An Irish tale

di JaneD_Alexandra
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV ***
Capitolo 6: *** Capitolo V ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI ***
Capitolo 8: *** Capitolo VII ***
Capitolo 9: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 10: *** Capitolo IX ***
Capitolo 11: *** Capitolo X ***
Capitolo 12: *** Capitolo XI ***
Capitolo 13: *** Capitolo XII ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIII ***
Capitolo 15: *** Capitolo XIV ***
Capitolo 16: *** Capitolo XV ***
Capitolo 17: *** Capitolo XVI ***
Capitolo 18: *** Capitolo XVII ***
Capitolo 19: *** Capitolo XVIII - Prima parte ***
Capitolo 20: *** Capitolo XVIII - Seconda parte ***
Capitolo 21: *** Capitolo XIX ***
Capitolo 22: *** Capitolo XX ***
Capitolo 23: *** Capitolo XXI ***
Capitolo 24: *** Capitolo XXII ***
Capitolo 25: *** Capitolo XXIII ***
Capitolo 26: *** Capitolo XXIV ***
Capitolo 27: *** Capitolo XXV ***
Capitolo 28: *** Capitolo XXVI ***
Capitolo 29: *** Capitolo XXVII ***
Capitolo 30: *** Capitolo XXVIII ***
Capitolo 31: *** Capitolo XXIX ***
Capitolo 32: *** Capitolo XXX ***
Capitolo 33: *** Capitolo XXXI ***
Capitolo 34: *** Capitolo XXXII ***
Capitolo 35: *** Capitolo XXXIII ***
Capitolo 36: *** Capitolo XXXIV ***
Capitolo 37: *** Capitolo XXXV ***
Capitolo 38: *** Capitolo XXXVI ***
Capitolo 39: *** Capitolo XXXVII ***
Capitolo 40: *** Capitolo XXXVIII ***
Capitolo 41: *** Capitolo XXXIX ***
Capitolo 42: *** Capitolo XL ***
Capitolo 43: *** Capitolo XLI ***
Capitolo 44: *** Capitolo XLII ***
Capitolo 45: *** Capitolo XLIII ***
Capitolo 46: *** Capitolo XLIV ***
Capitolo 47: *** Capitolo XLV ***
Capitolo 48: *** Capitolo XLVI ***
Capitolo 49: *** Capitolo XLVII ***
Capitolo 50: *** Capitolo XLVIII ***
Capitolo 51: *** Capitolo XLIX ***
Capitolo 52: *** Capitolo L ***
Capitolo 53: *** Capitolo LI ***
Capitolo 54: *** Capitolo LII ***
Capitolo 55: *** Capitolo LIII ***
Capitolo 56: *** Capitolo LIV - Prima parte ***
Capitolo 57: *** Capitolo LIV - Seconda parte ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Buongiorno o buonasera a tutte/i!  ^^
Sono entrata da poco su efpfanfic.net e già mi è venuta voglia di pubblicare una storia.
Si tratta di un racconto che mi è venuto in mente parecchi anni fa e che ho scritto e riscritto fino a che non sono stata QUASI soddisfatta del mio lavoro. Scrivo “quasi” perché, effettivamente, conto nelle critiche (positive o negative) di ognuno di voi…
“An irish tale” è una storia che mi ha fatto sognare tra i banchi di scuola, a letto prima di addormentarmi, in macchina durante un lungo o un breve viaggio… e spero tanto che per voi sia lo stesso. L’unica sua pecca è che non è completa. Per questo conto sul vostro aiuto e sui consigli di chi è più bravo di me.
Adesso vi lascio al vostro sacrosanto momento di lettura e ringrazio anticipatamente di cuore chi la seguirà.
 
 

An irish tale – Prologo

 
 
Quella era la classica giornata “no”.
Il pomeriggio precedente non aveva toccato libro, non aveva ripassato quasi nulla, a parte la tecnica del sonno. La mattina era andata al circolo del tennis con Linda, sua sorella, e il pomeriggio aveva dormito.
Lo sguardo della signorina Hill, la sua insegnante di chimica, scorreva inesorabile l’appello e ogni tanto i suoi piccoli occhi da topo si appuntavano sui nomi degli alunni che doveva ancora interrogare. Anya era fra quelli.
- Signorina Merryweather? – squittì. Anya si nascose dietro la schiena di Collins.
“Chiama un’assente…” pensò lanciandole uno sguardo veloce e appiattendosi contro il banco. “Fiona è una gran vigliacca!”
- Oh, allora… Antolini? Mi aiuti tu a risolvere quest’esercizio alla lavagna?”
Impreparato.
Il suo nome veniva esattamente dopo quello del compagno. “Signore ti prego, aiuta! Fa che non mi chiami!”
- Signorina Bacott? Ha già un cattivo voto….”
“Cattivo voto?”
- Professoressa, mi rincresce ammetterlo, ma… - iniziò a dire quando una gomitata di Yohanna, la sua compagna di banco, la raggiunse al fianco.
- Ma…? – disse miss Hill.
- Anya!
- Yohanna? Che cosa c’è?
- Anya! Ti muovi?
- Cosa?
 
Riaprì gli occhi. Sua sorella Linda era davanti a lei e la chiamava.
- Anya! E’ tardi! – disse prendendo la sveglia– Sono già le otto!
- Si… - mugolò coprendosi gli occhi con un braccio - … arrivo.
- Vuoi farci ritardare? Alzati dormigliona! – e la scoprì.
- Lasciami…
“Un attimo: ritardare?”
Di scatto si tirò su a sedere. Afferrò la sveglia e sul display vide la scritta in led: Dublin, 12 – 23 – 09.
– La Nonna … l’aeroporto! – esclamò correndo in bagno.
Linda sorrise – Halleluja!

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Capitolo 2
*** Capitolo I ***


An irish tale – Capitolo I

 
 
Anya viveva con la madre, Kate, e sua sorella. Suo padre Josh non stava con loro da parecchio tempo.
Kate e Josh si erano conosciuti in Italia, dove lei era nata. Lui era in viaggio con la famiglia in Toscana. Erano entrambi molto giovani e, dopo la laurea di lei, decisero di trasferirsi a Dublino. Qui si sposarono e poco tempo dopo nacquero Anya e Linda, a tre anni di distanza l’una dall’altra. Kate aveva aperto un ambulatorio veterinario e si occupava di animali domestici, mentre Josh era un archeologo. Gli anni del matrimonio trascorsero tranquillamente fino alla comparsa di Yenna, una giovane donna che Josh aveva conosciuto durante un viaggio di lavoro. Prima che Kate lo scoprisse passarono due anni e prima che lei e Josh divorziassero pochi mesi. Di lui non volle saperne più niente e lo buttò fuori casa senza tante moine.
Quando Anya e Linda furono messe al corrente delle decisioni dei genitori le reazioni non si fecero attendere a lungo: Anya rischiò l’anoressia e Linda divenne più aggressiva del solito. Entrambe non volevano più vedere il padre, ma degli accordi giudiziari le costringevano a farlo almeno fino alla maggiore età. Yenna, naturalmente, badava bene a non farsi vedere insieme al padre delle ragazze, ma ciò non servì a placare l’ostilità di Anya e Linda, alle quali Josh faceva dei regali che puntualmente finivano nella spazzatura.
Le due sorelle fiutavano una certa disarmonia in casa loro ed ammettevano che anche la perdita d’odore d’arancio del Natale e l’improvviso decadimento morale della madre erano causati dalla mancanza del padre.
Quando Anya raggiunse la maggiore età gli accordi giudiziari stabiliti da Josh e Kate non la costrinsero più a frequentare la nuova casa del padre e tra lei e Linda nacquero le prime incomprensioni. Kate allora le iscrisse ad un circolo di tennis e la situazione migliorò temporaneamente. Linda, tuttavia, amava la sorella, ma l’invidia che provava nei suoi confronti era tale da superare, talvolta, l’affetto che nutriva.
La mattina del 23 Dicembre Linda si era alzata di buon umore e i sorrisini che rivolgeva alla maggiore venivano da questa accolti con una certa perplessità. All’origine di tutto vi era l’arrivo della nonna materna, che si accingeva a trascorrere il primo Natale con la figlia in Irlanda. La notizia della sua partenza era stata accolta con entusiasmo e in quella fredda giornata di Dicembre, l’aereo di Elisabetta avrebbe fatto scalo intorno alle nove.
In macchina Anya si appisolò. La risvegliò una canzone di Elton John, che Linda aveva messo ad un volume non proprio modesto: Rocket man.
She packed my bags last night pre-flight zero hour nine a.m. and I'm gonna be high as a kite by then…
- Linda! Abbassa il volume! – esclamò con il cuore a mille picchiandola su una spalla.
And I think it's gonna be a long long time till touch down brings me round again to find I'm not the man they think I am at home…- continuò la ragazza girandosi verso di lei.
- Linda! – gridò ancora Anya cercando di spegnere la radio allungandosi oltre il sedile. Linda la spinse indietro e sotto richiesta della madre abbassò il volume della musica. Anya si riaccucciò sul sedile posteriore e poggiò la fronte contro la superficie fredda del finestrino.
Una pioggerella fitta avvolgeva la capitale d’Irlanda. Il cielo era coperto da uno strato di nubi grigie e pesanti e l’umidità che penetrava attraverso i vestiti faceva sentire parecchio freddo. Il respiro di Anya annebbiava il vetro e con un dito disegnò un cristallo di neve. Kate accese i riscaldamenti.
Tra sé pensava alla sera, quando il padre sarebbe andato da loro per cena. Ad invitarlo era stata sua madre. Diceva che lo faceva per Linda, per evitare, cioè che trascorresse una squallida giornata a Malahide insieme al padre. Anya però credeva che quella di sua sorella fosse tutta una scusa per rivederlo, e sorrideva pensandoci.
Come ospiti avrebbero avuto anche i vicini, i Turner.
- E così avremo anche Paul domani sera, Linda?
Lei le lanciò un’occhiata minacciosa e Anya scoppiò a ridere. Paul Turner aveva sempre avuto un debole per Linda e l’atmosfera natalizia sembrava aver fomentato questa passione.
“It's a little bit funny, this feeling inside I'm not one of those, who can easily hide…” suonò la radio.  
- Ma guarda un po’… - disse Anya prorompendo in una fragorosa risata.
 
Per arrivare all’aeroporto ci volle poco più di mezz’ora, tanto più che si trattava delle prime ore del mattino e in strada non c’era quasi nessuno. La prospettiva di rivedere nonna Elisabetta le allietava. L’unica stonatura era l’assenza di suo nonno Simone. Ad Anya sarebbe piaciuto rivederlo, ma lui aveva degli affari che non poteva mollare. Era un architetto e sua madre le aveva detto che un grosso progetto premeva per essere ultimato.
Elisabetta, o come la chiamavano le nipoti “Eliza”, aveva insegnato a lungo in un liceo fiorentino, ma sopraggiunta l’età della pensione s’era data ai viaggi e alla cucina. In Irlanda telefonava spesso e ogni volta rinnovava un affetto “grande, grande”, che, tuttavia, non placava la nostalgia di figlia e nipoti.
Erano le nove meno cinque minuti. All’entrata una voce metallica annunciò l’atterraggio dell’aereo proveniente da Amsterdam.
- Ci conviene aspettare che la folla dei passeggeri si smaltisca. – disse Kate approssimandosi ad una fila di sedie. Si sedettero e, col mento sul dorso delle mani, poggiate sulla spalliera di una sedia verde di metallo, Anya si dedicò alla sua attività preferita, l’osservazione della gente. C’era un gruppo di turisti spagnoli, imbacuccati in maglioni e giacche pesanti, che faceva colazione in un bar con un bancone di legno lucido e molti pennacchi verdi e arancione appesi qua e là. Qualche bottiglia di whisky, insieme a innumerevoli marche di liquori, era esposta su uno scaffale pulitissimo, accanto al listino dei prezzi, con lo sfondo verde e la scritta bianca. Poco distante dal bar vi era un uomo a cui erano caduti gli occhiali a causa di un movimento brusco del capo.
Oltre le porte scorrevoli dell’entrata una signorina con un cappotto rosso e un completo nero scrollava l’ombrellino prestando attenzione alle scarpe verniciate e al piccolo trolley che si portava dietro.
Seduta alla sua destra, Linda ascoltava della musica con il lettore mp3 e fissava il vuoto con occhi vitrei, mentre masticava qualcosa con gli incisivi.
A dispetto dell’ora l’aeroporto era affollato. In molti, quell’anno, avevano deciso di trascorrere le vacanze in Irlanda, patria dei celti, di ottimi pub, magici castelli e, ultime ma non meno importanti, le scogliere. Le più ambite erano le Cliff of Moher, suggestive, selvagge; valeva davvero la pena farsi tutti quei chilometri per vederle. I turisti, però, non avevano considerato che i meteorologi avevano previsto cattivo tempo per due settimane buone e la neve, per quanto bella potesse essere, era da preferire sui monti, dove il clima è più secco e non in città dove in quei giorni l’umidità era stata causa di dolori per tutti.
Le pareva come una di quelle volte in cui, un week end, suo padre aveva organizzato una gita con Anya e Linda. Era stato prima del divorzio e non sapevano ancora di Yenna. Quel giorno l’acqua era caduta in grandi quantità, inzuppando il terreno e donando al paesaggio un aspetto più tetro. Josh aveva portato con sé dei sandwich con una crema di cioccolato che aveva preparato lui e che avevano sporcato la borsa, perché si era dimenticato di avvolgerli nella pellicola. Linda allora si era offerta di guidarlo nel supermercato “migliore della zona”, dove avevano fatto incetta di biscotti e yogurt che mangiarono nella macchina sotto la pioggia e sulle Cliff. Quella mattina di quattro anni prima era simile al giorno che stava vivendo. C’era la pioggia, a colazione aveva mangiato yogurt e biscotti e pensava alle scogliere di Moher.
- Ehi Beatrice, che pense? – disse Linda togliendosi il berrettino di lana.
- Oh lasso, quanti dolci pensier, quanto disio menò costoro al doloroso passo! Ma dimmi Virgilia, quale ora segna il tuo misuratore del tempo? – le rispose Anya poggiandosi alla spalliera e reclinando il capo all’indietro.
- Le nove e due minuti.
In quel momento nell’aeroporto entrarono i primi passeggeri. Kate andò a vedere se tra quelli c’era anche sua madre e disse alle figlie di restare dov’erano. Anya si alzò e guardò nella direzione in cui si era mossa la madre.
- Le nove e tre minuti.
- D’accordo Lilly… vedo che il tuo misuratore del tempo funzioni perfettamente. - Kate disse qualcosa ad un signore alto, che fece sì con la testa e si spostò. La vide così avvicinarsi alla recinzione di metallo, proprio di fronte l’entrata dei passeggeri, e fare un cenno rapido con il braccio. Poco dopo fece la sua comparsa una donna dai capelli corti e vermigli con un trolley e una valigia in mano.
- Linda, guarda! La nonna! – esclamò Anya correndole incontro.
- Linda, Anya! Siete cresciute tanto! – disse la nonna di rimando quando le vide. – Quanto tempo è trascorso… meno male che ci sono i telefoni e internet a tenerci in contatto!
- Già, il tempo è trascorso, ma tu rimani sempre la stessa! – disse Linda guardando i capelli di Elizabeth. Kate prese uno dei suoi bagagli e passò il trolley ad Anya. Elizabeth le salutò una per una con un lungo abbraccio, poi corsero in auto.
- Ti sei tagliata i capelli, nonna? – chiese Anya toccandole la pettinatura un po’ scarmigliata.
- Com’è che diciamo noi? “Anno nuovo, taglio di capelli pure” – Anya sorrise – non ne potevo più di quel taglio così regolare… da professoressa! Kate, vai piano… che tempo ragazze… in Italia ho lasciato un sole pazzesco!
Kate rallentò di poco e accese la radio. Al suo interno vi era ancora il cd di Elton John che aveva portato Linda e le prime note di Tiny Dancer iniziarono a risuonare nell’abitacolo. Il tempo peggiorò e prima che arrivassero a casa alla pioggia si sostituì la grandine. Le nuvole di quella mattina si erano addensate e avevano assunto un colorito grigiastro scuro, tanto che per un attimo fu difficile capire se fosse pomeriggio inoltrato o le nove e mezzo di mattina.
La strada si era riempita di macchine e si procedeva molto lentamente.
Linda si addormentò, cullata dal suo amato Elton.
- Com’è stato il viaggio? – disse Anya ad Elizabeth dal sedile posteriore.
- Breve. Da Amsterdam a Dublino c’è un’ora circa di volo… breve e confortevole, grazie. La vita qui, come procede?
- Si vive come sempre, mamma – disse Kate uscendo dall’autostrada e controllando, attraverso il parabrezza appannato, se la strada fosse libera da ogni parte – certo, il tempo non è clemente come tutti vorrebbero…
- Capisco… ho così tante cose da raccontarvi. Fra due giorni è Natale e io sono in Irlanda…
Anya si sistemò sul suo sedile e vi rimase fino a che non raggiunsero il centro città.
Kate fermò l’auto. – Siamo arrivate – disse parcheggiando sotto una casa del centro con i mattoni marroni. Aveva smesso di grandinare ed era tornata la pioggia, fitta e con grossi goccioloni. Kate sistemò l’auto accanto al portoncino come meglio poteva e Anya svegliò Linda che in preda al sonno chiedeva di Elton John. Dopodiché Kate e Anya aprirono gli ombrelli e portarono i bagagli di Elizabeth in casa, nel primo piano del palazzo.
- Finalmente a casa… - disse Elizabeth poggiando la borsa sul pavimento e togliendosi il soprabito. – Me la ricordavo più piccola.
- Le pareti erano più scure e le tende chiare. Abbiamo cambiato. – disse Anya appendendo sciarpa, berretto e cappotto all’attaccapanni. – Vieni, ti mostro la tua stanza. È quella in fondo al corridoio, accanto a quella mia e di Linda – disse sollevando la valigia dal parquet del salotto e dirigendosi nel corridoio. Seguendola Elizabeth si imbatté in Linda, che stava sorseggiando un caffè in cucina.
- Sveglia, bell’addormentata!
Linda le sorrise di rimando, poi le tolse gentilmente il trolley di mano e l’accompagnò alla camera degli ospiti. Vi trovarono Kate che metteva una federa azzurra al cuscino del letto e Anya che sistemava la valigia in un angolino.
- E’ molto carina! – disse Elizabeth guardandosi intorno. Era una camera spaziosa che profumava di nuovo. Le pareti erano giallo ocra e decorate di quadri grandi e piccoli dai toni caldi tendenti allo scuro. Al centro vi era un letto con una federa marrone e celeste e un cuscino azzurro; ai piedi del letto vi era un tappeto scuro e sulla parete di destra, quella più lontana alla porta, una finestra coperta da una tenda bianca e marrone. Vi erano anche un piccolo armadio ed una grande cassettiera color ebano. Il pavimento era rivestito di parquet.
- Questo è il telecomando per i riscaldamenti – disse Kate porgendoglielo – sai come funziona, no?
Elizabeth guardò a lungo la stanza, poi Kate, Linda e Anya. – Sono felice di essere qui con voi! – disse abbracciandole.
 
- Anya! Anya! Dov’è lo stampo per dolci?
- E’ in forno. Il dolce è quasi pronto… - rispose la ragazza pulendosi le mani sul grembiule.
- E la marmellata?
- E’ finita…
Linda spalancò gli occhi.
- Scherzo. È in frigorifero.
La sera a cena c’erano il padre e i Turner e, anche se non lo ammetteva, Linda ci teneva a fare bella figura davanti a Paul. Il dolce, la sacher torta, era la sua preferita, Anya lo sapeva; ma Linda insisteva nel dire che era stata una sua scelta e che, cascasse il mondo, lui non c’entrava niente.
Il tempo fuori era visibilmente migliorato. Le nubi grigie avevano ceduto il posto a nubi più chiare e non pioveva più, nonostante la temperatura fosse diminuita. Kate aveva portato Elizabeth con sé, in giro per la città a fare compere e sarebbe tornata giusto in tempo per preparare la cena con le figlie. Anche lei era un po’ in fermento e aveva comprato del pollo e dello zenzero per preparare uno spezzatino di cui Josh era sempre andato matto.
- Anya, hai tirato la torta fuori dal forno?
- Ops … è caduta giù dalla finestra. Fa lo stesso? – rispose poggiando la teglia sul ripiano in granito della cucina e chiudendo il forno. Linda le corse accanto.
- Lascia, faccio io… - sbottò.
Sentirono il campanello suonare una volta, poi la porta aprirsi.
- Siamo arrivate! – Era sua madre. Anya pensò che, finalmente, poteva affidarle Linda e tutte le sue domande riguardo la marmellata da mettere nella sacher torta.
- Mamma, hai portato la cioccolata fondente?
Kate poggiò delle buste sul tavolo e Anya le lanciò uno sguardo esasperato.
- Certo Linda – rispose porgendole un paio di barrette. Linda gliele tolse avidamente dalle mani e ritornò in cucina, accanto alla base della sacher.
Elizabeth fece per avvicinarsi, ma Anya la bloccò prontamente.
- Lasciala fare – le bisbigliò.
Linda, o come la chiamava Anya, “Li-ly”, finì il suo dolce in poco tempo. Era uguale in tutto e per tutto a sua madre: fisicamente, perché avevano entrambe gli occhi e i capelli scuri; caratterialmente perché cercavano di fare le cose il più velocemente e perfettamente possibile, e guai a chi si avvicinava. Anya si divertiva a prenderle in giro, ogni tanto. Puntava a quel loro lato debole, perché si irritavano assai facilmente, soprattutto se erano occupate e con Linda, quel pomeriggio, il compito non le risultò assai difficile; ma litigare non le piaceva. Il suo scherzo si era sempre limitato a qualche frecciatina che, nonostante provocasse delle reazioni in Linda e sua madre, non era mai stato all’origine di litigi veri e propri. Era sempre stata una tipa mite, lei. Mite come il padre, che con lei condivideva anche la fisionomia irlandese con i capelli rossi e gli occhi chiari.
L’ora della cena non si fece attendere a lungo e in due ore Kate, Linda ed Elizabeth riuscirono a preparare una cena degna di essere così chiamata, con tanto di sacher e pollo allo zenzero, ed Anya si occupò della sistemazione della sala da pranzo e della tavola.
Ad arrivare per primi furono i Turner. Quando entrarono Anya per poco non scoppiava a ridere.
- Buonasera sig.ra Bacott – disse Paul porgendole un mazzo di fiori e guardandosi intorno.
- Non vedo Linda…
- E’ uscita… ah no… è in bagno – sorrise Anya – o forse è nella sua stanza? Vado a vedere! Quello è per lei? – disse indicando il pacchetto che Paul teneva in mano.
- Va bene… questo? E’ per… è un pensierino… una cosa da niente, per…
- Per…?
- Per… tua sorella.
La ragazza mimò un’espressione sorpresa. - Allora la chiamo?
Lui annuì, imbarazzato. Anya salutò Ophelia, la secondogenita dei Turner, e si congedò con la promessa di ritrovare Linda.
- Linda… Li-ly!
- Sono qui.
- Linda i Turner sono arrivati… non vorrai farli aspettare? – sussurrò poggiandosi alla porta del bagno.
- Sono arrivati? Di già?
- Di già.
- E Paul è lì?
- Adorabilmente, con un regalo per te in mano.
- Non è vero.
- Si che è vero.
- Menti.
- Beh… vai a vedere.
La porta si aprì di scatto. Anya per poco non cadde di lato.
- Linda… sei carinissima! – disse dopo un po’ guardandola. Aveva indossato il maglioncino rosa che le aveva regalato qualche giorno prima e con lo shampoo i capelli avevano preso una piega diversa.
- Davvero?
- Davvero. I Turner ti stanno aspettando.
- Allora vado.
In salone venne accolta dalla famiglia Turner e dal loro primogenito, che le consegnò il pacchettino. Linda fece per metterlo sotto l’albero di Natale, ma lui la bloccò.
- Aprilo.
- Adesso?
Lui annuì. Anya fingeva di occuparsi della tavola, sistemando qualche tovagliolo e raddrizzando qualche posata. Linda aprì il pacchetto e ne estrasse un bracciale con un ciondolino in oro bianco. Anya strabuzzò gli occhi e sorrise, poi lanciò un’occhiata a Linda per osservarne la reazione: prese il bracciale con l’indice e il pollice e lo osservò per un tempo sufficientemente lungo a far assumere a Paul un’aria dubbiosa.
- Forse non… non ti piace?
Linda annuì. – E’ molto bello… grazie – disse provandolo sul polso. Anya sorrise scuotendo il capo; poi si allontanò, dirigendosi in cucina, dove Kate aveva trovato un argomento di discussione talmente appassionante che i Turner non ebbero da annoiarsi per un bel pezzo. Guardando Ophelia si ricordò dei regali che lei e Linda avevano fatto a lei e Paul. Scusandosi andò in stanza e tornò con due pacchetti che consegnò ai ragazzi insieme a Linda.
- Apriteli… forza!
Ophelia scartò il suo regalo e rimase contenta nel vedere un coordinato di cappello, sciarpa e guanti in pura lana. Paul, invece, ancora sotto gli effetti dei sorrisi di Linda, ebbe qualche difficoltà nel concentrarsi sulla carta e spacchettare come si deve l’involucro.
- La misura l’ha scelta Linda! – disse Anya, ridendo. Linda le pizzicò la coscia. Paul sorrise e scoprì un maglione di lana blu, di marca.
- E’ molto bello. Grazie ragazze.
- Prego… Ophelia volevo farti vedere le foto dell’altro pomeriggio… - disse facendole l’occhiolino. Lei capì e si allontanarono.
Dopo un po’ Anya guardò l’orologio e si accorse che alle otto e mezza suo padre non era ancora arrivato. Decise di chiedere.
- Mamma, hai notizie di papà?
- Ha telefonato… ha detto che avrebbe ritardato. – Sua madre. Sempre troppo buona.
Servirono l’aperitivo alle nove meno un quarto e alle nove suo padre arrivò. Il campanello suonò due volte e ad aprire fu Anya.
- Alla buon’ora... comandante!
- Scusa Anya, ma il traffico…
- …. ti ha risucchiato e non sei riuscito più ad uscirne?
- Diciamo…
Anya lo guardò per un attimo. Poi si fece di lato e lo lasciò passare.
- Ti abbiamo aspettato a lungo, sai?
- Lo so, Anya – sospirò – mi dispiace. Vi ho portato un regalino. – disse porgendole un piccolo pacchettino con i manici di cordoncino.
- Grazie.
Dopo tanta attesa la cena ebbe inizio e i palati di Josh e Paul furono deliziati dalle prelibatezze messe a tavola dalle loro predilette. Quando fu il turno del pollo allo zenzero Anya osservò di sottecchi gli sguardi dei suoi. Kate mise lo spezzatino nel piatto di Josh e probabilmente si aspettava una reazione particolare; ciò che lui però fu capace di dire, fu solo un misero “grazie”, rivoltole quasi senza emozione e senza reale gratitudine. Kate aggrottò impercettibilmente la fronte, poi sorrise alla signora Turner che le faceva i complimenti. Linda non notò l’atteggiamento del padre, ma lo guardò ugualmente male per tutta la serata. Talmente tanto che Anya si ritrovò costretta ad allontanare i loro posti prima che iniziasse la cena.
Josh si comportò normalmente, quasi facesse ancora parte dell’unità familiare. Mr. Turner scambiò un po’ di parole con lui, ma dal momento che Josh non abitava più in quel palazzo da parecchi anni, i rapporti si erano raffreddati e ciò che dissero non andò oltre il convenzionale. Anya gli si era seduta accanto, ma anche con lei Josh non parlò molto; piuttosto sembrava attratto dal suo nuovo cellulare, sul cui schermo, sbirciando, la ragazza lesse più volte il nome di Yenna.
- Certo che siete molto legati voi due? Anche quando sei a cena con la tua ex moglie e le tue figlie … - gli bisbigliò all’orecchio mentre si sporgeva per prendere dell’insalata.
- Yenna non sta bene.
- Magari è incinta … – tirò a indovinare annuendo e porgendo il piatto a Ophelia che vi mise della salsa.
Josh strabuzzò gli occhi e si girò verso di lei. – Chi te l’ha detto? – le bisbigliò.
- Cosa? – disse Anya sorseggiando un goccio di vino bianco.
- Di Yenna.
Ad Anya andò il vino di traverso. - M-mi vuoi d-dire che Yenna è …? – tossì.
Josh annuì con disinvoltura.
Lei non disse nulla. Immerse una patatina nella salsa verdastra del piatto e la morse.
Yenna è incinta. Ci ha tagliate fuori. E’ finita.
Le orecchie le ronzavano. Per una buona mezz’ora sentì uno strano vociare intorno a sé, poi Linda la prese per un braccio e la guidò in cucina.
- Anya, mi vuoi dire che ti succede? Ti chiamo e non rispondi e hai un’espressione assente!
- Papà … Yenna. Aspettano un figlio.
- Stai scherzando? – disse Linda cambiando espressione.
Anya scosse il capo.
- Te l’ha detto lui?
- Si.
Linda assentì e, forse riflettendo, assunse un’espressione maligna.
- Cosa vorresti fare?
- Niente. Assolutamente niente. Facciamo come se non fosse successo nulla.
Anya stava per dire anche lei la sua, ma appena aprì bocca sua madre piombò in cucina - Anya, Linda… gli ospiti vi attendono.
- Arriviamo – disse Linda scambiando un’occhiata complice con la sorella. Si diressero così in sala da pranzo e servirono il dolce.
Dopo cena le famiglie Bacott e Turner si scambiarono qualche regalo. Josh propose alle figlie di scartare il suo. Anya prese il sacchetto e ne tirò fuori tre biglietti aerei ed un itinerario per un viaggio in Francia. Vide gli astanti trattenere il fiato.
- E’ un regalo f-fantastico… - disse guardandosi attorno. Mimò un’espressione sorpresa e ringraziò il padre. Linda sorrideva e non finiva di dire “Due biglietti per la Francia… ma è pazzesco!”, nonostante la sorella riconoscesse sul suo volto un’ombra di ostilità.
Josh pareva essere soddisfatto di aver fatto colpo, tanto che anche Kate lo ringraziò; ma Anya non perse tempo e capì che quei biglietti non potevano essere venuti dal padre, il quale non aveva mai saputo niente dei loro gusti. Anya e Linda in Francia ci erano già state qualche estate prima, quando sua madre fu costretta a muoversi per lavoro, ma questo Josh non lo ricordava.
- Era molto carino il maglione – disse Josh sedendosi sul divano accanto Anya. Lei e Linda avevano comprato quel regalo spinte da Kate.
- Ci hai già ringraziate. Immaginavo che avresti gradito.
Silenzio.
- Quando andrete a Parigi vi consiglio di visitare il museo del Louvre. È molto …
- Grande e bello. Spettacolare. Profuma d’arte.
Josh annuì. – Lo conosci?
- Si dà il caso che io, mamma e Linda siamo state a Parigi un paio di estati fa. Forse non te lo ricordi? – disse guardando i biglietti. Josh si passò una mano sui capelli.
- Possiamo sempre scegliere una meta alternativa…
Anya aggrottò le sopracciglia. – “Possiamo”?
- Si. Io, te e Linda.
La ragazza si alzò dal divano. – Qualcuno vuole qualcosa da bere? – disse rivolta agli astanti. Ci fu qualche cenno affermativo e lei si recò in cucina, facendo segno al padre di seguirla.
- “Io, te e Linda”… Come ti salta in mente?
- Va bene, allora andrete tu, mamma e…
- Credevi che sarei andata in Francia con te? Sei convinto che si può tornare ai tempi passati con un semplice schiocco delle dita? Lo sai quanto ti abbiamo aspettato? Abbiamo desiderato che arrivasse un momento come questo… e ora che ci siamo mi dici che ne avremmo “goduto” solo io, te e Linda?
- Anya, piantala … io sono sempre stato qui, a vostra disposizione.
- Quando te ne sei andato io avevo quattordici anni. L’ultima volta che ti ho visto ne avevo diciotto. Dopo un anno di totale assenza credi che regalarci due biglietti aerei possa far tornare le cose a posto? E hai escluso la mamma! – fece una pausa – Sono sicura che non lo ammetterà mai, ma lei ti vuole ancora bene. Hai visto la sua espressione quando ti ha dato il pollo? Si aspettava che le dicessi qualcosa, che le facessi i complimenti. Invece non hai mosso un dito e lei c’è rimasta male. Come sempre.
- Anya stai dicendo un sacco di idiozie …
- Di noi non ti è importato mai nulla. Stento a credere che fossi tu l’uomo che ci riempiva di attenzioni quando eravamo piccole.
Josh passò una mano sui capelli e scacciò un inesistente granello di polvere dalla sua felpa. – Forse è meglio che vada.
- Fa un po’ come ti pare – disse Anya prendendo delle bibite dal frigorifero e riponendo alcuni bicchieri su un vassoio – ma ricorda che non potrai sempre scappare. L’hai già fatto con noi. Forse lo farai anche con Yenna e probabilmente la prossima volta che ti rivedrò sarà tra uno o due anni, non è così?
Prese delle cannucce colorate e le mise nei bicchieri. – I biglietti tienili pure tu. Magari ti fai un viaggio con la tua nuova famiglia!
Josh inventò una scusa e dopo aver salutato tutti andò via. Anya si domandava quando si sarebbe fatto nuovamente vivo.
 
In tarda serata se ne andarono anche i Turner. Paul li lasciò con la promessa che sarebbe tornato.
- Non ti ho ancora dato il mio regalo o sbaglio? – sussurrò Elizabeth ad Anya mentre richiudeva la porta.
Anya sorrise. – Non sbagli.
 
- Possiamo sempre aspettare domani, nonna – sbadigliò mentre Elizabeth frugava per l’ennesima volta nella valigia.
- Non se ne parla neanche! – Anya roteò gli occhi. – Ho appena detto che lo troverò e sarà così, puoi starne certa!
- Almeno questa sera potresti rinunciare alla tua forte determinazione? Sono a pezzi…
- L’ho trovato! Sì, è proprio lui … - disse estraendo un cofanetto di legno profumato e schiudendolo di fronte la nipote. Anya si sedette accanto a lei e prese il cofanetto che custodiva un piccolo ciondolo d’oro, molto lavorato, al cui centro era incastonata una pietra di un blu chiaro ricca di venature.
- Non ho idea del numero di generazioni che questo ciondolo abbia visto. È appartenuto a me e, prima di me, a mia madre, la quale lo ha avuto in consegna da mia nonna e via dicendo. Quando me lo ha regalato mia madre disse che poteva anche avere delle virtù quasi “magiche”, se gli si credeva. – Anya sorrise – Io voglio mantenere questa piccola tradizione di famiglia e regalarlo a te, con la speranza che lo custodisca nel migliore dei modi possibili. Lo farai?
Anya annuì. – Certo.
- Bene. – disse Elizabeth estraendo il ciondolo e legandolo al collo della nipote.
- Dovrò tenerlo sempre al collo?
- Non per forza. Basta che tu sappia dove si trova.
- Grazie. È molto bello.
- Tradizione. Ora vai a dormire – disse consegnandole il cofanetto e accompagnandola alla porta. Anya la abbracciò e uscì dalla stanza.
In camera Linda le confessò di non riuscire a prendere sonno. Anya ne conosceva la ragione, ma non disse nulla. Le diede il bacio della buonanotte e si mise a letto.
Sul cornicione della finestra iniziarono a depositarsi dei piccoli fiocchi bianchi.
Per lei e per Linda quella sarebbe stata una serata indimenticabile.

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Capitolo 3
*** Capitolo II ***


Salve! XD
Eccoci qua con un nuovo capitolo. Nel primo Elizabeth arriva dall’Italia per far visita alle nipotine e alla figlia, Kate; con loro e i signori Turner trascorre la sera della vigilia della vigilia di Natale. Anya, nel frattempo, litiga con il padre e lo caccia via, suo malgrado. Pare che vada tutto bene…
Non anticipo nulla. Potrei apparire la solita stronzetta di turno, ma io, sinceramente, non ci trovo tanto gusto a leggere o vedere qualcosa quando mi è stato anticipato il contenuto…
Ok, dal momento che non sono molto brava con le presentazioni, adesso vi lascio augurandovi buona lettura!
 
Alla prossima!  J
 
 
 
An irish tale – Capitolo II

 

 
La mattina ti svegli, non sai perché, ma c’è qualcosa che non va.
Magari un tuo gesto scaramantico va male e si insinua il seme del dubbio e qualunque cosa guardi quella sensazione di dubbio non fa altro che rafforzarsi. Quando succede questo, basta soltanto un punto, un punto decisivo per ridarti o toglierti la fiducia e determinare radicalmente l’esito di un match.
 
Il discorso del telecronista di Wimbledon, quella mattina, non le diede tregua. Arrivava come l’ispirazione di Dalì, che si sedeva sulla sua poltrona tenendo una chiave in mano e posizionando un piattino capovolto sotto di essa. Quando si addormentava la mano di Dalì perdeva la presa della chiave che, impattando contro il piatto, lo svegliava di soprassalto. Ciò che gli balenava in mente, quasi fosse un’allucinazione, veniva immortalato nelle opere.
Si diresse in bagno, dove lavò il viso con acqua fredda e in seguito nel salotto, dove si dedicò allo stretching mattutino. L’istruttore di tennis aveva insegnato a lei e Linda alcuni esercizi da fare prima di colazione. Erano semplici, ma alcuni richiedevano una concentrazione che Anya, quel giorno, non riuscì a trovare.
La mattina ti svegli, non sai perché, ma c’è qualcosa che non va. Magari un tuo gesto scaramantico va male…
Si sedette sul tappeto, nella posizione del loto, e poggiò i gomiti sulle ginocchia. Chiuse gli occhi e prese a massaggiarsi le tempie.
… e si insinua il seme del dubbio…
Inspirazione, espirazione.
Quando il mal di testa si fu placato ricominciò gli esercizi; ma di nuovo perse la concentrazione e l’allenamento per l’equilibrio dovette sospenderlo. Continuava a pensare a quel dannato discorso del cronista di Wimbledon, e si sentiva sempre più Kirsten Dunst, alla quale si rompe la corda della racchetta e perde la finale di tennis.
Inspirazione, espirazione.
Andò in cucina e mangiò la sua quotidiana tazza di latte e cereali; quindi accese la tv e seguì il primo telegiornale. Nelle notizie di borsa dissero che il valore dell’euro era salito e fissarono il prezzo di un barile di petrolio. Parlarono di una manifestazione di animalisti a Londra e di una donna che aveva minacciato di suicidarsi nella periferia di Dublino perché il datore di lavoro la voleva licenziare.
- Buongiorno – disse Linda stropicciandosi gli occhi e sedendosi accanto alla sorella.
- Ciao – le rispose sospirando. Cambiò canale e mise un programma di musica.
Losing my religion – R.E.M.
- Hai già fatto stretching?
- Qualcosa…
Linda la guardò interrogativa.
- Non sono riuscita a fare gli esercizi per l’equilibrio. Ci proverò di pomeriggio. – disse facendo spallucce e alzandosi. – Tu?
- Ho fatto tutto…
Annuì e sparecchiò. Lasciò Linda che mangiava e si diresse in bagno per farsi una doccia. L’acqua calda la rinfrancò e la soffice schiuma del sapone sulla pelle le restituì parte della tranquillità perduta. Quando uscì, asciugò i capelli e li appuntò con dei fermagli; poi contò quelli rimasti.
- Undici, dodici e… tredici.
… e qualunque cosa guardi quella sensazione di dubbio non fa che rafforzarsi…
Ne appuntò immediatamente un altro sulla chioma vermiglia e si vestì.
 
Hysteria, Muse.
Dopo colazione aveva preso una pasticca per il mal di testa, ma il dolore non era passato ugualmente. Il discorso del cronista pareva ormai averla fatta sua e un paio di volte, come posseduta, lo recitò a Linda che l’ascoltò perplessa.
- Mi sono svegliata pensandoci – le disse.
Ripensò anche alla sera precedente, alla lite con il padre, al regalo di sua nonna e alla neve.
Già, la neve. Come aveva fatto a non pensarci più? I primi fiocchi si erano depositati fuori dalla finestra della sua stanza la sera prima e in quel momento la strada doveva essere…
- … completamente innevata! Linda, vieni a vedere! – le aveva detto sbirciando dalla finestra della sala da pranzo. Di fronte alcuni portoncini della gente infastidita rimuoveva il candido intruso con delle rozze vanghe. Tra di loro Anya riconobbe il sig. Barrymore, il vicino di casa, con la moglie; discutevano animatamente di qualcosa. Conoscendoli Anya pensò che si stessero preoccupando di come panare il pesce o se aggiungere o meno le spezie alle patate del pranzo.
- E’ bello, ma toccherà anche a noi smuovere un po’ di neve… - bisbigliò Linda allontanandosi dalla finestra. Anya si passò una mano sulla fronte e sugli occhi quando una nuova fitta la prese alla testa.
- Ancora il mal di testa?
Anya annuì. Linda andò in bagno e lei si distese sul divano. Chiudendo gli occhi il dolore si affievolì e un vago languore si impossessò di lei. Dopo poco scivolò nel sonno.
 
Si risvegliò in tarda mattinata. Sua nonna aveva rotto una scodella di vetro e, se il mal di testa le era passato dormendo, adesso le era tornato a causa del rumore improvviso.
- Cosa?… Linda! – chiamò sedendosi sul divano. Linda la raggiunse con le mani sporche di rosso.
- Cosa hai fatto? – disse strabuzzando gli occhi.
- Stavo tagliando i gelsi … cosa c’è?
- Io… non lo so. – mormorò confusa - Mi sono svegliata…
- Hai ancora mal di testa?
Anya annuì.
- Bevi un camomilla, forse ti passa.
In cucina sua madre correva da una parte all’altra in cerca di qualcosa. Elizabeth eliminava, invece, i cocci di vetro rimasti sul pavimento.
- Linda, hai preso tu il pane? – le disse aprendo la dispensa.
- No, è finito.
- Finito? E adesso?
- Si compra.
Kate aprì e richiuse il frigorifero, dentro il quale non trovò nulla di quello che cercava. – Anya potresti andare dal sig. Lucas?
Il sig. Lucas aveva un piccolo supermercato a poca distanza da casa loro. Anya e linda lo conoscevano sin da piccole.
- D’accordo – disse dimenticando la camomilla. Kate stilò una piccola lista della spesa e le consegnò dei soldi. Anya indossò il giubbotto, il cappello e la sciarpa ed uscì, in sella al suo motorino rosso.
In strada gli zero gradi di cui aveva parlato il meteo si sentivano eccome. Attraverso il jeans che aveva indossato sentiva penetrare la corrente gelida prodotta dalla modesta velocità del motorino e le mani, su cui aveva dimenticato di indossare i guanti, erano fredde e con le nocche rosse. Schivò molte auto e si destreggiò su una stradina piuttosto trafficata, fino ad arrivare sana, salva, ma infreddolita, al minimarket del sig. Lucas. All’entrata incontrò Philip, il suo garzone, un ragazzo più alto e più grande di lei di un anno.
- Salve Anya!
- Ciao Phil! – esclamò togliendosi il casco ed entrando nel supermercato. Seguendo la lista acquistò tutto ciò per cui sua madre l’aveva mandata lì ed uscì, cercando invano con lo sguardo il sig. Lucas.
Nel parcheggio sistemò la spesa sotto il sedile del motorino. Quando fece per indossare il casco notò che la cinghietta era bloccata. La guardò attentamente e contemporaneamente strattonò le estremità per sbloccare il meccanismo, non riuscendo, però, nel suo intento. Istintivamente si guardò intorno, alla ricerca di qualcuno che potesse aiutarla. Riprese a strattonare la cinghia con più vigore, ma ben presto dovette ammettere che era bloccata.
- Dannato casco! – sbottò scendendo dal motore. Dette una seconda occhiata in giro. Nel parcheggio vi erano poche macchine e qualche motore e probabilmente i loro proprietari preferivano godersi il riscaldamento del minimarket, piuttosto che sorbirsi il cattivo tempo e il freddo dell’esterno. La testa le scoppiava. Il cervello sembrava essersi munito di un martello e di un’incudine e lavorava a ritmo con i battiti cardiaci. Si passò una mano sulla fronte, lì dove si era raccolta gran parte del dolore e socchiuse gli occhi. Poi guardò il motorino, il casco; e di nuovo il motorino e il casco. Dopo un breve attimo di esitazione montò in sella e uscì dal parcheggio, percorrendo il breve scivolo all’uscita con il motore spento. Nel tentativo di accendere il veicolo finì in mezzo alla strada.
 
Philip aveva osservato Anya da lontano, per tutto il tempo che era rimasta nel parcheggio. Lui stava aiutando il fornitore a scaricare della merce nel magazzino e ogni tanto lanciava un’occhiata in direzione dell’amica, che maneggiava il casco.
- E con questa abbiamo finito. Grazie Philip. – disse il camionista passando una cassetta di frutta al ragazzo.
- Buon Natale Gerry!
- Buon Natale anche a te. Salutami il sig. Lucas.
Philip chiuse le porte del magazzino e si diresse al parcheggio. Anya era salita sul motore e l’aveva spinto verso l’uscita. Sul capo non aveva il casco e i capelli si muovevano ad ogni folata di vento. Lui affrettò il passo e raggiunse lo scivolo.
- Anya! – la chiamò. Lei si girò e gli sorrise, mentre tentava di mettere in moto il veicolo. Le fece segno di indossare il casco, ma non ebbe neanche il tempo di gridarglielo che una macchina a tutta velocità la raggiunse.
Fu un battito di ciglia. Un attimo.
Come se si fosse trovato in un film, vide Anya, al rallentatore, distogliere lo sguardo da Philip e voltarsi sorpresa verso l’auto che non fermò la sua corsa. La vide impattare con il lato destro contro il cofano quando questo la colpì. Il casco le volò di mano e rimbalzò un paio di volte, senza rompersi, sull’asfalto bagnato. Il motore cadde per terra e venne trascinato per qualche metro prima che la macchina frenasse. Anya venne sbalzata dal cofano con violenza, sul lato della strada.
Philip sentì qualcuno gridare. La gente si accalcò intorno al luogo dell’incidente. La macchina lasciò due segni neri sull’asfalto.
- Anya… - si avvicinò al suo corpo esanime, riverso sull’asfalto. – Anya… - le prese una mano, tiepida e piena di graffi. Poggiò due dita sul suo polso e sentì dei battiti deboli, lenti. Voleva scuoterla, chiamarla a gran voce, ma non ne aveva la forza. Sulla fronte, un taglio sanguinava. Allungò una manica e tamponò un po’ di sangue, ma aveva timore di toccarla e le sue dita esitavano sulla sua pelle candida tormentata da graffi e sangue. Sentì gli occhi bruciare e qualcosa di caldo iniziare a colargli lungo le guance; che fosse sangue, che fossero lacrime. Non gli importava. Quando fu in grado di parlare invocò aiuto, non accorgendosi delle luci blu a intermittenza intorno a lui. Qualcuno lo fece alzare e venne allontanato dall’amica, che fu stesa su un lettino. Lui mosse qualche passo verso la barella, ma lo stesso qualcuno di prima lo fermò scrollandolo, chiedendogli chi fosse. Parente o amico?
Anya era una sua amica.
Non poteva andare con loro.
La conosceva da una vita.
Non poteva seguirla.
Gli dissero il nome di un posto, glielo scandirono bene. Un paramedico gli lasciò un biglietto. Il sig. Lucas prese Philip per un braccio e lo invitò a seguirlo.
 
Linda si infilò un paio di stivali. Anya aveva lasciato le sue scarpe fra i loro due letti e lei le spostò con stizza. Stava per raggiungere il salotto quando il telefono squillò.
- Linda, rispondi tu! – gridò sua madre dalla cucina. Linda sbuffò e afferrò l’apparecchio; quindi schiacciò il bottone con il telefono verde.
- Pronto? Sig. Lucas… mia sorella ha dimenticato qualcosa? – chiese abbassandosi per pulire una macchia sulla punta di uno stivale. – Cosa? Un incidente? E come sta? - Il cuore iniziò a battere con tonfi sordi. – All’ospedale? O cielo… vi raggiungiamo immediatamente!
Chiuse la chiamata con le dita tremanti e deglutendo a vuoto raggiunse sua madre in cucina. Kate la guardò interrogativamente, mentre impastava qualcosa. Linda scoppiò a piangere. – Anya è all’ospedale. Il sig. Lucas ha detto che è stata investita…
 
 
Anya era stata trasportata all’ Adelaide & Meath Hospital.
Non era molto distante da casa loro, ma per raggiungerlo si doveva fare un po’ di strada; ciò nonostante, quel giorno, Kate raggiunse l’ospedale prima che potesse rendersene conto.
All’interno dell’edificio le accolse il forte odore di disinfettanti e tintura di iodio. C’era molta gente che si aggirava nell’atrio: un padre con una bambina in braccio alla quale usciva un po’ di sangue dal naso e che lui tamponava con un fazzolettino; un ragazzo con un braccio ingessato; una donna in stato interessante; una coppia di ragazzi pallidi che chiacchieravano; due ragazze che si somigliavano e che si tenevano per mano.
Kate entrò speditamente in ospedale e chiese notizie ad un’infermiera. Quella disse che non poteva aiutarla e che se aveva un parente ricoverato doveva chiedere alla signorina al banco che stava indicando. Kate la ringraziò e si rivolse alla seconda infermiera.
- Siete dei familiari?
Elizabeth annuì. – Madre, sorella e nonna.
- La signorina Bacott, dice? Anya Bacott? – domandò controllando un foglio - È arrivata in ospedale circa dieci minuti fa. Codice rosso.
Kate sbiancò.
- Dove si trova adesso? – chiese Elizabeth.
- E’ in sala operatoria con il dottor Homais.
- Sa cosa le è successo?
L’infermiera scosse il capo. – Posso solamente dirle che sua nipote si trova in buone mani. Il dottor Homais è molto quotato.
Elizabeth stava per dire un’altra cosa quando il telefono dell’infermiera squillò. Quella rispose con voce atona e chiuse la cornetta dopo un sorrisino ed un “prego” sdolcinato.
- Potete attendere il medico in sala d’attesa, oltre quella porta; oppure potete tornare a casa e…
- Aspettiamo qui, grazie – disse Elizabeth.
In sala d’attesa incontrarono il sig. Lucas e Philip, che fissava il vuoto con occhi vitrei.
- Signora Bacott – disse il sig. Lucas sussultando e avvicinandosi – mi dispiace tanto per quello che è successo… Philip è sotto shock. Non riesce a ricordare nulla.
Kate annuì e si sedette. Linda prese posto accanto a Philip. Non lo aveva mai visto così giù.
- Ciao Phil – disse dandogli una pacca sulla spalla.
- Linda… io l’ho chiamata… ma…
Philip ricominciò a singhiozzare e Linda lo abbracciò.
- Ho visto tutto Linda… lei non aveva il casco…  - disse e le raccontò tutto.
 
Il dottor Homais si presentò loro un paio d’ore dopo. Phil si era assopito sulla sedia, il capo poggiato sulle gambe di Linda. Il sig. Lucas aveva ordinato al suo commesso di chiudere il minimarket e si era offerto di restare ad aspettare il responso dell’operazione. Nel frattempo Kate aveva avvisato Josh e i Turner.
Il medico entrò nella sala vuota con un paio di guanti in lattice in mano e la mascherina legata al collo. Doveva avere trentacinque anni al massimo e indossava il camice verde dell’ospedale. Aveva i capelli scuri e l’accento francese.
- I familiari della signorina Bacott? – disse guardandosi attorno.
Kate scattò in piedi. – Sono la madre.
Il dottore si sedette accanto a lei, sul bordo di un sediolino. Linda svegliò Philip.
- La signorina Bacott non è in buone condizioni, purtroppo. – disse sospirando, affranto. – Nell’impatto ha subito un trauma cranico indiretto che ha provocato una contusione celebrale abbastanza grave. Io e la mia equipe siamo intervenuti tempestivamente, ma sono preoccupato per lo stato di sua figlia. Una perdita di conoscenza prolungata potrebbe indicare danni a livello anatomico al cervello. La paziente non ha ancora ripreso conoscenza e i nostri esami rivelano che questo stato potrebbe prolungarsi per poco, quindi solo per alcune ore, o… per giorni.
Linda sentì il cuore perdere uno, due, tre battiti e gli occhi le si riempirono di lacrime brucianti. Kate chiuse gli occhi e ispirò profondamente.
- E’ in… coma? – disse Kate.
Il medico le rivolse uno sguardo dispiaciuto. – Mi dispiace. C’è tuttavia la possibilità che la signorina Bacott si riprenda in breve tempo, ma anche in quel caso la guarigione potrebbe essere lunga. Al risveglio la paziente potrebbe avere un’amnesia o, peggio, delle conseguenze di natura neurologica e fisica. È comunque più consigliabile attendere la sua ripresa e osservare il suo comportamento, il modo in cui interagirà con ciò che la circonda…
Philip scosse il capo.
- Vedrò di fare tutto ciò che è in mio potere – disse il dottore – riusciremo a guarire sua figlia, signora Bacott - Il sig. Homais carezzò la spalla di Kate che era scoppiata in lacrime. – Fra poco potrete andare a trovarla in una camera che gli infermieri hanno sistemato per lei. A titolo informativo volevo dirle che in questi casi i familiari non hanno orari per le visite.
Kate lo ringraziò e pochi minuti dopo lei, Linda ed Elizabeth si fecero guidare nella camera di Anya da un’infermiera, dopo che il sig. Homais se ne fu andato.
- Il dottore visiterà la paziente due volte al giorno. Io mi chiamo Sophia, sono l’assistente del dottore. Per qualsiasi emergenza chiamateci. – disse aprendo la porta della stanza e facendosi di lato.
All’interno due infermieri stavano ancora sistemando dei tubicini e un paio di sedie. Anya era distesa su un letto bianco, il capo fasciato fino alla fronte e il volto pallido. Al naso erano collegati due tubicini che, tramite una macchina, controllavano il suo respiro. Le braccia erano abbandonate lungo i fianchi. Alla mano destra era attaccata una flebo, alla sinistra, sul dito medio, il sensore che controllava i battiti cardiaci.
Kate, Linda ed Elizabeth furono invitate a tenersi in disparte fino al momento in cui gli infermieri non finivano di mettere a posto alcune cose. Quando se ne andarono e diedero la possibilità alle tre di avvicinarsi Kate vide le gambe fasciate, le braccia e il volto della figlia pieni di graffi e scoppiò in singhiozzi. Elizabeth le si avvicinò e la cinse con le braccia per consolarla. Linda rimase ad osservare. Un’infermiera entrò con un paio di coperte per il letto e coprì la paziente con cura, lasciandole le braccia di fuori.
- Le ha sollevato le braccia e non ha detto niente… - mormorò osservando i movimenti dell’infermiera. Quella la sentì e le sorrise mesta; poi uscì.
- Beh… buona vigilia di Natale, Anya.
 
 
 
 
 
Ringraziamenti:
Ringrazio di cuore Lizzie_Jane, che ha letto e recensito le prime righe di questa (spero lunga) storia; e __B, che ha letto e commentato, anche lei i primissimi capitoli.
Grazie!^^

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Capitolo 4
*** Capitolo III ***


An irish tale – Capitolo III
 
 
 
Una folata di vento.
Un brivido lungo la schiena.
Un’altra folata, poi una voce.
Due, tre… dieci.
Aprì gli occhi. Di fronte a sé vide buio e sentì un pesante fetore. Il muro, a qualche metro da quello su cui era poggiata, era scuro e la luce che proveniva dal lato sinistro creava dei riflessi traslucidi che evidenziavano i contorni dei mattoni di cui era fatto.
Non riusciva a comprendere quale fosse la ragione di tanto lezzo, ma pensò di alzarsi prima possibile, perché non sentiva più le gambe. Poggiando i palmi a terra per farsi leva, si sporcò con qualcosa di viscido e puzzolente che scrollò via agitando ripetutamente il polso. Si mise così in piedi e il sangue tornò a fluire lungo le gambe. Ai glutei, che prima non avvertiva più, provò una sensazione ambigua, data anche questa dal fatto che il sangue aveva ripreso a circolare regolarmente e che stava risvegliando i muscoli di tutto il corpo, compresi, naturalmente, quelli del bacino; tuttavia, nel momento in cui si alzò, si accorse anche di un fagottino che le batteva sulla coscia destra. Esso era chiuso da un nastro chiaro e al tatto pareva essere costituito di velluto, un velluto soffice e scuro. Quando sollevò l’involto, legato alla cintura dallo stesso nastrino con cui era chiuso, sussultò e inarcò un sopracciglio sorpresa nell’udire un delicato tintinnio al suo interno. Vi batté una mano sopra e il tintinnio tornò a farsi sentire. Senza troppi complimenti lo aprì e vi scoprì delle monete d’oro. Ne prese una, la metà del suo palmo, e la ributtò dentro, insieme alle altre. Si guardò velocemente intorno e, non sopportando più l’orrido tanfo che caratterizzava quello stretto vicolo, si unì alla gente che affollava la strada vicina, la stessa da cui preveniva la luce che aveva delineato i contorni dei mattoni del muro davanti a sé. Prima di uscire allo scoperto assicurò il fagottino di velluto sotto la sua giacca e legò il nastrino al collo, accanto al ciondolo d’oro con la pietra blu.
La strada era leggermente in discesa e, sui cigli, dei piccoli cumuli di neve erano l’attrattiva principale dei bambini che correvano per la strada. La gente che popolava il borgo, e che perciò la circondava, indossava abiti semplici e le donne portavano tutte una gonna, ampia e lunga che poggiava su una vita stretta e artificiale. Alcune, riunite in gruppetti, la fissavano e parlottavano fra di loro e quando lei passava, quelle si spostavano indignate; in quei casi accelerava il passo e si guardava dietro, alla fine, per spiare il comportamento delle “schizzinose”. Ben presto capì che all’origine di quelle occhiate ci fossero i suoi indumenti e in particolar modo i suoi jeans.
Gli uomini al riguardo la pensavano in tutt’altro modo. Vedere una donna in pantaloni non era cosa di tutti i giorni e quando lei passava si chiedeva come fosse possibile per gli uomini assumere delle espressioni così ebeti e soprattutto se mai nessuno fosse riuscito ad aprire la bocca in cotanta maniera. Qualcuno arrivò a sfiorarle le gambe, qualcun altro cadde più in basso e, fingendo di urtarla accidentalmente, le sfiorava un gluteo. A chi si permise di farlo Anya mollò il suo manrovescio migliore e gli lasciò un impronta rossa ed una maschera di umiliazione che per molto tempo l’uomo, credeva, avrebbe faticato a togliersi. Gli spettatori risero di gusto e lei, inorridita, accelerò il passo arrivando quasi a correre. Intorno a lei una massa confusa di uomini, donne e bambini urlanti si muoveva in direzioni diverse e la investiva in continuazione, con il suo odore e con la sua mole. Ad un certo punto, in prossimità della fine della strada, la folla si fece più consistente e lei, allungandosi sulle punte dei piedi e salendo sul gradino di una porta, vide una piazza ricca di colori e odori in cui era stato allestito un mercato. I commercianti gridavano, mostravano le loro mercanzie e la gente si avvicinava e comprava qualcosa. Talvolta lasciava che le si sottraessero i soldi per qualcosa di inutile.
Anya si amalgamò alla piccola folla che popolava il mercato ed esplorò le bancarelle ai quali i commercianti la facevano avvicinare e di cui stilavano un resoconto talmente preciso da far invidia alla tabella dei conti di un esattore delle tasse.
- Un abito, bella signora! Un abito rosso di seconda mano che abbellisce la sua figura e si intona perfettamente al colore dei suoi capelli… o lo vuole blu?… blu, si, proprio blu. Le calzerebbe a pennello un abito di questo genere, blu. Come i suoi occhi… allora, lo compra? Blu, signora. Blu o rosso. Faccia lei. Sono di seconda mano, eh? Costano poco…
Anya scuoteva risolutamente il capo ad ogni proposta e se era il caso, liberava anche il braccio dalla stretta dei venditori; ma appena scappava da uno, ecco che era accalappiata da un altro che si occupava di stoffe o da qualcuno che le proponeva una coppia di galline spennacchiate a metà prezzo per rallegrare il pranzo della domenica. Liberarsi da quella calca non fu facile, ma ci riuscì ugualmente.
Alla fine capì di doversi spostare al centro della piazza, lì dove c’era meno gente e dove sarebbe stata più lontana dagli sguardi degli uomini. Avrebbe volentieri comprato qualcosa da mettere sotto i denti, ma tirar fuori il fagotto con le monete si avrebbe potuto rivelarsi rischioso.
- Ehi, tu! Finalmente ti ho trovata…
Anya stava ascoltando le trattative di un commerciante che cercava di vendere un coniglio ad una signora che era disposta a pagare molto meno di quanto richiedeva l’uomo. Lui diceva che il coniglio era un giovane maschio in salute; lei sosteneva che fosse sì un maschio, ma vecchio e malaticcio. Era presa dal dibattito, quando qualcuno le batté una mano sulla spalla. Stava per girarsi quando un pugno la colpì allo zigomo sinistro e l’atterrò.
- Dove li hai messi i soldi? – domandò un uomo puzzolente, con la barba sfatta. Dietro di lui due uomini, più alti e smilzi, la guardavano maliziosamente.
- Quali… soldi? – disse la ragazza sentendo il sapore ferroso del sangue in bocca e sollevandosi su un gomito. L’uomo l’afferrò per il colletto e alzò la mano per colpirla di nuovo. Anya socchiuse gli occhi.
- Allontanatela da qui - disse. Gli altri due uomini la presero per le braccia e si allontanarono in fretta. Anya cercò di divincolarsi, ma un pugno dell’uomo, ben assestato e nascosto dal suo mantello, alla schiena di lei la immobilizzò. In un angolo, poco lontano dalla piazza, ma sufficientemente appartato da evitare sguardi indiscreti, l’interrogatorio di Sperty, come lo chiamavano i suoi due scagnozzi, riprese. I due buttarono la ragazza in un angolo e Sperty l’afferrò nuovamente per il colletto.
- Allora bella pollastrella… prima che ti rovini questo bel faccino… dimmi dove hai messo i miei soldi!
Anya non rispose. Non vedeva chiaramente. Il campo visivo andava progressivamente oscurandosi. Dalla bocca un rivolo di saliva frammisto a sangue colò sul lastricato. Sperty la prese per il bavero con una mano e con l’altra la colpì di nuovo al viso.
- Posso restare qui fino a stasera… e posso anche ridurti maluccio, se non parli.
- Cosa devo dire? Dove ho messo i soldi? – biascicò Anya tamponando lo zigomo con il dorso della manica della giacca. – Non lo so… non ho idea di dove siano i soldi che cerchi!
- Me li hai rubati tu, ieri sera! Ti ho visto, che scappavi… - silenzio - …allora?
Anya cercò di poggiarsi sui gomiti, ma la testa le girava tanto e cadde di lato, supina.
- Vorrà dire che mi prenderò tutto quello che indossi come pegno… - disse facendo un cenno ai due uomini. Uno dei due le cominciò a sbottonare il giubbotto, mentre l’altro cercava di toglierle una scarpa. Anya tentò di divincolarsi, agitando le gambe e cercando di allontanare le braccia del primo dalla sua giacca, ma quello le diede uno schiaffo.
- I vestiti no! - gridò.
- Se tu non ti ostinassi a stare zitta io, forse, ti lascerei stare.
- Ehi, Sperty. Guarda cosa ho trovato – disse uno degli uomini indicando il fagottino che Anya aveva legato al collo. Sperty le rivolse un’occhiata gelida e Anya tentò di arretrare.
- Giuro, non sapevo fossero vostri… - disse scuotendo il capo. L’uomo le strappò l’involto dal collo e le diede un calcio rabbioso sul costato, lasciandola senza fiato. Ordinò agli altri due di mollare scarpe e giacca e si allontanò.
Inspirazione, espirazione.
Dopo il calcio Anya si era ripiegata su sé stessa, una mano poggiata sul punto dolente. A causa dei pugni al viso e alla schiena la vista si era oscurata, ma in quei minuti sembrò tornare alla normalità. Sperty l’aveva abbandonata in uno sporco angolo della strada, accanto ad un cumulo di neve. La piazza del mercato non era molto distante: riusciva ad intravedere alcune persone muoversi accanto ad alcune bancarelle. Chiamare aiuto era fuori discorso, perché a malapena riusciva a parlare. Con le dita grattò un po’ di neve dal blocco accanto a sé e lo poggiò sulla guancia; poi sollevò la maglia e anche lì dove Sperty l’aveva colpita adagiò un po’ di ghiaccio.
Inspirazione, espirazione.
Si lasciò cullare da questa cantilena che le martellava il cervello e a poco a poco il dolore si placò. A ogni inspirazione una dolorosa fitta al torace le distorceva il viso in una smorfia di dolore e la fase di espirazione era portata a termine con relativa fatica. Guardandosi un’altra volta intorno capì quanto fosse inutile pensare a gridare. Le cose erano due: o stava lì e ci rimaneva fino a quando qualcuno non la vedeva, o si alzava e si avvicinava alla piazza. Delle possibilità Anya scelse la seconda e più in fretta che poté tentò di attuarla. Con una mano, perciò, si fece leva e si mise seduta; poi scaricò tutto il suo peso su di essa e tentò di alzarsi. Con la mano sinistra teneva ancora un po’ di neve contro le costole, mentre quella sullo zigomo si era disciolta e le ricadeva lungo il collo sotto forma di fredde goccioline d’acqua. Dimentica dell’assenza delle scarpe, i piedi, a contatto con il lastricato ghiacciato provocarono la risalita di un intenso brivido di freddo lungo la schiena e le calze di bagnarono. Infilate le scarpe nel migliore dei modi a lei possibili, iniziò lentamente a muoversi in direzione del mercato, costeggiando il muro della strada. Il mercato era più vicino e in quel momento aveva quasi raggiunto il banco di un commerciante, quando le gambe non la ressero più e si accasciò ai piedi del muro. Una signora, che stava acquistando degli ortaggi da un uomo alto e smilzo, la vide. Dapprima la osservò a distanza, forse confusa dai suoi indumenti; poi le si accostò.
- Tutto bene? – chiese stringendo il cesto della spesa fra le mani.
Anya scosse lievemente il capo, socchiudendo gli occhi.
- Chi vi ha conciato così?
La ragazza tossì. – Non lo so…
La signora si chinò su di lei. Le sollevò il viso per il mento e osservò lo zigomo con occhio clinico. Quando sfiorò il taglio con il pollice Anya si ritrasse.
- Dove abitate?
- Non ne ho idea – disse voltandosi. Le venne di nuovo la tosse e le fitte al costato la curvarono in avanti.
- So che è il momento meno opportuno per parlare e per me e per voi, ma se c’è un modo in cui potrei aiutarvi vi prego di dirmelo.
Anya cercò di parlare, ma un altro colpo di tosse la bloccò e una fitta al torace la costrinse a risedersi. Cercò di controllare la respirazione. La donna attendeva una risposta. Lei annuì, mentre improvvisamente la vista si oscurava e la testa prendeva a girarle come non mai; chiuse gli occhi e prima che potesse intuirlo i sensi la abbandonarono.
 
Riprese conoscenza solo successivamente.
Intorno a sé percepiva solo la morbidezza delle coperte e il loro tepore. Era come essere immersi in un bagno caldo. Le coltri lambivano la sua pelle con delicatezza ed emanavano un profumo assai familiare. Socchiuse gli occhi, aspettando di ritrovarsi a casa, magari circondata da sua madre e qualche sorella, sempre se ne aveva. Ma l’immagine che si insinuò fra le sue ciglia fu ben diversa: un uomo anziano dai lineamenti severi la scrutava con un paio di occhialini poggiati sul naso e le posava qualcosa sullo zigomo. La ragazza si svegliò del tutto e con uno scatto si poggiò su un gomito. Una fitta al costato le mozzò il fiato e bloccò i suoi movimenti.
- Calma – disse il medico costringendola dolcemente a sdraiarsi. Anya lo fissava sorpresa.
- Sta’ tranquilla. Sei al sicuro qui –. Una donna adulta, dai lineamenti dolci si avvicinò di qualche passo. – Lui è il sig. Bowles, un medico. L’abbiamo chiamato perché non stavi affatto bene.
- Dove mi trovo? – chiese in un soffio.
- Di questo ne parlerete dopo con Margareth – disse il medico. – Qual è il vostro nome?
La ragazza fece mente locale. Sentiva la testa tremendamente confusa. - Anya.
- Bene, Anya – continuò l’uomo – quante sono queste? -. Le mostrò la mano, con alcune dita alzate.
- Quattro.
- E queste?
- Una.
Il sig. Bowles annuì. Anya allungò la mano verso lo zigomo sinistro, che intravedeva caratterizzato da gonfiore. Il medico le bloccò il braccio e prese il polso sinistro tra l’indice e il pollice, mentre guardava un orologio da taschino.
- Battiti regolari.
Anya si girò sempre più confusa verso la donna, in piedi a qualche metro dal letto, che le sorrise fiduciosa.
Il medico pulì il viso della giovane con un panno umido. Poi imbevette una benda di una sostanza incolore e puzzolente e la poggiò sulla sua guancia. A contatto con il disinfettante il taglio bruciò e Anya emise un mugolio.
- Tenete la benda pressata sul taglio – disse il medico mentre le sollevava la maglia. Anya lo guardò di sbieco e lo vide farsi serio. Sistemò gli occhiali sul naso e guardò attentamente l’ematoma formatosi là dove Sperty l’aveva colpita. Il sig. Bowles passò una mano sulle costole. Anya trattenne il fiato.
- Provate a respirare profondamente -. La ragazza obbedì, ma il contatto delle mani del dottore sul torace le procurò dolore.
- Credo ci sia una costola spezzata – disse poggiando una seconda benda con il disinfettante sul taglio al torace. Le controllò le braccia e le gambe, per verificare l’assenza di altri lividi. Quindi fece mettere Anya di lato e controllò anche la schiena, scovandovi l’ultimo livido. Non potendo immobilizzare in altro modo il torace, lo fasciò con delle garze asciutte. Infine si alzò e mise in borsa i suoi attrezzi medici.
- Contro quegli ematomi, Margareth, non posso fare nulla. Applicherete del ghiaccio e ne costaterete le condizioni quotidianamente. Per le ferite, invece, vi lascio questo disinfettante –. Le porse una boccetta. – Prestate attenzione anche alla temperatura corporea e a quella delle ferite. La frattura alla costola necessita di riposo e una temporanea immobilità. In caso di bisogno mandate qualcuno a chiamarmi.
- Sarà fatto.
Il medico salutò la ragazza e uscì, accompagnato da Margareth. Mentre Anya teneva la benda sullo zigomo si guardò intorno. La camera in cui l’avevano portata era di stile semplice e vi si trovava l’essenziale: un letto con un cuscino di piume, un baule ai piedi del letto, una poltroncina e un paio di sedie. Sul pavimento non c’erano tappeti e le pareti erano prive di decorazioni, a parte un quadretto vicino la finestra. Quest’ultima era coperta da una tenda bianca di una stoffa leggera.
Indossava ancora i vecchi indumenti ed era stesa sul letto. Le possibilità di riuscire ad alzarsi da sola erano poche, poiché, quando faceva forza sugli addominali le costole dolevano.
- E il sig. Langley sa che hai accolto una sconosciuta? – chiese una voce femminile fuori dalla porta.
- Certamente – rispose qualcuno. Probabilmente era Margareth.
Ci fu un breve attimo di pausa. Poi la prima voce riprese a parlare con un tono più basso, quasi un sussurro. – Se fosse una delinquente? Cosa facciamo?
- Se è una delinquente, se la vedrà con la legge quando sarà il momento. Ora non possiamo abbandonarla.
Ci fu un tramestio di passi. Margareth entrò nuovamente in camera, in compagnia di una ragazza.
- Lei è Mary e ti presta una camicia da notte. Potresti indossarla al posto dei tuoi… indumenti.
Anya sorrise e Margareth posò la camicia da notte sul bracciolo della poltrona.
- Resterai qui finché non ti riprenderai -. Mary la salutò e uscì, socchiudendo la porta. – Poco fa hai chiesto dove ti trovi. Sono stata io a trovarti questa mattina e ti ho portato nella tenuta del sig. Langley, che si è offerto di ospitarti.
- Il sig. Langley? – ripeté Anya confusa.
- Il sig. Langley, o meglio, il conte Langley. È stato lui a far venire il dottore.
Anya la guardò sorpresa. – Vi prego di ringraziarlo da parte mia. Ma…. Quanto è distante la sua tenuta dalla città?
- Abbastanza…
- Cioè?
- Intorno alle quattro, cinque miglia. Ma non riusciresti a percorrerne neanche mezza per come sei ridotta. Ricordi quello che è accaduto? – disse togliendole la benda di mano.
- Qualcosa. Ricordo l’uomo che mi ha aggredita e anche i due che lo seguivano. Cercavano del denaro…
- Del denaro? –. Margareth si sedette sul letto.
- Diceva che glielo avevo tolto io, che gliel’avessi rubato ieri sera… ma non ricordo nulla del genere.
- E ti ha conciato così per questo?
- Credo di sì.
Margareth la fissò un momento. Poi sollevò un sopracciglio. – Saresti disposta a parlarne con le guardie?
Anya annuì. Margareth non disse più niente e l’aiutò a cambiarsi. Le disse che sarebbe passata per portarle qualcosa da mangiare, più tardi, e le consigliò di riposare.
 
Anya si guardò intorno per l’ennesima volta. Dalla finestra entrava poca luce e l’ambiente era scarsamente illuminato. Margareth le aveva lasciato una lampada a olio, poggiata su un piccolo ripiano accanto al letto, ma ciò non bastava a distinguere perfettamente i contorni delle cose. Supina, sul letto, chiuse gli occhi e gli avvenimenti che l’avevano coinvolta fino a quel momento tornarono a sfilarle davanti. Rivide la piazza del mercato, gremita di gente, le sembrò di udire il vociare festoso dei bambini lungo la strada e il pensare a come la loro innocenza potesse ignorare tutto ciò che di lurido vi era intorno a loro, compresi gli uomini che l’avevano toccata e picchiata; la sorprese come la prima volta che ci aveva riflettuto su. Sentì su di sé le mani degli uomini che l’avevano guardata con la bava alla bocca e rivide il ghigno feroce di Sperty. Le mani dei suoi due scagnozzi tornarono a spogliarla e a toccarla; il freddo si insinuò fra la stoffa dei suoi vestiti e la pelle, e un brivido la scosse come un fuscello al vento.
Vorrà dire che mi prenderò tutto quello che indossi come pegno…
Si coprì il viso con le mani.
Uno degli uomini le dà uno schiaffo. Lei cerca di divincolarsi, ma l’altro la tiene ferma per le caviglie. Grida e qualcuno le mette una mano sul petto. Indica qualcosa che Sperty le strappa via con violenza, tanto da farle male al collo. Improvvisamente non riesce più a respirare: ha paura; un dolore fortissimo la fa ripiegare su sé stessa e per un pezzo tutto si fa buio.
Il torace riprese a dolerle e con un balzo, mettendosi seduta, si scoprì a piangere. Chiamò Margareth e provò ad alzarsi.
Le lacrime le inondarono gli occhi e, colando lungo le guance, parte di esse finirono sul taglio che bruciò. Sentiva il cuore pesante battere forte. Udiva i suoi tonfi e non riusciva a smettere di singhiozzare.
- Margareth! – urlò. La porta si aprì di scatto e la donna entrò, confusa.
- Ragazza, cosa… cosa è accaduto? – chiese accostandosi al letto.
- Io… io… l’ho rivisto, Margareth… è tremendo… – disse coprendosi gli occhi - … l’ho visto che mi picchiava… lui e gli altri…
- Calmati. Gli altri, chi?
- Ho paura… non ho soldi, non ho più niente… lui non può venire di nuovo…
Margareth capì e si sedette accanto a lei. – Sei al sicuro qui… se anche quel furfante volesse avvicinarsi di nuovo a te, prima dovrebbe trovarti e poi dovrebbe passare sul cadavere mio e del sig. Langley… - disse cingendola con un braccio. – E ti assicuro che il conte non è tipo da farsi mettere i piedi in testa!
Anya scosse il capo.
- Non appena ti sarai ripresa andremo da un giudice…
Sull’uscio della porta comparve una donna. Aveva i capelli coperti da un fazzoletto e teneva un vassoio tra le mani. Margareth le fece segno di entrare.
- Anya, lei è Ines. È anche lei una domestica – Anya si asciugò le guance con il dorso della mano e salutò la nuova arrivata.
- Ti ho portato qualcosa da mangiare – disse Ines, e poggiò il vassoio sul tavolino accanto il letto.
- Grazie.
- Dovere –disse per poi congedarsi ed uscire. Margareth invitò Anya a mangiare il brodo.
- Da dove vieni?
La ragazza ci rifletté un attimo. – Non ricordo granché…
- Cosa ricordi esattamente? – chiese la donna scrutandola.
- Di essere stata… aggredita e… di chiamarmi Anya.
- Nient’altro?
- No – disse a mezza voce.
Margareth sospirò. – Sai dove ti trovi? Conosci il nome del paese?
Anya abbassò lo sguardo al piatto di brodo, che mescolò distrattamente con il cucchiaio. Poi lanciò un’occhiata veloce in giro, muovendo piano il capo.
- No – mormorò.
Ci fu un attimo di pausa. – Siamo in Irlanda. Nell’Irlanda del sud, precisamente nella contea di Waterford. Qual è il tuo nome completo?
- Anya Bacott.
Margareth assentì. – Dall’accento mi sembri irlandese… sei anche tu di Waterford?
Anya sollevò le sopracciglia.
- Waterford city.
La ragazza scosse il capo.
- Forse conosci Cork o Dublino?
Anya ebbe un tuffo al cuore. – Dublino… – sussurrò girandosi in direzione della donna.
- Abiti lì?
– Non ne ho idea… mi ricorda qualcosa…
- La tua famiglia, invece, dove vive?
- La mia famiglia? – ripeté perplessa la giovane.
- Va bene, non importa – disse Margareth, leggermente infastidita. Con poche cucchiaiate Anya finì il brodo e, in seguito, addentò il pane. Poi Margareth l’aiutò a distendersi ed uscì.
Sulle scale incontrò Anthony, lo stalliere.
- Quando ti capiterà di andare di nuovo in paese? – chiese la governante.
- Domani, forse, o questo pomeriggio.
- Bene.. quando lo farai, chiedi anche di una certa Anya Bacott.
 
 
 
Ringraziamenti:
La mia riconoscenza va, ancora una volta a Lizzie_Jane, che sta seguendo e commentando la storia passo a passo. Mi chiedeva quando avrei aggiunto i nuovi capitoli: beh, ho scoperto di avere già il quarto ed il quinto pronti nella pagina di Word. Aspettano solo di essere rivisti e pubblicati...
Ringrazio anche chi mi segue, ma non recensisce.
Spero tanto di dare vita ad una storia che valga la pena di essere letta… XD
Alla prossima!
Baciotti!
Ale

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Capitolo 5
*** Capitolo IV ***


Arriva il quarto capitolo!
Con grande felicità di Lizzie_Jane e con grande felicità mia, che vedo la mia storia crescere... crescere... XD
Ringrazio ancora chi mi segue e recensisce e chi mi segue e non commenta. vedo che le visite crescono di giorno in giorno e sono proprio contenta!
Lizzie, eccoti la tua quarta dose di droga! =P
Un abbraccio a tutti :)
Ale


An irish tale - Capitolo IV


Si svegliò che il sole non era ancora sorto.
Il canto del gallo giunse come un suono stridulo e prolungato, interrompendo un sonno senza sogni. Margareth si stiracchiò, facendo scricchiolare la schiena e le ossa degli arti. Ogni anno facevano sempre più rumore e svegliarsi la mattina era diventata occasione per conoscere un dolorino sempre nuovo.
Come ogni giorno si dedicò al suo breve momento di “elucubrazione”, perdendo tempo sdraiata sul letto. In Inverno questo era un momento sempre piacevole. La mattina il letto raggiungeva una temperatura decisamente gradevole e i piedi, che la sera perdevano tempo a scaldarsi, diventavano tiepidi allo stesso modo delle coltri in cui erano avvolti.
A malincuore Margareth si scoprì e si alzò, dirigendosi al piccolo lavabo. Appuntò i capelli con un nastro e versò dell’acqua nel catino per lavarsi il viso. Ne passò un po’ anche sul collo e si asciugò. Quindi indossò le calze di lana, il corsetto, l’abito del giorno prima e appuntò i capelli. In gioventù aveva avuto una chioma color miele, ma il tempo le aveva regalato qualche ciocca bianca sulle tempie e l’attaccatura.
Riordinò rapidamente il letto e, appuntato il suo mazzo di chiavi alla cintura, si diresse in cucina, dove incontrò Greta, la cuoca, e Adele, la sua giovane aiutante. Il conte si sarebbe svegliato di lì a poco e avrebbe fatto presto colazione. Greta le passò un vassoio con il pane, il burro e le posate e Margareth lo portò in sala da pranzo. Nel frattempo anche un’altra giovane serva, Mary, era scesa in cucina e dietro ordine di Greta aveva portato in sala da pranzo il resto della colazione.
 
Il signor Langley aveva preso l’abitudine di essere mattiniero.
Non si era mai alzato tardi, ma negli ultimi giorni si era ricordato che l’alba irlandese, seppure fredda e pungente, era molto gradevole. Credeva fosse il momento più adatto per dare disposizioni all’amministratore della sua proprietà e alla servitù che lavorava all’interno della sua tenuta; per di più, se il tempo era bello, vi era anche la possibilità di uscire con Fedor, il suo cavallo.
Naturalmente non sapeva che con ciò aveva sconvolto i ritmi dei domestici: per soddisfare le sue richieste ognuno di loro era stato costretto ad anticipare ogni mossa e il momento della colazione, solitamente animato, arrivava come un pretesto per chiedere a Margareth un po’ di clemenza e qualche ora di lavoro in meno.
Quella mattina aveva fatto addirittura prima del solito. Quando Joffroy cantò, lui era già in piedi. Prima di recarsi in sala da pranzo fece un salto in biblioteca, qualche stanza più in là della sua. Non era molto grande, ma in compenso vantava di un certo assortimento. Un tempo era appartenuta al padre, che gli aveva insegnato l’amore per la cultura e che aveva arricchito la raccolta di libri di famiglia.
Vi trascorse una buona mezz’ora; infine, prese un libro di economia per il sig. Hobson, l’amministratore, e chiuse la porta a chiave.
Giunse in sala da pranzo pronto per uscire. In camera aveva preso la pelliccia e agli stivali erano già allacciati gli speroni. Mary aveva finito di apparecchiare la tavola e gli chiedeva se c’erano degli ordini particolari. Il conte scosse il capo e Mary si sistemò in un angolo della sala, in piedi. Poco dopo arrivò Anthony con il quotidiano fresco fresco di stampa.
- Anthony, sella Fedor e fagli scaldare i muscoli. – disse il conte prendendo il giornale e addentando una fetta di pane imburrato.
Anthony assentì e andò via.
Sull’uscio il sig. Langley venne raggiunto da Margareth che gli porgeva il cappello.
- Buongiorno, signor conte. La colazione è stata di vostro gradimento?
- Buongiorno Margareth. Si, tutto molto buono, come al solito. Notizie sulla nostra ospite? – chiese infilando i guanti.
Margareth si appressò insieme a lui accanto a Fedor, tenuto per le redini da Anthony. – Il dottor Bowles ha diagnosticato una costola rotta e mi ha dato del disinfettante con cui medicarle le ferite.
- Questo pomeriggio le farò visita – disse dando un’occhiata alle zampe del cavallo. – Avete avvisato la famiglia?
Margareth fece spallucce. – La ragazza dice di non ricordare nulla, se non qualcosa dal momento dell’aggressione.
- Neanche la sua famiglia?
- A quanto pare…
Il conte annuì, poco entusiasta. Poi prese in mano le redini di Fedor e montò in sella. Il cavallo indietreggiò nervosamente.
- Tornerete per pranzo?
- Cercherò di non farmi desiderare. – Anthony gli tese lo scudiscio e con un colpo di tacco il conte fece partire il cavallo al galoppo.
 
Anya non ebbe immediatamente la certezza di essersi svegliata. Aveva passato la notte nel tentativo di dormire, ma non c’era mai riuscita, nonostante il sonno. Credette di essersi assopita per un paio d’ore, ma se lo aveva fatto, aveva trascorso quel breve lasso di tempo in uno stato di dormiveglia, non di sonno vero e proprio. Il torace le doleva, ogni cambiamento di posizione la sottoponeva a fitte lancinanti e le era difficile riuscire a dormire sul lato sinistro, perché non poteva poggiare lo zigomo sul cuscino senza sentirlo bruciare. Aveva tentavo di alzarsi e uscire dalla camera, ma anche questa le era risultata un’impresa impossibile. Alla fine si era arresa e si era distesa supina, cercando di sopportare con pazienza il dolore al costato.
Quando era riuscita a prendere sonno e un sogno aveva iniziato a profilarsi davanti ai suoi occhi, un verso stridulo, agghiacciante la fece trasalire. Capì che si trattava di un gallo al secondo grido dell’animale e si rassegnò all’idea di non poter dormire.
Guardò sul comodino. Margareth non le aveva lasciato neppure un libro, qualcosa con cui spendere il tempo. Per un po’ guardò il soffitto sopra di lei. Cercò di ricordare chi fosse, come fosse giunta fin lì. Le tornarono in mente le parole di Margareth, i luoghi che aveva nominato. Ricordò Dublino, ma il nesso che la legava a questa città continuava a sfuggirle. Sbuffò e se ne pentì, portandosi una mano al costato senza toccarsi. La schiena cominciò a dolerle. Tutta quella inattività cominciava a dare i suoi frutti peggiori. Voleva alzarsi, muoversi. Lentamente si girò sul fianco destro, allontanando da sé le coperte con le gambe; poi mise giù le gambe e si sedette, facendo leva sul braccio destro. Il contatto dei piedi con il pavimento freddo la fece rabbrividire, ma riuscì ad alzarsi. Su un bracciolo della poltrona vi era uno scialle. Aggirò il letto e se lo mise addosso; dopo di che si diresse alla finestra e strabuzzò gli occhi per lo stupore: una distesa di verde, coperta qua e là da qualche cumulo di neve, si spiegava intorno la tenuta e gli alberi disposti disordinatamente nel paesaggio erano ricoperti anch’essi dalla neve. A est probabilmente c’era un campo coltivato, ma non riuscì a vederlo del tutto. Spostando lo sguardo in basso vide il cortile della tenuta, delimitato dalla scuderia e da un piccolo pollaio. Un giovane alto e con i capelli scuri teneva un cavallo per le briglie, mentre Margareth parlava con un uomo coperto da una pelliccia di montone. Non sentiva quello che dicevano, ma vide più volte Margareth corrugare la fronte, dubbiosa. Poi la discussione si interruppe e l’uomo andò via sul cavallo al galoppo.
Restò alla finestra a lungo. Si chiese dove fosse andata a finire, chi era questo conte che si era offerto di ospitarla. Si pose un’infinità di domande, senza sapere come rispondere. Sulla superficie vetrosa della finestra, all’altezza del naso, si era formata una macchia di vapore. Anya vi disegnò un punto interrogativo, ma lo cancellò con un dito, insieme al resto di quella macchia opaca. In quello stesso istante la porta si aprì e sull’uscio comparve la figura di Margareth, che, non trovandola a letto, si guardò rapidamente attorno.
- Cosa fai lì, alzata? – La donna poggiò un vassoio sulla poltroncina e la raggiunse.
- Non ho chiuso occhio, questa notte. Mi faceva male la schiena, così ho deciso di alzarmi.
- Il medico ha detto che devi riposare. Hai una costola rotta. L’hai dimenticato?
Anya sospirò. – No, Margareth.
La fece sedere sul letto e le porse la colazione. Nel vassoio c’erano pane, una tazza fumante di latte ed un cucchiaio. Anya spezzettò il pane e lo buttò nel latte.
- Stai meglio, oggi?
La ragazza annuì. – Si, grazie.
- Il signor conte ha detto che ti farà visita, questo pomeriggio. Vuole conoscerti.
Ad Anya cadde il pezzo di pane che teneva con il cucchiaio.
- Sei proprio sicura di non ricordare nulla? – chiese, estraendo dalla tasca del grembiule la boccetta di disinfettante.
- Questa notte ho riflettuto molto -. Immerse il cucchiaio nella scodella. Prima di rispondere esitò un po’. – Credo di essere dublinese.
Margareth la guardò senza capire.
- Quando penso al nome di quella città – spiegò - in me sento risvegliarsi qualcosa, quasi vi fossi legata. Sono sicura di non essere nata a Waterford.
Margareth assentì.
- Al signor conte farebbe piacere rintracciare la tua famiglia.
- Anche a me –  disse mesta.
La donna tirò fuori dalla tasca del grembiule qualche benda e ricordò ad Anya le indicazioni del dottore. Perciò lei si distese e Margareth la curò.
Il disinfettante del medico le procurò una sensazione di freschezza che la rilassò. In breve il sonno tornò e mentre Margareth si prendeva cura di lei, le palpebre le si fecero pesanti. Solo quando fu sola riuscì ad addormentarsi.
 
Mary raccolse degli ortaggi nell’orto accanto al pollaio. Quando sollevò lo sguardo vide che il cesto era pieno. L’inverno non era stato molto clemente. Quell’anno il raccolto era andato male un po’ per tutti e perfino il conte dovette accontentarsi di mangiare più brodo di pollo del solito. Fortunatamente la Primavera era alle porte e la neve si scioglieva più velocemente, così che i contadini pativano meno la fame. Con il coltello tagliò un ultimo cavolo e lo mise dentro il cesto. Poi si diresse in cucina.
- Allora Anthony, notizie?
- Al paese nessuno conosce la ragazza.
Mary entrò e vide Margareth inclinare il capo, curiosa.
- Anya Bacott. Hai chiesto di lei, giusto?
Anthony porse un involto a Greta. - Sì, Margareth. Ma ti ripeto, nessuno ne ha mai sentito parlare.
- Proprio nessuno? – chiese la donna sbucciando delle fave.
Il ragazzo sospirò. – Se è questo che vuoi sapere, sono stato anche al carcere… Anya Bacott non compare. Margareth lascia perdere, sarà una povera straniera.
- Ed è questo “povera straniera” che mi preoccupa – sbottò. – Non so se hai dimenticato Margotte, la giovane che abbiamo accolto, a cui abbiamo dato da mangiare, a cui il signor conte ha offerto un tetto, un lavoro. È stato magnanimo, ma per poco non veniva denunciato per rapimento dalla famiglia che la bella non ricordava! Due casi assai simili quelli delle due…
Anthony tacque.
- Potrebbe essere che la sua famiglia vive fuori città? – intervenne Mary. Margareth fece spallucce. - Dice di essere dublinese… ma chi ci capisce più niente!
- O forse…
La donna la zittì con un cenno infastidito della mano. - Questo pomeriggio il signor conte le farà visita. Deciderà lui e se sarà il caso di indagare di certo non si tirerà indietro.
 
Quando il sig. Langley incontrò l’amministratore, questi discuteva con dei contadini. Alla vista del padrone, nonostante piovigginasse, si tolsero i copricapo e lo salutarono.
- Rimettetevi quei cappelli, o mi costringerete a dover fare a meno di voi! – scherzò  scendendo da cavallo.
Il signor Hobson gli si avvicinò. - Signor conte! Stavo appunto discutendo con i contadini del lavoro…
Il conte legò Fedor allo steccato e si unì al gruppo. – Qualcosa non va, forse?
Uno dei contadini, Peter, distolse lo sguardo. Kostantin intervenne al posto suo.
- A essere sinceri, signore, noi siamo qui come portavoce…
Il signor Langley li guardò curioso. Hobson stava per dire qualcosa e lo zittì con un cenno.
- Io e Peter facciamo le veci di molti altri contadini che si trovano in condizioni poco confortevoli.
- Cosa sarà mai accaduto? – chiese corrugando la fronte. In cielo erano comparsi dei nuvolosi grigi, bassi e carichi di pioggia. Prevedeva un acquazzone di lì a poco. Peter e Kostantin guardarono anche loro il cielo con circospezione e indossarono i cappelli.
- Come lei ha avuto occasione di constatare, il raccolto di quest’anno è stato piuttosto scarso. Di notte spesso nevicava e di giorno il ghiaccio ci impediva di raccogliere ciò che avevamo piantato…
Il conte assentì. - Vi prego, Kostantin, andate al dunque. – Fedor annusava l’aria e scalpitava.
Stavolta fu Hobson a parlare. – Signor conte, i contadini vorrebbero che anticipassimo loro la paga di questo mese. Dite loro che non è possibile, gli eventi sono stati avversi anche a noi.
- Hobson, tacete. Forse sarebbe meglio che ci spostassimo nel capanno. Comincia a piovere sul serio.
Il signor Langley montò su Fedor, e Hobson e i contadini lo raggiunsero nel capanno degli attrezzi, poco distante dal campo. La terra in breve divenne fangosa e gli zoccoli di Fedor schizzavano fango ad ogni falcata. Il capanno aveva lo spazio sufficiente per far riparare il cavallo e quando arrivò, il conte lo legò sotto la tettoia.
- Parlavamo di paga anticipata, signori?
Peter e Kostantin annuirono con vigore, ma Hobson li interruppe.
- Le avversità dell’Inverno non hanno colpito solo i campi. L’azienda stessa si è ritrovata in serie difficoltà nel gestire gli eventi. Signor conte, ditelo anche voi a questi contadini che la proposta da loro avanzata non può assolutamente essere accettata. – Il signor Hobson si scrollò la pioggia di dosso. Il suo discorsetto aveva donato ai suoi piccoli occhi un barlume di orgoglio e attendeva, speranzoso, una risposta dal conte. I contadini si stringevano nelle giacche umide.
– Il signor Hobson ha ragione, signori. – disse il conte sospirando. - Io stesso ho subito gli effetti di questo inverno crudele. So che sono morti molti animali e che centinaia di piante sono state uccise dal ghiaccio e dall’acqua. Per questo non posso accogliere la vostra proposta… - Lanciò un’occhiata sbilenca al signor Hobson. - … né la vostra, caro amministratore. Entrambi dovete sapere che gestire il denaro di un’azienda non è cosa facile.
- Signor conte, con il dovuto rispetto… ma cosa c’entra tutto questo? – sbottò Hobson togliendosi il cappello.
Peter e Kostantin guardavano il conte a bocca aperta.
- Signor Hobson, non interrompetemi, per favore. Dicevo, tenere i conti mi costa un grande sforzo, e così amministrare l’azienda; perciò la sola cosa che posso concedervi è, non tutta, ma solo una parte della paga mensile. Il resto vi verrà assegnato a tempo debito. – Il signor Langley guardò i contadini e vide che i loro occhi luccicavano. Hobson non credeva alle sue orecchie.
- Signor Langley!
Il conte alzò gli occhi al cielo. - Richard, hanno famiglia. Tacete una buona volta e permettete a questa gente di passare una Pasqua come si deve. – Si rivolse ai contadini - Riceverete un terzo della paga mensile ordinaria oggi stesso. Potete avvisare i vostri amici.
- Che Dio vi benedica, signor conte – disse Peter. Kostantin annuì vigorosamente e il conte li congedò con un cenno. Hobson era ancora incredulo.
- Cos’è, vi hanno mozzato la lingua?
Scosse il capo. - Personalmente avrei agito in maniera diversa.
Il conte lo guardò serio. – Non sarete un amministratore in eterno. Un giorno, con il denaro risparmiato, acquisterete un podere anche voi – disse volgendo lo sguardo al campo coltivato che si dispiegava di fronte al capanno e sospirando mesto. – Siete grande, ma giovane, Hobson. Avrete a che fare anche voi con dei contadini e se ve li vorrete tenere cari, se vorrete che lavorino per voi, dovrete comprendere le loro difficoltà. Peter e Kostantin, come molti altri, hanno una… famiglia, dei bambini. Può anche darsi che ci abbia perso, ma quel denaro serve più a loro che a me.
Richard assentì, guardando anche lui i contadini muoversi svelti attraverso il campo. Qualcuno, con una zappa in mano, tentava di estrarre le poche patate rimaste intrappolate nel terreno, e colpiva ripetutamente con forza i dossi di terra bruna; qualcun altro raccoglieva della verdura. C’era molta fatica in quei gesti, ma anche tanta gaiezza, complicità. Pioveva, ma lavoravano tutti, si davano una mano. Tutto d’un tratto, in mezzo a quel trambusto organizzato, il conte intravide una nuova figura. Inizialmente era un puntino lontano, ma in breve, riconobbe una gonna, una vita sottile, dei capelli lunghi. Chiamava un nome a gran voce: era la moglie di Dorian, un altro contadino. Tra le mani teneva una giacca. Lo aiutò ad indossarla. Aveva i capelli lunghi, corvini, bagnati e rideva. Il conte riusciva a distinguerne vagamente i lineamenti del volto e vide che vi regnava la felicità.
Quella scena gli portò alla mente dei ricordi e, per un tempo che non fu in grado di calcolare, rimase lì, nell’atrio del capanno a fissare quella donna e Dorian, ridere felici, sotto la pioggia. Fu il tocco della mano di Hobson alla spalla a ridestarlo.
- Signor conte, se non ci sono ordini particolari, io ritornerei al mio lavoro, magari al riparo da questo vento.
Il conte assentì con aria assente. Con stupore si era accorto che gli occhi gli pizzicavano e sentiva un groppo alla gola. Si era levato un vento fresco, gelido, che gli sferzava le guance e aveva ridotto i suoi occhi a poco più che una fessura.
- Andate pure, Hobson. Mi raccomando, preparate le paghe per i contadini – disse girandosi verso l’amministratore. Dalla borsa appesa alla sella il conte tirò fuori il libro preso in biblioteca e glielo porse. L’uomo lo ringraziò e andò via, imbacuccato nel cappotto e nel cappello.
Il signor Langley montò a cavallo poco dopo. I contadini erano tornati a casa e Fedor aveva ricominciato a scalpitare. Non era ancora ora di pranzo, ma era felice di essere riuscito a liberarsi di quell’impegno in poco tempo.
 
Il ritorno non fu facile come l’andata. “L’Irlanda è selvaggia e il suo tempo capriccioso”, diceva Margareth in quei casi. Fedor inciampò più volte e il conte fu costretto a rallentarne il passo, per paura che si rompesse una zampa. La strada era piena di pozzanghere e a tratti, dove la terra era stata smossa, anche fangosa. La pioggia sembrava non avere pietà e cadeva giù in grandi quantità, aumentando di tanto in tanto, la sua intensità e danzando insieme al vento, che la schiaffava sul viso del conte e sulla pelle di Fedor con ghiribizzo. Il cavallo si era innervosito e davanti ad una grossa pozzanghera si era bloccato di colpo, gli occhi e le narici sbarrate. Il sig. Langley era sceso e lo aveva guidato fino a casa, con l’acqua negli stivali.
Quando oltrepassò il cancello della proprietà non riuscì a trattenere un sorriso, mentre, davanti al cortile della sua tenuta, non incrociò nessuno. Sulle spalle la pelliccia pesava e le gocce disegnavano un tracciato inconfondibile nel pavimento della scuderia. Come il vello, anche il cappello si era bagnato e aveva potuto poco contro la pioggia obliqua che gli aveva letteralmente lavato il viso. Nella scuderia dissellò Fedor e lo condusse nel suo box, poi, liberandosi della pelliccia, si diresse nelle cucine. Hunt gli venne incontro abbaiando.
Il conte si chinò. - Hunt, bello mio!
- Hunt, vieni sub… - gridò Margareth sull’uscio, quando si accorse della presenza del conte. – Signor Langley! Cosa ci fate qui?
L’uomo la raggiunse. – Ci vivo.
- Ma no, volevo dire… - iniziò facendosi di lato. In cucina il conte trovò gran parte della servitù.
- Buongiorno… sì, Margareth. Ho finito presto. Trattative con i contadini.
Greta si precipitò sulla pentola sul fuoco e ne controllò il contenuto. – Signor conte, il pranzo è quasi pronto. Faccio preparare la sala da pranzo?
Il conte annuì.
- Siete tutto bagnato! Vi faccio preparare un bagno caldo? – chiese Margareth prendendo la pelliccia e il cappello.
Il signor Langley scosse il capo, paziente. – Mi basteranno degli indumenti asciutti, Margareth.
La donna ordinò che la richiesta fosse soddisfatta.
- Margareth… - la chiamò il sig. Langley, prendendola in disparte - … nuove sulla nostra ospite?
La donna gli passò una mano sui capelli. – Vi siete proprio inzuppato… nuove? Oggi mi ha sorpreso vederla in piedi. ha detto che non ha dormito, stanotte, ma dopo che le medicato le ferite, poche ore fa, sembrava essersi assopita.
Il conte starnutì.
- Pure il raffreddore?
Mary si avvicinò. – Scusate il disturbo, signore, ma Ines ha ordinato di riferirvi che gli indumenti sono pronti. Quando vi sarete cambiato potrete recarvi in sala da pranzo.
Il sig. Langley fece come riferito e si diresse in sala da pranzo. Il lungo tavolo che vi si trovava era circondato da sedie di legno ricche di intarsi e foderate con del velluto rosso. Mary e Adele avevano apparecchiato solo un’estremità del tavolo, la sua estremità. L’altra il conte la fissò a lungo, mentre sorseggiava il brodo. Non l’aveva più fatto per un po’ di tempo, ma da quella mattina, da quando aveva visto Dorian e sua moglie sotto la pioggia, quella sedia, al capo opposto della tavola, divenne nuovamente la protagonista delle sue riflessioni. Così come aveva fatto quella mattina la sua mente si distaccò dalla realtà e la sua attenzione venne attratta magneticamente da quel posto dannatamente vuoto.
Dopo il brodo Mary gli servì il pollo con le patate. Poi una fetta di crostata alle mele. Per tutta la durata del pasto non staccò neanche una volta lo sguardo da quella sedia.
Alla fine del pranzo si alzò dal tavolo e seguì Margareth nella camera dell’ospite,  la gola stretta in un nodo.
 
Ti prego, non morire… la nostra infanzia…Dublino… Linda, tua sorella… sono tua madre, Kate… ti prego, non morire!
Anya si svegliò di soprassalto. La fronte e il petto madidi di sudore.
Si guardò attorno e improvvisamente scoppiò a piangere. Qualunque cosa guardasse o pensasse la faceva singhiozzare ancora di più. Attraverso la finestra vide che il tempo era cattivo, che il vetro era imperlato di gocce di pioggia e che le cime degli alberi si muovevano, scosse da un vento forte che ululava attraverso i vetri. L’interno della stanza, era illuminato dalla fioca luce della lampada ad olio. Il torace le faceva male, forse più della mattina e sentiva lo zigomo gonfio. A poco a poco il fiato iniziò a mancarle e il respiro, frenato dal bendaggio che le circondava la cassa toracica, si fece via via più corto. Inizialmente riuscì a tollerarlo, ma ben presto respirare cominciò ad essere più difficile e lei iniziò nuovamente a disperarsi. Trascurando le fitte alla costola si alzò dal letto e prese a camminare su e giù per la stanza, un passo alla volta. Poi si fermò accanto alla finestra e guardando il paesaggio di fuori, poggiata al vetro, riuscì a regolare il respiro.
Linda. Kate.
Il ricordo del sogno catturò la sua attenzione e il suo livello manifesto le si palesò davanti, vivido come prima.
Dublino. Infanzia.
Improvvisamente qualcuno bussò alla porta. Riconobbe il tocco dolce di Margareth e pronunciò un flebile “avanti”. La donna entrò nella stanza e la vide quasi subito.
- Sei già sveglia? Bene. – Anya si appressò zoppicando alla porta, oltre la quale aveva sentito dei passi. Margareth chiuse e la trattenne delicatamente per un braccio.
- Come ti senti?
Anya annuì col fiato corto.
- Stai bene?
- Si, grazie – disse poggiando una mano sul costato.
- Bene, mi fa piacere. Anya – proferì a bassa voce – qui fuori c’è il signor conte. Ti vuole vedere. Lo faccio entrare?
La ragazza guardò allarmata la porta, poi annuì. Margareth le sorrise un’altra volta e socchiuse l’uscio. Mormorò qualcosa, facendosi di lato. Non appena il conte fece il suo ingresso Anya ammutolì: si aspettava di vedere un uomo non proprio anziano, né bruttissimo, ma almeno sulla quarantina, con i capelli quasi grigi e un po’ di pancia; ciò che vide in quel momento, invece, sovvertì tutte le sue aspettative: alto, magro e con i capelli biondo scuro, il conte doveva avere al massimo trent’anni. I suoi occhi verdi si appuntarono inizialmente sul letto vuoto, poi seguirono la direzione indicata dal dito della governante e sorrisero alla nuova arrivata.
- Siete voi, allora.
Anya annuì. Non riusciva a respirare bene con quelle bende intorno al torace. Il conte le disse qualcosa, gli vide muovere le labbra, ma non riuscì a comprendere. Cercò un appoggio e lo trovò sullo schienale della poltrona.
Il conte lanciò uno sguardo perplesso a Margareth. - Anya? Vi sentite bene? – disse raggiungendo la ragazza.
Anya inspirò profondamente. Il sig. Langley si girò verso la governante, che lo raggiunse ed aiutò la ragazza a sedersi sul letto. Mezzo sdraiata sul materasso di piume si sentì immediatamente meglio, con la benda che non stringeva più il torace.
Il sig. Langley sospirò impercettibilmente. – Come vi sentite?
Anya sorrise – Meglio, grazie.
Il conte fece un cenno a Margareth, che abbandonò la stanza.
- Si chiama dispnea.
La ragazza guardò Margareth andare via, poi volse gli occhi all’uomo, senza capire.
- Il malore che vi ha colto qualche istante fa. Si chiama dispnea. Il bendaggio forse è troppo stretto?
Anya si portò una mano al torace. – Vi intendete di medicina?
Il conte si poggiò allo schienale della poltroncina. – Mi ruppi anch’io una costola, ma da bambino. Conosco i patimenti del caso.
Anya sorrise e chinò lo sguardo.
- Permettete? – disse il conte sfiorando lo zigomo di Anya con una mano. Lei annuì, osservando i suoi movimenti. Il taglio era circondato da una macchia giallo- violacea e Langley considerò che si stava formando una crosta.
- Margareth mi ha riferito qualcosa sul vostro incidente. La sua versione, però, non mi sembra completa. Voi sapreste arricchirla? – disse. Corrugò la fronte e puntò i suoi occhi su quelli azzurri della ragazza. Anya ricambiò lo sguardo e mentre il sig. Langley si rimetteva comodo lei raccontò ciò che le era accaduto. Il conte ascoltò accigliato e più volte le chiese particolari più precisi e il nome degli assalitori. Anya cercò di soddisfare ogni richiesta, ma presto dovette arrendersi di fronte l’evidenza di avere un’amnesia che non le permetteva di scavare più a fondo tra i suoi ricordi. Ogni cosa era per lei come una nuvola, che si dissolveva quando cercava di afferrarla.
- Quindi – disse il conte mettendosi in piedi – voi ricordate ciò che è successo giù in paese, ma non serbate memoria della vostra famiglia e delle vostre origini. È così?
Anya annuì.
- Mi domando come sia possibile una cosa del genere… è così…
- Bislacco?
Il conte si avvicinò alla finestra e assentì, senza girarsi. Il tempo era migliorato, aveva smesso di piovere, ma il vento scuoteva ancora le fronde degli alberi e faceva sbattere qualche porta.
- Permettete che indaghi sulla faccenda, signorina Bacott. Se avete una famiglia di cui magari non vi ricordate, sarei felice di poter divenire l’artefice della vostra ricongiunzione.
Anya sospirò. – Ne sarei molto felice anche io, signor Langley, e vi ringrazio, ma avete già fatto abbastanza per me.
- Domattina andrò in città a sbrigare alcuni impegni. Potrei chiedere lì. – la interruppe tornando a sedersi.
- Davvero, signore…
Il conte scosse il capo, imbarazzato. – Sapete, la vita di un nobile è tremendamente noiosa a volte, soprattutto in un paese dal tempo capriccioso come l’Irlanda. Ogni tanto ci vuole un po’ di movimento. Domattina andrò a parlare di persona con il giudice. Vi ricordo che dovrete fare denuncia di ciò che vi è capitato. La sola idea di lasciare libero un criminale come quello mi ripugna.
Anya alzò leggermente il tono della voce. - Signore, vi prego, ancora ora mi chiedo in che modo potrò ripagarvi di tutto quello che avete fatto… così mi mettete in imbarazzo.
Il conte ammutolì e le indirizzò uno sguardo indecifrabile. Poi si sistemò sulla poltroncina. – Permettete almeno che parli con il giudice.
Anya distolse lo sguardo. Quell’atteggiamento la irritava e quella velata impertinenza aveva aumentato il suo affanno. Si portò una mano al petto, sfiorando i laccetti della camicia da notte. Il conte la osservava in silenzio.
- Perdonatemi, ma potrei conoscere almeno il motivo di tanto interesse?
- Siete mia ospite, signorina – disse con un tono ovvio il signor Langley diventando improvvisamente serio – e poi, come mi avete già spiegato c’è in giro un delinquente, un ladro che vi ha derubata.
Anya si riservò un attimo di pausa. Poi sospirò. – Va bene. Ma del resto me ne occuperò io.
Il conte assentì.

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Capitolo 6
*** Capitolo V ***


An irish tale – Capitolo V
 
 
Due anni e due mesi.
Per la precisione due anni, un mese e diciannove giorni. Era il tempo passato fra la tenuta e l’intera proprietà terriera. Fra casa e lavoro.
Un arco di tempo di poco più di due anni che sembrava una settimana.
All’interno della carrozza il conte aveva socchiuso le tendine dei finestrini. Il buio sarebbe stato completo se non ci fosse stata anche la finestrina sulla parete anteriore, quella a lato del cocchiere. La fioca luce che ne entrava, segno che le nubi cariche di neve avevano abbandonato il cielo, lo infastidiva; per rimediare aveva abbassato la visiera del cilindro sugli occhi. L’interno della carrozza da due anni e quasi due mesi lo irritava. I sediolini di tessuto rosso, lo sportellino e le pareti foderate e le tendine alle finestre, i suoi occhi non sapevano più dove poggiarsi e lo sguardo, stanco di volare da un punto all’altro desiderava appuntarsi su qualcosa che non rievocasse nella mente del conte pensieri dolorosi. Aveva tanto desiderato liberarsi di quella carrozza, dei cavalli e dei loro finimenti, di Edgard, che avrebbe volentieri esonerato dal suo servizio, ma per un motivo o per un altro non l’aveva mai fatto. In effetti da quel lungo lasso di tempo avrebbe anche rinunciato al suo titolo e a tutte le sue proprietà, alla tenuta, ai cavalli, alle scuderie e alla biblioteca. Avrebbe permesso che i servi tutti ritornassero dalle proprie famiglie e che gente come i contadini godesse del confort derivante dalle sue giacche di lana e dai camini della sua proprietà. Avrebbe tenuto solo Hunt con sé, il resto l’avrebbe ceduto a chiunque, perché sentiva di non averne più bisogno.
Un dosso, che scosse l’intera carrozza, lo risvegliò da quei pensieri. Il raggio di luce che era quasi riuscito ad ignorare tornò a farsi vedere e l’insofferenza montò come il mal di mare. – Edgard – esclamò picchiando la parete con un pugno – quanta strada manca?
- Ancora quattro o cinque miglia, signore.
Il conte sbuffò. – Accelera!
Edgard scosse le briglie e i cavalli partirono al galoppo. Presto la terra battuta di campagna, con tanto di fastidiosi ciottoli che scuotevano la carrozza in corsa, cedette il posto alla terra battuta di Waterford city, in cui Edgard rallentò il passo dei cavalli ad un trotto appena accennato.
- Signore, siamo giunti in città – lo avvisò imboccando la via principale.
Il conte si sistemò il cappello, volgendosi verso il finestrino di Edgard. – Sai dove andare Edgard. Alla casa del giudice, nel quartiere benestante.
Il ragazzo ubbidì e i cavalli ripartirono al trotto. Il conte si poggiò allo schienale del sediolino, chiudendo gli occhi. Fu come affacciarsi al finestrino della carrozza: da ogni parte si udiva il tramestio prodotto dalle carrozze e dagli zoccoli dei cavalli, i passi convulsi e le voci delle signore venute in città per fare acquisti con le figlie e i mariti che le rimproveravano per la gran quantità di denaro che erano stati costretti a sborsare; le voci dei bambini che si inseguivano e un’esclamazione di Edgard che aveva fermato la carrozza a causa di uno di loro; gli sbuffi dei cavalli e il rintocco della campana della chiesa che segnava la fine di un’ora e indicava l’inizio della successiva; i commenti di una signora al passaggio della carrozza. Per quanto vecchi e allo stesso tempo nuovi, quei suoni e quei rumori si accalcarono tutti insieme nelle orecchie del conte, che scosse il capo e provò a filtrarli uno per uno, fino a concentrarsi sul suo respiro. Ma non resistette a lungo: nei pressi del quartiere benestante udì un grido infantile ed Edgard fermò improvvisamente il mezzo.
- Edgard, perché ti sei fermato? – gridò contro il finestrino. – Edgard!
Il cocchiere non era più al suo posto. Lo sentiva però farfugliare qualcosa a qualcuno. Con una mano scostò la tendina del finestrino e poggiò l’altra sulla maniglia. A prima vista sembrava non essere accaduto nulla e si interrogò sul motivo che aveva portato il ragazzo a fermare il landò. Lo chiamò un’altra volta, poi scese infastidito.
- Edgard, si può sapere cos … - iniziò per bloccarsi alla vista di un bambino, seduto a terra, accanto alle gambe dei cavalli. Ebbe paura quando sul suo viso il conte vi lesse un’espressione che sembrava volere introdurre il pianto, e si preoccupò di questo più di quanto avrebbe dovuto fare con la sua salute. Edgard gli si era rannicchiato davanti e gli parlava incoraggiante, mentre il signor Langley si guardò attorno spaesato. – Edgard, lo conosci?
Il cocchiere si alzò in piedi e aiutò il bambino a fare lo stesso. – No, signore. L’ho investito accidentalmente con la carrozza. – Lo guardò un’altra volta. – Ma sembra che non si sia fatto niente. Vero, piccolo?
Il bambino appuntò gli occhi sul conte.
A occhio e croce, pensò, la sua età doveva aggirarsi intorno ai sette o agli otto anni. Gli si avvicinò. – Come ti chiami?
- Herman.
- Bene, Herman, ce la fai a tornare a casa?
Edgard guardò sbigottito il conte. – Ma, signore…
Il signor Langley gli lanciò un’occhiataccia. Il bambino annuì.
- Ecco, vedi Edgard? Non è ferito, non ha ossa rotte ed è ancora capace di intendere e di volere -. Disse salendo nella carrozza. Il ragazzo lo fissò ancora più confuso. – Signore!
- Andiamo.
Edgard chiese al bambino dove abitava e gli disse di tornare a casa. Quando si fu allontanato, tornò al suo posto e la carrozza ripartì.
 
Giunsero all’abitazione del giudice in poco tempo.
In verità somigliava più ad una villa che ad una semplice abitazione. Il quartiere era antico ed era il più bello di tutta Waterford city. La carrozza si fermò proprio di fronte la porta principale di villa Boulangher e ad accoglierlo fu proprio il giudice in persona.
- Conte Langley, non credo ai miei occhi!
- Giudice Boulangher! L’ultima volta che ci siamo visti avevate ancora le tempie castane…
Il giudice si fece di lato, lasciandolo passare. L’interno della casa, al contrario di chi vi abitava, era rimasto uguale a come se lo ricordava, nonostante adesso gli pareva che le pareti si fossero avvicinate le une alle altre. L’arredamento austero di legno scuro e i tendaggi pesanti. Ebbe, tuttavia, l’impressione che in casa un piede femminile avesse iniziato a lasciare le sue orme: sotto la suola dei suoi stivali un tappeto di ottima fattura e di uno stile diametralmente opposto a quello del giudice, donava all’ambiente un effetto raccolto e caldo.
- Oh, non prestate importanza a queste novità – lo anticipò l’uomo – da quando mia sorella è entrata in questa casa non ho avuto un attimo di pace. Alla fine delle mie giornate di lavoro, trovare delle sorprese è diventata un’abitudine. Chissà dove si sarà cacciata adesso… magari in un negozio di lampadari!
Il conte rise. – Orsù, lasciatela fare. Una casa senza una donna non è da definire tale. E non è un parere soggettivo.
Il giudice lo scrutò e assentì, con un velo di tristezza negli occhi. – Lo so, conte. Ma, dica: dopo mesi di assenza la ragione che vi ha condotto qui non può che essere urgente. Ho ricevuto il vostro biglietto ieri sera.
Il conte seguì il giudice nel salotto, attraversando un corridoio ricco di quadri.
- Sono venuto per conto di un’amica. – disse sedendosi su una poltrona.
Il giudice sollevò un sopracciglio.
- Ve ne prego, non fraintendete. A dire la verità si tratta di una giovane che ha subito una violenza. È stata aggredita da tre uomini e l’ho ospitata nella mia tenuta perché sta male.
Il signor Boulangher riempì un bicchierino con del liquore – Gradireste anche voi?
Il conte scosse il capo.
- Avete detto “violenza”?
- Sì. L’ho fatta visitare da un medico e ha riscontrato diverse ferite ed una frattura alla costola.
- Poverina… auguratele da parte mia una pronta guarigione. – disse sorseggiando il suo whisky.
- Lo farò, ma c’è dell’altro. La ragazza non ricorda nulla.
Il giudice lo guardò senza capire. – Sono ancora più desolato, conte, ma non capisco il nesso tra la ragazza e il nostro incontro. La ragazza ha sporto denuncia?
- Non ancora. Non riesce a muoversi dal letto.
- Signor conte, vi capisco ancora meno.
Langley si passò una mano fra i capelli. – Cercavo qualcuno che potesse aiutarla.
- Volete che la ospiti io? – chiese inarcando le sopracciglia.
- No. Sono venuto perché vorrei esporre denuncia al suo posto e per chiedervi se potete cercare negli archivi la famiglia Bacott.
Il giudice corrugò la fronte, con aria severa. – Esporre denuncia al suo posto? Cercare negli archivi? Vi rendete conto di quello che mi avete appena chiesto?
- La ragazza riesce a respirare a malapena, figurarsi andare in città per fare denuncia! Non voglio che i criminali che l’hanno aggredita godano della libertà un giorno di più. Esigo che vengano arrestati immediatamente. – disse sporgendosi in avanti – In quanto alle sue origini ella ricorda ben poco. Serba memoria solo di quanto le è accaduto in città.
Il giudice bevve un altro sorso di liquore. – Conte, siete sicuro che la ragazza non abbia mentito? E poi a cosa si deve il motivo di tanto accanimento da parte vostra? Perché cercare notizie sulla sua famiglia? – chiese con uno sguardo indagatore.
Il conte ammutolì. – Resta il fatto che è stata vittima di un’aggressione. Signor Boulangher, ci sono tre delinquenti in giro, dovreste interessarvi di quelli.
Il giudice sospirò, poggiando il bicchiere vuoto sul tavolino. – Signor conte, voi mi avete domandato di frugare in archivi ufficiali e di fare denuncia al posto della ragazza. Suvvia, avrete sicuramente studiato legge anche voi, sapete bene che ciò che mi chiedete è improponibile!
Il conte abbassò lo sguardo. Avrebbe dovuto ricordarsi della testardaggine di quell’uomo. – Non sarei venuto se non fossi stato sicuro che avreste accettato di aiutarmi. Ve ne prego, non fate delle mie speranze illusioni.
- Signor Langley, io sono un giudice – tagliò corto l’uomo. – Forse potrei soddisfare la vostra richiesta di fare denuncia, ma in merito alla famiglia della ragazza non posso accontentarvi. È un campo che non mi interessa e di cui non posso occuparmi personalmente, se non per scopi strettamente attinenti alla mia professione.
Il conte iniziava ad innervosirsi. Il signor Boulangher lo osservava, attendendo una risposta. Infine annuì, esasperato. – E sia.
Il giudice nascose un sorriso soddisfatto.
- Mi tolga una curiosità, signor Langley. Sono quasi due anni che non vi fate vivo, e posso comprendere benissimo la ragione di tale comportamento. Ma una domanda, per quanto impertinente, dovete permettermi di farla.
Il conte alzò gli occhi.
- Siete sempre stato come un figlio per me, ho condiviso con voi gioie e dolori. È trascorso molto tempo dall’ultima volta che vi ho visto e in questi ultimi tempi ho temuto di non riavervi più qui. Ma ieri ho ricevuto il vostro biglietto e ho ricominciato a sperare. Credevo che vi foste ripreso dopo quella brutta esperienza, ma adesso ho come l’impressione che la ragazza che state aiutando rinnovi in voi il dolore …
- Signor Boulangher – lo interruppe bruscamente, senza sapere bene cosa dire. Il giudice verso una piccola quantità di whisky nel suo bicchiere. Lui chiuse una mano a pugno e strinse fino a sentire le nocche dolere. Non osservava più l’uomo seduto di fronte a lui. - Avete ragione a temere di peccare di impertinenza.
Il giudice vuotò il bicchiere e lo guardò. – Sapete bene quanto ho sofferto anche io quando mi è stata comunicata la notizia, ma ora...
- Ve ne prego …
- Voglio che vi riprendiate, Paride.
- Signor Boulangher! – scattò il conte.
- Calmatevi, vi prego.
- Il modo in cui mi sento o in cui mi comporto non sono cose che vi riguardano. – disse guardandolo severo.
Il giudice tacque.
- Se mi preoccupo per quella ragazza è perché voglio che almeno lei trovi la pace. Intendo aiutarla a ricongiungersi con la famiglia, sempre che ne abbia una.
- E se vi avesse mentito?
- Non potrebbe.
D’un tratto fuori si sentì il rumore di una carrozza e poco dopo il campanello suonò. Il giudice si riscosse. – Deve essere mia sorella. Con permesso, signor Langley – disse andando ad aprire. Rimasto solo, seduto sul divano nel salotto, il conte sentì la vocina stridula della sorella del giudice e il suo tacchettio convulso sul pavimento dell’ingresso.
- Il conte? George caro, potevi mandare qualcuno a chiamarmi … - squittì la donna entrando trafelata nel salotto. Alla vista del signor Langley le sue mani lisciarono l’acconciatura. – Quale piacere …
- Il piacere è tutto mio Miss … - la salutò. Il giudice la seguì e guardò il signor Langley.
- Purtroppo non posso intrattenermi oltre. Ho già disturbato vostro fratello più del dovuto.
La signora provò a ribattere, ma il conte la salutò con un baciamano e si diresse nell’ingresso insieme al giudice.
- Davvero non volete intrattenervi oltre?
- Vi ringrazio, signor Boulangher, ma impegni più urgenti premono per essere assolti. Forse in futuro potrò accontentarvi.
Il giudice assentì. – Riguardo al discorso di prima – iniziò assicurandosi che non vi fossero orecchi indiscreti nei paraggi – devo ammettere che la vostra carità è ammirevole, ma cercate di mantenervi freddo e distaccato con quella giovane.
Il conte annuì. - Statene pur certo, signor Boulangher.
Il giudice aprì la porta, osservando il sig. Langley uscire con uno sguardo eloquente. Il conte indossò il cappello e attraversò il vialetto a grandi passi. Edgard lo aveva atteso passeggiando ai fianchi della carrozza, cercando di trovare rimedio al freddo nel movimento. Quando il padrone uscì, il suo sospiro di sollievo disegnò nell’aria una bianca nuvoletta di vapore.
Il mezzo era parcheggiato sul lato opposto della strada. Edgard si scusò dicendo  che aveva dovuto spostarsi per via dell’arrivo di Miss Boulangher. Il conte non lo ascoltò e salì sul mezzo.
- Edgard, al catasto.
 
Quando il signor Langley uscì di casa, Joffroy aveva cantato da parecchio e anche la febbrile attività della servitù era iniziata presto. La notte era trascorsa in mezzo ad una specie di bufera che aveva raffreddato la temperatura e fatto cadere la neve. Il ramo di qualche albero si era piegato e così era rimasto fino alla mattina, quando nel cortile della tenuta vennero rinvenuti gli effetti della tempesta notturna: neve, qualche rametto secco e dei fiorellini che avevano fatto inizialmente sperare nell’arrivo di una Primavera tiepida e clemente. Nelle scuderie i cavalli avevano nitrito tutta la notte, innervosendosi o spaventandosi a causa dei rumori provenienti dall’esterno. Un paio di volte Sam era andato a controllare la loro condizione, ma non ne era valsa la pena, visto che si era solamente preso di freddo e bagnato la giacca.
Entrambe le volte era rientrato imprecando contro qualcosa o qualcuno e la mattina Greta gli aveva somministrato invano un infuso di erbe del signor Bowles. Tuttavia, nonostante le incursioni notturne in scuderia non avessero fruttato alcunché, alla luce del giorno il conte notò che una ferita sanguinolenta era comparsa su una zampa di Fedor. Sam cercò di giustificarsi, ma il sig. Langley non gli risparmiò una bella predica. Solo il freddo l’aveva convinto che mandare lo stalliere a lavorare con i contadini sarebbe stata un’azione crudele. Quando uscì il conte lasciò Sam solo con l’accordo che si sarebbe preso cura di Fedor.
- E Sam non hai visto la zampa? Sam prenditi cura di Fedor, Sam spazza il pavimento, Sam ti hanno salvato il freddo e la neve… - sbottò l’uomo entrando in cucina. – Un giorno o l’altro faccio i bagagli e vado via!
Greta, che stava apparecchiando la tavola, roteò gli occhi. – Sai che nei dintorni non è facile trovare di meglio. E poi cerca di capirlo, il signor conte: dopo quello che gli è successo è quasi normale che faccia così.
- Già, ma son passati due anni – ribatté l’uomo abbassando leggermente il tono della voce. D’un tratto sembrò ripensarci. – Comunque sia questo non lo giustifica. Insomma, può capitare tutti i giorni di trovare un cavallo ferito…
Greta mise a tavola il pane e la confettura di arance. - Probabilmente è capitato nella sua giornata sbagliata. Si tratta del tuo dovere, quindi appena finisci di mangiare vai nelle scuderie e medichi Fedor, come ti ha ordinato il signor conte.
Sam grugnì. Adele rientrò con il cesto colmo di primizie dell’orto e Greta lo depositò su un ripiano di pietra.
- Adele, cerca Margareth e dille che la colazione per la ragazza di sopra è pronta.
La giovane assentì e di fretta e furia uscì dalla cucina. Tra i corridoi della casa v’era molta corrente e i tendaggi alle finestre si sollevavano con qualche sbuffo. Tra sé imprecò per la decisione di Margareth di aprirle tutte. Mentre raggiungeva la porta di una camera al piano di sopra incrociò le braccia al petto, battendo i denti. - Margareth, sei lì?
- Adele? Entra pure. – La ragazza obbedì. La governante stava rovistando in un baule e tirava fuori lenzuola di varia fattura. In piedi, accanto a lei, c’era Anna – Che devi dirmi?
- La colazione per la ragazza è pronta.
Margareth si tirò su. – Allora portagliela.
Adele annuì, poco convinta. – Greta vorrebbe sapere quali sono le disposizioni giornaliere.
Margareth estrasse dal baule un paio di lenzuola pregiate e le porse ad Anna. – Sono lenzuola di Fiandra… - disse con uno sguardo eloquente. – Il conte non ha dato ordini precisi. Ha detto che sarebbe andato in città e che non aveva idea del tempo che avrebbe riservato ai suoi impegni. Dì a Greta di inventarsi qualcosa.
Adele assentì nuovamente. Margareth richiuse il baule e aggrovigliò un lenzuolo sporco in una palla bianca e soffice. Con un cenno congedò Anna ed uscì dalla camera della biancheria insieme ad Adele.
- Il signor conte ha detto se sarebbe tornato per pranzo?
- Certo che sì – disse distrattamente la governante mentre chiudeva una finestra nel corridoio. Le tende smisero di sollevarsi e Adele tirò un sospiro di sollievo. Margareth tornò da lei e insieme si incamminarono verso il piano inferiore, alle cucine. – E’ la prima volta che il signor Langley va in città dopo due anni. – rifletté ad alta voce. – Possiamo prenderlo come un buon segno?
Adele fece spallucce. – Non saprei. Credo che il nostro giudizio debba tenere conto anche del motivo che l’ha spinto ad uscire.
- E’ giusto, ma nulla mi impedisce di esserne contenta – disse depositando il lenzuolo stropicciato in una cesta della biancheria, dimenticata nella sala principale. Afferrandola per entrambi i manici si guardò intorno infastidita. Adele la aiutò a trasportarlo nella lavanderia, poi entrarono in cucina. Margareth prese velocemente il vassoio con la colazione di Anya e si fece accompagnare da Adele alla stanza della ragazza. Bussò, ma dall’interno non giunse alcun rumore. Bussò di nuovo e attese. Poi aprì la porta e guardando dentro vide che Anya dormiva. Posò il vassoio sul mobile accanto al letto e aprì la finestra. Ne entrò una corrente fredda e pungente che fece rabbrividire per l’ennesima volta la giovane sguattera. La porta si chiuse con uno scatto e Margareth svegliò Anya.
- Buongiorno signorina.
Anya si guardò intorno stordita e si stropicciò gli occhi. – Salve Margareth – disse appuntando gli occhi su Adele. Immaginò che fosse un’altra serva ed evitò di fare domande. Al suo saluto sorrise di rimando; poi si tirò su a sedere, poggiando il vassoio con la colazione sulle gambe.
- Come ti senti oggi? – disse Margareth osservando la ferita allo zigomo.
Anya spezzettò il pane e lo immerse nel latte, poi alzò il capo. – Meglio, grazie. Ho tanta voglia di alzarmi, sono stufa di stare a letto.
- Non avere fretta. Hai ancora bisogno di riposare… - disse la governante estraendo la boccetta di disinfettante dalla tasca del grembiule e poggiandola sul mobile, accanto ad alcune bende. La ferita allo zigomo era arrossata, ma stava cicatrizzando. Al tatto la sentì tiepida e non era gonfia. L’ematoma che la circondava era virato al giallo e Anya avvertiva meno dolore. – Il signor Langley mi ha mandato a dirti che questo pomeriggio il dottore verrà a visitarti. – Adele spostò lo sguardo su Anya, che annuì al colmo dell’imbarazzo.
- Questo signor conte sta facendo veramente tanto per me. Come potrò sdebitarmi?
Margareth non le rispose, mentre iniziava a prodigarsi per la medicazione delle ferite. L’aria si riempì dell’odore penetrante dell’unguento e presto la colazione di Anya perse il suo reale sapore. Quando la governante finì di curarla, la ragazza sentiva bruciare dappertutto e il dolore al torace, se la notte le aveva dato tregua permettendole di dormire, era tornato con la stessa intensità del giorno precedente. Margareth la lasciò distesa sul letto, intenta a risistemare il bendaggio intorno al torace. Prima di uscire Anya le aveva detto che voleva alzarsi e camminare un po’, perché non ne poteva più di stare ferma a fissare il soffitto. La donna aveva detto no ed era andata via, ma tornò poco dopo con un abito color indaco. – Mary ti raccomanda di non rovinarglielo. È il migliore che ha.
Anya la ringraziò.
- Ti concedo mezz’ora di libertà, poi torni a letto. Non vorrei ricordarti le parole del dottore. – disse aiutandola a vestirsi.
Prima che uscisse le fece indossare anche uno scialle di lana pesante.
Attraversò lentamente il corridoio che la condusse ad una ripida scala di legno. Scese piano, un gradino alla volta, e ad ogni sussulto sembrava che la costola rotta si spezzasse di nuovo e che i frammenti ossei si conficcassero nella carne. Una mano sul torace, l’altra sulla transenna della scala, giunse in una stanza con una finestra, dalla quale entrava poca luce, e con una porta che comunicava con la cucina. Margareth le disse che la cucina comunicava con il cortile posteriore della tenuta e le raccomandò di fare attenzione al ghiaccio sul selciato.
Sulla via per il cortile incrociò la ragazza che aveva accompagnato Margareth nella sua camera. Era bionda e doveva avere non più di diciassette anni. Si chiamava Adele e lavorava con Greta in cucina. La cuoca aveva molti anni più di lei, ma conservava un aspetto fresco e florido. Quando vide Anya fu sorpresa, ma le sorrise e le chiese come stava. Adele si offrì di mostrarle il cortile e la scuderia, ma Greta la richiamò e Anya riprese il suo giro da sola.
Nel cortile non c’era nessuno. Lo schiamazzare delle galline e delle oche nel pollaio era interrotto a tratti dall’abbaiare di Hunt, il meticcio del conte. Dalla scuderia un rumore indistinto, ritmico, catturò la sua attenzione. Sul cielo il sole aveva quasi raggiunto il suo punto più alto; a fargli compagnia poche nuvole bianche che di tanto in tanto lo coprivano, gettando una grande ombra sul territorio circostante. Anya approfittò dei raggi solari e lasciò che la scaldassero, prima che le nuvole le ricordassero di coprirsi e di stringersi nello scialle di Margareth. Il clima irlandese era mutevole; a dimostrazione di questo un banco di nubi grigie, cariche di pioggia, in avvicinamento. Le contemplò a lungo, gli occhi ridotti a due fessure per il vento freddo, fino a che non avvolsero il sole in un mantello compatto. In lontananza, a ovest, il cielo era ancora limpido e le fronde dei sempreverdi sfoggiavano un verde brillante.
Anya riprese il suo giro. Sentiva ancora il suono di prima nella stalla e vi si diresse. La scuderia era un edificio a forma di L, interamente fatto di mattoni e con un’entrata larga abbastanza da permettere il passaggio di due cavalli contemporaneamente. La grossa porta di legno era aperta. Anya entrò. Sulle pareti vi erano dei ganci, ai quali erano appesi i finimenti dei cavalli; in un angolo, su una barra ben piantata nel muro, era poggiata una sella di cuoio di pregevole fattura. Odorava di pelle ed era leggermente unta. Vi passò un dito, prima di imboccare il corridoio in cui si trovavano i box dei cavalli. Alcuni erano vuoti, ma l’ambiente era permeato dell’ odore e del calore degli equini. Sulle porte di ogni box, erano stati incisi i nomi di ognuno di loro. Lesse e rise al nome “Birra”, fu incuriosita da Ulisse e Newton e chiamò Fedor uno stallone sauro e fiero che al suo richiamo rispose con un grugnito. D’un tratto il rumore riprese e capì che si trattava di colpi di zoccolo al pavimento. Proveniva dall’ultimo box del corridoio ed era causato da un cavallo dal mantello baio, con una lista bianca sulla fronte. Il suo nome era stato grattato via quasi del tutto, ma rimanevano ben visibili le tre lettere finali: una z, una i ed una a. Agitava il collo con movimenti laterali e di tanto in tanto batteva gli zoccoli sul pavimento. Quando sentì Anya avvicinarsi si appressò alla porta del box e vi batté contro uno zoccolo, facendola tremare. La ragazza sussultò e dalla balla presente davanti ad un box vuoto estrasse una manciata di fieno, che porse alla cavalla. Sussurrandole qualcosa ottenne l’effetto di farla calmare un po’ e le carezzò la fronte.
- Buongiorno.
Anya si girò di scatto. Accanto all’entrata un ragazzo con i capelli scuri la guardava interrogativamente. Nelle mani aveva un rastrello ed un badile. – Tu sei Anya, giusto?
La ragazza annuì. – Si. Sono venuta qui per i cavalli… mi piacciono molto.
Al ragazzo vennero in mente i sospetti di Margareth e aggrottò impercettibilmente la fronte. – I cavalli? Non dovresti essere a letto?
- Margareth mi ha dato il permesso di prendere un po’ d’aria.
- E quello? – disse osservando l’abito di Anya.
La ragazza sbuffò. – E’ un prestito.
- Capito. Io mi chiamo Anthony e se non ti dispiace adesso dovresti spostarti. Sai, non vorrei che con il letame rovinassi quel vestito. È il preferito di Mary. – disse prendendo la carriola e infilandosi in uno dei box vuoti. Anya lo guardò e uscì.
Sul cielo si era addensato uno spesso stato di nubi che lasciava poco all’immaginazione. Uno stormo disordinato di uccelli si librava in cielo e le schiamazzanti galline del pollaio iniziavano a ritirarsi nei loro cantucci. Anya entrò in cucina, preceduta da un meticcio color miele con il muso nero. Richiudendo la porta ebbe come l’impressione di essere entrata in un mondo a parte: l’aria, profumata di sedano e spezie, era appesantita dal vapore prodotto dalla preparazione di una zuppa di verdure e dall’odore di un dolce in cottura. C’era caldo, nonostante l’ambiente fosse ben areato, ma decise di tenere lo scialle addosso. La cucina era una stanza mediamente grande con un ampio braciere ed un tavolo rettangolare circondato da sedie al centro.
- Credo stia per piovere – disse come per scusarsi. Dentro c’era solo Greta che sembrò non averla ascoltata, considerando la sua frenetica operosità: impastava, puliva le mani sul grembiule e controllava il contenuto di una pignatta sul fuoco; poi di nuovo, impastava, puliva le mani e controllava che tutto andasse nel migliore dei modi. Di tanto in tanto lanciava un’occhiata in direzione della porta e se non vedeva comparire nessuno, l’energia che impiegava per impastare aumentava. Presto Anya capì che ad essere tanto attesa da Greta era la sguattera Adele.
- Posso essere utile? – disse, ma Greta non le badò. Quando rinnovò la sua proposta con un tono di voce più alto la cuoca alzò di scatto la testa e la squadrò da capo a piedi. – Margareth ti starà cercando.
- Non è ancora passata mezz’ora.
Greta rimestò la zuppa di verdure, poi tornò sull’impasto, che suddivise in panetti.
- Mi piacerebbe rendermi utile -. dichiarò dando un’occhiata al brodo e assaporandone l’odore.
La cuoca sbuffò e prese delle patate da un angolo della stanza. – Pela queste – disse rovesciandole sul tavolo. Guardò un’altra volta in direzione della porta e le porse un coltellino. - Margareth ha detto che vieni da Dublino.
La ragazza mise da parte una patata che aveva finito di sbucciare. Alla domanda di Greta si stupì della fama acquisita, non sapendo che, in realtà era tutto frutto di pettegolezzi. – E’ così, ma non la ricordo.
Fuori, sulla terra battuta del cortile iniziarono a cadere i primi goccioloni e una folata di vento freddo le investì, entrando dalla finestra.
- Non hai una casa?
Anya si strinse nelle spalle. – No, non credo.
- Ti hanno colpito alla testa?
- No…
- E allora – disse ravvivando la fiamma del braciere – come hai perso la memoria?
La ragazza sospirò, arricciando il naso per il dolore. Per un attimo smise di pelare patate. – Io non lo so… quando mi hanno aggredita non ricordavo già niente.
Greta sistemò i panetti su una teglia e la mise in forno. – Ho capito… e tua madre? Abita a Dublino?
Per qualche strano motivo la parola madre venne da Anya ricollegata ad un nome: Kate. Prima di parlare fece una pausa. – In tutta onestà non lo so. Mi sto sforzando di ricordare…
Greta la guardò. Le dava le spalle e aveva ricominciato a sbucciare le patate. Ad ogni respiro si alternava un piccolo sussulto e manteneva il busto più eretto possibile, le spalle attaccate alla spalliera della sedia. Ogni movimento era colorato da una nota di finezza e d’un tratto sembrò avere trasformato il rozzo incarico affidatole da Greta in un momento di meditazione.
Stava per porle un’altra domanda, ma si trattenne, interrotta dall’ingresso di Adele e Mary. Senza una parola fece alzare Anya e le tolse il coltello di mano.
- Ti aspettavo, Adele – disse con un tono di voce irritato. Le indicò le patate sul tavolo, mentre raccoglieva quelle già sbucciate.
La sguattera alzò gli occhi al cielo e quando vide Anya le sorrise. Si sedette pertanto al tavolo e iniziò a darsi da fare.
Mary, invece, appena entrata, aveva imboccato la porta per il cortile ed era corsa fuori, con una mano sulla testa. Era tornata poco dopo, con qualcosa tra le mani, chiuse a coppa sul petto. La pioggia aveva disegnato piccoli aloni sul suo abito e le aveva bagnato i capelli. Alla vista di Anya che si era spostata accanto la porta, dopo l’invito di Greta di alzarsi, il suo viso dai lineamenti regolari assunse un’espressione interdetta. Fu sul punto di chiederle qualcosa, ma cambiò idea e lanciò uno sguardo fugace all’abito che indossava la ragazza.
- Anya… come mai in piedi? – disse rovesciando delle piccole mele sul tavolo. Anya le disse di Margareth e dell’accordo che avevano fatto.
Mary assentì con aria di sufficienza. – Ho incontrato Anthony fuori. Ha detto che vi siete incontrati nella scuderia.
- Si.
Mary guardò di nuovo il vestito. Fu rapida come prima, ma Anya lo notò. Cominciava a stufarla l’astio che provavano tutti nei suoi confronti. D'altronde come non dar loro ragione, soprattutto a Mary che le aveva prestato i suoi indumenti? Greta e Adele ostentavano disinvoltura e gentilezza, ma non era difficile notare i loro sguardi.
- Anna ed io abbiamo cambiato le lenzuola del tuo… del letto in cui dormi.
La ragazza ringraziò.
- Fra un paio d’ore Greta servirà il pranzo. Mangerai con noi?
Anya appuntò lo sguardo sui suoi piedi, scuotendo il capo. – Il medico vorrà trovarmi in camera. Forse è meglio se mangio lì. – Si fermò un attimo. Il fiato le si era accorciato. – Adesso però vado… non mi sento molto bene. – disse tornando in camera sua.
 
 
A volte ci chiediamo come sia possibile che il tempo riesca ad influenzare il nostro umore. Probabilmente è dovuto agli ormoni, all’attività del cervello, al modo in cui dormiamo in determinate condizioni meteorologiche, al tipo di ricordi che peschiamo nella nostra mente e alle emozioni che vi associamo. O semplicemente è una questione di gusti.
A pensarci bene è tutto questione di gusti. Non c’è alcun bisogno di lasciarsi andare ad elucubrazioni mentali o complessi procedimenti scientifico – filosofici per spiegare il motivo per cui il nostro umore cambia. Dipende tutto da noi e dalla nostra filosofia di vita.
In quel momento il tempo a Waterford non era dei migliori. Pochi minuti prima il cielo aveva segnalato l’arrivo di pioggia, che era caduta inizialmente, fitta e sottile come quella inglese, e che era stata sostituita da una leggera grandine. Il suono dei grani di ghiaccio che impattavano contro il tettuccio della carrozza risuonarono a lungo all’interno dell’abitacolo, uniformandosi al rumore delle ruote. Le tempie del conte furono invase da una vaga sensazione di pesantezza ed in breve fu costretto a distogliere lo sguardo da qualsiasi cosa gli si palesasse davanti, che fosse la testa di falco in legno verniciato in cima al suo bastone che risplendeva nell’oscurità, o che fosse la brughiera oltre il finestrino della carrozza. Le scure tendine dei finestrini erano ancora chiuse. Il signor Langley non aveva nessuna voglia di scostarle, il paesaggio non lo interessava. Ogni tanto a causa degli scossoni della carrozza una tendina si spostava e, quasi per capriccio, gli lasciava intravedere la zona dove, in quel dato istante, il mezzo di stava muovendo veloce. Per un attimo al conte veniva voglia di approfittare di quei piccoli “inconvenienti” e allora i suoi occhi stanchi si appuntavano su ciò che la natura gli aveva messo a disposizione e suggevano quanti più colori e quante più forme possibili; un momento dopo, però, quando l’istinto irrefrenabile di aprire le tendine e dare un’occhiata fuori stava per sopraffare la sua parte razionale e testarda, la mano che nel frattempo aveva afferrato un lembo della tenda tornava di scatto alla testa di falco sul bastone e lì rimaneva, contorcendosi intorno al becco o al piumaggio alla base di essa.
Edgard aveva indossato un pesante pastrano. Fortuna che l’aveva portato con sé, insieme al cappello con la visiera larga e alla sciarpa che gli aveva fatto sua madre. L’aveva iniziata per sua sorella Chloe quella sciarpa e in effetti era stato utilizzato un punto a rombi. Allora le era avanzato del cotone colorato e sua madre l’aveva unito alla lana, per fare qualcosa di speciale, cosicché Edgard si trovò a dover indossare una sciarpa ricca di sfumature rosse.
La carrozza andava veloce, percepiva il fiato caldo dei cavalli fin dal suo sediolino. Ansimavano, correvano. Erano in viaggio da una decina di minuti e aveva visto cambiare il tempo in pochi secondi. Nuvole bianche, nuvole grigie, pioggia, grandine. I cavalli avevano iniziato a dare segni di cedimento: il freddo mozzava loro il fiato in gola e la grandine che li colpiva al collo e sul tutto il corpo li innervosiva non poco. Ulisse scuoteva continuamente il capo e gli zoccoli colpivano l’acqua delle pozzanghere con foga, facendola schizzare sul muso di Newton. Edgard pensava se sarebbe mai riuscito ad arrivare sano e salvo alla tenuta quel giorno. Erano a metà strada, mancavano circa tre miglia alla casa del conte e immaginò che il vento che corrode le cime delle montagne fosse lo stesso che gli sferzasse le guance.
Dall’interno dell’abitacolo dei colpi risuonarono dietro Edgard, e la voce del conte si levò imperiosa. – Vai più veloce, Edgard!
- Signore – gridò – i cavalli sono esausti!
- Accelera!
Il cocchiere strattonò ancora una volta le briglie. La carrozza subì un’impercettibile ed istantanea accelerazione che la fece sobbalzare visibilmente quando incrociarono una grossa pozzanghera. Edgard venne sospinto verso l’alto, mentre il mezzo oscillava sulle sottili ruote di legno. Ricaduto sul suo scranno Edgard lanciò un’occhiata a quelle anteriori e imprecò contro il conte per la situazione in cui l’aveva fatto cacciare. Quando alzò lo sguardo riconobbe in lontananza la collinetta su cui si ergeva la tenuta del conte: la casa non era visibile, perché nascosta dai sempreverdi e dai cipressi che la circondavano, ma era comunque una consolazione, dopo la mattinata trascorsa su quella carrozza. Lassù, nel cielo, la temperatura doveva avere subito un altro sbalzo e a cadere non era più grandine, bensì pioggia. Una pioggia fitta che veniva schiaffata contro il viso di Edgard, la pelle dei cavalli e contro le pareti della carrozza. C’era anche vento, ma la sua forza bastava appena a donare un angolo stretto alle goccioline in caduta.
Come Edgard il conte non poteva negare di essere preoccupato per la stabilità della carrozza. Dopo un lungo periodo di inattività come quello, pensò che quella mattina avrebbero dovuto prestare maggiore attenzione alle condizioni delle ruote e ai vari attacchi. Sembrava di viaggiare su una barchetta trainata da pesci nel bel mezzo di una tempesta. I dossi e le pozzanghere la stavano mettendo a dura prova.
Il signor Langley era sicuro che un miglio in più di strada e il suo stomaco avrebbe cacciato fuori ciò che fino ad allora aveva lavorato. Quando Edgard lo informò dell’imminente arrivo alla tenuta, gioì e si concentrò su quello che avrebbe fatto non appena arrivato: si sarebbe cambiato gli indumenti e avrebbe gustato con la più grande calma del mondo il pranzo di Greta. In ultimo, e un velo di malinconia comparve nei suoi occhi, avrebbe parlato con la ragazza dai capelli rossi per comunicarle quanto fatto durante la mattinata.
 
Quando finalmente raggiunsero il cortile della casa, come avesse corso lui al posto dei cavalli, Edgard aveva il fiatone. Fermata la carrozza il capo aveva cominciato a girargli ed era stato fortunato a non cadere mentre scendeva dal mezzo. Una volta a terra si era avvicinato allo sportellino della carrozza, perché qualcuno, una volta, gli aveva spiegato che doveva essere lui ad aprire, ma il signor Langley fu più veloce e anche più impaziente di lui e si fiondò verso l’ingresso schivando le pozzanghere con balzi quasi felini. Hunt gli corse dietro abbaiando felice, mentre il conte gridava al cocchiere di condurre i cavalli nella scuderia e di dar loro da mangiare. Zuppo e con il cappello che deviava il corso della pioggia sulle sue spalle, Edgard si diresse a capo chino verso la scuderia, con i cavalli e la carrozza al seguito.
Nonostante fosse relativamente distante dalla cucina, il salone era pervaso da un invitante odore di cibo. Dietro il conte, sull’uscio, Hunt si guardava attorno, muovendo esitante qualche passo avanti. Il conte lanciò un’occhiata al salone, poi l’eco distante di passi lo costrinse a tendere l’orecchio. Probabilmente era Ines che veniva a lamentarsi del modo in cui lui ed il cane avevano risotto il pavimento entrando con i piedi sporchi di fango, ma non ebbe modo di appurarlo, dato che ad un certo punto i passi si fermarono e ripresero in un’altra direzione. Prima di muoversi si tolse gli stivali ed indossò le calzature per la casa alle quali il suo ex maggiordomo aveva affidato il posto accanto all’appendiabiti. Certo, con questo non aveva ottenuto il massimo dei confort, perché c’era la questione dei pantaloni bagnati che gli facevano sentire freddo alle gambe, ma almeno nessuno avrebbe protestato per eventuali impronte sul pavimento.
Prima di andare in camera seguì senza troppe pretese l’odore proveniente dalla cucina. Si udivano alcune voci provenire dalla stanza. Sentì la risata di Anthony e i gridolini di Mary, insieme a qualche commento di Greta. Pensò si trattasse si pettegolezzi freschi freschi dalla città, ma quando entrò vide Anthony acquattato come uno scoiattolo che imitava il verso di una gallina.
- Non vorrei interrompere il tuo spettacolo, Anthony – disse dopo essersi schiarito la voce – ma credendo che avessi molto di meglio da fare, ho mandato Edgard al posto tuo alle scuderie per dare da mangiare ai cavalli e mettere in ordine i loro finimenti.
Nel sentire la voce del conte e nel notare il suo sguardo perplesso, il ragazzo si bloccò di scatto e si raddrizzò, divenendo improvvisamente rosso. A Mary sfuggì una risatina.
- E tu Mary? Il tavolo in sala da pranzo è apparecchiato?
La giovane sgattaiolò via, mentre il conte riportava lo sguardo su Anthony.
- Prima di andare via ho rimproverato Sam per quella che ho voluto intendere più come una semplice “svista” che negligenza. L’hai aiutato a rimediare?
- Se vi riferite al vostro cavallo, signor conte, posso assicurarvi che la sua zampa è molto migliorata rispetto a questa mattina ed entro pochi giorni potrete tornare a cavalcarlo, tempo permettendo.
Il conte assentì. – Voglio fidarmi. Adesso vai da Edgard e digli di entrare, non vorrei che si ammalasse.
Lo stalliere annuì e indossando la giacca uscì, inciampando sul sacco di patate accanto al braciere.
- Avete incontrato cattivo tempo, signor conte? – disse Greta pulendosi le mani sul grembiule. Il conte trascinò lentamente lo sguardo su di lei ed annuì, sollevando un sopracciglio. – Dove sono tutti gli altri? – chiese lanciando un’occhiata al brodo che stava rimestando la cuoca.
- Arriveranno fra poco.
– E la nostra ospite? Sta meglio?
- Decisamente. Oggi si è alzata.
- Alzata?
- Sì. Ha chiesto a Margareth di poter prendere un po’ d’aria e lei l’ha fatta uscire.
Il conte assunse un’espressione indagatoria e non disse nulla. Sembrò riflettere su qualcosa e per un breve momento nei suoi occhi Greta vide farsi avanti la macchia di malinconia che glieli aveva spenti da poco più di due anni. Dopo un breve attimo, però, si ridestò e uscì dalla cucina.
Ignaro della fredda umidità che gli colpiva le gambe e le mani ad ogni passo attraversò l’ala della tenuta appartenente ai servi. Un tempo gli era stata familiare, ma, nonostante fosse passato pochissimo tempo dall’ultima volta che vi era stato, sembrava trascorsa un’eternità. Ritenne che l’elaborazione di un tale pensiero fosse una cosa sciocca, ma pensando alle sue vecchie abitudini sorvolò sulla cosa e tornò a riflettere su ciò che avrebbe dovuto dire alla ragazza con i capelli rossi. Percorse velocemente il piccolo corridoio in legno che lo condusse ad una stanzetta con la scala per il piano di sopra. Sul primo gradino ebbe un attimo di esitazione, perché si accorse di avere ancora il cappotto addosso, ma alla fine salì ugualmente e nel corridoio in cui lo condusse la scala si fermò di fronte alla terza porta. Bussò.
Dall’interno rispose una voce femminile.
- Sono… sono il signor Langley, signorina.
Anya ebbe un sussulto.
- Posso entrare?
La ragazza zoppicò in direzione del letto e vi si distese, buttando lo scialle sulla sedia accanto e coprendosi fino all’altezza della vita. Mugolò di dolore quando portò le gambe a sé, ma cercò di non badarvi mentre si sistemava la pettinatura. – Un momento!
Il signor Langley si avvicinò alla porta. – Forse vi disturbo?
- S… no! Entrate pure!
La porta si aprì con un cigolio. La maniglia non aveva fatto quasi alcun rumore e la figura del conte avanzò con leggero imbarazzo fino al centro della stanza.
- Vi eravate assopita? – disse sedendosi sulla poltroncina alla destra del letto.
Anya scosse la testa. – Stavo ammirando il panorama dalla finestra. E’ un posto molto bello la vostra tenuta.
Il conte rivolse uno sguardo rapido alla finestra, senza rispondere. – State meglio?
- Molto. Vi ringrazio infinitamente…
- Dovere. Greta mi ha detto che avete fatto una passeggiata…
- E’ vero – ridacchiò la ragazza – ma Margareth mi ha concesso solo mezz’ora.
Il signor Langley piegò le labbra in un timido sorriso. – Già, ho una governante alquanto severa.
- Stava per venirmi a cercare, non vedendomi tornare in camera…
- Probabilmente era preoccupata. Il dottor Bowles non le ha raccomandato altro che badare a voi.
Anya inarcò un sopracciglio. – Non lo metto in dubbio, signore.
Il conte abbassò lo sguardo e nella stanza calò il silenzio. La ragazza frugò nella sua mente alla ricerca di un argomento da intavolare, ma seppur dopo un tempo che le parve lunghissimo, il conte fu più veloce di lei e parlò prima che Anya potesse aprire bocca. – Sono contento che vi siate ripresa, Anya – disse d’un tratto – ma non vorrei dispiacervi con l’informarvi che non sono venuto fin qui per sapere come state.
Seppur delusa da quella dichiarazione Anya si pose all’ascolto e lo invitò a continuare con un cenno del capo.
- Questa mattina ho fatto visita ad un giudice, mio amico, a Waterford city. Con lui ho discusso del vostro caso e gli ho chiesto se potevo esporre denuncia per vostro conto. C’è voluto un po’ per convincerlo, ma alla fine sono riuscito a farlo e mi sono recato in gendarmeria. Ho detto che siete mia cugina e che vi hanno assalito dopo una lunga festa in maschera.
- Una vostra cugina?
- State tranquilla, non c’è pericolo che mi scoprano – disse. – Ho fornito tutte le informazioni che mi avete dato lo scorso pomeriggio e ho scoperto che si tratta di un ladro assai famoso in città: non è di Waterford e le sue vittime sono quasi sempre donne, donne sole. Negli ultimi tempi deve avere raccolto un bel gruzzoletto, visto l’incremento di denunce.
- E gli altri due uomini?
- Se come avete detto voi obbedivano ad ogni ordine di Sperty, posso dedurne che siano suoi compagni fidati. Sospetto che vadano sempre insieme quei tre…
- … quindi se prendono il capo…
- … gli scagnozzi senza ordini non avranno nulla da fare. Saranno confusi e per le guardie sarà facile acciuffarli.
Anya rise. – Un buon ragionamento.
Il conte si lasciò sfuggire un’espressione orgogliosa. – State pur certa che li prenderanno.
Lei lo sperava. Quei tre le venivano in mente ogni qual volta chiudeva gli occhi. Dormire era diventata un’attività faticosa.
- Tuttavia – iniziò il signor Langley sporgendosi leggermente dalla poltroncina – ho delle altre notizie per voi.
Anya lo guardò. Improvvisamente era tornato serio.
- Il giudice ha chiesto delle informazioni su di voi. Dato che è un amico non ho potuto mentire anche a lui, quindi gli ho raccontato la verità e gli ho promesso di tornare non appena avrei avuto una sufficiente quantità di dati.
- Cosa gli avete raccontato?
- Niente.
Anya lo guardò senza capire.
- Non gli ho detto nulla, perché nulla sapevo. Per questo mi sono permesso di documentarmi.
Il conte la guardò negli occhi, probabilmente alla ricerca di un cenno d’assenso. Dentro di sé Anya sentì montare una strana rabbia e distolse lo sguardo da lui, per paura di scoppiare. Per quanto premuroso fosse stato nei suoi confronti, quell’uomo aveva rotto il patto stipulato il pomeriggio precedente, aveva tradito la fiducia che lei gli aveva riposto.
- Avevate detto che non avreste…
- Lo so, lo so – la bloccò con un gesto della mano. – Ma non potevo fare altrimenti. Se il giudice mi avesse dato più tempo avrei chiesto il vostro permesso prima di indagare.
Ignorò lo sguardo furente della ragazza, che aveva cercato invano di incrociare le braccia al petto e continuò, a voce più bassa. – Anya, questa mattina ho scoperto le vostre origini  - Sospirò. – Avevate ragione a dire di non essere di Waterford. La vostra città natale è Dublino… ma vi avete abitato per pochi anni, prima di venire nella contea di Waterford con la vostra famiglia. Al catasto risultava una famiglia Bacott, proprietaria di una fattoria al confine con la contea di Kilkenny. Il nome di vostro padre era Josh e quello di vostra madre Kate, non è così?
Anya annuì con gli occhi sbarrati. Josh, Kate… tutto nella sua mente sembrava tornare a posto come i tasselli di un puzzle. I nomi li ricordava, era come se avessero sempre fatto parte di lei, ma stranamente i volti dei suoi genitori non riusciva a configurarli. Sentiva i brividi addosso, ma non riusciva a capire se fossero causati dal freddo o dall’emozione. In ogni caso il conte le allungò lo scialle che aveva buttato sul bracciolo della poltroncina poco prima di sedersi sul letto e lei lo indossò facendo segno all’uomo di proseguire.
- Negli anni successivi al trasferimento sono stati registrati gli acquisti di molti beni immobili, che probabilmente i vostri genitori non sono riusciti a pagare interamente. In seguito, forse a causa dei debiti, tutte le proprietà vennero loro pignorate e cedute alla banca.
Anya annuì, mentre gli occhi le diventavano lucidi. – Dove sono loro adesso?
Il conte si alzò, senza sapere cosa fare. Poi si risedette.
- Sono andati via?
L’uomo scosse il capo. – Mi dispiace, ma… ho saputo che sono morti e le cause risultano essere ignote.
- Non è possibile…
- Non posso sbagliarmi, signorina. L’impiegato dell’ufficio era un amico di vostro padre e mi ha detto che siete stata trasferita in un istituto fuori città. Aveva chiesto di adottarvi, ma non gli fu accordato il permesso, perché si sperava che qualcuno prima o poi sarebbe venuto a prendervi. Non serbate ricordo?
Anya iniziò a singhiozzare. Il conte la guardò dispiaciuto e abbassò il capo.
- Perché non mi ricordo di tutto questo?
Il signor Langley abbassò lo sguardo senza sapere più cosa dire.
La discussione venne interrotta dall’improvviso arrivo di Margareth, che stava cercando il conte. – Signor Langley, vi stavo cercando… - disse prima di notare il viso arrossato di lacrime di Anya. - … è successo qualcosa?
Il conte si alzò. – Hai detto che mi stavi cercando, Margareth?
- Sì, il pranzo è pronto, signore.
- Anya, questo pomeriggio verrò nuovamente a trovarvi. Se nel frattempo sentirete la necessità di parlarmi, mandate pure Margareth da me – disse. Anya annuì, asciugandosi le gote con le maniche della camicia da notte. – Mi dispiace molto per tutto quello che è accaduto.
Mentre usciva la governante lo guardò senza capire. Lui non ricambiò l’occhiata e si recò in sala da pranzo senza dire niente. Anya scoppiò nuovamente a piangere.

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Capitolo 7
*** Capitolo VI ***


Rieccomi con il sesto capitolo!
Lo posto insieme al settimo, così da farmi perdonare per il tempo che starò via...
Ringrazio ancora chi mi segue, in particolare Lizzie_Jane, e spero tanto che ciò che ho scritto soddisfi in pieno le vostre aspettative! J
Baciotti
Ale



An irish tale - Capitolo VI
 
 
 
 
- Battiti regolari.
Linda sollevò lo sguardo verso il Dottor Homais, che, con un’assistente, era venuto per visitare Anya. Il rumore della macchina che teneva in vita sua sorella scandiva il tempo.
- Nessuna traccia di febbre.
Erano già tre giorni che Anya “dormiva”. Non aveva voluto utilizzare nessun altro termine da quando l’aveva vista inerme, sdraiata su quel letto d’ospedale.
Anya dorme, non è in coma, si ripeteva.
Quella era la quinta visita del medico. Aveva sperato che ci fossero delle novità sul conto di sua sorella, ma il destino sembrava essersi incapricciato nei suoi confronti. I valori non cambiavano mai. I battiti rimanevano invariati. I suoi occhi non si erano più aperti.
Rimaneva per ore e ore a fissarla insieme a sua madre e sua nonna. Ore che trascorreva seduta su una sediolina di legno che il medico aveva fatto portare in più per loro. Quando si alzava le dolevano le gambe, la schiena, la testa, gli occhi, ma tutto questo non bastava mai a toglierle la volontà di andare avanti. Nonostante avesse lo stomaco chiuso, mangiava per quelle cinque volte al giorno che lei e Anya si erano prefissate da quando avevano iniziato a giocare a tennis insieme; mangiava per far sì che si svegliasse, poiché credeva che attraverso il contatto con la sua mano, potesse, in qualche modo, trasferirle le energie di cui aveva bisogno per “tirare il carretto”, diceva lei, e svegliarsi. Aprire quei deliziosi occhi azzurri di cui la Natura l’aveva dotata era il sogno di lei e del resto della sua famiglia, che seguiva con il cuore in gola la situazione.
Una volta il dottore aveva detto loro che durante il coma, un paziente è incapace di muoversi, di mangiare da sé, di parlare; ma può sentire, per questo aveva detto a Linda di provare a ricordare se Anya avesse una canzone preferita, speciale, o un libro che amava tanto leggere, o, addirittura, un film. Avrebbe permesso loro di portare un portatile o una radio, perché, in fondo, anche lui sperava che quella giovane ragazza dai capelli rossi si risvegliasse.Il giorno di Natale era rimasto in ospedale a visitare il suoi pazienti, a correre da una parte all’altra dell’ospedale senza mai fermarsi. Aveva controllato Anya e ne aveva confermato la staticità dei valori.
Da allora erano passati due giorni. Due interminabili giorni.
Aveva piovuto molto nel frattempo e le strade di Dublino erano diventate impraticabili a causa del ghiaccio. C’era anche freddo e l’umidità penetrava attraverso i cappotti, le sciarpe, i cappelli, i guanti, le scarpe, attanagliando in una morsa gelida gli sprovveduti che uscivano all’aperto.
In quei casi Anya avrebbe detto che non ne poteva più, che era stanca di quel freddo, di quel ghiaccio, di quell’umidità che impregnava il suo cuscino e le faceva venire sempre il mal di testa. Avrebbe detto che sarebbe andata a passare il resto della stagione a Firenze, a casa di nonna Lizzy, e che avrebbe fatto ritorno solo quando il sole sarebbe tornato a splendere sull’Irlanda.
Perché le piaceva tanto il sole.
Mentre teneva la sua mano Linda si chiese come avrebbe fatto se il sole fosse comparso l’indomani mattina. Si chiese se al suo risveglio Anya si sarebbe arrabbiata per non aver potuto godere di uno dei pochi giorni con il cielo sereno irlandesi.
Si chiese un’infinità di cose, ma a nessuna trovò risposta. Credeva che se si fosse distratta Anya avrebbe aperto gli occhi e lei non l’avrebbe vista. Per questo trascorreva con lei ogni momento della giornata e, quando capitava che sua madre si allontanava, scoppiava a piangere e implorava Anya di aprire gli occhi e rivolgerle uno di quegli sguardi ironici, tipici nel suo genere, oppure di parlare di sport, degli orari della lezione di tennis o del film da vedere al cinema nel weekend.
Suo padre era venuto a farle visita, un paio di volte, ed era stato con loro per molto, in silenzio, perché, se avesse parlato, era sicuro che si sarebbe messo a piangere.
Oltre lui erano venuti anche alcuni ex compagni di liceo di Anya, Philip e il signor Lucas, i signori Turner, Ophelia e Paul.
Linda aveva assistito a tutte quelle visite, mentre Anya continuava inesorabile a tenere gli occhi chiusi, a non muoversi, a lasciare che gli altri le prendessero le mani tra le loro e le stringessero a proprio piacimento. Aveva visto sua sorella non parlare di fronte alle infermiere che periodicamente andavano a prelevarle dei campioni di sangue, cosa per la quale Anya provava una sincera paura, o di fronte al dottore che le scopriva le braccia, le gambe e la schiena, che le controllava gli occhi, le mani, i piedi, la temperatura e i battiti cardiaci, durante i suoi controlli.
Non si lamentava neppure quando un tuono squarciava il cielo di Dublino e non sorrideva quando compariva l’arcobaleno. Ma la cosa peggiore, alla quale Linda pensava sempre con tristezza, era che quando la stuzzicava, lei non rispondeva o sorrideva.
Era stanca, stufa e si chiedeva quanto ancora avrebbe dovuto aspettare prima di rivedere veramente sua sorella.

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Capitolo 8
*** Capitolo VII ***


An irish tale - Capitolo VII
 
 
 
 
Dopo l’acquazzone mattutino il cielo d’Irlanda si rischiarò ed il sole riuscì a fare capolino dalla spessa coltre di nubi. Persisteva, tuttavia, una bassa temperatura e un vento che di tanto in tanto sollevava la polvere del cortile o avvinghiava minacciosamente le gole di chi vi era immerso. Dalle finestre e dalle serrature, si udiva l’ululato del vento; in cucina esso rendeva impossibile a Greta la preparazione di un dolce, poiché la farina e lo zucchero venivano sollevati e buttati a terra. In scuderia Anthony non riusciva a creare un mucchio di paglia compatto, né a spostarla nella carriola. La polvere e le incrostazioni di fango che il signor Langley stava strigliando da Fedor gli finivano sul viso e sui capelli.
“Fedor stà calmo!”
“Signor conte, vuole una mano?” disse Sam riempiendo la mangiatoia delle galline. Il signor Langley scosse il capo irritato e passò una mano sul dorso lucente del cavallo. “Per oggi ho finito, Sam” sbottò riportando la bestia nella scuderia.
Quando ne uscì una ventata gli buttò della polvere negli occhi, cosicché lui dovette girarsi per evitare altri inconvenienti.
Mentre in lontananza il calesse del signor Bowles avanzava velocemente in direzione della tenuta, dei nuvoloni carichi di pioggia proiettarono una grande ombra su Waterford e il vento aumentò d’intensità. La porta della scuderia si chiuse con un fragore spaventoso e gli alberi che affiancavano il cortile vennero scossi dalla corrente.
Sam corse verso le cucine. – Signor conte! Venite anche voi, al riparo! – gridò. Hunt scappò verso di lui.
- Chiudi la porta, Sam! Verrò dopo! – urlò in risposta il signor Langley, appuntando gli occhi sul calesse del medico, che fece capolino dal cancello dopo pochi minuti. Il vento gli scompigliava i capelli, glieli conficcava negli occhi; sollevava il bavero della sua redingote e gli colpiva il petto, penetrando attraverso le maniche della camicia. Quando le prime goccioline di pioggia gli colpirono la fronte, imprecò.
- Signor Langley! – esclamò il medico quando lo vide nel cortile. – Volete ammalarvi anche voi?
Il conte lo aiutò a mettere al riparo il calesse, poi corsero all’interno della tenuta, entrando dalla porta principale.
- Rischiate di ammalarvi bagnandovi in quel modo sotto la pioggia! – disse il medico porgendo il cappotto a Ines, che era andata ad accoglierli. Il signor Langley si tolse anche lui la redingote e, con sorpresa, il dottore notò che il suo busto era coperto da una sola camicia. Un brivido di freddo gli percorse la schiena.
- Volete stare a guardare o intendete visitare la ragazza? – disse il conte facendo strada.
- Sono sicuro che tra qualche giorno Margareth mi farà chiamare per visitare anche voi, signor conte!
Langley gli rivolse un sorriso di scherno.
- Siete sempre stato il mio paziente peggiore.
- E voi il medico più impertinente di tutta la contea di Waterford, signor Bowles – disse il conte affiancandosi a Margareth. – Ti ho cercato per un sacco di tempo! Dov’eri finita?
La donna gli mostrò il vassoio che teneva tra le mani. Vi erano una tazza vuota, un cucchiaio e alcune briciole sparse qua e là. – Ho portato la colazione alla signorina Anya, signor Langley – Pausa. – Da quanto tempo, invece, voi andate in giro vestito solo di una camicia? – disse indicando l’indumento macchiato di goccioline di pioggia.
- Da poco, Margareth. Da pochissimo! – sbuffò. - Fammi portare qualcosa, piuttosto!
Margareth disse loro di aspettare e affidò il vassoio a Mary. Ordinò che venissero preparati degli indumenti puliti, poi tornò dal signor Langley e, con il medico, andarono in camera di Anya.
 
Quella mattina Anya si era svegliata di buon’ora.
Con sua sorpresa la sera precedente era riuscita ad ignorare il dolore al torace e a mettersi a dormire tranquillamente. Nel corso della mattinata si era svegliata solamente un paio di volte, quando Joffroy aveva cantato; poi era riuscita a riaddormentarsi.
Quando Margareth le aveva portato la colazione si era svegliata da poco e, anche se avesse voluto sgranchire le ossa non l’aveva fatto. La schiena per questo le doleva e sentiva le gambe molli. Non si era neppure alzata, tantomeno si era affacciata per ammirare il paesaggio dalla finestra. D’altronde il vento arrivato quella mattina le aveva messo un po’ di paura ed era rimasta quasi al buio con la lampada a olio che aveva smesso di funzionare.
La visita di Margareth, che seppure quel giorno non fosse di buon umore, le aveva portato un po’ di allegria. Aveva i capelli leggermente scombinati e parlava e si muoveva in fretta. Non le aveva medicato le ferite e neppure controllato la temperatura, che Anya sentiva non fosse cambiata. Perfino la colazione, a cui la governante dedicava un certo tempo, era stata sbrigativa e Anya non aveva avuto modo di finire completamente il latte che le era stato portato.
Non appena era andata via un lieve senso di colpa le aveva attanagliato lo stomaco e la paura di essere un peso per il conte iniziò a farsi strada nella sua mente. Seduta sul letto coperta fino alla vita, aveva lanciato uno sguardo all’abito di Mary, poggiato sullo schienale della poltroncina e poi alla camicia da notte, anch’essa di Mary, e al cuscino di piume e alle pareti e alla finestra. Anche quel giorno il vento scuoteva le cime degli alberi e ululava tra le fessure, penetrando perfino da sotto la porta, dove spostava la polvere dal pavimento e faceva sollevare un lembo della bianca tenda che copriva la sua finestra.
Si domandava se anche lui voleva che andasse via.
Lo sguardo perso nel vuoto, le mani fredde abbandonate sul ventre, un ciuffo di capelli sulla fronte, improvvisamente il flusso di pensieri di Anya venne interrotto da un suono di passi in avvicinamento e da alcune voci, maschili e femminili, lungo la scala. Tra queste riconobbe il tono imperioso e fermo del medico e la voce squillante di Margareth.
Tutto a posto pensò Anya fra sé. Si aspettava la visita del medico.
- Signor Bowles! Non mi ammalerò, potete starne certo!
Ma non quella del conte.
Quando sentì la sua voce, non capì il motivo, ma si sentì perduta. Si guardò rapidamente intorno e desiderò trovare un posto dove nascondersi. Tuttavia, anche se avesse potuto, non avrebbe avuto il tempo sufficiente per farlo, in quanto Margareth, dopo aver bussato per la seconda volta in quella giornata, fece capolino dalla porta e annunciò l’arrivo del dottor Bowles.
- Sì, fallo entrare, Margareth – disse, facendosi leva sui gomiti e sistemando un cuscino dietro la schiena.
Il medico entrò in camera con la valigetta degli strumenti in mano. – Buongiorno signorina – disse.
Margareth disse qualcosa al signor Langley fuori dalla porta ed infine entrò anche lei. Anya ricambiò il saluto del medico.
- Avete avuto malesseri in questi giorni? Nausea, vomito, capogiri? – disse il signor Bowles controllando la ferita allo zigomo. Anya rispose di no.
- Bene. Ce la fate a sdraiarvi?
- Sì – disse la ragazza tentando di mettersi in posizione orizzontale. Al primo sforzo avvertì una fitta al costato e non fu più in grado di continuare a muoversi.
- Sentite dolore? – chiese il signor Bowles indicando il torace con un cenno. Anya annuì mugolando, e Margareth intervenne per aiutarla. Quando riuscì a sdraiarsi come si deve il medico le sollevò la camicia da notte e tolse le bende che avvolgevano la parte inferiore della gabbia toracica. Il taglio non era ancora del tutto asciutto e in alcuni punti risultava essere aperto e circondato da qualche alone giallastro. Al tatto il medico sentì che la costola era spezzata e il gonfiore era evidente. Anya si lamentò per il dolore e non riuscì a trattenere qualche lacrima, che colò fino al cuscino.
- Avete disinfettato con cura i tagli Margareth? – domandò seguendo il profilo di alcune costole con le dita.
La donna annuì.
- Anya, l’unguento che vi ho fornito vi ha procurato fastidi?
La ragazza mugolò nuovamente per il dolore. Sentirlo tutto in una volta e così intensamente le fece venire da vomitare. – No.
- Bene, bene… suppongo non abbiate disinfettato le ferite, questa mattina.
Margareth rispose di no e il medico estrasse gli strumenti necessari per farlo. Anya fu più volte sul punto di vomitare, ma riuscì a trattenersi e a resistere al dolore e al bruciore provocato dalla disinfezione. Il signor Bowles le controllò anche la schiena e lo zigomo e le braccia, non scovando, tuttavia, nessun problema particolare. Alla fine, come aveva fatto pure durante la prima visita, le prese il polso tra l’indice e il pollice della mano e, con gli occhi puntati sul quadrante del suo orologio da taschino, contò le pulsazioni cardiache della ragazza.
- Battiti regolari.
Poi le controllò anche la temperatura corporea.
- Nessuna traccia di febbre.
Battiti regolari. Nessuna traccia di febbre.
Improvvisamente il cuore di Anya ebbe un sussulto. Dove aveva già sentito quella frase? Come fosse stata immersa in una bolla di sapone, perse il contatto con il mondo circostante e le orecchie iniziarono a ronzare. Le parole del signor Bowles le vorticarono nella testa e inconsciamente lei le ricollegò a ciò che le era venuto in mente qualche giorno prima: Dublino, infanzia, Kate, Linda.
Fu, però, una sensazione momentanea, che non durò neanche un attimo un più, perché la bolla scoppiò e lei si ritrovò nuovamente immersa nell’anonima stanza in cui gente altrettanto sconosciuta l’aveva portata.
- Anya, parlo con voi!
La ragazza si riscosse e, girandosi, notò che il medico la fissava serio.
- Sì?
- Dicevo che adesso vado via, perché non vedo motivi di cui preoccuparmi. Raccomando il riposo – aggiunse volgendo lo sguardo verso Margareth – e le medicazioni due volte al giorno fino a completa essiccazione dei tagli.
La governante assentì e il medico, una volta riposti i suoi strumenti medici nella borsa, si congedò ed uscì in corridoio, dove venne accolto dal signor Langley.
- Salve, signor Langley – lo salutò. Indossava ancora la camicia di prima e aveva i capelli umidi di pioggia. Gli rivolse un lungo sguardo che Langley sostenne con spavalderia; infine, come si era immaginato, il conte starnutì.
- Volevo chiedervi se avete intenzione di rimanere così vestito per il resto della giornata, signor conte.
Il signor Langley sbuffò. – Avete visitato la ragazza, signor Bowles? – disse con risentimento.
Il medico annuì, con un sopracciglio sollevato. – Sta bene, a parte la frattura alla costola e le ferite… resiste. Inizialmente ho temuto che insorgesse un’infezione…
- Va bene, va bene – lo interruppe il conte.
Tra i due calò un breve momento di silenzio. Quando Margareth uscì, il conte e il medico le andarono dietro fino all’uscita. Fuori pioveva ancora, ma non c’era più vento. Al suo posto una brezza gelida donava una piccola inclinazione alle goccioline di pioggia, che cadevano inesorabili sulla terra battuta del cortile, sugli scalini dell’entrata principale e, con grande preoccupazione del signor Langley, sui terreni della sua piccola azienda agricola.
Già, l’azienda agricola. Quali altre perdite avrebbero subito le sue casse? Quali altri danni avrebbe provocato, quel maledetto ghiaccio, ai contadini che lavoravano per lui?
- Dannato freddo!
- Già, signor conte. Ci fosse anche meno umidità… - annuì il signor Bowles.
Langley si ridestò e sollevò un sopracciglio. – S-sì, ha… ha ragione, signor Bowles – disse ricordandosi del calesse. – Margareth va’ a chiamare Sam… e digli di farsi trovare, ogni tanto!
Margareth si allontanò. Il conte ed il medico rimasero ancora una volta soli, sotto la tettoia dell’entrata principale.
- Sono state molte le occasioni che ci hanno permesso di parlare, signor Langley – cominciò all’improvviso il dottore – ma, nonostante la mia professione, non vi ho mai chiesto come state veramente. Posso farlo adesso?
Il conte capì immediatamente a cosa si riferisse l’uomo e una sensazione di tristezza mista a rabbia lo invase, portandolo a scuotere vigorosamente il capo. – Mi rincresce che debba esserci ancora della gente incuriosita al mio stato d’animo. Che basti loro, che vi basti, vedermi qui, ancorato alla terra come lo ero qualche anno fa. Non è cambiato nulla, capite? Non deve essere cambiato nulla!
Il signor Bowles gli rivolse un’espressione mortificata, mentre Margareth li raggiungeva accompagnata da Sam.
- Alla buon’ora, Sam! Le hai pettinate tutte le bambole? – gli ringhiò il conte prima di andare via.
Margareth guardò interrogativamente il medico.
 
 
Passarono diversi giorni prima che Anya riuscisse a muoversi senza sentire tanto dolore al torace. Giorni che trascorse perennemente sdraiata a letto, fissando il soffitto o le pareti o contando i ricami delle maniche della camicia da notte o, ancora, dormendo.
Il tavolino accanto al letto era quasi sempre vuoto, a parte la lampada a olio che Margareth le portava la sera, insieme alla cena; e come esso, anche la poltroncina non era stata occupata più da nessuno. Dopo quella del medico, non aveva ricevuto più visite e, tra un sospiro e l’altro, un vago senso di solitudine cresceva in lei, insieme alla consapevolezza di non poter più stare con le mani in mano. Avrebbe voluto, infatti, darsi da fare, aiutare chi l’aveva salvata dal freddo e dalla malattia.
Spesso sentiva la voce del conte, giù in cortile, o in cucina, chiedere a Margareth di lei, di come procedeva la guarigione. Spesso lo sentiva tossire, a volte a lungo, oppure dare ordini a Sam o Anthony, i servi che più lavoravano all’esterno dell’edificio. A volte le capitava di sentire anche le serve parlottare e ridere, gli zoccoli di qualche cavallo che passeggiava per il selciato e poi veniva riportato nel suo box o legato al calesse della servitù. Sdraiata sul caldo materasso di piume pensava a quanto si fossero ristretti i suoi canoni di vita e alla monotonia delle giornate. La voglia di fare le aumentava giorno per giorno, per non dire minuto per minuto, ma quando si proponeva a Margareth, quella le rispondeva recitando a memoria le raccomandazioni del medico e la invitava a pazientare “ancora qualche giorno” prima di prendere qualsiasi decisione.
Quei discorsi le facevano perdere la pazienza, ma cercava di non darlo a vedere. Quando era sola piangeva, perché pensava di non avere più nulla e di non poter fare più niente per rallegrare le sue buie giornate. La solitudine la portava a pensare, riflettere su mille cose e spesso il flusso di coscienza declinava fino a ricordarle l’orribile vuoto di memoria che l’aveva colpita.
Di tanto in tanto, quando le gambe riuscivano a reggerla, si alzava e si sedeva sul basso davanzale della finestra, dal quale osservava la vita che le scorreva intorno, vedeva il mondo girare e cambiare faccia ogni secondo. Si sedeva lì, coprendosi con lo scialle, e rannicchiandosi per quanto poteva.
Fu attraverso questo passatempo che scoprì i ritmi giornalieri del conte e della servitù.
La mattina ci si svegliava con il canto di Joffroy e ci si recava immediatamente in cucina, dove si cercava di sopportare il freddo pungente dell’alba con una tazza fumante di latte o tè davanti. Subito dopo il conte mandava uno dei servi – Anya lo sentiva pronunciare spesso i nomi di Sam o Anthony – a sellare il suo cavallo e poi usciva. Quando tornava, e lo faceva all’incirca nel giro di un’ora, affidava il cavallo ad Anthony e rientrava attraverso l’ingresso principale. In caso di pioggia il signor Langley non andava da nessuna parte, poiché veniva a trovarlo un uomo che rimaneva nella tenuta per un tempo variabile dalla pioggia e, soprattutto, dall’umore del conte. Quest’ultimo era un fattore fondamentale nella giornata lavorativa di ognuno dei servi e proprio per tale ragione ognuno di loro aveva imparato ad osservarlo quando la mattina si recava in cucina. Se dai suoi atteggiamenti trapelava il cattivo umore – e ciò accadeva assai spesso – si doveva pazientare e cercare di obbedire come possibile agli innumerevoli ordini che dava; se, invece, il signor Langley dimostrava di avere un pizzico di allegria in più nel sangue, si doveva sperare che l’amministratore della tenuta, durante il loro incontro mattutino, gli desse buone notizie.
Ovviamente Anya, confinata per com’era nella sua stanza, questo non lo sapeva e, anzi, quel posto iniziava davvero a piacerle. Talmente tanto che ad un certo punto pensò di chiedere a Margareth se poteva essere presa a lavorare.
Una volta, durante una delle se poche visite, Anya gliene fece cenno.
- Lavorare qui? – le aveva risposto la donna con un’espressione incredula.
- Solo se c’è la possibilità.
- La possibilità c’è, Anya. Ma non è cosa da niente lavorare una giornata intera qui.
La ragazza aveva bevuto un sorso d’acqua.
- Soprattutto nelle tue condizioni…
- Margareth, ho passato più di una settimana s letto. Adesso mi sento meglio, i tagli si sono cicatrizzati e la costola non mi fa più tanto male – le disse, ricordandosi anche di avere messo su un po’ di peso.
- Se ti senti bene, mi fa piacere…
- …ma?
- Dovrei prima parlarne con il signor Langley – concluse.
 
E così fu.
L’indomani mattina, subito dopo essersi alzata, Margareth ricordò la promessa fatta ad Anya e sperò che il conte fosse di buon umore.
Nonostante gli alberi da frutto avessero cominciato a germogliare e a fiorire, quella appena iniziata, era una giornata particolarmente fredda e l’umidità impediva al sangue di carburare. Poiché pioveva il conte non era uscito a cavallo e il signor Hobson si era recato da lui per problemi legati al tempo. Margareth si diresse allo studio del conte, al piano di sopra, e attese che l’amministratore uscisse. Ci volle un po’, ma dopo qualche imprecazione e una raffica di rimproveri da parte del signor Langley, il signor Hobson uscì con le spalle piegate in una leggera gobba e la cartella dei conti sotto braccio.
- Buongiorno, Margareth – la salutò, per poi aggiungere sottovoce – vi avviso: se avete da chiedere qualcosa al conte, attendete un altro giorno.
La governante trattenne un sorriso e quando Hobson se ne fu andato, bussò alla porta dello studio.
- Hobson ci siamo già detti tutto. Potete andare.
Margareth socchiuse la porta. – Sono io, signor conte. Posso?
Il signor Langley sbuffò, sistemando alcuni fogli – Sì, entra pure. Cos’hai da chiedermi?
- Vedete… - iniziò – riguarda quella ragazza, Anya…
- Sta male?
La donna scosse il capo. – No, anzi.
- E allora? – domandò il conte. Sedendosi sul suo scranno, dietro la scrivania, la guardò, in attesa.
- Ha detto che si sente molto meglio, adesso e… ieri, quando le ho portato la cena, ha espresso il desiderio di lavorare qui.
L’uomo sollevò un sopracciglio.
- Dice che vorrebbe ripagarvi di quello che avete fatto per lei ed è disposta a lavorare gratuitamente, almeno per i primi tempi.
Nella stanza calò il silenzio. Il conte si carezzò il mento con il pollice e l’indice di una mano, in un atteggiamento che voleva simulare la meditazione. Lo faceva sempre quando voleva allungare il brodo.
- Intende lavorare? – disse lentamente. Margareth assentì. – Ha delle referenze? Esperienze di qualunque tipo nel campo? Riuscirebbe a sollevare un secchio senza sentire dolore?
- Temo di dover rispondere di no a tutte le vostre domande, signor conte.
- Bè, allora la strada è una sola.
- Cioè?
- Dì pure a Greta di affidare un altro incarico ad Adele. D’ora in avanti la sguattera sarà Anya.

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Capitolo 9
*** Capitolo VIII ***


Bentornati/e!
Finalmente riesco a pubblicare l'ottavo capitolo di questa storia. Devo dire che, finora, è stato uno dei più difficili da scrivere. Forse perchè a causa dello sclero dell'Accademia non ho trovato nè l'ispirazione, nè il tempo giusti per scrivere. Chiedo venia a chi mi segue e attende sempre con ansia la pubblicazione di ogni capitolo, ma il ritardo d'ora in avanti diventerà un'abitudine^^
Ok, ora che ho esaurito il tempo per la presentazione vi mando un caloroso abbraccio e tanti saluti :)
Alla prossima!
P.S.= Recensite, please! Se vi capita di trovare dei luoghi comuni nel corso della storia, o degli errori che vorreste che io correggessi o, ancora, delle idee e spunti per il continuo... scrivete!!
Ringrazio Lizzie_Jane che mi elenca i pregi e i difetti di tutti i capitoli... via commento e via messaggio! ^^
Baciotti
Ale


An irish tale - Capitolo VIII

 
 

- Le bucce da quella parte, le patate pelate dall’altra.
- Tutto qui?
- Bè, nelle condizioni in cui sei ti aspettavi che ti mettessi a spazzare i pavimenti?
Anya fece spallucce. – No…
- Bene – disse Greta – allora datti da fare.
Era iniziata così la sua prima giornata di lavoro alla tenuta.
O meglio, era iniziata con la sveglia di Joffroy.
- Taci, bestiaccia! – aveva bofonchiato coprendosi la testa con le pesanti coltri.
Joffroy non si era zittito, e lei era, comunque, riuscita a riaddormentarsi.
Poco dopo Margareth era andata a bussare alla sua porta. – Anya? Sveglia! – aveva detto aprendo. – Forza su!
Erano passati due giorni esatti da quando la governante aveva parlato con il signor Langley. Lui stesso aveva preferito tenere d’occhio la salute di Anya prima di metterla a lavorare a fianco di Greta, poiché ella era un’infaticabile lavoratrice, una di quelle che, appena sveglie si mettono ad impastare la farina e non si fermano se non molte ore dopo il tramonto.
Certo, il fatto che la sua governante gli avesse fatto una proposta del genere lo aveva spiazzato, perché si aspettava, arrivando quasi a sperarci, che Anya, una volta guarita, sarebbe andata via, tornando sui suoi passi; ma ciò non era successo e, nel giro di pochi attimi, il conte si ritrovò costretto a dover prendere una decisione: prenderla a lavorare e accogliere, quindi, la sua buona volontà, o buttarla fuori?
Buttarla fuori non poteva, nelle condizioni in cui era. Era fuori discorso. Ma farla lavorare? Non poteva fare neanche quello, ma le possibilità erano due.
Referenze? Aveva delle referenze? No. Esperienze di vario tipo? Sarebbe riuscita a svolgere compiti anche solo leggermente faticosi senza lamentarsi per il dolore al costato?
Temo di dover rispondere di no a tutte le vostre domande, signor contegli aveva detto Margareth.
Bene, e allora non gli era rimasto altro da fare che mettere Anya a lavorare nelle cucine. D’altronde con l’età che aveva o faceva la dama di compagnia, o iniziava la sua “carriera” da serva come sguattera. Perciò, non appena Margareth aveva lasciato il suo studio, la sera che era andata a parlargli, lui aveva scritto un biglietto al signor Bowles. Gli chiedeva consiglio, come aveva fatto sin da giovinetto, e lo pregava di mandargli al più presto una risposta; aveva fatto chiamare Anthony e lo aveva incaricato di recapitare il messaggio.
I minuti trascorsi in attesa di una replica del dottor Bowles passarono veloci e quando ebbe finalmente il suo biglietto fra le mani un sorriso non poté non piegare le sue labbra.
La mattina dopo, in compagnia di Margareth, si era recato ancora una volta in camera di Anya. Le aveva fatto qualche domanda sulla sua salute e, come gli aveva consigliato il dottor Bowles, si era accertato che il peggio fosse passato, anche se, a dirla tutta, nutriva forti dubbi sul fatto che Anya gli dicesse di sentirsi meglio.
- Vi invito a riflettere maggiormente sulla vostra condizione, Anya – le aveva ricordato.
La ragazza trascurò una fitta causata da un movimento azzardato. – Grazie, signor Langley, ma temo di non poter resistere ancora a lungo chiusa tra le pareti di questa stanza.
Il conte le aveva rivolto un ultimo sguardo. Si era accorto della smorfia che aveva contratto il suo volto. Sospirò. – E così sia. Domani sarà la vostra prima giornata lavorativa. Se avete delle domande chiedete a Margareth – disse prima di tornare nel suo studio.
 
L’indomani, all’alba, Margareth l’aiutò a prepararsi.
Dopo averla svegliata, l’aveva, a malincuore, aiutata a tirarsi su e a indossare l’abito di lana blu di Mary. Poi le aveva sollevato i capelli, appuntandoli sotto una cuffietta, e le aveva dato una mano nella breve toeletta mattutina; poi erano andate in cucina e si erano sedute per fare colazione. Quello fu il momento decisamente più fastidioso della giornata di Anya: nonostante, infatti, il forno fosse acceso alle sue spalle e una tazza fumante di tè giacesse abbracciata dalle sue lunghe dita, il freddo le aveva avvinghiato le gambe e l’umidità, come fosse stato un dardo, le aveva colpito la base della testa, nel punto in cui essa si congiunge con il collo, dando origine ad un fastidioso mal di capo.
- E sarà così fino a quando non arriverà l’Estate…- aveva risposto Sam quando lei si era lamentata.
- Wow!
L’uomo le aveva rivolto un’occhiata interrogativa.
- Niente… - aveva detto lei con un vago cenno della mano.
- Da dove vieni?
Anya morse la sua pagnotta. – Da Dublino. Noi ci troviamo a Waterford, Margareth mi ha spiegato che c’è una certa distanza…
- Una certa distanza? Per quello che ne so, non riuscirei a raggiungere Dublino neanche in un anno di cavallo!
Lei aveva riso e Sam si era alzato.
– Vado in scuderia prima che il signor conte mi mandi nei campi… - aveva detto avvolgendosi una sciarpa intorno al collo.
Anya si meravigliò di una tale affermazione.
- Quindi sei dublinese? – aveva esclamato Mary masticando un boccone. Era seduta quasi di fronte a lei e pareva piacevolmente meravigliata.
La ragazza aveva annuito.
- Che coincidenza! Anche io lo sono, ma di nascita. I miei genitori si trasferirono qui a causa del freddo.
- E hanno trovato ciò che cercavano?
Mary scosse la testa con un sorriso. – Non ne ho idea. Adesso coltivano patate ad una ventina di miglia da qui.
Anya aveva assentito.
- I tuoi, invece? Di cosa si occupano?
- Loro… avevano una piccola fattoria – rispose bevendo l’ultimo sorso di latte.
- Oh… e adesso non l’hanno più?
La giovane abbassò lo sguardo. – No, perché sono morti.
Mary le aveva rivolto uno sguardo dispiaciuto, poi si era alzata dal tavolo, in silenzio.
Da allora Anya, avvolta nel ricordo di ciò di cui Langley l’aveva informata, si era intrattenuta in brevi dialoghi con qualcuno dei servi. In particolare, dopo la colazione, le era stato possibile conoscerli attraverso i loro discorsi sugli incarichi della giornata che doveva ancora svolgersi e su quelli della giornata appena trascorsa. Aveva capito che Margareth era la governante e non vi era alcun maggiordomo; che Greta era la cuoca e Adele la sua “aiutante” – termine più elegante con cui l’aveva definita, in quanto preferito a “sguattera”; che Mary e Ines erano due cameriere, ma anche lavandaie insieme ad Anne; che Edgard era pagato per fare il cocchiere, nonostante solitamente si dilettasse in altre occupazioni, e che Sam ed Anthony lavoravano in scuderia, ma anche nei campi, se il signor Langley scopriva che i suoi cavalli avevano ricevuto meno attenzioni del previsto.
Aveva capito che la mattina prima mangiava il conte, poi la servitù, regola che non valeva anche per il pranzo, che avveniva in senso inverso: la servitù mangiava nelle ore “più calde” del giorno, il signor conte qualche ora dopo.
Quando tutti si furono alzati dal tavolo il conte era già uscito per la sua cavalcata mattutina e, suo malgrado, Greta aveva esonerato Adele dal suo incarico e l’aveva mandata, con il consenso di Margareth, a lavare i pavimenti con Mary. Aveva licenziato Adele in cambio della nuova arrivata.
- Il conte ha voluto che ti prendessi in cucina, a lavorare al mio fianco. Sappi che non mi piace imporre regole, né il mio modo di fare o pensare agli altri. Pretendo, però l’ordine. Non tollero la diseducazione, né la maleducazione, ma se sei affetta da una di queste due… “malattie” io ti aiuterò a guarirne.
Anya aveva trattenuto il fiato.
- Detto questo, qui ci sono delle patate e qui il coltello – disse indicandole il materiale sulla sua parte di tavolo. Stava per tornare alle sue occupazioni, quando si accorse dello sguardo dubbioso di Anya. – Metti le bucce da quella parte, le patate pelate dall’altra.
- Tutto qui?
La cuoca le aveva lanciato un’occhiataccia e l’aveva invitata a lavorare. Mentre sbucciava le patate, seduta al tavolo, guardò Greta muoversi svelta all’interno della cucina. Da un angolo aveva preso un grosso sacco di mele, che a occhio e croce doveva pesare una ventina di libbre e lo posò sul grosso tavolo di legno; poi, dopo aver scartato le parti marce, iniziò a sbucciarle e a metterle dentro una grossa pentola insieme a dello zucchero e dell’acqua. Alla fine aveva messo la pentola sul fuoco. Allora Anya aveva già portato a termine il suo incarico e aveva buttato le bucce in un grande contenitore di legno, nel cortile, dal quale si sprigionava un forte lezzo dolciastro e acidulo. Quando ne aveva parlato a Greta, lei aveva sorriso sprezzante.
- Mi domando ancora quanto mi farà aspettare Sam, prima di toglierlo da lì… il signor conte fa bene a mandarlo nei campi, ogni tanto – disse appendendo il sacco vuoto ad un gancio.
- Tsè… ho sentito dire una cosa del genere a Sam, poco fa. Allora è vero?
- Che lo manda a lavorare con i contadini? – Anya annuì. – Certamente. E non solo con lui. Anche Edgard ha avuto un’esperienza del genere, la scorsa estate; e pensa un po’? anche Mary!
- Mary?
A Greta sfuggì un sorriso. – Aveva passato troppa cera quel giorno… quando il signor conte scese per andare giù in cortile il pavimento era ancora bagnato. Io ero rientrata dall’ingresso principale, allora e, proprio mentre mi dirigevo alla sala da pranzo, vidi con la coda dell’occhio il signor conte prendere uno scivolone…. Cadde a terra di… di sedere! – disse scoppiando a ridere.
I loro discorsi furono interrotti dall’arrivo di Margareth. Era entrata dal cortile e aveva il naso rosso e lucido dal freddo. – Il signor conte è tornato. Dice che vuole parlarti.
- Parlare con me? – chiese Anya.
- Sì. Ti attende nel suo studio fra una decina di minuti circa.
La ragazza annuì e dopo poco la governante l’accompagnò dal signor Langley.
Mentre camminava dietro Margareth pensò che quella era la prima volta che ammirava la tenuta in tutto il suo splendore. Attraverso un corridoio, che sfociava in tante stanze l’una di seguito all’altra, raggiunsero la sala centrale, quella che dava alla sala da pranzo e in cui si trovavano le scale per raggiungere il piano superiore. Le porte erano di uno stile semplice, ma elegante, decorate qua e là da degli intarsi a fiore e foglie; il pavimento non era lucido, come Anya si sarebbe aspettata, ma il motivo geometrico raffigurato sulle piastrelle, compensava ogni mancanza. Le scale, che si spiegavano tutte un un’unica rampa centrale, erano il “pezzo forte” dell’intera sala. Esse erano caratterizzate da due passamani, scolpiti su un legno scuro e lucido, che all’inizio della scala si attorcigliavano in due pomelli grossi abbastanza da non poter essere pregiarsi dell’aggettivo “barocco”. Tutti i gradini della scala erano ricoperti da un unico tappeto bordeaux, che seguiva il disegno delle scale, allargandosi simultaneamente alla rampa.
Meravigliata dall’efficace semplicità mista ad eleganza che caratterizzava ogni particolare della sala, Anya non poté fare a meno di volgere lo sguardo anche al tetto, alto, ma privo di qualunque decoro barocco o affresco.
Nel complesso non si poteva dire di quella sala che fosse enorme.
Quando furono al piano superiore, in cima alle scale, la strada si diramava in due parti. Sia a destra che a sinistra Margareth le disse che c’era un corridoio che portava a diverse stanze della tenuta.
- A destra vi si trovano le stanze per gli ospiti ed un piccolo osservatorio astronomico. Ti metto al corrente di questo perché lavori qui, ma non ci sarà alcun bisogno che tu ci vada. Sono quasi tutte chiuse.
Anya aveva assentito e l’aveva seguita per il corridoio sulla sinistra.
- Qui, invece, vi si trovano la camera del signor conte, il suo studio, la biblioteca – disse mentre ad Anya si illuminavano gli occhi – e un paio di stanze che lui ha deciso di chiudere a chiave.
La ragazza annuì un’altra volta e seguì Margareth fino all’inizio del corridoio, dove l’aveva vista bussare ad una porta.
- Margareth, entra pure – disse il signor Langley.
La governante obbedì e Anya la seguì a ruota. Il conte era in piedi dietro una scrivania di legno massiccio. – Buongiorno Anya.
- Buongiorno signor conte.
Langley si sedette. – Ti ho fatta venire qui per discutere del tuo impiego. Ho forse interrotto qualcosa che Greta ti aveva ordinato di fare?
Anya scosse il capo. – No.
- Meglio – commentò – A parte il fatto che non ero, e non sono, convinto del fatto che tu abbia iniziato a lavorare in queste condizioni, ho intenzione di elencarti delle particolarità che d’ora in avanti ti riguarderanno. Comincio dagli orari: non è mia abitudine imporre delle ore fisse di lavoro giornaliero. Chi ha la fortuna di riuscire a portare a termine i suoi compiti del giorno, può considerarsi libero di fare quello che vuole, a patto che rimanga nella tenuta. Avrai un giorno libero a settimana, la Domenica, durante la quale potrai andare a messa e al mercato, se vorrai, e riscuoterai il salario ogni inizio mese. Vitto e alloggio sono compresi nella paga. Se quest'ultima non è di tuo gradimento ti invito a scegliere fra due possibilità: andare via e cercarti lavoro altrove – disse alzando il pollice ad indicare il numero uno – o rimanere e, di conseguenza, accontentarti di quello che ti viene offerto.
Anya ascoltò tutto con attenzione, assentendo ogni qual volta esso risultava necessario. A fine discorso il conte le disse che il medico sarebbe venuto per visitarla il giorno dopo. – A proposito di questo, Anya, intendo, anzi esigo, che mi si avvisi in caso di salute malferma. Non tollero vedere malati in giro. Ho già dato questo avviso al resto della servitù, ma credo che per me non sarà mai sufficiente.
La ragazza sentì Margareth, dietro di lei, sorridere.
- Va bene. Vi ringrazio infinitamente per quello che state facendo per me, signor conte. Ancora non so come ripagarvi.
Langley sorrise bonariamente. – Mi sentirò ripagato quando ti vedrò stare bene.
- Beh, allora mi impegnerò a guarire.
Il conte prese la sua penna stilografica e con la mano sinistra firmò distrattamente una carta. – Non ho più altro da dirvi Margareth e Anya. Se volete scusarmi, avrei una certa fretta di controllare dei documenti.
Margareth si prodigò in un rapidissimo inchino e Anya la imitò. Poi uscirono dallo studio e tornarono alle rispettive attività.
Quando Anya vi arrivò, la cucina era impregnata dell’odore dolce e intenso della marmellata di mele e Greta stava impastando della farina. Anya le chiese se poteva esserle d’aiuto.
- Prendi una manciata di farina – le disse annuendo – e buttamela nelle mani.
Anya eseguì l’ordine. – Cosa è? – chiese scrollandosi dalla mani la farina in eccesso.
- Sto preparando una crostata con la marmellata di more.
Greta rapprese la pasta che le si era appiccicata alle dita e la staccò strofinandovi la farina.
- Marmellata di more? Io adoro le bacche! Dove crescono?
- Crescono oltre i confini della tenuta, nel bosco qui vicino. Ma questo non è il periodo…
Anya corrugò la fronte. – Che peccato. Mi era quasi venuta voglia di mangiarne un po’.
- E non ci provare neanche. La marmellata rimasta è poca e da adesso all’estate deve bastare.
La ragazza annuì e dalla porta entrò Mary, con un cesto in mano.
- Salve Anya! – la salutò sorridendo – Greta, ti ho portato quello che volevi.
Poggiò sul tavolo il cesto e cominciò a tirarne fuori delle primizie. – Qui c’è il cavolo, le patate, le carote e… le cipolle le porterà Joachim in tarda mattinata. Spero che oltre questo non manchi niente.
La cuoca esaminò con occhio critico ciò che Mary le aveva mostrato. – No. A parte la carne e il latte non manca niente.
- A quella ci ha pensato Sam, che è andato in paese con Edgard. In quanto al latte… - cominciò lanciando un’occhiata fugace ad Anya - …se ne è sempre occupata Adele…
- E allora? – sbottò per poi girarsi verso la ragazza. – Sai mungere?
Anya scosse il capo.
- Mary andrai tu, allora. Naturalmente ti farai accompagnare da Anya e le spiegherai come si fa.
Mary si grattò la fronte con le dita sporche di terra. – Ma…
- Niente “ma”. Prendi il secchio e vai a mungere la vecchia Nelly.
 
Anya non aveva mai visto la stalla. In effetti non avrebbe mai potuto, dato che bisognava camminare un po’ prima di arrivarci. Essa si trovava esattamente a mezzo miglio dalla tenuta, vicino casa di due contadini.
- Il signor conte non voleva che il respiro delle mucche inquinasse la scuderia dei suoi amati cavalli – disse Mary con un tono petulante mentre camminavano. Anya si girò verso di lei con gli occhi strabuzzati.
- Già?
Mary fece spallucce. – Non saprei dirlo, in effetti… certo se avesse messo le mucche nella sua stalla ci avrebbe risparmiato queste sfacchinate! – disse per poi aggiungere – E poi le mucche sono due: Nel e Ly. Greta ed io le chiamiamo Nelly per semplificare…
Percorsero un sentiero di campagna, laterale alla tenuta. Da lì si sentiva forte l’odore della terra, una terra bruna, appena smossa dai contadini per raccogliere le patate. Quel profumo lieve, ma persistente entrò nelle narici di entrambe le ragazze e non le abbandonò se non quando giunsero a destinazione.
Ad accoglierle fu una donna bionda, non più giovane, che lavava i panni in un catino fuori casa. – Maria!
Mary rise. – Pervinca, mi chiamo Mary! Non Maria!
La donna si asciugò le mani sul grembiule e abbracciò la ragazza. – Ti manda il signor Langley?
- No. Oggi è uscito solo per la sua cavalcata mattutina. Il resto del tempo l’ha trascorso chiuso nel suo studio… mi manda Greta.
- Devo andare a trovarla uno di questi giorni… ma non ho il tempo. E lei? – chiese appuntando lo sguardo su di Anya. – E’ tua sorella?
Mary scosse il capo. – Lei è Anya. E’ arrivata da poco nella tenuta.
Pervinca assentì; poi, come ridestandosi, chiese per quale motivo non fosse venuta Adele a mungere Ly e Nel, quella mattina.
- Oh, Adele… Anya è la nostra nuova… - disse dubitando prima di continuare - …insomma, è la nuova aiutante di Greta.
La donna squadrò Anya da capo a piedi. – Benvenuta, allora!
Anya sorrise.
- Vorresti condurci dalle nostre vecchiette, adesso, Pervinca?
- Sì, certamente… prego, da questa parte – disse facendo segno ad Anya di procedere. Mary conosceva già la strada ed era sparita con il secchio in mano.
La stalla si trovava dietro l’abitazione, e si presentava come una struttura relativamente piccola, dotata, ad occhio e croce, di uno spazio sufficiente per due animali.
- Viviamo in un terreno del signor Langley in affitto. Al posto di farci pagare il mensile, io e mio marito abbiamo accettato la sua proposta di far pascolare le sue due mucche nel nostro terreno e di permettergli di mungerle – spiegò Pervinca. Man mano che si avvicinavano alla struttura l’odore di stalla si intensificava, fino a divenire piuttosto pesante, nel momento in cui entrarono.
Anya storse il naso, mentre Mary legava una corda intorno al capo di una mucca per portarla fuori. Era relativamente magra e con due grandi macchie marroni sulla pancia. – Regola numero uno. Allontana la mucca da ogni fonte di cibo.
La ragazza annuì. Mary legò l’animale ad una staccionata e si allontanò in direzione del catino in cui Pervinca stava lavando i panni. – Regola numero due: quando mungi lavati sempre le mani e assicurati che non vi siano ferite.
Anya controllò le sue. I dorsi erano fregiati da alcune cicatrici.
- In questi casi, ad esempio, i graffi sono asciutti e potresti mungere tranquillamente – disse prendendo il sapone e sfregandoselo su mani e braccia bagnate.
Anya la imitò e quando finirono si avvicinarono alla mucca con un secchio d’acqua ed una pezzuola.
- Regola numero tre – disse Mary prendendo la coda dell’animale – ferma la coda, o andrà a finire nel secchio durante la mungitura… e prima di iniziare a lavorare lava anche le mammelle.
Anya la vide sedersi a cavalcioni su uno sgabello e massaggiare le mammelle della mucca. L’idea di dover fare qual lavoro e di dover maneggiare i capezzoli viscidi della mucca la impressionò un po’, ma non poté fare a meno di pensare a quelli che d’ora in avanti sarebbero stati i suoi doveri.
- Oh, non guardarmi in quel modo, ti prego – ridacchiò Mary notando la sua espressione.
Anya scosse il capo. – Fai pure. In qualche modo dovrò pure imparare, no?
- Sì, infatti. Come avrai visto prima di mungere devi fare un brevissimo massaggio alle mammelle.
La ragazza lanciò una seconda occhiata ai capezzoli della mucca e al secchio. Annuì.
- Ricordati di essere rapida. Nel giro di dieci minuti devi avere finito di mungere una mucca.
Anya assentì di nuovo. Guardare i movimenti veloci ed esperti di Mary la portò a riflettere sulla grande quantità di cose da imparare. Nonostante tutti ingentilissero il nome dell’incarico che le era stato affidato – Mary l’aveva definita “l’aiutante di Greta”, il signor Langley “il primo scalino di una probabile brillante carriera” – lei pensò che, in ogni caso, la strada era lunga e bisognava iniziare a battere la terra il prima possibile
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Capitolo 10
*** Capitolo IX ***


An irish tale - Capitolo IX 


Il primo giorno lavorativo di Anya si concluse con uno spiccato desiderio di buttarsi sul materasso di piume con una pesantezza tale da farlo scoppiare sotto di sé.
Arrivata in camera, con il mal di schiena che equiparava come intensità il dolore al costato, quel sogno infantile di cadere a peso morto sul letto non poté essere esaudito. L’unica cosa che riuscì a fare fu guardare il letto con rassegnazione e slacciarsi pigramente i lacci della cuffietta, prima di cambiarsi d’abito.
Oltre i vetri della finestra intravedeva un panorama buio, freddo.
Alla porta sentì bussare.
- Chi è? – chiese osservando le fronde degli alberi muoversi.
Era Margareth. Aveva riconosciuto il tocco, ma la bocca agì prima che il cervello si mettesse in movimento e aveva chiesto chi fosse.
- Entra pure – fece ridestandosi. La governante fece il suo ingresso cercando di fare meno rumore possibile. Probabilmente si era tolta le scarpe. Il volto era impallidito dalla stanchezza e gli occhi erano leggermente arrossati.
- Stanca? – chiese.
Anya sollevò un sopracciglio. – Credo che basti dire che Greta mi ha fatto lavorare.
- E’ instancabile, lo ammetto – ridacchiò Margareth.
- Forse troppo – sbadigliò la giovane. Quando espanse la cassa toracica, dimentica della costola rotta, il dolore la curvò in avanti.
- Sei sicura di volere lavorare, Anya?
Annuì. – E’ una cosa momentanea. Poi passa.
Margareth sbadigliò, facendo spallucce. Dietro sua richiesta l’aiutò a cambiarsi, motivo per cui era andata fin lì, e dopo controllò la condizione del torace.
- Mi sembra che stia migliorando – constatò passando una mano sulla costola rotta. – Senti dolore quando tocco?
Anya fece segno di sì con il capo.
- Mi dispiace, ma… se vuoi che passi, devi pazientare.
- Invece del dolore mi è passato il sonno – disse la ragazza seduta sul letto. Margareth le fasciò il torace. – Raccontami qualcosa.
- Oh cara… è tardi. Dormi.
Margareth si alzò dal letto, scuotendo lievemente il capo. Anya protese un braccio verso di lei, uno sguardo supplice sul viso. – Ti prego. Scommetto che neanche tu hai più sonno.
Ma lei si avvicinò alla lampada a olio. – Non se ne parla proprio. Sono venuta qui per aiutarti a cambiare l’abito e ora che sei a letto bell’e coperta io vado via.
Anya arricciò il labbro inferiore, ma la governante aveva già allontanato la lampada dal suo viso e non poté vederla.
- Buonanotte Anya – disse spegnendo la lampada con un soffio e uscendo dalla stanza.
 
I primi giorni alla tenuta furono faticosi. Ogni sera Anya si andava a coricare stanca, esausta; ogni sera il torace le faceva sempre meno male.
Greta la faceva lavorare senza sosta e, malgrado i compiti che le affidasse erano reputati da Adele “niente” rispetto a quelli che la cuoca aveva precedentemente consegnato a lei stessa, Anya a tarda serata aveva a malapena le forze per raggiungere la stanza.
Si iniziava la mattina con la sveglia di Joffroy. Bisognava vestirsi in fretta perché due ore dopo in sala da pranzo il conte aspettava la colazione e in qualche modo gliela si doveva preparare. Le regole di Greta in proposito erano rigidissime e bastava un minuto di ritardo all’appuntamento mattutino a farle venire il cattivo umore per una giornata intera.
Il suo primo incarico era quello di spazzare via la cenere dal forno e raccogliere le uova nel pollaio, mentre Greta preparava l’impasto del pane. Quando comparivano i primi raggi di luce doveva andare a prelevare l’acqua dal pozzo e mungere Nel e Ly nella piccola proprietà di Pervinca e Joachim, ai quali toccava consegnare la cenere del forno; onde evitare scuse riguardanti la sua evidente indisposizione fisica, Greta aveva chiesto a Sam di prestarle un piccolo carretto da tirare a mano, così da rendere possibile il trasporto di almeno due secchi alla giovane. Mary l’aveva abbandonata dopo i primi due giorni e da allora Anya aveva fatto tutto da sé, nonostante le fosse parecchio difficile chinarsi durante la mungitura.
Successivamente alla fase acqua e latte seguiva quella ancora più rapida della pulizia di quanto Greta aveva sporcato durante la preparazione del pane e/o biscotti della mattina. Certo, perché doveva essere tutto pronto per la preparazione di altre pietanze.
Un giorno aveva provato a dirle che sentiva male dappertutto quando lavorava così, ma Greta non sembrava darle retta e, anzi, l’unica preoccupazione che si concedeva era quella di chiedere a Sam di trovare una soluzione ai suoi problemi, il quale inventava marchingegni che potessero aiutare la ragazza nei suoi lavori.
Quando il signor Langley si svegliava, solitamente il sole era appena sorto. A quell’ora Anya non aveva ancora mangiato e le palpebre le si abbassavano come il capo di Sam quando annuiva di fronte agli ordini del conte. Bastava che il capo ciondolasse a ricevere uno scappellotto, per quanto esso fosse bonario, da parte di Greta.
Il conte usciva presto per la sua cavalcata mattutina; appena dopo la colazione.
Un giorno lo incontrò mentre tornava dalla fattoria di Pervinca. Aveva un secchio colmo di latte e due di acqua nel carrettino di Sam.
- Buongiorno Anya – la salutò il signor Langley infilandosi i guanti.
- Buongiorno a voi, signor conte. Avete avuto un buon risveglio?
L’uomo sospirò. – Questa notte non ho chiuso occhio. Ma poco importa… - disse vedendo i tre secchi. Sul suo volto si disegnò un’espressione perplessa. – E quelli?
- Sono andata a mungere le mucche e a prelevare l’acqua dal pozzo, signore.
Il viso del conte si fece più corrucciato. Si avvicinò al piccolo traino. Era composto di una piattaforma relativamente piccola di assi di legno inchiodate tra loro, con dei bordi piuttosto bassi e un manico lungo almeno un braccio per trainare i secchi. Quattro ruote completavano l’opera.
- Anya, chi ti ha affidato questo incarico?
La ragazza lo guardò confusa. – Greta, signore.
- E… il tuo torace? Migliora?
Sollevò un sopracciglio. – Sarei bugiarda se vi dicessi che non mi duole.
Il signor Langley annuì, apparentemente soprappensiero. Nello stesso momento Anthony uscì dalla scuderia tenendo Fedor per le redini. – Signor conte, il vostro cavallo è pronto.
Langley si ridestò e, dopo un breve momento di esitazione, ordinò ad Anthony di attenderlo fuori. – Anya, consegna questo… “traino” ad Anthony – le disse indicandolo con un cenno – e dà da mangiare alle galline.
La ragazza obbedì e il conte si diresse in cucina. Greta stava sbucciando delle carote e quando lo vide saltò su. – Signor conte! – disse poggiandosi una mano sul petto – mi avete fatto prendere un colpo.
- Buongiorno Greta.
La cuoca vide il conte accigliarsi. – Va avanti da molto questa storia? – le disse inclinando il capo.
- Non capisco a cosa vi riferite…
- Intendo il carretto che hai messo in mano ad Anya.
Greta posò una carota semi-sbucciata sul tavolo, capendo il punto il cui l'uomo voleva arrivare – Ma è una sguattera, signor conte!
- E’ una sguattera malata. Non dovrebbe fare quei lavori.
- Ma…
- Forse non ricordi ciò che ha detto il medico? – la bloccò il signor Langley sfilandosi i guanti.
Greta corrugò la fronte. – Signor conte vorreste forse dire che dovrei tenere quella ragazza ferma, in cucina?
L’uomo scosse il capo. – Voglio dire che dovrebbe fare lavori meno faticosi.
- Il mestiere della sguattera è un lavoro faticoso.
- Potresti far svolgere i compiti più pesanti ad Adele. Anya rischia parecchio con una costola rotta.
- Sbaglio o la nuova sguattera è Anya, signor conte? – chiese lei.
Il conte lanciò una rapida occhiata al cortile. Anthony aveva legato Fedor ad una staccionata e forse stava scambiando due chiacchiere con Anya, della quale udiva la voce. – La nuova sguattera è lei, ma ciò non toglie che debba svolgere dei lavori meno faticosi. Spendo un sacco di denaro per pagare il medico migliore di tutta la contea ogni volta che Anya ha bisogno di essere visitata. Fa’ almeno che il mio impegno e quello di Anya non vengano vanificati!
Greta afferrò una carota e iniziò a sbucciarla nervosamente. Quando il conte finì di parlare posò tutto sul tavolo e si pulì le mani sul grembiule. – Dite che le sue condizioni di salute sono precarie? Perché l’avete assunta, allora?
L’uomo abbassò lo sguardo. – Volevi che la buttassi per strada, forse? Volevi… - stava per aggiungere quando sentì dei passi in cortile. Era Mary, ma non entrò in cucina, perché proseguì, probabilmente nella direzione del pollaio. – Volevi che una ragazza che ha perduto la memoria finisse a chiedere l’elemosina per colpa mia?
- Certo che no!
- E allora fa’ come ti ho detto!
- Signor conte, in tutta onestà, non so cosa farmene di una sguattera “malata”!
Langley sentì di stare per perdere la pazienza. Avrebbe dovuto ricordarsi della cocciutaggine di quella donna. Ogni volta che discutevano era sempre così: desiderava ardentemente mandarla nei campi a raccogliere patate con Pjotr, Konstantin e tutti gli altri.
- E io non so cosa fare di una cuoca presuntuosa ed insolente! – gridò, lanciandole un’occhiata di fuoco. – Ti ho sempre lasciato fare, Greta, ma adesso basta! Sta’ zitta e fai come ti ho ordinato!
Greta lo guardò basita. Sentiva di volere piangere, perché era questo che aveva sempre fatto quando i suoi genitori la rimproveravano o quando la signora Langley la sgridava. Era una risposta naturale, inconscia, ad una situazione momentanea di stress in cui era richiesta un’attenzione che lei non era in grado di fornire.
Per un breve attimo il conte puntò i suoi occhi in quelli di Greta.
- Farò come volete, signor Langley – sussurrò.
L’uomo deglutì; poi abbassò il capo ed uscì a grandi passi. Appena fuori, Anthony, Mary e Anya, immobili, lo fissavano.
- Anthony, dissella Fedor e lega i cavalli alla carrozza – disse con voce roca. La discussione con Greta gli aveva graffiato la gola. – Voi due – guardò Anya e Mary schiarendosi la voce – trovatevi qualcosa da fare.
Le due ragazze stavano per entrare in cucina, quando Langley chiamò Anya.
- Sì, signore?
- Da adesso fino a quando non guarirai completamente, considerati esonerata da ogni incarico faticoso e poco consono alla tua condizione.
Anya assentì.
- Puoi andare – la congedò il conte sistemandosi la pelliccia sulle spalle. La ragazza lo ringraziò e  si avviò in direzione della cucina, oltre la cui porta scomparve.
Il conte non la seguì con lo sguardo, che si appuntò sull’entrata della scuderia: Anthony stava portando fuori Ulisse e Newton, tenendoli per le rispettive cavezze. Con parecchio disappunto notò che il passo di Ulisse era disarmonico.
- Anthony, perché Ulisse zoppica?
Il giovane legò le bestie alla staccionata e controllò la zampa del cavallo. – Credo sia solo sporca, signor conte. Con una pulitina il problema dovrebbe essere risolto.
Il signor Langley si avvicinò e sollevò la zampa del cavallo, per controllare. Era solo sporca, Anthony aveva ragione.
- E’ terra secca e l’ultima volta che ho preso la carrozza è stato più di una settimana fa. Mi spieghi cosa fai invece di badare ai cavalli, Anthony? – sbottò seguendolo mentre prendeva i finimenti
Lo stalliere sospirò senza farsi notare. – Esaudisco le vostre richieste, signor conte.
Langley sollevò un sopracciglio. – E non pensi che questo faccia parte delle mie richieste? Anzi, dei tuoi doveri?
Anthony annuì. Probabilmente il conte si aspettava una risposta, perché il ragazzo lo vide guardarlo in attesa di un cenno d’assenso.
- Sì, signore.
- Bene – sbuffò.
Anthony gli girò intorno e andò verso i cavalli con tutti i finimenti in mano.
- Anthony?
- Sì, signor conte? – rispose alzando gli occhi al cielo.
- Dov’è Sam?
Il ragazzo posò i finimenti sulla staccionata e raccolse il nettapiedi da terra. - Non l’avete mandato da Pjotr e Konstantin?
Il signor Langley scosse il capo.
- Allora non saprei come aiutarvi, signore – fece spallucce sollevando uno zoccolo di Ulisse e cominciando a ripulirlo dalle incrostazioni.
Il conte contrasse i muscoli della mascella. - Edgard, invece? Almeno di lui si hanno notizie?
Lo stalliere annuì. – Sta dando da mangiare ai cavalli, signore – disse sollevando rapidamente il capo.
Il conte stava per ribattere quando si accorse che sulla strada per la sua tenuta, un individuo a cavallo andava avvicinandosi. Procedeva al trotto e, anche se il cavallo somigliava a Birra, era sicuro che l’uomo non fosse Sam.
- Aspettiamo qualcuno, Anthony?
- No, signor conte.
Langley gli lanciò una rapida occhiata, poi si girò verso lo sconosciuto. Gli venne da pensare al suo amministratore, ma scartò subito l’ipotesi, perché il giorno precedente gli aveva detto che sarebbe andato a Dungarvan per affari.
- E allora chi è quello?
Il ragazzo lasciò la gamba del cavallo e si avvicinò al conte, cercando di dissimulare la perdita di pazienza. – Quello dice? Non saprei.
Ed effettivamente, quando colui che aveva attirato la loro attenzione oltrepassò il cancello della tenuta, il signor Langley scoprì che si trattava di Stephan, un servo di sir Rudolph. Era imbacuccato in una giacca scura, con il bavero alto intorno al collo per ripararsi dalla fredda corrente Atlantica. Quando vide il signor Langley lo salutò togliendosi il cappello e scese da cavallo.
- Buongiorno signor Langley – disse avvicinandoglisi.
- Buongiorno a te Stephan. Ti manda il padrone?
Il giovane assentì, prendendo una busta dalla bisaccia che portava a tracolla.
- Vi manda questa, signore, con tutti i suoi saluti.
- Ricambialo, Stephan – disse aprendo la busta. Conteneva un foglio di carta da lettere intestata e il messaggio era breve e scritto con una grafia lievemente inclinata verso destra.
 
Ad un caro amico un bizzarro invito ad una battuta di caccia.
Da prendere come una scusa per tornare ai vecchi tempi, quegli stessi in cui le nostre decisioni non erano vincolate dall’Amore e la gioventù ci scorreva dentro come il sangue nelle vene.
Attendo con trepidazione una risposta, la qual spero sia affermativa.
Saluti, 
Arthur F. J. Rudolph
 
Il conte lesse con velocità il contenuto del messaggio.
Una battuta di caccia. Questa era bella. E per cacciare cosa, poi?
Prima di dare una risposta a Stephan rilesse quelle poche righe con un’espressione incerta.
- Stephan, dì al tuo padrone che… - iniziò con l’intenzione di rifiutare – Dì al tuo padrone che…  accetto l’invito – sospirò.
Il ragazzo annuì.
- Sir Rudolph non ha specificato la data dell’incontro. A te ha riferito qualcosa in proposito?
- Mi ha solo detto che vi aspetta fra due giorni nel bosco vicino le sue terre.
- Nient’altro?
- No, signore.
Langley abbassò nuovamente lo sguardo sul foglio. – Puoi andare, Stephan – disse.
Il servo lo salutò e montò a cavallo. Langley lo guardò allontanarsi perplesso e quasi pentito di aver accettato la proposta dell’amico Arthur.
- Signor conte… - lo chiamò Anthony.
L’uomo, soprappensiero, non lo sentì.
Il ragazzo gli toccò una spalla - Signor conte!
- Sì, Anthony? – fece l’uomo ridestandosi e ripiegando il foglio da lettere.
- La carrozza è pronta. Chiamo Edgard?
Il conte annuì e, quando Anthony si mosse in direzione della scuderia, lui lo seguì. Sapeva esattamente dove andare. Nell’ultimo box della scuderia c’era una cavallina che aveva amato tanto, ma che con il tempo aveva imparato ad odiare. Non riusciva a separarsene, però. Non c’era mai riuscito.
Si chiamava Ilizia e aveva il manto scuro.
Quando raggiunse il corridoio, Anthony lo guardò timoroso, come si aspettasse un ordine; ma il conte lo ignorò e, come lui, anche Edgard non venne sfiorato dal suo sguardo.
Nella scuderia sentiva caldo con la pelliccia sulla redingote. Al suo passaggio, Fedor, che spiava i movimenti di Anthony ed Edgard, sbuffò, forse esprimendo il suo malcontento per la passeggiata mancata, ma l’uomo proseguì oltre.
Nel momento in cui arrivò di fronte all’ultimo box, Edgard ed Anthony erano già usciti dalla scuderia ed Ilizia sembrava dormire in un angolino del suo box, il manto lucido e i riflessi bluastri che Danielle aveva sempre amato.
Improvvisamente, forse avvertita la presenza del padrone, la cavalla si svegliò e puntò i suoi occhi liquidi su di lui. Due occhi buoni e profondamente tristi che gli richiamarono alla mente una moltitudine di pensieri: la vecchia vita, piena e colorata; la nuova, troppo vuota; l’invito di Arthur accettato con eccessiva leggerezza, i “vecchi tempi” di cui aveva scritto, ma che lui sapeva non sarebbero mai tornati; Anya, Ilizia, il proprio atteggiamento, gli occhi cattivi che vedeva allo specchio ogni qual volta vi si metteva di fronte; infine sua moglie e sua figlia.
In gola sentì formarsi un nodo, gli occhi iniziarono a pizzicare, le labbra a tremare. Non voleva trattenersi. Non questa volta.
Quando Ilizia gli fu vicina, lui afferrò rabbiosamente la grata del suo box e scoppiò a piangere.

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Capitolo 11
*** Capitolo X ***


An irish tale - Capitolo X                                                                               
 

 
 
Paride Benjamin Victor Thomas Langley.
Era questo il suo nome. Nella carta intestata da lettere usava indicarlo abbreviando i nomi secondari: Paride B. V. T. Langley.
Paride Langley, conte di Waterford.
Il titolo di conte l’aveva ereditato dal padre, che lo era stato prima di lui.
Ma Richard Joseph Langley gli aveva lasciato molto di più di un titolo. Paride abitava con la zia, Corinne Langley, che amministrava per lui tutti i suoi beni. O almeno, questo accadde fino a che il giovane Paride non raggiunse la maggiore età.
I suoi genitori erano un nobile e la figlia di un ricco proprietario terriero. Lei si chiamava Cassandra Yohanne Jinette Paulina Johannesbourg ed aveva delle origini tedesche da parte di madre. Aveva conosciuto Richard durante un ballo ed entrambi si innamorarono immediatamente l’uno dell’altra. In breve Richard aveva ottenuto il consenso dei signori Johannesbourg per sposare la figlia e, dopo soli due anni, era nato Paride.
Il matrimonio era piuttosto felice e trascorreva in modo tranquillo, a parte il fatto che Cassandra era dotata di una costituzione alquanto debole. Il parto si era rivelato difficile e il medico aveva dichiarato che, se era riuscita a salvarsi, non lo si doveva a lui, ma a Dio.
Alla nascita del loro unico figlio, per i coniugi Langley si era susseguito un periodo di infelicità ed incomprensione. Cassandra passava gran parte delle sue giornate insieme al figlio, nella sala giochi che aveva fatto sistemare per lui, mentre Richard era quasi sempre fuori casa per affari. Di rado capitava che si incontrassero e, quando ciò avveniva, litigavano; Richard allora andava a trovare il figlio, ma questi, non vedendolo quasi mai, cominciava a piangere e non si calmava se non quando la madre andava da lui.
Il periodo di malcontento durò fino a quando Cassandra non guarì dalla depressione post-partum e dai malori che l’avevano colta a causa del deperimento fisico al cui parto si era susseguito.
Da quel momento, visto che erano una coppia giovane, tornarono a frequentare l’alta società e a partecipare ai balli e le feste organizzati da ognuno di loro. Cassandra dimentica della salute cagionevole e degli appuntamenti nella sala giochi del figli, divenne una donna intraprendente ed un’ottima moglie, e non di rado la si vedeva presa dall’organizzazione di un ricevimento o una festa in casa. In poco tempo fu anche capace di tessere intorno a sé una rete attenta di amicizie e di complicità che andava tutta a vantaggio del marito, il quale trovava, così, più facile concludere degli affari o ammansire potenziali rivali.
In tutto ciò Paride occupava un posticino non grande, ma ben solido. Quando sua madre aveva appena un po’ di tempo a disposizione si fiondava da lui e lo riempiva di tutte le attenzioni di cui era capace. Tuttavia, nonostante il suo affetto, Cassandra era impotente di fronte agli innumerevoli impegni che la coinvolgevano; per questo aveva deciso di sostituire l’anziana tata di Paride, con una giovane più reattiva e capace di stare accanto un bambino come lui. Aveva deciso di assumere una governante.
- Mi sembra una brillante idea, cara moglie – aveva risposto Richard, quando lei era andata a parlargli nel suo studio. – Avete già deciso chi assumere?
- Ho pensato di pubblicare un annuncio nel quotidiano di domani.
Richard aveva sorriso, staccando gli occhi dal foglio che stava leggendo. – Avete preparato un piano ben dettagliato, eh, cara Cassandra?
Lei annuì. Richard le diede il consenso e l’indomani mattina delle giovani donne stavano già leggendo l’annuncio. Furono almeno una ventina le ragazze esaminate dalla signora Langley, ma nessuna di loro la soddisfò. A fine giornata, quando, scoraggiata, aveva deciso di ritirarsi nelle sue camere, Cassandra ricevette la visita di una ragazza  dai capelli color miele e con due grandi occhi blu.
- Sono desolata, signora, ma… - aveva iniziato con il fiatone.
La donna aveva scosso il capo. – Prego, accomodati… qual è il tuo nome?
- Margareth, signora – aveva risposto sedendosi sulla poltroncina di fronte la sua. – Margareth Wright.
- Vuoi prendere un tè, Margareth?
La ragazza aveva fatto di no con la testa. – Vi ringrazio.
Cassandra sorrise. – Margareth, sapresti spiegarmi la ragione del tuo ritardo? Abiti lontano da qui?
- Mi dispiace signora. I miei genitori lavorano fino al pomeriggio e a me tocca stare con i miei fratellini.
- Capisco. Quanti anni hai?
- Ventuno… appena compiuti.
La signora Langley assentì. Senza farglielo notare, squadrò Margareth con un’occhiata e capì che avesse detto la verità. – E i tuoi fratelli?
Margareth ci pensò un attimo su. – Ho una sorella di dieci anni e due fratelli gemelli di quattro.
- Mi sembra di capire che sei nubile…
- Sì.
- Ne immagini il motivo?
La giovane rispose con un’espressione sorpresa. – Il motivo per cui non mi sono ancora sposata?
La signora Langley fece di sì e Margareth avvampò.
- Non saprei, signora – iniziò grattandosi la fronte – forse… credo che sia colpa mia. Insomma, mia madre me lo dice che sono in età da marito, ma… come faccio con dei bambini a cui badare? D'altronde non è che mi interessi tanto la questione…
Cassandra rise. – La tua spontaneità mi piace, Margareth; ma dimmi, hai delle referenze?
- Ho preso servizio presso una giovane nobile, quest’Estate, ma mi ha licenziato quando ha saputo che non l’avrei seguita a Londra.
- Oh…
- Non saprei dirvi altro – disse bloccandosi un momento. – Voglio essere sincera con voi, però: mi sono spinta fin qui solo per il lavoro. Io adoro i bambini e penso che questo possa essere un punto a mio vantaggio…
- Sai leggere e scrivere, Margareth?
La ragazza annuì. – Posso dimostrarvelo.
Cassandra fece un cenno con la mano. – Ti credo sulla parola – disse sorridendo.
- Vi ringrazio.
D’un tratto la contessa sembrò pensare ad altro. Prima lanciò uno strano sguardo a Margareth, poi si girò in direzione della finestra, dalla quale entravano i raggi rossi del tramonto. Rimase così a lungo, riflettendo sulla decisione da prendere.
- Vorrei darti una possibilità, Margareth…
La giovane inarcò le sopracciglia, piegandosi leggermente in avanti. – Non vi è forse possibile?
- No. È possibile, ma hai pochissime referenze… - disse dubbiosa. – Tuttavia posso concederti una settimana di prova.
Margareth saltò su. Un’espressione di felicità si era dipinta sul suo volto. – Una settimana?
Cassandra annuì. Margareth avvertì un forte desiderio di abbracciarla, ma riuscì a trattenersi.
 
La contessa le diede appuntamento per le undici di mattina del giorno successivo.
Margareth aveva raccolto i suoi pochi affetti personali in una sacca che fungeva da valigia e aveva indossato il suo abito più elegante, composto da una gonna ed un corpetto rosa. Certo, non poteva essere alla moda, visto che aveva un taglio assai semplice e il punto vita non era sotto il seno, come nell’abito della contessa Langley. Margareth fino ad allora ne era andata fiera e l’aveva conservato per le “grandi occasioni”, ma nel momento in cui si trovò di fronte all’eleganza e alla ricercatezza di costumi della contessa, il suo orgoglio svanì e una sensazione di disagio iniziò a farsi strada nel suo animo.
Era un tiepido pomeriggio di Maggio e in cielo il sole faceva da padrone.
Margareth aveva raccolto i suoi lunghi capelli in una treccia che aveva raccolto sul capo, e aveva indossato una cuffietta. Nell’ingresso venne accolta da una serva impettita che le chiese di attendere.
- Al momento la signora Langley è in compagnia del figlio – le aveva detto prima di andare ad annunciarla.
Margareth rimase sola in una piccola sala che profumava di fiori. Su di un tavolino, quando si girò, vide un mazzo di rose rosse fresche e andò ad odorarle. Dovevano essere state raccolte da poco.
La contessa non si fece attendere molto. Dopo pochi minuti la vide arrivare in compagnia del figlio, che teneva per mano.
- Benarrivata Margareth! – la salutò.
La ragazza ricambiò il saluto, volgendo lo sguardo al bambino. Aveva i capelli chiari, biondi, e le guance piene. Quando la vide alzò su di lei due occhi grigio-verde e le rivolse un sorriso a due denti.
- Avete un figlio davvero bello, signora! Come si chiama?
- Il suo nome è Paride Benjamin Victor Thomas Langley. Ma credo che basterà chiamarlo “signorino Paride” – disse abbassandosi verso il figlio. – Vero tesoro?
Il bambino si girò e rise.
- Vieni Margareth, ti mostro la tua stanza – le aveva detto affidando il piccolo Paride alle cure di Ginevra, la serva che aveva accolto Margareth, e facendole cenno di seguirla.
La prima parte del tragitto la giovane la conosceva già, perché era attraverso quegli stessi corridoi che l’avevano guidata il giorno prima. La casa era arredata con uno stile semplice ed elegante e, nonostante l’architettura fosse di stampo settecentesco, non mancava il tocco di una donna dell’Ottocento. C’erano fiori freschi ovunque e il soffitto era privo di qualunque dipinto, eccetto che nel salone e nella sala da ballo, dove si aveva l’impressione di avere una finestra che lasciava intravedere un cielo ricco di nuvole e angeli. I pavimenti erano ricoperti interamente di legno e le porte erano decorate di intarsi tutt’altro che barocchi.
La stanza di Margareth si trovava in un corridoio diverso da tutti gli altri, meno elegante e situato in un’ala della casa relativamente distante dalla zona padronale e vicina a quella della servitù. Quando Cassandra gliela mostrò, nonostante la semplicità – che sfiorava quasi l’austerità – Margareth pensò subito che, se la contessa l’avesse presa a lavorare, avrebbe appeso alle pareti dei quadretti per rallegrare un po’ l’ambiente.
- Naturalmente potrai sistemarla come vorrai – le aveva detto la contessa, come leggendole il pensiero.
Dopo che la ragazza depositò il suo bagaglio sul letto il giro riprese e Cassandra la condusse nella sala dove Ginevra aveva portato Paride.
In quel momento la sua professione di governante ebbe inizio e una settimana dopo la contessa Langley, soddisfatta, le annunciò di averla ufficialmente assunta.

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Capitolo 12
*** Capitolo XI ***


An irish tale - Capitolo XI

 
Il signor Boulangher stava parlando quando il conte si grattò distrattamente la fronte. – Perdonatemi, signor Boulangher, ma non amo i discorsi accessori. Andate pure al sodo: hanno o no preso quel delinquente? Spartie… Sperty… o qualunque sia il suo nome! – sbuffò rivolgendo i palmi delle mani al cielo.
Il giudice non si scompose e mentre poggiava il bicchierino di whisky sul tavolino del salotto sollevò lo sguardo sul signor Langley. – No, ma le guardie…
Il giovane si girò con un sopracciglio sollevato. – No? – ripeté sollevandosi dallo schienale del divano. Sul suo viso si era dipinta un’espressione infuriata. – Come sarebbe a dire “no”?
- Vedete, signor Langley, mettersi sulle tracce di un uomo del genere non è facile…
- Vi avevo chiesto di acciuffarlo, signor Boulangher! Mi parlate di un uomo “del genere”, intendendo pericoloso, e mi dite che le guardie non sono ancora riuscite a trovarlo?
Il giudice bevve un altro sorso di liquore. – No – rispose asciutto.
- Sono passate già quasi due settimane, signor Boulangher – riprese il conte con tono più calmo.
L’uomo annuì sospirando. – Lo so, signor Langley; ma l’andamento delle ricerche non dipende dalla mia volontà. Le guardie non hanno neppure idea di quale sia il volto di quell’uomo…
Improvvisamente il conte avvertì un tuffo al cuore e, strabuzzando gli occhi, si ricordò di non aver fornito nessuna descrizione del ladro di Anya.
- Già…
Il giudice gli rivolse un’occhiata interrogativa. – Dicevate?
- Non ho fornito l’identità del ladro ai gendarmi – ammise. Provava una sensazione di rabbia mista ad imbarazzo e il cuore aveva preso a battergli velocemente. Preso dalla collera non poté che notare anche lo sguardo di rimprovero del signor Boulangher.
- Non avete di che meravigliarvi, allora. Vi siete arrabbiato a causa di un particolare trascurato da voi stesso…
Il conte si portò una mano alla fronte. – Touchè – disse.
- La ragazza che il ladro ha colpito sta meglio, adesso?
L’uomo annuì. – Se non fosse per la costola rotta… perché me lo domandate?
- Potrebbe fornire lei stessa le indicazioni giuste alle guardie. Ci avete pensato?
- Effettivamente no. Ma…
- E’ l’unica possibilità, allora.
Lo sguardo del signor Langley si appuntò distrattamente sulle frange del tappeto alla base del divano. – Devo avvisare la ragazza… - proferì senza rendersene conto.
- Condurla dai gendarmi, vorrete dire.
Langley fece di sì con il capo. D’un tratto il giudice si alzò e riempì il suo bicchierino di un abbondante sorso di whisky. – Quando l’accompagnerete? – chiese risedendosi sul divano.
Il conte lo guardò, i gomiti poggiati sulle ginocchia. – Non ne ho idea… questo pomeriggio, forse o… domani.
- Dopo pranzo mi recherò in gendarmeria per chiarire una certa faccenda. Se questo pomeriggio accompagnerete la giovine è possibile che…
- Vi ringrazio, signor Boulangher, ma credo non sia possibile.
L’anziano sollevò un sopracciglio perplesso. Il conte stava pensando all’invito di sir Rudolph di quella mattina, alla preparazione per la battuta di caccia e a tutti gli avvenimenti che l’avevano improvvisamente colto, quando il giudice parlò di nuovo.
- Come volete – borbottò. – Giusto ieri pomeriggio è venuto a trovarmi il vostro amico, sir Arthur Rudolph…
Il giovane alzò di scatto lo sguardo su di lui e, accortosene, l’uomo sorrise lievemente. – Mi ha detto che aveva intenzione di spedirvi un biglietto, questa mattina.
- Sì ha organizzato una battuta di caccia e mi ha mandato un messaggio… – disse vago. Aveva dato per completa la risposta quando notò lo sguardo, indagatore e malizioso insieme, del giudice. Inizialmente ricambiò l’occhiata con atteggiamento spavaldo, poi fu costretto a dire la verità. – Ci andrò, signor Boulangher…. Ci andrò – sbottò con i palmi delle mani rivolti verso l’alto.
Il giudice si lasciò sfuggire un sorriso soddisfatto.
- Proprio non riesco a comprendere la ragione di tanto interessamento, signor Boulangher!
- Sono soltanto contento nel sapervi impegnato in attività non confacenti unicamente la sfera del lavoro.
il conte lanciò uno sguardo all’orologio a pendolo del salotto. – Si avvicina l’ora di pranzo.
- Ve la siete presa, conte?
- No – sbuffò, alzandosi.
- Sappiate che se ciò è accaduto…
- Signor Boulangher è stato un piacere parlare con voi – lo interruppe il conte con un sorriso di convenienza.
- Il piacere è tutto mio… anzi, se non avete impegni urgenti sarei lieto di ospitarvi per pranzo…
- Oh, non ce n’è alcuna necessità, grazie.
Il giudice chiamò Adolfo, uno dei domestici, e gli ordinò di prendere il cappotto e il cappello del signor Langley. Rivestitosi, l’uomo si congedò ed uscì; ad attenderlo, parcheggiata di fronte la porta di casa Boulangher, la carrozza accanto alla quale Edgard si muoveva alla ricerca di un po’ di ristoro.
- Andiamo Edgard! – disse, disegnando una nuvoletta di vapore nell’aria gelida.
- Subito, signor conte!
Il cocchiere aprì lo sportello della carrozza con le mani tremanti per il freddo ed un’espressione sollevata.
Era ancora irritato a causa del giudice, il signor Langley, ma notare il repentino cambiamento d’umore di Edgard, quasi, lo fece ridere. Salendo i gradini della carrozza trattenne un sorriso e, mentre prendeva posto su uno dei due sedili nell’abitacolo, il cocchiere chiuse con uno scatto lo sportello e si mise al suo posto.
D’improvviso al ragazzo sorse un dubbio. – Dove volete che vada, signor conte? – chiese afferrando le redini.
- Alla tenuta, Edgard – rispose il signor Langley stringendosi nella sua redingote.
Fuori, seduto sul suo alto scranno, il giovane assentì e, imprecando per il freddo, fece partire il mezzo.
La carrozza si mise in moto un po’ più lentamente del solito. Probabilmente le zampe dei cavalli si erano irrigidite per il freddo. Sarebbe sceso a controllarle se non avesse conosciuto i cavalli. Non si poteva dire che non se ne intendesse, d’altronde: il primo cavallo gli era stato regalato per il suo quinto compleanno, dalla zia Corinne. Era sotto la sua tutela da due anni, allora, e Hector, come l’aveva ribattezzato, era un espediente che la zia aveva usato per intrattenerlo.
Hector! Quanti ricordi si ricollegavano a quella dolce bestia. Era un cavallo inglese dal manto roano, con una macchia scura intorno all’occhio destro. Al garrese la sua altezza superava il metro e sessantacinque e lui non era mai riuscito a sellarlo da solo. Si faceva sempre aiutare da Joseph, lo stalliere della tenuta della zia. Joseph! Da quanto tempo non aveva più sue notizie… l’ultima volta che lo vide fu nell’autunno di circa due anni e mezzo prima. Non gli aveva parlato. Si era intrattenuto molto alla tenuta, ma non aveva ottenuto di vederlo. Il conte non era dell’umore giusto in quel periodo.
In verità, dell’umore adatto non lo era più stato.
D’un tratto la carrozza sobbalzò e il conte si ridestò dal suo flusso di coscienza. Battendo due volte la testa del bastone sul tettuccio dell’abitacolo, disse – Cosa è stato, Edgard?
- Oh nulla, signor conte! – balbettò il cocchiere, lanciando un’occhiata preoccupata alle ruote anteriori. – Nulla… solo un… un ramo!
Il signor Langley assentì, poco convinto. – Sei sicuro?
Edgard annuì vigorosamente, come se il conte fosse lì, davanti a lui, e dovesse rassicurarlo. – Sì, signore! – esclamò, sperando che le ruote posteriori non si fossero danneggiate.
Dentro l’abitacolo l’uomo sbadigliò e in sé, improvvisamente, mentre il suo sguardo vagava nella quasi totale oscurità, avvertì un flusso impercettibile, una particella, risalire su, attraverso tutti i canali possibili – che fossero i vasi sanguigni, i neuroni o il midollo spinale – e fargli scattare qualcosa. In un attimo, nel buio, appena sotto la visiera del cilindro, le sue sopracciglia si incurvarono e gli occhi gli si illuminarono di una luce nuova. Scattavano da un lato all’altro in preda ad una frenesia inconsueta, mentre, come messe d’accordo, le mani stringevano nervosamente la testa del bastone, i denti digrignavano, dietro le labbra semichiuse.
Lo scalpitare degli zoccoli sulla terra battuta, lo sbuffo impaziente dei cavalli, le ruote sul pietrisco, le esortazioni di Edgard, il suono potente del vento attraverso le fronde degli alberi, il cinguettio degli uccelli.
Forse doveva piovere… o forse no? Il verso degli uccelli non era frenetico, irrequieto. Era… dolce. Perché doveva sempre piovere? Non poteva spuntare il sole una volta e per tutte?
Le mani corsero al portellino della carrozza, poi cambiarono idea, le dita indugiarono, si posarono sulle pieghe formate dalla tendina; i suoi occhi grigio verdi ebbero un guizzo e, vogliosi di luce, istruirono le mani e la bocca su ciò che avrebbero dovuto fare. Non l’aveva desiderato e non lo desiderava neanche adesso, ma, improvvisamente, irrazionalmente, sentiva di poterlo fare. Spalancò la tendina con un unico, rapido gesto, lasciando che la luce gli carezzasse il viso.
Non aveva più voglia di stare seduto e la carrozza stava costeggiando un prato verde. Batté due volte la testa del bastone sul tettuccio e gridò ad Edgard di fermarsi.
Il cocchiere tirò a sé le redini con un gesto fermo dei polsi. – Signore, non siamo arrivati!
Il signor Langley non aspettò neppure che i cavalli si fossero fermati del tutto. Aprì lo sportello della carrozza e guardò incredulo il paesaggio che si spiegava di fronte a lui. A pieni polmoni inspirò il vento che gli fece cadere il cilindro, gli scarmigliò i capelli, sollevò il bavero del suo cappotto.
- Vi sentite bene, signore? – chiese Edgard saltando giù dal mezzo.
Ma il conte non stette ad ascoltarlo. Edgard gli rivolse un’occhiata preoccupata, avvicinandoglisi un po’ - Signore?
- Edgard? La senti?
Il ragazzo tese l’orecchio, allarmato. – Cosa?
Il conte inspirò un’altra volta. Sopra di loro un cumulo di nubi si andava addensando velocemente, minacciando altra pioggia e il vento aveva mitigato la sua intensità. – La Primavera. Sta arrivando – sussurrò girandosi verso di lui.
 
 
Il conte era partito da poco quando Anya e Mary entrarono in cucina.
- Capitano, quali sono gli ordini del giorno? – esclamò la cameriera sedendosi sul tavolo.
La cuoca le rispose indicando svogliatamente i secchi che Anya aveva lasciato in cortile, sul carretto. Mary seguì la direzione del suo dito con un movimento rapido del capo ed obbedì – Ma dove si è cacciata Adele? – mormorò prima di uscire.
Anya seguì tutta la scena da un angolo della stanza. Greta stava tagliuzzando del formaggio stagionato e lei si sentiva in imbarazzo. Profondamente in imbarazzo.
Ma dov’era Margareth? In casi come questi le sue parole riuscivano sempre a confortarla, come era stato anche durante la malattia, quando la rassicurava dicendole che non pesava affatto sul conte e che doveva stare tranquilla, che un posto l’avrebbe trovato e che Sperty non sarebbe tornato a molestarla. Involontariamente lanciò un’occhiata alla porta della cucina, mentre le sue mani stringevano i bordi della superficie di pietra alla quale si era poggiata con il sedere.
- Il pavimento è sporco. Bisogna spazzare. – disse Greta.
Anya sollevò le sopracciglia, sorpresa.
- Dico, almeno questo puoi farlo? Rientra nelle tue possibilità?
- Certamente – mormorò perplessa, afferrando la scopa.
- Adele, cosa stai facendo?
La ragazza levò gli occhi sulla porta del cortile, ma non vi vide nessuno e continuò a pulire.
- Anya?
- Sì, Greta?
- Farai finire la polvere nel cibo così – disse indicandole la breve distanza tra lei e la casseruola in cui stava buttando il formaggio. – Se ci finiscono dei capelli, cosa racconto al signor Langley? E dove hai messo la cuffia?
Anya si strinse nelle spalle, cercando di giustificarsi.
- Guarda che se il conte trova dei capelli nel suo piatto non farò certamente ricadere la colpa su di me!
- Greta! La cuffietta è volata via a causa del vento, mentre mi recavo nella fattoria dei signori Sellers. Non l’ho più indossata perché è caduta in una pozzanghera e si è impregnata di fango… allora avevo deciso di lavarla, ma dato che Mary mi ha detto che avrebbe fatto il bucato con le altre, questa mattina, l’ho affidata a lei e siamo entrate per aiutarti! E se anche il conte troverà dei capelli nel suo piatto – riprese dopo un attimo di pausa – non credo che gli mancheranno le capacità per distinguere un capello rosso – si indicò la chioma – con uno biondo!
Quando tentò di riprendere fiato, una fitta al torace glielo mozzò in gola. Greta impallidì, ma si girò in fretta, vedendo che Anya non aveva bisogno di aiuto.
- Domani ci sarà il mercato, no? Vedrò di comprare quello che mi serve… anche una cuffietta.
- Non è questo il punto, Anya!
- E quale allora?
- Svolgere compiti che, in casi normali, dovrebbero essere un tuo appannaggio, insieme a ciò che mi tocca fare a partire dalle cinque di mattina, mi sta facendo uscire fuori dai gangheri!
- E’ proprio questo il motivo per cui voglio riprendermi. Intendo essere utile a te e a tutti gli altri… se in questo periodo non mi vedete all’altezza di questo compito, vi prego di perdonarmi per il tempo che vi ho fatto perdere, e di pazientare, se possibile! Non è colpa mia se mi trovo in questo stato… - concluse pensando al momento dell’aggressione. Quando la sua mente mise a fuoco il volto di Sperty e quelli dei suoi scagnozzi, un brivido pungente le risalì lungo la schiena.
Greta sbuffò, affranta. Non poteva dire che Anya non avesse ragione. – Mi dispiace – mormorò, spostando una fastidiosa ciocca di capelli con il dorso della manica. – E’ che sono stanca… avrai visto quante bocche da sfamare ci sono, quanto sia esigente il signor conte. Non è facile fare un lavoro e mezzo in un giorno, Anya. Ma… - sospirò pensando a ciò che il signor Langley le aveva detto poco prima - … allo stesso tempo non posso pretendere che tu, nella tua condizione, faccia dei lavori pesanti. Almeno non fino a quando il signor Bowles ci darà il “via libera”.
Anya rise, mimando un’espressione preoccupata.
- Fai bene ad avere paura. Ci sarà da faticare, sai?
- Beh, non me ne preoccupo.
Ci fu un breve attimo di pausa. Poi Anya, assalita da un dubbio, riprese a parlare. – A che età hai iniziato a lavorare, Greta?
La donna sorrise nostalgica. – Avevo la tua età. All’epoca abitavo nei pressi di Dungarvan, con i miei zii. Avevo bisogno di un lavoro, così chiesi un po’ in giro e scoprì che un vecchio medico, scapolo, cercava qualcuno che cucinasse per lui. Allora andai a vedere di cosa si trattasse e il giorno dopo iniziai a lavorare. Non cucinavo niente di speciale, ma lui era molto felice e mi pagava bene; poi curava anche i malanni dei miei poveri zii gratuitamente…
- Quanto lavorasti lì?
- Oh beh… - Greta sembrò pensarci su - … circa un paio d’anni, il tempo di imparare alcuni trucchi del mestiere. Poi lui si ammalò e dopo poco più di una settimana morì. Mi dispiacque molto. Sai, mio padre andò via prima che io nascessi e io crebbi con mia madre. Non avevo mai avuto delle figure maschili di riferimento e perdere l’unico uomo che era riuscito a rivestire quel ruolo, fu assai triste.
- Mi dispiace… - mormorò Anya. La cuoca fece spallucce. – E in casa del signor Langley come ci sei finita?
Greta le passò un grosso cavolo ricoperto di foglie ed un coltello. Anya constatò che fosse stato già pulito. – Tieni, taglialo a fettine sottili.
Anya si sedette al tavolo e iniziò a lavorare, rivolgendo a Greta uno sguardo d’attesa.
- Dopo che il medico morì io tornai a casa dei miei zii, nelle campagne di Dungarvan. Rimasi con loro fino a che non compì ventisei anni. Avevo già rinunciato alla prospettiva di potermi sposare e avere una famiglia tutta mia, così mi misi a caccia di un altro posto da cuoca. Trovarlo non fu semplice: oltre che a me dovevo badare anche ai miei zii, che il tempo stava mettendo a dura prova. E poi c’era il freddo. Io ero l’unica in casa che tagliasse la legna!
Anya rise. – Un donnone!
- Già! Una mattina, con gli spiccioli avanzati dalla spesa, acquistai il quotidiano del paese e da un contabile mi feci leggere gli annunci di lavoro. Scoprì che un nobile stava cercando qualcuno che potesse preparare il banchetto per una festa. Non era di Dungarvan, ma vi si trovava di passaggio. Si chiamava Richard Langley ed era il conte di Waterford.
- Il padre del signor conte?
- Proprio così – annuì Greta raccogliendo le prime fettine di cavolo tagliato e buttandolo in un tegame. – Il mio primo colloquio di lavoro con lui fu alquanto bizzarro, perché mi chiese di “entusiasmarlo” con una mia pietanza. Mi concesse una giornata di tempo e dei soldi per comprare il necessario.
Anya levò gli occhi su di lei. – Cosa gli preparasti?
- Cucinai ciò che avevo fatto più volte: carne speziata al forno con patate e frittelle di mele.
- E lui?
- Mangiò a sazietà e… quando finì mi fece alcune domande e poi mi informò di volermi assumere. Solo in quel momento mi accorsi di ciò che mi attendeva: vivere in una città diversa, lontana alcune decine di miglia da Dungarvan. Io avevo un tetto assicurato in casa del conte Langley, ma i miei zii no. Loro erano vecchi e intendevano rimanere dove erano nati e sempre vissuti. Quando tentai di convincerli non ottenni nulla e così partì senza di loro, accodandomi al seguito del conte.
- Iniziai a lavorare per il signor Langley dallo stesso momento in cui misi piede nella sua incantevole casa.
La ragazza sorrise. – Quindi sarà già una bella decina di anni che lavori qui, no?
- Oh cara! Ti ringrazio per il complimento, ma non sono così giovane! Ho compiuto quarantadue anni alla fine dell’anno scorso. E poi non ho sempre prestato servizio qui. In questa tenuta il signor Langley (figlio) c’è venuto ad abitare appena prima di sposarsi, circa cinque o sei anni fa. Insomma è una storia complicata…
Anya assunse un’espressione dubbiosa. - Scusa, ma il signor conte ha lasciato la casa dove abitava per venire a vivere qui, in campagna?
- No, perché prima stava dalla contessa Corinne Langley, sua zia.
- Oddio… - mormorò la giovane confusa, portandosi una mano alla fronte – temo di non aver capito.
In quel momento in cucina entrò Margareth. aveva un aspetto trafelato e, al solito respiro calmo e profondo si era sostituito un leggero fiatone. Quando la vide sorrise sollevata. – Sei qui! Finalmente!
- Margareth… mi cercavi?
La donna annuì, deglutendo. – Greta, posso rubartela per un paio di minuti?
- C’è Bill? – chiese sorridendo.
- Sì.
- Beh, Anya. riprenderemo il nostro racconto quando tornerai.
La ragazza lanciò un’occhiata alla parte di cavolo che non aveva ancora tagliato. – E questo?
- Ci penserai dopo! Vai con Margareth, adesso.
La governante afferrò Anya per un braccio e la tirò a sé, trascinandola in cortile.
- Dove mi stai portando, Margareth? – disse seguendola.
La donna non le rispose. Camminarono fino ad oltrepassare il cancello della tenuta, poco dopo il quale, fermo sul ciglio della strada, Anya scorse la figura di un uomo messo di spalle. Quando Margareth lo chiamò e lui si girò verso di lei, la giovane constatò che poteva avere una sessantina d’anni, all’incirca. Si chiamava Bill e aveva i capelli e la barba grigi e un accento inglese.
- Anya, lui è Bill. Bill, lei è Anya – disse, e l’uomo chinò il capo di lato in segno di saluto. – Vende roba usata e di tutte le qualità. Passa di qui ogni Sabato – continuò.
- Salve, Bill – fece Anya.
- Bene, vecchio mio. Cosa ci hai portato di bello, questa settimana?
L’uomo scoprì una parte del carico, mettendo in vista delle piccole chincaglierie e oggetti di vario tipo. – Siete fortunate, perché nel lasso di tempo che non ci siamo visti ho avuto la possibilità di fare ottimi affari con dei mercanti stranieri… ad esempio, un cinese mi ha ceduto questo vecchio carillon e questi ventagli colorati – disse porgendone un paio ad Anya. Margareth non lo stava ascoltando. Anya la vide impegnata a rovistare tra le cianfrusaglie di Bill: di tanto in tanto afferrava qualcosa, ma prima che essa fosse estratta completamente, la governante aveva già mollato la presa e stava ricercando dell’altro. Bill non la fermava. Probabilmente era tutta una questione di amicizia, ma l’azione di Margareth in quell’ammasso di roba portava sempre alla luce oggetti che lui non ricordava più.
- L’altro giorno, invece, mi è capitato di barattare delle cose con un antiquario. In cambio di alcuni bracciali e qualche merletto, lui mi ha dato questo – disse, ed estrasse dalla bisaccia che teneva a tracolla un vecchio carillon di forma ovale, grande abbastanza da entrare in un pugno. Era tutto ricoperto di una splendida vernice color indaco, sulla quale erano presenti dei ghirigori dorati in uno stile orientaleggiante. Qua e là facevano la loro comparsa delle minuscole pietre rosse.
- E’ bellissimo – mormorò Anya. Quando Bill lo schiuse, il carillon risuonò di una nenia metallica, dolce, ma disarmonica in alcuni punti, che ad Anya fece venire un tuffo al cuore. – Dove… dove l’ha trovato?
- Te l’ho detto. Me l’ha passato…
- Anya – la chiamò Margareth – vieni a vedere.
La ragazza distolse controvoglia lo sguardo dal carillon, che Bill si premurò di chiudere, e si avvicinò a Margareth.
- Guarda – disse la donna mostrandole una cuffietta, una gonna scura ed una camicia color panna – queste sembrano adatte a te.
Anya le tastò. – Sembra lana…
- Lo è.
Margareth prese la camicia per le spalle e la poggiò sul petto della giovane. Poi fece la stessa cosa con la gonna, che comparò a quella dell’abito che indossava. – Sono perfette. Bill, hai anche delle scarpe?
L’uomo sollevò le spalle. – Mi dispiace Margareth, ma no, non ne ho. Al massimo tratto qualche indumento…
La governante assentì. – D’accordo. Prendiamo queste, allora.
- Gonna, cuffietta e camicia?
Anya avrebbe voluto aggiungere anche il carillon, ma sembrava costare parecchio.
- Margareth, io soldi non ne ho! – le bisbigliò.
- Oh, non preoccuparti! – rispose con un vago cenno della mano. – Ci pensa il signor conte!
La ragazza vide passare una manciata di monete a Bill. – In che senso?
- In nessun senso! Tramite me, il conte ti ha anticipato una parte della tua paga mensile. Tutto qui – le sussurrò mettendosi vicina.
Prima di tornare Anya restituì a Bill i ventagli cinesi che lui le aveva messo in mano e gli chiese di tenere caro il carillon che le aveva mostrato.
Quando si girò verso di lei, mentre percorrevano il sentiero principale della tenuta, Margareth le allacciò la cuffietta intorno ai capelli e le affidò gli indumenti appena comprati.
Quel gesto, anche se del tutto improvvisato, regalò ad Anya una piacevole sensazione. Se prima era Anya Bacott, la smemorata, la sguattera, ora si sentiva Anya Bacott, serva del signor Langley e amica di tutti coloro che, come, e oltre, lei lavoravano per il conte. Ciò che teneva in mano, mentre percorreva gli ultimi metri che la dividevano dalla cucina, era la conferma del fatto che, adesso, poteva contare su qualcuno. E Margareth e il conte le erano vicini.

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Capitolo 13
*** Capitolo XII ***


Bentornati!

Dopo più di due settimane torno a farmi viva.
Posto in ritardo per evidenti motivi di feste… ho cercato in tutti i modi di terminare in fretta questo capitolo (che avrei dovuto postare prima di Natale) anche a costo di scrivere mentre i parenti intorno al tavolo giocavano a tombola o anche con le loro voci che mi raggiungevano in camera…
Mi sono impegnata molto e spero che questo capitolo soddisfi appieno le aspettative di chi mi segue. Inizialmente volevo dividerlo in due parti  (di cui questa era la prima), ma alla fine ho deciso di lasciar perdere e proseguire la storia con tutto il resto dei capitoli, senza prime e seconde parti…
Spero che abbiate trascorso un Natale sereno e allegro e mi auguro che, se così è stato, anche il Capodanno e tutto il rimanente carico di feste passi avvolto da un clima gaio e colorato.
Mi accomando mangiate tanto (senza eccedere e/o fare indigestione), non fatevi mancare niente, perché, tanto, il tempo per dimagrire c’è... badate a non bere se dovete guidare e la notte di Capodanno – scusate la ramanzina, ma questo è un discorso che faccio sempre^^ - lasciate che chi deve portare la macchina rimanga completamente sobrio!
Detto ciò, ringrazio chi mi segue e basta e chi mi segue e recensisce e vi auguro Buone feste^^
Baci e abbracci
Buona lettura,
Ale
 
 
 
An irish tale – Capitolo XII 
 
 
 
 
Due giorni dopo.
 
- Margareth, ti sarei grato se trovassi quei guanti al più presto possibile.
- Ci sta già pensando Ines, signor conte.
Il signor Langley sbuffò. – Sarei dovuto partire almeno un quarto d’ora fa, Margareth. Quella che sto facendo per colpa vostra è una cattivissima figura!
- Capisco, signore – tentò di scusarsi la governante, seguendolo su per le scale – ma, sapete com’è, Ines deve averli confusi…
- No, io non so com’è! – esclamò irritato l’uomo fermandosi a metà gradinata. – Hai mandato Ines sopra quasi mezz’ora fa…
- Ventidue minuti, per la precisione.
Il conte sospirò, riprendendo a salire e svoltando a sinistra, nell’area padronale della tenuta. – Saranno quel che saranno, Margareth, ma sto perdendo del tempo prezioso.
- Vedrete che riusciremo a trovare quei guanti, signore.
Nello stesso momento, Ines comparve nel corridoio con il paio di guanti in pelle nera che il signor Langley stava cercando. – Erano nel vostro baule, signor conte.
Quando la vide, stava per entrare in camera. – Alla buon’ora, Ines! C’eri caduta dentro al baule? – disse indossando i guanti mentre tornava velocemente indietro.
La donna alzò gli occhi al cielo e, accompagnandolo giù per le scale, stava per rispondere, quando Margareth la fermò, un’espressione eloquente sul volto.
- Margareth, non aspettatemi per pranzo – disse lui sbrigativo – immagino che sir Arthur e gli altri mi inviteranno a trattenermi al capanno dei cacciatori, questa sera. Non so ancora come si svolgerà la giornata, ma, dato il clima mite e “i vecchi tempi” che sir Rudolph ha la volontà di rivivere, credo che mi intratterrò al capanno.
- Vi sono possibilità di essere avvisata in tempo delle vostre decisioni, signore? – chiese Margareth camminandogli accanto.
- Porterei Anthony con me – rispose percorrendo a grandi passi l’ampio salone – anche se poco volentieri, ma sir Arthur mi ha assicurato che penserà a tutto lui. Lo seguiranno due servitori, quindi – e guardò entrambe le donne, fermandosi davanti la porta – non avrete di che preoccuparvi.
Margareth ed Ines si scambiarono una rapida occhiata, poi assentirono. La governante tenne lo sguardo chino a lungo, indecisa se parlare o meno. Poi, ciò che la tenne sveglia per gran parte della notte, procurandogli quelle tremende borse che si spiegavano fino agli zigomi, risalì come aria dai polmoni, dritta fino alla gola, dove si fermò per poi scattare nuovamente verso l’esterno. – Signor conte – iniziò, titubante – siete sicuro di volere andare?
Il conte le scrutò il viso. – Sì, Margareth – rispose incerto – perché me lo chiedi?
- Non lo so… - iniziò contorcendosi le mani - … ma c’ho ragionato molto…
L’uomo sollevò un sopracciglio.
- Oh… - sbottò con un cenno della mano – starete pensando che sia una stupida. A-andate pure.
Il signor Langley abbassò gli occhi sui guanti, che indossò distrattamente. – Sarà una giornata come molte altre, Margareth. Andrà tutto bene.
Lo voglio sperare. Pensò la governante.
Seguito da Ines, il conte uscì nel cortile, dove venne accolto da un saltellante Hunt, che gli girò più volte intorno, e dove Anthony teneva Fedor per le redini e ne controllava la salute delle zampe. Tra le braccia Margareth teneva la pelliccia di montone del conte. Erano le prime ore del mattino e c’era molto freddo.
- Ancora indecisa, Margareth? – le sussurrò con un lieve sorriso il conte. La donna lo aiutò a indossare la pelliccia. Se avesse detto di sì, avrebbe ammesso a sé stessa di aver mentito. La sua non era indecisione e neppure titubanza. Il suo era, e conosceva bene quella sensazione, un presentimento. Ma come dirglielo, senza che lui si insospettisse? Come dirgli che aveva dormito male tutta la notte, con quella subdola, brutta sensazione che le tendeva le pareti dello stomaco? Non poteva.
- No – mentì, sforzandosi di sorridere.
Il conte annuì, sistemandosi la pelliccia sulle spalle e guardò Fedor, sul cui dorso passò una mano, mentre si avvicinava allo stalliere. – Anthony, hai legato bene la sella? – chiese controllando egli stesso.
- Sì, signor conte. Anche i finimenti sono messi bene. Ho verificato più di una volta che non fossero troppo stretti – lo anticipò – né troppo larghi.
Il signor Langley assentì poco convinto, ma decise di non badare troppo a ciò che diceva lo stalliere. Controllò, piuttosto, che fosse tutto in ordine e si assicurò di avere tutto: fucile inglese da caccia? nell’apposita custodia affibbiata alla sella; pistola? nel fodero, che aveva affibbiato alla cintura; bende, nel caso qualcuno si fosse fatto male? Nella bisaccia legata alla sella. E poi: il pugnale, il cappello, un sacco per la selvaggina…
- Va bene – sbottò rivolto più a Margareth che al resto dei servi. – Sir Rudolph mi starà aspettando. Vado.
Il cuore di Margareth accolse quelle parole con due tonfi, che risuonarono, sordi, fino alle tempie. Avrebbe voluto fermarlo mentre montava in sella al suo amato Fedor, ma finì per trattenersi ella stessa, onde evitare figure sciocche. Con un gesto deciso tolse di mano lo scudiscio a Sam, che si accingeva a passarlo al padrone, e si accostò al conte, sollevando la frusta quanto bastava a costringerlo a chinarsi.
- Fa’ attenzione alla casa, Margareth – disse con il suo solito sorriso di convenienza, protendendo il braccio sinistro verso lo scudiscio.
Ma la governante fu più svelta di lui e, non appena il conte afferrò la frusta lei tirò piano un’estremità verso di sé, obbligandolo ad abbassarsi ulteriormente. Il signor Langley si accigliò.
- Esaudirò ogni vostra richiesta, signore, ma voi promettetemi di preservarvi e non cacciarvi in situazioni sconvenienti – disse.
Il conte la guardò per un attimo negli occhi, sorpreso dalla sua azione e preoccupato per il precario equilibrio a cui la governante lo costringeva. Per di più Fedor non vedeva l’ora di partire al galoppo e si muoveva nervosamente. Con la coda dell’occhio si guardò intorno. – Suvvia, Margareth – rispose – non sono un ragazzino…
- Promettetemi solo di fare attenzione, signor Langley – lo incalzò.
Lui annuì, confuso. Margareth allora lasciò andare la presa dello scudiscio e il conte si tirò su, mettendosi a sedere. Con voce ferma chiamò il cane da caccia a sé. Un colpo di tacchi alla pancia di Fedor dopo, la bestia partì al galoppo, sparendo in pochi attimi oltre il cancello della tenuta.
 
Anya assistette alla scena da un angolo del cortile. Si era poggiata su un muro insieme a Mary, con la quale stava scambiando qualche parola.
- Quindi ieri sei riuscita a parlare con i gendarmi? – le chiese addentando una mela gialla.
Anya si strinse nello scialle, annuendo. – Hanno voluto sapere tutto. Cosa era successo, quando. Cosa ci facevo lì e come c’ero arrivata…
- E tu cosa hai risposto? – domandò Mary con tanto d’occhi.
La rossa fece spallucce. – Ho detto la verità – e socchiuse lievemente le palpebre ripensando al giorno prima.
Mary assentì lentamente, continuando a masticare la mela. Dopo un po’, tirando su con il naso le chiese – Non hai avuto paura?
- Paura di cosa?
- Di parlare con le guardie… non ti tremavano le mani?
- Perché avrebbero dovuto? Insomma, io non ho fatto nulla di male…
La cameriera diede un altro morso alla mela. Nel cortile Anthony aveva appena affibbiato la sella a Fedor e lo stava facendo camminare per fargli scaldare i muscoli.
- A me succede sempre che mi tremano le mani, quando parlo con una guardia. Nel senso, anche se non ho commesso nessun reato, ho paura… ti guardano sempre con quegli occhi da gufo!
Anya rise, scuotendo il capo. D’un tratto la porta principale si aprì e lei vide uscire il conte, seguito a ruota da Margareth ed Ines. La prima teneva tra le braccia una pesante pelliccia, la stessa che aveva visto indossare al signor Langley altre volte; la seconda in mano non aveva niente, ma sembrava pensare a qualcosa. Il conte era imbacuccato in una redingote blu scuro, aperta sul davanti, che lasciava intravedere una camicia chiara ed un gilet molto probabilmente nero. Quando, dopo aver indossato la pelliccia, montò a cavallo, lo sguardo di Anya cadde inevitabilmente sul paio di pantaloni sportivi che mettevano in mostra le gambe atletiche. Gambe con le quali si aggrappò alla sella quanto meglio poteva, nel momento in cui Margareth lo costrinse a chinarsi. Allora il carniere scivolò lungo la sella, arrivando a pendere solo sul collo dell’uomo.
Non era molto lontana dal resto della servitù. Se avesse sollevato una mano e chiuso un occhio, ne avrebbe dedotto che Fedor era alto appena la lunghezza delle sue dita.
- Margareth non ha mai visto di buon occhio questo tipo di uscite.
Anya si voltò verso Mary, senza distaccare lo sguardo da Margareth ed il conte. – Cosa?
- Intendo dire che Margareth ha sempre mal sopportato le battute di caccia del signor conte. Primo perché non sopporta vedere le bestie morte che lui porta a casa. Secondo perché ritiene che uscite del genere siano pericolose… insomma, lo vede come un figlio.
- Come un figlio? – ripeté Anya, assorta. Mary le rispose dicendole che il conte era stato cresciuto ed educato da Margareth e un sacco di altre cose, ma Anya non le diede retta. Non sentì nulla di quello che la cameriera le raccontò. I suoi occhi erano puntati sul signor Langley e sul movimento delle sue sopracciglia mentre Margareth gli parlava. Vide la sua fronte corrugarsi più volte e lo sguardo correre in direzione delle zampe e del collo di Fedor e di Margareth, ogni qualvolta esso si moveva con scatti nevrili; poi lui si risollevò sulla sella e, spostato il carniere su un fianco, con un colpo di tacchi fece partire Fedor ad un galoppo trattenuto, fino a scomparire oltre il cancello della proprietà.
Gli occhi della governante seguirono il loro beniamino fino a che questi non venne nascosto dalle alte sagome degli alberi che costeggiavano parte del sentiero. Successivamente, sconfitti, si abbassarono e Margareth tornò dentro, lentamente.
- … non so se hai capito… - disse Mary in conclusione del suo discorso. Sul volto un’espressione ovvia, esigeva una risposta altrettanto soddisfacente.
- Come dici?
Mary scese dal muretto sul quale si era seduta. – Non mi stavi ascoltando, Anya?
- Mi… mi sono distratta un attimo… - si scusò. Una gelida folata di vento le investì e si strinsero entrambe negli scialli.
- Fa niente – disse la cameriera sollevando le spalle. – Io entro, fa freddo qui.
Anya assentì, avvolgendosi al meglio nell’ampio scialle di lana.
- Non vieni? – chiese Mary in procinto di entrare in cucina.
La ragazza annuì distrattamente, mentre l’ennesima folata di vento le faceva finire i capelli davanti agli occhi. – Sì, arrivo – la rassicurò per poi poggiarsi nuovamente al muretto di prima, lo sguardo rivolto al sole nascente.
Era Domenica. Giorno di festa.
Era Domenica e non avrebbe lavorato. La Domenica era un giorno di riposo, si andava a messa. Per questo ci si recava in città. C’era una piccola chiesetta, semplice, di stampo romanico. Si trattava di un edificio costruito di mattoni grossi e chiari, con qualche finestra in alto ed una grande porta di legno all’entrata. La pianta era costituita di una sola navata, ai lati della quale delle panche si susseguivano una dietro l’altra, e di fronte la quale un piccolo altare spiccava con qualche statua di Gesù Cristo e della Madonna ai suoi lati.
Anya seguiva il filone della religione cattolica, ma senza crederci troppo. Odiava l’ossessione.
Sebbene, a modo suo, religiosa, frequentare quella chiesa non le piaceva.
Lei che, seguendo gli insegnamenti di Aristotele, con il suo In medium stat virtus, aveva sempre cercato una via di mezzo tra la religione e la scienza; lei che si distaccava dal pensiero cattolico tradizionale, in quella chiesa proprio non si trovava a suo agio. C’era un prete, lì, un prete bigotto che si lasciava trasportare dal fiume delle parole in sermoni interminabili. Forse non se ne rendeva conto. Forse era l’età a fargli perdere la cognizione del tempo a quel padre Todd. Forse era l’idea di avere a che fare con molti analfabeti a convincerlo di poter loro insegnare la Bibbia e il Vangelo a memoria tramite i suoi discorsi.  O ancora, la lunghezza delle sue prediche poteva essere rintracciata nell’insonnia che lo teneva sveglio tutta la notte, provocandogli quelle grosse occhiaie grigie, e inducendolo a trovare rimedio alla noia scrivendo un bellissimo – e soprattutto divertente – sermone per la gente che andava a trovarlo tutte le Domeniche.
E se durante un monologo qualcuno osava interromperlo o turbare il silenzio che aveva seminato i tutta la cappella, guai! Dio si sarebbe sentito molto contrariato e avrebbe trovato il modo di castigarlo.
Per tutta la durata della prima messa, Anya, seduta accanto a Margareth, aveva potuto distrarsi e pensare ad altro, un rimedio come tanti al lento scorrimento delle ore, perché di ore si trattava; ma adesso che Margareth non sarebbe andata con lei, in quanto preventivamente e saggiamente deciso di recarsi al mercato con Greta, Anya si domandò quale razza di credulone si sarebbe ritrovata accanto.
L’ultimo discorso che padre Todd aveva rivolto ai suoi parrocchiani, girava tutto intorno alla questione della penitenza, del sacrificio, dell’astinenza dal peccato, della riflessione, della devozione, argomenti, secondo lui, necessari alla preparazione alla Pasqua. Il tono di voce perentorio, accusatore, lo sguardo arcigno e inquisitore, erano elementi caratteristici di padre Todd. Alla fine di ogni messa, la gente aveva quasi timore di uscire dalla chiesa. Il timore da lui inculcato nella mente e nell’animo di tutti colpiva proprio a fondo, scavando buche talmente profonde che la gente si chiedeva se fosse arrivato il momento di dare una svolta alla propria vita, chiedendosi, se necessario – e padre Todd mirava proprio a dare rilevanza alla sfera delle necessità – di lasciare ogni avere alla chiesa e trasferirsi in un monastero.
Padre Todd era mal sopportato anche dai mercanti. Bill lo odiava. Se gli affari domenicali andavano male, non era certamente a causa della scarsità di denaro. Bill, ad esempio, imputava la colpa a padre Todd, che con quelle sue parole da gallinaccia, da pensatore, riusciva quasi ogni volta a convincere la gente, le donne in particolar modo, a rinunciare al gingillo adocchiato un giorno o una settimana prima, perché in cotale maniera i soldi non sarebbero stati spesi affatto bene. Meglio se fossero stati devoluti alle casse della chiesa.
Neppure Margareth sopportava padre Todd. Da quel che ne sapeva Anya, la governante aveva avuto una lite accesa con lui, in gioventù in quanto egli l’aveva minacciata di farla rinchiudere in un convento. Le ragioni di quello screzio la ragazza non venne mai a saperle, ma le bastavano le occhiatacce che Margareth e padre Todd si scambiavano ogni volta che i loro sguardi si incrociavano.
- Anya… sei qui!
La giovane si ridestò dal suo flusso di pensieri. Tutto d’un tratto una campana di freddo l’avvolse ed un pungente brivido di freddo la risalì dai piedi alla testa.
- Sarà almeno mezz’ora che ti cerco! – esclamò Margareth. – Forza, preparati che dobbiamo andare …
Alla ragazza non venne neppure concesso il tempo di scusarsi. La governante rientrò con tutta fretta in casa, mentre Sam, nel cortile, legava Birra al calesse.
Si sentì ubriaca, quasi fosse stata svegliata di soprassalto… ed effettivamente ciò era appena successo.
- Ehi Sam… - lo chiamò. – E’ obbligatorio andare in chiesa? – chiese stufa, prima di entrare anche lei dopo la governante. L’uomo si bloccò un attimo, per poi stringersi nelle spalle, confuso quand’ella sparì.
 
Quella volta erano stati proprio fortunati e lui, naturalmente, un saggio sceglitore. Il pomeriggio precedente le nuvole sembravano essersi fatte più chiare, conseguenza della minore densità che le caratterizzava. Con il naso rivolto al cielo, mentre sua moglie Catherine gli narrava dei suoi acquisti mattutini, sir Arthur Rudolph aveva pensato che la sua previsione poteva anche essere errata. Nel senso, al diradamento delle nubi, non corrisponde sempre una buona evoluzione delle condizioni meteorologiche. Era un precetto insegnatogli dal professore Werner, l’insegnante che ne aveva guidati gli studi. Egli sosteneva che non è il colore delle nubi, l’elemento al quale bisogna rifarsi; bensì la loro altezza. Più alto è il banco di nubi, maggiori sono le possibilità che non piova, perché, evidentemente minori sono il peso e la quantità di goccioline che compongono le nuvole. Certo, stabilire in termini scientifici e precisi quanti metri le nuvole fossero distanti dal suolo terrestre e di quante goccioline esse fossero composte non era cosa facile; ma c’era un modo più semplice e veloce di classificarle: bastava solamente impararne i nomi.
Quindici anni prima sir Arthur sbuffava come una vaporiera mentre il precettore lo costringeva a lunghe lezioni di fisica, matematica e chimica; ora di quegli insegnamenti ne andava fiero e nelle discussioni attinenti a quelle tre materie, portava alto il nome dell’ormai defunto signor Joachim Werner.
L’indomani della sua previsione, sua moglie Catherine dormiva ancora, mentre nel cortile antistante l’ingresso erano già pronti gli equipaggi della caccia ed un calesse. I tre cani da caccia, due setter irlandesi, dal pelo marrone scuro, ed un danese dal manto color miele, dopo aver abbaiato e mugolato a sazietà, attendevano ansiosi l’uscita del padrone dalla porta principale.
Stephan, il servo più fidato del duca Rudolph, stava occupandosi delle pistole e del fucile da caccia inglese del padrone. Sir Rudolph gli aveva raccomandato una sola volta – come faceva quando esigeva che l’ordine fosse portato a termine il più presto possibile – di badare bene che le canne fossero pulite e che le guarnizioni fossero oleate a dovere. I latrati ed i versi di Marjon, Argo e Laska, con la loro continuità e persistenza, gli diedero presto sui nervi e fu più volte sul punto di tirar loro una pietra per farli tacere, fosse anche solo per un minuto. Ci si metteva anche il duca, adesso, con i suoi ordini… ma dov’era finito?
 
Casa del duca, area padronale. 
 
- Il sole non è ancora sorto, ma lo sarà tra poco. Jules, io adesso vado. Ti raccomando la duchessa. Ti ho già riferito la diagnosi del medico: potrebbe essere una gravidanza.
Il maggiordomo chinò solennemente il capo. – Sì, signore.
- Bada che riposi e che non si circondi di bambini. Potrebbe sfuggire un urtone…
Jules annuì un’altra volta.
- Non ci voleva la venuta di sua sorella – mormorò più a sé stesso che al domestico.
- Oltre questo, ci sono ordini particolari, signor duca?
Sir Arthur lanciò un’occhiata ad una delle alte finestre del corridoio. Attraverso di essa vedeva il cielo, velato di alcune sfumature rosee mentre l’azzurro della notte regrediva man mano. Uno degli infissi era aperto per favorire il ricambio d’aria e ne entrava la frizzante e gelida brezza del mattino.
- Fai chiudere queste finestre – disse indicando con un gesto del braccio la fila di infissi del corridoio. – Di freddo ne è entrato a sufficienza.
- Subito, signore – assentì Jules, mentre, con un cenno della mano, indicava ad un servo di eseguire l’ordine.
Sir Arthur riprese ad avanzare nel corridoio. Prima di imboccare le scale per il piano di sotto, si assicurò di aver preso tutto l’occorrente: il carniere, che aveva messo a tracolla, gli stivali in cuoio pesante contro il freddo e l’acqua, il cappello di pelliccia. Alle pistole e i fucili ci stava pensando Stephan, in cortile.
Abbassato lo sguardo su di sé e fatti gli ultimi programmi per la giornata, il duca scese in fretta, con gli stivali che scricchiolavano ad ogni passo. Jules era dietro di lui.
- Ti avevo detto di spalmarci un po’ di grasso, Jules!
- L’ho fatto, signore, ma credo che i vostri stivali siano troppo nuovi. E’ quasi impossibile trovare un rimedio…
Sir Arthur lo zittì con un gesto della mano. – D’accordo, d’accordo!
Imboccato il corridoio che dava all’ingresso, e uscito dalla porta principale, il duca venne accolto dal coro festoso dei suoi tre cani da caccia. Come sempre Laska, il danese, prese a mordicchiargli le mani e Marjon e Argo correvano insieme per il cortile, felici e convinti che il padrone avrebbe dato loro qualcosa da mangiare; erano, infatti, digiuni dal giorno precedente, perché – lui lo sapeva perfettamente – il digiuno avrebbe rafforzato il loro innato istinto di caccia e li avrebbe resi ancora più aggressivi.  Certo, non che gli servissero i cani per cacciare; quelli intervenivano solo nel caso la preda ferita fuggisse.
- Laska, a cuccia! – esclamò infastidito, allontanando le mani dalla portata del cane. Vedendo che la bestia non ubbidiva, se la prese anche con Stephan.
- Allontana questa mandria impazzita, Stephan! – il ragazzo lasciò nelle mani di Emer il cavallo che stava legando al calesse e corse dal padrone, afferrando Laska per il collare e trascinandolo via.
Nonostante il fastidio arrecatogli dall’alano, sir Arthur non poté fare a meno di sorridere. – Sarà proprio una fantastica giornata di caccia, con cani come questi!
Marjon e Argo fecero per saltare addosso al padrone, ma vennero bloccati da Sebastian, il servo che, con Stephan, il duca avrebbe voluto portare con sé. Quando i cani furono tutti e tre legati al gancio del muro fuori la scuderia, iniziarono nuovamente ad abbaiare.
- E’ impossibile tenerli fermi, come vedete.
- Sveglieranno tutti – commentò il duca, volgendosi in direzione della casa.
- Signore – lo avvertì Emer – i cavalli sono stati legati al calesse e anche il bilancino è pronto.
Il duca sollevò un sopracciglio, avvicinandosi al garzone di stalla e al calesse, sul quale era pronto a salire. – Chi hai usato come bilancino, Emer?
- Deak, signore. Proprio come avevate ordinato.
Il duca assentì, lanciando un’occhiata alle zampe dei cavalli del calesse.
- Prima di legarli io e Sebastian li abbiamo fatti passeggiare – lo anticipò.
Sir Arthur lanciò un’occhiata al cielo. I raggi del sole sfioravano già le cime delle colline, in lontananza.
- E’ ora di partire, signori! – gridò sedendosi sul calesse. – Via! Tieni i cani, Emer!
I cavalli partirono all’unisono al galoppo. Le ruote del calesse produssero un gran fracasso sulla terra battuta del cortile, ma fu un fenomeno di breve durata, poiché, presto, il codazzo di uomini, cavalli e cani si allontanò dalla vasta tenuta, oltre la quale la strada rese più facile e meno rumorosa la corsa.
Sir Coltfer e sir Benjamin Walter sarebbero partiti nello stesso istante. Il conte Langley, suo amico da sempre, li avrebbe raggiunti dopo.
Mentre si recava al luogo dell’appuntamento si chiese se la sua mira e l’abilità di cacciatore che l’avevano sempre distinto si sarebbero riconfermate. Era passato molto tempo dall’ultima volta che aveva fatto un’uscita del genere; era trascorsa esattamente una settimana dalla festa di San Patrizio. Sir Coltfer gli aveva dato buca e lui si era ritrovato solo in compagnia di Sir Walter e i loro rispettivi servi. Come giornata non era stato un granché; erano tornati a casa senza neanche un unghia di coniglio, oltre al fatto che il tempo era stato freddo e umido e l’animo di tutti era stato profondamente turbato dagli avvenimenti recenti. Quel triste incontro una settimana dopo il giorno di San Patrizio, era stata, più che altro, una scusa per parlare e avere notizie del Signor Langley, il cui dolore lo aveva portato ad esiliarsi dal resto del mondo. In quei giorni, infatti, nessuno di loro lo aveva visto. Sembrava essersi dissolto e pareva che la stessa sorte fosse toccata al figlio.
Certo era che si trovasse ancora nella tenuta, ma non voleva vedere nessuno, e da quanto era stato detto a Sir Rudolph, neanche la servitù.
Due anni dopo l’ultima esperienza di caccia, sir Rudolph non aveva più alcuna intenzione di buttare una giornata al vento.  A partire dalle previsioni del tempo, fatte da lui stesso, tutto era stato pianificato alla perfezione e, a costo di legarselo alla schiena come fosse un sacco di farina, avrebbe convinto sir Langley ad andare a caccia con lui e i suoi vecchi amici.
Accanto al calesse il bilancino trotterellava apatico. Sir Arthur gli leggeva molti anni di lavoro negli occhi liquidi. Gliel’aveva venduto il signor Langley, quando,  un pomeriggio sir Rudolph era riuscito a incontrarlo nella tenuta.
- Gliene hai data biada a quel ronzino, Emer? – gridò tirando a sé le redini dei cavalli per rallentarne la corsa.
Il servo rise. – Parlate di Deak, signore?
- Proprio così… allora, gliene hai data?
- Certamente, signore, ma…
Il signor Rudolph fece per girarsi verso di lui, ma un tratto accidentato della strada lo costrinse a mantenere lo sguardo su di essa. – Ma?
- Anche se non gliene dessi – ridacchiò – non farebbe alcuna differenza. Non  credete anche voi?
Il fragore della risata del duca soverchiò quella di Emer. – Già… guardalo un po’! Anche se lo facessi portare al mercato, dalla vendita non guadagnerei più di cinquanta pence!
Il calesse subì alcuni scossoni. Sulla strada la pioggia e la neve avevano scavato delle buche alquanto profonde e tratti di roccia erano venuti fuori, creando difficoltà a chi viaggiava su mezzi con le ruote.
Visto che le circostanze lo permettevano, si lasciò sfuggire qualche imprecazione ad alta voce, ma non appena le condizioni della strada tornarono alla normalità e la parte razionale del cervello di sir Rudolph riprese il sopravvento, egli riacquistò un certo tono e si preparò all’incontro con i compagni.
In lontananza riconosceva già le loro sagome: il cappello verde di Sir Walter e la pelliccia scura di sir Coltfer.
 
*        *        *
 
- Allora, qual è il programma di oggi? – domandò sir Coltfer, ben contento di veder l’amico Paride. Quest’ultimo si era unito da poco, dando la colpa del suo ritardo alle numerose pozzanghere incontrate nel cammino.
- Il programma è il seguente: ci sposteremo verso est, avvicinandoci a Campile, dove ci fermeremo per il resto della giornata. Dalle pianure e le colline presenti da quelle parti sarà molto facile avvistare qualcosa. Per di più che sta arrivando la Primavera e gli uccelli migrano verso i territori più caldi.
Sir Rudolph guardò i compagni, soddisfatto della risposta. Il giovane sir Walter, però, non era dello stesso avviso. – Più caldi? Arthur, dobbiamo essere grati al Divino se non ci si congela il sedere! – disse soffiando tra le mani chiuse a coppa e sfregandole tra di loro.
Sir Coltfer rise. – Avete proprio ragione Benjamin, ma dobbiamo considerare che è ancora l’alba e la giornata si prospetta essere buona. Non cadrà neanche una goccia di pioggia e questo vento – disse in riferimento alla corrente fredda che sferzava il viso di tutti – andrà via presto.
Sceso da cavallo, il signor Langley ascoltava i compagni in silenzio. Poggiato alla sua gamba, Hunt respirava velocemente per la corsa, mentre Fedor ogni tanto scoteva il capo, sbuffava e gli schizzava un po’ di saliva sui pantaloni. Negli ultimi istanti ne aveva prodotta un bel po’, di una colorazione verdastra. Anthony doveva aver lasciato che mangiasse qualche ciuffetto d’erba, prima di mettergli il morso.
- Torneremo a casa con le camicie grondanti di sudore! – aggiunse sir Coltfer con un’espressione gaia. Il conte gli sorrise di rimando.
- E per il fiume non ci passiamo? – chiese Benjamin tornando al discorso di prima.
- Non avete detto che c’è freddo, Benjamin?
- Sì, Arthur, ma al fiume ci sono un sacco di possibilità di trovare selvaggina…
-… e un sacco di possibilità di cadere in acqua! Il tempo è bello, ma ha piovuto da poco e la corrente del fiume è impetuosa – ribatté ovvio. La verità era che non desiderava avventurarvisi. Quella della corrente era solo una scusa, perché gli era capitato di cacciare in quei posti. Sir Benjamin era molto giovane e perciò, provenendo dalla città, non conosceva la campagna e gli si potevano raccontare tutte le frottole di questo mondo, perché vi avrebbe creduto.
Ma Paride e William quei posti li conoscevano come le loro tasche e quando sir Rudolph parlò lo guardarono perplessi.
- Arthur, per favore, è una posto magnifico! – proruppe William.
Il duca lo fulminò con lo sguardo, badando a non farsi vedere da sir Walter. Poi disse – Magnifico sì, ma anche pericoloso. Ci passeremo un’altra volta.
Benjamin assentì, poco convinto, e si preparò a montare in sella.
La zona del fiume era troppo ricca per andarci in quattro e sir Rudolph accennò un sospiro di sollievo quando Benjamin lasciò perdere.
Mentre montava in sella il signor Langley riconobbe il cavallo che Arthur aveva usato come unico bilancino. – Ehi, ma quello non è Deak?
Il duca si girò verso di lui, poi lanciò uno sguardo a quello che neppure una volta, se non per sbaglio, avrebbe osato definire un cavallo, nonostante Deak fosse ancora giovane e di bell’aspetto.
- Ah, lui? Sì, è proprio Deak – disse schioccando le redini sulla schiena dei cavalli del calesse.
- E’ dimagrito rispetto all’ultima volta.
Hunt corse dietro il cavallo del padrone. Tenuti al guinzaglio dai servi del duca, Marjon, Argo e Laska presero ad abbaiargli contro.
- Emer tieni fermi quei cani! – gridò al ragazzo. Indicando Deak con un gesto del capo e simulando un’espressione preoccupata rispose alla constatazione dell’amico – Già, è molto magro. Mangia tuttavia, e… credo che sia stato il movimento a farlo rinsecchire così.
Il conte si spostò sul fianco destro del calesse, dove era legato Deak, e squadrò il cavallo, molto poco convinto. – Se è vero ciò che dici, che mangia, si muove e tutto il resto, allora dovresti farlo visitare. Un così evidente calo del tono muscolare non è normale.
- A proposito di tono muscolare... – intervenne sir William, che aveva ascoltato tutto il discorso – quando mi venderete il vostro cavallo?
- Spero stiate scherzando, William! Fedor non si tocca! – rispose il conte dando una pacca sul collo dell’animale.
- Non avevo mai visto un cavallo del genere.
Il signor Langley sorrise, orgoglioso del suo destriero. L’aveva comprato in Olanda, durante un viaggio di piacere.
Poi, ricordandosi di Deak, lo guardò tristemente. Doveva certamente essersi ammalato.
In fondo al cuore si pentì di averlo ceduto al duca.
- Quindi ci dirigiamo verso le campagne di Campile – proruppe sir Walter, in groppa al suo elegante grigio – Sono ricche come dice il duca, Waterford?
Il signor Langley avrebbe voluto scuotere la testa, ed effettivamente fu sul punto di farlo; ma uno sguardo dell’amico lo convinse a desistere. – Sì – balbettò – sono piene di conigli, di beccacce... e non di rado si incontra anche qualche fagiano…
Sul viso del ragazzo comparve un’espressione sorpresa e felice. In breve le guance si colorarono dell’euforia del cacciatore.
- Vi siete trasferito qui da tanto, Walter?
Benjamin pressò il tallone sinistro sul ventre del cavallo, facendolo girare verso destra. Messosi accanto al conte rallentò, tirando a sé le redini. – Non molto. Sono trascorse due lune esatte.
Langley trattenne un sorriso di fronte a quel modo di parlare. Sir Walter si esprimeva come se avesse davanti uno straniero e scandiva le parole come un avvocato. – Avete trovato il paesaggio di vostro gradimento?
L’altro annuì. – Vengo dalla città di Cork, ma l’Irlanda sembra essere selvaggia dappertutto.
- Una vecchia bisbetica e in vena di capricci.
- Proprio così – disse, guardando in alto. – Spero solo che non piova.
Il conte seguì la direzione del suo sguardo. In cielo non vi erano nuvole ed i raggi del sole erano pronti a ferire i loro sguardi, mentre si dirigevano nelle campagne di Campile.
Quando riabbassò gli occhi sulla strada fece appena in tempo a vedere Hunt scattare verso il ciglio della strada. Lo chiamò, ma il cane sembrava aver puntato qualcosa di interessante.
Sir Rudolph osservò la scena dal calesse e rimase innegabilmente contrariato nel constatare che i suoi cani non avevano fiutato alcunché.
- Permettete, Walter – si scusò il signor Langley prima di far muovere Fedor dietro il cane da caccia.
- Avrà sicuramente puntato una bella femmina! – gridò il duca al conte che si allontanava.
Su Fedor, Langley rincorse Hunt fino al bosco che confinava la strada. Da lontano vedeva solamente la sua coda alzata e il pelo dietro le cosce muoversi per la corsa. Galoppare tra gli alti alberi non era affatto facile e presto fu costretto a rallentare il passo del cavallo ad un trotto baldanzoso.
D’un tratto, giunto in una radura, si fermò e si guardò indietro. La strada era ancora visibile.
– Hunt! – gridò, scendendo da cavallo. – Hunt!
- Langley, problemi?
Il conte si voltò di scatto. Non si era accorto della presenza di sir Coltfer.
- No. Starà sicuramente inseguendo qualcosa.
William assentì e smontò anche lui. – Cavallo possente e cane da caccia micidiale. Avete altre sorprese, Waterford?
Il conte abbozzò un sorriso. In lontananza la sagoma di Hunt ricomparve tra i cespugli, qualcosa tra i denti. Quando lo vide Langley si chinò, pronto ad afferrare ciò che il cane gli aveva portato.
- Un coniglio? Hunt!
Nel momento in cui tentò di afferrarlo, Hunt schivò, ma il conte lo afferrò per la collottola e gli strappò la preda dalla bocca. Era un grasso coniglio grigio, con il pelo soffice. Infilandolo nel carniere, Langley provò una strana sensazione nel sentirlo ancora caldo.
Il cane abbaiò. Il conte estrasse un piccolo premio dalla tasca e glielo lanciò. – Te lo meriti – disse dandogli una pacca sul capo, prima di montare di nuovo in sella.
Quando lui e sir Coltfer si riunirono alla compagnia, questa aveva percorso un breve tratto di strada in più, prima di fermarsi ad aspettarli.
Alla vista di Hunt i cani di Arthur ripresero ad abbaiare.
- Stephan, zittiscili!
- Signore, mi chiedete l’impossibile!
- Trova il modo! – esclamò irritato il duca, mentre il calesse ricominciava a muoversi con difficoltà nel selciato pieno di buche e pietre.
- Dovreste liberarli, Rudolph – gli consigliò Coltfer avvicinandosi al calesse – chissà che non catturino qualcosa anche loro…
Il duca sbuffò spazientito, spronando i due bai ad un’andatura più veloce.
- Già… - sbuffò.
Con un cenno del capo ordinò al servitore di slegare i cani da caccia. Quando Stephan obbedì, le bestiole scattarono rapidi alla ricerca di qualcosa; i due setter parevano imitare Hunt, con il naso che sfiorava il selciato e gli occhi vigili, mentre Laska, il danese, corse verso il calesse, abbaiando al padrone. Sir Rudolph lo guardò, esasperato, e sperò che il resto della giornata sarebbe stato meno faticoso.
Aveva creduto che le abilità di sir Coltfer e sir Langley si fossero ormai arrugginite e invece ciò non era accaduto: il primo, aveva centrato il nodo di un albero, ad una decina di metri di distanza, mentre provava uno dei suoi due fucili; e il secondo, nonostante il tempo trascorso lontano dall’ambiente rupestre, gli aveva dimostrato di avere un cane da caccia in perfetta forma ed un cavallo eccellente, oltre che un buon senso dell’orientamento. Poteva solamente sperare di battere sir Walter, ma anch’egli pareva essere dotato di un equipaggiamento di prima qualità.
E poi c’era Deak, il bilancino. Il cavallo, o, come lo definiva lui “ronzino”, che lo avrebbe aiutato in caso d’emergenza.
La giornata di caccia era iniziata da poco e lui aveva inconsapevolmente riconosciuto di essere in difficoltà.
Quello che lo attendeva era un lasso di tempo che sarebbe passato lentamente.

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Capitolo 14
*** Capitolo XIII ***


An irish tale - Capitolo XIII



Quando si avvicinarono ai dintorni di Campile il sole era alto in cielo e i suoi raggi carezzavano dolcemente l’erba alta delle colline. Il paesaggio era naturale e molto suggestivo. Hunt, Marjon, Argo e i cani di sir Coltfer si buttarono a capofitto in quella distesa verde, correndo e saltellando come dei bambini.
Mentre li osservava il signor Langley si tolse la pelliccia. Se si fosse guardato allo specchio avrebbe visto le guance rosse per il caldo e i capelli scombinati. Perfino Fedor era sudato: sotto i finimenti la sella si era formata una patina di schiuma e lo schema della cavezza gli si era disegnato sul muso con la linea scura del sudore.
Nel momento in cui si fermarono le narici dell’equino erano dilatate e i muscoli tesi.
- Avete dubitato di questo posto per tutta la durata del viaggio, Walter – proruppe Sir Rudolph – dite, siete ancora dello stesso avviso? – scherzò.
L’altro si strinse nelle spalle, appena sceso da cavallo. Un leggero vento freddo spirava da ovest e gli scarmigliò i capelli. – Mi convincerò del tutto quando avrò riempito il mio carniere tanto da farlo scoppiare.
La compagnia rise.
A quel punto Benjamin estrasse il fucile dalla fodera attaccata alla sella. Era americano, nuovo di zecca e gli intarsi argentati sul calcio risplenderono alla luce del sole. Quando sir Walter impugnò il fucile, con il gomito sollevò involontariamente un lembo della sua redingote, mettendo in vista anche la pistola, di cui solo l’impugnatura spuntava dal fodero in cuoio decorato legato alla cintura. Come il fucile, anch’essa doveva essere di produzione americana ed il suo valore era sicuramente molto alto.
Arthur vide Benjamin guardare il cielo un paio di volte, in un modo che simulava l’atteggiamento esperto di un cacciatore. Come si era immaginato lui stesso, quello non era proprio il luogo esatto dove poter trovare beccacce o uccelli selvatici e questo sir Walter non l’aveva certamente intuito.
Il signor Langley chiamò a sé Hunt con un fischio e lui, inseguito da Marjon e Argo, si affiancò a Fedor, con la lingua penzoloni. – Mi sembra un bel posto dove fermarsi – constatò rivolto alla compagnia. In un angolo trovò un appiglio al quale legare Fedor.
William aveva già sistemato il suo cavallo e il servo gli stava passando la cintura di proiettili.
- Infatti è questa la radura in cui ci fermeremo… - disse Arthur – ma solo fino a quando ci sarà luce. Poi ci sposteremo al capanno.
Langley legò Fedor accanto ad un albero, riparato dal sole. Slegata la sella, la poggiò accanto al resto dell’equipaggiamento e lasciò che il servo di Arthur finisse di occuparsi lui del cavallo.
- Lascia i parastinchi e la coperta – ordinò quando Stephan fece per rimuoverli – e fallo passeggiare un po’, dopo.
Osservò i movimenti di Stephan, mentre si aggregava al resto del gruppo, in compagnia di Hunt. Fedor era un cavallo di valore e lui provava un certo timore nel lasciarlo in mano a quel ragazzo. D’un tratto gli venne in mente Anthony e si chiese per quale stupido motivo non l'avesse portato con sé.

- Bene signori! La caccia comincia – esclamò Arthur quando tutti furono pronti a partire. – Data la grandezza e la ristrettezza insieme della pianura e del bosco propongo di dividerci in due gruppi da due. Come già concordato e provato in precedenti battute, Waterford verrà con me – disse indicando l’amico – mentre voi, Coltfer e Walter, andrete insieme – e fece una breve pausa, mentre rimuoveva la sicura del fucile inglese, con la canna rivolta verso terra – spero non vi dispiaccia.
I due scossero il capo e si inoltrarono impazienti nel bosco, preceduti dai rispettivi cani.
- Stephan, Emer, voi resterete coi cavalli – disse il duca indicando la radura.
Il conte caricò il fucile di proiettili e provò a sparare. Andava che era una meraviglia e il grilletto non si inceppava più, come in passato. Anthony aveva rimosso ogni traccia di ruggine e la canna nera adesso splendeva alla luce del sole. Tutto merito del grasso d’oca.
Langley e Rudolph si appressarono in direzione della pianura e prima che arrivassero alla fine del bosco, in lontananza si udirono i cani di sir Walter e di sir Coltfer abbaiare animatamente. Poi qualcuno sparò e uno stormo di beccacce si alzò in volo, precedute dal loro zirlio. In un battito di ciglio, sir Arthur tolse la sicura al suo fucile e, levata la canna in alto, sparò quattro colpi. Avendo miratole da dietro, credette di aver fatto padella, ma la corsa di Marjon e Argo gli indicò il punto in cui erano cadute due beccacce.
In tutto quel fracasso di spari, zirlii e abbaiare di cani, il signor Langley non poté mirare come si deve e i tre proiettili che furono espulsi dal suo fucile non colpirono neanche una penna d’uccello.
Hunt andò dietro i cani del duca, convinto che dovesse portare qualcosa al padrone, ma il ringhio di Argo e il fischio del conte lo convinsero a desistere.
Il duca si lasciò sfuggire una risata di soddisfazione, mentre inseguiva i suoi cani.
- Fossero rimaste vive, avrei potuto mangiarne le uova! – disse per niente dispiaciuto, mostrando le due beccacce esanimi all’amico. – Un maschio ed una femmina!
Il signor Langley si avvicinò al duca. Il cuore gli batteva ancora forte e nelle orecchie gli spari riecheggiavano come tra le montagne, rendendo ogni altro suono più ovattato. Perfino l’esclamazione del duca lo raggiunse con difficoltà.
- Già… due bellissimi esemplari – commentò, guardandoli appena. Rudolph infilò le due beccacce nel suo grande carniere e si affrettò a ricaricare il fucile. Langley lo imitò.
- Sembra che il tuo cane non voglia perdere tempo, oggi.
Il conte cercò il cane con lo sguardo, mentre estraeva qualche proiettile dall’astuccio, e lo trovò che fiutava la terra, con le orecchie triangolari ritte sul capo e la coda alzata. Pareva avesse capito lo stato d’animo del padrone e cercasse in ogni modo di aiutarlo.
- Sono impaziente di raggiungere il fiume – disse sir Rudolph tutto d’un tratto.
Langley lo guardò.
- Hai capito bene.
- Non avevi detto che fosse un cattivo posto?
- Oh Langley… - mormorò l’altro scuotendo il capo – ci hai creduto anche tu?
Il conte richiuse il fucile e se lo sistemò sotto braccio. Improvvisamente si sentì uno sciocco e l’espressione divertita del compagno lo infastidì leggermente. – Beh… no.
- Sì che ci sei cascato. Te lo si legge in viso – disse ridendo – Ma non preoccuparti, ti consolerai presto con tutto il ben di Dio che troveremo.
Così detto si rimisero in cammino e tra uno sparo e un altro alle beccacce che si sollevavano in volo, raggiunsero il fiume. Ci volle un po’ di tempo, ma il riflesso del sole sull’acqua cristallina e il gran numero di uccelli che si posavano sulle rive del fiume, riuscirono a consolarli da ogni turbamento.

* * *

Anna svuotò la brocca di acqua tiepida sulle spalle di Anya.
La messa era finita da almeno un paio d’ore e dopo una breve passeggiata al mercato Margareth le aveva detto di lavarsi. Non che puzzasse, ma la governante, come era già evidente, le aveva spiegato che la temperatura era aumentata e, di conseguenza, fare il bagno non sarebbe costata alcuna difficoltà.
Così si era ritrovata dentro una grossa tinozza, in sottoveste, bagnata dalla testa ai piedi.
- Non si potrebbe avere dell’acqua più calda? Solo poco di più… poco poco!
La lavandaia scosse il capo, un braccio che reggeva la brocca, la mano sinistra poggiata col dorso sul fianco.
- In Scozia sai come si lavano?
Anya fece di no con la testa, battendo i denti per il freddo.
- Si immergono nell’acqua calda, fumante – e mentre lo diceva Anya sognava di essere immersa in una fonte idrotermale – e poi si risciacquano con dell’acqua gelata – disse svuotando una brocca d’acqua fredda sui capelli ed il viso di lei.
La ragazza si passò le mani sul viso, senza fiato, poi strizzò i lunghi capelli. – Alla fine questi benedetti scozzesi si asciugano?
– Certamente – ridacchiò coprendola con un asciugamano.
Anya lo afferrò e si coprì come meglio poteva. Cercò un posto su cui poggiare i piedi bagnati, una volta fuori la tinozza, ma non lo trovò e camminò sul pavimento freddo.
- La tua costola come va?
- Meglio, grazie.
La donna sorrise di nuovo. – Va bene. Quando esci, chiama Mary.
Anya raccolse i suoi indumenti e si vestì. Fuori dalla porta Mary aspettava tutt’altro che trepidante di farsi il bagno.
- Hai già finito? – le disse.
- Proprio così – sussurrò solennemente.
La cameriera assunse un’aria sconfitta ed entrò nella lavanderia. Anya la guardò distrattamente e dopo andò un cucina, per asciugarsi i capelli di fronte il camino.
- Appena mi asciugo mi vado a coricare – sbottò risoluta pettinando i capelli di fronte al camino. Greta fece per intervenire, ma la sguattera la interruppe prontamente con un gesto della mano. – E’ una promessa!

E invece…

- Dovrei sbucciarli proprio tutti?
- Fino all’ultimo.
Anya guardò un’altra volta il sacco di fagioli e piselli che Greta aveva svuotato sul tavolo.
- Fammi indovinare: non ci sarà nessuno ad aiutarmi?
La cuoca scosse il capo. - Esigo che finisca in meno di due ore.
Anya strabuzzò gli occhi.
- E non fare quella faccia. Qui c’è il coltello, se può servirti, e qui il sacco dove mettere i legumi sbucciati – disse.
- Perché proprio oggi che è il mio giorno libero? – protestò contrariata.
- Non è certo colpa mia se ieri ti sei assentata per mezza giornata. Sbucciare i fagioli era un compito che avresti dovuto assolvere lo scorso pomeriggio.
- Ma sono andata in gendarmeria con il signor conte!
- Non è una giustificazione.
- Protesto.
- Anya…
- Greta non puoi obbligarmi!
La cuoca la fissò per un attimo, poi le venne un’idea. – Bene, vuol dire che questa sera non mangerai nulla. Andrai a letto digiuna!
La ragazza la guardò incredula. – Non puoi!
- Certo che posso. Io sono la cuoca, tu la sguattera. Se non fai come ti ho detto questa sera non avrai neanche una briciola di pane.
Anya si girò verso la porta che dava al cortile, assaporando l’immagine del sole che si specchiava sulle pozzanghere. Aveva tanto desiderato che arrivasse la Domenica per potere uscire, passeggiare, conoscere le terre di chi l’aveva salvata; ma adesso che era arrivato il momento non poteva. In quello stesso momento un uccellino cinguettante si posò sul bordo della pozzanghera e bevve un sorsetto d’acqua. Anya infilò una mano nella tasca del grembiule e sfiorò con le dita la fetta di pane secco che avrebbe spezzettato agli uccellini.
Vedendola titubare Greta insistette – Sta a te decidere, Anya. Io adesso vado via e torno fra non più di due ore. Mi piacerebbe trovare tutto in ordine al mio arrivo.
Gli occhi della giovane si appuntarono sul tavolo. Sospirando annuì e, lanciata un’ultima occhiata al cortile, si armò di pazienza e decise di lavorare. Sperava solo di finire presto; così almeno avrebbe avuto il tempo per una breve passeggiata.
Mentre Greta usciva lei si sedette al tavolo e aprì un baccello, fece scorrer il pollice al suo interno e buttò i fagioli nel sacco alla sua destra.
- Quattro…

Un’ora dopo.
- Novecentosessantatrè… novecentosessantasette...
Dei ciuffi sulla fronte.
Le braccia poggiate coi gomiti sul tavolo.
Le mani penzoloni che sbucciavano i fagioli e i piselli.
Il carico dei legumi ridotto ad un sesto.
Il tavolo era disseminato dei residui di foglie, baccelli secchi e vuoti, baccelli verdi e pieni che attendevano di essere sbucciati. Fagioli sbucciati e finiti per sbaglio sul tavolo, anziché nel sacco ai suoi piedi, piselli piccoli e dolci, che scartava da quelli più grossi e amarognoli , che mangiava seccamente.
- Novecentosettantuno…
Aveva già data per persa la sua passeggiata. Nella tenuta, eccetto i rumori che Sam produceva nel cortile, era calato il silenzio.
Ogni tanto lei lanciava un’occhiata alla porta che dava all’interno della tenuta, ma non vi vedeva mai nessuno. Solitamente in momenti come questi era Hunt a farle un po’ di compagnia, ma lui era a caccia con il conte e chissà quando si sarebbero fatti vivi, tutti e due…
E così, tre o quattro alla volta, i piselli e i fagioli avevano riempito il sacco.
- Novecentottantacinque…
Oltre il silenzio era sceso anche il sole in cielo. Non era più alto, come quando Greta le aveva ordinato di sbucciare i legumi, né più tanto caldo. Con le mani sporche di terra e linfa dei baccelli, si era buttata uno scialle sulle spalle magre e di tanto in tanto aveva tirato i laccetti della camicia, per coprire meglio il collo. La cuffietta non era più al suo posto e a forza di sistemarla era scivolata di lato, scoprendo la capigliatura vermiglia che le ricadeva sulla fronte bianca.
- … Novecentonovantadue… - sussurrò muovendo le mani sul tavolo. A parte le foglie secche, le dita non incontrarono nulla e con meraviglia lo sguardo si abbassò sulla superficie legnosa del grosso tavolo.
Aveva finito.
Incredula controllò se in cucina Greta avesse lasciato altri sacchi: sopra, sotto il tavolo, accanto al forno, sul ripiano di pietra. Ma non trovò nulla ed un sorriso le illuminò il volto smagrito.
Nello stesso momento entrò Sam.
- Ehi, ho finito!
L’uomo le rivolse uno sguardo interrogativo.
- Ho finito! – ripeté provando a sollevare il sacco di legumi da terra. Non ci riuscì, perché una pallottola sembrò conficcarsi nel suo torace, ma non vi diede importanza e cercò di sorridere.
- Intendi dire che hai finito di sbucciare questi legumi? – fece lui marcando su “questi”.
- Sì.
- Bene… allora posso darti gli altri.
Anya si sentì mancare. – Quali altri? – mormorò affranta.
Sam uscì nel cortile e tornò con un grosso sacco dalla capienza di almeno dieci chili.
- Greta mi ha detto di consegnartelo non appena avessi finito. Dice…
- Ho appena terminato di sbucciare più di duecentocinquanta baccelli!
Lo stalliere si strinse nelle spalle.
- Non ne posso più, Sam! Questa doveva essere la mia giornata libera e invece…
- Vedrai che Greta avrà per te un occhio di riguardo nei prossimi giorni.
Anya sbuffò. – Come quando mi ha fatto spennare tre polli, pelare cinquanta patate (e qualcosa di più) sbucciare trenta carote, venti cipolle e poi mi ha anche mandato da Pervinca a mungere le mucche, prelevare l’acqua da pozzo e poi di spazzare il pavimento della cucina e ripulire il camino, lavare le stoviglie e non so cos’altro… e il giorno dopo è stato anche peggio!
- Anya, dopotutto sei una sguattera!
- Grazie di avermelo ricordato, Sam! Comunque lascia pure quel sacco sul tavolo, al resto ci penso io.
L’uomo arricciò il labbro inferiore in un atteggiamento perplesso e tornò nella scuderia.
Rimasta sola, davanti ad un’altra ora abbondante di lavoro e con un tremendo bisogno di dormire, Anya ricadde sulla sedia, con le mani sul viso, e iniziò a piangere.

* * *
Erano sulle rive del Barrow già da un pezzo.
Arthur si era disteso a pancia sotto, il fucile davanti a sé. Langley l’aveva imitato e, dai cespugli, tra i quali si erano nascosti, entrambi sparavano ad ogni stormo che passava sopra le loro teste.
I carnieri erano pieni e Hunt, Marjon e Argo avevano il loro bel da fare, quando degli uccelli si posavano sulle rive del fiume. Loro con la loro irruenza li facevano alzare in volo e Langley e Rudolph sparavano.
- Mi chiedo dove si sia cacciato quell’allocco di Walter…
Langley rise. – Rudolph!
Il duca lo zittì. – Shh! Guarda… - sussurrò.
Il conte seguì la direzione del suo dito con gli occhi, trattenendo il fiato. Davanti a loro un altro stormo di beccacce stava appollaiandosi in mezzo ai ciuffi d’erba del fiume.
Arthur caricò il fucile e mirò poggiandosi sui gomiti. Langley trattenne accanto a sé Hunt per il collare.
- Rudolph… abbassa quel fucile.
- Perché dovrei? – disse sfiorando il grilletto.
- Abbiamo raccolto prede a sufficienza. Lasciale stare…
- Langley non fare il bambino…
Delle anatre planarono sulla superficie del fiume e lo zirlio delle beccacce, misto allo starnazzare delle anatre, iniziò ad animare il luogo.
Prima che il conte potesse bloccarlo, Rudolph lasciò andare i suoi cani e lo stormo di uccelli si levò in alto con un gran fracasso. Poi sparò tutti i colpi che aveva in canna.
- Un’anatra! Ah!
Il duca scattò in piedi e inseguì per l’ennesima volta i suoi cani, prima che potessero prendere la selvaggina. Dal suo cantuccio Langley lo seguì stancamente con lo sguardo, il fucile ancora tra le mani. Al suo fianco Hunt respirava con la lingua penzoloni e l’aria era diventata calda e puzzava del suo alito; poi c’era il lezzo proveniente dal carniere, le mani appiccicose per il sangue delle prede e per il grasso d’oca del fucile. Si sentiva le orecchie calde e gli doleva la schiena, costretto in quella scomoda posizione da soldato. Qualche anno prima nessuna di queste cose gli avrebbe dato fastidio, ma il tempo era passato e lui era diventato sempre meno paziente. Processo insolito, considerata la natura ed il carattere della restante parte dei giovani nel mondo.
- Ehi Langley, guarda che bel pollo! – esclamò mostrandogli l’anatra.
- Fantastico.
Il duca tentò di infilare il cadavere dell’anatra nel carniere, ma questi era troppo pieno e lo legò alla tracolla.
- Credo che possa bastare, no?
Contro ogni sua aspettativa, il duca annuì e chiamò i cani da caccia a sé. – Non vorrei che Walter e Coltfer si insospettissero… il sole sta abbassandosi…
- Già.
Langley mise la sicura al fucile e si alzò, scrollandosi la terra di dosso. Sul gilet la terra scura aveva disegnato una macchia d’umidità e un alito di vento gli fece sentire freddo alla pancia.
- Sarà meglio tornare – disse indossando la redingote.
Così si incamminarono e in breve, sotto un cielo che stava cambiando, tornarono alla radura di partenza. Stephan ed Emer avevano acceso un piccolo fuoco e i cavalli sembravano essersi addormentati. Walter e Coltfer ancora non avevano fatto ritorno.
- Abbiamo sentito il rumore degli spari farsi sempre più vicino – disse Stephan – saranno sulla via del ritorno...
Il duca ed il conte si sciacquarono le mani, poi Langley sellò Fedor.
In breve li raggiunsero anche sir Walter e sir Coltfer, con il loro magro bottino. Alla vista dei carnieri dei due amici rimasero a bocca aperta.
- E quelli da dove saltano fuori?
- Oh quelli… - iniziò Rudolph sforzandosi di non ridere – sono carnieri. Due bei carnieri.
- Dove avete preso tutta quella roba? – riprese Benjamin.
Il conte si strinse nelle spalle con disinvoltura. – Ce l’ha offerta il cielo… se glielo chiedete sa essere assai magnanimo!
- Basta essere buoni e sapere dove cercare!
I due li guardarono senza capire.

Il gruppo di caccia si trasferì al capanno nel tardo pomeriggio. Ognuno di loro era stato concorde nel fermarsi a mangiare un po’ di carne arrosto, prima di andare. Stephan ed Emer avevano buttato dei ciocchi di legna in più nel fuoco e i signori avevano arrostito un po’ di selvaggina.
- C’è una cosa che amo più di mia moglie… - biascicò sir Rudolph addentando un pezzo di carne.
Gli occhi arrossati dall’alcol e dal calore del fuoco di sir Coltfer si levarono e lo osservarono. – E cosa sarebbe? Diteci bene!
Sir Rudolph buttò un ossicino nel fuoco e alzò il bicchiere. – Il vino!
Gli altri risero.
- Ma mia moglie non mi permette neppure di vederlo!
Sir Walter dovette riprendere fiato per non rischiare di affogarsi. Coltfer gli batté una mano sulla schiena.
- … sapete, forse è per la sua somiglianza alle amanti – disse prima di bere un altro sorso di vino – se non ci stai attento ti prosciugano le finanze!
Intorno al falò ci fu un altro coro di risate sguaiate. Sir Rudolph, soddisfatto della battuta, si sedette e addentò un cosciotto d’anatra.
- Io credevo che fosse per via del fatto che entrambi “fanno sangue”!
Il duca si affogò e Coltfer batté, ridendo, una mano pure sul dorso di lui.
Paride sentiva le guance roventi. Arthur non faceva che versargli vino, vino e ancora vino. Si poteva dire che avesse ingurgitato più vino che carne e non era affatto una gran cosa, perché lui l’alcol non lo reggeva.
- Questa carne è fe… fenomenale! – farfugliò. Stava per cadere di lato, ma riuscì a puntare la gamba e a tenersi dritto.
- Anche lei fa sangue! – scoppiò a ridere Walter, e Coltfer lo seguì a ruota.
- Rudolph, bada che vostra moglie non sospetti anche di lei! – e indicò il pezzo di carne che teneva tra le dita unte.
- Statene pur certo, Coltfer!
- Immaginate: un matrimonio andato a… a quel paese, per della carne!
- Tranquilli – li zittì solennemente Rudolph – mia moglie non ne sa niente. Ho trovato dei buoni amanti...
Stephan si avvicinò al conte, mentre il resto del gruppo rideva a crepapelle. – Signor duca, mi rincresce disturbarvi, ma…
- Cosa vuoi, Stephan?
- Dicevo, signore: mi rincresce disturbarvi, ma io ed Emer crediamo si sia fatto tardi. E’ buio, dovremmo andare al capanno…
Il duca si prodigò in un’espressione compiaciuta e da lui spostò lo sguardo sui compagni. – Il ragazzino ha perfettamente ragione, signori! Si è fatto proprio tardi e bisogna andare. Forza, su. Smuovete quelle chiappe e montate a cavallo!
Gli uomini risposero con un coro di proteste lamentose, ma Rudolph non si lasciò persuadere e montò per sbaglio sul morello di sir Walter.
Il signor Langley si alzò in piedi con difficoltà; la testa gli girava vorticosamente e gli occhi non mettevano bene a fuoco ciò che lo circondava. Non vedeva doppio, come accadeva quando si ubriacava, ma male. Le mani formicolavano, le gambe non lo reggevano ed ogni passo era portato a compimento con una fatica abnorme.
- Ehi fermate quel ladro!
- Walter, quello non è un ladro, ma Rudolph...
- Vi sentite anche voi, così… - mugolò il conte cadendo di lato sulla terra bruna.
Il signor Coltfer lasciò Walter a Emer e si avvicinò all’amico con una grande risata. – Non credevo che il vino vi facesse questo effetto! – disse, aiutandolo a rialzarsi.
Il conte rise anche lui e montò a cavallo. Un Hunt insonnolito gli andò appresso.
- Rivoglio il mio cavallo!
- Walter, montate su Deak… il vostro cavallo lo rivedrete dopo!
- Quello lì se n’è andato con il mio cavallo!
Sir Coltfer slegò Deak dal calesse e aiutò l’amico a salirci, poi ordinò a Stephan ed Emer di prendere il calesse e andare con quello. Con l’acqua usata per la pulizia delle mani spense il fuoco e dopo montò in sella anche lui.
Non vedeva l’ora di arrivare.

* * *

Greta era andata a trovare la sua famiglia in paese e tornò alla tenuta a fine giornata. Su Waterford era calata l’oscurità, ma lei non aveva paura, visto che Mary, Anthony ed Edgard erano con lei.
Quando arrivarono, Anthony ed Edgard si affrettarono a sistemare Birra nel suo box e a parcheggiare il calesse, mentre Greta e Mary entrarono in cucina.
- Non si vede un accidente! – sbottò la cameriera.
- E la luna non è neppure luminosa, questa sera… - rispose Greta - vai pure a coricarti, Mary. Domani ci aspetta una giornata faticosa.
La ragazza andò via.
Le braci del camino erano ancora accese e proiettavano un fioco barlume di luce nell’area circostante. Anya avrebbe dovuto spegnerle del tutto prima di andarsi a coricare: si rischiava un incendio. Gliene avrebbe dette quattro a quella ragazzina, l’indomani. Bastava solo che l’avesse tra i piedi e… altro che fagioli! Le avrebbe fatto fare dieci volte avanti e indietro dalla fattoria di Pervinca!
In un attimo spense le braci del camino e fece per uscire dalla stanza quando sentì uno strano rumore, dietro di lei, come di qualcosa che cade a terra. In preda al sospetto di voltò e la scena che le si presentò le fece scuotere il capo bonariamente: mezzo riversa sul tavolo, la cuffietta poco lontana, Anya dormiva, con il capo poggiato sulle braccia.
Greta la guardò per un po’ e quando lei mosse le dita nel sonno un pulpito di tenerezza le piegò le labbra in un sorriso. Le si avvicinò piano e le pose una mano sulla spalla. – Anya – la chiamò – Anya…
La ragazza stirò le dita delle mani e sollevò il capo. La parte sinistra del volto era stropicciata ed erano evidenti le tracce lasciate dalle piegature della camicia.
- Sì? Chi… chi è? – bofonchiò.
- Sono io – la rassicurò la cuoca chinandosi su di lei.
Anya si guardò intorno. Nel vedersi circondata dalla penombra parve allarmata e cercò gli occhi di Greta, mentre allontanava le braccia dal tavolo e se le portava al grembo.
- Andiamo, dai. È tardi.
- Quanto tardi?
- Un pochino – disse battendo la mano sulla spalla di lei.
La ragazza sbadigliò. – I fagioli… li ho sbucciati, Greta. Sono tutti nel sacco.
La cuoca seguì l’indicazione del suo braccio e solo allora si accorse della presenza di non uno, ma due sacchi di diversa grandezza in un angolo della cucina.
- Hai sbucciato tutta quella roba?
- Ho fatto come mi avevi chiesto – disse Anya ridestandosi quasi completamente e alzandosi dalla sedia.
La donna abbassò le spalle. Adesso capiva il motivo per cui Anya si era addormentata in quel modo.
- Da quanto tempo sei qui?
- Da quando sei uscita…
- No, intendo per quanto tempo hai dormito…
Anya sospirò. Probabilmente gli ultimi istanti l’avevano confusa e nel suo animo stava facendosi spazio una vaga ma crescente sensazione d’angoscia. La voglia era quella di piangere, ma la necessità che aveva di farlo non era sufficiente e perciò si trovava nella situazione di stallo tipica di chi si è appena svegliato.
- Anya?
- Non saprei…
Nello stesso momento Anthony ed Edgard entrarono.
- Ancora sveglie?
- Buonanotte Anthony – li ribeccò Greta - … Edgard.
I due salirono al piano superiore, attraverso la scala nella stanza adiacente alla cucina, e Greta ed Anya li seguirono a ruota, coricandosi nelle rispettive stanze. Anya non aveva più sonno ma si spogliò in fretta e si coricò altrettanto velocemente.
L’ultimo pensiero di quella giornata andò al signor Langley e pregò, come ricompensa di tutto quello che lui aveva fatto per lei, che la sua caccia fosse fruttuosa e che facesse ritorno alla tenuta sano e salvo.

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Capitolo 15
*** Capitolo XIV ***


An irish tale - Capitolo XIV



La compagnia di caccia era giunta al capanno e i cavalli erano stati dissellati e legati sotto una tettoia. I cani, anch’essi legati per evitare che si azzuffassero durante la notte, riposavano ognuno accanto al rispettivo padrone.
Il conte Langley si era coricato da un pezzo, ma non era ancora riuscito ad addormentarsi. Dal momento in cui si era alzato, alla radura, aveva capito di non sentirsi bene e quel malessere l’aveva imputato alla gran quantità di vino e carne ingeriti.
Hunt, al suo fianco, con il capo poggiato sulle zampe, gli lanciava delle occhiate preoccupate.
- Hunt… - sorrise Langley – dormi, vecchio mio.
Il cane si leccò il muso e si sdraiò sul fianco. Anche il conte si girò e sistemò la coperta che era scivolata dal fianco.
Era inutile. Ogni suo tentativo di alleviare i crampi allo stomaco era vano. Nell’ultima ora si era girato infinite volte: sul fianco destro, sul fianco sinistro, sulla schiena, sulla pancia. Ma niente. Niente era servito a mitigare quel brutto malessere.
Rudolph dormiva poco distante da lui. Allungando un braccio lo scosse e lo avvisò che stava per uscire a prendere una boccata d’aria. Chissà se lo avrebbe fatto sentire meglio. Il duca rispose con un mugolio e lui si scoprì, indossò gli stivali e con il cappotto sulle spalle si allontanò, portando con sé la lampada ad olio.
Fuori il freddo era intenso. Ogni respiro produceva una nuvoletta di vapore nell’aria e l’umidità penetrò attraverso il cappotto, attanagliandogli, come una morsa le braccia e le gambe. La nausea sembrava essersi placata ma i crampi continuavano a turbare la quiete del suo stomaco; perciò mise in pratica un vecchio insegnamento del signor Bowles, inspirando ed espirando profondamente, cercando di non concentrarsi sul dolore.
Inspirazione, espirazione.
Ripeté queste azioni per qualche minuto e alla fine si arrese ed abbassò lo sguardo sul ripido pendio roccioso davanti a sé.

* * *

Aveva atteso per due ore.
Due interminabili ore.
E adesso ce l’aveva a pochi passi.
Un uomo magro, non troppo alto. Capelli biondo scuro lunghi circa una spanna e un po’ di barba.
Doveva essere lui.
Non ne conosceva il nome. Non gliel’avevano detto.
D’altronde a cosa gli sarebbe servito?
Quando la sua figura si avvicinò, lui si nascose dietro i cespugli. Il minimo rumore avrebbe provocato il fallimento del piano, perciò trattenne il fiato.
Sul viso dell’uomo comparve un’espressione sofferente e lo vide portarsi una mano alla pancia e poi trattenere il fiato. Si sedette sulla terra scura e si portò le ginocchia al petto, imprecando contro qualcosa.
Era maledettamente troppo vicino.
Bastava muovere una mano perché le foglie intorno a lui frusciassero.
L’uomo era troppo vicino e lui circondato da una quantità esagerata di foglie. Come muoversi senza fare rumore?

Ai crampi allo stomaco si era presto susseguita una potente nausea e l’idea di dimenticare entrambi pareva lontana e stupida.
Si sentiva come quando da piccolo si intrufolava nelle cucine e rubacchiava i dolci che preparava Greta. Quando finiva di mangiarli, nel bosco, il suo stomaco reagiva e lui cominciava ad avvertire dei crampi che si facevano via via sempre più intensi, fino al momento in cui non ce la faceva più e confessava alla zia Corinne o Margareth il suo stato. A quel punto i disgustosi rimedi del signor Bowles erano inevitabili.
Questa volta non c’era nessuno che potesse aiutarlo. Dopotutto era un uomo adulto e imparare a cavarsela era diventata una regola.
Si impose di pensare a ciò che il medico gli diceva ogni volta. Per scacciare quella forma di malessere l’induzione del vomito era l’unica via.
Vomitare… Dio che idea orrenda.
L’infuso con le foglie d’alloro era una soluzione. Il sale e lo zucchero erano un’altra. Il tè amaro. Lo odiava. Abbastanza disgustoso da fargli sputare tutto. Qualcosa di amaro o… di estremamente dolce. Il miele. Dio santo… solo l’idea gli faceva rigirare le budella in pancia.
Ma di miele non ce n’era.
Di tè, invece, ne avevano portato in quantità industriali.
Se la sentiva di alzarsi?
Sì.
E di camminare?
No, ma poteva provarci.
Così si strinse nella redingote e rientrò nel capanno.

Cavolo.
E adesso?
Possibile che fosse sempre così dannatamente stupido?
Suo padre glielo ripeteva sempre che era un idiota, un inetto, ma l’aveva sempre superata. Insomma, aveva cercato di non pensarci.
Ora però capiva di esserlo.
Se l’era lasciato sfuggire.
Gli si erano congelate le chiappe per niente!
Accanto un modello di fucile all’ultimo grido. Un gioiellino americano. La creme de creme della tecnologia.
Gli avevano detto che non sbagliava un colpo.
Con quel mirino, effettivamente, era difficile che ciò accadesse. Era possibile mirare perfino da centocinquanta metri e con il nuovo accessorio, la cui efficienza non era stata assicurata al cento per cento, udire l’esplosione dello sparo era roba da dimenticare.
L’aggiunta consisteva in una sfera di metallo che si montava all’estremità della canna. Apparentemente inutile e priva di senso, quella palla, ammesso che avrebbe funzionato, sarebbe stata la sua salvezza.
Per sicurezza l’aveva montata prima di recarsi al capanno. Il minimo rumore avrebbe destato sospetti. Quindi si era appostato in mezzo a quei cespugli e aveva atteso, dimenticandosi di ricaricare l’arma con i proiettili.
Se n’era ricordato solo nel momento in cui Langley si era seduto. Quello sarebbe stato il momento giusto per agire, se solo non lui non si fosse chinato e se solo lui non si fosse ritrovato senza neanche un colpo in canna.
In altri momenti guardare quell’uomo star male, contorcersi per il mal di pancia, gli avrebbe mosso qualcosa dentro, qualcosa che, nel convenzionale, la gente chiamava “compassione”. Quella, però, non era la situazione adatta, perché c’era in ballo un compenso molto alto e lui non poteva lasciarsi trascinare dai sentimentalismi.
Una goccia di sudore sulla tempia destra tradì la sua apparente freddezza.
Quando il conte abbandonò il posto, nell’animo dello sconosciuto insorse il panico.
Tornerà, si disse guardandolo andare via. Deve tornare.
Continuò a fissare l’entrata del capanno con il cuore a mille. Si sporse perfino dal cespuglio nella speranza che l’uomo tornasse.
E quando ciò accadde, per poco non lo scopriva.
Fortuna che era tornato per vomitare.
Approfittando di quegli istanti sollevò il fucile dalla canna e lo caricò lentamente con un paio di proiettili. Si complimentò con sé stesso per non aver prodotto nessun tipo di rumore. Richiuse la canna avvolgendola in un lembo di mantello, quindi controllò che l’uomo fosse di spalle e si sporse leggermente dal cespuglio.
Stava rigurgitando pure l’anima, quel poveraccio.
Respirò profondamente.
Sollevò la canna del fucile e pose il pollice sulla sicura.
Respirò un’altra volta, inalando l’aria frizzante della notte.
Poi tolse la sicura.

Si sentiva la gola in fiamme.
La gola in fiamme e le lacrime agli occhi. Adesso era più che sicuro di avere lo stomaco completamente vuoto. Ricadde sulla terra esausto. Pensava che non ci fosse nulla di peggio del suo attuale stato fisico.
Ma lo stomaco non gli lasciò il tempo di riflettere, perchè tentò nuovamente di svuotarsi a suon di spasmi e inutili conati di tutto quello che il conte aveva mangiato.
Quando finì di vomitare – o almeno credeva – si pulì le labbra con il dorso di una manica e si mise carponi, una mano sulla pancia.
Si sentì molto assetato, d’un tratto, ma non aveva le forse per alzarsi. Al posto del regolare battito del cuore, una leggera forma di tachicardia scuoteva il suo petto e gli occhi rossi e lacrimanti per lo sforzo chiedevano di chiudersi. Non poteva, però. Doveva tornare al capanno, davanti al camino. Anzi, no. Doveva tornare alla tenuta e al più presto.
I muscoli delle braccia non riuscivano a sostenere il suo peso e presto iniziarono a tremare. Le dita si conficcarono rabbiosamente nella terra bagnata, poi si distesero e lui fece leva sulle braccia per alzarsi.

Gli occhi vigili dello sconosciuto attesero che il conte si alzasse prima di rialzare la canna del fucile.
Anche il suo cuore batteva forte e lo sguardo vagava circospetto intorno a sé.
Sembrava non ci fosse nessuno nei paraggi.
Poggiando la guancia al fucile chiuse l’occhio sinistro e mirò. Se tutto fosse andato secondo i piani il proiettile avrebbe colpito il conte al centro della schiena, in alto, dritto al cuore.
L’indice corse al grilletto e, mentre il suo corpo veniva avvolto da un brivido freddo e il muscolo della mascella si contraeva, il conte arrancava verso il punto da cui era arrivato.
Non sarebbe scappato un’altra volta. Non glielo avrebbe permesso.
In un attimo il dito premette il grilletto e con uno sparo silenzioso, un proiettile venne espulso dalla lunga canna del fucile.
La pallottola colpì il conte alla scapola sinistra e lui cadde sul selciato senza un lamento. Sporgendosi leggermente lo sconosciuto scorse una nota di sorpresa ed un’evidente espressione di dolore sul volto dell’uomo, che cercò di alzarsi e scappare verso il capanno.
Ma poteva aver visto e… parlare.
Armandosi di freddezza puntò alla gamba e sparò di nuovo.
Il conte ricadde per la seconda volta sul selciato e non fu più in grado di tirarsi su.
Nel capanno un cane iniziò ad abbaiare animatamente e lo sconosciuto entrò nel panico. In fretta rimise la sicura al fucile, lo imbracciò ed uscì dai cespugli. Il cane poteva svegliare qualcuno. Bisognava scappare se non si voleva essere scoperti.
Si guardò intorno, cercò di distillare l’abbaiare del cane alla ricerca di rumori di sottofondo, ma concentrarsi era un’impresa impossibile, quindi si coprì il viso con il cappuccio del mantello e si avvicinò all’uomo sul selciato. Lui lo guardò terrorizzato, socchiuse gli occhi cercando di memorizzare i lineamenti del viso, ma lo sguardo gli si stava offuscando e poi quello era coperto.
Il conte stava perdendo molto sangue. Aveva il fiato corto e non sentiva più ossigeno nei polmoni. Quello che abbaiava era Hunt. Povero cane. Sarebbe andato con Margareth nel caso fosse morto. I patti erano chiari. Continuava ad abbaiare. Forse lo stava chiamando. Guaiva. Sì, lo stava chiamando. Chissà se avrebbe svegliato gli altri. Ma chi era il tizio di fronte a lui? Perché non riusciva a vederlo bene? Perché i contorni delle cose, adesso, sfumavano nel nulla? Si stava addormentando? Probabilmente; ma se si stava realmente assopendo perché aveva male dappertutto? Dio che dolore. Non riusciva a non pensarci. Molte volte aveva pensato alla sua morte, al modo in cui essa sarebbe andata a trovarlo, ma mai aveva immaginato che il suo momento sarebbe stato quello. Tutto quel dolore in un uomo solo era inconcepibile.
Lo sconosciuto lanciò un rapido sguardo alla porta del capanno. Quel dannato cane abbaiava ancora. Dopodiché abbassò gli occhi sull’uomo e vide che con il braccio destro cercava vanamente di tamponare la fuoriuscita del sangue dalla coscia.
Non poté tollerare quando lo guardò negli occhi. Tutto, ma non questo.
Il cane abbaiava sempre più forte. Era chiaro che doveva essersi svegliato qualcuno.
Non c’era più tempo.
Quell’uomo non poteva rimanere lì. Se l’avessero visto avrebbero capito immediatamente.
In un attimo le sue forti mani afferrarono il bavero del cappotto e trascinarono il ragazzo sul bordo del pendio.
Il conte mugolava per il dolore e quando lo sconosciuto lo sollevò fu quasi sul punto di gridare.
- Stai zitto – ringhiò l’altro, afferrando il fucile e colpendogli la nuca con il calcio. Il ragazzo perse i sensi e lo sconosciuto, messosi al suo fianco, con un piede lo spinse giù.

I giochi si erano finalmente conclusi.

* * *

Il mattino seguente, alla tenuta.

- Mentre attraversavo il London bridge, un giorno senza sole, vidi una donna pianger d’amore, piangeva per il suo Geordie…
Mary affidò un secchio di latte ad Anya. Era appena stata alla fattoria di Pervinca. – Ti inventi le parole, adesso?
- Sellate il suo cavallo dalla bianca criniera, sellatele il suo pony, cavalcherà fino a Londra stasera, ad implorare per Geordie… - cantò ancora la sguattera.
- No, dico, mi prendi in giro?
- Oh Mary… non si può neppure cantare? E poi non invento le parole… stavo cantando in italiano!
Mary la guardò sorpresa. – Italiano?
Anya annuì.
- Questa poi… lo devo dire ad Anthony. Chissà che non ne venga fuori uno scherzo per Sam!
Le ragazze portarono il latte in cucina, posando i secchi accanto al forno.
- Se vuoi la canto anche in gaelico…
La cameriera la zittì con un gesto seccato della mano. – Il tempo non promette nulla di buono di suo e tu infierisci?
- E dai, Mary – intervenì Anthony – non è stonata!
Anya rise sotto i baffi. Sapeva bene che lui aveva un debole per la cameriera e lo divertiva stuzzicarla quando poteva.
- Tu stai zitto!
- Voi tre, smettetela di bisticciare e venite dentro. Il pane è pronto.
- Io non c’entro niente! – esclamò il ragazzo alzando le mani in segno di resa.
- Certo che no – ribatté Mary.
- Vorresti forse insinuare che sia io la causa di tutto questo putiferio?
- Oh, ovviamente no!
Anya pensò che fosse meglio allontanarsi. Accadeva quasi ogni volta.
- E allora piantala!
- No, piantala tu!
- Mary stai facendo una tragedia! E pensare che tutto questo solo perché ho detto che Anya canta bene!
La sguattera entrò in cucina e afferrò una pagnotta ancora calda dal tavolo.
- Greta, cosa preparerai per il pranzo, oggi? – disse addentando il pane.
- Perché me lo chiedi?
La ragazza fece spallucce. – Così.
- Farò una zuppa di fagioli e piselli.
Anya pensò che dopo tutto il lavoro del giorno precedente quella minestra era più che meritata; ma dopo aver mangiucchiato una buona quantità di piselli piccoli e dolci la prospettiva di mangiarne ancora non la allettava molto.
- Fantastico…
Gli occhi lacrimanti di Greta si levarono verso la sguattera. La cipolla che stava sbucciando era da considerarsi fuori dal comune. – E così ieri hai svuotato anche il sacco grande?
- Sì…
- Lo sapevo!
Anya sollevò un sopracciglio, mentre allungava la mano verso un’altra pagnotta.
- Sapevi cosa?
- Sam ti ha presa in giro... – disse dandole uno schiaffo sul dorso della mano che stava afferrando altro pane. – questo è per gli altri!
- Ho fame!
Greta la guardò minacciosa. – Per sbucciare i legumi di quel sacco ci volevano più persone. Sam lo sapeva e ti ha raggirata.
Anya la fissava con gli occhi spalancati.
- Hai lavorato parecchio ieri e non hai potuto svagarti, non è vero?
- Già – disse la ragazza, risentita.
La cuoca scrollò la testa in segno di assenso, poi per circa dieci minuti non parlò nessuno. Dopo quel lasso di tempo, durante il quale Anya masticò i piccoli bocconi della sua pagnotta fissando il cortile e Greta finì di tagliare le verdure per la zuppa, la cuoca informò la giovane della sua volontà di lasciarla libera per tutta la mattinata.
- Te lo meriti – disse.
Anya sorrise felice e, ingoiato l’ultimo boccone, si sistemò la cuffietta, si avvolse nello scialle e scappò fuori.
- Ti rivoglio qui per l’ora di pranzo!

La tenuta del conte era un piccolo paradiso di campi pieni d’alberi sempreverdi e di terreni coltivati.
Ai lati dell’ingresso per la tenuta due pini si innalzavano per un’altezza di almeno venti piedi e i rami più grossi si incrociavano in una sorta di cornice. Il tronco in alcuni punti era sporco di resina e, passandovi un dito sopra, Anya assaporò l’odore di bosco e di fresco di quella strana sostanza collosa. Ai piedi di entrambi gli alberi il vento aveva fatto cadere i loro aghi cosicché il pavimento formatosi, di un colore rossastro, simile a quello delle foglie in autunno, scricchiolava ad ogni passo.
Non volle andare oltre. Temeva di perdersi. Si accontentò di sedersi all’ombra di uno dei pini e respirare l’ossigeno appena prodotto dalla fotosintesi.
Facendo forza sugli addominali si accorse di un dolorino appena accennato al torace. Pensare che un movimento come quello appena compiuto, tre settimane prima, le sarebbe costato molto.
Il fatto che Hunt non ci fosse le mise tristezza. Di solito, in momenti come quelli, se non era con il conte, si andava ad accucciare accanto a lei; non pretendeva altro che qualche carezza e un po’ di compagnia. Correva e si rivelava aggressivo quando nell’aria avvertiva odore di pericolo o di altri animali.
La sua mente d’improvviso tornò alla fotosintesi clorofilliana. Guardare gli alberi le ricordò alcuni composti. Acqua. Anidride carbonica.
Il modo in cui da alcune molecole d’acqua, dell’anidride carbonica e della luce gli alberi riuscissero a produrre ossigeno, aria respirabile, era sorprendente. Erano capaci di produrre le due fonti di vita degli esseri viventi: acqua e aria.
Già, perché senza gli alberi non esiste il riciclaggio dell’acqua. Gli alberi respirano, producono vapore, che si accumula formando le nuvole, le quali, a loro volta, si aggregano, si strizzano come stracci e producono pioggia. Pioggia che cade, forma laghi, alimenta i fiumi e irriga i terreni. Quindi dà vita ad altre piante che germogliano, crescono, producono fiori, semi, frutti. E i frutti alimentano gli animali ed un sacco di altre cose che seguono un ciclo infinito, misterioso, inconcepibile agli occhi e alla mente umani.
Anya sollevò lo sguardo sui rami, con le braccia intorno alle gambe.
Dio, come era strano il mondo.
E che strano quel rumore… sembrava quasi…
- Ah! Ah!
Una carrozza.
In lontananza, mezzo nascosta dagli alberi che le impedivano di vedere meglio, un calesse correva a tutta velocità giù per la strada.
Anya si mise in piedi e in un ben che non si dica il calesse le sfrecciò davanti con un gran fracasso di zoccoli, ruote e cani che abbaiavano e correvano come matti. Travolta dalla corrente prodotta dalla corsa del carro e dei cavalli, le parve di vedere volti del tutto nuovi correre al seguito del calesse. Probabilmente erano amici del signor Langley, compagni di caccia, ma si preoccupò non vedendo lui.
Con un rapido calcolo capì che doveva essere successo qualcosa. Aveva visto Hunt correre dietro il calesse con gli occhi fuori dalle orbite e l’uomo che spronava i due cavalli del traino aveva un’aria abbastanza tesa. E poi, ultimo elemento, ma non meno importante degli altri, Fedor attaccato al calesse senza nessuno sopra di lui.
Correndo nel cortile, dove la compagnia si era fermata, venne accolta da un susseguirsi frenetico di voci, ordini e incitamenti nervosi. Nessuno si era accorto di lei, così che si avvicinò al calesse, intorno al quale erano concentrati gli uomini, e nel quale doveva – per rigor di logica – esservi qualcosa che destava tanta sorpresa.
Non appena si sporse il cuore perse un paio di battiti.
Il conte giaceva sul sedile del calesse, avvolto in un paio di cappotti e la sua pelliccia e con il viso pallido. Tremendamente pallido. Sullo zigomo sinistro vi era un livido scuro e la fronte e alcune ciocche di capelli erano sporche di sangue e terra. Anche il mento lo era.
Il capo era riverso all’indietro e poggiava mollemente sulla cima del sedile.
Appuntando gli occhi sul suo petto vide che non si alzava, né si abbassava.
Sembrava morto.
- Un dottore! Qualcuno chiami un dottore! Presto! – gridò un uomo, ridestandola.
Per quanto si sforzasse non riusciva a distogliere lo sguardo dal signor Langley.
- Tu! – disse l’uomo di prima, afferrandola per un braccio. – Corri a chiamare un medico, presto!
Anya si girò verso di lui.
- Walter, Rudolph! Portate via Langley! – gridò rivolto alla compagnia.
Appena giunta, Margareth sbiancò e si coprì la bocca con una mano.
- Allora, stupida: vuoi che il tuo padrone muoia o sollevi queste gambette e vai a chiamare un medico?
Anya appuntò gli occhi su quelli dell’uomo e dopo un attimo si convinse ad andare.
Corse nella scuderia e afferrò i finimenti di Birra; dopodiché aprì la porta del suo box, gli mise il morso e, senza preoccuparsi della sella, gli montò in groppa e corse via.

Galoppare senza sella e con la gonna era impresa alquanto ardua. Senza un appiglio per i piedi si scivolava facilmente, ma c’erano le forme di Birra ad aiutarla. La linea di separazione tra la pancia e le spalle era un punto perfetto dove incastrare le gambe e se si alzavano le piante dei piedi e ci si ancorava alla pancia del cavallo coi talloni l’equilibrio e la postura miglioravano.
Sulla strada in dirittura della tenuta incrociò Sam e stava quasi per investirlo, quando schivò con un movimento rapido e fermo delle redini. Riconoscendola lui la chiamò, ma la mente di Anya era altrove e lei non aveva né testa né occhi per rispondergli.
Pian piano il dolore al torace tornò e, se in partenza era un fastidio appena accennato, a metà strada esso era divenuto quasi insopportabile e il viso di Anya era contorto in un’espressione di difficoltà. Il galoppo di Birra non era certo identico a quello di un purosangue.

Sir Walter e sir Rudolph, dietro ordine di sir Coltfer, caricarono il conte su una barella improvvisata e lo portarono in stanza, preceduti da Margareth.
La governante procedeva accanto e davanti ai tre, con il rosario in mano.
- Com’è successo, sir Walter? Qualcuno ha visto? – chiese trafelata e bianca in viso, una volta giunta in cime alle scale.
Gli uomini dietro di lei scossero il capo. Sir Coltfer anticipò ogni intervento e parlò lui. – Non ho idea di quando questa tragedia abbia preso luogo. Deve essere accaduto questa notte, mentre dormivamo. Ho ritrovato personalmente il conte in fondo ad una rupe poco scoscesa. Presentava due ferite da arma da fuoco, alla spalla e ad una gamba…
La governante lo guardò con le lacrime agli occhi e le mani tremanti come due foglie.
- Credetemi, sono, anzi siamo, avviliti quanto voi. Ho mandato proprio adesso una serva a chiamare un medico.
Margareth strinse il rosario tra le dita, mentre apriva la porta della camera del conte. Era abbastanza ampia da fare entrare due persone insieme e sir Walter e Rudolph non ebbero difficoltà ad introdursi in camera. Il conte fu sollevato ed adagiato sul letto e gli vennero tolti gli stivali e i cappotti di dosso.
Non appena la governante vide la ferita alla coscia, unica visibile con il conte prono sul letto, scoppiò a piangere e gli si avvicinò. Il duca dovette trascinarla dolcemente fuori per evitare che si impressionasse ulteriormente.
- Tenete – disse porgendole un fazzoletto pulito. Per una buona decina di minuti nessuno dei due parlò. Sir Rudolph lasciò che la governante si sfogasse e quando sir Walter uscì dalla camera del conte, lui gli lanciò uno sguardo eloquente, invitandolo a star zitto, per non accrescere il disagio della donna.
- Vedete, Margareth – le disse d’un tratto – non ho parole per descrivere il mio stato d’animo. Ieri sera eravamo tutti così… così allegri. Sono completamente costernato.
- Adesso lasciate che vada da lui, signor duca.
Nello stesso momento Ines e Mary le passarono davanti, l’una con una tinozza d’acqua fumante nelle mani; l’altra con una pila di asciugamani e tovagliette candide.
Sir Rudolph fece per trattenere la governante, ma lei allontanò la sua mano. – Con il dovuto rispetto, signor duca, ma qui io sono la governante e ho delle persone da coordinare – parlò, con voce ferma. – Con permesso.
L’uomo osservò la donna sparire oltre la porta della stanza. Quando si girò verso l’inizio del corridoio, vide un altro paio di servi correre verso la stanza del padrone e le donne entrate prima uscire a passi svelti. La più giovane piangeva già.
In camera Walter e Coltfer avevano spogliato il conte del suo gilet e della camicia. Giunto in quel momento, Anthony si rattristò nel vedere le mani e le braccia del padrone così molli e bianche.
- Sarà passata mezz’ora da quando ho mandato quella ragazza a chiamare il medico! – esclamò sir Coltfer sbottonando il colletto della camicia all’amico ferito. – Dov’è finita?

Anya si sentiva già mancare il fiato con quella corsa.
Il muso di Birra si era sporcato tutto di schiuma e dopo un quarto d’ora di galoppo ansimava anche lui.
La sguattera non aveva idea di come o dove fosse la casa del signor Bowles. Certo, non aveva avuto modo di informare il tizio che l’aveva mandata lì con tutto il trambusto che c’era in cortile.
Ma doveva trovarlo. Doveva trovare quel benedetto dottore e portarlo alla tenuta il più presto possibile.
Su una stradina abitata, improvvisamente si ricordò di una cosa dettale da Margareth; la governante affermava che il signor Bowles, nonostante l’apparente serietà, fosse in realtà un uomo piuttosto eccentrico e si era fatto costruire una casa di colore differente rispetto a quelle dei suoi vicini. Riflettendo sul tempo che il medico impiegava a raggiungere la tenuta, Anya capì, inoltre, che il signor Bowles non abitava molto lontano.
Piccolo centro abitato.
Conglomerato di case color sabbia.
Anya rallentò l’andatura di Birra.
Quando i suoi occhi incrociarono un’abitazione di mattoni rossi, in fondo al viale, sentì il cuore fare un balzo. Accelerando nuovamente l’andatura di Birra vi si avvicinò.
Il portoncino era chiuso.
- Ehi! – gridò. – Ehi!
Piegandosi in avanti, scese da cavallo e chiamò ancora. Ad un certo punto, quando la sua pazienza era quasi terminata, un domestico si affacciò dalla porta principale.
- Ehi, voi! Ho bisogno del dottore! C’è un’emergenza!
- Il signore sta ancora dormendo. Tornate dopo, per favore – disse accostandosi al portone.
- Che sarebbe a dire? Un uomo è in punto di morte, ho bisogno del medico!
- Di chi si tratta?
Anya rimase esterrefatta. Quindi c’era ancora chi suddivideva le emergenze in base all’importanza dei pazienti? – Si tratta del signor Langley, il conte di Waterford! – nello sguardo del domestico ci fu un baleno di paura – svegli il medico e lo faccia venire immediatamente! Non voglio attendere più di cinque minuti!
L’uomo sparì oltre la porta principale e la ragazza rimase ad aspettare con il cuore a mille.
Per la tensione prese a camminare avanti e indietro davanti al portone e trascinò Birra con sé, ma non resistette a lungo e d’un tratto, come fosse inevitabile, prese a singhiozzare convulsamente, accucciandosi a ridosso del muro con la fronte sulle ginocchia.
- Non può morire – pianse – non può morire…
- Siete stata voi a farmi chiamare?
Anya levò lo sguardo. Non si era accorta del cancello che si apriva e il signor Bowles, ora, era in piedi accanto a lei, con la borsa degli attrezzi in mano. Alla sua domanda si alzò ed annuì vigorosamente.
- Bene – mormorò il medico sbrigativo. – Siete venuta con il calesse?
- No – rispose indicando Birra.
- Oh cielo… nelle vostre condizioni?
Anya fece spallucce. Probabilmente alludeva alla costola.
- John! Fai preparare il calesse! Svelto! – ordinò prima di girarsi di nuovo verso la ragazza. - Ve la sentite di spiegarmi cosa è successo?
- Sì – annuì lei fra i singhiozzi.
- Senza piangere?
Anya deglutì e fece sì con il capo una seconda volta. Cercando di non mettersi a piangere gli riferì tutto ciò che aveva visto poco prima e prima che finisse il racconto il calesse era già pronto nel cortile della villetta.
- John, prendi il cavallo – disse di Birra, salendo sul calesse. Anya lo seguì. – Lo riavrete presto – continuò rivolgendosi alla giovane - Adesso andiamo.
Il signor Bowles schioccò le redini e fece partire i cavalli al galoppo. – La situazione sembra più grave del previsto. Avete avuto modo di controllare la frequenza del polso? Sapete qualcosa in proposito?
La ragazza scosse il capo, tenendosi forte al sedile del calesse mentre il medico svoltava velocemente a destra. – E’ pallido… non ho idea di cosa si sia fatto. Mi hanno solamente detto di chiamare voi – disse scoppiando nuovamente a piangere.
- Calmatevi adesso, disperare non serve a nulla – e spronò nuovamente i cavalli ad un’andatura più veloce.
Percorsero la strada in meno di una dieci minuti. Anya con Birra non avrebbe saputo fare di meglio. Quando raggiunsero la tenuta il signor Bowles non si preoccupò di affidare il calesse a qualcuno. Anya saltò rapidamente giù e dalla porta principale, che era stata lasciata aperta, lo guidò in fretta al piano superiore, il cui corridoio era caratterizzato da un confuso andirivieni di servi, che salivano e scendevano per le scale, si muovevano freneticamente da un punto all’altro della tenuta.
Entrando nella camera del conte, il medico, infastidito dalla presenza di gente fuori e dentro la camera, cacciò tutti via e invitò chi se la sentiva ad aiutarlo. Accanto al letto si trovava una bacinella d’acqua quasi calda e delle tovaglie sporche di sangue. Indicandole ad Ines pretese che esse venissero sostituite da pezze più pulite e che gli fossero portare almeno due bacinelle di acqua calda ed una scodella vuota.
Il conte era disteso sul letto a petto nudo. Anya vide che non aveva più il viso sporco di terra e il sangue sul collo era stato lavato via.
Il signor Bowles non perse tempo a verificare la frequenza del polso.
- Bassa. Troppo bassa – mormorò. Anya, accanto a lui, raccoglieva tutte le pezze sporche e le porgeva ad Ines e Mary.
Il medico sospirò e buttò la sua giacca marrone su una sedia, per poi arrotolare i polsini della camicia fino al gomito. Con il pollice sollevò la palpebra superiore del paziente e osservò anche l’occhio. Dopodiché aprì la valigetta ed estrasse alcuni strumenti chirurgici. C’erano un bisturi, delle forbici, una piccola gamma di pinze e dei candidi tamponi. Tirò fuori anche una bottiglietta di disinfettante e alcune garze, che poggiò sul comodino del conte.
- Prendete dei cuscini – disse svelto ad Anya, prima di mettere il conte di lato. La sguattera pose i cuscini sotto il torace del signor Langley, in modo che rimanesse sollevato durante l’operazione.
Nello stesso istante entrarono Ines e Mary con il materiale richiesto dal medico. Il signor Bowles allora riempì la scodella vuota di acqua calda e si lavò e disinfettò bene le mani. – Portate anche un piccolo braciere e posizionatelo ai piedi del letto – disse.
- Tu – chiamò Mary – prendi quelle candele e fammi luce.
La ragazza spostò lo sguardo dalle candele ai movimenti del medico, che aveva imbevuto una garza di disinfettante e si accingeva a porla sulla spalla del conte; poi guardò la ferita dell’uomo e sbiancò. Avrebbe voluto tirarsi indietro, ma un’incitazione del signor Bowles la convinse a non farlo. Afferrò le bugie delle candele e illuminò la zona interessata, ostinandosi a non guardare.
Il signor Bowles, gli occhialini da vista sul naso, esaminò con occhio clinico la ferita del conte e ne tastò i bordi con il dorso delle dita. Capì che si trattasse di ferita d’arma da fuoco e che, dato il gonfiore, il proiettile doveva essere rimasto dentro. In più, constatò che, visto il punto, il proiettile dovesse aver spezzato la scapola.
- E’ ferito anche alla gamba, signore – lo avvertì Mary con il viso rivolto in un’altra direzione.
Il medico imbevette una seconda garza di disinfettante e la pose laddove il secondo proiettile aveva colpito l’uomo. La sua mente elaborò immediatamente i nuovi dati: seconda ferita d’arma da fuoco. Zona: gamba destra. Il proiettile non ha compito l’arteria femorale, ma i vasi periferici. Ha trapassato il quadricipite femorale e preso di striscio il sartorio. Ferita più estesa rispetto alla prima. La pallottola è rimasta dentro. Bisogna intervenire, ma l’operazione richiederà tempo e il cervello ha bisogno di un po’ di roba per potere lavorare. Ce la farà. Il tempo di dimenticarsi che di zuccheri non se ne ha bisogno e di concentrarsi sul lavoro.
Ines entrò in camera, portando il braciere.
- Ho visto un ragazzo fuori, poco fa. Chiamatelo. Tu – disse ancora una volta rivolto a Mary – se ti impressioni così tanto, vai.
La ragazza pose le due candele sul comodino e, badando a non urtare Ines, scappò via e al suo posto entrò lo stalliere.
- Mi ha fatto chiamare, signor Bowles?
L’uomo annuì, immergendo i suoi strumenti di lavoro nel’acqua ed un tizzone dal manico di ceramica nelle braci. – Afferra queste candele e fammi luce. Anya, scosta la tenda. Tu, fammi luce.
Il ragazzo obbedì.
Il medico afferrò il bisturi e iniziò ad operare.


Margareth non ne poteva più di aspettare.
Ogni tanto Anya si affacciava dalla porta con una bacinella di acqua sporca di sangue e chiedeva che gli fosse portata dell’acqua e delle pezze pulite. Una volta soddisfatte le richieste, la giovane rientrava e Margareth si riappoggiava alla parete del corridoio.
Hunt era tenuto per il collare da sir Rudolph. Il cane guaiva e tirata per entrare, ma le mani del duca erano forti e riusciva a trattenere la bestiola ogniqualvolta Anya socchiudeva la porta.
Margareth, il rosario ancora in mano, pregava e guardava Hunt. pregava e guardava la porta della camera del conte. Pregava e piangeva. I suoi occhi non conoscevano freno e le lacrime correvano ininterrottamente lungo le guance. Ines e Anna, accanto a lei, attendevano nuovi ordini da parte di Anya e del medico. Nel giro di quelle tre ore erano scese chissà quante volte, portando candele nuove, acqua pulita, bende candide.
In cucina Greta teneva pronta una tinozza di acqua bollente e con l’aiuto di Adele risciacquava e sterilizzava tutte le pezze che Ines ed Anna le portavano. Adele ne aveva stese un po’ davanti al camino e alcune si esse facevano appena in tempo ad asciugarsi prima che le due cameriere le portassero nuovamente con loro.
Sir Coltfer, sir Walter e sir Rudolph non fiatavano. Tutti e tre poggiati alla parete del corridoio, a turno di appostavano dietro la porta alla ricerca di notizie sull’amico, ma dall’interno della stanza non trapelava alcuna parola: il medico parlava a bassa voce e quel poco che sentivano erano i cenni d’assenso di chi era dentro.
Ad un certo punto, però, quando ormai le speranze di vedere uscire il signor Bowles erano divenute vane, la porta si schiuse ed il medico uscì con un’aria stanca e le guance rosse per la concentrazione. Si stava asciugando le mani e gli avambracci con una pezza.
- Signor Bowles – sospirò Margareth facendoglisi immediatamente vicina – quali notizie?
Il medico si guardò rapidamente intorno. – Se è possibile vorrei parlarti in privato, Margareth – sussurrò.
- Devo preoccuparmi?
- Allontaniamoci, per favore.
Gli occhi di tutti erano puntati su di loro, in cerca di notizie. Margareth si scusò con loro con un’espressione impotente e condusse il medico nel corridoio a destra delle scale principali.
- Margareth – iniziò l’uomo con un’espressione che non prometteva nulla di buono – il signor Langley non sta bene. Non ho idea di come abbia fatto a ridursi così… è stato colpito con due proiettili: uno si è conficcato nella spalla sinistra, rompendo la scapola; l’altro per poco non colpiva l’arteria femorale…
La governante si portò una mano alla fronte, affranta.
- Non ti ho mai nascosto niente e non lo farò neanche adesso, dicendo che… ho paura che il conte non superi il pomeriggio.
Margareth iniziò a piangere e il medico dovette distogliere lo sguardo, perché anche lui si sentiva un nodo alla gola.
- Ha perso molto sangue… quando sono arrivato faceva paura tanto era bianco. Ho fatto veramente tutto quello che mi era in potere… sempre che sopravviva, domani potrebbe insorgere la febbre alta, perché ho riscontrato tracce d’infezione in entrambe le ferite, ma temo che non resisterebbe neanche a quella. E poi il suo corpo è costellato di lividi. Lividi di ogni genere. Perfino sulla testa ne aveva uno! Chiunque sia stato a ridurlo così merita il patibolo! – ringhiò, ma Margareth non stava più ad ascoltarlo. Si era avvicinata ad una finestra del corridoio e mentre fissava il paesaggio fuori, senza guardarlo veramente, pensava al signor Langley, all’uomo che aveva cresciuto come un figlio, e non la smetteva di piangere. Vedendola, il signor Bowles pensò con più intensità a ciò che era accaduto, dissociandosi dalla sua parte fredda e distaccata di medico, e una lacrima colò anche sulla sua guancia.
- Mi dispiace – disse il signor Bowles dopo un po’.
- Non potete fare proprio niente? – disse Margareth voltandosi lentamente verso di lui.
- Te l’ho detto, Margareth, ho fatto tutto quanto potevo. Voglio bene anche io a quel ragazzo, cosa credi? Pensi che lo lascerei morire? Lotterò strenuamente a costo di salvarlo, ma se Dio vorrà prenderlo con sé…
- Non ditelo nemmeno, Bowles!
L’uomo chinò lo sguardo.
- Ha bisogno di cure particolari?
- No… la sua vita è nelle mani di Dio.
Lei alzò gli occhi al cielo, stringendo il fazzoletto tra le mani.
- Penso che sarebbe meglio informare i suoi amici di questo.
- Già.
- A questo ci penserò io, però.
- Posso vederlo?
- Certamente. I servi staranno sistemando la stanza, ma puoi andare.
Prima di tornare nell’ala opposta della tenuta, Margareth posò una mano sulla spalla del medico che sembrava essere sull’orlo del pianto. Quel gesto sembrò dare una spinta alle sue pulsioni e con commozione Margareth lo vide iniziare a piangere.
- Vai da lui – mormorò portandosi il suo fazzoletto agli occhi. – Fra poco arrivo.
Margareth lasciò il corridoio a passo svelto. Prima di raggiungere gli altri intendeva riacquistare un po’ di tono e si tamponò il viso dalle lacrime appena cadute. Quando comparve sulla porta del corridoio opposto gli amici del conte e parte della servitù si tirarono improvvisamente su e la guardarono.
- Allora? – chiese in un soffio sir Coltfer.
- Vi dirà tutto il dottore – rispose lei prima di entrare nella camera del signor Langley.
Lo vide disteso sul letto, immobile. Il petto nudo era avvolto da un bendaggio che bloccava il braccio sinistro al torace e la gamba destra del pantalone era stata tagliata all’altezza della coscia, dove era presente una seconda fasciatura. Accostatasi al letto, prese la mano sinistra tra le sue. Era fredda e ne avvertiva il peso.
Il viso era poggiato sul cuscino con la guancia destra e sul sopracciglio spiccava un livido grigiastro. Margareth gli passò una mano sulla fronte, scostando un ciuffo di capelli capriccioso che gli era finito davanti agli occhi.
- Margareth!
La governante si girò, mentre Anya avanzava verso di lei. Sapevano entrambe quali erano le condizioni del conte e uno sguardo bastò a comprendersi. La giovane cinse con un braccio Margareth e le fece cenno di non preoccuparsi, di stare tranquilla, perché tutto si sarebbe sistemato presto; ma la donna, che non aveva assistito all’operazione e che aveva ascoltato solo il referto del medico – il quale le aveva sortito un effetto diverso – non riusciva a guardare il viso pallido del signor Langley senza pensare alla possibilità della sua morte.
- Ce la farà, vedrai – la rassicurò Anya.
- Lo spero. Lo spero tanto.

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Capitolo 16
*** Capitolo XV ***


An irish tale - Capitolo XV

 

Era tardo pomeriggio.
Fuori, nel cielo, dei nuvoloni grigio scuro e blu, facevano cadere una pioggia incessante.
Il ricordo di una mattina dal cielo sereno portò Anya a riflettere sul modo davvero sorprendente in cui la Natura decide di capovolgere le condizioni atmosferiche.
Quel tempo uggioso, che offriva condizioni di vita impossibili per chi lavorava nei campi o all’aperto, pareva essersi incapricciato con tutti e la prospettiva di rivedere il sole ed essere scaldati dai suoi raggi era alquanto lontana.
Il medico era rimasto nella tenuta e, come lui, anche sir Walter, sir Coltfer e il duca, che attendevano ansiosi la nuova prognosi del signor Bowles. Margareth aveva ordinato che fosse preparato qualcosa da mangiare per loro, ma la cortesia venne declinata da sir Coltfer che la informò della loro comune mancanza di appetito. Anche il signor Bowles non aveva fame. Anya si era recata in cucina e aveva preparato un tè forte per tutti e aveva offerto del pane dolce appena sfornato, ma a nulla erano valsi i suoi sforzi e di quel pane ne era sparita un’unica pagnotta, la sua per inciso. Aveva mangiucchiato quel pane senza neppure sentirne la necessità.
I lavori in cucina si erano fermati. Nonostante la premurosità espressa da Margareth nei confronti degli ospiti, questi si contentarono unicamente del permesso di restare alla tenuta, perlomeno fino a sera, quando ogni pericolo poteva dirsi scongiurato.
Gli ospiti si dividevano per tutta l’ampiezza della tenuta – eccetto l’ala est – chi camminando da una parte all’altra, chi, come Anya, contando le gocce di pioggia che cadevano sul vetro di una finestra del corridoio, chi lavando, strizzando e mettendo ad asciugare le pezze sporche davanti al camino, come Ines e Anna. Greta e Adele, di nuovo insieme dopo alcune settimane, parevano voler preparare una zuppa di patate regale con tutte quelle che si erano messe a pelare; il tavolo era suddiviso in due zone: l’una piena di patate sbucciate, l’altra ricolma di un insieme delle bucce e della terra incrostata su di esse.
Margareth, accanto al signor Bowles ne ascoltava trepidante ogni aggiornamento. Il medico, occhialini sul naso e la borsa degli strumenti aperta per qualsiasi evenienza, controllava costantemente il battito cardiaco del signor Langley e la temperatura, sperando che essa crescesse, perché ciò era sintomo di una ripresa.
Nelle ultime ore, però, le sue speranze erano andate quasi del tutto bruciate; ad ogni visita sentiva il cuore del conte perdere battiti. Ad ogni visita l’espressione che la governante e il resto della servitù vedevano dipinta sul volto del dottore era sempre più malinconica e lui si faceva sempre più pensieroso.
 
Quando arrivò la sera il signor Bowles si addormentò sulla poltrona nella stanza del conte. Stava osservando la respirazione del paziente quando Orfeo riuscì a incantarlo con la sua dolce nenia.
Ines, Anna, Adele e Mary si trasferirono in cucina.
Anthony e Sam, nonostante la pioggia inesorabile, strigliarono tutti i cavalli della scuderia e lavarono questa così tanto e così a fondo che non avrebbero avuto da fare per almeno i tre giorni successivi.
Gli amici del signor Langley furono sistemati da Margareth alla bell’è meglio nelle poche stanze per gli ospiti della tenuta. Tutti e tre si andarono a coricare e il duca perse ogni speranza di trattenere Hunt, che corse nella stanza del padrone e si accucciò al lato del suo letto. Nulla poté contro la sua testardaggine: nonostante la tenerezza e la gran compassione che provava per la bestiola, il signor Bowles aveva chiesto che Hunt fosse allontanato, perché portatore di batteri – con le zampe ed il manto sporco di terra e chissà quale altra roba; ma non appena Anthony avvicinò una mano al suo collare il cane ringhiò minaccioso e convinse una volta e per tutte gli altri a lasciarlo in pace.
Così, con il cane ai suoi piedi, il signor Bowles si era appisolato sulla poltrona.
Anya ne appuntò  la causa al cantilenante rosario al quale Margareth aveva dato vita. Dovette ammettere di non aver mai conosciuto quel suo lato così religioso.
- Margareth – la chiamò a bassa voce, ridestandola dai pensieri – che ne diresti di una tazza di tè?
La governante fece una smorfia.
- Dai, su… potrebbe farti bene…
- Grazie, ma non mi va.
Anya sospirò, seguendo la direzione dello sguardo di Margareth e appuntando malinconicamente il suo sul conte. Rimasero ad osservarlo in silenzio, con la luce di tre sole candele ad illuminare l’ambiente, poi Anya abbassò gli occhi e prese a tormentare l’orlo del suo grembiule.
- A volte penso a quando sua madre me lo presentò per la prima volta – disse Margareth ad un certo punto.
- Sì?
Margareth annuì con un lieve sorriso e l’invitò a sedere accanto a lei. Anya si sedette sul pavimento a gambe incrociate.
- No… cosa fai?
- Sto bene – la rassicurò la giovane.
Margareth emise un sospiro. – D’accordo. Dicevo… ricordo ancora quando iniziai a lavorare.
- E’ stato molti anni fa?
- Non proprio. Avevo raggiunto la maggiore età da neppure un mese ed era Primavera. Trovai quell’annuncio di lavoro per caso…
- Lavoro da governante?
- Sì… in quel periodo il conte e la contessa Langley abitavano a qualche miglio da qui, in un’altra tenuta di campagna. A ricevermi fu la contessa in persona; aveva i capelli rossi ed era dotata di un’eleganza innata. Mi assunse dopo avermi osservato per una settimana. Diceva che per il suo unico figlio voleva il meglio e che l’aveva trovato in me. Quando me lo disse non ci credei, ma lei me lo ripeté così tante volte che alla fine fui costretta ad arrendermi.
- Il signorino Langley non era granché vivace. La sua attività preferita era l’ozio (e lo è anche adesso) – aggiunse con un sorrisino – ma io no e lo coinvolgevo in lunghe passeggiate in aperta campagna, alle quali partecipava anche la contessa, ogni tanto. Sai, ero abituata a questo genere di cose … l’unico modo di badare ai miei fratellini era stancarli, sfinirli a furia di farli correre e camminare.
- Hai dei fratelli? Caspita, non me l’avevi detto!
- No? Mi sarà passato di mente… - scherzò – Comunque sia trascorsi gran parte del tempo con il signorino Langley. Sembrava risplendere tutto di un’atmosfera rosea, tranquilla, ma l’apparenza, come sai, inganna. Una mattina non resistetti alla tentazione di uscire a fare una passeggiata per i campi; mi piaceva visitare lo stagno della tenuta, all’alba, e mi recai lì. Quando arrivai, la scena che mi si dipinse davanti era l’unica che non avrei mai voluto vedere: trovai la contessa in camicia da notte, sulla riva dello stagno, senza vita.
Anya strabuzzò gli occhi.
- Come puoi ben immaginare lo spavento fu tale che cominciai a correre a più non posso e per la stanchezza non mi accorsi neppure di essere arrivata alla tenuta. L’immagine della contessa si era scolpita nella mia mente. Mi fiondai in
camera del conte con le forze che mi erano rimaste dopo la corsa e, senza fiato, gli raccontai tutto. All’inizio non prestò fede neppure a mezza parola, ma quando vide con i suoi stessi occhi parve impazzire. L’opinione comune era che la contessa si fosse suicidata.
- E il signor Langley?
- Intendi il signorino?
- Sì… lui. Come ha reagito?
- Non parlò per quasi un anno. Provammo tutti a distrarlo, gli proposi un’infinità di attività e lui partecipava a tutte, ma senza nessuna emozione. Pareva essere diventato matto anche lui. Non pianse neppure al funerale. Niente. Continuava a fissare il vuoto e qualunque parola o domanda gli rivolgessimo non ascoltava. È stato uno dei periodi più brutti di tutta la mia vita.
Anya assentì, sconsolata. Il moccolo accanto al medico si era sciolto e in quella parte di camera calò il buio. Per un lasso di tempo che Anya non fu capace di misurare nessuno delle due parlò e lei si mise a fissare il tremolante riverbero sulle pareti delle candele rimaste.
- Quanti anni aveva il conte, allora? – sussurrò d’un tratto.
Margareth ci pensò qualche istante. – Circa tre. Probabilmente adesso non ricorda nulla.
- Che brutta storia…
- Già. Il signor Langley, il padre del conte, andò via di casa, dopo qualche mese. Non lo rivedemmo più. Nessuno dei servi che lavorava in quella tenuta ne ebbe più notizia. Trascorse gli ultimi giorni nella tenuta come d’abitudine: si svegliava all’alba, faceva colazione e poi si recava nel suo studio, a lavorare. La sera cenava con il figlio e, dopo averci parlato un po’ – non ottenendo peraltro risposta – andava a letto.
La governante alzò lo sguardo sul conte. – Dio solo sa quante ne ha passate.
Di nuovo, come prima, calò il silenzio e, di nuovo, la prima a parlare fu Anya. – E quando andò via il padre?
- Vuoi sapere come reagì il conte?
Anya fece di sì con il capo, distendendo le gambe che già pizzicavano per lo scarso afflusso di sangue.
- Per lui non cambiò niente. Non era mai esistito un legame affettivo tra di loro e quando se ne andò il conte, il signorino Langley non versò neanche una lacrima. I primi tempi non se ne accorse neppure!
L’espressione di Anya si fece sempre più confusa.
- Ma il conte aveva una sorella e quando il signor Langley andò via, il bambino passò sotto la sua custodia. Dal momento che la zia non era intenzionata a cercare una nuova governante, io andai con lui. Fu dopo qualche tempo che ricominciò a parlare. Sua zia gli aveva comprato un cavallo, con i soldi dell’eredità e lui, al quale avevo narrato le gesta degli eroi greci, decise di chiamarlo Hector. Come puoi ben immaginare da quel momento in poi il signor Langley è cresciuto a pane, acqua e cavalli – disse con una punta di nostalgia nella voce.
- Dalla zia Corinne, che scoprì ben presto essere una zitella alla ricerca disperata di un marito, il conte trascorse il resto della sua infanzia e l’adolescenza. Allora si infatuò di una giovane, figlia di un proprietario terriero senza particolari fortune, e non ne volle più sapere di cavalli, passeggiate e cose che definiva ormai “roba da bambini”.
La sguattera lanciò uno sguardo al conte disteso sul letto e sollevò un angolo delle labbra in un sorriso.
- Il conte innamorato? – ripeté voltandosi verso Margareth – Dio, non ce lo vedo proprio…
- In effetti con il tempo è diventato scorbutico… - sdrammatizzò lei.
Anya lo guardò nuovamente.
- Lei si chiamava Danielle. Aveva i capelli scuri, lunghi – e imitò la lunghezza della chioma con un movimento fluido della mano – e gli occhi di un castano lucente. Dio solo sa quante risate ci siamo fatte assieme. Inizialmente detestava il signor Langley, le riusciva antipatico da morire, e quando i suoi andavano a trovare la zia del conte, non sapendo come passare il tempo veniva da me. Mi parlava di tutto quanto in famiglia era considerato volgare, come la sua passione per i nudi artistici, in particolare le sculture latine, e dei suoi sogni. Mi diceva che le sarebbe piaciuto imparare a progettare le case, le chiese, a disegnarne le fondamenta e qualche volta mi mostrò degli schizzi che aveva fatto di nascosto. Era molto brava.
- Un giorno, però, il conte si stancò di aspettare e la caricò sul suo calesse. Non ho idea di dove andarono a finire, ma quando tornarono, nel pomeriggio, mi accorsi che lei guardava il signor Langley con occhi quasi diversi. Davanti ai suoi ostentava ancora antipatia, ma quando me ne parlava vedevo risplendere la luce nei suoi occhi.
Margareth fece una breve pausa e si schiarì la voce. Per un momento non parlò, forse per fare un quadro di ciò che doveva raccontare; poi riprese a parlare.
- Il signor conte attese il raggiungimento della maggiore età prima di chiederle di sposarlo. Quando si decise e acquisì il diritto ad impossessarsi dell’eredità lasciatagli dai genitori, scoprì di non avere più nulla: il denaro era stato sperperato fino al’ultimo pence e le proprietà e i terreni erano stati venduti per pagare i debiti di gioco di sua zia. Litigò furiosamente con lei e infine, quando scoprì di essere proprietario di una tenuta a sud della contea di Waterford, fece i bagagli e si trasferì. Sua zia lo supplicò di restare, gli promise che avrebbe abbandonato il gioco d’azzardo, che avrebbe dimenticato tutte le cattive abitudini, ma il conte era troppo arrabbiato e andò via quello stesso inverno senza pensarci due volte.
- Da quel momento iniziò un’altra vita. Ricominciare da zero non fu affatto facile per lui: soldi non ce n’erano e le possibilità di guadagnarne senza terreni erano quasi nulle. Fortunatamente, il signor duca Rudolph, gli concesse un prestito e il signor conte poté riacquistare dei terreni e mettere in piedi una piccola azienda agricola. Inizialmente tutto andò in perdita e io lavorai per lui senza essere pagata; ma dopo qualche mese l’azienda cominciò a carburare e il denaro per ricomprare tutti i terreni di famiglia a fioccare. Fu in quello stesso periodo che ritornarono Greta e tutti gli altri, che prima prestavano servizio presso la signora Langley.
Anya ricordò ciò che la cuoca le aveva detto in proposito. Allora non aveva capito quasi niente, ma la storia del signor Langley e le sue peripezie l’aiutarono a capire anche la vita di Greta.
- Greta mi aveva raccontato qualcosa… - intervenne.
Margareth sollevò un sopracciglio, lanciando un’occhiata di sbieco al medico che dormiva ancora, il capo poggiato sul pugno chiuso.
- Quando ebbe riacquisito parte delle sue proprietà (terreni, s’intende), una mattina si recò a casa della sua amata e si dichiarò e le chiese di sposarlo.
- Lei accettò? – chiese Anya, impaziente. Alla governante sfuggì un sorriso.
- Sì – annuì. – Si sposarono poco tempo dopo e come regalo fece arrivare, direttamente da un allevamento inglese, una cavallina scura... – disse fermandosi a riflettere - … credo che l’abbia ancora, in scuderia.
Sul viso di Anya si disegnò un’espressione perplessa. La sua mente eseguì un rapido calcolo mentale e capì che si trattasse della cavallina veduta quando stava ancora male. Quella stessa cavalla la cui targhetta era stata parzialmente grattata via.
- Fu la felicità della signora Danielle. Ogni giorno si alzava presto per uscire con lei e farsi una passeggiata nella proprietà.
- Ho come l’impressione che a tutto questo ci sia un “ma”. Sbaglio?
Margareth scosse il capo. – Non sbagli – sospirò. – Certo, questo periodo di felicità ebbe la sua durata: quella stessa primavera la signora Danielle annunciò al signor conte di essere incinta. Per quanto esso possa sembrarti strano, il conte si diede anima e corpo perché lei ed il bambino stessero bene e quei mesi trascorsero tranquillamente.
- Sento che il “ma” si avvicina…
Margareth si rattristì. – A dicembre la signora partorì una bambina, ma le cose andarono male e morì per un’infezione – disse. – Con lei se ne andò anche la bambina, qualche giorno dopo. Un destino sfortunato, non credi anche tu?
Anya annuì. – Anche troppo.
Margareth fece spallucce. Adesso rischia anche lui… pensò.
Come qualche attimo prima nella stanza calò il silenzio. Ad entrambe parve che d’un tratto il medico stesse risvegliandosi, ma il rumore avvertito proveniva dal corridoio. Dopo qualche minuto, durante il quale Anya si chiese come tante sciagure potessero capitare ad un uomo solo, le sorse un dubbio.
- Di cosa morì la figlia del signor Langley? – chiese, trovando parecchio insolita l’idea del conte padre.
- Credo che sia stata la debolezza. Deve aver ereditato la costituzione della nonna paterna…
Anya assentì tristemente.
- Adesso quanti anni avrebbe?
- Quindici mesi.
- E’ un fatto recente… - sussurrò incredula.
Improvvisamente il medico si tirò a sedere e si guardò intorno, ubriaco per il sonno. Quando vide Margareth e Anya capì di trovarsi ancora alla tenuta e si sistemò gli occhialini sul naso.
- Devo controllare il signor Langley – biascicò avvicinandosi al letto del conte. Anya e Margareth si alzarono anche loro e osservarono trepidanti le mosse del signor Bowles.
Le dita adunche del dottore presero il polso del conte e con l’ausilio del cipollotto ne contò i battiti al minuto. Dopodiché, con i dorsi delle dita, toccò la fronte e una guancia del conte e annuì lentamente. Hunt sollevò il capo.
- Allora? – chiese Anya.
Il signor Bowles si tolse gli occhiali. – La frequenza del polso è aumentata leggermente e la temperatura pare che stia salendo.
Il viso della governante si illuminò. – Vuol dire che si sta riprendendo?
- Vuol dire che dobbiamo ancora sperare. Certo, il fatto che gli stia venendo la febbre è da considerarsi come un buon segno… almeno so che il corpo reagisce. Lo visiterò nuovamente fra… - disse dando un’occhiata all’orologio da taschino – fra una buona quindicina di minuti.
- Prendete un tè, signor Bowles? – propose Anya dopo qualche istante.
Il medico si strinse nelle spalle. – Accetto, ma solo per cortesia. Questa sarà la quarta volta che me lo chiedi – rispose con un sorriso.
- Bene. Margareth, tu?
La governante accettò e lei, alla quale le nuove della ultim’ora avevano risvegliato un certo languorino, fuggì nelle cucine.
Ne tornò poco dopo. Greta, Anna e la restante parte della servitù chiesero notizie del signor Langley. Anya cercò di rassicurarli come meglio poteva, ma avevano tutti il morale a terra; d’altronde, pensò, biasimarli non si poteva: a parte il fatto che erano legati al signor Langley da alcuni anni, trovare lavoro all’infuori della sua tenuta era difficile, anche perché molti nobili si erano trasferiti in Inghilterra o negli Stati uniti d’America e i proprietari terrieri rimasti erano attaccati ai loro servi come la resina ai capelli. Sentire parte dei loro discorsi prima, e vederli poi, la portò a riflettere sulla sua precaria condizione e su quanto generoso fosse stato il signor conte con lei e quanto poco lo sarebbe stato un qualunque altro padrone.
- Il vostro tè, signor Bowles – disse entrando nella camera del conte con un vassoio tra le mani. Porse una tazza a lui e Margareth, poi poggiò il vassoio su un tavolino.
- Spero tanto che guarisca – sospirò, senza neppure rendersene conto.
 
Qualche ora dopo il medico venne richiamato da un servo.
Fuori aveva finito di piovere e Birra era stato ricondotto al suo box. John, il domestico del medico, fu introdotto da Anthony, che riferì il suo messaggio al signor Bowles. 
- Signore, mi è stato riferito che si tratta di un caso non urgente ma che richiede la vostra presenza. Il vostro domestico ha fatto nome di un certo Lampton.
Il dottore alzò gli occhi al cielo. – Vi prego di perdonarmi, Margareth e Anya. Credo che al signor Lampton sia venuto un altro mal di pancia.
Le donne annuirono poco entusiaste e il signor Bowles andò via, promettendo di tornare il pomeriggio seguente e chiedendo di essere informato di ulteriori sviluppi riguardo la salute del conte.
Così Margareth ed Anya erano rimaste da sole, in camera del signor Langley. Il controllo del battito cardiaco e della temperatura divenne appannaggio della giovane sguattera e ogni verifica era intervallata da lunghi silenzi. Silenzi che andavano colmandosi da sonnellini sempre più durevoli.
In tarda notte Margareth dormiva già sulla poltrona accanto al letto, sulle gambe una coperta di lana; Anya, seduta ai suoi piedi, dormiva con il capo poggiato sulle sue ginocchia ed era avvolta anche lei in una calda coperta.
 
Si risvegliarono alle prime luci dell’alba.
O meglio, Margareth fu la prima a riaversi; Anya, si ridestò quando lei si stiracchiò le gambe.
- Devo… che ore sono?... il conte si è svegliato?
La donna la guardò senza capire. Prima di stiracchiarsi anche le braccia sbadigliò a lungo. La consapevolezza di ciò che era accaduto montò tutto assieme e mentre Anya le chiedeva che ora fosse, in preda al torpore, il suo sguardo era già posatosi sul signor Langley. Con un gesto rapido si tolse la coperta di dosso e si accostò al letto del conte. Il volto appariva pallido; le labbra, nascoste dai baffi, erano pallide e asciutte e le palpebre rosee.
- Scotta – disse posandogli una mano sulla fronte.
La ragazza raddrizzò piano le gambe, non senza dolore, visto che le aveva tenute piegate per un certo numero di ore. – Parecchio?
- Controlla tu stessa.  
Anya aprì le braccia dietro la schiena, facendo toccare le dita e scricchiolare le spalle. Margareth rabbrividì. – Credo che dovremmo far chiamare il medico.
La ragazza toccò la fronte e le braccia del conte con atteggiamento critico. – Non credo sia necessario … alla fine l’ha detto lo stesso signor Bowles che un innalzamento di temperatura va interpretato come la risposta del sistema immunitario ad un’infezione.
Margareth la fissò sbalordita. – Sistema cosa?
- Il sistema immunitario – rispose ovvia. – E’ come una gendarmeria che provvede alla difesa del nostro corpo. Quando c’è un’infezione, ad esempio …
La governante la zittì con un cenno infastidito della mano. – Va bene, va bene... vado a prendere dell’acqua fredda.
Anya sospirò. Nel silenzio della stanza si sedette sul bordo del letto ed ammirò il complesso disegno sul tappeto davanti a sé. Era certamente opera di arabi o indiani e rifulgeva di uno splendido color carminio; le probabili origini mediorientali le fecero venire voglia di sentirne l’odore, ma pensò che poteva averlo perduto già da un pezzo.
Hunt, che fino ad allora era rimasto buono buono sul tappeto, si era alzato, aveva stiracchiato le zampe e si era seduto vicino al capezzale. Anya lo chiamò un paio di volle ma il massimo che le concesse fu uno sguardo. Non ne voleva sapere di allontanarsi. La ragazza gli si avvicinò e stava per carezzarlo quando Margareth fece il suo ingresso con una scodella e una candida pezzuola tra le mani.
- Cosa fai ancora lì? – le disse socchiudendo l’uscio – Greta ti aspetta in cucina.
Giusto in quel momento aveva sentito lo stomaco gorgogliare e le si era aperta la prospettiva di scendere in cucina solo per mangiare qualcosa.
- Sveglia! Hai dimenticato che abbiamo tre ospiti a cui offrire la colazione?
- No – sbuffò Anya stirandosi il grembiule. – Come potrei dimenticare un impegno importante? – aggiunse con ironia. Prima di uscire sistemò i fermagli sulla crocchia e indossò la cuffietta.
 
Per le scale si sentì triste e demotivata come non lo era da tempo. Le venne da pensare a quando il signor Langley le aveva detto che era fuggita da un orfanotrofio e che non le era rimasto nulla, a parte una costola rotta e un bello spavento.
Uno, due, tre, quattro, cinque…
Pareva che la sua mente non facesse altro che contare negli ultimi tempi.
… sei, sette, otto, nove...
- Anya!
Mary.
- Sì? – fece, aspettandosi un ordine da parte di Greta.
- Greta ti sta cercando…
- Lo so.
Mary assentì, spostandosi una ciocca dalla fronte con il palmo. – Come sta il signor conte? – chiese dopo un po’ – si è ripreso?
Anya scosse il capo, senza guardarla. – No.
Le sentì mormorare qualcosa, forse una preghiera.
- Cosa vuole che faccia Greta? – chiese con le mani in tasca.
- Mi ha detto di dirti di andare da Pervinca per il latte, raccogliere le uova nel pollaio e una quantità di altra roba che ho dimenticato…
Anya poteva dire che la sua giornata fosse cominciata. – Quello che hai in mano è il secchio per il latte?
La cameriera annuì e glielo passò. La rossa lo afferrò seccamente, dopo un attimo di esitazione. Lentamente la sorpassò e si diresse all’ingresso principale.
- Anya! – la richiamò Mary.
- Ah già – sbottò Anya – sono una serva, io. Anzi, la sguattera! – e si allontanò verso le cucine.
Vi giunse con un passo stanco. Il ginocchio destro non aveva ancora smesso di farle male con la posizione scomoda in cui aveva dormito e l’andatura si era fatta leggermente claudicante.
- Alla buon’ora – la salutò la cuoca, indispettita. – Vedo che hai incrociato Mary – continuò indicando il secchio.
- Si, l’ho incontrata mentre scendevo…
- Così hai dormito sopra?
Anya vide che sul cesto del tavolo Greta aveva messo le prime pagnotte. Protese un braccio verso una di esse, quando Greta le colpì il dorso della mano.
- Ahia! – esclamò profondamente irritata.
- Quelle sono per gli amici del signor conte.
- E io? Cosa mangio?
- Se ti sbrigherai con il latte, le uova, l’acqua e il mangime delle galline ti farò trovare qualcosa.
- Cioè niente.
Greta levò gli occhi al cielo. Anya guardò avidamente le pagnotte che cuocevano in forno e lo stomaco brontolò di nuovo con l’odore che respirava. Pensare che un tempo i suoi genitori avevano posseduto una fattoria; non fosse stato per i debiti con la banca forse sarebbero rimasti vivi.
- Come sta il signor conte? – disse con preoccupazione.
Anya si strinse nelle spalle. – Il dottor Bowles non sa se si riprenderà.
Greta si meravigliò per il tono triste della ragazza. – Sta accadendo tutto così in fretta… - mormorò - posso fare qualcosa per lui?
- Tra poco servirà dell’acqua calda per la medicazione.
- Margareth ha mandato a chiamare il medico?
Scosse il capo. – No, ma le ferite vanno pulite.
- E a te chi l’ha detto?
- Lo so.
- Lo sai? – ripeté Greta.
La ragazza fece sì con il capo.
- E’ meglio attendere il consiglio del dottore prima di fare dei gesti avventati e inesperti - aggiunse dando una particolare rilevanza alla parola. Anya si risentì.
- Non sono affatto gesti avventati. Tantomeno inesperti, visto che ho una certa esperienza in merito.
La cuoca tirò fuori dal forno il pane pronto e lo sistemò in un vassoio con movimenti veloci per evitare di scottarsi. – Al giorno d’oggi basterebbe farsi picchiare per strada per diventare dei bravi dottori – disse dopo una pausa, alludendo al suo incidente. – Potresti consigliarlo al signor Bowles… chissà che non impari nuove cure…
- Stai dicendo delle idiozie!
- Ah… tu chiami queste “idiozie”… - la ribeccò con un’espressione sorpresa – e quelle strane cose che elenchi tutte le volte che sbucci qualcosa, allora? Quelle cosa sarebbero?
- Ti riferisci alle proprietà nutritive delle leguminose e degli ortaggi? – chiese, con atteggiamento di sfida.
- Sì … quelle.
Gli angoli delle labbra della sguattera si piegarono in un sorriso laconico.
Le discussioni con Greta conducevano ogni volta ad un vicolo ceco; ma non perché non sapeva più cosa risponderle: piuttosto perché capiva che le sue vedute erano troppo ristrette e che il mestiere della cuoca aveva bloccato il suo cervello in ragionamenti programmati e affatto elaborati. Parlare con lei di ciò che sapeva era tempo perso. E se ne rendeva conto sempre tardi, quando, cioè, stava per perdere la pazienza. 
- Vado a mungere le mucche! – esclamò. Da un angolo raccolse il secondo secchio ed uscì.
- Bene. Che ti portino consiglio, allora! – le disse di rimando.
Alla fattoria di Pervinca, alla quale si avviò per la prima volta senza l’ausilio del marchingegno costruito da Sam per trasportare i secchi di latte, Anya incontrò solo suo marito, che, venuto a conoscenza delle condizioni del signor Langley, espresse la volontà di venire e l’impossibilità di farlo.
Quando Anya ebbe riempito il secchio di latte, riportò le mucche nella stalla e si avviò al pozzo, dove riempì il secondo secchio. Poi ripercorse la strada per la tenuta e diede da mangiare alle galline. Nel cortile incontrò Sam ed Anthony; dalle loro domande capì che dovevano aver parlato molto del fatto che fosse rimasta a dormire in camera del conte.
- Mi meraviglio del fatto che Greta non ve l’abbia detto personalmente – disse con stizza osservando la cuoca dal cortile. – Comunque – riprese rivolta ai due – il medico teme che il conte non si riprenda.
Stava per andarsene quando Sam la bloccò. – Cosa vuol dire?
- Vuol dire quello che ti ho appena detto. Le ferite del signor conte sono gravi e non è certo che vi resista.
Dovette trattenere il disgusto per la freddezza con la quale aveva parlato. Di fronte le facce dispiaciute di Sam ed Anthony si sentì improvvisamente cattiva e, chiusi per un attimo gli occhi, cercò di correggersi. – Mi dispiace – ammise tristemente.  – Spero come voi che si riprenda presto.
Sam ed Anthony si allontanarono. Non le fu chiaro se lo facevano per ciò che aveva notato lei stessa o perché avevano degli impegni da assolvere. Vi badò poco e, nel silenzio, rientrò in cucina e afferrò una pagnotta prima che Greta potesse bloccarla. La cuoca le rivolse l’ennesimo sguardo adirato del giorno, ma Anya non sembrò farvi caso. Mentre mangiava il suo pane riempì una pentola d’acqua e la mise a scaldare sulle fiamme del camino.
- Non serve che tu mi guardi in questo modo, Greta – disse appuntando gli occhi sui suoi – vuoi che il signor conte guarisca? Lascia che gli si puliscano le ferite.
La donna le rispose con un’espressione altrettanto ostinata e di fronte all’evidenza che fosse impossibile farle cambiare idea, si girò e prese a mescolare nervosamente dei bianchi d’uovo.
Quando l’acqua della pentola raggiunse il bollore, Anya la trasferì in una piccola scodella di metallo e prese una pezza pulita. Tenere tra le mani la scodella piena era difficile, anche perché il metallo, essendo un ottimo conduttore di calore, stava riscaldando anche i manici. Quando stava per uscire dalla cucina si ricordò di dover aggiungere del disinfettante all’acqua. Senza, dopotutto, non avrebbe avuto senso pulire le ferite. Così poggiò la scodella sul tavolo, lontana dal piano di lavoro di Greta, e salì in camera sua, sul cui comodino era presente la boccetta di disinfettante che Margareth aveva utilizzato per il suo costato e lo zigomo. La trovò quasi subito e ne aggiunse venti gocce nell’acqua calda, che si colorò di verde. L’odore forte che si sprigionò le ricordò i suoi primi giorni alla tenuta e l’aiuto che il signor Langley le aveva dato.
Attraversò le stanze della tenuta e salì le scale con determinazione. Quando arrivò di fronte la camera del signor Langley, però, una lieve forma di insicurezza e ridicolezza montò e la bloccò proprio davanti la porta. Forse Greta aveva ragione a dubitare delle sue azioni. Forse si sarebbe rivelato sconveniente occuparsi in quel modo del conte. Forse lei doveva restare al suo posto. Il signor Langley le aveva salvato la vita ma non le avrebbe permesso di comportarsi così.
Ad un tratto la porta si aprì e Margareth rimase sorpresa nel vederla. – Cosa ci fai qui? – chiese lanciando un’occhiata interrogativa alla scodella che Anya aveva portato. – E questa?
- E’ dell’acqua calda con del disinfettante – balbettò. – L’ho preparata per ... il signor conte.
Anche Margareth teneva una scodella, ma era piena d’acqua fredda di prima.
- C’è anche una pezzuola. Dovremmo pulirgli i punti.
La governante tornò all’interno della stanza e posò la sua scodella in un angolino; poi dal baule ai piedi del letto prese una camicia. – Vieni dentro.
- Mi sento una sciocca – confessò la giovane prima di muoversi. – Una tremenda sciocca.
- Perché? – fece Margareth prendendo la ciotola d’acqua calda.
- Non trovo giusto entrare così… liberamente in camera del conte. Mi sembra di violare i suoi spazi. E poi sono una sguattera – aggiunse – non capisco come mi sia venuto in mente si preparare tutta questa roba e portarla qui … avrei dovuto chiamare il medico… lui stesso ha detto che il signor Langley ha una scapola rotta e io potrei peggiorare la situazione muovendolo… dio, come mi sento stupida! Forse dovrei tornare in cucina… - e mentre parlava si muoveva nervosamente, andava su e giù per la stanza e guardava il cortile dalla finestra. Margareth non le badò. – Voglio farti una domanda.
- Sì?
- Perché sei venuta qui?
- Per … ricompensarlo della generosità che ha avuto verso di me.
- Bene, allora smettila di frignare e aiutami!
La ragazza si avvicinò al letto, poco convinta. – Ha febbre?
- Come prima.
Insieme fecero ciò che il signor Bowles aveva fatto durante l’operazione. Misero il signor Langley a tre quarti, di spalle e Anya tolse il bendaggio. Quando Margareth vide la spalla volle allontanarsi, mentre Anya esaminò la ferita più da vicino e passò delicatamente la mano su di essa: la pelle era liscia, rosea e non vi era infezione. La zona presentava un certo rigonfiamento, che faceva un po’ di senso a prima vista, ma che constatò fosse una diretta conseguenza della frattura. Tutto sommato, non era cambiato nulla in confronto al pomeriggio precedente.
Intinse la pezzuola che aveva portato con sé nell’acqua con il disinfettante e poco a poco pulì la ferita. Margareth ne osservava i movimenti in silenzio.
Non appena terminò si fece aiutare a bendare il torace del conte e, nel frattempo che Margareth lo copriva con una camicia nuova, la ragazza ripulì anche la ferita alla coscia. Il dottore vi aveva dato sette punti e non era gonfia, né arrossata. Anya badò che anche questa fosse disinfettata a dovere.
Quando la pezza intrisa ricadde per l’ultima volta nella scodella d’acqua calda, Margareth s’affrettò a portare tutto via, perché temeva che se fosse caduto sul pavimento, il disinfettante avrebbe impregnato del suo odore l’intera camera.
- Hai bisogno che ti porti delle altre bende, Anya? – le chiese prima di uscire, vedendo che le vecchie erano macchiate di sangue.
La ragazza le guardò con noncuranza e scosse il capo.
- D’accordo. Quando esci, allora, bada a chiudere la porta – disse.
Onde evitare ulteriori pettegolezzi, Anya velocizzò i movimenti, senza privarli della loro accuratezza, e bendò la gamba del signor Langley. Le fece uno strano effetto sentire la pelle di lui a contatto con le sue mani; una pelle chiara e rovente di febbre. Vide che il ginocchio era macchiato da un livido e, risalendo con lo sguardo, si mise ad osservare i lineamenti del viso: a parte la barba incolta e i baffi, la pelle era distesa e giovane, il setto nasale caratterizzato da una gobba appena accennata, che sfasava il tratto regolare, e le labbra ferme in una piega rilassata. Non poteva dire che fosse l’immagine dell’innocenza, ma era lontano dall’idea che il suo cervello aveva archiviato nella sezione “signor Langley”.
Un richiamo di Greta nel cortile la ridestò improvvisamente.
Dimenticava spesso, negli ultimi tempi, di essere in quella tenuta per lavorare.


 

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Capitolo 17
*** Capitolo XVI ***


An irish tale – Capitolo XVI



Dublino, 3 Gennaio 2010

Un’altra giornata di freddo si era appena conclusa fuori dalle mura dell’ Adelaide & Meath Hospital.
Linda si era addormentata, accucciata alla poltrona che il medico aveva loro concesso di portare. Il rumore delle macchine respiratorie scandiva i secondi e sul monitor avanzava il grafico dei battiti cardiaci. Dal corridoio giungevano le voci dei medici e si udivano i passi concitati degli infermieri.
Era stata sveglia per una giornata intera, dall’alba, quando il dottor Homais aveva registrato una timida variazione nei dati di Anya. Insieme alla madre e alla nonna aveva sperato che sua sorella si svegliasse, ma così non era stato e alla sera aveva ceduto. Kate ed Elizabeth si erano allontanate per un po’ mentre Linda dormiva ancora, ma quando tornarono lei si ridestò, accorgendosi di una pesante coperta che l’avvolgeva caldamente.
- Credo che sia superfluo chiederti se è cambiato qualcosa… - disse Kate avvicinandosi alla figlia. Vederla inerme su quel letto di ospedale l’aveva distrutta e con il tempo era diventata sempre più sarcastica. L’ambulatorio veterinario era chiuso da tempo e non rispondeva neanche più alle chiamate dei suoi pazienti. Linda la compativa, ma non la capiva. Non poteva capirla; Anya era sua sorella, non sua figlia e non era la stessa cosa.
- Non è superfluo – le rispose.
La serata si concluse con il suono di quelle parole. Né sua madre, né sua nonna parlarono più. L’indomani mattina si svegliarono al bussare del dottor Homais alla porta.
- Buongiorno signore – le salutò con il suo classico accento francese. A riaversi per prima fu Linda, che gli rispose con la coperta ancora addosso.
- Sono già le otto? – chiese guardando l’orologio. L’uomo annuì, mentre visitava Anya.
- Ieri sera ho dato un’occhiata io stessa.
- Oui?
- Dal diagramma mi pare che non sia cambiato nulla.
- Infatti … - disse lui. – Potrebbe fare la dottoressa, signorina Bacott – aggiunse qualche istante dopo.
Linda si sforzò di sorridere, temendo comunque di aprir bocca perché questa era ancora impastata per il sonno.
Poco dopo sua madre aprì gli occhi e si alzò. – Nuove, dottor Homais?
L’uomo scosse il capo, dispiaciuto. – Quando terminerò il ciclo di visite vorrei parlarle signora.
Per qualche strana ragione quel tono non piacque a Linda, che osservò sua madre in silenzio.
- D’accordo, dottore. Vuole che… - mormorò facendo riferimento ad Elizabeth.
- Oh… non. Non signora Bacott. Intendo parlare solo con lei.
Kate assentì e quando il medico andò via, con Linda andò in bagno e poi alla macchinetta per una cioccolata calda. Linda trovava molto tristi quei momenti, quelle colazioni improvvisate; era abituata a trovare Anya in cucina, la mattina e mangiare con lei e sua madre sedute al tavolo, con una buona tazza di tè o latte caldo tra le mani e una buona varietà di roba salutare da mangiare a disposizione. Negli ultimi tempi il suo viso si era costellato di brufoli e non di rado era capitato di chiedere del bicarbonato alle infermiere per i bruciori di stomaco. Andava a casa il tempo necessario per farsi la doccia, ogni mattina, e prepararsi un paio di sandwich per il pranzo e la cena. Sulla strada per l’ospedale comprava della frutta e nella camera di Anya faceva i compiti e ripassava. Sua madre e sua nonna, invece, trascorrevano il loro tempo chiacchierando e stando in silenzio. Kate dormiva spesso e Linda discuteva con Elizabeth; erano entrambe d’accordo sulla questione dell’ambulatorio veterinario: bisognava che qualcuna di loro andasse a mettere un avviso sulla porta esterna ed il gioco era fatto; ma l’unica macchina a disposizione era quella di Kate e lei non voleva perdere il suo tempo a presso a certe cose. Ogni mattina entrambe cercavano di convincerla a deviare il percorso della macchina, ma era un tentativo vano. Una volta Linda aveva telefonato a suo padre Josh e, a malincuore, gli aveva chiesto di accompagnarla lui. Dimenticava, però, la natura ignava di suo padre. Quasi, pensava con una certa ironia, poteva capirlo: non era facile percorrere il tragitto Malahide-Dublino!
Non ricevevano visita di Josh da una settimana. Due volte erano bastate a fargli mettere il cuore in pace e accertarsi che Anya non fosse in grado di criticarlo per il suo l’atteggiamento deplorevole.
La mattina del quattro Gennaio 2010, un lunedì, Linda decise di mettere un punto a quella faccenda dell’ambulatorio ed uscì con la scusa di volere approfittare del bel tempo. Sfruttando un momento in cui sua madre dormiva, indossò il cappotto, la sciarpa ed uscì, senza preoccuparsi dei guanti. Mettendo le mani in tasca toccò qualcosa di soffice e caldo; incuriosita lo tirò fuori: era il cappellino che Anya le aveva regalato per il suo compleanno, un cappello verde e assai bizzarro, con un grosso pon pon che ricadeva sulle spalle. Per un attimo credé di essere appena uscita per andare a scuola, dalla quale sarebbe tornata di pomeriggio e avrebbe incontrato Anya a casa; ma dopo aver indossato il cappello l’obiettivo della sua passeggiata le tornò alla mente e, con esso, anche la consapevolezza di avere una sorella in bilico tra la vita e la morte in ospedale, a pochi metri dietro di lei.
L’orologio segnava le dieci. Non serviva correre. Per quanto ne sapeva, l’ultima volta che ciò era successo, Anya era stata investita. Quindi, regola numero uno: mai avere fretta. Regola numero due: guardare sempre la strada prima di attraversare. Regola numero tre: prima di prendere il tram, controllare sempre il tabellone alla fermata. Certo, le ultime regole non riguardavano sua sorella, ma lei stessa le aveva sempre detto che, se si fosse assentata, a sua madre avrebbe dovuto pensarci lei; suo padre ce l’avrebbe fatta anche da solo. Quindi, tanto per cominciare doveva mettere a posto una certa cosetta riguardante la sua professione. Non le andava di pensarci da sola, ma una promessa era una promessa, per cui, dato che il tram era arrivato, doveva prenderlo e fare tre fermate; poi sarebbe scesa e ne avrebbe preso un altro, con il quale sarebbe giunta a duecento metri circa dall’ambulatorio.
Sul primo mezzo incontrò molta gente e dovette poggiarsi ad un sostegno di metallo per non cadere. Sul secondo fu più fortunata e, in breve, giunse a destinazione, estrasse dalla borsa il cartello che aveva preparato e lo attaccò alla porta dell’ambulatorio. L’effetto finale le piacque relativamente e in breve tornò all’ospedale. Sua madre dormiva ancora.
- Si è svegliata? – chiese ad Elizabeth togliendosi il cappotto e la sciarpa.
Sua nonna l’abbracciò.
- Nonna, si è svegliata?
- No…
Linda si sentì di ricambiare la stretta. In altri momenti le avrebbe chiesto il motivo di quell’azione, ma bastò uno sguardo a sua sorella e ai tubicini che si collegavano al suo naso e alle sue vene per bloccarla.
- Sono felice che tu sia tornata.
- Ovvio che l’avrei fatto.
- Intendo sana e salva – disse sciogliendosi dall’abbraccio e ammirandola come la prima volta.
Linda sorrise.
Elizabeth si passò una mano fra i corti capelli. – Ti va una cioccolata calda?
- Alla macchinetta? – chiese poco convinta.
- Anche allo Starbucks, se ti va.
Il sorriso di Linda si allargò. – Con il latte?
- E tanta panna.
- D’accordo.
- Bene. Sarò di ritorno fra poco.
La giovane assentì.

Al risveglio, il primo pensiero di una madre va sempre ai figli. Raramente, se c’è amore, ciò non accade; in quel caso ci sarà sicuramente un problema talmente grande da impedire alle facoltà intellettive di pensare prima ai cari. Ciò era appena successo a Kate. Ridestandosi dal torpore aveva immediatamente ricordato che il dottor Homais aveva espresso il desiderio di parlarle. Scostandosi la coperta di dosso aveva visto Linda sulla sedia, con un libro in una mano ed un bicchierone di Starbucks nell’altra. La ragazza le aveva offerto una cioccolata, ma aveva rifiutato ed era uscita velocemente dalla stanza.
Trovò Homais senza difficoltà.
- Voleva parlarmi, dottore?
Lui si girò e fece di sì. Aveva un naso rosso da clown e teneva un bambino per la mano. – Ehi Francis, perché non vai a giocare con i tuoi amici?
Il bambino corse via. – Sì, signora Bacott – disse infilando il naso da clown in tasca – ma nel mio studio.
Quando arrivarono il dottore chiuse la porta e invitò Kate a sedersi.
- Dalle ultime visite che ho fatto a sua figlia ho registrato una certa stazionarietà della sua condizione. Può vedere lei stessa…
Homais girò lo schermo del suo computer e Kate osservò la tabella che lui aveva costruito. C’erano i nomi di molte sostanze che conosceva e dalle quantità nel sangue di Anya, capì ciò che il medico stava per dirle.
- So che è presto per parlarne, ma una tale immutabilità non è da considerarsi normale.
Kate abbassò lo sguardo. Sentiva di stare per piangere.
- Mi dispiace, signora Bacott. Quella ragazza è entrata nel cuore di tutti, ma… credo di volere sapere cosa pensa sua figlia del coma, del mantenimento in vita tramite le macchine respiratorie – fece una breve pausa - Per carità, la situazione potrebbe cambiare da un momento all’altro, capovolgersi. Anya potrebbe svegliarsi in qualsiasi istante, tornare a parlare e respirare autonomamente, però una sua opinione potrebbe aiutarci. Non so se capisce quello che voglio dire… – disse rigirando lo schermo del computer.
- E’ troppo presto - disse Kate fra le lacrime.
- Lo so.
- Non potremmo riparlarne più avanti?
Homais si difese con fare cortese e accondiscendente. – Se lo desidera…
- Voglio che sappia una cosa, dottore – disse Kate ricacciando indietro le lacrime. – Anya non è mai stata una ragazza priva di volontà. Non si è mai arresa di fronte a nulla e non lo farà neppure adesso, ne sono sicura. Le basterebbe vedere il modo in cui mi aiuta in ambulatorio … non ha mai lasciato che una bestia soffrisse. Mai. È capace di trascorrervi la notte, in clinica, se si accorge che un animale necessita di cure costanti. Anya non può andarsene così. Si sveglierà. Lasci che il suo corpo si riprenda… e se ci vorrà del tempo... glielo conceda.
L’uomo abbassò gli occhi. Kate sospirò ed uscì dallo studio.

Il pomeriggio arrivò in fretta.
Linda stava preparandosi per andare a casa. Le vivande che si era portata quella mattina erano finite prima del previsto e, onde evitare di bere altra cioccolata di Starbucks e della torta alla crema, intendeva comprare qualcosa e preparare una salutare insalata o dei panini con del buon prosciutto italiano.
Andò a casa con sua nonna. Si mossero a piedi, dato che Kate non aveva nessuna intenzione di lasciare la figlia. Se si fosse svegliata, diceva, avrebbe voluto essere lì. Dopo il silenzio ovattato della camera d’ospedale, uscire in strada, come avvenne la mattina, fu un vero e proprio trauma uditivo.
- La strada è più trafficata del normale – commentò Elizabeth.
Presero un tram, ma era così affollato che rimanervi un minuto in più avrebbe significato tentare il suicidio; così scesero e proseguirono a piedi per una buona mezz’ora. A casa vennero accolte da un odore dolciastro che non avevano mai sentito; sapeva di vaniglia e zucchero filato. Linda realizzò che somigliava ad un profumo che le aveva regalato Paul, un paio d’anni prima e si diresse nella stanza da letto per prendere alcuni libri. Entrando vide che la disordinata colonna di libri che aveva eretto negli ultimi giorni accanto al letto era crollata e c’erano volumi sparsi sul pavimento; dopo aver acceso la radio ne prese alcuni e li sistemò in più colonne nello stesso punto di prima, altri, che aveva riconosciuto essere di Anya li ordinò in una colonna minore.
La radio dava “Everybody hurts” dei REM.
Quando stava per posare l’ultimo volume un libro le cadde di mano e ne fuoriuscì un sacchettino di carta bianco, simile a quello che danno nelle mercerie quando si fanno acquisti esigui. Su un lato vi erano degli schizzi e degli scarabocchi a penna, su un altro vi era scritto qualcosa; l’inchiostro era blu scuro e Linda riconobbe il tocco di sua sorella.
era da tanto che ci pensavo” lesse “inizialmente l’idea di scrivere una lettera del genere mi spaventava un po’, ma poi mi sono convinta e ho deciso di scrivere. Sono quattro parole, ma spero facciano la differenza.
Credo che quando la gente leggerà questa lettera io sarò già morta o perlomeno sarò talmente tanto impegnata in qualcos’altro (volente o nolente) da non far caso a chi mette mano alle mie cose.
Scrivo perché ho paura che la gente si dimentichi di me. Non credo di essere mai stata vanesia o egocentrica, ma ci tengo ai ricordi e vorrei che la gente non scordasse mai ciò che ero, ciò che sono stata. Se ho fatto del male a qualcuno chiedo che mi venga perdonato; se ho tolto qualcosa a qualcuno, questo stesso, se intende vendicarsi anche dopo la mia morte, deve ricordarsi la differenza esistente tra le persone e gli animali e gli oggetti: che si prenda ciò che vuole, che distrugga pure la mia stanza, se proprio ci tiene; ma che non tocchi la mia famiglia. Mio padre se n’è andato, si sta costruendo un’altra famiglia, e il compito di difendere la mia è passato a me. Che quel qualcuno sappia che sono pronta a svolgere il mio compito da protettrice anche da lassù (o da qualunque altra parte andrò a finire) se solo pensa di toccare i miei.
Bene.
Sappiate che sono tranquillissima e… che sto morendo di freddo al tavolino di questo bar all’aperto. No, Dio non ci manda al bar dopo la morte. Sto solamente scrivendo su questo sacchettino sorseggiando un frullato da Leumont&Fernand, il nostro caro vicino di casa.
Dal momento che lo spazio per scrivere è quasi terminato, esprimo velocemente le mie poche volontà…”
Linda leggeva quelle righe con gli occhi pieni di lacrime. Aveva accennato un sorriso quando Anya scrisse di L&F, il locale quasi di fronte casa, ma poi aveva iniziato a piangere più di prima. In un paio di righe sa sorella pregò che nessuno si lasciasse trascinare dal dolore dopo la sua scomparsa e altre piccole cose che Linda avrebbe immaginato. Arrivata ad un punto della lettera, però, gli occhi annebbiati dal pianto si spalancarono piano e le mani girarono presto il sacchettino. Anya, infatti, aveva scritto: “... prego che mai nessun animale di quelli che mia madre prenderà in cura, finisca in coma; ho sempre detestato lo stato comatoso. Immedesimandomi nel padrone di uno di quegli animaletti, probabilmente, mi accontenterei di aspettare anche anni per rivedere il mio animale; ma se ciò dovesse accadere a me, se per qualunque disgrazia io dovessi ricadere in uno stato del genere, chiedo che sia lasciata morire in pace nel caso dovessi dormire più di tre mesi. Lo stato vegetativo non è mai stata la mia ambizione e se sono stata messa al mondo è perché potessi camminare e respirare da sola; non voglio che siano delle macchine a tenermi in vita”.
Seguivano le conclusioni e i saluti.
A quel punto Linda era già rannicchiata ai piedi del letto, la fronte sulle ginocchia, e singhiozzava sommessamente e senza interruzione. Le dita stringevano la lettera senza accartocciarla e la cassa toracica, per il modo in cui era piegata e in cui piangeva, aveva cominciato a farle male.
Improvvisamente entrò Elizabeth, la quale, nel vederla piangere le si avvicinò e provò a consolarla. Linda allora le fece leggere la lettera e dopo averlo fatto Elizabeth l’abbracciò.
- La lettera dice tre mesi … sono passati poco più di dieci giorni … vedrai che Anya si riprenderà presto!

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Capitolo 18
*** Capitolo XVII ***


An irish tale - Capitolo XVII



Se avesse chiesto in giro, era sicura, non avrebbe ottenuto la risposta che cercava. La disperazione regnava negli animi di tutti, ma in pochi lo rendevano evidente.
Il signor Langley stava morendo.
Era stata questa la prognosi del signor Bowles il pomeriggio precedente, quando aveva fatto visita al conte.
Per quanto ciò fosse doloroso, nessuno, lì dentro, era disposto a farsi vedere addolorato o, quanto meno, con gli occhi arrossati per il pianto.
Sapeva che a volte l’orgoglio rende le persone apparentemente fredde e distaccate dalla realtà, ma non avrebbe mai pensato fino a questo punto. Non appena il medico aveva completato la sua visita quotidiana – perché tale era divenuta la sua presenza all’interno della proprietà del signor Langley – un coro di visi tristi lo aveva accolto nel corridoio e, accompagnandolo all’uscita, la sguattera vide il suo viso rigarsi silenziosamente di lacrime calde, la cui origine non era riconoscibile, perché il sudore che gli imperlava la fronte era tale da confondere la mente di tutti in proposito. Ella stessa per un attimo credé che si trattasse di goccioline di sudore – era durata parecchio la visita e, dal momento che la giornata era stata uggiosa per tutto il tempo e la luce scarseggiava, era stato necessario accendere alcune candele per rendere possibile la visita del giovane conte – ma, seppure momentaneamente incredula, dovette redimersi di fronte la crudeltà con la quale la realtà procedeva e sforzarsi di credere che alla fine la sfortuna si era abbattuta anche sul signor Langley in persona e, cosa di minor importanza rispetto alla perdita di una giovane vita, che lei sarebbe ben presto rimasta senza un tetto, né un lavoro, né nessuno di cui potere fidarsi.
Il signor Langley dormiva già da tre giorni. Da due era in preda ad una febbre che lo stava esaurendo poco a poco e a nulla erano valsi i tentativi del medico e di Margareth di farla abbassare di qualche grado. I polsi, il collo, la fronte, le ascelle, l’interno delle ginocchia e i piedi più volte gli erano stati bagnati con dell’acqua e dell’alcool, ma, a parte un momentaneo calo della temperatura, i risultati non erano stati per niente soddisfacenti. A peggiorare ulteriormente le cose vi era la ferita alla coscia che aveva iniziato ad infettarsi. Il signor Bowles aveva imputato questo peggioramento alla prolungata esposizione della ferita all’aria e al fango della notte in cui era stato colpito e aveva prescritto che fosse lavata e asciugata con cura per tre volte al giorno, oltre a praticare delle iniezioni – di cui si occupava lui stesso. Era certo che ci fosse qualcosa al di là dell’incidente, che magari agiva da dentro, impedendo che la febbre si abbassasse, che la disinfezione delle ferite fosse completa nonostante gli accorgimenti consigliati da lui e Anya.
- Se solo esistesse un modo per sostentarlo anche mentre dorme – sbottò un giorno, mentre visitava il conte – magari reagirebbe in modo diverso, magari riuscirebbe a trovare la forza di combattere questo fuoco.
Una volta Anya aveva visto arrivare gli uomini di qualche giorno prima, alla tenuta, forse gli amici del signor Langley. Avevano chiesto notizie dell’amico, poi erano andati via. Era venuto anche Hobson, l’amministratore, e pure lui, una volta avute notizie, aveva fatto dietro-front e si era allontanato.
La giornata dei domestici e di chi era coinvolto in quella situazione era stata quasi stravolta. Non che fossero cambiate le azioni giornaliere; piuttosto il ritmo e la velocità degli avvenimenti si era così rallentato che non attribuire l’aggettivo di fiacco alle movenze di tutti era un errore. Per quanto riguardava Anya, le sue azioni erano scandite dal suono che esse stesse producevano: uno sbadiglio o due al risveglio, il fruscio della spazzola nel camino, il ciangottio delle scarpe nelle pozzanghere sulla strada per la fattoria dei Sellers, il muggito di qualche mucca, lo starnazzare di qualche oca nel pollaio, il chiocciare delle galline, lo scialacquio nella tinozza con le stoviglie e il silenzio della camera del signor Langley. Ogni tanto si dava a discutere con Anthony, più per animare la giornata che per altro, ma raramente lo si trovava nella scuderia, ora che non c’era più il conte a metterlo in riga. Dopotutto non c’era molto da fare là dentro e pareva che anche i cavalli si fossero stancati di stare chiusi nei loro box, perché si udivano spesso battere fragorosamente gli zoccoli contro le rispettive porte.
Marzo era quasi giunto a completamento. Mancava una settimana ad Aprile e Pasqua si avvicinava. I contadini avevano ricevuto già da tempo l’anticipo promesso loro dal conte e Hobson adesso si ritrovava ad avere a che fare con calcoli e spese che mai prima l’avevano riguardato. L’unica volta che si era recato alla tenuta per far visita al padrone – cosa che non gli era stata resa possibile, perché questi ancora incosciente – in mano teneva una cartelletta di cuoio con alcuni documenti. Il soliti documenti, avrebbe detto il conte. La solita carta polverosa di cui liberarsi avrebbe significato ricevere una benedizione o il fallimento.
Hobson era un uomo basso, con due mustacchi neri sotto un naso da impiegato e le mani perennemente unite a sfregarsi per il freddo. Quando parlava produceva più vapore di chiunque altro e bastavano pochi passi veloci a farlo respirare più velocemente. Il conte gli rivolgeva la stessa occhiata di sufficienza con la quale era abituato a guardare tutti, ma a quanto pareva Hobson ne sentiva la mancanza. Sì, perché era il classico tipo che riesce ad essere in gamba ed efficiente solo quando è affiancato da qualcuno che lo aiuti a pensare, che gli dia delle direttive, degli input, che lo sproni e che parli in un modo che sia necessariamente la “brutta copia” del suo gergo. Senza quel qualcuno negli occhi gli compariva un evidente cenno di disorientamento e di mancanza di fiducia verso sé stesso. Lo stesso sguardo che Anya riconobbe in sé dopo essersi guardata allo specchio.
Apparentemente fiera e desiderosa di andare avanti.
Al contrario di quanto pensava il signor Bowles, però, lei non credeva che il signor Langley si sarebbe arreso. Insomma, era inconcepibile che una persona conosciuta da poco se ne andasse così, come niente. Era inconcepibile che Dio non le desse la possibilità di guardare il conte un’altra volta camminare per il cortile, di sentirlo tossire o rimproverare e mandare nei campi Sam ed Anthony; non trovava corretto neppure il fatto che se fosse morto, il signor Langley non avrebbe potuto godere di gioie che, possibilmente, lei avrebbe vissuto e visto, o avvenimenti importanti, che riguardassero l’umanità tutta. Dove si va a finire dopo la morte? Si chiedeva. È possibile che ci sia tolto il diritto di vedere, sentire, toccare, gustare un mondo sul quale siamo stati buttati alla nascita e a cui si siamo abituati assai difficilmente, nel quale ci siamo formati, temprati e abbiamo sperimentato la vita? Anya non lo riteneva possibile e se ne avesse avuto il tempo avrebbe scritto su alcuni fogli i ragionamenti, le riflessioni e i progressi che la mente faceva giornalmente in proposito. Forse sarebbe giunta ad una conclusione, oppure il saggio che sarebbe venuto fuori sarebbe stato pubblicato e, chissà, forse anche premiato non proprio per la bellezza, ma per la forma e le energie che lei aveva speso in questa ricerca. Perché si pensano tante cose quando si soffre. Inizialmente ci si chiede il motivo per cui ci è toccato vivere in quello stato così grigio. Poi il flusso di coscienza inizia a richiamare così tanti ricordi e riflessioni e roba a cui non avremmo mai neppure pensato, che alla fine è difficile uscirne fuori.
Dio, se avesse avuto una penna.
Un pomeriggio, mentre curava il conte, Anya pensò di fare alla maniera degli antichi egizi, prendendo le foglie più lunghe e sottili che riusciva a trovare, intrecciandole fra di loro mentre erano ancora fresche e pressarle per bene; una volta seccate avrebbe potuto estrarre il succo del mirtillo, filtrarlo, farlo restringere in una pentola sul fuoco e utilizzarlo come inchiostro, adoperando magari un rametto cavo dentro il quale avrebbe fissato una minuscola puntina di tessuto imbevuta dello pseudo inchiostro, e realizzato una penna. Il succo di mirtillo le venne in mente perché una volta Greta le aveva raccontato delle sue proprietà indelebili e, più in particolare, di una gonna che non era più riuscita a smacchiare, dopo che dei mirtilli maturi vi erano caduti sopra.
Dopo tutto quel lavoro avrebbe certo realizzato qualcosa di straordinario, ma ne valeva la pena, dato che la carta esisteva già e così pure l’inchiostro? E poi perché creare un marasma simile per delle riflessioni filosofiche che aveva già dimenticato?
Così lasciò perdere.
La sera del terzo giorno dall’incidente del conte iniziò a nevicare.
Ne erano precedute ore di un tempo freddo, ventoso e tremendamente uggioso e ne erano susseguite ore in cui il cortile andava progressivamente coprendosi di un candido e crudele manto nevoso. Le galline non chiocciavano più, né le oche starnazzavano, né i cavalli battevano gli zoccoli sulle porte dei loro box. Il cielo era grigio e bianco ovunque. Non si distinguevano più i profili delle montagne lontane, né filtrava la luce del sole. All’ora di pranzo pareva che il giorno fosse giunto al termine.
- Hai dato da mangiare ai cavalli?
Greta alzò lo sguardo dal piatto giusto il tempo di porre la domanda al giovane stalliere, poi lo riabbassò e trangugiò un cucchiaio della zuppa di cipolle.
Il ragazzo fece di sì con il capo. Anya osservò i movimenti di ciascuno, mentre inzuppava una fetta di pane nella zuppa e ne mangiava un pezzo.
Quella mattina non era potuta andare alla fattoria dei Sellers, perché nevicava e lei non aveva gli indumenti giusti per muoversi. Greta si era sentita molto contrariata, nonostante non potesse costringerla ad uscire.
- Mary?
La ragazza sbuffò seccata. – Il fatto che Margareth non ci sia, non ti autorizza a farci il terzo grado.
I domestici si scambiarono qualche occhiata. La governante aveva dovuto assentarsi, dopo aver ricevuto una lettera dai suoi fratelli. A quanto pareva il figlio di uno di loro si era ammalato e lei doveva provvedere alle medicine.
- Stai al tuo posto, signorina. Hai fatto o no quello che ti era stato ordinato da Margareth?
- I miei compiti di oggi prevedevano che accompagnassi Ines e Anna al fiume, quindi no, non ho fatto nulla.
Greta sollevò un sopracciglio con fare accusatorio.
- Non intenderai discutere pure durante il pranzo, vero? – la anticipò Mary.
- No – disse Greta posando il cucchiaio – non intendo farlo. Ma mi sono state lasciate delle responsabilità ed esigo che i miei superiori non rimangano delusi da me.
La cameriera sbuffò un’altra volta e, sotto gli occhi di tutti, si diede a sorseggiare tranquillamente la sua zuppa.
- Anya?
La sguattera levò gli occhi sulla cuoca, seduta a qualche metro da lei. Margareth l’aveva esonerata da qualunque altro incarico, affidandole la delicata missione di sorvegliare il conte e probabilmente la cosa dava fastidio a Greta. Certo, lei stessa aveva ammesso di aver avuto un salto di qualità, ma Margareth e il medico avevano voluto così…
- Sì – rispose, sentendosi improvvisamente osservata. – Le condizioni del conte si mantengono statiche – aggiunse dopo un po’.
Alla sua affermazione seguì un lieve brusio.
- Per oggi la sua salute è nelle tue mani, ti ricordo.
Anya trattenne un cenno d’impazienza. – Ne sono consapevole, perciò sto facendo ciò che posso.
Finita la zuppa Anya si alzò e raccolse i piatti di chi aveva finito. Poi si spostò alla tinozza e, risciacquatili, uscì in cortile; raccolse un po’ di neve, la mise in un catino e rientrò.
- Ritorno ai miei doveri – disse a Greta in tono canzonatorio, quando questa fece per trattenerla.
Prima di salire alla zona padronale, si diresse alla camera da pranzo, dalla cui cassettiera trasse una pezzuola di lino. Di fronte la porta della camera del signor Langley ebbe ancora una volta un attimo di esitazione, ma si decise in fretta ad entrare e poggiare ciò che aveva raccolto sul solito tavolino di legno accanto al legno. Con entrambe le mani tastò le braccia ed il viso del conte, reso ruvido dalla barba sfatta e umido dal sudore. Scottava. Nonostante il freddo si rimboccò le maniche della camicia e avvolse un pezzo di neve nel fazzoletto che aveva preso prima e iniziò a strofinarlo sul collo, la fronte, le braccia e le gambe del signor Langley. Non provò nessun imbarazzo nel farlo, anzi, si sentì pervadere da una specie di sensazione materna, di responsabilità e la determinazione di fare abbassare quella dannata febbre la portò ad intervallare gli sfregamenti con la neve con una seconda pezzuola imbevuta d’alcol. In breve la camera iniziò a puzzare di questa sostanza e per un po’ fu costretta a socchiudere la porta e una finestra del corridoio, dal momento che quella della camera era bloccata. Quando le braccia, il collo e le gambe del signor Langley divennero rosse per gli sfregamenti, Anya si concesse una pausa. Prese posto sulla poltroncina accanto al letto e cullata dal dolce tepore che emanava si addormentò.
- Anya?
- Sì, Greta?
- Mi ascolti?
- Certamente!
- Dicevo…
- Mi stavi raccontando del libro che avevi letto…
- Già.
Si sedette a gambe incrociate su una sedia della cucina e la cuoca riprese a parlare.
- … di quel libro fu una frase ad avermi colpito in particolare...
- Perché ti fermi? Ti sto ascoltando.
- Si, lo so – disse. E guardò fuori, da cui proveniva una dolce nenia suonata al violino. Anya si girò pure lei e vide che mentre Anthony suonava, Mary gli danzava allegramente intorno.
- Vieni… - le disse Greta, invitandola ad uscire.
Anya provò a muovere le gambe, ma si sentì improvvisamente stanca e priva di forze, cosicchè anche girare la testa le risultava faticoso. – Sì, un attimo – disse prendendo tempo.
- Avanti, su! Non senti com’è invitante?
Anya avrebbe voluto rispondere, ma adesso non riusciva più neanche a parlare. Pensò di tenderle la mano e di uscire con lei e in un attimo si ritrovò fuori, seduta sulla panca accanto alla porta che osservava Anthony suonare e Mary ballare. Poi Margareth la prese per un braccio e la spinse malamente dentro, facendola cadere sul ligneo pavimento della cucina. In un baleno la ragazza si chiese da dove fosse venuta, perché non aveva sentito i suoi passi, ma Margareth le si avvicinò e prendendola una seconda volta per il braccio la alzò fino ad averla naso a naso. Fuori Anthony non suonava più e neanche Mary era rimasta a ballare. Forse stava cominciando a piovere.
- Sentimi bene, tu – le ringhiò improvvisamente contro la governante – vedi di stare al tuo posto!
Anya provò ad obiettare, ma un bastone la colpì in pieno viso.
- Stai al tuo posto, chiaro?
Lei annuì, e di nuovo il bastone la colpì alla guancia per tre volte di fila. Si sorprese nel non sentire dolore e un’altra scarica di bastonate la colpì e un’altra e un’altra ancora…
Poi…
- C’è nessuno? Anya?
Con uno scatto aprì gli occhi, sussultando sulla poltrona su cui era seduta. Gli occhi corsero alla parete a sinistra, mentre il cuore batteva a gran velocità. Non vedendo la luce del sole spostò lo sguardo intorno a sé e pensò di essere sicuramente in ritardo con le sue attività giornaliere, anche se non era la voce di Greta quella che sentiva dietro la porta. Quando vide il conte, però, realizzò dov’era e di essersi appisolata mentre lo curava. Istintivamente si alzò e andò a tastare la sua fronte, su cui aveva poggiato una pezzuola ripiegata e intrisa di acqua divenuta tiepida. Era ancora calda, ma meno rispetto a prima.
Dietro di lei la porta si aprì.
- Anya!
Mary e il signor Bowles comparvero sulla soglia.
- Ho bussato parecchie volte, non mi hai sentito?
Anya annuì e scosse il capo contemporaneamente, confusa dal sonno. Poi si passò una mano sugli occhi e salutò il medico.
- Salve, signor Bowles.
L’uomo ricambiò il saluto e poggiò la sua borsa di pelle sul pavimento.
- Margareth oggi non c’è perché uno dei nipoti stava male – spiegò la cameriera accendendo un paio di nuove candele.
- Mi dispiace. Sapete di cosa soffre? – chiese Bowles rimuovendo il bendaggio alla coscia del signor Langley.
Mary scosse il capo, raccogliendo le bende sporche che le porgeva il medico. – Non ci ha detto nulla, ma spero non sia nulla di grave.
Il signor Bowles le rispose distrattamente con un cenno, mentre si toglieva la giacca e tirava su le maniche della camicia e del maglione che indossava. Sulla pelle della gamba del conte era rimasta impressa la trama delle garze e la ferita era circondata da un alone rosso e da un leggero turgore. Lo stato era sempre preoccupante, ma andava meglio rispetto la volta precedente. Forse era merito delle iniezioni che gli aveva somministrato ultimamente.
Con movimenti rapidi ed esperti disinfettò le due ferite e chiese ad Anya se c’erano stati mutamenti di rilievo. Alla risposta negativa della ragazza gli ingranaggi del suo cervello si misero in moto e cercarono tra tutti gli archivi della mente, anche i più reconditi, una possibile soluzione al problema attuale.
- Sono sicura che è solo una questione di tempo – disse Anya vedendolo pensieroso - sono passati tre giorni, ma chi ha detto che il conte non possa risvegliarsi adesso? O, magari, domani?
Il signor Bowles non rispose. Per quanto lo riguardava nei due minuti in cui aveva riflettuto, la sua mente non era riuscita a trovare nessuna soluzione plausibile, a parte produrre nuove domande, ipotesi e sperare che la medicina facesse un passo avanti. Dopo un’ultima occhiata al conte sistemò gli strumenti medici nella borsa, si rimise la giacca ed uscì dalla camera, lasciando Anya sola con una montagna di dubbi.
Da parte sua la ragazza si risentì per quel gesto, ma fu una sensazione momentanea in quanto capì presto quali turbamenti angosciavano il medico e quale senso di impotenza doveva aver fatto breccia nel suo animo. Non avendo altro da fare – quel giorno era diventata la parziale sostituta di Margareth – tornò a sedere sulla poltrona, ancora sconvolta dal sogno di pochi istanti prima. Provava una sorta di imprescindibile rancore nei confronti di Margareth, che, seppure non le aveva fatto niente nella realtà, l’aveva invece percossa con schiaffi e bastone nei suoi sogni. E poi c’era la frase con la quale l’aveva scaraventata contro il pavimento della cucina “Stai al tuo posto!”. Non era forse la stessa cosa che intendeva farle capire Greta quando la tratteneva in cucina anziché permetterle di salire nell’area padronale per curare il conte? Di colpo le venne in mente che i sogni non sono altro che l’esatta trasposizione di quella parte di noi che la nostra parte razionale non è disposta ad accettare e che, se aveva sognato, un motivo doveva pur esserci. Probabilmente, pensò, era l’ora di smetterla di fare l’infermiera e bisognava tornare sul serio “al proprio posto”, se non intendeva fare una seconda volta quelle fantasie. Tuttavia, se rifletteva meglio sulla cosa, capiva che, agendo secondo questa “nuova razionalità”, sarebbe andata contro il suo naturale impulso materno, protettivo, e che avrebbe avuto da combattere contro il suo stesso istinto armata di precetti che non erano i suoi. In poche parole, avrebbe creato una gran confusione anche in quel caso. In tutto questo, però, andava ricercata una soluzione. Non si poteva continuare su questa strada senza attirare l’attenzione di tutti. Per trarre una conclusione era necessario trovare il lato positivo e negativo della questione, metterli insieme e riflettere su quello che ne risultava. Il lato positivo della situazione era l’essere in grado di soccorrere qualcuno, aiutarlo con le proprie mani e darsi da fare perché tutto volgesse per il meglio; il lato negativo, invece, era costituito dal frutto di usanze andatesi a radicare man mano e che con il tempo avevano preso il nome di “buona norma” o “educazione”. Volendo si poteva lasciar perdere e, quindi, vivere del solo lato “positivo”, ma la società e l’interazione tra individui si basava pure – e soprattutto – su quello, quindi bisognava tenere in considerazione anche questo lato. Era risaputo che una donna, se sola, avrebbe sempre attirato l’attenzione di tutti in compagnia di un uomo, e se si faceva “due più due” - lei era una donna, il signor Langley un uomo, si trovavano nella stessa stanza – ne risultava che doveva liberarsi al più presto di quella situazione, perché c’era sicuramente qualcuno che, al piano si sotto, parlava – o sparlava? – del suo comportamento e della sua strana premura nei confronti del signor Langley, nonché suo superiore, nonché conte di Waterford e proprietario di molte terre. E poi c’era un altro elemento da considerare. Il fatto che abitasse in casa di un uomo che le aveva quasi salvato la vita e che le aveva concesso di rimanere nella sua proprietà unicamente per un contratto di lavoro. E per quanto abitava in quella casa? Sarebbe stato un mese preciso il giorno di Pasqua. Ed ecco che, allora, il famoso lato negativo tornava a insediarsi nella sua mente come una fastidiosa pulce nell’orecchio. Non si potevano lasciar perdere i pregiudizi, non si poteva ignorare la “buona norma”, non i pettegolezzi, non la parte razionale di noi, che, pure severa e costrittiva, alle volte ci dà buoni consigli.
In tutto quel turbinio policromatico di pensieri e congetture, la sguattera non poté che scuotere vigorosamente il capo e serrare con forza gli occhi. Era più stravolta di prima e, mentre in cortile risuonava il rumore che le ruote del calesse del signor Bowles producevano sulla sottile lastra si ghiaccio e di pietre, come niente fosse tornò a frizionare e sfregare con vigore, ma senza violenza, l’alcol e l’acqua gelida sulle giunture del signor Langley.
E al diavolo i lati negativi!

Riguardo l’incidente del signor Langley, i gendarmi erano già al corrente di tutto. O quasi.
Nessuno aveva assistito personalmente alla cosa e le testimonianze erano poche e relativamente inservibili. Per quanto ne sapevano le guardie non esisteva pistola o arma in grado di sparare senza fare rumore. Se il conte era in bilico tra la vita e la morte il motivo non era certo da imputarsi a lui. D'altronde, come faceva un uomo a spararsi in quel modo alla spalla e fratturarsela? Per non parlare della ferita alla gamba e la contusione alla nuca e alle varie parti del corpo. A tale proposito il signor Bowles era stato più volte interrogato, in quanto medico curante del conte e in quanto esperto in materia. La pista del tentato suicidio, a parte l’evidente impossibilità di spararsi in quel modo, era stata scartata anche per il fatto che il signor Langley non aveva mai manifestato disturbi a livello mentale, a parte la depressione che l’aveva colpito qualche anno prima e la dipendenza dagli alcolici che ne era susseguita, e perciò non avrebbe avuto ragioni spiegabili nel fregiarsi in quella maniera.
Quando un gendarme andò a parlare con sir Coltfer, questi immise un elemento che, pur se apparentemente sciocco, poteva aiutare gli inquirenti nello stabilire l’ora e il tempo che l’aspirante assassino aveva riservato al suo “lavoro”: sir Coltfer era stato svegliato dall’abbaiare animato di Hunt e aveva cercato di calmarlo, ma senza successo. Egli sosteneva che il cane era stato legato per evitare che litigasse con le tre bestie di sir Arthur Rudolph, che aveva partecipato più che attivamente alla giornata di caccia e che si trovava con loro la notte del tentato assassinio del conte. Il fatto che Hunt avesse abbaiato lo imputava alla sua carica istintiva e alla spiccata percezione del pericolo che caratterizza ogni animale. Il fatto, poi, che il signor Langley fosse il suo padrone amplificava la sensazione di pericolo, cosicchè, a detta di sir Coltfer stesso, ad un certo punto era stato necessario assecondarlo e andare a vedere cosa era successo di tanto allarmante fuori dal capanno. Il gendarme gli chiese quanto tempo era passato da quando il cane aveva iniziato ad abbaiare a quando lui era uscito. Sir Coltfer ne era certo: esattamente un quarto d’ora, perché di tanto rumore sir Walter si era lamentato controllando il suo cipollotto.
Interrogando sir Walter in merito si ottenne una dichiarazione pressoché uguale, se non leggermente più scarna in alcuni punti perché sotto l’effetto di una sbornia al momento dell’incidente. Sir Coltfer, suo amico, però sosteneva che lui si fosse svegliato per controllare l’ora e aveva fornito un delta tempo troppo preciso, a detta del gendarme, per essere ubriaco. Ma sir Walter fu irremovibile. Quando faceva una cosa, questa era scandita dalla lancetta non dei minuti dell’orologio, ma da quella dei secondi. Se aveva sbagliato doveva perdonare un’imprecisione di mezzo minuto o, al massimo, uno intero. Non di più. Il cane aveva abbaiato, sì, e lui aveva pensato di zittirlo tirandogli uno stivale, ma l’azione, oltre che poco signorile, denotava una certa mancanza d’educazione nei riguardi di sir Langley, che, però, non sapeva fosse uscito dal capanno. Perciò, “calmo” il cane, calmo era rimasto lui.
Consultando il suo taccuino degli appunti il gendarme gli aveva chiesto anche se lui, quando sir Coltfer era uscito con il cane, l’aveva seguito, ma la risposta fu negativa e, chiudendo il taccuino, il gendarme si era congedato ed era andato via.

Buio.
Buio e una sensazione di ovattato panico al cuore, all’estremità delle dita e alle pupille dilatate. Sicuramente parecchio dilatate. Molto.
Non si riesce a distinguere niente.
O forse no?
Ma sì! Una luce in lontananza!
Certo, è un po’ fioca, ma perché stare a discutere?
Una luce che si fa sempre più distinta, ma non basta a discernere i contorni delle cose.
Strano, però. Da lontano sembrava più bassa. Va alzandosi man mano che ci si avvicina. E si sposta pure a sinistra.
E quello?
Un tavolo?
Sembra una figura umana quella.
Dio. Un uomo.
Le sopracciglia si aggrottano.
- Chi sei?
Un sussurro.
- Chi sei?
- Aiutami.
- Cosa ti succede?
Vedo una chioma fulva, dei capelli leggermente mossi. L’uomo inspira faticosamente.
- Aiutami.
Poi cala il buio, la luce svanisce.
Adesso sono al fiume. Ne riconosco il fragore. Chi mi ci ha portato?
Un tocco dolce alle labbra. Caldo. Mi batte forte il cuore, ma non apro gli occhi. Sento una mano posarsi sulla guancia. È tiepida anche quella. Non amerò mai così intensamente.

Per la seconda volta in un pomeriggio si era appisolata sulla poltrona.
Che vergogna.
No. Non è la poltrona.
Gli occhi si aprirono prima che il cervello comandasse loro di farlo.
Non si era addormentata sulla poltrona.
Con un movimento cauto sollevò il capo dal materasso del letto e distese le gambe sul tappeto al lato. La cuffietta ricadde accanto al fianco del signor Langley e mise a fuoco ciò che teneva tra le mani. Era la pezzuola imbevuta d’alcol, ma non ne avvertiva il tocco, perché le braccia si erano addormentate. Voleva che tutto questo finisse e che Margareth tornasse. Sentiva la testa pesante per il sonno e il collo le faceva male per la posizione in cui l’aveva costretto.
Lentamente si alzò e uscì dalla camera. Mentre scendeva per le scale sciolse i capelli e li raccolse nuovamente in una crocchia che non si preoccupò di fermare con i fermagli, che buttò invece in tasca. Per la velocità a cui scendeva quasi non inciampò e fuori sentiva un vento forte. Dalle finestre non entrava luce e ne dedusse che era sera tarda e che probabilmente avevano cenato già tutti, perché man mano che si avvicinava in cucina, la consapevolezza di arrivare in tremendo ritardo per mangiare aumentava. Quando arrivò, e ciò accadde perché, fortunatamente conosceva l’ubicazione di porte, muri e scalini, non vi vide nessuno e si sentì improvvisamente triste e sola. Aveva fame, però, e con le dita tastò il tavolo fino a che non sentì la superficie ruvida di una pagnotta e quella liscia e tondeggiante di un frutto. Addentò avidamente la prima e conservò nella tasca del grembiule il secondo. Alla luce di una candela avrebbe visto di cosa si trattava. Tra sé e sé ringraziò Greta per il favore e la sensazione di solitudine fu attutita un poco dalla dolcezza del pane. Ci sarebbe stata un po’ d’acqua, ma sentiva già il bisogno di fare pipì e quella glielo avrebbe fatto aumentare, così finì di mangiare ed uscì fuori, dove, nonostante il tempo, soddisfò i suoi bisogni fisiologici.
Rientrata in gran fretta, chiuse la porta e corse nuovamente al piano di sopra.
Sul comodino al capezzale del letto c’era l’orologio da taschino del signor Langley. Ne lesse l’orario senza toccarlo e vide che le lancette erano ferme sul tre e il quattro. Niente male. E il signor Langley non si era ancora svegliato. Cominciava a stancarsi di quella situazione. L’indomani Margareth sarebbe tornata, lei avrebbe ripreso a lavorare come sguattera e tutto si sarebbe rimesso in carreggiata. Ma a quale prezzo? Dopo essere stata sveglia per una notte a sfregare con alcol e acqua fredda la pelle di un uomo che conosceva a malapena. Era una situazione così… disdicevole. Chi mai si prende la briga di curare un uomo che conosce a stento? Chi? Lei. E si sentiva stupida. Ingenua e stupida.
Improvvisamente non aveva più sonno. Nel senso, fisicamente si sentiva stanca, ma non così tanto da avvertire il bisogno di dormire. Si buttò fiaccamente sulla poltrona e con il mento poggiato sul pugno destro si diede a pensare freneticamente a qualcosa da fare per ingannare il tempo.
Questa poi...
Con la mano sinistra si sfilò la cuffietta. Il conte dormiva, non avrebbe potuto vederla. La gettò sul pavimento e le dita iniziarono a tamburellare sul bracciolo della poltrona.
Fuori il vento aumentò di intensità. Lo sentì pressare con forza contro i vetri delle finestre.
I capelli vermigli ricaddero in un’unica massa sulla base del collo e li scarmigliò un poco con entrambe le mani. La cute aveva iniziato a produrre una patina grassa e se si fosse guardata allo specchio avrebbe visto l’attaccatura più lucida e le punte più opache del normale. Mentre la sua mente ripercorreva tutti i pensieri di quel pomeriggio, sbadigliando, cominciò a intrecciare i capelli in due trecce francesi che fece partire dalla sommità del capo. Poi, improvvisamente, le venne di controllare ancora una volta la temperatura corporea del conte. Quando poggiò i palmi sul suo avambraccio sinistro ebbe un tuffo al cuore: la pelle era più fresca e anche la fronte aveva smesso di scottare, anche se continuava a essere più calda del normale. Un sorriso non poté che sfiorarle le labbra.
Si risedette sulla poltrona e trasse dalla tasca del grembiule una mela rossa, che addentò e assaporò con gusto. Arrivata al torsolo, la sua attenzione era tutta concentrata sulle caratteristiche nutrizionali della mela, quando si udì un lieve fruscio. Hunt era accucciato in un angolino e gli lanciò un’occhiata indifferente, mentre lui dormiva beato.
Con noncuranza avvolse il torsolo della mela nel suo fazzoletto personale, quando udì un secondo fruscio, simile al precedente. Stavolta il suo cervello seppe dove indirizzare lo sguardo e, avido, trasse quante informazioni possibili sulla nuova immagine che i suoi due umili servi sferici gli inviavano. Ci volle meno di un attimo perché tutto il corpo fosse invaso da una serie di sinapsi incontrollabili e di impulsi emozionali senza senso, né direzione. Il torsolo che le mani tenevano fra i polpastrelli ricadde con un tonfo ovattato sul pavimento e i piedi si esibirono in un paio di scatti nervosi che ne fecero le improvvise basi dì appoggio dell’intero corpo.
- O dio del cielo.
Il signor Langley aveva aperto gli occhi.
Ciò che per prima cosa le venne di fare fu avvicinarsi a lui, ma si ricordò presto le parole del signor Bowles che le raccomandavano di mandarlo a chiamare non appena si sarebbero avuti dei risvolti. Con uno scatto febbrile si chinò verso il pavimento e, raccolta la cuffietta, la legò al capo. Dopodiché guardò un’altra volta il signor Langley. Gli occhi chiari e lucidi di febbre fissavano un angolo del soffitto, probabilmente cercando di metterlo a fuoco, poi si abbassarono con fatica sulla ragazza che stava toccandosi il mento. Aveva freddo, ma non era consapevole di possedere un corpo. Effettivamente non lo percepiva.
Fare il nodo al mento con il signor Langley che la fissava dopo quasi quattro giorni di coma non le fu per niente facile. Le mani tremavano e non riusciva a distaccare lo sguardo da lui. Alla fine lasciò perdere i laccetti e afferrò una candela dal tavolino. La prima era quasi finita e ne accese due nuove per avere più luce. Sentiva il cuore galoppare nel petto e le mani non la smettevano di tremare per il nervosismo. Cos’è che le aveva detto il signor Bowles? Calma e sangue freddo? Sì, doveva essere una cosa del genere.
Così si impose di stare calma e accese la seconda candela dopo due tentativi e dopo averne fatto sciogliere la punta contro la fiamma della vecchia, mentre fissava atterrita il conte che la guardava in modo strano. Sistemò il lume su una piccola bugia verde e si avvicinò al letto, illuminando il viso del conte con il flebile riverbero della candela.
- Signor conte – sussurrò, chinandosi leggermente – mi riconoscete? – e mentre lo diceva pensava di dover correre ad avvisare gli altri e fare chiamare il medico e la velata eccitazione che sentiva al petto cresceva sempre di più, così che le sfuggì un sorriso.
Gli occhi dell’uomo si chiusero e si riaprirono, mentre i muscoli della bocca cercavano di articolare un suono che alla fine uscì, debole e conciso. – Anya.
La giovane annuì e posò la candela sul comodino, perché pesava un po’ con tutta la bugia per essere tenuta da un dito solo. – Come vi sentite? – chiese ancora cercando di scandire le parole al meglio delle sue possibilità.
Il conte la guardò a lungo prima di rispondere. Forse stava pensando alla risposta da dare o semplicemente studiava i lineamenti del viso della ragazza. – Non sento nulla.
Anya aggrottò impercettibilmente le sopracciglia.
- Ho sete.
Con lo sguardo cercò la brocca d’acqua che Margareth aveva fatto portare quella mattina e la trovò sul tavolino con il materiale “medico”. Ne versò una modesta quantità nel bicchiere e si avvicinò al conte, che alzò il capo dal cuscino e bevve un sorso, aiutato dalla sguattera.
- Vado a chiamare Greta, signore – disse poggiando il bicchiere sul tavolino. Ma lui non parve neppure averla sentita, perché richiuse gli occhi e non fiatò.
Con un movimento deciso del polso Anya spinse la porta dietro di sé, così da socchiuderla, e, animata da una gioia nuova, che somigliava pur tuttavia ad una specie di frenesia incontrollabile, si mise a correre per il corridoio della zona padronale e poi per le scale, i cui gradini non riuscì più a contare mentalmente. Gli scarponcini che le fasciavano i piedi toccavano il pavimento della tenuta con un ritmo veloce e l’impressione che lei ebbe in quella corsa smaniosa fu di toccare il pavimento con le sole dita dei piedi. Con un balzo saltò i tre gradini che davano alla cucina e, sollevando gli orli della gonna per non cadere, riprese a correre nella direzione delle scale che davano al piano sovrastante. I muscoli delle cosce iniziarono a bruciare e quelli dei polpacci si contrassero fino allo spasmo per spingerla un’ennesima volta su per gli ultimi tre gradini. Nel piccolo corridoio in cui si trovava la sua stanza si chinò con le mani alle ginocchia per riprendere fiato, ma doveva svegliare Greta, quindi raddrizzò la schiena e si diresse verso la sua porta, la quale, se non ricordava male, doveva essere la quarta del corridoio. il cuore batteva a tonfi sordi e, per supplire alla mancanza di ossigeno nelle fibre muscolari adoperate nella corsa, si ritrovò a dover pompare una gran quantità di sangue in tutte le direzioni, mobilitando anche i due grossi magazzini triangolari che lo affiancavano. Per riprender fiato più velocemente chiuse la bocca e inspirò con il naso, per poi espirare con la bocca, ripetendo più volte questa operazione.
Infine entrò in camera di Greta.
Non era mai stata nella sua camera e, ad essere sinceri, entrarci non faceva la differenza, dato che tutto era avvolto dalla penombra. Se fosse servito a qualcosa avrebbe tenuto aperta la porta che dava al corridoio, ma di candele accese non ce n’erano neppure lì, per cui bisognava accontentarsi.
- Greta? – la chiamò. – Greta?
La sentì mugolare contro il cuscino e le coperte frusciarono mentre lei, forse, si girava da un’altra parte.
- Greta?
Gli occhi della giovane iniziarono ad abituarsi all’oscurità e, poco a poco, la sua mente riuscì a mettere a fuoco gli oggetti che la circondavano. La stanza non era molto grande, forse un po’ più della sua, e c’erano due letti, su uno dei quali dormiva Mary, che riconobbe per la sottigliezza della figura. Sulla branda a destra, invece, c’era la cuoca. Si avvicinò.
- Greta... – la scosse. La donna sussultò e dovette riconoscere immediatamente la giovine, perché la domanda sulla sua identità cadde nel vuoto.
- Anya... ma cosa ci fai qui? – le disse con voce assonnata.
- Il signor conte si è svegliato.
Silenzio.
- Greta, hai capito? Bisogna chiamar…
- Si è svegliato? – ripeté incredula.
Ad Anya sfuggì un sorriso. – Sì.
- Sveglia Mary – disse, per poi aggiungere – Dove sono i fiammiferi?
La ragazza obbedì e nel frattempo che la cameriera si vestiva senza capirne il motivo, Anya metteva in mano a Greta i cerini che aveva nel grembiule.
- Mary, corri a chiamare Anthony… e digli di andare ad avvisare il dottor Bowles.
- E’ successo qualcosa? – chiese la cameriera preoccupata.
Nello stesso istante Greta accese il moccolo sul suo comodino e avvolse rapidamente i lunghi capelli biondi in una crocchia sul capo, fermandola con un paio di fermagli e coprendola con la sua cuffietta.
- Il signor conte si è svegliato.

In un ben che non si dica, uno alla volta tutti i domestici della tenuta si svegliarono. Un po’ perché si avvicinava l’ora della levataccia, un po’ a causa dei rumori che il compagno di stanza sveglio faceva intanto che si vestiva di fretta e furia. Il povero Anthony fu mandato a chiamare il signor Bowles prima ancora di riprendere coscienza di ciò che stava accadendo. Greta gli mise sulle spalle una pesante giacca di feltro e uno scialle a mo di sciarpa avvolto intorno al collo, poi lui si diresse meccanicamente alla scuderia, legò Birra al calesse e si avviò verso casa del medico.
Anche Greta si vestì velocemente e si diresse svelta in cucina per preparare un tè corroborante. Anya, invece, avrebbe voluto salire al piano padronale, perché questo l’istinto le diceva, ma fu mandata dalla stessa Greta fuori, in cortile, perché attendesse l’arrivo del signor Bowles. Fuori c’era ancora buio ed era necessaria la presenza della lampada ad olio per vedere qualcosa.
Un vento freddo soffiava imperterrito e la mano che Anya usava per tenere alzata la lampada divenne presto fredda, a differenza dell’altra che teneva avvolta nei lembi dello scialle. Lugubre e spaventoso era il suono prodotto dalle fronde degli alberi in agitazione e il fischio che di tanto in tanto si levava dal silenzio di quel freddo mattino. Avrebbe voluto che ci fosse Margareth in quel momento, o perlomeno che fosse tornata, ma la sua presenza non avrebbe cambiato nulla. Lei sarebbe stata ugualmente stanca e allo stesso modo Greta l’avrebbe mandata fuori a controllare la strada in lontananza. Poi, di colpo, si ricordò del sogno fatto qualche ora prima. Non quello delle bastonate e della governante che la rimproverava, ma il secondo, che le rievocò una strana sensazione di benessere e di buon umore. Non rammentava il bacio; piuttosto le rimase impressa l’immagine del ragazzo che le chiedeva aiuto. Forse era una trasposizione fittizia della realtà o forse quel sogno era stato prodotto dal risveglio della sua indole protettiva. Non lo sapeva e non chiedeva neanche di perdere tempo ad immaginarselo.
Del tempo dopo intravide una fiaccola in lontananza, la lampada ad olio che Anthony aveva attaccato al calesse, e dentro di sé gioì, perché finalmente si tornava al calduccio della tenuta.

Il signor Bowles ancora non credeva ai propri occhi e orecchie. Certo, quando era arrivato lui il conte dormiva, ma ciò non toglieva che era felice e molto soddisfatto dalla piega presa dagli avvenimenti. In viso vi erano i segni del sonno e gli occhi rossi si erano un po’ ripresi con il freddo.
- Dunque – chiese ancora una volta alla giovane – hai adottato gli accorgimenti che avevo prescritto?
Anya annuì. Si trovavano nel corridoio dell’area padronale e per la puzza dell’alcol il medico volle che fosse aperta una finestra. Se n’era occupata Mary, ma Anya ed il signor Bowles parlavano a pochi passi dalla finestra e il gelo del mattino faceva battere i denti della sguattera.
- E’ sorprendente – disse lui in un soffio – Sorprendente.
E, messo un po’ di tabacco nella pipa, l’accese e iniziò a fumare.
- Margareth è tornata?
- Ancora no, signor Bowles. Credo che si sia intrattenuta a causa del tempo.
- Una brutta nevicata quella di stanotte – disse con tono di rassegnazione.
- Già – mormorò Anya stringendosi nello scialle. Non vedeva l’ora di chiudere quella dannata finestra. - Credete che sia andato via l’odore di alcol?
Il dottore sollevò lievemente il viso, annusando l’aria. – L’odore dell’alcol sicuramente, ma non quello del tabacco. Se non ti dà fastidio puoi anche chiudere.
Certo che le dava fastidio. In realtà lo detestava, ma lo preferiva cento volte all’idea di ritrovarsi la schiena congelata.
- Credete che la ferita alla gamba guarirà? – disse mentre armeggiava con gli infissi.
- Parlate del conte?
E di chi altri?– Sì.
- Lo vedremo.
Anya assentì. Poi un richiamo di Ines la distrasse dalla discussione.
- Credo di dover andare, signor Bowles. Volete che vi faccia portare una tazza di tè?
- Lo gradirei molto, Anya. Con del latte e un cucchiaio di miele, grazie.
Anya si congedò, mentre un nuovo richiamo di Ines la raggiungeva. Probabilmente Greta voleva che andasse dai Sellers.
E questo le chiese, quando la raggiunse in cucina.
Per strada, i manici dei secchi tra le mani e con un doppio strato di calze di lana a proteggere i piedi, pensò di non aver mai sentito tanto freddo in vita sua.

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Capitolo 19
*** Capitolo XVIII - Prima parte ***


An irish tale - Capitolo XVIII (Prima parte)



Supino era la posizione in cui riusciva a stare con meno difficoltà, ma era anche quella che gli procurava maggior dolore alla spalla. Un dolore acuto, intenso che si incuneava con crudele ghiribizzo nella scapola sinistra ogni qual volta muoveva accidentalmente o istintivamente la spalla. La sentiva pulsare, poi, quando il dolore si calmava un poco. Pulsava come ci fosse un’infezione, la stessa cosa di cui si preoccupava tanto il signor Bowles, che l’aveva lasciato da poco.
Fino ad allora due volte i bendaggi erano stati tolti e rimessi per disinfettare le ferite. E aveva passato le pene dell’inferno.
Di Margareth, che si era occupata di quella operazione la mattina, e se ne sarebbe occupata anche la sera, non si poteva dire che avesse il tocco delicato. Era tornata il pomeriggio del giorno precedente – si diceva che avesse fatto visita ad un nipote malato – con un paio di bottigliette di un disinfettante diverso dal solito, più efficace ma che bruciava da morire. Il signor Bowles, invece, aveva dei modi esperti e sbrigativi, ma non per questo meno delicati, e le sue iniezioni ne erano la prova. Il conte riusciva quasi a tornare bambino perché sentiva lo stomaco tendersi nervosamente ogni volta che le mani del medico si avvicinavano alla spalla o alla gamba.
Ciò nonostante si sentiva troppo debole per lamentarsi. Se ci pensava più attentamente deduceva di essere in balia della sua governante e del suo migliore consigliere. Gli fu detto che aveva perso molto sangue e gli fu prescritta una dieta a base di carne e cereali integrali, brodo caldo di verdure per la febbre e patate al posto del classico pane bianco, perché più leggere. Per pranzo gli fu servito del bollito di carne e delle patate, ma dopo qualche boccone rigurgitò tutto.
Margareth si era offerta di chiamare nuovamente il medico, ma il conte ne aveva già abbastanza delle sue ramanzine e aveva chiesto di essere lasciato in pace. Non voleva neppure che gli venissero toccati spalla e gamba. Quando lei aveva obiettato lui la cacciò dalla stanza, per quanto i polmoni gli permettessero di gridare e per quanto il braccio destro gli permettesse di indicare la porta alla donna.

Nel pomeriggio riprese a nevicare.
Il signor Langley dormiva dalla tarda mattinata e, a quanto pareva, non voleva vedere nessuno.
Anya aveva ripreso le sue attività giornaliere, ma con un ritmo più leggero del precedente. Con quel tempo non c’era molto da fare e lei stessa non era potuta andare dai Sellers a mungere le mucche, né a prelevare l’acqua dal pozzo. Anthony era uscito in cortile per salvare il montarozzo di ceppi di legno dal ghiaccio e ne portò una buona quantità nella scuderia e un po’ in cucina, per alimentare la fiamma del camino. Adele e Ines avrebbero dovuto fare il bucato, ma l’acqua che avrebbero dovuto usare si era congelata in superficie e ovviamente era impossibile lavare. Greta e Margareth, invece, avevano i nervi a fior di pelle a causa della salute del conte e delle sue intenzioni. La prima aveva impiegato un’intera mattinata nella preparazione di un bollito che il conte aveva vomitato e adesso si sentiva in colpa per averlo fatto stare male; la seconda, invece, preoccupata anche per il nipote, avrebbe voluto recarsi in camera del signor Langley per constatarne le condizioni di salute e allo stesso tempo recarsi in paese dalla sua famiglia.
Dal momento che la noia si poteva tagliare con la lama di un coltello, in cucina, Anya decise di dedicarsi ad altro e mise in movimento il corpo spazzolando e lavando i pavimenti della grande sala d’ingresso e della sala da pranzo con Mary. Non l’aveva mai fatto, perciò la cameriera glielo insegnò. L’acqua era gelida e si aveva una certa difficoltà anche nell’utilizzare il sapone, che per il freddo si era fatto più duro.
- Allora – ricapitolò Mary con il sapone e la spazzola nelle mani – prima passi il sapone con la mano sinistra, poi la spazzola bagnata con la destra. Scrolla la spazzola dopo che la immergi nell’acqua, così non sarà difficile asciugare.
Anya si tirò su le maniche della camicia e della giacchetta di lana ed eseguì le azioni descritte da Mary.
- Dovremmo finire entro un’ora – la bloccò la cameriera quando fece per bagnare una seconda volta la spazzola.
Anya si guardò attorno. La sala d’ingresso era una delle camere più grandi mai viste finora in tutta la tenuta, ma in quell’arco di tempo sarebbe riuscita a finire. – D’accordo.
Mary iniziò ad intonare una melodia. Somigliava alla ballata di Geordie che Anya aveva cantato qualche giorno prima, ma la cameriera la stava infarcendo di parole in gaelico.
- E’ bella questa musica – disse Mary smettendo di cantare.
- Il testo, però, è molto triste.
- Di cosa parla?
Anya grattò via una macchia di fango tra due mattonelle. – Parla di un uomo, Geordie. Di lui si crede che abbia rubato sedici cervi dal parco del re e che li abbia venduti. Ma la sua amata – o sua madre – sostiene che lui non ha mai rubato nulla, neanche un fiore per lei, e decide di recarsi a Londra per chiedere che non venga impiccato, perché la condanna prevista è questa. Ad un certo punto la canzone dice “Né il cuore degli inglesi, né lo scettro del re Geordie potran salvare, anche se piangeranno con me la legge non può cambiare”… cioè, anche il re crede che Geordie sia innocente, ma non ci sono prove per dimostrarlo e allora viene condannato all’impiccagione con una “corda d’oro”.
- Tremendo! – protestò Mary grattandosi la fronte.
- Già.
- E’ la stessa cosa che dovrebbero fare con chi ha attentato alla vita del signor conte! Insomma, come si può decidere di far morire qualcuno?
- Attenta, hai appena desiderato la morte di una persona.
- Non è vero!
- Sì, che l’hai fatto, ma non importa.
Mary sbuffò. – Chiedo perdono.
A quell’affermazione seguì un breve momento di silenzio. Poi Mary ripeté la domanda di prima. – Credo che non si debba fare una cosa del genere. È cattivo non credi?
Anya la guardò interrogativamente.
- Intendo desiderare che qualcuno muoia.
- Non si può decidere in nessun modo. Purtroppo esiste gente ignorante che non capisce cosa sia realmente la vita, perché non ha mai vissuto.
- In che senso?
- Nel senso che queste persone non si sono mai fermate a riflettere e a sentirsi respirare; non hanno mai avvertito il loro battito del cuore e non si sono mai fermati a vedere realmente una cosa, assaporarla, sentirla, odorarla. È gente che non sa di essere e crede che anche il resto delle persone non sia. Per questo uccide.
- Quindi credi che ad aver sparato al signor conte sia stata una persona del genere?
Anya si sedette un attimo sui talloni. – Chi ha sparato al signor conte aveva tutta l’intenzione di ucciderlo, perché ha colpito dei punti nevralgici. Quindi sì, si tratta di una persona ignorante e stupida.
Mary annuì mestamente. – Però è ingiusto. Cosa può aver fatto il signor conte per meritarsi una cosa del genere? È scorbutico a volte, va bene, ma mi chiedo perché proprio lui.
Anya fece spallucce e improvvisamente si sentì molto triste. Nello stesso momento una folata di vento gelido si insinuò negli spifferi della porta principale e le investì. La porta era grande e costruita interamente di un legno robusto rinforzato con cardini di ferro, ma contro la forza del vento tremò, producendo un rumore inquietante.
- Signore, ti prego, fa che smetta di nevicare così… - sussurrò Mary facendosi il segno della croce.
Anya si mosse di qualche passo all’indietro, sulle ginocchia, e prese a pulire un altro tratto di pavimento. Si sentiva ancora giù di morale, ma non pensava più tanto alla causa.
Ci fu un’altra pausa, più lunga della precedente. Per almeno mezz’ora nessuna delle due parlò e la sala d’ingresso era animata solamente dal suono che le spazzole producevano sfregando contro il pavimento. A rompere il silenzio creatosi fu, ancora una volta, Mary.
- Credi che le galline sentano freddo?
- Credo di no – rispose Anya, pensierosa.
- E i cavalli?
La rossa sospirò, passando il sapone su una mattonella. – Da quanto ne so, neanche loro dovrebbero sentirlo.
- No?
- No. Credo proprio che i cavalli resistono al freddo meglio di qualunque altro animale. O almeno, dovrebbero avere questa capacità…
- Parli dei cavalli in libertà, forse?
Alla ragazza, quasi, non sorse un dubbio. – Parlo di tutti. Poi, se un cavallo non si è mai mosso in vita sua è logico che possa sentire freddo.
Mary abbassò lo sguardo, dopo averlo volto ad un punto indefinito della sala. – Povera Ilizia, allora…
- Ilizia? – ripeté Anya con noncuranza.
- Sì, è la cavallina nell’ultimo box della scuderia. È raro vederla fuori, per questo non la conosci.
D’un tratto nella mente di Anya balenò ciò che Margareth aveva raccontato a proposito del signor Langley e il regalo che lui aveva fatto alla moglie appena sposati. Quella cavalla lei l’aveva già vista e, anche se la targhetta era stata distrutta per metà, capì che si trattava del cavallo dal manto scuro e con la lista bianca in fronte. Ne ricordò i movimenti nevrotici del capo e il rumore prodotto dagli zoccoli che battevano sul pavimento. Erano chiari sintomi di stress, ma aveva voluto non pensarci, perché sapeva che il conte amava i cavalli e non avrebbe permesso che uno dei suoi stesse male. Evidentemente, però, con Ilizia era tutto il contrario.
- Perché è raro? - chiese immaginandosi la risposta.
Mary strizzò una pezza nel secchio. Ebbe un attimo di esitazione prima di rispondere. – Credo che abbia paura che si faccia male.. insomma, sai com’è… se un cavallo si azzoppa lo puoi uccidere, a meno che non ti serva per la campagna. Siccome il signor conte non vuole che questo cavallo si rompa una zampa, allora lo tiene chiuso in scuderia.
- E perché ha paura?
La cameriera scosse il capo. – Francamente non lo so, ma penso che questo cavallo gli ricordi… - disse per poi bloccarsi e guardare sospettosamente Anya – sai che il signor conte era sposato? – mormorò.
Anya fece di sì col capo. – Gli ricorda la moglie?
Mary annuì.
- Per questo non vuole che esca?
- Dopo la morte della signora lui aveva intenzione di venderlo, ma non l’ha mai fatto perché lei era molto legata a questa cavalla. A quanto ne so non ne aveva mai avuta una prima.
La ragazza assentì, le sopracciglia corrugate.
Per quanto la cosa non avesse senso, secondo il suo modo di pensare, non riusciva a biasimare il conte. Perdere la moglie doveva essere stato il dolore più grande e insopportabile della sua vita, come anche veder morire la figlia, ma lei, che non aveva mai provato dolori del genere – anche quando il signor Langley l’aveva informata di essere orfana non si era sentita angosciata fino in fondo - lei non poteva comprendere appieno la sensazione di tristezza e solitudine che regnavano dell’animo del conte.
Qualche quarto d’ora dopo, vinte dal freddo e dall’insensibilità alle dita prodotta da esso, terminarono di pulire la sala d’ingresso e si ritirarono in cucina, dove si piazzarono di fronte il camino.

Forse qualcuno, laggiù in cucina o da qualunque altra parte del palazzo, credeva che stesse dormendo. Ma così non era.
Da quando Margareth aveva lasciato la stanza, o meglio, ne era stata cacciata, nessuno era passato a fargli visita, né a portargli qualcosa da mangiare. Tanto meglio, perché fame non ne aveva.
La febbre non gli dava tregua. Pareva che si stesse divertendo ad infarcirlo di sonno e impedirgli di dormire con il mal di testa che l’accompagnava. Da più di dieci ore non aveva fatto altro che guardare il soffitto, muovere gli occhi da un lato all’altro nel tentativo di alleviare il dolore al capo, ma non aveva risolto niente e ad un certo punto aveva tentato di alzarsi, nonostante fosse sicuro che i dolori sarebbero aumentati in posizione verticale; ma, un po’ il freddo, un po’ la mancanza di forze, non era riuscito nel suo intento e alla fine si era arreso a rimanere supino e con le coperte maldisposte, dato che ce n’erano tante e lui, coprendosi, ne aveva tirate solo alcune.
Il braccio sinistro era ancora bloccato al torace. Il gomito poggiava sul fianco, mentre l’avambraccio sulle costole e il pugno semichiuso sul petto. Avesse avuto un mantello si sarebbe sentito uno di quegli imperatori o re di marmo o bronzo che affollavano l’Italia e la Grecia.
Le labbra secche chiedevano di essere idratate e il corpo di essere avvolto in una di quelle maglie di lana fine che nei giorni di freddo portava sempre sotto la camicia. Gli occhi lucidi erano socchiusi e a tratti l’incarnato pallido del viso arrossiva leggermente sotto la spinta di vampate di calore che risalivano dal collo.
Si sentiva male e per alcune ore credé di morire. Passò in rassegna tutti gli anni della sua disgraziata vita e i fallimenti che aveva ammucchiato negli ultimi mesi sia in campo economico che salutare. Si sentì egli stesso un fallimento e anche se non credeva più in Dio, gli chiese venia per i peccati commessi e per il male fatto a chi lo circondava; perché di questo era certo. La sua perversione lo aveva reso poco a poco un mostro nelle cui vene scorreva l’ipocrisia e lo scarso interesse nei confronti di chi, forse, gli aveva voluto bene.
E così, mentre il petto si alzava e abbassava e sussultava per le fitte alla spalla o alla gamba, nel flusso cantilenante dei suoi pensieri, a fine giornata riuscì a prender sonno e ad addormentarsi, mentre la fiammella della candela sul comodino, progressivamente, si spegneva.

Aveva nevicato tutta la giornata e adesso era impossibile aprire la porta della cucina senza che un piccolo cumulo di neve non ricadesse all’interno. Greta aveva blaterato tutto il giorno e, visto che era impossibile uscire con una nevicata del genere, dopo un buon brodo caldo e qualche fetta di lardo sul pane, i domestici si erano andati a coricare prima del previsto.
Anya, però, non se l’era sentita di andare a letto ed era stata costretta a rimanere in cucina dopo che Greta le aveva rimproverato di aver utilizzato dei tronchi verdi che avevano prodotto un sacco di fumo. In verità erano gli ultimi ciocchi che Anthony era riuscito a salvare dalla pioggia, per cui si erano bagnati e nel camino il fumo si era formato per questo. Ma Greta si era dimostrata riluttante a capire e per punire la giovane le aveva ordinato di pulire il camino e la cucina tutta.
Ad accrescere la tensione di Anya vi erano le preoccupazioni di Margareth, le quali, seppur pienamente giustificabili, non potevano essere inflitte in continuazione ai compagni di lavoro. In giornata aveva sperato di ricevere un messaggio che la informasse sulle condizioni del nipote, ma aveva rinunciato presto all’idea e si era, perciò, concentrata sul signor Langley. Arrivata a sera, dopo cena, trascurando ciò che lui aveva chiesto che si facesse, si recò nella sua camera e fu, per così dire, rincuorata nel vederlo dormire. In realtà aveva voluto credere che stesse meglio, perché dopo una giornata di inquietudini sentiva il bisogno di ricevere una bella notizia.
La bufera era finalmente finita e Anya sperò con tutto il cuore che fosse anche l’ultima della stagione. Nel camino il ciocco di legna che aveva messo a bruciare nel pomeriggio produceva un così piacevole tepore che pensò fosse peccato spegnerlo e rimase un po’ di tempo di fronte ad esso con le braccia tese a riscaldare anche le mani. Ogni sospiro produceva una nuvoletta di vapore e il naso le era diventato tutto rosso e lucido e anche le orecchie che si erano auto riscaldate sotto il peso del freddo che le attanagliava il capo e i capelli non proprio puliti.
Dalla finestra, voltandosi verso destra, vide che le fronde degli alberi erano ancora scosse dal vento e, reindirizzando lo sguardo alle fiamme del camino, si ricordò che poteva esserci qualche finestra aperta nel palazzo e, quindi, il freddo poteva penetrare e impadronirsi dei locali di cui esso era costituito. Godersi quel momento di intimità con sé stessa, di silenzio, di pace e tepore dopo una giornata trascorsa a patire il freddo, era bello, ma non poteva considerarsi completo se la pulce delle finestre persisteva nel suo orecchio. Così, senza accorgersene, si ritrovò a camminare svogliatamente per il corridoio che dava alla cucina, alla ricerca di qualche finestra aperta e con la speranza di non sentire nessun infisso sbattere. Quasi ognuna di esse era nascosta da una tenda di un lino chiaro e nel buio Anya intravedeva solo le loro sagome. Aveva scordato di portarsi una candela e provava un certo timore a camminare nella penombra, con la scarsa cognizione del luogo in cui stava muovendosi. Certo, conosceva i luoghi principali della tenuta, ma i locali erano relativamente grandi e faceva un certo effetto udire i proprio passi risuonare nel vuoto. Quando arrivò alle scale, le percorse in gran fretta e altrettanto velocemente aprì la porta dell’ala padronale nel primo piano. C’era freddo, ma nessuna finestra era aperta. Stringendosi nello scialle mosse qualche passo avanti, fino alla porta della camera del signor Langley. Non sarebbe entrata, ma ripensò ai giorni appena trascorsi ed ebbe un istantaneo moto di nostalgia. Prendendosi per patetica, scosse il capo e tornò sui suoi passi, percorrendo una seconda volta le scale in gran fretta e, come essa, anche i corridoi e le stanze adiacenti alla cucina. Quando vi giunse non fece in tempo a mettersi davanti a camino che l’odore del bollito che Greta aveva preparato la mattina le raggiunse il naso. Sapeva di cibo cotto e insipido, perciò non le stimolò l’appetito; piuttosto le ricordò che il conte non mangiava nulla da quattro giorni e anche quando ci aveva provato non era finita bene. Che fosse digiuno non era tanto affar suo, ma se non mangiava qualcosa il signor Langley rischiava veramente di non farcela. Il bollito era dentro una pentola di modeste dimensioni sul ripiano in pietra sotto la finestra e dal momento che si trattava di carne rossa era da sconsigliare tassativamente ad una persona che non mangiava da tanto tempo. Pazienti come questi andavano trattati come i neonati e la dieta doveva seguire una rigida scalata che pian piano avrebbe condotto ai cibi prediletti. Alla base, naturalmente, c’erano le verdure e gli ortaggi, ma non tutti andavano bene. Avrebbero aiutato dei cereali come il riso, ma Anya dubitava che Greta ne tenesse in cucina, perciò pensò alle patate bollite. Di quelle ce n’erano in abbondanza.
Quando stava per alzarsi, però, esitò e si risedette. Effettivamente non era suo appannaggio occuparsi di certe cose.
In questo modo, seduta davanti al camino, trascorse un certo periodo di tempo senza riflettere su niente. La fetta di lardo mangiata a cena le aveva fatto venire un po’ d’acidità di stomaco. Poi, però, sbuffò e prese a sbucciare qualche patata, che mise a bollire in una pignatta sul fuoco.
Neanche mezz’ora dopo era dietro la porta del signor Langley con un vassoio tra le mani.
Scaricando tutto il peso del vassoio su un avambraccio, con la mano sinistra bussò alla porta della stanza, senza ottenere risposta.
Destato da quel tocco il conte si svegliò, ma non aprì gli occhi. Nonostante fosse buio non osava schiuderli perché il capo doleva troppo. Al secondo tocco sulla porta pronunciò un flebile “avanti”. Udì un rumore di passi, poi qualcosa venne poggiato sul comodino accanto al letto e la candela vecchia venne sostituita con una nuova. Riconobbe il cigolio della bugia. Dopodiché una scintilla comparve nel buio e l’odore dello zolfo gli diede alla testa, provocandogli una fitta.
- Margareth … - protestò
Anya accese la candela e spense il cerino con i polpastrelli delle dita bagnate di saliva per non fare levare il fumo. – Sono Anya, signore.
Nella sua mente il conte mimò un’espressione sorpresa.
- Vi ho portato qualcosa da mangiare.
Langley aprì gli occhi. – Cosa?
La giovane aprì il vassoio in cui era nascosto il piatto. – Si tratta di patate bollite, signore. Non c’è sale, né erbe aromatiche.
Il conte non riuscì a portare lo sguardo fino al piatto; se avesse girato gli occhi fino a quel punto il mal di testa si sarebbe doppiato. – Non credo di volerne.
- Ma è un piatto leggero, non penso possa farvi male. L’ho preparato per questo.
Una fitta improvvisa alla spalla distorse le labbra del conte. Per qualche attimo gli fu difficile respirare regolarmente.
Anya non insistette nei suoi propositi. Alla luce della candela vide che il conte era molto pallido e le guance più infossate di come quando l’aveva visto la prima volta. Buttò il cerino che teneva ancora in mano nella tasca del grembiule e lanciò uno sguardo alla zuppa fumante nel piatto.
- Così l’hai fatto tu?
Anya annuì con un lieve sorriso e il conte si sforzò di ricambiare, nonostante il pulsare della spalla. – Sei gentile.
- Grazie – rispose per poi aggiungere – volete che vi aiuti a mettervi seduto?
Langley socchiuse gli occhi, pensando a cosa intendeva Anya. Per questo si girò verso di lei, senza capire.
- Prendo dei cuscini – lo anticipò. Langley la vide girare intorno al letto e allungarsi per raccogliere un paio di grossi guanciali. Poi tornò indietro e, uno alla volta, poco a poco, li usò per imbottire il blando sostegno che il signor Bowles gli aveva piazzato dietro la spalla destra per evitare che la sinistra toccasse il letto.
- Così dovrebbe andar bene …
Langley sentiva ancora dolore alla spalla, ma non voleva darlo a vedere. Mentre lei si girava per sistemare le coperte che lui aveva scombinato qualche ora prima, cercò di sistemarsi facendo leva sul braccio destro, mettendo in una posizione comoda anche la gamba ferita. La schiena formava ancora un angolo acuto con la superficie del materasso, ma era sicuro che in quella posizione ci sarebbe stato poco, per cui si impose di resistere. Il capo avrebbe voluto tornare a poggiarsi sul caldo cuscino di piume e gli occhi sentiva chiudersi da soli. Anya prese tra le mani il vassoio e stava per poggiarglielo sulle gambe, quando si ricordò della gamba del conte. Ma lui capì e con un cuscino ottenne di attutire la pressione del vassoio sulle ginocchia. La zuppa era ancora calda.
- Vi sentite meglio?
Il signor Langley immerse il cucchiaio nel piatto e mise in bocca il primo boccone. Senza guardare la giovane, con il capo lasciò intendere che non era cambiato nulla.
- Volete che accenda il camino?
L’uomo annuì.
Anya armeggiò con la cenere e qualche ceppo secco e non ci mise molto ad accendere un bel fuocherello. – Margareth è stata inquieta tutto il giorno – disse d’un tratto. Langley pensò che avrebbe voluto che le rispondesse, ma non volle darle questa soddisfazione. – Anche il signor Bowles, che questa mattina ha faticato a farci avere un suo messaggio. Chiedeva di voi.
Un goccio di zuppa gli cadde sulla barba del mento e al secondo boccone si accorse di quanto insipida fosse quella pietanza.
Dal canto suo la ragazza si trattenne dall’aggiungere dell’altro. Lentamente si rialzò e si avvicinò al letto.
- Se non erro quella poltrona ha ospitato anche te mentre “dormivo” – disse indicandola. Anya strabuzzò impercettibilmente gli occhi. – Perché adesso ti trattieni dal sedervi?
La ragazza sedette, sentendosi improvvisamente a disagio.
- Me l’ha detto Margareth, tranquilla.
- “Se non erro” oggi non avete permesso che vi venissero pulite le ferite.
Langley la guardò di sbieco, mentre ingoiava il secondo boccone.
- No – disse debolmente – non ho dato nessuna autorizzazione. Sto bene adesso.
- A me non sembra – ribatté lei francamente.
- Ti consiglierei di essere meno impertinente, signorina.
Stava quasi per ribeccare quando si fermò. Non era andata lì per discutere. E poi, constatò, aveva ragione Mary quando diceva che trovava sempre un modo per essere scorbutico. Sbadigliò.
- E’ di vostro gradimento la zuppa? – disse cercando un tono più gentile.
Lui esitò a prelevare la terza cucchiaiata. Aveva paura che lo stomaco ricacciasse tutto indietro come aveva fatto a pranzo e un suo movimento sospetto lo trattenne dal mangiare ancora. Non aveva voglia di parlare di cibo, così, mentre rispondeva alla ragazza, cercò di non pensarvi. – Ho mangiato piatti più prelibati in vita mia, ma apprezzo ugualmente il tuo gesto.
Distolse anche gli occhi dal piatto e tentò di non concentrarsi sull’odore farinoso delle patate. Anya non lo guardava; forse aspettava che lui finisse di mangiare per tornare in cucina.
- Come mai Margareth non è qui? – le chiese.
- Sta dormendo, signore.
- E Greta?
- Anche lei. Questa sera sono andati tutti a letto prima del previsto. Sapete, il freddo …
Il conte assentì. – Quindi tu sei l’unica sveglia?
- Esatto.
Poggiando il cucchiaio accanto al piatto la guardò. Teneva gli occhi bassi su un buco formatosi tra le cuciture del suo grembiule, ma era evidente il movimento delle iridi azzurre. Coi polpastrelli unì le labbra dello strappo e un movimento del capo lo portò a dedurre che aveva capito come rimediarvi. – Posso chiederti il perché?
La giovane annuì. – Greta ha voluto che prima riordinassi e pulissi la cucina – disse alzando gli occhi.
Il conte le lasciò intendere che aveva capito. – E questo? – domandò indicando la scodella.
- Oh … - sorrise – non … non sarei riuscita a dormire. Margareth era troppo in pena per voi, oggi. L’ho fatto perché senza mangiare voi …
- … non riuscirei a guarire?
Lei fece di sì con il capo, imbarazzata, e tornò a fissare gli orli delle maniche. – Se vi ho dato una cattiva impressione, però … scusatemi.
Langley rimase interdetto. In quello stesso momento una fitta di dolore inondò l’intero emisfero celebrale e fu come se il cuore avesse perso un paio di battiti. - No … - mormorò, portandosi una mano alla fronte – ti ringrazio, anzi.
Quando i sussulti dello stomaco si furono placati riprese a mangiare la zuppa e cercò di fare più in fretta possibile – anche se i ritmi continuavano ad essere lenti – perché vide che i polpastrelli di Anya si colorarono di rosso per il freddo e, nonostante il camino fosse acceso, doveva essere anche un po’ intirizzita ella stessa.
Alla fine mise la ciotola semivuota sul vassoio e Anya ripose il tutto sul tavolino accanto alla poltrona. Quando fece per rimuovere i guanciali riposti dietro la schiena del conte, questi soffocò un urlo, piegandosi sul lato destro.
- Vi sentite bene?
- Benissimo – mormorò a denti stretti. – Puoi andare.
- Siete sicuro …
- Sto bene, grazie. Vai pure.
- Dirò a Margareth di passare, domattina. La vostra spalla ha bisogno di essere controllata … e anche la gamba.
Lui assentì seccamente e Anya stava per uscire dalla camera quando Langley la chiamò.
- Signore?
- Sai dov’è finito Hunt? – chiese guardandosi attorno.
Anya fece spallucce. – No, quando sono arrivata lui non era qui.
- Va bene, puoi andare.
La ragazza uscì dalla sua stanza e si diresse nuovamente in cucina, ma con una strana sensazione addosso. Forse si sentiva in colpa o forse il signor Langley le aveva fatto troppa tenerezza, conciato in quel modo. In ogni caso adesso le toccava trovare Hunt.
Una volta in cucina era troppo stanca per decidere di mettersi a cercare il cane del conte per tutta la tenuta, cosicchè si limitò ad affacciarsi sul cortile. Ma Hunt non era lì, quindi era inutile cercarlo altrove nella proprietà. Dal cesto accanto al camino prese una paletta di ferro e, prima di spegnere la fiamma, accese il moccolo di una candela. Dopodiché sbadigliando si avviò alle scale per il piano superiore. Non appena mise piede sul primo scalino un’ombra catturò la sua attenzione: illuminando la zona interessata si accorse che essa era Hunt, rannicchiato sul vecchio tappeto rovinato che Greta aveva sistemato per lui. Con il pelo del collo arruffato per il sonno la guardò, poi si rimise a dormire. Anya scosse la testa, ridendo.
Ecco risolto l’ultimo mistero della giornata.

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Capitolo 20
*** Capitolo XVIII - Seconda parte ***


An irish tale – Capitolo XVIII (Seconda parte)



Due giorni dopo. Domenica mattina, Pasqua.

- Dio ci ha concesso un giorno di sole, finalmente! – esclamò con un gran sorriso il signor Bowles, scendendo dal calesse. Edgard gli tenne la borsa mentre l’uomo metteva il freno e saltava giù.
- Vi trovo in forma, dottore – commentò il ragazzo.
Il medico lo zittì scherzosamente con un cenno della mano – Cerco solamente di ignorare gli acciacchi della vecchiaia, Edgard.
Il ragazzo gli passò la borsa e lo accompagnò all’entrata.
- Qui ti lascio e qui ci vediamo dopo.
In cielo splendeva un sole che non compariva da giorni e in alcuni tratti del terreno la neve si era già ridotta per metà e lasciava intravedere la terra bruna e l’erbetta verde che le sottostavano. Il vento era sparito e pareva che, oltre ad esso, dio avesse voluto liberare gli irlandesi anche del pessimo umore. Era Pasqua e, messa di padre Todd a parte, la gente aveva una gran voglia di fare festa. Certo, il raccolto era stato un po’ scarsetto, ma avrebbero festeggiato ugualmente e nulla li avrebbe distolti dalla gioia per il bel tempo. Il cielo era azzurro ovunque e neanche una nuvola, bianca che essa fosse, avrebbe turbato la sua tranquillità. Adesso, a differenza della settimana passata, era più facile vedere gli uccellini correre da una parte all’altra delle campagne, ora che la neve si scioglieva e loro trovavano qualche semino buttato qua e la o magari qualche lumachina che usciva allo scoperto o un vermicello desideroso di vedere il sole. Capitava più spesso di sentire pure le ruote dei calesse sulle strade di campagna e i campanellini appesi ai finimenti dei cavalli dei mercati ambulanti, come Bill.
Quello era il giorno in cui il signor Bowles aveva deciso di togliere i punti alle ferite del signor Langley. Quella bella giornata di sole, che aveva messo di buon umore perfino il conte, era stata destinata a qualcosa che lui avrebbe rimandato molto volentieri. Alla fine dell’ultima visita il medico gli disse che avrebbe fatto un piccolo strappo alle regole e, scherzando, dato che la sua professione lo impegnava tutte le ore del giorno e anche più, che rinunciava al suo agognato pranzo di Pasqua proprio per occuparsi di lui, il paziente peggiore che avesse mai avuto. E di certo il signor Langley aveva avuto molto a cui pensare quella notte. Come accadeva da alcuni giorni e notti non era riuscito a prendere sonno e, ancora una volta, il suo aspetto la diceva lunga sul numero di ore che aveva dormito. Il pomeriggio precedente, poi, aveva deciso di darsi una ripulita e, non potendo farlo lui, aveva fatto chiamare un bravo barbiere da Waterford city che, a parte la barba, gli aveva tagliato anche i capelli. Margareth gli aveva detto che sembrava avere gli occhi più grandi, adesso.
Quando il signor Bowles entrò in camera sua si era svegliato da poco dopo un sonno di un’ora e mezza.
- Signor Langley! – lo salutò Bowles. – Oggi è un gran giorno!
Il conte rispose con un’espressione tra l’incredulo e lo sdegnato.
- Siete giunto a metà guarigione … perché, sapete, una scapola a guarire ci mette anche due settimane, se curata a dovere.
- Signor Bowles mi fate ricordare il “voi” di vent’anni fa.
- Il sole mi ritempra … a proposito, perché non ne approfittate anche voi? Uscite! – disse poggiando la giacca sul bracciolo della poltrona e preparando qualche strumento.
- Il massimo che farò oggi sarà occuparmi delle paghe dei contadini e della servitù. Quelli spendono, spendono e a fine mese si ritrovano i tarli nelle tasche…
Il signor Bowles si tirò su le maniche della camicia e iniziò a rimuovere le bende che bloccavano il braccio del conte. – Che triste prospettiva… al posto vostro mi farei una passeggiata in città a sfoggiare la nuova pettinatura.
- Invece…
Un lembo della fascia si era attaccato alla ferita e il dottore la staccò con uno scatto, che fece mugolare il conte.
- Una soddisfazione non avere più i vostri capelli in mezzo … - commentò Bowles.
Il medico riuscì a togliere solo qualche punto e dovette dedicarvi molto del suo tempo, perché la zona in questione era assai traumatizzata. Il signor Langley, invece, dovette combattere contro una nausea provocatagli dal fastidio e la posizione scomoda in cui Bowles lo costringeva.
- Vi ha nociuto non poco trascurare questa ferita per un giorno intero, signor Langley.
- Margareth non vanta un tocco delicato.
- Fatevi curare da qualcun altro. Non potete continuare su questa strada. Non c’è proprio nessuno che possa farlo?
Langley ci pensò, ma non gli venne in mente nessuno. Improvvisamente, però, nel cortile sentì Anya gridare qualcosa.
- Credo di sì.
- Bene, tutelatevi allora. Adesso vi bendo il braccio, ma stringo meno le fasciature – e così dicendo fasciò il torace e controllò che anche la gamba fosse guarita. A fine visita il peso corporeo di Langley era scalato di alcuni punti e sulla coscia ne rimanevano solamente due.
- Adesso, se vi va, potete anche alzarvi e camminare un po’, senza esagerazioni. Il braccio e la spalla potrebbero farvi molto male nei giorni a venire, ma prendetelo come un buon auspicio.
Mentre il signor Bowles usciva, il conte sussultò per il primo dolorino.

* * *
- E adesso leggeremo un verso del vangelo di Luca …
Anya volse gli occhi al cielo.
- “Il primo giorno dopo il Sabato, di buon mattino, le donne si recarono alla tomba portando con sé gli aromi che avevano preparato…”
Accanto a sé sentì Margareth sbuffare.
- Sarà passata più di un’ora ed è ancora alla lettura… - mormorò Anya mimando un’espressione compiaciuta.
- Porta pazienza.
Anya tornò al suo posto e riprese ad ascoltare il verso di padre Todd. Seduti in disparte v’erano due chierichetti: uno magro e dinoccolato, l’altro più basso e grasso fino a scoppiare. Il primo si grattava il collo infastidito, perché probabilmente il colletto era scucito e faceva prurito. Anya pensò che fosse un ragazzino dall’aspetto troppo particolare per trascurarlo; la settimana successiva poteva non esserci più, ad esempio. Gli diagnosticò una forma acuta di insicurezza adolescenziale, osservandolo: poteva anche essere un novellino – il che si capiva dal modo in cui copiava i movimenti del compagno e lo sguardo con il quale gli chiedeva suggerimenti – ma si guardava troppo attorno e si schiacciava il ciuffo sulla fronte ogni qual volta era chiamato ad alzarsi. E a peggiorar le cose v’erano i brufoli in fronte; cercava di coprirli in tutti i modi, ma senza risultati. Quando si alzava muoveva nervosamente le ginocchia, facendo comparire e scomparire due pieghe in più nella tunica bianca di lino che indossava, di due o tre misure più grandi. Sotto di essa indovinò il fisico gracile e ossuto di un bambino cresciuto troppo in fretta. Il collo lungo e con un grosso pomo d’Adamo al quale ancora il giovinetto non aveva fatto l’abitudine, era circondato da un colletto che, come scoprì più avanti, era stato sistemato all’ultimo minuto, lasciando delle cuciture estremamente pruriginose e fastidiose, che costringevano il povero chierichetto in una posizione inclinata e innaturale del capo; posizione che metteva in evidenza le vertebre alla base del collo. Ad un certo punto, quando cominciò a sentirsi osservato, con disinvoltura si girò verso gli astanti e incrociò lo sguardo con quello di Anya, che lo riportò sull’orlo della camicia.
Padre Todd, nel frattempo, proseguiva con la sua lettura. - … “Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo” …
Il chierichetto la guardò di sbieco, forse per accertarsi che Anya stesse seguendo il sermone, ma l’attenzione della ragazza era ormai rivolta a lui e appena i loro sguardi si incrociarono per la seconda volta, per poco lei non scoppiava a ridere.
Margareth le diede una gomitata al braccio.
La giovane riportò lo sguardo sull’altare, ostentando serietà e diligenza, ma non ci volle molto perché si distraesse nuovamente coi chierichetti. Questa volta, però, cerco di scoprire qualcosa sul ragazzino più grasso. A differenza del primo, che la guardava ancora, di tanto in tanto, era più sicuro e anche più borioso, perché cosciente di aver fatto e fare tutto alla perfezione e secondo i canoni di padre Todd. Sapeva tutte le preghiere e i passaggi intermedi della messa a memoria e doveva avere una grande intelligenza nonostante fosse sicuramente analfabeta; caratteristica che lei notò durante la preghiera dei fedeli, quando aggrottò più volte le sopracciglia nel tentativo di leggere il verso dell’assemblea. Allora Mr. Spilungone gli si era avvicinato e gli aveva bisbigliato la pronuncia. Non che il gaelico fosse facile da leggere.
Ma nonostante fosse il preferito di padre Todd, del quale avrebbe dovuto imitare l’austerità apparente dei modi e del regime alimentare, la sua pelle diceva tutto il contrario, perché opaca e tremendamente impura. Più in particolare rivelava una certa lucidità sulla fronte, in alto, indice di un’alimentazione ricca di zuccheri e, nascosti dai primi pelucchi della barba e dai segni della pubertà, dei punti neri dovevano impedire alla pelle delle guance di essere liscia. Questo grasso ragazzino, però, era un libro troppo aperto per Anya, che, annoiata, si diede a guardare le pitture che decoravano le pareti della chiesetta. Alcune avevano dei colori piuttosto vivi, per cui dovevano essere state fatte da poco; altre, invece, davano l’impressione di essere più anziane e forse erano nate e vissute con la chiesa. Ad un certo punto gli occhi di Anya si bloccarono su una leggera scrostatura della parete e, impassibili, non se ne staccarono più. Gli incisivi superiori fermi a tenere il labbro inferiore, dovettero dare alla giovane un’aria palesemente distratta, perché padre Todd alzò istantaneamente il tono della voce per richiamarla.
Quando giunse il momento della comunione Anya benedisse il cielo, perché da allora la messa di padre Todd si faceva sempre inspiegabilmente più veloce.
Al termine della celebrazione, mentre l’ultimo canto risuonava tra le pareti fredde della chiesa, Margareth e Anya uscirono e si diressero al mercato. La governante teneva la giovane a braccetto in un atteggiamento di pura complicità – non mancavano neppure i sorrisi e i commenti civettuoli delle mercanzie esposte – ma il modo in cui teneva l’avambraccio e la mano rivelavano un certo istinto di protezione e non si lasciava sfuggire neppure un attimo la sua presa. Non frequenti, ma presenti, erano le occhiate che di tanto in tanto si lanciava intorno quando la solita banda di ragazzini passava loro accanto correndo, o le alterate costatazioni non appena notava che un uomo camminava loro dietro già da un po’.
- Guarda quei nastri! – le indicò Margareth. – Non li trovi deliziosi?
Anya seguì la direzione del suo dito. – Carini. Chissà quanto costerà uno …
La donne volle avvicinarsi e trascinò Anya con sé. Intorno alla bancarella c’erano delle giovani belle e vestite d’abiti ricchi di pizzi e merletti e colori vivaci. Con la sua gonna nera e consunta e la camicia di seconda mano Anya si sentì immediatamente a disagio. Margareth prese un paio di nastri colorati e li accostò al volto della ragazza.
- Il verde ti dona parecchio.
La ragazza guardò il nastro poco convinta. La tonalità era indubbiamente profonda e vivace, ma il tessuto non era di scarso valore.
- Non credo che i prezzi siano abbordabili, qui …
- Oh, non dire sciocchezze! Ci daranno il nastrino che vogliamo a metà prezzo… conosco chi vende questa roba.
Lo sguardo di Anya, allora, ricadde su una striscia color rosso scarlatto, larga non più di tre centimetri che le svolazzava davanti. Allungando la mano libera dalla stretta di Margareth, l’afferrò. Era liscio e dalla mano morbida e di una lunghezza non esagerata. Sentì gridare qualcosa a Margareth mentre guardava il resto delle passamanerie esposte.
- Allora? Che ne dici di quello verde, eh? – le chiese mostrandole il nastro di prima.
Anya sentì il mercante gridare il prezzo di un nastro simile ad una di quelle ragazze ben vestite di prima.
- Margareth, costa un occhio questa roba.
- Ma Jim – stava per continuare quando abbassò improvvisamente il volume della voce – Jim Peattle ce le offre a un prezzo dimezzato …
- Costano troppo lo stesso.
- Suvvia, non posso farti un regalo? Oggi è un giorno speciale.
La ragazza assunse un’aria sorpresa. – Un regalo? Intendi pagare tu? – Margareth annuì – Oh, dai smettila …
- E’ una sciocchezza. Sì vanitosa… è Pasqua e nei dintorni potrebbe esserci un bel giovane, perché non farti bella?
Ma Anya non pareva convinta.
- Domani il signor conte ci darà lo stipendio … non fare la difficile …
Prima che la ragazza potesse interromperla Margareth pagò il nastro verde e lo arrotolò intorno alle dita. – Ecco a te, signorina.
- Adesso non so come ricambiare …
- Sono io che ti sto ripagando di un favore – sorrise – il signor conte mi ha detto come sei stata premurosa nei suoi confronti.
Anya avvampò.
- E anche che sei rimasta più volte sveglia fino a notte fonda, vero?
- Sì – balbettò – mi sentivo troppo in debito con lui. Non sapevo cos’altro fare …
Margareth le diede un bacio sulla guancia. – Non sei in debito con nessuno, sciocchina. Piuttosto, guarda quanti bei giovanotti ci sono nei paraggi …
Anya rise, mimando un atteggiamento civettuolo. – A migliaia … ho quasi l’imbarazzo della scelta!
- Il garzone dell’ortolano, ad esempio, sta guardando in questa direzione adesso. È carino, non trovi?
- Hai appena comprato un nastro e vuoi trovarmi il fidanzato... non ti porterò mai con me per la scelta di un abito. Chissà in quali guai mi metteresti!
Intorno a loro la gente era aumentata e il cuoco di qualche borghesuccio dei paraggi si dava a polemizzare con Nick il macellaio o con Toby, il venditore di pesce. Non molto lontano, vicino qualche bancarella di frutta e verdura vide Greta, che discuteva animatamente per la scarsa qualità di alcune mele e di qualche pomodoro. Passeggiando lei urtò la spalla contro quella di un uomo; Margareth la teneva saldamente a braccetto e si avvicinò ad un banco di bottoni colorati e passamanerie varie, così che la ragazza non poté vedere il viso di chi aveva toccato. Sporgendosi dalla calca notò che l’uomo era seguito da due uomini smilzi e con delle giacche che dovevano aver visto tempi migliori, oltre ad avere anche dei bassi cilindri, logori anch’essi. Al passaggio le sue narici vennero investite da uno strano puzzo acidulo, come di stalla e sudore, un lezzo che aveva già sentito. Improvvisamente un brivido freddo le percorse dal basso verso l’alto la schiena, arrivando a eccitare perfino i bulbi capillari sotto la cuffietta.
Un uomo alto e robusto e due uomini smilzi al suo fianco.
Avrebbe voluto chiamare Margareth, ma le corde vocali non emisero alcun suono, così si divincolò dalla stretta della donna e, con gli occhi fissi sulla nuca dei tre, si mescolò alla folla. Camminavano tranquilli, ignari di essere ricercati dalla polizia, facendo volgari apprezzamenti sul petto o il fondoschiena di una donna di passaggio. Probabilmente, prima che l’aggredissero, l’avevano fatto anche con lei e rabbrividì ancora una volta. Dietro di sé sentì Margareth che la chiamava e d’un tratto si sentì afferrare per il braccio. Vide i tre uomini allontanarsi e in un battito di ciglia sparire tra la gente.
- Anya …
Gli occhi fissi sulla folla.
- Anya …
E Sperty era lì.
- Anya!
Se l’era lasciato scappare.
Le venne in mente il signor Langley e in quel momento avrebbe voluto che fosse lì, che lo vedesse anche lui.
- Anya! – la strattonò Margareth – cos’hai visto? Perché tremi?
La ragazza la guardò.
- Anya? Mi senti?
- Sto tremando?
Margareth la scrutò con un’espressione confusa, prima di allungarsi anche lei a osservare la folla.
- Era qui … - sussurrò con una nuvoletta di vapore.
- Chi?
- L’uomo che mi ha… che mi ha picchiata.
La donna strabuzzò gli occhi. – Dobbiamo chiamare una guardia, allora. Sai da che parte è andato?
Anya scosse il capo, abbassando lo sguardo. – Voglio tornare a casa …
Margareth sospirò. – Non possiamo lasciarlo andare così, Anya!
E facendo finta di niente si miscelarono alla calca e iniziarono a guardarsi intorno; Margareth con gli occhi di un falco e la stessa determinazione di un politico a far danni, Anya con il cuore che batteva a tonfi sordi e gli occhi tanto vispi quanto spaventati. Tuttavia, nonostante l’impegno prodigato, la ricerca non fruttò nulla e presto dovettero arrendersi.

Qualche ora dopo erano già sul calesse di Sam con Mary, Anthony e Greta. Mary ed Anthony erano accanto a Sam, al posto di guida, e il braccio del giovane stalliere a cingeva la vita dell’amica. Greta, invece, seduta dietro con tutto il suo carico di spese e lamentele, protestava contro la sguattera perché non l’aveva aiutata e perché, secondo lei, rifiutava di imparare a comprare i prodotti migliori.
La governante, però, lanciando degli sguardi complici alla giovane, non l’ascoltava e cercava di godersi il paesaggio. Al trotto di Birra il calesse si muoveva mediocremente veloce e le stesse buche che avrebbero altresì dato fastidio, erano tarpate dalla neve. Nonostante il sole il freddo era pungente come la mattina all’alba e ognuno di loro aveva ripromesso che, se la Domenica successiva ci sarebbe stata una temperatura del genere, di uscire non se ne sarebbe fatto niente. Anthony tremava e sfregava le mani inguantate a metà alla ricerca di calore e avrebbe voluto che Mary gli restituisse la giacca di lana che le aveva ceduto prima, ma anche lei sentiva freddo, forse più di lui, e capiva le sue velate intenzioni anche se non era ancora pronta a rendergli la giacca. Una giacca di feltro marrone che prima di Anthony era appartenuta a suo padre, che aveva prestato servizio per il padre del signor Langley. Qualche anno dopo, quando lui era divenuto altrettanto giovane e forte, suo padre l’aveva portato con sé e presentato al signor Langley figlio. Non era mai scorso buon sangue tra di loro. Paride lo teneva con sé solo perché il mestiere gliel’avevano insegnato bene ed era intelligente e facile da educare. Erano bastate due settimane ai campi per insegnargli una volta e per tutte come comportarsi. Certo, perché inizialmente il signor Langley, non potendo perdere tempo a istruirlo su come si risponde ai superiori, dopo qualche replica si era arrabbiato bene bene e, per non prenderlo a vergate come facevano gli altri, aveva trovato quest’ottimo stratagemma e lo utilizzava spesso, perché sapeva quanto Anthony odiasse piegare la schiena per un giorno intero.
Mentre il calesse procedeva nel suo caratteristico dondolio fra i ciottoli e la neve, Anya non faceva altro che pensare e ripensare a Sperty. Non capiva perché aveva desiderato che il signor Langley fosse lì con lei, che vedesse anche lui e allo stesso modo quel delinquente con i suoi due compari. Nella mente si erano impressi a fuoco i cappelli a cilindro che portavano. Sapevano tanto e troppo di circo e teatro. Chissà cosa ne avevano fatto dei soldi che le avevano preso. Chissà a cosa sarebbero serviti a lei e come se li era procurati. Aveva voglia di fare tutte quelle domande a Margareth – e mentre lo pensava le lanciò un’occhiata di sbieco – ma era sicura che l’avrebbe rassicurata o trovato una qualsiasi scusa per distrarla.
Il didietro di Birra si muoveva baldanzoso a dispetto della sua mole. Era un cavallo alto, massiccio, di quelli che si usano per i lavori di campagna, quelli pesanti, e aveva il pelo lucido, lungo e morbido per il freddo e delle alte calze pesanti bianche che ingentilivano la mole degli zoccoli grigi. Una lunga criniera color birra rossa gli dava il nome e gli copriva talvolta gli occhi liquidi e scuri, profondamente comunicativi e dolci. Sam l’aveva visto ad una fiera qualche anno prima. S’era messo da parte del denaro per comprare un terreno tutto suo e poterlo coltivare a piacimento – tanto i rudimenti del mestiere li aveva imparati grazie al signor Langley -, ma prima che potesse raggiungere il venditore del terreno si imbatté in un vecchio che gli ispirò subito simpatia. Accanto a lui, un cavallo. Diceva che non poteva continuare a tenerlo con sé, perché suo figlio era morto e quel cavallo era stato suo, perciò voleva liberarsene e darlo a qualcuno che lo avrebbe trattato con rispetto. Gli assicurò che valeva tutti gli scellini che chiedeva, e anche molti di più, ma la gente ne aveva paura perché era enorme, quindi s’era ritrovato costretto ad abbassarne il prezzo. Gli doleva separarsi da quella dolce bestia, ma non voleva fare altro e s’era deciso a vendere quel cavallo.
- Vi posso assicurare che non è malato, né zoppica – e dicendo questo l’aveva slegato e gli aveva fatto fare un paio di giri – né ha mai dato problemi di qualunque genere. Lui si accontenta di un praticello fresco, un po’ d’acqua – preferibilmente limpida – e qualche carezza sul muso. È grande e grosso, ma gentile. L’avrei tenuto con tutto il cuore, credetemi, ma mia moglie soffre troppo, perché le ricorda il figlio che abbiamo perso…
Inizialmente Sam non aveva saputo se fidarsi e gli aveva detto che avrebbe fatto un giro e poi sarebbe tornato. Così fece e si aspettava di non trovarlo più quel vecchietto, ma quando tornò lo trovò lì, all’ombra della stessa pensilina dove l’aveva lasciato, con il cavallo accanto. C’era chi si avvicinava, ma visto l’oggetto della vendita si mettevano tutti paura e andavano via. Per giunta l’accordo con il venditore di quel terreno che Sam voleva comprare era saltato e così s’avvicinò al vecchietto, si presentò una seconda volta, perché quelli non aveva più “la memoria di un tempo” e gli aveva offerto la cifra pattuita, con tanto di promessa che avrebbe trattato quel cavallo al meglio e con la possibilità di andarlo a trovare quando e come voleva, alla tenuta del signor Langley, conte di Waterford (aveva rimarcato particolarmente su questo, pensando che l’uomo sarebbe saltato su, ma non era successo). Da allora erano trascorsi poco più di quattro anni e Sam aveva notizie di quel signore, nonostante questi non fosse mai andato a trovare il suo amato cavallo.
Tra Waterford città e la tenuta del signor Langley v’erano appena cinque miglia. Birra arrivò a destinazione con un po’ di schiuma a sporcargli il morso e per niente sudato. Surriscaldato sì, ma sudato no. Dopo quella passeggiata, però, si poteva dire che odorasse di cavallo come non mai. Anya chiese di occuparsi delle sue briglie e, concessoglielo, Sam staccò il calesse mentre lei slegava il morso e lo conduceva al suo box.
- Anya, dagli questa! – le fece Sam tirandole una mela che prese al volo. La porse al cavallo che l’afferrò con i grandi incisivi e la sgranocchiò rumorosamente in segno di riconoscenza. Per un attimo dimenticò Sperty, ma quando se ne ricordò, sollevò leggermente l’orlo della gonna e corse nella tenuta.

Il signor Langley avrebbe voluto trascorrere quelle due ore d’assenza dei domestici dormendo. Aveva pertanto chiuso gli occhi e si era concentrato sulla pesantezza dei bulbi oculari, respirando profondamente, avvertendo l’aria che usciva lentamente dalla trama del cuscino, distendendo il braccio destro lungo il fianco, sentendo il calore delle coltri che lo permeavano. Il braccio sinistro gli aveva dato fastidio in alcuni momenti – la mano si era addormentata di frequente – e aveva sofferto ancora per i dolori alla spalla. In fin dei conti, Bowles l’aveva avvisato. Ad un certo punto, però, si era stancato di stare sdraiato, perché non riusciva a prender sonno, e allora aveva fatto il primo tentativo di alzarsi: pian piano aveva spostato la gamba destra fino al bordo del letto e quando il tallone ebbe oltrepassato il limite del materasso, pian piano si era spinto e si era girato sul fianco destro. Poi aveva puntato il gomito e aveva fatto leva su quello e l’avambraccio per mettersi seduto. Sentì il capo girare vorticosamente, di stare per ricadere all’indietro e lateralmente assieme e chiuse gli occhi, permettendo al sangue di schiudere vie che nella posizione precedente aveva dimenticato. Alzarsi sembrava improvvisamente essere diventata un’ardua impresa.
Pur tuttavia non s’era perso d’animo e con un piccolo sforzo s’era messo in piedi. Le gambe non ressero subito e sotto il suo peso il ginocchio destro si piegò, ancora nero del livido della caduta. Allora si risedette e cercò il bastone con la testa di falco. Lo trovò accanto agli stivali, al lato del camino.
Sospirò.
Allo stesso modo di prima si mise in piedi e zoppicò fino al punto voluto, trascinò gli stivali sino alla poltrona e li indossò; dopodiché, i muscoli intirizziti per il freddo, si diede a cercare la redingote. Vederla non fu facile, perché era poggiata sul bracciolo di una sedia dai cuscini blu, quindi semi mimetizzata; ma quando la tirò su si bloccò. Aveva dimenticato di averla indossata la notte in cui fu colpito, per uscire, e adesso notò il bavero sporco, pieno di incrostazioni, e due fori: sulla sommità posteriore della giacca e accanto alla tasca destra. Le tracce dei proiettili, circondate da due grosse macchie di sangue.
Indossarla era fuori discorso, per cui si diresse al baule ed estrasse una giacca pesante un po’ più corta del suo vecchio cappotto e se la mise sulle spalle; poi, per la prima volta dopo quasi una settimana, uscì dalla camera.
Attraversò il corridoio lentamente, gustandosi l’immagine dei raggi che attraversavano i vetri delle finestre e illuminavano le mattonelle del pavimento, poggiandosi al bastone ad ogni passo. Quando arrivò alla porta del corridoio e stava per allungare la mano ad aprirla, fu quasi travolto da un’Anya galoppante.
- Signor Lang … signor conte! Siete in piedi! – esclamò poggiandosi una mano sul petto.
- Sì, mi sono alzato … - ripeté confuso. – Come mai questa fretta?
La giovane respirò. – Si tratta di Sperty, signore. L’ho visto al mercato.
- Sperty? Come sarebbe a dire?
- Io e Margareth l’abbiamo tenuto d’occhio per un pezzo, ma non c’erano guardie … alla fine l’abbiamo perso!
- Dannazione! Ti ha fatto qualcosa?
- No e non credo neppure che mi abbia vista – disse badando che non la vedesse mentre gli guardava il nuovo taglio scarmigliato.
- Sai almeno in che direzione è andato?
- L’ho visto muoversi verso una strada secondaria. Probabilmente vuol proseguire fuori città …
Il signor Langley fece una smorfia di fastidio a causa di una fitta alla spalla.
- Manderò un messaggio al giudice tramite Anthony oggi stesso – disse allontanandosi verso il suo studio. Quando aprì la porta si accorse di non essere in grado di scrivere, dato che la mano sinistra era bloccata.
- Anya?
- Signore?
- Sai scrivere?

Una decina di minuti dopo il signor Langley stava consegnando il biglietto ad Anthony.
- A casa del signor Boulangher, il giudice.
Il ragazzo assentì e andò via sul calesse di Sam.
Rimasto solo in sala d’ingresso, il signor Langley si guardò attorno come quando vide per la prima volta la tenuta, cinque anni prima: il tetto alto, il pavimento opaco, pieno di decori geometrici, i muri scuri e il freddo. Lo stesso freddo che aveva incontrato il giorno che si era trasferito. Aveva viaggiato due giorni di fila per arrivare, in preda alla rabbia e senza più un soldo, né un terreno su cui costruirsi una nuova vita. Aveva viaggiato su strade costeggianti terreni che un tempo erano appartenuti alla sua famiglia, ma che zia Corinne aveva venduto per risanare i debiti di gioco del suo spocchioso amante. Aveva tenuto per tutto il tempo lo sguardo fisso su quelle pianure e aveva pianto, ma una volta arrivato alla tenuta, si era sentito a casa e s’era dato a perlustrarla da cima a fondo, perché voleva che nella sua seconda vita non ci fossero segreti.
Ma la sensazione che provava adesso era diversa e inqualificabile. E proprio per questo si strinse nella giacca e uscì in cortile.
Quando vide Edgard, ignorando qualche servo che entrava in cucina, gli ordinò senza mezzi termini di agganciare Newton al suo calesse.

Tornata in cucina, Anya si allacciò il grembiule sulla gonna buona. Ne aveva due, ma questa, nonostante fosse di seconda mano e un po’ logora sugli orli, le piaceva. Somigliava a quella dell’abito che Mary le aveva prestato quando stava male, ma era verde e corredata di qualche semplice passamaneria. C’erano pure due tasche e quando le mani le diventavano fredde ve le ficcava dentro. Era stata realizzata in lana e l’aveva comprata da Bill con cinque penny. Per il suo colore verde aveva deciso di indossarla per la festa di San Patrizio, tempo permettendo.
A causa del freddo le nocche erano diventate rosse e nascose le mani nelle tasche della gonna. Erano spaziose entrambe, ma non ci volle molto prima che le dita sfiorassero qualcosa di freddo. Memore di non avervi conservato nulla afferrò l’oggetto in questione.
Quando lo vide per poco non ebbe un mancamento.
Una moneta d’oro, grande metà del suo palmo.

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Capitolo 21
*** Capitolo XIX ***


An irish tale – Capitolo XIX



Il passo di Newton si arrestò in aperta campagna.
Edgard si offrì di aiutare il signor Langley a scendere dal calesse, ma gli fu ordinato di aspettarlo mentre si allontanava.
Il signor Langley procedette nella terra morbida e bagnata fino a che i suoi occhi non incrociarono una costruzione di piccole dimensioni. Rallentò solo per strappare un paio di boccioli e li tenne in mano fino a che non fu davanti alla grigia tomba.
Una scritta, scolpita sulla pietra, riportava un nome: Danielle Lucy McAdamhs Langley.
L’uomo gettò via i fiori vecchi e sciupati dalla neve e sistemò i boccioli nuovi. Quindi fece lo stesso con la tomba vicina. Ne lesse il nome e si morse il labbro. Emily Jane Langley.
Mentre il vento tornava in una serie di delicate ondate, sospirò.

* * *

Un paio di mani prese delicatamente un vassoio e lo passò ai commensali seduti al lungo tavolo.
Sir Rudolph e consorte, Lady Catherine, sorrisero ad una battuta di Chapman, Henry Chapman, il deputato.
- Naturalmente gli dissi che avevamo già pranzato, ma come stare a discutere con un uomo che capiva la metà di quello che dicevo?
Lady Bettany, una donna corpulenta che credeva di essere molto divertente, lo toccò con il gomito e rise di gusto o per finta, mettendo in mostra le mollichine incastrate tra i denti e anche un frammento di rosmarino su uno degli incisivi.
- Siete molto divertente, caro Chapman!
Lady Catherine e lei erano molto amiche e non di rado prendevano un tè insieme, ma da quando la figlia di una sua amica si era sposata, sembrava che le fosse tornata la voglia di prender marito. Aveva pensato di farla sedere accanto a Mr. Chapman perché credeva che lui fosse il tipo giusto, ma s’era redenta presto e fremeva impercettibilmente quando Lady Bettany metteva in imbarazzo Mr. Chapman con i suoi modi alquanto rustici. Fortuna che c’era Sir Rudolph, suo marito, a fugare ogni impiccio.
- Lady Bettany … - iniziava con gaiezza, anche se non sapeva esattamente cosa dire. E via, con i discorsi più disparati del mondo o con qualche commento sulla deliziosa giornata che Dio – perché Lady Bettany era molto religiosa e non imputava a nessun altro i misteri del mondo (l’universo era uno scoglio ancora troppo lontano da raggiungere per la sua mente) – aveva donato loro.
Purtroppo, però, Mr. Chapman non capiva il loro intento e allora si inseriva in ogni discussione per esprimere il suo pensiero e non si finiva più: dal momento che non resisteva alla voglia di divertire gli astanti, faceva una battuta, anche mezza e assai squallida, e Lady Bettany riattaccava con la sua grossa risata e le sue mollichine sui denti. Lady Catherine la trovava alquanto simpatica e divertente per via della sua schiettezza – lei che era nata e cresciuta in una casa dalle regole assai rigide – e poi le faceva sempre un po’ di pena vederla sola soletta nella sua proprietà di campagna, così la invitava spesso quando Sir Rudolph era in giro per affari e una volta s’erano recate perfino a Dublino, a casa di una sorella di Lady Bettany! Ma di questo il duca non ne aveva mai saputo niente e, anzi, continuava a ripetere alla moglie di tenere lontana Lady Bettany quando lui invitava gente di “un certo calibro”. Adesso Lady Catherine ascoltava Lady Bettany e vedeva il marito ridere mentre tagliava la costoletta d’agnello, ridere di gusto. Perché poi tenere lontana una signora che ravvivava le nuvolose giornate irlandesi?
Ma al pranzo avevano invitato anche i coniugi Merryweather con i rispettivi figli e sir Walter con la sorella. I primi parevano non essere perfettamente a loro agio, nonostante si sforzassero di partecipare alle discussioni e ridessero a tutte le battute che sentivano; il primogenito, però, aveva dei gusti particolari e si rivelava piuttosto schizzinoso di fronte ad ogni portata. Sir Rudolph non ci faceva caso e proponeva piatti nuovi e prelibati al bambino per mettere a proprio agio l’intera famiglia, ma quelli erano momenti di vero e proprio imbarazzo per i Merryweather, che si prodigavano in ringraziamenti e sorrisi forzati verso il duca e ammonivano spesso – cercando il più possibile di non farsi notare – il figlio. Charlotte Merryweather era, invece, la figlia che tutti vorrebbero avere: educata, per niente schizzinosa – perché alquanto spericolata nei giochi di campagna – e parlava il francese talmente bene che si intrattenne per un bel po’, con Lady Catherine, discutendo del tempo e dei suoi giochi preferiti. E poi era adorabile anche fisicamente: capelli castani, occhi grandi e talmente blu da sembrare quasi neri e due guanciotte rosa.
Sir Rudolph si augurava di diventare padre di un bambino così.
Sir Walter e la sorella Jane, molto giovani entrambi, non credevano di essere all’altezza di un pranzo a casa del duca. Più di Benjamin era Jane a preoccuparsi. Non aveva mai visto il duca in vita sua, né Lady Catherine, che pareva essere assai popolare nell’ambiente. Jane aveva appena compiuto diciassette anni e nonostante lo stipendio d’avvocato del padre le avesse sempre permesso di soddisfare ogni capriccio, adesso si pentiva di essere una “semplice borghese”. Alla sua sinistra v’era il fratello, alla sua destra Mr. Chapman e oltre lui Lady Bettany. Per carità era tutta gente simpatica e, tralasciando Lady Bettany, parevano tutti molto colti, ma continuava a sentirsi fuori luogo. Le piaceva come vestiva Lady Catherine: un abito azzurro, dal colore talmente intenso da apparire quasi verde, con il collo alto e un apertura che arrivava fino ai piedi decorata con dei merletti color crema e delle perline. I capelli erano acconciati in un largo chignon portato sulla nuca e la linea del collo era ingentilita da un paio di orecchini con tre perle disposte l’una di seguito all’altra. Una volta aveva visto un paio di orecchini del genere, in una bottega al centro di Dublino, ma non li aveva comprati perché credeva fossero fuori moda.
- Jane – le sussurrò Benjamin. – Ti sei imbambolata e ci sei rimasta per un po’… non è gentile verso il duca.
La ragazza sospirò, raddrizzandosi la schiena, e sorrise a Mrs. Marryweather che la guardava.
Desiderava essere rimasta a casa, con la sua famiglia. In un’ora di pranzo non aveva detto proferito neppure una parola. Ben le aveva detto di vestirsi bene, ma si sentiva una stupida a non fare nulla. Fortuna che c’era Lady Bettany ad animare il momento.
- Spero che il signor Langley si sia ripreso dalla sciagura in cui è stato coinvolto – disse in un momento di silenzio. Sperando di aver colto nel segno si pulì educatamente gli angoli della bocca con il tovagliolo, ma ottenne solo un coro di occhiate perplesse.
- Perdonateci – intervenne Benjamin sorridendo di convenienza – le ho parlato del conte ed è rimasta alquanto impressionata dalla dinamica degli eventi. Ma il conte sta meglio adesso … no?
Il duca abbassò lo sguardo, poi annuì. – Sì … sta meglio …
In sala c’era ancora silenzio. Jane sorrise e chinò gli occhi sul suo piatto di verdure. Lady Bettany mimò un sospiro di sollievo e la discussione riprese. – Giusto ieri ho visto un cottage delizioso, non lontano dal Barrow …
Benjamin osservò la sorella di sbieco. Lei ricambiò l’occhiata e capì.
Per quel giorno le conveniva non parlare più.

Agorafobia.
La paura per gli spazi aperti.
Avrebbe chiamato così la sensazione provata dal momento in cui s’era ritrovata quella moneta in tasca.
Era una di quelle che le avevano rubato, non v’era ombra di dubbio. Non aveva mai visto monete simili.
A lungo aveva osservato la campagna dalla finestra della sua stanza. All’improvviso quella bella giornata non le sembrava più gioviale; e il nastro che aveva comprato, che Margareth le aveva regalato, giaceva arrotolato sulla lignea superficie del comodino. S’era seduta sul davanzale della sua finestra e aveva puntato gli occhi all’orizzonte. Davanti a lei, accanto ai piedi, quella moneta. Non era un caso che l’avesse ritrovata in tasca, no. Doveva avercela buttata uno degli scagnozzi di Sperty, quando l’aveva urtato, al mercato. Doveva essere stato uno di quelli col cilindro basso e logoro e il frac altrettanto rovinato. Per ore aveva tentato di cancellare l’immagine di quell’uomo dalla mente, ma non c’era riuscita. S’era picchiata il capo, s’era strappata la cuffietta e s’era tirata i capelli, oltre che essersi pizzicata innumerevoli volte le braccia e i polpacci e le guance. Per un attimo credé di impazzire, ma i confini della tenuta l’avevano quietata. Alla fine aveva aperto la finestra e aveva sentito gli uccellini canticchiare allegri e le galline chiocciare nell’aia; aveva udito il tonfo degli zoccoli dei cavalli sulla paglia e il ringhio basso e sommesso di Hunt. L’aveva visto inseguire Anthony nel cortile e correre incontro ad un passerotto che s’era fermato sul bordo di una pozzanghera. Qualche volta era comparsa Ines e l’aveva sentita, ma non vista, parlare con qualcun’altra, forse Adele.
Nel frattempo il tempo passava e il sole, stanco del luogo che aveva osservato per una giornata intera, andava abbassandosi e sfuggendo agli occhi incantati degli irlandesi. Presto non fu più visibile e sulle montagne aleggiava una striscia azzurra, sormontata da un'altra rosea e da una delicata sfumatura gialla che si uniformava al celeste del cielo. Ogni tanto qualche fuscello era scosso da una ventata d’aria, che Anya appurò fosse deliziosamente fresca e cristallina; profumava di bosco e per un po’ godette di quei momenti respirando profondamente e liberando la mente da ogni pensiero malvagio. A tratti si sentiva anche un odore di fumo, talmente sopraffino da ricordarle l’alba, momento in cui le piante avevano da poco cessato di svolgere la fotosintesi.
Ad ogni modo si sentiva depressa. E più di questo inquieta. Neppure vedere tornare il signor Langley dalla sua lunga e inattesa passeggiata per la campagna l’aveva calmata; anzi, quando l’aveva visto scendere dal calesse, aiutato da Edgard, aveva volto lo sguardo altrove, sentendosi, poi, una tremenda egoista. Ma alle sue ansie non credeva che sarebbe presto riuscita a trovare rimedio.
Al pomeriggio s’era presto susseguita la sera e agli odori del tramonto s’erano sostituiti i profumi delle frittelle e delle altre prelibatezze di Greta. Del modo in cui quest’ultimi avessero raggiunto la sua stanza rifletté parecchio e senza giungere ad una soluzione convincente, perché non vi ragionò seriamente su. La sua mente, il suo animo, erano preda delle sensazioni di un mese prima e anche quando Anna venne a bussare alla sua porta perché Greta reclamava la sua presenza, non comprese bene il significato delle parole da lei pronunciate e la lavandaia dovette scuoterla per un braccio per convincerla a scendere.
In cucina, oltre che da una serie di intense fragranze, venne accolta dagli improperi della cuoca. Mary, Ines, Adele e Sam s’erano recati in paese, dalle rispettive famiglie, e non c’era nessuno in sala da pranzo che spazzolasse via la cenere dal camino e vi accendesse una fiamma. Anya, con tanto di gonna buona, fu, così, mandata in sala perché se ne occupasse.
La stanza era grande e al centro spiccava un lungo tavolo di legno massiccio. Non era la prima volta che lo vedeva, ma si soffermava sulle sue forme rustiche ed eleganti ogni qual volta si recava in sala da pranzo. S’era già rassegnata all’idea di non sporcare la gonna quando s’abbassò sul camino e con la spazzola radunò la cenere in un unico cumulo. Un po’ di fuliggine, nello stesso istante, ricadde dalla canna fumaria e pensò che fosse necessario far chiamare uno spazzacamini, perché altrimenti il fumo avrebbe invaso la sala, non avendo via di scampo. Comunque sia un altro giorno avrebbero potuto aspettare e, sistemati alcuni ciocchi, accese la fiamma aiutandosi con un pezzetto di carta. Infine sistemò la grata di ferro e si sollevò, ammirando le mani annerite e le macchie di fuliggine sulla gonna.
Avvertiva ancora il peso della moneta in tasca, ma non sapeva se farla vedere al conte, dopo cena. Temeva che si sarebbe arrabbiato, perché l’aveva visto tornare alla tenuta con un’espressione di tutt’altro che buonumore sul viso.
- Mangerà in sala da pranzo, il signor conte? – chiese a Greta con il secchio pieno di cenere in mano.
La cuoca fece sgocciolare delle frittelle e le ripose in un vassoio. Avevano un aspetto invitante, ma la giovane pensò non fossero destinate a lei.
- La sua salute adesso glielo permette – rispose la donna immergendo della pasta molle nel lardo fuso.
Anya guardò il grasso sfrigolare, poco convinta. – Sei sicura che quelle frittelle siano il piatto giusto per la tormentata salute del signor conte? – le indicò, ma affrettandosi ad aggiungere, perché Greta le cacciò uno sguardo di fuoco – Non per essere invadente, eh …
- Dimentichi che oggi è Pasqua? È festa. Oggi nostro signore è risorto e bisogna festeggiare. Mary e gli altri saranno già di ritorno …
Anya fece spallucce e sistemò il secchio in un angolo del cortile, domandandosi come poteva festeggiare dopo aver scoperto quella moneta nella sua tasca.
Così, per evitare ogni sorta di discussione, scrollò la gonna dalle macchie nerastre e rientrò in cucina, per finire, ancora una volta, in sala da pranzo.
Era la prima volta che si occupava della preparazione del tavolo. Anna le aveva affidato tre piatti e diverse posate, mentre Anthony – lindo e pettinato – l’avrebbe aiutata con la restante parte del lavoro.
- Come mai anche tu qui? – gli chiese vedendolo affaccendarsi con i bicchieri.
Il ragazzo mosse una spalla. – Ogni tanto me lo permettono.
Anya assentì, ma non volle fargli altre domande e abbassò gli occhi sui piatti dai bordi lievemente ondosi, i bicchieri di un vetro robusto, i tovaglioli di lino, le posate d’argento e la candida tovaglia in lino ricamata con un filo del medesimo colore. Quando Anthony avrebbe dovuto poggiare il bicchiere per il vino accanto al piatto, prese ad osservarlo e lucidarne distrattamente la base con un tovagliolo.
- Anya … tu … tu credi che Mary sia simpatica?
La ragazza distese una piega della tovaglia e ripose un paio di forchette alla sinistra del piatto.
- Certamente. Perché me lo chiedi?
Lui fece un vago cenno con la mano e poggiò il calice sul tavolo. – Volevo ascoltare il tuo parere …
Ma colta da un’improvvisa voglia di saperne di più, Anya lo guardò maliziosamente di sottecchi. – Il parere di una donna su un'altra donna? Accade raramente che un uomo lo chieda.
Il ragazzo levò su di lei, ma senza tenervelo troppo, uno sguardo quasi confuso, che tradì il proprio imbarazzo. Avrebbe voluto chiedere quanto raramente accadesse che un uomo consultasse una donna, ma Anya sembrò leggergli in faccia quel dubbio.
- Accade quando non si è sicuri della propria opinione, perché, si intende, quale essere può conoscere una donna meglio di chiunque altro se non una donna stessa?
Le sopracciglia di Anthony si sollevarono impercettibilmente. – Cosa ti cruccia di Mary? – continuò lei. – Vi vedo andare sempre molto d’accordo, a parte in alcuni casi.
- Il problema è proprio questo – balbettò lui, prendendo a torturare la pelle delle dita con le unghia. – Mary mi è simpatica … alquanto simpatica. Parecchio, direi.
Mentre lo diceva le sue guance si colorarono di rosso e abbassò con uno scatto gli occhi sul tavolo. Poi trasse un lungo sospiro.
- Non ci trovo nulla di “problematico” in questo. Insomma, se consideri Mary più di un’amica, perché di questo si tratta – soggiunse quando lo sguardo vispo del ragazzo di levò un’altra volta su di lei – cosa c’è di male?
- Non credo che lei la pensi allo stesso modo.
- Ah!
- Credo che … oh, ma mi hai visto? Sono sempre sporco, puzzo ininterrottamente di letame e di rado mi taglio la barba e i capelli ...
- Un selvaggio.
- Cosa?
- Se non sbaglio, adesso hai fatto un po’ di pulizia.
Anthony volse il capo da un’altra parte, quasi fosse improvvisamente esasperato da quella conversazione.
- E poi non pensi alle commissioni che il signor conte ti affida? Molto spesso, oserei aggiungere. Se puzzassi veramente, di certo non ti avrebbe mandato dal suo amico giudice, in città, oppure dal signor Bowles quando ne avevamo bisogno!
Il giovane corresse distrattamente la posizione di una posata.
- Piantala di crucciarti e sii uomo! – esclamò bonariamente la sguattera. – Fidati, non sono la barba e i capelli ad attirare una ragazza. Conta l’essenza. Se sei certo di averne una rispettabile, allora non preoccuparti.
Ma nonostante gli sforzi che la sguattera faceva, il viso di Anthony persisteva in un’espressione poco convinta e tutt’altro che sicura. Fu a quel punto che Anya smise di parlare e lo guardò bene.
- Soffri di insicurezza – disse. – E da quel che mi risulta sei sempre stato pedante con te stesso.
- Da quel che ti risulta?
- Non hai forse appena detto che ti radi raramente e allo stesso modo curi i capelli? I capelli a nascondere il viso dichiarano apertamente lo stato d’animo di una persona… alcune donne si lasciano crescere i capelli e li portano con una scriminatura centrale, perché solo in questo modo riescono a nascondere parte di quello che le circonda; è una sorta di paraocchi, sai, come quelli che si mettono ai cavalli in città … mentre i capelli alzati, senza orpelli a coprire i lineamenti del viso e del collo, denota un grado di sicurezza certamente maggiore. Credo che faresti dei progressi ragguardevoli tagliando i tuoi capelli, molto corti … - in quello stesso momento le venne in mente una persona che aveva fatto tutto quello che lei aveva appena detto, senza però sentire nessuna opinione in proposito. Anche sul signor Langley ci sarebbe stato da riflettere, ma quello era un caso a parte e la ragazza non si ripromise neanche di pensarci su. Il conte, con i suoi rimproveri e le punizioni che imponeva ad Anthony, doveva di certo contribuire al peggioramento – anche se secondo Anya era stato il fautore – della “crisi” dello stalliere.
- Tagliare i capelli? – ripeté sbalordito il giovane. – Non se ne parla proprio!
- Credimi, farebbe la differenza.
Anthony si portò una mano alla zazzera scura. In un primo momento parve essersi convinto, ma non ci volle molto prima che l’espressione che Anya aveva ricercato scomparisse. – Che razza di idea!
- Senti Anthony, io ti ho dato il mio consiglio. Se tieni ai tuoi capelli … d’accordo, tienili pure, ma non crucciarmi – disse lei ravvivando la fiamma del camino e lasciando la sala. Sulla porta incrociò Hunt, che s’appressò trotterellando al tappeto di fronte al camino; la sua entrata anticipò l’arrivo del signor Langley. Zoppicava, ma pareva assente e non le rivolse neppure uno sguardo, mentre la sorpassava.
- Salve, signor conte.
- Al diavolo!
Dall’interno della sala da pranzo, Anthony le fece segno di ignorarlo e allontanarsi.
In cucina l’atmosfera pareva tranquilla e la stessa Greta, mentre scioglieva dell’altro lardo in una padella, sorrideva come inebetita. Anya non volle dirle niente, temendo di alterarla, così raccolse lo scialle dalla spalliera di una sedia ed uscì in cortile. Stava per sedersi sulla panca accanto la porta, quando udì delle grida sconnesse e un gran frastuono di piatti e bicchieri dall’interno. In un baleno fu in piedi e rientrò, lanciando uno sguardo interrogativo alla cuoca e precipitandosi in sala da pranzo; ivi, la scene che le si palesò davanti la sbalordì: sul pavimento c’erano i cocci dei piatti e dei bicchieri con i quali lei ed Anthony avevano apparecchiato la tavola e la tovaglia era tutta spostata da un lato; le candele che avrebbero illuminato la stanza giacevano spente sul pavimento, non molto distanti dall’accozzaglia di vetro, porcellana e posate.
Ciò che, però, la impressionò maggiormente fu l’espressione del signor Langley; quando lei entrò, gli occhi che prima guardavano in malo modo Anthony saettarono su di lei e si rabbuiarono repentinamente.
- Scommetto che c’entri tu!
Anthony le consigliò di andarsene con un movimento del sopracciglio e una lieve inclinazione del capo, ma la giovane era atterrita dallo stato del signor Langley. Non gli si era avvicinata, era ancora ferma sulla soglia della porta, dove poi la raggiunsero Greta e Anna, ma avvertiva distintamente il puzzo dell’alcol e i movimenti del conte erano tali da farle capire che fosse ubriaco fradicio.
- Sapevo che prima o poi avresti combinato qualcosa! – gridò, alzandosi a fatica. Anthony gli stava dietro, pronto ad intervenire.
- Cosa sei? Dovete andarvene! Tutti! Andate via!
Gli occhi dell’uomo erano fissi su di lei e, un passo dopo l’altro le si avvicinò. Con un cenno della mano Anya bloccò lo stalliere che stava per trattenere il conte e sollevò il viso. Greta e Anna presero a raccogliere i frammenti sul pavimento e Langley stava quasi per cacciarle, quando una fitta distorse i lineamenti del suo viso in un’espressione di puro dolore; per alcuni minuti fu sul punto di parlare, ma ogni volta che ci provava era come se una scarica di proiettili si abbattesse sulla spalla. Infine, quando parve riuscire a prendere fiato, gli occhi rossi dall’alcol si puntarono nuovamente sulla ragazza, muovendosi veloci su ogni suo tratto.
- Dove hai messo i miei liquori? – ringhiò – Qui dentro nessuno dice di averli visti, ma da quando ci sei tu qui, io …
- Signore, sono convinta che dovreste riposarvi. Oggi vi siete stancato tanto … - disse in riferimento ad una chiazza di sangue all’altezza della coscia. Nello stesso istante Langley poggiò una mano sulla sua guancia e con sorpresa Anya pensò che si accingesse a carezzarla, ma sembrò che lui preferisse attanagliare la mascella nella stretta morsa delle sue dita.
- Te lo ripeto un’ultima volta …
Anthony non volle più stare a guardare e, afferrato il conte per una spalla, lo stese a terra con un pugno ben assestato sul naso. – Adesso basta.
Greta e Anna si alzarono trasecolate. Hunt cominciò ad abbaiare e il ragazzo lanciò un’occhiata al padrone, steso sul pavimento, massaggiandosi il pugno con la mano tremante. Accertatosi che il naso del signor Langley non fosse rotto e che lui avesse semplicemente perso i sensi, levò lo sguardo sulle donne che lo fissavano basite. – E’ ubriaco marcio! Cosa volevate che facessi? Aveva messo le mani su Anya e sono sicuro che le avrebbe fatto male! Dio! Ha ripreso a bere!
Dal canto suo la rossa non fu capace di muoversi. La bocca dolorante era schiusa per la sorpresa, mentre il naso era inorridito all’odore di whisky presente in quella sala. L’origine di quel lezzo era steso ai suoi piedi. In altri casi, probabilmente, avrebbe ringraziato Anthony o si sarebbe chinata per controllare la spalla del conte, ma non doveva essere quello il momento.
Sotto gli sguardi interrogativi dei tre colleghi girò i tacchi e lasciò la stanza. Inizialmente non le fu chiaro dove si sarebbe diretta. Anthony la seguì per chiederle se s’era fatta male e con un cenno lo tranquillizzò.
- Va bene, grazie – disse.
I piedi si muovevano da una parte all’altra ed entrò in cucina, dalla quale, attraverso il corridoio, giunse nella sala d'ingresso e vi si intrattenne; poi si spostò di fronte la porta: l’aprì e la richiuse, indecisa se uscire o no; ritornò in cucina, dove incontrò Mary, Ines e Adele, coi volti gai e i nasi rossi per il freddo serale: le fecero qualche domanda e rispose che Greta sarebbe presto rientrata in cucina per ultimare la preparazione della cena, se questa era ancora incompleta, e che avrebbero passato una splendida serata. Poi, e non seppe bene come vi riuscì, disse – Il conte è ubriaco. Era ubriaco, perché Anthony gli ha dato un pugno sul naso e adesso non so se lo stanno riportando in camera o se invece si stanno preoccupando di rianimarlo. Ma non si è fatto niente, tranquille. È di là, in sala da pranzo.
Le donne corsero via prima che Anya finisse di parlare. In testa una gran confusione. In tasca quella schifosissima moneta.
S’era decisa a parlarne con il signor Langley, dopo cena, perché lui aveva preteso di essere messo al corrente di ogni novità; ma adesso si sentiva troppo disorientata per pensarci.
In cucina entrò Sam. Nascose la moneta nel palmo chiuso della mano e gli raccontò la faccenda per filo e per segno, senza parlare di lei. Anche lui corse via e dal vociare confuso capì che stavano trasportando il conte in camera da letto.
Anche lei si sarebbe coricata presto.

L’indomani mattina si svegliò di buon’ora. Qualche ora di sonno in più le aveva giovato; pur tuttavia, nonostante l’iniziale buon’umore, la vista della gonna verde sul bracciolo della poltroncina e a consapevolezza di cosa fosse contenuto nelle tasche, la trafisse come un pugnale e la fiacchezza la invase come mai l’avrebbe ritenuto possibile.
Dalla finestra entrava la flebile luce del mattino e c’era ancora freddo. Si alzò dal letto, riempì il catino con la brocca d’acqua vicina e legò rozzamente i capelli; quindi rinfrescò il viso, il collo e le braccia e si tamponò con uno strappo d’asciugamano. Davanti allo specchio iniziò la vestizione: indossò delle alte calze di lana e sostituì la camicia da notte con la più corta camicia intima sulla quale mise un corsetto che le aveva ceduto Margareth. Quindi allacciò in vita una prima gonna e indossò su tutto un abito grigio che doveva aver visto tempi migliori. I capelli che ancora ricadevano mossi sulle spalle, furono velocemente intrecciati e fissati alla nuca mediante qualche fermaglio. Infine venne la volta della cuffietta e la gonna verde sul bracciolo della poltrona fu piegata e riposta nello pseudo baule ai piedi del letto; la moneta scivolò via dalla tasca e, ricordatasene, Anya la prese con sé.
In cucina, prima che Greta potesse parlare, prelevò i secchi per il latte e l’acqua e andò alla fattoria dei Sellers. Pervinca aveva preventivamente legato le mucche alla staccionata – cortesia che le riservava solo nelle belle giornate – e Anya cercò di sbrigarsi, mentre si guardava in modo circospetto attorno. Sperty, pensava, poteva aver individuato il luogo in cui lei abitava; ma gli accorgimenti che adottò furono del tutto inutili, perché di quel delinquente non sentì neppure l’odore acido.
Quando tornò alla tenuta, ad attenderla impaziente sull’uscio della cucina, trovò Margareth.
- Bentornata! Spero che il tuo caro nipote stia meglio, adesso.
- Grazie, Anya. James è molto migliorato, ma il signor conte no.
La giovane consegnò i due secchi alla cuoca, levando gli occhi al cielo. – Cosa gli sarà mai successo?
- Cosa mai gli avrà fatto Anthony?
Anya lanciò uno sguardo di fuoco a Greta, consapevole che doveva aver sicuramente parlato della sera precedente.
- Allora?
- Ciò che Greta non ti ha detto è che il signor conte era talmente ubriaco da avermi confuso con chissà quale dei suoi amici!
- Attenta a come parli, Anya!
- Mi ha accusata di avergli nascosto i liquori! Insomma, mi spieghi cosa dovrei farmene?
- Non ne ho idea, ma a differenza di quanto potesse pensare Anthony, la sbornia non ha portato con sé i ricordi di ieri sera! Il signor conte ricorda perfettamente ciò che è successo e solo il fatto che era ubriaco ha salvato quell’insolente dal licenziamento!
- Ha ammesso di essere bello sbronzo, allora?
Margareth fu sul punto di prendere la ragazza a schiaffi, ma non voleva che nella tenuta si parlasse anche di questo.
- Anthony lo ha colpito!
- Mi aveva messo le mani addosso!
- Non dimenticare che il signor conte è un tuo superiore. E se non fosse stato per lui a quest’ora saresti nelle mani di chissà chi!
Anya sbuffò. – Ne sono perfettamente cosciente e perciò non gli sarò mai grata abbastanza. Questo, però, non può giustificare un’azione del genere!
La governante fremette. – Per quello che hai appena detto non basterebbero tre settimane nei campi!
Anya non poté credere alle sue orecchie.
- Adesso torna ai tuoi doveri – disse Margareth mettendole un vassoio tra le mani. La sguattera guardò meravigliata ciò che vi era stato riposto: una lunga pinza medica, dei tamponi, qualche garza, una boccetta di disinfettante e una scodella vuota.
- E con questo che dovrei farci?
- Il signor conte ha ordinato che sia tu ad occuparti delle sue ferite d’ora in avanti.
Lo sguardo della ragazza si fece ancora più sorpreso. – Io?
- Non ho idea del motivo che l’abbia portato a cambiare opinione, ma sì, sei proprio tu. Ho già fatto portare dell’acqua calda nella sua stanza.
Annuendo interdetta, la giovane sguattera si diresse all’area padronale della tenuta. Nel suo animo sentiva crescere l’avversione per il compito appena affidatole. Ma, sapendo di essere tra due fuochi – da una parte Greta provava fastidio che fosse lei la prediletta per questo genere di incarichi, da un’altra il conte ordinava e ricercava la sua presenza – ciò che le rimaneva da fare era chinare il capo e fare ciò che le veniva ordinato; d’altro canto il suo mestiere stava ai piedi della piramide gerarchica dei domestici.
Bussò un paio di volte prima di sentire la voce del conte dall’interno della stanza. Quando entrò non osò guardarlo in faccia.
- Salve, Anya – la salutò lui.
- Salve, signor conte.
- Ti ha mandato Margareth?
La giovane annuì. – Sì.
- Il signor Bowles, come sai, ha prescritto che le ferite siano lavate e disinfettate. - disse facendo una pausa. – Vedo che hai tutto l’occorrente.
Anya stava per buttare tutto in aria, quando si impose di contare fino a dieci. Le dita si muovevano nervose intorno ai manici del vassoio e gli occhi guardavano con noia gli strumenti riposti su di esso. A trattenerla dall’andare via fu solo la macchia di sangue sulle garze della sua gamba.
Langley intuì il turbamento della giovane e non disse una parola, perché sarebbe servito solamente a spazientirla e farla andare via. Quando la vide muoversi per sistemare il materiale per la medicazione accennò un sorriso soddisfatto. Guardarla prodigarsi per lui, con quei modi svelti e quei gesti misurati, gli faceva sempre un certo effetto. In quel momento, mentre versava l’acqua calda nella scodella e avvicinava il tavolino per riporvi gli strumenti, gli piacque l’espressione indispettita che aveva assunto.
- Se volete che vi medichi, dovete darmi le spalle.
Il conte si girò, facendo leva sul braccio sano. Anya versò il disinfettante nell’acqua e vi immerse i tamponi. Dopodiché, sedutasi di fianco al letto, sollevò la camicia dell’uomo e iniziò a rimuovere le bende che assicuravano il braccio sinistro.
- Ho avuto ragione a sceglierti. Le tue mani sono così delicate …
- Vi consiglierei di non fidarvi oltremisura di loro, perché sono alquanto dispettose – disse, staccando con uno scatto la benda dalla ferita. Il gesto, come aveva immaginato, lo fece sussultare.
- Anche sensibili agli schiaffi?
- Sapete, il freddo di questi giorni le ha temprate un po’. Non so se brucerebbero con qualche schiaffo.
Il conte sorrise.
Prima di ripulirla, Anya esaminò la ferita. L’impatto con il pavimento del giorno precedente doveva aver scombussolato la matrice ossea che si stava formando tra un frammento e l’altro ed era evidente un certo gonfiore. – Vi consiglierei di farvi visitare dal dottor Bowles, questo pomeriggio. Credo che la vostra spalla abbia bisogno di una controllatina.
- E cosa mi direbbe? “Signor Langley, oggi è una bella giornata ed io vi prescrivo tanto riposo!” oppure “Temo che dovrò riaprire la spalla e fare un po’ d’ordine se proseguite nelle vostre dissolute abitudini”.
- Non avrebbe torto, in ogni caso. E un consumo smodato di alcol non può che nuocervi, soprattutto nelle condizioni in cui vi trovate.
A quel dire il conte distolse lo sguardo dalla sua gonna. Anya nel frattempo si occupava diligentemente della sua spalla e fino a quando non ebbe finito, nessuno dei due parlò. Allora gli fasciò la spalla e strinse le bende quanto bastava affinché la scapola ritrovasse un po’ di pace. Passarono altri minuti, infine il conte ruppe il silenzio.
- Anya, sento di doverti delle scuse.
Nel pallido volto di lei un sopracciglio si inarcò.
- Non ho ben idea di ciò che abbia detto ieri … - disse - in verità non lo ricordo molto bene. Sei una brava ragazza e quello che hai visto ieri mai si sarebbe dovuto palesare davanti ai tuoi occhi. Mi vergogno profondamente di me stesso.
La sguattera distolse lo sguardo dalla ferita alla gamba. In certi punti s’era riaperta, ma non era grave.
- Non ne parlo facilmente, ma tu mi sembri riservata e poco propensa al pettegolezzo, perciò sento di potermi fidare. Sbaglio?
- No. – mormorò lei.
- Qualche anno fa … ho sofferto di una dipendenza – disse lentamente – pareva che non riuscissi a vivere senza una bottiglia di whisky o vodka in mano. Il sapore, il calore alla gola, il progressivo allontanamento dal mondo che susseguiva ogni bicchiere … adoravo tutto. Ci fu un periodo, poi, in cui il dottor Bowles tentò di recuperarmi e allora sostituiva tè al whisky, tè forte, e io non me ne accorgevo neppure tanto mi ero rincretinito. Ieri pomeriggio ho dato di matto quando ho ritrovato una vecchia bottiglia …
Parlando, non alzò neppure una volta gli occhi. Non fosse stato per il contenuto del discorso, Anya avrebbe pensato che avrebbe voluto comprare il suo vestito tanto magneticamente gli occhi lo fissavano. Si bloccò bruscamente, forse al ricordo di qualcosa di fastidioso, poiché si girò impaziente da un’altra parte.
- Se abiti qui è per la mia intolleranza verso l’inciviltà. Quando ti ho vista per la prima volta ho ritenuto necessario prenderti sotto la mia custodia e, se proprio anelavi ad andar via, avrei soddisfatto questo tuo desiderio non prima dell’arresto di Sperty. Ma il primo ad essere incivile sono stato io …
Per qualche strano motivo, nel sentire “sotto la mia custodia” le guance di Anya si imporporarono leggermente. – Il vostro comportamento è ben lungi dall’essere incivile, signore. Permettetemi di chiedervi di smetterla di scusarvi.
Il conte assentì appena. Nessuno dei due parlò più, se non dopo che Anya ebbe finito di disinfettare la ferita della gamba. Nella posizione in cui era messa, seduta con una gamba poggiata sul letto e l’altra no, la tasca della gonna s’era schiusa e aveva messo in bella vista la moneta. Senza dubitare oltre la porse al signor Langley, che corrugò immediatamente la fronte.
- Ricordate quando ieri vi ho detto di aver visto Sperty, al mercato?
- Sì.
- Questa me la sono ritrovata in tasca, dopo aver urtato accidentalmente uno dei suoi compari. È una di quelle che mi hanno rubato, le riconoscerei fra mille.
- E’ oro – constatò lui, soppesandola.
- Già.
- Perché non me l’hai fatta vedere subito?
- L’ho scoperta dopo, signore. Sarà caduta nella tasca dell’altra gonna, mentre mi cambiavo.
Il conte annuì lentamente, senza distogliere lo sguardo da quello strano disco d’oro. – Oggi è … Lunedì?
- Esatto.
- Rimandiamo la visita del dottor Bowles. Questo pomeriggio verrai con me, dal mio amico giudice.

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Capitolo 22
*** Capitolo XX ***


An irish tale - Capitolo XX



Il pomeriggio il signor Langley portò Anya con sé a casa del giudice Boulangher.
Come s’era immaginato la ragazza ebbe una piacevole impressione sull’uomo, che guardò più lei che gli occhi di Langley mentre parlava.
Anya fu invitata a parlare di tutti i fatti che l’avevano coinvolta e dopo un paio d’ore lei ed il conte fecero ritorno alla tenuta. L’ispettore, si affrettò ad aggiungere Boulangher mentre i due uscivano, sarebbe tornato in settimana e avrebbe inviato una missiva al signor Langley per parlargli del suo caso, se non l’aveva fatto già.
Un paio di giorni dopo, mentre con gran ritardo preparava le paghe dei dipendenti, Edgard gli recapitò una lettera allo studio.
- Questa è per voi, signore – disse il ragazzo. – Da parte dell’ispettore Hurlstone.
- Te l’ha consegnata personalmente?
- No, signore. Era un ragazzo magro, ben vestito. Non conosco l’ispettore, ma penso che si sarebbe presentato se lo fosse stato.
- Grazie Edgard, puoi andare.
Non appena il giovane chiuse la porta, Langley aprì la busta. Conteneva un foglio di carta da lettere intestata ad un certo Alexander Orace Hurlstone. Diceva:
“Spero scusiate la lunga assenza da Waterford City, signor Langley. Le ragioni che mi hanno costretto fuori hanno condotto alla soddisfacente conclusione di un caso che ha impegnato la polizia di Dublino per parecchi mesi; nel tempo libero ho letto molte volte il vostro caso e me ne sono interessato sinceramente. Chiedo, pertanto, che mi informiate su un vostro giorno libero da impegni, perché desidero parlarvi.
Il giudice Boulangher mi ha informato circa nuovi aspetti di una faccenda che riguarda una delle vostre domestiche. Affinché la giustizia prevalga sulla criminalità, chiedo di poter parlare anche con lei.”
Ne seguiva una firma dalle forme fiere e ricche di svolazzi.
Mentre la leggeva il conte sbadigliò e dedusse che questo nuovo ispettore era giovane. Recentemente aveva sentito parlare della sostituzione dell’ispettore e la lettera di questo Alexander Hurlstone era infarcita di romanticismi e circonlocuzioni pressoché inutili e decisamente troppo altezzose: roba tipica di un giovinetto. Il fatto, poi, che fosse diventato ispettore in giovane età lasciava intendere che fosse il rampollo di una qualche ricca famiglia borghese della capitale che aveva potuto permettersi studi tanto impegnativi ed un tirocinio quasi sicuramente portato a compimento presso il vecchio ispettore, il cui cognome era anch’esso Hurlstone. Nulla di strano, pensò Langley, se anche questo giovanotto aveva i baffi scuri del parente e il suo stesso metodo d’indagine.
Con noncuranza ripiegò il foglio e lo mise da parte, prendendo la stilografica e vergando su di un foglio da lettere la risposta per il giovane ispettore.
Quello stesso pomeriggio, quando il sole ebbe esaurito i suoi raggi più caldi, il conte fu informato dell’arrivo di una vettura da nolo; dalla finestra vide un ragazzo dall’aria severa scendere dalla carrozza. Lo vide scambiare due parole con Edgard, poi dirigersi con il passo ritmico di un militare alla porta d’ingresso. Non ci volle molto prima che sentisse Margareth bussare alla porta.
- Avanti.
Dalla porta la governante lasciò passare un ragazzo di media statura, con una folta chioma bionda e un paio di baffi in tutto e per tutto uguali a quelli del vecchio ispettore. Sotto due sopracciglia folte si stagliavano due occhi chiari, celesti, che con i loro movimenti rapidi e freddi, trasudavano disciplina e rispetto delle regole. Con un passo il ragazzo fu al centro della stanza e nascondendo il cappello sotto il braccio, tese in segno di saluto la mano destra al conte.
- Salve, signore. Sono l’ispettore Hurlstone, di Dublino. Spero di non essere arrivato in ritardo – disse, conscio, in realtà, di essere perfettamente puntuale.
- Nient’affatto. Sedetevi pure, signor Hurlstone.
- Bene. Come vi ho scritto nel messaggio di questa mattina, mentre soggiornavo a Dublino ho studiato il vostro caso. Sono sinceramente dispiaciuto per quanto vi è capitato e spero che siate guarito.
- Sono sulla via.
- Me ne compiaccio. Ho avuto la fortuna di ricevere gli aggiornamenti dell’agente Musgrave, che ha raccolto delle informazioni più che esaustive su ciò che è accaduto. Da quanto ne risulta ha perlustrato di persona il luogo dell’incidente e ha scoperto le tracce del colpevole, nonché una gran quantità di altre cose che terrei a mostrarvi. Sono obbligato a chiedervi se potete seguirmi fino a Campile. Ci andremo con la carrozza con cui sono venuto e che mi aspetta di fronte l’ingresso. Dal momento che Campile non è molto vicina, consiglierei di partire subito. Quasi dimenticavo: vi avevo scritto che desideravo parlare con una delle vostre serve … risponde al nome di Anya, ma ho pensato che il tempo basterà appena a illustrarvi la teoria che ho sviluppato riguardo il vostro caso, per cui chiedo che la ragazza rimanga a mia completa disposizione.
Langley assentì un’altra volta, facendo leva sulla gruccia per alzarsi dalla sedia. Con un po’ di fatica raggiunse la vettura nel cortile antistante la tenuta e, malgrado Hurlstone si fosse offerto di aiutarlo, il conte si decise a salire in carrozza da solo. L’abitacolo era ordinario come solo una vettura da nolo sapeva essere: sedili con imbottitura blu e una tendina chiara sul finestrino dello sportello.
- Non sono mai stato a Campile – disse l’ispettore accomodandosi – l’agente Musgrave, però, mi ha fornito dei dati ben precisi sul luogo da raggiungere. Si tratta del capanno dei cacciatori sulla riva est del Barrow, non è così?
Nel ricordare la sera passatavi e il malessere che lo aveva colto, quasi non tornava a sentirsi male. – Sì, signor Hurlstone.
- Chiamatemi “ispettore”, ve ne prego. L’agguato è avvenuto tra le quattro e le cinque del mattino. William Coltfer, suo amico, afferma che a quell’ora siete uscito dal capanno due volte e che ad un certo punto il vostro cane ha cominciato ad abbaiare.
- Non mi sentivo molto bene – disse – alla fine di quell’intensa giornata di caccia i servi di sir Arthur Rudolph hanno acceso un falò e abbiamo banchettato con ciò che eravamo riusciti a cacciare. C’era freddo e abbiamo bevuto del vino per riscaldarci … però … la situazione mi è come sfuggita di mano e … mi sono lasciato trascinare.
- In che senso la situazione “vi è sfuggita di mano”? Avete esagerato con il vino? Vi siete ubriacato?
- Sì.
- E cos’altro?
- Erano le nove circa quando ci siamo recati al capanno. Ricordo che sir Walter aveva controllato il suo orologio da taschino e che s’era lamentato di aver imbrattato la catenella con l’unto delle mani.
Mentre parlava l’ispettore prendeva appunti su un taccuino e ogni qual volta Langley nominava qualcuno, controllava che nelle carte di Musgrave non mancasse nulla.
- Ci fu un po’ di confusione con i cavalli; se non ricordo male sir Rudolph è salito in groppa al baio di Benjamin Walter e questi è stato costretto a servirsi del bilancino destro che il duca aveva portato con sé. Solo William Coltfer ed io siamo riusciti a salire sui nostri cavalli. I servi del duca hanno spento il fuoco e, saliti sul calesse, ci hanno seguiti fino al capanno, dove abbiamo preso alloggio.
- Vi sentivate già male?
- Non proprio, anche se fu durante il viaggio per il capanno che avvertì i primi sintomi.
- Cos’avevate?
- Inizialmente nausea. Distratto dall’arrivo al capanno e dal problema della sistemazione, però, quasi me ne dimenticai. Qualche ora dopo essermi coricato la nausea montò nuovamente, più forte di prima. Il mio cane era vicino a me, così che fui costretto a legarlo poco distante per non sentirne il forte odore. Ma al senso di vomito si susseguirono presto dei crampi allo stomaco, a tratti talmente violenti che pensavo di morire. Ad un certo punto mi vidi costretto ad alzarmi e uscire, perché ogni tentativo di alleviare il mio malessere era vano e temevo di vomitare proprio dentro il capanno.
- Ricordate l’ora esatta in cui siete uscito?
- Quando esco per una battuta di caccia non porto mai con me l’orologio da taschino, perché è un ricordo e non voglio perderlo; di conseguenza, non ho controllato che ora era … e poi mi sentivo troppo male per pensarci …
L’ispettore assentì.
- Il cane ha iniziato ad abbaiare sin da subito?
- No.
- Ne siete sicuro?
- Lo ricorderei.
- Dalla deposizione del signor Coltfer risulta, però, che il cane ha abbaiato molto. Egli sostiene che questa reazione la si deve al fatto che la bestia avesse percepito ciò che stava accadendo fuori.
- Il cane ha abbaiato molto, sì, ma ero fuori già da un po’ quando ha cominciato.
Hurlstone controllò alcuni fogli e annotò qualcosa sul taccuino, quando si grattò la fronte. – Cosa è successo dopo?
Il conte si fece pensieroso. – Come ho detto, uscii perché non stavo affatto bene e all’improvviso mi sentì davvero male. Vomitai molto e la vista si offuscò. Ad un certo punto pensai che sarebbe stato meglio rientrare, ma presto mi accorsi di non avere il comando sulle mie braccia e le gambe … pensai subito che non fosse naturale e tentai di alzarmi, ma invano. Pur tuttavia, alla fine riuscì a sollevarmi e proprio quando stavo per raggiungere la porta del capanno (alla quale mancavano cinque metri, all’incirca) venni spinto giù e caddi sul selciato con un fortissimo dolore alla spalla.
- Quella che vi hanno fasciato?
- Esattamente.
- Poi?
- Credei che il bruciore intenso fosse dovuto ad una grossa spina o ad un chiodo staccatosi da qualche ferro di cavallo, ma, girandomi, vidi che v’era uno strano movimento dietro un cespuglio e allora mi alzai e tentai di fuggire nel capanno …
- Il cane abbaiava, già?
Langley annuì. – Probabilmente aveva avvertito tutto.
- Dicevate?
- Sì … stavo per raggiungere la porta del capanno quando venni buttato giù una seconda volta. Sentivo il sangue colare lungo la schiena e impregnare tutti gli indumenti. Allora, per quanto codardo possa sembrarvi, iniziai ad avere paura. Insomma, un terzo proiettile avrebbe potuto colpirmi in testa!
- Quindi avevate capito che si trattava di proiettili piuttosto che di spine?
- Sì, perché le spine non volano!
Il giovane ispettore girò pagina. – Dopo essere stato colpito la seconda volta, quindi, non siete stato più in grado di risollevarvi. Giusto?
La carrozza subì uno scossone e il conte urtò lo schienale del sedile con la spalla. – Giustissimo – sibilò.
- Ehi cocchiere, presta attenzione alle buche! – esclamò l’ispettore. – Dicevate?
- Dicevo – deglutì – dopo essere stato colpito alla gamba iniziai a perdere davvero tanto sangue e non fui più in grado di comprendere ciò che stava accadendo. All’improvviso l’uomo di cui avevo sospettato la presenza mi si avvicinò, ma non fui in grado di guardarlo in faccia, perché c’era pochissima luce e lui aveva il volto coperto con il cappuccio del mantello.
L’ispettore aggrottò la fronte. – Non vedevate bene, ma siete riuscito a distinguere la forma di un mantello?
- Un cappotto non è ampio quanto un mantello.
- Avrebbe potuto confondervi, non vi pare?
- Ci vedevo male e poco, ma non vidi le braccia di quel criminale … almeno fino a quando impugnò un’altra volta il fucile. Come vi dicevo tentati di guardarlo in faccia, ma scorsi solo il riflesso degli occhi …
- Se vi chiedessi il colore che essi avevano, voi …
- No, ispettore. Non vidi nulla. Ad un certo punto dovette aver paura che il cane svegliasse i miei compagni, perché abbaiava veramente forte, poiché afferrò il fucile per la canna e … probabilmente mi colpì sulla nuca.
- Musgrave scrive che ad un certo punto, William Coltfer, stanco del rumore prodotto dal cane si sia alzato e sia uscito, perché era in direzione della porta che il vostro cane abbaiava e ringhiava. Non portò il cane con sé, poiché esso avrebbe potuto far fuggire “eventuali ladri, mentre io li avrei acciuffati volentieri se li avessi visti”. Questo è quello che dice sir Coltfer a proposito di quel momento. La sua testimonianza procede in questo modo: “non avevo la benché minima idea che il mio amico, conte Langley, fosse rimasto vittima di un agguato. Quando sono uscito non ho visto nessuno e, anche se era alba, non intravidi neppure le macchie di sangue che tanto mi avrebbero impressionato alla luce del sole. Ripeto: come sono uscito e mi sono guardato attorno, sono rientrato”. Alla domanda su dove foste finito, Coltfer risponde: “non me lo chiesi neppure e non volli pensarci. Il mio amico è un tipo un po’ asociale e, negli ultimi tempi è diventato anche permaloso, perciò ho pensato di non disturbarlo, di entrare e aspettare che ritornasse con le sue gambe. Hunt, il suo cane, non la smetteva di abbaiare e io, non sospettando nulla, e stufo dei suoi latrati, gli misi una museruola e lo feci accucciare in un angolo. Nessuno di noi sentì gli spari. Quando vidi il corpo del mio amico, poi, riverso su un costone del lieve dirupo di fronte il capanno, giuro che il cuore mi si fermò e fui preso da uno spavento indicibile, perché credevo che Langley si fosse suicidato. Per quel che mi riguarda, questo è tutto, agente”.
Il signor Langley ascoltò quella testimonianza con lo sguardo basso. Di tanto in tanto sollevava gli occhi sull’ispettore, ma li riabbassava presto, perché credeva che in questo modo andasse ascoltata roba del genere. Fino a quel momento non aveva mai pensato realmente che solo per un pelo era scampato alla morte, ma le parole del suo amico William lo fecero riflettere, mentre con sempre maggior intensità una freccia di malinconia pressava il suo petto.
- Ho qui anche le testimonianze del signor Benjamin Walter, Arthur Rudolph, Emer Wiggins e Sebastian Cunningham. Questi ultimi sono i due servi che il signor Arthur Rudolph, nonché duca di Kilkenny, ha portato con sé per la battuta di caccia. Entrambi sostengono di non essere usciti neanche per due secondi dal capanno. Sapete bene che chi vi ha colpito viene da fuori e la teoria che ho formulato riguardo quando accaduto ve lo illustrerà chiaramente. Ma eccoci arrivati. Quello laggiù deve essere il capanno di cui abbiamo tanto discusso. Ehi cocchiere, fermati! Volete che vi aiuti a scendere, signor Langley?
- No, grazie, faccio da solo – disse sistemandosi la giacca sulla spalla sinistra, lato in cui non era indossata regolarmente, e apprestandosi a scendere dalla vettura.
- Che nevicata quella della scorsa settimana, eh? Fortuna che non ha piovuto; la vostra stampella affonderebbe nel fango, altrimenti …
Il conte lo fulminò con un’occhiata, ma l’ispettore aveva gli occhi al capanno.
- Vogliamo avviarci? Ce la fate?
- Certo che sì – proruppe spazientito il conte.
- Bene – disse il ragazzo – purtroppo la nevicata dei giorni precedenti ha cancellato ogni traccia, ogni indizio che potesse, in qualche modo aiutarci; Musgrave, però, oltre che un bravo agente è anche un ottimo disegnatore e ha realizzato una moltitudine di tavole su quanto ha veduto. Come vi ho detto sono stato costretto ad assentarmi per alcune settimane e occorreva che avessi quante più informazioni possibili sui casi che, nel frattempo, prendevano qui vita.
Dalla cartella che portava sotto braccio estrasse un foglio e lo mostrò al conte. – Ecco – disse fermandosi bruscamente a una ventina di vetri dal capanno. Langley osservò il disegno, ma non vi capì granché. – “Rilevamento a metri ventitré dal capanno dei cacciatori. Riva est del fiume Barrow. Impronte di calzatura a punta quadra e di ferri di cavallo”. Questa è la didascalia del nostro agente. – disse l’ispettore – Il punto in cui ci troviamo, signor Langley, è lo stesso in cui sono state rilevate queste tracce.
D’un tratto fu come se il disegno prendesse forma e Langley riconobbe la riproduzione di ciò che l’ispettore stava descrivendogli. Era evidente il tocco di una mano ferma, ma questa stessa era ben lungi dall’emulare la precisione di un pittore professionista; ciononostante il disegno era parecchio esaustivo.
- Cosa notate di strano?
Il signor Langley stava quasi per restituire il foglio all’ispettore, quando fu costretto a riesaminarlo con un occhio più attento. Da una parte Musgrave aveva rappresentato i due tipi di orme in modo dettagliato, separata l’una dall’altra; da un’altra parte, invece, aveva riprodotto buona parte delle orme viste nel suo sopralluogo.
- Le orme dell’uomo sono distanti tra di loro, mentre …
- Distanti, dite? Diciamo pure che il colpevole se l’è data a gambe dopo aver commesso il … quasi commesso il delitto. Vi dispiace? – chiese prendendo un sigaro dalla tasca. Il conte scosse il capo e il ragazzo cominciò a fumare. – Cos’altro notate?
- Stavo appunto per dirlo. Ciò che l’agente Musgrave ha qui raffigurato sembrano le impronte di un cavallo fermo.
L’ispettore tirò una boccata di fumo. – Questo ci induce a pensare che qui il colpevole avesse legato il cavallo, cosa peraltro evidente dall’escoriazione che le briglie hanno prodotto su questi rami. – Dalla cartelletta estrasse un altro foglio. – Musgrave ha disegnato anche questo particolare, ma voglio mostrarvi un’altra tavola.
Mentre la cercava si levò un vento gelido che per poco non faceva cadere di mano la cartella all’ispettore. Langley si strinse al suo cappotto come meglio poté.
- Eccola. Qui cosa notate?
Il conte osservò il disegno. – Sono altre impronte.
- Musgrave chiama questa tavola: “Rilevamento a metri dieci dal capanno dei cacciatori. Riva est del fiume Barrow. Particolare di impronte di calzature a punta quadra. Anno 1856”. Che ne pensate?
- Penso che sia stato detto tutto nel nome.
- Ivi è riprodotta l’orma migliore, cioè meglio definita, rilevata nel corso delle indagini. Dalla relazione risulta che un metro prima di questa impronta v’è una grossa radice che sbuca dal terreno. L’impronta più netta, decisa, riscontrata dopo la radice mi ha portato a concludere che il colpevole, preso dalla foga della corsa, non si sia accorto della radice e vi abbia battuto un piede, inciampando. Questo spiega l’affondamento del piede destro qualche metro dopo. Il disegno della prima tavola, in realtà, raffigura non una semplice corsa, ma un passo piuttosto irregolare, scoordinato, per cui se ne deduce che il criminale si sia fatto male al piede, inciampando, e sia così fuggito verso il cavallo zoppicando. – Dalla cartelletta di cuoio l’ispettore estrasse nuovamente il primo disegno e lo mostrò al conte. – Capite adesso?
Il signor Langley annuì, pensieroso e si guardò attorno.
- Musgrave qui si rivela un fedele rappresentatore della realtà; naturalmente mi sono accertato con gli altri agenti che gli indizi da lui raccolti fossero attendibili, i veri indizi, per intenderci. Comunque, dicevo che il nostro agente ha badato bene a riprodurre il passo sbilenco del colpevole. Ma questa è roba di second’ordine … - disse addentando il sigaro e producendo due nuvolette di fumo denso.
Il conte restituì i disegni al giovane ispettore, che li inserì nella cartella; poi volse gli occhi al cielo e osservò il volo disordinato d’uno stormo d’uccelli.
- Procediamo – esclamò improvvisamente l’ispettore prendendo tra due dita il sigaro. Il signor Langley gli andò dietro con un po’ di fatica, poiché il passo del giovane, preso dall’ebbrezza dell’indagine, era piuttosto rapido e ritmico. Quando furono vicini alla porta del capanno, l’ispettore interruppe bruscamente la sua marcia.
- Ed ecco che qui, nonostante la pioggia e la neve, sono ancora visibili le macchie di sangue che hanno tanto terrorizzato il vostro amico William Coltfer.
A quelle parole la schiena, le braccia e le gambe del signor Langley furono scossi da un brivido che risalì, potente, fino alla radice dei capelli. Alla vista del sangue fu come se le ferite si riaprissero e per un attimo avvertì lo stesso dolore di quando fu colpito; gli occhi non riuscirono a staccarsi da quell’indistinta scia di sangue e, mentre il giovane Hurlstone parlava, lui si chinò per guardare più da vicino.
- I vostri ricordi coincidono perfettamente con la direzione presa da queste macchie …
In un lampo fu come se l’uomo che l’aveva ferito lo buttasse un’altra volta giù e lo trascinasse per il bavero della redingote sull’orlo del dirupo. E quella frase, Stai zitto!, prese a risuonargli in testa come l’eco di un tuono fra le montagne.
- Perdonate l’asciuttezza, signor Langley, ma sono obbligato a parlare anche dell’incidente.
Il conte si fece leva sulla gruccia per rimettersi in piedi.
- Voi stesso avete detto di essere uscito perché non vi sentivate bene e di esservi … “intrattenuto” qui, in questo punto, prima che il cane cominciasse ad abbaiare e che il nostro uomo agisse. Secondo la vostra testimonianza – disse estraendo il taccuino e sfogliandolo – avete avuto giusto il tempo di alzarvi, prima di venire colpito. Sì? Bene. La larghezza di ogni macchia di sangue aiuta a comprendere per quanto a lungo vi siate intrattenuto, nolente, in questo caso, prima di essere colpito con il calcio del fucile.
- Il calcio del fucile?
- Non avete detto che avete visto il vostro assalitore afferrare il fucile per la canna, prima di colpirvi?
Il conte si portò una mano alla fronte, sospirando. – Sì – mormorò stanco.
- Quando il secondo proiettile vi ha raggiunto, ferendovi alla gamba, non siete più stato in gradi di sollevarvi. Il vostro medico afferma egli stesso che vi sono stati quasi tranciati due muscoli, quindi è giustificata scientificamente la ragione per cui non siate riuscito a fuggire all’interno del capanno.
- Già.
- Ma andiamo ad alcune delle tracce più interessanti di tutto il caso. Ricapitolando: voi affermate che l’assalitore si sia nascosto dietro quel cespuglio – disse Hurlstone indicando il punto con la mano che teneva il sigaro. Prima di continuare attese un cenno d’assenso da parte del conte. – Nonostante vi trovaste in una condizione in cui ragionare o, perlomeno, mantenere uno stato di perfetta calma, è difficile, signor Langley, siete riuscito a convalidare uno degli indizi più importanti rinvenuti dall’agente Musgrave. Il cespuglio nasconde uno spazio che permetterebbe ad ogni uomo di ivi rintanarsi senza essere visto. Musgrave ci offre ancora una volta una tavola che riproduce l’impronta di un cappello a tesa larga che l’uomo non ha mai indossato. Voi stesso avete detto che il volto dell’assalitore era coperto unicamente dal cappuccio del suo mantello. Quindi, una domanda sorge spontanea: dov’è finito il cappello? Sempre che sia stato preso da qualcuno, chi può essere stato? Viene da pensare che il nostro uomo sia stato affiancato da un complice che non ha partecipato attivamente al tentato omicidio, ma che sapeva, conosceva, il luogo in cui il compagno si sarebbe nascosto. E come faceva a conoscere questo nascondiglio? Evidentemente uno di loro è molto pratico del posto.
- Pensate che il colpevole sia un cacciatore?
- Di più, signor Langley. Ho avuto modo di parlare con il vostro medico, il signor Bowles, in proposito. Dal momento che non mi trovavo a Waterford, ho intrattenuto una fitta corrispondenza con lui, che mi ha informato dei progressi e dei regressi da voi fatti. Vedo che non eravate a conoscenza della cosa, per cui porgo le mie scuse e mi assumo tutte le responsabilità dell’accaduto, poiché ho chiesto io al vostro dottore di non parlarvene, sicuro che la consapevolezza d’essere costantemente controllato avrebbe potuto recarvi disturbo. Ma ecco ciò di cui volevo parlarvi – disse armeggiando con la gran quantità di fogli, disegni, il sigaro che teneva tra i denti e la cartelletta di cuoio che prometteva di far cadere tutto. – E’ la prima lettera del vostro medico. Alla mia domanda circa il vostro stato, mi rispose che “le condizioni del paziente sono precarie e non è assicurata la sua sopravvivenza, poiché le ferite riportate sono gravi. Non ho mai immaginato una così forte volontà d’uccidere un uomo. I proiettili hanno mancato di poco un polmone, o forse il cuore, e l’arteria femorale …” e via dicendo. Chi vi ha sparato, signor Langley, è un uomo dotto in medicina o un uomo ignorante istruito, senza fronzoli vari, sul punto da colpire; sono, però, convinto, che si tratti del secondo caso e ho elementi a sufficienza per provarlo. In primo luogo c’è la famosa impronta dello stivale a punta quadra. Malgrado la mia giovane età ho viaggiato molto e per un certo periodo sono stato a Londra, dove ebbi modo di notare che gli stivali a punta quadra sono una caratteristica della povera gente. In più, nella sua relazione, Musgrave scrive che, guardando le impronte, non era difficile notare la traccia di due dita. Lo stivale era rotto sul davanti, forse? Di questo Musgrave non era sicuro, nonostante l’evidenza della cosa; ma io, attraverso il processo di deduzione del quale vi ho fatto partecipe e una certa esperienza, ho appurato che quello stivale non altro è che inglese.
Il conte sollevò un sopracciglio in un’espressione sbalordita, che distorse il viso emaciato. – Come fate a esserne certo?
Prima di rispondere il giovane ispettore si concesse una boccata di fumo che espulse con fare distaccato. – Avevo diciotto anni quando mi sono recato a Londra per studiare. Per natura io sono un tipo alquanto vanitoso e mi piace disporre di un guardaroba vario. A Londra, poi, ci sono tanti bravi ciabattini e in una fase particolare della mia giovinezza mi recavo spesso da un calzolaio che produceva stivali di un tessuto povero, grinzoso e una volta acquistai un paio di stivali a punta quadra, perché il mio insegnante di investigazione mi chiese di pedinare un tizio che non lo convinceva. Si intende, stivali a punta quadra per mimetizzarmi meglio fra la povera gente. Ne andavo fiero, talmente tanto che scrissi il nome di quel ciabattino sul mio diario personale. Credo si chiamasse Jack Norton, sì, era proprio Jack Norton. Comunque sia questo tizio produceva stivali unici nel loro genere e a prezzi irrisori, il che gli fruttò una clientela sempre più vasta di poveracci. Vi dico questo perché ho scoperto che il vostro assalitore indossava un paio di stivali di Jack Norton.
Il signor Langley era sempre più perplesso. Ascoltando Hurlstone si poggiò sulla stampella, non trovando altre basi.
- Quindi, in parole povere, voi ritenete che il colpevole di questo tentato omicidio sia un inglese?
- E’ un’ipotesi, signor Langley, un’ipotesi. Gli stivali potrebbero anche essere un espediente per sviare le indagini. Non è da scartare la possibilità che il colpevole sia un irlandese.
- Voi, però, avete detto che non avete dubbi riguardo l’usura di uno stivale. Capite, come fa una calzatura a rompersi se non dopo un intenso sfruttamento? Io credo che l’ipotesi più avvalorata sia quella delle origini inglesi dell’uomo.
- Sullo stivale avete perfettamente ragione. Senza alcun dubbio il paio appartiene all’uomo in questione ed è stato usurato da egli stesso, ma sulla sua provenienza non sappiamo nulla di certo. Gli stivali hanno origini inglesi, ma il loro padrone? Potrebbe trattarsi di un poveraccio venuto qui alla ricerca di fortuna che non ha avuto denaro a sufficienza per comprarsi un altro paio di scarpe e quindi ha continuato ad utilizzare quello stesso paio di stivali comprato chissà quando a Londra o di un nostro conterraneo. Chi può saperlo?
Il signor Langley assentì distrattamente. La gamba gli faceva male e anche il ginocchio lo costringeva a tenere l’arto piegato. La spalla, poi, lo tormentava con delle fitte continue e il passeggiare dietro l’ispettore Hurlstone rappresentava per lui un’impresa alquanto ardua. Nel frattempo il giovane si beava tra i fumi del suo sigaro italiano, forse in attesa di qualche domanda o forse meditando sul caso. Il conte, però, aveva tutte le intenzioni di andarsene e con una domanda sperò di trovare una conclusione al dilemma.
- Dunque, per farla breve, secondo voi il colpevole è un poveraccio che si è accordato con un uomo più colto (o è possibile che sia egli stesso dotto) per uccidermi?
L’uomo si prodigò in un’espressione platealmente dubbiosa, agitando lentamente la mano che teneva il sigaro e guardando altrove. Proprio ciò che Langley avrebbe voluto evitare.
- Vede, signor Langley, quello che mi avete appena detto apre una voragine enorme nel campo delle indagini. Anzi, più che “voragine” la definirei una biblioteca di ipotesi e indizi che potrebbero, per una mente superficiale, portare ad una conclusione, ma che, in realtà – disse alzando due dita in tono accusatorio - aprono degli orizzonti infiniti. Prendiamo, ad esempio, la ragione che ha spinto l’uomo a spararvi. Dagli stivali logori e bucati si potrebbe pensare che l’abbia fatto per denaro. Magari qualcuno l’ha pagato per spararvi, ma questo stesso qualcuno perché l’ha fatto? Cosa l’ha spinto a offrire del denaro ad un uomo per ucciderne un altro?
Il signor Langley fece spallucce. Si trovavano ancora nel luogo in cui era quasi morto e le macchie di sangue indistinte gli davano la nausea. Per un attimo nessuno dei due parlò.
- In ogni caso, signor Langley, il fatto che l’uomo di cui abbiamo tanto discusso non sia riuscito a farvi fuori, come d’accordo con il secondo, presunto uomo, mi fa pensare che voi siate in pericolo. Voi come chi ha tentato d’uccidervi. Chi sta dietro a tutto, colui che nel nostro gergo è chiamato “mandante” potrebbe sentirsi assai contrariato e minacciare perciò il sicario; preso dalla paura, questi potrebbe confessare tutto ed essere, di conseguenza, ucciso. Ma vedo che siete affaticato. Vi ho trattenuto abbastanza e il cielo adesso inizia a scurirsi, sarebbe meglio andare.
- Un’ultima cosa, ispettore. In tutto questo la verità sta in mano a chi mi ha sparato, la sera di quasi due settimane fa?
- La verità sta in mano ad un uomo amaramente pentito di ciò che ha fatto. Per quanto nefando, negletto costui possa essere, non basterà neppure tutto l’oro del mondo a zittirlo. Adesso, però, permettete che vi riaccompagni alla vostra abitazione. La carrozza ci attende.

Giunsero alla tenuta in non meno di mezz’ora. Il signor Langley si sentiva ancora molto stanco e lasciò che il giovane Hurlstone lo aiutasse a scendere dalla carrozza.
In camera sua si guardò all’unico specchio che adornava le pareti e vide un volto smagrito, dalla carnagione smorta per la malattia, con due occhi spenti e talmente stanchi da apparire quasi affetti da strabismo.
Al pensiero di essere sotto il mirino di qualcuno rise.
Ma in modo molto amaro.

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Capitolo 23
*** Capitolo XXI ***


An irish tale – Capitolo XXI



Ilizia.
I-li-zia.
Incredibile il modo in cui quella cavalla l’avesse così piacevolmente colpita.
Aveva appena finito di mangiare e s’era recata in scuderia.
Non aveva mai visto manto più lucido e muscoli così scolpiti in un cavallo inattivo.
Quando pronunciò il suo nome la bestia si avvicinò con qualche passo alla grata del box. Guardava Anya speranzosa, batteva energicamente lo zoccolo sul pavimento. Cercava di richiamare l’attenzione di qualcuno. I tentativi erano innumerevoli e le risposte poche. Anya vide che non scuoteva più il capo. Rispetto a qualche giorno prima era più tranquilla.
Nella tasca della gonna aveva nascosto un paio di mele. Lo spazio tra una grata e l’altra non era tanto, ma era sufficiente perché una mano vi passasse attraverso. Ilizia sgranocchiò riconoscente le mele che la ragazza le porse; poi, dopo qualche carezza, Anya tornò in cucina. Quel giorno non avevano avuto molto da fare e Greta l’aveva lasciata libera di riposarsi quanto voleva. La sguattera aveva tutte le intenzioni di rispettare le volontà della cuoca, così, nonostante avesse un grande desiderio di farsi una cavalcata, si ritirò nella sua stanza e si accoccolò sul letto.
Anche il signor Langley aveva preferito il letto ai conti e la pesante scrivania dello studio. Aveva trascorso delle notti intere sveglio in preda alla febbre o ai dolori in tutto il corpo e quell’ennesimo, meraviglioso giorno di sole, era stato perfetto per una lunga dormita giornaliera. Il sonno l’aveva colto durante la lettura di alcuni documenti portati da Hobson. Si trattava di un affare circa l’acquisto di un terreno, ma il fatto che fosse alquanto interessante non bastò a trattenerlo dall’andare a dormire.
Fu così che dimenticò la visita dell’ispettore Hurlstone.

Alexander Orace Hurlstone era un uomo dotato dalla natura vanesia e meticolosa. Il ragionamento era una componente essenziale della sua personalità e ogni azione, anche la più piccola e insignificante, era studiata affinché riuscisse bene. Non era un attore. Odiava l’ostentazione. Come ogni detective che si rispetti apprezzava (non “amava”. Questa era una parola che raramente le sue labbra pronunciavano) la verità, sia che questa si presentasse esplicitamente, sia che dovesse ottenerla con degli sforzi logici; tra le due possibilità, la preferita era la seconda. La ricerca era la sua filosofia di vita. Un caso era da lui dichiarato chiuso unicamente per ragioni burocratiche.
Gli piaceva fumare. Non viaggiava mai senza la sua preziosa scatola di sigari italiani. L’altra sua passione erano i cioccolatini al liquore; non era tipo da ubriacarsi facilmente, poiché detestava il disorientamento provocato dall’alcol, ma i cioccolatini della pasticceria vicino casa erano un lusso immancabile e se li concedeva solo dopo aver risolto un caso. Mai prima.
Aveva un cavallo. Un purosangue inglese. Gliel’aveva regalato suo zio ispettore quando prese ufficialmente il suo posto. Alexander aveva sempre sostenuto che quella dolce bestiola fosse sprecata in mano sua, perché non aveva tempo di occuparsene e come ogni cavallo aveva bisogno di correre all’aria aperta, libero e senza che reti o sbarre si frapponessero tra lui e il mondo. Per questo l’aveva dato in custodia alla sorella. Ella s’era sposata con un ricco commerciante di birra e abitava in una casa di campagna con tanti metri quadri di terreno attorno. Hurlstone pagava le spese mediche e il cibo e la sorella gli teneva il cavallo.
Ogni tanto, però, se lo andava a prendere e insieme si facevano delle lunghe passeggiate.
La tenuta del conte Langley non era a due passi da casa. Per avere meno difficoltà aveva pernottato a casa della sorella e nel pomeriggio aveva preso Wilson, il suo cavallo. Erano da poco passate le cinque e il sole iniziava ad abbassarsi all’orizzonte. Nell’aria, l’umidità della sera diffondeva un delicato profumo di bosco e di tanto in tanto una lieve folata di vento fresco scompigliava i ciuffetti d’erba che coloravano già il paesaggio di una deliziosa tonalità di verde. Il giovane Hurlstone percorse al galoppo la strada per la tenuta, ma, nelle vicinanze, incominciò a battere la sella al trotto.
Sui ganci accanto all’ingresso le lanterne erano state accese. Al buio del tardo pomeriggio esse proiettavano una luce calda sulla porta dell’ingresso. Nel cortile non c’era nessuno, ma in cucina si sentivano i domestici parlare e ridere di gusto. L’ispettore legò il cavallo ad un gancio infisso al muro e, slegata la borsa con i documenti dalla sella, si avvicinò circospetto alla porta della cucina. Bussò. All’interno piombò improvvisamente il silenzio, così che egli ne approfittò per bussare un’altra volta.
- Salve – disse, quando una ragazza con la frangetta scura gli aprì. – Mi chiamo Alexander Hurlstone. Sono l’ispettore di Waterford city.
Mary sgranò gli occhi. In un attimo, i servi presenti in cucina si alzarono ed Edgard si batté una mano sulla fronte, scappando per un corridoio.
- Siete venuto per parlare con il signor conte, immagino!
- E anche con la signorina Anya. So che lavora qui.
- Oh, certamente, certamente! Mary, valla a chiamare – ordinò Margareth. – Gradite un tè, ispettore?
Hurlstone scosse appena appena il capo con fare cortese. – Grazie, ma vorrei prima parlare con il signor Langley e la signorina Anya.
Nel piano superiore ci fu un gran trambusto che fu presto susseguito da un tramestio di passi giù per le scale. In un attimo la ragazza vista prima entrò in cucina, accompagnata da una seconda giovane dall’aspetto stropicciato e dall’aria insonnolita.
- Salve … io sono Anya … - disse, confusa.
- Sì, lo so. Vi ho svegliata?
- Ahm … no, no. Mi volete parlare?
- Sì, ma in un altro luogo, se possibile.
Poco dopo l’ispettore Hurlstone, Anya e il signor Langley si trovavano in salotto, l’uno di fronte all’altro.
- Allora, signorina Bacott – iniziò Hurlstone mentre Adele portava il vassoio col tè – potreste raccontarmi da principio ciò che vi è accaduto?
Sotto gli occhi dei due uomini Anya parlò di tutto quanto era successo, menzionando più volte l’amnesia che aveva cancellato i suoi ricordi. Di tanto in tanto, quando si bloccava o si trovava in difficoltà, il conte le rivolgeva un’espressione incoraggiante, mentre l’ispettore prendeva appunti muovendo in fretta la mano da un capo all’altro del taccuino.
- Il giudice Boulangher mi ha recentemente inviato una missiva, dove sosteneva di aver raccolto un preciso identikit dei vostri assalitori – disse estraendo un foglio dalla cartella di cuoio. – Guardate questo.
Anya prese il foglio e, guardando il disegno, impallidì.
- Ricordate Musgrave, signore? – chiese rivolto al signor Langley, che si sporse per guardare il disegno. – Anche questa è opera sua.
- E’… è Sperty – sussurrò la ragazza.
Il conte annuì in direzione dell’ispettore.
- Dovrei portarlo con me. E’ davvero un bravo agente.
- Come avete fatto? – disse la giovane, sbalordita.
- Ho la fortuna di collaborare con un mancato artista, signorina Bacott. Ma torniamo a noi. Sapreste dirmi se quello che avete in mano è il ritratto fedele dell’uomo che vi ha aggredita?
- Non ho dubbi.
L’ispettore tese la mano per riprendere il foglio. – Se non sbaglio, però, vi erano altri due uomini con lui; anzi, vi sono. Nella lettera che il signor Boulangher mi ha spedito egli afferma che voi avete rivisto questi tre uomini la domenica di Pasqua al mercato. E se non erro uno di loro, urtandovi, con ogni probabilità di proposito, ha buttato nella vostra tasca una delle monete che vi sono state sottratte a principio di tutta questa storia.
Anya annuì.
- La mia ipotesi al riguardo è che chiunque dei tre abbia commesso tal gesto, domenica mattina, l’abbia fatto per prendersi gioco di voi. Adesso potrei vedere la moneta in questione?
Anya fece di sì, controllando frettolosamente le tasche della gonna e del grembiule. – E’ questa.
L’ispettore estrasse un sigaro da una tasca interna della giacca in tweed e prese la moneta. – Vi dispiace? – chiese indicando il sigaro.
- No.
- E’ un doblone assai curioso. A ben pensarci, credo di averne visto uno simile qualche anno fa, quando ho studiato un caso di furto con il mio vecchio zio. Si trattava di un ricco commerciante di Londra che aveva avuto la sfacciata fortuna di ereditare un bel gruzzolo da parte di un suo parente. Era un lascito consistente e questo commerciante, che di nome faceva Hermann G. Lewis, aveva la lingua parecchio lunga, così che, una volta gridato ai quattro venti d’essere diventato ricco, gli rubarono tutto, lasciandogli solamente uno di questi strani dobloni accanto alla cassaforte. Uno, per prenderlo in giro, si capisce. Un uomo piuttosto stupido questo Hermann, non vedo come definirlo altrimenti – fece una breve pausa, durante la quale si accese il sigaro e tirò un paio di boccate di fumo – Con ciò non voglio intendere che il caso di Lewis c’entri qualcosa con il furto di cui siete stata vittima, signorina Bacott; piuttosto, volevo arrivare a parlarvi di un trattato di numismatica che ho avuto la fortuna di consultare durante l’elaborazione del caso G. Lewis. Ho ancora questo libro e, se non erro, circa l’aspetto e il materiale di queste monete dice qualcosa sulla Spagna. Sono convinto, per non dire certo, che questa moneta abbia derivazioni spagnole. Mi domando come un intero fagottino di dobloni aurei sia finito in mano vostra, signorina Bacott.
Anya gli rivolse un’espressione sorpresa.
- Ovviamente non posso aspettarmi una risposta da voi – disse Hurlstone con aria canzonatoria – dato che siete stata colpita da un’amnesia. Dico bene?
- Il dottor Bowles può dire che ho ragione.
- Il dottor Bowles non è uno specialista, però. Di amnesie, stasi mentali e malattie neurologiche non capisce granché.
- Signor ispettore, insinuate che quelle monete io le abbia rubate?
Hurlstone produsse una nuvoletta di fumo. – No – disse scuotendo il sigaro su un posacenere. - Solo, che dovreste smetterla di bloccare i vostri ricordi con la convinzione di essere affetta da amnesia. Cercate di ricordare. Oltre il piccolo sacco “di velluto verde con cordoncini giallo dorati”, signorina, vi hanno rubato dell’altro?
Il conte rivolse un’occhiata indifferente ai due, mentre sorseggiava il suo tè. Vide Anya farsi pensierosa e passarsi una mano sul collo, mentre, forse, ripercorreva le fasi dell’aggressione; teneva lo sguardo basso, le sopracciglia si muovevano mimando ciò che avrebbe detto dopo e un paio di volte deglutì. – Non ho più il mio ciondolo.
- Un ciondolo? – L’ispettore sbuffò energicamente. – Sapreste fornirci una descrizione? È certo che fosse legato ad una collana, perché vi siete toccata ripetutamente il collo.
- Era una pietra blu, incastonata su un cammeo argentato … non ricordo, però, se si trattasse d’argento puro. Il ciondolo era legato ad una catenina, anch’essa argentata, molto sottile. Non ho più pensato che me l’avessero sottratta, ma adesso che me l’avete chiesto …
- Vedete? La nebbia dell’amnesia inizia a diradarsi!
Anya bevve un sorso di tè.
- Signorina Bacott, sapreste descrivermi l’abbigliamento e l’aspetto che i tre malviventi avevano l’ultima volta che li avete visti?
Una pagina di taccuino dopo, Hurlstone prese tra due dita il sigaro, consumato per metà. – Va bene, signorina Bacott. Signor Langley – disse con voce ferma voltandosi verso di lui – ho il sospetto che uno dei tre uomini che ha assalito la qui presente, sia il criminale che ha tentato di uccidervi.
Il conte sgranò gli occhi e alla ragazza andò di traverso un sorso di tè.
- Calma, calma, signorina – disse l’ispettore battendole una mano sulle spalle – Tirate su le braccia. Così. Bene. Respirate. Non c’è motivo di far così, perché acciufferemo presto il trio che ha turbato la quiete vostra e quella del signor Langley. Mi domando solo cosa vi unisca, tutti e due.
- Sicuramente la sventura – proruppe il conte con un sorriso tirato.
- Oh, non siate tragico – rispose quegli con un sorriso malizioso mentre cercava qualcosa nella cartella. – Quasi dimenticavo, signorina Bacott: mi siete stata di grande aiuto questo pomeriggio, ma al momento non ho niente da aggiungere. Bene – soggiunse quando la ragazza lasciò il salotto – ora non ho più bisogno di preoccuparmi della discrezione della signorina. Toh, eccolo! Penso non si sia dimenticato della riproduzione dell’orma del cappello, signor Langley.
Il conte fece di no.
- Questa notte non ho dormito bene pensando al vostro caso. Ho ragionato molto e ho sviluppato alcune domande. Guardi con più attenzione questo disegno, ad esempio. Non notate nulla di strano?
Il signor Langley aggrottò la fronte. – Quello che vedo è ciò che mi avete spiegato voi, ieri. Sulla destra della porta del capanno, quindi alla mia sinistra nel momento dell’incidente vi è il cespuglio dietro il quale l’uomo s’era nascosto. Questa è l’impronta di un cappello e tesa larga, un cappello che l’incriminato non ha mai indossato, se non prima di essersi nascosto. Ieri avete detto che non è stato ritrovato …
- No – l’ispettore fece un cenno con la mano – non è questo ciò a cui voglio arrivare. La teoria che state esponendo è quella di cui vi ho parlato io lo scorso pomeriggio. Non siate superficiale, signor Langley; non notate proprio nulla di insolito?
Il conte corrugò il labbro, stringendosi nelle spalle.
- Che peccato. Quella che tenete in mano è la prova lampante che l’omicidio era stato premeditato e che, chiaramente, prima che voi faceste la vostra comparsa, colui che ha tentato di uccidervi ha avuto da aspettare alcune ore. Non solo, questa stessa persona è stata informata da una seconda riguardo il posto in cui avreste pernottato e riguardo la sicurezza che sareste uscito. Per caso soffrite d’insonnia?
- A volte.
- E avete l’abitudine di fare delle passeggiate per ritrovare il sonno?
- Non direi.
- Sì o no?
- Non sarebbe stato quello il caso. Dopo una giornata di caccia o di duro lavoro nel mio studio, però, mi è sempre facile riuscire a dormire.
- Alla fine di quella giornata eravate stanco?
- Un po’, ma mi sono destato quando ho cominciato a non sentirmi bene.
- Siete uscito perché non riuscivate più a dormire, quindi?
- Sì.
- Quindi avete pensato che una breve passeggiata vi avrebbe fatto tornare il sonno? – disse poco convinto.
- No, temevo solo di … sentirmi veramente male, dunque ho ritenuto più opportuno prendere una boccata d’aria fresca.
- Fare una passeggiata?
- No, “prendere una boccata d’aria fresca”. Uscire e basta. Presi la lanterna, consumai due cerini per accenderla, ma alla fine l’accesi ed oltrepassai la porta del capanno. Uscì.
- Hum. Questo della lanterna è un particolare interessante – disse Hurlstone prendendo appunti – ancora mi domandavo come avesse fatto l’uomo a riconoscervi. Vi ha semplicemente visto in faccia. Non avete, per caso, udito i meccanismi di un fucile?
- Ero piuttosto … “impegnato” in quel momento.
L’ispettore sollevò un sopracciglio, gli occhi fissi sul taccuino.
- Stavo vomitando.
- Ah. Eravate più malmesso di quanto abbia potuto immaginare. Avete parlato al dottor Bowles di questo particolare?
- Credete che questo abbia a che fare con il mio tentato omicidio?
- Oh, voi rispondete solo alla mia domanda.
- No, non gliene ho fatto parola.
- Perché?
- Ho avuto dei problemi legati all’alcol un po’ di tempo fa.
- Lui vi ha guarito e adesso non volete che sappia se vi ubriacate?
Il conte si passò una mano sulla fronte.
- Eravate molto ubriaco quella sera, allora.
- Mi sembra di avervene parlato esaurientemente, ieri.
- Chiamasi “verifica” – borbottò l’ispettore, stringendosi nelle spalle.
- Avete ancora problemi con gli alcolici?
- No.
- Quella sera, però, ne avete fatto largo uso.
Langley scosse il capo con fare contrariato. – Se una bottiglia si può definire “largo uso” …
- Che sapore aveva il vino, signor Langley?
- Il solito. Acidulo, leggermente dolce, alcolico …
- Nessun’altro?
Il conte si pensò su, con aria assente. – Signor Hurlstone, sono sicuro che il vino non avesse altri sapori.
L’ispettore ne fece un appunto. – Potremmo pertanto escludere l’ipotesi della presenza di una droga nel vino.
- Una droga?!
- Sì. A meno che non vi decidiate a farvi venire in mente altri particolari su ciò che avete mangiato quella sera e sul gusto che i cibi avessero, la mia mente è portata, per via di ragionamenti deduttivi e ipotetici, a sviluppare le teorie più varie. Siete certo di aver mangiato della carne che sapeva di carne e di aver bevuto del vino che sapeva di vino?
Il conte lo guardò, gli occhi ridotti a due fessure. – Penso che mi stiate chiedendo qualcosa che si avvicina di molto all’impossibile.
- Io, invece, che le mie domande siano semplici curiosità e che la mia curiosità nasca dal tentativo di arrestare colui che ha cercato di uccidervi.
Langley sospirò, umettandosi le labbra. – Non ricordo alcunché circa il gusto e la consistenza dei cibi – disse dopo un po’. – Ma so per certo che il mio corpo non è solito tollerare la presenza di una così abbondante quantità di roba. Sono anche un uomo fragile di nervi e non di rado, quando sono nervoso, mi capita di soffrire di tensione allo stomaco o di mal di testa. Quel giorno ero poco concentrato su ciò che avrei fatto altresì e sono portato a credere che il malessere di cui vi ho fatto cenno si tratti di una indigestione.
- Eravate nervoso? – si accigliò Hurlstone. Il conte annuì. – Perché?
- La prospettiva di andare a caccia non mi aveva allettato sin dal principio, quando ero stato invitato a parteciparvi. Ero in uno stato particolarmente alterato in quel periodo e un divertimento simile andava contro i miei precetti; ma decisi di prendere parte alla giornata che i miei amici avevano organizzato, per non far loro torto e così andai.
- Chi vi ha invitato? Perché avete ricevuto un messaggio, no?
- L’invito mi è pervenuto attraverso Stephan, un servo di sir Arthur Rudolph.
- Voi ritenete possibile di essere stato drogato per far sì che vi sentiste male e, dunque, che usciste fuori?
- Non credo che nessuno dei miei amici farebbe una simile cattiveria. Non ne hanno motivo.
- E se non fossero stati i vostri amici, ma un terzo venuto da fuori? È probabile che abbia versato della droga o un particolare tipo di tossina in un momento di distrazione.
A quell’affermazione il conte abbassò lo sguardo.
- Se così fosse sarebbe confermata l’ipotesi di un omicidio premeditato, anche se questo era chiaro sin dall’inizio. Vi consiglio di parlare apertamente e chiaramente del malessere che vi ha spinto ad uscire quella sera con il vostro medico, signor Langley.
L’ispettore bevve l’ultimo sorso del suo tè, sistemando i disegni e i documenti nella cartella. – Tuttavia, di tutta questa faccenda, non mi è chiaro un particolare, o meglio, un passaggio. Non riesco a capire quale sia stata la ragione che ha spinto il nostro uomo a scegliere la strada della droga leggera e poi quella della pistola. Con tutto il rispetto, signor Langley, ma se fossi stato io l’assassino avrei preferito un veleno; non lascia tracce e può far pensare a una qualche malattia fulminante o ad una morte naturale.
- Non vorrei essere una vostra vittima.
- Stilate una lista di tutti gli individui che hanno qualche motivo per odiarvi, anche minimo; poi mostratemela. Oh, non dimenticate di trascrivere anche tutte le motivazioni – disse infilando due dita nella tasca del panciotto ed estraendo l’orologio. – Le sette! Signor Langley, adesso devo proprio andare. Mia sorella mi attende per le sette e un quarto. No, non alzatevi, non è necessario. Mi raccomando la lista, signore; potrebbero emergere degli aspetti interessanti.
Il giovane ispettore raccolse il materiale che s’era portato dietro e, con gli stessi grandi passi con i quali era venuto, andò via.

Dopo il colloquio con l’ispettore, Anya era uscita in cortile, fresca come una rosa e riposata come se avesse dormito per tre giorni di fila; ma il suo sonnellino pomeridiano era durato appena tre ore e nel frattempo le ore erano passate ed era calato il buio. Uscì per rimuginare sulle vicende delle ultime settimane e per godersi un po’ della gelida brezza della sera, sicura che avrebbe tonificato la pelle opaca per il sonno. Era perfettamente cosciente, il signor Hurlstone l’aveva gentilmente invitata a ricordare e lei l’aveva fatto, ma, nonostante si fosse risolto tutto quasi per il meglio, non si sentiva soddisfatta e, anzi, avvertiva crescere in sé la sensazione di desolazione peculiare di momenti come quelli, in cui aveva tante energie in corpo e non le poteva sfruttare.
Dopo circa mezz’ora l’ispettore Hurlstone uscì dall’ingresso principale e montò in groppa al purosangue che lo attendeva legato ad un gancio. Anya era in un angolo del cortile, sotto una delle lanterne all’entrata della scuderia e guardò il giovane ispettore allontanarsi al galoppo, speranzosa.
- Ma guardala! Anya!
La giovane si voltò in direzione della cucina.
- Anya! – la chiamò nuovamente Greta – vieni immediatamente qui!

Quattro ore dopo, si girava per l’ennesima volta tra le coperte.
Intorno a lei, il buio.
Era riuscita ad addormentarsi, quando s’era coricata, ma la mente vagava ancora in direzione delle deduzioni di Hurlstone e il viso minaccioso di Sperty l’aveva svegliata di soprassalto; la fronte era madida di sudore e di stare a letto non ne voleva più sapere. Forse dormire per tutto il pomeriggio non era stata una grande idea. Allora si era alzata e aveva passeggiato su e giù per la stanza, si era seduta sul letto, presa la testa fra le mani e pensato a qualcosa che non fossero Sperty o il tentativo d’omicidio del conte; poi, credendo di avere sonno, s’era infilata tra le coperte e aveva aspettato.
Alla fine s’era alzata e, facendosi luce con una candela, era scesa in cucina; ma quando stava per scendere l’ultimo gradino, il bagliore di un’altra candela la bloccò per la paura. D’istinto mise una mano davanti la fiamma della sua e controllò che Hunt fosse al suo posto. Vide che non c’era e mosse qualche passo, lentamente, in direzione della cucina. Da un mobile prese la pesante riproduzione in ceramica di una coppietta su una barca, si accostò silenziosamente alla cornice della porta e guardò dentro, respirando appena. Il cuore batteva a tonfi sordi ed era talmente rapido nella sua corsa che ebbe paura d’essere scoperta. Poi, d’un tratto, sentì il rumore di una sedia che veniva spostata, un mugolio sommesso e un tonfo appena percettibile, seguito dal leggero scricchiolio del legno. Qualcuno doveva essersi seduto. Era il momento di agire.
Con uno scatto uscì dal suo nascondiglio e sollevò il soprammobile che teneva in mano.
- Se ti muovi ti ammazzo! – disse, pronta a lanciare l’oggetto.
- Abbi pietà! – rispose l’altro, implorante.
- Chi sei?
La candela dello sconosciuto fu avvicinata al suo viso.
- Signore! – esclamò in preda all’agitazione – Mi avete fatto prendere un colpo!
Si sentì un risolino. – Hai ancora intenzione di colpirmi? – chiese allontanando la candela da sé.
Anya ricordò il soprammobile e abbassò con un rapido gesto il braccio. – Cosa ci fate qui?
- Ci vivo.
- Oh … intendevo, adesso, se posso chiederlo.
Con un soffio di vento la candela di Anya si spense e in cucina si udì il suono di qualcosa che veniva spaccata.
- Sto mangiando una mela.
- Buon appetito.
- Grazie.
Nella stanza calò il silenzio. Il signor Langley continuava a fare rumore con quella sua mela croccante e la giovane rimase in piedi poggiata al muro.
- Tu, invece? Perché non dormi?
- Non ci riesco.
- Siamo in due, allora – ridacchiò lui.
- Potrei chiedervi di avvicinare la candela?
Nel buio vide il braccio del conte muoversi verso essa e spostarla al centro del tavolo.
- Pensi ancora a Sperty?
Sospirò. – Anche.
- Vieni, prendi una sedia.
- Non ho più molta paura della sua persona, ma ho la sensazione di vivere con una pistola puntata addosso – disse sedendosi.
- Vuoi?
Anya vide che le tendeva un pezzo di mela. – Grazie.
- Anche per me è difficile; - disse ad un tratto. - certo, se dovessi morire ora o domani non mi meraviglierei più di tanto.
- Non dite così…
- Quello che volevo fare l’ho fatto e adesso vivo senza uno scopo. Ho paura solo per chi mi sta intorno.
Per almeno un quarto d’ora nessuno dei due parlò. Il conte mangiò tutte le mele che si trovò davanti e presto il tavolo si riempì di bucce. Anya, invece, si fece pensierosa e per tutto quel tempo il conte si beò della sua espressione corrucciata.
- Hai sonno? – disse quando non volle più mangiare.
Lei scosse la testa, poggiata sul palmo della mano. – Non ancora.
- Ti va di leggere un po’?

Pochi minuti dopo Anya era dietro la porta della stanza del conte, nel corridoio.
- L’ho trovata! – esclamò lui uscendo.
Anya guardò dubbiosa la chiave che teneva in mano.
- Prima però … - mormorò coprendole le spalle con una giacca. – E’ meglio coprirsi.
- Ma … signore, questa è vostra.
- Ti piacciono i libri? – chiese zoppicando verso la fine del corridoio.
- Sì, mi piacciono tanto.
Il passo del conte si arrestò di fronte ad una porta poco più grande e massiccia delle altre. Poggiandosi sulla stampella, con qualche cigolio fece scattare il chiavistello e con un po’ di fatica aprì la robusta porta. Ad illuminare l’ambiente v’era solo la candela che Anya teneva per la bugia, cosicchè vedere l’interno della stanza non fu subito facile; ma il conte usò quella piccola fiamma per accendere la lanterna agganciata a lato della porta e, dopo quella, tutte le altre presenti nella biblioteca.
- Naturalmente conto sulla tua discrezione – proruppe Langley prendendo una lanterna.
Anya gli rivolse un’occhiata rassicurante, perché non era in grado di parlare di fronte a quella moltitudine di libri. Ce n’erano a centinaia, alcuni sistemati su degli scaffali, altri ordinati in alcune colonne sul pavimento. Appena entrata si ritrovò tra due alti scaffali traboccanti di volumi e saggi di economia, politica e scienze. Sulla destra vi erano anche due colonne di libri, mentre la parete sinistra era interamente nascosta da uno scaffale largo quanto la stanza. Di fronte a sé, a qualche passo, due scalini scricchiolanti portavano ad una sezione della biblioteca più sopraelevata e, oltre lo scaffale destro, si apriva un secondo spazio, anch’esso pieno di scaffali, più o meno grandi, e arredato con un tavolo, un paio di poltroncine, una piccola scala con le ruote, un paio di candelabri, una lampada piena di polvere e varie colonne di libri e volumi rilegati accanto ad una delle poltroncine. La luce delle lanterne produceva un’atmosfera calda e accogliente, mentre il legno color ciliegio o scuro, conferiva all’ambiente un aspetto severo e rispettabile. Ogni cosa, là dentro, che fossero le penne sul tavolo o le lanterne appese ai muri, profumava di libri e legno e ogni passo produceva uno scricchiolio sinistro. Soffermandosi di fronte alcuni manuali di botanica, Anya si strinse nella giacca e spolverò il cozzo di un libro con le dita, leggendo a bassa voce il titolo del volume. Nel frattempo il conte s’era seduto su una delle poltroncine e aveva aperto il primo libro della colonna alla sua sinistra.
- Posso prenderlo?
Il signor Langley annuì, senza staccare gli occhi dal volume.
- Signore, devo farvi i complimenti. Credo di non aver mai visto un tale assortimento di libri in vita mia.
- La mia collezione si ferma ad appena un ottavo di quello che hai visto.
- Si tratta sempre di una cifra considerevole.
- Ti piace la botanica? – chiese in riferimento al libro che aveva preso.
- Ho sempre creduto che si può trarre molto dalla conoscenza dei vegetali. Voi? – disse in tono colloquiale. – Di cosa vi interessate?
Langley trasse un profondo respiro, mostrandole la copertina del suo libro. – Economia agricola.
Anya prese posto nella poltroncina, intenzionata ad immergersi nel silenzio della biblioteca e non fare più alcuna domanda. Sistemò, pertanto, il saggio sulle gambe e prese a studiarne accuratamente ogni pagina, nonostante una buona ventina contenessero la lunga premessa dell’autore. Non seppe per quanto tempo rimase seduta su quella soffice poltrona, all’interno della biblioteca, in compagnia dell’uomo per cui aveva preso servizio. Di tanto in tanto, quando gli occhi giocavano a confondere le righe e le lettere, distoglieva lo sguardo dal volume e si guardava intorno, lanciando spesso qualche occhiata al signor Langley, che badava bene a tenere staccata la spalla dallo schienale della poltrona e a tenere aperto il trattato d’economia che aveva poggiato sul bracciolo destro con l’unica mano libera dalle bende; talvolta si faceva pensieroso, talvolta sbuffava, talvolta si massaggiava il collo, costretto in una scomoda posizione; talvolta anche lui sollevava gli occhi dalle righe che lo confondevano e guardava Anya per un breve istante. Forse non stava leggendo veramente quel trattato, forse era andato in biblioteca solo per sforzarsi di pensare a qualcosa che non fossero le deduzioni di Hurlstone o Sperty e la sua banda o la sua famiglia. Lui e Hobson sarebbero sopravvissuti senza quelle nozioni universitarie sull’economia; il carretto era duro da tirare, ma sarebbero riusciti a trascinarlo ugualmente, di questo era certo. Con uno scatto chiuse il tomo e lo poggiò sulla colonna dalla quale l’aveva preso e sollevò gli occhi, con tutta l’intenzione di dire qualcosa alla ragazza, quando si accorse che s’era addormentata. Rimase a guardarla sorpreso, poi estrasse l’orologio dalla tasca dei pantaloni e vi lesse un orario molto vicino a quello in cui Greta avrebbe aperto gli occhi. Sospirò un’altra volta, si tirò su con la stampella e con qualche passo si avvicinò alla poltrona sulla quale s’era raggomitolata Anya. Lentamente fece sgusciare il libro dalla sua presa e lo poggiò sul tavolo; infine si tolse la giacca e la coprì.
Nulla di cui preoccuparsi. Si sarebbe svegliata presto.

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Capitolo 24
*** Capitolo XXII ***


An irish tale - Capitolo XXII



Il sole era alto, quando aprì gli occhi.
La biblioteca era un ambiente ampio, ma apparentemente privo di finestre. Anya non ci mise molto a capire che la sola presente, fosse nascosta da uno scaffale. Una volta svegliatasi, infatti, si accorse di una sottile striscia di luce che si districava prepotentemente tra il muro e lo scaffale e illuminava una sottilissima porzione di pavimento di fronte la poltrona su cui lei s’era rannicchiata. Una volta resasi conto che s’era fatto giorno, con un rapido gesto scostò da sé le due giacche che la coprivano e si affacciò al corridoio, illuminato dal sole. Con un lieve presentimento abbassò gli occhi su braccia e gambe e vide che indossava ancora la camicia da notte e gli scarponcini slacciati; in più aveva i capelli sciolti e si trovava a nove domestici e un conte di distanza dalla sua camera. Era una mattina particolarmente fredda e restare in quello stato avrebbe significato prendersi un raffreddore; ma riuscire a raggiungere i suoi abiti e la cuffietta incolume da domande e rimproveri era una vana speranza. A giudicare dall’altezza del sole in cielo, dovevano essere le sette, o quasi, la sua giornata di lavoro avrebbe dovuto iniziare almeno due ore prima. La porta della camera del signor Langley era chiusa, da cui ne dedusse che doveva già aver fatto colazione ed essere nel suo studio, tra le carte del mattino ed il quotidiano fresco fresco di stampa; la porta della biblioteca, invece era aperta, e lei si trovava esattamente tra questa e la sua cornice di legno robusto. Margareth era sicuramente in giro, ma era necessario uscire e chiudere a chiave la biblioteca se non voleva che scoprisse almeno il luogo in cui aveva trascorso la notte; della chiave, però, non intravedeva neppure l’ombra, così si limitò a prendere le due giacche dalla poltrona e, rassegnata, ad uscire dalla biblioteca. La porta si chiuse con un pesante clangore e il suo sguardo vispo di posò bruscamente sulle porte della camera del conte e quella del suo studio, per paura che lui uscisse. Dopodiché, con le sole punte dei piedi, percorse a passi rapidi l’intero corridoio, si guardò bene dalla presenza di altri domestici e raggiunse la scala per la sua stanza passando da un corridoio secondario, evitando la cucina. Solo allora si ricordò di dover restituire le giacche al conte. Una era stata realizzata con un tessuto opaco e spesso, un particolare tipo di velluto a coste; l’altra, invece, era un impermeabile nero che, vista la lunghezza, doveva arrivare poco sotto le ginocchia. Per quanto diverse di taglio e tessuto, entrambe erano caratterizzate dallo stesso odore; il conte non era tipo da usare profumi o essenze, perché non gli piacevano, ma le giacche avevano un odore indefinibile, di casa, e, nonostante non se ne fosse più servita dal momento del risveglio, continuavano tutte e due a emanare un certo tepore. Le poggiò sul letto, mentre si vestiva, e, togliendosi la camicia da notte, si accorse che pure quella s’era impregnata di quell’odore estraneo e, assieme, familiare.
Greta le aveva detto che avrebbe avuto da lavorare con la terra, quel giorno – anche se credeva che l’avrebbe mandata ai campi come punizione alla negligenza della quale stava per essere accusata – per cui optò per la gonna più logora e la camicia dalle maniche consunte. Vestita in quel modo non era l’emblema dell’ordine, ma poco le importava, visto che era in tremendo ritardo. Uscì dalla stanza in preda alla fretta e per la velocità rischiò di inciampare sugli orli della gonna. Non si preoccupò neppure di sistemare le coperte del suo letto, come era solita fare ogni mattina, ed evitò gli interrogativi dei colleghi che la incrociarono. Davanti la porta dello studio del signor Langley indossò la cuffietta e spolverò le giacche con qualche pacca; poi bussò.
Quando entrò, nel vedere il viso pallido della ragazza e i riccioli scarmigliati che sbucavano dalla cuffietta, sul viso del conte apparve un’espressione sorpresa, che dissimulò in fretta. Era seduto alla scrivania e stava per firmare un documento, quando lei lo raggiunse. – Signore, sono venuta per restituirvi queste.
- Toh, mi chiedevo dove fossero finite!
Anya sorrise.
- Spero tu non abbia sofferto il freddo, anche se la biblioteca non è il posto migliore dove dormire.
- Ne sono consapevole. Vi ringrazio per avermi concesso il calore di questi indumenti, signore, apprezzo molto il gesto; ma al tempo stesso debbo ammettere che avrei preferito che mi svegliaste.
Langley avvicinò agli occhi il foglio che stava leggendo e tossì. Mentre Anya parlava, dal cassetto della scrivania estrasse la sua pipa d’argilla e riempì la cavità con del tabacco.
- Non è necessario che ti preoccupi per … - borbottò accendendo un cerino e controllando l’ora nell’orologio sulla scrivania. – ... le due ore e un quarto di ritardo accumulate questa mattina. Appendi pure le giacche a quell’attaccapanni. Durante la colazione mi aspettavo di sentire Greta gridarti qualcosa contro, in cucina, come fa quasi sempre, ma a servirmi è stata lei stessa, scusandosi per l’assenza di Mary e dicendomi che non era riuscita a reperirti neppure nella tua stanza. Si chiedeva dove fossi finita e dallo sguardo intuì che la domanda fosse rivolta anche a me. Sai come le ho risposto?
La sguattera levò sul conte gli occhi, stringendosi nelle spalle, imbarazzata. Prima di risponderle, lui addentò la pipa e produsse due impazienti boccate di fumo. – Ho detto di averti incrociata nel cortile e di non aver avuto una buona impressione di te; ti ho vista stanca e ti ho consigliato di tornare a dormire, perché così avresti avuto più energie nel corso della tua giornata, ma tu mi hai rassicurato dicendomi che una passeggiata ti avrebbe ristorato meglio di qualunque altra attività e così ti sei fatta un giro nella tenuta. Da questo punto di vista sei pienamente giustificata, ma esigo che non si ripeta più nulla del genere. Chiaro?
- Chiarissimo – annuì lei. – L’essermi addormentata in biblioteca è indubbiamente un atto deplorevole e mi vergogno profondamente di questa debolezza, ma, con il dovuto rispetto, signore, mi trovo obbligata a chiedervi il motivo per cui non mi avete svegliata, se vi premeva che iniziassi a lavorare in orario. E, soprattutto, perché mi avete portata in biblioteca se vi preoccupavate per le mie ore di sonno?
Langley sottolineò una riga del documento con la stilografica, prima di appuntare il suo sguardo apatico su quello della ragazza; un paio di nuvolette di fumo fuoriuscirono con rapidità dalle labbra, mentre i denti studiavano il bocchino della pipa. – Strappare un servo dalle braccia di Morfeo non rientra nei miei incarichi – disse con flemma, prendendo la pipa in mano. - Riguardo la questione della biblioteca, se ti ho portata con me è stato unicamente per aiutarti a trovare il sonno che avevi perso e … perché mi dispiaceva leggere da solo. Non avrei mai potuto immaginare che ti saresti addormentata proprio lì. Ripeto: per questa volta mi sono offerto di inventare una storia che potesse giustificare la tua assenza, per cui ti invito a stare al gioco, ma non ce ne sarà una seconda, a meno che non si parli di validi motivi. Sono stato chiaro? Bene. Consegna questa a Anthony e chiudi la porta quando esci. – aggiunse consegnandole una busta.

Nel pomeriggio Sam diede fuoco ad una piccola catasta di legno vecchio, in cortile.
Il cielo s’era mantenuto sereno per tutto il giorno, ma al tramonto fecero la loro comparsa delle nubi che contribuirono ad accrescere la bellezza e la suggestività che il paesaggio non aveva assunto per mesi. La potenza dei raggi solari aveva sciolto la neve caduta durante le settimane precedenti e asciugato le strade dalle sue tracce. La giornata era stata relativamente tiepida e il clima secco aveva permesso di alleggerire il corpo, permettendo di rimuovere qualche capo invernale di troppo.
Nel cortile Hunt abbaiava e inseguiva qualunque animale gli si parasse davanti, per poi farsi trovare, pimpante, sull’uscio della cucina, dove Greta aveva messo una ciotola che riempiva progressivamente dei ritagli dell’arrosto. Anya si godeva quel grazioso spettacolo dalla panca nel cortile, dalla quale aveva un’ottima vista sul cortile antistante e sulla cucina, per la quale bastava sporgersi leggermente. Anthony s’era recato per la quinta volta in tutta la giornata dal signor Hobson e la maggior parte delle serve era impegnata in attività che le teneva lontane dalla cucina e dal cortile. Edgard aveva legato Fedor ad un gancio sul muro e lo stava strigliando. Immersa in quei suoni che sapevano di quotidianità, sulla panca di legno vecchio e cigolante, esposta ad un vento fresco che portava con sé i profumi e i colori della primavera, con Hunt che mangiava soddisfatto dalla sua ciotola, Edgard che si spostava da un fianco all’altro di Fedor e spazzolava ogni centimetro del suo mantello dorato, Greta di buon umore in cucina e Sam che controllava una fiamma che gli aveva colorato il volto e le braccia di una vivace tonalità rosata, Anya non poté che sentirsi profondamente felice e respirare a pieni polmoni un’aria che sperava – anche se in quel momento ne era sicura – avrebbe portato buone nuove per tutti.
Quando finì di mangiare, Hunt le si sedette vicino, leccandosi le labbra all’odore di un soffritto di cipolle che Greta aveva messo sul fuoco. Anya gli carezzò il capo mielato, soffermandosi di tanto in tanto sul mento nero; i suoi occhietti vispi si muovevano spesso in direzione della cucina e ad ogni rumore le orecchie si drizzavano contemporaneamente con un leggero avanzamento del capo, nella speranza che la cuoca gli portasse una nuova razione di grassetti, carne o qualche pezzo di cartilagine per cui andava matto. Nell’attesa si accucciò ai piedi della giovane e si addormentò placidamente.
Allorché Edgard ebbe finito di spazzolare Fedor si sedette sulla panca, accanto ad Anya, che nel frattempo s’era portata un ginocchio al petto e aveva poggiato il capo contro il muro, nella contemplazione di tutti quegli elementi che l’avevano messa di buon umore.
- Hum. Vediamo un po’. – disse prendendole una mano e osservandola da tutte le angolazioni. Capitava che ogni tanto si divertissero a scoprire quali attività avevano coinvolto l’altro dallo stato di una mano.
- Oh, Edgard – mormorò ritraendola. Lui la guardò interrogativamente. – Sono rovinate … sono piene di geloni e ho le unghia tutte rotte …
- Ah! E te ne preoccupi?!
Anya roteò gli occhi con un sorriso.
- Sono curioso! – disse il ragazzo. – Hum. Come sempre, Greta ti ha fatto stare molto tempo con le mani in acqua. Acqua fredda, quasi gelida direi.
- Ghiaccio liquido.
- … poi, poi, poi … hai maneggiato molta terra; oggi.
- Complimenti, signor investigatore! E cosa avrò mai fatto?
- Hai aiutato Mary a piantare dei fiori, ai lati dell’ingresso principale.
La sguattera inarcò un sopracciglio.
- La terra era smossa – si schernì lui. - Hai portato a termine questo compito seduta sulle ginocchia. Questo l’ho dedotto dalle macchie di fango sulla gonna. Oh! Vedo che hai piantato anche delle rose adulte … rosse, per inciso.
- Non vale, le hai viste!
- No – disse Edgard sollevando le dita sottili di lei con le sue, ingrigite per la polvere. – Vedi questo frammento rosso? Non può che essere una piccola frazione di petalo. Beh, almeno da questo si può dedurre che hai finito di lavorare al giardino da così poco tempo che non hai avuto modo di lavarti le mani. E ti sei punta con una spina!
- Bene, genio, adesso è il mio turno. Ma guarda, guarda! Oggi hai lavorato per lungo tempo con degli oggetti fragili, il cancello principale si è rotto e tu hai dovuto sistemarlo, hai spazzolato al posto di Anthony tutti i cavalli della scuderia, tranne Ilizia, e sei stato morso da Newton. Infine, ma questo non vale, perché ti ho visto, hai spazzolato Fedor e ti sei preoccupato che anche i suoi zoccoli fossero puliti.
- Oddio.
- Ti spiego: perché ho pensato che tu avessi maneggiato degli oggetti fragili? Prendendoti la mano, non mi sono accorta che vi tenevi un fazzoletto e, quando ho disteso le tue dita e il fazzoletto è caduto, tu, istintivamente, con un baleno di paura negli occhi, ti sei mosso per prenderlo prima che toccasse terra. Quando, però, ti sei ravveduto dell’impossibilità che si rompesse, hai lasciato andare e ti sei piegato con tutta calma per riprendertelo. Poi cosa ho detto? Ah, il cancello. Beh, hai rimproverato me di non essermi lavata le mani, ma tu non sei da meno! Tracce di ruggine sul lato interno delle dita e sul palmo; e, lo ammetto, avevo sentito lamentarsi Sam di quel cancello, qualche giorno fa. Povero Edgard – disse carezzandogli maternamente il mento – ti hanno fatto fare un lavoraccio destinato ad un altro, eh? Ora, da cosa ho capito che ti sei occupato dei cavalli al posto di Anthony? Il morso di Newton. E perché ti ha morso? Perché è una bestia nevrile e dal carattere mutevole, perciò parecchio istintiva; non ci ha pensato due volte prima di mordere una persona alla quale è poco abituata, come te. Gli hai dato una pacca sulla guancia, spazzolandolo? Sì? Bene, da allora sai che non devi più farlo.
- Ti segnalerò all’ispettore Hurlstone, chissà che non ti prenda a lavorare con lui? Ma come hai fatto a capire che è stato Newton a mordermi?
- Una volta Anthony mi ha raccontato che ha rischiato l’incolumità della sua testa, portando fuori contemporaneamente Ulisse e Newton. L’incidente gli è costato una bella settimana a estrarre patate dai campi, perché i due hanno cominciato a scaldarsi e lui, per la paura, li ha lasciati andare e Ulisse ha scalciato, colpendo Newton alla bocca. Fortuna che quest’ultimo stesse nitrendo, perché gli avrebbe spaccato indubbiamente il labbro. Comunque sia, Newton se n’è uscito con un frammento di incisivo in meno, segno che porti adesso sul dorso tormentato della tua mano. Il morso di un cavallo lascia solitamente un segno quasi continuo, perché in fin dei conti la dentatura di queste bestie è quasi uguale alla nostra, mentre Newton, poverino, non è capace di un’impresa del genere.
- Se scommettessi un penny per ogni volta che ti sfido a questo gioco, presto mi ritroverei costretto a chiedere continui anticipi al signor conte! Come fai?
Lei si strinse nelle spalle, ridendo con la sua risata silenziosa. – Oh, Edgard! Vedo che non risulti simpatico neppure a Fedor!
- D’accordo, Anya, tu mi dici chi sono i tuoi informatori e io smetto di aver paura di te.
- Oh, tranquillo! Anche io, ogni tanto gli faccio quest’effetto.
Il cocchiere si girò allarmato verso il cavallo, legato alle sue spalle. Aveva gli occhi chiusi e respirava profondamente.
- Quale effetto, se sta dormendo?
Anya sbirciò oltre le sue spalle e vide che effettivamente il cavallo non dava segni d’esser sveglio. – Ma è semplice! Quando Fedor è costretto nel suo box, come in questo periodo che il signor conte non ha potuto cavalcarlo, diventa irritabile e chiunque, a parte il signor Langley, gli passi davanti, smuove in lui una certa impazienza, talmente incontenibile che, per richiamare l’attenzione, prende a battere lo zoccolo sulla porta del suo box. Questo gesto smuove la calce rossastra, peculiare della scuderia, che si è radunata sopra la grata sulla porta del box. Perché mi guardi così? Non ci hai mai fatto caso?
- No – sussurrò sbigottito.
- Mi meraviglio del tuo spirito d’osservazione. Ecco, i tuoi capelli sono pieni di questa polvere rossa, vedi? Sei stato più vicino alla porta di Fedor di quanto pensassi. Ora che ti vedo alla luce … ma quanta polvere! L’hai fatto scalciare tanto quel poveretto!
- Greta, l’arrosto è pronto? – gridò lui oltre la spalla della ragazza.
- Non ancora!
- Anya, mi fai paura. Potresti indagare da te al tuo caso; incastreresti quel figlio d’un cane che ti ha picchiata in neppure due giorni! Se non raccoglieresti indizi, tu! Ne avrebbe per tutta la vita, quello, di lavori forzati in Australia!
- Ma Davvero?
- Certamente! Ehi, ma quello non è Anthony?
- Chissà quali nuove ci porta da casa Hobson!
Sam era rientrato da un po’, cosicchè la fiamma del falò non illuminava più il cortile e, dal momento che il sole era tramontato, Edgard doveva accendere le tre lanterne del cortile e l’una sull’ingresso principale. – Anya, vai a prendere una candela!
Una volta illuminato il cortile, la sguattera ed il cocchiere riuscirono a vedere il volto pallido e l’espressione nervosa di Anthony. – Cinque volte! – gridò, prima che i due gli fecero segno di abbassare la voce. – Cinque volte ho fatto avanti e indietro. Tenuta Langley, casa Hobson. Tenuta Langley, casa Hobson. Tenuta Langley …
Edgard lo guardò come un medico osserva un paziente ossessionato dalla sua salute.
- “Anthony, hai ritrovato il tuo giudizio ai campi? Sì? E allora tieni questa e consegnala all’amministratore. Naturalmente attendi la risposta, eh, non scappare prima!”. Arrivo a casa del signor Hobson, busso. Niente. Busso di nuovo. Mi apre la governante, Miss Scott: “Oh, il padrone è uscito di casa. Tornerà fra non più di dieci minuti”. Aspetto. Intanto il sole si fa alto, una bella giornata mi balla davanti e io? sto lì, ad attendere come un idiota, le mani in mano. Sapete dopo quanto tempo si è presentato il signor Hobson? No? Dopo un’ora e quaranta minuti. Non sono mai stato più bruno in tutta la mia vita! Ho atteso sotto il sole, perché ovviamente non potevo entrare! Consegno il messaggio e aspetto un’altra mezz’ora buona, prima di ricevere una risposta. “Con i comodi, signor Hobson!” pensavo. Snervante, ragazzi, snervante. D’altronde cosa posso pretendere? Io sono un servo, loro i “signori” e io, anzi noi, dobbiamo sottostare a ogni cosa che dicono per guadagnarci il pane! Fortuna che ho fermato il calesse in un praticello fresco fresco e il buon Birra ha potuto mangiare qualcosa, anche se, poveraccio, l’ha fatto con il morso tra i denti. Io niente. Non mangio un boccone da quando sono partito per la prima volta! Birra, ho bisogno d’un boccale di birra rossa.
Mentre parlava slegò il cavallo dal calesse, lo condusse al box, gli tolse i finimenti e gli massaggiò le labbra con una mano, controllò che l’acqua nell’abbeveratoio fosse pulita, gli diede la sua abbondante dose di fieno, una mela, una pacca sul collo, tornò in cortile e lanciò un’esclamazione nell’abbassarsi a raccogliere i finimenti; infine si scrollò un po’ di polvere di dosso, si tolse il cappello, scrollò anche quello ed entrò in cucina, accompagnato da Anya ed Edgard.
- Spero per il gentilissimo signor conte, che questo sia l’ultimo messaggio del giorno da consegnare. – Furono le sue parole mentre usciva dalla cucina, diretto all’ala padronale.

Il giorno dopo Richard Hobson uscì prima del previsto. Nella sera, portato dal suo giovane stalliere, un ultimo messaggio gli era pervenuto dal signor Langley, ma in una forma talmente striminzita e telegrafica che non gli fu possibile dormire tranquillo. Effettivamente parlare per monosillabi non era dal signor Langley e, oltre che dalla difficoltà provocatagli dal braccio, la sua grafia pareva essere stata alterata dalla preoccupazione.
Quando arrivò alla tenuta si respirava ancora l’aria gelida e cristallina della notte e, in lontananza, andava dissolvendosi un soffice banco di nebbia che s’era adagiato mollemente sulla brughiera. Il cielo, nel complesso, prometteva bene e la giornata pareva essere più calda della precedente.
Margareth guidò Hobson in sala da pranzo.
- Signor Hobson! – lo salutò il conte, con falso entusiasmo. – Vi aspettavo per le otto. Vi hanno buttato giù dal letto o siete caduto da solo? No, rimanete pure. Avete già fatto colazione?
- Credevo che fosse un buon orario, signor Langley. Proprio non immaginavo che a quest’ora voi … oh, sì, ho mangiato abbondantemente, grazie.
Langley estrasse l’orologio dal taschino del gilet sbottonato. – Volete darmi a intendere che vi siete seduto al tavolo della colazione prima delle sette e mezza? Andiamo, prendete qualcosa e fatemi contento. Dopo avremo tutto il tempo per parlare di ciò per cui vi ho fatto venire.
Delle uova e qualche salsiccia dopo, i due uscirono dalla sala da pranzo.
- Farò disporre una stanza anche al piano di sotto e trasferirò parte dei documenti qui, qualche volta – grugnì Langley zoppicando per la sala d’ingresso. – E’ inconcepibile che non ci sia riuscito in quasi sei anni che vivo in questa tenuta.
- La vostra gamba crea problemi?
- La gamba? Spero scherziate, Hobson. (sarebbe l’unica volta che ve lo concederei nei miei riguardi). Non è solamente la gamba a rendermi così goffo, ma anche la spalla e la direzione che i miei pensieri prendono all’interno di questa testolina qua. Temo che rimarrò bloccato a vita.
- Oh, non dite così, conte. Siete migliorato di parecchio a quanto si dice.
Ma a quel punto erano già arrivati al piano superiore e il conte aveva liquidato l’argomento con un aspro gesto della mano. – Questi conti – disse estraendo un foglio da una cartella – sono il frutto di due giorni interi di lavoro; ho iniziato con le paghe dei contadini e dei miei dipendenti e ho spaziato fino a riordinare un po’ di numeretti riguardanti le entrate e le uscite che l’azienda ha avuto in questa stagione. Le prime sono scarse, le seconde paurosamente abbondanti. Vi dico senza mezzi termini, Hobson, che abbiamo una falla di poco più di millecinquecento sterline.
L’amministratore annuì lentamente, sospirando con altrettanta flemma. – Sono millecinquecentonovantadue sterline, signor Langley: lo so. Ma questa cifra appartiene ai registri di due settimane fa, poiché adesso il debito ammonta a milletrecentotre sterline. Mi sono occupato personalmente della vendita di alcuni capi di bestiame, grandi e grassi, alla fiera di Dungarvan. Ho ricavato esattamente centocinquanta sterline, mentre la restante parte di centotrentanove sterline le ho accumulate dalla vendita di un terreno infruttuoso, reso sterile da precedenti coltivazioni e inadoperabile per via della formazione di una moltitudine di piccole paludi intorno a una collinetta.
- Avete venduto un terreno?
- Sono certo di avervi avvisato.
Il conte gli lanciò uno sguardo obliquo, sbuffando nervosamente da sotto i baffi. – No, invece.
- Sì.
- No.
- Controllate tra la vostra corrispondenza, allora. È un telegramma, datato il 27 Marzo. Impossibile che non vi sia arrivato.
Langley aspirò avidamente il fumo della sua pipa, come se in questo modo ricordare sarebbe stato più facile. In un primo momento si fece pensieroso, poi un improvviso movimento delle sopracciglia diede all’amministratore la conferma che aveva ricordato. Non avrebbe ammesso di aver sbagliato, però.
- Stavo ancora molto male, in quel periodo.
Hobson assentì.
- E le restanti milletrecento …
- Sono venuto per parlarvene, signore.
- … tre sterline?
- La Primavera è arrivata da poco e con un po’ di pazienza sarà possibile tosare le pecore e le capre dei recinti a nord. Dalla vendita della lana potremmo ricavare una buona cifra.
- La Primavera sarà lungi dal donarci giornate calde per almeno altri due mesi, o, se vogliamo proprio essere ottimisti, poco più di un mese. La tosatura sarà rimandata per una ragione o per un’altra e, nel frattempo, avremo altre spese ed è possibile che il debito crescerà ulteriormente.
- Allora potremmo tingere la lana, prima di venderla.
- Ammesso e concesso che lo faccia, non ne ricaverei un penny in più. Serve produttività, Hobson. Produttività.
- Potremmo vendere, allora, le riserve di grano. Ha tenuto bene l’inverno ed è in ottimo stato. Se ne potrebbero ricavare almeno duecento sterline.
Langley si poggiò placidamente allo schienale della sedia e lanciò un’occhiata di sbieco all’amministratore. Era chiaramente scettico riguardo le sue intenzioni e sperò che il movimento della pipa bastasse a renderlo ancor più evidente.
- Sono bei progetti i vostri, ma si tratta di poche centinaia di sterline. Abbiamo bisogno di più soldi, molti di più – sospirò. – Dovremmo aumentare la produzione … ma, ecco, anche per questo ci vuole del tempo.
- Ritiene necessario chiedere un prestito alla banca?
- Assolutamente no. Richiudo una falla e mi scavo la fossa a pochi passi?
Aveva assunto quella sua tipica aria pensierosa, quando si avvertì un tramestio di passi nel corridoio e poi qualcuno bussare alla porta.
- Avanti! – disse togliendosi la pipa dalle labbra. Anthony aprì la porta e con il fiatone si scusò per il disturbo. – Mr. Kirwan, dell’ufficio telegrafico, vi manda questa, signore. È da parte dell’ispettore Hurlstone.
Langley prese il telegramma e lo aprì con un gesto secco delle dita. Diceva: Prego venire confine est vostra proprietà. Portate signorina Anya. Trattasi di questione urgente. Ispettore Hurlstone.
- Qualunque cosa voglia l’ispettore, credo che sia sempre più importante della nostra conversazione, Hobson. Non appena libero, vi farò sapere quando potremo vederci. Anthony, prepara la carrozza. Arrivederci, signor Hobson.
Dieci minuti dopo la carrozza si muoveva velocemente per la brughiera, ballonzolando a destra e sinistra per le buche scavate dalla pioggia e per i numerosi ciottoli presenti sul cammino. Prima di uscire il conte aveva avuto appena il tempo di indossare il cappello da campagna e gli stivali, mentre il lungo impermeabile e il bastone giacevano sul sedile. Approfittando della luce che filtrava dai due finestrini, esaminò la rivoltella dal calcio decorato e dalla lunga canna metallica, e la caricò con una manciata di proiettili; poi con uno scatto la richiuse e la conservò nella tasca dei pantaloni. Non sarebbe mai stato troppo al sicuro finché non avesse visto coi suoi occhi chi aveva attentato alla sua vita dietro le sbarre.
Anya osservò tutte quelle mosse con gli occhi sbarrati. Si sforzava di guardare il paesaggio attraverso i finestrini, ammirarne le forme e i colori, ma i continui scatti metallici dell’arma che il signor Langley stava maneggiando la portavano a girarsi continuamente verso di lui e i movimenti delle sue mani. Non appena rinfoderò la rivoltella, trasse un sospiro di sollievo e si diede ad osservare la strada con tutta la calma che riuscì a trovare.
Quando Edgard fermò la carrozza il conte non perse tempo a scendere e a guardarsi intorno, alla ricerca del giovane ispettore.
Il luogo che adesso era qualificabile come il confine est della proprietà del conte di Waterford, era stato scavato con il corso del tempo in una lieve conca, all’interno della quale neanche il vento più forte e il caldo più opprimente avrebbero asciugato il lago che s’era formato. Si trattava di un laghetto piccolo, pericolosamente profondo in alcuni punti, ma talmente placido che per molto tempo, o erroneamente, era stato definito una palude. Quel confine era il luogo più desolato e triste dell’intera proprietà e il fatto che si trovasse in una posizione leggermente sopraelevata rispetto al resto lo rendeva la preda preferita della nebbia, che si adagiava sulla morbida curva delle colline e lo attanagliava con il suo ambiguo squallore. Per la sua inospitalità era stato sempre tenuto fuori dai progetti del conte e neppure il contadino più esperto avrebbe saputo cavare il benché minimo frutto da quel terreno melmoso; anche camminarvi era ritenuto pericoloso. La strada dalla quale si accedeva a quell’ambiente angusto era la più accidentata della zona, senza la terra battuta ad attutire gli urti delle ruote delle carrozze e irta di rocce portate a galla dalla pioggia, il ghiaccio e il vento.
Nonostante lo squallore e il senso di angoscia prodotti dal paesaggio, la conca era piena di poliziotti e se ne intravedevano alcuni con dei cani segugio in lontananza.
D’un tratto il conte si sentì chiamare e da dietro una carrozza vide comparire l’ispettore Hurlstone. Aveva il viso pallido e gli acuti occhi azzurri erano circondati dai segni della stanchezza. La mascella era ricoperta da un sottile strato di ispida barba e rispetto all’ultima volta sembrava più magro. Inizialmente parve entusiasta di vederlo, ma quando fece per parlare, i tratti marcati del viso gli si distesero in un’espressione grave. – Le ragioni per cui vi ho qui chiamato sono tra le più funeste, signore. Signorina Bacott. Vedete quel signore laggiù, quello che sta parlando con l’agente dai favoriti scuri? Questa mattina ha rinvenuto il corpo di un uomo appena fuori dalla portata di questo fango micidiale. Credendo che fosse svenuto si è catapultato nella conca per tirarlo fuori, ma quando l’ha girato si è accorto del foro di un proiettile sul petto. Potete immaginare lo stato emozionale in cui si trova quel povero diavolo, adesso.
Mentre Hurlstone parlava gli occhi del conte si muovevano rapidi da un punto all’altro della conca, sotto due sopracciglia che si aggrottavano sempre di più e che si distesero solamente quando Hurlstone indicò per la seconda volta l’anziano signore in causa.
- Signorina Bacott – disse ad un certo punto l’ispettore, accendendosi una sigaretta – dovrei … chiedervi un favore. Ricordate quando l’altro giorno vi ho parlato dei miei sospetti circa la presenza dello stesso uomo nei casi che riguardano voi e il conte? Ecco, temo che ad essere stato ucciso questa notte sia uno degli uomini che vi hanno aggredita.
Il conte guardò entrambi, allibito.
- Sareste disposta ad aiutarmi a verificare questa ipotesi?
Anya assentì e seguì l’ispettore fino all’orlo della conca. Lì, non potendo più avanzare per via della gamba, Langley bloccò Anya per un braccio. – Sei sicura? – le sussurrò indicando con un cenno del capo il lago. – Un cadavere non è mai una bella visione.
- Lo so, ma non ci resta altro da fare, signore.
Lui annuì lentamente, lasciando la presa del suo braccio. Vide la ragazza procedere dietro il giovane ispettore, poi questi indicarle i punti dove poggiare i piedi e tenderle una mano ove necessario. Quando raggiunsero il punto in cui si trovava il cadavere, Anya si portò una mano alla bocca e annuì in direzione dell’ispettore. Da lontano Langley vide Hurlstone segnare qualcosa sul taccuino, mentre Anya non riusciva a distogliere lo sguardo dal corpo senza vita steso ai suoi piedi. D’improvviso quella giornata dal cielo sereno e piena di voglia di fare, sembrava essere diventata più buia e uggiosa di una sera invernale. Nell’attesa che Anya e l’ispettore tornassero, il conte s’accese una sigaretta e iniziò a fumare nervosamente; era una cosa che non faceva da tempo e si chiedeva come si fosse trattenuto dal riprendere questo vizio per così tanti mesi. Nel frattempo un portasigarette l’aveva sempre accompagnato e una buona dose di tabacco giaceva a fianco della pipa in argilla, nel cassetto della sua scrivania. Tirò delle grosse boccate di fumo e lasciò che quella strana sostanza densa gli pervadesse le vie respiratorie e i polmoni, ritrovando l’aria fresca della campagna in sbuffi rapidi e grigi. Quando Anya e Hurlstone lo raggiunsero, lui aveva già finito due sigarette e ne avrebbe accesa un’altra se non fosse stato per l’espressione che colse nel viso della giovane; era pallida, aveva le labbra serrate e gli occhi piantati sul terreno.
- Signor Langley, devo parlarvi.
Il conte affidò la ragazza alle cure di Edgard, poi si allontanò insieme all’ispettore. – Prego.
- Riguarda quello che è successo. Fino a ieri ero propenso a sviluppare teorie che vedevano un uomo di quell’aspetto, colpevole; penso che non sia necessario mostrarvi una seconda volta le tavole dell’agente Musgrave per rendervi meglio l’idea: le impronte degli stivali, l’ampiezza di un passo e l’orma del cappello a tesa larga dietro il cespuglio, coincide tutto. Il cadavere è vestito di “una giacca a coda di rondine di un nero parecchio stinto, un panciotto dai furono colori ricercati, un paio di stivali a punta quadra firmati Jack Norton, con una decisamente inesperta riparazione sul davanti, dei pantaloni logori” e via dicendo. L’abbigliamento di un poveraccio, non credete anche voi?
Langley annuì, spostandosi per far passare due poliziotti. – Qual è la vostra opinione, dunque?
- Che è stato l’uomo il cui corpo giace nella conca a spararvi. La mia teoria è questa, signor Langley: la notte che siete andato a caccia con i vostri amici, quest’uomo vi ha seguito, si è appostato dietro il cespuglio accanto al capanno, ha aspettato a lungo e poi, quando siete comparso, ha sparato, mancando di pochissimo le parti vitali. Nel frattempo il vostro cane ha iniziato ad abbaiare e, per paura di essere scoperto, non avendo più tempo per sparare un altro colpo, l’uomo vi ha spinto nel dirupo accanto al capanno. Per un paio di giorni vi ha creduto morto, ma quando la notizia che eravate sopravvissuto è uscita sui giornali è stato preso dal panico ed è scappato. Torna solo dopo essersi ricordato del compenso pattuito e fissa un appuntamento con il mandante dell’omicidio per averlo. Il luogo dell’incontro è questo; lui lo raggiunge a piedi, l’altro a cavallo, con ogni probabilità. È notte, ma alla luce della luna piena scoppia una lite: sapendo che siete vivo, il mandante accetta di pagare il sicario a patto che vi elimini, ma questi non ha intenzione di rivivere un’altra volta un’esperienza del genere. La lite verbale sfocia in una vera e propria lotta, testimoniata dai segni nel fango, che si conclude con un colpo di pistola al petto dell’uomo.
Prima che Hurlstone finisse di parlare, Langley si sentì attraversare la schiena da un brivido. Quel posto era distante dalla tenuta poco più di tre miglia, e fu da tre miglia da casa sua che gli assassini si riunirono per complottare ancora contro di lui. – Perché? – gridò, passandosi una mano fra i capelli. – Perché mi vogliono morto?
Hurlstone volse il visto stanco alla conca sotto i loro piedi. Vide che i poliziotti correvano ancora da un lato all’altro delle sponde del lago, calpestare maldestramente orme e indizi che avrebbero potuto risultare utili, gridare ordini ai sottoposti e poi un agente, che riconobbe essere Musgrave, risalire con passi decisi il fianco della collinetta.
- Stiamo proprio cercando di capirlo, signore – disse. – Avete stilato la lista di cui vi ho parlato la scorsa volta?
Langley infilò la mano nella tasca interna dell’impermeabile, facendo sì con il capo. – Non v’è granché, però. – sbottò tendendogli un foglio ripiegato e accendendosi una sigaretta.
Hurlstone lesse quelle poche righe a bassa voce. – “Eric Monfort, commerciante di lana. Si è lamentato spesso della lana che gli ho venduto …”, hum, “John Perkins, contadino. Più volte mi ha chiesto un anticipo alla sua paga mensile, ma non sempre gliel’ho concesso”…
- Se ha bisogno di qualcosa non mi dice niente; a volte mi guarda con astio, ecco perché l’ho scritto. Perkins è una brava persona, però … una brava persona.
- “Anthony McAvoy, stalliere”. Si tratta del vostro stalliere?
Al conte sfuggì un sorriso. – Sì, ha lavorato più nei campi, tagliando cavolfiori e rape, che nella tenuta. Il suo comportamento non è stato sempre buono.
- Beh, non vedo altri nomi. Vi siete spremuto bene bene le meningi?
- Signor Hurlstone, la cerchia delle mie amicizie si è parecchio ristretta negli ultimi tempi. Oltre i personaggi che ho nominato, non credo di suscitare l’antipatia in nessun altro.
- “Parecchio ristretta”, dite? – chiese Hurlstone riconsegnandogli il foglio.
Langley tirò una lunga boccata di fumo. – Se non vi dispiace, preferirei non parlarne. Si tratta di faccende personali.
- Ogni particolare potrebbe aiutarci nelle indagini, però, signor Langley.
Il conte si concesse un momento di silenzio. – Avete ragione – ammise, stringendosi nelle spalle con lo sguardo basso. – Due anni fa sono morte mia moglie e mia figlia. Da allora fare amicizie mi è sempre apparso superfluo.
Hurlstone fece per parlare e dire che gli dispiaceva, ma la voglia di farlo si concluse con un sospiro, di fronte i gesti tremolanti e nervosi delle dita del conte. Gli occhi rivolti alla conca, fece molleggiare una gamba, poi scosse la testa, cercando di non pensare alla cattiva figura appena fatta, e lanciò uno sguardo al conte, che pareva fumare tranquillamente, nonostante gli occhi si muovessero rapidi da un punto all’altro. – Sono mortificato – mormorò infine.
- Non è colpa vostra.
Gli dispiaceva, sì, ma qualcosa, dentro, gli diceva che quella disgrazia nascondesse più insidie di quanto sarebbe apparso ad un occhio meno esperto. Avrebbe continuato su questo argomento, se avesse seguito il suo istinto l’avrebbe fatto e avrebbe posto molte domande al conte, che si grattava distrattamente la gamba ferita, infastidito dal silenzio; ma la ragione ebbe il sopravvento e lui non fece nulla di quanto l' irrazionalità gli consigliasse.
Pochi minuti dopo il conte volle vedere il cadavere e Hurlstone lo accompagnò, guidandolo al punto più prossimo e sicuro della conca. Langley guardò il corpo senza fiatare, poi si girò e tornò in cima alla collinetta, accanto alla carrozza. Un vento freddo s’era alzato e dietro le montagne si intravedeva un piccolo banco di candide nubi; avanzavano velocemente, ma non minacciavano pioggia.
Quando il sole raggiunse il suo massimo splendore, Hurlstone congedò il signor Langley. Nel frattempo una gruppetto di curiosi s’era radunato sulla strada che fiancheggiava la conca e, vedendolo tornare al suo landò, chiesero al conte cosa fosse successo; ma lui non rispose a nessuno e, stanco per quell’infausta mattinata, si accasciò sul sedile.

Il suono degli zoccoli di Ulisse e Newton e il frastuono delle ruote sull’acciottolato furono gli unici rumori durante il ritorno alla tenuta. Qualche volta si udiva anche la voce di Edgard e lo schiocco della frusta sulla schiena dei cavalli, ma per il resto il silenzio era assoluto. Solo alla fine del tragitto l’abitacolo si animò di un suono sinistro, uno scatto secco, metallico; Anya, allora, alzò gli occhi, meravigliata dal vedere in mano al conte la rivoltella dal calcio decorato. Il conte la pose sotto il fascio di luce del finestrino, quindi la nascose nuovamente nella tasca destra del pantalone e guardò la ragazza con un triste sorriso, prima di rigirarsi verso la brughiera.
Nel cortile della tenuta la carrozza si fermò e Anya e il conte si diressero in cucina. Entrambi avevano il petto gonfio d’angoscia e la tensione e la disperazione erano palpabili come la neve dei giorni appena trascorsi. In cucina i loro occhi stanchi non trovarono nessuno e, mentre Anya tornava speditamente al proprio lavoro, svuotando il tavolo da alcune bucce, Langley pensò alle misure da adottare da quel momento in avanti. Vivere perennemente armato non era la sua massima aspirazione, ma per proteggere sé stesso e quella strana giovane ragazza la rivoltella si sarebbe rivelata molto utile.
- Vorrei un bicchiere d’acqua.
La ragazza si liberò di una pezza sporca e obbedì. Langley svuotò il bicchiere con pochi sorsi e prima che potesse poggiarlo sul tavolo, vide Anya coprirsi il viso con le mani e girarsi da un’altra parte. Dapprima la osservò perplesso, poi, quando si accorse che stava piangendo, si sentì immediatamente a disagio.
- Anya … stai bene?
Lei si scoprì il viso, mentre gli dava le spalle, e tirò su col naso. Con un piccolo sforzo, cercò di rispondere. – Non lo so … non lo so, signore.
- E’ per quel tizio? Quello che hanno … ucciso stanotte?
Le venne in mente la vista di quel corpo esanime ai suoi piedi, con un foro sul petto dal quale usciva un rivolo di sangue; pensò al concetto di vita che aveva spiegato a Mary, e al fatto che l’uomo che le stava alle spalle aveva rischiato e rischiava ancora di morire come l’uomo di quella mattina. Si girò pertanto verso di lui e lo guardò in viso, come per accertarsi che fosse ancora dietro di lei; era in piedi, accanto alla porta, poggiato al bastone con la testa di falco e un’espressione perplessa che s’accentuò non appena la vide in viso.
- Mi dispiace, signore – singhiozzò, nascondendosi nuovamente il volto fra le mani – mi dispiace … è colpa mia. Tutta colpa mia.
- Anya, ma cosa stai dicendo? Cosa è “colpa tua”?
- Voi avete … insomma, per poco non … - disse abbassando le braccia agli orli del grembiule, che prese a tormentare nervosamente. – Lo stato di quell’uomo era tremendo …
Langley ci mise un po’ a capire quello che Anya voleva dire. – Adesso, però, sono qui, sono vivo. Quell’uomo ha pagato per aver cercato di uccidermi. Tu non c’entri niente con questa faccenda, capito? Non c’entri proprio niente.
Ma lei non riuscì a calmarsi e quelle parole la fecero commuovere ancor di più. Il conte volle darle tempo per sfogarsi e si guardò intorno, con lo stesso imbarazzo di prima. Poi, istintivamente, le pose una mano sulla spalla e l’abbracciò.
- Mi dispiace – le sentì dire.
- Shh … non piangere. Vedrai che tutto si risolverà per il meglio.

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Capitolo 25
*** Capitolo XXIII ***


An irish tale - Capitolo XXIII



- Credi che tutto questo sarà per sempre?
Edgard ci pensò su.
- Credo di no.
Anya emise un sospiro.
- Tu?
- Non lo so.
Erano seduti sulla panca del cortile e i visi riflettevano i colori del tramonto.
- Le cose belle sono destinate a finire.
- Perché sarebbero definite così, altrimenti?
- Perché sarebbero … ?
Lei si strinse nelle spalle. – Niente.
Il cielo poco a poco si colorò di tinte più scure e calde, mentre il sole salutava con i suoi ultimi raggi la brughiera irlandese.
- Edgard …
- Sì?
- Non sarà per sempre.
Lui alzò gli occhi sulla giovane, sollevando il mento dal palmo.
- E’ troppo bello.
Era passato del tempo da quando si recò alla conca.
Giorni, settimane, mesi. Potevano essere passati anche dieci, cento anni. Le giornate si susseguivano l’una dietro l’altra, tutte uguali fra di loro. Nulla era più accaduto. Si poteva sperare in un cambiamento, perché quella monotonia era soffocante, logorante. Se avesse potuto dare un’immagine all’idea dell’anima che s’era fatta, avrebbe usato un lembo di stoffa dalla trama larga sfilacciato. Si poteva desiderare un cambiamento, ma non si poteva pensare a questo senza considerare il peggio. E allora gli occhi bruciavano, il cuore batteva a tonfi sordi, a volte rapidi, altre terribilmente lenti, la testa faceva male e si sentiva prurito alla pelle, sotto il corpetto, e non ci si poteva grattare, non si poteva alleviare il mal di testa, non i crampi nervosi allo stomaco, non si poteva dar sollievo alla tachicardia, né era possibile trovare una fonte d’acqua limpida per il bruciore agli occhi. E non c’era neppure antidoto alla profonda angoscia, non una pistola per togliere di mezzo quel senso di pericolo incombente, né un ansiolitico che permettesse di dormire sonni tranquilli.
C’era solo una dannatissima, maledettissima paura. E il cuore scandiva il suo ritmo di marcia.
Era una tiepida sera d’Aprile. Aveva piovuto, durante la settimana, ma la Domenica era stata soleggiata e, nonostante la moltitudine di colori offerti dai movimenti del sole nel cielo e gli odori della Primavera, il petto di Anya s’era gonfiato di quell’angoscia e panico fuori del comune. E la stessa voglia di fare, quando veniva, era cancellata dalla paura di allontanarsi dalla tenuta e da un’agorafobia crescente, che si intensificava con il passare dei giorni.
- Mi sembra di impazzire.
Edgard prese una mano di lei tra le sue.
- Guarda quel tramonto … perché lui può esistere senza perturbazioni e io no? Tutti lo guardano, lo ammirano, lo sentono e lo rispettano, prima o dopo. Nessuno si è mai posto il problema di fermare il sole, la luna e le stelle. Oh, sì, è impossibile, è impensabile, ma non credi che rendere la vita difficile ad un altro essere vivente sia pure questo impossibile e impensabile? Qual è la ragione per cui quell’uomo trova piacere nel perseguitarmi così? Perché quell’altro ce l’ha con il signor conte? spiegamelo, Edgard, perché io darò presto di matto!
Mentre parlava il suo viso era distorto nell’espressione del pianto, ma nessuna lacrima scorreva sulle sue guance; il petto si alzava e abbassava in fretta e all’interno di esso il cuore aveva accelerato il suo ritmo e una mano era corsa alla fronte in un gesto di disperazione.
- Certo, tu mi guardi con quella faccia, ma sapessi come mi sento … dover ringraziare il cielo quando mi sveglio, perché mi è stato concesso di aprire gli occhi tranquillamente; dover pregare perché la notte o in qualsiasi altro momento di solitudine nessuno venga a molestarmi; dover pregare per rivedere ancora una volta il sig… per rivedere ancora una volta questo splendido paesaggio – si corresse con titubanza.
Edgard strinse la presa sulla sua mano, ma Anya la ritrasse e si alzò.
- Non è affatto una bella sensazione, Edgard.
- Posso solo immaginare il tuo stato d’animo. Anche Greta è preoccupata per te … certo, non lo dà a vedere, ma è preoccupata almeno quanto lo sei tu. E poi anche Mary, Adele, Ines, Margareth, Anna, Sam…
- Tutti! – commentò ironica.
- Sì, tutti. Oh, ma non mi credi, forse?
- Non è che non ti credo, Edgard …
Venne bloccata dal richiamo di Greta. La cena era pronta. Ancora una volta, come nei giorni precedenti non aveva fame. Sentiva lo stomaco teso, chiuso, a malapena riusciva a mandar giù due bocconi ed era sempre stanca, il passo fiacco e i ricordi stinti.
- Ti ho preparato la zuppa con le fave e i piselli, quella che ti piace tanto – disse la cuoca mostrandole un piatto pieno.
- Grazie, Greta, ma non ho molta fame.
Greta mise in tavola cinque piatti, giusti per lei, Anya, Edgard, Margareth e Mary. Il resto dei domestici s’era recato a casa delle rispettive famiglie.
- Neanche il pane bianco? Ho tenuto da parte una pagnotta apposta.
Sedettero a tavola e la cuoca porse un involto alla giovane, che lo aprì e sorrise in modo tirato. – Grazie, ma …
Edgard riempì il cucchiaio di Anya di zuppa e glielo pose davanti alle labbra. – Di lei me ne occupo io, Greta. Su, Anya … Ahum!
A quel gesto, quasi non rise. Margareth sopraggiunse nel momento in cui apriva la bocca e ingurgitava il primo boccone. – Ebbene? Che strane novità, sapete tirar fuori, ragazzi! Vuoi perdere un’altra libbra, Anya? ti sei proprio decisa, eh?
La sguattera prese a mescolare distrattamente i legumi e le fette di cipolla nel piatto. La zuppa emanava un ottimo odore e l’avrebbe mangiata tutta, in altri tempi, magari facendo il bis; ma non era quello il momento. Guardò mollemente anche la pagnotta accanto al piatto, si soffermò sulla doratura superficiale e sul “bacio” laterale. Sentiva su di sé lo sguardo di Greta e sapeva che aveva profuso tanto impegno in quella zuppa, che aveva rinunciato alla sua unica giornata libera per vederla mangiare. Per un attimo i loro sguardi si congiunsero e la donna le fece segno di mangiare un altro boccone, uno soltanto, giusto per farla contenta. Ma lo stomaco protestava, non aveva ancora digerito completamente il pranzo, né la mezza mela del pomeriggio. Le sorrise forzatamente e altrettanto di malavoglia prese una cucchiaiata di zuppa e mangiò. Era arrivata a mezzo piatto, quando il cadavere nella conca le tornò alla mente e l’immagine di Sperty le fece risalire un’improvvisa ondata d’acido per le pareti dell’esofago.
- Basta – mormorò portandosi una mano alla bocca. – Basta.
- Anya, stai bene? – chiese Edgard con il boccone tra i denti.
Lei scosse il capo, in un movimento che si faceva più convulso via via che i secondi passavano. – Basta. No, no. Basta … basta! Basta!
In un ben che non si dica, Edgard e le altre, la videro alzarsi, guardare nervosamente la finestra, chiudere le tendine con uno scatto e allontanarsi da essa continuando a far di no con il capo e ripetere “Basta!”, e tirar via la cuffietta, buttarla a terra, cadere lei stessa in un angolino e mettersi le mani fra i capelli.
- Santo cielo … Anya! Anya, cosa ti succede? Anya, cos … cosa ti prende?
Edgard le si rannicchiò vicino, provando a scostarle le mani dal viso e cercando di capire cosa stesse succedendo; ma Margareth allontanò lui, ordinandogli di correre a chiamare il signor Bowles.
- Temo che si tratti di un crollo nervoso.

Fu un lento pulsare al braccio a ridestarla.
Socchiudendo gli occhi si vide circondata da tre ombre chine su di lei.
- Ehi, Anya!
- Shh! Stai zitto …
Intorno a sé riconobbe il dottor Bowles, Margareth ed Edgard; batté un paio di volte le palpebre, poi fece per girarsi verso il braccio dolorante.
- Anya, ehi, guardami … - sussurrò la governante, bloccandola. Notò Mary allontanarsi con qualcosa tra le mani e sentì il medico applicare un tampone nell’incavo del braccio e bendarlo con cura.
- Ricordi cosa è successo?
- … sono caduta?
- No, non sei caduta. Allora, ricordi cosa è successo?
Lei rabbrividì. – Sì, ma non … non voglio.
- Per questa sera è meglio lasciarla stare – soggiunse il dottore. – Se le va, datele un buon brodo di carne. La tirerà su e la rimetterà in forze.
- Margareth, non voglio – riprese. – Io non voglio…
Bowles le rivolse un’occhiata severa e pietosa, mentre piano piano si allontanava dal letto e si avvicinava alla porta. – Ti lascio queste. Non è ridotta bene … dieci gocce in un bicchiere d’acqua basteranno se le viene un’altra crisi. Le distenderanno i nervi e l’aiuteranno a dormire. Non turbatela in nessun modo, fatela riposare … - sospirò, per poi aggiungere a voce più bassa – se è vero ciò che mi avete detto deve essere profondamente scossa. Datele qualcosa con cui distrarsi e che l’aiuti a non pensare a quello che ha visto e che la tormenta. Se ce ne sarà bisogno chiamatemi, ma penso che quelle gocce mi sapranno sostituire degnamente.
Margareth accolse quei suggerimenti con continui cenni d’assenso. Quando il dottor Bowles finì di parlare erano già arrivati in cima alla scala, dove si trovava il signor Langley. Bowles lo salutò con un cenno del capo, mentre Margareth ordinava ad Edgard di accompagnare il medico al calesse. Poche parole bastarono alla governante per spiegare la condizione della ragazza al conte.
- Il dottore l’ha sedata e le ha praticato un salasso – spiegò, quando Bowles sparì in compagnia del cocchiere.
L’uomo si passò una mano sul viso. – Hai detto che si tratta di un crollo nervoso?
Margareth annuì. – Al posto vostro, signore, inviterei l’ispettore ad essere più cauto con le donne, d’ora in avanti. Come volevasi dimostrare, gli spettacoli a cui lui è abituato non fanno bene, invece, alle menti del gentil sesso.
- Si è offerta …
- Shh, fate più piano!
- E’ stata lei a voler andare … io l’avevo avvisata!
- In ogni caso, adesso devo aiutarla a cambiarsi. Permettete?
Langley la congedò con un cenno del capo. Quando chiuse la porta lui si poggiò alla balaustra delle scale, scarmigliandosi distrattamente i capelli. Aveva appena chiuso gli occhi e s’era addormentato, placido, tra le coperte del letto, quando Margareth era corsa da lui. Non si poteva dire che in quella tenuta sarebbe stato possibile guarire dall’insonnia. Si alzò di malavoglia e cercò di vedere la ragazza, anche se non gli fu permesso.
Prima che il signor Bowles andasse via, gli mise in mano un sacchettino tintinnante come compenso. Poi, non appena Margareth uscì dalla stanza di Anya, lui fece per entrare, ma fu bloccato e tornò indietro, prima nella sua stanza, poi in biblioteca. Si addormentò sulla poltroncina, il capo reclinato sul petto e la fronte poggiata alla mano sinistra.

Di notte cominciò a piovere.
Anya aveva tenuto gli occhi aperti dal momento in cui Margareth aveva abbandonato la sua stanza, senza riuscire ad addormentarsi. Un bicchiere colmo della soluzione d’acqua e ansiolitici era poggiato sul comodino alla testa del letto e sentiva il taglio al braccio bruciare. La tenda bianca alla finestra nascondeva a malapena le gocce che picchiavano debolmente il vetro e il suo colore non poteva niente contro l’oscurità della notte. Margareth le aveva lasciato una candela, sul comodino, ma era spenta e i cerini erano fuori portata di mano.
Non le rimaneva che fissare il vetro gocciolante della finestra.
Per un po’ pensò alla notte in biblioteca. Si chiese se il libro di botanica fosse stato rimesso a posto o se il conte fosse sveglio; pensò intensamente anche a lui e sentì una strana sensazione di calore al petto immaginandosi la sua espressione apatica o le rare volte che sorrideva. Si vergognò di sé quando le labbra si piegarono in un sorriso stanco.
Le ore passarono lentamente. Per ingannare il tempo si mise a contare i secondi, i minuti, i quarti d’ora e di tanto in tanto lanciava un’occhiata alla finestra, concentrandosi sul cielo notturno e scorgendovi delle inesistenti sfumature rosee e grigie. Intanto attendeva l’alba. Sapeva che Greta non l’avrebbe fatta lavorare, perché così aveva detto il medico. Cosa avrebbe fatto, allora? Al posto suo sarebbe subentrata Adele e le cose si sarebbero sistemate come prima che arrivasse. Greta in cucina con Adele, Margareth e tutto il resto della servitù nelle loro abituali mansioni. Si chiese se qualcuno stesse pensando a lei in quell’istante, perché lei non era in grado di dire niente di sé. Qualcuno, una volta, le aveva detto che se non si sogna è perché qualcun altro sta sognando noi, in quel momento. Forse qualcuno la stava pensando. E quel qualcuno chi era? Non era mica Sperty? No, per carità. Sperty no. Si ricadeva di nuovo nel turbinio delirante d’angoscia e ira di prima.
Guardò il bicchiere.
Forse era arrivato il momento di bere quell’intruglio. Oddio, il solo odore era disgustoso, figurarsi il sapore.
Si sollevò su un gomito e prese il bicchiere, badando a non distendere troppo il braccio.
Magari, non pensando all’odore, tappandosi il naso, sarebbe stato facile bere …
Macché.
Ripose nuovamente il bicchiere sul comodino e poggiò il capo sul cuscino.
E nel frattempo guardava ora la finestra, ora il bicchiere.
E non riusciva a dormire.
E pensava a Sperty.
E al conte.
E a Sperty.
E il cuore accelerava la sua corsa, le pupille si dilatavano e i muscoli erano pronti a scattare in una corsa matta e le dita si tendevano e si piegavano nervosamente, alla ricerca di un appiglio. E quell’appiglio non lo trovava.
Un appiglio del cui odore si era impregnata la camicia da notte.
Forse, con un piccolo sforzo sulla propria volontà, avrebbe potuto allungarsi fino alla scatolina dei cerini, accendersi la candela e farsi un po’ di compagnia. Forse il riverbero della fiammella l’avrebbe aiutata a sentirsi meno sola.
Si allungò verso la poltrona, quasi cadendo dal letto, e afferrò la scatolina dei fiammiferi. Dopodiché ne accese uno e lo avvicinò al moccolo. La fiammella della candela era poco più intensa e, rassicurata dal poter vedere i confini della stanza, prima seppelliti dal buio, si tappò il naso e svuotò il bicchiere.
A svegliarla, poche ore dopo, fu il canto di Joffroy. Sentiva la testa pesante per via delle gocce e non riusciva a tenere gli occhi aperti senza sentire dolore ai bulbi oculari. Allora decise di riaddormentarsi e si svegliò quando Greta chiamò i domestici a raccolta per il pranzo. Nonostante quella fosse l’ora in cui solitamente le energie la percorrevano da capo a piedi ad una velocità spaventosa, adesso non era capace di sollevare neppure un dito senza sentirsi affaticata. Il bicchiere giaceva vuoto sul comodino e in bocca sentiva un sapore orribile; i capelli erano sparpagliati sul cuscino in una massa scarlatta e i laccetti della camicia da notte erano tra le dita della mano destra.
Malgrado non ne avesse voglia, scostò le coperte e si mise a sedere, la testa ciondolante e i piedi intorpiditi per l’improvviso contatto con il legno freddo del pavimento. Udì il trotto di un cavallo nel cortile, un suono di zoccoli che la convinse ad alzarsi e dirigersi, con lo stesso passo di un sonnambulo, alla finestra; con gli occhi semichiusi per l’effetto degli ansiolitici, vide il signor Langley smontare da cavallo, i capelli bagnati per la pioggia, zoppicare verso la scuderia tenendo Fedor per le briglie. Ma il cervello dormiva ancora, cosicchè mentre Mary entrava e le poggiava una mano sul braccio, lei guardava la brughiera oltre la tenuta e sollevava le sopracciglia nel vedere che le fronde degli alberi erano scosse da un vento leggero.
- Anya?
- Sì?
- Greta ha preparato il brodo di carne.
- Passami il corpetto. Grazie. Mi aiuteresti ad allacciarlo?
- Sulla camicia da notte?
- Non importa.
La cameriera obbedì alla richiesta e dopo le passò l’abito grigio.
Durante il pranzo molti servi furono meravigliati dall’aria incantata della ragazza. Non disse una parola e portava a termine ogni movimento con una lentezza compassata e lo sguardo perso nel vuoto. Qualcuno azzardò un’ipotesi circa la quantità del medicinale, altri, come Margareth, crederono che si trattasse solo di un effetto postumo.
Anya era cosciente, perfettamente consapevole delle azioni che compieva. Era resa debole dalla tristezza. Per tutto il pranzo non pensò ad altro se non al modo di rimettere in sesto il suo animo e di uscire dal limbo in cui era immersa, senza danneggiare chi le stava intorno. Guardò uno ad uno i suoi colleghi di lavoro. Ognuno di loro aveva lavorato tanto, s’era dato da fare e i segni erano evidenti: Anthony aveva gli stivali sporchi di fango e gli indumenti odoravano di stalla; Edgard portava ancora i segni del morso di Newton sulla mano, aveva il viso stanco e nulla di più, visto che era andato in paese a far compere; Anna, Ines e Mary avevano le mani bianchissime e le nocche rosse, segno che avevano fatto il bucato e, infine, le mani quasi immacolate di Margareth e i suoi occhi dolci e disciplinati al contempo, i modi spicci di Greta e la flemma di Adele. S’erano mossi tutti per il buon funzionamento della tenuta e lei, lei aveva poltrito e parassitato alimenti ed energie da altri. E non aveva avuto il coraggio di proferire neanche una parola, durante il pranzo, per quanto esagerato o anormale questo gesto fosse parso ai colleghi di lavoro.
Quando i domestici si dispersero dopo il pranzo, approfittando del fatto che fuori non pioveva più, si mise uno scialle addosso e s’andò a sedere sulla panca del cortile. Il paesaggio era illuminato dalla luce bianca del cattivo tempo, un vago grigiore colorava ogni cosa. In lontananza un banco di nebbia s’era adagiato sulla brughiera e prometteva di sparire presto, perché a Est il cielo era sereno e nel giro di pochi minuti sarebbe tornato il sole. Che tempo folle, quello del Marzo irlandese. Che tempo folle l’Aprile. È questo il mese del vero assestamento delle giornate, quello in cui piove di più in tutta la Primavera, quello che offre più speranze e dolori. Anya aveva sempre pensato che bisognava aspettarsi di tutto da un mese del genere e il tempo le aveva dato conferma. Nel giro di poche settimane la sua vita era stata stravolta, era fuggita dall’orfanotrofio in cui aveva vissuto per gran parte della sua infanzia, aveva perso la memoria, era stata aggredita da dei brutti ceffi, poi curata e presa a lavorare da un uomo che ammirava con tutta sé stessa. Ed era cambiata la vita di questo stesso uomo, in quell’arco di tempo.
Era rannicchiata sulla panca, le gambe piegate sotto la gonna e le braccia a tenerle ben strette al petto. Dalla cucina proveniva il brusio di alcuni servi e lo scricchiolio del legno delle sedie annunciava i loro movimenti. Per un attimo volse il capo in quella direzione. Poi distese le gambe e sollevò la manica della camicia all’altezza del gomito. Osservò il bendaggio che lo rivestiva, quindi trovò il capo della garza e iniziò srotolarla; la piega del braccio era segnata da un taglio poco profondo e preciso, praticato da uno strumento chirurgico ben affilato. Provò ad allontanare le labbra dalla ferita l’una dall’altra, per capire l’effetto che le faceva, ma dal fastidioso pizzicore capì che doveva ancora cicatrizzarsi. La bendò nuovamente alla bell’è meglio e reclinò il capo, gli occhi chiusi, concentrandosi sui suoni prodotti dall’ambiente.
Si alzò solo quando il cielo iniziò ad imbrunirsi. Anthony stava strigliando Fedor, che quella mattina era uscito con il conte e aveva il manto pieno di incrostazioni di fango.
- Sembra piacevole – mormorò carezzando la fronte del cavallo.
Anthony alzò appena lo sguardo. – Per me o per lui?
- Per entrambi.
- Spazzola tre cavalli, tra i quali quel matto di Newton, e ti faccio vedere quanto poi sia “piacevole”.
- Se vuoi posso aiutarti.
Il ragazzo le lanciò una rapida occhiata, mentre si chinava a strigliare anche le zampe anteriori. – Te ne sarei profondamente grato, ma ho sentito dire che dovresti riposarti.
- Mi sento bene – asserì lei. – Posso? – chiese indicando il pettine per la criniera.
Anthony fece spallucce. – Se proprio ci tieni … fai attenzione a dove ti metti, però. Fedor è un cavallo addomesticato, ma mantieniti sempre al suo fianco, mai completamente dietro di lui. Anche per spazzolare la coda.
Anya si liberò dello scialle, che poggiò sulla staccionata, e prese a occuparsi della criniera di Fedor. Al garrese era alto quanto lei e nel complesso era un vero e proprio bestione, con il petto prominente e i muscoli propulsori tipici dei cavalli da salto. Era un sauro e sulla fronte una lista bianca scendeva come un fiume da una collina, con un delta che avvolgeva il muso e si colorava di rosa e grigio in prossimità delle narici e della bocca. Delle quattro zampe, solo tre erano colorate da una balzana bianca.
- Sei molto bravo con i cavalli.
Anthony stava strigliando energicamente il dorso del cavallo, quando si bloccò e tirò su un angolo delle labbra in un sorriso beffardo.
- Dico davvero. Sai sempre come trattarli e conosci un sacco di trucchi.
- Mio padre faceva lo stalliere. È stato lui a insegnarmi quello che so … che non è tanto, ma mi basta.
- Lavorava qui?
- No … cioè, sì. Ha lavorato in questa tenuta per poco più di un anno, poi io l’ho sostituito. Diceva che era stanco e non se la sentiva più di badare ai cavalli, perciò un giorno ha deciso di insegnarmi questo mestiere e per un po’ di tempo mi ha fatto andare con lui, mi ha fatto vedere come si trattano i cavalli, come si classificano in base alla massa muscolare, all’altezza e un sacco di altre cose …
Anya sorrise, soffermandosi su una ciocca della criniera piena di nodi. – Ti ricordi la tua prima giornata di lavoro?
- Sì. Sì, me la ricordo. Avevo sedici anni e venni qui, con mio padre, come facevamo sempre, sul calessino di famiglia. Io ero convinto che mi avrebbe fatto fare delle nuove cose, anche se non era rimasto quasi niente da imparare; ma, non appena arrivammo e scesi dal calesse, mio padre mi guardò e mi disse: “Figliolo, ieri ho parlato di te al signor conte. Vuole vederti lavorare e io sono vecchio per continuare questa vita. Ci vediamo stasera, a casa”. A quel punto girò il calesse e tornò sui suoi passi, lasciandomi letteralmente a bocca aperta, laggiù, proprio al centro del cortile. Aveva appena oltrepassato il cancello, quando mi sentì toccare la spalla e mi girai di soprassalto. Il signor conte mi spedì immediatamente nella scuderia. Devo ammettere che all’inizio di lui avevo una paura matta; adesso, con quello che gli è successo, poveraccio, s’è calmato un po’, ma prima era un ordigno sempre acceso, pronto a scoppiare in qualunque momento.
La giovane scosse il capo, divertita. – Credi che vada bene così, la criniera?
Anthony annuì con un gran sorriso. – Questa sera parlerò di te al conte. Io sono vecchio per questo mestiere e tu sei l’erede che cerco.


Proprietà del duca Rudolph, Kilkenny.

- Dico, Catherine, vi costa tanto trattenere i vostri giudizi di fronte i miei amici? Avete frainteso tutto quanto ha detto il vecchio Coleridge!
Le labbra di Lady Catherine si esibirono in un sorriso fasullo. – “Frainteso”. Caro marito, mi dispiace dirvelo, ma a non capire nulla di quanto Coleridge ha detto per tutta la serata siete voi!
Sir Rudolph ignorò le parole della moglie. – E oserei aggiungere che state esagerando. Sì, state proprio turpiloquinando!
- Oh … - Lady Catherine rimase a bocca aperta. Guardando il marito con tanto d’occhi, si girò.
- Non meravigliatevi.
- Rudolph!
- Non fate finta!
- Adesso basta! Avrete bevuto certamente troppo vino perché possiate ragionare lucidamente. Coleridge ha insultato mio fratello! Come osate difenderlo e insinuare che io abbia frainteso ogni parola?
Sir Rudolph si umettò le labbra. Le mani, poggiate sui fianchi, ricaddero lungo di essi in un atteggiamento impaziente e i suoi occhi scuri fulminarono Lady Catherine. – Catherine, non vi permetto! Osare definirmi ubriaco va oltre ogni limite del rispetto. Coleridge non sapeva chi fosse vostro fratello, né se foste o meno figlia unica! Avete fatto e mi avete esposto ad una cattivissima figura, Catherine. Talmente brutta che non riesco a immaginare un modo per scusarci con Mr. Coleridge.
Lady Catherine sedette alla sedia di fronte lo specchio e iniziò a rimuovere le forcine che tenevano i capelli. – Oh, per favore!
- Avreste potuto trattenervi e consultarmi privatamente sulla faccenda, anche richiamandomi seduta stante, anziché definire impulsivamente Mr. Coleridge uno “zotico bugiardo”.
- Sapete una cosa, Rudolph? – fece Lady Catherine sciogliendo l’elegante crocchia della nuca. – Mr. Coleridge si è meritato ogni parola che gli ho detto e non mi pento affatto di averlo offeso, perché lui l’ha fatto con me e la mia famiglia. Immotivatamente.
Rudolph contrasse nervosamente i muscoli della mascella, trattenendosi da un possibile scatto d’ira. Per un istante respirò profondamente e si morse il dorso della mano sinistra, pensando ancora a qualcosa che potesse giustificare i comportamento di sua moglie con il vecchio Coleridge.
- Non una parola di più – disse scandendo ogni parola. – Non una parola di più. – Lady Catherine fece per intervenire, ma lui la bloccò alzando la voce. – Manderò questa sera stessa un biglietto a Mr. Coleridge per invitarlo alla colazione o al pranzo di domani. Tu farai in modo che avrà una calorosa accoglienza e farai preparare alla cuoca degli ottimi piatti. Gli chiederai scusa e ritirerai apertamente tutto quanto le tue labbra hanno pronunciato questa sera. Sono stato chiaro?
Lady Catherine distorse le labbra con aria profondamente irritata.
- Ha insultato mio fratello, Rudolph!
- Vostro fratello è un bevitore di whisky che sta sperperando la dote di vostra sorella nubile Rachel! Mr. Coleridge lo vede quasi tutti i giorni, come non definirlo “inetto”?
- Quindi siete dalla sua parte? – proruppe la donna afferrando il pettine a denti larghi.
- Non sono dalla sua parte, Catherine! Sto solo dicendo che il suo giudizio è parzialmente giustificabile. E poi, come poteva sapere che Frederick fosse vostro fratello?
- Non avrebbe dovuto sbilanciarsi!
Sir Rudolph fece un gesto stizzito con la mano. – Ah!
Lady Catherine prese a pettinare nervosamente i capelli, guardando l’immagine con il capo piegato di sé riflessa allo specchio e quella del marito, in piedi con lo sguardo nel vuoto, mentre pensava a qualcosa.
- Adesso esco da quella porta – disse Sir Rudolph indicando l’uscio e poggiando poi una mano alla sedia e l’altra al bordo del tavolo da toilette – e andrò a scrivere questo biglietto a Mr. Coleridge. Domattina, o all’ora di pranzo o quand’egli vorrà venire, tu ti scuserai con lui. Da quell’uomo, quell’anziano uomo dai baffi grigi, dipendono le nostre entrate future. Intendo comprare un terreno da lui e tu … tu dovrai tenere a bada la tua deliziosa boccuccia se non intendi farmi spendere cinquecento sterline in più. Sono stato chiaro?
- Lo farò solo per una questione di soldi. – disse lei, stizzita, dopo una lunga pausa.
Sir Rudolph sospirò, chiudendo gli occhi per un istante. Non era il massimo, ma andava bene ugualmente. Si sollevò e annuì.
- Cerca di convincerlo, allora. - disse uscendo dalla stanza.
Mr. Coleridge accettò l’invito del duca per la colazione. Non accennò alla discussione della sera prima e da gentiluomo sorvolò pure sull’argomento, nonostante Mrs. Rudolph si fosse scusata.
- Certamente la gravidanza vi ha resa più emotiva e suscettibile, Lady Catherine. Non posso biasimarvi, perché, al posto vostro, io avrei fatto la stessa identica cosa, difendendo la mia famiglia.
Così aveva liquidato l’argomento, ma quando sir Rudolph accennò alla vendita del terreno, Mr. Coleridge se ne uscì con un prezzo di cinquecento sterline superiore a quello precedentemente teorizzato.

Lady Catherine trascorse il resto della mattinata nella serra.
Si trattava di una costruzione in vetri opachi, di pochi metri quadrati, ma ricca d’ogni genere di piante, semi e diari contenenti meticolose osservazioni e appunti su caratteristiche e impieghi delle piante lì coltivate. Al centro della serra s’allungava un piccolo tavolo, quasi sempre sporco di terra e sede di foglie secche, rametti tranciati e strumenti da giardinaggio che non avevano mai conosciuto un posto tutto loro. Sul tavolo la moglie del duca svolgeva i proprio esperimenti, innesti e osservazioni; potature, composizioni di fiori in vasi decorati e quando non riusciva a venire a capo di qualche problema vi piantava un coltello e girava e rigirava la lama fino a che non trovava una soluzione; i buchi erano molti.
La serra si trovava in un giardino isolato dal resto della campagna, circondato di siepi piene di fiori e spazioso abbastanza per una lunga passeggiata; si trovava dietro la proprietà e per raggiungerlo si doveva attraversare questa stessa in tutta la sua larghezza. La porta per il giardino era in legno, ad arco, e i carini in ferro cigolavano rumorosamente ogniqualvolta la porta veniva aperta. Sir Rudolph aveva chiesto molte volte che venisse trovata una soluzione al problema, ma Mrs. Rudolph insisteva nel dire che quel cigolio era alquanto caratteristico e si sarebbe sentita contrariata se fosse stato eliminato.
Quella mattina stava sezionando accuratamente un rametto con un bisturi chirurgico, quando una serva proruppe nel giardino.
- La signora gradisce del tè?
- Ti ha mandato il signor Rudolph, Dolly? – chiese poggiando lentamente il bisturi sul tavolo e guardando la ragazza di sbieco.
- Sì, signora.
- Bene, Dolly. Portami pure una tazza di tè con latte e dei muffin con marmellata. Molta marmellata.
Appena la ragazza sparì oltre la pesante porta del giardino, Mrs. Rudolph estrasse il diario delle annotazioni da una breve schiera di volumi e lo aprì ad una pagina bianca. Stava per scrivervi sopra qualcosa, quando un alito di vento sfogliò alcune pagine già scritte e lo sguardo le si posò sul nome di una pianta che era stata suo oggetto d’esame qualche tempo prima.
“Ageratum houstonianum. Pianta dai fusti sottili, carnosi, di colore verde brillante che portano foglie ovali, finemente dentellate, di colore verde brillante anch’esse, dall’aspetto vellutato. Da aprile fino all’autunno, all’apice dei fusti, sbocciando piccoli fiori di colore azzurro, simili a piccoli pompon disordinati, riuniti in piccoli grappoli, che si stagliano al di sopra del fogliame. Le piante di agerato possono svilupparsi fino ad un’altezza …”
Con un tocco estremamente delicato sfogliò le pagine successive e le stirò con un ampio gesto. Poi, un sorriso malizioso sulle labbra sottili, scrisse un appunto sulla specie vegetale appena studiata.

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Capitolo 26
*** Capitolo XXIV ***


An irish tale – Capitolo XXIV



Contea di Kilkenny, Maggio 1856.

Il retro della proprietà Rudolph era il luogo più colorato e ricco di piante dell’intera tenuta, oltre che il più piacevole nelle belle giornate di sole e il più adatto alla riflessione.
La tenuta Rudolph era stata costruita in modo che la scuderia e l’entrata della servitù si trovassero non sul retro della casa, ma sul giardino laterale, che non era separato dal resto della proprietà, ma che differiva da essa in maniera evidente. La proprietà, invero, era caratterizzata da uno stile architettonico severo e adatto alla campagna per via della sua semplicità e per la presenza di eleganti porticati decorati con piante floreali; i muri esterni costituiti di mattoni sabbia scuro, che poggiavano su colonne doriche di una particolare tonalità di rosso spento e la presenza di finestre dai vetri sempre perfettamente puliti e dagli eleganti infissi in ferro.
L’ala destinata alla servitù, invece, era stata costruita dopo e con uno stile simile, ma palesemente differente da quello del corpo centrale della casa. C’erano i mattoni color ocra, gli infissi di ferro alle finestre e un piccolo porticato tramite il quale si accedeva alla cucina; ma persisteva un tratto austero, accentuato dalla siepe che impediva ai raggi solari di illuminare e valorizzare quell’angolo a dovere.
I porticati e le colonne rosse erano frutto della fantasia di Mrs. Rudolph. Abbelliti con rampicanti e fiori erano una vera e propria delizia da vedersi e, oltre all’osservazione e lo studio delle specie che affollavano la serra, l’attività quotidiana di Mrs. Rudolph si basava sulla cura e l’abbellimento di ogni angolo della proprietà, compresi i suoi adorati porticati. Era solita trascorrervi le ore del tardo pomeriggio o ospitarvi e intrattenere i suoi amici con qualche chiacchiera e una buona tazza di tè e latte. Il porticato che soverchiava l’entrata principale era decorato da dei lillà e un’edera curatissima, mentre quello che circondava la pesante porta per il giardino sul retro, che era anche quello in cui Mrs. Rudolph passava più tempo, era coloratissimo e si allungava in un sentiero di ghiaietto fino alla serra.
Si trovava lì, dopo aver concluso un soddisfacente studio su una pianta: seduta al tavolino, nel giardino retrostante la casa. Dolly, in piedi, al suo fianco, le versava il tè, mentre lei spalmava una buona quantità di marmellata su una fetta di pane. Era tardo pomeriggio e una giornata di sole stava spegnendosi con caldi raggi rossi e arancioni.
- Dolly, c’è della corrispondenza per me? – disse immergendo il cucchiaino nella ciotola della marmellata.
La cameriera avvicinò la tazza e il piattino alla duchessa con dei movimenti cauti. Appena ebbe versato il latte frugò nella tasca del candido grembiule. – Mi ha battuto in tempo, signora. Stavo quasi per consegnarle questo. È un messaggio da parte di Lady Corinne Langley, dalla contea di Waterford.
Lady Catherine si pulì le dita su un tovagliolo di lino. – Quando è arrivato?
- Non più di mezz’ora fa. Ma eravate impegnata nella serra e non ho voluto disturbarvi.
La duchessa rigirò la lettera fra le mani. – Lady Corinne Langley – ripeté lentamente tra sé. Aprì la busta con il coltello per il pane e ne estrasse un foglio sottile. – Grazie, Dolly.
Appena la ragazza si fu allontanata, aspettando in piedi nuovi ordini, Mrs. Rudolph lesse il contenuto del messaggio. Un leggero sorriso le increspava le labbra. “Carissima Catherine” cominciava, “amica mia, penso che solo colui che detta le leggi del mondo conosca i patimenti che scoloriscono la mia attuale vita. La monotonia delle giornate mi angoscia terribilmente e fa aumentare in me il desiderio di attraversare le poche miglia che ci separano e rivivere dei tempi non troppo lontani, colorati e gioiosi. Il mio adorato Ernest fra qualche settimana partirà per Dublino e mi ha lasciata libera di fare quel che mi pare. Cara Catherine, più passano gli attimi, più mi convinco che la scelta di venire a trovarti rappresenti per me un richiamo alla vita, il ricordo che anche da adulti si può essere spensierati.
Ho da poco avuto notizie di Sir Paride Langley, mio nipote, e il sapere che il Signore ha tentato di prenderlo con sé mi ha colmato il cuore di inquietudine. Tuttavia non ho potuto fargli visita e gli ho spedito delle lettere per avere notizie sulla sua salute, che ora so essere migliorata; non ho avuto alcuna risposta e credo che andrò da lui quanto prima, sperando in una calorosa accoglienza. Auspici romantici, ma dettati dal cuore.”
Alcuni righi prima che la lettera finisse, Lady Catherine stava tormentando una ciocca della fronte.
Aveva sorriso ad ogni “carissima”, “adorato”, “affezionato” e sorrideva cinicamente anche adesso che la lettera volgeva al termine. Corinne Langley non era mai stata sua amica, o almeno lei non l’aveva mai considerata tale. Semplice conoscenza sarebbe stato il termine più appropriato, anche se “conoscenza” la convinceva ancor meno di “amica”. Non si poteva, infatti, definire “conoscenza” una persona di cui si sa poco. Certo, nel convenzionale siffatto termine aveva questo significato, ma per lei no. Corinne Langley era una donna alla quale attribuire una definizione era difficile. Mutevole, alle volte romantica, alle volte cinica e fredda; ricca e povera; amica, poi nemica. Una volta le parve di aver sentito dire che Sir Langley non la voleva più vedere; ma da allora erano trascorsi quasi sei anni e in sei anni era convinta che avrebbe potuto cambiare idea.
Diede un morso alla fetta di pane con marmellata, tirando da una parte il messaggio con un sospiro stanco. Poi, d’improvviso, mise il pane sul piatto e si alzò.
- Porta tutto via, Dolly. Non ho più fame – asserì con una smorfia. Prima di andare via infilò la lettera nella tasca del suo abito indaco.


Waterford City, Contea di Waterford.

- Si dice che il motivo per cui l’ispettore Hurlstone sia dovuto tornare a Dublino è un forte raffreddore … - disse il signor Boulangher mentre lui e Langley passeggiavano per le vie del centro.
- Io, da parte mia, signor Boulangher, non ne ho la più pallida idea – asserì il conte – di sicuro ci sono i problemi di salute, ma nessuno sa cosa gli sia successo di preciso.
- Quel ragazzo… sempre così riservato! Non credete anche voi, signor Langley?
Langley cedette il passo ad una coppia di signore con delle gonne enormi, che si girò a guardare per un istante. – Credo, signor Boulangher, credo anch’io – annuì lentamente tornando sui suoi passi. – Ma sono del tutto convinto che una tale riservatezza è pienamente giustificata. Dopotutto Alexandre Hurlstone è un ispettore e non gioverebbe alla sua carriera far sapere all’intera contea quali siano le sue condizioni di salute.
La strada in cui stavano camminando era tra le più affollate di Waterford City, con il suo gran numero di negozi e vetture, da nolo e private, che intasavano il traffico e non permettevano il regolare flusso di gente. Langley e Boulangher furono più volte sul punto di dover interrompere la conversazione per far passare delle coppie a braccetto o una banda di bambini schiamazzanti, un venditore ambulante di noccioline caramellate, o ancora delle donne seguite da domestici carichi di pacchi d’ogni sorta.
- Non gioverebbe alla sua carriera far conoscere alla gente quali siano le sue condizioni? Signor Langley, suvvia, cosa dite mai? Spiegatevi, ve ne prego.
Il conte si strinse nelle spalle. – Beh, provate un po’ ad immaginare un criminale sui cui passi v’è l’ispettore. Se sapesse quali patimenti affliggono il suo inseguitore non gli sarebbe difficile restringere il campo delle ricerche agli ospedali o alla casa di qualche familiare dell’ispettore, e così rintracciarlo. Pensate quali potrebbero essere le conseguenze di una tale azione … no, io credo che l’ispettore Hurlstone faccia bene ad essere così riservato. E poi, oltre al pericolo di essere messo fuori uso da un malvivente qualsiasi, che male c’è nel tenere per sé certe informazioni?
Boulangher corrugò il mento, spingendo verso il basso gli angoli della bocca. – Se la mettete così, non posso che darvi ragione, conte – disse, fermandosi di fronte la vetrina di un’importante sartoria. – ma sono pur sempre un caro amico dell’ispettore e poteva avvisarmi … anzi, avvisarci.
Poco distante da loro una vettura da nolo caricò un paio di uomini e scricchiolò rumorosamente sulla strada. Il giudice fissava insistentemente una giacca dietro la vetrina, torturando il pomello del suo bastone con le mani avvolte da guanti in pelle verde.
- Una belle giacca, non dite anche voi, conte?
Il modello indicato dall’uomo era poggiato su di un manichino di legno verniciato e consisteva in una giacca grigio antracite, lunga fino alla coscia e con degli eleganti bottoni di un nero lucido. A giudicare dal grado di opacità del tessuto non poteva che essere stata realizzata con il cotone inglese, oltre al fatto che anche il taglio e la forma del modello intero erano di sicura origine britannica.
- Discreta.
- Discreta? Sarà l’influenza della mia cara sorella Romilda, ma posso assicurarvi che giacche come queste vanno molto di moda ultimamente e fareste un figurone portandone una. Titubate? Caro ragazzo, avessi avuto le vostre spalle, senza modestia, sarei stato la benedizione di tutte le sartorie di Waterford e dintorni! A proposito di giacche … - sbottò dopo l’ennesima occhiata orgogliosa all’indumento in vetrina – mi pare di avervi sentito parlare della necessità di farvi realizzare una nuova redingote, recentemente. Potrei consigliarvi un paio di sarti, sono inglesi, ma svolgono il loro lavoro con grande maestria.
Dalla vetrina Langley vide che il proprietario della bottega li fissava sperando che entrassero. Stava prendendo le misure ad un bambino, poco distante dal quale v’era una donna seduta, ma il giudice non parve badarvi più di tanto, perché con un ultimo sguardo si allontanò dalla vetrina.
- Grazie, signor Boulangher, ma ho già incaricato il mio sarto di fiducia, in proposito. Mi consegnerà la nuova redingote la prossima settimana.
Il giudice assentì, unendo le mani dietro la schiena. – Siete proprio sicuro di voler rinunciare ad un gioiellino del genere? Va molto di moda ...
- Domani non lo sarà più.
- Suvvia, non siate sempre così pessimista! Approfittate di questa meravigliosa giornata di Primavera e lasciatevi andare al marasma di aromi e piacevoli sensazioni che essa porta con sé. Siete giovane, dovreste pensarci voi a queste cose, non farvi spronare da un vecchio alla fine dei suoi tempi!
Al conte sfuggì un sorriso. Effettivamente non poteva negare che quella era una delle più splendide e calde giornate che gli era capitato di vedere dall’inizio della stagione. Il sole era sorto senza che una sola nuvole lo disturbasse e il clima andava facendosi sempre più caldo con il passare dei giorni. Le strade erano più affollate e i negozi facevano molti più affari rispetto alla stagione fredda. In città la presenza dei palazzi rendeva l’aria soffocante e nonostante la loro modesta altezza il vento non soffiava a dovere.
In campagna l’aria che si respirava era diversa. Il vento profumava dei frutti selvatici che stavano crescendo nei cespugli e della clorofilla delle piante che venivano potate. I campi a maggese si erano colorati di una particolare tinta dorata e le capre salivano e scendevano dai declivi delle colline, inseguite da un esperto cane pastore che saltava talvolta sul loro dorso per controllare meglio il suo lavoro. Il cielo andava via via depurandosi dalle grigie nuvole invernali e le piogge erano frequenti quanto piacevoli, perché facevano sollevare il forte odore della terra brunastra e regalavano al paesaggio tinte forti e caratteristiche.
Maggio era il mese dell’assestamento e segnava l’inizio del periodo di mietitura del frumento.
Con la vendita dei primi frutti raccolti Hobson era riuscito a colmare parte della buca scavata dal debito di milletrecentotre sterline prodottosi nell’inverno scorso e anche la tosatura delle capre e delle pecore dei recinti a Nord aveva dato i suoi frutti.
Non si poteva dire che la primavera non prospettasse nulla di buono.
Un’affermazione del giudice Boulangher lo distolse dal flusso di pensieri. – Le tre e mezza! Romilda mi aspetta per le quattro, quindi abbiamo ancora una mezz’ora buona per parlare … sempre che vogliate concludere la vostra passeggiata a casa mia, signor Langley. Vi va di rimanere per pranzo?
Il capo del conte oscillò con un’aria di indecisione. – Sono obbligato a rimandare il nostro pranzo per un’altra volta, signor Boulangher. Dopo mangiato ho un appuntamento con il mio amministratore e non posso mancarvi per nessuna ragione al mondo.
- Oh, ma la prossima volta, volente o nolente resterete a mangiare a casa mia. Se temete di recare disturbo siete uno sciocco.
Il conte sollevò una mano, in difesa. – Non ho paura di disturbare e, di conseguenza, non credo di essere uno sciocco, signor Boulangher. Dovete prendere una vettura?
Mentre parlavano si erano avvicinati ad una carrozza vuota e il giudice aveva fatto cenno al cocchiere di volervi salire.
- Se non venite a pranzo debbo proseguire in carrozza da solo. Credevo che voi mi avreste accompagnato, ma dal momento che avete da fare …
- Mi dispiace davvero, signor Boulangher, ma non posso proprio accontentarvi – disse il conte scuotendo ancora il capo.
- Bene, allora io vado. Mi ha fatto piacere incontrarvi, signor Langley. Più passa il tempo, più il vostro fisico ne giova, e questo è un bene.
Il conte sollevò un sopracciglio, assumendo una strana espressione. – Arrivederci, signor Boulangher. Fate avere a vostra sorella i miei saluti.
Intorno a loro s’era radunata una piccola folla. Alcune vetture da nolo avevano terminato il loro giro e un gruppetto di persone sollevò le braccia per farne fermare qualcuna.
- Potete contarci! – gli rispose il giudice, mentre saliva in carrozza. Il conte guardò il mezzo allontanarsi, mentre, in piedi, sul bordo del marciapiede, apriva il suo portasigarette d’argento e addentava una sigaretta con fare distratto.
Le vetture da nolo, nel frattempo, erano impegnate a caricare la gran quantità di gente che s’era radunata sul marciapiede. Quando la sigaretta del signor Langley si era già consumata per metà quell’angolo si era svuotato quasi del tutto e solo le urla di un negoziante al garzone turbavano più del dovuto la quiete della strada, perché, per il resto, i rumori erano i soliti: lo scricchiolio delle carrozze sulla pavimentazione stradale, il rumore degli zoccoli, lo sbuffo dei cavalli e il rumore delle posate che preannunciava la preparazione della tavola al pranzo di una qualche famiglia benestante dei piani alti. Ogni azione, ogni suono, rumore, profumo, sensazione, indovinava la preparazione del pasto principale della giornata. L’odore di un arrosto con patate al forno da una casa vicina, gli ordini impettiti di una governante alla sottoposta, al primo piano del palazzo a mattoni rossi di fronte al quale stazionava il signor Langley; l’occhiata indagatrice di Brunton, il pasticcere del viale, che si sporgeva dalla porta del suo negozio alla ricerca di clienti ai quali vendere i dolci residui del mattino; o ancora una elegante carrozza privata che procedeva ad una velocità non proprio normale, possibilmente dietro richiesta della signora che vi era dentro e che, persa negli acquisti mattutini, non si era accorta per tempo dell’ora tarda e adesso correva verso casa per le ultime direttive riguardanti il pranzo.
Svogliatamente il conte estrasse l’orologio da taschino dal panciotto e lesse l’orario. Sarebbe stato meglio far fermare una vettura e tornare alla tenuta, se non si voleva ritardare all’appuntamento con Hobson. Rimettendo l’orologio a posto, alzò lo sguardo sulla strada e si incamminò verso il luogo di sosta di una vettura. Attraversò la strada e proseguì per una cinquantina di metri a passo spedito. Quando stava per raggiungere la carrozza, però, un uomo salì prima di lui e il cocchiere partì con un solo colpo di frusta.
- Maledizione! – sbottò con un brusco movimento della mano. Un paio d’ore prima aveva congedato Edgard con tutto il cocchio e adesso se ne pentiva amaramente. In strada c’era un gran via vai di vetture, ma nessuna di quelle da nolo pareva aver condotto a destinazione il cliente che trasportava e gli passavano tutte davanti, senza mai dare cenni di rallentamento. Gli venne da pensare a tutte le volte che l’andatura della sua carrozza era stata bloccata da una vettura da nolo ferma in cerca di clienti e al fatto che ora che ne aveva bisogno non ne vedeva fermarsi neppure una. Si guardò intorno per una buona decina di minuti, poi, con uno sbuffo, si mise a camminare. Aveva percorso poche decine di metri e si trovava ancora in Merchant Quay, quando, sul bordo di un marciapiede, vide una bambina seduta con le ginocchia attaccate al petto. Non la notò subito. Stava camminando a passo veloce con lo sguardo basso, quando udì la sua vocina chiamarlo con un “Signore!”. Si girò verso di lei con le mani ancora in tasca, interrompendo la sua rapida marcia. In un primo momento credé che volesse chiedergli l’elemosina, ma le trecce ordinate e gli abiti puliti lo portarono a pensare a tutt’altro.
- Qui siamo a Merchant Quay?
Lui si grattò la fronte, sistemandosi poi il cilindro sul capo. – Sì.
- Allora mi sono persa – mormorò seccata quella volgendo lo sguardo alla strada.
Langley sospirò. – Dove sono i tuoi genitori? – chiese guardandosi intorno. Se quella situazione poteva concludersi presto non chiedeva altro.
La bambina sgranò impercettibilmente gli occhi, fissandoli su un punto indefinito davanti a sé; poi si girò e guardò il conte dritto in faccia. – Non li ho – disse alzandosi.
Langley non sapeva cosa fare. Odiava dover parlare con dei bambini, da che era in vita aveva sempre evitato di cacciarsi in situazioni del genere. D’un tratto gli venne un’idea e le chiese il nome.
- Mi chiamo Emily, signore.
- Emily? – balbettò col cuore in gola. – Emily? Ma certo, che domande …
- Potreste aiutarmi ad attraversare la strada, signore? Credo di essermi ricordata il tragitto da percorrere.
Langley volse uno sguardo obliquo alla strada, dopodiché controllò l’orario e pensò che poteva sempre arrivare puntuale all’incontro con Hobson. – Certamente … Emily – annuì. – Seguimi. – aggiunse scendendo dal marciapiede. La bambina gli si mise subito di fianco e lo imitò guardando la strada da ambedue i lati. In confronto a qualche ora prima c’erano meno carrozze, ma attraversare poteva comunque risultare pericoloso. Quando Langley si mosse lei lo seguì con dei piccoli passi rapidi e giunse al marciapiede opposto dopo essersi fermata per far passare un uomo a cavallo al trotto.
- Ti ricordi la strada da prendere, allora? – le chiese Langley inclinando il capo.
Come prima, lei lo squadrò con occhi indagatori. – Devo recarmi al E. W. Stevenson Orphanage, signore.
- Non ne ho mai sentito parlare. È nelle vicinanze?
- Fate molte domande, signore.
Sul viso del conte si disegnò un’espressione sorpresa. – Già. È vero … - balbettò – ti chiedo scusa.
- Vi ringrazio per avermi aiutato ad attraversare la strada, signore.
Si trovavano all’angolo compreso tra Merchant Quay e Vulcan street Ed Emily indicò quest’ultima. – Adesso vado. Miss Ferrier sarà molto in pena per me.
Langley assentì senza dire una parola. Alla fine gli uscì solo un “Va bene, d’accordo” sconclusionato ed Emily aveva mosso i primi passi in direzione di Vulcan street quando, osservandola allontanarsi, si avvide della presenza di un gruppetto di ragazzini lungo la via.
- Emily? – la chiamò, pentendosene immediatamente. Offrendosi di accompagnarla poteva sempre dare una cattiva impressione, ma la bambina si girò verso di lui e lo chiamò un’altra volta.
Fu così che si ritrovarono nuovamente uno di fianco all’altra, camminare lungo una via zeppa di gente che incedeva in ogni direzione. Lui procedeva con le mani unite dietro la schiena, gli occhi un po’ sulla strada di fronte a sé, un po’ ad Emily che camminava silenziosamente e sbuffava per l’impazienza di arrivare a destinazione. Aveva dato per perso il pranzo e con il passare dei minuti, anche le speranze di presenziare all’appuntamento con l’amministratore si erano vanificate. Erano già le quattro e le mani scuotevano nervosamente i guanti che aveva dismesso, quando si sentì tirare la giacca.
- Signore, credo che l’istituto sia da quella parte – disse Emily indicando la biforcazione destra di Vulcan street.
- Credi?
- Beh, ad essere sincera non ne sono completamente convinta, ma …
- Ricordi la strada che hai percorso all’andata?
La bambina fece spallucce e Langley si tolse il cappello, passandosi una mano fra i capelli, impaziente. – Vuoi che ti accompagni io? – L’espressione di Emily era assai eloquente. – D’accordo. Può darsi che troviamo la strada, insieme. Come hai detto che si chiama l’istituto?

Il primo tentativo di raggiungere l’orfanotrofio fu un errore. Emily aveva sbagliato la direzione da prendere e avevano camminato per una buona mezz’ora alla ricerca dell’edificio, senza però trovarlo. Solamente alla fine Emily si accorse dell’errore e lei e Langley avevano fatto dietrofront, procedendo a passo spedito fino all’incrocio con Merchant Quay. Dal canto suo Langley si era già rassegnato all’idea di un sostanzioso pranzo nel salone della sua tenuta e iniziava ad avvertire un certo languorino. Anche la bambina che gli camminava di fianco doveva aver fame; in un momento di particolare silenzio sentì il suo piccolo stomaco gorgogliare. Da qualche parte, dentro di lui, avvertì un’insolita sensazione di fastidio, un istinto di protezione destinato a rimaner incompleto onde evitare maliziose reazioni. Un uomo, nel lato opposto della strada, vendeva delle noccioline caramellate, preparate al momento; per un po’ la bambina volse i propri occhi a quel tale, poi lanciò un’occhiata fugace al conte e si riconcentrò sulla strada.
Camminarono fino a che l’orologio segnò le quattro e venti. Nonostante fosse guarito dall’incidente che gli aveva procurato due ferite, la marcia alla quale l’aveva sottoposto la piccola Emily gli aveva fatto tornare il dolore alla gamba e alla schiena. Gli ultimi passi, prima che la bambina alzasse un braccio e indicasse l’edificio a mattoni scuri circondato da un ampio prato verde, li percorse zoppicando.
- E’ quello, signore! È l’istituto!
- Bene – sospirò lui. – Vedi la tua maestra?
Nel prato i bambini giocavano con una palla di cuoio battuto e due maestre richiamavano un paio di essi all’ordine. Langley le osservò entrambe con curiosità.
- Vedo Miss Ferrier … temo che si arrabbierà molto per quello che ho fatto. Se arrabbiata non sia già!
- C’è un’entrata?
La bambina indicò un lato della recinzione.
- Posso? – chiese posando una mano sul cancelletto. Ma la bambina lo spalancò e corse in direzione degli altri bambini, che l’accolsero festosi. Il conte si richiuse il portoncino dietro le spalle e avanzò lentamente per il soffice prato dell’istituto. Un gruppetto di bambini lo circondò e qualcuno tirò il bordo della sua giacca, chiedendogli il nome, il permesso di vedere i cavalli della sua carrozza o elencandogli una serie di nomi di giochi a lui sconosciuti.
- Siete adorab… ehi! Il mio bastone… no! Il cappotto … oh, sì, una bellissima palla, complimenti! Magari dopo, eh? Giochiamo dopo! Dopo! – esclamava cercando di districarsi attraverso quel coro di marmocchi festanti.
- Bambini! Tornate ai vostri giochi, su! Lasciate stare il signore! – intervenne improvvisamente una giovane donna, sollevando l’orlo della gonna mentre s’avvicinava. Aveva i capelli scuri, raccolti in un’acconciatura scarmigliata, con una cascata di ciocche che le finivano sul viso e sui vispi occhi castani. – Scusate, signore, ma sapete come sono …
- Non preoccupatevi. Sono stato bambino anche io. – rispose lui sistemandosi il cappotto.
La maestra rise. – Già, è vero, lo siamo stati tutti – disse. – Io comunque sono Miss Ferrier. Siete venuto per un giro?
- Ad essere sincero no – rispose dopo essersi presentato. – A portarmi qui è stata una vostra alunna, Emily.
La donna strabuzzò gli occhi. – Emily? Una bambina con i capelli castano chiaro e gli occhi verdi? Alta così?
- S-sì. L’ho trovata in Merchant Quay. Diceva di aver smarrito la strada.
- Piccola delinquente! – sbottò Miss Ferrier tra sé scrutando il gruppo di bambini nel prato. – Oh, non guardatemi in quel modo … Emily è scappata questa mattina, lasciando il fagotto che s’era preparata sul divano d’ingresso. Ci ha fatto stare in pensiero per una giornata intera! Eccola lì … ah, ma avrà la punizione che si merita!
Una forte sensazione di colpa, mista ad imbarazzo gli colpì lo stomaco e il petto. – Suvvia, Miss Ferrier, non avrà poi fatto nulla di così grave …
- Non preoccupatevi per lei, signor Langley. È una bambina discola e molto golosa. Le basterà una sera di digiuno per iniziare a pensarla diversamente.
Langley sospirò impercettibilmente.
- Vi ha fatto spendere dei soldi, per caso?
- No, ma non vedo che problema …
- Ne sono contenta.
Miss Ferrier puntò nuovamente gli occhi sulla squadra di bambini che giocava a palla. – Patty! – gridò in direzione di una donna più grande. – Scusate, Mr. Langley. Patty! Riprendi Jonathan! Poveri fiori ... una stagione per crescere, una pallonata per morire! Jonathan!
- Bene, Miss Ferrier – iniziò lui estraendo i guanti dalla tasca del cappotto. – Tolgo il disturbo.
- Scusatemi, Mr. Langley, in momenti come questi non sono quasi mai capace di prestare la giusta attenzione agli ospiti. – asserì tornando da lui. - Tutt’al più che abbiamo quella squadra di birichini in circolo! Vi ringrazio infinitamente per aver riportato Emily indietro … questa è stata una bruttissima giornata, per me.
- E’ stata lei a chiedermi di accompagnarla!
- Avete mancato a degli impegni importanti, Mr. Langley?
Il conte si infilò i guanti. – No, nessuno.
- Perfetto. Arrivederci, allora.
- Arrivederci, Miss Ferrier – la salutò, allontanandosi lentamente lungo il prato dell’istituto.
- Tornerà a trovarci? – sentì gridare da dietro le sue spalle. Come risposta si girò e le sorrise di rimando, annuendo una sola volta. Miss Ferrier alzò una mano in segno di saluto e lui si sistemò il cappello, prima di varcare la soglia della recinzione.

Raggiunse la tenuta in non meno di mezz’ora. Noleggiò una vettura a pochi passi dall’orfanotrofio e il cocchiere gli disse che con la strada dissestata non sarebbe stato un viaggio comodo fino alla campagna, quando il conte gli comunicò la destinazione.
Quando arrivò, nel cortile non incontrò nessuno dei servi. Dopotutto era sabato pomeriggio e una situazione del genere era pressoché normale nel fine settimana. A chi abitava molto lontano da Waterford city, di solito, permetteva di tornare a casa anche con un giorno di anticipo e tra questi v’era Sam, uno dei domestici più facilmente reperibili all’esterno della tenuta. Pagò lautamente il cocchiere e venne accolto da Hunt, che gli saltellò un po’ intorno e ricercò le carezze strofinando il muso sulla mano del conte.
- Caro, vecchio Hunt … - sussurrò inginocchiandosi all’altezza della bestiola. Il cane si buttò a terra, a zampe all’aria e lasciò che il padrone gli carezzasse il petto e la pancia, come gli piaceva tanto. – Dove sei stato, oggi, eh? Ti sei inzaccherato tutte le zampe di fango! Ma guardati … - e riprese a carezzargli il muso nero e il mento.
Rialzandosi tirò fuori dal taschino del gilet l’orologio e lesse che erano già le cinque passate. Avrebbe dovuto incontrare Hobson alle quattro e mezza. Decise di spedirgli un messaggio, più tardi e, nel frattempo, di lasciar perdere ogni cosa. Si diresse, perciò, nella scuderia e vi trovò l’odore familiare dei cavalli; la sella e i finimenti di Fedor, come sempre, erano sistemati su un apposito sostegno e unti a dovere. Vi passò un dito su e Fedor diede un colpo di zoccolo alla porta del suo box.
- Fedor, caro … mi dispiace, ma sono stanco per una corsa. – disse carezzandogli la fronte. Si abbassò per estrarre una manciata di fieno da una balla, quando, voltandosi in direzione del box di Ilizia, si accorse che la porta del suo box era socchiusa. La mano mollò la presa del fieno, mentre con un balzo raggiunse il box e guardò dentro. Era vuoto.
Il cuore prese a battergli a tonfi sordi, le mani tremarono, il sangue cominciò a circolare ad una matta velocità in ogni angolo del corpo e lui dovette sedersi sulla balla di fieno per non cadere svenuto.
Per un po’ non fu in grado di comprendere appieno ciò che era accaduto. Con la fronte poggiata alle dita e i gomiti sulle ginocchia, rimase ad ascoltare il suo respiro accelerato, a torturare la fronte madida di sudore con le dita. Riusciva solamente a dare una direzione al suo sguardo, che volgeva continuamente e disperatamente al box di Ilizia.
Anthony. Sam. Erano loro che si occupavano rispettivamente dei cavalli e della manutenzione della tenuta. Anthony aveva svolto egregiamente il suo lavoro, come ogni giorno, lasciando tutto in perfetto ordine; Sam, invece, non c’era. Conoscendolo, doveva già essere a casa sua, a cinquanta miglia dal confine con la contea di Kilkenny. Di lui non poteva sospettare, perché probabilmente era partito di mattina presto, lasciando detto ad Anthony di informare Margareth del suo allontanamento. Sì, che stupido. Era stato avvisato lui stesso, quella mattina, a colazione. Stava leggendo il giornale, quando Margareth era entrata in sala da pranzo e glielo aveva detto. Poteva perfino ricordarsi il modo in cui era vestita … oh, ma che sciocchezze! Pensare al vestito della sua governante quando un cavallo era sparito e si presentava la necessità di trovarlo al più presto. Anche se la cosa più logica era prima trovare il responsabile di tutta quella faccenda e convincerlo a sputare la verità con le brutte o … le brutte.
Anthony era nella tenuta. Lui, certamente, doveva sapere qualcosa.
Fuori di sé per la rabbia si alzò con uno scatto e corse verso la cucina, dove trovò Greta intenta a rigirare della marmellata in un grosso tegame.
- Signor conte, bentornato. Non vi ho sentito arriv …
- Greta, dov’è Anthony?
- Sarà nella sua stanza, signore. Ha detto che …
Svelto come un furetto il conte uscì dalla cucina e si inerpicò per le scale, salendo i gradini due o tre alla volta; con foga attraversò il corridoio ed entrò senza bussare nella camera dello stalliere, che si svegliò di soprassalto.
- Brutto idiota! – esclamò il conte afferrandolo per il bavero. – Dov’è Ilizia? Parla o giuro su quanto ho di più caro che ti spacco la faccia se non me lo dici!
Vani furono i tentativi di schermirsi dello stalliere. – Signore, non capisco di cosa state parlando!
Langley lo colpì allo zigomo, facendolo cadere sulla branda. – Ilizia non è più nel suo box! – gridò prendendolo un’altra volta per il colletto. – Sei tu lo stalliere, qui! Allora, dove l’hai messa?
Il ragazzo si portò una mano al viso, avvedendosi, con sconcerto, di perdere sangue dalla gote. – Signore, io non ne so niente! Sono sorpreso almeno quanto voi!
- Signor conte, si può sapere cosa sta succedendo? – esclamò Greta dall’uscio.
Langley si girò furente verso la porta. – Figlio d… diglielo! Dille che hai fatto! Dille cosa è successo per colpa tua!
Anthony tamponò lo zigomo con il dorso della manica e stava per parlare quando il conte lasciò malamente la presa e lui ricadde sulla branda con un tonfo. Mentre, lentamente, si rialzava, vide il conte prendersi la testa fra le mani e voltarsi in direzione della finestra con un’aria disperata.
- Lasciate almeno che vi spieghi!
- “Spiegarti”? e cosa devi spiegare? L’ennesima mancanza in un lavoro di responsabilità? Eh? Sei licenziato, Anthony! Qui, su due piedi! Sei dispensato da ogni servigio! – gridò uscendo dalla camera.
Nel cortile si sentiva più disorientato di prima. A causa del giramento di testa dovette poggiarsi al muro e gli occhi non riuscivano a far altro che fissare freneticamente il portone della scuderia aperto a metà, mentre la mente elaborava le più disparate congetture circa la possibile dinamica del furto. Hunt gli si sedette vicino e un paio di volte tentò di consolarlo abbaiando agli uccellini che planavano nel cortile. Ma ciò che riusciva ad ottenere dal padrone, la sola cosa, era un’irritatissima ingiunzione di stare zitto e andare a cuccia.
Ben presto Langley prese a camminare avanti a indietro nel cortile, le mani unite dietro la schiena oppure fra i capelli. Come un disperato entrò più volte nella scuderia, raggiunse il box della cavalla scomparsa e lo osservò attentamente da capo a piedi, ricercando un fantomatico indizio che potesse metterlo sulle tracce del ladro.
Poi, quando il colore dei raggi solari iniziò a scaldarsi, entrò in casa e corse nel suo studio, deciso a scrivere alla stazione di polizia di Waterford city.
Gli era venuto in mente che poteva prendere il cavallo e cercare da sé Ilizia, ma, vasta per com’era la brughiera nella quale era immerso, sarebbe stato parecchio difficile individuare la giusta direzione da prendere. Solamente prima del tramonto, dopo un’accanita discussione con la governante, il capo poggiato alla scrivania nuda, sentì il leggero scalpiccio di un cavallo in cortile. A qualche centimetro dalla sua testa, un posacenere pieno di cenere e mozziconi di sigarette. In un primo momento, aperti di scatto gli occhi, credé si trattasse di un sogno, ma ben presto il rumore si fece più distinto e lui riconobbe il passo. Con uno schiaffo scostò la tenda e guardò il cortile dall’alto. La luce dei raggi solari gli ferì gli occhi, ma si impose di vedere cosa stava accadendo in cortile e batté le palpebre per abituarsi al riverbero. Vide qualcuno entrare nella scuderia, seguito da Ilizia. Le mani corsero alla maniglia della finestra e tentò di aprirla, senza risultato. Girò la chiave nella toppa metallica e la strattonò, prima di arrendersi e uscire di corsa dalla porta. Sul pavimento dello studio, sparsi disordinatamente, v’erano i fogli e le cartelle della scrivania.
Langley si ritrovò in cortile quasi senza rendersene conto. La luce del sole illuminava la polvere sollevata da ogni passo e restringeva magneticamente le iridi grigio verdi furibonde, che saettavano e si appuntavano, ferme, sulla pesante porta del basso edificio che si faceva sempre più vicina. Le mani strette in due pugni ebbero un fremito, quando un’esile figura in abiti maschili comparve sull’uscio della scuderia; una figura che si bloccò di botto quando la lunga ombra del conte la soverchiò. Indossava un cappello a tesa larga, polveroso e di un marrone stinto dal sole e degli abiti anch’essi rovinati all’altezza dei polsi, delle ginocchia, dei gomiti e del colletto. Da sotto il cappello, il conte vide che il ragazzo sollevò appena il capo e mosse nervosamente le labbra, deglutendo. Gli strappò via il copricapo e quando lo vide in faccia, rimase a bocca aperta.
- Tu?!
Anya abbassò lo sguardo. – Signore, so che …
Ma non ebbe il tempo di finire di parlare che un manrovescio la colpì in pieno viso, facendola cadere di lato.
- Come hai potuto? Tu! – iniziò guardandola sprezzante. - Mi fidavo di te, Anya! Come … ah! Che rabbia!
La ragazza si toccò il naso con le dita. No, ciò che le stava colando giù dalle guance erano lacrime, non sangue. Si tirò a sedere con l’aiuto delle braccia, poi si alzò in piedi. – Signore … - lo chiamò cercando di metterlo a fuoco.
- Tu ed Anthony! Non vi si può lasciare soli!
- Signore.
Il conte scosse il capo, lanciando un’occhiata al cappello, che teneva ancora in mano, prima e al travestimento di lei, poi. Gettò il cappello di lato, ignorando i richiami della ragazza, ed entrò nella scuderia. Ilizia era stata sellata con la sella di Birra e due trapuntine consunte, e bardata con i finimenti di Ulisse; il tutto era ancora posato su un sostegno accanto al suo box, che era ora abitato e chiuso a dovere. Quando vi guardò dentro, vide che la cavalla stava masticando pacificamente una manciata di fieno. Anya lo seguì.
- Signore!
- Stai zitta! Ne hai combinati già abbastanza di guai! Vattene, prima che licenzi pure te! – urlò indicandole l’uscita.
- Pure me? Avete licenziato Anthony?
Langley le rispose con un ringhio, passandosi una mano sul viso.
- Lui è innocente! Dormiva quando ho preso Ilizia!
- Ti ho detto di stare zitta! – gridò ancora, dandole un altro schiaffo.
Anya si portò una mano alla guancia e lo guardò fisso negli occhi per qualche secondo. Piangeva silenziosamente e in un impeto di rabbia lo colpì in viso con un ceffone che le fece bruciare la mano. Langley la guardò stordito e iroso insieme, con le sopracciglia sollevate.
- Da quando lavoro qui – ringhiò Anya – non ho mai visto quella cavalla uscire dalla scuderia o dal suo box. Mai una volta! Voi vi vantate di conoscere i cavalli, ne tenete molti e avete incaricato un altro di prendersene cura; e quando questo altro commette il minimo errore voi lo spedite fra i contadini e lo fate lavorare più di quanto lui stesso riuscirebbe a fare … perché dopo, quando torna, gli tocca portare a termine un lavoro che voi lo avete obbligato ad interrompere durante la giornata. Vi vantate di conoscere i cavalli, ma l’unica cosa, anzi le uniche cose, che sapete di loro sono solo: l’altezza media, il nome dei colori dei loro manti, il numero dei pasti che devono fare in una giornata e qualcosa sui loro muscoli. Non avete mai dirottato la vostra attenzione su migliaia di altri segnali che mandano quando sono i chiusi nei loro box … e anche quando non lo sono. Io non so molto in materia di cavalli, ma riconosco i sintomi di stress; sintomi che ho riscontrato uno per uno in quella povera cavalla che tenete segregata in un buco di box.
Mentre parlava con la voce incrinata dal pianto, le sue dita si muovevano svelte ad elencare tutto ciò che diceva e a indicare le pareti della scuderia intorno a loro, mentre Langley non riusciva a distogliere gli occhi da quelli azzurri della ragazza, nascosti sotto due sopracciglia che si aggrottavano e inarcavano alternativamente.
- Ilizia muoveva continuamente il capo a destra e sinistra, spostava il peso da una gamba all’altra, perché non ne poteva più di stare ferma a guardare gli altri cavalli uscire e rientrare nei loro box sudati e rinfrancati dopo una corsa. Mangiava e le gambe minacciavano di atrofizzarsi per l’inattività! Quando questo pomeriggio l’ho tirata fuori ho impiegato più di un quarto d’ora a cercare di metterle il morso e direi una bella mezz’ora per farle scaldare i muscoli con una passeggiata e un piccolo trotto. Aveva molte energie, ne ha ancora, ma non è riuscita a sfruttarle appieno, perché aveva le gambe bloccate! Se volete proprio saperlo, non l’ho spinta al galoppo neppure per un secondo, perché la sentivo muoversi rigidamente! La decisione di prenderla è nata all’improvviso, quando ho saputo che Sam era tornato dalla sua famiglia e che Anthony aveva deciso di mettersi a letto perché aveva trascorso la notte insonne. Ho preso la sella e i finimenti che avete appena visto e l’ho fatta uscire. Non mi sono preoccupata del fatto che gli altri potessero vedermi, perché Greta mi aveva congedato e perché sapevo che non stavo agendo per il male! Con questo, signore, ho esaurito il mio fiato e i miei argomenti. Se lo volete, adesso potete anche licenziarmi. Me lo merito.
Langley contrasse i muscoli della mascella, sfiorandosi il punto in cui Anya lo aveva colpito, con l’indice della mano sinistra. – Te lo meriti eccome – mormorò, notando che la ragazza deglutì e distolse momentaneamente gli occhi da lui. – E lo farei se tu non fossi sotto la mia protezione. Forse hai dimenticato che uscendo con Ilizia ti sei messa in pericolo, che un mese fa hai avuto un crollo nervoso per una minaccia tuttora incombente e che io sono costretto a camminare armato per salvaguardare entrambi. Oggi non hai solamente rubato un cavallo … hai tradito la fiducia che io avevo riposto in te. Adesso non so cosa fare. Come posso punirti?
La ragazza continuò a singhiozzare in silenzio. Sollevò solo per un istante gli occhi sul conte e tirò su col naso dolorante accorgendosi che lui la stava guardando. Le bruciava ancora la guancia per via dello schiaffo, sentendo la zona calda fino all’orecchio; anche quella del conte era rossa, lo si vedeva attraverso la barba.
- Se ti licenziassi metterei in pericolo la tua vita, perché solo finché rimani nella tenuta sei al sicuro; mandarti a lavorare nei campi … non posso fare neanche quello. E allora? Dovrei seguire l’esempio di certi gentiluomini che usano la verga? Sarebbe la mia unica scelta, ma non rientra nelle mie abitudini un tale comportamento. Intanto ho già licenziato Anthony … se non lo faccio con te, che hai la fetta grossa della colpa, potrebbero nascere dei pettegolezzi.
- Oh, signor conte … - sospirò ancora lei – non potreste riassumerlo? Lui non c’entra niente!
- Mi pare che questi siano affari che non ti riguardano – disse lanciando un’ultima occhiata ad Ilizia e muovendosi verso l’uscita della scuderia. Non appena fu in dirittura della grossa porta, si bloccò, tornando indietro di un paio di passi. Anya si era seduta sulla balla di fieno, i gomiti sulle ginocchia e il capo poggiato sul palmo della mano sinistra; i capelli, legati dietro la nuca, pendevano ora in numerose ciocche ondulate che le coprivano parte del viso sporco di terra, e gli indumenti si piegavano e tendevano all’altezza delle giunture. La chiamò e lei si volse di scatto, sorpresa.
- Da domani avrai altri impegni. Ti alzerai prima e inizierai la tua giornata qui, nella scuderia. Non preoccuparti per il tuo impiego in cucina. Sono convinto che saprai svolgere egregiamente i due lavori insieme.

 

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Capitolo 27
*** Capitolo XXV ***


An irish tale – Capitolo XXV



Anthony se ne andò il giorno seguente, all’alba. In segno di saluto, con la sua grafia storta ed inesperta, scrisse un biglietto che lasciò sul tavolo, lì dove Anya avrebbe potuto trovarlo e leggerlo per gli altri. Diceva che sarebbe andato a lavorare nella piccola proprietà di famiglia e che si sarebbe dato da fare per trovare un altro posto come stalliere. Mary aveva trascorso un felice fine settimana dalla sua famiglia, tanto allegramente che non parlò d’altro fino a quando non apprese la notizia del licenziamento di Anthony. Anya lesse il suo breve messaggio a colazione, quando tutti i servi erano presenti, e poi si recò in fretta nella scuderia.
Era un uggiosa mattina di fine Maggio. Tutto era grigio. Ogni cosa rifletteva le tonalità cupe, opprimenti delle nuvole in cielo. Nuvole che soverchiavano l’intera contea di Waterford e che pareva non avessero una fine, né un principio. L’aria era fresca e umida; si respirava il lezzo dell’immobilità, dello stallo del tempo, e da sud ovest spirava la fredda corrente atlantica che prometteva giornate buie, melanconiche come quella appena trascorsa.
Il signor Langley era uscito con Fedor. La sella era signorile e molto pesante, ma Anya la sollevò con un piccolo sforzo sulle spalle e le braccia. Molti furono gli sguardi sbilenchi che rivolse al conte. Lui parve totalmente disinteressato dalle nuove mansioni della giovane e insensibile alle parole del vecchio stalliere, che ascoltò per puro caso dal cortile, senza farsi vedere dai domestici. Quella mattina indossava gli indumenti per la campagna: una camicia color avorio, un pantalone verde scuro e una giacca marrone. Si concesse l’aggiunta del colletto, tralasciando, invece, il gilet marrone, molto alla moda, ma estremamente fastidioso nella cavalcatura. Non si era fatto la barba. Il rasoio giaceva inutilizzato sul tavolo da toletta e in una settimana si era premurato solamente di far sistemare il taglio dei capelli, che portava corti e spettinati.
All’alba si era svegliato di soprassalto, nonostante la cupa tranquillità della tenuta. Sul tavolo della colazione, in un piattino, gli era stata servita una lettera di Richard Hobson, che aprì e lesse con una tranquillità tramutatasi ben presto in afflizione. Gli dava appuntamento al magazzino del grano, per le nove di mattina.
Quando Fedor fu pronto, con un colpo di frustino al fianco il conte non gli diete adito di stemperare l’inattività della notte con il trotto.

Il magazzino del grano era un edificio a mattoni grezzi di modeste dimensioni. Si trovava a un centinaio di metri dalla coltivazione del frumento ed esteriormente, data la sua vicinanza alle abitazioni dei contadini, era confuso con una di esse. In realtà aveva tutto l’aspetto di una casa a due piani e l’interno era suddiviso in due spazi da un soppalco sul quale erano adagiati i sacchi del grano. Era pieno di sacchi. Ma non c’era solo grano. I contadini avevano avuto cura di riporvi l’avena e il resto delle scorte alimentari per gli animali, scorte che sarebbero state utili in caso d’emergenza. L’inverno appena passato era stato molto gelido e il magazzino s’era svuotato presto delle riserve per gli animali, alcuni dei quali, nonostante l’accortezza dei contadini di richiuderli in recinti coperti, erano morti a causa del freddo e della neve.
Il grano che vi era stato conservato sarebbe stato ripiantato in un terreno messo a riposo e si calcolava che avrebbe fruttato grossi guadagni, perché i sacchi avanzati – cosa peraltro prevista dallo stesso Hobson – sarebbero stati venduti al mercato di Primavera. Dal momento che fino a qualche settimana prima, anche uscire di casa era impossibile per via del vento e della pioggia che aveva allagato i terreni, i sacchi di grano erano rimasti invenduti nel magazzino. I contadini, allora, avevano dimenticato di spostarli tutti sul soppalco, così che, all’ennesima alluvione, l’acqua era filtrata dallo spiffero della porta e alcuni sacchi s’erano inzuppati, facendo ammuffire larga parte del grano che contenevano. Da una stima di Hobson era risultato che, dei quarantadue sacchi presenti, solo i diciotto del soppalco si erano salvati.
La scena che si presentò agli occhi del conte, quando arrivò sul posto, era formata da un trio di uomini fermi sulla porta del capanno, e da un paio di contadini che portavano fuori i sacchi macchiati di muffa. Avevano formato un cumulo che emanava un puzzo di marcio decisamente poco trascurabile. Langley arricciò il naso, mentre legava Fedor ad una staccionata. In lontananza Hobson alzò un braccio in segno di saluto.
- Ebbene? – sbottò il conte, quando raggiunse il magazzino. – Non mi sembra tempo di semina. Perché quei sacchi sono fuori?
Richard Hobson approfittò del momento di distrazione del conte per far cenno ai tre che erano con lui di andarsene.
- E questa da dove salta fuori? – chiese indicando una chiazza verdastra su uno dei sacchi. - Hobson, fareste meglio a spiegarmi immediatamente ciò che è successo!
- Vi prego, signor Langley, calmatevi …
- No! Non mi calmo! Non mi calmo! Hobson, parlate chiaramente: abbiamo perso le riserve di grano?
L’amministratore titubò di fronte il lampo di paura che attraversò gli occhi del conte; poi annuì. – No, non disperate, signor Langley! Sono rimasti ben diciotto sacchi!
- “Non disperate”? – ripeté lentamente Langley. – Mi dite che non debbo disperare quando la muffa e chissà quale specie di fungo ha rovinato il … quasi il cinquanta per cento delle riserve di grano? Diciotto sacchi … – sussurrò, afflitto, spostando incredulamente lo sguardo sui contadini che continuavano a trasportare i sacchi fuori. Gli bastò un’occhiata all’interno del magazzino per capire la dinamica degli eventi. Il pavimento era ricoperto da un sottile strato d’acqua e una decina di sacchi di grano v’erano ancora immersi.
- Hobson - lo chiamò.
L’amministratore gli si avvicinò. – Signor Langley?
- A quanto ammonta attualmente il nostro debito?
- Proprio ieri ho fatto il calcolo, signor Langley. – balbettò. – Potrei sbagliarmi di una decina di sterline, ma … adesso, aggiungendo alla cifra il denaro che avremmo potuto ottenere dalla vendita dei sacchi persi e quello che spenderemo per sostituire la porta del magazzino e una moltitudine di altre cose, sono … millequattrocentocinquanta sterline, all’incirca, signor Langley.
Per un momento Hobson credé che il conte fosse sull’orlo del pianto; gli occhi si ridussero a due fessure, gli diede le spalle e si passò una mano sul viso, stirando la pelle delle guance. Poi si mise una mano sul fianco e tornò a girarsi verso Hobson.
- Millequattrocentocinquanta sterline. – mormorò. – Dalla pozza d’acqua nel magazzino ho intuito che il danno risale all’ultima volta che ha piovuto. Tutte le volte, dico, tutte le volte che ha piovuto, conoscendo la pendenza del terreno, voi – si girò improvvisamente verso i due contadini – vi siete sempre premurati di salvare in qualche modo quei dannati sacchi! Perché adesso non l’avete fatto? Non c’era spazio a sufficienza sul soppalco? Quella sera eravate tutti ubriachi? Drogati? Cosa! Cosa?
I due uomini mollarono l’ultimo sacco sul cumulo di quelli pronti da bruciare. Al dire del padrone assunsero delle espressioni dispiaciute, ma i loro occhi conobbero un baleno di sconcerto, quando il conte li accusò del danno.
Hobson sospirò dispiaciuto. – Signor Langley, sono costernato quanto voi, ma, capite, gridare non serve a niente in …
- Io grido quanto mi pare e piace! E non mi toccate! Oggi sono molto nervoso! – urlò mettendosi a camminare avanti e indietro con le mani dietro la schiena o lungo i fianchi, con le dita scosse da un fremito convulso. D’un tratto si bloccò, guardò la catasta di sacchi ammuffiti, ficcò una mano in tasca ed estrasse il suo portasigarette; mentre gli altri lo fissavano silenziosamente, addentò una sigaretta, l’accese e gettò il cerino nel cumulo di sacchi.
- Adesso ditemi, Hobson – proruppe dopo alcuni violenti sbuffi di fumo. – Chi, tra voi tre e quegli altri che avete fatto andare via, devo licenziare? Ne ho già buttato fuori uno, ieri sera, e non vi nascondo che si prova una certa soddisfazione nel prendere a calci in culo una persona che mal si sopporta. Allora?
- Signor Langley, adesso credo proprio che vi stiate lasciando trascinare un po’ troppo dall’agitazione.
- Voi due. Andate a prendere qualcosa per dar fuoco a questo … questo lerciume! Forza!
Quando i contadini furono lontani, Langley entrò nel magazzino. – Ditemi, Hobson – gridò, spingendo l’amministratore a raggiungerlo – quanto tempo ci vorrà per riparare ad un simile danno?
- Considerando il tempo di sostituzione della porta, di recupero del grano perduto e …
- Non intendo questo.
L’uomo lo guardò interrogativamente.
- Mi riferivo al debito, Hobson! Alle millequattrocentocinquanta sterline! – esclamò agitando la mano che teneva la sigaretta.
- Oh … pensavo che avreste voluto rimandare la questione ad un altro momento. Tuttavia, vi dico, senza mezzi termini, che per riparare ad un debito del genere è necessario fare “economia”.
- Cosa volete dire?
L’amministratore scrollò uno stivale zuppo d’acqua. – Voglio dire che, avendo lavorato in un’altra azienda agricola, prima di questa, so per esperienza che per salvaguardare gli interessi dell’azienda è necessario controllarne e limitarne le uscite, se possibile.
Il conte aveva estratto nuovamente il portasigarette, quando alzò gli occhi sull’amministratore. – Non vorrete mica dire …
- Sì, signor Langley. A meno che non vendiate alcuni terreni, bisognerà restringere il numero di dipendenti.
Il conte si accese un’altra sigaretta. Nella penombra del magazzino, Hobson lo vide guardarsi attorno ed espirare energicamente il fumo dal naso. Il silenzio era rotto solo dallo scricchiolio del legno del soppalco e dal ciangottio degli stivali del conte.
- Licenziare … - mormorò Langley senza rendersene conto. Gli venne da pensare al pomeriggio precedente e a Anthony. Mai come in quel momento un verbo aveva per lui avuto un significato più profondo. Licenziare voleva dire decidere del destino di un uomo, gettarlo d’improvviso nella disperazione, togliere il pane di bocca ai suoi figli. D’un tratto si chiese cosa stesse facendo il suo vecchio stalliere in quello stesso istante.
- Signor Hobson, non licenzieremo nessuno. Questo pomeriggio, anzi, adesso – si corresse guardando l’orologio – mi recherò in città e scriverò degli annunci di vendita di alcuni terreni per il giornale di domani. Fate spostare i sacchi superstiti in un luogo più sicuro e al riparo dall’umidità e fate una stima dei terreni che, a parer vostro, sono più malmessi e inutili per l’azienda. Io ho già un’idea al riguardo, ma ora debbo andare e non possiamo discuterne. Arrivederci, Hobson. Non dimenticatevi dei sacchi – disse gettando la sigaretta sulla pozza del pavimento e uscendo. – Henry e Jack dovranno già essere di ritorno. Assicuratevi che non bàgnino il grano asciutto!

Il fuoco scoppiettava in cucina.
La parete opposta a quella dove si trovava il forno era illuminata dal riverbero delle fiamme e dal loro tremolio.
Anya era accovacciata accanto alla porta della scuderia, seduta a terra e con le spalle al muro ruvido. Si trovava lì da poco, ma non ci sarebbe rimasta ancora per molto, perché le increspature del muro le graffiavano la schiena.
Greta non l’aveva chiamata neppure una volta e così lei aveva lavorato per tutta la mattinata in scuderia.
Le dispiaceva che Anthony se ne fosse andato. Non lo riteneva ancora vero e solo il biglietto che lui aveva lasciato riusciva a convincerla dell’accaduto. Aveva visto Mary piangere ed Edgard e Sam guardarla con astio, mentre trasportava cumuli di letame con la carriola. Avesse avuto la possibilità di tornare indietro, probabilmente non avrebbe preso Ilizia; o forse sì.
Indossava ancora i pantaloni e la giacca con i quali l’aveva scoperta il conte, e non portava la cuffietta; al suo posto c’era il cappello a tesa larga marrone, mentre i capelli erano sollevati sulla nuca.
Tra i denti teneva il gambo di un fiore. Suggendone l’aspra linfa si carezzava il setto nasale, dolorante in alcuni punti per lo schiaffo del conte. Era contenta di aver restituito il favore, e sorrise mentre tornava nella scuderia per tirar fuori Birra.
- Sbrigati, per favore! – le gridò Edgard dal cortile mentre lei cercava la cavezza di corda del cavallo.
- Se la smettessi di sbraitare – rispose Anya affacciandosi dalla scuderia – di certo sarebbe una gran cosa! Da questa mattina non ti si è ancora asciugata la gola? No?
- Se non avessi preso Ilizia, ieri, Anthony non sarebbe stato licenziato e di conseguenza oggi avrei risparmiato un bel po’ di voce!
Anya gli fece il verso. – Dimentichi che ho pregato il signor conte di riassumerlo e che gli ho spiegato la situazione per filo e per segno! – disse portando fuori il cavallo.
- L’hai “pregato”? oh, povera cara! Guarda che se fosse veramente come dici tu, Anthony sarebbe ancora qua, mentre il signor conte avrebbe sbattuto fuori te! Con quattro bei calci sul sedere!
- Ehi! Bada a come parli, pidocchio!
- Zecca!
Anya legò Birra allo steccato. - Piattola! Guarda che io al signor conte gli ho parlato veramente! Lui sa che Anthony è innocente!
Edgard sollevò le braccia con fare plateale. – Infatti l’ha licenziato!
- Sto per perdere la pazienza, Edgard! – lo ribeccò puntando le mani sui fianchi.
- Figurati … io l’ho già persa!
Anya lo fissò con gli occhi ridotti a due fessure. – Sei solo un insulso bacucco …
- E tu una mera parassita che da quando è qui non ha fatto altro che dormire negli allori mentre gli altri lavoravano! Sei rimasta a bocca aperta, eh? Io pure, quando ho scoperto che il mio migliore amico era stato buttato fuori, mentre tu potevi ancora coprirti le spalle con un lavoro! Anzi, due!
- Mi dispiace tanto per il tuo amico, Edgard! Non dire che non mi sono mai data da fare! Forse ho lavorato più io che tu! E poi non sono due lavori … vengo pagata ancora come sguattera!
- Oooh! Sempre due lavori rimangono! Sempre qualcosa in più in confronto ad un povero disgraziato!
Anya si sistemò il cappello sul capo con una lieve pacca, mentre si girava per tornare nella scuderia. – In ogni caso continuo a spaccarmi la schiena!
Il ragazzo sorrise in modo canzonatore. – Sono proprio curioso di sapere per quanto tempo il signor conte ti terrà nella scuderia!
I passi di Anya si arrestarono improvvisamente. In un primo momento il suo sguardo vagò nel vuoto, poi si volse verso Edgard. – Cosa intendi dire?
Il giovane sbuffò con l’espressione beffarda di prima.
- Mi hai sentito? – chiese lei afferrandolo per un braccio.
- Certo che ti ho sentito – proruppe liberandosi della presa. – Il signor conte non lascerà mai che tu affatichi quella tua deliziosa schiena!
- Ma cosa stai dicendo …?
- Lo sai bene e … sei anche diventata tutta rossa. Non sei arrivata che da due mesi e sei già la sua favorita … – disse allacciando gli ultimi finimenti al dorso di Birra. Si muoveva da un lato all’altro del cavallo e Anya lo seguiva con lo sguardo.
- Edgard, stai dicendo un sacco di stupidaggini.
- Tu le chiami stupidaggini. Se non erro, però, ha lasciato che fossi tu a prendersi cura di lui quando stava male. Tu. Poi? Cos’ha fatto? Ah, ecco … ti ha portata in biblioteca!
Anya rimase a bocca aperta. – Non … non … chi te l’ha detto?
- Oh, lo sanno tutti, qui! E non oso pensare a ciò che potrebbe essere successo!
La giovane gli mollò uno schiaffo in pieno viso. – Sporco idiota, farabutto, mascalzone e canaglia! Falso! Come ti permetti?
- Oh, Anya … - disse calmo – perché ti arrabbi? Ho forse detto qualche bugia?
Anya fece per colpirlo un’altra volta, ma Edgard la bloccò.
- Perché ti scaldi tanto?
- Mi stai facendo male … - disse lei tentando di liberarsi dalla sua presa. – Lasciami!
- In altri tempi per una battuta del genere non ti saresti adirata! Perché adesso sì?
- Lasciami!
- Hai capito cosa ho detto?
Ogni tentativo che Anya metteva in atto per allentare la presa del cocchiere era vano. Quando riusciva a sollevargli un dito, si sentiva stringere più forte dagli altri. – Certo che ho capito – pianse. – adesso lasciami.
- Prima rispondi alla mia domanda.
Anya si arrese. – Il tuo comportamento è deplorevole.
- Tutto qui?
- “Deplorevole” è l’unico aggettivo adatto a te che sono riuscita a trovare!
Edgard la guardò negli occhi. – Già – sbottò dopo un momento – forse è come dici tu. Sarò deplorevole, ma sono riuscito a capire una cosa dalle tue parole … e sono sinceramente deluso da te.
D’un tratto il ragazzo lasciò la presa, ma il braccio di Anya era come paralizzato e di fronte ad una tale affermazione era bloccato anche il resto del corpo. – Cosa, di grazia? – disse con il tono più beffardo che riuscì a trovare.
- Ti sei innamorata di lui. – asserì Edgard allacciando i cinturini della cavezza di Birra.
La ragazza sentì le guance andare a fuoco, mentre nuove lacrime, di gioia o afflizione, le annebbiarono la vista. – Non è vero … - sussurrò.
Edgard si girò verso di lei. – Tu sei una serva, lo capisci? – disse guardandosi rapidamente attorno. – Quello è un conte, un nobile!
- Edgard smettila!
- La cosa che più mi preoccupa, però, è che … - iniziò per poi scacciare via i pensieri con un veloce movimento della mano – oh, che scemo sono! Certe cose non dovrei neppure pensarle!
- Cosa? – disse alzando gli occhi da terra. – Cosa stavi dicendo?
- Niente … asciugati le guance.
Anya si prese la testa fra le mani, ricominciando a piangere con lo sguardo basso.
- Torna al lavoro. Non farti vedere in questo stato da Greta … tieni, sciacquati il viso. – disse porgendole una borraccia. Anya si passò il dorso di una manica sul volto, sporcandosi ancor più di terra; quando vide la borraccia gliela fece cadere di mano. Mentre si incamminava verso la scuderia lo guardò in modo sprezzante, anche se Edgard si piegò per riprendersi la borraccia e non se ne accorse. Si girò improvvisamente quando dall’entrata della tenuta comparve un calessino malandato, con un cavallo anziano morello e un conducente altrettanto avanti negli anni con dei capelli grigio chiaro e degli indumenti consunti, ma ben tenuti.
- James! – urlò Edgard andandogli incontro.
L’espressione dell’uomo non corrispose l’allegria del ragazzo e quando il calesse si fermò, guardò subito in direzione della scuderia.
- Voglio parlare con il signor Langley, Edgard. È in casa?
- E’ uscito questa mattina. Penso che sarà di ritorno per l’ora di pranzo.
L’uomo assentì.
- Vuoi aspettare?
- Mi sono fatto dieci miglia e il vecchio Bartok è stanco – disse andando a sedersi su un gradino della porta principale. Si tolse il cappello e lo batté sul ginocchio.
- Mi dispiace per Anthony – borbottò Edgard dopo averlo osservato. Il vecchio James fece spallucce.
- Anthony non sa che sono qui. Crede che io sia andato in città a far visita a mio fratello.
- Se me lo chiede gli dico che non ti vedo dall’ultima volta che sono venuto a casa vostra.
James annuì a lungo. – Come procede la vita, qui?
- E’ sempre la stessa. Il signor conte se ne sta sempre rintanato nel suo buco di biblioteca e non fa altro che dare ordini.
- Quello lì è sempre stato strano. Da ragazzino si sedeva sui muretti e fissava il vuoto per ore. Lui diceva che risf … aspetta, me lo ricordo … diceva che rif ...
- Rifletteva?
- Rifletteva … sì … almeno questo diceva – disse muovendo il capo. Poi si toccò la tempia con il dito indice e un’eloquente espressione sul volto.
- Mrs. McAvoy sta bene?
- Sempre la stessa santa – sorrise. Poi si girò verso la scuderia e aggrottò le sopracciglia. – E quello? È nuovo? Ha fatto in fretta il conte a rimpiazzare il mio ragazzo.
- Oh, quella, vorrai dire – lo corresse guardando appena Anya.
- Non sarà mica la stessa che ha rubato il cavallo …
- Te ne ha parlato Anthony?
- E’ lei?
Edgard annuì.
- Oh bella … avrò molto di cui parlare al signor Langley.
Mentre parlava il ragazzo indossò il cappello e scosse il capo in segno di disapprovazione. – Il signor conte sarà qui a momenti. Io vado, prima che rimproveri anche me …
James si poggiò coi gomiti ad uno scalino, salutando Edgard con un lieve movimento di una mano. Il conte arrivò non meno di un’ora dopo, con l’espressione accigliata della mattina. Senza dire una parola affidò Fedor alle cure di Anya e la osservò a lungo mentre si allontanava verso l’ingresso. Alla vista di James le sopracciglia disegnarono un’onda.
- Salve James.
- Salve, signore. Avete un minuto?
Langley estrasse il mazzo di chiavi dalla tasca della giacca e scrutò James di sbieco. – Anthony ti ha detto quanto male svolge il suo lavoro qui?
- Anthony mi ha sempre detto tutto, signore.
- Mi chiedo allora perché tu sia venuto fin qui – disse aprendo la porta. – Se ti dice sempre la verità dovresti aver compreso la ragione per cui l’ho licenziato.
- Naturale, signore. Ma sono convinto che potrebbe rimediare ai suoi errori. Sapete, è sempre stato contento di lavorare nella vostra tenuta.
- Questo te l’ha detto lui.
James lo seguì all’interno del salone. – Sono sicuro che è quello che pensa.
- Sicuro, non “certo”. C’è una sottile differenza tra le due cose, James.
L’anziano sospirò. – Non l’ho mai visto così affranto.
- Raccontami la versione di Anthony. Cosa ti ha detto a proposito di ieri? – chiese togliendosi i guanti.
- Mi ha detto che non è stato lui a rubare il cavallo, ma che, se ciò è successo, è colpa sua. E, detto fra me e voi, avete fatto bene a punirlo.
Langley lo guardò. – Non ho mai inteso il licenziamento come una punizione, James. Il licenziamento di un dipendente segna la fine dei miei soldi o della mia pazienza. Anthony è sempre stato molto bravo a menare la seconda.
- Vi capisco perfettamente, signor conte, ma Anthony è affezionato al suo lavoro … e a questo posto. Dategli una seconda possibilità; sono sicuro che non ve ne pentirete.
- Di possibilità il tuo ragazzo ne ha avute di parecchie, ma non le ha mai sapute sfruttare al meglio. È un giovanotto intelligente, ma molto pigro. Ha ancora molto da imparare.
In quello stesso momento, Margareth irruppe nella sala, meravigliandosi di trovare un vecchio collega. Pronunciò il suo nome e gli si avvicinò per salutarlo.
- Margareth – la bloccò Langley – il pranzo è pronto?
- Mary ha quasi finito di apparecchiare, signore.
- Bene, di’ a Greta che ho molto appetito, oggi, e che mi farebbe piacere mangiare anche una fetta di crostata … e bere un buon boccale di birra.
- Birra? – balbettò con un’espressione confusa.
- Sì, birra. Vallo a dire a Greta, per favore.
La governante, che era a un passo da James, fece dietrofront e sparì oltre la porta del corridoio. Langley la seguì con lo sguardo, poi riportò l’attenzione su James.
- Anthony sa che sei qui?
- No, signore.
- In famiglia lavora solo lui?
- Sì, signore. Io mi occupo dell’orticello di casa.
Il conte assunse un’espressione pensierosa. – Non voglio trattenerti oltre, James. In famiglia si chiederanno dove tu sia finito.
Il vecchio lo seguì fino alla porta, dalla quale uscirono insieme. Alla vista della ragazza che strigliava energicamente il cavallo del conte, si girò verso di lui.
- Uno dei vostri servi mi ha detto che è quella la giovane che ha rubato il cavallo.
Il conte seguì la direzione del suo cenno con uno sguardo sbilenco. – Oh, lei … - annuì con un sorriso fulmineo – Anthony deve avertene certamente parlato. Si chiama Anya.
James fece segno di aver capito. Effettivamente la conosceva di fama.
- Bene, allora arrivederci James.
- Terrete in considerazione ciò di cui vi ho parlato, signore?
- Non v’è nulla di certo nella mia risposta, James.
- Vi ringrazio infinitamente, signore.
Langley lo salutò con un cenno del capo. Pochi istanti più tardi, anche il calessino di James spariva dalla sua vista.
Dallo stato di meditazione in cui era caduto, fu una breve serie di starnuti di Anya a riscuoterlo. Il vento le buttava in faccia la sabbia del pelo di Fedor. Vederla spostarsi indispettita ad ogni strigliata lo divertiva; se poi abbassava lo sguardo agli insoliti indumenti che indossava, lo spettacolo si faceva ancor più piacevole.
Rientrò sorridendo. Il pranzo lo tirò su di morale e le millequattrocentocinquanta sterline furono presto dimenticate di fronte al mezzo litro di birra che gli era stato servito. Quando stava per alzarsi, però, Mary gli porse un telegramma.
- E’ arrivato pochi istanti fa, signore. Dall’ufficio telegrafico di Mr. Kirwan.
Langley congedò la giovane e aprì il foglio. Diceva: Lieto comunicare piacevole notizia. Prego venire stazione polizia. Sperty arrestato. Ispettore A. Hurlstone.

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Capitolo 28
*** Capitolo XXVI ***


An irish tale – Capitolo XXVI




Il fiato corto di Fedor, il suono dei suoi zoccoli sulla terra battuta della strada, gli incitamenti del conte, le tallonate sui fianchi del cavallo. Erano questi gli unici suoni che turbavano la tranquillità della campagna.
Ovunque, che si trattasse delle spalle o dei fianchi di Fedor, era presente un velo di sudore che ne scuriva il manto brunastro. Per lo sforzo della corsa le vene vennero fuori, i muscoli si fecero tesi. Sotto le gambe Langley sentiva un fascio di nervi e sinapsi senza freno.
Erano buttati in un galoppo matto. All’ultimo minuto Edgard aveva rilevato l’allentamento del bullone di una ruota della carrozza e non era stato possibile prenderla. Fedor era stato sellato e lui gli era saltato in groppa in fretta, spronandolo immediatamente alla sua andatura più veloce.
Il cielo era coperto di nuvole, ma faceva un gran caldo. Langley aveva la fronte madida di sudore e la camicia era zuppa lungo la linea della spina dorsale. La giacca era ripiegata alla bell’è meglio dentro la bisaccia della sella e a coprirlo c’era solo il gilet marrone che quella mattina non aveva indossato. Avrebbe voluto togliersi anche quello, che era riuscito a sbottonare, ma se l’avesse fatto l’avrebbe perso per strada.
Quando il lontananza intravide il profilo della città, tirò un sospiro di sollievo, però era in ritardo e di rallentare non se ne parlava. Frustò il cavallo sulla spalla e i fianchi e con una bottarella controllò che la pistola fosse nella bisaccia, insieme alla giacca. Il cavallo tese i muscoli fino allo spasmo e così pure il suo cavaliere, che stanco, strizzò le ginocchia contro la sella e abbassò i talloni per meglio mantenere l’equilibrio.
- Un ultimo sforzo, su! – lo incitò mentre entravano in città. Sul ponte che attraversava il Barrow si concesse una pausa e fece rallentare Fedor al passo. Ne approfittò per controllare l’orologio e respirare l’aria fresca che increspava la superficie delle acque del fiume. Mancavano dieci minuti alle cinque ed era in ritardo di venti minuti. Il vento gli asciugò la base del collo e penetrò prepotentemente attraverso le maniche e il colletto della camicia. Si riallacciò il gilet e con un colpo di talloni Fedor ripartì al trotto.
Fuori dalla porta della stazione di polizia li attendeva l’agente Musgrave. Alla vista del conte, che non riconobbe per via dell’abbigliamento poco curato, la barba e il viso smagrito dallo sforzo della corsa, gli si avvicinò con sospetto.
- Non vi avevo riconosciuto, signore! Perdonate l’equivoco.
- Fate solo il vostro dovere, agente – gli rispose il conte, scendendo da cavallo. – Dove lascio Fedor?
Musgrave indicò un paletto sul marciapiede. – Se lo legate qui, nessuno ve lo ruberà. Se non vi fidate, però, posso sempre incaricare qualcuno di tenerlo d’occhio.
- Vi ringrazio, agente – disse Langley, porgendo una mela al cavallo – mi fido. L’ispettore è dentro?
Un lampo d’eccitazione balenò negli occhi del giovane uomo. – Oh, sì, vi attende. Sapete, abbiamo preso Sperty … un colpo di fortuna, signor Langley! Un vero, autentico, colpo di fortuna!
Il conte era già stato alla stazione di polizia. Era un edificio relativamente alto, a due piani, tutto ricoperto di mattoni rossi. Accanto alla porta una targhetta riportava lo stemma delle forze dell’ordine, un pugnale conficcato nella testa di un serpente, e quattro bassi scalini di mattoni conducevano all’entrata. L’ufficio dell’ispettore Hurlstone si trovava al piano superiore del palazzo e si raggiungeva tramite la scalinata con il corrimano di legno e i gradini che cricchiavano ad ogni passo. Era un ambiente austero, ma arredato con gusto. La stanza era interamente ricoperta di assi si legno e sulla scrivania una grossa lampada donava una tonalità calda all’ambiente. Sulla parete a destra, c’era una pesante libreria carica di tomi e volumi d’ogni sorta: saggi, monografie, trattati, una serie di enciclopedie, manuali, testi di chimica, biologia, botanica, anatomia, annuali, una grossa pila polverosa di giornali e fascicoli tenuti insieme con dello spago. Su uno scaffale erano poggiati dei fogli scritti con la grafia ordinata e sofisticata dell’ispettore e in un altro figuravano una scatola di sigari e un elegante mazzo di chiavi. A sinistra, più vicina al muro che al centro della stanza, c’era la massiccia scrivania di legno di ciliegio stracolma di fogli e cartelle, oltre che una piccola colonna di libri estratti dalla libreria. Libero da ogni impiccio era solo il piano di scrittura, al centro della scrivania, pulito e dotato sempre di una pila di fogli da ufficio e fogli filigranati da lettera; a disposizione dell’ispettore, in una tazzina apposita, erano disposti i pennini d’ogni forma e spessore, con una boccetta d’inchiostro rigorosamente nero accanto. Sulla parete a sinistra della scrivania c’era una finestra, che l’ispettore teneva quasi sempre chiusa, affermando di concentrarsi meglio solo in un ambiente raccolto. Quando Langley entrò in stanza, a nascondere la finestra, era stata tirata una tenda di cretonne bordeaux con ricami verticali dello stesso colore.
- Signor Langley! – lo salutò Hurlstone sollevando di scatto lo sguardo sulla porta. Aveva la voce nasale e il naso arrossato. – Mi dispiace, non posso darvi la mano … - continuò alzandosi lentamente.
- Non preoccupatevi. Vedo che non vi siete ancora rimesso del tutto.
- Già – fece l’altro accasciandosi sulla sedia – alla notizia che Sperty fosse stato arrestato non ho saputo resistere alla tentazione di venire. Voi, invece? Vi siete ripreso dai vostri acciacchi?
- Il mio medico mi ha detto che ho fatto degli “straordinari progressi”, ma non gli ho mai creduto.
Hurlstone rise. – Non ho ancora visto quel delinquente di Sperty. Io sono arrivato solo ieri sera e ho trascorso tutta la notte a casa di mia sorella. Poi, questa mattina, ho saputo che non eravate ancora stato avvisato dell’arresto di Sperty e vi ho mandato un telegramma. Volevo chiedervi di portare la signorina Bacott, ma temevo di contagiarla; così ho fatto venire solo voi, che siete dotato di una costituzione più forte della mia. Faccio chiamare Sperty o preferite rinfrancare lo spirito con un buon vino caldo, prima? Vedo che siete venuto a cavallo.
Il conte lo guardò sbalordito. – Un vino caldo è l’ideale, ma come avete fatto a capire che sono venuto a cavallo?
- Avete gli stivali e i pantaloni schizzati di fango – disse soffiandosi il naso. – Vino caldo, dite? Mi sa tanto che ne prenderò uno anche io. Santo cielo, non ne posso più di questo raffreddore.
Starnutì nel fazzoletto e scosse un campanellino, al suono del quale un giovane agente aprì la porta.
- Di’ a Mrs. Merton di preparare due tazze di vino caldo. Ah… miele, signor Langley? Bene. Smith, di’ a Mrs. Merton di aggiungere due cucchiai di miele ad entrambe le tazze di vino.
Langley vuotò la sua tazza con pochi sorsi mentre Hurlstone la centellinò lentamente. Dopo che le tazze furono portate via l’ispettore ordinò che Sperty venisse fatto entrare. – Smith, chiama Musgrave e Copperland. Signor Langley, lasciatemi questa sedia libera … mettetevi dove vi pare. Bene, penso che così sia tutto a posto … toh, questi devono essere loro. Avanti!
Il conte avvicinò una sedia alla scrivania e attese l’entrata degli agenti. Erano Musgrave e Copperland, e tenevano Sperty per le braccia; era un uomo di media statura, robusto e con un muso da delinquente, la barba sfatta, un grosso naso lucido e gli angoli delle labbra cadenti. Quando i due agenti entrarono teneva lo sguardo basso, ma, avvedendosi della presenza del conte, assunse una strana espressione e lo osservò mentre si sedeva sulla sedia indicatagli da Hurlstone; allora si girò verso l’ispettore e chinò nuovamente lo sguardo sui polsi ammanettati.
- Finalmente ci incontriamo – proruppe Hurlstone incrociando le mani su un foglio. – sono venuto da Dublino apposta per questo. Le ho reso un grande onore. Allora, cosa ha fatto di tanto grave?
L’uomo guardò malamente i due agenti dietro di lui. – Il problema è proprio questo, ispettore. Non ho fatto niente!
- Si trovava alla conca – lo interruppe Musgrave.
- Alla conca … - ripeté Hurlstone – e cosa ci faceva lì?
- Cercavo di capire come … come fosse morto il mio amico Barney. Ne hanno parlato tutti i giornali della contea, ma la faccenda non mi ha mai convinto del tutto.
L’ispettore si soffiò il naso. – L’uomo ucciso alla conca è un suo amico? E si chiamava Barney?
- Bartholomew Neybourgh. Barney era solo un appellativo. – sospirò. – Ma penso sia meglio che racconti tutta la storia dal principio. Potrei avere un bicchierino di brandy?
Hurlstone annuì lentamente, mentre l’agente Copperland gli porgeva la bottiglia del liquore. – Mr. Reynold, la devo avvisare che tutto quello che lei dirà qui, in presenza di questi due agenti e del signore seduto qui a lato, potrebbe essere usato contro di lei.
Sperty annuì.
- Quindi qual è il suo nome di battesimo? – chiese l’ispettore riempiendo un bicchiere.
- Patrick. – rispose Sperty trangugiando il brandy. – Patrick Reynold. Sono nato a Londra. Non ho mai conosciuto la ricchezza, né l’agiatezza. Mio padre faceva il bigliettaio nei circhi, mentre mia madre badava a me e ai miei numerosi fratelli. A mio padre piacevano le lotte dei cani e dei galli e andava a vederle spesso, scommettendo tutti i suoi soldi con la gente di malaffare. Il nostro piatto era quasi sempre vuoto e mia madre stava poco in casa, perché usciva sempre alla ricerca di un impiego … un impiego che non trovò mai. Una volta venne assunta da un tale che tingeva tessuti di terz’ordine, ma l’edificio dove si lavorava era così fatiscente che bastò un incendio da nulla a buttarlo giù.
Sono cresciuto nelle strade della periferia londinese. Vedevo i miei fratelli solamente la sera e raramente mio padre. Non era un tipo violento, no. Il fatto era che non gli piaceva la vita di famiglia. Ricordo che fosse un uomo alla buona e quando vedeva litigare me e i miei fratelli ci costringeva sempre a far pace … sì, starete pensando che sia un controsenso il fatto che assisteva alle lotte degli animali e poi ci diceva di star tranquilli. Anche io lo pensai a lungo, ma alla fine mi rassegnai all’idea che l’animo umano ha delle sfaccettature davvero strane, alle volte, e comprenderle è davvero molto difficile. Il mattino in cui avrei compiuto dodici anni mio padre andò via di casa e, siccome io ero il figlio più grande, mi misi a lavorare per aiutare mia madre. Inizialmente mi confezionavo delle palline di terra e cartaccia, e le facevo volteggiare come avevo visto fare ad un acrobata del circo; poi le palline divennero arance e in seguito palline vere. Alla gente piaceva molto vedermi e io ero furbo, perché sceglievo con cura gli angoli dei parchi e delle strade più frequentati.
Un giorno, stavo camminando per la strada, per andare a lavoro, quando un uomo avanti con gli anni mi fermò, dicendo di conoscermi. Naturalmente io non l’avevo mai visto e lì per lì pensai che mi avesse visto esibirmi con le palline; ma quel tale, che di nome faceva Mark Cobber, mi disse che conosceva mio padre e che non lo vedeva da qualche tempo. Allora ci mettemmo a parlare e scoprì che questo tizio, questo Mark, scriveva commedie per il teatro e diceva che l’avevo colpito perché somigliavo all’idea che s’era fatto del protagonista. Mi offrì una parte per mettermi alla prova e a teatro conobbi Barney, Bartholomew Neybourgh. Diventammo presto amici, anche se lui non era una attore, ma lavorava alla scenografia e sapeva disegnare abbastanza bene. Era povero come me e mi raccontò che, nonostante fosse figlio unico, i suoi genitori non riuscivano a camparlo, perché non lavoravano; o meglio, suo padre lavorava, era un operaio, ma lo pagavano talmente poco che se fosse rimasto a casa, di certo avrebbe risparmiato energie e sarebbe stata la stessa cosa. Una volta, in confidenza, mi disse che aveva imparato a disegnare sulle locandine degli spettacoli teatrali e circensi. Per strada, vicino la fabbrica dove lavorava suo padre, raccattava dei pezzetti di carbone e ricopiava le scritte e le immagini dei manifesti; e questa fu un’abitudine che non si tolse mai … anche quando ci trasferimmo a Dublino, aveva sempre le mani e gli abiti sporchi di carbone … nonostante mi dicesse che si trattava di una semplice abitudine.
- Signor Reynold, perché lei e il suo amico siete venuti in Irlanda? – chiese Hurlstone versando dell’altro brandy nel bicchiere.
Sperty sospirò. – Una sera scoppiò un incendio, a teatro. Roba di poco conto. Barney era lì e stava ultimando il dipinto di un paesaggio. Mi disse che, d’un tratto, gli cadde la lampada e l’olio impregnò rapidamente i tendoni del sipario, così che andò tutto a fuoco. Ripeto, era roba di poco conto, perché si incendiò solo il tendone. Mr. Brown, il proprietario della baracca, però, non volle sentire scuse e buttò fuori Barney. Poi, dopo due giorni licenziò anche me, perché avevo difeso il mio amico e l’avevo pregato di riprenderlo e fargli completare il lavoro.
Langley sbuffò sommessamente.
- Va bene, Mr. Reynold; ma perché proprio l’Irlanda? – chiese ancora l’ispettore.
- La decisione di imbarcarci per l’Irlanda nacque per caso. Dopo il licenziamento io e Barney trascorrevamo gran parte del nostro tempo gironzolando per la città, alla ricerca di un impiego. Chiedemmo a tutti i teatri che ci capitarono a tiro, ma nessuno aveva bisogno di un attore, né di un pittore. Per più di una settimana fummo vittime dei morsi della fame, poi, mentre costeggiavamo Springwell, adocchiammo il manifesto della commediola di una compagnia di attori irlandesi. Credo che si chiamasse Much ado about … Ireland!, o qualcosa di simile, e l’ingresso era gratuito, così io e il mio amico entrammo e ci sistemammo nella platea. Il teatro era stato ricavato da un vecchio caffè e il fatto che ci fossero dei pilastri in mezzo ci costringeva a stare in piedi. C’era una gran folla e l’aria divenne presto calda e umida, ma alla fine dello spettacolo io e Barney avemmo la fortuna sfacciata di parlare con un membro della compagnia, uno che aveva detto sì e no un paio di battute monosillabiche in tutta la commedia. Si chiamava Zack Kwayne e quando gli dicemmo della nostra condizione da disoccupati, ci promise che avrebbe parlato appena possibile con il suo capo, perché avevano bisogno di un pittore, mentre un attore in più avrebbe solamente fatto comodo. Io e Barney aspettammo più di un mese. Nel frattempo fummo assunti come bigliettai in due posti diversi, per cui, anche data la lontananza, non ci vedemmo per un periodo; le giornate scorrevano lentamente e la monotonia dei lunghi silenzi della biglietteria era interrotta dal tintinnio dei penny che cadevano nella ciotolina delle monete. Quando la nostra paura di non essere più chiamati dal tizio di Springwell divenne per me certezza, ecco che un pomeriggio mi vidi spuntare Barney in biglietteria: era bagnato fradicio per la pioggia, con le tasche piene di carbone e un sorriso grande così stampato sul volto. “E’ arrivata!” mi gridò. “E’ arrivata la lettera di quel Kwayne … dice che la compagnia deve preparare un nuovo spettacolo e hanno bisogno di noi!”. A questo punto potete immaginare la nostra felicità. Partimmo due giorni dopo. Mi dispiaceva tantissimo lasciare la mia famiglia, ma non potevo fare altro. Durante la mia assenza avrei mandato a mia madre il denaro sufficiente per condurre una vita tranquilla e questo bastava a consolarmi.
Sperty bevve un altro sorso di brandy. L’ispettore Hurlstone ne approfittò per porgli una domanda. – Quanto tempo fa ha lasciato l’Inghilterra, Mr. Reynold?
- Circa diciotto anni fa.
- E in tutto questo tempo è stato in grado di mantenere questi ricordi vividi nella mente?
- Non sono molti i ricordi piacevoli, ispettore – rispose l’altro con una nota di risentimento. – questi, poi, sono particolari che ho rivissuto dopo la morte di Barney.
- Mi dispiace. Beh, vada avanti … Musgrave, sempre pronto a scrivere?
Al cenno d’assenso dell’agente, Sperty proseguì. – La nostra prima tappa, in Irlanda, fu Dublino. Il nostro amico Zack fu di parola e, dopo esserci sistemati, io e Barney iniziammo a lavorare ad una nuova commedia. Il teatro era qualcosa di veramente spettacolare, una roba mai vista prima. A Londra io e il mio amico avevamo sempre lavorato in teatri fatiscenti, con tendoni scoloriti, rattoppati, sedie tarlate … ma quello in cui capitammo, no. Ci associammo alla compagnia Much ado about Ireland! e in breve la commedia fu messa in piedi. Mi affidarono una parte secondaria, date le mie non eccellenti abilità recitative, ma talmente buffa che per tutto il tempo che la commedia fu rappresentata, la gente continuava a chiamarmi Cornelius Il mangiacarte, come il mio personaggio.
I tempi della compagnia irlandese – continuò – furono tra i più belli che mi sia mai capitato di vivere. Il lavoro non mancava mai e le rappresentazioni, tragedie o commedie che esse fossero, erano l’una più bella dell’altra; non meno di tre volte a settimana mi recavo alla locanda dietro il teatro e mangiavo e brindavo con Barney alla nuova vita. Certo, non navigavo nell’oro, ma una simile stabilità economica non l’avevo mai vissuta; mandavo mensilmente dei soldi a mia madre e talvolta ricevevo una lettera da parte di Miss Prism, la figlia della nostra vicina di casa, che si offriva di scrivere delle lettere che le dettava mia madre.
- Vissi in questo modo per alcuni anni. Ad un certo punto, però, a causa di alcuni screzi con i proprietari del teatro, la compagnia fu costretta a trasferirsi in un’altra struttura, e dopo qualche mese, inspiegabilmente, si sciolse. Barney, però, non sembrava dispiaciuto, perché mi assicurava che lui il mezzo di sostentamento l’aveva.
Hurlstone starnutì. – “Mezzo di sostentamento” ha detto? – domandò soffiandosi il naso.
- Proprio così, ispettore. Barney lo chiamava in questo modo … gli chiesi molte volte in cosa consistesse, ma non mi disse mai nulla. Credo che avesse a che fare con la pittura, perché in quel periodo usciva molte poche volte dalla sua stanza … tuttavia, c’era un elemento che non mi convinse mai … il fatto che la sua ragazza l’avesse lasciato. Lei si chiamava Cecyl ed era un’attrice. Venne molte volte da me per lamentarsi di come l’avesse trattata Barney e del modo in cui lui l’avesse allontanata da sé. Più volte tentai di mettere la pace fra di loro, perché erano veramente una bella coppietta, ma il mio amico sembrava aver mutato improvvisamente opinione e non ne volle sapere più niente della cara Cecyl. Potete solo immaginare quanto mi dispiacque. Cecyl in quegli anni era diventata una sorella per me e il fatto che non ci fosse più nulla a legarla a Dublino mi mise tristezza, mi fece pensare che sarebbe partita presto.
- Rividi Barney dopo un po’ di tempo. Non posso dire con precisione quanti giorni, settimane o mesi fossero trascorsi, ma quando ci rincontrammo Barney aveva un aspetto migliore. Diceva di aver completato un lavoretto per un teatro e che non usciva da giorni. Inizialmente parve stordito dall’aria aperta e ci recammo alla taverna per festeggiare. Mangiammo e bevemmo a sazietà e alla fine il mio amico mi mostrò due biglietti per uno spettacolo teatrale. Diceva si trattasse della prima dello spettacolo per cui aveva lavorato e ci teneva a mostrarmi il frutto delle sue fatiche. Il teatro non l’avevo mai visto prima, e neppure Barney pareva conoscerlo molto bene; durante lo spettacolo, però, si lasciò sfuggire un particolare che, nella mia condizione di disoccupato mi allettò, anche se sapevo che una tale reazione non avrei dovuto averla … Barney mi disse che in teatro era conservata dell’argenteria di alto valore, tutta sottoforma di candelabri da scena, rilievi e corone per re. Disse che quello era il materiale che aveva fornito un ricco mecenate al proprietario del teatro, suo nipote e che il tutto era nascosto in un baule nel laboratorio del costumista. Sarò onesto nel dire che io non avevo la più pallida idea di come Barney fosse entrato in possesso di quelle informazioni … fatto sta che quell’argenteria venne rubata il giorno dopo. Tutta, dal primo all’ultimo pezzo.
- Un altro bicchierino, signor Reynold? – chiese Hurlstone stappando la bottiglia.
- Sì, grazie. Parlare mi mette sete.
Mentre Sperty beveva, Hurlstone aumentò la luce della lampada. – Signor Reynold, quanto tempo fa avvenne il furto?
L’uomo inghiottì il liquore con una smorfia. – Credo quattro. O cinque …
- Quattro o cinque?
Sperty sospirò. – Quattro. Era il 1852 … sì, il 1852.
- Ne è certo? Sono informazioni importanti.
- Quell’anno sono successe molte cose strane. Dicevo, dopo che Barney mi parlò dell’argenteria, ci fu un furto al teatro. Naturalmente venne accusato lui, perché della gente l’aveva sentito parlare e … sapete com’è fatta. Quella mattina io e Barney facemmo colazione alla locanda dietro il teatro, poi lui andò al lavoro. Non ebbi più sue notizie fino al momento in cui venni avvertito del suo arresto.
- Cosa le disse Barney?
- Che era innocente.
- E lei gli credé?
Sperty si strinse nelle spalle. – Certamente. Il mio amico non era un ladro.
- Su quali basi può dire questo?
- Quando il furto è avvenuto, io e Barney ci conoscevamo da più di vent’anni. Una vita.
L’ispettore Hurlstone si sporse in avanti. – Quattro anni dopo, però, lei e il suo amico Barney avete derubato una signorina. Due mesi e mezzo fa. E c’era anche un terzo uomo.
Sperty tirò un sospiro. – Per quello esiste una spiegazione, ispettore … una spiegazione, non una giustificazione. Ma lo dirò dopo, per evitare confusione.
Hurlstone assentì lentamente.
- Barney rimase in carcere per diversi giorni. Lo andavo a trovare ogni giorno e voleva che gli portassi dei carboncini, perché senza, mi diceva, non voleva starci. Per stare tranquillo doveva disegnare. Ne aveva la necessità. In poco tempo tappezzò le pareti della cella di schizzi, bozze di paesaggi e spunti per le scenografie. Le ultime volte che lo andai a trovare fui sorpreso dal ritratto di una donna … una bella donna. Adesso non ho memoria dei tratti, ma ricordo la forma regolare del viso e degli occhi.
Comunque sia, per come stavano andando le cose, per Barney era prevista una lunga pena. Tutto faceva credere che l’avrebbero condannato. Un pomeriggio, però, mi disse che si stava mettendo tutto a posto e che sarebbe stato presto libero. Inizialmente credei che lo dicesse perché ci sperava, ma dopo due giorni lo liberarono. Incredibile, ma vero.
- Qualcuno pagò per lui?
- Non lo so … me lo sono sempre domandato.
Hurlstone e Langley si scambiarono un’occhiata perplessa. – Non lo sa? – ripeté l’ispettore con fare canzonatorio.
- Sta forse insinuando?
- Signor Reynold, io sono l’ispettore, lei l’arrestato. Risponda alle mie domande.
Sperty sbuffò. – No, ispettore. Non lo so. Non ne ho la più pallida idea. Barney non aveva amici ricchi, né benestanti … quelli che aveva li conoscevo anche io. Non credete che avrei saputo se un mio amico avesse pagato per lui?
Hurlstone lanciò uno sguardo sbilenco all’agente Musgrave, che scriveva velocemente ogni battuta. – Vada avanti, Mr. Reynold.
- La sera del giorno che Barney uscì dal carcere avrei voluto trascorrerla con lui, alla locanda dove mangiavamo sempre; ma quando glielo proposi lui rifiutò, dicendomi che sarebbe tornato a casa sua e che desiderava non essere disturbato. Detto, fatto. Tornai in teatro e mi buttai a capofitto nella preparazione di una commedia nuova … forse non vi ho ancora detto che avevo trovato lavoro, mentre Barney era in carcere, in un teatro di periferia. Nella compagnia s’era inserito anche il mio vecchio amico Zack Kwayne e c’era posto anche per Barney, perché il teatro era nuovo e il proprietario aveva raccomandato ad ognuno di noi di invitare più gente possibile. Nonostante avesse conosciuto il carcere, Mr. Jones lo assunse e in giornata glielo dissi a Barney. Trascorse una settimana esatta prima che potessi rivederlo. Era sempre a casa sua e da quel che si diceva, trascorreva le giornate a disegnare e dipingere.
- Chi le disse questo?
- Zack Kwayne. Andò a trovarlo, una volta, e gli fece così impressione la scena, che fu la prima cosa che mi raccontò quando ci vedemmo. Ricordo ancora le sue parole. “Patrick” mi disse entrando nella locanda e sedendosi di fronte a me “quasi non riconoscevo Barth! Sono stato da lui, questa mattina, per via dell’impiego e per fargli fretta … Mr. Jones pressa come un pazzo … e l’ho trovato seduto davanti ad una tela. Era una tela. Attorno a lui c’erano un sacco di colori … e vedessi che colori! Ti ricordi quando Barth se li faceva lui, pestando e mescolando polveri? Eh, quelli non erano i suoi colori. Barth li mette nei barattoli di vetro, mentre quelli erano … come dire… si vedeva che costavano! Stava lavorando ad un ritratto, quando sono entrato. Ha tentato di nasconderlo con una stuoia, ma tu mi conosci… io ho l’occhio svelto e ho visto che aveva abbozzato i tratti di una donna sulla tela. Con il carboncino. E che donna, Patrick! Che donna! Ma dove le trova, quello lì?”. Signor ispettore, questo è ciò che Zack Kwayne mi disse quella mattina. Ero molto arrabbiato con Barney per via del fatto che non veniva più con me e Zack a fare colazione, né a lavoro, perciò non chiesi null’altro a Zack. Con il tempo io e Barney ci vedemmo sempre meno. I suoi lavori alla scenografia, però, risultavano sempre unici. Nei teatri di Dublino sono presenti tuttora le sue opere.
- Passarono diversi mesi, prima che lo rivedessi – continuò con un’alzata di spalle, dopo una breve pausa. – Nel frattempo avevo sempre ricevuto sue notizie da terze fonti e sapevo che aveva dedicato il suo tempo alla pittura. Sapevo che dipingeva, ma raramente i vicini lo trovavano in casa, e questa era una cosa che, ad essere sinceri, mi lasciava non poco perplesso. Barney non aveva mai avuto l’abitudine di andarsene in giro, così …
- Nel tempo che lei e il suo amico non vi siete visti – disse l’ispettore Hurlstone incrociando le braccia al petto sulla scrivania. – lavorava ancora al teatro, Mr. Reynold?
Sperty annuì. – Insieme a Zack Kwayne, io, Mr. Jones e la sua compagnia, preparammo diverse rappresentazioni teatrali. Barney fu licenziato durante i preparativi del primo spettacolo, per assenteismo.
Prima di proseguire bevve l’ultimo sorso di brandy del bicchiere. – In tutti quei mesi di lavoro non ebbi tempo di pensare al passato e dimenticai quasi totalmente l’amicizia con Barney. Dovete sapere che, anche se c’era tanto lavoro, a me quel teatro di Dublino non piaceva. Con i soldi che mi ero guadagnato, mi sarebbe piaciuto tornare in Inghilterra, a Londra, ma volevo tentare, viaggiare per questo paese in lungo e in largo. Gli attori con i quali lavoravano non erano dublinesi. Nessuno di loro era nato lì; nessuno di loro (o quasi), era soddisfatto di quel teatro. Che poi, non era proprio il teatro la pecca … quanto Mr. Jones, che ci pagava poco. Beninteso, ci trattava bene, ma la paga - disse con una smorfia – era bassa. Perciò, quando rividi Barney, tutto gaio e splendente come non s’era mai messo, che mi proponeva di andarcene tutti a Waterford …
- “Tutti” chi? – chiese Musgrave sollevando appena gli occhi dal foglio.
- Io, Zack e lui – rispose Sperty girandosi verso l’agente.
Hurlstone sospirò. – Vada avanti.
- Dicevo, quando Barney mi propose di trasferirci tutti a Waterford, ero sì contento, ma dentro di me custodivo il sospetto. Tuttavia, imponendomi di non pensar troppo, mi feci convincere e partimmo un paio di giorni dopo. Durante il viaggio, Barney non faceva altro che dirmi che si sentiva diverso, che quel lungo periodo d’assenza non l’aveva voluto lui, ma gli era servito per pensare … “Pensare” … quando gli chiesi la ragione per cui non era più venuto a lavorare, come aveva fatto a vivere senza lavorare come pittore di teatro, nell’arco di tutti quei mesi, la sua risposta fu: “Sono nato dall’arte e vivo d’ingegno”. Rimasi sorpreso. Barney e io eravamo come due fratelli, c’eravamo sempre detti tutto, ma quel fare da disilluso che aveva acquisito, e che mi era nuovo, suscitò in me una strana sensazione.
- Quando ci stabilimmo a Waterford, quella sensazione di disagio si fece più forte. Mentre io e Zack ci mobilitavamo per cercare un nuovo impiego, Barney se ne stava chiuso nella camera che avevamo affittato. Chiuso a far cosa, poi? Se dovessi dirvi di tutto quello che io e Zack c’eravamo immaginati, al riguardo, ne verrebbe fuori uno spettacolo comico … o tragicomico.
- I teatri erano pieni di attori e anche trovare un lavoro fuori di essi, o dentro essi ma nella qualità di semplici collaboratori, era difficile. Così ci ritrovammo tutti e tre senza lavoro. Potete immaginare il modo in cui ci sentimmo io e Zack … Barney trascorreva il suo tempo a disegnare e dipingere, vestito con quei suoi indumenti decisamente non economici, con quel suo innovativo fare da grande artista, e io e Zack ci dannavamo l’anima per il bene di tutti, compreso il suo. Ma non fu una storia che durò a lungo, no. In una città come Waterford le cose da conoscere sono tante … io e Zack non potevamo fare i conti pure con Barney. Così ci trasferimmo in un altro quartiere. Barney aveva la sua vita dissoluta da grande artista e noi una vita modesta, per non dire povera, da lavoratori. Due poli nella stessa città.
L’espressione assorta dell’ispettore si trasformò in una di puro sospetto. – Mr. Reynold, ha parlato di Bartholomew Neybourgh come un uomo con uno stile di vita molto poco consono alle sue apparenti e reali condizioni economiche.
Sperty assentì.
- Bene. Le sono mai sorti dei sospetti circa la possibile presenza di un lavoro più fruttuoso nella vita del suo amico?
- Beh, in effetti ho sempre sospettato di lui. Mi sono posto molte volte domande circa l’origine dei soldi con i quali pagava i suoi capricci, ma non sono mai giunto a nessuna conclusione convincente. Una volta gliel’ho chiesto, ma lui mi ha guardato in modo strano e ha cambiato subito discorso.
Hurlstone annuì. – Va bene, Mr. Reynold. Mi auguro solamente che stia raccontando la verità – disse con uno sguardo indagatore.
Sperty si concesse un attimo di silenzio. – Certamente, ispettore. Sta a voi credermi o meno.
- Per quel che mi riguarda, sono sempre stato portato a credere alla logica. All’infuori di essa non ho mai visto verità. Ma adesso prosegua nel suo racconto, Mr. Reynold; ho come l’impressione che si stia avvicinando al nocciolo del discorso.
Sperty annuì. – E’ vero. Il periodo che ho trascorso qui a Waterford è e sarà sempre il peggiore di tutta la mia vita. Io e Zack cademmo presto in miseria e iniziammo a spendere i nostri magri risparmi nelle taverne della periferia. Niente mi farà mai vergognare tanto. Il periodo di cui sto parlando corrisponde all’inverno del 1855. Giusto nel Gennaio di quell’anno avevo conosciuto la donna più adorabile del mondo. Si chiamava Agatha e lavorava nell’albergo vicino l’edificio in cui abitavamo io e Zack. Puliva le stanze e mi faceva una gran pena. Nel giro di poco tempo desiderai prendermi cura di lei e delle sue due figliuole … Agatha mi parlava spesso di loro … ne andava molto fiera.
- In Primavera trovai un lavoro. Si trattava di un posto in una fabbrica di birra. A me toccava selezionare i luppoli migliori: me li versavano davanti e io dovevo scegliere quelli con l’aspetto migliore. Non era un gran lavoro, ma mi garantì una stabilità che avrei rimpianto enormemente l’inverno successivo. Successe, infatti, che, sull’orlo del fallimento, il proprietario della fabbrica iniziò a licenziare gli impiegati. Io, come potete immaginare, ero tra quelli. In autunno ero a terra e in Inverno Barney tornò a farsi vedere.
- Il resto, ispettore, vi è noto. In preda alla disperazione e alla sbornia, io, Zack e Barney aggredimmo una ragazza e le togliemmo tutto ciò che di prezioso aveva con sé.
Langley si sentì percorrere il collo da un brivido.
- Da quel momento il destino si incapricciò nei nostri confronti e… poi Barney è morto, io sono stato arrestato e Zack … - sospirò. Hurlstone sgranò impercettibilmente gli occhi, in un moto d’interesse. – Di lui non ho avuto più notizie dalla morte di Barney.
Hurlstone si allungò verso un cofanetto di legno della sua scrivania e girò la chiave nella toppa, mentre si soffiava il naso. – Mr. Reynold – disse afferrando qualcosa. – Cosa ne avete fatto, lei e i suoi amici, del denaro rubato alla ragazza che avete aggredito?
Sperty seguì i movimenti dell’ispettore con malcelata preoccupazione. – Gran parte di esso lo prese Barney. Non seppi mai a quanto ammontasse la somma, ma che Barney si fosse impossessato della fetta più grande, lo posso dire con sicurezza.
- Quindi saprebbe riconoscere uno dei dobloni rubati?
- Certamente.
Hurlstone lanciò una moneta d’oro sul tavolo. – E’ questo?
Sperty sgranò gli occhi. – Sì. – annuì.
- Grazie, Mr. Reynold. Ha altro da aggiungere?
- Vi ho raccontato la mia vita, ispettore. Posso aver tralasciato qualcosa, ma se me ne ricorderò, sarò più che lieto di collaborare con la giustizia. State indagando sulla morte di Barney?
- Indaghiamo su tutto quanto ci sia d’illecito e illegale.
Hurlstone estrasse l’orologio dal taschino del suo gilet; poi fece cenno a Musgrave e Copperland di portare via Sperty.
- La ringrazio per la deposizione, Mr. Reynold. – disse guardando l’orario.
- Sarò condannato? – chiese mentre gli agenti lo facevano alzare.
- Se vi comporterete onestamente non avete di che temere. Arrivederci Mr. Reynold.
Appena i tre uomini uscirono, lentamente Hurlstone di alzò e aprì la finestra. Langley teneva il mento poggiato sulla mano destra chiusa a pugno e non lo guardava.
- Sapete che ore sono, signor Langley?
Il conte disse di no.
- Venti minuti alle sette. Avete fame? – chiese guardando la strada con un’espressione assorta.
Langley controllò l’ora nel suo orologio. La lunga lancetta dei secondi si muoveva svelta verso il quattro, mentre quella dei minuti era a metà strada tra l’otto e il nove. – Il tempo è passato molto velocemente.
- Già. Conosco un buon ristorante, nei dintorni. Vi inviterei volentieri ad assaggiare una di quelle paste ripiene di ricotta che sono la specialità del locale. Il proprietario è un italiano, una brava persona.
Langley richiuse l’orologio con uno scatto. – Vi ringrazio, ispettore, ma credo di avere le forze giuste per tornare alla tenuta.
Hurlstone si allontanò dalla finestra. – Come volete, allora. Se vi capiterà di aver bisogno di un ristorante in città, però, sappiate che questo è il migliore. Si trova in fondo al viale.
- Me ne ricorderò sicuramente, ispettore. – lo rassicurò Langley, alzandosi dalla sedia.
- Spero che non vi siate annoiato, questo pomeriggio.
- Affatto, ispettore – rispose Langley che stava per tendere la mano all’uomo; quando si ricordò del raffreddore ritrasse il braccio e lo salutò con un semplice cenno.
- Oh, signor Langley … quasi dimenticavo …
Hurlstone infilò una mano in tasca, proprio nel momento in cui Langley aprì la porta. – La vostra serva potrebbe sentirsi alquanto contrariata se vi vedesse tornare a mani vuote. L’aveva Sperty. – disse con un sorriso, porgendogli una catenina d’argento.

Fedor aveva atteso il padrone fuori dalla caserma, le redini legate ad un paletto.
Le sue doti di saltatore e la sua eccellente resistenza compiacquero ancora una volta il conte, che attraversò la campagna, immerso nelle profumate essenze serali e rinvigorito da una corsa veloce come quella all’andata.
Quando arrivarono alla tenuta, cavallo e padrone avevano entrambi il battito cardiaco accelerato e i muscoli delle gambe tesi.
Nel cortile, Langley cercò Anya con lo sguardo. Con la mano sinistra trascinò Fedor per le briglie nella scuderia, mentre continuava a guardarsi attorno, alla ricerca della nuova stalliera. Rimosse dalla sella la bisaccia con la pistola e la giacca, poi liberò Fedor dalla sella e le briglie e lo condusse nel suo box. Uscendo dalla scuderia si avvide che nessuno l’aveva sentito arrivare; così, con la borsa di cuoio in spalla, si poggiò allo stipite della porta della scuderia e permise che la fresca brezza di campagna asciugasse il sudore. Era posizionato sotto la lanterna della trave della porta e pian piano lasciò che gli occhi si bloccassero sulla sua ombra, mentre la mente si muoveva da tutt’altra parte.
A parte il verso di qualche grillo e il rumore delle scodelle, dei passi dei servi, il loro parlottio, il silenzio era assoluto. Da quell’angolo di cortile, effettivamente, si aveva sempre questa sensazione, perché la porta era soverchiata da una grossa trave di legno che fungeva riparo anche in caso di pioggia, e il legno assorbiva in parte i rumori. La lanterna proiettava un cono di luce ampio, ma, dal momento che pendeva dalla trave e il suo fascio era bloccato parzialmente da i due pilastri laterali, fu solo per un colpo di fortuna che Langley si accorse della figura accovacciata di Anya. Era seduta a terra, con le spalle poggiate al muro esterno della scuderia, le ginocchia piegate e le braccia poggiate su di esse. Aveva il cappello calato sugli occhi e respirava profondamente. Langley si avvicinò e si abbassò per guardarla in viso; stava dormendo. Nell’osservarla gli venne da ridere, con quegli indumenti maschili e i capelli legati in una coda bassa, scarmigliata per il lavoro. Con un rapido movimento le tolse il cappello e le diede un colpetto alla spalla.
- Sveglia! – sussurrò.
Nel sonno, Anya mosse il capo, che, non più sorretto dalla tesa del cappello, andò a sbattere contro la parete dietro di lei. – Ahia … Cos … eh? Signor L… signore!
Con uno sforzo sulle gambe fu subito in piedi, per poi stiracchiare rapidamente le braccia indolenzite e aprire e chiudere gli occhi. – Signore, siete arrivato da molto tempo? – bofonchiò.
Langley si alzò insieme a lei.
- Il cavallo … non siete andato via con Fedor? Adesso siete tornato … dov’è il cavallo? – domandò guardandosi attorno e sporgendosi dalla porta della scuderia.
Langley le rimise il cappello sulla testa. – E’ già dentro.
Anya si passò una mano sul viso. – Giusto … ha mangiato? – domandò indicando un punto dietro di sé con il pollice. – No … certo che no … devo farlo io.
Il conte annuì.
La ragazza annuì a sua volta, riassumendo mentalmente ciò che le restava da fare. Levò gli occhi sul viso del signor Langley, ma non riuscì a guardarlo a lungo. – Allora vado ...
Il conte la osservò girarsi, mentre con distrazione infilava una mano nella tasca del gilet. Le dita incontrarono una catenina tiepida e sottile, e un movimento delle sopracciglia fu il segno che aveva ricordato qualcosa. – Anya – la chiamò andandole dietro. La fermò poggiando involontariamente una mano sul suo costato.
La ragazza si bloccò improvvisamente, come se avesse ricevuto una scossa. Si svegliò del tutto e i battiti del cuore, già veloci, accelerarono la loro corsa.
- Devo darti una cosa – disse Langley, estraendo la catenina d’argento dalla tasca. Anya fece per girarsi, ma lui glielo impedì e scostò lentamente i capelli che le ricadevano sul collo. – Sono stato in città, questo pomeriggio …
Anya seguì le sue mosse con una certa perplessità.
Il conte afferrò le estremità della collana. - … hanno arrestato Sperty. – sussurrò, circondandola con le braccia, senza però toccarla, e mettendole davanti agli occhi il ciondolo. La vide sussultare e girare il capo a metà, verso di lui. – Il mio ciondolo!
L’espressione sorpresa che aveva assunto lo fece quasi sorridere, regalandogli una punta d’orgoglio.
Anya deglutì. – Hanno arrestato anche il complice?
- No – fece lui, scuotendo il capo.
La ragazza abbassò nuovamente lo sguardo sul ciondolo, mentre il conte tirava la collana verso di sé per agganciarla. Il fatto che la sua schiena fosse quasi a contatto con il petto di lui le procurava come delle scariche elettriche al cuore, che perdeva uno, due, tre battiti ogni volta che il suo respiro la raggiungeva al collo; temeva che il conte se ne sarebbe accorto. Sapeva di avere le guance rosse, perché il sangue vi affluiva con prepotenza, e le mani fredde. Quando il conte parlò un’altra volta, desiderò correre via.
- Ora che il pericolo è scampato (almeno per te), potrei anche licenziarti, per quello che hai fatto ieri – le sussurrò, serio, Langley all’orecchio.
Anya deglutì nuovamente. Sperò che il suo tono di voce apparisse neutro. – E lo farete?
Le labbra di Langley si mossero in un timido sorriso. Sospirò, terminando d’agganciare la collana; poi pose le mani sulle spalle della ragazza e si sporse quel tanto che bastava affinché lei lo guardasse negli occhi. – Certo che no – disse, prima di allontanarsi.
 

 

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Capitolo 29
*** Capitolo XXVII ***


An irish tale – Capitolo XXVII



Dublino, Febbraio 2010

- Mi dispiace, signorina Bacott. Si è presentata ancora una volta impreparata e sono costretta a riempire la sua casella con un tre.
In piedi, davanti alla lavagna, Linda ruppe il pezzetto di gesso con le dita della mano destra. Voltandosi verso la classe, dopo aver chinato lo sguardo deluso al pavimento, vide che solo Richmond e McMurdo, i ragazzi dell’ultimo banco, parlottavano fra di loro.
- Può andare a posto, Bacott – disse la professoressa, scorrendo l’appello con la penna.
- Potrei essere interrogata, la prossima volta?
- Molti suoi compagni non hanno voto. Devo dare la precedenza a loro. Nel frattempo si prepari meglio.
Linda cancellò dalla lavagna le formule che aveva scritto; poi, posato il gessetto sulla cattedra, si andò a sedere. La professoressa chiamò altri suoi compagni. Ad ascoltarli, la lezione di fisica sembrava facile. Decise di prendere appunti e lanciò un’occhiata all’orologio di Scarlett, la sua compagna di banco.
- Mi dispiace – le sentì dire.
Meraipocrita, pensò. – Anche a me.
- Tua sorella come sta?
La professoressa si girò verso di loro, invocando il silenzio con un’occhiata. Linda fece finta di scrivere qualcosa. – Se si fosse ripresa te l’avrei detto – mormorò.
Mezz’ora dopo la campanella suonò. Linda conservò le sue cose in fretta, indossò il cappotto e uscì. Attese il tram per quattro minuti spaccati, prima di vederlo comparire dall’inizio della via. Dietro di lei c’era un folto gruppo di ragazzi impazienti di tornare a casa; Paul Turner, il suo vicino di casa, parlava e rideva allegramente con alcuni di essi. Onde evitare di essere vista si sistemò il basco in modo da nascondere il lato sinistro del viso e si spostò di pochi passi. Allorché le bussole si aprirono, lei fu tra le prime a salire e si conquistò un posto accanto al finestrino; sedendosi, sistemò lo zainetto sulle gambe e lo circondò con le braccia, poiché i ragazzi del primo anno avevano il vizio di aprirli.
Per tutto il tempo che impiegò per arrivare in ospedale, non parlò con nessuno. Tenne la fronte poggiata al finestrino, pensando solamente all’ennesimo impreparato del mese. Ad aiutarla in fisica era quasi sempre Anya, che di lei era più dotata nelle materie scientifiche. Il vuoto della sua assenza lo avvertiva anche in questo senso.
Una ventina di minuti dopo aver preso il tram, si ritrovò a centocinquanta metri dall’ Adelaide & Meath Hospital. Quando lo raggiunse, chinò il capo di lato e lo osservò. Un infermiere che la conosceva le passò accanto e la salutò, mentre trasportava un malato sulla sedia a rotelle. La mente progettò la risposta: “Salve, Josh!”, ma le corde vocali non vibrarono, né le labbra si mossero per mimare una parola. Ricambiò il suo saluto con un movimento delle sopracciglia e si avviò alle porte scorrevoli dell’entrata con le mani in tasca.
La camera di Anya si trovava al secondo piano. Linda decise di prendere l’ascensore. Sarebbe stata la prima volta, da quando Anya era ricoverata. Scaricando tutto il peso su una gamba, schiacciò il pulsante di chiamata.
- Miss – si sentì chiamare. Linda si girò. Accanto a lei, in attesa dell’ascensore, c’era un infermiere poggiato al carrello con il materiale per i prelievi sanguigni.
- Buonasera – balbettò. – Ci conosciamo?
L’infermiere fece un cenno con capo in direzione dell’ascensore. – Lo deve prendere?
Linda non poté fare a meno di squadrare l’uomo. – Sì.
- Beh, se non è un’infermiera o una dottoressa non lo può fare. Non può salire in ascensore.
- Mi faccia indovinare – disse stancamente la giovane dopo un po’. – E’ per quel fatto dei microbi, virus, batteri e roba simile?
L’infermiere annuì.
- Le sue … ciabatte – disse con incertezza – non mi sembrano del tutto asettiche, però.
Le porte dell’ascensore si aprirono con un suono metallico. L’infermiere entrò e, prima di schiacciare il pulsante del piano da raggiungere, rivolse a Linda un’espressione infastidita. – Ad essere “non del tutto asettica” è la sua bocca, signorina. Farebbe bene a darle una ripulita.
Linda vide l’uomo e il suo carrello sparire oltre la soglia dell’ascensore. Rimase a bocca aperta.
- Idiota! – gridò dando un calcio alla porta. – Sì! Idiota!
A grandi passi si diresse alle scale, che salì a due gradini alla volta. In un moto di rabbia si tolse lo zaino dalle spalle e lo tirò in un angolo del pianerottolo del primo piano; poi, altrettanto arrabbiata, lo riafferrò e vi ficcò dentro il basco blu, che si strappò dal capo.
Percorse il corridoio del secondo piano in preda al nervosismo e, nel momento in cui vide sua sorella incosciente, sul letto bianco dell’ospedale, sentì subito la necessità di cambiare aria. Per qualche minuto restò poggiata alla parete del corridoio, fissando il pavimento a denti stretti; il dottor Homais le passò accanto e, com’era accaduto con l’infermiere nel cortile esterno, Linda non riuscì a salutare neppure lui. Poi, con un ringhio, si staccò dalla parete e prese a camminare freneticamente per il corridoio, senza una meta precisa. Intorno a lei una stinta miscellanea di medici, infermieri e pazienti, incedeva in ogni direzione: chi impazientemente, chi senza forze. Involontariamente urtò una pallida signora con la gamba ingessata che camminava con le stampelle; una di essa le cadde e Linda si scusò vivamente, dimenticandosi del suo cattivo umore, riprendendo la stampella da terra e porgendola alla proprietaria. Quando fece per allontanarsi dalla donna, venne urtata da una dottoressa che camminava a fianco di un’altra dottoressa e, guardandola allontanarsi, Linda girò su sé stessa, portandosi una mano alla fronte, confusa. La signora con la gamba rotta le passò nuovamente accanto, mentre lei si voltava in direzione degli estremi del corridoio per capire quale direzione avesse preso. In lontananza riconobbe la porta della camera di sua sorella. Sospirando mise altri metri di distacco da essa, guardandosi intorno e riprendendo a camminare. Sbottonò il cappotto, nonostante ci fosse freddo, e sciolse la coda nella quale aveva raccolto i suoi corti capelli scuri. Quando stava per imboccare le scale si bloccò e ficcò le mani in tasca; alla sua destra, un medico stava inserendo delle monetine nella macchinetta del caffè e, chinatosi, attendeva che il bicchierino si riempisse. Linda si sporse lateralmente per controllare la fuoriuscita del caffè, assaporando il profumo che esso emanava. Sapeva che se ne avesse bevuto, avrebbe potuto incrementare la sua dose di cattivo umore e pensò di prendere una cioccolata calda, invece del caffè, malgrado avesse la fronte piena di puntine. Perciò, non appena il medico andò via, col suo bel bicchierino fumante, Linda si precipitò sulla macchinetta e trasse dalla tasca un magro mucchietto di spiccioli. Inserì quaranta centesimi e tamburellò con il piede fino a che nel display non comparve la scritta Finished. Dopodiché aprì lo sportellino di plastica trasparente e trasse il bicchiere. Alla vista del suo contenuto, la fronte le si distese in un moto di sorpresa. Il bicchierino era vuoto.
- Ma che vuol dire? – sbottò chinandosi a dare un’occhiata al beccuccio di uscita delle bevande. Aprì e richiuse lo sportellino senza capirci niente, quindi sollevò gli occhi sulla lista dei caffè e s’avvide di un cartellino scritto con un pennarello nero. “There isn’t neither milk nor chocolate” diceva.
- Stronzi! Brutti stronzi! E potevate dirlo prima! – disse dando un calcio alla macchinetta. La mano che teneva il bicchiere si contrasse improvvisamente e lo lanciò violentemente nel cestino.
- There isn’t neither milk nor chocolate! – ripeté con tono beffardo. Girandosi, vide che dietro di lei c’era il dottor Homais.
- Linda - la salutò con il suo tipico accento.
- Non c’è la cioccolata!
- Je sais.
Linda guardò la macchinetta di sottecchi. – Sono un tantino nervosa, oggi. Tanto. Molto. Troppo. Infinitamente. Avevo bisogno di una cioccolata! Una. Anzi no. Ho bisogno di cambiare aria! Non ce la faccio più a stare qui, in questo ospedale di … di … oh, me lo conceda … di merda! Ma vi è mai passato per la mente di tingere tutte queste lunghe pareti con qualche bella tonalità calda? O magari, riempire i corridoi con dei quadretti? Sa, non costano niente! Farebbe sentire meglio la gente! Tutto questo bianco è insopportabile, intollerabile, odioso! Io stessa mi sento odiosa! Dovete fare qualcosa, lei e i suoi adorabili colleghi! Io qui non voglio più starci. Si prenda cura di mia sorella … se ne prenda cura per tutto il tempo che vuole! Io me ne vado! Tanto quella stronza non si sveglierà … io l’ho capito, sa? Quella se ne sta sbattendo di tutto e tutti … sono due mesi che le parlo, le metto le sue canzoni preferite, mi porto il computer e mi guardo anche i suoi film preferiti … io … li so a memoria! Le canzoni de “Il fantasma dell’opera” le sogno pure mentre dormo, mi rimbombano nel cervello come niente altro! Quella merda di fantasma, con quella sua merdaccia di mezza maschera, su questa parte del viso (lo ha mai visto il film, no?)… lo amavo! Lo amavo! Adesso non lo sopporto più! Ma devo continuare a sentirmi tutti i film e le canzoni di Anya, perché lei sente tutto … l’ha detto lei, dottore! Secondo me Anya non ne può più di quella roba … lei, magari, pensa che potrei cambiare generi, cambiare film … ma io non ho la testa a questa roba. Anzi, vuole saperla una cosa? Io mia sorella non la sopporto più. Non sono le canzoni o i film o i discorsi che le faccio sempre a darmi sui nervi, no … è lei! È un’egoista! A volte mi sembra di vedere un ghigno su quel suo viso … o forse sto solo impazzendo … ma che vada a … oh, non mi guardi con quell’espressione, dottor Homais. Non ho mai giocato a scacchi perché odio l’attesa. Non ho mai fatto nulla che mi facesse aspettare. Ho sempre cercato di non aspettare niente in vita mia. L’attesa è logorante, è inutile … mi domando ancora il motivo per cui sia stata inventata! Mi dice perché un uomo dovrebbe aspettare qualcosa per averla? La gente dice che a volte aspettare è bello … - puntò gli occhi nel vuoto – ma io mia sorella non voglio aspettarla! – gridò. Le persone che si trovavano nel corridoio si girarono verso di lei. – Vuole morire? Vuole vivere? Che faccia quello che le pare, ma che si decida, perché io sono stufa di stare a guardarla mentre dorme!
Alla fine, rossa in viso e senza più fiato, lanciò un’occhiata alle persone del corridoio e scoppiò a piangere. Inizialmente cercò di trattenersi e inspirò, riconquistando un po’ di contegno; poi riportò lo sguardo sul dottor Homais e cercò di fuggirvi, andando a poggiarsi su un fianco della macchinetta. Lì, al riparo dagli occhi di tutti, si accasciò al pavimento e scoppiò nuovamente a piangere, nascondendo il volto con le ginocchia.
Ad un cenno del dottor Homais i curiosi smisero di fare i curiosi e tornarono ai loro affari. – Linda – sospirò rannicchiandosi accanto a lei. – Qua sperano tutti che tua sorella si riprenda. Tu le vuoi bene, vero? – Linda annuì. – Si vede. Bene, se il tuo amore nei suoi confronti è sincero e profondo, allora, per quanto odiosa questa parola possa apparire, devi avere pazienza. Devi darle il tempo di riprendersi, di tornare alla vita che ha sempre fatto. Una volta mi hai raccontato che è un’eccellente tennista … lo spirito tenace è tipico degli sportivi, in particolar modo dei tennisti.
Linda sollevò il capo, senza guardare il medico. – Mia nonna è tornata in Italia e mia madre, invece di vivere, vegeta. Mio padre non viene quasi mai e i miei compagni non fanno altro che chiedermi come sta mia sorella … perché al mio stato d’animo non ci pensa nessuno? Mia madre non ha più aperto l’ambulatorio e ha strappato i biglietti che avevo affisso alla porta … i biglietti in cui dicevo che non era momentaneamente disponibile. Sa, dottore, anche lei sta diventando insopportabile … mai che mi dicesse una parola …
- Beh, ognuno ha il suo modo di esprimere il proprio dolore, in fondo. Hai provato a starle vicino?
Linda si ficcò una mano in tasca e trasse un pacchetto di fazzoletti quasi finito. Ne aprì uno e si asciugò il viso. – Io le sto sempre vicino, in ogni momento della giornata io sono con lei. Dottore, dispiace tanto anche a me che Anya abbia avuto questo incidente, ma ha detto lei stesso che si può risvegliare …
- Sei triste, posso capire – disse Homais. - Ma non lasciarti trascinare da quest’emozione.
Linda lo guardò. – Sta pensando che io sia pazza, non è vero?
- Affatto. Sei solo stanca … ed è normale, dal momento che – sorrise – … è Sabato. Perché non esci un po’? Avrai delle amiche o un ragazzo?
Nonostante Linda stesse piangendo, il dottore riuscì a strapparle un sorriso. – Non ho nessun ragazzo – disse asciugandosi gli occhi.
- Tanto meglio. Così non avrai da preoccuparti della gelosia di qualcuno.
Linda lo guardò obliquamente. – Vuole che mi tolga di mezzo?
Homais le rivolse un’occhiata attenta. – Sì, togliti dai piedi, Linda – sorrise ancora, dandole un buffetto sulla guancia. – Vai a casa, prenditi dei soldi e spendili tutti fino all’ultimo cent. Non voglio più vederti piagnucolare ai piedi della macchinetta del caffè.
Mentre parlava, il dottor Homais si alzò e le porse una mano. Linda l’afferrò e lui la tirò su.
Dopo poco prese il cappotto e la borsa ed uscì. Nel momento in cui le porte scorrevoli si aprirono davanti a lei e il vento freddo sollevò le punte dei suoi capelli, si sentì vagamente disorientata. Aveva detto a sua madre che sarebbe uscita, e aveva avuto un monosillabo di risposta. Ora che era fuori dall’ospedale, per la prima volta da quando esso era quasi diventato per lei una seconda casa, non sapeva dove andare.
Inizialmente si guardò attorno, concentrandosi sugli odori che la raggiungevano alla stregua di un felino. Le porte scorrevoli che si aprivano e chiudevano dietro di lei provocavano delle lievi ondate di disinfettante, mentre procedeva ad una velocità sempre maggiore in direzione delle scale. Qualche passo incerto, poi una corsa disperata per arrivare prima del tram alla fermata.
Ce l’aveva fatta.
Mentre andava a sedersi, ricevette un messaggio di Scarlett. Le chiedeva se le andava di uscire con lei. Lesse quelle poche righe un paio di volte; poi premette il tasto “Canc”. Non aveva nessuna voglia di stare in sua compagnia; piuttosto, avrebbe lasciato che quel tram di cui non conosceva il tragitto la portasse in un quartiere altrettanto poco conosciuto.
Il brusio della gente sul tram e i commenti infantili di alcuni ragazzini cresciuti troppo in fretta la infastidirono. Essendo impossibile fuggire via o spostarsi da un’altra parte – il tram era pieno zeppo di gente, gran parte della quale era salita all’ultima fermata – dischiuse il finestrino e trasse il suo vecchio lettore mp3 dalla borsa. In effetti non era il suo; il suo era blu, ma aveva una memoria talmente limitata che aveva sempre preferito usare quello di sua sorella.
Anya amava i R.E.M. e il lettore era pieno della loro musica.
Mentre armeggiava con il lettore mp3, il tram si fermò. Un piccolo gruppetto di gente scese a quella fermata. Lei guardò fuori. Conosceva quel posto. A meno di cento metri c’era l’entrata del Phoenix Park. Stette due secondi a valutare la possibilità di scendere; poi, quando le bussole stavano per chiudersi, gridò in direzione dell’autista e corse giù. Attraversò la strada, si sistemò meglio la borsa in spalla ed entrò nel parco. A poca distanza, un uomo suonava la chitarra; quando lui la vide sorrise e iniziò a cantare. Era giovane, con i capelli e gli occhi scuri. Aveva una bella voce e, mentre cantava, non la smetteva di guardarla.
- Oh, don’t be sad, girl, don’t be sad, please … - diceva. – I think it’s a nice song, and you are a beautiful girl. Yes, you’re a beautiful girl and … please, don’t be sad!
Quando fece per andarsene, Linda si accorse di avere un angolo delle labbra piegato verso l’alto. Prese un paio di spiccioli dalla tasca del cappotto e li lanciò nella custodia della chitarra aperta a terra. Poi, allontanandosi, vide che i versi cantati dal ragazzo cambiavano sempre, ogni volta, cioè, che un passante si attardava nei suoi pressi. Quello che le disse le regalò una piacevole sensazione. Prima di voltare l’angolo, si girò un’ultima volta verso di lui, che si era fermato per accordare la chitarra.
Camminò a lungo. Nei sentieri e nei prati del parco incontrò dei bambini, gente che praticava jogging, yoga, che meditava o studiava ai piedi di un albero. Quando lo spazio lo permetteva, c’erano cani e padroni che giocavano con la palla o un rametto.
Non aveva mai temuto gli animali, men che meno i cani. Ma desiderava non intrattenersi con nessuno.
Alla fine, stanca di camminare, gli auricolari nelle orecchie, buttò la borsa da parte e sedette accanto ad un albero.
L’ultima canzone si concluse con un accordo di chitarra elettrica di John Frusciante. Seguiva una canzone di Patti Smith, che tolse prima che ne sentisse l’intro.
Dopodiché sollevò le sopracciglia, sorpresa.
Le note di un mandolino.
Losing my religion.
Quella canzone lei e Anya la cantavano sempre.
Anche quella volta le labbra si mossero prima che se ne rendesse conto.

Oh life is bigger
It’s bigger than you
And you are not me
The lengths that I will go to
The distance in your eyes
Oh no, I’ve said too much
I set it up

Incapace di tener ferme le gambe e le braccia, che presero a muoversi in modo assai simile al Michael Stype del video, si alzò e calciò un sassolino.

That’s me in the corner
That’s me in the spotlight
Losing my religion
Trying to keep up with you
And I don’t know if I can’t do it
Oh no, I’ve said too much
I haven’t said enough

Mentre ballava, in una danza energica, ritmica, le venne in mente la situazione che stava vivendo e si tolse un’auricolare, per sentirsi cantare.

I thought that I heard you laughing
I thought that I heard you sing

Poi pensò al dottor Homais e alla lettera di Anya. Le sue volontà e i quasi due mesi di coma che stavano distruggendo lei e la sua famiglia.

I think I thought I saw you try

D’improvviso la sua voce si era affievolita.
Alla strofa successiva i movimenti pulsanti delle gambe aumentarono, facendosi più duri.

Every whisper
Of every waking hour I’m
Choosing my confessions
Trying to keep an eye on you
Like a hurt lost and blinded fool

Continuò a danzare ad occhi chiusi fino a quando la canzone non finì. E nel momento in cui ciò avvenne, la rimise e la riascoltò tutta da principio.
Allora, dopo una breve pausa, riprese a ballare, saltare, piroettare con lo sguardo basso, le braccia rivolte al cielo; poi con il viso rivolto verso l’alto e i palmi cullati dai morbidi movimenti dei polsi. Le gambe e i piedi che cacciavano nemici inesistenti, le spalle e il collo stressati da mosse a tratti sinuose, a tratti scattanti; i capelli che le finivano sulla bocca, gli occhi, la fronte.

Alla fine, dopo un frangente di indefinibile lunghezza, quando il fiato iniziò a mancarle, mise le sue cose in borsa e corse in direzione dell’entrata del parco. Molta della gente che l’aveva affollato nel primo pomeriggio era andata via, mentre il suonatore di chitarra era ancora lì che pizzicava le corde e produceva dolci melodie in sordina; in un lampo, Linda si accorse che in un pomeriggio era riuscito a raccogliere un bel gruzzoletto. Riprese a correre e godette della sensazione di freddo pungente alle guance. Quando si fermò, sui pressi della strada, era avvolta da una nube di caldo che la spinse a sbottonare il cappotto. Una donna distribuiva dei volantini promozionali; ne prese uno e lo usò per farsi un po’ d’aria.
Il sole era già tramontato e la giornata volgeva a termine. Non aveva nessuna voglia di tornare in ospedale, tantomeno a casa, dal momento che non c’era nessuno.
D’un tratto una folata di vento le fece finire i capelli in faccia. Erano freschi, odoravano di bosco, ma c’era qualcosa che non andava.
Il semaforo diventò verde. La folla dietro di lei si mosse e raggiunse il lato opposto dalla strada con pochi passi. Lei rimase al suo posto, passandosi i capelli fra le dita, fissando il vuoto. Un vento freddo continuava a spirare per la città e Linda lo sentiva abbracciarle impercettibilmente il capo e spingere delicatamente gli orli del cappotto. La mano mollò la presa dei capelli, lei si chiuse il cappotto, distolse lo sguardo dalla strada.
Un sorriso appena accennato era la conferma che aveva deciso cosa fare.
Volse rapidamente lo sguardo attorno a sé e mise mano al portafoglio. Vi erano poco meno di quaranta euro, ma le sarebbero bastati. Richiudendolo, senza attraversare, si rimise in cammino per il marciapiede, facendo navigare lo sguardo da un lato all’altro della strada. Infine, dopo una buona decina di minuti, trovò quello che cercava. Aveva un’insegna luminosa, che portava il nome di un certo “Michael, the best hairstylist od Dublino!”. Entrò per nulla titubante. C’erano all’opera due ragazze e un uomo, che scosse una chioma bagnata con una mano, facendo cadere le punte tagliate.
Linda fu invitata a sedersi in disparte. Poi venne chiamata per lo shampoo e più di un’ora dopo uscì con i capelli più corti e una tonalità più chiara di castano.

Quella sera non tornò in ospedale.
Prima di rientrare a casa era passata da un supermercato, dove aveva comprato qualcosa con il poco che le era rimasto. Il caso, però, volle che Mrs. Turner rientrasse al suo stesso orario da un’uscita pomeridiana con la figlia Ophelia. Sorpresa di vederla da sola, Mrs. Turner l’aveva invitata a cena. I rifiuti di Linda furono molti, ma non bastarono; quella sera mangiò con loro.
Prima che iniziassero i programmi serali in tv, Linda tornò a casa; qui non fece neanche in tempo a sistemare la sua roba, che Ophelia andò a bussare alla sua porta.
- Mia madre, io e il resto della famiglia, vogliamo ospitarti in casa nostra anche per questa notte.
Linda fece per ribattere.
- Non ti conviene dir di no – sorrise – a parte il fatto che potrebbe risultare pericoloso se tu dormissi a casa da sola, correresti il rischio di veder invadere la casa da me e i miei.
Linda si sporse dalla porta quel tanto che bastava per vedere la porta dei Turner. Paul, incastrato tra questa e lo stipite, mal celava l’impazienza di ricevere una risposta.
Mezz’ora più tardi, dopo una doccia calda ed essersi messa il pigiama, prese un libro e bussò alla porta dei Turner.
- Prego, entra Linda … - disse Ophelia aprendo.
- Sono in debito con te e la tua famiglia, Ophelia.
La condusse in salotto, dove sua madre stava guardando un programma comico alla tv. La salutò nuovamente e d’improvviso si ricordò di sua madre. Trasse il cellulare dalla tasca della vestaglia e si allontanò. Schiacciò il tasto “chiamate effettuate”, una volta in cucina, e rimase a guardare fissamente il numero di sua madre. In un primo momento tornò indietro, premendo il tasto rosso, e si alzò; poi, con un sorriso sghembo, la chiamò. Rispose la segreteria telefonica, ma decise di lasciare un messaggio.
- Ehi mamma … - iniziò con titubanza – … che strane cose … la segreteria! Ma ci avresti mai pensato che … per parlare sarei stata costretta a farlo tramite la segreteria? Dio … beh, io per questa notte sono stata invitata dai Turner. Dormo da loro. Se … - balbettò con un nodo alla gola, conscia che una tale eventualità non si sarebbe verificata - … se mi vorrai parlare … io tengo il cellulare acceso. Da’ un bacio ad Anya per me … buonanotte mamma … ti voglio bene …
Chiuse la chiamata, prima di scoppiare a piangere; dopodiché, ricordandosi di Ophelia e Mrs. Turner, si asciugò rapidamente gli occhi con la manica della vestaglia e tornò in salotto, dove trovò anche Paul, seduto su un lato del divano. Linda gli si sedette accanto; qualche istante dopo, giaceva addormentata con la testa sulle sue gambe.

 

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Capitolo 30
*** Capitolo XXVIII ***


An irish tale – Capitolo XXVIII



Quel caldo giorno di inizio Giugno, rimase per sempre impresso nella mente del conte.
Non seppe mai darsi una spiegazione per questo.
La temperatura, a Waterford, subì una rapida ascesa. In pochi giorni era arrivato un caldo stagnante, movimentato da una brezza altrettanto poco fresca. Non essendo abituati ad un cambiamento del genere, e non desiderando altro da una stagione di intenso lavoro, gli irlandesi si misero a riposo e le attività lavorative rallentarono. Si trattava di un fenomeno appena percettibile, ma non per questo invisibile.
Langley e Hobson avevano lavorato duramente per un settimana, smuovendo i contadini stanchi nei campi e creando più collegamenti possibili con i vicini del signor Langley; l’intervento di Hobson nella vendita dei terreni, dei quali Langley aveva fatto mettere degli annunci nei giornali locali, fu decisivo. Grazie alla sua caparbietà, quello dei terreni fu uno dei pochi affari che si concluse bene. Il signor Langley, senza il pensiero al debito – che si era ridotto più di quanto avesse potuto credere – era perfino riuscito a trovare il sonno.
Il pomeriggio di cui si ricordò fino alla fine dei suoi giorni, s’era appisolato sul divano del salotto. Sull’addome, le mani che ne reggevano ancora la copertina, era aperto un libro che gli aveva prestato Hobson. La tenda della finestra, sollevandosi, lasciava entrare poche folate di vento e nella stanza regnava il silenzio più assoluto.
In cortile, Edgard rientrava con Greta dopo un’intera mattinata al mercato.
Anya staccò velocemente Birra dal calesse e lo condusse al suo box. Cominciava ad essere stufa di quella vita. La mattina si svegliava prestissimo per assolvere ai suoi compiti da sguattera; poi correva nella scuderia e lì rimaneva per tutto il tempo necessario. A sera aveva già il viso impolverato e puzzava di sporco come nessun altro. A peggiorare le cose, quella notte aveva dormito poco e male, ed era in preda ad un mal di testa furente.
- Hai fatto ciò che ti avevo chiesto?
I tratti di Anya si contorsero in un’espressione di sofferenza. – Oh, piano, Greta … - sussurrò portandosi entrambe le mani alle orecchie, senza tapparle.
- Hai fatto o no?
- Sì, sì … - rispose, rassegnata. – La verdura è sul tavolo, le uova nel cesto accanto al forno, ho fatto cuocere il pane e lavato la cucina in ogni angolo … non mi guardare in quel modo, non ho dimenticato niente.
La cuoca assentì con sospetto.
Chiudendo gli occhi, Anya ottenne di placare momentaneamente il mal di testa. – Perché mi fai lavorare anche la Domenica? – disse con la voce bassa.
- Beh … dimentichi che non sono io a volerlo …
- Sempre la stessa scusa … ti piace perché sai che, tanto, non ne parlerò al signor conte! – sibilò. Greta la guardò scetticamente; quindi si allontanò, muovendo la mano con sufficienza. – Ma lo farò … oh, puoi star certa che lo farò!
- Oggi stesso – continuò, parlando a sé stessa, prendendo una vanga e dirigendosi verso un punto del cortile. Ad un tratto si fermò, strizzando le palpebre per una nuova fitta alla testa. Lentamente impugnò la vanga, che era caduta, e si sentì battere la schiena.
- Lavora, lavora … - la canzonò Edgard passandole accanto.
- Idiota …
Edgard si diresse con fare pimpante alla cucina.
Tornò dopo poco, mentre Anya raccoglieva il letame che Birra aveva lasciato; si andò a sedere sulla panca accanto all’entrata della cucina. Lo sguardo della ragazza si soffermò con avidità sul boccale di birra che teneva in mano. Edgard mimò un brindisi al suo indirizzo e lei pensò che fosse meglio badare al lavoro.
Alla fine della mattinata, un paio d’ore più tardi, quando stava per entrare in cucina, per un pranzo raccolto con Greta, Edgard, Margareth e Sam, una carrozza che non aveva sentito arrivare fece il suo ingresso dal cancello. Era una vettura privata, di dubbio gusto, guidata da un uomo smilzo e pallidissimo; era trainata da due cavalli di diverso colore, uno roano, l’altro baio.
Anya si fermò, nei pressi della cucina. Guardò quella strana vettura con le spalle chine, le braccia stanche per il lavoro, e si asciugò il sudore della fronte con la manica della giacca. Mosse qualche passo in direzione della vettura, che si era fermata al centro del cortile, togliendosi il cappello e socchiudendo gli occhi per il sole. Edgard corse ad aprire lo sportellino. Mentre ancora lui si sistemava la giacca e la scrollava dalla polvere con qualche pacca, masticando qualcosa, dalla carrozza fece capolino un’anziana signora; aveva dei tratti delicati e si muoveva con altezzosità. Scesi i gradini del cocchio, squadrò malamente Edgard e Anya, i cui occhi si mossero fulminei dalla cucina ai suoi piedi, senza sapere se mandare qualcuno a chiamare il signor Langley o meno.
- Ebbene? – proruppe la donna con la superiorità di prima – il padrone non è in casa?
Anya non seppe se si rivolgeva a lei o a Edgard, ma bastò che i due giovani si scambiassero uno sguardo per capirlo. Anya si congedò con un inchino, per poi dirigersi verso la porta. Nello stesso istante, sorpresa e trafelata, Margareth corse incontro alla nuova arrivata. La ragazza indugiò un momento sull’uscio, poi scappò dentro.
Credendo che il conte fosse nel suo studio, corse fino ad esso e bussò a più riprese. Quindi si spostò di fronte la sua camera da letto e alla porta della biblioteca. Era chiusa a chiave ed essa era ancora nella toppa. Con un rapido ragionamento, capì che il conte doveva trovarsi nientemeno che nel salotto. Ad ogni passo il mal di testa pulsava sulle tempie e sulla nuca, cosicchè Anya bussò nel salotto cercando sollievo al dolore poggiando il palmo sulla fronte. Quando stava per picchiare nuovamente sulla porta, si accorse che era socchiusa, e dalla fessura intravide la mano del conte ai piedi del divano. Preoccupata, entrò e lo vide dormire placidamente su di esso. Hunt, accucciato sul tappeto, sollevò curiosamente il capo. Un libro giaceva scomposto sul pavimento, poco distante dal braccio del signore Langley, quasi a voler imitare la posizione del suo lettore, che aveva il capo poggiato sul bracciolo, il braccio destro ricadente oltre i limiti del canapè, quello sinistro appoggiato mollemente dietro la testa; la gamba destra tesa, sorretta dal bracciolo, quella sinistra ripiegata e poggiata al ginocchio destro. Anya avanzò fino al tavolino su cui era stata poggiato un piattino colmo per metà di amarene. Rubandone una, si chiese, dopo avergli rivolto uno sguardo, come facesse il conte ad essere così insolitamente insolente anche mentre dormiva.
- Signore – lo chiamò, dopo aver buttato il nocciolo della ciliegia nel suo fazzoletto – Signore!
Langley aprì gli occhi con un mugolio. Alla vista di Anya si stiracchiò. – E’ pronto il pranzo? – bofonchiò, richiudendo gli occhi.
Anya lanciò un’altra occhiata alle amarene. – No, avete ospiti.
- Ospiti? – ripeté, sorpreso. – Non aspetto nessuno …
- Beh, mi dispiace, allora. Fuori c’è una donna che chiede di voi.
Il conte sbadigliò rumorosamente, esprimendo il suo disappunto. Quindi si mise seduto e riabbottonò la camicia all’altezza del petto. – Passami quel gilet …
Mentre si rimetteva in sesto, osservando il suo cane stiracchiarsi pigramente le zampe anteriori e posteriori, Anya raccolse il libro e sistemò il divano.
Il conte guardò il cortile dalla finestra. – Hai detto che è una donna a chiedere di me?
- Una donna anziana – precisò, restituendo la forma con qualche pacca ad un cuscino.
Arrendendosi di fronte l’impossibilità di poter vedere qualcosa da quell’angolo del palazzo, il conte si allontanò dalla finestra. Un vago presentimento cominciava a farsi strada nella sua mente.
- Che aspetto ha? – chiese.
Anya sistemò i cuscini sul divano e mosse qualche passo all’indietro per ammirare il proprio lavoro. – E’ vestita di abiti costosi, ma … mal portati, se posso dirlo. Ha i capelli del vostro stesso colore e credo che abbia superato i cinquant’anni, nonostante sembri più giovane. Non è magra, né grassa e … è leggermente più bassa di me.
Langley la guardò, abbandonandosi nuovamente sul sofà con afflizione. – Anya, sei sicura?
- E perché non dovrei esserlo? – disse, irritata dal vedere il divano nuovamente in disordine. – Suvvia, signore. Alzatevi, adesso, e fate gli onori di casa.
Il conte si alzò, scuotendo la testa con un atteggiamento di divertita incredulità. Al pensiero di chi potesse essere l’ospite, però, riacquistò il cattivo umore.
Anya e lui uscirono dal salotto insieme, ma, nei pressi della sala da pranzo, Langley le fece capire che sarebbe stato meglio che si attardasse dietro di lui e che non entrasse in sala, dal momento che aveva lavorato tutto il giorno in scuderia e l’odore che faceva non era tra i migliori. Aprendo la porta della sala da pranzo vide Lady Corinne Langley in piedi accanto al tavolo; parlava con Margareth, la quale, non appena il conte entrò, tirò un sospiro di sollievo, pensando che non avrebbe più dovuto sopportare quella donna. Seguendo la direzione del suo sguardo, Lady Corinne si girò verso il nipote, e gli andò incontro.
- Oh Paride caro! Che gioia rivederti!
- Vorrei poter dire la stessa cosa, zia Corinne.
Corinne si voltò con un sorriso verso Margareth, poggiando una mano sul braccio destro del nipote. – Sempre il solito buontempone!
Langley la guardò con indifferenza e una punta di fastidio. Le visite di quella donna si erano sempre concluse con dei guai e delle sterline in meno. Infatti, quando Margareth uscì, le chiese – Ditemi, zia, il vostro amatissimo Ernest ha ridotto le vostre magre finanze al lastrico?
- Oh, Paride – disse quella con un cenno della mano – non essere sciocco. Stai ancora scherzando?
Langley disse di no.
- Pensi davvero che io sia venuta per chiederti dei soldi? – continuò, mimando un’espressione incredula.
- E’ parecchio probabile. Venite con una scusa, vi prendete i miei soldi e andate via. Quando Ernest finisce di sperperare il denaro che vi ho dato, inviate delle lettere e poi tornate. È un ciclo.
Corinne si mise ad osservare i pizzi delle maniche, fingendosi distratta. Quando il nipote finì di parlare, sollevò nuovamente gli occhi su di lui, senza sorridere. – Hai una cattiva idea di me … ma d'altronde sono rimproveri che mi merito. Da quanto tempo non ci vediamo?
Langley esitò, prima di rispondere. Doverle parlare significava considerarla e lui non voleva darle quest’impressione. Pur tuttavia eseguì un rapido calcolo mentale. – Quasi tre anni.
Corinne rimase ad osservarlo per qualche minuto. Quando riprese a parlare smise di tormentare gli orli delle maniche. – Mi sei mancato, Paride.
Langley sorrise beffardamente, muovendosi in direzione della porta. – E’ ora che la smettiate di mentire.
- Non mi credi, forse?
- Come potrei – disse con una sbilenca espressione d’odio, bloccandosi con una mano sulla maniglia – dal momento che avete scialacquato tutto il patrimonio di famiglia e non vi siete fatta vedere al funerale di mia figlia e mia moglie?
Il petto di Lady Corinne si gonfiò con un sospiro all’interno del corsetto, mentre lei buttava giù le spalle nel sentirlo rievocare i funerali. – Pensi ancora a quello?
Langley rimase di stucco. Gli tremarono le labbra. – “Quello”... – sussurrò adirato – quello … voi chiamate un episodio del genere “quello”?!
Mentre parlava, la rabbia che avvertiva dentro di sé aumentava, e con essa un profondo senso di disgusto. Ripensando alla moglie e alla figlia, il dolore si ripresentò, vivido come quando gli fu comunicata la notizia della loro morte. Non sarebbe riuscito a tollerare la presenza di Lady Corinne ancora a lungo.
- Oh, perdonami Paride – iniziò lei, poggiandogli una mano sull’avambraccio. – Non intendevo …
Langley si ritrasse con ribrezzo. – Sei una miserabile – sibilò.
Per un po’ non parlò nessuno. Nell’animo del conte si combattevano la voglia di uscire e il senso del dovere che, miscelato ad un po’ di buon senso, comandava di rimanere. Distolse lo sguardo da Lady Corinne. Il vento sollevò le tende con uno sbuffo e Langley fu attratto dalle onde che esse formavano ad ogni spostamento d’aria. Le studiò fino a quando la voce di sua zia non tornò a farsi sentire nella sala.
- Ernest ha anche lui dei nipoti. Sono due maschi e hanno quasi la tua età. – disse, parlando quasi a scatti. – Grazie a loro ho capito il tuo valore. Non ho mai badato a te … quando c’ero ti trascuravo, poi ti ho rovinato e ti ho fatto andare via. I nipoti di Ernest sono due inetti, due incapaci … anche se vi si mettessero d’impegno non saprebbero fare, insieme, la metà di quello che tu hai fatto da solo, appena maggiorenne … non sono qui per i tuoi soldi. Te ne ho già sottratti molti e me ne vergogno profondamente. In quanto alla mia assenza ai funerali di tua moglie e tua figlia non ho scuse; sappi, però, che sono sempre stata molto triste per te e per loro. Le ho sempre ricordate nelle mie preghiere.
Langley sentiva i suoi occhi su di sé, ma continuò, imperturbabile, a fissare la finestra.
- Se ti rifiuterai di ospitarmi, non ti biasimerò. Lady Catherine Rudolph è già stata avvisata del mio arrivo e partirò all’istante, se tu lo vorrai.
Il conte schiuse lentamente le tende e dette un’occhiata alla carrozza in cortile. Il cocchiere era vicino uno dei cavalli e osservava la casa in tutta la sua altezza.
Quando parlò, un sopracciglio si mosse, come a voler indicare l’esterno.
- Con quei due ronzini non fareste molta strada, oggi. – disse, serio, dopo qualche minuto.
In seguito, lanciandole uno sguardo in segno di saluto, uscì.

Richiusosi la porta alle spalle, si ritrovò nell’ampio ingresso.
Trasse un respiro. C’era freddo; l’aria s’era rinfrescata di molto. Ed era appena il primo pomeriggio.
Lui si trovava in maniche di camicia. Indossava ancora il gilet e gli venne voglia d’uscire, evadere. Senza il cavallo. Quell’uscita necessitava di una lunga camminata. Lui ne aveva bisogno.
Stette a pensare a dove avrebbe potuto andare, ma ottenne solamente di innervosirsi di più.
Prese le scale e s’avviò velocemente in camera. Raccolse una giacca qualsiasi e prese un po’ di denaro. Quando uscì in corridoio, passò davanti quella che era stata la camera di sua moglie. La porta era chiusa a chiave, ma girò ugualmente la maniglia. Una strana espressione comparve sul suo viso. La mano lasciò improvvisamente la maniglia, quasi questa fosse incandescente, e con gli occhi ad analizzare i rilievi della porta, indossò la giacca. Sollevò il bavero, per proteggere il collo dalla corrente del corridoio e scese.
Quando fu alla porta, dietro di sé udì le voci di Margareth e Lady Corinne. Rimase in ascolto fino a quando non si furono allontanate, indi uscì in cortile e, preso da un paletto il cappello che Edgard vi aveva lasciato, salì nella vettura di sua zia.
Il pallido cocchiere, non riconoscendo la padrona, aprì lo sportello della carrozza e vi guardò dentro.
- Che hai da guardare? – disse il conte. – Portami in città.
Vedendo che titubava gli mollò qualche moneta. – Per quella cifra mi aspetto che i tuoi due ragazzi raggiungano la città in venti minuti minimo. Orologio alla mano.
Non appena il mezzo fu alle porte della città, Langley bussò perché il cocchiere si fermasse. Allora congedò la vettura con un cenno, si ficcò le mani in tasca e iniziò a camminare.
In città il caldo si sentiva di più. Certo, la differenza in confronto alla campagna non era molta, ma si sentiva ugualmente. Il signor Langley decise immediatamente di ripiegare verso Merchant Quay, la strada che costeggiava il fiume. Lì sedette sulla balaustra che dava al fiume e vi rimase fino a che una guardia non gli ordinò di scendere.
D’un tratto, riprendendo la sua passeggiata, si ricordò di non aver ancora pranzato. Hurlstone gli aveva parlato di un ristorante, in fondo alla strada in cui si trovava la stazione di polizia, ma era lontano da raggiungere a piedi. Prese posto, quindi, su una panchina e si mise a guardare la gente che gli passava e spassava davanti. Accese una sigaretta, iniziò a fumare. Continuò a osservare la strada fino al momento in cui lo stomaco iniziò a brontolare per la fame. Dopodiché entrò in una locanda e sedette ad un tavolo. La sala aveva un aspetto rustico, con abbondanza di travi e pilastri in legno che emanavano ancora l’odore di bosco. A circa dieci piedi dal suo tavolo, un lungo bancone di legno vecchio, divideva il lato cucina dalla sala; dietro di esso si muovevano un uomo ed una donna adulti, vicini alla cinquantina. Non appena il conte sedette, la signora gli si avvicinò.
- Cosa offre la casa? – chiese Langley accendendosi una sigaretta.
La donna gliela tolse di bocca e la spense contro la superficie legnosa del vecchio tavolo. – Stinco di maiale allo spiedo, pannocchie arrostite, stufato di rognoni di pollo e, come dolce, torta al formaggio e mele.
Langley ascoltò con il labbro inferiore corrugato e un sopracciglio sollevato; poi lanciò un’occhiata alla sigaretta spenta. Allungò una mano per prenderla e la donna gli colpì il dorso con una mano.
- Niente fumo all’ora di pranzo.
Il conte ritrasse la mano con aria contrariata. – Prenderò un piatto di stufato, una pannocchia e della torta – disse. – Grazie.
Quando la donna si allontanò, non potendo fumare, Langley conservò la sigaretta spenta e mise a tormentare delle schegge che sporgevano dal tavolo. Poggiato al palmo con lo zigomo sinistro, guardava alternativamente l’uomo e la donna al bancone, il piccolo cumulo di schegge che aveva staccato, la porta che si apriva e chiudeva per far entrare gente che poi si sedeva ai tavoli e prendeva ciò che la locanda offriva. Poco prima che gli servissero il piatto di rognoni, la donna della locanda gli portò un grosso boccale di birra. Bevve abbondantemente e si sentiva già leggermente alterato, quando ne ordinò subito un altro.
Dopo aver mangiato, si unì ad un trio di uomini che giocavano a carte. Dapprima per curiosità, per osservarli; in seguito gli fu offerto il mazzo e si mise a giocare anche lui.
In serata, la locanda era piena di gente e, tra le persone sedute al tavolo e quelle alzate, l’aria era umida e viziata anche nonostante le finestre aperte. L’ambiente era pieno pure dell’odore delle pietanze, del legno che man mano bruciava sotto il ferro col quale erano stati infilzati gli stinchi di maiale; l’acidula e corposa fragranza della birra, il puzzo di alcuni rutti soddisfatti e l’odore persistente del sudore. L’insieme era vomitevole, ma chi si trovava nella locanda non lo sentiva affatto. D’altronde era impossibile concentrarsi sugli odori, quando la sala era un marasma di rumori e schiamazzi senza fine; dai tavoli in fondo alla locanda si stava disputando una gara di bevute, cosicchè, i ragazzini che venivano iniziati a questa pratica, erano le vittime predilette degli scherzi dei grandi, che ridevano sguaiatamente. Si sentivano grida come: “Regge! Regge! No, Bill non regge!”, oppure “Tim è andato! Ragazzi, abbiamo perso Tim!”, quando uno dei giovani, saturo d’alcol, crollava sul tavolo.
Ma il chiasso prodotto da quella gente era appena udibile dal tavolo al quale giocava il signor Langley. Conosciuto da tutti come Victor Hobson, era diventato l’idolo degli spettatori, i quali, come ben si può immaginare, erano fonte di risa e incitamenti che andavano oltre i limiti del normale. Un uomo basso e magrolino, gli stava dietro, con le mani poggiate sulle spalle e rideva ogni qual volta Langley aveva in mano delle buone carte; e non v’era il rischio che gli altri giocatori se ne accorgessero, perché lì ridevano tutti. Perfino il signor Langley non riusciva a rimanere serio. Aveva perso il conto di tutti i bicchierini che aveva mandato giù. Dopo i due boccali di birra iniziali, aggregatosi all’allegra compagnia che giocava a carte, aveva iniziato a bere il whiskey che gli veniva offerto. Da quel momento, inebriato dalle continue vittorie, un ghigno ebete non si era mai staccato dalla sua faccia.
Quando cominciò a far tardi, dai piani alti della locanda arrivò un gruppetto di ragazze mal vestite, alcune truccate in modo pesante, che portavano sul viso i segni di una lunga dormita. Si fermarono al banco, scambiarono due parole con i proprietari, poi studiarono le facce dei clienti. La serata prometteva bene. Due ragazze, attratte dal gran numero di uomini al tavolo da gioco, si avvicinarono agli spettatori e iniziarono ad adularli con gesti e movimenti appositamente studiati.
Alla fine della partita un uomo al tavolo protestò perché, ancora una volta, aveva vinto il signor Langley, che lui chiamò Victor. L’ennesimo coro di risate si sollevò dagli uomini intorno al conte, e una prostituta gli si avvicinò. Iniziò un altro giro di carte e, dalle carezze alle spalle e al petto, la giovane si fece spazio e sedette sulla sua coscia destra.
- No, ti prego … - biascicò Langley con una sigaretta in bocca. Piegò la testa indietro, per sfuggire alle sue moine, ma, intontito com’era dall’alcol, alla fine cedette e concluse l’ultimo giro di carte tra i baci e le carezze della giovane.
Non molto tempo dopo, la stessa ragazza riuscì a portarlo in una camera al primo piano.

Il pomeriggio di quella calda Domenica, Greta si recò in paese e Anya ne approfittò per riposarsi. Lady Corinne aveva ordinato tutto il necessario e, quando Anya glielo portò, la nobildonna disse che avrebbe dormito l’intero pomeriggio, perché il viaggio l’aveva stancata.
Una volta in cucina, la giovane si girò attorno, mangiò un pezzo di pane, una mela, sbrigò alcuni compiti in cortile e, infine, rientrò. Poggiò la giacca a cavallo di una sedia, si tolse le scarpe e, verificata la momentanea assenza di Edgard, anche i pantaloni; in camicia si recò in lavanderia, riempì una tinozza e si lavò. Indossò, poi, il vestito grigio e scappò in camera sua, dove si mise a riparare alcune calze bucate e il collo di una camicia. Dal cortile Edgard la chiamò diverse volte; Anya lasciò perdere e decise che per il resto del pomeriggio nessuno più avrebbe turbato la quiete che s’era conquistata. Con il mal di testa che aveva, qualche momento di relax ci voleva proprio. Un’oretta più tardi, il giovane cocchiere la raggiunse in camera.
- Hai visto il mio cappello?
Anya scosse il capo, mentre alzava l’ago per stringere un punto. – No, tu?
Edgard fece per chiudere la porta; poi si bloccò. – Mi stai prendendo in giro? – disse, confuso.
La ragazza sospirò, poggiandosi la camicia sulle gambe. – Indubbiamente scherzavo … - lo rassicurò con un breve sorriso, senza guardarlo. – Ma se mi dici qual è il cappello che hai perso …
- L’avevo lasciato sullo steccato … - rispose Edgard, facendo per andarsene. – E’ quello grigio con le righe sottili, arancioni. Sei proprio sicura di non averlo visto? – aggiunse riaffacciandosi dalla porta.
- Edgard, ho detto di no!
L’aver alzato il tono di voce le procurò una fitta al capo. Mentre Edgard chiudeva la porta, si portò una mano alla fronte con un mugolio. Non appena riuscì a contenere il dolore, volse lo sguardo al vetro della finestra, quindi al paesaggio; la giornata volgeva al termine e in alto era già visibile uno spicchio di luna. Il fatto che il cielo fosse sereno, permetteva al sole di colorare tutto – cielo e terra – con tonalità calde, degradanti da un color pesca ad un giallo zafferano a un rosa pastello.
Progressivamente, le tinte che Anya a lungo ammirò dal davanzale della sua finestra, lasciarono il posto a colori più freddi. La sera giunse accompagnata da un venticello fresco, che smorzò il caldo del giorno. Sedendosi sulla panca in cortile, desiderosa che il mal di testa passasse al più presto, Anya aspettò di vedere tornare il conte, partito senza una ragione apparente, alle prime ore del pomeriggio. Al suo posto, dal cancello della proprietà, vide entrare Greta. Alla vista della sguattera sorrise, mostrandole il cesto pieno di prelibatezze. Quando voleva, sapeva comportarsi anche come una madre.
- Con queste ci faremo dello cherry! – disse mostrandole un involto pieno di ciliegie. – E con questa - tirò fuori una grossa tavoletta di cioccolata – una torta.
Anya non credeva ai propri occhi.
- Una torta? – disse prendendo la tavoletta.
Greta uscì dalla cucina e ne rientrò poco dopo. In mano aveva una grossa caraffa di vetro, che poggiò sul tavolo, accanto all’involto con le ciliegie. – Il signor conte è tornato?
Anya si sedette. – No – disse con una punta di fastidio.
- E la signora Langley?
- Credo si sia svegliata pochi minuti fa. Margareth la sta aiutando a vestirsi.
Greta sbottò con un sorriso. – La signora Langley si sta preparando per la cena e il signor conte non è ancora tornato. Questa è bella. Qualcuno sa dove è andato?
Anya mise in bocca una ciliegia. – Edgard ha parlato con Philip, il cocchiere della signora … lui ha detto che ha accompagnato il signor conte fino alle porte della città. Del resto, non potrebbe saperne di più.
Greta fece una smorfia.
- Mary sarà sulla via del ritorno e Ines mi ha detto che anche lei sarebbe tornata prima. Per il servizio a tavola non abbiamo di che preoccuparci.
- Intanto vai ad apparecchiare. Io preparerò queste quaglie.
Così dicendo, si sollevò le maniche della camicia, estrasse la mannaia dal cassetto delle posate e tagliò una per una la testa alle quaglie.
La cena trascorse tranquillamente. Lady Corinne era una donna dai gusti raffinati, ma per niente schizzinosa. Certa che il nipote non le avrebbe fatto compagnia, consumò la sua cena nella quasi completa solitudine della sala da pranzo, senza aspettare che Langley tornasse. In piedi, a qualche metro dal tavolo, Mary stazionava in attesa di nuovi ordini. Abituata agli aspri commenti del signor Langley e ai continui ordini con i quali egli la mandava in cucina, assistere alla cena di Lady Corinne, fu per lei un momento quasi idilliaco. La stessa Greta ebbe il tempo di preparare la tanto attesa torta al cioccolato, senza doversi preoccupare dei possibili difetti delle pietanze. Anya mangiò qualche fetta; in tarda sera aiutò Margareth a sistemare i bagagli di Lady Corinne, che sarebbe ripartita l’indomani mattina, poi si ritirò in camera e si distese sul letto. Ancora troppo presa dal mal di testa per poter pensare serenamente, chiuse gli occhi, rimandando a qualche momento dopo il cambio d’abito. Ma prima si poter rendersene conto, si addormentò.

Il giorno seguente, in tarda mattinata.
Alla tenuta Langley, il Lunedì era stato accolto con un mugolio di fastidio.
Dovendo preparare la colazione per un’altra Langley, parte della servitù si era alzata di buon’ora; Margareth si domandava ancora dove fosse finito il signor Langley e Lady Corinne chiedeva in continuazione se qualcuno ne avesse notizie.
Ma l’idea che il conte si facesse vivo, per quella mattina, era ben lungi dal realizzarsi.
Nella locanda della periferia di Waterford city, in una camera scarsamente illuminata, su un letto sudicio di incontri tra prostitute e clienti ubriachi, il conte dormiva ancora come un sasso. Colei che aveva goduto della sua presenza lo aveva lasciato da un bel pezzo, andando a caccia di un altro pollo da spolpare.
Quando Langley iniziò a riaversi dal sonno – fu solo a causa del malessere da sbornia e di un incubo che ciò accadde – la testa gli faceva così tanto male, che per un tempo indefinibile non osò aprire neppure un occhio. Era steso a pancia in giù, coperto fino alla vita. Prima di aprire gli occhi mosse il braccio destro lungo la branda. Non riconobbe al tocco le coperte del suo letto. Le sue erano morbidi, con una trama fitta; quelle che lo coprivano, invece, erano grossolane e, sebbene fossero quasi bianche, odoravano di sporcizia.
Ma quello era un elemento secondario. Certo, stare su quel letto gli faceva schifo, ma non riusciva ad alzarsi senza avvertire degli strani moti nello stomaco. Lentamente si sdraiò sul fianco sinistro, con il viso rivolto alla piccola finestra che faceva entrare poca luce. Cercò di sollevare la testa e fece scivolare le gambe oltre il limite del letto; quindi si mise faticosamente a sedere. Alla fine aveva un leggero fiatone e il cuore che batteva velocemente in petto gli martellò la nuca, portandolo a chiudere gli occhi e prendersi le tempie tra le mani.
Puntellandosi sulle braccia, si mise in piedi. La coperta che lo avvolgeva finì per terra e si accorse di essere completamente nudo. Trovò i suoi indumenti per terra, ai piedi del letto. Li indossò chiedendosi come ci fossero finiti. Il dubbio non lo assillò a lungo. Improvvisamente ricordò di essersi ubriacato e di aver passato la notte con una prostituta. Ricadde sulla branda in preda alla spossatezza e al disgusto verso sé stesso. Quando gli venne la prima fitta allo stomaco si sentì avvampare e iniziò a sudare. Poggiò la fronte sul palmo della mano sinistra e strizzò gli occhi, lamentandosi per quell’orrenda sensazione.
Non voleva trattenersi oltre in quella topaia. Indossò gli stivali e prese gilet, giacca e cappello; quindi controllò di avere i soldi in tasca e uscì. Sulle scale per andare al piano di sotto, ebbe un altro spasmo allo stomaco e un conato. In un primo momento preferì sedere su un gradino; poi raggiunse la sala principale.
Dietro il bancone vide l’uomo che l’aveva servito la sera prima. Senza alcuna intenzione di fermarsi a parlare, mise mano al portafoglio e chiese a quanto ammontava il conto.
- Non vorrà andarsene in questo stato, signor Hobson …
Langley si lasciò cadere su uno sgabello. – Come mi ha chiamato? – mormorò.
- Non è il signor Hobson? Victor Hobson?
Il conte lo guardò di sbieco, con gli occhi ridotti a due fessure per il mal di testa. Si sforzò si pensare agli avvenimenti della sera precedente e ricordò di aver usato quel nome per evitare dei pettegolezzi. Annuì.
- Quanto le devo? – ripeté a voce bassa, con il portafoglio in mano.
L’oste lucidò un tratto della superficie legnosa del banco con una pezza. – Ha bevuto molto, ier sera, signor Hobson. Potrei prepararle un caffè per il mal di testa … è sicuro di non voler restare?
Langley sospirò stancamente. Prese un paio di monete e le tirò sul banco. – Spero che queste le bastino. – disse alzandosi e uscendo.
In strada si sentì subito peggio. Il rumore degli zoccoli dei cavalli, delle ruote delle carrozze sul lastricato stradale, il parlottio della gente che camminava, le grida di qualcuno, intensificarono il mal di testa e la fronte gli si imperlò di sudore. Istintivamente si guardò dietro, tentato di rientrare nella locanda; ma, un po’ la nausea, un po’ l’inesauribile ribrezzo che si sentiva addosso da quando s’era ricordato di essere stato con una prostituta, rinunciò e si mise a camminare lungo la via.
Dopo pochi passi si sentì meglio. Il tempo era buono, ma non prometteva di rimanervi per il resto della giornata. Spirava un vento fresco e quando giunse alle porte della città, che non erano lontane dalla locanda, si sporse dal parapetto del ponte e guardò il Barrow scorrere placidamente sotto i suoi piedi. In altri momenti si sarebbe intrattenuto a lungo, ma quel senso di rifiuto di sé stesso era opprimente, oltre che snervante. Non riusciva a rifuggirvi. Pensò più volte di tornare indietro alla locanda, ma, convenne, era una cosa squallida e insensata da farsi, perché quella donna l’aveva sedotto con il suo consenso e allo stesso modo l’aveva trascinato in camera con sé. Bisognava non pensarci più.
Mentre percorreva la strada del ritorno, si sentì la faccia bagnata. Aveva iniziato a piovere.
Cadevano goccioline leggere, sottili, e il cielo s’era ingrigito. D’un tratto sembrava che fosse arrivato il pomeriggio. Controllò l’orario dall’orologio nel taschino del gilet; erano le undici e mezza. Il labbro inferiore si corrugò in un’espressione indecisa, mentre faceva navigare lo sguardo sulla campagna circostante. Mancavano, perlomeno, ancora cinque miglia alla tenuta. Era vicino alla proprietà dei Brody, c’era da camminare ancora per un bel po’.
Quando giunse nei pressi della tenuta aveva una gran voglia di dormire, ma ripiegò verso un sentiero secondario che lo portò ad un campo che conosceva bene. Avanzò in mezzo all’erba alta per più di duecento metri, cioè fino a quando non scorse le tombe di sua moglie e sua figlia. Una volta davanti ad esse, iniziò a recitare una breve preghiera e la voce si affievolì pian piano, arrestandosi un po’ prima della fine. Con dei lenti movimenti ripulì le superfici marmoree dalla polvere e dalla terra; quindi strappò dei fiori e li depose nei vasi.
Rimase a contemplare i nomi scolpiti sul marmo fino a quando non sentì dolere le ginocchia.
Alla fine, con la stessa indifferenza di prima, ficcò le mani in tasca e imboccò il sentiero di casa.





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Capitolo 31
*** Capitolo XXIX ***


An irish tale - Capitolo XXIX



- Fammi preparare un bagno caldo.
Langley era entrato in cucina, nella quale trovò Margareth china sul pavimento a raccogliere qualcosa. Non appena la governante lo vide, saltò su.
- Signore … - proferì squadrandolo da capo a piedi. Langley era fermo davanti la porta e non la guardava. Portava sul viso pallido i segni della sbornia, con due occhiaie scure sotto gli occhi, i capelli scombinati, sotto il cappello grigio, e la barba più lunga; indossava la giacca e teneva il gilet nella mano sinistra. La camicia era infilata dentro i pantaloni, ma era evidente la scarsa accortezza con la quale era stata rimboccata. I pantaloni erano sgualciti, come tutto del resto, e Margareth risalì al viso, con uno sguardo che invocava una spiegazione. – Dove siete stato in tutto questo tempo?
Langley lanciò un’occhiata al gilet, concedendosi un attimo di silenzio. – Dopo il bagno vorrei anche del tè. Forte. Senza zucchero. – ma nel momento stesso in cui lo disse, sentì montare la nausea.
Margareth stava per chinarsi nuovamente sul pavimento, irritata dai modi del conte; ma vedendolo ancora in piedi, sull’uscio, risollevò lo sguardo sulla sua figura. – Ci sono altre richieste?
Langley si versò un bicchiere d’acqua, taciturno e distaccato come prima. Credendo che non le avrebbe risposto, Margareth ricominciò a raccogliere i cocci sul pavimento.
- No.
- Bene … vostra zia – disse dopo qualche momento, facendo leva su un ginocchio per alzarsi – vi ha atteso per tre ore. Tre ore, signore … senza contare la giornata di ieri. Non è un comportamento gentile, questo.
Langley bevve un sorso d’acqua, guardandola appena di sbieco. – E’ partita? – mormorò poggiando il bicchiere sul tavolo.
- Certo – balbettò Margareth – certo che è partita … ma non vedo cosa c’entri …
- Che vada al diavolo, allora! – sbottò lui con un’alzata di spalle.
- Ma … signor conte!
Langley fece un gesto scocciato con una mano. – Piantala, adesso! Mi sta scoppiando la testa!
La governante fremette, mentre rovesciava i cocci su un ripiano. – A volte, non riesco proprio a comprendervi.
- Beh … non che me ne importi molto della tua comprensione … - disse, passandosi il gilet nella mano destra. Gli venne una fitta tremenda al capo e si mise una mano sugli occhi. – Fammi preparare un bagno caldo – continuò, poi, imboccando il corridoio che dava alla sala d’ingresso.

Greta, Anya e Adele, quella mattina, uscirono presto per andare al mercato. Le accompagnò Sam, il quale si diede subito da fare per cercare il fabbro per una riparazione alla vanga; ebbe la fortuna di fermare il calesse proprio di fronte la bottega e di poterlo tener d’occhio tranquillamente.
Greta, Adele e Anya, invece, scesero in piazza. S’erano vestite di tutto punto, indossando degli abiti puliti e gli scarponcini che avevano pulito dagli schizzi di fango. Quella mattina Greta era di buon umore e aveva così contagiato le due ragazze che la seguirono. Anya aveva cambiato pettinatura, acconciando i capelli con una riga laterale e un’unica treccia morbida che aveva attaccato al capo; aveva, poi, indossato la gonna verde e la sua camicetta migliore.
Una volta in paese, Greta trascinò con sé le due ragazze verso il banco del beccaio. Fece delle ordinazioni e Conor, il macellaio, afferrò per le zampe un paio di anatre morte e prese la mannaia. Anya si girò disgustata prima che la lama raggiungesse i colli dei volatili. Greta la stuzzicò toccandole il braccio.
- Non ti impressionerai mica!
Anya fece per girarsi verso il banco di lavoro. – Magari mi faccio un giro … - disse allontanandosi.
Camminò verso il centro della piazza. C’era poca gente, così, guardare i banchi dei mercanti non era difficile, poiché si vedevano quasi tutti. Esaminò la merce di qualche banco: nastri, frutta, verdura, carne, pesce, oggetti artigianali di legno e in riparazione; poi si allontanò anche da mercato, per avvicinarsi alla vetrina di una pasticceria che stava esponendo dei biscottini ricoperti di glassa e noccioline. Anya sentì lo stomaco gorgogliare. Si guardò intorno, tenendo d’occhio Greta e Adele; quindi trasse alcuni spiccioli dalla tasca. Erano appena pochi penny, tutto quello che era riuscita a mettere da parte il mese precedente. Lanciò una seconda occhiata alla vetrina della pasticceria ed entrò, con l’intenzione di vedere se poteva comprare qualcosa. L’interno lo aveva visto più volte da fuori. Le pareti erano ricoperte di legno e c’erano scaffali ovunque; ovunque e ben distribuiti. Il bancone si trovava di fronte la porta e a destra era situata la cassa. Sugli scaffali erano messi in bella mostra una gran varietà di barattoli con etichette recanti i nomi di ciò che contenevano: c’erano marmellate d’ogni sorta, miele irlandese, inglese e miele italiano agli agrumi; crema al cioccolato, melassa, granella di zucchero, caffè, tè e spezie importate. Alle finestre, in vasi separati e di modeste dimensioni, erano piantate delle erbe aromatiche e sul davanzale erano esposti dei gerani rossi che rallegravano l’ambiente. Gli scaffali dietro il bancone portavano, invece, diverse bottiglie di liquore e alcolici preparati apposta per i dolci. In un angolino, Anya vide un grosso barattolo contenente un liquido trasparente in cui erano state immerse delle ciliegie. L’odore era infallibile e intenso, e riconobbe lo cherry.
- Buongiorno.
Anya si era accostata al bancone e aveva iniziato a guardare i dolci in esposizione. – Salve – disse, ricambiando il saluto della donna dietro il bancone.
- Posso esserle d’aiuto?
La giovane si spostò una ciocca dietro l’orecchio, spostando lo sguardo da un dolce all’altro del banco, alla disperate ricerca dei prezzi. – No … cioè, sì … - balbettò, pentita d’essere entrata - il fatto è che … intendevo dare un’occhiata … ecco tutto … non sono mai stata qui …
Si ricordò di Greta e Adele e guardò la porta, propensa ad uscire. Ma la bocca andava da sé e prima che potesse rendersene conto, chiese il prezzo dei muffin al cioccolato e cannella.
- Sono due penny per ognuno. – le rispose gentilmente la banconista.
Anya tirò fuori dalla tasca i soldi e contò gli spiccioli sul palmo della mano. Erano undici penny e pensò che sarebbero stati sufficienti a offrire un dolce anche a Greta e Adele; ma d’un tratto le venne in mente che avrebbe potuto investirli in modo migliore e rinunciò ai muffin.
- Devono essere deliziosi – asserì con un sorriso – ma non ne ho voglia. Credo che passerò …
- Oh, ve ne prego!
Anya si voltò sorpresa in direzione della cassa, alla sua destra. Solo allora si accorse della presenza di un uomo, ben vestito e avvolto in un’elegante redingote grigio scura. Presa com’era dall’osservazione di tutta quella roba sugli scaffali, non aveva visto che quell’individuo aveva comprato dei biscotti e se li era fatti incartare.
- Vogliate perdonare l’intromissione, signorina, ma vi ho sentita parlare dei muffin alla cannella. Avete ragione, sono proprio squisiti – disse addentando un biscotto.
Anya lo vide avvicinarsi di qualche passo a lei e poggiarle delicatamente una mano sulle spalle, mentre indicava il banco con la mano che teneva il biscotto. Quel contatto la fece trasalire e non appena lo vide in faccia, sentì le gote imporporarsi violentemente. Gli vide muovere le labbra, dirle qualcosa, ma non riuscì a staccargli gli occhi di dosso. Si sentì disconnessa dalla realtà, mentre il suo cervello riuscì a formulare solo una frase: Dio, che uomo
L’uomo sorrise, in attesa di una risposta. Era più alto di lei e aveva un volto pulito, dai tratti regolari. Il viso era magro, dalla forma quasi allungata, ma il taglio gentile degli occhi vispi, miscelato alla piega ordinatamente ondulata dei capelli, compensava ogni mancanza. Era dotato di una folta capigliatura castana e di baffi e pizzetto dello stesso colore; gli occhi rilucevano di un bel color nocciola e la sola piega delle sopracciglia donava al viso un’espressione affabile e saccente al tempo stesso.
Una risatina della pasticcera la risvegliò. Guardò confusamente lei, poi l’uomo che sgranocchiava un biscotto, infine il cassiere. D’un tratto si sentì ridicola e desiderò scappare, mentre sentiva le guance farsi sempre più rosse.
- Vi ho forse messa a disagio, signorina? – chiese l’uomo con una punta di preoccupazione.
Anya scosse il capo. – No, davvero …
- Posso offrirvi qualcosa? Siete venuta da sola?
La ragazza lo guardò con sospetto, allontanandosi gentilmente da lui. – Sono venuta con due mie … oh, ma cosa ve ne importa?
L’uomo alzò le spalle, ingoiando l’ultimo boccone di biscotto. – Sono stato impertinente, perdonate. C’è qualcosa che posso fare per voi? Nei vostri occhi si legge l’ardente desiderio di assaggiare uno di quei muffin di cui avete chiesto notizie alla signorina …
Anya sospirò. Le sopracciglia e le labbra dell’uomo si curvarono in un’espressione dispiaciuta, talmente ben riuscita, che quasi non le suscitò tenerezza. – Vi ringrazio sinceramente per l’offerta, ma adesso devo andare … arrivederci Mrs. Marlowe – aggiunse rivolta alla pasticcera.
Uscì e il gentiluomo le andò dietro. Quando se ne accorse, Anya ebbe il timore che Greta e Adele potessero vederla. – Cosa volete ancora? – sbuffò, girandosi.
- Temo di avervi offesa.
Anya si voltò in direzione del mercato e vide Greta e Adele avvicinarsi.
- E’ così? – insisté l’uomo, affiancandola.
- No, non mi avete offesa. E se adesso aveste la pazienza di scusarmi … dovrei andare.
Sollevò appena il braccio, per attrarre l’attenzione della cuoca e di Adele, e al tempo stesso indicarle all’uomo, ma si fermò. Si congedò dall’uomo con un cenno del capo e corse via, badando a sparire dal suo campo visivo, seppure questo la portasse ad allontanarsi anche dalle sue due colleghe. Camminò fino a raggiungere il calesse di Sam. Sedendosi sul sediolino, s’avvide con un pizzico di paura che l’uomo risalì la stradina che aveva percorso lei. Sgranocchiava un biscotto e s’era avvicinato ad una carrozza privata; quindi parlò con il cocchiere, salì in vettura e partì.
Non appena la vettura scomparve oltre l’angolo della strada, Anya scese dal calesse e attese il ritorno di Sam, Greta e Adele, prendendosi cura di Birra. Lo carezzò sulla fronte, sul collo; gli osservò le zampe, gli occhi e le narici, come aveva visto fare ad Anthony prima che venisse licenziato. Pensò a lui e immaginò di trovarselo davanti pulito e pettinato, come raramente lo si vedeva, di raccontargli come andavano le cose nella tenuta e come Langley avesse decido di sostituirlo con lei, anche se questo era un elemento che sicuramente conosceva. Imbambolata, iniziò a fissare le azioni di una signora che aiutava il suo piccolo a muovere i primi passi, quando il tocco di Sam alla spalla la ridestò. Le indicò Greta e Adele che si avvicinavano con dei voluminosi involti di carta tra le mani e andò ad aiutarle. Anya issò una gabbietta con un gallo bianco a chiazze grigie e nere sul calesse, e prese posto sul sediolino accanto a Sam. Quando il calesse si mosse, lei non pensava più all’uomo della pasticceria; ma sulla via del ritorno, a due miglia dalla tenuta del conte, incrociò lo sguardo con quello di Anthony. Approfittando del fatto che né Sam, né Greta e Adele l’avessero visto, chiese a Sam di fermare il calesse e scese, raggiungendo l’amico.
Anthony stava trasportando un grosso barilotto di birra sulla spalla e uno con la mano, tramite un intreccio di corde che fungeva da manico, e camminava sul ciglio della strada.
- Anthony! – lo chiamò, trotterellandogli incontro. – Ehi!
Non aspettandosi che lo raggiungesse, il ragazzo la guardò sorpreso. Quando Anya gli fu vicina, posò i due barilotti a terra. – Anya! – la salutò cingendola con un braccio.
- Stavo giusto pensando a te! Cosa sono quelli? – chiese lei sorridendo, sciogliendosi dall’abbraccio. – Stai andando al mercato?
Anthony abbassò lo sguardo sui barili. – E’ birra artigianale. L’hanno fatta i miei e io la sto andando a vendere.
- Sono pesantissimi … - constatò Anya, provando a sollevarne uno. – Perché non usi il calesse?
- Il vecchio Bartok ci ha lasciati.
Anya lo guardò senza capire.
- Bartok, il nostro cavallo. Era vecchio … ed è morto tre giorni fa.
- Oh… - mormorò tristemente la ragazza. – Mi dispiace tanto.
- A chi lo dici? – sospirò. Fece spallucce e si caricò nuovamente dei due barili.
- Stai già andando via? – disse dopo un momento.
Anthony arricciò il labbro inferiore. – Camminerò piano. Se vuoi, puoi farmi compagnia.
Anya pensò che doveva tornare alla tenuta e volse involontariamente lo sguardo sulla strada che portava ad essa. – Beh, forse per poco …
- Il signor Langley si arrabbia se fai tardi?
Anya non poté che cogliere l’allusione al suo licenziamento. Stemperò la tensione con un lieve sorriso. – Semmai quella che va su tutte le furie è Greta …
- Ah già – sbuffò Anthony – Greta … mi vien da pensare che non sia cambiata per niente.
Anya scosse il capo, immaginando già il punto a cui Anthony voleva arrivare. – No, non è cambiata …
Anthony e Anya si strinsero sul ciglio del sentiero, per permettere il passaggio di un calesse di fieno. Prima di parlare il giovane dette una rapida occhiata intorno a sé. – E ... Mary?
- Mary continua a lavorare come cameriera … - asserì, sollevando lo sguardo su di lui. – E, se è questo che vuoi sapere, ti pensa e chiede sempre di te.
Gli occhi del giovane si illuminarono, mentre le guance si imporporarono leggermente. Per un paio di minuti nessuno dei due parlò. Anya fece navigare lo sguardo sul paesaggio verde e rigoglioso per la Primavera e sul cielo grigio di pioggia. Poi sentì Anthony trattenere un sospiro.
- Falle avere i miei saluti – disse.
Anya annuì, congiungendo le mani dietro la schiena. Aveva sempre saputo della simpatia esistente tra Mary ed Anthony. Il fatto che lavorassero quasi sotto lo stesso tetto impediva loro di vivere come volevano questo rapporto, ma permetteva che si vedessero tutti i giorni; il fatto che il signor Langley avesse licenziato Anthony per colpa sua, li aveva divisi.
- Mi dispiace, Anthony – sussurrò Anya, senza rendersene conto.
Anthony si girò verso di lei con un sopracciglio sollevato. – Per cosa?
- A causa mia non potete più vedervi …
Il ragazzo capì cosa intendeva e si espresse in una smorfia di disappunto. – E’ acqua passata, ormai.
- Non è vero.
- Sì che lo è. Io e Mary continuiamo a vederci … anche se raramente.
- Vorrei poter rimediare in qualche modo … intendo per il lavoro.
Con il dorso della mano, Anthony si deterse il sudore della fronte. – Adesso non puoi fare niente – sospirò.
Qualche minuto dopo, si fermò e pose i due barili a terra, per far riposare le braccia. Anya si arrestò anche lei.
- Potrei andare a chiamare Sam e farlo venire con il calesse … non credi sia una buona idea?
- Grazie, ma ce la faccio anche da solo – disse. – Certo, la morte di Bartok è stata un duro colpo …
Mentre il ragazzo riprendeva a camminare, Anya si volse indietro. – Guarda che non ci metto niente ad arrivare alla tenuta.
- Anya, sei gentile, ma … no, grazie. Anzi, non è che si sta facendo un po’ tardi, per te? Hai detto che Greta si arrabbierebbe se arrivassi in ritardo.
Anya ci pensò su. – Già, è vero.
- Lavori ancora come sguattera?
- Perché me lo chiedi? – domandò, aggrottando le sopracciglia.
- Tu rispondi.
- Sì …
Anthony la guardò con fare malizioso. – Ma …?
- Perché vuoi saperlo?
- Il signor Langley ti ha messa a lavorare nelle scuderie, non è vero?
Sul viso di Anya comparve un’espressione di sbigottimento. – Come fai a saperlo?
Anthony rise.
- Anthony?
- Me lo immaginavo – disse. – Me lo immaginavo perché ha fatto la stessa cosa con Edgard. Cocchiere e manovale. Fa parte dello “stile Langley”.
Anya eseguì un rapido calcolo mentale. – Non dirmi che …
- Proprio così – annuì il giovane. – Edgard è responsabile, come te, del licenziamento del vecchio manovale. Era un francese, si chiamava Charles. Non te l’ha mai raccontato?
La ragazza chinò lo sguardo, troppo confusa per dare una risposta. – No – sussurrò. – Ma qual è il motivo per cui il signor conte agisce in questo modo?
Anthony fece spallucce, per quanto gli permetteva il peso dei barili. – Sono portato a pensare che lo faccia per far nascere un senso di colpa e uno di vendetta. Così facendo, il signor Langley si libera di ogni impiccio e lascia ai due personaggi coinvolti nella vicenda la decisione di litigare o meno.
Anya rimase a bocca aperta; poi, improvvisamente, si fermò, guardando Anthony con sospetto.
- Oh … - rise lui. – Sta’ tranquilla. A te non potrei torcere neanche un capello.
Rassicurata, Anya continuò a camminare insieme ad Anthony fino a che non riconobbe il profilo della città in lontananza. Solo allora capì quanto tempo avesse perso e quanto avrebbe dovuto ancora impiegarne per tornare alla tenuta. Salutò l’amico e tornò indietro.
A poche miglia da casa incontrò Joachim Sellers, il marito di Pervinca, e completò il tragitto sul suo calessino.
Per giustificare l’improvvisa decisione di scendere dal calesse si inventò una scusa. Greta si rivelò più restia degli altri a credervi, ma Anya volle immaginare che l’avesse fatto.
Non appena Greta lasciò la cucina, Anya, fino ad allora poggiata ad uno dei ripiani di pietra, si avvicinò alla torta al cioccolato e ne tagliò una grossa fetta. Nessuno avrebbe mai potuto negare che fosse la più buona del mondo.

Langley era crollato sul letto per il sonno, quando Ines andò ad informarlo che il bagno era pronto. Pensò di volervi rinunciare. Non voleva più immergersi nell’acqua calda; desiderava dormire. Addormentarsi e riaprire gli occhi l’indomani o due giorni dopo. O mai più.
Si sollevò faticosamente dal letto e in preda ad un mal di testa furente si diresse nella camera da bagno, in cui una grande vasca piena d’acqua trasparente lo aspettava. Si spogliò lentamente, guardando fissamente le onde che l’acqua formava in superficie; quindi scavalcò il bordo della vasca e si immerse completamente, gustandosi la sensazione del nulla intorno a sé, della delicatezza con la quale l’acqua lambiva la sua pelle e i capelli, che presero a muoversi come alghe cullate dalla corrente marina. Prima di emergere, aprì gli occhi, ma vide solo una confusa massa di colori pastello e oscurità che gli fece sentire dolore ai bulbi oculari. Poggiò poi il capo sulla vasca e si addormentò, godendo della rilassatezza del suo corpo.
A risvegliarlo fu un brivido. L’acqua s’era raffreddata e la pelle delle dita si era rattrappita tutta, formando un’inconfondibile reticolo di rughe. L’aria era piena di vapore. Prima di uscire dalla vasca si immerse di nuovo interamente; poi allungò la mano verso un asciugamano e si alzò, tamponandosi braccia, spalle, collo e le gambe che si erano addormentate. Il mal di testa non era ancora passato, ma si era affievolito. Con lo sguardo perso nel vuoto intercettò il percorso di una goccia d’acqua lungo il collo e strofinò anche i capelli, certo che essa proveniva da lì. Ridestandosi dallo stato di torpore in cui era caduto, ma mantenendo un comportamento e dei movimenti fiacchi, indossò degli indumenti puliti ed uscì, portando con sé quelli che aveva buttato sul pavimento.
In corridoio realizzò che la conseguenza del suo gesto sarebbe stata di portare gli indumenti sporchi a Ines e lui, stanco per i fatti suoi, li riportò nella camera da bagno. Appena ne uscì si ritrovò Margareth di fronte. Lo squadrò da capo a piedi con un’occhiata fulminea e gli disse che il pranzo era pronto. Langley rimase interdetto. Prese l’orologio dal taschino e trasse un lungo respiro. Erano quasi le tre; senza dire una parola annuì in direzione di Margareth e fece per allontanarsi. Ancora pensava di aver dormito per più di due ore immerso nell’acqua. Con dei grandi passi, dettati più dalla voglia di sedere che da quella di mangiare, si recò in sala da pranzo. Prendendo posto con uno sbuffo e l’incontenibile desiderio di dormire, vide Mary entrare in sala con un vassoio di ceramica tra le mani. Mentre lo poggiava sul tavolo e rimuoveva il coperchio, Langley sbirciò dentro e scorse delle costolette d’agnello con salsa di cipolle e spezie. Il solo pensiero di mangiarlo lo prese allo stomaco e quando la cameriera fece per prendere il suo piatto, Langley la fermò e scosse il capo, facendole segno con la mano di portare tutto via.
- Desiderate qualcosa in particolare, oggi, signore? – chiese Mary, sforzandosi di essere cortese.
Langley si grattò i capelli umidi con una mano, riflettendo. Poi fece di no.
- Non vi sentite bene, forse?
- Grazie Mary, ma sto benissimo – rispose lui, senza guardarla. – Puoi andare.
Mary pose il coperchio suo vassoio, prese questo con entrambe le mani e, congedatasi, uscì. Un attimo dopo, fu raggiunto da Hunt, che, scodinzolante, gli si sedette accanto. Nel vederlo, Langley rise.
- E tu che ci sei venuto a fare qui, eh? – disse carezzandogli il capo. Il cane sollevò la zampa con l’intento di dargliela in mano, ma arrivò a toccargli il polpaccio. – Vuoi darmi la zampa? – continuò Langley, abbassando la mano alla sua portata. Hunt fu ben contento di riuscire a centrare il palmo del padrone, che si girò verso il tavolo e strappò un pezzo di pane. – Ecco a te. Non sarà certo la carne a cui sei abituato, ma fa la differenza …
Approfittò del fatto che il cane mangiasse il pane, per alzarsi e uscire un po’ in cortile. Hunt lo seguì. L’unico suono che animava l’ambiente era quello prodotto dalla scopa che Anya stava usando per pulire il pavimento della scuderia. Immersa nelle sue mansioni, la ragazza non si accorse del conte, che sedette sulla panca accanto la porta della cucina deciso a godere della brezza che odorava di pioggia. Hunt gli si accucciò accanto, poggiando il muso sui suoi piedi.

Più tardi, nel pomeriggio inoltrato, Hobson gli fece visita.
Con gran meraviglia – e sollievo – del signor Langley, l’amministratore non si recò alla tenuta con la sua solita cartella dei conti. Era vestito, come suo solito, in modo molto ordinato e formale, ma l’assenza dei documenti che portava solitamente sottobraccio gli donava un’aria più disinvolta.
- Signor Langley – disse sedendo sul divano del soggiorno. – Dal momento che dubito fortemente che siate stato raggiunto da una tale notizia, mi assurgo alla carica di messo per evitare ancora una volta che siate l’ultimo ad aggiornarvi.
Langley inarcò un sopracciglio.
- Guillaume Brody, il vostro vicino, non ne sa ancora niente – continuò Hobson.
La porta del salotto si aprì con un fastidioso cigolio, che Mary, entrando, accolse con una smorfia d’imbarazzo. Avanzando fino al centro della stanza, poggiò il vassoio del tè sul tavolino.
- Signor Hobson, potreste, per favore, comunicarmi la notizia che tanto vi alletta? – disse il conte prendendo una tazza di tè.
- Ricordate quando vi dissi che un certo Featherstone si accingeva ad affittare la sua proprietà estiva?
Langley ci pensò su. – No.
- Non me ne meraviglio, d’altronde. La notizia iniziò a girare l’autunno scorso. Comunque, questo Featherstone ha una figlia fidanzata. Dal momento che ha due proprietà, ha deciso di affittare quella confinante con la vostra per incrementare la dote della ragazza e per permettersi di sposarla degnamente. Ora, qualcuno dice che abbia intenzione di vendere, ma ancora non è del tutto sicuro.
Parlando, guardò a lungo il tè sul tavolino; prima di continuare ne prese una tazza e iniziò a sorseggiarlo.
- Scusate se mi interrompo, ma il tè che prepara la vostra cuoca è davvero delizioso. Dicevo: Featherstone l’autunno scorso ha deciso di affittare questa proprietà. Nei dintorni nessuno credeva che ci sarebbe riuscito, perché il giardino era poco curato e nel complesso quella casa non era affatto una bella visione. Beh, l’altro giorno, compro il quotidiano locale e che leggo?
- Che l’hanno affittata?
Hobson bevve un sorso di tè, annuendo. – E c’è di più. Si dice che l’inquilino sia arrivato ieri sera, direttamente da Cork. Conoscete Kirwan, dell’ufficio telegrafico?
Langley fece sbrigativamente di sì con la testa.
- Finalmente un’amicizia in comune! Kirwan ha telegrafato all’indirizzo di quella proprietà e ha scoperto che … beh, forse questo non avrebbe dovuto dirlo, trattandosi di faccende private … comunque, ha scoperto che il nuovo inquilino è figlio di un noto antiquario di Cork e che di cognome fa Drebber o una roba simile …
Langley si finse interessato a tutta la faccenda. Quando l’amministratore finì di parlare, tacque, credendo che ci fosse dell’altro; dopodiché mimò un’espressione di sorpresa. – Tutto qui?
L’altro annuì, mentre si scolava l’ultima goccia di tè.
- Bene, signor Hobson – iniziò il conte, mettendo mano al portasigarette. – Non posso che convenire con voi circa la natura interessante di tutta quanta la vicenda. Con tutto ciò, sento il bisogno di porvi una domanda.
Hobson pose la tazza vuota sul vassoio. – Prego.
Prima di parlare, Langley si mise una sigaretta tra le labbra. – Mi chiedo quale sia il mio ruolo in questo marasma di nomi e notizie. Con il dovuto rispetto, signor Hobson, ma cosa vi ha spinto a parlare di certi affari con me?
L’amministratore sorrise con un’aria saccente. – Signor Langley … mi meraviglio di voi! Voi che siete sempre così attento e scrupoloso … - disse versandosi un’altra tazza di tè. – Effettivamente si tratta di un particolare, ma, come dico sempre io, sono proprio i particolari a fare la differenza. Riflettete: questo tizio, Drebber, Drebér o qualunque sia il suo nome, è figlio di un noto antiquario dell’Irlanda meridionale …
- Non avevate detto “noto antiquario di Cork”?
- Oh, ma che importa? Cork, Irlanda del sud … - disse con un vago gesto della mano – dicevo: dal momento che è così noto, voi, anzi noi, potremmo sfruttare l’amicizia con questo tizio per allargare i confini delle nostre amicizie. E questo quali conseguenze genera?
Langley produsse una nuvoletta di fumo. – Credo di aver capito. Volete produrvi una clientela per i miei terreni?
- Oh … perché solo i terreni? Di quelli ne abbiamo venduti già a sufficienza. Signor Langley, io intendo dire che un’amicizia con questo Drebber potrebbe avere dei benefici sull’azienda. Ampliare gli orizzonti di mercato, rendere la nostra azienda una delle più fiorenti di tutta l’Irlanda …
- Signor Hobson, fermatevi, smettetela di sognare – lo interruppe, picchiettando con un dito la sigaretta sul posacenere. – Le vostre sono delle buone idee, senza dubbio, ma devo ammettere che non sono d’accordo. Io non intendo ingrandire l’azienda ai livelli di cui voi parlate.
- Perché?
- Ne abbiamo discusso centinaia di volte e non mi interessa … perché modificare una situazione che ho creato io e che mi fa star bene?
Hobson fece per ribattere, ma si trattenne, consapevole che Langley non avrebbe mai cambiato opinione. Mentre il conte fumava placidamente la sua sigaretta, lui bevve qualche altro sorso di tè. Stava ancora considerando la possibilità proposta al signor Langley, quando si ricordò di una cosa.
- Dimenticando la faccenda di prima, quella dell’azienda, volevo farvi una domanda.
- Sono tutto orecchi, signor Hobson – disse Langley guardando la finestra.
- Parlando da fratello maggiore (dal momento che non potrei farlo da padre, visti i pochi anni di differenza tra di noi) e senza volontà di anticipare i tempi, volevo avvisarvi dell’eventualità che questo nuovo vicino possa organizzare una festa …
Langley fece segno d’aver capito. – Se questo tizio … Drebber … vorrà fare la mia conoscenza, non avrà bisogno di una festa. Per carità, è libero di fare quello che vuole, ma io non ho alcuna intenzione di accettare un suo invito ad una festa … sempre se ne farà una …
- Ma signor Langley … - si lamentò Hobson.
- Niente “ma”, signor Hobson. Le feste non rientrano nei miei interessi da un po’ di tempo e non intendo mutare questa situazione. Ripeto, se il signor Drebber vorrà conoscermi, in quanto proprietario di terre confinanti con le “sue”, ben venga. Ma senza festa.
Da quel momento la conversazione si spostò su argomenti che Hobson era sicuro non avrebbero alterato il signor Langley. Appena fu sera, il conte invitò l’amministratore a rimanere per cena ed egli accettò. Trascorsero ore piacevoli, in cui Hunt, preso da uno spirito particolarmente vivace, volle rallegrare con i suoi matti atteggiamenti lo spirito dei due. Curiosamente, quando smise di giocare, Langley e Hobson si sentirono colti dalla stanchezza. Il conte accompagnò Hobson nel cortile, dove c’era il suo calesse. Fino ad allora, Anya si era presa cura del cavallo ed era ancora là che lo teneva per le briglie, quando il signor Langley e Hobson uscirono. Una volta che l’amministratore fu sul cocchio, la giovane si allontanò dal cavallo e lo guardò sparire oltre il cancello.
- Signore – proruppe Anya con voce flebile. – Sono un po’ stanca. C’è altro che posso fare per voi?
- No, Anya. Vai pure a dormire.
La ragazza sospirò. Nella quasi completa oscurità della sera (Sam aveva acceso solo una delle quattro lanterne presenti nel cortile) rivolse al signor Langley un sorriso di sollievo e si avviò verso la cucina. La torta preparata da Greta era ancora sul tavolo; quando fu sui tre gradini che conducevano all’interno della cucina, in un lampo, ricordò i muffin al cioccolato e cannella e l’uomo della pasticceria. Le venne in mente che l’aveva seguita fino al mercato e rivide la sua ambigua espressione. Prima di entrare lanciò uno sguardo al signor Langley, fermo al centro del cortile che carezzava amorevolmente il capo di Hunt.
Al tempo stesso, Langley ripensò alla chiacchierata con Hobson e la sua insinuazione circa una possibile, per non dire assai probabile, festa con il vicinato. Era stato il suo pensiero ricorrente per tutta la serata e dentro di sé aveva sentito montare una sensazione analoga alla preoccupazione. Le battute di Hobson e la vena scherzosa di Hunt non bastarono a distrarlo.
Ma era convinto. Niente gli avrebbe fatto cambiare idea.
Sentendosi osservato, si girò e incrociò lo sguardo con quello di Anya. La vide abbassare gli occhi, poi sparire oltre la porta della cucina.
Avrebbe mantenuto la promessa fatta a sé stesso.
Le feste non facevano per lui.

 

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Capitolo 32
*** Capitolo XXX ***


An irish tale – Capitolo XXX



Un tratto peculiare della personalità dell’ispettore Hurlstone era il fedele attaccamento alla routine.
Non l’amava, né era ossessionato da essa. Il fatto era che la sua mente s’era sempre tenuta fedele a dei precetti che avevano influenzato le sue abitudini giornaliere e, in tutto questo, il lavoro aveva svolto un ruolo minimo, ma fondamentale. Sin dai primi anni di vita dell’ispettore, Alexandre Hurlstone senior, suo zio, aveva pensato e ripetuto che il nipote avesse una non comune predisposizione alla logica; l’aveva, così, preso sotto la sua custodia e gli aveva insegnato tutto quanto riguardasse la vita di un ispettore, impartendogli un’educazione severa e stimolandolo in qualunque campo del sapere. Il mestiere dell’ispettore, pertanto, in una mente inflessibile come quella del giovane Hurlstone non aveva potuto arrecare minor disturbo.
Quella tiepida mattina di Giugno si alzò alle sei e mezzo di mattina. Un timido raggio di sole filtrava tra le persiane della sua finestra e illuminava la traiettoria del pulviscolo sopra il letto. Si stiracchiò con un rumoroso sbadiglio, risvegliò le articolazioni e la muscolatura con degli esercizi ginnici e si fece la barba. Con un unico, fermo, gesto delle mani, aprì la finestra e si vestì, inebriato dall’aria fresca e cristallina dell’alba. Tra gli indumenti preparati la sera prima – utile stratagemma contro la perdita di tempo – scelse un completo blu di giacca, pantalone e gilet. Prese l’orologio e, infilandolo in una tasca, diede un’ultima occhiata alla camera per accertarsi che non dimenticava niente. Quindi pettinò i capelli e si recò in salotto per la colazione. Mentre la governante gli versava il tè e gli consegnava la decina di quotidiani che era solito leggere ogni giorno, Hurlstone controllò l’orario; erano appena le sette e aveva un’ora di tempo libera prima di recarsi alla stazione di polizia.
- Il vostro pane caldo è delizioso come sempre, Miss Wiggins – disse addentando una fetta di pane, burro e marmellata.
- Ne sono lieta, signore.
Hurlstone sorrise alla cadenza inglese della governante. – Temo che oggi dovrò fare a meno del vostro pranzo, Miss Wiggins. Rimarrò fuori fino a tardi.
- Oh … che peccato, signore. Mi ero giusto fatta metter da parte un’oca fresca dal macellaio …
L’ispettore guardò di sbieco la governante, mentre sorseggiava il tè. – Dimenticate che mio zio, che ancora dorme – disse guardando l’orologio - condivide con me la passione per la carne d’oca. Potreste prepararla per lui e mettere da parte qualcosa per me. Questa sera sarei ben lieto di assaggiarla.
Miss Wiggins parve sollevata dalla risposta del signor Hurlstone.
Quando l’ispettore finì di fare colazione, sfogliò qualche giornale, alla ricerca di buone notizie; quindi si mise sottobraccio i rimanenti e si recò alla stazione di polizia con una vettura da nolo.
- Buongiorno, ispettore! - lo salutò Musgrave non appena lo vide arrivare. Lo stava aspettando impazientemente fuori dal commissariato, fumando una sigaretta con lo sguardo perso nel vuoto.
- ‘Giorno, Musgrave.
- Ci sono delle buone notizie.
Hurlstone osservò i movimenti svelti della sua mano, che spense la sigaretta sul corrimano di mattoni. – Lieto, Musgrave. Vuole che ci spostiamo nel mio studio per parlarne? – chiese sollevando lo sguardo sulla sua faccia.
- Credo che non sia necessario, ispettore. Vede – spiegò, dopo essersi assicurato che non ci fosse nessuno nei paraggi – abbiamo scoperto l’indirizzo di Bartholomew Neybourgh, meglio conosciuto come Barney, l’amico di Patrick Reynold.
Gli occhi dell’ispettore si illuminarono. – Ottimo lavoro. E come ci siete riusciti?
- Copperland ha interrogato tutta la notte il signor Reynold – continuò l’agente, seguendo Hurlstone fino al suo studio. – Inizialmente Reynold affermava di non conoscere l’esatta ubicazione della casa di Bartholomew Neybourgh, perché, dice, aveva cambiato abitazione pochi giorni prima di morire.
- Reynold si è parato dietro la scusa che non si erano più visti? – disse Hurlstone in tono d’affermazione.
Musgrave annuì. – Esattamente.
L’ispettore depositò la pila di giornali sulla scrivania, poggiandovi sopra un dito mentre si girava verso l’agente. – E’ stato fatto un rapporto sull’interrogatorio di Reynold?
- Sì, ispettore …
- L’agente Copperland è ancora qui?
Musgrave scosse il capo. – E’ tornato a casa qualche ora fa.
- Potrei avere, allora, la relazione? – chiese Hurlstone sedendo alla scrivania.
- Sì, ispettore, ma …
Hurlstone levò gli occhi sull’agente. – “Ma”?
- Credevo voleste recarvi alla casa di Mr. Neybourgh …
- Prima la relazione dell’interrogatorio, Musgrave. Dovrebbe sapere che qualunque indizio non è intellegibile se non si conosce la storia che lo ha generato. Prometto che la porterò con me, quando avrò finito. Lei sa già qualcosa sull’interrogatorio?
- Ho assistito l’agente Copperland per le ultime due ore.
- Quindi lei è qui già da tre ore, agente? – chiese l’ispettore sfogliando il giornale e leggendone i titoli.
Musgrave ci pensò un po’ su. – All’incirca …
- Siete stati colti da una strana forma di voglia di lavorare, lei e Copperland … mi offrite un caso davvero interessante da studiare. Torno e trovo la relazione di un interrogatorio, lei mi propone un’incursione mattutina in casa di Neybourgh … c’è dell’altro?
Per un momento, Musgrave non seppe come interpretare quella risposta; ma bastò che l’ispettore sorridesse per dargli la certezza che scherzasse. Si congedò da lui e andò a prendere la relazione che gli aveva chiesto.

- Bartholomew Neybourgh abitava nel centro città, in un vicolo in cui gli affitti sono quasi sempre bassi – spiegò Hurlstone mentre si avviavano in carrozza. – Mr. Reynold ci ha raccontato molte panzane e continua a farlo. È una parentesi, ma è sempre bene tenerne conto quando si indaga. Quando è stato interrogato per la prima volta, ha affermato che prima che l’amico Bartholomew morisse si erano visti raramente e quando ciò accadeva, Reynold notava in lui uno strano atteggiamento. Mi corregga se sbaglio, Musgrave, anche se ritengo una tale possibilità molto poco plausibile.
- Non sbaglia, ispettore. Vada pure avanti – asserì Musgrave dando un’occhiata alla relazione stesa dall’agente Copperland.
Hurlstone guardò la strada attraverso il finestrino. Stavano per arrivare a destinazione. – Me ne compiaccio. Comunque sarebbe meglio che chiudesse quella cartella perché esattamente fra due minuti chiederò al cocchiere di fermarsi e lei dovrà scendere con la mia stessa tempestività. La perquisizione dell’appartamento di Neybourgh promette di essere interessante.
Poco dopo l’ispettore fece fermare il cocchio in uno stretto vicolo. Il cocchiere si mostrò assai preoccupato circa il modo in cui aveva incastrato la carrozza e, accortosene, Hurlstone gli rivelò il modo per rimediare. – Non ha da preoccuparsi; se segue questa strada nel senso della sua lunghezza e svolta a sinistra al primo incrocio, si ritroverà in una via che conoscerà sicuramente. Arrivederci – lo salutò facendo cenno a Musgrave di affiancarlo. – Allora, Musgrave, ha compreso il motivo per cui siamo usciti nelle ore più calde di una giornata calda?
L’agente alzò le spalle. – Effettivamente no.
- Ha ragione. A volte neppure io capisco me stesso; comunque, a quest’ora la gente povera che abita in questi stretti meandri bui della città, non avendo molto da fare, si chiude in casa a riposare. Come vede non sono tutti (anzi, le consiglio vivamente di non avvicinarsi alle vecchiette, perché con le loro chiacchiere la terrebbero fermo per un mucchio di tempo), ma è sempre meglio rispetto a quando dei bambini dal naso gocciolante e le caviglie sporche di polvere la circondano con mille domande. Oh, ma guardi bene … siamo arrivati. Ha la chiave?
L’ispettore si fermò davanti al cancello di un cortile circondato da balconi e scale che mettevano in comunicazione i vari appartamenti. Musgrave lo osservò con una punta di preoccupazione e di disgusto, mentre Hurlstone chiamava il portiere.
- Siamo della polizia. La prego, non abbia timore … ho bisogno di sapere dove si trova l’appartamento di un certo Bartholomew Neybourgh; saprebbe indicarmelo?
Il portiere, un uomo anziano con i capelli bianchi e il viso emaciato, li condusse fino al centro del cortile. Con la cartella ancora sottobraccio, Musgrave si diede una rapida occhiata intorno. Il cortile era piccolo, con la stessa terra battuta del cortile e qualche buca scavata dalla pioggia. I palazzi avevano tutti due piani, le facciate grigie e lunghi balconi per piano; lungo uno di essi, mentre l’ispettore Hurlstone parlava con il portiere, Musgrave vide muoversi un uomo a petto nudo, con un pallido volto tisico. Per qualche strano motivo, la sua mente lo elesse a simbolo di quel luogo. Quando l’uomo scomparve oltre la porta accanto a quella da cui era uscito, tornò ad ascoltare ciò che il portiere diceva all’ispettore.
- Non so se ne è a conoscenza, ispettore, ma Bartholomew Neybourgh è morto da un po’ di tempo …
Hurlstone annuì con lentezza, staccando gli occhi dall’uomo solo per accendersi una sigaretta. – Lo so, signor … scusi, potrebbe dirmi il suo nome?
Il vecchio portiere seguì i movimenti dell’ispettore fino a che non gli vide accendersi la sigaretta. Ma alla domanda parve titubare.
- Oh, stia tranquillo – lo rassicurò Hurlstone sorridendo – è solo una formalità …
- Robin, signore. Peter Robin.
- Bene, signor Robin. Dicevo, so che Bartholomew Neybourgh è morto … poveraccio – continuò, cambiando tono della voce – ho parlato con un suo amico e mi ha detto che non aveva neppure quarant’anni …
- Poveraccio? Quarant’anni? – fece il portiere, incredulo, rigirandosi il cappello tra le mani – per quello che ne so, non era né un individuo per cui provare pena, né un uomo di quarant’anni … con tutto il rispetto per l’anima sua, eh …
Hurlstone prese ad esaminare la sigaretta con distrazione. – Beh, in fin dei conti, ci sono molti uomini che non suscitano alcuna sensazione di pietà. Non crede anche lei, Musgrave? Mi sembra di averne parlato esaurientemente, una volta …
L’agente non ricordava nulla del genere, ma annuì ugualmente. – Sì, è vero …
- Oh … avrete pure ragione, ispettore, ma credete a quello che dico. Anche se io, da parte mia, posso offrire solo un parere personale, questo Bartholomew era un individuo assai strano … a volte si chiudeva in camera sua, che è quella là sopra, e ci stava per giorni … e non lo si vedeva più. Dipingeva … ed era bravo … negli ultimi tempi s’era messo pure a fare ritratti. Era incomprensibile. Quelli del teatro venivano a cercarlo, gli offrivano un sacco di soldi per farlo lavorare per loro …
- … niente? – mormorò Hurlstone con disinteresse.
Musgrave osservò entrambi.
- No. Accettava solo le commissioni di ritratti negli ultimi tempi.
- Che peccato che sia morto, no? – disse d’un tratto l’ispettore a Musgrave, mimando una certa vanità. – Fosse stato ancora vivo mi sarei fatto ritrarre anch’io … era bravo, ha detto?
- Oh, sì, era bravissimo, ma non so se avrebbe accettato di ritrarvi … dipingeva quasi solo donne. Eccezion fatta per qualche soggetto mitologico o fantastico … - disse muovendo la mano con fare casuale.
Musgrave vide inspirare una boccata di fumo all’ispettore e chinare il capo, mentre gli occhi si abbassavano compiaciuti sulla sigaretta. Probabilmente stava pensando qualcosa o era giunto ad una conclusione che badò bene a non fare notare al vecchio portiere. Quando rialzò lo sguardo su di lui, Hurlstone aveva di nuovo l’espressione distaccata e dispiaciuta di prima.
- Cosa diceva a proposito della stanza? – domandò girandosi verso la facciata che il portiere aveva indicato prima. – E’ quella lì?
Il vecchio disse di sì. – Non è stata affittata più a nessuno. Da quando Mr. Neybourgh è morto, il padrone della palazzina ha deciso di svuotare le camere di tutto il materiale da pittura … c’è di tutto lì … ma adesso vi ci porto. Vado a prendere le chiavi …
Hurlstone ne approfittò per guardarsi intorno. Non appena il portiere tornò, tirò l’ultima boccata di fumo e spense la sigaretta contro la ringhiera di mattoni.
- Siete stati fortunati a venire adesso … se aveste tardato di un’altra settimana, non avreste trovato niente.
Con pochi giri di chiave, il vecchio aprì la porta e invitò i due ad entrare. Poi qualcuno lo chiamò dal cortile e fu costretto a consegnare la chiave all’agente.
- Mi raccomando, me la restituisca … di questo appartamento è l’unica che ho …
Musgrave assentì, guardando il vecchietto scendere di corsa le scale e gridare in direzione dell’uomo in cortile.
- Le ricordo, Musgrave, che il tempo è denaro! Se le piace la squallida architettura di questa squallida topaia, lo dica prima e si faccia un disegno come ricordo.
L’agente raggiunse l’ispettore e chiuse la porta.
- Che gliene pare?
Musgrave volse un’occhiata semicircolare all’ambiente. La penombra della stanza non permetteva di vedere chiaramente gli oggetti e i mobili di cui erano appena riconoscibili i contorni; nel buio si sentì la risata sommessa dell’ispettore. – Mi perdoni, Musgrave … oggi ho voglia di scherzare.
Si sentirono i passi dell’ispettore, poi un fruscio e un cigolio. Improvvisamente la stanza venne rischiarata dalla luce del giorno. Hurlstone regolò l’apertura delle persiane e prese a girare per la camera. Ad occhio e croce, la stanza misurava cinque metri per quattro; le pareti laterali erano d’un pallido verde antico, mentre quella di fronte era tappezzata da una grande tela raffigurante la bozza di un paesaggio lagunare notturno. Addossato alla parete di sinistra c’era un vecchio sofà, su cui era poggiata una coperta che prendeva ancora le impronte di due piedi e un cuscino macchiato di colore in più punti.
- L’ultimo sonno di Mr. Neybourgh – constatò l’ispettore.
Musgrave gli rivolse un’espressione di malinconica approvazione; poi riconcentrò l’attenzione su ciò che lo circondava. Si era spostato di pochi passi dalla porta, avvicinandosi al tavolo in mezzo alla camera e girò verso di sé una cartella chiusa con un nodo semplice. Vi passò le dita sopra, riconoscendo la ruvidità del cuoio; quindi sciolse il nodo e aprì la cartella. Dentro vi erano ammassati disordinatamente dei fogli semiruvidi di carta color avorio piena di schizzi a sanguigna e carboncino. In alcuni di essi, Neybourgh aveva schizzato dei progetti di balconi e colonnati per una rappresentazione romantica. Musgrave sfogliò con interesse tutte le carte, soffermandosi sulle bozze più caratteristiche e sui disegni preparatori di alcuni ritratti femminili. Riconobbe la ricorrenza del volto di una donna con i capelli lunghi, i lineamenti sottili e dei deliziosi occhi a mandorla. Neybourgh l’aveva ripreso da diverse angolazioni, ma gran parte di esse erano state rovinate da delle macchie di acqua e tè. Mentre risistemava i fogli, Hurlstone gli si avvicinò.
- Trovato qualcosa d’interessante, Musgrave? – chiese.
L’agente si strinse nelle spalle. – Bozze, bozze, bozze …
L’ispettore guardò i disegni senza troppa attenzione, sfogliandoli velocemente o rigirandoseli tra le mani. – Questi li prendiamo noi – disse, allontanandosi nuovamente verso il centro della stanza.
- Lei ha trovato niente, ispettore?
- Mmh … no. Se non fosse per la curiosità che mi ha fatto venire il racconto di Reynold, a quest’ora sarei già fuori da questo buco – disse prendendo ad esaminare il treppiedi davanti al divano. Reggeva una tela, sul cui angolo inferiore destro, Neybourgh aveva iniziato a dipingere una mano che stringeva un drappo di stoffa verde. Sulla tavolozza poggiata allo sgabello davanti al treppiedi, i colori che Neybourgh aveva impastato si erano asciugati dando vita a dei rilievi acuminati e arrotondati. Hurlstone appuntò quei particolari sul suo taccuino.
- Ah … Ah! Ispettore, venga subito qui! – esclamò d’un tratto l’agente. Hurlstone posò la tavolozza e lo raggiunse.
- Guardi cosa ho trovato, ispettore … delle lettere!
Hurlstone ne prese qualcuna, accigliandosi. – Dov’erano?
- Le ho prese dall’ultimo cassetto di questo mobile … era chiuso a chiave, perciò mi ha insospettito.
- Ottimo lavoro, Musgrave … dalle lettere si possono cavare sempre informazioni importanti. Tra l’altro queste sono tutte aperte … il che significa che Bartholomew Neybourgh intratteneva una fitta corrispondenza. Guardi un po’ quante … saranno almeno una ventina! Ce ne sono altre?
L’agente sorrise. – Probabilmente, ma non qui.
Hurlstone andò a sedersi sul sofà e si poggiò le lettere sulle gambe. Ne prese una e la tirò fuori dalla busta.

Spero che riuscirai nel tuo intento.
Nel tuo mestiere, d’altronde, la perfezione potresti raggiungerla molto facilmente.
R.

- “R” come Reynold … - mormorò. – Il signorino dovrà darci delle spiegazioni per questo.
Aprì un’altra lettera e anche in questa trovò l’iniziale “R”. I suoi sospetti circa la colpevolezza di Sperty si fecero sempre più forti.
- Reynold e Bartholomew Neybourgh si tenevano costantemente in contatto – spiegò a Musgrave. – Sempre, fino a prima della morte di Neybourgh, i due amici intrattennero una fitta corrispondenza. Qui, purtroppo, non ci sono missive di Neybourgh, ma è facile pensare che scrivesse anche lui. Si parla soprattutto di appuntamenti. Da una parte è citata una locanda quasi fuori città, da un’altra la campagna, da un’altra ancora … la conca.
- Mi chiedo cosa avessero da dirsi tutti e due …
- Già, è un punto importante, fondamentale.
Hurlstone si grattò distrattamente la fronte. – Che ore sono, Musgrave?
L’agente prese l’orologio. – Esattamente venticinque minuti alle due, ispettore.
- Ci siamo intrattenuti già abbastanza. Non credo che ci sia altro d’interessante, qua dentro …
Musgrave si strinse nelle spalle. – A meno che non sia interessato alla pittura e alla scenografia …
- Due occupazioni molto amate da Neybourgh, ma messe in secondo piano per dell’altro.
- Lascerò detto al portiere di non fare entrare nessuno. Qualcosa potrebbe sfuggirci oggi, ma esserci infinitamente utile domani. Tornerò presto, ma adesso andiamo. Si è fatto tardi.
Prima di uscire, Musgrave si mise sottobraccio la cartella con i documenti e quella con i disegni di Bartholomew Neybourgh. Hurlstone, invece, conservò le lettere nella tasca interna della giacca.
- Ci aspetta un altro interrogatorio, Musgrave.


Nello stesso momento, alla tenuta del conte.

- Anya, serve dell’altra acqua.
- Ma come, Greta … è già finita?
- Con il caldo le passeggiate fino alla fattoria dei Seller aumenteranno. In estate il consumo d’acqua cresce a dismisura …
- Ma sono andata a prenderla questa mattina!
La cuoca annuì vigorosamente, posando sul tavolo il gambo di un sedano. – Ecco qua. Due secchi.
Li tese alla ragazza, che si scostò i capelli dalla fronte e afferrò stancamente i manici.
- Il signor conte ha in progetto la costruzione di un pozzo in proprietà. È una questione di pazienza, Anya …
Ma la ragazza non parve darle retta. Si tolse il grembiule, lo mise a cavallo di una sedia e uscì. Nel cortile lanciò un’occhiata alla scuderia; il signor Langley era andato in città, con l’amministratore, e non sapeva quando sarebbe tornato. Hunt le corse incontro e le saltò addosso.
- Hunt! Hunt! Vai a cuccia!
Minacciandolo scherzosamente con uno dei secchi, ottenne di farlo allontanare e varcò il portone della proprietà a grandi passi.
Quando raggiunse la fattoria di Joachim Sellers tirò un sospiro di sollievo. Dentro la gonna, le gambe erano completamente sudate e le piante dei piedi bruciavano. Poggiò i due secchi vuoti per terra e si asciugò il sudore della fronte.
- Pervinca! – chiamò, bussando alla porta. Da fuori sentì cadere delle pentole.
- Anya, sei tu?
- Sì, sto usando il pozzo … - spiegò sventolandosi con il fazzoletto.
Pervinca la rassicurò che l’avrebbe raggiunta e Anya si diresse al pozzo. Quando calò il primo secchio, dal sentiero di casa comparve Joachim Sellers. Indossava una camicia madida di sudore all’altezza del petto e della schiena e non pareva di buon umore.
- Salve Joachim! Sei caduto nel pozzo? – scherzò, cercando di tirarlo un po’ su.
- Magari … ho lavorato un’intera mattinata al recinto del pascolo … delle capre l’avevano rotto.
- Una faticaccia, insomma …
- Ci puoi giurare!
Anya si sporse leggermente per controllare che il secchio si fosse riempito; quindi tirò la corda che passava per la carrucola e lo tirò su. – Oh! – sbuffò. – Oggi fa proprio caldo! Potessi farmi un bagno nel fiume …
Joachim si calcò il cappello sulla testa. – Non te lo consiglio, da queste parti. Le donne dell’altro villaggio lavano tutte i panni nel fiume … se desideri farti un bagno come si deve, bisogna che percorra almeno un miglio e mezzo, risalendo il corso del torrente.
Anya sostituì i secchi e calò il secondo, guardando di tanto in tanto Joachim per dargli a intendere che lo stava ascoltando. L’idea di sudare anche per farsi un bagno non la allettava per niente.
- Oppure … ma certo! Come ho fatto a non pensarci prima! Sai dove potresti andare, altrimenti?
- Dove?
Joachim sorrise. – E’ semplice. Hai presente il campo di patate che si stende all’incrocio di questo sentiero e la strada per il paese? È vicino …
Anya ci pensò su, tirando la corda per issare l’altro secchio. – Credo di sì …
- Bene, per arrivare dove dico io, non devi camminare più di un miglio … che dalla tenuta del conte diventano due, o tre, ma poco importa … comunque: ti basta camminare lungo il campo fino a che non ti imbatti nel fiume. Da lì scendi, scendi, scendi, fino alla fine del sentiero. Poi giri a sinistra, cammini per cento metri in mezzo al bosco, perpendicolarmente alla strada e … oh, non vorrei guastarti la sorpresa, ma ti basti sapere che ti ritroverai in un’autentica oasi.
Anya sganciò distrattamente il secchio dalla corda e lo posò ai suoi piedi. – Interessante. Prometto di pensarci su non appena possibile – disse, senza la minima concezione delle parole che pronunciava. Joachim, tuttavia, ne parve contento.
- Adesso perdonarmi, Joachim, ma devo andare. Sono stanchissima e Greta vuole quest’acqua prima possibile. Buona giornata e salutami Pervinca!
Ciò detto, si immise nel sentiero per la tenuta e prese a camminare stancamente, spossata dal calore del sole. Alzando lo sguardo sulla campagna di fronte a sé, considerò che mancava ancora mezzo miglio alla tenuta. Era poco, ma non le andava di percorrerlo tutto in una volta. Ne approfittò per sedere su un masso presente sul ciglio della strada, poggiandosi meglio coi palmi dietro i fianchi. In quella posizione rimase per almeno una decina di minuti, anche se non li sentì passare. Pensò alla fretta di Greta di avere quei due secchi d’acqua e rise sarcasticamente, perché sapeva che, in fondo, nulla gliene importava. Che aspettasse pure.
Dopo un po’ si tolse la cuffietta, sistemò meglio i capelli e se la rimise; quindi tamponò la fronte e si alzò. Nel momento stesso in cui afferrò i manici dei secchi e si concentrò sullo sforzo che le spalle e le braccia facevano per issarli, in lontananza sentì una voce. Dapprima le parve un’allucinazione, poiché, girandosi, non vide nessuno; poi, però, udì un cavallo al trotto e si spostò sul ciglio della strada per lasciar passare.
- Ehi! Ehi!
Il trotto rallentò ad un passo veloce ed Anya venne soverchiata dall’ombra di un cavallo. Si allontanò ancora di qualche passo dalla strada e guardò in faccia il cavaliere, in risposta al suo richiamo. Il sole brillava luminoso e i suoi raggi le ferirono gli occhi.
- Ehi, voi, potrei rubarvi un attimo?
Anya si fermò, abbassando lo sguardo per riabituare gli occhi alla luce del giorno. Il cavaliere lasciò che il cavallo si posizionasse di fronte al sole e che la figura della ragazza fosse interamente coperta dall’ombra.
- Cercate qualcuno? – chiese lei posando i secchi a terra.
- Meglio se aveste detto “qualcosa” … mi sono perso. Sareste così gentile da aiutarmi a ritrovare la strada?
- Posso provarci …
L’uomo rimirò il paesaggio coprendosi gli occhi con la mano inguantata. – E’ proprio un bel posto … peccato che i contadini non siano granché ospitali.
Lo sguardo di Anya continuava ad essere disturbato dalle macchie verdi e fucsia per la troppa luce. L’uomo sbottò in una silenziosa esclamazione di sorpresa.
- In effetti non dovreste chiedere informazioni a loro. Abitate qui da poco?
- Tre giorni.
Allorché Anya tornò a vedere meglio, guardò l’uomo in viso. Nel riconoscerlo rimase di stucco. Se l’avesse sentito sgranocchiare un biscotto, probabilmente, avrebbe capito prima chi fosse. Lui non la guardava, ma la bocca era piegata in un’espressione divertita.
- Dove abitate? – chiese, passandosi i palmi sudati sulla stoffa della gonna.
L’uomo scese da cavallo, osservandola con interesse. – Non molto lontano da qui. Ho preso in affitto la proprietà di John Featherstone.
Anya fece finta di pensarci su. – Una bella proprietà … ne ho molto sentito parlare – iniziò ammirando le sfumature dorate dei suoi occhi, prima di indicargli un punto di fronte a sé. – Beh, non è difficile arrivarci … vi basta seguire questo sentiero nel senso contrario e guardarvi attorno non appena vedete che i cigli della strada iniziano a riempirsi di fiori rossi. La moglie di Featherstone ha voluto che fossero piantati ovunque.
L’uomo seguì attentamente le indicazioni; quindi annuì lentamente e portò lo sguardo su di Anya. – Un bel particolare quello dei fiori. A voi piacciono i fiori rossi?
Anya si grattò un gomito con imbarazzo. – Li trovo meravigliosi.
- Starò ben attento a curarli e ripiantarli quando seccheranno, allora – rispose l’uomo togliendosi i guanti e indicando con un cenno del capo i capelli della ragazza. – Dopotutto il rosso è un gran bel colore.
Anya sospirò, all’apice dell’imbarazzo. Lanciò una rapida occhiata ai secchi, con la voglia di tornare alla tenuta. – Grazie – sussurrò con cortesia – ma adesso devo andare. Dire che sono in tremendo ritardo è molto poco.
- Di già?
- Sì, signore … - annuì sollevando i secchi. – Spero che troviate la strada di casa senza difficoltà. Arrivederci.
Quando fece per allontanarsi, l’uomo mosse qualche passo per raggiungerla. – Non ci siamo presentati.
Anya si fermò, volgendo un’espressione indecisa ai ciottoli della strada.
- Il mio nome è Aaron Duke Drebber. Vengo da Cork … è un vero piacere fare la vostra conoscenza – asserì, porgendole la mano destra.
Lei si piegò un’altra volta in avanti per liberarsi del peso del carico. Guardò lungamente la strada davanti a sé, scorgendo un cambiamento di espressione nel viso del signor Drebber con la coda dell’occhio. Poco a poco si voltò nella sua direzione e tirò un sospiro. – Io, invece – disse con un timido sorriso – mi chiamo Anya. Piacere – continuò stringendogli la mano.
Drebber ripeté il nome di lei un paio di volte, per memorizzarlo, mentre stringeva i guanti di cuoio tra le mani. – E’ un bel nome.
A quel punto, Anya non sapeva se scherzasse o meno. Come prima, si congedò e riprese a camminare verso la tenuta.
Qualche istante dopo, udì Drebber salutarla e allontanarsi a cavallo.

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Capitolo 33
*** Capitolo XXXI ***


An irish tale – Capitolo XXXI



- Signor Boulangher, non notate anche voi questa gibbosità? – disse Langley afferrando un lembo della giacca, mentre si rimirava di fronte allo specchio del sarto.
L’anziano giudice si espresse in una smorfia di disappunto. – Gibbosità, dite?
Langley annuì, lanciando un’occhiata in direzione del sarto, che guardava i due pizzicandosi il mento con l’indice e il pollice.
- Abbiate la cortesia di lasciare l’orlo, signor Langley – disse il giudice avvicinandosi al conte per studiare la giacca più attentamente. – Lasciatelo. Ecco … non vedo nulla di informe in questa giacca. È un capolavoro.
Il signor Langley scosse il capo, per nulla convinto. Provò a rilassare le spalle, guardando il modo in cui la giacca cadeva sul torace e annuì; poi si guardò da entrambi i lati e sbuffò spazientito. – No. Signor Brunton, credo che dobbiate apportare alcune modifiche.
Il sarto lo aiutò a togliere la giacca, badando a non sollecitare le imbastiture in cotone bianco. – Penso di aver capito dove ho sbagliato, signor Langley – disse Brunton dopo aver osservato le cuciture della giacca. – Fortunatamente è un errore da poco … lasciate che misuri nuovamente la larghezza delle vostre spalle.
Il signor Boulangher si soffermò su un completo di giacca e gilet in esposizione su un manichino e si esibì in un’espressione di compiacimento. Langley diede le spalle al sarto, rilassando le braccia lungo i fianchi. Il signor Brunton fece scorrere il metro lungo le dita e annotò le misure sul suo quaderno.
- Vi prego di perdonare lo sbaglio, signor Langley – si scusò alzando appena lo sguardo dalla pagina. – Non ho giustificazioni, ma se proprio dovessi perorare la mia causa, direi che ho avuto molto lavoro in questo periodo e mi dispiace aver tagliato più stoffa del dovuto – soggiunse indicando il dorso della giacca.
Il conte lo ascoltò abbottonando i polsini della camicia e osservando i movimenti del giudice, che guardava tutti gli indumenti in esposizione, tastando le stoffe, sollevando con fare analitico le maniche delle giacche, carezzando in tutti i versi un lembo di velluto verde che era stato drappeggiato su un manichino.
- Volete provare anche i pantaloni, signor Langley? – chiese il signor Brunton da dietro il banco.
Langley scosse la testa con aria assente, mentre il giudice tentava di far capire con qualche espressione che la merce sui manichini era tutta di ottima fattura.
- Allora li metto da parte. Signor Boulangher, la vedo particolarmente attratto e concentrato sul completo nocciola. Va molto di moda, quest’anno, sapete? Un taglio inglese eccezionale …
Così dicendo, aveva poggiato la penna sul quaderno delle misure, s’era tolto gli occhiali e aveva iniziato a decantare e mostrare ogni sorta di cotone e modelli inglesi, esibendo il cartamodello di un abito da sera londinese. Langley non aveva mai nutrito una profonda simpatia nei confronti del popolo inglese; gli inglesi che aveva conosciuto, erano riusciti, in un modo o nell’altro, a conquistarsi la sua antipatia.
Nella bottega di Mr. Brunton c’era caldo. Langley non vedeva l’ora di uscire a godersi un po’ d’aria fresca. Tuttavia non ebbe da attendere a lungo. Il signor Boulangher non era di buon umore e gli mancava anche la voglia di parlare. In poco tempo riuscì ad esaudire il desiderio del sarto di essere ascoltato, notò che il signor Langley non era a proprio agio e si congedò dal sarto con una scusa, conquistando il marciapiede con un sospiro di soddisfazione.
- Tutto quello che ho da dire in mia discolpa, signor Langley – asserì, notando l’aria risentita del conte – è che non ricordavo quanto George Brunton fosse logorroico.
I due presero a camminare lentamente lungo il marciapiede, evitando ogni movimento veloce per non sentir ancora più caldo sotto le maniche della camicia e della giacca.
- Sarà forse questo – disse Langley alzando gli occhi alla strana pensilina di un negozio, mentre allungava una mano verso il portasigarette in tasca – l’elemento che accomuna vostra sorella Romilda e il signor Brunton?
Boulangher fece un mezzo sorriso. – Tralasciando la passione per i pizzi e i merletti? Direi …
Il signor Langley si portò una sigaretta alle labbra e ficcò una mano in tasca alla ricerca dei cerini.
- Siete fortunato ad avere una donna con tutti i suoi fronzoli tra i piedi … - annuì tastando le tasche dei pantaloni con sospetto. – Signor Boulangher, avete da accendere?
Il giudice gli porse la sua scatola di cerini.
- Ricordo quando una volta Danielle fece arrivare direttamente da Dublino due abiti di seta finissima … - disse coprendo la fiamma del cerino con una mano. Boulangher lo fissò interessato.
- Ero incavolato nero e più le sbraitavo contro per il capitale che mi aveva fatto spendere, più quel suo sopracciglio scuro, sottile, si sollevava in quel suo viso imperturbabile.
Prese una boccata di fumo, scuotendo lentamente il capo. – A volte era davvero insopportabile … quella per la seta era una fissazione.
Il giudice ascoltò quelle parole buttate lì, sul momento, fissando il lastricato del marciapiede. Qualche secondo dopo, osservando il conte, ebbe come l’impressione che quelle parole non fossero state mai dette. Se per un attimo il suo sguardo s’era incupito, quello dopo gli occhi parvero sorridere al ricordo di qualcosa. Il signor Boulangher non volle dire niente. Mentre attraversavano una via del centro, iniziò a spirare un vento tiepido che rinfrescò l’aria estiva. Le punte dei capelli mal pettinati del signor Langley si mossero all’ombra della tesa del cappello, il fumo della sua sigaretta si disperse con più facilità, l’orlo della giacca del signor Boulangher si piegò sotto la spinta della brezza. Nessuno dei due parlò per un buon tratto di strada. Il conte guardava tutte le vetrine dei negozi, senza essere realmente interessato a ciò che vi era esposto, prendeva una boccata di fumo, soffermava lo sguardo su qualcosa, poi lo schiodava e scrutava il vuoto con la fronte aggrottata per la luce del sole.
Il signor Boulangher faceva altrettanto, ma, un po’ la vista offuscata per l’età, un po’ la fiacchezza con la quale s’era svegliato, non poteva permettersi la stessa vivacità del conte di guardare ciò che gli stava attorno. Arrivati alla fine della via lesse il nome di una strada che conosceva. Scolpito su una lastra di pietra posta in alto, fu il punto verso il quale Langley si girò quando il giudice sbottò in un’esclamazione.
- Toh! Guardate un po’ voi dove ci ha portati il caso … - disse indicando la targa. – La mia cara sorella Romilda, come sapete, non fa altro che girare per la città. Giusto questa mattina mi ha parlato tanto di un caffè che dovrebbe trovarsi … eccolo, è quello là!
Il conte seguì la direzione del cenno del signor Boulangher. A una cinquantina di metri dall’incrocio al quale erano giunti, Langley scorse una bassa costruzione di due piani con la facciata color ocra e delle larghe finestre trasparenti dalle quali si vedevano i camerieri fare avanti e indietro per la sala.
- Caratteristico, non dite anche voi? – commentò il giudice, leggendogli quasi il pensiero. – Gradireste fermarvi per il pranzo?
Langley controllò l’orario e annuì. Mentre camminavano verso il caffè, a Langley venne in mente la volta in cui Hurlstone, al termine dell’interrogatorio di Sperty, gli aveva consigliato una locanda italiana alla fine della via in cui la stazione di polizia aveva sede. Del conte non si poteva dire che fosse goloso, ma non era neppure eccessivamente raffinato e gli piaceva sperimentare piatti nuovi. La locanda italiana l’aveva attratto sin dal principio, ma ormai era troppo tardi per tirarsi indietro.
Varcò la soglia del caffè seguito dal signor Boulangher e vennero accolti da un cameriere che li guidò fino ad un tavolo addossato ad una graziosa parete costellata di quadri. Dietro suggerimento del giudice, il conte si guardò intorno, ammirando l’ambiente accogliente della sala.
- Devo confessare che la vostra amata sorella ha uno spiccato senso del gusto, signor Boulangher – disse accorgendosi che l’uomo lo fissava in attesa di un parere.
Il giudice sorrise mal celando il proprio orgoglio. – Avrete, allora, notato anche la minuziosa scelta delle tovaglie. Romilda ha ragione: è proprio un ambiente raffinato.
Mentre parlavano un cameriere si avvicinò loro e raccolse le ordinazioni. Langley infilò la mano in tasca come d’abitudine, alla ricerca delle sigarette, ma Boulangher lo fermò con un gesto.
Mangiarono lautamente. Langley ordinò delle fette d’arrosto con salsa agrodolce di mele, mentre il signor Boulangher dovette accontentarsi di un piatto di verdure.
- Il vostro medico, il signor Bowles – spiegò con un’alzata di spalle, mentre il cameriere gli sistemava il piatto davanti – mi ha tassativamente proibito di mangiare carne rossa.
Il conte si mise in bocca un pezzo di carne, aggrottando le sopracciglia con aria interrogativa.
- Non gli do tutti i torti, signor Langley. Con l’età devo limitare il consumo di certe prelibatezze …
- Voi, però, non siete grasso affatto.
Il giudice annuì solennemente, sorseggiando del vino. – Ma il dottor Bowles insiste nel dire che ho il cuore affaticato.
Langley assaggiò la salsa di mele. – Mi dispiace per voi, signor Boulangher. Il dottore vi ha prescritto qualche cura? – chiese intingendo un pezzo di carne nella salsa.
- Nulla di particolare tranne il fatto che devo evitare i cibi più gustosi …
Il signor Langley mimò un’espressione di rassegnazione mista a dubbio. Quindi, dopo una fugace occhiata al piatto del signor Boulangher, tentò di incoraggiarlo. – Saranno pure verdure, ma ciò che vi apprestate a mangiare ha un aspetto davvero invitante.
L’anziano corrugò la fronte. – Credete?
- Sì … è molto colorato – disse Langley osservando il piatto come se dovesse fare l’analisi di un’opera d’arte. Poi si riconcentrò sulla sua porzione di carne e mise in bocca le mele della salsa.
- Sapete, signor Langley, avete ripetuto pari pari quello che mi dice sempre Romilda per incoraggiarmi a mangiare le verdure.
Langley sorrise confusamente, non sapendo come interpretare le parole del giudice. – Spero che ciò non vi dia disturbo.
- Oh, no, nessun disturbo. Solo, – continuò spostando gli spinaci da parte – Romilda non è affatto sincera quando me lo dice.
Langley smise di masticare la carne e guardò Boulangher con il boccone tra i denti.
Il giudice iniziò a mangiare le sue verdure, accorgendosi solo in un secondo momento dei tratti pensierosi del conte. – Non avrete mica interpretato le mie parole come un’offesa, signor Langley? So benissimo che avete mentito, ma non posso che apprezzare il vostro sforzo.
Al conte andò di traverso la saliva e iniziò a tossire.
- Oh, vi prego, calmatevi. Bevete un goccio di vino … bene. Vi sentite meglio? Meno male … credevo di dover chiamare il vostro medico!
Langley mimò mentalmente un’espressione sardonica.
- Non vi dirò mai più quello che penso, signor Langley. Se vi fa quest’effetto è meglio che tenga la bocca chiusa. Mi dispiace di avervi preso per bugiardo.
Il conte bevve dell’altro vino; poi, pulendosi la bocca con il tovagliolo del ristorante, scosse il capo. – Non me la sono presa, signor Boulangher. Il fatto è che … che … - balbettò tentando di reimpostare la voce strozzata con un altro sorso di vino, che, essendo frizzante, lo fece tossire di nuovo.
- Sono stato troppo diretto?
Aveva centrato. Langley si sentì in difficoltà, chiedendosi come avrebbe potuto trovare una soluzione a quell’equivoco. Con gli occhi al suo piatto si morse il labbro superiore e sospirò. Quindi si strinse nelle spalle e con la mano mimò un gesto che voleva congedare l’argomento. – Non importa, signor Boulangher.
Il giudice parve contento di quella risposta e con un gran sorriso riprese a mangiare le sue verdure.
Allorché il fondo bianco dei piatti dei due cominciò a farsi vedere tra le pietanze che venivano poco a poco consumate, Boulangher inarcò le sopracciglia in un atteggiamento di novità e si rivolse al signor Langley.
- Qualche giorno fa, mia sorella Romilda mi ha convinto ad acquistare un mobile che si è rivelato troppo ingombrante per il mio appartamento. È un’antica cassettiera settecentesca, in legno massello, con degli intarsi straordinari – disse, prima di pulirsi la bocca con il tovagliolo.
- Interessante.
- Mi è stata recapitata a casa l’altro ieri, ma, come vi ho già detto, è troppo grande e non so dove sistemarla. Accettereste se vi proponessi di prenderla per voi?
Langley osservò un cameriere rovesciare involontariamente della zuppa sul tavolo di una coppia. La donna alla quale doveva essere servita sbottò in un’esclamazione che fu udita da gran parte degli astanti.
- Prenderla io, dite? – ripeté il conte riconcentrandosi sul signor Boulangher.
- Sì. Nella tenuta avete così tanto spazio …
Langley mangiò l’ultimo boccone di carne. – Vostra sorella sarebbe d’accordo?
- E’ stata lei a ricordarmi di voi. Non che io me ne fossi dimenticato!
- Per me sarebbe come rubarvi qualcosa, signor Boulangher.
- Oh, non siate sciocco! Se non erro, fra qualche settimana compirete gli anni … accettate questo mobile come un regalo.
Langley si sentì sbiancare. A fargli così tanta impressione non furono le parole del giudice, piuttosto l’essersi ricordato del suo compleanno. Eseguì un rapido calcolo mentale e scoprì che precisamente due settimane dopo avrebbe compiuto ventisette anni.
- Un mucchio di tempo …
Boulangher si sporse leggermente. – Come dite, conte?
- Come … cosa ho detto? – balbettò lui, ridestandosi dai pensieri. – Che sono felice che vogliate farmi questo regalo … lo apprezzo davvero molto.
- Sì, ma non credete che la contentezza si manifesti con un colorito più vivace del viso? Voi, invece, avete assunto improvvisamente un’aria preoccupata. Qualcosa vi angoscia?
Langley scacciò definitivamente i pensieri con un sorriso. – No, signor Boulangher … nessuna pena.
Quando Boulangher fece per rispondere, il cameriere che li aveva serviti prima, si accostò al tavolo e chiese se volessero ordinare altre pietanze. Il giudice fu più che felice di ordinare un dessert alla frutta, mentre il conte prese una fetta di torta. Non appena il cameriere tornò indietro, il signor Boulangher si sentì libero di parlare.
- Siete sicuro, conte?
Il giovane lo guardò senza capire.
- Di sentirvi bene!
- Sì. Sì, signor Boulangher. Ve l’ho detto, non c’è niente che mi turba …
- Sarà … - disse l’anziano poco convinto, osservando il profilo delle forchette al lato del piatto. – In ogni caso, presto avrete modo di riprendervi da qualunque tipo di preoccupazione.
Il cameriere tornò al tavolo, portando loro i dolci ordinati. – I signori sono soddisfatti? – chiese gentilmente, mentre sistemava i piatti. Il signor Langley fece un cenno affermativo e, rassicurato, l’uomo andò via.
- Signor Boulangher, che intendevate dicendo che presto non avrò più niente di cui preoccuparmi?
Il giudice tagliò le gelatine di frutta con il cucchiaio. – Mi riferivo alla festa che si sta organizzando al villaggio.
- Quale festa? – chiese portandosi un grosso pezzo di torta alla bocca. Appena iniziò a masticarla, sentì sprigionarsi il sapore dolce dell’uvetta.
- Oh, ma devo sempre spiegarvi tutto, signor Langley? Va bene che non avete la vita sociale degna di un uomo del vostro lignaggio, ma del ballo che il signor Drebber sta organizzando dovrete certamente averne sentito parlare … no? Ma dove vivete?
D’un tratto al conte fu tutto chiaro. Ricordandosi delle parole del signor Hobson in merito alle amicizie che questo Drebber avrebbe potuto procuragli, addentò un altro pezzo di torta.
- Conoscete il signor Drebber?
- No, ma se ne sente parlare molto qui. In città fanno a gara per parlargli o avere un suo invito. Sapete, non sono molti i balli che si organizzano e appena la gente ne sente parlare …
- Corrono tutti? Capisco.
Boulangher mandò giù una gelatina di frutta. – Voi andrete, signor Langley? Intendo al ballo.
- Perché dovrei? – disse, dopo aver sorseggiato un po’ di vino.
- Perché voi sarete sicuramente invitato.
Langley sembrò impensierirsi.
- Non siete contento?
- Suvvia, signor Boulangher …
L’anziano uomo si irritò e levò i palmi al cielo. – Ma perché dovete sempre farvi così scontroso? La possibilità di prendere parte ad una festa non riesce proprio ad allettarvi?
Langley ebbe un fremito. Stava per iniziare a parlare, ma si accorse che il tono di voce attrasse l’attenzione di alcuni commensali e l’abbassò. – Vi dispiacerebbe cambiare discorso, signor Boulangher?
- Non rispondete alle domande con altre domande, signor Langley!
- E voi non siate impertinente. Sapete che certi discorsi risultano a me poco graditi.
Il giudice mangiò gli ultimi pezzi delle gelatine. – Discorsi poco graditi, discorsi poco graditi, discorsi poco graditi! Ma non sapete dire altro?
Langley si infervorò. Fortuna che nessuno li stesse guardando. – Dovreste imparare a impicciarvi di meno. La maggior parte dei nostri discorsi si conclude, da parte mia, con una spiccata voglia di trarmene fuori; e ciò mi dispiace.
- Permettetemi di contraddirvi. Io non credo che a voi dispiaccia. Anzi, vi dà sollievo scappare quando tento di capirvi.
- Adesso basta, signor Boulangher – sussurrò il conte, posando la forchetta nel piatto.
Il giudice si espresse in una smorfia di disappunto. Sul punto di aggiungere qualcosa, chinò gli occhi al tovagliolo; quindi sospirò. Lui e il signor Langley si scambiarono ancora qualche battuta, ma era evidente che il conte avesse cambiato umore e le sue frasi erano accompagnate da movimenti scattanti delle iridi grigiastre. Al termine del pranzo fu lui a pagare e quando uscirono, l’anziano giudice ebbe la fortuna di vedere liberarsi una vettura all’altro capo della strada.
Boulangher lo salutò con un’eloquente pacca sulla spalla e il conte gli sorrise forzatamente di rimando.
In strada c’era poca gente e in cielo delle bianche nubi procedevano in dirittura del sole. Langley le osservò fino a quando esse non gettarono un’ombra sulla città. Poi si ficcò le mani in tasca e camminò fin quasi alle porte della città. In Merchant Quay si ricordò di Emily, la bambina che aveva perduto la strada dopo essere fuggita dall’orfanotrofio. Istintivamente ricordò anche sua figlia e i suoi sottilissimi capelli scuri; il suo profumo, la magnifica sensazione di averla tra le braccia. Fu come riaverla nuovamente con sé. Immaginò di tenerla in braccio, muoversi baldanzoso per farla sorridere, coccolarla. Ma subito dovette confrontarsi con l’idea che non l’avrebbe più riavuta, né rivisto il suo minuscolo viso. Non c’era stato il tempo di farla ritrarre, né di godere appieno della sua presenza. Nel giro di quattro giorni, in quello sfortunato mese di Dicembre, erano successe troppe cose e avrebbe voluto dimenticare, dimenticare, dimenticare. Ma la mente andava da sola, i ricordi erano rimasti ed era inevitabile che essa li rievocasse in continuazione, ogni giorno.
Era fermo sul bordo del marciapiede in attesa di una vettura, gli occhi persi nell’angolo della via. Trasse una sigaretta dall’astuccio, quando ricordò di non avere cerini. Imprecò. Rimise la sigaretta a posto, poi se la riportò alle labbra e andò alla ricerca di una bottega che vendesse fiammiferi. Camminò a grandi passi per un breve tratto, fino a quando non si imbatté in una drogheria. Ripensava ancora ad Emily, sua figlia. Accese una sigaretta cercando di controllare il tremito delle mani; quindi tirò rabbiosamente una boccata di fumo e si rimise a passeggiare senza sapere dove andava.
Giunse al ponte sul fiume. Approfittando dell’assenza di agenti sulla via, si tolse la giacca e sedette sul parapetto, molleggiando le gambe per smaltire il nervosismo. Udiva l’acqua scorrere impetuosamente dietro le spalle, sotto di sé, davanti, in una lunga linea bluastra. La guardò a lungo, immaginandosi di cadervi dentro, perdersi nella confusione prodotta dalle bollicine, non vedere altro se non la moltitudine di verdi e azzurri dell’acqua, sentirsi trasportato da una forza inarrestabile, potente.
Non appena la sigaretta divenne mozzicone la buttò nel fiume e scese dal parapetto. Poi prese una vettura.

Anya aveva trascorso il pomeriggio al fiume, con Mary, Anna e altre donne del villaggio.
Erano andate al fiume per fare il bucato. Per Anya fu la prima volta e si divertì, perché c’era caldo e immergere le gambe nell’acqua fredda non dispiaceva. Poi, lavando i panni, si sudava parecchio e si parlava con le altre. Imparò anche qualche verso di alcune canzoni popolari che la gente amava e cantava sempre quando si stava in compagnia.
Mary e Anna stavano parlando con alcune donne, quando Anya decise di tornare alla tenuta, pensando che Greta potesse avere bisogno del suo aiuto. Avanzava con gli scarponcini allacciati male, le calze umide e l’orlo della gonna fermato da un lato con un ripiego nella cintura. In questo modo erano appena visibili le caviglie bianche e gli orli della leggera sottoveste. Sul volto regnava la stanchezza.
Stava camminando in un sentiero che costeggiava un campo coltivato e un piccolo conglomerato di case di mattoni scuri, le abitazioni dei contadini e di alcuni artigiani. Sistemandosi il cesto della biancheria pulita sul fianco, le osservò distrattamente. Poi venne il momento di imboccare il sentiero a sinistra e distolse lo sguardo.
Si alzò un venticello leggero e fresco. Le fronde degli alberi frusciarono e gli uccellini si alzarono dai nidi, prendendo a cinguettare animatamente. I capelli di Anya, bagnati alle punte e sulla nuca, furono scossi, solleticando la pelle del collo e del viso. Il sole fu oscurato da un piccolo conglomerato di candide nubi e il vento sembrò farsi ancora più fresco. Anya si sentiva di ottimo umore. Il sottile cotone della camicia le carezzava fluidamente la pelle e la frescura asciugava il sudore delle gambe in movimento. Senza notarlo, accelerò il passo, donando ad ogni suo movimento maggiore energia. Fece una pausa per far riposare le braccia, ma riprese a camminare quasi subito, accorgendosi che stava arrivando una vettura da nolo. Probabilmente, pensò, era il conte. La carrozza si fermò poco dopo averla sorpassata e, fermandosi un’altra volta, Anya osservò la scena. Lo sportellino si aprì lentamente, come se chi vi fosse dentro avesse problemi ad uscire; poi il signor Langley fece capolino, pagò il cocchiere e salutò Anya con un cenno del capo.
- Buonasera a voi, signore – rispose, guardando la carrozza allontanarsi. Scrutò anche il conte, chiedendosi quale fosse il motivo per cui aveva fatto fermare prima la vettura.
Il signor Langley stesso parve pentirsi di quella scelta. La mano strinse convulsamente la giacca che non indossava e si umettò il labbro superiore senza sapere che pesci prendere. Anya provò a rompere quell’imbarazzante silenzio, ma lui la interruppe.
- Stai tornando alla tenuta? – le chiese, alzando un sopracciglio nello scorgere le caviglie nude.
Anya si fece ancora più stranita. – Sì.
- E’ pesante quel cesto?
- Non particolarmente.
- Lascia che ti aiuti – disse mettendosi la giacca sulle spalle e afferrando un manico del cesto.
Anya assunse la più perplessa delle espressioni, ma Langley non la vide. Camminargli vicino le provocò una sensazione di disagio e più lo guardava, più questa sensazione si intensificava. Alla fine decise di volgere gli occhi da un’altra parte.
- Siete stato in città, oggi? – chiese.
Langley annuì, togliendosi il cappello.
- Mi fa piacere …
- Si?
Anya sospirò. – Sì.
Prima che il conte riprendesse a parlare, lui e Anya percorsero un buon tratto di strada. – Tu, invece? Sei mai stata in città?
- No, signore.
- Se vuoi, un giorno ti ci porto.
Il cuore di Anya le balzò in gola. – Sarebbe bello – balbettò. – Ma, con tutto il rispetto, non capisco cosa c’entri io.
Il peso del cesto risvegliò nel conte il dolore alla spalla. Così, mentre entrambi cambiavano mano, lui, ancora in preda ai pensieri della città, cercò di sorridere. – Nessuno ha mai un vero buon motivo per fare qualcosa. Andare in città non ti piacerebbe?
- Probabilmente ci andrei solo per una valida ragione.
Langley la guardò. – Per esempio?
Anya si strinse nelle spalle. – Per esempio, se mi ritrovassi nelle condizioni di dover assolutamente recarmici. So, per sentito dire, che Waterford city è modestamente grande e bella; ma ciò che è definito “bello” nel convenzionale o da tutti, solitamente a me non piace molto.
- Quindi consideri a priori Waterford city una città senza nulla di particolare? Per questo non ci andresti?
La ragazza calciò un sassolino. – Semplicemente non mi aspetto nulla. D’altronde non posso definire qualcosa che non ho mai visto.
Langley annuì silenziosamente. – Tuttavia, mi vien da pensare che nutri una certa curiosità di conoscere Waterford city.
- Non posso negarlo.
Le labbra del conte si sollevarono da un angolo. – Quindi se ti invitassi ci andresti?
Lo sguardo di Anya tradì una profonda curiosità, di cui Langley si accorse subito.
- Un invito formale … – si affrettò ad aggiungere. – Per conoscere meglio la contea.
Anya, però, continuava a non capire. Confusa, cercò una soluzione sul viso del conte, sulla biancheria bagnata del cesto, nella campagna che la circondava e nella tenuta visibile in lontananza. Ma non trovò nulla. Le guance le diventarono rosse per l’imbarazzo, il cuore prese a palpitare rumorosamente. Ebbe la necessità di buttare fuori la troppa aria nei polmoni con dei lunghi sospiri silenziosi. Quel “formale” la disorientò.
- Non saprei come rispondere, signore.
Il conte continuò a camminare come se nulla fosse, quando un interrogativo distorse la piega delle sopracciglia. – Ti ho messa a disagio?
Anya scosse vigorosamente il capo. – No, signore – disse. – Però non capisco la ragione per cui voi uomini, prima mettete a … avanzate delle proposte alle donne, senza curarvi della loro reazione, e poi cercate di rimediare alla vostra intraprendenza con delle scuse.
Langley soppesò ogni parola. – Qualcun altro ti ha messa in difficoltà?
- S … no! – esclamò cercando di cancellare il ricordo del signor Drebber in pasticceria. Sospirò. – No. Ma non vedo cosa c’entri …
- Tu, però, hai detto “voi uomini”. Non credo di sbagliarmi.
- Ho detto così per … ho generalizzato troppo. Ecco tutto.
Mentre Anya volgeva il viso da un’altra parte, il conte la scrutò in preda al dubbio.
La tenuta era adesso più vicina e mancavano pochi passi al cancello. Langley reputò saggia la scelta di non dire più niente, anche se avvertiva il peso dell’interrogativo su di sé. Appena arrivato si sentì più leggero e gli venne voglia di prendere Fedor per una cavalcata. In cortile, Anya si congedò da lui e si diresse verso la porta della cucina. Langley prese per la scuderia.
- Signore! Signor conte!
Margareth avanzò a grandi passi verso di lui.
- Cosa c’è, Margareth? – chiese fermandosi sull’uscio.
-Che fortuna che siete tornato! Il signor Hobson è venuto a trovarvi. L’ho fatto accomodare in salotto con il tizio che l’ha accompagnato.
Langley vide sfumare l’uscita a cavallo. – Il signor Hobson ha portato qualcuno? Ha detto chi è?
- Oh … sì che l’ha detto, ma non ricordo il nome … - disse la governante tamponandosi la fronte con il fazzoletto.
Al conte venne un sospetto. – Per caso risponde al nome di Drebber?
- Sì, Drebber. Proprio lui. Lo conoscete?
- Di fama molto bene. E ciò basta e avanza – disse con irritazione. – Hai detto che mi aspettano in soggiorno?
Margareth assentì sbrigativamente. Langley indossò la giacca e vi si diresse, seguito dalla governante. La porta del soggiorno era aperta e vennero raggiunti dal chiacchiericcio dei due uomini prima ancora di arrivare. Non appena il signor Hobson vide il conte, interruppe la conversazione con l’uomo seduto accanto a lui e balzò su.
- Conte!
Alla vista del signor Drebber, Langley tentò di trasformare i suoi tratti indagatori in un’espressione cortese.
- Vi abbiamo atteso a lungo – continuò Hobson, poggiando la mano sulla tasca in cui custodiva l’orologio.
- Mi dispiace.
- Posso immaginare … - disse. – Bene, signor Langley, questo è il signor Aaron Duke Drebber, il nuovo vicino; signor Drebber, questo è il conte Paride Benjamin Victor Thomas Langley.
I due si strinsero la mano.
- La vostra fama vi precede, conte.
- Mi ha tolto le parole di bocca, signor Drebber.
- Stavamo giusto discutendo dei nostri accordi circa il futuro dell’azienda, conte – disse l’amministratore quando si furono seduti. Langley lo fulminò con lo sguardo.
- Non ricordo di aver stipulato patti con voi in proposito, signor Hobson.
- E’ possibile ... dicevo, ho parlato dei nostri progetti al signor Drebber, il quale mi ha rivelato di avere molte conoscenze che potrebbero aiutarci ad ampliare i nostri orizzonti di mercato …
Il signor Drebber guardava alternativamente il signor Hobson e il conte, interrogandosi quando quest’ultimo scosse il capo con stizza.
- Signor Hobson, frenatevi. Mi pare di aver discusso esaurientemente questa faccenda. Non sono d’accordo. Sono felice di quello che ho e non pretendo di accumulare di più.
- Il conte non ha tutti i torti, signor Hobson – intervenne Drebber. Langley gli lanciò una rapida occhiata, senza badargli oltre.
L’amministratore si infastidì. – Avete vissuto in prima persona i disagi dell’inverno, conte. Le bestie morte di freddo, le scorte di mangime insufficienti, la muffa sul grano …
- Signor Hobson! – sbottò Langley guardandolo con tanto d’occhi. – Come vi permettete di parlare di certe faccende davanti ad un ospite? In un tono oltremodo imbarazzante nei miei riguardi!
Hobson non trattenne una smorfia di risentimento.
- Probabilmente il signor Hobson intendeva dire che è sempre meglio preservare la salute dell’azienda, cercando di incrementare quanto più possibile le sue entrate, piuttosto che accontentarsi di poco …
Langley avrebbe voluto che Drebber rimanesse in silenzio, perché l’amministratore si sentì giustificato.
- Vi sono grato, signor Drebber, per la volontà di calmierare la discussione, ma il vostro intervento non era necessario. Il signor Hobson intende la faccenda nell’esatto modo in cui la espone e sa pure precisamente cosa voglio dall’azienda; ciò che non gli riesce bene, però, è contenersi di fronte a persone che la sua mente concepisce come potenziali fonti per l’azienda. Mi dispiace parlarne di fronte a voi e in così chiare lettere, signor Drebber, ma non ho bisogno di nessun aiuto.
Drebber sorrise con cortesia. Hobson, invece, arrossì per la vergogna.

L’amministratore e il signor Drebber si trattennero per poco. Quando il signor Langley era arrivato era già tardo pomeriggio e la giustificazione che Drebber utilizzò per andar via prima, fu che la cugina lo attendeva per cena. Il conte avrebbe parlato volentieri con il signor Hobson, per rimproverarlo dell’atteggiamento avuto, ma l’uomo parve capire e volle dileguarsi quanto prima.
Langley e Margareth accompagnarono i due uomini in cortile.
- E’ stato un piacere fare la sua conoscenza, signor Drebber. Mi rincresce che abbia dovuto assistere ad un’incomprensione con il mio amministratore.
- Il piacere è tutto mio, conte. Vedrà che ci saranno momenti migliori e allora discutere non porterà a nessun diverbio.
Il conte mascherò la propria disillusione con un sorriso. Strinse la mano al signor Hobson in segno di saluto, ma prima che potesse dire qualcosa un gran fracasso di piatti e bicchieri rotti dalla cucina anticipò un’invettiva di Greta contro Anya. La ragazza fuggì nel cortile di gran carriera e Langley si chiese cos’altro ancora sarebbe dovuto accadere di tanto spiacevole. Gettò le braccia lungo i fianchi, imprecando a bassa voce, mentre il signor Drebber ridacchiava, inseguendo Anya con gli occhi.
- Avete una serva alquanto svelta, conte.
Drebber si rigirò verso il signor Langley, ma tornò quasi immediatamente su Anya, che perse la cuffietta e si fermò al centro del cortile, tentando di rialzare i capelli in un nuovo chignon. Non appena la vide in viso, il volto del signor Drebber si illuminò con un gran sorriso.
- Quindi abita qui?
- Chi?
- Quella ragazza, Anya.
Langley si accigliò, mantenendo un’espressione cortese. – La conoscete?
- Sì – annuì Drebber – l’ho vista giù al paese e poi in un sentiero, nei dintorni …
Il conte posò lo sguardo sulla figura snella della giovane. Nel suo animo si susseguirono svelte una moltitudine di sensazioni alle quali non riuscì dar nome. Ribrezzo, rabbia, impotenza, curiosità, insoddisfazione, inadeguatezza, rancore. Vide Anya muovere qualche passo indietro, raccogliere la cuffietta e scrollarla dalla polvere; poi sporgersi per dare un’occhiata in cucina e rimettersi dritta per sorbirsi un rimprovero della cuoca.
- Una giovane deliziosa – commentò fra sé Drebber.
Langley continuò ad osservare i movimenti della sguattera. Fece un passo in avanti, si bloccò improvvisamente e tornò indietro borbottando delle frasi di scuse, volgendo i palmi al cielo, giustificandosi, mimando il modo in cui si era mossa e aveva fatto cadere i piatti. Poi, sentendosi osservata, si girò verso i due uomini, trasecolò, cercò di dare una sistemata alla gonna e ai capelli, rivolse loro un inchino e si dileguò.
Drebber rise, distogliendo lo sguardo. – Bene, signor Langley. È stato un piacere. Adesso è meglio che vada.
- Arrivederci, signor Drebber.
Hobson si accostò al conte giusto il tempo per salutarlo.
- Arrivederci, Hobson – disse con malumore.
Appena i due se ne furono andati, Langley si girò un’altra volta verso il centro del cortile, là dove Drebber aveva visto Anya. Al suo posto c’era Greta con dei cocci di porcellana. Da lontano glieli mostrò e lui fece spallucce. Poi tornò dentro furibonda, imprecando contro Anya.

Più tardi la ragazza uscì dalla scuderia. Tese l’orecchio, spiando i rumori prodotti dalla cuoca, ma non avvertì nulla di strano. Hunt le venne incontro.
- Hunt … - mormorò carezzandogli il capo. Il cane gli saltò addosso abbaiando. – Shh! Hunt! Hunt! Sta’ zitto! Hunt! Sta’ buono, ho detto!
- Hunt!
Anya trasalì. Il cane smise di disturbarla e tornò indietro, scodinzolando piano. Anya lo seguì con gli occhi, fino a che non vide il signor Langley seduto sulla panca accanto alla porta della scuderia. Si era tolto la giacca e aveva sbottonato la camicia fin sotto l’attaccatura delle clavicole. Il cane gli si sedette mansuetamente accanto.
- Signore – lo salutò.
Il conte ricominciò a carezzare Hunt.
Anya calcolò il tempo che era rimasta nascosta nella scuderia. – E’ da molto che siete seduto qui?
- Greta è furente. – disse Langley ordinando al cane di sdraiarsi con un gesto.
- Lo so.
- Me ne compiaccio.
Sul viso Anya non gli vide nessuna espressione. Sembrava assonnato.
- Voleva picchiarti, sai?
Anya deglutì a fatica. L’aveva proprio fatta arrabbiare e con un’occhiata alla cucina, si preparò al peggio. Annuì.
Il conte la guardò a lungo, soffermandosi sulla morbida piega del collo e immaginandosi quella pelle chiara macchiata dalle percosse. – Io le ho parlato. Non è stato facile, perché era furiosa, ma alla fine l’ho convinta a non toccarti. Se sei maldestra con le botte non risolviamo nulla.
Gli occhi della ragazza s’illuminarono, mentre il petto si gonfiava con un grosso sospiro di sollievo. Si sentì addirittura girare la testa.
- Certo, quello che hai rotto era il suo servizio preferito … così, onde evitare risentimenti e rancori, mentre tu trascorrevi il resto del pomeriggio a strigliare il manto dei cavalli, ho pensato a due possibilità: potresti comprare l’intero servizio tutto in una volta oppure potrei detrarre dal tuo stipendio i soldi che ci vorrebbero per acquistarlo.
Anya distorse la mascella con indecisione. Non riusciva a guardare il conte in viso.
- Cosa decidi?
- Quando dovrei comprare il servizio, signore? – disse dopo un sospiro.
Langley rispose con calma. – Domani o prima che puoi. Non è solo Greta ad essere arrabbiata.
Anya ci pensò su per qualche minuto. Alla fine, levando appena lo sguardo sul conte, rispose – Temo di dover ripiegare sulla seconda possibilità, signore.
- Bene. Taglierò una lauta percentuale dalla tua paga per tre volte. Se si dovesse presentare il bisogno, però, potrai chiedermi di anticiparti qualcosa … che detrarrò dal mese successivo. E con questo mi sembra di aver detto tutto.
Langley ricominciò a carezzare Hunt, che si alzò a sedere accanto alle sue gambe. Tutto quello che Anya riuscì a dire, dopo un lungo silenzio, fu un flebile ma sincero “Grazie”. Il conte distolse lo sguardo da lei per non metterla in imbarazzo, ma sollevò la testa notando la sua titubanza.
- Qualcosa non va?
- No … - mormorò con gli occhi lucidi. – Vi ringrazio ancora, signore.
Il conte la vide allontanarsi in direzione della cucina. Il movimento delle mani gli fece capire che stava piangendo.
Improvvisamente si ricordò di Drebber, di voler chiedere di lui ad Anya.
Ma lei era già entrata in cucina.

 

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Capitolo 34
*** Capitolo XXXII ***


An irish tale - Capitolo XXXII



Le nuvole bianche che il signor Langley e Anya videro muoversi dritte verso il sole, durante i giorni precedenti, si addensarono e trasformarono presto in uno spesso cumulo grigiastro. Il caldo si tramutò in freddo, l’aria stagnante in un vento umido. In un solo giorno tornò la frescura della Primavera appena trascorsa.
Edgard e Anya s’affrettarono a cambiare abitudini; Edgard usciva con Birra, anziché col calesse, preferendo il ristoro del movimento alla corrente presa sul calesse. Anya, invece, non teneva più aperta la porta della scuderia. Le grida di Greta erano accompagnate dal cigolio della porta della cucina, Margareth andava in giro con uno scialle avvolto intorno al collo e alle spalle, Mary indossava il vestito più pesante.
Il freddo arrivò così repentinamente, che Anya, a differenza degli altri, non capì come bisognava vestirsi. Indossò un abito leggero e quando iniziò a piovere Edgard le offrì una delle sue giacche.
- E’ solo un prestito – tenne a precisare mentre gliela consegnava. Anya l’aveva ringraziato e aveva rimboccato le maniche per lavorare meglio.
La pioggia si presentò all’ora di pranzo, ma il freddo e l’umidità erano arrivati durante la notte. Il conte era uscito come al solito all’alba, sulla groppa di Fedor. Poi qualcosa parve trattenerlo fuori e Sam, che lo incontrò in compagnia di un contadino, disse che sarebbe tornato non prima del pomeriggio. Imbacuccata nella giacca di feltro, Anya guardò a lungo il cancello della proprietà. Sulle prime sperò di vedere tornare il signor Langley. In cucina Greta brontolava, lei non aveva nulla di interessante da fare. I cavalli erano stati strigliati tutti, avevano da mangiare, da bere, i box puliti. Il pavimento della scuderia era stato spazzato a dovere, nell’attesa. Quando andò a sedersi sui gradini dell’ingresso principale, Anya stava mangiucchiando un pezzo di pane. Le brontolava lo stomaco per via dell’appetito. Sperava che la zuppa di Greta fosse presto pronta; così, almeno, avrebbe avuto di che ristorarsi.
Appena finito di lavorare, Edgard corse in cucina. Anche lui era intirizzito e dalla tesa del cappello colava acqua come dalle grondaie. Grazie a quel collegamento, Anya ricordò di doversi togliere la cuffietta, che adagiò sul gradino, accanto a sé, dopo averla strizzata. I capelli che ricaddero sul collo le donarono una piacevole sensazione e smise di sentire il fastidio del freddo al collo. Quando il pranzo fu pronto Greta la chiamò in cucina e lei apparecchiò, come ogni giorno. Si prese un piatto di zuppa e una pagnotta, senza togliersi il cappotto di Edgard, e assaporò la sensazione del brodo caldo in pancia. Al tavolo della cucina c’erano quasi tutti. Adele non faceva che lamentarsi del vento, Sam aveva da ridire sulla condizione dei sentieri, pieni di fango, Ines si lamentava per non essere riuscita a trovare delle lenzuola pregiate, Anna per non aver potuto stendere la biancheria lavata al fiume il pomeriggio precedente. Nonostante tutto, però, il clima in cucina era gaio e perfino Greta pareva di buon umore. Margareth era preoccupata per il cattivo tempo.
Per un po’ si parlò degli impegni che restavano da assolvere. Anya uscì in cortile prima che arrivasse il suo turno e prese posto sui gradini dell’entrata principale, avvolgendosi alla bell’è meglio nel cappotto di feltro grigio.
Il colore assunto dalle nubi in cielo era tra i più cupi. D’un tratto pareva essere arrivata la sera; e come se non bastasse c’era nebbia ovunque. Che Anya si girasse a destra, verso i campi, a sinistra, in direzione del cortile, davanti a sé, rivolta alla brughiera. Il verde della campagna era solo un ricordo. A malapena riuscivano a distinguersi i profili dei ferri del cancello.
Con il brodo nello stomaco e il cappotto di Edgard sulle spalle fu facile trovare ristoro. Poi i capelli proteggevano il collo e il freddo non aveva dove entrare. Per un paio di minuti tamburellò con il piede su un gradino; il vento non le faceva paura. Era abbastanza forte, scuoteva vigorosamente gli alberi, donava un’inclinazione più o meno ampia alla pioggia, le schiaffava i capelli sugli occhi, costringendola ad accigliarsi e a scostarli continuamente dal viso, sollevava il bavero del cappotto. Si chiese il motivo per cui si fosse accucciata sul primo gradino dell’ingresso e non riuscì a rispondersi. Tuttavia in cucina non voleva tornarci. Non era dell’umore giusto per stare con gli altri. Li sentiva ridere di gusto e pensò che stessero giocando al bullet pudding. Ma le loro grida, le loro risate, per quanto chiare, erano solo un eco lontano. Intorno a lei la Natura stava suonando la sua potente sinfonia.
Quando il vento si fu calmato, un nuvolone liberò il suo carico in una fitta pioggia scrosciante. Anya si mise il cappello e tornò dentro, guardandosi un’ultima volta indietro. Appena aprì la porta, Greta le ordinò di togliersi le scarpe bagnate e metterle accanto al camino insieme a quelle degli altri. Anya si tolse il cappotto e ci mise anche quello. Come aveva immaginato stavano giocando al bullet pudding. Ines la invitò, ma lei preferì continuare la riparazione di una calza che andò a prendere in camera. In cucina sedette accanto al camino e tra le risate e le grida degli altri, si mise a cucire.

Langley annuì impazientemente all’ennesima precisazione del contadino Lenehan.
Da qualche minuto aveva iniziato a piovere a dirotto ed era piuttosto preoccupato per il ritorno alla tenuta. Quel pensiero lo distrasse da buona parte del discorso del contadino. Fortuna che si trovavano nel capanno degli attrezzi. Langley guardava spesso il cielo dalla finestra e da un po’ s’era rassegnato a tutto quel grigiore.
- Ricapitolando, signore …
- … il campo a est a maggese e quello a ovest, cioè quello alla nostra sinistra – precisò con enfasi per evitare l’intervento del vecchio – sarà adibito al pascolo. Ho capito, Lenehan.
Il contadino sembrò soddisfatto e annuì, mentre ripeteva tutto daccapo.
Langley riuscì a interromperlo solamente ricordandogli che era arrivata l’ora di pranzo. Trasse l’orologio dal taschino e glielo mostrò. – Tornerò domani, Lenehan. Tornerò domani con il signor Hobson, perciò se hai dei dubbi …
Il contadino fece segno di non aver capito bene.
- Se hai dei dubbi, delle domande, degli interrogativi … io, domani – ripeté – tornerò con il signor Hobson, l’amministratore, va bene?
Lenehan assentì. Fece per “ricapitolare”, come diceva lui, ma il conte lo prevenì. – E’ ora di pranzo, Lenehan – disse. – Non ti sei ancora stancato di fare questo lavoro? no?
Lenehan scomparve nella nebbia dei campi con la sua solita espressione di buon umore. Il conte rimase a guardarlo sulla soglia del capanno, stringendo la tesa del cappello da campagna tra le dita e battendolo sulla coscia. Faceva freddo e pioveva. Pioveva tanto. Fedor era legato ad un paletto e lo aspettava, fremendo per il cattivo tempo. La sella gocciolava d’acqua, il sottosella era fradicio. Nei campi non era rimasto nessuno, tutti erano tornati a casa. Langley trasse un profondo respiro, si morse un labbro, indossò il cappello. Quindi uscì e montò in groppa a Fedor, sollevando quanto poteva il colletto della giacca. Spinse il passo di Fedor ad un canter rapido, ma presto, non scorgendo pozzanghere, lo toccò coi talloni per farlo galoppare.
Fedor accompagnava ogni passo ad un grugnito. Langley sapeva quanto odiasse il fango e cercava di fare quanta più attenzione possibile per non incappare nelle pozzanghere. Accorciò le redini, stringendone la presa nel pugno e fra le dita. Per alcuni minuti buoni riuscì a pensare ad altro e a non concentrarsi sui vestiti bagnati e sul galoppo fervente di Fedor. Poi, d’un tratto, sentì cambiare il passo del cavallo e venne sbalzato dalla sella, cadendo di fianco in una pozzanghera. Fedor scartò di lato, trotterellando al ritmo delle staffe che battevano contro la sella, prima di fermarsi sul ciglio della strada. Langley, invece, non avvertì altro che un acuto dolore al fianco sinistro. Incapace di fare diversamente, si posò una mano sul fianco, gemendo rabbiosamente per il dolore. Il fango penetrò nei vestiti.
- Fedor!
Il cavallo tornò indietro al passo. Il conte cercò il frustino con gli occhi, immergendo una mano nella melma per alzarsi. – Dannata bestia! – gridò ricadendo nella pozzanghera per il dolore. La pioggia sembrava prendersi gioco di lui, annebbiandogli la vista e facendogli finire i capelli sulla fronte bagnata. Decise di trascinarsi poco a poco sul bordo della pozzanghera, rassegnandosi all’idea di riempirsi le mani e i vestiti di fango. Quindi si spostò a sedere sul fianco destro e fece leva sul braccio per tirarsi su. Lasciò perdere il frustino e tornò dal cavallo zoppicando. Il dolore era talmente forte che non riuscì neppure ad abbassarsi per prendere il cappello e a sollevare la gamba. Il vento ricominciò a soffiare.
Langley prese Fedor per le redini e raccolse il cappello contraendosi in una smorfia di dolore. Lo guardò con disgusto, mentre la pioggia lo lavava lentamente dal fango e chinò le spalle con afflizione. Tentò di camminare, ma ad ogni passo sentiva mille chiodi conficcarsi contro i lombi. Fedor lo guardò di sbieco; e Langley ricambiò, stringendosi nelle spalle per un brivido di freddo. Dopo dieci passi infilò il piede nella staffa sinistra, inspirò profondamente e afferrò la sella. Lanciò un’occhiata a Fedor, che non diede segno di muoversi, e si tirò lentamente su, gemendo sommessamente. Una volta in groppa tirò a sé le redini e toccò il cavallo con il tallone destro. Al galoppo il dolore era quasi più sopportabile.
La strada del ritorno parve più lunga dell’andata. La nebbia aveva avvolto la tenuta e solo ad una ventina di piedi riuscì a distinguere i profili del cancello. Nel cortile cercò il modo di scendere senza farsi male, ma dovette ricorrere al salto tradizionale.
- Signor conte, siete voi?
Langley si passò il dorso della manica sul viso. – Sì, Anya.
La ragazza gli corse incontro, tenendosi il cappello sulla testa. – Penso io al cavallo, signore. Tornate dentro, o vi prenderete un accidente!
Prima che potesse controbattere, Anya gli tolse le redini di mano e si allontanò verso la scuderia. Langley rise amaramente, trascinandosi fino alla cucina, massaggiando il fianco con la mano. Bussò alla porta e scrollò il cappello dal fango.
- Giusto cielo! – esclamò Margareth squadrandolo da capo a piedi, dopo aver aperto. – Ma cosa vi è successo?
Langley si diresse verso il camino, cercando di non zoppicare. – Oh, roba da niente! – esclamò piegando le labbra in un sorriso.
- Roba da niente? Grondate acqua!
Il conte avvicinò una sedia al camino, sussultando per il dolore al fianco e sfregandosi le mani per il freddo. Non appena il fuoco cominciò a riscaldarlo si sentì rincuorato.
- Vi faccio preparare un bagno caldo? – chiese la governante.
- S … sì, Margareth – rispose con uno starnuto. – Un bagno caldo …
La governante lo osservò per qualche istante, prima di allontanarsi a passo svelto.
Greta aveva ascoltato silenziosamente tutta la conversazione, tagliuzzando delle verdure per uno spezzatino, su un angolo del tavolo. Non appena Margareth uscì, si volse verso il conte con un sopracciglio alzato. Langley tese i palmi verso il camino, trattenendo l’impulso di tossire con dei lungi respiri. L’acqua che colava dai capelli finiva sul viso, facendosi strada attraverso la corta barba e lungo il collo. Sul pavimento, gli abiti gocciolanti stavano disegnando una pozza d’acqua.
- Signore, non sarebbe meglio se vi toglieste quegli abiti bagnati?
Il conte sollevò le braccia, guardandosi le maniche. La giacca gli arrivava fin sotto il sedere. Per toglierla avrebbe dovuto alzarsi e se l’avesse fatto avrebbe sentito dolore al fianco. Tolse la giacca dalle maniche e ripiegò la restante parte sullo schienale della sedia.
Anya tornò dentro. Era avvolta in un lungo cappotto di panno chiazzato di pioggia e portava un largo cappello nero sul capo. Quando entrò, Langley si girò nella sua direzione e Anya sorrise. Il conte rimase piacevolmente meravigliato dal luminoso colorito del suo incarnato e dai capelli, raccolti per metà sulla nuca.
Prima di chiudere la porta, Anya si tolse il capello e lo batté fuori. – Vi siete bagnato per bene, signor conte, eh?
Langley sbottonò i polsini della camicia. – Parecchio, direi.
La ragazza appese il cappotto ad un gancio della parete, mentre Greta metteva a soffriggere della cipolla nel burro.
- Greta, posso aiutarti in qualche modo?
- Taglia la carne. E non ridurla in tocchetti troppo piccoli … il signor conte non lo sopporta.
Langley seguì i movimenti della sguattera con lo sguardo. – Oh … non importa, Greta – sorrise, dopo una serie di starnuti.
- Scusate, signore – disse Anya avvicinandoglisi – potreste spostare la sedia? Mi serve l’acqua che bolle in camino …
Il conte assunse un’espressione indecifrabile, che pareva tradire la sua difficoltà. Si aggrappò allo schienale della sedia e si alzò in piedi, cercando di non pensare al bruciore nel fianco. Con un ulteriore sforzo sollevò la sedia e la spostò dal camino. – Va bene così?
- Perfetto, grazie – rispose Anya trasferendo l’acqua in una tazza con un mestolo. Gli rivolse un’occhiata di riconoscenza, che prese una piega di sospetto non appena lo guardò in viso. – Come siete pallido … state bene?
Langley raccolse la giacca. – Sì, Anya – la rassicurò, poggiandosi involontariamente sulla gamba sinistra. – Il bagno è pronto?
- Non lo so … avete chiesto che fosse preparato?
Greta pensò che la sua sguattera si fosse distratta abbastanza. – Io credo di sì, signore. Sicuramente Margareth manderà qualcuno a prendere l’acqua che abbiamo messo in camino.
Anya intinse una pezzuola nell’acqua che aveva preso e si pulì le mani. Langley si tolse il gilet e lo raccolse sull’avambraccio insieme alla giacca; poi trasse il fazzoletto dalla tasca dei pantaloni e ci starnutì dentro.
- Vado – disse.
Anya mise il pezzo di carne su un tagliere. Con il sospetto di prima osservò il conte camminare in direzione della porta. La sensazione che non stesse bene si ripresentò. Lo indicò alla cuoca con un cenno; ma lo sguardo che questa le rivolse fu più chiaro di qualsiasi parola.
- Ma … - la pregò.
- Lavora!

Il mattino seguente Anya tornò a indossare i suoi abiti pesanti. Dovendo recarsi in paese per sbrigare alcune commissioni per conto di Greta, scelse il vestito grigio. La tonalità si addiceva al tempo nuvoloso, essendo particolarmente chiara e opaca. Anya, però, quel vestito lo indossava sempre volentieri; non solo perché le stava a pennello, ma anche perché ingentiliva la linea delle spalle, scoprendo solo la parte alta del petto e coprendo interamente il seno. E poi non era dotato di alcun tipo di passamanerie, a parte un ricamo in filo grigio sul corpetto che disegnava la linea del busto. La gonna aveva un taglio semplice e si drappeggiava bene anche con il più voluminoso sottogonna.
Il tempo era migliorato. Aveva piovuto tutta la notte, cessando solo alle prime ore del mattino. L’alba era stata la più buia dall’inizio di Giugno. In cortile s’era formata una grossa pozzanghera che complicava il via vai dei servi. Anya ed Edgard correvano da una parte all’altra per la gran fretta di preparare il calesse. Edgard si era svegliato tardi e aveva anche lui un sacco di cose da sbrigare in paese. Tra una corsa e l’altra, mentre mangiava il pane dolce di Greta, mise inavvertitamente un piede nella pozzanghera, bagnando lo stivale.
- Maledetta miseria! – esclamò con il boccone fra i denti. Scrollò il piede e ondeggiò la gamba per assicurarsi che non avesse sporcato anche i pantaloni.
Anya caricò un cesto sul calesse. Seguendola, Greta le fece le ultime raccomandazioni. – Le mele devi consegnarle a Nick il mugnaio, mentre da Joe devi comprare il pesce più fresco che riesci a trovare.
Anya si girò verso la cuoca, dopo aver sistemato il cesto il modo che non cadesse niente. – Qualunque tipo di pesce? Sgombro, merluzzo, salmone? Sei sicura di non fare la differenza?
Greta scosse la testa ancor prima che Anya finisse di parlare. – Basta che sia appena pescato. Sai riconoscere il pesce fresco, no?
- L’odore e il colore … - disse la giovane, con il tono di un bambino che decanta una poesia – Deve odorare di mare e avere dei colori brillanti …
La cuoca annuì energicamente, posando una mano sul fianco. Anya andò a prendere gli attacchi per Birra in scuderia. – Il pane per Sam, Greta! – le ricordò.
Greta rientrò in cucina.
Edgard si stava ancora occupando del suo stivale, mangiucchiando il pane con appetito, mentre Anya legava Birra ad un gancio del muro e iniziava a bardarlo. – Il tuo stivale è perfetto, Edgard. Su, vai a prendere il pane per Sam – disse vedendo Greta nei pressi del calesse con un involto – e mettilo sul cesto. “Sul”, Edgard, non “nel”.
Sam lavorava nei campi da un paio di giorni. Non era stato il conte a mandarcelo, ma si era offerto volontario, perché per lui partecipare alla mietitura del grano era importante. Qualche volta aveva tentato di convincere Edgard a seguirlo, ma al ricordo della prima e ultima volta che l’aveva accontentato e del mal di schiena che l’aveva tenuto due giorni a letto per aver sollevato un peso di troppo, il ragazzo aveva rifiutato. Greta gli preparava tutte le volte una pagnotta per il pranzo.
Sulla strada di campagna, Anya fece fermare il calesse per la consegna delle mele. Nick, il mugnaio, era andato a vendere la farina al mercato. La ragazza gli lasciò il cesto davanti alla porta e andò via.
In paese, Edgard non volle lasciare sola Anya neppure per un attimo. Anya aveva notato che faceva così con tutte. Comprarono il pesce prima di tutto, come aveva insegnato loro Greta, così da trovare il prodotto fresco; poi, con gli involti di pesce sotto il braccio, si fermarono dal fabbro per una riparazione ad alcuni attrezzi da giardino. Corley, il fabbro, disse che aveva molto lavoro da fare e per le attrezzature avrebbero dovuto aspettare il pomeriggio seguente.
- Mi dispiace, ragazzi – soggiunse in segno di saluto. Mentre Corley posava gli strumenti in un angolo della bottega, Edgard ed Anya si chiesero come avrebbero svolto i loro compiti del giorno.
Quando raggiunsero il calesse, che avevano lasciato sotto la supervisione di Corley, erano carichi di tutto quanto gli era stato commissionato. Sotto le braccia Edgard teneva delle assi di legno e tra le mani portava uno dei due involti di pesce; Anya, invece, s’era caricata delle borse di tela in cui aveva infilato il pesce, alcuni barattoli di miele, frutta, ortaggi e sale.
Alla tenuta, memore di non avere gli strumenti necessari per lavorare in scuderia, Anya si sentì improvvisamente di buon umore; ma fu un’allegria che durò poco, perché Greta la chiamò in cucina. La ragazza si tolse la giacca e il cappello e li appese ad un gancio accanto la porta. Preparandosi a lavorare, si rimboccò le maniche e si avvicinò al tavolo, su cui si trovava una scatolina in cartoncino color sabbia. Greta, china sul forno spento, non perse tempo a parlare.
- E’ arrivato quel pacchetto per te – disse indicandoglielo con la spatola del forno.
Anya allungò una mano. – Per me? Da parte di chi? – chiese girandosi la scatolina tra le mani. Era rettangolare, costruita ad incastro. Il cartoncino era liscio, la forma della scatola elegante. Ciò che la sorprese maggiormente fu che emanava un leggero tepore.
- Non saprei. L’ha portato un ragazzino smilzo, con i capelli color carota, che mi ha raccomandato di consegnartelo.
- Non conosco nessun ragazzino coi capelli rossi.
Greta sollevò le spalle, raccogliendo in una paletta le incrostazioni del forno. Anya titubò per qualche secondo; poi aprì la scatola. Dentro c’era un’altra scatola, uguale ma più piccola, ed un biglietto. Anya lo prese e lesse quelle poche righe, scritte con una grafia ordinata ed armonica:

“Non potevo lasciare che desideraste queste delizie ancora a lungo.
Ho scelto personalmente le migliori e mi auguro che vi giungano calde, così da apprezzarle meglio.
Spero gradiate.
Buon appetito!
Vostro, A. D. Drebber”

Anya mise il biglietto da parte e aprì la seconda scatolina. Alla vista di due muffin fece un gran sorriso. Erano perfetti e avevano un odore delizioso.
- L’hai aperto? Ebbene? Cosa c’è dentro? – chiese Greta alzandosi.
Anya mimò un’espressione di sufficienza. – Oh – mormorò richiudendo il pacchetto. – Proprio nulla … avranno voluto farmi uno scherzo.
La cuoca guardò il pacchetto. – E questo odore? Sembra cannella …
- Sarà la scatola. Questo cartoncino è tipico per … per il profumo. Li fanno così apposta.
Prima che Greta rispondesse, Anya si inventò una scusa e corse in camera. Si buttò sul letto a pancia in aria e inspirò a pieni polmoni l’odore di cannella che usciva dalle fessure della scatola. Sorrise nuovamente, sentendosi avvampare le guance. Aprì il pacchetto e trasse un muffin. Lo guardò a lungo, soffermandosi sulle pieghe dello stampino di carta e sulle piacevoli spaccature superficiali. Era ancora tiepido. Quando lo morse la pasta si incollò alle gengive e sprigionò la dolcezza che Anya adorava. Poi rilesse il biglietto, soffermandosi sugli ultimi righi.
Quell’uomo iniziava già a sapere di cannella.

La piega che aveva preso la mattinata pareva fatta apposta per nascondere il passo disarmonico del signor Langley. Avendo piovuto tutto il tempo, dall’istante in cui si era svegliato, non era uscito con Fedor. E non aveva neppure incontrato l’amministratore e Lenehan, come concordato il pomeriggio precedente. Aveva trascorso la notte in biblioteca, mezzo sdraiato su una delle poltrone e si era svegliato spesso a causa del dolore al fianco. All’alba, irritato dall’impossibilità di dormire, si era trasferito in camera e s’era acceso una sigaretta, pensando al signor Drebber e ad Anya. Si era, quindi, riaddormentato e svegliato in tarda mattinata con un lieve mal di gola. Rimase coricato fino a che Margareth non mandò a chiamarlo per il pranzo. Si era allora trascinato fino alla sala da pranzo e aveva centellinato il brodo di pesce, cercando di trovare sollievo al mal di gola nel calore del brodo.
Il pomeriggio dormì e quando Margareth lo raggiunse per avere disposizioni sulla cena, lui scosse la testa senza aprire gli occhi. – Ti ringrazio, ma non voglio niente – le disse. Deglutì a fatica, coprendosi fino al mento a causa di un brivido di freddo.
Margareth scrutò il buio, tentando di capire dove fosse il signor Langley. – Volete che vi accenda una candela, signore?
Langley respirò. – No – disse dopo un momento.
La governante si fece perplessa. – Forse desiderate qualcosa in particolare?
- Se hai dei cerini, puoi accendere il camino.
Margareth si mosse fino al punto in cui c’era il letto del signor Langley e tastò la superficie del comodino fino a che non trovò una candela. Quindi seguì il bordo del letto e e si diresse verso il camino. – Sto accendendo una candela per farmi luce, signore. La spegnerò appena avrò finito.
Dietro di lei un fruscio fu il segno che il conte aveva cambiato posizione. Prima che la legna prendesse fuoco ci volle un po’ di tempo. Il camino aveva bisogno di una ripulita.
Allorché ebbe finito con il camino, avvicinò la bocca alla candela per soffiarvi sopra, trattenendosi all’ultimo minuto. Per assicurarsi che il signor Langley stesse dormendo si schiarì un paio di volte la voce e mosse la candela, ma dal letto non giunse alcun rumore. Camminando sul tappeto si avvicinò a lui, facendosi luce per guardarlo bene in viso. Era coricato sul fianco destro, con le lenzuola tirate alle guance. La mano destra sbucava dalle coltri, con le dita che ne stringevano mollemente gli orli.
In camino tremolava una fiamma debole, che prometteva di spegnersi presto. Lo sguardo di Margareth vi si soffermò fino a che non sentì il ragazzo muoversi e lamentarsi. Non appena aprì gli occhi e la vide, il viso gli si piegò in un’espressione di disorientamento.
- E’ già mattina? – mugolò.
- No, signor conte … ho solo tardato ad accendere il camino.
Langley inghiottì, portandosi una mano al collo. Lentamente si girò sulla schiena e si tirò a sedere.
- Avete bisogno di qualcosa, signore?
- Non lo so … - mormorò confuso. Si sentiva esausto, aveva sonno, ma non riusciva a dormire serenamente. Il collo non aveva la forza di reggere la testa e questa ondeggiava a destra e a sinistra, poggiandosi su una mano e poi sull’altra. Richiuse gli occhi, borbottando ancora parole senza senso. – Che ore sono?
La donna prese l’orologio dal comodino. – Mancano cinque minuti alle nove – disse avvicinando la candela al quadrante. Poi si girò verso il conte. – State bene?
Langley si coricò un’altra volta sul fianco destro. – Oh Margareth … ho la gola secca. Portami un bicchiere d’acqua.
Margareth obbedì all’ordine dando l’impressione di non aver capito niente, ma Langley la ignorò, pensando solo a come sedersi senza sentire dolore dappertutto. Non appena la governante uscì, il conte diede sfogo ad un attacco di tosse che aveva sopito prendendo fiato. Tossì tanto da graffiarsi la gola, sentire male al petto e alla testa. Alla fine si accasciò sul cuscino con un senso si oppressione al petto.
Un bagliore oltre la porta precedette l’arrivo di Margareth, che portò una brocca d’acqua, un bicchiere e delle candele nuove. Posò tutto sul comodino e porse il bicchiere colmo per metà al conte. Langley si sollevò sul gomito, allarmandosi quando si sentì solleticare la gola da un nuovo accesso di tosse. Respirò fino a placare quell’impulso, ma appena bevve un sorso d’acqua venne investito dall’improvviso bisogno di liberarsi e ricominciò a tossire.
- Bevete piano, signor conte …
Langley poggiò il bicchiere sul comodino, tirando a sé le coperte. Si sentì gli occhi inondati di lacrime per lo sforzo e batté le palpebre per smaltirle. Margareth sostituì il moccolo di un doppio candeliere con una candela nuova e l’accese. – Devo ammettere, però, che avete una brutta tosse, signor conte. Forse dovreste fumare di meno.
Il conte si portò una mano alla fronte in un vano tentativo di placare il dolore.
- Se non avete altro da chiedere, signore, io tornerei di sotto. Vi state addormentando?
Per quanto gli permise il mal di gola, Langley si schiarì la voce. – Nulla in particolare, Margareth – disse con voce roca. – Dì, però, ad Anya che il camino va pulito dalla cenere.
La governante si volse in direzione del camino e notò che, in effetti, la fiamma era meno vivace di prima. – La faccio venire adesso, signore?
Il conte respirò profondamente. – Sì.
Margareth lo guardò un’ultima volta, prima di uscire. In corridoio si fece luce col candelabro, immersa nel riecheggiare dei passi nelle pareti. Avanzò con la schiena dritta, parando le due piccole fiamme con la mano.
- Greta, il signor conte non ha intenzione di cenare, questa sera – disse posando il candelaio sul tavolo. La cuoca, che stava pulendo un ripiano dalle briciole, sbuffò con fastidio. Anya sistemò i piatti sul tavolo della cucina, per la cena della servitù. – Anya vai a spazzolare il camino della camera del signor conte.
La ragazza osservò due rivoli di fumo levarsi dalle candele spente. – Adesso?
- Sì.
Indossò un grembiule e prese secchio e spazzola. Come sua consuetudine, quando fu di fronte alla porta del conte bussò, ma quella volta dovette socchiuderla per sentire la voce del signor Langley.
L’interno era avvolto nella penombra. Si riuscivano a intravedere solamente gli oggetti che circondavano il camino: la grata di ferro posta sul davanti, il contenitore con i ferri per il camino, le frange del tappeto, i pomelli del letto del conte, la cornice di mattoni del camino, le tende della finestra.
- Anya, sei tu?
La ragazza accese una candela e si inginocchiò davanti al camino. – Sì, signore.
Come risposta ottenne un mugolio nasale.
Anya spense il fuoco e tolse la grata. Prima di iniziare a spazzolare si legò una benda davanti al naso e alla bocca e sistemò il secchio accanto a sé. Per un po’, mentre lavorava, non sentì altro che il suono delle setole sulla pietra refrattaria; poi il conte si mosse e la chiamò per nome.
- Sì? – rispose lei raccogliendo una parte di cenere. – Ho sollevato della polvere, signore?
Langley scosse il capo. – No … - tossì.
- Se ne solleverò vi prego di scusarmi, signore … il fatto è che la canna fumaria ha bisogno di essere ripulita e …
- Conosci il signor Drebber? – chiese d’un tratto.
Anya perse la presa della spazzola, impolverandosi la mano. – Il signor Drebber?
- Sì.
Si ripulì la mano sul grembiule e raccolse velocemente la polvere con la paletta. – Lo conosco quanto voi, signore … nel senso, come una persona che è arrivata da poco … - disse – Perché me lo domandate?
Langley deglutì a fatica. – Per curiosità – asserì portandosi una mano al collo.
Il silenzio venne turbato dallo scroscio della cenere nel secchio metallico. Sentì i movimenti di Anya farsi più energici.
- L’altro giorno mi è sembrato particolarmente colpito da te.
Anya ebbe l’impressione di essere arrossita fino alla radice dei capelli e non seppe come rispondere. Il conte tossì ancora e per un momento lei riuscì a tranquillizzarsi.
- “Particolarmente colpito … da me”?!
Ma che razza di risposta …
- Cosa ve lo fatto pensare? – balbettò.
Non poteva certamente negare a sé stessa di aver cominciato a nutrire una simpatia per il signor Drebber e i suoi modi gentili; non l’aveva mai fatto. Le parole del signor Langley, però, le illuminarono gli occhi e fecero nascere un timido sorriso di gioia.
- Non saprei … ha detto che ti conosceva già – disse Langley chiudendo gli occhi.
Anya sospirò. Quelle insinuazioni la infastidivano. – E’ vero.
Ci fu una lunga pausa. Convinta che il conte si fosse addormentato, Anya rimise a posto la grata del camino badando a non far troppo rumore e raccolse la cenere che era caduta sul pavimento. Si tolse la benda dal viso e ripiegò il grembiule in modo da non far cadere la polvere di cui si era sporcato sul pavimento. Lo mise da parte e accese il fuoco. Non appena fu alla porta per uscire, sentì il conte lamentarsi e si girò verso di lui. Teneva gli occhi chiusi, ma era evidente che fosse sveglio.
- Anya, qual è tua opinione di lui? – domandò sporgendosi per prendere il bicchiere dal vassoio.
Anya richiuse la porta. – Parlate ancora del signor Drebber?
- Sì.
Mille pensieri vorticarono nella mente della giovane. Chinò lo sguardo sul pavimento, cercando di formulare una risposta intelligente; ma non le venne nulla. Le dita strinsero il manico del secchio, si grattò la fronte. Si accorse di stare titubando e si irritò per questo, voltandosi nuovamente verso il conte. Le parve di scorgere una velata espressione d’ansia, sul suo viso, una piega sensibile delle sopracciglia e delle labbra che tradì l’impellenza di avere una risposta. – Non ha nulla più di voi, signore – mormorò.

 

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Capitolo 35
*** Capitolo XXXIII ***


An irish tale - Capitolo XXXIII
 


- Imogen carissima! Siete la più adorabile delle creature. Sono sempre più convinto che il vostro aiuto sia disceso direttamente dal cielo. Ancora non so come avrei fatto senza di voi!
La signorina Drebber mise da parte un invito scritto a mano.
- Avreste trovato comunque una soluzione, Aaron.
Il signor Drebber prese in mano la sostanziosa pila di inviti in carta filigranata. Con un’occhiata ne ammirò il pregio. – E’ probabile, Imogen, è probabile. Ma avrei trovato non poche difficoltà – disse sfogliando le cartoline.
- Oh, Aaron, mettete immediatamente a posto quegli inviti! Ho impiegato molto tempo per sistemarli.
Il signor Drebber obbedì, poggiando poi il gomito sul tavolo con fare annoiato.
- Vi prego, non offendetevi. Ho scritto già settantaquattro inviti e l’ordine è prezioso. Toccherà a Nicole, la nuova cameriera, imbustarli e voglio evitare che faccia confusione – disse. Aggiunse alla pila un’altra cartolina e prima che la penna toccasse il foglio, si ricordò della lista degli invitati. – Vi ho consegnato una copia della lista, ieri; l’avete già visionata?
Drebber scosse la testa. – Purtroppo non ne ho avuto il tempo, cugina. Sapete, ieri sono arrivati i mobili da Cork …
- Capisco – rispose la ragazza. Da un angolo del tavolo Drebber le vide tirar fuori un foglio. – Questo è l’originale. Potreste farmi la cortesia di controllare che non manchi nessuno?
Drebber prese la lista e si alzò per controllarla alla fioca luce che entrava dalla finestra. Rimase in silenzio per una buona decina di minuti, soffermandosi su nomi che non conosceva o tentando di ricordare il volto di altri.
- Credo che non manchi nessuno – disse tornando a sedersi. Imogen riprese il foglio.
- Siete sicuro che non manchi nessuno, cugino? Ho come la sensazione di aver trascurato qualcuno.
Drebber ricontrollò la lista. – Siete stata molto meticolosa, Imogen. Temo di annoiarvi dicendovi che non avete trascurato nessuno.
La giovane parve sollevata e riprese a scrivere inviti, mentre il signor Drebber si spostò davanti alla finestra incassata nel muro. Sedette sul davanzale imbottito con un cuscino di velluto verde e si mise ad osservare il paesaggio.
- Quest’oggi il tempo è proprio brutto.
Imogen guardò distrattamente il cielo dalla finestra, staccando per un attimo la penna dal foglio.
- E’ una vera fortuna che ci siano quei fiori rossi a rallegrare il giardino – rispose. – Anche se preferisco le margherite e i fiori di lavanda. Non pensate che donerebbero alla casa un aspetto più sobrio ed elegante, cugino?
- I fiori di lavanda e le margherite sono certamente tra le specie floreali più belle, Imogen; ma sono convinto che questo giardino abbia bisogno di quei fiori rossi. Sono vivaci – constatò con enfasi – e hanno un colore non comune.
La ragazza lanciò un’altra occhiata al giardino; poi fece spallucce, tornando al proprio lavoro.
Drebber si sistemò la giacca. Improvvisamente la pioggia aumentò d’intensità e il picchiettare delle gocce sui vetri delle finestre si fece più tediante. Volse lo sguardo trasognato alla brughiera, mettendo subito dopo a fuoco il cammino delle goccioline sul vetro. Si muovevano sinuosamente, si univano ad altre gocce e colavano rapidamente giù, radunandosi in una piccola pozza sul davanzale esterno. Nel giardino, il sentiero di ciottoli calcarei, riluceva di pioggia sotto la tenue luce del pomeriggio. Drebber si concentrò sulle piccole siepi di fiori che il giardiniere aveva curato dietro ordine della signorina Imogen. La osservò brevemente, mentre, seduta al tavolo, preparava gli inviti per la festa. Dopodiché tornò al paesaggio e, non vedendovi nulla di nuovo, a parte la cima degli alberi che circondavano la tenuta del conte Langley, in lontananza, andò a sedersi nuovamente al tavolo.
- Miss Connelly è tornata foriera di notizie, oggi? – chiese.
- La nostra governante vanta una curiosità fuori dall’ordinario, caro cugino. Oggi, però, non mi è sembrata molto loquace; tutt’altro, pare che il tempo eserciti su di lei un’incredibile influenza.
- Una sfortuna se pensiamo al clima irlandese. Mi domando quale mutamento subisca il suo carattere nei mesi invernali.
Accanto a sé, sentì la ragazza ridacchiare.
Trascorsero dei minuti in cui il silenzio era interrotto solamente dallo scribacchiare di Imogen Drebber sulla carta filigranata e dallo scroscio più o meno violento della pioggia contro i vetri delle finestre. Ogni tanto il cielo si animava di una luce improvvisa che preannunciava il rombo dei tuoni.
- Si chiamano “acquazzoni estivi” e sono tra i più rumorosi – disse il signor Drebber con il mento poggiato sul palmo.
Imogen guardò il cugino di sbieco. – Mi auguro che smetta presto di piovere – rispose intingendo il pennino nell’inchiostro – I romantici definiscono la pioggia con parole degne del più grande dei poeti, ma non comprendo ancora cosa ci trovino di tanto affascinante.
- Pensate se la pioggia non ci fosse, cara Imogen. Se essa non esistesse il mondo finirebbe in poco tempo. E poi a detta dei vicini ci sono state settimane di un tempo bellissimo e l’Estate non è che agli albori. State tranquilla, Imogen, il sole tornerà presto.
Drebber tornò a sedersi sul davanzale della finestra, quando la governante, Miss Connelly, bussò alla porta semiaperta.
- Signor Drebber, signorina Imogen, è appena arrivata Lady Bettany.
Imogen ebbe un sussulto. – Ma era attesa per cena …
Mentre la ragazza metteva tutti gli inviti da parte, il signor Drebber si alzò per accogliere la nuova arrivata. Non l’aveva mai vista prima d’ora, ed essendo abituato ad un ambiente decisamente più “borghese”, la moltitudine di pizzi e merletti che ricopriva Lady Bettany sconvolse il suo immaginario delle donne del posto. Quando poi, la signorina Drebber gliela presentò come una delle donne più caratteristiche della contea di Waterford, si sentì ancor più perplesso.
- E’ un vero piacere fare la vostra conoscenza, signor Drebber – asserì Lady Bettany prendendo posto al centro del divano. – Ad essere sincera, a me fa piacere conoscere tutti. Sapete, il mio carattere è particolarmente preposto alle nuove amicizie e non so proprio come reagirei se queste mi venissero a mancare. Penso che ne soffrirei terribilmente. Mi pare di capire che la signorina Drebber condivide il mio pensiero. Voi, signor Drebber, siete della stessa opinione?
L’uomo sorrise con fare orgoglioso. – Ho sempre pensato che la cugina Imogen sia una ragazza dalle mille virtù. Il fatto stesso che scuote il capo e arrossisce mentre le facciamo i complimenti denota una certa modestia, la quale è indice di un’innata ma inconsapevole voglia di accrescersi e migliorarsi. Chi non è modesto è vanitoso e presuntuoso e non fa mai alcuno sforzo per perfezionarsi. Imogen è modesta, perciò imperfetta. Ma in questa imperfezione sa essere la donna più adorabile del mondo e non è difficile trovare amicizie per lei.
- Come al solito, Aaron è sempre molto generoso con i complimenti … - intervenne la ragazza.
Lady Bettany rise di gusto, diventando tutta rossa. – Oh, signorina Drebber … avete un cugino eccezionale! Ne parla tutta Waterford … sapeste!
Il signor Drebber chinò lo sguardo su una macchia di fango sugli stivali. – Il mio trasferimento ha suscitato tanto scalpore?
- Di più, signor Drebber! La gente non vede l’ora di partecipare al vostro ballo …
- Me ne rallegro, ma ancora non capisco come la gente possa parlare di me senza conoscermi … - disse con un sorriso.
Lady Bettany si sporse come se dovesse confessare un segreto. – Siamo in campagna, qui, signor Drebber, non in città! Le voci girano! Ma vi abituerete presto …
Drebber fece una smorfia divertita di dubbio. Un paio d’ore dopo, quando Miss Connelly li avvisò che la cena era pronta, si alzarono per spostarsi in sala da pranzo. Un tuono attirò l’attenzione del signor Drebber, che andò alla finestra per guardare il giardino. Nello stesso istante, un lampo rischiarò il paesaggio, illuminando la distesa di fiori scarlatti nei pressi dell’ingresso.
Drebber sorrise, battendosi una mano sulla fronte. Come poteva aver dimenticato?
Si diresse al tavolo, nel punto in cui Imogen aveva radunato tutto il materiale utilizzato per gli inviti. Badando a non perdere l’ordine dei fogli, li sfogliò uno per uno, fino a che non trovò la lista degli invitati. Intinse il pennino nell’inchiostro e scrisse un altro nome.
 
All’alba, Anya non poté nascondere la delusione per non aver sellato Fedor.
Tuttavia, se ci pensava meglio, non era Fedor che le mancava.
Non mise piede nella scuderia se non quando Edgard tornò con le attrezzature che Corley aveva riparato; e anche quando ebbe tutto l’occorrente, in scuderia non vi rimase per molto.
Nel pomeriggio piovve. Era Domenica e Greta era andata a trovare la famiglia. Quasi tutti erano tornati a casa e nella tenuta erano rimaste lei, Margareth ed Edgard. Tenne aperta la finestra della cucina per tutto il tempo, per tutto il giorno. C’era freddo, ma a lei piaceva l’odore della terra bagnata; e poi c’era il camino. Bastava stare seduti là davanti per non sentire freddo alle gambe o al petto.
Quando arrivò il momento di cucinare cercò di ricordare il modo in cui Greta preparava la zuppa di fave e piselli, quella che le era sempre piaciuta. Tagliò la cipolla, la mise a soffriggere in un tegame, poi unì acqua, le fave, i piselli e il sale. La curò con molta attenzione, rimanendo in piedi davanti al tegame quasi per tutto il tempo. Di tanto in tanto, appena iniziava a sentire freddo, si metteva di fronte al camino e poi tornava davanti al tegame per rimescolare e controllare la cottura dei legumi. La mattina Greta aveva preparato il pane, prima di andare via. Ne tagliò qualcuno a fette, lo fece abbrustolire al fuoco e immerse un paio di fette in ogni piatto di zuppa.
Margareth ed Edgard parvero soddisfatti e mangiarono con appetito. Lei, invece, preferì la minestra di Greta sin dal primo boccone.
In serata, mentre riordinava la cucina, Margareth le raccontò qualcosa sulla giornata trascorsa e sulle differenze tra passato e presente. Restarono a parlare in cucina, davanti al fuoco del camino, fino a quando non si fece tardi e Margareth chiuse tutti gli infissi della tenuta. Anya si andò a coricare volentieri. Aveva sofferto il sonno per tutta la giornata. Dopo essersi cambiata, si assicurò che i cerini fossero sul comodino e spense la candela bagnandosi due dita con la saliva. Non impiegò molto ad addormentarsi, mentre le sfumature di un sogno iniziavano a delinearsi davanti ai suoi occhi.
 
Era l’alba di una giornata ventosa. Il sole era sorto.
Aveva i capelli sciolti e nel vento volavano, fluttuavano, le finivano in faccia e carezzavano morbidamente le spalle. Abbassando lo sguardo si vedeva in camicia da notte. Esclamò qualcosa, forse una constatazione, ed entrò in casa.
Si sentiva la felicità dentro. Il cuore le batteva forte.
Si cambiò in fretta, perché c’era freddo, e quando alzò le mani sui capelli, che si apprestava ad intrecciare, sentì delle voci. Erano maschili entrambi e guardò fuori dalla finestra. Non c’era nessuno. Si spostò di qualche passo, cambiò l’angolazione dello sguardo, sporgendosi per guardare meglio, ma continuava a non vedere niente. Intanto qualcuno là fuori continuava a parlare. Le voci si alzarono e presto assunsero dei toni minacciosi.
Preoccupata, uscì.
Stranamente, nello stesso punto verso cui aveva guardato dalla finestra, c’erano un uomo che somigliava al signor Langley e un altro che gli gridava contro. C’era un vento forte. Talmente tanto che i capelli le si schiacciavano sulla nuca.
Si avvicinò ai due per cercare di capire cosa stesse succedendo, quando sentì uno sparo e qualcosa la buttò a terra di schiena. Alzando il capo per assicurarsi di non essere stata ferita, vide un corpo sulle sue gambe. Le ritrasse di scatto e il capo dell’uomo scivolò di lato, permettendole di distinguerne il profilo. Gli si mise accanto, guardinga, e si sentì mancare un battito. Per quanto si sforzasse di guardarlo in viso, una fitta nebbia non glielo permetteva.
Gattonò fino all’uomo disteso per terra. Non respirava più. Allora gli posò una mano sul petto.
Iniziò a scuoterlo: dapprima delicatamente, come a ridestarlo da un sonno leggero; poi chiamandolo per nome.
Con orrore si accorse di essersi sporcata le mani di sangue. Il fianco dell’uomo era ferito e la camicia era inzuppata.
Si sollevò sulle ginocchia, avvedendosi di una pozza rossa sul terreno.
Urlò.
 
- No!
Si alzò di scatto a sedere. Gli occhi spalancati per la paura.
Il buio pesto della stanza le fece venire l’affanno.
Non pensava ad altro che a scappare.
Nel silenzio si sentì ansimare, poi respirare più lentamente. Anche il cuore, presto, riprese il suo ritmo abituale.
Fuori il vento soffiava con forza. La pioggia veniva schiaffata contro i vetri della finestra e le porte che si affacciavano all’esterno erano scosse al punto tale che si poteva udire il rumore del chiavistello nella serratura.
Anya si scoprì e andò alla finestra. Del paesaggio idilliaco dei giorni di sole, la brughiera non aveva più nulla. A quell’ora della notte, con quel tempo, incuteva timore.
Il cielo era ricoperto da uno strato lanuginoso. Anya lo osservò a lungo. Si immaginò di toccarlo e rabbrividì. Quando riabbassò lo sguardo alla brughiera, un’improvvisa luce la illuminò e poco dopo si udì un tuono spaventoso, come se il cielo si stesse spaccando. Il vetro della finestra, gli infissi, il pavimento vibrarono più o meno rumorosamente.
Dabbasso, Hunt incominciò ad abbaiare. Anya pensò subito che si fosse spaventato ed uscì in corridoio dopo aver indossato la giacca e acceso la candela. Lo chiamò sottovoce, poi un po’ più forte e in un attimo le fu accanto. Il cuore le batteva ancora forte per il temporale.
- Hunt … hai paura? Oh, povero … - sussurrò carezzando il capo del cane, mentre si chinava alla sua altezza.
Nel frattempo si era destata completamente dal sonno ed era sicura che non sarebbe più riuscita ad addormentarsi. Seguita da Hunt, scese in cucina e accese il camino. Con un soffio spense la candela e la poggiò sul ripiano sotto la finestra.
Sedette davanti al focolare, il cane ai suoi piedi. Si guardò i piedi nudi, la camicia da notte e le tornò in mente il sogno. Il sangue le fece venire i brividi. Per non pensarci si alzò e si mise a fare il pane. Mise a scaldare un po’ d’acqua, prese la farina, il lievito, l’uva passa e il miele. In breve l’impasto fu pronto e Anya lo mise a lievitare in una scodella, sul camino.
Un paio d’ore dopo accese il forno. Fortuna che Greta teneva una scorta di legna in cucina, perché avrebbe dovuto uscire per prenderla.
All’alba la pioggia aveva smesso di cadere e il vento aveva mitigato la sua intensità, riducendosi ad una brezza fresca.
Per Anya fu così possibile andare a prendere le poche uova nel pollaio, oltre la scuderia.
- Che ne dici, Hunt, facciamo una torta? Con tanto miele e molta uvetta!
Mentre lo diceva rientrava in cucina, poggiava il cesto delle uova in un angolo del tavolo e prendeva il barattolo del miele. Fuori le scarpe di erano tutte macchiate di fango; se le tolse coi piedi e le sistemò accanto al camino.
Nel frattempo la pasta del pane aveva aumentato il suo volume. La trasferì sul tavolo, sul quale aveva spolverato della farina e la lavorò brevemente, salvo poi dividerla in panetti. L’odore del lievito era invitante e le stimolò la fame. Una volta infornato il pane si occupò della torta.
- Chissà dove Greta ha messo le spezie … - rifletté, aprendo alcuni sportelli della dispensa. – L’aroma della cannella sarebbe l’ideale …
Cercò ancora le spezie, ma ogni tentativo si rivelò vano. Presto abbandonò la cannella e preparò un impasto ugualmente dolce. Non appena il pane fu pronto infornò la torta.
Nel vedere Anya impegnata ai fornelli, Margareth fu più che sorpresa. – Se Greta lo sapesse – disse, avvicinandosi alle pagnotte bionde – di certo le risparmieresti un sacco di lavoro …
Anya si pulì le mani sul grembiule. Dalla porta della cucina comparve Edgard con il viso stropicciato dal sonno e i capelli scombinati.
- Maledetto temporale … - bofonchiò accasciandosi su una sedia.
- Anche tu hai sentito i tuoni?
- Tuoni?! Per un attimo ho creduto che il cielo ci stesse cascando sulla testa! Oh, sì … ci potete giurare …
Edgard rimase in silenzio a fissare il vuoto. Era nei suoi indumenti da lavoro, con una giacca ed un pantalone decisamente troppo largo per lui. Sospirò, tirò un’occhiata al pane e si gratto la nuca. – Sapete quando torna Greta? – chiese passandosi una mano sul viso.
A parlare fu Margareth, che scostò la tenda dalla finestra. – Arriverà tra poco.
Il ragazzo si alzò lentamente dalla sedia, vinto dal sonno. Osservò distrattamente i movimenti di Anya e si diresse alla porta. – Quando la colazione sarà pronta chiamatemi. Vado a dare una controllata ai cavalli.
La ragazza lo guardò uscire, quando le venne in mente il signor Langley.
- Vuoi che preparo la colazione anche al signor conte, Margareth?
Margareth prese un panino in mano. – Non saprei …
- Che intendi? Il signor conte non ti ha dato ordini, questa mattina?
- No – disse Margareth, addentando il pane – Non si è ancora svegliato.
Possibile?, pensò Anya. L’alba era già passata. Era quello l’orario in cui il conte scendeva per la colazione, prima della sua cavalcata con Fedor. Calcolò che per tutta la giornata di Domenica non l’aveva visto, né Greta pareva aver cucinato qualcosa per lui e si accigliò. L’ultima volta che gli aveva parlato non pareva essere in gran forma. Si girò per rifletterci su con Margareth, ma lei preferì uscire a controllare la condizione del cortile.
- C’è una grossa pozzanghera al centro! – esclamò.
Anya fece un commento di convenienza, mentre Greta rientrava in cucina (era a lei che la governante aveva parlato della pozzanghera) e una nuova, normale giornata aveva inizio.
 
Quando quell’ennesimo uggioso pomeriggio conobbe la sua fine, Anya era più apatica che mai.
Si ritirò in camera nel primo pomeriggio, sedendo sul davanzale, riflettendo sulla monotonia delle giornate, non sopportandosi.
No. Non si sopportava più.
Tutto le era venuto a noia.
Si detestava perfino quando ricominciava a pensare al conte. forse stava iniziando ad odiare anche lui.
Suvvia, cosa le importava poi? Di lui, della sua tenuta, dei cavalli che curava ogni giorno. E di sé stessa, delle smanie di Greta, della sua mania dell’ordine, del buon senso, dell’educazione, della propria voce, delle proprie sensazioni e delle proprie emozioni. Cosa, poi?
Appena giunse la sera – momento peraltro simile al resto della giornata -, buia, nebbiosa, umida, tediante, per poco non si strappò i vestiti di dosso.
Se avesse potuto governare il ciclo del tempo, avrebbe creato un turbinio di giorni, secondi, ore, minuti, anni, secoli e avrebbe fatto collassare il mondo intero.
Guardò la sua immagine riflessa nel vetro della finestra e le diede un pugno, un bel diretto. Un attimo e sentì dolere furiosamente le nocche.
Continuando a rimirarsi allo specchio con un’espressione di odio puro, si sciolse rabbiosamente i capelli e si sentì avvolgere da un calore improvviso. Si tolse la camicia, la gonna, il blando corsetto che le schiacciava il seno contro il petto e si guardò vestita della sola sottoveste.
La pelle bianca, due deltoidi ben disegnati che appesantivano oltremodo la linea delle spalle, le clavicole sporgenti, le gambe magre. Chinò gli occhi ai piedi e li scoprì tormentati di vesciche; alle mani e vide le unghia corte e indebolite dal lavoro; si girò e guardò il riflesso delle sue spalle allo specchio. Bianche e tutto sommato accettabili. I capelli ricadevano oltre la linea del seno. Si era dimenticata quanto fossero lunghi.
Dabbasso udì le voci degli altri.
Con un ringhio calciò le scarpe davanti a letto e si buttò su di esso con le mani alle orecchie. Spense la candela con le dita e rimase al buio fino a che il sonno non la colse.
Dormì per poco. Quando si risvegliò, dal piano basso provenivano meno rumori. Probabilmente qualcuno era già andato a letto e Greta l’aspettava per rimettere tutto in ordine. Si vestì in fretta e scese.
- Bentornata! – la canzonò la cuoca.
- Salve Greta. Passato bene il pomeriggio? – rispose, ignorando tutti.
- Benissimo, grazie!
Anya ignorò pure lei e si accostò a Margareth.
- Anya, ti ho messo da parte del porridge …
Le dita strinsero momentaneamente la presa sul bordo del tavolo ligneo. – Sarò ben lieta di mangiarlo, Greta – disse sorridendo, prima di pentirsi di essersi avvicinata a Margareth. Non aveva più voglia di parlare con lei. Fortuna era che la governante non si fosse accorta delle sue intenzioni. Andò a sedere su una sedia, con i gomiti sul tavolo e iniziò ad ascoltare la conversazione tra Adele e Margareth. La più piccola e la più grande. Adele le mostrava le cicatrici lasciatele dai morsi del fratello che aveva messo i primi dentini e Margareth commentava il tutto con il suo tipico fare analitico e una buona dose di pazienza.
Ad un certo punto lei e Greta decisero che si era fatto tardi e Anya prese ad ordinare frettolosamente la cucina, perché aveva dimenticato di farlo prima.
- Mi raccomando, Anya. Mangia il porridge che rischi di deperirti …
La ragazza la rassicurò e Greta andò a coricarsi. Scoperchiò il piatto del porridge e annusò il contenuto. Lo guardò e pensò se mangiarlo fosse una buona idea, se le andasse o meno. Il piatto era ancora caldo. Gli angoli delle labbra si piegarono verso il basso.
Poi si ricordò di quello che voleva chiedere a Margareth. Il signor conte è ancora digiuno?
Non ne aveva notizie da due sere.
Se pensava ancora al suo sguardo, quando lei lasciò la sua stanza …
Prese un vassoio, un cucchiaio, un bicchiere di birra e il piatto di porridge. Li mise insieme e ficcò una candela nella lanterna che Edgard aveva avuto la bontà di portare dentro. In questo modo salì fino alla camera del signor Langley e bussò.
Una voce nasale appena percettibile. - Margareth?
- Anya.
Langley la invitò ad entrare e fece un cenno di poggiare il vassoio sul tavolino.
- Come mai …  – iniziò quasi senza voce, combattendo contro il bruciore alla gola. - … qui?
Anya fece spallucce, con un timido sorriso.
Langley si tirò a sedere. Era coperto fino alla vita e aveva un foulard bordeaux legato al collo. Con un altro sforzo sulla gola, dopo aver deglutito a fatica, indicò il vassoio sul tavolo. – Cos’hai portato?
Tutto ciò che Anya aveva previsto da dire, con il conte che la guardava svanì nel nulla. – È dell’ottimo porridge.
Langley sorrise. – Al miele o alla frutta? – bisbigliò.
Ad Anya venne voglia di ricambiare il sorriso. Vedere il conte così di buon umore non era comune, ma decise comunque di mantenere un po’ di distacco. – Credo che sia al miele, signore.
Il conte fece segno di volerlo assaggiare. – Avv … avvicina anche la ... lampada.
Anya ubbidì, prima di cercare con gli occhi un posto dove potersi sedere. Con uno sguardo, Langley capì.
- Margareth ha … detto che … la poltrona era t… troppo ingombrante – disse odorando il porridge. – Puoi … sederti sul letto.
La ragazza valutò la proposta, mentre il conte abbassava gli occhi sulla zuppa. Lo vide che deglutiva con difficoltà e si diede della stupida per non aver controllato la consistenza dell’avena. Sedette sul bordo del letto, alla stessa altezza dei polpacci del conte, e allungò impercettibilmente il collo per osservare il porridge.
- Dovrò … ammalarmi di più … in futuro.
- Oh no … perché dite così?
Langley bevve un sorso d’acqua per stemperare il mal di gola e quando ripose il bicchiere sorrise. – Beh … pensaci. Quando non posso … muovermi, tu mi porti sempre … qualcosa. Vieni qui.
Anya era sicura di essere diventata rossa come un pomodoro. Anzi, più di un pomodoro, pensò. Dopotutto i pomodori non hanno un cuore che fa i capitomboli ad ogni complimento.
Anche se quella era … oh quella era una delle più belle allusioni che il signor Langley avesse mai fatto.
Il conte aveva finito metà porridge quando Anya ricordò di avere un corpo poggiato al suo letto, delle mani dotate di dita, degli occhi capaci di muoversi e un cuore che doveva assolutamente quietare.
Assolutamente perché la lanterna emetteva una luce relativamente forte e il conte avrebbe di sicuro notato i suoi tentativi di prender fiato. Sicuramente c’era troppo sangue in circolo.
Si girò verso di lui tentando di sorridere con genuinità. – Sono contenta che vi faccia piacere …  - disse spegnendo la lanterna. Poi si alzò e andò verso il camino.
Langley piegò la testa di lato per inghiottire un boccone.
- Non credete anche voi che questa fiamma sia troppo vivace?
- Hai caldo?
Anya scosse lievemente il capo, senza voltarsi nella sua direzione. – No. Mi sembra vivace, tutto qui.
Il conte sbirciò oltre la figura di lei, che nascondeva il fuoco del camino. – Vivace … effettivamente, lo è. Continua … ad esserci freddo fuori?
Anya trovò quella domanda priva di senso, ma non sapeva che il conte cercava solo un pretesto per farla parlare. – Ha piovuto molto, la scorsa notte. E c’è stato anche un vento forte – rispose.
Langley tornò sul suo porridge, ma solo per mangiucchiare ciò che ne era rimasto. Poggiò la scodella sul vassoio e centellinò un altro mezzo bicchiere d’acqua. Guardandola.
E all’improvviso ebbe un déjà vu.
Stava rimettendo il bicchiere sul comodino, sporgendosi leggermente dal letto. La fiamma del camino, seppur vivace, illuminava fiocamente la stanza e fuori il vento aveva ricominciato a battere la sua nenia fischiante. Lui stava male e Anya era lì.
Non ha nulla più di voi, signore.
E si sentì una strana sensazione allo stomaco, come un formicolio.
Rimase in bilico tra il letto e il comodino, mentre i muscoli della schiena lottavano per sostenerlo.
Batté gli occhi e guardò Anya.
Probabilmente non lo stava neppure calcolando, ma il modo in cui respirava era delizioso.
Poi un rumore catturò la sua attenzione e la vide girarsi di scatto verso la finestra, avvicinarsi ad essa, scostare le tende e guardare sotto.
E non c’era niente, perché rimise le tende a posto e tornò a sedere sul letto, questa volta accanto ai suoi piedi.
Anya appuntò gli occhi sulla scodella. – Vedo che avete gradito …
Questa volta fu Langley a distogliere lo sguardo. La giovane si sporse per togliere la scodella con tutto il cucchiaio dal comodino e Langley venne raggiunto dal suo tiepido profumo.
- Beh, non l’ho preparato io ma sono contenta ugualmente.
L’angolo del materasso riprese la sua forma, quando lei si alzò per riporre la scodella. Langley si sistemò le coperte e tastò il nodo del foulard.
Scosse la testa per cacciare ogni pensiero e subito gli tornò l’emicrania. Schiarì la voce per parlare e ricordò il mal di gola che solo per fortuna gli permetteva di parlare. Si sistemò a sedere e una fitta al fianco sinistro lo fece saltare su con un gemito. Mosse istintivamente il braccio sinistro per cacciare il dolore e tornarono gli indolenzimenti del raffreddore.
Bloccato!, pensò. E si passò una mano sulla faccia per nascondere una smorfia di esasperazione.
- Il porridge … era de … - un’altra fitta al fianco. Appena partiva non si fermava più. – Era delizioso …
Il sorriso di Anya prese una strana piega. – Il vostro mal di gola è così fastidioso?
- Non è … il mal di gola …
E Anya distorse le sopracciglia.
A lei lo si poteva dire.
- L’altro giorno … sono caduto da cavallo – appena smise di parlare si sentì la gola secca e bevve.
- Cielo … ne avete parlato al dottor Bowles?
- Ma quale dottor Bowles … - disse posando il bicchiere. – Cosa può dirmi lui, di diverso da … da quello che sto facendo?
Anya volle metterlo alla prova. – E cosa state facendo?
- Sto riposando.
- Beh … è giusto. Riposate da tre giorni … ma ritenete sufficiente il riposo per una caduta da cavallo?
Langley sospirò.
- Dove sentite dolore?
- Oh, Anya … ti prego …
Ma la ragazza era pronta a non demordere. – Signore, potreste dirmi, per piacere, dove vi siete fatto male?
Il conte la guardò a lungo, mentre combatteva per non tossire. Lentamente si girò sul fianco destro e indicò un punto sotto la camicia. – È qui, ma non sono riuscito a vederci niente.
Anya sollevò la camicia e abbassò leggermente l’orlo dei pantaloni. Non era esattamente nel punto indicato dal signor Langley, ma sul fianco c’era un grosso livido e la pelle sembrava la buccia di una mela toccata: tesa e sottile. Sistemò i pantaloni e riabbassò la camicia.
- Dire che vi siete fatto male, signor conte, può aiutarvi a comprendere in quale situazione riversa il vostro fianco?
Langley starnutì. – Sì.
- Ebbene, il mio consiglio è quello di consultare al più presto il signor Bowles. Non penso sia nulla di grave, ma il suo giudizio è necessario.
 
E così fu.
Margareth sapeva del raffreddore, ma niente riguardo la caduta.
Quando il signor Bowles andò via c’era una ricetta per il farmacista sul comodino del signor Langley e una sua vecchia conoscenza, poggiata contro il materasso del suo letto: una stampella.
Bowles prescrisse aria fresca, nuova, l’abolizione di ogni tipo di carne per non fomentare l’infiammazione alla gola e il brodo di pollo per il raffreddore.
L’aria fresca gli fu consigliata sottoforma di lunghe esposizioni al sole – quando il sole fosse arrivato – o in posti poco o niente ventilati.
Riguardo alla gamba, come Anya dedusse, non ci fu cura che Bowles fu in grado di prescrivere. Osservò, esaminò, tastò – con la disperazione del conte – più volte il livido e alla fine disse solo: Ghiaccio due volte al giorno.
Le medicine arrivarono presto e in meno di una settimana il conte guarì da tutti i problemi di natura fisica …
Una mattina, mentre faceva colazione, Mary gli consegnò una lettera appena arrivata.
E quando Langley la lesse, il tè gli andò si traverso.
 
Il signore e la signorina Drebber
sarebbero onorati della vostra presenza
nella loro proprietà di campagna
per un ballo organizzato
il 10 Luglio alle ore 9.30 pm.

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Capitolo 36
*** Capitolo XXXIV ***


An irish tale - Capitolo XXXIV



Dublino, 27 Febbraio 2010

Sono passati parecchi mesi dall’ultima volta che ho scritto.
L’avresti mai immaginato? Io sì. D’altronde tutte le cose che ci sono nel mondo hanno un inizio ed una fine. Scrivere nel diario è una di queste, perciò ho sempre saputo che il momento in cui non avrei più scritto sarebbe arrivato.
Ed eccoci qui.
Comunque non ti lasciare prendere dall’euforia. Chiuderò presto questo stramaledetto diario, ti chiuderò prima di quanto tu possa pensare. Il tempo di sfogarmi un po’ e ti chiuderò. Puoi contarci.
Se te lo sei dimenticato io mi chiamo Linda Bacott – anche se avrei preferito Linda Angiolini, che è il cognome di mia madre – sono nata a Dublino il 10 Marzo del 1994 e vivo come un vegetale. Mia madre si chiama Caterina, ma noi la chiamiamo Kate, e mio padre … di lui proprio non ti ricordi? Si chiama Josh Bacott ed è un archeologo.
Questa è la mia famiglia. Ho pure una sorella di diciannove anni, ma lei non parla e non respira autonomamente da tre mesi e tre giorni. Non so più se posso considerarla mia sorella.
Dio, quante cose si sta perdendo … tre mesi e tre giorni. Se io dormissi per tanto tempo, poi, al risveglio mi sparerei un colpo sulla tempia. Destra. Ho sempre pensato che se dovessi suicidarmi, lo farei con la polvere di cianuro o con un colpo di pistola alla tempia destra. Io sono destra, perciò mi verrebbe più facile. Pensa se, invece, mi sparassi alla tempia sinistra … il proiettile non penetrerebbe nel cervello dalla tempia sinistra … probabilmente mi spappolerei l’emisfero sinistro e farei una morte atroce. O, bene che vada, colpirei il sopracciglio e allora dovrei fare ricorso alla chirurgia estetica e … cazzo, che bella merda verrebbe fuori! Mi porterei il segno dei punti e le cicatrici sul volto fino alla fine dei miei giorni … o fino a quando non mi verrebbe di nuovo in mente di suicidarmi e allora lo farei impugnando la pistola con la mano destra.
La mia mano sinistra è sempre stata poco affidabile in tutto.
Comunque sia, sì ... forse preferirei ammazzarmi dopo tre mesi e tre giorni di coma. Ma non so se farei la stessa cosa per tre mesi e quattro giorni. Probabilmente non cambierebbe nulla. Anche se penso che Anya non farebbe niente del genere. Lei è sempre stata così diversa da me …
Oggi è stata una giornata squallida come tante. Mi sveglio, mi lavo, vado a scuola. Oggi Mrs. Huddle ha interrogato Ginevra in trigonometria. Cazzo, il suo cognome viene prima del mio … è stato solo per un’autentica botta di culo che mi sono salvata.
Su un giornale, una volta, ho letto che i tizi delle promozioni, quelli che ci sono nei supermercati con i banchetti, avvicinano la gente che li ha guardati negli occhi. Anche solo per un secondo. Un microsecondo. Un’occhiata e … BAM! Fottuto! E allora ti devi sorbire tutto quello che ti dicono, le panzane che propongono, le miracolose proprietà dei loro prodotti e un sacco di altre cavolate …
Ed è la stessa cosa per gli individui-raccogli-firme, per quelli delle petizioni, dei voti, dei libri che hai letto e di quelli che distribuiscono volantini. Un’occhiata e sei fottuto. E i professori sono così. Loro lo sanno che hai paura in tempo di interrogazioni e ti fissano alla ricerca di
quel momento.
Io oggi
l’occhiata a Mrs. Huddle non l’ho lanciata. Lei se l’aspettava, ma mi sono fatta fregare troppe volte per cascarci di nuovo. E Ginevra ha un carattere troppo buono per far ricorso a questi trucchetti. Così io ho tenuto lo sguardo fisso sulla pagina del libro e non sono stata interrogata.
Quando sono uscita da scuola, sono andat
a in ospedale. Homais era in camera di Anya e appena mi ha vista ha sorriso. Quest’uomo, checché ne dica la gente, mi fa sentire bene. Lui sorride e io mi sento bene.
- Salve, Dottore! – gli faccio.
- Ciao Linda. Come ti è andata a scuola?
E sorride di nuovo. E io mi sciolgo. Come mi è andata a scuola, mi chiedi? Male, come sempre, da tre mesi e tre giorni e mezzo, ma perché dovrei dirtelo? Io vado bene. A scuola, oggi, mi è andata benissimo! Una grandiosa giornata, raggiante, gagliarda, radiosa! Sul serio, non poteva andare meglio … oggi ho sventato un’interrogazione in trigonometria, dottore! Ma ci pensa?! Io di trigonometria non ci ho mai capito nulla e la professoressa non mi ha interrogata! Queste io le chiamo botte di culo! Botte di culo! Botte di culo!
Ma lo guardo e la sua espressione mi spinge a dire la verità. Al dottor Homais non potrei mai mentire.
- Per oggi bene, dottore.
E lui: - E’ da un po’ di tempo che sento quel “Per oggi …”.
- E’ da un po’ di tempo che faccio la stessa vita. – dico io.
E queste sono le uniche cose sensate che dico nel corso di una giornata. Poi saluto mia madre e torno a casa.
Ho passato tutto il pomeriggio a studiare storia. Poi mi sono addormentata e di sera vengono a trovarmi Ophelia e Paul. Ophelia poi va via perché “ha sonno” e io rimango con Paul. Decido di fare il caffè, ma mi rendo conto che non ne abbiamo, così Paul mi propone di ripetergli la storia. Alla fine, qualche istante prima di uscire, lui mi bacia. Cielo, sulla guancia, ma mi ha baciata.
E questo il motivo per cui ho ripreso il diario. Paul mi ha regalato uno dei momenti migliori di questi tre mesi e tre giorni e mezzo. Domani mi accompagnerà a scuola e non ho la minima idea di come finirà …
Però … un bacio sulla guancia! Dio, se ci penso ancora divento tutta rossa.
Ma adesso è tardi. Domani mattina devo svegliarmi presto e non ho ancora chiamato mamma.
Chissà che non torni a scrivere?
No… l’epoca del diario è finita da un pezzo …





 

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Capitolo 37
*** Capitolo XXXV ***


An irish tale – Capitolo XXXV



Ora, non è che qualcuno, oltre lei e il ragazzino dai capelli color carota, sapesse che un invito era stato recapitato anche a nome della “Signorina Anya”. No.
E adesso era seduta sul letto, i gomiti sulle ginocchia, la fronte sul palmo della mano destra, e guardava, guardava e riguardava l’invito al ballo.
Se si poteva essere più disperati di così? Ancora no.
Era perfino arrivata al punto di confrontare le grafie del biglietto della scatola dei muffins al cioccolato e cannella e dell’invito.
Ma, sebbene straordinariamente armoniche ed eleganti entrambe, erano diverse.
Che si trattasse di uno scherzo? Poco sicuro.
Aveva visto chiaramente il nome del signor Langley sull’altra busta e lui non era il tipo di cui ci si poteva prendere gioco.
Quindi: due inviti. Uno a Paride Langley, conte di Waterford e modestamente ricco proprietario fondiario; e uno a lei, Anya Bacott, sguattera del sopracitato e smemorata di Dublino.
Il biglietto che aveva trovato nella scatola dei muffins odorava ancora di cannella.
Il 10 Luglio, secondo il signore e la signorina Drebber, avrebbe partecipato ad un ballo.
E in un attimo le tornarono alla mente le parole del conte: “L’altro giorno mi è sembrato particolarmente colpito da te”. Alchè lei aveva cominciato a rifletterci su. “Particolarmente colpito da … me?!”. E il signor Langley aveva fatto di sì con la testa.
Un rapido calcolo ed ecco che si scopriva che al 10 Luglio mancavaon esattamente una settimana e un giorno.
Sapeva leggere e scrivere e avrebbe fatto recapitare al signor Drebber … anzi, avrebbe recapitato di persona un biglietto nel quale spiegava al signore e alla signorina le ragioni per cui non poteva proprio prendere parte alla festa.
Tutto si sarebbe sistemato.
Oppure no?
Un altro interrogativo contrasse le dita delle mani nei capelli. E se vedendola, la signorina Drebber, avesse chiesto chi fosse? Da dove venisse oppure chi l’avesse invitata, dal momento che non era annoverata tra le sue conoscenze?
Queste erano faccende di straordinaria delicatezza. Probabilmente avrebbe dovuto chiedere aiuto al signor Langley, metterlo al corrente di tutti i suoi tormenti, pregarlo di trovare un modo per declinare l’invito senza offendere nessuno. Quel nessuno. E lui, Langley, avrebbe accettato?
Avesse saputo che il conte sarebbe stato felice di aiutarla, si sarebbe risparmiata ore e ore di angoscia.
Sepolta dal dubbio, ficcò la lettera e il biglietto dei muffins – anche se di quest’ultimo non sapeva più cosa farne – nella tasca del grembiule e tornò in cortile.
Visibilmente accigliato, il conte scese da cavallo e consegnò Fedor alle sue cure. Vedendolo, pensò che la decisione più saggia fosse quella di parlare con lui di tutto.
- Anya, non uscirò per il resto della giornata. Da’ da mangiare a Fedor e striglialo – disse, togliendosi i guanti con pochi movimenti stizzosi.
La giovane capì che quello non era il momento adatto.
- Ah … se Greta o Margareth o chiunque altro vorrà parlarmi, mi troverà in biblioteca. Ma che sia urgente – aggiunse prima di uscire dalla scuderia.
Così, Anya aveva chinato le spalle in segno di rassegnazione e aveva ripreso a lavorare.
Il pomeriggio cercò di non pensare a nulla. Tornò il sole e lavorò sodo fino a che non calò la sera.
Trascorse la giornata china sui pavimenti. Dopo i pavimenti le toccò lavare tutte le stoviglie accumulate durante la mattinata e il primo pomeriggio. E dopo le stoviglie le toccò lucidare i lampadari, pulire i camini dalla cenere, sollecitare l’intervento di uno spazzacamini, spazzare il pavimento della scuderia, dar da mangiare ai cavalli, apparecchiare il tavolo della cucina e … parlare con il signor Langley. Ma questo era un impegno che non portò a termine.
Un paio di volte considerò che poteva mostrare l’invito a Margareth, ma anche lei era sempre troppo indaffarata. E poi, la mattina seguente, arrivò un furgone trainato da quattro cavalli mandato dal signor Boulangher. Non appena varcò la soglia del cancello della tenuta, Edgard era saltato su e si era avvicinato con parecchio sospetto al traino.
- E quello cos’è? Ehi, cocchiere! – gridò cercando di fermare il furgone.
- Sono qui per conto del signor George Boulangher, giudice di Waterford city! Io e il mio compagno siamo stati incaricati di portare un antico mobile in legno di ciliegio al signor Paride Langley, conte di Waterford.
Il cocchiere, un uomo di circa quarant’anni, visibilmente annoiato dalla vita e abbattuto da una routine troppo monotona, indicò con il pollice il carico del furgone mentre metteva il fermo alle ruote. Malgrado avesse preso già la decisione di scendere, attese un cenno di Edgard prima di muoversi.
- Qual è il suo nome? – chiese il ragazzo avvicinandoglisi.
- Albrok.
Edgard distorse un sopracciglio. – Bene, signor Albrok … in questo momento il conte Langley non è in casa e non so quando tornerà, perché è uscito meno di mezz’ora fa.
- Se intende mandarmi via senza aver prima effettuato la consegna, ragazzo, si sbaglia. Sono stato pagato per consegnare questo mobile e non andrò via se prima non l’avrò trascinato in casa. Thorn, aiutami!
- Senta, signor Albrok … non è che non voglio farla lavorare … ma non so proprio dove sistemare questo mobile – riprese Edgard con più risolutezza. – Non potrebbe tornare quando il signor Langley sarà in casa?
Albrok si spostò dietro il furgone con il compagno, preparandosi a tirar fuori il mobile. Quando Edgard lo interruppe fece un’espressione seccata. – Come ti chiami, ragazzo?
- Edgard.
- D’accordo Edgard, adesso ti spiego quale sia il mio ruolo nell’intera faccenda. Il signor Boulangher mi ha pagato per caricarmi questo pesantissimo mobile sulle spalle, poi sul furgone, trasportarlo fino alla campagna per questa accidenti di strada piena di pietre e lasciarlo qui. Non devo fare altro. Se il conte Langley c’è o no, non sono affari miei. Quello che so di sicuro è che ho intascato i miei penny e voglio tornare a casa con la certezza di aver lavorato.
Edgard si fece di lato e indicò l’ingresso principale ai due. – Da questa parte, allora.
I due trasportarono il mobile fino all’ingresso, entrando attraverso la porta e posando il carico nel bel mezzo della sala. Margareth sopraggiunse pronta per bloccarli. Edgard le spiegò tutto e in breve i due uomini sparirono con il furgone.
- Bella storia! – esclamò la governante puntellando le mani sui fianchi. – Avresti dovuto fermarli, Edgard!
- Ma è quello che ho cercato di fare …
- “Cercato di fare” non è una soluzione! – lo rimproverò Margareth avvicinandosi al mobile.
Edgard la guardò, mentre dietro di lui Mary chiudeva la porta. La governante passò una mano sulla liscia superficie del mobile, osservando attentamente tutti gli intarsi degli angoli dei cassetti. Era una cassettiera massiccia, con quattro grossi cassetti e dei manici di bronzo lavorato. Il legno era liscio, ma trattato senza aggiunta di vernici o colori vari. Non poté negare che fosse di pregevole fattura.
- Non crederò mai che sia un acquisto del signor conte – disse con un sorriso sbilenco.
- E’ un regalo del signor Boulangher.
Margareth rifletté per qualche minuto. – Sam è ancora nei campi?
Edgard fece di sì. Dal cortile si udì lo schiocco degli zoccoli di un cavallo e Margareth tese l’orecchio. – Questo deve essere il signor conte.
Uscirono entrambi. Fedor si avvicinava lentamente alla scuderia ed in sella il signor Langley si era tolto le staffe e guardava il selciato con una strana espressione. Ritto in sella, la mano destra sulla coscia, alzò gli occhi su Margareth e tirò le redini di Fedor per accostarsi a lei ed Edgard. – Qualcuno è stato qui?
- Bentornato signore. Sì, di recente due uomini sono stati qui e hanno portato un mobile – rispose Margareth allontanandosi dal cavallo. – A quanto pare li ha mandati il signor Boulangher …
Langley si fece pensieroso. – Boulangher? … Ah, già! Il mobile! – esclamò tirando ancora una volta le redini per dirigersi verso la scuderia. Davanti alla porta si girò verso la cucina alla ricerca di Anya e la giovane, che aveva seguito tutta la scena dal tavolo al quale stava sbucciando della verdura, accorse al tacito ordine.
Il conte saltò giù, facendo poi passare le redini sulla testa di Fedor. Prima di aprir nuovamente bocca, controllò che Margareth ed Edgard si fossero allontanati dal cortile. – Buongiorno Anya.
- Bentornato, signore. Avete fatto una buona passeggiata? – disse lei entrando in scuderia.
- Ottima, grazie. Fedor era in gran forma.
Anya sorrise stancamente. – Ne sono felice. – disse legando il cavallo alla grata di un box per togliergli la sella. Langley sedette su una balla di fieno di fronte l’entrata, a ridosso della parete. Posò accanto a sé il cappello, i guanti e la giacca e si sbottonò il gilet, gustandosi la piacevole brezza che gli asciugava il sudore della schiena e l’odore della resina degli alberi. Per un attimo chiuse gli occhi e reclinò il capo all’indietro, rilassando i muscoli delle spalle.
- Signore, spero non vi dispiaccia se mi occuperò della sella questo pomeriggio … - disse Anya posandola su un sostegno.
Langley riaprì gli occhi. – No – disse. Poi prese il portasigarette dalla tasca dalla giacca e la scatola dei cerini, che era vuota. – Oh, mannaggia … - mormorò con la sigaretta tra le labbra. – Hai da accendere?
Anya annuì, mentre conduceva Fedor nel suo box. Richiudendosi la porta dietro, ficcò una mano nella tasca del grembiule e prese tutto quello che vi trovò per non perdere tempo a cercare; ma fu una scelta sbagliata, perché, colta dalla fretta di soddisfare il signor Langley, che si era avvicinato, le cadde tutto di mano. Il conte tirò le prime boccate di fumo e chinò istintivamente lo sguardo sul pavimento.
- Che sbadata! Non disturbatevi, signor conte, raccolgo tutto io … - disse la giovane inginocchiandosi per raccogliere i fiammiferi, un tovagliolo di cotone, un coltellino a serramanico, un nastro scolorito per capelli e un rocchetto di cotone beige con un ago dentro. L’attenzione del signor Langley fu catturata da un paio di biglietti caduti accanto ai suoi piedi. Prima che Anya li notasse, si chinò e li raccolse.
- E questi?
La ragazza ficcò nel grembiule gli ultimi oggetti, alzando lo sguardo sulle mani del conte. Alla vista dei biglietti si allarmò.
Langley espulse energicamente una boccata di fumo. Un biglietto non aveva busta e una scrittura elegante augurava buon appetito. La firma era arzigogolata, ma riconobbe il nome del signor Drebber. Lanciò una rapida occhiata ad Anya, poi, fremendo, si rigirò la busta fra le mani. “Alla signorina Anya, tenuta Langley” c’era scritto esternamente. Senza pensarci due volte la aprì e tirò fuori l’invito.
- Volevo parlarvene … - sussurrò Anya.
Langley tacque a lungo, senza riuscire a smuovere lo sguardo dall’invito al ballo. Non riusciva a crederci. Anya pensò fosse adirato e immaginò che quando avrebbe parlato sarebbe esploso. Ma il signor Langley espulse un’altra boccata di fumo e disse – Quel Drebber ti ha presa molto a cuore …
Anya deglutì. – Intendevo parlarvene, signore … ma …
- … avevi paura?
La ragazza lo guardò.
- Perché?
- Non lo so …
Langley sospirò e lesse nuovamente l’invito. Niente lo irritava quanto il signor Drebber. Non appena lui aveva ricevuto quell’invito al ballo, si era sentito di rispondere subito con un “No”. Non ci voleva andare; ormai detestava i balli. Aveva perfino scritto la lettera di risposta. L’invito di Anya, però, cambiava tutto. La guardò.
- Sai che non potresti neanche immaginare di partecipare ad un ballo?
Anya si grattò la fronte. – Sì.
Il conte tacque ancora intervallando dei silenzi, che Anya trovava insopportabili, a lunghi sbuffi di fumo dal naso e dalle labbra.
- Ma questo … - disse guardandola e sollevando la mano che teneva l’invito – cambia un po’ le cose …
Anya inarcò le sopracciglia. – Cosa intendete?
- Intendo dire che, essendo un ballo privato, sei … diciamo “libera” di decidere se andarci o no.
- C … cosa?
- Sì, Anya – annuì il conte.
La ragazza si mise pigramente in piedi, nascondendo un’espressione inquieta al conte. Langley la scrutò di sbieco, poggiandosi alla parete con la schiena. Anya gli era vicina e ne poteva avvertire il profumo.
- Non so cosa dire, signore … sono confusa …
Il conte spense la sigaretta contro il muro e la gettò in mezzo ad un mucchietto di paglia. Tra le dita aveva ancora i due biglietti e il sapere quello che c’era scritto e da “chi”, soprattutto, gli dava la nausea. Li sollevò per guardarli. “Non potevo lasciare che desideraste queste delizie ancora a lungo.
Ho scelto personalmente le migliori e mi auguro che vi giungano calde, così da apprezzarle meglio. Spero gradiate. Buon appetito! Vostro, A. D. Drebber”.
Vostro, Aaron Duke Drebber … rilesse con una smorfia.
- In questo biglietto parla di “delizie” … posso chiederti cosa intendeva il signor Drebber?
Anya chiuse gli occhi, sentendosi arrossire di vergogna. Quando si volse verso il signor Langley, negli occhi gli rivide lo sguardo di qualche sera addietro. Attendeva una risposta. Anya prese tempo.
- Si riferiva a dei muffins che avevo visto in pasticceria … la prima volta che ho incontrato il signor Drebber, lui era in quella pasticceria. Io ho visto dei muffins, volevo prenderne uno, ma non l’ho fatto, così lui si è subito offerto di pagare per tutto quello che desideravo e io ho rifiutato. Qualche giorno fa me ne ha mandati due e … ha scritto questo biglietto.
Il signor Langley assentì con una strana espressione, senza guardare Anya in viso. Con la coda dell’occhio ne registrava tutti i movimenti e cercava di coglierne il significato. Si sentì avvolgere da una vampata di calore e d’un tratto anche dalla necessità di sapere.
- Quali ... – iniziò tendendole i biglietti. Lei li prese. – Quali sono i tuoi sentimenti per il signor Drebber?
Anya guardò un’altra volta il conte negli occhi. Il corsetto dell’abito le sembrò improvvisamente troppo stretto per contenere i battiti cardiaci e nella paura che potessero sentirsi, non si accorse che le orecchie avevano iniziato a ronzarle. – Il ... i miei … sentimenti? Signore, non capisco perché mi facciate questa domanda … - mormorò.
- Provi qualcosa per lui?
Prima che rispondesse, Langley la vide portarsi una mano alla fronte e sospirare. Anya si avvide di avere i biglietti tra le dita e li mise in tasca con un unico gesto. – Il signor Drebber è un uomo molto gentile, signore, ma da parte mia non … non c’è nulla. Non credo che ci sia neppure qualcosa da parte sua …
- E allora perché ti ha invitata?
A quel punto Anya si irritò, anche se il tono del signor Langley era rimasto calmo. – Non ne ho la minima idea, signor conte. Voi stesso avete detto che è impensabile che una serva come me partecipi ad un ballo …
- Questo, però – fece Langley indicando la tasca del grembiule – è l’invito ad un ballo privato. Il che ti lascia quasi libera di decidere se andarci …
- … o meno. Lo s … - stava dicendo, quando si frenò. - In che senso “quasi libera”?
- Nel senso che devi avere anche il consenso del tuo cavaliere, prima. Anya, ti ho chiesto del signor Drebber perché, se andrai, è necessario che tu abbia un accompagnatore. Una donna non può presentarsi da sola … una simile eventualità sarebbe oltremodo sconveniente.
Anya parve riflettere su quello che il signor Langley disse. Inclinò il capo di lato e lo guardò fino a che non capì. – Volete che il signor Drebber mi faccia da accompagnatore, altrimenti … ?
- In verità … non “voglio”. In questo caso io “esigo”.
Langley si mise un’altra sigaretta tra le labbra.
- Voi andrete, signor conte? – chiese Anya porgendogli i fiammiferi.
Langley accese la sigaretta, stringendosi nelle spalle. – Non lo so – disse sedendosi.
Anya prese posto su un’altra balla.
- E se anche andassi?
Lei lo guardò.
- Anya, tu vuoi andare a questo ballo?
Anya pensò di essere tenuta a dire la verità. Doveva. Ma era troppo difficile prendere una decisione. Il signor Langley fumava con le spalle chine, pensando a chissà cosa.
Se doveva veramente valutare la situazione in tutti i suoi aspetti, allora era costretta a riflettere sul signor Drebber. Non poteva negare che fosse un bell’uomo, nonostante l’età – probabilmente era più grande del signor Langley di una decina d’anni, o meno – e aveva dei modi cordiali, educati ed era bravo a fare i complimenti. Però non lo conosceva. E nemmeno lui conosceva lei. L’aveva vista tre volte e l’aveva invitata ad un ballo. E forse il signor Langley aveva ragione. Drebber doveva proprio essere cotto di lei per muovere un passo tanto rischioso per la sua reputazione di gentiluomo … invitare una serva ad un ballo, per quanto privato esso fosse, era una cosa impensabile, inimmaginabile. E quella questione dell’accompagnatore … Drebber l’aveva invitata, sì, ma era assai poco probabile che mandasse una carrozza a prenderla per il ballo. E l’abito! Che onerosa faccenda!
- Signor conte, partecipare al ballo mi piacerebbe, ma ci sono delle convenzioni sociali che …
Langley alzò una mano per bloccarla. – Alt, alt … hai appena detto che ti piacerebbe, no? Del resto cosa può importartene?
- “Cosa può importarmene?” – fece lei sollevando le sopracciglia. – Voi stesso avete elencato una serie di ragioni per cui io non potrei partecipare! Sono una serva, una sguattera, un uomo che conosco appena mi ha invitata, non ho un accompagnatore, tantomeno un modo in cui presentarmi …
E parlando adagiò la fronte sui palmi.
Langley la scrutò lungamente, godendo contemporaneamente della voluttuosità del fumo che si disperdeva attorno a lui. Quindi si alzò in piedi e le si avvicinò.
- La tua professione non è un limite a ciò che desideri avere. Il desiderio è volontà e la volontà è determinazione – disse piegandosi sulle ginocchia di fronte a lei. – Se desideri andare al ballo, lo vuoi; e se lo vuoi ci andrai nonostante tutto. Troverai un uomo che ti accompagnerà e un abito degno di te.
Anya levò gli occhi su di lui. Langley sorrise e spense la sigaretta contro il pavimento.
- Credo di aver letto nell’invito che la festa si terrà fra … sette giorni. Hai ben poco tempo per prepararti!
La ragazza mosse le labbra per ricambiare il sorriso del conte, ma quel che ne uscì era un’espressione sbigottita e il contorno occhi prese un’insolita piega. – Volete dire … che … mi date il permesso di andare?
Langley stava per dire di sì, quando pensò alle conseguenze di questa risposta. Avrebbe significato che Anya andasse con il signor Drebber, che lui la guardasse come e quanto voleva, che lei ballasse con lui e altri uomini; che si acconciasse e imbellettasse per lui e che … gli rivolgesse delle belle parole. Si girò, chiudendo gli occhi per scacciare quei pensieri, mentre Anya continuava a osservarlo incredula in attesa di una risposta. Ma non fu utile neppure respirare a fondo.
- Se … se ti fa … piacere … - disse mettendosi nuovamente in piedi. - … sarò contento che tu prenda parte a questa festa.
Anya fece un gran sorriso, anche se dopo qualche istante tornò seria.
- Siete proprio sicuro di non voler partecipare anche voi, signore?
Langley si girò verso di lei. No che non gli sarebbe piaciuto, ma la situazione aveva preso una piega tutta sua. Badò che Anya non notasse il mutamento dei suoi tratti e si accostò al muro come se, poggiandovisi, avrebbe trovato la risposta a tutti i problemi. Ora che ci pensava la lettera in cui esplicava le ragioni per le quali non “Poteva” partecipare al ballo, giaceva imbustata nella tasca della sua giacca da equitazione, la stessa che aveva posato sulla balla di fieno. “È con dispiacere che mi ritrovo a dover rifiutare il vostro invito, signore e signorina Drebber” aveva scritto, “affari inerenti alla sfera del lavoro mi terranno lontano da Waterford per diversi giorni. Rinnovo le mie più sincere scuse e spero con tutto me stesso di colmare questa mia mancanza in un futuro molto prossimo. Cordiali saluti, Firmato, Paride B.V.T. Langley, conte di Waterford”.
Avrebbe dovuto consegnare quella lettera nel pomeriggio.
Con una settimana di preavviso, come prevedevano le convenzioni sociali.
Dietro di sé sentì Anya sorridere e spostare qualcosa, forse la sella. Stava aspettando una risposta.
Langley insinuò due dita nella tasca della giacca, afferrò delicatamente la lettera e la tirò fuori. “Al signor Drebber”, diceva la sua grafia. E in un lampo ricordò tutto quello che aveva scritto.
- Signor conte?
Langley deglutì. Nell’indecisione batté la lettera sul palmo, fissando un punto indefinito del cortile.
Anya lo chiamò di nuovo. – Allora andrete?
- Non lo so, Anya – disse strappando la lettera. – Non ne ho la minima idea …
I minuscoli brandelli di carta volteggiarono dolcemente prima di finire sul pavimento. Anya guardò il signor Langley interrogativamente. Era messo di spalle, poggiato alla parete con il braccio destro. Gli si avvicinò in modo circospetto, fino a vederlo di tre quarti, e abbassò lo sguardo ai frammenti color avorio vicino e sopra i suoi stivali. L’ultimo pezzetto di carta bianca intestata svolazzò senza incontrare attrito, toccando il suolo con una traiettoria verticale. Si era distaccato dalla mano del conte, piegata verso il basso, con il palmo rivolto al tetto. Una timida folata di vento scompigliò il cumulo di carta, mentre Anya risollevava gli occhi verso il signor Langley, accorgendosi che la stava guardando. Lo vide allontanarsi dalla parete, muoversi verso di lei, senza smettere di fissarla. Poi prenderle delicatamente la mano destra e avvolgerle la vita con un braccio. In un attimo si ritrovò vicinissima a lui, tanto da percepire il profumo della sua pelle e il tepore del suo corpo, e credé di svenire, perché il cuore martellava nel petto, la testa girava, le mani sudavano freddo. Lanciò un’occhiata alle sue braccia, tornò a guardarlo in viso e deglutì a fatica della saliva inesistente. I battiti cardiaci adesso erano troppo rapidi ed era sicura che il signor Langley se ne sarebbe accorto. Sentì il braccio di lui muoversi dietro la schiena, sistemando la presa intorno alla vita, mentre gli occhi si coloravano di una sfumatura maliziosa. Il conte strinse la mano destra di lei e la sollevò all’altezza del braccio; poi, lentamente, avvicinò le labbra alla chiara pelle del collo di lei, sfiorando l’orecchio.
- Valzer … - sussurrò, assaporando la sensazione di averla vicina. Alla faccia di Drebber.
Anya respirò profondamente, facendo uno sforzo sulla mente per elaborare le parole del conte. Il cuore batteva rapido anche a lui e lo sentiva rimbombare fino all’altezza dei suoi addominali. – Non credevo che la distanza fra i due ballerini fosse così … ridotta …
- Difatti non lo è. Questa è la posizione di partenza.
Nella posizione in cui era, Anya non poteva girarsi senza ritrovarsi faccia a faccia con il conte. Con il viso incastrato tra il suo collo e la spalla, accennò un sorriso. – Devo immaginare che sia una nuova versione, questa …
Langley la guardò di sbieco, allentando la presa del braccio intorno alla vita. – Sai che se vorrai andare al ballo, ti toccherà imparare a danzare?
- Certamente … - iniziò, quando si sentì chiamare dal cortile. – Arrivo subito, Greta!
Il conte sciolse la stretta e lanciò un’occhiata in cortile, badando di non essere visto. Anya si diresse al sostegno sul quale aveva poggiato la sella, controllando che fosse messa bene, per poi dirigersi verso la porta della scuderia. Langley fece appena in tempo a prenderla per il polso.
- Ti rimarrà del tempo libero, oggi? – chiese in un soffio.
Anya guardò sorpresa la sua mano. Greta continuava a chiamarla.
- Sto arrivando, Greta! Dammi solo un momento! – gridò in direzione della porta della scuderia. Poi tornò al signor Langley. – Non so, signore … probabilmente non me ne resterà … - disse lanciando continue occhiate all’uscita. – Vi prego, lasciatemi andare o Greta verrà a cercarmi qui …
Il conte annuì, lasciando la presa. – Posso insegnarti io.
Anya inarcò un sopracciglio, facendo avanti e indietro con lo sguardo per la fretta di andare.
- A ballare. E a mangiare a tavola. E ad accettare un ballo e … a dir di no.
La voce di Greta risuonò ancora una volta nel cortile.
- Arrivo! – gridò la ragazza. – Adesso devo andare, signor conte. Con permesso …
Langley non ebbe il tempo di rispondere che lei corse via. La vide sollevare leggermente gli orli della gonna e raggiungere Greta in gran carriera, sorbendosi per giunta tutti i suoi rimproveri.
Il cuore impiegò alcuni minuti per riprendere il suo regolare ritmo. Poggiandosi allo stipite della porta della scuderia, appuntò gli occhi sulla finestra della cucina, osservando i movimenti di Greta e Anya. Avanti e indietro. Anya prendi questo, posa quello. Non sporcare questo, pulisci quello. Stai qua, levati di mezzo. Apri il forno, rimetti il coperchio alla pentola sul fuoco. Troppo pepe, poco sale, fuoco troppo vivo, fuoco debole … e Anya eseguiva tutto alla lettera. Se una pentola era sporca ecco che si udiva il tocco metallico di questa contro il lavabo; se il fuoco era poco gagliardo, Anya correva fuori, prendeva un tocco di legna e lo consegnava alla cuoca; al contrario, sempre attraverso la finestra, il conte la vedeva correre con le pinze in mano ed estrarre con la più grande attenzione un ceppo di legna rovente, buttarlo in un secchio pieno d’acqua, fuori in cortile, e guardare con soddisfazione il fumo levarsi con uno sfrigolio.
Quando uno stormo di beccacce volò sulla tenuta, il fragore delle ali destò il signor Langley da ogni tipo di pensiero.
Anche se uno continuava a tediarlo: la consapevolezza che qualcun altro potesse stringerla a sé.

 

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Capitolo 38
*** Capitolo XXXVI ***


An irish tale – Capitolo XXXVI



Era una magnifica giornata di sole quella in cui Alexandre Orace Hurlstone uscì di casa. In strada si muovevano già i primi lavoratori e si vedevano le carrozze sfrecciare in entrambi i sensi con impiegati dalla giacca di cotone e i colletti inamidati gridare al cocchiere di far presto. Erano i soliti dormiglioni ansiosi, sempre in ritardo con gli impegni, con le scadenze, sempre a tamponarsi le goccioline sulla fronte con un fazzoletto sgualcito sul quale le mogli avevano ricamato le loro iniziali. Hurlstone era solito guardarli con sufficienza, ma da un po’ di tempo aveva perso quest’abitudine, perché in loro non vedeva mai niente di nuovo. A parte le iniziali sui fazzoletti. Ma anche quelle da alcuni mesi avevano smesso di seguire la moda. Erano sempre le stesse lettere arzigogolate, in rosso o blu brillante, con dei puntini poco innovativi e delle tecniche di ricamo altrettanto standardizzate. Hurlstone si chiedeva quando una mente brillante avesse partorito nuove mode, sebbene anche questa fosse una faccenda che lo interessava poco. Se fosse nata una nuova moda, lui avrebbe smesso di essere originale e questo non gli piaceva. Lui era Alexandre Hurlstone, ispettore della polizia di Waterford, l’uomo dai completi inglesi in giacca e pantaloni più originali di tutta la contea. Senza modestia. I suoi gilet erano invidiati dai colleghi, imitati senza successo dai sarti di zona, argomento principale nelle frivole conversazioni da salotto in casa di sua sorella. Una volta vide un anziano indossarne uno beige, assai simile a quello di un completo che aveva messo in occasione di una passeggiata con il suo purosangue Wilson. L’anziano era vicino di casa di sua sorella e qualche giorno dopo, quando l’avevano invitato a cena, il vecchio aveva fatto spudoratamente sfoggio del gilet, decantando la maestria del suo “personale sarto scozzese”, oltre il suo raffinatissimo senso del gusto. Da quella volta Hurlstone divenne più geloso del suo stile e, di conseguenza, ancor più vanitoso.
Fumacchiava un sigaro italiano, quando si spostò sul ciglio del marciapiede e alzò un braccio per fermare una vettura da nolo. Sarebbe andato alla stazione di polizia e avrebbe letto i giornali in santa pace. Nulla di particolare accadeva, ormai, da giorni. Nel giro di pochi minuti raggiunse il suo studio e prese posto alla massiccia scrivania, armandosi di una monografia sulla ceramica e vergando su di un foglio degli appunti su un caso di tentato omicidio. Si fece preparare una buona tazza di tè da Mrs. Merton e rifletté su alcuni casi fino a che nel pomeriggio non ricevette la visita di un’anziana signora alla quale era stata rubata una pelliccia d’alto valore.
- Mi fornisca le sue generalità.
La signora diede nome, cognome e indirizzo. Hurlstone prese nota e consegnò la donna all’agente Copperland. – Signora Hasbury, il qui presente è uno degli agenti più in gamba della città. Racconterà tutto a lui e sia sicura che riceverà un buon aiuto.
Poi andò a prendere giacca e cappello e uscì con Musgrave per un sopralluogo.
Tornarono dopo il tramonto, quando gli addetti all’illuminazione iniziarono ad accendere i lampioni stradali. Sui loro volti, evidenti erano i segni della stanchezza.
- Il grigiore delle sue occhiate fa invidia al peggiore degli inverni dublinesi, Musgrave – disse Hurlstone mentre camminavano sul marciapiede.
Musgrave chinò il capo in segno di ringraziamento. – L’ho notato, ispettore. Mia moglie è convinta che fumi troppo.
- Oh … il fumo! I medici credono che sia la causa di tutto. Mio zio fuma trentuno sigarette al giorno da sessant’anni ed è vivo e vegeto! No … - continuò scuotendo la testa. – La sua è stanchezza allo stato puro. Ho notato che negli ultimi tempi si è un po’ sacrificato al lavoro …
Musgrave disse qualcosa in risposta, ma il fragore di una carrozza lo soverchiò. Hurlstone lanciò un’occhiataccia al mezzo che si allontanava, per poi riprendere a camminare con le mani unite dietro la schiena. – La cocciutaggine e l’ignoranza sono le due peggiori piaghe della società. Quando si uniscono danno vita alla maleducazione, la malattia di cui soffre quel cocchiere. Non è la prima volta che fa un tale fracasso. Ma stava dicendo qualcosa, agente Musgrave? Non l’ho sentita …
Musgrave si tolse il cappello giusto il tempo di grattarsi il capo. – Oh … di cosa stavamo parlando?
- Dicevo che si sta stressando un po’. Spero sinceramente che non abbia problemi in famiglia.
- No, no, ispettore … - disse con distrazione. – E’ solo che il caso di Patrick Reynold mi dà molto da pensare. È dallo scorso inverno che indaghiamo, ma non siamo riusciti a venirne a capo … la sera quasi non riesco a prender sonno, pensandoci.
Hurlstone lo guardò con ammirazione mista a sospetto. – Davvero?
- Sì. Insomma, alla fine abbiamo appurato che la grafia delle lettere che Bartholomew Neybourgh custodiva tanto gelosamente in un cassetto non è uguale in niente alla scrittura di Reynold … è c’è quella “R” … Reynold sostiene di non saper nulla della corrispondenza dell’amico, ma prima della sua morte gli riconobbe degli atteggiamenti insoliti …
Hurlstone si guardò intorno con circospezione, frenando il fiume di parole dell’agente con un cenno della mano. – Parlate con meno entusiasmo, Musgrave. La gente potrebbe sentirci … comunque non perdete le speranze … né il sonno. È vero, il tentato omicidio del signor Langley è uno dei casi più complicati che mi sia stato dato da risolvere, ma nulla è vano. Se non sbaglio abbiamo fatto molti passi avanti … sa, Musgrave, quando da bambino ero in difficoltà con qualcosa, mia madre soleva dirmi che il modo migliore per risolvere i problemi era non pensare al lavoro che rimaneva; o quantomeno guardare con ottimismo al lavoro già svolto e andare avanti nel migliore dei modi possibili.
Musgrave abbassò le spalle con rassegnazione.
- Si è affaticato abbastanza, per oggi, agente – riprese Hurlstone con una pacca sulla spalla – adesso torni a casa. È tardi e sua moglie sarà preoccupata. Mi raccomando, per questa sera non pensi a Mr. Reynold …
Alla bassa luce di un lampione, l’agente borbottò una frase di saluto all’ispettore e poi si allontanò.
Rimasto solo, poggiato al lampione, Hurlstone si accese una sigaretta, osservando distrattamente gli orli della mantella nera di Musgrave muoversi al ritmo dei suoi passi rapidi. L’eco dell’abbagliare di un cane riempiva la via. Quando la sigaretta divenne un mozzicone, Hurlstone ebbe appena il tempo di dare un’occhiata all’orologio da taschino, che un agente corse in tutta fretta fuori e lo chiamò a gran voce.
- Ispettore!
- Agente McGregor!
Appena il ragazzo fu sufficientemente illuminato dal lampione, Hurlstone vide quanto fosse pallido.
- Agente McGregor … perché tremate in quel modo? È succ …
- Signore … - boccheggiò il ragazzo. – E’ avvenuto un fatto terribile!
Hurlstone spense la sigaretta contro il metallo del palo, irritandosi visibilmente. – Cosa? Ma vuole prendere fiato, invece di fare così? Calma, McGregor!
Il ragazzo deglutì a fatica, socchiudendo gli occhi mentre inspirava profondamente. – E’ della massima urgenza, signore. Si tratta di Mr. Reynold – continuò indicando con sgomento la stazione di polizia. – E’ stato trovato morto nella sua cella … vi abbiamo cercato a lungo, ma …
Hurlstone sentì il sangue defluire dalle guance. – Cosa? – mormorò automaticamente, fissando il ragazzo. In un istante vide svanire il frutto di mesi di lavoro, un’importante fonte di informazioni, vide spezzarsi una vita umana come uno specchio trafitto da una lancia. – Cosa? – continuava a ripetere, disorientato.
Poi, d’un tratto, il labbro superiore si mosse in un ringhio e un impeto di rabbia lo ridestò da quella specie di stato catatonico. – Com’è morto? – sibilò, prima di correre nella stazione.
L’agente McGregor lo inseguì a grandi passi, bofonchiando qualcosa. Ciò infastidì tremendamente l’ispettore, che si girò di scatto verso di lui e gli gridò di stare zitto.
- Vada a chiamare l’agente Copperland, piuttosto! Di corsa!
Il ragazzo sparì in gran carriera oltre l’angolo del corridoio, mentre l’ispettore, in preda alla frenesia, si mise quasi a correre nella direzione delle celle. Mentre l’aria fresca che entrava dalle finestre gli finiva in faccia, lui non riusciva a controllare il tremito delle mani e a contenere l’angoscia. Lo stomaco si tese dolorosamente e quando arrivò alla cella di Sperty fu sul punto di piangere. L’entrata era presieduta da un paio di agenti, di cui uno non riusciva a smettere di guardare l’interno. Istintivamente infilò una mano in tasca alla ricerca di una sigaretta, ma quando l’ebbe trovata lasciò perdere per il troppo nervosismo. Spingendo da parte uno dei due agenti alla porta della cella, con un solo passo entrò. Il corpo di Sperty giaceva accanto alla porta. Il viso dell’uomo toccava il pavimento dal lato destro e vi regnava un’espressione di acuta sofferenza, con i denti digrignati, i muscoli sopraccigliari contratti e gli occhi chiusi. Nel momento della morte si era portato le mani all’altezza dello stomaco, stringendo le dita sugli indumenti come per allontanare il dolore, e aveva piegato le gambe assumendo una posizione fetale. Tra sé, Hurlstone recitò una breve preghiera, poi si chinò sul cadavere e insinuò le dita nel colletto della camicia per tastare la base del collo. La temperatura corporea era scesa di alcuni gradi, da che dedusse che fosse morto da poche ore.
- Avete misurato la temperatura del corpo? – disse con voce atona agli agenti, mentre faceva vagare lo sguardo da una parte all’altra della cella.
A parlare fu l’agente più taciturno. – No, signore – mormorò.
- E cosa state aspettando? – gridò, fuori di sé. – Siete degli idioti! Degli emeriti idioti! Fate portare immediatamente un termometro!
L’agente si girò per correre via, ma andò a sbattere contro un Copperland trafelato e bianco di paura. Hurlstone si mise una mano sugli occhi, esasperato.
- Ispettore, vi ho sentito gridare!
- E’ morto Reynold, agente! È stato ucciso! – urlò alzandosi in piedi. – Nessuno se n’è accorto e nessuno ha fatto niente!
Copperland corrugò la fronte. – Ucciso?
- Proprio così! Ucciso! – esclamò scrutandolo in viso. – Ma voi naturalmente non ve ne siete accorti! Non è così?!
Nello stesso istante tornò l’agente di prima con un termometro. Hurlstone glielo strappò di mano, chinandosi sul corpo di Sperty. – Cosa sa a proposito della temperatura corporea di un morto, agente Copperland? Voi due, cosa sapete? – disse infilando il termometro sotto l’ascella di Sperty.
Copperland si guardò intorno con aria visibilmente spaesata. I due agenti fecero lo stesso, sollevando le spalle e inarcando le sopracciglia. Malgrado ciò, Copperland provò a rispondere.
- Scende. La temperatura corporea di un cadavere … scende.
Hurlstone annuì lentamente, sbottonando il colletto e allargando il nodo della cravatta con insofferenza. – “Scende” … è giusto. Ma la temperatura corporea scende anche in un vivo dopo la febbre!
I due agenti videro Copperland muovere smaniosamente le dita della mano. – Signor ispettore – lo sentirono dopo qualche istante. – Francamente parlando, gridare in questo modo fa male a voi e … a chi vi sta vicino. Io non credo che ci sia bisogno di disperare per la morte di un comune criminale!
A quel punto Hurlstone scattò in piedi. – Questo! Non! È! Un! Comune criminale! – gridò. – Era un uomo! E da quest’uomo dipendeva la vita di un conte! Grazie a quest’uomo mi è stato possibile scoprire l’identità di un uomo morto ammazzato in una conca, la sua storia, morte, vita e miracoli! Ho scoperto dove abitava e che in tutta la faccenda è coinvolto un terzo: il mandante di un tentato omicidio e l’autore di un assassinio! Questo, Copperland, non era un criminale! Era un uomo a cui avevo promesso che sarebbe uscito vivo da qui, che avrebbe avuto tutto il mio rispetto!
I tre agenti rimasero bloccati ai loro posti. Rosso per lo sforzo, Hurlstone prese fiato, chinandosi nuovamente sul corpo di Sperty ed estraendo il termometro da sotto la sua camicia. Essendoci poca luce, fece cenno a uno dei due agenti di accendere una lampada.
- Trentatré gradi. – lesse, con un sospiro. – La temperatura corporea di un cadavere – spiegò. – diminuisce di un grado per ogni ora a partire dal momento del decesso. Considerando che la temperatura media del corpo di un uomo è di trentasei gradi, possiamo affermare con un errore di pochi minuti, che Patrick Reynold è morto circa tre ore fa. Tre ore fa, dopo la cena. Questo avvalora l’ipotesi dell’avvelenamento. Altri carcerati hanno avuto problemi di stomaco? Avete chiesto?
Copperland scosse il capo. – Nessuno.
Hurlstone fece segno di aver capito. Passeggiò avanti e indietro per il corridoio di fronte la cella, pizzicandosi i baffi con le dita della mano destra. – Non è un suicidio. Reynold non aveva alcun motivo di desiderare di morire. E’ un omicidio mirato. Premeditato. Il veleno è stato introdotto nel cibo proprio nel momento della consegna. – disse fissando il vuoto. Improvvisamente, fermandosi, si tolse la giacca e sbottonò il gilet. – Chi ha consegnato la cena?
- Mrs. Merton, come ogni sera.
Hurlstone se ne meravigliò. Mrs. Merton era una signora di cinquant’anni, sposata e madre di quattro ragazzi. La conosceva da quando era arrivato a Waterford, il che non era molto, ma ne aveva sempre sentito parlare benissimo. Preparava la cena ai carcerati senza pretendere nulla in cambio e faceva volontariato da anni, cucendo bambole di pezza per degli istituti femminili e radunando insieme ad altri dei giocattoli per i bambini più poveri. Pensare male di lei non si poteva!
- Dov’è adesso? – chiese, sforzandosi di sospettare di lei.
- L’agente Stype la sta interrogando.
Hurlstone ebbe la sensazione che ad essere sospettata fosse sua madre. Si passò una mano fra i capelli, mentre cercava una soluzione.
- Come avviene la consegna dei pasti, agente Copperland? – disse appuntando lo sguardo sul cadavere di Sperty. Aveva ancora il termometro in mano.
- Mrs. Merton prepara la cena nella cucina della stazione di polizia. Dopodiché, poco a poco, carica i piatti su di un carrellino e affida la consegna a due guardie …
- Chi sono gli addetti? – lo interruppe l’ispettore.
Copperland indicò i due agenti. – Loro.
- Loro? – Hurlstone smise di camminare e li fissò.
I due annuirono con titubanza.
- Come sono disposti i piatti nel momento della consegna? – chiese.
- Volete dire come sono messi sul carrellino?
- Seguono un ordine particolare?
Il più taciturno annuì. – C’è un uomo, qualche cella più in là, che non digerisce la farina. Mrs. Merton sistema i piatti in modo tale da non farci confondere quelli che contengono farina da quelli che non ne hanno. Ovviamente col tempo abbiamo preso l’abitudine di disporre i piatti in due file da quattro, così da facilitare la consegna …
Hurlstone lo ascoltò guardandolo negli occhi. Il ragazzo spiegò tutto con semplicità, non dando il minimo segno di mentire. L’ispettore allora arricciò le labbra, riflettendo. Copperland abbassò lo sguardo sul cadavere; poi lo rialzò sulla figura fiocamente illuminata dell’ispettore: apparentemente pacifico, ma con un cervello costantemente attivo. In quel momento si chiese cosa stesse pensando.
- I carcerati hanno la possibilità di avvicinarsi al carrello delle vivande, durante la consegna dei pasti? – chiese improvvisamente.
- No, signore – rispose ancora l’agente.
Hurlstone riabbassò lo sguardo, riprendendo a camminare avanti e indietro per il corridoio. Un dubbio, d’un tratto, l’assalì e lui entrò nella cella di Sperty. Nello stesso momento il medico avanzava spedito lungo il corridoio, seguito da due agenti. Quando vide l’ispettore chino sul cadavere, mentre frugava nelle sue tasche, sbottò in un’esclamazione di sorpresa.
- Ispettore! avete modificato la posizione del cadavere?!
Hurlstone non perse tempo a guardarlo. – ‘Sera, dottore – disse mentre si issava sulle ginocchia per guardarsi attorno.
- Ricordatemi i vostri nomi, agenti …
Il ragazzo più timido si sporse leggermente dalla soglia della cella. – Armagh e O’Brian, signore.
- Agente Armagh … vada a prendere il carrellino dei piatti e mi mostri come avviene la consegna dei pasti.
O’Brian guardò il compagno correre via, mentre Hurlstone ricominciava a girare per la cella. Era una stanza di modeste dimensioni, relativamente confortevole. C’era una sola finestra, in alto a destra, una branda e un tavolino l’uno di fronte all’altro; la branda a sinistra, il tavolino a destra. Il pavimento era ricoperto di piastrelle squallide e le pareti erano sporcate da qualche raro sprazzo di muffa. Il letto era stato rifatto per bene e c’erano due coperte: una di cotone pesante, l’altra, ben ripiegata su un’estremità del materasso, di lana beige. Sotto il letto, a parte un mucchio di polvere, c’era un vaso da notte pulito. Accanto al tavolinetto, invece, sotto la finestra, Reynold aveva sistemato le sue scarpe e delle calze pulite. A parte dei fogli sui quali il pover’uomo aveva preso alcuni appunti su una rappresentazione teatrale, non c’era nient’altro. Hurlstone rovistò attentamente fra le sue carte alla ricerca di una pagina di diario, ma non vi trovò niente. Erano solo schizzi e appunti. Più per curiosità che per altro, controllò anche il vasetto dell’inchiostro, che era pieno per metà.
Intanto il medico aveva preso ad esaminare il cadavere, aprendogli la bocca, controllando le narici con una lampadina, gli occhi, le mani, i capelli, le unghia, la parte posteriore delle orecchie. Alla fine dell’analisi scosse il capo con melanconia.
- Quest’uomo ha avuto una breve ma atroce agonia. Credo si tratti di avvelenamento, ma sarò più preciso dopo l’autopsia. C’è già qualche ipotesi?
Hurlstone puntellò le mani sui fianchi, sospirando stancamente. – Omicidio premeditato. Il veleno è stato inserito nel pasto al momento della consegna …
- Sembrate molto sicuro di ciò che dite, ispettore.
- Sono sicuro perché ho scoperto di quale veleno si tratta. – disse girandosi verso il medico. - E onestamente mi meraviglio di come Reynold non ne abbia avvertito il sapore …
Il dottore assunse un’aria perplessa.
- Ha provato ad annusare la bocca del cadavere? Fa odore di mandorle amare … il veleno utilizzato è il cianuro di potassio, dottore.
Mentre parlava udirono il cigolio del carrellino di Armagh in corridoio. Gli occhi azzurri dell’ispettore si appuntarono con uno scatto sull’uscio. Seguito dal medico, corse fuori e spinse Copperland da parte.
- Armagh, O’Brian, mostratemi come avviene la consegna dei pasti – disse, prima di vederli allontanare in direzione della prima cella con il carrellino. Per tre volte i due agenti mimarono la consegna di un pasto, volgendo di tanto in tanto un’occhiata interrogativa all’ispettore, che osservava attentamente e annuiva con fare pensieroso.
- Va bene così! – disse d’un tratto, rientrando nella cella. – Copperland, faccia chiamare l’agente Musgrave per uno schizzo della scena. Appena finirà chiamerete qualcuno per far portare via il cadavere. Armagh! Cosa sta facendo con quel carrellino? A portarlo via ci penseranno gli altri agenti. Adesso mi segua nello studio con l’agente O’Brian; ho molte domande da farvi.
Guardò un’ultima volta la sagoma raggomitolata di Sperty e si passò una mano fra i capelli. Con il suo aiuto aveva fatto tanto e adesso che era morto sentiva gravare sulle sue spalle il peso di una vita. C’era ancora Zack Kwayne, l’amico di Sperty e Bartholomew Neybourgh, ma per quanti sforzi facesse non riusciva a rintracciarlo. Pareva che fosse tornato in Inghilterra, anche se alcuni sostenevano che non ci fosse mai arrivato. A causa di tutti quegli avvenimenti il caso Langley era diventato una matassa inestricabile di fatti e si sentiva intrappolato come una farfalla in una ragnatela. Temeva di non riuscire a venirne fuori. A volte, come in quel momento, desiderava buttare tutto all’aria, partire e smettere di fare l’ispettore di polizia; ma sentiva che non era possibile.
Si allontanò dalla cella, procedendo lungo il corridoio rischiarato dalla luce dei lampioni. Dietro di sé udiva il passo pesante di Armagh e O’Brian.
Era necessario risolvere quel caso. Doveva venirne a capo. La tecnica dell’assassino gli era chiara: premeditava l’omicidio, scegliendo i veleni come arma. Aveva fatto così con il conte Langley – il cui corpo aveva fortunatamente reagito – e con Patrick Reynold, per il quale la dose di veleno era stata letale. Altro elemento da considerare era l’uso di armi da fuoco. Pareva quasi che l’assassino se ne servisse in caso di emergenza, come era stato con il signor Langley e con Bartholomew Neybourgh. E anche in questo caso, con il signor Langley non avevano funzionato, mentre con Neybourgh sì.
Armi e Veleno. Veleno e armi. Premeditazione e necessità. Necessità e improvvisazione. Improvvisazione e morte. Scenari lugubri, notturni. Bosco, conca, carcere. Motivo? Ignoto, inspiegabile. Due morti e un tentativo d’omicidio senza ragioni apparenti.
Doveva trovarlo. Doveva, doveva doveva.
Il signor Langley rischiava ancora. Forse era il caso di allarmarlo … o forse no. In ogni caso doveva seguirlo, tenerlo d’occhio, giocare d’anticipo con l’assassino per evitare che il conte ricadesse nella sua trappola.
Fu preda di quei pensieri per il resto della serata e dei giorni a seguire.
Mentre procedeva in direzione del suo studio sentì delle gocce di sudore colargli lungo le tempie.
Nel naso ancora l’odore di mandorle amare.


 

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Capitolo 39
*** Capitolo XXXVII ***


An irish tale – Capitolo XXXVII



Langley era sdraiato sul divano del salotto quando Ines lo avvertì che la cena era pronta.
- Grazie, Ines. – la congedò richiudendo il libro che stava leggendo e poggiandoselo sulla pancia. Si trattava di una raccolta di antiche commedie teatrali che aveva scovato per caso mentre fissava distrattamente uno scaffale della biblioteca. Sperava l’avrebbe fatto divertire, ma non vi trovò nulla di comico.
Dalle finestre entrava molta luce e di tanto in tanto le tende venivano smosse da un filo di vento. Non c’era particolarmente caldo, quel giorno – anche se bastava il minimo sforzo per sentirne – ma l’aria che entrava dalle finestre era piacevole. Langley aveva posato il gilet accanto al posacenere semipieno, sul tavolino. Hunt, come d’abitudine, gli aveva fatto compagnia per tutto il tempo e finalmente s’era appisolato con il capo poggiato sul bordo del tappeto.
In sala da pranzo lo seguì trotterellando e gli si accucciò vicino mentre si sedeva al tavolo della cena. Mary lo cacciò via, prima di servire la cena.
- Di cosa si tratta, Mary? – chiese il conte, sistemandosi il tovagliolo sulle gambe.
- Greta ha cucinato la faraona, come da voi richiesto, signore.
Langley guardò curiosamente il piatto. C’erano due metà di petto di faraona ricoperte di una grossolana panatura dorata e accompagnate di una salsa di un colore più ambrato. Doveva essere tutto caldissimo, ma il profumo che si levava era molto gradevole.
A risolvere ogni dubbio ci pensò Mary. – Sono petti di faraona al forno, con panatura di mandorle tostate e salsa al miele. Come accompagnamento potete scegliere tra le patate al burro e uno spezzatino di carote e cipolle in agrodolce.
Il conte aspirò l’odore che emanava la pietanza e afferrò coltello e forchetta. – Oggi Greta è di buon umore, Mary?
- Credo proprio di sì – sorrise la cameriera. – Lo sono tutte in cucina.
Anche Anya?
Tagliò un pezzo di faraona e lo assaggiò, dopo averlo intinto nella salsa. Lo masticò a lungo, com’era solito fare, muovendo le labbra e la bocca in modo da gustarlo meglio. Mary, in piedi in un angolo della sala, lo scrutava con la coda dell’occhio, in attesa delle critiche.
- E’ ottimo – esordì, invece, il signor Langley. – Voglio assaggiare anche il resto.
La cameriera, incredula, obbedì, servendogli patate e spezzatino di carote. Straordinariamente, il conte apprezzò anche quelli.
- Peccato che questa sera la fame mi sia venuta meno. Sono costretto a lasciare quel petto di faraona e … tutto questo ben di dio di contorno. – disse dopo aver mangiato. Mary si affrettò verso il tavolo, iniziando a togliere i piatti sporchi. Nel vederla maneggiare il pollo, aggiunse – Darete gli avanzi ad Hunt?
Mary annuì. – Il possibile, signore. Faremo ben attenzione nello scartare le parti che potrebbero fargli …
- Oh, no, no … - mormorò Langley scuotendo il capo. – Potresti chiedere a Greta di mettere tutto da parte?
La ragazza assunse un’espressione confusa. – Da parte? Ma non conserverà il suo aroma …
- Lo so, ma mettetelo ugualmente da parte. Sento che mi tornerà l’appetito, questa sera, e allora vorrò mangiarne ancora.
Mary assentì. – Anche le patate e lo spezzatino di carote, signore?
- Sì, Mary.
Per quanto stramba le sembrasse quella richiesta, la cameriera decise di soddisfarla. Tornata in cucina, posò tutto sul tavolo e disse ad Anya di sistemarlo nel migliore dei modi. Greta non riusciva a credere che la cena fosse piaciuta al signor Langley.
- E’ tutto vero, invece! – insisteva Mary abbassando la voce. Anya seguiva il racconto con un sorriso appena accennato, mentre travasava la cena del conte in un piatto grande.
- Continuava a ripetere “Ma com’è buono … è delizioso …” – scosse il capo, sghignazzando. – No, qualcosa nella mente di quell’uomo deve essere cambiata!
Greta continuava a fissare il vuoto con un’espressione divertita. Poi si girò verso il ripiano accanto al forno e iniziò a pulirlo da alcuni residui di farina. Anya, in un moto di curiosità, prese un tocchetto di patata e lo mangiò. Lo passò da un lato all’altro della bocca, controllando che nessuno la vedesse, sforzandosi di trovarci qualcosa di speciale; ma il sapore era ordinario: c’era la porosità delle patate e la dolcezza del burro e nient’ altro. Anzi, ad essere proprio pignoli, era leggermente insipido. Se qualche istante prima si era sentita orgogliosa di essere riuscita ad accontentare il signor Langley, adesso non ne era più convinta. E lo spezzatino di carote e cipolle in agrodolce? Forse quello andava meglio.
Sistemò con il cucchiaio il mucchio di patate che prometteva di cadere fuori dal piatto e quando fu soddisfatta del risultato ottenuto, coprì il piatto con uno strofinaccio pulito. In bocca sentiva ancora il retrogusto delle patate al burro e in un momento di generale distrazione, ne prese un altro tocchetto e se lo mise in bocca.

Allorché fu in camera, sistemò il letto per la notte e si spogliò. Con la brocca riempì la scodella vicino allo specchio e vi intinse una ruvida pezzuola per sciacquare viso, collo e spalle. In camicia da notte, poi, si buttò a peso morto sul letto e tese la mano verso il comodino per spegnere la candela. Ma invece della bugia metallica, le sue dita sfiorarono qualcosa di delicato, che scivolò al minimo tocco. Aveva già chiuso gli occhi, pronta ad addormentarsi, però, vinta dalla curiosità li riaprì e si girò verso il comodino, sul quale c’era una busta bianca, con i lembi chiusi ad incastro. La osservò per qualche istante, cercando di ricordare se durante la giornata o la sera prima avesse scritto qualcosa e lasciata lì come promemoria, ma nulla di questo aveva fatto e prese la busta. Sul retro era vergata un grande “Ad A.” e dal carattere della grafia iniziò a capire chi fosse l’autore. Sbuffò.
Ti attendo per le undici di questa sera in biblioteca. Le convenzioni sociali alle quali sei molto affezionata non mi permetterebbero di fare una simile proposta, ma ti prego di accettare. Alle undici. Se dovessi ritardare immaginerei che tu abbia rifiutato”.
Il signor Langley.
Anya lesse il biglietto più di una volta. Il sonno e la stanchezza non le lasciavano neppure la forza di leggere. La mano che teneva il messaggio ricadde sul materasso, lungo il fianco; il braccio sinistro, poggiato sulla fronte, scivolò sugli occhi.
- Perché? – si lagnò sedendosi sul bordo del letto. Meccanicamente di diresse verso la poltrona e indossò le calze che vi aveva poggiato; dopodiché prese l’abito grigio e legò i capelli alla bell’è meglio. Quando ebbe finito non perse neppure tempo a guardarsi allo specchio. Prese le scarpe ed uscì in corridoio cercando di fare meno rumore possibile; in cucina le indossò e corse in sala d’ingresso, per le scale e poi proseguì a passo spedito per tutto il corridoio. La massiccia porta della biblioteca era chiusa, ma il conte doveva già essere dentro, perché dalla serratura e dalle fessure filtrava il tenue bagliore di una lampada. La chiave non era nella serratura e bussò. Prima che il signor Langley aprisse la porta, si sentì un breve tramestio e una serie di piccoli tonfi.
- Sei venuta! – bisbigliò invitandola ad entrare. Mentre chiudeva la porta, trasse l’orologio dal gilet. – Santo cielo … è mezzanotte!
Anya si fermò al centro della stanza, a braccia conserte, combattendo contro il sonno che minacciava di buttarla giù. – Non avete pensato che avessi rifiutato? – sbadigliò.
Langley sorrise. – No. Anche perché … mi sono addormentato.
Anya lo seguì oltre il grande scaffale che divideva la biblioteca in due ambienti. Accanto ad una delle due poltrone era crollata una grossa pila di libri, che il conte rimise su con risultati davvero poco appaganti. Alla fine li mise da parte e si alzò.
- Scusate, signore, ma potrei sapere il motivo per cui mi avete fatto venire?
Langley guardò il tavolo alla ricerca di qualcosa. – Certamente – disse controllandosi le tasche. – Vieni, seguimi.
Uscirono dalla biblioteca e Anya non riusciva a smettere di sbadigliare. Il signor Langley incedeva ritto e spedito come sempre e per lei era una faticaccia stargli dietro. Scesero al piano di sotto e si diressero in sala da pranzo, dove era stata apparecchiata una parte di tavolo. Certo, “apparecchiata” non era il termine giusto, ma lo sforzo c’era. L’unica fonte di luce era una lanterna, che era stata sistemata sulla cornice del camino. Anya lanciò un’occhiata confusa al signor Langley.
- Al ballo mancano cinque giorni … a partire da questo momento, che è mezzanotte passata. Abbiamo a nostra disposizione ancora quattro sere e in questo tempo voglio che tu impari alcune cose di fondamentale importanza.
La ragazza lo guardò avvicinarsi al tavolo. – Questa sera imparerai a stare a tavola, qualcosa su coltello, forchetta e cucchiai e … - disse arricciando il labbro. – A bere il vino. Vieni, siediti.
Anya obbedì, più per la voglia di finire e andarsi a coricare che per altro. Era sicura che sarebbe caduta addormentata con la testa sul piatto, ma quando Langley lo scoperchiò sollevò le sopracciglia.
- Buono, vero?
Anya sorrise ai petti di faraona.
- Ebbene, fammi vedere come lo mangeresti – disse il conte, accanto a lei.
Anya lo guardò. – È uno scherzo, signor conte?
- Affatto. – rispose, serio.
A sinistra del piatto, Anya vide tre forchette. Margareth, una volta, le aveva detto che si comincia dalla più esterna. Con poca titubanza, la prese e con la mano destra afferrò il coltello. Quindi tagliò un piccolo pezzo di carne e lo mangiò. Il sapore era migliore di quanto avesse potuto dedurre dal profumo. Stava per tagliarne un altro pezzettino, quando il signor Langley la fermò con un gesto della mano.
- Hai commesso degli errori – disse.
Anya posò le posate.
- Il primo è che non hai usato il tovagliolo. Prima di mangiare devi sempre spiegarlo e adagiarlo sulle gambe. E poi … - continuò allontanandosi di qualche passo per guardarla meglio. – Sei una donna e la schiena devi tenerla dritta.
Si chinò su di lei e poggiò una mano sui lombi e una sulla parte superiore del petto, spingendo delicatamente. – Ecco, così va meglio. Quando mangi deve essere il cibo ad andare verso la bocca, non il contrario.
Anya disse di aver capito, anche se, stanca com’era, mantenere quella posizione artificiale era difficile. Quando il signor Langley riprese a parlare trattenne un altro sbadiglio.
- Per il resto … ti sei comportata bene. Non dimenticare, però, che la posizione delle posate è importante, in quanto ha un valore indicativo. Ad esempio: la forchetta con i rebbi verso l’alto vuol dire che hai finito di mangiare e dai il permesso al cameriere di portare via il piatto; al contrario, significa che hai interrotto temporaneamente il pasto. In ogni caso devi adagiarle parallelamente l’una all’altra nella parte destra del piatto.
Anya abbassò lo sguardo al piatto. Langley si sedette al suo posto, oltre l’angolo del tavolo e ad un suo cenno Anya riprese a mangiare. Seguì ogni indicazione e lasciò che mangiasse tutto quello che aveva nel piatto. Da mezzanotte erano passati quaranta minuti. Dopo un’infinità di regole, che Langley elencò tentando in ogni modo di non annoiarla, ad Anya sorse un interrogativo.
- Signor conte, dovrò fare tutte queste cose alla festa?
Langley si poggiò alla spalliera della sedia. – Ad un ballo non ti sarà richiesto di mangiare. Al massimo serviranno degli stuzzichini … ma ci sarà molto vino. Trattandosi di un ballo la gente non mangerà quasi niente. Alle volte ha il vizio di andare lì digiuna … e allora devi fare attenzione, perché l’alcol a digiuno fa effetto prima.
- Quindi tutto quello che ho imparato stasera non mi servirà a niente?
- Ti servirà più di quanto tu stessa riesca ad immaginare – disse lui dopo un momento, guardandola in viso. Imbarazzata, Anya distolse lo sguardo.
- Sarà meglio che tolga questa roba da qui … - disse, alzandosi per sparecchiare.
Langley si alzò anche lui. – Di già?
Per un momento Anya non capì se dicesse sul serio. – Domani dovrò alzarmi presto per lavorare …
- Ma domani è Domenica – rispose Langley provando a bloccarla mentre si avvicinava alla porta della sala.
- Per me non cambia niente. Mi tocca alzarmi presto, che sia Domenica o no, e lavorare.
Mentre parlava sorpassò il conte e attraversò il breve corridoio che conduceva alla cucina. Langley corse a prendere ciò che era rimasto sul tavolo e la raggiunse.
- E se … - iniziò, prima di zittirsi. Avrebbe voluto esonerarla da ogni incarico, ma d’improvviso la decisione gli sembrò troppo avventata. Anya, però, aveva sentito quelle due parole appena sussurrate e con un’eloquente occhiata lo invitò a proseguire, mentre sistemava i piatti sporchi su un ripiano.
- E’ sera … tarda … notte … - balbettò. - … direi. Ti piace la notte?
- La trovo inquietante … - rispose lei, senza esserne convinta.
Langley assentì. Ma cosa stava facendo? Chiedere della notte ad una giovane ragazza? Di notte? Da soli? E meno male che le aveva fatto lezioni di galateo!
Ma che razza di sfacciato sei, Langley?
- Domattina non prenderò Fedor – disse di getto, prima di estrarre l’orologio. Anya annuì. Il conte non osava guardarla. Se l’avesse fatto probabilmente avrebbe detto un’altra stupidaggine. Controllò l’orario. – È tardi … vai pure a dormire.
Anya obbedì, ma quando stava per uscire, nella penombra della luna piena, tornò a guardare il signor Langley. – Non … avete bisogno di qualcosa, signore?
- No, grazie, Anya.
- Buonanotte allora.
Il conte poggiò l’orologio su un angolo del tavolo. – Buonanotte – disse sedendosi.
Non appena sparì oltre la porta della stanza adiacente, fu come se in lui si fosse risvegliato il sentimento covato in quei due anni di solitudine. L’odio, la malinconia, il disprezzo verso sé stesso presero il sopravvento. Doveva ammettere che qualcosa in lui stava cambiando, che corpo e mente erano destinati ad un naturale cambiamento, una variazione in positivo. Non lo ammetteva, ma lo sapeva. E anche se lo sapeva non sapeva come accettarlo. Più di tutto era incredulo. Se sfiorava i tratti del suo viso, poteva immaginare quale piega avessero preso, in quale smorfia di triste scetticismo si fossero contratti.
Di scatto si mise in piedi. Preda dell’imbarazzo che – secondo lui – avrebbe dovuto provare per tutta la serata, mentre quella graziosa creatura si sottoponeva docilmente ai suoi insegnamenti, si mise a far di no e a grattarsi la fronte e l’attaccatura dei capelli. E poi scese fino alle guance, ricoperte di un sottile strato di barba. L’idea di aver fatto una brutta figura montò come la rabbia.
Prese l’orologio, pronto a lanciarlo contro il vetro della finestra. Oh no no … era l’unico ricordo di suo padre.
Già. Suo padre.
Perfino lui l’aveva abbandonato.
Che essere ignobile e privo di fondamento si sentiva, adesso. Che orribile sensazione di disgusto guidava il flusso dei pensieri.
Santo cielo … e per cosa poi? Perché sentiva che qualcosa in lui stava cambiando? Era forse questa la ragione?
Ma sì che lo sapeva. Ma sì che sapeva di quale meravigliosa malattia si stesse ammalando. Però era come se ogni volta che tentasse di accettarlo, il fantasma di sua moglie ricomparisse e lui ridiventava arcigno e pronto allo sgarbo.
Aprì la porta della cucina e tornò a sedere. Quindi chiuse gli occhi e per un po’ si concentrò sulla sensazione dell’aria frizzante su di sé. Di nuovo, come prima, capì ciò che provava e sorrideva ripensando al volto di lei. Si sentiva solleticare lo stomaco e produceva respiri più lunghi, allargando il sorriso. Tuttavia, non appena riapriva gli occhi, la realtà tornava a turbarlo e le belle percezioni lasciavano il posto alle brutte.

Trascorse la notte sveglio. Alle tre passate era andato a coricarsi, perché si sentiva esausto, ma non prese sonno. Attese con impazienza l’alba, il canto del gallo, e allora, senza perdere tempo con cravatta, gilet e giacca, indossò gli stivali, il cappello, e prese Fedor.
C’era silenzio. Sulla brughiera veleggiava l’azzurro dell’alba e l’aria era fresca.
I tre tempi del galoppo risuonarono cupi sul terreno.
Nessuno, in campagna, si era ancora svegliato. I campi erano deserti e il sole sembrava avesse paura di venir fuori. Quando Langley fu alle porte della città, l’aria profumava ancora dei fiori della notte.
Sulla via principale strinse le redini di Fedor e le tirò fino a riprendere la strada per la tenuta. Appena possibile gli toccò la pancia con i talloni e al galoppo ripercorsero la strada di casa. Sul sentiero per la tenuta Fedor accelerò il passo, convinto che avrebbe così anticipato il padrone, ma Langley lo frenò ancora una volta e tornò indietro fino alla brughiera. Da lì tirò la redine destra, premette il tallone sinistro sul fianco del cavallo e ripartì verso la sua “oasi”.
Si trattava di una grande radura nel bosco, oltre i campi coltivati, in cui un affluente del Barrow aveva formato un laghetto con una cascata piccola e caratteristica, scavata sulla roccia calcarea. L’ambiente era circondato da alti sempreverdi, che lo nascondevano alla vista, e vi si accedeva tramite uno stretto percorso nel boschetto. Allorché Langley lasciò il sentiero, scese da cavallo e si inoltrò nella pineta tenendo Fedor per le briglie. Poi, giunti a destinazione, il conte legò le redini ad un tronco e si spogliò. Appese la camicia e i pantaloni ad un ramo e abbandonò gli stivali all’ombra dell’albero. Quindi si tuffò da una roccia e raggiunse a nuoto la cascata. Sedette sotto di essa e lasciò che la pressione dell’acqua sciogliesse le tensioni muscolari.
Nel frattempo il velo azzurrino dell’alba si dileguò, il sole sorse e i suoi raggi filtrarono magicamente attraverso le fronde dei sempreverdi. Allorché Langley fu soddisfatto del bagno, si stese sotto il sole e si appisolò.
Riaprì gli occhi qualche ora dopo. Il calore del sole sulla pelle iniziava a dare fastidio e aveva parecchio prurito alle gambe e alle braccia. Quando si controllò vide che erano punture di zanzare e si rivestì alla bell’è meglio. Ubriaco di sonno, uscì dalla boscaglia con Fedor e montò a cavallo.
I contadini erano già al lavoro. Mentre lui trotterellava in groppa al suo sauro, qualcuno alzò gli occhi dal terreno e si tolse il cappello in segno di saluto. Langley li ricambiò con un cenno del capo.
Ora che il paesaggio era rischiarato dal sole poteva dirsi soddisfatto di tutti i sacrifici fatti per l’azienda. Non c’era un briciolo di terreno che non fosse curato. Ovunque era possibile godere dell’erba verde e splendete di rugiada, dell’ottima terra bruna, alberi e cespugli da frutto, recinzioni legnose su cui si arrampicavano le piante, fiori; e poi, in lontananza, in un pascolo, una macchia bianca in continuo movimento e mutamento. Le capre del pastore Mark.
Fedor rallentò. Il conte gli diede un colpetto di talloni e prese la strada che portava ad un piccolo centro abitato con case color sabbia. La nuotata gli aveva messo parecchia fame, ma non aveva voglia di tornare a casa. Si fermò di fronte la villetta del signor Bowles e scosse il cancello per farsi sentire dal domestico in veranda.
- John! – lo chiamò.
L’uomo si precipitò al cancello. – Conte!
Langley scese da cavallo e glielo affidò, mentre avanzava verso l’ingresso di casa.
- Il dottor Bowles è stato sveglio per tutta la notte … adesso è al tavolo della colazione e non so se potrà visitarvi …
- Visitarmi? – ripeté il conte, seguendo il maggiordomo in casa. – Non ho bisogno di cure. Sono solo di passaggio.
Alla sala da pranzo, John invitò il conte ad aspettarlo fuori, mentre entrava per avvisare il dottore.
- Ebbene? – sentì dire al signor Bowles. – Fallo entrare!
Quando Langley oltrepassò la soglia, il signor Bowles fece un gran sorriso. – Che piacevole sorpresa, signor Langley! – esclamò alzandosi in piedi. – Spero non siate venuto a causa di un malessere …
- Niente del genere, signor Bowles.
- Gradireste farmi compagnia? – domandò il dottore indicando il tavolo. – Ci sono le salsicce, stamattina, e il bacon … oltre quel porridge che è una favola e questo burro freschissimo.
- C’andate leggero, eh dottore?
Bowles rise. – John apparecchia per il nostro ospite. Avete appetito, signor Langley?
- Parecchio.
- Dunque sedetevi. – disse, mentre il maggiordomo portava piatti, bicchieri e posate per il conte. – Stamane avete un aspetto alquanto trascurato …
- Ho fatto un bagno al fiume.
Il medico lo motteggiò con una “u” sussurrata. Langley sporcò la punta di un cucchiaino nel miele e l’assaggiò.
- Fa caldo, oggi – sorrise.
- Santo cielo, ma oggi non avete proprio voglia di parlare?
Il conte stava per prendere una fetta di pane, quando si bloccò senza capire.
- Siete ermetico in una maniera assurda. – spiegò Bowles. - È la fame, per caso?
Langley stava per rispondere di no, ma per evitare ogni genere di discussione annuì. – Sarà stata la nuotata – disse con vaghezza, prima di addentare una salsiccia.
Ma l’anziano dottore lo conosceva troppo bene per lasciarsi prendere in giro. – Già, la nuotata … - sospirò. – Nuove dalla tenuta?
- Mmmh …
- “Mmmh”?
Il ragazzo ingoiò un boccone. Per mandarlo giù più in fretta bevve mezza tazza di tè. – Niente di che.
- Non ci credo. – disse, raccogliendo un cucchiaio di porridge.
- Credeteci, invece.
Non aveva osato un tono scortese, ma Bowles pensò bene di non insistere. Per un po’ non parlò nessuno.
- Avete sentito del signor Drebber?
Langley deglutì a fatica. – Ogni giorno, signor Bowles. No … credetemi: ne sento parlare ogni giorno, ogni ora, dalle prime luci dell’alba al tramonto.
- Non sarete mica geloso?
- Scherzate? – disse il conte, con un boccone nella guancia.
Bowles bevve un paio di sorsi di tè. – No.
E Langley abbassò lo sguardo con un sorriso sghembo, raccogliendo delle briciole di pane dal tavolo.
- Si dice che abbia invitato più donne che uomini al ballo di Giovedì sera …
Il conte alzò un sopracciglio.
- … ma sono voci infamanti, queste. Non credete anche voi?
- Io credo – disse, strappando una fetta di pane. – che il signor Drebber abbia un’insolita passione per il sesso femminile.
- Ebbene, è naturalissimo. Mi preoccuperei del contrario.
- Avete frainteso.
D’un tratto il signor Bowles parve capire. – È un “Don Giovanni”?
- Sì – ammise il conte. Il dottore rise.
- E che problemi vi create? Signor Langley … non siate geloso di quello lì …
Langley sospirò, posando la forchetta nel piatto. – Signor Bowles non è ques … oh, ma lasciamo perdere …
- Piuttosto … avete già una dama per il ballo?
Quella domanda colse il conte alla sprovvista. Non sapeva ancora se andarci … ma no! Non aveva più spedito la lettera di risposta al signor Drebber e … adesso mancavano quattro giorni.
- No – rispose di getto.
- Oh … bene, volevo farvi una proposta … siccome mia nipote è stata invitata anche lei e non ha un cavaliere che l’accompagni (a meno che non voglia accontentarsi del suo vecchio zio …), voi sareste disposto a far coppia con lei? È molto graziosa e …
- Sì, la conosco, signor Bowles, ma io …
- Sì?
Langley sospirò, prendendo a tormentare l’angolo di un tovagliolo. – Mi dispiace per vostra nipote, ma … non so se posso. Per carità, non metto in dubbio che sia bella, ma credo di non potere accontentarvi.
- Avete già una dama? – chiese il dottore, senza capire.
Il conte gli lanciò un’occhiata. – No, no … oddio … - sbuffò. – Forse … ma non ne sono sicuro!
- Che vuol dire “forse”?
- Vuol dire che non lo so – disse. – Lei è stata invitata dal signor Drebber, ma non sappiamo se verrà accompagnata da lui.
Bowles si sforzò ancora una volta di capire. Nell’incertezza disse – È risaputo che il signor Drebber farà da cavaliere a sua cugina.
- Cosa?
- Sì, signor Langley. Imogen Drebber sarà accompagnata dal cugino … il che mi pare abbastanza logico. Non lo sapevate?
Langley guardò il signor Bowles con sbigottimento.
Toccato!
- No.
- Mi sa che vi toccherà accompagnare la vostra dama. – disse dopo qualche istante.
E adesso?
- La conosco?
Stava ancora pensando ad Anya, quando il medico gli toccò un braccio. – Vi sentite bene?
Langley bevve distrattamente un sorso di tè. – Sì …
- Meglio … dicevo, la conosco?
- Perché tutte queste domande, signor Bowles?
Il medico sorrise. – Suvvia! Vi conosco da quando eravate un neonato e provate ancora timore a confessarmi i vostri sentimenti?
- I miei sentimenti? – borbottò rompendo il guscio di un uovo alla coque. – Ma quali sentimenti?
- Quegli stessi che vi stanno facendo arrossire e grattare il naso.
Il guscio dell’uovo si ruppe e il contenuto di disperse in una macchia bianca e arancione sulle dita del conte e sulla tovaglia.
- Non fate così … chiamo John! – e scosse un campanellino.
Mentre il maggiordomo si dava da fare a pulire la tovaglia e sostituire il possibile, Langley lavò le dita dall’albume.
- Grazie, John. Puoi andare – riprese Bowles. – Non siate nervoso, signor Langley … sono stato troppo invadente?
Langley ebbe un fremito. – Non saprei.
- In ogni caso, perdonatemi. A volte dimentico che devo impicciarmi meno.
- Non fatene un problema, signor Bowles. Non è successo niente in fin dei conti – e si sforzò di sorridere.
Vedendo che gli occhi del signor Langley vagavano da un punto all’altro del tavolo senza trovare quello che desiderava, Bowles gli avvicinò il suo uovo alla coque. – Buon appetito.
Il conte lo mangiò con poche cucchiaiate. L’anziano medico lo osservò fino a che non posò il cucchiaio sul piattino. Saperlo nuovamente attratto da una donna lo riempiva di tenerezza e lo guardò con affetto anche quando si poggiò sullo schienale e si portò una mano allo stomaco pieno.
Sperava solo che non avrebbe sofferto ancora.
- Non so cosa pensare di lei, signor Bowles – mormorò d’un tratto Langley fissando un punto della tavola.
La curiosità insorse nell’animo del dottore con un impercettibile movimento del sopracciglio. Guardò il conte: se parlava di sentimenti non si girava per guardarlo in viso. Celare la curiosità sarebbe spettato alla voce, alla quale riuscì a donare un accento professionale.
- Cosa pensate?
- È … - iniziò, senza riuscire a continuare.
Bowles mantenne il silenzio.
- Lei è … come dire … è semplice. Io … io non so cosa … quale sia la mia percezione di lei. Ogni sua mossa … mi confonde. Ho un’idea sempre diversa di lei. A volte la detesto, altre la … amo come una figlia. Credo … credo di esserle indifferente. La cosa non mi importa molto … nel senso, ormai sono un frutto troppo maturo per una come lei … lei è giovane, io mi sento vissuto, vecchio … lei crede nell’Amore, glielo si legge negli occhi … mentre io ho un matrimonio alle spalle … Dio, se ci penso … signor Bowles, io nell’Amore non ci credo più! Ma c’è lei … io non so come comportarmi. A volte riesco a prendere una decisione e mi convinco che devo lasciarla stare ... altre mi sento … attratto da lei … perché è intelligente, colta … non se ne trovano molte come lei. Per questo mi piace … è unica, in questo senso.
Per un attimo Bowles ebbe la sensazione che il signor Langley avrebbe detto qualcos’altro; ma tacque. Il suo sguardo si era fatto malinconico. Mentre ripensava meglio a ciò che aveva detto, si poggiò allo schienale e corrugò il mento.
- Su una cosa avete sbagliato, conte.
Gli occhi del conte si mossero nella sua direzione.
- Vi credete vecchio e invece non lo siete. Non avete neppure trent’anni … davanti a voi c’è una vita intera. Se adesso provate un sentimento per una donna … lasciatevi andare …
Langley scosse il capo.
- … non c’è nulla di più bello …
- Non ce la faccio, signor Bowles.
Il medico sospirò dolcemente. – Signor Langley, signor Langley … non riuscite a smettere di pensare a vostra moglie?
Langley lo guardò.
- Vostra moglie era una creatura amabile, generosa, piena di iniziative, ma … non è più qui. È triste pensarci, ma è necessario che voi lo facciate.
- La amavo con tutto me stesso – sussurrò. – Una volta le giurai che non avrei amato mai nessun’altra …
Il signor Bowles si sporse e gli mise una mano sul braccio. – Avete giurato e siete stato di parola. Ma sono certo che lei non vorrebbe vedervi solo … il suo amore per voi era sincero e non avrebbe nessuna ragione per ostacolarvi adesso. Signor Langley … il vostro cuore è tornato a battere per una donna … e per quanto mi riguarda questa è la più bella notizia che mi sia stata data finora. Siete sicuro che lei non ricambi questo sentimento?
Langley chinò lo sguardo sulle sue mani. Quella domanda lo portò a pensare a tutte le volte che si era ritrovato solo con Anya e si sforzò di rievocarne il comportamento. Negli ultimi tempi c’era stato il signor Drebber e lei era diventata un po’ distratta; poi il ballo aveva completato l’opera e in cortile, un paio di volte, l’aveva vista fermarsi davanti ad una lanterna spenta e rimirarsi in tutte le angolazioni.
- No.
Si versò un’altra tazza di tè e bevve avidamente.
- Quello che posso consigliarvi è di pensarci bene, signor Langley. Vi vedo confuso e … concentratevi sulle vostre sensazioni non appena la rivedrete … anche da lontano. Fatelo, perché solo in questo modo vi sarà possibile comprendervi.

Qualche minuto dopo il conte ricordò di doversi recare in città e si congedò dal signor Bowles, esprimendo al meglio la propria gratitudine.
Passò dalla tenuta solo per cambiarsi; in strada, poi, decise di rimanere tutto il giorno fuori casa.

 

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Capitolo 40
*** Capitolo XXXVIII ***


Duuuunqueeee … rieccomi con il trentottesimo capitolo!
Mi accorgo che sono passati parecchi giorni dall’ultima volta che ho aggiornato e non me ne compiaccio per niente... anzi! Mi scuso con tutti i lettori per aver prodotto un’attesa così lunga, ma ho avuto parecchi problemi in questo periodo e non ho potuto dedicarmi alla storia come avrei voluto : (
Spero sempre che la storia sia di vostro gradimento e ringrazio sinceramente chi mi segue, chi recensisce e chi ha avuto la bontà di mettere la storia tra le ricordate o tra le preferite. È un onore per me sapere questo.
Baci e abbracci : )
Ik




An irish tale – Capitolo XXXVIII



- Margareth … hai un corsetto?
Era tutta la mattina che cercava di dirlo.
Al ballo mancavano due giorni. La sera prima il conte aveva tentato di insegnarle i passi del valzer, ma senza corsetto Anya non aveva ottenuto il risultato sperato. La schiena doveva stare dritta, le spalle rilassate e le gambe dovevano muoversi con leggiadria. E andava bene. Ma il corsetto costringeva il corpo quel che bastava per donargli maggiore eleganza ed un portamento più naturale.
- Tendi a rilassare troppo la schiena! – le aveva fatto notare il conte picchiettandole il dorso con le dita. Anya si drizzò per l’ennesima volta. – Così?
- Perfetto. È perfetto, ma non riesci a mantenere questa posizione. Ti serve un corsetto. Un corsetto vero.
E così aveva seguito le mosse della governante per un’intera mattinata. Alla fine, quando l’ora di pranzo fu vicina, Anya riuscì a incocciarla in sala da pranzo, mentre rovistava in un cassettone. E gliel’aveva chiesto.
- Un corsetto? Ma ti sembra il momento di scherzare?
Anya spostò un inesistente granello di sabbia dalla superficie del mobile. – Non sto scherzando.
- E che dovresti fartene di un corsetto?
Margareth prese una tovaglia da tavola color avorio. Data l’espressione, Anya pensò che fosse quella che stava cercando da mezz’ora.
- Ce l’hai?
- Ma certo che l’ho … perché lo vuoi?
Anya cercò disperatamente una risposta, mentre Margareth chiudeva il cassetto e le faceva segno di aiutarla ad apparecchiare il tavolo. Fortunatamente, nei pochi istanti che impiegò per raggiungere la fine del tavolo le venne un’idea.
- Ho mal di schiena – disse sollevando due angoli della tovaglia.
Con entrambe le mani Margareth stese le pieghe; poi la guardò con dubbio. – Come mai?
- Eh … non so … probabilmente sarà stato a causa dei cesti della spesa. Greta ieri ha fatto molte compere …
- Tu un corsetto non l’hai già?
Anya annuì, passandosi una mano sul punto vita. – Sì, ma ha le stecche di legno. I tuoi hanno quelle di balena.
Margareth sbuffò. – Mmh … d’accordo. Dopo pranzo te lo presto. Ma trattalo bene, perché un corsetto del genere costa un occhio della testa.
Tornarono in cucina. Poggiato allo stipite della porta, il signor Langley stava chiacchierando con Greta che dava colpi di mannaia ad un cosciotto di tacchino per romperne l’osso. Alla vista del conte, Anya corse a controllare il brodo sul fuoco, mentre Margareth gli chiese scherzosamente perché non fosse nello studio a fare calcoli.
- Evidentemente ho qualcosa di meglio da fare – rispose lui.
Malgrado fosse girata, Anya intuì che stesse sorridendo. La mano che teneva il mestolo iniziò a muoversi più velocemente. Poi, obbedendo ad un ordine della cuoca, prese un pane e ne tagliò alcune fette. Su di sé sentiva le continue occhiate del conte.
In un momento di silenzio, animato dalla mannaia di Greta e dallo scrocchio delle ossa del tacchino, si sentì un calesse nel cortile. Langley si girò di scatto e uscì.
- Cerco la signorina Anya – disse un ragazzino con i capelli arancioni.
- Salve – esclamò il conte accostandosi al carretto.
Anya seguiva la scena attraverso il vetro della finestra, ma udiva bene quello che dicevano. Nel sentirsi nominare, si guardò intorno con i battiti a mille.
- Io sono Anthony – continuò il conte. – Al momento la ragazza che cerchi è impegnata e non può venire. Devi dirle qualcosa?
Il giovanotto mise il freno al carretto e scese con un’espressione sorpresa e intimorita. Probabilmente immaginava che avrebbe trovato subito Anya e sarebbe andato via senza intoppi. – Devo consegnarle un pacco.
- Per conto di chi?
Anya immaginava già la risposta e si allontanò dalla finestra per non stare a sentire.
- Il signor Drebber, signore.
Sul volto della giovane si dipinse un’espressione disperata, mentre il conte si girò verso la finestra.
- Il signor Drebber? Puoi dare il pacco a me … lo consegnerò di persona alla signorina Anya non appena si sarà liberata.
Il ragazzo era titubante. Greta allontanò Anya dalla finestra, mettendola di fronte al tavolo con delle patate da sbucciare. – Mi servono adesso. Sbrigati.
- Sì, un attimo solo … - disse riavvicinandosi alla finestra. Il conte e il ragazzo avevano ricominciato a parlare, ma non sentì niente di ciò che dissero. Greta la tirò a sé per il nodo del suo grembiule e le ordinò di lavorare.
- Ma cosa ti interessa di quello che si dicono? Fatti gli affari tuoi!
Anya sedette al tavolo, muovendo le gambe con inquietudine. Ogni volta che volgeva lo sguardo alla finestra, Greta le mollava uno scappellotto sulla nuca. Il brutto era che non poteva lamentarsi del trattamento.
Nel frattempo Langley era riuscito a farsi consegnare il pacco e aveva mandato via il ragazzo. Approfittò del fatto che nessuno fosse alla finestra e sollevò il coperchio della scatola per darvi un’occhiata. Sotto due lembi ripiegati di carta velina giaceva un abito di seta blu, piegato in modo da farlo entrare nel pacco. Il corpetto, la sola parte che gli riuscì di vedere, era straordinariamente elegante, con una morbida scollatura e delle maniche altrettanto cadenti. Non v’era dubbio che fosse stato confezionato da un sarto che conosceva bene il suo mestiere e che fosse costato parecchio.
Per quello che lo riguardava, mentre rimetteva il coperchio a posto trattenne un fremito ed ebbe la forte tentazione di leggere il biglietto che il signor Drebber aveva allegato al pacco. Lo batté sul palmo con indecisione; dopodiché chiamò Anya e, poiché ella si affacciò alla finestra, lui le fece segno di venir fuori.
- Questo è per te. – disse allontanandosi leggermente dalla cucina. – Pare che sia un regalo del signor Drebber.
Mentre parlava, evitò di guardarla e le mise la scatola in mano. Più meravigliata dal peso del pacco che dal mittente, Anya squadrò il conte con un’occhiata e lesse il biglietto.

“Perdonate l’impudenza di un tale regalo, ma quando ho visto quest’abito ho pensato a voi.
Incantevole, aggraziato e raffinato.
Mi piacerebbe vedervelo addosso al ballo di Giovedì.
Cordiali saluti.
A. D. “

La curiosità del signor Langley fu malcelata. Nonostante fosse palese che desiderasse nascondere i propri sentimenti, i suoi occhi guardavano ora il selciato, ora il biglietto con uno sguardo fulmineo, ora scrutavano il viso della giovane, e le dita si stringevano intorno al fianco sul quale poggiavano.
Anya gli tese il biglietto. – Potete leggerlo, se lo desiderate. Ciò che il signor Drebber mi dice non deve essere un segreto per voi.
Langley chinò gli occhi sulla busta. Istintivamente tese una mano per afferrarla, ma non si lasciò tentare e la riportò immediatamente lungo il fianco. – L’ha inviato a te. Lui non vorrebbe che lo leggessi io … - disse in procinto di tornare in casa. Margareth l’aveva chiamato per il pranzo. – Ci … spero tu mi faccia vedere come … come ti sta il vestito.
Anya avrebbe sorriso se il conte non avesse torto il capo in un inchino, che le arrivò del tutto in atteso. Fugace, si girò in direzione della cucina per assicurarsi che nessuno l’avesse visto, ma quando riportò lo sguardo davanti a sé, vide che il conte si stava già incamminando verso la porta della cucina.

Il pomeriggio sovvertì le condizioni atmosferiche del mattino. Se il secondo si era distinto per la luminosità del sole e la tiepida temperatura, il primo aveva veduto il cielo annuvolarsi e il paesaggio velarsi di una fitta pioggia. Le goccioline cadevano perpendicolarmente al terreno, poiché non c’era vento, e l’aria era insopportabilmente umida. Nei pascoli ai declivi delle colline, ad alcune miglia di distanza, i pastori mettevano al riparo le capre per la lana, facendosi aiutare da dei piccoli cani con la coda arruffata.
Langley disse che non avrebbe cenato a casa quella sera e Greta ne approfittò per recuperare un po’ di energie con un sonnellino pomeridiano. Probabilmente, se non avesse ricevuto nessun regalo, anche Anya si sarebbe concessa qualche ora di riposo. Appena finì di mangiare salì in camera sua e tirò l’abito fuori dalla scatola. Purtroppo l’unica cosa che le riuscì di fare fu guardarlo così com’era, perché di indossarlo senza l’aiuto di qualcuno non se ne parlava neppure. Mentre lo rimirava in tutto il suo splendore, Margareth venne a consegnarle il corsetto con le stecche di balena che le aveva promesso ed Anya fece appena in tempo a nascondere abito e scatola sotto il letto. Mise il corsetto da parte, appena Margareth se ne fu andata, e, lasciando perdere per il momento il vestito, si accontentò di sdraiarsi sul letto e farsi cullare da tutti i sogni che quella seta blu le ispirò.
Fu risvegliata nel tardo pomeriggio da Mary. La toccò alla spalla e la scosse delicatamente più volte, fino a quando Anya non sollevò la testa dal cuscino. Dopo un attimo in cui le parve che fosse l’alba, Mary le disse che Greta reclamava la sua presenza per la preparazione della cena.
- Il signor conte cenerà a casa? – chiese ricordandosi subito che così non era.
Mentre si rimetteva gli scarponcini, Mary aprì la finestra. – No, perché è stato invitato dal signor Hobson. Mi chiedo cos’abbiano da dirsi due boriosi come loro …
Anya vide sfumare l’ultima lezione di etiquette. Sperò che il poco che era riuscita ad imparare fino ad allora bastasse per far una buona figura alla festa, ma presto capì che le speranze non erano sufficienti. Nel momento in cui Mary uscì, ricordò l’abito sotto il letto e lo prese per dargli un’ultima occhiata. Se per un istante aveva dubitato della sua bellezza, svalutandola involontariamente con lo scemarsi del ricordo, adesso doveva ammettere di non aver mai visto un capolavoro simile.
Ad un richiamo di Greta lo buttò sulla poltrona e corse giù.
Il signor Langley rincasò in tarda serata. In cucina Anya e Mary stavano giocando con un vecchio mazzo di carte che Bill aveva passato loro il Sabato precedente, quando udirono lo scricchiolio delle ruote di una carrozza. Posate le carte sul tavolo, guardarono fuori dalla finestra e videro che era il conte. Mary si allontanò verso il tavolo per rimettere le carte a posto. Non c’era motivo di continuare a star lì, perché presto Anya avrebbe svolto gli ultimi compiti della giornata, portando i cavalli in scuderia, e poi avrebbe chiuso la porta che dava al cortile. Mentre dava un colpetto al mazzo di carte per appaiarle tutte, sentì la porta aprirsi dietro di lei e i passi di Anya che si allontanavano nel cortile.
Edgard dava tutta l’impressione di essere profondamente irritato per qualcosa. Senza dir nulla per evitare di innervosirlo ulteriormente, Anya lo aiutò a slegare i cavalli dalla carrozza, interrogandosi a lungo sul motivo di una tale agitazione. Quando ricomparve da dietro la vettura, sulla quale puntava lo sguardo, il conte pareva esser ancora più inquieto del cocchiere. Poi, dalla scuderia, mentre spingeva i cavalli nei rispettivi box, sentì il signor Langley lamentarsi animatamente per un danno alla ruota. Capì, ma non volle ascoltare il resto della conversazione. Prese piuttosto il forcone da un angolo e porse una lauta quantità di fieno ad Ulisse e Newton, prima di spegnere la lanterna appesa al muro ed uscire in cortile.
La serata era piuttosto fresca. Durante il giorno non aveva fatto molto caldo, ma il calo di temperatura si sentiva. Sedette sulla panca accanto al portone della scuderia per godersi gli ultimi istanti di frescura prima di rientrare. Il signor Langley ed Edgard stavano ancora discutendo del danno alla ruota della carrozza: Edgard insisteva nel dire – con accezioni sempre più educate nel tono della voce – che più di una volta aveva avvisato il conte del danno, senza che questi avesse mai considerato la cosa con una certa importanza o che si fosse mai preoccupato di far venire qualcuno a ripararla; Langley era, invece, restio ad accettare le scuse del cocchiere e affermava che, data l’entità del danno, non era mai valsa la pena di chiamare un esperto in materia, perché poteva tranquillamente occuparsene lui, Edgard, della riparazione. In un modo o in un altro queste furono le tesi sostenute dai due, che ripetevano ogni cosa con l’unica accortezza di modificare almeno un termine del discorso a volta. Quando era il turno di Edgard il conte inizialmente si rizzava sulla schiena e lo stava ad ascoltare; poi, avvedendosi del fatto che il cocchiere stava ripetendo tutte d’accapo le sue scuse e motivazioni, si grattava la fronte e scuoteva la ruota della carrozza con una mano, esclamando qualcosa a proposito della sua evidente instabilità. Se poi era il conte a parlare, Edgard, che era più impulsivo, tratteneva a stento qualche fremito di impazienza, cercando in ogni modo di far valere le sue ragioni. Anya seguiva la discussione con un pizzico di ansia. La mano del signor Langley agitava il frustino di Fedor in aria, battendolo talvolta sulla coscia o sullo stivale di cuoio nero. Sapeva che non avrebbe mai impattato contro Edgard – perché non era nei costumi del conte picchiare i servi – ma in certi momenti era così irritato e spazientito, da indurla a pensare al peggio. Fortunatamente dopo un buon quarto d’ora la discussione si concluse e Anya si rilassò. Ricordò di aver lasciato sola Mary, ma la cucina non era più illuminata e lei doveva ormai essere andata a letto, perché non intravedeva neanche più la sua sagoma alla finestra.
Quando Edgard, dopo aver concordato con il signor Langley di lasciare la carrozza in cortile per ripararla in mattino seguente, si diresse verso la cucina, Anya saltò su e gli andò dietro, intenzionata a non rimanere sola a quell’ora della notte. Lasciò la porta aperta per permettere anche al signor Langley di entrare, anche se lui s’era rannicchiato davanti alla ruota della carrozza e pareva non volersi scollare da lì fino a quando non avesse trovato una soluzione al problema. Mentre i passi di Edgard risuonavano nel corridoio sopra la cucina, Anya scostò la tenda della finestra e si mise a fissare il conte nel cortile. Le piaceva quando si fermava a riflettere; il suo viso non era perfetto, ma le espressioni pensierose, che distorcevano la piega delle labbra e delle sopracciglia, gli donavano parecchio.
Non calcolò il tempo che rimase a fissarlo, né quello che lui trascorse studiando la ruota, ma le piacque spiarlo. Un lungo sospiro del signor Langley fu il segno che per quella sera aveva deciso di lasciar perdere ogni problema e si incamminò stancamente in direzione della cucina. Imbambolatasi, Anya se ne accorse solo quando al conte mancavano circa quattro metri per raggiungere la porta e corse quanto più silenziosamente che poté in camera sua.

 

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Capitolo 41
*** Capitolo XXXIX ***


An irish tale - Capitolo XXXIX



- Anya!
- Oh, signore … ma cosa vuoi, Anthony?
- Anya!

Anya gettò con irritazione una scodella sul pavimento.
- Anya!
- Smettila di chiamarmi!
Anthony si era avvicinato e lei cercò di respingerlo con un braccio.
Con quel gesto si risvegliò.
- Anya!
E schiuse le palpebre. Con un baleno di stupore, alzò di scatto il capo dal cuscino e puntellò le braccia sul materasso, coprendosi poi fino all’altezza del petto. Davanti a sé vide qualcuno, i cui lineamenti riuscì a distinguere solo in un secondo momento. Era il signor Langley, vestito di tutto punto, con cappello e frustino sotto braccio. La reazione di Anya doveva averlo stupito e per un istante la guardò senza capire.
Anya si rilassò, mantenendo tuttavia un atteggiamento distaccato, poiché mai il conte era entrato in camera sua mentre dormiva, tantomeno l’aveva svegliata nel pieno di un acquazzone. Si poteva sentire il vento schiaffare le goccioline di pioggia sul vetro della finestra, con una tale forza da far pensare che stesse grandinando. Anya lanciò un’occhiata alla finestra. Se il tempo fosse stato sereno avrebbe pensato che l’alba non fosse ancora arrivata, ma con i nuvoloni della pioggia era difficile stabilire che ora fosse.
- Non volevo spaventarti … - disse Langley.
Anya riportò lo sguardo su di lui. Con fastidio annuì, sperando che non le chiedesse di sellare Fedor con quel tempo, e si sedette sul bordo del materasso, stropicciandosi il viso. Qualsiasi cosa le ordinasse, l’avrebbe costretta ad alzarsi, quindi, era meglio prepararsi.
- Paradossalmente – continuò, combattendo fra il desiderio di avvicinarsi e la volontà di restare al suo posto, per via dell’umore di Anya. – non devo chiederti niente. Sono le cinque e mezza del mattino e … voglio che tu ti vesta, perché entro un’ora dovremo raggiungere la città.
Anya stava per alzarsi completamente, quando ricordò di essere in camicia da notte. Per qualche strano motivo ciò che il signor Langley disse la irritò oltremisura e nel momento in cui parlò, tentò di non darlo a vedere.
- Perché?
Langley mal interpretò il tono della giovane, trovandoci un’ansia ed un’apprensione inesistenti; ma, dopo un attimo di indecisione riprese il suo contegno e, preparandosi ad uscire dalla camera, disse – Ti voglio in cortile fra quindici minuti. Fai presto.
Anya cercò di frenarlo con un’espressione seccata, ma il conte la lasciò sola e negli istanti successivi si sentirono i suoi passi nel corridoio e per le scale. Nel silenzio della casa, l’unico rumore a tenerla sveglia in quegli attimi di sonno interrotto fu la pioggia contro il vetro e il fischio del vento. Di malavoglia scese dal letto, sentendosi percossa da un brivido nell’istante in cui i piedi toccarono il pavimento. Di certo faceva più freddo del giorno precedente e appena ebbe lavato il viso e spazzolato i capelli, rovistò nel baule alla ricerca della sua giacca pesante. Indossò l’abito grigio, fece una treccia ai capelli e la fermò con alcuni fermagli; poi prese la giacca e scese in cucina. Il signor Langley aveva lasciato la porta socchiusa, ma quando Anya guardò in cortile lui non c’era. Edgard lo stava aspettando a ridosso della carrozza, stringendosi nel cappotto per le continue sferzate di vento. Richiudendo la porta, onde evitare che la pioggia bagnasse il pavimento della cucina, Anya pensò bene di allacciarsi la cuffietta nell’attesa che il signor Langley si facesse vivo. Era sicura di non aver impiegato più di dieci minuti per prepararsi e ancora di più che aveva tutto il tempo di mangiare qualcosa prima di uscire senza la paura che Greta scendesse da un momento all’altro. Così, una pagnotta e una mela dopo, il signor Langley la raggiunse tutto trafelato e impaziente di uscire, con un cappotto ripiegato sull’avambraccio.
- Forza, siamo in ritardo … - disse facendole segno di seguirlo.
- Margareth è stata avvisata?
Langley spiegò il cappotto con dei rapidi movimenti, sollevandolo in modo da permetterle di indossarlo. – Lei e solo lei … ma ti starai domandando il perché di questa mia fretta … sta’ tranquilla, in carrozza ti dirò tutto. Intanto mettiti questo, perché, malgrado sia Luglio, fuori fa freddo.
Da parte di Anya seguì un attimo di confusione e Langley la rassicurò – Lascia la tua giacca qui. Per oggi indosserai questo cappotto, tanto pesante per sopportare il vento freddo, quanto leggero da non farti sentire troppo caldo.
Pochi minuti dopo erano già per la brughiera irlandese, inseguendo il tempo, sfuggendo alla pioggia.
Seduta di fronte al signor Langley – spostata un po’ più alla sua sinistra – Anya era sempre più curiosa di sapere quali fossero le sue intenzioni. Per questo scrutò lungamente ogni sua espressione, la mimica facciale, i movimenti di mani e gambe, i cambi di posizione; il signor Langley non era meno tranquillo di tante altre volte in cui erano capitati soli insieme e solo di tanto in tanto tradiva una certa tensione, quando il suo sguardo cadeva sul cappotto che le aveva fatto indossare. Insospettita anche da quel particolare, Anya ricercò dei possibili, e più convincenti, indizi con lo studio del cappotto. Non v’era dubbio che fosse un capo femminile, con la vita stretta e la “gonna” decisamente più larga; bottoni intarsiati, colletto elegante e tagli degni del sarto migliore d’Irlanda. Realizzato interamente con un tessuto di lana morbida bordeaux, con qualche raro inserto di raso nero sulle maniche, le tasche e il colletto.
Non fosse stato per l’intervento del conte, che la osservava da un po’, Anya avrebbe esaminato quel cappotto per tutta la durata del viaggio, dimenticandosi che chiedere al diretto interessato le sarebbe costata meno fatica.
- Non ti piace?
Anya lasciò istantaneamente l’orlo di una manica. – È bellissimo, ma non riesco a capire …
- Se intendi sapere di chi fosse, preferisco lasciarti il dubbio – disse, con un timido sorriso. – Se, invece, cerchi disperatamente di capire dove ti sto portando, la risposta è molto semplice e la sai dal momento in cui ti ho svegliata: in città. A Waterford city.
- Non credete che come risposta sia un po’ troppo generica?
Langley scostò leggermente le tende del finestrino, cercando di capire dove era arrivata la carrozza, ma il vetro era imperlato di gocce di pioggia e ciò che si distingueva era solo una confusa massa di verde, marrone e grigio. Lasciando la tendina, si riconcentrò su Anya. – “La curiosità è donna”, disse qualcuno. Niente di più vero. Ebbene – sospirò. – fra poco incontrerai una rispettabile signora di Waterford. Per molti anni è stata una dama di compagnia e … se le circostanze l’avessero permesso, anche … balia e governante. Di tutte le donne che conosco, lei è una delle più colte ed educate e ha già espresso tutta la sua impazienza di conoscerti. Che il tempo lo permetta o no, tu oggi uscirai con lei per alcune spese riguardanti il tuo corredo per domani.
Anya fu presa dal panico. Non si era certo pettinata e vestita per andare a spasso con una dama di compagnia in negozi di … quale classe? Quello che disse non era ciò che pensava o che riteneva opportuno dire in tali circostanze, ma in seguito dovette ringraziare il suo istinto per averla indotta a parlare prima di riflettere più a fondo.
- Dove mi porterà di preciso?
Dall’espressione del signor Langley capì che quella non era la risposta che si aspettava. Corrugò un labbro e sollevò un sopracciglio, prima di parlare. – Vuoi sapere i nomi dei sarti?
Sarti?! Non si tratta nemmeno di negozi!
Il panico di Anya si fece ancora più grande. Le bastò, tuttavia, essere “impazientemente attesa” da questa signora per sentirsi meglio. Ricordandosi della domanda del signor Langley, dopo aver fissato il pavimento dell’abitacolo per qualche minuto, annuì. Fortunatamente il conte non si era dimenticato di ciò che aveva detto, e al gesto di Anya riprese – Conoscendo Miss Delaford, sono sicuro che ti porterà da sarti come il signor Bonney o come Mr. Brenton … o da Mrs. Howels … di certo non sono pochi i sarti a cui si affida. Ma stai tranquilla e non crucciarti prima del tempo … se non conoscessi Miss Delaford da molto tempo e molto bene, non ti lascerei sola in sua compagnia. È una brava signora.
Langley dava la conversazione per chiusa, quando Anya, indicando il paesaggio oltre la tendina dell’abitacolo, disse – Concedetemi un’ultima domanda, signore.
Il conte si girò verso di lei.
- Se lo scopo dell’uscita è accompagnarmi da questa Miss Delaford, perché mi avete svegliata così presto e, soprattutto, non disturberemo la signora con una visita così mattutina?
- Miss Delaford – sospirò. – ha … soffre di insonnia. Come me, non dorme molto e non le saremo di grande fastidio a quest’ora del mattino … tanto più che l’ho avvisata anticipatamente del nostro arrivo. E poi ho degli affari urgenti da sbrigare in città.
Ad ogni buon conto, Anya pensò che quell’orario fosse più adatto a lui che a lei … anche se, sinceramente, non capiva come pretendesse di sbrigare degli “urgenti affari” alle sei del mattino. Domandargli anche questo avrebbe fatto di lei una ragazza scortese e si impegnò a non rifletterci tanto per timore di autodefinirsi una sciocca impicciona.
Con il suono della pioggia che picchettava contro le pareti dell’abitacolo, la carrozza giunse presto in città, dove perse un altro buon quarto d’ora per giungere finalmente di fronte casa di Miss Delaford. Era una comune palazzina di mattoni scuri, con un piccolissimo giardinetto al pianterreno, ben tenuto e ricco di fiorellini gialli sui cui petali le goccioline di pioggia indugiavano, prima che il gambo si piegasse sotto il loro peso e le facesse cadere tutte. Langley aprì un ombrellino e coprì Anya fino alla porta. Lì, dopo aver bussato due volte, li raggiunse una giovanissima ragazza con gli occhi cerchiati dal sonno, che fece prese i cappotti chiazzati di pioggia e fece strada fino al salotto.
- La signora vi stava aspettando. Vado subito a chiamarla. – disse, prima di sparire nel corridoio.
Langley e Anya sedettero sul divano. Nel silenzio della stanza, animato dai soli rintocchi di un orologio a pendolo, si udivano respirare a vicenda. Fu un momento di grande imbarazzo, poiché, essendo il divano relativamente piccolo, era inevitabile che le loro spalle o le gambe si toccassero. Ognuno percepiva il tepore emanato dall’altro e nel momento in cui Miss Delaford entrò erano già vittime dei primi sudori freddi.
- Signor Langley! – esclamò con un sorriso raggiante.
- Miss Delaford!
Langley si alzò in piedi, sorridendo anche lui, e corse ad abbracciarla. – È un piacere rivedervi!
Miss Delaford gli rinfacciò scherzosamente la sua lunga assenza, che Langley preferì lasciar cadere nel vuoto mentre si girava verso Anya, in piedi davanti al divano.
- Oh! Ma lei è la giovane di cui mi avete tanto scritto. È davvero come me l’avete descritta … sapete, vi sembrerà strano – continuò rivolta ad Anya. – ma ancor prima di vedervi, immaginavo foste così graziosa. Il signor Langley ci sa fare con le descrizioni, ne convenite?
Una volta che Miss Delaford ebbe finito di esprimersi, Anya dovette passare in rassegna le sue parole una seconda volta, meravigliata di ciò che aveva sentito.
Il signor Langley aveva parlato bene di lei?
Per un attimo la sua mente si intasò di pensieri numerosi e contrastanti, incapaci di una forma, indegni di essere ascoltati. Nella confusione, la voce le uscì con un borbottio insignificante, presto trasformato in una frase più ordinata, ma dal senso che non riuscì ad afferrare.
- Ne convengo.
Miss Delaford rise come se avesse appena udito una barzelletta. – Ed è anche simpatica! Signor Langley, non avrete di che temere per noi due … sono sicura che ci divertiremo molto, oggi!
- Bene … - proruppe il conte quando le donne non ebbero più cosa dirsi. Anya lo guardò e in un attimo sul suo viso pensieroso comparve un’espressione più lieta. – Tolgo il disturbo … gli affari mi attendono.
- Oh, ma cosa dite mai, signor Langley? La colazione sarà presto a tavola ed è meglio che vi ristoriate un po’, prima di uscire con questa pioggia. Su, fatelo per una vecchia amica …
Ma il conte non accettò. Miss Delaford, allora, rinnovò l’invito, incoraggiando una risposta affermativa sostenendo che presto sarebbe venuto a trovarla il fratello. Quando capì che da sola non poteva far più niente per convincere il conte a restare, invocò l’aiuto di Anya, spingendola a chiedergli di far loro compagnia “almeno per la colazione”. Con lei era certa di aver centrato il suo punto debole e nel cenno di titubanza del signor Langley, non trattenne un’esclamazione di esultanza. L’invito venne gentilmente declinato per l’ennesima volta e solo la rivelazione dettagliata degli impegni mattutini del conte riuscì a convincerle del ritardo che accumulava minuto dopo minuto. Un terreno al confine con la contea di Kilkenny l’aveva attratto per la sua ottima resa produttiva e per il suo basso costo. Com’era evidente, era necessario muoversi prima possibile, perché il viaggio era lungo e con la pioggia prometteva di essere anche parecchio faticoso.
Il conte uscì con il suo tipico passo svelto e poco dopo la carrozza scomparve per la via.
A colazione Miss Delaford e Anya ebbero modo di far due chiacchiere. A tavola era stato servito il tè e nonostante avesse dichiarato di aver mangiato prima di mettersi in viaggio, Miss Delaford insisté perché Anya si servisse. In piatti di vario genere e forma, c’era tutto quello che aveva sempre desiderato di mangiare al mattino: bacon fritto, uova strapazzate e alla coque, frittelle alle mele, pane abbrustolito, burro, caffè forte, tè, latte e birra. E, in una capiente scodellina, della crema di cui Miss Delaford si vantò lungamente e ripetutamente durante il pasto.
- E’ un’invenzione della mia cara Betty. Quando in casa c’è poco da fare lei si mette in cucina e inventa qualcosa … ha un ottimo spirito creativo e in tutto il tempo che ha prestato servizio in questa casa, mai una volta mi ha dato ragione di dubitare delle sue capacità. Questa crema, ad esempio, è venuta fuori in una giornata uggiosa come quella che è appena cominciata … Credo l’abbia preparata con panna, zucchero e vaniglia, anche se mi chiedo come abbia fatto ad amalgamare tutto in questo modo … ecco, hai indovinato. Sul pane abbrustolito rende che è una meraviglia! Ti piace? (Possiamo darci del “tu”, vero?).
Di fronte a tutte quelle parole Anya ebbe difficoltà a distillare le azioni che stava compiendo. Annuì, spalmò un po’ di crema sulla sua fetta di pane, prima che Miss Delaford la caricasse generosamente con altre due cucchiaiate, addentò il pane, si ripulì le labbra e le fece i complimenti con un’espressione, che non bastò, tuttavia, a soddisfare le aspettative della donna.
- È ottima!
Su questo tono proseguì tutta la colazione. Alla fine Miss Delaford, con un gran sorriso, lanciò il tovagliolo su un angolo del tavolo e, guardando l’orologio, disse qualcosa a proposito del tempo e di quanto impiegava a vestirsi. – Se non è un problema puoi anche seguirmi nel vestibolo, cara. Hai detto che ti chiami Anya?
Seguendola fino alla camera da letto, Anya annuì. Da quel momento Miss Delaford non tacque se non in caso di necessità. Nella preparazione se la prese molto comoda. Betty incontrò alcune difficoltà nel soddisfare i suoi gusti riguardo l’acconciatura giusta e anche quando Miss Delaford fu pronta, trovò qualcosa da criticare. Mentre era seduta davanti allo specchio, Anya, comoda su una poltroncina, la osservò in tutte le sue sfaccettature, soffermandosi maggiormente su quelle fisiche. Era più bassa di lei di una decina di centimetri e per la mole di cibo che aveva confessato di assumere tutti i giorni era abbastanza magra, anche se dotata di qualche rotondità. Il viso aveva una forma ovale, con degli occhi relativamente piccoli e le guance rosse, che contrastavano con la pelle chiara e i capelli corvini. Con un calcolo che teneva conto delle rughe, dello stile d’abbigliamento, dell’altezza delle scarpe e dell’atteggiamento, Anya calcolò che l’età di Miss Delaford non poteva che aggirarsi intorno ai trent’anni.
Una volta vestita, Miss Delaford parlò di come avesse conosciuto il signor Langley. Accompagnò Anya in salotto e raccontò di essere stata la dama di compagnia di sua moglie, che descrisse con le più amorevoli accezioni. Si soffermò a lungo su questo argomento, descrivendo anche qualche comportamento del signor Langley durante il matrimonio; di come fosse diverso da allora e di quante liti avesse avuto con la sua governante, della quale volle sapere se lavorasse ancora. Poi si alzarono e, presa dalla commozione, Miss Delaford volle mostrare ad Anya, della quale affermò di poter avere fiducia, il ritratto della signora Langley. Raccontò che le era stato regalato dal conte poco dopo la morte di moglie e figlia e che lo aveva appeso nella stanza degli ospiti. Non appena Anya fu messa di fronte al quadro, comprese la commozione di Miss Delaford, sentendosi il petto improvvisamente colmo di tristezza.
- Non badare alle mie lacrime, Anya. Fossi meno sensibile riuscirei a trattenermi, ma sono un’inguaribile sentimentalona …
Anya le sorrise per consolarla. – Quanti anni aveva qui la signora?
- Oh … non ricordo, di preciso. Ma il ritratto fu eseguito poco dopo il matrimonio.
La giovane tornò a guardare il dipinto. La signora Langley era stata una donna di grande bellezza e l’angolazione scelta dal pittore, così come la luce e i colori intensi, avevano ben reso l’idea di com’era in realtà. Era stata ritratta fino alla vita, con le mani poggiate l’una sopra l’altra su un tavolino e con un’espressione maliziosa appena accennata. Aveva gli occhi scuri, grandi, a mandorla, incorniciati da un incarnato pallido che risplendeva in tutta la sua salute. Dello stesso castano degli occhi erano i capelli, divisi da una riga centrale e alzati in un’acconciatura molto semplice. Nel dipinto indossava un abito di velluto verde, con una scollatura che metteva in vista le spalle fino alle clavicole.
Dopo essersi soffermata sui dettagli, con uno sguardo d’insieme, Anya capì il motivo per cui il signor Langley soffrisse così tanto.
- Non era bella?
Anya fece di sì con il capo. Pensare che una donna così non fosse più tra i vivi, le donò una strana sensazione. Non riusciva a smettere di pensare che fosse un peccato.
Quando, poco dopo, ritornarono in soggiorno, notarono che la pioggia era diminuita e in lontananza le nubi sembravano più bianche. Nel silenzio prodotto dal ricordo, Anya e Miss Delaford furono aiutate e vestirsi e affittarono una carrozza per recarsi in città.
Da quel momento fino al pomeriggio, quando rientrarono per il pranzo, Anya non ebbe un solo attimo di tregua. Le intenzioni della signorina Delaford erano tra le migliori e il suo ultimo desiderio era di perdere tempo; con questi propositi era salita in carrozza e aveva lungamente intrattenuto la sua compagna con una teoria sul tempo perso e quello guadagnato. Anya ascoltò attentamente tutto il monologo, senza interromperla per timore che ricominciasse daccapo. Quando, però, il giro per i negozi ebbe inizio, la pazienza della giovane cominciò a venir meno, nonostante i tentativi di trattenersi furono tutti portati a termine con successo. Si prodigò in numerosi sorrisi educati, esclamazioni sorprese e gesti affettati, oltre che a compiacerla con continui pareri sul tempo, sulle strade e sull’abbigliamento altrui. Miss Delaford guardava attentamente ogni vetrina, si soffermava su ogni bottega sartoriale e utilizzava Anya come modella anche per tutto ciò che le piaceva. Anya contò quarantaquattro cappelli di varia forma, colore e misura; dodici abiti, ventotto cinture, sedici spille, quattro soprabiti, undici paia di scarpe, otto collane, tre abbinamenti di collane e orecchini, quindici tipi di nastri e ultimo, ma non meno impegnativo, il drappeggio di sette diversi tipi di tessuti estivi e autunnali secondo l’ultima moda. L’unica consolazione ad un tale supplizio fu l’aver trovato della biancheria intima di prima qualità, un numero non specificabile di sottogonna tutti diversi – a proposito dei quali Miss Delaford le disse che nessuno di essi sarebbe rimasto fuori dalla sua gonna – sottane, un paio di camicie da notte, che non le servivano per il ballo ma conveniva comprarle ugualmente, calze di seta, fermagli per capelli, un elegantissimo e costosissimo soprabito, che, all’infuori di un voluminoso cappuccio non aveva nulla di straordinario, e poi un paio di fazzoletti ricamati, un carnet, un pennino per in carnet, un paio di bracciali, due ventagli simili per colore ma non per forma, un paio di guanti e le scarpe. A neanche la metà di tutti quegli acquisti, Anya perse il conto dei soldi spesi a dieci sterline e otto cents. Per la restante parte del tempo si sentì sempre più in colpa nei confronti del signor Langley, dal conto del quale venivano sottratti i soldi spesi. Ad un certo punto cercò di frenare la smania di Delaford, ma lei non faceva altro che dire quanto fosse bello e quest’altro. Così, ogni tentativo della giovane di calmierare le spese, naufragava contro la richiesta di provare il gioiellino della moda francese, o il cappello a tesa stretta di chiaro stampo inglese.
Un altro fattore che accresceva la preoccupazione di Anya, era la quantità di scatole, pacchi e contro pacchi che Miss Delaford stava accumulando nella loro vettura da nolo. Alla fine della giornata era rimasto lo spazio appena sufficiente per tutte e due, cosa che scatenò l’ilarità di Miss Delaford e, solo successivamente, anche quella di Anya, che non resistette nel sentirla sfiatare mentre rideva.
Quando tornarono a casa della signorina Delaford, il tempo era cambiato impercettibilmente e dalle nubi grigio chiare veniva giù una pioggerella talmente leggera da non lasciare aloni sugli indumenti.
- Vedrai che per domani il tempo si rimetterà – la rassicurò, affidandole una consistente pila di pacchi. Anya, che fino ad allora non aveva dato al tempo la benché minima importanza, a parte infastidirsi nel vedere gli orli dell’abito zuppi, continuò ad ignorare ogni miglioramento o peggioramento delle condizioni atmosferiche, assentendo in direzione di Miss Delaford con un cortese interesse. Più di tutto, fino ad allora, aveva pensato al signor Langley, al viaggio che era stato costretto ad affrontare. Con lui c’era solo Edgard e tra sé pregò che non incontrassero ostacoli di nessun genere, tantomeno che tornassero tardi a casa; anche se, come le aveva spiegato Miss Delaford quella mattina, durante colazione, il tragitto che il conte aveva descritto richiedeva pazienza, tempo e un certo coraggio, dal momento che un tratto consistente della strada era dissestato. Un particolare che attrasse l’attenzione della giovane, stimolandone l’apprensione e catturandone il flusso dei pensieri anche mentre la carrozza si muoveva baldanzosa per le vie di Waterford City.
Il pranzo in casa Delaford fu sostanzioso come la colazione. La tavola fu riempita d’ogni ben di dio e lo stomaco di Anya avrebbe risposto bene se non fosse stato per l’acuta osservazione che Miss Delaford mise in atto riguardo i movimenti di Anya. Lei lo sapeva che non era stata mandata lì solo per divertirsi e il dopo pranzo mise duramente alla prova il suo portamento, migliorato con una delicatissima Bibbia della famiglia Delaford sul capo, la sua bravura nel ballo e nella conversazione. Le ore che il signor Langley la tenne sveglia la notte diedero i loro frutti e Miss Delaford si complimentò con lei per le nozioni acquisite. Nel frattempo aveva terminato il suo ricamo preferito ed elogiava la qualità del cotone utilizzato in mille modi diversi. In breve Anya imparò che: al cotone francese era da preferire quello inglese, poiché l’Inghilterra aveva per lungo tempo avuto delle coltivazioni americane e conosceva la qualità migliore di cotone disponibile; la Francia e l’Italia producevano le sete più pregiate del mercato, ma, dal momento che i costi d’importazione della seta francese erano minori, allora, per risparmiare, si poteva scegliere quella francese. Le disse pure un mucchio di cose sui telai e sugli aghi che aveva utilizzato per il ricamo, ma ad Anya il ricamo interessava poco e prima di rendersene conto il discorso era passato al tema degli scialli di lana che il signor Chadwick Bonney vendeva nella sua bottega.
Alle cinque e mezza Betty servì del tè con muffin inglesi al burro e alla crema alla vaniglia della colazione. Anche allora Anya mangiò tutto quanto le fu offerto e il suo umore ne trasse giovamento. Iniziò a pensare al viaggio del signor Langley con minore pessimismo e a guardare fuori dalla finestra con maggiore impazienza, in attesa del suo ritorno.
- Tornerà non prima di sera, cara. – disse Miss Delaford.
Anya si allontanò dalla finestra, guardandola senza capire. Mentre si sedeva, Miss Delaford sollevò gli occhi da un nuovo ricamo. – È da mezz’ora che guardi fuori. Non credi che abbia capito che stai aspettando lui?
- Mi chiedevo se l’affare fosse andato a buon fine …
- Guardando dalla finestra? Strano modo. Ad ogni buon conto, non vorrei deluderti dicendoti che mi è stato assegnato il compito di riportarti a casa personalmente. Il signor Langley non era sicuro di riuscire ad arrivare in tempo, così io mi sono offerta di scortarti.
Anya lanciò un’ultima occhiata alla finestra.
- Naturalmente – continuò Miss Delaford. – potrai dormire qui, se vorrai. Almeno il signor Langley starà più tranquillo …
La giovane trovò l’offerta allettante, perché non le andava di tornare alla tenuta con quel tempo così instabile; certo, aveva smesso di piovere e la sera si prospettava più serena della precedente, ma alla tenuta c’era Greta e se l’avesse vista prima della fine della giornata l’avrebbe fatta lavorare … e a lei non andava proprio. Allo stesso tempo, però, c’era da considerare la questione dei pettegolezzi. Non poteva pensarci senza provare un profondo fastidio. Vedendola con tutti quei pacchi cosa avrebbero pensato? La sua partecipazione al ballo era ancora un segreto tra lei e il conte?
- È molto gentile da parte vostra, Miss, ma non posso accettare. Se il signor co … Se il signor Langley aveva stabilito che tornassi alla tenuta prima di sera, penso che si preoccuperebbe non vedendomi.
- Suvvia! Se non ti vedrà, capirà immediatamente che ti ho intrattenuta … e sarà così, fidati. Saperti qui sarà il più grande sollievo di tutta la giornata. Ci tiene molto a te.
Non fosse stato per l’ultima frase, Anya avrebbe dato una risposta. Ma il cuore le fece un balzo e la voce si fermò nella gola. Ebbe l’impressione che Miss Delaford notasse il suo stupore e aspettasse di vederglielo smaltire. Chinò il viso sul ricamo e nella stanza piombò il silenzio. Nel momento in cui Anya fu sicura di poter agire con compostezza e di mettere a tacere i sentimenti che avevano alterato il colore delle sue guance, declinò nuovamente l’invito di Miss Delaford, riempiendola di ringraziamenti per la sua gentilezza.
- Ricambio solo anni di favori ad un amico, mia cara.
La conversazione poco a poco si alleggerì, almeno per Anya, che non avrebbe sopportato un’altra accezione al signor Langley. Miss Delaford chiese notizie del signor Drebber, di cui aveva tanto sentito parlare, ma che non aveva mai visto, e Anya l’accontentò, sfuggendo ad una moltitudine di insinuazioni sull’amicizia esistente tra loro. Le raccomandò di riservare il primo ballo al suo cavaliere e di cambiare spesso compagno di ballo, così da non destare la curiosità dei presenti.
Anya pensava di non potercela fare. Le regole erano tantissime e se Miss Delaford insisteva nel dire che le avrebbe ricordate tutte, Anya era sicura di poter fare almeno una cattiva figura.
Un sereno passaggio delle nubi in cielo introdusse una serata fresca e umida. La vettura da nolo che riportò Anya alla tenuta, procedette senza intoppi. Talvolta la carrozza incocciava una pozzanghera, talvolta un dosso, ma niente la stupì quanto quello che vide non appena giunse a destinazione. Nonostante non fosse ancora sera, dal cortile non udì alcun suono e, quando andò a vedere, si accorse che la cucina era vuota.
- Sei proprio sicura che a quest’ora siano ancora tutti in piedi, mia cara? – disse Miss Delaford, seguendola in ogni direzione. Anya ci capiva sempre meno.
- Certo che sì … - mormorò, tornando alla vettura, ferma di fronte l’ingresso principale. Nel timore che un ladro fosse entrato nella tenuta, Anya si assicurò che i cavalli fossero tutti nella scuderia.
A risolvere ogni dubbio ci pensò Margareth, uscita d’un tratto dalla cucina con il suo tipico atteggiamento rassicurante.
- Il signor conte ha dato la giornata libera quasi a tutti, domani. Alcuni di loro sono già partiti per casa, altri sono al fiume a lavar la biancheria.
Così tranquillizzata, Miss Delaford tornò in città, mentre Anya, sempre più meravigliata, pensava a come il signor Langley avesse pensato proprio a tutto.

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Capitolo 42
*** Capitolo XL ***


An irish tale - Capitolo XL



Il giorno per il quale Anya fu condannata all’assenza di sonno e a una lunga giornata passata a fare la modella per una simpatica signora di Waterford city, fu uno dei più odiati di tutta la vita della sguattera. Almeno per quanto riguardava l’arco di ore che intercorse fra l’attimo in cui aprì gli occhi e quello in cui mosse i primi passi nella sala da ballo di Westok.
Il signor Langley volle che Miss Delaford sovraintendesse alla vestizione della giovane, che, più esaurita che mai, si chiedeva in quale ordine dovesse essere indossata la lunga sfilza di camiciole, gonne e sottogonne e corsetto che giaceva sul letto. Margareth per un compito del genere non era tagliata e il conte decise di non introdurla nella faccenda perché era sicuro che avrebbe fatto molte domande. Miss Delaford, invece, per quanto curiosa e ciarliera, era il tipo a cui si poteva dire tutto senza il minimo pericolo che si mettesse a parlare di quanto aveva visto e sentito. Non che Margareth fosse l’opposto, ma la prudenza in una faccenda che metteva a rischio la reputazione di gentiluomo del conte, come quello di portarsi la sguattera al ballo, non era mai troppa. Così, mentre il signor Langley si occupava del suo aspetto, per il quale aveva fatto venire un barbiere di Waterford city, Anya era alle prese con Miss Delaford che, da almeno una decina di minuti, le chiedeva di trattenere il fiato per allacciare il corsetto.
Non avendo il girovita stretto quanto quello delle sue coetanee, ad Anya fu consigliato di non mangiare nulla per evitare che si gonfiasse lo stomaco. Per tutto il giorno fu perseguitata da uno spietato senso della fame e le volte che riusciva a resistergli erano davvero poche. Mise in pancia due mele, una pagnotta e mezza, e quattro dolcetti all’arancia in sette spuntini diversi e quando arrivò il momento di vestirsi ebbe la consolazione di aver digerito tutto.
- Trattieni bene il fiato, cara … ancora di più …
Ogni suggerimento era accompagnato da uno strattone ai lacci del corsetto. Tenendosi alla spalliera del letto, Anya sentiva il torace comprimersi sempre più e il seno sospingersi verso l’alto.
- Hai delle misure insolite, cara – disse Miss Delaford avvolgendole la vita con un metro.
- Intendete stringere ancora, Miss?
- Certo che sì! Il punto vita delle ragazze come te può raggiungere i quaranta centimetri, mentre tu ti lamenti per soli cinquantadue centimetri.
Anya guardò l’immagine di sé riflessa allo specchio e il corsetto che le strizzata innaturalmente la vita la impressionò. Dietro di lei Miss Delaford sciolse il nodo ai laccetti e riprese a stringere.
Quando fu soddisfatta del suo lavoro, la donna aiutò Anya ad indossare la restante parte del corredo. Adesso Anya riusciva a malapena a grattarsi la spalla e il solo andare avanti e indietro per la stanza le accorciava il fiato come una passeggiata di mezzo miglio. Mentre lottava contro il nervosismo, aumentato dal non poter eseguire dei movimenti che l’avrebbero altrimenti aiutata a smaltirlo, Miss Delaford le acconciò graziosamente i capelli, utilizzando un’infinità di fermagli ed una fantasia di cui Anya non si ritenne capace. In un’ora, approfittando della gran quantità di onde dei capelli di Anya, Miss avvolse gran parte dei capelli intorno alle dita e appuntò i boccoli formatisi sul capo; infine, con le ciocche alla base della nuca, formò dei riccioli che lasciò cadere morbidamente sulle spalle.
- Perfetto! – esclamò con un ultimo tocco all’acconciatura. – Adesso puoi indossare l’abito.
Anya trovò difficile alzarsi dalla sedia con tutte quelle impalcature addosso. Miss Delaford afferrò il vestito per l’orlo della gonna, arricciandolo fino alla scollatura e glielo passò intorno alla testa.
- Splendido, splendido, splendido! – iniziò Miss chiudendo l’abito lungo la schiena. – Fatti vedere … Cielo! Sei magnifica!
La giovane si girò verso lo specchio, che tagliava parte della gonna, e pose un paio di interrogativi dubbiosi su di essa a Miss Delaford.
- Oh… taci, per favore. La tua gonna non ha nessun difetto! – esclamò Miss con un grande sorriso.
L’ora di andare era arrivata. Anya lesse l’invito del signor Drebber e guardò poi il cielo fuori dalla finestra. Era attesa per le nove e mezza, ma il signor Langley le aveva spiegato che non si arrivava mai in orario.
Il tempo era sereno; da qualche ora il sole era riuscito a farsi spazio tra una nube e l’altra e tutto, nel paesaggio, risplendeva di rugiada. Miss Delaford e lei si intrattennero a lungo davanti alla finestra del soggiorno, sedute sul divano, raccontandosi ogni cosa potesse aiutarle ad ingannare l’attesa. In verità la conversazione sarebbe dovuta servire a mitigare il nervosismo crescente e l’ansia di Anya, che non faceva altro che porre domande sulla gente che avrebbe incontrato al ballo. Quando cominciò a dire che, se avesse potuto, si sarebbe tirata indietro molto volentieri, ebbe inizio il sermone di Miss Delaford.
- Vedrai – le ripeteva. – Nessuna conversazione ti metterà in difficoltà. Sei molto intelligente e, se devo proprio essere sincera, sarai tu a dar filo da torcere alle altre.
Anya annuiva tutte le volte, dimostrandosi interessata ai consigli e sfogando il nervosismo facendosi aria con il ventaglio. Ma Miss Delaford, che aveva imparato a leggere le sue espressioni, non smetteva di parlare e ogni secondo che passava era un secondo in più di snervante attesa. Le venne voglia, d’un tratto, di allontanarsi, uscire in cortile, dove avrebbe rinfrancato l’animo con un po’ di brezza fresca, e aspettare che il signor Langley la raggiungesse lì. Tuttavia, nel momento stesso in cui questo pensiero venne formulato, si udirono dei passi dal corridoio e poco dopo il conte entrò in salotto. Indossava un elegante completo scuro, con lunghi pantaloni e un gilet ricamato ad arte; si era, inoltre, fatto la barba e aveva pettinato accuratamente i capelli, la cui lunghezza pareva non essere stata ritoccata. Non appena Anya lo vide, così diverso dal solito, così curato, non riuscì a trattenere un sorriso sorpreso e simile fu la reazione del conte. Se, quando entrò in soggiorno, stava per dire qualcosa, un attimo dopo sembrò che le parole gli si fossero fermate in gola.
Miss Delaford, dopo aver squadrato i visi di entrambi e detto qualcosa di cui non si capì il significato, cominciò a ridere. Ridestatosi, il signor Langley si voltò nella sua direzione e increspò la fronte alla ricerca di una spiegazione.
- Siete così adorabili, tutti e due! – esclamò, alzandosi in piedi insieme ad Anya. – Ma adesso, signor Langley, ponete fine alle pene di questa poveretta. Accompagnatela al ballo e fatela divertire!
Se possibile, il conte parve ancor più confuso di prima; fortunatamente Miss Delaford lo capì e, con un rapido cenno della mano, lasciò cadere simbolicamente il discorso.
Dopo aver indossato i rispettivi soprabiti, Anya e il signor Langley si avviarono alla carrozza che li aspettava di fronte l’ingresso. Il sole era già basso all’orizzonte e illuminava la tenuta con i suoi gialli aranciati. Di tanto in tanto qualche nuvola gli passava davanti e sulla brughiera cadeva un velo grigio di ombra, prima che i suoi alberi, i cespugli di rovi, i fiori, i sentieri di ciottoli e terra battuta e i prati tornassero a splendere con riflessi giallo zafferano.
Per quanto il rigido corsetto le permetteva, Anya guardava estasiata il paesaggio che si stagliava fuori dal finestrino della carrozza. Il sole stava tramontando velocemente, ma ogni attimo che passava la brughiera era sempre più bella e le emozioni che si susseguivano nell’animo della giovane sempre più intense.
- Oh, signor conte, non trovate anche voi che sia magnifico? – disse, senza riuscire a trattenersi, sporgendosi leggermente verso il finestrino.
Langley, che stava ammirando anche lui la brughiera, ma con una maggiore compostezza rispetto ad Anya, sorrise e guardò fuori. – Splendido – commentò con un sospiro. Prima di rimettersi seduto lanciò un’occhiata sbilenca al volto di Anya, beandosi della sua espressione rapita.
Mentre la carrozza incedeva con un rumore di ciottoli, legno e ruote in movimento, Langley fece una considerazione sulla strada che restava da percorrere. Westok, la tenuta del signor Drebber, distava dalla sua non meno di cinque miglia. Restavano circa altre tre miglia di strada e già da lontano si scorgeva la grande macchia di fiori rossastra che circondava Westok.
- Per stasera, chiamami “Signor Langley”.
Anya alzò lo sguardo su di lui e assentì. – Come volete.
Langley annuì a sua volta, prendendo a tormentare le dita dei guanti. – Con quest’abito stai molto bene.
La ragazza sistemò una piega della gonna con la mano. Nel timore che il conte la vedesse arrossire, sorrise e chinò il viso. – Grazie.
“Anche voi” avrebbe continuato; ma Miss Delaford le aveva spiegato che non si ricambia il complimento di un uomo a meno che non si tratti di uno stretto parente. Sperò che la nota sincera della risposta bastasse a far capire quello che pensava.
- Prego.
Presto la carrozza giunse a Westok. Si era talmente abituata al ritmo traballante della vettura, che, appena si fermò, Anya scostò la tendina del finestrino con profondo stupore. Di diverso avviso parve il signor Langley, che aveva calcolato metro per metro la lunghezza del tragitto e aveva previsto il momento esatto in cui sarebbero arrivati.
Fuori si sentivano già le voci degli altri invitati, le carrozze che arrivavano e incomprensibili discorsi tra gentiluomini e dame. Quando si sporse per guardare in giardino, si sentì impallidire. Sceso dal mezzo, il conte le tese la mano e, mentre lei l’afferrava, lui tentò di rassicurarla con qualche complimento.
Incontrò qualche difficoltà a far passare la gonna dallo sportellino. Rimase incastrata, volse lo sguardo allarmato al signor Langley e lui, badando che nessuno li vedesse, le fece segno di piegare la crinolina. Così fatto si incamminarono in direzione dell’ingresso.
Il giardino di Westok era più grande, bello ed elegante di quello della tenuta Langley. Le siepi, che il signor Featherstone aveva sempre curato poco, erano ora state potate donandogli una forma rettangolare e qua e là erano stati piantati degli alberelli con tronchi contorti a regola d’arte. In cielo le nubi si erano diradate e anche se era venuta fuori la luna piena, la sua luce non era sufficiente per risaltare la bellezza del giardino; per questo il signor Drebber aveva voluto che lungo il sentiero principale fossero sistemate delle torce. Le fiamme che risplendevano nella quasi totale oscurità del tramonto, donavano all’ambiente un’atmosfera suggestiva e con un po’ d’attenzione era anche possibile scorgere i rivoli di denso fumo grigio levarsi dalle torce.
Il signor Langley bisbigliò qualcosa a proposito del signor Drebber, quando, con la coda del’occhio, Anya notò che un uomo dai capelli grigi li stava seguendo. Rispose con cortesia al conte e, consegnati i soprabiti, imboccarono le scale della sala d’ingresso. La casa era enorme. Gli alti soffitti, gli altorilievi, i pavimenti, le porte, ricordavano molto la tenuta del conte. La scala che si inerpicava per più di dodici piedi, era composta di molti scalini e i corrimani erano stati lucidati aex novo con una vernice color noce di cui si avvertiva ancora l’odore. In ogni angolo delle camere, dei corridoi, delle sale, erano state accese delle candele e difficilmente si poteva affermare che la casa non fosse stata illuminata a giorno, mettendo in rilievo tutti i cambiamenti effettuati dai Drebber. I mobili che l’arredavano erano tutti pezzi d’antiquariato, di gusto sopraffino, e le pareti li eguagliavano in fatto di lustro e preziosità. Se Mr. Featherstone aveva sempre preferito ammirare la semplicità degli intonaci rossi, Drebber aveva scelto di tappezzare quelle più scarne con del legno lucido.
Con la scusa di un commento rivolto al signor Langley, Anya volle assicurarsi che l’uomo di prima si fosse dileguato. Il conte sorrise e, mentre lei tirava un sospiro di sollievo nel vedere altre persone dietro di loro, Langley strinse impercettibilmente la presa sul suo braccio, salendo l’ultimo gradino e ritrovandosi nel corridoio in cui si trovava il salone della festa. Anche la doppia porta del salone aveva un che di maestoso. Sia la porta che il salone, anche questi oggetto di rinnovamento da parte del nuovo proprietario, richiamavano le linee e i colori del resto della casa. Quando Anya e il conte arrivarono, la porta era già aperta e tra i pochi astanti Anya riconobbe immediatamente la figura del signor Drebber. Stava parlando con un uomo che il conte le indicò come il signor Arthur Frederick James Rudolph, duca di Kilkenny e suo amico di infanzia, quando il signor Drebber si girò e sorrise loro.
- Conte Langley! – esclamò Drebber andandogli incontro. – Signorina Bacott … è un piacere avervi qui.
Anya si esibì in una leggera riverenza, ringraziò e il conte la presentò al resto del gruppo. Mentre Langley salutava il duca, questi squadrò Anya in viso. Non sapendo cosa fare lei sorrise timidamente, ma d’un tratto ricordò di averlo già visto nella tenuta, quando il signor Langley era stato ferito. Con la mano sinistra aprì il ventaglio e iniziò a farsi aria.
Il duca presentò loro la moglie, Lady Catherine Rudolph, che stava intrattenendo un’allegra conversazione con altre signore. Indossava un abito color pesca, con la vita alta per nascondere il pancione della gravidanza e quando fece segno di volersi alzare, il conte la bloccò prontamente, chiedendole qualcosa a proposito della sua salute. Della signora Rudolph tutto ricordava l’autunno: aveva i capelli e gli occhi castano chiaro, qualche lentiggine nella zona del naso e delle labbra non proprio rosee. Anche le guance davano la stessa impressione e il colore dell’abito non aiutava ad attenuarla. I suoi discorsi erano attentamente calibrati e ogni parola era pronunciata con una precisione tale che un sordomuto poteva comprenderla dal solo movimento delle labbra.
Di diversa natura erano l’aspetto e il carattere del marito. Sir Arthur Rudolph aveva i capelli neri, lunghi fin sotto le spalle e raccolti in un codino, gli occhi scuri e qualche centimetro in più d’altezza del signor Langley. I rapidi movimenti degli occhi sottolineavano una certa predisposizione alla disciplina e al controllo, ma nel complesso non aveva l’aspetto severo della moglie; al contrario, riusciva a mettere a proprio agio gli interlocutori e usava rivolgersi alla signora Rudolph con bonarietà.
La conversazione tra il conte e i suoi amici, intanto, aveva toccato argomenti che Anya non conosceva, ma sui quali si limitava a fare commenti il più possibile brevi e sensati. Riconoscendo la difficoltà, il signor Drebber chiese il permesso al conte di concedergli la sua compagnia.
- Oh, non è nulla, signorina … - la rassicurò porgendole il braccio. – Voglio solo presentarvi ad una persona speciale.
Negli ultimi minuti in sala era arrivata altra gente. Pettinate e imbellettate, le donne squittivano complimenti e critiche sommesse alla sala, muovendosi con una leggiadria inesistente, accompagnante da figlie e marito. Il signor Drebber si fermò più volte a salutare gli invitati e convincerli che Anya non fosse la cugina. Quando raggiunsero il grande camino al centro della sala, il signor Drebber si fermò e richiamò l’attenzione della signorina Imogen, che stava intrattenendosi con altri invitati. Era una graziosa ragazza con i capelli neri, dei grandi occhi a mandorla verde scuro e con un sorriso che pareva essersi stampato a fuoco sulle labbra.
- Voi dovete essere la signorina Anya! – disse prendendo una mano fra le sue. – Sapeste quante volte ho sentito parlare di voi … ero arrivata al punto di non sopportare più il vostro nome per tutte le volte che mio cugino l’aveva pronunciato. Spero che non me ne avrete per questo!
Anya rise. – Certo che no …
- Siete davvero insolente, cugina. Non vi rendete conto anche voi, adesso, che non avrei potuto non parlare bene di questa fanciulla?
Mentre i due parlavano, Anya fu colta dalla sensazione di disagio di prima. Continuava ad arrivare gente e c’era più caldo, ma non era questo ad infastidirla.
Il signor Langley discuteva ancora con i suoi amici, lanciando di tanto in tanto un’occhiata nella sua direzione. Per un istante i loro sguardi si incontrarono e sorrisero l’uno all’altra. Sentendosi rincuorata, tornò ad ascoltare i complimenti della signorina Drebber e di suo cugino. Parlavano di come si fossero organizzati per trasferirsi a Westok e dei giorni che rimanevano alla signorina prima del ritorno alla sua casa di Cork. Si esprimeva nei migliori toni su Waterford, elogiando la brughiera, il paesaggio, e confessando una profonda vergogna di sé per non aver visitato più di un ettaro della proprietà del cugino. In questi termini, Anya trascorse una buona quantità del suo tempo, annuendo di qua e sorridendo di là; facendo la riverenza ai nuovi conoscenti e porgendo la mano per il baciamano; discutendo dei nomi di cui intendeva riempire il suo carnet da ballo e dei merletti più buffi della serata; infine dei suoi dolci preferiti e del gelato che sarebbe stato servito.
Quando arrivò al limite della sopportazione nei confronti dell’artificiosità della signorina Drebber, il conte la prese di nuovo con sé per presentarla ad altri amici e alle loro dame. Qualcuno fece delle insinuazioni su di lei e il signor Langley, parlando a voce alta della lunga assenza del conte dai balli sociali e dalla sorpresa che aveva fatto a tutti tornando in compagnia di una nuova donna. Anya provò simpatia solo per la signorina Walter. Lei era una delle poche ragazze a non lasciarsi andare ad una sola allusione, dimostrandosi, anzi, refrattaria ad ogni tipo di pettegolezzo e rivelandosi parecchio schietta quando le circostanze glielo permettevano. Anya ebbe la fortuna di scambiare solo poche parole con lei, prima che i Drebber aprissero le danze.
- Mi concedete il prossimo ballo, signorina?
Anya si girò. Il signor Langley abbassò lo sguardo sul carnet da ballo e la giovane glielo tese. – Certamente.
La piccola orchestra d’archi intonò un brano allegro e in un attimo la sala fu animata dal suono dei tacchi degli astanti. Il conte e Anya attesero in un angolo che la musica finisse, poi, quando il primo giro di danze terminò e loro si alzarono, la giovane capì cosa era stato a turbarla poco prima, mentre parlava con la signorina Drebber: era l’uomo dai capelli grigi. Era in piedi, accanto al focolare, e sorseggiava del vino. Non ebbe modo di vederlo in viso, poiché quando il signor Langley si posizionò di fronte ad Anya si girò da un’altra parte. L’aveva osservata per tutto il tempo.
La danza richiedeva che i ballerini si avvicinassero e allontanassero dal compagno in una serie di piccoli passi, pause e saltelli. In un momento in cui Anya e il conte si accostarono, lui intuì il suo turbamento e si volse nella direzione in cui aveva guardato prima. Un uomo era chino sul carnet di una biondina, due stavano parlando di qualcosa di serio, un trio di anziane donne spettegolava tra un cucchiaino di gelato e l’altro e due gemelle ammiccavano in direzione di un uomo che non le guardava. Fece un passo avanti, uno indietro, prese la mano sinistra di Anya e avanzò con un passetto insieme al resto dei ballerini.
- Siete pallida.
Quando le fu possibile, Anya si assicurò ancora una volta che l’uomo dai capelli grigi non la stesse osservando.
- Pallida, dite? Che strano, non sono mai stata meglio!
- Non posso sbagliarmi. Quando la danza si sarà conclusa, potrò offrirvi del vino?
Si separarono un’altra volta e Anya cambiò momentaneamente cavaliere.
- Voglio sperare che servirà a rallegrare il colorito del vostro volto. – continuò il conte quando si riavvicinarono.
Anya sorrise. – La danza sta avendo degli effetti benefici sul mio umore, signor Langley, ma se vorrete deliziarmi con un’ottima coppa di vino, non potrò certo tirarmi indietro!
- Ammettete, dunque, di non esservi sentita sempre a vostro agio?
- Non ricordo di aver detto niente del genere.
- Avete parlato di un miglioramento del vostro umore. Ciò sottintende che poco prima non eravate completamente spensierata.
Un passo avanti, uno indietro, Anya ritrovò la sua mano sinistra in quella del conte. Avanzò in sincronia con gli altri danzatori e disse – Perché vi preme tanto scoprire l’andamento delle mie sensazioni, signor Langley?
Il conte ci pensò su. – Sono molto curioso.
- Qualcuno, un giorno, mi disse che “la curiosità è donna” e in effetti io non la trovo tanto adatta ad un uomo. Essa è una delle poche debolezze che, ora come ora, può permettersi una donna nel suo stato di subordinazione e sottomissione all’universo maschile. Voi, esponente del vostro sesso, non dovreste vantarvi di essere curioso, perché, così facendo, limitereste la vostra influenza ad un campo non molto vasto. Avete molti mezzi per scoprire ciò che desiderate sapere; una libera osservazione dell’ambiente è uno di questi. Guardatevi intorno, sondate tutte le anime presenti, la disposizione degli oggetti, e poi ditemi se avete trovato qualcosa di interessante.
Un vago sorriso non abbandonò mai le labbra e gli occhi di Anya. Per quanto serio fosse il discorso che aveva fatto, era riuscita a trovare il modo di renderlo leggero per il signor Langley e per sé. Alla fine della danza era meno timorosa e se si fosse imbattuta nell’uomo con i capelli grigi, era convinta, lo avrebbe salutato con la riverenza che aveva riservato a tutte le persone cui era stata presentata.
Sedette accanto al signor Langley, mentre sorseggiava la coppa di vino e succo di arancia che le aveva offerto, ma non era neppure arrivata a metà che il signor Drebber la venne a cercare, facendosi spazio tra un mucchio di amici ciarlieri.
- Sarei molto onorato se mi concedeste il prossimo ballo, Miss … - disse, ignorando completamente il conte.
Con un’occhiatina civettuola, Anya guardò il carnet. – Spero che sia una quadriglia. Io le adoro!
- Se non lo sarà, ne farò suonare una apposta.
- Come rifiutare, allora?
Drebber scrisse il suo nome, tutto contento. Langley, invece, si allontanò con sir Coltfer, arrivato in quel momento. Da un accordo dell’orchestra intuì che la danza stava finendo e, infatti, i ballerini si muovevano pronti a concludere. Il signor Drebber aveva preso Anya a braccetto e si era avvicinato ad un musicista. Parlottarono, Drebber sorrise e disse qualcosa ad Anya, che annuì entusiasta.
- Allora, Waterford! – lo richiamò sir Coltfer con allegria. – Ma chi state guardando?
Ad una pacca sull’avambraccio, Langley si girò verso di lui. – N … nessuno. Nessuno, perché?
- Mi sembrate distratto …
Un anziano si avvicinò loro, richiamando l’attenzione del signor Coltfer con un pugnetto sulla spalla.
- Toh! Ma guardate un po’ chi si rivede! – esclamò Coltfer con entusiasmo. – Waterford, avrete sicuramente sentito parlare di Clark Spencer, il pugile!
Langley prese una coppa di vino dal vassoio di un cameriere, ammiccando in direzione dell’anziano. – Come no … il pugile! Il grande Spencer. Certo che ne ho sentito parlare!
Per quanto lo riguardava, il signor Spencer si era estinto parecchi anni prima, quando lui era ancora un ragazzino; trovarselo davanti, con tanto di naso storto e labbro cadente, fu una sorpresa che tentò di celare. Adesso si chiedeva solo come Spencer fosse capitato al ballo.
- … me lo ricordo quando era piccolo così … - disse Spencer.
Il conte si ridestò. – Chi?
- Aaron Drebber.
Le chiare sopracciglia del conte si abbassarono con noia.
Drebber: sempre e solo lui.
- Dunque lo conoscete da quand’era un ragazzo? E, dica, Spencer … il signor Drebber era bravo nei pugni?
Il signor Coltfer se la rideva sotto i baffi. Quando guardò Langley, mal interpretò la sua espressione e spiegò – Il signor Spencer fu insegnante di ginnastica del … dell’attuale compagno di ballo della vostra dama. Le era molto affezionato il signor … il ragazzo, Spencer?
Spencer rispose ridacchiando. Ricordandosi della coppa di vino, Langley se la portò alle labbra facendo navigare lo sguardo sui ballerini. Anya e il signor Drebber danzavano ancora insieme e lei sembrava straordinariamente a suo agio. Ripensò al ballo di prima e li guardò un’altra volta. Poi Sir Coltfer richiamò la sua attenzione su un particolare che Spencer fu invitato a ripetere. riguardava la tecnica del signor Drebber nel pugilato e Coltfer tratteneva a stento le risate, continuando a ripetere “Dio santo!” e a bere il vino per evitare di sbellicarsi. Anche il signor Langley era divertito dalla narrazione del signor Spencer, ma un sorso di vino dopo non poteva più dirsi dello stesso avviso. Fu come se si fosse ubriacato e iniziò a girargli leggermente la testa; decise di non bere più nulla e negli istanti successivi la mano strinse convulsamente la mano sul gambo della coppa, mentre sentiva tirare il fiato ad ogni respirazione.
- Ma lo ascolti, Waterford?
Langley annuì con un sorriso. – Certamente.
- Giuro, signor Spencer, che non ho mai riso tanto in vita mia!
Nel frattempo la quadriglia si era conclusa. Anya e il signor Drebber, sorridenti e accaldati, incedevano nella sua direzione. Langley si sentiva accaldato. Presto il signor Spencer finì di parlare, avendo esaurito la sua scorta migliore di aneddoti, e il signor Coltfer fu preso dalla voglia di ballare. Sorridente, Anya gli lasciò intendere di essere libera per la prossima danza e, congedatosi dal gruppetto, Coltfer si allontanò con lei. Langley non potè negare a sé stesso di sentirsi sollevato. Appena le circostanze glielo permisero, abbandonò la coppa semipiena di vino su un tavolo e uscì in giardino. Sedette su uno scalino dell’ingresso e allargò il colletto della camicia con due dita. La frescura notturna che si muoveva in timide folate di vento lo aiutò e in breve si sentì meglio. Poi, dopo un’occhiata al giardino, vide dal suo orologio che erano da poco passate le due e si infastidì per il modo in cui era corso il tempo. I grilli iniziarono a frinire. Rientrò, attardandosi davanti ad uno specchio per rimettere a posto camicia e cravattino, poi imboccò le scale. Arrivato a metà scalinata, udì dei passi dietro di lui ed ebbe appena il tempo di girarsi e vedere un’ombra dileguarsi dalla porta principale. Scese le scale a precipizio, si guardò dietro e, assicurandosi che nessun altro fosse nei paraggi, uscì anche lui in giardino. Il cuore batteva all’impazzata e le mani erano scosse da un tremito involontario. Le serrò in due pugni, deglutì e si guardò intorno. Nel giardino non vi era nulla che non andava, ma niente gli toglieva dalla testa che fosse mera apparenza. Si pentì di aver lasciato la pistola a casa. Con un sospiro tornò indietro e a grandi passi percorse il corridoio in cui si trovava la sala.
- Signor Langley! – esclamò Anya, quando le fu accanto. Su di lei Langley chinò lo sguardo: era preoccupata e si mascherava con una strana forma di irritazione. – Dove siete stato? Vi ho cercato a lungo … eravate uscito?
- Sì … ho preso una boccata d’aria.
Anya fece segno di aver capito.
- Avete bevuto molto vino?
- Un paio di bicchieri …
- E basta?
- Il signor Coltfer mi ha offerto un ponce, pochi minuti fa … e anche un dolcetto …
Langley annuì con gli occhi fissi alla sala.
- Perché me lo chiedete?
- Ve l’ho detto che sono curioso … - sorrise. – Volete ballare?
Il conte scrisse il nome nel carnet prima che Anya riuscisse ad aprire bocca. Non era sicura che quella proposta gli fosse stata dettata dal cuore, tantomeno dall’educazione. Certo, aveva usato un tono cortese e le aveva sorriso amabilmente più volte, ma qualcosa nelle sue sopracciglia malferme le diceva che non andava tutto bene. Tentò una domanda sull’argomento di prima.
- Il vino vi ha dato dei problemi, signor Langley?
- No, signorina.
D’un tratto fu come se ogni preoccupazione si fosse dileguata e il viso del conte riacquistò la sua tipica espressione di sufficienza. Anya non riuscì a capire se un tale atteggiamento derivasse dal desiderio di non agitarla o da altro. Il viso lindo e sorridente del signor Langley rispose ad ogni sua frase con un’espressione bonaria e, se fino a qualche minuto prima Anya aveva ragione di credere che il suo umore non fosse dei migliori per via della festa e di ciò che non volle dire, dopo, tra un ballo e l’altro, dovette redimersi. Tre volte ballarono insieme, tre volte si lamentarono per la brevità della danza. Quando, stanchi, decidevano di sedersi, che si trattasse del signor Langley o di Anya, le conoscenze che avevano fatto nel corso della serata, mettevano loro in mano una coppa di vino, del gelato o un dolcetto, e se li portavano dietro.
Ben presto Anya iniziò ad avvertire i segni della stanchezza. Era in piedi da quasi ventiquattro ore e le dolevano le ginocchia, le spalle e la vita, che non ne poteva più di essere strizzata come uno straccio. Nonostante tutto continuava a ballare e ignorava i dolori con degli abbondanti sorsi di ponce. La gonna, con tutta la sua imbottitura, pesava un accidenti e ogni salto faceva sì che tutta la pressione si esercitasse sull’articolazione delle ginocchia. Allorché il signor Langley, in risposta ad una sua domanda, le disse che si erano fatte le quattro, Anya espresse il desiderio di andare via ed ebbe origine una fase di saluti e congedi che durò non meno di tre quarti d’ora. Al termine di questo frangente fu solo per miracolo che Anya non cadde addormentata tra le braccia del conte. Si risvegliò di soprassalto quando a meno di un metro da lei, messo di spalle, vide l’uomo dai capelli grigi. In quel momento lei e il signor Langley stavano congedandosi dai coniugi Tilmney. Il conte sorseggiava del ponce e teneva il bicchiere in mano in attesa di bere il poco che era rimasto. Anya gli era molto vicina; l’orlo della gonna toccava il tacco della sua scarpa. Strinse impercettibilmente la presa della mano sull’avambraccio del conte e lui annuì piano.
- È stato un piacere signor Tilmney … - sorrise Langley dopo qualche istante. – Signora Tilmney.
Si mossero per allontanarsi. Nello stesso attimo l’uomo con i capelli grigi fece un passo indietro e andò a sbattere contro il signor Langley, al quale cadde il bicchiere.
- Chiedo scusa, Sir! – esclamò quello, porgendogli un fazzoletto di lino. – Pardon!
Il conte borbottò qualche parola di convenienza, accettando il fazzoletto e tamponando i pantaloni ove possibile. Poi sopraggiunsero delle cameriere e ripulirono il pavimento. Fu in quegli istanti che Anya poté guardare l'uomo in viso: aveva gli occhi sorprendentemente limpidi e la pelle opaca; i capelli sottili e di una tonalità grigio cenere, come pure i baffi e le sopracciglia. Non negò che l’uomo fosse dotato di una bella fisionomia, né che questa avesse un che di artificiale.
- Va tutto bene … - gli disse il conte. – Ci accingevamo ad andare … nulla di cui preoccuparsi.
L’uomo parve rassicurarsi. Si tamponò la fronte con un fazzoletto piegato in quattro e sollevò timidamente un angolo delle labbra. – Voi dovete essere il conte Langley …?
- Sì, sono io. Con chi ho il piacere?
- Io sono Winwood Smith. Nice to meet you.
Langley sorrise all’accento inglese di Mr. Smith. In inglese disse che la sua dama era stanca e doveva accompagnarla a casa. Poi si congedarono e uscirono.
In carrozza Anya poggiò il capo alla parete dell’abitacolo e si addormentò con un sonno disturbato dagli scossoni del mezzo e dal dolore alla vita per il corsetto. Il signor Langley aveva chiuso la tendina del finestrino, ma era rimasta una striscia di luce bianca che attraversava il volto della giovane dal lato sinistro della fronte alla base della guancia destra. Per un attimo il conte desiderò svegliarla, parlare con lei, carezzarle una guancia. Non distolse lo sguardo da lei se non per accertarsi che il paesaggio fuori fosse tranquillo. Sorrise tra sé ogni qual volta la vide riaprire gli occhi e chiuderli, muovere le braccia e le gambe alla ricerca di una posizione più comoda. Poi la carrozza girò a destra e lui capì che mancava poco all’arrivo.
- Anya … ehi, siamo a casa … svegliati, su.
Anya bofonchiò un “no” sommesso, mugolando e accoccolandosi come poteva. Il conte la scosse nuovamente.
- Signor Lang … non voglio lavora … re.
- Non lavorerai. Svegliati adesso.
La giovane attese che la carrozza si fermasse prima di obbedire. E anche quando ciò accadde titubò prima di muovere un muscolo. Il signor Langley la aiutò a scendere e la accompagnò, mentre dava disposizioni ad Edgard.
Anya si lamentò del dolore alle ginocchia. Il conte si girò verso di lei mentre apriva la porta principale. – Ce la fai ad arrivare in camera?
La giovane scosse svogliatamente il capo. – Non … non lo so.
Quando entrarono il rumore dei tacchi risuonò nella sala principale. Anya si sentì attraversare la schiena da un brivido.
- Buon sonno, signor conte – disse allontanandosi verso il corridoio.
Langley fece cadere la chiave in tasca e la raggiunse. Quando furono davanti alla porta della camera di Anya era pronto a fare dietro front, ma lei lo pregò di aiutarla. Avanzò fino alla poltroncina e si liberò del soprabito.
- So che non dovrei neppure pensare una cosa del genere – iniziò con voce stanca. – ma non posso sbottonare l’abito da sola. Potreste farlo voi?
Langley strabuzzò gli occhi. – Che cosa?!
- Non vi costerà alcuna fatica. Ve ne prego …
- Chiamo Margareth. Non sarà un problema, per lei, sveg ...
Con pochi movimenti fiacchi Anya si tolse le scarpe e le sistemò con un piede accanto alla poltrona. Fece una smorfia di disappunto e si piazzò al centro della stanza, dando le spalle al conte. - Signore, non potrò dormire con questa roba addosso. Si tratta solo di pochi bottoni e di qualche laccio.
Langley era sempre più esterrefatto. Mai nessuna donna si era permessa di parlare di biancheria davanti ad un uomo e ora ... Non pochi furono i pensieri dettati da istinti primordiali e la sottile figura della giovane, fasciata nell’abito che l’altrole aveva regalato, non aiutò.
D’accordo.
Con pochi passi le si avvicinò. La fila di bottoni era lunga. La osservò brevemente e iniziò a darsi da fare, cercando di essere veloce e preciso. Anya respirava lentamente e con la mano rimuoveva alcune forcine sulla nuca. In breve venne raggiunto dal suo profumo e le dita iniziarono a perdere il contatto dei bottoni, sfiorando l’aura di tepore emanato dal suo corpo. Ora che l’abito era aperto si vedevano la camiciola di cotone e il corsetto.
- Ho fatto – disse deglutendo. Sentì Anya sorridere.
- Grazie.
Senza capire perché, annuì. Poi trasse un lungo sospiro e distolse lo sguardo dal suo collo nudo e dalla pelle diafana delle spalle. Si umettò le labbra secche, costringendosi a non guardarla un’altra volta. La voglia di averla vicina si ripresentò, più forte di prima. Premette le dita sugli occhi, allontanandosi dal centro della stanza, cercando di non badare al fruscio delle vesti dietro di lui. Le diede la buonanotte, fuggì e richiuse la porta dietro di sé.
Sulle scale rallentò il passo, fino a ricadere seduto su un gradino. Portandosi una mano al viso notò che una punta del suoprofumo aleggiava intorno ai polpastrelli. Lo aspirò profondamente, i battiti accelerati.

 

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Capitolo 43
*** Capitolo XLI ***


An irish tale – Capitolo XLI



Chissà se qualcuno sa.
Chissà se ha sortito l’effetto che speravo.
Chissà.
Chissà se lo ha infastidito.
Chissà cosa gli è passato per la testa. Cosa ha pensato.
Quei colori erano belli.
Il signor Drebber ha curato tutti i dettagli. Westok è magnifica. Tornarci sarebbe bello.
Chissà se mai accadrà di nuovo. Essere invitata ad un ballo.
Ma no.
Smettila!
Smettila, smettila!
PIANTALA!


Scosse energicamente il capo. Colpì la fronte con i palmi. Batté le mani sul pavimento bagnato.
- Anya, va tutto bene?
Mary.
Cielo!
Anya non rispose. Immerse la spazzola nel secchio e scrollò l’acqua in eccesso.
- Ehi?
- Sì. Sì, va tutto bene!

Impellente bisogno di uno spazio personale.
Espira, espira. Cavolo, espira!


Sotto le dita avvertì la debole resistenza del sapone tra le fughe del pavimento.

Sei ancora d’accordo riguardo lo spazio personale?

- Ma certo! Razza di stupida!
- Cos’hai detto?
Anya gettò la spazzola nel secchio. L’acqua superò il bordo e bagnò il pavimento. – Stai zitta!
- Ehi, ma si può sapere che ti prende?
- Fatti gli affari tuoi!
Mary smise di spazzolare il pavimento e si raddrizzò. – È da una giornata che fai così!
Anya alzò le braccia al cielo con rabbia.

Giuro che fra poco me ne vado.

La cameriera pensò di non dirle più niente; la guardò per qualche istante con gli angoli delle labbra piegati verso il basso e ricominciò a lavorare. Anya le lanciò un’occhiataccia per assicurarsi che avesse rinunciato a farle domande.
La cena fu relativamente silenziosa. Al tavolo della cucina erano tutti presenti, ma l’atmosfera era resa più piatta a causa dell’assenza del signor Langley, che era partito poco prima di pranzo per risolvere un imprevisto nell’acquisto del terreno ai confini della contea. Pareva che ci fossero problemi con il cambio dell’assegno.
Anya finì di mangiare per prima. Quando anche gli altri si alzarono, sparecchiò e andò in camera sua. Mentre spazzolava i capelli le venne in mente un motivetto della sera prima e iniziò a canticchiarlo. Era un brano sul quale lei e il conte avevano danzato. Strappò dalla spazzola i capelli che v’erano rimasti e si coricò. A lungo, sentendo frusciare il cuscino ad ogni movimento del capo, non riuscì a dormire. Non era la stoffa ad infastidirla. Per un po’ sentì caldo; si scoprì e giacque supina con la mani sulla pancia. Poi si ricoprì e si girò sul fianco sinistro. In quel modo cominciava ad avere più sonno e sbadigliando pensò alla sera precedente. Tutto quello che aveva vissuto le era passato davanti agli occhi dal momento che si era svegliata, ma mai con tanta intensità. Dopo qualche istante riuscì ad addormentarsi e l’ultimo pensiero fu per il conte.
La mattina seguente si chiese come fosse arrivata in cucina. Sedeva al tavolo con un gomito poggiato sulla superficie legnosa e il capo adagiato sull’avambraccio. Apriva e chiudeva le palpebre. Le chiudeva e le riapriva per mettere a fuoco la colazione. Aveva voglia di cioccolata e caffè e Greta le parlava di scarpe. Le mise davanti una tazza di tè caldo con brandy e dei biscotti con burro e frutta secca. Anya riaprì gli occhi e sollevò il braccio pesante per prendere la tazza dal manico.
C’erano una luce ed una temperatura gradevoli, quel giorno. Le pareti chiare della cucina avevano assunto le tonalità fredde dell’alba e dalla porta entravano delle leggere ventate di aria frizzante.
Tra un sorso di tè e un altro Anya udiva i passetti della cuoca dietro di lei. Greta la squadrò brevemente e aggiunse un altro cucchiaio di brandy al suo tè. Ad Anya il brandy non piaceva, ma in quel momento non aveva le forze sufficienti per frenarla. Aveva solo tanta voglia di cioccolata e caffè. Appena finì il tè, incrociò le braccia sul tavolo e cominciò a parlare di tende. Vedeva bene una tenda verde bottiglia alla finestra della cucina, una tenda color ocra nella sua stanza e una indaco nella camera adiacente alla cucina. Greta la interruppe più volte per una spiegazione più approfondita; Anya parlava disegnando cerchi sul tavolo con la punta delle dita, la mente persa in tutt’altri pensieri.

I pantaloni macchiati di vino.

- Perché, sai … prova ad immaginarla una tenda verde qui. Cioè … non solo sta bene con il color crema delle pareti e il legno scuro dei pensili, ma nei giorni di luce, sai, quelli in cui il sole splende e ti acceca se solo ti rischi a guardarlo?... ecco, in quei giorni di luce una tenda verde bottiglia sarebbe l’ideale … non pensare a qualcosa di impegnativo … no, nulla di tutto questo … io pensavo ad una stoffa leggera, una di quelle in cui la trama è visibile, percepibile al tatto, ma non tanto da focalizzare tutta l’attenzione dell’osservatore sulla trama … credo di aver visto una tenda del genere al mercato … o forse la vendeva Bill? Cavolo, ma che importa …

Che faccia aveva fatto.

- Dicevo del verde bottiglia … ecco, avevo pensato anche ad un azzurro, come il mare della Grecia di fronte alle case di Santorini … quelle case che sembrano fatte di panna … ma una tenda simile in questa cucina stonerebbe. Al massimo potrei accettare una tenda azzurra, grezza, in una casa a mare, ma qui monterei una tenda con la trama visibile verde bottiglia … e se non hanno il verde bottiglia, pazienza. Non sarà mica la fine del mondo. Non ci cadrà mica il cielo sulla testa … non credi? No? No, scusa … hai seguito tutto il discorso … per dirmi un cavolo di “no” alla fine? Certo, certo, libera di pensare come vuoi … e chi ti dice niente?

D'altronde non è colpa mia se ti piace fare la larva del legno …
Sempre d’accordo sullo spazio personale, Anya?


- Non sarebbe male …
- Eh?
- Dicevo … la tenda verde. Ne comprerò una, se mi riesce.

Certo … il signor Langley ti ha ridotto la paga e tu pensi alla tenda!

Sospirò.

Cosa vuoi che me ne importi?

Ed uscì. Il sole era sorto da poco.
Preso il badile, appuntò lo sguardo sul cancello e si calcò il cappello sulla testa.
Il conte aveva detto che non aveva idea del tempo che avrebbe trascorso lontano dalla tenuta.
Pensò a lui che la guidava durante le danze e le bisbigliava il passo che aveva dimenticato. Rivide la sua espressione maliziosa quando le chiese di ballare con lui per la prima volta. Le prove che avevano fatto la notte, nel corridoio dell’ala padronale, le riverenze e tutti i consigli appena sussurrati, i passi felpati, i saltelli attutiti poggiando le punte dei piedi per timore che si svegliasse qualcuno. Le sue mani intorno alla vita, le maniche della camicia arrotolate fino alla piega dei gomiti, la sensazione del suo petto vicino; e poi i capelli scarmigliati, la linea del sudore lungo il dorso della camicia e la gran varietà di espressioni che assumeva quando parlava.
Tutto d’un tratto desiderò parlargli, averlo vicino. Si pentì di non aver vissuto meglio il momento in cui l’aveva accompagnata in camera sua la notte precedente. Si pentì si aver mandato giù tutto quel vino che le aveva fatto venire sonno.
Sospirò e riprese a spalare via la paglia sporca dal box di Fedor, che era legato ad un gancio della parete, dietro di lei. Il cavallo ruminava una manciata di fieno che gli aveva dato e sembrava proprio estraneo ad ogni ragionamento della sguattera, con il suo atteggiamento apatico e con le orecchie che ruotavano avanti e indietro, si alzavano ed abbassavano ad ogni minimo suono.
- Sta’ tranquillo, che tanto il tuo padrone oggi torna tardi …
Fedor appuntò per un istante lo sguardo su di lei, che gli diede altro fieno.
- Però vorresti uscire, vero? Conosci la parola “uscire” … mh, curioso … uscire. Uscire!
Il cavallo drizzò le orecchie. Anya rise.
- Ti ci porterei io fuori … - disse con un sospiro. Versò nella carriola l’ultimo carico di paglia e letame e uscì in cortile, dove vide Margareth, Adele e Mary allontanarsi verso il cancello parlottando fra di loro.
- Ehi!
Margareth la invitò a seguirle. C’era Bill. Anya aveva dimenticato che fosse già Sabato. Quando la vide, l’uomo la salutò con un sorriso.
- Cosa ci hai portato di bello? – chiese Margareth.
- Le solite cianfrusaglie, più qualcosina di nuovo. Questa settimana non ho fatto molti affari … l’altro giorno, per esempio, ho incontrato un tipo che doveva liberarsi di alcuni abiti vecchi. Mi dice che mi avrebbe ceduto anche delle camicie per cinque penny l’una, ma quando ho visto quella roba … ragazzi … credo che neppure l’Altissimo sappia quanti pidocchi c’erano!
Margareth e Anya si espressero con una smorfia di disgusto.
- Probabilmente non potevano permettersi un bagno – disse Mary.
- Probabilmente lui e tutta la sua famiglia non avevano … non hanno idea di cosa significhi lavarsi!
- Certo che ce ne vuole … - fece Anya, tirando fuori dal mucchio un drappo di stoffa rossa. – Ehi, Bill, quanto chiedi per questo?
- Fai vedere … beh, sono circa due metri per quattro … fanno quattro scellini e mezzo.
Anya strabuzzò gli occhi. Scrollò la stoffa da una macchia di polvere e la rimirò stirandola per bene tra le mani. Pensò che sarebbe stato un peccato non comprarla e tentò un compromesso - Nessun dubbio sul fatto che sia deliziosa … ma … per meno di quattro scellini non la cedi?
Mentre lei e Bill contrattavano, Adele prese una palla di cuoio e gliela tirò. – Questa sì che la sostituirei con un bagno al fiume!
Anya trattenne il pallone sotto il braccio piegato, inviando alla giovinetta uno sguardo truce.
- Non credo proprio, Anya. ho già abbassato il prezzo di quasi due scellini … se diminuissi ancora non ci guadagnerei nulla.
La ragazza gli diede ragione. Rimise nel carro il pallone, che le impediva alcuni movimenti e ripiegò la stoffa.
- Neanche per mezzo scellino?
Bill storse la bocca con bonario disappunto. Anya non insistette. Conservò il drappo in un angolo del carro e prese ad osservare altro, anche se con minore attenzione. dopo averla guardata per un po’, Bill sospirò.
- Ti cedo quella pezza per tre scellini. Non meno.
La giovane sorrise e l’attenzione di Margareth e Adele ne fu calamitata. Anya si girò verso di loro con un’espressione gioviale, che si adombrò quando il ricordo di non avere neanche mezzo scellino da parte attraversò la sua mente. In verità qualche soldo dello stipendio era rimasto, ma voleva evitare di spenderlo in un modo che lei riputava così futile. Fortunatamente Bill riuscì a tradurre il suo mutamento d’umore.
- Tranquilla, lo metterò da parte.
Questa volta Anya guardò il drappo con più speranza e tornò a lavorare di buon umore.
Nonostante avesse molte energie in corpo e i ricordi della sera del ballo le imporporassero di continuo le guance, agendo oltretutto positivamente sulla sua pressione sanguigna, per Anya quella fu una giornata stancante e giunse al suo termine con un volto più che pallido.
Quando il pomeriggio sostituì il mattino, le occhiate al cancello si fecero più frequenti e l’attesa talmente snervante che lei lasciava incompleti apposta i suoi incarichi nel cortile, così da avere una scusa per lavorare fuori. Alcune ore dopo pranzo i suoi desideri vennero esauditi e dal sentiero che si inerpicava fino alla tenuta, in lontananza, vide muoversi una carrozza. Osservò con fibrillazione i cavalli grigi che la trainavano, ne contò i passi, registrò gli scossoni delle ruote, ripercorrendo a mente l’ultimo viaggio in carrozza con il conte e ricordando ogni sasso capitato sotto il mezzo. Poi, mentre la vettura si avvicinava, iniziò a nutrire uno strano presentimento. La livrea di Edgard non comprendeva una giacca blu, né un cilindro scuro e il cavallo sinistro pareva troppo tranquillo in confronto a Newton, che aveva un galoppo sfalsato. Il presentimento si tradusse in delusione quando la carrozza varcò il cancello della tenuta e l’ispettore Hurlstone aprì il portellino.
- Buongiorno signorina – disse quando ebbe congedato il cocchio.
Anya ricambiò il saluto, mal celando il proprio sconforto. Mentre l’ispettore si dava una rapida occhiata intorno, ne approfittò per mettere da parte il badile sporco di paglia.
- Il signor Langley è in casa?
Quando Anya tornò a guardarlo, l’ispettore si era spostato in una zona d’ombra ed era così possibile vederlo meglio in viso. Aveva gli occhi cerchiati, la barba sfatta e le palpebre cadenti. Dell’uomo attivo e dinamico era rimasto poco, poiché anche il passo era più lento e la voce atona. Anya ne ebbe quasi pietà, mentre gli diceva che il signor Langley era fuori per affari.
- Oh ... Per affari? Si sa quando torna?
- Ha detto che avrebbe fatto ritorno oggi.
L’ispettore si guardò un’altra volta intorno e assentì; quindi, con lentezza disse – Ho bisogno di parlargli. Se non dispiace lo vorrei aspettare qui.
Di fronte il modo in cui si erano piegati i suoi tratti, che gli donarono un’aria ancor più seria, Anya ebbe un cenno di titubanza. Si grattò un sopracciglio e quando parlò si accorse di avere un tono di voce preoccupato.
- Perdonate l’intromissione, ma è successo qualcosa di grave?
- Niente di cui dobbiate angustiarvi personalmente.
Fu anche peggio di ciò che poté aspettarsi. Sopraggiunta in quel momento, Margareth accompagnò l’ospite in casa, dicendo qualcosa a proposito del tè o di una tazza di caffè nero e lasciando Anya sola, accanto all’ingresso principale.
Le parole dell’ispettore erano un’eco. Rimbombavano da un orecchio all’altro, al ritmo del cuore. A causa di un improvviso mal di testa fu costretta a sedere su di uno scalino.
Per chi si doveva “angustiare”, dunque, se non si trattava di lei?
Preso un respiro, mentre Hunt si avvicinava per qualche carezza, tentò di ricordare il volto dell’ispettore mentre pronunciava quell’ultima frase, ma mille pensieri nel frattempo si erano fatti strada e il caos della mente cancellò ogni sforzo. Non c’era verso di ricordare la conversazione, si maledisse, schiaffeggiò la fronte e le tempie.
Inutile cretina!
Un’espressione, un movimento delle sopracciglia, degli occhi le era sfuggito. Null’altro. E fino a quando non seppe la verità, quel fluttuare tra cattive sensazioni, presentimenti, angoscia e nostalgia, la martoriò senza posa. Quando scese la sera entrò in cucina, chiedendosi se l’ispettore intendesse ancora aspettare il signor Langley e criticandolo mentalmente – anche se se ne pentì subito, al ricordo degli sforzi che faceva per proteggere il conte – per la sua insolenza.
Se Anya non avesse perso la pazienza, mandando al diavolo ogni volontà di aspettare che la carrozza del conte si facesse viva nei sentieri della collina, l’avrebbe vista avanzare sotto i suoi stessi occhi. Fu solo quando questa entrò in cortile e Hunt iniziò ad abbaiare festoso, che corse fuori. Quando lo vide, il conte appariva non meno stanco dell’ispettore, con un viso pallido che risaltava nel chiarore lunare e gli occhi lievemente arrossati. L’accoglienza di Anya, il trovarla lì ad aspettarlo, però, gli restituirono un po’ di quel colore che aveva perduto. Fece per avvicinarsi a lei, quando Margareth uscì e lo informò subito che l’ispettore era venuto a trovarlo.
- L’ispettore? – fece lui rabbuiandosi. – E cosa mai vorrà da me?
- Non ne abbiamo la minima idea, signore. È qui da questo pomeriggio …
Langley trattenne uno sbadiglio. – È rimasto ad aspettarmi? – disse mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime di sonno.
- L’ho fatto accomodare in soggiorno, signore. Gli ho detto che c’erano molte probabilità che rincasaste tardi, ma non mi ha dato ascolto … ha detto di avere la necessità di parlarvi.
Il conte gettò le braccia lungo i fianchi, sospirando profondamente. Al pensiero di dovere rimettersi a parlare, dopo averlo fatto per due giornate di fila, una scarica di brividi lo attraversò in ogni parte. Ma si trattava dell’ispettore Hurlstone e se lo aveva atteso per così tanto tempo, voleva dire che qualcosa era successa.
Dietro ordine di Margareth, Anya tornò in cucina per chiedere a Greta di ritardare la preparazione della cena e mettere a bollire dell’altro tè.

- Buonasera ispettore – disse Langley una volta in soggiorno.
Hurlstone rimise nell’astuccio la sigaretta che stava per accendere e ricambiò il saluto. Quando si furono seduti, il conte chiese il motivo di tanta impazienza.
- Avete ragione, signor Langley … ammetto di essere stato un po’ maleducato nell’introdurmi così in casa vostra. Ma … vedete, ho fatto un passo avanti con le indagini e … devo chiedervi un favore, che, sono sicuro, non verrà ben accolto da voi.
Mentre parlava, da che aveva i gomiti poggiati sulle ginocchia, fece aderire la schiena alla spalliera del divano e sospirò.
- Quale?
- Devo chiedervi di raccontarmi com’è morta vostra moglie.
Il conte tacque.
- Ascoltate, signor Langley – riprese Hurlstone nel tentativo di mitigare lo sgomento del conte. – per adesso è solo un’ipotesi, un dubbio che mi è sorto leggendo un manuale di botanica …ma io temo che chi ha tentato di …
- Uccidermi?
- S … sì. Sospetto che abbia qualcosa a che fare anche con la morte di vostra moglie.
Prima di rispondere Langley si concesse una lunga pausa. – Non so con chi abbiate parlato prima di venire qui, signor Hurlstone, e non credo che dobbiate angosciarvi anche per il destino di mia moglie; le disgraziate circostanze che me la portarono via sono solo frutto di complicazioni del parto e nulla di più.
- Lo so bene, signor Langley; ma potrebbe pure darsi che la causa delle complicazioni di cui parlate sia un’erba, una tossina che …
- Insinuate che mia moglie sia stata avvelenata? – sbottò il conte con dolore. – Come potete mancare di tatto in un modo simile?
- Signor Langley, ho già detto che si tratta solo di un’ipotesi …
- Non è un modo per giustificare la vostra assenza di sensibilità, ispettore.
Hurlstone lisciò nervosamente i baffi. In un primo momento non disse nulla; si limitò a tacere e attendere che il conte ridiventasse padrone di sé. Non ci volle molto e quando fu sicuro di poter riprendere la parola, con sua meraviglia, il conte lo prevenì.
- Non basterebbero altri cent’anni per cancellare il dolore della loro perdita – disse accendendosi una sigaretta. – Le vostre congetture sono ciò di più sciocco che mi sia capitato di sentire finora, ma vi accontenterò se la narrazione di ciò che avvenne vi aiuterà a cambiare idea.
L’ispettore trasse penna e taccuino dalla tasca della giacca. Appena fu pronto per scrivere una cameriera li interruppe per posare il vassoio del tè sul tavolino. Si accinse a versarlo nelle due tazze, ma il conte la mandò via prima che potesse farlo.
- Conobbi mia moglie in gioventù. – Iniziò quando rimasero soli. – La sua famiglia veniva spesso a trovarci nella casa di Kilkenny e per noi, col tempo, non fu difficile diventare amici. Il signor McAdamhs era un proprietario terriero e sua madre disponeva di una rendita notevole. Fu subito chiaro che mia zia sperava che avessi sposato la loro figlia, date le acque in cui navigavamo …
- Cosa intendete?
- Eravamo pieni di debiti, ma io non lo sapevo. Allora ero appena diciannovenne e non avevo accesso ai soldi dell’eredità, come voluto da mio padre nel testamento. Aveva lasciato scritto che io entrassi in possesso di tutti i miei averi solo con la maggiore età e fino ad allora un tutore li avrebbe gestiti per me.
Hurlstone prese velocemente appunto e, assentendo, lo spinse a riprendere il racconto.
- Quando compì ventuno anni scoprì che non mi era rimasto niente all’infuori di questa proprietà. Mia zia aveva venduto tutto per pagare i debiti che si accumulavano e solo per un caso fortuito si dimenticò di questa tenuta. Non appena lo venni a sapere feci le valigie e mi trasferì. Volevo rimettermi in sesto, evitare di piombare nell’oblio in cui vivevano i miei zii, ma non fu affatto semplice. Per evitare di indebitarmi con la banca, chiesi un prestito ad un amico, sir Arthur Rudolph, che mi concesse più di quello che speravo. In capo a un anno riuscì e rimpossessarmi di gran parte dei terreni che avevo perduto, però avvertivo la sua mancanza. Mi ero innamorato di lei prima di partire per Waterford e non appena ebbi la possibilità, partì e la sposai.
A quel punto l’ispettore si aspettava che continuasse, ma il signor Langley si bloccò per bere del tè. Quando alzò lo sguardo si accorse che aveva gli occhi lucidi.
- Non riesco a immaginare qualcuno che potesse avercela con lei. Era sempre gentile con tutti e anche quando sbagliava era impossibile nutrire rancore nei suoi confronti.
Hurlstone annuì con comprensione.
- Dopo due dal matrimonio mi informò di aspettare un bambino e … quella per me fu la gioia più grande …
Si bloccò, quando sentì che la voce stava per incrinarsi. Tirò un sospiro e bevve un paio di sorsi di tè.
- Ricordate se qualcuno si era offerto di starle vicino durante la gravidanza? Avete ricevuto suggerimenti riguardo medici o levatrici in grado di fornirvi un valido aiuto?
- Non subito. Fu il signor Rudolph a consigliarci di far venire una donna che aveva aiutato un’amica della moglie … ma questo a … circa tre mesi dalla fine della gravidanza.
- Uhm … - fece l’ispettore cambiando pagina. – Ricordate il suo nome?
- Si faceva chiamare Miss Rachele … il cognome non lo rammento.
- Fu Miss Rachele a far partorire vostra moglie?
- Sì, affiancata dal dottor Bowles.
- Capisco … e voi avete assistito al parto?
- Sì.
L’ispettore levò lo sguardo dal taccuino. Il signor Langley aveva posato la tazza nel vassoio e si stava stirando le palpebre con il pollice e l’indice della mano, probabilmente per contenersi mentre ripercorreva gli avvenimenti di quell’infausta giornata. Attese qualche istante prima di porre un’altra domanda.
- Cosa ricordate di quei momenti?
- Tanta … paura. Agitazione, fatica, nervosismo. Ma soprattutto paura. Qualche padre sarebbe pronto a giurare che quello è uno dei momenti più … faticosi, ma belli … però c’è un’angoscia terribile … credetemi.
Hurlstone assentì lentamente.
- Se, poi, vi riferite ai ricordi come alla memoria di particolari avvenimenti … devo deludervi. Dopo che mia figlia nacque, la levatrice cominciò a dire che qualcosa non andava … che l’emorragia non si arrestava … allora io iniziai a innervosirmi, a chiedere cosa stesse accadendo, perché vedevo lei tremendamente pallida … Mi fecero uscire e il dottor Bowles entrò per intervenire. Mi misero la bambina in braccio, ma io non ci capivo niente … dentro di me sapevo che non avrei più rivisto mia moglie … viva … ma non lo volevo ammettere. Attesi più di due ore … poi la levatrice uscì dalla stanza e mi chiese di darle la bambina … mi fecero entrare e lei … lei era già morta …
A quel punto il signor Langley non era riuscito a contenersi ed era scoppiato a piangere. Troppo sgomento per scrivere, l’ispettore non aveva preso appunti e mantenne il silenzio fino a che non lo ritenne opportuno.
- Il dottor Bowles sostiene che si tratti di una “semplice” emorragia; ma ricorda che la levatrice versò a vostra moglie un bicchiere di acqua da una brocca presente nella stanza. Il signor Bowles aveva anche lui bevuto quell’acqua, ma niente gli accadde. Lui è del vostro stesso avviso.
Piano piano la tensione dovuta al racconto di tutti quegli eventi scemò, anche se, l’uno all’insaputa dell’altro, sapeva che c’era un motivo per il quale preoccuparsi. Il conte iniziava a porsi dei dubbi riguardo una disgrazia che lui aveva sempre imputato alla debolezza fisica della moglie; l’ispettore, invece, restringendo il campo delle indagini, cominciava a sospettare qualcuno e, per quanto una tale circostanza lo facesse sentire vincente, non poteva negare che era il caso di sbrigarsi, perché intravedeva già all’orizzonte un nuovo tentativo da parte dell’assassino, di uccidere l’uomo con il quale lui aveva fino a quel momento parlato.
Appena furono le otto, l’ispettore volle lasciare libero il conte, il quale, saputo che Hurlstone avrebbe preso alloggio nella casa di campagna della sorella, volle offrirgli la propria carrozza. La proposta fu accolta con gratitudine e in breve il conte rimase solo con il sapore del tè in bocca.
Cenò e nonostante il sonno si ritirò in biblioteca. Se chiudeva gli occhi ciò che avrebbe volentieri dimenticato tornava a farsi vedere.
Nello stesso momento, in cucina, Anya era impegnata a rimuovere delle incrostazioni di grasso dal forno: quella sera Greta aveva cucinato il pollo e le goccioline di grasso che schizzavano dalla pelle si erano attaccate come colla alle pareti di pietra refrattaria. Allorché riuscì nell’intento, Anya mise la scodella con i residui da parte e andò a darsi una ripulita. Si cambiò e scese nuovamente perché i gridolini e le risate dei colleghi che giocavano al bullet pudding le avrebbero impedito di prender sonno.
- Ehi Anya, vuoi unirti a noi? – esclamò Greta.
Anya sorrise stancamente. – Grazie, ma preferisco di no.
- Bene, allora occupati del tè … appena sarà pronto portalo in biblioteca.
- Il conte l’ha ordinato? – ribatté con una punta di paura.
- Sì e dato che sei l’unica a non giocare glielo porti tu.
Anya non chiedeva di meglio, ma allo stesso tempo cercò con gli occhi e con la mente qualcuno che potesse accompagnarla. Mentre il tè bolliva e l’acqua si colorava man mano della tinta brunastra sprigionata dalle foglioline, Anya sostituì i sospiri con la normale respirazione. Controllare il battito non era cosa da poco!
- Anya, ma ci stai amoreggiando con quel tè? Fai attenzione, per la miseria, che se viene troppo forte lo devo preparare di nuovo!
La ragazza tolse il pentolino dal fuoco e travasò il tè nell’apposita caraffa. A causa del tremore alle mani ne versò una piccola quantità sul pavimento, ma Greta non se ne accorse. Una volta sistemato tutto nel vassoio, tirò un sospiro silenzioso e sgattaiolò via. Corridoi, sala d’ingresso, scale, corridoio padronale. Li attraversò in silenzio, con il fiato in gola, benedicendo la grandezza della casa, maledicendo la velocità in cui le sue gambe l’avevano percorsa, fermandosi di fronte ad una porta massiccia nella cui serratura c’era una chiave d’ottone. Nella lontananza dalla realtà in cui era finito il suo cervello, la sua parte razionale, sensibile, sentì tre suoni cupi, a breve distanza l’uno dall’altro; un dolore appena accennato alle nocche l’aiutò a capire: aveva bussato.
- Avanti – rispose la sua voce.
Ok, Anya. Adesso posi il vassoio sul tavolo, auguri la buona notte e vai via. Intesi?
L’ambiente scarsamente illuminato della biblioteca la rassicurò. Almeno, se avesse fatto qualche gaffe, sarebbe stata meno visibile. Il conte era seduto sulla poltrona dietro lo scaffale, con i piedi poggiati su una sedia. Quando Anya entrò trasse le gambe a sé e si sporse verso il tavolino per zuccherare il tè.
- Vai già via? – disse con il cucchiaino a mezz’aria.
La giovane lanciò un’occhiata alla porta con interdizione.
Di certo lui non rende le cose facili!
Il conte la invitò a sedere nella poltrona. – Ti stavo aspettando. – disse dopo un po’.
- A-aspettando?
Idiota.
I.d.i.o.t.a.

Langley sorrise. Bevve il tè e d’un tratto, bloccandosi con la tazza a mezz’aria, si ricordò di un particolare. Rimise la tazza nel vassoio e si sporse per prendere dalla tasca della giacca un sacchettino di carta bianca.
- Stamattina, mentre passeggiavo per le strade di un paese, ho preso questo. Per te.
Anya guardò il pacchetto e il signor Langley con un misto di curiosità e meraviglia.
- Per me? – disse prendendo il sacchettino.
Il signor Langley annuì con un sorriso pieno di aspettativa. – Sono tra i miei preferiti … li producono solo da quelle parti e ho pensato di portartene un po’.
Anya se continui così soffochi.
Sospirò. Adesso poteva affermare in tutta sicurezza che il cuore e lo stomaco avessero fatto due capitomboli. Li aveva proprio sentiti contrarsi, sussultare ed esplodere, riempiendole le guance di una sgargiante tonalità di rosso. Balbettò qualcosa in segno di gratitudine e aprì il pacchetto. L’odore era inconfondibile. Un aroma corposo, fragrante, delizioso, che stimolava la circolazione, che aumentava le palpitazioni. Prima ancora di abbassare lo sguardo sul contenuto i sensi passarono in rassegna quel meraviglioso marasma di fragranze e lasciò che tutto il corpo ne fosse inebriato. I nervi furono piacevolmente scossi, le papille gustative reclamarono una prova concreta del retrogusto appena assaporato, il cervello trovò una risposta a tutti i suoi desideri, le labbra si piegarono in un inconsapevole sorriso. Ma riaperti gli occhi, risvegliato il lato razionale, zittito l’istinto, ricordò che quella stessa mattina aveva desiderato con tutta sé stessa quei due sapori, quando, poggiata al tavolo della colazione, Greta le aveva versato il brandy nel tè.
Cioccolata e caffè.
Lo sguardo saettò sui cioccolatini nel pacchetto e le pupille si dilatarono improvvisamente in un moto di paura. Non servì sentire una seconda volta il loro profumo.
- Sono cioccolatini al caffè – spiegò il conte.
O mio dio.
Fu come se il sangue avesse deciso di dar retta alla legge di gravità: defluì dalle guance, corse al cuore, si sedimentò nei vasi periferici.
- Signor … conte … avete comprato questi cioccolatini all’alba?
Lui la guardò senza capire e balbettò un “sì”. – Erano stati appena preparati.
Anya riprese a fissare il pacchetto con incredulità; poi rise.
- È un grazie?
- Credo proprio di sì – sorrise. – Sì, è proprio un grazie.
Era ancora sorpresa. Quelli erano i suoi cioccolatini preferiti e li avevano pensati entrambi nello stesso momento. Le venne in mente la telepatia e la sua caratteristica di mettere in comunicazione due persone con un legame speciale. Sentì il sangue tornare nelle guance, anche se in quantità superiori alla norma
Il signor Langley sembrò pienamente soddisfatto e per un momento le parve di vedere arrossire pure lui.
- Sono contento che ti piacciano – disse riprendendo a bere il suo tè.
- Sono molto buoni, effettivamente.
Passarono dei minuti. Anya pensò a quanto bene le si accostasse il detto “uno tira l’altro”. Oltre che buoni, quei dolcetti erano anche un pretesto per tenere lo sguardo basso: se avesse incontrato quello del conte era certa che il cuore non avrebbe retto.
Anya, rischi di fare indigestione. Quanti ne hai mangiati?
Ne mise un altro in bocca, per capriccio, e chiuse il pacchetto.
- Sai – disse Langley dopo una pausa. – Questo pomeriggio l’ispettore mi ha chiesto … delle cose. Mi ha fatto delle domande alle quali ho risposto … con quello che voleva sentirsi dire. Fatti.
Anya lo guardò: molleggiava una gamba e ad ogni pausa si mordeva il labbro inferiore, che divenne presto più rosso del superiore.
- Ma … ci ho pensato … e ho notato che le vere risposte erano rimaste a me. L’ispettore mi ha chiesto di raccontare di mia moglie. Ho capito che se anche sento la sua mancanza, questa non può impedirmi di vivere … non posso vegetare nel ricordo suo e in quello di mia figlia. Ho bisogno di vivere. Tutto. Rivedere i colori, sentire gli aromi, i profumi, assaporare ogni sensazione …
Anya sentiva di dover fare qualcosa, arrossire, annuire, pensare, cedere alla tentazione di mangiare un altro cioccolatino, sorridere, chinare il capo, chinare lo sguardo, alzarlo … ma nessuna di queste azioni le sembrò quella giusta. Era immobile, seduta su una poltrona distante meno di trenta centimetri dal quella del conte. Ferma. Lo fissava. E le sopracciglia erano probabilmente piegate in un’espressione di materna pietà, che non le sembrò appropriata ma che non riusciva a modificare. Trovava giusto tutto quello che il signor Langley stava dicendo, l’aveva pensato sempre, lei; nei momenti di solitudine aveva sempre immaginato di dirglielo, rimproverarlo per la sua mediocre condotta, per le tracce di gioventù che stava regalando al vento, per lo spreco di sé, della sua essenza e del suo tempo. Ma mai una volta quei pensieri erano usciti dalla sua bocca e adesso, con sua grande meraviglia, era il conte che gli stava dando una forma e lei ne era intimamente felice, perché sicura che così non li avrebbe dimenticati.
Quando il conte finì di parlare, gli occhi si erano colorati di una nuova sfumatura e il grigio che aveva sempre mitigato la brillantezza del verde, svanì.
- È magnifico. – mormorò senza rendersene conto. Poi sentì qualcosa di freddo sotto il palmo della mano destra e chinando lo sguardo si accorse di averla posata su quella del conte.
- Avete le mani fredde – disse scostando la sua e notando di avere le dita altrettanto gelide.
Langley si sentì muovere la testa. Aveva annuito? Negato? Non lo sapeva. La vicinanza di lei, quella vicinanza, era sempre ciò che aveva ricercato, ma adesso scopriva che non era sufficiente. Le aveva parlato – se così si poteva intendere il mucchio di frasi che aveva tirato fuori – non riuscendo a esprimere decentemente neanche l’ombra di un pensiero. E l’aveva toccata, aveva sentito la sua mano sulla sua. Due mani fredde che cercavano calore.
Ma non gli bastava. Non era un impulso quello che sentiva. Era una sensazione, un’emozione.
Quando lei si alzò, mirando al vassoio, la bloccò per il braccio. Ricercò il suo sguardo con gli occhi bramanti, lucidi e si alzò anche lui. Le si avvicinò e non sentendo altra necessità la tirò a sé, abbracciandola con tutto il trasporto di cui fu capace. Nell’incavo della sua spalla, i capelli rossi scendevano in morbidi boccoli e li scostò per assaporare il suo profumo lungo il collo.
Anya ricambiò la stretta, rabbrividendo nel sentirlo così vicino. Avvertì la sua mano insinuarsi tra i capelli, scostarli con delicatezza; la punta del naso scorrere delicatamente lungo il collo e il suo fiato, corto e caldo. Sentì il cuore pulsare contro il suo, il petto gonfiarsi e sgonfiarsi in respiri lunghi e corti. Poi di nuovo il naso sulla mandibola e le labbra a pochissima distanza dalla pelle. Lasciò ricedere la testa all’indietro, lui la sostenne con la mano e lei non riuscì a trattenere un sospiro.
Langley si concesse un solo istante di pausa, di titubanza sull’angolo delle sue labbra rosse, il tempo sufficiente per farle capire le sue intenzioni. Quindi la baciò, perdendosi in quel contatto tiepido che sapeva di cioccolato e caffè, di casa, pace e stabilità. Stava tornando a vivere, respirare, sorridere ad un mondo che per anni gli era parso ostile. Adesso non esisteva più niente all’infuori di quel bacio, della luce soffusa della biblioteca, del suo corpo fra le braccia. La strinse ancor di più a sé e promise che mai nessuno l’avrebbe allontanata da lui.
Nessuno dei due seppe mai quanto durò quel contatto, ma il modo in cui si concluse fu per sempre un interrogativo per entrambi. Improvvisamente Anya aprì gli occhi e si scostò da lui, lo guardò a lungo, chiusa nel suo abbraccio che l’aveva fatta finire a ridosso di uno scaffale. Sentì gli occhi colmarsi di lacrime fino ad annebbiarle completamente la vista e si allontanò da lui singhiozzando senza freno. Gli sentì dire qualcosa riguardo un senso di colpa e gli impulsi e scappò via, dimenticando il vassoio sul tavolino e tutto quello che in passato avrebbe voluto dirgli sulle emozioni e la vita.

 

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Capitolo 44
*** Capitolo XLII ***


An irish tale - Capitolo XLII

 
 
- Non so ancora come ripagavi di un così grande regalo, zio … sono così …
- Oh, non essere sciocco, Wilehim! È il minimo che possa fare dopo un’assenza così lunga … e poi, non nascondo che sei sempre stato il mio nipote preferito.
Il ragazzo sorrise con imbarazzo, guardando distrattamente il paesaggio dal finestrino della carrozza. Un lembo della tendina, che era stata tirata su da entrambi i lati, ricadde a coprire mezzo finestrino.
- Mi auguro, però, che tu faccia buon uso di questo regalo …
Wilehim sollevò un angolo delle labbra, rimettendosi comodo sul sedile. – È il minimo che possa fare, caro zio.
L’uomo arricciò la bocca con soddisfazione e strinse le dita sulla cima del suo bastone da passeggio. La carrozza subì uno scossone e Wilehim tornò a guardare fuori. Si chiedeva a che punto del viaggio fossero arrivati. Il sole era alto dietro le nubi e soffiava un vento fresco che li aveva accompagnati per tutta la durata del tragitto. Erano partiti alla penombra azzurrina dell’alba, con il lontano canto dei galli di campagna.
- Siete già stato a Kilkenny, zio?
L’anziano lo osservò come se si fosse svegliato da poco. – Soltanto una volta – asserì muovendo le sopracciglia.
- E vi è piaciuto?
- Mi domando che valenza possa avere il mio giudizio, dal momento che siamo quasi arrivati – disse indicando un punto indefinito dell’abitacolo. Il viso di Wilehim si illuminò. – Ciò, tuttavia, non toglie che la contea di Kilkenny sia straordinariamente bella. I suoi campi verdi non possono essere comparati a quelli di Waterford: quest’ultimi non sono neppure degni di un tale confronto.
Rassicurato dalla risposta, il giovane Wilehim si sistemò sul sedile con il cappello sulle gambe e con un sospiro si preparò impaziente all’arrivo.
 
A causa di una e più pause del cocchiere per il riposo dei cavalli, ci vollero più di due ore prima di giungere a destinazione. Wilehim ebbe la fortuna di addormentarsi e per lui il tempo trascorse più velocemente. Suo zio, invece, rimase sveglio fino all’arrivo.
- Wilehim, siamo arrivati. Drizza quelle gambette e datti una sistemata ai capelli, che il signor Rudolph sta per arrivare.
Il ragazzo si tirò su con un mugolio sommesso, mentre l’anziano scendeva dal cocchio. Si trovavano in una radura al confine della proprietà del duca. Il cielo era seminascosto dalle fronde di alti cipressi, ma si distingueva un netto miglioramento delle condizioni atmosferiche. In lontananza, nella pianura in cui sarebbe presto comparsa la carrozza del duca, un largo spiazzo fu illuminato da un raggio di sole. Il prato verde si dispiegava per un’ampiezza di almeno mezzo miglio e formava una curiosa conca dentro la quale molti massi costeggiavano il sentiero doppio per le carrozze.
- Quelli là in fondo sono abeti, zio? – chiese la voce impastata di Wilehim. Seguendo l’indicazione del suo dito, l’anziano osservò la fila di alberi che nascondeva Greenburg, la proprietà di Sir Rudolph, alla vista.
- No, Wilehim – disse asciutto. – Quelle sono querce.
Il giovane sedette su un tronco tagliato, sistemando la piega dei capelli e spolverando i pantaloni.
La carrozza del duca comparve poco dopo, con una scorta di due cavalieri. I nuovi arrivati vennero inspiegabilmente perquisiti e pure la carrozza venne spulciata a dovere. Wilehim riuscì a celare il lampo di paura che gli aveva attraversato gli occhi nel momento in cui fu controllata anche la sua valigia. Sotto lo sguardo rassicurante dell’anziano zio, salì in carrozza, mal celando la propria tensione.
- Credete che sospettino di noi?
L’anziano diede un’occhiata fuori, lisciando i baffi grigi con le dita. Mentre la carrozza si rimetteva in movimento, diede ad intendere al nipote di essere perfettamente padrone di sé. – Non c’è ragione di temere, caro Wilehim. Le nostre intenzioni non sono cattive – aggiunse con una strizzatina d’occhio.
Dopo un buon quarto d’ora al trotto tra una pianura verde e l’inizio di un boschetto di faggi, pini e cipressi, giunsero alla splendida Greenburg. Gli occhi di zio e nipote sorrisero quando Sir Rudolph scese dalla sua carrozza. Si avvicinò loro con un sorriso formale stampato sulle labbra.
- Voi siete il signor Winwood Smith?
L’anziano annuì. – In persona, duca … e questo è Wilehim Agried Smith, mio nipote.
Il signor Rudolph salutò il ragazzo, mentre le sue due guardie personali si piazzavano a qualche metro dal trio. Il signor Smith lanciò loro uno sguardo fugace.
- Loro camminano con me – spiegò il duca. – Sapete, con quella storia del conte Langley ... non si sa mai.
Wilehim rise nervosamente. Una delle due guardie lo squadrò freddamente.
- Bene, ho fatto preparare due camere per voi. Jules vi mostrerà la strada.
A quel punto i tre avevano già raggiunto l’ingresso e il maggiordomo si era presentato con un inchino.
- Spero inoltre che non vi dispiacerà se pranzerete in mia assenza. Questa per me è una giornata folta di impegni … godrete, però, della compagnia di mio cugino Joseph. D'altronde il terreno in vendita è in parte suo – soggiunse con un sorriso. – Se il tempo ce lo permetterà vi mostrerò il lotto di terra questo stesso pomeriggio, al mio ritorno.
I due assentirono vivacemente, mentre due servi li seguivano carichi di bagagli.
- Henry, Ginevre: alla camera degli ospiti.
Le stanze che furono preparate per loro erano modestamente grandi e confortevoli. Ciò che colpì maggiormente gli Smith fu la notevole distanza di esse dal centro della casa; erano situate nell’ala est del palazzo, poco distante dagli alloggi della servitù. Winwood Smith, tuttavia, fu più che soddisfatto. Intendeva non mostrare neppure il più piccolo cenno di malcontento e con un sospiro, nonostante l’età, si buttò a peso morto sul letto.
Wilehim, che aveva riposato in carrozza, non si sentiva stanco. Appena ebbe sistemato i bagagli, si cambiò d’abito e uscì dalla camera. Attaccata ad una parete c’era solo un’antiquata torcia di legno, che oltre a produrre uno sgradevole lezzo di fuliggine, era sufficiente appena appena ad illuminare una piccola parte del corridoio, che per il resto era avvolto nell’oscurità. Dopo aver cercato invano di mettere a fuoco dei quadri appesi alle pareti, Wilehim si mosse con incertezza verso la torcia e di lì in direzione della massiccia scala a chiocciola che conduceva ad una stanza se possibile più buia del corridoio. Il giovane l’attraversò con una decina di passi, ignorando quelli che dovevano essere dei magnifici ed enormi quadri a sfondo rupestre, e aprì la porta che conduceva ad un altro corridoio. Fortunatamente per lui, che già aveva rischiato di inciampare sul tappeto della stanza, questo era illuminato a giorno grazie alla lunga serie di finestre che davano al giardino sul retro. A metà corridoio volle fermarsi e si affacciò da una finestra aperta. Ne entrava l’odore penetrante di zucchero e burro che gli fece venire l’acquolina in bocca. Si sporse, aspirando a pieni polmoni quell’odore goloso e capì che da qualche parte, là sotto, dovevano esserci le cucine. Purtroppo la pensilina che faceva ombra sulla veranda non gli permetteva di vedere bene i movimenti dei domestici che entravano e uscivano dal giardino. Un richiamo lo ridestò.
- Dolly!
Mrs. Rudolph sbucò dalla serra e guardò furente verso la veranda.
Wilehim saltò su e si nascose subito dietro il muro.
- Sei stata tu?! – gridò ancora la moglie del duca.
Dalla veranda giunsero le parole della serva. Wilehim fece per guardare, quando dei passi affrettati nel corridoio distolsero la sua attenzione. non li riconobbe come quelli di suo zio e nell’insicurezza si mise al centro del corridoio e fece finta di aver preso uno scivolone. Dalla porta del corridoio comparve una coppia di serve, che vedendolo, non trattennero una risatina. Quando scomparvero oltre l’arco alla fine del corridoio si rialzò e si accostò di soppiatto alla finestra. La moglie del duca gridava ancora e si era avvicinata alla veranda.
- … un apparecchio per la distillazione! – sibilò mostrandole dei frammenti di vetro.
Le scuse della ragazza giunsero come un sussurro confuso. Wilehim si chiese, però, cosa dovesse farci una signora con un apparecchio per la distillazione. Formulando ipotesi giunse alla fine del corridoio e imboccò la robusta scalinata in legno di ciliegio che portava al pianoterra. Il via vai di domestici dalla sala da pranzo gli fece capire che presto sarebbe giunto il momento di mangiare. Ma prima …
- Può mostrarmi la porta del giardino sul retro? – chiese ad una cameriera che stava portando un cestino di pagnotte a tavola.
La giovane lo squadrò brevemente. – E voi chi siete?
- Mi chiamo Wilehim Smith. Sono in affari con il signor Rudolph per l’acquisto di un terreno.
- Cosa dovete andare a fare nel giardino sul retro? – chiese guardandolo con sospetto.
Wilehim trattenne uno sbuffo spazientito, sforzandosi di mimare un’adorabile espressione disinvolta. – Lo trovo tra i più affascinanti che mi sia capitato di vedere finora e … detto fra noi … non mi dispiacerebbe carpire qualche segreto circa la sua manutenzione …
La cameriera indicò un punto oltre la porta del salone. – Dovete andare di là. Attraversate due stanze e uscite dalla porta coi cardini di ferro.
Wilehim le sorrise con riconoscenza e mentre quella si allontanava, si girò per osservare il modo in cui si muoveva. Le indicazioni della giovane si rivelarono efficaci e Wilehim trovò senza difficoltà la porta del giardino. Quando aprì una pallida cameriera lo oltrepassò con dei cocci di vetro nel grembiule ripiegato.
- Chiunque voi siate, vi ringrazio per avermi aperto, signore – mormorò girandosi appena verso di lui.
Wilehim scese nel giardino. Partendo dalle scale della veranda, un sentiero di ciottoli portava dritto dritto alla piccola serra, spostata un po’ sulla destra. Mrs. Rudolph stava armeggiando con una pila di vecchi libriccini sul tavolo, detergendo febbrilmente il sudore del naso e delle tempie. Sul viso di Wilehim un sopracciglio si inarcò con un rapido movimento, quando gli occhi caddero sul ventre gonfio della donna. Non ci aveva proprio fatto caso, prima.
- Buongiorno.
Mrs. Rudolph ebbe uno scatto che le fece cadere alcuni libri per terra.
- Sono desolato … vi ho spaventata?
- No – disse bruscamente mettendo da parte i volumetti sul tavolo. Wilehim corse a raccogliere i libri sul pavimento polveroso.
- Perdonatemi, sono stato invadente …
- Mi rallegro che ve ne siate reso conto – fece lei prendendogli i libri di mano e sedendo al tavolo.
Il giovane, imbarazzato, non seppe cosa rispondere. – Vi ho sentita lamentarvi per … per un distillatore …
Mrs. Rudolph lo fulminò con lo sguardo. – Avete origliato?
- N-n-no … non lo farei ... mai.
- Già, già. Chi siete?
- Il mio nome è Wilehim Agried S …
La donna lo interruppe con un cenno. – Ho sentito parlare di voi. Siete stato al ballo dei Drebber?
Wilehim fece appena in tempo ad annuire che Mrs. Rudolph parlò di nuovo. – È stato mio marito a mandarvi qui?
- N-no.
- Sir Joseph?
Il ragazzo fece ancora di no, tentando di dire qualcosa ma venendo interrotto continuamente dalle parole della donna.
- Allora preferisco ignorare il motivo che vi ha spinto a venire. Non credo che una serra possa in qualche modo rivestire un interesse per un uomo come voi.
La schiena del giovane Smith si drizzò con una punta di risentimento. – Con tutto il rispetto per Mrs., ma non capisco cosa intendete.
La moglie del duca alzò sul giovane il volto accaldato e inasprito. – Voi siete qui solo nella veste di acquirente. Solo perché alloggerete in questa casa anche stanotte vi si può fregiare del titolo di “ospite”; perciò non ritengo che la serra vi interessi.
Fu solo per il timore che una maggiore irritazione potesse nuocere al bambino che aveva in grembo che non rispose. Si guardò brevemente intorno e chinò gli occhi con condiscendenza.
- Vogliate scusarmi, signor Smith – disse Mrs. Rudolph dirigendosi verso una pianta di glicine.
Wilehim si congedò educatamente dalla donna, posando sul tavolo un libriccino che aveva trattenuto dal momento in cui i volumi erano caduti di mano alla duchessa. Quando uscì lei aveva già aperto un registro e stava scribacchiando qualcosa.
Contro ogni aspettativa, sir Rudolph riuscì a concludere gli affari prima dell’ora di pranzo. Il cugino Joseph era anche lui presente e al tavolo aveva preso posto accanto a Mrs. Rudolph, il cui umore pareva non avesse subito miglioramenti. Per tutta la durata del pranzo il marito la guardò con apprensione, rivolgendole di tanto in tanto qualche complimento che potesse tirarla su, ma lei sembrava avere la mente altrove e un paio di volte si lasciò sfuggire un verso d’impazienza, che tentò di mascherare con colpi di tosse.
Winwood Smith tentò in ogni modo di far abbassare il prezzo del terreno. Chi non lo conosceva poteva pensare che le sue moine, i suoi velati apprezzamenti, fossero più che naturali, ma la mente allenata agli enigmi e agli imbrogli di Sir Rudolph riuscì a cogliere ogni forma di ipocrisia e ad aggirarla abilmente.
- Adesso una domanda a voi, Wilehim – disse tamponandosi la bocca con il tovagliolo. – Cosa intendete fare di questo terreno?
Le palpebre del giovane si mossero in un insieme di sorpresa e difficoltà. Winwood Smith, sedutogli di fronte, lo rassicurò con uno sguardo.
- Il terreno … - iniziò mentre sir Rudolph beveva del vino. – Se la fortuna mi assisterà, diventerò un piccolo imprenditore.
La sala fu animata da un sommesso mormorio. Winwood Smith sorrise.
- È più che lecito che un ragazzo giovane come mio nipote voglia costruirsi un futuro produttivo.
Sir Rudolph ne convenne.
- Sapete è stato istruito a Cambridge, nella famosa università di Cambridge. Non è un pinco pallino qualsiasi … se posso dire la mia, sono sicuro che in mano sua quel terreno frutterà più del necessario.
Il duca bevve un altro sorso di vino, assentendo più per educazione che per reale interesse.
Poche altre portate furono servite al tavolo e alla fine gli uomini si ritirarono in una sala a parte, mentre Mrs. Rudolph veniva accompagnata in camera dalla sua governante. Winwood si concesse un sigaro e il nipote fece altrettanto. Poi anche loro furono riaccompagnati nelle rispettive camere e si concessero un sonno ristoratore.
Il primo a riaversi su Winwood Smith. L’orologio da taschino segnava le quattro e mezza e l’anziano si alzò, si sciacquò il viso e dopo essersi cambiato scese. In giro non c’era nessuno. La casa era scarsamente illuminata a causa del tempo nuvoloso e le uniche anime erano i domestici che innaffiavano le piante del giardino o che spolveravano i soprammobili già splendenti del corridoio. Le finestre del corridoio soprastante avevano acceso in Winwood una vivace curiosità per il giardino sul retro. Si guardò attentamente intorno mentre cercava la porta giusta e aveva ancora il naso per aria quando andò a sbattere contro una giovane cameriera; il vassoio carico di posate che stava portando cadde sul pavimento con un fragore metallico.
- Accidenti! Fate più attenzione a dove mettete i piedi! – sbottò.
L’anziano si tirò su con rapidità e raccolse le posate più lontane dalla portata della ragazza. – Mi dispiace …
- Non importa …
Winwood guardò la cameriera china sul pavimento prima di andarsene. – Toh – fece allungando una mano alla sua capigliatura. – Cosa mai sarà questo?
La giovane si voltò di scatto, trovandosi davanti la mano di Smith che teneva un fiorellino blu.
- Questo affinché mi perdoniate – sorrise.
Lei lo guardò inizialmente con sospetto; poi, sedendo sui polpacci glielo tolse delicatamente di mano, ammorbidendo i lineamenti del viso. Winwood Smith la salutò con un inchino, lanciando un’ultima occhiata al vaso di fiori che aveva avuto la fortuna di incocciare. Con passo baldanzoso e un’espressione auto celebrativa sul volto, trovò la porta per il giardino e uscì, richiudendola silenziosamente dietro di sé. In veranda si assicurò che nei paraggi non ci fosse nessuno; dopodiché estrasse dalla tasca il fermaglio che aveva abilmente tolto alla cameriera e aprì la porta della serra. Come previsto e dedotto guardandola dalle finestre del corridoio del primo piano, la serra era un ambiente piccolo ma sfruttato al meglio. Al centro c’era un tavolo in legno con la superficie sporca di terra, linfa e acqua, mentre tutt’intorno, costeggianti le pareti di vetro opaco, erano stati sistemati dei ripiani su cui giaceva un grosso numero di piante, piantine e bonsai. Smith le osservò con occhio clinico, carezzando le foglie delle piante più caratteristiche, annusando i fiori più belli. D’improvviso ci fu un rumore all’esterno e Smith si acquattò dietro il ripiano che stava fiancheggiando. Sperò di essere stato sufficientemente svelto. Un paio di camerieri passarono accanto alla serra, parlottando del tè della signora Rudolph. Winwood tirò fuori l’orologio da taschino: erano le cinque meno un quarto. Sapeva che la moglie del duca amava trascorrere molto tempo nella serra (cosa peraltro evidente dalla sistematicità con cui erano state catalogate le specie vegetali e gli appunti) e considerando che mancava un quarto d’ora alle cinque pensò bene di sbrigarsi. Non appena i servi scomparvero dalla vista, si rialzò e si avvicinò al registro sistemato su un leggio di legno. Si trovava sul ripiano di fronte la porta. Mise un segno alla pagina a cui era stato aperto e lo sfogliò rapidamente, soffermandosi talvolta su delle macchie, talvolta su strani nomi in latino. Dopo un’attenta analisi del libro, dirottò l’attenzione su una pila di libriccini su un angolo del tavolo. Ne memorizzò l’ordine e li sfogliò uno per uno. Erano delle monografie tascabili di botanica, biologia, chimica e zoologia. Quand’ebbe finito anche con questi e stava impilandoli, un foglietto sfuggì dalle pagine di un volumetto. Fece per rimetterlo a posto, ma tornarono i camerieri e fu costretto a nascondersi nuovamente dietro un ripiano. A quel punto erano già le cinque ed era il momento di tornare dentro. Aspettò che i servi si allontanassero ed uscì.
 
 
Lo stesso giorno, alla tenuta Langley.
 
Il vento iniziò a spirare nel primo pomeriggio. Era un giorno che Anya trovava perfetto per lavare i pavimenti, perché la corrente li asciugava in fretta. Davanti a sé, il pavimento della sala d’ingresso risplendeva per il bagnato. Vicino alla porta e alle finestre era già asciutto.
Un motivetto fuoriuscì dalle labbra socchiuse mentre strizzava lo straccio nel secchio e lo passava su uno degli ultimi gradini della scala. Di lì a poco avrebbe smesso perché la pelle delle mani si era rattrappita e le bruciavano le spalle … anche se pensava di finire prima del “di lì a poco”. Rimanevano ancora cinque gradini. Riprese a canticchiare a voce più alta, salendo di un gradino e strizzando nuovamente lo straccio nel secchio.
Dalle finestre aperte entrava la luce grigia di quel giorno pieno di nubi. I disegni geometrici del pavimento sembravano soffrire per non essere esaltati a dovere.
Nella tenuta Anya, che aveva trascorso l’intera mattinata china sui pavimenti, udì più volte la frenesia dei passi dei colleghi. Mary, Anna e Ines erano andate al fiume. Anya avrebbe voluto andar con loro, a costo di faticare tutta una giornata dietro gli ordini di Anna, ma Margareth l’assegnò alla pulizia della sala d’ingresso.
D’un tratto, mentre cantava, si accorse della presenza di un’altra voce e, zittendosi, capì che essa proveniva dal corridoio padronale. Qualche istante dopo la porta si aprì e il conte comparve canticchiando il suo stesso motivetto. Nell’attimo che lo guardò vide che sorrideva timidamente, quasi con imbarazzo, e che vestiva con grande semplicità. Capì che non sarebbe uscito.
Chinò lo sguardo sullo straccio e lo strofinò con vigore su una macchia inesistente.
- È bagnato? – chiese il conte indicando il pavimento intorno a lui.
Anya scosse il capo, mentre immergeva lo straccio nell’acqua.
- E qui?
La ragazza levò lo sguardo sul primo gradino. – No.
Il conte assentì con un cenno e si sedette.
Anya bagnò lo straccio, sollevando più schizzi del normale. Sentiva i suoi occhi addosso, ma quando lo guardò vide con sorpresa che aveva la testa altrove. Si chiese se stesse facendo un calcolo o, peggiore delle ipotesi, se pensasse a cosa dire. Continuò a lavorare, attardandosi su un gradino per non ritrovarsi vicina a lui.
- Mi chiedevo se … ti andrebbe di fare una passeggiata.
Anya non rispose. Le sfuggì, però, un sorriso a metà fra il beffardo e il rassegnato che fece capire al conte quanto fosse occupata.
- Potrei darti l’intero pomeriggio libero.
- Non sarebbe una buona idea.
- E perché?
- Perché … - cominciò non avvedendosi del tono troppo alto della voce. Sospirò, mordendosi un labbro, e continuò mormorando – Perché darebbe dei sospetti.
- Oh, andiamo …
Intinse lo straccio nell’acqua e lo strofinò con foga sul gradino dove il signor Langley aveva poggiato i piedi.
- Vi dispiacerebbe sollevarli? – disse Anya indicandoli.
Il conte la accontentò.
Per una buona decina di minuti nessuno dei due disse niente. La sala continuò a essere animata dallo scroscio dell’acqua del secchio e dallo sfregamento della pezza sul marmo grigio dei gradini. Solo di tanto in tanto si udivano dei passi nei corridoi e in quei momenti Anya lanciava un’occhiata preoccupata al signor Langley, che invece si guardava intorno ostentando disinvoltura.
- Vorrei parlarti. – disse d’un tratto.
Anya lo guardò. Tentata dalla voglia di sfidarlo, zittita dal desiderio che non dicesse niente.
- Riguarda l’altra sera …
La ragazza gettò con una foga tremante lo straccio nel secchio, mentre con la coda dell’occhio vedeva che le mani del conte si stritolavano l’un l’altra. Le piacevano, come le piacevano anche le braccia, l’uomo alle quali erano attaccate e i sentimenti che quegli occhi grigio verdi non sapevano celare. Lo osservò, interrompendo per un attimo la pulizia del gradino.
- Vorrei che tu sapessi – disse il conte sporgendosi leggermente verso di lei, cercando le parole adatte – che … n-non è … che non stato un impulso …
Anya riprese a strofinare con foga lo straccio sul gradino.
- Insomma … ci pensavo da tempo … ma n-no … - aggiunse quando la ragazza si bloccò – non … non pensare che sia stata … - sospirò – Quello che voglio dire è che i miei sentimenti … sono sinceri.
Anya prese un respiro più lungo dei precedenti, godendo dello sfarfallio allo stomaco. Il signor Langley la fissava, pieno di aspettative e nervosismo, grattandosi il mento. Nel silenzio gli pareva di sentirlo pure trattenere il fiato; così decise di porre presto fine a quella piccola agonia e si girò verso di lui. Il viso del conte si espresse con malcelato timore e Anya sorrise, vinta dalla tenerezza.
Langley non seppe come reagire. Strabuzzò gli occhi, appuntandoli altrove, con una sorpresa che chiedeva solo di poter manifestarsi liberamente.
- P-perché, allora … sei scappata?
Anya sospirò, non sapendo neanche lei come rispondere. Si limitò a fare spallucce, colma d’imbarazzo.
Langley la guardò e questa volta fu lui a sorridere per la tenerezza. Si chiese se quella di baciarla un’altra volta fosse una buona idea, ma vennero raggiunti dall’eco dei passi di Margareth, che chiamava Anya. La sguattera riprese lo straccio fradicio e gocciolante e si chinò sul pavimento; Langley, invece, si alzò, si poggiò al corrimano della scala e borbottò con fare plateale una critica sulla pulizia della scala.
La governante si fermò ai piedi della gradinata.
- Buongiorno, signor conte.
Langley fece un cenno con il capo. – Margareth.
- Anya se qui hai finito ci sarebbero da spennare un paio di polli, pulire le verdure e sbucciare le noci.
La giovane passò velocemente lo straccio sull’ultimo gradino, lo strizzò e lo trasferì nell’altra mano. Fece una breve riverenza al signor Langley e corse da Margareth. Si guardò una sola volta indietro e vide che il conte stava sorridendo.
In cucina Greta le strappò quasi di mano secchio e straccio e indicò i cadaveri flosci di due polli sul tavolo. Anya si mise diligentemente al lavoro, storcendo la bocca per il lezzo di selvaggina.
- Tiratina di collo, eh? – disse in riferimento al povero galletto inerme sulle sue gambe.
- Ci puoi scommettere.
Adagiato al camino c’era un piccolo sacco di noci. Greta non gliel’aveva ancora mostrato, ma al pensiero di dovere rompere tutti quei gusci le vennero i brividi. Unica consolazione era l’uso che Greta ne avrebbe fatto: le avrebbe ricoperte di uno strato di pasta frolla, messe in forno e immerse nella glassa di zucchero o nel cioccolato fuso.
Mentre spennava i due polli, d’un tratto, fu assalita da un dubbio.
- Ci saranno ospiti a cena?
Greta annuì mentre scavava un buco nel montarozzo di farina. – Verrà il dottor Bowles con il suo nuovo assistente.
- Il suo nuovo assistente?
- Sì ... – bofonchiò mettendo mano allo zucchero e alle uova. – Perciò sbrigati con quei polli.
Il ritmo di Anya accelerò. Quand’ebbe finito Greta prese i coltelli e macellò per bene ogni pollo; Anya, invece, si armò di martello e cominciò a pestare le noci.
Fino a che la carrozza del signor Bowles e assistente non giunse, alla tenuta tutti furono molto impegnati. Non che il dottore fosse un uomo dai gusti particolarmente difficili; piuttosto, a rendere impegnativo il suo arrivo era solo il desiderio di dare una calorosa accoglienza ad un vecchio amico. L’unico a non preoccuparsi più di tanto della cena fu naturalmente il signor Langley, che aveva ben altro per la testa. Dopo aver chiuso una cartella piena zeppa di vecchi documenti, si concesse un’uscita a cavallo. Non fu per puro piacere che lo decise, ma per l’impegno preso con Hobson in merito alla consegna di quei documenti. Quando tornò la carrozza del dottor Bowles era già in cortile. Margareth mandò Edgard ad occuparsi di Fedor e accompagnò il conte nel soggiorno; quindi tornò in cucina. Non era ancora arrivata che un gran fracasso di ceramica la raggiunse, presto seguita dalle urla di Greta e di Anya.
- Guarda cosa hai combinato!
Margareth percorse gli ultimi metri di corsa, bloccandosi con un’espressione di panico di fronte ai resti di una zuppiera da portata e alla grossa macchia di brodo di verdure sul pavimento.
- Mio dio …
L’orrore dipinto sul viso della sguattera non diminuì quando Margareth comparve.
- Io … Margareth … i-io posso spiegare! M-mi è scivolato d-di mano!
Greta le mollò un sonoro ceffone in pieno viso. – Cretina! Sparisci immediatamente dalla mia vista prima che chiami il signor conte! Stupida ragazzina! – esclamò chinandosi per raccogliere i cocci ancora caldi di brodo. Margareth prese Anya per un orecchio e la trascinò con sé per i corridoi.
- Tu … - sibilò furibonda. – Non ci sono rimaste verdure per fare un altro brodo … e hai pure rotto la zuppiera!
Anya gemeva per il dolore all’orecchio. Quando chiese a Margareth di allentare la presa quella strinse ancor più forte.
- Che vergogna! Il signor Bowles avrà sentito tutto! Prima rompi un intero servizio durante la prima visita del signor Drebber, poi ti fai “scivolare di mano” il brodo per la cena … mentre il dottor Bowles parla con il signor conte … sei umiliante! Ma lo sai quanto costa un servizio come quello? Un tuo anno di paga! E sì che questa volta il signor conte te la risparmia una bella punizione!
Si fermarono di fronte lo studio del signor Langley. Margareth lasciò l’orecchio di Anya e spulciò il suo mazzo di chiavi fino a che non trovò quella dello studio.
- Adesso – continuò aprendo e spingendo la giovane fino ad una delle sedie di fronte la scrivania – ti metti qui e aspetti, senza toccare niente, che il signor conte torni. Allora parleremo per benino della tua miserevole condotta. Buona serata!
Ciò detto uscì e chiuse a chiave.
 
Il signor Langley fu informato del disastro nel cortile della tenuta, mentre la carrozza del signor Bowles si allontanata nell’oscurità della sera. Nonostante la preziosa zuppiera di porcellana cinese, si sentì alquanto contrariato di sapere che Anya era stata chiusa a chiave in una stanza, ma non disse niente. Salì le scale con Margareth alle calcagna che non smetteva di lamentarsi del comportamento della sguattera o di suggerire modi in cui punirla. Langley la lasciò fare, ma quando arrivarono di fronte allo studio le chiese con stizza di far silenzio e aprì la porta. Anya era ancora seduta dove l’aveva lasciata Margareth e, con il capo poggiato alle braccia incrociate sulla scrivania, dormiva così profondamente da non aver neppure udito la porta che si apriva.
- Lasciaci soli.
Margareth scrutò entrambi; poi andò via. Langley entrò nello studio, richiudendo piano la porta dietro di sé. Si avvicinò alla ragazza e la scosse con delicatezza. Anya aprì gli occhi con l’espressione di chi non sa dove si trovi; non appena vide il volto severo del conte, però, si tirò su di scatto.
- Pare che tu abbia capito …
- Dopo uno schiaffone e una tirata d’orecchio storica, anche il più mentecatto capirebbe.
Langley abbassò la luce della lanterna. – Certo è che non mi rendi le cose facili rompendo tutte le ceramiche che ti capitano in mano. Ora capisco perché Greta ha bruciato il pollo … - aggiunse con una smorfia, sedendo sulla scrivania.
- Ha bruciato il pollo?
Il conte annuì.
- Mi dispiace, signore … – sospirò affranta dopo un lungo silenzio – … per tutto. Il fatto è che la zuppiera aveva un manico bagnato … e Greta non mi aveva detto che era piena di brodo …
Langley incrociò le braccia al petto, con l’aria di chi soppesa una proposta. – Non mi resta altro da fare che diminuirti ulteriormente lo stipendio. D’altronde dovrai pur comprare una nuova zuppiera … no?
Anya lo guardò.
- Perché non posso agire diversamente, capisci? Se non prendo una decisione in merito si accaniscono tutti contro di te – disse, per poi stirare stancamente le palpebre con una mano. – Da quanto tempo sei chiusa qui dentro?
La giovane fece spallucce. – Da prima di cena …
- Caspita – esclamò Langley estraendo l’orologio dal gilet. – Sono già quattro ore … hai mangiato?
- No.
Non poteva neanche pensare di farla pagare a Margareth, dal momento che non aveva agito del tutto irrazionalmente. Le labbra gli si piegarono in un sorriso, quando si rivolse nuovamente alla ragazza. – Non so te, ma a me è tornato l’appetito … ti va di mangiare qualcosa?
- Potete giurarci!
Langley fece navigare lo sguardo da Anya alla lampada e viceversa, con un sorriso sempre più sghembo. Spense la lampada e si alzò. – Vieni, andiamo.
Scesero in cucina. L’odore dolciastro delle patate al burro e del pollo al forno non aveva ancora abbandonato l’ambiente, il che accentuò l’appetito di Anya, che mise subito mano ai biscotti alle noci che Greta aveva sistemato in un cestino coperto da un tovagliolo.
Langley aprì la porta e mise mano al portasigarette; fece per prenderne una quando, ad un’esclamazione appena sussurrata di Anya, si voltò nella sua direzione e la rimise nell’astuccio. – Buoni, eh?
- Sublimi …
- Greta sa superare sé stessa nell’arte pasticcera.
- E anche nei manrovesci! Sapeste che schiaffone …
- Beh … non posso biasimarla: hai rotto un intero servizio di porcellane cinesi! – rise.
Anya prese un altro dolcetto e porse il cestino al conte. – Non provate a rifiutare … - lo avvisò scherzosamente quando lui fece per scuotere il capo. – Conosco perfettamente i vostri gusti e tra questi rientra senza dubbio il cioccolato.
Il conte, che fino ad allora era stato poggiato allo stipite della porta, inarcò un sopracciglio e le si avvicinò con pochi passi lenti. – Conosci “perfettamente” i miei gusti?
Anya morse un biscotto e annuì con un gran sorriso.
- E dimmi – continuò Langley fissando un residuo di cioccolato sul labbro superiore della giovane. Fece un altro passo e si poggiò al tavolo – cosa mi piacerebbe avere adesso?
Anya era seduta sul bordo mattonato del forno a legna. Piano piano il sorriso si ridusse e i lineamenti si distesero in un’espressione tra il serio e il curioso. Piegò leggermente il capo di lato, senza staccare gli occhi dal conte. Langley prese un dolce e se lo ficcò in bocca, guardando il cortile fuori dalla porta. Nel silenzio lo sentì sospirare.
- Credo di aver capito ...
Prima ancora di tornare a guardarla, Langley si lasciò sfuggire un sorriso malizioso. – Ah sì?
Anya gli tese nuovamente il cestino. – Un altro dolcetto – ridacchiò dondolando le gambe.
Il conte le tolse gentilmente il cestino e lo posò sul tavolo, squadrandola con un’occhiata. Rischiarata dalla luce lunare la sua pelle sembrava più chiara ed eterea e i capelli rosso fuoco creavano un curioso contrasto. Si avvicinò ancor di più, finendo per bloccarla contro il forno e puntellò le mani accanto ai suoi fianchi.
- Come fai ad essere così afrodisiaca anche quando fai la bambina?
Anya lo guardò negli occhi, con la gola secca. Fu un attimo, perché poi il conte la avvicinò a sé e la baciò. Il petto, le spalle, collo, braccia e gambe furono pervase da un calore che si irradiò piacevolmente in tutto il corpo, fino al ventre, raggiunto da un piacere che aveva prima contratto le pareti dello stomaco. In preda a queste sensazioni, lasciò che il conte approfondisse dolcemente il bacio e gli cinse il collo con le braccia, prima di avvertire la sua mano sinistra scorrere lungo la gamba. Non lo aveva mai desiderato così tanto. Anche se una piccola parte della coscienza le faceva notare che fosse troppo presto per effusioni del genere, Anya non riusciva a non lasciarsi andare. Le braccia del signor Langley la stringevano, le sue mani bramavano la pelle nuda; si insinuarono sotto la gonna e risalirono lussuriosamente, carezzando, solleticando, ricercando la pelle tiepida. Il suo corpo si spingeva contro il suo, le labbra cercavano nuove superfici da saggiare, seminando baci lungo la mascella e il collo. Gli occhi, invece, i languidi occhi verdastri, ricercavano il consenso per ogni nuovo, minimo, gesto; si aprivano, la scrutavano di sbieco e ridevano.
In breve Anya si rese conto che solo un miracolo l’avrebbe destata da quel magnifico sogno ad occhi aperti. La mano destra del signor Langley risalì fino a metà coscia e si fermò, godendo del tepore della pelle e dei sospiri che quelle carezze strappavano alla giovane.
- Anya … - sussurrò sulle sue labbra. La baciò un’altra volta, preda degli impulsi e sollevò lentamente la gonna fino alle ginocchia. Anya fu avvolta da un brivido che non tentò di nascondere. Gemette sommessamente e sorrise, sicura di essere arrossita. Il signor Langley smise di baciarla e mentre scrutava la sua espressione, fece scivolare la mano nell’interno coscia.
E a quel punto Anya capì che era un messaggio. Lo sguardo interrogativo di lui era la prova.
- Credo di non riuscire più a resistere … - mormorò a fior di labbra, prima di baciarla. Sotto la gonna, la mano raggiunse la piega della coscia. Anya sorrise con un’involontaria malizia. Solo in quel momento comprese fino a quale punto si fossero spinti e che dovevano fermarsi, prima che fosse troppo tardi. Allontanò gentilmente la mano del conte dalla gamba, con uno sforzo sulla propria volontà, e sorrise di nuovo.
- È meglio se ci fermiamo … - sospirò.
Il conte appuntò gli occhi sui suoi, malcelando un certo disappunto e baciandola un’ultima volta sulle labbra. Dopo un attimo di silenzio poggiò la fronte sulla sua spalla e lasciò che la gonna ricadesse a coprirle le gambe.
- Sei così … calda … - sussurrò, mentre le sue dita sfioravano l’incavo della gamba. Quel contatto intensificò la pulsante sensazione di piacere in Anya, che fu costretta a chiudere gli occhi per riprendere il controllo.
- Lo so … - gemette. Langley sorrise divertito e strofinò languidamente la mano sullo stesso punto. Anya rabbrividì. Il calore stava diventando sempre più intenso. – Signor Langley … - sospirò prendendo la sua mano fra le sue. Poi ricercò il suo sguardo, scuotendo debolmente il capo. – Non possiamo …
Contro ogni aspettativa, il conte le fece segno di aver capito, allontanandosi leggermente da lei. Per un attimo Anya ebbe il timore che l’avesse preso come un rifiuto. Ma dopo essersi grattato energicamente la nuca, le sorrise amabilmente. Continuò a strofinare la nuca fino a quando la giovane non lo bloccò per il polso.
- Finirete per farvi male, così …
- Shh … sto cercando di dissuadermi da strane idee … - disse voltandosi verso la porta, prima di tornare a guardarla con un’espressione più seria.
A quel punto si mosse di nuovo per baciarla sulle labbra, ma si trattenne. – Forse hai ragione tu … - mormorò, vicinissimo a lei. – Potrei non riuscire a fermarmi …
Ad Anya fu chiaro che era necessario dileguarsi. Pensavano la stessa cosa. Lo guardò negli occhi, mordendosi il labbro inferiore, e capì dal movimento delle sue iridi che stava pensando di andar via. Ma Anya lo bloccò, rinsaldando dolcemente la presa intorno alle sue spalle e lo baciò. Il conte parve non aspettarsi quel contatto, che ricambiò con trasporto.
- Buonanotte, signor Langley … - bisbigliò poi Anya, scendendo dal bordo del forno, sorridendogli.

 

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Capitolo 45
*** Capitolo XLIII ***


An irish tale - Capitolo XLIII



Lucidare l’argenteria della casa.
Tutta.
Fu questa la punizione che le fu assegnata. Tutta l’argenteria. Senza escludere niente.
Anya iniziò a lavorare non appena Greta la esonerò dagli impegni come sguattera: la sera. Le diede un barattolo di crema lucidante per argento, una pezza e la guidò fino ad una stanza adiacente al soggiorno nella quale si trovava un baule pieno di argenteria d’ogni tipo: candelabri, vassoi, un servizio di posate intarsiate, un crocifisso, un paio di statuette e tre quadri di grosse dimensioni lavorati a sbalzo.
Era quasi mezzanotte quando cominciò. Per più di cinque ore lavorò senza sosta, imprecando, borbottando lamentele e mormorando canzoncine per tenersi sveglia. All’alba aveva finalmente goduto della visione di una catasta d’argento splendente e si era alzata da terra, dolorante, con le gambe addormentate. Con la testa che cadeva da un lato e dall’altro tornò al piano terreno e mise pezza e barattolo di crema sul tavolo, pronta a salire in camera; ma Greta la bloccò, indicandole con la mano che teneva il coltello per il prosciutto i due secchi accanto alla porta e il cortile fuori dalla finestra.
E stavolta non c’era il conte che la consolava.

A detta di tutti, il signor Langley era uscito per parlare di affari con Richard Hobson. Niente di più sbagliato. Il conte aveva preso Fedor unicamente per godersi il sole mattutino e per sbollire l’ottimo umore che più di una volta aveva minacciato di farlo ridere e urlare a più non posso. Non aveva incontrato Hobson manco per sbaglio e quei pochi contadini che piegavano la schiena dall’alba, non lo videro o non lo degnarono di uno sguardo, tanto erano indaffarati con il lavoro nei campi.
Non avendo di meglio da fare, girò il cavallo in direzione della città e trotterellò fino a che non notò una sagoma familiare in lontananza. In quel momento un carro lo affiancò e il giovane in lontananza si fece di lato per farlo passare. Anche Langley spostò Fedor fuori strada e quando il carro passò con il suo enorme carico di fieno e contadini, trotterellò in direzione del ragazzo, fermandosi a poco meno di due metri da lui.
- Anthony!
Il giovane si voltò con un breve sussulto. Stava trasportando una pila di canestri intrecciati e un morbido involto di carta beige. Alla vista del signor Langley posò tutto a terra e si tolse il cappello con la tesa smozzicata. – Signore.
Il conte fece avvicinare Fedor di qualche passo. – Stai andando a lavorare?
- Sì, signore. Mi reco al mercato ogni due giorni.
Langley guardò i cesti con un misto di curiosità e pietà. – Vai a vendere quelli?
- Li ha fatti mia madre.
Il conte fece un cenno con il capo e tacque. Poi chiese - Come sta?
- Chi?
- Mrs. McAvoy, tua madre.
- Ah … beh, non molto bene. Di recente ha avuto dei dolori al braccio e intrecciare questi canestri è stata un’impresa …
Langley assentì. – E tuo padre?
Le labbra del ragazzo si contrassero in una smorfia. – Cerca lavoro.
- Un lavoro? Alla sua età?
- Quando se ne ha il bisogno non si guarda all’età, signore.
- In famiglia lavori solo tu?
- Sì, signore.
Da parte del signor Langley ci fu un momento di titubanza. La spalla di Fedor vibrò improvvisamente a causa delle mosche. – Tuo padre è in casa, al momento?
- È possibile …
- … ma non certo … – mormorò fra sé il conte, volgendo lo sguardo altrove. – Bene, Anthony. Ti faccio i miei auguri di buona fortuna per quella roba.
Il ragazzo ricambiò il saluto, caricandosi dei cesti e riprendendo la strada per il mercato. Langley, invece, tirò le redini di Fedor e cambiò direzione.
Indugiò per un attimo, volgendosi di tanto in tanto per guardare Anthony allontanarsi dietro di lui. Fedor continuava a scalpitare impazientemente. A poca distanza la strada si biforcava in due sentieri; uno l’avrebbe portato alla tenuta, che si stagliava oltre una distesa di sempreverdi, l’altra conduceva al villaggio dove abitavano i McAvoy. Diede un colpo di talloni e girò strada, inoltrandosi nella campagna.
Giunse in un villaggio modesto, con case di mattoni poste a una certa distanza l’una dall’altra. Più che un villaggio sembrava un comune agglomerato di case, con austeri giardinetti e campi verdi e coltivati tutt’attorno. Il signor Langley si fermò davanti ad un’abitazione di mattoni rossi, davanti alla quale una donna coi capelli color vinaccia era intenta ad intrecciare un canestro di piccole dimensioni.
- Buongiorno, Mrs. McAvoy.
La donna alzò appena gli occhi sul conte. Non appena capì di chi si trattava ebbe un sussulto.
- Buongiorno a voi, signor conte.
Langley si tolse il cappello, avvicinandosi di qualche passo e guardandosi attorno. Mrs. McAvoy posò il canestro accanto alla sedia ed entrò in casa. – Venite, entrate … perdonate il disordine … posso offrirvi qualcosa? Birra? La facciamo noi …
L’uomo la seguì, fermandosi accanto al tavolo, con il cappello stretto per la tesa. Accettò la birra e sedette, mentre Mrs. McAvoy si muoveva da un capo all’altro della cucina, aprendo e chiudendo stipetti, riponendo frutta essiccata, noci, nocciole e bacche in un grande piatto che mise sul tavolo, davanti al signor Langley.
- Gradite anche del pane dolce, signor conte? L’ho fatto questa mattina …
Langley sorrise bonariamente alle sue premure e scosse il capo. – Grazie, Mrs. McAvoy, ma non sono venuto per approfittare della vostra gentilezza.
La donna ripose il coltello per il pane.
- Giusto mezz’ora fa ho incontrato Anthony per strada – disse prendendo una nocciola senza guscio. – E mi ha detto che vostro marito sta cercando un’occupazione.
L’aria gioviale della signora McAvoy si dissolse improvvisamente, mentre gli occhi scuri presero una strana piega. – Non sono tempi facili, questi. Con Anthony che non lavora è difficile andare avanti … e lo dico senza mezzi termini.
Langley abbassò lo sguardo sulla nocciola, traendo un lungo sospiro. – Vostro marito è in casa?
- No, credo che sia andato in paese.
Assentì con un cenno del capo e per un breve momento tacquero entrambi.
- Anthony mi ha detto che di recente avete avuto dei problemi al braccio.
La signora McAvoy parve sorpresa.
- Anthony si preoccupa troppo – mormorò girandosi e passando uno strofinaccio sul ripiano al quale era poggiata.
- Vi vuole bene.
Il petto di Mrs. McAvoy si sollevò con un lento movimento e per un attimo smise di passare la pezza. Langley mangiò la nocciola.
- Potrei far venire il mio medico.
La donna si girò verso di lui.
- Il signor Bowles … - precisò il conte, prendendo un fico secco.
- Sì, sì, lo conosco … - rispose la donna con titubanza, ma quando Langley mise mano al suo libretto personale, deciso a prender nota sul giorno in cui avrebbe potuto mandare il medico, Mrs. McAvoy lo bloccò con un cenno della mano. – Io … se proprio volete fare qualcosa per noi, riprendete Anthony a lavorare.
Il conte richiuse il libretto, mantenendo lo sguardo basso. Un attimo dopo l’alzò. Mrs. McAvoy lo fissava.
- Ve l’ha chiesto lui?
- No, signore.
- Conoscete il motivo per cui l’ho licenziato?
Questa volta fu la donna a chinare lo sguardo. – Sì.
- Voi riprendereste a lavorare un ragazzo che ha peccato di negligenza non una, ma mille volte? Vi chiedo solo di pensarla come me per un secondo.
- Ammetto che non è una decisione facile … ma lo conoscete, sapete che dopo un episodio del genere non farebbe più nulla di sbagliato.
- Nessuno nega che sia un bravo ragazzo, Mrs.
- Ammettete, quindi, che Anthony sia un lavoratore onesto?
- Certamente.
Mrs. McAvoy tacque. Il conte capì cosa avrebbe detto di lì a poco e la prevenì.
- Ci penserò su, Mrs.
Il viso della donna parve distendersi per il sollievo. Langley addentò un altro fico secco e guardò il giardino oltre la finestra.
- Ho visto che intrecciate canestri, Mrs. e quello lì ... – indicò un piccolo cestino su un ripiano – mi ha incuriosito. Quanto chiedete per arricchirlo con qualche bocciolo di campagna?
Mrs. McAvoy prese il cestino e lo mise sul tavolo, a portata di mano del conte. Lo squadrò distrattamente e corrugando il mento disse – Dieci penny.
- Quanto tempo impieghereste a farlo?
- Credo che per questo pomeriggio lo troverà pronto. Posso chiedere per chi è?
Langley molleggiò un piede, umettandosi le labbra con fare indeciso. – Per un’amica.
Contro ogni aspettativa, il volto di Mrs. McAvoy non si colorò di nessuna sfumatura maliziosa. Semplicemente annuì e si rigirò il cestino fra le mani, pensando a come sistemare i fiori.
Il conte cercò distrattamente un’altra nocciolina sgusciata, prendendo infine un altro fico secco. – Bene, Mrs. McAvoy … non voglio essere un ostacolo ai vostri impegni. Vado. Quando torna, potreste dire a vostro marito che desidero parlargli?
La donna sorrise cortesemente, accompagnando il conte alla porta con il cestino tra le mani. Langley si rimise il cappello, fermandosi di scatto a metà strada tra la porta e Fedor.
- Mrs. – disse girandosi nella sua direzione – posso tornare con il signor Bowles, questo pomeriggio?
La donna sorrise con uno sbuffo. Il conte lo prese come un sì e ricambiò, prima di salire in sella e salutarla con un tocco alla tesa del cappello.


Nello stesso momento, alla tenuta Rudolph.

Wilehim sedette in veranda, in una comoda poltroncina di vimini, a riparo dal sole.
Per quel giorno, si era ripromesso, di sole ne aveva abbastanza. In mattinata, al risveglio, un raggio crudele gli aveva ferito gli occhi, acuendo il feroce mal di testa che lo tormentava dalla sera precedente.
Era contento che Winwood non fosse andato a disturbarlo. Probabilmente aveva capito la situazione e si teneva alla larga per questo. Effettivamente, quando aveva mal di testa, Wilehim diventava piuttosto irritabile, anche se gli scoppi d’ira erano fuori discussione.
La poltroncina sulla quale sedeva era dotata di un pouf di vimini con un cuscino di canapa chiara. Vi poggiò i piedi con un lieve sforzo sul dolore al capo e incrociò le mani sullo stomaco, chiudendo gli occhi.
- Il vostro impacco, signore.
Quella frase appena sussurrata ebbe l’effetto di un chiodo sui timpani di Wilehim. Con un’espressione di puro dolore si girò lentamente verso una cameriera bionda che aspettava un cenno d’assenso per poggiargli l’impacco sugli occhi.
- È come avete chiesto voi … - aggiunse la ragazza a voce ancor più bassa.
Wilehim sospirò a lungo. Alla fine mosse la mano e la cameriera posò delicatamente l’impacco sui suoi occhi. Wilehim sistemò la nuca sul cuscino di piume con un mugolio sommesso e sistemò meglio l’impacco.
- Ho portato anche la medicina per il mal di testa, signore.
Sotto la benda, gli occhi di Wilehim scattarono con sospetto. – Di cosa si tratta? – mormorò.
- Arnica.
Wilehim borbottò qualcosa e la cameriera si allontanò.
Il resto della mattinata passò senza particolari variazioni o avvenimenti significativi. Dopo essersi bevuto l’infuso a base di arnica, il mal di testa sembrò placarsi e Wilehim si addormentò.
Qualche ora dopo pranzo, venne destato dalle voci di due uomini, in uno dei quali riconobbe Winwood Smith. Ridevano.
Ad un certo punto Winwood disse qualcosa con divertimento. Per quanto alto fosse stato il tono che aveva utilizzato, Wilehim non afferrò il senso della frase.
- … anche a me, una volta … cosa strana …
Era l’altra voce. Sollevò appena la benda dagli occhi, concentrandosi maggiormente sul dialogo.
Non dovevano essere molto lontani, quei due.
A parlare fu nuovamente Winwood. – … esempio?
- … volta … spariti i vestiti … sera … cambiarmi, ma … trovai …
Wilehim si tolse completamente la benda dagli occhi, guardandosi intorno cautamente per non farsi tornare il mal di testa. Un brusco movimento dei bulbi oculari avrebbe vanificato gli effetti dell’arnica e dell’impacco. Ci mise un po’ a capire quale fosse la direzione delle voci, ma quando l’ebbe individuata si alzò e si mosse fino a che le parole non divennero nettamente distinguibili. Il punto in cui si sistemò non era lontano dall’ingresso delle scuderie.
- Come sarebbe a dire “le erano spariti i vestiti”?
- E non fu l’unica volta!
Individuato un piccolo spiraglio della fitta parete di verzura,Wilehim sbirciò fin tanto che non vide lo stalliere parlare con suo zio, mentre deponeva palate di paglia sporca nella carriola accanto. Winwood sedeva su una balla di fieno, apparentemente distratto dalla brezza fresca.
- Capitò … uhm … capitò perlomeno tre volte … e non scoprì mai il colpevole! – continuò lo stalliere. – Era sera la prima volta che lo scoprì … uhm … e all’inizio pensai ad uno scherzo … uhm … ma poi i vestiti ricomparvero e io non ci pensai più.
Erano rare le occhiate che Winwood lanciava allo stalliere e sembrava quasi divertito, nonostante Wilehim pensasse il contrario. Nel momento in cui abbassava gli occhi dopo aver osservato lo stalliere, le sopracciglia prendevano una piega pensierosa e le labbra si arricciavano con perplessità – anche se di perplessità, secondo Wilehim, non si trattava certamente. Winwood aveva una capacità di concentrazione superba e se voleva era in grado di ripetere a memoria i discorsi del suo interlocutore per intero.
- E alla seconda volta che accadde? – riprese guardandolo con aspettativa.
- Alla seconda volta, dice?
Winwood annuì. Lo stalliere affondò la pala con l’aiuto di un piede e assunse un’espressione vacua, corrugando il mento. – Uhm … la stessa cosa. Pensai che fosse uno scherzo, ecco, e … - Winwood probabilmente si aspettava un altro “uhm”, che, però, fu sostituito con un sospiro di stanchezza - … me la presi con i miei colleghi, ecco … una volta può capitare, signor Smith, ma due … comincia ad essere sospetto, capite cosa intendo?
Winwood abbassò il capo, arrivando quasi a toccare il petto con il mento, mentre grattava distrattamente il terriccio fangoso. – Capisco, capisco … - disse con lo stesso tono ambiguo di prima.
Alle spalle di Wilehim qualcosa si mosse e lui si allontanò sbrigativamente dall’angolino in cui s’era nascosto. Fortunatamente per lui era solo una coppia di piccioni che si erano posati nei pressi di alcune briciole di pane che aveva buttato lui stesso nel delirio del mal di testa, qualche ora prima. Un’occhiata al giardino dopo, tornò ad ascoltare cosa si dicevano Winwood e lo stalliere, anche se pareva che i loro discorsi non avessero alcun senso; ma fu sfortunato: dall’altro capo del cortile lo stalliere fu richiamato da un superiore e vide Winwood abbandonare la conversazione con un tocco di amarezza. L’anziano si mise le mani in tasca e si avviò lentamente verso la porta principale.
Fino a qualche ora dopo, quando venne chiamato per il pranzo – l’ultimo a Greenburg – Wilehim non ebbe notizie di suo zio. Ebbe, però, la consolazione di trovarlo particolarmente di buonumore e disposto al dialogo. Per tutta la durata del pasto non fece che parlare di questo e quest’altro, richiamare l’attenzione del nipote ai discorsi, chiedere la sua opinione e celebrare la bellezza del terreno che si apprestava ad acquistare dal duca Rudolph. Arrivò al punto che il duca sapeva i suoi discorsi a memoria e che Lady Rudolph mal celasse la propria irritazione nei confronti della sua mente tanto labile.
Quando giunse il momento di partire erano entrambi stanchi e vogliosi di tornare a casa. Stare alla tenuta Rudolph, con tutto il suo carico di risi e sorrisi ipocriti dell’alta società e impegni vari – visitare la proprietà che avevano comprato, alzarsi la mattina presto e scendere entro le nove e mezza al tavolo della colazione, non avere un attimo di pace in momenti in cui stravaccarsi su un divano avrebbe rappresentato un sollievo senza eguali – li aveva stancati non poco. Wilehim raggiunse suo zio in carrozza con una smorfia di sollievo. All’ultimo era stato fermato dal duca Rudolph per un ultimo augurio di buona fortuna.
- Impaziente di arrivare, eh? – disse l’anziano Winwood quando il nipote chiese al cocchiere di partire. Il ragazzo rispose con uno sbuffo ed un’espressione eloquente, mentre si sistemava sul suo sediolino. Winwood rise e con uno sbadiglio chiuse la tendina della carrozza. Poggiò dunque il capo alla parete dell’abitacolo e si addormentò.


Quella sera, di ritorno dalla casa dei McAvoy, il signor Langley desiderò aver indossato qualcosa di più pesante. Non era stata una giornata particolarmente nuvolosa, ma nelle ultime ore aveva iniziato a soffiare un vento freddo di media intensità.
Ingannato dal sole splendente, nel pomeriggio era uscito a cavallo, ma presto era arrivato il freddo. In casa dei McAvoy non diede molto peso alla cosa, ma sulla strada fu più volte preso dalla voglia di ficcarsi nella sua pelliccia di montone, nonostante fosse ancora estate.
Mentre percorreva il viale di casa ripensava alla conversazione con il signor McAvoy. Quando l’aveva visto non riuscì a contenere un pensiero compassionevole: pallido e abbacchiato, il signor McAvoy sembrava più vecchio che mai. Aveva fatto sedere il conte al tavolo della cucina – unico nella piccola casa – e Mrs. McAvoy gli aveva subito messo davanti il cestino coi fiori di campagna. Se lo ricordava più piccolo e polveroso, ma con le margherite e i fiorellini di campo aveva acquistato un aspetto parecchio vivace. Lo osservò un po’, mentre Mr. McAvoy si dava da fare per versargli un grosso bicchiere di birra fatta in casa.
- Ci ha lavorato senza interruzione, la mia Rose, a quel cesto …
Langley aveva alzato lo sguardo, sorridente, verso l’anziana coppia. – Ah sì?
Il signor McAvoy aveva annuito, sedendosi e porgendo un boccale di birra al conte. Dietro di lui, Mrs. arrossì. – Anche durante il pranzo … un boccone ed un intreccio. Un boccone ed un intreccio … - e la guardò affettuosamente.
Il signor Langley si sentì subito in colpa. Quando la vide, la signora si stava massaggiando distrattamente il gomito. Scambiarono ancora qualche battuta sul cestino, poi il discorso si spostò sull’argomento “lavoro”. il signor McAvoy non tardò a citare Anthony, ma si mantenne sul vago e non diede l’impressione di volerne parlare direttamente. Langley sorseggiò la sua birra inserendosi di tanto in tanto nel monologo di Mr. McAvoy. Osservava di sottecchi i suoi movimenti, i gesti inconsapevoli che enfatizzavano il significato delle sue parole, ogni accezione … e Mrs. McAvoy osservava lui, chiedendosi se quel giovane uomo avrebbe dato loro una mano.
Dopo meno di un’ora si congedò e uscì in preda ai più svariati pensieri. L’aria fresca gli pizzicò subito le guance e allorché fu a cavallo si chiese dove avrebbe conservato il cestino di fiori.
In cortile una voce risuonava prepotentemente da una parte all’altra. Pochi e brevi erano gli stacchi fra una frase e l’altra e il tono appariva piuttosto irritato. Si guardò brevemente intorno, alla ricerca della fonte. Edgard percorse a grandi passi il cortile con un sacco sulle spalle e non vide il conte. Lanciò un’occhiataccia dietro di sé, prima di sparire dentro l’aia. Con un colpetto alla pancia, Langley fece raggiungere a Fedor il centro del cortile e scese da cavallo, stringendo il cestino che per poco non gli cadeva di mano. Un fiorellino si staccò e raggiunse il suolo con un tocco delicato. Si guardò nuovamente attorno, si abbassò a prendere il fiorellino e lo rimise insieme agli altri. In quello stesso momento Fedor mosse qualche passo verso la scuderia e Langley si slanciò per riafferrare le redini. Il cestino minacciò un’altra volta di cadere e tra Fedor che tirava, la cinghia della bisaccia scivolata fino alla piega del braccio, la voce irritata, i brividi di freddo lungo la schiena e i fiorellini che ondeggiavano pericolosamente oltre i bordi del cesto, Langley non riuscì a trattenere un’esclamazione nervosa. La voce si zittì all’improvviso. Langley riprese in fretta il controllo dei suoi movimenti e guardò in direzione della scuderia – che scoprì essere la fonte della voce. sistemò la presa delle dita intorno alle redini e si mosse in quella direzione.
La sottile figura di Anya comparve sull’uscio della scuderia. Aveva un’aria profondamente infastidita e per un momento lo guardò con livore; poco a poco, però, gli parve che la sua espressione si addolcisse e si avvicinò più velocemente, sorridendo. Prima di entrare si assicurò che non ci fosse nessuno nei paraggi; nello stesso istante la giovane gli tolse le redini di mano e sparì oltre l’angolo della scuderia.
Langley la seguì con il cestino fra le mani. – Ti ho portato questo …
Anya aveva già liberato il capo di Fedor dai finimenti quando si girò. Per tutta la giornata aveva riflettuto su lei e il conte, sul “grande passo” fatto nel giro di pochissimi giorni. Non riusciva a non sentirsi imbarazzata e inferiore a lui quando erano insieme. La rendeva felice vederlo tutti i giorni, ma non si era ancora abituata all’idea che lui e lei …
Lui e io …?
- Anya, non ti piace?
Lo guardò. E il cuore fece un capitombolo. La scrutava con apprensione, mostrandole il cestino di margherite e fiori di campo. Un paio di questi caddero sul pavimento disseminato di paglia.
- N-no … è … è molto bello … vi ringrazio … posatelo pure lì … - aggiunse indicando una balla di fieno in un angolo.
Langley fece come gli fu detto e tornò da lei, che stava già armeggiando con la cinghia della sella. Anya si pizzicò un dito con la fibbia e lui, con gentilezza, la fece spostare. – Lascia, faccio io.
In un primo momento la giovane si guardò intorno; poi appese i finimenti di Fedor ad un gancio e puntellò una balla di fieno con il forcone per dar da mangiare ai cavalli. Langley la osservava da sopra il dorso di Fedor.
- Di’ la verità: quel cestino non ti è piaciuto …
- Cosa?
Lì per lì il conte decise di lasciar perdere. Mise la sella sul sostegno e guidando Fedor nel box ripeté ciò che aveva detto.
- Oh, no … non è vero – lo rassicurò prendendo il cestino. Altri fiorellini caddero a terra. – Mi piace seriamente …
La sua espressione era sincera. Stanca, esausta, ma sincera. Quando sorrise, notò il conte, a piegarsi furono solo le labbra. Solo in quell’istante vide quando fosse affaticata. Rimise il cesto sulla balla di fieno e tornò a dar da mangiare ai cavalli, mentre lui porgeva una mela a Fedor e serrava la porta del suo box.
Tutto, intorno a loro, tacque. Perfino il vento, fuori, parve placarsi. A rompere il silenzio era solo il passo svelto e strascicato di Edgard che stava sicuramente trasportando ancora sacchi da un capo all’altro del cortile. Newton sbuffò, un altro cavallo batté uno zoccolo sulla lettiera di paglia e Anya continuò ad armeggiare con il forcone. Langley si poggiò alla porta del box di Fedor.
- Va tutto bene? – le chiese quando posò il forcone.
Anya raddrizzò la schiena con una smorfia e sorrise. – Sì … un po’ stanca, ma …
- “Ma”?
- Mi basterà dormire qualche ora … - rispose con un’alzata di spalle. Una ventata d’aria fresca invase la scuderia e Anya si poggiò contro una parete, ad occhi chiusi. Langley slacciò gli alamari della suagiacca di panno e sollevò un braccio.
- Vieni qui – disse quasi in un sussurro, sorridendo affabilmente. Anya ricambiò e gli si avvicinò, lasciandosi abbracciare. Langley afferrò i lembi della giacca e l’avvolse per scaldarla.
- Senti freddo?
La giovane scosse il capo. – Anche se ne avessi sentito adesso non potrei dir di sì …
Langley rise, rinsaldò leggermente la stretta e sospirò. – Ti va una passeggiata?
Anche Anya sospirò. – Magari un’altra volta … cado a pezzi … - mormorò contro la sua spalla.
Il conte piegò il capo per guardarla in viso. – Addirittura?
- Non dormo da … - annuì Anya, ma si bloccò. Era da due giorni che non riposava: la sera prima Greta l’aveva messa a lucidare gli argenti e quando aveva finito, all’alba, non aveva lasciato che tornasse in camera. Aveva paura che se l’avesse detto al conte, lui se la sarebbe presa con Greta e contò sul fatto che lasciasse cadere il discorso.
Evidentemente si sbagliava.
Accigliandosi impercettibilmente, Langley chiese – Da quanto?
- Da … da questa mattina.
- Hai lavorato molto, allora?
- Tanto …
Langley non poté che pensare ad Anthony e alla possibilità che tornasse a lavorare per lui. Avrebbe dato una mano in più e ridotto le ore di lavoro di Anya, che sarebbe tornata al suo impiego originario. Ma c’erano molte cose da mettere a posto, prima …
Ad un richiamo di Greta, Anya sussultò. Entrambi guardarono verso la porta della scuderia.
- Arrivo! – gridò Anya. – Signor conte, io vado. Greta è ancora molto arrabbiata per l’altra sera …
Langley si sporse appena dall’uscio e guardò nel cortile, poggiandosi ad una parete. Rassegnato, guardò Anya allontanarsi in fretta e gridare una scusa sul suo ritardo a Greta.
Pensò che gli sarebbe piaciuto trascorrere più tempo con lei. Con il passare del tempo la necessità di certi spazi era cresciuta. Ma cosa fare? Giusto quel pomeriggio aveva parlato con delle persone che avevano strettamente bisogno di denaro e neanche con la più fervida buona volontà sarebbe riuscito ad aiutarli senza offrire un impiego ad uno di loro. L’indecisione era forte.
E mentre si lambiccava per trovare una soluzione e Hunt gli si avvicinava quasi per rassicurarlo, il cielo abbandonava le tonalità calde del tramonto e abbracciava uno spicchio di luna sempre più candido.

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Capitolo 46
*** Capitolo XLIV ***


An irish tale - Capitolo XLIV



- Non si gioca con il cibo! – disse Greta mollandole uno scappellotto sulla nuca, quando la vide ridurre in briciole un pezzo di mollica.
A causa di un battibecco con Mary, che di solito sedeva accanto alla cuoca, quella mattina era Anya ad occupare il posto della cameriera al tavolo della colazione. Sapeva che Greta, in fondo – molto in fondo – le voleva bene, ma negli ultimi minuti era stata portata a pensare tutto il contrario.
Quando le mollava uno scappellotto, quella mattina, Anya si sentiva morire.
Anya aveva già adottato dei piccoli accorgimenti alla sua emicrania, tra i quali un caffè amaro con limone, una sciarpetta che fasciava la nuca e una mano sugli occhi con la quale aveva ottenuto la diminuzione del riverbero della luce solare. Masticò anche lentamente, perché il dolore era veramente intenso, e cercò di respirare lentamente e non concentrarsi sui battiti del cuore che risuonavano rombanti alle orecchie. Non si era ancora vista allo specchio, ma era sicura di avere gli occhi arrossati.
Lanciò uno sguardo infuocato a Greta. Al momento non poteva concedersi altro, perché sapeva che gliel’avrebbe fatta pagare. La cuoca non la degnò manco di mezza occhiata mentre finiva il suo pane dolce.
Come di consueto, prima della fine della colazione, Margareth distribuì i compiti; per Anya non cambiava quasi niente: doveva dividersi fra la scuderia e la cucina e, se le rimaneva tempo, anche della casa. Mentre Margareth parlava le vennero i brividi. Se possibile, quel giorno il lavoro era raddoppiato.
Dopo colazione si spostò in scuderia per prendere Fedor e prepararlo alla passeggiata mattutina del conte. Camminava lentamente, cercando di non saltellare, ma con Fedor era difficile. Lui era un cavallo di grossa stazza e il suo passo era veloce. Una volta che lo ebbe sellato e bardato fu chiamata da Greta e lasciò Fedor in custodia ad Edgard. Per tutta la mattina non vide il conte, del quale comunque si diceva che fosse di pessimo umore. Per questo e altro Anya si ritenne fortunata, ma non durò a lungo.
All’ora di pranzo, quando Greta la mise ad affettare le verdure e a sbrigare il lavoro più “antipatico”, avendo trascorso molto tempo seduta, Anya sentì spalle e schiena doloranti. Inizialmente lo imputò alla temporanea immobilità, ma già in serata si sentiva senza forze e andò a letto con un certo anticipo.
L’indomani mattina fu Margareth a svegliarla. Aprì gli occhi che qualcuno la scuoteva energicamente e la vide china su di sé.
- Ma insomma, sono già quasi le otto, Anya!
La ragazza mugolò una scusa e si mise debolmente a sedere. Il mal di testa piombò come un macigno e sentì il capo dondolare. Si voltò verso Margareth, le disse che era stanca; ma la governate fece una smorfia e le si avvicinò per capire. Solo allora si accorse di non aver detto nulla che somigliasse a ciò che aveva pensato. Poi … Margareth la guardò negli occhi e le tastò la fronte con cipiglio preoccupato.
- Ehi, ma … sei bollente …
Anya non ebbe alcuna reazione. Era come se lo sapesse già e fissò Margareth con gli occhi lucidi. La governante la fece distendere e mentre la copriva le sussurrò – Aspettami qui. Torno subito.
Probabilmente Anya assentì. In effetti non lo sapeva con sicurezza. Margareth uscì svelta dalla stanza e Anya si mise sul fianco sinistro, perché a pancia in su era come avere il naso chiuso. In quella posizione sentì tornare i dolori alle spalle e alla schiena, ma il mal di testa era appena appena più sopportabile. Avvolta alla nuca aveva ancora la fusciacca del giorno prima. L’aveva legata per bene, pensò. Chiuse gli occhi e attese. Attese. Attese …
- Anya?
Riaprì gli occhi.
- Sta venendo il signor Connelly a visitarti …
Era ancora stesa sul fianco. Margareth le poggiò qualcosa di tiepido sulla fronte; capì che era la sua mano e si rilassò istantaneamente.
- Sign … Connelly? – biascicò.
- È l’assistente del dottor Bowles. Al momento lui non c’è e Connelly fa le sue veci. Vediamo cosa dice … forza, tirati su, adesso …
Le legò i capelli. Oppressa dal mal di testa, Anya non vedeva l’ora di tornare a dormire. Margareth le fece bere un bicchiere di acqua fresca e sbirciò fuori dalla finestra fino a che non spuntò la carrozza del signor Connelly.
Era poco più che un ragazzo, un uomo fresco di laurea che affiancava il dottor Bowles per acquisire maggiore esperienza. Di media statura, aveva capelli e barba neri e due grandi occhi scuri che spiccavano in un incarnato pallido. Era di poche parole e un tono di voce chiaro e asciutto. Visitò Anya in pochi minuti e parlò della cura direttamente con lei, leggendo la ricetta per il farmacista mentre la stilava ed elencando una serie di cose e cibi che avrebbe dovuto evitare per alcuni giorni.
Quando uscì Margareth si accostò alla finestra per guardarlo prendere la carrozza, ma prima che la raggiungesse, dal cancello della tenuta entrò il signor Langley a cavallo, di ritorno da un’uscita. Sorpreso, trotterellò fino alla carrozza e saltò giù. Parlò brevemente con il signor Connelly, annuì e lasciò Fedor alle cure di Edgard. Così scomparve dal campo visivo di Margareth, che pochissimi istanti dopo udì i suoi passi lungo le scale e il corridoio.
- Margareth … - disse, entrando.
La governante sorrise impercettibilmente. Probabilmente non si aspettava di trovarla lì, ma badò bene a celare la sorpresa e le si avvicinò con un’espressione più disinvolta.
- Cosa è successo?
Margareth lanciò un’occhiata ad Anya che dormiva e prese la ricetta del medico dal comodino. – Ha la febbre. Il signor Connelly le ha detto di riposare e mangiare quello che le va … questa è la ricetta per una medicina che la tirerà su.
Il conte prese il foglio. Margareth vide i suoi occhi percorrerlo in tutta la sua lunghezza un paio di volte e appuntarsi poi su Anya.
- Dì a Edgard di portarla alla farmacia, in città. Questi credo che basteranno … - aggiunse tirando fuori dal portamonete una manciata di scellini.
La governante obbedì e uscì dalla camera, lasciandolo solo. Langley guardò il cortile dalla finestra, sollevando distrattamente un lembo della giacca e poggiandosi una mano al fianco. Vide Margareth dare il foglietto ad Edgard ed Edgard entrare in scuderia a prendere Birra. In breve lo bardò, lo attaccò al calesse e si allontanò. Credeva che Margareth sarebbe tornata indietro, per controllare Anya, ma non fu così. Nessuno avrebbe turbato la quiete della camera, pensò. Anche la finestra era chiusa e le fronde degli alberi oscillavano silenziosamente, l’abbaiare di Hunt e il clangore della porta della scuderia furono appena percepibili.
Per un lungo momento rimase in piedi, di fronte la finestra, a guardare quello che accadeva nel cortile e nei campi all’orizzonte; poi, dietro di lui, Anya si ridestò con un colpo di tosse.
- Ehi Anya … - mormorò preoccupato, accostandosi al letto. Vedendolo, la giovane sorrise debolmente.
- Come ti senti?
Anya trasse un lungo respiro. – Sono stanca …
- Lo so. Margareth mi ha detto che hai la febbre – continuò avvicinando una sedia. Mentre vi prendeva posto, la guardò in viso. – E si vede. Quali sono i consigli del medico?
- Ha detto che devo riposare, ma … se questo pomeriggio mi sento meglio …
- Alt, alt. Se non guarisci, di qui non ti muovi – la prevenì, con tono fermo.
Anya lanciò un’occhiata alla porta. – Greta ha bisogno di me …
- Greta sopravvivrà un paio di giorni senza di te. Ti sei stancata abbastanza.
Anya tacque, volgendo lo sguardo altrove.
- Adesso devi solo recuperare le forze … sei pallida.
La giovane si umettò le labbra secche. Il conte sembrava sinceramente preoccupato, ma, come le venne di pensare, non poteva capire quanto fosse stancante fare due lavori insieme e dormire sei ore a notte. Non riusciva a trovare aspetti favorevoli in una ripresa delle energie: farlo avrebbe significato tornare a lavorare, a spezzarsi la schiena per un compenso bassissimo. Ora che ci pensava non capiva come aveva fatto a resistere tanto a lungo.
Quando tornò a guardarlo, Langley aveva preso una mano fra le sue.
- Sono pallida, dite?
- E con le guance tutte rosse … - annuì.
Anya sorrise, mentre il signor Langley parve impensierirsi.
- A cosa pensate? – gli chiese dopo un momento.
- A come fare … - sospirò. Anya inarcò un sopracciglio. – A come fare con te …
Strinse la presa intorno alla mano di lei, abbandonando l’aria accigliata con un sorriso appena accennato. Anya lo ricambiò, anche se non era convinta che avesse detto la verità.
In effetti Langley pensava ancora alle parole dei McAvoy. Adesso ad avere bisogno di lui erano due persone: un ragazzo in cerca di lavoro ed una giovane che amava e non sopportava di vedere stare male. A chi doveva badare prima?
- Guarisci, d’accordo?
Anya si spostò di lato, avvicinandosi a lui, e lo abbracciò. Langley la strinse, passandole le mani sulla schiena e baciandola sulla guancia. Tra le braccia, il corpo caldo di febbre, Anya gli sembrò quasi più magra, più vulnerabile e per un momento rinsaldò la presa; poi, con gentilezza, si allontanò e spinse le coperte fin sopra le sue spalle.
- Dormi, adesso … - le disse spostando una ciocca vermiglia dalla sua fronte.
Anya chiuse gli occhi, troppo spossata per continuare a star sveglia, sentendo il conte accanto a sé, prima che i suoi passi si allontanassero verso la finestra.
Langley si poggiò al davanzale con entrambe le mani. Il clima della malattia, l’atmosfera che si creava intorno ad un malato, l’aveva sempre fatto sentire a disagio. In quel momento, mentre le nubi gettavano un’ombra sul paesaggio, coprendo il sole, fomentando il vento del nord, sentiva il disagio mescolarsi all’apprensione e l’apprensione alla voglia di fare qualcosa di utile. Qualcosa di utile per il malato e per sé, per mitigare le cattive sensazioni. Guardò oltre la spalla Anya prender sonno, cambiare posizione, mugolare inconsciamente e rannicchiarsi, forse per un brivido di freddo.
Poi fissò la strada, aspettando di trovarci Edgard di ritorno dalla città. Il suo calesse non si vide, ma la strada di campagna, l’erba carezzata dal vento e Hunt che giocava con un ramo spoglio in cortile, gli diedero di colpo un’idea, che lo agitò dentro e gli fece capire ciò che doveva fare. Si girò un’ultima volta verso Anya, si assicurò che stesse dormendo e uscì dalla camera, diretto al suo studio.


Sin dai suoi albori, quella giornata aveva dato segni di non essere solare come la precedente. Era iniziata bene, con tanto di azzurra foschia mattutina, l’aria fresca, carica dei profumi della notte, dei fiori, la rugiada cristallina sulle foglie verdi e carnose; ma già in tarda mattinata il carattere irlandese s’era fatto riconoscere e il cielo si era rabbuiato improvvisamente, colorandosi di un grigio che minacciava pioggia.
Da un lato, in campagna, nella tenuta Langley, un uomo di quasi ventisette anni era in aperta discussione con l’amministratore della sua azienda a causa della paura di perdere le novelle riserve di grano; da un altro, in città, in una stazione di polizia di Waterford city, un gruppo di agenti erano alla presa con un caso di tentato omicidio. Circolavano parecchie voci: chi diceva che l’ispettore ne era finalmente venuto a capo, chi che era in alto mare, chi che era uscito con l’intenzione di arrestare l’uomo sbagliato, chi che avesse fallito e stesse preparando i bagagli per tornarsene a Dublino. In ogni caso, buone o maligne che fossero, tutte le voci erano contaminate da una nota di cattiveria. L’ispettore Hurlstone era un novellino in campo e non c’era da meravigliarsi se i suoi colleghi – tutti più grandi – lo sparlassero. Certo un novellino, ma per niente sprovveduto.
Nel tempo che Hurlstone aveva riservato allo studio del caso Langley – poi esteso a caso Neybourgh e, in ultimo, a caso Reynold – erano successe tante cose. Non pochi erano stati gli ostacoli: la morte di Barney, meglio conosciuto come Bartholomew Neybourgh, autore del primo tentato omicidio del conte; poi la morte di Sperty, Patrick Reynold, autore dell’aggressione che aveva condotto in casa Langley Anya Bacott e unico testimone di una lunga serie di misfatti; infine una sostanziosa dose di nervosismo ed errori che avevano allontanato sia lui che il resto dei poliziotti dal raggiungimento della meta.
Si era trattato di un caso sfortunato. Era come se Hurlstone stesse scalando una parete rocciosa e ogni volta che trovava una base d’appoggio per mani e piedi, questa franasse via. Per un uomo qualsiasi tutto questo avrebbe dato vita a frustrazione allo stato puro, ma Hurlstone era un osso duro e la morte dei responsabili – nonché ottime fonti di informazioni – l’aveva reso ancora più resistente.
Era da un po’ di giorni che lavorava sodo. Con il sole pensava, con la luna rifletteva. Con il sole raccoglieva indizi, con la luna li metteva insieme ed elaborava una teoria … che cambiava ogni notte. Se in tutto c’era qualcosa che non andava era proprio questo. Gli indizi erano così intellegibili che non si riusciva a ipotizzare qualcosa di fermo.
Il giorno che il cielo cambiò faccia, dopo giorni e giorni di lavoro, l’ispettore meravigliò i colleghi uscendo a far una passeggiata. Aveva lasciato detto a Musgrave che non voleva essere disturbato: stava andando in pasticceria a comprarsi i suoi tanto adorati cioccolatini al liquore. Se li concedeva sempre a caso chiuso e quello del signor Langley avrebbe potuto definirsi tale, se non fosse stato per una dannata chiave di collegamento che gli faceva saltare tutte le teorie che formulava.
Alla stazione di polizia non era stata una giornata facile, anche se, nonostante l’assenza dell’ispettore Hurlstone le cose non erano andate malissimo. L’agente Copperland, ad esempio, era alle prese con un uomo arrestato per furto al mercato del paese. Si stava facendo dettare i suoi dati, mentre Musgrave rimetteva in ordine tutti gli appunti dell’ispettore e studiava i disegni trovati in casa di Bartholomew Neybourgh. Odiava ammetterlo, ma in quel momento la sua scrivania era un campo minato. E in due sensi: in senso metaforico e in senso letterale, perché bastava che qualcuno toccasse anche l’angolo di un foglio che lui saltava su di scatto e lo mandava via. Era solo impaziente che tornasse l’ispettore, perché aveva molte altre scoperte da comunicargli.
Altri poliziotti erano seduti ai loro scranni o si stavano preparando per andare a fare un giro di ronda nel quartiere, ma quando una donna entrò, all’improvviso, nella stazione, Musgrave era l’unico che poteva darle retta. Era bionda, pallida, con gli occhi chiari e malgrado il clima mite, si stringeva convulsamente in uno scialle logoro blu, con le frange. Dava l’impressione di aver sciolto da poco i capelli e li aveva raccolti in una disordinata mezza crocchia. Si faceva notare, in un certo senso, e Musgrave alzò subito lo sguardo su di lei, con educata perplessità. Tuttavia la donna non lo vide e continuò a guardarsi smaniosamente attorno, passandosi spesso un fazzoletto sulla fronte per asciugare il sudore che rendeva il suo volto lucido.
- Buongiorno, signora. Ha bisogno di aiuto?
Essendo l’ufficio pieno di rumori e di voci degli agenti, la domanda di Musgrave non fu udita. La donna continuò a guardarsi intorno e dietro, in direzione della porta, con indecisione. A malincuore Musgrave lasciò il suo lavoro incustodito sulla scrivania e si avvicinò alla donna.
- Buongiorno, signora. Io sono l’agente Musgrave … ha bisogno di aiuto? Deve denunciare qualcosa?
La donna sussultò e i suoi movimenti si fecero ancora più smaniosi. Prima di rispondere tamponò la fronte con il fazzoletto e guardò nuovamente la porta
- Io … io … non lo so … Chi è il capo, qui? … io … devo fare in fretta … lui oggi torna presto …
Sul volto di Musgrave le sopracciglia si aggrottarono, ma lui badò ad assumere un’espressione più paziente per non imbarazzare la donna. Di quello che aveva detto non aveva capito granché.
- Che ne dice se ci sediamo un attimo e …
La donna lo bloccò scuotendo risolutamente il capo. – No … no … lui torna presto, oggi … devo sbrigarmi … che ora è?
Musgrave non poté trattenersi, questa volta, dall’accigliarsi. Controllò l’orologio. – Sono le cinque e un quarto, signora … È sicura di non volersi sedere?
Tutto ad un tratto, fu come se la donna avesse trovato un valido motivo per ascoltarlo. Mosse nervosamente le mani tra i lembi dello scialle e seguì Musgrave fino alla sua scrivania, che lui si affrettò a riordinare.
- Ho ancora poco tempo a disposizione … - disse tamponando la fronte. – Ho bisogno di parlare con il capo … chi è il capo, qui?
Rimettendo gli schizzi di Neybourgh nella giusta carpetta di cuoio, Musgrave lanciò un’occhiata si sottecchi alla donna. – Si riferisce all’ispettore? L’ispettore Hurlstone?
La donna annuì nervosamente. Musgrave temette che se le avesse detto che l’ispettore non c’era, quella se ne sarebbe andata. – Sarà qui a momenti. Deve dirgli qualcosa di urgente?
Guardò un’altra volta la porta, poi la scrivania e Musgrave. Stava quasi per annuire e parlare, ma si bloccò in tempo. – No, no … devo parlare con l’ispettore …
Musgrave sistemò un altro paio di fogli nella carpetta di cuoio e si girò per posarla su uno scaffale, quando Mrs. Merton lo chiamò. Si distrasse un secondo e gli cadde tutto di mano. I fogli fuoriuscirono dalla carpetta e si dispersero, svolazzando, sul pavimento legnoso.
- Dannazione! – esclamò chinandosi immediatamente per raccoglierli.
Mrs. Merton si mosse per aiutarlo, ma lui la fermò prontamente, sollevando un braccio. – Amaro, Mrs. Merton. Il caffè lo voglio amaro!
La donna balbettò delle scuse, poi si allontanò, smuovendo gli orli della gonna con passi piccoli e veloci.
Di fronte a tutto quel disordine, che aveva impiegato alcune ore a eliminare, Musgrave scosse il capo con disperazione, afferrò i fogli a mucchi e li posò momentaneamente sulla scrivania. Se possibile, la donna con lo scialle era ancora più nervosa e si sollevò appena dalla sedia per chiedergli – Posso darvi una mano?
- Oh, no, grazie, Mrs. – disse Musgrave posando altri fogli sul bordo scrivania. – Ce la faccio …
La donna si limitò, allora, a spostarli verso il centro del desco, per evitare che cadessero di nuovo. Musgrave la guardava di sottecchi e dopo un colpetto ai fogli, la vide riportare le mani dietro i lembi dello scialle e – cosa che lo stupì – bloccarsi di colpo con gli occhi fissi sul mucchio del tavolo. Radunò velocemente gli ultimi disegni e tornò a sedersi. La donna tirò a sé un ritratto e lo guardò a lungo. Per un momento parve non aver fretta di andarsene.
- Io questa donna la conosco ... – mormorò.
Un baleno di curiosità mista ad interesse, attraversò gli occhi dell’agente. – La conosce? – ripeté ostentando disinvoltura.
La donna annuì e lentamente mosse le labbra per parlare – Musgrave ebbe il sospetto che stesse per pronunciare il nome della donna ritratta – quando la porta si aprì e l’ispettore Hurlstone comparve con una scatola di cioccolatini sottobraccio.
Un agente lo salutò e nel sentirlo nominare la donna sussultò e gettò il foglio nel mucchio. Se per un istante aveva smesso di tormentare gli orli del suo scialle e di tamponare la fronte, adesso ricominciò, più smaniosamente di prima.
Prima di recarsi nel suo studio, Hurlstone si soffermò accanto alla postazione dell’agente Musgrave.
- Vedo che si è dato da fare – commentò con sarcasmo, indicando il mucchio disordinato di fogli con un cenno del capo. Musgrave fece per giustificarsi, ma Hurlstone lo anticipò – Qualunque cosa sia successa, voglio che cataloghiate quei disegni entro questa sera.
Parlando, non fece caso alla donna che lo fissava con un misto di timore e impazienza. Una volta assicurato che tutto si sarebbe messo a posto nel tempo richiesto, Musgrave la presentò, dandosi poi mentalmente dello stupido per non averle chiesto il nome. L’ispettore stava proprio aspettando che glielo dicesse, con un sopracciglio alzato. Ammutolì per l’imbarazzo.
Hurlstone spostò l’attenzione sulla donna, fattasi da qualche minuto ancora più inquieta.
- Io sono l’ispettore Alexander Hurlstone. Lei è la signora …?
- Julie Powder – rispose la donna in un soffio.
Musgrave aveva rimesso mano al mucchio di fogli, ma non poté non cogliere l’occhiata dell’ispettore. Era come se intendesse dimostrargli quale comportamento avrebbe dovuto adottare e cosa avrebbe dovuto fare prima di tutto: chiedere il nome.
- Bene, signora Powder, vuole seguirmi nel mio ufficio?
Era evidente che l’ispettore si aspettasse una risposta affermativa … ma questa non arrivò.
- Mio marito, ispettore … è lui il problema … – disse improvvisamente la signora Powder con il suo basso tono di voce, guardandosi intorno per accertarsi che nessun’altro la sentisse. Hurlstone fece per chiederle di seguirla nel suo ufficio un’altra volta, ma era come se lei avesse intuito che si era fatto tardi e cercò di dire tutto con meno parole possibili. – Lui sarà a casa a momenti … non ho tempo … ma mi ascolti: si comporta in modo strano … è … è nevrotico … sospetto che ci sia qualcosa che lo turba, ne sono sicura … Mi hanno detto di rivolgermi a lei, perché … lo potrebbe aiutare …
Osservando l’ispettore, Musgrave non seppe decidere se era più perplesso o irritato..
- Signora Pewar …
- Powder.
- Powder … signora Powder, io non posso aiutarla se si rifiuta di seguirmi nello studio e spiegarmi le cose con più calma. Cos’è, ad esempio, che turba suo marito? Può fornirci qualche indicazione?
Le mani della signora Powder strinsero i lembi dello scialle. Chinò lo sguardo, tamponandosi il sudore della fronte, scuotendo impercettibilmente il capo.
- Io … io non ho più tempo … devo tornare a casa … mio marito torna a momenti …
Mrs. Merton arrivò con il caffè. Con dei movimenti cauti, per non disturbare, posò il vassoio su un angolo della scrivania di Musgrave e si accingeva a posare una tazza con il piattino sul tavolo, quando l’ispettore Hurlstone – che non l’aveva vista – poggiando una mano sul fianco, la urtò con il gomito e le fece cadere tutto di mano, provocando un gran fracasso di tazze e piattini rotti, oltre che una piccola dose di imprechi da parte di Mrs. Merton, che si scottò il polso con il contenuto di una tazza.
- Mrs. Merton! Santa pazienza, badate a come vi muovete! – sbottò guardandosi dietro.
La donna era ancora più furente di lui, ma non disse nulla. Si chinò a raccogliere quello che rimaneva del caffè e del servizio e mise tutto nel vassoio.
Nel frattempo la signora Powder si era sistemata lo scialle intorno alle spalle e fissava la porta con impazienza. – Adesso è veramente tardi, ispettore.
Hurlstone spostò lo sguardo su una macchia di caffè sui pantaloni. – Come dice, Mrs. Powder?
Si voltò, ma la donna era già vicina alla porta.
- Signora Powder!
In un attimo la donna sparì e ad Hurlstone non rimase che sfogare il proprio malcontento sui sottoposti.

In serata aveva riesaminato il caso.
Nella stazione non era rimasto quasi nessuno. Stavano iniziando i turni di notte e le sale si svuotarono di tutti gli agenti del giorno. C’era un gran silenzio, interrotto a momenti dai passi dei poliziotti in arrivo o da qualche frase sommessa.
Hurlstone fece in fretta a sbollire il malumore. Assolse Musgrave dall’incarico di occuparsi dei disegni di Bartholomew Neybourgh e li portò nel suo ufficio. Erano tutti disseminati sulla scrivania, sparsi in ordine di esecuzione o riuniti per il soggetto rappresentato.
Era risaputo che molti ritraevano una giovane donna con i capelli lunghi, il volto sottile, gli occhi a mandorla. Una donna che aveva molto in comune con la moglie del duca Rudolph, Lady Catherine. Molti altri, invece, raccoglievano studi anatomici, abbozzi di scenografie, proporzioni, paesaggi.
Sui disegni, Hurlstone aveva disseminato tutte le lettere ritrovate in casa di Neybourgh.
Osservava, collegava, scambiava di posto. Qualcosa non quadrava. E di nuovo, osservava, studiava, rifletteva, gli occhi si illuminavano; scriveva un appunto e mentre si concentrava per ricordarsi un termine si accorgeva che quello che aveva scritto era sbagliato. Mancava sempre qualcosa. Cominciò a fumare; le dita gli tremavano e le guance diventarono rosse per la concentrazione.
Il pavimento era disseminato di fogli appallottolati, su ogni ripiano libero v’era un volume aperto; aveva spostato una poltroncina accanto alla sua sedia e vi aveva poggiato un manuale di ortografia. Analizzò la scrittura di un foglio e raccolse tutte le osservazioni sulla pagina di un quaderno, in cui riprodusse gli ingrandimenti dei caratteri e il significato che gli si attribuiva.
Fece diversi appunti. Scrisse le sue riflessioni per ore e quando la mano e il polso dolevano li massaggiava brevemente e poi ricominciava.
Quando Musgrave venne a bussare alla porta dell’ufficio, aveva appena terminato di scrivere un foglio sulla grafia presa in esame.
-Avanti.
L’agente aveva preso la giacca e si apprestava a tornare a casa. – Salve, ispettore … sono passato a salutarla …
- Stavo cercando proprio lei, agente … per caso ha fretta di andarsene? – chiese senza alzare gli occhi dal foglio.
Musgrave avanzò fino al centro della stanza, corrugando il mento. – Non particolarmente.
- Meglio, meglio … ho giusto bisogno di fare un piccolo ripassino … prego.
L’ispettore indicò un punto di fronte la scrivania, quello dove solitamente si trovava la sedia su cui era adesso poggiato il manuale di ortografia.
- Ehm …
- Oh, che sciocco … un attimo che la libero … ecco, si sieda. Dicevamo del ripasso …
Musgrave lanciò un’occhiata preoccupata al gran numero si scartoffie che ricopriva la scrivania dell’ispettore, mentre questi prendeva a camminare per la stanza con passo lento e misurato.
- I protagonisti della favola (chiamiamola così, che è meglio) sono tre birbaccioni di mezza età. Uno si chiama Patrick Reynold, un altro Bartholomew Neybourgh e un altro Zack Kwayne. Nascono tutte e tre in Inghilterra … o almeno, si ha la sicurezza solo dei primi due, in quanto l’ultimo al momento è irreperibile e non costituisce alcuna forma d’interesse. È d’accordo, fin qui?
- Sì.
- Bene. Dalla deposizione del signor Reynold (stilata da lei stesso) risulta che Reynold, Neybourgh e Kwayne si trasferiscono in Irlanda per problemi legati alla carenza di lavoro. Il primo è attore non professionista, il secondo pittore e scenografo, il terzo attore professionista. Neybourgh è reduce da un periodo di detenzione per furto sul posto di lavoro. Carcere … carcere dal quale viene sottratto quasi per magia … Reynold sostiene che qualcuno pagò la cauzione … chi? Io, personalmente, sospetto che sia stato liberato in cambio di un lavoro. Bisogna tener presente che Neybourgh era un artista, un pittore eccellente e che era di certo molto ricercato … Il salvatore prende e stipula un patto: gli paga la cauzione, ma lui deve lavorare gratis. Poi, però, Reynold dice una frase … com’era?
Prese una cartella dalla scrivania ed estrasse un foglio. Lo scorse velocemente con lo sguardo. – Ah, ecco! A parte che dice un sacco di cose sulla sensazione di disagio che provava quando si trasferirono tutti e tre a Waterford … sono portato a credere che sospettava già del suo amico. Bartholomew Neybourgh si sentiva un uomo diverso, libero, in pace con sé stesso … (beh, se mi scagionassero in cambio di un lavoretto anche io farei i salti di gioia!) Comunque … la frase che cercavo è questa: “Sono nato dall’arte e vivo d’ingegno”. Niente di strano se il benefattore di Mr. Neybourgh, una volta venuto a conoscenza della destinazione del pittore, abbia scritto a qualcuno di Waterford e l’abbia costretto a lavorate gratuitamente per lui anche in Irlanda a miglia e miglia di distanza dalla sua terra d’origine. L’idea di trasferirsi in Irlanda sarà stata una decisione improvvisa, nata dal desiderio di conoscere nuovi posti? Non credo proprio. C’era qualcosa sotto e Reynold lo sentiva … e probabilmente, la frase di Neybourgh alludeva al fatto che era nato artista e campava con astuzia. Non vedo come possa essere tradotta altrimenti. Musgrave, cosa ne pensa?
- Penso che finora mi è tutto chiaro.
Hurlstone si accese una sigaretta. – Perfetto. Dunque: da quel momento in poi i tre si mettono alle dipendenze dei teatri irlandesi. Ma dura poco, perché, se da un lato Reynold e Kwayne cercano lavoro come due disperati, dall’altro Neybourgh vive in modo dissoluto e c’è da pensare che i soldi non gli mancano, tant’è che veste pure bene … se lo ricorda, ad esempio, quel completo che abbiamo trovato nel suo appartamento, la seconda volta che ci siamo stati? Ora, mentre la fonte del denaro era un interrogativo per Reynold, per noi è una domandina che si risolve con una risposta: Neybourgh ha molti, molti clienti. Tanti. Ma non ne fa parola con gli amici perché teme per i suoi guadagni … anzi, non ne fa parola con nessuno perché teme che se la cosa si venga a sapere, che il “benefattore” gli chieda di restituirgli tutto quello che ha pagato per cacciarlo via dalle sbarre. Di certo non doveva essere facile, ma si godeva la vita quel disgraziato … Questo è il periodo in cui nascono quei ritratti.
Mise i fogli di fronte a Musgrave, che annuì, curioso di andare avanti.
- Questa donna somiglia a Lady Catherine … anzi, questi sono i suoi ritratti.
Hurlstone ignorò l’espressione sbalordita dell’agente. – Siamo nel 1854. A quell’epoca Lady Catherine è una donna sposata, senza figli, e non sono rare le volte in cui va a trovare i genitori … a Waterford.
- Suvvia, ispettore …
- Musgrave. Musgrave … abbiamo visto con i nostri stessi occhi quanto freddo sia l’affetto che lega Lady Catherine al marito. Musgrave. Wilehim. Caro, caro nipote … non avrei comprato quel terreno se non fossi stato certo che la signora Rudolph aveva qualcosa a che fare con tutta questa storia.
Musgrave guardò l’ispettore negli occhi, come se fosse pazzo. Ad Hurlstone sfuggì un sorriso.
- Andiamo …
- Lady Catherine e Neybourgh si conoscevano.
- È convinto che avessero una relazione?!
- Oh … ma io non dico questo. Non ho insinuato.
Hurlstone tirò una boccata di fumo e nel momento di silenzio che seguì, l’espressione perplessa di Musgrave scomparve.
- Quindi, secondo lei cosa accadde?
- Accadde che ad un certo punto, colui-che-tirò-Neybourgh-fuori-dal-carcere, venne a sapere del successo del suo protetto e lo minacciò di ributtarlo in carcere se non gli avesse restituito tutti i soldi, dal primo all’ultimo penny. Bartholomew Neybourgh entra nel panico. Ha una reputazione eccellente e non può permettersi un calo di qualità del genere; perciò decide di pagare. E rimane senza soldi. Con la coda fra le gambe torna dai suoi amici. Siamo a questo punto nell’inverno del 1855, alla fine dell’anno. Reynold e Kwayne sono assidui frequentatori delle taverne, ma alla fine trovano tutti un lavoro. Ma vengono presto licenziati e nei primi mesi dell’anno successivo aggrediscono Anya Bacott, la giovane che adesso lavora per il conte Paride Langley, e la derubano.
Spense la sigaretta contro la superficie legnosa del posacenere e tornò ai fogli sulla scrivania. Poi, dopo aver aumentato la luce della lampada, prese un paio di lettere.
- Si ricorda le parole di Reynold a proposito della spartizione dei soldi? No? Ebbene, Neybourgh si prese la fetta grossa del maltolto con la scusa che doveva rimettersi in sesto perché aveva lavorato di meno. Gli amici non dicono una parola, ma non sanno che con quei soldi Neybourgh progettava di comprarsi un fucile che non faceva rumore …
- … quello con cui ha tentato di uccidere il conte Langley …
- Proprio così. E per conto di chi, secondo lei? – disse porgendogli le lettere. – “R”. Ci ho messo un po’ di tempo a capire che non si trattasse di Reynold. Erre, Erre, Erre … cosa le dice, Musgrave?
Musgrave rigirò a lungo le lettere fra le mani. Quando alzò il viso Hurlstone rise alla sua espressione sbalordita. – Ah! Ho capito dove vuole arrivare, ispettore … e … no, non faccia così … una donna come la signora Rudolph non farebbe mai niente del genere! E per quale motivo, poi? Che sciocchezze! Quello organizzato per uccidere il conte era un piano a dir poco diabolico … e secondo lei avrebbe pianificato tutto la signora Rudolph?
Hurlstone tornò a sedere alla sua scrivania. – Non ci credevo neanche io. Non lo ritenevo possibile. Eppure … legga tutte quelle lettere, Musgrave, analizzi la scrittura come ho fatto io, indaghi meglio sulla faccenda e poi mi dica … Lei contava sul fatto che la polizia avrebbe subito pensato a Reynold. Di certo la cosa avrebbe funzionato con mio zio, ma non con me. Naturalmente lei non si aspettava che la carica di ispettore sarebbe passata a me così presto. Ma, come sa, mio zio è stato male ed io non potevo fare altrimenti. La mia venuta avrà sorpreso la signora, che credeva di fregarmi, sfruttando la mia “inesperienza”. Uno degli errori più grandi della signora Rudolph è stato scrivere quelle lettere di mano propria. Ma è un errore che ci favorisce, che ci dà un punto di vantaggio.
Vedendo l’espressione scettica dell’agente riprese – Durante la nostra breve permanenza a Greenburg, mi sono permesso di visitare … indipendentemente dal giudizio altrui … la serra della sua cara duchessa, Musgrave. Ho guardato un po’ ovunque e … ho preso questo. In verità, più che “preso” è caduto … ma, ecco, guardate con i vostri occhi. È un elenco di ingredienti per una tisana contro il raffreddore, ma basta per farle capire che …
- … la grafia è identica – mormorò esterrefatto Musgrave.
Hurlstone annuì con un sopracciglio inarcato. Musgrave tacque.
- Ma … perché? – disse dopo una lunga pausa. – Perché la signora Rudolph ha organizzato l’omicidio del conte Langley?
L’ispettore si strinse nelle spalle mentre accendeva una sigaretta. – Mi sto dando da fare per scoprirlo – rispose espellendo fumo dalla bocca. Dopodiché estrasse l’orologio e gli diede un’occhiata. – Adesso, però, è tardi. Sua moglie si chiederà dove sia finito. Torni da lei e passi una bella serata. Penso proprio che quella di domani sarà una giornata particolarmente stancante.
 

 

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Capitolo 47
*** Capitolo XLV ***


An irish tale - Capitolo XLV



Di notte incominciò a piovere. Il tipico acquazzone estivo, con tuoni cupi e tanta acqua.
Langley rimase sveglio. Con tutto quel rumore non gli riusciva di dormire. I muri della casa erano in pietra e sarebbe stato isolato dal rombo dei tuoni, se non fosse stato per la vibrazione dei vetri delle finestre. Si mise i pantaloni e gli stivali, prese un libro e scese a dare un’occhiata in giro. Sembrava tutto tranquillo: Hunt dormiva nel suo angolino e non c’era un filo di corrente, segno che le finestre erano chiuse. Poi volle sapere come stava Anya e salì silenziosamente in camera sua.
Dormiva. Rispetto alla mattina sul suo letto c’erano più coperte e pensò che dovesse averle portate Margareth quando per cena le aveva dato il brodo. Sul comodino c’erano una caraffa piena per metà d’acqua e un bicchiere anch’esso semipieno.
Si accostò al letto e la guardò. Nella penombra non si vedeva quasi niente, a malapena si aveva un’idea dell’ubicazione degli oggetti, figurarsi del suo viso. Langley si chinò leggermente su di lei e tastò delicatamente la fronte con il dorso delle dita. Scottava.
Decise di passare un po’ di tempo lì e si era appena allontanato dal letto quando il fragore di un tuono fece vibrare i vetri della finestra. Lamentandosi, Anya si svegliò. Langley la udì sussultare.
- C-chi è?
- Shh … sono io – la rassicurò, facendosi vicino.
- Che ore sono?
Langley si tastò istintivamente il torace, ricordandosi poi di aver lasciato il gilet in camera e con esso l’orologio. – È ancora notte.
Anya guardò verso la finestra, sul cui vetro la pioggia tamburellava dolcemente, e scostò lo spesso strato di coperte dal viso. Quello, come altri movimenti, risvegliava i dolori articolari. Si mise a pancia in su, mantenendo le gambe piegate di lato, e sospirò.
Langley spostò la sedia accanto al letto. – Come ti senti? – sussurrò sedendosi.
- Non saprei. Forse … meglio di ieri mattina.
Assentì, chinando gli occhi sulla copertina del libro che si era portato dietro. Una copertina di tela, con decorazioni dorate che rilucevano alla poca luce della notte.
- È curioso – disse sovrappensiero.
- Cosa?
- Ci prendiamo cura l’uno dell’altra – rispose, dopo un momento. – Ci alterniamo. Una volta ti ammali tu, un’altra io … e via di seguito.
Anya lanciò anche lei un’occhiata al libro.
- Pensavo che è strano …
- Speriamo che con questa si chiuda il ciclo.
- Ti sei stancata di farmi da infermiera? – mormorò lui. Anya colse il tono scherzoso e sorrise.
- Mi sono stancata così tanto che mi è venuta la febbre.
- Beh, guarda il lato positivo: adesso io mi prendo cura di te.
Anya tacque. Nel silenzio le pagine del libro frusciarono. Il conte le faceva scorrere come se potesse trovarci qualcosa in mezzo.
- Potreste accendere la candela …
- Cosa?
- La candela. Se volete leggere, potete accenderla.
Langley ci pensò su, continuando a far frusciare le pagine. – No … non devo leggere. Mi sa tanto che ho preso il libro sbagliato …
Anya non rispose. Ebbe una fitta di mal di testa e per dei minuti fu costretta a tenere gli occhi chiusi. Il conte continuava a sfogliare il libro; poi sbuffò e lo posò sul comodino.
Ben presto Anya, cullata dal tamburellare della pioggia, vinta dalla debolezza, rilassata dalla morbidezza delle coltri, si addormentò; il conte, invece, rimase sveglio, ma anche i suoi occhi poco a poco si chiusero, le palpebre troppo leggere per resistere al peso del sonno.

- Signor conte? … Signore? … E-ehm … Signor Langley!
L’uomo saltò su. Si guardò confusamente attorno, avvertendo un forte dolore al collo. Margareth gli era davanti, con un vassoio in mano. La stanza era illuminata da una luce grigia e cupa. Era mattina.
- Che cosa ci fate qui?
Langley si portò una mano al collo e improvvisamente ricordò. - De-devo essermi … appisolato … - bofonchiò. Aveva braccia e gambe addormentate e appena le distese sentì il dolore diffondersi in tutto il corpo. Margareth continuava a fissarlo, il vassoio tra le mani. Forse aspettava che se ne andasse, ma la sua espressione era perlopiù perplessa. Langley gettò un’occhiata nell’incavo del suo braccio e vide la testa di Anya spuntare dalle coperte: non si era ancora svegliata.
- M-me ne vado … è pronta la colazione?
- Sarà servita fra poco, signor conte. Avete tutto il tempo di darvi una sistemata.
Langley uscì, chiudendosi la porta alle spalle. Margareth si avvicinò al letto e poggiò il vassoio sul comodino. Poi aprì il baule della ragazza e tirò fuori un abito e uno scialle pesante.
- Anya – la chiamò, scuotendola dolcemente per la spalla. – Anya svegliati, su.
Margareth l’aiutò a sedersi e tastò fronte e guance. – Oggi – disse, quando la giovane si fu svegliata – uscirai a prendere una boccata d’aria fresca. La pioggia l’ha resa cristallina e sarebbe un vero peccato farne a meno … specialmente per te. Vedrai che ti tirerà su.
Il capo di Anya ciondolò. Voleva tornare a dormire. Margareth scoperchiò una ciotola e qualche tazza presenti nel vassoio.
- Ti ho portato la colazione. C’è del porridge al miele, latte caldo, tè con miele, pane, che come vedi non ha uvetta o frutta secca in mezzo (Greta te l’ha preparato apposta) e … due uova bollite.
- Non voglio niente … - disse, puntellandosi debolmente al materasso con le braccia. L’odore del latte caldo le diede allo stomaco. – Chiudi … quegli affari … le tazze …
Margareth guardò alternativamente il vassoio e lei, chiedendosi se dovesse forzarla a mangiare o no. Alla fine lasciò perdere, rimise i coperchi alle ciotole fumanti e si sedette sul letto, accanto alla giovane. I capelli rossi ricadevano in mille ciocche ai lati del viso e sulle spalle magre; gli occhi, limpidi e lucidi, erano talmente stanchi da non sollevarsi a guardarla, mentre le guance rifulgevano di una bella, ma insana, tonalità vermiglia. Le toccò nuovamente la fronte e le guance e con un tocco materno scostò i capelli dal viso.
- Non vuoi bere neppure il tè?
Anya guardò il vassoio con sdegno. Scosse la testa.
- Un pezzo di pane? Uno piccolo piccolo …
- No.
Margareth sospirò. Tra le mani sentì la stoffa dell’abito e dello scialle che aveva preso per lei. – Allora ti aiuto a vestirti. Mai Maria! – aggiunse quando Anya si lamentò. – Mia madre mi faceva uscire tutte le sante volte che mi veniva la febbre e in tempo due giorni ero in piedi. Sempre. Si tratta solo di star fuori pochi minuti, coperta bene bene …

Poco dopo, senza capire come, Anya si ritrovò seduta sulla panca del cortile. Aveva i brividi di freddo, nonostante la gran quantità di roba che le aveva fatto mettere Margareth. Adele era con lei: giacché erano sedute, Hunt gli si avvicinava continuamente per invitarle a giocare. Prendeva un bastone, un ramo secco o una pietruzza e abbaiava. Adele lo teneva lontano e lo zittiva. Anya non poteva essergliene più grata.
- Come stai? Adesso stai meglio? Margareth mi ha impedito di salire in camera tua, così non sapevo come ti andasse …
Adele era una ragazzina di sedici anni. Aveva un viso simpatico, con il naso all’insù, e una corporatura gracile, nonostante fosse sempre piena di energie. Ad Anya piacevano particolarmente i suoi capelli: biondi, lisci e sempre legati in una lunga treccia.
La rassicurò con poche parole e sistemò meglio lo scialle intorno alle spalle.
C’era un po’ di vento. Lo stormire delle fronde, il suono metallico delle pentole in cucina e lo zampettare di Hunt erano gli unici rumori. L’aria profumava di terra bagnata, terra bruna. Quando il vento si faceva più forte la rugiada delle foglie gli finiva addosso in mille, minuscole gocce gelide. Anya rabbrividiva tutte le volte, mentre le goccioline si intrappolavano fra i capelli, solcavano la fronte e le guance, sfioravano il dorso delle mani o disegnavano dei piccoli aloni neri sulla stoffa dell’abito. Talvolta levava lo sguardo e osservava le fronde muoversi sinuosamente. Si rilassava. Chiudendo gli occhi riusciva a sentirsi un tutt’uno con la natura.
- Ieri sera il signor conte ha rimproverato Greta …
Anya riempì i polmoni di aria fresca. Poi si voltò verso la giovane e la guardò.
- Io ero in cortile … non ho sentito tutto – continuò Adele con un’alzata di spalle.
- Perché?
- Non li hai sentiti?
- No.
- Beh … - disse Adele, guardando minacciosamente Hunt che si stava avvicinando. Il cane si allontanò. – Non hanno parlato in cucina, ma nella stanzetta … l’ha rimproverata perché ti ha fatta lavorare troppo.
- Davvero?
- Sì … era arrabbiato … però tu hai visto come ti tratta Greta. Insomma, è burbera, ma … non è vero che ti fa stancare!
Anya cercò di mantenere un’aria distratta, ma il cuore le batteva già all’impazzata e i suoi tonfi giungevano veloci alle tempie.
- E com’è andata a finire?
- Ha fatto promettere a Greta di farti lavorare di meno … però lui non è che si guarda quando licenzia lo stalliere e ti fa prendere il suo posto … no. Che razza di matto …
Adele continuò a borbottare imprechi contro il signor Langley, ma Anya già non la sentiva più. Aveva la mente altrove. A fatica riuscì a placare i battiti, prima che il mal di testa tornasse a premere sulla nuca con dolore. Si coprì la fronte con una mano e strizzò gli occhi per cercare di contenere la fitta. Non appena sì sentì meglio si alzò e tornò dentro. Si aspettava che Greta la guardasse male, che sfogasse su di lei la sua frustrazione; ma non fu così. Mentre Anya, vinta ancora una volta dal mal di testa, si accasciava su una sedia, Greta le chiese come si sentisse e, con sua grande meraviglia, con un tono particolarmente preoccupato. Anya rispose rimboccando debolmente lo scialle intorno al collo, sotto la nuca, dopodiché tornò in camera sua.
A pranzo Margareth rinunciò a portarle da mangiare. Il vassoio di metà mattina era rimasto coperto: neppure la curiosità di sapere cosa contenesse l’aveva portato ad aprirlo. Anya trascorse tutta la giornata a letto, sentendosi anche peggio della mattina. Sapeva che la febbre era aumentata, aveva la bocca asciutta e la voce nasale, ma di sudare ancora non se ne parlava. A metà pomeriggio prese la medicina che le aveva prescritto il signor Connelly e scoprì che le faceva venire un gran sonno.
Avrebbe voluto che il signor Langley tornasse. Ma lui era stato invitato a pranzo dal signor Bowles, che era appena tornato da un viaggio a Cork, e sarebbe tornato non prima di cena.
Da quando Adele le aveva parlato di lui, Anya non capiva quali e come fossero mutati i propri sentimenti nei suoi confronti. Da una parte era irritata perché lui si era impicciato nella sua vita lavorativa; dall’altro era commossa dalla preoccupazione che aveva dimostrato. E poi (e in questo dava ragione ad Adele) non comprendeva il motivo per cui non si decideva ad assumere un nuovo stalliere, piuttosto che continuare a impicciarsi o farla lavorare il doppio delle sue capacità.
Ma tutte queste erano cose a cui si ripromise di pensare più avanti. Al momento pensava solo a lui, a quanto le sarebbe piaciuto averlo lì.
Fu pensandolo che finalmente, dopo una giornata da insonne, riuscì ad addormentarsi.

Al suo ritorno, Langley entrò dalla cucina per versarsi da bere. Era già buio, Bowles l’aveva trattenuto anche a cena. Aprendo la porta si sorprese nel trovare una candela accesa. A quell’ora non c’era nessuno sveglio …
- Bentornato, signor conte.
- M-M-Margareth! – esclamò con un sobbalzo. – Cielo … ma cosa ci fai sveglia?
Alla governante sfuggì un sorriso. – Non riuscivo a dormire …
Langley si accorse che aveva sbucciato parecchie mele e radunato la polpa in un piatto di coccio. In quel momento ne stava tagliando un’altra, ma le tremavano le mani e il coltello sfuggì al controllo, tagliando più polpa del dovuto. Poi alzò lo sguardo al suo viso e capì: era nervosa.
- Come mai? – chiese prendendo un bicchiere.
Margareth tacque. Langley era girato verso un ripiano, le dava le spalle, ma ogni tanto le scoccava un’occhiata. Attese l’esplosione mentre si versava del whiskey e lo allungava con acqua. Misurò il tempo con i suoi respiri e quando arrivò a dieci … la udì poggiare il coltello sul tavolo.
- Mi chiedevo da quanto andasse avanti questa storia.
Inarcò un sopracciglio. Il riverbero della candela vibrava sulle dispense lignee.
- Quale storia?
- Sapete benissimo di cosa sto parlando, signor conte.
Langley buttò giù il primo sorso di whiskey, che attraversò l’esofago come un confetto intero.
- Benissimo – scandì ancora lei in un sibilo.
- Se intendi il mio ritardo, io …
- Non parlo di questo! – esclamò.
La porta, dietro di lui, si aprì ed Edgard entrò con l’aria di un topo che sbircia fuori dalla tana dopo essere stato inseguito da un gatto. Margareth lo fulminò con lo sguardo e il ragazzo pensò bene di defilarsi.
- Questa mattina vi ho trovato in camera di Anya – sibilò dopo pochi minuti. – Dormivate! Si può sapere che cosa ci facevate? Voi e lei … soli!
- Sono andato a vedere come stava. Lo sai pure tu che non c’è da scherzarci con la salute …
- O con la sua salute?
Langley si girò verso di lei. – Sciocchezze!
- Ahh … bene. Molto bene! Ora capisco qual è la vostra opinione al riguardo … voi considerate la vostra infatuazione una sciocchezza?!
- Infatuazione? Ma che dici?!
Margareth tacque un’altra volta.
- La vostra reputazione non è qualcosa con cui giocare, signor conte.
- Neppure il tuo impiego da governante … Margareth.
Margareth fremette. Langley la guardava torvo, sorseggiando il suo whiskey, ma la donna non era ancora sul punto di demordere.
- Dovete dimenticare Anya da questo punto di vista. Se desiderate tenerla qui, allora trattatela come ciò che è.
Sul viso scarsamente illuminato del conte si sollevarono le sopracciglia. – “Come ciò che è”? perché, cos’è?
- Una sguattera! Una serva!
- Ed io sono un conte … – continuò lui con noia.
- Voi … voi avete certamente bevuto troppo whiskey per ragionare come si deve … non potete riflettere lucidamente su un argomento che mina la memoria di vostra moglie!
- Non parlare di mia moglie!
- E invece sì! Lei rabbrividirebbe sapendovi innamorato di una sguattera!
- Danielle non era come te! Non disprezzava la servitù! E adesso piantala!
Margareth boccheggiò.
- Non ho mai conosciuto una ragazza sveglia come Anya – riprese lui dopo un paio di sorsi ben ponderati. – Lei non è come le altre e voglio che tu tenga ben presente questo aspetto.
Si versò un altro mezzo bicchiere di liquore e lo bevve. - Fai ben attenzione a non lasciarti scappare il benché minimo particolare di questa discussione. Se scopro che hai messo in giro anche una sola parola di quello che ci siamo detti, per te saranno guai.
- Signor conte …
Langley posò il bicchiere vuoto sul tavolo. – Buonanotte Margareth.

Non furono poche le volte che Anya si svegliò, quella notte. Quando apriva gli occhi si vedeva scoperta: ora con una gamba fuori e l’altra dentro, ora scoperta fino alle ginocchia. Faceva caldo, il letto era bollente. Era sudata. Ad un certo punto legò i capelli e sentì la nuca madida. Era sempre più difficile riaddormentarsi. Poi arrivò l’alba, azzurra, fresca, velata, e gioì, con una frase in mente: presto sarà tutto finito e tornerò alla mia vita normale.
Con i primi odori della cucina lo stomaco brontolò e Anya fece colazione con qualche fetta abbrustolita di pane e una tazza di tè al miele. Non si sentiva ancora in forze, ma quando si propose per una passeggiata, Margareth frenò il suo entusiasmo con un accorato invito a stare a letto.
- Quando il sole si farà caldo ti farò scendere in cortile. E basta. Te ne starai seduta sulla panca come hai fatto ieri – le disse.
A mezzogiorno il sole non era molto caldo. Margareth la coprì con un paio di ampi scialli, che, oltre a limitare i movimenti la facevano soffocare. Hunt era accucciato sotto la panca, dietro i piedi della giovane; dovette intuirne il disagio, perciò non prese nessuno dei suoi giochi. Quando Anya entrò in scuderia lui la seguì a pochi metri di distanza e si sedette davanti al primo box, deciso a non perderla di vista. Anya non riusciva a guardarlo senza ridere: era come se le andasse dietro per ordine del conte.
Ad un certo punto tornò alla panca e poco prima del pranzo della servitù, giunse una carrozza privata, trainata da due cavalli bai. Era verde scuro e non l’aveva mai vista.
Sul capo di Hunt le orecchie si sollevarono con curiosità. Mentre lo sportellino della carrozza si apriva, Anya entrò in cucina per chiedere che Margareth fosse chiamata, poi tornò fuori e quando alzò lo sguardo si bloccò per la sorpresa. Il signor Drebber scese dalla carrozza. Con lui c’era il signor Hobson – che pareva non volersi staccare di dosso finché il conte non avrebbe accettato le sue proposte riguardo all’azienda. Erano entrambi presi da una conversazione che sembrava divertirli parecchio, quando Hobson si zittì e guardò Anya. la giovane si fece avanti anche se, imbacuccata com’era, si sentiva a disagio. Salutò con un inchino entrambi e li guidò nell’ingresso.
- È un piacere rincontrarvi, signorina – proruppe Drebber, sovrastando un sospiro impaziente del signor Hobson. – Ma noto che il vostro volto è pallido e smagrito.
Anya sorrise con imbarazzo, mentre il signor Hobson si allontanava per dire qualcosa al cocchiere. – Non ho dormito molto bene …
- È strano, però – continuò il signor Drebber varcando la porta d’ingresso – fino a qualche istante fa ero portato a credere che vi foste ammalata …
- Fortunatamente niente del genere …
Vennero raggiunti da Margareth. Era seguita dal signor Langley, che scendeva le scale con il suo tipico passo veloce.
- Signor Langley – esclamò giovialmente Drebber, prima di porgergli la mano destra in segno di saluto e scambiare pochi convenevoli. – Stavo giusto parlando con la signorina qui presente …
Langley scoccò un’occhiata indecifrabile ad Anya.
- Parlando, dite?
Drebber annuì. – Ero sul punto di dire quanto mi dispiace di non essere venuto a trovarvi prima … - disse con particolare (ma ben celato) riferimento alla giovane. Langley sorrise educatamente, ma Anya ebbe l’impressione che, mentre Drebber era girato verso di lei, avesse storto un po’ il naso.
Poco dopo Margareth guidò gli ospiti in soggiorno e Anya tornò in camera sua.


La sera, a Waterford city.

Il viale era deserto. Il silenzio era rotto soltanto dallo scroscio perpetuo della pioggia e dall’eco attutita dei passi veloci di qualcuno. Ogni tanto, improvvisamente, un lampo illuminava il borgo.
Il ragazzo avanzava a passo svelto con le mani in tasca, le spalle contratte. La giacca era zuppa, tutti i vestiti lo erano e non si poteva non includere anche i capelli biondi, lungo i quali gelide gocce colavano e finivano sul viso, sul collo, sul torace attraverso il colletto della camicia.
Il viso accigliato era rivolto verso il basso e le labbra dischiuse con irritazione. Si guardava attorno, dietro, si sentiva seguito, ma era solo la pioggia, che si faceva sempre più fitta. Sbuffava, sputacchiando le poche gocce d’acqua che penetravano dalla linea delle labbra.
Girò l’angolo. La strada continuava a essere semideserta. Sospirò: in fondo la compagnia non gli sarebbe servita a niente. Era quasi arrivato. Varcò il vialetto di casa e scosse il campanello.
- Buonasera, Mrs. Wiggins – disse in tono piatto, quando la governante aprì la porta.
- Signor Hurlstone …
L’ambiente caldo e accogliente di casa lo rinfrancò. Mrs. Wiggins chiuse la porta e abbassò lo sguardo sulla piccola pozzanghera che si era formata ai piedi dell’uomo.
- Vado a prendere uno straccio – disse allontanandosi.
L’ispettore si poggiò all’attaccapanni. Gli occhi si chiudevano da soli. Se prima non risolveva il caso Langley non era sicuro che avrebbe dormito sonni tranquilli. Il massimo che riusciva ad ottenere era dormire per poche ore quando le circostanze lo permettevano. Sperava che quella sera Mrs. Wiggins o suo zio non avrebbero dato problemi.
La governante ricomparve con uno straccio e le pantofole di casa. Hurlstone arrancò fino alla sua stanza e si cambiò per la cena.
- Spero non vi dispiaccia mangiare da solo, questa sera, signor Hurlstone – disse Mrs. Wiggins servendogli uno stufato di coniglio. – Vostro zio ha preferito cenare prima.
L’ispettore si poggiò la fronte alla mano, guardando stancamente lo spezzatino fumante nel suo piatto. – Va bene, Mrs. Wiggins … va bene così, basta.
La donna chiuse il vassoio e si allontanò, lasciando Hurlstone solo nel silenzio della piccola sala da pranzo. Mangiò con movimenti pigri il coniglio, mentre le fiamme del camino crepitavano, l’orologio a pendolo batteva i secondi e la pioggia batteva contro il vetro delle finestre.
Mancavano pochi minuti alle nove e mezza. Si stupì: quel giorno alla stazione di polizia aveva fatto più tardi del solito.
Quando ebbe finito di mangiare si spostò sulla poltrona accanto al fuoco e poggiò i piedi su un pouf, mentre Mrs. Wiggins sparecchiava il tavolo.
- Gradite una fetta di dolce, signor Hurlstone?
L’uomo aveva già chiuso gli occhi, rilassando il capo contro la spalliera della poltrona. – Di cosa si tratta? – chiese riaprendoli e guardando la governante.
- È una crostata ai lamponi ...
Con un cenno della mano e delle sopracciglia lasciò intendere che gli andava bene.
- Vi porto anche il tè?
- Sì, Mrs. Wiggins.
La donna sparì oltre la porta con i piatti sporchi della cena fra le mani e Hurlstone si passò le mani sul viso, sospirando stancamente. Mrs. Wiggins tornò a più riprese nel soggiorno per rimettere in ordine, ma fu quando l’ispettore si era incantato a guardare le fiamme nel camino che comparve con il vassoio della crostata e del tè. Hurlstone si sistemò meglio sulla poltrona. Mentre tagliava la punta della prima fetta, Mrs. Wiggins si sedette su una sedia poco distante, con il giornale in mano.
- Avete sentito della figlia di Mrs. Lodge, la vicina?
L’ispettore fece di no con il capo.
- Volete che vi racconti cosa le è successo?
Il giovane assentì, masticando un grosso boccone, e con un sorriso Mrs. Wiggins iniziò a raccontare.
- Ebbene … ricorderete di certo ciò che è successo alla poverina pochi mesi fa … neanche quello? Siete davvero incorreggibile …
- A meno che non si tratti di qualcosa che abbia a che fare con il mio lavoro, Mrs. Wiggins, non sono solito leggere articoli di cronaca … leggera – disse spingendo il boccone dentro la guancia. – Ma … prego, proseguite.
- Ecco: come … non ricorderete, Katie Lodge, la figlia di Barbara Lodge, la nostra vicina, qualche mese fa si fidanzò con un giovane di buona famiglia … Oscar Camberwell.
Nell’udire quel nome, l’ispettore si ricordò improvvisamente della faccenda e rise.
- Non vi capisco … io trovo che sia un episodio relativamente triste, signor Hurlstone. Comunque accadde che il giorno del matrimonio il signor Camberwell non si presentò e la poverina ne soffrì profondamente e lungamente. Solo dopo il signor Lodge scoprì che il giovane era già fidanzato, ma pensò bene di non metterne al corrente la figlia, che era in cura per delle crisi nervose. Sfortunatamente – sospirò la donna, aprendo il giornale – pochi giorni fa pubblicarono l’annuncio di nozze del signor Camberwell e questa mattina è successo ciò che mi appresto a narrarvi … - gli occhi le si ridussero a due fessure nello sforzo di leggere, e indossò un paio di occhiali sottili con la montatura d’avorio. – Solo adesso mi accorgo che si dilunga troppo … in breve: la signorina Lodge questa mattina è uscita all’alba, con … un bastone. Si è recata all’indirizzo dei due novelli sposi e ha preso a picchiare contro le ruote della loro carrozza e i vetri delle finestre di casa, gridando ai quattro venti parole che una signorina distinta come lei, in un momento di lucidità, non si sognerebbe neppure di pensare. Le sue urla erano così alte che ha svegliato tutto il vicinato … solo il signor Brunton, che passa di lì ogni mattina per andare in ufficio, l’ha riconosciuta e portata a casa, dove è stata calmata e ammansita grazie alle cure della signora Brunton. Si dice che si trovasse in condizioni tutt’altro che rassicuranti e che presto verrà affidata alle cure di uno specialista tedesco … Povera signorina Lodge. Spero si rimetta presto …
Hurlstone sorseggiava il tè con un’espressione vagamente perplessa. Non era rimasta traccia del sorriso di prima.
- Non ero al corrente di questi retroscena ... naturalmente farò visita alla famiglia Lodge, appena possibile. Partirà presto, la signorina Katie?
Mrs. Wiggins ripiegò il giornale e rispose che non lo sapeva per certo. Portò in cucina il piatto della crostata e ancora una volta l’ispettore rimase solo davanti al fuoco. Centellinando il tè caldo, ripensò a tutta la vicenda e inconsciamente la collegò alla moltitudine di fatti su cui aveva riflettuto per tutta la giornata. La signorina Lodge era un’amica di vecchia data, ma di recente il lavoro gli aveva riempito le giornate in una maniera tale che trascurare le amicizie era risultato inevitabile. Dentro di sé, al contrario di tutti, non la biasimava: era stata ingannata da un uomo e si era vendicata.
Pian piano sentì calare il sonno e poggiò la tazza su un tavolino prima che ne perdesse la presa.
Fu mentre si addormentava che, inaspettatamente, i tasselli che da mesi non trovavano posto gli rivelarono la soluzione.
Vendetta. Inganno. Fiducia. Amicizia.
Amicizia. Fiducia. Inganno. Vendetta.
Sussultando, capì.
Il signor Langley non aveva raccontato la verità.

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Capitolo 48
*** Capitolo XLVI ***


An irish tale - Capitolo XLVI



Jack Chandler.
Era lui la chiave.
Infine, ne era venuto a capo.
Lavorava alla tenuta Rudolph come stalliere per diciotto sterline all'anno.
Pensare che gli aveva parlato.
Il momento in cui c’era arrivato, la mente gli era consapevolmente andata alla signora Powder. Neanche a farlo apposta, il mattino seguente, un agente di ritorno da una ronda nel quartiere gli aveva detto di aver visto la donna al mercato e di averla seguita con discrezione fino casa. Hurlstone la convocò: se aveva qualcosa a che fare con tutta quella storia era meglio che gli dicesse tutto. Il giorno stesso la signora Powder giunse in commissariato, meno trafelata rispetto alla volta precedente, e parlò con l’ispettore fino a che non ebbe esaurito tutti gli argomenti. Quando andò via, Hurlstone dissimulò ogni sensazione con professionalità. Ringraziò la donna con un sorriso di cortesia e si risedette, felice come una pasqua e amareggiato al contempo.
Jack Chandler. Sapeva già che quel nome sarebbe diventato il simbolo della sua sciocca lentezza mentale. Grazie a Julie Powder, la donna che molti avrebbero sottovalutato, scartato per il suo aspetto trascurato, lo sguardo sparuto, era risalito al fatidico nome.
La storia di Chandler era insolita. Quattro anni prima, nel 1852 aveva sposato una donna, Immahs Molins. A detta della signora Powder, alla quale la storia era stata raccontata da Jack, i due si erano tanto amati, ma non avevano avuto figli, perché lei era sterile. Così si erano lasciati di comune accordo e Jack aveva conosciuto Julie. Da quel che se ne sapeva, invece di restare sola con la sua sterilità, la signora Molins si era trasferita in una casa di tolleranza, dove ancora esercitava la sua “professione”. Jack, invece, aveva continuato la sua vita di sempre: faceva lo stalliere e dava preoccupazioni alla sua attuale compagna. Il lavoro lo costringeva a star lontano da casa per tutta la settimana: alloggiava a Kilkenny e al ritorno esercitava il suo dispotismo sulla signora Powder. Più volte la donna aveva avuto problemi nervosi a causa sua, era stata visitata da un medico che le aveva consigliato di tenersi alla larga dai problemi e si era impegnata per il raggiungimento dello scopo; ma quando si avvicinava il giorno del ritorno di Jack si lasciava prendere dall’ansia. E lei, diceva, non poteva farci niente. Faceva appello a tutta la sua pazienza e così andava avanti.
Quando aveva citato la contea di Kilkenny, Hurlstone le mise subito davanti uno dei ritratti di Lady Rudolph che aveva trovato in casa di Neybourgh. Come immaginava, lei la riconobbe immediatamente. Ciò bastò all’ispettore, che dopo un’ulteriore mezz’ora d’interessante conversazione salutò la signora Powder e si accasciò sulla comoda sedia della scrivania con uno sbuffo.
Non ce la faceva più. Un’altra giornata come quella e sarebbe crollato per la stanchezza.
La scatola di cioccolatini al liquore giaceva intatta sulla scrivania. La fissava, immerso nei pensieri, mentre si passava una mano sul viso. Il mento e le guance erano ruvidi: si era di nuovo dimenticato di fare la barba.
- Avanti – bofonchiò quando sentì bussare. Sollevò appena lo sguardo sulla porta.
- Salve, ispettore … vi ho portato il tè.
Hurlstone la ringraziò, spostando la scatola di cioccolatini per far spazio al vassoio. Per un istante si imbambolò sulle volute di vapore che si levavano dalla tazza.
- Zucchero?
L’uomo si ridestò. – Com …? Ah, sì, sì … zucchero. Un cucchiaio scarso …
La donna lo servì, poi si allontanò. Quando fu alla porta, Hurlstone la chiamò indietro. – Tenete, Mrs. Merton – disse tendendole la scatola di cioccolatini. – Li regalo a voi. Fate una sorpresa ai vostri ragazzi.
Per lui non era ancora giunto il momento di mangiarli.

Ci mise un po’, quella volta, a capire cosa avesse di speciale quel giorno.
Quando si svegliava faceva sempre mente locale. Quando si chiedeva cosa avrebbe dovuto fare durante la giornata sapeva sempre come rispondersi.
Quella volta, però, no.
Rimase seduto sul bordo del letto, a petto nudo, con gli occhi gonfi di sonno e la mente altrove.
Venti Luglio. Domenica, venti Luglio.
Le palpebre si distesero, le sopracciglia si sollevarono.
Il suo compleanno. Avrebbe compiuto ventisette anni.
Niente di nuovo, in fondo. Solo un anno in più.
Tuttavia … qualcosa di più speciale c’era …
Riflettendo, tentando di abbattere le barriere mentali del sonno, riprese la sua espressione accigliata.
Era domenica. Il giorno libero di Anya!
Sorrise.
Si vestì in fretta e scese per la colazione.
- Buongiorno, Margareth – la salutò, sforzandosi di sorridere. Dopo la discussione di due sere prima la tensione era ancora palpabile.
Con altrettanta falsità, Margareth salutò lui, indicando a Mary il punto su cui poggiare il vassoio con la posta del mattino.
- Oggi Mary ha il giorno libero. Perché è ancora qui?
L’espressione di Margareth gli fece capire quanto retorica fosse quella domanda. Avrebbe fatto di tutto per impedirgli di stare vicino ad Anya, che spesso, la Domenica, serviva in sala da pranzo. Per poco non rise.
- Dunque, questa mattina ho ricevuto due lettere … - constatò con falso entusiasmo, sedendosi. Margareth congedò Mary e la ragazza si dileguò in cucina. Con la coda dell’occhio, Langley la guardò andare via.
- Cosa hanno preparato, Greta e Anya, questa mattina … Margareth?
La governante sorrise senza essere veramente compiaciuta. – È evidente che si sono date un gran da fare, signor conte. Muffin in tutte le salse, panna e burro fresco direttamente dalla fattoria dei Sellers, cioccolata calda e … una salsa alla vaniglia con cui An … Greta e Anya hanno voluto omaggiarvi.
Langley assentì, nascondendo il fastidio. Prima di chinare lo sguardo sul piatto, squadrò Margareth, certo di cogliere un cambiamento d’espressione. – Cioccolata calda, hai detto?
- Sì, signor conte.
Annuì di nuovo, prendendo la posta del mattino: una lettera ed un telegramma. Senza badare troppo ai mittenti decise di aprire la prima. Era da parte del duca Rudolph e dopo i convenevoli gli parlava del suo stalliere; affermava di aver avuto dei battibecchi con la moglie a causa sua e di averlo dovuto licenziare. Sperava, continuò, che a lui potesse tornargli utile, visti i recenti avvenimenti. Concludeva con un augurio di buon compleanno e un invito ad andarlo a trovare presto.
Langley mise la lettera da parte e aprì il telegramma. Solo una persona aveva l’abitudine di comunicare così: l’ispettore Hurlstone. Convocato questa mattina stazione polizia, lesse.
Concluse la colazione senza una parola e prese la carrozza. Nell’abitacolo chiuse in fretta le tendine e al buio, misurando la distanza percorsa a memoria, giunse in città. Quando la carrozza si fermò venne sospinto in avanti e scese, senza attendere che Edgard aprisse lo sportellino. Davanti a sé, la stazione di polizia, massiccia e insolitamente minacciosa. Entrò.
- Signor Langley – lo salutò un agente smilzo coi baffi neri. Il conte gli rivolse un cenno distaccato.
- Sono l’agente Musgrave. Siete qui per l’ispettore, non è così?
- Questa mattina ho ricevuto il suo telegramma.
Langley annuì. L’agente lo accompagnò fino alla porta dell’ufficio di Hurlstone. Bussò e lo introdusse all’ispettore, che lo invitò a farlo entrare.
- Buongiorno, conte Langley – disse Hurlstone sporgendosi oltre la scrivania sommersa di tomi aperti e fogli d’ogni genere. Langley gli strinse la mano, con uno strano presentimento. Ci fu un lungo momento di silenzio, mentre l’ispettore si risedeva e sistemava alcuni fogli da parte. Il conte attese, impaziente.
- Dunque … - proruppe l’ispettore.
- Dunque …
Hurlstone si poggiò allo schienale, incrociando le mani sulla pancia. – Vi dice niente il nome Catherine Rudolph?
Ed ecco che il presentimento si trasformava in realtà. Ed ecco che, finalmente, l’ispettore aveva scoperto anche quella parte della sua vita. Riprese l’atteggiamento di sfida che aveva abbandonato dopo la discussione con Margareth e lasciò che le labbra si curvassero in un sorriso. – Mi dice tutto e niente.
- Tutto e niente? – ripeté Hurlstone inarcando un sopracciglio. – Per quanto mi riguarda non esiste né l’uno, né l’altro, conte. Mere invenzioni dell’uomo. Definizioni per ciò che vorrebbe avere e ciò che ha.
Langley lo guardò.
- Catherine Rudolph rappresenta questo, conte? Ciò che avreste voluto e che vi manca?
- Semmai il contrario – disse. – È lei che avrebbe voluto me.
Quella frase sembrò giungere per niente inaspettata. La curiosità che palesò l’ispettore fu solo l’indicazione che avrebbe dovuto iniziare a raccontare tutto dapprincipio.
- Catherine Gallaher – sospirò. – Sicuramente sapete anche questo … il suo nome di battesimo. Jacob Gallaher, il padre di Catherine, era un intimo amico di Ernest, l’amante di mia zia. Ai tempi in cui ero sotto la custodia di mia zia vedevo spesso i Gallaher. Ero un giovanotto, poco più che un ragazzino … inizialmente, quando vidi Lady Catherine, così graziosa, beneducata, provai una certa simpatia … ma niente di più. Non conoscevo ancora mia … Danielle. I Gallaher ed Ernest si invitavano quasi ogni giorno a pranzo o a cena. Volente o nolente io ero tenuto a partecipare a tutti gli eventi che mettevano in piedi e, di conseguenza, a incontrare Catherine. All’epoca vivevo a nord di Kilkenny ed era lì che i Gallaher trascorrevano le loro vacanze estive. E poi a pochi passi da casa c’era un meraviglioso parco, pieno di alberi e fiori … roba che fa sognare le ragazze. Catherine leggeva pure un sacco di romanzi … non nego che si fosse innamorata di me. D’altronde io ero tenuto ad essere cortese, carino, educato e tutto il resto … - fece una pausa. - Poi, in inverno, incontrai i McAdamhs e mi innamorai della loro figlia … e cambiò tutto. Non pensai più a Catherine, ai Gallaher, agli svaghi giovanili. Mi importava solo di costruirmi un futuro con lei. Fu in quel momento che venni a conoscenza delle mie disastrose condizioni finanziarie e abbandonai la casa di mia zia. Per un anno non ebbi contatti con nessuno, fuorché la mia governante … poi, come ho avuto già modo di raccontarvi, sistemai le mie finanze con l’aiuto del duca Rudolph e mi fidanzai. Per ironia della sorte, poche settimane dopo il mio matrimonio, venni invitato a quello del mio amico Rudolph. Di Catherine non sapevo ancora nulla e neppure della futura moglie di Arthur … accadde tutto all’improvviso. Rimasi sbalordito nello scoprire che la sposa era proprio lei, ma in fin dei conti ero contento che si fosse sistemata così bene.
- Quanto tempo trascorse dalla vostra promessa di matrimonio al matrimonio dei Rudolph?
Langley si fermò a riflettere. – Circa due mesi.
- Quindi passarono proprio due mesi … - borbottò Hurlstone giochicchiando con un pennino. Dopo qualche istante e un paio di scarabocchi su un foglio, rialzò lo sguardo sul conte.
- Avete detto che siete stato invitato al matrimonio?
- Sì.
- Ebbene … quale fu la reazione di Lady Catherine quando vi vide? Avete avuto modo di parlarle?
- No, ma non mi sarei meravigliato se non mi avesse degnato di uno sguardo. Non ebbi occasione di parlarle direttamente.
Hurlstone assentì. Poi, non perdendo l’aria pensierosa, si alzò e prese un tomo dalla libreria.
- Conoscete il glicine, signor Langley? – chiese, tornando a sedersi.
- La pianta del glicine? Ma certo, è la mia preferita … perché?
- E questo Lady Catherine lo sapeva?
- Sì – balbettò. – Perché?
- Perché il giorno della vostra quasi-morte siete stato avvelenato con questi.
Aprì il volume in prossimità di un segnalibro e indicò la rappresentazione di alcuni baccelli. Langley avvicinò il tomo a sé, pallido in viso.
- Volete scherzare, ispettore?
- Vi sembro il tipo?
Il conte guardò alternativamente lui e il libro. – Il glicine?!
- Semi e baccelli provocano “vomito violento, crampi all’addome” e … feci liquide.
Langley si allontanò dal tomo.
- Credetemi, il giardino dei Rudolph è pieno di glicine.
- Suvvia … crede che sarebbero così stupidi da usarlo come veleno? Li scoprirebbero in un lampo! – disse. Distolse lo sguardo e rise.
- Eppure io ho impiegato più di “un lampo” ad arrivarci, conte. non l’avrei mai sospettato, ma poi … mi è tornato alla mente un vecchio insegnamento: sospetta sempre dell’insospettabile.
Poco a poco il sorriso di Langley si dissolse, lasciando il posto ad un’espressione sconvolta. – Il glicine …
- Non lo sapeva neppure il vostro medico, il dottor Bowles. In realtà io sospettai sin dall’inizio che vi avessero semplicemente intossicato allo scopo di farvi uscire dalla tana. Se foste morto avvelenato la polizia avrebbe subito arrestato i vostri compagni di caccia; ma dal momento che in quel gruppo v’era anche il duca Rudolph, una tale eventualità sarebbe stata oltremodo sconveniente … per non parlare del fatto che, seguendo la pista dell’avvelenamento, si sarebbe subito risaliti ai Rudolph, che di certo non patiscono per la carenza di glicine …
- Parlate dei Rudolph come se fossero stati loro ad avvelenarmi! – disse con un’evidente espressione di disgusto.
- Signor Langley … ho tutti gli elementi, tutte le prove necessarie per accusare Lady Catherine del vostro tentato omicidio.
Hurlstone vide l’espressione disgustata gelarsi sul viso del conte, che sbiancò ulteriormente. Fosse stato possibile per lo stupore gli si sarebbero sbiadite anche le iridi. Gli concesse una pausa per metabolizzare la notizia.
- T-t-tentat … omicidio? – sussurrò. – Catherine ?
Hurlstone annuì, mesto. – Il vino fu intossicato da certo Bartholomew Neybourgh, l’amico di Sperty … ricordate? Indagini recenti mi hanno portato a scoprire che Neybourgh si fosse invischiato in questi loschi affari per fame. La sua storia la conoscete: dal momento che sopravviveste egli non ricevette il compenso pattuito e siccome protestò e minacciò di costituirsi alla polizia fu ucciso alla conca. Quindi: il vino fu intossicato, voi usciste perché stavate male e cadeste in trappola, abboccando come un pesce all’amo. Non che vi stia biasimando, eh … ammetto io stesso che quello era un piano ben congegnato … Neybourgh vi sparò con un fucile dotato di un sofisticato apparecchio per attutire il rumore e poi vi spinse nel dirupo. Vi faccio i miei più seri complimenti per la fortuna che avete avuto. Dopo che Neybourgh morì calò il silenzio. Per mesi, ricorderete, non accadde nulla. Ma poi … voi e la vostra bella serva riceveste un invito al ballo dei Drebber. Quale occasione migliore, pensai, per agire senza essere scoperti?
Il movimento delle iridi verdastre del conte tradì l’angoscia e il presentimento che scuotevano rumorosamente il cuore; tamponò il sudore sulla fronte con il fazzoletto, mantenendo lo sguardo basso quando l’ispettore riprese a parlare.
- Sì, conte … quella coppa di vino … la coppa da cui beveste mentre chiacchieravate con il vostro amico Coltfer e il pugile Spencer. Vi sentiste soffocare, vi vennero le vertigini e, infine, bisognoso d’aria … usciste.
- Adesso state blaterando. Voi non c’eravate al ballo … come fate a sapere tutto questo?
- Conte Langley … mi stupisco. Io al ballo c’ero, siete voi che non mi avete riconosciuto. Sono venuto appositamente per tenervi d’occhio. Quando vi vidi uscire capì immediatamente che la coppa dalla quale avevate distrattamente bevuto doveva contenere un qualche strano ingrediente … Così bevvi anch’io da quella coppa e dopo pochi istanti fui colpito dai vostri stessi sintomi. Uscì dalla sala sfruttando un’uscita secondaria, ma vi persi di vista. Poi, però, vi ritrovai: stavate rientrando e vi seguì nel buio dell’ingresso. Peccato che vi confondeste, scambiandomi per chissà chi. Per un pelo riguadagnai la mia entrata secondaria e tornai alla sala prima di voi. Fu solo a fine serata che ci presentammo.
- M-ma … voi, eravate … dunque eravate …
- Winwood Smith. Ammetto che la vostra dama fu più sveglia di voi e dal suo sguardo notai che aveva capito che qualcosa nel mio viso (truccato) non andava. Quella sera, comunque, registrai il secondo tentativo di farvi fuori, conte. La dose di veleno nel vino sarebbe bastata ad uccidervi in meno di due minuti e sviare l’opinione altrui in merito alla causa non sarebbe stato per niente difficile, perché tutti avrebbero creduto che foste morto per un colpo al cuore.
Langley annuì lentamente, fissando amareggiato un punto indefinito del pavimento. Hurlstone tacque.
- Voi credete – riprese in un sussurro Langley – che sia stata Catherine a pianificare tutto?
- Sì.
- E il motivo?
- Per vendicarsi del fatto che non la sposaste.
Per la seconda volta durante quella conversazione, Langley rise. – Ha tutto quello che vuole, lei … Rudolph la ama … e adesso aspettano anche un bambino! Io sono solo un relitto ... anche quando, adesso, non potrei offrirle niente.
- Evidentemente a lei non interessa. Come avete detto all’inizio, era lei che voleva voi. Io posso solo immaginare come siano mutati i suoi sentimenti nei vostri confronti, conte; ma per certo so che la vendetta nasce da un sentimento potente che la razionalità cerca di soffocare. Lady Catherine vi ama ancora, ma non sopporta l’idea di sapervi solo, a disposizione di altre donne. Per questo cerca di uccidervi. L’amore sta sfociando nella follia.
- È ridicolo … fino a questa mattina mi sembrava tutto così … normale. Leggendo la loro lettera, mai e poi mai avrei sospettato di una cosa simile …
Hurlstone si accigliò. – Lettera? Quale lettera?
- Questa mattina – spiegò Langley – ho ricevuto una lettera dai Rudolph … sembravano così gentili … mi dicevano che hanno licenziato il loro stalliere e mi proponevano di …
- … assumerlo?
Il conte sollevò lo sguardo. – Sì. Ripeto, mi sembravano così …
- Signor Langley è una trappola – disse all’improvviso l’ispettore. – Sanno che non avete uno stalliere.
Jack Chandler. Era da una mattinata che si chiedeva che ruolo avrebbe avuto in tutta la faccenda … scoprire le mosse in anticipo avrebbe rappresentato un vantaggio. Ma … poteva funzionare?
- Accettate la proposta, signor Langley.
- N-non è una trappola?!
Hurlstone annuì. – Catherine Rudolph spera ancora di farvela sotto il naso, ma questa volta cercheremo di prenderla in contropiede.
Langley era perplesso, ma l’ispettore parve cogliere il dubbio e continuò. – Naturalmente voi non dovete farvi trovare.
- In che senso?
- Dovete nascondervi … - disse, grattandosi il mento con aria pensierosa. – E forse so già dove …
- Ispettore, non trovate che sarebbe più facile arrestare Catherine Rudolph?
Hurlstone interruppe brevemente le riflessioni. – Sì, che lo sarebbe; ma la signora è incinta e finché non partorisce io non posso toccarla. Perciò dobbiamo cogliere sul fatto il suo braccio … Jack Chandler, lo stalliere – aggiunse.
Se possibile, Langley si sarebbe stupito ancor di più, ma lo era già a sufficienza. Ormai, si diceva, era in balia dell’ispettore e dei suoi piani. Non sapeva, però, se gli sarebbe piaciuto fare quello che gli veniva ordinato.
- Domattina all’alba manderò una carrozza a prendervi.
- Per andare dove?
- Nella contea di Tipperary. Tra le colline sorge un antico monastero dove alloggia un mio lontano parente. Non fate quella faccia, conte, non abbiamo altra scelta.
No, che non gli sarebbe piaciuto. Trasferirsi in un monastero!
- E per quanto dovrei rimanerci? – chiese, ancor più sgomento.
- Fino a che non avrò arrestato Lady Catherine e compagnia bella.
Langley assentì lentamente, il mento corrugato. – Un monastero … nella contea di Tipperary …
- Credetemi, non abbiamo altra soluzione – riprese Hurlstone con un tono di voce più determinato. Nel notare l’espressione del signor Langley, preferì indirizzare lo sguardo altrove. – Se questo vi può consolare, mi occuperò io di tutto quanto riguarda il lato burocratico …
Langley, non riuscendo più a star seduto, si alzò e si avvicinò alla libreria, ascoltando a malapena l’ispettore.
- … scriverò una lettera al monastero e la firmerò. Poi, domattina, all’alba, manderò una carrozza. È necessario che nessuno sappia dove siete diretto, per ragioni di sicurezza. Fatene parola solo con la vostra governante, ma limitatevi a dire che starete lontano dalla tenuta per un po’ e raccomandatele di non farne parola con nessuno. Se qualcuno viene a saperlo vanificate tutti i nostri sforzi, conte. Capite?
- Capisco, capisco … - sbottò Langley poggiandosi ad uno scaffale. – Capisco, ispettore.
- Ebbene … vi lascio andare. Penso che avrete degli affari da sbrigare.
Langley rise. Quali affari doveva sbrigare? In un pomeriggio non poteva fare nulla, ma … pensandoci meglio c’era un mondo da rimettere a posto. La tenuta, l’azienda, gli animali, le paghe di domestici e contadini, la scuderia, Fedor, Hunt, Margareth … Anya. Per non parlare del tempo che ci voleva per fare i bagagli, scrivere le lettere di raccomandazione, dare le ultime disposizioni. Un pomeriggio era troppo poco.
- Giusto qualcuno.
Uscì dalla stazione di polizia con la mente vuota. Vedendo come il sole illuminava la città e le strade, desiderò essere una pianta, per crescere rigogliosamente e non avere tutti quei pensieri per la testa. Edgard lo aspettava di fronte la stazione di polizia, accanto a Newton. Carezzandogli il capo, chiacchierava con due bambini di età diverse che arrivavano appena appena alla spalla del cavallo. Quando vide il conte, il cocchiere li mandò via e si sistemò sul suo sediolino.
- Dove andiamo, signor conte?
Langley guardò tristemente i due bambini allontanarsi dal mezzo. – Alla tenuta, Edgard – disse salendo in carrozza.
Durante il viaggio preferì aprire i finestrini per godere appieno del paesaggio.
Il tempo trascorse lento, come lenti si susseguirono la città, il villaggio, i prati verdi, gli alberi e la brughiera. Tenne gli occhi fissi sul paesaggio, con una strana sensazione. La identificò inizialmente come malinconia, ma presto capì che era un presentimento. Un presentimento che si faceva strada nel cervello, nel cuore, lungo gli arti e gli occhi, che scattavano da un punto all’altro alla ricerca di una risposta ad una domanda inesistente.
Andare via. Lasciare la tenuta fino a quando l’ispettore non avrebbe arrestato chi faceva di tutto per ucciderlo. Se pensava a quante volte aveva rischiato di morire … di perdere in una manciata di minuti o in un attimo tutto quello che aveva costruito in anni e anni. Perdere le energie di cui si alimentava giornalmente, la percezione del mondo e di sé. Perdere ogni cosa. Morire.
Andare via, abbandonare seppur momentaneamente il luogo che l’aveva ucciso e gli aveva restituito la vita. Era l’inizio di una nuova fase della vita. Un cambiamento che doveva accettare con coraggio, perché lui aveva paura delle fasi della vita. Ognuna di esse si era portato una parte della sua anima e giacché di fasi ne aveva attraversate tante, temeva che l’ultima gli sarebbe stata fatale.
Tornò a guardare oltre il finestrino, dandosi dello sciocco per aver trascurato il paesaggio, perso com’era nei pensieri. La carrozza stava imboccando il sentiero per la tenuta e mancavano pochi metri all’arrivo. Raccolse il cappello e il bastone con la testa di falco e si preparò a scendere.
In cortile, mentre Edgard riportava i cavalli nella scuderia, venne accolto dai latrati festosi di Hunt, che gli si buttò sulle gambe, reclamando la sua dose di coccole.
Si rannicchiò su di lui e lo carezzò per molto tempo, pensando a come avrebbe fatto per quel tempo senza di lui, il suo migliore amico di sempre.
- Hai mangiato, bello? Eh?
Sdraiato su un fianco, il cane lo guardò momentaneamente negli occhi e gli mise una zampa in mano. Langley sentì gli occhi pizzicare leggermente ed appannarsi, mentre prendeva a carezzarlo con maggiore affetto di prima.
- Sei un bravo cane, sai? Io starò lontano per un po’, ma voglio che tu resti il cane da guardia che sei … andrai con lei, Hunt. Andrai con lei e proteggila … capito, eh, Hunt? Proteggila …
Quando Edgard tornò in cortile per recuperare i finimenti, Langley volse il viso da un’altra parte, tamponando con il dorso della manica l’unica lacrima che gli aveva bagnato la guancia. Hunt corse a cacciare un piccione che si era posato sulla trave della porta della scuderia, mentre Langley si tolse la giacca e prese la via della cucina.
- Signor conte! – esclamò Greta di buon umore afferrando un’anatra morta per le zampe – Guardate cosa ha trovato il buon Sam al mercato, stamane. Non è una bellezza? Eh? Che ne dite?
Langley sorrise con cortesia. – Sì, Greta. Una vera bellezza …
- Peccato che Sam l’abbia portata un po’ tardi … come vedete Anya l’ha già spennata, ma la cucinerò per il pranzo di domani. Ho già in mente una ricetta … oh, vedrete, signor conte!
- Non vedo l’ora di mangiarla, Greta …
La cuoca si rimise al lavoro con un gran sorriso e Langley guardò l’orologio. Era mezzogiorno passato. Quando incominciò a chiedersi dove fosse Anya, la ragazza entrò in cucina asciugandosi le mani sul grembiule.
- Proprio te! – esclamò Greta alzando il coltello con il quale stava tagliuzzando delle verdure. – Pulisci il forno dalla fuliggine che fra poco mi serve. Signor conte, Margareth mi ha detto che avreste gradito il pasticcio di salmone …
Langley seguiva i movimenti di Anya. Purtroppo lei era china sul forno e non riusciva a vederla in viso, ma era certo che stesse sorridendo. Quanto gli sarebbe mancato quel sorriso …
- Signor conte?
- Sì … sì, Greta, fai come ti pare …
- Mi sono accorta che manca il prezz …
- Va bene, va bene – sbottò con irritazione. Distolse lo sguardo dalla giovane, mentre Greta continuava a parlare e lui usciva dalla cucina con le mani in tasca.
Sulle scale incontrò Margareth. Malgrado il contegno che aveva assunto dopo la discussione lo fermò e gli chiese se qualcosa non andava.
- Vieni.
La condusse nello studio e parlò di tutto quanto l’ispettore gli aveva chiesto di fare, badando bene a non nominare Lady Rudolph, Chandler e il monastero nel quale si sarebbe trasferito. Disse tutto in un soffio, con poche parole e senza mai alzare gli occhi. Margareth si mise a piangere e lo abbracciò.
A pranzo mangiucchiò il pasticcio. Greta non ci aveva messo il prezzemolo, ma era buono comunque.
Poi tornò in camera e radunò quello che avrebbe portato con sé. Margareth mise in una sacca alcuni alcuni abiti sportivi e un paio di cappelli. Dopo qualche ora sullo scrittoio era rimasto un solo pennino con una boccetta semipiena di inchiostro, pochi fogli di carta intestata e la boccetta di sabbia per asciugare l’inchiostro. Radunò i documenti più importanti e li conservò in apposite cartelle di cuoio, pronte da consegnare al signor Hobson. Altri, più voluminosi, li legò con dello spago e li unì agli altri. Per le due ore successive non fece altro che prendere, leggere e catalogare, mettere a posto, raccogliere i pennini rimasti, occuparsi dei libri, che trasferì in biblioteca o nella sacca dei vestiti. Pensare a cosa portarsi dietro e a cosa lasciare. Prima di finire, il suo bagaglio si era già ridotto della metà.
Allorché fu soddisfatto dal lavoro, con la camicia e i pantaloni tutti sporchi di polvere, scese in cortile. Anya stava giocando con Hunt, stuzzicandolo e rincorrendolo con la scopa. Il cane, però, si accorse del padrone e abbandonò il gioco, correndogli incontro.
- Non mi lasciava entrare! – disse Anya, sventolandosi con il fazzoletto. – Ho dovuto accontentarlo, correndogli dietro …
Langley sorrise. – Ti vuole bene … - spiegò, carezzando il capo al cane. – E non è l’unico.
Anya si sentì arrossire. Sorrise, guardò altrove. Poi due braccia la cinsero in vita e rimase bloccata.
- Ti va di fare una passeggiata? Me lo devi … - aggiunse quando la vide titubare.
- Perché mai?
- Mi sono preso cura di te giorno e notte.
Anya sbuffò con divertimento.
- E ho intenzione di portarti in un posto che gradirai sicuramente …
Lo guardò negli occhi. – Cosa ve lo fa pensare?
- L’intuito – disse, alzando un sopracciglio con malizia.

Meno di un quarto d’ora dopo erano in groppa ai cavalli e trottavano in direzione dei campi di patate. Il conte faceva strada, in groppa ad Ulisse, mentre Anya lo seguiva su Fedor. Era strano cavalcarlo, si sentiva alta due metri; però era meno scattante di Ulisse ed era più facile stargli in groppa.
Langley toccò Ulisse ai fianchi. Il sentiero era costellato di pozzanghere, ma in compenso il cielo era sereno e il sole splendeva. I rallentamenti erano frequenti anche a causa delle buche dalle quali sporgeva la roccia o per via dei carri di fieno che incrociavano il loro cammino. A causa del carattere focoso del suo destriero, il conte tirava spesso le redini per frenare gli eccessi di vivacità.
Quando ebbero superato i campi, si ritrovarono sul limitare di un bosco di sempreverdi, una grande macchia smeraldo ben visibile dalla tenuta. Lì smontarono e proseguirono dentro il bosco per un breve tratto.
- Eccoci arrivati – proruppe d’un tratto il conte, fermando il cavallo. Anya si guardò intorno con le sopracciglia alzate e scese anche lei da Fedor. Intuito il dubbio, il signor Langley le fece segno di seguirlo. Ad Anya fu ben presto chiaro che il tragitto percorso non le era nuovo e ricordò quanto le aveva detto il signor Sellers in proposito poche settimane prima. Prima, però, di arrivare a ricordare il motivo per cui le aveva descritto la strada, si accorse che, mentre avanzavano, immersi nel silenzio della pineta, si udiva lo scroscio di un torrente e furono investiti da una brezza fresca e umida.
- Possiamo lasciare qui i cavalli – disse Langley legando Ulisse al tronco di un albero. Anya lo imitò, poi il conte la prese per mano e la condusse fuori dal bosco, in una piccola oasi con cascata e laghetto.
- Allora … non dici niente?
La giovane aprì bocca, ma non disse nulla, troppo meravigliata per riuscirci. Dopo qualche istante, smaltito lo stupore, sentì un lieve tonfo e si girò. Il signor Langley era seduto su un tronco e si stava togliendo gli stivali. Allorché mise mano agli orli della camicia, pronto a levarsela, Anya guardò altrove, rossa in viso.
- Andiamo … - disse il conte con un sorriso, quando se ne accorse. – Mi avrai visto mille volte a petto nudo …
Per qualche strano motivo, a quell’affermazione Anya avvampò ancor di più e sperò che lui non lo notasse mentre si alzava. La sorpassò per guardare in basso, verso il lago. A parte i pantaloni si era tolto tutto e fu non senza ammirazione che gli occhi di Anya furono magneticamente attratti dalla linea magra e atletica della schiena e delle braccia. Quando Langley tornò a guardarla, Anya abbassò repentinamente gli occhi.
- S-sai nuotare, vero? – chiese con un’espressione tra il dubbioso e il preoccupato, indicando il lago.
Anya annuì. Il conte parve sollevato.
- Ebbene …?
Sul viso della giovane si aggrottò un sopracciglio.
- Non … non ti … spogli?
- Sì …
Questa volta fu il conte ad accigliarsi. – Qualcosa non va? – mormorò allontanandosi dalla sporgenza sul lago.
Anya sorrise, sperando di mitigare l’imbarazzo, ma quando lo rivide a petto nudo e sentì l’odore della sua pelle, ebbe la certezza di essere diventata più rossa di un pomodoro.
- Anya?
- È tutto a posto … signor Langley – sospirò. Il conte sorrise e si voltò verso la cascata. Anya seguì la direzione del suo sguardo, poi, emozionata, lo riportò sugli orli delle maniche, che le mani stringevano convulsamente. Doveva farla finita, sapeva che doveva smetterla, ma appena rivedeva il conte mezzo nudo si bloccava e avvampava.
- Vuoi tuffarti?
Si costrinse a guardarlo in faccia. Era preoccupazione, quella? Per un attimo dimenticò il suo petto nudo e provò un briciolo di tenerezza. Annuì con un sorriso che le uscì naturale, senza imbarazzo, e sollevò le braccia per sbottonare l’abito dalle spalle, dietro il collo. Ad un certo punto, però, si bloccò di colpo. Abbassò lo sguardo sull’abito e ricordò: era quello verde, che si chiudeva sulla schiena con una lunga fila di bottoncini. Tutti gli altri avevano bottoni più grossi o erano composti da gonna e camicia, ma l’abito verde no. Questo era difficile da allacciare e quella mattina era stata Margareth ad aiutarla. Lanciò un’occhiata al signor Langley, girato verso il bosco e si diede della stupida. Lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi, mordendosi un labbro. Si era già rassegnata all’idea di non poter farsi il bagno, quando il conte tornò a guardarla con una strana luce negli occhi. Per un attimo si chiese perché stesse sorridendo; poi capì.
Stava aspettando che glielo chiedesse.
- Credevo avessi già finito … - disse indicando l’abito con un cenno del capo.
Aveva notato l’abbottonatura.
- E invece … - mormorò Anya.
Sapeva che era difficile da aprire.
Il sorriso del conte si allargò. Ad Anya quasi non venne da ridere. Storse la bocca, arricciando le labbra e sospirò. Non restava che assecondarlo.
Il suo sguardo dovette essere parecchio eloquente, perché Langley si avvicinò e le posò una mano sulla vita. Anya si girò.
- Lo sapevate …
Sentì il conte ridere, mentre le sue mani, lentamente, scorrevano l’abbottonatura.
- Ammetto di avere un buon spirito d’osservazione.
La giovane scosse il capo e iniziò a rimuovere le forcine che fermavano la treccia sulla nuca; quindi spostò la treccia sulla spalla e la sciolse. Quell’azione, così semplice e disinvolta, ebbe il potere di trasformare un’azione altrettanto innocente, come la sbottonatura dell’abito (o almeno, così doveva essere secondo il punto di vista del conte) in qualcosa di intimo e desiderato. L’odore dei capelli di Anya lo raggiunse, annebbiandogli momentaneamente il cervello. Così chiuse gli occhi e trasse un lungo respiro, imponendosi la calma. Ma quando li riaprì e vide la sottoveste e il corsetto sporgere dai lembi dell’abito, si sentì peggio di prima e deglutì a forza.
Anya aspettava. Le mani del conte erano quasi giunte alla fine della schiena e quel punto, la zona lombare, era la più sensibile. Le dita di lui si poggiavano appena sull’abito, carezzavano la schiena; il suo respiro lambiva ad intervalli regolari il collo e il suo profumo soffocava la sua parte più razionale, cosicchè la mente correva a briglie sciolte su sentieri di ambiguità e immaginazione, dando vita ad idee che si affrettò ad allontanare, rossa in viso.
Quando Langley ebbe finito, il collo, la schiena, l’addome e il ventre di Anya erano già avvolti in una spira di indefinibile, piacevole tensione. Nel petto il cuore rimbombava come un tamburo, battendo così velocemente da farle girare la testa. Aveva chiuso gli occhi, lasciandosi cullare da quella dolce agonia, e le mani del conte erano tornate sulla vita, tastando con ambizione quelle forme che aspettavano solo di essere scoperte, che desiderava toccare senza che stoffa, acqua o abiti lo ostacolassero. Poi la presa era risalita, lentamente, sulle spalle e si era soffermata brevemente intorno alla scollatura. A quel punto un respiro più lungo e caldo degli altri, aveva raggiunto Anya al collo e il conte aveva chinato il capo sulla spalla, sfiorando la pelle con un lieve bacio.
Un piccolo fuoco. Una tacita richiesta.
Anya si voltò brevemente a guardarlo. Gli occhi chiari, lucidi, smaniosi, di lui si fecero attenti e allorché la giovane rilassò le spalle e piegò il capo di lato, gioirono. Il secondo bacio venne depositato sullo stesso punto di prima, poi le labbra iniziarono a risalire lungo il collo, mentre l’abito scivolava lungo le spalle e le braccia, accompagnato dalle mani tremanti. Era un impiccio. Langley abbandonò la candida pelle di lei giusto il tempo di farlo scivolare lungo le gambe e vederlo adagiarsi morbidamente intorno alle caviglie. Poi la baciò, assaporando il tepore della sua pelle e la morbidezza delle sue labbra. Fece scorrere le mani intorno alla vita, slacciò il corsetto e lo gettò nello stesso punto dell’abito.
A quel punto si fermò. Disorientata dall’emozione, Anya lo guardò negli occhi, pronta a qualunque altra domanda silenziosa avesse voluto porle. Ma il conte, senza fiato, le sorrise e si allontanò solo per ammirarla in tutta la sua interezza. Anya lo imitò, chinando gli occhi sul suo torace, ammirando la linea dei pettorali, dei fianchi e le braccia, muscolose al punto giusto. Come prima venne travolta dall’emozione, ma questa volta era diverso. Sentiva quel corpo come qualcosa che le apparteneva, che avrebbe potuto toccare solo lei. E forse il conte pensava la stessa cosa, poiché, quando tornò ad abbracciarla, le sue mani si mossero con maggior attenzione, soffermandosi sulle sue curve, come se volessero memorizzarle una per una. Mentre continuavano a baciarsi, insinuò una mano nella sottoveste, sollevandola fino alla vita. Anya fu tentata di lasciare che gliela togliesse, ma le piaceva così tanto la sensazione delle sue mani fra la pelle e la stoffa che lasciò perdere. Aveva capito che facendo scorrere le dita sulla schiena, seguendo la linea della colonna vertebrale, le venivano i brividi e non la smetteva di fare su e giù con le mani, i polpastrelli come farfalle. Anche lei aveva dato vita ad un gioco che l’aveva messo in più momenti a dura prova. Il suo punto debole erano le costole e carezzandolo con il dorso delle dita, otteneva di farlo sussultare. Ma oltre questo, era un altro il gesto che l’aveva spinto a fare appello a tutta la sua buona volontà per non cedere. Erano già sdraiati sull’erba. Langley la sovrastava, poggiato su un gomito, mentre con la mano sollevava poco a poco la sottoveste. Aveva ricominciato a baciarla sul collo, scendendo lungo le clavicole, e Anya faceva scorrere le mani lungo la pelle rovente della schiena, soffermandosi talvolta sui fianchi, insinuando le dita nel bordo del pantalone. Sapeva che lui era già al limite, ma si divertiva a stuzzicarlo, allo stesso modo in cui il conte stuzzicava lei.
- Non so se riuscirò a fermarmi, stavolta … - ansimò all’ennesima carezza.
Anya lo sentì trattenere il respiro. Per un breve istante si guardarono negli occhi.
- Non vi fermate, allora.
Il conte deglutì e le labbra di Anya si mossero in un lieve sorriso.
In breve ogni barriera sparì e il momento in cui lui le rivolse l’ultima, tacita, domanda, mentre pelle contro pelle studiavano i loro sguardi, fu l’ultimo di lucidità.


La luna era già visibile quando tornarono alla tenuta.
C’era ancora luce e Margareth fece loro capire che li aveva aspettati tutto il pomeriggio. Anya pensò che la decisione di tornare presto fosse dipesa proprio da lei e Langley glielo lasciò credere. La vera ragione la conosceva solo lui ed era il motivo per cui da mesi era schiavo della luce e per cui l’indomani mattina sarebbe dovuto partire.
Il pomeriggio con Anya aveva cancellato ogni preoccupazione, ma una volta in camera, la realtà gli si ripresentò prepotente ed ineluttabile. Fissò a lungo la sacca coi vestiti e i libri, la borsa con il materiale da scrittura, e la pila di documenti da consegnare ad Hobson. Poi fece navigare lo sguardo sulle pareti della stanza, sui mobili, il letto, la finestra, le tende e si sentì come se fosse l’ultima volta. Prima di cena fece un giro per tutta la casa e, sospirando, cercò di fotografare mentalmente ogni angolo, ogni particolare. Riaprì delle stanze che da tempo erano rimaste chiuse a chiave: l’osservatorio astronomico, le due camere per gli ospiti, la stanza di sua moglie e quella di sua figlia. All’ultima concesse più tempo. Era grande quanto tutte le altre camere da letto ed era piena di coperte e bamboline che aveva comprato personalmente, nell’attesa della nascita. La polvere le aveva ricoperte, aveva ingrigito i loro boccoli biondi, le gote rosee, gli abitini di velluto rosso e blu, ma gli bastava passarci sopra la mano per far rivivere i colori originali. Mosse la culla in cui erano sistemate le coperte ricamate di lana che sua moglie aveva ordinato apposta. Scostò le tende di cretonne color avorio e si fece un’idea della vista che si aveva sui campi. Poi aprì il mobiletto in cui aveva fatto conservare tutti i libri che si era ripromesso di leggerle la sera per farla addormentare. Erano tutti impolverati, ma nuovi; mai stati toccati. Fantasticò su come sarebbe stato se la sua Emily non fosse morta e per un po’ gli mancò terribilmente. Poco dopo, però, pensò che se fosse stata ancora viva, avrebbe dovuto separarsene per ordine dell’ispettore, per nascondersi in un monastero, in un’altra contea; e la nostalgia si placò.
Quando uscì era già ora di cena. Margareth lo servì al tavolo e alla fine, mentre sparecchiava, scoppiò a piangere e lo abbracciò.
Mai come in quel momento la prospettiva di lasciare la tenuta gli sembrò tanto reale.

 

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Capitolo 49
*** Capitolo XLVII ***


An irish tale - Capitolo XLVII



Ancor prima di aprire gli occhi sorrise. Il naso e la pelle pieni del suo odore.
Poi schiuse le palpebre, ma ci mise qualche istante per mettere a fuoco. Era in camera del signor Langley, sul suo letto. E lui non poteva essere altrove se non alle sue spalle. Il sorriso si ampliò. Voleva godersi la visione di lui addormentato, con il petto scoperto, le braccia nude, il suo viso rilassato nel sonno. Voleva svegliarlo solleticandolo al costato o carezzando i fianchi.
Si girò lentamente per godersi quel momento, ma nel vedere il letto vuoto il sorriso le si gelò sulle labbra. Tastò il materasso: freddo. E i suoi vestiti non erano sul pavimento, dove li avevano lasciati. Si alzò, prese i suoi e si vestì in fretta. Poi scostò la tenda e guardò fuori: il cielo era limpido, anche se conservava delle sfumature rosee. Possibile che il conte si fosse già alzato?
Riordinò il letto. Dopo si mise a cercare le forcine per i capelli, sul pavimento, e li alzò con la solita treccia.
In corridoio, istintivamente, guardò verso la biblioteca, ma la porta era chiusa. Scese in cucina, cercando una possibile consolazione nella preparazione del porridge per il conte, ma quando entrò Greta non c’era e sul fuoco non c’era neppure la pentola per scaldare l’acqua. Insospettita, allora, andò in sala da pranzo e trovò il tavolo intatto. C’era troppo silenzio. Le uniche voci provenivano dal cortile.
- Margareth – esclamò uscendo. – Ma cosa sta succedendo? Dove sono tutti?
La governante cacciò una gallina in una gabbietta di legno e la affidò ad Edgard, che la caricò sul calesse. Anya vide che avevano caricato tutte le galline e i due galli. Quando Margareth parlò, Anya si accorse che era pallida e aveva gli occhi rossi.
- Edgard non chiedere meno di quattro scellini per ognuna! Soprattutto quella lì … quella grassa. Quella vendila per almeno sei scellini e mezzo.
Il ragazzo assentì sbrigativamente, indossando il cappello e salendo sul calesse. Margareth bloccò le gabbiette e ad un suo cenno, il cocchiere schioccò le redini.
- Margareth – la chiamò ancora Anya. – Margareth!
- Che cosa vuoi? Che c’è? Non vedi che ho da fare?
Anya si accigliò. – Ma certo che lo vedo! Ci capissi almeno qualcosa! Mi vuoi spiegare dove sono finiti tutti?
La governante cacciò una mano nella tasca dell’abito ed estrasse tre lettere chiuse con la ceralacca. Le sfogliò con le mani tremanti – Qual è … tie’. Questa è per te … leggila da un’altra parte …
Le consegnò bruscamente una lettera e si allontanò, tirando su con il naso. Anya rimase bloccata, a guardare la macchia di ceralacca. A qualche passo di distanza, Margareth cominciò a piangere e la ragazza pensò bene di allontanarsi. Si sedette al tavolo della cucina e girò la lettera. Erano pochi fogli, forse un paio. Sul retro spiccava un grande “Per Anya”, vergato con una grafia che conosceva bene. Ebbe uno strano presentimento.

Mia carissima Anya,
sarò già lontano diverse miglia quando tu inizierai a leggere questa mia. La carrozza che mi è stata generosamente messa a disposizione dondolerà per chissà quale sentiero di Waterford ed io ti starò pensando, starò cercando di immaginare una conversazione con te, di ascoltare le tue risposte sagaci e ammirare il colore dei tuoi occhi. Credo che riuscirai ad immaginare con quale sofferenza mi allontano da te e dalla tenuta, ma capirai presto che questo passo è stato necessario. L’ispettore Hurlstone l’ha reputato tale, mentre compie le sue ultime indagini. Purtroppo, per ragioni di sicurezza, non posso rivelarti il posto dove la carrozza mi porterà, anche perché non mi è stato riferito. Viaggio calcolando ogni miglio che ci separa, cercando di ricordare i sentieri e le strade percorse dalla carrozza, i paesaggi che scorreranno davanti ai miei occhi, perché possa facilmente tornare da te quando sarà il momento.
Per ogni informazione, ti prego, non fare domande. Non chiedere dove mi hanno portato, né quando tornerò. L’ispettore mi ha fatto promettere di tenere per me qualsiasi novità o comunicare con te e Margareth tramite lui. Lui sa come contattarmi, ma, ripeto, ti prego di non fare alcun tipo di domanda, perché capirebbe che ne ho parlato anche con te.
Perdona questa missiva. Avrei dovuto parlarti personalmente del viaggio che mi apprestavo ad affrontare, ma non ne ho avuto il coraggio. Ieri, quando insieme siamo andati alla cascata, ho cercato a più riprese di trovare le parole giuste, ma presto la mia razionalità ha ceduto di fronte la passione e non sono più stato in grado di parlare, perché temevo di rovinare l’idillio. Ciononostante ho una buona ragione per non serbare rimpianti: tu. Sei una ragazza speciale, bella e intelligente. Non dimenticarlo mai. Non lasciare mai che la debolezza prenda in te il sopravvento. Se mai capiterà, se mai ti sentirai sola e abbandonata pensa sempre che nel mondo ci sono delle persone che ti vogliono bene, che ti amano. Per quanto mi riguarda, farò di tutto perché le cose vadano bene e cercherò di tornare presto.
Mille cose ancora vorrei scrivere, ma temo che non mi bastino né i fogli, né il tempo. Tra breve la carrozza sarà qui e io devo prepararmi.
Sono triste, non vorrei andar via, ma mi consolo, perché l’immagine che tu mi offri adesso è semplicemente meravigliosa. Stai dormendo su un fianco, semicoperta, con le braccia di fuori, strette intorno al petto. I tuoi capelli sono sparsi sul cuscino, le tue labbra sono piene e mi invitato a baciarti. Vorrei farlo, svegliarti e assaporare un’altra volta ogni centimetro della tua pelle. Ma so che non ti addormenteresti più e che partire sarebbe mille volte più difficile. Per questo mi limito a lasciare un piccolo bacio sulla tua spalla, leggero, e a terminare questa lettera ispirato dal tuo profumo.
Ti prego, non odiarmi. Amami come hai fatto stanotte e lo scorso pomeriggio alla cascata. Amami come ti amerò io durante questa assenza forzata.

Tuo
Paride


Le ultime righe erano solo un insieme confuso, annebbiato, di inchiostro nero su foglio bianco.
Una lacrima cadde sul foglio, disegnando un alone opaco.
Anya piangeva silenziosamente, con l’addome scosso dai singhiozzi. Intorno a lei non si avvertiva il benché minimo rumore.
Dopo mesi e mesi di indagini, attesa e speranze, capì quanto grande fosse stato il rischio corso dal conte alla tenuta, durante le sue passeggiate mattutine a cavallo e durante gli impegni che lo portavano fuori città.
Si morse una mano. Prese fiato con un singulto.
Qualcuno lo voleva uccidere. Togliergli la vita, il dono più prezioso.
Il suo dono più prezioso.
Rilesse quelle righe, asciugandosi gli occhi con l’orlo della manica. Era come avere una fascia avvolta intorno al collo, al petto, che stringeva per impedirle di prendere fiato. Come se non fosse più possibile essere felice. Come se quella casa, all’improvviso, non avesse più senso.
Si scoprì in piedi, vicino al tavolo. Stringeva i due fogli tra le dita della mano sinistra. Non trovava il modo di smettere di leggere. Le parole del conte acquisivano poco a poco un significato, poco a poco le svelavano i sentimenti che aveva provato scrivendole e il suo tormento interiore si delineò attraverso le macchioline d’inchiostro sul bordo superiore del foglio. La sincerità e la dedizione avevano guidato il pennino nella vergatura delle ultime righe.
A causa della forte luce aggrottò le sopracciglia. Era sull’uscio, le guance pallide e gli occhi particolarmente sensibili.
Al centro del cortile, messa di spalle, Margareth leggeva una lettera.
- Se n’è andato – disse Anya con un tono asciutto.
Margareth abbassò i fogli e si girò a guardarla.
- È partito e io non so per dove.
Anya avanzò verso di lei, fermandosi a qualche metro. Le tremavano le labbra. Margareth la scrutò silenziosamente.
- Lo sapevi?
La governante chinò gli occhi arrossati sulla sua lettera e annuì. – Me lo ha detto ieri, prima di pranzo.
Dietro di loro, qualcuno camminò a passi rapidi. Anya li ignorò, mentre alzava lo sguardo al cielo e batteva velocemente le palpebre per ricacciare le lacrime.
- E adesso che si fa?
- Si chiude tutto e si torna ognuno a casa propria – rispose Margareth.
Anya ricominciò a piangere, sentendo il cuore perdere un colpo. Con sguardo assente vide Margareth ripiegare la sua lettera e conservarla nella tasca del grembiule.
- Naturalmente tu verrai con me.
- Cosa? – mormorò.
- Verrai con me, a casa mia.
La giovane ebbe poco da ribattere. In quel momento giunse la carrozza del signor Hobson e sia lei che Margareth furono impegnate a servirlo e consegnargli i documenti e le cartelle che il conte aveva messo da parte. Hobson girò la casa in lungo e in largo prima di tornare in cortile, a osservare il cocchiere che caricava la pila di documenti sul mezzo.
- Con questo credo che sia tutto … - disse Margareth tendendogli l’ultimo fascio di fogli.
Hobson fece scorrere lo sguardo su un foglio scritto dal conte. – Ma, dite … - disse dopo un momento, mettendo i documenti da parte. - … il signor Langley starà via molto, Miss Wright?
Margareth annuì.
- E si sa dov’è andato?
A pochi metri da loro, sull’uscio della cucina, Anya lanciò un’occhiata allarmata alla governante.
- A quanto pare – disse – la signora Langley non si è sentita bene e … beh, il signor conte è corso da lei.
- Però … non l’avrei mai detto. Il signor Langley ne ha sempre parlato male di sua zia.
- Oh sì – Margareth accennò un sorriso – sempre il solito orgoglioso …
- Già.
Hobson estrasse un altro foglio dalla carpetta, lo lesse e cacciò uno sguardo ad Anya, che aveva starnutito.
- Manderò i miei più sinceri auguri di pronta guarigione alla signora … potreste farmi avere il suo recapito, Miss Wright?
- N-non credo sia possibile, signor Hobson.
- Perché?
- Il … il signor Langley si sente già abbastanza contrariato per via della faccenda … lui non vuole che si sappia in giro …
- Bene – disse l’amministratore spostando il peso sulla gamba sinistra – allora farò in modo di tenere la cosa segreta, se dà tanto disturbo …
Margareth fece un profondo respiro. – Io credo che sia ancora meglio se non inviaste nessuna lettera, signor Hobson.
Hobson si accigliò.
- Non è una questione di fiducia, signore, quanto di … di, come dire …
- Ho capito, ho capito Miss Wright …
Anya rosicchiò nervosamente un’unghia. La governante chinò il capo e assentì.
- Ripeto, signor Hobson, non è questione di fiducia …
- Quando spedirete la prossima lettera al conte, Miss Wright?
- Ne scriverò una questo stesso pomeriggio, signor Hobson.
Anya strabuzzò leggermente gli occhi.
- Ebbene, ricordatemi alla signora Langley, Miss Wright. Se proprio devo evitare di scrivere io stesso, fatelo voi per me.
- Come volete, signor Hobson.
L’amministratore volle assicurarsi che tutti i documenti fossero stati caricati in carrozza, prima di andarsene. Poi Margareth si avvicinò ad Anya e seguì con gli occhi la vettura, che, rumoreggiando sul pietrisco, oltrepassava il cancello della tenuta.
- Forza – riprese un attimo dopo dandole una pacca sulla spalla. Anya la seguì in cucina e mescolò la minestra sul fuoco.
- Scriverai una lettera, quindi.
- Sì.
- Non me l’avevi detto.
- Non ne vedevo il bisogno.
Le dita di Anya si strinsero nervosamente intorno al mestolo. – Perché no?
Margareth non rispose.
- Avresti scritto una lettera al signor conte senza dirmi niente. Spiegami il perché.
- Cosa avrei dovuto dirgli di nuovo?
Anya si girò. – Lui mi ha scritto una lettera
- Lo so.
- Vorrei che gli dicessi che mi dispiace che sia andato via.
- Non credi che lo sappia? – proruppe Margareth battendo una mano sul grembiule.
La giovane fremette. – Ma certo che lo sa! Però vorrebbe sentirselo dire!
- E allora glielo scrivo, va bene? Glielo scrivo! Gli dico che ti dispiace tanto e che lo ami!
- Non c’è bisogno che usi quel tono!
- Ah! – sbottò Margareth con un sorriso di scherno – Ti scoccia sentirtelo dire?
- Cosa, che ... che ...? No che non mi scoccia, per niente!
Margareth fece di sì con il capo, allontanandosi verso la porta.
- Margareth!
- Oh, signore! Ma cosa vuoi ancora?!
Anya lasciò il mestolo. – Scriverai di me, allora?
La governante sbuffò. – Sì.
Subito dopo pranzo, Mary, Anna, Ines, Greta, Adele e Sam salutarono e andarono via. Anya avrebbe immaginato che Greta le dicesse qualcosa, ma parve quasi che la mente della cuoca fosse attraversata da pensieri di tutt’altro genere. La abbracciò sbrigativamente e salì sul calesse insieme agli altri.
Quando il calesse scomparve oltre il cancello intorno a loro regnava il silenzio più assoluto. Fu Hunt a spezzarlo, avvicinandosi loro e fissando il cancello. Anya gli carezzò piano il capo, mentre Margareth rientrava in cucina. abbassò lo sguardo sul cane e quando lui la guardò negli occhi colse l’interrogativo.
- Non tornerà, Hunt – mormorò. - Almeno non oggi.

In sala da pranzo il tavolo era stato ricoperto con un grande telo bianco. Anya immaginava che le sedie si sarebbero impolverate tutte durante la loro assenza e spazzolò il camino con grande cura. Evitò per tutte le restanti ore di guardarsi intorno per non imbattersi negli spettri dei mobili e delle sedie e anche quando Margareth le ordinò di dare un’ultima ripulita al camino della stanza del conte, si contentò di strizzare gli occhi fino a che li sentiva dolere, piuttosto che appuntarli sul letto o sulla sedia dove il conte era solito poggiare i vestiti quando si cambiava. Il raschiare della spazzola nel camino e i denti premuti sul labbro inferiore furono le sole cose che si preoccupò di sentire. Se si voltava indietro, verso la camera, allora pressava gli incisivi fino a che la bocca non le si riempiva del sapore ferruginoso del sangue. Riviveva la notte con lui, piangendo, e se chiudeva gli occhi lo rivedeva cercarla, desiderarla, stringerla. Succedeva soprattutto quando Margareth si allontanava e lei rimaneva sola, con una pezza in mano o con lo spolverino per i mobili; non appena i passi della governante si riducevano ad un’eco lontana gli occhi le cominciavano a pizzicare e il petto a scuotersi per i singhiozzi.
- Ho finito – disse Margareth, la sera, in cucina con un lungo sospiro. – Qui è tutto sistemato. Le galline le abbiamo vendute, il grano, la farina, la birra e le patate li abbiamo divisi … i mobili li abbiamo coperti, i camini sono puliti, il forno anche … cosa manca?
- Ai cavalli chi ci pensa?
- Li verranno a prendere i servi del signor Hobson e del dottor Bowles.
- Il dottor Bowles?
Margareth annuì velocemente.
- Hunt?
- Viene con noi.
Anya lanciò un’occhiata al cane accucciato sull’uscio. Ad ogni minimo rumore sollevava di scatto il capo e guardava in direzione del cancello.
- Il tè è finito?
Margareth annuì un’altra volta. – Credo che non sia rimasto niente da fare … - disse dopo un po’.
Il senso di desolazione che Anya aveva avvertito dal momento in cui si era ritrovata sola nel letto crebbe, donando alle sopracciglia un tratto pensieroso e corrucciato. Il silenzio si fece ancor più opprimente.
- Ho già mandato Edgard in città per far venire una carrozza. Lascerà Birra e il calesse nella proprietà del dottor Bowles, poi tornerà a casa sua a piedi … tanto non è distante.
Anya fece segno di aver capito, sforzandosi di trattenere le lacrime che pizzicavano gli angoli degli occhi.
- Io non abito molto lontano … - disse Margareth per rassicurarla. – Potremo tornare tutte le volte che vorrai.
- Senza di lui non è la stessa cosa … - singhiozzò la ragazza.
La governante la strinse a sé. – Lo so … anche per me è così, ma durerà poco. Vedrai che tornerà presto.
Anya tirò su con il naso. Essere abbracciata da Margareth era come stare tra le braccia della madre che non ricordava. Profumava di casa e nelle sue carezze trovò finalmente conforto.
Avevano entrambe fame. Per pranzo nessuno aveva mangiato a sazietà. Greta non aveva infornato il pane, non c’era latte, né acqua. Anya avrebbe voluto bere la birra, ma temeva che le avrebbe dato alla testa. Più tardi seppe che anche Margareth aveva appetito. Nella breve attesa del signor Hobson e del dottore fu più volte tentata di usare il forno, ma per un motivo o per un altro ci aveva rinunciato.
Mentre Margareth parlava con il servo del signor Hobson, Anya portava uno a uno i cavalli fuori con i rispettivi finimenti. Al signor Hobson andarono Newton e Ulisse; il dottor Bowles si prese invece Ilizia e Fedor. Anya si chiese se anche loro, come Hunt, avessero compreso la situazione. Legò con il cuore pesante Fedor al calesse del dottor Bowles e consegnò sella e finimenti. La carrozza che Margareth aveva richiesto giunse nel momento in cui il calesse del signor Hobson si accingeva a partire, cavalli al seguito. Il cocchiere chiese loro qualcosa. Anya fissava imbambolata il calesse del dottor Bowles andare via, Ilizia e Fedor trotterellargli dietro incerti lungo il viale.
- Anya?
La ragazza si volse verso Margareth.
- Il signore, qui, chiede se hai dei bagagli da caricare.
Il cocchiere attendeva con le mani lungo i fianchi, probabilmente pensando a quanto tempo ancora doveva lavorare. Anya salì in camera sua, prese la sacca con gli abiti e si guardò intorno. Ebbe magari un dejà-vu per tutte le volte che l’aveva fatto durante il giorno. All’ultimo momento, quando stava per chiudere, si ricordò del piccolo tomo sul comodino. Era il libro di astronomia che il signor Langley si era portato dietro quando lei aveva la febbre. Da allora le aveva fatto spesso visita, ma si dimenticava ogni volta di riprendersi quel libro. Ad Anya l’astronomia non piaceva molto, ma prese ugualmente quel volumetto e lo ficcò nella sacca.
Nel corridoio buio si sentì immediatamente a disagio. Per fortuna dopo pochi secondi raggiunse il cortile e consegnò la sua sacca.
- Non ti stai portando nient’altro? – chiese Margareth sorpresa.
Anya fece spallucce, lanciando un’occhiata al cocchiere, indeciso sul da farsi.
- Sei sicura? Hai ficcato tutta la tua roba là dentro?
Anya annuì. Margareth tolse di mano la sacca al cocchiere e la scaraventò tra le braccia della giovane.
- Pronte a partire, signore?
- Sì – disse Margareth controllandosi le tasche. – Anya monta su, intanto. Sto arrivando.
Anya assentì silenziosamente, facendo navigare gli occhi sulla casa. Ebbe l’impressione di guardare uno spettro, con le luci del cortile spente. Poi prese posto nell’abitacolo e attese, la sacca stretta fra le braccia, fino a quando Margareth non ricomparve.
- Stavamo per dimenticare le nostre parti … - sbottò, posando sul sedile i piccoli sacchi di canapa che contenevano la farina, il grano, le patate, lo zucchero e poi un paio di bottiglie di birra. Mentre la vettura si metteva in movimento, Anya cercò di mimare un’espressione accondiscendente, anche se né lei, né Margareth furono in grado di tenere gli occhi lontani dal finestrino nel frattempo che la tenuta scompariva tra i sempreverdi che la circondavano. Che scompariva dalla loro vista.



Dal momento in cui il giorno era decaduto e la sera ne prendeva il posto, il conte faticava a tenere gli occhi aperti. La luce del mezzogiorno glieli chiuse per un conto, la sera assopiva la sua mente con una buia nenia. Quando la testa gli cadeva di lato, dopo aver ciondolato esaurientemente , l’agente Copperland picchiettava le dita sul suo ginocchio, facendolo svegliare.
Detestava destarsi da quel sonno così piacevole, ma d’altronde era stato lui a chiederlo. Non voleva perdere di vista la strada.
- Abbiamo ancora molta strada? – borbottava ogni volta drizzandosi sul sedile.
Copperland annuiva pazientemente e Langley, con labile e poco duratura determinazione, si rimetteva a guardare fuori dal finestrino.
A inizio giornata si era mantenuto positivo. Sottovalutò la distanza da percorrere e sbeffeggiò ogni singolo minuto trascorso su quella carrozza. Lui e Anya non potevano stare lontani. Tutto si sarebbe risolto in pochissimo tempo.
Con il passare delle ore, però, le convinzioni vennero meno, la stanchezza lo avvolse come una coperta e tenere d’occhio la strada, purtroppo per lui, era diventata un’impresa impossibile.
Fecero una sosta, a mezzogiorno. Cambiarono i cavalli, mangiarono, si sgranchirono le gambe. Poi ripartirono, senza più fermarsi.
Il cielo si era annerito quando Copperland svegliò il conte per l’ennesima volta. A quel punto era inutile prendersi in giro con la storia della strada. Ammise a sé stesso di non averci capito niente e pensò di dire all’agente di svegliarlo solo se giungevano a destinazione. Ma, neanche gli avesse letto nel pensiero, Copperland disse – Fra poco ci fermeremo, signor Langley.
Naturalmente, prima che il mezzo la piantasse di ciondolare passò più di mezz’ora. Tuttavia, dopo quell’affermazione, il conte non ebbe più il coraggio di addormentarsi.
Entrarono in un villaggio, ne percorsero la buia via principale e si fermarono di fronte ad una locanda. Poco distante, sull’altro capo della strada, una taverna. Ne provenivano voci e schiamazzi netti, poco trascurabili. Langley sperò che dalla locanda non si sentissero.
- Ci troviamo nei pressi di Fethard, a sud della contea - spiegò l’agente quando ebbe congedato il cocchio.
Il conte fece mente locale, stropicciandosi il viso. – Ancora?
- Il viaggio è lungo, signor Langley. Se tutto andrà bene, arriveremo domani, in tarda serata.
- Quindi abbiamo già varcato il confine? – chiese con il tono di chi sa già la risposta.
Copperland annuì. – Questo pomeriggio.
Entrarono nella locanda. L’agente fece strada con un portamento impettito, che ne tradì la professione nonostante fosse in abiti borghesi. Il tono che usò con il proprietario della locanda, Langley notò, era mellifluo e strascicato, del tutto diverso dal consueto.
L’uomo li condusse sbrigativamente al piano superiore e indicò due stanze vicine con un cenno del capo.
- Fanno quattro scellini a notte per ognuno … - disse ad un tratto con il palmo teso.
Copperland lo pagò e l’uomo sparì nel piano sottostante. Langley non ne fu sorpreso. Imitò l’agente che si era chiuso nella sua stanza e poggiò la sacca sul pavimento.
La stanza era piccola. C’era appena lo spazio sufficiente per il letto, un tavolino e l’angolo per l’igiene personale, con una brocca colma d’acqua e una scodella vuota.
Pensò di coricarsi presto. Il letto era vecchio e polveroso, com’era prevedibile, ma non c’era il tempo per fare gli schizzinosi. Anche se era stato seduto per tutta la giornata aveva la schiena dolorante e braccia e gambe pesanti come due macigni.
Cadde a sedere sul bordo del materasso e avvicinò a sé la sacca degli abiti. Si tolse giacca e cappello; poi il colletto della camicia, gilet e stivali. Si distese e chiuse gli occhi.
Un attimo.
E li riaprì. Copperland bussava alla porta.
- Signor Langley? Signore?
Si girò verso la porta, rimanendo disteso. – Che vuole, agente? – sbottò, irritato.
- È ora di partire, signore.
Langley aggrottò le sopracciglia; poi guardò la finestra e si accorse che era chiusa. Corse, quindi, ad aprirla e fu investito dall’intensa luce del mattino.
- Signore? Vi attendo alla carrozza?
Langley sospirò, battendo le palpebre per abituare gli occhi alla luce. – Sì.
Il viaggio riprese. La carrozza ballonzolava a destra e a manca a causa della strada dissestata, mentre Copperland blaterava qualcosa a proposito delle condizioni atmosferiche. Langley mangiava le focacce che l’agente aveva preso per lui e non lo ascoltava. Di tanto in tanto si scrollava di dosso le briciole e beveva un sorso di birra dalla borraccia. Una birra di infima qualità, amara più del dovuto e con un’aggiunta di spezie decisamente poco opportuna. Da parecchi minuti il labbro superiore era arricciato per il disgusto.
- Non c’era proprio nient’altro da bere, agente? – disse dopo l’ennesimo sorso.
- No, signor Langley. Nient’altro. Ma spero vogliate considerarlo un elemento di secondaria importanza …
Langley lo guardò e capì che si stava riferendo alla sua situazione. – Ci mancherebbe …
Quel secondo giorno di viaggio sembrò più lungo del precedente. I paesaggi nei quali si avventuravano erano pressoché deserti. Di tanto in tanto gli occhi incrociavano un’abitazione di contadini, un campo coltivato. Più salivano, meno gente si incontrava. Ma non poteva essere altrimenti, d’altronde, perché il paesaggio era prevalentemente roccioso.
Per gran parte del tempo Langley dormì e l’agente non lo svegliò neppure mezza volta. Di tanto in tanto, quando le curve erano strette si ridestava da solo, scivolando leggermente di lato, ma poi richiudeva gli occhi e non se ne parlava più.
Il tempo peggiorò con l’approssimarsi della meta. Mentre erano ancora a sud della contea il tempo si mantenne nuvoloso, ma man mano che si avvicinavano al monastero i nuvoloni si erano infittiti ed era venuta giù una fitta pioggia. Ne era risultato un monotono tamburellare sul tettuccio e i vetri dell’abitacolo. Il conte continuava a dormire, le braccia conserte e la testa poggiata alla parete traballante.
- Spero che ai lorsignori non dispiaccia se rallento il passo dei cavalli … la strada è piena di pozzanghere! – gridò il cocchiere.
Copperland si strinse nella giacca, rabbrividendo, prima di rispondere – No! No che non ci dispiace!
- Bene! – gridò a sua volta il cocchiere. Langley aprì gli occhi, visibilmente infastidito per quella strana conversazione.
- Stiamo rallentando – spiegò l’agente a bassa voce.
- Siamo arrivati?
- Non ancora, purtroppo. Sono appena le quattro e mezza … rallentando non si potrà che posticipare l’arrivo …
- Perché la carrozza ha rallentato?
- Ci sono troppe pozzanghere …
Copperland non finì di parlare. La carrozza si arrestò all’improvviso, inclinandosi pericolosamente da un lato. I cavalli nitrirono, il signor Langley venne sbalzato sull’altro sedile, Copperland sbiancò e il cocchiere gridò un’imprecazione.
- Cosa è successo? – gridò l’agente puntellandosi alle pareti.
Il cocchiere gridò un’altra volta, mentre, con uno scossone, la carrozza continuava ad inclinarsi da un lato. – Ci siamo impantanati, agente!
Langley si tirò cautamente su e guardò Copperland.
- È una grossa buca, signori! Dovreste scendere …
Il conte allungò una mano verso la maniglia dello sportellino. Attraverso le tendine vide che la buca era profonda e che tutt’intorno era pieno di fango. Non ci fu bisogno di spingere lo sportellino, che questo penzolò inerte, sfiorando la superficie dell’acqua. Lentamente Copperland e il conte uscirono, ritrovandosi immersi in un fango bruno fino alle caviglie.
Il cocchiere era già a terra, vicino ai cavalli. Si rivolse all’agente, ma né questi né il conte capirono ciò che disse. Il suono del vento e della pioggia si levava cupo su ogni altro rumore, fischiando, picchiettando, rombando, imponendosi. Le espressioni dell’agente e del conte furono quasi identiche. Chiesero tacitamente che la frase venisse riformulata.
- Dobbiamo tirar fuori la carrozza!
Ci vollero molto tempo e pazienza prima di riprendere il viaggio. Le ruote destre erano immerse fino al perno nel fango. Copperland propose di utilizzare un cappotto come superficie d’appoggio delle ruote, ma, come era prevedibile, non funzionò. Allora il mezzo fu liberato di tutto il peso e uno dei due cavalli fu attaccato alla bell’è meglio al tettuccio, in modo da sollevare il lato ingolfato verso l’alto. Il cocchiere fu più che felice di riuscire nel suo intento e, scrollatosi di dosso la pioggia (che peraltro continuava a cadere) risalì sul sediolino.
Langley e Copperland si rimisero anche loro ai propri posti, disegnando dei grossi aloni di umidità sui sedili. L’agente si tolse il cappotto zuppo e prima che la carrozza si rimettesse faticosamente in moto, riuscì a scrollare il cappello dall’acqua.
Langley lo osservava. Non gli era ben chiaro dove volesse arrivare con tutti quegli accorgimenti. Nonostante l’acqua gli colasse lungo la schiena in più rivoli, lui aveva deciso di restare vestito del cappotto fradicio e di non disturbarsi tentando di asciugare i capelli.
- Fortuna che mancano poche decine di miglia …
Il conte lanciò un’occhiata distratta fuori dal finestrino. – Dite a me?
- No, ma ho calcolato che il viaggio non potrà essere più lungo di cinque o sei ore …
- Arriveremo tardi, quindi?
Copperland si tamponò il viso con il fazzoletto e annuì. Anche di quel particolare il conte ebbe qualcosa da ridire mentalmente.

Nei pressi di Templemore, la località verso la quale erano diretti, il tempo peggiorò ulteriormente. A più riprese il cocchiere chiese di tornare indietro e cercare una locanda, ma l’agente Copperland fu irremovibile.
La pioggia batteva sul tettuccio della vettura con gran violenza, veniva schiaffata contro i vetri dei finestrini e annebbiava il paesaggio, buio per l’assenza della luna.
- Capite che non possiamo permetterci una sosta, signor Langley … - borbottò l’agente per mitigare la preoccupazione del conte. – La pioggia non farà che aumentare con il passare delle ore. Domattina la strada potrebbe essere impraticabile.
Langley si sistemò meglio nel suo angolino, massaggiandosi il setto nasale con le dita e poggiando il capo alla parete dell’abitacolo.

La carrozza si fermò dopo alcune ore. A quel punto di uscire non se ne parlava proprio.
Il conte si era addormentato di nuovo, dopo un vano tentativo di intavolare una conversazione con l’agente Copperland. Il cocchiere aveva gridato qualcosa, aprendo lo sportellino, ma nessuna delle sue parole giunse chiaramente al conte e all’agente.
- Questo, signori … - iniziò prima che il fragore di un tuono lo facesse saltar su - … questo, signori, è il capolinea. Non posso andare avanti perché il sentiero è ridotto veramente male, ma troverete il monastero a poche centinaia di metri.
Indicò un punto all’orizzonte, rischiaratosi a causa di un lampo. Langley sporse il capo oltre lo sportellino, lavandosi letteralmente il viso, mentre si chiedeva come facesse quell’uomo ad essere così sicuro, visto che con la pioggia non si vedeva un accidente.
- Mi dispiace, ma dovrete proseguire a piedi …
E così Copperland e il conte si ritrovarono immersi nel più brutto degli acquazzoni irlandesi, avanzando faticosamente nel fango, tentando invano di coprire il collo con il bavero del cappotto dall’acqua e dal vento, gridando sorde imprecazioni contro il tempo.
Langley si sistemò la sacca con la sua roba sulla spalla. Copperland, che faceva strada, si voltò per assicurarsi che il conte fosse dietro di lui. Poi scosse il capo e sbuffò, cacciando con una serie di piccoli schizzi l’acqua che gli bagnava le labbra.
Il fragore della tempesta era la sola cosa udibile. Tutto il resto era mera imitazione del suono.
D’un tratto, però, mentre procedeva a capo chino fissando il fango, Langley urtò qualcosa e alzò immediatamente lo sguardo.
- Siamo arrivati! – gridò l’agente Copperland davanti a lui, indicando qualcosa alla sua destra.
Langley strizzò le palpebre.
Copperland scosse la maniglia di un robusto portone di legno e Langley si guardò intorno, stringendo la presa sulla sua sacca.
- Siamo Beanon Copperland e Paride Langley di Waterford! – urlò picchiando più forte la maniglia contro il portone.
Langley si poggiò alla porta, sperando in un riparo sotto l’enorme architrave. Per un attimo gli venne in mente Hunt, che, quando pioveva, abbaiava forte per entrare.
- Ehi! – gridò ancora l’agente.
- Temo che non ci senta nessuno, agente. Non per essere pessimista …
Proprio in quel momento si aprì una fessura nella porta e il pallido volto di un uomo fece capolino, guardandoli con pigro sospetto.
- Forestieri?
- Siamo Beanon Copperland e Paride Langley, di Waterford, fratello! Ci manda Alexander Orace Hurlstone, di Dublino! – disse l’agente ad alta voce.
L’uomo li squadrò, soffermandosi un attimo di più sul viso del conte. Poi aprì la pesante porta e i due entrarono. L’agente rovistò nella sua sacca e consegnò una lettera umida al frate.
- Qui c’è tutto quanto dovete sapere.
Langley scorse la grafia dell’ispettore, prima che il frate conservasse la lettera nella tasca del suo saio.
- Io sono Fra Murchadh. Venite, vi conduco da frate Thomas.
L’agente Copperland fu l’unico al quale venne concesso di parlare con Frate Thomas. Langley fu invitato a rimanere nel corridoio, dove una timida corrente ghiacciò ogni fibra del suo essere, provocandogli continue scariche di brividi lungo braccia, schiena e gambe. Inizialmente pensò di togliersi gli abiti bagnati, ma cambiò idea quando scoprì che avrebbe sentito ancor più freddo.
Dopo due minuti batteva i denti.
Dopo tre sbadigliava.
Al quarto cominciarono a sfuggirgli delle imprecazioni.
In un primo momento borbottava tutto quello che gli veniva in mente, lasciandosi scappare anche espressioni colorite. Poco a poco, però, la sua voce si affievolì. I muri di pietra gli rimandavano indietro tutto quello che diceva. Un’eco flebile, che si perdeva nella lunghezza del corridoio.
Si guardò intorno. Ammutolì.
- Ehi – mormorò. E la pietra rispose di nuovo. – Ehi …
Continuò così per un bel pezzo, quasi dimenticandosi dei suoi abiti bagnati, della corrente, del freddo.
Poi tacque.
Man mano che l’eco si riduceva, i suoni cambiavano, con sfumature del tutto estranee al suo tono di voce. Sentirle lo divertì. A quel punto era come se la corrente fredda non esistesse più, come se gli spiragli che l’avevano prodotta fossero stati chiusi. Si poggiò alla parete, accanto alla sacca degli abiti e sospirò. Copperland stava ancora parlando con frate Thomas.
E a lui Anya mancava da morire. Non riusciva a immaginare come sarebbe stato vivere per chissà quanto tempo lontano da lei. Erano passati due giorni e l’aveva desiderata con tutto sé stesso sin dal momento in cui l’aveva baciata sulla fronte e si era chiuso la porta dietro, con la lettera per lei in mano. Aveva lottato duramente contro il desiderio di svegliarla e baciarla un’ultima volta. Ma non poteva. Non capiva il motivo, ma sapeva che sarebbe stato ingiusto. Riusciva ancora sentire la sua pelle morbida sotto le dita, il sapore delle sue labbra, il colore dei suoi capelli, la sua voce pronunciare il suo nome …
Un tuono lo riportò alla realtà.
Stava fissando un muro. Di pietra. Fredda.
Di colpo ricominciò a battere i denti, a tremare, a desiderare un pasto caldo, mentre in lontananza una voce intonava un canto religioso.
Anche il canto, poco dopo, cessò e gli attimi che seguirono furono i più solitari di tutta la sua vita.

 

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Capitolo 50
*** Capitolo XLVIII ***


An irish tale - Capitolo XLVIII



Il monastero era un edificio di modeste dimensioni che sorgeva tra le colline di Templemore. Progettato originariamente per ospitare una congregazione di suore, col tempo divenne un monastero a sé stante. I monaci che vi vivevano erano vincolati dal voto di castità, umiltà e fratellanza. Abitavano in camere separate, le celle, aiutavano e si prendevano cura dei poveri, e si dedicavano ad attività manuali che rendevano il monastero autosufficiente da ogni punto di vista.
Era dotato di un ampio orto, parte del quale era coperto da una tettoia, in cui si coltivavano prevalentemente patate e legumi. Se o quando il tempo lo permetteva, l’orto poteva ospitare anche vari tipi di verdure, piante di zucca rossa e pomodori. Un angolino, il più vicino all’ospitale, era adibito alla coltura di erbe medicinali. Il giardino dei semplici.
L’ospitale era un edificio a sé stante, attaccato al monastero da una massiccia parete di pietra, e composto di due piani. L’ingresso si raggiungeva tramite una breve scalinata di pietra e una porta conduceva alla sala principale, in cui si trovavano una decina di letti, dotati ciascuno di una coperta di lana grezza e una di cotone, anch’esso grezzo. Accanto alla maggior parte dei letti c’era una sedia. In fondo alla sala, una scala di pietra con una ringhiera di legno, conduceva al piano superiore, l’alloggio del frate infermiere, che custodiva il materiale medico e selezionava le erbe medicinali.
A prendersi cura degli ammalati, dei ragazzi e degli ospiti più indigenti del monastero era il frate cellerario, che aveva anche la funzione di servire al refettorio.
I pasti venivano consumati in una grande sala, dotata di un tavolo a “U”, al centro del quale sedeva il priore, Fra Liberto. I pasti erano tre ed era regola del monastero che non si consumasse carne di nessun genere. Si faceva sostanzialmente uso di cereali, pane, verdura, uova, latte e formaggi, questi ultimi spesso dono dei contadini che ricevevano aiuto e cure dai frati nei momenti più critici.
Gli edifici che componevano il monastero, nel complesso, erano tre: il principale (dove i monaci abitavano e assolvevano i loro uffici), l’ospitale ed una piccola stalla, che non era visibile dall’esterno perché situata ad un livello ribassato, accanto alla cantina. Della pulizia della stalla, se ne occupava Frate Peter, mentre della cantina, dove si immagazzinavano i cibi essiccati e le conserve, due frati che lavoravano anche alla manutenzione del monastero.
Ogni frate aveva a disposizione una cella, dotata di un letto, uno scrittoio e il materiale per la pulizia personale. L’arredamento era austero e tale doveva rimanere, per via della condotta di vita monastica. Ci si alzava all’alba per la preghiera del mattino e più tardi, dopo l'adempimento dei primi doveri, si consumava il primo pasto. La giornata trascorreva tra impegni più o meno faticosi e pasti caldi a base di zuppe, pane al farro e accompagnamenti di vario genere. Poi, dopo la preghiera e i canti della sera, ci si andava a coricare e tutto ricominciava come il giorno prima.
Sin dal primo giorno di permanenza, il conte fu invitato a seguire anche lui questo ritmo giornaliero. Fu svegliato poco dopo il canto del gallo dal frate Willaum, il portinaio, ed esortato ad indossare un saio di lana marrone, in accordo alle ideologie della congregazione.
- Fino a quando non uscirete di qui, fratello, siete tenuto a rispettare tutte le nostre regole, anche da laico – disse quando Langley protestò - Naturalmente siete esentato dal coro e dalle funzioni religiose, ma in quanto a doveri, che qui si chiamano “uffici”, non vi distinguerete da nessuno.
Frate Willaum porse il saio al conte, che lo afferrò meccanicamente e se lo girò fra le mani. Il frate gli diede il tempo di vestirsi e lavarsi il viso. Quando uscì nel corridoio, il signor Langley non era affatto di buon umore, ma non volle darlo a vedere. Mentre avanzavano, frate Willaum disse che dopo il primo pasto gli avrebbe dato il tempo di salutare l’agente che lo aveva accompagnato e che ripartiva alla volta di Waterford.
- I vostri uffici, in quanto ospite a tempo indefinito, riguarderanno il refettorio e la cura degli ammalati. In refettorio servirete i pasti a tutti i fratelli, avendo cura di fare eque porzioni e avere pazienza con chi avrà qualcosa da ridire sul cibo … eventualità difficilmente realizzabile, in quanto sappiamo bene che il cibo è un dono di dio e non va disprezzato. Per quanto, invece, attiene alla sfera degli ammalati, sarà Gherogh, il frate infermiere, a chiarirvi ogni dubbio. In parole povere, fratello, siete colui che in un monastero si chiama “frate cellerario”.

Serviva il pasto la mattina, a mezzogiorno e alla sera. Nel tempo che intercorreva andava su e giù per il monastero, badando a non farsi trovare da frate Willaum, o, nella migliore delle ipotesi, stava in ospitale con frate Gherogh. Nessuno parlava. Come capì in seguito, il silenzio era di regola solo nel chiostro, che era il luogo che frequentava di più, però, fuori da esso non era facile trovare qualcuno con cui fare conversazione. Alla tenuta non era abituato a parlare per tutto il giorno, ma aveva la possibilità di farlo con chi voleva e quando voleva. Non c’era bisogno di pregare alcuno per ottenere una risposta ad una domanda.
Al monastero, invece, passava gran parte del suo tempo parlando con sé stesso. I primi giorni non ebbe la possibilità né la voglia di uscire, perché piovve a dirotto, senza smettere mai. Ciononostante non poteva entrare nella sua cella senza essere visto. Ci volle poco perché non andasse in escandescenza. Sin dal primo istante che aveva messo piede in quel monastero, aveva pensato che avrebbe avuto tutto il tempo per scrivere ad Anya e all’ispettore; la prima mattina, però, fu svegliato da frate Willaum e i successivi giorni il tempo non era stato sufficiente neppure a lavarsi il viso. Pensò così di ritagliarsi uno spazio la sera, quando i frati si riunivano per il coro.
Erano già passati tre giorni. Sedette al tavolo della cella, preparò dei fogli e intinse il pennino nell’inchiostro.
Allora …
“Egregio Ispettore Hurlstone, mi sento un prigioniero” scrisse. E appallottolò il foglio. Nel successivo, cambiando introduzione, riscrisse la stessa frase: “Mi sento un prigioniero”.
Al quinto tentativo cominciò ad odiare la sua grafia e cambiò destinatario. Il coro cessò di cantare.
Qualche minuto più tardi in corridoio risuonarono i passi felpati dei frati che tornavano alle proprie celle. Langley avvicinò la candela al foglio per farsi più luce e fissò la carta giallastra che l’agente Copperland aveva sostituito ai suoi fogli intestati. “Mia carissima Anya …” iniziò. Quel nome ebbe il potere di farlo sorridere.

Quando finì di scrivere gli doleva il polso e il monastero era immerso nel silenzio. Sigillò con la ceralacca la lettera per Anya e la mise nella busta con la lettera per l’ispettore. Poi si distese sul letto, con il saio addosso, e si mise a fissare il soffitto.
Non provava niente; non era neppure stanco. Estrasse l’orologio dalla tasca della giacca, poggiata sulla spalliera della sedia, e si accorse di aver scritto per più di un’ora e mezza.
Si stropicciò gli occhi con le dita e slacciò la cintura di corda del saio. L’aveva fatto passare attraverso il capo, quando qualcuno bussò alla porta.
- Chi è?
- Fratello cellerario, sono Gherogh. Ho bisogno del vostro aiuto.
Langley si rivestì ed aprì la porta. Frate Gherogh reggeva una lanterna con la mano sinistra, mentre con la destra teneva chiuso il cappuccio del saio. Portava sul viso i segni di un sonno interrotto e guardò il signor Langley con l’atteggiamento premuroso che gli era tipico.
- Cosa è successo? – disse il conte legando la cintura di corda intorno alla vita.
- Hanno portato un ragazzo, in infermeria … è stato attaccato da un cane selvatico ed è ferito alle braccia e ad una gamba.
Langley fece una smorfia di dolore, mentre si richiudeva la porta alle spalle.
- Avete esperienza con ferite del genere, fratello? – disse Gherogh incamminandosi impazientemente per il corridoio, La luce della lanterna era così fioca che bastava appena ad illuminare gli angoli del corridoio.
- S-sì … mi è capitato, un paio di volte …
- Perfetto, perfetto … - borbottò frate Gherogh, imboccando le scale.
In fretta percorsero il tratto di strada che collegava il monastero all’ospitale. Pioveva a dirotto.
- Ecco, fratello. Il giovane di cui parlo è in quella branda laggiù. Ho sistemato una scodella di acqua calda con cui lavare le ferite … cominciate pure, io arriverò fra poco con un impacco …
Frate Gherogh passò la lanterna al conte, che fissava la sala avvolta nell’oscurità. Quando rimase solo, spostò l’attenzione ai lamenti che provenivano dall’ultimo letto e attraversò a passo svelto l’infermeria. Dovette avvicinarsi di molto per poter vedere chiaramente il ragazzo steso sulla branda. Era magro, vestito con una giacca ed un pantalone di lana logora, e aveva la testa piena di riccioli scuri. Dai lineamenti del viso dedusse che doveva avere meno di quattordici anni. Tra sé maledisse la debole luce della lanterna e tentò di poggiarla quanto più vicino possibile per controllare le ferite del giovane.
- Come ti chiami? – chiese cercando la scodella di acqua calda con gli occhi.
- Chi siete?
Langley trovò la scodella su un ripiano accanto alla scala. Frate Gherogh vi aveva già immerso una pezzuola. – Il mio nome è Paride – disse sedendosi.
- Il mio è Bernard … - mormorò, per lamentarsi quando il signor Langley posò la pezzuola sulle ferite dell’avambraccio.
- Come ti sei procurato queste lesioni, Bernard?
Il ragazzino allungò la mano, piagnucolando, per bloccare il conte quando riavvicinò la pezza al braccio.
- Sta’ buono … - disse tenendolo fermo per il polso ferito.
- Stavo camminando nel bosco … e all’improvviso un cane selvatico è sbucato dal nulla … ah! Ve ne prego, fa male!
Il conte intinse nuovamente la pezza nell’acqua calda e la passò con cura su tutto l’avambraccio. Il ragazzo si agitò, soffocando un urlo.
- Che diamine ci facevi nel bosco?
- Stavo … ah! … stavo andando a prendere l’acqua al pozzo … mi avevano mandato i miei …
Langley si accigliò. – I tuoi non sanno che è pericoloso?
- Mio fratello ne aveva bisogno …
- Hai un fratello piccolo?
- Sì.
Il conte sospirò e lanciò un’occhiata all’altro braccio, ferito solo all’altezza del polso. Asciugò il braccio pulito e lo avvolse temporaneamente con una benda asciutta. Poi si guardò dietro, verso la scala, sperando che frate Gherogh lo raggiungesse.
- Facciamo un patto, Bernard. La prossima volta che avrete bisogno di acqua, di sera, la verrai a chiedere direttamente qui, al monastero. Non ti avventurerai più nel bosco, da solo. D’accordo?
Appena il giovane annuì, Langley prese a pulirgli il braccio sinistro. D’un tratto, alla vista di una scia di saliva intorno alla ferita, probabilmente quella del cane selvatico, gli venne in mente un particolare importante.
- Bernard, quando il cane ti ha attaccato, ha emesso un latrato acuto? Un lamento strascicato, spaventoso … ?
Il ragazzo lo guardò brevemente, poi abbassò gli occhi sui movimenti del signor Langley, che continuava a strizzare la pezzuola sui tagli. – No … perché?
Il conte emise un sospiro di sollievo. Per un attimo aveva creduto che il cane fosse rabbioso e avesse contagiato il giovane. Aprì la bocca per rispondere, ma giunse frate Gherogh con il suo impacco di erbe ed una tazza fumante su un vassoio.
- Frate cellerario, fareste meglio a cambiare quell’acqua – disse sedendosi accanto al giovane e scoprendo con dei rapidi movimenti il braccio destro del ragazzo. Langley seguì il suo consiglio e si allontanò. Al ritorno si accorse che frate Gherogh aveva difficoltà a far stare fermo il ragazzo.
- Idiota! Mi fai male! – gli gridò contro il ferito.
Frate Gherogh spalancò la bocca per la sorpresa. – Giovanotto, quello che hai appena detto …
- Frate Gherogh – lo chiamò il conte. L’uomo lo raggiunse – Al ragazzo ci penso io. Voi andate pure a riposarvi.
- Siete sicuro, fratello?
Langley annuì; poi, mentre il frate si allontanava su per le scale, si riavvicinò al ragazzo.
- Mi auguro che tu non voglia ripetere quell’orrenda offesa anche nei miei confronti. Dopotutto frate Gherogh cercava di aiutarti.
Il giovane gemeva per il bruciore che l’impacco gli provocava.
- Adesso l’impacco lo applico io, ma bada a non muoverti e a non essere scortese. Mi costringeresti a legarti e imbavagliarti … e sarebbe peggio, non trovi? … Bernard parlo con te.
Il ragazzino assentì. Langley non aveva mai applicato un impacco, men che meno badato ad un giovanotto come Bernard. Farlo, però, non solo gli riuscì naturale, ma gli piacque. Alla fine gli somministrò la tisana di frate Gherogh, bendò braccia e gamba, e attese che si addormentasse. Allora tornò nella sua cella, ma rinunciò a coricarsi perché l’orologio conservato nella tasca della giacca gli disse che a momenti una nuova, faticosa giornata stava per avere inizio.


Margareth viveva in un villaggio a sud est della città, Grantstown, insieme alla madre e alla famiglia di uno dei fratelli minori. In totale erano sette: Margareth, la signora Wright, James Wright, sua moglie Ginevra e i suoi due figli, Marshall e Frederick. La signora Wright era un’anziana donna dai modi gentili, piegata dall’età e ricca di storie da raccontare, anche se trascorreva tutto il tempo a ricamare. Aveva tutti i capelli bianchi, il fisico minuto e gli occhi grandi e azzurri come quelli della figlia; il fratello minore di Margareth, James, pareva avesse ereditato il suo aspetto dal padre, perché aveva i capelli scuri e i lineamenti del viso marcati. Lavorava sempre, dall’alba al tramonto, e non lo si vedeva quasi mai. Con la famiglia era molto affettuoso, tendeva a viziare i figli, e nel fine settimana portava a casa sempre qualcosa di prelibato. Non era affabile con gli estranei. Era parecchio indifferente ed era difficile che facesse amicizia con qualcuno. Diversamente non si poteva dire di Ginevra, la moglie. Era alta quanto Mrs. Wright, pallidissima, magra e con i capelli e le sopracciglia color carota. Aveva gli occhi chiari e incavati e un’aria malaticcia, che, a torto, faceva pensare che fosse dotata di una salute cagionevole. I suoi due figli, Marshall e Frederick, erano gemelli, ma non si somigliavano quasi per niente. Avevano sei anni e mezzo, erano sempre insieme e allorché uno si ammalava, l’altro non perdeva tempo a far lo stesso.
Quando Margareth presentò Anya alla famiglia, la giovane nutriva dei grossi dubbi riguardo le piccoli dimensioni della casa ed il numero di persone che vi abitavano. Si domandò immediatamente, ad esempio, dove avrebbe dormito, dal momento che lei, Margareth e Hunt arrivarono di sera. Fino ad allora l’unico ambiente che aveva visitato era stata la cucina, tanto grande da farci entrate un lungo tavolo, due file di posti a sedere ed un camino in cui si cuocevano le vivande. Dopo cena, però, ogni perplessità fu fugata. Anya avrebbe dormito con Marshall e Frederick, in una piccola stanza con due letti.
- Voi due – disse Margareth ai bambini – dormite insieme, intesi?
Marshall e Frederick non parvero per niente entusiasti. Anya poggiò la sua sacca ai piedi del suo letto e si girò verso la donna. “Buonanotte” disse il mezzo sorriso di Margareth. Anya la ricambiò e si cambiò in fretta, prima di coricarsi. Le coperte profumavano di infanzia. L’ultima cosa che vide prima di addormentarsi furono i due gemelli nel letto di fronte.
L’indomani mattina, dopo una colazione a base di mele e pane alle noci, Anya si chiese cosa avrebbe dovuto aspettarsi da quel momento in poi. Trascorse la maggior parte del tempo da sola; Marshall e Frederick dormirono fino a metà mattina, Mrs. Wright si mise a ricamare una tovaglietta davanti al camino e Ginevra uscì per lavorare. Altrettanto, a quanto pareva, aveva fatto Margareth.
Anya stava controllando un minestrone in camino, quando Margareth entrò e le buttò davanti un sacco pieno di quelle che sembravano stoffe.
- Cos’è?
- Il tuo nuovo lavoro – disse Margareth versandosi dell’acqua.
Anya aprì il sacco e tirò un lembo di tessuto. Era una sottana biancastra, sporca. – Santo cielo … ma cosa devo farci?
- La devi lavare, insieme a tutto il resto, per conto di una signora che non può abbassarsi a causa di un forte mal di schiena. Ci sono anche dai calzini da rammendare. Se lavorerai bene ti pagherà con tre penny.
Anya teneva la giacca per una manica. – Tre penny?
Era più della sua paga giornaliera alla tenuta.
- Inutile che sorridi – riprese Margareth. – Non capita tutte le volte di essere così fortunati. Il più delle volte sono disposti ad offrirti meno di un halfpenny. Quindi, sii parsimoniosa e mettiti a lavorare.
Cominciò dopo pranzo. La prima fase prevedeva che il bucato fosse messo a bagno in acqua per alcune ore, così da ammorbidire lo sporco; poi che venisse insaponata e lavata una prima volta. Per far questo Anya rimase in piedi fino a tarda sera. L’indomani mattina si alzò presto per raccogliere la cenere dal camino e lavare una seconda volta la biancheria con la liscivia, ottenuta aggiungendo l’acqua alla cenere. Mrs. Wright le mise a disposizione lo stanzino dove Ginevra faceva il bucato per la famiglia. Lì Anya poté versare a più riprese la liscivia nel paiolo del bucato, utilizzando un panno a trama larga come filtro. A quel punto lavò un’ultima volta la biancheria.
Era sera quando prese a batterla sull’asse di legno.
Era notte quando si accorse di aver finalmente finito. Ammucchiò la biancheria in un cesto e spense la candela prima di uscire dalla stanza.

- Anya, ce lo insegni? Anya … Anya! Dai, ti prego!
Stava rammendando una calza, davanti al camino. Sulla grata si stavano asciugando tutte le altre. Dopo la biancheria della vicina, numerose erano state le occasioni di darsi da fare. Aveva ricevuto l’ordine di lavare una giacca, rammendare l’orlo di un cappotto e lavare orde di calzini di lana.
Era quasi ora di pranzo e Marshall e Frederick le trottavano dietro da ore. Per farli star buoni aveva mostrato loro come mettere in equilibrio una bacchetta sulla fronte, ma dopo due minuti di tentativi i bambini erano tornati alla carica.
- Anya, dai … facci vedere!
- D’accordo! – sbottò afferrando la bacchetta che Frederick le tendeva. La mise così sulla fronte, poco sopra la linea delle sopracciglia e, immobile, lanciò uno sguardo ai gemelli che ridevano. Fece, poi, ricadere la bacchetta nella mano e la mise sulla fronte di Marshall.
- Da bravo, provaci tu, adesso … - disse. In quel momento rientrò Ginevra, che, nel vedere i suoi figli incrociare gli occhi per tenere d’occhio la bacchetta in equilibrio precario, si espresse in una smorfia di disapprovazione.
- Ma che razza di passatempi sono questi? – sbottò prendendo le bacchette.
- Ce l’ha insegnato Anya!
Ci fu un istante in cui la giovane avrebbe voluto non essere nominata. Ginevra la guardò male.
- Anya …
- Salve, Ginevra – sorrise.
La donna si diresse verso Mrs. Wright, china su un ricamo. Lanciò un’occhiata al lavoro e poi, senza alcun apparente motivo, annuì. Poco più tardi rientrarono anche James e Margareth, la quale, dopo pranzo, prese Anya da parte e le consegnò una lettera sigillata con la ceralacca.
- Me l’hanno data mentre camminavo per il mercato.
Anya trattenne il fiato.
- Non è da parte del signor Langley – riprese Margareth con un’enfasi tendenzialmente nostalgica. – È stato un giovanotto con i capelli rossi a consegnarmela …
La ragazza prese la lettera, accigliandosi. – Un giovanotto con i capelli rossi? – borbottò, per poi rendersi improvvisamente conto di chi fosse il mittente. Conservò la lettera nella tasca del grembiule. – La leggerò dopo. Grazie, Margareth.
Dovette attendere che Frederick e Marshall si appisolassero, nel pomeriggio, per leggere in pace. Fino all’ultimo alimentò la vana speranza che poteva essersi sbagliata nel pensare che non fosse il signor Langley, ma ciò servì solo ad accrescere la delusione. La grafia parlava chiaro: era il signor Drebber. La sensazione di leggere una lettera del conte la accompagnò fino a quando gli occhi non scorsero l’ultimo rigo e la firma. Purtroppo essa portava il nome di Aaron Duke Drebber.
Gli dispiaceva, scriveva lui, che il conte doveva essersi allontanato così all’improvviso. Gli dispiaceva che sua zia stesse male (come da pettegolezzo del signor Hobson) e che non si avesse una certezza riguardo il giorno in cui il signor Langley sarebbe tornato. Gli dispiaceva anche che tutte quelle persone, la servitù, si fossero ritrovati senza lavoro dall’oggi al domani. Era quanto mani costernato che anche Anya avesse dovuto fare i bagagli e trasferirsi ben oltre la città, dove la speranza di trovare un lavoro era decisamente minore che in campagna. Scrisse, infatti, che all’inizio della settimana suo fratello era andato a trovarlo a Westok con la famiglia. Albert Drebber abitava a Cork, ma le sue finanze erano tali da permettergli di lasciare il suo mestiere di antiquario anche per due stagioni filate. Aaron Drebber scriveva che non era chiaro quanto tempo avrebbe potuto godere della presenza sua e della “deliziosa famigliola” che lo seguiva, e pertanto era necessario trovare un istitutore per il figlio, tale Brandon.
“Intelligente e di indole amabile” furono le parole con le quali lo descrisse a metà lettera. Brandon era un bambino di otto anni, dedito alla cultura e al suo violino. Insegnargli qualcosa era da sempre stata un’impresa tutt’altro che complicata e avrebbe avuto ben pochi ed affezionati istitutori se non fosse stato per i continui spostamenti del padre.
Quella che il signor Drebber chiamava “un’inattesa ma gradevole coincidenza” giungeva ad Anya come sì una notizia piacevole, ma rappresentava pure un problema da risolvere in fretta. Brandon non aveva un istitutore, la stagione dello studio per lui era quasi cominciata, ed Anya era una ragazza colta e dai modi “di cui difficilmente ci si dimentica”. Una ragazza nubile e senza impiego.
Alla fine della lettera intuiva già le intenzioni del signor Drebber (che aveva avuto cura di non renderle troppo evidenti) e sapeva a quanto ammontava la paga annuale media di un istitutore: poco più di quaranta sterline, vitto, alloggio e qualche gradino in più nella piramide sociale.
Quella del signor Drebber era un’offerta più che allettante. Divenire istitutrice di suo nipote e ricevere un compenso di quasi quattro volte superiore al suo. Però c’era un problema. Lei un lavoro l’aveva già e il compenso che aveva ricevuto dopo neanche un anno di lavoro era stato più che gratificante.
Trascorse una notte insonne, girandosi e rigirandosi tra le coperte senza riuscire a trovare una risposta definitiva al suo dilemma. Poi, quando alle prime ore del mattino si era addormentata, Marshall la svegliò perché Frederick aveva fatto la pipì a letto e lui si era bagnato. Si era alzata, l’aveva fatto cambiare e gli aveva concesso il suo letto. Poi aveva pensato anche a Frederick e aveva trascinato il materasso nello stanzino del bucato, anche se non le era chiaro quanto tempo avrebbe impiegato ad asciugarsi dopo il lavaggio.
Era ancora buio e faceva freddo. Agosto era agli albori. Anya entro in cucina e impastò la farina per fare il pane; poi coccolò un po’ Hunt, che non si era mosso dal suo angolino da quando Margareth ce l’aveva fatto sistemare.
Il primo ad alzarsi fu James, che entrò in cucina vestito per andare a lavorare. Anya e lui non avevano parlato molto fino ad allora. Anzi, non avevano parlato affatto. Lei aveva sempre avuto l’impressione che James non sopportasse la sua presenza, né il fatto che Margareth l’avesse sistemata nella stanza dei suoi figli. Le era sembrato di sentirli discutere di questo, una mattina.
Tagliò delle fette di pane nero, mentre lui entrava nella stanza di Marshall e Frederick, riempì una tazza di tè caldo e le mise sul tavolo senza dire una parola. Lui mangiò ed uscì.
I secondi ad alzarsi furono Margareth, Ginevra e Mrs. Wright. Quando Ginevra stava per uscire, Frederick si svegliò piagnucolando. Se ne prese un po’ cura, poi lo affidò a Margareth, che lo passò ad Anya. Canticchiandogli una canzoncina per farlo calmare, seduta davanti al camino con Frederick a cavalcioni sulle gambe, Anya guardava con non poca preoccupazione il cumulo di roba da stirare e rammendare. Di tanto in tanto lanciava un’occhiata anche a Frederick per vedere se si era addormentato, ma quando smetteva di cantare lui ricominciava a piagnucolare.
- Ti prego, Frederick … basta … di nuovo? Ma se l’ho cantata già otto volte! Shh … d’accordo … As I walked out o'er London bridge, one misty morning early, I overheard a fair pretty maid, was lamenting for her Geordie...
Fu solo con una grande dose di pazienza che riuscì a far calmare Frederick. Stanca e preda del sonno e del malumore, trascorse il resto della giornata a lavorare. Lavò, cucì, stirò, preparò da mangiare e cercò di fare stare buoni i gemelli che disturbavano Hunt. “Che ci vuoi fare? Sono bambini!” sembrò dire ad un certo punto lo sguardo del cane mentre Frederick e Marshall gli sollevavano le labbra per studiare la dentatura.

Lo stanzino in cui si faceva il bucato non era granché spazioso, ma se si spostavano le tinozze che ne ingombravano la maggior parte dello spazio, si aveva la possibilità di sistemarne una più grande per la pulizia personale. Era la tinozza più grande che Anya avesse mai visto: larga abbastanza da starci comodamente seduti ed alta tanto quanto bastava a nascondere le gambe fino a metà coscia.
In casa Wright i giorni a settimana destinati al bagno erano due: Giovedì e Domenica. Non c’era un ordine gerarchico per lavarsi, ma solitamente si iniziava con i più piccoli.
Era Giovedì. I primi a lavarsi furono naturalmente Frederick e Marshall, che Margareth non ebbe alcuna difficoltà a gestire, nonostante avessero schizzato tutto il pavimento d’acqua e sapone. Poi venne il turno di Anya, che però stava riparando la stecca di un suo corsetto e aveva deciso di andare per ultima.
Era da poco calata la sera quando la tinozza fu svuotata e riempita per l’ultima volta. Pioveva forte.
Al fragore della pioggia si era aggiunto un venticello freddo che annunciava l’arrivo anticipato di un autunno altrettanto gelido. Spogliandosi, Anya rabbrividì. Una volta entrata nella tinozza, guardò Margareth in viso: era pallida, stanca e forse anche di malumore. Poi abbassò gli occhi e sulla schiena le fu svuotata una brocca di acqua gelida.
- Alla fine hai scoperto di chi era quella lettera?
- Del signor Drebber – sibilò la giovane battendo i denti.
Margareth incominciò a sfregare le spalle con una pezzuola. - E che voleva?
- Mi ha proposto un impiego.
- Di che tipo?
- Istitutrice – sospirò.
Margareth tacque. – Istitutrice? Ha figli?
- No, è per suo nipote.
- Ah …
- Secondo te che devo fare?
- Accettare.
Anya si morse un labbro. Non si aspettava una risposta simile. – Ma io un lavoro l’ho già …
- Fai la sguattera. Per dodici sterline all’anno.
- Sì, lo s …
- Sai quanto prende in media un istitutore?
- Il signor Drebber ha scritto più di quaranta sterline …
- Esatto – disse Margareth con una piccola alzata di sopracciglia. – Proprio per questo dovresti accettare …
- Ma non posso abbandonare il sig … il mio posto alla tenuta …
- Sei sprecata per fare la sguattera … Anya, accetta il mio consiglio. L’istitutrice è il posto che fa per te … - disse svuotando una brocca d’acqua sulla testa della giovane. – Pensaci bene: se resti alla tenuta sarai per sempre una sguattera, mentre accogliendo la proposta del signor Drebber godresti di maggior prestigio, sia qui che nella società …
- Mi stai dicendo che farei meglio a licenziarmi?
Margareth storse brevemente la mandibola. – No, Anya … - sospirò. – Ti prego, non fraintendere. So a cosa stai pensando … ma … il mio è il consiglio di una madre. Hai appena ricevuto un’ottima offerta e non è il caso che la rifiuti. Poi … se proprio hai dei dubbi, chiedi al signor Drebber in persona.
Anya gettò un’occhiata al viso di Margareth e capì che stava dicendo la verità. Purtroppo, però, lei non conosceva a fondo il signor Drebber, quindi non poteva comprenderla appieno.
La giovane aveva la sensazione che in tutta quella faccenda Drebber avesse un doppio fine. Il conte era partito da appena una settimana. Strano che nello stesso periodo suo fratello Albert fosse andato a fargli visita e avesse bisogno di un insegnante per il figlio. Un bambino, tra l’altro, molto dotato in ambito musicale e letterario.
- Allora? – le chiese Margareth mentre la aiutava ad uscire dalla tinozza. – Gli scriverai?
- Devo ancora decidere …
Anche se … c’era la possibilità (seppure minima) che le intenzioni del signor Drebber non fossero del tutto “ignobili”. Forse era rimasto colpito dal vortice di eventi che si era abbattuto sulla vita del signor Langley e compagnia bella … o magari desiderava solo che Anya facesse a Brandon un paio di lezioni al giorno. In quel caso lei poteva permettersi pure l’impiego alla tenuta.
Uscì dalla camera del bucato in preda allo sconforto e si accoccolò davanti al camino, pettinando i capelli per farli asciugare. Vicino a lei, seduta su una sedia, c’era Mrs. Wright. Lasciò che dei capelli se ne prendesse cura lei, quando, carta e pennino alla mano, decise di scrivere al signor Drebber.

 

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Capitolo 51
*** Capitolo XLIX ***


An irish tale - Capitolo XLIX



Il cancello di Westok si stagliava, ferroso ed immobile. Anya ne seguiva il profilo, chiedendosi se varcare quel confine o no.
Era con dubbiosità e un pizzico di timore che, dopo lunga indecisione, aveva spedito la risposta al signor Drebber. Lui aveva scritto a sua volta, dandole appuntamento al Lunedì successivo per le cinque del pomeriggio, ora del tè.
Ad aprire la porta di casa fu il maggiordomo, il quale, dopo averla squadrata a lungo, sospirò – L’istitutrice?
Quella domanda sorprese Anya, che tuttavia rispose di sì.
Ricordava la casa da quando c’era stata per il ballo di Luglio. Bella, elegante e molto simile a quella del conte. Ripercorse la scalinata con la ringhiera in legno di noce e appuntò lo sguardo talvolta sui bei quadri, talvolta sulle pareti legnose dei corridoi. La dolce nenia di un violino risuonava fra le pareti, diventando sempre più netta man mano che si avvicinavano al salotto. Quando il maggiordomo entrò, essa si interruppe bruscamente. Anya attese qualche istante fuori dalla porta.
- Miss Bacott, signore.
- Falla entrare, Robert.
L’uomo le fece segno di accomodarsi. C’era una bella atmosfera, calda e accogliente, ma le fu subito chiaro che mancava qualcosa. Il signor Drebber sedeva sul divano e di fronte a lui un bambino con i capelli scuri e l’espressione assorta allontanò il violino dalla spalla e chinò il capo in segno di saluto.
- Signorina Anya – proruppe il signor Drebber con educato entusiasmo – volete sedere con noi? Lui è mio nipote, Brandon Drebber. Come vi ho scritto, è un eccellente violinista. Brandon – continuò, rivolto al bambino – lei è Miss Anya Bacott.
Brandon chinò nuovamente il capo e Anya ricambiò, sorridendo.
- Brandon stava giusto facendomi mostra del suo talento …
Il signor Drebber indicò il leggio accanto al divano. Reggeva uno spartito, ma la giovane non riuscì a leggere il nome del brano. Fu invitata a sedere, mentre il signor Drebber ordinava al maggiordomo di portare del tè.
- Perdonate la mia momentanea distrazione, Miss Bacott. Voi gradite il tè?
- Sì, signore.
- Ne sono lieto – sorrise.
Brandon prese a sfogliare lo spartito.
- Come vi ho scritto, sono alquanto dispiaciuto per Miss Langley. Il signor Hobson mi ha detto che è stata improvvisamente male …
- Sì – annuì Anya, mimando un’espressione dispiaciuta.
- Si sa cosa le è successo?
- Oh … no. Il signor conte è … partito non appena è stato raggiunto dalla notizia. Non c’è stato alcun modo di … parlarne.
- Mi dispiace. In questi casi è sempre mia consuetudine fare in modo che il malato riceva i miei auguri di pronta guarigione, ma … non conoscendo la signora …
Anya assentì prontamente, con le sopracciglia sollevate. Poi ci fu un istante di silenzio. Drebber fece avvicinare Brandon.
- Sembrate molto affezionato a lui … - disse Anya. Il signor Drebber guardò con affetto il nipote.
- È qui da poco meno di una settimana e già l’idea di separarmene mi sembra la peggiore del mondo.
Anya sorrise.
- Ma ecco che arriva il tè … - riprese il signor Drebber in riferimento alla cameriera che poggiò il vassoio sul tavolino di fronte a loro. C’erano tre tazze, la teiera e un vassoio coperto. Quando la cameriera sollevò il coperchio, Anya inarcò le sopracciglia: muffin al cioccolato e cannella e una serie di altri pasticcini che parevano contenere gli stessi ingredienti.
- Come vedete, non ho dimenticato i vostri gusti.
Anche Brandon sembrava sorpreso dalla novità. Sul volto gli si dipinse un sorriso radioso e guardò interrogativamente il signor Drebber e il violino, chiedendosi se dovesse metterlo da parte.
- Posso? – domandò indicando un dolcetto.
Drebber sorrise. – Ricorda, Brandon: prima le donne.
Il bambino incominciò a grattarsi i polpastrelli. Anya avrebbe voluto dire qualcosa, ma preferì prendere un muffin e sorridere. Drebber si allungò verso il tavolino e versò il tè in tutte e tre le tazze. Con la coda dell’occhio, Anya vide pure il braccio di Brandon allungarsi verso il vassoio.
- Vi ringrazio, signor Drebber – mormorò, rigirandosi il muffin fra le mani.
- Zucchero?
Anya levò gli occhi sull’uomo.
- Zucchero? – ripeté Drebber.
La ragazza annuì. Brandon le si sedette accanto, addentando con avidità una pasta ripiena. Probabilmente non era abituato a merende del genere. Forse, per evitare che gli venisse mal di pancia, i suoi genitori non gliene compravano …
All’improvviso, Anya si accigliò e capì cosa mancava nel salotto.
- Signor Drebber …
- Sì?
- Non ho visto … vostro fratello … i genitori di Brandon. Sono usciti, forse?
Il signor Drebber diede l’impressione di non aspettarsi affatto una domanda del genere. Era ancora chino sul vassoio del tè, quando abbandonò il cucchiaino dello zucchero nella zuccheriera e riprese posto sul divano di fronte ad Anya.
- Mio fratello era molto impegnato, oggi … come sapete, è un antiquario e … sia lui che mia cognata sono stati invitati a cena da alcuni amici di famiglia.
Brandon prese un’altra pasta. Anya non aveva ancora addentato il suo muffin.
- E la signorina Imogen, vostra cugina?
- Oh … lei è tornata a Cork a metà del mese scorso.
Anya assentì, senza sorridere. – Fatele avere i miei saluti.
- Con piacere.
Lei volse lo sguardo al muffin. Poi mise a fuoco un curioso particolare del tappeto sotto i suoi piedi e notò una certa somiglianza con quello della camera del conte. Il suo ricordo la fece sentire d’un tratto fuori posto e fu tentata di rimettere il muffin nel vassoio.
- Brandon, perché non vai a prendere quei meravigliosi brani con i quali ci hai deliziati ieri sera?
Il bambino stava per prendere un cioccolatino, annuendo sbrigativamente, quando Drebber lo richiamò – Brandon?
- Non ho potuto fare a meno di notare la vostra distrazione, signorina – disse quando il bambino uscì. Anya posò il muffin.
- Se non gradite il tè possiamo parlare del vostro impiego …
- L’offerta che mi avete fatto.
Il signor Drebber annuì. – Proprio così. Rientrava nei miei progetti da quando siete venuta al ballo, assumervi come istitutrice per Brandon … onestamente, quando vi vidi per la prima volta non vi credevo così istruita. Poi ebbi modo di parlare con il dottor Bowles e scoprì che voi l’assisteste quando operò il signor Langley. Rimasi quanto mai esterrefatto. Ci vuole qualcosa in più del sangue freddo …
Anya chinò brevemente lo sguardo. – Brandon è un bambino intelligente. Mi chiedo in quali discipline abbia delle deficienze.
- B-Brandon?
- Voglio sapere in quali materie ha bisogno di essere maggiormente supportato.
Ci mise qualche istante, Drebber, a capire dove Anya stesse andando a parare.
- A-accettate la m-mia offerta? – mormorò allibito.
Anya desiderò non aver mai parlato. Trasse un sospiro e tornò a guardare il suo interlocutore negli occhi. – Potete ben capire, signor Drebber, che nella condizione in cui sono non assicuro una lunga duratura del mio impiego. Il conte Langley potrebbe tornare da un momento all’altro … quando rimetterà piede alla tenuta io e il resto della servitù saremo richiamati a lavorare per lui …
- Ma come serva. Qui sareste un’istitutrice.
Anya tacque.
- Facciamo così: vi offro la possibilità di lavorare qui fino al ritorno del signor Langley, con una paga settimanale. Allorché il conte rimetterà piede nella tenuta, voi deciderete se rimanere qui o meno.
La ragazza ci pensò su. Le sembrava ragionevole. Accettò.
- Brandon sarà entusiasta!
- Posso immaginare …
Il signor Drebber fece un gran sorriso. Era chiaro che quello entusiasta non era il bambino.
Anya non riuscì a guardarlo un attimo di più. Chinò gli occhi sulla gonna e spolverò via le briciole di muffin.
- E … perdonate l’impertinenza, ma … un posto dove dormire l’avete già?
- Certo che sì – sbottò educatamente Anya.
- Ed è lontano da qui?
Le sopracciglia della giovane stavano per piegarsi verso il basso. – Quanto basta per permettermi di arrivare sempre in orario … qualunque esso sia.
- Io sono portato a credere – disse il signor Drebber dopo aver assentito – che le prime ore del giorno sono le più adatte per l’apprendimento.
- Ne convengo.
- Ebbene … mi chiedevo se per voi questo rappresentasse un problema …
- Affatto, signor Drebber.
- Riuscireste ad essere qui alle otto, per esempio?
Dentro di sé, Anya rise con sarcasmo. Ecco dove stava il trucchetto. Evidentemente il signor Drebber conosceva questo suo punto debole. Lei era una giovane donna e non avrebbe potuto prendere una carrozza a quell’ora del mattino senza dare origine a delle chiacchiere malevole. Come non avrebbe potuto nelle ore più buie del pomeriggio, quando prevedeva che il signor Drebber l’avrebbe lasciata tornare a casa. E poi, alle otto del mattino, Brandon sicuramente dormiva ancora. L’aveva osservato: non era l’incarnazione della pigrizia, ma di certo non era neppure il tipo da svegliarsi presto.
Il signor Drebber la stava mettendo alla prova.
- Sì, signor Drebber. Non ho alcun tipo di problema – sorrise.
Prima di ricambiarla, l’uomo serrò le labbra. – Perfetto … perfetto. Allora cominciate domani?
- Va bene.
Poco dopo, Brandon tornò con i suoi spartiti e si esibì con alcuni brani di Vivaldi.
Erano le più belle melodie che avesse mai ascoltato e Brandon le suonava con grande maestria. Quando finì era tardi e tornò a casa con una strana sensazione nel petto. Margareth l’accolse con un’espressione carica di aspettative, ma l’unica cosa che Anya fece fu gettarsi fra le sue braccia e scoppiare a piangere.



Tipperary, pressi di Templemore.

Erano le nove di sera.
E il coro cantava.
In un’anonima cella di un corridoio di pesante pietra calcarea, un uomo di ventisette anni aveva escogitato un sistema per non udire neppure una nota dei canti religiosi. Funzionava alla perfezione. Il sistema era molto semplice: con della cera aveva modellato dei tappi per le orecchie, poi si era legato un cuscino intorno alla testa, utilizzando la cintura in corda del suo saio.
Per scoprirlo aveva impiegato qualche giorno. Dapprima si era servito unicamente del cuscino e della cintura del saio; poi, vedendo che non bastava a coprire tutti i suoni, aveva aggiunto i tappi in cera. Il risultato era stato sbalorditivo: non sentiva un accidenti.
Naturalmente, quando il coro finiva (ma anche prima) lui era immerso nel miglior sonno. E a voglia di bussare alla porta …
Ciononostante non era comodo. I tappi di cera non davano nessun fastidio, ma il cuscino sì. Quando la notte cambiava posizione, Langley si svegliava sempre per sistemare il cuscino intorno alla testa, perché scivolava e gli finiva sulla faccia.
La mattina si alzava sempre pieno di dolori. I muscoli della schiena e delle spalle bruciavano, le braccia e il collo erano intorpiditi. Per riprendere possesso delle sue facoltà motorie impiegava sempre più tempo.
- State male, fratello? – gli chiese frate Gherogh, quando una mattina si presentò in infermeria.
Non attese neanche la risposta. Corse nel suo laboratorio e gli portò una tazza di caffè amaro.
- Lo chiamavano “la bevanda del diavolo”, un tempo, e invece … torna spesso utile.
Langley lo bevve a naso chiuso, anche se dopo l’amaro gli invase ogni angolo della bocca.
- Ma che razza di porcheria …
- Starete meglio.
Gherogh lo fece distendere su una branda. Era di gran lunga più comoda di quella della sua cella e si sarebbe addormentato se non fosse stato per il caffè.
Mezz’ora più tardi Langley servì il pasto al refettorio e fece colazione con pane nero e formaggio di capra. Poi tornò in infermeria, dove frate Gherogh cercava di spiegare qualcosa a Bernard, il ragazzo che era stato attaccato da un cane selvatico e che dormiva da un paio di giorni sull’ultima branda della sala.
- Giovanotto, ti prego, è necessario che …
- Vi ho detto di andare via!
- Bernard, forza …
- Mi fate male! Via, ho detto!
Langley li raggiunse.
- Frate cellerario … finalmente – sbuffò Gherogh, prendendolo da parte – quel ragazzo è impossibile. Impossibile – scandì – Ho tentato di lavarlo, ma non ne vuole sapere di farsi toccare. Davvero, ci ho messo tutta la mia buona volontà … voi avete idea di cosa si faccia in questi casi?
Il conte sollevò le spalle.
- Siamo in un bel guaio, allora … quel ragazzo ha bisogno di essere lavato. Vi va di farlo voi?
Langley gettò un’occhiata a Bernard, visibilmente infastidito dai sussurri di frate Gherogh. Quella era la prima volta che gli si proponeva una cosa del genere. Come si lavava un ragazzino?
- L’altro giorno siete riuscito a calmarlo … - lo incoraggiò Gherogh.
Langley annuì di controvoglia. – D’accordo, dov’è l’acqua?
- L’occorrente è qui – spiegò Gherogh tutto contento. – Un panno, una scodella d’acqua e il sapone.
Bernard guardò il conte con un atteggiamento ostile.
- Bene, frate cellerario. Io torno di sopra. Per ogni evenienza, chiamatemi.
Quando furono soli, Langley ignorò tutte le occhiatacce di Bernard. Si sedette senza dire una parola accanto al suo letto e posò la scodella sul tavolino accanto al capezzale.
- Ce la fai a togliere la maglia?
- Ve lo potete scordare che mi faccio lavare da voi! – ringhiò il ragazzino.
- Ti ho fatto una domanda.
Bernard lo guardò. – Non ce la faccio e non ne ho voglia.
- Ti aiuto io?
- No!
- E allora spogliati.
- Ho detto no!
Langley immerse il panno nell’acqua e prese il sapone. – Non ho voglia di ripetertelo, Bernard. Togliti la maglia e fatti lavare.
Se possibile, lo sguardo di Bernard si fece ancor più truce.
- Dovrò usare le maniere forti se non ubbidisci – riprese il conte - Ricordi quello che ho detto ieri sera?
Bernard tacque. Langley era sicuro di aver visto un lampo di paura attraversare i suoi occhi castani.
- Non fareste nulla del genere … - mormorò.
Il conte sfiorò la cintura del suo saio. – Tu dici?
Bernard deglutì con rabbia. Langley si lasciò sfuggire un sorriso soddisfatto, quando il ragazzo sedette sul bordo del materasso ed estrasse il braccio sinistro dalla manica.
- Il destro mi fa male – sbottò dopo un momento con lo sguardo basso.
- Lo senti pulsare?
Bernard scosse il capo, sbuffando.
- Fa’ vedere.
Lo aiutò a togliere completamente la maglia e rimosse le bende che fasciavano il braccio. – Non mi sembra ci sia niente di anomalo … ma … forse è meglio se chiamo frate G …
- No!
Langley si accigliò, in cerca di una spiegazione. Bastò, tuttavia, che Bernard lanciasse un’occhiata sospettosa alla scala e ritraesse il braccio dalla sua presa per fargli capire. Aveva paura di lui.
Gli venne in mente una domanda in merito, ma non gliela pose perché lo vide rabbrividire. Lavò il suo torso magro e immaturo, poi le braccia e le gambe intirizzite. Dopo un quarto d’ora il broncio era stato sostituito da un’espressione remissiva e infantile.
In un certo momento quel ragazzino gli ricordò sé stesso alla sua età.
- Dormi, adesso – disse dopo aver pulito anche le ferite. Bernard si coricò, coprendosi fino al mento.
Langley si allontanò con la scodella d’acqua sporca, per buttarla nella terra. Quando fu alla porta sentì un sospiro dietro di sé e si girò. Bernard, messo di spalle, si era rannicchiato tra le coperte.

Lo stesso giorno incominciò a piovere. La spessa coltre di nubi, dalle quali acqua e umidità avevano principio, seppellirono il paesaggio. Per due giornate di fila non ci fu distinzione fra giorno e notte. Tutto era avvolto nell’oscurità del cattivo tempo.
In lontananza, da qualche parte nei campi coltivati, i contadini adottavano gli ultimi accorgimenti per mettere in salvo il raccolto, muovendosi come formichine in ricognizione.
Dopo aver portato a termine la montagna di incarichi che gli spettavano, Langley uscì e vagò lungamente entro i confini del monastero, prima di sedersi su un muretto di pietra dalla quale solitamente si aveva una perfetta visione del paesaggio.
Quel giorno, anche se la temperatura era scesa e c’era più vento, Langley non sentiva freddo. Era coperto dal saio di lana, ma sotto indossava una delle sue camicie, i pantaloni e gli stivali da equitazione, che per tutto il tempo gli diedero la sensazione di stare per uscire a cavallo.
Di tanto in tanto, alle sue spalle, un frate correva da una parte all’altra per mettersi al riparo. Qualcuno gli gridava di entrare, di asciugarsi perché rischiava di prendersi un accidente. E quando ciò accadeva, la reazione del conte era sempre la stessa: si girava, sorrideva e gridava – Io amo la pioggia!
In questo modo, disorientati e confusi, i frati gettavano uno sguardo al cielo (probabilmente pregando Dio perché facesse ragionare quell’uomo) e correvano dentro, chiudendosi dietro la porta con un pesante clangore.
La verità era che non lo capivano. Non potevano capirlo. Perché era innamorato.
Pensava Anya ad ogni ora del giorno, a quanto desiderasse tornare alla tenuta da lei. Faceva migliaia di progetti. Mentre serviva al refettorio l’azienda era il suo dilemma più grande e ragionava con grande scrupolosità su ogni proposta avanzata dal signor Hobson. Poi gli veniva in mente il signor Drebber e si metteva le mani ai capelli, perché non sapeva cosa decidere: permettergli di divenire socio dell’azienda o no?
Sempre più spesso pensava a lui come ad un individuo “pericoloso”. Una mattina, durante la colazione, era seduto nel suo angolino a mangiare una fetta di pane nero cosparsa di burro. Aveva lo sguardo perso nel vuoto, i frati parlavano tra di loro dei loro affari. Ad un certo punto si ricordò delle attenzioni che più di una volta Drebber aveva rivolto ad Anya (a come la guardava durante il ballo, ad esempio, o all’abito blu che le aveva regalato) e saltò su, facendo cadere la sedia. I frati si erano ammutoliti di colpo. Lui però non ci fece caso e uscì, in preda ad un senso di impotenza e rabbia.
Seduto sul muretto, lasciava che l’acqua gli finisse sui capelli, colasse lungo il viso e il naso, si radunasse sulle ciglia e sulla piega delle labbra. Lasciava che bagnasse le mani e ogni fibra di sé.
Anche allora aveva lo sguardo perso nel vuoto, in un paesaggio che non si vedeva.
L’ultimo a chiamarlo fu frate Willaum.
- Io amo la pioggia! – gli gridò contro, prima che la porta si richiudesse rumorosamente.
Nonostante fosse zuppo fino al midollo, non aveva i brividi. Se sentiva freddo pensava alla vita a Waterford e nelle vene sentiva scorrere una calda tisana corroborante.
Tipperary aveva un clima così maledettamente umido …
- Che ci fate qui, da solo?
Langley si voltò di scatto. – Bernard! Torna dentro!
Il ragazzino sorrise, passando la mano sul braccio ferito. – Io amo la pioggia.
- Ah – sbottò Langley con un finto sorriso – Divertente. Forza, entra, prima di ammalarti seriamente …
Ma Bernard non lo ascoltò. Sedette al suo fianco e si guardò attorno. – Le campagne sono più belle viste da qui.
- Sei in vena di battute?
- Adesso capisco perché state seduto qui da ore …
Langley volse gli occhi altrove, grattandosi la fronte con il dorso della manica.
- Ah … comunque no, non vi ho spiato.
- Meglio per te.
- Il fatto è che quell’id … che frate Gherogh – si corresse all’occhiataccia del conte – faceva come un pazzo perché non riesce a trovare il modo di farvi entrare.
- Quindi ti ha mandato lui …
- Credete che l’avrei ascoltato?
Langley si lasciò sfuggire un sorriso, riprendendo a grattarsi la fronte. – No, ma, sai com’è …
Per un po’ lasciarono che la pioggia lavasse le loro teste. Poi Langley si alzò e si incamminò verso la porta del monastero. – Forza, entra! – gridò al ragazzino.
Bernard gli corse dietro, zoppicando per la ferita alla caviglia.
- Ti fa ancora male? – domandò, mentre entravano.
Il ragazzo scosse il capo, osservando, stranito, la struttura di pietra.
- Non eri mai entrato, vero?
Bernard fece ancora di no, assumendo di colpo un’aria colpita e ammaliata. Langley stesso non riuscì a ignorare quel canto. Il coro cantava Miserere mei, Deus e le sue note, pulite e cristalline, echeggiavano nella pietra delle pareti, nei corridoi lunghi e freddi. Il ragazzo fece appena un cenno al conte, facendogli capire che voleva avvicinarsi di più al coro. Langley assentì, una strana sensazione al cuore. Chiuse delicatamente la porta, vergognandosi dell’appena udibile rumore del chiavistello che per un attimo aveva turbato la perfezione del canto e si incamminò dietro a Bernard.
Trovarono un angolino dal quale era possibile vedere i frati cantare, spartiti alla mano. Si trattava di una finestrella scavata nel muro che costeggiava una scala a chiocciola abbastanza ampia. Aveva un largo davanzale ed un vetro pulitissimo. Sicuramente altri, prima di loro, erano stati lì. Sedettero entrambi sul davanzale, rapiti dalla musica.
Si udiva la pioggia cadere e battere contro il vetro di una finestrella in alto, alle loro spalle. Talvolta un tuono lontano. La pioggia aumentava e diminuiva, il vento soffiava imperturbabile. Tuttavia, né Langley, né Bernard furono minimamente disturbati.
I loro volti incantati venivano riflessi dal vetro della finestra aggettante alla cappella.
- Mia madre me la cantava da piccolo – sussurrò d’un tratto Bernard. – È molto triste …
Langley lo guardò.
- Si invoca il perdono di dio. “Abbi pietà di me, Dio, secondo la tua misericordia. Cancella la mia colpa, lavami da essa … cancella il mio peccato” …
- Perché te la cantava, tua madre?
Bernard sollevò le spalle, senza distogliere lo sguardo dal coro. – Beh … è l’unico canto latino che conosce. E poi è così brava …
Langley si girò verso la cappella.
- … ha la voce di un angelo …
Il ragazzo si rannicchiò sul davanzale, contro la parete, e chiuse gli occhi.

Quando l’ultima nota del canto si fu dissolta tra i muri della cappella, calò il silenzio.
- A voi piace la musica, signore?
Langley annuì lentamente, osservando con un misto di curiosità e fascino i movimenti dei frati.
- Perché siete qui? – chiese dopo alcuni minuti Bernard, che aveva riaperto gli occhi e corrugato le sopracciglia.
- Che intendi?
- Voi non siete un frate.
Le mani del conte si serrarono intorno alla lana marrone del saio. Lo sguardo saettò sul ragazzino, riabbassandosi subito dopo con un sentimento di colpa.
- Ti sbagli.
- Perché vi siete rinchiuso qui? – disse, mentre il coro ricominciava a cantare.
Langley si girò verso la cappella. – Questi sono affari che non ti riguardano, Bernard.
Il ragazzino si massaggiò il braccio, sbuffando sommessamente e guardando anche lui i frati.
- Devo ricontrollare le tue ferite. Sarebbe meglio se tornassimo in infermeria …
- Oh, no, vi prego … fa freddo lì …
Langley storse le sopracciglia. – Fai i capricci?
- No, no … - si difese Bernard, sgranando gli occhi. Langley si alzò.
- Frate … signore … - lo seguì – sento davvero freddo. Ho solo una coperta …
- Beh, puoi chiedere a frate Gherogh tutte quelle che vuoi ... – disse, fermandosi quando non udì più i passi di Bernard. Tornò indietro di pochi gradini e lo rimproverò con lo sguardo. – E non facevi i capricci …
- Io di quello lì non mi fido!
- Shhh! Parla piano o ti sentiranno! Perché non vuoi essere curato da frate Gherogh?
- È un incapace – fremette. – Una volta mio padre si è ferito e lui stava per fargli amputare il braccio. Ci è voluto tanto così perché non accadesse!
- Ma a te non succederà nulla del genere! Forza, andiamo!
Ottenne di farlo camminare davanti, ma era evidente che lo faceva di controvoglia. Le note del coro si dissolsero dietro di loro, mentre raggiungevano l’infermeria, buia ed effettivamente più fredda di come il conte ricordava. Lui stesso rabbrividì.
- Vedrai … - mormorò con tono incerto – che con qualche coperta in più andrà meglio.
Bernard gli cacciò un’occhiata scettica, mentre camminava verso la sua branda. Langley prese un paio di coperte da altri letti e lo raggiunse.
Lavò le sue ferite e le disinfettò. Poi, tornò nella sua cella, dove, una volta tolti gli indumenti bagnati, anche era stanchissimo, sedette al tavolo per scrivere una lettera. C’erano tante cose che avrebbe voluto dire, ma nelle ore che rimase sveglio non gli riuscì di scrivere neppure una frase di senso compiuto. Così accartocciò il foglio e si mise a fissarne uno pulito, con le mani fra i capelli.
Passò la notte insonne.
Gli era tornato in mente il signor Drebber.

 

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Capitolo 52
*** Capitolo L ***


An irish tale - Capitolo L



Il signor Langley e l’ispettore Hurlstone si tenevano in contatto tramite una corrispondenza tutt’altro che fitta. In un mese furono spedite quattro lettere.
Non era, però, la mancanza di argomenti a rendere così esiguo il numero di missive, bensì la difficoltà che si aveva nel farle pervenire. Dopo essere stata scritta, la lettera veniva consegnata a Max, il messo di fiducia dell’ispettore, un ragazzo appena uscito dall’accademia militare e abituato ai lunghi viaggi. Il suo compito stava nell’attraversare la contea di Tipperary e quella di Waterford, con tutte le difficoltà che il viaggio comportava. Per ragioni di sicurezza non gli era mai stato permesso di vedere il monastero di Templemore, perciòla consegna della lettera avveniva ad alcune miglia da esso. Anche in quel caso non era il conte in persona a prenderla, ma Frate Thomas, che gliela recapitava appena possibile.
Le lettere del signor Langley erano destinate ad Anya, Margareth e Hurlstone. Tutte e tre venivano rinchiuse in un’unica busta, che non portava nessun indirizzo se non le iniziali dell’ispettore. Una volta a Waterford la posta veniva letteralmente smistata.
Agli occhi di alcuni agenti che lavoravano o avevano lavorato al caso del signor Langley, le attenzioni che l’ispettore gli riservava erano eccessive. Musgrave stesso un giorno avanzò la proposta di far tornare il conte a Waterford, perché se proprio Chandler avesse voluto trovarlo, un monastero non sarebbe servito a nulla; ma l’ispettore si infuriò e l’agente si beccò un turno doppio, perché “imparasse meglio i rudimenti del mestiere”.
Sin dal momento in cui lo raggiunse la notizia che il conte aveva finalmente lasciato la tenuta, l’incubo di Jack Chandler lo perseguitò senza posa. I primi giorni spostò alcuni agenti alla tenuta, nel caso l’uomo si fosse presentato, ma il tempo passò senza novità. Secondo una legge che l’ispettore aveva imparato a conoscere come le sue tasche, in casi come quelli, il tempo era direttamente proporzionale alla necessità di agire: più passava, più quest’ultima aumentava. Tuttavia, quella volta la necessità di agire fu accompagnata ad un senso di impotenza e da un livello di pazienza pari a zero. Jack Chandler, invero, non si era fatto vivo. Da un lato, il giovane ispettore se lo immaginava. Accolse con un sorriso sempre più amaro i giorni passati dalla partenza del conte; dall’altro, inconsciamente, non avrebbe voluto che ciò accadesse.
Non si concesse un solo giorno di posa. Sguinzagliò i suoi agenti dove si aveva anche la minima possibilità di trovare un malvivente, si travestì egli stesso, recitò la parte dell’ubriaco nelle locande di periferia. Rinterrogò Julie Powder, l’attuale compagna di Chandler, si insinuò con discrezione e celata professionalità nella casa di tolleranza in cui l’ex moglie dell’uomo esercitava la sua “professione”. Sborsò fior di quattrini per avere qualsiasi tipo di informazione, riprese le vesti di Winwood Smith e si recò nei posti in cui Jack era stato avvistato.
Per diversi giorni riposò lo stretto necessario, lesse con afflizione le lettere del conte e le sue domande circa la durata delle indagini e a lungo non trovò il modo di rispondervi.
Poi si ammalò.
- È una febbre di cui dovrete aver timore, signor ispettore – spiegò il medico visitandolo. – L’unica cura è il riposo …
E prima di andarsene aggiunse - … per due buone settimane.
La temperatura corporea si mantenne alta per tre giorni. Mrs. Wiggins ne ebbe cura come un figlio; Katie Lodge, la vicina, si recò da lui più e più volte, e l’agente Musgrave chiese aiuto all’anziano Hurlstone, che coordinò il lavoro alla stazione di polizia con rigore.
Non appena la febbre diede segno di volere scendere, Alexandre tornò alla carica, imbottendosi di medicinali per alleviare l’emicrania e i sintomi della malattia. Musgrave non ne fu contento. Copperland e gli altri ebbero anche loro molto da ridire. Ma l’ispettore era come stato posseduto dall’ansia e dalla frenesia e non fu possibile convincerlo ad abbandonare il posto. Così, senza che si sapesse niente, Hurlstone senior fece affiancare il nipote dall’agente Musgrave.
Quando si riprese del tutto, se possibile, le smanie dell’ispettore aumentarono. Trascorreva le giornate in campagna, nei dintorni della tenuta Langley, mangiando e dormendo in casa di sua sorella.

Un sabato pomeriggio, mentre la stazione era animata dal solito parlottio da ufficio, il postino consegnò la corrispondenza. Hurlstone scattò verso la porta e guardò la strada in ogni direzione.
- Max sarà di ritorno - spiegò a Musgrave, quando questi gli si avvicinò.
E in effetti il ragazzo giunse poco dopo, in groppa ad un robusto cavallo nero. Hurlstone tornò nel suo ufficio.
- C’è cattivo tempo, vedo, lassù … - disse, quando il ragazzo entrò.
Max chinò lo sguardo sugli stivali ricoperti di fango e sorrise con imbarazzo. – Ha piovuto tanto.
Hurlstone sedette alla scrivania, schiarendosi la voce. – Ebbene, ci sono nuove?
Il giovane prese velocemente una busta chiusa con la ceralacca dalla borsa. Le iniziali vergate esternamente erano state parzialmente macchiate dalla pioggia. Hurlstone lanciò un’occhiata di disappunto al ragazzo.
- Ha incontrato difficoltà durante il viaggio, Max? – chiese dopo qualche istante, aprendo la busta.
- Nessuna in particolare, signore …
Hurlstone lo guardò. – Che vuol dire “nessuna in particolare”?
- Che … che il viaggio è andato bene … nonostante la pioggia – rispose con un’alzata di spalle.
- Bene. Questo è il tuo compenso.
Max fece tintinnare il sacchettino in mano.
- Altre cinque sterline.
Il ragazzo annuì, trattenendo a stento un sorriso. – Grazie, signore.
- Le concedo giusto quattro giorni di riposo, Max. Intanto si prenda cura del cavallo, che zoppica dalle zampe posteriori.
Non appena il ragazzo fu uscito, Hurlstone mise le tre lettere sul tavolo e scartò quelle non indirizzate a lui. Come immaginava, nella sua il conte non fece altro che lamentarsi delle condizioni atmosferiche e rassicurarlo circa il modo in cui frate Thomas si comportava con lui. Dal tratto capì che nel momento in cui aveva scritto il conte doveva essere molto stanco e infatti non riempì neppure una pagina.
Chiamò Musgrave e chiese che le lettere per Miss Bacott e Miss Wright venissero consegnate.


Quello stesso sabato pomeriggio a Brandon Drebber fu concessa una meritata vacanza.
Fu, infatti, una settimana relativamente pesante, all’insegna dello studio della biologia vegetale e della filosofia. Quando Anya gli aveva dato questa notizia il bambino aveva fatto veri e propri salti di gioia.
E anche lei, in cuor suo.
La ragione di questa vacanza era riconducibile non tanto alla bontà della ragazza, che come istitutrice si era rivelata severa, quanto ad un breve viaggio di Albert Drebber e famiglia nella contea di Cork.
Anya lavorava a Westok da quasi un mese e aveva guadagnato due sterline e mezza.
Partiva da casa alle prime ore del mattino, giungeva a Westok alle otto e istruiva Brandon con i libri del signor Drebber fino all’ora di pranzo. Dopo una pausa seguiva l’ultima lezione, la preferita di Anya, di lettura. Si leggevano prevalentemente testi teatrali di grande fama o piccole pièce della tradizione irlandese. Dopodiché, alle sette, veniva riaccompagnata a casa dalla carrozza privata del signor Drebber.
Sin dai primi giorni aveva badato bene a non entrare in una stanza in compagnia del solo Drebber. Nonostante fosse un buon padrone di casa e gentile con tutti, vedeva qualcosa nel suo atteggiamento che la spingeva a stargli il più lontana possibile. A fomentare ulteriormente questi sospetti, c’erano le ben celate gelosie del signor Langley che le domandava ogni volta cosa facesse durante la sua assenza e le ripeteva di “guardarsi bene (nell’eventualità che una simile situazione prendesse forma) dalle anime più gentili. Perché non esiste errore più grande, e che porta con sé maggiori rimpianti, dell’eccesso di fiducia o della fiducia malriposta”.
Non di rado il signor Drebber la sorprendeva a leggere le lettere del conte. Inizialmente lei ne era stata infastidita, ma in seguito imparò a interpretare i suoni intorno a lei e a prevenire, quindi, l’arrivo del signor Drebber, avendo modo di sostituire le lettere con un libro di scienze.

Quel pomeriggio, dopo la partenza di Brandon e la sua famiglia, approfittando delle ultime ore di cielo sereno (il tempo non prometteva niente di buono), decise di farsi un giro in giardino per approfondire la questione della classificazione delle piante. Si armò pertanto di una sacca da giardino, un paio di forbici e dei manuali di biologia vegetale.
Il giardino del signor Drebber offriva una varietà di piante fuori dall’ordinario. Sin dal suo trasferimento aveva comprato specie vegetali d’ogni sorta, bellissime; molti alberi erano dei sempreverdi, molti altri eucalipti. I primi costeggiavano il viale principale, quello che portava dritto dritto al cortile d’ingresso; i secondi, invece, costituivano un boschetto situato dietro la proprietà.
Anya aprì il libro di biologia vegetale nel punto in cui aveva messo un indicazione e lesse il nome del capitolo: “Monocotiledoni e dicotiledoni a confronto”. Si guardò brevemente intorno e, individuato un angolino particolarmente fecondo per la ricerca, vi si diresse.
Prese una sediolina da giardino e vi poggiò il materiale da giardinaggio. Poi aprì il manuale di botanica e confrontò le piante di cui era circondata con quelle rappresentate nel libro.
Passò il tempo.
Impegnata com’era, non si accorse che il tempo era peggiorato e minacciava molto presto pioggia. Foglie d’ogni tipo erano sparse sulla sedia; ebbe il tempo di infilarne qualcuna in una busta di carta da cioccolatini o tra le pagine del libro di botanica, accompagnata da un’etichetta in cui erano stati riportati nome comune, nome scientifico e famiglia d’appartenenza, prima che con un delicato scroscio cominciasse a piovere.
- Miss Bacott! – la chiamò Robert, il maggiordomo, dalla veranda – Tornate dentro!
Anya stava giusto accingendosi a farlo, conservando tutte le foglie nella sacca e raccogliendo frettolosamente tutti gli strumenti. Nel tempo che vi impiegò il vestito si bagnò appena, ma i capelli che tanto aveva impiegato ad acconciare ricaddero in numerose ciocche ondulate lungo il viso e il collo.
- Prendi tu, questi, Robert? – disse porgendogli le forbici e un rastrellino, mentre lanciava un’occhiata alla propria immagine riflessa nello specchio. Indossava un abito indaco, nuovo, composto da una giacca a collo alto che si abbottonava sul davanti ed una gonna molto semplice, priva di tasche. Era stato il suo primo acquisto con lo stipendio da istitutrice e ne andava molto fiera. Il colore era certamente più vivido rispetto agli abiti di seconda mano e gli orli non erano consunti.
- Devo prendere anche i libri, Miss Bacott?
- No, Robert … - disse Anya distogliendo lo sguardo dallo specchio. – Quelli li porto con me.
Il maggiordomo assentì, muovendosi per allontanarsi, ma ad un tratto tornò indietro. Anya stava raccogliendo delle foglie che le erano cadute.
- Sono quasi le sette, Miss. Faccio preparare la carrozza?
- Le sette?! Vorrai scherzare, Robert?
- Non mi permetterei mai, Miss. Controllate voi stessa …
Le mostrò il quadrante del suo orologio e Anya piegò le sopracciglia con una vaga sensazione di panico. Poi guardò fuori e si accorse che la pioggia era aumentata.
- Volete attendere che il tempo migliori, Miss?
La giovane si allontanò dalla finestra, scoraggiata, e sospirò.
- Il signor Drebber è in casa?
- È tornato appena prima che piovesse.
Anya si recò nella camera di Brandon per catalogare le foglie e sedette al tavolo dove gli faceva lezione. Sperava solo che il signor Drebber non andasse a trovarla, perché i suoi atteggiamenti la mettevano in grande imbarazzo. Rovesciò la borsa da giardino sul tavolo e prese alcune foglie sprovviste di etichetta. Ritagliò dei rettangoli di carta e ve li legò. “Eucalyptus globulus “ vergò con il pennino malfermo per il nervosismo, prima che le cadesse di mano quando un tuono fece vibrare il vetro della finestra. In lontananza, nella scuderia, i cavalli nitrirono. Anya guardò con il cuore in tumulto le foglie davanti a sé e si chiese se quella di catalogarle fosse stata una buona idea.
Si alzò, pertanto, e si fece luce fino alla libreria di Brandon, osservando i cozzi dei volumi con noia. Non ci trovò nulla di nuovo, perché Brandon gliela mostrava tutte le volte che poteva con grande orgoglio. Decise, così, di uscire e attendere in cucina o in scuderia che il tempo migliorasse; ma quando le mancavano pochi passi alla porta, questa si aprì e il signor Drebber entrò, reggendo una lampada con la mano destra.
Anya iniziò ad averne abbastanza di saltare in aria per lo spavento e, portandosi una mano al petto, chiese con lo sguardo all’uomo quale ragione l’avesse condotto lì. Drebber sorrise con malcelato imbarazzo.
- Mi dispiace di avervi spaventata … il rumore della pioggia deve aver coperto quello dei miei passi in corridoio …
- Con ogni probabilità, signore.
Drebber assentì. – Robert mi ha detto che eravate ancora qui, così …
- … siete passato ... vi ringrazio del pensiero.
L’uomo non colse l’ironia nel tono della giovane, che aveva mantenuto un’espressione cortese. Sorrise ancora e si fece di lato, spostando la lanterna nella mano sinistra. – Mi chiedevo se vi andasse del tè …
- Ma è già stato servito …
- Fa freddo, però. Non vi andrebbe di ristorarvi con un buon tè caldo?
Anya ci mise qualche istante a decidere. Un minuto dopo, a fianco del signor Drebber, percorreva il corridoio che dava sul salotto, illuminato dalle fiamme vivaci del camino. Chino sul tavolino, Robert versava il tè nelle due tazze sul vassoio.
- Temo proprio – disse il signor Drebber quando si furono seduti – che per stasera non vi sarà possibile tornare a casa.
Lo sguardo di Anya saettò su di lui, poi sui vetri bagnati delle finestre.
- Il tempo è così brutto?
- Provate a vedere voi stessa.
Anya reputò più appropriato riconcentrarsi sul suo tè.
- È successo qualcosa, Miss Bacott? Siete particolarmente taciturna, stasera.
La ragazza mantenne lo sguardo basso; dopodiché, più per evitare che continuasse a guardarla, che per il reale desiderio di rispondergli, alzò il capo e sorrise.
- Avete ragione, sono taciturna, ma non è successo nulla … trovo che sia la pioggia a farmi sentire così.
- Siete triste?
- Oh, no ... solo … leggermente malinconica.
Il signor Drebber poggiò la tazza sul piattino con un gesto delicato. – C’è qualcosa – disse con lieve titubanza – che io posso fare per voi?
Anya sospirò presa da nostalgici pensieri. C’era solo una persona, un uomo, in grado di renderla felice. Per un attimo immaginò di averlo davanti, al posto del signor Drebber, e i polmoni le si gonfiarono di contentezza; ma bastò che le palpebre di chiudessero per la solita frazione di secondo, che quel sogno svanisse.
Non ebbe il coraggio di guardarlo in viso, quando scosse il capo, impercettibilmente.
- Non posso offrirvi neanche un attimo di gaiezza?
Anya alzò gli occhi, bevendo un sorso di tè.
- La musica, ad esempio – continuò Drebber con un’espressione gioviale. – Non abbiamo il violino di Brandon a deliziarci con le sue note, ma …
- Ma …?
- Non molto tempo fa, Brandon mi ha fatto una confidenza in merito ai vostri gusti musicali.
La ragazza cercò di ricordare quando ne avesse parlato.
- Mi ha detto che il vostro strumento preferito è, senza ombra di dubbio, il pianoforte. Devo ammettere che ha avuto un tempismo perfetto, perché nello stesso periodo mi accingevo a cambiare un armadio … con quello.
Indicò un punto, alle spalle di Anya, e lei si girò lentamente, per timore che il tè finisse a terra. A ridosso della parete c’era effettivamente un pianoforte verticale di legno scuro, vecchio ma ben tenuto.
- È stato Albert a suggerirmi l’affare. Se il vecchio proprietario non avesse avuto nessuno a cui venderlo l’avrebbe buttato via. Dite, non sarebbe stato un peccato?
Anya era quanto mai sorpresa. Riportando lo sguardo sul signor Drebber, incredula, assentì.
- Ecco – riprese lui, rimettendo la sua tazza nel vassoio – se non vi dà fastidio, io suonerei un brano … per voi.
La ragazza sorrise. – Non immaginavo vi intendeste di musica …
- Oh … - rise lui alzandosi – nella mia famiglia suonano tutti. Da bambino ero molto dotato, ma poi ho interrotto gli studi per lavorare con mio padre.
Anya lo seguì con lo sguardo, mentre si dirigeva al piano. Con un’occhiata la invitò gentilmente ad avvicinarsi e regolò l’altezza del sediolino. Anya prese posto su un’elegante sedia accanto al pianoforte.
- Vi prego di tenere presente che non suono da tanto tempo … - disse con imbarazzo. Guardò brevemente la tastiera; poi tirò un sospiro e cominciò. Il brano era la Sonata al chiaro di luna di Beethoven. Anya era sicura che se avesse lasciato che le emozioni prendessero il sopravvento sarebbe sbiancata improvvisamente. Per quel che ne sapeva quella musica era stata scritta dal compositore per una donna della quale era innamorato. Si grattò un sopracciglio, soffocando l’impulso di alzarsi, e sforzandosi di sorridere quando il signor Drebber guardò nella sua direzione.
Le dita si muovevano lentamente sulla tastiera, rendendo evidente lo scarso esercizio nei tempi più recenti, ma l’intensità del sentimento rese quell’esecuzione la più dolce e romantica che Anya avesse mai ascoltato. Lei stessa, quando la musica finì, si accorse si aver assunto un’espressione rapita e di respirare più profondamente. Per questo non fece subito caso al modo in cui il signor Drebber la stava guardando, in attesa di qualcosa.
- Debbo confessarvi una cosa, signorina – mormorò con un sospiro.
Anya capì e indirizzò o sguardo altrove, avvertendo una strana sensazione allo stomaco.
- Penso … penso avrete fatto caso alle attenzioni che finora vi ho rivolto …
- Oh, signor Drebber … - tentò di frenarlo lei.
- E anche questa musica era dedicata a voi e a voi sola.
Prese una mano della giovane fra le sue e sospirò nuovamente, con un’espressione assai romantica. Con un misto di sbigottimento e tenerezza, Anya vide che era sincero.
- Vi ho ammirata sin dal primo istante che vi ho vista … e per questo vi ho assunta come istitutrice per Brandon. Tuttavia in questo mese ho scoperto di amarvi e di desiderare la vostra presenza qui, quando non c’eravate …
- Signor Drebber, vi prego … - mormorò la giovane con un vano tentativo di ritrarre la mano a sé.
- Forse io vi sembro troppo maturo … ma sono pronto a fare qualunque cosa per voi, per la vostra felicità. I miei sentimenti sono profondi e sinceri …
Anya scosse il capo. – Non lo metto in dubbio, signore, ma … non posso ricambiare i vostri sentimenti – mormorò affranta – mi dispiace …
Abbassò gli occhi, sinceramente colpita dalle sue parole. Li rialzò qualche istante dopo, quando sentì le sue mani allentare la presa intorno alla sua. Pareva sconvolto e dalla sua espressione triste intuì che esigeva una spiegazione. Anya trasse un lungo sospiro.
- Sono innamorata di un altro uomo, signore …
- Il conte Langley?
Anya ammutolì. – Come fate a saperlo?
- Lo sospettavo – disse con un filo di voce Drebber.
Questa volta fu Anya a chiedere una spiegazione con lo sguardo; ma se ne pentì subito dopo, quando il signor Drebber manifestò il fastidio di parlarne. – Ha sempre avuto delle parole speciali, per voi … - disse, prima di interrompersi con uno sbuffo, guardando altrove – Però lui non tornerà, Miss Bacott!
Anya corrugò le sopracciglia, drizzando la schiena. – Perché parlate così?
- Perché … - iniziò con un tono di voce che si affrettò ad abbassare – Ho avuto notizie … cattive dalla stazione di polizia. Le indagini non vanno affatto bene, Miss Bacott … so che quella della zia malata è tutta una finzione e che il conte è confinato chissà dove nella contea di Tipperary!
Anya impallidì.
- So che fino a quando colui che la polizia cerca non verrà arrestato, il conte Langley sarà obbligato a rimanere lontano da Waterford.
Tentò di prendere nuovamente una mano della giovane fra le sue, ma lei evitò quel contatto, squadrandolo con sospetto.
- Chi vi ha dato queste informazioni? – sibilò.
- Miss Bacott … voglio che non nutriate illusioni …
Il petto di Anya si gonfiò di rabbia. – Chi ve le ha date? – esclamò, alzandosi di scatto.
Le labbra del signor Drebber fremettero. – Si chiama Stype.
- Scriverò all’ispettore Hurlstone – disse risolutamente, muovendosi in direzione della finestra con i pugni serrati. – Quel chiacchierone verrà punito severamente … Quelle informazioni non dovevano uscire dalla stazione.
Il signor Drebber protestò debolmente, ma Anya gli si scagliò contro con l’indice della mano puntato. – Con chi ne avete parlato, oltre me?
- Con nessuno … l’ho saputo solo questa mattina!
Anya stava per tornare alla finestra, quando rilassò i muscoli facciali in un’espressione assorta, che divenne presto sbigottita. Girò di scatto il capo verso il signor Drebber, in piedi accanto al divano e arricciò le labbra con disgusto.
- Avevate calcolato tutto?
- Cosa? – mormorò, confuso, lui.
- Non fingete! – esclamò portandosi rabbiosamente il dorso della manica alla bocca, prima di incominciare a piangere.
- Parlate con un agente e poi vi dichiarate … sapendo che … che …
Drebber scosse il capo ancor prima di rispondere e le si avvicinò. – Oh no … no, signorina … ve ne prego, non fraintendete …
- Voi non avete neppure idea di quanto mi manchi … - pianse.
Sollevò appena lo sguardo su di lui, che inclinò il capo di lato con compassione, cercando di vederla in viso. – Beh, potrei solo immaginarlo … mi dispiace di avervi offesa – aggiunse non sapendo come comportarsi.
- Voglio tornare a casa – disse, quando si fu calmata.
Il signor Drebber ebbe un attimo di esitazione, ma decise di accontentarla, nonostante la pioggia ed il vento infuriassero ancora.
Quando furono nell’ingresso, Anya indossò la mantella che le porse Robert e mise nella sacca da giardino i libri di botanica e biologia vegetale.
- Tornerete, allora, Miss Bacott?
Anya lo guardò, seria. – Fino a quando Brandon avrà bisogno di me.


Quattro giorni dopo, di prima mattina, l’ispettore Hurlstone fece chiamare il messo.
Pioveva ancora e la temperatura era scesa in picchiata. Durante la notte aveva grandinato.
L’umore del giovane Max non era dei migliori quando giunse alla stazione di polizia. Sporcò il pavimento e le scale con gli stivali infangati e nel momento in cui Musgrave lo lasciò solo per andare ad annunciarlo all’ispettore, si strinse nel cappotto e strofinò le mani gelide.
- Siete sicuro di volerla consegnare con questo freddo? – disse quando Hurlstone gli tese la lettera.
- Io sì. Lei ha qualche dubbio?
Il ragazzo indicò la finestra con un cenno del capo. – Soffia un vento gelido … e l’aria è umida.
- La capisco, Max – sospirò Hurlstone poggiandosi allo schienale della sedia. – Ma questa missiva è particolarmente urgente.
Ebbe l’impressione che il ragazzo volesse rinunciare all’incarico. Max cacciò un’occhiata al cielo plumbeo oltre la finestra e afferrò la lettera posata sulla scrivania.
- D’accordo – mormorò.
Hurlstone tirò mentalmente un sospiro di sollievo. – Il cavallo sta meglio?
- Chi, Orpheus? – fece il giovane cacciando un’occhiata alla lettera, prima di metterla in borsa – Purtroppo no … ha i tendini infiammati. Ci vorranno più di tre settimane perché si rimetta …
Pensò per un attimo a qualcosa, osservando distrattamente un angolo della scrivania. Poi si mordicchiò il labbro inferiore e disse – Potrò partire soltanto domattina, ispettore.
- Perché? – chiese intingendo il pennino nella boccetta dell’inchiostro.
- Per il cavallo. Dal momento che il mio è malato, il padre della mia fidanzata mi ha offerto il suo. È robusto e resistente quanto Orpheus …
Quando stava per uscire, Hurlstone gli fece un’ultima raccomandazione.
- Non perda la lettera, Max.
Il ragazzo si calcò il cappello sul capo e sorrise rassicurante – Contateci.

La mattina successiva il paesaggio rifletteva le tonalità grigiastre del cielo carico di neve.
Il passo di Leibnitz, il grigio, era pesante e Max ondeggiava con aria fiera. Era come star seduti su un trono semovente.
Era partito all’alba e viaggiava da un paio d’ore. Temeva (e prevedeva) che in giornata sarebbe caduta la prima neve della stagione e sistemò meglio la sciarpa, rabbrividendo al pensiero di cavalcare con il freddo.
Spinse il cavallo ad un trotto veloce, quando imboccò un sentiero di terra battuta, per riscaldarsi battendo la sella.
Cavalcò tranquillamente per un bel tratto, ammirando il paesaggio che lo circondava e godendosi il volo degli uccelli verso i nidi; ma tutto d’un tratto Leibnitz affondò una zampa in una buca nascosta e inciampò. Max tentò un appiglio nelle redini che ormai gli erano sfuggite di mano, poi affondò le dita in mezzo alla criniera e fece forza, molta forza, sentendo già il posteriore scivolare dalla sella ed il piede destro toccare il terreno. Leibnitz riuscì a tirarsi su, ma lo strattone improvviso fece definitivamente rovinare il suo cavaliere nel fango. Il pesante cappotto di lana e pelliccia si insudiciò malamente e Max, allenato al dolore delle cadute, si tirò subito su, anche perchè Libnitz, confuso e impaurito, era ruotato su sè stesso e adesso gli volgeva il didietro, zampettando con gli zoccoli in modo allarmante. 
- Buono, Leinitz ... buono ...
Gli si avvicinò, provando a calmarlo, ma all'improvviso sentì un dolore fortissimo alla nuca e inciespicò in avanti. Un altro colpo alle spalle lo buttò giù. Ebbe il tempo di vedere una figura muoversi alla sua sinistra, prima che il bianco della neve si mescolasse all'allucinante bagliore della mente. Fu un istante e perse i sensi. 
Spaventato da uno schiaffo alla coscia, il cavallo fuggì.
Jack Chandler guardò la bestia allontanarsi con un ghigno.
Poi raccolse la borsa del giovane, si assicurò che contenesse quello che cercava e scappò via.

 

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Capitolo 53
*** Capitolo LI ***


An irish tale - Capitolo LI



- Quando avrete finito, frate cellerario, spazzate il pavimento … la scopa è lì.
Langley stava dando da bere ad un vecchio mendicante ricoverato in infermeria. Quando gli fece segno che era sazio, Langley si allontanò con la brocca.
Nel momento in cui frate Gherogh aprì la porta per uscire, entrò uno spiffero d’aria gelida con qualche fiocco di neve.
- Potrei avere un’altra coperta, fratello? – disse il vecchio, coprendosi con quelle che già aveva. Langley gliene mise sopra un paio e si occupò del pavimento. Il fruscio delle setole sulle assi lignee copriva appena il fischio del vento. La sera precedente aveva nevicato e la bassa temperatura l’aveva costretto, anche quella mattina, ad indossare una sciarpa pesante.
Fece un calcolo mentale: da quando era arrivato al monastero erano trascorsi trentacinque giorni. All’inizio era stato difficile, aveva troppa nostalgia, ma con il tempo aveva imparato ad abituarsi alla vita monastica e il peso della vita appena lasciata divenne più sopportabile. Ciononostante faceva un sacco di programmi, considerazioni, progetti. Cominciò a pensare, ad esempio, ad Anya non come solo la ragazza di cui era innamorato, ma anche come una probabile compagna di vita, una moglie; e l’idea gli era piaciuta. Da quando, inoltre, aveva conosciuto Bernard (che non perdeva occasione di andarlo a trovare), aveva scoperto che stare con dei bambini, più o meno grandi, gli dava una bella sensazione. Inizialmente aveva riflettuto sulla possibilità di adottarne uno; più avanti si soffermò su quella di averne con Anya. Ma gli sembrò troppo precipitoso pensarci seriamente senza l’opinione di lei e mise da parte questi propositi.
Gli era anche venuto in mente di seguire qualche consiglio del signor Hobson. Ragionandoci a freddo, le sue volontà di ampliare l’azienda non gli sembravano così cattive … anche se avrebbe evitato di far diventare il signor Drebber suo socio. Pure a lui pensò molto; ma più di tutto a quello che avrebbe potuto fare in sua assenza. Non capiva bene perché, ma qualcosa gli diceva che stava succedendo qualcosa. Nell’ultima lettera, dopo avergli accennato ad un nuovo e temporaneo lavoro, Anya lo tranquillizzò su ogni fronte, rinnovando la più sincera nostalgia e l’augurio che tornasse presto a Waterford.
Tuttavia, nonostante i sogni e i bei progetti, l’abitudine ai ritmi monasteriali, ai numerosi incarichi, al freddo e l’umidità dell’infermeria, e al coro serale quando andava a letto, era certo che non avrebbe resistito a lungo. Ogni fibra del suo essere reclamava la vita per cui era nato. Sempre più spesso sognava di avere Anya per sé. La notte si svegliava preda di piacevoli turbamenti e solo facendo una passeggiata tra le mura di pietra dei corridoi era possibile smaltire quell’eccesso di emozioni.
Gli capitò per una settimana intera; poi pensò bene di riflettere a fondo su ogni aspetto della questione. Parlò a frate Gherogh del problema, senza entrare troppo nel dettaglio, e quello gli prescrisse una tisana calmante da prendere ogni sera dieci minuti prima di andare a letto. Non era una soluzione definitiva, ma rappresentava comunque un rimedio più che valido nell’affrontare il tempo rimanente al monastero.

Qualche mattina dopo, mentre serviva la colazione al refettorio, frate Thomas gli disse sottovoce che era arrivata una lettera per lui.
Si incontrarono davanti la porta della cappella, sempre deserta dopo il pasto.
- Vi ringrazio infinitamente, fratello – disse Langley prendendo la busta.
Frate Thomas sorrise bonariamente, com’era suo solito. – Spero contenga buone notizie.
Langley lo guardò. – Anche io … - sospirò.
Corse nella sua cella e rovesciò la busta sul letto. Contrariamente alle sue aspettative c’erano solo due lettere: mancava quella di Margareth. Non si lasciò rattristire e aprì la lettera di Anya, che lesse con gli occhi lucidi e il cuore in tumulto. Poi prese quella dell’ispettore e capì perché Margareth non aveva scritto:

Egregio Conte Langley,
come sempre mi auguro che il tempo a Tipperary passi all’insegna della tranquillità e della pace.
Per quanto mi riguarda gli affari non vanno come dovrebbero. Non abbiamo ancora trovato Jack Chandler, ma contiamo sull’aiuto degli abitanti della contea (ai quali forniamo giornalmente i suoi ritratti), oltre che sulla caparbietà e l’intelligenza dei nostri agenti.
Recentemente sono stato anche informato di una notizia che vi risulterà affatto gradita. È con il cuore ricolmo d’angoscia che vi scrivo. Questa stessa mattina, durante una ronda, l’agente Musgrave ha incontrato il vostro medico, il signor Bowles, che voleva assolutamente parlarmi. Quando è giunto alla stazione di polizia, mi ha informato che la vostra governante, Miss Margareth Wright, ha contratto una malattia polmonare, che solo in seguito si è appurato trattarsi di tubercolosi. Non è chiaro come l’abbia presa, né se esistano cure in grado di guarirla.
Il dottor Bowles ha, inoltre, aggiunto che la paziente reclamava la vostra presenza. Attualmente la famiglia e la signorina Bacott se ne prendono cura, nella vostra tenuta, ma, come potrete ben capire, in questi casi è meglio esaudire i desideri del malato.
Perciò, per quanto rischiosa questa concessione sia, vi permetto di fare al più presto ritorno a Waterford, raccomandandovi con lo stesso calore di un fratello di essere più cauto possibile.
Distinti saluti,

 

Ispettore
Alexandre Orace Hurlstone

Langley scorse il foglio una seconda volta; poi una terza.

Con il capo poggiato al palmo della mano, sentì gli occhi pizzicare e smise di leggere.


La neve arrivò anche a Waterford, con tanto di grigiore e freddo pungente. Nevicò per l’intera notte e la mattina seguente, meravigliando gli abitanti e svuotando la strada da essi; in compenso donò alla città e alle campagne un aspetto ambiguo e a lungo desiderato. L’estate, infatti, era stata piuttosto calda e anche l’autunno era giunto relativamente tiepido. Le piante invernali nei campi avevano tardato a crescere, altre erano morte. I contadini ringraziarono il cielo quando videro i campi striati di bianco; speravano solo di essere sufficientemente preparati alle prevedibili ondate di gelo e di avere scorte abbondanti per gli animali.
In città la neve si sedimentò in cumuli candidi sui cigli delle strade e alla base degli edifici, sui tettucci delle vetture, negli angoli delle scale; formò pozzanghere e rese scivolosi i marciapiedi.
Quando l’ispettore Hurlstone uscì di casa, nevicava ancora e sia il cappotto scuro che il cappello si costellarono di minuscoli fiocchi. Essendoci poche vetture libere, dato che la gente preferiva non sentir freddo, né bagnare i piedi, il giovane percorse la strada fino alla stazione di polizia camminando. Un lieve venticello gelido gli colorò le guance e la punta del naso di rosso.
- Buongiorno, ispettore – lo salutarono gli agenti Copperland e Armagh.
- Buongiorno anche a voi – disse Hurlstone appendendo cappello, sciarpa e cappotto all’attaccapanni. – Ci sono nuove?
Copperland scosse il capo. – Nessuna.
L’ispettore lo squadrò con sufficienza. – Ha la giacca abbottonata male, agente. Si sistemi.
Nel frattempo che l’uomo metteva mano alla giacca, Hurlstone entrò nel suo ufficio e posò la pila di giornali, che aveva tenuto sottobraccio, sul bordo della scrivania.
Poco dopo Musgrave gli portò un documento da firmare ed un telegramma.
- È arrivato questo per voi, signore.
Hurlstone lesse il mittente corrugando la fronte con sorpresa. – Mia sorella? – sbottò, firmando distrattamente il documento.
- Grazie, agente.
Musgrave assentì ed uscì; l’ispettore, però, lo richiamò indietro, quando terminò di leggere il telegramma.
- Devo allontanarmi per qualche ora, agente. Ne approfitterò per fare un giro di ronda …
In strada ebbe la fortuna di trovare una vettura libera, ma quando riferì la meta, il cocchiere storse il naso.
- La strada fuori città è piena di neve, signore …
- Ebbene? La vostra carrozza ci passerà comodamente.
Il cocchiere si grattò un sopracciglio, con esitazione; così Hurlstone fece tintinnare le monetine nella tasca del cappotto.

La strada di campagna, effettivamente, era troppo fangosa perché una vettura ci passasse senza difficoltà. Procedettero con molta lentezza e a più riprese il cocchiere frustò i cavalli per liberare le ruote dal fango. Dopo dieci minuti, però, la situazione migliorò e il cocchiere smise di sbuffare.
L’ispettore tenne lo sguardo fisso sulle sue dita che si contorcevano nervosamente, facendo scricchiolare i guanti di pelle. Le tendine della carrozza erano chiuse, ma Hurlstone guardava il paesaggio con la coda dell’occhio, non vedendovi altro che un misto di bianco, marrone e verde, neve, terra bruna e alberi.
Fiancheggiarono i campi coltivati e l’unico suono che animava il paesaggio muto era lo scalpitio degli zoccoli e il fracasso delle ruote lignee sulla roccia.
- Dove avete detto che si trova la casa?
Prima di rispondere, Hurlstone lanciò un’occhiata al paesaggio fuori dal finestrino. Il mezzo si stava muovendo su un sentiero costeggiato da alberi.
- Continui su questa strada e imbocchi la prima biforcazione sinistr … ehi, cocchiere! – esclamò improvvisamente, quando scorse una sagoma sotto un albero. – Cocchiere! – bussò – Fermi la carrozza!
Strattonò lo sportellino, prima di riuscire ad aprirlo, e si avvicinò guardingo alla figura, che aveva i vestiti parzialmente coperti di neve. Il cocchiere lo seguì, mantenendo le distanze. Hurlstone si chinò su quello che dedusse essere un uomo e lo toccò ad una spalla. Lo scosse, poi si tolse un guanto e tastò il collo. Era vivo, ma non appena lo riconobbe, sussultò e rabbrividì.
- Max …
Il cocchiere mosse qualche passo nella loro direzione. – Lo conoscete?
- C-certo c-che sì … mi aiuti a portarlo nella carrozza … presto!
Insieme riuscirono a portarlo nell’abitacolo. Il ragazzo non dava segni di vita e mentre la carrozza ripartiva, Hurlstone cercò di svegliarlo con dei buffetti sulle guance fredde.
- Devo cambiare direzione, signore?
- No, cocchiere. Prosegua …
Meno di dieci minuti dopo, la carrozza si fermò di fronte una piccola abitazione di campagna. L’ispettore aprì con uno strattone lo sportellino e corse a bussare alla porta. Una giovane donna con i capelli biondi e i suoi stessi occhi azzurri aprì.
- Alexandre … - sorrise.
- Helen, ho bisogno urgente del tuo aiuto … tuo marito è in casa?
La donna aggrottò le sopracciglia. – No … cos’è successo?
- Uno dei miei agenti sta molto male … - rispose indicando la vettura alle sue spalle. – Dobbiamo aiutarlo.
Helen Hurlstone accettò di buon grado di ospitarlo e mentre suo fratello e il cocchiere portavano il malato nella stanza degli ospiti, mandò la domestica a chiamare il medico.
Hurlstone scrisse un messaggio su una pagina strappata della sua agenda e lo consegnò al cocchiere. – Una corona in più ai soldi che le devo se porta questo foglio all’agente Musgrave della stazione di polizia e torna con la risposta.
L’uomo sospirò e partì.
- Dobbiamo cambiarlo e coprirlo – disse Hurlstone tornando dalla sorella, nella camera degli ospiti. – Avrà le stesse misure di tuo marito … si arrabbierebbe se prendessi qualcosa?
- Affatto ...
- Bene, prendi gli indumenti più pesanti che riesci a trovare …
La donna assentì, scoccò un’occhiata al malato e corse via. Portò un maglione grigio, dei pantaloni invernali e qualche coperta.
- Cosa gli è accaduto?
- Non ne ho la minima idea … - scosse la testa Hurlstone. – L’ho trovato poco fa, sotto un albero. Probabilmente il cavallo l’ha disarcionato, mentre …
Si bloccò improvvisamente, sentendo il cuore perdere un paio di battiti.
- A-Alexandre?
- La lettera … - mormorò, allontanandosi dal letto su cui era steso Max. Helen lo squadrò, preoccupata.
- Alexandre, sei diventato pallido …
Si girò verso di lei, fissando il vuoto con espressione assorta. Poi scappò fuori. – Prenditi cura di lui! – gridò uscendo dalla porta.
Venne avvolto dal freddo pungente e dall’aria profumata di umidità. Aveva dimenticato il cappotto e la sciarpa in casa. Nulla gli importò. Cominciò a correre a perdifiato lungo il sentiero che conservava le tracce della carrozza e faceva forza sulle gambe per essere più veloce possibile. Inspirava dal naso ed espirava con lunghi sbuffi, producendo nuvolette di vapore che si dissolvevano in meno di un attimo dietro di lui.
Con il fiato corto giunse sul luogo del ritrovamento. Riconobbe l’albero e vi si avvicinò, affondando nella neve fino alle caviglie. Si guardò intorno, accaldato per la corsa, e fece un giro dell’albero. C’erano pochi ramoscelli spezzati, qualche foglia gialla e neve sporca di terra, oltre che le orme sue e del cocchiere; ma nessuna borsa. Come se ripetendo tutte quelle azioni l’avesse trovata, girò nuovamente intorno all’albero e scrutò il terreno in lungo e il largo.
Alla fine, disperato, gettò il cappello a terra.

A casa ebbe almeno la consolazione che fosse arrivato il medico, il signor Bowles.
Helen, visibilmente preoccupata, osservava i movimenti del dottore e annuiva ad ogni consiglio. Quando Hurlstone entrò, saltò su e gli si avvicinò. – Alexandre, mi hai fatto stare in pensiero. Dove sei andato?
Lui era troppo contrariato per rispondere. – Dottor Bowles, come sta Max?
Il medico posò il termometro nella borsa e si tolse gli occhiali. – La temperatura è troppo bassa rispetto alla norma. È stato esposto al freddo e all’umidità molto a lungo … non sono assolutamente certo che superi il pomeriggio.
Hurlstone abbassò lo sguardo.
- Mi dispiace – mormorò Bowles.
Helen scoppiò a piangere.
- Non c’è proprio niente che si possa fare? – chiese l’ispettore, allontanandosi nel corridoio con il dottore.
Bowles sospirò, affranto. – Potreste provare con del brodo caldo, ma … è meglio se avvisiate la famiglia, ispettore.
Hurlstone non fu più in grado di parlare. Si limitò ad annuire e accompagnare il dottore alla sua carrozza. Poi sedette su una panca esterna e rimase a contemplare la campagna attorno alla proprietà. Helen singhiozzava ancora.
Quando il cocchiere fece ritorno sulla vettura da nolo, consegnò il messaggio di risposta dell’agente Musgrave ed Hurlstone lo pagò.
Presto, lesse, una squadra di agenti si sarebbe mossa per pattugliare la zona. Un telegramma era già stato spedito alla famiglia del ragazzo e si sarebbero fatte delle ricerche anche per il cavallo, che poteva essere fuggito con la borsa contenente la lettera.
Hurlstone si sentì quasi meglio, non avendo più il pensiero di avvisare i parenti di Max; ma non durò a lungo. Era improponibile, per lui, pensare che la vita di un ragazzo fosse stata stroncata in un modo così sciocco. Il cavallo poteva essersi impennato per la paura e averlo fatto cadere. Dopotutto Max non c’era mai salito, quindi non lo conosceva. Ma cosa poteva aver fatto spaventare il cavallo?
C’era anche la possibilità che Max si fosse improvvisamente sentito male o che, più semplicemente, in preda al capriccio, il cavallo l’avesse disarcionato …
Hurlstone formulò un gran numero di ipotesi, senza trovarne una a tutti gli effetti convincente.


La diligenza era piena, ma continuava a colmarsi di passeggeri ad ogni fermata.
Langley era seduto in un angolino, fissando il nulla. Nel posto di fronte al suo c’era una donna con due bambini che non facevano che tossire e piagnucolare; lei era palesemente stanca e ogni tanto arrischiava un’occhiata all’uomo taciturno che aveva davanti.
Com’era inevitabile, il mezzo dondolava a destra e a manca, ma dato il peso dei passeggeri e del carico di bagagli sul tettuccio, l’ondeggiamento era molto ridotto.
I passeggeri chiacchieravano animatamente fra di loro. Fino all’ultima fermata era stato il silenzio a fare da padrone. Ma poi era salito un gruppetto di uomini, più e meno giovani. Probabilmente si conoscevano, perché la discussione era incentrata su una lite tra amici.
Molte erano le facce sbigottite e le guance rosse per il caldo. Aveva ripreso a nevicare, ma nell’abitacolo della diligenza l’aria era nettamente più calda che fuori. Langley evitò di aprire il suo finestrino per via dell’aria malaticcia dei due bambini, ma il tepore era insopportabile e lui si tolse il cappotto e la sciarpa.
Era partito alle prime ore del mattino con la prima diligenza. Per essere puntuale si era alzato nel pieno della notte e aveva camminato speditamente fino al secondo centro abitato, come gli aveva consigliato frate Thomas.
- La diligenza fa molte soste, ma vi porterà a Waterford nel giro di due giorni e mezzo. Mi dispiace per la vostra governante – aveva aggiunto dopo che Langley aveva assentito.
Si trovavano all’interno del monastero, a pochi metri dalla porta. Langley portava sulla spalla la sacca con le sue cose, pronto per uscire.
- Questo dovrebbe essere sufficiente per pranzo e cena – aveva continuato il frate consegnandogli un voluminoso involto. Il conte l’aveva ringraziato con un sorriso forzato ed era uscito. Frate Thomas l’aveva chiamato un’ultima volta.
- Allora tornerete?
E Langley aveva fatto di sì.
Quando era salito sulla diligenza gli era venuto in mente Bernard, in compagnia del quale era stato fino a un paio di sere prima. Aveva deciso di non dirgli niente per evitare che facesse domande.
Poi il pensiero era tornato a Margareth e al giorno e mezzo di viaggio che restava.
La prima sera, dopo dodici ore di viaggio e tre cambi alle stazioni dei cavalli, finalmente la diligenza si fermò e i pochi passeggeri rimasti trascorsero la notte in una locanda per forestieri. Langley prese una stanza e vi salì dopo aver mangiato il pane con il formaggio che gli aveva dato frate Thomas. Dormì poche ore, poi si svegliò e non riuscì più a riprendere sonno. Lesse con noia, senza badar troppo al senso delle frasi, il quotidiano che aveva comprato da uno strillone durante una sosta. Steso sul letto, pensava solo a Margareth, a quello che avrebbe potuto fare per lei, e ad Anya, che era ormai entrata a far parte della sua realtà quotidiana.
A lungo, fissando la notte cupa oltre la finestra, coperto fino al mento, si lasciò cullare dai ricordi della sua governante: delle passeggiate insieme nel parco della casa di suo padre, del sostegno che gli offrì quando si ritrovò da solo, la mal sopportazione di Margareth nei confronti di sua zia; e poi i loro primi litigi, il distacco durante l’adolescenza e il riavvicinamento quando scoprì di non avere più niente. Gli vennero in mente un sacco di cose, ma, come constatò poi, in nessuna occasione Margareth si era mai ammalata. Neppure il minimo raffreddore. La sua governante aveva sempre avuto una costituzione d’acciaio.
Alla preoccupazione per Margareth si miscelò la voglia irrefrenabile di rincontrare Anya. Il sol pensiero di rivederla lo tenne sveglio fino alla mattina seguente, con il cuore in tumulto.

Alle sei udì delle voci assonnate in cortile, le prime della giornata, e andò alla finestra. C’erano poche persone e tra queste riconobbe il cocchiere della diligenza e il facchino. Decise di darsi una mossa anche lui. Riempì il catino, si lavò viso e braccia, e si vestì. Faceva ancora molto freddo, anche se gran parte della neve, nei campi, si era sciolta. Mentre si tamponava il viso, scorse uno specchio in un angolino e si guardò. Al monastero, raramente aveva fatto caso al suo aspetto. Neppure una mattina si era dedicato alla sua immagine e adesso si vide riflesso con un volto smagrito, stanco, i capelli e la barba più lunghi del solito. Controllò nell’orologio di avere tempo a sufficienza e, armatosi di rasoio, si fece la barba; poi scese, fece colazione con focacce alle erbe e birra e caricò il suo bagaglio sulla diligenza.
In quel secondo giorno, dato il ritardo in partenza, vennero fatte meno soste e il viaggio, malgrado i cavalli fossero veloci, parve più lungo. Langley dormì per quasi tutto il tempo. In serata si fermarono in un’altra locanda e la mattina seguente ripartirono con meno fretta.
Fu solo dopo più di due ore di viaggio che, finalmente, comparvero all’orizzonte i cipressi di Waterford.

 

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Capitolo 54
*** Capitolo LII ***


An irish tale - Capitolo LII



La diligenza avanzava lenta su di un sentiero innevato. La notte aveva di nuovo imbiancato il paesaggio.
Gli alberi non frusciavano, il vento non fischiava, gli uccelli non cantavano.
Il paesaggio era muto. Il cielo grigio.
Lo scalpiccio degli zoccoli giungeva ovattato.
In lontananza uno spicchio celeste inaugurava una giornata di sole.
Il cocchiere frustò uno dei cavalli e Langley, poggiato alla parete dell’abitacolo, si svegliò con un sussulto.
Erano le undici e mezza dell’ultimo giorno di viaggio. La carrozza accumulava ritardo di minuto in minuto. La neve non permetteva di accelerare. In alcuni punti le strade erano bagnate e i cavalli avevano rischiato di scivolare.
Langley rimise a posto l’orologio con piglio irritato. Non poté nascondere la delusione quando scoprì di aver dormito solo pochi minuti.
Nell’abitacolo, oltre lui, non c’era nessuno: erano scesi tutti alla prima fermata nella contea di Waterford.
Aveva tenuto stretta a sé, per tutto il tempo, la borsa con le sue cose, perché conteneva anche dei soldi; ma una volta scesi tutti l’aveva posata ai suoi piedi ed era riuscito ad addormentarsi.
Il cocchiere ed il facchino parlottavano fra di loro. Probabilmente non sapevano di avere ancora un passeggero. Langley, in ogni caso, non desiderava informarli della sua presenza. Da un po’ di tempo aveva cominciato ad avvertire uno strano senso di oppressione al petto e a desiderare di non arrivare mai.
Per un po’, cercando di trovar pace, aveva osservato i campi fuori dal finestrino e si era addormentato. Poi la carrozza si era fermata e qualcuno aveva improvvisamente aperto il portellino dell’abitacolo, facendolo svegliare di colpo.
- Toh, abbiamo ancora un viaggiatore – disse il cocchiere al facchino, con un mezzo sorriso. Langley si passò una mano sul viso.
- Dove siete diretto?
- A Waterford city – rispose Langley, seccato.
Il cocchiere corrugò mento e sopracciglia. – Mmh – annuì – meno male …
- Perché ci siamo fermati? – chiese Langley lanciando un’occhiata al centro abitato.
- Per cambiare i cavalli. Ci fermiamo mezz’ora alla locanda e poi ripartiamo – disse allontanandosi dal portellino – Il tempo di mangiare qualcosa di caldo …
Langley si unì a loro. A pochi passi dalla stazione per il cambio dei cavalli c’era effettivamente una locanda per viaggiatori, ma Langley evitò di sedere al loro stesso tavolo, accontentandosi di un angolo al bancone in cui era visibile l’intera sala. Ordinò del vino caldo, ma ne bevve a stento un paio di sorsi a causa del nervosismo.
L’oste gli disse che si trovavano in un centro abitato nei pressi di Glenpatrick. Mancavano solo alcune decine di miglia a Waterford city.
La locanda era spaziosa e capiente quanto bastava per ospitare anche più di cinquanta individui; quella volta non era piena, ma sia per le finestre chiuse che per l’incapacità di stare fermo, Langley pagò e uscì. Due uomini stavano cambiando i cavalli alla diligenza. Il cocchiere e il facchino, invece, erano ancora nella locanda; Langley li aveva visti mangiare dello stufato a un tavolo accanto alla porta.
Decise di camminare un po’, anche se aveva voglia di correre. Si mise la sacca in spalla e passeggiò sino alla fine del centro abitato, intervallando al passo spedito che gli era tipico, uno più calmo e posato.
Il freddo lo fece diventare pallido e tinse di rosso la punta del naso e le nocche delle dita. Il vento giocò con la tesa del suo cappello, spinse i capelli sulla fronte. Nella piazzetta, i cavalli pesanti con il pelo lungo, grugnivano infastiditi. Langley si avvicinò ad uno di loro e lo carezzò sulla fronte.
Poco dopo tornarono cocchiere e facchino e la diligenza ripartì. Non ci sarebbero state più soste e si addormentò nello stesso angolino di prima, poggiato alla parete dell’abitacolo.

- Signore? Signore, si svegli … siamo arrivati.
Langley si guardò seccamente intorno. Per un attimo aveva avuto l’impressione di essere svegliato da frate Willaum, nella sua austera cella. Con gli occhi opachi di sonno e il viso stropicciato, fece un cenno affermativo al facchino, prese la sua sacca e scese dal mezzo.
- Avete altri bagagli?
Langley scosse il capo, sospirando.
- Bene, signore. Questo è il capolinea, Waterford city.
I palazzi che li circondavano erano la conferma. Langley pagò cocchiere e facchino e raggiunse la strada. Non era quasi più abituato ai suoi rumori e alla frenesia e lo ammise a sé stesso. La lotta per accaparrarsi una vettura libera fu più ardua. Dovette spostarsi sulla strada per riuscire a fermarne una.
- Dove volete che vi porti? – chiese il cocchiere senza distogliere lo sguardo dai cavalli.
- Nelle campagne di Waterford – rispose il conte.
Gli venne la nausea quando prese posto nell’abitacolo, ma non riuscì a comprendere se era per il nervosismo o per l’aver viaggiato tanto in carrozza.

Durante il viaggio gli vennero in mente molte cose riguardo la sua vita alla tenuta, ma per nessuna di esse provò qualcosa. Il tempo trascorso nel monastero gli aveva insegnato l’austerità e il silenzio. Per un istante reputò la sua passata condotta rumorosa, troppo, come le ruote di quella vettura da nolo; ma ricordò presto le passeggiate mattutine con Fedor e il melanconico mutismo nel quale era stato immerso fino a del tempo prima.
La carrozza attraversò la via principale di Waterford city, senza fermarsi mai. In strada c’era poca gente, ma molte vetture e cumuli di neve grigia agli angoli dei marciapiedi. I negozianti, che fino ad allora si erano goduti il clima mite con le porte aperte, adesso preferivano tenerle chiuse. Langley aprì le tendine e chinò lo sguardo su un graffio sulla mano.
- Siamo vicini alle campagne, signore – disse d’un tratto il cocchiere. La strada si fece più dissestata.
- Può fermarsi – ribatté Langley con una rapida occhiata all’esterno. Pagò il cocchiere e osservò la carrozza allontanarsi prima di avviarsi per il sentiero di terra battuta. Pochi passi dopo concordò con sé stesso che quella di fermarsi fosse stata la decisione migliore: in un particolare punto del percorso la strada era da rifare a causa del fango e della neve. Il cielo era parzialmente nuvoloso: la notte aveva piovuto molto.
Lungo la strada la sola cosa che riuscì a pensare fu la salute di Margareth. Da quando aveva ricevuto la lettera erano passati tre giorni, poi non aveva più ricevuto notizie. Poteva essere accaduto di tutto, nel frattempo.
Senza accorgersene, allungò il passo. Non alzò quasi mai gli occhi sul paesaggio, neanche quando superò la chiazza vermiglia di Westok. Guardò il selciato per tutto il tempo, i piedi che finivano in pozzanghere marroni, l’impronta dei suoi stivali, la terra che si incrostava sul davanti. Tenne anche le mani in tasca e i gomiti stretti al costato.
Poi, ad un certo punto, con la coda dell’occhio scorse la sagoma di un albero che Fedor, nelle loro passeggiate mattutine, si divertiva ad aggirare. Langley non seppe se sorridere o meno: era arrivato.
Non sorrise. Le labbra si serrarono in un’amara espressione e la tensione al petto e allo stomaco avvertita sin dalla sera prima crebbe a dismisura. Si fermò sul sentiero del cancello, circondato da sempreverdi e da qualche arbusto giallastro, sospirò, sistemò la sacca alla spalla e riprese a camminare.
Il cancello era aperto. Lo oltrepassò e proseguì fino al cortile deserto. Sulla porta della cucina, il silenzio lo stordì e si lanciò un’occhiata dietro. Era incredibile il modo in cui la tenuta fosse cambiata tanto durante la sua assenza. Ad un’analisi più accurata, però, non ci avrebbe trovato nulla di diverso. In cucina, com’era immaginabile, non c’era nessuno. Si concentrò sui rumori dell’ambiente, certo di rintracciare anche dei passi al piano di sopra, ma il silenzio era assoluto. Si augurò solamente che non fosse accaduto nulla di grave. Nella camera adiacente, prese le scale e salì in punta di piedi; percorse il breve corridoio con il cuore in gola e, raggiunta la camera di Margareth bussò alla porta ed aprì. Era vuota.
La sacca ricadde sul pavimento con un tonfo sordo.
E Langley, pallido, capì.



Brandon Drebber non era ancora tornato a Waterford. A quanto pareva si era preso il raffreddore e i genitori avevano deciso di trattenersi a Cork.
Anya era parecchio contenta di trattenersi in casa Wright. Quella mattina lei e Margareth avevano portato Marshall e Frederick al mercato del paese, più piccolo e caratteristico di quello di Waterford city. La sua paga di istitutrice le aveva permesso di fare molte compere, così i due gemelli erano stati accontentati in ogni capriccio. Anche lei si sentiva soddisfatta, nel vederli finalmente felici di portare qualcosa a Ginevra, la loro madre. Anya diede loro alcuni spiccioli e comprarono uno scialle di lana nuovo. A casa, Ginevra non seppe come reagire; fece la moralista, ma era felice come una bambina.
Nel pomeriggio Anya indossò uno dei suoi vecchi abiti e si mise a lavare la biancheria. Quando finì, uscì e stese dei lenzuoli bagnati. Aveva arrotolato le maniche fino ai gomiti e non indossava nulla che tenesse il collo al caldo. Batteva i denti e le tremavano le mani. Non vedeva l’ora di andarsi a sedere di fronte al camino.
- Hai finito, Anya? – chiese Margareth facendo capolino dalla porta.
Anya appuntò una molletta. – Finito? Magari … sarà una fortuna se domattina non troveremo lastre di ghiaccio al posto delle lenzuola!
Margareth sorrise, ma convenne con la giovane. Rispetto al giorno precedente il tempo era stato sì migliore, ma la temperatura era scesa. La aiutò frettolosamente a stendere gli ultimi panni ed entrarono. Ginevra stava tagliando due fette di torta a Frederick e Marshall, mentre Hunt si accoccolava ai piedi di Mrs. Wright. Anya corse davanti al camino e tese le mani gelide alla ricerca di ristoro. Poi qualcuno bussò alla porta.
- Chi sarà mai a quest’ora? – borbottò Margareth, corrugando la fronte. Quando aprì, Anya le vide rizzare la schiena con sorpresa.
- E voi che ci fate qui? Anya, guarda chi ci sono venuti a trovare!
La giovane si allontanò a malincuore dal camino. Con un gran sorriso Margareth lasciò passare Anthony ed Edgard e Anya assunse la più sorpresa delle espressioni.
- Siamo venuti in città per un giro al mercato e abbiamo pensato di passare – spiegò Anthony dopo i convenevoli.
- Siete venuti in calesse? – chiese Margareth offrendo loro delle fette di torta. Anthony ed Edgard erano seduti; Anya ascoltava la conversazione in piedi, poggiata al tavolo con una mano.
Edgard sorrise. – Io l’avrei preferito … - rispose masticando un boccone.
- Abbiamo preso i cavalli … mio padre ne ha comprato uno, recentemente. In verità è una femmina … molto docile, a differenza del suo …
Indicò Edgard con un cenno del capo e Anya rise.
- Quindi hai un cavallo nuovo, Anthony? – chiese la giovane.
Lui annuì. – Si chiama Gaia … è qua fuori.
All’improvviso, mentre ancora mangiava, Edgard parve aver ricordato qualcosa d’importante e spintonò Anthony con gomitate al braccio. Inizialmente Anthony lo guardò con una smorfia infastidita; poi ricordò anche lui e strabuzzò gli occhi, affrettandosi a deglutire.
- Non ci crederai, Margareth … - iniziò tossicchiando. Anya gli porse un bicchiere d’acqua. – Non ci crederà nessuna di voi … fuori città, in campagna, abbiamo visto il signor Langley!
Anya e Margareth li guardarono, serie.
- Il signor Langley? – ripeté la donna.
Edgard annuì energicamente e Anthony lo imitò.
- Ma è impossibile … - sbuffò Anya – il signor Langley non tornerà se non dietro autorizzazione dell’ispettore …
Margareth mantenne un’espressione scettica, nonostante fosse evidente che la notizia l’avesse colpita. – Suvvia, ragazzi …
- Margareth era lui! Non posso sbagliarmi … conosco il signor Langley da una vita, si può dire … non credi possibile una simile … - si interruppe di fronte lo sguardo dubbioso della donna.
- Quell’uomo era alto, biondo e … oh, beh, non aveva i suoi vestiti soliti, ma la faccia … insomma, era lui, Margareth! Non mi credete?
Anya tratteneva il fiato. La mano con la quale si reggeva al tavolo e le labbra tremarono, unico sfogo del tormento che scuoteva forte il cuore. Margareth era ancora scettica, ma lei no. Nel tempo che Anthony impiegò a scusarsi fu come se tutti i suoni fossero scomparsi e a essi si sostituì un inquietante ronzio. Al tempo stesso, un singulto di felicità scosse lo stomaco e il petto, infuocando gli zigomi inizialmente pallidi di paura e illuminando gli occhi sorpresi. Si portò una mano al collo, con un lieve sorriso, mentre il ronzio si dileguava e le espressioni di Anthony e Margareth acquisivano consistenza tramite le parole.
- … l’ispettore ci avrebbe certamente avvisate, Anthony! Il signor Langley correva un … - abbassò improvvisamente la voce, data la presenza dei bambini nella camera adiacente. Abbandonò le braccia che aveva incrociato al petto e sbuffò, facendo sollevare una ciocca dal viso – Il signor Langley corre un pericolo non trascurabile, Anthony. Mi spieghi perché mai avrebbe deciso di tornare?
Il sorriso, che ancora increspava le labbra di Anya, si gelò. La luce negli occhi si spense. La mano tremò e le dita si serrarono nel palmo. Il ronzio si ripresentò.
Anya si girò lentamente verso Margareth, che ancora parlava, e verso Anthony. Lei si era ammorbidita e così lui, che mangiava la sua torta con più tranquillità. Sul viso di Margareth era comparso un insieme di tenerezza e indecisione; su quello di Anthony uno sbilenco sguardo indagatore.
Se quello era veramente il signor Langley …
Anya si sentì percorrere la schiena da un brivido. – A-A-Anthony … dov’è il cavallo?
Il ragazzo si fermò con la torta a mezz’aria e la bocca aperta. – Fuori. P-Perché?
Lei si portò una mano alla fronte, confusa sul da farsi. Si avvicinò a Edgard, gli poggiò una mano tremante sulla spalla e gli disse qualcosa sull’ispettore e il signor Langley. Delle parole che pronunciò capì soltanto – Fai presto.
Poi prese il cappotto, corse fuori e salì in groppa ad uno dei cavalli. Anthony le andò dietro senza capirci niente. Le gridò di fermarsi, tentò di riprendere le redini del cavallo; ma Anya fu più svelta e con un paio di tallonate fece partire il cavallo al galoppo.


Una trappola.
Una stupidissima trappola.
E lui c’era caduto come un frutto maturo.
Non poté trattenere una smorfia di disgusto verso sé stesso.
Si sentì le spalle scoperte. Badando a non fare il minimo rumore, si girò verso il corridoio e uscì dalla stanza.
Lui doveva essere lì.
Sporgendosi dalla balaustra del corridoio, guardando in basso e nei dintorni della stanza, non notò nulla di anomalo. Tese l’udito fino a sentir dolere il capo, ma il silenzio regnava ancora sovrano. Era talmente cupo e assoluto da fargli incredibilmente paura.
Lentamente si mosse in direzione delle scale. Adesso l’unico suono era il suo respiro e il martello dell’orecchio. Aveva le mani fredde e gli incavi tra le dita umidicci di sudore.
Sul primo gradino indugiò. Diede una fugace occhiata alle scale, poi alla stanza. E in punta di piedi scese, un gradino alla volta. Giunto alla fine si sentì più vulnerabile.
Non era chiaro il motivo per cui fosse sceso. Era stato l’istinto a guidarlo fino ad allora.
Di andare oltre aveva molta paura; ma non poteva neppure stare fermo a compiangersi come un bambino. Presto ricordò di dover raggiungere lo studio per prendere la pistola.
Dannato lui che l’aveva lasciata!
Si guardò un’ultima volta intorno, tese l’orecchio alla ricerca di eventuali rumori e, deglutendo, si incamminò verso la sala da pranzo, con il passo felpato di prima.
La tenuta non era granché illuminata. La luce aveva una tonalità quasi bluastra a causa del cielo coperto. L’architettura interna della casa era ben visibile.
Era tutto così tranquillo da dargli per un momento l’impressione che non ci fosse nulla da temere. Avanzò nella sala da pranzo con più calma, ma all’improvviso nel cortile si udì un suono secco, come di una bacchetta di legno spezzata, e si bloccò, gli occhi spalancati e i battiti cardiaci dolorosamente accelerati.
Trattenne il fiato.
Un istante dopo ci fu un altro rumore, più vicino.
Stava entrando.
A quel punto, preda della lotta tra la sua parte razionale e l’istintivo panico, scappò nella sala d’ingresso e corse per le scale, salendo anche tre gradini per volta. In cima respirava a stento e ogni fibra di sé tremava senza controllo. Lanciò fugacemente un’occhiata al piano inferiore, con una mano già sulla maniglia della porta del corridoio. Se c’erano rumori, lui, sicuramente, non era in grado di sentirli. Cercava di respirare più silenziosamente, ma senza risultati. Poi aprì la porta del corridoio e corse al suo studio.
Tante cose erano diverse da come le ricordava. Tanta roba non era al suo posto, dalla libreria mancavano dei volumi e la scrivania, solitamente occupata da qualche fascio di scartoffie, era libera e impolverata. Ebbe il timore che qualcuno vi avesse messo piede, ma … no. Era stato lui stesso a liberare la stanza, quand’era partito.
Si passò una mano sul mento e con un baleno di consapevolezza nello sguardo, si fiondò sulla scrivania. Aprì il cassetto in cui teneva la pistola, il secondo dal basso, sulla sinistra, e rovistò a fondo, tra carta che lo riempiva. Ma non trovò niente. Aprì allora tutto il resto dei cassetti, li rimosse dai binari, rovesciò l’intero contenuto sul pavimento, di fronte a sé. Cadde la pipa, si sparse una piccola quantità di tabacco; la scatola dei cerini urtò il suo ginocchio, una vecchia, piccola, bibbia frusciò impercettibilmente.
Gli tremarono le labbra.
La pistola non c’era.
Disperato, tese per l’ennesima volta l’orecchio e cacciò un’occhiata al corridoio, mentre si faceva spazio tra il mucchio di fogli e scattava verso un basso stipetto della libreria. Svuotò smaniosamente anche quello; si accingeva a buttare di lato un vecchio libro con la copertina di tela in brandelli, quando, all’improvviso, si illuminò. Il ricordo di sé che avvolgeva l’arma e un’abbondante manciata di proiettili in un panno distorse le labbra in un sorriso appena accennato. Le aveva cambiato posto per paura che qualcuno la trovasse e l’aveva nascosta in alto, sulla libreria. Un accorgimento adottato la mattina in cui era partito.
Quando allungò la mano e sotto le dita avvertì la ruvidità della stoffa, gioì; ma ebbe appena il tempo di poggiare l’involto sulla scrivania prima di udire un cigolio nel corridoio.
A quel punto non poteva fare altro. Anche se l’istinto glielo comandava non poteva scappare.
Scostò i lembi del panno, tremando per la fretta, e impugnò la pistola. Poi agguantò una manciata di proiettili e li caricò uno alla volta con grande difficoltà.
Sapeva che lui era là fuori nel corridoio. Se lo sentiva. Percepiva la sua dannata presenza.
Per il nervosismo alcuni proiettili gli caddero di mano. Mormorò una mezza imprecazione con le labbra tremanti.
Poi, un fruscio.
Alle sue spalle.
Langley alzò lo sguardo.
Richiuse silenziosamente la pistola e lentamente si girò.
Il panico svanì. Le pupille si restrinsero. Le labbra si piegarono in un fermo sorriso beffardo.
Jack Chandler era sulla soglia e il suo volto non aveva espressione.

Langley strinse la le dita intorno al calcio decorato. Carezzò la superficie metallica con l’indice, fino ad insinuarlo nel grilletto.
Chandler gli puntò contro la pistola.
Langley tolse la sicura.
E insieme fecero fuoco.


Anya non aveva mai spinto un cavallo ad un galoppo così veloce. Era come essere sempre sul punto di cadere.
Percorse vie secondarie e quando si accorse che la strada principale era sufficientemente libera deviò e spronò il cavallo ad un’andatura più rapida. La gran quantità di pozzanghere minacciava costantemente di farla scivolare e tentò in ogni modo di tenersi alla larga da esse. Ringraziò il cielo quando fu su un rettilineo di terra battuta.
La gente, al suo passaggio, imprecava e gridava esclamazioni spaventate. Anya era costernata, ma non poteva che spronare il cavallo. Aveva fretta di raggiungere le campagne di Waterford.
A poche centinaia di metri dalla fine della strada, si imbatté in una barriera di carrozze. Tirò con un gesto repentino le redini a sé e il cavallo frenò, lasciando dei segni sul selciato. Anya si alzò sulle staffe, sporgendosi, alla ricerca della ragione che aveva provocato quell’intasamento; ma non vedendo granché fermò un uomo e chiese a lui. Nessun incidente, la rassicurò con fastidio; se aveva fretta doveva imboccare la strada secondaria.
Anya seguì l’indicazione del suo dito e sbuffò sgomenta. Era un vicolo stretto, buio.
- Non ha altra scelta se deve uscire dalla città.


Langley aveva mirato troppo velocemente.
Il proiettile colpì la cornice della porta.
Chandler, invece, aveva avuto tutto il tempo per decidere dove sparare. In alto, al centro del petto. Dopo lo sparo, sorpreso dal vedere il conte armato, era corso via.
Langley corse verso la porta, ansimando per il dolore. Chandler l’aveva colpito al braccio destro, poco sopra il bicipite. La mano sinistra perse la presa della pistola e corse alla ferita. In breve si formò una chiazza rossa e con un ringhio di rabbia e di dolore, riprese la pistola e si gettò all’inseguimento di Chandler.
Corse lungo il corridoio e quando fu in cima alle scale si fermò e alzò la pistola. Chandler era a un passo dalla porta. Prese la mira e sparò; ma lo mancò di nuovo.
Langley scese a precipizio le scale, ignorando il bruciore al braccio, ma quando fu alla porta rallentò. Se lo voleva colpire doveva avere pazienza e, soprattutto, doveva evitare di ferirsi un’altra volta. Fece capolino dalla porta, cercando di muovere le dita della mano destra. Chandler pareva essersi dissolto nel nulla.
Si concesse un momento di tregua, anche se sapeva che non poteva, concentrandosi sul dolore al braccio, che raggiunse l’apice. Mugolando di collera guardò di nuovo fuori, intenzionato ad uscire, e vide, non senza sorpresa, Chandler vicino al cancello, con un atteggiamento di sfida. Voleva che lo seguisse? Non aveva molto senso. Se veramente intendeva ucciderlo, perché non lo faceva lì?
- Perché?! – gridò esasperato, sporgendosi dalla porta. Per tutta risposta quello sparò, colpendo una colonna del portico. Poi fuggì.
Langley sentì i suoi passi allontanarsi. Il braccio gli faceva male da morire. Chiuse gli occhi, riprese fiato a denti stretti ed uscì. Non dovette faticare molto per capire che direzione scegliere: oltrepassato il cancello, Chandler imboccò il sentiero a destra, quello che portava ai campi.
Gli corse dietro, ma, giunto alla biforcazione, non trovò nessuno. La paura tornò. I respiri affannosi non gli permettevano di udire eventuali rumori. Uno stormo di uccelli volò rapido sulla tenuta con un fragoroso fruscio.
Poi, d’un tratto, sentì uno scalpitio lontano e allorché guardò nella direzione da cui veniva il suono, capì perché Chandler si fosse allontanato: era andato a prendere il suo cavallo per fuggire. Galoppò per circa un centinaio di metri, poi girò a sinistra.
E Langley non trattenne un ghigno.
Chandler aveva appena imboccato un rettilineo in cui lui e Fedor raggiungevano sempre la massima velocità. Sarebbe stato facile colpirlo.
Mentre ci pensava correva a perdifiato verso il punto in cui Chandler era scomparso. Ci impiegò più tempo del previsto e quando arrivò a malapena teneva sollevata la pistola.
Poi trattenne il respiro, mirò alla schiena e sparò.
A un centinaio di metri di distanza, il cavallo si impennò con un nitrito spaventato e Chandler volò sul selciato. Langley tenne lo sguardo fisso sulla scena con la rivoltella puntata e gli occhi pronti a prendere nuovamente la mira. Chandler cadde su un fianco e la sua pistola atterrò poco distante.
Langley abbassò lievemente il braccio armato per vedere meglio ciò che accadeva; dopodiché, lentamente, mosse alcuni passi in quella direzione. Chandler era immobile. Gli si avvicinò ancor di più, senza chinare la pistola, e sospirò, producendo una nuvoletta di vapore.
Era finita?
Jack Chandler era morto?
Langley mosse le labbra con incredulità, piegando appena il capo di lato per capire.
Fu in quel brevissimo istante di distrazione che il suo avversario, che lo aveva osservato per tutto il tempo con gli occhi semichiusi, impugnò la pistola e gli sparò.

Anya era prossima alla tenuta, quando nell’aria risuonò quel suono agghiacciante. Il cavallo interruppe improvvisamente la sua corsa e iniziò a indietreggiare, terrorizzato. Anya strinse la presa sulle redini e la sella, cercando di calmarlo con qualche parola affettuosa. Le orecchie del cavallo erano ritte, attente, e gli occhi sbarrati. Anthony, un giorno, mentre ancora lavoravano alla tenuta, le aveva detto che quando un cavallo è spaventato, calmarlo è difficile; sono necessarie pazienza e serenità. Qualità di cui Anya, in quel momento, non disponeva.
Sin da quando era uscita dalla città in suo viso era rigato da lacrime calde e gli occhi appannati le avevano reso quasi impossibile vedere dove il cavallo metteva i piedi. A poco meno di due miglia dalla tenuta aveva udito uno sparo, il primo. Poi era arrivato il secondo e si era lasciata prendere dal panico.
Il cavallo non accennava a quietarsi.
- Ti prego, sta’ fermo … - pianse, carezzandogli il collo.
Prendendo un respiro, riuscì momentaneamente a smettere di piangere e a concentrarsi sull’eco dello sparo. Dopo un po’ anche il cavallo smise di indietreggiare e Anya guardò verso il cancello della tenuta; strinse le redini fra le dita e senza capire bene il motivo ricominciò a piangere.
Girò il cavallo in direzione del sentiero a destra e galoppò fino a dove si biforcava in due strade. Lì si fermò, si guardò intorno … e lo vide.
In piedi, piegato su sé stesso, con la mano sinistra sulla pancia e la pistola a terra.
Lontano, a un centinaio di metri, un uomo teneva una rivoltella puntata nella sua direzione.
In un istante Anya si ritrovò a terra, squassata dal pianto, gridando con tutto il fiato che aveva nei polmoni.
Il signor Langley si girò verso di lei.
Lentamente.
La guardò con un baleno di allarme negli occhi chiari e mosse il capo, forse con l’intenzione di scuoterlo, prima di cadere a terra.
La giovane corse verso di lui, ma prima di raggiungerlo Chandler sparò nella sua direzione. Il proiettile sfrecciò accanto al suo orecchio.
- Anya … vattene …
Anya guardò il signor Langley, steso su un fianco, e la sua mano sinistra, pressata sulla pancia, rossa di sangue. Quando tentò di riavvicinarsi a lui, Chandler sparò di nuovo. Questa volta il proiettile vagò lontano, ma Anya non lo perdonò. Corse a raccogliere la pistola del signor Langley e mirò. Non aveva mai impugnato un’arma, men che meno sparato.
In mano sua la pistola non riusciva a star ferma. Tremava troppo. E con gli occhi appannati non vedeva un accidenti.
Dietro di lei, il signor Langley la pregava debolmente di metterla giù e aveva alzato lo sguardo su Jack Chandler, per quanto difficile fosse. Ogni istante che passava era sempre più fiacco e la voce si affievoliva. Poi incominciò a tossire e tra le dita della mano sentì un fiotto caldo.
- Any … a … - la chiamò, prima di udire un altro sparo.
A quel punto chiuse gli occhi, terrorizzato dall’idea che la ragazza fosse stata colpita; ma lei gli fu presto accanto.
- Paride … ehi … no …
La giovane si chinò su di lui, tremando come una foglia.
- Ti prego, apri gli occhi … - mormorò, sollevandolo per le spalle. Langley la guardò, mentre lei gli passava un braccio sotto il capo. – Ce la fai a … a stare sveglio … - singhiozzò, disperata - … ce la fai? Saranno … saranno qui, presto …
Langley annuì debolmente, trattenendo un colpo di tosse. Qualcosa di freddo si posò sulla sua mano sinistra. Abbassò lo sguardo e scosse il capo. Anya cercava di sollevarla per controllare la ferita.
- No … Anya … ti prego – la bloccò, alzando la voce per quanto il dolore gli permetteva. Trasse le gambe a sé e chiuse gli occhi, con una smorfia.
- Ti prego … ti chiedo solo pochi minuti … saranno qui, presto …
Langley si sforzò di sorridere e annuì. La giovane si chinò su di lui e lo abbracciò forte.
- Mi sei mancato così tanto!
- An … anche tu …
Tentò di ricambiare la stretta, usando solo la mano destra; ma riuscì a stento a toccarle una spalla. Anya lo baciò sulla guancia e le labbra, poi si guardò attorno. – Saranno qui, presto …
Langley le rivolse uno sguardo interrogativo.
- L’ispettore Hurlstone – singhiozzò lei – e … e Marga … dio mio! Ma perché ti ha … ti prego, fammi vedere …
Lui avrebbe voluto bloccarla, ma non si sentiva più le forze. La mano fredda di Anya sollevò la sua e dopo un momento di tregua ricominciò a piangere più forte di prima.
- Va curata! – disse scostando la camicia rossa di sangue. Langley si contorse per il dolore, gemendo.
- Ti porto alla … alla tenuta … ho un cavallo, qui! Guarda, lo chiamo!
Si portò due dita alla bocca, per fischiare, ma nonostante i numerosi tentativi non vi riuscì. E non conosceva neanche il nome del cavallo, che passeggiava tranquillamente per il sentiero, annusando il selciato.
- L … lasc … stare …
Con uno sforzo si riportò la mano sulla ferita. Anya sperava ancora che il cavallo le andasse incontro.
- Anya … - la chiamò. La voce si era fatta più flebile.
- Saranno qui, presto … ti prego … saranno qui, Paride … arriveranno presto …
Langley tossicchiò. – An … a … io …
- Shh – pianse lei, prendendogli una mano – stanno arrivando …
- M … mi dis … spiace … ma …
Tossì ancora e in bocca sentì il sapore ferroso del sangue. – Non … ce la … faccio …
Anya lo abbracciò, piangendo disperatamente contro la sua spalla. – Paride, no! Ti prego … io ti amo … ti prego!
Langley chiuse gli occhi.
- No … no, no, no! Guardami, guardami!
Avvertì le sue dita intorno al mento, scuoterlo debolmente. Riuscì a riaprire gli occhi e guardarla un’ultima volta in viso. Continuava a piangere e a chiamarlo, ma a raggiungerlo era un’eco.
- Ti … ti amo a … anch’io … - mormorò.
Anya gli si accoccolò nuovamente sulla spalla, abbracciandolo con forza. Langley chiuse gli occhi.
Un istante dopo, la mano che aveva tenuto sulla ferita, ricadde inerte lungo il fianco.

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Capitolo 55
*** Capitolo LIII ***


An irish tale - Capitolo LIII



Dublino, Maggio 2010

La campanella squillò.
I ragazzi ne furono come sempre frastornati, mentre la professoressa tentava di farli rimanere seduti a suon di rimproveri. Mentre, rigirandosi verso la lavagna, finiva di scrivere la reazione della fotosintesi clorofilliana, Linda copiava con la mano destra e conservava le sue cose nello zaino con la sinistra. E nel frattempo badava che la professoressa non la vedesse.
- Dunque … ricapitolando … Walsh, le ho detto che si può alzare?! – squittì riprendendo, poi a spiegare.
Linda scrisse pigramente la reazione, agitandosi sulla sedia. – Sempre la solita storia … gnegnegnè, gnegnignò … - si lamentò con Scarlett, la compagna di banco – Sono le due passate, per la miseria! Ma non se ne rende conto?!
- Signorina Bacott, ha detto qualcosa?
Linda strabuzzò gli occhi, mimando con il labiale un “Ma come cacchio fa?! Ha un occhio dietro la testa?” ai compagni che la guardavano.
- No, prof … mi era caduta la penna …
Esattamente cinque minuti dopo si era messa lo zaino in spalla e stava uscendo dalla classe, in ritardo rispetto ai suoi compagni. Mrs. Brandorf le ordinò di mettere i suoi libri nell’armadietto e pulire la lavagna.
Era una magnifica giornata di sole. La classica, profumata giornata di sole di fine Primavera.
Ma Linda non poteva godersela. Non sentiva alcun odore, né sapore da una settimana a causa di un raffreddore. Quando terminò di cancellare la lavagna starnutì non meno di cinque volte filate.
- Temevo che la Brandorf ti avesse rinchiusa nell’armadietto … - sorrise Paul quando furono fuori.
- Non parlarmene!
- Interrogazione a tappeto?
Linda scosse il capo mentre si soffiava il naso.
- Beati voi … nella nostra classe ha fatto una strage …
- Ma dai?
Paul annuì con un’espressione amareggiata.
- Ha interrogato anche te?
- Già …
- E come ti è andata?
- È andata che mi ha messo quattro …
Linda storse il labbro inferiore. Effettivamente Paul non aveva una bella cera e la fermata del tram a pochi passi ebbe il potere di mitigare il malcontento.
- Vai all’ospedale? – le chiese Paul, con la faccia di chi conosce la risposta. Linda annuì.
- Non ti andrebbe di venire a casa mia?
Linda alzò lo sguardo sul tram che si avvicinava.
- Dai, è Sabato … dopo pranzo potremmo andarci a fare un giro …
- Sarà per un’altra volta, Paul.
Il tram si fermò di fronte a loro. Paul volse a Linda uno sguardo contrariato, invitandola a seguirlo con un movimento delle sopracciglia; ma lei non cambiò idea. Gli diede una pacca sul braccio e lo salutò.
- Magari stasera ci vediamo un film – aggiunse con un’alzata di spalle mentre lui saliva sul tram.
Paul sorrise, cercando di nascondere la delusione. Le porte si chiusero e il tram riprese il suo giro.
Linda sedette alla fermata, tenendo distrattamente d’occhio la strada. Apprezzava la sua scelta di andare in ospedale, ma al contempo si sentiva in colpa con Paul. Era già il terzo sabato che le proponeva di passare il pomeriggio con lui … oltre tutte le volte in cui l’aveva invitata a casa sua per aiutarla con la matematica. Ma tra Paul e Anya, la preferenza era ovvia.
Erano trascorsi quasi sei mesi dall’incidente e ancora, nonostante la frustrazione e un senso sempre maggiore di rassegnazione, si sperava che Anya riprendesse conoscenza. Era guarita da tutti i traumi fisici; le cicatrici e i lividi erano scomparsi, ma, come diceva sempre il dottor Homais, era un altro il trauma a cui bisognava pensare.
Elizabeth era tornata dall’Italia, ma non era chiaro quanto tempo volesse trascorrere a Dublino. La sua presenza era stata necessaria per una ripresa di Kate, che aveva riaperto l’ambulatorio ed era tornata a lavorare. In questo modo anche Linda, aveva messo un po’ d’ordine nella sua vita ed era riuscita a recuperare diverse insufficienze, malgrado ci fossero parecchie possibilità che alla fine dell’anno si portasse un paio di debiti.
Per quanto riguardava la sua vita quotidiana, Linda trascorreva il suo tempo a studiare e a fare avanti e indietro dall’ospedale a casa. Non di rado era invitata da Paul e quando non era lui, lo faceva Ophelia, che aveva un intento meno romantico. Da un po’ di tempo, infatti, Paul aveva tentato di approfondire il loro legame. Linda ne era rimasta piacevolmente colpita, anche perché Paul manifestava il suo affetto in maniera assai gentile: la aspettava tutti i giorni fuori da scuola, faceva un po’ di strada con lei, talvolta la seguiva all’ospedale; se ciò non accadeva chiedeva notizie di Anya o preparava il pranzo a Linda e glielo consegnava alla fine delle lezioni. Nonostante tutto, Linda non si sentiva ancora pronta per una relazione con lui. Le piaceva senz’altro, ma dall’incidente di Anya non era più stata in grado di decifrare il presente, né sé stessa. Ogni azione era portata a termine con un opprimente senso di colpa. Fino alle azioni più innocenti e benevole non riusciva a non pentirsi di quello che faceva.
Ma Paul non capiva.
A lui non diceva nulla e neppure a Ophelia. Lei era sempre positiva, non poteva capirla. A pensarci bene era sempre stata Anya la sua confidente. E con lei, malgrado il dottor Homais la invitasse a parlarle, non spiccicava più neanche una sillaba. Odiava vederla stesa sul letto, addormentata, muta ad ogni sua supplica. Se adesso si recava in ospedale era solo per non dispiacere sua madre e sua nonna.
Fortunatamente, dopo pochi minuti di attesa, il suo tram arrivò e lei poté scongiurare ogni cattivo pensiero con la musica del lettore mp3 di Anya.
Ascoltò per l’ennesima volta parte della sua collezione dei REM, ripetendo a mente, con noia, tutte le parole. Poi scorse velocemente l’elenco e spense il lettore. Il tram si era fermato per fare salire della gente e lei scese, facendoli strada fra un piccolo gruppo di studenti.
- ‘Giorno – disse svogliatamente ad un infermiere che conosceva. Sul corridoio in cui si trovava la stanza di Anya, rinnovò il pigro saluto con un paio di pazienti e un’infermiera. In camera c’era Elizabeth. Linda si bloccò sulla soglia: forse quella di rifiutare l’invito di Paul era stata una cattiva idea. Da un po’ di giorni, infatti, sua nonna era nervosa a causa di alcuni problemi in Italia. Pareva che volessero partire anche suo nonno e uno dei figli e che Elizabeth fosse molto preoccupata.
Anche quel pomeriggio era alquanto tesa e Linda lo capì subito. Approfittò del fatto che stesse parlando al cellulare e fosse di spalle e uscì di soppiatto. All’uscita dell’ospedale prese il telefonino e chiamò sua madre per avvisarla che avrebbe trascorso il pomeriggio con i Turner. Ma ecco che, mentre scendeva le scale, comparve sua madre, in macchina. Linda rimase con il cellulare poggiato all’orecchio, bloccata su due gradini, pensando a quella stramaledetta sfortuna che non le dava un attimo di pace.
Scrutò sua madre attraverso il finestrino della macchina e sorrise, guardandola prendere il cellulare dalla borsa e voltarsi da un’altra parte. Non l’aveva vista.
Riprese la sua fuga, mentre parlava con sua madre al telefonino, e in meno di due minuti fu alla fermata, seduta con lo zaino vicino e il telefonino in mano. Kate fu piuttosto strafottente e non le chiese neppure dove si trovasse. Conclusa la chiamata Linda rimise il cellulare in tasca e corse sul bordo del marciapiede, perché era arrivato il suo tram.


- Simone … no, Simone, ti prego, evitami anche queste … sono preoccupata! Qui procede tutto come al solito … va bene, ciao … ciao!
All’improvviso si fece silenzio.
E per la prima volta dopo sei mesi, udì un respiro lento e affaticato.
Il suo.
Provò istintivamente a muovere la mano, ma neppure un dito rispose ai suoi comandi.
La voce di prima riprese a rianimare l’ambiente di cui non conosceva né ubicazione, né profondità.
Era tutto così lontano dai suoi ricordi …
Un secondo respiro riempì a stento i suoi deboli polmoni.
Cos’erano quelle … cose che sentiva? Oggetti che urtavano, voci, grida …
Se avesse potuto avrebbe pianto. Ma non ci riusciva. Non ricordava come si facesse.
Dopo un istante ci fu nuovamente silenzio.
Poi, con uno spasmo doloroso, le voci e le grida di prima tornarono.
E una lacrima colò dall’angolo di un occhio.

Anya entrò nella stanza del signor Langley. Era steso sul letto, nudo dal capo fino ai fianchi. Due bendaggi coprivano l’addome e il braccio destro. Il signor Connelly stava lavandogli la mano sporca di sangue. Quella con cui aveva vanamente cercato di tamponare la fuoriuscita di sangue.
Anya avanzò fino al letto, stremata, e si chinò sul corpo del conte. Carezzò istintivamente il suo pallido volto e, chinandosi su di lui per abbracciarlo, ricominciò a piangere. Se avesse voluto che la sentisse, che la rassicurasse, che la stringesse a sé aspettando che si calmasse, non lo sapeva. Era conscia che il suo cuore si fosse fermato, che non avrebbe più avuto la possibilità anche solo di sentirlo lamentare di quello che faceva, ma, come accade sempre in momenti del genere, non era disposta ad accettarlo. Per la sua parte razionale e anche per quella istintiva, il conte aveva chiuso gli occhi unicamente per dormire. Presto si sarebbe risvegliato e l’incubo concluso, permettendo infine che entrambi tornassero insieme.
Ma quando in tutto quel nero Anya era riuscita a trovare un barlume di luce, un’illusoria speranza alla quale aggrapparsi, Margareth entrò nella stanza, avanzando di pochi passi verso il letto del conte, piangendo disperatamente.
Anya strinse più forte a sé il conte, ricercando maggior contatto con le dita, che scivolavano sulla pelle non più calda.

L’ispettore Hurlstone convenne con i suoi agenti che non era il caso di soffermarsi sul corpo del conte, in quanto le cause della morte erano evidenti e nel giro di poco tempo, due giorni al massimo, dovesse esser fatto il funerale.
Lasciò che amici più o meno stretti gli porgessero l’ultimo saluto e trascorse quel tempo alla tenuta. Anche Helen, sua sorella, partecipò al cordoglio. Per il resto non furono poche le persone che passarono alla tenuta. Molte di esse erano personalità di spicco come il giudice Boulangher e il duca Rudolph.
In ogni caso l’ispettore ritenne più appropriato non farsi vedere in giro. I pochi che lo riconobbero lo salutarono freddamente e lui non poté biasimarli. In un certo senso era stato lui la causa della morte del conte.
Le indagini si interruppero nel momento stesso in cui trovò Anya abbracciata al corpo esanime del signor Langley. La carrozza aveva avuto dei rallentamenti a causa del cattivo tempo. Avevano perso appena pochi secondi, che si erano rivelati fatali: anche Jack Chandler era morto. Un colpo di pistola l’aveva colpito al centro del collo. Mentre tornavano alla tenuta, Anya confessò di averlo ucciso lei. Hurlstone non ne fu sorpreso e in fase di archiviazione del caso, scrisse che Chandler era morto per mano del conte Langley.

Il conte fu seppellito accanto moglie e figlia.
Il caso volle che in tal modo venisse esaudito uno dei suoi ultimi desideri. Qualche giorno dopo, invero, da frate Thomas, che era stato recentemente raggiunto dalla triste notizia, l’ispettore ricevette un pacco che conteneva degli oggetti che il signor Langley aveva lasciato nella sua cella prima di partire. Inizialmente decise di non indagare più a fondo e consegnare tutto ad Anya; ma quando stava per richiudere la scatola, lo sguardo gli cadde su una busta che pareva contenere una lunga lettera. La prese e vide che non era sigillata, né indirizzo era stato vergato sul retro. Così, con discrezione, l’aprì e iniziò a leggere. Riconobbe la scrittura del conte: era il suo testamento. Animato da una curiosità sempre più discreta, sedette alla scrivania e scorse tutto il documento. Poi fece chiamare il signor Hobson e gli consegnò il documento.
La lettura del testamento avvenne nel salotto del dottor Bowles, in presenza di un notaio e di tutti i conoscenti più stretti del signor Langley, compresa la servitù. Anche l’ispettore vi prese parte. Si posizionò un angolino, accanto alla porta, e con le mani unite dietro la schiena, silenziosamente, seguì tutto il discorso. Ma prima che il signor Hobson iniziasse a parlare si guardò un po’ attorno. Arrivate insieme, Margareth e Anya sedettero su un divano, dietro consiglio del dottor Bowles. La giovane, visibilmente addolorata, trascinava la governante con sé tenendola a braccetto. La donna, infatti, tranne che per qualche cenno di risposta alle domande che le venivano rivolte, era totalmente assente. Pallida, con delle occhiaie grigiastre e i capelli poco curati, sembrava sul punto di morire. Di tanto in tanto Anya la scuoteva e la guardava in viso, alla ricerca di un cenno. Margareth allora farfugliava qualcosa e Anya le porgeva un fazzoletto, per poi voltarsi e coprirsi il viso con una mano, nascondendo le lacrime.
L’ispettore le attribuì una grande forza d’animo. Margareth era distrutta come solo una madre potrebbe esserlo e l’ispettore provava una grande pena, oltre a pensare che se si fosse trovato lui in una situazione simile, con il suo carattere non avrebbe resistito più di un’ora. Anya, invece, dimostrava una fermezza ed un controllo fuori dal normale. Nonostante lei stessa fosse in pena, rassicurava la governante ad ogni cenno di disperazione, per poi trarre lunghi sospiri e guardare fissamente altrove.
Dalla data del documento risultava che esso era stato stilato la sera prima della sua partenza dal monastero.
Dopo un breve incipit diceva:
“Ho deciso di partire nonostante le molte probabilità che durante il viaggio possa accadermi qualcosa. L’ispettore Hurlstone mi ha spedito una missiva, che allego al documento, nella quale mi informava delle precarie condizioni di salute della mia governante, Miss Margareth Wright. Parto con la speranza di poter fornirle un aiuto o quantomeno esserle di conforto durante la malattia”.
Seguì un attimo di silenzio. Il signor Hobson deglutì, abbassando momentaneamente la lettera. Margareth singhiozzava e Anya le passava una mano sulla schiena, tentando di consolarla.
Ad un cenno del dottor Bowles, il signor Hobson ricominciò a leggere.
“Nutro una profonda insicurezza, pertanto sento la necessità, se non il presentimento, di dover scrivere questa lettera …”.
Margareth continuò a singhiozzare e Anya a bisbigliare parole di conforto. Accanto a loro il dottor Bowles non era da meno e i suoi occhi non cessavano di riversare sulle guance lacrime calde. Il resto della servitù e i pochi amici del conte presenti seguivano la lettura con più compostezza.
Come dedusse successivamente, quella che all’ispettore era parsa una lettera lunga era, in realtà, un documento relativamente breve, correlato di documenti che attestavano la veridicità di quanto vi era scritto.
Dopo una piccola premessa in cui il conte attestava “l’esiguità delle mie finanze, come sa chi ha avuto modo di accedervi”, ripartiva così i suoi averi: lasciava cento sterline ad ogni membro della servitù, eccezion fatta per Anthony, al quale ne dava duecento “per via delle precarie condizioni di vita che ho personalmente costatato”; al signor Hobson lasciava il compito di prendersi cura dell’azienda come meglio credeva (a patto che non integrasse il signor Drebber come socio). Quanto a Margareth, malgrado l’ostentazione di una certa sicurezza, attraverso le sue parole il signor Langley rivelava una profonda indecisione. Innanzitutto le affidava Hunt, poi scriveva di lei in termini molto affettuosi, definendola la madre che tutti dovrebbero avere. Hurlstone notò che su questo il conte si dilungò, dedicando all’argomento più di tre righi. Infine si decideva: la nominava proprietaria della tenuta, della quale avrebbe dovuto stabilire il migliore dei destini possibili.
Alla sua beniamina dedicò ben più di tre righi, ma fu molto bravo nel non renderlo evidente.
L’eredità consisteva in una vasta proprietà terriera al confine con la contea di Kilkenny. La stessa per cui aveva fatto due volte andata e ritorno nel periodo in cui si tenne il ballo dei Drebber. Il signor Langley specificava che oltre questo le metteva a disposizione una cifra pari a cinquemila sterline (due anni di rendita), con cui avrebbe potuto far costruire una scuola o un istituto.
L’ispettore lesse sul viso latteo della giovane lo stupore. Non seppe dire se fosse contenta o più triste di prima. Probabilmente era tutt’e due le cose, ma i tratti facciali non sapevano se esprimersi in un modo o nell’altro.
Su quest’indecisione si trastullò fino alla fine della lettera. In conclusione il signor Hobson le si avvicinò per mostrarle un post scriptum, che si era curato di non leggere ad alta voce. Fu il momento in cui Anya riuscì a decidere che reazione avere: si nascose il viso tra le mani e pianse.
Finito con il documento, tutti i presenti si dileguarono. Gli unici a intrattenersi più a lungo furono Anthony, lo stalliere, Miss Wright e Miss Bacott. Mentre il dottor Bowles faceva servire il tè, l’ispettore uscì nel porticato a prendere una boccata d’aria.
Quel giorno il cielo era grigio, ma la luce non mancava. Era una curiosa via di mezzo tra il bello e il cattivo tempo; come per gli avvenimenti di quella giornata, anche il tempo lasciava la libertà di decidere se considerarlo con un’accezione positiva o negativa.
Hurlstone trovò modo di contemplare quei muti istanti in una sedia a dondolo scricchiolante. Dopo essersi cullato un po’, l’ispettore si fermò, ma continuò a rimirare il giardino del signor Bowles e il cespuglio di margherite gialle accanto alla scala del portico. Fino a che la porta non si aprì.
Anya uscì silenziosamente, senza il minimo rumore. Era fasciata in un austero abito nero, senza pizzi, merletti o ricami di alcun genere. Portava i capelli raccolti e nonostante la bassa temperatura non aveva nulla a coprirla. Hurlstone la seguì con la coda dell’occhio fino a che non raggiunse la scala. Lì Anya si fermò e si voltò. Lui fece lo stesso, alzando gli occhi e per un breve istante si guardarono. Poi Anya si portò una mano alla fronte e con un muto sospiro scese le scale.
Hurlstone la osservò mentre si allontanava lungo il sentiero del giardino e gli orli della sua gonna svolazzavano al ritmo dei suoi passi. Ma quando fu sulla soglia del portone si tirò su di scatto e le andò dietro. Anya, o come la chiamava lui Miss Bacott, procedeva verso i campi a ovest della casa del dottor Bowles.
Camminarono fino alla tomba del signor Langley. A meno di venti metri, adocchiata la lapide, la giovane rallentò improvvisamente il passo e raccolse uno dei pochi boccioli presenti in quell’area. L’ispettore decise di mantenersi da parte, anche quando la vide accasciarsi sulle ginocchia e carezzare il nome scolpito sulla lastra di pietra; ma dopo un buon quarto d’ora le si avvicinò. Anya si era quietata, anche se, seduta sulla terra bruna, fissava la lapide con sguardo spento.
- “P.S. =Promettimi che non ti butterai giù, che vivrai come finora hai fatto e non ti dispererai nel mio ricordo. Promettimi che continuerai ad amarmi, ma che non rinuncerai ai piaceri che la vita vorrà donarti. Promettimi che non ti estinguerai senza prima aver esaudito tuo ogni desiderio e che vivrai intensamente. Lascio questa vita, ma ti sarò accanto in ogni momento. Ti amo e ti amerò per sempre. Tuo, Paride”.
Parlò con una voce non sua.
L’ispettore sentì pizzicare gli occhi e li volse al cielo, sperando che il vento freddo lo aiutasse a ricacciare le lacrime. Aveva letto quel poscritto. La lettera era stata scritta soprattutto per lei.
Ripreso il controllo di sé, dopo essersi asciugato la guancia con il fazzoletto, guardò Anya, ma a lungo non seppe cosa dirle. I minuti passavano lentamente, in silenzio, e nessuno di loro due si preoccupava dell’addensarsi delle nubi in cielo.
- Cosa sono senza di te? – pianse ad un certo punto Anya, chinandosi sulla tomba. – Che me ne faccio dei tuoi terreni se non ci sei tu ad aiutarmi?
- Mi dispiace – fu l’unica cosa che riuscì a dire l’ispettore, sinceramente commosso. – Mi dispiace …
Presto cominciò a piovere. La prima gocciolina cadde sulla fronte di Anya, che alzò gli occhi al cielo plumbeo, nella prima reazione spontanea dopo giorni di assenza. La seconda goccia impattò contro la dura lastra di marmo della tomba. Poi con un tuono, la pioggia scrosciò sull’intera vallata.
Piuttosto che pensare ad andarsi a riparare, Anya si sforzò di immaginare quale sarebbe stata la reazione del conte. Nel tentativo le parve di riaverlo davanti, mezzo sorridente, con i capelli e i vestiti zuppi. Non aveva mai fretta di rientrare quando pioveva.
- Signorina Bacott … - la chiamò l’ispettore, toccandole una spalla.
Anya non ebbe reazioni. Guardò le proprie mani poggiate al marmo e con delicatezza allontanò la spalla dalla mano dell’uomo.
- Andate pure, se volete. Io rimango qui.
La stoffa nera del suo abito si riempì piano piano di aloni scuri. L’ispettore non poté fare a meno di darsi un’occhiata intorno e constatare che erano soli nel raggio di diverse centinaia di metri, che il vento stava aumentando e la pioggia con lui. In breve la capigliatura di Anya si sfaldò in numerose ciocche che svolazzavano intorno al volto e sul collo. Le tese una mano.
- Signorina Bac …
- Ma insomma, andatevene! Ho già deciso di rimanere. Voglio stare da sola! Andate via!
Hurlstone ritrasse la mano, colpito ma non sorpreso. Poi si udì un tuono, più forte del primo e, malgrado provasse una sincera pena per lei, la afferrò quanto più gentilmente poteva per le spalle e la tirò su.
- Potremmo beccarci un fulmine, signorina Bacott! – esclamò quando lei si mosse per divincolarsi.
- Non mi importa! – gridò Anya, il viso bagnato dalla pioggia. – Non mi importa! Andate via, non è vostro il conforto che voglio! Lasciatemi!
L’ispettore titubò ancora qualche istante. Dunque la lasciò e lei cadde in ginocchio, in preda ai singhiozzi.
- È colpa vostra … tutta colpa vostra, ispettore … sarebbe ancora qui … è solo colpa vostra …
E dicendo questo si rannicchiò contro la lapide, piangendo senza freno. L’ispettore, a qualche metro di distanza, indietreggiò di qualche passo, poi le diede le spalle. La pioggia gli aveva inzuppato i capelli e lo sprone della giacca.
All’improvviso, se fosse stato il paesaggio brullo, il cielo grigio, il lutto di quei giorni o il pianto disperato di Anya, non lo sapeva, ma avvertì, come un macigno sulle spalle, tutto il peso di una colpa su cui non si era mai arrischiato a riflettere. Un brivido gli percorse la schiena. Chiuse gli occhi. E cadde in ginocchio, in lacrime.

I giorni che seguirono non furono privi d’interesse, né faticosi. Ma molte cose cambiarono e altre finirono.
L’ispettore Hurlstone convocò il duca Rudolph alla stazione di polizia, mentre, contemporaneamente una squadra di agenti veniva mandata nella sua tenuta di Kilkenny. Com’era normale che accadesse, il duca non nascose l’irritazione di essere allontanato proprio nel momento in cui la moglie stava per dare alla luce il suo primogenito. Hurlstone trovò ottime scuse per calmarlo. Lo trattenne più di tre giorni e quando la notizia che il bambino era nato comparve sui giornali, gli rivelò tutto. La reazione del duca non si fece attendere: dopo un istante di puro sbigottimento parve trovare un’ottima ragione per odiare una donna che da diversi mesi lo sorprendeva con i suoi repentini, quanto fastidiosi, cambi d’umore.
Tuttavia, nonostante la genuina sorpresa, Hurlstone volle interrogarlo. Durò più di tre ore. Alla fine, nell’attestare l’innocenza dell’uomo, non nascose una certa delusione. Il duca non sapeva effettivamente nulla dei piani della moglie e, per quanto lo riguardava, aveva voluto bene al signor Langley come un fratello.
Così l’ispettore lo lasciò andare. Rudolph si allontanò con la promessa che avrebbe consegnato con le sue mani la moglie alla polizia, ma alla condizione che non venisse condannata a morte.
Il tempo passò. Anya si trasferì nel terreno che il conte le aveva lasciato e diede inizio ai lavori per la costruzione di un istituto in cui aveva intenzione di far lavorare i colleghi della tenuta. Lei e l’ispettore si tenevano regolarmente in contatto. Anya veniva aggiornata in merito ai Rudolph tutte le volte che se ne presentava l’occasione e Hurlstone era fiero di dirle tutte le volte che aveva la situazione sotto controllo e che una consistente e sempre più impaziente squadra di agenti non perdeva di vista i due coniugi Rudolph.
Dopo un anno l’attesa venne premiata e la signora Rudolph consegnata alla polizia. Infine, il duca aveva mantenuto la promessa. Hurlstone fu tentato di non chiederle niente. Di lei sapeva già abbastanza e la velenosità delle parole che ella gli rivolgeva lo tentò a più riprese di buttarla in carcere senza remore, ma la curiosità prese presto il sopravvento e la Rudolph fu interrogata. Non mentì neppure una volta. Parlò ininterrottamente degli avvenimenti, non nascondendo né giustificando l’odio che l’aveva guidata.
A tutto ciò che l’ispettore sapeva già, nulla fu aggiunto. Tranne un elemento: il motivo che aveva spinto Chandler a uccidere il signor Langley.
- L’avrei ucciso con le mie mani, se solo mi fosse stato possibile – aveva detto, facendo allusione alla gravidanza – Trovai un degno sostituto in Jack. Non so cosa avesse nel cervello, quell’individuo. Ma era malato di mente, senza dubbio. Non temevo per la sua morte. Se Langley fosse riuscito ad eliminarlo non avrei perso nulla; ma valeva la pena di tentare. Jack era dotato di una natura incredibilmente perfida e non si lasciava scappare neppure un segreto. Con lui mi sentivo più sicura.
Decisi di metterlo alla prova commissionandogli una prima missione, alla conca. Avrebbe dovuto consegnare un messaggio a Neybourgh da parte mia, un messaggio nel quale dicevo che non avrei mollato un cents se prima non avesse adempiuto al suo dovere. Quando Jack tornò e mi consegnò la pistola alla quale mancava un proiettile, ebbi la certezza di aver trovato l’uomo giusto. Dopotutto Neybourgh aveva già minacciato di costituirsi. Così, appena ne ebbi l’occasione convocai Jack per un altro incarico: l’ultimo. Scrissi una lettera a Langley, spacciandomi per mio marito, nella quale dicevo che a causa di disguidi avevo licenziato lo stalliere e glielo mandavo perché sapevo che lui non ne aveva. Ma voi lo veniste a sapere e mandaste via Langley. Non mi restava che un ultimo colpo di genio. Dissi a Jack di tenervi d’occhio e di comunicarmi ogni vostro spostamento. In questo modo scoprì come vi tenevate in contatto con il conte e tolsi di mezzo il messo. Poi scrissi una lettera, imitando la vostra grafia e i timbri della stazione, e convinsi Langley a tornare.
Il resto l’avete scoperto da voi.

Hurlstone la chiuse in carcere qualche minuto dopo che finì di parlare. Non era contento e neppure soddisfatto. Non capiva nemmeno se provava disgusto per quella donna. Gli ultimi avvenimenti l’avevano letteralmente svuotato.
Il clangore metallico della grata della cella, sigillò la fine di una brutta storia.
La Rudolph gli gridò contro qualcosa, mentre un agente girava la chiave nella toppa. In risposta, Hurlstone sorrise amaramente e si voltò per andarsene.
Non poteva augurarsi di non avere più a che fare con casi del genere. In fondo, gli aveva insegnato molto, anche se tanto era andato perduto.
Per quanto triste fosse, questa è la vita, pensò.

 

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Capitolo 56
*** Capitolo LIV - Prima parte ***


Un mese fa l’ultimo capitolo … eh già!
Approfitto giusto un attimo della vostra pazienza per scusarmi del tempo che ho fatto passare dall’ultimo aggiornamento. Causa? Studio, studio, studio … e totale assenza d’ispirazione. Ultimamente ho avuto gatte da pelare un po’ su tutti i fronti e se anche c’era un secondo di voglia di scrivere, alla fine non avevo il tempo materiale per farlo …
Ciò detto, vi presento la prima parte dell’ultimo capitolo. Inizialmente l’avevo scritto come un capitolo unico, ma quando la signora ispirazione, tornata dal viaggio, è venuta a farmi visita, ho scoperto che, se quel finale doveva essere, c’era bisogno di raccontare un po’ di cosine …
Spero che vi piaccia e anche di trovare qualche recensione in più ;)
Buona lettura,
Ik



An irish tale – Capitolo LIV (Prima parte)



Il secondo tentativo di svegliarsi fu più spossante del primo. Gli occhi masticavano luce e bianco e qualcosa, davanti a lei, si muoveva freneticamente. Vedeva tutto sfocato. Non riusciva a muovere ancora niente. A stento teneva gli occhi socchiusi.
Tuttavia, poco a poco i contorni delle cose intorno si fecero più nitidi e le pupille ricordarono come regolarsi con l’intensità luminosa.
Però qualcosa continuava a turbare la sua quiete.
Chiuse gli occhi, troppo stanca per continuare a lottare, e si addormentò.

A lungo fluttuò in uno stato di semi-incoscienza che suscitò molte domande e dubbi fra dottori, infermieri e specialisti. Anya reagiva a gran parte degli impulsi, anche se non muoveva neppure un muscolo. Le analisi riportavano valori stabili.
Il dottor Homais e gli specialisti nutrirono per diverso tempo una certa perplessità. Di tanto in tanto arrivavano degli avvisi da parte di Linda, secondo cui Anya aveva aperto gli occhi. Così lui correva da lei, ma oltre ad un paio di sguardi vacui nulla otteneva. Kate era convinta che Anya chiedesse qualcosa, cercasse di comunicare. Homais era del suo stesso avviso, ma si rese presto conto che se veramente Anya aveva quest’intenzione, era difficile da capire.
Kate interruppe nuovamente la sua carriera lavorativa. Linda, che non aveva smesso di odiare il “comportamento” della sorella, ossia il coma che l’aveva spenta, correva in ospedale appena poteva e le stava vicino.
Trascorsero dei giorni belli e, tuttavia, brutti. Non si vedeva un sole così splendente dall’estate prima. Era il periodo più intenso e profumato della Primavera. Ovunque c’erano fiori, le piante erano piene di boccioli e germogli e gli angoli delle strade costellati di soffici petali. Le botteghe di frutta e verdura vendevano primizie sempre più saporite e pareva che la gente fosse tutta più ottimista.
Linda pensava all’anno prima, quando, nello stesso periodo, Anya aveva vinto tre campionati di tennis della contea e aveva imparato a guidare la macchina. Le foto che conservava nel cellulare la ritraevano sorridente e spesso con Linda vicino. Linda le scorse come mai aveva fatto prima e la nostalgia fomentò la paura che nel coma Anya avesse perso tutte le sue abilità. Spesso si addormentava stringendole la mano; talvolta, quando si svegliava, la vedeva guardarsi intorno.
- Anya, mi riconosci? Ti ricordi di me? – le diceva, prima che Anya sospirasse debolmente e si riaddormentasse.
Questo periodo di stallo la esasperò. Anya migliorava molto lentamente.
Una mattina presto, i raggi del sole nascente bucavano le tende, Homais venne per la consueta visita. L’umore che lo caratterizzava, tuttavia, non era gaio come sempre; entrando cacciò quasi immediatamente un’occhiata ad Anya e ricercò lo sguardo di Kate e Linda. Un movimento delle iridi tradì la delusione per non aver trovato anche Elizabeth.
Fino ad allora Linda era rimasta in piedi, alla finestra, per rallegrare (se ciò era possibile) il suo animo con l’osservazione delle prime attività fuori da quella stanza. I raggi del sole illuminavano parte della chioma. La lunga ricrescita castana e i capelli mal pettinati attestavano il disinteresse della giovane per il proprio aspetto.
Anya giaceva supina, inerte al suono regolare delle macchine che la tenevano in vita. Non si era ancora svegliata. Dopo un saluto appena udibile, Homais si avvicinò al letto e diede inizio alla visita. Il gesto di togliersi lo stetoscopio e adagiarlo alla base del collo segnò la fine della visita.
- L’andamento di Anya, signora Bacott, mi preoccupa – osservò appuntando un dato nella cartella clinica – Oggi non si è ancora svegliata?
Kate, basita, scosse il capo. Come risposta il dottore storse il labbro e un sopracciglio e mugugnò un – Mmh …
- Perché fa così?
Homais stava per rispondere che, allora, avrebbe preferito attendere che Anya fosse sveglia, prima di esporre il proprio parere; ma fu proprio in quell’istante che gli occhi della ragazza si schiusero e sondarono, con la tipica debolezza, i visi dei presenti. Linda, improvvisamente colma d’apprensione, si allontanò dalla finestra.
- Anya … oh, Anya … mi riconosci? Sono Linda, tua sorella.
Diversamente dagli episodi precedenti, Anya si soffermò brevemente sul suo volto e sospirò, come se fosse tormentata da angosciosi pensieri. Poi, senza trattenere un baleno di sorpresa, guardò il medico, ne osservò il camice, il viso, gli strumenti nelle tasche e intorno al collo, e sorrise.
Piacevolmente imbarazzato, Homais si accostò al letto, poggiando una mano su di esso.
- Anya? – la chiamò, dopo aver lanciato qualche occhiata ai monitor – riconosci tua sorella, Linda?
Gli occhi della giovane si mossero repentinamente in direzione della ragazza e della madre. Una minuscola contrazione delle sopracciglia fu il segno che avrebbe voluto aggrottarle; riuscì, tuttavia, ad esprimere la perplessità, girandosi di nuovo verso il medico, mentre il sorriso svaniva dalle sue labbra.
Homais non si sentì di rispondere a quello sguardo, ma comprese il messaggio; e nel momento in cui Linda scoppiò a piangere e scappò via, capì che non era neppure necessario azzardarsi a spiegarlo. Kate, però, parve di diverso avviso. Mentre ancora lei si chiedeva cosa stesse accadendo, Anya allungò la mano verso quella del medico e strinse debolmente le dita più vicine.
- Non vi ha riconosciute … - disse Homais, notando con sorpresa quel contatto, senza voltarsi verso Kate. La donna non ne fu molto addolorata. Probabilmente si aspettava quella reazione. Si abbandonò su una sedia, a capo chino, passandosi una mano sulla fronte.
Homais deglutì, smettendo di seguire Kate con la coda dell’occhio e riconcentrandosi su Anya.
- Sono il dottor Homais – mormorò senza il coraggio di ritrarre la mano, sedendosi sul bordo del letto. Anya sospirò e gli concesse un ultimo sorriso, prima di riaddormentarsi.

Andò avanti così per giorni. Anya passava gran parte del tempo sveglia, con Linda, Kate o Elizabeth vicine. Loro le parlavano quasi sempre, le mostravano degli oggetti, le facevano ascoltare della musica. Tutto nel tentativo di “farle tornare la memoria”.
I medici ritennero presto opportuno liberarla dall’ingombro delle macchine respiratorie. Anche se con un po’ di fatica, Anya era ormai in grado di respirare da sola. Nel giro di una settimana Homais diede disposizioni affinché fosse lasciata solo la flebo.
Nel mese che trascorse i progressi di Anya aumentarono e in diretta proporzionalità crebbero anche le visite. Convinta da Elizabeth, Kate si convinse che sua figlia non aveva più bisogno della sua compagnia e si accontentava di andarla a trovare tre volte al giorno, durante i pasti. A sostituirla c’erano dei vecchi amici che Anya non ricordava tutti e che la mettevano in un certo qual modo in un imbarazzo che si curava di nascondere.
Nonostante fosse contenta di “rivedere” le sue affezionate, quanto vecchie, compagnie, Anya sentiva crescere in sé un senso di disagio apparentemente privo di fondamento. In un primo momento pensò fosse causato dalla convalescenza e dalla parziale amnesia, ma non impiegò molto per capire che l’origine era un’altra. Quando l’orario delle visite finiva e lei rimaneva sola, invece di leggere i libri che Linda le portava e di cui stilava appassionanti recensioni, fissava un punto della parete e si concentrava sulla sensazione che la assillava. Il tempo per pensarci, tuttavia, era breve, poiché, neanche un quarto d’ora dopo veniva servita la cena e sua madre andava da lei.
Solo del tempo dopo, quando ebbe acquisito sufficienti forze per contrastare l’ondata dei parenti e degli amici che le facevano visita, riuscì a decifrare quel senso di vuoto e ricordare tutto quello che vi si celava.
Era una tiepida mattina di fine Giugno, non aveva ancora fatto colazione. I raggi del sole che filtravano dalla finestra illuminavano il pulviscolo che con la sua solita danza indugiava lungamente prima di posarsi sugli oggetti. Ciò che riabilitò la mente di Anya ai ricordi fu un rumore dalla strada ed un profumo.
Era in piedi, accanto alla finestra, indecisa se sedersi sullo sgabello o no, e reggendosi all’asta della flebo, guardava il giardino dell’ospedale e la strada che poco oltre lo affiancava. Una timida corrente giocava con le tende leggere. Essendo ancora presto, il giardino era popolato solo dagli infermieri in arrivo o dai pazienti più in forma, mentre in strada c’era già un intenso via vai di macchine, tram, autobus e motorini. I rumori che ne derivavano erano assordanti e fastidiosi. A lungo la giovane tentò di distillare il marasma per cogliere almeno una frase di quello che due giovane infermiere appena arrivate si stavano dicendo; poi distolse lo sguardo, decisa a tornare a letto, quando, all’improvviso, lo scalpiccio di uno zoccolo, trovato un istante di silenzio in mezzo al frastuono cittadino, richiamò la sua attenzione. I sensi di Anya si fecero vigili, mentre lo sguardo tornava sulla strada e una penetrante essenza di zucchero, proveniente da qualche parte dall’esterno, inebriava il suo olfatto. Tornò alla finestra, aguzzò la vista e in fondo alla strada scorse due poliziotti a cavallo. Per vederli chiaramente dovette spostarsi da un angolo all’altro della finestra, perché un albero li nascondeva. I cavalli erano due sauri, uno più grande dell’altro. Il più alto la colpì particolarmente. Nel giro di pochi secondi, trottando, i poliziotti sparirono dalla sua vista e Anya, non avendo nel paesaggio nessun elemento che la dilettasse più di una penna senza inchiostro, tornò al letto e prese un libro a caso dal mucchio che Linda aveva messo ai piedi del comodino. Una volta sistematasi sul letto, aspettando che passasse l’infermiera con la colazione, guardò la copertina del libro e per uno strano caso rabbrividì. Delitto e castigo. Fedor Dostoevskij.
Non fu tanto il titolo dell’opera a sconvolgerla, quanto il nome dell’autore, Fedor, che collegò al sauro del poliziotto.
Questo ed una serie di altri curiosi eventi che si susseguirono in rapida successione nelle settimane che vennero, portarono Anya a ricordarsi di tutto quanto aveva vissuto durante il coma. Alla fine di tutti quegli sforzi era quanto mai propensa a credere che la sensazione di vuoto che stava a capo di tutto si sarebbe dileguata; ma così non fu: l’angoscia ritornò e Anya si depresse.
Pur tuttavia, non ne capiva il motivo. Se anche avesse potuto venirne a capo non le andava di ragionarci su. Il mondo che la circondava era troppo freddo e articolato per essere analizzato e c’era una sola cosa che avrebbe potuto renderla felice: tornare a Waterford.
Qualche giorno prima di essere dimessa venne a trovarla Philip, il garzone del signor Lucas. Per quasi una settimana, la depressione di Anya era stata al centro dell’attenzione di amici e parenti che non perdevano occasione di farle visita, contenti che sarebbe presto uscita. Con il permesso del dottore, Linda le aveva riempito il cassetto del comodino di cioccolata, pensando che questo avrebbe calmierato la sua depressione, ma non ci fu attimo che Anya non avesse desiderato di disfarsene.
Quella mattina, pertanto, era la meno adatta alle visite.
Quando Philip entrò in camera sua, erano già passate le undici ed il sole splendeva alto. In quel momento Anya era sola e con poca ansia aspettava la visita di Kate; nel momento in cui la porta si aprì avrebbe voluto trasformarsi in un granello di polvere per sparire fra i tanti che i raggi del sole illuminavano, ma quando nella stanza risuonò quella voce giovane e familiare, gli occhi le si sbarrarono con lieve sorpresa.
- Phil? – mormorò voltandosi verso di lui.
Il ragazzo, guardandola con apprensione, restò fermo dove l’infermiera l’aveva lasciato.
Incredula, Anya si allungò oltre il bordo del letto e liberò una sedia. – Vieni, avvicinati … Siediti qui … - mormorò. Philip obbedì e a lungo restarono in silenzio.
Lei e Philip erano amici fin dal primo anno di liceo. Ricordava il giorno in cui lo vide entrare trafelato, in ritardo, perché aveva dimenticato che quel giorno iniziava la scuola. La professoressa l’aveva scusato, ma Phil raccontò tutti i fatti di quella mattina ad Anya, che lo ascoltò con perplessità per un buon quarto d’ora. Le settimane che seguirono segnarono l’inizio della loro amicizia. Non stavano mai molto tempo insieme; abitavano lontano l’uno dall’altra e fuori dalla scuola era raro che si vedessero. Alla fine del liceo, però, quando Phil venne assunto come garzone dal signor Lucas, l’amicizia che si era quasi interrotta rifiorì. Con il tempo, poi, Anya comprese quale fosse la concezione di amicizia di Phil nei suoi confronti e badò a evitare ogni cenno sentimentale.
Quando si riprese dal coma, sua sorella le disse che era stato proprio lui a soccorrerla per primo; Anya lo aspettò, ma lui non venne. Vederlo in quel momento, pertanto, con un mazzo di fiori ed un piccolo pacchettino, non la sorprese solamente, ma la mise a disagio, perché non sapeva cosa dirgli, né tantomeno cosa avrebbe detto lui. Dopo un momento iniziale in cui non osò guardarlo, alzò gli occhi e trasse un lungo sospiro.
- Sei venuto, infine …
Dal modo in cui Philip si mosse, Anya intuì il suo disagio. – I fiori dalli a me …
Il ragazzo obbedì e si alzò, preda del nervosismo. Si girò il pacchettino fra le mani e in un baleno di consapevolezza lo porse ad Anya. – Linda mi ha detto che eri depressa … ho pensato che potessero farti piacere …
Osservò ansiosamente le mani della giovane strappare l’involto, poi la sua espressione; Anya si morse un labbro e sorrise, rigirandosi la scatola di cioccolatini fra le dita.
- Hai pensato bene … - disse aprendola e prendendo con poca voglia un cioccolatino.
- Stai meglio adesso?
- Intendi dopo averli mangiati? – scherzò lei.
Philip sorrise, ficcandosi le mani nella tasca dei jeans.
- Beh, no … in verità non so se ho voglia di tornare a casa … il dottor Homais vuole dimettermi, non so se lo sai …
Il ragazzo si accostò alla finestra e guardò fuori. Un attimo dopo udì Anya poggiare la scatola sul comodino e si voltò. Della ragazza che aveva conosciuto sei anni prima non era rimasto quasi niente, a parte i lunghi capelli rossi. Provò un’incontenibile gelosia nei confronti del coma che gliel’aveva rubata: aveva il volto sciupato, scarno e pallido, si affaticava per le più piccole azioni e quando non parlava pareva vivere un universo a parte. Le spalle erano magre, le ginocchia spigolose, il collo affusolato e bianco, le mani sottili e fredde, come appariva dalle nocche arrossate.
Chiuse gli occhi, sospirò e serrò la mascella. Si accingeva a tornare da lei, quando, all’improvviso la sua voce atona compose una domanda – Perché non sei venuto, Phil?
Philip rabbrividì, inchiodato al suo posto, con le braccia incrociate al petto. A lungo non rispose e Anya lo guardò.
- Perché me lo chiedi?
- Linda dice che sei stato tu a soccorrermi per primo …
- È vero – assentì lui, allontanandosi dalla finestra.
- Allora perché non sei mai venuto?
Philip fece per rispondere, ma di fronte la piega presa dagli occhi di Anya, il coraggio di parlare gli venne nuovamente meno; per ritrovarlo distolse lo sguardo e si morse il labbro. La risposta effettivamente richiedeva una sincera confessione dei suoi sentimenti e sapeva quanto Anya li avesse sempre tenuti lontani. Lui per lei era solo un amico.
- Avevo paura – disse, guardandola – una paura folle, Anya. Per sei mesi ho vissuto con il terrore che i tuoi staccassero tutto … io non volevo che il mio ultimo ricordo di te fosse una ragazza priva di vita su un letto di ospedale … ti sognavo ogni notte. Sognavo il tuo incidente: ti chiamavo e non ti svegliavi … - continuò, sedendosi davanti a lei - C’erano già i sogni a farmi star male … come potevo venire senza vederti sorridere? o senza poterti parlare?
Anya nascose gli occhi dietro la mano, sentendo già le lacrime colare sulle gote. Philip, riprendendo a parlare, la prese per il polso e con dolcezza gliela abbassò.
- Ogni momento lontano da te … - sibilò con gli occhi lucidi - … era una speranza in meno che tu ti riprendessi …
Ma Anya non volle stare ad ascoltarlo e si spostò di fronte alla finestra, trascinandosi dietro la flebo.
- Dio sa quanto avrei voluto non svegliarmi più!
- Non dirlo … - iniziò Philip, prima che la ragazza lo zittisse con un cenno del braccio.
- Sto male, Phil! Da quando ho aperto gli occhi … mai una volta questa schifosissima sensazione mi ha abbandonata! Mai una volta … da quel dannato momento non avete fatto altro che assillarmi con i vostri auguri e con le vostre felicitazioni …
- M-ma chi?
- Chi?! Tutti! – pianse, cercando con gli occhi un ripiano lontano da lui su cui sedersi – A volte – continuò dopo una pausa, con voce più flebile – mi ritrovo a maledire le macchine che mi hanno tenuta in vita. Maledico il mio corpo per aver avuto la forza di resistere, i dottori, le medicine … maledico l’ospedale, Linda, il dottor Homais … e te! Ti maledico per avermi soccorsa e per essere venuto fin qui oggi a parlarmi di come ti sentivi mentre io … dormivo! Non può importarmene un accidenti del tuo stato d’animo! Non può importarmene – riprese, quando Philip alzò su di lei lo sguardo ferito – perché prima di tutto io non ho interesse nei miei confronti … perché vorrei che tutto collassasse sulla mia testa ed eliminasse la mia angoscia … perché non riesco a stare bene e a trovare conforto in ogni cosa che faccio!
A quel punto ricominciò a piangere più forte di prima, rannicchiata su una sedia. Era talmente scossa che Philip, alzatosi con l’intenzione di confortarla, non seppe come comportarsi.
- Mi manca così tanto, Phil … - disse tra i singhiozzi dopo una lunga pausa, senza alzare lo sguardo – perché mi sono svegliata?
Philip non comprese affatto il significato di quelle parole; ma evitò ogni domanda e le si inginocchiò davanti, prima di abbracciarla.
- Non doveva finire così, Phil …


Esattamente una settimana dopo, ancor prima che si facessero le tre del pomeriggio, Anya fu ufficialmente dimessa dall’ospedale. Il cambio che sua madre le consegnò, giunse quasi come una benedizione; per tutta la mattina il dottor Homais non fece altro che sballottarla da un capo all’altro dell’ospedale per le ultime visite di controllo e chiederle ininterrottamente se se la sentiva di tornare a casa, dal momento che non aveva una buona cera. Seguiva il medico a fatica e giungeva agli studi medici con il battito cardiaco alterato e un leggero fiatone.
- Pensa – disse Kate con un sorriso, mentre Anya indossava la felpa beige che le aveva portato – Paul e Ophelia volevano organizzare una festa …
Anya indossò anche le calze e i jeans. Al pensiero di trovare una mandria impazzita in casa, quando il suo unico desiderio era quello di riposare, si irritò.
- Cosa li ha convinti a non farlo?
- Oh … - sbottò Kate, riponendo la maglia di un pigiama in valigia. – Linda … ha detto loro che non ti senti bene.
La giovane sorrise forzatamente, sedendosi sul bordo del letto per riprendere fiato e raccogliendo la scatola di cioccolatini di Philip poggiata sul comodino. Erano rimaste solo un paio di praline alla frutta, il resto l’aveva spazzolato via Linda. Con le dita sfiorò il bordo della chiusura, pensando a lui, che da quel giorno non era più andato a trovarla. Una parte di sé, molto piccola, le diceva che le mancava; ma non riusciva a dispiacersi per la sua assenza. In fin dei conti quella solitudine era l’obiettivo che aveva ricercato sin dal momento in cui aveva ricominciato a ricordare.
Kate le mostrò un mazzo di fiori ancora freschi e chiese se avesse intenzione di lasciarli. Erano quelli che le aveva portato Philip. Ci pensò brevemente su e infine li prese.

Quando tutto fu pronto e Anya stava avvolgendo i gambi bagnati dei fiori in fogli di carta assorbente, ricevette la visita inaspettata del dottor Homais. Sussultò quando lo vide dietro di sé e la presa di un paio di fiori sfuggì dalle sue dita.
- Dottore!
Homais la rassicurò con un sorriso, senza guardarla negli occhi, anzi volgendo lo sguardo al letto e alla stanza svuotata.
- Come ti senti? – chiese, raccogliendo i fiori da terra e porgendoglieli.
- Meglio delle altre volte; peggio di come vorrei.
A quell’affermazione, pronunciata con stanchezza e disincanto, il viso dell’uomo si contrasse leggermente. Anya mise insieme i fiori e lo guardò.
- Fisicamente, dottore, non ho più nulla che mi turba, a parte l’affanno che ha notato lei stesso durante il nostro lungo itinerario mattutino …
- E sull’altro fronte? – la spronò, osservandola mentre metteva in borsa gli ultimi oggetti.
- Sull’altro fronte …
Anya titubò, mordendosi il labbro e nascondendo il viso allo sguardo del medico. Nel lungo silenzio che seguì ficcò in borsa tutto quello che di suo le capitò a tiro, senza riuscire a nascondere il tremore delle mani.
- Anya?
La ragazza prese un lungo respiro.
- Sull’altro fronte … - sussurrò, asciugandosi rapidamente gli occhi – non va bene … non lo nascondo …
Poggiato alla parete, Homais la studiò a lungo prima di rispondere. Spostandosi da un capo all’altro della stanza, con breve pause per riprendere fiato, Anya toglieva poco a poco tutti i segni del suo silenzioso passaggio, piangendo silenziosamente e nascondendo i rari singhiozzi con dei colpi di tosse.
- È così facile farti cambiare umore – mormorò – così facile che tu stia male …
Anya chiuse con un gesto secco la zip della borsa.
- Mi piacerebbe non dover piangere per quasi tutto il tempo; ma non posso farne a meno. Quando si perde … qualcosa … la reazione è sempre la stessa. Si piange. Ebbene … ho più di un motivo per credere che il pianto faccia star meglio. Io adesso sto meglio – e dicendolo, dopo aver asciugato le lacrime, si girò verso di lui con aria beffarda.
- Cos’hai perso? – chiese lui con calma.
A giudicare dalla sua reazione, Anya lasciò intendere di non aspettarsi quella domanda, a cui, tuttavia, non rispose. Mutò di espressione, lo guardò negli occhi e serrò la mascella. Quando si mosse per parlare il cellulare squillò. Era sua madre.
- Arrivo … no, scendo da sola …
Chiuse la chiamata e subito si rivolse al dottor Homais, che non aveva mutato la sua posizione, a parte la gamba su cui scaricava la maggior parte del suo peso. – Vado, mia madre e mia sorella mi aspettano …
- D’accordo – annuì Homais, e con malavoglia soggiunse – ma non sfuggire sempre ai problemi. Perché …
Anya tentò di sorpassarlo, ma lui la bloccò poggiandole una mano sul petto.
- Perché tu hai dei problemi a cui, ti consiglio, di trovare presto una soluzione. Ti sei logorata tanto, in questi ultimi giorni … l’ho notato. L’infermiera dei pasti portava via dalla tua camera i vassoi immacolati … - Anya lo guardava di sbieco con gli occhi lucidi – finora hai avuto la flebo a sostentarti; ma d’ora in avanti come farai? Un altro giorno così e saremo costretti a ricoverarti di nuovo. Per un attimo – soggiunse, notando il suo scetticismo – ascoltami come se fossi tuo padre …
- Se la mette in questo senso allora può scordarsi che io segua i suoi consigli. Non mi farò ricoverare di nuovo. Non voglio rientrare mai più in questo ospedale … ho perso una parte di me qua dentro, ci sto lasciando la mia anima. Ma se dovesse presentarsi l’eventualità, allora lo farò per morirci …
Il nuovo tentativo di sorpassarlo fu portato a termine con successo. Homais oppose una resistenza debole quanto lei, dettata dallo sconforto e insieme dalla speranza che Anya potesse rientrare entro pochi giorni in quell’edificio. Era deciso a convincerla a prendersi cura di sé e ad uscire dalla depressione, qualunque fosse la ragione per cui c’era entrata. Rispose al suo saluto restio con un cenno del capo e solo quando lei era già nel corridoio si ricordò di un particolare importante. Ficcò una mano nella tasca del camice e la raggiunse.
- Questo – disse, tendendole un biglietto – è il mio biglietto da visita. C’è il numero di telefono dello studio e quello del cellulare. Se dovessi sentirne la necessità … se mai accadrà … chiamami.
Anya conservò il biglietto nella tasca della felpa, senza degnarlo di uno sguardo. Poi piegò il capo di lato in segno di saluto e scomparve dal suo campo visivo.

Nel mese di convalescenza che era seguito al suo risveglio, Anya aveva sempre pensato con timore al ritorno a casa. Non aveva fino ad allora nutrito altro tipo di paura.
Perciò, mentre la macchina avanzava lentamente nel traffico, cercava di celare questo stato d’animo con risposte il più possibile convincenti alle frequenti domande di Kate e Linda. Ma aveva troppe poche forze per formulare frasi sagaci e assumere toni di voce brillanti e sia sua madre che sua sorella ne erano consapevoli. Poi la macchina si fermò di fronte una farmacia, da cui Kate uscì con i medicinali prescritti dal dottor Homais e un barattolo di vitamine. Le mise il sacchetto sulle gambe, calmierando il tentativo di rimuoverlo con un’espressione di rimprovero.
A casa, se in macchina non si sentiva bene, le forze diminuirono ulteriormente. Linda si offrì di accompagnarla in camera, ma Anya preferì il divano del salotto, che raggiunse più facilmente. Vi cadde a peso morto e si addormentò.
Dormì per diverse ore. A risvegliarla fu un acuto senso di fame allo stomaco, talmente intenso da darle la nausea. Il salotto era avvolto nell’oscurità, eccetto per una flebile luce alle sue spalle. Si girò lentamente, scostando con fatica la coperta di lana bianca dal viso e poco a poco mise a fuoco due figure sedute a pochi metri dal televisore. Quando realizzò che erano sua madre e sua sorella, contrariata, tornò alla posizione di prima; ma non durò a lungo e dopo poco si alzò. Barcollando, non capiva se per il sonno o per la debolezza, nel corridoio si guardò intorno alla ricerca della cucina. Kate e Linda non tardarono a raggiungerla.
- Anya, hai bisogno di qualcosa? – sussurrò sua sorella, toccandola istintivamente all’avambraccio. Anya si fermò, la squadrò brevemente e scosse il capo, infastidita. La stessa reazione la ebbe con la madre che con poche parole tentò di convincerla a mangiare la minestra che le aveva preparato.
- Non voglio niente … - ringhiò con poca voce, mettendo mano all’interruttore della luce – tornate ai vostri affari!
Accolse con un sorriso appena accennato la visione delle sedie intorno al tavolo.
- Vuoi un tè? – riprese Kate, decisa a non lasciarla sola. Anya scosse il capo.
- Una camomilla? Una tisana?
- Ho detto no!
- Ma devi pur mangiare qualcosa! Ti ho fatto la minestra di verdure … è ancora calda. La vuoi?
Anya non ripose, né scosse il capo, vittima di un tremendo capogiro. Le brontolò lo stomaco e in meno di un minuto la parte di tavolo al quale era seduta fu apparecchiata. Kate le mise davanti un piatto colmo per metà di minestra fumante.
- Voglio stare da sola – disse quando Kate mise mano ad una sedia – mangio … mangerò tutto – la rassicurò con fastidio.
La mano tremava ancora di nervosismo quando prese il cucchiaio. Kate sciolse una pastiglia effervescente di vitamine in un bicchiere d’acqua e glielo mise accanto al piatto. Anya la seguiva con la coda dell’occhio e lo sguardo puntato con cipiglio sul piatto.
- Bevila tutta – disse Kate, prima di allontanarsi con riluttanza.
Quando fu sola ed ebbe messo in bocca il primo cucchiaio di minestra, Anya sentì i propri occhi colmarsi di lacrime pungenti che non trattenne. Ingoiò ogni boccone masticando brevemente le verdure, piangendo silenziosamente. Finita la minestra, istintivamente, allungò la mano verso il bicchiere, colmo di quella che sembrava aranciata; ma ricordò che erano le vitamine e fece per scagliarlo sul pavimento con il dorso della mano. Non portò a termine il piano solo per timore che sua madre sentisse il fracasso e svuotò il bicchiere nel lavandino. In piedi, le tremavano le gambe, ma capì presto che era perché sentiva freddo. Poco a poco diffuse la consapevolezza alla restante parte di sé e si accorse che le battevano i denti. Ficcò le mani nella tasca della felpa e subito si risedette. Davanti al piatto vuoto quasi non le venne voglia di prendersi altra minestra, ma, nello stesso istante in cui le mani sfioravano il biglietto da visita del dottor Homais, ricordò i problemi che vi si collegavano e di cui Homais avrebbe voluto che parlasse, e si vergognò di sé, del suo appetito, della voglia di coprirsi e di dormire, chiedendosi come poteva essere tanto effimera ed egoista quando aveva un dolore ed una perdita così grande da sopportare. Improvvisamente disgustata da quello che aveva appena fatto, scappò in camera e si buttò sul letto, scossa dai singhiozzi.
Era sera quando tutte ciò avvenne. Fino all’ora di pranzo del giorno dopo rimase a letto, dormendo o guardando le pareti e il soffitto della stanza o il buio. Fuori c’era caldo, Linda indossava solo una t-shirt di cotone, aveva i capelli alzati e di tanto in tanto si faceva aria con un ventaglio. Anya considerava una sfortuna l’averla accanto a produrre bisbigli e versi seccati mentre studiava per recuperare il debito di matematica. Per questo, esasperata le aveva dato le spalle e si era nascosta il viso nel cappuccio della felpa., rannicchiandosi nel letto.
Da parte sua Linda, se inizialmente aveva tentato di coinvolgerla nei suoi esercizi di goniometria, presto vi aveva rinunciato e aveva preso un vecchio libro di narrativa per leggere qualcosa di più divertente. Linda rimase il silenzio per tutta la mattina; poi, quando si fu stancata, riempì due coppe di gelato e tornò in camera, convinta che avrebbe aiutato Anya a star meglio. Ma quando le fu davanti si accorse che si era addormentata.

Il tempo passò. Nel giro di un mese Anya perse quasi cinque chili e il suo viso si fece più pallido. Ogni tentativo di riportarla alla vita di tutti i giorni sfumò con un grugnito spazientito o con una lite in famiglia. Preoccupato quanto uno come lui poteva esserlo, Josh Bacott decise di trasferirsi in casa loro e nel periodo che vi trascorse provò infinite volte a parlare con Anya, ma invano. Una e più chiamate di Yenna, che lo informava di ogni problema del neonato, lo convinsero presto ad arrendersi e tornare a Malahide.
Anya spogliò la stanza di tutto quanto la riguardava personalmente: tolse la racchetta, i trofei di tennis, le foto che la ritraevano con i compagni di gioco o con uno dei suoi idoli sportivi. In breve cancellò ogni traccia del suo passato e piombò nel periodo più angosciante della sua vita. Allertato da Kate, il dottor Homais andò a trovarla a casa e, constatatene le condizioni, la indicò ad uno psicologo, che le prescrisse una terapia a base di antidepressivi, non sapendo che in realtà Anya non aveva bisogno di nessun medicinale.
Anya, infatti, non smetteva mai di pensare al signor Langley e alla sua morte. Di frequente riviveva quel momento nel sonno e si svegliava si soprassalto, senza più riuscire ad addormentarsi. Sapeva che smettere di pensarci sarebbe stato sufficiente e l’avrebbe aiutata a guarire, ma proprio non ci riusciva. Trascorse diverse notti a riflettere, in cucina, e quando era stanca, senza la consolazione di essere giunta ad una conclusione, si andava a coricare e dormiva fino a tardi.
Fu Philip a trovare il modo di aiutarla. Zitto zitto, senza le pretese di un medico, né la stessa professionalità, Philip riconquistò la fiducia dell’amica e all’inizio dell’autunno, senza capirci niente neppure lui, spinto dai soli impulsi, incominciò la sua opera di bene. Fu un pomeriggio piovoso che ciò accadde. Di corsa stava raggiungendo casa di Anya, quando si imbatté in un cagnolino che con la coda fra le zampe e lo sguardo spaventato si guardava intorno alla ricerca di un rifugio. Aveva avuto un solo attimo di esitazione e poi l’aveva preso con sé; quando era salito in casa di Anya nutriva il timore che la bestiola potesse recar fastidio alla signora Bacott, ma così non fu; Kate si prese immediatamente cura dell’animale, ne asciugò il manto e lo consegnò a Philip perché lo mostrasse alla figlia, sperando che almeno questo la rallegrasse.
Così, un giorno dopo l’altro, assorbita dalle cure che il cane richiedeva e obbligata ad uscire per accompagnarlo nelle sue passeggiate, Anya trasformò il suo umore in un grigio meno cupo.
 

 

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Capitolo 57
*** Capitolo LIV - Seconda parte ***


Ecco l'ultimo capitolo^^ Non riesco proprio a credere che questa storia si sia conclusa. Il periodo che ho trascorso a scriverla è stato lunghetto e già sento che mi mancheranno Waterford, Dublino, Anya e il signor Langley. Forse sembrerò patetica ... è stata la mia prima storia e mi sono immedesimata davvero molto nei personaggi . Che il risultato sia stato buono o no, come dico sempre, spetta a voi dirlo!
Approfitterò di questo spazietto per precisare un paio di cosette in merito alle ambientazioni di questo capitolo: la stazione ferroviaria e quella dei pullman di Waterford city sono davvero vicine, nel senso che ho controllato la mappa della città prima di far muovere i personaggi; per quanto riguarda le campagne di Waterford, invece, ho lasciato libero sfogo alla fantasia ... ovviamente neppure la tenuta esiste nella realtà.
ringrazio tutti coloro che hanno letto questa storia, che l'hanno recensita, che l'hanno messa fra le preferite, tra le seguite o le ricordate. In particolar modo Lizzie_Jane, che non si è mai stancata di commentare, che ha sopportato le mie paranoie in merito alla mancanza di ispirazione e che mi ha dato degli utili suggerimenti quando servivano.
Ringrazio tutti tutti tutti di cuore.
Spero di tornare con una nuova storia, quanto prima.
Buona lettura,
Ik



An irish tale - Capitolo LIV (Seconda parte)



Dovette, tuttavia, passare parecchio tempo perché Anya ritornasse alla sua vita di sempre.
Ad Aprile dell’anno successivo le visite e gli incontri con Phil si erano fatti meno frequenti, per via del fatto che entrambi lavoravano. Anya aveva trovato impiego presso l’ambulatorio privato del dottor Homais, per il quale, tre mattine e due pomeriggi a settimana, faceva da segretaria.
Nel frattempo Phil aveva rinunciato ad ogni proposito romantico e aveva pensato bene di iscriversi all’università, in comune accordo con Anya, al corso di scienze naturali.
Essendo impegnati per gran parte del tempo, potevano vedersi solo nei fine settimana e di solito si incontravano al parco o combattevano il freddo con una buona cioccolata calda. In entrambi i casi Anya era accompagnata da Hunt, il cane che Philip le aveva portato, un meticcio di taglia media color miele.
Un pomeriggio di fine Aprile, dopo aver lungamente passeggiato al parco con Hunt, approfittando del freddo e della pioggia improvvisa, entrarono in una caffetteria. Essendo Sabato pomeriggio era quasi piena, ma riuscirono a trovare un tavolo appartato a cui sedere.
Il locale si chiamava “Coffee West”, aveva un aspetto caldo e confortevole ed era molto spazioso. Assi di legno ricoprivano le pareti per intero e i tavoli erano addossati ai muri e ai pochi, massicci, pilastri presenti. Ciò che piacque maggiormente ad Anya, e che parve divertire molto Philip, furono le mensole appese poco sopra ogni tavolo, sulle quali erano disposte con un ordine preciso, dei barattolini di zucchero, cacao amaro, caffè a chicchi, cannella e un piccolo vassoio pieno di caramelle al latte e al brandy.
Ignorando l’umidità dei suoi capelli i gli orli dei jeans che, madidi, si incollavano alle caviglie, Anya si tolse il cappotto e prese in braccio Hunt, contrariata dall’occhiataccia di una cameriera.
- Sta’ un po’ zitto! – sussurrò dando un buffetto sul muso alla bestiola, che abbaiava accanitamente contro la mano di Philip che gli sventolava un fazzoletto davanti. – Phil, dai, pure tu …
Il ragazzo ebbe appena il tempo di ridere che la cameriera di prima si avvicinò per consegnargli i menù. Nell’allontanarsi sbuffò contrariata in direzione di Anya, che non riusciva a zittire il cane.
- Senta – la richiamò - non è che potrebbe mettere un po’ di latte in questa ciotolina? – disse estraendone una dalla borsa. Phil la guardò sbigottito – Non si calma, sennò …
- Farebbe prima a fargli fare due passi … magari deve fare qualcosa … - mormorò in risposta la donna.
Anya si trattenne dal dare spiegazioni; con un sorriso falso, dall’apparenza amabile, tese nuovamente la scodellina alla cameriera e schiarendosi la voce rinnovò la richiesta. – Le posso assicurare che il mio cane è ben educato e che se pasticcerà con il latte, mi adopererò personalmente per pulire. Grazie.
- Ti porti le ciotoline del cane in borsa, adesso? – borbottò Philip, quando la cameriera si fu allontanata. Anya mosse una spalla.
- Cosa offre la casa? – chiese, indicando il menù.
- Ogni tipo di caffè, cioccolata, tè, latte e … con due euro e cinquanta in più, ai maggiorenni, aggiunta di liquore a scelta … esattamente venticinque millilitri per tazza … che ladri!
Fortunatamente, Hunt smise di lamentarsi e si accucciò sulle gambe della padrona, che, pulite le mani con una salvietta, poté consultare il menù.
- Dunque, hai deciso? – chiese Philip dopo un po’. Anya abbassò il foglio e guardò l’amico con un sorriso appena accennato. Provò un’istantanea allegria nell’averlo vicino, dopo averlo desiderato per una settimana, e la sua espressione fece sì che il sorriso si ampliasse.
- Torta vaniglia e arancia, cioccolata con due aggiunte di rum e … - sollevò un sopracciglio, affondando le dita nel cesto delle caramelle – due caramelle al latte!
Philip chiuse il suo menù e si voltò in direzione della cameriera in avvicinamento con la ciotola di latte per Hunt. La donna prese le ordinazioni, ancor più infastidita dal cane, e mise sul tavolo un grazioso cesto di tovaglioli. Quando furono nuovamente soli, Philip fu particolarmente contento di vedere che Anya aveva ripreso a mangiare.
- Sei … sei più …
Con le mani mimò una maggiore rotondità del petto. Anya si guardò intorno con fare allarmato e arrossì violentemente rendendosi conto che i vicini di tavolo, una coppia di ragazzi, avevano sentito tutto.
- … florida …
- Phil!
Il giovane, pur tuttavia, non capì e continuò a mimare i chili in più dell’amica, con un’accezione scherzosa. Anya scartò rapidamente una delle caramelle e gliela spinse contro le labbra. – Tié, senti quant’è buona …
- No, sul serio …
Anya mise il cane a terra, accanto alla ciotola, e cercò di tamponare con un tovagliolo la chiazza di umidità che la sua pelliccia aveva lasciato sui jeans. Senza il timore che il cane lo mordesse, Philip si concesse la libertà si carezzare il braccio della ragazza.
- Hai fatto grandi progressi.
- Basta, Phil, non voglio parlarne.
Per un attimo strinse la presa sul suo braccio, ma all’arrivo delle pietanze ordinate fu costretto ad allontanarsi. Anya non lo guardava ancora. Capì dal suo sguardo (e si rimproverò aspramente per questo) che le sue allusioni, seppure espresse con un intento tutto ottimista, avevano fatto ricordare all’amica le ragioni della sofferenza appena passata. Fu sul punto di chiedere di parlarne, ma per non fomentare quelle emozioni desistette.
Non appena Hunt finì il suo latte e Anya si adoperò per mettere la ciotolina a posto, pensò bene di prenderlo lui in braccio, lasciando all’amica la libertà di gustare la sua cioccolata.
- Phil, tu … - borbottò Anya, dopo una lunga pausa, tagliando un pezzo di torta con il cucchiaio - … tu ci credi nelle …
I vicini di tavolo allontanarono le sedie dal tavolo, producendo un gran rumore; poi si alzarono ed andarono via. Phil contrasse il viso con fastidio.
Per un bel pezzo Anya non fiatò. Poi, senza finire la torta, guardando per meno di un momento l’amico negli occhi, poggiando il mento sul palmo, mormorò - … nelle vite parallele? Ci credi?
Philip corrugò la fronte, carezzando il dorso del cane.
- Sai … a volte sento parlare di esperienze del genere, durante il coma … tu ci credi?
- Perché me lo chiedi?
Anya storse la mascella, prima di prendere un sorso di cioccolata.
- Beh … non posso rispondere di no … ma neppure di sì – sospirò. – In televisione spesso se ne sente parlare … ti riferisci a quelle strane esperienze di vita, no? Roba che ti lascia di sasso …
Un altro tavolo si svuotò e di nuovo il rumore delle sedie sul pavimento interruppe la loro conversazione.
- Intendo dire … - riprese Philip , grattandosi la fronte e scostando un ricciolo scuro – mi viene difficile crederci perché sono esperienze destabilizzanti …
Anya bevve un altro sorso di cioccolata; poi fece un respiro profondo. Sentendola (e vedendola), Phil levò su di lei il suo sguardo preoccupato, chinandolo subito su Hunt che si era agitato nel sonno. Fu meno di un attimo, ma l’immagine dell’amica che mangiava la sua torta con quell’espressione così assorta, non solo lo turbò, ma gli diede la risposta che cercava da tempo.
Inarcò le sopracciglia, sorpreso.
- Anya?
Questa volta lei evitò di guardarlo.
- Tu …
- Sì.
Philip tacque, drizzando lentamente la schiena.
- Sì, Phil.
- E che hai visto?
Anya lo guardò di traverso, raccogliendo con il cucchiaino i residui di cioccolata.


Era buio e il locale si era svuotato quasi del tutto.
Né i cappotti né cappelli e sciarpe bastarono a coprirli e proteggerli dal freddo e dalla pioggia. Si rassegnarono presto all’idea di bagnarsi nuovamente. Anya si mise in braccio Hunt e lo coprì con i lembi del cappotto.
Passeggiarono per un buon tratto, fino all’entrata del parco. Lì ebbero la fortuna di trovare riparo sotto un balcone e Philip, affondando il viso nel cappuccio del giubbotto, disse ad Anya di aspettarlo mentre andava a prendere la macchina. La ragazza accettò di buon grado, nonostante non le piacesse rimanere da sola. Saltellando nel tentativo di riscaldarsi e stringendo a sé il cagnolino che si muoveva per scendere, le tornò in mente il signor Langley e il cuore batté cupamente per la sua assenza. In quel momento, più che mai l’avrebbe voluto vicino.
Raccontare quegli avvenimenti a Philip aveva risvegliato gran parte delle emozioni sopite. Mentre si sporgeva dal marciapiede alla ricerca dell’amico, nella direzione dalla quale aveva detto che sarebbe venuto, si sentì gli occhi lucidi e si affrettò a respingere ogni triste pensiero con un gesto della mano.
La macchina di Philip comparve poco dopo. Immaginò che l’amico fosse ben contento di rivederla, mentre lei sistemava Hunt sul sedile posteriore e si allacciava la cintura di sicurezza.
- Come va? – sussurrò il ragazzo dopo alcuni minuti, fermandosi ad un semaforo. Anya fece spallucce, continuando a guardare la strada illuminata e i passanti infreddoliti.
- Pensavo … - riprese lui con un sospiro - … ne hai parlato con tua madre di … questa cosa?
Anya si voltò lentamente, il mento corrugato. – E a che pro?
Philip fece spallucce, cambiando marcia mentre sorpassavano il semaforo. – Magari potrebbe aiutarti … è … è sconcertante … ma non in senso negativo! Piuttosto … credo di capirti, adesso.
Anya non rispose. Volse nuovamente lo sguardo alla via e chiuse per un istante gli occhi, sforzandosi di non pensarci più.
- E non hai fatto ricerche?
- Su cosa?
- Su questa particolare località di Waterford. Chissà … magari quella tenuta esiste davvero.
Il dubbio non tardò a prender vita nella mente e nell’animo della giovane. Mosse il capo nel cenno d’assenso che Philip con ogni probabilità aspettava e si immerse nei pensieri.
Tacque a lungo. La stessa quantità di tempo la impiegò Philip per liberarsi dal traffico ed imboccare una strada meno affollata. Erano sulla via dove Anya abitava, quando le chiese se sentiva proprio il bisogno di rientrare, dato che era ancora presto e gli sarebbe piaciuto godere della sua presenza ancora per qualche ora. Anya si ridestò, in tal modo, dicendo che sì, aveva bisogno di farsi una doccia e cambiarsi, dato che Hunt le aveva lasciato addosso il suo odore, ma che accettava di buon grado il suo invito a passare insieme il resto della serata.
Si lasciarono dunque per un paio d’ore. Anya si sentì più che sollevata di affidare Hunt alle cure di Linda e si concesse il tanto agognato momento di relax. Riempì la vasca d’acqua calda, aggiunse qualche goccia di bagnoschiuma alle erbe e vi si immerse.
In seguito, quando Kate la chiamò per la cena e lei aprì gli occhi, accorgendosi con un brivido che l’acqua si era raffreddata, capì di essersi addormentata. Si asciugò di corsa, si vestì e sedette a tavola con un enorme turbante sui capelli.
Nel frattempo si erano già fatte le otto e in meno di mezz’ora doveva essere pronta perché Philip sarebbe passato a prenderla. Diede una fugace passata di phon ai capelli, indossò un pesante maglione con i jeans e, abbandonando il proposito di mettersi al computer per cercare informazioni sui nobili succedutisi nella contea di Waterford, indossò un cappotto pulito e scese di gran carriera, battendo del tempo Phil che si accingeva a suonare al citofono.
- Spacchi il secondo! – esclamò lui, imbacuccato in sciarpa, guanti e cappello, rimirandola interamente. – Ehi … però … ti sei trattata bene!
Anya sorrise. – Dove mi porti?
Philip la guidò alla macchina. – Alla Holy Cross Church c’è un concerto … suonano dei ragazzi che non possono permettersi le spese del conservatorio e che la chiesa aiuta economicamente … ne conosco alcuni, sono molto bravi.
Nel mentre erano già entrati in macchina e Phil aveva acceso i riscaldamenti, perché faceva più freddo del pomeriggio. Anya chiese se c’erano alternative, ma era evidente che, dietro la domanda, Philip nascondeva già la risposta; così accettò.
La Holy Cross Church non era molto distante; per il tempo che trascorsero in strada, il tragitto però parve più lungo. Il pomeriggio non aveva ancora smaltito il suo traffico e le vie principali erano quasi completamente intasate. Ciononostante arrivarono appena in tempo per veder cominciare lo spettacolo. Il prete stava chiudendo la porta. Trovarono posto nelle ultime file: essendo una chiesa dalle modeste dimensioni vedevano benissimo i suonatori, ma non altrettanto si poteva dire dell’acustica. Le note rimbalzavano nelle dure pareti e nell’alto soffitto e, echeggiando, davano parecchio fastidio. Philip propose di seguire il concerto in piedi, ma Anya si oppose.
Sull’altare, seduti compostamente, con un leggio davanti, i musicisti accordarono brevemente gli strumenti, si diedero un cenno d’assenso e iniziarono a suonare.
- Poco importa – borbottò togliendosi i guanti. Anya ebbe appena il tempo di meravigliarsi, dato che c’era freddo anche lì, che l’amico si mise a frugare nelle tasche del suo giubbotto.
Anya prese un opuscolo del concerto dal posto vicino e scorse i brani con lo sguardo. Li conosceva quasi tutti e l’esibizione intera durava meno di un’ora.
- Durante la tua assenza … - mormorò Phil, piegandosi appena verso di lei – ho fatto qualche ricerca …
Dalla tasca tirò fuori una serie di fogli piegati in quattro e li porse alla ragazza. Anya li aprì e si sorprese nel vedere il nome della contea di Waterford sparso un po’ ovunque.
- Purtroppo non ho trovato nessuna residenza che corrispondesse alla tua descrizione, ma facendomi un giro su Google maps ho visto tanto verde … tanta campagna … e poi – soggiunse, mettendo mano al fascio di fogli che Anya osservava con contenuto sbigottimento – guarda questo … anzi, queste … ho trovato due ditte che organizzano viaggi low cost per tutta l’Irlanda … potrebbe essere l’occasione che fa al caso tuo …
- Phil, Phil … frena. Ne abbiamo già parlato, mi pare – disse riconsegnandogli il malloppo di fogli.
- Di cosa?
Il tono lievemente alterato di Philip irritò l’uomo seduto di fronte che si voltò e scoccò ad entrambi un’occhiataccia. Anya si girò da un’altra parte, incrociando le braccia al petto.
- Mi pento, quasi, di averti raccontato tutto.
- Perché non vuoi parlarne?
- Te lo chiedi, Phil?
Il ragazzo la guardò per un attimo negli occhi, prima di cominciare a valutare l’idea di mettere via i fogli.
- Se anche trovassi quella tenuta … - la sentì mormorare poi, mestamente – cosa potrei fare? Sono passati più di centocinquant’anni … magari avranno buttato giù tutto … sempre a patto che questa tenuta sia mai esistita!
- Io penso di sì – sussurrò Philip con lo stesso tono – ho trovato informazioni anche a questo proposito …
Anya lo guardò e Philip ficcò la mano in una tasca interna del giaccone, da cui estrasse degli altri fogli. La giovane quasi non rise.
- Ecco – continuò lui, serio – guarda qui: mi sono documentato per bene …
Porse il nuovo malloppo all’amica. Questa volta si trattava di brevi interviste a persone che avevano avuto la stessa sua esperienza.
- Questa gente afferma di aver ritrovato i posti in cui era … stata durante il coma. Leggi quell’articolo, ad esempio …
Confusa dalle sue parole, e non volendone più sapere niente, dopo aver indugiato per del tempo che le parve anche più che sufficiente, porse il malloppo all’amico e si allontanò. Dispiaciuto e disorientato, mimando il gesto di lasciare tutto sulla sedia, Philip la osservò mentre si alzava e le andò dietro. Il rumore della sedia contro il pavimento irritò ancora una volta l’uomo seduto davanti a loro.
- Un attimo di pazienza! – gli bisbigliò il ragazzo. – Anya … ma che ti prende?
La giovane si era spostata dietro un pilastro vicino alla porta e ritrasse il braccio quando Philip tentò di toccarlo.
- Ma non ti importa proprio niente di quello che sento? È stato difficile parlartene, oggi … e adesso tu te ne esci con quei fogli stampati? Con quelle interviste?
- Anya, io voglio solo aiutarti …
La ragazza si stropicciò la fronte con le dita, respirando profondamente per sbollire il nervosismo.
- Perché mi hai portato qui, Phil?
- P-perchè? – balbettò lui, ancor più confuso.
Anya sospirò ancora, volgendo lo sguardo in direzione dell’altare. – Quello che ho visto non mi abbandonerà mai. Il volto di Paride che … diceva di amarmi mentre, stringendolo, tentavo vanamente di strapparlo alla morte … sarà sempre davanti ai miei occhi … in ogni momento rivivo la sua morte. E se pure c’è stato tanto che insieme abbiamo vissuto … è solo quel momento tragico ad assillarmi in ogni istante … - si nascose il volto dietro una mano, stropicciandosi nuovamente la fronte – Facendomi vedere quella roba, anche senza un cattivo proposito, rendi questi ricordi ancor più vividi.
- Mi dispiace – sospirò Philip, passando una mano sul suo braccio. – Ma come posso aiutarti?
Anya guardò un’altra volta i musicisti. Con un accordo terminarono il secondo brano e un timido applauso si levò fra gli astanti. Poi ripresero a suonare.
- Sei proprio convinta che andare a Waterford non ti aiuterebbe?
- Phil …
- Potresti ritrovare quel posto … pensaci.
Anya prese a tormentare le asole del cappotto. Non era necessario che Philip la spronasse a considerare la possibilità di un viaggio a Waterford. Nolente, sentiva i pensieri muoversi già in quella direzione. Da sempre aveva sempre desiderato farlo, aveva sentito che quello era l’unico modo per ritrovare o perdere per sempre la serenità. A provocare una tale agitazione nel suo animo era la spinta che Philip le stava dando per aiutarla a decidersi una volta e per tutte. Sentiva che quell’agitazione l’avrebbe tenuta sveglia una o più notti, che avrebbe reso i giorni a venire difficili a viversi, che l’avrebbe spinta a bere più camomilla del solito, che l’avrebbe resa particolarmente suscettibile; ma sentiva anche che questo era l’unico modo per ritrovare un po’ di pace e rassegnarsi al fatto che l’uomo che aveva amato non c’era più.
Philip pareva leggere tutti quei pensieri nei suoi occhi e attendeva, ansioso e paziente, che lei parlasse. Guardandolo, Anya smise di tormentare asole e bottoni e gli si avvicinò, con un’unica frase in testa: chi meglio di lui poteva capirla? Lo abbracciò e lui la ricambiò, sorpreso.
In quell’istante le fu improvvisamente chiaro che Philip non avrebbe mai potuto farle del male e che gli sforzi di quella sera erano il suo ultimo tentativo di farle ritrovare la pace a lungo cercata. L’agitazione e l’ansia non altro erano che il primo movimento di un grande passo.
- Perché non tentare? – le sussurrò ad un orecchio.
- Ho paura …
- E se andassimo insieme?


A metà Maggio, dopo quasi un mese di ricerche e preparativi, Anya e Philip avevano deciso di partire, non senza qualche indecisione dell’ultimo minuto.
Per evitare ogni ripensamento, Anya aveva lasciato che delle formalità del viaggio se ne occupasse l’amico, che contattò un’agenzia di viaggi e pianificò la partenza nei minimi dettagli.
- Allora – iniziò un Sabato mattina, disponendo opuscoli e mappe sul tavolo del bar in cui avevano si erano incontrati – partiremo giorno ventinove con il treno delle dieci. Il viaggio durerà poche ore. Arriveremo a Waterford city nel primo pomeriggio ... al bar della stazione consumeremo il pranzo; alle quattro e mezza precise, dalla stazione partirà un pullman diretto a Ballylane West … il posto che mi hai descritto dovrebbe trovarsi qui – puntò il dito sulla mappa – a metà strada … o anche prima. Prenderemo questo pullman e scenderemo alla nostra fermata. Entro le sei dovremmo esserci.
Anya annuì con convinzione ad ogni passaggio, ma alla fine corrugò le sopracciglia. – Alle sei di pomeriggio? Ma non avremo tempo per cercare la tenuta …
- Allora ci fermeremo in un Bed & Breakfast …
- “Allora”? Vuol dire che hai pianificato solo la prima parte del viaggio?
Philip annuì. Per un momento Anya pensò di avere tutte le ragioni per irritarsi, ma colse presto i lati positivi e assentì in risposta.
- Ci sono sempre i treni che tornano a Dublino … possiamo prenderne uno appena avrai finito …
Anya annuì ancora e Philip ricominciò a parlare. Ad ogni sua pausa faceva segno di aver capito e di star seguendo tutto il filo del discorso, ma già da tempo non lo ascoltava più. La prospettiva di rivedere la tenuta, l’essere così vicini al compimento di questo progetto, si insidiò nel suo cuore e rapì ogni altro pensiero.
- E che Dio ce la mandi buona … - disse poi Philip con un sospiro.

Gli eventi dei giorni successivi riguardarono quasi unicamente il viaggio. Kate e Linda si rivelarono parecchio contente dell’imminente partenza di Anya, ma, non conoscendo la vera ragione per cui lo faceva, credevano che il viaggio avesse un intento romantico. Le visite di Philip erano sempre più imbarazzanti.
Fu una settimana felice, di cui Anya conservò per sempre un buon ricordo, e gli odori della primavera erano sempre più delicati e nostalgici. Pur tuttavia, a circa due giorni dalla partenza, iniziò a nutrire un brutto presentimento. Neanche a farlo apposta, la sera del ventotto Maggio Philip la chiamò per avvisarla che si era preso l’influenza.
- Che vuol dire che ti sei preso l’influenza?! – esclamò Anya al telefono, facendo avanti e indietro per la stanza.
- Vuol dire che ho la febbre a trentanove, freddo, dolori, nausea e un mal di testa da morire …
Anya guardò la valigia sul letto con rassegnazione e per poco non buttò tutto in aria. – E adesso come stai?
- Te l’ho detto ... mi sento da cani … mi dispiace per il viaggio – soggiunse, sconsolato – so quanto ci tenevi …
- Non importa. Pensa a riprenderti …
Solo l’entrata di Linda in camera la trattenne dal lanciare il cellulare contro la parete, quando la chiamata si concluse.
Sfortunatamente il malessere di Philip si protrasse fino all’inizio della seconda settimana di Giugno. Anya trovò il modo di farsi restituire le quote versate all’agenzia di viaggi e nel pomeriggio in cui portò a Philip i suoi soldi lo trovò al computer, intento a guardarsi una mappa di Waterford city. Stava visibilmente meglio, anche se il colorito della pelle tradiva una certa spossatezza. Non fece in tempo a mettere mano al portafogli che lui iniziò a parlare del modo in cui stava pianificando una seconda partenza. L’itinerario, diceva, era più dinamico del primo e sarebbero giunti a destinazione due ore in anticipo.
Quando, dopo un lauto quarto d’ora, finì di parlare, era allegro come un bambino consapevole di aver ripetuto bene la poesia e guardò Anya negli occhi, pieno di aspettative.
- Non posso certo dirti di no dopo un monologo così lungo – sorrise lei, senza ricambiare lo sguardo, infilando le mani nella tasca della gonna – devi esserti certamente sforzato, dato il tuo stato fisico … quando partiamo?

Precisamente una settimana dopo, con la paura che un contrattempo dell’ultimo minuto li ostacolasse, camminavano speditamente lungo il binario due della stazione di Dublino. Philip spiegava concitatamente che mancava più di mezz’ora alla partenza del treno e che questo non era ancora giunto in stazione. Tenendolo per mano, Anya muoveva il capo in continui cenni d’assenso e si detergeva il sudore sulle tempie con un fazzoletto di cotone. In quel momento provava una profonda tenerezza per lui, che faceva strada guardandosi continuamente intorno, carico dei loro due zaini.
- Hai il biglietto?
- Li hai entrambi tu.
Philip ci pensò un istante su, poggiando la mano sulla tasca del gilet. – È vero … e la carta d’identità? Ce l’hai?
- Certamente … tu, la tua?
Il ragazzo si fermò improvvisamente, buttò giù lo zaino e rovistò nella tasca esterna. Quando trovò la sua tessera, alzò lo sguardo sorridente su Anya e subito riprese a camminare.
- Mi hai fatto prendere un colpo! – esclamò prima di indicare qualcosa all’orizzonte. – Ecco il treno … appena scendono tutti i passeggeri …
- … corriamo a prenderci il posto. Credo di essere più pronta di te allo scatto.
Camminarono fino ad una panca e finalmente si sedettero. Nonostante fossero le sette del mattino, erano sudatissimi, ma tra i due il più affaticato era Philip. Anya gli porse un fazzoletto di carta.
- Avresti anche un bicchiere d’acqua fresca?
Tra i due, mentre il treno, fischiando, si fermava, calò il silenzio. L’aria si riempì dell’odore della polvere di metallo ed una voce registrata annunciò la partenza alle sette e venticinque del treno per Waterford city. Mentre Philip beveva Anya controllò l’orario: erano quasi le sette e dieci. C’era ancora il tempo per comprare qualcosa da leggere durante il viaggio.
- Phil, ti dispiace se mi allontano un attimo? Vado in edicola e torno … - continuò, vedendolo titubare. Il ragazzo si guardò intorno e, adocchiato un chioschetto di giornali a meno di cento metri, assentì.
- Fai presto.
Anya lo rassicurò con un sorriso e si incamminò. Non poteva procedere come la fretta richiedeva, perché la gente usciva dal treno in folti gruppi, ma non impiegò molto a sparire dalla visuale dell’amico, che la seguiva con lo sguardo. Il chioschetto era a pochi metri della fine del treno. Il proprietario stava giusto lamentandosi con un uomo della corrente prodotta dal suo arrivo, quando Anya si fermò di fronte al chioschetto e gli fece capire che stava dando un’occhiata. L’edicolante si interruppe solo per un attimo, poi ricominciò a parlare.
Spirava una leggera brezza, fresca e molto piacevole. Erano le prime ore del mattino, ma la temperatura era già alta; prevedeva (e questo pensiero la consolava) che a Waterford ci sarebbe stato meno caldo. Senza pensarci su più di tanto, prese un giornale con allegato un libriccino di ricette per l’estate e pagò. Sulla strada del ritorno, più libera di prima, controllò l’orario e sospirò di impazienza al pensiero che meno di dieci minuti dopo sarebbe partita. Gonfiò i polmoni d’aria e avvertì i battiti aumentare con leggera agitazione; poi si accorse che le tremavano le mani e che stava sorridendo.
Waterford … la tenuta … se tutto andava come doveva nel giro di una giornata avrebbe ritrovato quel posto. Dopo averlo desiderato tanto.
Philip la aspettava in piedi, già carico degli zaini. Anya prese la sua borsa e insieme salirono. Conquistò subito il posto accanto al finestrino e guardò la banchina, come se avesse dovuto salutare qualcuno. Dopo aver sistemato i bagagli Philip le sedette di fronte e guardò anche lui giù.
Quando il treno si mise in movimento, Anya avrebbe potuto giurare che il cuore avrebbe sfondato il petto. Sperava che presto questa sensazione sarebbe passata, ma dopo un’ora e mezza di viaggio era ancora preda dell’ansia. Con un solo sguardo capirono che nessuna parola sarebbe servita a calmarla.



Come previsto dall’itinerario di Philip, alle undici, dopo molte fermate, il treno giunse a Waterford city. Era una bella giornata, non c’era vento e faceva meno caldo di Dublino. Una volta a terra, Anya riuscì a quietarsi e subito si diressero alla stazione dei pullman, dove Philip si occupò delle ultime formalità. Lui, osservò Anya, era molto più tranquillo; ogni gesto era permeato di ottimismo.
In quell’istante la prese per mano e la tirò con sé. Anya mosse istintivamente le dita, confusa, per liberarsi dalla presa; ma quando capì lasciò perdere.
- Dove stiamo andando?
- Ho parlato con l’autista e mi ha detto che il pullman è quello là in fondo … - disse indicando un punto poco distante e controllando l’orario – abbiamo giusto un quarto d’ora per sistemare i bagagli e pranzare …
Per Anya non ci fu bisogno di affidargli il suo, in quanto l’aveva già sulle spalle; così, mentre Philip si dava da fare per caricare gli zaini nel bagagliaio del pullman, mise mano alla borsa del pranzo e tirò fuori due panini. Mangiarono e bevvero in fretta nei cinque minuti di tempo prima che il pullman partisse. Presero posto altrettanto velocemente insieme al resto dei passeggeri e quando il pullman si mise in moto, Anya strinse forte la mano dell’amico.
- Quanto hai detto che durerà il viaggio?
Philip ricambiò la stretta e sollevò le spalle nell’atto di parlare; ma le parole gli si fermarono in gola quando il pullman, che si accingeva ad uscire dalla stazione, si spense. I due giovani e il resto dei passeggeri ascoltarono, in tralice, i tentativi dell’autista di rimettere in moto il mezzo.
- Ma che razza … - sibilò Philip, dirigendosi alla postazione dell’autista. Anya si sporse dal sedile, paralizzata dall’incertezza, e li guardò confabulare per qualche minuto. Le sue sopracciglia conobbero un istante di terrore quando l’autista sbottò in un’esclamazione esasperata e si alzò, soverchiando Philip con la sua altezza; era pronta ad intervenire per separarli, ma l’autista non sembrò avere affatto cattive intenzioni. Philip gli fece qualche altra domanda e con un sospiro l’altro gli rispose. Anya capì che qualcosa non andava molto prima che Philip, visibilmente contrariato, la raggiungesse e le mormorasse di alzarsi.
- Quegli idioti si sono accorti solo ora che c’è un guasto … - disse mentre scendevano. Anya lo seguì fino al bagagliaio, davanti al quale attesero che l’addetto aprisse il portellone.
- E adesso come facciamo?
- L’autista sta telefonando al principale ... – rispose il giovane caricandosi gli zaini – ha detto che controlleranno se ci sono dei pullman disponibili … nella peggiore delle ipotesi chiameranno dei taxi.
Anya non voleva che si preoccupasse ulteriormente, ma non poté fare a meno di porgli un’ultima domanda. – E quanto tempo ci vorrà?
- Un’ora o due … Anya, non ne ho la più pallida idea!
Si spostarono su una panchina, l’unica in tutta la stazione dei pullman, al sole, e a lungo vi sostarono. Philip non pronunciò neppure una parola e dai suoi modi Anya capì che l’ottimismo di quella mattina era svanito: sedeva sul bordo della panchina, con le braccia incrociate al petto e la fronte e le tempie madide di sudore. I gesti della ragazza, per quanto preoccupata dalla situazione, erano contenuti. Le mani si limitavano a detergere il sudore, mentre la bocca si apriva solo per sbuffare sommessamente. Sapeva che il minimo eccesso sarebbe bastato ad irritare Philip.
Ad ogni buon conto, dopo quasi un quarto d’ora di silenzio e attenta contemplazione di un paesaggio animato da tante anime in cerca di un taxi, Philip si alzò improvvisamente e prese il cellulare.
- Chiamo l’autonoleggio – sbottò estraendo dal portafogli un opuscolo pubblicitario. Non avendo organizzato lei il viaggio, pensò che affidarsi all’amico fosse la decisione migliore e lo seguì fin fuori la stazione dei pullman. Si ritrovarono in una strada poco trafficata, a doppio senso, con due conglomerati di case che molto bene si adattavano ad un clima nuvoloso, con facciate giallo senape e tetti grigi. Philip camminò speditamente fino a quello che a prima vista sembrava un concessionario, trattò quanto più rapidamente poté con il proprietario e prese una macchina. Anya non poteva dire di essere più nervosa di quando erano partiti: adesso nutriva più che altro delusione e si sentiva la causa del malumore dell’amico.
Non disse niente per gran parte del viaggio. La macchina correva spedita sulle strade di campagna, che Anya guardava con nostalgica attenzione. Il fatto di non parlare con Philip non le pesò molto.
In entrambi i lati della strada, dispiegandosi per centinaia e centinaia di metri, i prati rilucevano del loro verde più brillante. A circondarli, con una grazia ed un’eleganza proprie solo della natura, dei piccoli gruppi di alberi: querce, eucalipti, pini e abeti. In diverso modo e misura, questi verdi conglomerati donavano all’aria una delicata fragranza di bosco. Anya sporse la testa fuori dal finestrino per goderne appieno. Quando Philip le disse di rientrare, aprì gli occhi, riempiendo i polmoni di quei profumi che le erano tanto mancati. Ogni brutta sensazione, ogni traccia di nervosismo e ansia, con un’impalpabile dolcezza, la abbandonarono. Man mano che si avvicinavano alla meta (che, lo sentiva, era vicina) avvertiva la serenità accrescersi nel suo animo, come se presto tutti i problemi sarebbero finiti.
Malgrado ciò, un più attento esame la rese cosciente del fatto che il paesaggio fosse cambiato. La strada che percorrevano, ad esempio, non era quella frequentata dalla carrozza del signor Langley, né più esistevano le abitazioni dei contadini, nei pressi dei campi. Molte erano le case e i villini che il tempo e il progresso impiantarono in quelle lande vergini. Immaginò le proprietà degli antichi nobili essere dimenticate, rubate, smembrate, rivendute, modificate, abbrutite … dove un tempo c’era stato l’ingresso alla città, v’era ora la ferrovia; dove un tempo avevano preso vita le più antiche botteghe, erano stati costruiti i supermercati. Anya era sicura di averne visto uno anche in campagna, in lontananza.
Ma niente, nessun cambiamento, neppure il peggiore, demolirono in lei quel crescente amore per le campagne di Waterford e per i cipressi, che si profilarono presto all’orizzonte. I suoi pensieri erano tutti per il signor Langley e per il luogo in cui si erano conosciuti. Non vedeva l’ora di arrivare, vedere con i propri occhi quello spicchio di terra che le aveva dato e rubato la vita, anche se non vi avrebbe trovato nient’altro che erba verde e uno squallido villino.
Era distratta da tutte queste piacevoli speranze, quando Philip iniziò ad allarmarsi. Teneva lo sguardo fisso sulla strada, ma ben presto con la coda dell’occhio iniziò a notare uno strano movimento dietro il volante. La macchina rallentò l’andatura e l’espressione del ragazzo si fece spaventata. Abbassò lo sguardo sul cruscotto, là dove una lancetta rossa segnava il livello della benzina. Giurò di aver sentito il cuore perdere dei battiti quando si accorse che era finita.
La macchina si fermò.
Anya si voltò nella sua direzione, poi, confusa, si guardò attorno, prima che Philip esplodesse in una colorita esclamazione di rabbia, battendo le mani sul volante.
- Oggi non me ne va bene una, accidenti a quella … figli di buona madre!
- Phil!
- Mi hanno dato una macchina senza benzina, Anya! – spiegò togliendosi la cintura e scendendo rabbiosamente dall’auto. La ragazza rimase inchiodata sul sedile. Poi lo seguì. Philip faceva avanti e indietro di fronte la macchina e a un certo punto prese a dare calci sul parafango, sillabando esclamazioni sempre più colorite.
- Ma insomma, calmati! – urlò avvicinandoglisi – E smettila, finirai per romperla!
- Sessanta euro per una caspita di macchina senza benzina! Ma è possibile che oggi non riesco a far niente?!
- Cercheremo un benzinaio, allora! Che motivo c’è di fare così?
Philip si stropicciò il viso con una mano, poggiandosi al cofano e allontanandosi subito dopo. – È da un mese che cerco di organizzare questo accidenti di viaggio, ma ne è sempre capitata una! Ci hai fatto caso? Prima l’influenza, poi il pullman … ora questo schifo di macchina!
Per quanto alterato fosse, Anya non mosse neppure un dito per calmarlo. Le sue parole la fecero pensare agli avvenimenti delle ultime settimane e non poté che dare ragione all’amico: effettivamente, tutti i tentativi di organizzare il viaggio erano stati portati a termine dopo non pochi ostacoli. Alzarono entrambi gli occhi sull’altro e per un momento i loro sguardi si incrociarono.
- È un disegno divino? – riprese Phil, con voce più bassa – Un segno del destino? O forse ho tanti problemi perché faccio del male, se male si può considerare l’affetto per un’amica … che devo fare? Non ci sto capendo più niente!
Anya lo guardò amorevolmente; poi abbassò gli occhi e sbuffò. Non era certo il luogo più popolato della contea quello in cui erano finiti. Se edifici erano presenti, questi erano case, villini e mura di recinzione … tutte a centinaia di metri di distanza.
- Vedi un benzinaio?
Anya scrutò ancor meglio il paesaggio.
- Neppure uno … - continuò Philip – neppure uno. Sai dove l’ho visto l’ultimo? All’uscita della stazione ferroviaria. Posso solo chiamare l’autonoleggio o un carro attrezzi … ma prima che capiscano dove siamo passerà almeno un’ora …
- Phil – proruppe la giovane dopo un momento di riflessione – tu chiama il carro attrezzi. La tenuta la cerco io.
- Cosa?!
- È l’unica soluzione … forse è come dici tu – continuò distogliendo lo sguardo dalla campagna per appuntarlo su Philip – magari è un segno del destino … magari non dobbiamo andare insieme …
- Non ti lascio andare da sola!
- Ci hai fatto caso che gli intoppi li abbiamo avuti quando eravamo insieme? Ti sei ammalato il giorno prima della partenza, abbiamo perso il pullman insieme e adesso …
- È un’idea quantomeno ridicola!
- Beh, complimenti allora: l’hai tirata fuori tu!
Philip tacque. Approfittando del silenzio, Anya prese il cellulare del ragazzo dal cruscotto e selezionò il numero dell’autonoleggio, ultimo delle chiamate effettuate.
- Phil, io vado. Riconosco questo paesaggio … la tenuta è nei dintorni.
- Allora andiamo insieme …
- Andrò da sola. Tu aspetta quelli dell’autonoleggio … - disse porgendo il cellulare all’amico, che lo prese con riluttanza. Gli voltò le spalle e cominciò a camminare lungo la strada. Contrariamente a quanto pensava, Philip non telefonò all’autonoleggio e infatti non udiva la sua voce. Così si girò a guardarlo. Aveva un’espressione spaesata e fissava il cellulare con incertezza. Anya tornò indietro e quando lui alzò lo sguardo gli sorrise. Poi lo abbracciò.
- Ti voglio bene …
- Anche io … sapessi quanto – rispose lui, ricambiando la stretta.

L’elemento del paesaggio che richiamò tutta la sua attenzione fu una lunga fila di cipressi. Per raggiungerli avrebbe dovuto camminare per un bel po’, ma l’emozione era tale che ogni problema le parve irrilevante. Man mano che procedeva, però, cominciò a porsi dei dubbi circa la strada che aveva percorso. A parte i colori del paesaggio e la varietà delle piante, niente ricordava la campagna che circondava la tenuta del signor Langley. I sentieri che percorreva non avevano niente degli originali e anche gli odori … erano cambiati. Non erano come quelli che aveva sentito mentre era in macchina con Philip.
Giunse ad un incrocio, nei pressi di un piccolo centro abitato, in cui la strada si diramava in due sentieri di terra battuta, uno più piccolo dell’altro. Il più piccolo portava alla schiera di case; l’altro, circondato da alberi, era più buio e pieno di buche. Non c’era tanto da decidere e imboccò subito il secondo. Camminò per diversi minuti, saltando con non poche difficoltà tutte le buche; la cortina di alberi si schiudeva in un boschetto di pini. L’odore della resina riempiva l’aria e ogni passo produceva un crepitio sugli aghi secchi. Anya si guardò intorno, fermandosi per un momento; poi riprese a camminare e in breve oltrepassò il bosco. Si ritrovò così in un altro sentiero, che a giudicare dall’erba e dai cespugli che lo invadevano non doveva essere molto frequentato. Anya lo imboccò, ma dopo pochi, difficoltosi, minuti, fu presa dalla paura di perdere la strada. Così decise di strappare un ciuffo di erba ad ogni dieci passi. Si accingeva a strappare l’ennesimo, quando, alzando la testa e muovendo contemporaneamente un passo avanti, andò a sbattere contro qualcosa di duro e perse l’equilibrio, cadendo seduta. Il dolore alla nuca le annebbiò momentaneamente la vista e si portò le mani sul punto in questione, come se così avrebbe risolto ogni problema. Aveva preso una bella botta, ma fortunatamente non sanguinava. Si rialzò, quindi, e scostò con irritazione il fogliame per vedere contro cosa aveva sbattuto. Ne fu parecchio sorpresa; talmente tanto che impallidì. Erano dei mattoni, o meglio, un muro di vecchi mattoni. Pensò di essersi imbattuta nell’ennesima villa e, sospirando, lasciò che i rami ricadessero nuovamente davanti al muro e si volse per tornare indietro e cercare un’altra strada. Ma proprio in quell’istante, la mente fu attraversata dal ricordo di un muro molto simile, che si interrompeva in un cancello di ferro, un cancello dal quale si accedeva ad un cortile …
Tornò immediatamente indietro, scostò il fogliame e sorrise di gioia. Era quel muro.
Famelici, gli occhi si mossero da un punto all’altro alla ricerca del cancello. Le mani scostarono tutto il fogliame che si ritrovarono davanti e le gambe furono presto pervase da una frenesia troppo grande per restare ferme. Si inoltrò, quindi, nella fitta boscaglia sulla destra e, senza perdere il contatto con il muro, sul quale faceva scorrere la mano, ne seguì il perimetro. Nella foga che l’aveva presa, non si accorse dei rami che graffiarono le braccia e le guance, né della terra che in breve sporcò il bordo dei pantaloni. Quando perse in contatto con il muro il cuore fece un capitombolo.
Era arrivata.
Il cancello si apriva su un breve sentiero pieno di foglie secche che si diramava in due strade minori. Una si piegava a sinistra, allungandosi in uno spazio erboso curato; l’altra l’aveva appena percorsa. Si inoltrava negli alberi e nascondeva il cancello alla vista.
Preda di un’incredulità mista al timore che si ha di fronte qualcosa di sacro, Anya si avvicinò al cancello e sfiorò una delle alte lance che lo componevano. Neppure un filo di ruggine l’aveva intaccato. Capì poi che era nuovo; il cancello originale non era così. Questo era imponente, faceva paura.
Avvicinò il viso alla grata e guardò attraverso una delle molte fessure. C’era un ampio giardino deserto, tutto cosparso di foglie secche e, in fondo, la casa, brulla, fatiscente, abbandonata a sé stessa.
A malincuore distolse lo sguardo e cercò un modo per scavalcare il cancello; ma contro quelle lance alte e lisce niente si poteva fare senza il rischio di farsi male. Così tornò indietro e provò ad arrampicarsi ad un albero. I piedi scivolarono solo una volta e facendosi forza con le braccia riuscì a issarsi fino al muro, su cui sedette e da cui saltò. Fortunatamente cadde su un mucchio di foglie secche e rotolò sull’erba del giardino. Una volta in piedi riuscì finalmente a guardare la tenuta in tutta la sua interezza.
La facciata della casa era per gran parte ricoperta da un rampicante secco, che in certi punti solo per miracolo si aggrappava al muro. Le finestre, dagli infissi di legno fradici e polverosi, erano ormai prive di vetri, a eccezione di quelle ai piani bassi che ne avevano di robusti, ma completamente annebbiati dal tempo. Sulla destra, dove un tempo c’era stata la scuderia, c’erano due alti pini, che avevano sollevato il terreno con le loro grosse radici serpeggianti. Non era rimasta traccia dell’antico edificio, che probabilmente era stato buttato giù dai proprietari che si erano succeduti. La cucina, però, era ancora al suo posto, anche se cominciò a nutrire dei timori pure sulle sue trasformazioni. Anya avanzò fino alla porta, anche questa diversa dall’originale, e scosse la maniglia; ma la serratura era talmente vecchia e arrugginita che neppure facendo forza cedette.
Si spostò dunque verso l’entrata principale. Lì il portico c’era ancora. Le colonne erano state nascoste dalle infide spire del rampicante e il pianerottolo era infestato di foglie secche, rami spezzati e polvere. Anya mise mano alla maniglia della porta, che sorprendentemente si aprì al primo tentativo.
La casa era avvolta nella penombra. Solo tenendo aperta la porta riuscì a distinguere la conformazione degli interni, che fortunatamente non erano cambiati. Anya avanzò fino al centro della sala e mentre muoveva lo sguardo da una parte all’altra gli occhi le si riempirono le lacrime. Rivide la scala centrale, il motivo geometrico delle piastrelle del pavimento, i corridoi sui quali si era mossa per andare e tornare dalla cucina, le tende bianche che nelle belle giornate svolazzavano con il vento e che ora erano ridotte in luridi brandelli grigiastri.
Dopo un ultimo sguardo alla sala, decise di andare a vedere prima di tutto la cucina. Percorse il corridoio pieno di finestre, tossendo per la polvere che la brezza sollevava, aprì una porta che prima non c’era, camminò per qualche altro metro e vide l’arco dal quale la servitù entrava in cucina. Una volta arrivata non trovò niente. La stanza era stata privata del suo tavolo centrale e dei ripiani in muratura. Rimanevano solo il camino e il forno con il bordo di mattoni, di cui carezzò la superficie, singhiozzando al ricordo del bacio che lì il conte le aveva dato.
L’accesso alla stanza adiacente era stato chiuso con delle assi di legno. Guardando fra di esse, però, Anya si accorse che la scala, fradicia in molti punti, aveva ceduto; ma di questo si meravigliò poco, perché ricordava che ogni qual volta vi saliva, i gradini scricchiolavano.
Così tornò indietro e imboccò il breve corridoio che portava in sala da pranzo. Lì ebbe almeno la consolazione di trovare il lungo tavolo e qualche sedia. Per un attimo le parve di vedere il conte seduto che faceva colazione: era sempre in quest’occasione che qualche volta lo serviva. Il tavolo era interamente impolverato e tarlato. Da ogni parte, con un po’ d’attenzione, era possibile distinguere i fori scavati dalle tarme. E anche le sedie riversavano in tali condizioni. Si chinò su di una buttata a terra e carezzò il velluto bordeaux, scolorito e consunto, che ricopriva le imbottiture. Poi, preso un respiro per calmare i singhiozzi, si sollevò in piedi e uscì dalla sala. La fatiscenza dell’ingresso la colpì come se fosse la prima volta che lo vedeva; fu come ricevere un pugno allo stomaco. Attardò lo sguardo sugli elementi decorativi in legno scuro delle poche porte che rimanevano e degli altorilievi sulle pareti. Lasciò che gli occhi carezzassero poco a poco ogni superficie e si ingannassero con la visione della vita e delle attività che prima animavano il luogo e quando si posarono sulla scala, sui due pomelli e i gradini di legno tarlato, Anya guardò in alto, dove c’erano state le porte dei due corridoi e salì. In cima, tra i due corridoi, c’era corrente. I brandelli alle finestre svolazzavano così tanto che Anya ebbe il timore che si sarebbero strappati.
Dopo una fugace occhiata al corridoio destro, imboccò il sinistro. Il pavimento era cosparso di foglie secche, brandelli di tende; la polvere e la ruggine ricoprivano i davanzali e gli infissi. Più di qualunque altra casa, quel corridoio era il simbolo dell’abbandono. Anya dovette fare uno sforzo su sé stessa per avanzare. Sventolando, i brandelli di una tenda le sfiorarono il viso. La prima porta aveva i cardini fradici di ruggine, così come la maniglia e la serratura, intorno alle quali si era formato un alone arancione radicatosi perfino nel legno. Non poté, tuttavia, fare a meno di sforare il metallo. Chiusa adesso come in passato e come, probabilmente, sarebbe sempre stata: quella era la camera della figlia del conte. Poco oltre si apriva un’altra stanza, priva di porte e cardini: quella della signora Langley; ma non si preoccupò molto di entrarvi perché era vuota e la finestra era stata chiusa con delle assi di legno.
Quando vide la porta successiva, seppure con la coda dell’occhio, trattenne il fiato. Era la stanza del signor Langley. Negli istanti che occorsero per raggiungerla, si chiese cosa avrebbe dovuto aspettarsi; ma non appena allungò la mano verso la maniglia, un rumore attirò la sua attenzione. Proveniva dal piano inferiore e sembrava essere stato prodotto da qualcosa che sbatteva. Si convinse che era il vento, dopo essersi messa in ascolto, e aprì la porta. Come il resto, ogni elemento che caratterizzava la stanza sembrava chiedere aiuto per il livello di trascuratezza in cui era caduto. Dell’arredamento originale c’erano solo il letto, il camino e il baule. Con il petto scosso dai battiti pesanti e dai singhiozzi, si accasciò sulle ginocchia, preda di una straziante nostalgia. Era quasi tutto come era stato lasciato dopo la sua morte. Il letto che l’aveva visto superare la malattia, che li aveva accolti nella loro unica notte insieme e che aveva offerto un appoggio al suo corpo esanime, era ancora lì, davanti a lei e si stagliava quasi con orgoglio, ascoltando i suoi pianti con severa indifferenza. Alzò lo sguardo rabbioso su di lui e al ricordo di quell’ultimo, drammatico, momento, cadde nella disperazione. Aveva sbagliato a vivere quei giorni senza di lui. Era impossibile convivere con l’angoscia della sua assenza.
Era piegata in due, con le braccia strette al torace, quando fu destata da un secondo rumore. Fu presa dalla paura, una paura incontenibile, poiché quel rumore era vicino, alle sue spalle. Si alzò di scatto e sforzandosi di riprendere il controllo di sé stessa, si voltò in direzione della porta.
E impallidì.
Sulla soglia, un uomo alto, magro, con i capelli biondo scuro e gli occhi grigio verdi la guardò con un sincero sbigottimento che presto fu sostituito da un sorriso.
La giovane mosse la bocca per balbettare qualcosa, ma l’uomo non le lasciò il tempo. Le si avvicinò e l’abbracciò.
A quel punto Anya non ebbe più dubbi.
Era lui.

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