Dragonball NG - Codice Sigma

di Beatrix82
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

Prologo

 

 

Il laboratorio era ancora vuoto, silenzioso. Nell’aria si percepiva solo il ronzio dei macchinari in riscaldamento, nascosti negli angoli in penombra della stanza, dove la glaciale luce al neon dalle vaghe sfumature verdi non li raggiungeva pienamente.

Frederik aprì lo zainetto di tela, estraendo da esso un camice bianco ripiegato con cura, che indossò senza fretta.

Mentre si abbottonava, sollevò la giovane testa verso lo specchio a muro che comprendeva buona parte di una delle pareti del laboratorio. Per un po’ rimase a fissare il suo volto pulito, i suoi occhi grigi dallo sguardo ancora insicuro e puro di un adolescente, i capelli color biondo cenere che li ricadevano in parte sul volto, incapaci da domare, il camice vecchio e logoro di chi si può permettere acquisti sono in negozi di seconda mano. Era ben lungi, ancora, da interpretare l’uomo colto e altolocato che un giorno sognava di diventare. Per ora era solo un giovane tirocinante in attesa di conseguire la laurea, unico obiettivo a cui, per ora, poteva pensare.

Dal corridoio percepì l’avvicinarsi di rapidi passi. Passi di donna, accentuati dal rumore di tacchi alti contro il pavimento di linoleum. Ed ecco entrare la donna che per lui costituiva un mito, un idolo, un’istituzione, eccola farsi avanti con i corti e lisci capelli pettinati elegantemente in un caschetto azzurro, il bel viso illuminato dagli occhi blu sfavillanti di luce e dalle labbra rosse, il camice bianchissimo aperto su un’elegante tailleur nero, scollato al punto giusto, in modo da dare anche alla più impegnata delle scienziate la grazia e la bellezza di una donna che ha il fascino nel sangue.

Bulma Brief, presidente di una delle più famose aziende del pianeta, gli aveva concesso gentilmente di frequentare i suoi laboratori durante le vacanze estive. La Capsule Corporation, infatti, era una delle massime fornitrici di macchinari scientifici del laboratorio in cui svolgeva l’internato, e prendendo lezioni direttamente dall’inventrice, Frederik era sicuro di poterli usare al meglio. Il giovane era ancora stupito di come la donna lo avesse accolto senza problemi fin dal giorno in cui si era presentato alla Capsule Corporation, rendendosi sempre disponibile e felice di fornire chiarimenti e spiegazioni, nonostante la scarsità del suo tempo e il lavoro a cui doveva badare.

Frederik ammirava quella donna. Forse la invidiava, un po’. Avrebbe voluto essere come lei, un giorno. Ma a lui non interessavano tanto i soldi, la fama, i riconoscimenti scientifici…era convinto che la soddisfazione più grossa, per uno scienziato, venisse non dagli altri, ma da dentro di se, la gioia e la realizzazione di aver creato qualcosa di straordinario, di unico, di inimitabile…quello era senz’altro il riconoscimento più grande…

“Ciao, Freddie” lo salutò la donna con un caldo sorriso.

“Salve, signora Brief” rispose il ragazzo, inchinandosi impercettibilmente.

Lei incrociò le braccia, alzando un sopracciglio con uno sguardo di rimprovero.

“Freddie…quante volte devo dirti di chiamarmi semplicemente Bulma?” sorrise. “Non vorrai farmi sentire vecchia, vero?”.

“Oh…assolutamente no…Bulma” rispose il ragazzo, passandosi una mano tra i folti capelli con imbarazzo.

“Bene!” esclamò la scienziata. “Vedo che anche oggi sei in perfetto orario e già pronto per il lavoro! Sei proprio un bravo ragazzo, Freddie!”.

Frederik sorrise, arrossendo leggermente. Fare buona impressione e mostrarsi volenteroso e determinato era la base per diventare qualcuno, per avere la possibilità, in futuro, di fare grandi cose. Solo così, piano piano, avrebbe potuto salire la montagna, lui che non partiva solo dalla base, ma da luoghi ancora più profondi…suo padre era morto quando aveva solo tre anni, sua madre lavorava in una sartoria a stipendi miserabili, e lui non aveva altra possibilità, se non con le sue sole forze, di combattere il grigiore dell’esistenza che lo aveva segnato fino ad allora, concedendosi una possibilità per sentirsi qualcuno.

“Allora” iniziò Bulma. “Ieri abbiamo visto insieme i macchinari che usate per conservare i campioni biologici…adesso ti faccio vedere le centrifughe, vieni!”.

La seguì nella stanza attigua, da cui si accedeva dall’ultima porta del corridoio. Entrando, notò subito che lo specchio dell’altro laboratorio corrispondeva ad una vetrata trasparente sulla faccia opposta della parete divisoria.

Bulma notò la sua curiosità.

“Quella? E’ una vetrata da cui, quando lavoro qui, posso vedere se tutto è apposto nell’altra stanza, cioè il laboratorio principale…da lì, invece, sembra di avere davanti un semplice specchio!”.

Frederik sorrise tra se, pensando a come il gusto estetico di Bulma Brief arrivasse anche entro le pareti del suo luogo di lavoro.

Si sedettero davanti alla macchina in questione, della quale Bulma, con pazienza e chiarezza, iniziò a spiegargli dettagliatamente le funzioni, le modalità d’uso, le varie utilità. Mentre la donna parlava, indicandogli pulsanti e dispay, lui seguiva attentamente, rapito dalla voce della sua maestra quanto dal mondo che lo circondava: un’infinità di invenzioni con il marchio dell’azienda, uscite da una sola mente, non solo in quella stanza e nel resto dei laboratori, ma anche nelle città e nelle case di mezzo mondo…chissà cosa provava, lei, nell’aver creato qualcosa di così meraviglioso…

Dal corridoio percepì un’avvicinarsi di passi, questa volta lunghi e pesanti, accompagnati da un pianto infantile che non accennava ad acquietarsi. Bulma si girò istantaneamente verso la porta, sospirando poi arrendevolmente.

“Mio marito con mia figlia” spiegò. “L’avevo lasciata a lui per un po’…a quanto pare la piccola non ne vuole sapere!”.

Freddie sorrise, ricordando la buffa faccina della bimba che spesso aveva preso in braccio, non aveva nemmeno un anno, ancora, ma era già così graziosa e così simile alla madre da averlo subito conquistato. Anche il figlio maggiore, un ragazzino tredicenne con dei bizzarri capelli lavanda, era un tipetto piuttosto simpatico, che una volta gli aveva anche offerto una sfida ad un suo nuovo videogame in un momento di pausa.

Era con il padre, che proprio non riusciva a comunicare. Era noto a molti che il marito di Bulma Brief fosse un tipo alquanto strano e burbero, ma conoscerlo di persona era stato di gran lunga peggio. Ogni volta che lo incrociava, lui lo squadrava sempre con diffidenza, attraverso quegli occhi neri impenetrabili e al si sotto di quelle sopracciglia aggrottate, ai suoi saluti spesso rispondeva borbottando qualcosa di incomprensibile o evitando semplicemente di considerarlo. C’era qualcosa in lui che lo spaventava, che lo metteva in soggezione, sebbene non riuscisse a capire che cosa.

“Bulma!” lo sentì chiamare a metà corridoio, con quella sua voce grave e profonda che quasi mai aveva sentito.

“Ti dispiace se mi assento un attimo?” gli chiese Bulma leggermente mortificata. “Credo che Bra abbia fame…”.

“Oh, no…figurati!” rispose Frederik, rassicurante. “Intanto, prenderò appunti sulla lezione”.

Bulma approvò soddisfatta, per poi uscire dalla stanza richiudendosi la porta alle spalle, in modo da concedergli maggiore concentrazione.

Mentre si accingeva a scrivere sul suo taccuino, sollevò leggermente la testa verso la vetrata a muro, da cui notò che Bulma, seguita dal marito che in quella situazione sembrava alquanto impacciato, si era seduta nel laboratorio principale con in braccio la piccola. Preso il biberon dalle mani del marito, da quello che Freddie poteva capire tentava con poco successo di mostrare all’uomo come sfamare la figlia senza perdere la pazienza.

Il ragazzo sorrise, divertito.

Quando rialzò di nuovo lo sguardo, Bulma, lasciando la figlia nelle braccia del padre, aveva risposto frettolosamente ad un citofono sulla parete del laboratorio. La vide dire qualcosa all’uomo, per poi uscire e tornare da lui.

“Mi ha chiamato la portineria, Freddie” si scusò la donna. “Devo salire un attimo”.

“Nessun problema” approvò il giovane, immerso diligentemente nei suoi appunti.

Era di nuovo solo. Solo, con quell’uomo nella stanza vicina. Fortunatamente, lui non doveva sapere della sua presenza. Altrimenti, non era da lui venire a rendersi ridicolo come padre quando nelle vicinanze c’erano ospiti. Di solito, sarebbe stato il più lontano possibile. Meglio così. Non era obbligato a salutarlo e a sentirlo rispondere con un grugnito annoiato, o fissarlo come se fosse il più sconosciuto degli estranei.

Si concesse invece un giro del piccolo laboratorio. Esattamente come negli altri, c’era un largo bancone bianco da lavoro, degli sgabelli di legno, attrezzi ingegneristici di varia natura e alcune delle invenzioni in fase di terminazione, di cui probabilmente Bulma doveva testare il funzionamento prima di inserire nel mercato. Tra le cose di cui riuscì a capire l’utilità, c’era uno strano apparecchio per leggere l’intensità di flussi elettromagnetici, dotato di una specie di ago a bussola e di un display numerico, un buffo triciclo motorizzabile per bambini, con cui probabilmente faceva divertire la figlia, e un micro computer tascabile dotato di navigazione in internet, satellitare e di linea telefonica. Quella donna era un pozzo di risorse…

Si girò di nuovo verso la vetrata. La bimba ora aveva smesso di piangere, prendendo a giocare con gusto con un buffo sonaglio rotondo. Quando però questo le scappò di mano rotolando tragicamente sotto uno dei grossi refrigeratori del laboratorio, la piccola scoppiò di nuovo in lacrime, seduta sul pavimento della stanza come un fagottino smarrito.

Il marito di Bulma si avvicinò al macchinario. Tenendo con la mano sinistra il biberon, con la destra sollevò il frigorifero.

Frederik sobbalzò, mentre il blocco degli appunti, la penna e una serie di fogli volanti cadde sparpagliandosi sul pavimento.

L’uomo tenne alzato il macchinario con naturalezza, fin quando la bambina non ebbe recuperato il sonaglio con il sorriso sulle labbra e potè rimetterlo a terra.

Il ragazzo scosse con decisione la testa, correndo più vicino alla vetrata e stropicciandosi gli occhi con violenza, convinto che ciò che aveva appena visto fosse solo un’allucinazione. Quell’uomo era senz’altro molto forte e muscoloso, ma nessun uomo era capace di sollevare una decina di quintali di ferro e alluminio con una sola mano! Non era semplicemente possibile…

Che avesse preso qualche integratore dietetico? Qualche anabolizzante? No…in commercio non esistevano di così potenti…a meno che…non fosse un’invenzione di Bulma…

Rimase con il naso a pochi centimetri dal vetro, senza più pensare a quanto si trovava vicino a quell’uomo e a quanto rischiava di essere visto, perché in quel momento tutto ciò che gli interessava era quello che stava succedendo, qualcosa di impossibile e straordinario…

Ma tutto quello non era niente in confronto a ciò che vide dopo alcuni secondi.

La bambina, annoiata dal giocattolo, aveva ricominciato a piangere. Il padre, al limite della pazienza, aveva tentato invano di farla calmare. Posandola infine a terra, le si era messo davanti, aveva ispirato profondamente e qualcosa di una potenza e una lucentezza straordinaria era uscito dal suo corpo, qualcosa che in un primo momento aveva abbagliato Frederik, costringendolo a coprirsi gli occhi. Quando finalmente si abituò alla luce, vide il suo corpo come ardere in un fuoco dorato, che però non lo bruciava, anzi, lui sorrideva con fierezza, e i suoi capelli…diventati improvvisamente biondi, mentre la bambina lo guardava divertita, battendo le piccole mani.

Come poteva essere…quale spiegazione per tale fenomeno?

Sul bancone davanti a lui, dove aveva appoggiato le mani per tenersi in piedi, c’era il rivelatore di energia elettromagnetica. Avrebbe potuto accenderlo. Aveva paura di farlo, di premere l’interruttore. Ma doveva farlo…

Lo fece, con le mani che gli tremavano, impacciate nel tenere lo strumento dritto verso l’uomo. Il display segnò “error” dopo aver raggiunto il massimo valore che poteva comprendere. No…impossibile…quell’uomo stava sprigionando un’energia inconcepibile…niente del genere era mai stato descritto in natura…

Il suo cuore gli martellava in petto così velocemente che temette di lasciar cadere lo strumento.

Dopo alcuni secondi che a Frederik parvero un’eternità, i capelli dell’uomo tornarono magicamente neri e tutto il bagliore intorno al suo corpo sparì così com’era cominciato. Adesso, il segnale del rivelatore tornava progressivamente a zero. Non si accorse subito, però, che spostando il puntatore verso la bimba seduta sul pavimento, la numerazione tornava ancora a salire, non fino al limite come nel caso di lui, ma verso valori incomprensibilmente elevati…

Era come se la bimba avesse risposto con una piccola emanazione di energia a quella potentissima del padre…

Follia. Pura follia.

Eppure aveva avuto tutto davanti agli occhi, e i suoi occhi non potevano mentire alla sua mente…

Deglutì faticosamente, cercando di calmare il respiro affannato che gli cresceva in gola.

Ciò a cui aveva assistito aveva del magico, del sovrannaturale, ma evidentemente quell’uomo possedeva qualcosa che glielo permettesse come se fosse la cosa più naturale del mondo. E se anche la bambina possedeva, sebbene in misura minima, quella dote, doveva certamente essere qualcosa di ereditabile…

Il suo cuore non accennava a dargli trema, ma adesso pulsava più per l’eccitazione che per la paura. Era di fronte ad un miracolo, ad una meraviglia della natura, che però doveva avere una spiegazione…

Cercando di non fare rumore, si avvicinò cautamente alla porta chiusa, aprendola lentamente. Nessuno nel corridoio. Era estremamente rischioso, ma lui doveva sapere

La porta del laboratorio principale era solo accostata. Non ebbe il coraggio di guardare all’interno, gli occhi di quell’uomo sembravano scrutare costantemente in ogni direzione, in ogni angolo, come se scavassero anche nel profondo dell’anima. Si limitò a fermarsi contro la porta, sperando di non tradirsi, o per lui sarebbero stati guai seri.

“Hai visto? Quello era il super sajan, il guerriero dorato più forte”.

Nel sentire la voce dell’uomo, Frederik sobbalzò, temendo che quelle parole fossero rivolte nei suoi confronti. Poi capì che stava parlando con la bambina. Ma che significava?

Super sajan...sajan...

E’ così che chiamava quella cosa? E’ così che chiamava…se stesso?

“E ricordati sempre, piccoletta, che tuo padre non solo è un sajan, ma è il principe dei sajan!”.

Principe…ma cosa…

La bimba risacchiò gioiosamente, come se, nonostante la tenera età, capisse perfettamente le parole del padre.

“I Son sono sajan di terza classe” continuò. ”Prima o poi lo capirà Goku!”

Goku...Son Goku...

Ma sì, adesso ricordava dove aveva sentito quel nome. Non che fosse un grande appassionato del campo, ma doveva essere stato un mitico vincitore di qualche torneo di arti marziali, in passato.

Un sajan anche lui? Ma cosa erano, esattamente, i sajan?

Un rumore di passi nella stanza. L’uomo si stava spostando, forse veniva verso la porta, verso di lui…

Scattò come una preda attaccata da un cacciatore, precipitandosi su per il corridoio, verso l’uscita, lontano da lì, accelerò il passo inciampando verso i mobili accostati ai lati, corse finchè sbattè contro qualcosa che lo fece tirar fuori un’esclamazione terrorizzata.

“Freddie…”.

Davanti a lui c’era Bulma Brief, contro la quale si era scontrato nella sua istintiva fuga. La donna lo guardava con un’espressione confusa e apprensiva. Solo allora si rese conto che i suoi occhi dovevano sembrare quelli di chi aveva appena visto un fantasma, che i suoi capelli erano in parte appiccicati alla fronte per via del sudore che aveva cominciato ad imperlargli il viso, e che ansimava come un criminale in fuga.

“Tutto bene?” gli chiese la donna, preoccupata.

Frederik fece per risponderle, ma le parole gli si impastarono in bocca, facendolo boccheggiare invano come un pesce.

La donna le posò gentilmente una mano sulla spalla. Il suo tocco era morbido, delicato, la sua mano così piccola. Chissà però se anche lei…

“Che ne dici di fare una pausa?” propose Bulma. “Posso prepararti una tazza di thè”.

Il ragazzo, ancora incapace di parlare, annuì, accennando un sorriso forzato.

 

Continuava a fissare distrattamente il liquido ambrato all’interno della sua tazza, che girava e rigirava senza sosta tra le mani. Il fluido ruotava contro le pareti, sempre più veloce, creando un vortice verso il quale si sentiva tirar giù inesorabilmente.

“Sai, questo è uno dei miglior infusi di thè che c’è in circolazione” gli spiegava Bulma mentre trafficava allegramente nella spaziosa cucina, disponendo sul tavolo deliziosi vassoietti di pasticcini. “Ho anche delle tisane rilassanti, sono un vero toccasana quando devi lavorare tutto il giorno, e…”.

La donna parlava, parlava, ma Frederik non l’ascoltava, la sua mente, d’altronde, era rivolta a ben altri pensieri, che lo tormentavano e l’eccitavano al tempo stesso. Adesso, finalmente, poteva pensare con maggiore lucidità a ciò che aveva visto e udito. Poco prima, nei laboratori, la sorpresa e lo choc erano stati troppo intensi per permettergli di riflettere. Ora, però, ripreso contatto con la realtà, era il momento di pensare, capire e…prendere delle decisioni.

Era stato testimone di un fenomeno inimmaginabile, dal potenziale immenso. No, parlarne con la polizia, con i giornalisti o con gli scienziati sarebbe stato un tremendo errore, una mossa sbagliata…certo, gli avrebbe fatto guadagnare quanto neanche avrebbe potuto mai sperare in una vita, garantendo a lui e a sua madre un futuro più agevole, ma non era solo la ricchezza che gli interessava…il suo sogno non era questo…

Ciò a cui aveva assistito apparteneva solo a lui. L’aveva visto lui, l’aveva capito lui, lui ne era il solo beneficiario, e solo così avrebbe potuto sfruttare al meglio questa occasione per conoscere fino in fondo il suo significato…

“Vuoi una fetta di torta?” gli offrì gentilmente Bulma, riportandolo alla realtà.

“Oh, no, grazie…” balbettò, ancora non completamente a suo agio. Ciò che era successo avrebbe cambiato per sempre la sua visione di quella donna, di quella casa, di quella famiglia. “Io…avrei bisogno del bagno” mentì.

“In fondo al corridoio a destra, Freddie” indicò Bulma, accompagnandolo fuori dalla stanza.

Il ragazzo avanzò, indeciso, fino ad arrivare alla porta della stanza, entrarvi e richiuderla frettolosamente a chiave.

Appoggiò le spalle al legno della porta, sospirando. Ma non era il momento di esitare, quello, doveva agire, ora o mai più. I Brief non avrebbero capito…non si rendevano conto di ciò che poteva voler dire il loro potere per il mondo della scienza, come di colpo avrebbe potuto rivoluzionare tutte le certezze scientifiche attuali, abbattuto tutti i dogmi della mente umana, come avrebbe potuto aprire nuove strade verso nuovi orizzonti, verso nuovi valichi, e su, più su, fino alla cima della montagna, fino ad innalzare l’uomo a divinità…

No, non avrebbero capito…nessuno forse poteva capire quanto lui

Aprì nervosamente cassetti e sportelli della stanza, finchè finalmente trovò ciò che cercava. Un piccolo pettine. Tra i denti erano rimasti alcuni capelli. Puntò il pettine verso la luce. Capelli color lavanda, di media lunghezza. Appartenevano certamente al figlio maggiore.

Sorridendo con soddisfazione, ma con una punta di tensione, inserì un paio di capelli all’interno di un piccolo astuccio trasparente che estrasse dalla tasca dei jeans, nascondendolo poi accuratamente. Per tutta l’operazione, continuò a dare occhiate terrorizzate verso la porta. Anche se era chiusa a chiave, temeva da un momento all’altro che il marito di Bulma la sfondasse facendo irruzione. Quell’uomo sarebbe stato per molto tempo motivo di incubi notturni, ma allo stesso tempo il simbolo di una nuova consapevolezza.

Si guardò allo specchio, sistemandosi i capelli e sciacquandosi il viso, cercando di riprendere controllo di se. Infine, uscì dalla porta, tornando in cucina.

Bulma stava riponendo le tazze nel lavabo, accingendosi a sciacquarle.

“Bulma…io…dovrei andare”.

La donna si girò verso di lui, sorpresa.

“Mi sono appena ricordato che…devo accompagnare mia madre dal medico. E’ molto importante” cercò di dire, con la massima naturalezza possibile.

Bulma sorrise, comprensiva.

“Certo, capisco benissimo, Freddie. Và pure, ci vediamo domani”.

Ma il giorno dopo Frederik non tornò affatto. E neanche quello successivo. Quel giorno sarebbe stato l’ultimo, l’aveva saputo nel momento stesso in cui aveva visto ciò che avrebbe cambiato per sempre la sua vita. Non in modo apparente, però. La sua esistenza sarebbe trascorsa in modo assolutamente normale, portando avanti ciò che già aveva cominciato, senza escludere impegno, sacrificio, giornate di duro lavoro. Ma in cuor suo si rasserenava, perché era a conoscenza di qualcosa di straordinario, da mantenere segreto e al sicuro, ma che di certo sarebbe stato il suo tesoro più grande.

   

 

            Continua

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1

Capitolo 1

 

 

La sveglia risuonò martellante nelle orecchie di Trunks, che allungò una mano in direzione del comodino afferrando il noiosissimo oggetto. Stropicciandosi gli occhi per adattarsi alla candida luce che filtrava dalla finestra, con espressione assonnata guardò le cifre luminose sul display.

Le sette e trenta. Era già ora.

Sbuffò leggermente, facendo ricadere stancamente la testa sul morbido cuscino alle sue spalle, prima di decidersi finalmente ad alzarsi.

Mentre riponeva la sveglia sporgendosi dal letto, un braccio sottile gli circondò delicatamente la vita, mentre una testa corvina nascosta in parte dalle lenzuola affondava a lato del suo petto, stringendosi maggiormente a lui.

“Ancora un attimo” mugolò assonnata, con la voce attutita dal contatto delle sue labbra con la stoffa della canotta di lui.

Trunks le accarezzò dolcemente la nuca, scostò i lunghi e lisci capelli neri dal suo volto e depose poi un piccolo bacio sulla fronte corrucciata.

“Mi piacerebbe…ma sai che non posso far tardi a lavoro in questi giorni”.

La ragazza si stirò arresa, abbandonando i vani tentativi di trattenerlo ancora un po’ al caldo del loro spazioso letto matrimoniale, al riparo dal gelo di Gennaio. Si appoggiò alla spalliera, i grandi occhi neri rivolti verso il soffitto, i capelli leggermente ma simpaticamente arruffati e la casacca sformata del pigiama che le pendeva da un lato, lasciandole scoperta una spalla.

“Lo so…il signor Presidente ha sempre da lavorare…” osservò solennemente.

Trunks sorrise.

Era già un po’ che la sua giovane mogliettina si lamentava dei suoi stressanti ritmi di lavoro, che comprendevano intere giornate passate in ufficio, tra scartoffie e riunioni, per poi tornare a casa talmente tardi che, distrutto e sfinito, aveva appena la forza di concedere alla sua Pan il bacio della buonanotte.

“Cerca di capire, tesoro…anche tu hai la palestra, sai cosa significa occuparsi di qualcosa”.

“Io non passo tutto il giorno a Satan City” obiettò lei, riferendosi alla locazione della palestra di arti marziali che suo nonno Satan le aveva affidato dieci anni prima. “Ho i miei collaboratori, pensano loro a tutto quando io non ci sono!”.

“Purtroppo dirigere la Capsule Corporation non è esattamente così” replicò lui. “Ho delle enormi responsabilità, e c’è tanto di quel lavoro…specie ora che…”.

“Lo so, il famoso contratto” lo anticipò Pan sospirando e incrociando le braccia al petto.

“Devi avere pazienza, Pan…è un periodo molto importante per la società, questo accordo ci frutterà enormemente”.

Con la luce negli occhi, pensò a come l’accordo con la famosa azienda di moda avrebbe portato la Capsule Corporation a livelli mai raggiunti. Sua madre, scomparsa otto anni prima, ne sarebbe stata orgogliosa. Dopo la sua morte si era ritrovato da solo a gestire un’impero, senza i preziosi e amatissimi consigli di chi aveva già un’elevata esperienza nel campo, e lui non poteva far altro che dedicarvi anima e corpo, occuparsene con impegno e serietà, senza più distrazioni che avrebbero potuto essere fatali.

Sembravano lontani i tempi in cui era solito fuggire dalla finestra del suo alto ufficio, libero di volare nel cielo, senza più obblighi, senza più responsabilità. Solo a ripensarci lo trovava un comportamento assurdo e superficiale.

“Vorrei solo che passassi più tempo a casa” mormorò Pan, abbassando lo sguardo.

“Oh, ne avremo di tempo, vedrai…un sacco di tempo” le assicurò lui, avvicinandosi a lei nel tentativo di baciarla. Lei si girò dall’altra parte fingendosi imbronciata, ma non ci mise molto a cedere alle calde labbra del marito, che dalla sua guancia si spostarono alla sua bocca, invitandola a rispondere al bacio.

Qualcosa solleticò i piedi della coppia, e spostando lo sguardo verso il fondo del letto notarono un rigonfiamento che, facendosi strada da sotto le coperte, si muoveva verso di loro. Finalmente una testolina lavanda fece capolino dalle lenzuola, osservandoli birichina da due grossi occhioni neri.

“Sveglia dormiglioni!” esclamò la bimba, sorridendo.

Trunks le scompigliò affettuosamente i capelli distribuiti in buffi ciocche ribelli del suo stesso colore, facendola poi sedere sulle sue gambe.

“La nostra piccola Fackel è più efficiente di una sveglia, non è vero Pan?”.

La bimba rise compiaciuta, svegliare i suoi genitori la mattina era soprattutto un’occasione per passare qualche minuto nel lettone, dove amava perdersi al calduccio delle morbide coperte e tra le amorevoli braccia di mamma e papà.

“Hai svegliato tuo fratello?” le chiese Pan, immaginando già la risposta.

“Ho saltato sul suo letto fin quando non ha dovuto svegliarsi per forza!” rispose la piccola, divertita, mentre Pan rideva tra se immaginando suo figlio maggiore rivolgere un’occhiataccia alla sorella e saltare in piedi esasperato, borbottandole qualcosa contro.

Fackel balzò giù dal letto, perfettamente lucida e sveglia nonostante l’ora.

“Tutti a colazione!” gridò saltellando.

 

Lux si abbottonò il colletto della piccola camicia, che accomodò poi con attenzione fuori dal caldo maglioncino di lana. I vetri della finestra erano ancora appannati per il gelo della notte appena passata, che ora lasciava il posto ad un cielo bianco e privo di sfumature che aveva caratterizzato in modo costante le giornate dell’ultimo mese.

Sul davanzale si posò una coppia di passerotti infreddoliti, che invano cercavano di beccare qualcosa che non fosse l’ennesimo granello di ghiaccio. Lux aprì la dispensa, trovò degli avanzi di pane e, aprendo cautamente i vetri della finestra per non spaventarli, li sbriciolò davanti agli uccellini. Dopo qualche secondo di esitazione, spostando gli occhi tra loro e verso il ragazzino, iniziarono a beccare con gusto, cinguettando poi allegramente come per volerlo ringraziare.

Lux sorrise. Sfamare quelle povere creature lo faceva sentire più utile e più importante per il mondo di quando potesse qualunque altra cosa. Difficilmente si sentiva indispensabile per gli altri, degno di troppe attenzioni.

Quasi a volerglielo ricordare, suo padre entrò in cucina con in braccio quella rottura di sua sorella, il genietto di casa, la bambina perfetta, la figlia preferita. Nel sentire la presenza di altre persone nella stanza, i passerotti spiccarono il volo impauriti, verso il cielo candido e freddo.

“Allora, piccolina, cosa hai fatto ieri di bello da raccontare a papà?” chiese suo padre a Fackel, accomodandosi a tavola in attesa della colazione.

La bambina si sedette con le ginocchia nella sedia al suo fianco, sporgendosi sulla tavola per mostrargli un voluminoso libro, quasi più grande di lei.

“Ho finito tutti gli esercizi del capitolo, oggi inizio quello nuovo!” annunciò indicando le pagine con il ditino.

“Equazioni di primo grado?!” esclamò Trunks incredulo. “Questo è il mio vecchio libro del liceo!”.

“L’ho trovato in soffitta” rivelò la bimba portando in su il nasino in segno di orgoglio. “E’ divertente!”.

Pan, che trafficava nell’angolo cottura, intenta a cuocere delle uova, scosse la testa sconcertata.

“Non ti sembra, Trunks, che sia troppo strano per una bambina di quattro anni occuparsi già di queste cose?”.

“E’ strano, sì…ma anche incredibilmente fantastico!” esclamò lui accarezzando soddisfatto la testolina della figlia.

Lux si voltò con indifferenza dall’altra parte, lo sguardo di nuovo fuori della finestra.

Bambina prodigio. Così chiamavano sua sorella. Sapeva parlare già prima di compiere un anno, aveva cominciato a leggere e a scrivere a due e negli ultimi dieci mesi aveva imparato più nozioni di matematica di quante può assimilarle qualcuno durante tutta la sua carriera scolastica. Suo padre andava pazzo per la straordinaria intelligenza di sua sorella. Quando era a casa, le sue attenzioni cadevano principalmente su di lei. Tanto che, come molte altre mattine, sembrava non essersi nemmeno accorto della sua presenza nella stanza, non degnandolo nemmeno di uno sguardo.

“Lux”.

Il caldo sussurro di sua madre lo aveva raggiunto da dietro la schiena, invitandolo a raggiungerla nell’angolo cottura.

La donna si abbassò verso di lui, accarezzandogli affettuosamente le guance, sistemandogli il caschetto di capelli neri e costringendo i suoi tristi occhi azzurri a guardarla.

“Buongiorno, tesoro” gli disse piano, mentre dall’altro lato della stanza le voci di suo padre e sua sorella risuonavano alte, impegnate in una accesa discussione sulla matematica finanziaria, a cui la bambina sembrava decisa ad interessarsi in un prossimo futuro.

Lux accennò un debole sorriso alla madre, riabbassando poi gli occhi velocemente.

“Tieni, porta questo a papà” gli disse lei, porgendogli delicatamente un vassoio con le uova, il caffè e un bicchiere di succo all’arancia.

Lux sapeva perché sua madre lo faceva. Lui non l’avrebbe mai ammesso, ma probabilmente lei doveva sapere che l’indifferenza che spesso gli rivolgeva suo padre, distratto dalle straordinarie capacità di sua sorella, lo riempiva di insicurezza.

Dopo qualche attimo di esitazione, afferrò indeciso il vassoio, sollevandolo all’altezza del volto con le giovani manine, iniziando ad avanzare, passo dopo passo, cercando di mantenere il tutto in equilibrio, verso la tavola apparecchiata.

“Cosa leggi, papà?” chiedeva Fackel, curiosando verso il fascicolo di carte di fronte a suo padre.

“E’ il contratto firmato da un’importante società di moda, tesoro, che sarà nostra cliente per i prodotti messi a punto da zia Bra”.

Lux avanzava cauto, con calma, sperando di fare la figura del cameriere provetto.

“Che bello, nei grandi magazzini venderanno i vestiti della Capsule!” gioì la bambina, battendo le manine.

C’era quasi…stava per posare il vassoio…ma qualcosa lo fece inciampare…una pila di volumi di matematica ai piedi del tavolo…

Il ragazzino piombò in avanti, scaraventando il vassoio e tutto il suo contenuto di fronte a lui, sulla tavola, in un fragore generale.

Quando si rialzò in piedi, la camicia di suo padre era macchiata di caffè, mentre il succo di frutta e residui di uova erano sparsi sui documenti davanti a lui, sbiadendo l’inchiostro.

Per qualche secondo, la cucina cadde in un imbarazzante silenzio.

“Lux, accidenti che cosa hai fatto?!” lo rimproverò suo padre, con lo sguardo severo, mentre cercava inutilmente di ripulire il foglio ormai untuoso e bagnato. “C’era la firma del presidente, qui, sai quanto ci ho messo ad ottenerla??”.

Il ragazzino abbassò la testa imbarazzato, incapace di dire niente. Avrebbe voluto solo sprofondare attraverso il pavimento.

“Su, Trunks, non è successo niente” intervenne sua madre, invitando il marito a cambiarsi velocemente la camicia macchiata. “Metteremo i fogli ad asciugare, saranno di nuovo leggibili!”.

“Caspita, Pan, devo mostrarli domani sera al consiglio di amministrazione!”.

“Ce la faremo, ce la faremo” lo rassicurò lei, mentre lo spingeva verso la camera da letto, girandosi poi verso Lux e stringendogli un occhio, come per dirgli tutto a posto, va tutto bene.

Ma lui sapeva che non lo era. Non lo era affatto. Era stata solo un’altra occasione per rendersi ridicolo davanti a suo padre.

“Sei proprio un pasticcione, Lux” osservò sua sorella con tono da maestrina, ancora seduta sulla sedia del tavolo a cui faceva pure fatica ad arrivare.

“Zitta, tu” la liquidò lui, fulminandola con lo sguardo.

 

Golden si stirò braccia e gambe in un lungo sbadiglio, aprendo poi gli occhi nerissimi verso le pareti di camera sua, dove salutò con lo sguardo i numerosi poster raffiguranti i supereroi dei suoi fumetti preferiti.

Balzò giù dallo stravagante letto con il materasso ad acqua, indossò in fretta la felpa dei West Rangers, la sua squadra preferita, e sistemò senza troppa cura i ribelli capelli neri.

Mentre scendeva le scale, sentì un forte odore di bruciato che proveniva dalla cucina. Evidentemente, sua madre stava cucinando. O meglio…ci provava.

“Ciao, mamma” la salutò, storcendo il naso per il fumo che impregnava la stanza.

La donna, con addosso una sottoveste di raso e i bei capelli azzurri raccolti in alto da una forcina, era intenta a estrarre dal forno fumante alcuni biscotti dall’aspetto annerito, cotti al punto da sembrare ormai carbonizzati.

Il ragazzino sospirò, nel pensare che sua madre, Bra Brief, laureata a pieni voti in chimica dei materiali e creatrice di un nuovo utilissimo tessuto sintetico firmato Capsule Corporation, era in realtà una pessima cuoca.

“Buongiorno, tesoro” sorrise, girandosi verso il figlio, mentre allo stesso tempo si accingeva ad afferrare la teglia incandescente con un’infinità di presine.

“Non è che hai deciso di dare fuoco alla casa, vero mamma??” la prese in giro Golden, risacchiando divertito.

“Ma no…ho solo sbagliato leggermente i tempi di cottura, ecco tutto” si giustificò lei, fingendo di aver avuto la situazione pienamente sotto controllo.

Golden scosse la testa. Sapeva che sua madre non avrebbe mai ammesso i suoi errori.

Quando la teglia con quelli che avrebbero dovuto essere biscotti gli fu messa davanti, accennò una smorfia disgustata, al pensiero che quella sarebbe dovuta essere la sua colazione.

“Ehm…non ho molta fame…mangio qualcosa più tardi, mentre vado a scuola” azzardò il ragazzino.

Bra incrociò le mani ai fianchi, guardandolo risentita.

“Beh? Mi sveglio presto la mattina per prepararti la colazione, e poi mi dici che non hai fame? Avanti, dimmi almeno se ti piacciono!”.

Golden deglutì pesantemente. Ogni mattina, per la fretta di sua madre di scappare a lavoro, era abituato ad accontentarsi di merendine confezionate, possibile che adesso avesse avuto la brillante idea di mettersi a cucinare?

Prese in mano uno dei biscotti e ne assaggiò un boccone. Sapeva di cenere.

“Allora?” lo incitò la madre, guardandolo con aspettativa.

“Ehm…buono!” mentì lui, masticando. Non aveva voglia di dirle spudoratamente che era qualcosa di immangiabile, nonostante l’assoluta franchezza fosse un pregio, a suo avviso, che lo caratterizzava. Semplicemente voleva evitare che la questione si protraesse per le lunghe, dal momento che sua madre non era il tipo da accettare la sconfitta tanto facilmente, nella vita, nel lavoro e perfino nella cottura di una mezza dozzina di biscotti.

“Bene, quindi dovrei solo farli cuocere qualche minuto in meno” constatò soddisfatta, come ogni volta che tornava dal suo laboratorio orgogliosa di un altro successo.

Golden non potè far altro che finire il biscotto, trattenendosi dal vomitare pensando che più tardi, vicino alla fermata dell’autobus, si sarebbe comprato un tramezzino gigante con cui smorzare la fame.

“Tuo padre sta dormendo?” gli chiese.

“Già. Ancora nel mondo dei sogni”.

Lo disse con una nota di rammarico. Suo padre, che almeno lui sapeva cucinare a dovere, la mattina dormiva abbondantemente per le ore piccole fatte al locale in cui lavorava, lasciando alla moglie l’arduo compito di occuparsi della colazione.

“Vado a salutarlo e a prepararmi, tra poco devo scappare a lavoro. Tu finisci i biscotti, intesi?”.

“Intesi” assicurò lui, ma appena sua madre oltrepassò la porta di cucina si alzò dal tavolo, gettò via i resti di pasta carbonizzata, afferrò lo zainetto e balzò fuori dalla finestra, felice di non dover finire quella roba.

 

Bra iniziò a salire le eleganti scale trasparenti che conducevano al piano di sopra, solo uno dei suoi numerosi sfizi in fatto di arredamento che contraddistinguevano la casa.

Mentre suo fratello e Pan avevano deciso di stabilirsi nella vecchia cupola della Capsule Corporation, lei e Goten dopo il matrimonio si erano trasferiti in una bella dimora nella periferia residenziale di West City, circondata da un curatissimo giardino dove suo marito si dedicava piacevolmente al giardinaggio, e arredata internamente in modo tale che, unita allo stile ultramoderno e tecnologico, spiccava anche una nota di eleganza e di originalità.

Entrò nella loro camera da letto, dove regnava una calda semioscurità. Tra le lenzuola scomposte giaceva l’uomo che aveva rapito il suo cuore da ormai dieci anni, la testa che affondava per metà nel cuscino circondato da un braccio, il torso nudo, i capelli sconvolti e il lato visibile del volto punteggiato da un impercettibile strato di barba non ancora fatta lo rendevano estremamente sexy, molto più desiderabile di quella specie di manichini che era abituata a vedere nel suo luogo di lavoro.

Si sedette silenziosamente sul letto, guardandolo dormire, ma evidentemente l’uomo si era accorto della sua presenza, dal momento che, ancora ad occhi chiusi, le circondò la vita con un braccio portandola delicatamente verso di lui.

“Buongiorno, Son Goten” gli sorrise, tra le sue braccia.

“Buongiorno, principessa” le sussurrò piano lui, baciandola poi con dolcezza.

Rimasero così per un po’, ad assaporare quello che era uno dei pochi momenti tutti per loro. Come tutti i giorni feriali, lei avrebbe lavorato tutto il giorno alla Capsule Corporation, tornando a casa giusto in tempo per salutare il marito che partiva per Satan City, dove si sarebbe occupato del suo pub fino a tarda ora.

“Siamo come quei due amanti della leggenda, destinati ad incontrarsi solo per una manciata di attimi al tramonto, quando il sole e la luna si incontrano nel cielo per pochi, preziosissimi istanti” aveva fantasticato una volta Goten, suscitando le risa della giovane moglie, molto più realista di lui. Lei si era limitata a baciarlo, rimproverandolo poi di essere troppo esagerato. Ora che ci ripensava, però, il suo adorato Son non aveva poi tutti i torti.

“Hai uno strano luccichio negli occhi, stamattina” notò Goten. “E’ l’effetto del contratto concluso?”.

Bra annuì. Proprio ieri avevano ottenuto la firma del presidente della Technofashion, la società di moda disposta a mettere sul mercato la nuova collezione della Capsule Corporation, realizzata con i materiali sintetici creati completamente da lei: abiti che non si bagnano, non si macchiano, non fanno pieghe e che comprendono una fibra particolare in grado di tener caldo o fresco in base alla stagione.

“In effetti mi sento piena di energia” ammise. “Pensa che stamattina mi sono messa persino a cucinare biscotti!”.

“Oh, allora deve trattarsi proprio di un miracolo!” rise Goten, mentre Bra lo rimproverava con qualche innocente pugno sul braccio, sentendosi presa di nuovo in giro per la sua avversione verso i fornelli. Ma lo amava a tal punto da passarci sopra.

“Sai Bra…sei ancora più bella del solito stamattina, se può essere possibile”.

“Il solito spiritoso” lo derise lei scuotendo la testa. “Figuriamoci…così, appena alzata e senza trucco…”.

Così sei più bella che mai…semplicemente stupenda” le sussurrò all’orecchio, facendole desiderare di tornare sotto le coperte con lui, dimenticando il resto del mondo, come quel sajan dallo sguardo gioviale ma estremamente irresistibile le aveva insegnato a fare da molti anni, salvandola dalla voragine in cui stava cadendo quel giorno ormai lontano in cui, ancora ragazzina inerme e immatura, suo padre l’aveva lasciata per sempre.

 

La limousine nera della Capsule Corporation prese quota nel cielo terso, evitando il traffico soffocante dell’ora di punta e le noiosissime attese ai semafori. Trunks sedeva nel sedile dietro all’autista, di fronte ad una vivacissima Fackel che canterellava tra se una filastrocca di tabelline e ad un Lux dallo sguardo malinconicamente perso nel vuoto. Si chiese se la tristezza di suo figlio fosse un’altra comunissima manifestazione del suo carattere o fosse accentuata dal piccolo incidente di poco prima.

Forse aveva esagerato a reagire così male. Non avrebbe dovuto incolparlo così severamente, in fondo, poteva capitare a tutti.

Seduto sul sedile di fondo, il ragazzino fissava distrattamente i suoi piedi, ben attento a non incontrare il suo sguardo. Trunks sospirò.

Conosceva quella situazione. Durante la sua infanzia aveva avuto spesso dei timori nei confronti di suo padre, convinto di non essere all’altezza del leggendario principe di sajan, convinto che questo non sarebbe mai stato orgoglioso di lui. Si sbagliava. Ma prima di capirlo aveva fatto di tutto per ottenere le sue attenzioni, per rendersi grande davanti ai suoi occhi. Per quanto si sforzasse, suo padre raramente gli avrebbe offerto esplicite manifestazioni di affetto.

Adesso però non voleva che la storia si ripetesse. Lui non era come suo padre, e avrebbe fatto di tutto per infrangere quella barriera immaginaria che lo separava da suo figlio.

Parlando con Pan della situazione, aveva realizzato che la freddezza con cui Lux si rapportava a lui nasceva da un’ insicurezza insita nel suo carattere, ma che si amplificava per la sua erronea convinzione di essere inutile, d’intralcio, assolutamente non all’altezza di competere con la sorella per l’amore dei genitori. Molto probabilmente, tutto ciò di cui aveva bisogno era qualche attenzione in più, qualche occasione da protagonista in famiglia, anche se essere completamente al centro dell’attenzione finiva sempre per terrorizzarlo.

Forse era lui che sbagliava. Forse non ci riusciva come avrebbe dovuto fare un buon padre. Con Fackel era estremamente più facile, era lei che lo cercava sempre…ma non Lux. Lui non avrebbe mai fatto il primo passo, rinchiuso com’era nel suo guscio, si limitava semplicemente ad aspettare passivamente…e Trunks, purtroppo, non era certo un tipo che sapeva prendere l’iniziativa.

Scusa, Lux. Scusa per prima, figliolo, mi sono comportato da idiota in cravatta.

Aveva già formulato le parole nella sua mente, sperando di farlo sorridere, lo faceva così raramente del resto, ma la limousine atterrò velocemente davanti alla scuola elementare di West City, dove Lux scese silenziosamente dalla macchina senza una parola, senza un saluto.

Lo guardò incamminarsi a testa bassa verso la scalinata della scuola, prima di dare all’autista il segnale di ripartire.

 

Golden gustò con piacere l’ultimo boccone del mega-sandwich che si era comprato, per poi incamminarsi svogliatamente verso il portone della scuola. Aveva già in previsione di schiacciare un bel pisolino durante la noiosissima lezione di matematica. Del resto, anche la sera prima aveva fatto tardi, nonostante i suoi genitori non avessero idea a che ore rientrasse normalmente a casa il loro figlio di otto anni.

Girandosi indietro sentendo il caratteristico motore della limousine presidenziale, vide uscire suo cugino, Lux Brief, di un anno più piccolo, come al solito con la luna di traverso. Anzi, forse più di traverso del solito. Chissà, forse la sera prima non gli avevano dato il bacio della buonanotte, o forse sua sorella gli aveva fatto la linguaccia. In ogni caso, come sempre lo trovava estremamente patetico.

 

Continua…

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2

Capitolo 2

 

Quando suonò la campanella della ricreazione, tutti i bambini balzarono giù dalle loro piccole sedie, lasciando i banchi in completo disordine nonostante i richiami della maestra, per correre fuori dall’aula verso lo spazioso cortile esterno.

Lux ripose ordinatamente penne e matite nell’astuccio, sistemò quaderno e libro sotto il banco ed estrasse dallo zainetto la colazione. Non aveva fretta di uscire fuori con gli altri. Anzi, sarebbe rimasto volentieri lì, in aula, se non fosse stato per l’estremo imbarazzo di dover rimanere solo con la maestra, che di sicuro le avrebbe chiesto spiegazioni sulla sua strana asocialità.

Fuori, i bambini di tutta la scuola giocavano allegramente tra loro, nell’aria risuonavano le loro risate vivaci e cristalline, mentre si passavano la palla, si rincorrevano o si divertivano con lo scivolo. Come ogni giorno, Lux si sarebbe limitato a guardarli, ricordando a se stesso che lui non sarebbe mai stato come loro, lui era diverso, si sentiva tale e probabilmente l’avevano capito anche loro. Per questo non l’avrebbero mai accettato, ed era inevitabilmente destinato a rimanere solo.

Golden, suo cugino, che come unica cosa con lui condivideva il sangue, giocava tranquillamente ad un videogame portatile in un angolo del cortile. Ma Golden non era come lui. Golden era ammirato dalla maggior parte degli alunni della scuola elementare, sapeva sempre cosa fare o dire, se la cavava in ogni situazione e aveva un qualcosa di magnetico che attraeva tutti quanti, bambini e bambine.

“Ciao, Golden” gli facevano tutti quando passavano vicino a lui. Oppure: “Come va, Golden?”. “Cosa c’è di nuovo, Golden?”.

Eppure, nonostante potesse avere tutta la scuola ai suoi piedi, spesso lui tendeva a rifiutare la compagnia, ad allontanarsi dagli altri, quando più gli pareva. Era conosciuto da tutti ma pochi erano in grado di stringere una vera amicizia con lui.

“Io? Con quei mocciosetti noiosi? Scherzi!”.

Gli aveva risposto un giorno, quando Lux si era finalmente fatto coraggio e aveva chiesto al cugino perché mai preferisse tenere gli altri a distanza, lui che era sempre così ricercato ed invidiato.

Probabilmente anche lui era consapevole della propria diversità. Ma per Golden non era un peso, un elemento di insicurezza, al contrario lo faceva sentire superiore, dotato di qualcosa che gli altri neppure immaginavano, e che per questo li reputava indegni di prendersi troppe confidenze con lui. O almeno, questo era quello che voleva far sembrare.

Un gattino infreddolito attraversò le sbarre che separavano il cortile dalla strada adiacente, drizzando poi il pelo impaurito realizzando di essere finito in un luogo pieno di bambini scalmanati. Lux gli si avvicinò piano, abbassandosi per accarezzargli il pelo umido, e la bestiolina miagolò debolmente, con i grandi occhioni verdi scintillanti per il bisogno di tenerezza. Il ragazzino gli allungò metà della sua colazione, che il cucciolo accettò senza complimenti, leccandosi poi i baffi compiaciuto e iniziando a sfregarsi alle sue gambe con tanto di fusa.

Lux sorrise, accarezzandolo di nuovo.

Da dietro di lui si avvicinarono i passi di tre persone. Gli sentiva addosso, opprimenti, che lo osservavano cattivi. Lux sapeva già di chi si trattava.

“Ma guarda guarda” iniziò il più grande dei ragazzini, Jad, che frequentava per la terza volta consecutiva l’ultima classe delle elementari, divenuto così il bulletto della scuola. “Lux Brief intento a fare conversazione con uno dei suoi amici animali! Che carino, non trovate??”.

Lux nemmeno si girò, mostrandosi indifferente alle sue provocazioni.

“Lo credo, Jad, con chi vuoi che parli se non coi gatti?” fece eco un altro.

Una risata generale, non solo tra i tre bulletti, ma anche tra alcuni degli altri bambini che assistevano all’ennesima delle sue umiliazioni.

Il gattino fece per scappare, terrorizzato, ma Lux lo tranquillizzò stringendolo a se, accarezzandolo con affetto.

“Su, Brief, facci vedere un’altra delle tue performance” continuò il terzo, sogghignando.

Sapeva dove volevano arrivare. Qualche giorno prima Lux aveva reagito male alle beffe di quei tre rompiscatole, aveva perso il controllo e aveva spintonato a terra Jad con una forza inaudita, tanto da riuscire a farsi chiamare mostro e da suscitare la curiosità dei suoi compagni, che ritenevano inconcepibile ma estremamente interessante il fatto che uno come Lux, così apparentemente debole e indifeso, fosse capace di sprigionare tanta potenza in un momento di rabbia.

Non avrebbe commesso di nuovo il solito errore. Lo aveva promesso alla mamma. Gli aveva raccomandato di non mostrare mai il suo potere in pubblico, perché la sua dote era qualcosa di tanto prezioso quanto pericoloso, che andava usato solo per il bene dell’umanità ma all’insaputa di essa. Era un segreto da mantenere, per il bene di tutti.

“Voglio che mi guardi negli occhi, quando ti parlo!” esclamò Jad costringendolo a girarsi verso di lui.

Lux spostò però lo sguardo altrove, stringendo al petto il micio impaurito. Se avesse incontrato i suoi occhi, di sicuro non avrebbe trattenuto la voglia di colpirlo di nuovo.

“Allora, sei sordo?” continuò, dandogli una leggera spinta.

Lux non reagì. Era ancora immobile a fissare i suoi piedi.

“Lux è un codardo, un codardo!” canterellarono gli altri due. “Se la fa già addosso dalla paura! Un pannolino, svelti!”.

Di nuovo una pubblica risata. Adesso tutta la scuola lo circondava curiosa e divertita.

“Non reagisci questa volta, eh?” lo sfidò Jad. “Vediamo se te ne stai zitto e buono così!”.

Piombò su di lui, gli sfilò il gattino miagolante dalle braccia e lo afferrò per la coda, facendolo penzolare verso terra, mentre la bestiola agitava invano le zampine per liberarsi da quella stretta crudele.

“No!” esclamò Lux. “Lascialo andare…”.

Il bulletto sogghignò soddisfatto.

“Sapevo che era l’unico modo per farti reagire, mostriciattolo” sibilò, avvicinandosi al piccolo stagno artificiale del cortile e penzolando il povero gattino appena sopra il filo dell’acqua.

Lux strinse forte i piccoli pugni e i denti, cercando di trattenere la rabbia. Si sentiva tremare ogni singolo muscolo del corpo, ma impegnò tutte le sue energie per rimanere calmo. Ma rigettando dentro la rabbia, non potè fare altrettanto con le lacrime, che cominciarono a scorrergli sulle guance arrossate alla vista del povero micietto che rischiava, da un momento all’altro, di cadere nell’acqua gelida ed annegare per colpa di quei piccoli delinquenti.

“Oh, guardate, si è messo a piangere…che scena commovente!”.

Jad e i suoi amici che lo sbeffeggiavano, tutti i bambini della scuola che ridacchiavano e commentavano intorno a lui…non si era mai sentito così solo e inerme, nonostante le potenzialità che aveva dentro.

Alzò gli occhi colmi di lacrime verso il cugino, ancora seduto nel suo angolo con il suo rumoroso videogame, che pareva non essersi nemmeno accorto della situazione. Jad notò la direzione del suo sguardo, realizzando immediatamente qual’era la speranza della sua vittima.

“Ehi, Golden! Forse tuo cugino vorrebbe che accorressi in suo aiuto!”.

Golden alzò a fatica gli occhi scuri dalla schermata.

“Io non aiuto le femminucce frignanti” fu la rapida e lapidaria risposta, che suscitò i risolini dei compagni.

“Vedi, Lux, sei da solo contro tutti…su, facci vedere di che sei capace!” lo incitò di nuovo Jad, lanciando lontano il gattino, che atterrò al di là del recinto e corse via zoppicante e spaventato.

“Basta!!” gridò Lux, al colmo della pazienza. Non l’avrebbero fatta franca, no, l’avrebbero pagata per come avevano trattato un gattino innocente…

Si accorse solo dagli sguardi increduli dei compagni e dalle grida terrorizzate delle bambine che i suoi capelli stavano diventando biondi e che il suo corpo cominciava incontrollabilmente a sprigionare energia, ma per fortuna, con un ultimo, intenso sforzo di volontà riuscì a tornare subito normale, continuando però a respirare affannosamente come avesse corso per chilometri.

“Avanti, bambini, la ricreazione è finita, è ora di tornare in classe!” ordinò la maestra facendo il suo ingresso nel cortile, con le mani incrociate al petto in atteggiamento insofferente.

“Signorina, signorina, Lux Brief è un mostro, un alieno!” gli rivelò terrorizzato qualcuno, aggrappandosi alla sua gonna.

“Oh, andiamo, volete smetterla di tormentare quel povero bambino, una volta per tutte?” rispose lei, scuotendo arrendevolmente la testa.

“Tu non sei normale, Brief” gli mormorò Jad, ancora scosso, prima di voltargli le spalle e tornare nella sua classe.

Lux abbassò la testa e riprese a piangere silenziosamente. Aveva fatto una stupidaggine. Ancora una volta. Sembrava non riuscire a fare altro, ultimamente.

 

Nascosto dietro il finestrino appannato del suo furgone parcheggiato al di là della strada e da un paio di occhiali scuri, del tutto fuori luogo in una giornata come quella, un uomo calvo, dalla faccia abbronzata e l’aspetto muscoloso estrasse dal bauletto portaoggetti una ricetrasmittente, che avvicinò cautamente alla bocca.

“Cortile esterno della scuola elementare. Il soggetto numero uno si è rivelato, passo”.

 

 

* * *

 

Fackel colorò svogliatamente il suo disegno. Non le piaceva disegnare. O meglio, le era piaciuto farlo fino a due anni, quando aveva scoperto cose molto più divertenti e emozionanti da fare, come l’aritmetica, l’algebra e la probabilità. Purtroppo, papà e mamma le avevano raccomandato di non mostrare a nessuno al di fuori della famiglia le sue capacità, per motivi che lei ancora stentava a comprendere. In ogni modo, all’asilo doveva limitarsi a disegnare, giocare con gli altri bambini ed esercitarsi a comporre le lettere del proprio nome, quando invece sapeva già leggere e scrivere perfettamente da molto tempo.

Alzò gli occhi dal minuscolo banco, il pennarello stretto in una manina e l’altra che tormentava annoiata una ciocca lavanda. La pallida luminosità del primo pomeriggio filtrava appena dalle finestre dell’aula, e la maestra sonnecchiava beatamente appoggiata alla cattedra, certa che i bambini a cui doveva badare, così impegnati nei loro giochi e passatempi, non si sarebbero senza dubbio mossi da lì.

Negli occhioni neri della bimba balenò un’idea interessante. Balzò giù dalla sedia, avvicinandosi eccitata verso due gemelli dalla carnagione lievemente abbronzata, che si contendevano con decisione il robot giocattolo più grande, tirando il modellino in due direzioni opposte.

“Sergenti Nebe e Zeme, a rapporto!” esclamò la bimba, fingendo senza molto successo un’autoritaria voce da uomo maturo.

I gemelli voltarono lo sguardo verso di lei, interruppero momentaneamente la contesa e si alzarono in piedi, portando una piccola mano alla fronte in modo da imitare il saluto militare.

“Il comandante Fackel propone una nuova missione!” continuò la piccola, portando le braccia ai fianchi.

“Ricevuto, comandante!” risposero all’unisono i due maschietti.

 

Seduto su una scomoda panchina presso il marciapiede, un tipo magro dai capelli neri lunghi fino alle spalle alzò gli occhi scuri dal giornale, aperto davanti a se fino a coprirlo completamente. Tre marmocchi erano usciti dall’edificio e attraversavano velocemente la strada tenendosi per mano.

L’uomo si accomodò qualcosa tra i capelli, nei pressi dell’orecchio.

“Esterno dell’asilo. Il cucciolo femmina si dirige verso la biblioteca”.

 

“Che ci facciamo qui?” chiese Zeme, poco convinto, alzando lo sguardo verso l’enorme portone che avevano di fronte.

“Voglio prendere un libro in prestito, sono stufa di disegnare!” rispose la bimba, determinata.

Con Nebe e Zeme, fortunatamente, non doveva nascondere le sue doti. Erano figli di amici di mamma e papà, lei una bella infermiera bionda e lui l’attuale campione del mondo, che in qualche modo facevano parte di quella che chiamavano la loro “famiglia”. Nati dall’unione di latte e cioccolato, i due gemelli, di un solo anno più grandi di Fackel, erano i soli veri amici con cui poteva condividere le sue emozioni, le sue capacità e…i suoi piccoli capricci.

“Non credo ci faranno entrare, siamo troppo piccoli!” fece notare Nebe, scuotendo la testa dubbioso.

Fackel si girò verso di lui, lo sguardo maliziosamente birichino.

“Siamo o non siamo in missione?”.

Aprirono il portone più silenziosamente possibile, strisciarono carponi presso il bancone del custode, in modo che non potesse vederli, e in un batter d’occhio furono nel salone circolare, dove li aspettavano centinaia di libri perfettamente ordinati e catalogati entro una decina di librerie in legno, alte quasi fino al soffitto e disposte lungo tutta la circonferenza della stanza.

“Wow…” mormorò Fackel, alzando in alto la testolina lavanda e ammirando lo spettacolo più bello che avesse mai visto.

Si alzò in volo, levitando leggera nell’aria, così da avere la possibilità di leggere anche i titoli dei volumi più alti, in modo da scegliere il suo preferito. Dopo venti minuti abbondanti, tornò giù con un libro di astronomia, che depose tra le braccia di Nebe.

“Adesso devo sceglierne uno di matematica!” annunciò soddisfatta, preparandosi a ripartire in perlustrazione.

“Ho capito, prepariamoci a passare qui il pomeriggio!” sospirò annoiato Zeme, appoggiando la schiena ad una delle librerie.

Non appena vi trasferì tutto il peso, però, la grande libreria cominciò a cadere all’indietro sotto gli occhi sconcertati dei tre bambini, colpendo fragorosamente la libreria adiacente che a sua volta cedette prendendo in pieno quella dopo e così via, fino a generare un domino circolare di ripiani e scaffali che alla fine culminò con il tonfo assordante dell’ultimo mobile rimasto in piedi.

“Ops…” riuscì a mormorare Zeme tra i denti, prima che i tre monelli, rimasti illesi al centro della sala ma circondati da macerie di legno e di libri, furono raggiunti dai custodi della biblioteca che, mettendosi le mani tra i capelli, si chiesero disperati cosa ci facessero tre bambini dell’asilo in un posto simile, ma soprattutto come avessero potuto provocare un tale disastro storico.

 

Quando telefonarono alla palestra di Satan City, nel tentativo di rintracciare la madre di Fackel Brief, Pan stava dando lezioni di arti marziali ad un gruppo di fanatici della difesa personale.

Chiamata al telefono dal suo assistente, la sajan fu invasa da un bruttissimo presentimento prima ancora di afferrare la cornetta e rispondere.

“Sì, pronto?”.

“La signora Brief?” chiese una voce femminile dall’aria severa.

“Sono io”.

“Chiamo dall’asilo di sua figlia”.

“Cos’è successo?” chiese Pan con apprensione.

“La bambina è uscita dall’edificio all’oscuro delle insegnanti recandosi nella biblioteca di fronte, dove sembra aver provocato un disastro immane”.

Pan si passò una mano sul volto. Non avrebbe voluto sentire oltre.

“Volevamo avvertirla che noi ci esentiamo da ogni responsabilità sui danni recati” continuò la donna, lapidaria.

“Capisco”.

“Un’altra cosa. Dalla scuola elementare qui vicino giungono voci riguardo a suo figlio, sembra aver seminato il panico tra i compagni durante la ricreazione. Dovrebbe badare di più ai suoi figli, signora Brief”.

Il volto di Pan si contorse in una smorfia di rabbia, mentre la mano che sorreggeva la cornetta si strinse intorno all'apparecchio talmente forte da rischiare di frantumarlo.

"Non si azzardi più a dire una cosa del genere!!" sibilò tra i denti, prima di interrompere violentemente la chiamata e sedersi sullo sgabello della scrivania. Le sue gambe perfettamente allenate sembravano cederle completamente, mentre si prendeva il volto tra le mani e sospirava sconfitta.

Dopo qualche secondo di esitazione, prese di nuovo il telefono sulle ginocchia e compose rapidamente un altro numero.

“Capsule Corporation, buon pomeriggio! Chi ci desidera?” risuonò musicale la voce della segretaria di Trunks.

“Sono Pan. Devo parlare con mio marito” si annunciò senza tanti convenevoli.

“Mi dispiace, signora Brief, il presidente in questo momento è bloccato in riunione”.

“Lo chiami, è urgente!”.

“Mi dispiace, ma…”.

“Ok, se adesso lei non lo chiama immediatamente, dovrò venire di persona ad interrompere la riunione, e non so quanto sarà meglio!” minacciò concitata.

La donna farfugliò qualcosa che sembrò essere un cedimento, prima di inserire la melodia di attesa. Non era la prima volta che la moglie del presidente si presentava in azienda nei momenti più assurdi o nel bel mezzo di vitali riunioni d'affari, ignorando qualsiasi tipo di restrizione, per cui aveva imparato, suo malgrado, a prendere ogni sua parola sul serio.

Dopo un paio di minuti abbondanti, Trunks rispose con tono lievemente scocciato.

“Pan, vuoi spiegarmi che c’è, sono in riunione!”.

“Che c’è?!” esplose lei. “C’è che potrebbe cadere il mondo e tu neanche te ne accorgi, rinchiuso lì dentro tutto il giorno e rifiutando le chiamate!”.

“Cosa è successo?”.

Pan chiuse gli occhi, sospirando nel tentativo di riprendere il controllo di se stessa. Come sempre, la sua maledetta istintività la portava prima ad agire e poi a riflettere. In fin dei conti, non aveva il diritto di prendersela così con Trunks solo perché era il presidente della più famosa società del mondo e perché i suoi figli erano sajan esattamente come loro.

“Mi hanno chiamata dall’asilo. Fackel ha distrutto la biblioteca, e Lux ha spaventato i compagni in non so quale modo”.

“Oh cielo…come è accaduto?”.

“Non lo so, ma credo che dovremo parlare ai piccoli”.

“Ok, domani parlerò ad entrambi”.

“Non domani, Trunks, adesso, prima che ci siano conseguenze!”.

“Faccio tardi stasera, tesoro…”.

“Di nuovo…?” mormorò Pan con voce spezzata, più a se stessa che al marito.

“Mi dispiace, ma non posso liberarmi, ora”.

Pan rimase qualche secondo in silenzio. Il suo volto era segnato da una pesante apprensione, ma anche da una stroncante impotenza. Non poteva niente contro ciò che la natura aveva dato loro, così come non poteva niente contro le restrizioni della società in cui si erano trovati a vivere, portandoli a dover far convivere le loro duplici identità non sempre ben sovrapponibili.

“Ok. Vado a prenderli. Ci penserò io” annunciò infine, arresa e atona.

“Pan, io…”.

Ma non lo lasciò finire. Riattaccò, alzandosi e incamminandosi rapidamente verso l'uscita della palestra.

"Qualcosa non va, Pan?" le chiese apprensivo il suo assistente, vedendola allontanarsi agitata.

"Devo assentarmi, Lenny" si limitò a rispondergli, mentre indossava il soprabito. "Puoi sostituirmi per la lezione?".

"Certo, figurati" annuì prontamente il giovane, accennando un breve inchino.

La donna uscì dall'edificio, a passo svelto. Fermandosi improvvisamente, si rese conto di aver lasciato dentro le chiavi della sua air-car.

"Al diavolo!" esclamò tra se, prima di lanciare una rapida occhiata intorno a lei e spiccare il volo verso Ovest.

 

* * *

 

Bra imboccò stanca il vialetto di casa. Una nuova giornata lavorativa si era finalmente conclusa, trascorsa in buona parte con Trunks per i preparativi del consiglio di amministrazione dell’indomani. Ultimamente, infatti, non solo doveva badare ai suoi esperimenti chimici nei nuovi laboratori dell’azienda, ma era coinvolta anche in questioni burocratiche e finanziarie, come richiedeva il suo incarico di vice-presidente della Capsule Corporation.

Sospirò. Finalmente un bagno rilassante, una tisana calda e via a letto. Goten avrebbe fatto le ore piccole anche quella sera, e a lei non restava che addormentarsi da sola.

Aprendo il portone di casa, notò sorpresa che la tavola del grande salone ovale era accuratamente apparecchiata, con il servizio delle grandi occasioni, mentre al centro splendeva una candela accesa e, sul carrello mobile, una bottiglia di champagne era immersa nel ghiaccio. Dalla cucina arrivava un piacevolissimo odore di cibo.

“Sorpresa” sorrise Goten, uscendo da un angolo. Indossava pantaloni neri, giacca abbinata ma aperta su una maglia bianca e scarpe lucide di pelle. Non indossava quel completo dal matrimonio di Trunks e Pan, quasi otto anni prima.

“Che ti è saltato in mente?” chiese Bra, confusa. “E che ci fai vestito così?”.

Goten accennò un'espressione imbronciata, fingendo di fare l'offeso.

“E’ così che si accoglie tuo marito?” la rimproverò.

“Beh, io…non capisco”.

“E’ così strano preparare una cenetta da gustare con la propria donna?”.

“Una cenetta…ma tu devi andare a lavoro!”.

“Non oggi. Ho affidato tutto ai ragazzi che lavorano con me. Stasera la passiamo insieme, finalmente”.

Le labbra rosse di Bra si aprirono in un luminoso sorriso.

“Goten, che tesoro…l’hai fatto per festeggiare il contratto, vero?”.

L’uomo scosse la testa, divertito.

“Senza offesa, ma…sinceramente, del contratto non me ne frega niente” le sussurrò accarezzandole una guancia vellutata. “Voglio solo passare un po’ di tempo con mia moglie”.

La baciò con trasporto, e lei si lasciò andare tra le braccia di lui, facendosi cullare dal calore del suo corpo.

“Dov’è Golden?” chiese Bra, interrompendo il loro contatto.

“In camera sua, come al solito. Ha detto che non scenderà per cena, sembra che abbia già mangiato nel fast food qui vicino. Probabilmente sta già dormendo”.

Bra storse il naso, poco convinta.

“Ripete questa scusa troppo spesso, nelle ultime settimane. Non lo trovi strano?”.

“Forse non vuole scendere a cena perché di solito cucini tu, quando io sono al pub”.

Bra non sentì neanche la provocazione del marito, nella sua mente frullava uno strano presentimento.

“Vado a sentire se a fame”.

“Te l’ho detto, non ne vuole sapere, nonostante stasera sia io a cucinare!”.

“Allora vado a dargli la buonanotte”.

Goten sospirò. Di sicuro suo figlio non se la sarebbe presa se sua madre si dimenticava di salutarlo prima di dormire, anzi, non era certo il tipo da tollerare troppe smancerie da parte dei genitori.

“Fa come vuoi, principessa” cedette infine. “Io ti aspetto qui”.

“Ok” acconsentì lei deponendogli un leggero bacio sulle labbra mascoline. “Torno subito”.

Mentre Bra si avviava su per le scale trasparenti, Goten tornò in cucina, sfornando un enorme e succulento tacchino ripieno profumato di spezie, contornato da un fantasioso contorno di verdure miste e patate dorate. Lo posò sulla tavola imbandita, insieme all’antipasto di gamberi.

Da sopra udì l’esclamazione terrorizzata della moglie, che immediatamente si affacciò dalla balconata del secondo piano.

“Golden!” gridò ansimando. “Non è in camera sua!”.

 

Due ceffi dall’aria sospetta si intrufolarono furtivi all’interno del teatro di West City, dove quella sera davano la prima di un’opera di successo, che aveva attirato decine di ricconi in smoking e prime donne in pelliccia.

Tirate fuori le pistole dai pesanti giubbotti e puntate verso il pubblico poco prima dell’inizio, avevano seminato lo scompiglio generale, costringendo i presenti a cedere tutti i loro oggetti di valore.

“Un bel bottino, stasera, eh Roy?” sogghignò uno dei due saltando dentro all’auto rubata, che li aspettava fuori dall’edificio.

“Alla faccia loro, Al!” replicò l’altro accendendo velocemente il motore e sfrecciando via come un siluro.

Mentre i due uomini ridevano e scherzavano con il vento tra i capelli, sbeffeggiando la polizia che non aveva fatto in tempo ad intervenire e godendo della loro completa libertà e ricchezza, Al spalancò gli occhi cattivi, terrorizzato: qualcuno di bassa statura, con addosso un cappellino a tesa che gli nascondeva parte del volto e le mani nelle tasche della larga felpa in modo indifferente, si era appostato proprio in mezzo alla strada, bloccandogli la fuga.

Roy spinse violentemente il piede sul freno, mentre l’auto stridente si andava a fermare proprio a pochi centimetri da quello che sembrava solo un ragazzino, del tutto indifferente al rischio che stava correndo.

“Ehi, moccioso, togliti subito di mezzo, ci siamo intesi??” sbottò il criminale.

“Neanche per sogno” sibilò il ragazzino.

Roy grugnì. Non poteva perdere tempo con quel poppante.

“Ok, piccolo stupido, ti metto sotto allora!” annunciò spingendo il pedale dell’acceleratore, dando gas all’auto.

Il ragazzino non si spostò affatto, anzi afferrò con disinvoltura il paraurti anteriore del veicolo, bloccando con una forza inconcepibile la sua avanzata.

“Ma come ha fatto?” mormorò Al, sconvolto.

“Non lo so, ma adesso se ne pentirà!” gridò l’altro, al colmo della pazienza, scendendo con prepotenza dall’auto e brandendo su di lui una mazza di ferro.

Il piccolo pubblico che si era creato nel quartiere lanciò esclamazioni di sorpresa quando il ragazzino bloccò senza problemi il colpo dell’uomo, rispondendo con un forte pugno nello stomaco che atterrò il ladro e una gomitata in faccia all’altro, che era sceso in aiuto del compare.

Ansimando, i due uomini furono lanciati con potenza qualche metro più lontano, finendo proprio ai piedi di due poliziotti che nel frattempo erano accorsi, e che li ammanettarono definitivamente.

Dagli spettatori si sollevò un sincero applauso in onore del ragazzino, che si pose con fierezza al centro, gli occhi ancora in parte oscurati dal berretto ma chiaramente orgoglioso di ricevere tante acclamazioni.

Golden assimilò con estremo piacere il suo ennesimo momento di gloria. Era ormai da un po’ che di sera fuggiva di casa all’insaputa dei suoi, fingendo di andare a letto presto come un bravo bambino, mentre invece vagava fino a tardi nei quartieri più centrali di West City, alla ricerca di avventure.

Non era la prima volta che faceva l’eroe. Qualche sera prima aveva difeso una donna da dei molestatori grandi e grossi, mentre un’altra volta aveva sventato una rapina in una gioielleria liberando anche il relativo ostaggio.

Sapeva che doveva fare un uso parsimonioso dei suoi poteri. I suoi glielo avevano ripetuto fino all’esasperazione. Ma, in fondo, non faceva niente di male, si stava solo divertendo e, al tempo stesso, anche aiutando la società. Senza contare che agiva di notte, in modo da farsi riconoscere meno possibile. In ogni modo, sentiva di avere estremamente bisogno dell’ammirazione della gente, per poter soddisfare la sua grande voglia di protagonismo.

Improvvisamente si sentì afferrare un orecchio con forza e strattonare lontano dalla folla.

“Ahi!” si lamentò, alzando gli occhi scuri per incontrare quelli simili di suo padre, ma accigliati in un’espressione severa.

“Questa l’hai fatto davvero grossa!” lo rimproverò Goten, con tono autoritario, mentre cercava di tirar via suo figlio da sguardi indiscreti.

“Ma papà, stavo giusto tornando a casa!”.

“Fila in macchina!” esclamò, aprendo lo sportello dell’air-car.

 

Il pubblico si diluì rapidamente, non appena i due delinquenti furono portati via dalle auto della polizia e il loro piccolo eroe di quartiere fu allontanato da quello che probabilmente ero suo padre.

Una donna dai capelli castani tagliati corti, occhiali da vista e un’impermeabile grigio afferrò il cellulare dalla borsetta, componendo un numero con indifferenza.

“Individuato l’altro maschio. Ha messo pubblicamente a tappeto due malviventi”.

 

Continua...

 

 

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3

Capitolo 3

 

 

I tre piccoli sajan erano seduti sullo spazioso divano della sala principale della Capsule Corporation, Lux e Golden ai due lati con al centro la piccola Fackel. Ognuno di loro fissava con imbarazzo il pavimento, attendendo consapevoli i rimproveri dei quattro adulti davanti a loro.

“Spero vi rendiate conto di ciò che è successo, ragazzi” iniziò Trunks, severo.

La sua figura si innalzava imponente di fronte ai tre bambini, che si limitarono a rivolgergli brevi occhiate timorose, rimanendo in silenzio e affondando ancora di più tra i cuscini del divano.

“Vi siete comportati da veri irresponsabili. Tutti e tre” continuò, incrociando le braccia sulla giacca color senape.

”Io non ho fatto niente!” protestò Golden, scrollando le spalle con finta innocenza.

“Ah no?” lo riprese Goten, avvicinandosi. “E cosa ci facevi in centro, ieri sera?”.

“Solo…un giro” mentì, incrociando con indifferenza le mani dietro la nuca.

“Da quanto va avanti questa storia?”.

“Quale storia?”.

“Golden, rispondimi”.

Il ragazzino sbuffò, messo alle strette.

“Da un po’…” cedette.

Goten scosse la testa, preoccupato. Non riusciva a credere che dopo tutti gli ammonimenti rivolti a suo figlio, quella piccola peste trovasse estremamente divertente andare in giro a stendere criminali senza pensare alle conseguenze.

“Non ci siamo, bambini, non ci siamo proprio” intervenne Bra. “Vi abbiamo ripetuto mille volte di non dare sfoggio del vostro potere…anche se non fate niente di male, potrebbe essere pericoloso!”.

“Uffa, io volevo solo un libro!” si lamentò Fackel, mettendo il broncio.

Pan sospirò, scosse la testa e si inginocchiò davanti alla figlia, cercando di interpretare un'espressione più corrucciata possibile mentre incontrava gli occhi neri della bambina resi lucidi dalle lacrime.

“Sai bene che non saresti dovuta andare in biblioteca!”.

“E’ stato Zeme a combinare quel disastro” si giustificò la piccola.

Pan non potè fare a meno di accarezzarle una guancia, ammorbidendo leggermente i tratti del volto.

“Non è questo il punto, tesoro…è che se qualcuno notasse le tue capacità…”.

Nonostante l’intelligenza della bambina, a quell’età per lei era estremamente difficile controllarsi, capire dove stava il limite tra la normalità e ciò che invece era proibito.

In realtà, tutti e tre erano soltanto dei bambini. Non avevano colpa se avevano ricevuto in eredità un tale fardello, così come già era successo a loro. A quell’età era complicato imparare a conviverci, limitare il bisogno estremo di esplicare quel potenziale e capire quanto esso, di fronte ad occhi indiscreti, avrebbe potuto diventare oggetto di pericolose speculazioni.

“E tu, Lux, perché l’hai fatto?” chiese Trunks al figlio, facendosi più vicino nella speranza di incontrare il suo sguardo. “Perché hai rischiato di trasformarti davanti a tutta la scuola?”.

Lux sentì le sue guance infuocarsi, mentre si raggomitolava inerme sul divano, evitando gli occhi del padre.

Non avrebbe mai ammesso che l’aveva fatto per difendersi, per rispondere alle provocazioni dei suoi compagni. Non davanti a suo padre, sua madre, sua sorella e i suoi zii. Confessare di esser ricorso al suo potere solo perché si sentiva solo ed arrabbiato, e non per un semplice capriccio come suo cugino e sua sorella, avrebbe rappresentato un’ulteriore umiliazione, un’altra forma di debolezza.

“Jad e gli altri stavano affogando il suo amico gatto”.

Fu la voce di Golden a farlo sobbalzare, che risuonò spavalda nella sala, ad infrangere ogni suo proposito di tacere sull’accaduto. Si voltò di lato, verso di lui, fissandolo per un momento con delusione, mentre di nuovo combatteva con tutto se stesso per cacciare indietro le lacrime.

“Non è che così che ci si comporta, Lux” lo riprese di nuovo suo padre, come si aspettava, del resto. “Devi capire che non puoi reagire in questo modo!”.

Il bambino si strinse tristemente nelle spalle, incapace di guardare negli occhi i suoi familiari, incapace di replicare con una sola parola all’ennesima dimostrazione di essere solo e soltanto una delusione, per lui stesso, per loro, per tutti.

 

“Spero che abbiano capito la lezione” sospirò Trunks, allontanandosi dai bambini seguito dalla moglie, la sorella ed il cognato.

“Lo spero anch’io” riconobbe Bra. “Tutti e tre stavano per mettersi seriamente nei guai”.

“Sembra quasi si siano messi d’accordo per farci prendere un colpo!” esclamò Goten, accingendosi ad indossare il soprabito imbottito.

“Te ne vai?” gli chiese sua moglie, scrutando fuori dalla finestra e notando che era appena il crepuscolo.

“Già. Vado al pub prima stasera, devo fare un po’ di contabilità mensile”.

“Ok. Anche io e Trunks siamo in partenza, tra mezz’ora ci aspetta il consiglio di amministrazione”.

“Esatto” confermò Trunks dopo aver controllato l’orologio, dirigendosi poi verso la cucina, dove sua moglie si era diretta silenziosamente.

Raggiunse Pan da dietro, posandole le mani sulle spalle mentre trafficava senza molta convinzione ai fornelli, invitandola delicatamente a voltarsi verso di lui. Indossava un grembiule da cucina, aveva i capelli corvini sciolti sulla schiena ed era più desiderabile che mai.

“Non sarai ancora arrabbiata per ieri, vero?” volle accertarsi, guardandola con dolcezza.

Lei provò ad ignorarlo, ma finì per sospirare alzando gli occhi al soffitto, arresa.

“Come potrei” ammise, maledicendosi mentalmente. “Sai che non ci riesco per troppo tempo…”.

Trunks sorrise.

“Bene. Sono contento di sentirtelo dire”.

Le sollevò delicatamente il mento con le dita della mano, incrociando per qualche secondo il suo sguardo d’ebano e sfiorandole le labbra con un tenero bacio.

“Ehi, piccioncini, stiamo facendo tardi!” li rimproverò Bra affacciandosi alla porta con poca discrezione, mentre portava le mani ai fianchi.

“Arrivo subito” la rassicurò Trunks, mentre si staccava da sua moglie con un’altra carezza, prima che lei si mordesse maliziosamente le labbra e riprendesse a trafficare con indifferenza.

“Se ne sta andando anche Goten” la informò Bra. “Possiamo lasciare qui Golden? Torno a prenderlo più tardi, alla fine del consiglio”.

“Ce la farete per cena?” chiese Pan al marito.

“Ho paura di no, tesoro” le rispose lui, desolato.

Ma sua moglie li avrebbe salutati comunque con il sorriso, si sarebbe presa cura dei piccoli e avrebbe lasciato loro un pasto caldo per il loro ritorno. Contrariamente a quando era solo una ragazzina, la sua Pan aveva imparato ad avere pazienza. Un sacco di pazienza.

 

L’uomo calvo e muscoloso aprì lo sportello cigolante del furgone, accomodandosi sul sedile del guidatore, seguito dalla donna con gli occhiali che si sistemò al suo fianco e dal tipo magro con i capelli lunghi che si sporse dal vano dietro di loro. Ripose gli occhiali scuri nella tasca del soprabito, rivelando due freddi occhi verdi che si concentrarono attenti sul funzionamento della radio di bordo. Dopo aver percorso più volte le frequenze nel tentativo di trovare quella giusta e di eliminare al minimo le interferenze di fondo, si fermò soddisfatto dando un segnale d’assenso ai due compagni.

“Siamo in collegamento, dottore” iniziò, avvicinando le labbra carnose al microfono.

Dopo qualche secondo di silenziosa aspettativa, una voce profonda ed autoritaria fece eco dalle casse della radio.

“Bene. Aggiornatemi sulla situazione”. 

La donna si fece passare il microfono dal collega, nelle lenti trasparenti passò un lampo di luce, mentre le sue labbra rosse si allargavano in un fiero sorriso.

“Tutti e tre i soggetti sono compatibili. Ne abbiamo avuto definitiva conferma durante la giornata di ieri”.

L’uomo magro si inserì tra i due sedili anteriori, dove volle avere la sua quota di partecipazione afferrando velocemente il microfono.

“La femminina si distingue principalmente per le qualità intellettive fuori dal comune, uno dei maschi ha dimostrato una forza doppia ad un sollevatore di pesi e l’altro si è quasi trasformato” riassunse, mentre i capelli corvini gli cadevano davanti a coprire la faccia spigolosa.

“Meglio di quanto credessi” commentò l’uomo in collegamento, più tra se che per riconoscere un merito ai suoi dipendenti, che tuttavia si lanciarono occhiate soddisfatte. “Questo dimostra che hanno ereditato il codice”.

“Le prossime direttive, dottore?” chiese il tizio muscoloso.

“Procedete. Sapete in che modo”.

Negli occhi dei tre passò un barlume di eccitazione, era esattamente la risposta che volevano sentire. Dopo settimane di appostamenti e spionaggi, finalmente era giunto il tempo di agire, tornare alla base a missione compiuta e recuperare il malloppo promesso. Lì avrebbero potuto riprendere il loro mestiere abituale, meno scoperto e rischioso di quello che avevano dovuto intraprendere negli ultimi due mesi, con la piacevole consapevolezza di avere le tasche piene.

“Sarà fatto” assicurò la donna, concludendo il collegamento.

 

I consiglieri d’amministrazione erano seduti al lungo tavolo rettangolare della sala riunioni della Capsule Corporation, dalla cui spaziosa vetrata si aveva una splendida veduta notturna di West City, illuminata da mille luci e insegne colorate. A capotavola presiedeva Trunks, affiancato dalla sorella in qualità di vicepresidente.

“Vi informo con piacere che la Technofashion ha firmato il contratto con noi a tempo indeterminato” esordì lui “Ringraziamo quindi la nostra vicepresidente per la realizzazione della linea”.

I consiglieri, restando educatamente composti, sollevarono un caloroso applauso all’insegna di Bra che, vestita di un elegante tailleur blu, inchinò debolmente la testa in segno di ringraziamento, sistemandosi un ciocca dei lucidi capelli ondulati dietro l’orecchio.

Mentre i soci le stringevano uno ad uno la mano e sfornavano i più sentiti complimenti a colei che da qualche anno aveva conquistato la rappresentanza maschile dell’azienda, Trunks estrasse con indecisione dalla sua valigetta la documentazione cartacea relativa al contratto, ormai asciutta ma ancora largamente macchiata di unto. Non poteva evitare di mostrarla al consiglio, così era tradizione dopo ogni accordo importante con altre società.

Mentre faceva passare tra i soci ciò che restava della copia, il suo volto si infiammò violentemente, al pensiero che qualcuno di loro facesse commenti sul suo stato di conservazione e lui non avesse una scusa decente da inventare.

Fortunatamente Bra, mentre il foglio scorreva tra le loro mani, iniziò un’arringa sui dettagli dell’accordo, evidenziando le modalità ed i tempi, esponendo i vantaggi economici e d’immagine. Dal suo sguardo divertito e dalla sua fugace strizzata d’occhio, capì che lo stava salvando da una situazione imbarazzante, tenendo occupate le orecchie dei consiglieri così da distrarre anche i loro occhi.

Trunks tirò un sospiro di sollievo. Guardò il documento sfigurato che era tornato di nuovo tra le sue mani, e non riuscì a trattenere un sorriso. Nella sua mente tornò l’immagine di un bambino dallo sguardo azzurro e smarrito, che portava la colazione a suo padre, speranzoso di far bella figura, di ricevere una parola di approvazione. Era tutto ciò che desiderava, e non avrebbe più rimandato.

 

La camera di Lux era molto diversa da quella della maggior parte dei bambini di sette anni. L’arredamento era essenziale, i giochi si limitavano ad alcuni pupazzi di peluche, al muro non era attaccato nessun disegno o figurina e in tutta la stanza regnava un ordine perfetto, quasi ossessivo. Golden se ne stupì grandemente, facendo il confronto con la sua camera dove invece imperversava il caos totale, che i bonari rimproveri di sua madre non erano riusciti a cambiare. Lui amava vivere tra tanta roba, sparsa intorno a lui senza un ordine preciso, senza un ruolo e una posizione in particolare. Lux, invece, sembrava far di tutto per tenere tutto perfetto, ordinato, quasi a voler dare la stessa immagine di se che a parole poco riusciva ad esprimere.

In quel momento se ne stava seduto sul lettino ad una piazza in completo silenzio, quasi assorto, mentre Fackel leggeva con passione uno dei suoi libri in un angolo della stanza. A Golden non restava che tollerare quella forzata convivenza con i cugini all’interno della stessa stanza, che sua zia Pan aveva richiesto loro nell’attesa della cena, con l’esplicito invito ad andare d’accordo. Benché trovasse la cosa estremamente difficile, si impegnò a farsi gli affari suoi, sonnecchiando con indifferenza nella poltroncina ad angolo, evitando di rischiare un’altra sgridata dai suoi e magari una punizione spiacevole.

“Perché l’hai fatto?” la domanda improvvisa di Lux lo fece sobbalzare dal suo stato di rilassata dormiveglia, portandolo a voltarsi in direzione dell’altro che lo fissava con uno sguardo triste.

“Cosa vuoi, cugino?” ribatté, non capendo dove volesse arrivare.

“Perché hai detto a tutti di ieri mattina?”.

Golden balzò giù dalla poltrona, avvicinandosi al letto e fermandosi davanti a lui.

“Secondo te, dovevo prendermi la sgridata solo io?”.

Lux lo fissò con gli occhi lucidi, ma allo stesso tempo colmi di insofferenza.

“Non avevi il diritto di parlare per me!” mormorò con la voce spezzata.

Golden rise divertito.

“Sei solo un vigliacco. Sai solo piangere e fare la vittima!”.

“Non è vero…non è vero!” ribatté il più piccolo, stringendo forte i minuscoli pugni.

 

Pan mischiò gli ingredienti nella ciotola, canterellando a voce bassa. La sua esperienza di madre le aveva insegnato, da qualche anno a quella parte, che per far andare d’accordo tre cuccioli impossibili non c’era niente di meglio che una golosa torta al cioccolato.

Dalla sala principale provenì il suono del telefono, verso cui si diresse leccando con gusto i residui di crema che le erano rimasti sulle dita.

“Ciao, Pan. Sono Marron” la salutò una voce gentile e pacata dall’altra parte della linea.

“Oh, Marron. Come va?” rispose Pan masticando qualche stuzzichino sul mobiletto dell’aperitivo.

Marron e Ub erano stati i primi a sposarsi, quasi dieci a anni prima, poco dopo che lui era diventato campione del mondo, e adesso vivevano in un’elegante residenza a Satan City. I rapporti con loro erano rimasti piuttosto solidi, non solo perché erano fidati amici di famiglia, ma anche perché adesso Fackel frequentava costantemente i loro due gemelli, Nebe e Zeme.

“Ieri mi ha telefonato la biblioteca di West City, vicino all’asilo…sono dovuta fuggire di corsa da lavoro per riprendere quei due monelli” sospirò Marron, distrutta. La donna lavorava ancora come infermiera a Satan City.

“Già, ne so qualcosa” confermò Pan, ricordando l’incidente del giorno prima.

Dalla finestra della sala, al di là delle tendine traslucide, intravide un’ombra muoversi nell’oscurità della sera, rasente alla parete esterna.

“Ho saputo che hanno chiesto i danni” continuò Marron. “Credo sia giusto che io e Ub contribuiamo alle spese, in fondo è stato il nostro Zeme a provocare quel disastro”.

“E’ molto gentile da parte vostra, ma la grandiosa idea, naturalmente, è stata di Fackel!”.

Qualcuno o qualcosa bussò al vetro della finestra. Perché farsi annunciare da lì, quando esisteva un ingresso principale dall’altra parte dell’edificio?

“Pensavamo, Pan, che potremmo dividere le spese”.

Non stavano bussando…stavano forzando la finestra…cercando di rompere la vetrata…

“Pan, ci sei ancora?”.

Finalmente il vetro si frantumò in mille pezzi. Con uno scatto Pan lasciò andare la cornetta, che sbatté violenta sul legno del mobile, e si precipitò in direzione dell’oltraggio. La sua avanzata fu però bloccata dal rapido ingresso di tre figure, completamente coperte da una tuta di vinile anticontaminazione e da visiere di plexiglas, dalle quali non poteva distinguere i loro volti.

“Chi diavolo siete??” gridò Pan sconvolta, andandoli di nuovo incontro.

Una delle figure, apparentemente la più massiccia, afferrò con due mani la lampada da tavolo posta in una angolo della sala, gettandogliela incontro nel tentativo di tenerla lontano. Pan fu colpita in pieno, investita dai mille frammenti della lampada che si infrangeva, ma incassò il colpo minimamente, rialzandosi in piedi.

Affrettando il passo, i tre individui si diressero verso le scale che portavano al piano di sopra. In mano tenevano uno strano oggetto, una specie di bombola con relativo diffusore.

Pan si gettò verso il più vicino dei tre, che afferrò violentemente per la tuta.

“Cosa volete??” gli chiese ansimando. Non poteva permettere che andassero di sopra, di sopra c’erano i bambini, e qualunque cosa volessero quei tipi non avevano certo buone intenzioni.

Quando la sua vittima cercò di difendersi colpendola con la bombola d’acciaio, Pan lo colpì con forza allo stomaco, facendolo emettere un lamento soffocato, appena percepibile dalla visiera isolante.

Con il sangue che le ribolliva nelle vene, si precipitò su per le scale, dove nel frattempo erano corsi gli altri due. Imboccato il corridoio circolare del piano di sopra, questi stavano perlustrando le varie stanze, aprendo una ad una ogni porta.

Stanno cercando i bambini. Non permetterò che facciano loro del male.

Istintivamente si fermò al centro del corridoio, avvicinò i palmi delle mani iniziando a raccogliere energia e prendendo la mira verso di loro.

Le due figure, paralizzate contro il muro, frugarono con agitazione nelle tasche della tuta.

“Presto, non c’è tempo, usa la siringa!” gridò il tizio più alto, mentre la figura più piccola preparava qualcosa tra le mani tramanti, coperte di spessi guanti.

Stava per lanciare la sfera energetica, quando qualcosa le punse dolorosamente il collo, e allora fu buio completo.

 

“Non è vero che sono un vigliacco!” ribadì Lux, scuotendo con decisione la testa corvina.

“E allora perché ti metti a frignare come un poppante tutte le volte?”.

Fackel sollevò un piccolo sbuffo, odiava la confusione mentre stava leggendo. Chiuse il libro storcendo il nasino annoiata, e si diresse carponi verso la porta della camera. Sarebbe andata giù da sua madre, era stufa di ascoltare le solite discussioni tra suo fratello e suo cugino.

Appena cercò di raggiungere la maniglia, però, la porta si aprì dall’esterno, rivelando tre brutte figure vestite da astronauta.

Golden e Lux si volsero rapidamente in tale direzione, sbarrando gli occhi alla vista degli estranei. Entrambi, istintivamente, capirono che c’erano guai in vista.

L’astronauta più grosso tentò di prendere Fackel, ma la bimba sgattaiolò velocemente tra le sue gambe, scappando verso il corridoio, mentre Golden, allontanandosi dal letto, si precipitò violentemente verso di lui. Lux sfuggì con un guizzo ad uno degli altri assalitori, cercando di farsi strada verso la porta.

Improvvisamente una nuvola di gas uscì dalla bombola dell’astronauta di media statura, che si diffuse rapidamente all’interno della stanza celando la sua fuga. Uscendo dalla porta, riuscì solo a vedere Golden che si accasciava al suolo come un pupazzo.

Corse lungo il corridoio circolare, verso le scale, sentendo alle spalle i passi ossessivi dei tre sconosciuti inseguitori. Cercò di prendere distanza, ma improvvisamente gli si pose davanti la figura inerme di sua madre, distesa al suolo in posizione scomposta e con gli occhi chiusi.

I suoi occhi chiari si sbarrarono terrorizzati, e la deprimente visione che aveva davanti gli impedì di accorgersi degli inseguitori, di cui percepì solo, e per breve tempo, l’odore irrespirabile di gas che lo raggiungeva da dietro.

 

“Manca la bambina!” esclamò una voce femminile da dietro la visiera di plexiglas, mentre i colleghi tenevano tra le braccia i due maschi ormai incoscienti ed innocui.

Perquisì velocemente ogni stanza, fino ad arrivare al guardaroba. Aprendo lentamente la porta, notò tra gli abiti appesi lo scintillio di due occhioni neri, più confusi che terrorizzati. Prima che la piccola potesse reagire in qualsiasi modo, aprì il rubinetto della bombola.

 

“Si prevede un aumento in borsa del dieci per cento entro un mese dalla messa sul mercato” annunciò Trunks, ben sapendo che l’interesse dei soci era più rivolto agli sbocchi pratici che all’orgoglio professionale.

Mentre tutto il consiglio annuiva soddisfatto, sfogliando con soddisfazione la documentazione del fatturato annuo della technofashion, il caschetto corvino della sua segretaria si affacciò indeciso alla porta, esitando ad entrare.

“Mi scusi, presidente” mormorò desolata. “Ma c’è una telefonata per lei…hanno detto che è urgente”.

Trunks sospirò, affranto. I bambini dovevano aver combinato qualcos’altro, o più probabilmente la convivenza forzata di Lux e Golden, sebbene per poche ore, non era stata come al solito un gran successo.

Si congedò momentaneamente dalla stanza, chiedendo scusa al consiglio e lasciando uno sguardo confuso negli occhi della sorella. Rispose alla chiamata nel suo ufficio, dove avrebbe avuto maggiore privacy.

“Ciao, Trunks, sono Marron”.

Tra tutte le persone che pensava di trovare dall’altra parte della linea, lei era sicuramente quella meno probabile. Aveva una voce bassa e tesa, ed un brutto presentimento gli si insinuò a fior di pelle, facendolo rabbrividire.

“Scusa se ti chiamo a lavoro, ma…ero al telefono con Pan e…magari non è niente, però…”.

“Marron, cos’è successo?” la interruppe agitato. Già sapeva che gli avrebbe dato cattive notizie, ma sarebbe soffocato di tensione se non gli avesse parlato subito, chiaramente.

“Ecco…ad un certo punto ho sentito come un vetro in frantumi, Pan ha lasciato improvvisamente il telefono ma io sono rimasto in linea e…”.

“E…?” la incitò lui, mentre l’apprensione lo invadeva completamente.

“Lei ha urlato a qualcuno chi fossero, poi ho sentito una gran confusione e, dopo, più niente…”.

“Oh, no…”.

“Non so bene cosa sia successo, Trunks, ma ho pensato di avvertirti”.

“Hai fatto bene…Grazie, Marron”.

Concluse la telefonata, rimanendo per qualche istante con la cornetta in mano, indeciso se comporre o meno il numero di casa. Si rese presto conto che l’unica cosa da fare era correre immediatamente là, non solo perché avrebbe perso tempo inutilmente, ma anche perché temeva che nessuno avrebbe risposto.

Mentre si accingeva ad abbandonare l’ufficio, sua sorella entrò preoccupata nella stanza, sorprendendolo con gli occhi segnati dall’ansia ed il respiro irregolare.

“Trunks, cos’è successo?”.

Le raccontò brevemente della telefonata di Marron.

“Cielo…” mormorò lei, portandosi una mano alla bocca. “Cosa pensi sia accaduto?”.

“Non ne ho idea, ma adesso lo scoprirò” annunciò, aprendo con decisione la spaziosa finestra dell’ufficio, che tanti anni addietro aveva rappresentato la sua via di fuga.

“Aspetta!” lo trattenne Bra. “Vengo con te!”.

“No” replicò lui voltandosi verso di lei. “Tu resta, non possiamo abbandonare il consiglio d’amministrazione”.

“Stai scherzando?” lo riprese lei, mentre l’aria gelida di quella notte invernale entrava nella stanza e le scompigliava le chiome azzurre. “La nostra famiglia viene prima del lavoro!”.

Trunks annuì. Avrebbe voluto avere sempre la decisione di sua sorella, la sua straordinaria determinazione. A lei non piaceva limitarsi ad affrontare la vita passivamente, accettare senza combattere ciò che il destino le offriva.

“Andiamo” mormorò lui, prima che entrambi oltrepassassero la finestra e spiccassero il volo verso la cupola color crema.

 

La luce della grande sala circolare era accesa, ma nessuno rispose ai richiami suoi e di Bra. Una delle finestre era infranta, e a terra giacevano resti di ceramica, probabilmente appartenuti ad un vecchia lampada da tavolo, mentre la cornetta del telefono pendeva ancora dal tavolino.

I due fratelli si spostarono in cucina, dove trovarono l’impasto di un dolce non terminato. Ma anche lì, nessuna traccia di Pan o dei bambini.

Mentre Bra si accingeva a salire le scale, Trunks continuò a perquisire il piano terra senza alcun risultato. Non riusciva neanche a chiamare i loro nomi, tanta era l’ansia che gli mozzava il fiato e gli strozzava il cuore come una tenaglia.

“Trunks!”.

Nel sentire la voce concitata di sua sorella che lo chiamava dal piano di sopra, la morsa si fece improvvisamente più stretta, quasi a fargli uscire un singulto di dolore.

Non salire...non salire di sopra...

Esitò, tremando. Qualunque cosa avesse trovato Bra, di sicuro non era niente di buono. Sapeva che doveva raggiungerla subito, ma il terrore di ciò che avrebbe visto gli creava un tale peso interiore che dovette appoggiarsi al corrimano.

Salì gli scalini, uno ad uno, con una lentezza esasperante nonostante il simultaneo bisogno di intervenire. Il suo cuore batteva all’impazzata, sembrava volesse uscirgli dal petto da un momento all’altro. Raggiunse il pianerottolo, gli occhi sbarrati, il respiro affannoso.

Sua moglie era distesa a terra, immobile, la testa sollevata appena sulle ginocchia di Bra, che con due dita le cercava nervosamente il battito nei pressi del collo. Dopo qualche tentativo sollevò lo sguardo, colmo di una devastante tristezza.

“E’ morta”.

Solo due parole, pronunciate quasi come un sussurro, che però bastarono a Trunks per sentire il suo cuore palpitante frammentarsi in mille pezzi.

 

Continua…

 

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4

Capitolo 4

 

 

Trunks guardò il suo orologio da polso per l’ennesima volta. Erano già dieci minuti che la porta davanti a lui era chiusa, e ogni volta che sollevava lo sguardo si aspettava che finalmente si aprisse davanti ai suoi occhi stanchi, rivelandogli se ormai la vita poteva ancora avere un senso.

Non c’era nessuna traccia dei suoi figli e di suo nipote, vane erano state le loro ricerche in ogni angolo della casa, inutili i loro richiami disperati tra i corridoi deserti.

Unica testimone di qualunque cosa fosse accaduto, la sua Pan adesso non poteva più parlare, così come non avrebbe tratto un solo respiro, o accennato un battito del cuore ancora così giovane.

E' morta...

Ricordava ancora le dure parole di sua sorella, pronunciate poco più di un’ora prima, quando era sprofondato nella disperazione più totale, un dolore e uno sconforto mai provati. Eppure non riusciva ad accettare la realtà, no, sentiva ancora un barlume di aura nel corpo della sua giovane moglie, debole e impercettibile, ma pur sempre vivo. Sapeva che probabilmente era solo una sensazione creata dalla sua mente, ma in quel momento voleva aggrapparsi a quell’illusione con tutte le sue forze. Aveva sollevato il suo corpo inerme, freddo da far paura, l’aveva portata lentamente verso la loro camera, mentre sulle sue guance scorrevano lacrime che non era riuscito a trattenere, e l’aveva fatta distendere sul letto, così pallida e immobile che, nonostante i suoi sforzi, sembrava impossibile credere che stesse solo dormendo.

Adesso, ben consapevoli che nessun ospedale poteva aiutarli senza interrogarsi di fronte ai misteri della medicina, avevano chiamato Marron, arrivata con Ub da Satan City appena aveva avuto notizia: era solo un’infermiera, ma anche la loro unica speranza di capire cosa fosse successo.

La stava ancora visitando. Era dentro da ormai quindici minuti, e Trunks si appoggiò nervosamente alla parete del corridoio circolare, di fronte alla stanza. Vicino a lui, Bra e Goten erano avvolti in un pesante silenzio. L’espressione di sua sorella era totalmente vuota, gli occhi azzurri più freddi che mai che fissavano il nulla davanti a lei, mentre l’usuale ottimismo di lui sembrava in buona parte spiazzato da un contenuto senso di ansia, ed invano tentava di fare forza alla moglie cingendole le spalle o sussurrandole parole di conforto, a cui lui stesso stentava a credere.

Poco più distante, quasi a voler lasciare loro uno spazio di riservatezza, Ub attendeva silenzioso, partecipe della loro stessa preoccupazione. Poco prima gli aveva posato la mano sulla spalla per fargli forza, aveva sorriso a Goten e aveva abbracciato Bra. Ormai adulto e incontrastato campione del mondo da dieci anni, nonostante l’abbigliamento più ricercato e lo stile di vita più abbiente, sembrava rimasto il solito ragazzino semplice che viveva in un villaggio e che aveva trovato in Goku, e poi in tutti loro, la sua seconda famiglia, a cui sarebbe stato per sempre legato.

Finalmente la porta si aprì, rivelando una Marron dall’espressione stanca, segnata dai numerosi turni di lavoro e dal rapido viaggio verso West City, che si scostò con debolezza una bionda ciocca di capelli che le era caduta sul volto.

“Allora?” le chiese Trunks con impazienza, precipitandosi di fronte a lei.

I lineamenti della donna si ammorbidirono in un debole sorriso, mentre nei suoi occhi castani comparve uno spiraglio di luce.

“I segni vitali sono del tutto assenti” riferì. “Ma non è morta”.

Non è morta...non è morta...

Trunks ebbe l’impressione di respirare di nuovo per la prima volta, e istintivamente abbracciò Marron, senza preoccuparsi di conoscere il significato di quelle parole, grato solo per aver sentito pronunciare l’ultima frase.

“Oh, grazie…” mormorò, stringendo gli occhi con la voce gonfia di pianto. “Grazie, grazie…”.

Un tempo, da giovani adolescenti, lui e Marron si erano presi una breve cotta reciproca, sfumata poi in una profonda stima e in una sincera amicizia, che adesso permetteva a Trunks di fare libero sfogo della sua angoscia e della sua momentanea, anche se inconsistente, gioia.

“Ne sei sicura?” le chiese conferma Ub, raggiungendola.

Marron annuì, convinta.

“Ho controllato la rigidità muscolare, i muscoli mantengono ancora la normale flessibilità, che dopo la morte scompare in breve tempo. Inoltre ho punto con un ago il suo indice, ne è uscita una goccia liquida e rossa, questo significa che il sangue non è coagulato”.

“Come si spiega una cosa del genere?” chiese Goten, stringendo maggiormente Bra al suo petto.

La donna si voltò verso di lui, cercando di riordinare le idee per spiegare un tale fenomeno.

“E’ come…ibernata” rispose, non riuscendo a trovare parole più semplici e appropriate. “Ho notato una piccola puntura a lato del suo collo…probabilmente le è stato iniettato qualcosa che ha paralizzato tutte le sue attività corporee, quindi anche il suo cuore, i suoi polmoni ed il suo cervello, ma che inspiegabilmente non è bastato ad ucciderla”.

“Cielo…” mormorò Trunks, stropicciandosi gli occhi incredulo. Voleva sapere un’ultima cosa, la più importante ed urgente, in quel momento. “Cosa possiamo fare per lei?”.

Marron scosse la testa, abbassando lo sguardo desolata.

“Niente, per ora” sospirò. “Ma ho prelevato un campione di sangue”.

Si avvicinò a Bra, che assorta in pensieri anni luce lontano da lì sollevò debolmente la testa, confusa, vedendosi porgere una siringa avvolta da un cellofan e contenente un liquido rosso.

“Sai che non posso portare il campione all’ospedale. Spero che possa analizzarlo tu”.

Bra afferrò la siringa indecisa. Era un chimico, non era esperta nel maneggiare campioni biologici come il sangue. Tuttavia, il contenuto di esso era l’unico indizio che avevano, e lei era l’unica che poteva occuparsene.

“Ci proverò” rispose annuendo, mentre Goten le rivolgeva un tiepido sorriso d’assenso.

“Con buona probabilità, lì dentro c’è qualche sostanza estranea. Chissà che non vi dica qualcosa”.

Trunks sperò che fosse così. Forse c’era ancora una possibilità per Pan. E per i piccoli.

“Purtroppo, al momento, non c’è altro da fare” concluse Marron, scrollando le spalle.

“Adesso dovete solo concentrarvi sui bambini” consigliò Ub. “Avete idea di cosa sia successo?”.

Trunks scosse la testa, sospirando.

“C’era solo Pan con loro. Noi eravamo tutti a lavoro”.

Nel pronunciare tali parole, sentì una spiacevole fitta al petto. Si sentì terribilmente stupido per essersi trovato beatamente in ufficio a preoccuparsi di affari quando alla sua famiglia stava per succedere il peggio.

“Spero solo che non sia successo niente ai bambini…” mormorò, passandosi una mano sul volto.

Notò che gli occhi di sua sorella si erano riempiti di terrore, mentre ricacciava testardamente indietro le lacrime sbattendo gli occhi violentemente, e desiderò non aver detto niente.

Goten abbracciò la moglie, protettivo, notando la sua preoccupazione.

“Ehi, se avessero voluto fare loro del male, glielo avrebbero fatto qui, non credi? Chiunque li abbia portati via, li voleva vivi!”

“Pensate ad un rapimento per riscatto?” azzardò Ub.

In effetti, pensò Trunks, quella era la motivazione più ovvia. Fino ad allora, però, era successo tutto così velocemente che non era ancora riuscito a pensare in maniera lucida.

“Lo credo anch’io” convenne. “In questo caso…dovrebbero farsi vivi loro…e speriamo che tutto vada per il meglio”.

Alzando lo sguardo, notò che l’espressione della sorella si era fatta più dura.

“Che non li torcano un solo capello” sibilò Bra tra i denti, stringendo con decisione il campione che aveva in mano. “O pagheranno per cosa hanno fatto!”.

 

Il cielo notturno era anonimo, senza stelle. La luce della Luna illuminava a tratti il paesaggio, affacciandosi timidamente dalle nuvole filamentose. In lontananza, i bagliori luminosi della vicina metropoli risplendevano di mille sfumature e proiettavano nell’aria una soffusa luce rossastra.

Erano le undici passate. Ormai lo stabilimento era completamente vuoto, privato progressivamente del viavai quotidiano che durante il giorno affollava i corridoi, i laboratori e i punti direzionali. Lo stesso parcheggio adiacente era deserto, solo una lussuosa air-car ed un furgone bianco occupavano i numerosi posti macchina vuoti.

L’uomo alla finestra perse attenzione per il paesaggio esterno, focalizzando invece lo sguardo sulla sua immagine riflessa nel vetro. Osservò compiaciuto il volto maturo, coperto nella parte inferiore da una corta barba color biondo cenere, di una tonalità leggermente più scura dei capelli di media lunghezza, e la luce crescente nei perspicaci occhi grigi, contornati da lievi rughe, appena accennate, ma celate quasi del tutto da un’elegante montatura di occhiali semplice ma di grande effetto. Lo facevano sembrare più saggio, nonostante la straordinaria intelligenza, capacità e fama che aveva accresciuto e sviluppato negli anni bastassero da sole a dimostrarlo. Unico difetto, la sua forzata dipendenza da un bastone per camminare, a causa di una malattia muscolare degenerativa che rendeva deboli i suoi arti inferiori già all’età di cinquantatre anni.

Qualcuno bussò alla porta del suo ufficio, e l’uomo fece roteare lentamente la sedia verso la scrivania.

“Avanti”.

Il primo ad entrare fu Dan, la faccia aguzza contorta in un’espressione compiaciuta e in un sorriso fiero, che mostrava senza alcuna vergogna i denti scarsamente curati. Nonostante non tenesse minimamente al suo aspetto, con quei capelli lunghi e costantemente scarmigliati, sembrava sempre volesse essere il primo della classe, un patetico tentativo di far bella figura con il capo. Povero ingenuo. Non capiva che non sarebbe mai diventato nessuno obbedendo unicamente agli ordini. L’apparenza spesso valeva di più.

Lo seguiva Hatch, serio, la testa completamente rasata imperlata da piccole gocce di sudore. Problema opposto: fisico prestante, che pareva voler scoppiare entro la maglia attillata, occhi verdi glaciali ma penetranti, lineamenti mascolini. Poteva arrivare lontano, sì, eccome se avrebbe potuto, ma tendeva spesso a fare di testa sua, ad aggiungere agli ordini sempre qualcosa che non gli era stato chiesto. Nonostante la sua straordinaria efficienza, era troppo indipendente e ribelle per far seriamente strada.

E infine entrò Lilian, bella donna sui trent’anni, alta, capelli castani corti e labbra fini ma sensuali. Le sue capacità professionali erano enormi, la sua mente fine ed acuta, le sue potenzialità infinite. Era l’incarnazione della donna in grado di far carriera, la donna sveglia, tenace, vincente. Unica, ma aberrante pecca, la sua tendenza a farsi coinvolgere e distrarre da stupidi e irreali sentimenti, che bastavano spesso a sminuire ogni altra delle sue doti. Tipico di una donna. Peccato.

“Missione compiuta, dottor Wissen!” riferì Dan, portando le mani ai fianchi con orgoglio. 

“Bene” si limitò a dire lui, appoggiandosi con indifferenza allo schienale della sedia, come se ciò che avevano portato a termine non fosse poi grande cosa. Mai avrebbe dato ai suoi dipendenti un’eccessiva soddisfazione. “Dove sono, ora?”.

“Abbiamo creato una sistemazione nella stanza 3 del secondo seminterrato. Stanno ancora dormendo”.

Wissen annuì. Era senz’altro il luogo migliore, oscuro alla maggioranza dei dipendenti, dove avrebbero potuto svolgere il loro lavoro indisturbati.

“E’ andato tutto liscio, vero?” chiese, rivolgendosi a Lilian.

La donna esitò un secondo, distogliendo leggermente lo sguardo. Non era da lei.

“Sì, dottore, ma…” si interruppe, lanciando un’occhiata fugace ad Hatch. “Abbiamo dovuto usare la prep”.

Wissen si alzò di scatto dalla scrivania, spalancando gli occhi.

“Che cosa?!”.

“In casa c’era una delle madri, ci stava attaccando…”.

“La prep era solo per le emergenze!” esclamò lui, con tono autoritario. “Non potevate usare anche in questo caso il gas sedativo? Quello almeno non lascia tracce!”.

“Stavamo per essere polverizzati, può chiamarla emergenza, dottore” fece notare Hatch, irriverente.

Wissen gli lanciò uno sguardo inquisitorio.

“Immagino sia stata una tua idea, Hatch”.

“Se non avessi avuto quell’idea, ora non saremmo qui con i suoi tre desideri” disse lui sfacciatamente.

Wissen lasciò correre sulla sua totale mancanza di rispetto. Decise di non preoccuparsi per quel piccolo imprevisto, in fondo le probabilità di ricavare tracce dal flusso sanguigno erano alquanto scarse.

“Credo che adesso ci spetti la nostra ricompensa” aggiunse Hatch.

Subito al sodo, il giovanotto. In effetti, il denaro promesso era stata la prima cosa per cui i tre avevano deciso di collaborare. Wissen sapeva che ciò che aveva in mente non era cosa da poter fare alla luce del sole, la società odierna era troppo sciocca e di strette vedute per capirne l’importanza. Aveva scelto quindi, tra i suoi numerosi dipendenti – un vasto assortimento di biologi, farmacologi, tecnici e assistenti – i tre più capaci, e soprattutto, fidati. Aveva scelto chi sapeva potesse trascinare dalla sua parte, chi era disposto a sfidare la legge pur di sentire il piacevole fruscio di numerosi blocchi di banconote, o di veder già assicurata la propria carriera.

Dan, Hatch e Lilian. Aveva ancora bisogno di loro.

“Al termine dello studio avrete ciò che vi spetta” li informò, lapidario.

“Come?!” protestò il fusto, scaldandosi. “Ci aveva promesso trentamila yeni a testa dopo il rapimento!”.

“Assistetemi negli esperimenti e avrete i vostri soldi!”.

“Ma dottor Wissen! Sono settimane che pediniamo notte e giorno quei mocciosi, e ora dovremo aspettare ancora chissà quanti mesi!”.

“Calmati, Hatch” lo ammonì Lilian, imbarazzata.

“Signore, l’operazione è stata piuttosto rischiosa!” intervenne azzardatamene Dan, abbandonando il suo atteggiamento di costante adorazione. “Io stesso ho rischiato quasi di essere ucciso da quella donna!”.

“Fate come vi dico e ne avrete quarantamila, di yeni” propose Wissen.

Dan si interruppe, valutando l’idea con aria interessata, mentre Hatch sembrò acquietarsi momentaneamente.

“Saremo con lei, dottore. Può fidarsi di noi” affermò Lilian, parlando per tutti.

Wissen incrociò le braccia al petto, con aria trionfante. Fortunatamente non aveva problemi economici e, nonostante avesse sempre pensato che il denaro da solo non rappresentasse niente, fu felice di constatare che almeno serviva per comprare tre ingenui come loro.

 

Golden sbattè lentamente le palpebre. Tutto intorno a lui sembrava sfuocato, e un fastidioso mal di testa rendeva tutto più confuso. Si strofinò ripetutamente gli occhi, finché riuscì a mettere a fuoco l’ambiente.

Si trovava disteso su uno scomodo materasso improvvisato, sistemato in un angolo di una stanza dai muri grigi, spogli e privi di finestre, illuminata da una flebile luce al neon dalle sfumature fredde. L’arredamento si limitava ad un bancone bianco e a pochi macchinari di seconda mano, che diffondevano un basso ma monotono ronzio all’interno di quelle quattro mura asettiche.

“Non mi piace questo posto, voglio andare a casa!”.

Fu la voce di sua cugina a farlo voltare verso la parete opposta della stanza, dove la trovò raggomitolata su un altro materasso come il suo, con un’espressione imbronciata e gli occhi lucidi di pianto. Poco lontano da lei, disteso su un terzo materasso, Lux dormiva ancora.

Improvvisamente ricordò cos’era successo. Nella sua mente ripassarono come un razzo le immagini di tre figure, coperte da una strana tuta, che facevano irruzione in camera di Lux. Si erano lanciate su di loro, e lui aveva tentato di reagire…poi i suoi ricordi si interrompevano incomprensibilmente.

Ma dove erano stati portati? Che posto era quello?

“Golden, questo braccialetto è troppo stretto, mi fa male!” si lamentò ancora Fackel, alzando il piccolo polso intrappolato da un cerchio di metallo.

Mentre si avvicinava a lei, Golden notò di averne uno uguale al polso sinistro. Era una manetta metallica, sigillata da una chiusura a lucchetto, strettamente aderente alla pelle attraverso uno strato più interno di diversa natura. Si chiese come mai sua cugina non se lo fosse ancora strappato.

Quando però provò a forzarlo, capì. Il bracciale non si muoveva di un millimetro, sembrava ancorato in quella posizione, e l’uso di tutta la sua forza non bastava per disintegrarlo. Confuso, tentò con quello di Fackel. Niente. Non si spezzava né si scalfiva, mentre con grande sorpresa si trovò lui stesso a massaggiarsi le dita per lo sforzo.

“Accidenti!” imprecò, dirigendosi verso la porta della stanza. Era una porta elettronica, a chiusura ermetica. Dovevano assolutamente uscire da lì.

Lanciò un pugno verso la superficie metallica. Un secondo dopo, si stava contorcendo a terra, tenendosi la mano arrossata per il dolore. Nella porta, neanche un graffio.

Fackel cominciò a piangere.

Golden si rialzò, stringendo i denti, ansimando. Ma cosa gli stava succedendo?

Avvicinò i palmi delle mani, posizionandoli poco lontano da quella porta invalicabile. Chiuse gli occhi, concentrandosi per raccogliere energia. Ma né una scintilla di luce né un accenno di calore uscirono dalle sue mani, che il bambino guardò con incredulità, come se fossero quelle di qualcun altro.

“Vedi, non riusciamo più a fare niente!” esclamò Fackel tra le lacrime. “Ho anche provato a volare e non ci riesco!”.

Golden provò a concentrarsi, ma i suoi piedi non accennavano infatti a sollevarsi da terra. Preso dal panico, si precipitò verso il letto del cugino, che scosse violentemente.

“Lux, svegliati, svegliati!”.

Il bambino aprì debolmente gli occhi, guardandosi attorno confuso.

“Dove…dove siamo?” balbettò dopo qualche secondo.

“Vorrei tanto saperlo!” gridò Golden, mettendosi le mani tra i folti capelli neri.

Lux si alzò dal materasso, i grandi occhi azzurri totalmente frastornati, mentre faticava a riprendere contatto con la realtà. Fissato al suo polso sinistro, un altro di quegli stranissimi bracciali.

“Ascolta, Lux, adesso ci mettiamo uno di fronte all’altro e al mio tre diventiamo super sajan!”.

“Come..?” chiese il più piccolo, confuso.

“Avanti, facciamo come ti ho detto!”.

Golden temeva a farlo da solo, per la paura di rimanerci di nuovo male. In due sarebbe stata una sfida, una motivazione in più per impegnarsi a ritrovare le capacità perdute.

“Uno…due…”.

Entrambi ispirarono profondamente, guardandosi negli occhi e stringendo i pugni lungo i fianchi.

“…tre!!”.

Solo un grido accennato uscì fuori dai due bambini, i cui capelli erano rimasti neri come l’ebano e il cui corpo privo di ogni bagliore. Golden scosse la testa, deluso. Erano già due anni che aveva imparato a trasformarsi, e ogni volta ci riusciva perfettamente. Stessa cosa per il cugino.

Si sentì improvvisamente debole, impotente come non mai. Sollevando gli occhi neri affranti, notò una telecamera fissata ad uno degli angoli della stanza. Una piccola luce rossa appariva e scompariva continuamente a lato dell’obiettivo. Era accesa.

Per la prima volta, desiderò che nessuno lo guardasse.

 

Goten si sedesse stanco sul divano del grande salone. Davanti a lui, Trunks se ne stava in poltrona con la testa tra le mani, in silenzio.

Ub e Marron se ne erano andati già da un quarto d’ora, e di nuovo l’enorme casa sembrava terribilmente vuota.

Guardò l’amico con una stretta al cuore. Se quella situazione era assurda e dolorosa per tutti loro, Trunks era senza dubbio quello che ne soffriva maggiormente, avendo perso in un sol colpo l’intera famiglia. Era seduto vicino al tavolino del telefono, e Goten pensò che non fosse certo un caso.

“Tu riesci a sentirli?” si sentì chiedere, con tono triste e rassegnato. “Riesci a sentire la loro aura?”.

Goten scosse la testa, non potendo che ammettere la realtà, della quale tutti loro si erano già accorti.

“Non riesco a localizzarla, ma c’è ancora, ne sono sicuro, anche se piccolissima e inspiegabilmente debole”.

Era la verità. Proprio come Trunks percepiva quella della moglie, lui sentiva ancora quella dei piccoli, tutti e tre, nonostante non riuscisse a distinguere la provenienza, quasi fosse attenuata da un involucro isolante.

“Già…anch’io la sento” rispose Trunks, assorto.

“Purtroppo, non sappiamo dove cercarli. Possiamo solo aspettare”.

Trunks annuì, sospirando. Poi il suo sguardo rincontrò di nuovo quello di Goten, assumendo un’espressione seria e determinata.

“Sono disposto a pagare qualsiasi cifra. Voglio solo riaverli indietro, sani e salvi”.

Goten lo guardò incerto, studiando l’affermazione dell’amico.

“Dai per scontato che sia un normale rapimento…” soggiunse.

“Tu no?”.

Goten portò i palmi delle mani in alto, in segno di dubbio. Rapire i piccoli eredi della Capsule Corporation per un riscatto da capogiro avrebbe rappresentato il colpo del secolo per qualsiasi banda di malviventi, eppure non ne era tanto convinto. Il suo istinto gli suggeriva dell’altro.

“Non so…” rispose. “Ma c’è qualcosa di strano, in tutto questo”.

“Ossia?”.

L’espressione di Trunks si era fatta ancora più tesa, e Goten sperò di non allarmarlo ulteriormente.

“Il riscatto, per esempio. Non credi che i rapitori avrebbero dovuto farsi vivi?”.

Trunks guardò l’apparecchio telefonico al suo fianco, quasi come il solo fatto di fissarlo lo esortasse finalmente a suonare.

“Sono passate solo poche ore” replicò. “Potrebbero chiamare più tardi”.

“Rischiando di essere anticipati dalla polizia? No, è molto strano…”.

“Vai avanti” lo spronò Trunks, deglutendo pesantemente.

“Un’altra anomalia è che hanno preso tutti e tre. Non ti sembra che sia enormemente dispendioso, per dei rapitori, mantenere tre bambini quando potrebbero ottenere un riscatto ugualmente alto per uno solo?”.

Trunks scosse le spalle, incapace di ribattere. Sembrava non avesse nemmeno più la forza di valutare l’idea.

“E infine, il fatto delle auree. Come mai le sentiamo così deboli? E’ come se sapessero della loro intensità e volessero neutralizzarla”.

Trunks si irrigidì all’istante, guardandolo con occhi spalancati per il terrore.

“Cielo…” mormorò, con voce spezzata. “Pensi che sappiano…di noi?”.

Goten esitò, poi scrollò le spalle.

“E’ una possibilità…non sarebbe da escludere, visto il comportamento così esplicito dei bambini, negli ultimi tempi”.

Il volto di Trunks si piegò in una smorfia di dolore, come se la voglia di piangere lo stesse inesorabilmente assalendo di nuovo. Si lasciò cadere all’indietro, sulla spalliera della poltrona, fissando impotente il soffitto e scuotendo lentamente la testa.

“E’ colpa mia…” gemette. “Sono stato troppo assente ultimamente…se avessi passato più tempo a casa, adesso i miei figli non sarebbero dispersi e mia moglie non sarebbe immobilizzata in un letto…”.

“Trunks” lo richiamò Goten, sporgendosi dalla poltrona e posandogli amichevolmente una mano sulla spalla. “Non è colpa tua. Poteva succedere in qualsiasi momento, anche se eri presente tu”.

“Avrei dovuto occuparmi di loro…invece ho affidato quasi tutto a Pan, e lei non ce l’ha fatta da sola!”.

“Trunks, non è vero!”.

“Sì che lo è, Goten! Io avevo il dovere di badare a loro!”.

“Ascolta!” lo interruppe il più giovane, incontrando gli occhi azzurri dell’amico d’infanzia, al quale da anni lo legava un profondo affetto. “Anche io e Bra abbiamo fatto degli errori con Golden. Tutti ne abbiamo fatti, purtroppo è estremamente difficile educare dei sajan, soprattutto quando sono solo dei cuccioli. Ma ti prometto che ritroveremo i nostri figli, gli riporteremo a casa e li riabbracceremo…non prima di una bella sculacciata, naturalmente!”.

Trunks si concesse un debolissimo ma speranzoso sorriso alle parole dell’amico, per poi raggomitolarsi di nuovo su un lato della poltrona, quello più vicino al telefono. Sembrava non voler abbandonare l’idea che si trattasse di un semplice, comune rapimento.

Bra uscì finalmente dalla cucina, con in mano una tazza di camomilla. Si sedette silenziosamente sul divano, gli occhi testardamente attenti a non incontrare quelli suoi o del fratello per qualcosa di più che brevi e fugaci momenti.

“Stai bene?” le chiese, circondandole le spalle con un braccio.

“Sì” si limitò a rispondere, sorseggiando poi la sua bevanda calda.

Sapeva che mentiva. Sua moglie era interiormente distrutta e sconvolta per ciò che era accaduto, ma continuava ostinatamente a nascondere la sua fragilità sotto una fortezza di moderato controllo, che però finiva solo per accumulare ulteriormente la sua sofferenza.

Anche lei, a intervalli regolari, si appostava nei pressi del telefono, senza però mostrare esplicitamente il crescente bisogno di sentirlo suonare.

Goten l’attirò istintivamente a se, facendole appoggiare la testa sulla sua spalla.

“Andrà tutto bene” le sussurrò.

 

Wissen entrò nello spazioso ascensore, estraendo dalla tasca del camice una piccola chiave. La inserì nella fessura corrispondente, sbloccando così il tasto per raggiungere il secondo seminterrato. Normalmente quel luogo era inaccessibile al comune personale dell’azienda, ufficialmente per garantire misure di sicurezza a causa dell’immagazzinamento di sostanze radioattive. Per la verità, laggiù c’era qualcosa che solo pochi potevano vedere.

Mentre l’ascensore cominciava la sua discesa verso il basso, Wissen guardò il suo orologio da polso. Nonostante fosse già mezzanotte passata, desiderava fare visita ai cuccioli prima di andare a dormire. Avrebbe passato la notte in una stanza dello stabilimento adibita ad alloggio, tuttavia era così tanta l’emozione che, sapeva, di sicuro non avrebbe chiuso occhio.

Le porte scorrevoli dell’ascensore si aprirono su un lungo corridoio, scarsamente illuminato da faretti fissati ai lati del soffitto.

Wissen sentì il cuore che accelerava i propri battiti. Erano anni che aspettava quel momento. Anni che lo sognava, che lo immaginava, fin da quel giorno alla Capsule Corporation, quando era solo un laureando.

Quanta strada aveva fatto da allora. Aveva inizialmente accatastato il suo progetto, in modo da terminare gli studi e crearsi una strada. Una volta avviato un impero e diventato ricco e famoso, però, aveva sentito che la sua esistenza non sarebbe stata completa senza sapere, senza risolvere quel mistero, quel miracolo della natura a cui aveva assistito quella volta, e di cui conservava segretamente la prova.

Mentre molti suoi colleghi sfruttavano il tempo libero per partite a golf, per uscire con belle donne o per partecipare a qualche evento mondano, lui preferiva rinchiudersi nei suoi laboratori segreti, il suo piccolo, piacevole mondo dove non doveva vergognarsi della sua deficitaria malattia, e dove avrebbe studiato, con costanza e interesse, le meraviglie di quel tesoro nascosto, quelle poche fibre capillari depositarie di un patrimonio genetico unico e inimmaginabile…

Ne aveva appurate le meraviglie, analizzato il funzionamento, dedotte le potenzialità. Aveva supposto che quei geni si trasmettessero in modo dominante di generazione in generazione, una preziosa e potentissima eredità che i discendenti avrebbero continuato a vantare. Aveva imparato a memoria quella lunga serie di molecole, messe l’una accanto all’altra come lettere dell’alfabeto a formare un codice preciso, non presente negli esseri umani…l’aveva chiamato codice sigma, come la prima lettera di quel termine inizialmente così astruso e incomprensibile udito molti anni prima…

Sajan

Aveva saputo dell’unione di due coppie con tali caratteristiche, e della nascita di una nuova prole…

Aveva pensato, senza ombra di dubbio, che quella era l’occasione che aspettava, il momento giusto per verificare ciò che aveva scoperto, per confrontare i suoi risultati con la fonte vivente che aveva ispirato i suoi studi, e per capire ciò che ancora c’era da sapere…

Dopo anni di analisi limitata a genoma abbondantemente amplificato e conservato a basse temperature, ma ormai quasi degradato, aveva finalmente a portata di mano piccoli ereditari del codice, in carne e ossa, a sua completa disposizione…

Inserì una tessera magnetica in una fessura adiacente alla porta metallica, che si aprì prontamente rivelando il vecchio laboratorio. Sul fondo della stanza, raggomitolati vicini con gli sguardi spersi e confusi, i tre cuccioli sobbalzarono per il suo ingresso improvviso, mentre la porta si richiudeva velocemente alle sue spalle.

Provò una tale emozione che si sentì vacillare, tanto da doversi appoggiare maggiormente al bastone finemente decorato per non perdere l’equilibrio. Erano lì, davanti a lui, tutti e tre, così giovani ma dalle potenzialità infinite, resi momentaneamente innocui ma pregni di un potere infinito, ancora così incontrollabile e istintivo. Avrebbe voluto andare loro incontro come fossero il tesoro cercato e voluto da una vita intera, ma si trattenne. Avanzò lentamente verso di loro, fissandoli attraverso le lenti lucide degli occhiali, accennando progressivamente un sorriso di benvenuto.

“Salve, miei piccoli sajan” li salutò, inginocchiandosi davanti a loro, seduti su uno dei materassi.

Il maschio più grande lo fissò con occhi d’ebano carichi di stupore, sentendo pronunciare quell’ultima parola.

“Chi è lei…?” mormorò, aggrottando le piccole sopracciglia scure. “Dove siamo? Cosa volete da noi?”.

Wissen fece per scompigliargli affettuosamente i capelli per rassicurarlo, ma il ragazzino si scostò con espressione disgustata.

“Non abbiate paura, bambini. Siete miei ospiti adesso”.

La bimba, dai rari capelli lavanda, sembrò strisciare coraggiosamente verso di lui, alzando poi il piccolo polso in modo da metterlo in evidenza.

“Signore, la prego, può togliermi questo bracciale??” chiese, con vocina pregante.

“Oh no, piccola, vedi, è una precauzione necessaria…” le spiegò, con tono paterno. “Non posso rischiare che usiate il vostro potere a sproposito…”.

“Bastardo!!” esclamò di nuovo il primo, che ora lo guardava con odio. “Se non ci farete uscire subito da qui, i nostri genitori ve la faranno pagare!”.

Wissen non rispose, fingendo di non aver sentito. Ringraziò il cielo di aver fatto mettere al loro polso quella speciale manetta, in grado di rilasciare gradualmente nella loro pelle, e da lì nel loro sangue, degli ormoni specifici che andavano ad inibire reversibilmente le loro capacità, agendo a livello genico. Neutralizzando anche la loro aura, i loro genitori non avrebbero mai potuto localizzarli.

Notò che l’altro maschio aveva gli occhi bagnati di lacrime. Assomigliava molto a suo padre da giovane, nonostante i capelli nerissimi e uno sguardo decisamente più triste.

“Cosa è successo alla mamma?” mormorò, con una vocina flebile, quasi impercettibile, mentre fissava il pavimento di granito.

Wissen gli passò una mano sulla guancia arrossata, a cui rispose con un piccolo brivido, senza però reagire in quel modo esplicitamente maleducato del cugino.

“Non preoccuparti…va tutto bene…adesso siete qui, non dovete pensare più a niente”.

Il bambino gli rivolse una fugace occhiata terrorizzata, per poi distogliere nuovamente lo sguardo.

“Credo che adesso è giunto il momento di presentarci” continuò, soddisfatto. “Io sono il dottor Wissen. Ma potete chiamarmi Frederik. E voi? Volete dirmi i vostri nomi?”.

“Scordatelo!” gridò il ragazzino dagli occhi neri. Se solo avesse avuto i poteri di cui disponeva, a quest’ora gli sarebbe già saltato addosso.

Il dottore scosse la testa.

“Cominciamo proprio male, bambini!” li rimproverò. “Ho intenzione di instaurare con voi un rapporto di reciproca collaborazione…fareste meglio a comportarvi bene!”.

 

            Continua…

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5

Capitolo 5

 

 

Bra spalancò istintivamente gli occhi azzurri, svegliandosi di colpo. Il trillo ripetuto e insistente del telefono l’aveva velocemente riportata alla realtà, fatta balzare giù dal divano dove si era ritrovata scompostamente addormentata e precipitare come una saetta verso l’apparecchio.

“Pronto??!” esclamò, affannata, mentre il cuore le batteva all’impazzata.

“Dottoressa Bra, è lei?” chiese confusa una voce femminile dall’altro capo, dopo alcuni secondi.

Era solo la segretaria di Trunks. Bra si lasciò cadere di nuovo sul divano, portandosi indietro i capelli scarmigliati e buttando fuori l’aria trattenuta fino a quel momento. Non sapeva esattamente cosa avesse sperato di sentire una volta sollevato il ricevitore, ma sicuramente non erano quello.

“Sì, sono io…” bofonchiò, quasi fosse colpa della donna se non era chi si aspettava.

Accanto a lei, Goten si stava stropicciando gli occhi, mentre nella poltrona di fronte Trunks sbatteva le palpebre per abituarsi alla luce del mattino. Evidentemente, tutti e tre si erano abbandonati al sonno per qualche ora, vinti dalla stanchezza, nonostante l’ansia e lo shock per ciò che era accaduto li avesse trattenuti a vegliare fino all’alba.

“Mi scusi, Bra, stavo cercando il presidente…non l’ho ancora visto stamattina, mi chiedevo se fosse tutto a posto…”.

Bra guardò di sfuggita l’orologio a parete della stanza, poi il volto di Trunks. Suo fratello la guardava emotivamente distrutto, i suoi occhi apparivano stanchi e appesantiti, circondati da un alone scuro.

“Trunks non si sente molto bene stamattina. Sono appena venuta a trovarlo. Rimarrà a casa, per oggi” mentì, ben sapendo che l’accaduto doveva rimanere tra quelle mura.

“Oh…mi spiace…gli auguri una pronta guarigione da parte mia…” balbettò la donna, probabilmente sorpresa del calo di salute del presidente, che in quasi vent’anni di servizio non ricordava di aver mai visto ammalato.

Bra interruppe la conversazione, mentre Trunks le rivolgeva un debole sorriso di ringraziamento. Si alzò velocemente dal divano, con l’intenzione di farsi una breve doccia e di assumere un aspetto il più presentabile possibile. Ma prima corse in cucina, dove dal frigorifero estrasse la siringa avvolta dal cellofan, che avrebbe messo all’interno della sua borsa termica.

Suo marito e suo fratello la osservarono confusi attraversare la grande sala, troppo stanchi e sconvolti anche solo per chiederle a parole cosa avesse intenzione di fare.

“Vado alla Capsule Corporation, in laboratorio. Devo analizzare questo” disse, risparmiando loro la domanda, prima di sparire rapidamente al piano di sopra.

Trunks lasciò cadere in basso la testa, quasi i suoi muscoli avessero perso ogni energia. Quello era il sangue di Pan, che ora giaceva inerme sul loro letto, unico suo contributo al possibile ritrovamento dei loro figli.

“Devo avvertire Gohan…” mormorò, maledicendosi per non esserselo ricordato prima. Probabilmente, voleva solo rimandare il momento in cui avrebbe dovuto comunicargli, con il cuore in gola, che la sua unica figlia risultava clinicamente morta.

“Non preoccuparti…lo faccio io” gli assicurò Goten.

Trunks sentì di nuovo risvegliarsi il bisogno di piangere. Si sporse verso l’amico, abbracciandolo istintivamente.

“Grazie…” riuscì a dire, mentre gli occhi gli si facevano più lucidi.

 

La lunga sequenza nucleotidica scorreva velocemente sullo schermo del computer, riflettendosi negli occhiali di Wissen. Sorrise. Il Dna dei piccoli coincideva perfettamente con quello già in suo possesso. Tutti e tre avevano ereditato quei geni. Tutti e tre erano sajan.

Aveva fatto loro un prelievo la sera precedente, vi aveva lavorato tutta la notte e già ora, a metà mattina, poteva goderne i risultati: la conferma che aveva trovato ciò che aveva cercato per tutti quegli anni.

I bambini erano stati un po’ restii a farsi bucare da un ago…probabilmente, al pieno dei loro poteri, non avrebbero provato alcun dolore…fu una sorpresa vedere come la femmina avesse iniziato a piangere come tutte le sue coetanee e come il maschio più grande avesse tentato inutilmente di sfuggire alla siringa.

“Bel lavoro, dottore” notò Dan, abbassandosi verso lo schermo, al suo fianco, avvolto in un camice troppo largo per la sua evidente magrezza. “Vedo che ha individuato dei geni in più rispetto agli umani”.

“In realtà, molti geni sono comuni ai nostri” spiegò Wissen, più per compiacere se stesso delle proprie deduzioni che per soddisfare la curiosità dell’assistente. “Sono semplicemente espressi a maggiore livello, grazie alle presenza di sequenze intensificatici”.

“Sta parlando della potenza fisica?”.

“Non solo. La stessa cosa vale per la capacità di volare, per la resistenza al dolore e alle malattie, per il controllo dell’energia. Anche i terrestri possiedono potenzialmente tali doti, ma solo alcuni riescono a svilupparle, e mai nella misura e con la rapidità con cui lo fanno i sajan”.

“Basti pensare che quei mocciosi sanno già fare tutto questo!” rise Dan, ma poi la sua espressione tornò improvvisamente seria, e il suo volto si tinse di rosso: si era subito reso conto di aver fatto una grossa stupidaggine a chiamare mocciosi i preziosissimi tesori del suo capo.

Dopo avergli rivolto una fugace occhiata scandalizzata, Wissen continuò la spiegazione.

“C’è un intero gene, però, non presente nei terrestri. Normalmente è inattivo, ma viene attivato in seguito ad un intenso sforzo fisico e ad un’attenta concentrazione”.

“Significa che è inducibile dalla volontà del soggetto?” azzardò Dan.

“Nella maggior parte dei casi sì. Ma spesso è l’inconscio a scatenarlo. Le volontà più istintive, primitive, quelle più incontrollabili. E quando è tutto ciò ad attivarlo, l’effetto è di gran lunga più potente”.

“Di cosa si tratta, dottore?”.

Wissen fece girare la sedia scorrevole verso il giovane, guardandolo con compiacimento. Nella sua mente fiammeggiò per un istante un’immagine del passato, osservata clandestinamente, di un bagliore accecante uscente dal corpo di colui che, per molto tempo, aveva popolato i suoi sogni.

“E’ il super sajan” annunciò solennemente. “Quei cuccioli sono stati allevati con troppe restrizioni, obbligati ad usare le loro capacità con parsimonia e giudizio. Se solo qualcuno insegnasse loro a liberare completamente la loro istintività, a non sprecare le potenzialità che celano dentro, il loro potere sarebbe senza dubbio triplicato…”.

 

Gli occhi di Gohan erano fermi e calmi quando aprì la porta, più di quelli con cui Trunks lo guardava, incapace di dire niente. Fu il più anziano ad abbracciarlo paternamente insieme a Goten, e quel contatto bastò da solo per capire quanto la sua presenza, in quel momento, fosse importante per entrambi. Forse non si sentivano poi così adulti ed indipendenti, nonostante tutto, forse avevano ancora bisogno di un supporto, di una guida, che era venuta loro a mancare dopo la scomparsa degli unici due sajan di sangue puro, nonché loro genitori.

A fianco di Gohan, Videl, i capelli corvini raccolti in una coda e lo sguardo azzurro che traspariva una punta di apprensione, avanzò verso di loro, baciandoli su una guancia. Poi, con parole quasi sussurrate, in modo da rendere meno evidente il tremito della voce, si rivolse maternamente a Trunks.

“Lei…dov’è?”.

Trunks indicò il piano di sopra, facendole strada su per le scale. Da dietro, la mano di Gohan afferrò delicatamente il polso della moglie.

“Sei sicura?” le chiese, apprensivo.

“Voglio vederla, Gohan. Ne ho bisogno”.

Entrarono silenziosamente nella camera da letto, quasi temessero di svegliare quella minuta sagoma immobile distesa sulla trapunta.

Trunks e Goten si fecero da parte, per concedere alla donna uno spazio maggiore. Trunks era preparato a veder scoppiare la suocera in lacrime davanti alla figlia inerme, e invece questa si avvicinò alla sponda del letto, la guardò con dolcezza e le sfiorò delicatamente la guancia con la mano.

“Tesoro…” sussurrò, accennando un debole sorriso, colmo però dell’ansia che provava.

Gohan, appena dietro di lei, come se la sola distanza potesse attenuare il dolore, guardava Pan con apparente compostezza e rigidità, nonostante Trunks avesse notato come i suoi muscoli facciali fossero tirati e come un piccolo, impercettibile capillare avesse iniziato a pulsargli appena sotto l’occhio.

Probabilmente, non avrebbero più rivisto aprirsi gli occhi della loro Pan.

“Mi dispiace, Gohan…non sono riuscito a proteggere tua figlia” riuscì a dire, a testa bassa, incapace di incontrare il suo sguardo.

Il suocero lo guardò con aria meditativa, per poi appoggiargli i palmi delle mani sulle spalle, come un amico, come un padre, come un fratello maggiore.

“Non pensare a questo, adesso” gli consigliò, con affetto. “E’ inutile piangere sul passato. Pensa ai piccoli, adesso, loro hanno estremo bisogno di voi”.

Qualcosa, nel suo tono, nelle sue parole, gli fece pensare che lui avesse un’idea più chiara riguardo a cosa ne era stato dei bambini.

“Gohan, sinceramente…tu cosa pensi, di tutta questa storia?” lo anticipò Goten, avvicinandosi al fratello.

L’uomo sospirò, rivolgendo un rapido sguardo in direzione della moglie, ancora seduta accanto alla figlia, come faceva da piccola, quando Pan faceva i capricci per addormentarsi da sola.

“Credo ci sia qualcosa di piuttosto grosso. Non ho idea di quante persone siano coinvolte, o quali siano le loro intenzioni, ma nel momento stesso in cui, al telefono, mi avete raccontato i fatti, ho avuto l’assoluta certezza della causa del rapimento”.

“Cioè…?” chiese Trunks, in un sussurro.

“I loro poteri”.

Dunque anche lui la pensava così. Pure Goten, che aveva immaginato qualcosa del genere, restò impietrito dalle parole del fratello, quasi quella che fino ad allora era stata solo un’ipotesi diventasse improvvisamente una certezza. Non poteva essere altrimenti. Era mezzogiorno, e il telefono non aveva ancora squillato.

“Cosa…cosa vogliono da loro?” la voce di Goten era lievemente incrinata.

“Non lo so. Forse vogliono solo studiarli…forse vogliono vedere di che sono capaci…o forse…” si bloccò un secondo. “Forse vogliono sfruttare le loro capacità. Ma è solo la peggiore delle ipotesi”.

Lux…Fackel…                                                                                     

Trunks sentì l’aria della stanza farsi improvvisamente più pesante.  Il soffitto, i muri inondati nella penombra, sembravano avvolgerlo, ingoiarlo inesorabilmente. Tutto girava, sempre più veloce, come una trottola impazzita. Sentì un tonfo pesante, quello del suo corpo che cadeva pesantemente a terra.

 

Si risvegliò nel salone, disteso sul divano. Una figura femminile, con il volto circondato di capelli neri, era riversa su di lui, tamponandogli la fronte. Videl.

“Tutto bene, Trunks, è stato solo un calo di pressione” lo tranquillizzò.

In piedi, vicino alla donna, i due fratelli Son lo guardavano sollevati.

Richiuse momentaneamente gli occhi, godendo della fresca sensazione di acqua pulita sulla fronte. Aveva sonno. Sentiva le ossa fragilissime.

Gohan e Goten ora se ne stavano in disparte, il più maturo che diceva qualcosa al fratello, tenendogli una mano sulla spalla, quest’ultimo che ascoltava annuendo. Aveva dimenticato quanto ancora Goten lo considerasse più padre di quello che era stato Goku, quanto necessitasse del suo appoggio anche superati i quarant’anni.

“Fatti forza, Trunks…” gli disse Videl, protettiva. Sorridendo, le comparivano piccole rughe ai lati della bocca, ma conservava ancora la freschezza della gioventù. “Pan è viva, lo sento anch’io. La riporteremo tra noi, vedrai, e anche i piccoli torneranno a casa sani e salvi. Io e Gohan ci siamo sempre, ricordatelo, per qualsiasi cosa…fatti coraggio, e vedrai che tutto andrà bene”.

 

Fackel leggeva svogliatamente il romanzo. Era seduta su una scomoda sedia di metallo, e avevano attaccato alla sua testa un’infinità di piccole ventose colorate. Non le piaceva quel libro, o semplicemente, non aveva voglia di leggerlo, e quelle piccole membrane appiccicose cominciavano a farle dolere la fronte.

Con una smorfia imbronciata, strinse tra le manine i due lembi del libro, per poi gettarlo disgustosamente a terra.

“Ehi, bimba, che succede??” la rimproverò bonariamente Lilian, accorrendo verso di lei e raccogliendo il libro stropicciato. Cercando di non farsi notare, strinse di più il bracciale della bambina.

“Questi giochi non sono divertenti. Voglio andare a casa!” protestò, incrociando le piccole braccia.

Lilian ricordava come avesse dovuto metterle in testa che quello che stavano facendo era solo un gioco particolare, in cui lei doveva leggere mentre tanti piccoli animaletti colorati le stuzzicavano la fronte, per sfidarla in una gara in cui avrebbe vinto chi comprendeva di più. Si era resa ben presto conto che quella scusa era fin troppo astrusa per una bambina normale, figurarsi per una dall’intelligenza sopraffina.

“Vuoi fare una pausa? Oppure vuoi che ti porti uno snack?”.

“Non voglio niente, voglio solo andare a casa!” ribadì, con tono più deciso.

“Su, avanti, solo qualche altro secondo e abbiamo finito!”.

“No, no, no!! Io voglio la mia mamma e il mio papà, non voglio più stare in questo brutto posto!!” gridò, mettendosi a piangere violentemente, mentre si strappava i sensori dalla fronte e i suoi singhiozzi risuonavano tra le mura dei laboratori del seminterrato.

Mentre Lilian cercava inutilmente di calmare la bambina, evitando il suo scalciare continuo, Frederik entrò nel laboratorio, l’espressione ansiosa e interrogativa.

“Cosa sta succedendo qui?” brontolò, serio.

“La piccola non ha più voglia di collaborare…si è già staccata tutto!”.

“Con questo si dovrebbe calmare” annunciò lui, riempiendo una piccola siringa sterile di tranquillante e iniettandola nel braccio minuto.

Dopo qualche protesta relativa al bruciore dell’ago, infatti, il pianto della bimba si fece meno forte, fino ad affievolirsi del tutto mentre il suo respiro si faceva più regolare e cadeva in un sonno tranquillo.

“Allora, cosa hai scoperto?” chiese Wissen, guardando il monitor del computer di Lilian, che mostrava uno spaccato di un encefalo.

“Come vedete, dottore, l’attività cerebrale durante la lettura è superiore a quella di qualsiasi suo coetaneo” spiegò la donna, indicando particolari aree evidenziate sullo schermo. “Questa bambina ha una capacità di intuizione e di comprensione nettamente superiori rispetto agli standard”.

“Pensi che le sue doti intellettive siano dovute al suo sangue sajan?”.

“In gran parte sì. Quando gli ormoni bloccano le sue capacità il soggetto sa comunque leggere, ormai è una dote appurata, ma l’acutezza di comprensione è limitata e perde facilmente la concentrazione…tipico di un bambino…quando invece il suo braccialetto è allentato, dimostra delle capacità veramente fuori dalla norma per la sua età…”.

Wissen, che fino ad allora si era dimostrato interessato, aggrottò velocemente la fronte, fissandola incredulo con quegli occhi grigi e penetranti.

“Hai…allentato il braccialetto?” mormorò, quasi in un sussurro.

Lilian esitò. Si rese conto di aver fatto uno sbaglio.

“Sì…solo un po’, però, tanto per vedere come lavorava il suo cervello grazie ai suoi poteri…”.

Gli occhi di lui sembravano emettere scintille.

“Ti rendi conto di quello che hai rischiato?!” le gridò in faccia. “La bambina non ci avrebbe messo niente a liberarsi!”.

“Frederik…ehm…dottore…le posso assicurare che non se ne è neanche accorta!”.

“Ma se se ne fosse accorta? Eh?? Forse non sai di che cosa sono capaci!”.

“Ma è solo una bambina…cosa vuole che…”.

“Non è solo una bambina! Quei tre non sono semplicemente dei bambini, sono molto di più, ma cosa ne vuoi sapere tu!”.

Lilian abbassò la testa, umiliata. Gli occhiali nascondevano l’imbarazzo dei suoi occhi.

“Mi scusi, dottor Wissen. Non commetterò più questo errore”.

Lui girò la testa dall’altra parte, quasi lo ripugnasse vedere una donna affranta che chiedeva perdono per un errore non poi così grave.

In realtà Frederik era deluso, profondamente deluso. Non tanto per la stupidaggine commessa da quella donna…anzi, forse aveva avuto una buona idea a verificare le sue piene capacità…ma quella piccola femmina sajan, inizialmente la candidata ideale per il suo carattere aperto, non era adatta a sviluppare le sue doti…tanto intelligente e intuitiva fuori, ma fragile e piagnona proprio come tutti gli altri bambini.

 

Golden girava nervosamente lungo la stanza. Certe volte si guardava intorno, cercando una possibile via di fuga, ma ogni volta si rendeva più conto che erano completamente in trappola, senza poteri e nelle mani di estranei con chissà quali intenzioni.

“Secondo te…cosa le stanno facendo?” chiese debolmente a Lux, seduto su uno dei materassi, l’espressione sorprendentemente calma, quasi si fosse ormai rassegnato al loro incomprensibile destino.

“Non lo so” si limitò a rispondere, scrollando le spalle.

Ricordava come, poco prima che la portassero via, sua sorella si fosse avvicinata a lui, lo avesse guardato con espressione speranzosa e avesse mormorato: “Papà e mamma verranno a riprenderci tra poco, vero??”. Lui le aveva rivolto uno sguardo distruttivo, rispondendole freddo: “La mamma è morta…e papà non vorrà perdere tempo a cercarci, cosa credi!”.

Il volto della bambina si era immediatamente incupito, per poi lasciare spazio ad un espressione di rabbia: “Non è vero! Non è  vero! Sei un bugiardo, Lux!!”.

Quando poco prima l’aveva sentita piangere da una stanza vicina, oltre alla paura e all’incertezza che attanagliava suo cugino aveva provato una punta di amara soddisfazione…finalmente, forse, si era resa conto che era inutile farsi tante belle illusioni…erano soli, ormai…

“Dobbiamo uscire di qui!” aveva esclamato Golden, più agitato che mai.

“Sai che non possiamo”.

“Oppure riuscire a toglierci questi braccialetti!”.

“Ci abbiamo già provato…”.

“Insomma, ci deve essere qualche modo!” protestò lui, insistente.

Ma cosa potevano fare, in realtà? E anche se fossero riusciti a liberarsi, a tornare a casa…cosa avrebbero trovato? Forse suo padre lo avrebbe rimproverato per l’ennesima distrazione, per aver messo in pericolo anche sua sorella…

Qualcuno fece aprire la porta metallica, quella parete invalicabile che li separava dal mondo…era quel tipo alto, muscoloso e senza capelli…

Si fermò davanti a loro per un attimo, scrutandoli entrambi.

“Chi di voi due è Golden?” chiese.

Suo cugino alzò la testa verso di lui, leggermente intimorito dall’imponenza dell’uomo rispetto alla sua piccola statura, che in altre occasioni non sarebbe stata un problema.

“Perché...?”.

Senza rispondere, l’uomo lo prese per un polso, e senza tanti convenevoli lo costrinse a seguirlo fuori dalla stanza.

Adesso Lux era solo…più solo che mai in quella grande stanza fredda…

 

Bra avviò l’ingombrante macchinario. Il sole del primo pomeriggio filtrava tra le tapparelle semichiuse del laboratorio, facendo danzare una serie di ombre sull’arredamento della stanza e sul volto della donna.

Adesso lei non poteva fare più niente. Doveva solo aspettare che il separatore automatico rivelasse qualcosa di anormale presente nel siero da lei isolato, sperando che una segnalazione positiva comparisse sul computer collegato al macchinario.

Aspettare. E sperare. Non ci riusciva poi così bene.

Nella sua mente comparve per un attimo il volto allegro di suo figlio, i suoi occhi d’ebano, uguali a quelli di Goten, e il suo sorriso, le sue piccole labbra che tanto ricordavano quelle del principe dei sajan…

Oh, Golden…Oh, bambino mio…dove sei, tesoro?

Tornò a fissare il monitor. Nel giro di qualche secondo, qualcosa sarebbe comparso, o altrimenti avrebbe reso tutto vano.

 

Wissen osservò con piacere la scena mostrata dal monitor numero 2, nella portineria del seminterrato. La telecamera inquadrava uno dei laboratori, dove Hatch, sotto suo diretto ordine, faceva sedere il giovane sajan su una sedia e attaccava ai piccoli muscoli delle grappette collegate ad un generatore di elettricità. Il ragazzino protestava, ma il suo tecnico sapeva come tenerlo buono, o con le buone o con le cattive.

Quel bambino era il più istintivo dei tre…sicuramente, in qualche modo, avrebbe avuto da lui ciò che voleva…

Mentre lasciava la stanza per raggiungere il laboratorio, lanciò un’occhiata al monitor numero 1, inquadrante la stanza dei piccoli. Il cucciolo con gli occhi tristi era raggomitolato in un angolo, immobile. Forse tramava. O forse piangeva.

Perché mai, un bambino con così tante potenzialità, doveva rinchiudersi dentro di se in quel modo? Come era possibile che faticasse tanto ad esternare i suoi sentimenti, quando era capace di ricoprirsi di luce?

“Lasciami andare!” sentì gridare al cucciolo dagli occhi scuri, appena entrò nel laboratorio. Hatch aveva già fermato i suoi polsi e le sue caviglie alla sedia, in misura precauzionale. Ricevuto il suo cenno, avviò la prima scarica. Il bambino urlò con tutto il fiato che aveva, mentre una corrente a basso voltaggio attraversava il suo corpicino.

“Si chiama elettroshock, Golden” gli spiegò Wissen girando intorno alla sua sedia, mentre lui lo fissava con occhi terrorizzati e respirava affannosamente per riprendersi. “Non ti farà alcun male, ti aiuterà solo a trovare lo stimolo per volere di più”.

“Cosa..?” riuscì a balbettare il ragazzino, confuso e ancora indolenzito.

Wissen gli si avvicinò, posandogli le mani sulle spalle. Questa volta non si sarebbe scostato, era completamente bloccato alla sedia.

“Tu puoi fare grandi cose, Golden, molte di più di quelle che i tuoi genitori ti permettevano!”.

Golden lo fissò un momento, a metà tra l’incuriosito e lo spaventato.

“Cioè?”.

“Non ti piacerebbe poter usare il tuo potere quando e nella misura che ti pare? Non ti piacerebbe vedere fin dove arriva, senza che nessuno ti limiti?”.

“Ma non si può…”.

Un’altra scarica, della stessa intensità ma più prolungata, che lo fece urlare di nuovo, un grido più strozzato e compresso.

“Certo che si può, qui è permesso tutto…basta che lo vuoi, giovanotto…non senti il bisogno, non senti il tuo corpo che ti chiede di buttar tutto fuori??”.

“Io…non…”.

Un’altra scarica, leggermente più intensa…Golden ansimava, e la sua fronte era imperlata di sudore.

“Io lo so che ne hai bisogno, tu ami usare le tue capacità…” continuava con veemenza, tenendo fermo il suo sguardo sempre più smarrito e facendo leva sulla sua mente sempre più influenzabile. “Quindi adesso, se ti concedo di nuovo i poteri, prometti di usarli secondo la mia guida e i miei consigli, in modo che ti aiuti a raggiungere il massimo?”.

Scarica. Grido.

“Vuoi darmi la possibilità di aiutarti, Golden?”.

Adesso il viso del dottore era a pochi centimetri dal suo, contratto dall’aspettativa. Il bambino accennò una smorfia di disgusto, conservando le ultime energie stroncate dalla corrente per sputargli in faccia senza ritegno.

Wissen quasi non si mosse, limitandosi ad estrarre un fazzoletto dal camice immacolato e pulirsi il volto, senza un minimo cambio di espressione.

Poi, guardando il tecnico, ordinò, atonale: “Dagli uno schiaffo, Hatch”.

Dopo un secondo in cui sembrò non aver capito bene il da farsi, l’uomo fece schioccare con forza il palmo della grande mano sulla guancia del piccolo impertinente.

Golden fece per protestare dal dolore, ma le parole ora uscivano dalle sue labbra solo come singhiozzi soffocati. In pochi attimi aveva iniziato a piangere silenziosamente.

“Te ne pentirai…hai perso una grande occasione, ragazzino!” sibilò Wissen, uscendo dalla stanza.

Ma a Golden non importava proprio niente di quello che diceva quell’uomo…lui voleva solo tornare a casa, dai suoi genitori…

Quando l’uomo calvo lo riportò nella loro stanza e uscì chiudendosi la porta alle spalle, non ebbe neanche la forza di asciugarsi le lacrime per evitare quell’umiliazione con il cugino, che lo fissava sorpreso per quella sua insolita dimostrazione di debolezza. Si limitò a precipitarsi verso di lui, scuotendolo vigorosamente per le braccia.

“Dobbiamo andarcene da questo posto, Lux! Non mi importa in che modo, ma dobbiamo scappare…o ci faranno delle cose orribili!”.

 

Continua…

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Capitolo 7

Capitolo 7

 

 

 

Goten porse a Trunks un pezzo di focaccia, che afferrò distrattamente senza degnare di uno sguardo. Non aveva fame, il suo stomaco era chiuso in una morsa soffocante. Vani erano stati i tentativi dell’amico di fargli mangiare qualcosa, nonostante fosse dalla sera prima che non toccava cibo.

Dalle finestre percepiva un vago chiarore, una nebbiolina umida che avvolgeva West City fin dall’alba, e gravava sulla Capsule Corporation come un involucro bianco, dando l’idea che il tempo, in quella casa, si fosse in qualche modo fermato, stagnando sui due uomini che, silenziosi, tentavano di fare colazione.

“Non sono l’unico ad avere una brutta cera, oggi…” notò Trunks, osservando Goten che, più taciturno del solito, cercava di minimizzare la sua evidente apprensione preoccupandosi per la salute dell’amico.

“Stamattina, quando mi sono svegliato…Bra non era accanto a me” confessò il più giovane, di getto.

Trunks spalancò gli occhi con sorpresa.

“Credevo stesse ancora dormendo…” mormorò.

Goten negò con la testa, sospirando.

“Ho trovato solo un biglietto. Mi diceva di non preoccuparmi, che doveva fare qualcosa di importante e che avrebbe passato la notte fuori…” lo informò. “Non è ancora tornata…spero solo che…”.

Ma il suo discorso fu interrotto dal suono di passi affrettati che si avvicinavano alla cucina, dalla cui porta si affacciò affannata sua sorella, con un foglio bianco in mano. Nei suoi occhi notò qualcosa di diverso rispetto a quello che aveva visto nei due giorni precedenti, una nuova luce, una nuova forza e una ritrovata determinazione.

“Ho i risultati!” annunciò, con una piacevole nota di speranza nella voce.

 

Il bambino giaceva immobile su un improvvisato lettino coperto di carta. Le sue palpebre erano deboli, cominciavano a chiudersi sugli occhi assonnati, mentre il respiro si faceva via via più rilassato e regolare.

“L’ipnotico sta già cominciando a fare effetto, dottore” notò Dan, togliendo il laccio emostatico dal braccio del piccolo, usato per l’iniezione di pochi attimi prima.

Wissen avanzò di qualche passo, fino a sedersi di fronte al bambino disteso. Lo guardò per qualche secondo mentre combatteva invano per resistere al sonno, le piccole labbra semiaperte, i lisci capelli che gli coprivano parzialmente la giovane fronte. Istintivamente gli accarezzò una guancia.

“Mi senti, Lux?” chiese, con voce pacata, quasi soffusa, in perfetta armonia con l’ambiente di rilassante semioscurità che aveva creato nella stanza.

Il piccolo mugolò qualcosa, con un grado di coscienza ormai basso a causa del farmaco.

“Riesci a sentirmi, Lux?” ripetè di nuovo, per assicurarsi che il piccolo capisse perfettamente cosa gli avrebbe detto.

“Sì…” uscì infine dalle piccole labbra, mentre gli occhi fissavano distrattamente il soffitto ombroso, ormai piccole fessure che non riuscivano a rimanere aperte.

“Bene, Lux, perché adesso dormirai, cadrai in un sonno tranquillo e profondo, giù, sempre più giù, come se una piacevole corrente ti portasse a valle…ma il tuo inconscio resterà qui con me, perché dovrà essere ancora in grado di sentire le mie parole e rispondere alle mie domande…solo il tuo inconscio, tutto il resto scorre via tranquillo…hai capito tutto, Lux?”.

“Sì…” mormorò, mentre i suoi occhi, obbedienti, si chiudevano definitivamente, e la sua mente cosciente scivolava in chissà quali altri mondi.

“Ora dimmi, cucciolo…cosa ti tormenta più di ogni altra cosa?”.

Lux non rispose, rimase in silenzio, e per un momento Frederik temette di averlo perso nella corrente immaginaria che aveva creato nella sua mente.

“Sei ancora con me, Lux? Ci sei?”.

“Ci…ci sono” balbettò il ragazzino.

Forse, semplicemente, tale domanda non era abbastanza semplice da porre ad un bambino, per di più in stato di ipnosi. Non era ancora molto esperto nell’uso di quella tecnica, anche se alcuni psichiatri di sua fiducia gli avevano in passato spiegato le basi.

“Ti trovi bene qui, piccolo?” chiese, cercando di girare intorno al problema.

“No” fu l’immediata risposta.

“Vuoi tornare a casa, allora?”.

“Non…so” rispose, dopo un briciolo di esitazione.

“Perché non sai?”.

“Non…non so” ripetè lui.

“Voglio sapere il motivo, Lux” precisò, intuendo poi che era meglio procedere con domande dirette, nonostante non fosse poi così semplice indovinare le risposte. “Ti sentivi felice prima di venire qui?”.

Il bambino non rispose. Si limitò a mugolare qualcosa, sbuffando.

“Uno con le tue capacità…sarà davvero orgoglioso di quello che sa fare. Sei orgoglioso, Lux?”.

“Non sono orgoglioso…”.

“Perché vorresti fare di più?”.

“No…non di più”.

“Di meno…?”.

Il bambino mugolò. Poi: “Di meno…come…gli altri”.

“Gli altri? Chi sono gli altri?”.

“Gli altri…bambini”.

Incredibile. Quel fortunato esserino, con quel prezioso dono che la natura aveva voluto dargli, non ero contento delle sue doti. Avrebbe voluto essere un ragazzino normale, un inutile, comune e debole ragazzino, incapace di innalzarsi al di sopra della media, e che probabilmente, invecchiando, avrebbe visto sfumare una ad una anche quelle semplici cose che l’umanità sostiene bastino a renderci felici…la sua diversità avrebbe dovuto farlo sentire migliore…e invece, forse era proprio ciò che lo rendeva così triste.

Fu tentato di agire sulla sua mente, cambiando quella sua stupida convinzione. Ma non era quello il momento, adesso aveva bisogno di sapere.

“Quindi non ti importa di tornare a casa, alla tua vecchia vita? Non vorresti riabbracciare tua madre?”.

“La mamma è morta…è morta” disse il ragazzino, cominciando ad agitarsi nel lettino, come se fosse in procinto di piangere.

“Calma, Lux, calma, adesso la corrente ti sta cullando dolcemente, e tu sei tranquillo, rilassato, e non hai più paura di niente, ok Lux?”.

“O…ok…” ubbidì il piccolo, rilassando i muscoli che aveva contratto, quasi percepisse davvero le sensazioni che gli trasmetteva.

“E il tuo papà…non vuoi rivedere il tuo papà?”.

Lux non rispose. Sospirò.

“Mi senti, Lux?”.

“Sì”.

“E allora, non vuoi rivedere il tuo papà? Credi che ti stia cercando, adesso?”.

Il cucciolo esitò ancora. Poi ammise, atonale: “Starà cercando lei”.

“Lei? Chi è lei?”.

“Lei…Fackel”.

Fackel era sua sorella, la piccola sajan dalle doti intellettive al di sopra del normale. Che voleva dire con quella frase? Che significava sostenere che stesse cercando solo lei?

“Non sta cercando anche te?”.

“No…io…no…”.

“Perché mai, Lux?”.

“Perché…io…no come lei…”.

“Cosa vuoi dire?”.

“Io…sbaglio sempre…io…pasticcione…io…non coraggioso…”.

“Lui ti dice che sei così?”.

“No…”.

“Come lo sai, allora?”.

Gli occhi di Wissen si stavano illuminando. Forse aveva imboccato la strada giusta…il suo cuore martellava alla sola idea…

“Lo vedo…lui…quasi non sa che esisto…e quando se ne accorge…mi sgrida…se ho fatto qualcosa che non dovevo…è sempre così…mi guarda male…”.

Le parole uscivano ora libere dalle labbra del bambino, senza che Frederik lo forzasse. Evidentemente, la questione doveva stargli molto a cuore.

“E ti dispiace di questo, Lux?”.

Il piccolo emise un piccolo singhiozzo. Stava ancora dormendo, gli occhi erano chiusi, ma quelle immagini e quei sentimenti dovevano essere così vivi nel suo inconscio nascosto che ora si manifestavano apertamente. Avrebbe potuto farlo calmare con una sola parola, come prima, ma forse era proprio quello che voleva. La liberazione dei suoi sentimenti repressi.

“Lui non mi vuole così…lui non mi vuole…se ero solo un bambino normale non dovevo dimostrare niente…potevo fare tutto senza paura…ma sono diverso…però non è facile essere diverso…lui non capisce che è difficile…difficile essere due cose insieme…o nessuna delle due…lui non mi vuole…non mi vuole bene come a lei”.

Adesso il bambino piangeva, sebbene compostamente, ed i violenti singhiozzi soffocavano le sue parole che erano venute fuori come un fiume in piena, ma Wissen era talmente eccitato per la sua utilissima scoperta che ci mise qualche minuto prima di decidersi a calmare il bambino e riportarlo alla realtà, dove di certo non si sarebbe mai confidato così apertamente. Era soddisfatto. Aveva saputo tutto quello che voleva, e molto di più di quello che si aspettava.

 

Bra si chiese perché mai non vi avesse pensato prima. La Capsule Corporation era stata, in passato, una delle massime fornitrici di macchinari per il campo bio-medico. Era bastato tornare nel vecchio laboratorio di sua madre, da anni inutilizzato, togliere i teli dai macchinari che era solita progettare, e scoprire con gioia che, dopo tutti quegli anni, funzionavano ancora perfettamente.

Vi aveva lavorato tutta la notte, fornendo ai sofisticati apparecchi ciò che restava del campione di sangue, e questa volta era arrivata ad una conclusione.

Grazie papà, per avermi dato la forza...e grazie, mamma, per avermi lasciato i mezzi...

Adesso, seduta alla scrivania dello studio davanti al suo portatile, Trunks e Goten si sporgevano dietro alle sue spalle in attesa di spiegazioni.

“Ho trovato una molecola estranea nel sangue di Pan” li informò. “Controllando le banche dati della rete, ho scoperto che si chiama neuronina”.

“Neuronina?” si chiese Trunks, accigliato. “Sembra avere a che fare con…”.

“Il sistema nervoso, esatto” lo anticipò lei. “E’ infatti una sostanza molto tossica, che diffondendo dal sangue si lega a tutti i neuroni dell’organismo, bloccando immediatamente la trasmissione dell’impulso nervoso. Di conseguenza, il cervello non può più trasmettere informazioni, e si fermano tutte le funzioni motorie e sensoriali, sia volontarie che involontarie”.

“Io non ne so niente di medicina ma…una cosa del genere…dovrebbe portare alla morte immediata!” osservò Goten, incredulo.

“Nei normali esseri umani sì…ma Pan ha sangue sajan…probabilmente il suo organismo dispone di un sistema di difesa in più che ha permesso una sorta di ibernazione del suo corpo, in modo che i suoi organi non si deteriorino in assenza di battito cardiaco o di funzionalità cerebrale”.

Trunks deglutì pesantemente. Pensò a Pan, la sua vita appena ad un filo così sottile…chissà per quanto avrebbe retto quel filo, se prima o poi si sarebbe inesorabilmente spezzato, senza più via di ritorno.

“Hai idea da dove provenga quella molecola?” chiese, ansioso.

“In realtà è un prodotto sintetico” rivelò Bra, digitando qualcosa sulla tastiera e inoltrandosi nella rete. “Per nostra fortuna, un’unica azienda biotecnologica ha il brevetto per la produzione di tale molecola”.

Sullo schermo a cristalli liquidi comparve la panoramica esterna di un vasto edificio in muratura rossa, e in alto, come titolo della foto, l’indicazione: WISSEN BIOTECHNOLOGIES.

“Il nome non mi è nuovo…” notò Trunks, che però non rammentava dove lo avesse mai potuto sentire.

“Infatti…è l’istituto privato di ricerca a pochi chilometri da West City. Hanno creato la neuronina dieci anni fa, inserendo il gene artificiale in colture batteriche, che ne producevano per loro in quantità industriale”.

“A che mai poteva servire questa neuro…questa sostanza così pericolosa?” chiese Goten.

“L’avevano ideata come diserbante per le piante. Gli agricoltori la richiedevano per uccidere gli insetti che infestavano le loro piantagioni. In realtà ho fatto delle ricerche e sembra che attraverso traffici illegali la vendessero anche a organizzazioni criminali che la usavano per ben altri scopi…”.

“Cielo…” mormorò Goten. “Sono stati complici di chissà quanti omicidi…”.

“Già…fortunatamente cinque anni fa ci fu una soffiata, e scoppiò uno scandalo a proposito”.

“Spero che i colpevoli abbiano pagato per ciò che hanno fatto”.

“Purtroppo no. Il fondatore dell’azienda fu chiamato a giudizio, ma convinse i giudici di non aver niente a che fare con tutto ciò, di non essere al corrente sull’uso che veniva fatto della molecola. Non avevano prove sul suo conto. Se la cavò con una multa e con la promessa di mettere fine alla produzione di neuronina…almeno ufficialmente”.

“Chi è il fondatore?” chiese Trunks, sporgendosi verso il computer, mentre sullo schermo si apriva una nuova pagina.

Una foto rivelò un uomo sulla cinquantina, seduto su una poltrona in pelle ad una scrivania, capelli biondo cenere striati d’argento, barba appena pronunciata, occhi grigi nascosti dietro a lenti dall’elegante montatura.

Trunks sbattè gli occhi, confuso, cercando di richiamare quell’immagine nella sua mente.

“Frederik Wissen” lo informò sua sorella, leggendo la didascalia a lato della figura. “Nato a West City cinquantatre anni fa, laureato a pieni voti alla West University in biotecnologie, dottorato in biologia molecolare e specializzazione in ingegneria genetica, finchè non si mette in proprio e fonda la Wissen Biotechnologies, fruttuoso istituto di ricerca, in cui si svolgono progetti più o meno noti, e più o meno legali”.

“Che mi venga un colpo…” mormorò Trunks, incredulo. “Questo è…Freddie”.

“Chi?” chiese sorpresa Bra, non avendo mai sentito quel nome.

“Tu non puoi ricordartelo, eri troppo piccola all’epoca…ma la mamma aveva un tirocinante, un tempo, un tesista in biologia o qualcosa di simile, a cui mostrava le invenzioni che potevano servire per i suoi progetti…” si asciugò una goccia di sudore dalla fronte. “Da un giorno ad un altro non è più venuto”.

“Nei sei sicuro?” chiese Goten all’amico, che sembrava agitato dalla sua stessa realizzazione.

“Sì, sono quasi certo…sono passati tanti anni ma…i suoi occhi sono sempre gli stessi, quegli strani, incomprensibili occhi grigi…”, mormorò, rabbrividendo.

Bra e Goten si guardarono, non potendo che fidarsi della memoria di Trunks, nonostante il suo evidente nervosismo.

“Un’altra bizzarra coincidenza…” notò Bra, pensierosa.

“Pensate davvero che sia lui il fautore di tutto questo?” chiese Goten, mentre una punta di ansia cominciava a penetrarlo. “Che sappia tutto di noi e che adesso voglia fare delle ricerche sui bambini?”.

“Non lo so…” rispose la moglie. “Ma dobbiamo scoprirlo prima possibile”.

 

Le quattro mura senza finestre erano ancora intorno a loro, fredde e spoglie, obbligandoli dentro una prigione senza fine. Golden sospirò.

Chissà quanto tempo era passato da quando si era risvegliato in quella cella per la prima volta...ore, giorni...aveva completamente perso la cognizione del tempo...chissà quante volte il sole era tramontato, quante volte aveva fatto spazio alla notte e poi ancora ad un nuovo giorno...non aveva più avuto modo di vedere il cielo, solo la gelida, monotona, luce al neon di quelle stanze anonime...

Aveva tentato la fuga verso la libertà, ma di nuovo si era risvegliato stanco e deluso in quel duro materasso, come un cerchio che si richiudeva ogni volta, lasciandolo senza via d'uscita. Poco lontano da lui, Fackel, rannicchiata in un angolo della stanza, si dondolava meccanicamente sulle ginocchia, fissando il pavimento.

Quel suo gesto distratto, proprio come il ticchettio di un orologio, scandiva monotono il tempo, che sembrava non passare mai in quell'angolo di mondo nascosto sotto terra. Eppure, sembrava un'eternità che non rivedeva casa...che non provava quella piacevole sensazione di appartenenza...

Casa...

Sembrava così lontana, adesso...

"Dove hanno portato Lux?" chiese ad un tratto la bambina, voltandosi verso il cugino.

Golden scrollò le spalle. "Non lo so".

Ultimamente ripeteva quella frase troppo spesso. Solo pochi giorni prima, avrebbe giurato di non trovarla nel suo vocabolario.

"Dimmi una cosa" chiese ancora Fackel, guardandolo con occhi colmi di tristezza, che raramente aveva scorto nello sguardo positivo di quella sua precoce cugina. "Tu hai paura, Golden?".

Il ragazzino voltò lo sguardo in basso, sentendosi debole come non mai.

"Sì. Ho paura".

 

“Un caffè, dottor Wissen?” propose Dan, tendendo al suo capo il bicchierino appena riempito al distributore automatico.

“Non adesso, Dan” rispose secco Frederik, facendo un cenno con la mano verso di lui, quasi a volerlo scacciare. Era troppo immerso nei suoi pensieri per dare ascolto alle stupidaggini del suo dipendente.

Lux, ancora disteso sul lettino, si stava risvegliando lentamente, cominciando a stropicciarsi gli occhi, forse pensando che aveva solo dormito. Wissen sorrise. Davanti a lui c’era una porta, di cui ora aveva la chiave. Poteva entrarvi, finalmente, e riordinare un bel po’ di cose.

“Un’altra iniezione, Dan” disse improvvisamente.

“Adesso, dottore?” chiese stupito l’assistente. “Ma…si è appena risvegliato…”.

“Ho detto adesso!”.

L’aspettativa era troppo opprimente, doveva agire subito o l’avrebbe logorato. Doveva farlo suo, portarlo verso di se, ora, subito, immediatamente…

Quando, dopo circa dieci minuti, il bambino cominciò a riaddormentarsi e Wissen si assicurò di nuovo che solo il suo inconscio potesse sentirlo, abbandonando la ragione e dando spazio all’istinto, iniziò la programmazione.

“Adesso io ti dirò delle cose, Lux, e tu le immagazzinerai…quello che ti dirò è la verità, l’assoluta verità, capito?”.

“L’assoluta verità” ripetè meccanicamente il bambino.

“Tuo padre ti odia” assentì, senza esitazione.

“Mi odia…” ripetè lui, con un piccolo tremito.

“Ma tu sai che sei molto migliore di quello che crede lui. Tu ne sei assolutamente sicuro, vero?”.

“Sì…ne sono sicuro”.

“E anche tu lo odi, Lux, lo odi con tutto il cuore, perché lui non riconosce le tue potenzialità”.

Il bambino tacque, ma aveva sicuramente immagazzinato.

“Lo odi, Lux?”.

“Lo odio”.

Wissen sogghignò soddisfatto. Quelle parole suonavano alle sue orecchie come una dolce melodia.

“Adesso, ogni volta che penserai a lui, proverai dell’odio. E ogni volta che proverai dell’odio, crescerà dentro di te della rabbia. Tanta, tanta rabbia”.

“Tanta…rabbia”.

“La rabbia risveglierà i tuoi poteri, Lux. Potrai fare qualsiasi cosa. E non dovrai sentirti in colpa, mai più. Però non puoi riuscirci da solo, piccolo. Ti serve una guida. Sai chi sarà la tua guida?”.

“No…”.

“Sarò io, cucciolo. Solo io ti aiuterò” sussurrò, avvicinandosi ancora di più al bambino dagli occhi chiusi, mentre quasi si commoveva alle sue stesse parole. “Solo io ti voglio bene…perché sono io il tuo vero padre, Lux…io ti darò veramente la vita…io ti farò rinascere di nuovo”.

Il piccolo non si mosse. Continuava ad assimilare, passivamente.

“Adesso dimmi. Chi è tuo padre?”.

“Tu…padre”.

Una sensazione di puro piacere lo invase. Il suo cuore batteva all’impazzata, avrebbe voluto gridare al mondo intero la sua gioia.

“Certo, Lux, bravissimo. Chi è invece che odi?”.

“Mio…mio…quello…l’altro…”.

“Esatto, Lux. Il tuo falso padre, quello che non ti vuole bene” specificò. “Invece con me puoi essere felice. Per essere felice dovrai solo obbedire a ciò che ti chiede tuo padre, perché tuo padre vuole solo il bene per te, vuole che tu sia completamente te stesso, che tiri fuori da dentro di te tutto ciò che prima non potevi. Tutto chiaro, figliolo?”.

“Sì”.

“Allora, Lux, se io ti chiederò di fare qualcosa…qualsiasi cosa…tu cosa farai?”.

“Farò quello che mi chiedi”.

“Dì papà…”.

“Farò qualsiasi cosa….papà”.

Frederik lo baciò sulla guancia, vezzeggiandolo affettuosamente. Ancora qualche ritocco, qualche ultimo ordine, e il bambino sarebbe stato perfettamente programmato. Programmato come una macchina, ma a cui voleva già bene come un figlio.

“Adesso ti risveglierai, Lux, e dimenticherai questa conversazione. Ti sembrerà che le istruzioni che ti ho appena impartito siano semplicemente frutto della tua mente, tua unica volontà e convinzione. Ti sembrerà naturale obbedirmi, e vedermi come l’unico, vero padre, così come ti sembrerà naturale odiare l’altro. Ora svegliati, Lux”.

 

L’edificio si stagliava imponente davanti a loro, sprizzante di vita, con i veicoli di rifornimento che entravano e uscivano dalle zone di scarico, i dipendenti con i camici che passavano davanti alle finestre frettolosi e impegnati, tra microscopi e provette, gli impiegati e le segretarie davanti ai telefoni trillanti o ai computer accesi.

“Ci facciamo annunciare?” chiese Trunks, guardando la sorella ed il cognato.

“Certo. Ricordi cosa ci ha detto mio fratello? Assoluta cautela e discrezione…”.

Poco prima avevano telefonato a Gohan, informandolo delle ultime novità. Dal momento che non erano certi che la pista conducesse realmente lì, il più anziano aveva consigliato loro di muoversi con ragionevolezza, verificando prima le loro ipotesi sul campo, raccogliendo prove, testando la credibilità dei responsabili. Inoltre, se avessero ostentato subito i loro propositi di vendetta, quei bastardi non avrebbero esitato a usare quella stessa molecola su di loro, e allora sarebbe stata davvero finita.

Avrebbero inventato una scusa per parlare con Wissen…per scoprire qualcosa di più…per ottenere l’antidoto, con una buona dose di fortuna…

Chissà se tra quelle mura, da qualche parte, i bambini avevano bisogno di aiuto…ma non era quello il momento…purtroppo dovevano trattenersi a demolire con un’onda d’energia quell’ammasso di pietra…quanto avrebbero voluto farlo…

“Andiamo” li spronò Bra, avviandosi verso il vialetto che conduceva all’entrata. “Voglio proprio guardare negli occhi questo dottor Wissen…e leggergli cosa nasconde!”.

 

Continua...

 

Nota dell’autrice: La “neuronina” è una mia pura invenzione, non esiste realmente, anche se mi sono ispirata agli effetti della tossina botulinica.

 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Capitolo 8

Capitolo 8

 

 

 

Il portone principale si apriva su un largo spazio circolare, da cui si diramavano a raggiera una serie di corridoi gremiti di porte che, probabilmente, conducevano ad uffici o a laboratori.

Trunks, Goten e Bra avanzarono con discrezione attraverso l’atrio, in mezzo a gruppi di dipendenti che, frenetici, si dirigevano verso diverse ali dell’edificio. Avrebbero potuto confondersi tra la folla, sgusciare in qualche stanza in cerca di informazioni, raggiungere i laboratori al di là delle indicazioni che invitavano alla cautela, ma una bionda seduta al bancone della portineria, intenta a formare grosse bolle con un’appiccicosa gomma da masticare, li notò immediatamente.

“Ehi, ma lei è Trunks Brief!” esclamò a voce alta, abbandonando il fotoromanzo che fino ad allora leggeva annoiata e sporgendosi verso di loro.

Trunks, che non ci teneva minimamente ad attirare l’attenzione pubblica, tossì nervosamente, avvicinandosi con indifferenza alla ragazza, mentre Bra sospirava arresa per quell’occasione sprecata. Il fascino di suo fratello non era mai passato inosservato, ma essere una specie di celebrità, adesso, non era esattamente ciò che ci voleva.

“Sto cercando il dottor Frederik Wissen” annunciò, mantenendo un tono di voce piuttosto basso. “Potrebbe dirmi dove posso trovarlo?”.

“Il titolare?” chiese la ragazza, appoggiandosi comodamente alla spalliera della sedia e accavallando una gamba, come se finalmente avesse trovato il modo di passare il tempo e stesse per iniziare una piacevole conversazione. “Non credo che riuscirete a parlare con lui facilmente!”.

Un magro dipendente in camice bianco, passando dall’atrio circolare, si fermò di scatto non appena li vide, sgranando gli occhi castani.

“In questi giorni il capo sembra essersi volatilizzato nel nulla” continuò la ragazza. “Passa giusto di sfuggita in ufficio per poi sparire in qualche remoto laboratorio per tutto il giorno!”.

Il dipendente curioso si intromise tra loro e la donna, fulminando quest’ultima con un’occhiata sprezzante.

“Mary, se non ti dispiace ci penso io ai signori, torna al tuo lavoro!” la rimproverò nervoso, volgendo un falso sorriso ai tre ospiti.

“Ok” obbedì lei scrollando le spalle, tornando risentita al suo fotoromanzo.

“Vogliamo parlare con il dottor Wissen” ripetè Trunks. “E’ rintracciabile?”.

“Oh, ma certo che è rintracciabile” assicurò l’uomo, balbettando. “Perché mai non dovrebbe esserlo?”.

 

“Vieni, giovane Lux, devo mostrarti una cosa”.

Il bambino si girò verso di lui, allontanando lo sguardo dalle immagini colorate che popolavano il televisore installato nel laboratorio. Si alzò senza esitazione da terra, dove era stato seduto buono e silenzioso nelle ultime due ore, guardando cartoni animati. Già, guardando, perché probabilmente ciò che vedeva andava oltre i milioni di pixel dello schermo…probabilmente vedeva mondi popolati di nuove possibilità, di nuovi sogni e di nuovi poteri, che si aprivano davanti a lui come un portone rimasto chiuso per troppo tempo…

Non aveva tentato di fuggire, da quando si era risvegliato. Né aveva pianto, o cominciato a lamentarsi, come se quel posto, a una decina di metri sotto terra e estraneo alla luce del sole, fosse stata sempre casa sua.

Adesso lo guardava in aspettativa, attendendo ordini. Nei suoi occhi c’era ancora quella vaga malinconia che lo caratterizzava, ma adesso si posavano su di lui fermamente, senza vergogna, senza timore, solo una spontanea sottomissione.

“Riconosci quest’uomo, Lux?”.

Wissen aprì un giornale davanti al ragazzino, quelli pieni di gossip e di facce note, dove è facile trovare i principali personaggi dell’alta società. Nella pagina da lui scelta, in primo piano, spiccava la figura di un uomo distinto, affascinante, vestito elegantemente, i lineamenti illuminati da un sorriso ammaliante e da due occhi dello stesso colore di chi, più giovane, lo fissava impassibile.

“Lo riconosci?” ripeté Frederik, bramoso.

Lux non rispose. Afferrò il giornale dalle mani del suo nuovo mentore, non di scatto, ma con il garbo e l’educazione che probabilmente gli era stata sempre insegnata. Senza cambiare espressione, senza trapelare rabbia o odio dal quel piccolo giovane viso, strappò la pagina in questione, accartocciandola prima tra le mani in una pallina informe, poi, non contento, riducendola in mille pezzi. Un lampo di soddisfazione balenò nei suoi occhi quando, compiuto ciò che doveva esser fatto, osservò ai suoi piedi i brandelli sconnessi che, come un complicato puzzle, disperdevano e sfiguravano il volto del suo padre biologico.

Wissen gongolò soddisfatto. Lux odiava suo padre…era grazie a lui che quel povero piccolo aveva imparato ad odiarlo…ma quante cose c’era ancora da insegnare a quel tesoro, quante cose…quanto potere c’era ancora da tirare fuori da quel corpicino che, come un diamante allo stato grezzo, celava ancora gran parte del suo valore…

“Dottor Wissen!”.

Dan, precipitandosi come una gazzella impazzita nella stanza, interruppe violentemente il suo idillio, facendolo sobbalzare dalla sedia.

“Che c’è, non vedi che sono occupato?!” protestò.

“Mi dispiace, dottore, ma questa è un’emergenza…” spiegò l’assistente. “Credo che abbiamo visite!”.

 

Il lussuoso ufficio era illuminato da una spaziosa vetrata, aperta sulla periferia industriale di West City. Sulla scrivania di legno vigeva un ordine quasi maniacale, senza un solo granello di polvere dimenticato, senza un solo oggetto in disordine o lasciato nella posizione sbagliata, tanto da far abbandonare a Trunks ogni tentativo di sbirciare nei cassetti o all’interno dei fascicoli. Era come se, dietro a tutta quella esplicita perfezione, quella apparente normalità, si nascondessero presenze cattive che li osservavano, seduti in silenzio in aspettativa, come se quel luogo fosse popolato di segreti oscuri e attività raccapriccianti che si celavano dietro una veste di assoluto candore.

Lo sentiva, sì…lo sentiva nell’aria…

La porta dell’ufficio si aprì finalmente verso l’interno. Camice immacolato, capelli biondo argento, occhi grigi, un bastone con cui si aiutava per camminare…

Era lui, sì, adesso ne era sicuro…il Freddie dei suoi ricordi, il Freddie che sua madre trattava come un figlio, il Freddie che era sempre così gentile con lui, così educato, così amabile e volenteroso…possibile fosse la stessa persona che adesso entrava nella stanza, fissandoli con espressione cupa e impenetrabile? Possibile fosse colui che si era portato via i suoi bambini, tenendoli prigionieri in chissà quale luogo oscuro? Possibile che quel ragazzo che avevano accolto in casa con così tanta disponibilità adesso li ripagasse con un affronto così grande?

Oh, mamma, tu che mi guardi dall'alto, fa che non sia lui...fa che non sia lui...

“Salve” li salutò, senza trapelare un sorriso, sedendosi dall’altra parte della scrivania. “A cosa devo la visita del presidente della Capsule Corporation?”.

Trunks credette di non riuscire a rispondere. Il suo cuore martellava al ritmo di pensieri divoranti, pensieri sulla probabilità che i suoi figli si trovassero lì, da qualche parte, in quello stesso edificio, costretti a subire gli esperimenti di una persona spregevole. Sentì Goten che, accanto a lui, lo incoraggiava silenziosamente, attraverso un breve ed amichevole tocco sul ginocchio, al di sotto della scrivania. Non doveva perdere il controllo. Non doveva lasciare sospetti.

“Credo di averla già conosciuta, dottor Wissen…diversi anni fa” gli rammentò lui. “Di certo conosceva mia madre, Bulma Brief”.

“Oh, certo che la conoscevo” lo interruppe con indifferenza lo scienziato. “A lei devo molto del mio successo, signor Brief”.

Trunks provò un impulso di rabbia. Sua madre mai e poi mai gli avrebbe spalancato le porte della sua casa o dei suoi laboratori, se avesse saputo che razza di persona era…

Calmo, Trunks, calmo...

In fondo, non potevano sapere se era veramente colpevole…forse lui non sapeva neanche dell’esistenza dei loro figli, forse era solo un ingegnoso scienziato di successo, un brav’uomo che non avrebbe fatto male ad una mosca, con solo qualche precedente burocratico alle spalle…

“Per quale motivo mi avete cercato, signori?” ripeté, rilassato sulla poltrona alle sue spalle e le mani incrociate elegantemente sulla scrivania, come fosse assolutamente sicuro del fatto suo.

A Trunks si bloccarono ancora una volta le parole in gola, lasciandolo senza risposta. Cosa avrebbe detto, adesso? Come avrebbe spiegato quello che era successo?

 

Golden si alzò di scatto dal materasso non appena vide aprirsi la porta metallica, mentre suo cugino faceva ingresso nella stanza, dopo diverse ore di assenza. Dietro di lui, non c’era traccia del tizio calvo e muscoloso, né della donna o di quell’antipatico con i capelli neri e spettinati. Sembrava fosse rientrato da solo, di sua spontanea volontà.

“Lux!” esclamò Fackel andandogli incontro, nonostante il fratello non l’avesse degnata di uno sguardo. “Dove sei stato?”.

Lui non rispose, limitandosi a sdraiarsi sul suo materasso, come in procinto di farsi una rilassante dormita.

“Cosa ti hanno fatto per tutto questo tempo!” aggiunse Golden, abbassandosi verso di lui e scuotendolo leggermente, nella speranza di ricevere attenzioni.

Lux voltò lentamente gli occhi verso di lui, come se l’avesse notato in quel momento per la prima volta da quando era entrato.

“Ero nel laboratorio accanto” rispose annoiato. “Con il dottore”.

“E chi ti ha riaccompagnato?”.

“Nessuno…non ho bisogno della balia, per fare due passi” affermò sprezzante, con un tono che raramente aveva sentito uscire dalle labbra di suo cugino, costantemente frignante e depresso.

“Vuoi dire che…ti lasciano girare da solo per i laboratori?”.

“Certo”.

Gli occhi di Golden si illuminarono d’improvviso, rivelando anche un sorriso speranzoso. Non aveva idea di cosa fosse successo in quelle ore precedenti, né di come diavolo avesse fatto suo cugino a convincere quegli uomini a lasciarlo vagare libero dovunque voleva.

“Adesso che sei tornato a prenderci, potremo finalmente fuggire!”.

“Sono tornato solo perché il dottore mi ha detto di farlo” lo smentì lui. “Ha detto che devo stare qui finché non ha sbrigato una questione urgente”.

“E’ la nostra occasione, Lux! Tu puoi aprire la porta, possiamo scappare, possiamo tornare a casa!”.

Lux guardò il cugino come se stesse dicendo un mare di sciocchezze. Gli occhi di Golden traboccavano di gioia, di speranza, mentre quelli del più giovane non accennavano alcuna emozione. Neanche la tristezza si rifletteva ormai in quegli specchi azzurri, solo il vuoto totale.

“Io non me ne andrò di qui! Mai!”.

“Che stai dicendo, Lux!”.

“Non voglio tornare a casa!”.

“Tu sei pazzo, i miei genitori e tuo padre ci aspettano!”.

“Mio padre è qui! Qui! Frederik è mio padre!”.

Golden rimase ammutolito, mentre Fackel si piazzò davanti al fratello, i piccoli pugni chiusi sui fianchi, le fini sopracciglia abbassate sui grandi occhi corvini.

“Non dire queste cose! Nostro padre si chiama Trunks Brief!” gli ricordò la bambina, in un coraggioso tentativo di riportarlo alla ragione, come se il fratello si divertisse a scherzare su argomenti seri e delicati che possono essere fraintesi.

Ma ciò non fece altro che acuire l’ostinazione di Lux, il quale la gettò a terra con un rapido e istintivo spintone.

“No!!” gridò. “Non dire più quel nome! Mai più!”.

La bambina scoppiò in lacrime, più per l’oscuro comportamento del fratello che per la violenta caduta a terra.

“Lux, ma che ti prende!” lo rimproverò Golden, facendolo girare verso di lui. “Vuoi dirmi cosa ti hanno fatto, di là?”.

“Non mi toccare!”.

“Lux, maledizione, lo vuoi capire che ce ne dobbiamo andare!” continuò il più grande, scuotendolo fermamente, come bastasse quel gesto a farlo tornare in se.

Ma Lux si rivoltò verso di lui con un ghigno quasi animalesco, facendo partire un pugno volante che finì dritto sull’occhio del cugino.

 

“Allora, a cosa devo la vostra visita?” chiese di nuovo Wissen.

Trunks esitò ancora, maledicendosi per non essersi inventato qualcosa prima. In questo modo stava solo aumentando i sospetti sul loro passaggio alla Wissen Biotechnologies. Avrebbe dovuto dire addio alla possibilità di trovare indizi sui bambini, a quella di ottenere un antidoto per Pan…

“L’impianto di irrigazione dei giardini della Capsule Corporation è stato contaminato” lo anticipò Bra, decisa. “Dal momento che alcuni animali sono deceduti bevendola, l’ho analizzata personalmente e risulta trattarsi di neuronina”.

Ancora una volta, sua sorella lo stava salvando. Adesso però non si trattava di scampare ad una figuraccia di fronte al consiglio di amministrazione, ma di qualcosa di ben più complesso e pericoloso, dove solo uno sbaglio, un’esitazione, sarebbe stata fatale.

Osservò con attenzione la reazione di Wissen. Si accomodò leggermente sulla sedia, come a voler trovare una posizione più comoda, ma la sua espressione rimase la stessa, glaciale e inquisitrice.

“Lei deve essere Bra, giusto?”.

“Esatto” confermò lei. “E questo è mio marito Goten. Son Goten”.

Goten, accanto a lei, fece un accenno di inchino con la testa, più ironico che di rispetto, a cui il dottore non sembrò comunque prestare troppa attenzione.

“Bene, Bra, non vedo come posso esserle utile”.

“Mi risulta che solo voi abbiate il brevetto per la produzione di tale molecola, dottor Wissen”.

“Sono anni che non la produciamo più”.

“Eppure, in qualche modo deve essere finita lì”.

“Mi dispiace, ma non sono problemi che mi riguardano” si difese lui con naturalezza.

Goten si sporse sulla scrivania, guardandolo fisso negli occhi ma fingendo lo stesso atteggiamento di non curanza del suo interlocutore.

“Anche quando la sua creazione veniva usata a scopo criminale non erano problemi suoi, vero dottore?” chiese, trapelando una punta di malizia.

“Esattamente” rispose lui leggermente stizzito. “Da allora abbiamo fermato la produzione di neuronina, bloccando quindi anche le vendite di essa. Non può trattarsi della stessa molecola”.

“L’ho analizzata personalmente, dottor Wissen, le caratteristiche corrispondono”.

“In questo caso devo concludere che lei non abbia la competenza necessaria per dare credibilità all’analisi, dottoressa Bra”.

La donna scattò di colpo sulla sedia, come se fosse in procinto di alzarsi e tirare uno schiaffo a quell’impertinente.

“Ma come si permette?!” esclamò offesa, mentre Trunks la tratteneva con discrezione sulla sedia, cercando di far sbollire il suo orgoglio ferito.

“Probabilmente il dottor Wissen voleva solo dire che non ha responsabilità sull’accaduto” intervenne, rivolto alla sorella. Gohan aveva raccomandato loro di mantenere la calma. E così avrebbero fatto.

“Vedo che ci intendiamo perfettamente, signor Brief” osservò compiaciuto lo scienziato. “Sarà un pregio di famiglia”.

Dalle sue labbra si formò un mezzo sorrisetto, il primo segno di espressività in quel volto imperscrutabile, che però fece accapponare la pelle a Trunks. Qualunque cosa avesse voluto dire con quelle parole, anche se sicuramente non avevano alcun significato remoto, anche se forse si ricollegavano solo alla passata esperienza lavorativa con sua madre, si sentì inquieto come mai da quando era entrato in quell’ufficio.

 

Golden giaceva a terra, gemente, tenendosi lo zigomo dolorante. Lux indossava ancora il bracciale, quindi la sua forza non era certo al massimo, ma neppure la resistenza al dolore di Golden poteva essere tale da sopportare un colpo in pieno viso.

“Lux, torna in te! Quel dottore è solo un pazzo che vuol farti del male!” riuscì a gridargli stringendo i denti, ma il cugino gli si avventò contro, balzando sopra di lui come un leone inferocito, iniziando a tempestarlo di colpi che per l’eccessiva rabbia non andavano neppure a segno, o cercando di strappargli i capelli nascosti oltre le braccia di Golden che, non potendo far altro, cercava di formare uno scudo contro il bambino impazzito.

Fackel, ancora in lacrime, si era rifugiata in un angolo della stanza, osservando impotente la scena.

Le porte di acciaio si aprirono di nuovo, facendo sgusciare dentro i tre scagnozzi di Wissen che, prendendoli alle spalle, separarono velocemente i due bambini.

“Che diavolo state combinando, mocciosi!” gli urlò contro quello alto, gettando Golden senza troppo garbo su uno dei materassi, lontano da Lux che scalpitava contro la stretta dell’uomo magro e della donna.

Afferrò violento il polso di Lux, togliendolo alla presa dei colleghi e strattonandolo verso l’uscita del laboratorio.

“Dobbiamo portarlo in un’altra stanza o qui si ammazzano a vicenda, poi lo sentiamo, il vecchio!”.

“Non credo proprio!” lo ammonì l’altro, sbarrandogli la strada. “Il dottor Wissen ha ordinato che stesse qui!”.

“Il tuo caro dottor Wissen ci farà più grane se il suo moccioso prediletto si fa male, quindi spostati!”.

“Ma non capisci, Hatch, è rischioso portarlo fuori ora!” continuò il magro con voce stridula e affannata. “Di sopra ci sono i genitori, in questo momento!”.

Golden sentì il suo cuore mancare di un battito. I loro genitori…di sopra…a pochi metri da loro…

Il tizio grosso spostò l’altro con un leggero spintone, facendosi strada fuori dalla stanza insieme a Lux, di nuovo silenzioso e accondiscendente.

“Mamma!! Papà!!” cominciò a gridare istintivamente Golden, con le lacrime agli occhi e con tutto il fiato che aveva. “Siamo qui!!”.

“Papà, papà!!” gli fece eco Fackel, saltellando sul pavimento e agitando nell’aria le piccole braccia.

La donna, avviandosi per ultima verso l’uscita, si voltò lentamente verso di loro, guardandoli con un misto di rassegnazione e indifferenza.

“E’ inutile, bambini” mormorò. “Per quanto forte continuerete ad urlare, da quaggiù non potranno mai sentirvi”.

Esitò per un momento, come volesse ancora dire o fare qualcosa, ma poi ci ripensò subito, uscendo rapidamente dalla stanza e richiudendosi la porta metallica alle spalle.

 

“Un antidoto?” chiese Wissen, mostrandosi alquanto sorpreso.

“Non possiamo certo lasciare l’impianto contaminato…sarebbe alquanto rischioso, vista la pericolosità della molecola, non trova?” chiarì Goten, compensando l’improvviso ammutolimento di Trunks e il silenzio offeso della moglie.

“Non esiste un antidoto”.

“Non esiste? Eppure l’avete creata voi la neuronina, dovrete conoscere anche un modo per inattivarla!”.

“Mi dispiace deluderla, signor Son, ma non abbiamo mai previsto l’utilità di una cosa del genere! Inoltre, le ripeto che non è nostra responsabilità se qualche teppista con delle vecchie scorte si diverte a farvi scherzi di pessimo gusto!”.

Che impertinente, pensò Goten. Se davvero fosse lui il fautore del sequestro, quella conversazione doveva essere tesa come un filo tirato, non solo da parte loro, ma anche e soprattutto da parte sua. Se davvero era lui il loro nemico, quella situazione era alquanto bizzarra, per non dire surreale, in cui entrambi conoscevano la verità e ed erano consapevoli dei sospetti dell’altro…eppure nessuno avrebbe lanciato la prima pietra, ostinandosi a raccontarsi un mucchio di fandonie nonostante l’evidenza…loro non avrebbero potuto prendere l’iniziativa, non avevano prove contro di lui. Ancora una volta, quel pazzo di dottore la faceva di nuovo franca…

“Adesso, se non vi dispiace, vi accompagno all’uscita” disse educatamente, alzandosi dalla sedia e invitando i suoi ospiti a fare altrettanto. “Ho del lavoro da sbrigare”.

Certo, come no, pensò Goten tra se. Non era difficile immaginare quale importante lavoro avesse da sbrigare…forse la creazione di un nuovo veleno che avrebbe sterminato l’umanità, forse crudeli maltrattamenti di animali da laboratorio…o forse brutali esperimenti sui loro figli inermi…

Ma cosa ne potevano sapere, loro? Fosse stato per lui, avrebbe incenerito quel posto con un solo gesto, solo per il marcio che c’era in quell’uomo, ma adesso si stavano avviando verso l’uscita dell’edificio delusi e arrendevoli, e non potevano fare altrimenti.

Qualcosa brillava tra le fronde di una pianta da appartamento, appena accanto all’ascensore. Qualcosa di dorato e lucente, che in quel momento diventava più prezioso di quanto mai lo fosse stato.

 

Wissen sorrise affettuosamente al bambino, seduto di fronte a lui silenzioso, le braccia incrociate sul piccolo petto, gli occhi vaganti sul pavimento di linoleum.

“Non ti trovi molto bene con tuo cugino, non è così?” gli chiese, sedendosi accanto a lui sull’improvvisato divanetto da laboratorio.

“Lui vuole tornare a casa. Vuole costringermi a tornarci. Io invece non voglio” ammise Lux, continuando a guardare in basso.

“Oh, lo so, piccolo, lo so che vuoi restare qui” lo vezzeggiò il dottore, accarezzandogli paternamente i lisci capelli neri.

Improvvisamente, provò un emozione così intensa che mai in tutta la sua vita aveva provato, portandolo istintivamente ad abbracciare il bambino, facendoli appoggiare la testolina sulla sua spalla, cullandolo in una tranquilla e silenziosa ninna nanna. Mai aveva provato quel calore…mai suo padre era potuto vivere abbastanza per fare la stessa cosa con lui…né sua madre, fin da giovane troppo malata e stressata per infondergli un po’ d’amore materno…

Da solo, sempre da solo, a fronteggiare le avversità della vita, a costruirsi la sua strada tra muri da abbattere e avvoltoi da eliminare…a combattere contro quella stessa malattia di sua madre, che adesso logorava i suoi arti inferiori facendogli perdere, progressivamente, la capacità di camminare…

Ma adesso aveva suo figlio…lui sarebbe stato il vero bastone della sua vecchiaia, lui la vera estensione del suo corpo, capace di demolire ogni ostacolo…e Frederik, da parte sua, vi avrebbe messo la mente, aiutando quel bambino a scacciare i suoi fantasmi, a ritrovare la forza e la decisione…un rapporto biunivoco, due esseri e un solo spirito…

Era il momento della verità, adesso e per sempre…

“Lux, porgimi il polso”.

Il bambino obbedì, alzandosi in piedi di fronte all’uomo e avvicinando a questo la sua mano sinistra. Wissen tirò fuori dalla tasca una piccola chiave, che iniziò ad armeggiare nel lucchetto che teneva chiuso il suo bracciale.

“Adesso ti darò di nuovo i poteri, Lux, perché tu sei mio figlio e so che seguirai i miei consigli per usarli al meglio”.

Il piccolo annuì, fissando con bramosia la manetta metallica che si allentava progressivamente.

Era un operazione rischiosa, ma necessaria. Wissen non aveva paura, perché era assolutamente sicuro della fedeltà del cucciolo. Quella era solo una prova superflua, una pura formalità.

Il bracciale si aprì definitivamente, liberando il polso del bambino, che si guardò incuriosito la striscia rossa che la stretta dell’oggetto aveva lasciato. Nel giro di qualche secondo, come un’immagine che sparisce a dissolvenza, la striata se ne andò per magia.

Adesso il dottore ed il bambino si guardavano negli occhi, in attesa. Che dolce sensazione per Frederik riuscire a catturare per più di un fugace momento quegli occhi grandi e invalicabili…

“Ci siamo, Lux. Adesso sei libero” annunciò, mentre il suo cuore accelerava all’impazzata.

Il cucciolo non si mosse, come se quella consapevolezza non volesse dire niente, per lui, senza le direttive del maestro. Lo guardava ancora, in aspettativa, e quella visione fece tirar fuori allo scienziato un sospiro di sollievo e di soddisfazione.

“Adesso Lux, voglio che tu faccia una cosa. Però, sebbene le pareti di questa stanza siano state appositamente rivestite di un materiale isolante che trattiene l’aura, ti pregherei di mantenerla comunque più bassa che puoi”.

Dovevano continuare ad agire nell’ombra, per ora, finché il giovane sajan non fosse stato pronto. Poi, al momento opportuno, lui avrebbe vendicato se stesso eliminando tutti coloro che lo trattenevano nella sua vecchia vita, nella sua inutile, squallida vita da finto terrestre. I veri genitori avevano scoperto la neuronina, erano riusciti ad arrivare fino a lui e ora gettavano freccette sospettose nei suoi confronti, ma l’avrebbero fatto ancora per poco.

“Ricopriti d’oro, Lux” concluse Frederik, con un tono così poetico e solenne che ebbe l’impressione di trovarsi in un sogno, fuori dal mondo, lontano dalla civiltà.

E quella che il bambino offrì ai suoi occhi era senza alcun dubbio una visione divina, celestiale, da far sembrare ogni singolo uomo, per quanto potente e grande esso fosse, solo un minuscolo granello di sabbia di fronte all’imponenza della natura.

Capelli biondo oro, occhi verdi come smeraldi e una luce così accecante che solo in paradiso potevano averne prova…

 

La limousine presidenziale si avviò lentamente verso il cuore della città, lasciandosi alle spalle l’imponente edificio e tutti i sogni e le speranze svanite.

Trunks, alla guida, aveva lo sguardo fisso sulla strada, ma la sua mente era proiettata ancora all’interno di quell’ufficio, fissa su quell’uomo dall’espressione vuota e tuttavia inquietante, che pochi minuti prima aveva infuso in lui una sensazione fredda come il gelo.

Se sua sorella, seduta al suo fianco e con gli occhi fissanti distrattamente il paesaggio che scorreva rapido dal finestrino, avrebbe giurato la colpevolezza di quell’uomo solo per la malignità e l’irriverenza che aveva mostrato con loro, quello che provava lui era un sospetto molto più fine e irrazionale, che toccava il suo cuore senza tuttavia capirne il motivo. Era un puro istinto, nient’altro, che però riempiva i suoi polmoni di angoscia ad ogni respiro, anziché di aria fresca.

“Perché ce ne stiamo andando?” mormorò Bra, mantenendo lo sguardo fuori dal veicolo. “I bambini sono là, lo sento, ne sono sicura!”.

Trunks sospirò, sentendosi pesante come un masso.

“Lo vorrei anch’io, credimi. Vorrei tanto tornare lì, farmi strada a forza verso i laboratori e colpire chiunque tentasse di impedirmelo, finché non trovassi una sola traccia dei mie bambini” ammise, sentendo un groppo in gola che gli bloccava il respiro. “Ma non possiamo far del male o accusare delle persone solo per una semplice impressione, solo perché non ci sono simpatiche…non possiamo, perché non è questo che ci hanno insegnato”.

“E allora che facciamo, abbandoniamo tutto?” protestò Bra, non tanto rabbiosa con il fratello, ma con tutta quella assurda situazione. “Vuoi dire addio alla possibilità di rivedere i bambini? A quella di riportare in vita tua moglie? Vogliamo girare le spalle ad ogni cosa solo perché non abbiamo prove a riguardo?”.

Goten, che fino ad allora era rimasto in silenzio nel sedile posteriore, rivolse un’ultima occhiata indietro, per assicurarsi che ormai fossero lontani dalla vista di quell’edificio imponente, dalle cui finestre più alte qualcuno sembrava osservare minaccioso i tre sgraditi visitatori.

“Non è vero, Bra. Una prova l’abbiamo”.

Si sporse verso il sedile anteriore, mostrando agli altri due passeggeri qualcosa protetto e avvolto in un fazzoletto di cotone.

Trunks trasalì, alla vista di quel prezioso gioiello che mai avrebbe pensato di vedersi davanti.

“La riconosci?” chiese a Trunks, che annuì deglutendo pesantemente e sbattendo gli occhi per la sorpresa.

La collanina di Fackel…cielo, era proprio quella…

Tale implicita rivelazione adesso attanagliava il suo stomaco in una nuova macabra consapevolezza…ma ora, finalmente, sapeva dov’erano i suoi figli…non dispersi da qualche parte del mondo, ma proprio lì, nel castello degli orrori che si erano appena lasciati alle spalle…e finalmente sapeva chi era lui…

Il suo nemico, da abbattere senza più pietà, senza più commiserazione…

 

    Continua…

 

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Capitolo 9

Capitolo 9

 

 

 

Un opprimente silenzio aleggiava nella sala della grande abitazione. Neppure i gemelli, portati con se da Ub e Marron che avevano velocemente lasciato Satan City per raggiungerli, accennavano alcun’esclamazione giocosa, come se, nonostante la giovane età, capissero perfettamente la gravità della situazione. Se ne stavano bravi e silenziosi seduti sul pavimento, ai piedi del divano, guardando incuriositi e perplessi le facce dei genitori e degli altri adulti che, come volti di cera, riflettevano sul da farsi.

Trunks, che nonostante la stanchezza fisica ed emotiva non riusciva a stare seduto, scostò distrattamente le tendine della finestra. La città era avvolta da una fitta foschia, che rendeva le prime luci della sera dei bagliori fiochi e lontani dispersi nel crepuscolo imminente.

La notte era vicina, ma avanzava piano, fin troppo piano, e Trunks avrebbe voluto spostare le lancette dell’orologio avanti di qualche ora, verso il momento in cui avrebbe rivendicato la libertà dei suoi figli.

“Dobbiamo aspettare ancora, Trunks” lo aveva ammonito Gohan, a pochi passi da lui, notando la sua impazienza. “Dobbiamo fare in modo che lo stabile sia vuoto. Sai che non possiamo farci andare di mezzo lavoratori innocenti”.

Trunks guardò di nuovo la catenina di Fackel, che stringeva ancora tra le mani da quando era tornato a casa. Anche i suoi figli non erano altro che bambini innocenti, eppure qualcuno non aveva pensato che non si meritavano il male subito.

“Lo so, Gohan” mormorò, sospirando.

“Inoltre” continuò il più anziano “Anche se faremo incursione di nascosto e disponiamo di poteri che loro non hanno, non dobbiamo abbassare la guardia…loro sono preparati ad affrontarci”.

Anche senza specificare altro, tutti i presenti avevano già capito a cosa illudeva…bastava pensare a quello che avevano fatto a Pan…l’unica arma che offriva loro un vantaggio, e che rendeva vano ogni potere di sajan.

Videl fece il suo ingresso dalla cucina, posando in mezzo al gruppo un vassoio con qualcosa di caldo, ma che nessuno, per il momento, si sentì di assaggiare.

Il volto della donna era segnato da una leggera ansia, mentre si sedeva stanca su una delle poltrone. Non sarebbe stato facile, per lei, restare a casa con il pensiero di perdere, dopo la figlia, anche il marito, il genero o i cognati. Ma ormai era avvezza al rischio di dire addio ai suoi cari, non a caso era la moglie di un sajan da trent’anni, e la sua forza interiore riusciva sempre, in qualche modo e per quanto fosse possibile, a debellare il senso di apprensione e di paura che le cresceva dentro.

“Tu e Goten andrete in cerca dei bambini, mentre Bra andrà a caccia dell’antidoto” propose Gohan. “Quanto a me, vi coprirò le spalle”.

“Sei sicuro di farcela da solo, Gohan?” chiese Goten, preoccupato. “Voglio dire, se ti sparano contro quella roba…”.

“Non preoccupatevi per me, me la caverò, voi pensate a portare in salvo i bambini, e tu Bra, dovrai perquisire ogni singolo laboratorio”.

“Posso venire anch’io, Gohan…” si offrì Ub, con una sincera disponibilità. “Potreste avere bisogno di me”.

“Credo che sia meglio tu resti con Videl e Marron a casa, a vegliare su Pan…in caso avessimo bisogno di rinforzi, sappiamo dove trovarti”.

 

La sera era fredda, ma Frederik era bagnato di sudore dalla testa ai piedi. La tensione emotiva lo stava distruggendo, ma una volta passato quel momento, tutto sarebbe stato di nuovo a posto, anzi, senza dubbio meglio di quanto mai fosse stato prima. Ora che aveva accanto suo figlio, ora che era assolutamente sicuro della fiducia nei suoi confronti, non doveva temere più niente…più niente…

Ma come un peso opprimente, sentiva che quei sajan si stavano avvicinando, non era una lettura di aura, lui non ne era capace, era solo il suo istinto, una pura ma consistente sensazione.

Lux era al suo fianco, disponibile per qualsiasi cosa. Wissen si abbassò verso di lui, appoggiandogli i palmi delle mani sulle giovani spalle e incrociando il suo sguardo azzurro.

“Stanno arrivando, Lux…stanno venendo qui…sai a chi mi riferisco, vero?”.

Il bambino annuì.

“Bene…quindi tieniti pronto, figliolo…perché dovrai uccidere, stanotte”.

Lux sbattè le palpebre, ma annuì di nuovo, convinto.

“Così saremo solo io e te, cucciolo mio, io e te per sempre, lontano dai giudizi della gente e in grado di fare tutto quello che vogliamo e che non ci è mai stato concesso…saremo felici, vedrai”.

 

La visibilità era notevolmente ridotta, ma in un minuto i quattro sajan avevano raggiunto in volo la periferia industriale di West City, atterrando ai piedi della collinetta che ospitava il poderoso edificio. Di giorno, quella costruzione era sembrata solo un comune ed efficiente luogo di lavoro…adesso, avvolta nella nebbia e circondata da una soffocante oscurità, con la consapevolezza di aver davanti la vera prigione dei bambini, sembrava piuttosto un luogo sinistro e terrificante, le cui porte avrebbero dovuto aprirsi sull’inferno.

 

Wissen li sentiva vicini come non mai. Forse, affacciandosi dalla finestra avrebbe intravisto i loro volti cattivi, venuti a portargli via ciò che aveva di più prezioso, ma adesso non aveva tempo, doveva agire, e in fretta…

L’uomo cominciò a gettare lungo il corridoio il contenuto dell’ultima tanica, mentre l’odore pungente di benzina si diffondeva ormai in tutto il piano terra.

Potevano mettere a soqquadro quel posto, ammazzare i suoi seguaci, quegli stupidi incapaci che sicuramente non avrebbero saputo ostacolare la loro avanzata, distruggere o prendersi tutto quello che volevano, tranne una cosa…lui, e tutto ciò che rappresentava, era solo suo, suo e di nessun altro…

 

L’entrata fu più semplice del previsto. Si erano aspettati di dover sabotare un sofisticato impianto d’allarme o un sistema di chiusura centralizzato, ma una finestra del primo piano era stata lasciata incautamente socchiusa, permettendo l’ingresso dei clandestini proprio a livello dell’atrio iniziale.

Qualcosa attirò violentemente il loro olfatto, portandoli a storcere il naso.

“Cos’è questo odore?” chiese Goten, perplesso.

“Sembra …benzina…” notò Bra, facendosi cautamente strada verso il corridoio ombroso, che quella stessa mattina era stato gremito di gente.

Avanzarono con circospezione, scrutando le macchie di oscurità proiettate sulle pareti, dentro alle quali poteva nascondersi qualsiasi cosa. Il silenzio era assoluto, tanto che i loro singoli passi sembravano da soli risuonare tra quelle mura, facendoli sentire improvvisamente scoperti.

Erano a metà del corridoio centrale, quando dall’angolo in fondo ad esso balzò fuori una figura longilinea, irrigidendosi ad un paio di metri di fronte a loro. Li stava puntando qualcosa contro, e la sua sagoma scura sembrava tremare impercettibilmente.

“Non un altro passo…rimanete fermi, o sparo…” li minacciò, balbettando in preda alla tensione.

I quattro si paralizzarono all’istante, mentre fu l’uomo a fare un piccolo passo verso di loro, tuffandosi in una pozza di fioco bagliore lunare proiettato da una delle vetrate.

Trunks lo riconobbe immediatamente. Era l’uomo magro ed impacciato che quella mattina aveva voluto occuparsi di loro personalmente, esonerando la socievole e civettuola Mary…avrebbe dovuto immaginare che fosse un fedele seguace di Wissen…

Nelle mani stringeva qualcosa che poteva dirsi un incrocio tra un’arma da fuoco e una fionda, ma al posto di proiettili o di frecce c’era una siringa con un ago affilato.

Gohan notò l’istintivo terrore dei più giovani, con Goten che si poneva immediatamente davanti alla moglie e Trunks sconvolto per la sorpresa. La sostanza che brillava all’interno della siringa era la stessa che aveva ridotto Pan in quello stato, sospendendola tra la vita e la morte.

“Ok…abbassa quella cosa” lo ammonì Gohan, con la mano tesa in avanti. “Non succederà niente”.

L’uomo batteva i denti come se fosse congelato dal freddo, ma non abbassò l’arma, puntandola alternativamente verso ognuno di loro, pronto a captare ogni singola mossa.

“Indietro!” gridò, gli occhi spalancati per la tensione.

“Tu abbassala, e faremo come dici” continuò a trattate il più anziano, avanzando cautamente di un passo.

“Gohan, no…” mormorò Goten, stringendo la moglie tra le braccia.

Suo fratello gli rivolse uno sguardo rassicurante, come per dirgli che era tutto sotto controllo, per poi azzardare ancora un altro passo verso l’uomo tremante.

“Non avvicinarti! Guarda che sparo…guarda che sparo!!”.

“Calmati, non ce n’è bisogno…” cercò di tranquillizzarlo il sajan, ma il colpo partì rapido dall’arma.

 

Wissen trafficò agitato nella quasi oscurità del suo ufficio, dove l’odore di benzina cominciava ormai a farsi irrespirabile. Aprì l’armadietto a parete, rovesciando ogni cosa vi fosse posta dentro, per poi afferrare soddisfatto la chiave nascosta nel punto più lontano. Sgusciò veloce nel suo piccolo laboratorio personale, annesso alla stanza, fermandosi davanti ad uno dei congelatori orizzontali per la conservazione dei campioni. Armeggiò nel lucchetto, fino a farlo scattare rumorosamente. Sollevò lentamente il portello, mentre le fredde luci dell’apparecchio proiettavano un gelido bagliore sul suo viso, nervosamente contorto in un’espressione di orgoglio.

Sepolta sotto diversi cristalli di ghiaccio, catalogata solo con un’anonima scritta “privato”, una piccola provetta giaceva sul fondo del congelatore, che lo scienziato afferrò bramosamente ma con delicatezza. Ripose il piccolo campione in una valigetta termica, dove aveva già sistemato un paio di siringhe sterili e qualche farmaco. Richiuse tutto con tanto di combinazione segreta, tornando nel suo ufficio.

 

Dalle labbra di Bra era uscito istintivamente un grido, portandola a chiudere gli occhi e ad affondare il viso nel petto del marito. Trunks, impietrito, riuscì solo a mormorare il nome del suocero con aria interrogativa.

Gohan, di spalle e a qualche passo più avanti rispetto a loro, aprì lentamente gli occhi, quasi a volersi assicurare di poterlo fare veramente. Nella sua mano, a soli pochi centimetri dal petto, stringeva la pericolosa siringa. Dopo un sospiro di sollievo, la gettò con decisione sul pavimento, dove si infranse in mille pezzi spargendo il contenuto.

L’uomo davanti a lui, realizzando che il suo sistema di difesa era andato fallito e che ora si trovava completamente scoperto, si voltò immediatamente, tentando la fuga dalla parte opposta.

Aveva girato l’angolo, stava per sparire dall’uscita di emergenza quando qualcuno, apparso appena dietro di lui in un millesimo di secondo, lo afferrò per il camice sgualcito, appiccicandolo violentemente al muro del corridoio.

“Dove credi di andare!”.

Erano due begli occhi maschili, quelli che aveva davanti, chiari e luminosi e risaltati da una rara capigliatura lavanda, ma in quel momento sembravano emettere scintille di fuoco, tanta era la rabbia che gli bolliva dentro.

“Dove sono??” gli gridò in faccia, sollevandolo da terra di qualche centimetro.

“Vi prego, non fatemi del male!!” implorò l’uomo, scoppiando debolmente in lacrime.

“Dimmi dove sono! Voglio sapere dove sono i bambini!!” continuò Trunks, mentre il suo crollo emotivo aveva raggiunto il culmine della sopportazione, e tutto ciò che aveva represso fino ad allora veniva fuori di getto, come un torrente impazzito.

“Nel se-se…seminterrato…” balbettò l’uomo. “Secondo seminterrato…ma ora lasciatemi andare, per favore!”.

Trunks lasciò la presa, facendo piombare a terra la sua vittima come un peso morto, che uggiolò per quella che poi non doveva essere stata una caduta così dolorosa.

“Esiste un piano sotterraneo?” si chiese Bra, che aveva raggiunto il fratello insieme al marito e al cognato. “Ma non c’è traccia di scale che scendono…”.

Goten frugò nelle tasche del camice dell’uomo a terra stordito, trovando un tesserino magnetico e una piccola chiave.

“Credo che ci si arrivi tramite l’ascensore” indovinò, osservando l’oggetto che stringeva tra le mani.

“Andate!” li spronò Gohan. “Io resto qui, mi occuperò di lui!”.

Osservò i ragazzi che si allontanavano, per poi chinarsi verso l’uomo ai suoi piedi, che balbettava qualcosa come in preda ad un incubo ad occhi aperti.

“Credo che io e te dovremo fare due chiacchiere, giovanotto”.

 

L’ascensore si fermò rumorosamente al livello richiesto, separando dopo qualche secondo le portiere di metallo. Davanti a loro si aprì un lungo corridoio poco illuminato, rischiarato solamente da freddi faretti sul soffitto. Ai lati, tante altre diramazioni che conducevano ad un’infinità di stanze.

“Io vado da quella parte, credo ci siano dei laboratori” annunciò Bra, guardandosi intorno.

“Ti accompagno” si offrì Goten.

“Niente da fare, tu e Trunks dovete cercare i bambini, io mi occuperò dell’antidoto”.

“Sei sicura?”.

“Certo”.

Goten strinse a se la moglie, baciandole la fronte con dolcezza.

“Porta in salvo nostro figlio” le sussurrò lei, per poi allontanarsi lungo uno dei corridoi laterali con la grazia e la leggerezza di una falena, verso l’ignoto.

“Andiamo” rammentò Trunks all’amico.

 

Gohan decise di sedersi, lasciandosi scivolare sulla parete fino al freddo pavimento. Quello che Dan, come aveva detto di chiamarsi, gli aveva appena riferito, ogni singola parola tirata fuori dalle sue labbra, penetrava nella sua mente con la sofferenza di un coltello. Ciò che quel pazzo di uno scienziato, o quello che avrebbe dovuto essere, aveva fatto a suo nipote, quella povera creatura innocente, e indirettamente a Trunks, era ben oltre le sue previsioni…fargli il lavaggio del cervello, mettergli in testa tutta una serie di menzogne e convincerlo in maniera subliminale ad eseguire i suoi ordini…se solo Trunks immaginasse…doveva saperlo, per prepararsi al peggio…

Ma adesso doveva trovare quell’invasato, prima che potesse fare altro male…doveva trovarlo, per i bambini e per sua figlia…

“Ehi…” balbettò il giovane al suo fianco, dopo aver svuotato il sacco in preda al panico, anche se Gohan non gli aveva torto un solo capello. “Adesso mi lascerà andare, vero? Vero?”.

Gohan si stropicciò la faccia, cercando di tornare alla realtà.

“Aspetta qui” mormorò, alzandosi e dirigendosi verso uno degli uffici adiacenti. Tornò dopo qualche secondo, con una sedia e del nastro adesivo, con grande sbalordimento dell’altro.

“Siediti qui, per favore” gli chiese con gentilezza.

“Ma…ma che storia è questa?” domandò Dan con crescente agitazione, mentre il suo sequestratore cominciava ad avvolgere del nastro adesivo intorno al suo busto e alla sedia alle sue spalle. “Aveva detto che mi avrebbe aiutato, se avessi detto tutto!”.

“Esatto, ti sto aiutando” confermò il sajan, legandogli anche i polsi. “Ti sto aiutando a non commettere altre sciocchezze”.

“Ma…” protestò Dan, interrotto poi da una striscia di nastro adesivo proprio sopra le sue labbra.

Non era lui il nemico, lui era solo una pedina nelle mani di Wissen, abbindolato da false promesse e sicurezze, spinto a percorrere la strada più facile per avere ciò che la vita spesso non concede…lui come qualsiasi altro suo complice…come suo nipote, che però non avrebbe mai voluto tutto ciò, se non fosse stato intaccato il suo libero arbitrio…

“Credimi, ragazzo, non ho l’abitudine di legare la gente ad una sedia, ma a volte certe cose sono necessarie…per il bene di tutti”.

Lo lasciò immobilizzato lungo il corridoio, ispezionando i laboratori vicini, immersi in un’inquietante oscurità e in angoscioso silenzio.

Poi, un’ombra, ancora più nera.

Una sedia girevole si voltò verso la scrivania, in direzione della porta, rivelando una distinta figura maschile, più o meno della sua stessa età. Il volto di un uomo che come lui aveva dedicato la vita alla ricerca, alla conoscenza, ma che aveva inesorabilmente oltrepassato un confine etico irreversibile.

“Bene, vi stavo aspettando” lo accolse compiaciuto, senza ombra di terrore.

 

Giravano a vuoto in quel labirinto di stanze e corridoi da ormai qualche minuto, provando il tesserino magnetico in ogni porta chiusa si trovassero davanti, ma ciò che poi rivelavano non era altro che magazzini blindati o stanze radioattive.

Rimaneva quell’alta porta metallica, al limitare del piano, così fredda e silenziosa mentre i due sajan si avvicinavano, riponendovi tutte le loro speranze.

“Sono qui. Lo sento” sussurrò Goten a Trunks, guardandolo fiducioso negli occhi prima di inserire il tesserino nella fessura magnetica.

L’amico accennò un debole sorriso, per poi ispirare profondamente mentre le due porte scorrevoli, con un metallico stridio, si separavano lentamente.

E davanti a loro avevano quello che avevano sognato di vedere per tutto quel tempo…occhi innocenti di bambini, i loro bambini…così spauriti e increduli e confusi e sollevati allo stesso tempo, tutto insieme, così tante emozioni che si susseguono una dopo l’altra, come piacevoli soffi di vita che ti riscaldano il cuore…

 

Si era spinta fino all’estrema ala orientale del sotterraneo, immergendosi sempre più in quel territorio sconosciuto. Nonostante nei laboratori in cui era entrata non avesse trovato niente di particolarmente insolito, solo sostanze e strumenti assolutamente nella norma per laboratori di quella portata, sentiva un’aura malvagia gravare su tutto ciò, come se l’uso che in realtà ne veniva fatto non fosse affatto appropriato.

Entrò in un altro dei laboratori, nella speranza di trovare finalmente ciò di cui aveva bisogno. Quando aprì la porta verso l’interno, però, la sorpresa che trovò fu di un’altra portata: una donna, più o meno sua coetanea, una dottoressa con camicie bianco e occhiali da vista, era schiacciata contro il muro più lontano, facendosi piccola piccola tra un tavolo da laboratorio e un sofisticato calcolatore. Era terrorizzata, e il suo bel volto contratto e gli occhi arrossati lo dicevano chiaramente.

“Volete ucciderci?” chiese in un sussurro, la voce contorta dalla paura.

Bra entrò completamente nella stanza, fermandosi però ad una certa distanza dalla donna, che avrebbe voluto passare oltre il muro dietro alle sue spalle, pur di sfuggire al famigerato pericolo che aveva davanti. Non aveva mai creduto di fare così paura, prima d’ora.

“Credimi, ne avrei una gran voglia” ammise. “Ma sai, noi preferiamo non metterci al vostro livello. Siete voi gli assassini”.

La donna abbassò con imbarazzo lo sguardo, incapace di rispondere. E cosa avrebbe potuto dire, poi…era la pura verità.

“Mi farai del male per questo?” chiese infine, mentre una lacrima le scendeva sulla guancia arrossata.

“Non so, devo ancora pensarci” la sfidò di nuovo. “Intanto, voglio che mi aiuti a fare una cosa…una cosa molto più urgente…”.

 

Golden aveva le lacrime agli occhi quando era balzato tra le braccia del papà, come raramente aveva fatto e avrebbe creduto di fare. E Trunks, abbassandosi a terra e accogliendo tra le braccia quel dolcissimo frugoletto di sua figlia, che era corsa sorridendo verso di lui, aveva sentito una stretta al cuore così improvvisa, ma così piacevole, che avrebbe voluto stringerla a se per ore, coccolarla e rassicurarla per compensare tutto il tempo in cui non aveva potuto farlo. Di nuovo le sue manine, i suoi grandi occhioni d’ebano, le sue morbide guanciotte da baciare…

Ma una pesante mancanza gravò di nuovo su di lui, accorgendosi che la stanza era vuota dietro di loro.

“Dov’è Lux?” chiese a Fackel, facendola per un momento distogliere delicatamente dal suo abbraccio.

La bimba scrollò le spalle, facendosi improvvisamente più cupa.

“Non lo sappiamo, zio Trunks” gli rispose Golden. “Lui…lui non sta più con noi”

Lux non si trovava nella stessa stanza della sorella e del cugino, dunque…ma dov’era, allora? E perché suo nipote, nel rispondergli, aveva usato quel tono così triste e rassegnato, come se non volesse semplicemente comunicarli che era stato trasferito da qualche altra parte?

“Cos’hai fatto all’occhio?” chiese Goten a suo figlio, notando l’alone nero che gli circondava l’incavo dell’occhio destro.

“Ah, questo…” rispose il bambino, toccandosi il viso come se solo in quel momento se ne fosse ricordato. “Bè…ecco…”.

“Goten, io vado a cercare Lux!” lo interruppe Trunks, la cui gioia per il ritrovamento della figlia e del nipote si smorzava per la prolungata assenza del suo primogenito.

“Vengo con te, papà!” esclamò Fackel, che non aveva ancora lasciato la presa dai suoi pantaloni.

“No, tesoro, tu adesso devi uscire di qui, più in fretta che puoi!” la contraddisse lui, chinandosi verso di lei e appoggiandole le mani sulle piccole spalle.

“Non mi lascerai di nuovo, vero?”.

“Oh, no, piccola mia, non ti lascerò più, te lo prometto” le assicurò, stringendola di nuovo a se. “Adesso però ci penserà lo zio Goten a portarvi in salvo, io vi raggiungo tra poco…ok?”.

“Ok…” annuì la piccola, mentre Trunks, con un sorriso, si allontanava e scompariva alla sua vista.

 

L’uomo non era armato, ma Gohan esitò ugualmente. Quella sicurezza negli occhi grigi, quella sua esplicita rilassatezza, non facevano presagire niente di buono. C’era qualcosa sotto, e doveva fare attenzione.

“Lei deve essere Son Gohan, ammirato professore della West University” disse lo scienziato. “Oh, non faccia quella faccia sorpresa…deve sapere che mi sono informato bene, sulle vostre famiglie”.

“Lei è un pazzo…cosa ha fatto a mio nipote…” mormorò Gohan, irritato dalla sua spavalderia.

“Oh, non deve agitarsi, professor Son…so che è rinomato per la sua pazienza e diplomazia…non vorrà smentirsi proprio adesso”.

“Lei risponda alla mia domanda!” insisté lui.

“Lux? Oh, quel bambino è veramente un tesoro…” ammise Wissen, con un macabro sorriso che fece accapponare la pelle a Gohan. “Così acuto ed obbediente…”.

“Lei l’ha convinto con l’inganno!” gridò il sajan. “Gli ha fatto il lavaggio del cervello, mettendogli in testa un sacco di sciocchezze e programmandolo per obbedire ai suoi ordini!”.

“Io lo sto solo aiutando a capire chi è veramente…e a vendicarsi di chi vuole costringerlo a reprimere la sua identità!”.

Gohan deglutì pesantemente, cercando di rigettare indietro la voglia di spaccargli la faccia.

“Lei è malato, dottor Wissen…” si limitò a sibilare tra i denti.

Lo scienziato contrasse improvvisamente il volto, scolpendo in quei tratti gelidi un’espressione di offesa.

“Io…io non sono…malato!” balbettò, irritato. “La vostra razza è malata…siete diventati dei deboli, dei perdenti, dei rammolliti…basta una dose di neuronina, per farvi fuori!”.

Gohan esplose…aveva sentito fin troppo, e quelle ultime parole erano state la goccia decisiva per far traboccare il vaso. Aveva giunto i palmi delle mani, rivolgendole verso il suo nemico, preparandosi a spazzarlo via allo stesso modo di come aveva fatto con sua figlia e con l’anima di suo nipote.

“Io non lo farei, fossi in te” lo avvertì Wissen.

Nelle mani stringeva qualcosa…un piccolo oggetto…un accendisigari…

“Non lo senti quest’odore? Non hai notato che il piano è quasi completamente bagnato di benzina? Se lancerai un’onda di energia, questo posto prenderà immediatamente fuoco…e di sotto non avranno via di scampo”.

Gohan trasalì, sentendosi improvvisamente impotente, rinunciando al suo impulso di rabbia.

“E non ti consiglierei neanche di venire qui ad ammazzarmi fisicamente…se ti avvicinerai, sarò io ad incendiare tutto”.

 

“Vieni qui, tesoro” chiese Golden alla nipote, invitandola a porgergli il piccolo polso.

Con un gesto deciso, suo zio spezzò nettamente in due lo stretto bracciale che le attanagliava la pelle, come aveva appena già fatto con il cugino. Un flusso di sensazioni piacevoli passò attraverso il corpo della bambina, non solo perché adesso disponeva di nuovo dei suoi poteri, ma perché, finalmente, era di nuovo se stessa, Fackel Brief, senza nessuno che decidesse per lei le caratteristiche che dovevano o non dovevano essere represse.

“Ho avuto tanta paura, zio Goten…” mormorò, abbracciandolo.

“Anche noi, piccolina, tanta…ma adesso è tutto finito, nessuno vi farà più del male!” le promise lui, prendendola in braccio e cingendo le giovani spalle del figlio, guidandolo verso la salvezza.

Entrarono in fretta nell’ascensore, dove Goten si preparò a schiacciare il tasto del piano terra, ma fu bloccato dalla nipote, che gli tirava decisa la manica del maglione.

“Aspetta…fermati al primo sotterraneo…qualcun altro ha bisogno di noi!”.

Goten la guardò senza riuscire a capire, mentre Golden le rivolse uno sguardo consapevole ma pieno di incredulità.

“Ti prego, zio Goten…ci vorrà solo un minuto!”.

Il sajan esitò qualche secondo, la mano bloccata a mezz’aria vicino ai tasti di comando. Non aveva idea a cosa si riferisse la bambina, ma non c’era tempo per le spiegazioni, solo quello di agire, e in fretta.

“Ok…” acconsentì, sorridendole affettuosamente. “Vediamo cosa possiamo fare”.

 

Gohan si immobilizzò. Non era più lui, adesso, che dettava legge. A che punto poteva arrivare la pazzia di un uomo che, solo per una stupida e pericolosa ambizione, era disposto a dare fuoco al suo stesso impero? Forse lui avrebbe rinunciato ad attaccarlo per evitare il peggio, ma lo scienziato non avrebbe comunque fatto fede al patto.

Se ne accorse troppo tardi, purtroppo, quando Wissen, con una mossa veloce, afferrò con una mano una valigetta rossa, e con l’altra una strana bombola, come quelle dei sommozzatori, ma da cui uscì un gas incolore e maleodorante.

“E’ stato un piacere conoscerla, Gohan!”.

Furono le ultime parole che il sajan riscì a sentire, prima di afflosciarsi lentamente a terra.

Frederik sorrise con orgoglio, osservandolo per un attimo immobile e privo di conoscenza, per poi uscire dall’ufficio. Aprì la porta d’emergenza, poco lontano da lì, gettandosi alle spalle l’accendisigari acceso.

Mentre fuggiva verso i boschi ad est, stringendo con bramosia la preziosa valigetta, le fiamme già avvolgevano l’edificio alle sue spalle, brulicando come lingue assetate di morte attraverso le finestre del piano terra. Ma a Frederik non interessava, quella non era più casa sua…lo aspettava una nuova vita adesso, dove presto suo figlio lo avrebbe raggiunto…e allora niente sarebbe stato più come prima.

 

Erano dei cagnolini, quelli che Fackel voleva aiutare. Una decina di cuccioli rinchiusi in squallide gabbie, dalle condizioni igieniche precarie e tenuti a lungo senza cibo né acqua…ridotti praticamente allo stremo, come se si fossero completamente dimenticati di loro…

“Lux voleva liberarli” spiegò la piccola. “Sono sicura che sarebbe contento!”.

Intenerito dal dolce pensiero della nipote, scompigliandole affettuosamente le ciocche lavanda, Goten spezzò le assicelle di ferro arrugginito che intrappolavano i poveri animali, che con grati uggiolii saltarono fuori dalle loro prigioni, scodinzolando intorno alle gambe dei tre sajan.

“Adesso facciamo presto, loro ci verranno dietro!”.

Seguito dai bambini e da una fila di cuccioli, Goten chiamò di nuovo l’ascensore, che stranamente si trovava ora al piano terra. Ma quando questo raggiunse il sotterraneo e aprì le portiere davanti a loro, da dentro divamparono con violenza un’infinità di fiamme.

Il piano superiore stava bruciando…

Gohan...

I sajan potevano sopportare il calore del fuoco molto meglio degli umani, ma a lungo andare avrebbero danneggiato gravemente anche loro e soprattutto, con quei deboli cagnolini al seguito, quella via di fuga non era più accessibile. Inoltre, presto le fiamme avrebbero attecchito anche nel sotterraneo, e non potevano assolutamente rimanere lì per molto.

“Che facciamo, papà!” esclamò Golden, agitato, mentre la cugina si abbandonava di nuovo alle lacrime. “Siamo bloccati quaggiù!”.

“Forse no…”  mormorò lui, riflettendo.

Quell’edificio sorgeva su una collina, dopotutto. Se non potevano procedere verticalmente, l’avrebbero fatto in direzione orizzontale.

Si rivolse al figlio, guardandolo negli occhi.

“Vedi, Golden…questo è uno di quei momenti in cui vanno usati i poteri” spiegò. “Per cui, conterò fino a tre, e a quel punto spareremo insieme un’onda di energia in quella direzione…ok?”.

“Ok…” confermò lui, disponendosi di fianco al padre, mentre Fackel si nascondeva dietro a loro, circondata dai cuccioli.

“Uno…due…tre!!”.

Due lampi di luce attraversarono velocemente l’aria, demolendo violentemente la parete di fronte a loro.

 

Trunks continuava a perlustrare ogni stanza, ma di suo figlio non c’era traccia. Eppure doveva esserci…doveva essere lì, quell’uomo non aveva mentito su Fackel e Golden, perché avrebbe dovuto farlo riguardo a lui?

Stava per risalire di nuovo ai piani superiori, quando scorse in un angolo buio del corridoio l’ombra di un fagottino silenzioso, rannicchiato su se stesso.

“Lux…” mormorò, mentre i suoi occhi si adattavano all’oscurità e riconoscevano quello che era proprio suo figlio, il suo adorato bambino.

Il piccolo alzò lentamente gli occhi su di lui, senza però muoversi o parlare. Forse era solo impaurito, terrorizzato da quella forzata prigionia…ma adesso era di nuovo al sicuro, adesso c’era lui a proteggerlo…

“Oh, tesoro, finalmente…” esclamò con un nodo alla gola, mentre si chinava verso il bambino, abbracciandolo con sollievo. “L’incubo è finito…torneremo a casa, e sarà tutto come prima”.

Per un momento il piccolo non reagì, restando immobile come quando lo aveva scorto. Poi, con agghiacciante incredulità di Trunks, scagliò con freddezza un pugno sull’addome del padre, togliendogli il respiro.

 

Continua…

 

 

  

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Capitolo 10

Capitolo 10

 

 

 

La centrifuga cominciò a ruotare rumorosamente. Era stata un’operazione piuttosto semplice e veloce, e la certezza di aver finalmente in mano ciò che cercava fece tirare a Bra un sospiro di sollievo, mentre si sedeva stancamente su una sedia da laboratorio ed attendeva che la macchina concludesse il ciclo.

L’antidoto esisteva davvero. La Wissen Biotechnologies lo aveva creato più per sperimentazione che per un concreto scopo, dato che in casi normali la tossina era letale, ma fortunatamente ne conservavano qualche campione in forma disidratata. Lilian, nel bene o nel male, aveva accettato di collaborare, non solo rivelandole dove era nascosto, ma anche aiutandola a risospendere e a riattivare l’antidoto, lavorando accanto a lei in un professionale silenzio, come fossero sempre state colleghe di laboratorio.

Adesso il suo compito era finito, ma avendo capito che la sajan non aveva alcuna intenzione di farle del male, la donna si era tranquillizzata, sedendosi accanto al macchinario e attendendo insieme a lei.

“Posso farti una domanda, Lilian?” le chiese Bra all’improvviso. “Quando sono entrata…perché non ti sei difesa con la neuronina o con un gas sedativo?”.

La donna esitò un attimo, ripiombando per un momento in quell’opprimente imbarazzo, sparito come per magia durante la lavorazione del campione.

“Ecco…a dire la verità…ho visto quei bambini…” mormorò, mentre un accenno di compassione compariva nei suoi occhi castani. “Nonostante avessi avuto la prova che sono creature fuori dal comune…con doti eccezionali e capaci di fare cose inimmaginabili…ho visto che sono pur sempre dei bambini…con molta più umanità di alcuni terrestri…e ho pensato che anche i genitori non potessero essere così spietati come venivano descritti…”.

Bra la studiava con attenzione, senza dare segno di essere colpita positivamente dalle parole della donna.

“E allora perché l’hai fatto?” le chiese. “Perché hai continuato a dare ascolto alle parole di quel pazzo e a tenere i nostri figli lontano da casa?”.

Lilian abbassò lo sguardo, incapace di rispondere, mentre un vago rossore le colorava le guance.

Il timer della centrifuga cominciò a trillare, indicando che il campione di antidoto era pronto. Bra aprì il coperchio dell’apparecchio, recuperando la piccola provetta e riponendola nella sua borsa termica.

Si avviò verso l’uscita del laboratorio, per poi fermarsi e voltarsi indietro verso la donna.

“Grazie”.

Lilian accennò un debole sorriso, tornando poi con lo sguardo e con la mente in quel turbine di conflitti che doveva caratterizzare il suo mondo interiore.

Uscì dalla stanza, sospirando di sollievo. L’antidoto era nelle sue mani, e forse i bambini, a quell’ora, erano già in salvo. Non rimaneva che correre a casa ed aiutare Pan, prima che i radicali liberi formati nel suo organismo per mancanza di ossigenazione potessero diventare letali anche per una sajan.

Stava per imboccare il corridoio, quando si trovò davanti un uomo calvo e muscoloso, la faccia corrugata in un’espressione rabbiosa e in mano la stessa arma con cui l’uomo al piano terra li aveva minacciati poco prima.

“Cosa le hai fatto??!” le gridò contro, con voce dura e penetrante. “Cosa hai fatto a Lilian??”.

“Lilian sta benissimo” lo informò Bra, cercando di rimanere calma e immobile. “Sicuramente meglio di te!”.

“Tu menti!!” continuò l’uomo, avvicinandole ancora di più l’arma con la siringa puntata, obbligandola a retrocedere fino a toccare il muro con le spalle.

Non poteva fallire proprio adesso…non ora che aveva una possibilità per salvare sua cognata…non ora che avrebbe riabbracciato suo figlio…il suo adorato Golden…

 

Il fumo dovuto all’esplosione impediva ancora una chiara visuale, ma era proprio una galleria quella che si era formata davanti a loro, che vedeva la luce quasi ai piedi della collina.

“Sì!!!” esclamò Golden, soddisfatto, mentre il padre verificava la stabilità delle pareti e Fackel, ancora in mezzo ai cuccioli abbaianti, ritrovava il sorriso.

“Ascoltami, Golden” lo richiamò Goten all’attenzione. “Io devo correre ad aiutare zio Gohan, di sopra. Posso contare su di te per portare tua cugina e tutti questi cuccioli fuori da qui?”.

Il bambino annuì, convinto. Non li avrebbe mai lasciati di nuovo soli, in circostanza normali, ma suo fratello, probabilmente, era ancora tra le fiamme, e non gli restava che riporre completa fiducia in suo figlio e sperare che la sorte non serbasse loro altri pericoli.

“Aspettatemi fuori, io vi raggiungerò al più presto!” concluse, oltrepassando la galleria e precipitandosi nella notte, verso l’entrata principale.

 

Trunks trasse un gemito soffocato per il dolore, spalancando gli occhi chiari nell’oscurità di quel corridoio. Non era tanto la sofferenza fisica che gli doleva, quanto la sorpresa e l’incredulità per ciò che era appena successo.

“Lux…” balbettò, ancora sofferente. “Che….che cosa fai?”.

Il bambino non rispose, sgusciando via dalle sue braccia irrigidite e allontanandosi lungo il corridoio.

“Lux! Aspetta!” gli gridò contro il padre, sollevandosi da terra indolenzito e correndogli dietro.

Si era fermato alla fine del tragitto senza sfondo, scrutando attentamente la parete bianca di fronte a lui, come se vi vedesse chissà quale porta inesistente. Trunks gli era corso incontro, appoggiandogli le mani sulle spalle da dietro, ma una brusca mossa del bambino lo spinse a qualche metro lontano da lui, facendolo atterrare sulla schiena.

“Lux…ma cosa ti prende, figliolo!” mormorò appena.

Il bambino lo guardò con disprezzo, gli occhi azzurri quasi irriconoscibili tanto erano offuscati da una rabbia inspiegabile.

“Io…non sono…tuo figlio!!” scandì, prima di voltargli di nuovo le spalle e accumulare energia nei palmi delle mani.

Seguì una forte esplosione e un bagliore accecante, per cui Trunks dovette coprirsi il volto. Poi, al di là del fumo, solo il buio della notte, ma di Lux nessuna traccia.

 

Qualcosa era esploso dall’altra parte del sotterraneo, un fragore forte accompagnato da una luce bianca, ma l’uomo che le puntava contro l’ago letale non reagì minimamente, rimanendo concentrato sulla sua preda.

“Non le ho fatto niente, te lo assicuro” ripeté Bra. “Vai a vedere con i tuoi occhi”.

“Non è vero!” sbraitò lui. “Tu l’hai già uccisa, e adesso vuoi che ti volti le spalle per uccidere anche me! Ma non ne avrai modo, perché prima lo farò io!”.

Il suo indice si abbassò minaccioso sul grilletto, mentre Bra deglutiva pesantemente, socchiudendo gli occhi e preparandosi al peggio. Ma qualcosa colpì violentemente la nuca dell’aggressore, che si irrigidì istantaneamente e rotolò sul pavimento privo di sensi.

“Ub…” mormorò Bra sollevata, portandosi una mano al volto per ritrovare la lucidità. “Grazie al cielo…”.

Il campione del mondo era giunto in suo aiuto proprio nel momento giusto, e ora si chinava verso l’uomo a terra assicurandosi di non aver colpito troppo forte e di averlo ucciso.

“Ho immaginato che ci fosse bisogno di aiuto, un presentimento mi diceva che erano insorte delle complicazioni….e ne ho avuto conferma quando, venendo qui, ho visto l’edificio in fiamme”.

“In fiamme?” chiese Bra, spalancando gli occhi per l’incredulità, che dal quel luogo sperduto sotto terra non poteva avere idea di cosa succedesse in superficie.

“Già…le entrate sono bloccate, ma ci sono due recenti aperture attraverso la collina, di cui una conduce proprio a questo piano. E’ da lì che sono entrato”.

Ecco cos’era l’esplosione di poco prima, pensò Bra. Qualcuno aveva fatto saltare le mura e tutto il terreno che le circondava, per scavarsi un passaggio verso l’esterno. Chissà se gli altri stavano bene, se i bambini erano al sicuro o se nuovi pericoli stavano di nuovo complicando le cose. Ma adesso non aveva tempo per assicurarsene, anche perché non c’era niente che poteva fare se non volare veloce alla Capsule Corporation e rianimare Pan.

“Devi fare presto, Bra” le consigliò Ub, notando la sua esitazione ed il suo fissare assorta la borsa termica che aveva in mano. “Marron dice che la muscolatura di Pan si sta irrigidendo…è il segno che la sua resistenza sta cedendo, che potrebbero verificarsi dei danni cerebrali irreversibili e che la morte vera è vicina”.

Bra annuì.

“Ok…tu però porta in salvo quest’uomo e la donna nascosta in quel laboratorio…e assicurati che gli altri stiano bene”.

“Lo farò, puoi stare tranquilla” le assicurò, mentre lei si avviava verso la parte opposta del sotterraneo, in cerca dell’uscita.

 

Le fiamme avvolgevano minacciose l’atrio iniziale dell’edificio, nutrendosi avidamente di qualsiasi cosa trovassero sulla loro strada, e rendendo impossibile anche il più semplice orientamento.

“Gohan!!” gridò Goten, mentre passava quasi immune attraverso il fuoco, infastidito però dal fumo irrespirabile e dal bruciore degli occhi.

Si avviò verso il corridoio che avevano percorso appena arrivati lì, quello dove aveva visto suo fratello per l’ultima volta. Ma lui non c’era, solo una sedia giaceva in fiamme sul pavimento.

“Gohan!! Dove sei??”.

Entrò in quello che era stato l’ufficio di Wissen, lo stesso dove avevano incontrato quel pazzo il giorno precedente, quando ancora non erano certi della sua colpevolezza. E suo fratello era disteso a terra, immobile, in mezzo alle fiamme che già gli avevano logorato buona parte dei vestiti.

“Gohan…” lo aveva scosso, strappandosi la maglia di dosso e tamponando con essa gli abiti fumanti del fratello. “Gohan…stai bene?”.

Non poteva perdere anche lui…no…era tutto ciò che gli rimaneva, dopo che anche sua madre lo aveva lasciato…non poteva abbandonarlo così…

“Goten…” mormorò infine lui con un filo di voce. “Sei tu…”.

Goten sorrise, mentre sul suo volto arrossato dal fuoco si faceva strada una lacrima.

“Certo…adesso ti porto in salvo!”.

Gli fece passare un braccio intorno al suo collo, in modo che potesse sostenerlo in piedi mentre si dirigevano verso l’uscita, sfidando fiamme violente e distruttrici.

“Se solo potesse vederti nostro padre, adesso…” gli sussurrò Gohan, rivolgendogli un debole sorriso.

Goten distolse lo sguardo, senza rispondere, concentrandosi di nuovo sulla loro via di fuga.

“Adesso facciamo in fretta” propose, cambiando discorso. “Perchè questo edificio tra poco crollerà!”.

 

Non si era mai sentito così indispensabile come in quel momento. Mentre aiutava sua cugina a raggiungere l’uscita, mentre portava due alla volta quei cagnolini fuori da quel posto orrendo, volando con loro verso il prato esterno al sicuro, aveva cominciato a capire a cosa servissero veramente i suoi poteri, perché la sorte glieli aveva donati.

Era in situazioni come quelle che ne doveva fare uso, dove nessuno poteva vederlo ma in cui avrebbe salvato tante creature inermi da una morte certa. Aveva creduto che la vera soddisfazione, il vero divertimento di essere un sajan fosse potersene vantare con altri, ma catturare piccoli criminali di quartiere quando la polizia ne era perfettamente in grado, solo per il gusto di essere acclamato ed il rischio di essere scoperto, non era niente, ma proprio niente, di fronte alla straordinaria sensazione che provava adesso…

Fackel e i cuccioli erano ora tutti in salvo, lontani dal fuoco, al sicuro ai piedi della collina, mimetizzati nell’oscurità della notte che cominciava a rischiararsi ad est.

Li aveva salvati…adesso era un vero eroe…

Un eroe che era riuscito a non vergognarsi a piangere davanti ai cugini, che aveva desiderato rivedere i suoi genitori e tornare a casa come mai prima di allora, che aveva provato terrore e subito violenze che mai e poi mai un bambino dovrebbe provare, sajan o non…

Si sentiva stanco, così stanco…

I suoi occhi si chiusero lentamente, mentre si afflosciava come uno straccio sul prato scuro.

“Golden!” gli corse incontro Fackel, chinandosi verso il cugino svenuto. “Svegliati, Golden! Guarda, lo zio Goten sta tornando!”.

Fece a tempo ad aprire debolmente gli occhi, per vedere l’edificio che li aveva tenuti prigionieri crollare a pezzi e arso dalle fiamme, e davanti ad esso due figure avanzanti nell’oscurità, che si tenevano l’un l’atro per discendere la collina.

Poi ricadde di nuovo nell’ombra.

 

Marron riempì la siringa sterile del liquido contenuto nella provetta, per poi puntarla in alto e toglierle l’aria.

Avevano fatto voltare Pan di lato, in modo che l’infermiera potesse iniettarle l’antidoto dritto nella spina dorsale. Era stata un’operazione piuttosto difficile, considerando che i suoi legamenti adesso si stavano irrigidendo a vista d’occhio.

Mentre l’ago penetrava nella carne e rilasciava il suo contenuto nel midollo di Pan, Videl aveva continuato ad accarezzare affettuosamente le sue guance, quasi la figlia fosse ancora capace di provare dolore ad una semplice puntura. Bra, in piedi poco lontano dal letto, osservava nervosamente la scena, mentre i gemelli, che Marron aveva invitato ad aspettare fuori, si affacciavano furtivamente e con curiosità nella stanza, abbandonando per il momento i loro giochi e le loro piccole scaramucce.

“Spero di essere arrivata in tempo” mormorò Bra, continuando a passeggiare su e giù lungo il bordo del letto, le braccia giunte a scaldare il busto, come se il freddo della notte esterna fosse penetrato anche in quella camera.

“Tra poco lo sapremo” affermò Marron, mentre applicava una garza nel punto dell’iniezione e portava di nuovo Pan in posizione supina. “Le molecole di antidoto dovrebbero far staccare la tossina dai centri nervosi in breve tempo, se tutto va bene”.

Furono istanti lunghi un’eternità, trascorsi in ansia e in un monastico silenzio, riponendo tutte le speranze in quei pochi microlitri di sostanza che si stavano diffondendo lungo la rete di neuroni.

“Mamma, mamma, guarda ha mosso una mano!” gridò Zeme balzando improvvisamente dentro la stanza.

“Sì! L’ho visto anch’io! E ora lo sta facendo di nuovo!” gli fece eco Nebe, seguendo il fratello.

Marron, spostando lo sguardo dai figli alla ragazza sul letto, notò l’indice di Pan che si contraeva in un gesto spontaneo, quasi di riflesso.

“Marron…dimmi che si sta svegliando” mormorò Videl, prendendo la mano della figlia e accarezzandola maternamente, sicura che adesso potesse percepire davvero il calore che desiderava trasmetterle.

Marron afferrò lo stetoscopio, applicando il sensore sul petto di Pan. Un battito. Poi un altro. E un altro ancora. Non potè trattenere un sorriso, che contagiò subito le altre due donne al suo fianco, un sorriso di sollievo e di speranza.

Pan trasse infine un profondo respiro, come un neonato che usa i polmoni per la prima volta dopo nove mesi nel grembo materno, tossendo poi per il tratto respiratorio a lungo inutilizzato.

“Pan?” le sussurrò Videl, tenendola ancora per mano, mentre Marron le tamponava con acqua fresca le labbra. “Sono io, tesoro, mi senti? Sono la mamma”.

La ragazza socchiuse lentamente gli occhi, infastidita dalla luce artificiale che illuminava la stanza. Sbattè più volte le palpebre, riacquistando gradualmente la capacità visiva, per poi posare lo sguardo su Videl. L’aveva certamente riconosciuta, perché le rivolse un debole e innocente sorriso.

“Mamma…” mormorò debolmente, con un filo di voce.

“Sì, bambina mia, sono qui” le rispose lei, mentre i begli occhi azzurri le brillavano di lacrime.

Pan, ancora non pienamente cosciente, immersa interiormente in un mondo che solo lei riusciva a vedere, sembrò cullarsi sulle carezze della madre, spostando poi lo sguardo vago e indefinito sul tetto della stanza, su Marron seduta sull’altro bordo del letto e su Bra, in piedi di fronte a lei. Quando però i suoi occhi raggiunsero i gemelli, seduti a terra presso la porta, qualcosa nel suo sguardo sognante cambiò, come uno strato di velina improvvisamente strappato. Probabilmente la vista di quei bambini, la realizzazione che essi erano i figli di Marron, l’aveva d’un tratto riportata alla realtà, rivelandole che quella non era una scena della sua infanzia, un’immagine ripescata nei suoi ricordi, ma la vita reale che adesso viveva da adulta, da moglie e…da madre.

“I bambini!” esclamò, alzando improvvisamente la schiena con uno scatto istintivo e ritrovandosi seduta sul letto. “Dove sono i miei bambini??”.

Nei suoi occhi c’era il terrore, adesso, forse lo stesso che aveva caratterizzato il suo volto qualche attimo prima della sua finta morte, quando aveva già visto i suoi figli in pericolo. Il brusco passaggio ad uno stato di agitazione le aveva fatto aumentare alle stelle il ritmo cardiaco, ed il suo respiro adesso si faceva faticoso ed irregolare.

“Calmati, Pan…è tutto a posto!” cercò di tranquillizzarla Bra, facendola abbassare di nuovo sul cuscino. “Ci sono Trunks e Goten con loro, adesso…andrà tutto bene”.

 

“Lux!!”.

Nessuna risposta al suo richiamo disperato, solo il fruscio del fuoco che divampava dall’edificio da cui era appena uscito. Lo intravide infine correre verso il boschetto ad est, deciso a non curarsi del padre.

Non capiva cosa stava succedendo, come mai suo figlio si comportasse a quel modo, ma gli corse dietro come un razzo, continuando a chiamarlo, sentendo la propria voce farsi più tremante man mano che lo vedeva sparire nell’oscurità e temeva di perderlo di nuovo.

“Lux, per favore, fermati!” lo implorò, cadendo infine a terra disperato, non per la fatica della corsa ma per l’estremo dolore che tutto ciò gli provocava.

Il bambino arrestò la sua fuga, fermandosi in mezzo ad una serie di bassi arbusti che delimitavano la piccola foresta. Si voltò lentamente verso di lui, rivelando uno sguardo gelido ed incolore.

Quello non era suo figlio…quello non era più il suo bambino…

“Cosa ti succede, Lux?” gli chiese di nuovo, abbandonando le speranze di ricevere una risposta.

“Tu…devi morire!” si limitò ad esclamare con rabbia il bambino, lanciandogli una piccola onda d’energia che prese Trunks di striscio, ustionandogli la spalla sinistra.

 

Aveva caricato l’uomo privo di sensi sulla schiena, mentre la donna, che proteggeva al suo fianco, lo seguiva impaurita fuori da quelle rovine sotterranee, che presto sarebbero state arse dal fuoco come il resto dell’edificio.

La notte era ancora fredda e scura, ma il cielo si era già mangiato la luna e, attraverso uno strato di opaca foschia, un chiarore si faceva progressivamente strada nella volta blu.

Appoggiò l’uomo a terra, facendolo distendere su un morbido strato di terreno, mentre la donna, una volta al sicuro, lasciò il suo fianco per sedersi accanto al compagno, fissando con incredulità lo stabile distrutto dal fuoco, rapita dal divampare delle fiamme e dal bagliore che esse proiettavano in quella tarda notte.

“Tutto bene?” le chiese Ub.

La donna annuì, togliendosi poi gli occhiali appannati e stropicciandosi il volto, come se così sperasse di scoprirsi semplicemente in un sogno.

“Il suo amico si sveglierà presto” le assicurò di nuovo lui. “Adesso devo andare”.

Si allontanò dai piedi della collina, avvicinandosi verso il pianeggiante parco erboso che separava quel luogo dal resto della grigia periferia industriale.

Gohan, Goten e i due bambini si stavano abbracciando l’un l’altro sotto le fronde di un albero, la piccola Fackel che, colta da un inevitabile crollo emotivo, piangeva senza sosta tra le braccia del nonno dal volto annerito di fuliggine, e Golden, prostrato dal terrore e dall’angoscia provati in quei giorni, disteso sulle ginocchia del padre, che gli parlava affettuosamente.

“State tutti bene, grazie al cielo” sospirò Ub, avvicinandosi al gruppo.

“Ub…hai visto Trunks e Lux?” gli chiese ansioso Gohan, stringendo ancora al petto la testolina lavanda della nipote.

“Li ho scorti uscire dal seminterrato un attimo prima di me…Lux stava correndo verso il boschetto vicino, e Trunks lo seguiva chiamando il suo nome”.

Il più anziano chiuse gli occhi, abbassando il volto e sospirando con rassegnazione all’inevitabile conseguenza della follia di un invasato, mentre Goten notava confuso l’evidente apprensione del fratello.

“Cosa sta succedendo, Gohan?” chiese, mentre una nuova morsa di tensione attanagliava il suo stomaco.

 

Trunks si contorse a terra dolorante, tenendosi con una mano la spalla sanguinante. Non poteva aver sentito quelle parole uscire dalla bocca di suo figlio…non erano certamente sue, qualcun altro gliele aveva infisse nella mente…

“Lux…” mormorò, con un grande sforzo.

Non l’aveva mai visto guardarlo con tale odio…mai…

L’aveva spesso trascurato, meritandosi la sua indifferenza e il suo atteggiamento restio…l’aveva spesso sgridato, come un padre interessato usa fare per il bene del figlio…ma non si sarebbe mai aspettato tutto ciò, non adesso che lo aveva ritrovato, che aveva pianto per lui nella speranza di poterlo rivedere…

Il bambino era ancora in piedi ad un paio di metri da lui, poteva facilmente avvicinarvisi e bloccare con la forza la sua momentanea follia, ma non avrebbe risolto niente. Suo figlio non avrebbe avuto pace finché non fosse riuscito a fargli seriamente del male.

Si alzò quindi da terra, mantenendo però la distanza di sicurezza.

“Sono qui, Lux…io non mi muovo…aspetto finché sarai tu a raggiungermi”.

Le sue parole non ebbero il risultato atteso, perché il bambino giunse i palmi delle mani verso Trunks, cominciando a caricare una sfera d’energia.

“Io ti odio!!” gli gridò, con la voce contorta dalla rabbia, mentre la luce bianca si accumulava davanti alle piccole mani. “Ti odio, ti odio, ti odio!!!”.

 

Il cielo ad est era ormai tinto di sfumature rosa e gialle, mentre ululati di sirene si facevano più vicine dall’adiacente metropoli.

“Hatch…Hatch svegliati!” ripeté Lilian all’uomo disteso al suo fianco, scuotendolo con decisione.

Hatch aprì debolmente gli occhi, massaggiandosi poi la nuca con una mano.

“Cos’è successo?” chiese, ancora confuso.

Un furgoncino bianco uscì sgommando dal parcheggio ancora intatto dalle fiamme dell’edificio, piantando poi una brusca frenata e avanzando a scatti incostanti verso la strada di servizio, come se il guidatore si fosse improvvisamente dimenticato come si manovra un veicolo.

“Dan se la sta filando senza di noi!” esclamò la donna, intravedendo il collega a bordo del furgone.

“Cosa??” gridò Hatch, ritornando improvvisamente alla realtà. “Non credo proprio!”.

Si alzò rapidamente da terra, prendendo Lilian per mano e correndo con tutta la forza che gli rimaneva verso il veicolo stridente, afferrando la maniglia del portello anteriore e spalancandolo davanti a se.

Dan, stralunando gli occhi per la sorpresa, stava impugnando il volante con i polsi legati e ravvicinati, impossibili da separare, e farfugliò una soffocata esclamazione attraverso lo strato di nastro adesivo che gli copriva le labbra.

“Cosa credevi di fare, sporco traditore!” lo accusò Hatch, strappandogli violentemente la striscia dalla bocca.

“Aaaahiiii!!!” si lamentò lui per il doloroso strappo. “Mi stavo solo salvando dal farmi arrostire il didietro, è una fortuna che sono riuscito a liberarmi!”.

“E te ne saresti andato senza di noi??” gli chiese Lilian, incrociando le mani al petto e assumendo un’espressione offesa.

“Ma no…sarei tornato a prendervi….” balbettò con un finto sguardo innocente, prima che Hatch e la donna, non badando minimamente alle sue inutili scuse, lo scansassero senza troppa galanteria dal posto di guida, segregandolo dietro e salendo velocemente sul furgone.

Mentre imboccavano la strada principale e si dirigevano ad est, lontano il più possibile da West City, le auto lampeggianti della polizia comparvero minacciose dietro di loro, avvertendoli con un altoparlante di fermarsi immediatamente.

“Ce li abbiamo alle costole…è finita…” mormorò Lilian, rassegnandosi al peggio.

“No, finché ci sarò io alla guida!” le promise Hatch, spingendo con decisione sul pedale dell’acceleratore e sfrecciando come un razzo verso la salvezza.

Ma dovette frenare violentemente quando, come una minacciosa creatura aliena, un elicottero nero della polizia atterrò proprio davanti a loro, bloccandogli la strada.

Hatch e Lilian rimasero ammutoliti alla vista del mezzo e dei poliziotti che uscivano da esso puntandoli delle armi contro, mentre Dan si sporgeva rassegnato dal sedile posteriore.

Adesso è finita” assentì.

 

Pan era seduta sul bordo del letto, lo sguardo perso nel vuoto e i gomiti appoggiati sulle ginocchia, mentre le mani coprivano il viso in segno d’incredulità.

“Vuoi un altro bicchiere d’acqua?” le chiese sua madre, seduta accanto a lei.

La ragazza fece cenno di no con la testa. Non aveva bisogno di niente, se non di rivedere i suoi bambini sani e salvi.

Le avevano appena spiegato come erano andati i fatti, cosa era successo dal momento in cui l’avevano ritrovata priva di vita a quello in cui Bra aveva lasciato l’edificio in fiamme. Ma quello che la tormentava era non sapere cosa stava succedendo ora, perché mai la sua famiglia non era ancora tornata a casa…

“Io vado da loro!” esclamò alla fine. “Non ce la faccio più ad aspettare!”.

Fece per alzarsi in piedi, quando le sue gambe crollarono sul suo stesso peso, facendola cadere a terra dolorante.

“Vedi che non hai ancora completamente riacquistato la funzionalità degli arti?” la rimproverò Marron, aiutandola a rialzarsi. “Devi rimanere a letto ancora un po’, o rischierai di farti del male!”.

“Allora portatemi voi…Bra, tu potresti accompagnarmi con l’aircar e…”.

Si interruppe, vedendo sua cognata porsi in piedi davanti a lei, le mani incrociate al petto, bella e minacciosa.

“Mi spieghi cosa credi di fare una volta là?” le disse severamente. “Guarda, non ti reggi neanche in piedi e vuoi subito fare l’eroina…Io ho fatto i salti mortali per riportarti in vita, quindi non ti permetterò di certo di rischiarla di nuovo!”.

Pan abbassò lo sguardo, delusa e imbarazzata. Sua cognata mostrava il suo affetto sempre a modo suo, anche con le minacce, se era necessario, ma riusciva sempre e comunque ad essere efficace. Non poteva fare niente lei, debole e indifesa, fino ad un momento prima addormentata in un sonno quasi eterno ed estranea da ogni casa, poteva solo aspettare, come facevano inevitabilmente le altre donne nella stanza, mogli e madri in pena quanto lei.

 

La sfera d’energia cresceva a vista d’occhio davanti al bambino, riflettendo la sua luce sul giovane volto contorto dalla rabbia.

“Non farlo, Lux…” mormorò Trunks, guardandolo paternamente negli occhi, non potendo far altro che rimanere lì, immobile, nella traiettoria del raggio. “So che ti sembra giusto ciò che stai facendo…che credi di trovare la felicità in questo modo…ma so anche che tutto quello che pensi di dover fare in questo momento non è la tua volontà...ti è stato imposto da qualcun altro…”.

“Stai zitto!!” gli gridò suo figlio con voce tremante, continuando ad alimentare la sfera, mentre i suoi occhi cominciavano a brillare di lacrime.

Trunks non l’ascoltò, azzardandosi a compiere un passo verso di lui.

“So che non sono stato un padre molto presente…ho fatto molti errori, soprattutto con te, tesoro…ma adesso vorrei solo che scacciassi tutti questi pensieri e ascoltassi per un momento il tuo cuore…”.

Un altro passo verso il bambino…la sfera che cresceva tra le sue mani…la luce che lo accecava ogni secondo di più…

“…Sono sicuro che lo sai, Lux…lo sai che ti voglio bene…” disse, mentre la sua voce si spezzava in un singhiozzo disperato. “…Perché te ne voglio più della mia stessa vita, bambino mio…torna da me, ti prego…ti prego…”.

Lux stava tremando in ogni muscolo del suo corpo, gli occhi lucidi che non smettevano di fissare il padre, disposto a restare lì e morire a costo di riavere suo figlio…poi, molto più velocemente di come era stata creata, la sfera scomparve tra le sue mani, giunte a cogliere ormai solo l’aria, mentre i suoi occhi cristallini si facevano opachi e cadeva sulle sue stesse ginocchia, con lo sguardo rivolto verso il basso.

“Lux…”.

Trunks, ancora scosso e dolorante per la spalla ustionata, si precipitò verso di lui, abbassandosi e stringendo finalmente tra le braccia quel suo bambino confuso e tormentato, accarezzandogli con tanto di quell’amore i suoi fini capelli d’ebano, mentre l’aurora dai colori caldi avanzava lenta nel cielo invernale.

“E’ tutto finito, piccolo mio…tutto finito…”.

 

Fronde, foglie, arbusti, spine che si conficcano nella carne, facendogli sanguinare la pelle, ma Frederik non le sente, tanto preso ad attraversare quel fitto bosco quasi impenetrabile, facendosi strada attraverso quell’intrigo di vegetazione ancora immersa nell’oscurità della notte.

Si sta dirigendo ad est, allontanandosi dalla sua vita passata, da quell’illusione di vita, correndo verso l’ignoto, il dolce, sublime ignoto…

Suo figlio non lo raggiungerà, lo sente attraverso quel particolare legame psichico che si è creato tra loro, non ha compiuto la missione richiesta e adesso è di nuovo nelle luride mani del nemico, che lo abbindola con false promesse e verità…

Una costruzione diroccata, forse appartenuta a cacciatori, si prospetta davanti ai suoi occhi, coperta di rampicanti e lasciata in decadenza. Vi entra furtivo, assicurandosi che sia deserta, per poi gettarsi stanco su una coperta polverosa e maleodorante. Accanto a lui, come fosse un prezioso tesoro di inestimabile valore, stringe geloso la valigetta rossa, fredda al tatto per la bassa temperatura interna, e chiude gli occhi, abbandonandosi ad un meritato riposo.

Resterà in quel temporaneo rifugio, lontano dalla luce e dalla civiltà, finchè non sarà pronto…a quel punto, avrà di nuovo accanto suo figlio…e insieme solcheranno pianure sconfinate, fino a scalare i monti più alti e le vette più impervie, più su, sempre più su, fino alle ormai raggiungibili stelle.

 

Continua…

 

 

 

 

 

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