Dragonball NG - Codice Sigma di Beatrix82 (/viewuser.php?uid=44673)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Prologo
Prologo
Il
laboratorio era ancora vuoto, silenzioso. Nell’aria si percepiva solo il
ronzio dei macchinari in riscaldamento, nascosti negli angoli in penombra della
stanza, dove la glaciale luce al neon dalle vaghe sfumature verdi non li
raggiungeva pienamente.
Frederik
aprì lo zainetto di tela, estraendo da esso un camice bianco ripiegato con
cura, che indossò senza fretta.
Mentre
si abbottonava, sollevò la giovane testa verso lo specchio a muro che
comprendeva buona parte di una delle pareti del laboratorio. Per un po’ rimase
a fissare il suo volto pulito, i suoi occhi grigi dallo sguardo ancora insicuro
e puro di un adolescente, i capelli color biondo cenere che li ricadevano in
parte sul volto, incapaci da domare, il camice vecchio e logoro di chi si può
permettere acquisti sono in negozi di seconda mano. Era ben lungi, ancora, da
interpretare l’uomo colto e altolocato che un giorno sognava di diventare. Per
ora era solo un giovane tirocinante in attesa di conseguire la laurea, unico
obiettivo a cui, per ora, poteva pensare.
Dal
corridoio percepì l’avvicinarsi di rapidi passi. Passi di donna, accentuati
dal rumore di tacchi alti contro il pavimento di linoleum. Ed ecco entrare la
donna che per lui costituiva un mito, un idolo, un’istituzione, eccola farsi
avanti con i corti e lisci capelli pettinati elegantemente in un caschetto
azzurro, il bel viso illuminato dagli occhi blu sfavillanti di luce e dalle
labbra rosse, il camice bianchissimo aperto su un’elegante tailleur nero,
scollato al punto giusto, in modo da dare anche alla più impegnata delle
scienziate la grazia e la bellezza di una donna che ha il fascino nel sangue.
Bulma
Brief, presidente di una delle più famose aziende del pianeta, gli aveva
concesso gentilmente di frequentare i suoi laboratori durante le vacanze estive.
La Capsule Corporation, infatti, era una delle massime fornitrici di macchinari
scientifici del laboratorio in cui svolgeva l’internato, e prendendo lezioni
direttamente dall’inventrice, Frederik era sicuro di poterli usare al meglio.
Il giovane era ancora stupito di come la donna lo avesse accolto senza problemi
fin dal giorno in cui si era presentato alla Capsule Corporation, rendendosi
sempre disponibile e felice di fornire chiarimenti e spiegazioni, nonostante la
scarsità del suo tempo e il lavoro a cui doveva badare.
Frederik
ammirava quella donna. Forse la invidiava, un po’. Avrebbe voluto essere come
lei, un giorno. Ma a lui non interessavano tanto i soldi, la fama, i
riconoscimenti scientifici…era convinto che la soddisfazione più grossa, per
uno scienziato, venisse non dagli altri, ma da dentro di se, la gioia e la
realizzazione di aver creato qualcosa di straordinario, di unico, di
inimitabile…quello era senz’altro il riconoscimento più grande…
“Ciao,
Freddie” lo salutò la donna con un caldo sorriso.
“Salve,
signora Brief” rispose il ragazzo, inchinandosi impercettibilmente.
Lei
incrociò le braccia, alzando un sopracciglio con uno sguardo di rimprovero.
“Freddie…quante
volte devo dirti di chiamarmi semplicemente Bulma?” sorrise. “Non vorrai
farmi sentire vecchia, vero?”.
“Oh…assolutamente
no…Bulma” rispose il ragazzo, passandosi una mano tra i folti capelli con
imbarazzo.
“Bene!”
esclamò la scienziata. “Vedo che anche oggi sei in perfetto orario e già
pronto per il lavoro! Sei proprio un bravo ragazzo, Freddie!”.
Frederik
sorrise, arrossendo leggermente. Fare buona impressione e mostrarsi volenteroso
e determinato era la base per diventare qualcuno, per avere la possibilità, in
futuro, di fare grandi cose. Solo così, piano piano, avrebbe potuto salire la
montagna, lui che non partiva solo dalla base, ma da luoghi ancora più
profondi…suo padre era morto quando aveva solo tre anni, sua madre lavorava in
una sartoria a stipendi miserabili, e lui non aveva altra possibilità, se non
con le sue sole forze, di combattere il grigiore dell’esistenza che lo aveva
segnato fino ad allora, concedendosi una possibilità per sentirsi qualcuno.
“Allora”
iniziò Bulma. “Ieri abbiamo visto insieme i macchinari che usate per
conservare i campioni biologici…adesso ti faccio vedere le centrifughe,
vieni!”.
La
seguì nella stanza attigua, da cui si accedeva dall’ultima porta del
corridoio. Entrando, notò subito che lo specchio dell’altro laboratorio
corrispondeva ad una vetrata trasparente sulla faccia opposta della parete
divisoria.
Bulma
notò la sua curiosità.
“Quella?
E’ una vetrata da cui, quando lavoro qui, posso vedere se tutto è apposto
nell’altra stanza, cioè il laboratorio principale…da lì, invece, sembra di
avere davanti un semplice specchio!”.
Frederik
sorrise tra se, pensando a come il gusto estetico di Bulma Brief arrivasse anche
entro le pareti del suo luogo di lavoro.
Si
sedettero davanti alla macchina in questione, della quale Bulma, con pazienza e
chiarezza, iniziò a spiegargli dettagliatamente le funzioni, le modalità
d’uso, le varie utilità. Mentre la donna parlava, indicandogli pulsanti e
dispay, lui seguiva attentamente, rapito dalla voce della sua maestra quanto dal
mondo che lo circondava: un’infinità di invenzioni con il marchio
dell’azienda, uscite da una sola mente, non solo in quella stanza e nel resto
dei laboratori, ma anche nelle città e nelle case di mezzo mondo…chissà cosa
provava, lei, nell’aver creato qualcosa di così meraviglioso…
Dal
corridoio percepì un’avvicinarsi di passi, questa volta lunghi e pesanti,
accompagnati da un pianto infantile che non accennava ad acquietarsi. Bulma si
girò istantaneamente verso la porta, sospirando poi arrendevolmente.
“Mio
marito con mia figlia” spiegò. “L’avevo lasciata a lui per un po’…a
quanto pare la piccola non ne vuole sapere!”.
Freddie
sorrise, ricordando la buffa faccina della bimba che spesso aveva preso in
braccio, non aveva nemmeno un anno, ancora, ma era già così graziosa e così
simile alla madre da averlo subito conquistato. Anche il figlio maggiore, un
ragazzino tredicenne con dei bizzarri capelli lavanda, era un tipetto
piuttosto simpatico, che una volta gli aveva anche offerto una sfida ad un suo
nuovo videogame in un momento di pausa.
Era
con il padre, che proprio non riusciva a comunicare. Era noto a molti che il
marito di Bulma Brief fosse un tipo alquanto strano e burbero, ma conoscerlo di
persona era stato di gran lunga peggio. Ogni volta che lo incrociava, lui lo
squadrava sempre con diffidenza, attraverso quegli occhi neri impenetrabili e al
si sotto di quelle sopracciglia aggrottate, ai suoi saluti spesso rispondeva
borbottando qualcosa di incomprensibile o evitando semplicemente di
considerarlo. C’era qualcosa in lui che lo spaventava, che lo metteva in
soggezione, sebbene non riuscisse a capire che cosa.
“Bulma!”
lo sentì chiamare a metà corridoio, con quella sua voce grave e profonda che
quasi mai aveva sentito.
“Ti
dispiace se mi assento un attimo?” gli chiese Bulma leggermente mortificata.
“Credo che Bra abbia fame…”.
“Oh,
no…figurati!” rispose Frederik, rassicurante. “Intanto, prenderò appunti
sulla lezione”.
Bulma
approvò soddisfatta, per poi uscire dalla stanza richiudendosi la porta alle
spalle, in modo da concedergli maggiore concentrazione.
Mentre
si accingeva a scrivere sul suo taccuino, sollevò leggermente la testa verso la
vetrata a muro, da cui notò che Bulma, seguita dal marito che in quella
situazione sembrava alquanto impacciato, si era seduta nel laboratorio
principale con in braccio la piccola. Preso il biberon dalle mani del marito, da
quello che Freddie poteva capire tentava con poco successo di mostrare
all’uomo come sfamare la figlia senza perdere la pazienza.
Il
ragazzo sorrise, divertito.
Quando
rialzò di nuovo lo sguardo, Bulma, lasciando la figlia nelle braccia del padre,
aveva risposto frettolosamente ad un citofono sulla parete del laboratorio. La
vide dire qualcosa all’uomo, per poi uscire e tornare da lui.
“Mi
ha chiamato la portineria, Freddie” si scusò la donna. “Devo salire un
attimo”.
“Nessun
problema” approvò il giovane, immerso diligentemente nei suoi appunti.
Era
di nuovo solo. Solo, con quell’uomo nella stanza vicina. Fortunatamente, lui
non doveva sapere della sua presenza. Altrimenti, non era da lui venire a
rendersi ridicolo come padre quando nelle vicinanze c’erano ospiti. Di solito,
sarebbe stato il più lontano possibile. Meglio così. Non era obbligato a
salutarlo e a sentirlo rispondere con un grugnito annoiato, o fissarlo come se
fosse il più sconosciuto degli estranei.
Si
concesse invece un giro del piccolo laboratorio. Esattamente come negli altri,
c’era un largo bancone bianco da lavoro, degli sgabelli di legno, attrezzi
ingegneristici di varia natura e alcune delle invenzioni in fase di
terminazione, di cui probabilmente Bulma doveva testare il funzionamento prima
di inserire nel mercato. Tra le cose di cui riuscì a capire l’utilità,
c’era uno strano apparecchio per leggere l’intensità di flussi
elettromagnetici, dotato di una specie di ago a bussola e di un display
numerico, un buffo triciclo motorizzabile per bambini, con cui probabilmente
faceva divertire la figlia, e un micro computer tascabile dotato di navigazione
in internet, satellitare e di linea telefonica. Quella donna era un pozzo di
risorse…
Si
girò di nuovo verso la vetrata. La bimba ora aveva smesso di piangere,
prendendo a giocare con gusto con un buffo sonaglio rotondo. Quando però questo
le scappò di mano rotolando tragicamente sotto uno dei grossi refrigeratori del
laboratorio, la piccola scoppiò di nuovo in lacrime, seduta sul pavimento della
stanza come un fagottino smarrito.
Il
marito di Bulma si avvicinò al macchinario. Tenendo con la mano sinistra il
biberon, con la destra sollevò il frigorifero.
Frederik
sobbalzò, mentre il blocco degli appunti, la penna e una serie di fogli volanti
cadde sparpagliandosi sul pavimento.
L’uomo
tenne alzato il macchinario con naturalezza, fin quando la bambina non ebbe
recuperato il sonaglio con il sorriso sulle labbra e potè rimetterlo a terra.
Il
ragazzo scosse con decisione la testa, correndo più vicino alla vetrata e
stropicciandosi gli occhi con violenza, convinto che ciò che aveva appena visto
fosse solo un’allucinazione. Quell’uomo era senz’altro molto forte e
muscoloso, ma nessun uomo era capace di sollevare una decina di quintali
di ferro e alluminio con una sola mano! Non era semplicemente possibile…
Che
avesse preso qualche integratore dietetico? Qualche anabolizzante? No…in
commercio non esistevano di così potenti…a meno che…non fosse
un’invenzione di Bulma…
Rimase
con il naso a pochi centimetri dal vetro, senza più pensare a quanto si trovava
vicino a quell’uomo e a quanto rischiava di essere visto, perché in quel
momento tutto ciò che gli interessava era quello che stava succedendo, qualcosa
di impossibile e straordinario…
Ma
tutto quello non era niente in confronto a ciò che vide dopo alcuni secondi.
La
bambina, annoiata dal giocattolo, aveva ricominciato a piangere. Il padre, al
limite della pazienza, aveva tentato invano di farla calmare. Posandola infine a
terra, le si era messo davanti, aveva ispirato profondamente e qualcosa di una
potenza e una lucentezza straordinaria era uscito dal suo corpo, qualcosa che in
un primo momento aveva abbagliato Frederik, costringendolo a coprirsi gli occhi.
Quando finalmente si abituò alla luce, vide il suo corpo come ardere in un
fuoco dorato, che però non lo bruciava, anzi, lui sorrideva con fierezza, e i
suoi capelli…diventati improvvisamente biondi, mentre la bambina lo guardava
divertita, battendo le piccole mani.
Come
poteva essere…quale spiegazione per tale fenomeno?
Sul
bancone davanti a lui, dove aveva appoggiato le mani per tenersi in piedi,
c’era il rivelatore di energia elettromagnetica. Avrebbe potuto accenderlo.
Aveva paura di farlo, di premere l’interruttore. Ma doveva farlo…
Lo
fece, con le mani che gli tremavano, impacciate nel tenere lo strumento dritto
verso l’uomo. Il display segnò “error” dopo aver raggiunto il massimo
valore che poteva comprendere. No…impossibile…quell’uomo stava
sprigionando un’energia inconcepibile…niente del genere era mai stato
descritto in natura…
Il
suo cuore gli martellava in petto così velocemente che temette di lasciar
cadere lo strumento.
Dopo
alcuni secondi che a Frederik parvero un’eternità, i capelli dell’uomo
tornarono magicamente neri e tutto il bagliore intorno al suo corpo sparì così
com’era cominciato. Adesso, il segnale del rivelatore tornava progressivamente
a zero. Non si accorse subito, però, che spostando il puntatore verso la bimba
seduta sul pavimento, la numerazione tornava ancora a salire, non fino al limite
come nel caso di lui, ma verso valori incomprensibilmente elevati…
Era
come se la bimba avesse risposto con una piccola emanazione di energia a quella
potentissima del padre…
Follia.
Pura follia.
Eppure
aveva avuto tutto davanti agli occhi, e i suoi occhi non potevano mentire alla
sua mente…
Deglutì
faticosamente, cercando di calmare il respiro affannato che gli cresceva in
gola.
Ciò
a cui aveva assistito aveva del magico, del sovrannaturale, ma evidentemente
quell’uomo possedeva qualcosa che glielo permettesse come se fosse la cosa più
naturale del mondo. E se anche la bambina possedeva, sebbene in misura minima,
quella dote, doveva certamente essere qualcosa di ereditabile…
Il
suo cuore non accennava a dargli trema, ma adesso pulsava più per
l’eccitazione che per la paura. Era di fronte ad un miracolo, ad una
meraviglia della natura, che però doveva avere una spiegazione…
Cercando
di non fare rumore, si avvicinò cautamente alla porta chiusa, aprendola
lentamente. Nessuno nel corridoio. Era estremamente rischioso, ma lui doveva sapere…
La
porta del laboratorio principale era solo accostata. Non ebbe il coraggio di
guardare all’interno, gli occhi di quell’uomo sembravano scrutare
costantemente in ogni direzione, in ogni angolo, come se scavassero anche nel
profondo dell’anima. Si limitò a fermarsi contro la porta, sperando di non
tradirsi, o per lui sarebbero stati guai seri.
“Hai
visto? Quello era il super sajan, il guerriero dorato più forte”.
Nel
sentire la voce dell’uomo, Frederik sobbalzò, temendo che quelle parole
fossero rivolte nei suoi confronti. Poi capì che stava parlando con la bambina.
Ma che significava?
Super
sajan...sajan...
E’
così che chiamava quella cosa? E’ così che chiamava…se stesso?
“E
ricordati sempre, piccoletta, che tuo padre non solo è un sajan, ma è il
principe dei sajan!”.
Principe…ma
cosa…
La
bimba risacchiò gioiosamente, come se, nonostante la tenera età, capisse
perfettamente le parole del padre.
“I
Son sono sajan di terza classe” continuò. ”Prima o poi lo capirà Goku!”
Goku...Son Goku...
Ma
sì, adesso ricordava dove aveva sentito quel nome. Non che fosse un grande
appassionato del campo, ma doveva essere stato un mitico vincitore di qualche
torneo di arti marziali, in passato.
Un
sajan anche lui? Ma cosa erano, esattamente, i sajan?
Un
rumore di passi nella stanza. L’uomo si stava spostando, forse veniva verso la
porta, verso di lui…
Scattò
come una preda attaccata da un cacciatore, precipitandosi su per il corridoio,
verso l’uscita, lontano da lì, accelerò il passo inciampando verso i mobili
accostati ai lati, corse finchè sbattè contro qualcosa che lo fece tirar fuori
un’esclamazione terrorizzata.
“Freddie…”.
Davanti
a lui c’era Bulma Brief, contro la quale si era scontrato nella sua istintiva
fuga. La donna lo guardava con un’espressione confusa e apprensiva. Solo
allora si rese conto che i suoi occhi dovevano sembrare quelli di chi aveva
appena visto un fantasma, che i suoi capelli erano in parte appiccicati alla
fronte per via del sudore che aveva cominciato ad imperlargli il viso, e che
ansimava come un criminale in fuga.
“Tutto
bene?” gli chiese la donna, preoccupata.
Frederik
fece per risponderle, ma le parole gli si impastarono in bocca, facendolo
boccheggiare invano come un pesce.
La
donna le posò gentilmente una mano sulla spalla. Il suo tocco era morbido,
delicato, la sua mano così piccola. Chissà però se anche lei…
“Che
ne dici di fare una pausa?” propose Bulma. “Posso prepararti una tazza di thè”.
Il
ragazzo, ancora incapace di parlare, annuì, accennando un sorriso forzato.
Continuava
a fissare distrattamente il liquido ambrato all’interno della sua tazza, che
girava e rigirava senza sosta tra le mani. Il fluido ruotava contro le pareti,
sempre più veloce, creando un vortice verso il quale si sentiva tirar giù
inesorabilmente.
“Sai,
questo è uno dei miglior infusi di thè che c’è in circolazione” gli
spiegava Bulma mentre trafficava allegramente nella spaziosa cucina, disponendo
sul tavolo deliziosi vassoietti di pasticcini. “Ho anche delle tisane
rilassanti, sono un vero toccasana quando devi lavorare tutto il giorno,
e…”.
La
donna parlava, parlava, ma Frederik non l’ascoltava, la sua mente,
d’altronde, era rivolta a ben altri pensieri, che lo tormentavano e
l’eccitavano al tempo stesso. Adesso, finalmente, poteva pensare con maggiore
lucidità a ciò che aveva visto e udito. Poco prima, nei laboratori, la
sorpresa e lo choc erano stati troppo intensi per permettergli di riflettere.
Ora, però, ripreso contatto con la realtà, era il momento di pensare, capire
e…prendere delle decisioni.
Era
stato testimone di un fenomeno inimmaginabile, dal potenziale immenso. No,
parlarne con la polizia, con i giornalisti o con gli scienziati sarebbe stato un
tremendo errore, una mossa sbagliata…certo, gli avrebbe fatto guadagnare
quanto neanche avrebbe potuto mai sperare in una vita, garantendo a lui e a sua
madre un futuro più agevole, ma non era solo la ricchezza che gli
interessava…il suo sogno non era questo…
Ciò
a cui aveva assistito apparteneva solo a lui. L’aveva visto lui,
l’aveva capito lui, lui ne era il solo beneficiario, e solo così avrebbe
potuto sfruttare al meglio questa occasione per conoscere fino in fondo il suo
significato…
“Vuoi
una fetta di torta?” gli offrì gentilmente Bulma, riportandolo alla realtà.
“Oh,
no, grazie…” balbettò, ancora non completamente a suo agio. Ciò che era
successo avrebbe cambiato per sempre la sua visione di quella donna, di quella
casa, di quella famiglia. “Io…avrei bisogno del bagno” mentì.
“In
fondo al corridoio a destra, Freddie” indicò Bulma, accompagnandolo fuori
dalla stanza.
Il
ragazzo avanzò, indeciso, fino ad arrivare alla porta della stanza, entrarvi e
richiuderla frettolosamente a chiave.
Appoggiò
le spalle al legno della porta, sospirando. Ma non era il momento di esitare,
quello, doveva agire, ora o mai più. I Brief non avrebbero capito…non
si rendevano conto di ciò che poteva voler dire il loro potere per il mondo
della scienza, come di colpo avrebbe potuto rivoluzionare tutte le certezze
scientifiche attuali, abbattuto tutti i dogmi della mente umana, come avrebbe
potuto aprire nuove strade verso nuovi orizzonti, verso nuovi valichi, e su, più
su, fino alla cima della montagna, fino ad innalzare l’uomo a divinità…
No,
non avrebbero capito…nessuno forse poteva capire quanto lui…
Aprì
nervosamente cassetti e sportelli della stanza, finchè finalmente trovò ciò
che cercava. Un piccolo pettine. Tra i denti erano rimasti alcuni capelli. Puntò
il pettine verso la luce. Capelli color lavanda, di media lunghezza.
Appartenevano certamente al figlio maggiore.
Sorridendo
con soddisfazione, ma con una punta di tensione, inserì un paio di capelli
all’interno di un piccolo astuccio trasparente che estrasse dalla tasca dei
jeans, nascondendolo poi accuratamente. Per tutta l’operazione, continuò a
dare occhiate terrorizzate verso la porta. Anche se era chiusa a chiave, temeva
da un momento all’altro che il marito di Bulma la sfondasse facendo irruzione.
Quell’uomo sarebbe stato per molto tempo motivo di incubi notturni, ma allo
stesso tempo il simbolo di una nuova consapevolezza.
Si
guardò allo specchio, sistemandosi i capelli e sciacquandosi il viso, cercando
di riprendere controllo di se. Infine, uscì dalla porta, tornando in cucina.
Bulma
stava riponendo le tazze nel lavabo, accingendosi a sciacquarle.
“Bulma…io…dovrei
andare”.
La
donna si girò verso di lui, sorpresa.
“Mi
sono appena ricordato che…devo accompagnare mia madre dal medico. E’ molto
importante” cercò di dire, con la massima naturalezza possibile.
Bulma
sorrise, comprensiva.
“Certo,
capisco benissimo, Freddie. Và pure, ci vediamo domani”.
Ma
il giorno dopo Frederik non tornò affatto. E neanche quello successivo. Quel
giorno sarebbe stato l’ultimo, l’aveva saputo nel momento stesso in cui
aveva visto ciò che avrebbe cambiato per sempre la sua vita. Non in modo
apparente, però. La sua esistenza sarebbe trascorsa in modo assolutamente
normale, portando avanti ciò che già aveva cominciato, senza escludere
impegno, sacrificio, giornate di duro lavoro. Ma in cuor suo si rasserenava,
perché era a conoscenza di qualcosa di straordinario, da mantenere segreto e al
sicuro, ma che di certo sarebbe stato il suo tesoro più grande.
Continua…
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Capitolo 2 *** Capitolo 1 ***
Capitolo 1
Capitolo
1
La
sveglia risuonò martellante nelle orecchie di Trunks, che allungò una mano in
direzione del comodino afferrando il noiosissimo oggetto. Stropicciandosi gli
occhi per adattarsi alla candida luce che filtrava dalla finestra, con
espressione assonnata guardò le cifre luminose sul display.
Le
sette e trenta. Era già ora.
Sbuffò
leggermente, facendo ricadere stancamente la testa sul morbido cuscino alle sue
spalle, prima di decidersi finalmente ad alzarsi.
Mentre
riponeva la sveglia sporgendosi dal letto, un braccio sottile gli circondò
delicatamente la vita, mentre una testa corvina nascosta in parte dalle lenzuola
affondava a lato del suo petto, stringendosi maggiormente a lui.
“Ancora
un attimo” mugolò assonnata, con la voce attutita dal contatto delle sue
labbra con la stoffa della canotta di lui.
Trunks
le accarezzò dolcemente la nuca, scostò i lunghi e lisci capelli neri dal suo
volto e depose poi un piccolo bacio sulla fronte corrucciata.
“Mi
piacerebbe…ma sai che non posso far tardi a lavoro in questi giorni”.
La
ragazza si stirò arresa, abbandonando i vani tentativi di trattenerlo ancora un
po’ al caldo del loro spazioso letto matrimoniale, al riparo dal gelo di
Gennaio. Si appoggiò alla spalliera, i grandi occhi neri rivolti verso il
soffitto, i capelli leggermente ma simpaticamente arruffati e la casacca
sformata del pigiama che le pendeva da un lato, lasciandole scoperta una spalla.
“Lo
so…il signor Presidente ha sempre da lavorare…” osservò
solennemente.
Trunks
sorrise.
Era
già un po’ che la sua giovane mogliettina si lamentava dei suoi stressanti
ritmi di lavoro, che comprendevano intere giornate passate in ufficio, tra
scartoffie e riunioni, per poi tornare a casa talmente tardi che, distrutto e
sfinito, aveva appena la forza di concedere alla sua Pan il bacio della
buonanotte.
“Cerca
di capire, tesoro…anche tu hai la palestra, sai cosa significa occuparsi di
qualcosa”.
“Io
non passo tutto il giorno a Satan City” obiettò lei, riferendosi alla
locazione della palestra di arti marziali che suo nonno Satan le aveva affidato
dieci anni prima. “Ho i miei collaboratori, pensano loro a tutto quando io non
ci sono!”.
“Purtroppo
dirigere la Capsule Corporation non è esattamente così” replicò lui. “Ho
delle enormi responsabilità, e c’è tanto di quel lavoro…specie ora
che…”.
“Lo
so, il famoso contratto” lo anticipò Pan sospirando e incrociando le braccia
al petto.
“Devi
avere pazienza, Pan…è un periodo molto importante per la società, questo
accordo ci frutterà enormemente”.
Con
la luce negli occhi, pensò a come l’accordo con la famosa azienda di moda
avrebbe portato la Capsule Corporation a livelli mai raggiunti. Sua madre,
scomparsa otto anni prima, ne sarebbe stata orgogliosa. Dopo la sua morte si era
ritrovato da solo a gestire un’impero, senza i preziosi e amatissimi consigli
di chi aveva già un’elevata esperienza nel campo, e lui non poteva far altro
che dedicarvi anima e corpo, occuparsene con impegno e serietà, senza più
distrazioni che avrebbero potuto essere fatali.
Sembravano
lontani i tempi in cui era solito fuggire dalla finestra del suo alto ufficio,
libero di volare nel cielo, senza più obblighi, senza più responsabilità.
Solo a ripensarci lo trovava un comportamento assurdo e superficiale.
“Vorrei
solo che passassi più tempo a casa” mormorò Pan, abbassando lo sguardo.
“Oh,
ne avremo di tempo, vedrai…un sacco di tempo” le assicurò lui,
avvicinandosi a lei nel tentativo di baciarla. Lei si girò dall’altra parte
fingendosi imbronciata, ma non ci mise molto a cedere alle calde labbra del
marito, che dalla sua guancia si spostarono alla sua bocca, invitandola a
rispondere al bacio.
Qualcosa
solleticò i piedi della coppia, e spostando lo sguardo verso il fondo del letto
notarono un rigonfiamento che, facendosi strada da sotto le coperte, si muoveva
verso di loro. Finalmente una testolina lavanda fece capolino dalle lenzuola,
osservandoli birichina da due grossi occhioni neri.
“Sveglia
dormiglioni!” esclamò la bimba, sorridendo.
Trunks
le scompigliò affettuosamente i capelli distribuiti in buffi ciocche ribelli
del suo stesso colore, facendola poi sedere sulle sue gambe.
“La
nostra piccola Fackel è più efficiente di una sveglia, non è vero Pan?”.
La
bimba rise compiaciuta, svegliare i suoi genitori la mattina era soprattutto
un’occasione per passare qualche minuto nel lettone, dove amava perdersi al
calduccio delle morbide coperte e tra le amorevoli braccia di mamma e papà.
“Hai
svegliato tuo fratello?” le chiese Pan, immaginando già la risposta.
“Ho
saltato sul suo letto fin quando non ha dovuto svegliarsi per forza!” rispose
la piccola, divertita, mentre Pan rideva tra se immaginando suo figlio maggiore
rivolgere un’occhiataccia alla sorella e saltare in piedi esasperato,
borbottandole qualcosa contro.
Fackel
balzò giù dal letto, perfettamente lucida e sveglia nonostante l’ora.
“Tutti
a colazione!” gridò saltellando.
Lux
si abbottonò il colletto della piccola camicia, che accomodò poi con
attenzione fuori dal caldo maglioncino di lana. I vetri della finestra erano
ancora appannati per il gelo della notte appena passata, che ora lasciava il
posto ad un cielo bianco e privo di sfumature che aveva caratterizzato in modo
costante le giornate dell’ultimo mese.
Sul
davanzale si posò una coppia di passerotti infreddoliti, che invano cercavano
di beccare qualcosa che non fosse l’ennesimo granello di ghiaccio. Lux aprì
la dispensa, trovò degli avanzi di pane e, aprendo cautamente i vetri della
finestra per non spaventarli, li sbriciolò davanti agli uccellini. Dopo qualche
secondo di esitazione, spostando gli occhi tra loro e verso il ragazzino,
iniziarono a beccare con gusto, cinguettando poi allegramente come per volerlo
ringraziare.
Lux
sorrise. Sfamare quelle povere creature lo faceva sentire più utile e più
importante per il mondo di quando potesse qualunque altra cosa. Difficilmente si
sentiva indispensabile per gli altri, degno di troppe attenzioni.
Quasi
a volerglielo ricordare, suo padre entrò in cucina con in braccio quella
rottura di sua sorella, il genietto di casa, la bambina perfetta, la figlia
preferita. Nel sentire la presenza di altre persone nella stanza, i passerotti
spiccarono il volo impauriti, verso il cielo candido e freddo.
“Allora,
piccolina, cosa hai fatto ieri di bello da raccontare a papà?” chiese suo
padre a Fackel, accomodandosi a tavola in attesa della colazione.
La
bambina si sedette con le ginocchia nella sedia al suo fianco, sporgendosi sulla
tavola per mostrargli un voluminoso libro, quasi più grande di lei.
“Ho
finito tutti gli esercizi del capitolo, oggi inizio quello nuovo!” annunciò
indicando le pagine con il ditino.
“Equazioni
di primo grado?!” esclamò Trunks incredulo. “Questo è il mio vecchio libro
del liceo!”.
“L’ho
trovato in soffitta” rivelò la bimba portando in su il nasino in segno di
orgoglio. “E’ divertente!”.
Pan,
che trafficava nell’angolo cottura, intenta a cuocere delle uova, scosse la
testa sconcertata.
“Non
ti sembra, Trunks, che sia troppo strano per una bambina di quattro anni
occuparsi già di queste cose?”.
“E’
strano, sì…ma anche incredibilmente fantastico!” esclamò lui accarezzando
soddisfatto la testolina della figlia.
Lux
si voltò con indifferenza dall’altra parte, lo sguardo di nuovo fuori della
finestra.
Bambina
prodigio. Così chiamavano sua sorella. Sapeva parlare già prima di
compiere un anno, aveva cominciato a leggere e a scrivere a due e negli ultimi
dieci mesi aveva imparato più nozioni di matematica di quante può assimilarle
qualcuno durante tutta la sua carriera scolastica. Suo padre andava pazzo per la
straordinaria intelligenza di sua sorella. Quando era a casa, le sue attenzioni
cadevano principalmente su di lei. Tanto che, come molte altre mattine, sembrava
non essersi nemmeno accorto della sua presenza nella stanza, non degnandolo
nemmeno di uno sguardo.
“Lux”.
Il
caldo sussurro di sua madre lo aveva raggiunto da dietro la schiena, invitandolo
a raggiungerla nell’angolo cottura.
La
donna si abbassò verso di lui, accarezzandogli affettuosamente le guance,
sistemandogli il caschetto di capelli neri e costringendo i suoi tristi occhi
azzurri a guardarla.
“Buongiorno,
tesoro” gli disse piano, mentre dall’altro lato della stanza le voci di suo
padre e sua sorella risuonavano alte, impegnate in una accesa discussione sulla
matematica finanziaria, a cui la bambina sembrava decisa ad interessarsi in un
prossimo futuro.
Lux
accennò un debole sorriso alla madre, riabbassando poi gli occhi velocemente.
“Tieni,
porta questo a papà” gli disse lei, porgendogli delicatamente un vassoio con
le uova, il caffè e un bicchiere di succo all’arancia.
Lux
sapeva perché sua madre lo faceva. Lui non l’avrebbe mai ammesso, ma
probabilmente lei doveva sapere che l’indifferenza che spesso gli rivolgeva
suo padre, distratto dalle straordinarie capacità di sua sorella, lo riempiva
di insicurezza.
Dopo
qualche attimo di esitazione, afferrò indeciso il vassoio, sollevandolo
all’altezza del volto con le giovani manine, iniziando ad avanzare, passo dopo
passo, cercando di mantenere il tutto in equilibrio, verso la tavola
apparecchiata.
“Cosa
leggi, papà?” chiedeva Fackel, curiosando verso il fascicolo di carte di
fronte a suo padre.
“E’
il contratto firmato da un’importante società di moda, tesoro, che sarà
nostra cliente per i prodotti messi a punto da zia Bra”.
Lux
avanzava cauto, con calma, sperando di fare la figura del cameriere provetto.
“Che
bello, nei grandi magazzini venderanno i vestiti della Capsule!” gioì la
bambina, battendo le manine.
C’era
quasi…stava per posare il vassoio…ma qualcosa lo fece inciampare…una pila
di volumi di matematica ai piedi del tavolo…
Il
ragazzino piombò in avanti, scaraventando il vassoio e tutto il suo contenuto
di fronte a lui, sulla tavola, in un fragore generale.
Quando
si rialzò in piedi, la camicia di suo padre era macchiata di caffè, mentre il
succo di frutta e residui di uova erano sparsi sui documenti davanti a lui,
sbiadendo l’inchiostro.
Per
qualche secondo, la cucina cadde in un imbarazzante silenzio.
“Lux,
accidenti che cosa hai fatto?!” lo rimproverò suo padre, con lo sguardo
severo, mentre cercava inutilmente di ripulire il foglio ormai untuoso e
bagnato. “C’era la firma del presidente, qui, sai quanto ci ho messo ad ottenerla??”.
Il
ragazzino abbassò la testa imbarazzato, incapace di dire niente. Avrebbe voluto
solo sprofondare attraverso il pavimento.
“Su,
Trunks, non è successo niente” intervenne sua madre, invitando il marito a
cambiarsi velocemente la camicia macchiata. “Metteremo i fogli ad asciugare,
saranno di nuovo leggibili!”.
“Caspita,
Pan, devo mostrarli domani sera al consiglio di amministrazione!”.
“Ce
la faremo, ce la faremo” lo rassicurò lei, mentre lo spingeva verso la camera
da letto, girandosi poi verso Lux e stringendogli un occhio, come per dirgli tutto
a posto, va tutto bene.
Ma
lui sapeva che non lo era. Non lo era affatto. Era stata solo un’altra
occasione per rendersi ridicolo davanti a suo padre.
“Sei
proprio un pasticcione, Lux” osservò sua sorella con tono da maestrina,
ancora seduta sulla sedia del tavolo a cui faceva pure fatica ad arrivare.
“Zitta,
tu” la liquidò lui, fulminandola con lo sguardo.
Golden
si stirò braccia e gambe in un lungo sbadiglio, aprendo poi gli occhi nerissimi
verso le pareti di camera sua, dove salutò con lo sguardo i numerosi poster
raffiguranti i supereroi dei suoi fumetti preferiti.
Balzò
giù dallo stravagante letto con il materasso ad acqua, indossò in fretta la
felpa dei West Rangers, la sua squadra preferita, e sistemò senza troppa cura i
ribelli capelli neri.
Mentre
scendeva le scale, sentì un forte odore di bruciato che proveniva dalla cucina.
Evidentemente, sua madre stava cucinando. O meglio…ci provava.
“Ciao,
mamma” la salutò, storcendo il naso per il fumo che impregnava la stanza.
La
donna, con addosso una sottoveste di raso e i bei capelli azzurri raccolti in
alto da una forcina, era intenta a estrarre dal forno fumante alcuni biscotti
dall’aspetto annerito, cotti al punto da sembrare ormai carbonizzati.
Il
ragazzino sospirò, nel pensare che sua madre, Bra Brief, laureata a pieni voti
in chimica dei materiali e creatrice di un nuovo utilissimo tessuto sintetico
firmato Capsule Corporation, era in realtà una pessima cuoca.
“Buongiorno,
tesoro” sorrise, girandosi verso il figlio, mentre allo stesso tempo si
accingeva ad afferrare la teglia incandescente con un’infinità di presine.
“Non
è che hai deciso di dare fuoco alla casa, vero mamma??” la prese in giro
Golden, risacchiando divertito.
“Ma
no…ho solo sbagliato leggermente i tempi di cottura, ecco tutto” si
giustificò lei, fingendo di aver avuto la situazione pienamente sotto
controllo.
Golden
scosse la testa. Sapeva che sua madre non avrebbe mai ammesso i suoi errori.
Quando
la teglia con quelli che avrebbero dovuto essere biscotti gli fu messa davanti,
accennò una smorfia disgustata, al pensiero che quella sarebbe dovuta essere la
sua colazione.
“Ehm…non
ho molta fame…mangio qualcosa più tardi, mentre vado a scuola” azzardò il
ragazzino.
Bra
incrociò le mani ai fianchi, guardandolo risentita.
“Beh?
Mi sveglio presto la mattina per prepararti la colazione, e poi mi dici che non
hai fame? Avanti, dimmi almeno se ti piacciono!”.
Golden
deglutì pesantemente. Ogni mattina, per la fretta di sua madre di scappare a
lavoro, era abituato ad accontentarsi di merendine confezionate, possibile che
adesso avesse avuto la brillante idea di mettersi a cucinare?
Prese
in mano uno dei biscotti e ne assaggiò un boccone. Sapeva di cenere.
“Allora?”
lo incitò la madre, guardandolo con aspettativa.
“Ehm…buono!”
mentì lui, masticando. Non aveva voglia di dirle spudoratamente che era
qualcosa di immangiabile, nonostante l’assoluta franchezza fosse un pregio, a
suo avviso, che lo caratterizzava. Semplicemente voleva evitare che la questione
si protraesse per le lunghe, dal momento che sua madre non era il tipo da
accettare la sconfitta tanto facilmente, nella vita, nel lavoro e perfino nella
cottura di una mezza dozzina di biscotti.
“Bene,
quindi dovrei solo farli cuocere qualche minuto in meno” constatò
soddisfatta, come ogni volta che tornava dal suo laboratorio orgogliosa di un
altro successo.
Golden
non potè far altro che finire il biscotto, trattenendosi dal vomitare pensando
che più tardi, vicino alla fermata dell’autobus, si sarebbe comprato un
tramezzino gigante con cui smorzare la fame.
“Tuo
padre sta dormendo?” gli chiese.
“Già.
Ancora nel mondo dei sogni”.
Lo
disse con una nota di rammarico. Suo padre, che almeno lui sapeva cucinare a
dovere, la mattina dormiva abbondantemente per le ore piccole fatte al locale in
cui lavorava, lasciando alla moglie l’arduo compito di occuparsi della
colazione.
“Vado
a salutarlo e a prepararmi, tra poco devo scappare a lavoro. Tu finisci i
biscotti, intesi?”.
“Intesi”
assicurò lui, ma appena sua madre oltrepassò la porta di cucina si alzò dal
tavolo, gettò via i resti di pasta carbonizzata, afferrò lo zainetto e balzò
fuori dalla finestra, felice di non dover finire quella roba.
Bra
iniziò a salire le eleganti scale trasparenti che conducevano al piano di
sopra, solo uno dei suoi numerosi sfizi in fatto di arredamento che
contraddistinguevano la casa.
Mentre
suo fratello e Pan avevano deciso di stabilirsi nella vecchia cupola della
Capsule Corporation, lei e Goten dopo il matrimonio si erano trasferiti in una
bella dimora nella periferia residenziale di West City, circondata da un
curatissimo giardino dove suo marito si dedicava piacevolmente al giardinaggio,
e arredata internamente in modo tale che, unita allo stile ultramoderno e
tecnologico, spiccava anche una nota di eleganza e di originalità.
Entrò
nella loro camera da letto, dove regnava una calda semioscurità. Tra le
lenzuola scomposte giaceva l’uomo che aveva rapito il suo cuore da ormai dieci
anni, la testa che affondava per metà nel cuscino circondato da un braccio, il
torso nudo, i capelli sconvolti e il lato visibile del volto punteggiato da un
impercettibile strato di barba non ancora fatta lo rendevano estremamente sexy,
molto più desiderabile di quella specie di manichini che era abituata a vedere
nel suo luogo di lavoro.
Si
sedette silenziosamente sul letto, guardandolo dormire, ma evidentemente
l’uomo si era accorto della sua presenza, dal momento che, ancora ad occhi
chiusi, le circondò la vita con un braccio portandola delicatamente verso di
lui.
“Buongiorno,
Son Goten” gli sorrise, tra le sue braccia.
“Buongiorno,
principessa” le sussurrò piano lui, baciandola poi con dolcezza.
Rimasero
così per un po’, ad assaporare quello che era uno dei pochi momenti tutti per
loro. Come tutti i giorni feriali, lei avrebbe lavorato tutto il giorno alla
Capsule Corporation, tornando a casa giusto in tempo per salutare il marito che
partiva per Satan City, dove si sarebbe occupato del suo pub fino a tarda ora.
“Siamo
come quei due amanti della leggenda, destinati ad incontrarsi solo per una
manciata di attimi al tramonto, quando il sole e la luna si incontrano nel cielo
per pochi, preziosissimi istanti” aveva fantasticato una volta Goten,
suscitando le risa della giovane moglie, molto più realista di lui. Lei si era
limitata a baciarlo, rimproverandolo poi di essere troppo esagerato. Ora che ci
ripensava, però, il suo adorato Son non aveva poi tutti i torti.
“Hai
uno strano luccichio negli occhi, stamattina” notò Goten. “E’ l’effetto
del contratto concluso?”.
Bra
annuì. Proprio ieri avevano ottenuto la firma del presidente della
Technofashion, la società di moda disposta a mettere sul mercato la nuova
collezione della Capsule Corporation, realizzata con i materiali sintetici
creati completamente da lei: abiti che non si bagnano, non si macchiano, non
fanno pieghe e che comprendono una fibra particolare in grado di tener caldo o
fresco in base alla stagione.
“In
effetti mi sento piena di energia” ammise. “Pensa che stamattina mi sono
messa persino a cucinare biscotti!”.
“Oh,
allora deve trattarsi proprio di un miracolo!” rise Goten, mentre Bra lo
rimproverava con qualche innocente pugno sul braccio, sentendosi presa di nuovo
in giro per la sua avversione verso i fornelli. Ma lo amava a tal punto da
passarci sopra.
“Sai
Bra…sei ancora più bella del solito stamattina, se può essere possibile”.
“Il
solito spiritoso” lo derise lei scuotendo la testa. “Figuriamoci…così,
appena alzata e senza trucco…”.
“Così
sei più bella che mai…semplicemente stupenda” le sussurrò all’orecchio,
facendole desiderare di tornare sotto le coperte con lui, dimenticando il resto
del mondo, come quel sajan dallo sguardo gioviale ma estremamente irresistibile
le aveva insegnato a fare da molti anni, salvandola dalla voragine in cui stava
cadendo quel giorno ormai lontano in cui, ancora ragazzina inerme e immatura,
suo padre l’aveva lasciata per sempre.
La
limousine nera della Capsule Corporation prese quota nel cielo terso, evitando
il traffico soffocante dell’ora di punta e le noiosissime attese ai semafori.
Trunks sedeva nel sedile dietro all’autista, di fronte ad una vivacissima
Fackel che canterellava tra se una filastrocca di tabelline e ad un Lux dallo
sguardo malinconicamente perso nel vuoto. Si chiese se la tristezza di suo
figlio fosse un’altra comunissima manifestazione del suo carattere o fosse
accentuata dal piccolo incidente di poco prima.
Forse
aveva esagerato a reagire così male. Non avrebbe dovuto incolparlo così
severamente, in fondo, poteva capitare a tutti.
Seduto
sul sedile di fondo, il ragazzino fissava distrattamente i suoi piedi, ben
attento a non incontrare il suo sguardo. Trunks sospirò.
Conosceva
quella situazione. Durante la sua infanzia aveva avuto spesso dei timori nei
confronti di suo padre, convinto di non essere all’altezza del leggendario
principe di sajan, convinto che questo non sarebbe mai stato orgoglioso di lui.
Si sbagliava. Ma prima di capirlo aveva fatto di tutto per ottenere le sue
attenzioni, per rendersi grande davanti ai suoi occhi. Per quanto si sforzasse,
suo padre raramente gli avrebbe offerto esplicite manifestazioni di affetto.
Adesso
però non voleva che la storia si ripetesse. Lui non era come suo padre, e
avrebbe fatto di tutto per infrangere quella barriera immaginaria che lo
separava da suo figlio.
Parlando
con Pan della situazione, aveva realizzato che la freddezza con cui Lux si
rapportava a lui nasceva da un’ insicurezza insita nel suo carattere, ma che
si amplificava per la sua erronea convinzione di essere inutile, d’intralcio,
assolutamente non all’altezza di competere con la sorella per l’amore dei
genitori. Molto probabilmente, tutto ciò di cui aveva bisogno era qualche
attenzione in più, qualche occasione da protagonista in famiglia, anche se
essere completamente al centro dell’attenzione finiva sempre per
terrorizzarlo.
Forse
era lui che sbagliava. Forse non ci riusciva come avrebbe dovuto fare un buon
padre. Con Fackel era estremamente più facile, era lei che lo cercava
sempre…ma non Lux. Lui non avrebbe mai fatto il primo passo, rinchiuso
com’era nel suo guscio, si limitava semplicemente ad aspettare
passivamente…e Trunks, purtroppo, non era certo un tipo che sapeva prendere
l’iniziativa.
Scusa,
Lux. Scusa per prima, figliolo, mi sono comportato da idiota in cravatta.
Aveva
già formulato le parole nella sua mente, sperando di farlo sorridere, lo faceva
così raramente del resto, ma la limousine atterrò velocemente davanti alla
scuola elementare di West City, dove Lux scese silenziosamente dalla macchina
senza una parola, senza un saluto.
Lo
guardò incamminarsi a testa bassa verso la scalinata della scuola, prima di
dare all’autista il segnale di ripartire.
Golden
gustò con piacere l’ultimo boccone del mega-sandwich che si era comprato, per
poi incamminarsi svogliatamente verso il portone della scuola. Aveva già in
previsione di schiacciare un bel pisolino durante la noiosissima lezione di
matematica. Del resto, anche la sera prima aveva fatto tardi, nonostante i suoi
genitori non avessero idea a che ore rientrasse normalmente a casa il loro
figlio di otto anni.
Girandosi
indietro sentendo il caratteristico motore della limousine presidenziale, vide
uscire suo cugino, Lux Brief, di un anno più piccolo, come al solito con la
luna di traverso. Anzi, forse più di traverso del solito. Chissà, forse la
sera prima non gli avevano dato il bacio della buonanotte, o forse sua sorella
gli aveva fatto la linguaccia. In ogni caso, come sempre lo trovava estremamente
patetico.
Continua…
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Capitolo 3 *** Capitolo 2 ***
Capitolo 2
Capitolo
2
Quando
suonò la campanella della ricreazione, tutti i bambini balzarono giù dalle
loro piccole sedie, lasciando i banchi in completo disordine nonostante i
richiami della maestra, per correre fuori dall’aula verso lo spazioso cortile
esterno.
Lux
ripose ordinatamente penne e matite nell’astuccio, sistemò quaderno e libro
sotto il banco ed estrasse dallo zainetto la colazione. Non aveva fretta di
uscire fuori con gli altri. Anzi, sarebbe rimasto volentieri lì, in aula, se
non fosse stato per l’estremo imbarazzo di dover rimanere solo con la maestra,
che di sicuro le avrebbe chiesto spiegazioni sulla sua strana asocialità.
Fuori,
i bambini di tutta la scuola giocavano allegramente tra loro, nell’aria
risuonavano le loro risate vivaci e cristalline, mentre si passavano la palla,
si rincorrevano o si divertivano con lo scivolo. Come ogni giorno, Lux si
sarebbe limitato a guardarli, ricordando a se stesso che lui non sarebbe mai
stato come loro, lui era diverso, si sentiva tale e probabilmente
l’avevano capito anche loro. Per questo non l’avrebbero mai accettato, ed
era inevitabilmente destinato a rimanere solo.
Golden,
suo cugino, che come unica cosa con lui condivideva il sangue, giocava
tranquillamente ad un videogame portatile in un angolo del cortile. Ma Golden
non era come lui. Golden era ammirato dalla maggior parte degli alunni della
scuola elementare, sapeva sempre cosa fare o dire, se la cavava in ogni
situazione e aveva un qualcosa di magnetico che attraeva tutti quanti, bambini e
bambine.
“Ciao,
Golden” gli facevano tutti quando passavano vicino a lui. Oppure: “Come
va, Golden?”. “Cosa c’è di nuovo, Golden?”.
Eppure,
nonostante potesse avere tutta la scuola ai suoi piedi, spesso lui tendeva a
rifiutare la compagnia, ad allontanarsi dagli altri, quando più gli pareva. Era
conosciuto da tutti ma pochi erano in grado di stringere una vera amicizia con
lui.
“Io?
Con quei mocciosetti noiosi? Scherzi!”.
Gli
aveva risposto un giorno, quando Lux si era finalmente fatto coraggio e aveva
chiesto al cugino perché mai preferisse tenere gli altri a distanza, lui che
era sempre così ricercato ed invidiato.
Probabilmente
anche lui era consapevole della propria diversità. Ma per Golden non era un
peso, un elemento di insicurezza, al contrario lo faceva sentire superiore,
dotato di qualcosa che gli altri neppure immaginavano, e che per questo li
reputava indegni di prendersi troppe confidenze con lui. O almeno, questo era
quello che voleva far sembrare.
Un
gattino infreddolito attraversò le sbarre che separavano il cortile dalla
strada adiacente, drizzando poi il pelo impaurito realizzando di essere finito
in un luogo pieno di bambini scalmanati. Lux gli si avvicinò piano,
abbassandosi per accarezzargli il pelo umido, e la bestiolina miagolò
debolmente, con i grandi occhioni verdi scintillanti per il bisogno di
tenerezza. Il ragazzino gli allungò metà della sua colazione, che il cucciolo
accettò senza complimenti, leccandosi poi i baffi compiaciuto e iniziando a
sfregarsi alle sue gambe con tanto di fusa.
Lux
sorrise, accarezzandolo di nuovo.
Da
dietro di lui si avvicinarono i passi di tre persone. Gli sentiva addosso,
opprimenti, che lo osservavano cattivi. Lux sapeva già di chi si trattava.
“Ma
guarda guarda” iniziò il più grande dei ragazzini, Jad, che frequentava per
la terza volta consecutiva l’ultima classe delle elementari, divenuto così il
bulletto della scuola. “Lux Brief intento a fare conversazione con uno dei
suoi amici animali! Che carino, non trovate??”.
Lux
nemmeno si girò, mostrandosi indifferente alle sue provocazioni.
“Lo
credo, Jad, con chi vuoi che parli se non coi gatti?” fece eco un altro.
Una
risata generale, non solo tra i tre bulletti, ma anche tra alcuni degli altri
bambini che assistevano all’ennesima delle sue umiliazioni.
Il
gattino fece per scappare, terrorizzato, ma Lux lo tranquillizzò stringendolo a
se, accarezzandolo con affetto.
“Su,
Brief, facci vedere un’altra delle tue performance” continuò il terzo,
sogghignando.
Sapeva
dove volevano arrivare. Qualche giorno prima Lux aveva reagito male alle beffe
di quei tre rompiscatole, aveva perso il controllo e aveva spintonato a terra
Jad con una forza inaudita, tanto da riuscire a farsi chiamare mostro e
da suscitare la curiosità dei suoi compagni, che ritenevano inconcepibile ma
estremamente interessante il fatto che uno come Lux, così apparentemente debole
e indifeso, fosse capace di sprigionare tanta potenza in un momento di rabbia.
Non
avrebbe commesso di nuovo il solito errore. Lo aveva promesso alla mamma. Gli
aveva raccomandato di non mostrare mai il suo potere in pubblico, perché la sua
dote era qualcosa di tanto prezioso quanto pericoloso, che andava usato solo per
il bene dell’umanità ma all’insaputa di essa. Era un segreto da mantenere,
per il bene di tutti.
“Voglio
che mi guardi negli occhi, quando ti parlo!” esclamò Jad costringendolo a
girarsi verso di lui.
Lux
spostò però lo sguardo altrove, stringendo al petto il micio impaurito. Se
avesse incontrato i suoi occhi, di sicuro non avrebbe trattenuto la voglia di
colpirlo di nuovo.
“Allora,
sei sordo?” continuò, dandogli una leggera spinta.
Lux
non reagì. Era ancora immobile a fissare i suoi piedi.
“Lux
è un codardo, un codardo!” canterellarono gli altri due. “Se la fa già
addosso dalla paura! Un pannolino, svelti!”.
Di
nuovo una pubblica risata. Adesso tutta la scuola lo circondava curiosa e
divertita.
“Non
reagisci questa volta, eh?” lo sfidò Jad. “Vediamo se te ne stai zitto e
buono così!”.
Piombò
su di lui, gli sfilò il gattino miagolante dalle braccia e lo afferrò per la
coda, facendolo penzolare verso terra, mentre la bestiola agitava invano le
zampine per liberarsi da quella stretta crudele.
“No!”
esclamò Lux. “Lascialo andare…”.
Il
bulletto sogghignò soddisfatto.
“Sapevo
che era l’unico modo per farti reagire, mostriciattolo” sibilò,
avvicinandosi al piccolo stagno artificiale del cortile e penzolando il povero
gattino appena sopra il filo dell’acqua.
Lux
strinse forte i piccoli pugni e i denti, cercando di trattenere la rabbia. Si
sentiva tremare ogni singolo muscolo del corpo, ma impegnò tutte le sue energie
per rimanere calmo. Ma rigettando dentro la rabbia, non potè fare altrettanto
con le lacrime, che cominciarono a scorrergli sulle guance arrossate alla vista
del povero micietto che rischiava, da un momento all’altro, di cadere
nell’acqua gelida ed annegare per colpa di quei piccoli delinquenti.
“Oh,
guardate, si è messo a piangere…che scena commovente!”.
Jad
e i suoi amici che lo sbeffeggiavano, tutti i bambini della scuola che
ridacchiavano e commentavano intorno a lui…non si era mai sentito così solo e
inerme, nonostante le potenzialità che aveva dentro.
Alzò
gli occhi colmi di lacrime verso il cugino, ancora seduto nel suo angolo con il
suo rumoroso videogame, che pareva non essersi nemmeno accorto della situazione.
Jad notò la direzione del suo sguardo, realizzando immediatamente qual’era la
speranza della sua vittima.
“Ehi,
Golden! Forse tuo cugino vorrebbe che accorressi in suo aiuto!”.
Golden
alzò a fatica gli occhi scuri dalla schermata.
“Io
non aiuto le femminucce frignanti” fu la rapida e lapidaria risposta, che
suscitò i risolini dei compagni.
“Vedi,
Lux, sei da solo contro tutti…su, facci vedere di che sei capace!” lo incitò
di nuovo Jad, lanciando lontano il gattino, che atterrò al di là del recinto e
corse via zoppicante e spaventato.
“Basta!!”
gridò Lux, al colmo della pazienza. Non l’avrebbero fatta franca, no,
l’avrebbero pagata per come avevano trattato un gattino innocente…
Si
accorse solo dagli sguardi increduli dei compagni e dalle grida terrorizzate
delle bambine che i suoi capelli stavano diventando biondi e che il suo corpo
cominciava incontrollabilmente a sprigionare energia, ma per fortuna, con un
ultimo, intenso sforzo di volontà riuscì a tornare subito normale, continuando
però a respirare affannosamente come avesse corso per chilometri.
“Avanti,
bambini, la ricreazione è finita, è ora di tornare in classe!” ordinò la
maestra facendo il suo ingresso nel cortile, con le mani incrociate al petto in
atteggiamento insofferente.
“Signorina,
signorina, Lux Brief è un mostro, un alieno!” gli rivelò terrorizzato
qualcuno, aggrappandosi alla sua gonna.
“Oh,
andiamo, volete smetterla di tormentare quel povero bambino, una volta per
tutte?” rispose lei, scuotendo arrendevolmente la testa.
“Tu
non sei normale, Brief” gli mormorò Jad, ancora scosso, prima di voltargli le
spalle e tornare nella sua classe.
Lux
abbassò la testa e riprese a piangere silenziosamente. Aveva fatto una
stupidaggine. Ancora una volta. Sembrava non riuscire a fare altro, ultimamente.
Nascosto
dietro il finestrino appannato del suo furgone parcheggiato al di là della
strada e da un paio di occhiali scuri, del tutto fuori luogo in una giornata
come quella, un uomo calvo, dalla faccia abbronzata e l’aspetto muscoloso
estrasse dal bauletto portaoggetti una ricetrasmittente, che avvicinò
cautamente alla bocca.
“Cortile
esterno della scuola elementare. Il soggetto numero uno si è rivelato,
passo”.
*
* *
Fackel
colorò svogliatamente il suo disegno. Non le piaceva disegnare. O meglio, le
era piaciuto farlo fino a due anni, quando aveva scoperto cose molto più
divertenti e emozionanti da fare, come l’aritmetica, l’algebra e la
probabilità. Purtroppo, papà e mamma le avevano raccomandato di non mostrare a
nessuno al di fuori della famiglia le sue capacità, per motivi che lei ancora
stentava a comprendere. In ogni modo, all’asilo doveva limitarsi a disegnare,
giocare con gli altri bambini ed esercitarsi a comporre le lettere del proprio
nome, quando invece sapeva già leggere e scrivere perfettamente da molto tempo.
Alzò
gli occhi dal minuscolo banco, il pennarello stretto in una manina e l’altra
che tormentava annoiata una ciocca lavanda. La pallida luminosità del primo
pomeriggio filtrava appena dalle finestre dell’aula, e la maestra sonnecchiava
beatamente appoggiata alla cattedra, certa che i bambini a cui doveva badare,
così impegnati nei loro giochi e passatempi, non si sarebbero senza dubbio
mossi da lì.
Negli
occhioni neri della bimba balenò un’idea interessante. Balzò giù dalla
sedia, avvicinandosi eccitata verso due gemelli dalla carnagione lievemente
abbronzata, che si contendevano con decisione il robot giocattolo più grande,
tirando il modellino in due direzioni opposte.
“Sergenti
Nebe e Zeme, a rapporto!” esclamò la bimba, fingendo senza molto successo
un’autoritaria voce da uomo maturo.
I
gemelli voltarono lo sguardo verso di lei, interruppero momentaneamente la
contesa e si alzarono in piedi, portando una piccola mano alla fronte in modo da
imitare il saluto militare.
“Il
comandante Fackel propone una nuova missione!” continuò la piccola, portando
le braccia ai fianchi.
“Ricevuto,
comandante!” risposero all’unisono i due maschietti.
Seduto
su una scomoda panchina presso il marciapiede, un tipo magro dai capelli neri
lunghi fino alle spalle alzò gli occhi scuri dal giornale, aperto davanti a se
fino a coprirlo completamente. Tre marmocchi erano usciti dall’edificio e
attraversavano velocemente la strada tenendosi per mano.
L’uomo
si accomodò qualcosa tra i capelli, nei pressi dell’orecchio.
“Esterno
dell’asilo. Il cucciolo femmina si dirige verso la biblioteca”.
“Che
ci facciamo qui?” chiese Zeme, poco convinto, alzando lo sguardo verso
l’enorme portone che avevano di fronte.
“Voglio
prendere un libro in prestito, sono stufa di disegnare!” rispose la bimba,
determinata.
Con
Nebe e Zeme, fortunatamente, non doveva nascondere le sue doti. Erano figli di
amici di mamma e papà, lei una bella infermiera bionda e lui l’attuale
campione del mondo, che in qualche modo facevano parte di quella che chiamavano
la loro “famiglia”. Nati dall’unione di latte e cioccolato, i due gemelli,
di un solo anno più grandi di Fackel, erano i soli veri amici con cui poteva
condividere le sue emozioni, le sue capacità e…i suoi piccoli capricci.
“Non
credo ci faranno entrare, siamo troppo piccoli!” fece notare Nebe, scuotendo
la testa dubbioso.
Fackel
si girò verso di lui, lo sguardo maliziosamente birichino.
“Siamo
o non siamo in missione?”.
Aprirono
il portone più silenziosamente possibile, strisciarono carponi presso il
bancone del custode, in modo che non potesse vederli, e in un batter d’occhio
furono nel salone circolare, dove li aspettavano centinaia di libri
perfettamente ordinati e catalogati entro una decina di librerie in legno, alte
quasi fino al soffitto e disposte lungo tutta la circonferenza della stanza.
“Wow…”
mormorò Fackel, alzando in alto la testolina lavanda e ammirando lo spettacolo
più bello che avesse mai visto.
Si
alzò in volo, levitando leggera nell’aria, così da avere la possibilità di
leggere anche i titoli dei volumi più alti, in modo da scegliere il suo
preferito. Dopo venti minuti abbondanti, tornò giù con un libro di astronomia,
che depose tra le braccia di Nebe.
“Adesso
devo sceglierne uno di matematica!” annunciò soddisfatta, preparandosi a
ripartire in perlustrazione.
“Ho
capito, prepariamoci a passare qui il pomeriggio!” sospirò annoiato Zeme,
appoggiando la schiena ad una delle librerie.
Non
appena vi trasferì tutto il peso, però, la grande libreria cominciò a cadere
all’indietro sotto gli occhi sconcertati dei tre bambini, colpendo
fragorosamente la libreria adiacente che a sua volta cedette prendendo in pieno
quella dopo e così via, fino a generare un domino circolare di ripiani e
scaffali che alla fine culminò con il tonfo assordante dell’ultimo mobile
rimasto in piedi.
“Ops…”
riuscì a mormorare Zeme tra i denti, prima che i tre monelli, rimasti illesi al
centro della sala ma circondati da macerie di legno e di libri, furono raggiunti
dai custodi della biblioteca che, mettendosi le mani tra i capelli, si chiesero
disperati cosa ci facessero tre bambini dell’asilo in un posto simile, ma
soprattutto come avessero potuto provocare un tale disastro storico.
Quando
telefonarono alla palestra di Satan City, nel tentativo di rintracciare la madre
di Fackel Brief, Pan stava dando lezioni di arti marziali ad un gruppo di
fanatici della difesa personale.
Chiamata
al telefono dal suo assistente, la sajan fu invasa da un bruttissimo
presentimento prima ancora di afferrare la cornetta e rispondere.
“Sì,
pronto?”.
“La
signora Brief?” chiese una voce femminile dall’aria severa.
“Sono
io”.
“Chiamo
dall’asilo di sua figlia”.
“Cos’è
successo?” chiese Pan con apprensione.
“La
bambina è uscita dall’edificio all’oscuro delle insegnanti recandosi nella
biblioteca di fronte, dove sembra aver provocato un disastro immane”.
Pan
si passò una mano sul volto. Non avrebbe voluto sentire oltre.
“Volevamo
avvertirla che noi ci esentiamo da ogni responsabilità sui danni recati”
continuò la donna, lapidaria.
“Capisco”.
“Un’altra
cosa. Dalla scuola elementare qui vicino giungono voci riguardo a suo figlio,
sembra aver seminato il panico tra i compagni durante la ricreazione. Dovrebbe
badare di più ai suoi figli, signora Brief”.
Il
volto di Pan si contorse in una smorfia di rabbia, mentre la mano che sorreggeva
la cornetta si strinse intorno all'apparecchio talmente forte da rischiare di
frantumarlo.
"Non
si azzardi più a dire una cosa del genere!!" sibilò tra i denti, prima di
interrompere violentemente la chiamata e sedersi sullo sgabello della scrivania.
Le sue gambe perfettamente allenate sembravano cederle completamente, mentre si
prendeva il volto tra le mani e sospirava sconfitta.
Dopo
qualche secondo di esitazione, prese di nuovo il telefono sulle ginocchia e
compose rapidamente un altro numero.
“Capsule
Corporation, buon pomeriggio! Chi ci desidera?” risuonò musicale la voce della segretaria di
Trunks.
“Sono
Pan. Devo parlare con mio marito” si annunciò senza tanti convenevoli.
“Mi
dispiace, signora Brief, il presidente in questo momento è bloccato in
riunione”.
“Lo
chiami, è urgente!”.
“Mi
dispiace, ma…”.
“Ok,
se adesso lei non lo chiama immediatamente, dovrò venire di persona ad
interrompere la riunione, e non so quanto sarà meglio!” minacciò concitata.
La
donna farfugliò qualcosa che sembrò essere un cedimento, prima di inserire la melodia di attesa.
Non era la prima volta che la moglie del presidente si presentava in azienda nei
momenti più assurdi o nel bel mezzo di vitali riunioni d'affari, ignorando
qualsiasi tipo di restrizione, per cui aveva imparato, suo malgrado, a prendere
ogni sua parola sul serio.
Dopo un paio di
minuti abbondanti, Trunks rispose con tono lievemente scocciato.
“Pan,
vuoi spiegarmi che c’è, sono in riunione!”.
“Che
c’è?!” esplose lei. “C’è che potrebbe cadere il mondo e tu neanche te
ne accorgi, rinchiuso lì dentro tutto il giorno e rifiutando le chiamate!”.
“Cosa
è successo?”.
Pan
chiuse gli occhi, sospirando nel tentativo di riprendere il controllo di se
stessa. Come sempre, la sua maledetta istintività la portava prima ad agire e
poi a riflettere. In fin dei conti, non aveva il diritto di prendersela così con Trunks
solo perché era il presidente della più famosa società del mondo e perché i
suoi figli erano sajan esattamente come loro.
“Mi
hanno chiamata dall’asilo. Fackel ha distrutto la biblioteca, e Lux ha
spaventato i compagni in non so quale modo”.
“Oh
cielo…come è accaduto?”.
“Non
lo so, ma credo che dovremo parlare ai piccoli”.
“Ok,
domani parlerò ad entrambi”.
“Non
domani, Trunks, adesso, prima che ci siano conseguenze!”.
“Faccio
tardi stasera, tesoro…”.
“Di
nuovo…?” mormorò Pan con voce spezzata, più a se stessa che al marito.
“Mi
dispiace, ma non posso liberarmi, ora”.
Pan
rimase qualche secondo in silenzio. Il suo volto era segnato da una pesante
apprensione, ma anche da una stroncante impotenza. Non poteva niente contro ciò
che la natura aveva dato loro, così come non poteva niente contro le
restrizioni della società in cui si erano trovati a vivere, portandoli a dover
far convivere le loro duplici identità non sempre ben sovrapponibili.
“Ok.
Vado a prenderli. Ci penserò io” annunciò infine, arresa e atona.
“Pan,
io…”.
Ma
non lo lasciò finire. Riattaccò, alzandosi e incamminandosi rapidamente verso
l'uscita della palestra.
"Qualcosa
non va, Pan?" le chiese apprensivo il suo assistente, vedendola
allontanarsi agitata.
"Devo
assentarmi, Lenny" si limitò a rispondergli, mentre indossava il
soprabito. "Puoi sostituirmi per la lezione?".
"Certo,
figurati" annuì prontamente il giovane, accennando un breve inchino.
La
donna uscì dall'edificio, a passo svelto. Fermandosi improvvisamente, si rese
conto di aver lasciato dentro le chiavi della sua air-car.
"Al
diavolo!" esclamò tra se, prima di lanciare una rapida occhiata intorno a
lei e spiccare il volo verso Ovest.
*
* *
Bra
imboccò stanca il vialetto di casa. Una nuova giornata lavorativa si era
finalmente conclusa, trascorsa in buona parte con Trunks per i preparativi del
consiglio di amministrazione dell’indomani. Ultimamente, infatti, non solo
doveva badare ai suoi esperimenti chimici nei nuovi laboratori dell’azienda,
ma era coinvolta anche in questioni burocratiche e finanziarie, come richiedeva
il suo incarico di vice-presidente della Capsule Corporation.
Sospirò.
Finalmente un bagno rilassante, una tisana calda e via a letto. Goten avrebbe
fatto le ore piccole anche quella sera, e a lei non restava che addormentarsi da
sola.
Aprendo
il portone di casa, notò sorpresa che la tavola del grande salone ovale era
accuratamente apparecchiata, con il servizio delle grandi occasioni, mentre al
centro splendeva una candela accesa e, sul carrello mobile, una bottiglia di
champagne era immersa nel ghiaccio. Dalla cucina arrivava un piacevolissimo
odore di cibo.
“Sorpresa”
sorrise Goten, uscendo da un angolo. Indossava pantaloni neri, giacca abbinata
ma aperta su una maglia bianca e scarpe lucide di pelle. Non indossava quel
completo dal matrimonio di Trunks e Pan, quasi otto anni prima.
“Che
ti è saltato in mente?” chiese Bra, confusa. “E che ci fai vestito così?”.
Goten
accennò un'espressione imbronciata, fingendo di fare l'offeso.
“E’
così che si accoglie tuo marito?” la rimproverò.
“Beh,
io…non capisco”.
“E’
così strano preparare una cenetta da gustare con la propria donna?”.
“Una
cenetta…ma tu devi andare a lavoro!”.
“Non
oggi. Ho affidato tutto ai ragazzi che lavorano con me. Stasera la passiamo
insieme, finalmente”.
Le
labbra rosse di Bra si aprirono in un luminoso sorriso.
“Goten, che tesoro…l’hai fatto per festeggiare il contratto, vero?”.
L’uomo
scosse la testa, divertito.
“Senza
offesa, ma…sinceramente, del contratto non me ne frega niente” le sussurrò
accarezzandole una guancia vellutata. “Voglio solo passare un po’ di tempo
con mia moglie”.
La
baciò con trasporto, e lei si lasciò andare tra le braccia di lui, facendosi
cullare dal calore del suo corpo.
“Dov’è
Golden?” chiese Bra, interrompendo il loro contatto.
“In
camera sua, come al solito. Ha detto che non scenderà per cena, sembra che
abbia già mangiato nel fast food qui vicino. Probabilmente sta già
dormendo”.
Bra
storse il naso, poco convinta.
“Ripete
questa scusa troppo spesso, nelle ultime settimane. Non lo trovi strano?”.
“Forse
non vuole scendere a cena perché di solito cucini tu, quando io sono al pub”.
Bra
non sentì neanche la provocazione del marito, nella sua mente frullava uno
strano presentimento.
“Vado
a sentire se a fame”.
“Te
l’ho detto, non ne vuole sapere, nonostante stasera sia io a cucinare!”.
“Allora
vado a dargli la buonanotte”.
Goten
sospirò. Di sicuro suo figlio non se la sarebbe presa se sua madre si
dimenticava di salutarlo prima di dormire, anzi, non era certo il tipo da
tollerare troppe smancerie da parte dei genitori.
“Fa
come vuoi, principessa” cedette infine. “Io ti aspetto qui”.
“Ok”
acconsentì lei deponendogli un leggero bacio sulle labbra mascoline. “Torno
subito”.
Mentre
Bra si avviava su per le scale trasparenti, Goten tornò in cucina, sfornando un
enorme e succulento tacchino ripieno profumato di spezie, contornato da un
fantasioso contorno di verdure miste e patate dorate. Lo posò sulla tavola
imbandita, insieme all’antipasto di gamberi.
Da
sopra udì l’esclamazione terrorizzata della moglie, che immediatamente si
affacciò dalla balconata del secondo piano.
“Golden!”
gridò ansimando. “Non è in camera sua!”.
Due
ceffi dall’aria sospetta si intrufolarono furtivi all’interno del teatro di
West City, dove quella sera davano la prima di un’opera di successo, che aveva
attirato decine di ricconi in smoking e prime donne in pelliccia.
Tirate
fuori le pistole dai pesanti giubbotti e puntate verso il pubblico poco prima
dell’inizio, avevano seminato lo scompiglio generale, costringendo i presenti
a cedere tutti i loro oggetti di valore.
“Un
bel bottino, stasera, eh Roy?” sogghignò uno dei due saltando dentro
all’auto rubata, che li aspettava fuori dall’edificio.
“Alla
faccia loro, Al!” replicò l’altro accendendo velocemente il motore e
sfrecciando via come un siluro.
Mentre
i due uomini ridevano e scherzavano con il vento tra i capelli, sbeffeggiando la
polizia che non aveva fatto in tempo ad intervenire e godendo della loro
completa libertà e ricchezza, Al spalancò gli occhi cattivi, terrorizzato:
qualcuno di bassa statura, con addosso un cappellino a tesa che gli nascondeva
parte del volto e le mani nelle tasche della larga felpa in modo indifferente,
si era appostato proprio in mezzo alla strada, bloccandogli la fuga.
Roy
spinse violentemente il piede sul freno, mentre l’auto stridente si andava a
fermare proprio a pochi centimetri da quello che sembrava solo un ragazzino, del
tutto indifferente al rischio che stava correndo.
“Ehi,
moccioso, togliti subito di mezzo, ci siamo intesi??” sbottò il criminale.
“Neanche
per sogno” sibilò il ragazzino.
Roy
grugnì. Non poteva perdere tempo con quel poppante.
“Ok,
piccolo stupido, ti metto sotto allora!” annunciò spingendo il pedale
dell’acceleratore, dando gas all’auto.
Il
ragazzino non si spostò affatto, anzi afferrò con disinvoltura il paraurti
anteriore del veicolo, bloccando con una forza inconcepibile la sua avanzata.
“Ma
come ha fatto?” mormorò Al, sconvolto.
“Non
lo so, ma adesso se ne pentirà!” gridò l’altro, al colmo della pazienza,
scendendo con prepotenza dall’auto e brandendo su di lui una mazza di ferro.
Il
piccolo pubblico che si era creato nel quartiere lanciò esclamazioni di
sorpresa quando il ragazzino bloccò senza problemi il colpo dell’uomo,
rispondendo con un forte pugno nello stomaco che atterrò il ladro e una
gomitata in faccia all’altro, che era sceso in aiuto del compare.
Ansimando,
i due uomini furono lanciati con potenza qualche metro più lontano, finendo
proprio ai piedi di due poliziotti che nel frattempo erano accorsi, e che li
ammanettarono definitivamente.
Dagli
spettatori si sollevò un sincero applauso in onore del ragazzino, che si pose
con fierezza al centro, gli occhi ancora in parte oscurati dal berretto ma
chiaramente orgoglioso di ricevere tante acclamazioni.
Golden
assimilò con estremo piacere il suo ennesimo momento di gloria. Era ormai da un
po’ che di sera fuggiva di casa all’insaputa dei suoi, fingendo di andare a
letto presto come un bravo bambino, mentre invece vagava fino a tardi nei
quartieri più centrali di West City, alla ricerca di avventure.
Non
era la prima volta che faceva l’eroe. Qualche sera prima aveva difeso una
donna da dei molestatori grandi e grossi, mentre un’altra volta aveva sventato
una rapina in una gioielleria liberando anche il relativo ostaggio.
Sapeva
che doveva fare un uso parsimonioso dei suoi poteri. I suoi glielo avevano
ripetuto fino all’esasperazione. Ma, in fondo, non faceva niente di male, si
stava solo divertendo e, al tempo stesso, anche aiutando la società. Senza
contare che agiva di notte, in modo da farsi riconoscere meno possibile. In ogni
modo, sentiva di avere estremamente bisogno dell’ammirazione della gente, per
poter soddisfare la sua grande voglia di protagonismo.
Improvvisamente
si sentì afferrare un orecchio con forza e strattonare lontano dalla folla.
“Ahi!”
si lamentò, alzando gli occhi scuri per incontrare quelli simili di suo padre,
ma accigliati in un’espressione severa.
“Questa
l’hai fatto davvero grossa!” lo rimproverò Goten, con tono autoritario,
mentre cercava di tirar via suo figlio da sguardi indiscreti.
“Ma
papà, stavo giusto tornando a casa!”.
“Fila
in macchina!” esclamò, aprendo lo sportello dell’air-car.
Il
pubblico si diluì rapidamente, non appena i due delinquenti furono portati via
dalle auto della polizia e il loro piccolo eroe di quartiere fu allontanato da
quello che probabilmente ero suo padre.
Una
donna dai capelli castani tagliati corti, occhiali da vista e un’impermeabile
grigio afferrò il cellulare dalla borsetta, componendo un numero con
indifferenza.
“Individuato
l’altro maschio. Ha messo pubblicamente a tappeto due malviventi”.
Continua...
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Capitolo 4 *** Capitolo 3 ***
Capitolo 3
Capitolo
3
I
tre piccoli sajan erano seduti sullo spazioso divano della sala principale della
Capsule Corporation, Lux e Golden ai due lati con al centro la piccola Fackel.
Ognuno di loro fissava con imbarazzo il pavimento, attendendo consapevoli i
rimproveri dei quattro adulti davanti a loro.
“Spero
vi rendiate conto di ciò che è successo, ragazzi” iniziò Trunks, severo.
La
sua figura si innalzava imponente di fronte ai tre bambini, che si limitarono a
rivolgergli brevi occhiate timorose, rimanendo in silenzio e affondando ancora
di più tra i cuscini del divano.
“Vi
siete comportati da veri irresponsabili. Tutti e tre” continuò, incrociando
le braccia sulla giacca color senape.
”Io
non ho fatto niente!” protestò Golden, scrollando le spalle con finta
innocenza.
“Ah
no?” lo riprese Goten, avvicinandosi. “E cosa ci facevi in centro, ieri
sera?”.
“Solo…un
giro” mentì, incrociando con indifferenza le mani dietro la nuca.
“Da
quanto va avanti questa storia?”.
“Quale
storia?”.
“Golden,
rispondimi”.
Il
ragazzino sbuffò, messo alle strette.
“Da
un po’…” cedette.
Goten
scosse la testa, preoccupato. Non riusciva a credere che dopo tutti gli
ammonimenti rivolti a suo figlio, quella piccola peste trovasse estremamente
divertente andare in giro a stendere criminali senza pensare alle conseguenze.
“Non
ci siamo, bambini, non ci siamo proprio” intervenne Bra. “Vi abbiamo
ripetuto mille volte di non dare sfoggio del vostro potere…anche se non fate
niente di male, potrebbe essere pericoloso!”.
“Uffa,
io volevo solo un libro!” si lamentò Fackel, mettendo il broncio.
Pan
sospirò, scosse la testa e si inginocchiò davanti alla figlia, cercando di interpretare
un'espressione più corrucciata possibile mentre incontrava gli occhi neri della
bambina resi lucidi dalle lacrime.
“Sai
bene che non saresti dovuta andare in biblioteca!”.
“E’
stato Zeme a combinare quel disastro” si giustificò la piccola.
Pan
non potè fare a meno di accarezzarle una guancia, ammorbidendo leggermente i
tratti del volto.
“Non
è questo il punto, tesoro…è che se qualcuno notasse le tue capacità…”.
Nonostante
l’intelligenza della bambina, a quell’età per lei era estremamente
difficile controllarsi, capire dove stava il limite tra la normalità e ciò che
invece era proibito.
In
realtà, tutti e tre erano soltanto dei bambini. Non avevano colpa se avevano
ricevuto in eredità un tale fardello, così come già era successo a loro. A
quell’età era complicato imparare a conviverci, limitare il bisogno estremo
di esplicare quel potenziale e capire quanto esso, di fronte ad occhi
indiscreti, avrebbe potuto diventare oggetto di pericolose speculazioni.
“E
tu, Lux, perché l’hai fatto?” chiese Trunks al figlio, facendosi più
vicino nella speranza di incontrare il suo sguardo. “Perché hai rischiato di
trasformarti davanti a tutta la scuola?”.
Lux
sentì le sue guance infuocarsi, mentre si raggomitolava inerme sul divano,
evitando gli occhi del padre.
Non
avrebbe mai ammesso che l’aveva fatto per difendersi, per rispondere alle
provocazioni dei suoi compagni. Non davanti a suo padre, sua madre, sua sorella
e i suoi zii. Confessare di esser ricorso al suo potere solo perché si sentiva
solo ed arrabbiato, e non per un semplice capriccio come suo cugino e sua
sorella, avrebbe rappresentato un’ulteriore umiliazione, un’altra forma di
debolezza.
“Jad
e gli altri stavano affogando il suo amico gatto”.
Fu
la voce di Golden a farlo sobbalzare, che risuonò spavalda nella sala, ad
infrangere ogni suo proposito di tacere sull’accaduto. Si voltò di lato,
verso di lui, fissandolo per un momento con delusione, mentre di nuovo
combatteva con tutto se stesso per cacciare indietro le lacrime.
“Non
è che così che ci si comporta, Lux” lo riprese di nuovo suo padre, come si
aspettava, del resto. “Devi capire che non puoi reagire in questo modo!”.
Il
bambino si strinse tristemente nelle spalle, incapace di guardare negli occhi i
suoi familiari, incapace di replicare con una sola parola all’ennesima
dimostrazione di essere solo e soltanto una delusione, per lui stesso, per loro,
per tutti.
“Spero
che abbiano capito la lezione” sospirò Trunks, allontanandosi dai bambini
seguito dalla moglie, la sorella ed il cognato.
“Lo
spero anch’io” riconobbe Bra. “Tutti e tre stavano per mettersi seriamente
nei guai”.
“Sembra
quasi si siano messi d’accordo per farci prendere un colpo!” esclamò Goten,
accingendosi ad indossare il soprabito imbottito.
“Te
ne vai?” gli chiese sua moglie, scrutando fuori dalla finestra e notando che
era appena il crepuscolo.
“Già.
Vado al pub prima stasera, devo fare un po’ di contabilità mensile”.
“Ok.
Anche io e Trunks siamo in partenza, tra mezz’ora ci aspetta il consiglio di
amministrazione”.
“Esatto”
confermò Trunks dopo aver controllato l’orologio, dirigendosi poi verso la
cucina, dove sua moglie si era diretta silenziosamente.
Raggiunse
Pan da dietro, posandole le mani sulle spalle mentre trafficava senza molta
convinzione ai fornelli, invitandola delicatamente a voltarsi verso di lui.
Indossava un grembiule da cucina, aveva i capelli corvini sciolti sulla schiena
ed era più desiderabile che mai.
“Non
sarai ancora arrabbiata per ieri, vero?” volle accertarsi, guardandola con
dolcezza.
Lei
provò ad ignorarlo, ma finì per sospirare alzando gli occhi al soffitto,
arresa.
“Come
potrei” ammise, maledicendosi mentalmente. “Sai che non ci riesco per troppo
tempo…”.
Trunks
sorrise.
“Bene.
Sono contento di sentirtelo dire”.
Le
sollevò delicatamente il mento con le dita della mano, incrociando per qualche
secondo il suo sguardo d’ebano e sfiorandole le labbra con un tenero bacio.
“Ehi,
piccioncini, stiamo facendo tardi!” li rimproverò Bra affacciandosi alla
porta con poca discrezione, mentre portava le mani ai fianchi.
“Arrivo
subito” la rassicurò Trunks, mentre si staccava da sua moglie con un’altra
carezza, prima che lei si mordesse maliziosamente le labbra e riprendesse a
trafficare con indifferenza.
“Se
ne sta andando anche Goten” la informò Bra. “Possiamo lasciare qui Golden?
Torno a prenderlo più tardi, alla fine del consiglio”.
“Ce
la farete per cena?” chiese Pan al marito.
“Ho
paura di no, tesoro” le rispose lui, desolato.
Ma
sua moglie li avrebbe salutati comunque con il sorriso, si sarebbe presa cura
dei piccoli e avrebbe lasciato loro un pasto caldo per il loro ritorno.
Contrariamente a quando era solo una ragazzina, la sua Pan aveva imparato ad
avere pazienza. Un sacco di pazienza.
L’uomo
calvo e muscoloso aprì lo sportello cigolante del furgone, accomodandosi sul
sedile del guidatore, seguito dalla donna con gli occhiali che si sistemò al
suo fianco e dal tipo magro con i capelli lunghi che si sporse dal vano dietro
di loro. Ripose gli occhiali scuri nella tasca del soprabito, rivelando due
freddi occhi verdi che si concentrarono attenti sul funzionamento della radio di
bordo. Dopo aver percorso più volte le frequenze nel tentativo di trovare
quella giusta e di eliminare al minimo le interferenze di fondo, si fermò
soddisfatto dando un segnale d’assenso ai due compagni.
“Siamo
in collegamento, dottore” iniziò, avvicinando le labbra carnose al microfono.
Dopo
qualche secondo di silenziosa aspettativa, una voce profonda ed autoritaria fece
eco dalle casse della radio.
“Bene.
Aggiornatemi sulla situazione”.
La
donna si fece passare il microfono dal collega, nelle lenti trasparenti passò
un lampo di luce, mentre le sue labbra rosse si allargavano in un fiero sorriso.
“Tutti
e tre i soggetti sono compatibili. Ne abbiamo avuto definitiva conferma durante
la giornata di ieri”.
L’uomo
magro si inserì tra i due sedili anteriori, dove volle avere la sua quota di
partecipazione afferrando velocemente il microfono.
“La
femminina si distingue principalmente per le qualità intellettive fuori dal
comune, uno dei maschi ha dimostrato una forza doppia ad un sollevatore di pesi
e l’altro si è quasi trasformato” riassunse, mentre i capelli corvini gli
cadevano davanti a coprire la faccia spigolosa.
“Meglio
di quanto credessi” commentò l’uomo in collegamento, più tra se che per
riconoscere un merito ai suoi dipendenti, che tuttavia si lanciarono occhiate
soddisfatte. “Questo dimostra che hanno ereditato il codice”.
“Le
prossime direttive, dottore?” chiese il tizio muscoloso.
“Procedete.
Sapete in che modo”.
Negli
occhi dei tre passò un barlume di eccitazione, era esattamente la risposta che
volevano sentire. Dopo settimane di appostamenti e spionaggi, finalmente era
giunto il tempo di agire, tornare alla base a missione compiuta e recuperare il
malloppo promesso. Lì avrebbero potuto riprendere il loro mestiere abituale,
meno scoperto e rischioso di quello che avevano dovuto intraprendere negli
ultimi due mesi, con la piacevole consapevolezza di avere le tasche piene.
“Sarà
fatto” assicurò la donna, concludendo il collegamento.
I
consiglieri d’amministrazione erano seduti al lungo tavolo rettangolare della
sala riunioni della Capsule Corporation, dalla cui spaziosa vetrata si aveva una
splendida veduta notturna di West City, illuminata da mille luci e insegne
colorate. A capotavola presiedeva Trunks, affiancato dalla sorella in qualità
di vicepresidente.
“Vi
informo con piacere che la Technofashion ha firmato il contratto con noi a tempo
indeterminato” esordì lui “Ringraziamo quindi la nostra vicepresidente per
la realizzazione della linea”.
I
consiglieri, restando educatamente composti, sollevarono un caloroso applauso
all’insegna di Bra che, vestita di un elegante tailleur blu, inchinò
debolmente la testa in segno di ringraziamento, sistemandosi un ciocca dei
lucidi capelli ondulati dietro l’orecchio.
Mentre
i soci le stringevano uno ad uno la mano e sfornavano i più sentiti complimenti
a colei che da qualche anno aveva conquistato la rappresentanza maschile
dell’azienda, Trunks estrasse con indecisione dalla sua valigetta la
documentazione cartacea relativa al contratto, ormai asciutta ma ancora
largamente macchiata di unto. Non poteva evitare di mostrarla al consiglio, così
era tradizione dopo ogni accordo importante con altre società.
Mentre
faceva passare tra i soci ciò che restava della copia, il suo volto si infiammò
violentemente, al pensiero che qualcuno di loro facesse commenti sul suo stato
di conservazione e lui non avesse una scusa decente da inventare.
Fortunatamente Bra, mentre il foglio scorreva tra le loro mani, iniziò un’arringa sui
dettagli dell’accordo, evidenziando le modalità ed i tempi, esponendo i
vantaggi economici e d’immagine. Dal suo sguardo divertito e dalla sua fugace
strizzata d’occhio, capì che lo stava salvando da una situazione
imbarazzante, tenendo occupate le orecchie dei consiglieri così da distrarre
anche i loro occhi.
Trunks
tirò un sospiro di sollievo. Guardò il documento sfigurato che era tornato di
nuovo tra le sue mani, e non riuscì a trattenere un sorriso. Nella sua mente
tornò l’immagine di un bambino dallo sguardo azzurro e smarrito, che portava
la colazione a suo padre, speranzoso di far bella figura, di ricevere una parola
di approvazione. Era tutto ciò che desiderava, e non avrebbe più rimandato.
La
camera di Lux era molto diversa da quella della maggior parte dei bambini di
sette anni. L’arredamento era essenziale, i giochi si limitavano ad alcuni
pupazzi di peluche, al muro non era attaccato nessun disegno o figurina e in
tutta la stanza regnava un ordine perfetto, quasi ossessivo. Golden se ne stupì
grandemente, facendo il confronto con la sua camera dove invece imperversava il
caos totale, che i bonari rimproveri di sua madre non erano riusciti a cambiare.
Lui amava vivere tra tanta roba, sparsa intorno a lui senza un ordine preciso,
senza un ruolo e una posizione in particolare. Lux, invece, sembrava far di
tutto per tenere tutto perfetto, ordinato, quasi a voler dare la stessa immagine
di se che a parole poco riusciva ad esprimere.
In
quel momento se ne stava seduto sul lettino ad una piazza in completo silenzio,
quasi assorto, mentre Fackel leggeva con passione uno dei suoi libri in un
angolo della stanza. A Golden non restava che tollerare quella forzata
convivenza con i cugini all’interno della stessa stanza, che sua zia Pan aveva
richiesto loro nell’attesa della cena, con l’esplicito invito ad andare
d’accordo. Benché trovasse la cosa estremamente difficile, si impegnò a
farsi gli affari suoi, sonnecchiando con indifferenza nella poltroncina ad
angolo, evitando di rischiare un’altra sgridata dai suoi e magari una
punizione spiacevole.
“Perché
l’hai fatto?” la domanda improvvisa di Lux lo fece sobbalzare dal suo stato
di rilassata dormiveglia, portandolo a voltarsi in direzione dell’altro che lo
fissava con uno sguardo triste.
“Cosa
vuoi, cugino?” ribatté, non capendo dove volesse arrivare.
“Perché
hai detto a tutti di ieri mattina?”.
Golden
balzò giù dalla poltrona, avvicinandosi al letto e fermandosi davanti a lui.
“Secondo
te, dovevo prendermi la sgridata solo io?”.
Lux
lo fissò con gli occhi lucidi, ma allo stesso tempo colmi di insofferenza.
“Non
avevi il diritto di parlare per me!” mormorò con la voce spezzata.
Golden
rise divertito.
“Sei
solo un vigliacco. Sai solo piangere e fare la vittima!”.
“Non
è vero…non è vero!” ribatté il più piccolo, stringendo forte i minuscoli
pugni.
Pan
mischiò gli ingredienti nella ciotola, canterellando a voce bassa. La sua
esperienza di madre le aveva insegnato, da qualche anno a quella parte, che per
far andare d’accordo tre cuccioli impossibili non c’era niente di meglio che
una golosa torta al cioccolato.
Dalla
sala principale provenì il suono del telefono, verso cui si diresse leccando
con gusto i residui di crema che le erano rimasti sulle dita.
“Ciao,
Pan. Sono Marron” la salutò una voce gentile e pacata dall’altra parte
della linea.
“Oh,
Marron. Come va?” rispose Pan masticando qualche stuzzichino sul mobiletto
dell’aperitivo.
Marron
e Ub erano stati i primi a sposarsi, quasi dieci a anni prima, poco dopo che lui
era diventato campione del mondo, e adesso vivevano in un’elegante residenza a
Satan City. I rapporti con loro erano rimasti piuttosto solidi, non solo perché
erano fidati amici di famiglia, ma anche perché adesso Fackel frequentava
costantemente i loro due gemelli, Nebe e Zeme.
“Ieri
mi ha telefonato la biblioteca di West City, vicino all’asilo…sono dovuta
fuggire di corsa da lavoro per riprendere quei due monelli” sospirò Marron,
distrutta. La donna lavorava ancora come infermiera a Satan City.
“Già,
ne so qualcosa” confermò Pan, ricordando l’incidente del giorno prima.
Dalla
finestra della sala, al di là delle tendine traslucide, intravide un’ombra
muoversi nell’oscurità della sera, rasente alla parete esterna.
“Ho
saputo che hanno chiesto i danni” continuò Marron. “Credo sia giusto che io
e Ub contribuiamo alle spese, in fondo è stato il nostro Zeme a provocare quel
disastro”.
“E’
molto gentile da parte vostra, ma la grandiosa idea, naturalmente, è stata di
Fackel!”.
Qualcuno
o qualcosa bussò al vetro della finestra. Perché farsi annunciare da lì,
quando esisteva un ingresso principale dall’altra parte dell’edificio?
“Pensavamo,
Pan, che potremmo dividere le spese”.
Non
stavano bussando…stavano forzando la finestra…cercando di rompere la
vetrata…
“Pan,
ci sei ancora?”.
Finalmente
il vetro si frantumò in mille pezzi. Con uno scatto Pan lasciò andare la
cornetta, che sbatté violenta sul legno del mobile, e si precipitò in
direzione dell’oltraggio. La sua avanzata fu però bloccata dal rapido
ingresso di tre figure, completamente coperte da una tuta di vinile
anticontaminazione e da visiere di plexiglas, dalle quali non poteva distinguere
i loro volti.
“Chi
diavolo siete??” gridò Pan sconvolta, andandoli di nuovo incontro.
Una
delle figure, apparentemente la più massiccia, afferrò con due mani la lampada
da tavolo posta in una angolo della sala, gettandogliela incontro nel tentativo
di tenerla lontano. Pan fu colpita in pieno, investita dai mille frammenti della
lampada che si infrangeva, ma incassò il colpo minimamente, rialzandosi in
piedi.
Affrettando
il passo, i tre individui si diressero verso le scale che portavano al piano di
sopra. In mano tenevano uno strano oggetto, una specie di bombola con relativo
diffusore.
Pan
si gettò verso il più vicino dei tre, che afferrò violentemente per la tuta.
“Cosa
volete??” gli chiese ansimando. Non poteva permettere che andassero di sopra,
di sopra c’erano i bambini, e qualunque cosa volessero quei tipi non avevano
certo buone intenzioni.
Quando
la sua vittima cercò di difendersi colpendola con la bombola d’acciaio, Pan
lo colpì con forza allo stomaco, facendolo emettere un lamento soffocato,
appena percepibile dalla visiera isolante.
Con
il sangue che le ribolliva nelle vene, si precipitò su per le scale, dove nel
frattempo erano corsi gli altri due. Imboccato il corridoio circolare del piano
di sopra, questi stavano perlustrando le varie stanze, aprendo una ad una ogni
porta.
Stanno
cercando i bambini. Non permetterò che facciano loro del male.
Istintivamente
si fermò al centro del corridoio, avvicinò i palmi delle mani iniziando a
raccogliere energia e prendendo la mira verso di loro.
Le
due figure, paralizzate contro il muro, frugarono con agitazione nelle tasche
della tuta.
“Presto,
non c’è tempo, usa la siringa!” gridò il tizio più alto, mentre la figura
più piccola preparava qualcosa tra le mani tramanti, coperte di spessi guanti.
Stava
per lanciare la sfera energetica, quando qualcosa le punse dolorosamente il
collo, e allora fu buio completo.
“Non
è vero che sono un vigliacco!” ribadì Lux, scuotendo con decisione la testa
corvina.
“E
allora perché ti metti a frignare come un poppante tutte le volte?”.
Fackel
sollevò un piccolo sbuffo, odiava la confusione mentre stava leggendo. Chiuse
il libro storcendo il nasino annoiata, e si diresse carponi verso la porta della
camera. Sarebbe andata giù da sua madre, era stufa di ascoltare le solite
discussioni tra suo fratello e suo cugino.
Appena
cercò di raggiungere la maniglia, però, la porta si aprì dall’esterno,
rivelando tre brutte figure vestite da astronauta.
Golden
e Lux si volsero rapidamente in tale direzione, sbarrando gli occhi alla vista
degli estranei. Entrambi, istintivamente, capirono che c’erano guai in vista.
L’astronauta
più grosso tentò di prendere Fackel, ma la bimba sgattaiolò velocemente tra
le sue gambe, scappando verso il corridoio, mentre Golden, allontanandosi dal
letto, si precipitò violentemente verso di lui. Lux sfuggì con un guizzo ad
uno degli altri assalitori, cercando di farsi strada verso la porta.
Improvvisamente
una nuvola di gas uscì dalla bombola dell’astronauta di media statura, che si
diffuse rapidamente all’interno della stanza celando la sua fuga. Uscendo
dalla porta, riuscì solo a vedere Golden che si accasciava al suolo come un
pupazzo.
Corse
lungo il corridoio circolare, verso le scale, sentendo alle spalle i passi
ossessivi dei tre sconosciuti inseguitori. Cercò di prendere distanza, ma
improvvisamente gli si pose davanti la figura inerme di sua madre, distesa al
suolo in posizione scomposta e con gli occhi chiusi.
I
suoi occhi chiari si sbarrarono terrorizzati, e la deprimente visione che aveva
davanti gli impedì di accorgersi degli inseguitori, di cui percepì solo, e per
breve tempo, l’odore irrespirabile di gas che lo raggiungeva da dietro.
“Manca
la bambina!” esclamò una voce femminile da dietro la visiera di plexiglas,
mentre i colleghi tenevano tra le braccia i due maschi ormai incoscienti ed
innocui.
Perquisì
velocemente ogni stanza, fino ad arrivare al guardaroba. Aprendo lentamente la
porta, notò tra gli abiti appesi lo scintillio di due occhioni neri, più
confusi che terrorizzati. Prima che la piccola potesse reagire in qualsiasi
modo, aprì il rubinetto della bombola.
“Si
prevede un aumento in borsa del dieci per cento entro un mese dalla messa sul
mercato” annunciò Trunks, ben sapendo che l’interesse dei soci era più
rivolto agli sbocchi pratici che all’orgoglio professionale.
Mentre
tutto il consiglio annuiva soddisfatto, sfogliando con soddisfazione la
documentazione del fatturato annuo della technofashion, il caschetto corvino
della sua segretaria si affacciò indeciso alla porta, esitando ad entrare.
“Mi
scusi, presidente” mormorò desolata. “Ma c’è una telefonata per
lei…hanno detto che è urgente”.
Trunks
sospirò, affranto. I bambini dovevano aver combinato qualcos’altro, o più
probabilmente la convivenza forzata di Lux e Golden, sebbene per poche ore, non
era stata come al solito un gran successo.
Si
congedò momentaneamente dalla stanza, chiedendo scusa al consiglio e lasciando
uno sguardo confuso negli occhi della sorella. Rispose alla chiamata nel suo
ufficio, dove avrebbe avuto maggiore privacy.
“Ciao,
Trunks, sono Marron”.
Tra
tutte le persone che pensava di trovare dall’altra parte della linea, lei era
sicuramente quella meno probabile. Aveva una voce bassa e tesa, ed un brutto
presentimento gli si insinuò a fior di pelle, facendolo rabbrividire.
“Scusa
se ti chiamo a lavoro, ma…ero al telefono con Pan e…magari non è niente,
però…”.
“Marron,
cos’è successo?” la interruppe agitato. Già sapeva che gli avrebbe dato
cattive notizie, ma sarebbe soffocato di tensione se non gli avesse parlato
subito, chiaramente.
“Ecco…ad
un certo punto ho sentito come un vetro in frantumi, Pan ha lasciato
improvvisamente il telefono ma io sono rimasto in linea e…”.
“E…?”
la incitò lui, mentre l’apprensione lo invadeva completamente.
“Lei
ha urlato a qualcuno chi fossero, poi ho sentito una gran confusione e, dopo, più
niente…”.
“Oh,
no…”.
“Non
so bene cosa sia successo, Trunks, ma ho pensato di avvertirti”.
“Hai
fatto bene…Grazie, Marron”.
Concluse
la telefonata, rimanendo per qualche istante con la cornetta in mano, indeciso
se comporre o meno il numero di casa. Si rese presto conto che l’unica cosa da
fare era correre immediatamente là, non solo perché avrebbe perso tempo
inutilmente, ma anche perché temeva che nessuno avrebbe risposto.
Mentre
si accingeva ad abbandonare l’ufficio, sua sorella entrò preoccupata nella
stanza, sorprendendolo con gli occhi segnati dall’ansia ed il respiro
irregolare.
“Trunks,
cos’è successo?”.
Le
raccontò brevemente della telefonata di Marron.
“Cielo…”
mormorò lei, portandosi una mano alla bocca. “Cosa pensi sia accaduto?”.
“Non
ne ho idea, ma adesso lo scoprirò” annunciò, aprendo con decisione la
spaziosa finestra dell’ufficio, che tanti anni addietro aveva rappresentato la
sua via di fuga.
“Aspetta!”
lo trattenne Bra. “Vengo con te!”.
“No”
replicò lui voltandosi verso di lei. “Tu resta, non possiamo abbandonare il
consiglio d’amministrazione”.
“Stai
scherzando?” lo riprese lei, mentre l’aria gelida di quella notte invernale
entrava nella stanza e le scompigliava le chiome azzurre. “La nostra famiglia
viene prima del lavoro!”.
Trunks
annuì. Avrebbe voluto avere sempre la decisione di sua sorella, la sua
straordinaria determinazione. A lei non piaceva limitarsi ad affrontare la vita
passivamente, accettare senza combattere ciò che il destino le offriva.
“Andiamo”
mormorò lui, prima che entrambi oltrepassassero la finestra e spiccassero il
volo verso la cupola color crema.
La
luce della grande sala circolare era accesa, ma nessuno rispose ai richiami suoi
e di Bra. Una delle finestre era infranta, e a terra giacevano resti di
ceramica, probabilmente appartenuti ad un vecchia lampada da tavolo, mentre la
cornetta del telefono pendeva ancora dal tavolino.
I
due fratelli si spostarono in cucina, dove trovarono l’impasto di un dolce non
terminato. Ma anche lì, nessuna traccia di Pan o dei bambini.
Mentre
Bra si accingeva a salire le scale, Trunks continuò a perquisire il piano terra
senza alcun risultato. Non riusciva neanche a chiamare i loro nomi, tanta era
l’ansia che gli mozzava il fiato e gli strozzava il cuore come una tenaglia.
“Trunks!”.
Nel
sentire la voce concitata di sua sorella che lo chiamava dal piano di sopra, la
morsa si fece improvvisamente più stretta, quasi a fargli uscire un singulto di
dolore.
Non
salire...non salire di sopra...
Esitò,
tremando. Qualunque cosa avesse trovato Bra, di sicuro non era niente di buono.
Sapeva che doveva raggiungerla subito, ma il terrore di ciò che avrebbe visto
gli creava un tale peso interiore che dovette appoggiarsi al corrimano.
Salì
gli scalini, uno ad uno, con una lentezza esasperante nonostante il simultaneo
bisogno di intervenire. Il suo cuore batteva all’impazzata, sembrava volesse
uscirgli dal petto da un momento all’altro. Raggiunse il pianerottolo, gli
occhi sbarrati, il respiro affannoso.
Sua
moglie era distesa a terra, immobile, la testa sollevata appena sulle ginocchia
di Bra, che con due dita le cercava nervosamente il battito nei pressi del
collo. Dopo qualche tentativo sollevò lo sguardo, colmo di una devastante
tristezza.
“E’
morta”.
Solo
due parole, pronunciate quasi come un sussurro, che però bastarono a Trunks per
sentire il suo cuore palpitante frammentarsi in mille pezzi.
Continua…
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Capitolo 5 *** Capitolo 4 ***
Capitolo 4
Capitolo
4
Trunks
guardò il suo orologio da polso per l’ennesima volta. Erano già dieci minuti
che la porta davanti a lui era chiusa, e ogni volta che sollevava lo sguardo si
aspettava che finalmente si aprisse davanti ai suoi occhi stanchi, rivelandogli
se ormai la vita poteva ancora avere un senso.
Non
c’era nessuna traccia dei suoi figli e di suo nipote, vane erano state le loro
ricerche in ogni angolo della casa, inutili i loro richiami disperati tra i
corridoi deserti.
Unica
testimone di qualunque cosa fosse accaduto, la sua Pan adesso non poteva più
parlare, così come non avrebbe tratto un solo respiro, o accennato un battito
del cuore ancora così giovane.
E'
morta...
Ricordava
ancora le dure parole di sua sorella, pronunciate poco più di un’ora prima,
quando era sprofondato nella disperazione più totale, un dolore e uno sconforto
mai provati. Eppure non riusciva ad accettare la realtà, no, sentiva ancora un
barlume di aura nel corpo della sua giovane moglie, debole e impercettibile, ma
pur sempre vivo. Sapeva che probabilmente era solo una sensazione creata
dalla sua mente, ma in quel momento voleva aggrapparsi a quell’illusione con
tutte le sue forze. Aveva sollevato il suo corpo inerme, freddo da far paura,
l’aveva portata lentamente verso la loro camera, mentre sulle sue guance
scorrevano lacrime che non era riuscito a trattenere, e l’aveva fatta
distendere sul letto, così pallida e immobile che, nonostante i suoi sforzi,
sembrava impossibile credere che stesse solo dormendo.
Adesso,
ben consapevoli che nessun ospedale poteva aiutarli senza interrogarsi di fronte
ai misteri della medicina, avevano chiamato Marron, arrivata con Ub da Satan
City appena aveva avuto notizia: era solo un’infermiera, ma anche la loro
unica speranza di capire cosa fosse successo.
La
stava ancora visitando. Era dentro da ormai quindici minuti, e Trunks si appoggiò
nervosamente alla parete del corridoio circolare, di fronte alla stanza. Vicino
a lui, Bra e Goten erano avvolti in un pesante silenzio. L’espressione di sua
sorella era totalmente vuota, gli occhi azzurri più freddi che mai che
fissavano il nulla davanti a lei, mentre l’usuale ottimismo di lui sembrava in
buona parte spiazzato da un contenuto senso di ansia, ed invano tentava di fare
forza alla moglie cingendole le spalle o sussurrandole parole di conforto, a cui
lui stesso stentava a credere.
Poco
più distante, quasi a voler lasciare loro uno spazio di riservatezza, Ub
attendeva silenzioso, partecipe della loro stessa preoccupazione. Poco prima gli
aveva posato la mano sulla spalla per fargli forza, aveva sorriso a Goten e
aveva abbracciato Bra. Ormai adulto e incontrastato campione del mondo da dieci
anni, nonostante l’abbigliamento più ricercato e lo stile di vita più
abbiente, sembrava rimasto il solito ragazzino semplice che viveva in un
villaggio e che aveva trovato in Goku, e poi in tutti loro, la sua seconda
famiglia, a cui sarebbe stato per sempre legato.
Finalmente
la porta si aprì, rivelando una Marron dall’espressione stanca, segnata dai
numerosi turni di lavoro e dal rapido viaggio verso West City, che si scostò
con debolezza una bionda ciocca di capelli che le era caduta sul volto.
“Allora?”
le chiese Trunks con impazienza, precipitandosi di fronte a lei.
I
lineamenti della donna si ammorbidirono in un debole sorriso, mentre nei suoi
occhi castani comparve uno spiraglio di luce.
“I
segni vitali sono del tutto assenti” riferì. “Ma non è morta”.
Non
è morta...non è morta...
Trunks
ebbe l’impressione di respirare di nuovo per la prima volta, e istintivamente
abbracciò Marron, senza preoccuparsi di conoscere il significato di quelle
parole, grato solo per aver sentito pronunciare l’ultima frase.
“Oh,
grazie…” mormorò, stringendo gli occhi con la voce gonfia di pianto.
“Grazie, grazie…”.
Un
tempo, da giovani adolescenti, lui e Marron si erano presi una breve cotta
reciproca, sfumata poi in una profonda stima e in una sincera amicizia, che
adesso permetteva a Trunks di fare libero sfogo della sua angoscia e della sua
momentanea, anche se inconsistente, gioia.
“Ne
sei sicura?” le chiese conferma Ub, raggiungendola.
Marron
annuì, convinta.
“Ho
controllato la rigidità muscolare, i muscoli mantengono ancora la normale
flessibilità, che dopo la morte scompare in breve tempo. Inoltre ho punto con
un ago il suo indice, ne è uscita una goccia liquida e rossa, questo significa
che il sangue non è coagulato”.
“Come
si spiega una cosa del genere?” chiese Goten, stringendo maggiormente Bra al
suo petto.
La
donna si voltò verso di lui, cercando di riordinare le idee per spiegare un
tale fenomeno.
“E’
come…ibernata” rispose, non riuscendo a trovare parole più semplici e
appropriate. “Ho notato una piccola puntura a lato del suo
collo…probabilmente le è stato iniettato qualcosa che ha paralizzato tutte le
sue attività corporee, quindi anche il suo cuore, i suoi polmoni ed il suo
cervello, ma che inspiegabilmente non è bastato ad ucciderla”.
“Cielo…”
mormorò Trunks, stropicciandosi gli occhi incredulo. Voleva sapere un’ultima
cosa, la più importante ed urgente, in quel momento. “Cosa possiamo fare per
lei?”.
Marron
scosse la testa, abbassando lo sguardo desolata.
“Niente,
per ora” sospirò. “Ma ho prelevato un campione di sangue”.
Si
avvicinò a Bra, che assorta in pensieri anni luce lontano da lì sollevò
debolmente la testa, confusa, vedendosi porgere una siringa avvolta da un
cellofan e contenente un liquido rosso.
“Sai
che non posso portare il campione all’ospedale. Spero che possa analizzarlo
tu”.
Bra
afferrò la siringa indecisa. Era un chimico, non era esperta nel maneggiare
campioni biologici come il sangue. Tuttavia, il contenuto di esso era l’unico
indizio che avevano, e lei era l’unica che poteva occuparsene.
“Ci
proverò” rispose annuendo, mentre Goten le rivolgeva un tiepido sorriso
d’assenso.
“Con
buona probabilità, lì dentro c’è qualche sostanza estranea. Chissà che non
vi dica qualcosa”.
Trunks
sperò che fosse così. Forse c’era ancora una possibilità per Pan. E per i
piccoli.
“Purtroppo,
al momento, non c’è altro da fare” concluse Marron, scrollando le spalle.
“Adesso
dovete solo concentrarvi sui bambini” consigliò Ub. “Avete idea di cosa sia
successo?”.
Trunks
scosse la testa, sospirando.
“C’era
solo Pan con loro. Noi eravamo tutti a lavoro”.
Nel
pronunciare tali parole, sentì una spiacevole fitta al petto. Si sentì
terribilmente stupido per essersi trovato beatamente in ufficio a preoccuparsi
di affari quando alla sua famiglia stava per succedere il peggio.
“Spero
solo che non sia successo niente ai bambini…” mormorò, passandosi una mano
sul volto.
Notò
che gli occhi di sua sorella si erano riempiti di terrore, mentre ricacciava
testardamente indietro le lacrime sbattendo gli occhi violentemente, e desiderò
non aver detto niente.
Goten
abbracciò la moglie, protettivo, notando la sua preoccupazione.
“Ehi,
se avessero voluto fare loro del male, glielo avrebbero fatto qui, non credi?
Chiunque li abbia portati via, li voleva vivi!”
“Pensate
ad un rapimento per riscatto?” azzardò Ub.
In
effetti, pensò Trunks, quella era la motivazione più ovvia. Fino ad allora,
però, era successo tutto così velocemente che non era ancora riuscito a
pensare in maniera lucida.
“Lo
credo anch’io” convenne. “In questo caso…dovrebbero farsi vivi loro…e
speriamo che tutto vada per il meglio”.
Alzando
lo sguardo, notò che l’espressione della sorella si era fatta più dura.
“Che
non li torcano un solo capello” sibilò Bra tra i denti, stringendo con
decisione il campione che aveva in mano. “O pagheranno per cosa hanno
fatto!”.
Il
cielo notturno era anonimo, senza stelle. La luce della Luna illuminava a tratti
il paesaggio, affacciandosi timidamente dalle nuvole filamentose. In lontananza,
i bagliori luminosi della vicina metropoli risplendevano di mille sfumature e
proiettavano nell’aria una soffusa luce rossastra.
Erano
le undici passate. Ormai lo stabilimento era completamente vuoto, privato
progressivamente del viavai quotidiano che durante il giorno affollava i
corridoi, i laboratori e i punti direzionali. Lo stesso parcheggio adiacente era
deserto, solo una lussuosa air-car ed un furgone bianco occupavano i numerosi
posti macchina vuoti.
L’uomo
alla finestra perse attenzione per il paesaggio esterno, focalizzando invece lo
sguardo sulla sua immagine riflessa nel vetro. Osservò compiaciuto il volto
maturo, coperto nella parte inferiore da una corta barba color biondo cenere, di
una tonalità leggermente più scura dei capelli di media lunghezza, e la luce
crescente nei perspicaci occhi grigi, contornati da lievi rughe, appena
accennate, ma celate quasi del tutto da un’elegante montatura di occhiali
semplice ma di grande effetto. Lo facevano sembrare più saggio, nonostante la
straordinaria intelligenza, capacità e fama che aveva accresciuto e sviluppato
negli anni bastassero da sole a dimostrarlo. Unico difetto, la sua forzata
dipendenza da un bastone per camminare, a causa di una malattia muscolare
degenerativa che rendeva deboli i suoi arti inferiori già all’età di
cinquantatre anni.
Qualcuno
bussò alla porta del suo ufficio, e l’uomo fece roteare lentamente la sedia
verso la scrivania.
“Avanti”.
Il
primo ad entrare fu Dan, la faccia aguzza contorta in un’espressione
compiaciuta e in un sorriso fiero, che mostrava senza alcuna vergogna i denti
scarsamente curati. Nonostante non tenesse minimamente al suo aspetto, con quei
capelli lunghi e costantemente scarmigliati, sembrava sempre volesse essere il
primo della classe, un patetico tentativo di far bella figura con il capo.
Povero ingenuo. Non capiva che non sarebbe mai diventato nessuno obbedendo
unicamente agli ordini. L’apparenza spesso valeva di più.
Lo
seguiva Hatch, serio, la testa completamente rasata imperlata da piccole gocce
di sudore. Problema opposto: fisico prestante, che pareva voler scoppiare entro
la maglia attillata, occhi verdi glaciali ma penetranti, lineamenti mascolini.
Poteva arrivare lontano, sì, eccome se avrebbe potuto, ma tendeva spesso a fare
di testa sua, ad aggiungere agli ordini sempre qualcosa che non gli era stato
chiesto. Nonostante la sua straordinaria efficienza, era troppo indipendente e
ribelle per far seriamente strada.
E
infine entrò Lilian, bella donna sui trent’anni, alta, capelli castani corti
e labbra fini ma sensuali. Le sue capacità professionali erano enormi, la sua
mente fine ed acuta, le sue potenzialità infinite. Era l’incarnazione della
donna in grado di far carriera, la donna sveglia, tenace, vincente. Unica, ma
aberrante pecca, la sua tendenza a farsi coinvolgere e distrarre da stupidi e
irreali sentimenti, che bastavano spesso a sminuire ogni altra delle sue doti.
Tipico di una donna. Peccato.
“Missione
compiuta, dottor Wissen!” riferì Dan, portando le mani ai fianchi con
orgoglio.
“Bene”
si limitò a dire lui, appoggiandosi con indifferenza allo schienale della
sedia, come se ciò che avevano portato a termine non fosse poi grande cosa. Mai
avrebbe dato ai suoi dipendenti un’eccessiva soddisfazione. “Dove sono,
ora?”.
“Abbiamo
creato una sistemazione nella stanza 3 del secondo seminterrato. Stanno ancora
dormendo”.
Wissen
annuì. Era senz’altro il luogo migliore, oscuro alla maggioranza dei
dipendenti, dove avrebbero potuto svolgere il loro lavoro indisturbati.
“E’
andato tutto liscio, vero?” chiese, rivolgendosi a Lilian.
La
donna esitò un secondo, distogliendo leggermente lo sguardo. Non era da lei.
“Sì,
dottore, ma…” si interruppe, lanciando un’occhiata fugace ad Hatch.
“Abbiamo dovuto usare la prep”.
Wissen
si alzò di scatto dalla scrivania, spalancando gli occhi.
“Che
cosa?!”.
“In
casa c’era una delle madri, ci stava attaccando…”.
“La
prep era solo per le emergenze!” esclamò lui, con tono autoritario. “Non
potevate usare anche in questo caso il gas sedativo? Quello almeno non lascia
tracce!”.
“Stavamo
per essere polverizzati, può chiamarla emergenza, dottore” fece notare
Hatch, irriverente.
Wissen
gli lanciò uno sguardo inquisitorio.
“Immagino
sia stata una tua idea, Hatch”.
“Se
non avessi avuto quell’idea, ora non saremmo qui con i suoi tre desideri”
disse lui sfacciatamente.
Wissen
lasciò correre sulla sua totale mancanza di rispetto. Decise di non
preoccuparsi per quel piccolo imprevisto, in fondo le probabilità di ricavare
tracce dal flusso sanguigno erano alquanto scarse.
“Credo
che adesso ci spetti la nostra ricompensa” aggiunse Hatch.
Subito
al sodo, il giovanotto. In effetti, il denaro promesso era stata la prima cosa
per cui i tre avevano deciso di collaborare. Wissen sapeva che ciò che aveva in
mente non era cosa da poter fare alla luce del sole, la società odierna era
troppo sciocca e di strette vedute per capirne l’importanza. Aveva scelto
quindi, tra i suoi numerosi dipendenti – un vasto assortimento di biologi,
farmacologi, tecnici e assistenti – i tre più capaci, e soprattutto, fidati.
Aveva scelto chi sapeva potesse trascinare dalla sua parte, chi era disposto a
sfidare la legge pur di sentire il piacevole fruscio di numerosi blocchi di
banconote, o di veder già assicurata la propria carriera.
Dan,
Hatch e Lilian. Aveva ancora bisogno di loro.
“Al
termine dello studio avrete ciò che vi spetta” li informò, lapidario.
“Come?!”
protestò il fusto, scaldandosi. “Ci aveva promesso trentamila yeni a testa
dopo il rapimento!”.
“Assistetemi
negli esperimenti e avrete i vostri soldi!”.
“Ma
dottor Wissen! Sono settimane che pediniamo notte e giorno quei mocciosi, e ora
dovremo aspettare ancora chissà quanti mesi!”.
“Calmati,
Hatch” lo ammonì Lilian, imbarazzata.
“Signore,
l’operazione è stata piuttosto rischiosa!” intervenne azzardatamene Dan,
abbandonando il suo atteggiamento di costante adorazione. “Io stesso ho
rischiato quasi di essere ucciso da quella donna!”.
“Fate
come vi dico e ne avrete quarantamila, di yeni” propose Wissen.
Dan
si interruppe, valutando l’idea con aria interessata, mentre Hatch sembrò
acquietarsi momentaneamente.
“Saremo
con lei, dottore. Può fidarsi di noi” affermò Lilian, parlando per tutti.
Wissen
incrociò le braccia al petto, con aria trionfante. Fortunatamente non aveva
problemi economici e, nonostante avesse sempre pensato che il denaro da solo non
rappresentasse niente, fu felice di constatare che almeno serviva per comprare
tre ingenui come loro.
Golden
sbattè lentamente le palpebre. Tutto intorno a lui sembrava sfuocato, e un
fastidioso mal di testa rendeva tutto più confuso. Si strofinò ripetutamente
gli occhi, finché riuscì a mettere a fuoco l’ambiente.
Si
trovava disteso su uno scomodo materasso improvvisato, sistemato in un angolo di
una stanza dai muri grigi, spogli e privi di finestre, illuminata da una flebile
luce al neon dalle sfumature fredde. L’arredamento si limitava ad un bancone
bianco e a pochi macchinari di seconda mano, che diffondevano un basso ma
monotono ronzio all’interno di quelle quattro mura asettiche.
“Non
mi piace questo posto, voglio andare a casa!”.
Fu
la voce di sua cugina a farlo voltare verso la parete opposta della stanza, dove
la trovò raggomitolata su un altro materasso come il suo, con un’espressione
imbronciata e gli occhi lucidi di pianto. Poco lontano da lei, disteso su un
terzo materasso, Lux dormiva ancora.
Improvvisamente
ricordò cos’era successo. Nella sua mente ripassarono come un razzo le
immagini di tre figure, coperte da una strana tuta, che facevano irruzione in
camera di Lux. Si erano lanciate su di loro, e lui aveva tentato di
reagire…poi i suoi ricordi si interrompevano incomprensibilmente.
Ma
dove erano stati portati? Che posto era quello?
“Golden,
questo braccialetto è troppo stretto, mi fa male!” si lamentò ancora Fackel,
alzando il piccolo polso intrappolato da un cerchio di metallo.
Mentre
si avvicinava a lei, Golden notò di averne uno uguale al polso sinistro. Era
una manetta metallica, sigillata da una chiusura a lucchetto, strettamente
aderente alla pelle attraverso uno strato più interno di diversa natura. Si
chiese come mai sua cugina non se lo fosse ancora strappato.
Quando
però provò a forzarlo, capì. Il bracciale non si muoveva di un millimetro,
sembrava ancorato in quella posizione, e l’uso di tutta la sua forza non
bastava per disintegrarlo. Confuso, tentò con quello di Fackel. Niente. Non si
spezzava né si scalfiva, mentre con grande sorpresa si trovò lui stesso a
massaggiarsi le dita per lo sforzo.
“Accidenti!”
imprecò, dirigendosi verso la porta della stanza. Era una porta elettronica, a
chiusura ermetica. Dovevano assolutamente uscire da lì.
Lanciò
un pugno verso la superficie metallica. Un secondo dopo, si stava contorcendo a
terra, tenendosi la mano arrossata per il dolore. Nella porta, neanche un
graffio.
Fackel
cominciò a piangere.
Golden
si rialzò, stringendo i denti, ansimando. Ma cosa gli stava succedendo?
Avvicinò
i palmi delle mani, posizionandoli poco lontano da quella porta invalicabile.
Chiuse gli occhi, concentrandosi per raccogliere energia. Ma né una scintilla
di luce né un accenno di calore uscirono dalle sue mani, che il bambino guardò
con incredulità, come se fossero quelle di qualcun altro.
“Vedi,
non riusciamo più a fare niente!” esclamò Fackel tra le lacrime. “Ho anche
provato a volare e non ci riesco!”.
Golden
provò a concentrarsi, ma i suoi piedi non accennavano infatti a sollevarsi da
terra. Preso dal panico, si precipitò verso il letto del cugino, che scosse
violentemente.
“Lux,
svegliati, svegliati!”.
Il
bambino aprì debolmente gli occhi, guardandosi attorno confuso.
“Dove…dove
siamo?” balbettò dopo qualche secondo.
“Vorrei
tanto saperlo!” gridò Golden, mettendosi le mani tra i folti capelli neri.
Lux
si alzò dal materasso, i grandi occhi azzurri totalmente frastornati, mentre
faticava a riprendere contatto con la realtà. Fissato al suo polso sinistro, un
altro di quegli stranissimi bracciali.
“Ascolta,
Lux, adesso ci mettiamo uno di fronte all’altro e al mio tre diventiamo super
sajan!”.
“Come..?”
chiese il più piccolo, confuso.
“Avanti,
facciamo come ti ho detto!”.
Golden
temeva a farlo da solo, per la paura di rimanerci di nuovo male. In due sarebbe
stata una sfida, una motivazione in più per impegnarsi a ritrovare le capacità
perdute.
“Uno…due…”.
Entrambi
ispirarono profondamente, guardandosi negli occhi e stringendo i pugni lungo i
fianchi.
“…tre!!”.
Solo
un grido accennato uscì fuori dai due bambini, i cui capelli erano rimasti neri
come l’ebano e il cui corpo privo di ogni bagliore. Golden scosse la testa,
deluso. Erano già due anni che aveva imparato a trasformarsi, e ogni volta ci
riusciva perfettamente. Stessa cosa per il cugino.
Si
sentì improvvisamente debole, impotente come non mai. Sollevando gli occhi neri
affranti, notò una telecamera fissata ad uno degli angoli della stanza. Una
piccola luce rossa appariva e scompariva continuamente a lato dell’obiettivo.
Era accesa.
Per
la prima volta, desiderò che nessuno lo guardasse.
Goten
si sedesse stanco sul divano del grande salone. Davanti a lui, Trunks se ne
stava in poltrona con la testa tra le mani, in silenzio.
Ub
e Marron se ne erano andati già da un quarto d’ora, e di nuovo l’enorme
casa sembrava terribilmente vuota.
Guardò
l’amico con una stretta al cuore. Se quella situazione era assurda e dolorosa
per tutti loro, Trunks era senza dubbio quello che ne soffriva maggiormente,
avendo perso in un sol colpo l’intera famiglia. Era seduto vicino al tavolino
del telefono, e Goten pensò che non fosse certo un caso.
“Tu
riesci a sentirli?” si sentì chiedere, con tono triste e rassegnato.
“Riesci a sentire la loro aura?”.
Goten
scosse la testa, non potendo che ammettere la realtà, della quale tutti loro si
erano già accorti.
“Non
riesco a localizzarla, ma c’è ancora, ne sono sicuro, anche se piccolissima e
inspiegabilmente debole”.
Era
la verità. Proprio come Trunks percepiva quella della moglie, lui sentiva
ancora quella dei piccoli, tutti e tre, nonostante non riuscisse a distinguere
la provenienza, quasi fosse attenuata da un involucro isolante.
“Già…anch’io
la sento” rispose Trunks, assorto.
“Purtroppo,
non sappiamo dove cercarli. Possiamo solo aspettare”.
Trunks
annuì, sospirando. Poi il suo sguardo rincontrò di nuovo quello di Goten,
assumendo un’espressione seria e determinata.
“Sono
disposto a pagare qualsiasi cifra. Voglio solo riaverli indietro, sani e
salvi”.
Goten
lo guardò incerto, studiando l’affermazione dell’amico.
“Dai
per scontato che sia un normale rapimento…” soggiunse.
“Tu
no?”.
Goten
portò i palmi delle mani in alto, in segno di dubbio. Rapire i piccoli eredi
della Capsule Corporation per un riscatto da capogiro avrebbe rappresentato il
colpo del secolo per qualsiasi banda di malviventi, eppure non ne era tanto
convinto. Il suo istinto gli suggeriva dell’altro.
“Non
so…” rispose. “Ma c’è qualcosa di strano, in tutto questo”.
“Ossia?”.
L’espressione
di Trunks si era fatta ancora più tesa, e Goten sperò di non allarmarlo
ulteriormente.
“Il
riscatto, per esempio. Non credi che i rapitori avrebbero dovuto farsi vivi?”.
Trunks
guardò l’apparecchio telefonico al suo fianco, quasi come il solo fatto di
fissarlo lo esortasse finalmente a suonare.
“Sono
passate solo poche ore” replicò. “Potrebbero chiamare più tardi”.
“Rischiando
di essere anticipati dalla polizia? No, è molto strano…”.
“Vai
avanti” lo spronò Trunks, deglutendo pesantemente.
“Un’altra
anomalia è che hanno preso tutti e tre. Non ti sembra che sia enormemente
dispendioso, per dei rapitori, mantenere tre bambini quando potrebbero ottenere
un riscatto ugualmente alto per uno solo?”.
Trunks
scosse le spalle, incapace di ribattere. Sembrava non avesse nemmeno più la
forza di valutare l’idea.
“E
infine, il fatto delle auree. Come mai le sentiamo così deboli? E’ come se
sapessero della loro intensità e volessero neutralizzarla”.
Trunks
si irrigidì all’istante, guardandolo con occhi spalancati per il terrore.
“Cielo…”
mormorò, con voce spezzata. “Pensi che sappiano…di noi?”.
Goten
esitò, poi scrollò le spalle.
“E’
una possibilità…non sarebbe da escludere, visto il comportamento così
esplicito dei bambini, negli ultimi tempi”.
Il
volto di Trunks si piegò in una smorfia di dolore, come se la voglia di
piangere lo stesse inesorabilmente assalendo di nuovo. Si lasciò cadere
all’indietro, sulla spalliera della poltrona, fissando impotente il soffitto e
scuotendo lentamente la testa.
“E’
colpa mia…” gemette. “Sono stato troppo assente ultimamente…se avessi
passato più tempo a casa, adesso i miei figli non sarebbero dispersi e mia
moglie non sarebbe immobilizzata in un letto…”.
“Trunks”
lo richiamò Goten, sporgendosi dalla poltrona e posandogli amichevolmente una
mano sulla spalla. “Non è colpa tua. Poteva succedere in qualsiasi momento,
anche se eri presente tu”.
“Avrei
dovuto occuparmi di loro…invece ho affidato quasi tutto a Pan, e lei non ce
l’ha fatta da sola!”.
“Trunks,
non è vero!”.
“Sì
che lo è, Goten! Io avevo il dovere di badare a loro!”.
“Ascolta!”
lo interruppe il più giovane, incontrando gli occhi azzurri dell’amico
d’infanzia, al quale da anni lo legava un profondo affetto. “Anche io e Bra
abbiamo fatto degli errori con Golden. Tutti ne abbiamo fatti, purtroppo è
estremamente difficile educare dei sajan, soprattutto quando sono solo dei
cuccioli. Ma ti prometto che ritroveremo i nostri figli, gli riporteremo a casa
e li riabbracceremo…non prima di una bella sculacciata, naturalmente!”.
Trunks
si concesse un debolissimo ma speranzoso sorriso alle parole dell’amico, per
poi raggomitolarsi di nuovo su un lato della poltrona, quello più vicino al
telefono. Sembrava non voler abbandonare l’idea che si trattasse di un
semplice, comune rapimento.
Bra
uscì finalmente dalla cucina, con in mano una tazza di camomilla. Si sedette
silenziosamente sul divano, gli occhi testardamente attenti a non incontrare
quelli suoi o del fratello per qualcosa di più che brevi e fugaci momenti.
“Stai
bene?” le chiese, circondandole le spalle con un braccio.
“Sì”
si limitò a rispondere, sorseggiando poi la sua bevanda calda.
Sapeva
che mentiva. Sua moglie era interiormente distrutta e sconvolta per ciò che era
accaduto, ma continuava ostinatamente a nascondere la sua fragilità sotto una
fortezza di moderato controllo, che però finiva solo per accumulare
ulteriormente la sua sofferenza.
Anche
lei, a intervalli regolari, si appostava nei pressi del telefono, senza però
mostrare esplicitamente il crescente bisogno di sentirlo suonare.
Goten
l’attirò istintivamente a se, facendole appoggiare la testa sulla sua spalla.
“Andrà
tutto bene” le sussurrò.
Wissen
entrò nello spazioso ascensore, estraendo dalla tasca del camice una piccola
chiave. La inserì nella fessura corrispondente, sbloccando così il tasto per
raggiungere il secondo seminterrato. Normalmente quel luogo era inaccessibile al
comune personale dell’azienda, ufficialmente per garantire misure di sicurezza
a causa dell’immagazzinamento di sostanze radioattive. Per la verità, laggiù
c’era qualcosa che solo pochi potevano vedere.
Mentre
l’ascensore cominciava la sua discesa verso il basso, Wissen guardò il suo
orologio da polso. Nonostante fosse già mezzanotte passata, desiderava fare
visita ai cuccioli prima di andare a dormire. Avrebbe passato la notte in una
stanza dello stabilimento adibita ad alloggio, tuttavia era così tanta
l’emozione che, sapeva, di sicuro non avrebbe chiuso occhio.
Le
porte scorrevoli dell’ascensore si aprirono su un lungo corridoio, scarsamente
illuminato da faretti fissati ai lati del soffitto.
Wissen
sentì il cuore che accelerava i propri battiti. Erano anni che aspettava quel
momento. Anni che lo sognava, che lo immaginava, fin da quel giorno alla Capsule
Corporation, quando era solo un laureando.
Quanta
strada aveva fatto da allora. Aveva inizialmente accatastato il suo progetto, in
modo da terminare gli studi e crearsi una strada. Una volta avviato un impero e
diventato ricco e famoso, però, aveva sentito che la sua esistenza non sarebbe
stata completa senza sapere, senza risolvere quel mistero, quel miracolo
della natura a cui aveva assistito quella volta, e di cui conservava
segretamente la prova.
Mentre
molti suoi colleghi sfruttavano il tempo libero per partite a golf, per uscire
con belle donne o per partecipare a qualche evento mondano, lui preferiva
rinchiudersi nei suoi laboratori segreti, il suo piccolo, piacevole mondo dove
non doveva vergognarsi della sua deficitaria malattia, e dove avrebbe studiato,
con costanza e interesse, le meraviglie di quel tesoro nascosto, quelle poche
fibre capillari depositarie di un patrimonio genetico unico e inimmaginabile…
Ne
aveva appurate le meraviglie, analizzato il funzionamento, dedotte le
potenzialità. Aveva supposto che quei geni si trasmettessero in modo dominante
di generazione in generazione, una preziosa e potentissima eredità che i
discendenti avrebbero continuato a vantare. Aveva imparato a memoria quella
lunga serie di molecole, messe l’una accanto all’altra come lettere
dell’alfabeto a formare un codice preciso, non presente negli esseri
umani…l’aveva chiamato codice sigma, come la prima lettera di quel
termine inizialmente così astruso e incomprensibile udito molti anni prima…
Sajan…
Aveva
saputo dell’unione di due coppie con tali caratteristiche, e della nascita di
una nuova prole…
Aveva
pensato, senza ombra di dubbio, che quella era l’occasione che aspettava, il
momento giusto per verificare ciò che aveva scoperto, per confrontare i suoi
risultati con la fonte vivente che aveva ispirato i suoi studi, e per capire ciò
che ancora c’era da sapere…
Dopo
anni di analisi limitata a genoma abbondantemente amplificato e conservato a
basse temperature, ma ormai quasi degradato, aveva finalmente a portata di mano
piccoli ereditari del codice, in carne e ossa, a sua completa disposizione…
Inserì
una tessera magnetica in una fessura adiacente alla porta metallica, che si aprì
prontamente rivelando il vecchio laboratorio. Sul fondo della stanza,
raggomitolati vicini con gli sguardi spersi e confusi, i tre cuccioli
sobbalzarono per il suo ingresso improvviso, mentre la porta si richiudeva
velocemente alle sue spalle.
Provò
una tale emozione che si sentì vacillare, tanto da doversi appoggiare
maggiormente al bastone finemente decorato per non perdere l’equilibrio. Erano
lì, davanti a lui, tutti e tre, così giovani ma dalle potenzialità infinite,
resi momentaneamente innocui ma pregni di un potere infinito, ancora così
incontrollabile e istintivo. Avrebbe voluto andare loro incontro come fossero il
tesoro cercato e voluto da una vita intera, ma si trattenne. Avanzò lentamente
verso di loro, fissandoli attraverso le lenti lucide degli occhiali, accennando
progressivamente un sorriso di benvenuto.
“Salve,
miei piccoli sajan” li salutò, inginocchiandosi davanti a loro, seduti su uno
dei materassi.
Il
maschio più grande lo fissò con occhi d’ebano carichi di stupore, sentendo
pronunciare quell’ultima parola.
“Chi
è lei…?” mormorò, aggrottando le piccole sopracciglia scure. “Dove
siamo? Cosa volete da noi?”.
Wissen
fece per scompigliargli affettuosamente i capelli per rassicurarlo, ma il
ragazzino si scostò con espressione disgustata.
“Non
abbiate paura, bambini. Siete miei ospiti adesso”.
La
bimba, dai rari capelli lavanda, sembrò strisciare coraggiosamente verso di
lui, alzando poi il piccolo polso in modo da metterlo in evidenza.
“Signore,
la prego, può togliermi questo bracciale??” chiese, con vocina pregante.
“Oh
no, piccola, vedi, è una precauzione necessaria…” le spiegò, con tono
paterno. “Non posso rischiare che usiate il vostro potere a sproposito…”.
“Bastardo!!”
esclamò di nuovo il primo, che ora lo guardava con odio. “Se non ci farete
uscire subito da qui, i nostri genitori ve la faranno pagare!”.
Wissen
non rispose, fingendo di non aver sentito. Ringraziò il cielo di aver fatto
mettere al loro polso quella speciale manetta, in grado di rilasciare
gradualmente nella loro pelle, e da lì nel loro sangue, degli ormoni specifici
che andavano ad inibire reversibilmente le loro capacità, agendo a livello
genico. Neutralizzando anche la loro aura, i loro genitori non avrebbero mai
potuto localizzarli.
Notò
che l’altro maschio aveva gli occhi bagnati di lacrime. Assomigliava molto a
suo padre da giovane, nonostante i capelli nerissimi e uno sguardo decisamente
più triste.
“Cosa
è successo alla mamma?” mormorò, con una vocina flebile, quasi
impercettibile, mentre fissava il pavimento di granito.
Wissen
gli passò una mano sulla guancia arrossata, a cui rispose con un piccolo
brivido, senza però reagire in quel modo esplicitamente maleducato del cugino.
“Non
preoccuparti…va tutto bene…adesso siete qui, non dovete pensare più a
niente”.
Il
bambino gli rivolse una fugace occhiata terrorizzata, per poi distogliere
nuovamente lo sguardo.
“Credo
che adesso è giunto il momento di presentarci” continuò, soddisfatto. “Io
sono il dottor Wissen. Ma potete chiamarmi Frederik. E voi? Volete dirmi i
vostri nomi?”.
“Scordatelo!”
gridò il ragazzino dagli occhi neri. Se solo avesse avuto i poteri di cui
disponeva, a quest’ora gli sarebbe già saltato addosso.
Il
dottore scosse la testa.
“Cominciamo
proprio male, bambini!” li rimproverò. “Ho intenzione di instaurare con voi
un rapporto di reciproca collaborazione…fareste meglio a comportarvi bene!”.
Continua…
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Capitolo 6 *** Capitolo 5 ***
Capitolo 5
Capitolo
5
Bra
spalancò istintivamente gli occhi azzurri, svegliandosi di colpo. Il trillo
ripetuto e insistente del telefono l’aveva velocemente riportata alla realtà,
fatta balzare giù dal divano dove si era ritrovata scompostamente addormentata
e precipitare come una saetta verso l’apparecchio.
“Pronto??!”
esclamò, affannata, mentre il cuore le batteva all’impazzata.
“Dottoressa
Bra, è lei?” chiese confusa una voce femminile dall’altro capo, dopo alcuni
secondi.
Era
solo la segretaria di Trunks. Bra si lasciò cadere di nuovo sul divano,
portandosi indietro i capelli scarmigliati e buttando fuori l’aria trattenuta
fino a quel momento. Non sapeva esattamente cosa avesse sperato di sentire una
volta sollevato il ricevitore, ma sicuramente non erano quello.
“Sì,
sono io…” bofonchiò, quasi fosse colpa della donna se non era chi si
aspettava.
Accanto
a lei, Goten si stava stropicciando gli occhi, mentre nella poltrona di fronte
Trunks sbatteva le palpebre per abituarsi alla luce del mattino. Evidentemente,
tutti e tre si erano abbandonati al sonno per qualche ora, vinti dalla
stanchezza, nonostante l’ansia e lo shock per ciò che era accaduto li avesse
trattenuti a vegliare fino all’alba.
“Mi
scusi, Bra, stavo cercando il presidente…non l’ho ancora visto stamattina,
mi chiedevo se fosse tutto a posto…”.
Bra
guardò di sfuggita l’orologio a parete della stanza, poi il volto di Trunks.
Suo fratello la guardava emotivamente distrutto, i suoi occhi apparivano stanchi
e appesantiti, circondati da un alone scuro.
“Trunks
non si sente molto bene stamattina. Sono appena venuta a trovarlo. Rimarrà a
casa, per oggi” mentì, ben sapendo che l’accaduto doveva rimanere tra
quelle mura.
“Oh…mi
spiace…gli auguri una pronta guarigione da parte mia…” balbettò la donna,
probabilmente sorpresa del calo di salute del presidente, che in quasi
vent’anni di servizio non ricordava di aver mai visto ammalato.
Bra
interruppe la conversazione, mentre Trunks le rivolgeva un debole sorriso di
ringraziamento. Si alzò velocemente dal divano, con l’intenzione di farsi una
breve doccia e di assumere un aspetto il più presentabile possibile. Ma prima
corse in cucina, dove dal frigorifero estrasse la siringa avvolta dal cellofan,
che avrebbe messo all’interno della sua borsa termica.
Suo
marito e suo fratello la osservarono confusi attraversare la grande sala, troppo
stanchi e sconvolti anche solo per chiederle a parole cosa avesse intenzione di
fare.
“Vado
alla Capsule Corporation, in laboratorio. Devo analizzare questo” disse,
risparmiando loro la domanda, prima di sparire rapidamente al piano di sopra.
Trunks
lasciò cadere in basso la testa, quasi i suoi muscoli avessero perso ogni
energia. Quello era il sangue di Pan, che ora giaceva inerme sul loro letto,
unico suo contributo al possibile ritrovamento dei loro figli.
“Devo
avvertire Gohan…” mormorò, maledicendosi per non esserselo ricordato prima.
Probabilmente, voleva solo rimandare il momento in cui avrebbe dovuto
comunicargli, con il cuore in gola, che la sua unica figlia risultava
clinicamente morta.
“Non
preoccuparti…lo faccio io” gli assicurò Goten.
Trunks
sentì di nuovo risvegliarsi il bisogno di piangere. Si sporse verso l’amico,
abbracciandolo istintivamente.
“Grazie…”
riuscì a dire, mentre gli occhi gli si facevano più lucidi.
La
lunga sequenza nucleotidica scorreva velocemente sullo schermo del computer,
riflettendosi negli occhiali di Wissen. Sorrise. Il Dna dei piccoli coincideva
perfettamente con quello già in suo possesso. Tutti e tre avevano ereditato
quei geni. Tutti e tre erano sajan.
Aveva
fatto loro un prelievo la sera precedente, vi aveva lavorato tutta la notte e già
ora, a metà mattina, poteva goderne i risultati: la conferma che aveva trovato
ciò che aveva cercato per tutti quegli anni.
I
bambini erano stati un po’ restii a farsi bucare da un ago…probabilmente, al
pieno dei loro poteri, non avrebbero provato alcun dolore…fu una sorpresa
vedere come la femmina avesse iniziato a piangere come tutte le sue coetanee e
come il maschio più grande avesse tentato inutilmente di sfuggire alla siringa.
“Bel
lavoro, dottore” notò Dan, abbassandosi verso lo schermo, al suo fianco,
avvolto in un camice troppo largo per la sua evidente magrezza. “Vedo che ha
individuato dei geni in più rispetto agli umani”.
“In
realtà, molti geni sono comuni ai nostri” spiegò Wissen, più per compiacere
se stesso delle proprie deduzioni che per soddisfare la curiosità
dell’assistente. “Sono semplicemente espressi a maggiore livello, grazie
alle presenza di sequenze intensificatici”.
“Sta
parlando della potenza fisica?”.
“Non
solo. La stessa cosa vale per la capacità di volare, per la resistenza al
dolore e alle malattie, per il controllo dell’energia. Anche i terrestri
possiedono potenzialmente tali doti, ma solo alcuni riescono a svilupparle, e
mai nella misura e con la rapidità con cui lo fanno i sajan”.
“Basti
pensare che quei mocciosi sanno già fare tutto questo!” rise Dan, ma poi la
sua espressione tornò improvvisamente seria, e il suo volto si tinse di rosso:
si era subito reso conto di aver fatto una grossa stupidaggine a chiamare mocciosi
i preziosissimi tesori del suo capo.
Dopo
avergli rivolto una fugace occhiata scandalizzata, Wissen continuò la
spiegazione.
“C’è
un intero gene, però, non presente nei terrestri. Normalmente è inattivo, ma
viene attivato in seguito ad un intenso sforzo fisico e ad un’attenta
concentrazione”.
“Significa
che è inducibile dalla volontà del soggetto?” azzardò Dan.
“Nella
maggior parte dei casi sì. Ma spesso è l’inconscio a scatenarlo. Le volontà
più istintive, primitive, quelle più incontrollabili. E quando è tutto ciò
ad attivarlo, l’effetto è di gran lunga più potente”.
“Di
cosa si tratta, dottore?”.
Wissen
fece girare la sedia scorrevole verso il giovane, guardandolo con compiacimento.
Nella sua mente fiammeggiò per un istante un’immagine del passato, osservata
clandestinamente, di un bagliore accecante uscente dal corpo di colui che, per
molto tempo, aveva popolato i suoi sogni.
“E’
il super sajan” annunciò solennemente. “Quei cuccioli sono stati allevati
con troppe restrizioni, obbligati ad usare le loro capacità con parsimonia e
giudizio. Se solo qualcuno insegnasse loro a liberare completamente la loro
istintività, a non sprecare le potenzialità che celano dentro, il loro potere
sarebbe senza dubbio triplicato…”.
Gli
occhi di Gohan erano fermi e calmi quando aprì la porta, più di quelli con cui
Trunks lo guardava, incapace di dire niente. Fu il più anziano ad abbracciarlo
paternamente insieme a Goten, e quel contatto bastò da solo per capire quanto
la sua presenza, in quel momento, fosse importante per entrambi. Forse non si
sentivano poi così adulti ed indipendenti, nonostante tutto, forse avevano
ancora bisogno di un supporto, di una guida, che era venuta loro a mancare dopo
la scomparsa degli unici due sajan di sangue puro, nonché loro genitori.
A
fianco di Gohan, Videl, i capelli corvini raccolti in una coda e lo sguardo
azzurro che traspariva una punta di apprensione, avanzò verso di loro,
baciandoli su una guancia. Poi, con parole quasi sussurrate, in modo da rendere
meno evidente il tremito della voce, si rivolse maternamente a Trunks.
“Lei…dov’è?”.
Trunks
indicò il piano di sopra, facendole strada su per le scale. Da dietro, la mano
di Gohan afferrò delicatamente il polso della moglie.
“Sei
sicura?” le chiese, apprensivo.
“Voglio
vederla, Gohan. Ne ho bisogno”.
Entrarono
silenziosamente nella camera da letto, quasi temessero di svegliare quella
minuta sagoma immobile distesa sulla trapunta.
Trunks
e Goten si fecero da parte, per concedere alla donna uno spazio maggiore. Trunks
era preparato a veder scoppiare la suocera in lacrime davanti alla figlia
inerme, e invece questa si avvicinò alla sponda del letto, la guardò con
dolcezza e le sfiorò delicatamente la guancia con la mano.
“Tesoro…”
sussurrò, accennando un debole sorriso, colmo però dell’ansia che provava.
Gohan,
appena dietro di lei, come se la sola distanza potesse attenuare il dolore,
guardava Pan con apparente compostezza e rigidità, nonostante Trunks avesse
notato come i suoi muscoli facciali fossero tirati e come un piccolo,
impercettibile capillare avesse iniziato a pulsargli appena sotto l’occhio.
Probabilmente,
non avrebbero più rivisto aprirsi gli occhi della loro Pan.
“Mi
dispiace, Gohan…non sono riuscito a proteggere tua figlia” riuscì a dire, a
testa bassa, incapace di incontrare il suo sguardo.
Il
suocero lo guardò con aria meditativa, per poi appoggiargli i palmi delle mani
sulle spalle, come un amico, come un padre, come un fratello maggiore.
“Non
pensare a questo, adesso” gli consigliò, con affetto. “E’ inutile
piangere sul passato. Pensa ai piccoli, adesso, loro hanno estremo bisogno di
voi”.
Qualcosa,
nel suo tono, nelle sue parole, gli fece pensare che lui avesse un’idea più
chiara riguardo a cosa ne era stato dei bambini.
“Gohan,
sinceramente…tu cosa pensi, di tutta questa storia?” lo anticipò Goten,
avvicinandosi al fratello.
L’uomo
sospirò, rivolgendo un rapido sguardo in direzione della moglie, ancora seduta
accanto alla figlia, come faceva da piccola, quando Pan faceva i capricci per
addormentarsi da sola.
“Credo
ci sia qualcosa di piuttosto grosso. Non ho idea di quante persone siano
coinvolte, o quali siano le loro intenzioni, ma nel momento stesso in cui, al
telefono, mi avete raccontato i fatti, ho avuto l’assoluta certezza della
causa del rapimento”.
“Cioè…?”
chiese Trunks, in un sussurro.
“I
loro poteri”.
Dunque
anche lui la pensava così. Pure Goten, che aveva immaginato qualcosa del
genere, restò impietrito dalle parole del fratello, quasi quella che fino ad
allora era stata solo un’ipotesi diventasse improvvisamente una certezza. Non
poteva essere altrimenti. Era mezzogiorno, e il telefono non aveva ancora
squillato.
“Cosa…cosa
vogliono da loro?” la voce di Goten era lievemente incrinata.
“Non
lo so. Forse vogliono solo studiarli…forse vogliono vedere di che sono
capaci…o forse…” si bloccò un secondo. “Forse vogliono sfruttare le
loro capacità. Ma è solo la peggiore delle ipotesi”.
Lux…Fackel…
Trunks
sentì l’aria della stanza farsi improvvisamente più pesante.
Il soffitto, i muri inondati nella penombra, sembravano avvolgerlo,
ingoiarlo inesorabilmente. Tutto girava, sempre più veloce, come una trottola
impazzita. Sentì un tonfo pesante, quello del suo corpo che cadeva pesantemente
a terra.
Si
risvegliò nel salone, disteso sul divano. Una figura femminile, con il volto
circondato di capelli neri, era riversa su di lui, tamponandogli la fronte.
Videl.
“Tutto
bene, Trunks, è stato solo un calo di pressione” lo tranquillizzò.
In
piedi, vicino alla donna, i due fratelli Son lo guardavano sollevati.
Richiuse
momentaneamente gli occhi, godendo della fresca sensazione di acqua pulita sulla
fronte. Aveva sonno. Sentiva le ossa fragilissime.
Gohan
e Goten ora se ne stavano in disparte, il più maturo che diceva qualcosa al
fratello, tenendogli una mano sulla spalla, quest’ultimo che ascoltava
annuendo. Aveva dimenticato quanto ancora Goten lo considerasse più padre di
quello che era stato Goku, quanto necessitasse del suo appoggio anche superati i
quarant’anni.
“Fatti
forza, Trunks…” gli disse Videl, protettiva. Sorridendo, le comparivano
piccole rughe ai lati della bocca, ma conservava ancora la freschezza della
gioventù. “Pan è viva, lo sento anch’io. La riporteremo tra noi, vedrai, e
anche i piccoli torneranno a casa sani e salvi. Io e Gohan ci siamo sempre,
ricordatelo, per qualsiasi cosa…fatti coraggio, e vedrai che tutto andrà
bene”.
Fackel
leggeva svogliatamente il romanzo. Era seduta su una scomoda sedia di metallo, e
avevano attaccato alla sua testa un’infinità di piccole ventose colorate. Non
le piaceva quel libro, o semplicemente, non aveva voglia di leggerlo, e quelle
piccole membrane appiccicose cominciavano a farle dolere la fronte.
Con
una smorfia imbronciata, strinse tra le manine i due lembi del libro, per poi
gettarlo disgustosamente a terra.
“Ehi,
bimba, che succede??” la rimproverò bonariamente Lilian, accorrendo verso di
lei e raccogliendo il libro stropicciato. Cercando di non farsi notare, strinse
di più il bracciale della bambina.
“Questi
giochi non sono divertenti. Voglio andare a casa!” protestò, incrociando le
piccole braccia.
Lilian
ricordava come avesse dovuto metterle in testa che quello che stavano facendo
era solo un gioco particolare, in cui lei doveva leggere mentre tanti piccoli
animaletti colorati le stuzzicavano la fronte, per sfidarla in una gara in cui
avrebbe vinto chi comprendeva di più. Si era resa ben presto conto che quella
scusa era fin troppo astrusa per una bambina normale, figurarsi per una
dall’intelligenza sopraffina.
“Vuoi
fare una pausa? Oppure vuoi che ti porti uno snack?”.
“Non
voglio niente, voglio solo andare a casa!” ribadì, con tono più deciso.
“Su,
avanti, solo qualche altro secondo e abbiamo finito!”.
“No,
no, no!! Io voglio la mia mamma e il mio papà, non voglio più stare in questo
brutto posto!!” gridò, mettendosi a piangere violentemente, mentre si
strappava i sensori dalla fronte e i suoi singhiozzi risuonavano tra le mura dei
laboratori del seminterrato.
Mentre
Lilian cercava inutilmente di calmare la bambina, evitando il suo scalciare
continuo, Frederik entrò nel laboratorio, l’espressione ansiosa e
interrogativa.
“Cosa
sta succedendo qui?” brontolò, serio.
“La
piccola non ha più voglia di collaborare…si è già staccata tutto!”.
“Con
questo si dovrebbe calmare” annunciò lui, riempiendo una piccola siringa
sterile di tranquillante e iniettandola nel braccio minuto.
Dopo
qualche protesta relativa al bruciore dell’ago, infatti, il pianto della bimba
si fece meno forte, fino ad affievolirsi del tutto mentre il suo respiro si
faceva più regolare e cadeva in un sonno tranquillo.
“Allora,
cosa hai scoperto?” chiese Wissen, guardando il monitor del computer di Lilian,
che mostrava uno spaccato di un encefalo.
“Come
vedete, dottore, l’attività cerebrale durante la lettura è superiore a
quella di qualsiasi suo coetaneo” spiegò la donna, indicando particolari aree
evidenziate sullo schermo. “Questa bambina ha una capacità di intuizione e di
comprensione nettamente superiori rispetto agli standard”.
“Pensi
che le sue doti intellettive siano dovute al suo sangue sajan?”.
“In
gran parte sì. Quando gli ormoni bloccano le sue capacità il soggetto sa
comunque leggere, ormai è una dote appurata, ma l’acutezza di comprensione è
limitata e perde facilmente la concentrazione…tipico di un bambino…quando
invece il suo braccialetto è allentato, dimostra delle capacità veramente
fuori dalla norma per la sua età…”.
Wissen,
che fino ad allora si era dimostrato interessato, aggrottò velocemente la
fronte, fissandola incredulo con quegli occhi grigi e penetranti.
“Hai…allentato
il braccialetto?” mormorò, quasi in un sussurro.
Lilian
esitò. Si rese conto di aver fatto uno sbaglio.
“Sì…solo
un po’, però, tanto per vedere come lavorava il suo cervello grazie ai suoi
poteri…”.
Gli
occhi di lui sembravano emettere scintille.
“Ti
rendi conto di quello che hai rischiato?!” le gridò in faccia. “La bambina
non ci avrebbe messo niente a liberarsi!”.
“Frederik…ehm…dottore…le
posso assicurare che non se ne è neanche accorta!”.
“Ma
se se ne fosse accorta? Eh?? Forse non sai di che cosa sono capaci!”.
“Ma
è solo una bambina…cosa vuole che…”.
“Non
è solo una bambina! Quei tre non sono semplicemente dei bambini, sono
molto di più, ma cosa ne vuoi sapere tu!”.
Lilian
abbassò la testa, umiliata. Gli occhiali nascondevano l’imbarazzo dei suoi
occhi.
“Mi
scusi, dottor Wissen. Non commetterò più questo errore”.
Lui
girò la testa dall’altra parte, quasi lo ripugnasse vedere una donna affranta
che chiedeva perdono per un errore non poi così grave.
In
realtà Frederik era deluso, profondamente deluso. Non tanto per la stupidaggine
commessa da quella donna…anzi, forse aveva avuto una buona idea a verificare
le sue piene capacità…ma quella piccola femmina sajan, inizialmente la
candidata ideale per il suo carattere aperto, non era adatta a sviluppare le sue
doti…tanto intelligente e intuitiva fuori, ma fragile e piagnona proprio come
tutti gli altri bambini.
Golden
girava nervosamente lungo la stanza. Certe volte si guardava intorno, cercando
una possibile via di fuga, ma ogni volta si rendeva più conto che erano
completamente in trappola, senza poteri e nelle mani di estranei con chissà
quali intenzioni.
“Secondo
te…cosa le stanno facendo?” chiese debolmente a Lux, seduto su uno dei
materassi, l’espressione sorprendentemente calma, quasi si fosse ormai
rassegnato al loro incomprensibile destino.
“Non
lo so” si limitò a rispondere, scrollando le spalle.
Ricordava
come, poco prima che la portassero via, sua sorella si fosse avvicinata a lui,
lo avesse guardato con espressione speranzosa e avesse mormorato: “Papà e
mamma verranno a riprenderci tra poco, vero??”. Lui le aveva rivolto uno
sguardo distruttivo, rispondendole freddo: “La mamma è morta…e papà non
vorrà perdere tempo a cercarci, cosa credi!”.
Il
volto della bambina si era immediatamente incupito, per poi lasciare spazio ad
un espressione di rabbia: “Non è vero! Non è
vero! Sei un bugiardo, Lux!!”.
Quando
poco prima l’aveva sentita piangere da una stanza vicina, oltre alla paura e
all’incertezza che attanagliava suo cugino aveva provato una punta di amara
soddisfazione…finalmente, forse, si era resa conto che era inutile farsi tante
belle illusioni…erano soli, ormai…
“Dobbiamo
uscire di qui!” aveva esclamato Golden, più agitato che mai.
“Sai
che non possiamo”.
“Oppure
riuscire a toglierci questi braccialetti!”.
“Ci
abbiamo già provato…”.
“Insomma,
ci deve essere qualche modo!” protestò lui, insistente.
Ma
cosa potevano fare, in realtà? E anche se fossero riusciti a liberarsi, a
tornare a casa…cosa avrebbero trovato? Forse suo padre lo avrebbe rimproverato
per l’ennesima distrazione, per aver messo in pericolo anche sua sorella…
Qualcuno
fece aprire la porta metallica, quella parete invalicabile che li separava dal
mondo…era quel tipo alto, muscoloso e senza capelli…
Si
fermò davanti a loro per un attimo, scrutandoli entrambi.
“Chi
di voi due è Golden?” chiese.
Suo
cugino alzò la testa verso di lui, leggermente intimorito dall’imponenza
dell’uomo rispetto alla sua piccola statura, che in altre occasioni non
sarebbe stata un problema.
“Perché...?”.
Senza
rispondere, l’uomo lo prese per un polso, e senza tanti convenevoli lo
costrinse a seguirlo fuori dalla stanza.
Adesso
Lux era solo…più solo che mai in quella grande stanza fredda…
Bra
avviò l’ingombrante macchinario. Il sole del primo pomeriggio filtrava tra le
tapparelle semichiuse del laboratorio, facendo danzare una serie di ombre
sull’arredamento della stanza e sul volto della donna.
Adesso
lei non poteva fare più niente. Doveva solo aspettare che il separatore
automatico rivelasse qualcosa di anormale presente nel siero da lei isolato,
sperando che una segnalazione positiva comparisse sul computer collegato al
macchinario.
Aspettare.
E sperare. Non ci riusciva poi così bene.
Nella
sua mente comparve per un attimo il volto allegro di suo figlio, i suoi occhi
d’ebano, uguali a quelli di Goten, e il suo sorriso, le sue piccole labbra che
tanto ricordavano quelle del principe dei sajan…
Oh,
Golden…Oh, bambino mio…dove sei, tesoro?
Tornò
a fissare il monitor. Nel giro di qualche secondo, qualcosa sarebbe comparso, o
altrimenti avrebbe reso tutto vano.
Wissen
osservò con piacere la scena mostrata dal monitor numero 2, nella portineria
del seminterrato. La telecamera inquadrava uno dei laboratori, dove Hatch, sotto
suo diretto ordine, faceva sedere il giovane sajan su una sedia e attaccava ai
piccoli muscoli delle grappette collegate ad un generatore di elettricità. Il
ragazzino protestava, ma il suo tecnico sapeva come tenerlo buono, o con le
buone o con le cattive.
Quel
bambino era il più istintivo dei tre…sicuramente, in qualche modo, avrebbe
avuto da lui ciò che voleva…
Mentre
lasciava la stanza per raggiungere il laboratorio, lanciò un’occhiata al
monitor numero 1, inquadrante la stanza dei piccoli. Il cucciolo con gli occhi
tristi era raggomitolato in un angolo, immobile. Forse tramava. O forse
piangeva.
Perché
mai, un bambino con così tante potenzialità, doveva rinchiudersi dentro di se
in quel modo? Come era possibile che faticasse tanto ad esternare i suoi
sentimenti, quando era capace di ricoprirsi di luce?
“Lasciami
andare!” sentì gridare al cucciolo dagli occhi scuri, appena entrò nel
laboratorio. Hatch aveva già fermato i suoi polsi e le sue caviglie alla sedia,
in misura precauzionale. Ricevuto il suo cenno, avviò la prima scarica. Il
bambino urlò con tutto il fiato che aveva, mentre una corrente a basso
voltaggio attraversava il suo corpicino.
“Si
chiama elettroshock, Golden” gli spiegò Wissen girando intorno alla sua
sedia, mentre lui lo fissava con occhi terrorizzati e respirava affannosamente
per riprendersi. “Non ti farà alcun male, ti aiuterà solo a trovare lo
stimolo per volere di più”.
“Cosa..?”
riuscì a balbettare il ragazzino, confuso e ancora indolenzito.
Wissen
gli si avvicinò, posandogli le mani sulle spalle. Questa volta non si sarebbe
scostato, era completamente bloccato alla sedia.
“Tu
puoi fare grandi cose, Golden, molte di più di quelle che i tuoi genitori ti
permettevano!”.
Golden
lo fissò un momento, a metà tra l’incuriosito e lo spaventato.
“Cioè?”.
“Non
ti piacerebbe poter usare il tuo potere quando e nella misura che ti pare? Non
ti piacerebbe vedere fin dove arriva, senza che nessuno ti limiti?”.
“Ma
non si può…”.
Un’altra
scarica, della stessa intensità ma più prolungata, che lo fece urlare di
nuovo, un grido più strozzato e compresso.
“Certo
che si può, qui è permesso tutto…basta che lo vuoi, giovanotto…non senti
il bisogno, non senti il tuo corpo che ti chiede di buttar tutto fuori??”.
“Io…non…”.
Un’altra
scarica, leggermente più intensa…Golden ansimava, e la sua fronte era
imperlata di sudore.
“Io
lo so che ne hai bisogno, tu ami usare le tue capacità…” continuava con
veemenza, tenendo fermo il suo sguardo sempre più smarrito e facendo leva sulla
sua mente sempre più influenzabile. “Quindi adesso, se ti concedo di nuovo i
poteri, prometti di usarli secondo la mia guida e i miei consigli, in modo che
ti aiuti a raggiungere il massimo?”.
Scarica.
Grido.
“Vuoi
darmi la possibilità di aiutarti, Golden?”.
Adesso
il viso del dottore era a pochi centimetri dal suo, contratto
dall’aspettativa. Il bambino accennò una smorfia di disgusto, conservando le
ultime energie stroncate dalla corrente per sputargli in faccia senza ritegno.
Wissen
quasi non si mosse, limitandosi ad estrarre un fazzoletto dal camice immacolato
e pulirsi il volto, senza un minimo cambio di espressione.
Poi,
guardando il tecnico, ordinò, atonale: “Dagli uno schiaffo, Hatch”.
Dopo
un secondo in cui sembrò non aver capito bene il da farsi, l’uomo fece
schioccare con forza il palmo della grande mano sulla guancia del piccolo
impertinente.
Golden
fece per protestare dal dolore, ma le parole ora uscivano dalle sue labbra solo
come singhiozzi soffocati. In pochi attimi aveva iniziato a piangere
silenziosamente.
“Te
ne pentirai…hai perso una grande occasione, ragazzino!” sibilò Wissen,
uscendo dalla stanza.
Ma
a Golden non importava proprio niente di quello che diceva quell’uomo…lui
voleva solo tornare a casa, dai suoi genitori…
Quando
l’uomo calvo lo riportò nella loro stanza e uscì chiudendosi la porta alle
spalle, non ebbe neanche la forza di asciugarsi le lacrime per evitare
quell’umiliazione con il cugino, che lo fissava sorpreso per quella sua
insolita dimostrazione di debolezza. Si limitò a precipitarsi verso di lui,
scuotendolo vigorosamente per le braccia.
“Dobbiamo
andarcene da questo posto, Lux! Non mi importa in che modo, ma dobbiamo
scappare…o ci faranno delle cose orribili!”.
Continua…
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Capitolo 7 *** Capitolo 7 ***
Capitolo 7
Capitolo
7
Goten
porse a Trunks un pezzo di focaccia, che afferrò distrattamente senza degnare
di uno sguardo. Non aveva fame, il suo stomaco era chiuso in una morsa
soffocante. Vani erano stati i tentativi dell’amico di fargli mangiare
qualcosa, nonostante fosse dalla sera prima che non toccava cibo.
Dalle
finestre percepiva un vago chiarore, una nebbiolina umida che avvolgeva West
City fin dall’alba, e gravava sulla Capsule Corporation come un involucro
bianco, dando l’idea che il tempo, in quella casa, si fosse in qualche modo
fermato, stagnando sui due uomini che, silenziosi, tentavano di fare colazione.
“Non
sono l’unico ad avere una brutta cera, oggi…” notò Trunks, osservando
Goten che, più taciturno del solito, cercava di minimizzare la sua evidente
apprensione preoccupandosi per la salute dell’amico.
“Stamattina,
quando mi sono svegliato…Bra non era accanto a me” confessò il più
giovane, di getto.
Trunks
spalancò gli occhi con sorpresa.
“Credevo
stesse ancora dormendo…” mormorò.
Goten
negò con la testa, sospirando.
“Ho
trovato solo un biglietto. Mi diceva di non preoccuparmi, che doveva fare
qualcosa di importante e che avrebbe passato la notte fuori…” lo informò.
“Non è ancora tornata…spero solo che…”.
Ma
il suo discorso fu interrotto dal suono di passi affrettati che si avvicinavano
alla cucina, dalla cui porta si affacciò affannata sua sorella, con un foglio
bianco in mano. Nei suoi occhi notò qualcosa di diverso rispetto a quello che
aveva visto nei due giorni precedenti, una nuova luce, una nuova forza e una
ritrovata determinazione.
“Ho
i risultati!” annunciò, con una piacevole nota di speranza nella voce.
Il
bambino giaceva immobile su un improvvisato lettino coperto di carta. Le sue
palpebre erano deboli, cominciavano a chiudersi sugli occhi assonnati, mentre il
respiro si faceva via via più rilassato e regolare.
“L’ipnotico
sta già cominciando a fare effetto, dottore” notò Dan, togliendo il laccio
emostatico dal braccio del piccolo, usato per l’iniezione di pochi attimi
prima.
Wissen
avanzò di qualche passo, fino a sedersi di fronte al bambino disteso. Lo guardò
per qualche secondo mentre combatteva invano per resistere al sonno, le piccole
labbra semiaperte, i lisci capelli che gli coprivano parzialmente la giovane
fronte. Istintivamente gli accarezzò una guancia.
“Mi
senti, Lux?” chiese, con voce pacata, quasi soffusa, in perfetta armonia con
l’ambiente di rilassante semioscurità che aveva creato nella stanza.
Il
piccolo mugolò qualcosa, con un grado di coscienza ormai basso a causa del
farmaco.
“Riesci
a sentirmi, Lux?” ripetè di nuovo, per assicurarsi che il piccolo capisse
perfettamente cosa gli avrebbe detto.
“Sì…”
uscì infine dalle piccole labbra, mentre gli occhi fissavano distrattamente il
soffitto ombroso, ormai piccole fessure che non riuscivano a rimanere aperte.
“Bene,
Lux, perché adesso dormirai, cadrai in un sonno tranquillo e profondo, giù,
sempre più giù, come se una piacevole corrente ti portasse a valle…ma il tuo
inconscio resterà qui con me, perché dovrà essere ancora in grado di sentire
le mie parole e rispondere alle mie domande…solo il tuo inconscio, tutto il
resto scorre via tranquillo…hai capito tutto, Lux?”.
“Sì…”
mormorò, mentre i suoi occhi, obbedienti, si chiudevano definitivamente, e la
sua mente cosciente scivolava in chissà quali altri mondi.
“Ora
dimmi, cucciolo…cosa ti tormenta più di ogni altra cosa?”.
Lux
non rispose, rimase in silenzio, e per un momento Frederik temette di averlo
perso nella corrente immaginaria che aveva creato nella sua mente.
“Sei
ancora con me, Lux? Ci sei?”.
“Ci…ci
sono” balbettò il ragazzino.
Forse,
semplicemente, tale domanda non era abbastanza semplice da porre ad un bambino,
per di più in stato di ipnosi. Non era ancora molto esperto nell’uso di
quella tecnica, anche se alcuni psichiatri di sua fiducia gli avevano in passato
spiegato le basi.
“Ti
trovi bene qui, piccolo?” chiese, cercando di girare intorno al problema.
“No”
fu l’immediata risposta.
“Vuoi
tornare a casa, allora?”.
“Non…so”
rispose, dopo un briciolo di esitazione.
“Perché
non sai?”.
“Non…non
so” ripetè lui.
“Voglio
sapere il motivo, Lux” precisò, intuendo poi che era meglio procedere con
domande dirette, nonostante non fosse poi così semplice indovinare le risposte.
“Ti sentivi felice prima di venire qui?”.
Il
bambino non rispose. Si limitò a mugolare qualcosa, sbuffando.
“Uno
con le tue capacità…sarà davvero orgoglioso di quello che sa fare. Sei
orgoglioso, Lux?”.
“Non
sono orgoglioso…”.
“Perché
vorresti fare di più?”.
“No…non
di più”.
“Di
meno…?”.
Il
bambino mugolò. Poi: “Di meno…come…gli altri”.
“Gli
altri? Chi sono gli altri?”.
“Gli
altri…bambini”.
Incredibile.
Quel fortunato esserino, con quel prezioso dono che la natura aveva voluto
dargli, non ero contento delle sue doti. Avrebbe voluto essere un ragazzino
normale, un inutile, comune e debole ragazzino, incapace di innalzarsi al di
sopra della media, e che probabilmente, invecchiando, avrebbe visto sfumare una
ad una anche quelle semplici cose che l’umanità sostiene bastino a renderci
felici…la sua diversità avrebbe dovuto farlo sentire migliore…e invece,
forse era proprio ciò che lo rendeva così triste.
Fu
tentato di agire sulla sua mente, cambiando quella sua stupida convinzione. Ma
non era quello il momento, adesso aveva bisogno di sapere.
“Quindi
non ti importa di tornare a casa, alla tua vecchia vita? Non vorresti
riabbracciare tua madre?”.
“La
mamma è morta…è morta” disse il ragazzino, cominciando ad agitarsi nel
lettino, come se fosse in procinto di piangere.
“Calma,
Lux, calma, adesso la corrente ti sta cullando dolcemente, e tu sei tranquillo,
rilassato, e non hai più paura di niente, ok Lux?”.
“O…ok…”
ubbidì il piccolo, rilassando i muscoli che aveva contratto, quasi percepisse
davvero le sensazioni che gli trasmetteva.
“E
il tuo papà…non vuoi rivedere il tuo papà?”.
Lux
non rispose. Sospirò.
“Mi
senti, Lux?”.
“Sì”.
“E
allora, non vuoi rivedere il tuo papà? Credi che ti stia cercando, adesso?”.
Il
cucciolo esitò ancora. Poi ammise, atonale: “Starà cercando lei”.
“Lei?
Chi è lei?”.
“Lei…Fackel”.
Fackel
era sua sorella, la piccola sajan dalle doti intellettive al di sopra del
normale. Che voleva dire con quella frase? Che significava sostenere che stesse
cercando solo lei?
“Non
sta cercando anche te?”.
“No…io…no…”.
“Perché
mai, Lux?”.
“Perché…io…no
come lei…”.
“Cosa
vuoi dire?”.
“Io…sbaglio
sempre…io…pasticcione…io…non coraggioso…”.
“Lui
ti dice che sei così?”.
“No…”.
“Come
lo sai, allora?”.
Gli
occhi di Wissen si stavano illuminando. Forse aveva imboccato la strada
giusta…il suo cuore martellava alla sola idea…
“Lo
vedo…lui…quasi non sa che esisto…e quando se ne accorge…mi sgrida…se
ho fatto qualcosa che non dovevo…è sempre così…mi guarda male…”.
Le
parole uscivano ora libere dalle labbra del bambino, senza che Frederik lo
forzasse. Evidentemente, la questione doveva stargli molto a cuore.
“E
ti dispiace di questo, Lux?”.
Il
piccolo emise un piccolo singhiozzo. Stava ancora dormendo, gli occhi erano
chiusi, ma quelle immagini e quei sentimenti dovevano essere così vivi nel suo
inconscio nascosto che ora si manifestavano apertamente. Avrebbe potuto farlo
calmare con una sola parola, come prima, ma forse era proprio quello che voleva.
La liberazione dei suoi sentimenti repressi.
“Lui
non mi vuole così…lui non mi vuole…se ero solo un bambino normale non
dovevo dimostrare niente…potevo fare tutto senza paura…ma sono diverso…però
non è facile essere diverso…lui non capisce che è difficile…difficile
essere due cose insieme…o nessuna delle due…lui non mi vuole…non mi vuole
bene come a lei”.
Adesso
il bambino piangeva, sebbene compostamente, ed i violenti singhiozzi soffocavano
le sue parole che erano venute fuori come un fiume in piena, ma Wissen era
talmente eccitato per la sua utilissima scoperta che ci mise qualche minuto
prima di decidersi a calmare il bambino e riportarlo alla realtà, dove di certo
non si sarebbe mai confidato così apertamente. Era soddisfatto. Aveva saputo
tutto quello che voleva, e molto di più di quello che si aspettava.
Bra
si chiese perché mai non vi avesse pensato prima. La Capsule Corporation era
stata, in passato, una delle massime fornitrici di macchinari per il campo
bio-medico. Era bastato tornare nel vecchio laboratorio di sua madre, da anni
inutilizzato, togliere i teli dai macchinari che era solita progettare, e
scoprire con gioia che, dopo tutti quegli anni, funzionavano ancora
perfettamente.
Vi
aveva lavorato tutta la notte, fornendo ai sofisticati apparecchi ciò che
restava del campione di sangue, e questa volta era arrivata ad una conclusione.
Grazie
papà, per avermi dato la forza...e grazie, mamma, per avermi lasciato i
mezzi...
Adesso,
seduta alla scrivania dello studio davanti al suo portatile, Trunks e Goten si
sporgevano dietro alle sue spalle in attesa di spiegazioni.
“Ho
trovato una molecola estranea nel sangue di Pan” li informò. “Controllando
le banche dati della rete, ho scoperto che si chiama neuronina”.
“Neuronina?”
si chiese Trunks, accigliato. “Sembra avere a che fare con…”.
“Il
sistema nervoso, esatto” lo anticipò lei. “E’ infatti una sostanza molto
tossica, che diffondendo dal sangue si lega a tutti i neuroni dell’organismo,
bloccando immediatamente la trasmissione dell’impulso nervoso. Di conseguenza,
il cervello non può più trasmettere informazioni, e si fermano tutte le
funzioni motorie e sensoriali, sia volontarie che involontarie”.
“Io
non ne so niente di medicina ma…una cosa del genere…dovrebbe portare alla
morte immediata!” osservò Goten, incredulo.
“Nei
normali esseri umani sì…ma Pan ha sangue sajan…probabilmente il suo
organismo dispone di un sistema di difesa in più che ha permesso una sorta di
ibernazione del suo corpo, in modo che i suoi organi non si deteriorino in
assenza di battito cardiaco o di funzionalità cerebrale”.
Trunks
deglutì pesantemente. Pensò a Pan, la sua vita appena ad un filo così
sottile…chissà per quanto avrebbe retto quel filo, se prima o poi si sarebbe
inesorabilmente spezzato, senza più via di ritorno.
“Hai
idea da dove provenga quella molecola?” chiese, ansioso.
“In
realtà è un prodotto sintetico” rivelò Bra, digitando qualcosa sulla
tastiera e inoltrandosi nella rete. “Per nostra fortuna, un’unica azienda
biotecnologica ha il brevetto per la produzione di tale molecola”.
Sullo
schermo a cristalli liquidi comparve la panoramica esterna di un vasto edificio
in muratura rossa, e in alto, come titolo della foto, l’indicazione: WISSEN
BIOTECHNOLOGIES.
“Il
nome non mi è nuovo…” notò Trunks, che però non rammentava dove lo avesse
mai potuto sentire.
“Infatti…è
l’istituto privato di ricerca a pochi chilometri da West City. Hanno creato la
neuronina dieci anni fa, inserendo il gene artificiale in colture batteriche,
che ne producevano per loro in quantità industriale”.
“A
che mai poteva servire questa neuro…questa sostanza così pericolosa?”
chiese Goten.
“L’avevano
ideata come diserbante per le piante. Gli agricoltori la richiedevano per
uccidere gli insetti che infestavano le loro piantagioni. In realtà ho fatto
delle ricerche e sembra che attraverso traffici illegali la vendessero anche a
organizzazioni criminali che la usavano per ben altri scopi…”.
“Cielo…”
mormorò Goten. “Sono stati complici di chissà quanti omicidi…”.
“Già…fortunatamente
cinque anni fa ci fu una soffiata, e scoppiò uno scandalo a proposito”.
“Spero
che i colpevoli abbiano pagato per ciò che hanno fatto”.
“Purtroppo
no. Il fondatore dell’azienda fu chiamato a giudizio, ma convinse i giudici di
non aver niente a che fare con tutto ciò, di non essere al corrente sull’uso
che veniva fatto della molecola. Non avevano prove sul suo conto. Se la cavò
con una multa e con la promessa di mettere fine alla produzione di neuronina…almeno
ufficialmente”.
“Chi
è il fondatore?” chiese Trunks, sporgendosi verso il computer, mentre sullo
schermo si apriva una nuova pagina.
Una
foto rivelò un uomo sulla cinquantina, seduto su una poltrona in pelle ad una
scrivania, capelli biondo cenere striati d’argento, barba appena pronunciata,
occhi grigi nascosti dietro a lenti dall’elegante montatura.
Trunks
sbattè gli occhi, confuso, cercando di richiamare quell’immagine nella sua
mente.
“Frederik
Wissen” lo informò sua sorella, leggendo la didascalia a lato della figura.
“Nato a West City cinquantatre anni fa, laureato a pieni voti alla West
University in biotecnologie, dottorato in biologia molecolare e specializzazione
in ingegneria genetica, finchè non si mette in proprio e fonda la Wissen
Biotechnologies, fruttuoso istituto di ricerca, in cui si svolgono progetti più
o meno noti, e più o meno legali”.
“Che
mi venga un colpo…” mormorò Trunks, incredulo. “Questo è…Freddie”.
“Chi?”
chiese sorpresa Bra, non avendo mai sentito quel nome.
“Tu
non puoi ricordartelo, eri troppo piccola all’epoca…ma la mamma aveva un
tirocinante, un tempo, un tesista in biologia o qualcosa di simile, a cui
mostrava le invenzioni che potevano servire per i suoi progetti…” si asciugò
una goccia di sudore dalla fronte. “Da un giorno ad un altro non è più
venuto”.
“Nei
sei sicuro?” chiese Goten all’amico, che sembrava agitato dalla sua stessa
realizzazione.
“Sì,
sono quasi certo…sono passati tanti anni ma…i suoi occhi sono sempre gli
stessi, quegli strani, incomprensibili occhi grigi…”, mormorò,
rabbrividendo.
Bra
e Goten si guardarono, non potendo che fidarsi della memoria di Trunks,
nonostante il suo evidente nervosismo.
“Un’altra
bizzarra coincidenza…” notò Bra, pensierosa.
“Pensate
davvero che sia lui il fautore di tutto questo?” chiese Goten, mentre una
punta di ansia cominciava a penetrarlo. “Che sappia tutto di noi e che adesso
voglia fare delle ricerche sui bambini?”.
“Non
lo so…” rispose la moglie. “Ma dobbiamo scoprirlo prima possibile”.
Le
quattro mura senza finestre erano ancora intorno a loro, fredde e spoglie,
obbligandoli dentro una prigione senza fine. Golden sospirò.
Chissà
quanto tempo era passato da quando si era risvegliato in quella cella per la
prima volta...ore, giorni...aveva completamente perso la cognizione del
tempo...chissà quante volte il sole era tramontato, quante volte aveva fatto
spazio alla notte e poi ancora ad un nuovo giorno...non aveva più avuto modo di
vedere il cielo, solo la gelida, monotona, luce al neon di quelle stanze
anonime...
Aveva
tentato la fuga verso la libertà, ma di nuovo si era risvegliato stanco e
deluso in quel duro materasso, come un cerchio che si richiudeva ogni volta,
lasciandolo senza via d'uscita. Poco lontano da lui, Fackel, rannicchiata in un
angolo della stanza, si dondolava meccanicamente sulle ginocchia, fissando il
pavimento.
Quel
suo gesto distratto, proprio come il ticchettio di un orologio, scandiva
monotono il tempo, che sembrava non passare mai in quell'angolo di mondo
nascosto sotto terra. Eppure, sembrava un'eternità che non rivedeva casa...che
non provava quella piacevole sensazione di appartenenza...
Casa...
Sembrava
così lontana, adesso...
"Dove
hanno portato Lux?" chiese ad un tratto la bambina, voltandosi verso il
cugino.
Golden
scrollò le spalle. "Non lo so".
Ultimamente
ripeteva quella frase troppo spesso. Solo pochi giorni prima, avrebbe giurato di
non trovarla nel suo vocabolario.
"Dimmi
una cosa" chiese ancora Fackel, guardandolo con occhi colmi di tristezza,
che raramente aveva scorto nello sguardo positivo di quella sua precoce cugina.
"Tu hai paura, Golden?".
Il
ragazzino voltò lo sguardo in basso, sentendosi debole come non mai.
"Sì.
Ho paura".
“Un
caffè, dottor Wissen?” propose Dan, tendendo al suo capo il bicchierino
appena riempito al distributore automatico.
“Non
adesso, Dan” rispose secco Frederik, facendo un cenno con la mano verso di
lui, quasi a volerlo scacciare. Era troppo immerso nei suoi pensieri per dare
ascolto alle stupidaggini del suo dipendente.
Lux,
ancora disteso sul lettino, si stava risvegliando lentamente, cominciando a
stropicciarsi gli occhi, forse pensando che aveva solo dormito. Wissen sorrise.
Davanti a lui c’era una porta, di cui ora aveva la chiave. Poteva entrarvi,
finalmente, e riordinare un bel po’ di cose.
“Un’altra
iniezione, Dan” disse improvvisamente.
“Adesso,
dottore?” chiese stupito l’assistente. “Ma…si è appena
risvegliato…”.
“Ho
detto adesso!”.
L’aspettativa
era troppo opprimente, doveva agire subito o l’avrebbe logorato. Doveva farlo
suo, portarlo verso di se, ora, subito, immediatamente…
Quando,
dopo circa dieci minuti, il bambino cominciò a riaddormentarsi e Wissen si
assicurò di nuovo che solo il suo inconscio potesse sentirlo, abbandonando la
ragione e dando spazio all’istinto, iniziò la programmazione.
“Adesso
io ti dirò delle cose, Lux, e tu le immagazzinerai…quello che ti dirò è la
verità, l’assoluta verità, capito?”.
“L’assoluta
verità” ripetè meccanicamente il bambino.
“Tuo
padre ti odia” assentì, senza esitazione.
“Mi
odia…” ripetè lui, con un piccolo tremito.
“Ma
tu sai che sei molto migliore di quello che crede lui. Tu ne sei assolutamente
sicuro, vero?”.
“Sì…ne
sono sicuro”.
“E
anche tu lo odi, Lux, lo odi con tutto il cuore, perché lui non riconosce le
tue potenzialità”.
Il
bambino tacque, ma aveva sicuramente immagazzinato.
“Lo
odi, Lux?”.
“Lo
odio”.
Wissen
sogghignò soddisfatto. Quelle parole suonavano alle sue orecchie come una dolce
melodia.
“Adesso,
ogni volta che penserai a lui, proverai dell’odio. E ogni volta che proverai
dell’odio, crescerà dentro di te della rabbia. Tanta, tanta rabbia”.
“Tanta…rabbia”.
“La
rabbia risveglierà i tuoi poteri, Lux. Potrai fare qualsiasi cosa. E non dovrai
sentirti in colpa, mai più. Però non puoi riuscirci da solo, piccolo. Ti serve
una guida. Sai chi sarà la tua guida?”.
“No…”.
“Sarò
io, cucciolo. Solo io ti aiuterò” sussurrò, avvicinandosi ancora di più al
bambino dagli occhi chiusi, mentre quasi si commoveva alle sue stesse parole.
“Solo io ti voglio bene…perché sono io il tuo vero padre, Lux…io ti darò
veramente la vita…io ti farò rinascere di nuovo”.
Il
piccolo non si mosse. Continuava ad assimilare, passivamente.
“Adesso
dimmi. Chi è tuo padre?”.
“Tu…padre”.
Una
sensazione di puro piacere lo invase. Il suo cuore batteva all’impazzata,
avrebbe voluto gridare al mondo intero la sua gioia.
“Certo,
Lux, bravissimo. Chi è invece che odi?”.
“Mio…mio…quello…l’altro…”.
“Esatto,
Lux. Il tuo falso padre, quello che non ti vuole bene” specificò.
“Invece con me puoi essere felice. Per essere felice dovrai solo obbedire a ciò
che ti chiede tuo padre, perché tuo padre vuole solo il bene per te, vuole che
tu sia completamente te stesso, che tiri fuori da dentro di te tutto ciò che
prima non potevi. Tutto chiaro, figliolo?”.
“Sì”.
“Allora,
Lux, se io ti chiederò di fare qualcosa…qualsiasi cosa…tu cosa farai?”.
“Farò
quello che mi chiedi”.
“Dì
papà…”.
“Farò
qualsiasi cosa….papà”.
Frederik
lo baciò sulla guancia, vezzeggiandolo affettuosamente. Ancora qualche ritocco,
qualche ultimo ordine, e il bambino sarebbe stato perfettamente programmato.
Programmato come una macchina, ma a cui voleva già bene come un figlio.
“Adesso
ti risveglierai, Lux, e dimenticherai questa conversazione. Ti sembrerà che le
istruzioni che ti ho appena impartito siano semplicemente frutto della tua
mente, tua unica volontà e convinzione. Ti sembrerà naturale obbedirmi, e
vedermi come l’unico, vero padre, così come ti sembrerà naturale odiare
l’altro. Ora svegliati, Lux”.
L’edificio
si stagliava imponente davanti a loro, sprizzante di vita, con i veicoli di
rifornimento che entravano e uscivano dalle zone di scarico, i dipendenti con i
camici che passavano davanti alle finestre frettolosi e impegnati, tra
microscopi e provette, gli impiegati e le segretarie davanti ai telefoni
trillanti o ai computer accesi.
“Ci
facciamo annunciare?” chiese Trunks, guardando la sorella ed il cognato.
“Certo.
Ricordi cosa ci ha detto mio fratello? Assoluta cautela e discrezione…”.
Poco
prima avevano telefonato a Gohan, informandolo delle ultime novità. Dal momento
che non erano certi che la pista conducesse realmente lì, il più anziano aveva
consigliato loro di muoversi con ragionevolezza, verificando prima le loro
ipotesi sul campo, raccogliendo prove, testando la credibilità dei
responsabili. Inoltre, se avessero ostentato subito i loro propositi di
vendetta, quei bastardi non avrebbero esitato a usare quella stessa molecola su
di loro, e allora sarebbe stata davvero finita.
Avrebbero
inventato una scusa per parlare con Wissen…per scoprire qualcosa di più…per
ottenere l’antidoto, con una buona dose di fortuna…
Chissà
se tra quelle mura, da qualche parte, i bambini avevano bisogno di aiuto…ma
non era quello il momento…purtroppo dovevano trattenersi a demolire con
un’onda d’energia quell’ammasso di pietra…quanto avrebbero voluto
farlo…
“Andiamo”
li spronò Bra, avviandosi verso il vialetto che conduceva all’entrata.
“Voglio proprio guardare negli occhi questo dottor Wissen…e leggergli cosa
nasconde!”.
Continua...
Nota
dell’autrice: La “neuronina” è una mia pura invenzione, non esiste
realmente, anche se mi sono ispirata agli effetti della tossina botulinica.
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Capitolo 8 *** Capitolo 8 ***
Capitolo 8
Capitolo
8
Il
portone principale si apriva su un largo spazio circolare, da cui si diramavano
a raggiera una serie di corridoi gremiti di porte che, probabilmente,
conducevano ad uffici o a laboratori.
Trunks,
Goten e Bra avanzarono con discrezione attraverso l’atrio, in mezzo a gruppi
di dipendenti che, frenetici, si dirigevano verso diverse ali dell’edificio.
Avrebbero potuto confondersi tra la folla, sgusciare in qualche stanza in cerca
di informazioni, raggiungere i laboratori al di là delle indicazioni che
invitavano alla cautela, ma una bionda seduta al bancone della portineria,
intenta a formare grosse bolle con un’appiccicosa gomma da masticare, li notò
immediatamente.
“Ehi,
ma lei è Trunks Brief!” esclamò a voce alta, abbandonando il fotoromanzo che
fino ad allora leggeva annoiata e sporgendosi verso di loro.
Trunks,
che non ci teneva minimamente ad attirare l’attenzione pubblica, tossì
nervosamente, avvicinandosi con indifferenza alla ragazza, mentre Bra sospirava
arresa per quell’occasione sprecata. Il fascino di suo fratello non era mai
passato inosservato, ma essere una specie di celebrità, adesso, non era
esattamente ciò che ci voleva.
“Sto
cercando il dottor Frederik Wissen” annunciò, mantenendo un tono di voce
piuttosto basso. “Potrebbe dirmi dove posso trovarlo?”.
“Il
titolare?” chiese la ragazza, appoggiandosi comodamente alla spalliera della
sedia e accavallando una gamba, come se finalmente avesse trovato il modo di
passare il tempo e stesse per iniziare una piacevole conversazione. “Non credo
che riuscirete a parlare con lui facilmente!”.
Un
magro dipendente in camice bianco, passando dall’atrio circolare, si fermò di
scatto non appena li vide, sgranando gli occhi castani.
“In
questi giorni il capo sembra essersi volatilizzato nel nulla” continuò la
ragazza. “Passa giusto di sfuggita in ufficio per poi sparire in qualche
remoto laboratorio per tutto il giorno!”.
Il
dipendente curioso si intromise tra loro e la donna, fulminando quest’ultima
con un’occhiata sprezzante.
“Mary,
se non ti dispiace ci penso io ai signori, torna al tuo lavoro!” la rimproverò
nervoso, volgendo un falso sorriso ai tre ospiti.
“Ok”
obbedì lei scrollando le spalle, tornando risentita al suo fotoromanzo.
“Vogliamo
parlare con il dottor Wissen” ripetè Trunks. “E’ rintracciabile?”.
“Oh,
ma certo che è rintracciabile” assicurò l’uomo, balbettando. “Perché
mai non dovrebbe esserlo?”.
“Vieni,
giovane Lux, devo mostrarti una cosa”.
Il
bambino si girò verso di lui, allontanando lo sguardo dalle immagini colorate
che popolavano il televisore installato nel laboratorio. Si alzò senza
esitazione da terra, dove era stato seduto buono e silenzioso nelle ultime due
ore, guardando cartoni animati. Già, guardando, perché probabilmente ciò
che vedeva andava oltre i milioni di pixel dello schermo…probabilmente
vedeva mondi popolati di nuove possibilità, di nuovi sogni e di nuovi poteri,
che si aprivano davanti a lui come un portone rimasto chiuso per troppo tempo…
Non
aveva tentato di fuggire, da quando si era risvegliato. Né aveva pianto, o
cominciato a lamentarsi, come se quel posto, a una decina di metri sotto terra e
estraneo alla luce del sole, fosse stata sempre casa sua.
Adesso
lo guardava in aspettativa, attendendo ordini. Nei suoi occhi c’era ancora
quella vaga malinconia che lo caratterizzava, ma adesso si posavano su di lui
fermamente, senza vergogna, senza timore, solo una spontanea sottomissione.
“Riconosci
quest’uomo, Lux?”.
Wissen
aprì un giornale davanti al ragazzino, quelli pieni di gossip e di facce note,
dove è facile trovare i principali personaggi dell’alta società. Nella
pagina da lui scelta, in primo piano, spiccava la figura di un uomo distinto,
affascinante, vestito elegantemente, i lineamenti illuminati da un sorriso
ammaliante e da due occhi dello stesso colore di chi, più giovane, lo fissava
impassibile.
“Lo
riconosci?” ripeté Frederik, bramoso.
Lux
non rispose. Afferrò il giornale dalle mani del suo nuovo mentore, non di
scatto, ma con il garbo e l’educazione che probabilmente gli era stata sempre
insegnata. Senza cambiare espressione, senza trapelare rabbia o odio dal quel
piccolo giovane viso, strappò la pagina in questione, accartocciandola prima
tra le mani in una pallina informe, poi, non contento, riducendola in mille
pezzi. Un lampo di soddisfazione balenò nei suoi occhi quando, compiuto ciò
che doveva esser fatto, osservò ai suoi piedi i brandelli sconnessi che, come
un complicato puzzle, disperdevano e sfiguravano il volto del suo padre
biologico.
Wissen
gongolò soddisfatto. Lux odiava suo padre…era grazie a lui che quel povero
piccolo aveva imparato ad odiarlo…ma quante cose c’era ancora da insegnare a
quel tesoro, quante cose…quanto potere c’era ancora da tirare fuori da quel
corpicino che, come un diamante allo stato grezzo, celava ancora gran parte del
suo valore…
“Dottor
Wissen!”.
Dan,
precipitandosi come una gazzella impazzita nella stanza, interruppe
violentemente il suo idillio, facendolo sobbalzare dalla sedia.
“Che
c’è, non vedi che sono occupato?!” protestò.
“Mi
dispiace, dottore, ma questa è un’emergenza…” spiegò l’assistente.
“Credo che abbiamo visite!”.
Il
lussuoso ufficio era illuminato da una spaziosa vetrata, aperta sulla periferia
industriale di West City. Sulla scrivania di legno vigeva un ordine quasi
maniacale, senza un solo granello di polvere dimenticato, senza un solo oggetto
in disordine o lasciato nella posizione sbagliata, tanto da far abbandonare a
Trunks ogni tentativo di sbirciare nei cassetti o all’interno dei fascicoli.
Era come se, dietro a tutta quella esplicita perfezione, quella apparente
normalità, si nascondessero presenze cattive che li osservavano, seduti in
silenzio in aspettativa, come se quel luogo fosse popolato di segreti oscuri e
attività raccapriccianti che si celavano dietro una veste di assoluto candore.
Lo
sentiva, sì…lo sentiva nell’aria…
La
porta dell’ufficio si aprì finalmente verso l’interno. Camice immacolato,
capelli biondo argento, occhi grigi, un bastone con cui si aiutava per
camminare…
Era
lui, sì, adesso ne era sicuro…il Freddie dei suoi ricordi, il Freddie che sua
madre trattava come un figlio, il Freddie che era sempre così gentile con lui,
così educato, così amabile e volenteroso…possibile fosse la stessa persona
che adesso entrava nella stanza, fissandoli con espressione cupa e
impenetrabile? Possibile fosse colui che si era portato via i suoi bambini,
tenendoli prigionieri in chissà quale luogo oscuro? Possibile che quel ragazzo
che avevano accolto in casa con così tanta disponibilità adesso li ripagasse
con un affronto così grande?
Oh,
mamma, tu che mi guardi dall'alto, fa che non sia lui...fa che non sia lui...
“Salve”
li salutò, senza trapelare un sorriso, sedendosi dall’altra parte della
scrivania. “A cosa devo la visita del presidente della Capsule Corporation?”.
Trunks
credette di non riuscire a rispondere. Il suo cuore martellava al ritmo di
pensieri divoranti, pensieri sulla probabilità che i suoi figli si trovassero lì,
da qualche parte, in quello stesso edificio, costretti a subire gli esperimenti
di una persona spregevole. Sentì Goten che, accanto a lui, lo incoraggiava
silenziosamente, attraverso un breve ed amichevole tocco sul ginocchio, al di
sotto della scrivania. Non doveva perdere il controllo. Non doveva lasciare
sospetti.
“Credo
di averla già conosciuta, dottor Wissen…diversi anni fa” gli rammentò lui.
“Di certo conosceva mia madre, Bulma Brief”.
“Oh,
certo che la conoscevo” lo interruppe con indifferenza lo scienziato. “A lei
devo molto del mio successo, signor Brief”.
Trunks
provò un impulso di rabbia. Sua madre mai e poi mai gli avrebbe spalancato le
porte della sua casa o dei suoi laboratori, se avesse saputo che razza di
persona era…
Calmo,
Trunks, calmo...
In
fondo, non potevano sapere se era veramente colpevole…forse lui non sapeva
neanche dell’esistenza dei loro figli, forse era solo un ingegnoso scienziato
di successo, un brav’uomo che non avrebbe fatto male ad una mosca, con solo
qualche precedente burocratico alle spalle…
“Per
quale motivo mi avete cercato, signori?” ripeté, rilassato sulla poltrona
alle sue spalle e le mani incrociate elegantemente sulla scrivania, come fosse
assolutamente sicuro del fatto suo.
A
Trunks si bloccarono ancora una volta le parole in gola, lasciandolo senza
risposta. Cosa avrebbe detto, adesso? Come avrebbe spiegato quello che era
successo?
Golden
si alzò di scatto dal materasso non appena vide aprirsi la porta metallica,
mentre suo cugino faceva ingresso nella stanza, dopo diverse ore di assenza.
Dietro di lui, non c’era traccia del tizio calvo e muscoloso, né della donna
o di quell’antipatico con i capelli neri e spettinati. Sembrava fosse
rientrato da solo, di sua spontanea volontà.
“Lux!”
esclamò Fackel andandogli incontro, nonostante il fratello non l’avesse
degnata di uno sguardo. “Dove sei stato?”.
Lui
non rispose, limitandosi a sdraiarsi sul suo materasso, come in procinto di
farsi una rilassante dormita.
“Cosa
ti hanno fatto per tutto questo tempo!” aggiunse Golden, abbassandosi verso di
lui e scuotendolo leggermente, nella speranza di ricevere attenzioni.
Lux
voltò lentamente gli occhi verso di lui, come se l’avesse notato in quel
momento per la prima volta da quando era entrato.
“Ero
nel laboratorio accanto” rispose annoiato. “Con il dottore”.
“E
chi ti ha riaccompagnato?”.
“Nessuno…non
ho bisogno della balia, per fare due passi” affermò sprezzante, con un tono
che raramente aveva sentito uscire dalle labbra di suo cugino, costantemente
frignante e depresso.
“Vuoi
dire che…ti lasciano girare da solo per i laboratori?”.
“Certo”.
Gli
occhi di Golden si illuminarono d’improvviso, rivelando anche un sorriso
speranzoso. Non aveva idea di cosa fosse successo in quelle ore precedenti, né
di come diavolo avesse fatto suo cugino a convincere quegli uomini a lasciarlo
vagare libero dovunque voleva.
“Adesso
che sei tornato a prenderci, potremo finalmente fuggire!”.
“Sono
tornato solo perché il dottore mi ha detto di farlo” lo smentì lui. “Ha
detto che devo stare qui finché non ha sbrigato una questione urgente”.
“E’
la nostra occasione, Lux! Tu puoi aprire la porta, possiamo scappare, possiamo
tornare a casa!”.
Lux
guardò il cugino come se stesse dicendo un mare di sciocchezze. Gli occhi di
Golden traboccavano di gioia, di speranza, mentre quelli del più giovane non
accennavano alcuna emozione. Neanche la tristezza si rifletteva ormai in quegli
specchi azzurri, solo il vuoto totale.
“Io
non me ne andrò di qui! Mai!”.
“Che
stai dicendo, Lux!”.
“Non
voglio tornare a casa!”.
“Tu
sei pazzo, i miei genitori e tuo padre ci aspettano!”.
“Mio
padre è qui! Qui! Frederik è mio padre!”.
Golden
rimase ammutolito, mentre Fackel si piazzò davanti al fratello, i piccoli pugni
chiusi sui fianchi, le fini sopracciglia abbassate sui grandi occhi corvini.
“Non
dire queste cose! Nostro padre si chiama Trunks Brief!” gli ricordò la
bambina, in un coraggioso tentativo di riportarlo alla ragione, come se il
fratello si divertisse a scherzare su argomenti seri e delicati che possono
essere fraintesi.
Ma
ciò non fece altro che acuire l’ostinazione di Lux, il quale la gettò a
terra con un rapido e istintivo spintone.
“No!!”
gridò. “Non dire più quel nome! Mai più!”.
La
bambina scoppiò in lacrime, più per l’oscuro comportamento del fratello che
per la violenta caduta a terra.
“Lux,
ma che ti prende!” lo rimproverò Golden, facendolo girare verso di lui.
“Vuoi dirmi cosa ti hanno fatto, di là?”.
“Non
mi toccare!”.
“Lux,
maledizione, lo vuoi capire che ce ne dobbiamo andare!” continuò il più
grande, scuotendolo fermamente, come bastasse quel gesto a farlo tornare in se.
Ma
Lux si rivoltò verso di lui con un ghigno quasi animalesco, facendo partire un
pugno volante che finì dritto sull’occhio del cugino.
“Allora,
a cosa devo la vostra visita?” chiese di nuovo Wissen.
Trunks
esitò ancora, maledicendosi per non essersi inventato qualcosa prima. In questo
modo stava solo aumentando i sospetti sul loro passaggio alla Wissen
Biotechnologies. Avrebbe dovuto dire addio alla possibilità di trovare indizi
sui bambini, a quella di ottenere un antidoto per Pan…
“L’impianto
di irrigazione dei giardini della Capsule Corporation è stato contaminato” lo
anticipò Bra, decisa. “Dal momento che alcuni animali sono deceduti
bevendola, l’ho analizzata personalmente e risulta trattarsi di neuronina”.
Ancora
una volta, sua sorella lo stava salvando. Adesso però non si trattava di
scampare ad una figuraccia di fronte al consiglio di amministrazione, ma di
qualcosa di ben più complesso e pericoloso, dove solo uno sbaglio,
un’esitazione, sarebbe stata fatale.
Osservò
con attenzione la reazione di Wissen. Si accomodò leggermente sulla sedia, come
a voler trovare una posizione più comoda, ma la sua espressione rimase la
stessa, glaciale e inquisitrice.
“Lei
deve essere Bra, giusto?”.
“Esatto”
confermò lei. “E questo è mio marito Goten. Son Goten”.
Goten,
accanto a lei, fece un accenno di inchino con la testa, più ironico che di
rispetto, a cui il dottore non sembrò comunque prestare troppa attenzione.
“Bene,
Bra, non vedo come posso esserle utile”.
“Mi
risulta che solo voi abbiate il brevetto per la produzione di tale molecola,
dottor Wissen”.
“Sono
anni che non la produciamo più”.
“Eppure,
in qualche modo deve essere finita lì”.
“Mi
dispiace, ma non sono problemi che mi riguardano” si difese lui con
naturalezza.
Goten
si sporse sulla scrivania, guardandolo fisso negli occhi ma fingendo lo stesso
atteggiamento di non curanza del suo interlocutore.
“Anche
quando la sua creazione veniva usata a scopo criminale non erano problemi suoi,
vero dottore?” chiese, trapelando una punta di malizia.
“Esattamente”
rispose lui leggermente stizzito. “Da allora abbiamo fermato la produzione di
neuronina, bloccando quindi anche le vendite di essa. Non può trattarsi della
stessa molecola”.
“L’ho
analizzata personalmente, dottor Wissen, le caratteristiche corrispondono”.
“In
questo caso devo concludere che lei non abbia la competenza necessaria per dare
credibilità all’analisi, dottoressa Bra”.
La
donna scattò di colpo sulla sedia, come se fosse in procinto di alzarsi e
tirare uno schiaffo a quell’impertinente.
“Ma
come si permette?!” esclamò offesa, mentre Trunks la tratteneva con
discrezione sulla sedia, cercando di far sbollire il suo orgoglio ferito.
“Probabilmente
il dottor Wissen voleva solo dire che non ha responsabilità sull’accaduto”
intervenne, rivolto alla sorella. Gohan aveva raccomandato loro di mantenere la
calma. E così avrebbero fatto.
“Vedo
che ci intendiamo perfettamente, signor Brief” osservò compiaciuto lo
scienziato. “Sarà un pregio di famiglia”.
Dalle
sue labbra si formò un mezzo sorrisetto, il primo segno di espressività in
quel volto imperscrutabile, che però fece accapponare la pelle a Trunks.
Qualunque cosa avesse voluto dire con quelle parole, anche se sicuramente non
avevano alcun significato remoto, anche se forse si ricollegavano solo alla
passata esperienza lavorativa con sua madre, si sentì inquieto come mai da
quando era entrato in quell’ufficio.
Golden
giaceva a terra, gemente, tenendosi lo zigomo dolorante. Lux indossava ancora il
bracciale, quindi la sua forza non era certo al massimo, ma neppure la
resistenza al dolore di Golden poteva essere tale da sopportare un colpo in
pieno viso.
“Lux,
torna in te! Quel dottore è solo un pazzo che vuol farti del male!” riuscì a
gridargli stringendo i denti, ma il cugino gli si avventò contro, balzando
sopra di lui come un leone inferocito, iniziando a tempestarlo di colpi che per
l’eccessiva rabbia non andavano neppure a segno, o cercando di strappargli i
capelli nascosti oltre le braccia di Golden che, non potendo far altro, cercava
di formare uno scudo contro il bambino impazzito.
Fackel,
ancora in lacrime, si era rifugiata in un angolo della stanza, osservando
impotente la scena.
Le
porte di acciaio si aprirono di nuovo, facendo sgusciare dentro i tre scagnozzi
di Wissen che, prendendoli alle spalle, separarono velocemente i due bambini.
“Che
diavolo state combinando, mocciosi!” gli urlò contro quello alto, gettando
Golden senza troppo garbo su uno dei materassi, lontano da Lux che scalpitava
contro la stretta dell’uomo magro e della donna.
Afferrò
violento il polso di Lux, togliendolo alla presa dei colleghi e strattonandolo
verso l’uscita del laboratorio.
“Dobbiamo
portarlo in un’altra stanza o qui si ammazzano a vicenda, poi lo sentiamo, il
vecchio!”.
“Non
credo proprio!” lo ammonì l’altro, sbarrandogli la strada. “Il dottor
Wissen ha ordinato che stesse qui!”.
“Il
tuo caro dottor Wissen ci farà più grane se il suo moccioso prediletto si fa
male, quindi spostati!”.
“Ma
non capisci, Hatch, è rischioso portarlo fuori ora!” continuò il magro con
voce stridula e affannata. “Di sopra ci sono i genitori, in questo
momento!”.
Golden
sentì il suo cuore mancare di un battito. I loro genitori…di sopra…a pochi
metri da loro…
Il
tizio grosso spostò l’altro con un leggero spintone, facendosi strada fuori
dalla stanza insieme a Lux, di nuovo silenzioso e accondiscendente.
“Mamma!!
Papà!!” cominciò a gridare istintivamente Golden, con le lacrime agli occhi
e con tutto il fiato che aveva. “Siamo qui!!”.
“Papà,
papà!!” gli fece eco Fackel, saltellando sul pavimento e agitando nell’aria
le piccole braccia.
La
donna, avviandosi per ultima verso l’uscita, si voltò lentamente verso di
loro, guardandoli con un misto di rassegnazione e indifferenza.
“E’
inutile, bambini” mormorò. “Per quanto forte continuerete ad urlare, da
quaggiù non potranno mai sentirvi”.
Esitò
per un momento, come volesse ancora dire o fare qualcosa, ma poi ci ripensò
subito, uscendo rapidamente dalla stanza e richiudendosi la porta metallica alle
spalle.
“Un
antidoto?” chiese Wissen, mostrandosi alquanto sorpreso.
“Non
possiamo certo lasciare l’impianto contaminato…sarebbe alquanto rischioso,
vista la pericolosità della molecola, non trova?” chiarì Goten, compensando
l’improvviso ammutolimento di Trunks e il silenzio offeso della moglie.
“Non
esiste un antidoto”.
“Non
esiste? Eppure l’avete creata voi la neuronina, dovrete conoscere anche un
modo per inattivarla!”.
“Mi
dispiace deluderla, signor Son, ma non abbiamo mai previsto l’utilità di una
cosa del genere! Inoltre, le ripeto che non è nostra responsabilità se qualche
teppista con delle vecchie scorte si diverte a farvi scherzi di pessimo
gusto!”.
Che
impertinente, pensò Goten. Se davvero fosse lui il fautore del sequestro,
quella conversazione doveva essere tesa come un filo tirato, non solo da parte
loro, ma anche e soprattutto da parte sua. Se davvero era lui il loro nemico,
quella situazione era alquanto bizzarra, per non dire surreale, in cui entrambi
conoscevano la verità e ed erano consapevoli dei sospetti dell’altro…eppure
nessuno avrebbe lanciato la prima pietra, ostinandosi a raccontarsi un mucchio
di fandonie nonostante l’evidenza…loro non avrebbero potuto prendere
l’iniziativa, non avevano prove contro di lui. Ancora una volta, quel pazzo di
dottore la faceva di nuovo franca…
“Adesso,
se non vi dispiace, vi accompagno all’uscita” disse educatamente, alzandosi
dalla sedia e invitando i suoi ospiti a fare altrettanto. “Ho del lavoro da
sbrigare”.
Certo,
come no, pensò Goten tra se. Non era difficile immaginare quale importante
lavoro avesse da sbrigare…forse la creazione di un nuovo veleno che avrebbe
sterminato l’umanità, forse crudeli maltrattamenti di animali da
laboratorio…o forse brutali esperimenti sui loro figli inermi…
Ma
cosa ne potevano sapere, loro? Fosse stato per lui, avrebbe incenerito quel
posto con un solo gesto, solo per il marcio che c’era in quell’uomo, ma
adesso si stavano avviando verso l’uscita dell’edificio delusi e
arrendevoli, e non potevano fare altrimenti.
Qualcosa
brillava tra le fronde di una pianta da appartamento, appena accanto
all’ascensore. Qualcosa di dorato e lucente, che in quel momento diventava più
prezioso di quanto mai lo fosse stato.
Wissen
sorrise affettuosamente al bambino, seduto di fronte a lui silenzioso, le
braccia incrociate sul piccolo petto, gli occhi vaganti sul pavimento di
linoleum.
“Non
ti trovi molto bene con tuo cugino, non è così?” gli chiese, sedendosi
accanto a lui sull’improvvisato divanetto da laboratorio.
“Lui
vuole tornare a casa. Vuole costringermi a tornarci. Io invece non
voglio” ammise Lux, continuando a guardare in basso.
“Oh,
lo so, piccolo, lo so che vuoi restare qui” lo vezzeggiò il dottore,
accarezzandogli paternamente i lisci capelli neri.
Improvvisamente,
provò un emozione così intensa che mai in tutta la sua vita aveva provato,
portandolo istintivamente ad abbracciare il bambino, facendoli appoggiare la
testolina sulla sua spalla, cullandolo in una tranquilla e silenziosa ninna
nanna. Mai aveva provato quel calore…mai suo padre era potuto vivere
abbastanza per fare la stessa cosa con lui…né sua madre, fin da giovane
troppo malata e stressata per infondergli un po’ d’amore materno…
Da
solo, sempre da solo, a fronteggiare le avversità della vita, a costruirsi la
sua strada tra muri da abbattere e avvoltoi da eliminare…a combattere contro
quella stessa malattia di sua madre, che adesso logorava i suoi arti inferiori
facendogli perdere, progressivamente, la capacità di camminare…
Ma
adesso aveva suo figlio…lui sarebbe stato il vero bastone della sua
vecchiaia, lui la vera estensione del suo corpo, capace di demolire ogni
ostacolo…e Frederik, da parte sua, vi avrebbe messo la mente, aiutando quel
bambino a scacciare i suoi fantasmi, a ritrovare la forza e la decisione…un
rapporto biunivoco, due esseri e un solo spirito…
Era
il momento della verità, adesso e per sempre…
“Lux,
porgimi il polso”.
Il
bambino obbedì, alzandosi in piedi di fronte all’uomo e avvicinando a questo
la sua mano sinistra. Wissen tirò fuori dalla tasca una piccola chiave, che
iniziò ad armeggiare nel lucchetto che teneva chiuso il suo bracciale.
“Adesso
ti darò di nuovo i poteri, Lux, perché tu sei mio figlio e so che seguirai i
miei consigli per usarli al meglio”.
Il
piccolo annuì, fissando con bramosia la manetta metallica che si allentava
progressivamente.
Era
un operazione rischiosa, ma necessaria. Wissen non aveva paura, perché era
assolutamente sicuro della fedeltà del cucciolo. Quella era solo una prova
superflua, una pura formalità.
Il
bracciale si aprì definitivamente, liberando il polso del bambino, che si guardò
incuriosito la striscia rossa che la stretta dell’oggetto aveva lasciato. Nel
giro di qualche secondo, come un’immagine che sparisce a dissolvenza, la
striata se ne andò per magia.
Adesso
il dottore ed il bambino si guardavano negli occhi, in attesa. Che dolce
sensazione per Frederik riuscire a catturare per più di un fugace momento
quegli occhi grandi e invalicabili…
“Ci
siamo, Lux. Adesso sei libero” annunciò, mentre il suo cuore accelerava
all’impazzata.
Il
cucciolo non si mosse, come se quella consapevolezza non volesse dire niente,
per lui, senza le direttive del maestro. Lo guardava ancora, in aspettativa, e
quella visione fece tirar fuori allo scienziato un sospiro di sollievo e di
soddisfazione.
“Adesso
Lux, voglio che tu faccia una cosa. Però, sebbene le pareti di questa stanza
siano state appositamente rivestite di un materiale isolante che trattiene
l’aura, ti pregherei di mantenerla comunque più bassa che puoi”.
Dovevano
continuare ad agire nell’ombra, per ora, finché il giovane sajan non fosse
stato pronto. Poi, al momento opportuno, lui avrebbe vendicato se stesso
eliminando tutti coloro che lo trattenevano nella sua vecchia vita, nella sua
inutile, squallida vita da finto terrestre. I veri genitori avevano scoperto la
neuronina, erano riusciti ad arrivare fino a lui e ora gettavano freccette
sospettose nei suoi confronti, ma l’avrebbero fatto ancora per poco.
“Ricopriti
d’oro, Lux” concluse Frederik, con un tono così poetico e solenne che ebbe
l’impressione di trovarsi in un sogno, fuori dal mondo, lontano dalla civiltà.
E
quella che il bambino offrì ai suoi occhi era senza alcun dubbio una visione
divina, celestiale, da far sembrare ogni singolo uomo, per quanto potente e
grande esso fosse, solo un minuscolo granello di sabbia di fronte
all’imponenza della natura.
Capelli
biondo oro, occhi verdi come smeraldi e una luce così accecante che solo in
paradiso potevano averne prova…
La
limousine presidenziale si avviò lentamente verso il cuore della città,
lasciandosi alle spalle l’imponente edificio e tutti i sogni e le speranze
svanite.
Trunks,
alla guida, aveva lo sguardo fisso sulla strada, ma la sua mente era proiettata
ancora all’interno di quell’ufficio, fissa su quell’uomo
dall’espressione vuota e tuttavia inquietante, che pochi minuti prima aveva
infuso in lui una sensazione fredda come il gelo.
Se
sua sorella, seduta al suo fianco e con gli occhi fissanti distrattamente il
paesaggio che scorreva rapido dal finestrino, avrebbe giurato la colpevolezza di
quell’uomo solo per la malignità e l’irriverenza che aveva mostrato con
loro, quello che provava lui era un sospetto molto più fine e irrazionale, che
toccava il suo cuore senza tuttavia capirne il motivo. Era un puro istinto,
nient’altro, che però riempiva i suoi polmoni di angoscia ad ogni respiro,
anziché di aria fresca.
“Perché
ce ne stiamo andando?” mormorò Bra, mantenendo lo sguardo fuori dal veicolo.
“I bambini sono là, lo sento, ne sono sicura!”.
Trunks
sospirò, sentendosi pesante come un masso.
“Lo
vorrei anch’io, credimi. Vorrei tanto tornare lì, farmi strada a forza verso
i laboratori e colpire chiunque tentasse di impedirmelo, finché non trovassi
una sola traccia dei mie bambini” ammise, sentendo un groppo in gola che gli
bloccava il respiro. “Ma non possiamo far del male o accusare delle persone
solo per una semplice impressione, solo perché non ci sono simpatiche…non
possiamo, perché non è questo che ci hanno insegnato”.
“E
allora che facciamo, abbandoniamo tutto?” protestò Bra, non tanto rabbiosa
con il fratello, ma con tutta quella assurda situazione. “Vuoi dire addio alla
possibilità di rivedere i bambini? A quella di riportare in vita tua moglie?
Vogliamo girare le spalle ad ogni cosa solo perché non abbiamo prove a
riguardo?”.
Goten,
che fino ad allora era rimasto in silenzio nel sedile posteriore, rivolse
un’ultima occhiata indietro, per assicurarsi che ormai fossero lontani dalla
vista di quell’edificio imponente, dalle cui finestre più alte qualcuno
sembrava osservare minaccioso i tre sgraditi visitatori.
“Non
è vero, Bra. Una prova l’abbiamo”.
Si
sporse verso il sedile anteriore, mostrando agli altri due passeggeri qualcosa
protetto e avvolto in un fazzoletto di cotone.
Trunks
trasalì, alla vista di quel prezioso gioiello che mai avrebbe pensato di
vedersi davanti.
“La
riconosci?” chiese a Trunks, che annuì deglutendo pesantemente e sbattendo
gli occhi per la sorpresa.
La
collanina di Fackel…cielo, era proprio quella…
Tale
implicita rivelazione adesso attanagliava il suo stomaco in una nuova macabra
consapevolezza…ma ora, finalmente, sapeva dov’erano i suoi figli…non
dispersi da qualche parte del mondo, ma proprio lì, nel castello degli orrori
che si erano appena lasciati alle spalle…e finalmente sapeva chi era lui…
Il
suo nemico, da abbattere senza più pietà, senza più commiserazione…
Continua…
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Capitolo 9 *** Capitolo 9 ***
Capitolo 9
Capitolo
9
Un
opprimente silenzio aleggiava nella sala della grande abitazione. Neppure i
gemelli, portati con se da Ub e Marron che avevano velocemente lasciato Satan
City per raggiungerli, accennavano alcun’esclamazione giocosa, come se,
nonostante la giovane età, capissero perfettamente la gravità della
situazione. Se ne stavano bravi e silenziosi seduti sul pavimento, ai piedi del
divano, guardando incuriositi e perplessi le facce dei genitori e degli altri
adulti che, come volti di cera, riflettevano sul da farsi.
Trunks,
che nonostante la stanchezza fisica ed emotiva non riusciva a stare seduto,
scostò distrattamente le tendine della finestra. La città era avvolta da una
fitta foschia, che rendeva le prime luci della sera dei bagliori fiochi e
lontani dispersi nel crepuscolo imminente.
La
notte era vicina, ma avanzava piano, fin troppo piano, e Trunks avrebbe voluto
spostare le lancette dell’orologio avanti di qualche ora, verso il momento in
cui avrebbe rivendicato la libertà dei suoi figli.
“Dobbiamo
aspettare ancora, Trunks” lo aveva ammonito Gohan, a pochi passi da lui,
notando la sua impazienza. “Dobbiamo fare in modo che lo stabile sia vuoto.
Sai che non possiamo farci andare di mezzo lavoratori innocenti”.
Trunks
guardò di nuovo la catenina di Fackel, che stringeva ancora tra le mani da
quando era tornato a casa. Anche i suoi figli non erano altro che bambini
innocenti, eppure qualcuno non aveva pensato che non si meritavano il male
subito.
“Lo
so, Gohan” mormorò, sospirando.
“Inoltre”
continuò il più anziano “Anche se faremo incursione di nascosto e disponiamo
di poteri che loro non hanno, non dobbiamo abbassare la guardia…loro sono
preparati ad affrontarci”.
Anche
senza specificare altro, tutti i presenti avevano già capito a cosa
illudeva…bastava pensare a quello che avevano fatto a Pan…l’unica arma che
offriva loro un vantaggio, e che rendeva vano ogni potere di sajan.
Videl
fece il suo ingresso dalla cucina, posando in mezzo al gruppo un vassoio con
qualcosa di caldo, ma che nessuno, per il momento, si sentì di assaggiare.
Il
volto della donna era segnato da una leggera ansia, mentre si sedeva stanca su
una delle poltrone. Non sarebbe stato facile, per lei, restare a casa con il
pensiero di perdere, dopo la figlia, anche il marito, il genero o i cognati. Ma
ormai era avvezza al rischio di dire addio ai suoi cari, non a caso era la
moglie di un sajan da trent’anni, e la sua forza interiore riusciva sempre, in
qualche modo e per quanto fosse possibile, a debellare il senso di apprensione e
di paura che le cresceva dentro.
“Tu
e Goten andrete in cerca dei bambini, mentre Bra andrà a caccia
dell’antidoto” propose Gohan. “Quanto a me, vi coprirò le spalle”.
“Sei
sicuro di farcela da solo, Gohan?” chiese Goten, preoccupato. “Voglio dire,
se ti sparano contro quella roba…”.
“Non
preoccupatevi per me, me la caverò, voi pensate a portare in salvo i bambini, e
tu Bra, dovrai perquisire ogni singolo laboratorio”.
“Posso
venire anch’io, Gohan…” si offrì Ub, con una sincera disponibilità.
“Potreste avere bisogno di me”.
“Credo
che sia meglio tu resti con Videl e Marron a casa, a vegliare su Pan…in caso
avessimo bisogno di rinforzi, sappiamo dove trovarti”.
La
sera era fredda, ma Frederik era bagnato di sudore dalla testa ai piedi. La
tensione emotiva lo stava distruggendo, ma una volta passato quel momento, tutto
sarebbe stato di nuovo a posto, anzi, senza dubbio meglio di quanto mai fosse
stato prima. Ora che aveva accanto suo figlio, ora che era assolutamente sicuro
della fiducia nei suoi confronti, non doveva temere più niente…più niente…
Ma
come un peso opprimente, sentiva che quei sajan si stavano avvicinando, non era
una lettura di aura, lui non ne era capace, era solo il suo istinto, una pura ma
consistente sensazione.
Lux
era al suo fianco, disponibile per qualsiasi cosa. Wissen si abbassò verso di
lui, appoggiandogli i palmi delle mani sulle giovani spalle e incrociando il suo
sguardo azzurro.
“Stanno
arrivando, Lux…stanno venendo qui…sai a chi mi riferisco, vero?”.
Il
bambino annuì.
“Bene…quindi
tieniti pronto, figliolo…perché dovrai uccidere, stanotte”.
Lux
sbattè le palpebre, ma annuì di nuovo, convinto.
“Così
saremo solo io e te, cucciolo mio, io e te per sempre, lontano dai giudizi della
gente e in grado di fare tutto quello che vogliamo e che non ci è mai stato
concesso…saremo felici, vedrai”.
La
visibilità era notevolmente ridotta, ma in un minuto i quattro sajan avevano
raggiunto in volo la periferia industriale di West City, atterrando ai piedi
della collinetta che ospitava il poderoso edificio. Di giorno, quella
costruzione era sembrata solo un comune ed efficiente luogo di lavoro…adesso,
avvolta nella nebbia e circondata da una soffocante oscurità, con la
consapevolezza di aver davanti la vera prigione dei bambini, sembrava piuttosto
un luogo sinistro e terrificante, le cui porte avrebbero dovuto aprirsi
sull’inferno.
Wissen
li sentiva vicini come non mai. Forse, affacciandosi dalla finestra avrebbe
intravisto i loro volti cattivi, venuti a portargli via ciò che aveva di più
prezioso, ma adesso non aveva tempo, doveva agire, e in fretta…
L’uomo
cominciò a gettare lungo il corridoio il contenuto dell’ultima tanica, mentre
l’odore pungente di benzina si diffondeva ormai in tutto il piano terra.
Potevano
mettere a soqquadro quel posto, ammazzare i suoi seguaci, quegli stupidi
incapaci che sicuramente non avrebbero saputo ostacolare la loro avanzata,
distruggere o prendersi tutto quello che volevano, tranne una cosa…lui,
e tutto ciò che rappresentava, era solo suo, suo e di nessun altro…
L’entrata
fu più semplice del previsto. Si erano aspettati di dover sabotare un
sofisticato impianto d’allarme o un sistema di chiusura centralizzato, ma una
finestra del primo piano era stata lasciata incautamente socchiusa, permettendo
l’ingresso dei clandestini proprio a livello dell’atrio iniziale.
Qualcosa
attirò violentemente il loro olfatto, portandoli a storcere il naso.
“Cos’è
questo odore?” chiese Goten, perplesso.
“Sembra
…benzina…” notò Bra, facendosi cautamente strada verso il corridoio
ombroso, che quella stessa mattina era stato gremito di gente.
Avanzarono
con circospezione, scrutando le macchie di oscurità proiettate sulle pareti,
dentro alle quali poteva nascondersi qualsiasi cosa. Il silenzio era assoluto,
tanto che i loro singoli passi sembravano da soli risuonare tra quelle mura,
facendoli sentire improvvisamente scoperti.
Erano
a metà del corridoio centrale, quando dall’angolo in fondo ad esso balzò
fuori una figura longilinea, irrigidendosi ad un paio di metri di fronte a loro.
Li stava puntando qualcosa contro, e la sua sagoma scura sembrava tremare
impercettibilmente.
“Non
un altro passo…rimanete fermi, o sparo…” li minacciò, balbettando in
preda alla tensione.
I
quattro si paralizzarono all’istante, mentre fu l’uomo a fare un piccolo
passo verso di loro, tuffandosi in una pozza di fioco bagliore lunare proiettato
da una delle vetrate.
Trunks
lo riconobbe immediatamente. Era l’uomo magro ed impacciato che quella mattina
aveva voluto occuparsi di loro personalmente, esonerando la socievole e
civettuola Mary…avrebbe dovuto immaginare che fosse un fedele seguace di
Wissen…
Nelle
mani stringeva qualcosa che poteva dirsi un incrocio tra un’arma da fuoco e
una fionda, ma al posto di proiettili o di frecce c’era una siringa con un ago
affilato.
Gohan
notò l’istintivo terrore dei più giovani, con Goten che si poneva
immediatamente davanti alla moglie e Trunks sconvolto per la sorpresa. La
sostanza che brillava all’interno della siringa era la stessa che aveva
ridotto Pan in quello stato, sospendendola tra la vita e la morte.
“Ok…abbassa
quella cosa” lo ammonì Gohan, con la mano tesa in avanti. “Non succederà
niente”.
L’uomo
batteva i denti come se fosse congelato dal freddo, ma non abbassò l’arma,
puntandola alternativamente verso ognuno di loro, pronto a captare ogni singola
mossa.
“Indietro!”
gridò, gli occhi spalancati per la tensione.
“Tu
abbassala, e faremo come dici” continuò a trattate il più anziano, avanzando
cautamente di un passo.
“Gohan,
no…” mormorò Goten, stringendo la moglie tra le braccia.
Suo
fratello gli rivolse uno sguardo rassicurante, come per dirgli che era tutto
sotto controllo, per poi azzardare ancora un altro passo verso l’uomo
tremante.
“Non
avvicinarti! Guarda che sparo…guarda che sparo!!”.
“Calmati,
non ce n’è bisogno…” cercò di tranquillizzarlo il sajan, ma il colpo
partì rapido dall’arma.
Wissen
trafficò agitato nella quasi oscurità del suo ufficio, dove l’odore di
benzina cominciava ormai a farsi irrespirabile. Aprì l’armadietto a parete,
rovesciando ogni cosa vi fosse posta dentro, per poi afferrare soddisfatto la
chiave nascosta nel punto più lontano. Sgusciò veloce nel suo piccolo
laboratorio personale, annesso alla stanza, fermandosi davanti ad uno dei
congelatori orizzontali per la conservazione dei campioni. Armeggiò nel
lucchetto, fino a farlo scattare rumorosamente. Sollevò lentamente il portello,
mentre le fredde luci dell’apparecchio proiettavano un gelido bagliore sul suo
viso, nervosamente contorto in un’espressione di orgoglio.
Sepolta
sotto diversi cristalli di ghiaccio, catalogata solo con un’anonima scritta
“privato”, una piccola provetta giaceva sul fondo del congelatore, che lo
scienziato afferrò bramosamente ma con delicatezza. Ripose il piccolo campione
in una valigetta termica, dove aveva già sistemato un paio di siringhe sterili
e qualche farmaco. Richiuse tutto con tanto di combinazione segreta, tornando
nel suo ufficio.
Dalle
labbra di Bra era uscito istintivamente un grido, portandola a chiudere gli
occhi e ad affondare il viso nel petto del marito. Trunks, impietrito, riuscì
solo a mormorare il nome del suocero con aria interrogativa.
Gohan,
di spalle e a qualche passo più avanti rispetto a loro, aprì lentamente gli
occhi, quasi a volersi assicurare di poterlo fare veramente. Nella sua mano, a
soli pochi centimetri dal petto, stringeva la pericolosa siringa. Dopo un
sospiro di sollievo, la gettò con decisione sul pavimento, dove si infranse in
mille pezzi spargendo il contenuto.
L’uomo
davanti a lui, realizzando che il suo sistema di difesa era andato fallito e che
ora si trovava completamente scoperto, si voltò immediatamente, tentando la
fuga dalla parte opposta.
Aveva
girato l’angolo, stava per sparire dall’uscita di emergenza quando qualcuno,
apparso appena dietro di lui in un millesimo di secondo, lo afferrò per il
camice sgualcito, appiccicandolo violentemente al muro del corridoio.
“Dove
credi di andare!”.
Erano
due begli occhi maschili, quelli che aveva davanti, chiari e luminosi e
risaltati da una rara capigliatura lavanda, ma in quel momento sembravano
emettere scintille di fuoco, tanta era la rabbia che gli bolliva dentro.
“Dove
sono??” gli gridò in faccia, sollevandolo da terra di qualche centimetro.
“Vi
prego, non fatemi del male!!” implorò l’uomo, scoppiando debolmente in
lacrime.
“Dimmi
dove sono! Voglio sapere dove sono i bambini!!” continuò Trunks, mentre il
suo crollo emotivo aveva raggiunto il culmine della sopportazione, e tutto ciò
che aveva represso fino ad allora veniva fuori di getto, come un torrente
impazzito.
“Nel
se-se…seminterrato…” balbettò l’uomo. “Secondo seminterrato…ma ora
lasciatemi andare, per favore!”.
Trunks
lasciò la presa, facendo piombare a terra la sua vittima come un peso morto,
che uggiolò per quella che poi non doveva essere stata una caduta così
dolorosa.
“Esiste
un piano sotterraneo?” si chiese Bra, che aveva raggiunto il fratello insieme
al marito e al cognato. “Ma non c’è traccia di scale che scendono…”.
Goten
frugò nelle tasche del camice dell’uomo a terra stordito, trovando un
tesserino magnetico e una piccola chiave.
“Credo
che ci si arrivi tramite l’ascensore” indovinò, osservando l’oggetto che
stringeva tra le mani.
“Andate!”
li spronò Gohan. “Io resto qui, mi occuperò di lui!”.
Osservò
i ragazzi che si allontanavano, per poi chinarsi verso l’uomo ai suoi piedi,
che balbettava qualcosa come in preda ad un incubo ad occhi aperti.
“Credo
che io e te dovremo fare due chiacchiere, giovanotto”.
L’ascensore
si fermò rumorosamente al livello richiesto, separando dopo qualche secondo le
portiere di metallo. Davanti a loro si aprì un lungo corridoio poco illuminato,
rischiarato solamente da freddi faretti sul soffitto. Ai lati, tante altre
diramazioni che conducevano ad un’infinità di stanze.
“Io
vado da quella parte, credo ci siano dei laboratori” annunciò Bra,
guardandosi intorno.
“Ti
accompagno” si offrì Goten.
“Niente
da fare, tu e Trunks dovete cercare i bambini, io mi occuperò
dell’antidoto”.
“Sei
sicura?”.
“Certo”.
Goten
strinse a se la moglie, baciandole la fronte con dolcezza.
“Porta
in salvo nostro figlio” le sussurrò lei, per poi allontanarsi lungo uno dei
corridoi laterali con la grazia e la leggerezza di una falena, verso l’ignoto.
“Andiamo”
rammentò Trunks all’amico.
Gohan
decise di sedersi, lasciandosi scivolare sulla parete fino al freddo pavimento.
Quello che Dan, come aveva detto di chiamarsi, gli aveva appena riferito, ogni
singola parola tirata fuori dalle sue labbra, penetrava nella sua mente con la
sofferenza di un coltello. Ciò che quel pazzo di uno scienziato, o quello che
avrebbe dovuto essere, aveva fatto a suo nipote, quella povera creatura
innocente, e indirettamente a Trunks, era ben oltre le sue previsioni…fargli
il lavaggio del cervello, mettergli in testa tutta una serie di menzogne e
convincerlo in maniera subliminale ad eseguire i suoi ordini…se solo Trunks
immaginasse…doveva saperlo, per prepararsi al peggio…
Ma
adesso doveva trovare quell’invasato, prima che potesse fare altro
male…doveva trovarlo, per i bambini e per sua figlia…
“Ehi…”
balbettò il giovane al suo fianco, dopo aver svuotato il sacco in preda al
panico, anche se Gohan non gli aveva torto un solo capello. “Adesso mi lascerà
andare, vero? Vero?”.
Gohan
si stropicciò la faccia, cercando di tornare alla realtà.
“Aspetta
qui” mormorò, alzandosi e dirigendosi verso uno degli uffici adiacenti. Tornò
dopo qualche secondo, con una sedia e del nastro adesivo, con grande
sbalordimento dell’altro.
“Siediti
qui, per favore” gli chiese con gentilezza.
“Ma…ma
che storia è questa?” domandò Dan con crescente agitazione, mentre il suo
sequestratore cominciava ad avvolgere del nastro adesivo intorno al suo busto e
alla sedia alle sue spalle. “Aveva detto che mi avrebbe aiutato, se avessi
detto tutto!”.
“Esatto,
ti sto aiutando” confermò il sajan, legandogli anche i polsi. “Ti sto
aiutando a non commettere altre sciocchezze”.
“Ma…”
protestò Dan, interrotto poi da una striscia di nastro adesivo proprio sopra le
sue labbra.
Non
era lui il nemico, lui era solo una pedina nelle mani di Wissen, abbindolato da
false promesse e sicurezze, spinto a percorrere la strada più facile per avere
ciò che la vita spesso non concede…lui come qualsiasi altro suo
complice…come suo nipote, che però non avrebbe mai voluto tutto ciò, se non
fosse stato intaccato il suo libero arbitrio…
“Credimi,
ragazzo, non ho l’abitudine di legare la gente ad una sedia, ma a volte certe
cose sono necessarie…per il bene di tutti”.
Lo
lasciò immobilizzato lungo il corridoio, ispezionando i laboratori vicini,
immersi in un’inquietante oscurità e in angoscioso silenzio.
Poi,
un’ombra, ancora più nera.
Una
sedia girevole si voltò verso la scrivania, in direzione della porta, rivelando
una distinta figura maschile, più o meno della sua stessa età. Il volto di un
uomo che come lui aveva dedicato la vita alla ricerca, alla conoscenza, ma che
aveva inesorabilmente oltrepassato un confine etico irreversibile.
“Bene,
vi stavo aspettando” lo accolse compiaciuto, senza ombra di terrore.
Giravano
a vuoto in quel labirinto di stanze e corridoi da ormai qualche minuto, provando
il tesserino magnetico in ogni porta chiusa si trovassero davanti, ma ciò che
poi rivelavano non era altro che magazzini blindati o stanze radioattive.
Rimaneva
quell’alta porta metallica, al limitare del piano, così fredda e silenziosa
mentre i due sajan si avvicinavano, riponendovi tutte le loro speranze.
“Sono
qui. Lo sento” sussurrò Goten a Trunks, guardandolo fiducioso negli occhi
prima di inserire il tesserino nella fessura magnetica.
L’amico
accennò un debole sorriso, per poi ispirare profondamente mentre le due porte
scorrevoli, con un metallico stridio, si separavano lentamente.
E
davanti a loro avevano quello che avevano sognato di vedere per tutto quel
tempo…occhi innocenti di bambini, i loro bambini…così spauriti e
increduli e confusi e sollevati allo stesso tempo, tutto insieme, così tante
emozioni che si susseguono una dopo l’altra, come piacevoli soffi di vita che
ti riscaldano il cuore…
Si
era spinta fino all’estrema ala orientale del sotterraneo, immergendosi sempre
più in quel territorio sconosciuto. Nonostante nei laboratori in cui era
entrata non avesse trovato niente di particolarmente insolito, solo sostanze e
strumenti assolutamente nella norma per laboratori di quella portata, sentiva
un’aura malvagia gravare su tutto ciò, come se l’uso che in realtà ne
veniva fatto non fosse affatto appropriato.
Entrò
in un altro dei laboratori, nella speranza di trovare finalmente ciò di cui
aveva bisogno. Quando aprì la porta verso l’interno, però, la sorpresa che
trovò fu di un’altra portata: una donna, più o meno sua coetanea, una
dottoressa con camicie bianco e occhiali da vista, era schiacciata contro il
muro più lontano, facendosi piccola piccola tra un tavolo da laboratorio e un
sofisticato calcolatore. Era terrorizzata, e il suo bel volto contratto e gli
occhi arrossati lo dicevano chiaramente.
“Volete
ucciderci?” chiese in un sussurro, la voce contorta dalla paura.
Bra
entrò completamente nella stanza, fermandosi però ad una certa distanza dalla
donna, che avrebbe voluto passare oltre il muro dietro alle sue spalle, pur di
sfuggire al famigerato pericolo che aveva davanti. Non aveva mai creduto di fare
così paura, prima d’ora.
“Credimi,
ne avrei una gran voglia” ammise. “Ma sai, noi preferiamo non metterci al
vostro livello. Siete voi gli assassini”.
La
donna abbassò con imbarazzo lo sguardo, incapace di rispondere. E cosa avrebbe
potuto dire, poi…era la pura verità.
“Mi
farai del male per questo?” chiese infine, mentre una lacrima le scendeva
sulla guancia arrossata.
“Non
so, devo ancora pensarci” la sfidò di nuovo. “Intanto, voglio che mi aiuti
a fare una cosa…una cosa molto più urgente…”.
Golden
aveva le lacrime agli occhi quando era balzato tra le braccia del papà, come
raramente aveva fatto e avrebbe creduto di fare. E Trunks, abbassandosi a terra
e accogliendo tra le braccia quel dolcissimo frugoletto di sua figlia, che era
corsa sorridendo verso di lui, aveva sentito una stretta al cuore così
improvvisa, ma così piacevole, che avrebbe voluto stringerla a se per ore,
coccolarla e rassicurarla per compensare tutto il tempo in cui non aveva potuto
farlo. Di nuovo le sue manine, i suoi grandi occhioni d’ebano, le sue morbide
guanciotte da baciare…
Ma
una pesante mancanza gravò di nuovo su di lui, accorgendosi che la stanza era
vuota dietro di loro.
“Dov’è
Lux?” chiese a Fackel, facendola per un momento distogliere delicatamente dal
suo abbraccio.
La
bimba scrollò le spalle, facendosi improvvisamente più cupa.
“Non
lo sappiamo, zio Trunks” gli rispose Golden. “Lui…lui non sta più con
noi”
Lux
non si trovava nella stessa stanza della sorella e del cugino, dunque…ma
dov’era, allora? E perché suo nipote, nel rispondergli, aveva usato quel tono
così triste e rassegnato, come se non volesse semplicemente comunicarli che era
stato trasferito da qualche altra parte?
“Cos’hai
fatto all’occhio?” chiese Goten a suo figlio, notando l’alone nero che gli
circondava l’incavo dell’occhio destro.
“Ah,
questo…” rispose il bambino, toccandosi il viso come se solo in quel momento
se ne fosse ricordato. “Bè…ecco…”.
“Goten,
io vado a cercare Lux!” lo interruppe Trunks, la cui gioia per il ritrovamento
della figlia e del nipote si smorzava per la prolungata assenza del suo
primogenito.
“Vengo
con te, papà!” esclamò Fackel, che non aveva ancora lasciato la presa dai
suoi pantaloni.
“No,
tesoro, tu adesso devi uscire di qui, più in fretta che puoi!” la
contraddisse lui, chinandosi verso di lei e appoggiandole le mani sulle piccole
spalle.
“Non
mi lascerai di nuovo, vero?”.
“Oh,
no, piccola mia, non ti lascerò più, te lo prometto” le assicurò,
stringendola di nuovo a se. “Adesso però ci penserà lo zio Goten a portarvi
in salvo, io vi raggiungo tra poco…ok?”.
“Ok…”
annuì la piccola, mentre Trunks, con un sorriso, si allontanava e scompariva
alla sua vista.
L’uomo
non era armato, ma Gohan esitò ugualmente. Quella sicurezza negli occhi grigi,
quella sua esplicita rilassatezza, non facevano presagire niente di buono.
C’era qualcosa sotto, e doveva fare attenzione.
“Lei
deve essere Son Gohan, ammirato professore della West University” disse lo
scienziato. “Oh, non faccia quella faccia sorpresa…deve sapere che mi sono
informato bene, sulle vostre famiglie”.
“Lei
è un pazzo…cosa ha fatto a mio nipote…” mormorò Gohan, irritato dalla
sua spavalderia.
“Oh,
non deve agitarsi, professor Son…so che è rinomato per la sua pazienza e
diplomazia…non vorrà smentirsi proprio adesso”.
“Lei
risponda alla mia domanda!” insisté lui.
“Lux?
Oh, quel bambino è veramente un tesoro…” ammise Wissen, con un macabro
sorriso che fece accapponare la pelle a Gohan. “Così acuto ed
obbediente…”.
“Lei
l’ha convinto con l’inganno!” gridò il sajan. “Gli ha fatto il lavaggio
del cervello, mettendogli in testa un sacco di sciocchezze e programmandolo per
obbedire ai suoi ordini!”.
“Io
lo sto solo aiutando a capire chi è veramente…e a vendicarsi di chi vuole
costringerlo a reprimere la sua identità!”.
Gohan
deglutì pesantemente, cercando di rigettare indietro la voglia di spaccargli la
faccia.
“Lei
è malato, dottor Wissen…” si limitò a sibilare tra i denti.
Lo
scienziato contrasse improvvisamente il volto, scolpendo in quei tratti gelidi
un’espressione di offesa.
“Io…io
non sono…malato!” balbettò, irritato. “La vostra razza è malata…siete
diventati dei deboli, dei perdenti, dei rammolliti…basta una dose di neuronina,
per farvi fuori!”.
Gohan
esplose…aveva sentito fin troppo, e quelle ultime parole erano state la goccia
decisiva per far traboccare il vaso. Aveva giunto i palmi delle mani,
rivolgendole verso il suo nemico, preparandosi a spazzarlo via allo stesso modo
di come aveva fatto con sua figlia e con l’anima di suo nipote.
“Io
non lo farei, fossi in te” lo avvertì Wissen.
Nelle
mani stringeva qualcosa…un piccolo oggetto…un accendisigari…
“Non
lo senti quest’odore? Non hai notato che il piano è quasi completamente
bagnato di benzina? Se lancerai un’onda di energia, questo posto prenderà
immediatamente fuoco…e di sotto non avranno via di scampo”.
Gohan
trasalì, sentendosi improvvisamente impotente, rinunciando al suo impulso di
rabbia.
“E
non ti consiglierei neanche di venire qui ad ammazzarmi fisicamente…se ti
avvicinerai, sarò io ad incendiare tutto”.
“Vieni
qui, tesoro” chiese Golden alla nipote, invitandola a porgergli il piccolo
polso.
Con
un gesto deciso, suo zio spezzò nettamente in due lo stretto bracciale che le
attanagliava la pelle, come aveva appena già fatto con il cugino. Un flusso di
sensazioni piacevoli passò attraverso il corpo della bambina, non solo perché
adesso disponeva di nuovo dei suoi poteri, ma perché, finalmente, era di nuovo
se stessa, Fackel Brief, senza nessuno che decidesse per lei le caratteristiche
che dovevano o non dovevano essere represse.
“Ho
avuto tanta paura, zio Goten…” mormorò, abbracciandolo.
“Anche
noi, piccolina, tanta…ma adesso è tutto finito, nessuno vi farà più del
male!” le promise lui, prendendola in braccio e cingendo le giovani spalle del
figlio, guidandolo verso la salvezza.
Entrarono
in fretta nell’ascensore, dove Goten si preparò a schiacciare il tasto del
piano terra, ma fu bloccato dalla nipote, che gli tirava decisa la manica del
maglione.
“Aspetta…fermati
al primo sotterraneo…qualcun altro ha bisogno di noi!”.
Goten
la guardò senza riuscire a capire, mentre Golden le rivolse uno sguardo
consapevole ma pieno di incredulità.
“Ti
prego, zio Goten…ci vorrà solo un minuto!”.
Il
sajan esitò qualche secondo, la mano bloccata a mezz’aria vicino ai tasti di
comando. Non aveva idea a cosa si riferisse la bambina, ma non c’era tempo per
le spiegazioni, solo quello di agire, e in fretta.
“Ok…”
acconsentì, sorridendole affettuosamente. “Vediamo cosa possiamo fare”.
Gohan
si immobilizzò. Non era più lui, adesso, che dettava legge. A che punto poteva
arrivare la pazzia di un uomo che, solo per una stupida e pericolosa ambizione,
era disposto a dare fuoco al suo stesso impero? Forse lui avrebbe rinunciato ad
attaccarlo per evitare il peggio, ma lo scienziato non avrebbe comunque fatto
fede al patto.
Se
ne accorse troppo tardi, purtroppo, quando Wissen, con una mossa veloce, afferrò
con una mano una valigetta rossa, e con l’altra una strana bombola, come
quelle dei sommozzatori, ma da cui uscì un gas incolore e maleodorante.
“E’
stato un piacere conoscerla, Gohan!”.
Furono
le ultime parole che il sajan riscì a sentire, prima di afflosciarsi lentamente
a terra.
Frederik
sorrise con orgoglio, osservandolo per un attimo immobile e privo di conoscenza,
per poi uscire dall’ufficio. Aprì la porta d’emergenza, poco lontano da lì,
gettandosi alle spalle l’accendisigari acceso.
Mentre
fuggiva verso i boschi ad est, stringendo con bramosia la preziosa valigetta, le
fiamme già avvolgevano l’edificio alle sue spalle, brulicando come lingue
assetate di morte attraverso le finestre del piano terra. Ma a Frederik non
interessava, quella non era più casa sua…lo aspettava una nuova vita adesso,
dove presto suo figlio lo avrebbe raggiunto…e allora niente sarebbe stato più
come prima.
Erano
dei cagnolini, quelli che Fackel voleva aiutare. Una decina di cuccioli
rinchiusi in squallide gabbie, dalle condizioni igieniche precarie e tenuti a
lungo senza cibo né acqua…ridotti praticamente allo stremo, come se si
fossero completamente dimenticati di loro…
“Lux
voleva liberarli” spiegò la piccola. “Sono sicura che sarebbe contento!”.
Intenerito
dal dolce pensiero della nipote, scompigliandole affettuosamente le ciocche
lavanda, Goten spezzò le assicelle di ferro arrugginito che intrappolavano i
poveri animali, che con grati uggiolii saltarono fuori dalle loro prigioni,
scodinzolando intorno alle gambe dei tre sajan.
“Adesso
facciamo presto, loro ci verranno dietro!”.
Seguito
dai bambini e da una fila di cuccioli, Goten chiamò di nuovo l’ascensore, che
stranamente si trovava ora al piano terra. Ma quando questo raggiunse il
sotterraneo e aprì le portiere davanti a loro, da dentro divamparono con
violenza un’infinità di fiamme.
Il
piano superiore stava bruciando…
Gohan...
I
sajan potevano sopportare il calore del fuoco molto meglio degli umani, ma a
lungo andare avrebbero danneggiato gravemente anche loro e soprattutto, con quei
deboli cagnolini al seguito, quella via di fuga non era più accessibile.
Inoltre, presto le fiamme avrebbero attecchito anche nel sotterraneo, e non
potevano assolutamente rimanere lì per molto.
“Che
facciamo, papà!” esclamò Golden, agitato, mentre la cugina si abbandonava di
nuovo alle lacrime. “Siamo bloccati quaggiù!”.
“Forse
no…” mormorò lui, riflettendo.
Quell’edificio
sorgeva su una collina, dopotutto. Se non potevano procedere verticalmente,
l’avrebbero fatto in direzione orizzontale.
Si
rivolse al figlio, guardandolo negli occhi.
“Vedi,
Golden…questo è uno di quei momenti in cui vanno usati i poteri” spiegò.
“Per cui, conterò fino a tre, e a quel punto spareremo insieme un’onda di
energia in quella direzione…ok?”.
“Ok…”
confermò lui, disponendosi di fianco al padre, mentre Fackel si nascondeva
dietro a loro, circondata dai cuccioli.
“Uno…due…tre!!”.
Due
lampi di luce attraversarono velocemente l’aria, demolendo violentemente la
parete di fronte a loro.
Trunks
continuava a perlustrare ogni stanza, ma di suo figlio non c’era traccia.
Eppure doveva esserci…doveva essere lì, quell’uomo non aveva mentito su
Fackel e Golden, perché avrebbe dovuto farlo riguardo a lui?
Stava
per risalire di nuovo ai piani superiori, quando scorse in un angolo buio del
corridoio l’ombra di un fagottino silenzioso, rannicchiato su se stesso.
“Lux…”
mormorò, mentre i suoi occhi si adattavano all’oscurità e riconoscevano
quello che era proprio suo figlio, il suo adorato bambino.
Il
piccolo alzò lentamente gli occhi su di lui, senza però muoversi o parlare.
Forse era solo impaurito, terrorizzato da quella forzata prigionia…ma adesso
era di nuovo al sicuro, adesso c’era lui a proteggerlo…
“Oh,
tesoro, finalmente…” esclamò con un nodo alla gola, mentre si chinava verso
il bambino, abbracciandolo con sollievo. “L’incubo è finito…torneremo a
casa, e sarà tutto come prima”.
Per
un momento il piccolo non reagì, restando immobile come quando lo aveva scorto.
Poi, con agghiacciante incredulità di Trunks, scagliò con freddezza un pugno
sull’addome del padre, togliendogli il respiro.
Continua…
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Capitolo 10 *** Capitolo 10 ***
Capitolo 10
Capitolo
10
La
centrifuga cominciò a ruotare rumorosamente. Era stata un’operazione
piuttosto semplice e veloce, e la certezza di aver finalmente in mano ciò che
cercava fece tirare a Bra un sospiro di sollievo, mentre si sedeva stancamente
su una sedia da laboratorio ed attendeva che la macchina concludesse il ciclo.
L’antidoto
esisteva davvero. La Wissen Biotechnologies lo aveva creato più per
sperimentazione che per un concreto scopo, dato che in casi normali la tossina
era letale, ma fortunatamente ne conservavano qualche campione in forma
disidratata. Lilian, nel bene o nel male, aveva accettato di collaborare, non
solo rivelandole dove era nascosto, ma anche aiutandola a risospendere e a
riattivare l’antidoto, lavorando accanto a lei in un professionale silenzio,
come fossero sempre state colleghe di laboratorio.
Adesso
il suo compito era finito, ma avendo capito che la sajan non aveva alcuna
intenzione di farle del male, la donna si era tranquillizzata, sedendosi accanto
al macchinario e attendendo insieme a lei.
“Posso
farti una domanda, Lilian?” le chiese Bra all’improvviso. “Quando sono
entrata…perché non ti sei difesa con la neuronina o con un gas sedativo?”.
La
donna esitò un attimo, ripiombando per un momento in quell’opprimente
imbarazzo, sparito come per magia durante la lavorazione del campione.
“Ecco…a
dire la verità…ho visto quei bambini…” mormorò, mentre un accenno di
compassione compariva nei suoi occhi castani. “Nonostante avessi avuto la
prova che sono creature fuori dal comune…con doti eccezionali e capaci di fare
cose inimmaginabili…ho visto che sono pur sempre dei bambini…con molta più
umanità di alcuni terrestri…e ho pensato che anche i genitori non potessero
essere così spietati come venivano descritti…”.
Bra
la studiava con attenzione, senza dare segno di essere colpita positivamente
dalle parole della donna.
“E
allora perché l’hai fatto?” le chiese. “Perché hai continuato a dare
ascolto alle parole di quel pazzo e a tenere i nostri figli lontano da casa?”.
Lilian
abbassò lo sguardo, incapace di rispondere, mentre un vago rossore le colorava
le guance.
Il
timer della centrifuga cominciò a trillare, indicando che il campione di
antidoto era pronto. Bra aprì il coperchio dell’apparecchio, recuperando la
piccola provetta e riponendola nella sua borsa termica.
Si
avviò verso l’uscita del laboratorio, per poi fermarsi e voltarsi indietro
verso la donna.
“Grazie”.
Lilian
accennò un debole sorriso, tornando poi con lo sguardo e con la mente in quel
turbine di conflitti che doveva caratterizzare il suo mondo interiore.
Uscì
dalla stanza, sospirando di sollievo. L’antidoto era nelle sue mani, e forse i
bambini, a quell’ora, erano già in salvo. Non rimaneva che correre a casa ed
aiutare Pan, prima che i radicali liberi formati nel suo organismo per mancanza
di ossigenazione potessero diventare letali anche per una sajan.
Stava
per imboccare il corridoio, quando si trovò davanti un uomo calvo e muscoloso,
la faccia corrugata in un’espressione rabbiosa e in mano la stessa arma con
cui l’uomo al piano terra li aveva minacciati poco prima.
“Cosa
le hai fatto??!” le gridò contro, con voce dura e penetrante. “Cosa hai
fatto a Lilian??”.
“Lilian
sta benissimo” lo informò Bra, cercando di rimanere calma e immobile.
“Sicuramente meglio di te!”.
“Tu
menti!!” continuò l’uomo, avvicinandole ancora di più l’arma con la
siringa puntata, obbligandola a retrocedere fino a toccare il muro con le
spalle.
Non
poteva fallire proprio adesso…non ora che aveva una possibilità per salvare
sua cognata…non ora che avrebbe riabbracciato suo figlio…il suo adorato
Golden…
Il
fumo dovuto all’esplosione impediva ancora una chiara visuale, ma era proprio
una galleria quella che si era formata davanti a loro, che vedeva la luce quasi
ai piedi della collina.
“Sì!!!”
esclamò Golden, soddisfatto, mentre il padre verificava la stabilità delle
pareti e Fackel, ancora in mezzo ai cuccioli abbaianti, ritrovava il sorriso.
“Ascoltami,
Golden” lo richiamò Goten all’attenzione. “Io devo correre ad aiutare zio
Gohan, di sopra. Posso contare su di te per portare tua cugina e tutti questi
cuccioli fuori da qui?”.
Il
bambino annuì, convinto. Non li avrebbe mai lasciati di nuovo soli, in
circostanza normali, ma suo fratello, probabilmente, era ancora tra le fiamme, e
non gli restava che riporre completa fiducia in suo figlio e sperare che la
sorte non serbasse loro altri pericoli.
“Aspettatemi
fuori, io vi raggiungerò al più presto!” concluse, oltrepassando la galleria
e precipitandosi nella notte, verso l’entrata principale.
Trunks
trasse un gemito soffocato per il dolore, spalancando gli occhi chiari
nell’oscurità di quel corridoio. Non era tanto la sofferenza fisica che gli
doleva, quanto la sorpresa e l’incredulità per ciò che era appena successo.
“Lux…”
balbettò, ancora sofferente. “Che….che cosa fai?”.
Il
bambino non rispose, sgusciando via dalle sue braccia irrigidite e
allontanandosi lungo il corridoio.
“Lux!
Aspetta!” gli gridò contro il padre, sollevandosi da terra indolenzito e
correndogli dietro.
Si
era fermato alla fine del tragitto senza sfondo, scrutando attentamente la
parete bianca di fronte a lui, come se vi vedesse chissà quale porta
inesistente. Trunks gli era corso incontro, appoggiandogli le mani sulle spalle
da dietro, ma una brusca mossa del bambino lo spinse a qualche metro lontano da
lui, facendolo atterrare sulla schiena.
“Lux…ma
cosa ti prende, figliolo!” mormorò appena.
Il
bambino lo guardò con disprezzo, gli occhi azzurri quasi irriconoscibili tanto
erano offuscati da una rabbia inspiegabile.
“Io…non
sono…tuo figlio!!” scandì, prima di voltargli di nuovo le spalle e
accumulare energia nei palmi delle mani.
Seguì
una forte esplosione e un bagliore accecante, per cui Trunks dovette coprirsi il
volto. Poi, al di là del fumo, solo il buio della notte, ma di Lux nessuna
traccia.
Qualcosa
era esploso dall’altra parte del sotterraneo, un fragore forte accompagnato da
una luce bianca, ma l’uomo che le puntava contro l’ago letale non reagì
minimamente, rimanendo concentrato sulla sua preda.
“Non
le ho fatto niente, te lo assicuro” ripeté Bra. “Vai a vedere con i tuoi
occhi”.
“Non
è vero!” sbraitò lui. “Tu l’hai già uccisa, e adesso vuoi che ti volti
le spalle per uccidere anche me! Ma non ne avrai modo, perché prima lo farò
io!”.
Il
suo indice si abbassò minaccioso sul grilletto, mentre Bra deglutiva
pesantemente, socchiudendo gli occhi e preparandosi al peggio. Ma qualcosa colpì
violentemente la nuca dell’aggressore, che si irrigidì istantaneamente e
rotolò sul pavimento privo di sensi.
“Ub…”
mormorò Bra sollevata, portandosi una mano al volto per ritrovare la lucidità.
“Grazie al cielo…”.
Il
campione del mondo era giunto in suo aiuto proprio nel momento giusto, e ora si
chinava verso l’uomo a terra assicurandosi di non aver colpito troppo forte e
di averlo ucciso.
“Ho
immaginato che ci fosse bisogno di aiuto, un presentimento mi diceva che erano
insorte delle complicazioni….e ne ho avuto conferma quando, venendo qui, ho
visto l’edificio in fiamme”.
“In
fiamme?” chiese Bra, spalancando gli occhi per l’incredulità, che dal quel
luogo sperduto sotto terra non poteva avere idea di cosa succedesse in
superficie.
“Già…le
entrate sono bloccate, ma ci sono due recenti aperture attraverso la collina, di
cui una conduce proprio a questo piano. E’ da lì che sono entrato”.
Ecco
cos’era l’esplosione di poco prima, pensò Bra. Qualcuno aveva fatto saltare
le mura e tutto il terreno che le circondava, per scavarsi un passaggio verso
l’esterno. Chissà se gli altri stavano bene, se i bambini erano al sicuro o
se nuovi pericoli stavano di nuovo complicando le cose. Ma adesso non aveva
tempo per assicurarsene, anche perché non c’era niente che poteva fare se non
volare veloce alla Capsule Corporation e rianimare Pan.
“Devi
fare presto, Bra” le consigliò Ub, notando la sua esitazione ed il suo
fissare assorta la borsa termica che aveva in mano. “Marron dice che la
muscolatura di Pan si sta irrigidendo…è il segno che la sua resistenza sta
cedendo, che potrebbero verificarsi dei danni cerebrali irreversibili e che la
morte vera è vicina”.
Bra
annuì.
“Ok…tu
però porta in salvo quest’uomo e la donna nascosta in quel laboratorio…e
assicurati che gli altri stiano bene”.
“Lo
farò, puoi stare tranquilla” le assicurò, mentre lei si avviava verso la
parte opposta del sotterraneo, in cerca dell’uscita.
Le
fiamme avvolgevano minacciose l’atrio iniziale dell’edificio, nutrendosi
avidamente di qualsiasi cosa trovassero sulla loro strada, e rendendo
impossibile anche il più semplice orientamento.
“Gohan!!”
gridò Goten, mentre passava quasi immune attraverso il fuoco, infastidito però
dal fumo irrespirabile e dal bruciore degli occhi.
Si
avviò verso il corridoio che avevano percorso appena arrivati lì, quello dove
aveva visto suo fratello per l’ultima volta. Ma lui non c’era, solo una
sedia giaceva in fiamme sul pavimento.
“Gohan!!
Dove sei??”.
Entrò
in quello che era stato l’ufficio di Wissen, lo stesso dove avevano incontrato
quel pazzo il giorno precedente, quando ancora non erano certi della sua
colpevolezza. E suo fratello era disteso a terra, immobile, in mezzo alle fiamme
che già gli avevano logorato buona parte dei vestiti.
“Gohan…”
lo aveva scosso, strappandosi la maglia di dosso e tamponando con essa gli abiti
fumanti del fratello. “Gohan…stai bene?”.
Non
poteva perdere anche lui…no…era tutto ciò che gli rimaneva, dopo che anche
sua madre lo aveva lasciato…non poteva abbandonarlo così…
“Goten…”
mormorò infine lui con un filo di voce. “Sei tu…”.
Goten
sorrise, mentre sul suo volto arrossato dal fuoco si faceva strada una lacrima.
“Certo…adesso
ti porto in salvo!”.
Gli
fece passare un braccio intorno al suo collo, in modo che potesse sostenerlo in
piedi mentre si dirigevano verso l’uscita, sfidando fiamme violente e
distruttrici.
“Se
solo potesse vederti nostro padre, adesso…” gli sussurrò Gohan,
rivolgendogli un debole sorriso.
Goten
distolse lo sguardo, senza rispondere, concentrandosi di nuovo sulla loro via di
fuga.
“Adesso
facciamo in fretta” propose, cambiando discorso. “Perchè questo edificio
tra poco crollerà!”.
Non
si era mai sentito così indispensabile come in quel momento. Mentre aiutava sua
cugina a raggiungere l’uscita, mentre portava due alla volta quei cagnolini
fuori da quel posto orrendo, volando con loro verso il prato esterno al sicuro,
aveva cominciato a capire a cosa servissero veramente i suoi poteri, perché la
sorte glieli aveva donati.
Era
in situazioni come quelle che ne doveva fare uso, dove nessuno poteva vederlo ma
in cui avrebbe salvato tante creature inermi da una morte certa. Aveva creduto
che la vera soddisfazione, il vero divertimento di essere un sajan fosse
potersene vantare con altri, ma catturare piccoli criminali di quartiere quando
la polizia ne era perfettamente in grado, solo per il gusto di essere acclamato
ed il rischio di essere scoperto, non era niente, ma proprio niente, di fronte
alla straordinaria sensazione che provava adesso…
Fackel
e i cuccioli erano ora tutti in salvo, lontani dal fuoco, al sicuro ai piedi
della collina, mimetizzati nell’oscurità della notte che cominciava a
rischiararsi ad est.
Li
aveva salvati…adesso era un vero eroe…
Un
eroe che era riuscito a non vergognarsi a piangere davanti ai cugini, che aveva
desiderato rivedere i suoi genitori e tornare a casa come mai prima di allora,
che aveva provato terrore e subito violenze che mai e poi mai un bambino
dovrebbe provare, sajan o non…
Si
sentiva stanco, così stanco…
I
suoi occhi si chiusero lentamente, mentre si afflosciava come uno straccio sul
prato scuro.
“Golden!”
gli corse incontro Fackel, chinandosi verso il cugino svenuto. “Svegliati,
Golden! Guarda, lo zio Goten sta tornando!”.
Fece
a tempo ad aprire debolmente gli occhi, per vedere l’edificio che li aveva
tenuti prigionieri crollare a pezzi e arso dalle fiamme, e davanti ad esso due
figure avanzanti nell’oscurità, che si tenevano l’un l’atro per
discendere la collina.
Poi
ricadde di nuovo nell’ombra.
Marron
riempì la siringa sterile del liquido contenuto nella provetta, per poi
puntarla in alto e toglierle l’aria.
Avevano
fatto voltare Pan di lato, in modo che l’infermiera potesse iniettarle
l’antidoto dritto nella spina dorsale. Era stata un’operazione piuttosto
difficile, considerando che i suoi legamenti adesso si stavano irrigidendo a
vista d’occhio.
Mentre
l’ago penetrava nella carne e rilasciava il suo contenuto nel midollo di Pan,
Videl aveva continuato ad accarezzare affettuosamente le sue guance, quasi la
figlia fosse ancora capace di provare dolore ad una semplice puntura. Bra, in
piedi poco lontano dal letto, osservava nervosamente la scena, mentre i gemelli,
che Marron aveva invitato ad aspettare fuori, si affacciavano furtivamente e con
curiosità nella stanza, abbandonando per il momento i loro giochi e le loro
piccole scaramucce.
“Spero
di essere arrivata in tempo” mormorò Bra, continuando a passeggiare su e giù
lungo il bordo del letto, le braccia giunte a scaldare il busto, come se il
freddo della notte esterna fosse penetrato anche in quella camera.
“Tra
poco lo sapremo” affermò Marron, mentre applicava una garza nel punto
dell’iniezione e portava di nuovo Pan in posizione supina. “Le molecole di
antidoto dovrebbero far staccare la tossina dai centri nervosi in breve tempo,
se tutto va bene”.
Furono
istanti lunghi un’eternità, trascorsi in ansia e in un monastico silenzio,
riponendo tutte le speranze in quei pochi microlitri di sostanza che si stavano
diffondendo lungo la rete di neuroni.
“Mamma,
mamma, guarda ha mosso una mano!” gridò Zeme balzando improvvisamente dentro
la stanza.
“Sì!
L’ho visto anch’io! E ora lo sta facendo di nuovo!” gli fece eco Nebe,
seguendo il fratello.
Marron,
spostando lo sguardo dai figli alla ragazza sul letto, notò l’indice di Pan
che si contraeva in un gesto spontaneo, quasi di riflesso.
“Marron…dimmi
che si sta svegliando” mormorò Videl, prendendo la mano della figlia e
accarezzandola maternamente, sicura che adesso potesse percepire davvero il
calore che desiderava trasmetterle.
Marron
afferrò lo stetoscopio, applicando il sensore sul petto di Pan. Un battito. Poi
un altro. E un altro ancora. Non potè trattenere un sorriso, che contagiò
subito le altre due donne al suo fianco, un sorriso di sollievo e di speranza.
Pan
trasse infine un profondo respiro, come un neonato che usa i polmoni per la
prima volta dopo nove mesi nel grembo materno, tossendo poi per il tratto
respiratorio a lungo inutilizzato.
“Pan?”
le sussurrò Videl, tenendola ancora per mano, mentre Marron le tamponava con
acqua fresca le labbra. “Sono io, tesoro, mi senti? Sono la mamma”.
La
ragazza socchiuse lentamente gli occhi, infastidita dalla luce artificiale che
illuminava la stanza. Sbattè più volte le palpebre, riacquistando gradualmente
la capacità visiva, per poi posare lo sguardo su Videl. L’aveva certamente
riconosciuta, perché le rivolse un debole e innocente sorriso.
“Mamma…”
mormorò debolmente, con un filo di voce.
“Sì,
bambina mia, sono qui” le rispose lei, mentre i begli occhi azzurri le
brillavano di lacrime.
Pan,
ancora non pienamente cosciente, immersa interiormente in un mondo che solo lei
riusciva a vedere, sembrò cullarsi sulle carezze della madre, spostando poi lo
sguardo vago e indefinito sul tetto della stanza, su Marron seduta sull’altro
bordo del letto e su Bra, in piedi di fronte a lei. Quando però i suoi occhi
raggiunsero i gemelli, seduti a terra presso la porta, qualcosa nel suo sguardo
sognante cambiò, come uno strato di velina improvvisamente strappato.
Probabilmente la vista di quei bambini, la realizzazione che essi erano i figli
di Marron, l’aveva d’un tratto riportata alla realtà, rivelandole che
quella non era una scena della sua infanzia, un’immagine ripescata nei suoi
ricordi, ma la vita reale che adesso viveva da adulta, da moglie e…da madre.
“I
bambini!” esclamò, alzando improvvisamente la schiena con uno scatto
istintivo e ritrovandosi seduta sul letto. “Dove sono i miei bambini??”.
Nei
suoi occhi c’era il terrore, adesso, forse lo stesso che aveva caratterizzato
il suo volto qualche attimo prima della sua finta morte, quando aveva già visto
i suoi figli in pericolo. Il brusco passaggio ad uno stato di agitazione le
aveva fatto aumentare alle stelle il ritmo cardiaco, ed il suo respiro adesso si
faceva faticoso ed irregolare.
“Calmati,
Pan…è tutto a posto!” cercò di tranquillizzarla Bra, facendola abbassare
di nuovo sul cuscino. “Ci sono Trunks e Goten con loro, adesso…andrà tutto
bene”.
“Lux!!”.
Nessuna
risposta al suo richiamo disperato, solo il fruscio del fuoco che divampava
dall’edificio da cui era appena uscito. Lo intravide infine correre verso il
boschetto ad est, deciso a non curarsi del padre.
Non
capiva cosa stava succedendo, come mai suo figlio si comportasse a quel modo, ma
gli corse dietro come un razzo, continuando a chiamarlo, sentendo la propria
voce farsi più tremante man mano che lo vedeva sparire nell’oscurità e
temeva di perderlo di nuovo.
“Lux,
per favore, fermati!” lo implorò, cadendo infine a terra disperato, non per
la fatica della corsa ma per l’estremo dolore che tutto ciò gli provocava.
Il
bambino arrestò la sua fuga, fermandosi in mezzo ad una serie di bassi arbusti
che delimitavano la piccola foresta. Si voltò lentamente verso di lui,
rivelando uno sguardo gelido ed incolore.
Quello
non era suo figlio…quello non era più il suo bambino…
“Cosa
ti succede, Lux?” gli chiese di nuovo, abbandonando le speranze di ricevere
una risposta.
“Tu…devi
morire!” si limitò ad esclamare con rabbia il bambino, lanciandogli una
piccola onda d’energia che prese Trunks di striscio, ustionandogli la spalla
sinistra.
Aveva
caricato l’uomo privo di sensi sulla schiena, mentre la donna, che proteggeva
al suo fianco, lo seguiva impaurita fuori da quelle rovine sotterranee, che
presto sarebbero state arse dal fuoco come il resto dell’edificio.
La
notte era ancora fredda e scura, ma il cielo si era già mangiato la luna e,
attraverso uno strato di opaca foschia, un chiarore si faceva progressivamente
strada nella volta blu.
Appoggiò
l’uomo a terra, facendolo distendere su un morbido strato di terreno, mentre
la donna, una volta al sicuro, lasciò il suo fianco per sedersi accanto al
compagno, fissando con incredulità lo stabile distrutto dal fuoco, rapita dal
divampare delle fiamme e dal bagliore che esse proiettavano in quella tarda
notte.
“Tutto
bene?” le chiese Ub.
La
donna annuì, togliendosi poi gli occhiali appannati e stropicciandosi il volto,
come se così sperasse di scoprirsi semplicemente in un sogno.
“Il
suo amico si sveglierà presto” le assicurò di nuovo lui. “Adesso devo
andare”.
Si
allontanò dai piedi della collina, avvicinandosi verso il pianeggiante parco
erboso che separava quel luogo dal resto della grigia periferia industriale.
Gohan,
Goten e i due bambini si stavano abbracciando l’un l’altro sotto le fronde
di un albero, la piccola Fackel che, colta da un inevitabile crollo emotivo,
piangeva senza sosta tra le braccia del nonno dal volto annerito di fuliggine, e
Golden, prostrato dal terrore e dall’angoscia provati in quei giorni, disteso
sulle ginocchia del padre, che gli parlava affettuosamente.
“State
tutti bene, grazie al cielo” sospirò Ub, avvicinandosi al gruppo.
“Ub…hai
visto Trunks e Lux?” gli chiese ansioso Gohan, stringendo ancora al petto la
testolina lavanda della nipote.
“Li
ho scorti uscire dal seminterrato un attimo prima di me…Lux stava correndo
verso il boschetto vicino, e Trunks lo seguiva chiamando il suo nome”.
Il
più anziano chiuse gli occhi, abbassando il volto e sospirando con
rassegnazione all’inevitabile conseguenza della follia di un invasato, mentre
Goten notava confuso l’evidente apprensione del fratello.
“Cosa
sta succedendo, Gohan?” chiese, mentre una nuova morsa di tensione
attanagliava il suo stomaco.
Trunks
si contorse a terra dolorante, tenendosi con una mano la spalla sanguinante. Non
poteva aver sentito quelle parole uscire dalla bocca di suo figlio…non erano
certamente sue, qualcun altro gliele aveva infisse nella mente…
“Lux…”
mormorò, con un grande sforzo.
Non
l’aveva mai visto guardarlo con tale odio…mai…
L’aveva
spesso trascurato, meritandosi la sua indifferenza e il suo atteggiamento
restio…l’aveva spesso sgridato, come un padre interessato usa fare per il
bene del figlio…ma non si sarebbe mai aspettato tutto ciò, non adesso che lo
aveva ritrovato, che aveva pianto per lui nella speranza di poterlo rivedere…
Il
bambino era ancora in piedi ad un paio di metri da lui, poteva facilmente
avvicinarvisi e bloccare con la forza la sua momentanea follia, ma non avrebbe
risolto niente. Suo figlio non avrebbe avuto pace finché non fosse riuscito a
fargli seriamente del male.
Si
alzò quindi da terra, mantenendo però la distanza di sicurezza.
“Sono
qui, Lux…io non mi muovo…aspetto finché sarai tu a raggiungermi”.
Le
sue parole non ebbero il risultato atteso, perché il bambino giunse i palmi
delle mani verso Trunks, cominciando a caricare una sfera d’energia.
“Io
ti odio!!” gli gridò, con la voce contorta dalla rabbia, mentre la luce
bianca si accumulava davanti alle piccole mani. “Ti odio, ti odio, ti
odio!!!”.
Il
cielo ad est era ormai tinto di sfumature rosa e gialle, mentre ululati di
sirene si facevano più vicine dall’adiacente metropoli.
“Hatch…Hatch
svegliati!” ripeté Lilian all’uomo disteso al suo fianco, scuotendolo con
decisione.
Hatch
aprì debolmente gli occhi, massaggiandosi poi la nuca con una mano.
“Cos’è
successo?” chiese, ancora confuso.
Un
furgoncino bianco uscì sgommando dal parcheggio ancora intatto dalle fiamme
dell’edificio, piantando poi una brusca frenata e avanzando a scatti
incostanti verso la strada di servizio, come se il guidatore si fosse
improvvisamente dimenticato come si manovra un veicolo.
“Dan
se la sta filando senza di noi!” esclamò la donna, intravedendo il collega a
bordo del furgone.
“Cosa??”
gridò Hatch, ritornando improvvisamente alla realtà. “Non credo proprio!”.
Si
alzò rapidamente da terra, prendendo Lilian per mano e correndo con tutta la
forza che gli rimaneva verso il veicolo stridente, afferrando la maniglia del
portello anteriore e spalancandolo davanti a se.
Dan,
stralunando gli occhi per la sorpresa, stava impugnando il volante con i polsi
legati e ravvicinati, impossibili da separare, e farfugliò una soffocata
esclamazione attraverso lo strato di nastro adesivo che gli copriva le labbra.
“Cosa
credevi di fare, sporco traditore!” lo accusò Hatch, strappandogli
violentemente la striscia dalla bocca.
“Aaaahiiii!!!”
si lamentò lui per il doloroso strappo. “Mi stavo solo salvando dal farmi
arrostire il didietro, è una fortuna che sono riuscito a liberarmi!”.
“E
te ne saresti andato senza di noi??” gli chiese Lilian, incrociando le mani al
petto e assumendo un’espressione offesa.
“Ma
no…sarei tornato a prendervi….” balbettò con un finto sguardo innocente,
prima che Hatch e la donna, non badando minimamente alle sue inutili scuse, lo
scansassero senza troppa galanteria dal posto di guida, segregandolo dietro e
salendo velocemente sul furgone.
Mentre
imboccavano la strada principale e si dirigevano ad est, lontano il più
possibile da West City, le auto lampeggianti della polizia comparvero minacciose
dietro di loro, avvertendoli con un altoparlante di fermarsi immediatamente.
“Ce
li abbiamo alle costole…è finita…” mormorò Lilian, rassegnandosi al
peggio.
“No,
finché ci sarò io alla guida!” le promise Hatch, spingendo con decisione sul
pedale dell’acceleratore e sfrecciando come un razzo verso la salvezza.
Ma
dovette frenare violentemente quando, come una minacciosa creatura aliena, un
elicottero nero della polizia atterrò proprio davanti a loro, bloccandogli la
strada.
Hatch
e Lilian rimasero ammutoliti alla vista del mezzo e dei poliziotti che uscivano
da esso puntandoli delle armi contro, mentre Dan si sporgeva rassegnato dal
sedile posteriore.
“Adesso
è finita” assentì.
Pan
era seduta sul bordo del letto, lo sguardo perso nel vuoto e i gomiti appoggiati
sulle ginocchia, mentre le mani coprivano il viso in segno d’incredulità.
“Vuoi
un altro bicchiere d’acqua?” le chiese sua madre, seduta accanto a lei.
La
ragazza fece cenno di no con la testa. Non aveva bisogno di niente, se non di
rivedere i suoi bambini sani e salvi.
Le
avevano appena spiegato come erano andati i fatti, cosa era successo dal momento
in cui l’avevano ritrovata priva di vita a quello in cui Bra aveva lasciato
l’edificio in fiamme. Ma quello che la tormentava era non sapere cosa stava
succedendo ora, perché mai la sua famiglia non era ancora tornata a casa…
“Io
vado da loro!” esclamò alla fine. “Non ce la faccio più ad aspettare!”.
Fece
per alzarsi in piedi, quando le sue gambe crollarono sul suo stesso peso,
facendola cadere a terra dolorante.
“Vedi
che non hai ancora completamente riacquistato la funzionalità degli arti?” la
rimproverò Marron, aiutandola a rialzarsi. “Devi rimanere a letto ancora un
po’, o rischierai di farti del male!”.
“Allora
portatemi voi…Bra, tu potresti accompagnarmi con l’aircar e…”.
Si
interruppe, vedendo sua cognata porsi in piedi davanti a lei, le mani incrociate
al petto, bella e minacciosa.
“Mi
spieghi cosa credi di fare una volta là?” le disse severamente. “Guarda,
non ti reggi neanche in piedi e vuoi subito fare l’eroina…Io ho fatto i
salti mortali per riportarti in vita, quindi non ti permetterò di certo di
rischiarla di nuovo!”.
Pan
abbassò lo sguardo, delusa e imbarazzata. Sua cognata mostrava il suo affetto
sempre a modo suo, anche con le minacce, se era necessario, ma riusciva sempre e
comunque ad essere efficace. Non poteva fare niente lei, debole e indifesa, fino
ad un momento prima addormentata in un sonno quasi eterno ed estranea da ogni
casa, poteva solo aspettare, come facevano inevitabilmente le altre donne nella
stanza, mogli e madri in pena quanto lei.
La
sfera d’energia cresceva a vista d’occhio davanti al bambino, riflettendo la
sua luce sul giovane volto contorto dalla rabbia.
“Non
farlo, Lux…” mormorò Trunks, guardandolo paternamente negli occhi, non
potendo far altro che rimanere lì, immobile, nella traiettoria del raggio.
“So che ti sembra giusto ciò che stai facendo…che credi di trovare la
felicità in questo modo…ma so anche che tutto quello che pensi di dover fare
in questo momento non è la tua volontà...ti è stato imposto da qualcun
altro…”.
“Stai
zitto!!” gli gridò suo figlio con voce tremante, continuando ad alimentare la
sfera, mentre i suoi occhi cominciavano a brillare di lacrime.
Trunks
non l’ascoltò, azzardandosi a compiere un passo verso di lui.
“So
che non sono stato un padre molto presente…ho fatto molti errori, soprattutto
con te, tesoro…ma adesso vorrei solo che scacciassi tutti questi pensieri e
ascoltassi per un momento il tuo cuore…”.
Un
altro passo verso il bambino…la sfera che cresceva tra le sue mani…la luce
che lo accecava ogni secondo di più…
“…Sono
sicuro che lo sai, Lux…lo sai che ti voglio bene…” disse, mentre la sua
voce si spezzava in un singhiozzo disperato. “…Perché te ne voglio più
della mia stessa vita, bambino mio…torna da me, ti prego…ti prego…”.
Lux
stava tremando in ogni muscolo del suo corpo, gli occhi lucidi che non
smettevano di fissare il padre, disposto a restare lì e morire a costo di
riavere suo figlio…poi, molto più velocemente di come era stata creata, la
sfera scomparve tra le sue mani, giunte a cogliere ormai solo l’aria, mentre i
suoi occhi cristallini si facevano opachi e cadeva sulle sue stesse ginocchia,
con lo sguardo rivolto verso il basso.
“Lux…”.
Trunks,
ancora scosso e dolorante per la spalla ustionata, si precipitò verso di lui,
abbassandosi e stringendo finalmente tra le braccia quel suo bambino confuso e
tormentato, accarezzandogli con tanto di quell’amore i suoi fini capelli
d’ebano, mentre l’aurora dai colori caldi avanzava lenta nel cielo
invernale.
“E’
tutto finito, piccolo mio…tutto finito…”.
Fronde,
foglie, arbusti, spine che si conficcano nella carne, facendogli sanguinare la
pelle, ma Frederik non le sente, tanto preso ad attraversare quel fitto bosco
quasi impenetrabile, facendosi strada attraverso quell’intrigo di vegetazione
ancora immersa nell’oscurità della notte.
Si
sta dirigendo ad est, allontanandosi dalla sua vita passata, da quell’illusione
di vita, correndo verso l’ignoto, il dolce, sublime ignoto…
Suo
figlio non lo raggiungerà, lo sente attraverso quel particolare legame psichico
che si è creato tra loro, non ha compiuto la missione richiesta e adesso è di
nuovo nelle luride mani del nemico, che lo abbindola con false promesse e verità…
Una
costruzione diroccata, forse appartenuta a cacciatori, si prospetta davanti ai
suoi occhi, coperta di rampicanti e lasciata in decadenza. Vi entra furtivo,
assicurandosi che sia deserta, per poi gettarsi stanco su una coperta polverosa
e maleodorante. Accanto a lui, come fosse un prezioso tesoro di inestimabile
valore, stringe geloso la valigetta rossa, fredda al tatto per la bassa
temperatura interna, e chiude gli occhi, abbandonandosi ad un meritato riposo.
Resterà
in quel temporaneo rifugio, lontano dalla luce e dalla civiltà, finchè non sarà
pronto…a quel punto, avrà di nuovo accanto suo figlio…e insieme solcheranno
pianure sconfinate, fino a scalare i monti più alti e le vette più impervie,
più su, sempre più su, fino alle ormai raggiungibili stelle.
Continua…
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