Neve

di LeFleurDuMal
(/viewuser.php?uid=32318)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Come a Mosca ***
Capitolo 2: *** Come fuoco che arde al mattino ***
Capitolo 3: *** Come acqua che tutto sommerge ***
Capitolo 4: *** Come la Polvere dei Diamanti ***
Capitolo 5: *** Come Natassia ***
Capitolo 6: *** Come un mago ***
Capitolo 7: *** Come d'incanto ***
Capitolo 8: *** Come di notte ***
Capitolo 9: *** Come musica dolce e arrugginita ***
Capitolo 10: *** Come il Bianco ***
Capitolo 11: *** Come un fiore ***
Capitolo 12: *** Come miracoli di sangue e di vita ***
Capitolo 13: *** Come incantati da una sirena ***
Capitolo 14: *** Come il Kraken ***
Capitolo 15: *** Come un rito ***
Capitolo 16: *** Come i sogni ***
Capitolo 17: *** Come per un gioco del destino ***
Capitolo 18: *** Come il ghiaccio che si spezza ***
Capitolo 19: *** Come un padre ***
Capitolo 20: *** Come un mago dei ghiacci ***
Capitolo 21: *** Come rinascere ***
Capitolo 22: *** Come i mostri degli abissi ***
Capitolo 23: *** Come le tempeste ***
Capitolo 24: *** Come un cigno ***
Capitolo 25: *** Come la Neve ***



Capitolo 1
*** Come a Mosca ***


CAPITOLO: Come a Mosca

PERSONAGGI: Hyoga.  Poi: Natassia e altri.

IN PROPOSITO: Arrivo di Hyoga in Siberia dal Giappone. Aspetta di incontrare quello che sarà il suo maestro, intanto, ovviamente, viene assalito dai ricordi.

 



Adesso la stanchezza gli gravava addosso come un cappotto pesante e fu senza accorgersene che si piegò sul tavolo di legno lucido, sporco di macchie di birra scura, forte, per incrociare i polsi pallidi sotto la fronte. Prima guardava la neve che scendeva fuori dalla finestra, in una danza muta e ovattata. Come quella di Mosca. Poi si era stancato.

Non alzò la testa nemmeno quando una ciotola di brodo caldo gli venne posata davanti e una mano di donna, intenerita, affondò tra i suoi capelli.

Percepì le proprie labbra sillabare, senza suono: “Mama…” e poi basta.

La donna che non era sua madre non sentì, ma come una madre gli rispose: “Mangia e scaldati, bambino mio.”

Poi lei si allontanò, ma senza staccare gli occhi da lui. Già per la terza volta Avrora si era avvicinata al fratello, che da vent’anni gestiva con lei la locanda di famiglia e gli aveva indicato il bambino al tavolo, quel bambino biondo e insignificante tra tutti gli uomini che cantavano canzoni sconnesse nell’allegria e nel calore del locale, quel bambino febbricitante piegato sul tavolo vicino alla finestra.

”Lascia che lo porti di sopra, Rudolf. Lascia che lo metta a letto e che possa riposare per un po’.”

“Lo sai che non è possibile. Deve aspettarlo qui.”

“Ma potrebbe arrivare tra ore.”

“Non importa. Hai già fatto quello che dovevi e anche di più. Non ci sarai quando rischierà la vita: così fai del male a lui e a te.”

Avrora tornò con lo sguardo al bambino biondo e febbricitante, piegato sul tavolo di legno lucido vicino alla finestra e si tormentò le mani. Avrora aveva una bambina più o meno della stessa età che l’aspettava a casa.

“Avrora. Non affezionarti.” Rudolf le aveva parlato con affetto, le aveva preso le mani, imponendo loro di non tremare, e l’aveva guardata con i suoi occhi buoni e tristi. “Non affezionati, Avrora. Non sono cose per te, ne hai solo da soffrire. Pensa alla tua piccola Katja e non ad altri.”
Aurora si lasciò convincere di malavoglia e almeno per i dieci minuti successivi non avrebbe tormentato Rudolf con altre richieste, probabilmente. Raccolse i boccali vuoti dai tavoli e li portò al bancone e ogni volta che coglieva l’immagine del bambino seduto al tavolo vicino alla finestra pensava alla sua piccola Katja e non ad altri.


L’odore del brodo si era fatto invitante e, poco a poco, aveva scalfito la barriera di dolore e stanchezza insinuandosi tentatore.

Hyoga alzò la fronte quel tanto che bastava per scrutare la ciotola davanti a lui.

Oltre il bordo fumante, l’allegria della locanda era quasi offensiva e faceva male alle orecchie. Troppo rumore. Troppa luce.

Allungò le mani e tirò a sé la ciotola, immergendovi il cucchiaio.

Fu costretto a sollevarsi dal tavolo per compiere quell’operazione e si guardò intorno furtivo, augurandosi che la donna non lo vedesse. Si sentiva a disagio nell’accettare quel dono, perché non sapeva come ricambiare.

Destino volle che Aurora passasse tra i tavoli proprio nel momento in cui Hyoga infilò il cucchiaio in bocca e gli rivolgesse un sorriso caldo.

Hyoga assunse un interessante color prugna.

Il viaggio da Tokyo era stato lungo ed estenuante. A ripensarci adesso riusciva a mettere in fila solo poche immagini dell’aereo che lo aveva portato lì e delle facce che nel viaggio lo avevano accompagnato. Si voltò a guardare la donna che passava tra i tavoli, come a volerla ricordare, perché anche il suo viso gli si sbiadiva nella mente con troppa velocità.

Gli aveva fatto togliere il cappotto pieno di neve, quando era arrivato, scortato dal copilota dell’aereo che era ripartito immediatamente. Gli aveva sorriso e gli aveva portato il brodo caldo.

Il volto di sua madre si era sovrapposto a quello di Avrora e per un momento, per un momento soltanto, era stato come tornare indietro ai suoi primi anni, quando consumava i suoi poveri pasti con lei, nelle cantine e nei seminterrati di Mosca.

 

“Natassia! Vieni che è caldo!” l’amica la chiama e Natassia prende per mano Hyoga e lo porta giù per le scale di metallo e di legno. Hyoga fa attenzione perché anche se conosce quelle scale, ha solo cinque anni e i gradini sono molto alti.

Sa che gli amici della mamma sono già seduti sui grandi cuscini rossi intorno al tavolo basso e che la cena è calda e gli piacerà, ma vuole restare di sopra sulle assi di legno a giocare con i costumi e le scenografie. Hyoga ci vuole giocare perché il regista, il vecchio Vachtangov, gli ha detto che non le deve toccare e un divieto rende le cose più gustose.

Il vecchio Vachtangov è malato e stanco, ma Natassia no, e il brillio negli occhi del figlio non gli sfugge. Chiede a Vachtangov se c’è una parte per il bambino nel suo teatro sperimentale. Il vecchio Vachtangov tossisce forte e sorride. Più avanti, Natassia bella, più avanti, le dice.

Hyoga fa i capricci, vuole giocare adesso, come la mamma e i suoi amici quando nelle sere fredde di Mosca la gente li viene a vedere recitare.

Natassia ride forte, coprendosi la bocca con la mano e se lo carica sulle spalle, correndo giù per i gradini di metallo e di legno e il vecchio Vachtangov segue più lentamente. Ride anche Hyoga e si tiene forte, e i suoi capelli biondi si confondono con quelli lunghi e bellissimi di sua madre. Ha nel naso il suo profumo.

Si siede tra lei e Igor e mangia la zuppa. Igor gli piace, perché lo fa giocare nel cortile, con la neve che scende in una danza muta e ovattata. Igor piace anche a sua madre e questo a Hyoga piace un po’ meno. Mentre mangia la zuppa, Igor si sporge sopra di lui e bacia Natassia all’angolo della bocca. Natassia ride e Hyoga si appoggia a lei. C’è la musica e contrasta con il silenzio ovattato di Mosca, fuori dal teatro.

 

Si morse il labbro inferiore a quel ricordo e spinse via la ciotola con tanta violenza da versare gran parte del brodo sul tavolo. Si sentì subito in colpa e si assicurò che Avrora non l’avesse visto.

Poi pianse perché aveva versato il brodo.

Pianse perché aveva pensato a sua madre.

E a Igor. E al vecchio Vachtangov.

Ma soprattutto pianse per sua madre. E pianse finché gli occhi non gli fecero male e non poté più guardare la neve morbida e fredda che scendeva, fuori dalla finestra, in una danza muta, ovattata.

Come quella di Mosca.

Pianse fino a quando non si addormentò, sul tavolo di legno lucido, sporco di macchie di birra scura, forte, e del brodo che aveva rovesciato lui. Sognò di Igor, di Vachtangov che non voleva fargli toccare le scenografie e di sua madre, che rideva e lo prendeva sulle spalle. Sognò di essere ancora a Mosca. Sognò che ci fosse anche Avrora a portargli il brodo caldo e a toccargli la testa come aveva fatto.

Quando la porta si aprì, lasciando entrare l’aria gelida della Siberia nel nucleo tiepido e dorato che era la taverna, Hyoga dormiva piegato sul tavolo già da qualche ora, i capelli biondi sparsi sul viso a nascondere le labbra socchiuse e le palpebre incollate dalle lacrime e dai sogni crudeli. Non si accorse dell’uomo che entrò e che pretese, senza chiederla, l’attenzione di tutti.

Non vide Rudolf chinare il capo e tornare al bancone, né sentì il chiacchiericcio spegnersi e l’atmosfera farsi pesante. Non seppe che Avrora era uscita con passo svelto dalla stanza, per salire alle camere, e aveva pianto per la sua sorte oltre la soglia, cercando di pensare alla sua piccola Katja e non ad altri.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Come fuoco che arde al mattino ***


CAPITOLO: Come fuoco che arde al mattino

PERSONAGGI: Hyoga e Camus

IN PROPOSITO: Camus incontra Hyoga, che sarà suo allievo. Primi passi tra i due. Primi passi in tutti i sensi, davvero.

 

 

 

Quando si fermò fu per riprendere fiato, a metà della salita. Ansimava. Si era sforzato di mettere un piede davanti all’altro più veloce che poteva, per stare al passo del giovane che era venuto a prenderlo. Solo a metà salita, Hyoga si era però reso conto che l’impresa non era roba da ridere.
Sentiva il cuore spingere contro il petto, freneticamente, come se gli allenamenti a con gli altri bambini a Villa Kido, fossero stati soltanto un sogno sciocco. Girò gli scarponi nella neve gelida, ascoltando il rumore che faceva sotto le suole. Come cristallo frantumato sotto un tappeto soffice.

Guardò la fila ordinata di orme che avevano lasciato: le sue, piccole e vicine, tracciavano la strada fino alla locanda della gentile Avrora, ma a tratti il vento, che fischiava minaccioso, le aveva spazzate via e presto avrebbe cancellato ogni traccia del loro passaggio. Hyoga sentì la gola stringerglisi senza un motivo. Quelle della sua silenziosa guida descrivevano invece falcate più ampie, ma erano leggere, perfino più leggere delle sue, come lasciate da un corpo senza peso.

“Non fermarti” la voce lo raggiunse, tagliente come il vento, e Hyoga sussultò.
Si girò nuovamente e riprese la salita. Sgomento si rese conto di quanto fosse difficoltoso ripetere quei movimenti semplici, come se le gambe fossero fatte di piombo. La pelle, arrossata dal freddo e dalla febbre era un contatto con il mondo quasi doloroso. Orgogliosamente si spinse in avanti.

L’uomo lo fissava dall’altura. Era alto e longilineo, eppure emanava d sé una forza straordinaria, come se fosse compatta sotto la pelle. Aveva i capelli lunghi e curati di un rosso strano e accattivante, come il sole che arde al mattino. Lo aspettò finché non lo vide rimettersi in marcia, poi proseguì a sua volta, scomparendo alla vista del bambino. Non si fermò nemmeno quando lo sentì cadere alle proprie spalle. Hyoga tentò di chiamarlo, ma le parole non raggiunsero le sue labbra, spazzate via dal vento, che gli schiaffeggiò le guance, e gli spinse via il cappuccio della giacca, esponendolo al vento. Tentò di rialzarsi, ma il movimento del ginocchio in avanti lo fece scivolare più in basso. Tentare di arrestare il movimento artigliando la neve caduta con le dita fu un grosso errore: fu più o meno come stringere nelle mani i frantumi di un bicchiere rotto. Allentò la presa e scivolò più in basso ancora, ma il ghiaccio gli ferì le mani, macchiando la distesa candida di sangue.

Il piccolo spalancò gli occhi azzurri, fissando il sangue, e quella macchia gli parve un oltraggio su tutto quel gelido candore. Strinse i denti e serrò le labbra. Affondò le dita doloranti nella neve dura e si tirò più su, sul pendio. Poi lo fece con l’altra e guadagnò altri centimetri. Mano a mano, raggiunse il tratto pianeggiante, fino a trovarsi, rannicchiato nella neve ai piedi del giovane.

 

“Come ti chiami?” La neve aveva smesso di cadere ed erano entrambi seduti sul bordo della pendenza.

“Hyoga.”

“Hyoga?”

Il bambino alzò lo sguardo, interrogativo. Hyoga. Che problemi c’erano con il nome Hyoga? Lo pensò distrattamente, frastornato dalla stanchezza e dal rumore del vento che si era placato, ma il cui rumore ancora gli infuriava nelle orecchie.

“Hyoga è un nome giapponese.” L’altro assottigliò gli occhi, scrutandolo come se dovesse estirpargli un segreto. “Vuol dire qualcosa come fiume di ghiaccio, non è così?”

Però. Non ti sfugge niente, eh? Hyoga evitò di dare voce a quel pensiero. Affondò il visetto nelle mani e si limitò ad annuire.
”Ma tu sei russo. Non sei giapponese.”

“Mio padre era giapponese.” Hyoga strascicò la voce. Palesemente non gradiva quell’argomento. “Mia madre ha scelto per me un nome della sua terra. Mi ha detto così, almeno.” Nel dire mia madre, il suo tono si fece più carezzevole, in qualche modo.

“Capisco.”

“E tu come ti chiami?”

“Camus.”

“Camus?”

Camus abbassò lo sguardo, serrando le labbra. Probabilmente era seccato dal tono familiare con cui gli venivano poste le domande. Probabilmente  era seccato dal fatto che il ragazzino trovasse strano il nome tanto quanto lui trovava assurdo il suo. A sua volta, si limitò ad annuire.

“Che razza di nome è Camus?”

“E’ un nome francese. Lo portava anche uno scrittore famoso.” Tagliò corto.

“Sei francese?”

“Lo sono stato.” Si alzò e si liberò i pantaloni dalla neve. Era arrivato il suo turno di glissare su un argomento. Hyoga non chiese niente, in proposito, e si alzò a sua volta, pronto a seguirlo.

Proseguirono ancora, dopo quel breve intervallo, e proseguirono per ore. Camus aveva rallentato il passo, permettendo così al bambino di camminargli al fianco, senza dovergli per forza dargli le spalle. Hyoga lo guardò a lungo, in silenzio, quel giovane uomo alto e longilineo, che pure emanava da sé una forza straordinaria, come se la tenesse compatta sotto la pelle, con i capelli lunghi e curati, di quel rosso strano e accattivante che ha il fuoco che arde al mattino.

Camus che sarebbe stato il suo maestro.

“Non fa poi così schifo il nome Camus” Lo rincuorò, trotterellandogli di fianco, quando rischiò di essere nuovamente lasciato indietro.

“Nemmeno Hyoga, infondo. Alla fine ci si abitua.”

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Come acqua che tutto sommerge ***


CAPITOLO: Come acqua che tutto sommerge

PERSONAGGI: Hyoga e Camus

IN PROPOSITO: Scende la notte, ma non è troppo tardi per una prima lezione, visto che ci sono. 

 

 

 

Camus batté la mano aperta sulla porta della baita, che si aprì di colpo, offrendo una breve resistenza, i cardini raggelati e le giunture riempite di neve.

Poi fece un gesto rapido, in silenzio, e Hyoga scivolò all’interno.

“Siamo arrivati?” Il bambino corse alla finestra e in ginocchio sul divano modesto, guardò oltre il vetro.

Avevano trascorso l’intero pomeriggio camminando e adesso si sentiva irrigidito ed esausto. Avevano attraversato una distesa di ghiaccio e neve che era apparsa senza fine, così bianca che anche sotto a quel sole timido faceva male agli occhi.
Si erano a spinti a nord, oltre il villaggio. E ancora a nord, oltre la foresta.

A guardare fuori dalla finestra, ancora Hyoga non vedeva altro che ghiaccio e neve. Sarebbe rimasto deluso, forse, se tutto quel vuoto candido non lo avesse colpito allo stomaco come un pugno, a causa di quella bellezza algida, gelida e infinita, come se non fosse possibile comprenderla tutta dentro un cuore umano. Come se fosse, semplicemente, sublime.

A guardare fuori dalla finestra sembrava che neve e cielo si dovessero fondere insieme in un unico biancore, anche adesso che i riflessi del tramonto imminente coloravano l’orizzonte di bagliori più tenui.

Camus lo osservò senza parlare per un momento, poi chiuse la porta dietro di sé e appoggiò lo zaino di tela.

“Siamo arrivati. Questa sarà la tua casa per i prossimi anni, Hyoga.” Si abbassò su un ginocchio e fece quanto era necessario per accendere la stufa, nell’angolo. Disse qualcos’altro, intanto, ma Hyoga non lo stava ascoltando. Si era accorto di qualcosa e, prendendo tra le dita il bordo della manica, strofinò il vetro con la stoffa per spannarlo e guardare meglio.

“Ma… c’è il mare.” Lo esalò come un respiro di morte, impallidendo, e indietreggiò dalla finestra con tanta veemenza che finì per cadere dal divano.

“Mh?” Camus si alzò con il divampare di fiamme alle sue spalle, che proiettarono riflessi ramati sui suoi capelli e un bagliore aureo nella stanza. Si alzò in tempo solo per vederlo in piedi, come in prestito, appoggiato al muro “Che hai?”

“C’è il mare.”

“Veloce come il fulmine, Hyoga.” Sogghignò Camus “C’era anche ieri.”

Hyoga aprì la bocca per ribattere ma non disse niente. La richiuse.

Fece un altro tentativo ed ebbe più successo.

“Dove siamo?”

“In Siberia. Siamo a poca distanza dal villaggio di Pevek. E’ il porto più importante del Mar della Siberia Orientale.” Si girò a mettere da  una parte un mucchio di vestiti pesanti e non si accorse che il suo allievo era sbiancato.

“Pevek?”

“Pevek. Questa parola è un insulto nella tua lingua?” c’era una nota divertita.

Hyoga deglutì a vuoto. “No. E’ solo che…”

 

“Sbrigati, Hyoga!” Natassia lascia cadere la borsa per terra, si gira e si china verso di lui, allacciandogli meglio la giacca e tirandogli sulla testa il cappuccio foderato di pelo. Hyoga lascia fare e alla fine lei lo bacia sulla punta del naso e lui ride.

“Sbrigati, tesoro, abbiamo la nave.” Lo prende per mano e con l’altra afferra la valigia.

“Anche la nave?!” protesta lui e si guarda indietro, come a cercare con lo sguardo Mosca e il teatro del vecchio Vachtangov. Ma Mosca non c’è, Mosca è lontana.

Hanno preso più di un treno e dei pullman.

Natassia da Mosca è tornata al suo villaggio natale, in Siberia. Voleva presentare Hyoga ai nonni. Ma i nonni sono morti, senza che nessuna lettera la raggiungesse nella capitale.

Natassia ha pianto e ha pianto tanto, di nascosto, credendo che Hyoga non la vedesse. Hyoga però ha visto e ha stretto i pugni così forte da disegnare con le unghie rosse mezze lune nei palmi delle mani e ha giurato dentro di sé di comportarsi da bravo bambino, il più bravo del mondo.

E così ha fatto. Fino a quel momento, che pianta i piedi nella neve di Pevek.
”Perché dobbiamo prendere una nave, mamma? Per tornare a Mosca dobbiamo prendere il treno e tornare indietro, e…”

“Non torniamo a Mosca, bambino mio.” Lei lo prende in braccio e corre lungo la strada. Ha un modo così buffo di infischiarsi dei suoi capricci, che Hyoga smette quasi subito.

“E dove andiamo, allora?” chiede, ma questa volta è solo curioso. Gli manca Igor che lo faceva giocare nel cortile del teatro, gli manca il vecchio Vachtangov con la sua scenografia preziosa. Ma Igor forse non gli manca nemmeno tanto, che Igor baciava Natassia. A Hyoga basta restare con la sua mamma.

Natassia sbuffa, ridendo, e lo mette a terra. “Stai diventando pesante!” Lo prende per mano e non rallenta, e ormai camminano sul molo di Pevek, con il mare scuro e increspato a pochi centimetri dai loro piedi.

“Andiamo in Giappone,” gli dice poi, una volta sulla nave. E’ una nave grossa, che fa quasi paura. Sembra un mostro marino. La chiglia di lamiera è scura, e dai motori il rumore sale, ruggente, e fa tremare il ponte.

“E perché, andiamo in Giappone?” Hyoga si stringe alle gambe di sua madre e guarda il mare, sotto di loro, che si muove agitato e nero. Nemmeno a lui, piace la nave, pensa. “Perché non torniamo a Mosca? Questa nave è brutta.”

“Non avrai paura?” lo prende in giro lei.

“Io non ho paura di niente.”

Lei gli fa il solletico.

“Andiamo a conoscere il tuo papà. Per questo abbiamo lasciato Mosca. Per questo siamo venuti qui dove abitavo da bambina.”

“Ho un papà?” Hyoga spalanca gli occhi azzurri. Non è sicuro che la notizia gli piaccia.

A quel punto del viaggio, né lui né Natassia sanno che

 

“La nave è affondata al largo delle acque di Pevek.” Mormora Hyoga.

“Quale nave?”

“Proprio qui. Proprio qui vicino.”

“Quale nave?” La voce del suo allievo aveva un tono che a Camus non piacque per niente “Quale nave, Hyoga?”

“La nave che andava in Giappone. La mia mamma c’era sopra.”

Camus si accigliò.

Il bambino distolse lo sguardo e gli raccontò di com’era andata. E quando arrivò a dirgli di come era morta sua madre pianse, come gli capitava spesso, quando pensava a lei.

Camus si tirò indietro sibilando, come se quelle lacrime fossero state acido corrosivo.

“Non piangere. Non devi piangere mai più. Piangere è mostrare la propria debolezza, Hyoga, e un guerriero che mostra debolezza è un guerriero che è destinato ad essere sconfitto. Questa è la tua prima lezione. Ed è la prima che dovrai imparare.”

Il piccolo lo guardò e ricacciò indietro le lacrime, mordendosi il labbro inferiore. Hyoga voleva molto bene alla sua mamma e grande era il dolore della sua mancanza,  ma Hyoga era anche un bambino molto orgoglioso.

Camus annuì, serio, come se approvasse.

“Tua madre è affondata nel mare della Siberia,” e qui Hyoga vacillò nei suoi propositi “e resterà per sempre incolume dalla corruzione. Vieni con me.” Lo portò alla finestra e gli indicò il mare, scuro come il cielo, adesso che scendeva la notte.  “Guardalo. Serene e calme, nonostante i dolori e i segreti che celano, quelle acque devono essere il tuo modello, Hyoga. L’acqua del mare di Siberia congela e paralizza, letale. Ma, comprensiva, è anche una coltre che cala sul dolore e lo sommerge. Allo stesso modo devi comportarti tu.”

Hyoga fece un cenno affermativo con il capo. Guardò il mare scuro che sapeva di presagio infausto e sentì freddo dentro.

Poi andò a letto, infondo alla stanza, senza che Camus lo accompagnasse, ed era così stanco e raggelato che non si accorse che i letti erano tre e non due.

Camus lo guardò andare e rimase seduto al tavolo, a fissare la finestra per ore, mentre il paesaggio si scuriva e il fuoco giocava con i suoi capelli ramati.

 

Milo se ne inanella una ciocca al dito e li strattona scherzosamente.

Quando Camus si gira, seccato, l’espressione dura gli muore sulle labbra incontrando il sorriso dell’amico. Increspa le labbra in un sorriso di malizia velata e Milo allenta la presa, lasciando che la ciocca scorra via dalle sue dita, rapito dai riflessi che il fuoco nel buio gioca su quei capelli.

Camus lo guarda e sorride.

Poi indurisce l’espressione e si alza.

“Dove vai?” Milo guizza a sedere.

“Devo lasciare Atene.”

“E perché?”

“Mi sono stati affidati degli allievi.” Evita di guardarlo. Sa che Milo sta trattenendo il respiro e si aspetta il peggio.

“Dove?”

“In Siberia.” Dice quelle ultime parole, le ultime che dice a Milo, e lascia la stanza.

 

Camus si morse il labbro inferiore con forza e, come Hyoga, anche lui si piantò le unghie nei palmi, a quel ricordo, ricamando piccole mezze lune sulla pelle.

Guardò la finestra, per un tempo che parve infinito. Stava aspettando una persona, ma intanto pensava a Milo che era rimasto in Grecia.

Strinse i pugni. Pensò al mare della Siberia, a quell’acqua che tutto sommerge.

Allo stesso modo doveva comportarsi anche lui. Pensò al mare della Siberia e il ricordo di Milo affondò, almeno per quella notte, come una nave diretta in Giappone.

Hyoga dormiva già, quando bussarono alla porta e Camus si riscosse dai suoi pensieri.

“Entra, Isaac.” Sorrise appena. “Sei in ritardo, oggi.”

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Come la Polvere dei Diamanti ***


CAPITOLO: Come la Polvere dei Diamanti

PERSONAGGI: Hyoga, Camus e Isaac. Poi: Natassia.

IN PROPOSITO: Primo addestramento di Hyoga con Camus e Isaac. Hyoga si accorge di essere molto, molto vicino ad un posto in cui, forse, non voleva essere. O forse si.

 

 

 

Camus mosse qualche passo nella neve, davanti alla porta, poi si decise ad entrare.  Assottigliò lo sguardo e serrò le labbra sentendo il calore delle fiamme del camino sulla pelle, quando oltrepassò la porta.

Non si poteva non notare. Una volta abituati al deserto di neve dell’esterno, era quasi fastidioso.

Si avvicinò al letto infondo alla stanza.

L’unico letto che ancora ospitava qualcuno: lui non aveva dormito quella notte, perché la sua mente era tornata in Grecia, ad inseguire pensieri cui non avrebbe dovuto dar corda. In quanto ad Isaac, aspettava già fuori da alcuni minuti, esaltato all’idea di conoscere il nuovo arrivato. Anche Isaac aveva dormito poco quella notte, spiando il bambino nuovo da dietro la coperta di lana. Camus, seduto alla tavola di legno, aveva invidiato la spontaneità della sua indagine curiosa.

Allungò una mano e scosse la spalla del bambino. Hyoga era per lo più sepolto nelle coperte, rannicchiato come se avesse avuto il terrore, nella notte, di occupare troppo spazio. Non accennò a muoversi.

E’ morto ancora prima di cominciare? Fu il suo primo pensiero. E se ne pentì quasi subito. La strada di Hyoga non sarebbe stata in discesa e fino ad allora non era stata nemmeno pianeggiante, probabilmente. Non c’era poi bisogno di complicare le cose con quell’umorismo stupido che avrebbe potuto…

Che avrebbe potuto fare Milo.

Scacciò il pensiero.

Scosse ancora la spalla e vi chiuse sopra la stretta delle dita affusolate, forse con troppa forza. Hyoga reagì scostando le coperte e afferrando il polso di Camus, senza svegliarsi. Come Camus aveva stretto le dita, Hyoga strinse le sue, affondandogli le piccole unghie nella carne, avvinghiando il braccio con tutto il corpo, come se temesse che fuggisse.

Camus si sentì a disagio.

Hyoga appoggiò la fronte al suo avambraccio. “Mama” disse. E nel sonno stava piangendo.

Camus si drizzò di scatto, orripilato, come se Hyoga l’avesse mandato al diavolo in pubblico. Strappò la mano alla presa infantile e mosse due passi indietro, tenendosi a distanza di sicurezza.

Se Milo avesse visto l’espressione che aveva sulla faccia avrebbe riso per giorni. Ma Milo non c’era e Camus si sentì in diritto di tenere sulla faccia l’espressione che più gli aggradava.

“Svegliati.” Sibilò al ragazzino che aveva aperto gli occhi di soprassalto. “Fuori stiamo aspettando te.” Non aggiunse altro e si affrettò ad uscire, rigido.

 

Per tutto il tempo occorso per raggiungere il luogo deputato all’addestramento, Hyoga non aveva detto una parola. Ogni volta che alzava lo sguardo e incontrava quello di Camus avrebbe voluto scavare una buca per terra e affondarci dentro.

Il ragazzo che saltellava nella neve al suo fianco per tenere dietro al Maestro, invece, sembrava tutt’altro che disposto a mantenere la sacralità e il silenzio di quel luogo incontaminato. Da quando Hyoga era uscito, infagottato nei pochi abiti che aveva a disposizione, l’altro non aveva tenuto la bocca chiusa per un attimo, travolgendolo in un dirompente torrente di domande, impavido nell’aria gelida e nella neve sottile che sferzava le guance.

“Isaac, lui è Hyoga.” Aveva fatto in tempo a dire Camus “da oggi si allenerà con te per diventare un Saint.”

“Ho capito, Maestro Camus.” Aveva sorriso raggiante, e Hyoga aveva spalancato gli occhi azzurri, a disagio per essere al centro dell’attenzione. “Io sono Isaac. Piacere Hyoga.”

“Piacere m…”

“Quanti anni hai?”

“Sette.”

“Io otto.” Orgoglioso, Isaac. “Da dove vieni?”

“Da Mosca…”

“…non importa, tanto ormai se qui.”

“ Si, ma…”

“Guarda, quelli che vengono qui nella Siberia dell’Est non riescono a sopportare i duri addestramenti e spariscono quasi subito – è da quasi un anno che mi alleno solo con il Maestro Camuse ci sentiamo un po’ soli resisti almeno tre giorni Hyoga ho ragione vero Maestro?”

Hyoga, intimidito, non riuscì a ribattere. A dire il vero era rimasto a guardarlo affascinato. Si chiese se il fatto di riuscire a parlare tanto senza respirare nemmeno una volta fosse un effetto dell’addestramento in Siberia.

Senza rendersene conto, fissò Camus, interrogativo.

“Già” disse soltanto, Camus, e Hyoga comprese che il parlare a lungo in apnea era un’abilità specifica di Isaac.

Avevano camminato a lungo, ma era come se non si fossero spostati affatto: ad eccezione dell’isba di legno e mattoni, il paesaggio non era mutato di una virgola.

Bianco e morbido.

Bianco e accecante.

Bianco in quel modo letale, perché faceva venire voglia di sdraiarsi a dormire nella neve, che ti avrebbe accolto e avvolto. Che ti avrebbe ucciso.

Solo quando Camus si spinse in avanti e si girò a guardarli entrambi, Hyoga comprese di essere sulla riva del mare.

Non si capiva bene, ad occhio nudo, perché la superficie dell’acqua era ghiacciata e si confondeva con la riva. Il bambino sapeva, perché gli era stato raccontato a Mosca, che il ghiaccio della Siberia dell’Est era trasparente come il cristallo, ma resistente come il diamante. La lastra d’acqua, solidificata e infrangibile, si spingeva verso il mare per chilometri e ingannava la vista del viandante solitario: se avesse continuato a camminare senza prestare troppa attenzione, avrebbe creduto di proseguire sulla terra, quando invece stava camminando sull’acqua, come il Cristo in cui credeva Natassia. Sua madre gliel’aveva raccontato, un giorno e lui se l’era ricordato sulla nave, il giorno della partenza, quando lei gli aveva regalato la sua croce d’oro, che era stata dei nonni.

Camus iniziò a parlare, ma Hyoga non lo ascoltò. Aveva sentito, nello stomaco, una pressione strana e si rese conto di respirare a fatica.

Non voleva che il Maestro se ne accorgesse, dopo la brutta figura di quella mattina, quindi fece finta di guardarsi intorno, sentendo le lacrime calde spuntare sulle ciglia. Meglio essere considerato distratto che piagnone.

Forse poteva fingere che fosse il freddo a dargli fastidio agli occhi. Quella nebbiolina leggera e crudele, fatta di neve sottile, che lo pungeva. Poteva fingere che fosse quella.

Il fatto era che lui, il Maestro e Isaac, stavano sulla riva del mare. A Peveck.

E nel mare di Peveck era morta la sua mamma.

 

A quel punto né Hyoga né Natassia sanno che la nave affonderà. Eppure accadrà.

Natassia è convinta che arriveranno in Giappone e cercheranno il papà del suo bambino, e si comporta di conseguenza. Lo guarda seria, ma dolce, e gli parla di Mitsumasa Kido.

A Hyoga non piace. Tanto per cominciare, pensa che sia un nome stupido. Va bene che lui si chiama Hyoga, e non può dire niente, ma Mitsumasa gli sembra molto peggio di Hyoga, non è vero forse? Come seconda cosa Mitsumasa ha conosciuto Natassia solo pochi anni prima, e sempre pochi anni prima l’ha lasciata e non si è fatto più vedere. Hyoga pensa che, rotto per rotto, Igor sia molto meglio di Mitsumasa. Anche come nome.

Perché fare una cosa simile a Natassia vuol dire essere proprio stupidi, a lei che è così bella e così dolce ed era la più brava, insieme alla sua amica Annika, quando recitava nel teatro del vecchio Vachtangov.

Quello che Hyoga Kido pensa di Mitsumasa Kido non lo dice a Natassia. Proprio perché lei è così bella e dolce e le brillano gli occhi quando parla di lui: un altro punto in meno per Mitsumasa, quello, nell’ottica di Kido Junior.

Per tutti quei pensieri non proprio belli, Hyoga si sente in colpa quando Natassia si sfila dal collo il ciondolo. Il ciondolo d’oro, quello prezioso, quello che non si toglie mai. Si sente in colpa perché non solo lei glielo regala, ma gli dice quello che rappresenta per lei, e Hyoga lo sa che quello che rappresenta ha a che fare con il non pensare troppe cose cattive di una persona. Soprattutto di un papà.

Natassia per dargli il ciondolo deve abbassare il cappuccio di pelliccia, che la fa somigliare ad una principessa russa. Nel buio del cielo e nel nero del mare, i suoi capelli biondi brillano come se avessero il sole dentro. Hyoga la trova bellissima e magica. E’ contento di avere i capelli biondi come quelli della mamma. E’ sicuro che Mitsumasa Kido non ce li ha.

“Questa è la croce del Nord, Hyoga” dice lei e gliela fa ondeggiare davanti al viso. Lui mette le mani a coppa e accoglie la croce d’oro in quella piccola conca calda, prima che Natassia gliela allacci al collo. Guarda la mamma e ascolta quello che ha da dirgli. Il mare sotto di loro è nero e agitato. E’ per quello che pensa al Cristo che cammina sull’acqua, stringendo la croce d’oro.  “Questo è il simbolo di Dio. Tienilo con te e lui ti proteggerà.” Come a leggergli nel pensiero, aggiunge “Non odiare mai nessuno, bambino mio, e impara cosa vuol dire amare le piccole cose.” Così Hyoga si sente in colpa per avere pensato quelle cose del suo papà con quel nome orribile, e valuta sul serio di dover  imparare ad amare le piccole cose: fino a quel momento lui ama la mamma, il mare, la neve che cade danzando su Mosca e le scenografie dorate del vecchio Vachtangov.

E quelle sono cose immense.

 

Camus pensò che il problema delle lacrime era un problema da debellare il prima possibile. Si piange quando si è troppo legati a qualcosa che toglie la concentrazione. E un guerriero che si deconcentra è un guerriero morto.

Però decise di stare al gioco di Hyoga, quando lo richiamò e lui sostenne che era la neve che gli entrava negli occhi a farlo piangere, perché lo aveva guardato e aveva scacciato il pianto. Lo ammirò per quello.

Anche Isaac, smaliziato e sagace, comprese che Hyoga mentiva. Ma anche lui rimase in silenzio e si avvicinò un po’ di più al nuovo amico, giusto a fargli capire che erano sulla stessa barca – un luogo comune che, per fortuna, non usò.

“Non è neve.” Rise Isaac “Non proprio.”

Hyoga si stupì. “E che cos’è?”

 “Guarda bene, Hyoga,” disse Camus, e gli parlò più freddo della Siberia stessa, come a punirlo per avergli mentito e per avere pianto, gli parlò, duro come il vento che spazza la tundra, per complimentarsi di avere asciugato gli occhi dalle lacrime con tanta prontezza “guarda bene lontano.”

Hyoga guardò l’orizzonte bianco, in quel deserto di neve. Vide che tutto era lucente e luminoso. Vide che i contorni delle cose erano sfumate da una nebbia argentea e luccicante. Come se il Dio della sua mamma avesse sbriciolato la luna su quella terra magica.

Eppure il vento spazzava via quella nebbia, in un fragore lontano, muggente. Un fragore spaventoso.

“La vedi, Hyoga, quella polvere che si alza dalla neve e dai ghiacci? La trovi bellissima, non è così?”

Hyoga annui. Hyoga la trovava bellissima.

“E la senti sulla pelle? E’ tagliente e crudele.”

Hyoga la trovava malvagia e dolce. Come luna sbriciolata. Come i frammenti di uno specchio.

E poiché era così contraddittoria e difficile, gli venne da pensare che somigliasse a Camus. Deglutì.

“Incanta i viaggiatori, Hyoga. Nel buio e nella luce del mattino. Li abbaglia con la sua purezza abbagliante. E con la stessa facilità li uccide. Le genti che abitano la Siberia ammirano e rispettano la forza dei ghiacci e della neve, sanno quanto camminare ogni giorno e quando ritirarsi davanti a questa potenza.”

Hyoga lo guardò, bevendo quelle parole, soggiogato.

Isaac aveva già sentito quella storia. Ma i suoi occhi verdi, spalancati, dicevano che l’avrebbe ascoltata altre mille volte, ancora e ancora.

“Le genti che abitano la Siberia,” Camus si sporse in avanti, come se stesse raccontando una fiaba ai bambini “La chiamano Diamond Dust. Polvere di Diamanti.”

Era un nome così bello che Hyoga si dimenticò di respirare.

E si dimenticò anche quando Camus chiuse gli occhi e intrecciò le dita, spingendo le braccia davanti a sé e creando un onda di energia potente e distruttiva, scagliandola  contro la superficie del mare.

“Diamond Dust!” Gridò Camus, con la sua voce limpida e fredda, come a evocare quella nebbia d’argento e averla per sé. Hyoga la guardò e la trovò stupenda. Come luna sbriciolata. Come diamanti ridotti in polvere.

Il ghiaccio si incrinò. Il ghiaccio infrangibile della Siberia. Sotto la Polvere di Diamanti creata da Camus.

Poi, scricchiolando, si spezzò in due.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Come Natassia ***


CAPITOLO: Come Natassia

PERSONAGGI: Hyoga e Natassia. Poi Camus e Hyoga.

IN PROPOSITO: Incidente nel mare della Siberia orientale. Cose che capitano. Cose che turbano. 

 

 

Nessuno sa com’è successo. E non importa a nessuno, in quel momento. Sui quotidiani lo diranno, poi, del guasto al motore e della falla nella chiglia di metallo rovinato. Lo diranno a Pevek e li piangeranno fino a Mosca, tutti quei morti. Tutti quei morti che non si sono salvati, nemmeno se erano così vicino al porto. L’acqua è troppo fredda. E’ gelata. L’acqua del mare della Siberia dell’Est che viene battuta dalla Polvere di Diamanti ha lasciato pochi sopravvissuti.
Diranno così. Lo diranno.
Ma adesso nessuno lo sa, adesso, che il motore romba a vuoto e la prua si crepa con quel rumore sinistro.
Natassia lo sente dalla cabina e solleva gli occhi dal libro. Legge
La Peste
di Albert Camus. A conti fatti, poi, il destino si riscontra nelle piccole cose. Natassia però non può capire, non conosce il Camus che entrerà nella vita di Hyoga. Per Natassia, Camus è uno scrittore francese e lei la Francia la ama.
Vorrebbe andare a Parigi con Hyoga, forse, una volta sistemate le cose con Mitsumasa Kido. Magari proprio con Mitusamasa Kido, perché no: le diceva che amava tanto viaggiare, in quel bar di Mosca. Non diceva così? Che era stato anche in Grecia?
Natassia sente il rumore del metallo ferito e appoggia il libro sulla cuccetta. Guarda la porta, come se potesse darle una spiegazione. Natassia ha sempre lo sguardo della cerva nei boschi innevati, uno sguardo languido. Adesso ha lo sguardo della lupa della Siberia che deve proteggere il suo cucciolo che dorme, la testa appoggiata vicino alla copertina de
La Peste
di Albert Camus.
Si alza in piedi a sfidare il pericolo che sente nell’aria. La chiglia accetta la sfida: si squarcia con fragore sotto l’acqua accarezzata dalla Polvere dei Diamanti. Produce un boato e lo scaglia nelle sue orecchie, come un ruggito.

Anche Hyoga lo ode. Si sveglia.
Mama, hai sentito?” ha la voce impastata e si sfrega gli occhi. E’ una seccatura dormire in cuccetta “La nave si lamenta…”
”Si Hyoga.” Le parole tremanti di Natassia non coprono le grida dei passeggeri. “Esci dal letto. Andiamo sul ponte.” Dolce e autorevole. Non ha mai bisogno di ripetere due volte la stessa cosa. L’ha imparato dal vecchio Vachtangov.
Hyoga non protesta, anche se quando mette le gambe fuori dalla coperta il freddo lo avvolge. Lei gli mette i vestiti, con calma, ma senza esitare. Gli avvolge una sciarpa attorno al collo e quasi lo copre fino agli occhi. Quando gli mette i guanti, Hyoga fa fatica a vedere, avviluppato com’è, ma con Natassia è così, ci si fida, insomma.
Lei si butta il cappotto addosso. Infila
La Peste
di Albert Camus nella tasca. Prende Hyoga in braccio e decisa si spinge fuori dalla cabina, verso il ponte.
Quando è sopra e guarda il mare, dice una parola in russo che fa sghignazzare suo figlio, dietro la sciarpa. E’ una parola che usava il vecchio Vachtangov, pestando il piede per terra e gettando sul palco il copione, quando le cose non andavano bene, digrignando i denti. Era una parola sporca. Qualche volta Hyoga l’aveva sentita da Igor, ma non credeva che anche le Natassie la potessero dire.
La sua mamma non si accorge di essersi lasciata sfuggire quel termine che, in una situazione normale, riterrebbe poco idoneo per le orecchie del suo bambino. Non se ne accorge perché sta contemplando qualcosa di decisamente coinvolgente. Come l’acqua del mare – salato e nero – che nella notte somiglia ad uno spettro antico ed enorme, che si gonfia e si acquatta, pronto a colpire. Guarda la chiglia cigolante e rotta che si muove, seguendo le onde. Anche Hyoga la vede, abbassando la sciarpa sotto al naso. Gli fa paura. Sembra la bocca di un mostro che ride, senza labbra.
Hyoga ha molta fantasia. L’ha ereditata da Natassia. Anche a lei sembra un mostro. Un mostro che la chiama, che vuole lei.
Natassia però non vuole morire e fa un passo indietro.
E’ vero che non ha un soldo né una casa, che Mitsumasa forse non andrà con lei a Parigi né da nessun altra parte. Però per vivere ci sono tante ragioni.
Per dirne una, c’è Hyoga. Natassia ama tanto Hyoga. Non vorrebbe lasciarlo mai. E poi c’è il teatro: il vecchio Vachtangov le ha detto che se tornerà, lui sarà lì a Mosca ad aspettarla.

A voler essere precisi, c’è anche il fatto che è arrivata solo a pagina 34 de La Peste di Albert Camus. E mentre guarda il mare che si acquatta e spinge il suo attacco in un onda gelata verso la chiglia straziata – che le sorride – Natassia si rende conto di nutrire uno straordinario desiderio di sapere come  va a finire, quel romanzo. Dopotutto la prosa francese è perfetta. Piaceva anche a Mitsumasa.

Fa un altro passo indietro. E un altro.

E stringe il piccolo Hyoga a sé non come si stringe un figlio, ma come da bambina stringeva il morbido orso di pezza bianco, con cui si addormentava.
Natassia non vuole morire.
Ma morirebbe volentieri per salvare il suo bambino. Si guarda intorno allora.
L’equipaggio lavora frenetico. Qualcuno sta calando le scialuppe. Qualcuno piange e qualcuno grida. C’è qualcuno che ride, ma non è umano, è un mostro marino e Natassia lo scarta. C’è qualcuno che tra la morte e la tensione sceglie la morte, e si butta dal ponte nell’acqua gelata.
Le alternative non le piacciono. Corre verso le scialuppe.
Il mostro della chiglia la guarda e gioisce, mosso dall’acqua del mare della Siberia dell’Est. Vuole lei. Non sa perché lo sa, ma lo sa. Come le cose che si sanno quando si sogna, Natassia capisce che la nave affonda perché lei deve morire.

Perché così qualcuno vuole. Perchè il suo tempo con Hyoga è finito.

La Polvere di Diamanti accarezza il mostro, a pelo d’onda, poi sale a graffarle il viso, a toccare quello del suo bambino. Natassia è nata a Peveck e conosce la Polvere dei Diamanti. Non l’ha ancora spiegato a Hyoga, ma conta di farlo. Dopotutto hanno ancora davanti tanto tempo, lui è così piccolo, lei così giovane.
Ci sarà tempo, anche se la chiglia e il mare dicono di no. Lei li smentirà.

Sente la propria voce gridare qualcosa, con tanta forza da graffiarle la gola. Allunga una mano e artiglia la giacca di un vecchio, lo spinge via. Dopo. Dopo i vecchi ruvidi come la chiglia di metallo. Prima i bambini. Prima Hyoga.
Lo spinge tra le braccia di un uomo con i baffi rossi. Quel tipo di baffi che quando bevi restano impantanati. Glielo spinge addosso e gli grida di portarlo via, sulla scialuppa. Di farlo adesso. ADESSO.
Grida perché la risata del mostro di mare copre le sue parole, nella sua testa. E vuole che lui lo senta. Guarda i baffi tra il fascino e il disgusto. Guarda Hyoga che la guarda di rimando e non capisce, con gli occhi spalancati.
Mama…?!”
Natassia non ha mai bisogno di ripetere due volte la stessa cosa. Hyoga viene messo sulla scialuppa, anche se scalcia e anche se la chiama.

La scialuppa viene calata.
Lei gli sorride e lo saluta con la mano, prima che la folla di vecchi che ha respinto e di madri che ha battuto sul tempo la sommerga e la sovrasti, nascondendola agli occhi del suo bambino, tutto stretto nella sciarpa.
Dasvidanja, Hyoga.” Gli strizza l’occhio.

Mama?! MAMA!”

Dasvidanja.”

Hyoga la chiama dalla scialuppa, lei lo vede. Per un attimo ha paura che riesca a guizzare via dalle braccia dell’uomo con i baffi e si tuffi in acqua. Si sa come sono i bambini, queste cose le fanno, se non si sta attenti.
Ma l’uomo con i baffi lo tiene ben stretto, non molla.
Anche se scalcia.
Anche se la chiama.

Natassia non ha mai bisogno di dire due volte la stessa cosa.
Dasvidanja, Hyoga,” quella volta, però, il saluto le sale ancora alle labbra.
Dice così, dice
dasvidanja, gli dice addio. Poi rimane lì, sgomenta, mentre comincia a capire quello che è successo. Quello che succederà.

Che lei non vuole morire, ma che morirà, ad esempio.
Che il mostro che ride diceva il vero.

 

Si erano esercitati a correre nella neve. Per Isaac era più facile, che aveva le gambe più lunghe. Hyoga gli aveva arrancato dietro, ma sarebbe morto piuttosto che cedere per primo.
Poi avevano scalato una collina di neve. Isaac era scattato, veloce, ma si era fermato e si era voltato per aspettare Hyoga, perché  Camus lo aveva afferrato per il cappuccio bordato di pelo.
”Dove credi di andare con questo?” paziente come Natassia che lo aveva vestito, Camus lo spogliò della giacca imbottita. Gli tolse i guanti, come Natassia glieli aveva messi.
Hyoga lo  guardò come si guarda chi ti fa uno scherzo fuori luogo. Poi osservò che anche Isaac e anche Camus indossavano abiti leggeri.
”Ti devi abituare.” Il Maestro lo spiegò senza particolare espressione nella voce, ma i suoi occhi erano penetranti come un coltello “Devi fare tuo il ghiaccio e tua la neve. Non ci deve essere differenza tra voi. Ed è così che si comincia.”

Poi l’aveva lasciato andare da Isaac e li aveva guardati salire sulla collina di neve, alta e ghiacciata.

Camus li vide rotolare giù più di una volta, ma lo considerò normale. E alla fine sorrise d’orgoglio quando li vide in cima.
Pur sapendo che avevano le mani assiderate e sanguinanti. I piedi bagnati e irrigiditi. Il corpo che aveva quasi perso la sensibilità.

Quell’esercizio era il più difficile.
Perché bisognava farlo sulla riva del mare. E nel mare di Peveck c’era Natassia.
Per questo Hyoga non riuscì ad eseguirlo e più di una volta dovette aprire gli occhi e girare la testa verso l’orizzonte d’acqua e di ghiaccio, a cercarla.
Come se fosse uno spettro di neve.
Hyoga sapeva che Natassia sarebbe stata la sua mamma anche come spettro di neve e non avrebbe protestato nemmeno un po’ se sarebbe venuta.
Camus lo dovette rimproverare più di una volta. All’inizio pensò che fosse per il freddo, che non permetteva al giovane allievo di concentrarsi. E sarebbe stato meglio. Al freddo ci si abitua.
Quando capì che non era il freddo del corpo ma il freddo del cuore, si preoccupò un po’ di più.
Per quello chiese ad Isaac di tornare all’isba e cominciare a preparare per la sera. Lui e Hyoga sarebbero arrivati.
Isaac guardò prima Camus e poi Hyoga, poi andò. Anche Camus non aveva bisogno di ripetere due volte le cose.

“Perché sei qui, Hyoga? Lo sai?” aveva detto, dopo lungo tempo. Un tempo che aveva pesato addosso a Hyoga come una spada, un tempo in cui non aveva mai girato la testa verso il mare. “Lo sai perché sei qui in Siberia con me?”

Hyoga lo sapeva. Mitsumasa Kido glielo aveva spiegato bene, a lui e agli altri.
Mitsumasa non era stato un buon papà. Però era stato un gran bel figlio di puttana.
”Per l’armatura.” Mormorò e fu piatto quanto Camus “Per ottenere l’armatura”
”Sai che armatura è?”
Hyoga scosse la testa. Mitsumasa Kido era stato un figlio di puttana piuttosto laconico. Camus prese un respiro e rimase in silenzio, lo sguardo non verso il mare, ma verso i ghiacciai eterni.

“Quella che sei venuto a pretendere, Hyoga, è l’armatura del Cigno. Il Cigno che è purezza e trasparenza. Il guerriero del Cigno è giusto e implacabile e la sua forza è la Polvere di Diamanti che hai sperimentato e che imparerai a lanciare. E’ inflessibile e fermo e la sua parola è una sola. La sua forza è grande e abbatte i malvagi.” Guardò il bambino, come a vedere se fosse andato a segno. “Il Santo che avrà quest’armatura deve avere il cuore puro come il cristallo, ma indistruttibile come i ghiacciai che vedi laggiù. Deve avere spirito di sacrificio e resistenza, per tendersi al fine ultimo e alla conquista del Cloth. Capisci quello che dico?”

Hyoga annuì.

“Per quali motivi vuoi il Cloth del Cigno, Hyoga?”
Hyoga tacque.
”Per quali motivi vuoi il Cloth del Cigno, Hyoga?”

Hyoga saettò gli occhi sul mare, sulle lastre di ghiaccio all’orizzonte, dov’era affondata la nave con sopra Natassia.
”Per quali motivi…”
Hyoga aveva pensato, quando gli avevano detto che sarebbe tornato in Siberia, che forse…

“Vuoi il Cloth del Cigno…”

…che forse, se avesse avuto la forza di un Saint…
”Hyoga?”

…se avesse avuto la forza di un Saint avrebbe potuto rompere i ghiacci che coprivano le acque e nuotare fino al fondo, per vedere la sua mamma. Per abbracciarla ancora come non aveva potuto fare. Per vedere se era ancora bella come una principessa russa. Per  portarle un fiore.
Disse queste cose a Camus.
Camus rimase immobile e in silenzio. E alla fine disse: “Morirai.”

 

Natassia muore, quando il suo corpo viene avvolto da acqua scura e troppo fredda.
Sente una fitta di dolore e si tiene stretta alla cuccetta della cabina in cui ha fatto ritorno.

Muore in fretta e assopendosi, perché dopo la fitta di dolore gelato il suo corpo non sente più niente. Lascia andare la copia de La Peste di Camus. E’ arrivata a pagina 41 e non saprà mai come andrà a finire. Né che suo figlio vivrà e avrà l’armatura del Cigno, un giorno. .


Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Come un mago ***


CAPITOLO: Come un mago

PERSONAGGI: Hyoga e Isaac. Poi, Katjia.

IN PROPOSITO: Isaac e Hyoga si recano alla locanda. Arrivano per Camus delle lettere da Atene.

 

 

“Non fermarti, anche questo è considerato allenamento” Isaac si sporse a guardare l’amico da sopra la spalla, senza smettere di avanzare nella neve alta, poi tornò a concentrare l’attenzione davanti a sé.

Hyoga sorrise e smise di guardarsi le mani, arrossate. Anche quello era considerato allenamento e lo sapeva bene, anche se, a conti fatti, non stavano facendo altro che una passeggiata.

Ma la Siberia, Hyoga l’aveva imparato, è la terra delle piccole cose, dove la vita si manifesta non nelle grandi distese ghiacciate, ma nel minuscolo: e cose semplici e piccole come una passeggiata, potevano uccidere senza alcuna pietà. Aumentò l’andatura, che si tradusse nei piccoli balzi di un bambino che arranca, e affiancò Isaac.

Il bianco, che di lì a poco si sarebbe fatto accecante, come se fosse il ghiaccio stesso a brillare di luce propria e non a rifletterla soltanto, era adesso, nella luce del mattino, un candore soffuso che faceva bene al cuore: era come se tutte le macchie della vita, del passato, fossero state spazzate via con un colpo di spugna.

“Abbiamo fatto bene a partire subito,” mormorò Isaac “dobbiamo arrivare il prima possibile, o le provviste saranno già state tutte vendute.”

Hyoga rifletté sul fatto che sarebbe stato impossibile arrivare in ritardo. Il Maestro non amava i tentennamenti, né gli allievi che indugiavano sotto le coperte dopo l’orario della sveglia. All’inizio per lui era stata dura, ma ormai, dopo quella settimana, non faticava più e apriva gli occhi spontaneamente, quasi insieme ad Isaac, guidato da un calore familiare che aveva cominciato a sentire nel petto.

“Le vendono tutte la mattina presto?”

“Certo,” Isaac rispose con la classe matura e il mento alto di chi vanta una discreta esperienza “Tutti i villaggi vicini ricevono le provviste un solo giorno la settimana. Quindi bisogna affrettarsi, o ci si ritroverà ad andare a caccia di alci.”

Hyoga fece una smorfia disgustata, che gli tirò la pelle del faccino gelato.

Un giorno alla settimana, da diversi mesi a quella parte, Isaac faceva da solo la strada dall’isba in cui abitava con il suo maestro fino alla locanda, poi tornava indietro, con il necessario per sopravvivere sette giorni ancora. Era un tragitto faticoso ed arduo, Camus era stato chiaro in proposito: addestramento. Né più né meno.

Era anche un percorso piuttosto noioso, a dire le cose come stavano. Isaac era felice che Hyoga fosse arrivato a Peveck, che si trattasse di un rivale o no: un duello in più era ripagato abbondantemente da tutta quella solitudine riscattata. Un sorriso gli guizzò sulle sue labbra e passò amichevolmente un braccio attorno al collo di Hyoga e lo tirò a sé, in un abbraccio violento, come il vento pieno di neve che sferza le distese ghiacciate.

Hyoga rise, ma si sottrasse, perché il gesto lo aveva sorpreso: non c’erano stati atti simili dal posto da cui era venuto. Un orfanotrofio del Giappone i cui colori iniziavano a sbiadirsi, nella sua mente piena di neve della Siberia. I ricordi più duri di braccia che stringevano per colpire e non per avvolgere, però, non sbiadivano.

“Guarda, ecco la locanda!” trillò Isaac, lasciandolo definitivamente, e gettandosi in avanti in una corsa forsennata “vediamo chi arriva prima!”

Hyoga spalancò gli occhi azzurri, sorpreso una seconda volta, ma un attimo dopo si lanciava dietro l’amico, deciso a non perdere.

 

Non era stata una decisione razionale quella di lasciare Hyoga in disparte, mentre lui si spingeva nel gruppo a contrattare. Era semplicemente successo. Isaac era così abituato a fare da solo, a raggruppare l’aggressività necessaria per tenere testa a quegli uomini barbuti provenienti dalla piana innevata, che non si era dato peso di vedere dove fosse rimasto l’amico.

Afferrò con decisione un sacco di patate e una provvista di carne essiccata, gli occhi verdi brillanti sotto la zazzera castana, scompigliata.

Hyoga lo ammirò spassionatamente, sentendosi piccolo e sciocco vicino a lui. Isaac sembrava in grado di cavarsela in qualunque situazione, sempre, come il Maestro Camus. Si sentì orgogliosissimo di essere in Siberia con loro. E con la sua mamma, nel mare di Peveck.

”Due. Due sacchi.” Isaac si impose con fermezza. Riuscì ad accaparrarsi una cassa con foglie di tè essiccato, proveniente direttamente dalla capitale.
Camus amava molto il tè. Lo preparava per tutti in un samovar ammaccato, ma veniva buonissimo.

Anche Hyoga aveva imparato ad apprezzarlo, nei pomeriggi che diventavano sera, dopo l’allenamento quotidiano. Si appoggiò al muro, in un angolo della sala, e lasciò che Isaac infilasse le mani in tasca,a cercare il poco denaro sufficiente all’acquisto che Camus gli aveva affidato.

”Ciao.”

Hyoga sobbalzò, sorpreso da una presenza estranea al suo fianco. Bella mossa farsi beccare così, per uno che si stava addestrando per diventare Santo. No, davvero, bella mossa.

Una parte lucida della sua mente, mentre si girava in direzione della voce, cercò febbrilmente di scoprire se Isaac l’aveva visto in quell’attimo di orribile defaillance. Pregò di no. Pregò di no con tutte le sue forze.

“Ciao,” ripetè con ostinazione la voce, e Hyoga si rese conto che apparteneva ad una bambina. Aveva i capelli ordinatamente tagliati appena sopra le spalle, occhi azzurri, come suoi, pieni di aperta curiosità.

Hyoga riuscì a produrre solo uno stentato: “Felice giornata”.

Lei rise, argentina, a quel saluto così insolito. “Sei nuovo? Non ti ho mai visto. Chi è il tuo papà?” intrecciò le mani dietro la schiena, indicando con un cenno del viso gli uomini intenti all’acquisto.

La parola papà riportò alla mente di Hyoga Mitsumasa Kido. E non era mai troppo contento quando gli si affacciava alla memoria quel vecchiaccio.

Scosse la testa. “Non sono qui con mio padre. Sono venuto con Isaac.” Lo indicò a sua volta. Isaac stava controbattendo all’attacco di un addestratore di cani da slitta che voleva per sé la cassa di tè.

Poiché il tè piaceva a Camus, Hyoga sentì un moto compassionevole per quell’uomo che aveva osato ostacolare Isaac nella nobile missione di rendere felice il suo Maestro. Non c’era speranza alcuna di sottrarre alle mani del ragazzino quelle provviste: che si provassero pure anche dieci, dodici addestratori di lupi della neve.

Vide gli occhi della bambina spalancarsi di sorpresa e fare un impercettibile passo indietro. “Sei anche tu un allievo del Maestro dei Ghiacci?”

“…Camus?”

“Si. Camus.” Lei pronunciò quel nome con deferenza, con un rossore improvviso sulle guance “E’ vero che è un mago? Che evoca le fate della neve?”

“Beh…” a dirla tutta Hyoga non era sicuro che il Maestro evocasse le fate della neve. Riportò alla mente l’immagine di Camus che, con i capelli di quel rosso strano, come fuoco che brucia nel mattino, distendeva le braccia cavanti a sé e sprigionava quella nebbia magica e crudele, la Polvere di Diamanti. Forse non evocava le fate della neve, ma a conti fatti poteva forse escludere davvero che fosse un mago e che…

”Katja!” Una donna afferrò la bambina per le spalle tirandosela contro e allontanandola da lui. Una donna che aveva un’aria familiare. Hyoga notò che la curva del suo ventre era piena: aspettava un bambino. “Katja non infastidire i clienti.”
”Non lo stavo infastidendo, mamma.” Puntualizzò la ragazzina, seccata dall’essere stata interrotta sul più bello: lei Camus lo aveva visto poche volte, ma quando era capitato, le era sempre piaciuto moltissimo. La donna sorrise alla figlia e guardò Hyoga con tenerezza.

Il bambino riconobbe in lei la locandiera che lo aveva accolto la settimana prima, al suo arrivo dal Giappone. La donna che gli aveva offerto la zuppa, che lui aveva accettato senza poterle dare niente in cambio.

Abbassò lo sguardo, sentendosi in colpa.

Katja sbuffò, che le mamme hanno sempre un pessimo tempismo. Si mise più tranquilla quando Isaac con le sue patate, la sua carne essiccata e il suo tè li raggiunse. Isaac non le piaceva come le piaceva Camus, ma era comunque una compagnia apprezzabile. E poi anche lui stava imparando ad evocare le fate della neve. La bambina afferrò per mano Hyoga e Isaac, trascinandoli ad uno dei grandi tavoloni di legno. “E’ arrivata da Mosca una cosa bellissima. Venite a  vedere!”

 

“E tu stai sempre zitto?” Katja tirò a Hyoga una gomitata niente male, anche per un aspirante Cavaliere, e Hyoga trasalì.

“Non sempre,” tentò di difenderlo Isaac e lo fece con molto affetto, ma con scarsi risultati, “Quando si lamenta perché il Maestro lo sveglia troppo presto, parla un sacco.”

Hyoga serrò le labbra e vibrò con precisione invidiabile un calcio al ginocchio del compagno, sotto al tavolo. “Non è vero.” Sibilò.

E non era vero, infatti. Era solo che, da quando la piccola Katja aveva mostrato loro la cosa nuova venuta da Mosca, il nuovo regalo di cui andava tanto fiera, il bambino era rimasto ammutolito. Il carillon superbamente modellato raffigurava un edificio dorato, dal sapore orientale come un ricco palazzo di Zar, -dorato come le scenografie del vecchio Vachtangov - racchiuso con indicibile attenzione in una sfera di vetro, fragile come il cristallo.

A capovolgerla, si riempiva di una tormenta di neve crudele, che sferzava la guglia d’oro. Una tempesta di neve così innocente, in quella sfera di vetro fragile, ma tutti i bambini a quel tavolo sapevano bene che non c’era niente di innocente nella neve, mai. Tutti lo sapevano. Nessuno escluso.

Sotto la cupola, caricata a molla, la statuetta sottile di una principessa bionda, candida davvero come la neve, girava su se stessa sulle note di una melodia dolce e un po’ meccanica, che sembrava non provenire dal carillon, ma dalla finestra, fuori, in un punto lontano, in tutto quel bianco.

“E’ una fata” aveva spiegato Katja sottovoce, indicando con l’aria di chi la sa lunga la principessa che danzava “E’ una fata della neve!”

Poi era rimasta in silenzio ad osservare quanto peso avevano avuto sui due ragazzini le sue parole, speranzosa di sentirli aggiungere qualcosa, magari, a proposito del loro affascinante Maestro, il mago Camus, che sulle fate della neve regnava, lì sulle rive del mare di Peveck.

Invece Isaac si sporse in avanti con intenti più prosaici, colpendo con il palmo della mano la fronte di Hyoga, producendo un suono coreografico.

“Ti sei incantato?”

“Ahia! No, è solo che…”

“Che?” Isaac guardò fuori dalla finestra e studiò il cielo, distrattamente. Di colpo si fece attento e impallidì, sgranando gli occhi.

“E’ solo che somiglia alla mama…”

“Ma chi, la fata della neve?” Katja lo guardò affascinata e Hyoga ebbe solo il tempo di un timido “Sì” prima di essere strappato dal tavolo dall’agitatissimo Isaac, incurante del pathos della discussione.

“E’ tardi! E’ tardissimo! Hyoga, il Maestro ci ucciderà!” gli piantò in faccia occhi verdi resi enormi dalla preoccupazione.

Il bambino scattò in piedi e, anche se una parte della sua mente gli assicurava che Isaac stesse sicuramente esagerando, che Camus non li avrebbe certo uccisi per un ritardo, aveva la poco rassicurante impressione che l’amico avesse ragione. Così, mentre una serie impietosa di immagini di orribili torture gli scorreva davanti agli occhi, Hyoga aiutò Isaac a raccogliere provviste e patate per poi gettarsi con lui verso la porta, lasciandosi alle spalle una sgomenta Katja.

“Un momento! Solo un momento, Без перевода” li chiamava così, Avrora, con tutto il rispetto possibile, gli allievi di Camus il mago della neve. “Devo darvi queste. Sono arrivate tutte questa settimana. Devono esserci stati dei ritardi a causa delle tormente.”

Erano così noiose le tormente in quella stagione.

Avrora mise nelle mani di Isaac, quelle piccole mani riarse di freddo, tre lettere rovinate dal viaggio e Hyoga si sporse a guardare da sopra la sua spalla. Erano lettere che arrivavano da lontano, piene di timbri e ritagli di carta colorata.

Riuscì a leggere ‘Atene’ con quel poco di greco che conosceva, quello che stava imparando dal Maestro. Vide che erano indirizzate a Camus.

Anche Isaac se ne accorse e assunse un’aria seria. “Che cosa vogliono dalla Grecia?”
Hyoga alzò il viso a guardarlo, interrogativo. Ma Isaac non aggiunse niente.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Come d'incanto ***


CAPITOLO: Come d'incanto

PERSONAGGI: Hyoga, Isaac, Camus, Milo.

IN PROPOSITO: Milo dalla Grecia cerca di raggiungere Peveck. Hyoga ed Isaac scontano una punizione.

COSE: Il quarto paragrafo, quello che costituisce un flash-back di Milo e Camus, non è di mia proprietà, ma un brano cambiato di tempo verbale tratto da una fanfiction di Leryu. Ovviamente con il suo consenso.





Camus non li aveva uccisi.
Non subito, almeno. A Hyoga venne il dubbio che volesse farlo lentamente e prendendosi tutto il tempo quando, la mattina dopo, il Maestro aveva intensificato gli allenamenti.

Li aveva portati dietro l’isba, a sud rispetto alla vasta distesa candida, verso le pareti scoscese del ghiacciaio e, senza una parola li aveva lasciati a guardare, coprendo la distanza che lo separava dalla montagna con poche ampie falcate, con la sua andatura elegante che non si scomponeva nemmeno in quelle circostanze così impervie. Sì, perché veniva giù una neve da far paura ad un orso bianco. Sferzava la faccia e i capelli.

No, non neve. Polvere di Diamanti.

Il Maestro aveva colpito la spessa coltre di ghiaccio con un destro ben piazzato.
Il destro ben piazzato di chiunque si sarebbe sfracellato contro la superficie gelida. Quello di Camus, no. Quello di Camus  non esitò nemmeno per un istante e sfondò il ghiaccio per un buon metro e mezzo di spessore, come d’incanto. Quando arretrò il pugno, aveva sulla faccia l’espressione vagamente soddisfatta di qualcuno che ha tirato giù dallo scaffale l’ultimo barattolo di pesche sciroppate. Sì, insomma, bel colpo, ma niente di speciale.

Hyoga aveva spalancato gli occhi azzurri ( E’ un mago! E’ davvero un mago! ) e aveva fatto un passo indietro, andando a sbattere contro il petto di Isaac, che avrebbe voluto levarsi di mezzo con la stessa prontezza: era  vero che lui aveva già visto Camus fare cose simili ed altre ben più sbalorditive, ma se qualcuno gliel’avesse chiesto, il ragazzo avrebbe giurato e spergiurato che erano spettacoli cui non ci si abituava mai.

“Adesso fatelo voi.” Aveva detto Camus, girandosi, ancora con l’espressione da pesche sciroppate.

Fare cosa? Hyoga doveva avere guardato il Maestro come un pazzo pericoloso, perché Camus l’aveva fulminato sul posto.
”Prego, tocca a voi.”

Era stato Isaac a muoversi per primo. Aveva afferrato Hyoga per le spalle e l’aveva spinto in avanti, con sé, fino ad affiancare il maestro. Aveva lanciato al compagno uno sguardo rassicurante e poi annuito in direzione di Camus a dirgli che era pronto, che andava tutto bene.

Camus aveva ricambiato il gesto, in perfetto silenzio.

Isaac, i capelli castani spinti in avanti dal vento impietoso, aveva iniziato a colpire il ghiacciaio, un colpo dopo l’altro. Non c’erano state voragini, crepe, né una scalfittura piccola piccola. Al contrario, Hyoga aveva visto i piccoli pugni fasciati di fresco dell’amico sporcarsi di rosso sulle nocche e lasciare l’oltraggioso omaggio sulla parete di ghiaccio: sangue.

Ma anche senza produrre voragini, crepe o scalfitture, Hyoga aveva notato una cosa molto strana: anche solo per il fatto di allenarsi per diventare come Camus, Isaac aveva riprodotto la stessa faccia delle pesche. Ne rimase colpito.

“Avanti, Hyoga. Anche tu.” Camus era stato irremovibile e aveva incrociato le braccia sul petto, “che questo vi serva di lezione a rispettare i miei insegnamenti e gli orari che vi impongo.

Hyoga diede il primo colpo contro la barriera ghiacciata.

“Ma porc…”

“Cosa, Hyoga?”

“Niente, Maestro Camus.”

 

L’aeroporto di Vnukovo era chiassoso quanto una bolgia infernale. Atterrato a Mosca, l’aereo vomitò il suo carico di passeggeri proveniente da Atene e rimase in pista. Milo, spettinato ed esausto, raggiunse il più in fretta possibile la hostess più vicina, sistemandosi la giacca stropicciata dal viaggio.

Disse qualcosa in greco e la guardò speranzoso.

La ragazza sorrise imbarazzata.

Milo sospirò. Tentò il greco antico, ma l’espressione sulla faccia di lei sfiorò la disperazione.

“Va bene, va bene” articolò nell’inglese migliore che riuscì a produrre “Proviamo così.”

Vide il volto di lei rilassarsi: “Mi dica” cinguettò. L’inglese. L’inglese è una gran cosa quando un greco cerca di comunicare in Russia.

“Ho un disperato bisogno di andare in Siberia. Siberia Orientale.”

Lei conobbe nuova disperazione. “La Siberia è grande.”

“Quanto il mio bisogno di andarci.”

La ragazza annuì, molto professionale. “Immagino non sappia dove, esattamente, signore, vero?”  Per quanto Milo dimostrasse poco più dei suoi quattordici anni, se aveva il biglietto per l’imbarco o i soldi per procurarselo, per la hostess sarebbe rimasto un signore. Anche se sotto la giacca indossava quell’assurda felpa dei Guns’n’Roses.

“Ho solo il nome di un villaggio. Ma è piccolo. Peveck.”

“Se non compare sulla cartina bisogna fare una ricerca, una ricerca prevede tempo e noi non…”

Milo le prese le mani tra le sue: “Per favore. E’ importante.”
Lei arrossì, si umettò le labbra –cosa che faceva di rado- e abbassò gli occhi dallo sguardo di lui, troppo azzurro troppo intenso per essere sostenuto.

Un quarto d’ora dopo, Milo lasciava l’aeroporto di Vnukovo  diretto verso la stazione. Tra le mani aveva una dettagliatissima cartina della Siberia Orientale - su cui l’hostess aveva circondato Peveck con il segno grosso di un pennarello blu- e una bottiglia di vodka ottenuta al free duty.

 

Hyoga si controllò prima una mano e poi l’altra, cercando di capire se aveva ancora l’uso dei polsi. Camus osservò con discreta attenzione l’esame e, quando pervenne il risultato positivo, ebbe per i suoi allievi un sorriso dolcissimo e inquietante.

“Vedo che siete resistenti, come si conviene a dei futuri Santi d’Athena.” Le parole che seguirono cancellarono dalla faccia di Isaac la soddisfazione che aveva provato a quell’affermazione: “Adesso riprendete. Altre mille volte.”

Disegnò con l’indice un piccolo cerchio nell’aria, a mostrare a propri allievi la parete di ghiaccio verso cui si sarebbero dovuti girare.

Hyoga ubbidì, troppo stanco per riuscire anche solo a pensare, e fu lui il primo a colpire il bersaglio con la manina gelida, quasi insensibile.
Isaac rabbrividì. E non fu per il freddo.

Da parte sua, Camus, i capelli rossi come fuoco nel mattino catturati dal vento, raggiunse alle spalle dei suoi allievi un punto isolato, dove potesse controllarli senza distrarli.

Solo a quel punto infilò la mano in tasca ed estrasse le lettere.

Le guardò a lungo, studiando ancora una volta lo spessore della carta, il bordo che aveva strappato, la calligrafia che tracciava il mittente: Atene.
Non si accorse di avere incrinato la maschera di neutra indifferenza che aveva sul volto, aggrottando le sopracciglia e adombrando lo sguardo.

Non si accorse nemmeno di avere dischiuso le labbra per la preoccupazione. Atene.

Come aveva fatto la sera, prima scorse la punta del dito sulle lettere che componevano il suo nome, sulla busta.

C’erano il suo nome, il nome della locanda e il nome del villaggio, Peveck, Siberia Orientale.

E basta.

Come avessero fatto quelle lettere a raggiungerlo risultava un mistero vero e proprio. Anche se la sua preoccupazione era notevolmente aumentata, si era sorpreso a sorridere.

Estrasse i fogli, uno per uno, per rileggerli.

La sera prima, quando aveva ricevuto le lettere dai suoi allievi ritardatari, aveva pensato che quelle lettere fossero dispacci del Grande Sacerdote di Atene, o ordini da eseguire. Ma solo per qualche istante.

Gli era bastato averle tra le mani, per sentirne – il peso, il calore, l’odore, la consistenza della carta e della penna che la carta aveva vergato -  la differenza dalle missive già ricevute dal Santuario.

Aveva cercato di allontanare il pensiero, strappando il bordo ed estraendo le lettere dalle buste, Camus, ma la verità era che già sapeva, come d’incanto.

Lo sapeva già da prima di leggerne l’incipit, prima di riconoscerne la scrittura, prima di scendere fino in fondo, lasciando la lettura per dopo, per trovare quel nome, Milo, svolazzante e leggero.

Aveva piegato all’insù gli angoli della bocca, in un sorriso appena accennato.

Poi il sorriso si era gelato lì.

Perché nella terza missiva la frase che regnava inquietante era: “Non ricevo risposte, Camus, non capisco se è colpa delle poste o se sei tu ad ignorarmi bellamente. Sai una cosa?” Camus aveva notato che il tono convulso di Milo era aumentato in maniera proporzionale di lettera in lettera “Non importa: se la colpa è delle comunicazioni, sarà una bella sorpresa. Se invece mi stai ignorando, affari tuoi, te la sei cercata: ho preparato tutto e sto venendo da te.”

Se lo sarebbe trovato di fronte, senza preavviso. Come d’incanto.

Camus si era sentito sull’orlo del precipizio.

Aveva guardato Isaac e Hyoga, davanti a lui, come se potessero fare qualcosa, e per un istante aveva quasi dimenticato il loro ritardo. Quasi.

Poi aveva recuperato il controllo di sé stesso.

 

“Non essere infantile. Non starò via per l’eternità.”

“Lo so anch’io, questo, dannazione!” replica sbuffando il Saint dello Scorpione. “Lo so benissimo!”

“Qual è il problema, allora?”

“…”

Non riceve risposta, ma non ce n’è bisogno. La sa benissimo anche lui, la risposta.

Il problema non è spiegabile, non è nemmeno udibile. Esiste e fa male. Un male pungente, lacerante. Non razionale. Non c’è nessuno che lo possa capire. Andava al di là del bene e del male. Andava al di là del Cosmo stesso.

“… Camus… io ti…”

Camus sbarra gli occhi per un istante, e lo interrompe.

“Non dirlo” Lui tace subito, confuso.  “… perché…” dice, con un filo di voce ma in fretta, per impedire che quei secondi uccidano il senso di ciò che sente, che deve dire da molto, troppo tempo. “Pronunciando queste parole rischieresti di rovinarle. Non voglio che si scalfiscano, col tempo, svilendosi.” Il Cavaliere dello Scorpione volta la testa da un lato, per impedire che l’altro si accorga che sta arrossendo fino alla punta dei capelli, ma Camus gli si avvicina, toccandogli una guancia e costringendolo a guardarlo negli occhi. “Milo, noi abbiamo sempre fatto a meno delle parole.” sorride lievemente davanti alla sua espressione vagamente imbarazzata, e gli sfiora il volto in una carezza timida. “E stavolta non sarà diverso.”

 

Milo si svegliò, l’espressione contrita.

Ci mise una manciata di istanti per ricordarsi di non essere al Santuario dove aveva salutato Camus, prima che partisse per la Russia, in quel modo così strano e doloroso.

Ci avrebbe messo una manciata di giorni per raggiungere la Siberia Orientale.

Cercò una posizione migliore su quel diavolo di sedile che cercava di inglobarlo e così facendo spinse il proprio piede tra quelli del passeggero di fronte a lui.

“Chiedo scusa”, lo ritirò in fretta, sedendosi in maniera più ortodossa.

Si stiracchiò e lanciò un’occhiata fuori dal finestrino, nel paesaggio così straniero, ai suoi occhi. Come d’incanto, era già Russia, e per il momento bastava.

Transiberiana, diceva il suo biglietto.

Dagli Urali alla Siberia Orientale.

Milo sospirò.

La Transiberiana era atrocemente lunga.

 

 

Allora, mi metto a ringraziare qui, se no imbratto spazi vari.
RenChan, Camus, tomoyo: i tuoi bambini sono adorabili, sì, ma non come te.Grazie per pazientare tanto. Arriveremo al momento clue, vedrai. *O*
Grazie alla splendida Kijomi: Phro, sei sempre il benvenuto, anche perchè ti colonizzo il divano.
Sam89, grazie per i complimenti e l'affetto, sei graditissima. Ebbene sì, qui scopri chi è quello che spedisce dal Grande Tempio. Come lo scopre Camus. Sì, ho letto la tua storia e l'ho trovata tenerissima: i momenti di intimità di Camus con gli allievi in Siberia sono semplicemente splendidi. Scriverai ancora, su di loro?
Shinji, grazie per i complimenti e per le tue parole, sei stato particolarmente carino con storia e autrice. Tanti auguri anche a te, in ritardo mostruoso, scusami. o_o;
Grazie, HyogaChan, felice che tu abbia apprezzato l'immagine *O*
Howl, grazie per essere passato. Sì, sono adorabili, ma già di loro. çOç e sì, beh, Hyoga lo diventerà. Anche Isaac a suo modo. ò_o Vediamo se lo diventerà qui.
Eli0023, grazie anche a te per i complimenti. Farò del mio meglio per non deluderti. èOé
....ah.
Camus, tomoyo. PREPARATI. IO STO ARRIVANDO.


Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Come di notte ***


CAPITOLO: Come di Notte

PERSONAGGI: Camus e Milo. Poi: Hyoga, Isaac, Katjia e Rudolph.

IN PROPOSITO: Incontro di Camus e Milo in Siberia, senza nessuno tra i piedi.

COSE: Pensato a grandi linee insieme a lei, questo capitolo è un minuscolo regalo per Ren-Chan, il Camus più delizioso e meglio interpretato mai visto in giro.
E un capitolo di impronta decisamente Shonen-ai e si conclude in modo Yaoi molto classico. Giusto per avvertire: non cambierò il rating generale della fanfiction perchè episodi come questi saranno molto rari  (l'unico shonen-ai/yaoi riguarda la coppia MiloxCamus, in
Neve, quindi, considerata la presenza marginale di Milo si tratta di una pecentuale davvero esigua sulla storia ) ma, di volta in volta, avvertirò capitolo per capitolo. ...qui ce ne è.




Prima di entrare, Milo batté a terra le punte dei piedi, una e poi l’altra, per sgravare della neve in eccesso gli stivali pesanti. Con ben scarsi risultati, visto che era bagnato fradicio dalla testa ai piedi, e il gesto ebbe come unica conseguenza quella di togliere ghiaccio dalle suole per aggiungerne sulle punte.

Bella mossa, pensò.

Un soffio di vento gelido lo colpì alle spalle, beffardo, e tanto bastò per indurlo a spingere la porta senza indugiare oltre. La locanda era calda e dorata all’interno.

Milo non poteva saperlo, ma ne ricavò la stessa impressione che ne ebbe Hyoga, al suo arrivo dal Giappone.

Non rimase a stupirsi, tuttavia: Milo era avvezzo ai bagliori aurei.
Con passo deciso – e maledicendo gli stivali pesanti d’acqua e neve – raggiunse il bancone, tra i pochi avventori. Dall’altra parte un uomo barbuto lo guardò, ripulendo un boccale.

Vodka?”

Vodka  assentì. Conosceva abbastanza la realtà della Siberia, grazie a Camus, per sapere che non si rifiutava mai quando un russo ti offriva da bere.

“Anche per me, Rudolph!” disse una vocetta al suo fianco.

”Non dire scempiaggini, Isaac, sei troppo piccolo.” Rudolph non lo guardò nemmeno, il ragazzino che aveva fiatato, mentre appoggiava sul banco un bicchiere e lo riempiva con la maestria di chi compiva da anni  gli stessi gesti e li aveva assimilati. Poi invece lo fissò, sollevando le grosse sopracciglia cespugliose:  “Che cosa fai qui?”

“Il Maestro Camus ci ha dato del tempo libero, fino a domani sera!” Milo, che stava per portarsi il bicchiere alle labbra, aguzzò le orecchie e si girò impercettibilmente.

“Resteranno qui alla locanda con me, zio!” ridacchiò argentina una bimba, che in quel momento sembrava che stesse più o meno tentando di strangolare, dato l’impeto con cui lo abbracciava, un bambino biondo, alle spalle del ragazzino chiamato Isaac.

“Katja, sii educata.” Bofonchiò l’omone e Milo ebbe il tempo di osservare il terzetto dei bambini, senza farsi notare. Ragazzina a parte, ecco dunque i famosi allievi.

Che inaspettato colpo di fortuna!

Cercò di immaginare uno dei due con addosso l’armatura del Cigno, ma senza successo. Erano così piccoli. D’altra parte, a conti fatti, non avrebbe dato un soldo bucato nemmeno a sé stesso, ripensando a quando, nella prima infanzia, inciampava correndo sulle coste sassose dell’isola di Milo, ed ora invece…

Sogghignò. Sicuramente era costato moltissimo a Camus interrompere l’addestramento, anche per un paio di giorni soltanto: doveva averlo sentito arrivare.

Buttò giù la vodka d’un fiato.

Un istante dopo si piegava in due, avvampando e tossendo, stringendo spasmodicamente tra le dita la superficie del bancone.

“Stranieri.” Borbottò Rudolf a mezza voce, sottraendo il bicchiere vuoto a chi non dava l’impressione di apprezzare l’acqua della vita locale.

Milo riemerse, il più dignitosamente possibile.

“Sto cercando una persona” Si sforzò di comunicare, piegandosi in avanti per far arrivare a Rudolf la voce ancora arrochita. “Un amico”

Domandò informazioni, non osando espandere il Cosmo per cercare con il proprio quello di Camus, non con i suoi allievi tanto vicini.

Si sentì sollevato quando la bambina li trascinò alle stanze di sopra, correndo per le scale, senza che nessuno dei due notasse la sua presenza.

Che le visite del Mondo Segreto rimanessero segrete allo stesso modo.

Soprattutto quelle non ufficiali, pensò Milo. Sfoderò per Rudolf il migliore dei suoi sorrisi.

 

Milo adesso non lo sa e non riesce ad immaginare nessuno dei due bambini con l’armatura del Cigno, per ottenere la quale Camus li sta addestrando.

Eppure ci sarà un giorno – un giorno ancora lontano, un giorno triste di lutto – in cui avrà quella stessa armatura ai propri piedi, ridotta in frantumi.

Ci ha piantato le unghie lui stesso, in quell’armatura del Cigno, che Camus tanto ha faticato per affidarla a qualcuno che fosse degno di portarla.

Milo adesso non lo sa, ma in quel giorno triste che sa di lacrime e parole non dette, fenderà con un colpo deciso le vene del proprio braccio e permetterà al sangue di raggiungere quei poveri resti d’armatura di stelle, per donare loro ancora vita.

Hyoga lo guarderà pieno di colpa, di tristezza e di tanto altro. Gli domanderà di non versare la sua vita – non anche la tua, Milo, che Athena mi perdoni, non anche la tua -  per quella dell’armatura e lui gli risponderà che così dev’essere fatto, che è giusto così. E poi non la verserà tutta, non tutta.

Anche se in quel giorno – quel giorno triste di lacrime e di lutto – l’ipotesi ventilata sembra meno preoccupante del solito. Sembra allettante.

Milo adesso non lo sa ed è cosa buona che non sappia, mentre lascia la locanda per cercare un’isba, più a nord, sola, nel deserto di ghiaccio della Siberia Orientale.

 

Milo bussò che ormai era tardi.

Dall’interno, nessuna risposta. Eppure lo sapeva che era lì, lo sentiva chiaramente, il cosmo limpido e senz’ombre di Camus, al di là della porta di legno.

La sospinse appena, quanto bastava per sbirciare all’interno: un ambiente spartano, come si aspettava. E lì, dietro la tavola semplice, ecco Camus girato di spalle. Preparava il tè in un vecchio samovar ammaccato, sulla stufa a gas.

Milo sentì il cuore spalancarsi e gli angoli della bocca piegarsi verso l’alto. Dimenticò il freddo di tutta la Siberia.

“Camus?” chiamò.

Nessuna risposta, ancora. Ma come? Non lo sentiva?

“…Camus?”

Aprì la porta di più e questa volta si stagliò sulla soglia nel modo più imponente concessogli dagli abiti pesanti pieni d’acqua e di neve.

“Ca…”

“Ti sarai annoiato, otto giorni in treno.”

Milo richiuse la bocca. Il viaggio sulla Transiberiana era stato piacevole. Per le prime otto ore. All’ottavo giorno lui aveva cominciato a temere che la sua vita si sarebbe conclusa in un vagone. Quando era sceso aveva barcollato, espanso il Cosmo e baciato terra. In quell’ordine.

“Il tè è pronto. Vieni.” Camus appoggiò sulla superficie di legno scuro le due tazze fumanti e sedette.

Milo si chiuse la porta alle spalle, lasciando fuori il vento, il deserto di ghiaccio e la Povere di Diamanti. Sedette pensando che era come se si fossero visti appena il giorno prima.

Pensò a cosa dirgli. In realtà in tutto quel tempo aveva accumulato una serie abnorme di eventi da raccontargli e riflessioni cui metterlo al corrente.

Il punto era che andava tutto in pezzi prima di raggiungere le sue labbra.

La verità era che essere arrivato in quell’ambiente semplice e racchiuso e avere Camus davanti gli toglieva di dosso l’agitazione di una partenza intrapresa di nascosto. La verità era che si sentiva terribilmente stanco.

Camus si alzò e Milo lo seguì con lo sguardo fino all’armadio, sorseggiando il tè. Lo vide trarne pantaloni pesanti e un maglione.

“Mettiti questi.” Glieli lanciò con precisione invidiabile “Sei bagnato fino al midollo. Finirai in ipotermia nel giro di mezz’ora.”

“Che Athena ti protegga, Esperto dei Ghiacci!” sogghignò beffardo l’altro, togliendosi gli abiti bagnati con gratitudine.

Il sorriso di Camus non pretese molto dai muscoli facciali.

“Ti trovi bene qui?” Milo era alle prese con i pantaloni troppo bagnati.

“Bene, sì.” Camus sollevò appena le sopracciglia sottili chiedendosi se era il caso di aiutarlo o no.

“Te l’avevo chiesto nelle lettere ma…”

“Sono arrivate tardi, tutte insieme.”

“Oh. Ecco perché.”

“…Non sarai scappato, per venire in Siberia, vero?”

“…chi, io?”

“Tu.”

“Che assurdità, perché avrei dovuto?” Milo ebbe la meglio anche sulla felpa dei Guns’n’Roses.

“E quella?”

“Era la cosa più calda che avevo!” Si sentì in dovere di difendersi. In Grecia non veniva giù una tempesta di neve al giorno, in genere, no? Rabbrividì.

“Quel maglione è più caldo.”

Milo lo indossò, compito, senza aggiungere niente. Camus lo vedeva che avrebbe voluto dire altro. Che si stava trattenendo perché lo conosceva bene; perché aveva visto chiaramente la lastra di ghiaccio sotto il velo della cortesia compassata.

Aggrottò le sopracciglia. Milo sapeva che era furioso e si comportava ora in maniera irreprensibile, per non scatenare lo scontro, con quell’aria innocente - così falsa - che usava spesso in situazioni simili. Camus si era chiesto sempre come fosse possibile che riuscisse ad ingannare tutti.

Tutti tranne lui, naturalmente.

Sentì una vampata d’irritazione montargli alle tempie e si impose la calma, alzandosi per portare via le tazze, dando volutamente le spalle a Milo.

“E adesso che siamo sicuri che non morirai congelato,” iniziò, brusco,  sciacquando le stoviglie, “vuoi spiegarmi per favore che accidenti ci fai qui?”

Nessuna risposta. Camus si sentì soddisfatto: se non altro aveva la creanza di mostrarsi dispiaciuto e di non azzardarsi a ribattere. Rincarò la dose.

“Sai benissimo che non dovevi venire. Che ci sono dei ruoli da rispettare e questi ruoli pretendono te al Santuario e me qui. Che hai scavalcato la volontà del Pontefice.” Pronunciò quelle poche frasi con tono basso, modulato, ma il gelo che emanavano era inequivocabile. Finì di asciugare le tazze, poi si appoggiò al lavabo, la testa appena reclinata in avanti e gli occhi chiusi.

Possibile che Milo non capisse? Sentiva alle spalle il suo silenzio.

Il suo silenzio colpevole.

“Hai idea di quello che sto affrontando con quei due bambini? La loro vita non è facile. Lo so. Per me è stato lo stesso. Devo essere duro, capisci? Più di quanto voglia, per renderli forti. E la tua presenza qui è una distrazione per me e per loro: li ho dovuti allontanare a causa del tuo arrivo, che non ti vedessero. Non sono ancora a conoscenza del Mondo Segreto, se non superficialmente, non hanno idea che esista il Grande Tempio e tanto meno che io sia un Cavaliere d’Oro. Se ti avessero visto, Scorpio?”

Caricò d’astio l’ultima parola, girandosi verso il suo ospite, per fronteggiarlo.

Si era aspettato uno scontro duro: raramente due Gold Saint scendono a compromessi. Decisamente non era preparato all’eventualità che gli si parò davanti.

Milo non rispondeva non per arrendevolezza, ma perché era crollato addormentato seduto lì, nella stessa posizione in cui aveva bevuto il tè, fatta eccezione per la fronte appoggiata al tavolo.

 

Gli baciò le labbra e scese sulla linea della mascella, poi sul collo. Camus appoggiò le spalle al muro e lo lasciò fare. Solo quando l’altro gli prese i polsi, con la fame tipica dello Scorpione del Cielo, allora si lasciò sfuggire, come di rimprovero, un:

“Milo…”

“Sì, Camus?” con voce morbida, sotto al suo mento. Camus non disse niente. Contrasse il viso e serrò le labbra, severo, perché Milo mischiava troppo le carte: mischiava le carte arrivando da Atene e portando con sé il sole e il sale della Grecia, nel colore e nel sapore della sua pelle; mischiava le carte facendo irruzione in una vita rigida di neve e di allenamenti; mischiava le carte svegliandosi e raggiungendolo alle spalle, mentre lui guardava la Siberia dalla finestra, non osando andare a dormire in quella notte così irreale.

Poi, però, rilassò i muscoli del volto in un sorriso appena accennato. Milo non lo vide, ma lo sentì, e scese ancora un po’ fino al petto, a coprire con le labbra roventi la pelle che lasciava nuda. Morse un capezzolo, come se addentasse un frutto.
Camus trasalì. Gli prese il viso tra le mani, sollevandolo verso di sé, e lo baciò. Si vergognò per l’urgenza che mise nel gesto, come se ad un tratto il controllo che esercitava su se stesso, come il freddo siberiano lo esercita sui ghiacci, si fosse irrimediabilmente incrinato. Di nuovo indurì l’espressione, mentre Milo gli mordeva il labbro inferiore, come a sfidarlo, e le sue mani correvano sui fianchi fino alle natiche. Di nuovo si rilassò.

Andava così, con Milo. E l’unica salvezza, l’unica certezza che permetteva al pilastro della sua mente di non crollare, era che andava così con Milo soltanto.

Come se davanti a lui non fosse più Camus di Aquarius, come se fosse solo Camus e basta. E da quando aveva compiuto i sette anni e aveva ottenuto il Gold Cloth – bambino predestinato – non era più Camus e basta.

Tranne che davanti a Milo, certo.

Milo e basta che coincide con Milo di Scorpio, tutto qui.

Tranne che davanti a Milo.

Allora lasciò che lo guidasse sul letto, tra le lenzuola fredde e bianche come la neve.

Fredde come lo era stato lui fino all’arrivo di un ragazzo greco inzuppato dalla testa ai piedi.

Troppo fredde a contatto con i loro corpi troppo caldi.

“Milo…”

“Si, Camus.” E quella volta Milo non chiese, sovrastandolo, immergendo le mani nei suoi capelli di quel rosso strano, come fuoco che arde al mattino, incantato dai giochi di luce delle fiamme e incantato da tutta quella bellezza.

Camus non si riconobbe. Non era abituato ad essere Camus e basta, perché lui era Camus di Aquarius da quando aveva sette anni.

Addestrato in Siberia.

E la Siberia sapeva che lui era Camus di Aquarius. Per questo non voleva Milo lì.
Perché era vero che era Camus di Aquarius anche in Grecia – soprattutto in Grecia – ma la Grecia conosceva lui e Milo da quando avevano sette anni e sapeva che a volte Camus di Aquarius, con Milo, diventava Camus e basta.

Quella notte lo diventò in Siberia. Non si riconobbe - e la Siberia non lo riconobbe - quando scorse le dita sulla schiena di Milo  lasciandogli completamente l’iniziativa.

Milo gli succhiò un lobo, trattenendolo con i denti, poi  gli schiuse le gambe con le proprie. Milo lo aveva già fatto.

Era successo una volta, una volta soltanto. Con Camus.

Camus era di ritorno dalla Siberia, convocato dal Pontefice, era successo quella volta, quella volta e basta, con Scorpio che chiudeva gli occhi in un sorriso di piacere e Aquarius che gli artigliava tra le dita le ciocche bionde.

Milo gli graffiò la coscia, senza trattenersi, portandosi le sue gambe ai fianchi e si chinò su di lui a cercare il suo sguardo. Lo trovò, ma solo per un momento, che Camus stava sorbendo il sale e il sole di Atene dalla pelle della sua spalla e poi gli si premette contro il bacino, accogliendolo in sé.

Milo di Scorpio spalancò gli occhi per un attimo. Poi appoggiò la fronte alla sua, tendendo i muscoli della schiena e disse:

S’agapo, Camus.”

Camus e basta smise di essere Camus di Aquarius per quella notte intera. Rovesciò la testa all’indietro.

“Ti amo anch’io.”

 

 


E ora, a noi. è_é
Damaris: Chiedi venia per cosa? çOç Il piacere di rivederti ogni volta è mio. Ovviamente, mi sei mancata in modo straordinario, ma ti ho aspettato fiduciosamente. ^_-    Sì, il baricentro della storia per qualche capitolo si è spostato su Camus, ma tornerà su Hyoga e avrà la palla anche Isaac: cerco di tenere il controllo della situazione attraverso le vite di tutti loro e, considerati i personaggi, credo che lo meritino tutti. Con questi caitoli più nell'ottica di Camus mi sto divertendo moltissimo. Sarà l'influsso di Milo. XD
Che bella riflessione che hai fatto sulla locanda. çOç Ti ringrazio per la tua lettura tanto profonda: in effetti - essendo anche l'unico nucleo caldo e vitale del villaggio di Peveck - la locanda è lo scalo anche delle vite dei protagonisti, resta un luogo importante. E la tua descrizione del simbolo mi ha colpita molto.
Camus con Milo, come ho cercato di rendere in questo capitolo, si relaziona e si decostruisce in modo particolare, per la relazione tra i due che cercavo di spiegare all'inizio: spero di renderla più chiara possibile man mano: a questo proposito consigli e riflessioni sulla resa dei personaggi sono graditissime, soprattutto per il lavoro su di loro che sto facendo con Ren-Chan ( il mio Camus *O* ) che diventa sempre più coinvolgente.
La frase che riporti alla fine è una mia citazione tratta da una fanfiction di Leryu ( purtroppo non è pubblicata qui, ma vi consiglio di leggere tutte le sue qui reperibili che sono gioielli veri e propri ), quindi lascio a lei i complimenti. ^_-
Grazie ancora per la tua presenza, Damaris, è sempre preziosissima.
Saorilavigne: Gh. Mio Shaka, grazie per i complimenti. XD Ricambio il bacio. >_<
Sam89: Capitolo arrivato, come vedi! èOé Anche se è stato faticoso più degli altri proprio per il rapporto tra Milo e Camus. Li adoro, semplicemente, ma muoverli a questo punto della serie canon è arduo, visto che è tutto da costruire - tenendo conto della diabolicità degli eventi nella cronologia kurumadiana >_>; -   ma mi sto organizzando. XD Dimmi se ti piacciono e se noti sbavature o stonature, mi raccomando!
Shinji: spero di essere stata alle aspettative. XD cercando di restare in character, di più non potevo fare. çOç  Le pesche sciroppate! XDDD felice che l'espressione di Camus sia stata gradita. *O* io l'ho chiarissima in mente. Ti aspetto ancora! Un  bacio!
HyogaChan: Grazie per i complimenti e per la presenza assiudua! çOç Naturalmente, come dicevo prima nella risposta a Damaris, l'accento è posto su tutti i personaggi della 'famiglia dei ghiacci' -diciamo così- ma chiaramente, essendo il periodo dell'addestramento di Hyoga, il punto di vista tornerà spesso su di lui e sul suo percorso per diventare Saint.
Ren-Chan: Gh. Tomoyo, tutto questo è per te.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Come musica dolce e arrugginita ***


CAPITOLO: Come musica dolce e arrugginita

PERSONAGGI: Isaac e Hyoga. Poi: Katja e Aurora. Nonni di Isaac.

IN PROPOSITO: Isaac racconta la sua prima infanzia

COSE: In realtà io non ho la minima idea di come funzioni l’economia di Helsinki o di Oulu. Ho dovuto improvvisare. Non me ne vogliano i finlandesi.

 

 

La neve continuava a scendere piano sull’edificio dorato dal sapore orientale, come un palazzo di Zar. E quando smetteva bastava capovolgere la sfera e rimetterla dritta. La neve riprendeva a cadere; la ballerina riprendeva a danzare; e la musica strana, quella musica dolce e arrugginita, ricominciava da capo.

Era la terza volta che Hyoga capovolgeva e raddrizzava la sfera del carillon, sdraiato sul letto. Si era dovuto addossare alla parete quando Katja aveva preteso un posto vicino al cuscino e Isaac si era sistemato dall’altra parte, incrociando le gambe sulla coperta.

“Così la farai vomitare” obiettò Katja, quando la ballerina finì nuovamente a testa in giù. Isaac scoppiò a ridere e ci mancò poco che cadesse dal letto.

Hyoga appoggiò il carillon sulla coperta e guardò altrove, imbronciato.

“Davvero assomiglia alla tua mamma?” chiese lei, poi, a voce bassa. Hyoga annuì e Isaac smise di ridere, perché gli occhi dell’amico erano lucidi di lacrime e la sua espressione era dura.

“Dov’è adesso?” domandò la bambina.

“E la tua?” ringhiò Hyoga, con un’alterigia che non gli era propria.

Katja lo guardò sgomenta:

“E’ di sotto, non l’hai vista? Lavora in locanda con lo zio Rudolf.”  Hyoga tacque, la sua era stata una domanda retorica condita con deliberata acidità. “Avete visto che aspetta un bambino? Sarà il mio fratellino. Lo chiameremo Jacob, come il mio papà.”

“E lui dov’è adesso?”

Questa volta furono gli occhi di Katja a velarsi di lacrime. “Non c’è più. E’ morto sei mesi fa. Si è perso nella tundra e non l’hanno trovato in tempo.”

Hyoga capovolse ancora il carillon, abbassando lo sguardo. Si sentì in colpa, perché Katja aveva gli occhi umidi a causa sua, adesso. E di nuovo si sentì in colpa di più perché la voce della bambina era ferma, mentre la sua tremava, quando parlava della mama. Si sentì debole e stupido. Guardò dritto negli occhi verdi di Isaac, come a prendere forza da lui; afferrò tra le dita il copriletto caldo a colori morbidi, perfettamente intonato al legno della piccola stanza di Katja, e disse: ”La mia mama era come la principessa del tuo carillon. Ma anche lei non c’è più.” Raccontò di Vachtangov e della sua scenografia dorata. Di Igor e del teatro. Di un libro che Natassia leggeva, scritto da qualcuno che si chiamava come il suo Maestro. Raccontò di come la chiglia di una nave rideva, malvagia, e di come il mare aveva voluto Natassia con sé.

Non fu troppo difficile. Dopo averlo detto a Camus, la sera in cui era venuto a prenderlo in quella stessa locanda, era come se potesse raccontarlo a tutti gli altri. Così diverso da quando era in Giappone e

 

“Ciao.”

“Ciao, Shun”

Shun si siede vicino a lui, in palestra, e lo guarda, in uno di quei rari momenti di tranquillità, tra un allenamento forzato e l’altro. Hyoga pensa che non dovrebbe essere lì, ma a Mosca, a giocare con Igor e la neve e gli dispiace, perché Shun gli è simpatico, gli è simpatico davvero.

“Hyoga, che cosa c’è?”

Shun ha sempre quell’espressione.

“Niente.”

Quell’espressione un po’ triste un po’ speranzosa, che ti fa sentire un verme se gli rispondi male.

“Sei sicuro?”

“Ti ho detto che non ho niente.”

Però Hyoga non può farne a meno perché pensava a Igor, alla neve e alla mama e non riuscirà a parlarne bene fino a quando ne parlerà a Camus e allora

 

ci mise allora quanti più particolari ricordava. Dipinse per loro l’affresco più nitido possibile. E lo dipinse per se stesso, in quell’atmosfera ovattata di stanza calda per bambini.

Alla fine del racconto, Isaac prese la sfera tra le mani come se fosse il più prezioso degli oggetti e inconsapevolmente prese in mano anche le redini della discussione.  Capovolse il carillon, lasciando che la neve nella sfera cadesse sulla scenografia dorata di Vachtangov - un palazzo di Zar -  che cadesse su Natassia  - bellissima principessa Russa. Hyoga e Katja non si stupirono quando la musica strana, quella musica dolce e arrugginita, ricominciò da capo, ancora una volta, fondendosi con la voce di Isaac, timida e bassa.

 

Isaac non è russo. E non è greco.

Non c’entra niente con la Siberia dell’Est e con la costa di Peveck di cui si innamorerà perdutamente, dimenticando la sua terra per adottare quella, di neve pura e fredda baciata dal mare crudele e ghiacciato.

Soprattutto il mare crudele e ghiacciato. Quello sarà suo più di ogni altra cosa.

Non c’entra niente nemmeno con Atena e le leggende di una terra calda e fertile, profumata di mare e di ulivi, ma amerà spassionatamente anche la Grecia, pur non avendola vista mai.

Isaac vive ad Oulu, in Finlandia. Vive lì con i nonni: lui fa il pescatore di salmoni, ci va tutte le mattine a pescare nel fiume che passa per la città e si butta nel Golfo di Botnia,; lei, la nonna, si occupa della vendita del catrame nel mercato sul porto e se lo trascina dietro fin dall’alba. Solo dopo pranzo lo lascia libero per andare a giocare con gli altri bambini.

Vanno sul molo a sfidare i gabbiani, gridando al cielo pallido. Scalano gli scogli fino alle rocce più alte sulla costa. Sono giochi pericolosi, ma Isaac non ha paura e non ce l’hanno i ragazzi che sono con lui, che ogni giorno alzano la posta.

Quando torna a casa è infreddolito, a volte bagnato. Si siede per terra su un cuscino rosso ruggine, vicino alla stufa. E ascolta la nonna che racconta.

Alla nonna piace raccontare. Ha gli occhi verdi come i suoi, ancora brillanti. Fuma i sigari del marito quando lui non la vede.

La nonna gli racconta il Kalevala. Il nonno ascolta, in silenzio, come lui. Una volta gli ha detto che il Kalevala è stato scritto, un secolo prima, ma che vecchio di millenni e la nonna conosce i canti antichi, tramandati oralmente da madre a figlia. Da sempre.

 

“Anche lo zio Rudolf sa un sacco di storie. Se volete dopo ce ne facciamo raccontare una.”

“Sa anche il Kalevala?” domandò Hyoga, riscuotendosi, che ancora non aveva capito che cos’era, quel Kalevala. Katja si imbronciò.

“Non lo so. Lo spero. E’ una favola?”

“Una specie,” assentì Isaac e si appoggiò al muro vicino A Hyoga. “E’ la leggenda più importante che si racconta in Finlandia. La nonna diceva che io ero come Lemminkainen.”

“Chi?”

 

Lemminkainen è un guerriero. Forte e bello e alto, seduce tutte le fanciulle della terra antica di Kalevala. La nonna gli dice che gli somiglia e Isaac ne è molto orgoglioso. Con Lemminkainen ci sono il saggio bardo Väinämöinen, nato dalla Vergine dell’Aria, e Ilmarinen il fabbro. Insieme combattono contro la crudele regina delle terre del Nord.

Isaac ama quella storia. La vive sera dopo sera.

 Lui è Lemminkainen e combatte Pohjola la crudele regina del nord quando scende al molo a sfidare i gabbiani o si arrampica sulle coste rocciose.

Isaac ama quella storia e le amerà sempre. Non può sapere che un giorno, anni dopo, Hyoga ripenserà al guerriero e alla regina quando combatterà ad Asgard. Ripenserà a lui.

Il nonno guarda fuori dalla finestra nel buio.

“Non riempirgli la testa di queste storie. Non gli fa bene.”

“Sciocchezze.” Risponde lei. “Un eroe deve conoscere le gesta degli eroi.”
Il nonno scuote la testa. “Non è un eroe. Isaac è un bambino.”

“Ma sarò un eroe un giorno, nonno! Sarò come Lemminkainen!”

Il nonno scuote la testa e guarda fuori dalla finestra, nel buio.

 

“E adesso lo diventarai. E’ un sogno che si avvera!” Katja  spalancò gli occhi lucidi d’emozione e socchiuse le labbra. Guardò Isaac a lungo, poi Hyoga. Istintivamente rabbrividì.

Sarebbero diventati come Camus, maghi del ghiaccio, evocatori delle fate della neve. Per un attimo le parvero diversi da lei in una maniera quasi dolorosa.
Per un momento, ebbe paura.

“Non sarei venuto in Siberia se fosse stato per il nonno.” Spiegò Isaac. “Lui voleva che rimanessi a Oulu. Che vivessi lì, immagino. E invece…”

“Invece?” Hyoga ruppe l’atmosfera pesante, rannicchiandosi e appoggiando il mento alle mani. Lui c’era capitato per caso, alla fine, lì in Siberia, un po’ come un pacco postale. E i pacchi postali non facevano paura alle bambine russe.

Isaac si girò ancora il carillon tra le mani. Fece scendere i fiocchi bianchi ancora una volta e sorrise, mesto.

“E’ stata la neve. La neve mi ha portato qui.”

 

E’ la neve. Scende e quasi soffoca Oulu, quella primavera. Ha cominciato dall’inverno e ha fermato i commerci e le attività portuali. La città si ferma: provviste vengono importate dall’intero distretto e vengono richiesti aiuti economici da Helsinki.

Il mercato del catrame, risorsa prima della città, passa nelle mani della capitale. Molte famiglie emigrano verso l’entroterra o sulla costa più a meridione.

Isaac è troppo piccolo per capire quelle cose. Lui vede solo la neve che scende, candida e malvagia. Superba e letale.

E sa solo che un giorno deve partire, senza i nonni, che sono tra i pochi a restare nella città congelata.

“Diventa un eroe, Isaac.”

“Come faccio, nonna?”

“Nel posto in cui andrai, ti insegneranno ad esserlo.”

“Ma io non voglio. Voglio restare qui.” Isaac è sgomento. Non capisce perché è necessario andare oltre. La nonna lo guarda. Non lo capisce nemmeno lei, infondo, sa solo che se resterà, Isaac morirà. Ma Isaac non deve morire, non è vero?

“Non vuoi diventare un eroe, Isaac? Non vuoi diventare forte come Lemminkainen?”

Isaac esita. Certo che vuole. Però…

La nonna si guarda alle spalle. Cerca il marito e non lo trova: gli ha detto che manderà Isaac a vivere da dei conoscenti lontani, in Russia. Ma non è proprio vero. Sospira di sollievo, quando non lo vede. Si mette in bocca un sigaro rubato, con le vecchie mani tremanti.

“Isaac.” Gli dice, mentre lo guarda “Isaac, tu devi andare. E qualunque cosa succeda, devi sopravvivere e poi vivere. Forte, come Lemminkainen. Come un guerriero.”

Isaac annuisce ma è preoccupato, perché la nonna non gli è mai sembrata tanto vecchia e fragile come in quel momento. Come se un fiocco di neve la potesse abbattere, come quello che le cade sulla punta del naso, lì nel giardino.

La nonna non viene abbattuta, ma non per questo sembra meno debole.

“Vedi, bambino della nonna, nel mondo ci sono cose belle e ci sono cose brutte. C’è bellezza nella tua terra, che è forte e ruvida come te e come Lemminkainen. Non c’è nelle persone che hanno in mano il potere e che costringono i vecchi a piegare la testa, quando non hanno più forze per lottar, i bambini ad andare via.”

Isaac spalanca gli occhi e quelli della nonna mandano un lampo duro, come di vecchia lince delle nevi. Occhi verdi dentro occhi verdi.

Isaac ha solo sei anni, è troppo piccolo per capire che la neve ha fermato i commerci e le attività portuali; che il distretto ed Helsinki chiedono tributi per le provviste e gli aiuti portati ad Oulu; che il catrame, risorsa prima della città, passa nelle mani della capitale, lasciando la sua gente stremata, senza forze.

Però qualcosa passa da occhi verdi ad occhi verdi: un lampo come di lince delle nevi e Isaac si sente impotente e pieno di rabbia, pieno di voglia di stringere la sua nonna vecchia e stanca. E lo fa.

“Diventerò come Lemminkainen, nonna. Sarò forte. E tutte le ingiustizie io le cancellerò. Ogni tasca vuota, io la colmerò.”

Lo dice aggrottando le sopracciglia, con la sicurezza assoluta di un bambino. La nonna trema davanti a tutta quella forza. La nonna che conosce a memoria tutto il Kalevala e tanto altro. La nonna che conosce mondi segreti.

Che conosce il Mondo Segreto.

Che con il cuore che si spezza lo mette nelle mani di un emissario di Atene e lo guarda andare via.

“Non farli disperare, Isaac, comportati bene,” gli grida dietro e affonda i denti nel labbro inferiore, arido. Anche il nonno lo saluta. Crede che vada da dei conoscenti in Russia.

 

Anche Katja si morse le labbra. Aveva gli occhi enormi e brillanti mentre lo guardava, emozionata. Voleva dire qualcosa ma non ce la faceva. Non osava.

Se Rudolf avesse saputo che bastava quello per placare il chiacchiericcio continuo della nipotina, probabilmente avrebbe preteso Isaac come ospite fisso, lì alla locanda.

Invece fu Avrora a bussare ed entrare.

Vide lo sguardo della figlia e quello dei bambini suoi ospiti e per un momento rimase sulla soglia, incerta.

Isaac lasciò cadere il carillon sulla coperta soffice e Natassia nella sfera e nella neve, finì di nuovo a testa in giù.

La musica, quella musica dolce e arrugginita, si incagliò per poi smettere: Avrora si riscosse, fece un sorriso ed entrò. “Siete ancora svegli? E’ tardi, ormai. Avanti, a letto.”

Sollevò le coperte e li fece mettere giù, sua figlia e quei bambini che non le appartenevano. Spense la luce e diede un giro di chiave al carillon, nello stesso istante in cui, in un’isba nella neve, Milo si svegliava e raggiungeva Camus alla finestra.

 Eccomi! *O*
Perdonate, perdonate il ritardo, ma l'infanzia di Isaac mi ha ammazzata. La Finlandia è complicata! çOç
Shinji: Grazie per i complimenti! Ovviamente ritengo l'IC importantissimo, quindi ogni commento e dritta in tal senso è più che apprezzato. In particolar modo dare un background a Isaac questa volta è stata una faticaccia. Spero di essere riuscita nell'intento. Aspetto di sapere la tua opinione. E quella degli altri, naturalmente.
SaoriLavigne: XDDDDD pucci, ma povero Seiya dai. çOç
Hyogachan: Non preoccuparti. XD Per quanto riguarda l'interazione dei personaggi è un discorso a parte, vedrò come svilupparlo di capitolo in capitolo, ma mi piace che si mescolino.
RenChan: çOç Anch'io ti amo, tomoyo.
war: Santo cielo! Grazie! E' davvero un onore per me sapere di averti fatto amare un personaggio che prima apprezzavi poco. çOç Un bacio! *sventola bandierine per Camus*
Engel: stesso discorso che vale per war: onoratissima, grazie çOç Io apprezzo molto lo yaoi come genere, al contrario, soprattutto in Saint Seiya, ma proprio per le sfumature e la sottigliezza dei rapporti tra i protagonisti. Sono davvero contenta che ti sia piaciuta. Spero di continuare a non deluderti. Un bacio anche a te.  ...e concordo sul ben di Dio, comunque. XD
Damaris: mia adorata XD Inutile dire che ti ringrazio davvero per la lettura particolareggiata dei miei capitoli. Ogni volta aspetto con piacere infinito la tua recensione. Grazie soprattutto ai complimenti per la scena di Camus e Milo. çOç ci tengo moltissimo a loro, non c'è bisogno di dirlo, e ogni volta che cerco di renderli è come mettersi a maneggiare cristallo: ho sempre paura di romperli. Anche a te ringrazio per i commenti sull'IC, servono sempre. Se mi vedi sgarrare, bacchettami! è_é   Ancora grazie per le belle parole e la presenza costante.
eli0023: grazie infinite! çOç Ti aspetto ancora!
Manila: Grazie davvero. La tua recensione mi ha riscaldata moltissimo. Sono davvero felice che il capitolo ti sia piaciuto: amo moltissimo Milo e Camus e sarebbe atroce volgarizzarli. Se quello che mi hai scritto è quello che hai percepito, non posso davvero che esserne più che contenta e ringraziarti di cuore. Spero di vederti presto.

RISPONDENDO ALLE RECENSIONI PER "Diamond Dust, Milo":
Rispondo qui, eh. é_è Scusate, di là non so come fare.
lili88: grazie tante! Felicissima che l'idea ti sia piaciuta! Un bacio!
RenChan: ...assolutamente ad personam, Camus. é_è Non mi permetterei mai <3
Snow Fox: Grazie del passaggio, spero di vederti ancora! ...si, sono quasi canon Milo e Camus! çOç Sono adorabili, guarda. çOç Un bacio!
Damaris: Che dire? çOç Grazie. Sempre deliziata! ...beh, si. Il fatto che Kurumada non si sia soffermato sui dettagli amorosi è una semplice coincidenza. XD L'infanzia dei Goldies è un mistero affascinantissimo çOç
franky: XDDD beh, grazie! Felice che ti sia piaciuta! Beh, Milo...! XD
Engel: Grazie dei complimenti, dolcissima. Se Milo e Camus diventano il mio marchio di fabbrica, sarò più che felice di fare gli straordinari çOç 
Syria: Grazie. ^^ complimento apprezzatissimo.
SaoriLavigne: XDDDDDDDDDDDD cretina. XD Ti amo.
Kijomi: Se hai voglia di litigare non hai che da chiedere, Pisces. >_> Hah.  ( çOç grazie amorino. Lo sai che senza di te, in ogni caso, scriverei la metà. )
Athena: Grazie tante. Davvero felicissima che ti sia piaciuta. E grazie per i complimenti graditissimi! çOç *commossa*



Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Come il Bianco ***


CAPITOLO: Come il Bianco

PERSONAGGI: Camus, Milo, Isaac, Hyoga. Poi: Vachtangov, Katjia

IN PROPOSITO: Milo parte, con rammarico. Isaac e Hyoga tornano da Camus. Tutti ammirano ghiacciai.

COSE: Il monologo di Vachtangov, ci tengo a precisarlo poichè è cosa buona e giusta, non è mio. E' di Vachtangov, appunto. Si tratta di parole vere e appuntate, giunte fino a noi. E ditemi che non sono bellissime.

Per quanto riguarda i monti Verchojansk, invece: l'idea appartiene alla magnifica Ren-Chan, il mio Camus. Potete ammirarla in tutto il suo splendore nella sua Polvere di Diamanti che vi consiglio con tutto il cuore. A voi.



Milo uscì nella luce bianca e accecante e rabbrividì. Tentò di fare rapidamente marcia indietro verso il tenue calore della stufa, ma trovò la mano di Camus che fece resistenza sulla sua schiena e lo spinse in avanti.

“Su, Scorpio. Non si indietreggia davanti al nemico” disse, ma gli angoli delle sue labbra erano vagamente tendenti verso l’alto. Milo riconobbe il tono divertito, ciononostante sbuffò rumorosamente producendo davanti a sé una consistente nuvoletta di vapore.

Ne rimase quasi sorpreso.

“Ma fa freddo...”

Camus non disse niente, ma, rapido, mosse le dita eleganti a mettergli a posto la sciarpa pesante che aveva tirato fuori dall’armadio per lui. Poi lo spinse ancora avanti, in tutto quel calmo candore gelato. Guardò e sembrò che la terra sfondasse il mare e il cielo, sbriciolando i punti di fuga. Come se non esistesse null’altro che quel bianco.

Il Bianco.

La forza divina della Giustizia senza macchia, la forza ancestrale cui avevano giurato fedeltà. Si girò con un mezzo sorriso e lasciò che lo affiancasse. Camus gli infilò sulla testa un cappello.

“Grazie. Ma non ce ne era bisogno, stavo proprio per bru…”

“Tu non brucerai il Cosmo, Milo di Scorpio. Non qui.” Tagliò corto Camus dell’Acquario e Milo, con i guanti, la sciarpa e il cappello, scoppiò in una risata energica e giovanile che accarezzò tutta la pianura bianca e senza macchia.

“Oh, smettila! Con te non si riesce mai a stare seri!”

“Cosa volevi farmi vedere?” Lo interruppe Milo, osservando che i propri piedi non lasciavano più impronte su quella lastra spessa e gelida di ghiaccio compatto sotto di sé.

Camus alzò un braccio, coperto appena da stoffa sottile sferzata dal vento e i suoi capelli – rossi come sole che arde al mattino- vennero coinvolti in una danza spietata. Il Santo di Scorpio seguì la direzione indicata.

Dal principio non vide niente, in tutto quel bianco accecante. Poi, man mano, tra il cielo, la terra e il mare, candidi e forti, scorse una sagoma leggera. E più la guardava più la vedeva meglio, come se una matita impalpabile la stesse tracciando sotto i suoi occhi, su di un foglio pulito.

Era una parete impervia, quella che emergeva dal bianco. Con i suoi contorni rigidi e spigolosi, con le insenature tagliate dal vento. Con la sua mole imponente e maestosa. Come un re e come un dio.

Come il Bianco.

“Sono i monti di Verchojanks.” Li riconobbe.

Non che li avesse mai visti, prima, in verità. Eppure li riconobbe, come si riconosce un vecchio amico di infanzia – come Aioria, per esempio – come si riconosce la propria terra.

Camus lo guardò, mascherando lo stupore.

Erano i suoi monti Verchojanks. Erano quel dio immanente e trascendente che gli era stato detto di prendere a modello, durante gli anni del suo addestramento, di cui gli era stata additata la superba fierezza. La fierezza della giustizia implacabile, del gladio che punisce e protegge, del Bianco.

Camus, da bambino, aveva guardato i monti Verchojanks e su di essi aveva modellato la propria anima.

“Come lo sai?”

 “E’ così che li ho immaginati.” Milo si strinse nelle spalle e in pratica affondò dentro la sciarpa.

“Quando è stato, che te ne ho parlato?” Camus sembrò turbato. Aveva la sensazione di essere fragile e vulnerabile quando faceva confidenze simili.

“Non ti ricordi? E’ stato all’alba che ha seguito la Notte degli Inganni. Dopo quelle ore che misero a ferro e fuoco il Santuario tu mi hai raggiunto e hai detto…

 

…non farti prendere dallo sconforto.” Isaac appoggiò le mani sulle spalle di Hyoga. “Non ce ne è motivo.”

Il bambino biondo alzò lo sguardo a incrociare quello dell’amico. Lo studiò a fondo, come per capire se davvero diceva la verità o se gli stava mentendo. Gli occhi di Isaac erano verdi e limpidi e nessuna menzogna ne ombreggiava la bellezza. Hyoga annuì.

Katjia li aveva accompagnati per un po’, nel candore abbagliante della pianura e adesso li stava salutando ridendo dalla collina ghiacciata, che aveva scalato con l’agilità di una lince. Se la ragazza fosse stata con loro, Hyoga non avrebbe mai avuto quell’attimo di debolezza.

Isaac si girò a guardarla e le sorrise. Hyoga agitò la mano nella sua direzione, Katija fece lo stesso, poi scomparve nel Bianco tutt’attorno.

“Devi concentrarti ed essere forte: il maestro Camus dice che non c’è niente come la forza del ghiaccio e niente di più puro della neve, fredda e bianca. Credi di capire? Grazie agli insegnamenti del Maestro, diventeremo Santi di Athena.”

Lo disse con una tale sicurezza che Hyoga ebbe la certezza di esserlo già un Santo di Athena. Di quell’Athena lontana e misteriosa. Fredda. Bianca. Come la neve.

Gli occhi verdi di Isaac mandarono  un bagliore che il piccolo Hyoga aveva già visto in quelli di Camus: era un bagliore di una forza così limpida e pulita da far credere davvero che non esistesse altro al di fuori di quella.

Nonostante non ci fosse più la mama, nonostante ci fosse solo freddo pungente.

Sbatté le palpebre.

C’era come qualcosa che cercava di ricordare e che afferrava in quello sguardo fiero, nello sguardo di Isaac e nello sguardo del Maestro Camus.

Era qualcosa che – tempo prima – aveva ammirato con la bocca socchiusa e gli occhi spalancati, in una cantina di Mosca, e che gli aveva fatto giurare a sé stesso, con la certezza tipica dei bambini, che sarebbe stato forte per sempre e che non si sarebbe arreso mai.

 

Il vecchio Vachtangov non ha l’andatura malferma né le gambe fragili. Nonostante il suo petto esile sia sconvolto dalla tosse e dai singhiozzi – sempre più di recente, in quelle fredde notti di Mosca, e Hyoga lo sente se talvolta si sveglia, rannicchiato contro Natassia –  si aggira sul palco come una belva, fiera e forte, tra i suoi attori che recitano stanchi e senza energia. Si volta con gli occhi fiammeggianti e Igor fa un passo indietro, verso la scenografia dorata.

Hyoga deglutisce: anche se lo vede di spalle, immagina quale sguardo abbia rivolto a Igor e quindi si fa piccolo e tace, sui cuscini.

Vachtangov li sta guardando tutti così, i suoi giovani, i suoi attori, e solo quando quello sguardo feroce e freddo passa anche su Natassia, sulla sua mama esausta che prova quello spettacolo dall’alba, Hyoga si raddrizza, ma non osa trotterellare fino da lei: il vecchio Vachtangov sta per dire qualcosa. E non si può interrompere il vecchio Vachtangov, mai, come non potrà, in seguito, interrompere Camus. Mai.

“Voi fingete!” urla allora agli attori spauriti e attoniti. Il vecchio Vachtangov è prossimo alla morte e forse lo sa, ma grida forte e chiaro, a farsi ascoltare e ascoltare bene: "Fingete una detestabile falsa modestia! tenete le spalle basse come se foste stanchi di avere recitato, con sorrisi di scuse sul viso! ‘Siamo così umili, così insignificanti’, dicono i vostri sorrisi. ‘Perchè ci applaudite? Non l'abbiamo meritato... Non siamo degli artisti, siamo entrati nel teatro semplicemente così, per recitare un poco... e il motivo per cui ci applaudite non lo sappiamo. Scusateci...!' che ipocrisia! Che incomprensione della responsabilità dell'artista di fronte al pubblico! Ma in realtà siete degli ambiziosi, sicuri di voi ed egoisti, infinitamente egoisti! Una volta per tutte, che questo non si ripeta più tra le mura del nostro teatro! Bisogna avere il coraggio di venire a salutare il pubblico come in una parata militare, severi e solenni, in modo elegante e variato. Senza far sorrisi e riverenze all'intero teatro come ballerine. Voi dovete avere il vostro modo di congedarvi al pubblico, con dignità, rispettando voi stessi e gli spettatori. Forse che Salvini dopo avere recitato Otello di permetteva di mostrare la propria fatica? veniva a salutare fresco e riposato come se fosse pronto a recitare la sua parte ancora dieci volte sempre con la stessa passione e lo stesso temperamento. E come lo si acclamava! 'Bis! Bis! Bravo!' A voi nessuno chiederà mai un bis. Come far recitare ancora questi parenti poveri del teatro, questi disgraziati esauriti! A stento riusciranno a tornare a casa, poveri piccoli. Che vergogna. Ora ripeteremo solo i saluti. Cento volte.”

 

Hyoga serrò le labbra e deglutì amaramente. Quando riportò lo sguardo su Isaac, lo vide sorridere. Evidentemente, nei propri occhi, doveva esserci adesso la stessa forza implacabile e pulita. Cento volte.

“Guarda.” Isaac gli tenne una mano sulla spalla mentre si girava verso il cielo candido. Sulle prime Hyoga non vide niente, poi cominciò, poco a poco, a mettere a fuoco qualcosa davanti a sé, come se una matita impalpabile la stesse tracciando sotto i suoi occhi, su di un foglio pulito.

Era una parete impervia, quella che emergeva dal bianco. Con i suoi contorni rigidi e spigolosi, con le insenature tagliate dal vento. Con la sua mole imponente e maestosa. Come un re e come un dio.

Come il Bianco.

“Montagne?” domandò Hyoga, osservando la forma familiare del grande ghiacciaio, adesso che lo distingueva bene, come se a nominarlo fosse semplicemente uscito dall’uniforme candore della terra e del cielo.

“Sono i monti Verchojansk. Sono i monti che il Maestro Camus vuole che guardiamo come esempio per le nostre vite.”

Hyoga osservò le montagne con occhi diversi, adesso. Li guardò per amarli e per capire come somigliare loro. La strada del ritorno all’isba divenne meno importante, adesso, anche se era un bambino fermo nel freddo. Adesso c’era da spalancare il cuore alla maestosità di quella bellezza altera che li guardava di rimando, a strapiombo sul mare.

“Ha detto così?”

“Hyoga, qualunque cosa accada, promettimi che sarai forte come quei monti.” Isaac quasi lo pregò, senza sapere cosa c’era di triste nel suo cuore ma intuendolo. “Io lo sarò per te e per il Maestro e tu devi fare lo stesso.”

Hyoga lo guardò, grave, e annuì. Pensò che il vecchio Vachtangov aveva sicuramente visto i massicci Verchojansk  e aveva voluto essere come loro. Allora sciolse l’ombra sul suo viso e appoggiò allo stesso modo una mano raggelata sulla spalla dell’amico, di fronte a lui. “Sarò forte per te e per il maestro Camus”

“Come quei monti.” Insisté Isaac “Che sono sempre forti e magnifici, che si stagliano nel cielo senza indietreggiare e…

 

…senza permettere che nulla di quello che succede loro intorno possa abbatterli o scioglierli.”

Si alzò un vento freddo proveniente dalla tundra e Milo si avvicinò di più a Camus, riparandolo, lui che aveva i guanti, la sciarpa e il cappello.

“Ho detto così, Milo?” Camus aveva lo sguardo lontano di chi ricorda giorni perduti, come doveva averlo avuto Hyoga nel ricordare Vachtangov, e - come Hyoga -  porse quella stessa domanda: “Ho detto così?”

Milo tacque, anche se avrebbe voluto confermare molte cose, come, ad esempio, erano stati utili anche a lui quei monti immaginari dopo la notte che aveva strappato al Tempio Aioros e Saga. Come sempre, però, si sbriciolava tutto sulle sue labbra prima di poter uscire davvero, quando si trattava di dire ad Aquarius cose importanti.

In un tentativo, si sporse in avanti e appoggiò allora quelle proprie labbra mute su quelle di Camus, per schiuderle piano, fino a che lo sentì rispondere al bacio.

Poi ci fu silenzio, a lungo, e si guardarono in mezzo a tutto quel bianco e a quella forza rigida della Siberia, che alleva i suoi figli selvaggia e rude.

“Adesso vai. Presto saranno qui.”

Camus fu di poche parole. Ma, infondo, delle parole si poteva fare meno e il sorriso che ebbe sciolse per un momento tutto il ghiaccio di Peveck.

Milo lo guardò, indugiando ancora, come ad imprimere i suoi tratti nella mente e sotto i polpastrelli delle mani, nonostante li conoscesse già a memoria, che staccarsi in quel finale era troppo difficile.

Ma erano Santi di Athena, lui e Camus, e non erano certo per le cose facili.

Così si allontanò, senza più girarsi, mentre dalla parte opposta due bambini si avvicinavano arrancando nella neve.

Un viaggio di dieci giorni e la permanenza di una notte soltanto: Milo non mise mai in dubbio quanto ne fosse valsa la pena. Era come combattere una vita per un solo lampo di vittoria.

Come rinunciare a tutto in nome della Giustizia sulla terra.

Come guardarsi dentro e scoprire di avere vissuto per quello che conta davvero.

Come il Bianco.

 

Molto bene: in quanto a voi. Gh.

Eli0023: Grazie >O< Ti aspetto e ti abbraccio forte.

War: çOç Mi hai commosso, con la tua recensione. Sapere di rendere in maniera sufficiente la psicologia infantile di due creature con un peso simile sulle spalle è davvero da ritenersi un grande complimento. Grazie.

Shinji: oh, grazie davvero per le tue parole. çOç Un altro che mi ha davvero commosso. çOç La sensazione un po’ così, agrodolce, è quella che volevo esprimere, è delizioso che sia arrivata. …sei sempre gentilissimo, un bacio!

Ren_Chan: E’ mio figlio quanto tuo, tomoyo! èOé  …ho fatto del mio meglio per creare un background accettabile, e lo sai che tutto quello che passa per l’adorabile famiglia dei ghiacci ha le mani in pasta con te. Sei un Gold Saint preziosissimo. çOç <3

Hagaren: Accidenti. E’ la volta buona che scoppio in lacrime. ;O; Grazie. Quella che mi hai detto è una cosa bellissima, mi sento quasi in imbarazzo. Ti stringo forte, e spero di vederti ancora.

Damaris: TU. Sì, TU. E le tue analisi. çOç Stupende. Fai sembrare il mio lavoro di gran lunga migliore di quello che è . ;O;  Non so davvero come ringraziarti per ogni recensione che mi lasci, sono piene di spunti anche per me, che devo continuare il lavoro, e di gratificazioni per quello che è stato scritto. Ti stringo. ;O;

HyogaChan: Anch’io li adoro! çOç E’ stato giocoforza, per Isaac. Ho dato un’occhiata alla cartina della Finlandia, e ho cominciato ad immaginare cose che avrebbero potuto più o meno essere plausibili. Ma mi ha fermato per un sacco di tempo il mettere a punto qualcosa XD Grazie davvero. Un bacio!

Snow Fox: Oh! L’hai letta tutta insieme! çOç Grazie! Mi hai davvero riempita d’orgoglio. Continuo e spero di non deluderti. >O< Bacione!

Manila: Grazie anche  a te, la tua recensione era semplicemente adorabile, mi hai sciolta dentro. Prendo i complimenti e ti ringrazio e spuccio insieme agli altri. Dolcissima.

Engel: Lo stesso vale per te: mi hai intenerita e fatta arrossire. Io adoro letteralmente Isaac. Non lo preferisco a Hyoga, semplicemente perché li amo entrambi con molta enfasi, e li capisco tutti e due. Di certo Isaac, delizioso com’è, non sarà svalutato o lasciato morire come personaggio: data la sua fine piena di eroismo e bellezza, ho intenzione di fare di tutto per dargli la completezza che si merita! èOé «« *si esalta*


RISPONDENDO ALLE RECENSIONI PER Bellezza è Verità, Verità è Bellezza

Ren-Chan: ç*ç Ti amo.

Shinji: Ti ringrazio dei complimenti. Caratterizzare psicologicamente Aphro e Des è sempre una sfida. Per fortuna ho degli ottimi modelli. E anche degli splendidi recensori, come te. ^__-

Eris_San: Grazie davvero, io ti aspetto sempre. Sì, credo che Aphrodite e DeathMask siano assolutamente complementari nel pensiero e nei modi, creando quell’unico di cui entrambi hanno bisogno. E insieme li trovo stupendi. XD

IrishBreeze: Inizio subito dicendo che i complimenti a quella tua deliziosa raccolta di drabble erano d’obbligo: te li rinnovo, sono delle chicche dolcissime. E spero che qualcuno ci butti più di un occhio, insomma.

In quanto alla mia fanfiction, non posso che ringraziarti dei complimenti, commossa: addirittura ogni frase. çOç sono felice del tuo pensiero a riguardo, davvero.  Per quanto riguarda Kurumada, sì, confermo: li ha trattati davvero male. E non solo in Hades, povere creature. E mi sembra assurdo dato l’altissimo potenziale di carattere e drammaturgico che hanno due personaggi come questi. ò__o  Spero di vederti ancora e presto! Bacio.

Kijomi: Davvero, tesoro. çOç Io ti voglio bene. Anche se SEMBRA che faccio quello che faccio per ucciderti o farti del male, ti assicuro che si tratta soltanto di una tua impressione. Io ti amo. E ti amo davvero. çOç  Phro, è per te. Goditela. *con sadismo, lo sa benissimo che sta rileggendo Keats. Milo GHIGNA*

PerseoeAndromeda: Ti ringrazio davvero dei complimenti, è bello trovarti. Come ho detto li amo moltissimo, questi due, e sapendo quanto li ami tu, sono contenta di sapere che ti sono piaciuti ^__-

 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Come un fiore ***


CAPITOLO: Come un fiore

PERSONAGGI: Camus, Hyoga, Isaac.

IN PROPOSITO: Hyoga scopre che cos'è il cosmo. E lo farà soffrendo. Più o meno come chi leggerà, che si beccherà a tradimento un flashforward che ha ammazzato me. Ma non posso mica sofrire da sola òOç

COSE: Scusate il ritardo. Questo capitolo mi ha ammazzata. Un po’ per quello che c’è dentro, che a me fa malissimo, un po’ perché a metà lavoro il mio computer è morto e ha MANGIATO il capitolo. Così ho dovuto aspettare che risorgesse e ricominciare da capo con una buona dose di frustrazione.

Nonostante il lavoro perduto – e, si sa, i lavori perduti sono sempre meglio di quelli che rimangono – sono abbastanza soddisfatta di quello che ho rimesso insieme. Se non lo fossi, adesso non sarebbe qui. Perdonate il ritardo, confido in voi. çOç
Le parole usate nei dialoghi sono il più fedele possibile a quelle usate nell'anime e nel manga. A gusto personale, ho scelto di volta in volta.


 



Niente a che vedere con il cielo cangiante di Peveck, quello di Atene sopra all’Undicesima Casa. Hyoga alzerà il viso nel vento tiepido, sotto le stelle di una notte appena calata, e incontrerà lo sguardo di Camus, muto e fatale. La seconda volta che lo vede, quel giorno, e sarà come la prima.

“Andate avanti”. Lo dirà a Seiya che esiterà, fissando Camus ostile. Lo dirà a Shun che non vorrà lasciare il suo fianco. Lo dirà con gli occhi freddi, ma ancora umidi per la perdita recente di Shiryu. “Non voglio essere ostacolato da nessuno, nemmeno da voi, andate avanti. Mi è impossibile trovare le parole giuste per ringraziarlo, per quello che il maestro Camus ha fatto per me in Siberia. Quindi voglio dimostrare la mia gratitudine non con le parole, ma con i fatti. Andate avanti. Andate avanti. Andate avanti”.

 

Isaac spinse la porta e si buttò fuori, nella luce e nella neve.
”Piano.” Lo riprese Camus “Rientra in casa. Iniziamo qui, oggi”. Isaac lo guardò stupito, ma non disse nulla. Era pur vero che si era svegliato di ottimo umore, ma nemmeno nei sogni più fiduciosi aveva sperato di evitare la tormenta che frustava il mattino. Cosa voleva fare Camus?
Isaac non disse niente, ma Hyoga, seduto a terra ad infilare gli stivali morbidi, diede voce alla domanda.
”Perché, maestro?”
”Da quanto tempo siete qui?” Camus a volte lo faceva, di rispondere ad una domanda con un'altra domanda.
”Da un anno?” tentò Isaac, chiudendo la porta sulla tormenta del cielo cangiante di Peveck, e tornò sui suoi passi. Hyoga era lì da meno, ma tacque. Il tempo in Siberia ha quella consistenza rarefatta che lo fa sciogliere e scomparire, e un mese o un anno non ha più importanza.

 

Difficile rompere quella distanza. Shun lo farà, seguendo Seiya: oltrepasserà Camus e girerà lo sguardo indietro, verso Hyoga, e Hyoga sarà là, ancora alla base della scalinata, a guardare non lui, ma Camus, tutti e due nel vento tiepido di Atene che si farà freddo, tra loro, come Polvere di Diamanti.

“Maestro Camus!” Hyoga griderà  e Milo all’Ottava Casa girerà istintivamente il viso, verso la vetta. “Combatterò contro di lei utilizzando tutti i suoi insegnamenti, e questa volta la sconfiggerò!”
”Bene”. L’unico movimento di Camus sarà quello ondeggiante e dolce dei suoi capelli e del suo mantello, intorno alla figura altera. “Vieni, Hyoga”.

 

“Vieni, Hyoga”.
Il bambino si avvicinò e prese in mano la pietra sfaccettata che Camus gli porse. Isaac guardava da poco lontano, sulle labbra il sorriso obliquo di chi la sa lunga: aveva già fatto quel esercizio, lui.

“Ascolta: lo Zero Assoluto è la temperatura a cui ogni cosa congela all’istante” iniziò Camus, “cioè una temperatura pari a -273,15 gradi Celsius. Capisci?”
Hyoga ricordò le lezioni scolastiche all’orfanotrofio, in Giappone. Gli avevano spiegato che esistono cifre positive e cifre negative sulla lunga linea dei numeri. Quelle positive erano a destra dello zero, quelle negative a sinistra e, per distinguerle, avevano un meno davanti. Più si andava a sinistra, sulla linea dei numeri, più le cifre diventavano grandi, immense. Più si andava a destra e più diventavano piccole. Immensamente piccole. E così era per tutte le grandezze, anche per la temperatura. Caldo sopra lo zero, freddo sotto. Annuì con vigore. “273,15 gradi sotto lo zero, maestro”.

“Bene. Ora, tieni a mente: a questa temperatura ogni cosa si arresta”.
Hyoga si fece serio. Ecco, adesso le cose si complicavano.
Camus, dopo una breve introduzione, aveva portato fuori i bambini, nella grande pianura siberiana. Adesso parlava loro nella bufera, esercitando il loro corpo e la loro concentrazione. Hyoga era consapevole che la temperatura di tutto ciò che lo circondava fosse molto al di sotto dello zero, ma a giudicare dalla neve che lo frustava con ferocia e gli vorticava addosso, non se la sarebbe sentita di affermare in tutta sicurezza che il mondo fosse vicino ad arrestarsi. “Si arresta.” Ripeté, tuttavia, desideroso di afferrare la lezione del maestro. Solo, lo fece con così scarsa convinzione che a vedere la sua faccia Isacc rise, nel vento e nella tempesta furiosa.
Camus sospirò.
”Isaac, ti ricordi quando ti ho detto che tutte le cose sono formate da atomi?”
”Sì”. Isaac era pronto e snocciolò il concetto con una scioltezza che Hyoga ammirò. “I sassi, i fiori e anche i nostri corpi. Tutto è formato da atomi”.
Hyoga socchiuse le labbra: i sassi, i fiori. Guardò la pietra che Camus gli aveva messo tra le mani. Seguì una breve lezione su cosa fosse un atomo. Sul suo nucleo e su ciò che a esso vorticava intorno. Come un piccolo universo, l’atomo. Come un cosmo.
”Ogni atomo si muove in modo disordinato. La temperatura è la misura che mostra quanto energetico sia il movimento di un atomo: se l’atomo si muove velocemente la temperatura si alza, se si muove lentamente, si abbassa.”
Hyoga cominciava a capire: su e giù per la linea dei numeri. Giù fino a -273,15 e il mondo si ferma.

“Capisci, Hyoga?” Camus tornò su di lui. Gli smosse i capelli, ricoperti di neve, e si chinò in modo da poterlo guardare negli occhi. “Significa che se vuoi congelare qualcosa è sufficiente fermare i suoi atomi. Non spezzarli, badate bene”. Si rivolse ad entrambi i bambini, osservandoli con l’espressione grave di chi è bravo a mantenere la suspance in una fiaba. Prese dalle mani di Hyoga la pietra e Isaac si fece attento, sporgendosi di più verso il suo maestro.
La pietra brillò di luce bianca, raccolta come un fiore tra le sue belle dita eleganti e Hyoga credette di immaginare soltanto quello che accadde poi.
”Non spezzarli: ma fermare il loro movimento, grazie al Cosmo”.
La pietra parve brillare, come un sasso che diventa dimante. Poi, di colpo, si tramutò in ghiaccio, ricadendo nel palmo del maestro.
Isaac gonfiò il petto, fiero di apprendere da un maestro bravo come un mago: lui ancora non riusciva a trasformare le pietre in ghiaccio, ma già le faceva brillare sulla superficie sfaccettata. Hyoga si accorse di avere spalancato la bocca per la sorpresa solo quando il vento gliela riempì di neve.
Nella bufera che non si placava, Camus mise una seconda roccia nelle mani dell’allievo più giovane.
”Adesso prova tu.”

“Anche la gamba destra è congelata”. Dolorante, i capelli biondi scomposti davanti al viso, chiuderà le mani attorno alla caviglia. “Così non posso più muovermi”.
”Hyoga”. Si avvicinerà, solenne, Camus, quasi con cautela. La Polvere di Diamanti che Hyoga ha creato e gli ha scagliato addosso, lui l’ha raccolta come un fiore tra le sue belle dita eleganti e l’ha restituita, sbattendo l’allievo contro una colonna, con forza. L’ha guardato cadere fino al pavimento, senza muovere un solo muscolo del viso. “Sai bene che la temperatura più bassa è lo Zero Assoluto, ma solo in teoria; anche per me è difficile raggiungere tale temperatura. La vittoria tra noi, sappilo, sarà di chi riuscirà ad avvicinarvisi di più. Impegnati, dunque.” Il suo tono si addolcirà impercettibilmente, ma abbastanza perché Cygnus possa sentirlo. “E’ la mia ultima lezione di maestro”.
”Devo avvicinarmi di più allo Zero Assoluto”. Ultima lezione di maestro, Hyoga la masticherà tra i denti, come si mastica la salvezza.
”Di più, forse anche raggiungerlo. Dovrai fare meglio di me”.

Ultima lezione di maestro, sarà quella di Camus, comunque vada a finire. Solleverà le braccia, le dita intrecciate. Hyoga spalancherà gli occhi azzurri. “Ah, ma quella posa è… quella è la posizione del- ”

Aurora Execution!” la voce di Camus risuonerà nel tempio, profonda e forte. L’onda di cosmo che la seguirà sarà più potente, sarà più forte. E travolgerà in pieno il cigno ferito, lasciandolo a terra, ansimante, privo di coscienza.

Camus attenderà. Qualche secondo, non di più, il tempo che per un Cavaliere, un Santo devoto ad Athena è più che sufficiente, per riprendersi. Ma non accadrà nulla.

“Il tuo attacco non poteva essere efficace su di me, Hyoga”. Glielo dirà, all’ allievo svenuto ai suoi piedi. Con rammarico, con gelida premura. “Non poteva. Ma ti faccio i miei complimenti. Per onorare la tua morte…” La voce di Camus non si incrinerà questa volta. Questa volta non piangerà, non verserà lacrime, come ha fatto solo poche ore prima. Questa volta no.  Ma terrà il viso in ombra, alzando il braccio laminato d’oro verso il cielo: “per onorare la tua morte, ti farò dono ancora una volta della bara di ghiaccio.”
Cadrà neve, nel suo palmo aperto, dove come un fiore raccoglierà l’aria congelante. Come un fiore.

Freezing Coffin!” evocherà, il mago della neve. E la tomba eterna si ergerà ancora per Hyoga, mostrando il cigno ferito come un trofeo di superiorità al suo interno.
Camus non guarderà. Gli darà le spalle, all’allievo sconfitto. Questa volta no, non piangerà.

 

“Non capisco che cos’è il Cosmo, maestro.” Hyoga trattenne le lacrime, intirizzito e rigido, affondando i denti nel labbro inferiore, la pietra dura nella carne tenera delle mani. Non si piange, Camus non vuole. “Non capisco dove si prende la forza dentro”.
Camus s’irrigidì e si fece freddo, più della Siberia. Non era arrabbiato, ma comprese con angoscia che non sarebbe riuscito ad aiutare quel bambino fragile più di così. Com’era possibile? Isaac nelle stesse condizioni, solo pochi mesi prima, aveva trovato la scintilla nel suo ventre, nella sua anima, nelle sue fibre nervose e l’aveva esplosa. Solo per un istante, come quando le pietre focaie vengono sfregate insieme, niente di più. Ma lui, Camus, l’aveva visto. Perché in Hyoga no?
”Il Cosmo è il sacro, Hyoga. E il sacro non si può dire. Cercala in te la forza che brucia con le tue stelle. Chiamala nella sua lingua, attraila. Essa verrà”.

“Non capisco.” Camus ascoltò il filo di voce che si perdeva nella tempesta. Dopo ore, Hyoga era allo stremo delle forze. Nonostante tutto, non interruppe l’addestramento, la fatica cui lo stava sottoponendo, le intemperie cui lo esponeva: ancora oltre i limiti, perché Hyoga comprendesse con il corpo quello che non si poteva spiegare con le parole. “Non capisco, maestro Camus”.
Continuando a non capire, Hyoga cadde a terra privo di sensi, nel freddo, e subito uno strato di neve crudele e bellissima lo ricoprì.
”Non ti azzardare”. Sibilò Camus più freddo ancora ad Isaac, quando il ragazzino fece per slanciarsi a sostenere l’amico.
Dopo alcuni secondi di niente, spalancando il cuore di Camus d’orgoglio, Hyoga si rialzò, da solo.

 

Il feretro di ghiaccio si spezzerà. Più precisamente esploderà, violentato dall’interno da un’energia cosmica spaventosa: dorata e forte. Assomiglierà tanto a quella di Camus che sarà più per la sorpresa che per il contraccolpo se Aquarius perderà l’equilibrio e appoggerà il fianco destro alla colonna più vicina, per sostenersi. Il feretro di ghiaccio esploderà in una cascata di frammenti di cristallo, come una supernova che conflagra nel cielo: bellissima.
”La temperatura di quella bara di ghiaccio, così vicina allo Zero Assoluto…” Camus penserà febbrilmente, in preda ad un’eccitazione turbata, alle energie che aveva convogliato nel
Freezing Coffin
“Possibile che…? C’è riuscito! C’è riuscito mentre perdeva conoscenza!”
Hyoga si alzerà dal pavimento. Tremerà come non ha mai fatto nemmeno a Peveck, nemmeno sulla nave di Natassia che affonda. Una gamba, poi l’altra, infine alzerà le spalle e la testa. E il mento alto, a guardare il maestro dritto negli occhi. A dimostrare la gratitudine non con le parole ma con i fatti. “Maestro… ho promesso che anche se non avessi raggiunto lo Zero Assoluto, avrei almeno reso la mia aria congelante simile alla tua…”

“Non può essere… hai le gambe congelate e il tuo corpo sta per morire a causa del freddo!” Camus assaporerà qualcosa di estraneo, fino a quel momento, al suo Cosmo e al suo cuore. La paura. Sottile. Per sé e per Hyoga. Lo guarderà e lo vedrà, come per la prima volta. “Dove in te è rimasta tanta forza?”
”Ho giurato di sconfiggerti, Maestro Camus…”
”Hyoga, smettila!”

 “Ho giurato di sconfiggerti!”

“Il tuo corpo non può reggere un altro combattimento!”

Aurora Execution!”
L’
Aurora Execution, il colpo più terribile del Saint di Aquarius, sorgerà come una gelida aurora dalle dita di Hyoga – dal corpo di Hyoga che imiterà quel colpo dal niente, spontaneo come un fiore -  e sfreccerà contro Camus. Sbalordito, alzerà un braccio appena in tempo, a contrapporre colpo a colpo.
Dopo l’impatto iniziale, sconvolgente, inizierà la lotta di resistenza, di Santo contro Santo. Poi, comincerà il dolore. Sfibrante.

 

“Avanti, Hyoga!” Camus strinse le mani sulle spalle di Isaac, frenando sé stesso, questa volta, dallo spingersi in avanti. Dopo un attimo in cui aveva sperato, il bambino cedeva di nuovo.
Isaac si agitò appena sotto la stretta del maestro, ma non si mosse: anche il suo allenamento, quel giorno, era stato tanto travagliato? Spostò gli occhi verdi dal viso di Camus a quello di Hyoga, abbassato come se il bambino stesse ripiegandosi su sé stesso.

“Avanti!” Camus lo incitò ancora. “Morirai se ti addormenti! E’ questo che vuoi? Non vuoi più rivedere tua madre?”
Non seppe perché lo disse. In futuro non ci pensò, ma quella futile motivazione sembrò fuori luogo sulle labbra di Camus. Però la pronunciò e Hyoga la sentì, che singhiozzò qualcosa senza lacrime e alzò il mento.
”Così, Hyoga. Bene. Muoviti, se serve, avanza verso di me. Anche il cigno che danza con eleganza nel mare della Siberia, sott’acqua sta agitando le zampe freneticamente. Vieni avanti. Vieni avanti. Vieni avanti.”
Isaac rabbrividì sensibilmente a quelle parole, immaginando sul pelo dell’acqua l’allegoria della vita e della morte. La realtà di chi deve, per diventare Santo, resistere ad una sofferenza inimmaginabile.
Hyoga mosse qualche passo, sotto quella sofferenza, poi cadde disteso di nuovo.

“No, per Athena!” imprecò, Camus, e anche quelle parole suonarono stonate alla sua figura fiera. Non se ne preoccupò minimamente. “No, per Athena! Hyoga, svegliati!”

 

“Hyoga! Hyoga, svegliati!”
Hyoga non si sveglierà. Il suo corpo non si muoverà dalla posizione, di guerriero che non indietreggia, e il suo Cosmo non permetterà all’
Aurora Execution
di cessare.
”Hyoga!”
Continuerà a combattere Camus nonostante i suoi sensi si siano già spenti, uno dopo l’altro.
”Hyoga, svegliati!”
Solo il Settimo, gli rimarrà. Che non permette all’
Aurora Execution
di cessare, feroce, tra le sue dita raccolte, come un fiore.
”Hyoga!” Camus si spingerà in avanti, e griderà oltre il rombare dei due colpi che diventano uno. “Apri gli occhi e spostati! Altrimenti l’aria congelante ti colpirà!”

Per un attimo, per un attimo soltanto, il Settimo senso abbandonerà il giovane Cygnus. Le sue braccia ricadranno ai lati del suo corpo, la testa in avanti, immobile, e i capelli soffici, innocenti, gli copriranno il viso. Camus non ha fermato il suo colpo, prima. In quell’attimo avrà il suo allievo svenuto davanti a sé, in quell’attimo di vittoria, e vorrà farlo, ma non potrà. Potrà solo guardare l’Aurora Execution correre al petto di un ragazzo privo di sensi. “HYOGA!”

Allora accadrà l’inspiegabile: solo un attimo prima dell’impatto, il ragazzo perduto aprirà gli occhi. Sarà come, per lui, abbracciare con lo sguardo la Siberia, e tra le mani, come un fiore, tratterrà il Cosmo del suo maestro. L’armatura del Cigno andrà in pezzi, andrà in polvere di diamanti.  E prima di rendersene conto, Hyoga stenderà le braccia e quel cosmo, a Camus, glielo rispedirà addosso.
Aquarius ne verrà investito in pieno.
Spalancherà gli occhi, resi enormi dalla sorpresa. Socchiuderà le labbra ed emetterà un gemito soffocato. La sua armatura sarà ormai congelata e il suo allievo l’avrà superato, raggiungendo lo Zero Assoluto.
”Sei stato grande, Hyoga” Camus sorriderà, in direzione del Cigno. Sarà un sorriso sgomento. “Vorrei lasciarti vivere. Lasciare che tu possa usare la tua forza per le cose in cui credi. Ma ormai neanch’io posso fare niente. Perdonami, Hyoga”.
Crollerà in avanti Camus, Gold Saint di Aquarius. Avrà una preghiera volta ad Athena sulle labbra per sé stesso, per l’allievo che ha affrontato e per qualcuno che aspettava, qualche tempio più in basso sulla Scala dello Zodiaco, come dalla Grecia lo aspettava in Siberia. Per la seconda volta, Milo solleverà lo sguardo verso l’Undicesima Casa, questa volta con il petto pesante e gli occhi enormi.
Si metterà a correre, su, forse, gradino dopo gradino, ma non arriverà mai in tempo.
Crollerà in avanti Camus, Gold Saint di Aquarius, senza vita.
Un solo istante dopo, crollerà anche Hyoga.

Con rabbia e amarezza, Camus lo raccolse tra le braccia.
Ci avrebbero riprovato. Domani. Quello stesso pomeriggio e ci sarebbe riuscito. Allora perché sentiva in sé la delusione allargarsi come acqua gelata?
Senza poter sapere che nel giro di sei anni appena sarebbe stato ucciso dal bambino che adesso teneva in braccio abbassò lo sguardo su di lui e impallidì: ne ebbe come una pallida, improvvisa percezione. Hyoga aveva aperto gli occhi in un’espressione determinata che Camus aveva visto solo allo specchio. Anche Isaac la vide ed ebbe paura.
Poi ci fu un’esplosione bianca e finirono tutti e tre con il sedere per terra, nella landa immacolata della Siberia, sotto la neve crudele e bellissima che corse a ricoprirli; sotto la prima, ingenua esplosione del cosmo di Hyoga.
Per la prima volta in settimane, Camus di Aquarius scoppiò a ridere.

 

”Camus. Non dimenticherò mai ciò che mi hai insegnato. Un giorno, insieme, torneremo in quella pianura ricoperta dai ghiacci della Siberia dell’Est. Grazie, maestro. Addio”.


 



war: che belle parole che hai avuto. Grazie. Sono molto contenta delle sensazioni che mi descrivi, se ti sono state date da quello che hai letto. Grazie davvero. L’idea dei monti è di Ren-Chan, il mio Camus, ci ha scritto sopra Polvere di Diamanti, che puoi trovare su EFP. Dimmi se non è magnifica.
Grazie ancora e spero di vederti prossimamente, nonostante i miei ritardi mostruosi. Sono commossa.

Rucci: Ho già pagato per tutto con quella roba che mi hai mollato a tradimento, amor mio. >_> *sta ancora soffrendo moltissimo* ma ti perdono in virtù di molte altre cose. Questa, in ogni caso, fa sicuramente più male a me che a te, tomoyo.  éOè *ABBRACCIA*
Manila: Milo rifarà le sue comparsate, di tanto in tanto, ma sta andando via. Sono felicissima di sapere che ti piace: io lo adoro. Soprattutto in coppia con il ghiacciolo all’anice, qui. Grazie per i tuoi complimenti, come sempre, ancora una volta, mi fai arrossire. Il monologo di Vachtangov è uno dei brani più belli in cui mi sia mai imbattuta. Di una fierezza sublime, trovo che si adatti perfettamente alla Siberian Family. XD Era un uomo straordinario, lui, del resto.

Shinji: Grazie, carissimo. Grazie davvero, sei sempre avvolgentissimo nei tuoi commenti. Ti aspetto sempre.
Damaris: Grazie tesoro çOç Ripeto che quel pezzo di Vachtangov è dio, dentro e fuori dal teatro, dentro e fuori dalle caratterizzazioni di personaggi. E’ meraviglioso e non ho potuto fare a meno di incastonarlo lì. Merito a lui, quindi non a me. I complimenti per il resto invece me li prendo e gnaulo con felicità çOç Grazie ancora.  Il tuo intervento sull’amicizia di Milo e Camus è meraviglioso. Come sempre sei più che preziosa. Sono ben felice quando si esalta Milo – che amo moltissimo –  e mai e poi mai vorrei si trasformasse nello stereotipo di un bagnino scemo di Baywatch, dato invece lo splendido personaggio che è. Lo stesso si dica per Camus, che ha una profondità e una bellezza che sarebbe da pazzi sottovalutare. çOç Mi impegno sempre di più per questo anche grazie a te. >***<   Grazie per ognuna delle tue parole.

Saorilavigne: Ti amo. Solo questo, davvero. XDDDDDD

SilverSaint: Grazie per i complimenti, spero di vederti ancora. Sì, Milo è andato, ma qualche comparsatina ancora la farà. ^__-  Io li ADORO insieme çOç
PerseoeAndromeda: Grazie cara, sono contenta di vederti qui >***<  Spero leggerai ancora e spero di emozionarti, se dici che è già successo. Contenta di sapere che mi leggi, ti aspetto ancora. Grazie davvero.

DarkArtist: çOç ma grazie! Il capitolo è in ritardo mortale ma c’è! Un bacio!

 

RISPONDENDO ALLE RECENSIONI PER COSA ABBIAMO DIMENTICATO?
Franky: Grazie per i complimenti, dal primo all’ultimo. Quello della buona interpretazione è sicuramente uno dei più graditi, specialmente nel caso di personaggi controversi come questi. Grazie infinite e a presto!
Damaris: *O* ma no tesoro che non tedi! Esprimiti liberamente e senza alcuna censura! çOç Di nuovo come sopra, sospiro e gnaulo per le belle parole che hai per me. Davvero grazie. Sapere che tu ogni volta leggerai mi riempie di gioia e ti aspetto sempre con ansia.  …Aioria non è un povero sciocco. Non riesco ad immaginare come si possa pensarlo: lo trovo tenero e confuso, eppure forte e teso alla purezza attraverso il sacrificio. E’ un vero eroe romantico. Aveva solo sette anni, quando è successo il casino, vorrei vedere chi lo denigra  é___è  *in qualità di Milo, difende il migliore amico*. E’ vero, Aioros è sottovalutatissimo, a mio parere. Io stessa lo sottovalutavo: capita, del resto, quando sei un icona e basta per tre serie animate, quasi quattro, e un numero consistente di volumetti manga. Ma è bastato accostarglisi seriamente per amarlo. Anche in virtù della sua splendida, luminosa ottusità. XD E Saga è meraviglioso: bello e dannato, sì, e il bello e dannato si apprezza sempre, soprattutto quando, come nel caso di Gemini, il personaggio è una voragine di fascino da esplorare. Io non capisco. Non può essere tutta farina del sacco di Kurumada, questa qua. Ma hai presente che faccia ha? Come ha fatto?
Vabbè. Saga e Aioros, comunque, vanno presi anche in coppia, ne sono convinta. Semplicemente, sono complementari. E magnifici.

Ah, Shura! çOç Shura è uno spettacolo. Uno dei più splendidi. Metteremo le mani anche addosso a lui, prima o poi.

In quanto all’infanzia dei Goldies… ci stiamo già lavorando. Vent’anni di vuoto drammaturgico su cui mettere le mani moltiplicato per dodici. Si potrebbe scrivere fino alla notte dei tempi.

Snow Fox: Tesoro! Grazie davvero di tutto, sei dolcissima. Grazie per i complimenti e le esortazioni. çOç Neve, come vedi, è arrivata adesso çOç Perdona il ritardo! çOç

Rucci: é__è <3 *si ricorda di Camus che spucciava Aioria e il cioccolato e muore* çOç Grazie dei commenti in diretta e del nostro roleplay quotidiano. Grazie. çOç <3
IrishBreeze: Oddio, grazie, Dolce Mu! çOç Adorabile, come sempre. Io sono indietro sulla produzione tua, ma aspetta che posti questo capitolo che mi ha ammazzato e corro da te.
YESSS! Aioria e Marin! *C* Quanto sono belli? *supporta quella coppia etero con tutte le sue forze*
Saorilavigne: SHAKASHAKASHAKA! *C*  *abbraccia* Grazie, amorino. Che leggi sempre e leggi tutto. >***<
Shinji: Che bellissima analisi! çOç L’oro come il Bianco. E’ vero, sai, non ci ho pensato se non a cose ultimate. E’ bellissimo avere lettori attenti come te. Grazie. Tanti baci. >**<

Therealpisces: Grazie per ogni complimento, sono estasiata. Spero di vederti ancora e di vederti presto. Un bacio grande, io continuerò.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Come miracoli di sangue e di vita ***


CAPITOLO: Come miracoli di sangue e di vita

PERSONAGGI: Camus, Hyoga, Isaac.  Poi Natassia, Avrora, Rudolph, Katja, Jacov e dei cani.

IN PROPOSITO: Hyoga nuota tranquillo e si accorge della nave su cui è morta la madre. Intanto Camus scopre in sè qualità da levatrice.
COSE: Scrivere di posti innevati migloira notevolmente il mio umore in un'estate rovente come questa.

>>> Tuttavia vorrei portare la vostra attenzione alla nuova fanfiction in produzione HEROMACHIA - PROLOGO, che stiamo pubblicando io ed altri Gold Saints. Ne siamo orgogliosissimi. <<<




Nel mare di Peveck, sotto un grosso strato di ghiaccio, c’era una nave.
Hyoga se ne accorse una mattina mentre si immergeva nell’acqua ghiacciata: la vide aprendo gli occhi chiari sott’acqua, nuotando dietro ad Isaac e guardando in giù.

Il colpo fu così forte che spalancò la bocca e bevve tant’acqua che per poco non ci annegò, nel mare di Peveck. Sbatté la testa contro il ghiaccio e rantolò fuori dalla breccia più vicina, i capelli bagnati sulla faccia.

Camus, poco lontano, in piedi sulla banchisa, spalancò gli occhi e sollevò le sopracciglia. Avanzò di qualche passo finché non gli fu sopra.
Un maestro in piedi, chinato sull’allievo bagnato che sputava acqua e sale.

“Cosa succede?”

“Niente, Maestro.”

“Non riesci a rimanere sott’acqua?” Camus si accigliò. Camus si accigliava spesso se capitava che gli allievi non riuscissero a stare al passo con gli allenamenti. Perché lui non correva: era severo, ma andava piano, con tutti gli scrupoli. E non chiedeva nulla che non fosse sicuro di poter ottenere.

Fino a quel momento non era stato deluso.

Isaac era perfetto, così simile a lui: severo ed esigente con se stesso, pronto al sacrificio, spinto verso la meta con determinazione. S’impegnava e non mollava mai, sempre dritto, senza rallentare.
Hyoga, più piccolo e fragile, aveva timore quasi di avanzare, ma lo faceva lo stesso. Cadeva e inciampava, ma si rialzava sempre. Camus era molto soddisfatto.
Aveva insegnato ad entrambi a ricercare e a bruciare dentro di loro la scintilla del Cosmo, a propagarlo nel corpo e nell’universo; a fermare gli atomi per piegare al proprio volere le energie fredde; a scaldarsi nel profondo per affrontare con la pelle nuda e non di più le acque gelide e le nevi della Siberia. Prima Isaac, giovane e fiero. Poi anche Hyoga, timidamente, aveva bruciato incandescente e ampio.
Perché allora, adesso, il bambino boccheggiava e sputava acqua e sale, senza dimostrare di poter resistere  alle dita gelide dell’acqua?

“Dunque?” domandò.

Anche Isaac era emerso, poco più in là, preoccupato e incuriosito, interrompendo l’addestramento mattutino.

“Va tutto bene, Maestro” ribattè Hyoga, ma era pallido e aveva gli occhi enormi, spalancati in cui nuotavano le iridi chiare, spaventate e senza consolazione. Aveva riconosciuto quella nave.
E non capiva perché mai fosse lì, così vicino alla riva e alla casa del suo Maestro.
Quella nave con la chiglia squarciata che lo seguiva come un mostro, ovunque lui andasse.
Quella nave che dentro aveva la sua mamma.
Camus lesse qualcosa in quegli occhi. Assottigliò i propri e in un guizzo si tuffò, immergendosi.

Sfidò le correnti e si avvicinò al relitto, combattendo contro la natura che lo voleva tenere lontano. Quando comprese, tornò in superficie, incupito, e non parlò fino al giorno seguente.

 

Milo ci aveva messo dieci giorni per tornare in Grecia.
Ovviamente aveva dato per scontato che al Santuario si fossero accorti della sua essenza, ma aveva dato altrettanto per scontato che nessuno avesse niente da dire.
Dopotutto Mu latitava da anni.

Il Pontefice non gli aveva detto nulla, a riguardo, quando era stato chiamato ad udienza al Tredicesimo Tempio. Anche se aveva fatto chiaramente intendere che non aveva approvato: un atto simile non era abbastanza grave da essere considerato insubordinazione, ma era evidente che sarebbe stato meglio se avesse chiesto un permesso, prima di allontanarsi di punto in bianco.

“Anche se non è tempo di guerra, Cavaliere di Scorpio, sento che grave è l’orizzonte” aveva detto il Grande Sacerdote, metallico dietro la sua maschera. Con distacco, come se pensasse ad altro.

Milo aveva alzato lo sguardo e aveva annuito.  Dentro di sé aveva ascoltato quella voce profonda sicura e aveva avuto l’impressione inquietante che quelle parole sarebbero state profetiche.

“Inoltre informandomi della tua partenza avresti risparmiato tempo e fatica: ho predisposto il ritorno di Aquarius a breve per il periodico resoconto dell’allenamento dei giovani affidatigli”.

Milo sentì il cuore più leggero a quella notizia.

Ma l’anima più pesante, inspiegabilmente, perché nonostante il tono pacato, la voce del Pontefice nascondeva profondità insondabili in cui egli stesso sembrava perso.

 

“Però è bellissimo quando succede, vero Maestro?”
Camus non rispose. Guardò Hyoga davanti a sé, anche se con un cenno del viso confermò l’idea di Isaac. La luce tenue delle candele creava un cerchio chiaro e dorato sulla tavola, rendendo l’ambiente intimo e raccolto.

“Perché poi il Cosmo esplode e invade tutto e raggiunge le stelle e sott’acqua non si ha più freddo! E si potrebbe nuotare tutto il giorno!” Isaac era sempre entusiasta dei suoi allenamenti. Sempre.

Hyoga si portò un cucchiaio alle labbra, mandò giù la zuppa calda meccanicamente.
Camus fece lo stesso.

Isaac li imitò, perché parlare da soli va bene, ma fino a un certo punto.

“Che buona la zuppa!” non si trattenne, però.

Hyoga deglutì un’altra cucchiaiata. Gli occhi grandi e spaventati ancora fissati nelle profondità del mare di Peveck dove una nave con la chiglia spaccata in due, come la bocca di un mostro carnivoro lo aveva seguito. Nemmeno lui disse una parola fino al giorno seguente.

 

Natassia muore, quando il suo corpo viene avvolto da acqua scura e troppo fredda.
Sente una fitta di dolore e si tiene stretta alla cuccetta della cabina in cui ha fatto ritorno.

Muore in fretta e assopendosi, perché dopo la fitta di dolore gelato il suo corpo non sente più niente. Lascia andare la copia de La Peste di Camus. E’ arrivata a pagina 41 e non saprà mai come andrà a finire. Né che suo figlio vivrà e avrà l’armatura del Cigno, un giorno.

Il mare di Siberia la lascia morire, dolcemente e crudelmente, lei che non ha Cosmo per resistere alle dita fredde dell’acqua. La culla come una bimba che dorme, nella sua tomba di lamiera.

Il mare aspetta che il relitto si posi sul fondo di rocce e di sabbia.
Natassia galleggia e nuota nella sua cabina. Fluttua nell’azzurro, come un angelo. L’acqua sfalda
La Peste
di Camus, ma il freddo intenso non permetterà alla minuscola vita batterica di divorare il corpo delicato della regina della nave. Continuerà a volare leggera, nelle correnti che entrano ed escono dalle porte di latta e ferro, la schiena contro il soffitto, i capelli sparsi, capelli di sirena.
Nel freddo e nell’azzurro, in quel fluttuare leggero come di volo, si muove attenta come in una scena del vecchio Vachtangov, la piccola Natassia.
Il mare di Siberia aspetta il relitto sul fondale. Aspetta. Poi, poco a poco,l’accarezza con le sue correnti gelide. Come se avesse lunghe dita fredde, l’accarezza. La tira, poco a poco, e la spinge. Sempre più avanti graffiando il fondale, la nave si sposta.

Apre aritmicamente la sua bocca mostruosa, che è la chiglia rotta, e avanza, lenta e inesorabile, spinta verso la costa a cercare un bambino che le è sfuggito, ma che ritroverà.

E si incastra nel fondale di Peveck, alla fine, guardando su con la chiglia che ride, perché lo ha trovato. Lo ha trovato. Lo ha trovato.

Camus si immerse e nuotò, sfidando le correnti. Quando vide la nave comprese tutto, in attimo. Ricordò la storia della nave naufragata e della madre defunta del suo giovane allievo. Rammentò le sue lacrime e se stesso, nella notte che gli diceva: “Non piangere. Non devi piangere mai più. Piangere è mostrare la propria debolezza, Hyoga, e un guerriero che mostra debolezza è un guerriero che è destinato ad essere sconfitto. Questa è la tua prima lezione. Ed è la prima che dovrai imparare”. Non aveva idea, allora, che sarebbe stata l’ultima che Hyoha avrebbe assimilato davvero.

Era tornato in superficie e non aveva detto niente. Tutta la sera e tutta la notte aveva pensato.
Aveva lasciato a metà una lettera per Milo, che lo aspettava in Grecia, per pensare.

Il fatto è che aveva avuto l’idea, come d’istinto, di chiamare a sé le energie fredde per distruggere quella nave, farla sprofondare negli abissi. L’avrebbe mandata, aveva pensato, dove non poteva guardare il piccolo Hyoga. Dove Hyoga non avrebbe potuto guardarla ed essere vinto dalla paura.e dalla nostalgia. Che un Saint non può farsi vincere né dall’una né dall’altra. Da niente può farsi vincere un Saint di Athena.

Poi aveva cambiato idea. Quello che spingeva Hyoga a volere il Cloth di Cygnus era la possibilità – quanto mai lontana – di immergersi tanto da andare a trovare la madre, a cercare il relitto nel mare del nord. E adesso quel relitto era venuto a cercare lui.

Quale motivazione sarebbe stata per il ragazzo, avere la nave tanto vicina? Uno stimolo a continuare. Un invito a non smettere di combattere. A non cedere.

Sarebbe stato come concedere alla morte di una madre di dare i natali al Cosmo di un figlio, alla debolezza di dare la forza. Un miracolo di sangue e di vita, feroce e ruvida; quella vita feroce e senza delicatezza cui lo aveva abituato la Siberia dell’Est.
Camus non distrusse quella nave quindi, con un cenno della mano, come sarebbe bastato. Senza sapere che si sarebbe maledetto per quella scelta, negli anni a venire, lasciò la nave lì, a ridere, con quella sua chiglia mostruosa e la piccola Natassia che vi nuotava dentro, come in una scenografia del vecchio Vachtangov.

Dove Hyoga avesse potuto vederla giorno dopo giorno, allenamento dopo allenamento.

 

Giorno dopo giorno, allenamento dopo allenamento, il tempo trascorse.

Hyoga si immergeva ancora insieme ad Isaac e, poco a poco, i suoi occhi spalancati avevano riacquistato una serenità apparente e i suoi movimenti erano tornati naturali.
Camus si era sentito orgoglioso di lui.

Sapeva che continuava a guardare la nave, quando nuotava per lunghi minuti sotto la banchisa, e che la pensava con amore raffermo.

Abbastanza vicina perché potesse guardarla.

Troppo lontana per poterla avvicinare.

E così sarebbe stata finché Hyoga non avesse radunato in sé la forza necessaria per raggiungerla. La forza di un Saint.

Isaac quel pomeriggio si scrollò dell’acqua gelida, una volta riemerso, e batté i piedi correndo attorno a Camus, per scaldarsi.

Camus gli spinse via dal viso una ciocca di capelli castani, con affetto burbero, e aspettò Hyoga, che arrancò fino a loro. Si scrollò come Isaac e poi si raggomitolò contro di lui.

Camus li avvolse in una coperta rozza e vecchia, ma calda.

“Bravi. Tutti e due. Ottimo lavoro” si congratulò il Maestro “Un ultimo esercizio e per oggi abbiamo finito. Dovete…”

“Maestro deiGhiacci! Maestro dei Ghiacci!”
Camus si girò verso l’orizzonte, da dove il vento aveva portato la voce. Anche i bambini si voltarono, in tempo per vedere la slitta tirata dai cani dei proprietari della locanda correre verso di loro. Una muta di quattro cani forti e una bambina piccola a dare con sicurezza gli ordini.

“Maestro dei Ghiacci! Venga, presto!”
”Katja?!” Isaac spalancò gli occhi verdi. Lui non aveva mai guidato una slitta con i cani. Di certo la bimba guadagnava punti ai suoi occhi.

Camus fece alcuni passi in avanti e il primo dei cani si fermò a pochi centimetri da lui.

“Cosa succede?”

“La mia mamma! La mia mamma sta per avere il mio fratellino! Ma sanguina tanto. Maestro dei Ghiacci, non c’è il dottore e l’ospedale è lontano. Al paese dicono tutti che lei può aiutarla!”

Hyoga spalancò gli occhi. La sua mente tornò istintivamente alla mama, e a quella nave in fondo al mare.

Isaac sollevò lo sguardo sul Maestro, e lo vide serio a studiare serio il volto della piccola, la sua agile mente vagliare la situazione. Poi, Camus avvolse meglio Hyoga ed Isaac nella coperta e li spinse entrambi verso la slitta.

“Andiamo” disse.

Il viaggio con la slitta e i cani fu rapidissimo. A Hyoga sembrò di viaggiare alla velocità della luce, dopo tutte le volte che aveva fatto quel percorso a piedi con Isaac, arrancando nella neve.

Pochi minuti dopo erano entrambi seduti accanto al fuoco ad asciugarsi con una tazza di tè fumante in mano, accanto alla piccola Katjia che non riusciva a bere il suo.

E c’era poco da chiedere che cosa avesse.
Non si sentivano grida, dalla camera di Avrora. Ma c’erano state fino a poco prima e adesso quel silenzio sembrava diabolico e innaturale.
Katjia singhiozzò. Aveva paura per la mamma e il fratellino. O la sorellina. Non sapeva chi sarebbe nato, se sarebbe nato.
Hyoga guardò dentro al tè come se si aspettasse di vedere la chiglia di una piccola nave, sul fondo del bicchiere. Isaac allungò una mano alla bambina e Katja la strinse con tutte le sue forze.

Lui le sorrise.

Camus rimase dentro la stanza con la partoriente per diverse ore.
Rudolf camminava avanti e indietro sulla porta, tenendo d’occhio i bambini e tendendo l’orecchio verso la stanza della sorella, incapace di fermarsi a pensare o a respirare.

Nessuno sapeva in quale modo Camus, Maestro dei Ghiacci e Mago della Neve stesse aiutando la donna, ma entrambi i suoi allievi percepivano il suo cosmo avvolgente donare pace e lenire il dolore. Isaac strinse di più la mano di Katja, confortante e la bimba pianse poche lacrime, in silenzio.

Le lacrime diventarono di sollievo, quando si sparse per la locanda il pianto acuto di un bambino nuovo e il sospiro esausto e felice di una donna.

Senza pensare Rudolf spalancò la porta e Katja lasciò la mano di Isaac per correre dentro.
Camus era in piedi, eretto e perfettamente tranquillo, seppure avesse le braccia lorde di sangue fino ai gomiti, l’espressione serena, come distaccata anche davanti a quel miracolo di sangue e di vita.

“E’ un maschietto” disse contenta Aurora alla figlia e ai bambini dietro di lei, rimasti educatamente sulla soglia. Teneva un fagotto piccolo e urlante tra le braccia. Un figlio di Siberia.

“Come si chiama?”

“Jacov. Come suo padre”.

Camus si lavò le braccia dal sangue, senza mutare espressione. Pensò ad una nave sul fondale gelido del mare di Peveck e ad una madre bionda e bellissima intrappolata per sempre in una cabina sommersa; pensò ad un bambino che quel giorno aveva aiutato nascere, nell’inverno e nel Cosmo.

Pensò a com’era crudele e generosa la Siberia, a donare miracoli di sangue e di vita, con violenza, senza delicatezza. La vita e la morte non erano semplicemente dovute, laggiù come in qualunque altra parte del mondo. Bisognava sudarsi anche quelli, muovendosi con la grazia e l’agilità di un cigno in mezzo al ghiaccio tagliente.


 

RISPONDENDO:
Ren-Chan:
Mi commuovo io delle due. é_è Sai quanto ami Camus. E anche quel bambino biondo, sì. é_è E te. <3
Snow Fox: Ah, ma che carina! XDDD Grazie. Sono contenta che trovi bene il paradosso. Penso anch'io che sia tenera e dura insieme, come storia, e mi sto impegnando per farla andare in quella direzione. E sono ancora più contenta di sapere che riempia i tuoi momenti di relax. Buon caffè e buona sigaretta, insieme a questo capitolo. ^__- Un bacio!
war: tesoro! çOç No, beh, la parola fine è ben lontana, ancora >_> Non credevo, in tutta sincerità che questa storia si sarebbe protatta tanto a lungo. Speravo di "sbarazzarmene" in una decina di capitoli XD invece va avanti di vita propria. Isaac c'è e ci sarà fino alla fine, per quanto concessogli dalla trama ufficiale. é_è Sono contenta che tu abbia sofferto per Camus, anche se non è uno dei tuoi preferiti: io lo amo teneramente. In quanto a Milo... beh, sì. I suoi sentimenti sono contrastanti. Ma li sto esplorando altrove, in una fanfiction a trittico che spero di pubblicare presto. é_è E' che è particolarmente dolorosa per me. ;O;
Damaris: Grazie per i complimenti, tesoro, ancora una volta. A dire il vero comincio ad abusare di quella tecnica, ma ormai ci ho incentrato  tutta la storia quindi mi comviene fare buon viso a cattivo gioco e sfruttarla XDD Mi fa piacere che tu apprezz. çOç Grazie. In quanto al combattimento all'Undicesima casa... sì. E' straziante e bellissimo. Il paradosso stesso, come la tenerezza e la durezza cui accennavo sopra, come la Siberia stessa. Immagino che questo paradosso sia alla base dell'addestramento per Hyoga come lo è stato per Camus. E' un divario che mi emoziona, questo.
Aioria e Aioros, credo - Aioros in particolare - sono personaggi che si amano o si odiano, senza troppe sfumature in mezzo. Sono feroci, nella chiarezza del loro essere delineati, come tagliati con l'accetta. Non possono essere misteriosi o maliziosi come lo è Saga, per la loro stessa natura solare, eppure è questo il loro fascino. Aioria è dilaniato e questo è il suo nodo drammatico. Ridurlo ad uno stupido che non ha capito che il Pontefice li ha soggiogati tutti è quasi avvilente. Io ho la fortuna di amarli entrambi, e amandoli si vedono meglio nei dettagli. E si amano di più ancora.
In quanto alle "storie sull'infanzia" dei Gold Saint, ti anticipo che c'è in corso una collaborazione con il mio Camus ( RenChan ) riguardo l'infanzia e l'adolescenza di Camus e Milo. Non sappiamo quando sarà pronta XD Ma lavorarci è dolcissimo.
Invece è già in pubblicazione la HEROMACHIA - PROLOGO di cui parlavo più sopra: la Heromachia è un progetto francamente enorme che ci sta spaventando e deliziando, mettendone a punto i dettagli. Ma il PROLOGO, che sarà più breve rispetto alla saga vera e propria copre proprio un periodo dell'infanzia dei Goldies al Santuario, antecedente alla Notte degli Inganni. Spero davvero che ti piaccia >***<
Eh... Shura. Shura è BELLISSIMO. E di sicuro ci scriverò. Ma è così bello e delicato che mi devo accostare con prudenza. Lo studio da lontano ancora un po'.
Grazie ancora per le tue bellissime parole, la vicinanza e le riflessioni stimolanti.
Shinji: çOç Grazie tesoro! Non odiarmi, ti prego! Ti abbraccio forte. Mi fa piacere sapere che gli stacchi ti siano piaciuti: ho sperato di ottenere un buon ritmo, così, per portare avanti entrambe le azioni insieme. Che fatica XDDD
Oh! *O* Grazie per le osservazioni! Entrambe giustissime, vado subito a correggere! Un bacio! >***<
Death Angel: Grazie delle bellissime parole che mi hai lasciato, non hai idea di quanto le apprezzi. é_è Nemmeno io ho mai digerito la morte di Camus. Spero di rendergli onore e di rendere piacere a chi, come noi due, lo ha amato tanto. ^_-

moena: é_è piccina! Grazie! No, ma guarda, non dispiacerti e non resistere, scrivi pure liberamente. Mi hai resa felicissima sapendo che hai letto tutta Neve e tutta d'un fiato. Fa un enorme piacere. Ti ringrazio davvero. Spero che tu voglia continuare a seguirmi. Un bacio.


RISPONDENDO ALLE RECENSIONI PER  Eri tu, Nobile Saga:
BlackVirgo:
Parole dolcissime, che non so se mi merito. é_è Grazie. Nel senso... alla fine Aioros ha fatto davvero tutto da solo, per quanto mi riguarda, si è mosso come sempre, con la sicurezza che lo caratterizza. Mi hai deliziato cogliendo la bellezza di Aioros e quella di Saga, così come la bambina dea che resta guida. Mi ha fatto piacere vederti qui. Un bacio e a presto.
Ren-Chan: çOç Sai benissimo che non è affatto colpa mia! E' stato AIoros! Ed è colpa di quel video çOç QUEL MALEDETTO VIDEO! é__è Se non lo avessi visto non avrei avuto niente da esorcizzare. ...quasi niente. é__è *ama Aioros e Saga quando si riversano angst addosso l'uno con l'altro. Li ama comunque* E poi... é__è Ti amo anch'io.
bellatrix18: Grazie dei complimenti! >***< é_è Sì, c'è tantissimo da dire su Aioros nonostante compaia così poco. çOç <3

Damaris: XDDDD Con questa recensione mi hai ammazzato. Non so più come ringraziarti, non è mai abbastanza per le cose che mi dici é__è Ti bacio. é_è
Aioros è estremamente importante. Insieme a Saga e Kanon è il motore di tutto Saint Seiya ( e Kanon alla fine è il motore dei motori. Affascinante. ._. ). Sagitter e Gemini agiscono ai due poli in modo diverso e complementare. Come sono loro stessi. In coppia si comprendono meglio questi due personaggi, si comprendono alla perfezione, come se uno spiegasse l'alttro nel suo semplice agire. Penso che il loro rapporto amoroso omoaffettivo sia inscindibile da tutto questo. Di come Saga fosse ossessionato da Aioros, nel bene e nel male, di come Sagitter non l'abbia capito in tempo per tendergli una mano causando la frattura. ...sì. Anch'io sono una sostenitrice della coppia. XDDD <3
Il rapporto tra Saga e Kanon è ugualmente profondo e ugualmente bello, ma è una cosa diversa. Parte da altre basi e su altre basi si sviluppa. E poi io sostengo la RhadaxKanon XDDD <3
In quanto allo stile aulico, penso che Aioros abbia dato voce a sè stesso chiedendo solo il permesso di uscire. XD Tutta roba sua quella, non mi prendo responsabilità. é_è E dire che immergersi nel registro di Aioros è stato bellissimo. Un revival di classici. Secondo me Aioros sarebbe uno di quelli che amano il doppiaggio storico italiano. Gli piacerebbe anche sentirsi chiamare Micene, per il riferimento a quell'alta civiltà. Gonfierebbe il petto e si sistemerebbe la fascia, brillando di aurea soddisfazione, XDDD
Un bacio grande, tesoro.
Saorilavigne: sei sempre dolcissima e tenerissima. Stupisciti insieme a me. Ci sono molte cose che devo farti vedere. *C*
Maddellaio: E' un onore, Rhadamanthys della Viverna. E' un onore.
Shinji: e tu ogni volta uccidi me con la tenerezza e la dolcezza delle tue recensioni. Sono contenta che abbia instillato in te queste emozioni, davvero contenta. Ti abbraccio stretto stretto. >***<

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Come incantati da una sirena ***


CAPITOLO: Come incantati da una sirena

PERSONAGGI: Hyoga, Isaac, Camus, Milo. Poi, Saga e Aioria che comparsano. Poco poco comparsa anche Seiya *C*

IN PROPOSITO: Hyoga scopre in sè i germi di un'ossessione: molto dolce e romantica, ma pur sempre un'ossessione. Isaac prende il comando in Siberia e Camus e Milo si riabbracciano.
COSE: Con questo e il prossimo capitolo si concluderà, probabilmente, la prima infanzia di Hyoga e Isaac, poi li vedremo un po' più grandi é__è Pensavo di arrivare molto prima a questo punto, non al trediscesimo-quattordicesimo capitolo. Nella mia testa, Neve doveva concludersi, toh, al decimo! E invece va avanti. *C* Nonostante tutto, mi dispiace lasciarmi i pulcini alle spalle. Compenserò alla malinconia facendo un po' di PUBBLICITA'. *C*
PUBBLICITA': Ne approfitto per fare una pretenziosa e arrogantissima pubblicità a GoldSaints, l’account comune che gestisco con altri tre cavalieri d’oro: Camus dell’Acquario, Aphrodite dei Pesci e DethMask di Cancer. La faccio, pubblicità, perché sono orgogliosissima dei lavori che stiamo facendo insieme e, poiché lo sono, desidero più di ogni altra cosa condividerli con voi. Sottolineo l’ultimo dittico pubblicato da me e Ren-Chan: EIDELON, del quale siamo particolarmente orgogliose e che ci ha commosse e fatto fangirlare mostruosamente e l’HERAMACHIA – PROLOGO, pensata e realizzata con Ren-Chan e Kijomi, che ci sta innamorando. La smetto e vi abbraccio, lasciandovi al resto. >***<

Quando Hyoga, anni più tardi, avrebbe spezzato con un pugno potente la banchisa siberiana per tuffarsi in mare, Isaac avrebbe ripensato al momento in cui lo vide con le ginocchia sul ghiaccio e i palmi aderenti alla superficie gelida a guardare giù, come se stesse ascoltando il pernicioso canto di una sirena.

Quell’immagine aveva spaventato perfino il sicuro e avveduto Isaac, perché era abituato a colpire pareti dure e gelide e a scaldare il proprio corpo nelle acque fredde, ma non era pronto, a nove anni, ad affrontare il sovrannaturale. Che fosse una sirena del nord dalla voce adamantina, o la determinazione selvaggia che vedeva negli occhi di Hyoga.

Isaac rabbrividì, ma nei giorni successivi ebbe tanto da fare che dimenticò quella visione inquietante. Se la sarebbe ricordata dopo anni e tenendola a mente si sarebbe gettato in una spaccatura aperta per andare a salvare il suo compagno, stregato da una sirena.

Se l’avesse visto Camus, probabilmente, non sarebbe partito.

Ma Camus non lo vide, Hyoga, in ginocchio sulla banchisa: in quello stesso momento lui si muoveva già verso Atene, dopo avere lasciato per la prima volta da soli i suoi bambini in Siberia.

 

Isaac si sentiva smarrito, infondo all’anima.

Ma era una sensazione che si scacciava ancora più giù facilmente, sconfitta dall’orgoglio: il Maestro era andato lontano, lasciandoli soli, ma l’aveva nominato responsabile, perché il più grande e il più esperto della vita nelle lande desolate.

Quella mattina, la prima che li vedeva soli in mezzo alla neve, si era alzato prima di Hyoga, spingendo via coperte e pigrizia. Aveva il naso gelato: se lo strofinò, si vestì in fretta e mise sul fuoco il vecchio samovar ammaccato, come aveva visto fare da Camus.

Era andato via senza indicare né la ragione né il luogo, il Maestro, anche se lui e Hyoga erano entrambi d’accordo sul fatto che fosse partito per Atene.

Ne avevano parlato quella notte stessa, raggomitolati sotto i panni spessi: fuori infuriava la tormenta, ma Camus era andato lo stesso, irremovibile.

Hyoga aveva tirato fuori dal panno solo la faccia, aveva guardato la notte nella finestra e poi Isaac, nel lettino di fianco.

“Starà via tanto?”

“Non l’ha detto. Ma penso di sì”.

“L’ha mai fatto prima? Quando c’eri solo tu?”

“No” Isaac scosse la testa, infagottato. La lampada fece tremare la luce, poi si riassestò “Solo all’inizio, una volta o due. Ma si assentava per un paio di giorni per andare al villaggio oltre i monti, e diceva che non si sarebbe trattenuto tanto”

Hyoga aveva annuito e si era rintanato sotto le coperte. “Secondo me è andato in Grecia” aveva detto da sotto, con sicurezza.

Isaac aveva annuito. Entrambi i bambini sapevano che il Mondo Segreto aveva laggiù il proprio quartier generale. “E poi tutte le lettere gli arrivano da là”.

Questo aveva troncato la discussione, mettendo una seria ipoteca sulle certezze finali. I due bambini si erano addormentati sognando la tempesta e Camus, entrambi fuori nella notte.

Il samovar fischiò acuto. Isaac aprì le tende e andò ad alzare Hyoga.

“Sveglia”.

Hyoga si girò dall’altra parte. Ma non appena lo fece, la sua mente ricordò la partenza di Camus e la grande responsabilità che aveva lasciato loro. In meno di dieci minuti i bambini erano pronti per uscire e bevevano il tè caldo per affrontare la giornata.

In meno di quindici, Hyoga era inginocchiato sulla banchisa, a guardare giù, con gli occhi enormi di bambino stregato dal canto di una sirena.

 

Prima di partire dalla Grecia – e ormai era passato un anno - Camus aveva detto a Milo che, anche se fossero stati lontani avrebbero sempre potuto sentirsi l’un l’altro attraverso il Cosmo, che non c’era bisogno di troppe parole tra loro. E così era stato.

A parte quando per Milo era stato così difficile resistere, che si era imbarcato in un viaggio lunghissimo per vedere Aquarius un giorno soltanto, il resto del tempo era andato così, con il semplice cercarsi del Cosmo. Milo di Scorpio l’avrebbe cercato ancora, ma quella mattina aveva sentito da subito che Camus era vicino a casa e che era tutto diverso.

                           

Hyoga guardava, attraverso il ghiaccio come attraverso il vetro, uno spettacolo inaccessibile a tutti se non a lui, nelle acque oscure del nord. Con gli occhi spalancati e la bocca dischiusa, rapito.

Era cominciato di notte, in sogni feroci in cui sua madre usciva dalla cabina di lamiera nell’acqua scura, il volto bellissimo ma bianco come la neve e gli occhi lucenti come due monete d’argento.

Fluttuava nel vestito bianco delle occasioni più belle, che aveva anche quel giorno sotto la pelliccia, e i suoi capelli lunghi attorno a lei si muovevano vivi e sembravano lente alghe pigre.

Natassia distendeva un braccio verso di lui e piegava il dito indice. Lo ristendeva e poi tornava a piegarlo. Lo chiamava a sé. Si chiedeva - in quel sogno che ricorreva da quando Hyoga aveva visto la nave sotto di sé, nel mare, con la sua carena spezzata in una risata – perché mai il suo bambino l’aveva lasciata morire sola e sola l’aveva lasciata infondo al mare. Perché non andava da lei?

Hyoga si svegliava di soprassalto, da un pugno di notti, con la gola secca e gli occhi sbarrati, con il bisogno di andare in bagno e la necessità di non mettere nemmeno un dito fuori da letto.

Con la sensazione che sua madre, magnetica, lo chiamasse con il canto della sirena.

Se il piccolo Hyoga avesse raccontato quel sogno a Katjia, giù alla locanda, la bambina avrebbe ricordato con entusiasmo le favole imbastite sul suo carillon venuto da Mosca, di neve che cadeva e palazzi dorati, in cui una giovane donna danzava. Avrebbe raccontato ancora delle principesse russe e delle fate della neve che incantavano e stregavano, come le sirene. Gli avrebbe detto di parlare con Camus, che lui le sapeva domare le fate di Siberia, nelle sue mani calde e fredde.

Camus però era partito.

Hyoga aveva bevuto il tè e lavato la tazza, come tutte le mattine ed era uscito di corsa. Isaac si era attardato, invece, che le responsabilità che aveva lo rendevano scrupoloso. Il ragazzino biondo lo aspettava sulla soglia, poi si era girato verso la banchisa. Non era così lontana dall’isba. Lanciò un’occhiata dentro, al compagno che stava ancora sistemando, e decise che poteva andare e tornare in un attimo. Isaac non se ne sarebbe nemmeno accorto.

Coprì di corsa la distanza sulla neve dura, gli stivali che affondavano appena e scivolavano sulla Polvere di Diamanti. Quando giunse nel luogo che con la sua magia oscura visitava i suoi sogni, Hyoga cadde a terra, sulle ginocchia, e si appoggiò con i palmi aperti alla neve rovente, che gli bruciava la pelle. Il ghiaccio era spesso. Era spesso diversi metri: ma così trasparente e puro che era come vetro appena appannato ed era come un oblò sulle acque scure.

E sulla macchia più scura, sul fondo, con la carena sfondata.

Il fascino morboso lo aveva tenuto lì più tempo del previsto, a cercare Natassia che lo chiamava dal fondo. Perché mi hai lasciata morire sola, Hyoga? Perché mi hai lasciata sola in fondo al mare? Vieni, Hyoga?

Hyoga volle alzarsi in piedi e scappare, ma si rese conto di essere incollato a terra.

 

Non si mosse verso di lui finché non lo vide tornare a testa bassa, allora finse di essere appena uscito dall’isba e di aspettarlo davanti alla porta.

Isaac non sapeva bene che cosa tormentasse tanto Hyoga ma aveva compreso, con la certezza dei bambini, che se fosse andato a disturbarlo mentre guardava giù con quell’espressione di gravità ultraterrena dipinta sulla faccia, Hyoga sarebbe morto di vergogna, sorpreso in qualcosa di troppo intimo e segreto. Al tempo stesso ne aveva a avuto paura, il timore che si prova dileggiando qualcosa di sacro.

Aveva aspettato e basta, allora, però aveva atteggiato la faccia in una maschera severa: qualunque fossero le ragioni, Hyoga era in ritardo per gli addestramenti e lui, in qualità di responsabile, avrebbe dovuto punirlo.

Quando Hyoga gli fu davanti, il ragazzino si erse in tutta la sua altezza, sovrastandolo di un paio di centimetri, e si portò le mani sui fianchi. Spinse leggermente in avanti il labbro inferiore, atteggiando le labbra in una linea di muta freddezza e aggrottò le sopracciglia, nella perfetta imitazione della faccia da maestro di Camus.

Nonostante l’incubo della nave che lo spiava dal fondo del mare, Hyoga scoppiò a ridere. Non servì: gli allenamenti, per entrambi, furono raddoppiati.

Quella di Isaac fu una mossa vincente: il piccolo Hyoga dimenticò la sua onirica Natassia nella fatica fisica, almeno durante le ore del giorno e in quelle notturne giaceva stremato nel letto. Anche se i sogni lo portavano sul fondo del mare gelato, non dava modo all’amico di accorgersene, troppo stanco perfino per girare su se stesso o per far vibrare le palpebre nel sonno.

Di tanto in tanto Isaac si girava a guardarlo, quando lo sentiva silenzioso alle sue spalle o quando non lo sentiva affatto, impegnato ad allenarsi tra gli anfratti ghiacciati lontani dalla costa.

Si girava preoccupato, con la sensazione che avesse ancora negli occhi azzurri quella terribile espressione incantata, o l’orecchio teso ad ascoltare un canto lontano.

Invece era sempre il suo piccolo Hyoga che gli sorrideva o, più spesso, gli si avvicinava per compiere gli allenamenti al suo fianco.

Si chiese cosa avrebbe dovuto fare nel caso lo avesse visto di nuovo coinvolto in quella gravità ultraterrena. Cosa avrebbe fatto Lemminkainen, l’eroe del Kalevala e dei racconti di sua nonna? E il Maestro Camus, lui cosa avrebbe fatto?

Il piccolo Isaac non seppe darsi una risposta immediata. Quel che fu certo è che nei giorni seguenti si comportò irreprensibilmente. Hyoga si avvicinò a lui un po’ di più e un po’ di più si allontanò dal ghiaccio spesso e trasparente da cui poteva vedere la nave di sua madre.

 

Gli incontri tra Camus e Milo erano molto distanziati, ma proprio per questo più intensi.

Durante i mesi in cui erano stati separati si erano induriti entrambi, nell’arduo compito di farsi uomini e guerrieri. Camus tese la mano e gli toccò la guancia.

Il suo ritorno dalla Siberia sarebbe stato sfibrante per qualunque viaggiatore, ma non per lui, Gold Saint di Aquarius, che giunse nella sua andatura elegante e nell’ondeggiare dei suoi capelli sulla schiena, perfettamente pettinati.

Si sarebbe detto, a vederlo, che fosse sceso per una commissione ad Atene solo qualche ora prima, nel pomeriggio profumato di mare e di mirto. Fu quello che per un attimo pensò Aioria di Leo, vedendolo risalire verso i Templi.

Aioria risaliva dall’Arena, dopo l’allenamento quotidiano. Aveva iniziato a mischiarsi con più frequenza ai soldati e agli altri cavalieri, in quei giorni, dopo anni di eremitaggio in cui concedeva la propria compagnia a pochi.

Milo, che era tra quei pochi, sosteneva ghignando che fosse a causa di una bella e sicura sacerdotessa dai capelli rossi. La giovane aveva il volto coperto dalla maschera e a quelle allusioni avrebbe potuto fingere risolutezza. Il Cavaliere d’Oro di Leo, che aveva invece la faccia nuda e indifesa, assumeva alle provocazioni dell’amico un interessante color prugna. Allora cercava di mandarlo a tappeto, quello stupido scorpione, colpendolo allo stomaco, alla mascella o altrove. Milo rideva e finivano entrambi per azzuffarsi sull’erba finché qualcuno, Aldebaran il più delle volte, decideva che avevano dato abbastanza spettacolo e potevano continuare a comportarsi da Gold Saints. Allora finivano ad azzuffarsi sull’erba in tre.

Aioria risaliva dall’Arena dopo essersi allenato e avere impartito qualche consiglio ad un ragazzino, giù agli alloggi. Che, guarda il caso, il ragazzino fosse proprio allievo della bella e rossa Marin non aveva niente a che fare con tutte le storie di cui sopra, ovviamente.

Camus lo affiancò con naturalezza. Parlarono poco, risalendo le scale di marmo, godendosi il silenzio senza imbarazzo, come se si fossero visti per l’ultima volta solo quella stessa mattina. Il giovane Leo si fermò alla Quinta Casa, nel cielo che imbruniva.

Camus di Aquarius proseguì fino all’Ottava.

Quando lo sfiorò, Milo sentì il calore avvolgergli i muscoli e le ossa, chiuse gli occhi e si sospirò. Poi lo trasse a sé con dolcezza, lo cinse tra le sue braccia e Camus affondò il naso nel petto di quell’uomo che non conosceva, così diverso dal bambino biondo con cui aveva giocato, dal ragazzo con cui si accarezzava fino all’estenuazione, mesi e mesi prima. Eppure così uguale, familiare.

Inspirò di nuovo il suo odore, si strofinò contro la pelle abbronzata dal sole di Grecia, palpò quel corpo forte e sentì una grandiosa e completa pace.

Aveva cercato l’Ottava Casa, quella dello Scorpione del Cielo, prima della propria, perché Milo non si era mosso dalle proprie stanze, quelle sera, ma il suo cosmo era sceso a prenderlo fino alla costa, quando era arrivato.

Senza dire nemmeno una parola, perché non c’era bisogno di troppe parole tra loro.

Si cercarono con le dita, e caddero riversi baciandosi con disperazione, sul marmo lucidato.

La luna percorse tutto l’orizzonte, tra le colonne – come un occhio di sirena che incanta -  ma loro non la videro, perché erano intenti ad esplorare scenari più intimi penetrando uno nella pelle dell’altro, con l’abbandono proprio di chi si conosce da molto tempo. Eppure sembrava una carezza appena inventata la loro.

Camus si staccò soltanto all’alba. Milo si alzò per primo e si rivestirono insieme.

Poi risalirono verso il Tredicesimo Tempio, per il rapporto di Aquarius di Siberia al Grande Sacerdote.

 

“Isaac, basta… quando c’è il Maestro a quest’ora siamo già a casa”.

“Smetti di lamentarti. Ancora una volta. Tutti i colpi, di seguito”.

Nell’ora tarda, Hyoga sbuffò. Il suo respiro si condensò in una nuvoletta bianca davanti alla sua bocca, attraverso la quale guardò Isaac con finto astio.

Il ragazzino, per tutta risposta, rise e lo affiancò. Diede un pugno nell’aria, piegando la gamba in avanti e tendendo quella dietro, il peso bilanciato.

Aspettò che Hyoga eseguisse lo stesso attacco, poi lo ripeté dall’altro lato. Hyoga riprodusse ancora. Andarono avanti fino a ricoprire la distanza da lì al mare ghiacciato.

Hyoga guardò giù.

Il ghiaccio lasciava intravedere l’acqua, sotto, in bollicine leggere trasportate dalla corrente. In quei punti Camus si abbassava, avvitando le anche, e colpiva il pavimento gelato fino a spaccarlo, permettendo a lui e Isaac di tuffarsi di sotto ed eseguire gli esercizi di nuoto.

Il canto sinistro di sirena gli attraversò le orecchie e gli venne un’idea.

Si girò a guardare l’amico che rilassava le braccia.

Un’idea che avrebbe potuto ucciderlo, ma che più probabilmente lo avrebbe salvato. Rivedere sua madre.

Isaac, ignaro, si frizionava le braccia per evitare che i muscoli si congestionassero.

“Isaac?”

“Ahn?”

“Isaac, e gli esercizi di nuoto?”

“…oggi?”

“Non li abbiamo fatti”, spiegò Hyoga, sentendo le parole scivolargli fuori dalle labbra, come se qualcuno gliele suggerisse.

“Ma è tardi”.

“Ma l’allenamento non è mica completo, così…”

“L’hai detto tu che abbiamo lavorato più ancora di quando c’è il Maestro” rispose Isaac, incrociando le braccia sul petto. Si girò e mosse i primi passi verso l’isba. “Vieni. Andiamo a casa. Poi diventa pericoloso”.

Hyoga esitò un momento. Qualcosa gli intimava che Isaac aveva ragione e che era una cosa stupida e, quello che voleva tentare poteva farlo il giorno seguente. Ma qualcosa dalla voce dolce di creatura di fiaba lo implorava di provare, di convincerlo, di andare sott’acqua dove tutto era verde e scuro, dove il freddo abbracciava come una madre e le chiglie delle navi affondate ridevano.

Dove sua madre lo aspettava bella come la ricordava, come una principessa russa.

“Isaac…” implorò.

Isaac girò la testa a guardarlo da sopra la spalla.

“Isaac, però tu lo sai fare?” rabbrividì mentre glielo chiedeva. Non avrebbe mai osato domandare a Camus. Ma ad Isaac… a lui sì.

“Che cosa, Hyoga?”

“Sai aprire le voragini nel ghiaccio? Per andare a nuotare?”

“…si può sapere perché hai tanta voglia di fare il bagno?”

“Lo sai fare o no?”

Isaac esitò. La sua mente tentò recuperare l’immagine di Hyoga che guardava di sotto, spiritato, ma l’orgoglio vinse l’appalto dell’immaginazione e vide se stesso mentre si avvitava, abbassandosi, e colpiva il pavimento di ghiaccio creando una voragine grande come quelle che apriva Camus.

“Non saprei…”

“Prova”. Hyoga lo incoraggiò. Hyoga aveva una grandissima fiducia in Isaac. Hyoga avrebbe visto creare la voragine e ci si sarebbe tuffato.

Cinque minuti soltanto, prima di tornare da Isaac. Cinque minuti.

Solo per vedere se era ancora bella come la pensava, come nello spettacolo dorato del vecchio Vachtangov.

 

Camus chiese udienza e avanzò da solo lungo il tappeto steso fino al seggio pontificio. Piegò il ginocchio e s’inchinò al Grande Sacerdote.

Milo rimase in piedi appena oltrepassata la soglia, formale, senza dire una parola.

Ascoltò il compagno parlare della Siberia e dei bambini che addestrava. La Siberia per Milo era solo la grande distesa bianca che incorniciava l’isba di Camus. Raggiungendolo in treno aveva avuto modo di scorgere la tundra e la bellezza delle architetture di Mosca, ma quello era altro: la Siberia, quella di Camus, era una distesa di neve e di forza gelida.

“Come procede l’addestramento, Camus dell’Acquario?” chiese il Pontefice. “Il compito ti è gravoso?”

Camus rispose soppesando le parole, al cospetto di quell’uomo misterioso. Il compito affidatogli era degno di un Cavaliere di Athena e l’avrebbe portato a compimento. La natura era feroce, ma era quella che egli aveva conosciuto nella propria infanzia d’addestramento e la conosceva abbastanza da non annientarla e da non farsi annientare da essa.

“Hai due fanciulli con te. Ma una è l’armatura che il ghiaccio custodisce. Hai già progetti, in proposito?”

Camus li aveva. Ai suoi occhi, Hyoga aveva un potenziale enorme, ma lo teneva racchiuso in sé come un gioiello troppo prezioso per essere esposto; era veloce nel comprendere e lesto nel mettere in pratica, ma lento nel liberarsi dei legami che lo trattenevano alla terra, che lo imprigionavano giù, in profondità. Un bambino con un fulgido potenziale è gran cosa: un bambino può diventare un grande pianista, se ha potenziale. Può essere un medico d’eccezione, se ha potenziale. Ma non  può essere un guerriero se ha potenziale e non lo usa nell’immediato, non può essere guerriero di Athena. Perché morirebbe, avvinto da troppe debolezze.

Isaac aveva un cosmo buono e ben sviluppato. A dire le cose come stavano, forse Hyoga gli sarebbe stato superiore, se avesse saputo abbattere la sua indolenza e le barriere che si creava da solo. Stava di fatto che non era così e il coraggio e la forza d’animo di Isaac lo rendevano il più meritevole tra i due.

Il Grande Sacerdote ascoltò in silenzio poi annuì.

“Compi la tua scelta con accuratezza, Aquarius. Poiché, come sai, la vita del Santuario è dura e non permette esitazioni. Uno dei due bambini, se sarà meritevole, otterrà l’armatura. L’altro morirà. Nel peggiore dei casi, il destino infausto toccherà entrambi”.

Camus annuì e Milo aggrottò le sopracciglia: conosceva bene la legge del Grande Tempio: morte per chi tentava la fuga e si dimostrava indegno, oppure esilio nel disonore, senza la possibilità di condurre una vita nella dignità della dea.

Legge dura, ma legge.

Camus serrò le labbra: fu un presagio, forse, o un presentimento fin troppo tangibile. Guardò la maschera riflettente del Pontefice e lo vide distante, perso in un’atmosfera cupa: come se il suo sguardo, dietro quei lineamenti inquietanti e neutri, fosse perso a cercare gli incanti delle sirene di Grecia, potenti. Sollevandosi in piedi, tornando verso Milo e verso la soglia, Camus ebbe la macabra certezza che uno dei suoi allievi sarebbe morto.

Hyoga, pensò colto dal timore di avere lasciato prematuramente i bambini soli in quel luogo inospitale. Del resto, così funzionavano le leggi del Santuario e delle Scuole del Mondo Segreto.

Legge dura, ma legge.

Camus rimase al Santuario una manciata di giorni. Un pugno di giornate in cui relegò la preoccupazione per i suoi allievi in una zona della mente che non creasse disturbo.

Parve a lui e a Milo che egli non fosse mai partito per la Russia, che la loro vita avesse continuato a srotolarsi all’ombra dei templi e degli ulivi.

A sciogliere l’incanto, resistente come di sirena degli scogli sorrentini, fu la partenza di Camus che alla fine se ne andò come se ne era andato la prima volta.

Con poche parole e un bacio sulle labbra di Milo.

 

Isaac cercò in sé la scintilla di Cosmo, quella che Camus gli aveva insegnato a trovare nel petto e Hyoga passò il peso da un piede all’altro, sulla banchisa.

Sorrise, sicuro, Isaac. Ce la faceva. Forse ce la faceva: sentiva il Cosmo crescere in sè, come un germoglio caldo e freddo insieme.

Si avvitò su se stesso, sotto gli occhi attenti di Hyoga e con un grido potente concentrò il cosmo nel pugno.

Lo abbattè sul ghiaccio, dove l’acqua scorreva sotto la superficie resistente e spessa.

Hyoga trattenne il respiro.

Isaac ne prese uno.

E al ghiaccio, per mano di un giovane allievo, non accadde proprio niente.

 

 

 

  

Rispondendo:

Kijomi: …e io ti amo, ser ~     XDDDDD <3

Shinji: Grazie per la bellissima recnsione *C*  Ti confesso che la nave ha inquietato anche me. Il mondo sommerso, in generale, mi attrae e mi terrorizza insieme. La bella Natassia nel suo relitto ha sempre manipolato molto la mia immaginazione. Grazie per le tue belle parole, tesoro.

Damaris: Inizio subito con il dirti che adoro le favole. Da impazzire. E spesso ho snobbato quelle dei Grimm o di Perrault o Andersen per andare a cercare le fiabe più antiche, quelle rivisitate dagli scrittori cattolici. Quelle, per intenderci, ricche di significati esoterici e alchemici. Il Rubedo, Nigredo e Albedo dell’altra produzione pescano a piene mani da lì e te ne sei accorta ( sei la mia lettrice più attenta insieme ai miei Goldies e ti amo *C* ) . Facile che qualcosa sia scivolato anche in Neve. La crudeltà delle fiabe antiche è quasi dolce: e si sposano bene con lo scenario di Siberia, credo, Saint Seiya a parte.

Le tue analisi stilistiche mi commuovono sempre: ho l’impressione che tu mi stia sopravvalutando molto, ma mi sproni a mettere dentro ogni volta qualcosa di più. Ti ringrazio.

Per quanto riguarda le capacità di Camus ho immaginato che in un contesto sociale come quello di Peveck, dove Aquarius era considerato alla stregua di uno stregone o di uno sciamano, non sarebbe stato difficile chiamarlo per far nascere un bambino, magari anche sotto il buon segno delle stelle, agli occhi dei paesani. Da parte sua, con l’ausilio del Cosmo, dev’essersi trovato a mal partito, ma non del tutto fuori luogo: del resto qualche conoscenza medica un guerriero deve averla pure.  *mette Camus a lavorare*

Come ultima cosa: l’esercizio nelle acque fredde dei due bambini è preso proprio dalle puntate della serie di Poseidon, nei flashback di Isaac e Hyoga, Si tratta di un mero taglia e cuci, in realtà. Però ci hai visto giusto, perché i legami che ho intenzione di intessere tra Isaac e Poseidon ci saranno nel corso della storia a cominciare proprio dal prossimo capitolo – che probabilmente sarà anche l’ultimo della prima infanzia dei due pulcini dei ghiacci.

Ancora grazie per la precisione della tua lettura: inutile dire quanto sei preziosa. Un bacio.

Ren-chan: cosa? *C* COSA?! *C*  COSA FARAI? CHE COOOOOOSA?!  *C*  <<< *vuole sapere* Si, appunto: amo le fiabe in generale e tu sai quanto ami le tue é__è Aspetto l’ultimah *C*

Grazie a te, per l’amore che dimostri leggendo e per essere il Camus più bello e splendido che abbia mai calpestato suolo di Siberia à_à . XDDD Ti amo. <3

SnowFox: Grazie tesoro! Carinissima. Non so cosa dire ,i hai riempito di tanti complimenti darestarci secca çOç Bada che ci potrei fare l’abitudine, eh? Un bacio enorme!

Athena: ò_o i commenti dalle mani della dea sono sempre più che ben accetti! Grazie per le belle cose che mi hai detto. Sono onoratissima. Se uan mia stiria riesce a fare tanto, non posso che inchinarmi al lettore attento che  venuto con me. Un bacio grande!

Manila: sono felicissima di riuscire a darti un po’ di refrigerio dallo studio. Specie in giorni riarsi come questo *C* E anch’io dovrei fare una tesi, pensa te, ma la Siberian Family è così gustosa e fresca çOç  Grazie di tutte le osservazioni e i complimenti.

Sì, come vedi Camus è tornato al santuario qualche giorno e Milo è con lui. Ma tornerà alla sua isba presto çOç bacione!

 

Rispondendo alle recensioni per Il Malefico Trio:

Approfitto subito per premettere che “Il Malefico Trio” è stata scritta in cattività nel Meikai, sotto lo sguardo severo di Rhadamanthys della viverna. Non ero nelle condizioni migliori per produrre, ma, d’altra parte, non potevo fare altro. A conti fatti, sono soddisfatta della produzione, e non mi pento di una virgola. *C*
Manu Lani:
Grazie per i complimenti. Sono contenta di essere riuscita a dare immagini ad una scena che hai immaginato anche tu. Mi riempi di orgoglio. Me e anche Ciuriddu dei Pesci. XDDD Un bacio!

Lily88: Grazie davvero dei complimenti e delle parole dolcissime. Felice di averti fatto sorridere. Ti aspetto! <3

EriS_San: cerco sempre di fondere il comico e il drammatico, come nella vita: e penso che niente sia in bilico sugli estremi come questo trio dolcissimo e spigliato. Ho fatto del mio meglio per renderlo e spero di esserci riuscita. Grazie per i complimenti e sono orgogliosa e felice di ogni risata che ti ho scucito XD Grazie davvero. Sono io che ringrazio te, che mi segui sempre.

Bellatrix18: Grazie di tutto! Adoro l’infanzia dei Saints, spero che mi seguirai ancora >O<

Damaris: Tesoro! E’ un trio che adoro, questo é_è Davvero voglio loro un bene infinito e sono davvero contenta che ti sia piaciuta, sapendo quanto ami Shura. Grazie per essere sempre presente >***<

Ai91: Grazie! Mi hai fatto molto piacere. …la stria temp che non continuerà… sì, insomma… è finita così. E’ una one shot. Anche perché dilungare troppo un episodio breve come questo mi sembrerebbe controproducente. Toglierebbe energia. Che ne pensi? Un bacio e grazie ancora!

Uff_San: Anche tu mi fai ridere, amico delle Nespole. Sì, Kanon. L’hai suggerito tu. YAU PER LE NESPOLE! èOé

Eden89: Grazie <3  *O*

Akrois: Penso che sarebbero cambiate molte cose, in effetti, XDDD Tipo, Aphrodite non sarebbe più uscito di casa e Cancer avrebbe avuto molto da meditare sulle sue scelte estetiche XD Sono cose che influenzano una trama se pensi a quante cose cambiano a seconda di una scelta del Pontefice all’inizio di una Saga. *C*  Meno male che non è successo niente e Aphrodite si chiama Aphrodite. XD  Sono davvero felice che ti sia piaciuta, la tua recensione era così fresca e dolce che mi ha fatto sorridere con te. Grazie ancora.  No, comunque, sul serio: la fanfiction è finita é_è
Maddellaio: Ti ringrazio, intrigante Rhadamanthys della Viverna. Ti ringrazio. ù_ù *brilla*
Lucifer_The_Darkslayer: Oi, che nick interessante il tuo *C* Promette grandi storie.  XDDD Felice di averti fatto sorridere. Un bacio a te e grazie tante. <3
Shinji: XDD ci ho pensato, sai? Ma poi rischiavo davvero di imbizzarrirmi senza speranzalasduouioasdoipuoiuosaduooasd… ehm. Sì. E non era il caso. Roberto. ROBERTosaidkluoasdo. …  Ehm.  Grazie, caro é__è dolcissimo anche tu, sono contenta di avere reso bene questa piccola porzione della vita del Trio. Ci tenevo da tanto. Bacione!

 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Come il Kraken ***


CAPITOLO: Come il Kraken

PERSONAGGI: Hyoga, Isaac, Camus. Poi, Rudolph, Avrora, Katja, Jacob
IN PROPOSITO: Isaac e Hyoga scoprono Blue Grado. Camus torna a casa. Isaac si prende un trip da giustiziere quando legge del Kraken
PUBBLICITA': Faccio ancora pubblicità a GoldSaints, l’account comune che gestisco con altri tre cavalieri d’oro: Camus dell’Acquario, Aphrodite dei Pesci e DethMask di Cancer.  E' online il nuovo capitolo dell'HERAMACHIA – PROLOGO, pensata e realizzata con Ren-Chan e Kijomi, e io sono in sollucchero. La smetto e vi abbraccio, lasciandovi al resto. >***<
COSE:
La poesia iniziale è di Lord Alfred Tennyson. E visto che in quattro secoli nessuno si è preso la briga di tradurla, ci ha pensato Kijomi e insieme l'abbiamo adattata per il vostro diletto e per l'imbizzarrimento di Ren-Chan.
CITAZIONI IMPORTANTI:
"Non mi piace il Kraken. Non ha la stessa dirittura morale del pinguino"  Camus dell'Acquario

“Sotto i fulmini della più remote profondità

Nei più ancestrali abissi del mare

Nel suo antico sonno senza sogni

il Kraken riposa: sfuggono i più deboli raggi del sole

dai suoi fianchi ombrosi; sopra di lui ondeggiano

spugne enormi cresciute per millenni;

E nella luce malata

in mirabilanti grotte e anfratti segreti

Enormi ed innumerevoli polipi

Separano con giganteschi tentacoli il verde limaccioso.

Qui ha giaciuto per secoli, e vi giacerà

chiudendo fuori dal suo sonno mostruosità marine

Quindi una volta per essere visto dall'uomo e dagli angeli
ruggendo emergerà e porterà morte sulla superficie…”

Isaac lesse le strofe, in metrica, trovandole buffe. Rise.
Hyoga ridacchiò con lui, tenendo la tazza di tè bollente tra le mani. “Che poesia sciocca, per un mostro marino!”

“Non è vero, è bellissima, non capisci niente!” Isaac rise più forte.

Poi il rumore della porta che si apriva e del vento roboante sovrastò le risate.

Camus fece un cenno ai bambini, chiudendosi la porta alle spalle: “Mi complimento con voi. La Siberia è ancora intatta e le montagne sono ancora al loro posto. Bravi.”

 

“Passami la vodka, Isaac, per favore”

“Subito Maestro”

Isaac eseguì con entusiasmo: il ritorno di Camus dalla Grecia era stato fonte di gioia per entrambi i bambini. La ventata di libertà e di orgoglio che Isaac aveva respirato nell’essere il leader indiscusso della piccola squadra formata da lui e da Hyoga era scemata presto per lasciare spazio alle preoccupazioni e alla responsabilità della vita in Siberia, feroce e piccola, come sempre lo è la vita nei deserti. Isaac aveva resistito coraggiosamente e Hyoga aveva fatto altrettanto, ma il più grande era tornato, ogni tanto, al pensiero del compagno inginocchiato sul ghiaccio con gli occhi enormi, e il più piccolo – più spesso – era tornato alle sue ossessioni.

Camus si versò metà bicchiere di vodka e appoggiò la bottiglia. Isaac e Hyoga seguirono il gesto in silenzio, come se si trattasse di un rito: a suo modo lo era. Non di rado la vita stessa dipendeva da quel liquido così simile all’acqua eppure così forte e rovente, lì in Siberia: era capace di riprenderti per i capelli, quando il freddo ti portava troppo lontano dalla vita e Dio ti suggeriva di rallentare.

Isaac aveva sentito quella frase molte volte sulle labbra di Rudolph, alla locanda, e molte volte aveva riso. Ma non c’era stata nemmeno un’occasione in cui non ne avesse compreso la fatalità.

La Siberia tendeva a buttare giù le regole di vita in modo piuttosto schietto. Soprattutto per un bambino che si allenava tutto il giorno nella neve.

Camus bevve un sorso e chiuse gli occhi, assaporandolo.

Aveva ancora la giacca addosso, bordata di pelliccia, e i capelli sporcati di polvere di diamanti, come una nebbia leggera.

Aveva il naso freddo.

Ed era sollevato nel trovare gli allievi sani e salvi, nel vedere disciolte le ombre dei suoi presentimenti infausti.

La stufa nell’angolo irradiava nell’ambiente calore familiare e Camus alla fine si era rilassato, abbassando la guardia di fronte a se stesso e ai cattivi presentimenti.

Vide Hyoga calare la tazza di tè fumante e chiudere un libro, poco lontano. Un libro vecchio dalla copertina consunta sugli spigoli e le pagine ingiallite, macchiate.

“Che cos’è, Hyoga?”

Il bambino sollevò lo sguardo, come se il maestro l’avesse sorpreso in qualcosa di poco ortodosso.

“Un libro di leggende. Ce l’hanno dato alla locanda.”

“Fammelo vedere” Camus, incuriosito, tese la mano.

“E’ tornato Rudolf con una cassa di libri! In mezzo c’era anche questo!” spiegò Isaac, elettrizzato “Ce l’ha prestato…”

Camus gli scoccò uno sguardo severo.

“…glielo riporto la prossima settimana.”

“Mh…” acconsentì Camus, appoggiando il bicchiere. Aveva riconosciuto la fattura del volume. E come non avrebbe potuto? Era inconfondibile. Blue Grado, pensa.

 

Avrora siede sulla panca nell’angolo e Jacob, il suo bambino, piange. La piccola Katjia si gira verso Hyoga sospirando.

“Piange sempre. E’ un rompiscatole!”

“Katjia!” la rimprovera la madre. I clienti nella sala rumoreggiano. C’è chi beve attorno al fuoco, chi racconta le ultime novità del villaggio vicino, tutti protetti nella luce dorata che difende dal freddo. Non fanno nemmeno caso al locandiere che entra, coperto dalla pelliccia e dalla neve, trascinando una grossa cassa.

“Zio Rudolph!” trilla la bambina correndogli incontro. Avrora si alza per aiutarlo, ma Isaac la respinge gentilmente. Ci pensano lui e Hyoga.

“Cosa c’è qui dentro?” Isaac tira e Hyoga spinge e in breve la cassa viene trasportata sul retro del locale. Rudolph si guarda intorno, attento a non essere ascoltato se non dai piccoli allievi del Mago dei Ghiacci.

“Libri”.

Hyoga spalanca gli occhi. “Libri?”

“E cosa c’è di tanto importante in una cassa di libri?” Isaac ha notato la fatica dell’uomo nel trasportarla dalla slitta alla porta e la noncuranza rigida con cui ha cercato di mascherare la segretezza.

“Ssssh!” li zittisce prontamente, spalancando gli occhi sotto le sopracciglia folte. Immagina di troncare lì il discorso, per un momento. Poi ci ripensa. Sono bambini del Mondo Segreto, è giusto che sappiano. E se il Maestro dei Ghiacci non gliene ha parlato ancora, presto lo farà.  “Questi libri sono particolari. Alcuni di questi non si trovano in nessuna parte del mondo, se non a Blue Grado”.

“Che roba è Blue Grado?”

“Zitto, Hyoga!” Isaac gli sgomita al fianco.

“Blue Grado è una cittadina a nord…”

“Ancora più a nord?!”

“Smetti di interromperlo!”

“…si, più a nord. Una città del Mondo Segreto, di guerrieri e studiosi. E laggiù c’è la più grande libreria del mondo. L’intero sapere è racchiuso in quelle mura”.

Hyoga inarca le sopracciglia. A dire le cose come stanno, gli sembra una bella storia, ma un po’ esagerata. Troppa vodka.

Come a leggergli nel pensiero, Rudolph si si massaggia la schiena, stiracchiandola: “Avrora, sii gentile. Un bicchiere d’acqua della vita per tuo fratello! Il freddo fuori trascina via e Dio dice ‘rallenta’!” La vodka arriva e Isaac e Hyoga si sporgono sui libri, la novità accattivante: sono numerosi volumi vergati a caratteri minuscoli, attaccati dalla polvere e dal tempo.

Anche Katjia si sporge, ma Avrora le mette in braccio il fratellino. “Dammi una mano con i clienti, cara”.

Rudolph butta giù tutto d’un fiato, come un vero uomo della steppa.

“Ne volete uno? Da leggere la sera? Me lo dovete riportare presto, però.” Si rimbocca le maniche e trasferisce i volumi in una cassapanca intagliata, uno per uno. La cura con cui li spolvera, con l’orlo del grembiule, adesso che si è tolto la pelliccia, intenerisce Hyoga. Gli ricorda il vecchio Vachtangov. “Tu, ragazzino! Isaac dei ghiacci, prendi quello. Quello in cima, lo vedi? E’ piccolo, ma interessante. Vi piacerà”.

Isaac lo prende, sotto lo sguardo attento dell’amico. Lo apre. E il fiato gli si spezza in gola.

 

“Questo è il Systema Naturae, di Linneo. Una prima stesura.” Lo riconobbe Camus, girandoselo tra le mani. L’opera, della metà del XVIII secolo, era un lungo catalogo scientifico di forme di vita vegetali e animali. Annoverava tra le pagine creature mostruose, terrestri e marine e animali fantastici. Non era sorpreso del fascino arcano che quel volume stava esercitando sui suoi due piccoli allievi.

“Maestro! Lo conosci!” Isaac gli si affiancò, eccitato, gli occhi verdi brillanti e i capelli castani a ricadergli sugli occhi “Guarda questo!”

Aveva girato le pagine, febbrile.

“Piano!” sussurrò Hyoga, allungandosi sul tavolo. Voleva far vedere al Maestro che anche lui si era appassionato “Altrimenti lo romperai!”

Isaac arricciò il naso in risposta e spinse il libro aperto tra le mani di Camus.

Quello che il giovane maestro vide fu una litografia antica di una piovra che emergeva da flutti particolarmente coreografici. Avviluppava la nave sventurata sul pelo dell’acqua, ghermendola, fissandola con un unico occhio malevolo.

“Il Kraken?” domandò divertito. Si tolse la giacca pesante, adesso che l’isba e la vodka cominciavano a scaldarlo.

Il faccino di Isaac si illuminò.

“Maestro, è un mostro che vive nelle acque più profonde! Si finge un’isola, delle volte, e la sua preda non se ne accorge finché non è troppo tardi! E’ forte e feroce!”

Hyoga annuì. Isaac era andato avanti fin troppo con quella storia e il piccolo aveva imparato a memoria le due pagine in quel libro, a forza di ascoltare l’amico.

Camus studiò bene il testo. “E’ una leggenda affascinante. Molte sono le fiabe sui mostri marini.”

“Ma questa è diversa, Maestro! Il Kraken attacca le navi degli uomini empi. Li sente ed esce dagli abissi per punirli.” Indicò il punto della pagina con il dito. “E risparmia quelle dei giusti”.

Isaac ripensò alla sua terra sconvolta dalla crisi. Le ingiustizie che aveva visto perpetrare ai danni della sua famiglia e delle altre schiacciate dalla povertà, non avevano soffocato il carattere espansivo di Isaac, ma gli avevano aperto gli occhi sugli aspetti più gretti del mondo. E ogni volta che ci pensava, rivedeva nella mente la cucina piccola, ma luminosa, in cui si sedeva con il nonno e la nonna, e lei raccontava il Kalevala, sera dopo sera, come se lo rammentava dai racconti di sua madre.

Quando aveva letto del Kraken, che a fiuto riconosceva i malvagi e li annientava implacabile, per proteggere i deboli, aveva meditato sulla Giustizia, che lui desiderava ripristinare dove non c’era e proteggere. Prima di pensare alla dea Athena di Grecia, però, aveva ripensato a Lemminkainen, l’eroe della sua terra e della sua infanzia.

“Maestro. Voglio essere come lui. Come il Kraken”.

A quelle parole Camus venne scosso da un brivido e affilò lo sguardo.

 

Hyoga sentirà vibrare il Cosmo appena, un avvertimento, nell’armatura del cigno. Si farà più attento, dopo le battaglie precedenti nel regno di Poseidon, l’ultima gli sarà costata cara. Però non si fermerà, diretto alla Colonna dell’Oceano Artico, con il corpo appesantito di ferite e la bocca piena di promesse. Il cielo d’acqua sulla sua testa sarà plumbeo, di quella tonalità fredda che Hyoga ricorderà, familiare. Il mare nero della Siberia, sotto il bianco feroce della banchisa. Il profumo pungente e riarso della polvere di diamanti che soffierà nel vento.

Guarderà il cielo d’acqua come adesso con Isaac e il Maestro guarda le aurore boreali.

 Non perderà tempo a domandarsi come sarà possibile che l’oceano non lo sovrasti cadendogli addosso. Andrà avanti con il cuore aperto e la bocca piena di promesse.

Quando la Colonna apparirà, egli indurirà i lineamenti in un’espressione determinata, che gli farà onore.

Quando il nemico, vestito dello scale dorato di Marine, si staglierà come un’ombra di fronte alla colonna, nel cielo di mare scuro, Hyoga si porrà dinnanzi a lui con piglio guerriero. Istintivamente riconoscerà la simbologia del Kraken, il mostro del nord, in quell’armatura, ma non ci farà caso, non sul momento. Saranno passati troppi giorni, anni, da quella sera nell’isba. Gli si parerà innanzi, nei cristalli di neve che lo avvolgeranno, come una minaccia. Come un saluto.

Quando l’avversario si rivelerà, scoprendo il suo viso – che lo fissa con un unico occhio malevolo - Hyoga, nonostante le promesse appena suggellate di non piegarle più, cadrà sulle proprie ginocchia.

“Isaac!”

 

“Isaac”. Disse Camus, chiudendo il libro e appoggiandolo sul tavolo, a pochi centimetri dal bicchiere di vodka. Il liquido all’interno sembrava inoffensivo. Solo acqua, sembrava.

Anche Camus sembrava sereno, nel pronunciare il nome dell’allievo maggiore, ma Hyoga immediatamente si sedette composto e Isaac fece un passo indietro.

“Sì, Maestro?”

“Isaac, il Kraken è una creatura marina feroce, come tu hai detto. Ma la sua stessa natura è mostruosa, incontrollabile. Non è così?”

Isaac esitò. Poi annuì. Era così.

“E cosa ti ho insegnato, Isaac, se non che è il controllo di sé che rende Cavalieri? La furia cieca rende bestiali. Fa dell’uomo che la pratica una macchina da guerra sgraziata, senza la scintilla dell’intelletto e della ponderazione.”

Isaac arrossì visibilmente.

Camus non addolcì lo sguardo, ma la voce sì, appena: “Un uomo che si eleva a Saint di Athena” lo disse ad entrambi i piccoli guerrieri “deve essere capace di guardare all’avversario e alla situazione con obiettività, poiché non combatte per sé stesso, ma per una volontà superiore, la Giustizia. Le motivazioni personali devono essere messe in secondo piano.”

Isaac si morse il labbro inferiore e Hyoga anche, ammutolendo un vagito di protesta.

“Un guerriero dei ghiacci deve mantenersi distaccato più di ogni altro, Isaac. E’ la calma che ci guida, non la rabbia. L’ira annebbia lo sguardo”.

Bevve un altro sorso di vodka, lasciando all’allievo il tempo per riflettere su quella lezione. Sapeva che il bambino era uno spirito forte e che prima o poi avrebbe dovuto placarne le caratteristiche più ardenti. Se Isaac ne fosse stato capace, se avesse potuto capire e controllare, allora sarebbe stato degno dell’armatura del Cigno anche subito.

Camus  non era tipo da farsi prendere da simili entusiasmi e affrettare il naturale svolgersi delle cose, tuttavia. Bevve e attese: l’educazione di un Saint prevede maturazioni lunghe.

C’era poi la cosa che a Camus il Kraken non piaceva: non aveva dirittura morale, a suo dire.  

“Ma Maestro…” azzardò Isaac “il Kraken colpisce con giuste motivazioni…”

“Anche una giusta motivazione, Isaac, diventa ingiusta se la pena è sproporzionata alla colpa. Tienilo bene a mente, sempre. La leggenda del mostro marino è affascinante e questo libro la narra con maestria. Leggila e tienila a mente, se lo vuoi. Ma ti proibisco di attingervi come ispirazione per il tuo ruolo. Non si addice la furia del Kraken ai Santi della Giustizia.” Sì alzò, poi, facendo ondeggiare i capelli rossi, inumiditi, adesso che la neve si era sciolta. Ripose la bottiglia e lavò il bicchiere.

“Adesso sgomberate la tavola. Domattina si riprendono gli allenamenti” lo disse ed ebbe per loro un raro sorriso, che alleggerì il cuore dell’allievo dopo il rimprovero.

Il libro venne restituito la settimana dopo a Rudolph, che da Blue Grado andava e veniva sempre più frequentemente.

Isaac non fece alcun riferimento al Kraken, né con Hyoga né con il maestro, per diversi anni. Quando iniziò a farli nuovamente, poi, la situazione precipitò, come se la bestia dei mari avesse fiutato un presagio nefasto.

Per ora, invece, la faccenda sembrò finire lì, veloce com’era iniziata.

 

 

Rispondendo:

Malu Lani: Sei carissima. Grazie di tutti i tuoi interventi, dei complimenti e della tua presenza costante che, devi saperlo, mi riempie sempre di piacere. Grazie davvero. Sono contenta che consideri “Neve” il mio capolavoro, perché è un lavoro che mi sta prendendo tempo ed energie e di certo si prende più spazio di quello che avrei immaginato quando ho iniziato a scriverlo. Se piace, quindi, non posso che esserne sempre più contenta. Se ti emoziona, lo confesso, lo sono di più. In questa storia si muovono molti dei personaggi di Saint Seiya che io preferisco. Oh, di prossimi progetti ce ne sono molti in cantiere. Aspettavo di finere “Il Canto delle Cicale” per dediarmi all’infanzia di Milo, prossimamente. Spero che sarà gradita çOç Un bacio grande!

War: Chino il capo e rendo grazie *C* I tuoi commenti mi hanno sinceramente dato una stretta alla gola. Grazie. Sono particolarmente contenta della resa di Camus: è un personaggio difficile e tutt’altro che piatto come lui stesso vuole far credere. Ma lo becchiamo, il ghiacciolo all’anice, qui, non ti preoccupare. XD E’ che lo amo mostruosamente. Grazie per ogni tua frase, dall’analisi al complimento. Spero di averti sempre come lettrice e di soddisfarti sempre di più.

SnowFox: I pulcini éOè ! Si! <3 …questo capitolo è soprattutto sul pulcino Isaac. Mi auguro che lo gradisca come ti sono piaciuti gli altri e di vederti presto, ancora. Ti stringo.

Damaris: Sono sempre più onorata delle tue visite e dei tuoi commenti. Ancora una volta hai definito il mio lavoro con le parole critiche più appropriate per mostrarlo a me che ci sono dentro, e quindi, con una percezione del tutto non sempre realistica. Come sai adoro Camus. Ce ne sono pochi che non adoro, lo ammetto, ma Camus mi ha saputa conquistare fin dalla mia infanzia: l’onore di muoverlo è grande. Sono convintissima ( anche grazie ai miei Goldies: Ren-Chan, Kijomi e Leryu ) che Camus sia stato estremamente paterno nei confronti di Isaac e Hyoga. Un padre severo, ma anche amorevole. Giovane – quattordici anni sono pochi per diventare maestro. Il mio maestro ne aveva trenta, quando lo è diventato e tutt’ora sostiene che a quaranta sarebbe stato un maestro migliore – ha sicuramente difeso le proprie lacune con l’irrigidimento proprio di Aquarius davanti ai suoi piccoli allievi. Ma credo che padre, per i due ragazzini in Siberia, sia stata la definizione più calzante per un Gold responsabile e scrupoloso come Camus.

In quanto al rapporto con Natassia… lei ha sempre colpito molto il mio immaginario. Quella morte così stupida ed eroica me l’ha fatta amare da subito. Era così donchisciottesca nell’essere l’UNICA a non abbandonare la nave. Comprendo Hyoga che non riesce a liberarsi di una figura simile. Ma anche Camus è forte. E la lotta tra genitori cui hai fatto cenno… penso, sinceramente, che lui la prenderà sulle spalle come  una personale crociata. Con gli esiti che ci sono noti é_è

Riguardo alla MiloxCamus, grazie. Li sosterrò per sempre XDDD e l’ultima cosa che voglio è involgarire il loro rapporto, così particolare.

Anch’io amo Isaac. Non lo abbandonerò di certo nel suo sviluppo di Marine, anche se non lo seguirò come Hyoga, perché Neve, pur essendo corale, ha il cavaliere di Cygnus come fulcro.

Grazie come sempre per le tue parole e le tue riflessioni, che stimolano le mie.

Shinji: Ti confesso una cosa: io ho una PAURA TREMENDA delle sirene. E delle creature marine. Mi affascinano tremendamente, ma mi terrorizzano. *C*;;; se mi dovessi trovare davanti Natassia ne morirei. Altro che nuotare gioiosamente fino al suo relitto. Naturalmente è come dici: non è Natassia, che chiama Hyoga. E’ il suo ricordo distorto, ma proprio per questo più perturbante. Grazie per il tuo odio <3 Ti aspetto ancora >****<

 

Recensioni per l’ultimo capitolo de “Il Canto delle Cicale”
EriS_San:
Davvero, sono felice di averti commosso. Come dicevo, questi tre capitoli sono stati difficilissimi anche per me. ;O; La speranza c’è: i Cavalieri d’Oro si ritrovano insieme dopo.

D’accordo, li rinchiudono in una colonna d’ambra. Ò_o;;

Ma ti assicuro che da lì li faremo uscire. Vivi e vegeti. Abbi fede. çOç *abbraccia forte* Ti ringrazio tanto.

SnowFox: çOç grazie anche a te, tesoro, delle tue lacrime e dei tuoi complimenti. Ti stringo forte per tutte le volte che mi accompagni, capitolo dopo capitolo.

Ren_Chan: Sai meglio degli altri quanto fosse importante. Quanto ci tenessi. Soprattutto per voi, che l’avete seguita da tanto vicino. E che ci siete dentro. …vuoi mettere avere Milo in angst nei roleplay? Adesso sta meglio! *C*   …ti adoro. çOç Grazie.

Damaris: Hai ragione: questo trittico è difficile. E’ stato difficile dalla mia parte, scriverlo, quindi immagino che abbia richiesto lettori agguerriti. Si trattava di dipanare un gomitolo di lacrime e rabbia enorme, che occupava tutto il petto di Milo. Ci tenevo particolarmente, dal momento che spesso e volentieri Milo viene  visto come un bagnino di Baywatch é_è E, insomma…no. Mica per altro. XD  I tuoi commenti però hanno commosso me: se dici che ho dato trasparenza ai personaggi, e a Scorpio in primis, se le emozioni hanno passato da me ai lettori… Damaris, non potevi farmi dono più grande. A scapito di peccare d’immodestia, confesso che amo questo trittico più di ogni altra cosa che ho scritto. Ah, ma non sono obiettiva. XD

…sì, Milo ha lo spettro di Camus, tra le mani. Ma, ahimè, sappiamo che Camus presto si dissolverà al termine delel Dodici ore e Milo perderà la vita scontrandosi contro Rhadamanthys. E moriranno ancora, insieme, in quel modo tremendo, al Muro del Pianto. Non c’è niente da fare, questa nuova serie è una valle di lacrime. Ma il Nigredo, la morte, con cui finiamo, preannuncia un Albedo, sempre. E con l’Heramachia stiamo lavorando proprio a quello. ^_- Mi permetto di non perdere le speranze, allora. Ma hai ragione: il pieno sollievo, non c’è. Rimane in sospeso, il sollievo, nella morte. E’ il lutto che va elaborato. Mi è costato moltissimo, in emozione, questo trittico. E sapere che l’hai apprezzato mi ripaga di tutto. Ancora mi inchino di fronte alle tue analisi che mi hanno aperto il cuore a metà. Grazie sempre, di tutto.

Stateira: MALEDETTA. E così hai resistito! *C*;;; Bene. Benebenebenebenebenebene. BENE.

Sappi che la pagherai per questo affronto. Scrivo una roba solo per farti scoppiare in lacrime addosso a Socrate, vedrai se non è vero! *C*;;; Lo farò.

…a parte la mia vendetta, che sarà implacabile, ovviamente, ti ringrazio per la lettura e il commento. Per avere sopportato lo strazio con me, anche senza piangere ( >_> ). Perché, sì, vedere Camus così, è peggio che vederlo morto, in qualche modo. E almeno da questa parte del foglio abbiamo saputo in tempo che non era un tradiore. Ma di là si stava peggio, eh? ;O;  Un bacio grande. Goditelo, prima che ti metta le mani addosso <3  XDDDD

ArabianPhoenix: Ti ringrazio. çOç Guardalo, l’anime! E’ TREMENDO, giuro. Lo stanno trasmettendo doppiato proprio in questi giorni, guarda çOç ..Eh, hyoga avrà la sua parte nelle scene canoniche. Questo trittico era per Milo e Camus <3

MaluLani: Grazie tesoro! Sì, finisce, e il mio fegato tira un sospiro di sollievo. çOç Grazie che mi aspetti anche su Neve! çOç Vedi? Arriva.  Ma su Milo e Camus ci sarà altro: c’è tanto da scrivere. Sei preziosissima. Un bacio enorme tutto per te.

EvenstarLyra: Mi hai intenerito tantissimo. Giuro. Adesso cerco il tuo blig personale o un indirizzo mail e vengo a trovarti. O aspetto che tu torni dalle vacanze, ecco. Vai e divertiti e torna piena di sole greco, di rovine antiche e di mare profumato. E portamelo, che voglio sentire tutto. Non vedo l’ora di andarci anch’io çOç.  Le tue confidenze sono state dolcissime, Ti ringrazio ancora. La redenzione c’è, vedrai. Soprattutto per i Cavalieri d’oro.

Anche a me ha fatto piacere conoscerti. Molto. Ti aspetto ancora per condividere altro. Un bacio.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Come un rito ***


CAPITOLO: Come un rito

PERSONAGGI: Hyoga, Isaac, Camus. Poi Vachtangov, Natassia,  Katja.
IN PROPOSITO: Passano gli anni. Quattro. Un capitolo di passaggio che spero di avere reso passabile.
PUBBLICITA': Faccio ancora pubblicità a GoldSaints, l’account comune che gestisco con altri tre cavalieri d’oro: Camus dell’Acquario, Aphrodite dei Pesci e DethMask di Cancer. E' online il nuovo capitolo dell'HERAMACHIA – PROLOGO, pensata e realizzata con Ren-Chan e Kijomi, e io sono in sollucchero. La smetto e vi abbraccio, lasciandovi al resto. >***<




E’ un pomeriggio di inverno. Hyoga sa che il suo compleanno è vicino, ma sa anche che non lo festeggerà mai, lì dov’è. Nessuno lo festeggia mai, lì.
L’ultima volta che l’aveva celebrato era stato a Mosca. Aveva sonno, ma resisteva stoicamente, gli occhi pieni d’oro e di luce. Il vecchio Vachtangov l’aveva messo in prima fila nella piccola platea del seminterrato. Era così piccolo Hyoga, che quella sera compiva cinque anni, che Vachtangov – bestemmiando tutto il calendario dei santi e tossendo per la malattia che lo consumava – aveva ammucchiato una pila di cuscini rossi sulla sedia nell’angolo, perché potesse vedere bene, predisponendo tutto con la cura di un rito. Era il suo regalo per Hyoga.
Un giovane spettatore aveva protestato, dietro, ma il regista non era indietreggiato di un passo, inamovibile, come un Gold Saint. Aveva detto al ragazzo che lui così aveva deciso e così doveva essere e se a lui non stava bene poteva tornarsene fuori nel freddo di Mosca: gli spettacoli di Vachtangov non erano per le mammolette. E giù un'altra sequela di bestemmie che avrebbe fatto arrossire un mandriano della tundra.
Quando Vachtangov diceva quelle cose, in genere  Natassia aveva la cura di distrarre Hyoga, o di mettergli le mani sulle orecchie. Quella sera però Natassia era dietro le quinte e Hyoga aveva imparato così molte parole nuove: un giorno ne avrebbe usata una durante uno scontro, per definire un Silver Saint, lasciando a bocca aperta uno sconvolto Ikki di Phoenix.
Anche quello sarebbe stato un regalo del vecchio Vachtangov.


C’era un periodo – in inverno - in cui si concentravano tutti i compleanni. Tutti vicini. A Mosca, nel teatro, pochi compivano gli anni quando li compiva lui.
Hyoga in principio era rimasto colpito dal caso: non più di una manciata di giorni per festeggiare tre persone, per alzare la testa e guardare le stelle.
Quando la vita si svolge in piccolo, nei grandi deserti ghiacciati, tanto più le cose semplici diventano enormi. Si ingigantiscono.
Come la paura per un relitto che ride crudele sotto alla banchisa, ad esempio.
Come una ricorrenza. Come un rito.
Il rito che ricordava il giorno della nascita, anno dopo anno, era tenuto in grande considerazione, perfino in quella piccola isba a nord di Peveck in cui si era così poco propensi a togliere tempo agli allenamenti in favore di feste poco utili alla formazione di un guerriero.
Non poteva essere altrimenti per chi giocava la propria vita in olocausto sull’altare di una tavola zodiacale.
E com’era vicina la costellazione guida del Cigno, allora: luminosa nel cielo scuro della notte lunga mesi e mesi. Camus li portava a vederla fuori dall’isba, quando le tempeste di neve si placavano e le stelle, ordinate come gemme sul velluto, scintillavano benevole su di loro, come un'unica luce. Hyoga schiudeva le labbra e spalancava gli occhi, innamorato di quei gioielli, e si sentiva come chiamato verso di essi, da una forza che non riusciva a spiegare. Una volta si era scoperto con la piccola mano tesa verso l’alto, verso le ali spiegate del cigno brillante. Invaso dalla serenità di una comunione segreta tra se stesso e quella bellezza.
Poi si era raggelato, nel notare la propria mano aperta, il braccio appena teso, nella stessa posizione in cui lo aveva avuto chiamando da una scialuppa la mama che affondava, teso verso di lei come ora si tendeva alle stelle.
Altrimenti, se non c’erano gesti a ferire il cuore, un ragazzo e due bambini rimanevano uniti e silenziosi con il naso verso il cielo a guardare la Croce del Nord.
Il ghiaccio raccoglieva il bagliore delle stelle e lo rifletteva, trasformando tutto in una laguna di sogno. Hyoga e Isaac si premevano alle gambe di Camus, timorosi di qualsiasi rumore: erano sicuri che anche un ago, cadendo in quel silenzio magico e ovattato, senza vento, avrebbe potuto spezzare l’incanto sacro. Allora sembrava che ci fossero solo loro tre non solo a Peveck, non solo in Siberia, ma in tutto il mondo. Ed era una sensazione così bella che colmava il cuore.
Talvolta Camus girava lo sguardo altrove cercando altre stelle ed altri gioielli e restava così, a guardare, attratto come Hyoga dalle gemme del Cigno. Quando i bambini avevano indagato, il Maestro aveva detto loro che era la costellazione di Aquarius che aveva osservato.
“Perché guardi Aquarius, Maestro?”
E quando i bambini facevano questa domanda, era sempre ora di ritornare dentro, a scaldarsi le mani e i piedi.
Hyoga in principio era rimasto colpito dal caso. Poi aveva compreso che caso non era, che il destino guida i passi anche quando non sembra e che Aquarius era la costellazione cui tutti e tre avrebbero alla fine dovuto volgere lo sguardo. Come in un rito.
Quando la vita si svolge in piccolo, nei grandi deserti ghiacciati, tanto più le cose più semplici diventano enormi. Come un rito.
Da quando Hyoga era arrivato in Siberia di compleanni ne aveva festeggiati quattro.
Quattro ne aveva celebrati Isaac e quattro ne aveva visti trascorrere il Maestro Camus.


Quella era una serata speciale anche perché Natassia era la protagonista dello spettacolo. Faceva molto freddo, ma lei aveva addosso solo un lungo vestito, dorato come i suoi capelli: sembrava una ballerina in un carillon, una principessa delle nevi. Hyoga aveva molto sonno, ma resisteva stoicamente: doveva sostenere la mama e poi sapeva che dopo ci sarebbe stata la festa. Si sarebbe festeggiato lo spettacolo e anche la sua nascita. Forse Natassia avrebbe baciato Igor. Hyoga era disposto a passarci sopra, perché sapeva che qualcuno aveva portato dei biscotti con lo zucchero e che adesso erano nascosti dietro al paravento.
Ci sarebbero stati vino, birra e vodka quando gli spettatori se ne sarebbero andati e tutti sarebbero stati contenti e Vachtangov avrebbe cantato canzoni antiche, con la sua voce profonda e forte che gli scuoteva il corpo magro e fibroso, che faceva vibrare le assi del proscenio, quando recitava.
Hyoga, adesso che ci pensa, la festa se la ricorda bene: si ricorda un pinguino di pezza con un sonaglio. Gliel’aveva dato Igor e l’aveva fatto suonare. Natassia aveva riso.
Erano stati regali bellissimi.


Il primo ad aprire le danze era proprio Hyoga: il 23 gennaio venivano sospesi gli allenamenti quotidiani solo per festeggiare con altri più duri. Prima decade, aveva sentito dire un giorno al Maestro chino sul tavolo a studiare arabeschi strani tracciati da chissà chi, tra un mucchietto di fogli e il samovar ammaccato. Prima decade: i sognatori.
E di sogni Hyoga ne aveva tanti, tutti bellissimi e tutti lontani.
Il sogno di un’armatura fatta di stelle, di un fiore da portare alla mama.
Di una famiglia fatta di Camus e Isaac da portare con sé in Giappone, quando vi avrebbe fatto ritorno, perché da solo non ci voleva tornare.


E’ un pomeriggio d’inverno. Hyoga sa che il suo compleanno è vicino, ma sa anche che non lo festeggerà mai, lì dov’è. Nessuno lo festeggia mai, lì.
Tatsumi, quello alto, pelato e con la cravatta, ha detto
per forza, ha detto, a festeggiare i compleanni di cento bambini non se ne esce più.
Ha detto così, Tatsumi e Hyoga se ne fa una ragione: il vecchio Vachtangov conosceva l’importanza del rito. Tatsumi no.
Quel pomeriggio però un rito si prepara. Un rito diverso.
I tuoni, fuori, rombano potenti. Fanno tremare il pavimento come la voce di Vachangov. I lampi illuminano la palestra privata della Villa con la loro luce spietata.
Tatsumi li raduna tutti intorno a sé. Li guarda come quello che sono, l’inconveniente ingombrante che si pone fastidioso tra lui e l’incontro di kendo in tv. Vuole fare in fretta. Si stringe la cravatta e dice: “Il signor Kido vi ha accolto in casa come figli. Adesso vi manda nel mondo come guerrieri, affinché conquistiate le armature”.
Hanno spiegato bene loro cosa devono fare: alcuni bambini sono molto confusi, altri molto determinati. Hyoga è tra quelli confusi.
Non per paura: Hyoga è un bambino coraggioso, come la sua
mama. Solo, non capisce perché debba sbattersi tanto, lui che sapeva già leggere a cinque anni, anche se piano piano, che scriveva già, anche se in nel suo alfabeto, quando era arrivato a Villa Kido. Non aveva dovuto imparare, come gli altri a lui l’aveva insegnato Igor. A chi deve favori, lì in Giappone, lui che conosceva la storia della Russia dagli Zar al Socialismo, che il vecchio Vachtangov insisteva tanto?
In silenzio guarda Tatsumi mettere in bella vista un’urna in cui pescare le destinazioni segrete, ognuna piegata in un pezzetto di carta.


Agli inizi di febbraio, il 7, che è un numero magico, era il turno di Camus. La seconda decade: chi si trattiene. Camus aveva solidificato al freddo dei monti Verchojanks le acque di Aquarius come nessun’altro aveva mai fatto, probabilmente, e la sua mappa stellare si era cristallizzata.
Coincideva, adesso, con i gioielli che erano la sua costellazione brillante, pura com’era pura la neve nella notte sopra la sua testa. Coincideva perfettamente.
E non si muoveva di un millimetro, Camus dell’Acquario, al di fuori della propria strada tracciata di Saint di Athena, non si era mai fatto concessioni. A parte una.
Tutti si meravigliavano della sua solennità e del suo rigore, dagli uomini della steppa che vedevano tanto potere inspiegabile in un giovane sottile dai capelli rossi, ai guerrieri di Grecia. Quando era bambino e già era naturale, nei suoi movimenti, quella composta eleganza che lo avrebbe caratterizzato per sempre, si era stupito perfino qualcuno a Blue Grado, nel vederlo aggirarsi di fianco al suo Maestro nelle strade di pietra cosparse di sale.
Non si era mai fatto concessioni, a parte una.
Camus tornava regolarmente ad Atene due volte l’anno. Rimaneva laggiù pochi giorni, poi tornava in Siberia. Da quando Hyoga era giunto alla locanda di Peveck, con i suoi occhi enormi pieni di richieste inespresse, Camus era andato e tornato otto volte.
Non aveva più permesso a Milo di tornare a trovarlo, e non sapeva che Milo in realtà era venuto, in quegli anni, sfidando ancora il freddo e la segretezza.
Concedendosi quello che Camus non osava.
Scorpio era partito da Atene una mattina, senza nessuna intenzione di rifarsi aereo e Transiberiana: aveva detto a sé stesso – e a DeathMask che aveva incrociato al principio della scalinata – che avrebbe usato questa volta mezzi più consoni ad un Saint, per spostarsi.
DeathMask aveva annuito, adombrato, senza dare troppo peso al fatto: aveva altro a cui pensare. Nella fattispecie, due borse piene di mandarini che gli pendevano ai fianchi. Nulla che potesse spaventare un Saint, naturalmente, ma portarle su gli seccava. “’Staminchia, ciuro, buon viaggio allora” passò oltre, ruvido. Poi si girò verso Milo “Che, dei mandarini non li vorresti mica?”
DeathMask aveva condotto il proprio allenamento in Sicilia e probabilmente c’era anche nato, a giudicare dall’accento. Se qualcuno gli avesse proposto di ritornarci, anche giusto per dare un’occhiata in giro, sarebbe stato fulminato da uno sguardo rosso e obliquo. Milo lo sapeva perché ci aveva provato, una volta, e Cancer aveva borbottato qualcosa – a suo modo anche affettuoso – a proposito dei mocciosi che non avevano mai visto la Bocca dell’Ade durante un addestramento.
Non gliel’aveva domandato più, anche se spesso DeathMask aveva fatto riferimento ai territori italiani: per lo più, era della ferrea convinzione che più ci si allontanasse dal mediterraneo e più la cucina facesse schifo e sui prodotti alimentari raramente transigeva.
Così Milo era partito per la Siberia con mezzi più consoni ad un Saint, ma con una manciata di mandarini in più.
Era arrivato proprio nella lunga notte siberiana, in febbraio, la stessa sera in cui Camus avrebbe alzato il volto a cercare le gemme della sua costellazione. Aveva scelto la data con cura, per festeggiare con lui. Mancava ancora tempo all’ora in cui il Maestro dei Ghiacci avrebbe tirato su il naso nella notte e quando Milo era arrivato all’isba, di soppiatto, ci aveva trovato solo un ragazzino.
Solo uno dei due giovani allievi dell’amico: malato, al bambino era stato concesso di evitare l’allenamento, quel giorno, e Milo si era trovato a fissarne gli occhi verdi indagatori, proprio sulla soglia.
Nel momento in cui Isaac si erse a difesa della casa davanti allo sconosciuto, facendosi il più grande possibile, Milo ammise con se stesso di avere fatto un errore: nelle sopracciglia aggrottate del ragazzino vide espressamente il disappunto di Aquarius.
Quello che fece fu mettergli i mandarini in mano, rapido e senza possibilità di replica.
“Non dire a Camus che sono stato qui! Capito bene? Non dire a Camus che sono stato qui!”
Senza parole per la sorpresa, Isaac aveva potuto solo guardarlo girare sui tacchi e scomparire nel bianco circostante, come se avesse Hades alle calcagna.
Isaac non disse a Camus che Milo era stato lì, mai. I pochi mandarini di DeathMask aiutarono la malattia ad andarsene e quello del misterioso sconosciuto apparso una volta sulla soglia di casa fu uno dei pochi segreti che il ragazzo tenne con il suo maestro. Kraaken a parte, s’intende.
Se Camus avesse saputo o anche solo immaginato la capricciosa sortita di Milo nelle lande russe, sarebbe andato in collera.
Il fatto era che Camus non si era mai fatto concessioni. Tranne una enorme. Tranne Milo: l’unica crepa sottile sulla superficie dei suoi monti Verchojanks.
E sebbene difendesse questa unica debolezza con tutto se stesso dalla rigidità della Tradizione dei Ghiacci, ne aveva anche una paura sconfinata.


Tatsumi gli ringhia di avvicinarsi e di fare in fretta, che è il suo turno e non è che possono aspettare per tutta la vita.
Hyoga ha voglia di dire a Tatsumi un paio di quelle paroline che ha imparato a Mosca, ma ha abbastanza buon senso per tacere. Pensa a dove possa esser finito il suo pinguino con il sonaglio, mentre infila la mano nell’urna. Ce l’aveva anche sulla nave?
Ma il pensiero è sgradevole, allora lo scaccia.
Dove sarà mandato a Hyoga importa poco, in fin dei conti.


Terza decade: gli anticonformisti. E Isaac, nato il 17 febbraio, ci cadeva dentro con tutte le scarpe. Camus aveva riconosciuto l’indole del suo primo allievo dal momento in cui era arrivato da lui nella neve, lo sguardo determinato, i capelli castani così corti da non coprirgli dal freddo nemmeno il collo. Di entrambi i suo ragazzi conosceva l’animo più nascosto, così come conosceva il mare sotto la superficie ghiacciata. Isaac l’aveva inquadrato bene, riconoscendo l’impeto e la tensione emotiva guizante sotto il rispetto e l’obbedienza e sapeva che lui, in qualità di Maestro, avrebbe dovuto aiutarlo ad imbrigliarla, per fare di lui un Saint.
Isaac in quei quattro anni era cresciuto forte e bello, in centimetri di altezza e in massa muscolare e dimostrava, ad un occhio poco esperto, qualcosa di più dei suoi tredici anni. Hyoga, più minuto e fragile, conservava ancora la bellezza dell’infanzia e guardava all’amico con ammirazione crescente, come ad un modello secondo solo a Camus.
Non era il solo a subire il fascino di Isaac.
Allo sguardo attento di Camus, che di tanto in tanto accompagnava gli allievi alla locanda a far carico di provviste e corrispondenza, non erano sfuggite le frasi sempre più disconnesse, le occhiate fin troppo rapide e gli improvvisi rossori della piccola Katjia, quando si accostava all’allievo maggiore. Non era mai stata una ragazzina troppo remissiva e la sua parlantina metteva a tappeto i mercanti che arrivavano da fuori: eppure sembrava perdere gran parte dell’uso della propria grammatica, se doveva comunicare con Isaac dei Ghiacci.
Da qualche tempo aveva abbandonato il caschetto, più pratico, e insisteva con la madre perché lasciasse portare i capelli lunghi. E no, non ne avrebbe fatte due treccine, che schifo!
Dal canto suo, Isaac se la cavava meglio: l’allenamento irrobustiva il carattere, non solo il fisico, tuttavia - notava in silenzio il Maestro - davanti alla piccola Katjia il ragazzo non dava prova della stessa sicurezza che ostentava davanti ad una qualsiasi superficie ghiacciata.
Camus era solito farsi i fatti propri, nella vita pubblica e in quella privata. Ciononostante si era sorpreso più di una volta ad indagare sulla cosa, prendendo da parte Hyoga che si trovava spesso a fare da innocente spettatore agli incontri degli amici alla locanda di Peveck.
Severo con se stesso, spesso si rimbrottava la propria curiosità. D’altra parte, si diceva, doveva monitorare quella nascita di emozioni nel cuore del suo allievo che avrebbero potuto compromettere la sua crescita marziale, non era così?
Sconfitto, alla fine, si rendeva conto che lui, che non si faceva nessuna concessione a parte una, enorme, era l’ultimo che potesse dire qualcosa.


Dove sarà mandato, a Hyoga importa poco, in fin dei conti. Basta tornare e farlo con l’armatura.
Non gliene frega niente, finchè non estrae il biglietto dall’urna di Tatsumi e il biglietto dice:
SIBERIA.
A quel punto gli importa molto, perché, programmato o no, quella sera di gennaio gli ha fatto un dono importante.
“In Siberia. Dove riposa la mama.”


C’era un periodo – in inverno - in cui si concentravano tutti i compleanni.
Il rito che ricordava il giorno della nascita, anno dopo anno, era tenuto in grande considerazione, perfino in quella piccola isba a nord di Peveck in cui si era così poco propensi a togliere tempo agli allenamenti in favore di feste poco utili alla formazione di un guerriero.
Per quattro anni Camus li aveva portati a vedere le loro stelle fuori dall’isba, quando le tempeste di neve si placavano ed esse, ordinate come gemme sul velluto, scintillavano benevole su di loro, come un'unica luce.
E sembrava che ci fossero solo loro tre non solo a Peveck, non solo in Siberia, ma in tutto il mondo. Ed era una sensazione così bella che colmava il cuore.




Rispondendo:
Ren_Chan: *C* Sai benissimo cosa stavo cercando di fare *C* Ngh!
Shinj: Grazie tesoro >O< Sì, il futuro di Isaac è segnato al di fuori della grazia di Athena, ma in quella di Poseidon, non si può far niente. Speriamo di accompagnarlo nel modo più indolore possibile çOç mi impegnerò! çOç
Malu Lani: XDDD Tesoro! Oh, tu mi rendi felice çOç Salta sulla sedia ancora! çOç *ABBRACCIA FORTISSIMO*  grazie per i complimenti. <3 E…si. Adesso la malinconia prenderà piede, temo é_è Siamo al giro di boa.
SnowFox: Grazie di tuttotesoro çOç Sei sempre generosissima nei tuoi commenti e sono felicissima che ti piacciano. é_è Farò del mio meglio per cercare di coinvolgerti sempre >O<
Damaris: Come sempre le tue parole commuovono çOç  Il rapporto tra Camus e i ragazzi, lo sai, mi ammazza di tenerezza. E’ difficile non creare intimità, quando si pensa al luogo di addestramento dove Camus è stato sia maestro che allievo, e al rapporto instaurato con i due bambini: tra i maestri dei Bronze Saints, a mio parere, non c’è nessuno che come Camus abbia ricalcato una figura paterna, anche con l’autorità e la severità che ha dimostrato, nell’educazione implacabile che ha impartito. E la tua analisi di qualche tempo fa, sulla “contrapposizione” tra Camus e Natassia agli occhi di Hyoga è assolutamente perfetta e sentita da parte mia. Insomma, la Famiglia dei Ghiacci offre tanti spunti che mi sorprendo sempre.
Il presagio oscuro del Kraaken ormai aleggia. Io ho fatto di tutto per tardare questo momento, ma ormai siamo in dirittura di arrivo é_è *si aggrappa a Damaris*  Una preinvestitura, dici. Quando l’ho letto, ho avuto un brivido per l’esattezza della tua definizione.
Diciamo che alla fine ad Isaac non va nemmeno troppo male: Poseidon si dimostra un dio niente male ( schizzi misantropi a parte ) e affascinante fin dall’epoca del mito. Ma il senso di lutto imminente è palpabile comunque, nella storia di Kurumada.
Ho pensato ad Isaac e alla tua osservazione sul fatto di volerlo seguire fino al suo arruolamento come Marina: non ero d’accordo, all’inizio, perché mi sembrava di allungare il brodo in una fanfiction che mi sembra già piuttosto lunga – e mi spiacerebbe se dovesse perdere di mordente – ma più ci pensavo e più mi sembrava di lasciarla incompleta, senza seguire Isaac. Lavorerò in modo da portarlo dritto dritto tra le braccia del Kraaken, allora: sperando di essere in grado di farlo é__è
Tu stammi vicina e non mollarmi che ci proviamo insieme! çOç <3
ArabianPhoenix: Grazie per la tua vicinanza >O< Leggi, leggi io sono qui he ti aspetto. çOç E’ molto carino quello che stai facendo çOç <3


Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Come i sogni ***


CAPITOLO: Come i sogni

PERSONAGGI: Camus, Isaac e Hyoga. Poi: Katja.
IN PROPOSITO: Hyoga ha un sogno da qualche tempo e una notte entra nel suo panorama onirico. Camus gli suggerisce di lasciarlo perdere.
COSE: I dialoghi sull'importanza del sogno, nel flashforward di Hyoga e Milo appartengono a Kurumada, sono stati tirati giù pari pari per la loro sconvolgente bellezza *C* Un grazie a Leryu per avermeli fatti notare. I dialoghi dell'ultima parte del flashforward, sempre di Milo e Hyoga, sono invece tirati giù dal Doppiaggio Storico della versione italiana dell'anime. Li ho sempre trovati di una bellezza sconfinata. é_è Godeteveli. Per l'interpretazione del nostro Camus si ringrazia lo stesso Camus <3



Bastò un pugno dato con precisione sulla spessa banchisa, come quello del Maestro Camus, che spaccava ghiacci e montagne. Hyoga nemmeno sentì l’urto sulle nocche, ma la banchisa si spezzò, con un boato, e il ghiaccio esplose nell’aria, ricadendo attorno a lui. Non sentì nemmeno il vento, nemmeno
la Polvere dei Diamanti sul viso.
Adesso però i suoi piedi si stagliavano sull’abisso che lui stesso aveva creato: una decina di metri scoscesi di ghiaccio bianco e spesso e infondo l’acqua nera. Guardò giù e giù c’era un volto pallido e bellissimo che affiorava con lentezza disarmante. Hyoga non provò paura, ma sentì il proprio cuore spalancarsi d’amore così come si era frantumata la banchisa: era un volto conosciuto, di donna, di principessa russa. Cantava, senza muovere la bocca pallida. Un canto dolce e roco, che sovrastava il fragore del vento, quello di Natassia, un canto di sirena. Hyoga non lo conosceva, ma si sorprese a muovere appena le labbra, intonando a bassa voce con lei.
Natassia aprì gli occhi, azzurri e limpidi, come quelli del figlio, i capelli biondi appiccicati al viso si aprivano nell’acqua, intorno alle sue spalle come la corolla di un fiore. Gli sorrideva, con la bocca piena di ghiaccio e d’acqua scura.
Anche Hyoga sorrise.
Lei scomparve, sotto il pelo dell’acqua, lanciandogli uno sguardo dolce e lui si gettò dietro di lei, in un tuffo perfetto. Aveva in mano un piccolo fiore rosso, di quelli che di tanto in tanto si trovano nella tundra, quando il cielo è latteo o brilla l’aurora boreale.
Non sentì il freddo dell’acqua, solo il suo morbido ovattare i rumori. Tutto era verde e dolce, non c’era niente di spietato nell’acqua sotto al ghiaccio, anche se da fuori sembrava nera e gelata: non la mama; non il piccolo fiore rosso nella sua mano; non il relitto romantico, di legno e con le vele strappate, sul fondale sotto di lui. Si domandò perché non fosse un’orrenda nave di metallo dalla chiglia squarciata, famelica e sorridente, poi lasciò andare i dubbi: era un veliero elegante, con le sartie al loro posto e la grande polena di legno: una sirena bellissima, con il volto di sua madre e la coda di pesce. E cantava leggiadra, la bocca dischiusa nella fissità del legno e gli occhi dipinti. Hyoga nuotò più in fretta e dagli oblò allargati dalla pressione dell’acqua entrò nel relitto, seguendo i corridoi muschiosi fino alla cabina.
Lei c’era, serena, distesa nel letto. Indossava l’abito migliore, quello che aveva messo per andare a trovare i nonni, per andare a cercare Mitsucoso, il papà di Hyoga. Intrecciava le dita sul ventre, sembrava che dormisse.
Hyoga si ricordò che era morta e nuotò fino a lei. Pianse e le sue lacrime divennero mare, spargendosi nell’acqua intorno.
Pianse a lungo e regalò il piccolo fiore rosso ai suoi capelli, liberi nell’acqua come alghe.
C’era un libro, sul comodino, le pagine piene d’acqua facevano ondeggiare la copertina corrosa, un libro di Camus, un libro scritto dal suo maestro. Che cosa buffa, pensò Hyoga, piangendo.
Si chinò su Natassia e le appoggiò le labbra sulla fronte, nel bacio di un figlio. Non come aveva visto fare da Igor, a Mosca, nel sottoscala, ma come aveva visto fare dal vecchio Vachtangov, qualche volta, che dava alla piccola Natassia il bacio di un padre.
Poi Hyoga si svegliò.

“E’ solo un sogno.”
“Sogno?”
“E’ solo un sogno pensare che arriverete vivi al Grande Sacerdote” le parole di Milo, Cavaliere d’Oro di Scorpio, faranno girare Hyoga verso di lui, con Shun ancora abbandonato tra le sue braccia, tra le colonne dell’Ottava Casa.

Si vestì in fretta, nell’isba rischiarata in quel mattino di luce, senza nemmeno fare colazione. Intonò qualcosa tra le labbra e Isaac lo guardò, seduto a tavola, un biscotto secco infilato in bocca per non perdere tempo mentre finiva di versare il tè. Hyoga sistemò bene gli scaldamuscoli, che iniziavano a logorarsi sul fondo, sempre a contatto con la neve.
“Muoviti Isaac, il Maestro ci aspetta!”
“Quanta fretta stamattina” borbottò l’altro deglutendo il biscotto e buttando giù il tè. Seguì Hyoga nella neve con la lingua ustionata.
Anche Camus notò l’entusiasmo di Hyoga: il morale alto migliorava il ritmo dei suoi attacchi e la rapidità nella sua difesa. Schivava i colpi di Isaac con più facilità del solito, per prenderlo perfino di sorpresa, qualche volta, balzandogli addosso nella neve.
Camus osservò i miglioramenti con stupore gratificato, dando agli allievi, ora dopo ora, esercizi più ardui in cui misurarsi, sotto il vento che da est frustava la distesa ghiacciata.
Eppure, non aveva animo sereno.
Le lettere ufficiali che giungevano da Atene non erano rassicuranti nè lo erano quelle di Milo che ad esse si mescolavano: l’umore di Hyoga non poteva essere contagioso. 
Al Santuario stava succedendo qualcosa e Camus si domandò se non fosse quella la ragione del presentimento oscuro che da qualche tempo albergava nel suo petto. Aveva deciso di andare ad Atene a toccare con mano: una visita al di fuori dai programmi – cosa per Aquarius ben insolita – ma che credeva di non poter rimandare. Era stata l’ultima lettera di Milo a convincerlo, letta dopo i rapporti ufficiali, sempre più freddi, redatti per mano del Grande Sacerdote con autorità eccessiva: “Non saprei cosa dirti, in proposito, Camus. Se ne dice tanto, qui, non si fa che dirne, ma tra i Cavalieri d’Oro è come se, per qualche motivo, non se ne potesse far parola, lo sai. Aioria ha gridato all’inganno per anni e tutti lo guardavamo come se fosse pazzo. Invece adesso, soprattutto tra i soldati, non si fa che bisbigliare di quanto i tempi siano cambiati. Ho visto Shura serrare le labbra fino a farle diventare bianche, l’altra sera, al tramonto, quando qualcosa gli è giunto all’orecchio, ma non ha detto niente. Tu ti ricordi com’era, quando ancora erano qui Saga e Aioros? Il Cosmo del Pontefice, com’era? Privo di ombre come dicono tutti, nelle taverne di Colono, o esagerano come sempre esagera chi pensa al passato con nostalgia?”
Camus non rammentava: come per Milo i ricordi dell’infanzia al Tempio acquistavano contorni fumosi, appiattendosi in un unico tappeto in fondo all’anima.
Riponendo le lettere nella tasca del cappotto, piegato ordinatamente sul ghiaccio accanto a sé, Camus decise lucidamente che da quel momento avrebbe tenuto gli occhi aperti, ma avrebbe guardato con distacco gli avvenimenti politici inerenti al Mondo Segreto: quello che doveva fare, adesso, era preparare dei guerrieri. E non il Pontefice, ma per la dea Athena.
Gli stessi guerrieri che adesso rotolavano ridendo nella neve, davanti a lui: un attacco tirava l’altro e al termine di una mattinata di allenamenti si fa presto a farsi trascinare in un gioco violento.
“In piedi, ragazzi. Voglio vedere le tecniche speciali. Ora.”

“Perché non attacchi, Hyoga?” una volta lasciati passare i suoi amici, Milo lo provocherà insinuante, lo sguardo fisso sul giovane allievo di Camus – che tanto gli avrà parlato di quel discepolo fragile e forte, in confidenze rare e preziose; nelle lettere, tra gli ulivi, nelle notti calde al Santuario – piegherà la testa sulla spalla, in un atteggiamento ingannevolmente inoffensivo, prima di scoprire le carte “Se non cominci tu, lo farò io”.
Con un gesto teatrale del braccio, col fascino di un attore consumato, Milo si getterà dietro le spalle il mantello, mandando in frantumi il ghiaccio in cui era stato imprigionato.
Avrà riconosciuto, ormai, l’allievo di Camus, tra i ragazzi che sono giunti al tempio, nei capelli biondi e negli occhi azzurri che lì, l’uno davanti all’altro, si riflettevano nell’avversario come un gioco di specchi.
E’ per Camus e per sé che sceglierà di affrontarlo e di non lasciarlo ad altri - Camus che vorrebbe risparmiare la vita dell’allievo di Bronzo e allontanarlo dalla battaglia, che non può competere con dei Gold Saints;  Camus che è stato via sei anni, in Siberia, e Hyoga l’ha cresciuto anche con la nostalgia di Milo.
Scorpio incresperà le labbra in un sorriso di superiorità divertita. Poi, con calma, senza togliersi il piacere del gioco per il gioco, inizierà ad infliggere gli Scarlet Needle.
Uno dopo l’altro.

Isaac chiuse gli occhi, sotto quelli attenti del Maestro, e in breve sentì montare in sé il potere, accendersi tra il  ventre e il petto in quella scintilla che fa esplodere le galassie. Camus lo sentì, il Cosmo di Isaac, candido e tagliente come un cristallo. Subito dopo percepì il divampare di quello di Hyoga, candido e avvolgente come la neve. Negli anni trascorsi il segreto del Cosmo era stato assimilato e con ottima padronanza.
“Bene” li incitò Camus “Abbiate come obiettivo l’armatura del Cigno e nel cuore la sete di giustizia e io vi aiuterò. Per quanto un obiettivo sia lontano, nulla è impossibile: se ci si crede e ci si impegna per realizzarlo, diventerà realtà”.
Hyoga  sentì vibrare in sé il Cosmo, poi raggiungere tutto il corpo, fino alle estremità. Mosse le braccia, nel disegno interno che gli era stato insegnato per bruciare il proprio potere, con attenzione, ed esso rispose più rapidamente del solito.
Se ne sorprese, ma nemmeno tanto: sapeva che tutto era dovuto all’emozione, all’ansia di provare davvero le proprie capacità quel giorno, per poi sgattaiolare oltre la collina ghiacciata, oltre la pianura, a nord, sul mare ghiacciato di Peveck.
Dove sarebbe bastato un pugno dato con precisione sulla spessa banchisa, come quello del Maestro Camus, che spaccava ghiacci e montagne. Hyoga non avrebbe nemmeno sentito l’urto sulle nocche, ma la banchisa si sarebbe spezzata, con un boato, e il ghiaccio esploso nell’aria, ricadendo attorno a lui. Non avrebbe sentito nemmeno il vento, nemmeno la Polvere dei Diamanti sul viso.
Di fianco a lui Isaac aveva puntato il dito innanzi a sé e creato il koliso, gli anelli di ghiaccio che avrebbero potuto imprigionare il nemico. Brillavano  sospesi nell’aria, concentrici, come se fossero formati da cristalli sospesi nell’aria. Uno spettacolo incantevole.
Hyoga mosse ancora le braccia, portò un piede davanti all’altro: e un attimo dopo il suo pugno sferrava la più potente Diamond Dust mai prodotta. Dopo il sogno di quella notte, la chiglia che lo aspettava, affamata, là sotto, non lo spaventava più.
Isaac e Camus spalancarono gli occhi insieme.

“Se non fai una scelta prima che le quindici stelle segnino il tuo corpo, morirai” in piedi davanti a lui, Milo assottiglierà lo sguardo in due fessure azzurre e gli punterà contro il dito “Scegli, Hyoga: la follia o la morte”.
Hyoga sarà inginocchiato a terra, tremante. E non per paura: da quando ha avuto l’armatura di Cygnus l’ha sempre onorata, ha compiuto atti di tale coraggio e forza che anche i combattenti dell’epoca del mito rimarrebbero a guardare con rispetto. Hyoga resterà a terra perché non potrà fare altro, per qualche attimo ancora, se non guardare il proprio sangue allargarsi sul marmo gelido e liscio della Casa dello Scorpione del Cielo, nella luce calda del pomeriggio inoltrato e delle fiaccole alle pareti.
Quando riuscirà ad alzarsi nuovamente, si getterà contro Scorpio, senza badare a ciò che avrà da perdere, confuso, svuotato  del senso della vita e della propria appartenenza ad Athena.
Perché l’uomo di fronte a lui combatterà con l’ausilio di un armatura e di un Cosmo d’oro. Lui, invece, sarà la prima volta che si contrapporrà ad un avversario senza l’aiuto dorato del ricordo di sua madre.
“Sei il primo che mi abbia portato ad utilizzare
Antares. Degno della mia lode: addio, Hyoga!”
Scorpio coinvolgerà la luce venefica sulla punta dei polpastrelli, la sentirà vibrare e si preparerà ad infliggere la quindicesima puntura.
Poi si arresterà di colpo: Hyoga ancora si muoverà stringendo le dita e i denti e, poiché alzerà il viso con tanta determinazione da fargli brillare gli occhi, Milo penserà bene di ascoltare ciò che il ragazzo avrà da dire: “Milo, non crederai che la parola ‘sogno’ sia sinonimo di ‘impossibile’, vero? Credere che sia impossibile realizzare un sogno è il pensiero di chi ha smesso di avere speranze nella vita. Qualsiasi sogno, se ci si crede e ci si impegna a realizzarlo, diventa realtà”.

L’orgoglio di Camus per Isaac dei Ghiacci e Hyoga della Neve gli riempì il cuore abbastanza da infondere un po’ di ottimismo perfino ai suoi pensieri sul Santuario. Lanciò un’occhiata alle lettere nella tasca della propria giacca e il rientro in terra di Grecia gli parve ancora necessario, ma meno apocalittico. Piuttosto, qualcosa che aveva visto negli occhi di Hyoga adesso, aveva preteso la sua attenzione. Qualcosa di inquietante nascosto nel fondo del suo sguardo, come una nave arrugginita appoggiata sul fondo marino. Era quello, che donava a Hyoga quell’energia strana?
“Katja!” Hyoga dovette deviare il colpo quando la slitta della ragazza entrò nella radura.
“Chiedo scusa!” gemette lei, calmando i cani “Sono venuta per le lettere del Maestro! Doveva spedire e sono passati a ritirare la posta prima, questo mese!”
Camus si avvicinò, affidandole la propria corrispondenza e prendendola dalle mani di lui arrossì appena. Arrossì di più quando incontrò lo sguardo di Isaac.
“Avete qualche minuto di pausa” concesse Camus.
Katja arrossì di più e Isaac mantenne l’espressione seria che non avrebbe abbandonato di fronte al maestro, pur avvicinandosi per scambiare qualche parola.
“Hyoga?” chiamò Camus, sedendosi poco distante, chiamando l’allievo a sé “Vieni qui, per favore”.

“Non esagerare, Cygnus. Hai già dimenticato la lezione di Aquarius?”
“La lezione di Aquarius?”  Hyoga spalancò gli occhi azzurri, come se il suo cuore si spezzasse, o come se Milo, con quelle poche parole, lo stesse rimettendo insieme. Camus non aveva voluto ucciderlo? Umiliarlo? Gettarlo nel fango? Lezione di Camus, che lezione di Camus?
“Te lo spiegherò adesso, finchè puoi ancora capire quello che dico”. Milo lo guarderà dall’alto, a lungo, prima di parlare, una mano sulla spalla di Hyoga, inginocchiato davanti a lui: le cuspidi sferrate avrebbero fatto effetto presto, lente ma inesorabili. “Camus ha cercato di salvarti, quando è sceso dall’Undicesima Casa alla Settima. Intendeva mettere alla prova il tuo coraggio e la tua risolutezza, non ti ha inflitto il colpo di grazia.”
Hyoga tremerà e a stento si leverà in piedi. Ricorderà Camus davanti a lui, rigido come in Siberia, quando non dava spiegazioni con le parole, ma con i fatti. Che era ricorso al più tremendo degli espedienti per liberarlo della madre, per spronarlo ad andare avanti.
“Vuoi forse dir che il Maestro ha compiuto tutto questo per…”
“Proprio così” Milo rilasserà appena le spalle “Per spingerti all’estremo e permetterti di acquisire il Settimo Senso. Era l’unico modo che avevi per poter combattere alla pari contro un Cavaliere d’Oro. Camus voleva aiutarti. Ma tu hai fallito.”
Hyoga emetterà un gemito sottile e Milo continuerà, implacabile.
“Grazie all’affetto che aveva per te, ha cercato di allontanarti dalla battaglia. Proprio perché non voleva che tu morissi ti ha chiuso in un feretro di ghiaccio, lontano da ogni ostile intenzione”

“E’ un sogno, Hyoga. Non la realtà.” Sibilò Camus quando l’allievo gli raccontò della sirena e del veliero in cui riposava Natassia.
“Maestro, non si tratta solo di un sogno. Ci penso da tanto, è fattibile…”
“Hyoga! E’ follia. Ancora pensi a tua madre? Ho proibito ad Isaac di pensare al Kraken come modello e tu ti accanisci in simili fantasie?”
Hyoga indurì lo sguardo, come se cercasse di proteggere qualcosa, in sé. Alle sue spalle, Katjia stava recuperando le redini dei cani, pronta a ripartire ed Isacc aveva infilato le mani in tasca.
“Maestro, erano le tue parole: non esiste nulla di impossibile, non esiste nulla che non possa diventare realtà se ci impegniamo a realizzarlo”.
Camus serrò le labbra. Era vero che l’aveva detto. “E tu credi di essere abbastanza forte per questo?”

“Così ho deciso, avrò pietà di te, Cavaliere. Ti risparmierò la vita per rispetto a Camus, a patto che tu lasci Atene per non farvi più ritorno”.
“No, non accetto!” il ragazzo indurirà lo sguardo in fiera determinazione, alzandolo sulle spalle di Milo, sul suo mantello bianco come un fiore, per nulla piegato dalla battaglia. “Dillo anche a Camus! Non accetto la vostra misericordia, è un disonore che non merito!”
“Cosa hai detto? Un disonore?” Milo si girerà di scatto, come se fosse stato lui ad essere punto “Ho sentito bene, Hyoga?”
“Hai sentito benissimo!” Il ragazzo si tirerà in piedi, i denti serrati, lo sguardo appannato su Milo e il proprio sangue a terra “Come potrei desiderare di aver salva la vita se questo dovesse significare abbandonare amici con cui ho condiviso vita e timori, abbandonare i miei fratelli? Li lascerei a loro stessi per il solo scopo di avere salva la vita? No, Scorpio, non lo farò.”
Hyoga penserà ai quattro ragazzi con cui aveva dato l’assalto ad un luogo sacro. Penserà, però, anche ad Isaac e quando se ne renderà conto il suo monologo incespicherà. Non per tanto: solo per un momento in cui Milo resterà in silenzio, in cui comprenderà quanto straordinario sia Hyoga e quanto nobile sia il suo cuore. “Sopravvivere a questo prezzo non mi interessa. A chi mai interesserebbe? L’amicizia è un vincolo che non si disonora. Adesso difenditi!”
Hyoga si scaglierà contro Milo, con una velocità ed un’agilità degne di nota. Scorpio attenderà fino all’ultimo, non impressionato dalle doti fisiche del ragazzo, quanto da quelle oratorie. Le sue parole gli risuoneranno familiari e bellissime, all’orecchio, come quelle che avranno avuto, così tanti anni prima, i Cavalieri di Gemini e di Sagitter, parlando ai Saint più giovani con l’ardore di lirici achei. Come saranno state le frasi timide, controllate, di un ragazzino dai capelli rossi che diceva di voler essere come i ghiacciati monti Verchojansk. Milo rimarrà incantato, per un attimo.
Si riprenderà abbastanza in fretta da afferrare la nuca di Hyoga in corsa e fracassarlo per terra, con tutta l’armatura.
Hyoga stringerà i denti, ma non emetterà un gemito. Anche questo Milo ammirerà in lui.

Hai sentito, Camus? Farà vibrare il Cosmo, caldo e affettuoso fino alla Casa della Giara del Tesoro, a toccare quello dell’amico, finché non lo senti rispondere. Hai sentito? L’amicizia è un vincolo che non di disonora. Hai udito le parole di Hyoga, tuo allievo? Le parole di chi ha voluto difendere se stesso. Ha espresso il desiderio di battersi con me: è diventato un uomo, un cavaliere di cui non si deve avere pietà – la pietà che toglie onore, intende. Dunque lo combatterò con tutte le mie forze o ne sarebbe offeso il suo onore altrimenti, e insieme al suo, il tuo onore. E non posso permetterlo, Camus, perché l’amicizia è un vincolo che non si disonora.
“Adesso affrontarti in battaglia è come riconoscere il tuo coraggio” mormorerà a Hyoga, osservandolo a terra, un bambino coperto di sangue. Non gli darò requie. Sei d’accordo, Camus?
Più volte Scorpio aveva chiesto a Camus dei suoi allievi. Senza motivi apparenti, Milo era curioso e, delle cose vicine a Camus, Milo era curioso di più. Di Hyoga, Aquarius aveva detto che era un bambino sensibile, un bambino forte, ma che spesso la forza la nascondeva.
Milo in quel momento la vedrà tutta, anche il ragazzo restarà abbandonato al suolo.

Milo, amico mio, risponderà, in un sospiro di vento, il Cosmo di Aquarius dall’Undicesima Casa, io, Camus, ti ringrazio per avere capito quanto straordinario sia Hyoga.
“Hai scelto di combattere, Hyoga. Quindi alzati. Non ho intenzione di avere pietà di te. Alzati e combatti”.
Lo spronerà. Milo si accorgerà di avere perduto il consueto, familiare tono di sfida molto tempo prima. E sarà quasi accorato, quasi premuroso: “Bene, così: uno sforzo ancora”.
Hyoga si rimetterà in piedi, sostenuto solo dalla propria  volontà.
E quando guarderà in direzione di Milo il suo cuore mancherà di un battito, perché al suo posto scorgerà il Maestro Camus.
Che affilerà lo sguardo in maniera insolita per lui e si spingerà in avanti al grido di:
“ANTARES!”

“Lo diventerò. Diventerò forte”.
Nello sguardo indurito del ragazzino, Camus vide tutta la potenza finora assopita affiorare come un iceberg nell’acqua gelida. Quanta forza c’era davvero in Hyoga? Era solo un’illusione, un germe di follia, quello che vedeva, o nello sguardo posato e fermo con cui adesso lo guardava c’era uno scintillio del potere superiore delle stelle?
“Non diventerai forte pensando a tua madre, Hyoga. Così morirai, com’è morta lei.”
“Maestro, ciò che lei rappresenta è vivo. Lei…”
“Hyoga” Camus sospirò. “La motivazione devi trovarla sopra quella lastra di ghiaccio, non sotto. Raggiungere tua madre può darti forza adesso, ma cosa accadrà in un futuro, se dovessi affrontare un nemico in battaglia? Lo sconfiggeresti perché al termine della battaglia potresti andare a trovarla in fondo al mare? E a che pro, Hyoga? E’ morta. Lascia in pace i defunti. Lasciali riposare.”
Hyoga annuì, incerto, ma non osò controbattere, seppur ancora accarezzasse i propri sogni bellissimi.
Camus sentì la preoccupazione ingigantirsi in sé, perché sapeva di avere vinto solo una battaglia: al suo ritorno dalla Grecia avrebbe dovuto combatterne altre contro una sirena dal viso dolce per liberare le spalle dell’allievo da quello spettro ingombrante.
 “Torniamo a casa, adesso.” Disse, cercando di arginare ancora in sé quel presentimento oscuro. Isaac stava tornando verso di loro, le mani in tasca e un sorriso sulla faccia. Katjia li salutava da sopra la collina, scomparendo rapida con la slitta.

“Che la tua anima riposi in pace, Saint di Cygnus. Ti sei battuto con lealtà e corag…” Milo avvertirà un freddo intenso, come di perdita, di lutto imminente. Poi il gelo esploderà nel suo petto: quando crederà di avere battuto l’avversario – un avversario così insignificante come un Saint di Bronzo, come un bambino forte, ma che spesso la forza la nascondeva –  ecco che si troverà con le quindici stelle di Scorpio disegnate sul petto, a sfregio, che se non avesse avuto l’armatura d’oro, forse, sarebbe stato lui quello sconfitto a terra, lui che per combattere non si era nemmeno tolto il mantello, bianco come un fiore.
Allora sarà il momento dei dubbi e dell’onore che andrà ripagato.
Milo si inginocchierà a terra prendendo Hyoga tra le braccia. Lo cullerà appena, per fargli riprendere i sensi e con un unico colpo, come Antares stessa che affondava nel petto, fermerà l’emorragia.
Per far uscire al cielo d’Atene Cygnus, futuro assassino di Aquarius.
Per far uscire al cielo d’Atene Hyoga, piccolo paladino di Athena spodestata, diretto al Grande Sacerdote.
Per far uscire al cielo d’Atene un bambino che credeva nei sogni con una forza così sovrumana da congelare le quindici stelle di Scorpio, da convincere persino un Cavaliere d’Oro.




RISPONDENDO:
Shjinji:
Grazie, tesoro >***< Sei sempre carinissimo quando commenti. E più ti piace più sono felice. XDDD ma te lo immagini Hyoga dire quelle robe e Ikki che lo sente? XD

Evenstan_Lyra:
Ho letto il tuo commento con in finito piacere. Allora la Grecia ti è piaciuta! Sono contentissima. Ah, ma già il solo fatto che tu mi abbia pensata mi rende felice! >O< Grazie! Hai fatto un giro sul mio blog! çOç Che cara! L’avrai trovato in stato di tremendo abbandono, ma ti giuro che tra poco riprenderò a scriverci, l’ho promesso. Non sentirti invadente: mi fa piacere se mi contatti: anzi, in questi giorni proverò a precederti e a farlo io. Sei una persona deliziosa, mi farebbe molto piacere parlare con te. Un bacione! >***<

PerseoeAndromeda
: grazie per la lettura e per i complimenti, lo sai quanto mi faccia piacere da te. Le tue sono parole graditissime. La cotta di Isaac non è stata assolutamente colpa mia é__è Ha fatto tutto da solo! çOç

Ichigo:
XDDD sono d’accordo. La faccia di Milo era la cosa che più di ogni altra avrei voluto vedere in quel momento. çOç …mi hai detto una cosa bellissima. Grazie. çOç Fatti abbracciare!

Damaris:
Grazie per l’entusiasmo e la cura con cui mi segui sempre. Adoro la tua attenzione e le tue riflessioni. Sono assolutamente d’accordo con te e lo sai: i personaggi di questo manga, per quanto mi riguarda, hanno profondità da ritratti di Balzac, basta solo andare ad esplorarle é_è E sì, sono così tanti che meriterebbero molta più attenzione dal fandom. XD Vabbè, come chiunque io ho i miei preferiti, che sono palesemente quelli che mi spupazzo di più ( oltre al fatto che DEVO salvare Milo *C*;;; )   E’ vero: Kurumada complica tutto con una facilità disarmante, altro che Guglielmo Scuotilancia, e Poseidon rappresenta un ottimo terreno su cui mettere mano a livello drammaturgico. Damaris, non so se segui anche il Lost Canvas, ma stanno prendendo piede cose molto interessanti su Poseidon, Blue Grado e i Marinas: sono sicura che ti piacerebbe!

Per quanto riguarda il commento più stretto al mio capitolo: mi hai folgorata e insieme intenerita con la tua osservazione su Vachtangov e Tatsumi come due sacerdoti. E’ stato come vederli nel loro ruolo andando ben oltre, ancora una volta, alla mia narrazione, lasciandomi emozionata e rapita per quello che tu hai letto. Non posso che ringraziarti, sempre di più, per le letture che fai dei miei scritti. Grazie ancora. Ti copro di baci.

Malu Lani:
Ah, grazie, tu mi lusinghi! >O< L’atmosfera di Neve piace anche a me e più vado avanti e mi avvicino al momento critico, più ho paura di rovinare tutto. çOç Spero di mantenere tutto in carreggiata fino alla fine! Sì, lo so, perdonami é__è I miei tempi sono lunghi. Cerco di procedere con cura e, nel frattempo, di inframmezzare le mie Longfic ( Neve e Mele Avvelenate ) con delle oneshot che adoro <3 Ne ho in lista tante e invece di diminuire si allunga, fai te. ._. Ma Neve rimane una delle mie preferite e sono toccata da quello che mi hai detto. Adoro i tre protagonisti ( quattro, contando Milo ) e non posso che trarne piacere se li ami anche tu. >O<

Ah, grazie per avere apprezzato il piccolo cammeo u DeathMask! Ci tenevo particolarmente! XDDD >**< Un bacione!

SnowFox:
Ciao a te, tesoro >***< Non ti preoccupare, puoi ripeterti quanto vuoi <3 XD La cosa della tazza di tè prima di leggere Neve mi riempie di dolcezza. éOè Riesco quasi ad immaginarti. Sono contenta di sapere che anche lo scorso capitolo ti abbia entusiasmato come gli altri. >O< Adesso spero in questo. Ti abbraccio fortissimo. Grazie ancora.


RISPONDENDO alle recensioni per Gethsemane
Ren-chan:
Amore mio é__è Amorino. *ABBRACCIA*

Saorilavigne:
Si, è vero. Aioros è splendido nel suo essere cavaliere cortese al di fuori dall’ambiente cortese. E’ bellissimo che anche tu lo apprezzi! >**< Ti adoro.

ArabianPhoenix:
Grazie per le belle parole e per la tua presenza costante che mi riempie di piacere. Sono contentissima che Gethsmane ti sia piaciuta. Un bacio!

Bellatrix18:
Ci hai visto giusto. Il titolo è un richiamo al monte degli ulivi biblico – nonché una citazione del titolo della dou della splendida Necchan -  come molte delle citazioni nella fanfiction. Era un’idea che mi intrigava molto. Grazie per quello che hai detto di Saga e Aioros. Il loro rapporto io lo trovo squisito e tragico, spero di avere modo di scrivere ancora su di loro. Grazie per le tue belle parole in generale: mi fai arrossire! çOç <3 A presto e grazie di tutto!

Eje:
Ti ringrazio. Piacere di incontrarti proprio su Gethsemane e felice di sapere che tu l’abbia gradita. Grazie per le osservazioni e i complimenti, mi hanno fatto un estremo piacere: c’è sempre da vedere l’uomo, sotto il cavaliere, quando si parla di questi guerrieri magnifici. Grazie ancora, spero di vederti presto. Grazie davvero.

Shinji:
é__è oddio, tesoro! Oddio, grazie! Sono contentissima. E scusa Milo per quella cosa del divano! XDDD Un bacio grandissimo! >***<

Malu Lani:
quanti complimenti mi hai fatto… e quanti complimenti BELLISSIMI. Non so come ringraziarti per le parole che hai avuto e che hai sempre. Grazie anche per la fiducia, visto che Aioros non ti piace. Spero davvero di essere riuscita a fartelo apprezzare, almeno in questo frangente. Baci çOç

RISPONDENDO alle recensioni per Gran bel colpo, Kanon, vecchio mio.
Shinji
: Ancora grazie! >O< E’ una cosina che ho adorato scrivere, adorando sia Kanon che Isaac. Sono contenta che, trama a parte con il suo angst, ti abbia divertito! >O< Bacioni a te!
ArabianPhoenix: Grazie carissima! Felice che tu l’abbia trovata! No, non continuerà, si tratta di una one-shot! Anche a me ha sempre colpito il rapporto tra Isaac e Hyoga, non mi sembrava immediato l’odio di uno per l’altro, quando il sacrficio era stato così consapevole. Ho provato a spiegarlo così! Bacio!
Beat: accidenti, grazie! >***< Felicissima che tu abbia gradito. L’idea del genromaoken non è mia, ma di Vodia che ha commissionato il tutto. E’ davvero una bella idea, comunque, che appoggio! Odisseo per Kanon invece è un paragone che amo molto e che mi ha colpito da subito per la sua perfezione. Si adattano perfettamente l’uno all’altro, i furbacchioni dell’esercito acheo! XD
Damaris: non si tratta di un progetto preciso il mio sulle mie one shot. Escono, me ne rendo conto, come rete unificata, ma solo perché dietro c’è un lavoro introspettivo divertito: insieme ai Gold Saints ( quelli dell’account pubblico, non quelli del Santuario XD ) ci giochiamo, li analizziamo e li facciamo muovere e incontrare tra loro: il panorama relazionale fa miracoli. Non ha altro scopo che il nostro divertimento, ma poi, quando si va a scrivere, tutto il lavoro fa comunque da background per le azioni e tutto risulta amalgamato. Forse è per quello. E’ bellissimo che si noti dall’esterno, non mi ero mai soffermata a pensarci. Odisseo a parte, che davvero trovo perfetto per definire Kanon, come dicevo, e più ricordavo l’Odissea più ne ero convinta, ho trovato gustosissima l’analisi che hai fatto sul rapporto di affabulazione fascinazione tra Kanon e Isaac, che ha visto – volente o nolente – il secondo soccombere. Era da molto tempo che volevo toccare il loro rapporto, essendo i due personaggi della corte marina che più hanno toccato il mio cuore.
Per quanto riguarda il destino, ho cercato di rimanere il più possibile attaccata all’impianto del Kuru: si può lottare per cambiarlo, ma alla fine il grosso del tuo sentiero è tracciato.
Spero di avere fatto un lavoro accettabile. Ancora ti ringrazio della tua presenza e della tua cura nei miei riguardi. Baci. >O<
Engel: Mi inchino davvero. Quello che mi hai detto è davvero gratificante: sapere che la storia si legge fluidamente e che è curata agli occhi del lettore. Ti ringrazio e lo faccio con il cuore in mano. Sei una lettrice che è da portare sul palmo. Un bacio.
Manu Lani: çOç ah, ti è piaciuta! Grazie! Ho fatto di tutto per provare a sciogliere quel nodo gordiano che è la presenza di Kanon negli abissi. Grazie per le tue parole e per averla seguita con me. Un bacio immenso! …il titolo era divertente. XD
Ren_Chan: XDDDDDDDDDDDDDDDDDDDD Lo sai che l’ho fatto apposta per te. Per te e per la Nespola. Gh. Sì, gli ho messo in bocca cose tremende, ma lo sfido a rimangiarsele! *C* <3
Bellatrix18: *O* Anche tu adori Kanon! Beh, è uno dei personaggi più belli e complessi in assoluto, lo trovo assolutamente squsito. Per il piccolo Isaac ho una predilezione, poi. çOç Sono così contenta che ti sia piaciuta. Grazie per le tue parole. >***< Ti bacio ancora!

 

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Come per un gioco del destino ***


CAPITOLO: Come per un gioco del destino

PERSONAGGI: Hyoga e Isaac

IN PROPOSITO: Il dado è tratto, come si dice in questi casi: Isaac e Hyoga scelgono, più o meno inconsapevolmente, le loro strade e qualcuno dà loro una mano.

COSE:   Ci ho messo MILLENNI. In questo lasso di tempo - e con le sue tempistiche - Poseidon avrebbe potuto risvegliarsi e poi rimettersi a dormire. *C* ma alla fine ce l'abbiamo fatta! *C*



Isaac sospirò profondamente e si stiracchiò le braccia nude, così innaturalmente a suo agio in quel freddo di Siberia. Hyoga notò che quelle braccia si erano fortificate, i muscoli irrobustiti e allungati erano quelli di un giovane guerriero e non di un bambino. Era cresciuto.
E attraverso la crescita di Isaac, Hyoga notò la propria. Ne ebbe quasi paura, sgomento, nel razionalizzare quello che era avvenuto giorno dopo giorno, dal mattino gelido in cui aveva incontrato Camus alla locanda di Peveck.
Si sedette, sul bordo del ghiacciaio. Le mani appoggiate accanto alle sue gambe, a sostenersi; i piedi nel vuoto, molti metri al di sopra della distesa pianeggiante che si srotolava fino al mare, indurito dal freddo.
Hyoga guardò giù nel momento esatto in cui una coperta spessa e asciutta gli volò in testa, avviluppandolo.
Isaac rise.
“Copriti, o ti ammalerai. E il Maestro se la prenderà con me”.
Hyoga sbottò in un sorriso, riemergendo spettinato da sotto il panno, avvolgendoselo attorno.
“C’è mancato poco che non mi facessi franare di sotto”. Sogghignò.
Isaac gli lanciò un’occhiata beffarda. “Non saresti stato degno d’essere Cavaliere se fossi stato battuto da una coperta. Quindi zitto e non lamentarti, il Maestro Camus non ne sarebbe felice”.
Camus era partito, trascinato in Grecia dalle lettere che aveva ricevuto. Da giorni, i suoi allievi erano soli.
La mancanza del Maestro si sentiva: la sua presenza silenziosa, limpida e severa, aleggiava nell’isba, nonostante fosse lontano. Ma questo li rendeva orgogliosi. Più di una volta si erano detti che avrebbero dovuto dare il massimo, per mostrare a Camus i loro progressi, quando la sua figura elegante sarebbe apparsa da lontano, tra le nevi, per raggiungerli.
Isaac, avvolto nella propria coperta, si lasciò ricadere accanto a Hyoga. Respirò l’aria pungente e gelida con soddisfazione: amava quella terra selvaggia, e gli allenamenti che li tempravano giorno dopo giorno.
“Sei molto migliorato, sai?” lo guardò, al di sotto delle ciocche scomposte “ormai non c’è più differenza tra noi, siamo pari livello.”
"Nah.” Hyoga arrossì, guardandosi le ginocchia. Isaac era un modello irraggiungibile, appena sotto il Maestro Camus, ai suoi occhi “Ho ancora tanto da imparare”.
Isaac scoppiò a ridere: “Non c’è niente da fare, sei sempre lo stesso. Un pulcino umile e insicuro!”
La coperta di Hyoga volò sferzante sulla faccia di Isaac.
“Cosa sarei io?!”
“Un pulcino…”
“Cosa”
“Umile”
“Sarei”
“e insicuro”
“IO?”
Era seguita un’azzuffata con i fiocchi, proprio sul ciglio del precipizio. La paura di cadere non fermò nessuno dei due, addestrati a pericoli ben maggiori. In un groviglio di braccia, coperte e sghignazzate poco cavalleresche, Isaac si tirò su, un gomito amichevolmente appoggiato sulla schiena di Hyoga. Il ragazzino si sollevò, buttando l’amico a gambe all’aria. Un attimo, dopo rabbrividenti, avevano riguadagnato la posizione sul pendio per guardare lo spettacolo incredibile dell’aurora boreale, davanti a loro.
“Dico davvero, Hyoga…” Isaac lo guardò, sereno. “Dico davvero, dovresti essere più sicuro di te stesso. Bisogna avere fiducia se si vuole che un sogno diventi realtà.”
Hyoga lo guardò sbattendo gli occhi azzurri: aveva sentito molte volte, in quegli anni Isaac assumere quel tono, come di chi racconta una fiaba, e puntare lo sguardo all’orizzonte. Diceva sempre cose interessanti e che valeva la pena ascoltare, quando faceva così.
“Vedi, Hyoga,” cominciò infatti “Noi due abbiamo lo stesso sogno: diventare cavalieri del Cigno. Dobbiamo credere in questo sogno. E’ importante. Grazie ad esso potremo difendere la pace e la giustizia”.
Hyoga sollevò lo sguardo su Isaac che appariva già come un cavaliere, il portamento risoluto e i capelli sciolti nel vento. Si sentì inadeguato, nel suo essere davvero umile e insicuro – ma un pulcino mai, accidenti a lui – e abbassò lo sguardo ai cigni bianchi che volavano verso sud, stagliati contro i colori abbacinanti del cielo.
La giustizia, pensò. Serrò le labbra e lo ripeté ancora tra sé, come per convincersene. La giustizia.
E mentre o ripeteva sentì dentro di sé un potere antico vibrargli tra lo stomaco e il petto, dove di solito si bruciava il Cosmo.

Nella piana più a nord, ben oltre la piccola isba di Camus e di fronte alla costa gelata, i ghiacci si inerpicavano sui rilievi rupestri, fino a coprire per intero i monti Verchojanks.
Lì, in una gola millenaria, colmata da cristalli di neve induriti dal tempo, indistruttibili, sferzati dalla polvere di diamanti siberiana, riposava la Cloth di Cygnus.
Dormiva lì da sempre e sempre lì ritornava, per volere divino, ogni volta che il cavaliere del Cigno terminava la sua vita o deponeva le armi, nel corso della storia. Di giovani che avevano conquistato l’armatura non ce ne erano stati molti: correva voce, nel Mondo Segreto, che la sua quiescenza fosse rimasta inviolata fin dai tempi più antichi, quando il culto della bella Athena era ancora agli albori. O forse qualcuno c’era riuscito? Le voci tessevano realtà distorte. Era, insomma, una Cloth leggendaria, sebbene fosse solo di bronzo.
Quel suo essere spietatamente irraggiungibile rendeva da sempre scarse le speranze di Camus di potare all’obiettivo almeno uno dei suoi bambini, ma lo spronava a dare loro tutto sé stesso, per ottenere il risultato.
Nonostante le paure del Saint di Aquarius, quel giorno e in quella culla di ghiaccio, la Cloth di Cignus emanò uno scintillio di torpore, smanioso: il tempo del risveglio era vicino.
Come per un gioco del destino aveva sentito, più a sud, poco lontano dalla piccola isba di Camus sul limitare della costa gelata, un potere giovane e inesperto, ma straordinariamente familiare che si incastrava nel suo in maniera così perfetta da farla rabbrividire di piacere, in quell’attesa gelida.
Era proprio tempo di svegliarsi.

“Ahn?” Hyoga lo fissò perplesso “Il Kraken? Ma non è la bestiaccia marina di cui abbiamo letto anni fa?”
“Non è una bestiaccia. Tu lo sei!” ghignò Isaac in risposta, spingendogli indietro la faccia con una manata. Poi tornò serio. “Comunque è quella”.
Hyoga restituì il colpo amichevole.
“Il Maestro conosce Kraken, ma ci ha proibito di seguirne l’esempio. Ti ricordi?”
“Sì… ma il Maestro non ha capito quello che è davvero Kraken. Se lo capisse, non parlerebbe così: Kraken spazza via tutto, come una tempesta. Ma non stolidamente, non colpisce a caso: sceglie come vittime solo chi è dedito alla malvagità e alla distruzione”.
Sì girò verso Hyoga, rannicchiando le gambe per scaldarle e sporgendo il busto verso di lui.
“Ti ricordi quando ti ho parlato di
Lemminkainen?”
Hyoga annuì: “L’eroe del Kalevala, le leggende che ti raccontava tua nonna”.
“Esattamente. Io sono come lui. E come il Kraken. Capisci? Chi può essere in grado di fermare quella tempesta? Nessuno. Kraken è invincibile, Hyoga” con gli occhi verdi luminosi di entusiasmo, Isaac sollevò il pugno in un gesto di eccitante determinazione. A Hyoga parve di vederlo, quel mostro ancestrale emergere dalle profondità degli abissi e trascinare le navi con sé, i velieri dei pirati e le barcacce dei contrabbandieri, che con le bocche aperte nel terrore annegavano per adagiarsi per sempre sul fondale. Irrimediabilmente, però, su quel fondale c’era anche Natassia. “Diventerò Cavaliere di Athena e porrò fine al male e alle ingiustizie che hanno luogo sulla terra, in qualunque parte esse siano: non ci sarà anfratto nascosto in cui io non possa arrivare per salvare chi non ce la fa. …E tu?”
“…io?” Hyoga sbattè le palpebre. Mentre facevano ritorno all’isba, Isaac aveva sentito la necessità di farlo partecipe, nero su bianco, delle ragioni che muovevano il suo addestramento.
Tutte cose che Hyoga sapeva già, di cui avevano discusso in passato, o che avevano assimilato nella vita insieme. Che conosceva intuitivamente.
Adesso, invece, Isaac gliele aveva dette, scolpendole con precisione immensa nel suo animo e nel proprio, come un monito purissimo.
Hyoga non aveva motivazioni altrettanto nobili o altruiste e adesso Isaac le voleva sapere.
“Beh, io…” fece una pausa. Sospirò, scorgendo da lontano la casa, oltre la coltre di bufera. Poi, d’un fiato, gliele disse.

Hyoga correrà con tutto il fiato rimastogli in corpo.
Sarà ferito al collo, in modo piuttosto serio, e nel cuore, ancora di più. Sarà smarrito e determinato insieme, quel giorno nel Regno sottomarino di Poseidon, come lo era da fanciullo in Siberia, e durante l’addestramento.
Saranno passati giorni e trascorse battaglie, da quel tempo che, a pensarci, gli parrà dorato e lontano, come le scenografie degli spettacoli di Mosca. Ormai sarà un uomo, anche se avrà ancora il viso e  il corpo di un ragazzo. Correrà verso la Colonna del Mar Glaciale Artico, deciso a vincere quella battaglia e a salvare la sua dèa e il mondo intero. Deciso a porre fine al male e alle ingiustizie che avranno luogo sulla terra e non ci sarà anfratto nascosto in cui lui non potrà arrivare per salvare chi non ce la farà.
Correrà nei coralli, in quell’ovattato universo verde, finché non si troverà davanti una colonna altissima, di pietra e di ghiaccio, che dalla piattaforma soprelevata si innalzerà fino al cielo d’acqua di Atlantide. Rimarrà ad ammirarla sgomento, per un attimo soltanto, che simili spettacoli tengono sempre il respiro a metà.
Poi qualcuno, con il corpo inguainato nell’oro e nell’orihalcon scenderà dalle scale di marmo della piattaforma: un guerriero di Poseidon che emanerà rabbia, odio e Cosmo, avvolto nel mantello, come un’onda alle sue spalle.
Un passo dopo l’altro, in uno spargersi nell’aria di polvere di diamanti siberiana.
“E’ molto tempo che non ci vediamo, Hyoga” ghignerà il guerriero, beffardo “ma tu non sembri affatto cambiato”.
Hyoga spalancherà gli occhi azzurri, sgomento. Quasi incredulo. Scandalizzato dalla ferocia dell’apparizione.
“Isaac?”
“Proprio”.
“Isaac, sei tu? Sei
davvero tu?”
“Isaac del Kraken, Hyoga. Non mi aspettavo di rivederti”. E quella considerazione suonerà estremamente minacciosa.
“Porca di quella puttana”, sfuggirà a Hyoga: retaggi del vecchio Vachtangov.

“Porca di quella puttana!” sibilò: il destro che colpì Hyoga sullo zigomo fu così inaspettato e aspro da mandarlo lungo disteso nella neve, a scivolare all’indietro per diversi metri.
Nel volo, vide l’isba allontanarsi un po’, poi il cielo e infine il ghiaccio, quando ci atterrò di faccia.
Tuttavia, non tentò nemmeno di difendersi. Isaac aveva avuto proprio quel tipo di reazione che ci si sarebbe aspettati ascoltando il ‘perché da grande vuoi fare il Saint’ di Hyoga.
“Equivale a tradimento, piccolo idiota!” ringhiò Isaac, il pugno ancora levato e gli occhi sgranati nello stupore e nella preoccupazione, “Possibile che tu non lo capisca?”
Hyoga ebbe solo il tempo per pulirsi le labbra dalla neve che si era quasi mangiato.
“Non puoi voler diventare Cavaliere al solo scopo di rivedere tua madre! E’ tutto sbagliato! E’ morta! Che senso ha diventare Saint di Athena per lei?” Isaac si morse le labbra e strinse i pugni: sentì crescere dentro di sé l’apprensione e l’impotenza davanti allo sguardo fatalista che Hyoga, così fragile e forte, gli ribatteva da sotto la frangia bionda scomposta.
“Tu hai ragione”, gli diceva mite, come chi ha vagliato a lungo una situazione spinosa e fosse ormai certo di avere preso l’unica decisione acettabile, nonostante le difficoltà, “anche il maestro Camus lo dice”.
“Cosa dice?”
“Che non è una motivazione abbastanza forte. Che morirò”.
Isaac sentì le proprie mandibole allentarsi e i propri occhi sgranarsi nella sorpresa. Cosa diceva, il Maestro? Che Hyoga sarebbe morto? Morto? E quel piccolo bastardo glielo diceva così? Come dire di aggiungere altra carne essiccata sulla lista della spesa alla locanda?
Era impazzito?
Morto! Con quella tranquillità strana, malata, glielo diceva!
Sentì montare la delusione e la rabbia. Sentì l’ira del Kraken impadronirsi dei suoi pugni, implacabile. Sentì, per la prima volta nella sua vita, che avrebbe potuto minacciare qualcuno di morte per salvargli la vita.
“Lo penso anch’io!” raddrizzò Hyoga con un calcio al mento, poi iniziò a colpirlo, forte, senza risparmiarsi. Voleva cancellargli dalla faccia quell’espressione di risoluta resa, di ineluttabilità. Un guerriero di Athena non può sedersi e aspettare gli eventi, deve lottare. “E’ una motivazione debole! E la nostra causa, Hyoga, non ammette debolezze!”

Come, morto? Reagisci, pensava intanto, vedendo con terrore crescente l’amico lasciarsi prendere a pugni come un pupazzo in balia del vento. Non voglio perderti, Hyoga! Non voglio perderti! Non voglio perderti, maledetto, non voglio perdertinonvoglioperdertinonvoglioperderti!
Hyoga ricadde sul fianco, inoffensivo e vergognoso di alzare il viso sanguinante di dolore e freddo verso l’amico.
“Nessuno può diventare un eroe per cedere ai sentimentalismi!” ringhiò ancora Isaac, furioso, parandoglisi davanti, mentre il fanciullo si rialzava, dolorante “L’eroe che nascerà da queste gelide terre, dev’essere forte!”
Hyoga lo guardò, ostentando una sicurezza che Isaac, torreggiante su di lui, non poté non ammirare.
“E’ vero. Forse non sono degno dell’armatura del Cigno, tu ne sei ben più degno di me. Ma non pensi mai alle persone che hai lasciato nella tua terra? Non desiderai mai incontrare tua nonna e riascoltare il Kalevala dalle sue labbra? Mia madre è viva, nel mio cuore e se tu pensi che sia una colpa, ebbene, io non lo credo!”
Gli occhi azzurri di Hyoga si riempirono di lacrime che riuscì a deglutire via. Quelli di Isaac lo guardavano come se avessero voluto pugnalarlo.
“Dunque, Hyoga?” sibilò l’altro.
“Dunque, Isaac”, sempre con quella serenità macabra come un canto lontano di sirena, “Raggiungerò mia madre, in un modo o nell’altro: o negli abissi del mare di Siberia …o nel paradiso dove riposa!”
“No…” Per Isaac fu troppo. Contavano così poco per Hyoga, lui e il Maestro Camus? E Athena, per cui doveva combattere? Valeva meno di un cadavere in fondo al mare? Sentì i propri occhi riempirsi di lacrime, adesso, e sì odiò. Concentro la più terribile Diamond Dust da lui mai prodotta nel proprio pugno e la scagliò con precisione contro il compagno: “NO!”

Non voglio perderti, Hyoga! Non voglio perderti! Non voglio perderti, maledetto, non voglio perdertinonvoglioperdertinonvoglioperderti!
Ci fu un boato tremendo. E la parete di ghiaccio alle spalle di Hyoga venne giù, sbriciolata.

Nell’immensità degli abissi, ben oltre il punto in cui giaceva la nave della povera Natassia, una delle Sette Colonne sosteneva il mare come aveva fatto da sempre, in funzione del Regno sommerso di Poseidon.
Lì, in un Tempio millenario costruito a volta, colmato di silenzio e dei riflessi verdi dell’acqua che si riverberavano dall’alto, riposava lo Scale di Kraken.
Dormiva lì da sempre e sempre lì ritornava, per volere divino, ogni volta che il marina del Kraken terminava la sua vita o deponeva le armi, nel corso della storia. Di giovani che avevano conquistato l’armatura non ce ne erano stati molti: correva voce, nel Mondo Segreto, che Poseidon non si risvegliasse da molte centinaia di anni, intrappolato da Athena, e che nemmeno i suoi guerrieri facessero comparsa, senza di lui. Uno Scale sopito, sebbene di straordinario potere.
Per via del suo essere spietatamente lontano dagli uomini e dal proprio dio che dormiva indisturbato, lo spirito del Kraken era rimasto sopito sul fondo degli abissi, guardando la malvagità sulla superficie dell’acqua senza intervenire.
Nonostante ciò, quel giorno e sotto quella lingua di ghiaccio che era la Siberia, lo Scale di Kraken emanò uno scintillio di torpore, smanioso: il tempo del risveglio era vicino.
Come per un gioco del destino aveva sentito, più su, poco lontano dal punto in cui giaceva la nave della povera annegata, un potere giovane e inesperto, ma straordinariamente familiare che si incastrava nel suo in maniera così perfetta da farlo rabbrividire di piacere, in quell’attesa assonata.
Era proprio tempo di svegliarsi.

Hyoga scansò il viso in un gesto elegante, come di cigno che si muove nella tempesta, inconsapevole evitando la Diamond Dust. Seguendo la traiettoria del colpo, guardò alle proprie spalle, sconvolto da ciò che Isaac aveva prodotto con il proprio pugno:
Avevo ragione, pensò, Isaac mi è ancora enormemente superiore in virtù guerriera. Ha frantumato la superficie dei ghiacci eterni della Siberia. Però… però mi ha mancato. Che l’abbia fatto di proposito?
Nel pensarlo si girò, in tempo per scorgere la sagoma di Isaac allontanarsi verso l’isba, il capo chino e le mani in tasca. Era come se improvvisamente avesse molto, troppo freddo.
Hyoga aprì la bocca per chiamarlo, ma l’amico parlò per primo, la bocca piena di tristezza e lacrime trattenute: “Fai attenzione nel mare ghiacciato. Ci sono correnti molto forti”.
Hyoga sentì il proprio cuore battere all’impazzata. Aveva capito? Lo stava, a suo modo, appoggiando?
“Puoi anche frantumare il ghiaccio” continuò Isaac, mentre gli tornava alla mente la visione spaventosa di Hyoga inginocchiato sulla banchisa che guardava giù, oltre la lastra e oltre l’acqua, qualcosa che lui solo poteva vedere “ma fai attenzione alle correnti. Potresti venirne travolto”.
Poi, senza voltarsi, camminò nel vento e nel silenzio fino a scomparire inghiottito dalla piccola isba di legno. Non voglio perderti. Non voglio perderti. Non voglio.
Hyoga della Neve poté solo rimanere lì, immobile e sanguinante, a guardare il punto in cui Isaac dei Ghiacci era sparito.

Sono qui! *C* 
Intanto, buon Natale a tutti:  per le feste non credo che mi rivedrete. O forse sì, chi può dirlo? In igni caso, divertitevi più che potete. Io dormirò. Chiedo ancora scusa per il ritardo mostruoso e vi ringrazio uno per uno.
SnowFox:
Tesorino! ;O; E' sempre un piacere enorme vederti qui, non ne hai idea: sei una delle mie lettrci più fedeli, prima o poi dovrò farti un regalo. è_é Vedrai! è__é  *spuccia*  Grazie per le parole dolcissime che hai avuto per l'altro capitolo. E grazie anche per la pazienza, so quanto ti piacciono gli aggiornmenti rapidi. é__è Ma tu non perdi mai la speranza! Sei una vera Saint! çOç  *abbraccia forte*
Shinji: NGH. *C* Meriti un regalo anche te, Hades Sama! *C*  *fa i regali a dèi avversari* ...no, beh. Grazie! ;O; lo sai che è un piacere immenso quando posso dilaniarti con comodo. Beccati quest'altro flashforward, tutto per te *C* <3   ...a Ikki e Hyoga non diremo niente per quell'...ehm. incidente. *C* Aqua in bocca, Hades Sama! *C*   *coccola*
Damaris: Ancora una volta succede che le tue letture siano incredibilmente più belle dei miei capitoli: la tua analisi sulla figura di Natassia mette in luce aspetti che  aprono mondi interi e su cui, adesso che mi hai fornito immagini così ampie, non credo che non potrò lavorare. Ogni volta che leggo le tue critche rimango folgorata. Ti ringrazio ancora e sempre di più.  Le cose qui, con Hyoga e Isaac, seguiranno la strada tracciata da Kurumada, io non ho potere: ma Camus, nello svilupparsi della vicenda, sta avenado un ruolo particolare e uno sviluppo futuro che mi affascina incredibilmente. Spero di essere in grado di non sciupare tutto e i tuoi feedback fanno sempre comodo. Grazie davvero, ti aspetto sempre con piacere enorme.  ...tu di regali ne meriteresti DUE  *C*  ...vabbè. Farò in modo di organizzarmi in tal senso, con voi tre. XDD  Un bacio immenso! >__< <3


Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Come il ghiaccio che si spezza ***


CAPITOLO: Come il ghiaccio che si spezza

PERSONAGGI: Hyoga e  Isaac. Camus, Milo, Natassia. E un equipaggio.

IN PROPOSITO: Hyoga incontra sua madre. Perde Isaac. Camus e Milo corrono dalla Grecia alla Siberia così in fretta che nemmeno alle olimpiadi.




La sirena cantò dal fondale e il ragazzo la sentì.
L’acqua era nera come l’aveva sempre conosciuta, nei sogni come negli incubi. Per ogni bracciata in profondità si immergeva nella tenebra gelida, lasciando la luce sopra di sé, come una speranza sottile: filtrava dal varco che aveva aperto nel ghiaccio, con il proprio pugno.
Camus sarebbe stato orgoglioso della forza del suo braccio, se l’avesse visto. Ma sarebbe stato ferito e umiliato dalla debolezza del suo cuore, quindi Hyoga si sentì sollevato nel sapere il suo Maestro lontano. Pensare a Camus lo fece naturalmente pensare ad Isaac, all’ultimo scambio di battute feroci con lui.
Perdonami, pensò. Devo andare. E non aggiunse altro, dal momento che non c’era altro da aggiungere, dal momento che quella sua discesa agli abissi, come quella degli eroi greci al mondo dei morti, era il fine di quegli anni di lotta per Hyoga.
La sirena cantò dal fondale, ancora. Tra le tenebre dai riflessi verdi, Hyoga scese ancora, con  movimenti rapidi e calcolati del bacino e delle braccia. Tuffarsi era stato, come sempre, offrire le proprie carni ai pugnali acuminati che erano le acque gelide. Per un attimo, poi il calore generato dal Cosmo si spanse nei muscoli, generosamente.
Nessuna sirena era venuto a prenderlo, affiorando come un germoglio dalla superficie, con la pelle morta e bianca di giglio, di spuma marina. Era stato un bene: se Natassia con la coda di pesce, con la coda di uccello, con la coda di serpente fosse venuta a guidarlo, lui non si sarebbe tuffato, forse.
Ma la madre bella era stata astuta e delicata, chiamandolo da sotto con una ninna nanna antica. Hyoga sbatté i piedi guizzando più giù: si sorprese della facilità della discesa. Isaac non aveva parlato di correnti impetuose? Lui stesso non le aveva previste?
Invece l’acqua troppo gelata lo accarezzava, come aveva fatto a Mosca la mano di sua madre, lo guidava serena in quella discesa lugubre. Dal buio  emergeva, adesso, la sagoma più nera del nero, di un mostro nascosto degli abissi. Non era il veliero romantico che i suoi sogni avevano ricreato, ma la nave imponente e minacciosa che Hyoga rammentava nei suoi ricordi di bambino. Era da lì che proveniva il canto, ancora, dolce e sommesso. La musica della ninnananna di Natassia, quella argentina del carillon di Katja.
Il mostro lo spiava immobile, mentre Hyoga nuotava fino a lui. Per un drammatico scherzo del destino, la luce del varco che Hyoga si era aperto nel ghiaccio filtrava in modo da riflettersi negli oblò di prua della nave. Il baluginio era quello di un occhio predatorio.
Hyoga provò l’impulso di alzare lo sguardo alla sua unica luce alle sue spalle: sopra tutta quell’acqua, che comprimeva il suo corpo e la sua mente, c’era la landa ghiacciata e luminosa, sferzata dal vento e dalla polvere di diamanti. Calpestata dai cani da slitta e da Isaac.
Non lo fece. Camus gli aveva raccontato di Orfeo, precipitato negli inferi per essersi voltato indietro, sulla strada del ritorno. Pur non riuscendo a spiegarsi perché, Hyoga ebbe il presentimento che sarebbe morto e non sarebbe tornato mai più, se si fosse voltato a guardare il punto da cui era giunto. Proseguì.
Gli occhi del relitto mostruoso baluginarono ancora, sinistri. Si era trascinato fin lì, con le correnti marine, a così breve distanza dall’isba dove viveva il ragazzo. E adesso il ragazzo giungeva, da solo, con le sue gambe e le sue braccia.
Hyoga fissò gli occhi in quelli del mostro immobile: non aveva paura. Aveva sgomentato il Maestro e il proprio compagno, nell’attesa che venisse quel giorno; aveva appreso ad ammaestrare la neve e il ghiaccio, ad accarezzare il vento e le tigri del nord. Sapeva tenere, quando voleva, un atomo immobile nella mano a coppa e la disillusione della Siberia negli occhi azzurri. No, non aveva paura dei mostri.
C’era poi da dire che erano passati anni: anche se il freddo troppo intenso non permetteva la vita delle alghe sulla sua carcassa mostruosa, il relitto era comunque appannato, invecchiato, stanco. La chiglia spezzata a metà, che era stata il suo sorriso famelico, era stata spazzata via dalla corrente del nord, inflessibile come Camus, e trascinata via, chissà dove. Adesso il mostro era fermo, come un predatore ferito che raccoglie le energie per il prossimo attacco. Hyoga quasi poteva sentirlo, sotto al canto lieve e ammaliante di sua madre, quasi poteva sentirlo respirare debolmente.
Adesso i due si fronteggiavano, Hyoga che dava le spalle alla luce umana da cui veniva, il relitto con gli occhi brillanti e sinistri. L’angolazione del ragazzo cambiò e lo sguardo del mostro tornò ad essere vetro inespressivo, il teschio mostruoso senza mascella solo una prua rotta di ferro e metallo.
Puntando dritto in quella faccia strappata, Hyoga seguì una canzone antica, nelle budella di un relitto di ferro.

E’ bianca e bellissima, i capelli biondi sparsi attorno alla sua figura sono come una corona di grano, nel buio, o di spine. Fluttua davanti a lui, contro la parete e verso il soffitto.
E’ una sirena, con la coda di pesce dietro di lei. E’ sempre rimasta lì ad aspettarlo.

Camus si guarda alle spalle, aspettandosi di vedere Milo, ma non c’è nessuno. Allora avanza risoluto verso di lei, le labbra serrate, a opporsi a quella donna che non è più donna e che chiede Hyoga come tributo.

“Non sei più sua madre. Lascialo a me e ad Athena” le dice. L’espressione che la sirena assume, nascosta tra i capelli e la coda verde, lo fa sentire crudele ed egoista. Ma il Maestro dei Ghiacci sa bene ciò che chiede e non indietreggia.

Si svegliò di colpo, però il Maestro dei Ghiacci. Levandosi dal letto con una rapidità tale che Milo, mezzo disteso su di lui, rotolò di lato spalancando gli occhi e solo i suoi riflessi da Gold Saint gli risparmiarono un tonfo sul marmo gelido dell’Undicesima Casa.
“Camus?!” affondò le unghie nelle coperte e, attraverso di esse, nelle carni di Aquarius.
“Mmh!”
“Scusa..” Scorpio si spinse all’indietro i capelli, avvicinandosi con maggior garbo. Lo prese tra le braccia e guardò la luna, dalla finestra, al di sopra della sua nuca. La notte ateniese era tranquilla e tiepida, l’aria preannunciava l’arrivo dell’alba, il mare si stropicciava in onde serene lungo la costa. “Hai avuto un incubo”.
Camus rimase per qualche tempo in silenzio, poi annuì contro il petto del compagno, mordendosi pensoso il labbro inferiore.

Quando la vide, per poco non spalancò la bocca per lo sbalordimento. Si trattenne all’ultimo momento: il grande esercizio e lo sviluppo di facoltà che andavano oltre l’umano gli permettevano di resistere al freddo e in apnea per lunghi periodi, ma se avesse permesso all’acqua di entrargli nei polmoni non ci sarebbe stata divinità da pregare, sarebbe annegato e basta.
Fu abile a mantenere la calma, nonostante lo spettacolo che gli si parò davanti agli occhi, dopo avere percorso i corridoi oscuri e marini - con la tappezzeria gelata ribaltata a terra o galleggiante, lenta e serena, come se sedie e divani fossero grossi pesci tranquilli – lo disarmò.
Era nuotato fino alla propria cabina. La ricordava così bene. Ogni dettaglio di quella notte era fissato nella sua mente come nella pellicola di un film, nitido.
Natassia sente il rumore del metallo ferito e appoggia il libro sulla cuccetta. Guarda la porta, come se potesse darle una spiegazione. Natassia ha sempre lo sguardo della cerva nei boschi innevati, uno sguardo languido. Adesso ha lo sguardo della lupa della Siberia che deve proteggere il suo cucciolo che dorme, la testa appoggiata vicino alla copertina de
La Peste di Albert Camus.
Si alza in piedi a sfidare il pericolo che sente nell’aria. La chiglia accetta la sfida: si squarcia con fragore sotto l’acqua accarezzata dalla Polvere dei Diamanti. Produce un boato e lo scaglia nelle sue orecchie, come un ruggito.
Anche Hyoga lo ode. Si sveglia.
"
Mama, hai sentito?” ha la voce impastata e si sfrega gli occhi. E’ una seccatura dormire in cuccetta “La nave si lamenta…”
"Si Hyoga.” Le parole tremanti di Natassia non coprono le grida dei passeggeri. “Esci dal letto. Andiamo sul ponte.” Dolce e autorevole. Non ha mai bisogno di ripetere due volte la stessa cosa. L’ha imparato dal vecchio Vachtangov.
Così nitido che sembrava successo pochi attimi prima. Invece, sulla porta della cabina che sbatte, nella corrente interna creata nei flussi, Hyoga vede sua madre.
Era bianca e bellissima, i capelli biondi sparsi attorno alla sua figura erano come una corona di grano, nel buio, o di spine. Fluttuava davanti a lui, contro la parete e verso il soffitto.
Era una sirena, con la coda di pesce dietro di lei. Era sempre rimasta lì ad aspettarlo.
Mama, esclama la mente di Hyoga, superando la soglia in un guizzo di anche.

Era la terza volta che Isaac afferrava il samovar. Poi lo riappoggiava, dicendosi che no, non aveva proprio voglia di tè. Improvvisamente però, gli sembrava il modo migliore per far passare il tempo, mentre aspettava che Hyoga rientrasse.
Quanto ci metteva a fare quei cento metri scarsi? Lo aveva lasciato praticamente davanti all’isba, non aveva mica deciso di restare là fuori a congelare, vero? Sbuffò. Appoggiò il samovar per la quarta volta e uscì, sbattendo la porta.

Non era una sirena. Era Natassia ed era morta. L’acqua troppo fredda l’aveva salvata dalla decomposizione, l’ambiente protetto l’aveva preservata dai pesci, piccoli o grandi, che avrebbero potuto divorare le sue carni. Non era una coda di pesce, quella che aveva visto, ma la pelliccia elegante che l’acqua aveva lacerato, col tempo, che le ondeggiava alle spalle. I capelli erano radi, facendola sembrare più vecchia, più sottili, come fili di ragnatela. Era morta contraendo il viso, ancora bellissimo: il freddo l’aveva paralizzato come quello bianco di una statua; l’acqua l’aveva reso senza lineamenti. Teneva gli occhi chiusi. Hyoga ringraziò Athena – per quanto gli sembrasse così lontana – e il Dio che sua madre aveva pregato per quella delicatezza: non avrebbe sopportato lo sguardo defunto di Natassia, ricordandolo dolce e caldo. Non c’era più nessuna canzone antica da  ascoltare; nell’acqua placida, Natassia fluttò, girandosi verso l’alto: una bambola di pezza.
E la madre piccola e forte, la coraggiosa e bellissima Natassia, che recitava sola nell’oro delle scenografie di Mosca, morì di nuovo davanti agli occhi di Hyoga. Non era viva, la mama, non lo aspettava. Era una bambola gonfia d’acqua e ricoperta di ghiaccio, fluttuante in una cabina.
Erano cinque anni che Hyoga non piangeva più. Aveva smesso sotto lo sguardo severo di Camus.
Nel buio, davanti alla mama che volteggiava lenta come una ballerina, gli parve il momento giusto per riprendere.

“Hyoga!” Isaac, lanciato in corsa, si fermò appena in tempo, sul baratro aperto nel ghiaccio dal colpo dell’amico. Una parte lucida della sua mente si complimentò con lui per la potenza sprigionata, per avere ottenuto un risultato simile. Tutto il resto del suo essere era invaso dalla preoccupazione e dal disappunto. “Dannazione! Credevo di averlo dissuaso”.
Poiché non era così, Isaac dei Ghiacci non perse tempo a inorridirsi della realtà: fece il possibile per modellarla. Prese lo slancio e si tuffò nelle acque scure.

Sale nel sale, aveva lasciato le lacrime diventare mare. Poi aveva allungato una mano e preso quella di Natassia. Come da bambino.
Per un attimo orribile, Hyoga temette che si sarebbe rotta, come di ceramica o di stoffa troppo lisa, sotto la forza delle sue dita. Quella mano delicata.
Invece resse. Il corpo di Natassia si inarcò leggermente, tirato per il braccio, poi nuotò verso il figlio. Gli sbatté contro, leggera come un passero. Gli appoggiò la testa sulla spalla.
Hyoga si irrigidì, d’istinto. Non provò, però, paura o disgusto, solo tenerezza infinita. La spogliò della pelliccia lacera, ricordando la mattina a Mosca in cui se l’era messa. La mattina del treno e della nave che li aveva portati via dal teatro di Vachtangov. Sotto aveva il vestito buono, quello elegante, l’unico. L’aveva messo perché voleva che Mitsumasa la trovasse bellissima. Hyoga ricordò di avere pensato che suo padre sarebbe stato degno d’esser chiamato pazzo a non trovare splendida la mama anche se avesse avuto uno straccio addosso.
Era una principessa, invece, Natassia nel suo vestito di seta. Hyoga non smise di piangere nemmeno quando la fece distendere nella cuccetta dove aveva dormito lui stesso, in mezzo alla cabina. La fece distendere e le rincalzò la trapunta fino al petto, per impedire che l’acqua danzasse ancora con lei. Le legò i capelli sul davanti, che fluttuassero senza coprirle il viso.
Athena, sembrava che dormisse.
Hyoga non smetteva di piangere: per il proprio lutto, che lo rendeva solo, nonostante Isaac e nonostante il maestro.
E per l’ingiustizia profonda di quella morte senza senso, che aveva privato il mondo di una creatura nobile e dolce come Natassia. Cosa avrebbe detto il vecchio Vachtangov? Se fosse stato ancora vivo, nell’oro della sua Mosca, avrebbe tossito con rabbia e avrebbe maledetto il capitano e l’equipaggio che se l’erano data a gambe come conigli, lasciando immolarsi una fanciulla.
Hyoga si inginocchiò accanto alla madre, dormiente. Pregò. E per ogni preghiera, malediva gli uomini che l’avevano lasciata morire.

“Dasvidanja, Hyoga.” Gli strizza l’occhio.
Mama?! MAMA!”
Dasvidanja.”
Hyoga la chiama dalla scialuppa, ma la mama scompare. Va via. A lui si gelano le parole in bocca. Mette forza nei passi, ma non riesce a tornare verso la nave. Un uomo lo tiene stretto, un braccio attorno alla vita. Uno dei marinai. E’ l’ultima scialuppa, quella, e si allontana in fretta dalla nave che affonda. Non c’è spazio per Natassia, lì sopra.
Hyoga è troppo piccolo per chiedersi perché accidenti il capitano e il suo equipaggio si mettano in salvo prima dell’ultimo passeggero, non sa quale sia l’etichetta di bordo, di un peschereccio o di una nave pirata che sia. Sa solo che la mama lo lascia per sempre.
La chiama ancora. Più forte. Spinge in avanti le mani, e nella sua visuale i guanti arancioni risaltano in maniera crudele nel cielo plumbeo tutt’attorno.
“Fatelo smettere. E’ straziante”. Dice a bassa voce qualcuno, sulla scialuppa. Senza cattiveria o violenza, solo non può sopportare il dolore di quel bambino.
Sente sul petto la croce d’oro, bene infagottata sotto il maglione, la giacca e la sciarpa. Sulla pelle, è fredda in modo crudele.
Mama!” urla ancora, alla nave lontana.
“Basta. Basta, bambino, basta” implora il capitano.
Hyoga la chiama ancora, invece. Al diavolo il capitano, vero, Vachtangov? La chiama finché la sua gola ne ha abbastanza e lo pianta in nasso. Anche le lacrime ci si mettono, al diavolo anche loro, si gelano e gli appannano lo sguardo, senza consentirgli nemmeno di vedere la nave che si inabissa.
Meglio così, pensa di certo il capitano, che gli si mette davanti.
l petto scosso dai singhiozzi, sulla riva, tra i superstiti, Hyoga sconvolge i marinai.
“Quando sarò grande” pigola “andrò a riprenderla. Andrò a riprendere la mama”.
“Non è possibile” gli dicono.
“Quando sarò grande andrò a riprenderla” con astio, suona come un’accusa.
“Solo gli uomini straordinari chiamati Saint, solo i Cavalieri di Athena possono fare una cosa simile”.
Solo i Cavalieri, eh? Bene. Molto bene.

Dov’è? Dov’è?! Si domandò Isaac. Era spaventato, in cuor suo, scendendo rapido verso il fondale. L’acqua era scura e salata, eppure calma. Troppo calma. C’era qualcosa di innaturale e sinistro che non sapeva spiegarsi. Scorse il relitto, finalmente: era andato a colpo sicuro, sapendo perfettamente quello che Hyoga stava cercando.
Si fermò un attimo, come Orfeo, e si guardò alle spalle, verso l’apertura nel ghiaccio da cui era giunto, che da sopra faceva giungere fino a lui qualche raggio di luce. Come Orfeo, Isaac non sarebbe tornato mai più.
A inquietarlo, nella mente, l’immagine tremenda che non lo abbandonava, di un bambino biondo inginocchiato sul ghiaccio, a guardare di sotto, come a cercare una sirena, un popolo sottomarino. Dove sei, Hyoga?
Lo vide. Aggrappato alle sartie dell’albero maestro ornamentale in quella nave a motore, Hyoga era riverso su se stesso.
Merda. Fu tutto quello che pensò Isaac. Non fu difficile ricostruire  l’accaduto: Hyoga era riuscito nel suo intento, era stato coraggioso. Aveva raggiunto sua madre. Mentre si recava all’interno del relitto, o forse mentre ne usciva, le correnti l’avevano travolto ed era riuscito ad aggrapparsi lì, per non essere trascinato via.
Tanto coraggio, Hyoga dovrebbe dimostrarlo nella lotta contro l’ingiustizia. Quale cavaliere sarebbe, se rivolgesse i suoi colpi contro il male? E’ ancora vivo? Isaac pregò febbrilmente, dentro di sé.
Athena. Athena. Athena.
Ma per Isaac era un’altra la divinità in ascolto. E gli mandò aiuto, a suo modo.
Il ragazzo aveva appena raggiunto l’amico, facendogli mollare la presa inconscia sulle sartie logore, sciogliendo il viluppo attorno alle sue gambe, che le correnti si alzarono di nuovo. Le stesse che avevano colpito Hyoga poco prima, mentre cercava di tornare in superficie.
Isaac le sentì sollevarsi, dapprima quasi dolci, il corpo attento ad ogni più piccolo cambiamento d’acqua. Si affettò: afferrò Hyoga privo di sensi alla vita, e con possenti colpi delle gambe sfrecciò verso l’alto
Athena. Athena. Athena, pregò.
Ma rispose Poseidon, alzando la forza delle correnti che governava. E l’alzò così tanto che per quanto fossero ragazzi forti, con il Csomo risvegliato in loro, ne vennero travolti.
Isaac strinse di più le braccia attorno a Hyoga, istintivamente, e Hyoga si svegliò, frustato dall’acqua, stretto dal compagno. Spalancò gli occhi e lo vide, sballottato insieme a lui.
Isaac. Per Athena, Isaac, no. Ebbe il tempo di pensare, soltanto. Dio, Dio dei cieli e della terra, no.
Invece sì, pareva, perché la corrente li raccolse, trascinandolo via, lontano dalla salvezza. Hyoga sentì le forze che lo abbandonavano. Espanse il Cosmo, istintivamente, ma era debole: lavorava per mantenerlo in vita, per non lasciarlo annegare, data l’acqua salata che aveva bevuto – fin troppa – e che gli bruciava la gola. Si rese conto in quel momento di quanto i polmoni gli dolessero, come due pugni di fuoco nella schiena.
Dal canto suo, Isaac  lo strinse di più, ignaro e incurante: aveva altro per la testa. Espanse anche il Cosmo a sua volta, che si illuminò più potente, per contrastare le correnti. Riuscì a resistere, per qualche istante, a raddrizzarsi, tendendo corpo e muscoli.
Se fossi da solo non sarebbe un problema… pensò febbrilmente. Ma Hyoga… Come faccio a salvare Hyoga? Lo strattonò, quando lo sentì dimenarsi, e lo tenne con forza maggiore.
Hyoga alzò verso di lui il viso, e anche nel turbinio ombroso dell’acqua incontrò i suoi occhi azzurri.
Lasciami, Isaac, diceva quello sguardo, lasciami qui e mettiti in salvo.
Sei pazzo se pensi una cosa simile. Sei pazzo. Pensò Isaac, strattonandolo ancora, tenendoselo contro. Fu preso di nuovo dall’ira che lo aveva colto quando l’amico gli aveva confessato i suoi propositi e lui l’aveva mandato a gambe all’aria. Possibile che tu non abbia capito, Hyoga? Non ci si arrende! Non ci si arrende.
Un guizzo disperato delle gambe e Isaac si portò verso l’alto, verso lo strato di ghiaccio che li sperava dalla salvezza. Non ci si arrende, ti dico. Non ci si…
Non finì di pensare la frase. Fu così immediato e doloroso, quel lampo che illuminò crudelmente il cervello, che per poco non mollò la presa, lasciando Hyoga in balia delle correnti. Invece strinse ancora la presa e Hyoga incamerò altra acqua.
Spalancò gli occhi quando vide quella davanti a sé tingersi di rosso.
Isaac… sollevò il viso e vide che era sangue e che usciva in un fiotto impressionante da un occhio dell’amico. No… no, Isaac…
Isaac strinse i denti, come a mordere il dolore. Non ci si arrende, si ripeté con ostinazione disperata, mentre il dolore lo costringeva a seguire la corrente. Venivano allontanati sempre di più dal punto in cui Hyoga aveva aperto il confine tra il mondo di sopra e gli abissi di sotto, entrambi si resero conto che non avrebbero fatto mai in tempo a ritornare prima di morire.
E’ Natassia che vuole il figlio con sé, pensò Isaac, irrazionalmente, condividendo per un attimo i dubbi del suo Maestro. Lui e Camus erano sempre stati così in sintonia. Non ci lascerà andare.
Hyoga aveva quasi finito la sua autonomia in apnea, pur avendo resistito più di qualunque altro essere umano nelle stesse condizioni: solo l’adrenalina gli impediva di svenire tra le braccia del compagno. Isaac sarebbe stato ancora fresco se la ferita all’occhio non avesse mandato una  dolorosissima scossa al suo sistema nervoso, se non avesse chiesto in sacrificio tanto sangue, che si traduceva in stanchezza per il ragazzo in lotta con le acque.
Si rese conto, Isaac, che presto sarebbero morti tutti e due. La lama di ghiaccio che dalla superficie irregolare gli si era conficcata nell’occhio – e che non era giunta al cervello attraverso di esso solo per miracolo – era solo segno di pietà divina, che accorciava ai ragazzi le sofferenze di una lunga agonia. Avrebbe dovuto smettere di lottare, farsi trascinare dalle correnti con Hyoga e accettare la morte.
Allora perché continuava a combattere? Ad agitare le gambe con tanta determinazione?
Perché non ci si arrende. Cosa mi ha insegnato il Maestro Camus se non che non ci si arrende mai, che le difficoltà si fronteggiano, come fanno i monti Verchojanks? Non ti deluderò, Maestro Camus.
Con la ferita che continuava ad indebolirlo e a svuotarlo di sangue e di vita, Isaac prese una decisione. Contrastò con le ultime forze la corrente ed espanse il Cosmo in un’esplosione di potere, che concentrò nel pugno, vibrato contro il ghiaccio, verso l’alto.

Aquarius scattò a sedere sul letto, gli occhi spalancati.
Milo uscì dal bagno e avvertì le increspature del Cosmo di Camus prima ancora di seguire la sua attenzione fino in Siberia e cogliere gli ultimi strascichi dell’esplosione di quello di Isaac. Un’eco che sapeva di morte.
“Cosa è successo?”
"I ragazzi…” mormorò Camus. Era come se, attraverso quell’energia giunta fino a lui, avesse potuto vedere l’intera scena. Un attimo dopo era sulla soglia, infilandosi gli stivali sotto gli scaldamuscoli. “Devo andare”.
“Vengo con te”.
“No”.
“Oh, si, invece”.
“No”. Camus i voltò inflessibile. I lineamenti duri, lo sguardo gelido. “Ho detto di no. Sono miei allievi, ci penso io. Non priverò il Tempio di un guardiano d’oro per l’errore di un ragazzo senza armatura”.
Avrebbe raggelato sul posto chiunque, con quella frase impietosa. Chiunque tranne Milo.
Scorpio vide il pallore eccessivo, sotto i lineamenti induriti, una paura inconfessabile dietro lo sguardo gelato. Si gettò addosso la prima tunica che trovò sparsa sul letto sfatto e spinse Aquarius fuori dalle stanze private e fuori dal Tempio.
“Dài, muoviti. Non starò via molto. Andiamo alla velocità della luce per qualcosa o no?”
Camus tentò di protestare, ma l’urgenza era tale, l’emergenza così estenuante, che non trovò la forza di opporsi.
Che il Pontefice li sentisse andare, pensava intanto Milo. Sarebbe stato lui a dare spiegazioni, più tardi.

Il ghiaccio esplose verso il cielo, in schegge piccole e affilate come lame, come quelle che avevano trafitto l’occhio di Isaac, e in blocchi più grossi, che si schiantarono con fragore sopra la banchisa.
La luce accoltellò i due ragazzi, nel momento in cui il pugno di Isaac ebbe la meglio, e Hyoga cercò di dare una mano all’amico, spingendo debolmente con le gambe.
Fu uno sforzo che gli costò caro, in dolore e fatica.
Isaac da parte sua non gli permise di fare altro: “Stai pronto!” gridò, mentre l’acqua salata gli inondava la bocca e annacquava le sue parole.
Hyoga non le sentì, ma il braccio del compagno fu più eloquente delle sue labbra. Con un movimento formidabile, Isaac lanciò Hyoga verso l’apertura, come se fosse stato un giocattolo. Lo sentì atterrare sulla banchisa lì accanto, con un rumore umido e poco rassicurante.
Non ebbe il tempo di accertarsi che stesse bene.
Davanti all’unico occhio rimasto – unico come quello del Kraken nell’illustrazione del libro di Linneo, pensò distrattamente – si addensarono ombre, fino a quando non fu più in grado di vedere niente. Gli mancò la presa, che attorno era tutta acqua. E cominciò ad affondare.
Hyoga spinse una mano verso l’apertura, senza nemmeno riuscire a sfiorarne il bordo.
“Isaac…” balbettò. “Isaac!”
Strisciò verso l’acqua, coprendo appena un centimetro o due. Lo chiamò come aveva chiamato sua madre da una scialuppa.
Poi svenne, privo di forze, il corpo frustato dalla polvere di diamanti.


Rispondendo:
Snow Fox:
Tesoro! XD Starai mica scherzando, vero? Non scusarti. Ti ringrazio, invece, per essere presente ancora. >***< Dolcissima. Seh. La linea internet. Capisco il problema benissimo. >_>;  Ricambio gli auguri… sì, con quel mese di ritardo… XD E più in ritardo ancora con il capitolo. Eh, ma questo è stato duro, spero si riesca a far perdonare per averti fatta attendere troppo. Grazie ancora per tutti i complimenti che mi dispensi sempre. Anche per non deluderti cerco di fare sempre del mio meglio, con Neve. Tanti baci! >O<
Damaris:
Vero? Il rapporto che lega questi tre mi ha conquistato il cuore. Fin dalle prime volte che guardavo/leggevo Saint Seiya mi sono innamorata perdutamente della “Famiglia dei Ghiacci”, con tutto quello che vuol dire: rapporti profondi che si spezzano per non essere rotti veramente mai, che si superano e hanno la supremazia su tutto, anche sull’essere Cavaliere, a  volte. Penso che Hyoga sia un personaggio estremamente forte, nonostante la fragilità che dimostra spesso e la lacrima facile: è l’unico costretto sempre a combattere sempre faccia a faccia con questi legami potentissimi, a dover andare oltre e a strapparli. A nessuno degli altri bronzetti è mai chiesto tanto. Questo rende la sua storia struggente, la somma dei personaggi che sono stati la sua storia. Camus e Isaac, padre e fratello, Natassia che c’è anche se non c’è mai. E Milo di conseguenza, come un secondo padre, a completare da lontano una famiglia strana e bellissima.
Hyoga somiglia molto a Camus. Isaac, se possibile, somiglia al Maestro ancora di più. Avranno entrambi la stessa reazione, davanti alle fragilità del pulcino della neve, picchiandolo e rullandolo come un tamburo nel tentativo di salvargli la vita. Metodi di insegnamento particolari. Se non altro funzionano, visto dove arriva Hyoga alla fine. ^__-  Hyoga è edipico davvero. E’ mitico nel suo paradigma d’azione e di sensazione. E come non è colpa di Edipo, non è colpa nemmeno sua, nonostante il peso che lui e chi si muove nella sua orbita è costretto a portare. Grazie per la tua presenza e queste riflessioni. Sei preziosissima, sempre di più
Ichigo:
ma che dolce çOç Spero che tu abbia gradito quei due capitoli durante le vacanze >O< Sei stata dolcissima. Grazie davvero, immensamente: mi fai sempre molto piacere, lo sai. Non faccio che ripetere il mio amore per i personaggi che ho infilato in questa storia. Hyoga e Isaac mi ispirano sensi di protezione infinita, in realtà. Le cose non andranno diversamente che dal plot purtroppo. Te lo dico proprio perché la cosa fa soffrire immensamente anche me e non sai gli anatemi che tiro ( questo capitolo nuovo poi…. Lasciamo stare ). Per quanto desiderassi anch’io meno sofferenza per loro, alla fine, le cose mi stanno bene come sono andate ai due bambini dei ghiacci e della neve: uno Grande Raccomandato di Athena, l’altro generale di Poseidon. Camus e io siamo orgogliosissimi di loro <3 Un bacio di ricambio. çOç La comparsata di Milo arriva dopo le feste, vedi? çOç In ritardo mostruoso, ma comparirà anche nel capitolo dopo. Perdonoh! <3  Luv!
Arabian_Phoenix:
Oh no! XD Come l’ultimo! Senza quelli in mezzo? XD E come fai? Grazie di averlo fatto, e i sorbirti tutto quanto, avanti e inietro. Carinissima. Un bacio grande!
Saorilavigne:
Maledetta adorata çOç Prima o poi ti arrossirò in faccia! Sarai contenta allora! Isaac somiglia a Ikki anche secondo me. Sarebbero stati amiconi, credo. Ti adoro.
Shinji:
Hyoga è un pulcino dolcissimo é___è E’ innamorabile. E poi l’hai sentito, no, come mi chiama papà? La cloth e la scale hanno già fatto le loro scelte e a noi non resta che stare a guardare. Grazie a te per la vicinanza, Hades Sama. E per la bellezza di quello che stai costruendo *C* <3
Perseo e Andromeda:
Sì! Sei la prima! Che piacere vederti, sono contenta che segui, davvero. Spero che possa piacerti altrettanto questo capitolo: cerco sempre di rimanere fedele il più possibile all’originale, andando a riempire laddove serve e a smussare le parti che cozzano tra loro. E’ un lavoro difficile, ma sai quanto ami la famigliola, come dicevo <3 I tuoi commenti mi fanno sempre piacere. Grazie di tutto. Un bacio!
Ayay:
santo cielo tesoro! çOç Grazie. Spero che tu legga almeno qui, perché ci tengo a ringraziarti di quello che mi hai detto e a farti sapere quanto sia stato importante sentirlo. Le tue parole erano così sentite che, sotto l’orgoglio di cui mi hai riempita ( <3 ) non ho potuto fare a meno di chiedermi cosa avessi capito attraverso quel capitolo, cosa che ti stava tanto a cuore. Mi piacerebbe parlarne con te. Spero di vederti ancora. Un bacio, intanto.

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Come un padre ***


Quando Hyoga riprese i sensi non c’erano più sirene dalla pelle nivea e dalla coda di pesce, niente più flutti gelidi

 

CAPITOLO:  Come un padre.

PERSONAGGI: Hyoga, Camus. Poi, Milo e Katjia che comparsano.
IN PROPOSITO: Hyoga è vivo anche se il senso di colpa lo dilania. Camus deve prendere una decisione.

COSE: Neve riprende, dopo tanta pausa! çOç Grazie a chi l’ha aspettata fino adesso! çOç Non si interromperà più dal momento che adesso, su pc, è finita e dovrò solo postarla. Ve la troverete tra le scatole con cadenza più o meno regolare. Vi abbraccio tutti! Anche le drabble MiloxCamus sono state sospese, ma riprenderanno a brevissimo! Un bacio per ognuno di voi!

 

 

 

Quando Hyoga riprese i sensi non c’erano più sirene dalla pelle nivea e dalla coda di pesce, niente più flutti gelidi. Niente. Nemmeno nei suoi sogni.

La sua mente riemerse da una pace profonda e oscura come dal fondo degli abissi e lui stesso non fu in grado, immediatamente, di ricordare cosa fosse successo o chi fosse.

Intorno a lui l’ambiente era caldo e asciutto: il tepore dolce lo avvolgeva e teneva lontana un’idea assurda di morte che Hyoga non sapeva bene da dove venisse. Sentì il calore da fuori penetrargli nel corpo e seppe di essere nudo, avvolto da coperte pesanti che gli pizzicavano la pelle, ma in modo piacevole. La luce aranciata penetrava appena da sotto le sue palpebre, inducendolo ad aprire gli occhi. Quando lo fece scorse il soffitto di legno, davanti a sé, le pareti dell’isba. La finestra davanti a lui era un rettangolo bianco e grigio con la tempesta che infuriava al di fuori e sbatteva contro al vetro. Il davanzale spoglio era un ultimo baluardo contro qualcosa che spingeva a margine della sua mente per entrare a tutti i costi e il ragazzo oppose ancora una pigra resistenza, indugiando in quell’oblio dorato.

Il suo letto aderiva alla parete. Da una parte solo legno. Dall’altra, quando girò la testa, un altro letto, perfettamente ordinato: nessuno ci aveva dormito in quelle ultime ore.

Allora gemette.

Il suono mise in allarme una presenza nella stanza attigua: Hyoga sentì i passi leggeri, inflessibili che calcavano il  pavimento, rompendo il silenzio ovattato. Sbatté le palpebre sugli occhi secchi, scoprendosi infinitamente esausto, troppo perfino per mettersi a sedere. Per scostare le coperte.

L’uomo che apparve sulla soglia era alto e snello, ma non troppo magro: la muscolatura scattante si delineava sotto i pantaloni attillati, la maglia aderente che gli lasciava scoperte le braccia, in quel nido di calore. I capelli rossi – come fuoco che arde al mattino, pensò – gli cadevano sulla schiena, in ciocche lisce sul petto. Lo sguardo cupo, nel bel volto affilato, non lasciava presagire nulla di buono, era come un mago del ghiaccio. Anche sotto le coperte, Hyoga sentì freddo. Per qualche ragione, lo sapeva, avrebbe dovuto riconoscerlo.

Come ti chiami?” La neve ha smesso di cadere ed entrambi siedono sul bordo della pendenza.

“Hyoga.”

“Hyoga?”

Il bambino alza lo sguardo, interrogativo. Hyoga. Che problemi ci sono con il nome Hyoga?

“Hyoga è un nome giapponese.” L’altro assottiglia gli occhi, scrutandolo come per estirpargli un segreto. “Vuol dire qualcosa come fiume di ghiaccio, non è così?”

Però. Non ti sfugge niente, eh? Hyoga evita di dare voce a quel pensiero. Affonda il visetto nelle mani e si limita ad annuire.
”Ma tu sei russo. Non sei giapponese.”

“Mio padre era giapponese.” Hyoga strascica la voce. Palesemente non gradisce l’argomento. “Mia madre ha scelto per me un nome della sua terra. Mi ha detto così, almeno.” Nel dire mia madre, il suo tono si fa più carezzevole, in qualche modo.

“Capisco.”

“E tu come ti chiami?”

“Camus.”

“Camus?”

Camus abbassa lo sguardo, serrando le labbra. Probabilmente è seccato dal tono familiare con cui gli vengono poste le domande. Probabilmente  è seccato dal fatto che il ragazzino trovi strano il nome tanto quanto lui trova assurdo il suo. A sua volta, si limita ad annuire.

“Che razza di nome è Camus?”

“E’ un nome francese. Lo portava anche uno scrittore famoso.” Taglia corto.

“Sei francese?”

“Lo sono stato.” Si alza e si libera i pantaloni dalla neve. E’ arrivato il suo turno di glissare su un argomento. Hyoga non chiede niente, in proposito, e si alza a sua volta, pronto a seguirlo.

“Camus” lo riconobbe e pronunciò il suo nome gracchiando, la gola riarsa. “Camus. Maestro”.

“Ti sei svegliato, Hyoga”.

“Cos’è successo?” I ricordi della Siberia lo assalirono ferocemente, come se in pochi secondi recuperasse cinque anni di vita tra i ghiacci. Singhiozzò, gli occhi azzurri spalancati in quelli di Camus. “Dov’è? Dov’è Isaac?”

“E’ morto”. Il suono gelido della voce di Camus fu più esaustivo della risposta stessa. Hyoga comprese cosa fosse quel senso di morte che lo minacciava e lo lasciò entrare. Sentì qualcosa di irrefrenabile esplodergli nel petto, le lacrime roventi salirgli agli occhi senza poter fare nulla per arginarle e scoppiò a piangere così, senza riserve.

Pianse fino all’esaurimento delle forze e l’ultima cosa che vide, prima di sprofondare di nuovo nell’oblio oscuro, fu Camus che lo guardava con distaccato disprezzo e gli dava le spalle.

 

E’ morto, aveva detto a Hyoga. In realtà Camus, prima di accettare la morte di Isaac, allievo prediletto, aveva indagato a lungo sulla banchisa, espanso il Cosmo sopra e sotto il mare, per cercare traccia del ragazzo coraggioso. Non aveva trovato niente.

Eppure, in un angolo remoto della sua costellazione, Camus aveva avvertito la vita di Isaac dei Ghiacci pulsare debolmente, ma ancora certa. Aveva cercato di spingersi fino a lui, come un padre premuroso che cerca il figlio, ma nulla: Isaac era sfuggente, nelle correnti marine e, per quanto la sua disperazione fosse grande e lo motivasse, Camus non riuscì a trovarlo. L’aveva sentito indebolirsi, sempre di più, e nonostante si fosse sempre ritenuto un uomo controllato, Aquarius corse sulla banchisa senza meta, nella speranza, che sapeva vana, di vederlo da qualche parte. Alla fine Isaac scomparve dalla costellazione di Aquarius come era scomparso nelle acque, in silenzio, senza lamenti.

Era tornato dalla Grecia in fretta e furia, in preda a un presentimento sinistro. A Milo aveva detto qualcosa che adesso non ricordava, proprio a metà strada, mentre lo stava accompagnando.

Qualcosa che lo aveva fato desistere, che certo aveva a che fare con il Pontefice e che se Scorpio aveva intenzione di disobbedire agli ordini che lo facesse da solo senza causare problemi a lui né ai fanciulli che stava allenando. Era stato faticoso – Scorpio era un osso incredibilmente duro – ma poi c’era riuscito, promettendogli solennemente che sì, si sarebbe fatto sentire più spesso, sì per qualunque cosa l’avrebbe contattato, sì, sì. sì.

Non l’avrebbe mai fatto: non voleva farlo preoccupare.

Più si avvicinava, tuttavia, più i suoi presentimenti si addensavano, cupi. Aveva avvertito, nella sua anima, Hyoga scomparire e riemergere, e Isaac descrivere come una parabola discendente.

Aveva trovato l’isba deserta: in qualche modo, se l’era aspettato. Quando era uscito a cercare i ragazzi aveva trovato solo Hyoga, disteso sul ghiaccio e nella tormenta a faccia in giù, accanto ad un crepaccio nella banchisa, laddove il ghiaccio era più spesso.

Non puoi averlo fatto tu, Hyoga della Neve, ricordava di avere pensato, distrattamente, non sei abbastanza forte. Poi i suoi pensieri erano stati assorbiti da altro: il ragazzo era in stato avanzato di assideramento, sarebbe morto di lì a poco se non fosse intervenuto.

Camus era intervenuto, aveva espanso il Cosmo e in quella culla protettiva l’aveva portato all’isba.

Adesso sedeva al tavolo, mentre Hyoga dormiva con le palpebre incollate dalle lacrime che aveva pianto. Sedeva con il respiro spezzato nel petto, la fronte appoggiata alle palme delle mani intrecciate sul legno. Davanti a lui, un bicchiere di vodka non bevuto. Ci aveva rinunciato quando aveva allungato la mano per prenderlo e aveva visto le sue dita tremare.

Tutto quello per cui aveva lavorato era stato spezzato. Isaac, che di certo era destinato dalle stelle a seguire la sua strada di Saint di Athena, era morto, scomparso. Si ritrovava adesso solo, con un fanciullo troppo debole persino per sopravvivere, probabilmente. Figuriamoci per coprire un sacro ruolo nelle fila di Athena. Si era ripromesso, dopo la grande concessione che era stato Milo, di non accordare più a terzi la sua completa disponibilità sentimentale ed emotiva. Mai più.

Si accorgeva, invece, che aveva fallito: il posto occupato dal piccolo, forte Isaac nel suo cuore, se prima non si faceva sentire prendendo il suo spazio con discrezione, adesso ululava di lutto. Con angoscia di rese conto di provare per Hyoga, allievo e figlio rimasto, sentimenti ben più tremendi, d’amore infinito, di pena e di odio. D’ira che si fondeva con la pietà.

Una tempesta di sentimenti che sarebbe stata atroce per chiunque, ma per Camus dei Ghiacci lo era di più, lui che aveva giurato di essere inamovibile come i monti Verchojansk. A fallimento si aggiungeva fallimento.

Singhiozzò, il petto squassato, ma non pianse una sola lacrima, non lui.

Si erano raggelate nel suo petto tanto tempo prima.

Di tutti quei tormenti, Camus – Cavaliere di Aquarius, Custode dell’Undicesima Casa del Tempio di Atena e Maestro di Isaac dei Ghiacci e di Hyoga della Neve – non fece uscire nemmeno un tumulto. Tenne chiusa dentro di sé ogni cosa.

Il viso impassibile sembrò, persino a se stesso, nello specchio, una maschera cesellata nel ghiaccio: ne fu contento. Si sforzò di non lasciare trapelare nulla nei movimenti del proprio Cosmo. Nulla che potesse giungere in Grecia, fino a Milo.

Non lo voleva lì, in quello scenario di morte gelida, nulla l’avrebbe infastidito di più. Voleva chiudere il lutto nello scomparto stagno della Siberia e che Milo del Sole, del Mare e della Pioggia restasse in Grecia, nella vita. Che fosse, ancora, la sua salvezza, in quel modo.

Se avesse sentito il suo malessere si sarebbe precipitato lì, senza una parola né un avvertimento e mai, mai e poi mai, Camus avrebbe voluto mostrarsi debole proprio davanti all’amato, scoprire il fianco, mostrare le proprie piccolezze. Non a Milo del Sole.

Aveva sentito il suo Cosmo provenire da Atene, una mattina, in una ricerca che era solito compiere, da qualche anno a quella parte, fino a toccare il suo.

Camus non si sentì abbastanza forte per rispondergli, toccandolo con il proprio, ma neppure lo respinse: se l’avesse fatto, Scorpio avrebbe compreso che qualcosa andava storto nelle tundre del nord e ogni suo sforzo sarebbe stato vano. Si lasciò toccare, allora, ma non poté fare nulla per la propria immobilità, suo malgrado.

Per giorni rimase pietrificato all’idea che Milo potesse avere intuito qualcosa, da quel suo restare fermo in un breve contatto e temette di vederselo comparire davanti. Sarebbe stato tremendo.

Gli arrivarono delle lettere, in cui Milo domandava, gentile, ma pressante. Per fortuna, gli arrivarono con ritardo.

Per giorni rimase in casa, mentre Hyoga recuperava le forze nel letto, adempiendo come un automa, gelido e perfetto, alle incombenze igieniche casalinghe: ogni allenamento era stato sospeso.

 

Quando la nave era naufragata e lui era stato trascinato fino a riva, su un gommone, trattenuto a viva forza, Hyoga si era fermato sulla banchisa a guardare l’oceano con gli occhi azzurri, enormi, che sembrava volessero inglobarlo tutto.

“Un giorno” aveva detto” Un giorno riuscirò a scendere fin sul fondo del mare e verrò a prenderti, mama”. Si era meravigliato della sua stessa durezza. Del fatto che non avesse più niente da piangere, negli occhi.

“Non puoi” aveva detto qualcuno, lì accanto. “Non puoi, nessun essere umano potrebbe tentare un’impresa come quella”.

“Io ce la farò”.

“Non ce la farai, ragazzino. Certo che se tu diventassi un Saint, potresti avere delle speranze”.

“Un Saint? Un Santo?” Hyoga aveva ricordato i santi dipinti nelle icone brillanti e cupe, al tempo stesso, che il vecchio Vachtangov teneva lungo la scalinata del teatro seminterrato. Aveva stretto tra le mani il gioiello dorato, la croce che Natassia gli aveva dato.

“Si. Sono uomini incredibilmente forti, i cui pugni fendono l’aria e i cui calci sono in grado di spaccare la terra. Se diventassi un Saint, potresti farcela. Qualche anno fa, credi, c’era un maestro con il suo allievo che girava proprio per questa valle, spingendosi verso le tundre più a nord durante le estati. Chissà dove potresti trovarli, adesso!”.

“Diventerò Santo” aveva pensato allora Hyoga con determinazione, che ancora non poteva sapere che sarebbe diventato l’allievo, in futuro, proprio dell’allievo delle steppe di cui i marinai gli avevano parlato.

Non aveva potuto cercarlo, però. Sapendo che era imbarcato per il Giappone, i sopravvissuti della nave in Giappone lo spedirono, perché se era vero che aveva perso sua madre, laggiù c’era un padre che lo aspettava.

A Tokyo, Hyoga aveva trovato un vecchio.

Piccolo com’era, non era stato in grado di distinguere la cultura e la dignità di Mitsumasa, i bei lineamenti rovinati solo dall’età, il fascino che da più giovane avrebbe potuto esercitare su una donna: per quanto recepisse la sua forza e il suo carisma, Hyoga vide solo un uomo anziano dall’espressione dura e gli occhi sottili, le cui mani ruvide un tempo avevano toccato Natassia.

Non gli piacque.

Né lui era piaciuto troppo a Mitsumasa Kido, aveva dovuto intuire, dal momento che il giorno stesso si trovò sbattuto tra altri cento bambini e suo padre lo avrebbe visto, da quel momento in poi, solo in sporadiche occasioni e mai da solo.

Hyoga aveva per padre Mitsumasa Kido.

Ma se adesso che era sdraiato in un letto a piangere per Isaac gli avessero chiesto il nome di suo padre, lui avrebbe risposto, senza indugio, Camus dei Ghiacci.

 

“Svegliati” la voce di Camus lo sferzò come la Polvere di Diamanti. Hyoga aprì gli occhi nonostante la stanchezza mostruosa che sembrava farlo affondare nel letto, nonostante el palpebre incollate. Non c’era possibilità di sfuggire a quell’ordine.

“Mmmmh” disse, quando avrebbe voluto dire Perdonami. Camus non attese.

“Seduto”. Quello che fece fu sostenerlo appena, con freddezza e distacco, come se fosse terribile, per lui, anche il solo contatto con l’allievo. Hyoga si tirò all’indietro come poté, appoggiando la schiena alla parete di legno. Aprì la bocca senza fare domande quando Camus iniziò a imboccarlo di una zuppa salata e nutriente. Non ne percepì il sapore, al di fuori del gusto salino, ma capì di avere la febbre quando la zuppa che sapeva bollente – Camus le preparava sempre bollenti – si dimostrò timidamente tiepida sulle sue labbra, nel suo stomaco. Singhiozzò.

“Sei salvo”. Disse Camus, sibilante come il vento. “Non morrai”.

Suonò alle orecchie di entrambi come una condanna.

Qualcosa si era spezzata irrimediabilmente.

Camus da parte sua imboccava Hyoga con movimenti meccanici, duri. Le lacrime del suo allievo lo intimidivano, come sempre, lo disgustavano, come sempre. Eppure non disse nulla perché smettesse quel comportamento indegno per un Santo di Atena.

Perché non è più mio allievo. Ecco perché non lo rimprovero. Non è più mio allievo e mai sarà un Cavaliere. Farò sì che si rimetta, poi lo rimanderò in Giappone da dov’è venuto, tornerò in Grecia da Milo. Al Pontefice dirò la verità, che non era degno. Oppure dirò che è morto insieme ad Isaac, così nessuno lo verrà a cercare. Farò così. Non ha senso continuare questa inutile pagliacciata.

Strinse le dita sul cucchiaio.

Hyoga sembrava così piccolo e pallido in quelle lenzuola sporche di sale e di malattia. Era fuori pericolo, ormai, ma i suoi occhi erano spenti come il suo viso, i capelli che gli ricadevano sul volto affilato, sul petto, erano di un biondo privo di vita, come se il dolore concentrato in quella casetta potesse opacizzare i colori. Ci sarebbe rimasto per sempre, quel senso di morte senza speranza, in quella casa. Anche successivamente, quando Camus non avrebbe più avuto bambini cui badare e Milo gli avesse proposto qualche giorno di lontananza dalla Grecia, magari proprio in Siberia, Camus aveva sempre rifiutato di fermarsi ancora tra quelle mura.

A dirla tutta sarebbe stata, quella notte, l’ultima volta in cui lui e Hyoga ci avrebbero vissuto.

Giappone. Lo rimando in Giappone. Ribadì, Camus, nella sua mente, mentre inclinava la ciotola e infilava l’ultima cucchiaiata di zuppa in bocca dell’allievo. Aveva maturato quella decisione in lunghe ore di veglia al tavolo, e più ci pensava più gli pareva la scelta giusta.

Hyoga raccolse le forze e si mosse, tentando di dire qualcosa. “Maestro...”

Un bussare ovattato, alla porta. Camus attese: chi poteva venire nella notte e nella tempesta all’isba? Chi, se mai veniva nessuno nemmeno di giorno o quando i venti  erano più miti?

Bussarono ancora. Hyoga deglutì.

Isaac?

Lo pensarono insieme, nello stesso istante. Era strano, altamente improbabile, che fosse Isaac dei Ghiacci, era vero… ma perché no? Lo stesso Camus aveva seguito la scintilla del suo Cosmo fin dove non era stato più in grado di seguirlo, aveva dichiarato a se stesso la morte dell’allievo perché non c’era altro, davvero, che potesse dichiarare. Ma se così non fosse stato?

A Hyoga brillavano gli occhi. Anche lui, forse, nel suo stato di incoscienza, era parso di poter ritrovare Isaac, seguendo la sua energia debole, ma pulsante? Camus lo guardò, in quella sospensione strana, come per capirlo.

Da parte sua il ragazzo guardava verso l’altra stanza, immaginando oltre la porta un cadavere perfetto e squisito, come quello di sua madre, che fosse risalito dalla voragine che il suo pugno aveva prodotto e, caracollando e vomitando acqua marina, fosse giunto fin sulla soglia per domandare vendetta.

O, soltanto, per rientrare in casa a scaldarsi.

Isaac.

Pensò, il respiro che non voleva saperne di scendere nei polmoni.

Bussarono di nuovo, più forte.

Questa volta Camus si alzò, posato, fremente di tensione trattenuta. Si avviò verso la stanza attigua, verso la porta che dava sulle nevi. Hyoga si buttò giù dal letto. Inciampò nella coperta, avvertì la pelle strana di febbre, il gelo insostenibile della stanza, ma questo non lo fermò. Era sempre molto determinato, Hyoga, quando si trattava dei suoi defunti.

Un pensiero che Camus scacciò ferocemente e strinse la maniglia. Hyoga si era appoggiato allo stipite nel tentativo di fermare la camera che girava vorticosamente attorno a lui. Aveva chiuso gli occhi e deglutito la nausea.

Li riaprì quando Camus schiuse la porta, le labbra serrate. Sulla soglia c’era una sagoma sottile, eretta in tutto quel vento.

 

“…non farti prendere dallo sconforto.” Isaac appoggia le mani sulle spalle di Hyoga. “Non ce ne è motivo.”

Il bambino biondo alza lo sguardo a incrociare quello dell’amico. Lo studia a fondo, come per capire se davvero dice la verità o se gli sta mentendo. Gli occhi di Isaac sono verdi e limpidi e nessuna menzogna ne ombreggia la bellezza. Hyoga annuisce.

 

Camus comprese immediatamente.

Hyoga ci mise un po’ di più, a capire che non era Isaac, la creatura sulla soglia, e che non sarebbe mai venuto. Gli bastò sbattere le palpebre più volte, sugli occhi roventi, e mettere a fuoco il visetto delicato, i capelli lunghi che glielo incorniciavano, il colbacco di pelo e la pelliccia.

“Katjia” disse Camus a voce bassa, gelido e dolce insieme. “Katjia, cosa fai qui con la tempesta?”

Lei non lo guardò. Con le mani tremanti, senza perdere il rispetto, gli mise in mano qualche busta, sistemò ai suoi piedi un sacco di tela, come quello con cui Hyoga e Isaac tornavano dalla locanda i giorni in cui c’era da fare la spesa.

“Le vostre lettere, Maestro dei Ghiacci. Le provviste per questa settimana”.

“Sarei venuto io nei prossimi giorni. Perché sei qui con la tempesta?”

“Ve le manda mia madre. Dice che dopo quello che è successo, potreste non avere voglia di vedere estranei”. Tirò su col naso e Hyoga si accorse di quello che il Maestro, piantato davanti alla fanciulla, gli aveva impedito di vedere: la ragazza piangeva, silenziosa come una divinità della guerra del nord, piena d’odio e ira malcelata che le impediva di alzare lo sguardo al viso di Camus dei Ghiacci.

Lo puntava, invece, attraverso il petto di Camus, contro Hyoga. Come se volesse ucciderlo.

A vedere quello sguardo, Camus aggrottò le sopracciglia, turbato: non c’era nulla, in quegli occhi, se non passione furiosa e disordinata, scardinante.

“Ti odio” disse Katjia a Hyoga. Lo sbottò, come se cercasse di trattenere quello che invece le usciva dal cuore e dalle labbra. “Ti odio per quello che hai fatto a Isaac. Dovresti morire”.

Hyoga sussultò, come se lei gli avesse sparato. Non emise un gemito.

Invece fu Katjia che scoppiò in lacrime. Nella foga urtò Camus, che si fece indietro, senza dire una parola. Lei balzò nella tempesta come se fosse stata fatta della stessa sostanza e nel buio si scaraventò sulla slitta, tirò le redini dei cani e scomparve al loro sguardo.

Hyoga per tutto il tempo si era dimenticato di respirare.

Camus richiuse la porta. Le parole della ragazza erano le stesse, si rese conto, che avrebbe voluto rivolgere a Hyoga, reo di avere ucciso Isaac con la sua ingenuità, il suo capriccio.

Sentirle pronunciare all’esterno della sua mente, però, gli aveva concesso il balsamo della catarsi, del sollievo. Era come se fosse riuscito ad aggiustare qualcosa, a rimettere insieme dei pezzi rotti.

Negli occhi feroci di Katjia, nella sua collera disordinata, Camus aveva visto se stesso.

Io? Proprio io che mi  vanto d’essere inamovibile e stabile come i monti della Siberia, mi sono fatto travolgere dall’ira al punto da considerarmi sconfitto? Da considerare sconfitto questo ragazzo? Da giudicare arbitrariamente inutile la morte di Isaac?

“Hyoga”.

A Hyoga cedettero le gambe, sotto al peso della colpa e della febbre. Camus non gli permise di cadere, facendosi in avanti e afferrandolo, tenendolo contro di sé.

La sua ira non era mutata, si rese conto. Ma lo lasciava respirare, adesso, permettendogli di sentire forte l’amore per quel ragazzo come per Isaac, che non aveva più.

Immerse il viso nei capelli di Hyoga, profumati di sale e di neve. Lo strinse, come un padre.

“Domani mattina partiamo, Hyoga”. Gli disse.

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Come un mago dei ghiacci ***


Hyoga aveva ancora la febbre quando poche ore dopo lasciarono l’isba

CAPITOLO:  Come un mago dei ghiacci

PERSONAGGI: Hyoga e Camus. E la Siberia.
IN PROPOSITO: Camus decide di tentare il tutto e per tutto con l’unico allievo che gli è rimasto. Lo porta con sé oltre la Siberia abitata, dove regna solo la dimensiona naturale per un addestramento che va oltre il Cosmo, verso lo Spirito.

COSE: Il sogno di Hyoga usa parole che non mi appartengono, ma sono del poeta Milo de Angelis.

 

 

Hyoga aveva ancora la febbre, quando poche ore dopo lasciarono l’isba. Aveva dormito poco e male, di un sonno profondo e senza sogni. Eppure si era afferrato a Camus come all’ultimo sostegno, aveva espanso il proprio Cosmo, bianco di neve, e si era fatto forza, mettendo un piede avanti all’altro.

La tormenta si era placata: la Siberia era, adesso, un enorme distesa candida e perfetta di conche e colline. Le montagne scomparivano nel cielo, come affondate nel latte.

Camus aveva preparato borracce e sistemato le provviste portate da Katjia in modo che fossero più comode possibili e le aveva collocate nelle borse da viaggio che si era assicurato addosso e trasportava senza sforzo.

“Date qualcosa anche a me, Maestro”.

“Silenzio, Hyoga. Pensa a tenerti la coperta addosso”.

“Ma non è giusto che…”

“E’ solo fino alla locanda. E adesso taci, per amore di Athena. Taci”.

La voce di Hyoga ancora irritava Camus, nonostante i suoi sforzi per esercitare il distacco. Sapeva che presto la sua collera si sarebbe affievolita – forse spenta - ma preferiva il silenzio. Considerava Hyoga un ragazzo forte, pieno di determinazione e abnegazione da vendere, incapace di metterle a frutto per la giusta causa di Athena. Quello che si chiedeva ora era se sarebbe riuscito a chiedere tanto a quel ragazzo, se sarebbe riuscito a trasformarlo nei ghiacciai eterni, a temprarlo per essere il Cigno della dea. Da quel momento, avrebbe dovuto essere Isaac, oltre che Hyoga.

Hyoga della Neve da parte sua taceva, seguendo Camus. Di tanto in tanto perdeva ancora l’orientamento e la testa gli girava, ma mai e poi mai si sarebbe permesso di avanzare una protesta, di chiedere una pausa.

Marciarono insieme fino alla locanda: al ragazzo parve di essere tornato bambino, ripensò al giorno in cui Camus era andato a prenderlo e l’aveva portato con sé, lungo quel tragitto che adesso percorrevano a ritroso.

Scivolò dietro a Camus oltre la porta di legno, baluardo contro le tempeste, attento a restare quanto più eretto sulle gambe. A testa bassa.

Katjia non c’era e Hyoga ne fu sollevato.

“E’ fuori con suo zio, lo aiuta a contrattare con i commercianti di Mosca” sorrise Avrora. Si era avvicinata, il volto triste, e aveva baciato Hyoga sulla guancia. Si era ritratta subito allo sguardo di Camus. Jacob, il suo bambino, stava crescendo sano e forte. Adesso correva per la sala, tra gli avventori. Hyoga lo guardò senza pensare nulla.

“Possiamo avere una slitta, Avrora?” Domandò Camus gentile, ma distante. Come Avrora l’aveva sempre sentito. Accennò di si, col capo, si asciugò le mani nel grembiule e fece loro cenno di seguirli fuori. C’era una slitta già approntata e cani freschi e avvezzi alla corsa. Li sistemò lei stessa, alla slitta, con la sicurezza di chi svolge quelle mansioni da sempre.

Camus si liberò delle borse, assicurandole invece sul fondo del veicolo con le cinghie e fece cenno a Hyoga di salire. Il ragazzo obbedì, ancora rintronato dalla febbre, e si tenne serrato nella coperta.

Aveva appena iniziato a fischiare un vento sottile, che sollevava dalle lande a ovest la polvere di diamanti e la frustava loro sul viso, quando Camus prese posto accanto a Hyoga e diede il comando ai cani. La slitta partì e il ragazzo si volse a guardare Avrora che li spiava da sopra la spalla, mentre rientrava a ripararsi dalla tormenta.

Come se la realtà sparisse, davanti a loro, la slitta venne avvolta nel Bianco della Siberia, senza più monti, tundre o foreste. Negli occhi di Hyoga i contorni scomparvero, i suoni si fusero in un tappeto soffice di sottofondo, a parte lo scampanellio dolce della slitta. Si sentì scivolare di lato e non poté fare nulla per impedirlo, finendo per premere il fianco contro quello del Maestro, la guancia contro il suo petto.

“Appoggiati” disse Camus, nel vento. “Ma non ti addormentare”.

 

“L’unica persona che non è riuscita a scappare è la madre di questo bambino?”

“Sembra di sì…”

“Stavano andando insieme in Giappone a trovare suo padre… poverini, sono naufragati in un posto del genere…”

“In quella zona c’è una corrente che porterà via la nave fino al mare siberiano. Allora sarà impossibile riportarla in superficie. Rimarrà sotto il ghiaccio per sempre…”

“Io giuro che la riporterò in superficie”.

“Ahahah! Ma è impossibile, bambino!”

“Solo se diventassi uno dei leggendari Saint, potresti farlo!”

 

“Hyoga. Non ti addormentare”.

“No Maestro”.

 

“Se fossi da solo non sarebbe un problema… ma Hyoga? Come faccio a salvare Hyoga?”

“Lasciami, Isaac… lasciami qui e mettiti in salvo. Le correnti sono troppo forti”.

“Sei pazzo se pensi una cosa simile. Sei pazzo”.

 

“Hyoga…”

 

“Tu devi essere Hyoga”

“Lei è Kido? Mitsumasa Kido?”

“Sono io”.

“Siete mio padre”.

“Sono Mitsumasa Kido”.

“Mitsumasa Kido. Voglio fare il Saint”.

“Come fai a …”

 

“Non ti addormentare, Hyoga. Resta sveglio”.

“Sì…”

Hyoga resistette, più o meno cosciente, fino alla prima tappa. Camus attese il placarsi della tormenta, poi eresse la tenda di pelli e code di animali che ancora profumavano di neve e di vita. Erano, quelli, oggetti appartenuti a maghi antichi, al suo Maestro e ad egli stesso. Quando le pelli diventavano troppo logore, venivano sostituite con altre, degli animali dal manto argentato che si uccidevano per il sostentamento, durante gli addestramenti.

I maghi dei ghiacci e delle nevi operavano nella perfetta simbiosi con la natura. Non sciupavano un ago di pino, non spezzavano neppure un ramo se non era necessario. Eppure crescevano con la consapevolezza che il sangue era necessario per la vita stessa, che il sacrificio precede la morte perché ci sia più vita. Era il potere di annichilire: ad esso ci si rifaceva nella steppa, nella secca, immensa tundra spazzata dal vento. Si annichiliva.

Essere sciamano nelle sacre terre di Siberia significava non nuocere a se stessi né agli altri, a patto che non fosse in gioco un bene superiore. Significava portare in sé il maschile e il femminile, ed ecco perché Camus dei Ghiacci era uno splendido uomo ma portava lunghi i capelli; ecco perché c colorava di rosso le proprie unghie curate; perché avesse un viso delicato.

Significava fare un gesto con la mano e entrare in contatto con gli spiriti dei boschi e le fate delle nevi. Correre con l’anima a fianco di quella della tigre bianca, nella tundra, o della lepre argentata. Volare con i cigni. Si diceva che i cigni cantassero al momento della propria morte, per desiderio di unirsi all’assoluto. Che chiamassero dal mare, dai laghi e dalla tundra, con le loro voci di cristallo a coro, quando c’era da svelare un segreto importante.

Camus, sciamano dei ghiacci, tirò su la capanna, incredibilmente piccola, incredibilmente intima e buia. Accese il fuoco, lasciando che tirasse aria dall’apertura alta e solo allora permise a Hyoga di dormire.

Il ragazzo accolse quell’invito con tutta la gratitudine possibile e si abbandonò su una pelliccia ispida e selvatica, eppure incredibilmente accogliente. Sprofondò nelle tenebre e l’unica cosa che vide furono le dita lunghe di Camus, fresche e profumate d’erbe, che gli sfioravano le labbra e le palpebre.

Fece sogni che non ricordò, ma i cui colori vividi gli si impressero nella mente come sulle retine. Fece fatica a respirare ed ebbe caldo, ma non aveva coscienza o forze sufficienti per muoversi. Gli parve, dalle acque profonde di sonno in cui era immerso, si sentire un canto lontano, di cui non riusciva a definire la provenienza.

Trascorsa la notte aprì gli occhi e trovò Camus chino su di lui, nella stessa posizione in cui l’aveva lasciato.
“Maestro” si levò a sedere di scatto, scostando le coperte. Si guardò attorno ed effettivamente accanto al proprio non vide altro giaciglio. Le sue preoccupazioni divennero tangibili: “Maestro, mi avete vegliato tutta la notte”. Sgomento.

Camus annuì, un sorriso appena accennato sulle labbra e negli occhi.

“E’ tempo di alzarci, Hyoga. Quest’oggi ci sposteremo più a nord”.

“Sì, Maestro Camus”. Sì alzò in fretta, zelante, mentre l’altro aveva già iniziato a smontare la tenda. Sbattè le palpebre stupito, nel rendersi conto che la febbre aveva abbandonato il suo corpo.

 

I preparativi per la partenza furono rapidi, ma efficaci. Fu Hyoga a occuparsi di legare i cani alla slitta e finalmente la vide senza il velo di febbre e di tempesta del giorno prima: era quasi nuova, di legno lucido. Senza intarsi o frivolezze, fatta apposta per attraversare quegli immensi territori ghiacciati. Solo un vecchio campanello sulla ringhiera davanti, che si facesse udire anche in mezzo alle nevicate, nel caso fosse servito.

La muta di husky era composta da animali forti e ben nutriti, in grado di resistere a lunghe traversate. Hyoga comprese dagli sguardi mansueti che Camus li aveva lasciati andare a caccia quella notte, senza timore di perderli, e i cani erano tornati sazi. Il ragazzo li legò al veicolo distribuendo carezze veloci tra le orecchie dritte, sui manti lucidi, argentei. Qualcuno più simile a un lupo di quanto lo fosse a un cane, qualcuno con occhi azzurri gelidi quanto quelli di Hyoga della Neve. Si sentiva a suo agio, con loro.

Caricò anche le borse, una volta che il Maestro le ebbe riempite dei loro averi: quei lavori manuali - lontani dall’addestramento che aveva condotto con Isaac, lontani dalla baita che avevano condiviso come famiglia, lontani dai luoghi in cui era sepolta Natassia - lo aiutavano ad assimilare il dolore e a nasconderlo in fondo all’anima. A congelarlo.

I volti dei defunti si allontanavano, le preoccupazioni affondavano via, in un territorio della mente in cui non potevano danneggiarlo. Restavano solo lui, Camus, e la neve.

“Cosa fate, Maestro?” era già salito al suo posto sulla slitta, quando si volse a guardare Camus che apriva una tasca dello zaino e levava un involto.

Senza una parola, Camus cercò tra gli alberi intorno una cavità nel legno. Depose l’involto e tracciò un segno nitido, sulla corteccia dell’aghifoglio.

“Riso, sale e fiammiferi” spiegò all’allievo, salendo in slitta al suo fianco “Per i viaggiatori solitari che, come me e te, potrebbero avere bisogno di generi di prima necessità. Questo luogo è ideale per accamparsi e quell’albero reca il segno della generosità di un viaggiatore per un altro viaggiatore”.

Non aggiunse altro e Hyoga tacque, ammirato.

Apprese, così, il potere di confortare e conservare in vita, accanto a quello di annichilire.

 

Partirono, viaggiando nel biancore della neve che colorava anche i cieli scuri, e quando fu tempo si fermarono di nuovo. Partirono ancora e ancora si fermarono, per molti giorni.

Ad ogni sosta Camus lasciava liberi i cani e costruiva la capanna. Nei cibi mischiava erbe dal sapore amaro che saziavano lo stomaco e coloravano i sogni notturni, rendendoli vividi e tangibili. Ne bruciava altre nel fuoco, irrorando la tenda di pelli con profumi strani e sontuosi.

Hyoga ne era colmato, ma mai nauseato.

Gli diceva di tirare fuori il gioiello d’oro a forma di croce che aveva ricevuto da Natassia, prima che morisse, che fosse ben visibile alle fiamme del falò.

“E’ una protezione potente che ti è stata data” gli disse la prima volta, con voce oscura e profonda, di mago dei ghiacci. “A cavallo dei mondi tra la vita e la morte, quindi tienila bene con te perché è là che stiamo andando.

Hyoga ubbidì, affondando una mano sotto le pelli e la maglia per afferrare il gioiello (Natassia per dargli il ciondolo deve abbassare il cappuccio di pelliccia, che la fa somigliare ad una principessa russa. Nel buio del cielo e nel nero del mare, i suoi capelli biondi brillano come se avessero il sole dentro. Hyoga la trova bellissima e magica. E’ contento di avere i capelli biondi come quelli della mamma. E’ sicuro che Mitsumasa Kido non ce li ha. “Questa è la croce del Nord, Hyoga” dice lei e gliela fa ondeggiare davanti al viso. Lui mette le mani a coppa e accoglie la croce d’oro in quella piccola conca calda, prima che Natassia gliela allacci al collo) e farlo scivolare su petto.

“Inoltre è la Croce del Nord” continuò Camus e prese i tamburi di pelle di renna ben tesa. “Ed essa è la costellazione a cui tu devi donare te stesso”.

Iniziò a battere un ritmo lento, via via più veloce, che raccoglieva come in mani a coppa e trascinava via la mente dal corpo.

Lo batté ogni sera, da quella prima volta.

Il mondo intorno a loro non cambiava mai. Solo grandi conifere e valli innevate, sempre più a nord, lungo la costa, più a occidente.

Hyoga non aveva idea di dove stessero andando. Camus, tuttavia, aveva l’aria di chi seguiva un percorso preciso. Alla sera, ad una certa ora, tirava le redini e rallentava. Sentiva il viso pizzicargli e comprendeva che il sangue tornava a irrorare la pelle delle guance, quando era stato quasi arrestato durante la corsa dei cani.

 Il Maestro si guardava intorno, serio, gli occhi stretti in due fessure come se stesse cercano qualcosa.

Gli pareva trovarlo e allora montava la capanna, cantando a mezza voce melodie che Hyoga non riusciva a cogliere bene, né a riprodurre.

Da parte sua non poteva chiudere gli occhi senza sognare.

“Dimmi di questi sogni, Hyoga” domandava Camus.

“E’ sempre lo stesso, Maestro”.

“Allora raccontamelo”.

Hyoga attese di essere al sicuro tra le pelli della capanna, accanto al piccolo fuoco, e poi raccontò.

 

Rimane con i piedi sulla frattura che ha causato nel ghiaccio millenario per buttarsi di sotto. Ma non lo fa. Nell’acqua nera nuotano cigni bellissimi, sembrano petali di ciliegio caduti dai rami. Hyoga deve fare uno sforzo per ricordare dove ha visto i ciliegi in fiore e si ricorda del Giappone.

Sotto ai suoi piedi non c’è il ghiaccio, ma piccoli fiori dai colori tenui. Sono fiori della steppa, li ha visti molte volte nelle praterie vicino all’isba, fiori dei ghiacci. Ma  non sono mai così tanti.

Lui ne raccoglie uno, da portare a sua madre, negli abissi.

Fa per raccoglierne un altro per Isaac, ma poi pensa che non è il caso di portare fiori dai colori tenui a un giovane guerriero. Dirà una preghiera. Si sente sereno.

“Vogliamo sapere perché non giochi” gli chiedono i cigni.

“Come?” Hyoga accetta che i cigni parlano, ma nel loro sguardo inquietante, puntato su di lui, ritrova gli antichi lutti, le paure ancestrali che aveva abbandonato all’isba.

“Se tu non giochi i morti si svegliano” pigolano gli uccelli “Non hanno più pace. Non sei solo, la tua gioia riguarda tutto il mondo. Non puoi chiudere gli occhi. Pensa agli alberi appena nati: anche loro hanno bisogno di luce; pensa agli ermellini che pattinano sulla neve e devono fermarsi per colpa tua.” Lo accusano, le voci vibranti come il cristallo unite in un unico coro surreale. “Pensa al cervo che stava per uscire dal bosco e deve fermarsi, impigliato al ramo. Non chiedere mai nulla che sia meno della gioia”.

“Presto sarò felice. Ve lo giuro! Prestissimo!”

“Tu rimandi sempre! Troppe volte ci hai ingannato! Troppe volte! Il cielo, il mare, non possono più fare sacrifici per te”. E si alzano in volo, tutti, spettrali e potenti, nel loro biancore di neve, travolgendolo. E mattino

 

Dopo mattino mi sveglio con quest’ultima immagine, Maestro”.

Mentre lo diceva i suoi occhi si erano fatti pieni di buio. Qualcosa, nel raccontarlo, aveva fatto sì che comprendesse il messaggio del sogno, l’abbandono di una fragilità infantile per aprirsi a qualcosa di più grande, fiero, nobile, adulto.

Attraverso quel sogno,  Hyoga comprese il pensiero di Isaac. Singhiozzò. Ma dai suoi occhi non scese una sola lacrima.

Sbatté le palpebre e sentì la necessità del pianto sparire, trasformare il dolore in consapevolezza che non l’avrebbe abbandonato, ma che nemmeno avrebbe interferito.

Camus vide tutto questo negli occhi dell’allievo. Allora addolcì l’espressione del volto e gli regalò un sorriso dolce, aperto, come quello che gli avrebbe rivolto prima di scomparire in una nebbia di luce e polvere di diamanti, quando Hyoga – oramai guerriero tra i più potenti – l’avrebbe raccolto in fin di vita tra le braccia, durante la guerra contro il dio degli inferi.

Una guerra vicina. Così vicina.

 

 

Shinji: No, no! çOç Non piangere, Hadecciama! Non sanguinare! çOç Ti voglio bene! Leggi, leggi! *copre di bacini*

Kiki May: Oh no, tesoro! Ma te la sei letta tutta! *C* Non credevo l’avresti fatto davvero! *C* Che bel gesto! çOç Grazie! Senti, facciamo così. Per ricompensarti, ti regalerò ben DUE scatole di wafer *C* Ti stringo anch’io! çOç Grazie! Grazie soprattutto per i complimentissimi! çOç E soprattutto su Camus! E’ sicuramente uno dei personaggi a cui tengo di più. Ti copro di baci per il tuo gesto eroico *O* <3

Sagitta72: Eh! L’avevo promesso o no? >O< Sono così contenta di sapere che ti continua a piacere e spero di non deluderti col resto. Hyoga, come dice Camus, è pienissimo di potenzialità. Deve solo imparare a sfruttarle per essere degno possessore dell’armatura di Bronzo. Io non credo, visto il manga, che Hyoga diventi mai effettivamente erede della cloth di Aquarius, ma che diventi perfino più potente sì: nella serie di Hades è addirittura un Guerriero Divino e con i suoi quattro compari ha trasceso le categorie. Credo che per Camus questo sia una grande, enorme onore! Ti abbraccio fortissimo! >O< <3

Ricklee: Camus è spezzato dal dolore. Il Kuyrui ci fa intendere che Isaac non era il primo allievo che il Maestro dei Ghiacci vedeva morire, ma di certo quello a cui, insieme a Hyoga, si era affezionato di più. Oh, ma vedrai che da adesso le cose tra di loro cominciano a migliorare <3 Un bacio a te!

Ichigo: Sono così contenta che mi continui a leggere! Cerco di aggiornare con più frequenza adesso che ho tutta la storia. ^__- Te la troverai tra i preferiti più spesso. *O* Le caramelle! Non mi tiro indietro! *C*  Mele Avvelenate verrà sicuramente ripresa! Prima dovevo portare a termine Neve, non ce la facevo più! *C* Resta in ascolto! >***<

PerseoeAndromeda: E io ti ho detto che non devi preoccuparti delle recensioni. <3 Ma ti ringrazio per avermene fatta una così bella. Ti abbraccio forte. Grazie per tutte le belle cose che mi dici sempre çOç

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Come rinascere ***


Morire non è difficile

 

 

CAPITOLO:  Come rinascere
PERSONAGGI: Hyoga e Camus e la Siberia. Isaac, Katja e il mare.
IN PROPOSITO: Hyoga ce la fa. Ce la fa anche Isaac. A suo modo ce la fa anche Katja. Camus è fiero di Hyoga e, se lo sapesse, sarebbe fiero anche degli altri due.Ne sono convinta..
COSE: I flashbac fanno riferimento all’avventura speciale di Hyoga a Blue Grado, pubblicata alla fine della serie del Santuario nel manga.

 

Morire non è difficile. Talvolta è un’agonia lunga, più spesso basta un attimo, ma si tratta di un cammino per lo più inesorabile.

Rinascere invece è tutt’altro paio di maniche. C’è chi ci mette una giornata intera, a beccare fino alla rottura la concavità dell’uovo per uscire allo scoperto. C’è chi per anni si arrovella e sbatte la testa e poi, finalmente, esce al cielo stellato. C’è persino chi non ce la fa mai.

Camus quella notte pensava con tutto se stesso alla parola agonia: lotta.

Pensava ad Isaac che era morto e al fatto che il suo ricordo non diventasse nebbia con la facilità con cui lo erano diventati gli altri ragazzi che lo avevano preceduto, prima ancora dell’arrivo di Hyoga.

Isaac era stato il primo che si era fissato nel suo cuore di insegnante e nell’isba nella vallata. Prima di lui erano venuti altri fanciulli e nessuno era rimasto.

Qualcuno era stato rispedito in Grecia, da dove il Santuario l’aveva mandato, e che fosse di lui quello che doveva: condannato a morte o relegato tra i soldati semplici. Il Grande Tempio sapeva essere duro, soprattutto in quegli ultimi anni. Qualcun altro era morto di fame e di stenti e Camus aveva solo potuto guardarlo, con distacco e gentile sorpresa, pensando a Milo, al sole, al sale e alla pioggia. Alla vita che era altrove, non lì.

La morte di Isaac era stata un’altra cosa.

La rinascita di Hyoga era cominciata con il loro viaggio e stava volgendo a termine: Camus tirò le redini e la muta rallentò. I cani erano stanchi e infreddoliti, era necessaria la sosta.

Hyoga alzò lo sguardo: i suoi occhi non avevano perso l’espressione lontana e triste di chi ha vissuto troppi lutti, ma il vento e i ghiacci l’avevano indurita, resa tersa. Guardò oltre il cielo che cominciava a schiarire, in quei mesi dell’anno e vide  gli alberi cominciare a diradarsi. Vide fuochi in lontananza.

“Dove siamo, Maestro Camus?”

“Molto a Nord. E molto a Est”.

Molto a Nord e molto a Est. Hyoga si rigirò in bocca quella domanda, cercando di ricostruire una mappa della Siberia che potesse aiutarlo. Ma c’era solo ghiaccio, neve e polvere di diamanti tra le sue nozioni di quei territori, così lontani e sperduti da sembrare solo leggende.

“Maestro. E’ una città!” sibilò sgomento spingendosi in avanti. La slitta procedeva piano, i cani trottavano quasi felpati sulla distesa di neve. Il bagliore perlaceo del cielo disegnava il contorno di una fortificazione che, da lontano, avrebbe fatto pensare alla sagoma di un monte.

La pietra nuda e dura, invece era resa opaca dal ghiaccio, ma era indiscutibilmente tagliata e posizionata, pesante e stabile. La costruzione di ergeva monolitica e senza fronzoli, ma così imponente da far restare con il fiato sospeso.

“Blue Grado”, disse Camus.

Hyoga sussultò. Camus ne aveva parlato vagamente, a lui e ad Isaac, nelle serate scure dell’inverno siberiano, davanti al fuoco. Una città antica, quasi mitica, di cui quasi nessuno né tra gli abitanti del Mondo né tra quelli del Mondo Segreto conosceva l’ubicazione.

Solo qualcuno, tra gli studiosi, tra gli alti esponenti burocratici, tra gli esploratori, conosceva ubicazione e ruolo di quella grande fortezza.

Hyoga si rigirò in bocca quel nome, Blue Grado, rendendosi conto di non sapere niente a sua volta, se non quella parola dal sapore esotico.

Sapeva che era una fortezza che per il Santuario di Atene era di grande importanza, ma non sapeva perché. Sapeva che Camus c’era stato, da bambino, con il suo Maestro.

“Ci entriamo?” domandò con impazienza. Forse era il suo momento di vederla da vicino.

Camus scosse la testa, invece, lasciando che i cani, stanchi, costeggiassero le mura spesse, i bastioni fortificati.

“Non c’è più nessuno. La città è deserta”.

“Deserta! Da quanto tempo?”

“Da diverso tempo ormai. Le condizioni climatiche estinsero la popolazione di Blue Grado, il villaggio di guerrieri che abitava il Polo Nord. Era rimasto solo un pugno di uomini, ma anche di loro si è persa traccia”. Camus lasciò vagare lo sguardo sulle mura gelate. Sul simbolo di Athena scolpito sui grandi, massicci portoni. Sul volto di…

“Poseidon! Maestro! Un effige di Poseidon!” la slitta stava girando attorno alla fortezza, verso la scogliera, quando Hyoga si sporse indicando il profilo scolpito sulla costruzione portante della cittadella: inequivocabilmente Poseidon, re de mari, guardava verso di loro con i grandi occhi di pietra senza palpebre, le labbra dischiuse come se -  nella luce radente e nella polvere di diamante – stesse loro per dire qualcosa.

Camus arrestò la slitta quando giunsero al riparo delle mura settentrionali, dove la lingua di terra e ghiaccio si assottigliava e franava nel mare scuro decine di metri più in basso. Nel fragore e nella schiuma bianca si incrinava il pack.

“Perché Poseidone?” domandò Hyoga stendendo le pelli per la tenda.

“Molti secoli fa, si racconta, ai tempi della guerra contro Poseidon, una parte dell’esercito di Athena depose l’armatura, quando il dio dei mari venne sconfitto. Insieme vennero fin qui, dalla Grecia, portando il vaso sigillato dalla dea, contenente lo spirito del re dei mari. I loro colpi fendevano il cielo e i loro calci spaccavano la terra: chiamarono loro stessi Blue Warriors. Anche col passare del tempo, la loro stirpe non perse smalto e nessuno li avrebbe considerati mai inferiori ai Saint di Athena”.

Camus avrebbe detto di più se avesse saputo che un giorno – quando lui sarebbe già morto, assassinato dal suo allievo, giustiziato da Athena - Hyoga sarebbe stato convocato a Blue Grado e avrebbe conosciuto l’ultima frangia dei Blue Warriors. Gli avrebbe raccontato di come lui aveva toccato quella civiltà antica, insieme al suo maestro, Marius delle Tempeste.

Gli avrebbe raccontato di come aveva incontrato i pochi sopravvissuti, gente fiera e onesta, seppur ridotta agli stenti dal gelo trionfale della Siberia. Di come genti venute sulle navi vichinghe, secoli prima, avessero indicato quelle mura chiamandole Asgard, la città degli dèi, quando loro venivano da quella degli uomini, lontano, da Midgard.

 

“Da qui in poi la terra è sotto una mossa di ghiacci eterni, dove neanche un fiore può crescere” dirà Hyoga a voce bassa, a quello che, tra gli uomini alti e biondi che lo circondano sembrerà essere il capo “Per quale motivo mi avete fatto chiamare? Che volete?”

“Noi siamo gli abitanti di questa terra congelata nei ghiacci eterni” dirà un altro, e si farà avanti. “Questa terra chiamata Blue Grado”.

Hyoga li guarderà a turno, uno per uno, con gli occhi azzurri troppo freddi. Sarà già padrone dell’armatura di Cygnus. Già assassino di Camus. “Che strano. Ho sentito dire che la popolazione di Blue Grado è estinta da tempo…”

“Invece siamo sopravvissuti, anche se siamo rimasti pochi…”

“Hyoga” interverrà il capo, il giovane Alexer che ha tra le mura della fortezza una sorellina che si chiama Natassjia, “Hyoga, siamo rimasti pochi e abbiamo bisogno della tua forza, per lasciare questo posto e conquistare le calde terre a Sud. Unisciti a noi”.

“Voi sapete che sono un Saint di Athena?”

“Se non accetti, dovremo ucciderti”.

 

“Perché da Atene sono venuti fin qui, Maestro?” Ormai la tenda era montata e Camus si inginocchiò per accendere il fuoco.
“Si dice, ma sembrano leggende molto antiche, che sia a Blue Grado che si nasconde una delle entrate segrete, uno dei portali che conduce ad Atlantide: il regno dei mari di Poseidone”.

 

Il regno dei mari di Poseidon stava aprendo le sue porte. Anche se distrutto nel suo interno da millenni, anche se quasi deserto, aveva ancora abbastanza vita per chiamarne altra a sé.

Isaac non seppe mai quanto tempo rimase sospeso tra la vita e la morte, trasportato dalla corrente sotto il ghiaccio. Quanto tempo non respirò, quanto sangue perse.

Nel momento in cui Camus e Hyoga preparavano la tenda dietro le mura di Blue Grado, Isaac incontrava il proprio destino negli abissi del mare.

In quelle ore era scivolato sotto il ghiaccio, nell’acqua nera. Non aveva avuto paura solo perché non era cosciente, altrimenti avrebbe pensato all’Erebo che si apriva per lui.

Nel sonno indotto dal freddo aveva sentito una voce chiamarlo piano: mantenendo l’attenzione su quella voce era riuscito a non morire.

E’ Natassja, aveva pensato. La mama che Hyoga voleva raggiungere. Forse è così vicina che potrebbe toccarmi, con le sue lunghe dita morte e sottili.

Aveva continuato a fluttuare, trasportato dalle correnti, sempre più a fondo, con la pressione dell’acqua fuori e dentro al suo petto che sembrava volesse farlo esplodere, il gelo dei flutti che lo trafiggeva.

Gli si era inondato il cervello di luce e di dolore e Isaac era morto alla vita come Saint di Athena e precipitò verso Atlantide, condotto da una voce, come per rinascere.

 

“Meno male che ti sei svegliato”

“Cosa?” Hyoga sentirà la guancia premuta al pavimento di pietra gelida: una cella umida. Si solleverà a sedere e davanti a sé avrà una ragazzina minuta, i capelli corti e così chiari da sembrare bianchi. Occhi azzurri immensi, pieni di paura. La guarderà come si guarda uno spettro, come si guarda una bambina, come si guarda chi viene a chiedere aiuto ad un uomo imprigionato.
“Ti prego, aiutami: proteggi mio padre da mio fratello Alexer. Mio fratello è tornato per uccidere nostro padre e prendere il regno!”

“Tu chi sei?”

Lei non piangerà, ma avrà gli occhi secchi di chi ha pianto ghiaccio per tutta la vita, spalancati ed esausti. Gli si rifugerà al petto e tremerà. “Sono la figlia del governatore di Blue Grado. Mi chiamo Natassja”.

“Natassjia!”

“Sì. E’ strano il mio nome?”

“No. No, per niente.”

 

Nel momento in cui Camus e Hyoga preparavano la tenda dietro le mura di Blue Grado, Katjia il suo destino l’aveva già incontrato. Il regno di Poseidon apriva le sue porte per qualcuno e per qualcun altro le riapriva.

La ragazza era montata in slitta e scomparsa nella notte, dopo avere detto a Hyoga quello che doveva dire. Sarebbe dovuta rincasare subito, invece aveva spinto i cani nella direzione opposta, verso il mare. Forse cercando Isaac.

Le cose sarebbero andate diversamente, forse, se sua madre, Avrora, avesse dato subito disposizione di cercarla: invece la donna era convinta che la fanciulla fosse al fianco di suo zio, a sbrigare le faccende di compravendita, quindi non si allarmò quando non la vide rientrare.

Un ritardo che risultò fatale: Katjia non tornò alla locanda mai più.

Aveva corso sulla banchisa per ore, costeggiando la crosta: la ricerca era difficile con la tempesta, con le lacrime gelate.

Poi, anche Katjia aveva sentito quella voce.

E’ la musica del mio carillon. Ricordò il giocattolo venuto da Mosca, che ancora teneva accanto al letto. E’ la ballerina che danza nella neve.

Abbandonò la slitta e proseguì a piedi.

 

“Chiudi gli occhi”.

Hyoga obbedì, ripetendo l’esercizio che era diventato familiare, in quei giorni. Chiuse gli occhi nell’interno dell’ambiente angusto della tenda, solo accanto a Camus. Annusò l’odore del ghiaccio, fuori, delle braci del fuoco da campo e della cenere che si infilava nel naso, sotto le palpebre. Respirò il profumo delle erbe che Camus aveva estratto dal sacchetto nella casacca e fatto ardere tra le fiamme e sentì la testa girare, poi farsi leggera.

In pochi istanti non era più nella tenda, non era più a Blue Grado.

Aveva imparato ad allungare il proprio Cosmo bene in alto, verso il cielo, e allora era tra le stelle. Aveva imparato a spingerlo nella terra, allora era radice.

Lo espandeva e in quel modo espandeva se stesso sulla neve e sotto il vento. Senza muoversi dalla capanna di pelli di sciamano, ora poteva correre insieme alla lepre argentata e sentire il suo respiro, lasciarsi riposare con l’alito tiepido della muta dei cani; cacciare sul sottobosco insieme al lupo della steppa. Una volta aveva provato a seguire la migrazione dei cigni.

I suoi viaggi diventavano di notte in notte sempre più lunghi, in uno stato simile al sonno, al sogno: talvolta accanto a lui c’era il Maestro Camus, che lo seguiva o si allontanava come una scia di luce dorata che Hyoga non riusciva ad afferrare.

Alla fine del viaggio, prima di fare ritorno accanto al fuoco, la scia dorata barbagliava fino alle costellazioni, si rifrangeva e si schiantava giù. Passava attraverso il buco nel ghiaccio attraverso cui si erano buttati già Hyoga e Isaac, verso la nave e verso Natassjia.

Hyoga non era ancora riuscito a seguire il maestro fin là. Voleva restare con i lupi e le tigri della neve: sotto l’acqua c’era il freddo serpeggiante della febbre, un cadavere di donna accanto a uno di ragazzo, code squamate di sirena, una musica dolcissima e orribile.

Così tornava sulla strada dei cigni, si nascondeva tra i cani della muta. Qualche volta aveva provato a spingersi fino a Tokyo, alla ricerca di un ricordo, della villa di suo padre, Mitsumasa il vecchiaccio, dove aveva vissuto con altri ragazzi. Ricordava qualche volto che gli dava sicurezza. Gli occhi verdi e dolci, tra gli altri, di un bambino che i ghiacci non gli avevano fatto dimenticare.

“Proveremo domani notte” diceva Camus, esausto, alla fine. Poi si addormentavano vicini per qualche ora.

 

Dal mare proveniva una musica dolcissima e orribile e Katjia pensò immediatamente al carillon di fronte al suo letto.

Poi tra le onde scure vide una sagoma.

Isaac!

Il cuore le martellò nel petto, scaldandola più di quanto potesse mai raggelarla la tempesta. Si inginocchiò sul ghiaccio, sentendo il bordo frastagliato sotto i pantaloni.

Sbatté le palpebre: non Isaac. Era una coda di pesce, quella che vedeva. Una coda di sirena.

Così innaturale che Katjia cadde a sedere tra i talloni e gridò.

Come la lingua di un cucciolo fedele, la coda di pesce si dibatté nell’acqua e le lambì le ginocchia, le mani incredule.

La ragazza tentò di gridare ancora, ma la sua voce venne ingoiata dal vento e dalla polvere di diamante, tagliente. Il mostro usciva dall’acqua in un guizzo e Katija scopriva che non era un mostro ma un pesce, bellissimo e iridescente.

Spalancò gli occhi, incantati sulle squame lucenti, sugli occhi espressivi come occhi umani.

C’erano delle volte, alla locanda, in cui sua madre Avrora portava Jacob a letto, nelle stanze di sopra, e rimaneva con lui perché il bambino faceva i capricci e lei doveva cantargli una canzone raccontargli una fiaba di mostri marini o fate della neve.

A lei, allora, veniva concessori restare sveglia ancora per qualche ora, accanto al fuoco, insieme allo zio Rudolph. Guardava le fiamme del fuoco disegnare forme strane, pensava a Camus il Mago dei Ghiacci, nella sua isba nella vallata e ai suoi allievi, Isaac e Hyoga.

Altre volte, però, chiedeva ancora allo zio di raccontarle di suo padre, morto nella tundra. Il padre di Katjia e del piccolo Jacob era stato un marinaio danese, trasferito nella Siberia inospitale per amore di una donna. Si era adattato alla vita sulla terraferma in quella piccola locanda sperduta, lavorando con i cani da slitta e commerciando con i pochi viaggiatori che arrivavano da Mosca.

Dalla Danimarca aveva portato i ricordi della vita di mare e una fiaba di una sirena dalla voce dolce e arrugginita – come un carillon – che aveva donato la voce in cambio di un paio di gambe per salire sulla terraferma. A causa dell’amore non corrisposto per un giovane, la sirena aveva perduto se stessa, condannata a mutarsi in spuma marina.

Negli ultimi anni, Katjia aveva trovato quella storia curiosamente simile al destino della mama di Hyoga, ma non gliene aveva mai parlato per paura di ferirlo.

Invece spesso si era soffermata a immaginare, con un certo piacere, se stessa nella situazione della sirenetta di Danimarca. E Isaac che, invece, ricambiava il suo amore e le impediva di diventare schiuma di sale.

Era un pensiero in cui aveva indugiato, con un sorriso, guardando nelle fiamme, seduta accanto allo zio Rudolph. Allora annusava l’odore del ghiaccio, fuori, delle braci del fuoco nel camino e della cenere che si infilava nel naso, sotto le palpebre. Respirava il profumo delle erbe che Rudolph  aveva estratto dalla credenza della sala e fatto ardere tra le fiamme e sentiva la testa girare, poi farsi leggera.

Erano erbe che usavano gli sciamani della tundra, diceva lo zio Rudolph; erbe che ispiravano i sogni.

Adesso, in ginocchio nel ghiaccio e nella tempesta, con un pesce iridescente tra le mani, a Katjia parve di stare sognando, che nulla di quello che stava succedendo fosse vero. E come poteva?

Non è un pesce fatto di carne e di squame. E un pesce fatto di…

Fatto di Cosmo.

Non seppe dire il perché di quella parola, ma le salì alle labbra. Hyoga l’avrebbe certamente riconosciuta, ma Katjia non aveva condotto nessun addestramento. Eppure adesso che l’aveva pensata la sentiva battere dentro come un tamburo, familiare e assoluta.

Il pesce di Cosmo si sciolse e le entrò dentro, come il fumo della brace che si respira. Singhiozzò, sentendo come un morso tra il petto e lo stomaco, qualcosa che si incastra con perfezione assoluta e trova il suo posto.

Insieme ai ricordi di Avrora e Jacob, dello zio Rudolph accanto al fuoco, le venivano in mente, adesso, ricordi più lontani che non avrebbe saputo dire se appartenevano a lei o al pesce.

Templi di Grecia che aveva visto soltanto sulle fotografie dei libri di studio; colonne alte a sostenere un cielo d’acqua. Mani di giovane uomo che la liberavano, iridescente e guizzante, dopo che era rimasta intrappolata nell’amo di un pescatore. Un dio imponente dalla lunga chioma e dalla tunica regale, adesso, lanciava nella sua mente un tridente dorato descrivendo una scia di luce.

“Sommo Poseidon” sorrise, nella neve, riconoscendolo.

Singhiozzò ancora e si rese conto di essere ancora Katjia, in minima parte. E di essere anche Tetis, la ninfa che aspettava di ricongiungersi a carne mortale, per poter tornare a servire il suo signore, il dio dei mari.

Si inumidì le labbra, salate di pianto e gelate di neve. Non aveva più pantaloni, né la giacca bordata di pelle di lepre argentata.

Non aveva nemmeno una coda di pesce, come si era aspettata.

Aveva invece un’armatura scintillante che la ricopriva dalle caviglie fino alla nuca, in un elmo protettivo. Così rossa e così bella, sotto la neve, da credere che fosse stata scolpita nel corallo. Sì sentì così forte da spingere un po’ più giù Katjia la bambina e si alzò in piedi che era Katija la sirena. Sentì allentarsi la morsa di dolore al petto per la perdita di Isaac - solo un ragazzo umano – ma non sparire del tutto. Se ne rallegrò.

Poi Tetis guizzò e si tuffò nelle acque nere e gelide, fatte per i mostri e le sirene, senza sollevare uno spruzzo, con sicurezza. Non sapeva come, ma la strada per Atlantide la ricordava bene, come se si srotolasse davanti ai suoi occhi in quel preciso istante.

 

Hyoga tentò il suo viaggio ancora e ancora.

Una di quelle volte lui e il suo Maestro riuscirono a spingere loro stessi sotto il ghiaccio, fino alla nave di Natassia. E sempre finivano dentro un buio senza fine che era la notte del lutto.

Una di quelle volte il suo Cosmo diventò così bianco da essere accecante perfino in quella dimensione di sogno e Camus si risvegliò con il cuore che gli batteva nelle tempie per l’emozione, riconoscendo il potere di un Cavaliere d’Athena al suo culmine.

 

Hyoga arriverà tardi per salvare il padre di Natassja di Blue Grado. Sarà in tempo per salvare la città, però, per preservare l’osservatorio di Athena su Poseidon.

Indosserà l’armatura –  che il piccolo Jacob gli porterà con fatica, fin da Peveck – e affronterà Alexer.

Al momento di dare il colpo di grazia al suo avversario, invece, lo lascerà in vita, e correrà fuori a salvare Natassjia  dalla tempesta, andata a pregare le stelle e il mare.

“Perché?” domanderà Alexer, come svuotato, sconfitto e rinato, con la sorellina tra le braccia.

Hyoga si stringerà nelle spalle: leggere, adesso, senza lutto a gravarvi sopra.

“Anche mia madre si chiamava Natassjia”.

 

 

 

 

Rucci: tra tutte è la tua impressione quella che serve di più. Perché ovviamente il Camus di questa storia è roba tua, più o meno consapevole. Se ti suona nello stomaco, quindi, più che in gola, mi fa solo piacere. Ah, per quanto sia doloroso – e tu sai che, maledettamente, lo è anche per me. Leggi anche questo, dai. Accompagnami fino alla fine. Non manca molto. Abbracciami su! éoè

Ayay: ma tesorino! Additrittura un ululato! *C* Ma è magnifico! Tutta la Siberia ti risponderà ammiratissima! Ci sono un sacco di lupi!  …grazie per le tue parole. Non hai idea di quanto scaldino dentro, su questa fanfiction soprattutto. Grazie infinite. Ti abbraccio stretta, ti adoro anch’io. <3

PerseoeAndromeda: grazie tesoro! I tuoi compliementi sulle fanfiction in cui tratto i Bronze sono specialissimi. Sono molto contenta che ti piaccia come hai descritto, in particolare mi hai colpito con quello che mi hai detto sul sogno di Hyoga: grazie! In questo capitolo mi sono cimentata in uno sviluppo di trama un po’ particolare, un collegamento che non è proprio canonico, ma spero ti possa piacere ugualmente. Aspetto di sentirti presto, lo sai. Un bacio!

Sagitta72: grazie per seguirmi con tanto affetto. E ti dirò, penso che tu abbia ragione: Camus è davvero un personaggio che ha tantissimo da dire e, come sappiamo, lo fa più nel suo non detto che nelle sue parole: bisogna stare attenti e interpretare i gesti, i toni di voce, le occhiate. E sì che è fiero del suo allievo. No, io non penso che Hyoga sia l’erede di Camus in senso stretto: lo è da un punto di vista di ereditarietà: porta avanti il suo percorso, la sua filosofia di vita – pur addolcendola – i suoi doveri e poteri. Ma non credo sarà il prossimo Aquarius: con la guerra di Hades i Bronze si spingono OLTRE i Cavalieri d’Oro. Sarebbe come farli tornare indietro, penso.

Kiki May: No! Nonono! Non morire! çOç Lo so, questi pezzi vanno a scavare un po’ nell’angst. Questa famiglia dei ghiacci è bastarda, ha fregato anche me. E Athena solo sa quanto io li ami: posso solo sperare che un po’ di questo amore passi attraverso le pagine. Ma tu non morire! çOç

…quella storia delle unghie… ngh. Ognuno si attrezza come può per raggiungere l’androginia, Vai di smalto, bellezza *C* *LOL* E poi sì: Milo le ha rosse naturali. Ti voglio bene, Kiki. Non so davvero come farei senza di te.

Shinji: Che belle parole! çOç Grazie! Hadessama, con poche righe riesci sempre a conquistarmi. Magari ti faccio leggere a voce tutte le recensioni che mi fai in Radio Sanctuary, la prossima puntata. Sai che recensioni sexy?

Kijomi: Puoi leggerla anche tu, Neve. Ho controllato, non ci sono filtri e non ci sono blocchi, sul mio account. Ho contattato Erika e anche lei mi ha confermato che non ci sono filtri per le Kijomi. Dovresti riuscire a leggere la fic anche tu. Quando vuoi.

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Come i mostri degli abissi ***


“Alzati, ragazzo”

CAPITOLO:  Come i mostri degli abissi
PERSONAGGI: Hyoga e Camus. I loro cani. Isaac, Katjia e perfino Kanon. Poi Rudolph, Avrora e il piccolo Jacob. C’è un sacco di gente a sto giro.
IN PROPOSITO: C’è chi viene accolto da Athena, c’è chi viene accolto da Poseidon. Non senza sacrifici.

COSE: Sono secoli che non pubblico. Chissà se vi ricordate ancora di questa fanfic *C*;;

 

 

 

“Alzati, ragazzo”.

Isaac avvertì la punta di un piede nel fianco, che spingeva leggermente. Cercò di aprire gli occhi ma sentì solo una fitta di dolore devastante.

“Che aspetti? Non puoi fare i tuoi comodi qui”.

“Non vedi che non ce la fa?” sbottò una voce di fanciulla, accanto a quella di un uomo. “Dagli tempo”.

Katjia? Isaac riconobbe quella voce. Cercò di riconoscere l’altra – giovanile e potente – ma non ci riuscì. Non era quella del Maestro Camus e di certo non quella di Hyoga.

Nemmeno di Rudolph o di qualcuno della locanda.

Il piede nel suo fianco insisté. Senza cura, ma nemmeno senza troppa durezza, si infilò tra il suo corpo e il terreno, premette e lo fece rivoltare sulla schiena.

Isaac gemette.

Aprì l’unico occhio che gli era rimasto e si trovò davanti un mostro marino.

 

Con Blue Grado il viaggio si era concluso ed era giunto il momento di fare ritorno. L’energia di quel luogo sacro ad Athena e a Poseidon, sacro ai vichinghi che la chiamavano Asgard, si era rivelata densa ed elettrica, l’ideale per consolidare il potere del giovane Hyoga.

Con il nuovo giorno, cupo come la notte, avevano fiancheggiato la fortezza deserta, riparandosi dal vento feroce che fischiava da est.

“Torniamo al villaggio?”

Camus fece cenno di sì. Le mani agili strinsero le corde e le fibbie di cuoio.

Poi, inaspettatamente, mise le redini in mano al proprio allievo

“Maestro?”

“Portaci tu a Peveck”.

“Ma come? Non ho idea di come arrivarci da qui”.

Il viaggio di andata era stato come un lungo incubo inframmezzato da sogni e Hyoga aveva la sensazione che Camus non avesse seguito un’unica via attraverso la tundra, ma un percorso articolato e irregolare, adattato più sull’anima che sulla terra.

“Sei cavaliere d’Athena. Usa il tuo Cosmo”.

Hyoga sussultò a quelle parole. Cavaliere d’Athena? Era la prima volta che il Maestro usava quella definizione per lui. Sentì la gola secca come l’aria attorno.

Camus sedette comodamente, sollevò le coperte sulle ginocchia di entrambi, con calma immutata.

“Questi cani ti conoscono. Hanno viaggiato con te, mangiato con te e dormito con te. Conoscono le stelle come le conosci tu. Non dubitare: spandi il Cosmo e vedi il villaggio attraverso la tua costellazione. Vedi te stesso e vedi me. Lascia che vedano anche i cani, guidali”.

Dopo di che, non disse una parola di più.

Hyoga serrò le mani sulle cinghie della brigliatura. Non era sicuro di avere capito.

A dire la verità, nervosamente, si rese conto di non avere capito affatto.

Pronunciò gli incitamenti giusti ai cani per farli partire e tese le briglie, tuttavia, per dare a se stesso l’impressione di stare facendo qualcosa.

O per darla al Maestro Camus, più probabilmente.

Non osò lanciargli nemmeno un’occhiata, ma la sua presenza al suo fianco era pesante e consistente come una lama divina, pronta a giudicare, tagliare, punire.

Sospirò, contrito.

Pensò ai sogni, ai viaggi onirici. Alla tigre della steppa e i cigni che volavano bassi. Sentì dentro di sé qualcosa sollevarsi, come se, in seguito a uno sbadiglio incontrollato, i piedi si fossero staccati dal suolo, e un calore tremendo e ustionante, come di neve troppo gelida, bruciargli nello stomaco.

La sensazione fu abbastanza forte da fargli dimenticare i cigni e la tundra e insieme all’immagine, di conseguenza sparì anche il calore.

Era più che il semplice bruciare del Cosmo per esplodere i colpi delle tecniche di combattimento.

Era espanderlo fino al cielo e avvertire in risposta le stelle.

Era stato così potente che quasi gli venne da piangere.

Invece, con il cuore in tumulto, cercò di recuperare la sensazione, le immagini guida. Camus, vicino a lui, era perfettamente silenzioso e Hyoga comprese che il Maestro avvertiva il suo sforzo.

In altre circostanze avrebbe dato segno di impazienza, e pacatamente avrebbe detto qualcosa riguardo al fatto, per esempio, che i cani della muta erano di nuovo fermi e uno di loro si grattava l’orecchio con la zampa posteriore spruzzando la neve sul vicino di fila.

Hyoga chiuse gli occhi.

Ci fu di nuovo la radura sterminata.

L’aurora boreale sopra la piana gli riempiva la mente di luci belle in maniera intollerabile ed ecco i cigni alzarsi in volo, bianchi come la neve.

Seguì il moto delle ali e presto sentì ancora il diaframma alzarsi e gli parve di librarsi in volo. Questa volta mantenne la concentrazione.

Afferrò salde le redini e diede ancora l’ordine di partenza.

La slitta partì e Hyoga riaprì gli occhi, nel momento in cui la sua mente svettava verso l’alto e le stelle, unendosi, come mai era accaduto prima se non in sogno, con la costellazione per cui aveva lottato sette anni.

Scoprì di non avere bisogno di mappe né idee astratte riguardo la geografia del territorio tra Blue Grado e Peveck.

La strada la conosceva già, semplicemente. Era come se gli si srotolasse davanti in quel momento.

 

Isaac gridò.

Il suo fu un grido in cui la paura era in fondo, molto in fondo. Prima fu un grido di collera e di sfida.

Tanto che le due persone chine su di lui fecero un passo indietro.

“Il mare ci ha mandato un matto”. Cantilenò una voce maschile e profonda.

“Generale!” lo rimproverò la voce di Katja.

Isaac rimase a bocca aperta, il corpo senza una briciola di forza, cercando di mettere a fuoco quello che aveva davanti. Ma se un occhio era un globo di dolore, l’altro era incrostato di sangue e la sua vista era poco precisa.

Ad esempio, a guardare in alto il cielo gli pareva fatto d’acqua. E poiché non poteva davvero essere, liquidò quel dettaglio come una visione della sua mente stanca.

Cercò di mettere a fuoco Katjia, ma pensò ad un'altra allucinazione, perché la ragazza era vestita in maniera davvero improponibile, mezza nuda com’era. Improponibile almeno per una seria, morigerata ragazza russa. …e perché era ricoperta di coralli? Sbatté le palpebre: non erano coralli: era un’armatura. Doveva avere sbattuto la testa con forza sul pack e adesso vedeva le arnature di Athena anche dove non c’erano.

Allora diede per scontata la non affidabilità dei suoi sensi e pensò di essere alla locanda di Peveck.

Era salvo.

“Katjia…” sussurrò. “Hyoga è vivo? Il Maestro… bisogna avvertire il Maestro. Rudolph…” mosse una mano, tremante, verso l’uomo accanto alla ragazza. Anche Rudolph portava un’armatura, in quella sua strana visione, ma Isaac preferì non farsi domande.

“Rudolph? Che..?”

“Nessuno” si affrettò a rispondere la ragazza all’intervento del compagno, che si abbassò sul ragazzo ferito.

“Chi sei?” domandò, rude, ma con una nota divertita nella voce. “Non si arriva in questo posto per caso. E tu sei caduto dritto ai piedi della Colonna del Mar Glaciale Artico”.

Per nessuna ragione, quelle parole snebbiarono la mente di Isaac: il viso di Katjia rimaneva quello di Katjia, ma l’uomo decisamente non era il vecchio Rudolph: era un giovane alto, muscoloso, di certo un guerriero. Isaac poteva sentire il suo potere sebbene l’altro avesse solo un sorriso beffardo sul viso.

“Katja…” disse lui, cercando lo sguardo di Tetis.

“Lo conosci?”

“Lo conoscevo” rispose la fanciulla, le labbra indurite sentendo il cuore minacciato, a metà tra i ricordi di quello che era da millenni e quello che era stata per quindici anni. “Si chiama Isaac”.

“Isaac. Bene. Come sei arrivato qui, Isaac?” lo sconosciuto domandò ancora.

Isaac sentì il potere di Katjia  - un Cosmo? Come fa ad avere un Cosmo? – e dell’altro e li riconobbe come appartenenti a schiere di Guerrieri Divini. Com’era arrivato lì? Sollevò ancora lo sguardo appannato e c’era di nuovo un cielo d’acqua.

Ebbe una vertigine. Ricordò il freddo dell’acqua scura, la deriva, la ferita all’occhio. E l’energia fortissima e selvaggia che l’aveva innalzato, anche se per un attimo soltanto, fino al cielo, impedendogli di morire.

Riportò lo sguardo a Katjia, che lo fissava immobile, irrigidita.

Poi agli occhi dello sconosciuto, occhi blu come il mare, occhi divertiti.

“Kraken”, disse.

“Kraken”.

Katjia la fanciulla e Tetis la sirena rabbrividirono insieme.

Anche loro avvertivano forte il potere di Isaac, e no, non era il potere di un Saint di Athena.

Non più.

“Isaac di Kraken, guerriero di Poseidon” dissero, parlando con una sola voce delicata e continuarono ad essere una da quel momento in avanti.

“Io sono Kanon” disse l’altro, allora, afferrando il ragazzo per le spalle e per i fianchi. Senza troppe cerimonie se lo appoggiò su una spalla ampia e si sollevò. “Kanon di Sea Dragon e tu, dopo di me, sei il primo dei Generali di Poseidon che raggiunge Atlantide. Benvenuto, ragazzo”.

“…Atlantide?” Isaac sentì nel petto uno squarcio di consapevolezza che aveva il sapore del suo Cosmo, come se in un attimo soltanto tutto stesse andando nel posto giusto, eppure non voleva. “Poseidon? No… non Poseidon… Athena”.

Furono le ultime cose che disse. Poi, semplicemente, crollò svenuto sulla spalla di Kanon di Sea Dragon. Rimase privo di sensi per otto giorni.

 

Furono otto giorni lunghissimi, attraverso la tundra.

La slitta procedeva instancabile durante le ore di viaggio e i cani si stancavano poco, non avevano bisogno di riposo, se non nelle pause programmate.

Hyoga avrebbe dovuto sentirsi sfibrato, invece le energie scorrevano in lui come acqua fresca. Le ascoltava, quelle nuove forze stellari, divine. Le sentiva nuove e insieme antichissime.

Familiarizzava, imparava a creare vita, non solo colpi mortali e nel suo petto sentiva, fulgido, il canto del cigno che lo aveva guidato attraverso la tundra.

Di tanto in tanto guardava il Maestro, al suo fianco e Camus non aveva le sopracciglia aggrottate a indurire il bel viso. Il suo sguardo era luminoso, le sue labbra distese.

Aquarius pur tenendo nel cuore il lutto di Isaac, per la prima volta in interi anni cominciava ad assaporare la riuscita non solo come miraggio lontano, obiettivo da raggiungere: ma come certezza.

Era orgoglio quello che vibrava nel suo Cosmo.

Per entrambi, fu come rinascere.

 

Fu come rinascere, per Isaac.

Quando si svegliò, Katjia gli era a fianco, Katjia che era una sirena, e con lei c’era Kanon, il Generale di Poseidon. Aveva lasciato altrove la sua scale di Sae Dragon e sedeva a gambe accavallate sulla sedia di legno intagliato nella stanza di pietra.

“Dove siamo?”

“Nelle stanze sotto la Colonna del Mar Glaciale Artico, che tu devi presiedere a costo della vita per conto di Poseidon, perché di Poseidon sei stato scelto guerriero”.

“Scelto da chi?”

”Scelto dal Kraken”.

Con quella consapevolezza, Isaac tacque.

Seppe di Atlantide, sommersa.

Del risveglio del dio dei mari, ormai imminente.

Di Athena che sarebbe stata sua alleata o sua nemica mortale, che ci sarebbe stato accordo oppure una guerra feroce.

Quando chiese perché, gli risposero che Athena non era più Giustizia.

Che lasciava prosperare gli empi a danno dei più deboli, che la terra era lorda e gli esseri umani infidi e sporchi.

Chi paga il prezzo della crudeltà se nessuno sconta la pena? Chi ricompensa i maltrattati se non una divinità che punisce i malvagi? Chi protegge gli indifesi, chi sostiene i caduti, chi ascolta il pianto dei disperati? Athena, che lascia che gli uomini si riempiano la bocca di sconcezze e di superficialità crudeli, che li lascia spadroneggiare su un pianeta ridotto alla miseria dalle loro stesse pretese?

Re Poseidon non la pensa così.

Re Poseidon pensa che sia bene punire, per dare respiro agli innocenti.

Strappare per dare respiro.

Lavare le onte.

“Non è quello che pensi anche tu, Isaac? Che hai sempre pensato?” La voce di Kanon era dolce, il viso reclinato sulla spalla.

“Ti ricordi quel libro sul Kraken?” mormorò Thetis.

Isaac non piangeva mai, ma quella sera lo fece.

La stanza era illuminata dalle torce alle pareti, la pietra liscia si riempiva del riflesso dell’acqua che veniva da fuori, l’odore del sale li avvolgeva tutti e tre, purificatorio e sacro.

Purificatorie e sacre le lacrime – poche, pochissime, che Isaac non piange – che versò quella sera, davanti a Thetis e davanti a Kanon.

Erano lacrime che lavavano via dal cuore il Maestro Camus e il piccolo Hyoga, perché un guerriero non si lascia mai guidare dalle emozioni – lo diceva il maestro – e sentimenti come quelli lo avrebbero solo ostacolato, adesso che aveva scelto da che parte stare.

Dalla giustizia del Kraken.

Dalla giustizia di Poseidon.

Dalla giustizia di Lemminkainen di cui, così tante vite prima, gli raccontava la nonna nella casa di Oulu.

Quante vite. Una in Finlandia, una con il Maestro Camus, una con Hyoga. Una morte.

Doveva lasciarle tutte alle spalle, ma tenerle nel cuore, dentro, chiuse come in uno scrigno affondato negli abissi.

Isaac pianse – poco –  dall’unico occhio rimasto, che i suoi nuovi, unici compagni avevano fasciato e medicato con cura.

“E’ dura, Isaac del Kraken, ma la tua scelta è giusta”.

“Ci sono io con te”.

Thetis rimase al suo capezzale anche quando Kanon se ne fu andato. Parlarono a lungo.

Per tutta la notte ricordarono insieme quello che erano stati, nel Mondo di Sopra, poi non ne parlarono mai più.

 

Hyoga fermò la slitta davanti alla locanda.

Insieme, lui e il Maetro sciolsero la muta e la portarono al riparo, nel canile coperto, poi entrarono.

La stanza era piena di luce dorata e odore di zuppa saporita, come Hyoga la conosceva da anni, e quando chiusero la porta dietro di loro la magia si compì, come sempre: la neve letale, la splendida e crudele  Polvere di Diamanti rimasero fuori, avvolgendo l’edificio, ma dentro c’era il tepore aureo e pieno di vita che salvava i viandanti.

Era come il paradiso.

“Hyoga! Hyoga!” un bambino minuscolo corse loro incontro e abbracciò le gambe di Hyoga con tanta veemenza da sbatterci la faccia.

“Jacob! Sei cresciuto!”

Jacob aveva gli occhi brillanti d’ammirazione.

“Sei diventato un cavaliere?”

Hyoga rimase spiazzato. Poi, lentamente, fece cenno di sì con la testa.

Camus intanto, seduto a un tavolo libero, si slacciava il bavero della giacca e domandava per sé e l’allievo cibo e vodka.

Avrora non sorrise, come faceva di solito, ma li salutò con cortesia.

“Tua sorella ha lo sguardo triste, Rudolph” disse infine Camus, mentre lui e Hyoga cenavano e la locanda si svuotava.

“E’ per via di Katjia” mormorò lui e parve più vecchio. “E’ scomparsa senza lasciare traccia, sulla banchisa. Non vive più.”.

Hyoga, nonostante il suo potere nuovo e scalpitante, sentì il cuore spezzarsi nel petto.

 

 

Ciao, meravigliose creature che ho trascurato per tanto tanto tempo! çOç Adesso riprendo e finisco di pubblicare. Vi voglio bene.
Un grazie di cuore a tutti voi che seguite questa scompiuta (che in realtà ormai è finita, ma a me sembra eterna) e uno in particolare ad =Ariete= sul forum di Gold Insanity, perché è stata tanto tanto dolce çOç. Chu.

Rucci:
Mio Camus, stavolta Hyoga è cresciuto davvero. Spero. Dovrebbe essere diventato l’algido biondone che alla Guerra Galattica spiega a tutti gli amichetti nuovi le tecniche astruse di Seiya e Shiryu. Ce l’abbiamo fatta, un po’ insieme. *ORGOGLIO*
Scherzi a parte, spero di averlo reso al meglio. çOç Per quanto riguarda Poseidon, beh, ha il suo da fare, ma Kanon e Katjia stanno iniziando a fare le cose per bene. Kanon mi ammazza. Ti amo.
Tifawow: che carina! Sapendo che la segui da un po’ e che ti piace, la tua recensione, inutile dirlo, mi fa davvero un piacere immenso. Grazie per il tempo dedicatomi e spero di non deluderti con il finale ormai prossimo. Anch’io amo allo sfinimento questi personaggi, credo che ce ne siano ben pochi che possano reggere il confronto.
E poi, beh, anch’io adoro la Milo/Camus. Questa storia è anti sgamo: ci sono Milo/Camus anche dove non dovrebbero. XD Ma fa sempre bene concedersene un po’. Un bacione e grazie!
KikiMay: davvero io non so esprimere il bene che ti voglio. Leggo le tue recensioni e mi rammarico di non averti ancora potuta incontrare. XD

Grazie del tuo sostegno e dei tuoi splendidi commenti. Anch’io vorrei tenere il pulcino lontano dalle Galaxian War! çOç E invece lui ci va! Ma ti pare? Tanti bacini a te! éOè
Shinji: Ave o tu! Indomito conoscitore delle leggende e degli alberi sciamanici! çOç Grazie dei commenti e grazie della compagnia degli studi. C’è tanto anche di tuo, qui dentro, di carambola. E di tutti i libri sugli dèi, sugli alberi, sui fiori, sulle cetre e, naturalmente, su IL COTTALO. CHU.

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Come le tempeste ***



Katjia scomparsa nei ghiacci

CAPITOLO:  Come le tempeste
PERSONAGGI: Hyoga e la famiglia della locanda. Milo e Camus al Santuario di Atene.
IN PROPOSITO: Allarme al Grande Tempio, vige lo stato di allerta, ma le cose sono poco chiare. Allarme in Siberia, Hyoga fa un gioco pericoloso.
COSE: Vi voglio bene! Anche i miei schemi introduttivi ve ne vogliono!

 

 

Katjia scomparsa nei ghiacci. Katjia non vive più.

Hyoga non aveva mosso un muscolo del viso, se non per aggrottare appena le sopracciglia bionde, sottili, sotto la frangia scomposta.

Non pianse una sola lacrima, ma il piccolo Jacob dovette tirarlo per la mano per farlo sedere, dal momento che era rimasto in piedi, in mezzo allo stanzone tiepido e luminoso.

“Hyoga! Hyoga, ti faccio vedere un disegno? So disegnare gli orsi, guarda!”

Il ragazzo lo seguì al tavolo accanto alla finestra e anche quando la mano insicura del bambino tracciò le linee sul foglio candido, era un altro sfondo bianco che guardava, oltre il vetro.

La Siberia gelata si stendeva a perdita d’occhio, senza confini, compatta. Veniva da pensare che Isaac e Katjia sarebbero potuti apparire da un momento all’altro.

“Signor Camus?” Dall’altra parte della stanza, Rudolph chiamò a bassa voce. Camus si liberò della giacca, appoggiandola ordinatamente a cavallo dello schienale della panca, poi si avvicinò. Il suo sguardo non tradiva emozione e come sempre, il vecchio Rudolph abbassò lo sguardo davanti a quel giovane.

“Una lettera per lei, Maestro dei Ghiacci. Da parte del Mondo Segreto”. Si asciugò le mani e cercò dietro il bancone. Uomo fedele, come i grandi lupi della steppa, Rudolph avrebbe dato la vita per Athena e fare da tramite per uno dei Dodici a lei più fedeli era un grande onore. Camus prese la lettera e gli bastò guardarla per capire che non era di Milo.

“Grazie, Rudolph”.

Camus e Hyoga mangiarono insieme un pasto frugale, caldo. Nessuno di loro parlò fino a quando Camus pretese l’attenzione del suo allievo.

“Diventi Cavaliere di Athena in un periodo che non è sereno. Questo non deve essere per te una scusa per non comportarti adeguatamente. Anzi. Deve esserti da sprone per fare meglio di quanto faresti, meglio di chiunque altro”.

Parlò con voce dura, tagliente. Ma il suo sguardo era caldo.

Hyoga sentì il petto allargarsi d’amore. Se c’era qualcosa che poteva farlo vibrare di vita, dopo tutta quella morte, era l’orgoglio del suo Maestro.

“Sarò Cavaliere, Maestro. E farò tutto quello che c’è da fare”.

“Lo farai subito. Il Santuario mi ha chiamato e io devo fare ritorno immediatamente. I miei piani erano quelli di tornare con te e investirti con l’armatura di Cygnus quest’oggi stesso, ma se il destino ha voluto così, significa che è bene rimandare di qualche giorno. Andrai all’isba e  aspetterai il mio ritorno”.

“Sì, Maestro”.

Presero congedo l’uno dall’altro appena fuori dalla locanda. Rudolph asciugava i piatti e Avrora li guardava dalla finestra, stringendo Jacob, come se fosse certa di perderli, quei due ragazzi donati alle stelle, e sarebbe stato ancora come perdere due figli.

Hyoga salutò il Maestro e si diresse verso la piana, poi su, verso la collina.

Camus partì subito dopo. Non si affidò né al treno, né ad altro che non fosse il suo Cosmo, potente e aureo.

Hyoga non lo riconobbe quando lo vide sfrecciare nel cielo, come una stella cadente.

 

Quando si fermò fu per riprendere fiato, a metà della salita. Ansimava. Si era sforzato di mettere un piede davanti all’altro più veloce che poteva, per stare al passo del giovane che era venuto a prenderlo. Solo a metà salita, Hyoga si era però reso conto che l’impresa non era roba da ridere.
Sentiva il cuore spingere contro il petto, freneticamente, come se gli allenamenti  con gli altri bambini a Villa Kido, fossero stati soltanto un sogno sciocco. Girò gli scarponi nella neve gelida, ascoltando il rumore che faceva sotto le suole. Come cristallo frantumato sotto un tappeto soffice.

Guardò la fila ordinata di orme che avevano lasciato: le sue, piccole e vicine, tracciavano la strada fino alla locanda della gentile Avrora, ma a tratti il vento, che fischiava minaccioso, le aveva spazzate via e presto avrebbe cancellato ogni traccia del loro passaggio. Hyoga sentì la gola stringerglisi senza un motivo. Quelle della sua silenziosa guida descrivevano invece falcate più ampie, ma erano leggere, perfino più leggere delle sue, come lasciate da un corpo senza peso.

“Non fermarti” la voce lo raggiunse, tagliente come il vento, e Hyoga sussultò.
Si girò nuovamente e riprese la salita. Sgomento si rese conto di quanto fosse difficoltoso ripetere quei movimenti semplici, come se le gambe fossero fatte di piombo. La pelle, arrossata dal freddo e dalla febbre era un contatto con il mondo quasi doloroso. Orgogliosamente si spinse in avanti.

L’uomo lo fissava dall’altura. Era alto e longilineo, eppure emanava d sé una forza straordinaria, come se fosse compatta sotto la pelle. Aveva i capelli lunghi e curati di un rosso strano e accattivante, come il sole che arde al mattino. Lo aspettò finché non lo vide rimettersi in marcia, poi proseguì a sua volta, scomparendo alla vista del bambino. Non si fermò nemmeno quando lo sentì cadere alle proprie spalle. Hyoga tentò di chiamarlo, ma le parole non raggiunsero le sue labbra, spazzate via dal vento, che gli schiaffeggiò le guance, e gli spinse via il cappuccio della giacca, esponendolo al vento. Tentò di rialzarsi, ma il movimento del ginocchio in avanti lo fece scivolare più in basso. Tentare di arrestare il movimento artigliando la neve caduta con le dita fu un grosso errore: fu più o meno come stringere nelle mani i frantumi di un bicchiere rotto. Allentò la presa e scivolò più in basso ancora, ma il ghiaccio gli ferì le mani, macchiando la distesa candida di sangue.

Il piccolo spalancò gli occhi azzurri, fissando il sangue, e quella macchia gli parve un oltraggio su tutto quel gelido candore. Strinse i denti e serrò le labbra. Affondò le dita doloranti nella neve dura e si tirò più su, sul pendio. Poi lo fece con l’altra e guadagnò altri centimetri. Mano a mano, raggiunse il tratto pianeggiante, fino a trovarsi, rannicchiato nella neve ai piedi del giovane.

Risalendo ancora una volta quel pendio, dopo il tempo di lontananza tra gli usi sciamanici della tundra, Hyoga non potè fare a meno di ricordare la prima volta che vi si era inerpicato.

Quanto tempo era passato?

Sei anni.

Tutta una vita.

La ripercorse tutta fino alla vallata, fino alla piccola casa di legno sferzata dalla tempesta. Chiuse la porta dietro di sé e si morse le labbra, quando, messo sul fuoco il samovar, si rese conto di avere preso due tazze per il tè, la propria e quella di Isaac.

 

In Grecia il tramonto fiammeggiava, come se il sole avesse dato fuoco alla terra, affondando dietro le montagne.

L’ombra di Camus era una sagoma lunga e sottile e raggiunse i piedi di Milo molto prima di lui. Il Saint di Scorpio lo vide arrivare, in fondo al sentiero e lo aspettò, fino a quando l’altro non gli fu vicino. Si guardarono a lungo.

“Milo”.

“Bentornato, Camus”.

Una tensione vibrante, dei gesti trattenuti. Non l’abbracciò, come al solito, notò Camus. Ed era andato ad accoglierlo in armatura d’oro e mantello bianco.

“Il Pontefice mi ha convocato d’urgenza. Ne sai qualcosa?”

“Stanno accadendo eventi poco chiari”. Milo annuì. “E’ stato indetto il Crysos Synagen. Entro sette giorni a partire dall’alba di ieri, tutti i Gold Saint lontani dal Tempio dovranno essere qui. Siamo in stato d’allarme”.

Milo si girò, facendogli segno di seguirlo e Camus l’affiancò. Salirono insieme la scalinata bianca, tinta appena dal rosso del sole morente.

L’aria che spirava dal mare era dolce, eppure c’era qualcosa di mortifero, nell’aria. Come l’odore del biancospino.

Milo gli lanciò un’occhiata, mentre salivano fino all’Undicesima Casa, e  pur nella tensione, gli scappò un sorriso di benvenuto. Senza accorgersene, nella stanchezza degli ultimi giorni, Camus lo ricambiò con tenerezza.

“I tuoi allievi? Sei scomparso da qualche tempo. Dove eri finito?”

Più si avvicinava alla fine della frase, più il tono di Scorpio si caricava di preoccupazione e rimprovero. “Non potevo nemmeno raggiungerti appieno col Cosmo!”

“Perdonami, Milo. Ero in una situazione molto delicata. Per la prima volta dopo così tanti secoli, l’armatura del Cigno ha forse trovato chi sarà in grado di estrarla dai ghiacci millenari. Credo che Hyoga sia pronto”.

Milo sollevò le sopracciglia, con aria di gentile sorpresa.

Se uno dei due allievi di Camus era pronto per l’armatura, significava che l’altro era morto: erano le regole del Santuario da sempre. Tacque.

“Milo, non sai nulla riguardo a cosa può avere indotto il Sacerdote a indire lo stato d’allarme?”

Scorpio annuì brevemente.

“Te ne parlo dentro. E’ una storia lunga”.

Camus varcò per primo la soglia dell’Undicesimo Tempio. Non era cambiato nulla, nella fresca immobilità delle colonne ioniche, nella penombra rischiarata dal sole a ovest.

Anche le sue stanze private lo accolsero come un sogno, dopo tanta privazione.

“A Tokyo stanno succedendo cose strane. Mettiti in ascolto.”

“A Tokyo? Perché proprio a Tokyo?”

“Senti?”

“Ci sono guerrieri dotati di Cosmo laggiù”. Camus sbatté le palpebre, sorpreso. “In mezzo alla gente! E’ incomprensibile. Cosa sta succedendo?”

Milo strinse i pugni.

“Un tradimento del Tempio. La frangia esterna dei nostri Sacri guerrieri, una parte consistente dei nostri Bronze Saint ha tradito Athena. Si è staccata dal Santuario e si è riunita a Tokyo”.

“Sotto il comando di chi?”

Ci doveva essere un capo. C’era sempre un capo.

“Una fanciulla”.

Milo lo guardò e Camus dovette ricambiare il suo sguardo, senza comprendere.

“Una fanciulla. Non una Saint?” Se fosse stata una donna Saint, non l’avrebbe chiamata così. “Chi?”

“Una fanciulla appartenente alla nobiltà giapponese, sembra. Guarda”.

Gli fece cenno di avvicinarsi al tavolo e sedettero entrambi. Camus prese tra le mani un ritaglio di giornale che era stato appoggiato lì per lui.

Un quotidiano giapponese.

“Galaxian War.” Lesse. “Ha inizio la battaglia più grandiosa della storia. L’inaugurazione dell’evento è previsto per il 10 settembre 1986”.

Milo annuì. “Era ieri. La Galaxian War è iniziata ieri mattina ed è stata trasmessa su tutte le più importanti reti televisive mondiali. E’ un duello tra Bronze Saint. Hanno in palio un’armatura d’oro”. Milo quasi ringhiò. “L’armatura di Sagitter. L’armatura di Aioros. Non è oltraggioso?”

“Come l’hanno avuta?”

Camus continuava a scorrere lo sguardo sul trafiletto. Sulle informazioni sulla battaglia sportiva, sulla fanciulla che gli aveva indicato Milo, Saori Kido, la cui foto spiccava nell’angolo in alto.

“Non si sa. Ma lo scopriremo”.

“E’ incredibile. Non è mai successa una cosa del genere. Un tradimento così alla luce del sole! Immagino che il Pontefice debba prendere provvedimenti più che estremi. Credi che ci convocherà per sapere chi mandare tra noi?”

“Nah”. Milo fece un gesto seccato e si appoggiò allo schienale, un lampo di rabbia negli occhi azzurri. “DeathMask di Cancer è tornato ieri dalla Sicilia ed è la prima cosa che ha chiesto. Il Pontefice ha detto esplicitamente che non manderà un Gold Saint. Sarebbe come riconoscere valore al nemico. Manderà due Bronze Saint”.

“Chi?”

“Uno deve essere ancora convocato. L’altro è già partito. Solo che…”

“Che cosa?”

“Non si sa chi sia”.

“Mh”.

“Girano voci che il Pontefice abbia mandato qualcuno dall’Isola Nera di DeathQueen a rompere le uova nel paniere di quei derelitti. Un esiliato a fare il lavoro da giustiziere”.

“Non importa, Milo. Anche se fosse, l’ha scelto il Pontefice. Questo ci basti”.

“Camus”. Milo si sporse in avanti, sottovoce. Con lo sguardo fisso nel suo, gli afferrò una mano. “Camus, questi sono ordini che dovrebbero essere noti. Per lo meno alla nostra casta”.

“Di che cosa ti preoccupi? Il Pontefice è un uomo accorto. Sa quello che fa”.

“Non sono pochi gli uomini che si lamentano del suo operato”.

“Lo so” Camus lo guardò da sotto in su, quando Scorpio si alzò, facendo frusciare il mantello candido. “Ma dobbiamo rimetterci alla sua volontà. Dopotutto, parla per bocca di Athena”.

Milo sospirò.

“E in questo momento ti attende a colloquio. Vieni, saliamo”.

 

I passi di Camus riecheggiarono tra le mura di marmo. Milo aveva appoggiato la schiena alla parete,  gli aveva fatto un cenno e un sorriso, poi l’aveva lasciato andare da solo al cospetto del Pontefice.

Alla fine della sala, sul trono che sormontava i gradini candidi, l’uomo che governava il Santuario e ascoltava le parole di Athena lo attendeva. Il suo petto quasi nemmeno si muoveva, nella tunica lunga che lo fasciava e sotto le ciocche dei capelli fluenti, come se fosse una statua assisa, in quel modo imponente.

L’elmo sacerdotale gravava sulla sua fronte, e la maschera riflettente, dura, non permetteva a nessuno di guardarlo in viso, negli occhi, nell’anima.

“Non sono pochi gli uomini che si lamentano del suo operato”.

“Lo so. Ma dobbiamo rimetterci alla sua volontà. Dopotutto, parla per bocca di Athena”.

Camus si avvicinò.

Piegò il ginocchio.

E rese omaggio.

 

Hyoga si rigirava la tazza in mano da ore.

Aveva bevuto il tè e l’aveva apprezzato, ma l’alzarsi dal tavolo per lavare il samovar e il bicchiere sembrava essere un’azione insormontabile anche per un giovane Saint di Athena.

Il disegno che tracciava il manico sbrecciato nell’aria sembrava catturare totalmente l’attenzione. O la fiamma della candela, che danzava nella lanterna di vetro, sul tavolo.

Perfino l’ombra proiettata dal suo corpo sul pavimento, lo incantava.

Fuori dalla finestra, poi, c’era quel suono dolcissimo, carezzevole, della tempesta che fischiava.

Era il canto terribile della sirena, del Kraken.

Gli faceva venire in mente idee bellissime e malsane.

Tutte riguardavano da vicino i suoi morti, scomparsi sotto uno strato di ghiaccio.

Quando si alzò, finalmente, la tempesta si era placata.

Hyoga non lavò il samovar, né la tazza.

Prese una coperta e uscì. Giusto per dimostrare ad Isaac e a Katja, ma prima di tutto a sua madre, quanto era diventato forte e in grado di fare ogni cosa, adesso che era un Saint.

 

“Allora?”

Milo si alzò da sedere, dove aveva improvvisato un salotto di discussione con le guardie della Sala del Trono. Aphrodite dei Pesci sospirava di costernazione e scuoteva la testa, quando trovava Scorpio o un altro pari casta in quelle condizioni, ma Milo non sembrava darsene pena e continuava a dare confidenza. In quel momento troncò la conversazione con una pacca sulle spalle affibbiata al più vicino e si lanciò verso Camus, che usciva con cipiglio serio.

“Devo scrivere una lettera”.

“Una lettera?”

“A Hyoga”.

“A quest’ora di notte?”

“Devo dirgli dov’è la Sacra Armatura di Cygnus. In qualità di mio allievo e di Bronze Saint fedele ad Athena è stato designato dal Pontefice come colui che andrà per arrestare nel sangue e nella giustizia il tradimento e lo scempio di Tokyo”.

Come Camus davanti al Pontefice, Milo non poté frenare un fremito d’orgoglio.

Camus scrisse la lettera quella stessa notte. Fu rapido, coinciso, ma soppesò bene le parole, figurandosi il viso di Hyoga e il suo stato d’animo – che sia come il ghiaccio, Athena, guidalo – quando avesse avuto la sua lettera tra le mani.

Milo non lo lasciò solo nemmeno per un istante e, nonostante Aquarius non amasse avere persone in giro quando c’era da sistemare un’urgenza, in tutto quel trambusto e in quella strana atmosfera gliene fu grato.

Rimase a sedere al tavolo davanti a lui, all’Undicesima Casa, la guancia appoggiata al braccio, fino a quando Camus non mandò a chiamare un messo.

Non era il caso di affidarsi ad altri se non a un messaggero che giungesse a Peveck il prima possibile, magari il giorno seguente.

Guardò l’ambasciatore andare via, sotto le stelle, e solo allora permise a se stesso di allentare la presa e alle braccia di Milo di condurre il suo corpo stanco contro il proprio petto.

 


Dea Eris: Ciao! Grazie per i complimenti, davvero graditissimi! Riguardo a Katjia/Tetis, ovviamente è un’interpretazione assolutamente fanon del background di questo Marina di Poseidon, dal momento che sul passato della nostra sirenetta non ci viene detto niente.

Ho immaginato per lei qualcosa di diverso rispetto a quello che succede ai Saint, che, come Hyoga e Isaac, hanno una predestinazione e devono allenarsi duramente per compiere il proprio fato. I Marinas giungono da Poseidon in modi più strani, per vie traverse: Isaac ci arriva dopo un addestramento da Saint, Kanon viene nominato Sea Dragon dopo essere stato esiliato e condannato a morte dal Santuario di Athena.  Titis ci viene mostrata in forma di donna e di pesce, da Kurumada. Ci fa pensare a lei come uno spirito che diventa fanciulla per essere guerriera e, dopo la sua morte, nel manga, torna tra le mani di Julian Solo come spirito-pesce. Ho pensato quindi di farla incarnare in Katia, ragazzina predestinata. Carne e anima che si incontrano, come succede per il dio Poseidone, che scivola nel corpo del giovane Julian, senza tuttavia togliergli la sua identità. Dal momento che è proprio lei a guidare il dio, all’inizio della saga di Poseidon, ho immaginato un procedimento di “incarnazione” simile. Fammi sapere se ti convince!

Kiki May: Hai ragione, hai ragione! Sono pessima! Ma dai che siamo alla fine, ormai, mancano due capitoli, oltre questo! E dovrei tenere un buon ritmo!

Adesso tutti si separano, Isaac da Poseidon, Camus è tornato da Milo e Hyoga si appresta a infilarsi nel secondo volumetto di Saint Seiya *C* Che fatica. Grazie, Kiki, per tutto. Spero di abbracciarti presto. >***< E yay per le pose kurumadiane!

Ruri: çOç Tu mi commuovi, accidenti! Ti copro di bacini! çOç E portiamo Soheil in vacanza!

Rucci: Tomoyoooh! Torni al Santuariooooh! =O= *uno scorpione felice* La rilegatura. Ogni volta muoio di tenerezza. Sono ormai quattro anni che va avanti sta scompiuta. éOè E a te piace ancora!

*STRINGE* Ti bacio anch’io.

Sagitta72: Tornata! Si, scusa il ritardo. Lo so, lo dico sempre, ma stavolta bisognerà davvero concludere! Sono contenta di averti ritrovato tra i lettori e spero di non deluderti, portando Neve alla fine nel migliore dei modi. Sicuro che rimarrò! Non hai idea di quanti lavori in sospeso! XDD

Ti stringo forte!

Shinji: E io ringrazio te. Per le parole e per l’affetto. çOç Ti regalerò tanti pan di stelle, Decciama!

 

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Come un cigno ***



La piana era candida come un cigno, le ali appena spiegate

 

CAPITOLO:  Come un cigno
PERSONAGGI: Hyoga e Jacov. L’armatura del Cigno e Natassia. Milo e Camus. Isaac e Thetis. Seiya, Jabu e Shun.
IN PROPOSITO: Hyoga diventa grande.

COSE: E’ il penultimo capitolo. E allora, direte voi. Eh. E’ il penultimo capitolo.

 

 

 

 

La piana era candida, ali di cigno appena spiegate. Sembrava quasi morbida, come se la neve fosse appena caduta, soffice.

A Hyoga parve di essere in un film, ricordò quella che scendeva sulla piazza a Mosca, quando con Igor e Natassia giocava a prendere i fiocchi dal cielo. Invece era neve dura, resa forte come l’acciaio, levigata come una perla.

Il ragazzo sistemò tra le labbra un fiore della tundra, attento a non spezzarne il gambo sottile. Era andato a coglierlo nel mattino, il suo colore vivo lo aveva commosso.

Poi si chinò sulla banchisa.

Dove la terra diventava acqua, sebbene entrambe fossero lastre bianche, dure e perlacee.

Dove per la prima volta, da bambino, aveva visto il Maestro Camus lanciare la Diamond Dust.

Dove Isaac aveva perso la vita per salvare la sua.

Aggrottò le sopracciglia, scacciò il ricordo e richiamò a sé il Cosmo. Lo sentì ardere, gelido e bruciante insieme, doloroso e salvifico.

Si era già immerso tre volte da quando Camus aveva lasciato la Siberia, volto ad Atene.

Non era da dire che temesse ancora di fallire.

Il suo cuore, gravido delle morti che si era lasciato alle spalle e della forza delle stelle, non temeva più le sirene. Era sceso nell’acqua gelida e gli era parsa meno cupa.

Il letto di sua madre, cadavere squisito, l’aveva riempito di piccoli fiori rosa, come quello che teneva tra le labbra.

Sollevò il braccio, vedendo l’energia – candida come un cigno – che lo avvolgeva, e con forza lo strato di ghiaccio, liberando il mare, metri più in basso.

Si tuffò, guadagnando immediatamente profondità. Lui stesso, adesso, fosse una creatura degli abissi. Sciamano come Camus dei Ghiacci, adesso poteva essere fanciullo e acqua insieme, nave affondata e pesce degli abissi.

Una stessa sirena poteva essere.

Un cigno.

Il sole lo rincorse con i suoi raggi, da sopra la superficie. Lo seguì fin dove poté, infiltrandosi tra le ombre cristalline, poi lo perse.

Hyoga, che era l’acqua stessa e il sole, illuminò il proprio cammino da solo.

La nave squartata lo aspettava, adesso, come un vinto in schiavitù attende il vincitore. Sdraiata sul fondale, aveva la bellezza cupa e tenera che circonda le cose sconfitte.

Il ragazzo l’ammirò ancora una volta: una bestia addormentata sul fondo.

Kraken, disse una voce nella sua mente e avvertì in fondo allo stomaco l’antico germe della paura, pronto a sbocciare in terrore. Per un attimo, un momento soltanto, ma lungo come millenni di attesa, ebbe la certezza che ci fosse Isaac, dietro di lui, pallido e gonfio cadavere dagli occhi argentei e malevoli, che avrebbe aspettato solo che la curiosità diventasse morbosa abbastanza da farlo voltare, da far sì che si assicurasse di essere solo.

Allora l’avrebbe afferrato, con le mani molli e incredibilmente forti, e l’avrebbe trascinato giù, a fondo, a dormire per sempre stretto a lui, con Katja e Natassia.

Un attimo solo.

Hyoga, che aveva imparato bene durante le immersioni precedenti, chiamò a sé l’energia bianca dei cigni a curare il nodo di paura nello stomaco.

La sentì come una carezza amica, allora tornò ad essere acqua e sole. Tornò ad essere solo.

La nave morta smise di essere il Kraken e diventò Hyoga quando Hyoga diventò la nave, così come nella tundra era stato la volpe argentata e la lepre bianca.

Non c’era niente da temere.

Scivolò nella chiglia spezzata, nei corridoi silenziosi, tra i defunti. Come se entrasse in un sepolcro consacrato aprì la porta della cabina di sua madre.

Natassia era dove era stata sistemata, nella cuccetta portata al centro, avvolta nei lenzuoli perché l’acqua gelida non se la portasse in giro.

Era come una bambola spezzata, ma a suo figlio sembrava sempre bellissima.

Nei suoi capelli che ondeggiavano sul cuscino simili ad alghe chiare, fragili fragili, Hyoga aveva sistemato i piccoli fiori della tundra.

Delicati e selvaggi come lei.

Uno per Natassia, uno per Isaac, uno per Katjia.

Uno per Isaac, uno per Katjia, uno per Natassia.

E così via, ancora e ancora.

Ne avrebbe portati tanti da riempire il cuscino. La sua bella mamma morta era l’apoteosi di tutti i morti e portare omaggio a lei era onorare tutto ciò che era stato.

E che rimaneva, immutabile e gelato, sul fondo dell’anima.

Nel guardarla adesso, anche lui era Natassia. Anche lui era la morte. Era morto anche lui.

Ah, mama. Un gioco pericoloso. Andiamo via. Mama Navsegda. Mamma per sempre.

Una preghiera, veloce e sentita, poi tornò ad essere l’acqua, il sole che filtrava, il vento e la banchisa.

Alla fine, tornò ad essere se stesso.

 

“Attenzione prego!” la voce dello speaker dall’altoparlante richiamò l’attenzione del pubblico, sconvolto dallo spettacolo cruento offerto sull’arena. “Attenzione, prego! A causa del ritardo dell’arrivo d Cygnus, il terzo incontro è rimandato…”

“Bah!” uno dei ragazzi in armatura sbottò, raggiungendo gli altri, un sopracciglio sollevato e l’espressione seccata. “Non solo Cygnus, ma anche Phoenix non è ancora arrivato. Sono sicuro che si sono spaventati”.

“Che dici, Jabu?”

Il Saint di Pegasus si avvicinò a quello di Monoceros, pretendendo chiarezza: non era uso comune a dei guerrieri di Athena insultare dei paricasta.

“Cygnus non ha il carattere leale di un vero uomo giapponese”.

“Come?”

L’arena si era liberata dei contendenti e il pubblico, affamato teneva gli occhi puntati sui giovani guerrieri a riposo, tra una sfida e l’altra.

“Non lo sai? Lui è per metà giapponese e per metà russo”.

“Russo?” Seiya lo guardò sgomento e anche Shun di Andromeda, poco lontano, alzò la testa, in ascolto. “Vuoi dire che il Saint di Cygnus è…”

Shun sorrise, involontariamente, nel pronunciare il nome dell’amico d’infanzia. “Hyoga?”

 

“Hyoga!”

Jacov tirò con forza le redini dei cani, e la slitta sollevò neve fresca e indurita. Hyoga ansimava, avvolto nel panno che aveva portato con sé, le ginocchia e i palmi delle mani ancora appoggiati al terreno ghiacciato.

Sollevò il viso in tempo per vedere il bambino ruzzolare giù dalla slitta e trotterellare da lui. Non si sorprese: i bambini crescono in fretta in Siberia.

“Hyoga!” gli arrivò davanti, tutto avvolto nel cappotto di renna e pelo caldo. “Hyoga, sei andato ancora una volta a trovare la tua mamma? Ma come fai? Un giorno porti anche me? Almeno una volta al giorno rompi il ghiaccio e ti tuffi! Non ti annoi a fare questo, Hyoga?”

Il ragazzo ansimò ancora, gli occhi azzurri piantati sul bambino: vagliò se ringraziarlo o meno per la cronaca così dettagliata, ma poi preferì tenere le energie per sollevarsi e infilarsi abiti asciutti.

E per rimproverarlo.

“Jacov. Non ti ho detto solo ieri di non venire in questo posto? E’ pericoloso”.

Non voleva nemmeno immaginare il viso di Avrora, se avesse saputo che il figlio minore lo seguiva fin lì, dove era morta Katjia. “Questo…”

“Lo so, lo so!” Jacov saltellò sui ghiacci, figlio della Siberia, e gli strinse la mano, appendendocisi per gioco. “Questo è il posto dove riposa la tua mamma.”

“Non ho tempo di chiacchierare con te”. Hyoga tagliò corto, con espressione severa. Che tornasse da Avrora e Rudolph. Subito. “Torna a casa”.

“Ma io ho delle lettere per te!”

“Mostramele”.

Un consistente mucchietto veniva da Tokyo, più precisamente dalla Fondazione Grado. Soltanto leggerne il nome e riconoscere il simbolo che riportava la carta intestata e battuta ordinatamente a computer gli aveva fatto andare il sangue alla testa.

Mitsumasa Kido e la sua fondazione lo volevano in Giappone, con l’armatura che lo avevano mandato a conquistare.

Le strappò tutte, sotto gli occhi spalancati di Jacov.

Per l’ultima ebbe un rispetto diverso.

“Questa viene dal Santuario di Atene. Cosa vorranno da me?” L’aprì, con sospetto. “Ah, ma…! E’ del Maestro Camus!”

 

I monti Verhojansk si stagliavano nel cielo come appena tratteggiati da una matita sul foglio bianco. Sembravano senza spessore e duri, come la lama di un coltello.

Dentro le viscere della roccia gelata, del ghiaccio più compatto, qualcosa si sciolse. Una lacrima calda, il tamburo di un cuore, un canto sottile.

Qualcosa, come un cigno, dispiegò le ali nel momento in cui Hyoga richiuse la lettera di Camus.

 

“Hyoga! Hyoga dove vai? La tua isba non è mica da quella parte!”

“Jacov, non sto andando all’isba. E fa’ il bravo: tu torna a casa!”

“E allora dove stai andando? Non torni a casa tua?”

“Non ci torno più, Jacov”.

“Cosa? E perché?”

Jacov seguì Hyoga, saltellando nella neve, finché il ragazzo non si convinse a portarlo con sé. Allora presero la slitta, per essere più comodi, e spinsero i cani verso i monti.

 

Camus sentì il Cosmo del giovane allievo pulsare e insieme al suo quello di un’armatura che era rimasta nascosta nel ghiaccio per millenni. Chiuse gli occhi, nell’atmosfera fresca della Casa, di cui aveva finalmente ripreso possesso a pieno titolo.

Milo dello Scorpione Celeste si era risvegliato al fianco dell’amico ritornato, quella mattina e si godeva quelle mura quanto il proprietario.

D’estate era piacevole, perché ci si poteva sedere sui primi gradini, ad esempio, e restare lì a sfidare il sole, con la Casa fresca e in ombra del Maestro dei Ghiacci alle spalle, a irradiare un’ombra pallida del freddo di Siberia che Camus riusciva a ricreare tra le mani.

D’inverno era scomodo.

Era dolce l’inverno, ad Atene, il mare mitigava gli effetti del vento freddo che veniva da est. Ma Milo amava il caldo e più di una volta in quegli anni aveva protestato, ridendo, che erano troppo fredde quelle mura.

Ma d’inverno e d’estate era sempre una bella scusa quella, per rannicchiarsi contro il fianco del compagno, per prenderlo contro il proprio petto e appoggiare la fronte alla sua, nelle notti in cui si fermava lì. Camus protestava appena, le sopracciglia aggrottate e un sorriso che gli sfuggiva.

Come in quel momento.

“Lo senti, Milo?” Aquarius richiamò la sua attenzione.

“Come non potrei?” Scorpio sorrise, il viso nelle lenzuola, anche se l’altro non poteva vederlo. Strinse la morsa del braccio attorno a Camus. “E’ così simile al tuo, il suo Cosmo appena nato”.

 

Avevano lasciato la slitta poco lontano e insieme avevano cominciato a salire la parete ghiacciata. I monti Verhojansk erano ripidi e scoscesi, ma offrivano strade ai figli della Siberia.

A nulla erano valse le proteste di Hyoga, Jacov aveva voluto seguirlo: così adesso si trovavano insieme davanti al Muro del Ghiaccio Eterno.

Il popolo della Siberia dell’Est lo chiamava così, con il rispetto che avrebbe dato a una divinità: il cuore del ghiacciaio, il cuore di quella stessa terra gelata.

Hyoga fu neve, Polvere di Diamante e Muro del Ghiaccio Eterno.

Sollevò il pugno, raccogliendo in sé la forza delle stelle, pronto a diventare il cuore pulsante che lo chiamava da quei crepacci.

“Jacov, è pericoloso. Torna indietro”.

Il bambino spalancò gli occhi chiari, sbalordito, quando comprese: “Cosa vuoi fare? Hyoga, non puoi rompere i monti Verhojansk! Non puoi, anche se sei tanto forte!”

Hyoga avanzò, lasciando il piccolo indietro, inspirò profondamente e il suo potere crebbe. Germogliò e si dischiuse, tra lo stomaco e il cuore.

“Hyoga! Questo ghiacciaio non si è sciolto per migliaia di anni! Ti distruggerai le mani! E poi…”

Jacov non finì la frase.

Poté solo accovacciarsi per terra, coprendosi la testa con le manine guantate: il ragazzo della neve, allievo del Maestro dei Ghiacci di Siberia, aveva vibrato il suo colpo e le schegge di ghiaccio, dove il suo pugno era affondato senza riportare neppure un graffio, esplosero tutto attorno.

Dei pugnali.

Seguì un boato.

Il Muro del Ghiaccio Eterno, la superficie del cuore del ghiacciaio dei Verhojansk andava in pezzi. Uno specchio infrangibile che invece si sbriciolava in frantumi. I monti gemettero di dolore e vendetta, conquistati da un fanciullo di Athena: Hyoga riportava un’altra vittoria.

Il ghiaccio crollò davanti al Saint di Athena, scivolò in grandi schegge taglienti, in una valanga bianca come un cigno.

L’esplosione, la caduta, la rovina: niente sfiorò Hyoga, in piedi in mezzo ai ghiacci e alla neve, rombanti ai suoi fianchi. Lo superarono senza toccarlo.

Nemmeno una carezza al vincitore. Nemmeno una.

Jacov dovette correre, sulle gambette corte, fino al baluardo naturale offerto dal poggio di ghiaccio più vicino, per guardare con il cuore spalancato la neve che scendeva a valle, burrascosa.

Hyoga rimase immobile davanti al pulsare di un’energia dolce e fredda che lo chiamava, vicina e magica. Come dal Paradiso avrebbe potuto chiamarlo sua madre.

Mandava un baluginio sereno.

Faceva pensare al cielo pallido di Mosca dopo un temporale.

O al gioiello di Natassia che lui teneva tra la maglia e la carne del petto, ben nascosto, nelle volte in cui la luce ci batteva sopra.

Hyoga sorrise e si abbassò sulle ginocchia, per accarezzarla tra le mani tremanti.

Ciao. Mi ricordo di te. Non so dove ti ho visto. Ma ne sono sicuro, ci conosciamo. Cygnus navsegda. Cigno per sempre.

Era un totem di metallo di stelle e Cosmo, che ricambiava il suo sguardo: le ali perfettamente cesellate, il collo elegante e arcuato, la superficie scintillante. Un cigno.

Si smontò tra le sue mani, come un gatto che si abbandona per le carezze. Vibrava di potere incredibile, di vita, di volontà.

Jacov, alle sue spalle, trattenne il respiro: sebbene riuscisse a vedere solo le spalle di Hyoga e l’alone candido che lo circondava, era percepibile nell’aria il fatto che stesse succedendo qualcosa di tremendo e bellissimo, qualcosa di impensabile.

Erano tre, laddove erano arrivati in due.

“Hyoga?”

 

“Hyoga!”

“Isaac?” La ragazza si girò verso di lui. Lo guardò imponente nella sua scale del Kraken, fulgida. Lo faceva sembrare più adulto di quanto non fosse in realtà. “Cosa? Cosa ti preoccupa?”

“Hai sentito anche tu?”

Isaac la raggiunse. I suoi passi echeggiarono nel palazzo di pietra marina edificato sotto la Colonna del Mar Glaciale Artico, dove si era stanziato per ordine del Generale Sea Dragon.

Thetis gli appoggiò una mano sul braccio, interrogativa. Glielo accarezzò con tenerezza e lui le prese la mano, stringendole le dita.

Poi anche la fanciulla percepì l’energia luminosa, bianca come un cigno, che nel Mondo di Sopra era stata svegliata dopo un sonno lunghissimo.

“Hyoga ha ricevuto l’armatura di Cygnus”.

 

Il ragazzo si alzò. Si era allacciato i gambali e il cinturone. Fissò i copri spalle e il pettorale. Alla fine si girò verso di lui, calando l’elmo alato sui capelli biondi.

Era irreale e inumano, il bellissimo eroe di leggende immortali.

“Hyoga..?”

“Ho ricevuto il titolo di Saint, ma non avevo il Cloth”. Disse a Jacov, sommesso. Quasi tentasse di giustificarsi, adesso. “Nella lettera il Maestro Camus aveva messo le indicazioni per trovarlo”.

Jacov annuì, senza sapere cosa dire.

Hyoga lo guardò a lungo, come se nel faccino sbalordito del bambino potesse maturare le sue decisioni.

“Jacov” disse, piano. “Fai tu da custode alla mia mama. Io devo andare a combattere con il Cloth di Cygnus. Nella lettera…” esitò e Jacov si avvicinò, prendendogli la mano. Adesso voleva davvero andare a casa. “Inoltre mi hanno affidato la missione di eliminare uno per uno i traditori di Athena riuniti a Tokyo che hanno mancato le regole dei Saint”.

Jacov ascoltò con attenzione le sue parole, impressionatissimo.

“Quando li hai giustiziati tutti, poi torni qui a giocare con me, vero, Hyoga?”

 

 

 

 

 

Perdonatemi! OH DEA! Perdonatemi! Nello scorso capitolo avevo detto che avrei mantenuto un buon ritmo di pubblicazione! Lo avevo detto! Beh. Ho mentito.
Coraggio! Dopo questo ne manca solo uno e poi abbiamo finito.  
ç_________________________________________________ç
EFP nel frattempo ha fatto in tempo cambiare impostazioni quelle sedici volte, dal mio altimo aggiornamento, grazie alla mia presenza di spirito. E ha messo le risposte alle recensioni.
Io però vi risponderò qui sotto, fino alla fine. Se no poi si sballa l’estetica (???)

Shinji: Ormai siamo alla fine, Hadessama bello. Hai visto? Compare anche Shun! Anch’io ti amo tanto e davvero non c’è odio nel mio amore! Amami anche tu senza odiarmi! *C* *anche se sa che forse qui ci resta secco. O lo spera*  *C*  *una stronza* Ti voglio bene, Decciama!
Kiki May: Scusami. Scusami tanto. Questo capitolo si è fatto davvero attendere troppo. Non ho controllo sulla mia capacità di pubblicazione, soprattutto di Neve! çOç Sta per finire e mi sento nuda! Grazie per essere sempre così presente con me, nonostante i miei ritardi! çOç CHU! Milo e Camus si amano tantissimo. E dio quanto li amo anch’io. Hyoga sta finalmente diventando grande! *C* Tra poco, a Tokyo, picchierà tutti. Poi arriverà Ikki. ._.
Ruri: Visto? çOç Sto pubblicando, come ti ho promesso! Dai che poi te la porti con te! çOç *abbraccia stretta* Mi manchi tantissimo! Ti voglio bene!
sagitta72: Eh, hai visto? Velocissima l’altra volta, di una lentezza mortale adesso! Perdonami anche tu, se puoi! çOç  Col prossimo capitolo finiamo! La battaglia di Hyoga e Camus c’è già stata in flashback! La fine di Neve coinciderà con l’inizio del manga del Kuru! çOç Speriamo in bene, vah! Un bacione immenso a te!
Rucci: Tomoyo. Hai visto? Disobbedisce ai tuoi glaciali dogmi d’insegnamento. Ma non fallisce. E’ così che in fondo devono essere gli allievi, no? Disobbedienti, ma bravi. E lui ha preso l’armatura! E andrà a picchiare tutti! …poi arriverà Ikki. ._. Che bella descrizione mi hai dato di Hyoga. Anch’io penso che sia esattamente così. Com’è bello. L’anello di congiunzione della famiglia dei Ghiacci. E’ spettacolare. Vai, Zero Assoluto *C*
Guarda anche qui quanto Milo e Camus! éOè Guarda come sono stata brava! Guarda che si vogliono bene! *messaggi subliminali in corso* Hai visto? Ormai ci siamo. Che nostalgia! *C*
Ti amo tantissimo.
Saorilavigne: Amoreeeeee! Grazie! XDD Bella sei.
Dea Eris: Il tuo ritardo? Il mio è peggio! Perdonami! E grazie per le tue belle recensioni. A proposito, hai visto? La lettera cui accennavi è arrivata proprio in questo capitolo. Ed ecco Cygnus che parte per sbaragliare i suoi prossimi amici. Poi… vabbè, Ikki. Ma l’ho già detto.
Anch’io amo molto Hyoga e Shun come coppia. Qui purtroppo non avevo modo di lanciarmi in grandi introspezioni, ma qualche accenno c’è. Anche in questo capitolo.
Grazie per tutte le cose che mi hai scritto. Un bacio immenso, prima dell’ultimo capitolo.
Gondolin Dima: Amore!XDD che dolcezza sei! Che belle cose che mi hai detto! çOç Ho cercato davvero di avere un’attenzione forte per il canon del Kuru, perché ci tengo a incastrarmi bene. Era importante colmare quel buco, secondo me. E se ci sono riuscita anche per te, posso dire di non avere scritto per niente. Grazie. Grazie infinite davvero.
Che lettrice attenta! Sì, il flashback di Hyoga bambino era ripreso dal secondo capitolo. çOç Come mi rendi fiera! Ti stringo forte, tesoro bello.

Il prossimo capitolo, dicevo, è l’ultimo. Io spero di farlo arrivare in breve tempo (anche perché è già scritto) ma non dico niente: ogni volta che dico: eh vah! Non preoccuparti! Due giorni e lo pubblico!, finisce che aspettate sei mesi. Non dico niente.
Ma poi Neve chiude i battenti.
Sappiate che vi amo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** Come la Neve ***


Settembre era luminoso e terso nel cielo di Tokyo

CAPITOLO:  Come la Neve
PERSONAGGI: Hyoga di Cygnus. Poi: Seiya di Pegasus, Shun di Andromeda, Shiryu di Dragon, Ikki di Phoenix, Jabu di Monoceros, Geki dell’Orsa, Ichi dell’Hydra, Saori Kido. E Katjia e Isaac di Kraken.

IN PROPOSITO: Alla fine è come all’inizio: Galaxian War.
COSE: Neve si conclude alla fine di questo capitolo. Grazie per essere stati con me.

 

 

Settembre era luminoso e terso nel cielo di Tokyo.

Luce e rumore vomitati con tanto, troppo entusiasmo se paragonati al Bianco della Siberia. La forza aspra di quella terra era così lontana… eppure germogliava lì, dentro di lui.
Come la Neve.

Hyoga era rimasto immobile, in silenzio per molto tempo. Come un lupo nella taiga che restava sotto vento e attendeva l’odore acuto della bufera, prima di attaccare.

La folla attorno al Colosseo Grado era fluita all’interno con molta calma e adesso cianciava dalla platea. Terza giornata della Galaxian War.

Spettacolo da baraccone.

Torneo per ottenere la Sacra Gold Cloth di Sagitter.

Crogiolo di traditori di Athena.

La cupola di cristalli liquidi si chiuse sul Colosseo e presto si illuminò con le tinte serene di un cielo stellato, come se d’improvviso fosse scesa la sera.

L’altoparlante pretese l’attenzione degli astanti stridendo, poi il presentatore introdusse la scena.

Spettacolo da baraccone.

“Attenzione prego. Riguardo al mancato arrivo di Cygnus e Phoenix: le regole della competizione prevedrebbero la loro squalifica, ma come risultato dalla discussione dei membri del Comitato, aspetteremo ulteriormente il loro arrivo…”

“Ma come? Non sono ancora arrivati?” vociò qualcuno.

“Che stanno facendo? Non hanno intenzione di partecipare?”

“…nel frattempo” riprese la voce dall’altoparlante “lo scontro di Pegasus contro Dragone verrà anticipato”.

Nascosto oltre gli spalti, nell’ombra, il Saint di Cygnus fece una smorfia.

Il Giapponese era una lingua che non si adattava più a Hyoga della Neve. Eppure il suo suono rievocava in lui ricordi lontani, di un anno trascorso in quelle terre.

 

Le voci sul prato di Villa Kido, nei giochi rumorosi, maschili, di cento bambini. Cento bambini.

E la tua discendenza, Abramo, sarà numerosa come le stelle nel cielo.

Anche quella di Mitsumasa Kido lo era stata. I suoi figli sono cento e schiamazzano sul prato della Villa, sotto un cielo di settembre che somiglia molto a quello che sei anni più tardi, luminoso, veglierà sulla Galaxian War.

“Qualcuno mi faccia da cavallo!” Più maschia tra i maschi, è la fanciulla Athena a farsi avanti. Dea della strategia e della virtù, deve ancora imparare la giustizia sulla propria pelle.

Hyoga ancora non lo sa di girarsi verso la divinità che, con amore, giurerà di proteggere. Insieme a Shun e ad altri novantotto bambini lo fa con gli occhi sgranati, fissi sulla piccola Saori Kido, nipote adottiva di Mitsucoso ed erede di qualunque cosa si veda fino all’orizzonte.

Geki mette il broncio e molla Jabu: la scazzottata stava arrivando al culmine. Shiryu tace e Ichi, con le occhiaia fonde anche a sette anni, rabbrividisce.

Tutti temono Saori lì.

A parte Ikki, che si pianta a gambe larghe, tra lei e Shun: Ikki l’ammira, anche se non lo dice. La considera avversario suo pari, ancora. Niente vestiti con pizzi imbarazzanti, ancora.

“Qualcuno” si impone lei, ignorando Ikki: avversario alla sua altezza, meglio ripiegare su qualcun altro. “Mi faccia”. Magari quello là, che le piace anche, un pochino. “Da cavallo!”.

Hyoga segue lo sguardo di Saori fino a Seiya, che si rilassa appoggiato a un albero.

“Tu! Ti chiami Seiya, vero?”

“Sono un uomo. E non ho nessuna intenzione di fare il cavallo!”

“Mettiti a carponi e fai il cavallo!”

“Arrangiati!”

Hyoga assiste – senza saperlo – al duello mitologico del cavallo alato Pegaso che si ribella alla Glaucopide. Un duello che verserà il sangue di Jabu, in sacrificio, perché Athena possa capire il dolore, che da statua di pietra gelida diventi fanciulla tiepida.

 

Le parole di Jabu di Monoceros fecero alzare il viso di Hyoga, nascosto nella penombra.

“Per colpa di quei codardi di Cygnus e Phoenix non abbiamo nemmeno il tempo di riposarci!” Sogghignò verso Ichi di Hydra che, ancora con le sue occhiaie, presto di Hyoga sarebbe stato il primo, sfortunato avversario. “Il loro ritardo ci costringerà a combattere prima”.

Hyoga non attese oltre: balzò dall’ombra e li raggiunse.

Il pubblico se ne accorse prima di Jabu e mandò un boato, come se i monti Verhojansk avessero perso ancora una volta il loro Muro di Ghiaccio Eterno.

“Cygnus è arrivato!” latrò l’altoparlante. “Quindi lo scontro avrà luogo come da programma: Cygnus contro Hydra!”

Seiya si girò di scatto, pronto a tutto e Shun, un passo dietro di lui, dischiuse le labbra nella sorpresa.

Il Saint di Cygnus apparve ai suoi compagni d’infanzia - di una vita ormai molto, troppo lontana - in tutto il fulgore non solo di un Saint di Athena, ma di un allievo di Camus dei Ghiacci.

Hyoga della Neve balzò nell’arena.

A quattordici anni, era poco più di un bambino. Eppure rifulgeva di potere.

L’armatura che lo aveva incontrato e accolto lo rivestiva in un abbraccio candido, gelido e protettivo e i suoi occhi erano azzurri e privi di ombre.

L’elmo alato lo incoronava giustiziere, inviato dal Santuario di Atene per estirpare il tradimento e la vergogna. Principe del Bianco e della Siberia.

 

Non farti prendere dallo sconforto.” Isaac appoggia le mani sulle spalle di Hyoga. “Non ce ne è motivo.”

Il bambino biondo alza lo sguardo a incrociare quello dell’amico. Lo studia a fondo, come per capire se davvero dica la verità o se gli sta mentendo. Gli occhi di Isaac sono verdi e limpidi e nessuna menzogna ne ombreggia la bellezza. Hyoga annisce..

Katjia li ha accompagnati per un po’, nel candore abbagliante della pianura e adesso li saluta ridendo dalla collina ghiacciata, che ha scalato con l’agilità di una lince.

Isaac si gira a guardarla e le sorride. Hyoga agita la mano nella sua direzione, Katija fa lo stesso, poi scompare nel Bianco tutt’attorno.

“Devi concentrarti ed essere forte: il maestro Camus dice che non c’è niente come la forza del ghiaccio e niente di più puro della neve, fredda e bianca. Credi di capire? Grazie agli insegnamenti del Maestro, diventeremo Santi di Athena.”

Lo dice con una tale sicurezza che Hyoga ha la certezza di esserlo già un Santo di Athena. Di quell’Athena lontana e misteriosa. Fredda. Bianca. Come la neve.

Gli occhi verdi di Isaac mandano un bagliore che il piccolo Hyoga ha già visto in quelli di Camus: un bagliore di una forza così limpida e pulita da far credere davvero che non esista altro al di fuori di quella.

Nonostante non ci sia più la mama, nonostante ci sia solo freddo pungente.

Sbatte le palpebre.

C’è come qualcosa che cerca di ricordare e che afferra in quello sguardo fiero, nello sguardo di Isaac e nello sguardo del Maestro Camus.

E’ qualcosa che – tempo prima – ha ammirato con la bocca socchiusa e gli occhi spalancati, in una cantina di Mosca, e che gli ha fatto giurare a sé stesso, con la certezza tipica dei bambini, che sarà  forte per sempre e che non si arrenderà mai.

 

“Dovremo essere contenti di rivederci qui, visto che abitavamo insieme alla Villa della famiglia Kido, ma non mi sembra che ci sia un’atmosfera adatta a sentirsi felici.”

Hyoga li guardò uno per uno, i suoi fratelli di un tempo. Li condannò con lo sguardo ieratico di chi renderà fiero del proprio operato il Maestro lontano, fiera la mama che lo veglia dagli abissi e dalla morte.

Sarebbe stato implacabile.

Come la Neve.

“Io sono venuto dal lontano mare del Nord per uccidervi tutti”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NEVICATE DI FINE STORIA:

Lo so che ho fatto una cosa tremenda. Quanto tempo è trascorso dall’ultimo aggiornamento! Saranno secoli ormai. No. E’ un anno.

Molti di voi che apriranno questa pagina adesso forse nemmeno si ricorderanno più di me.

E’ passato davvero un secolo! *C* Sarete cambiati tutti!

Io ho atteso fino adesso con quest’ultimo capitolo di Neve.

Per tanti motivi.

Un po’ perché Neve è stata la fanfiction più lunga della mia vita, porca miseria, e a mettere la parola fine mi manca un po’ il fiato. Sono venticinque capitoli e sono pressappoco due anni e più di lavoro. Terminarla vuol dire terminare anche un periodo della mia vita strutturato in un certo modo che è giusto rimanga chiuso qui.

E’ anche vero che Neve l’ho finita da un bel po’, in realtà, ed è rimasta a dormire nel mio pc per tanto tempo, prima di stasera. Probabilmente proprio per rimandare la fine del famoso periodo di cui sopra. E anche un po’ per ansia da prestazione, lo ammetto: scrivere Neve mi è piaciuto moltissimo perché amo moltissimo i suoi personaggi: Camus e Milo in primis, poi Hyoga che tra i cinque Bronze è sempre stato il più amato, per me. E Isaac ovviamente che si è scavato un bel posto nel mio cuore. Katjia-Tetis è stato un abbinamento temerario, ma spero di aver reso bene il personaggio.

Ma anche perché tanto amore da parte mia è stato ripagato: i vostri commenti mi hanno sempre commosso. E quindi, insomma, chissà se questo ultimo capitolo sarà all’altezza?

Il mio intento è quello di finire la storia del piccolo Hyoga dove inizia quella del Cygnus Saint, ovvero alla Guerra Galattica, dove lo incontriamo per la prima volta.

Accompagnato sul ring, farà da solo: sappiamo come andrà a finire.

Così mi faccio da parte e vi lascio alla fine, ma vi abbraccio uno per uno.

Ringrazio prima di tutto Rucci, che è stata il mio Camus di Aquarius di quel periodo racchiuso in Neve, ed è stata un Camus meraviglioso. Ringrazio Kijomi e Shinji, ovvero Aphrodite e Hadessama.

E tutto Gold Insanity, che si è sciroppato capitolo dopo capitolo. In particolare: Ruri, Beat, Adar, June, Kiki May, Ayako e Dima. E via andare.

Un grazie speciale a Damaris che prima di scomparire mi lasciava commenti come dei lenzuoli.

E ovviamente  tutti gli altri che non hanno mollato fin qua, che abbiano commentato o no.

In breve, riguardo agli ultimi commenti (di DODICI mesi fa): charrm_strange, il duello con Camus c’è già stato in flashback! L’avventura di Hyoga si conclude qui. Lady Aquaria, grazie per le tue belle parole! Sono ben felice se anche poco poco apprezzi Cygnus!

Dea Eris, grazie anche a te. Spero che l’ultimo capitolo possa essere una degna conclusione! Del resto Hyoga e Shun s’incontrano qui dopo sei anni! çOç

Sagitta72, chiedo io perdono a te. Un anno, ci ho messo! Probabilmente hai perso le speranze, ma mi auguro di raggiungerti comunque.

Un bacio a tutti.

Grazie per essere stati qui fino a questo momento. Chu.

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=168116