Dipla sou egò di Natalja_Aljona (/viewuser.php?uid=83321)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Alja - Cielo e vertigine, cielo e voragine ***
Capitolo 2: *** Gee - Sigaretta spenta nell'Iliade, stringhe slacciate, oplita filosofo d'un sogno a metà ***
Capitolo 3: *** Alja - Forse soltanto un teppistello greco, forse soltanto il suo sogno ***
Capitolo 4: *** Gee - Avrei potuto, e no, non ce l'avrei fatta ***
Capitolo 5: *** Natal'ja Eileen Morrison - Il nome del cielo ***
Capitolo 6: *** Legato al tuo sorriso, cammino sopra il fuoco ***
Capitolo 7: *** Brian George Gibson - Vivevi di luce, eppure mai il sole ha lasciato un sogno a te ***
Capitolo 1 *** Alja - Cielo e vertigine, cielo e voragine ***
Dipla sou egò
Alja
Cielo
e vertigine, cielo e voragine
Don't
question why she needs to be so free
She'll
tell you it's the only way to be
She
just can't be chained
To
a life where nothing's gained
And
nothing's lost
At
such a cost?
Non
chiederle come mai ha bisogno di essere così libera
Ti
dirà che è l'unico modo di essere
Lei
non può essere incatenata
Per
una vita in cui nulla è guadagnato
E
nulla è perduto
A
quale prezzo?
(Ruby
Tuesday, The Rolling Stones)
Capelli raccolti,
capelli stille di grano, capelli luce di stelle, le sue stelle nelle
tue mani.
Treccia sfatta sul
vestito chiaro, chioma ribelle, arricciata, scompigliata, sciolti tra
le braci delle tue mani, quei capelli.
E lei, a giocarci
sempre, con quei capelli, ad intrecciarseli ancora con le dita
leggere, a sfiorarti gli occhi, poi, con quelle dita, sbriciolare un
sorriso sul timido rossore del volto e ridere, ridere, ridere di te.
Cerchi il suo sguardo e
forse temi un poco la sfrontata irriverenza della tua ragazzina.
Natal'ja, la fatina
delle steppe, la fiammiferaia siberiana che non sai più quale
stella, quale fiore, quale nodo di sabbia e di schiuma di mare
t'abbia sgranato negli occhi, e non sai più quanto vivresti
ancora, quanto vivresti per quegli occhi.
Natal'ja, squarcio di
cielo negli occhi, cielo e vertigine, cielo e voragine.
E glielo dici, poi, col
coraggio che non ti manca mai, tra le battaglie e la galera, ma gli
spari ti bucano la pelle con il fuoco e lei il cuore coi suoi occhi,
e glielo dici, ora, mentre accendi un fiammifero, uno dei suoi.
-Alja?-
Sorride, e come, e che
sogno, lei sorride da capogiro e tu davvero non ragioni, sul tuo
volto non batte più il sole ma la neve, la neve che muove con
i piedi al suo Paese sol per fare un passo avanti.
Alja,
mi fai venire le vertigini.
Alja,
tu il sole me lo fai morire tra le mani.
Alja,
m'hai venduto un fiammifero, quella notte, ti ricordi?
Alja,
quanto avrei voluto comprare anche i tuoi occhi, da accendere col
fiammifero la sera in riva al fiume, da accendere come le sigarette
che avevo finito, quella notte.
Alja,
quanto avrei voluto aver comprato i tuoi occhi, da leggere sui
giornali su cui ho dormito quella notte, tutte le notti in cui ho
dormito sotto i ponti, o ai Giardini d'Atene, con le cicale che ho
mandato all'inferno mille volte, ma non smettevano mai di cantare.
Alja,
quanto vorrei maledirti, sputarti in un occhio, darti un bacio così,
per scherzo, pregarti di smettere d'incantare il vento e le stelle
col sorriso, giusto per sentirti borbottare “razza
d'incoerente” sul cuscino, guardarti stropicciare una pagina
dell'Iliade brontolando che non lo vuoi essere, tu, la mia schiava
troiana, ch'io non sarò mai, mai, grande come quegli eroi, ma,
per la tua testolina matta, “un acheo singolarmente
straordinario”.
Alja,
ci pensi, ci pensi, che storia?
Io
brigante d'una Sparta che vuol rivivere la gloria d'un tempo anche a
costo della vita, tu fiammiferaia delle nevi della Russia degli
illusi.
Vita
per la libertà dai Turchi, vita per rovesciare il trono dello
zar.
Vita
per la Rivoluzione dei sogni, vita per gli eroi di ieri.
Mettiamo
che sia tu la mia vita, Alja.
Note
Diciamo che io non
avrei dovuto scriverla, questa storia.
Diciamo che io ci tengo
troppo, ad Alja e Gee, a Natal'ja e George, Geórgos, il
brigante greco e la fiammiferaia siberiana.
Parlo di Sic Volvere
Parcas, la mia eterna Sic Volvere Parcas, ma forse non c'è
bisogno di conoscere quella, per legger questa storia.
E'...non lo so, sono
dei momenti.
Che io li faccio stare
così lontani, troppo, Alja e Gee, e in questa storia saranno
ad un passo dal cuore, saranno ad un passo dal cielo, e al diavolo il
luogo comune.
Non stravedo per il
romanticismo, io.
Loro lo sono a modo
loro, loro lo sono così.
E i luoghi
comuni...li rompono, Alja e Gee.
E sono sinceri, tanto.
Ce la mettono tutta, almeno.
Spero che vi piaccia,
questa storiella che sarà breve, “variabile”,
credo, giusto per fare un po' di meteorologia.
Dipla sou egò,
accanto a te in greco, è forse il titolo più...più
da loro.
Voi come li trovate,
Alja e Gee?
Mi piacerebbe sapere
cosa ne pensate, tanto.
Ci convivo da un anno e
mezzo, io, con questi due.
Stresseranno anche voi,
me lo sento. ;)
A presto!
Marty
|
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Capitolo 2 *** Gee - Sigaretta spenta nell'Iliade, stringhe slacciate, oplita filosofo d'un sogno a metà ***
Gee
Sigaretta
spenta nell'Iliade, stringhe slacciate, oplita filosofo d'un sogno a
metà
Well,
I said from the first
I
am the worst kind of guy
For
you to be around
Tear
me apart
Including
this old heart
That
is true
And
never ever let you down
Beh,
l'ho detto dal primo momento
Io
sono il peggiore ragazzo
Per
te
Lacerato
In
questo vecchio cuore
Questo
è vero
E
mai e poi mai ti deluderò
(The
Worst, The Rolling Stones)
Sorrideva, il ragazzino
eroico - ironico, con la sua tazza di yogurt greco sulle ginocchia e
lo sguardo chissà dove.
Natal'ja avrebbe voluto
respirare, ma il sospetto che il suddetto brigantello stesse cercando
di strangolarla nel suo abbraccio distratto in riva al fiume non
l'aveva ancora abbandonata, e ancora la faceva ridere.
In fondo le sembrava
così sciocco, in quel momento, respirare, con la stoffa lisa
della camicia del ragazzo tra le dita e nemmeno una parola a spiegare
il suo disperato stringerla quando avrebbe potuto stringere lui,
ammesso che le stringhe non l'avessero fatto volare nell'Eurota.
Le sorrideva e basta,
George, che da tempo aveva ormai smesso di piangere la felicità
di quel mezzo bacio strappato nello schiaffo delle selve spartane e
adesso faceva piangere lei, che il tramonto le era scivolato tra le
dita, e lui con le luci già all'ombra della fine della sera.
Aveva quei colori, quel
volo di stelle negli occhi, il vecchio, irrecuperabile George, che
faceva perdere il senso del vento, il nome del tempo, ammesso che il
tempo, il suo tempo, un nome di quelli da chiamare la mattina appena
sveglia l'avesse mai avuto.
Natal'ja non sapeva mai
davvero cosa dire di quel George che ora la camicia l'aveva gettata
nel fiume, strappata di mano a lei che proprio non sapeva cosa fare,
ma lo scrutava un po' timida, adorante, sospettosa, come a volerlo
prendere in giro con una carezza, e poi il coraggio di fargliela,
quella carezza, sarebbe arrivato forse con la prossima luna, la
prossima luna che lui avrebbe passato con la pistola in mano e le
stringhe slacciate da inciampare dopo aver sparato, con l'Iliade
stretta forte nella mano libera, libera per modo di dire, a sognare
un po' perso sui versi d'Omero, che al Telamonio lui avrebbe tanto
voluto assomigliare, ma di fronte alla rocca degli Achei sarebbe
sempre stato un pulcino, e allora ci spegneva la sigaretta,
nell'Iliade, sovrappensiero, e un attimo dopo malediva la sua dannata
distrazione.
Ma al diavolo gli eroi
di quella sorta, gli dei d'Olimpo, che se li prendesse Ade, il buon
Ade, che se li mangiasse nello yogurt greco, la sua Lachesi infame.
Aveva lei, George, lei
che, sì, un po' gli ricordava Briseide, e poi, beh, il Pelìde
era biondo e lui forse in un'altra vita, il Pelìde aveva un
orgoglio che per abbassare un poco le barriere lo pregavano, e lui
orgoglioso lo era altrettanto, davvero, ma se si rifiutava d'andare
in battaglia lo menavano, c'era poco da fare.
-Alja, Alja, questa è
Sparta, la Sparta di ieri, di oggi e di sempre, che un cuore ce l'ha,
forse, ma sotto l'usbergo. Ma benedetta piccina, più terribili
di Sparta sono gli Spartani: guardali, e se ti guardano, sappi che te
la faranno ingoiare presto, la parola “fine”. Ecco, ecco
gli Spartani. Sono uno di loro, e allora diamoglielo, un motivo per
giocarsi a carte il mio cadavere, se proprio andasse così
male, la prossima battaglia.
Ma Alja, Alja, sorridi,
domani scappo via, domani, te lo giuro, ti porto a Micene.
“E cosa c'è
da vedere, a Micene?”, mi chiedi e sorridi sapendo che un poco
mi farà morire, il tuo dubitar della città
d'Agamennone.
C'è da vedere
quanto bene ti voglio, e credimi ch'è tanto, credimi, ci paghi
la nave per la Russia, credimi, ti basta per un'altra vita.
Ma tu un'altra vita non
la vuoi e neanche tornare in Russia, non adesso, tu vuoi il bene che
ti voglio stretto stretto nelle mani, vuoi quel bacio che volevo
darti l'altro ieri e prima ancora e non t'ho dato, mi guardi e sei
sicura che sarà oggi, quel giorno.
Ti guardo male,
sorridi, sei proprio una sciocchina, Natal'ja di Krasnojarsk.
Vuoi il mio bacio, vuoi
il mio bene, e sai che ti dico, sai che dico io?
Domani, cara
mia-
Scuoteva la testa,
adesso, Geórgos dei Kléftes, il sorriso spavaldo
sull'eterna abbronzatura del bel viso e quella sfrontatezza da
denuncia a fargli ridere e riflettere nel fiume i cari occhi
d'ossidiana.
-Guardi l'Eurota,
Natal'ja, e poi guardi me. Che ti prende? Tu, la più
coraggiosa e irriverente, la più bella e scanzonata, bambina
buffa e sciroccata. La scintilla che ti corre negli occhi birichini
proprio non me la vuoi spiegare, hai anche tu i tuoi tempi, e
arrangiati, allora, io mi cucio 'sta ferita come m'ha insegnato il
nonno, che mica lo devi far vedere, se stai male, eppure vorrei
piangere un pochino, sai?
Sorridi ancora, Alja,
dai, che non t'ho mai vista così seria, così triste,
dai, vieni qui, l'ho cucita, la ferita, non ha fatto troppo male, no,
tanto tu lo sai che mento.
Oh, se sei noiosa, con
quegli grigiazzurri, fumo e mare, che mi ripeton quanto son bugiardo
e quanto, disgraziatamente, ti faccio battere il cuore.
Vacci anche tu, a quel
paese, Alja, anche se non so come si dice in russo.
Lascia perdere, non ho
ancora detto niente d'intelligente da stamattina, ci sei abituata,
non ci fai più caso, ridi.
Sì, Alja, scusa.
Ti voglio bene, ti
voglio bene anch'io.
Te lo do adesso, quel
bacio che non so per quale cretina ragione abbiam perso per la strada.
Te lo do adesso. Vuoi?-
Note
Ed eccolo, George,
Geórgos dei Kléftes, i
briganti di Leonida, i briganti di Sparta.
George
che non è che sia un mostro di coerenza, no, né
tantomeno di ragionamenti lucidi e sensati, George che vive per
Omero, Sparta e lo yogurt greco, e tra Omero, Sparta e lo yogurt, più
di qualsiasi altro mondo, c'è la sua Natal'ja.
Questo
è il George diciassettenne e ancora più sciroccato del
1838, ed Alja ha tredici anni, in quest'anno, ma con Gee deve sempre
tornare un po' bambina o inventarne qualcuno di più.
E'
terribile, George, sotto tanti, troppi punti di vista.
Che
non si sa mai se aspettarsi un sorriso o uno sputo in un occhio, da
lui, ma una citazione dell'Iliade sì, questo è certo.
Ch'è
bello, Gee, ma assurdo, tanto assurdo che bisogna esser matti come
lui, per capirlo, George che non è tanto un “bello e
impossibile”, impossibile mille volte di più, di
quell'impossibilità che fa venir un esaurimento nervoso,
George che vive nella Sparta di ieri nel 1838, nel cuore delle selve
del Taigeto in cui Leonida, il suo spregiudicato e discutibilmente
affettuoso nonno, fa rivivere la Sparta degli eroi.
Krasnojarsk,
che ho nominato verso la fine del capitolo, è la città
di Natal'ja, la biancazzurra città della Russia Siberiana,
Krasnojarsk attraversata dall'Enisej ghiacciato e dalle bufere di
neve, Krasnojarsk della Siberia Centrale, la Krasnojarsk in cui è
nata Natal'ja.
George
che certe volte si fida solo delle stelle che con la sua pistola
cerca di far cadere giù -anche se di questo parleremo in uno
dei prossimi capitoli- e tra queste stelle si fida forse solo di
Natal'ja.
Spero
che vi sia piaciuto, questo momento, forse meno romantico, non so,
romantico a modo di George, che a volte lo butta nel fiume, il
romanticismo, e in qualche modo non riesce mai a buttarlo del tutto.
Voi
cosa ne pensate, di questo mio benedetto Gee?
A
presto! ;)
Marty
|
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Capitolo 3 *** Alja - Forse soltanto un teppistello greco, forse soltanto il suo sogno ***
Alja
Forse
soltanto un teppistello greco, forse soltanto il suo sogno
Assomiglia
un po' a te, ma il mio uomo è nessuno
E'
il tuo posto ma poi prende il posto chi c'è
(L'Aiuola,
Fiorella Mannoia)
Lui
non c'era, in Russia.
Natal'ja
scrollava le spalle, faceva finta di niente.
L'aveva
salutata col sole negli occhi, mordendosi le labbra, addirittura
s'era allacciato le scarpe, prima di scompigliarle i capelli sul
ponte, Gee.
Quasi
gli tremavano le mani, aveva distolto lo sguardo presto, quel
benedetto ragazzino.
Lui
rideva, rideva, sul campo di battaglia, e con lei sapeva giusto
sospirare qualche parola e sorridere debolmente, sorridere fino a
farsi male e non capir più niente, scuotere la testa e pregare
che tornasse, la sua leggendaria spavalderia.
E
non c'era, in Russia.
Non
c'era, Geórgos, il suo pragmatico, pseudo-tenero spartano,
quello convinto che lei fosse bionda perché “il sole
dava alla testa”, quello che avrebbe passato la vita ad
accarezzarle i capelli e nove volte su dieci le infilava un dito in
un occhio, quello che del duello di Ettore e Aiace non s'era perso un
colpo e considerava Euripide un suo coetaneo, quello che poteva dirsi
ubriaco solo quando non declamava l'Iliade e se giurava di vedere
Ottone I di Wittelsbach giocare a briscola con un petauro dello
zucchero eran tutti tranquilli, quello che guardava le stringhe col
vuoto negli occhi e borbottava: “e adesso da che parte
comincio?”, quello che non si separava mai dal suo xiphos e
aveva un bel darsi del deficiente, poi, quando se lo conficcava in un
fianco, quello che se gli domandavano i tesori della Grecia
rispondeva: “il sottoscritto e lo yogurt”, quello che gli
potevano anche ridere in faccia tutti, ma avrebbe sempre avuto
l'ultima parola.
Dio
sapeva quanto gli era costato, separarsi da Libro VII dell'Iliade,
posarglielo tra le mani dopo un'ultima carezza alla copertina e
dirle: “Facciamo come Ettore e Aiace, Al? Ci scambiamo i doni
invece che ammazzarci a vicenda, ti va?”.
E
lei, lei cosa gli aveva dato?
Un
nastro per capelli e l'autografo di Puškin che aveva sognato
per anni, ma adesso non poteva imprigionare il suo sogno sulla carta,
non più.
Via,
Alja, non far così: ne son passati tanti, di eroi, pei giorni
tuoi.
Hai
sorriso a tutti, tu, qualcuno l'hai preso per mano, anche solo per
rubargli una parola, anche solo per cercare qualcun altro.
Ha
un bel coraggio questo ragazzino greco a giurar che venderesti il
mondo, questo mondo, il tuo, per due occhi d'oltremare, per un cuore
al di là delle nevi eterne di Siberia, queste nevi che
venderesti l'anima, tu, pur di sentir ancora sciogliere tra le dita.
E'
bello, il tuo Paese. Ostile a mille altri, forse, ma tu ne sei
dannatamente innamorata.
Via,
va a farti un giro, va a sentire quanti se ne andrebbero da questa
Russia, la Russia dei ghiacci, la Russia dei Romanov, la Russia di
chi il coraggio di ribellarsi lo paga con la morte, presto o tardi.
Scuoti
la testa, Natal'ja: la zarina, la principessa di queste steppe di
neve e di sangue sei tu.
Natal'ja
la ribelle, Natal'ja che ci crede, Natal'ja che lo sa, Natal'ja che
la farà, la Rivoluzione.
Ma
quel ragazzo sapeva il nome del cielo.
Quel
ragazzo t'ha detto il nome del primo amore, quello che acceca e se ti
volta le spalle poi non sai più dove cercarle, le stelle della
sera, e lui alle stelle spara.
Chi
t'ha detto ch'era lui, il suo nome, i suoi occhi disegnati a
carboncino sul volantino, Brian George Gibson, Geόrgos Zemekis,
ricercato.
Mangiavi
castagne e vendevi fiammiferi sui marciapiedi innevati e cos'avresti
dato, quanto, solo per vederlo in faccia, solo per trovarti davvero
davanti quel sorriso un po' buffo un po' da mascalzone
Poi
lui t'ha messo una mano sulla spalla, t'ha tirato un po' la treccia,
ma piano.
Ha
indicato il volantino ed il suo mezzo sorriso stavolta l'hai visto:
era bello, quel sorriso.
Era
il più bello di tutti, lui.
Per
te, non per altri.
Ma
bastava.
-Non
ho mica le orecchie a sventola, io. Cioè, non così
tanto-
Irriverente,
divertente.
Non
lo sai descrivere, tu.
Forse
è soltanto un teppistello greco, forse è soltanto il
tuo sogno.
Non
hai mai dubitato delle sue orecchie, tu.
Note
Xiphos:
Spada a doppio taglio tipica degli
Antichi Greci, in particolar modo degli Spartani, che la accorciarono
di trenta centimetri.
Ottone I di
Wittelsbach: Re di Grecia dal 1832.
Libro VII, Iliade:
Duello tra Ettore e Aiace.
Brian George Gibson -
Geórgos Zemekis: Il primo è il vero nome di George,
che, pur essendo nato a Sparta, in una famiglia di Spartani, è
figlio del Capitano John Arthur Gibson, di Liverpool, dove
effettivamente si sono conosciuti Alja e Gee, tra Wavertree e Penny
Lane, essendo anche il padre di Alja liverpooliano - ma di questo
riparleremo più avanti.
Il secondo il suo nome
greco, poiché a Sparta porta il cognome di sua madre e di suo
nonno - specifico perché è il più “Zemekis”
di tutti, e di sicuro il meno “nonno”, nonno Leonida. ;)
“[...]Prima di
scompigliarle i capelli sul ponte [...]”: Ponte della nave,
della Magna Graecia, per la precisione, la nave del padre di
George, con la quale Natal'ja è tornata in Russia, dato che
m'è venuto chissà come il dubbio che non fosse chiaro
di quale ponte si parlasse.
Sarà che io
penso sempre ai ponti di Budapest, probabilmente. ;)
Ed ecco il terzo
capitolo, questo benedetto terzo capitolo.
C'è un altro
brandello di Alja e Gee, in questo capitolo.
Quel George...mi
assomiglia tanto, troppo, in questo capitolo.
E lo yogurt greco...ci
fosse stato un giorno in cui non l'ho mangiato, ad Atene!
E Dio, io la Grecia
l'adoro in ogni suo dannato centimetro, ma la yogurt...lo yogurt è
un mondo a a parte, punto.
Anche se il mio clima
ideale è quello siberiano, assolutamente.
Quello di Liverpool è
una sorta di via di mezzo, diciamo -anche se adoravo il freddo che
c'era lì-, ma è magica per altri motivi, Liverpool.
La periferia ed il
cielo, il mare e la storia...ne parleremo nei prossimi capitoli,
perché sono cose su cui né io né i miei
protagonisti riusciamo a stare zitti, queste. ;)
Spero che vi sia
piaciuto questo, intanto.
A presto!
Marty
|
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Capitolo 4 *** Gee - Avrei potuto, e no, non ce l'avrei fatta ***
Gee
Avrei
potuto, e no, non ce l'avrei fatta
Quello
che non ho è di farla franca Quello che non ho è
quel che non mi manca Quello che non ho sono le tue parole Per
guadagnarmi il cielo, per conquistarmi il sole
(Quello
che non ho, Fabrizio De André)
Lui la ricordava sempre
un po' distratta
Pensierosa, la treccia
bionda sulla spalla sinistra, lo sguardo perso, il vestito blu
Pareva sempre vederci
di più, lei, nei marciapiedi innevati della periferia di
Liverpool
S'era innamorato, pur
consapevole che lontani dalla Grecia e dalla Russia
Sarebbero sempre stati
solo un ragazzino un po' sregolato ed uno scriccioletto nordico
Che troppo poco spesso
chinava la testa alle convenzioni
Passato discutibile,
presente legalmente perseguibile.
Sguardo sicuro, fin
troppo.
Una mal interpretazione
della sua miopia, immaginava lui, ma la cosa non gli creava
particolari problemi.
Non quanto la miopia,
perlomeno.
E poi che diamine aveva
da guardare sempre la ragazza dei fiammiferi?
Strinse i denti, scosse
la testa, li guardò un po' male, ma non disse niente.
Non avrebbe dovuto
ascoltare i discorsi degli altri su di lui, Brian George Gibson.
Avrebbe voluto
rispondere, ma erano Inglesi, quelli, e l'inglese lo capiva poco,
Gee.
E poi...
E poi era difficile
da spiegare.
Avrei
potuto scioglierle la treccia, se non avessi rischiato di tirarle i
capelli.
Avrei
potuto dirle qualcosa in cui non mi avesse ancora preceduto Omero,
anche se è proprio Omero stesso, a precedermi.
Avrei
potuto stringerle la mano realizzando, preferibilmente prima, di non
essere esattamente Ettorre domator di cavalli dopo il duello con il
Telamonio.
Avrei
potuto salutarla con una frase più romantica di “And the
Greeks have won Xerxes”, per quanto questa sia la prima frase
in inglese che abbia giudicato opportuno imparare.
Ora
parliamoci chiaro, però.
Io
non lo so, se lei ha idea di chi sia Serse, se desidera fargli una
pernacchia quanto me, ricordando il trionfo di Salamina, se l'ha
odiato quanto me quando, alle Termopili, ha osato sconfiggere gli
Spartani.
Ora
che ci penso, è meglio che non lo sappia, questo.
I
miei concittadini devono essere sempre i primi, per lei.
Oh,
io non c'ero, alle Termopili.
Potrei
essere frainteso, su quest'ultimo argomento, ma ho quindici anni e,
mio malgrado, sono nato nel 1821 e non ai tempi di Temistocle.
Ma
questo non è che un dettaglio, credetemi.
Gliel'ho
sciolta, la treccia, stamattina.
Se
l'era fatta talmente male ch'era più arruffata di mio nonno
quando gli ho starnutito in faccia per sette volte consecutive, e non
è stata una bella scena, quella.
M'ha
sfidato a duello, nonno Leonida, momentaneamente dimentico del fatto
che fossi sangue del suo stesso sangue, il figlio di sua figlia, il
primogenito, l'unico nipote maschio e teoricamente l'erede e tutte
quelle storie lì .
Si
son stupiti, quei mezzi beoti dei miei amici, quando ho giurato di
volermi arruolare nell'Esercito Miceneo, che Agamennone sarebbe stato
un comandante di certo meno brutale del nonnino, se solo fosse stato
ancora fra noi.
Beh,
sì, l'ho sciolta, la sua treccia, quei capelli che sognavo di
passarmi tra le dita come la lama calda della mia ultima battaglia,
gliel'ho sciolta e poi ho lasciato cadere il nastro nella neve, l'ho
guardata e l'ho capito, Zeus, che la mia lama l'aveva lei.
Mi
sono arreso, forse per la prima volta, le ho stretto la mano, mi son
guardato intorno e ho pensato che così, tra il cielo e la
neve, senza testimoni, con un romanticismo che, lo giuro, non ho
avuto mai, avrei potuto rubarle un bacio.
Ed
è finita proprio come alle Termopili, che guarda a caso sono
uno Spartano, io, come un cretino con la mano sulla sua guancia, a
consumarla con gli occhi e a domandarmi disperatamente come diamine
facesse l'Aiace con Tecmessa, se cercasse di dirle qualcosa in
particolare o soltanto di non farle cadere la spada su un piede.
E'
finita che non sapevo neanche da che parte girarmi, la guardavo e
l'imploravo con lo sguardo: “Alja, se sai che si fa adesso
dimmelo, ti prego”.
E
lei rideva, rideva, rideva e mi scompigliava i capelli, rideva e m'indicava la bancarella delle castagne, rideva, capelli biondi
scompigliati, occhi lucidi di neve ed io ormai non lo sapevo più,
quanto m'incantava, e chissà se lo sapeva lei.
Geórgos.
Un
cretino che tendeva a rivolgersi a lei come ad un compagno di
falange.
Oh,
ma ho dei bei ricordi, io, del mio ultimo compagno di falange.
Era
della Tessaglia, e mentre affilavo lo xiphos non facevo che
chiedergli del caro, vecchio Filottete.
“Son
di Larissa, benedetto ragazzo, mica della Magnesia!”, era
arrivato a gridare un giorno, piantandomi la lancia nel tallone.
Ho
ringraziato per il paragone col Pelìde, certo, ma poi son
rimasto zitto fino al tramonto, per evidenza di cose.
“Però
è stato un grande, Filo, quando ha acchiappato i dardi
d'Eracle e ha massacrato Pariduccio, non è vero?”,
insistevo, o meglio, insistetti quando il tallone fu nuovamente
presentabile.
-Oh,
vogliamo scherzare? Figuriamoci se ne ho mai dubitato- era solito
rispondermi, decisamente meno entusiasta di quanto la circostanza
richiedesse.
Geórgos.
L'eroe
spartano della prossima Iliade, volendo.
Un
decerebrato, pure senza sforzarsi.
Ma
quel giorno una cosa intelligente l'ho fatta, l'ha ammesso anche lei,
l'avrebbe ammesso il nonno, anche se non avrei dovuto interpretarlo
esattamente come un complimento, temo.
C'era
il Mersey, a Liverpool, la città di mio padre e del suo.
A
pensarci bene c'è anche adesso, ma com'era quella sera, forse,
non sarà mai più.
Non
era come l'Eurota o l'Enisej, i fiumi delle città in cui siamo
nati.
No,
non così.
Ma
l'ho baciata, io, in riva al Mersey, l'ho baciata che avevo appena
inghiottito una castagna, e Aiace sa perché non ho aspettato
un secondo, che poi m'è anche andata di traverso, ma non
occorre entrare nei dettagli.
L'ho
baciata ch'era quasi notte, quel giorno, in riva al Mersey.
L'ho
baciata e poi son inciampato e cascato nel fiume, ma nel cadere l'ho
presa per mano, ho rivisto i suoi occhi, le sue lacrime di sabbia
ch'eran il sole della sera, della sera quasi notte, della nostra sera
al fiume, le ho sorriso e qualcosa le volevo dire, sì.
Ma
stavo cadendo nel fiume e non era esattamente da sottovalutare, la
cosa.
Così
una frase da poeta rubacuori proprio non gliel'ho detta, ma le volevo
un bene dell'anima io, contavo che l'avesse capito.
E
poi, chissà come -ma io lo sapevo, accidenti a me, come,
il fiume è diventato tutt'un tratto molto più vicino di
lei, e l'unica cosa che potevo dire in mia difesa era che quella
frase, no, non l'aveva mai detta, Omero.
-Non
ci sono le pantegane, qui, vero?-
Note
Gee, George, Geórgos.
E' relativamente
bacato, lui.
Lui a Natal'ja vuole
bene davvero, un bene folle, ma non è che sappia tanto come
comportarsi.
Vive tra l'Iliade e le
nuvole, tra la Sparta d'un tempo, Liverpool, i sogni e la galera,
George.
E questi...questi sono
gli Alja e Gee dei giorni di Liverpool, ch'era il 1836 e avevano
undici e quindici anni, ma l'epoca e la povertà li hanno fatti
crescere in fretta, e così un po' cercano di fermare il tempo,
e rubano a quel tempo anche il tempo di scherzare, loro.
Il prossimo capitolo
sarà su Natal'ja, il prossimo capitolo farà capire
tanto.
Sarà diverso dai
precendenti, ma per adesso non dico altro.
Sperando che anche
questo vi sia piaciuto, a presto! ;)
Marty
|
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Capitolo 5 *** Natal'ja Eileen Morrison - Il nome del cielo ***
Natal'ja
Eileen Morrison
Tu sei bella anche
se non ridi
Sai cadere quasi
sempre in piedi
(Vorrei, Roberto
Vecchioni)
Bella più che
mai
Sorride e non ti
dice la sua età
(Alice, Francesco De
Gregori)
Il nome del cielo
Poi arrivò il
mattino e col mattino un angelo
E quell'angelo eri
tu, con due spalle uccellino
In un vestito troppo
piccolo e con gli occhi ancora blu
(Caterina, Francesco
De Gregori)
Grigiazzurri.
Natal'ja, sciogliendosi
la treccia, si scostava i capelli dagli occhi, Natal'ja aveva gli
occhi grigiazzurri.
Il grigio avrebbe
potuto essere il colore naturale dei suoi occhi, ma l'azzurro era
come il veleno, il veleno del cielo, l'azzurro faceva male.
Non erano quel genere
di occhi che incantavano, non erano quel genere di occhi che ci si
fermava a guardare per la strada, come nell'ingenuo tentativo di
carpirvi un segreto, un segreto celato, un segreto più forte
di lei.
Non ce n'erano, di
segreti, in quegli occhi, erano sinceri, limpidi, c'era forse troppa
verità.
Erano
una traccia, un indizio, un segnale, un indirizzo, due parole, e
quelle parole erano "come
lui".
Aveva gli occhi belli,
Natal'ja, belli, ma tanto, e anche tristi.
C'era stato un ragazzo,
prima di lei, a sfoggiare quelle stille di colori, quell'acqua dolce
nelle iridi chiarissime.
C'era stato un ragazzo
di cui non sapeva più come parlare, Natal'ja.
E non ne parlava,
allora.
Inclinava la testa,
s'intrecciava di nuovo i capelli e guardava lontano.
"Beh,
non fa niente, è passato anche lui",
la sentivano dire, ammettere, giurare.
"Ma
tu ci tenevi, ci tenevi, a lui?",
le avevano chiesto un giorno, sfacciati, curiosi, quasi certi che la
chiave dei suoi occhi fosse quella domanda e che la risposta sarebbe
stata, magari abbassando lo sguardo, un flebile "sì".
Non abbassava lo
sguardo, Natal'ja.
Ne aveva, di orgoglio,
ne aveva da vendere, quella ragazzina.
"Ci
tenevo? Non lo so. Ma lui teneva troppo stretto quello ch'è
stato di me".
Stretto da far male,
stretto al cuore, stretto da catene, catene di sorrisi e di sospiri,
catene di ferro ardente, strette da soffocare, non osavano
chiederglielo, no.
"No,
era strano, lui, era strano, lo giuro, questo non me l'ha detto mai".
"E
allora cos'hai da dire, cos'hai da dirci, Natal'ja?".
"Niente,
forse, ma siete stati voi a fermarvi, siete stati voi, non ve lo
ricordate?".
Sorrideva, Natal'ja,
faceva crollare tutti, col sorriso.
Aveva
un sorriso che si sarebbe potuto definire dolce,
lei, ma dolce di verità troppo lontane, e col tempo, a
vederlo, a vederlo sfiorire su un viso di rosa, su un viso di
bambina, era parso un'ingenua smorfietta di zingara, ora la luce
ch'era venuta a mancare, era parso un sorriso di sogno, felice, ora
era un sorriso che faceva male.
Sensi di colpa,
rimpianti, Natal'ja pareva non averne.
Pareva
non averne, dal sorriso, da quel modo che aveva di guardare e di
dire: "io
sono qui, tu resta, se vuoi".
E aveva di quei
capelli, Natal'ja, che te ne dovevi ricordare.
Chiari chiari, stelle e
cielo, sempre arricciati con le dita leggere, come a giocare, per poi
scioglierli la sera, scuoterli un poco e sistermarseli sulla spalla
sinistra, quasi incurante di chi si fermava ad assistere, magari per
caso, a tale lento rituale che sfiorava l'imbrunire.
Poi si alzava,
Natal'ja, con la treccia bionda sfatta sul vestito chiaro, e muoveva
un po' di neve con i piedi, come in un debole tentativo di sognare
d'andare lontano.
Anche i sogni le erano
stati impediti, un giorno, o almeno s'era osato minare la libertà
dell'azzurro più intrepido dei suoi occhi.
Non un brivido aveva
colto la pelle fragile, screpolata di Natal'ja, misera fata delle
steppe siberiane: mille, forse.
Ella ricordava un
numero, 1482.
Sul suo polso destro,
una cicatrice bollente, un marchio di quelli che si sarebbero
riconosciuti fino all'ultimo giorno come la condanna psicologica dei
forzati di Omsk.
Sette anni, sette anni
e la paura.
La sua Russia aveva un
segreto, la sua casa, la Siberia, dietro le sbarre pareva svanire, ma
fuori era eterna, fuori era il grido del ghiaccio del fiume, era
sentirlo scrosciare come in primavera, la primavera biancazzurra
quasi sfiorita sotto la neve, la primavera dei Siberiani, era sentire
il sole battere, far ridere il cielo come nei Paesi Orientali,
giurare di sciogliere le sue catene, e non poter allungare le mani,
le mani per bere.
Senza conoscere il vero
peccato che le aveva fermato i piedi e le ali, s'era addormentata su
una coperta di polvere, cenere e fumo d'un mondo che aveva conosciuto
anche nel suo angolo di libertà, s'era addormentata con la
chioma ribelle ancora intrecciata sciolta tra le braci di Omsk, in un
carcere che pure da innocente sapeva di meritare, ormai conscia di
una colpa a cui, neanche ad avere una maledettissima scelta, avrebbe
potuto rinunciare.
Era
nata in un quartiere, lei, dove tutto poteva finire, ma c'era una
cosa, una sola, sempre certa, una parola: la
Rivoluzione.
Aveva un amico,
Natal'ja, un amico che avrebbe baciato in riva al fiume, il fiume di
Omsk, un ragazzino ungherese che il carcere lo conosceva bene, il
Capitano del suo quartiere, il Capitano di Forradalom.
Eran
passati nove mesi, nove mesi dalla condanna senza processo e da un
processo ch'era un insulto, un processo inventato, le aveva stretto
una mano oltre le sbarre, le aveva detto: "non
dimenticare il tuo nome".
E al Paese di suo
padre, l'azzurra Inghilterra che, mai quanto la Russia, amava, era
stato un attimo, sì, da sconcertare, da far male, quell'attimo
era bastato.
Il giovane greco alla
fine della via parlava col cielo e sparava alle stelle, ragazzo dei
vicoli, brigante di strada, nato sul Taigeto, gloria di Sparta, e
aveva un sole dentro, lui, ch'era l'ombra di quella libertà
per cui sarebbe morta, Natal'ja.
Da quel giorno alla
fine del mondo, da quel giorno sul mare di Liverpool, la imprigionava
sempre in certi sguardi ch'erano scuri di guerra e di armi e dolci al
contempo di eroi passati, rassegnati, di tempi di luce e di arti
tenaci, in un sogno di sole che bagnava le montagne, in un soffio di
filosofia.
Natal'ja s'era
innamorata.
E Natal'ja, Natal'ja
poi era morta che d'inverni sulle dita ne contava ventitré,
era il 1848, l'anno delle Rivoluzioni, le Rivoluzioni che in fondo
non erano mai mancate, a lei.
Forse calpestata dalla
carrozza dello zar, davanti agli uomini della Terza Sezione, che
l'onore d'una forca a Pietroburgo, come i Decabristi, non la
meritava, Natal'ja.
Forse uccisa davvero
soltanto dalle fiamme di Forradalom, il quartiere dei ribelli che,
l'avevano giurato, un giorno avrebbero raccolto i fucili di chi
l'aveva detto ieri, "io non ci sto più", e non per
scherzo, per gli scarabocchi delle sere in cui d'attentati si parlava
per svegliarsi il giorno dopo senza la dannata convinzione d'esser
troppo fragili, questa volta per davvero, da scriver sui libri di
storia delle scuole, da scriver sui muri della Capitale, avrebbero
sparato in mezzo agli occhi dello zar.
L'aveva ucciso lui,
poi, lo zar, Feri Desztor di Forradalom, e dopo c'era stato soltanto
il patibolo, lo zar aveva ucciso il suo quartiere.
Era morta che forse lo
ricordava a fatica, il suo nome.
Eppure
l'avrebbero ricordata, forse eroina, forse illusa, Natal'ja.
Natal'ja egoista,
distrutta dai sogni, Natal'ja ferita, innamorata del cielo, Natal'ja
che il nome del cielo forse non l'avrebbe imparato mai, ma in nome di
quel cielo, occhi bruciati e capelli sciolti, nel suo quartiere,
nella sua strada, aveva giurato la sua eterna fine, Natal'ja.
Chissà se
giochi ancora con i riccioli sull'orecchio
O se guardandomi
negli occhi mi troveresti un po' più vecchio
E quanti mascalzoni
hai conosciuto e quante volte hai chiesto aiuto
Ma non ti è
servito a niente
(Caterina, Francesco
De Gregori)
Note
Non è stato
facile, scrivere questo capitolo.
C'è tutta
Natal'ja, in questo capitolo.
Ci sono tre delle
persone più importanti della sua vita in Sic Volvere Parcas,
seppur appena accennate, in questo capitolo: Nikolaj Vasil'evič
Zirovskij, suo cugino, il mancato pianista polacco, l'ussaro
varsaviano dai troppi sogni infranti, distrutto dalle illusioni,
dalla croce d'un padre ormai perduto e dalla malattia, morto troppo
giovane, morto forse solo per farsi giustizia.
Feri Desztor,
l'ungherese, il ragazzo con gli occhi di Budapest, il capo dei
Rivoluzionari, il Capitano di Forradalom -dall'ungherese
Rivoluzione-, colui che nel 1848 che avrebbe dovuto essere
l'anno della sua rivincita, la Rivoluzione Ungherese, a ventinove
anni, uccidendo lo Zar -Nikolaj Romanov I, naturalmente una mia
“licenza poetica”-e poi impiccato a Pietroburgo, s'è
giocato la vita intera.
E “il giovane
greco”, Geórgos, Gee. Che in qualche modo un sorriso lo
strappava sempre, alla piccola Natal'ja.
C'è un po' tutta
la sua vita, la sua vita finita a ventitré anni, in questo
capitolo.
La sua infanzia
consumata tra i marciapiedi innevati di Krasnojarsk a vendere
fiammiferi e il carcere di Omsk, i lavori forzati, la condanna senza
processo a causa del passato da Decabristi di suo zio e di suo nonno,
condanna scontata bambina eppure inevitabile, perché quando
i Decabristi bruciavano idee ed ideali sotto il Palazzo d'Inverno lei
era nata da pochi mesi, ma per il suo stesso essere nata in quel
1825, nell'anno della Rivoluzione, per la certezza che se avesse
avuto l'età sarebbero state anche le sue, le disperate
speranze di quei ribelli, inevitabili.
E a ventitré
anni, calpestata dai cavalli della carrozza dello zar, davanti agli
uomini della Terza Sezione, la polizia segreta di Nikolaj Romanov I,
tra le ceneri di Forradalom, è morta per quei suoi benedetti
ideali, e gli si sono frantumati negli occhi, i suoi fragili, ardenti
sogni, le sue eterne illusioni.
E George... George è
sempre stato tanto, troppo, per Natal'ja.
Il capitolo su di lui
arriverà, non so ancora quando, ma arriverà.
Questa è Alja,
intanto.
A voi la parola! ;)
A presto,
Marty
|
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Capitolo 6 *** Legato al tuo sorriso, cammino sopra il fuoco ***
Legato
al tuo sorriso, cammino sopra il fuoco
Lei
coi capelli di sole sommersi
Io
in mezzo ai mari che corsi
Lei
sotto i suoi cieli inversi
(Due
Universi, Claudio Baglioni)
La
ragazzina aveva l'aria un po' smarrita, persa oltre il finestrino
d'un treno che correva e correva.
Di
tanto in tanto sbuffava, giocava coi riccioli, bella di quella sua
bellezza quasi assorta, sistemandosi il vestito indaco spiegazzato e
poi rassegnandosi, graziosa quanto disordinata, con un sospiro lieve.
S'era
sciolta senza accorgersene il nastro turchese dei capelli, dapprima
non se n'era curata, stavan meglio sciolti, in fondo, il nastro come
braccialetto, il sorriso un po' esitante a illuminare quel visino.
Tremava,
mordendosi le labbra screpolate, vittima d'un'emozione inquieta, un
batticuore più selvaggio della corsa di quel treno.
Bionda,
con un'aria da zingarella un po' curiosa un po' altezzosa, una
figurina esile esile che si stagliava nella luce fioca d'un vagone
addormentato, contro il sedile di pelle lacera del treno Krasnojarsk
- San Pietroburgo.
Non
sapeva quando si sarebbe fermato, non sapeva se sarebbe arrivato
prima che le lacrime la tradissero.
Avrebbe
pianto forse solo col pensiero, frantumando ricordi in quella sua
testolina troppo bionda e un po' confusa, intrecciando preghiere
nella fiamma del dubbio, giurando che le sue speranze valevano ancora
qualcosa.
Dava
da pensare, con quei capelli di grano tanto mossi perfino in quella
quiete di cristallo, senza vento, gli occhi grandi, d'un azzurro
perlaceo quasi grigio o d'un grigio scintillante quasi azzurro.
Chiari
e a tratti indispettiti, ribelli, vinti e poi malinconici, quegli
occhi, lucidi di stupore, rapido il movimento delle ciglia, talvolta
celati dalle palpebre.
Li
socchiudeva e poi li sgranava, cercava il cielo, fuori dal
finestrino, ma incontrava solo il fumo, il fumo e la nebbia a tradire
la vista, a farla voltare quasi offesa, delusa.
-George-
fu il sussurro che le rubò il respiro poco dopo, il treno
doveva aver attraversato un'altra cittadina siberiana, la Capitale
zarista era ancora lontana.
Tra
i polpastrelli, stretta con presa fragile, una miniatura, un ritratto
che stava tra le pagine d'un quadernetto dalla robusta copertina
celeste, il ritratto d'un giovane uomo.
Bello
da toglierle il fiato anche su un fragile frammento di carta, rapito
dai colori d'un pittore di strada, dipinto di sfuggita su una
cicatrice di tela, eppure splendido come nel suo ricordo più
doloroso.
Bello
anche senza volerlo, il suo eroe d'altri tempi, il ragazzino
cresciuto un po' per sbaglio un po' di fretta.
E
già solo a immaginarselo a Pietroburgo, quel George, gli
stivali affondati nella neve con cui non aveva un vero e proprio
rapporto, lui...
Le
veniva da ridere, tanto.
Lui
era il Greco, quello con il sole negli occhi e tra le mani, il suo,
di sole, quel sole sempre un po' troppo luminoso e troppo caldo, per
lei.
Lei
viveva per la neve e per il vento, lui col sole sulla pelle tutto
l'anno, ma il sole lui glielo faceva sentire solo a sfiorarla con la
mano, e lei aveva sempre la pelle gelida...
Le
sue mani da scaldare, i sorrisi di George da rubare e ricordare per i
suoi mille ritorni in Siberia...
Le
facevano male, male e quel certo solletico al cuore, quel tremore
leggero leggero che la costringeva a realizzare che non era dolore,
ma nostalgia.
Ma
sarebbe arrivato, prima o poi, quel treno!
Se
lo augurava, la biondina russa, se lo augurava davvero.
Se
lo augurava, ma quando il treno si fermò quasi la stordì,
il pensiero ch'era ormai soltanto oltre il finestrino, George.
E
non era ancora abbastanza...
-Gee!-
Saltò
giù dal treno che quasi volava, la piccina coi segreti del
cielo negli occhi, avvertì i piedini solcare la neve
pietroburghese e bagnarsi all'istante, e davvero si sentì
morire.
S'incamminò
a piccoli passi e poi, sciogliendo per l'ultima volta il nastro
azzurro e lasciandoselo scivolare nel palmo della mano, corse fino a
perdere il fiato, corse fino a sperare di vedere e non
vedere lui.
Ma
dove, dove, dove...
-Nathalie!-
La
ragazzina si voltò, arricciando appena le labbra.
-Beh,
non esattamente. Volevo dire Natal'ja-
Sorrise,
finalmente, lei.
-Dai,
streghetta... Nemmeno un bacetto o uno sputo in un occhio?-
Si
sarebbe sentito lusingato in entrambi i casi, quella testa calda.
Lo
contemplò per un attimo, un attimo solo, Natal'ja.
Lo
guardò trattenendo il respiro, e mille luci correvano negli
occhi di stella della bambina innamorata ch'era adesso, adesso che
forse non era più solo
Natal'ja.
Lo
guardò, e in quell'attimo anche respirare il fumo della
sigaretta già quasi consumata del ragazzo le fece girare la
testa.
Si
mangiò con lo sguardo ogni dettaglio di quel viso, quel viso
sempre incredibilmente abbronzato, l'eterno sorriso del sole greco,
quel sole che s'era portato anche in Russia, a baciargli le labbra
screpolate, gli occhi scuri, i capelli nerissimi e sconvolti da un
vento che, ne era sicura, dalla sua Patria di leggende non si sarebbe
mai immaginato.
S'intrecciò
ai capelli il suo sospiro, e quel che rimaneva nell'aria di quella
sua voce polverosa e lontana lontana, come se ancora le parlasse dal
cuore delle selve spartane che l'avevan visto bambino, da
quell'Iliade
su
cui aveva sognato.
Scosse
la testa, infine, Natal'ja.
L'afferrò
per un polso, trascinandolo lontano dai binari, in un angolo della
stazione che magari pochi secondi più tardi sarebbe stato il
più affollato di tutta San Pietroburgo, ma in quel momento no.
E lo
baciò, lo baciò davvero.
Come
in quel sogno bruciato sul treno, come a dover morire d'amore, come a
non doverselo ricordare più, il suo nome.
-Come
la trovi, questa Russia, Geórgos?-
-Fredda
fredda, e tu sei sole e miele...-
Natal'ja
socchiuse gli occhi, facendo un passo indietro.
Poi
gli pestò un piede con tutta la forza di cui era capace,
sorridendogli, radiosa.
-Non
sempre, Gee. Non sempre. Non sempre ma ti voglio bene, Dio
se te ne voglio-
Sospirò,
scuotendo la testa.
-Credo
d'avere un concetto più elevato delle Russe, che della Russia
in sé- continuò lui, assottigliando lo sguardo,
sognante.
-Dove
andiamo, adesso?-
La
Neva.
La
Neva era un po' il sorriso più luminoso di Pietroburgo, era la
scia d'acqua chiara e lastre di ghiaccio squarciate che lasciava nel
ricordo di chi la costeggiava, anche di chi la Russia non l'avrebbe
rivista mai più.
E la
stringeva forte, Natal'ja, la mano di Geórgos, tiepida anche
contro quel vento che un po' gli ricordava lo schiaffo d'aria
inaspettatamente tagliente che l'accoglieva ogni volta davanti al
Partenone, il Partenone di cui era innamorato fin da bambino, il
Partenone davanti al quale aveva fatto innamorare anche lei, di quel
George meno brutale, soldato e patriota, che tra le orazioni
nell'Agorà e i sussurri al suo orecchio non faceva poi tanta
differenza, da tanto che ci lasciava il cuore, e ce lo lasciava in
entrambi i casi, lui.
L'Agorà,
a Sparta, non c'era mai stata: l'aveva sempre inventata lui.
Lei,
a Sparta, era rimasta per poco, troppo poco: tutti gli altri giorni,
l'aveva inventata lui.
L'Acropoli,
per lui, non era Atene, non era l'altra faccia della Capitale.
Era
il piccolo mondo dei suoi sogni, era il sogno in cui avrebbe voluto
portare lei.
Lei
che, di quel George, era pazza dalla notte dei tempi.
-Casa
tua?-
Natal'ja
sgranò gli occhi, s'aggrappò alla sua mano quasi con
furia, facendosi nivea in volto.
-Casa
mia è a Krasnojarsk, un po' lontano. Siberia inoltrata, mica
caldo come qui-
Deglutì,
George, al "mica
caldo come qui".
Aveva
una percezione del clima del tutto discutibile, quella sua ragazzina,
ma preferì far finta di niente.
-Pensavo...
Pensavo che ti sarebbe piaciuta di più Pietroburgo, almeno per
oggi-
-E
la notte la passiamo sotto i ponti, immagino-
L'occasionale
strafottenza di Gee la Siberiana l'aveva sempre odiata, ma se ne curò
poco, in quel momento.
Serrò
le labbra, arrossendo un poco.
La
passeremmo sotto i ponti anche a Krasnojarsk.
-Sei
tanto stanco, dunque?-
Fu
quasi un sussurro, il suo.
La
voce spezzata, ferita.
George
la guardò, un poco sorpreso.
-No...-
E
va bene, dannata ragazzina.
-Ho
solo freddo, Al'ja. Si gela, qui. Si gela maledettamente. Non ci sono
abituato, io, al freddo, al gelo.
In
Grecia fa caldo, ricordi? C'è sempre il sole. Io
non sono come te-
-Lo
so.
E so anche che sei più etnocentrico dei tuoi antenati, che la
Russia ti fa schifo e che in questo momento, del male che possono
farmi queste tue considerazioni, le
tue opinioni,
non te ne frega niente-
Egoista,
egoista, egoista.
-Casa
mia...lo sai com'è, casa mia? E' buia, tanto. Ne possiamo
usare una al giorno, di candela. E ci sono i topi, non so che
rapporto tu abbia con loro. Il tetto prima o poi crollerà, e
ci auguriamo che non succeda prima di Natale. Il Natale l'adoro, io,
anche coi topi e l'intonaco per terra. Senza casa... Non sarebbe poi
tanto bello, no. Non ce l'ho, un letto, io, mi son sempre bastate le
lenzuola. Puoi prendere quello di mio cugino, tu. E' morto, lui, e
prima le notti le passava sempre all'Osteria. Non so, forse ti
troveresti più a tuo agio lì, o su un marciapiede. E'
più dignitoso di casa mia, a volte-
-Ma
tu sorridi-
Natal'ja
si morse le labbra, distolse lo sguardo, scosse la testa.
Lo
guardò, inclinando un poco la testa, gli occhi sbarrati.
-E'
l'unica cosa che so fare, George-
Lui
sorrise, di quel sorriso perdutamente bello, talvolta egoista, ma
sincero, questo sì.
Annuì.
-E'
l'unica cosa che mi fa sentire bene, bene davvero-
-E
la tua Sparta?-
Era
ironica, lei, e non avrebbe dovuto.
Ma
lui la conosceva, Natal'ja.
-La
mia Sparta fa male, a volte-
-Dai,
Al. Le hai già viste mille volte. Sono sempre le stesse, non
fanno più male, ormai-
Le
dita di Natal'ja scivolarono nell'incavo del suo collo, gli
sfiorarono la spalla.
George
la guardò storto, sbuffando.
Lei
scosse la testa, baciandogli una guancia.
-Non
mi sembrano poi tanto amichevoli, i ragazzi di Anassagora-
Lo
Spartano sospirò, pensando che, in effetti, il cugino di suo
nonno e i briganti della Tessaglia erano meno simpatici di quello che
ci si sarebbe potuto aspettare da una banda di, tutto sommato,
parenti.
-Non
hanno avuto rispetto nemmeno del nipote di Leonida...-
-E
quando mai?-
Non
glielo voleva dire, lei, che un po' le si fermava il cuore, nel
sentir sotto la pelle le sue cicatrici, stelle che bruciavano in
ricordo di battaglie che lui chiamava per nome.
Il
sangue a incendiare le strade di Sparta, il colore del cielo e il
colore degli occhi, le lacrime di mille partiti al mattino e tornati
in dieci col freddo del tramonto...
Lui
ce la faceva, lui non le ascoltava più, ormai, quelle
cicatrici.
E
lei, nel carezzargliele piano, un po' moriva e un po' l'amava di più.
-Natal'ja,
siamo in mezzo alla strada- le ricordò il ragazzo, tra il
lusingato e il divertito.
-Noi
siamo ragazzi di strada, Gee- glielo sussurrò tra i capelli,
la piccola Natal'ja.
Bella,
bella, bella.
Era
tanto bella, Natal'ja, in quel suo splendere forse solo tra la neve,
forse solo davanti a lui.
-Ma
tu... tu quante volte ti sei perso?-
-Al'ja...-
Sorrise,
lei.
-Se
ti accontenti di casa mia... Voglio dire, se sei pronto per
Krasnojarsk...-
George
si accigliò, guardandola.
-Com'è,
oggi, il tempo?-
Natal'ja
socchiuse gli occhi, pensierosa.
-Quarantanove
gradi-
-Oh,
come a Sparta!-
La
ragazzina scoppiò a ridere, prendendolo per mano.
-Sotto
zero,
Gee!-
-Zeus,
Zeus, Zeus...-
Natal'ja
inarcò un sopracciglio, sentendolo brontolare.
-Che
c'è?-
-Dai,
non può fare più freddo di qui!-
Lei
scrollò le spalle, serafica.
-Sei
coraggioso, tu-
Lui
ch'era più a suo agio con la pistola in mano, sotto un sole
che bruciava la pelle e i sorrisi, che nel gelo disperato che c'era
lì.
Ma
il gelo per Natal'ja era un'abitudine, il sole invece tramontava.
George,
la delusione dopo l'abitudine, la
precarietà,
ormai la conosceva.
Avrebbero
preso il treno per Krasnojarsk, dalla Russia alla Siberia la strada
era tutta stelle di ghiaccio, pianto di grandine e fiocchi e vento
forte da stordire.
Bufere
di neve e tempeste feroci, infinite dogane atmosferiche e cielo cupo
fuori dal finestrino.
Il
treno a volte si fermava, il silenzio faceva paura.
Tacevano
i vagoni semideserti, cadevano i pochi bagagli radunati negli
angoli.
Natal'ja
e Geórgos non ne avevano, di bagagli.
Lei
perché abitava lì, verste e verste più avanti,
nella steppa inoltrata, oltre la distesa di neve: ci era affezionata,
per quanto a volte le strappasse il cuore.
Lui
perché era un brigante di montagna, un eterno partigiano
dell'Indipendenza Greca: non contava il corredo, a lui importava solo
della Libertà.
Erano
lì, le dita intrecciate quasi timidamente, i sorrisi
impliciti, lievi.
Belli
nel rossore delle guance, nella luce fioca che i bianchi paesaggi a
tratti mandavano su di loro.
Natal'ja
faceva ballare un piedino sul pavimento scuro del vagone, studiando
di tanto in tanto il bel volto del giovane greco che ancora non osava
chiamare il
suo ragazzo.
Lo
era, certo che lo era.
Dirlo,
però, era tutta un'altra cosa.
-George,
George, il mio... George-
ripeteva, facendolo sorridere.
-Ti
stai facendo crescere la barba, eh?-
Lui
annuì, serio.
-Penso
che i grandi eroi greci ce l'avessero-
-Accidenti
se sei cresciuto, tu. Da bambino ne avevi una paura folle, credevi
che ti sarebbe successo come ai miei capelli. Mica lo immaginavi, che
il tuo caro xiphos potesse essere usato anche per imprese meno epiche
di difendere la Patria, quali, appunto, radersi. Io, i capelli, non
me li sono mai tagliata-
-Santo
Cielo se si vede!-
-E
direi. Li adoro, io. E a te... A te piacevano, una volta-
-Una
volta?-
Glieli
scompigliò un poco, Gee, lasciandole poi un bacetto proprio
dietro l'orecchio.
-Quando
arriviamo?-
Natal'ja
sbuffò, facendo un vago gesto con la mano.
-Hai
fretta, tu?-
Ne
aveva?
La
biondina russa giocherellava con il colletto della sua camicia, di
tanto in tanto gli lanciava sguardi a metà tra il furtivo e il
furbetto.
Era
felice, tanto.
Che
se la prendesse pure comoda, il treno.
-Krasnojarsk?-
Natal'ja
prese sottobraccio il Greco, raggiante.
-Proprio
così-
-E',
come posso dire...una frazione del Polo Nord in incognito?-
-Figuriamoci.
Siam più vicini all'Antartide, noi-
George
si morse la lingua, annuendo lentamente.
-Buono
a sapersi...-
-Beh,
questa è la Prospettiva Mira. Sai, la strada principale. Io...
Io abito a Forradalom-
Brillavano,
gli occhi di Natal'ja.
Era
povero, poverissimo, il suo quartiere, ma era il regno dei ribelli e
dei Rivoluzionari.
Era
il Paradiso, per lei.
-Devo
presentarti tutti, sai? Gli Ungheresi, i ragazzi del quartiere, i
nonni, la mamma, le mie amiche... Non le guardare troppo, loro, eh-
Poi
incontrò lo sguardo un po' stanco un po' allucinato del
ragazzo.
Sorrise.
-Un
altro giorno, però-
-Qualcosa
mi dice che dovresti tornare in camera tua, Al-
Sulla
soglia della camera di Nikolaj Zirovskij la guardava ad occhi
spalancati, George.
Natal'ja
si indicò, con un mezzo sorriso.
-E'
la camicia da notte di maman,
questa-
George
assentì, deglutendo per la ventisettesima volta.
-Eh,
è una semidea, tua madre-
-Dai,
Gee. Ne ha già abbastanza, di adoratori, la Julyeta-
Aveva
quattordici anni più di lei, sua madre.
Le
voleva bene, tanto, ma a volte assomigliava più ad una
sorella.
Sospirò,
sedendosi sul bordo del letto.
Aveva
raccolto i capelli nella treccia più lunga e luminosa che
George avesse mai visto, ma d'altronde era un partigiano
in
tutti i sensi, lui.
-Mi
ami?- mormorò lieve lieve, socchiudendo gli occhi.
Lui
le sfiorò le labbra con un dito, sorridendo nel buio.
-Nah.
Di più. Non so bene come spiegartelo... Non sei bella, non sei
dolce, tu. Sei Natal'ja-
Esitò,
stringendole un poco le mani.
-Al'ja?-
La
ragazzina mosse leggermente il capo, cercando di distinguere il
profilo del giovane nella fiamma tenue della candela.
-Sì?-
-Spegni
la candela-
Sbuffando,
la ragazzina si alzò, allungando una mano verso la macchia di
cera semiconsumata sul comodino.
Il
nastro azzurro era legato intorno al polso destro.
Cercava
di celare i numeri di Omsk, ma George se ne accorse.
Natal'ja
distolse lo sguardo, nascondendolo dietro la schiena.
Il
ragazzo sospirò, scuotendo la testa.
-Vieni
qui, Al'ja-
La
piccina slava gli si accostò con sospetto, tendendogli la mano
ferita.
Chiuse
gli occhi, mordendosi le labbra.
Poco
dopo avvertì le dita di George scioglierle il nastro e
quest'ultimo scivolare tra le lenzuola.
-Gee...-
Lui
le tirò un poco la treccia, lanciandole un'occhiataccia.
-Le
hai viste, le mie cicatrici. Sono tante, troppe, e me le ricordo
tutte. Missolungi, 1827. Navarino, 1828.
El
Cairo, 1829. Alessandria d'Egitto, Patrasso. Aggressione sulla strada
per Micene, Tessaglia.
Non
fanno più male, ma non posso nasconderle, davvero. Sparta avrà
il mio sangue, tu il mio cuore.
Il
cuore di uno Spartano, che ironia. Per
la gloria e per la Grecia.
Gran bell'ideale, no?
Forse
potrei morire per molto meno, ma io non
voglio morire,
Al.
Voglio
avere qualcosa da mettere prima della guerra, qualcosa
che valga di più della guerra,
anche con quarantanove gradi sotto zero e neve perfino nelle
orecchie.
Adesso
potrei strapparmi la camicia e ricontarli tutti, i segni delle armi.
Ma quelle
armi cosa
hanno potuto veramente sulla mia vita? Bruciarmi l'infanzia, farmi
chinare la testa, capire che l'abitudine non sarebbe mai bastata.
Guardami, sono più abituato agli spari che a vivere. Non c'è
un motivo per cui morire, Al'ja.
Non
perché l'hanno deciso Loro, non perché l'ha detto Lui.
Io non ce l'ho, un motivo per cui morire.
Sparta
lo merita, Sparta lo pretenderà, ma io
non lo farei.
E sai, non me ne frega proprio niente.
Adesso...
Natal'ja, io
voglio di più-
Si
sdraiò accanto a lui, Natal'ja.
Guardava
il soffitto, non lo sapeva, cosa dire.
-Ecco-
Prese
in mano la candela, illuminò i quattro numeri.
-Mi
fanno orrore, George. Mi
fanno paura.
E' la mia pelle, quando sono nata non c'erano. Nessuno me l'aveva
detto. Guardali, cielo mio, guardali. E' la mia mano. Mi hanno
insegnato a leggerla, io vedo solo la prigione. Io non voglio più
vederla, la prigione!-
Adesso
non c'era veramente più niente da dire, George lo sapeva.
Le
stringeva la mano, quella
mano,
con la sua copriva quei segni.
Il
marchio dei forzati.
Atroce
come gli mancasse il coraggio proprio in quel momento, atroce come
nel tempo di quei respiri non sapesse affrontare le cicatrici di
Natal'ja.
-E a
me la sapresti leggere, la mano?- le soffiò all'orecchio,
muovendole un poco i capelli.
Lei
liberò la sua mano destra, seguendone le linee irregolari,
affascinata.
-Bella
domanda, Gee. Beh, direi che seguendo le coordinate...-
George
inarcò un sopracciglio, ma non disse niente.
-Aspetta.
Mettila qui-
La
portò sulla sua guancia, lo guardò attentamente.
Poi
scoppiò a ridere, abbracciandolo.
Note
Legato
al tuo sorriso, cammino sopra il fuoco: La Mia Ragazza, Roberto
Vecchioni.
Omsk:
Città della Siberia Sud - Occidentale, insieme a Krasnojarsk (Siberia Centrale), uno dei più importanti centri siberiani.
Versta: Unità di misura russa, equivalente ad un chilometro e mezzo circa.
Xiphos: Spada a doppio taglio tipica degli Antichi Greci, in particolar modo degli Spartani, che la accorciarono di trenta centimetri.
In
attesa del capitolo su George, ancora in fase di elaborazione, un
momento pseudo - tenero a cui sono maledettamente affezionata.
Ambientato
alla fine del 1838, diciamo verso il 4 Settembre - ch'è anche
-o soprattutto?- il mio compleanno, ma dettagli. ;)
A
presto!
Marty
|
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Capitolo 7 *** Brian George Gibson - Vivevi di luce, eppure mai il sole ha lasciato un sogno a te ***
Brian
George Gibson
Vivevi
di luce, eppure mai il sole ha lasciato un sogno a te
Mi
davi la tua gioventù,
Nessuno
mi ha fermato più
(L'Isola
di Wight, Dik Dik)
Era
pericoloso,
Brian George Gibson.
Questo
si ripetevano i Liverpooliani, questo ripeteva Regan Amelie Wilson,
diffidente e sospettosa futura dirimpettaia del figlio
del Capitano.
Ce
n'era sempre stata, di gente pericolosa, a Wavertree.
Ma
lui era straniero,
aveva la pelle così scura, e poi quella fama da criminale, i
precedenti penali!
S'era
presentato alle porte del quartiere tra gli sguardi ammirati degli
abitanti dei sobborghi circostanti e l'inquietudine di vicini di casa
che volevano tenerlo a distanza.
Chi
affascinato chi intimorito, però, di fronte al suo epiteto
nessuno poteva mostrarsi indifferente.
Brian
George Gibson era noto a tutti come "l'Egiziano".
Che
rapporto avesse precisamente con l'Egitto, poi, nessuno pareva
saperlo.
Forse
la pelle molto più scura del consueto, l'accento indoeuropeo,
o quell'aria incredibilmente esotica che si ritrovava avrebbero
avrebbero potuto dar luogo a dei dubbi, ma il suo fiero etnocentrismo
no.
Brian
George Gibson, come avrebbero voluto l'anagrafe e la paternità,
o Geórgos, come era sempre stato chiamato, era greco, di
Sparta.
Era
giovane, tanto, eppure non si faceva problemi a conversare
amabilmente con il mendicante arabo di Penny Lane o con il
dirimpettaio turco che, giunto a dare un buffetto sulla guancia e un
bacio fugace alla figlia della donna che aveva abbandonato, aveva
riconosciuto in lui uno dei suoi più cari amici "sulla
nave", come ripeteva con disprezzo la Wilson, rammentandone i
discorsi.
Sarà
stato, appunto, il tradimento del marito bizantino con la "cugina
ricca", ma Regan non aveva intenzione di fidarsi un'altra volta
di uno straniero.
Il
padre, invece, dopo aver constatato quali scempi il ragazzo fosse in
grado di fare con l'inglese, si rivolgeva a lui nella sua lingua
d'origine.
Non
per niente aveva sposato Anasthàsja Zemekis, terzogenita del
capo dei Kléftes di Spárti, ed aveva chiamato Magna
Graecia la
sua nave mercantile.
Capitano
della Marina Inglese sì, ma era un anglosassone
particolarmente filellenico, Sir John Arthur Gibson.
A
Penny Lane, però, non c'era solo il mendicante arabo, e
difatti Geórgos s'era presto imbattuto in una personcina con
la quale le sue care lingue mediorientali sarebbero servite a ben
poco, e a cui forse non sarebbero bastate a rubarle un sorriso,
questa volta per colpa sua, le sue poche e discutibili conoscenze
dell'inglese.
Era
piccola, bionda e sfuggente, a tratti tenera e a tratti sospettosa,
con la burrasca e le fiamme negli occhi, la fiammiferaia slava.
Uno
scriccioletto dal fascino inaudito, seppur forse soltanto per lui, la
cui età non voleva sapere per non star male all'idea d'esser
davvero un dannato filibustiere a sognare i suoi capelli tra le dita.
Forse
il tempo l'aveva tradita, notava guardandola, ma l'infanzia, oltre al
gelo, le era rimasta negli occhi, non poteva esser cresciuta in
fretta quanto lui.
La
pazienza, no, non era una delle doti di cui era solito vantarsi.
Ne
aveva solo una vaga idea, ma davvero non sapeva aspettare, lui.
L'età
da marito cominciava a dodici anni, e dodici anni non li aveva
ancora, la piccina che gli faceva scordare anche il carcere, la bimba
che, chissà come, gli ricordava la nostalgia come la libertà.
"Natal'ja",
l'aveva sentita chiamare da un ragazzo dai suoi stelli lineamenti
nordici, stille di fumo e di mare negli occhi e medesima lingua dal
suono mille volte più glaciale del suo greco.
L'aveva
trovato impressionante, inizialmente.
Li
aveva creduti gemelli, ma s'era dovuto ricredere: la cosa avrebbe
implicato come minimo che fossero coetanei, e il ragazzo di anni ne
aveva almeno venti.
Aveva
ipotizzato che la fiammiferaia fosse sua figlia, e avrebbe anche
potuto avere senso, se fosse stato possibile diventar padre a dieci
anni o giù di lì.
Poi
s'era informato: la fatina di Wavertree era russa, siberiana, ma con
il ragazzo parlava in polacco.
Quest'ultimo,
Nikolaj, aveva dodici anni più di lei ed era suo
cugino.
Natal'ja
era la figlia quasi
legittima di
Harold Morrison, il falconiere - filosofo, che avrebbe sposato sua
madre -Julyeta, "la ragazza dei biscotti"- entro l'anno.
Gliel'aveva
detto Aisling, la figlia dell'ottomano Rajit e di Regan, con la quale
parlava in turco.
Lei,
della biondina slava, era la migliore amica, e aveva notato in
quest'ultima, quando parlava con Lilì, una luce negli occhi
tra la curiosità e la delusione.
Gli
era sembrato perfino che guardasse male l'amica, dopo una di quelle
conversazioni, e che le chiedesse: "What did he tell you? What
is his name?".
Aveva
ripetuto le due domande ad alta voce, nel tentativo di tradurle, ma
tutto ciò ch'era riuscito ad ottenere era stato farla
arrossire furiosamente furiosamente mentre si scioglieva e rifaceva
la treccia fino a tirarsi i capelli.
"He's
so beautiful, but he never speak to me", aveva sussurrato
un'altra volta, facendosi nivea in volto quando le si era avvicinato
per domandarle un fiammifero, possibilmente con l'aiuto di Aisling.
Quel
"beautiful" gli ricordava un po' il bouleuterion
d'Atene,
e George pensò che volesse entrare in politica, nonostante la
giovane età.
Nella
confusione delle sue riflessioni gliel'aveva fumata praticamente in
faccia, la sigaretta accesa con il suo fiammifero, e poi spenta tra
le pagine del suo libro, che poi aveva riconosciuto come il Candide
di
Voltaire.
Per
la rabbia e l'umiliazione Natal'ja era corsa in casa, e ai "Sygnómi"
che le aveva gridato dietro per scusarsi aveva creduto che volesse
una "signature", una firma, e che fosse perciò un
venditore ambulante, e nemmeno di quelli troppo onesti.
Un
giorno aveva finto di sfiorarle inavvertitamente la mano, facendola
scattare come un'antilope saltante.
-Khristos,
what an idiot! I don't know what do you want from me, but I don't
want to know it!-
-Don't
want, don't know, don't don't, want know... Oh,
Ouranós!-
aveva sospirato lui, guardandola quasi sofferente.
Lei
aveva sgranato gli occhi e, dopo una manciata di secondi, gli aveva
sorriso.
Non
sembrava un tipo troppo raccomandabile, Geórgos, ma a quelli
come lui, in fondo, era abituata.
No,
non esattamente.
Di
ragazzi come
lui,
Natal'ja non ne aveva mai conosciuti.
Un
trauma mentale, un colpo al cuore, un sogno, un incanto.
Non
sapeva bene come definirlo, il suo incontro con lo Spartano.
Ma
poi... Poi se n'era innamorata.
Geórgos,
in Egitto, era stato soldato.
Soldato
bambino a sette anni, schiavo dei Turchi, voluto e preteso dal capo
degli alleati, Ibrahim Pascià.
Era
costata cara, a lui, la Guerra d'Indipendenza Greca.
Poi
era tornato a Sparta, e a Sparta a sorridere.
C'era
stata Liverpool, dopo, il cugino di Natal'ja da affrontare e l'accusa
d'averlo ucciso.
La
condanna a morte e l'evasione dopo la quale non l'aveva più
vista, lei.
Le
sue mille promesse, le speranze infrante... Non l'aveva nemmeno
salutata.
Era
tornato in Grecia, sperava di rivederla, sapeva che non sarebbe
successo.
Era
ricominciata la guerra, la guerra civile, tra i briganti di suo nonno
e il Conte di Micene.
E un
giorno non ce l'aveva fatta, a rimanere in piedi, non ce l'aveva
fatta più.
Dicevano
che sarebbe potuto morire da un giorno all'altro, e quel giorno era
arrivata lei.
Era
tornata
lei.
Natal'ja.
Davvero
non c'era più tempo per morire.
Sarebbe
stato per un'altra volta.
E
confesso il mio peccato, io non mi accontento mai
E
non c'è pazzia che non farei
(Vita
da Pirata, Edoardo Bennato)
Brian
George Gibson, Sparta, 27 Febbraio 1821 - Riyadh, 2 Aprile 1847
Ventisei
anni non lo so, se li ho vissuti, se me li son bruciati volando
troppo in alto e neanche in questo sono stato il primo, quando mai?
Son
sempre stato quello che le regole se le giocava a briscola, io,
quello che non riusciva a star tranquillo nemmeno in punto di morte,
e a volte faceva più piangere che ridere.
Ma
ventisei anni son pochi, cielo mio.
L'Arabia
era bella, l'Arabia l'ho vista davvero per un giorno o poco più,
quel giorno poteva succedere tanto, ma sono morto io.
Ventisei
anni di fuoco, ventisei anni di niente, Dio.
A
Sparta a fare il grand'uomo, a Damasco a difendere i Siriani, a
Riyadh a lasciarci la pelle, perché con la vita ci ho giocato
troppo, io.
Ventisei
anni son bastati, dai. A far il cretino fino all'ultimo, giurando
di non aver paura.
M'ha
fatto sorridere, quel giorno, Rajit.
Gee,
ti vogliono ammazzare!
Non
erano mica i primi, me la sarei cavata.
Davanti
al patibolo li ho mandati al diavolo tutti, com'erano suscettibili!
E
cosa mi han detto l'ultimo giorno, gli Ottomani a cui in fondo son
stato simpatico fin dall'inizio, visto come si son venduti l'anima
solo per mettermi le catene ai piedi?
Scegli
tu a chi dedicare la tua sconfitta, Geórgos.
Natal'ja
aveva il mio cuore, ce l'ha ancora, lei ci credeva, in me.
Questa
sconfitta tenetela voi, se ci credete.
Io
no, non ho mai avuto vita facile
Ma
benedico il giorno in cui iniziai a ribellarmi a quelle regole
(Le
vie del rock sono infinite, Edoardo Bennato)
Note
Ouranós
(greco): Cielo.
Khristos (russo): Cristo
Sygnómi
(greco): Scusa.
Wavertree:
Quartiere della periferia di Liverpool.
Kléftes (greco): Letteralmente "ladri", nello specifico briganti e partigiani della Guerra d'Indipendenza Greca (1821 - 1829).
Spárti (greco): Sparta.
Bouleuterion:
Edificio in cui, nelle poleis greche, aveva luogo il consiglio
del demos.
Eccolo
qui, George.
Un
po' diabolico un po' arrogante, un po' Icaro un po' Achille, dolce,
incoerente, ribelle, sregolato George.
George
che la vita l'ha bruciata per paura di perderla, George ch'è
cresciuto davvero troppo in fretta, ma con Natal'ja, per Natal'ja
è sempre stato diverso, qualsiasi cosa, anche a Riyadh,
davanti al patibolo, anche quando era troppo tardi.
Spero
che vi sia piaciuto, ecco. ;)
A
presto,
Marty
|
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