

 

“Infatti, questa forma è frutto della nostra unione, anche se non è il termine adatto per indicarla: possessione, direi. Ho preso in prestito il tuo corpo e questo è ciò che ne è uscito: non è fantastico?” esultò il demone, piuttosto euforico.

 

Faust avrebbe voluto staccargli la testa a morsi, adesso che possedeva perfino delle zanne; ma nella situazione in cui si trovava, la scelta giusta da fare era quella di stare al suo gioco: se questo pagliaccio aveva il potere di aiutarla, si sarebbe piegata a qualsiasi decisione. Ma c’era una cosa che non poteva accettare.

 

“Allora spiegami perché sono vestita di rosa!” urlò al vento, sentendo una furia cieca risalire in superficie. Insieme però a qualcos’altro.

 

“Questione personale di gusti. Devi sapere che, quando incontrai per la prima volta il Dottor Faust, ero vestito esattamente così: adoro questi abiti, ma non ho più avuto occasione di indossarli… Inoltre, mi sento stranamente a mio agio in questo corpo e, come forma di ringraziamento, ho voluto donarti questa forma decisamente più attraente e potente…” disse, continuando a elencare altri motivi che l’avevano spinto a prendere questa decisione.

 

Ma Faust non ci vide più. Così, abbandonandosi a quella rabbia, mista al disappunto e a una buona dose di vergogna, liberò tutti i suoi poteri demoniaci da tempo assopiti, prorompendo in un grido quasi animalesco. Fiamme blu circondarono il suo corpo e vennero aizzate contro quegli sfortunati demoni che si erano ritrovati a passare di lì, attratti da tale confusione: ogni cosa venne bruciata, come voleva la natura distruttiva del fuoco demoniaco.

Faust, vedendo ciò che aveva fatto, tentò di imporsi la calma, senza però riuscirci: le fiamme continuavano a prorompere dal suo corpo, con la stessa violenza di un vulcano in eruzione. Pensò a Greta, ma la situazione non mutò; Mephisto, resosi conto della difficoltà della ragazza, trattenne una risata e pronunciò una formula in una lingua sconosciuta. A quelle parole arcane, le fiamme blu si acquietarono, riducendosi a lievi scintille sulla testa della ragazza, simili a corna. Intanto, Faust si accorse con orrore che una cosa nera spuntava da dietro il mantello, muovendosi sinuosa e con una scintilla blu posta sulla punta.

 

“Cos’è questa cosa?!” urlò rivolta a se stessa, o più precisamente a Mephisto, prendendosi la coda.

 

“La tua coda” rispose semplicemente il demone.

 

“Questo lo vedo anche da me, ma perché ho una coda?”

 

“Perché adesso sei un demone, proprio come me! E se vuoi un consiglio disinteressato, faresti meglio a nasconderla: è un punto debole per noi”

 

“Ma io sono umana…” gemette Faust, prendendosi il viso fra le mani.

 

“Ogni essere umano ha una parte demoniaca dentro di sé, che cela i suoi desideri più oscuri. Anche le persone di questa città la possiedono, e imparerai presto a conoscerla” disse, bisbigliando queste ultime parole.

 

Nonostante lo sconvolgimento, Faust tirò un sospiro di sollievo nel sentire che non aveva ereditato nessun pizzetto con la possessione: almeno per quello, manteneva la sua femminilità. Però, osservandosi meglio al vetro, si accorse dei suoi occhi: non erano mutati in sé, ma riconobbe una piccola punta di scarlatto, proprio al centro della pupilla, che riluceva sinistra. Per il resto, ad eccezione delle orecchie a punta, dei canini e della coda, non era cambiata più di tanto.

 

“Alla fin fine, non importa quale aspetto assuma se la mia anima resta inalterata”

 

“Se riesci a mantenere vivo questo pensiero, non perderai mai te stessa…” sentì sospirare Mephisto.

 

Faust sorrise e distolse lo sguardo dal suo nuovo aspetto, decisa a ignorarlo per un po’. Si concentrò invece sul bivio che aveva di fronte, sinceramente indecisa su quale strada scegliere; per un attimo, si sentì come il povero Don Abbondio, posto anche lui dinanzi a un bivio simbolico dove solo una delle due strade poteva concedergli la salvezza, mentre quell’altra l’avrebbe portato inevitabilmente fra le braccia del Male. Ma per lei stavolta non c’era scelta: entrambe l’avrebbero comunque portata in grembo agli incubi.

 

“Allora, quale strada sceglierai?” la destò Mephisto, avendo intuito i suoi pensieri.

 

Faust preferì evitare la piazza dove di sicuro c’era un accumulo maggiore di demoni; inoltre il profilo ora sinistro del campanile della chiesa le mise i brividi. Optò quindi per la strada che conduceva alle residenze, incuriosita da quello che avrebbe potuto trovare nelle case di cartone e decisa a fare un po’ di pratica con i suoi nuovi poteri.

Camminando nella via silenziosa, illuminata debolmente da qualche lampione storto, poté osservare meglio i cambiamenti avvenuti nel giro di poche ore: un paesaggio da incubo le si apriva davanti agli occhi, dove la vivacità e i colori che predominavano in precedenza sui muri delle case, adesso erano solo spettri di un lontano splendore. Gli orrori dell’animo umano si mostravano in tutta la loro violenta e cruda realtà.

Fra i giardini, un tempo di un verde lussureggiante, strisciavano enormi vermi simili a quello che aveva tentato di divorarla, mentre sui tetti spigolosi erano appollaiati gargoyle, inquietanti cherubini dalle ali nere e gli occhi insanguinati, arpie invasate e con le zanne ben in vista, pronte a gettarsi sulla loro prossima preda. Faust li guardò uno ad uno, imponendosi un freddo autocontrollo e chiedendosi cos’altro avrebbe potuto trovare in quella notte.

Poi si fermò d’improvviso di fronte a una casa che non si distingueva in nulla dalle altre, ma che ai suoi occhi aveva un aspetto ben diverso. Prima di questa notte, lei e Greta la chiamavano la casa rosa e il nome scelto non era certo casuale: la vernice rosa ricopriva quell’abitazione, rendendola riconoscibile da lontano perfino di notte; il cancello era bianco, così come i tavoli e le sedie esposte fuori, abbellite da qualche enorme fiocco di raso bianco e rosa confetto legato qua e là, a rendere quella visione ancora più dolce; Biancaneve e i sette nani si ergevano sul terreno, come antiche sentinelle di quella casa; un cartellino appeso al cancello riportava questa amichevole scritta: Ti auguro tutto ciò che pensi di me. L’interno, inoltre, non si distingueva dall’esterno: pareti fucsia, con affissi dei piattini bianchi con disegnati sopra gatti e cani; peluche posti ordinatamente sulle mensole; mobilia di tutte le tonalità di quel fausto colore…

Un enorme confetto, ecco cos’era. Se non ricordava male, ci abitava una vecchia conoscente di suo padre, anch’essa altrettanto singolare come la sua abitazione, ma di cuore gentile e mente acuta.

 

“Entriamo” disse Faust, dirigendosi verso il cancellino ora nero, arrugginito e piegato all’interno.

 

“Perché proprio qui?” domandò incuriosito Mephisto.

 

“Perché questa casa, nella realtà, rispecchierebbe i tuoi gusti”

 

Ignorando le bestie che la fissavano malamente, Faust mise la mano sul pomello della porta squadrata e il dubbio di trovarla chiusa la assalì. Quando però la serratura scattò e la porta si aprì con un lento cigolio, un sentimento di sollievo misto a terrore la fece fremere. Ma l’eco della risata di Mephisto, la riportò violentemente alla calma: non voleva mostrarsi debole di fronte a quel demone.

La porta si apriva sul vuoto, dove l’oscurità aveva inghiottito ogni cosa: nero totale in quella casa dai gioiosi colori. Ora come non mai avrebbe desiderato vedere quel rosa acceso.

 

Chissà cosa troverò dentro…

 

“Prepara la tua mente, perché ciò che vedrai sono le immagini partorite dalla mente umana, i desideri più nascosti dall’animo, le brame oppresse dal proprio cuore: non lasciarti tentare da nessuna di queste!” la raccomandò Mephisto.

 

Faust strinse gli occhi per riuscire a scorgere qualcosa in quel buio perenne, ma null’altro che oscurità le si parava dinanzi: perfino il suo futuro, da lì in poi, era incerto e oscuro come questo corridoio.

Liberando così la mente da ogni futile pensiero, di modo che qualunque cosa trovasse non potesse farle perdere la ragione, sospirò rassegnata e si gettò nelle tenebre, abbracciandole come se fossero vecchie amiche. Non si sarebbe mai immaginata che fossero così inconsistenti e fredde…

La porta dietro di lei si richiuse seccamente, privandola di ogni debole luce in quel mare nero. Continuò solo a cadere, sperando solo che finisse quella lenta e lunga agonia che ritrovava perfino nei suoi incubi.

Sperò solo che tutto ciò finisse il prima possibile.

 

 

 

 

SPAZIO DELL’AUTRICE:

buonasera! – Perché come al solito i capitoli li pubblico di notte…

La storia sta andando per le lunghe, me ne accorgo perfino io: un po’ perché è difficile amministrare il tempo e i capitoli, un po’ perché mi servono fonti per i prossimi demoni che Faust dovrà sterminare. Anche se un’idea cominciò già ad averla….

Capitolo abbastanza noiosetto e forse inutile, ma ci tenevo a farlo soprattutto per parlare della possessione: quando ho visto per la prima volta gli abiti di Mephisto quando incontra Faust, la mia prima reazione è stata lo shock per quelle calze, poi ho pensato: “Quell’abito lo devo mettere addosso a un mio personaggio!”. Ed ecco come è partorita l’idea della possessione. Detto questo, vi saluto!

Eins, Zwei, Drei! *puff

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Nella tana del Coniglio ***


Nella tana del Coniglio

 

 

“Ma io non voglio andare fra i matti”, osservò Alice.

“Be’, non hai altra scelta”, disse il Gatto

“Qui siamo tutti matti. Io sono matto. Tu sei matta”.

“Come lo sai che sono matta?” disse Alice.

“Per forza,” disse il Gatto: “altrimenti non saresti venuta qui”

[Alice nel Paese delle Meraviglie, Lewis Carroll]

 

 

Non seppe dire con precisione per quanto tempo stesse cadendo, ma nell’attimo in cui toccò terra le parve che fosse passata un’eternità. Si sentiva come una piccola Alice, indifesa e innocente, caduta nella tana del Coniglio e catapultata nel Paese delle Meraviglie: solo che lei non aveva niente dell’Alice di Lewis Carroll, né la sua innocenza né la sua ingenuità.

Mentre tornava con la mente alle letture della sua infanzia, una luce improvvisa la investì, accecandola, e l’oscurità di quel luogo venne dissipata. Quando riaprì lentamente gli occhi, Faust vide finalmente ciò che per ogni demone diviene infine cibo: i desideri e le tenebre dell’animo umano. E quelle della donna che abitava la casa rosa erano particolarmente inusuali, al punto da farle credere di essere finita veramente nel Paese delle Meraviglie.

Gli edifici, che si perdevano in un soffitto infinito, erano costituiti non da grigi mattoni, bensì da ciambelle glassate di rosa, arancio, azzurro e con caramelle dei colori dell’arcobaleno sparse sopra, poste una sopra l’altra a creare una pericolosa e pendente torre di Pisa; torte di oltre venti piani con la crema che fuoriusciva dalle fessure di pandispagna, come un vulcano in eruzione, si piegavano in avanti, facendo colare la cera delle candele rosa, mentre altre si appoggiavano alle loro vicine, sorreggendosi a vicenda. Da un punto imprecisato del soffitto piovevano altre caramelle, insieme a coriandoli colorati che si ammucchiavano in un unico punto della strana città; il viale che le si apriva dinanzi era costeggiato da numerosa porte viola, ognuna riportante un numero romano, e le mattonelle a scacchi, di cui il viale era formato, si illuminavano a scatti, cambiando tonalità di colore. Altre montagne di numerosi oggetti – fra cui aghi e bottoni, peluche sorridenti, bambole vestite a festa, perle e pietre preziose – erano poste senza un ordine preciso, nascoste dalla poca oscurità rimasta come oggetti dimenticati; nell’aria volavano animali simili a farfalle, ma dai colori spenti e privi di un’ala. Luci rosa e di altre tonalità del medesimo colore illuminavano quell’ambiente strano, che rimandava forse al carattere e ai gusti dolci e femminili della donna. Tutto ciò era forse una prigione d’avorio della sua anima, intrappolata perennemente nei ricordi d’infanzia? Così forse si spiegavano tutti quegli oggetti…

D’improvviso, tutte le porte sul viale si aprirono di scatto e di lì uscirono degli enormi orsi di pezza, con toppe grigie che bloccavano le fuoriuscite di gommapiuma e ognuno privo di un arto. Così questi inquietanti esseri zoppicavano allegramente per il viale, per poi dirigersi tutti insieme verso quella pioggia di confetti e coriandoli; quelli che potevano alzare le braccia – o il braccio – tentavano di afferrare quelle delizie, mentre gli altri spalancavano la loro bocca perennemente aperta e ingoiavano ciò che capitava loro di prendere.

Faust, incuriosita da quello spettacolo, si avvicinò senza fare troppo rumore al branco, sbirciando di tanto in tanto le porta viola che si erano da subito richiuse, sperando che si riaprissero di nuovo per poterci entrare.

 

Questo luogo è così strano… Dopotutto, rispecchia la personalità della persona che ci abita.

 

“Sarebbe questo un incubo? Ah, spero che d’ora in avanti siano tutti così!”

 

“Invece di ridere, guarda cosa sta accadendo a quei giocattoli…” le consigliò cupo Mephisto.

 

Richiamata all’attenzione, Faust volse gli occhi al branco di peluche e sentì un grido morirle in gola: i corpi senza vita degli orsi giacevano in una pozza di sangue cremisi sul viale, mentre quei pochi che erano ancora in piedi, non appena ingoiavano quelle caramelle, cadevano anch’essi con un secco tonfo. Tutti vomitavano sangue dalla loro bocca, mantenendo però quel sorriso immutabile sul volto di pezza. Altri ancora, invece, cominciavano a prendere lentamente fuoco al tocco dei coriandoli, facendo salire alle narici della ragazza un nauseante odore di carne bruciata.

 

Carne? Com’è possibile…?! Sono di pezza, non sono umani!

 

Faust si portò le mani alla bocca per trattenere un conato di vomito, intimandosi nuovamente la calma che però non arrivava.

 

“Non stare lì impalata, vai a vedere cos’è quella pioggia assassina!” le ordinò Mephisto, riscuotendola dalla sua trance.

 

Facendosi largo fra i cadaveri degli orsi, Faust tese una mano per toccare la pioggia e la ritrasse subito, trattenendo un gemito di dolore; si guardò la mano ferita e si rese finalmente conto della pericolosità di quel luogo: non erano caramelle né coriandoli, ma puntine colorate e scintille di fuoco pronte a esplodere al minimo contatto.

Sentendo la paura salire, indietreggiò e inciampò su uno dei cadaveri, bagnandosi di quel liquido tanto caro agli umani e assai gradito dai demoni. Lanciò un urlo, che si espanse per i palazzi di quella città, e tentò di fuggire via, mantenendo l’equilibrio sulle sue gambe malferme.

Lo stava facendo di nuovo: fuggiva di fronte alle sua paure, lasciando le cose come erano. Per punire se stessa, per punire gli altri.

 

 

Aaaah, scappate! Sta arrivando il mostro!” urlò un bambino.

 

“Arriva la bambina che vede i fantasmi! Stalle lontano, altrimenti ti attaccherà una maledizione…” incalzò un altro bambino.

 

Ogni giorno l’arrivo della povera bambina era accompagnato da queste crudeli grida di finto terrore, che intimavano gli altri a farle ala mentre passava. Anche se voleva piangere e sfogarsi, battere pugni e calci a terra, la bambina tratteneva questi sciocchi impulsi che erano naturali per un bambino della sua età. Lei era forte e, anche se stava male, non doveva mai mostrarsi debole di fronte agli altri.

Un giorno, un bambino temerario le lanciò un piccolo sasso e questo scatenò una guerra a chi lanciasse il sasso più grosso al mostro: la colpivano in viso, alla stomaco, sul collo, sulle braccia… Per questo tornava a casa sempre piena di lividi viola. Ma anche se sentiva un forte dolore e una cieca rabbia, la bambina non diceva mai nulla, né si difendeva.

I demoni, però, sentivano i suoi sentimenti avversi e, attratti da questa forte aura negativa, attaccavano sia lei che gli altri bambini. Questi fuggivano urlando e piangendo, mentre la bambina osservava il vero spettacolo senza fare nulla per impedire ciò: loro le avevano fatto del male, quindi dovevano pagare.

Ma ogni volta che succedeva una cosa del genere, non riusciva a guardare la scena fino in fondo e fuggiva anche lei, non perché era inseguita da un demone, ma per non farsi vedere piangere da nessuno. Non appena sentiva le lacrime che le annebbiavano la vista, si rifugiava nel suo amato bosco e di lì non usciva fino al crepuscolo.

Nessuno sapeva cosa faceva veramente, ma di una cosa erano tutti certi: lì da sola non poteva fare niente, se non piangere.

Nessuno però sapeva un’altra cosa di quel bosco: che ogni volta che ci entrava, almeno lì, non era mai veramente da sola.

 

 

“Perché fuggi?” le domandò tranquillo Mephisto, nonostante la situazione stesse precipitando.

 

Faust non rispose, ma continuò a correre per il viale a scacchi, che avevano smesso di cambiare colore e si erano fermati sul nero e sul bianco. Il mantello che svolazzava le era di impaccio e avrebbe voluto toglierselo, se un ringhio sommesso di Mephisto non l’avesse desistita dal suo proposito. Ritenne che la scelta migliore era quella di aprire una delle porte viola; ma non appena posò una mano su un pomello, tutte le porte cominciarono a muoversi vorticosamente, scambiandosi fra loro e circondando la ragazza spaventata. Infine, tutte si unirono in un’unica enorme porta, alta quanto i palazzi di torte, e si piantò di fronte a Faust, impedendole la fuga.

La ragazza sentì le gambe cedere e cadde in ginocchio, più terrorizzata che rassegnata, di fronte a quel colosso, mentre la città intorno a lei stava lentamente cadendo in rovina: i palazzi e le montagne di giocattoli crollavano come tasselli di un domino; le bambole riccamente vestite voltarono di scatto la loro testa verso Faust, guardandola con occhi vitrei, e spalancarono le loro bocche, facendo uscire un suono stridulo simile a una risata e mostrando dei denti aguzzi e biancheggianti; le farfalle spente iniziarono a volare sempre più vorticosamente, ricoprendo il corpo di Faust. Queste graffiavano con le loro ali la pelle della ragazza e spargevano una polverina che corrodeva la pelle.

Faust tentava di coprirsi con il mantello, senza però riuscire a trovarlo, e intanto subiva quel doloroso bruciore e quelle risate isteriche che le perforavano i timpani. Non urlava più, né osava piangere, ma sussurrava in preda ai singhiozzi parole sconnesse, nel disperato tentativo di uscire da quell’incubo che la stava uccidendo.

Mephisto sapeva che se non avrebbe aiutato la ragazza, questa o sarebbe impazzita, o l’avrebbero divorata i demoni. E ciò, per lui, era un’enorme fonte di problemi e di complicazioni che avrebbe preferito evitare. Sebbene quella ragazza fosse forte, la sua mente era troppo fragile e forse non pronta a sopportare le oppressioni dell’animo altrui; forse era stato troppo precipitoso a concederle tutto quel potere.

Ma oramai era troppo tardi per i rimpianti.

 

“Ascolta, Faust, tu vuoi morire?” domandò gentilmente Mephisto, scandendo bene ogni parola, di modo che raggiungessero la sua mente sul punto di crollare.

 

Faust non rispose, ma annuì scuotendo più volte la testa, un po’ per liberarsi di quelle farfalle, un po’ per rispondere alla domanda.

 

“Vuoi salvare Greta, la tua migliore amica?”

 

Stessa reazione di prima, stavolta più convinta.

 

“Allora, se qualcuno ti offre dei poteri non alla portata di un comune umano, sfruttali! Possiedi il tocco di Satana, usalo! Ospiti nel tuo corpo un demone come me, e questo stesso demone si mette al tuo completo servizio! Cosa aspetti? Scatena il tuo vero potenziale!” gridò Mephisto, fra un misto di incitazione e curiosità.

 

Appena queste parole raggiunsero il subconscio della ragazza, una fiammata blu ricoprì il suo corpo e si espanse in tutta la città, incenerendo le farfalle velenose e bruciando ogni cosa che prima era parsa tanto piacevole al suo occhio. Perfino le bambole indemoniate vennero investite da quel fuoco, sciogliendosi poi in fiumi di cera grigiastra. Un odore di carne bruciata giunse alle narici della ragazza.

Ma stavolta le fiamme non si acquietarono. Faust le lasciò andare, sentendosi per la prima volta libera e potente. Potente, lei, da sempre una debole che fuggiva dalle sue paure: finalmente le era permesso affrontarle.

Lasciò quindi che le fiamme di Satana le ricoprissero il corpo, come un’armatura, e che il sangue demoniaco le scorresse libero nelle vene, per raggiungere finalmente la consapevolezza della debolezza dell’animo umano: ognuno avevo una parte demoniaca dentro di sé, pronta a risvegliarsi alla prima occasione.

Mephisto, a questa esplosione di energia, parve eccitato come lo può essere un bambino dopo aver scoperto qualcosa di strano, e, dentro di sé, confermò i suoi sospetti: per accendere la miccia, bastava solo incitarla. E nominare Greta. Non pensava che questo nome gli sarebbe tornato poi utile, un giorno…

 

Mephisto!” lo chiamò Faust.

 

“Dimmi, mia cara fraulein?”

 

“I tuoi poteri… Mi permetteresti di usarli? Hai detto di essere al mio completo servizio, no? Bene, adesso puoi dimostrarmi la veridicità dietro queste parole!”

 

Mephisto rimase in silenzio, soppesando la situazione: certo, aveva numerosi assi nella manica, ma non voleva sfruttarli tutti con questa ragazza. Optò quindi per la decisione più saggia e giusta, almeno a suo parere: prestarle una minima parte dei suoi poteri, che lei avrebbe potuto giostrare a suo piacimento.

 

“Molto bene, Faust. Ritieniti fortunata, non a tutti prometto un simile privilegio”

 

Detto ciò, ai piedi di Faust comparve un pentagono che lanciava bagliori rosa e dal quale usciva, seppur lentamente, il manico di quello che sembrava uno scettro. Faust, rimasta un poco interdetta da questa apparizione, si riprese dallo stupore e afferrò con entrambe le mani lo strano oggetto, tirandolo a sé.

Lo scettro sembrava che provenisse dalle profondità della terra stessa e Faust durò non poca fatica ad estrarlo dal tutto; quando infine ci riuscì, ciò che si ritrovò fra le mani indolenzite era un lungo e pesante scettro d’oro, finemente lavorato e liscio al tatto, con l’estremità a punta e un’enorme rubino scintillante incastonato in cima, che lanciava bagliori fugaci e rifletteva l’immagine cremisi della ragazza. Una volta che lo scettro era stato estratto del tutto dal terreno, il pentagono svanì, insieme alla luce rosata, che sicuramente era un tocco personale di Mephisto.

Faust, fissando lo scettro, non riusciva a capire come questo soprammobile potesse esserle d’aiuto nella sua situazione attuale; doveva ammettere che era pesante, ma riteneva che darlo in testa ai demoni non sarebbe stato sufficiente. Mentre rifletteva sul da farsi, una delle bambole investite dal tocco di Satana – ora ridotta a un ammasso di cera informe, ma ancora in grado di muoversi – si distaccò dal mucchio delle sue sorelle in fiamme e, lanciando uno sguardo pieno d’odio dall’unico occhio rimasto alla sua carnefice, spiccò un salto di un paio di metri  e si avventò sulla ragazza, facendo uscire dalla bocca storta un grido agghiacciante. Spalancò le fauci e mostrò al nemico le sue bianche zanne, pronte a lacerare la carne.

Faust distolse lo sguardo dallo scettro e si accorse di quella visione da incubo che incombeva su di lei. Sul suo volto si dipinse una maschera di nuovo terrore, facendola ricredere sull’innocua natura delle bambole; d’istinto alzò lo scettro, tentando di proteggersi da quelle tenaglie, e un nuovo pentagono dai contorni rosa comparve davanti allo scettro, intromettendosi fra la preda e il predatore. Non appena la bambola toccò quel disegno, venne respinta e scaraventata lontano, finendo contro un edificio di marzapane che crollò dopo il violento impatto, seppellendola fra le dolci macerie.

Faust osservò stupita lo scettro e poi il pentagono che l’aveva protetta, fungendo da barriera. Anche se non poteva vederlo, era certa che Mephisto in quel momento stava ghignando soddisfatto: fin dall’inizio sapeva che non ci sarebbero stati problemi.

Dopo la misera fine della compagna, altre bambole carbonizzate iniziarono ad attaccarla da tutti i lati, costringendo Faust a eseguire contorti movimenti per respingere tutti quegli attacchi. Ogni bambola, al contatto con quella barriera, veniva scaraventata addosso ai palazzi o finiva in pezzi ai piedi della ragazza. Faust cercava di ignorare i resti inumani che le si ammucchiavano davanti e si costrinse a pensare che non erano persone reali e che il tanfo di carne bruciata era solo frutto della sua mente ormai spossata.

Mephisto cominciò a mostrare segni di impazienza, chiedendosi quando sarebbe comparso il vero boss della partita.

 

“Per quanto tempo vuoi restare sulla difensiva? Attaccali!” le ordinò sbuffando.

 

“E come dovrei fare, di grazia? Non mi lasciano un momento di respiro e non posso certo usare questo bastone per darlo in testa!” obiettò Faust, ansimando per la fatica e la concentrazione.

 

“Come osi chiamare questo raffinato oggetto bastone? E poi, basta che usi le fiamme come diversivo e infine lo scettro per colpirli. Ah, per la precisione, non devi darlo in testa a nessuno”

 

“Allora cosa dovrei fare?” chiese disperata Faust.

 

“Usa un po’ di immaginazione!” disse semplicemente Mephisto, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

 

Faust, sebbene le scocciasse ammettere che lui aveva ragione, fece quello che le aveva detto il demone: concentrò – non con poca difficoltà – le fiamme davanti a lei e le fece esplodere come un fuoco artificio, bruciando nuovamente le finte carni oramai distrutte delle bambole, che caddero con un secco tonfo a terra, estinguendosi insieme alle fiamme. Quelle poche sopravvissute si arrestarono, intimorite di subire anch’esse quella sorte. Faust ne approfittò per escogitare una strategia efficace. Osservò lo scettro, ammirando la lucentezza e la bellezza del rubino: sembrava un enorme occhio perennemente aperto sul mondo.

 

Se solo avessi un’arma più potente…

 

Le tornarono poi in mente le parole di Mephisto, così prive di senso all’apparenza: Usa un po’ di immaginazione. Forse non era del tutto folle il suo consiglio; dopotutto, era un demone esperto della magia, uno dei più forti – a quanto sapeva – dell’Inferno, dopo Satana: che non avesse progettato un’arma tanto potente da contrastare i suoi simili, le sembrava alquanto strano.

Facendo questi pensieri, non si accorse delle bambole che stavano puntando di nuovo su di lei, né degli ammonimento preoccupati di Mephisto.

 

“Pensa in fretta…” gli sentì dire, quasi in un sussurro.

 

Faust non gli prestò molta attenzione, intenta com’era a fissare quell’arcano oggetto e a rimuginare sul da farsi.

Le bambole approfittarono della sua distrazione e si gettarono nuovamente su di lei, più agguerrite di prima. Ma Faust non le degnò di uno sguardo, chiusa nei suoi pensieri.

 

“Arrivano!” urlò Mephisto, tentando di risvegliarle la coscienza, invano.

 

Se avessi un’arma…

 

Le bambole erano ormai a un passo. Una di loro si distanziò dalle altre, puntando vorace alla testa della ragazza: pochi centimetri le separavano.

 

… Sarebbe di sicuro un’arma da fuoco, visto che sono in grado di usare il tocco di Satana. Un fucile, ad esempio!

 

Non appena questo pensiero le attraversò la mente, una leggera scossa la fece fremere sul posto, eccitando i nervi; non appena la sentì svanire, lo scettro cominciò a liquefarsi, a ricomporsi, a liquefarsi di nuovo, come se cercasse una forma precisa. Faust, terrorizzata per la sua mano, tentò di lasciar andare quell’ammasso informe di metallo dorato, senza però riuscirci; una nuova scossa le pizzicò i nervi, come se stesse scavando nella sua mente alla ricerca di un’immagine. Quando infine sembrò averla trovata, ciò che restava dello scettro iniziò a prendere una forma, allungandosi, tingendosi di argento, fino a trovare finalmente la sua vera essenza: un fucile napoleonico, con una canna lunga e di peso leggero, con un piccolo pentagono inciso sul manico e un rubino incastonato al centro della stella, che se poggiata a terra l’arma avrebbe potuto superare Faust in altezza.

Era sorpresa. Alla fine, il suo desiderio era stato realizzato. Che fosse per merito di Mephisto o di qualche altro diavolo, non le importava: il solo pensiero di avere un’arma per proteggersi, per salvare Greta – e, ovviamente, i suoi genitori – le dava una sicurezza e una forza che prima non possedeva. Ogni paura venne calpestata da questi nuovi sentimenti che si agitavano nel suo animo. Sentì le fiamme blu crepitare dentro di lei, desiderose di venire nuovamente liberate e di spargere una scia di distruzione sulla solo strada.

Così, quando puntò la canna del fucile contro quella bambola e premette il grilletto, non trattenne un ghigno malefico e beffardo, con una debole scintilla di follia negli occhi. Mephisto la notò e pensò cupamente che ben presto quella scintilla sarebbe diventata una fiamma al pari di quelle di suo padre.

Lo sparo riecheggiò sinistro, facendo arrestare le altre bambole. Faust non sentì il rinculo e di questo parve soddisfatta.

 

Il mio corpo sembra che non abbia più niente di umano… Dovrei esserne felice?

 

Scacciò questo fastidioso pensiero privo di risposta e liberò del tutto la mente, concentrandosi solo su una parola che per lei stava assumendo un nuovo e incredibile significato: sterminare. Se li avesse sterminati tutti, Greta si sarebbe salvata: ciò che doveva fare era solo abbandonare ogni istinto umano e lasciarsi andare al suo nuovo potere.

Così fece. Sparò altri quattro colpi, centrando perfettamente le teste delle bambole – nonostante non avesse mai avuto un’ottima mira –, e gettò via il fucile, ormai scarico; quasi immediatamente, ne uscì un altro dal terreno, accompagnato da un nuovo pentagono, e Faust fece la stessa cosa di prima. Per quanti fucili gettasse, ne comparivano di nuovi e avrebbe potuto continuare così all’infinito se le bambole non fossero scomparse del tutto, decimate dalla forza distruttrice dell’arciduca demoniaco.

Ciò che sorprese Mephisto, osservando in silenzio il macabro sterminio, era l’agilità impressionante – mai posseduta – con cui la ragazza eseguiva i movimenti, aggraziata come pochi, ma con una forza che lo preoccupava; ma ancora di più, era la follia che lentamente stava prendendo il possesso della sua mente a intimorirlo: se fosse impazzita, quel corpo non le sarebbe più servito.

Sterminate le bambole, l’enorme porta al centro del viale si tinse di nero e si aprì all’improvviso. Faust, nonostante fosse infervorata, tese i muscoli fino allo spasmo.

 

“Eccolo… Sta arrivando il vero boss: il creatore di questo folle mondo!” pigolò eccitato Mephisto.

 

Dalla porta uscì fluttuando un piccolo coniglio bianco di peluche, malamente cucito e in pessime condizioni: la metà di un orecchio era stata strappata via con violenza, mentre il resto era cucito con toppe colorate e ricami fatta da una mano malferma ; mancava un occhio, mentre quell’altro lanciava fugaci bagliori scarlatti che non avevano niente di rassicurante; un panciotto logoro, nero, era slacciato e lasciava intravedere la cordicella d’oro di un orologio da taschino, nascosto sotto gli abiti; il tutto completato da un enorme papillon rosso e un sorriso tipico dei peluche.

Faust lo guardò interdetta e un moto di delusione la sorprese: si aspettava forse una creatura più forte solo per il puro piacere di farla a pezzi? La sua possessione aveva cambiato molti tratti del suo carattere…

Mephisto, però, era guardingo di fronte a quel nemico. Sperò solo che la ragazza, presa dai suoi poteri, non facesse qualche follia.

 

“È vero, è piccolo, ma non farti ingannare dalle apparenze. Avverto uno strano intento omicida e un intenso rancore, ma non credo che siano rivolti a te… È meglio aspettare una sua mossa, prima di…” ma non fece mai in tempo a finire la frase che Faust fece uno scatto fulmineo in avanti, raggiungendo il coniglio, e gli puntò il fucile sul muso.

 

La bestia non fece niente per difendersi, quando ricevette il colpo. La testa del peluche si aprì in due e cadde a terra, senza fare rumore, mentre una pozza di sangue si spandeva sul viale. Faust fece una smorfia di disgusto e si voltò, decisa ad andarsene. Non sentì le repliche di Mephisto sul suo comportamento, né sentì lo strano rumore – come quello di una persona che si stesse strozzando – provenire da dietro le spalle. Ancora non riusciva ad uscire da quello stato di trance.

Non si accorse del coniglio che si era rialzato e aveva spalancato la minuscola bocca, facendone uscire con un singulto di sangue un enorme verme che si estendeva per tutta la città: a strisce bianche e nere, con una maschera bianca che mostrava un ghigno malefico e due occhi storti, spalancò anch’esso le fauci e inghiottì Faust.

Il demone, essendosi mostrato per ciò che era veramente, rise sguaiatamente e iniziò a distruggere tutti i resti di quella città di torte e giocattoli, mosso da una feroce rabbia che solo un altro folle potrebbe comprendere. Ad un tratto si fermò davanti a un palazzo di ciambelle, preso da un lancinante dolore, e si erse in tutta la sua altezza, spalancando la bocca per farne uscire un rantolo strozzato.

Poi le fiamme di Satana lo avvolsero nella loro morsa mortale, bruciandolo da dentro; infine, un taglio netto lo separò, facendo cadere le due metà del corpo colossale in due punti differenti della città. Dall’apertura creatasi, ne uscì Faust con una falce dalle forme spigolose, di un rosso acceso e dalla lama sanguinante, con un enorme occhio posto in cima, la cui pupilla a spillo si dilatò al contatto con il nero sangue.

Faust, per nulla sconvolta dal viaggio nell’apparato digestivo del demone, atterrò con grazia sul viale, osservando con aria schifata il mostro. La testa era rivolta verso di lei e ogni traccia di follia era svanita da quegli occhi spiritati, adesso ricolmi di una tristezza e di una malinconia strazianti, e di qualcosa di molto più profondo: pentimento. Calde lacrime di sangue scesero da quel volto pallido e singhiozzi strozzati provenivano da quella gola vorace che tanto aveva divorato, senza mai accontentarsi.

Faust, per nulla impietosita da questa scena, alzò la falce in alto, pronta a fare l’atto estremo. Mephisto, da dentro, non disse nulla, ma guardò gli occhi della ragazza e notò la differenza dalla prima volta che l’aveva incontrata: un cieco odio e un folle desiderio, misto a una forte speranza, esprimevano quei due lapislazzuli, le cui pupille rosse rivelavano la loro natura demoniaca.

Per un attimo, Mephisto provò compassione per quel demone che stava per passare sotto la lama di quella che gli uomini chiamavano “giustizia”.

 

“Intrappolata nella tua infanzia, non sei riuscita ad affrontare il mondo crudele degli adulti e sei ricaduta negli abissi della follia. Ciò che ti resta, ora, è solo un folle odio privo di senso verso ciò che prima amavi, e che poi ti ha ridotto così: la tua infanzia, con i tuoi peluche e le tue torte, è stata la tua stessa rovina. Per questo, ora ti libero dal tuo incubo” recitò Faust, pronunciando parole che pensava non avrebbe mai detto: da dove venivano? Era forse Mephisto a suggerirle?

 

Calò la sua falce, ignorando gli occhi spaventati del demone, e compì l’atto estremo. L’incubo della donna della casa rosa terminò.

Mentre il corpo del demone svaniva, anche il resto del meraviglioso mondo  stava lentamente cadendo a pezzi, rivelando ciò che era in realtà: un’immensa landa di oscurità, ciò che ci aspetta prima del risveglio.

Ben presto Faust si ritrovò sospesa in queste tenebre, con i palazzi di torte, il viale a scacchi e i cadaveri dei giocattoli svaniti. Solo a quel punto tornò in sé, sentendo quella parte che l’aveva controllata finora nascondersi negli antri più remoti della sua anima. Solo a quel punto, si rivolse finalmente a Mephisto.

 

“È tutto finito?” domandò con un filo di voce.

 

“Mia cara, siamo appena agli inizi, e manca ancora molto all’alba! Il divertimento deve ancora venire!” disse giocoso.

 

Faust si abbandonò all’oscurità, sicura che prima o poi sarebbe finita. Allora, le tornò in mente il volto del demone: sembrava che stesse piangendo per ciò che aveva fatto, e che le stesse chiedendo scusa. E anche qualcos’altro.

Ti prego, non farlo!, sembravano dire i suoi occhi. Quando chiese di questo a Mephisto, lui non le rispose. Al contrario, canticchiò una canzone appena inventata da lui su una bambina curiosa e su un coniglio bianco: l’intento era quello di tranquillizzare l’animo inquieto della ragazza.

Faust si addormentò, cullata dalla voce del demone, e sperò nuovamente di non sognare niente, come faceva sempre. Ma aveva riiniziato a farlo in questa notte, quando il suo piccolo mondo cadde in rovina.

Forse, se qualche ora fa non avesse sognato, tutto ciò si sarebbe potuto evitare.

 

 

 

 

SPAZIO DELL’AUTRICE:

capitolo molto lungo e molto sofferto… Arrivata a un certo punto, tutto filava liscio ma quando sono giunta alla descrizione della battaglia contro le bambole indemoniate, mi sono bloccata. È stato difficile scegliere l’arma adatta a Faust, ma alla fine ho optato per uno scettro in grado di cambiare la materia! E non sarà solo quella una delle armi…

Vi è piaciuto questo incubo? Io mi sono divertita a descriverlo, spero che anche voi vi siate divertiati a leggerlo ^^. Per alcuni tratti mi sono ispirata a Mahou Shoujo Madoka Magica – appena finito di vedere – e per altri ai giocattoli che tengo in camera: tranquilli, non ci sono bambole assassine! Sono indecisa se mettere altri incubi, ma così rallenterei la storia… Voi che ne pensate?

Dai, commentate! Le critiche, sia negative sia positive, sono ben accettate. Ora me ne vado davvero: al prossimo capitolo!

Eins, Zwei, Drei! *puff

 

 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=855541