Dipla sou egò

di Natalja_Aljona
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Alja - Cielo e vertigine, cielo e voragine ***
Capitolo 2: *** Gee - Sigaretta spenta nell'Iliade, stringhe slacciate, oplita filosofo d'un sogno a metà ***
Capitolo 3: *** Alja - Forse soltanto un teppistello greco, forse soltanto il suo sogno ***
Capitolo 4: *** Gee - Avrei potuto, e no, non ce l'avrei fatta ***
Capitolo 5: *** Natal'ja Eileen Morrison - Il nome del cielo ***
Capitolo 6: *** Legato al tuo sorriso, cammino sopra il fuoco ***
Capitolo 7: *** Brian George Gibson - Vivevi di luce, eppure mai il sole ha lasciato un sogno a te ***



Capitolo 1
*** Alja - Cielo e vertigine, cielo e voragine ***




Dipla sou egò

Alja

Cielo e vertigine, cielo e voragine


Don't question why she needs to be so free

She'll tell you it's the only way to be

She just can't be chained

To a life where nothing's gained

And nothing's lost

At such a cost?


Non chiederle come mai ha bisogno di essere così libera

Ti dirà che è l'unico modo di essere

Lei non può essere incatenata

Per una vita in cui nulla è guadagnato

E nulla è perduto

A quale prezzo?

(Ruby Tuesday, The Rolling Stones)


Capelli raccolti, capelli stille di grano, capelli luce di stelle, le sue stelle nelle tue mani.

Treccia sfatta sul vestito chiaro, chioma ribelle, arricciata, scompigliata, sciolti tra le braci delle tue mani, quei capelli.

E lei, a giocarci sempre, con quei capelli, ad intrecciarseli ancora con le dita leggere, a sfiorarti gli occhi, poi, con quelle dita, sbriciolare un sorriso sul timido rossore del volto e ridere, ridere, ridere di te.

Cerchi il suo sguardo e forse temi un poco la sfrontata irriverenza della tua ragazzina.

Natal'ja, la fatina delle steppe, la fiammiferaia siberiana che non sai più quale stella, quale fiore, quale nodo di sabbia e di schiuma di mare t'abbia sgranato negli occhi, e non sai più quanto vivresti ancora, quanto vivresti per quegli occhi.

Natal'ja, squarcio di cielo negli occhi, cielo e vertigine, cielo e voragine.

E glielo dici, poi, col coraggio che non ti manca mai, tra le battaglie e la galera, ma gli spari ti bucano la pelle con il fuoco e lei il cuore coi suoi occhi, e glielo dici, ora, mentre accendi un fiammifero, uno dei suoi.

-Alja?-

Sorride, e come, e che sogno, lei sorride da capogiro e tu davvero non ragioni, sul tuo volto non batte più il sole ma la neve, la neve che muove con i piedi al suo Paese sol per fare un passo avanti.

Alja, mi fai venire le vertigini.

Alja, tu il sole me lo fai morire tra le mani.

Alja, m'hai venduto un fiammifero, quella notte, ti ricordi?

Alja, quanto avrei voluto comprare anche i tuoi occhi, da accendere col fiammifero la sera in riva al fiume, da accendere come le sigarette che avevo finito, quella notte.

Alja, quanto avrei voluto aver comprato i tuoi occhi, da leggere sui giornali su cui ho dormito quella notte, tutte le notti in cui ho dormito sotto i ponti, o ai Giardini d'Atene, con le cicale che ho mandato all'inferno mille volte, ma non smettevano mai di cantare.

Alja, quanto vorrei maledirti, sputarti in un occhio, darti un bacio così, per scherzo, pregarti di smettere d'incantare il vento e le stelle col sorriso, giusto per sentirti borbottare “razza d'incoerente” sul cuscino, guardarti stropicciare una pagina dell'Iliade brontolando che non lo vuoi essere, tu, la mia schiava troiana, ch'io non sarò mai, mai, grande come quegli eroi, ma, per la tua testolina matta, “un acheo singolarmente straordinario”.

Alja, ci pensi, ci pensi, che storia?

Io brigante d'una Sparta che vuol rivivere la gloria d'un tempo anche a costo della vita, tu fiammiferaia delle nevi della Russia degli illusi.

Vita per la libertà dai Turchi, vita per rovesciare il trono dello zar.

Vita per la Rivoluzione dei sogni, vita per gli eroi di ieri.

Mettiamo che sia tu la mia vita, Alja.




Note


Diciamo che io non avrei dovuto scriverla, questa storia.

Diciamo che io ci tengo troppo, ad Alja e Gee, a Natal'ja e George, Geórgos, il brigante greco e la fiammiferaia siberiana.

Parlo di Sic Volvere Parcas, la mia eterna Sic Volvere Parcas, ma forse non c'è bisogno di conoscere quella, per legger questa storia.

E'...non lo so, sono dei momenti.

Che io li faccio stare così lontani, troppo, Alja e Gee, e in questa storia saranno ad un passo dal cuore, saranno ad un passo dal cielo, e al diavolo il luogo comune.

Non stravedo per il romanticismo, io.

Loro lo sono a modo loro, loro lo sono così.

E i luoghi comuni...li rompono, Alja e Gee.

E sono sinceri, tanto.

Ce la mettono tutta, almeno.

Spero che vi piaccia, questa storiella che sarà breve, “variabile”, credo, giusto per fare un po' di meteorologia.

Dipla sou egò, accanto a te in greco, è forse il titolo più...più da loro.

Voi come li trovate, Alja e Gee?

Mi piacerebbe sapere cosa ne pensate, tanto.

Ci convivo da un anno e mezzo, io, con questi due.

Stresseranno anche voi, me lo sento. ;)


A presto!

Marty


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Capitolo 2
*** Gee - Sigaretta spenta nell'Iliade, stringhe slacciate, oplita filosofo d'un sogno a metà ***




Gee

Sigaretta spenta nell'Iliade, stringhe slacciate, oplita filosofo d'un sogno a metà


Well, I said from the first

I am the worst kind of guy

For you to be around

Tear me apart

Including this old heart

That is true

And never ever let you down


Beh, l'ho detto dal primo momento

Io sono il peggiore ragazzo

Per te

Lacerato

In questo vecchio cuore

Questo è vero

E mai e poi mai ti deluderò

(The Worst, The Rolling Stones)


Sorrideva, il ragazzino eroico - ironico, con la sua tazza di yogurt greco sulle ginocchia e lo sguardo chissà dove.

Natal'ja avrebbe voluto respirare, ma il sospetto che il suddetto brigantello stesse cercando di strangolarla nel suo abbraccio distratto in riva al fiume non l'aveva ancora abbandonata, e ancora la faceva ridere.

In fondo le sembrava così sciocco, in quel momento, respirare, con la stoffa lisa della camicia del ragazzo tra le dita e nemmeno una parola a spiegare il suo disperato stringerla quando avrebbe potuto stringere lui, ammesso che le stringhe non l'avessero fatto volare nell'Eurota.

Le sorrideva e basta, George, che da tempo aveva ormai smesso di piangere la felicità di quel mezzo bacio strappato nello schiaffo delle selve spartane e adesso faceva piangere lei, che il tramonto le era scivolato tra le dita, e lui con le luci già all'ombra della fine della sera.

Aveva quei colori, quel volo di stelle negli occhi, il vecchio, irrecuperabile George, che faceva perdere il senso del vento, il nome del tempo, ammesso che il tempo, il suo tempo, un nome di quelli da chiamare la mattina appena sveglia l'avesse mai avuto.

Natal'ja non sapeva mai davvero cosa dire di quel George che ora la camicia l'aveva gettata nel fiume, strappata di mano a lei che proprio non sapeva cosa fare, ma lo scrutava un po' timida, adorante, sospettosa, come a volerlo prendere in giro con una carezza, e poi il coraggio di fargliela, quella carezza, sarebbe arrivato forse con la prossima luna, la prossima luna che lui avrebbe passato con la pistola in mano e le stringhe slacciate da inciampare dopo aver sparato, con l'Iliade stretta forte nella mano libera, libera per modo di dire, a sognare un po' perso sui versi d'Omero, che al Telamonio lui avrebbe tanto voluto assomigliare, ma di fronte alla rocca degli Achei sarebbe sempre stato un pulcino, e allora ci spegneva la sigaretta, nell'Iliade, sovrappensiero, e un attimo dopo malediva la sua dannata distrazione.

Ma al diavolo gli eroi di quella sorta, gli dei d'Olimpo, che se li prendesse Ade, il buon Ade, che se li mangiasse nello yogurt greco, la sua Lachesi infame.

Aveva lei, George, lei che, sì, un po' gli ricordava Briseide, e poi, beh, il Pelìde era biondo e lui forse in un'altra vita, il Pelìde aveva un orgoglio che per abbassare un poco le barriere lo pregavano, e lui orgoglioso lo era altrettanto, davvero, ma se si rifiutava d'andare in battaglia lo menavano, c'era poco da fare.

-Alja, Alja, questa è Sparta, la Sparta di ieri, di oggi e di sempre, che un cuore ce l'ha, forse, ma sotto l'usbergo. Ma benedetta piccina, più terribili di Sparta sono gli Spartani: guardali, e se ti guardano, sappi che te la faranno ingoiare presto, la parola “fine”. Ecco, ecco gli Spartani. Sono uno di loro, e allora diamoglielo, un motivo per giocarsi a carte il mio cadavere, se proprio andasse così male, la prossima battaglia.

Ma Alja, Alja, sorridi, domani scappo via, domani, te lo giuro, ti porto a Micene.

“E cosa c'è da vedere, a Micene?”, mi chiedi e sorridi sapendo che un poco mi farà morire, il tuo dubitar della città d'Agamennone.

C'è da vedere quanto bene ti voglio, e credimi ch'è tanto, credimi, ci paghi la nave per la Russia, credimi, ti basta per un'altra vita.

Ma tu un'altra vita non la vuoi e neanche tornare in Russia, non adesso, tu vuoi il bene che ti voglio stretto stretto nelle mani, vuoi quel bacio che volevo darti l'altro ieri e prima ancora e non t'ho dato, mi guardi e sei sicura che sarà oggi, quel giorno.

Ti guardo male, sorridi, sei proprio una sciocchina, Natal'ja di Krasnojarsk.

Vuoi il mio bacio, vuoi il mio bene, e sai che ti dico, sai che dico io?

Domani, cara mia-

Scuoteva la testa, adesso, Geórgos dei Kléftes, il sorriso spavaldo sull'eterna abbronzatura del bel viso e quella sfrontatezza da denuncia a fargli ridere e riflettere nel fiume i cari occhi d'ossidiana.

-Guardi l'Eurota, Natal'ja, e poi guardi me. Che ti prende? Tu, la più coraggiosa e irriverente, la più bella e scanzonata, bambina buffa e sciroccata. La scintilla che ti corre negli occhi birichini proprio non me la vuoi spiegare, hai anche tu i tuoi tempi, e arrangiati, allora, io mi cucio 'sta ferita come m'ha insegnato il nonno, che mica lo devi far vedere, se stai male, eppure vorrei piangere un pochino, sai?

Sorridi ancora, Alja, dai, che non t'ho mai vista così seria, così triste, dai, vieni qui, l'ho cucita, la ferita, non ha fatto troppo male, no, tanto tu lo sai che mento.

Oh, se sei noiosa, con quegli grigiazzurri, fumo e mare, che mi ripeton quanto son bugiardo e quanto, disgraziatamente, ti faccio battere il cuore.

Vacci anche tu, a quel paese, Alja, anche se non so come si dice in russo.

Lascia perdere, non ho ancora detto niente d'intelligente da stamattina, ci sei abituata, non ci fai più caso, ridi.

Sì, Alja, scusa.

Ti voglio bene, ti voglio bene anch'io.

Te lo do adesso, quel bacio che non so per quale cretina ragione abbiam perso per la strada.

Te lo do adesso. Vuoi?-



Note


Ed eccolo, George, Geórgos dei Kléftes, i briganti di Leonida, i briganti di Sparta.

George che non è che sia un mostro di coerenza, no, né tantomeno di ragionamenti lucidi e sensati, George che vive per Omero, Sparta e lo yogurt greco, e tra Omero, Sparta e lo yogurt, più di qualsiasi altro mondo, c'è la sua Natal'ja.

Questo è il George diciassettenne e ancora più sciroccato del 1838, ed Alja ha tredici anni, in quest'anno, ma con Gee deve sempre tornare un po' bambina o inventarne qualcuno di più.

E' terribile, George, sotto tanti, troppi punti di vista.

Che non si sa mai se aspettarsi un sorriso o uno sputo in un occhio, da lui, ma una citazione dell'Iliade sì, questo è certo.

Ch'è bello, Gee, ma assurdo, tanto assurdo che bisogna esser matti come lui, per capirlo, George che non è tanto un “bello e impossibile”, impossibile mille volte di più, di quell'impossibilità che fa venir un esaurimento nervoso, George che vive nella Sparta di ieri nel 1838, nel cuore delle selve del Taigeto in cui Leonida, il suo spregiudicato e discutibilmente affettuoso nonno, fa rivivere la Sparta degli eroi.

Krasnojarsk, che ho nominato verso la fine del capitolo, è la città di Natal'ja, la biancazzurra città della Russia Siberiana, Krasnojarsk attraversata dall'Enisej ghiacciato e dalle bufere di neve, Krasnojarsk della Siberia Centrale, la Krasnojarsk in cui è nata Natal'ja.

George che certe volte si fida solo delle stelle che con la sua pistola cerca di far cadere giù -anche se di questo parleremo in uno dei prossimi capitoli- e tra queste stelle si fida forse solo di Natal'ja.

Spero che vi sia piaciuto, questo momento, forse meno romantico, non so, romantico a modo di George, che a volte lo butta nel fiume, il romanticismo, e in qualche modo non riesce mai a buttarlo del tutto.

Voi cosa ne pensate, di questo mio benedetto Gee?


A presto! ;)

Marty

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Capitolo 3
*** Alja - Forse soltanto un teppistello greco, forse soltanto il suo sogno ***



Alja

Forse soltanto un teppistello greco, forse soltanto il suo sogno


Assomiglia un po' a te, ma il mio uomo è nessuno

E' il tuo posto ma poi prende il posto chi c'è

(L'Aiuola, Fiorella Mannoia)


Lui non c'era, in Russia.

Natal'ja scrollava le spalle, faceva finta di niente.

L'aveva salutata col sole negli occhi, mordendosi le labbra, addirittura s'era allacciato le scarpe, prima di scompigliarle i capelli sul ponte, Gee.

Quasi gli tremavano le mani, aveva distolto lo sguardo presto, quel benedetto ragazzino.

Lui rideva, rideva, sul campo di battaglia, e con lei sapeva giusto sospirare qualche parola e sorridere debolmente, sorridere fino a farsi male e non capir più niente, scuotere la testa e pregare che tornasse, la sua leggendaria spavalderia.

E non c'era, in Russia.

Non c'era, Geórgos, il suo pragmatico, pseudo-tenero spartano, quello convinto che lei fosse bionda perché “il sole dava alla testa”, quello che avrebbe passato la vita ad accarezzarle i capelli e nove volte su dieci le infilava un dito in un occhio, quello che del duello di Ettore e Aiace non s'era perso un colpo e considerava Euripide un suo coetaneo, quello che poteva dirsi ubriaco solo quando non declamava l'Iliade e se giurava di vedere Ottone I di Wittelsbach giocare a briscola con un petauro dello zucchero eran tutti tranquilli, quello che guardava le stringhe col vuoto negli occhi e borbottava: “e adesso da che parte comincio?”, quello che non si separava mai dal suo xiphos e aveva un bel darsi del deficiente, poi, quando se lo conficcava in un fianco, quello che se gli domandavano i tesori della Grecia rispondeva: “il sottoscritto e lo yogurt”, quello che gli potevano anche ridere in faccia tutti, ma avrebbe sempre avuto l'ultima parola.

Dio sapeva quanto gli era costato, separarsi da Libro VII dell'Iliade, posarglielo tra le mani dopo un'ultima carezza alla copertina e dirle: “Facciamo come Ettore e Aiace, Al? Ci scambiamo i doni invece che ammazzarci a vicenda, ti va?”.

E lei, lei cosa gli aveva dato?

Un nastro per capelli e l'autografo di Puškin che aveva sognato per anni, ma adesso non poteva imprigionare il suo sogno sulla carta, non più.


Via, Alja, non far così: ne son passati tanti, di eroi, pei giorni tuoi.

Hai sorriso a tutti, tu, qualcuno l'hai preso per mano, anche solo per rubargli una parola, anche solo per cercare qualcun altro.

Ha un bel coraggio questo ragazzino greco a giurar che venderesti il mondo, questo mondo, il tuo, per due occhi d'oltremare, per un cuore al di là delle nevi eterne di Siberia, queste nevi che venderesti l'anima, tu, pur di sentir ancora sciogliere tra le dita.

E' bello, il tuo Paese. Ostile a mille altri, forse, ma tu ne sei dannatamente innamorata.

Via, va a farti un giro, va a sentire quanti se ne andrebbero da questa Russia, la Russia dei ghiacci, la Russia dei Romanov, la Russia di chi il coraggio di ribellarsi lo paga con la morte, presto o tardi.

Scuoti la testa, Natal'ja: la zarina, la principessa di queste steppe di neve e di sangue sei tu.

Natal'ja la ribelle, Natal'ja che ci crede, Natal'ja che lo sa, Natal'ja che la farà, la Rivoluzione.

Ma quel ragazzo sapeva il nome del cielo.

Quel ragazzo t'ha detto il nome del primo amore, quello che acceca e se ti volta le spalle poi non sai più dove cercarle, le stelle della sera, e lui alle stelle spara.

Chi t'ha detto ch'era lui, il suo nome, i suoi occhi disegnati a carboncino sul volantino, Brian George Gibson, Geόrgos Zemekis, ricercato.

Mangiavi castagne e vendevi fiammiferi sui marciapiedi innevati e cos'avresti dato, quanto, solo per vederlo in faccia, solo per trovarti davvero davanti quel sorriso un po' buffo un po' da mascalzone

Poi lui t'ha messo una mano sulla spalla, t'ha tirato un po' la treccia, ma piano.

Ha indicato il volantino ed il suo mezzo sorriso stavolta l'hai visto: era bello, quel sorriso.

Era il più bello di tutti, lui.

Per te, non per altri.

Ma bastava.

-Non ho mica le orecchie a sventola, io. Cioè, non così tanto-

Irriverente, divertente.

Non lo sai descrivere, tu.

Forse è soltanto un teppistello greco, forse è soltanto il tuo sogno.

Non hai mai dubitato delle sue orecchie, tu.



Note


Xiphos: Spada a doppio taglio tipica degli Antichi Greci, in particolar modo degli Spartani, che la accorciarono di trenta centimetri.

Ottone I di Wittelsbach: Re di Grecia dal 1832.

Libro VII, Iliade: Duello tra Ettore e Aiace.

Brian George Gibson - Geórgos Zemekis: Il primo è il vero nome di George, che, pur essendo nato a Sparta, in una famiglia di Spartani, è figlio del Capitano John Arthur Gibson, di Liverpool, dove effettivamente si sono conosciuti Alja e Gee, tra Wavertree e Penny Lane, essendo anche il padre di Alja liverpooliano - ma di questo riparleremo più avanti.

Il secondo il suo nome greco, poiché a Sparta porta il cognome di sua madre e di suo nonno - specifico perché è il più “Zemekis” di tutti, e di sicuro il meno “nonno”, nonno Leonida. ;)

“[...]Prima di scompigliarle i capelli sul ponte [...]”: Ponte della nave, della Magna Graecia, per la precisione, la nave del padre di George, con la quale Natal'ja è tornata in Russia, dato che m'è venuto chissà come il dubbio che non fosse chiaro di quale ponte si parlasse.

Sarà che io penso sempre ai ponti di Budapest, probabilmente. ;)


Ed ecco il terzo capitolo, questo benedetto terzo capitolo.

C'è un altro brandello di Alja e Gee, in questo capitolo.

Quel George...mi assomiglia tanto, troppo, in questo capitolo.

E lo yogurt greco...ci fosse stato un giorno in cui non l'ho mangiato, ad Atene!

E Dio, io la Grecia l'adoro in ogni suo dannato centimetro, ma la yogurt...lo yogurt è un mondo a a parte, punto.

Anche se il mio clima ideale è quello siberiano, assolutamente.

Quello di Liverpool è una sorta di via di mezzo, diciamo -anche se adoravo il freddo che c'era lì-, ma è magica per altri motivi, Liverpool.

La periferia ed il cielo, il mare e la storia...ne parleremo nei prossimi capitoli, perché sono cose su cui né io né i miei protagonisti riusciamo a stare zitti, queste. ;)

Spero che vi sia piaciuto questo, intanto.


A presto!

Marty


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Capitolo 4
*** Gee - Avrei potuto, e no, non ce l'avrei fatta ***



Gee

Avrei potuto, e no, non ce l'avrei fatta


Quello che non ho è di farla franca
Quello che non ho è quel che non mi manca
Quello che non ho sono le tue parole
Per guadagnarmi il cielo, per conquistarmi il sole

(Quello che non ho, Fabrizio De André)


Lui la ricordava sempre un po' distratta

Pensierosa, la treccia bionda sulla spalla sinistra, lo sguardo perso, il vestito blu

Pareva sempre vederci di più, lei, nei marciapiedi innevati della periferia di Liverpool

S'era innamorato, pur consapevole che lontani dalla Grecia e dalla Russia

Sarebbero sempre stati solo un ragazzino un po' sregolato ed uno scriccioletto nordico

Che troppo poco spesso chinava la testa alle convenzioni


Passato discutibile, presente legalmente perseguibile.

Sguardo sicuro, fin troppo.

Una mal interpretazione della sua miopia, immaginava lui, ma la cosa non gli creava particolari problemi.

Non quanto la miopia, perlomeno.

E poi che diamine aveva da guardare sempre la ragazza dei fiammiferi?

Strinse i denti, scosse la testa, li guardò un po' male, ma non disse niente.

Non avrebbe dovuto ascoltare i discorsi degli altri su di lui, Brian George Gibson.

Avrebbe voluto rispondere, ma erano Inglesi, quelli, e l'inglese lo capiva poco, Gee.

E poi...

E poi era difficile da spiegare.


Avrei potuto scioglierle la treccia, se non avessi rischiato di tirarle i capelli.

Avrei potuto dirle qualcosa in cui non mi avesse ancora preceduto Omero, anche se è proprio Omero stesso, a precedermi.

Avrei potuto stringerle la mano realizzando, preferibilmente prima, di non essere esattamente Ettorre domator di cavalli dopo il duello con il Telamonio.

Avrei potuto salutarla con una frase più romantica di “And the Greeks have won Xerxes”, per quanto questa sia la prima frase in inglese che abbia giudicato opportuno imparare.

Ora parliamoci chiaro, però.

Io non lo so, se lei ha idea di chi sia Serse, se desidera fargli una pernacchia quanto me, ricordando il trionfo di Salamina, se l'ha odiato quanto me quando, alle Termopili, ha osato sconfiggere gli Spartani.

Ora che ci penso, è meglio che non lo sappia, questo.

I miei concittadini devono essere sempre i primi, per lei.

Oh, io non c'ero, alle Termopili.

Potrei essere frainteso, su quest'ultimo argomento, ma ho quindici anni e, mio malgrado, sono nato nel 1821 e non ai tempi di Temistocle.

Ma questo non è che un dettaglio, credetemi.


Gliel'ho sciolta, la treccia, stamattina.

Se l'era fatta talmente male ch'era più arruffata di mio nonno quando gli ho starnutito in faccia per sette volte consecutive, e non è stata una bella scena, quella.

M'ha sfidato a duello, nonno Leonida, momentaneamente dimentico del fatto che fossi sangue del suo stesso sangue, il figlio di sua figlia, il primogenito, l'unico nipote maschio e teoricamente l'erede e tutte quelle storie lì .

Si son stupiti, quei mezzi beoti dei miei amici, quando ho giurato di volermi arruolare nell'Esercito Miceneo, che Agamennone sarebbe stato un comandante di certo meno brutale del nonnino, se solo fosse stato ancora fra noi.

Beh, sì, l'ho sciolta, la sua treccia, quei capelli che sognavo di passarmi tra le dita come la lama calda della mia ultima battaglia, gliel'ho sciolta e poi ho lasciato cadere il nastro nella neve, l'ho guardata e l'ho capito, Zeus, che la mia lama l'aveva lei.

Mi sono arreso, forse per la prima volta, le ho stretto la mano, mi son guardato intorno e ho pensato che così, tra il cielo e la neve, senza testimoni, con un romanticismo che, lo giuro, non ho avuto mai, avrei potuto rubarle un bacio.

Ed è finita proprio come alle Termopili, che guarda a caso sono uno Spartano, io, come un cretino con la mano sulla sua guancia, a consumarla con gli occhi e a domandarmi disperatamente come diamine facesse l'Aiace con Tecmessa, se cercasse di dirle qualcosa in particolare o soltanto di non farle cadere la spada su un piede.

E' finita che non sapevo neanche da che parte girarmi, la guardavo e l'imploravo con lo sguardo: “Alja, se sai che si fa adesso dimmelo, ti prego”.

E lei rideva, rideva, rideva e mi scompigliava i capelli, rideva e m'indicava la bancarella delle castagne, rideva, capelli biondi scompigliati, occhi lucidi di neve ed io ormai non lo sapevo più, quanto m'incantava, e chissà se lo sapeva lei.

Geórgos.

Un cretino che tendeva a rivolgersi a lei come ad un compagno di falange.

Oh, ma ho dei bei ricordi, io, del mio ultimo compagno di falange.

Era della Tessaglia, e mentre affilavo lo xiphos non facevo che chiedergli del caro, vecchio Filottete.

Son di Larissa, benedetto ragazzo, mica della Magnesia!”, era arrivato a gridare un giorno, piantandomi la lancia nel tallone.

Ho ringraziato per il paragone col Pelìde, certo, ma poi son rimasto zitto fino al tramonto, per evidenza di cose.

Però è stato un grande, Filo, quando ha acchiappato i dardi d'Eracle e ha massacrato Pariduccio, non è vero?”, insistevo, o meglio, insistetti quando il tallone fu nuovamente presentabile.

-Oh, vogliamo scherzare? Figuriamoci se ne ho mai dubitato- era solito rispondermi, decisamente meno entusiasta di quanto la circostanza richiedesse.

Geórgos.

L'eroe spartano della prossima Iliade, volendo.

Un decerebrato, pure senza sforzarsi.

Ma quel giorno una cosa intelligente l'ho fatta, l'ha ammesso anche lei, l'avrebbe ammesso il nonno, anche se non avrei dovuto interpretarlo esattamente come un complimento, temo.

C'era il Mersey, a Liverpool, la città di mio padre e del suo.

A pensarci bene c'è anche adesso, ma com'era quella sera, forse, non sarà mai più.

Non era come l'Eurota o l'Enisej, i fiumi delle città in cui siamo nati.

No, non così.

Ma l'ho baciata, io, in riva al Mersey, l'ho baciata che avevo appena inghiottito una castagna, e Aiace sa perché non ho aspettato un secondo, che poi m'è anche andata di traverso, ma non occorre entrare nei dettagli.

L'ho baciata ch'era quasi notte, quel giorno, in riva al Mersey.

L'ho baciata e poi son inciampato e cascato nel fiume, ma nel cadere l'ho presa per mano, ho rivisto i suoi occhi, le sue lacrime di sabbia ch'eran il sole della sera, della sera quasi notte, della nostra sera al fiume, le ho sorriso e qualcosa le volevo dire, sì.

Ma stavo cadendo nel fiume e non era esattamente da sottovalutare, la cosa.

Così una frase da poeta rubacuori proprio non gliel'ho detta, ma le volevo un bene dell'anima io, contavo che l'avesse capito.

E poi, chissà come -ma io lo sapevo, accidenti a me, come, il fiume è diventato tutt'un tratto molto più vicino di lei, e l'unica cosa che potevo dire in mia difesa era che quella frase, no, non l'aveva mai detta, Omero.

-Non ci sono le pantegane, qui, vero?-



Note

Gee, George, Geórgos.

E' relativamente bacato, lui.

Lui a Natal'ja vuole bene davvero, un bene folle, ma non è che sappia tanto come comportarsi.

Vive tra l'Iliade e le nuvole, tra la Sparta d'un tempo, Liverpool, i sogni e la galera, George.

E questi...questi sono gli Alja e Gee dei giorni di Liverpool, ch'era il 1836 e avevano undici e quindici anni, ma l'epoca e la povertà li hanno fatti crescere in fretta, e così un po' cercano di fermare il tempo, e rubano a quel tempo anche il tempo di scherzare, loro.

Il prossimo capitolo sarà su Natal'ja, il prossimo capitolo farà capire tanto.

Sarà diverso dai precendenti, ma per adesso non dico altro.

Sperando che anche questo vi sia piaciuto, a presto! ;)

Marty

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Capitolo 5
*** Natal'ja Eileen Morrison - Il nome del cielo ***



Natal'ja Eileen Morrison


Tu sei bella anche se non ridi

Sai cadere quasi sempre in piedi

(Vorrei, Roberto Vecchioni)



Bella più che mai

Sorride e non ti dice la sua età

(Alice, Francesco De Gregori)


Il nome del cielo


Poi arrivò il mattino e col mattino un angelo

E quell'angelo eri tu, con due spalle uccellino

In un vestito troppo piccolo e con gli occhi ancora blu

(Caterina, Francesco De Gregori)


Grigiazzurri.

Natal'ja, sciogliendosi la treccia, si scostava i capelli dagli occhi, Natal'ja aveva gli occhi grigiazzurri.

Il grigio avrebbe potuto essere il colore naturale dei suoi occhi, ma l'azzurro era come il veleno, il veleno del cielo, l'azzurro faceva male.

Non erano quel genere di occhi che incantavano, non erano quel genere di occhi che ci si fermava a guardare per la strada, come nell'ingenuo tentativo di carpirvi un segreto, un segreto celato, un segreto più forte di lei.

Non ce n'erano, di segreti, in quegli occhi, erano sinceri, limpidi, c'era forse troppa verità.

Erano una traccia, un indizio, un segnale, un indirizzo, due parole, e quelle parole erano "come lui".

Aveva gli occhi belli, Natal'ja, belli, ma tanto, e anche tristi.

C'era stato un ragazzo, prima di lei, a sfoggiare quelle stille di colori, quell'acqua dolce nelle iridi chiarissime.

C'era stato un ragazzo di cui non sapeva più come parlare, Natal'ja.

E non ne parlava, allora.

Inclinava la testa, s'intrecciava di nuovo i capelli e guardava lontano.

"Beh, non fa niente, è passato anche lui", la sentivano dire, ammettere, giurare.

"Ma tu ci tenevi, ci tenevi, a lui?", le avevano chiesto un giorno, sfacciati, curiosi, quasi certi che la chiave dei suoi occhi fosse quella domanda e che la risposta sarebbe stata, magari abbassando lo sguardo, un flebile "sì".

Non abbassava lo sguardo, Natal'ja.

Ne aveva, di orgoglio, ne aveva da vendere, quella ragazzina.

"Ci tenevo? Non lo so. Ma lui teneva troppo stretto quello ch'è stato di me".

Stretto da far male, stretto al cuore, stretto da catene, catene di sorrisi e di sospiri, catene di ferro ardente, strette da soffocare, non osavano chiederglielo, no.

"No, era strano, lui, era strano, lo giuro, questo non me l'ha detto mai".

"E allora cos'hai da dire, cos'hai da dirci, Natal'ja?".

"Niente, forse, ma siete stati voi a fermarvi, siete stati voi, non ve lo ricordate?".

Sorrideva, Natal'ja, faceva crollare tutti, col sorriso.

Aveva un sorriso che si sarebbe potuto definire dolce, lei, ma dolce di verità troppo lontane, e col tempo, a vederlo, a vederlo sfiorire su un viso di rosa, su un viso di bambina, era parso un'ingenua smorfietta di zingara, ora la luce ch'era venuta a mancare, era parso un sorriso di sogno, felice, ora era un sorriso che faceva male.

Sensi di colpa, rimpianti, Natal'ja pareva non averne.

Pareva non averne, dal sorriso, da quel modo che aveva di guardare e di dire: "io sono qui, tu resta, se vuoi".

E aveva di quei capelli, Natal'ja, che te ne dovevi ricordare.

Chiari chiari, stelle e cielo, sempre arricciati con le dita leggere, come a giocare, per poi scioglierli la sera, scuoterli un poco e sistermarseli sulla spalla sinistra, quasi incurante di chi si fermava ad assistere, magari per caso, a tale lento rituale che sfiorava l'imbrunire.

Poi si alzava, Natal'ja, con la treccia bionda sfatta sul vestito chiaro, e muoveva un po' di neve con i piedi, come in un debole tentativo di sognare d'andare lontano.

Anche i sogni le erano stati impediti, un giorno, o almeno s'era osato minare la libertà dell'azzurro più intrepido dei suoi occhi.

Non un brivido aveva colto la pelle fragile, screpolata di Natal'ja, misera fata delle steppe siberiane: mille, forse.

Ella ricordava un numero, 1482.

Sul suo polso destro, una cicatrice bollente, un marchio di quelli che si sarebbero riconosciuti fino all'ultimo giorno come la condanna psicologica dei forzati di Omsk.

Sette anni, sette anni e la paura.

La sua Russia aveva un segreto, la sua casa, la Siberia, dietro le sbarre pareva svanire, ma fuori era eterna, fuori era il grido del ghiaccio del fiume, era sentirlo scrosciare come in primavera, la primavera biancazzurra quasi sfiorita sotto la neve, la primavera dei Siberiani, era sentire il sole battere, far ridere il cielo come nei Paesi Orientali, giurare di sciogliere le sue catene, e non poter allungare le mani, le mani per bere.

Senza conoscere il vero peccato che le aveva fermato i piedi e le ali, s'era addormentata su una coperta di polvere, cenere e fumo d'un mondo che aveva conosciuto anche nel suo angolo di libertà, s'era addormentata con la chioma ribelle ancora intrecciata sciolta tra le braci di Omsk, in un carcere che pure da innocente sapeva di meritare, ormai conscia di una colpa a cui, neanche ad avere una maledettissima scelta, avrebbe potuto rinunciare.

Era nata in un quartiere, lei, dove tutto poteva finire, ma c'era una cosa, una sola, sempre certa, una parola: la Rivoluzione.

Aveva un amico, Natal'ja, un amico che avrebbe baciato in riva al fiume, il fiume di Omsk, un ragazzino ungherese che il carcere lo conosceva bene, il Capitano del suo quartiere, il Capitano di Forradalom.

Eran passati nove mesi, nove mesi dalla condanna senza processo e da un processo ch'era un insulto, un processo inventato, le aveva stretto una mano oltre le sbarre, le aveva detto: "non dimenticare il tuo nome".

E al Paese di suo padre, l'azzurra Inghilterra che, mai quanto la Russia, amava, era stato un attimo, sì, da sconcertare, da far male, quell'attimo era bastato.

Il giovane greco alla fine della via parlava col cielo e sparava alle stelle, ragazzo dei vicoli, brigante di strada, nato sul Taigeto, gloria di Sparta, e aveva un sole dentro, lui, ch'era l'ombra di quella libertà per cui sarebbe morta, Natal'ja.

Da quel giorno alla fine del mondo, da quel giorno sul mare di Liverpool, la imprigionava sempre in certi sguardi ch'erano scuri di guerra e di armi e dolci al contempo di eroi passati, rassegnati, di tempi di luce e di arti tenaci, in un sogno di sole che bagnava le montagne, in un soffio di filosofia.

Natal'ja s'era innamorata.

E Natal'ja, Natal'ja poi era morta che d'inverni sulle dita ne contava ventitré, era il 1848, l'anno delle Rivoluzioni, le Rivoluzioni che in fondo non erano mai mancate, a lei.

Forse calpestata dalla carrozza dello zar, davanti agli uomini della Terza Sezione, che l'onore d'una forca a Pietroburgo, come i Decabristi, non la meritava, Natal'ja.

Forse uccisa davvero soltanto dalle fiamme di Forradalom, il quartiere dei ribelli che, l'avevano giurato, un giorno avrebbero raccolto i fucili di chi l'aveva detto ieri, "io non ci sto più", e non per scherzo, per gli scarabocchi delle sere in cui d'attentati si parlava per svegliarsi il giorno dopo senza la dannata convinzione d'esser troppo fragili, questa volta per davvero, da scriver sui libri di storia delle scuole, da scriver sui muri della Capitale, avrebbero sparato in mezzo agli occhi dello zar.

L'aveva ucciso lui, poi, lo zar, Feri Desztor di Forradalom, e dopo c'era stato soltanto il patibolo, lo zar aveva ucciso il suo quartiere.

Era morta che forse lo ricordava a fatica, il suo nome.

Eppure l'avrebbero ricordata, forse eroina, forse illusa, Natal'ja.

Natal'ja egoista, distrutta dai sogni, Natal'ja ferita, innamorata del cielo, Natal'ja che il nome del cielo forse non l'avrebbe imparato mai, ma in nome di quel cielo, occhi bruciati e capelli sciolti, nel suo quartiere, nella sua strada, aveva giurato la sua eterna fine, Natal'ja.


Chissà se giochi ancora con i riccioli sull'orecchio

O se guardandomi negli occhi mi troveresti un po' più vecchio

E quanti mascalzoni hai conosciuto e quante volte hai chiesto aiuto

Ma non ti è servito a niente

(Caterina, Francesco De Gregori)




Note


Non è stato facile, scrivere questo capitolo.

C'è tutta Natal'ja, in questo capitolo.

Ci sono tre delle persone più importanti della sua vita in Sic Volvere Parcas, seppur appena accennate, in questo capitolo: Nikolaj Vasil'evič Zirovskij, suo cugino, il mancato pianista polacco, l'ussaro varsaviano dai troppi sogni infranti, distrutto dalle illusioni, dalla croce d'un padre ormai perduto e dalla malattia, morto troppo giovane, morto forse solo per farsi giustizia.

Feri Desztor, l'ungherese, il ragazzo con gli occhi di Budapest, il capo dei Rivoluzionari, il Capitano di Forradalom -dall'ungherese Rivoluzione-, colui che nel 1848 che avrebbe dovuto essere l'anno della sua rivincita, la Rivoluzione Ungherese, a ventinove anni, uccidendo lo Zar -Nikolaj Romanov I, naturalmente una mia “licenza poetica”-e poi impiccato a Pietroburgo, s'è giocato la vita intera.

E “il giovane greco”, Geórgos, Gee. Che in qualche modo un sorriso lo strappava sempre, alla piccola Natal'ja.

C'è un po' tutta la sua vita, la sua vita finita a ventitré anni, in questo capitolo.

La sua infanzia consumata tra i marciapiedi innevati di Krasnojarsk a vendere fiammiferi e il carcere di Omsk, i lavori forzati, la condanna senza processo a causa del passato da Decabristi di suo zio e di suo nonno, condanna scontata bambina eppure inevitabile, perché quando i Decabristi bruciavano idee ed ideali sotto il Palazzo d'Inverno lei era nata da pochi mesi, ma per il suo stesso essere nata in quel 1825, nell'anno della Rivoluzione, per la certezza che se avesse avuto l'età sarebbero state anche le sue, le disperate speranze di quei ribelli, inevitabili.

E a ventitré anni, calpestata dai cavalli della carrozza dello zar, davanti agli uomini della Terza Sezione, la polizia segreta di Nikolaj Romanov I, tra le ceneri di Forradalom, è morta per quei suoi benedetti ideali, e gli si sono frantumati negli occhi, i suoi fragili, ardenti sogni, le sue eterne illusioni.

E George... George è sempre stato tanto, troppo, per Natal'ja.

Il capitolo su di lui arriverà, non so ancora quando, ma arriverà.

Questa è Alja, intanto.

A voi la parola! ;)


A presto,

Marty





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Capitolo 6
*** Legato al tuo sorriso, cammino sopra il fuoco ***


Legato al tuo sorriso, cammino sopra il fuoco


Lei coi capelli di sole sommersi

Io in mezzo ai mari che corsi

Lei sotto i suoi cieli inversi

(Due Universi, Claudio Baglioni)


La ragazzina aveva l'aria un po' smarrita, persa oltre il finestrino d'un treno che correva e correva.

Di tanto in tanto sbuffava, giocava coi riccioli, bella di quella sua bellezza quasi assorta, sistemandosi il vestito indaco spiegazzato e poi rassegnandosi, graziosa quanto disordinata, con un sospiro lieve.

S'era sciolta senza accorgersene il nastro turchese dei capelli, dapprima non se n'era curata, stavan meglio sciolti, in fondo, il nastro come braccialetto, il sorriso un po' esitante a illuminare quel visino.

Tremava, mordendosi le labbra screpolate, vittima d'un'emozione inquieta, un batticuore più selvaggio della corsa di quel treno.

Bionda, con un'aria da zingarella un po' curiosa un po' altezzosa, una figurina esile esile che si stagliava nella luce fioca d'un vagone addormentato, contro il sedile di pelle lacera del treno Krasnojarsk - San Pietroburgo.

Non sapeva quando si sarebbe fermato, non sapeva se sarebbe arrivato prima che le lacrime la tradissero.

Avrebbe pianto forse solo col pensiero, frantumando ricordi in quella sua testolina troppo bionda e un po' confusa, intrecciando preghiere nella fiamma del dubbio, giurando che le sue speranze valevano ancora qualcosa.

Dava da pensare, con quei capelli di grano tanto mossi perfino in quella quiete di cristallo, senza vento, gli occhi grandi, d'un azzurro perlaceo quasi grigio o d'un grigio scintillante quasi azzurro.

Chiari e a tratti indispettiti, ribelli, vinti e poi malinconici, quegli occhi, lucidi di stupore, rapido il movimento delle ciglia, talvolta celati dalle palpebre.

Li socchiudeva e poi li sgranava, cercava il cielo, fuori dal finestrino, ma incontrava solo il fumo, il fumo e la nebbia a tradire la vista, a farla voltare quasi offesa, delusa.

-George- fu il sussurro che le rubò il respiro poco dopo, il treno doveva aver attraversato un'altra cittadina siberiana, la Capitale zarista era ancora lontana.

Tra i polpastrelli, stretta con presa fragile, una miniatura, un ritratto che stava tra le pagine d'un quadernetto dalla robusta copertina celeste, il ritratto d'un giovane uomo.

Bello da toglierle il fiato anche su un fragile frammento di carta, rapito dai colori d'un pittore di strada, dipinto di sfuggita su una cicatrice di tela, eppure splendido come nel suo ricordo più doloroso.

Bello anche senza volerlo, il suo eroe d'altri tempi, il ragazzino cresciuto un po' per sbaglio un po' di fretta.

E già solo a immaginarselo a Pietroburgo, quel George, gli stivali affondati nella neve con cui non aveva un vero e proprio rapporto, lui...

Le veniva da ridere, tanto.

Lui era il Greco, quello con il sole negli occhi e tra le mani, il suo, di sole, quel sole sempre un po' troppo luminoso e troppo caldo, per lei.

Lei viveva per la neve e per il vento, lui col sole sulla pelle tutto l'anno, ma il sole lui glielo faceva sentire solo a sfiorarla con la mano, e lei aveva sempre la pelle gelida...

Le sue mani da scaldare, i sorrisi di George da rubare e ricordare per i suoi mille ritorni in Siberia...

Le facevano male, male e quel certo solletico al cuore, quel tremore leggero leggero che la costringeva a realizzare che non era dolore, ma nostalgia.

Ma sarebbe arrivato, prima o poi, quel treno!

Se lo augurava, la biondina russa, se lo augurava davvero.

Se lo augurava, ma quando il treno si fermò quasi la stordì, il pensiero ch'era ormai soltanto oltre il finestrino, George.

E non era ancora abbastanza...

-Gee!-

Saltò giù dal treno che quasi volava, la piccina coi segreti del cielo negli occhi, avvertì i piedini solcare la neve pietroburghese e bagnarsi all'istante, e davvero si sentì morire.

S'incamminò a piccoli passi e poi, sciogliendo per l'ultima volta il nastro azzurro e lasciandoselo scivolare nel palmo della mano, corse fino a perdere il fiato, corse fino a sperare di vedere e non vedere lui.

Ma dove, dove, dove...

-Nathalie!-

La ragazzina si voltò, arricciando appena le labbra.

-Beh, non esattamente. Volevo dire Natal'ja-

Sorrise, finalmente, lei.

-Dai, streghetta... Nemmeno un bacetto o uno sputo in un occhio?-

Si sarebbe sentito lusingato in entrambi i casi, quella testa calda.

Lo contemplò per un attimo, un attimo solo, Natal'ja.

Lo guardò trattenendo il respiro, e mille luci correvano negli occhi di stella della bambina innamorata ch'era adesso, adesso che forse non era più solo Natal'ja.

Lo guardò, e in quell'attimo anche respirare il fumo della sigaretta già quasi consumata del ragazzo le fece girare la testa.

Si mangiò con lo sguardo ogni dettaglio di quel viso, quel viso sempre incredibilmente abbronzato, l'eterno sorriso del sole greco, quel sole che s'era portato anche in Russia, a baciargli le labbra screpolate, gli occhi scuri, i capelli nerissimi e sconvolti da un vento che, ne era sicura, dalla sua Patria di leggende non si sarebbe mai immaginato.

S'intrecciò ai capelli il suo sospiro, e quel che rimaneva nell'aria di quella sua voce polverosa e lontana lontana, come se ancora le parlasse dal cuore delle selve spartane che l'avevan visto bambino, da quell'Iliade su cui aveva sognato.

Scosse la testa, infine, Natal'ja.

L'afferrò per un polso, trascinandolo lontano dai binari, in un angolo della stazione che magari pochi secondi più tardi sarebbe stato il più affollato di tutta San Pietroburgo, ma in quel momento no.

E lo baciò, lo baciò davvero.

Come in quel sogno bruciato sul treno, come a dover morire d'amore, come a non doverselo ricordare più, il suo nome.

-Come la trovi, questa Russia, Geórgos?-

-Fredda fredda, e tu sei sole e miele...-

Natal'ja socchiuse gli occhi, facendo un passo indietro.

Poi gli pestò un piede con tutta la forza di cui era capace, sorridendogli, radiosa.

-Non sempre, Gee. Non sempre. Non sempre ma ti voglio bene, Dio se te ne voglio-

Sospirò, scuotendo la testa.

-Credo d'avere un concetto più elevato delle Russe, che della Russia in sé- continuò lui, assottigliando lo sguardo, sognante.

-Dove andiamo, adesso?-


La Neva.

La Neva era un po' il sorriso più luminoso di Pietroburgo, era la scia d'acqua chiara e lastre di ghiaccio squarciate che lasciava nel ricordo di chi la costeggiava, anche di chi la Russia non l'avrebbe rivista mai più.

E la stringeva forte, Natal'ja, la mano di Geórgos, tiepida anche contro quel vento che un po' gli ricordava lo schiaffo d'aria inaspettatamente tagliente che l'accoglieva ogni volta davanti al Partenone, il Partenone di cui era innamorato fin da bambino, il Partenone davanti al quale aveva fatto innamorare anche lei, di quel George meno brutale, soldato e patriota, che tra le orazioni nell'Agorà e i sussurri al suo orecchio non faceva poi tanta differenza, da tanto che ci lasciava il cuore, e ce lo lasciava in entrambi i casi, lui.

L'Agorà, a Sparta, non c'era mai stata: l'aveva sempre inventata lui.

Lei, a Sparta, era rimasta per poco, troppo poco: tutti gli altri giorni, l'aveva inventata lui.

L'Acropoli, per lui, non era Atene, non era l'altra faccia della Capitale.

Era il piccolo mondo dei suoi sogni, era il sogno in cui avrebbe voluto portare lei.

Lei che, di quel George, era pazza dalla notte dei tempi.

-Casa tua?-

Natal'ja sgranò gli occhi, s'aggrappò alla sua mano quasi con furia, facendosi nivea in volto.

-Casa mia è a Krasnojarsk, un po' lontano. Siberia inoltrata, mica caldo come qui-

Deglutì, George, al "mica caldo come qui".

Aveva una percezione del clima del tutto discutibile, quella sua ragazzina, ma preferì far finta di niente.

-Pensavo... Pensavo che ti sarebbe piaciuta di più Pietroburgo, almeno per oggi-

-E la notte la passiamo sotto i ponti, immagino-

L'occasionale strafottenza di Gee la Siberiana l'aveva sempre odiata, ma se ne curò poco, in quel momento.

Serrò le labbra, arrossendo un poco.

La passeremmo sotto i ponti anche a Krasnojarsk.

-Sei tanto stanco, dunque?-

Fu quasi un sussurro, il suo.

La voce spezzata, ferita.

George la guardò, un poco sorpreso.

-No...-

E va bene, dannata ragazzina.

-Ho solo freddo, Al'ja. Si gela, qui. Si gela maledettamente. Non ci sono abituato, io, al freddo, al gelo.

In Grecia fa caldo, ricordi? C'è sempre il sole. Io non sono come te-

-Lo so. E so anche che sei più etnocentrico dei tuoi antenati, che la Russia ti fa schifo e che in questo momento, del male che possono farmi queste tue considerazioni, le tue opinioni, non te ne frega niente-

Egoista, egoista, egoista.

-Casa mia...lo sai com'è, casa mia? E' buia, tanto. Ne possiamo usare una al giorno, di candela. E ci sono i topi, non so che rapporto tu abbia con loro. Il tetto prima o poi crollerà, e ci auguriamo che non succeda prima di Natale. Il Natale l'adoro, io, anche coi topi e l'intonaco per terra. Senza casa... Non sarebbe poi tanto bello, no. Non ce l'ho, un letto, io, mi son sempre bastate le lenzuola. Puoi prendere quello di mio cugino, tu. E' morto, lui, e prima le notti le passava sempre all'Osteria. Non so, forse ti troveresti più a tuo agio lì, o su un marciapiede. E' più dignitoso di casa mia, a volte-

-Ma tu sorridi-

Natal'ja si morse le labbra, distolse lo sguardo, scosse la testa.

Lo guardò, inclinando un poco la testa, gli occhi sbarrati.

-E' l'unica cosa che so fare, George-

Lui sorrise, di quel sorriso perdutamente bello, talvolta egoista, ma sincero, questo sì.

Annuì.

-E' l'unica cosa che mi fa sentire bene, bene davvero-

-E la tua Sparta?-

Era ironica, lei, e non avrebbe dovuto.

Ma lui la conosceva, Natal'ja.

-La mia Sparta fa male, a volte-


-Dai, Al. Le hai già viste mille volte. Sono sempre le stesse, non fanno più male, ormai-

Le dita di Natal'ja scivolarono nell'incavo del suo collo, gli sfiorarono la spalla.

George la guardò storto, sbuffando.

Lei scosse la testa, baciandogli una guancia.

-Non mi sembrano poi tanto amichevoli, i ragazzi di Anassagora-

Lo Spartano sospirò, pensando che, in effetti, il cugino di suo nonno e i briganti della Tessaglia erano meno simpatici di quello che ci si sarebbe potuto aspettare da una banda di, tutto sommato, parenti.

-Non hanno avuto rispetto nemmeno del nipote di Leonida...-

-E quando mai?-

Non glielo voleva dire, lei, che un po' le si fermava il cuore, nel sentir sotto la pelle le sue cicatrici, stelle che bruciavano in ricordo di battaglie che lui chiamava per nome.

Il sangue a incendiare le strade di Sparta, il colore del cielo e il colore degli occhi, le lacrime di mille partiti al mattino e tornati in dieci col freddo del tramonto...

Lui ce la faceva, lui non le ascoltava più, ormai, quelle cicatrici.

E lei, nel carezzargliele piano, un po' moriva e un po' l'amava di più.

-Natal'ja, siamo in mezzo alla strada- le ricordò il ragazzo, tra il lusingato e il divertito.

-Noi siamo ragazzi di strada, Gee- glielo sussurrò tra i capelli, la piccola Natal'ja.

Bella, bella, bella.

Era tanto bella, Natal'ja, in quel suo splendere forse solo tra la neve, forse solo davanti a lui.

-Ma tu... tu quante volte ti sei perso?-

-Al'ja...-

Sorrise, lei.

-Se ti accontenti di casa mia... Voglio dire, se sei pronto per Krasnojarsk...-

George si accigliò, guardandola.

-Com'è, oggi, il tempo?-

Natal'ja socchiuse gli occhi, pensierosa.

-Quarantanove gradi-

-Oh, come a Sparta!-

La ragazzina scoppiò a ridere, prendendolo per mano.

-Sotto zero, Gee!-


-Zeus, Zeus, Zeus...-

Natal'ja inarcò un sopracciglio, sentendolo brontolare.

-Che c'è?-

-Dai, non può fare più freddo di qui!-

Lei scrollò le spalle, serafica.

-Sei coraggioso, tu-

Lui ch'era più a suo agio con la pistola in mano, sotto un sole che bruciava la pelle e i sorrisi, che nel gelo disperato che c'era lì.

Ma il gelo per Natal'ja era un'abitudine, il sole invece tramontava.

George, la delusione dopo l'abitudine, la precarietà, ormai la conosceva.

Avrebbero preso il treno per Krasnojarsk, dalla Russia alla Siberia la strada era tutta stelle di ghiaccio, pianto di grandine e fiocchi e vento forte da stordire.

Bufere di neve e tempeste feroci, infinite dogane atmosferiche e cielo cupo fuori dal finestrino.

Il treno a volte si fermava, il silenzio faceva paura.

Tacevano i vagoni semideserti, cadevano i pochi bagagli radunati negli angoli.

Natal'ja e Geórgos non ne avevano, di bagagli.

Lei perché abitava lì, verste e verste più avanti, nella steppa inoltrata, oltre la distesa di neve: ci era affezionata, per quanto a volte le strappasse il cuore.

Lui perché era un brigante di montagna, un eterno partigiano dell'Indipendenza Greca: non contava il corredo, a lui importava solo della Libertà.

Erano lì, le dita intrecciate quasi timidamente, i sorrisi impliciti, lievi.

Belli nel rossore delle guance, nella luce fioca che i bianchi paesaggi a tratti mandavano su di loro.

Natal'ja faceva ballare un piedino sul pavimento scuro del vagone, studiando di tanto in tanto il bel volto del giovane greco che ancora non osava chiamare il suo ragazzo.

Lo era, certo che lo era.

Dirlo, però, era tutta un'altra cosa.

-George, George, il mio... George- ripeteva, facendolo sorridere.

-Ti stai facendo crescere la barba, eh?-

Lui annuì, serio.

-Penso che i grandi eroi greci ce l'avessero-

-Accidenti se sei cresciuto, tu. Da bambino ne avevi una paura folle, credevi che ti sarebbe successo come ai miei capelli. Mica lo immaginavi, che il tuo caro xiphos potesse essere usato anche per imprese meno epiche di difendere la Patria, quali, appunto, radersi. Io, i capelli, non me li sono mai tagliata-

-Santo Cielo se si vede!-

-E direi. Li adoro, io. E a te... A te piacevano, una volta-

-Una volta?-

Glieli scompigliò un poco, Gee, lasciandole poi un bacetto proprio dietro l'orecchio.

-Quando arriviamo?-

Natal'ja sbuffò, facendo un vago gesto con la mano.

-Hai fretta, tu?-

Ne aveva?

La biondina russa giocherellava con il colletto della sua camicia, di tanto in tanto gli lanciava sguardi a metà tra il furtivo e il furbetto.

Era felice, tanto.

Che se la prendesse pure comoda, il treno.


-Krasnojarsk?-

Natal'ja prese sottobraccio il Greco, raggiante.

-Proprio così-

-E', come posso dire...una frazione del Polo Nord in incognito?-

-Figuriamoci. Siam più vicini all'Antartide, noi-

George si morse la lingua, annuendo lentamente.

-Buono a sapersi...-

-Beh, questa è la Prospettiva Mira. Sai, la strada principale. Io... Io abito a Forradalom-

Brillavano, gli occhi di Natal'ja.

Era povero, poverissimo, il suo quartiere, ma era il regno dei ribelli e dei Rivoluzionari.

Era il Paradiso, per lei.

-Devo presentarti tutti, sai? Gli Ungheresi, i ragazzi del quartiere, i nonni, la mamma, le mie amiche... Non le guardare troppo, loro, eh-

Poi incontrò lo sguardo un po' stanco un po' allucinato del ragazzo.

Sorrise.

-Un altro giorno, però-


-Qualcosa mi dice che dovresti tornare in camera tua, Al-

Sulla soglia della camera di Nikolaj Zirovskij la guardava ad occhi spalancati, George.

Natal'ja si indicò, con un mezzo sorriso.

-E' la camicia da notte di maman, questa-

George assentì, deglutendo per la ventisettesima volta.

-Eh, è una semidea, tua madre-

-Dai, Gee. Ne ha già abbastanza, di adoratori, la Julyeta-

Aveva quattordici anni più di lei, sua madre.

Le voleva bene, tanto, ma a volte assomigliava più ad una sorella.

Sospirò, sedendosi sul bordo del letto.

Aveva raccolto i capelli nella treccia più lunga e luminosa che George avesse mai visto, ma d'altronde era un partigiano in tutti i sensi, lui.

-Mi ami?- mormorò lieve lieve, socchiudendo gli occhi.

Lui le sfiorò le labbra con un dito, sorridendo nel buio.

-Nah. Di più. Non so bene come spiegartelo... Non sei bella, non sei dolce, tu. Sei Natal'ja-

Esitò, stringendole un poco le mani.

-Al'ja?-

La ragazzina mosse leggermente il capo, cercando di distinguere il profilo del giovane nella fiamma tenue della candela.

-Sì?-

-Spegni la candela-

Sbuffando, la ragazzina si alzò, allungando una mano verso la macchia di cera semiconsumata sul comodino.


Il nastro azzurro era legato intorno al polso destro.

Cercava di celare i numeri di Omsk, ma George se ne accorse.

Natal'ja distolse lo sguardo, nascondendolo dietro la schiena.

Il ragazzo sospirò, scuotendo la testa.

-Vieni qui, Al'ja-

La piccina slava gli si accostò con sospetto, tendendogli la mano ferita.

Chiuse gli occhi, mordendosi le labbra.

Poco dopo avvertì le dita di George scioglierle il nastro e quest'ultimo scivolare tra le lenzuola.

-Gee...-

Lui le tirò un poco la treccia, lanciandole un'occhiataccia.

-Le hai viste, le mie cicatrici. Sono tante, troppe, e me le ricordo tutte. Missolungi, 1827. Navarino, 1828.

El Cairo, 1829. Alessandria d'Egitto, Patrasso. Aggressione sulla strada per Micene, Tessaglia.

Non fanno più male, ma non posso nasconderle, davvero. Sparta avrà il mio sangue, tu il mio cuore.

Il cuore di uno Spartano, che ironia. Per la gloria e per la Grecia. Gran bell'ideale, no?

Forse potrei morire per molto meno, ma io non voglio morire, Al.

Voglio avere qualcosa da mettere prima della guerra, qualcosa che valga di più della guerra, anche con quarantanove gradi sotto zero e neve perfino nelle orecchie.

Adesso potrei strapparmi la camicia e ricontarli tutti, i segni delle armi. Ma quelle armi cosa hanno potuto veramente sulla mia vita? Bruciarmi l'infanzia, farmi chinare la testa, capire che l'abitudine non sarebbe mai bastata. Guardami, sono più abituato agli spari che a vivere. Non c'è un motivo per cui morire, Al'ja.

Non perché l'hanno deciso Loro, non perché l'ha detto Lui. Io non ce l'ho, un motivo per cui morire.

Sparta lo merita, Sparta lo pretenderà, ma io non lo farei. E sai, non me ne frega proprio niente.

Adesso... Natal'ja, io voglio di più-

Si sdraiò accanto a lui, Natal'ja.

Guardava il soffitto, non lo sapeva, cosa dire.

-Ecco-

Prese in mano la candela, illuminò i quattro numeri.

-Mi fanno orrore, George. Mi fanno paura. E' la mia pelle, quando sono nata non c'erano. Nessuno me l'aveva detto. Guardali, cielo mio, guardali. E' la mia mano. Mi hanno insegnato a leggerla, io vedo solo la prigione. Io non voglio più vederla, la prigione!-

Adesso non c'era veramente più niente da dire, George lo sapeva.

Le stringeva la mano, quella mano, con la sua copriva quei segni.

Il marchio dei forzati.

Atroce come gli mancasse il coraggio proprio in quel momento, atroce come nel tempo di quei respiri non sapesse affrontare le cicatrici di Natal'ja.

-E a me la sapresti leggere, la mano?- le soffiò all'orecchio, muovendole un poco i capelli.

Lei liberò la sua mano destra, seguendone le linee irregolari, affascinata.

-Bella domanda, Gee. Beh, direi che seguendo le coordinate...-

George inarcò un sopracciglio, ma non disse niente.

-Aspetta. Mettila qui-

La portò sulla sua guancia, lo guardò attentamente.

Poi scoppiò a ridere, abbracciandolo.




Note




Legato al tuo sorriso, cammino sopra il fuoco: La Mia Ragazza, Roberto Vecchioni.

Omsk: Città della Siberia Sud - Occidentale, insieme a Krasnojarsk (Siberia Centrale), uno dei più importanti centri siberiani.

Versta: Unità di misura russa, equivalente ad un chilometro e mezzo circa.

Xiphos: Spada a doppio taglio tipica degli Antichi Greci, in particolar modo degli Spartani, che la accorciarono di trenta centimetri.


In attesa del capitolo su George, ancora in fase di elaborazione, un momento pseudo - tenero a cui sono maledettamente affezionata.

Ambientato alla fine del 1838, diciamo verso il 4 Settembre - ch'è anche -o soprattutto?- il mio compleanno, ma dettagli. ;)


A presto!

Marty

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Capitolo 7
*** Brian George Gibson - Vivevi di luce, eppure mai il sole ha lasciato un sogno a te ***





Brian George Gibson

Vivevi di luce, eppure mai il sole ha lasciato un sogno a te


Mi davi la tua gioventù,

Nessuno mi ha fermato più

(L'Isola di Wight, Dik Dik)


Era pericoloso, Brian George Gibson.

Questo si ripetevano i Liverpooliani, questo ripeteva Regan Amelie Wilson, diffidente e sospettosa futura dirimpettaia del figlio del Capitano.

Ce n'era sempre stata, di gente pericolosa, a Wavertree.

Ma lui era straniero, aveva la pelle così scura, e poi quella fama da criminale, i precedenti penali!

S'era presentato alle porte del quartiere tra gli sguardi ammirati degli abitanti dei sobborghi circostanti e l'inquietudine di vicini di casa che volevano tenerlo a distanza.

Chi affascinato chi intimorito, però, di fronte al suo epiteto nessuno poteva mostrarsi indifferente.

Brian George Gibson era noto a tutti come "l'Egiziano".

Che rapporto avesse precisamente con l'Egitto, poi, nessuno pareva saperlo.

Forse la pelle molto più scura del consueto, l'accento indoeuropeo, o quell'aria incredibilmente esotica che si ritrovava avrebbero avrebbero potuto dar luogo a dei dubbi, ma il suo fiero etnocentrismo no.

Brian George Gibson, come avrebbero voluto l'anagrafe e la paternità, o Geórgos, come era sempre stato chiamato, era greco, di Sparta.

Era giovane, tanto, eppure non si faceva problemi a conversare amabilmente con il mendicante arabo di Penny Lane o con il dirimpettaio turco che, giunto a dare un buffetto sulla guancia e un bacio fugace alla figlia della donna che aveva abbandonato, aveva riconosciuto in lui uno dei suoi più cari amici "sulla nave", come ripeteva con disprezzo la Wilson, rammentandone i discorsi.

Sarà stato, appunto, il tradimento del marito bizantino con la "cugina ricca", ma Regan non aveva intenzione di fidarsi un'altra volta di uno straniero.

Il padre, invece, dopo aver constatato quali scempi il ragazzo fosse in grado di fare con l'inglese, si rivolgeva a lui nella sua lingua d'origine.

Non per niente aveva sposato Anasthàsja Zemekis, terzogenita del capo dei Kléftes di Spárti, ed aveva chiamato Magna Graecia la sua nave mercantile.

Capitano della Marina Inglese sì, ma era un anglosassone particolarmente filellenico, Sir John Arthur Gibson.

A Penny Lane, però, non c'era solo il mendicante arabo, e difatti Geórgos s'era presto imbattuto in una personcina con la quale le sue care lingue mediorientali sarebbero servite a ben poco, e a cui forse non sarebbero bastate a rubarle un sorriso, questa volta per colpa sua, le sue poche e discutibili conoscenze dell'inglese.

Era piccola, bionda e sfuggente, a tratti tenera e a tratti sospettosa, con la burrasca e le fiamme negli occhi, la fiammiferaia slava.

Uno scriccioletto dal fascino inaudito, seppur forse soltanto per lui, la cui età non voleva sapere per non star male all'idea d'esser davvero un dannato filibustiere a sognare i suoi capelli tra le dita.

Forse il tempo l'aveva tradita, notava guardandola, ma l'infanzia, oltre al gelo, le era rimasta negli occhi, non poteva esser cresciuta in fretta quanto lui.

La pazienza, no, non era una delle doti di cui era solito vantarsi.

Ne aveva solo una vaga idea, ma davvero non sapeva aspettare, lui.

L'età da marito cominciava a dodici anni, e dodici anni non li aveva ancora, la piccina che gli faceva scordare anche il carcere, la bimba che, chissà come, gli ricordava la nostalgia come la libertà.

"Natal'ja", l'aveva sentita chiamare da un ragazzo dai suoi stelli lineamenti nordici, stille di fumo e di mare negli occhi e medesima lingua dal suono mille volte più glaciale del suo greco.

L'aveva trovato impressionante, inizialmente.

Li aveva creduti gemelli, ma s'era dovuto ricredere: la cosa avrebbe implicato come minimo che fossero coetanei, e il ragazzo di anni ne aveva almeno venti.

Aveva ipotizzato che la fiammiferaia fosse sua figlia, e avrebbe anche potuto avere senso, se fosse stato possibile diventar padre a dieci anni o giù di lì.

Poi s'era informato: la fatina di Wavertree era russa, siberiana, ma con il ragazzo parlava in polacco.

Quest'ultimo, Nikolaj, aveva dodici anni più di lei ed era suo cugino.

Natal'ja era la figlia quasi legittima di Harold Morrison, il falconiere - filosofo, che avrebbe sposato sua madre -Julyeta, "la ragazza dei biscotti"- entro l'anno.

Gliel'aveva detto Aisling, la figlia dell'ottomano Rajit e di Regan, con la quale parlava in turco.

Lei, della biondina slava, era la migliore amica, e aveva notato in quest'ultima, quando parlava con Lilì, una luce negli occhi tra la curiosità e la delusione.

Gli era sembrato perfino che guardasse male l'amica, dopo una di quelle conversazioni, e che le chiedesse: "What did he tell you? What is his name?".

Aveva ripetuto le due domande ad alta voce, nel tentativo di tradurle, ma tutto ciò ch'era riuscito ad ottenere era stato farla arrossire furiosamente furiosamente mentre si scioglieva e rifaceva la treccia fino a tirarsi i capelli.

"He's so beautiful, but he never speak to me", aveva sussurrato un'altra volta, facendosi nivea in volto quando le si era avvicinato per domandarle un fiammifero, possibilmente con l'aiuto di Aisling.

Quel "beautiful" gli ricordava un po' il bouleuterion d'Atene, e George pensò che volesse entrare in politica, nonostante la giovane età.

Nella confusione delle sue riflessioni gliel'aveva fumata praticamente in faccia, la sigaretta accesa con il suo fiammifero, e poi spenta tra le pagine del suo libro, che poi aveva riconosciuto come il Candide di Voltaire.

Per la rabbia e l'umiliazione Natal'ja era corsa in casa, e ai "Sygnómi" che le aveva gridato dietro per scusarsi aveva creduto che volesse una "signature", una firma, e che fosse perciò un venditore ambulante, e nemmeno di quelli troppo onesti.

Un giorno aveva finto di sfiorarle inavvertitamente la mano, facendola scattare come un'antilope saltante.

-Khristos, what an idiot! I don't know what do you want from me, but I don't want to know it!-

-Don't want, don't know, don't don't, want know... Oh, Ouranós!- aveva sospirato lui, guardandola quasi sofferente.

Lei aveva sgranato gli occhi e, dopo una manciata di secondi, gli aveva sorriso.

Non sembrava un tipo troppo raccomandabile, Geórgos, ma a quelli come lui, in fondo, era abituata.

No, non esattamente.

Di ragazzi come lui, Natal'ja non ne aveva mai conosciuti.

Un trauma mentale, un colpo al cuore, un sogno, un incanto.

Non sapeva bene come definirlo, il suo incontro con lo Spartano.

Ma poi... Poi se n'era innamorata.


Geórgos, in Egitto, era stato soldato.

Soldato bambino a sette anni, schiavo dei Turchi, voluto e preteso dal capo degli alleati, Ibrahim Pascià.

Era costata cara, a lui, la Guerra d'Indipendenza Greca.

Poi era tornato a Sparta, e a Sparta a sorridere.

C'era stata Liverpool, dopo, il cugino di Natal'ja da affrontare e l'accusa d'averlo ucciso.

La condanna a morte e l'evasione dopo la quale non l'aveva più vista, lei.

Le sue mille promesse, le speranze infrante... Non l'aveva nemmeno salutata.

Era tornato in Grecia, sperava di rivederla, sapeva che non sarebbe successo.

Era ricominciata la guerra, la guerra civile, tra i briganti di suo nonno e il Conte di Micene.

E un giorno non ce l'aveva fatta, a rimanere in piedi, non ce l'aveva fatta più.

Dicevano che sarebbe potuto morire da un giorno all'altro, e quel giorno era arrivata lei.

Era tornata lei.

Natal'ja.

Davvero non c'era più tempo per morire.

Sarebbe stato per un'altra volta.


E confesso il mio peccato, io non mi accontento mai

E non c'è pazzia che non farei

(Vita da Pirata, Edoardo Bennato)


Brian George Gibson, Sparta, 27 Febbraio 1821 - Riyadh, 2 Aprile 1847


Ventisei anni non lo so, se li ho vissuti, se me li son bruciati volando troppo in alto e neanche in questo sono stato il primo, quando mai?

Son sempre stato quello che le regole se le giocava a briscola, io, quello che non riusciva a star tranquillo nemmeno in punto di morte, e a volte faceva più piangere che ridere.

Ma ventisei anni son pochi, cielo mio.

L'Arabia era bella, l'Arabia l'ho vista davvero per un giorno o poco più, quel giorno poteva succedere tanto, ma sono morto io.

Ventisei anni di fuoco, ventisei anni di niente, Dio.

A Sparta a fare il grand'uomo, a Damasco a difendere i Siriani, a Riyadh a lasciarci la pelle, perché con la vita ci ho giocato troppo, io.

Ventisei anni son bastati, dai.
A far il cretino fino all'ultimo, giurando di non aver paura.

M'ha fatto sorridere, quel giorno, Rajit.

Gee, ti vogliono ammazzare!

Non erano mica i primi, me la sarei cavata.

Davanti al patibolo li ho mandati al diavolo tutti, com'erano suscettibili!

E cosa mi han detto l'ultimo giorno, gli Ottomani a cui in fondo son stato simpatico fin dall'inizio, visto come si son venduti l'anima solo per mettermi le catene ai piedi?

Scegli tu a chi dedicare la tua sconfitta, Geórgos.

Natal'ja aveva il mio cuore, ce l'ha ancora, lei ci credeva, in me.

Questa sconfitta tenetela voi, se ci credete.


Io no, non ho mai avuto vita facile

Ma benedico il giorno in cui iniziai a ribellarmi a quelle regole

(Le vie del rock sono infinite, Edoardo Bennato)



Note


Ouranós (greco): Cielo.

Khristos (russo): Cristo

Sygnómi (greco): Scusa.

Wavertree: Quartiere della periferia di Liverpool.

Kléftes (greco): Letteralmente "ladri", nello specifico briganti e partigiani della Guerra d'Indipendenza Greca (1821 - 1829).

Spárti (greco): Sparta.

Bouleuterion: Edificio in cui, nelle poleis greche, aveva luogo il consiglio del demos.


Eccolo qui, George.

Un po' diabolico un po' arrogante, un po' Icaro un po' Achille, dolce, incoerente, ribelle, sregolato George.

George che la vita l'ha bruciata per paura di perderla, George ch'è cresciuto davvero troppo in fretta, ma con Natal'ja, per Natal'ja è sempre stato diverso, qualsiasi cosa, anche a Riyadh, davanti al patibolo, anche quando era troppo tardi.

Spero che vi sia piaciuto, ecco. ;)


A presto,

Marty

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