Nonostante tutto.

di _V_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Equilibri. ***
Capitolo 3: *** Mezze parole. ***
Capitolo 4: *** Rivelazioni. ***
Capitolo 5: *** Sogni e realtà. ***
Capitolo 6: *** Passi avanti, passi indietro. ***
Capitolo 7: *** Confusione. ***
Capitolo 8: *** Sviluppi. ***
Capitolo 9: *** Complicazioni. ***
Capitolo 10: *** Vecchie e nuove conoscenze. ***
Capitolo 11: *** I can't leave you behind. ***
Capitolo 12: *** Tregua...? ***
Capitolo 13: *** Il punto di svolta. ***
Capitolo 14: *** Alle sei all'angolo. ***
Capitolo 15: *** La verità non sempre fa male. ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


Storia Recentemente l'amministrazione del sito mi ha fatto notare l'esistenza di alcune somiglianze tra la mia storia, "Nonostante tutto", e quella dell'autrice "_Bec_", dal titolo "Tra l'odio e l'amore c'è la distanza di un bacio", che potete trovare a questo indirizzo: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=474329&i=1 . Ci tengo a specificare che non era assolutamente mia intenzione infrangere il regolamento del sito, e quindi creare questa spiacevole situazione, perciò chiedo scusa all'autrice (a cui sarò lietissima di fare le scuse in privato), a voi lettori e all'amministrazione, che è stata davvero paziente e disponibile con me.
Davvero, mi dispiace moltissimo per tutto quello che è successo. E dato che mi trovo nella sezione "originali", provvederò al più presto - e gradualmente, dato il poco tempo che ho a disposizione - ad eliminare e/o sostituire questi punti in comune tra le due storie.
NONOSTANTE TUTTO
 


-Prologo: Ricordi-


 
 
Milano, giugno 2000. (10 anni prima)
 

Era un grande prato, pieno di fiori rossi e bianchi, adombrato quasi completamente da un sacco di alberi altissimi e carichi dei frutti più svariati e colorati. Nell'aria c'era il solito, dolce profumo di ciliegia, che si mischiava perfettamente con quello fresco e forte dell'erba viva e verde su cui correvo. Non un solo filo di essa era secco o schiacciato, eccetto per quella che veniva calpestata, ma che quasi miracolosamente tornava subito al suo posto...e, a dirla tutta, io credevo davvero che quel posto fosse magico; perché era lì che vivevo la mia infanzia, era lì che piangevo quando mi sbucciavo le ginocchia; ma soprattutto era lì che trascorrevo - senza rendermene conto - gli attimi migliori della mia vita, fatti di risate spensierate e di una gioia che non aveva bisogno di essere cercata, perché arrivava da sola insieme alle piccole cose, quelle più importanti.
E poi c'era lui, il mio migliore amico, la persona che mi dava più di tutti gli altri messi insieme senza chiedermi nulla in cambio, la presenza che probabilmente occuperà sempre un posto speciale nel mio cuore...perché è grazie a lui se ho potuto vivere quei momenti indimenticabili che conservo ancora con incredibile affetto nella memoria, nonostante tutto, nonostante il tempo trascorso e nonostante i cambiamenti che ci hanno colto.



 

«Aspettami Lore!». Urlai con quanto fiato avevo in gola – poco, a dire il vero -, mentre con una mano cercavo di aggiustarmi le codine, che ormai erano sfatte a furia di correre, giocare e rotolarmi per terra.
«Certo, contaci, così mi prendi e perdo».
Rispose lui, con i pantaloncini tutti strappati e le ginocchia piene di graffi - che ormai non bruciavano più - cominciando a correre più velocemente per aumentare la distanza.
Rallentai piano la mia corsa, ormai sfinita e senza più un briciolo di ossigeno in corpo, sbuffando e sedendomi per terra, non curandomi del fango e degli sguardi degli altri bambini che mi giocavano intorno. Lo sguardo di tutti tranne quello del mio migliore amico, che continuava a correre senza neanche voltarsi indietro per controllare che ci fossi ancora.
«Uffa». Brontolai poi, strappando malamente un paio di fiori e gettandoli poco distanti dal punto in cui giacevo sdraiata e arrabbiata.
Dopo un po', Lorenzo si fermò per riprendere fiato.
Non appena si voltò per controllare a che punto fossi arrivata, si dovette accorgere della mia assenza, perché cominciò a guardarsi intorno preoccupato, temendo che magari fossi caduta e mi fossi fatta talmente male da non riuscire più a rialzarmi.
Con passo svelto cominciò ad avvicinarsi a me e, sentendo il mio nome gridato a gran voce, mi risollevai da terra completamente sporca di terra e in attesa che mi raggiungesse.
«Dove ti eri cacciata?». Mi chiese Lorenzo una volta che fu abbastanza vicino perché potessi sentirlo.
«Qui». Risposi guardandolo storto e aggiungendo una smorfia.
«Che cos'hai? Ti sei fatta male?». Continuò, lui, imperterrito il suo interrogatorio, accorgendosi però che c'era qualcosa che non andava nel mio comportamento.
«No, sto benissimo». Risposi secca, continuando a guardarlo negli enormi occhi blu.
Mi piacevano tantissimo, delle volte mi fermavo a fissarli senza neanche rendermene conto, distraendomi da tutto il resto e lui mi rimproverava perché non lo ascoltavo.
«Sei arrabbiata?». Mi chiese facendosi coraggio.
Feci spallucce e mi sedetti nuovamente a terra. La rabbia mi era pressoché passata, ora mi restava solo da gestire un po' di delusione.
Lorenzo si sistemò accanto a me, con ancora un po' di fiatone dovuto alla folle corsa.
«Coraggio, dimmi cos'hai». Mi esortò tentando un sorriso, che tuttavia non gli riuscì molto bene.
«Mi hai lasciata indietro e neanche ti sei preoccupato di controllare che ti stessi ancora seguendo». Confessai abbassando lo sguardo e cominciando a strappare altri fiori...come facevo ogni volta che litigavo con lui.
«Ma stavamo giocando a chi arriva primo!». Protestò Lorenzo alzando la voce e spingendomi – di conseguenza – ad alzare la testa in sua direzione.
«Sei tu che ci hai voluto giocare».
«Eravamo d'accordo tutti e due». Precisò lui stizzito.
«Fa lo stesso. Non mi piace più quel gioco». Conclusi dando prova della mia infantilità, facendo sorridere Lorenzo.
«Sei una stupida».
«E tu un egoista».
Tra di noi calò il silenzio, interrotto solo dal brusio del vento e dalle mamme che richiamavano i propri figli perché si era fatto tardi e dovevano tornare a casa.
«Senti Giò...». Fu Lorenzo a riprendere la parola, quando ormai il sole era quasi nella fase del tramonto e il prato praticamente deserto, eccezion fatta per i ragazzini più grandi che potevano stare ancora a giocare. «Perché non facciamo pace? Non mi piace litigare con te».
Concluse con un'espressione leggermente triste, che mi portò ad annuire spontaneamente e impercettibilmente.
«Va bene». Concordai senza neanche pensarci un attimo: anche io odiavo essere in lite con lui, perché ogni volta che succedeva cominciavo a pensare e a ripensare finché non arrivavo al punto in cui mi chiedevo quale fosse stato il motivo di tale litigio; a dimostrazione del fatto che qualunque esso fosse, non era abbastanza importante.
Lorenzo si aprì in uno di quei sorrisi che mi piacevano tanto, perché gli facevano le fossette sotto gli occhi che lo rendevano buffo; e fu inevitabile ricambiare il gesto.
Nel frattempo, pronto a sigillare quella riappacificazione con un giuramento, lui mi aveva teso il mignolo, che ben presto si intrecciò perfettamente - come molte altre volte – al mio.
«Pace». Dissimo insieme, scoppiando a ridere per la nostra tempistica perfetta.
Erano quelli i momenti che preferivo, perché mi sembrava tutto perfetto e felice come nel mondo delle mie amate fiabe, e non li avrei mai scambiati con niente e nessuno, perché erano miei e basta...miei e di Lorenzo.

 
«Lore?». Lo chiamai poco dopo, mentre eravamo entrambi sdraiati sull'erba, affannati per l'intensa lotta di solletico che ci eravamo fatti a vicenda per una buona mezz'ora.
«Mmh?». Mi esortò lui a parlare.
«Mi prometti che non litigheremo più?». Gli chiesi, chiudendo gli occhi in attesa di una sua risposta.
«Non che quella di prima possa essere definita una vera lite...». Ribatté Lorenzo pensieroso. «Comunque te lo prometto...e ti prometto anche che la prossima volta rallenterò per aspettarti».
«E che quando ti chiederò la merenda me la darai subito, senza fare storie?».
Chiesi sollevandomi su un gomito per osservarlo meglio mentre rifletteva. Ero ben conscia che quanto gli stavo chiedendo non era poco, perciò temevo un rifiuto...anche se in tal caso non penso mi sarei arrabbiata.
«Sì, lo giuro». Rispose, infine, sorprendendomi e accennando un mezzo sorriso.
La sua merenda era sacra, non la dava mai a nessuno e mi sentivo terribilmente felice di quella piccola, grande conquista.
«E giurami che rimarremo sempre amici». Aggiunsi, presa da quella specie di gioco che avevamo intavolato.
Lui aprì un occhio e mi fece un altro enorme sorriso.
«Migliori amici, vorrai dire». Puntualizzò in un tacito consenso alla mia richiesta, che probabilmente gli sembrava stupida e inutile da fare: non aveva la minima intenzione di separarsi da me, lo sapevo.
Sentii il cuore farmi una capriola nel petto e cominciai a saltare e correre per il prato in preda ad una felicità tale che non riuscivo a tenere dentro stando semplicemente ferma: era sempre - troppo - bello sentirsi dire ciò che si desiderava, sia che si trattasse di qualcosa di stupido che di qualcosa di importante.
Lorenzo si alzò ridendo, evidentemente sorpreso della mia improvvisa energia; fino a neanche un'ora prima mi lamentavo perché non riuscivo a stargli dietro e  ora andavo avanti e indietro, apparentemente senza mai stancarmi. Quando lo raggiunsi gli presi le mani e lo abbracciai come forse non avevo mai fatto, o come non facevo da molto tempo e quando lui ricambiò la stretta, con la bocca ad un centimetro dal suo orecchio, riuscii ad esprimere quello che sentivo in tre semplici parole, che mi uscirono dal cuore e che gli avrei ripetuto all’infinto, se solo me ne avesse dato l’occasione.
«Ti voglio bene, Lore».
«Anche io, Giorgina, tanto».
 



Eppure, adesso quelli sono dei semplici ricordi che probabilmente non rivivranno mai più. Quelle dolci parole dette dal mio migliore amico in uno dei pomeriggi più caldi e belli della mia vita si sono rivelate semplici promesse che non sono state mantenute.
E mentre ripenso ai bei momenti passati insieme è triste realizzare di averli vissuti con la persona che ora odio di più al mondo. No, non è una parola eccessiva; è lui la causa principale delle mie sofferenze.
Le cose non sono andate come avevo previsto; anzi, si sono rivelate tutto il contrario di quello che pensavo che fossero.
Non ho ancora accettato che il mio migliore amico si sia trasformato in quello che è il mio peggiore incubo.
Non ho mai capito che cosa l'abbia fatto cambiare così radicalmente, eppure ci ho pensato tante volte.
E la cosa peggiore è che io continuo a volergli bene.
Nonostante tutto.





Note:

Dunque...
È la prima volta che scrivo su EFP e sono un po' emozionata! Ho sempre avuto la passione per la scrittura creativa e - dopo aver scritto innumerevoli storie originali, destinate a marcire nel mio computer - mi sono finalmente decisa a renderne pubblica qualcuna.
Questa è l'ultima che ho scritto ed è anche quella a cui sono più affezionata in assoluto (qualora la storia vi piacesse un po' e decideste di andare avanti, capirete il motivo di questo mio attaccamento particolare...).
Riguardo al capitolo, vorrei solo dire che - ma penso non ce ne sia bisogno - ovviamente è un piccolo racconto di un episodio passato, che Giorgia rivive con molta nostalgia. Essendo appunto un prologo, dal prossimo la storia cambierà completamente; sarà ambientata nel presente, nel momento in cui la situazione subisce una "rottura", un cambiamento, che sarà l'inizio dei veri "guai".

Non credo di dover dire molto altro, se non che spero che vi piaccia e che la continuerò solo ed esclusivamente se qualche anima pia dovesse trovarla interessante e non troppo banale. So che da un prologo striminzito non si può capire granché, per questo spero che -  se questa introduzione ha catturato almeno una piccolissima parte della vostra attenzione - leggiate almeno il primo capitolo, per vedere un po' come si svolgono i fatti, com'è la narrazione e il mio modo di scrivere; ma trovo assolutamente inutile continuare a pubblicarla se nessuno dovesse "filarsela" di striscio. 
Va bene, credo di non esser riuscita ad esprimere pienamente quello che volevo dire, perciò leverei anche le tende e vi pregherei di concentrarvi solo su quello che ho scritto sopra! XD
Si vede proprio che sono nuova qui, eh? Prometto che migliorerò ;)
Grazie a chiunque dovesse leggerla anche solo per sbaglio, a presto!


P.s: Mi sembra brutto chiedervelo, ma vi pregherei di lasciare almeno una riga di recensione per dire cosa ne pensate...altrimenti mi sento forever alone, anche se continuate a leggerla!

Veronica

 

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Capitolo 2
*** Equilibri. ***


Capitolo 1



CAPITOLO 1:
Equilibri




Milano, settembre 2010.


Era il mio primo giorno di scuola del quarto superiore, il futuro non sembrava poi così carico di novità e io vivevo semplicemente la mia vita, come avrebbe fatto una qualunque diciassettenne.
Uscii di casa con la solita fretta che mi contraddistingueva quando si trattava di andare scuola, con ancora un cornetto in una mano e la cerniera rotta del cappotto nell’altra. Mi chiusi la porta alle spalle e fu inevitabile sentire il cigolio snervante che da qualche tempo accompagnava quel vecchio pezzo di legno, che ormai sembrava lo facesse apposta solo per ricordarci che andava sostituita. Stanca di fare i salti mortali, ingoiai l’ultimo enorme pezzo di brioche e cercai di chiudere il cappotto con entrambe le mani; era solo settembre, ma a Milano sembrava già Natale!
Una volta terminata la mia lotta con quello stupido aggeggio, mi avvicinai di soppiatto verso la porta dei coniugi Belli, che vivevano nell’appartamento accanto al mio, e tesi le orecchie per cercare di cogliere anche il minimo rumore. Quando mi fui accertata che l’allegra famigliola fosse già fuori casa, mi precipitai giù dalle scale con uno scatto fulmineo, senza neanche prendermi la briga di provare a chiamare l'ascensore; tanto a quell'ora lo chiamavano da tutte le parti, avrei solo incrementato l'interminabile coda che lo attendeva impaziente.
Tre piani di scale non erano pochi, ma ormai ero abituata a farli, perciò non fu particolarmente stancante la discesa e riuscii persino a prendere l'autobus delle 7.40, che per fortuna quella mattina aveva deciso di passare in ritardo.
Con ancora il fiatone, presi posto in fondo alla vettura, e cominciai a guardarmi intorno con aria furtiva, certa che anche lui fosse lì, nascosto da qualche parte e pronto a tendermi un agguato non appena mi fossi distratta un secondo.
Tuttavia, dei suoi capelli biondi e del suo metro e ottanta non c’era la minima traccia, evidentemente aveva preso il pullman prima, oppure lo stava aspettando alla fermata di fronte alla gelateria del Centro. Non appena l'autobus girò l'angolo del parco sentii l'agitazione crescere e percepii distintamente il mio cuore iniziare la sua folle corsa; non era la prima volta, ma era sempre come se lo fosse. Alla fine avevo compreso quale fosse la causa di quel cambiamento e, seppur a malincuore, avevo accettato il fatto che fosse inevitabile quando la causa in questione corrispondeva al nome e alla faccia di...
«Belli!».
Ecco, per l'appunto, lui :
Lorenzo Belli, classe 1992, stronzo di professione, nonché mio ex migliore amico e attuale peggior incubo e vicino di casa.
Come calcolato, era salito alla fermata prevista - no, non osservavo di proposito tutto quello che faceva o lo riguardasse solo perché un tempo eravamo amici - e neanche il tempo di far ripartire l’autobus, che si era messo a parlare allegramente con quelli che definiva i suoi amici...ovvero tutti i ragazzi della scuola, che lo ammiravano neanche avesse portato la pace nel Mondo.
Come ho detto prima, non le avevo cercate di proposito quelle informazioni sul suo conto, ma - per chissà quale motivo - me lo ritrovavo sempre nelle vicinanze, come un incubo...per l'appunto; soprattutto durante il periodo scolastico dato che frequentavamo la stessa scuola…e da quell’anno saremmo stati anche nella stessa classe.
Ci trovavamo praticamente ai lati opposti del pullman, era matematicamente impossibile che dal punto in cui si trovava potesse riuscire anche solo a scorgermi, tuttavia cercai di nascondermi il più possibile dalla sua vista, probabilmente passando per una persona con qualche piccolo squilibrio mentale.
In sua presenza era meglio un giudizio sbagliato che rischiare di essere scoperta, su questo non avevo dubbi.
«Lore!». Sentii sbraitare contro il mio orecchio sinistro, trattenendomi a stento dall'urlare per lo spavento.
Mi voltai lentamente, in direzione della voce gallinacea che mi avrebbe inevitabilmente fatto saltare la copertura; pregai tutti i Santi che non fosse come pensavo, e invece ebbi l'ennesima conferma del fatto che le mie speranze fossero destinate ad essere vane, in qualunque circostanza.
Con un gesto più automatico che volontario puntai lo sguardo verso Lorenzo, ma anziché trovarlo intento a ridere come un idiota per le battute dei suoi sciocchi compagni, incontrai il suo sguardo irritante. Irritante perché era azzurro ed identico a quello di quando era bambino e io avevo sempre avuto un debole per il colore dei suoi occhi che, sfortunatamente, ancora non accennava a passarmi.
Come ogni volta in cui i nostri sguardi si incrociavano, per caso o di proposito che fosse, mi parve di vederlo soffermarsi più del dovuto sul mio, ma sapevo benissimo che era solo una mia impressione, perché Lorenzo Belli non avrebbe mai, e sottolineo il mai, rivolto alcuna attenzione a Giorgia Mori, la sottoscritta.
Per quale motivo?
Chiedetelo a lui, ma non sono del tutto convinta che sappia rispondervi.
«Reb!». Esclamò con un sorriso largo trentadue denti, dopo quella che mi parve una vita.
Ora, ovviamente, il suo sguardo era completamente rivolto a Rebecca Galbiati, la ragazza più carina della scuola, nonché sua attuale fidanzata, ammesso che tale si potesse definire.
Lorenzo si allontanò dal suo gruppo di caproni e facendo a spallate con la miriade di studenti che popolavano l'autobus, vecchietti compresi, riuscì a raggiungere l'estremità opposta, quella dove si trovava Rebecca...quella dove mi trovavo io.
Scostai immediatamente lo sguardo per cercare di cancellare la mia presenza da quell'insopportabile automezzo, pregai che mi ignorasse e si concentrasse solo su quell'ochetta starnazzante, ma ormai l'incubo era inevitabilmente cominciato e la solita storia iniziava a ripetersi.
«Mori, ti vedo in forma quest'anno». Mi salutò, apparentemente sincero e cordiale. Ma sincero e cordiale sono due aggettivi che non possono essere collegati a Lorenzo Belli, almeno non quando il suddetto si rivolgeva a me.
«Belli!». Esclamai io in risposta, cercando di fingere quella che doveva essere sorpresa, ma che invece risultò come una battuta da commedia. «Cosa ci fai qui?».
Lorenzo arcuò un sopracciglio indispettito, per poi riprendere a sorridermi come se non lo stessi prendendo per i fondelli.
«Quello che ci fai anche tu, vado a scuola. Ho saputo che sei passata dal linguistico alla ragioneria, e che sarai in classe mia». Disse sottolineando le ultime due parole facendogli assumere una nota minacciosa, velata agli altri, chiara come l’acqua a me.
«Sì, per sfortuna». Replicai, fingendomi delusa per quella notizia, ma in realtà non appena avevo scoperto di essere in classe con lui mi ero sentita felice. Stupida io che pensavo che avendolo in classe con me, avrei potuto riavvicinarlo.
Lorenzo fece una smorfia che lasciò trasparire un rivolo di rabbia, dopodiché si voltò dall’altra parte, ma non prima di prendersi una piccola rivincita.
«Mori, sai che ti renderò la vita impossibile, vero?».
Non mi spaventai a quelle parole, scossi semplicemente le spalle e decisi di ignorarlo, come sempre d'altronde. Per riuscire nel mio intento, presi l'ipod, che portavo appositamente per uscire mentalmente illesa da quelle situazioni, e feci finta di far partire la riproduzione. Chiamatemi masochista, ma non avevo la minima intenzione di perdermi i discorsi che avrebbe fatto con Rebecca, anche se ero perfettamente consapevole che ogni sua singola parola sarebbe stata una mia piccola sconfitta.
«Eddai, non fare la musona già il primo giorno di scuola». Si lamentò trattenendo a stento una risata. Conoscevo perfettamente il suo tono ilare, era quello che usava perennemente quando mi diceva qualcosa.
«Amore, lasciala stare. Non ne vale la pena di perdere tempo con un'asociale emarginata come lei. E poi...non mi hai ancora dato neanche un bacino». Intervenne Rebecca, probabilmente appiccicandosi ancora di più a Lorenzo. In un certo senso le fui grata, perché nonostante ciò che avesse detto non fosse propriamente gentile ed educato, almeno aveva distolto il suo ragazzo dall'intenzione di torturarmi, seppur temporaneamente.
Dagli schiocchi che sentii subito dopo, immaginai che avessero cominciato a dare spettacolo e a quel punto sì che feci partire la musica.
Le critiche non mi davano poi così fastidio, finché fatte nei limiti, perché erano comunque rivolte a me e da ingenua quale sono, in fondo ero contenta che non mi ignorasse del tutto; ma quando si trattava di dover vedere o sentire qualcosa che aveva per oggetto altre persone, amiche sue, allora ne facevo volentieri a meno.
Gelosa? Può darsi.
Ascoltai distrattamente tutto il CD dell'estate, finché non fui distratta dalla voce di Lorenzo che probabilmente era riuscito ad impegnare la lingua in qualcosa di più costruttivo.
«Reb, non essere gelosa, lo sai che non ci riesco. L'ho messo in chiaro fin da subito e tu hai accettato».
Lorenzo era scocciato, avevo anche imparato a riconoscere quel tipo di voce, e questo non era molto normale, me ne rendevo conto.
Non sapevo di cosa stessero parlando, eppure prevedevo aria di lite e questo non mi dispiaceva per nulla, anche se non avrebbe giovato minimamente al nostro rapporto.
«Dimmi quante, allora». Sentenziò Rebecca, con un sospiro di rassegnazione.
Ci fu un attimo di silenzio in cui mi decisi a spegnere nuovamente la musica e stare ad ascoltare. Era così che riuscivo a sapere qualcosa della vita di Lorenzo, e me ne vergognavo terribilmente.
«Non le ho contate, probabilmente una decina». Rispose lui con voce strascicata e annoiata.
«Sei andato a letto con dieci ragazze quest'estate?!». Chiese, ma più che altro urlò, Rebecca. La sua voce era carica di rabbia, chiunque se ne sarebbe accorto, ma Lorenzo rimase tranquillo, incurante della gente che ormai fissava solo loro.
«Sì, più o meno». Ammise lui, senza titubare neanche un attimo.
«Non mi va di essere perennemente cornuta». Protestò Rebecca, marcando sull’ultima parola così che tutti potessero sentirla.
«Cazzi tuoi, io te l'avevo detto».
Spinta da chissà quale moto, riuscii a voltarmi nella loro direzione, dove ormai erano puntati gli sguardi di tutti i presenti, sperando che non si accorgessero che tra di essi ci fosse anche il mio.
«Sei uno stronzo!». Sbraitò la biondina, che ormai tra la rabbia e la vergogna aveva raggiunto il color peperone.
Lorenzo, come avevo immaginato, era distrattamente e tranquillamente appoggiato ad uno dei pali, con le mani infilate in tasca e gli occhi rivolti verso l'alto.
Neanche il tempo di collegare l'idea di quello che stava succedendo al cervello, che la mano di Rebecca raggiunse in pieno viso Lorenzo.

In men che non si dica l’autobus si era trasformato in un ritrovo di gente intenta a commentare quanto avevano appena visto: gli amici di Lorenzo erano rimasti con la bocca socchiusa e gli occhi fuori dalle orbite, le ragazze della scuola che gli sbavavano dietro si erano precipitate in massa per soccorrerlo – neanche Rebecca gli avesse rotto qualcosa – e i vecchietti criticavano la gioventù che secondo loro stava crescendo in modo sbagliato.
E io, io cosa facevo?
Io probabilmente facevo parte di tutte e tre le categorie, perciò si potrebbe tranquillamente dire che non facevo testo.
Se da una parte non avevo mai visto nessuno osare toccare con un dito il Grande ed Unico Belli, ed ero rimasta folgorata dal coraggio e dalla potenza di quella ragazza così apparentemente stupida e inetta, dall’altra era stato inevitabile che mi portassi una mano davanti alla bocca non appena il suo labbro superiore aveva cominciato a sanguinare.
Lorenzo, dal canto suo, era rimasto immobile, con l’espressione di chi stesse sognando e non riuscisse a capire niente di quello che stava succedendo. Io ovviamente rimasi lontana dalla mischia e seppur desiderassi ardentemente di sentirlo parlare ancora, rimisi le cuffie alle orecchie e mi isolai da tutto il resto. Era terribilmente deprimente dover rimanere con le mani in mano senza poter fare nulla, tuttavia ero costretta a farlo, perché ero assolutamente sicura che se avessi anche solo provato ad avvicinarmi, lui avrebbe sfogato la sua ira per l’umiliazione subita su di me e alla fine quella che ci avrebbe rimesso sarei stata solo e soltanto io.

Poco dopo arrivammo a scuola, dove, neanche il tempo di entrare che si era già diffusa la voce di un Belli picchiato a sangue da una ragazzina e che ora non riusciva neanche a reggersi in piedi; quando invece – per fortuna – era ancora tutto integro e neanche troppo infervorato con il mondo.
Ho detto con il mondo, non con me.
«Mori, levati dai coglioni». Disse infatti brusco, allontanandomi dal suo cammino con una violenta spallata.
«Ehi!». Lo rimproverai massaggiandomi il punto che aveva colpito con forza. Probabilmente era stato il dolore a farmi protestare, perché se fossi stata pienamente cosciente delle mie azioni – specialmente in quel momento – avrei sicuramente scelto la via del silenzio e dell’accondiscendenza.
Belli si fermò di scatto, voltandosi con rabbia verso di me mentre i suoi amici continuavano a tirargli delle pacche affettuose sulle spalle per esortarlo ad entrare a scuola e ad andare immediatamente in infermeria. Il suo sguardo – ancora una volta incatenato al mio – trasmetteva lo stesso identico sentimento iroso, solo misto ad un po’ di odio che lo rendeva ancora più terrificante e lascivo. A quel punto mi fu inevitabile fare un passo indietro per cercare di scappare, ma il piazzale della scuola era gremito di studenti intenti a chiacchierare tra di loro e dirigersi al cancello, perciò desistetti dal farne altri.
«Scusa?». Domandò accennando ad un sorriso che non era per niente dolce e sincero come quelli che mi regalava anni prima, ma piuttosto pungente ed ironico, tale e quale a quelli che mi rivolgeva alla prima occasione che gli si presentasse per potersi divertire e sfottermi. «Hai per caso detto qualcosa?».
«Assolutamente no!». Mi affrettai a dire, risultando patetica e succube – ancora una volta – di quello che avevamo vissuto insieme, perché non era di lui che avevo paura, bensì di quello che eravamo stati un tempo.
«Senti, Mori, vai al diavolo e non rompere più il cazzo». Aggiunse stringendo gli occhi a due fessure.
Non ebbi neanche il tempo di replicare, nonostante non credo che lo avrei fatto se me ne avesse dato il tempo, che Lorenzo sputò a terra con stizza e dopo avermi lanciato l’ultima, fugace occhiata proseguì per l’entrata che ormai era bloccata da tutti gli altri alunni.
Decisi di aspettare che la situazione migliorasse, perciò mi sedetti su un gradino isolato vicino ad una macchina e cominciai a smuovere il cemento vecchio con il piede, con ancora in mente l’immagine del mio migliore amico che mi diceva “Ti voglio bene” e faceva promesse forse troppo grandi per entrambi.

Giunsi in classe in concomitanza con il suono della campanella che segnava l'inizio di un altro terrificante anno scolastico; presi posto all'unico banco rimasto libero - quello davanti alla cattedra - e inspirai profondamente sperando che l'ossigeno potesse aiutarmi a dimenticare, almeno temporaneamente, quello che era successo solo pochi minuti prima.
Nella mia mente, che ormai faceva di testa sua, le torture subite in passato cominciarono a susseguirsi una dopo l'altra tristemente accompagnate dai momenti belli, che mano a mano che il tempo passava, diventavano dei semplici e inutili ricordi sempre più sbiaditi e imprecisi.
Ormai era parecchio tempo che avevo smesso di illudermi che non me ne importava nulla se Lorenzo mi parlasse o meno, ero perfettamente consapevole che mi mancava. Sì, il mio migliore amico mi mancava terribilmente, mentre io per lui ero solo un facile bersaglio di cui prendersi gioco. La situazione era insostenibile.
Ben presto il resto della classe prese il suo posto e ritrovai nelle loro facce dei perfetti sconosciuti, a parte Lorenzo, che si era seduto all'ultimo banco con una ragazza bionda dal seno piuttosto sviluppato.
Il banco vicino al mio era stato rigorosamente lasciato vuoto, neanche avessi la peste, ma non me ne curai molto perché ormai era una routine. La mia vita scolastica non era per nulla semplice: credo che mi si potesse definire una sorta di secchiona, che metteva lo studio prima di tutto e non usciva mai; non avevo amici - se non quel paio di persone con cui ero riuscita a mantenere un buon rapporto - e odiavo altamente qualunque cosa riguardasse lo sport. Nonostante tutto, però, con qualche sacrificio e dopo parecchio tempo ero sempre riuscita ad ottenere l'indifferenza dei miei compagni e tra di noi vigeva una convivenza abbastanza civile; quell’anno però sarebbe cambiato tutto, in peggio chiaramente, ed ero certa che i termini “pace” e “tolleranza” sarebbero stati un lontano ricordo. Per quale motivo? Il fatto che Lorenzo fosse uno dei miei compagni di classe non vi dice niente?
«Buongiorno ragazzi». Ci salutò distrattamente il primo professore della giornata, facendoci segno di risederci, e da quella frase capii che era veramente iniziato tutto.
Ed io non ero affatto pronta.

La giornata trascorse nella tranquillità più assoluta, ovviamente fui esclusa da ogni tipo di discorso che gli altri intraprendessero e mantenni la mia più totale solitudine.
I professori mi riempirono di domande riguardanti il mio trasferimento, talvolta risultando parecchio pesanti ed impiccioni, mentre Lorenzo sembrò essere finalmente riuscito a capire il significato del verbo "ignorare", perciò potevo ritenermi abbastanza soddisfatta di quell'inizio scolastico.
«Ehi, Mori, aspetta!».
Non dire gatto se non ce l'hai nel sacco.
A metà del corridoio mi voltai incuriosita, quella voce l'avrei riconosciuta anche se disturbata dal ronzio di un centinaio d'api, piegai leggermente la testa di lato e pregai che non avesse intenzione di iniziare ancora a tormentarmi.
«Stai andando a casa?». Mi chiese senza neanche darmi il tempo di concludere il mio pensiero, lasciandomi completamente scettica ed interdetta.
Che cosa voleva da me?
«Certo, dove vuoi che vada altrimenti?». Risposi risultando forse troppo acida e indisponente; mentre i miei occhi cominciarono a vagare circospetti in cerca dei suoi e di quelli dei suoi amici.
Lorenzo sorrise bonariamente, o almeno ci provò, perché più che altro sembrava gli fosse venuta una paresi facciale.
«Ovunque tranne che a casa, ovviamente».
Rispose con una scrollata di spalle, come se quanto mi stava chiedendo fosse la cosa più logica del mondo.
Assottigliai lo sguardo, certa che dietro tutta quella storia si nascondesse qualcosa che ben presto mi avrebbe rivelato...perché era impossibile che mi rivolgesse la parola se non per ottenere qualcosa.
«Hai cinque minuti per spiegarti». Lo minacciai puntandogli un dito contro. Da dove prendevo tutto quel coraggio non saprei dirlo, considerando i precedenti.
Il suo sorriso diventò vittorioso e, dopo aver fatto cenno ai suoi amici di aspettarlo lì, si avvicinò ancora di più a me, con le mani in tasca e gli occhi fissi sui miei.
Deglutii aria a vuoto, facendo un involontario passo indietro, e attesi che si decidesse a parlare, cominciando davvero a spazientirmi.
«Giorgina...». Cominciò piuttosto serio e furtivo, e per un attimo credetti davvero di rivedere il mio amato Lore in lui. «Tu non devi assolutamente andare a casa». Concluse allargando ancora di più il sorriso e mostrando i suoi denti perfetti. Sembrava più un ipnotizzatore a dire il vero, assolutamente mal riuscito.
«Punto primo, non mi chiamare Giorgina, non mi pare di avere tutta questa confidenza con te. E punto secondo non vedo perché dovrei fare una cosa del genere».
«Se tu torni a casa i miei ti vedranno e capiranno che gli ho detto una bugia». Confessò d'un fiato, cominciando a muoversi nervosamente sul posto.
«Non ho intenzione di chiederti di che tipo di bugia si tratti, in ogni caso non mi sembra una valida ragione. Ora scusa ma ho il pullman». Replicai intransigente, facendo qualche altro passo verso le scale, ma lui mi afferrò per un polso costringendomi a fermarmi.
Da quando le sue mani erano così calde e forti?
«Qualunque cosa». Disse in un sussurro, stringendo ancora di più la presa sul mio braccio. «In cambio ti darò qualunque cosa».
A quelle parole sgranai gli occhi, facendoli quasi uscire dalle orbite.
Sognavo o ero desta? Belli mi stava davvero quasi supplicando?
I neuroni del mio cervello cominciarono a lavorare freneticamente, valutando i pro e i contro di quella situazione: se da una parte c'era la possibilità di tenerlo sotto controllo, dall'altra vigeva la consapevolezza che non gli avrei mai fatto un favore solo per uno stupido capriccio, senza contare che probabilmente neanche avrebbe mantenuto la parola...conoscendo il soggetto.
«No». Risposi secca, strattonando il braccio. «Mi hai sempre reso la vita impossibile, è giusto che paghi per essere stato uno stronzo».
La mia decisione sembrò coglierlo alla sprovvista e provai anche una piacevole sensazione di gioia scorrermi nelle vene, non appena lessi nei suoi occhi la delusione dovuta alle sue previsioni errate.
Lo vidi chiaramente mordersi il labbro inferiore, mentre l'intensità del suo sguardo venne alimentata dalla rabbia, ormai perfettamente percepibile in ogni fibra del suo corpo.
«Ne sei proprio sicura?». Chiese, infine, riportando le mani in tasca e lasciandomi andare tranquillamente.
Proseguii per un po' verso le scale, senza smettere di guardarlo, ma non pensai minimamente di rivalutare la sua richiesta e cominciai a pregustare la ramanzina che avrebbe dovuto subire a casa qualora non avesse rinunciato al suo impegno “inderogabile”, che per chissà quale ragione ero sicura avesse i capelli biondi e delle curve.
«Sicurissima». Risposi, alla fine, vittoriosa, agitando la mano in sua direzione in segno di saluto, e trattenendomi a stento dal mettermi a saltellare per la mia piccola conquista.
Mi voltai verso le scale - ormai completamente sgombre - e cominciai a scendere i primi gradini appoggiandomi al corrimano; ma mi bloccai di scatto e il sangue mi si gelò nelle vene quando sentii delle mani forti stringermi i polsi.
Non osai voltarmi nemmeno per sbaglio, chiusi gli occhi e sentii il tumulto del mio cuore salire fino in gola e poi su nelle orecchie.
«Non dire che non ti ho dato una possibilità poi».
Cazzo, avevo davvero pensato di potergliela fare, così, sotto al naso, senza prevedere la minima conseguenza?!
Sì, l'avevo pensato, e non avrei potuto biasimare nessuno se non me stessa del trattamento che avrei subito di lì a poco.
Avevo dimenticato la regola numero uno che mi ero imposta da dieci anni a quella parte: mai contraddire Lorenzo Belli; perché dire no a lui era come prepararsi da soli il cappio per l'esecuzione.




Note:
Eccomi qui dopo neanche un giorno di assenza! Sono un incubo, lo so...XD
Questo primo capitolo - che dà inizio alla storia vera e propria - è molto diverso dal prologo come stile.  Da questo punto in poi si farà sul serio, vedremo come il rapporto tra Giorgia e Lorenzo si evolverà e se l'ostilità di quest'ultimo è destinata a durare per sempre, oppure è ancora possibile fare qualcosa per recuperare almeno una parvenza di amicizia.
Lui è il solito bello e dannato - sì, amo i ragazzi così...ma solo nella finzione - mentre lei è un po' l'emarginata della situazione, quella che - per diversi motivi - non riesce a farsi accettare dagli altri e molto spesso viene presa in giro e/o di mira.
Nel capitolo c'è scritto che Giorgia è una "secchiona", ma non nel vero senso del termine...anche lei ha un bel caratterino - dice un sacco di parolacce XD - e certamente non passa TUTTO il tempo libero che ha disposizione, studiando ;) È un personaggio molto particolare - forse anche più di Lorenzo - che scopriremo a poco a poco, se vi va!

Bene, non ho nient'altro da dire, se non "grazie" ai pochi che hanno letto il prologo! Come previsto, l'esperimento non è partito bene...ma spero che con questo capitolo le cose miglioreranno almeno un pochettino. Fatemi sapere cosa ne pensate, per favore, per me è importante ç___ç
Buona lettura e a presto! :D




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Capitolo 3
*** Mezze parole. ***


Capitolo 2



CAPITOLO 2: Mezze parole




Negli attimi di panico totale in cui avevo temuto la mia fine, qualcuno si era premurato di sciogliermi la sciarpa dal collo e l'aveva stretta con forza sulla mia bocca per impedirmi di parlare. Quando finalmente l'ossigeno aveva cominciato a raggiungermi il cervello era troppo tardi: le sue mani erano ben salde sulle mie, legate dietro la schiena in una morsa tanto naturale quanto forte.
Provai a chiedergli cosa avessero intenzione di fare, ma mi uscirono solo dei suoni lamentosi che causarono la loro ilarità.
Venni trascinata senza troppa grazia per tutto il corridoio, fino a giungere ad una porta che tutti gli studenti del Bocconi conoscevano fin troppo bene, quella che si apriva nel cosiddetto "Trash".
Il trash era il luogo in cui coloro che venivano sorpresi a danneggiare l'impeccabile pulizia della scuola con mozziconi di sigarette, cicche, pezzi di carta e quant'altro, erano costretti a subire una sorta di redenzione che consisteva nel pulire quella che un tempo era stata un'aula, ma che per chissà quale ragione, col tempo, era diventata un enorme spazio pieno di rifiuti accumulati durante anni di disuso; poteva essere tranquillamente definita la discarica della scuola e tutti evitavano di andarci proprio per l'odore nauseabondo che si era costretti a respirare lì dentro.
«Hai davvero intenzione di chiuderla qui?». Chiese Curcio, uno dei migliori amici di Lorenzo, facendo una smorfia schifata in direzione del trash.
«Assolutamente». Replicò lui con un sorrisetto sadico rivolto alla sottoscritta, mentre abbassava deciso la maniglia della porta blu, trovandola chiusa. Imprecò malamente e tirò un pugno alla porta mezza rotta.
«Gabri, vai a prendere le chiavi nel cassetto della bidelleria». Disse poi, rivolto all'altro suo compagno; che si precipitò ad eseguire l'ordine del "capo".
Non era troppo anche per lui pensare di chiudermi lì dentro?
No, decisamente no.
«E che cosa farai se per caso si dovesse sentire male?».
Dovevo ricordarmi di fare una statua a Curcio. Dopo averlo ucciso, ovviamente.
Lorenzo sbuffò lanciandogli un'occhiata di fuoco.
«No, soffre di vertigini, ma non di claustrofobia». Disse fermo, senza lasciar trasparire la minima emozione. «E comunque si tratta solo di un'oretta e mezza, Bea ha casa libera per poco».
Rimasi a bocca aperta per un po', ancora concentrata e ferma su quella prima frase pronunciata con troppa decisione per essere solo una semplice supposizione. Il resto del suo discorso mi era scivolato addosso, come se non avesse fatto illusione al fatto che mi lasciava a marcire lì dentro solo per scopare con una delle oche che si portava a letto di solito.
Forse non si era dimenticato tutto di me. Forse.
«…no, non è solo apparenza, è davvero una porca da paura».
A quelle parole mi riscossi dai miei pensieri e non riuscii a trattenere un singulto di disgusto, se solo avessi avuto la facoltà di parlare o di muovermi gliene avrei dette quattro e non solo.
Dal canto suo, Lorenzo si dovette accorgere di qualcosa perché tornò a rivolgersi a me.
«Mori, non essere gelosa, se proprio vuoi, puoi metterti in coda anche tu...».
E in quel momento non ci vidi più; approfittai della libertà delle mie gambe per tentare di tirargli un calcio in mezzo alle gambe, magari il suo ego si sarebbe smontato insieme al suo caro organo genitale, ma non avevo fatto i conti con i suoi riflessi, decisamente troppo pronti e ben allenati a causa, o grazie - in base ai punti di vista - alla sua intensa attività fisica. E non mi riferivo a quella sotto le coperte...non solo, perlomeno.
Così mi ritrovai con un gamba bloccata a mezz'aria da una sua mano e i polsi ancora stretti saldamente dall'altra. Lo fissai in cagnesco per un po', decisa a non lasciarmi sopraffare dalla delusione del mio vano tentativo di difesa, ma sapevo bene che neanche il peggior sguardo d'odio gli avrebbe potuto mettere paura. La mia era una partita persa in partenza, e lo sapevamo entrambi.
Dopo qualche attimo passato a cercare di trattenere le lacrime, sia per il dolore della stretta ferrea che per la situazione in generale, Lorenzo fece cenno a Curcio di aiutarlo; ero sicura che tenere ferma una ragazzina di un metro e sessanta scarsi, esile e contraria allo sport, non gli costasse il minimo sforzo perciò cominciai a temere le sue intenzioni.
Avvertii dei passi alle mie spalle e proprio in quel momento affidò le mie braccia all'amico per poi afferrare anche l'altra gamba, sollevandola - e sollevandomi - da terra come un sacco di patate, come quando qualcuno ha intenzione di buttarti a peso morto su una superficie morbida, eppure ero sicura che quello che sarebbe toccato a me non era niente di soffice, e né tantomeno confortante.
«Gabri, era ora». Esclamò puntando lo sguardo oltre me e Curcio, verso Gabriele Lonta e sentii distintamente una gocciolina di sudore freddo scendermi per il viso. «Muoviti ad aprire questa cazzo di porta che ho già perso troppo tempo con 'sta schizzata».
D'istinto chiusi gli occhi e quando sentii lo scatto della porta, immediatamente seguito dal suo cigolio, pregai nel buonsenso di quegli idioti, non potevano davvero farmi del male, non mi avrebbero mai buttata a terra rischiando di farmi rompere l'osso del collo o la spina dorsale.
Non cercai nemmeno di opporre resistenza, loro erano in tre, forti e assolutamente immuni a qualunque mio tentativo di difesa, perciò mi limitai a percepire gli spostamenti d'aria, cercando di urlare, quando i miei unici appigli rimasti mi lasciarono andare ed io caddi nel vuoto.
In meno di un secondo mi ritrovai sdraiata con la pancia rivolta al pavimento e la faccia schiacciata contro il marmo freddo e umidiccio che lo caratterizzava. Con un movimento incerto provai a voltarmi, ma una mano giunse svelta a bloccarmi in quella posizione ed ero pronta a giurare che fosse la sua.
«Sta' giù, altrimenti ti lasciamo la bocca e i polsi legati». La sua voce era poco più che un sussurro, tutt'altro che perfido o minaccioso. Piuttosto lo avrei definito...gentile, ma ero certa che la botta mi avesse dato alla testa e ai sensi perciò cancellai immediatamente quel pensiero dal cervello.
Sentii altre mani tenermi ferma e poi qualcuno slegarmi la sciarpa e i polsi. Avrei potuto ribellarmi a quel punto, direte voi, ma sarebbe stato inutile e non avrei fatto altro che peggiorare la situazione.
«Immagino che ormai, anche se vi dicessi che non tornerò a casa, non cambierebbe nulla». Dissi con un sospiro rassegnato, muovendo i polsi di cui avevo perso la sensibilità e felice di poter risentire la mia voce.
«Avresti dovuto pensarci prima». Rispose Lonta con un ringhio. «Ci avresti anche risparmiato un sacco di fatica».
Grazie al cazzo. Pensai, ma non osai dire neanche mezza parola; purtroppo pendevo dalle loro labbra e mi ero anche stancata.
Ormai completamente libera di muovermi, chiesi a Lorenzo il permesso di potermi sedere - il colmo, non eravamo mica in un paese libero e blablabla? - e lui annuì brevemente, facendo segno agli altri di spostarsi.
Restai in silenzio per un po', sebbene avessi in mente di dirgli moltissime cose - la maggior parte insulti - finché Lorenzo non guardò l'orologio con un'espressione nervosa e si alzò immediatamente seguito dagli altri.
Mi si avvicinò con impazienza e tese una mano verso di me; credetti volesse aiutarmi ad alzare e sollevai la mano per afferrare la sua, ma lui scostò lo sguardo affrettandosi a parlare.
«Il cellulare». Fu un ordine breve e autoritario, sebbene i suoi occhi stessero guardando da tutt'altra parte.
Sentii un'ondata d'acqua gelida colpirmi in pieno petto e riconobbi delusione in quella sensazione, che tuttavia cercai di nascondere con la solita maschera di acidità che mi ero costruita.
Presi il cellulare dalla tasca dei jeans e glielo porsi con uno scatto d'ira che stupì anche me stessa, Lorenzo rimase fermo per un po', intento a guardarmi con una di quelle espressioni che non riuscivo mai a decifrare, dopodiché allungò la mano per prenderlo, ma glielo impedii lasciando cadere il cellulare a terra e stringendola con la mia.
Il suo tocco caldo mi sorprese per un attimo, mentre quello mio - freddo come la temperatura di Milano di quella mattina - dovette fargli lo stesso effetto, perché sussultò un attimo prima di scuotere la testa e abbassarsi per recuperare il mio telefonino.
«Mi stai davvero lasciando qui solo per farti una puttana?». Gli chiesi in un tono di voce talmente basso che probabilmente neanche lui riuscì a sentire, approfittando del momento in cui il suo orecchio si trovò vicino alla mia bocca.
Lo sentii stringere più forte la mia mano prima di rialzarsi così velocemente che sembrava stesse scappando da un mostro, che in questo caso aveva assunto le mie sembianze.
«Devo andare». Disse fermandosi ad un passo dalla porta, ed ero certa stesse parlando con me. «Un'ora, non di più».
Concluse abbassando la maniglia e scomparvero dalla stanza lasciandomi sì sola, ma con una piccola speranza che avrebbe rivoluzionato completamente le cose.
Probabilmente ero solo una stupida sentimentale, che al minimo spiraglio di possibilità si era illusa che quegli anni trascorsi fossero stati solo un errore, una terribile incomprensione, e che in realtà Lorenzo non aveva mai smesso di volermi bene, esattamente come avevo fatto io. Eppure, avevo visto qualcosa nei suoi gesti, nelle sue esitazioni, nel suo modo di guardarmi o di evitare il mio sguardo, che mi aveva portato a credere che non tutto fosse perduto e che forse Mori e Belli potevano tornare ad essere semplicemente Giorgia e Lorenzo. Ero certa che anche il solo pensare a questa possibilità mi avrebbe portata ad affogare in un mare di tristezza e delusione, che il mio affetto per lui si sarebbe frantumato per sempre, ma non potevo far finta di non aver sentito niente quando la sua mano si era stretta alla mia, non potevo fingere di non aver visto nulla nei suoi occhi quando si erano legati brevemente ai miei.


Persa nei miei pensieri, non mi accorsi di essere rimasta seduta nella stessa posizione scomoda per almeno una mezz’ora e non realizzai neanche di essere immersa nel terribile fetore del trash, fin quando uno struscio preoccupante non catturò la mia attenzione. Balzai in piedi come se il punto in cui ero seduta stesse andando a fuoco e mi guardai intorno furtiva, in attesa che qualcuno o qualcosa uscisse allo scoperto.
Afferrai un vecchio palo arrugginito che si trovava su un grande tavolo alla mia destra e con le mani tremanti lo puntai verso una figura piccola e bianca che fece capolino da sotto una scatola di cartone, facendomi urlare dal terrore.
«Fermo!». Gli intimai, come se un topo fosse in grado di capirmi. «Non ti avvicinare!».
Avevo il terrore dei topi, erano il mio incubo peggiore – dopo Belli, ovviamente – ed avevo talmente paura che le gambe rischiavano di cedermi da un momento all'altro.
L'essere squittente mi guardò immobile per qualche secondo, dopodiché cominciò ad avvicinarsi, spingendomi a salire su un tavolo traballante per sfuggirgli.
I topi non sanno arrampicarsi, vero? Pensai in un momento di panico acuto, vedendo il topo rosicchiare le gambe del ripiano su cui avevo avuto la pessima idea di rifugiarmi.
Sentii le lacrime cominciare a scorrere sulle guance e chiusi gli occhi per non vedere la scena pietosa di un topo intento a mordermi e graffiarmi.
«No, ti prego...». Lo supplicai piagnucolando. «Non sono buona da mangiare».
Resistetti altri pochi minuti in quella situazione, dopodiché cominciai a sbattere i piedi sul tavolo per farlo cadere e lanciai degli urletti isterici senza alcun senso.
«Vaffanculo Lore!». Sbottai poi, balzando giù dal tavolo in un impeto di coraggio e ritrovandomi spiaccicata a terra con una gamba impigliata chissà dove.
Mi ero praticamente arresa al mio destino quando sentii qualcuno armeggiare con delle chiavi fuori dalla porta, lanciai un'occhiata di sfuggita all'orologio che avevo al polso e mi resi conto che era troppo presto per essere Lorenzo e che sarei finita in un mare di guai se uno dei professori mi avesse trovata lì dentro intenta a scappare da un topo.
Feci appena in tempo a vedere il topo scappare spaventato che mi buttai in avanti per supplicare il nuovo arrivato di non prendere provvedimenti drastici.
«Professore, non è come sembra!». Cominciai concitata, con lo sguardo basso rivolto alle scarpe della persona davanti a me. «Non sono così stupida da chiudermi qui dentro di proposito, mi hanno teso una trappola!». Spiegai alzando di un'ottava la voce e finalmente sollevai il capo per vedere quale dei professori il destino mi avesse mandato. Magari era uno di quelli che chiudevano sempre un occhio...
«Mori, come temevo sei proprio una spia del cazzo». Sentenziò la causa di tutto quel trambusto, che era beatamente poggiato alla porta con le braccia incrociate e un sorriso divertito dipinto sulle labbra.
«Tu!». Sbraitai non appena mi fui accertata che quello davanti a me fosse proprio lui e non il frutto della mia immaginazione. Mi alzai malamente, dimentica della mia gamba imprigionata, e rischiai di finire con la faccia a terra se Lorenzo non mi avesse afferrata per un braccio appena in tempo.
Lo vidi mordersi un labbro per evitare di scoppiare a ridermi in faccia e se non fossi stata sul punto di ricadere da un momento all'altro gli avrei di certo mollato un ceffone per il terribile incubo che mi aveva fatto vivere con quello stupido topo, il suo prendermi in giro in quel momento era solo una motivazione valida in più per farlo.
«Smettila di ridere e liberami». Grugnii in sua direzione, ci misi talmente enfasi in quella specie di minaccia che probabilmente avrei fatto invidia persino ad un cane selvaggio.
Lui sembrò capire che in quel momento mettersi contro di me non sarebbe stata una mossa saggia, perciò mi sollevò e mi mise a sedere - senza troppa delicatezza - sul banco che avevo usato come rifugio dal topo.
Quando si abbassò per poter liberare la stoffa dei miei jeans dalla gamba del tavolo, non potei fare a meno di pensare che quello fosse un gesto insolito da parte sua; il Lorenzo Belli che conoscevano tutti non lo avrebbe mai fatto...ma Lorenzo il mio amico sì.
Giunta a quella conclusione mi sentii il cuore fare un balzo da una parte all'altra del petto, quel sospetto avuto prima che lui andasse via stava diventando qualcosa di più e io ne ero terribilmente consapevole e felice, troppo.
«Quest'anno hai tirato fuori un bel caratterino, eh».
La sua voce mi distolse dai miei pensieri, per fortuna, perché altrimenti avrei finito per confessargli che quella sua ostilità mi faceva ancora troppo male e le possibilità che mi potesse ridere in faccia erano troppo elevate per rischiare.
«L'ho sempre avuto». Cominciai, osservando attentamente i lineamenti del suo viso concentrato in quello che stava facendo, avevo la sensazione che non avrebbe colto nemmeno un quarto di quanto gli stessi dicendo, perciò mi sentii spronata a dire più di quanto non avessi mai fatto. «Ma non sempre riesco a tirarlo fuori, specialmente quando mi rendo conto che è inutile».
Lo sentii fermarsi un attimo, dopodiché riprese ad armeggiare con il bordo dei miei pantaloni, mentre con una mano si tirava indietro i capelli disordinati.
«È un modo velato per ricordarmi cosa ti ho fatto in questi ultimi anni?». Se ne uscì all'improvviso, scoprendosi forse più di quanto avessi fatto io e rimasi così scioccata dal suo coraggio di tirar fuori l'argomento che non riuscii a dire niente per un bel po' di tempo.
«Io...». Dissi titubante, cercando di non pensare che avevamo intrapreso il discorso proibito, quello che credevo non avremmo mai tirato fuori. «Sei tu che lo stai dicendo, anche se mentirei se ti dicessi che non è vero».
Confessai distogliendo lo sguardo, anche se ero consapevole che da quella posizione non mi avrebbe mai potuto vedere. Lui ridacchiò leggermente e sollevò il viso per guardarmi; a quel punto mi fu impossibile non cercare l'azzurro dei suoi occhi, che per una volta stavano fissando solo e soltanto me.
«È che tu...sei così strana». Disse in un sussurro impercettibile, diventando d'un tratto tutto serio. «Non riesco a lasciarti in pace».
«Ed è un motivo valido per rendermi la vita un inferno?». Gli chiesi stizzita, alzando leggermente la voce. Forse sarebbe stato meglio rimanere nell'ignoranza, quella ragione faceva persino più male del suo silenzio.
Lui scosse la testa e la riabbassò interrompendo il contatto visivo che dopo tanto tempo eravamo riusciti a recuperare, il che era un chiaro segno che il discorso poteva considerarsi chiuso. Ma a quel punto ero io che non volevo lasciare perdere. Sarei andata fino in fondo.
«Lore, non ti sei dimenticato che un tempo noi eravamo amici, vero?».
La mia voce risultò spezzata persino alle mie stesse orecchie, ma non potevo mettermi a frignare, no? Avevo già passato la fase della disperazione per la perdita del mio migliore amico, avevo deciso di mantenere i ricordi in un cassetto chiuso e di riviverli poco a poco con il sorriso sulle labbra, mi ero promessa di provare a convivere con il mio affetto per lui senza ottenere nulla in cambio, magari sostituendolo con l’odio. E allora perché stavo per cedere?
«Giorgia, sono passati tanti anni. Le persone cambiano, i tempi cambiano, persino le amicizie cambiano. Non puoi rimanere attaccata alle stesse persone per sempre».
Quelle parole furono una coltellata al cuore, o forse anche di più, perché le sentii echeggiare nella mia mente con insistenza ed ogni volta era lo stesso dolore all'altezza della gola. Le lacrime erano vicine, ma non potevo piangere davanti a lui; lui era forte, perché invece io dovevo essere sempre la debole della situazione? Non lo meritava, no.
Avrei voluto ribattere in mille modi possibili a quella risposta, perché non ero per niente d'accordo e perché era ingiusta, ma rimasi in silenzio cercando di ricacciare indietro le lacrime, perché se avessi anche solo aperto bocca sarebbe stato impossibile trattenerle ulteriormente.


L'aria era tesa, noi eravamo tesi, e nessuno dei due osava parlare. Di tanto in tanto riprendevo a guardarlo, ma i miei occhi cambiavano traiettoria autonomamente non appena coprivano un tratto del suo viso, mentre io non osavo muovermi di un solo millimetro dalla posizione scomoda in cui mi trovavo, né tantomeno cercavo di sfiorarlo per sbaglio; era come se avessi paura di scottarmi, e io mi ero bruciata già troppe volte a causa sua.
«Si può sapere come cazzo hai fatto a rimanere incastrata qui? Non riesco a scioglierlo, temo che dovrai toglierli».
Fu lui a rompere il silenzio e non avrebbe potuto farlo in modo peggiore, mi ci volle un po' per realizzare quanto avesse detto - perché ero ancora troppo scossa -, ma quando compresi il significato delle sue parole e ciò che avrebbero comportato, cercai di saltare in piedi. Cercai, perché alla fine riuscii a malapena a fare un saltello imbarazzante sul posto, rischiando persino di ricadere a terra se la mano di Lorenzo non si fosse mossa rapida per bloccarmi.
Lo fissai ad occhi spalancati per qualche secondo, prima di prendere ad urlare come una pazza evasa dal manicomio.
«Che cosa?! E come ci torno a casa in mutande?».
Lui si alzò in piedi, in preda alle risate e troppo tranquillo per i miei gusti. Non appena fossi riuscita a liberarmi gliel'avrei fatta pagare cara.
«Nonostante tutto, non credo sarebbe una brutta visione». Sentenziò squadrandomi da capo a piedi e dal calore sulle guance percepii di essere diventata bordeaux.
«Maniaco!». Sbottai coprendomi pudicamente, neanche fossi nuda davanti al ragazzo più bello della scuola. Il ragazzo c'era, dovevo solo togliere i vestiti...ma io non ci pensavo neanche.
«Sei proprio uno spasso, Mori». Disse Lorenzo tra le risate, riuscendo a malapena a parlare mentre si copriva la pancia con le mani.
Si divertiva davvero molto, lo stronzo.
«Sono contenta che ti stia divertendo!». Tuonai per attirare la sua attenzione, dato che era troppo impegnato a ridere per cercare di aiutarmi a trovare una soluzione che non comprendesse il togliermi indumenti.
«Ok, scusa, vuoi che ti aiuti a toglierli?». Chiese facendo cenno con il capo ai miei jeans ed ero sicura che traesse un indicibile piacere nel mettermi in imbarazzo.
«NO!». Urlai, tendendo le mani in avanti per evitare ogni minimo avvicinamento da parte sua. «Non ti avvicinare».
Scandii ogni parola con estrema attenzione, per fargli capire che non stavo scherzando e che se mi avesse anche solo sfiorata lo avrei come minimo preso a morsi.
Lui sollevò le mani in segno di resa, dopodiché fece un passo indietro con un sorriso strafottente.
«Va bene, allora me ne vado, ci vediamo domani...forse».
Si voltò e cominciò a raggiungere la porta fischiettando, tenendo le mani in tasca come al solito.
«Aspetta! Li tolgo...». Lo fermai, cominciando a sbottonare quello stupido pezzo di stoffa per fargli capire che dicevo sul serio.
Un modo per coprirmi l'avrei trovato, di stare lì da sola tutta la notte - in compagnia dei topi, per giunta - non se ne parlava proprio. Inoltre dubitavo che avesse intenzione di approfittare della situazione, con tutte le strafighe che aveva io sarei stata l'equivalente di una tazza di camomilla per i suoi ormoni.
Rossa di vergogna e decisa a cambiare città, regione e persino paese se fossi riuscita ad uscire di lì, feci forza sulle braccia per togliermi i jeans; ma l'impresa si dimostrò più difficile del previsto e fui costretta a chiedere aiuto a Lorenzo.
«Belli?». Lo chiamai con voce bassissima, sperando che non mi sentisse.
«Sì?». Chiese voltandosi verso di me, le sue labbra erano piegate in un sorriso vittorioso.
«Mi aiuteresti a...». Cominciai a chiedergli, ma pronunciare quell'ultima parola era troppo imbarazzante, perciò non riuscii a terminare la richiesta.
«A...?». Mi incalzò lui, sebbene fossi certa che sapesse perfettamente cosa volevo chiedergli.
Assottigliai lo sguardo per cercare di mettergli paura, ma lui rimase immobile dov'era, incrociando le braccia al petto in segno d'attesa.
«Dai, lo sai...». Balbettai cercando di evitare il suo sguardo, dimostrandogli involontariamente quanto quel tipo di situazioni fossero nuove per me.
«Mori, sei più pudica di quanto pensassi». Sentenziò Lorenzo con uno sbuffo, cominciando ad avvicinarsi, ma proprio in quel momento sentii un rumore familiare che mi fece irrigidire sul posto.
«F-Fra...». Lo chiamai quando fu ad un passo da me, indicandogli con lo sguardo un punto alla nostra destra: non erano state le mie orecchie a giocarmi un brutto scherzo; quel roditore bianco era tornato davvero.
«Che succede ancora?». Disse seguendo la direzione del mio sguardo con cipiglio incuriosito e credendo probabilmente che stessi dando di matto come al solito.
«È un topo, Dio santissimo». Esclamò con ovvietà, una volta che ebbe inquadrato la causa della mia improvvisa agitazione. Chiaramente lui non si lasciava impressionare da un roditore grande neanche quanto un suo piede, per questo mi guardò come se fossi matta, prima di ricominciare ad avvicinarsi a me…incurante del pericolo alle sue spalle.
«Sta venendo verso di me!». Piagnucolai non perdendo di vista quella palla di pelo bianca neanche per un secondo, mentre Lorenzo assumeva un’espressione decisamente spazientita. Era solito farlo anche quando eravamo piccoli: non appena vedevo un insetto o un qualunque essere strisciante cominciavo ad urlare come un’isterica, e se non prestavo ascolto alle sue assicurazioni si alterava parecchio.
«Cosa vuoi che ti faccia, scusa? Non è mica carnivoro e scommetto che non ha a minima intenzione di avvicinarsi a te». Disse infatti, una volta che mi ebbe raggiunta; ma proprio in quel momento vidi il topo avvicinarsi alla gamba del tavolo – ancora – e la mia reazione fu inevitabile. Balzai in piedi senza badare al fatto che la mia gamba fosse ancora attaccata proprio all’oggetto di rosicchiamento del topo e ci misi un po’ a realizzare di non aver fatto la minima fatica nel compiere quel gesto.
Abbassai lo sguardo verso il mio jeans e vidi che non era minimamente strappato o scucito e dopo aver superato l’attimo di confusione, cominciai a spostarlo ripetutamente dal mio indumento a Lorenzo, che aveva cominciato ad indietreggiare nascondendo un sorriso colpevole.
«BELLI, TU SEI MORTO!». Urlai preda di un’ira funesta che neanche durante la peggiore delle angherie subite avevo provato. Balzai giù dal tavolino scassato con un salto degno di Tarzan e lo raggiunsi in due falcate; dal canto suo, lui rimase immobile dov’era…ad un passo dalla porta chiusa e senza la minima preoccupazione in volto.
«Che cazzo ti è saltato in mente di fare, si può sapere?». Continuai il mio rimprovero, accertandomi di tanto in tanto che il topo fosse ancora impegnato a mangiare la gamba del tavolo.
Non ricevendo alcuna risposta, se non un sorriso sempre più largo sul suo viso, cominciai a tirarlo per la maglia, per fargli capire che non poteva ignorarmi così dopo che mi aveva quasi costretta a rimanere in mutande. Proseguii con una serie di insulti e domande a cui non reagì minimamente per una buona mezz’ora, durante la quale mi stancai terribilmente, sebbene non volessi darlo a vedere, finché non mi bloccò i pugni con un’abile mossa di difesa, che probabilmente aveva imparato durante una delle sue lezioni di karate.
«Calmati». Disse poi con tranquillità, spingendo i miei polsi verso il basso, lungo i fianchi; la sua presa era talmente stretta che se non fosse stata altrettanto piacevole avrei certamente urlato dal dolore.  
Improvvisamente persi ogni proposito di vendicarmi, avevo Lorenzo talmente vicino che riuscivo a sentire distintamente il suo odore. Certo, era cambiato da quando era un bambino, ma aveva la stessa identica capacità di attrarmi ed io ne ero totalmente dipendente.
«Era solo uno scherzo, va bene? Non c’è alcun bisogno che tu reagisca in questo modo per una sciocchezza del genere».
Ti ho fatto cose ben peggiori. Non lo disse, ma ero certa che lo stesse pensando.
Fu solo allora che compresi di aver fatto un terribile errore: anziché allontanarmi da lui come avrei dovuto fare, avevo appena compiuto un passo verso l’esatto centro delle fiamme da cui avevo sempre provato a tenermi alla larga; eppure in quel momento non avevo la minima intenzione di farlo, mi sarei bruciata mille e altre mille volte se questo fosse servito a recuperare anche solo un briciolo del nostro vecchio rapporto, se questo avesse potuto mettere da parte il rancore e l’indifferenza che con il tempo mi avevano fatto perdere ogni speranza. Sapevo che anche il solo cercare di comprendere quello che gli passasse per la testa era un punto a mio sfavore, un gesto inconsapevole che avrebbe portato solo ad altre insormontabili difficoltà che non sarei mai riuscita a superare, ma non riuscivo ad esimermi dal farlo.
«Lasciami». Dissi, sforzandomi di rimanere fredda, ma provando il segreto desiderio di abbracciarlo e risentirne il calore dopo tanto tempo. Che effetto mi avrebbe fatto? Mi sarei sentita ancora protetta come 10 anni prima?
La sua presa si sciolse lentamente, così come lentamente tornai ad acquistare un respiro regolare. Feci qualche passo indietro e cercai di risultare il più naturale possibile, nonostante i pensieri che avevo in testa in quel momento mi stessero mandando al manicomio.
«Sei un idiota». Commentai, risultando ridicola alle mie stesse orecchie per come avevo parlato. Piuttosto che un insulto, sembrava un complimento.
«Non sei la prima che me lo dice». Disse lui con un’alzata di spalle, non accennando a spostarsi di un millimetro, nonostante ormai fosse molto tardi e non avessi neanche avvisato i miei genitori.
I miei genitori!
«Oh cazzo!». Imprecai fissandolo come se fosse un mostro, mentre la mia mente cominciava a farsi i peggiori filmini mentali su quello che stavano pensando i miei sulla mia scomparsa…probabilmente avevano già chiamato la polizia e mi stavano facendo cercare.
«Cosa c’è? Hai visto un fantasma? O ho un topo spiaccicato in faccia?». Si prese gioco di me, facendo finta di togliersi qualcosa dal viso. Al solo pensiero che uno di quegli esseri potesse essere davvero lì, rabbrividii, ma non avevo tempo di pensare a quelle futilità, dovevo sbrigarmi a tornare a casa.
«Peggio, i miei mi uccideranno!». Esclamai, correndo a recuperare la mia sciarpa da terra - al diavolo quel topo guastafeste! - e riallacciandomi il cappotto, mentre tornavo a passo spedito verso la porta.
«Non dirmi che non li hai avvisati! Sono quasi le 5». Commentò Lorenzo, mentre si apprestava a recuperare le chiavi.
«E come facevo, scusa?! Ti ricordo che mi hai sequestrato il cellulare prima di andare da quella zoccola». Urlai isterica, dando ancora una volta prova di essere una tremenda lunatica sotto il segno dei gemelli.  
«Hai ragione, scusa, sono stato un idiota». Disse passandosi una mano tra i capelli con fare apprensivo, mentre con l’altra cercava di chiudere la porta del Trash a chiave.
«Molto idiota!». Lo rimbeccai cominciando a correre per il corridoio e poi giù per le scale, immediatamente seguita da lui che mi stava dietro semplicemente camminando.
«Se ti può essere di consolazione, almeno hai reso felice il sottoscritto».
«No, non mi è per niente d’aiuto in questo momento!». Parlai già completamente priva di ossigeno nei polmoni, non badando neanche a quello che mi aveva detto; non ero abituata a correre in quel modo per un tempo così lungo e sarei potuta collassare da un momento all’altro.
Per fortuna giungemmo nell’atrio qualche secondo dopo, dove fummo costretti a rallentare – almeno io – a causa della stretta sorveglianza di bidelle e addetti alla segreteria. Pregai mentalmente che nessuno facesse domande o mi trattenesse un secondo di più là dentro, dopodiché raggiunsi velocemente l’entrata e uscii respirando l’aria gelida.
Il passaggio dal tepore confortante della scuola al freddo lancinante dell’esterno fu traumatico; non appena una folata di vento mi arrivò diritta in faccia fui costretta a fermarmi per abituarmi alla nuova temperatura. Mentre Lorenzo, come al solito, non sembrava minimamente provato dalla folle corsa appena fatta o dal gelo in cui ci eravamo ritrovati immersi all’improvviso, sebbene lui indossasse un semplice cappottino ed io un piumino d’oca.
Afferrai il cellulare dalle mani di Lorenzo, fregandomene del fatto che fosse il suo, e composi il numero di casa, pregando che qualche anima pia si decidesse a rispondermi. Tuttavia, il telefono squillò a lungo, ma nessuno si decise ad alzare la cornetta.
«Vaffanculo». Mi lagnai cominciando a sbattere i piedi per terra come una bambina capricciosa. «Sono nei guai fino al collo».
«Senti, ti ho già detto che mi dispiace, di certo non sono capace di indietro nel tempo; perciò ora fammi il favore di darti una calmata e di tornare a casa, possibilmente senza farti più di 10 chilometri di corsa».
Lo fissai indecisa se tirargli uno schiaffo, oppure prenderlo direttamente a sassate. Non era lui quello che avrebbe passato le ire di Dio una volta tornato a casa, non era lui quello che aveva fatto preoccupare i suoi genitori.
«Sai cosa ti dico? Tu fai quello che ti pare, io me ne vado a casa come cavolo dico io».
Gli voltai le spalle e scesi gli scalini a due a due, non voltandomi nemmeno per controllare se mi avesse seguita o meno.
Percorsi il tragitto fino alla fermata dell’autobus, sarebbe stato masochista farsi tutta quella strada a piedi – magari di corsa – con quel freddo, ma proprio mentre svoltavo l’angolo, mi sentii bloccare per un braccio. Sì, la situazione era identica a quella che molte volte avevo visto nei telefilm, peccato che quella fosse la vita reale e che io non avevo la minima intenzione di sprecare altro tempo con lui…almeno non in quel momento.
«Che vuoi?». Grugnii cominciando a strattonare il braccio per liberarmi dalla sua presa, ma ancora una volta l’impresa si dimostrò impossibile.
«Il tuo cellulare, ce l’ho io, cretina».
Roteai leggermente la testa e incontrai ancora i suoi occhi. L’avevo già detto che avevano un effetto ipnotico su di me? Avrebbero dovuto dichiararli illegali per la quiete pubblica.
«Ti ringrazio per la precisazione, ora puoi andare». Dissi spazientita – ormai quell’aggeggio elettronico era inutile come lo 0 nelle addizioni e nelle sottrazioni – , sempre dandogli le spalle e cercando di sfuggire al suo sguardo senza dare troppo nell’occhio.
«Mori, abitiamo nello stesso palazzo e siamo per giunta vicini di casa…come credi che abbia intenzione di tornare a casa?».
«Non me ne importa, basta che sparisci dalla mia vista». Balbettai non più tanto sicura di voler essere arrabbiata con lui, in fondo la sua unica colpa era quella di essere un ragazzo ancora in piena crisi ormonale e che per sfortuna aveva una vasta gamma di ragazze con cui intrattenersi. Approfittai di una sua esitazione per liberarmi e mi sedetti sulla panca per aspettare l’autobus, sperando che mi lasciasse in pace.
«Io non ti capisco, davvero Mori». Sentenziò poco dopo, sedendosi accanto a me come se quanto gli avessi detto non avesse alcuna importanza.
«Io ho smesso di cercare di capirti da un bel po’, invece». Sputai acida, fregandomene del fatto che stavo ritoccando l’argomento tabù.
«Figurati, non mi capisco neanche io…non pretendo che lo facciano gli altri».
A quelle parole lo guardai di sottecchi, trovandolo con la solita espressione divertita e strafottente. Una cosa era certa: Lorenzo non lasciava trasparire facilmente le sue emozioni.
«Lo stesso vale per me, quindi sei pregato di lasciarmi in pace».
Per tutta risposta lui cominciò a ridacchiare, lo vidi schiudere le labbra pronto a dirmi qualcosa; ma l’arrivo dell’autobus gli impedì di continuare.
No, cazzo, no! Perché era passato proprio in quel momento?
E va bene, dovevo ammetterlo, anche se non ne avevo mai fatto mistero, ero ben lungi dall’essere indifferente a quello che aveva da dirmi e avrei persino rinunciato alla mia collezione di cd d’altri tempi pur di sentire quel pensiero che probabilmente sarebbe rimasto celato nella sua mente per sempre.
«Ehi, ti muovi a salire?».
Ero rimasta imbambolata a fissare un punto indefinito della strada, ancora una volta avevo avuto la prova che stavo irrimediabilmente capitolando per quella stupida amicizia che invece avrei dovuto dimenticare e mi sentii in collera con me stessa per quella mia debolezza. Non si diceva mica che con il tempo si tende a dimenticare le emozioni passate? E allora perché dopo dieci anni non mi ero ancora lasciata quell’assurda storia alle spalle?
Lorenzo era sì stato il mio migliore amico, ma non avevo mai provato un sentimento del genere, nemmeno quando mia mamma aveva lasciato mio padre e si era risposata: l’avevo odiata davvero in quegli anni, esattamente come avevo fatto con Lorenzo, ma mentre con lei l’odio era l’unica cosa che riuscivo a sentire…con Lore era completamente diverso: lo amavo e l’odiavo allo stesso identico modo. A quel punto l’unica domanda da farmi era: ma io lo odiavo davvero?


Note:
Salve a tutti!
Inizierei questo mio piccolo spazio col dire che mi farebbe davvero molto piacere leggere qualunque opinione voi abbiate riguardo a questa storia! Anche se avete deciso di non continuare a leggere, mi sarebbe molto utile capire cosa c'è di sbagliato per poter migliorare...anche una riga sarebbe più che sufficiente.
Detto questo, so di essere una frana nel suddividere i capitoli e che magari possano risultare tagliati di netto, ma essendo che questa parte ce l'ho già bella che scritta mi viene molto difficile stabilire in che punto il capitolo debba finire. Perciò vi chiedo di perdonarmi, dal prossimo non ci dovrebbe più essere questo problema.
Per il resto, il capitolo parla da sé, non credo di dover aggiungere altro rispetto al suo contenuto.
Grazie a chi ha letto quello precedente...conto sul vostro parere d'ora in poi, altrimenti mi sembra abbastanza inutile continuare a pubblicare qui, dato che sarebbe come lasciarne il contenuto nel mio pc. XD
Non mi resta che augurarvi buona lettura! A presto.

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Capitolo 4
*** Rivelazioni. ***


Capitolo 3

CAPITOLO 3: Rivelazioni

«Sicura di non voler controllare il tuo cellulare?».
Stavamo discutendo –  ma sarebbe più giusto dire litigando – da un buon quarto d’ora circa il livello di preoccupazione di mamma e papà; Lorenzo mi aveva consigliato di vedere quante chiamate perse contava il mio cellulare, mentre io ero fermamente convinta che sarebbe stato meglio non saperlo: più chiamate ci avrei trovato e più la voglia di scendere dall’autobus per farmela di corsa fino a casa sarebbe diventata insopportabile. Milano era una città pessima, l’avevo sempre pensato, ma quel giorno me ne ero convinta ancora di più: 6 giorni su 7 le strade erano perennemente bloccate durante la fascia oraria che andava dalle 17 alle 18 e di quel passo avrei fatto davvero prima ad andare a piedi.
«Assolutamente! Non farei altro che aumentare la mia ansia e io non sono assolutamente masochista».
Ok, forse un po’ lo ero considerando che stavo tranquillamente seduta vicino alla persona che invece avrei dovuto prendere a schiaffi, ma che cosa c’era di male nel non ammetterlo davanti agli altri? Specialmente davanti a lui che sarebbe diventato la causa principale dei miei guai e dei miei pentimenti.
«Va bene, come vuoi». Rispose Lore rassegnato, sfregandosi le mani per riscaldarsi un po’. Come avevo pensato, anche lui sentiva freddo, solo che non lo avrebbe mai dato a vedere…tantomeno in mia presenza.
Buona parte del viaggio trascorse nel più assoluto silenzio, sulla vettura c’eravamo solo io e lui ed avevamo entrambi esaurito gli argomenti di cui parlare; quelli tranquilli, perché poi c’erano anche quelli spinosi che evitavamo come la peste.
Di tanto in tanto Lorenzo tirava fuori il suo cellulare per mandare qualche messaggio, e in alcune occasioni l’avevo persino beccato imbambolato a ridere fissando lo schermo.  Mi piaceva vederlo sorridere, anche se non ero io la causa della sua ilarità, perché ero stupida e mi accontentavo delle piccole cose, probabilmente.
Mentirei se dicessi che ero felice per lui e tutte quelle frasi di circostanza false e ipocrite, mi sentivo logorare dentro dalla gelosia e avrei preso volentieri a testate qualcosa per sfogare quella terribile sensazione di abbandono e di tradimento, ma non mi restava che consolarmi con il pensiero che un tempo le sue attenzioni erano rivolte tutte a me e che il bene che aveva provato per me non l’avrebbe mai provato per nessun’altra.
«Mori, hai finito di fissarmi?». Disse all’improvviso, facendomi spaventare e saltare sul sedile per la sorpresa, dopodiché rimise in tasca il cellulare e spostò lo sguardo verso di me.
Le sue gambe erano poggiate sul sedile davanti, chiaro segno della sua villania e strafottenza.
Sì, non era solo apparenza, era davvero uno a cui piaceva non rispettare le regole e cacciarsi nei casini, tanto che molto spesso mi capitava di sentire la sua povera mamma sfogarsi con la mia per la sua irrecuperabilità e in alcuni casi le sue urla isteriche le sentivamo chiaramente persino dal nostro appartamento.
«Non ti stavo fissando!». Sbottai distogliendo immediatamente lo sguardo, ma la mia voce era uscita talmente stridula che nemmeno il più stupido degli allocchi avrebbe abboccato alla mia bugia.
«Certo, certo, come dici tu». Disse sistemandosi meglio sul posto, mentre riacciuffava il cellulare dalla tasca e riprendeva ad ignorarmi, o almeno così credevo.
«In genere non mi piace dire le cose apertamente, ma questa volta farò un’eccezione…».
Lasciò la frase metà, in un chiaro e tacito invito a chiedergli di proseguirla. Ma io non avrei mai fatto il suo gioco, se davvero ci teneva, l’avrebbe dovuta concludere lui, anche perché avevo una mezza idea su cosa avesse intenzione di dirmi e dato che ne avevo la possibilità, avrei evitato di ascoltarlo. Oppure no?
«Vuoi che ti cavi le parole di bocca, o sei ancora in grado di parlare?». Cercai di stemperare la mia resa con un po’ di ironia, ma ero certa di esserci riuscita malissimo; soprattutto considerando che stavo scappando dal suo sguardo come una lucertola che cercava di sfuggire alla luce.
«Sai che sei davvero buffa quando ti imbarazzi?».
«Cosa? Io non mi sto…!».
«Sì, lo sappiamo che non ti stai imbarazzando e non ti stai vergognando come una ladra solo perché hai paura che ti stia per dire qualcosa di compromettente». Mi interruppe muovendo la mano come per imitarmi, sforzandosi pure di modificare la voce per riuscire meglio nell’intento. Calcò sull’ultima parola schioccando persino la lingua, gettò malamente il cellulare sulle gambe e tornò a rivolgermi la sua piena attenzione.
Automaticamente la mia salivazione cominciò a scarseggiare e quello stupido muscolo involontario che tutti si ostinavano a chiamare cuore, ma che per me era solo uno sciocco traditore, prese a battere sempre più forte. Accidenti, ne avevamo davvero così bisogno da non potercelo strappare dal petto?
«Esatto». Risposi lasciva, avevo gli occhi inchiodati ai suoi e le ciglia incollate alle palpebre. Il bruciore mi aiutava a deconcentrarmi dal suo sguardo ipnotico, perlomeno.
«Bene, allora immagino che se ti dicessi che in questo momento ho una voglia matta di baciarti non ti metteresti a lanciare urletti isterici e a darmi del porco maniaco, giusto?».
«Assolutame…COSA HAI DETTO?!». Balzai in piedi sul sedile, urlando come il peggiore esemplare vittima dell’isterismo, proprio nel momento in cui stava salendo un signore anziano sull’autobus che guardò in nostra direzione scuotendo il capo, come quelli della sua veneranda età erano soliti fare di fronte ai giovani.
«Mori, sei prevedibile come il risultato di una partita Inter-Milan». Sentenziò stiracchiandosi e appoggiando le braccia sul poggiatesta dietro di lui, per poi stendersi meglio su di esso.
«E tu sei un depravato».
Vidi le sue iridi chiare voltarsi completamente in mia direzione, come per sottolineare – senza bisogno di usare le parole – che le sue previsioni erano state esatte e che io non potevo reggere il confronto con uno come lui.
«Senti, sapientino di sto cazzo…». Soffiai cercando di nascondere alla bell’e meglio la collera che imperversava dentro di me e che in quel momento poteva essere considerata almeno pari a quella di Nettuno quando scoprì che colui l’assassino di suo figlio stava beatamente navigando sulle sue acque. «…anche se io fossi un po’ timida – e ti posso assicurare che non lo sono – mi spieghi cosa ci sarebbe di male? Per fortuna qualche ragazza seria esiste ancora. Che razza di mondo schifoso se fossero tutte come le sciacquette che usi per divertimento».
Ero sicura di averlo punto sul vivo, avrei scommesso tutta la mia paghetta che non avrebbe più osato ribattere alla mia accusa e ancora una volta cominciai a pregustare il sapore della vittoria troppo in fretta.
«Il male è che ti nascondi. Non mi sembra di averti mai preso in giro per questa tua discrezione».
Touchée.
Avrei presto imparato che era inutile provare a metterlo in difficoltà; in un modo o nell’altro sarebbe sempre riuscito a sviare il discorso e a portarlo a suo favore, ma per il momento mi era inevitabile rimanere interdetta dalle sue parole e continuare a fissare i contorni delle sue ciglia, iniziando persino a contarle in attesa che un’argomentazione valida mi si formasse nel cervello…e delle volte avrei persino dovuto iniziare da capo, perché il tempo che passavo con lui non era mai sufficiente a capirlo.
«Perché te ne esci adesso con questi apprezzamenti e voglie mal celate?».
La mia voce aveva perso ogni enfasi, riducendosi ad un flebile sussurro che nemmeno il passeggero più vicino avrebbe potuto cogliere; eppure ero certa che lui sarebbe riuscito a decifrarlo correttamente.
«Perché in fondo non sei la racchia che pensavo che fossi, e a tratti sai anche essere simpatica». Spiegò riaprendo lentamente gli occhi, mentre la linea sottile delle sue labbra si stringeva ancora di più e il blu tornava a fare capolino dai suoi occhi.
Santo Cielo, non potevo lasciarmi incantare così da lui solo perché madre natura lo aveva donato di un fisico perfetto e di un viso bellissimo. Dov’era finita la Giorgia che criticava tutte le ochette che avrebbero fatto carte false per uscire con lui?
«Quindi…». Cominciai schiarendomi la voce; avevo la gola secca e le corde vocali doloranti. «…ogni volta che vedi una ragazza non propriamente racchia – perché è così che mi hai definita tra le righe – e che ti suscita una certa simpatia ti viene voglia di baciarla? Che cazzo di ragionamenti sono?».
Non importava quante volte e quanto insistentemente provassi ad entrare nella sua mente o a capirlo, sarebbe sempre stato come sperare di vedere le stelle quando il cielo era completamente ricoperto di nubi.
«Lo stai dicendo tu questo, guarda che per finire nelle mie grazie bisogna passare un’attenta selezione».
La situazione stava cominciando ad innervosirmi, le sue frasi mezze dette erano irritanti almeno quanto lo sciocco sorriso che continuava ad albergare sul suo viso, neanche se lo fosse incollato di proposito per farmi uscire fuori dai gangheri, e per di più stavo pure morendo di fame!
«Ok, lasciamo perdere il discorso. Anche perché non me ne importa nulla di quello che vorresti fare con me». A quel punto ero sicura di avere la sua completa attenzione, perciò decisi di sferrare il colpo finale per non uscire completamente illesa da tutto quel ciarlare senza senso. «Scordatelo e basta, chiaro?».
Lorenzo si alzò di scatto dalla posa di dormiveglia che aveva assunto, inchiodò i suoi occhi ai miei e si avvicinò leggermente al mio viso, sul quale riuscii a percepire distintamente il calore del suo respiro; che come in una reazione a catena mozzò il mio in gola.
«Sai, tendo sempre a fare l’opposto di quello che mi dicono di fare…». Alitò all’altezza del mio collo, provocandomi un brivido lungo tutta la spina dorsale, che poi si estese ad ogni altro centimetro di pelle.
«Belli, io non…». Mi bloccai cercando di recuperare la giusta lucidità per terminare il mio monito, ma ci impiegai troppo tempo perciò alla fine quanto dissi si rivelò solo fiato sprecato. «…io non sarò mai una di quelle barbie senza cervello che ti ostini a portare a letto per divertimento».
«E chi ti dice che io voglia concederti l’onore di finire nel mio letto?». Sussurrò a quello che doveva essere un millimetro dal mio orecchio, perché nel parlare le sue labbra mi avevano sfiorato delicatamente il collo.
«Io…non ti capisco». Dissi buttandomi a peso morto contro il sedile, troppo stanca per ogni altro giochetto avesse in mente di fare. «Fino a neanche due ore fa ti saresti schifato persino a toccarmi, ora invece non fai altro che provocarmi e starmi appiccicato. La storia della non esagerata bruttezza non regge; perciò, soffri di qualche problema di personalità multipla o la reputi una cosa normale? Perché in tal caso ti pago la visita dal neurologo».
«Mori, io direi che ti stai facendo problemi che non esistono. Non c’è nulla di male a lasciarsi andare all’attrazione fisica». Parlò con improvviso tono concitato e infastidito, probabilmente la mia resistenza lo stava mettendo a dura prova e io non potevo che essere felice di questo. «Il tempo che stiamo impiegando a parlare potremmo tranquillamente usarlo per fare cose più interessanti».
«Solo se mi spieghi il motivo del tuo cambiamento repentino. Il mio cervello sta valutando tutte le possibilità, ma nessuna di queste mi sembra abbastanza convincente». Puntualizzai dopo una lunga riflessione, durante la quale ero stata altamente propensa al non dargli più corda e ad aspettare di coprire anche quegli ultimi chilometri rimasti per tornare a casa, in attesa che tutto tornasse come prima; quella situazione e quel Lorenzo mi stavano mandando letteralmente al manicomio e se non avessi fatto qualcosa al più presto, avrei finito per fare la più grande cazzata della mia vita.
Chiaramente non avrei mai impiegato il tempo come avrebbe voluto fare lui, ma se dire una piccola bugia poteva servire ad ottenere una minima verità allora sarei passata volentieri per bugiarda…al diavolo la correttezza; quando mai gli altri l’avevano usata con me?!
Il viso di Lorenzo assunse mille espressioni diverse, ciascuna delle quali rimaneva per me un mistero che non osai nemmeno tentare di risolvere, dopodiché indossò nuovamente la solita maschera di neutralità e piegò le labbra in un sorriso sadico e compiaciuto. Ero sicura che avesse deciso di accettare l’ennesima sfida, in fondo lui non aveva niente da perdere, se non un briciolo di verità che aveva tenuto nascosto.
«Come al solito ti lasci ingannare dalle apparenze, Giò». Sussurrò portando due dita all’altezza del mio mento, per poi sollevarlo con forza e dolcezza allo stesso tempo. Sentii il cuore impazzirmi all’altezza della gola e il respiro farsi sempre più pesante mentre una terribile realtà si affacciava davanti ai miei occhi; non avrei mai avuto il coraggio di allontanarlo, avevo cercato quella vicinanza per così tanto tempo che alla fine si sarebbe rivelata la mia stessa sconfitta.
«Non sei mai cambiata, e il motivo è che non hai mai avuto il coraggio di farlo». Proseguì tracciando con la punta dell’indice il contorno delle mie labbra, per poi posarvelo sopra e fare una leggera pressione contro di esse.
«Nonostante mi accanisca sempre con te, nonostante ti renda la vita un inferno, nonostante non ti dimostri mai un briciolo di affetto tu continui a volermi bene, non è così?». Chiese retorico, continuando a usare le dita per accarezzare ogni centimetro del mio viso, giungendo fino agli zigomi per poi proseguire la scia verso il collo. Annuii come se fossi sotto effetto ipnotico, ormai ero ridotta allo stato di un automa, avrei fatto qualunque cosa mi avesse chiesto di fare e non me ne sarebbe importato nulla, avrei persino calpestato il mio orgoglio e cancellato le mie convinzioni per arrivare a lui.
«Sei talmente impegnata a capire le ragioni che spingono gli altri a comportarsi in un certo modo che ti lasci sfuggire i piccoli gesti, le minime attenzioni…e finisci inevitabilmente per  perdere il contatto con la realtà». Continuò il suo monologo allargando ulteriormente il sorriso, che gli fece comparire le due solite fossette sotto agli occhi.
«In questi anni hai solo pensato ai motivi che mi avessero spinto ad allontanarmi da te, anche se contro la tua volontà non riesci a lasciarti il passato alle spalle…a lasciarmi alle spalle: non ti importa di nessuno quanto ti importa di me».
I suoi ragionamenti erano quanto di più contorto avessi mai sentito, non avevano un filo logico eppure non riuscivo a smettere di ascoltarlo. Ero completamente assuefatta dal tono soave della sua voce, sarebbe potuto persino cadere un meteorite che non me ne sarei accorta.
«E questo che cosa c’entra con la tua richiesta?». Domandai con un filo di voce, approfittando di un brevissimo momento di lucidità e non staccando neanche per un secondo i miei occhi dai suoi; era come nuotare in una pozza d’acqua limpida, che per quanto potesse essere piccola non aveva via d’uscita.
Lorenzo si avvicinò ancora di qualche millimetro e io mi dimenticai persino come respirare quando le sue labbra andarono a sfiorare prima il mio naso e poi le mie guance.
«Mi è bastato stare con te qualche ora per capire cosa ti ronzava in questa testolina bacata…». Soffiò prima di lasciarmi un piccolo bacio sullo zigomo, per poi proseguire la sua scia arrivando fino all’angolo della mia bocca; dove ne posò un altro più languido e lungo che mi fece schiudere le labbra e respirare più a fondo. «…e devo dire che trovo parecchio interessante e appagante quanto ho scoperto. Il mio insormontabile ego ne gioisce incontrollatamente».
Quasi come se fossi un burattino nelle sue mani, lasciai che anche l’ultimo barlume di reticenza mi abbandonasse e portai le miei dita ad intrecciarsi nei suoi capelli; non ne sentivo la consistenza da quando ci divertivamo a tirarceli per gioco ed era dolorosamente piacevole scoprire che in quel contatto adesso di scherzoso non c’era assolutamente nulla.
Vidi il suo viso avvicinarsi al mio in un movimento lento ed esasperante, per poi avvertire, finalmente, il calore delle sue ad un soffio dalle mie, dal quale capii che l’attesa era finita e che forse aspettare 10 anni non era stato poi un grosso fardello, se quella ne era la diretta conseguenza.
La semplice vicinanza tra le nostre bocche, certamente smaniose di muoversi e modellarsi l’una sull’altra, ben presto diventò troppo poco, entrambi bramavamo di più ed eravamo pronti ad ottenerlo –  chi per un motivo, chi per un altro – se il fastidioso suono acuto del segnale di fermata prenotata non avesse attirato la mia attenzione. Con un gesto spontaneo distolsi l’attenzione da quello che tutti i miei sensi avvertivano in quel momento e guardai fuori dal finestrino alle spalle di Lorenzo, minuziosamente impegnato a darmi dei piccoli morsi per farmi schiudere le labbra. E lo avrei lasciato fare senza oppormi – nonostante le assurde motivazioni che lo stavano spingendo a comportarsi in quel modo –, mi sarei beata delle sue attenzioni ancora a lungo, se non avessi colto un piccolo particolare.
Scattai indietro all’istante, separandomi da quel minuscolo paradiso terrestre che avevo trovato con tanta fatica, e mi alzai di scatto, lasciando Lore completamente sconvolto e infastidito dalla mia reazione improvvisa.
«Che co…». Balbettò confuso, passandosi le mani tra i capelli per sistemarli; mi ci ero avvinghiata come un polipo e li avevo resi un disastro. Probabilmente avrei riso di lui in un’altra situazione; vedere l’impeccabile Belli in quelle condizioni era una cosa rara e avrei potuto riscattarmi da alcune delle sue torture passate.
«La fermata, imbecille!». Urlai isterica raggiungendo le porte per scendere.
 
«Hai idea di quanta strada siamo costretti a farci a piedi per colpa tua?». Sbuffai cercando di coprirmi il più possibile dal freddo.
Camminavo ad almeno un metro di distanza da Lorenzo, per evitare che tentasse ogni qual tipo di attacco simile a quello sul pullman e cercavo di non pensare ai miei genitori prendendomela con qualcuno, in questo caso lui.
«Ah, mia? Di certo non mi stavo baciando da solo». Mi fece eco senza voltarsi, continuando a camminare con le mani in tasca e il giubbotto slacciato. Se si fosse preso un accidenti ne avrei gioito enormemente, così avrebbe pensato due volte alla sua aria da maschio figo, la prossima volta.
«Ah-ah, come sei simpatico, Belli». Finsi una risata degna di premio Oscar. «Ammesso che non sia stata del tutto colpa tua, non mi pare che sia stata io a provocarti, quindi indirettamente c’entri tu».
«Senti, Mori, se hai intenzione di passare il resto del tragitto ad affibbiarmi colpe che non ho, fa’ pure; ma sappi che non sono molto tollerante». Sbottò in risposta Lore, il cui tono di voce non risulto per niente amichevole.
Per chissà quale ragione, le sue parole mi spinsero a stare in silenzio. Non avevo certo paura della sua intolleranza, l’avevo provata tante volte, ci ero abituata; piuttosto mi ero resa conto che non serviva a nulla fare ricadere tutta la responsabilità su di lui, perciò avevo lasciato correre il discorso.
«Cosa diranno i miei?». Chiesi in un sussurro, avvicinandomi un po’ a lui, mentre la preoccupazione cominciava a riaffiorare nei meandri del mio cervello.
«Qualunque cosa dicano, devi tenere in mente che sono arrabbiati; non lo pensano sul serio». Disse dopo qualche secondo, senza particolare inflessione nella voce, ed ebbi la sensazione che stesse rallentando leggermente il passo per permettermi di raggiungerlo. O forse ero io che l’avevo accelerato.
«Certamente tu ne sai più di me in proposito». Commentai guardando di sfuggita le luci della città, ormai quasi immersa nel buio totale. «Poveri genitori, non so come facciano a sopportarti».
La mia doveva essere una battuta, forse un po’ infelice, ma pur sempre una battuta; eppure suonò più come una critica, di cui mi pentii all’istante.
«Non volevo dire…». Mi affrettai a parlare, per cercare di rimediare al mio errore prima che potesse essere colto nel modo sbagliato.
Mi facevo sempre prendere dai sensi di colpa, probabilmente se lui fosse stato al posto mio non si sarebbe minimamente preoccupato di avermi ferita; ma era nel mio carattere, dovevo conviverci.
«Non ti preoccupare, hai perfettamente ragione». Mi interruppe, tra il divertito e il…malinconico? «So perfettamente di essere un disastro come figlio, e non solo».
«Ehi, dov’è finito Lorenzo-io-sono-perfetto-e-tu-no?». Cercai di smorzare la tensione che si era creata, a causa mia, tirandogli perfino un pugno sul braccio.
Non mi era piaciuto il modo in cui aveva parlato di se stesso, decisamente non era da lui, e nonostante tutto non gradivo vederlo amareggiato e arrendevole.
«Io non sono perfetto». Confidò bloccandosi all’improvviso, voltandosi in mia direzione proprio poco prima dell’angolo che ci avrebbe condotti finalmente a casa.
Non avevo mai visto i suoi occhi brillare in quel modo, non erano lucidi dal pianto, né tantomeno a causa del freddo; sembravano riflettere una luce invisibile, che forse – in quel caso – altro non era che la realtà dei fatti.
«Nessuno lo è». Avevo pensato a mille altre cose da dire, ma alla fine mi era uscita la frase più banale e scontata che avessi mai potuto scegliere. La solita Giorgia avrebbe risposto in modo completamente opposto, spiazzandolo con qualcosa di inaspettato e sorprendente, perciò temetti che potesse scoppiare a ridermi in faccia.
Tuttavia, non lo fece, contro ogni mia aspettativa. Arricciò le labbra in un sorriso storto e scosse la testa con un gesto veloce e impercettibile, avvicinandosi di un passo a me. Ma, come se all’improvviso si fosse ricordato di qualcosa, o avesse trovato di meglio da fare, fece per rivoltarsi.
«Posso farti una domanda? Non vederci dentro cose che non esistono, è solo una semplice e disinteressata curiosità». Gli chiesi, sia per trattenerlo ulteriormente ed impedirgli di richiudersi nel suo guscio di freddezza, che per risolvere un dubbio personale che da qualche ora non aveva smesso di tormentarmi.
Lo vidi passarsi la lingua sulle labbra in un gesto che di involontario e non studiato aveva veramente ben poco, dopodiché annuì leggermente, fissandomi con le sopracciglia distese e le labbra ancora lucide di saliva.
«Oggi…perché sei tornato così presto?». Domandai ricorrendo a tutto il coraggio che avevo in corpo, e probabilmente chiedendolo anche in prestito, conoscendo la mia poca audacia in certe situazioni.
«Mi stai implicitamente chiedendo se ci ho fatto sesso o meno?». Chiese a sua volta, voltando ancora la situazione a suo favore. Ci sarebbe sempre stata una grande differenza tra noi due: la terribile sfacciataggine, che lui aveva in abbondanza e che io non sapevo minimamente dove trovare.
Provai a ribattere, non era proprio quello che volevo sapere: la mia curiosità riguardava soprattutto il motivo; non nascondeva nessuna domanda di quel genere,  era solo un tentativo di scoprire se magari avesse rinunciato al suo incontro ravvicinato perché mosso da un qualche rimorso.
Alla fine, però, ci misi troppo tempo per formulare la frase in modo che non passassi per l’illusa della situazione; perciò lui dovette prendere il mio silenzio come un consenso.
«Sono arrivato tardi e i suoi genitori sono rincasati prima del previsto, perciò non abbiamo fatto molto, no». Disse come se mi stesse raccontando una fiaba per bambini, peccato che in quel genere di racconti non venissero descritte quelle scene.
A quel punto fu inevitabile chiedermi come mai avesse risposto senza fare domande insidiose. Nel frattempo mi ero preparata qualche scusa per rispondere – con qualche giro di parola – se avesse voluto sapere le mie motivazioni.
«Non credo tu voglia sapere i dettagli, comunque, perciò…hai qualcos’altro da chiedere o possiamo andare? Sai, sono stanco, ho fame e ho assolutamente bisogno di una doccia».
Era proprio necessario dirmi quali erano le sue intenzioni? Non riuscii a trattenermi e un leggero rossore mi imporporò le guance, spingendomi a pregare di essere abbastanza al buio da non essere vista, altrimenti chi avrebbe fermato più le sue convinzioni sull’ascendente che aveva su di me? Non che fossero errate, comunque.
«Andiamo». Risposi all’istante, precedendolo lungo lo stretto marciapiede su cui non mettevamo piede insieme da una vita.
Era incredibile come in poche ore tutto fosse cambiato, come dalla totale indifferenza fossimo passati alla sopportazione e forse anche a qualcosa di più. Non seppi dire cosa ci successe quel giorno, o cosa avesse azionato quel processo di cambiamento, ma accettai tutto a braccia aperte, scioccamente sopraffatta dalla sua ritrovata vicinanza.
Quando mi risvegliai da quei pensieri sfuggenti mi resi conto che Lorenzo era intento a dirmi qualcosa, di cui riuscii a cogliere solo le ultime parole, che non avevano minimamente senso.
«Ma mi stai ascoltando?». Attirò poi la mia attenzione, inarcando un sopracciglio e sfoggiando un’espressione quasi infastidita.
Lo fissai perplessa per un po’, indecisa se dirgli “no” e passare per quella che non ascolta mai quando gli altri parlano, oppure mentire ed andare incontro ad una figuraccia certa se avesse deciso di confermare quando avevo detto.
«Scusa, stavo pensando ai miei genitori, dicevi?». Pessima bugia, la prima che mi era venuta in mente, ma sperai che non fosse troppo evidente.
«Mi chiedevo…». E marcò su quella parola come se la stesse sottolineando con un pennarello indelebile. «…se ti andrebbe di farla con me».
In un primo momento non capii a cosa si riferisse, perciò rimasi interdetta a fissarlo. Ero convinta che non sarebbe stato saggio chiedergli spiegazioni, si vedeva chiaramente dal sorriso malizioso che cercava di trattenere a stento, ma potevo lasciare che il dubbio rimanesse tale per sempre?
Evidentemente no.
«Fare cosa?». Domandai con cautela e incertezza, scrutando minuziosamente ogni suo singolo movimento.
«La doccia. Che cosa, se no?». Rispose poi, lasciando finalmente piegare le sue labbra in un largo sorriso compiaciuto, che mi fece arrossire fino alla punta dei capelli.
«Fottiti, Lore». Lo invitai gentilmente ad andare a quel paese, prima di accelerare il passo per cercare di aumentare le distanze. Cosa che si rivelò del tutto inutile, per giunta, dato che – e non ne ho mai fatto mistero – la mia velocità era paragonabile a quella di una macchina in coda davanti ad un semaforo.
«Mi chiedo come possa fare a fottermi da solo, che ne dici di darmi una mano?».
Era proprio incorreggibile, aveva sempre e solo quello in testa, e come se non bastasse mi stava chiaramente prendendo in giro. Ero quasi certa che non fosse quello ciò che mi stava dicendo mentre mi ero persa nei miei pensieri.
«Mi fai schifo». Replicai indignata, anche se in fondo non lo ero sul serio. La sua espressione solare era decisamente in contrasto con le sue proposte indecenti.
«Dai, si scherza».
«Ti diverti, lo fai apposta». Lo accusai, notando le luci delle finestre di casa mia farsi sempre più vicine.
Lui si lasciò andare ad una risatina ilare, dopodiché mi bloccò contro il muro dove erano appesi i citofoni.
«Bisogna vedere cosa intendi tu per “apposta”». Disse spostando lo sguardo a fissarmi le labbra, con una smania tale che quasi mi spaventai.
Sapevo che, se anche fosse stato vero che mi desiderava, l’unica ragione per cui si comportava così era il suo ego spropositato, inevitabilmente incrementato in seguito alla scoperta del mio interesse nei suoi confronti. L’aveva detto lui stesso, ed essere a conoscenza di quel particolare non mi faceva certo fare i salti di gioia, anzi.
«Se vuoi ti posso dare una dimostrazione pratica del significato che gli attribuisco io, se non ti levi immediatamente di dosso». Lo minacciai sperando di risultare almeno un po’ convincente e pericolosa, ma alla fine dubitai che il motivo per cui decise di spostarsi fosse propriamente quello.
Gli rivolsi un sorriso soddisfatto e – dopo aver preso coraggio – premetti brevemente il pulsante di casa Mori.
Attesi la voce preoccupata di uno qualunque dei miei genitori, oppure di entrambi, ma mai mi sarei aspettata che il portone si aprisse senza neanche sentire un “chi è”, al quale avrei risposto certamente con “io”. La forza dell’abitudine.
Fissai Lorenzo scettica, come per chiedergli se sapesse cosa stava succedendo, ma lui scosse le spalle in senso di diniego e aprì il portone facendomi entrare per prima.
Ero talmente presa a pensare che neanche mi accorsi del suo gesto di “galanteria”, che fino a neanche un giorno prima non mi avrebbe rivolto neanche sotto tortura; avevo perso il conto di quante volte mi avesse sbattuto porte in faccia di proposito. Le persone a volte cambiavano velocemente…forse troppo.
Feci per salire le scale, ma Lorenzo me lo impedì tirandomi per un braccio.
«Non prendi l’ascensore?». Chiese indicando quell’aggeggio che non usavo da quando avevo sei anni ed andavo a fare la spesa con i miei.
«Non ci penso neanche a stare in uno spazio così piccolo con te». Dissi strattonando il braccio per liberarmi dalla sua presa, ma finii solo per farlo sorridere divertito, come al solito.
«Paura, Mori?». Mi sbeffeggiò, precedendomi nella salita, ma senza allentare minimamente la sua stretta.
«Che mi violenti?». Chiesi sarcastica cercando di stare al passo con lui, ma finendo con l’avere un fiatone degno del primo posto ad una campestre. «Certo».
«Sempre sesso consenziente, è questo il mio motto».
Avrei certamente trovato qualcosa da ridire, non avevo la minima intenzione di lasciargli l’ultima parola, ma i gradini quel giorno sembrarono essere diminuiti…o forse li avevo saliti talmente in fretta che quella era stata la mia sensazione.
«Ok, eccoci qua. Se domani non mi vedi a scuola è perché mi hanno scuoiata viva». Cercai di stemperare la mia ansia con una pessima battuta, ma comunque era con Lorenzo che stavo parlando…il re delle battute cretine.
«Interessante, lo farò presente ai professori, allora». Rispose stando al gioco, dopodiché indicò la porta con un cenno del capo.
«Comunque non sembrano molto preoccupati, non hanno chiamato la polizia e non ti hanno atteso sulla soglia di casa con una padella. È già un passo avanti, non trovi?».
«Hai provato l’esperienza?». Chiesi incuriosita, senza staccare – nervosa – lo sguardo dalla porta socchiusa.
«Sì, e ho dovuto fingere di farmi male altrimenti mia madre non mi avrebbe dato pace».
La sua voce era ironica come sempre, e in quel frangente mi aiutò davvero a rilassarmi, così tanto che mi lasciai persino andare ad una risatina.
«Be’, allora io vado». Dissi allontanandomi da lui e avvicinandomi al mio appartamento.
«Okay, ciao. Salutami Laura e Mario».
«Sì, e tu porgi i miei saluti ai tuoi».
Lo vidi rivolgermi un sorriso appena accennato e poi mi voltai per entrare finalmente in casa e subirmi la predica di un quarto d’ora, ma la sua voce mi interruppe nuovamente.
«Giorgia?». Mi chiamò titubante, ma altrettanto chiaramente e deciso.
Feci per voltarmi per starlo a sentire, ma una specie di tempesta, con forma umana, mi addossò contro il muro e mi stampò un bacio tutt’altro che delicato sulle labbra, prima di allontanarsi con lo stesso impeto e la stessa velocità, stordendomi del tutto.
«Me l’avevi promesso, ricordi?».  Spiegò, rivolgendomi un occhiolino beffardo.
Non dissi niente, ero praticamente pietrificata, mi girai di scatto, aprii definitivamente la porta e me la richiusi alle spalle con un gesto automatico; lasciando fuori dai miei sensi l’odore forte e buono del ragazzo che mi aveva appena dato il bacio più breve, inaspettato e allo stesso tempo intenso, della mia vita.
Qualcosa non andava, decisamente, ma non avevo la minima intenzione di preoccuparmene.



Note:
Come al solito non ho molto da dire, se non ringraziare tutti coloro che hanno letto i precedenti capitoli, chi ha aggiunto la storia tra le seguite, le preferite, le ricordate e soprattutto - di cuore - colei che ha ascoltato le mie preghiere e recensito uno dei capitoli:  HazelStardust. (Grazieeee!)
Non mi resta che augurarvi una buona lettura e rinnovarvi il mio invito a recensire per migliorarmi!
Un bacio e a presto ^^

P.s: il prossimo capitolo non sarà pubblicato domani perché è ancora in fase di "ultimazione" XD Questi ce li avevo già pronti e quindi ho aggiornato in fretta ma, ora che ho finito il materiale a disposizione, i tempi si allungheranno un pochettino dato che sono una studentessa straimpegnata in questo periodo! ç___ç

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Capitolo 5
*** Sogni e realtà. ***


Capitolo 5


CAPITOLO 4: Sogni e realtà.



La casa era completamente avvolta nel silenzio, nemmeno il suono della tv - perennemente tenuta accesa da mio padre, sintonizzata sul primo telegiornale di turno - si riusciva a distinguere nell'aria e questa decisamente non era una cosa normale.

«Mamma, papà ci siete?». Chiesi posando la giacca sull'appendiabiti accanto alla porta e dirigendomi verso il soggiorno con passo incerto. Avevo pensato che magari si fossero addormentati sul divano.
«Oh, eccoti tesoro».
Mi bloccai di colpo, colta alla sprovvista e con il cuore in gola per la sorpresa.
La voce di mia madre mi era arrivata alle spalle e quando mi voltai vidi che si era affacciata dalla porta della cucina, dalla quale proveniva un profumino delizioso che mi fece brontolare lo stomaco.
I minuti passati con Lorenzo erano stati talmente impegnativi che non mi ero neanche accorta di avere fame.
Perfetto, potevano anche rinchiudermi in una casa di cura per giovani precocemente impazziti.
«Mamma!». Esclamai in un tono misto tra rimprovero per lo spavento subito e confusione per il suo strano comportamento.
Erano le sei e mezzo del pomeriggio, sarei dovuta essere a casa almeno tre ore prima e lei non aveva fatto la minima piega; come se tutto fosse normale. C'era qualcosa che non andava, assolutamente.
«Scusa, non volevo spaventarti. Tra mezz'ora si cena». Disse con un sorriso, e fece per rientrare in cucina per rimettersi ai fornelli, ma glielo impedii decisa ad arrivare fino in fondo a quella faccenda.
Non era possibile che l’anno prima si fossero preoccupati eccessivamente per un ritardo di venti minuti, e che in quel momento fossero così tranquilli.
«Dov'è papà?». Chiesi per attaccare bottone.
Di certo non era mia intenzione spiattellarle il mio ritardo senza preavviso e scatenare la sua ira di proposito. Se per qualche motivo era di buon umore, tanto vale che rimanesse intatto.
«Oh, è ancora al lavoro. Mi ha chiamato poco fa per dirmi che torna tardi stasera». Fece spallucce e si sfregò le mani contro il grembiulino, che un tempo era stato bianco, ma che ora era pieno di macchie di tutti i colori.
Mia madre era una cuoca eccezionale, mi piaceva sempre pensarlo, ed io ero una buona forchetta.
«Oggi mi avete lasciata sola tutti e due. Tu per colpa di quel progetto per aiutare i nuovi studenti e lui a causa di quelle inutili scartoffie». Si lamentò fingendo un broncio.
La sentii sospirare sommessamente, prima che rientrasse in cucina e mi lasciasse sola con mille domande per la testa.
Aveva davvero detto “progetto per aiutare i nuovi studenti”? Non mi pareva di averla mai avvisata, né tantomeno che avessi usato una scusa del genere come motivazione.
Restai un bel po’ a spremermi le meningi per cercare di capire chi fosse il mio “salvatore”, ma l’unica spiegazione che mi venne in mente non era assolutamente possibile.
Scossi la testa rassegnata ed andai in camera mia, dove mi tolsi i vestiti e mi preparai per fare un bagno caldo.
Avevo la pelle più fredda di un cubetto di ghiaccio, e tutto per colpa di quell'idiota di Lorenzo, che non aveva di meglio da fare che portarsi a letto la prima ragazza carina di turno disposta a dargliela.
A quel pensiero – oltre alla rabbia e ai nervi tesi -  riaffiorò anche il ricordo del bacio e del suo riavvicinamento, facendomi arrossire come una cretina e sorridere come un'ebete allo stesso tempo.
Ero una cretina, stupida, illusa, pazza…ma anche felice, di nuovo, dopo tanto tempo.

«Allora, com'è andata a scuola?». Mi chiese mia madre una volta a tavola, dove stavo già consumando il secondo piatto di spaghetti con le vongole.
A quella domanda deglutii rischiando di strozzarmi con un pezzo di prezzemolo.
Chiunque gli avesse detto della storia dei nuovi studenti mi aveva salvato la vita, ma non avevo idea di cosa avrei potuto raccontarle a quel punto.
Ero stata troppo impegnata a pensare a Lorenzo per pensare a cosa dirle qualora mi avesse rivolto la fatidica domanda.
«Ehm...». Cominciai schiarendomi la voce. «Bene».
Banale. Scontata. Ma meglio di niente...
«Da quando fanno questo meeting il primo giorno di scuola?».
Colpita e affondata.
«Da quest'anno. È una bella cosa, non trovi?».
«Sì, certo. Anche se stavo cominciando a preoccuparmi per il tuo ritardo. Se non fosse stato per Rossella...».
«Rossella?!». Chiesi con una voce fin troppo acuta, che tuttavia sembrò non destare sospetti in mia madre.
«Sì, è passata di qui e parlando del più e del meno mi ha tranquillizzata dicendo che anche Lorenzo sarebbe rimasto a scuola per qualche ora. Così l'ha chiamato e gli ha chiesto se ci fossi anche tu». Prese il tovagliolo e si pulì la bocca lentamente, prima di tornare a fissarmi con uno sguardo di rimprovero.
«La prossima volta gradirei che mi avvisassi tu, comunque. E che rispondessi alle chiamate che ti faccio. Se ci fosse stato tuo padre...».
Ma non stetti a sentire il resto del discorso. Aveva detto che Rossella aveva chiamato Lorenzo per chiedergli di me e che lui aveva confermato la mia presenza a quella pagliacciata del meeting, quindi lui sapeva che mia madre non era preoccupata e, tuttavia, non mi aveva detto niente.
Mi alzai di scatto dal tavolo, decisa a prendere a pugni quello stronzo, ma mi ero dimenticata che prima avrei dovuto fare i conti con mia madre.
«Ma mi stai ascoltando?!». Chiese, infatti, assottigliando lo sguardo.
«Sì, mamma, scusa ma mi sono ricordata di una cosa urgentissima che devo chiedere a Lore!».
Tentai di giustificarmi con nonchalance, celando la rabbia che stava per esplodere in me e rivolgendole un sorriso fintissimo.
«Ma non hai ancora finito di mangiare». Protestò lei mettendo il broncio e fissandomi sorpresa.
Mi scusai ancora una volta, sottolineando il fatto che non potevo rimandare la questione neanche di un secondo e mi precipitai fuori dalla porta come una furia.
Avevo un solo pensiero per la testa e mi piaceva pensare che avrei potuto realizzarlo: Lorenzo Belli, sei morto!

Ero in pigiama e con le ciabatte di Titti, ma quando me ne resi conto era troppo tardi; il campanello l'avevo già bello che suonato e il viso amichevole di Rossella era comparso ad accogliermi in casa Belli, facendomi quasi dimenticare il motivo per cui mi trovavo lì.
«Ehm...». Iniziai schiarendomi la voce e cercando di evitare il suo sguardo. «...dovrei chiedere una cosa a Lorenzo per la scuola ».
L'inizio non era stato poi tanto disastroso, ora non mi restava che compiere la mia missione di vendetta.

«Lorenzo sta facendo la doccia, ma dovrebbe finire a momenti, entra pure».
Santa donna la madre di quel povero disgraziato. Se solo avesse saputo che razza di vita conduceva il figlio, come minimo le sarebbero venuti complessi sulle sue qualità di genitore e si sarebbe suicidata.
Nonostante il tanto tempo passato lontana da Lorenzo – e quindi un po’ anche da lei – Rossella si era sempre dimostrata gentile e apprensiva nei miei confronti – da piccola ero solita definirla la mia seconda mamma – e ne avevo ricevuto la conferma da diversi fattori nel corso degli anni.
Per prima cosa era chiaramente dispiaciuta della mia sparizione improvvisa dalla sua casa, ma nonostante me l’avesse chiesto mille e mille volte non avevo mai avuto il coraggio di dirle il vero motivo, perciò mi limitavo a rifilarle qualche scusa banale del tipo che entrambi avevamo cambiato amicizie e cose del genere e lei accettava le mie storie senza quasi battere ciglio. Ovviamente in un primo momento c’era rimasta male, ma sforzandomi di recitare la mia stupida parte ero riuscita a farla desistere dal suo proposito di riappacificazione forzata e alla fine si era accontentata di essere lei mia amica.
Il suo affetto lo potevo percepire da qualunque parola o gesto mi rivolgesse, iniziando dall’aiuto che mi offriva prontamente in cucina nel caso in cui i miei fossero in vacanza da qualche parte, per finire all’innumerevole quantità di zucchero che mi dava qualora me ne fosse servito solo un cucchiaio.
Erano piccole cose, ma che insieme erano davvero tanto…forse addirittura troppo.
«Sono così contenta che tu sia qui!». Esclamò accomodandosi accanto a me sul divano del salotto, la cui morbidezza era solo un lontano ricordo che piano piano si stava risvegliando. «Mi sembra passato un secolo da quando tu e Lore mi mettevate a soqquadro la casa».
Parlò con voce divertita, ma allo stesso tempo potevo scorgere nei suoi occhi una vena di malinconia; certamente dovuta al passato.
E chi meglio di me poteva capirla? Se a lei mancavano quei momenti, figurarsi a me.
«Già». Risposi abbassando lo sguardo e pregando contemporaneamente che suo figlio uscisse da quel cavolo di bagno per togliermi da quella situazione difficile. Come avrei potuto dirle che si stava solo illudendo se pensava che tutto sarebbe tornato come prima?
«Oh, tranquilla, lo so a costa stai pensando e…no, ormai ci ho perso le speranze. So che non potrete più tornare ad essere amici come un tempo».  Disse in tono sconsolato, rivolgendomi un mezzo sorriso che mi scaldò e, allo stesso tempo, provocò una fitta di delusione al cuore.
Non sapevo cosa risponderle, se da una parte avrei voluto dirle che forse c’era una minuscolissima possibilità, dall’altra ero consapevole che io e Lorenzo avevamo passato troppo tempo “lontani” per poter far finta di nulla e ricominciare da capo, o da dove ci eravamo fermati, perciò non riuscii a dire niente di sensato.
«Mamma, si può sapere dove hai messo le mie canottiere?».
L’apparizione del diretto interessato – o almeno, quello che mancava all’appello dei due – mi salvò da una situazione che ben presto sarebbe diventata spinosa; ma contemporaneamente mi cacciò in un’altra – se possibile – ancora più imbarazzante.
«Oh, Santo Cielo…». Esclamò Rossella scuotendo la testa, probabilmente cercando di imitare il gesto tipico di chi ormai ha capito che è impossibile far ragionare qualcuno. «Quante volte ti ho detto di non girare per casa mezzo nudo? Ci potrebbero essere ospiti!».
Dal canto mio era stato inevitabile voltarmi in sua direzione quando aveva parlato, perciò mi ero ritrovata a fissare Lorenzo, che stava tra il corridoio e il salone con solo un jeans addosso e i capelli ancora bagnati.
Decisamente una visione poco salutare per me, che di corpi maschili ne avevo visti ben pochi, e specialmente in quella perfetta forma fisica.
Quando finalmente si accorse della mia presenza, lo vidi dischiudere leggermente le labbra in un gesto quasi involontario, prima di richiuderle immediatamente a formare un sorrisetto che di imbarazzo non aveva proprio un bel niente.
La mia reazione fu spontanea e assolutamente fuori dalla mia portata: sentii le guance diventare sempre più calde e per poco non mi coprii gli occhi con una mano, rischiando di fare la figura della ragazza pudica e senza esperienza che in realtà ero, ma che mi sforzavo di non essere davanti agli altri.
«Oh, c’è anche lei. Ciao». Commentò infine, spostandosi una ciocca ribelle di capelli dal viso.
Parlare in quel momento sarebbe stato impossibile, perciò mi limitai a fargli un cenno di saluto con la testa a cui lui rispose con una mezza risatina.
«Giorgia ti deve chiedere una cosa a proposito della scuola, ma prima è meglio che tu ti vada a vestire». E nella voce di Rossella, a quel punto, non lessi altro che una minaccia velata.
Lorenzo roteò gli occhi infastidito, tuttavia qualcosa nell’espressione della madre dovette convincerlo che fosse meglio non protestare; perciò fece retromarcia e cominciò a dirigersi verso la camera.
«Aspetta, è solo una cosa veloce, non c’è…bisogno che tu…ecco…ti vesta». Balbettai, alzandomi in piedi e cercando di distogliere il più possibile lo sguardo dal suo petto nudo, dove facevano capolino degli addominali abbastanza visibili e definiti, seppur non troppo, e un tatuaggio a forma di serpente.
«Mamma, lasciaci soli per favore». Disse Lorenzo, dopo avermi scrutata attentamente; chiaramente sorpreso da quanto avevo detto.
Rossella fece per rispondere visibilmente spazientita, dopodiché mi guardò in cerca di un consenso ed io annuii debolmente.
«Ho capito». Sentenziò, poi, alzandosi a sua volta e lanciando un’altra occhiataccia a suo figlio, prima di rivolgere un sorriso a me e chiudersi la porta della cucina alle spalle.
«Allora, che c’è?». Mi esortò a parlare, incrociando le braccia svogliato, dopo che fui rimasta in silenzio per parecchi minuti, passati a cercare di ricordarmi che cosa dovessi dirgli.
Fino a qualche minuto prima l’unica cosa che avevo in mente era prenderlo a pugni e calci finché non mi avesse supplicato di smettere; ma, forse a causa della chiacchierata con sua madre, forse a causa del modo in cui si era presentato come se niente fosse, non ero più tanto sicura di avere una motivazione valida per fargli la paternale.
«Sei uno stronzo». Riuscii a dire alla fine, forse spronata dalla sua espressione, che diceva “prendimi a schiaffi” a caratteri cubitali.
Lorenzo inarcò un sopracciglio sorpreso, dopodiché ripiegò l’angolo della bocca in un sorriso ancora più ironico e si avvicinò di qualche passo a me, che automaticamente indietreggiai.
«Tutto qui? Se sei venuta per dirmi solo questo, hai sprecato solo del tempo. Lo so che sono stronzo».
«No, certo che no…».
«E allora? Non ho tutta la serata, perciò muoviti che devo prepararmi per uscire».
La parola uscire per Lorenzo Belli poteva significare solo una cosa: locali, alcool a palate e una fila infinta di ragazze con cui chiudersi nei bagni.
«Perché non mi hai detto che mia madre sapeva del mio ritardo?». Riuscii a dire, ormai a corto di fiato a causa della troppa vicinanza con il suo corpo perfetto.
«Oh, per quello sei venuta qui di tutto punto?». Fece come se stessimo discutendo di una cavolata.
Aprii e richiusi le labbra parecchie volte, cercando le parole giuste per non scendere al suo livello, prima di riuscire a rispondergli per le rime.
«Esatto! Quindi sei pregato di darmi una valida ragione, altrimenti…».
«Altrimenti cosa?». Chiese avvicinandosi ancora, e ancora, finché le mie mani non gli si posarono automaticamente sul petto per fermarlo.
Stava usando uno squallido trucco per risolvere la faccenda, approfittando del suo fascino, e io ci stavo cascando con tutte le scarpe.
Distolsi lo sguardo in completo imbarazzo, sentendomi le mani troppo calde a contatto con la sua pelle, e lui dovette interpretarla come una resa, al solito.
«Bene, vedo che ci siamo capiti. Puoi andare adesso, no?».  Disse, infatti, pungente e senza la minima gentilezza. Mi voleva fuori dai piedi, la mia presenza era tornata a dargli fastidio, quando invece fino a qualche ora prima non aveva fatto altro che cercare di saltarmi addosso.
«Vaffanculo…». Dissi a bassa voce, senza mai smettere di guardare il pavimento.  
Da una parte sapevo di non poter vincere niente contro di lui, ma dall’altra non volevo lasciare perdere come se niente fosse, perciò iniziai ripetergli vari insulti come se in realtà stessi leggendo la lista della spesa.
«Dio mio…quanto sei fastidiosa!». Mi interruppe dopo un centinaio di parolacce. «Non mi stai dicendo niente che non mi abbiano già detto, perciò risparmiati la fatica e vai a casa».
Quelle poche parole bastarono a cancellare tutto il buono che avevo cercato di vedere nel suo atteggiamento di quel pomeriggio, era tornato semplicemente ad essere il solito Lorenzo; stronzo e meschino.
Sollevai finalmente il viso, tornando a fissarlo dimentica del fatto che fosse ancora mezzo nudo davanti a me; ormai ero talmente distrutta dal suo comportamento che non riuscivo a pensare ad altro che non fosse la delusione che provavo in quel momento.
«Hai ragione, perché sto ancora perdendo tempo con te?». Chiesi con un filo di voce, sentendomi gli occhi pungere e la gola stringersi sempre di più.
Lorenzo non rispose, mantenne semplicemente lo sguardo sul mio, e ancora una volta non riuscii a leggere niente nei suoi occhi, che in quel momento sembravano ancora più vitrei e freddi del solito, se possibile.
Ed era proprio questa sua capacità nel nascondere quello che sentiva, quello che gli passava per la testa, che aveva e avrebbe causato sofferenza ad entrambi.
Staccai lentamente le mani dal suo petto, come se farlo a rallentatore potesse servire a qualcosa, come se sentire il calore del suo corpo qualche secondo più a lungo potesse farmi del bene; quando invece tutto quello che riuscivo a provare era dolore.
Un dolore assopito negli anni e che io avevo scioccamente rievocato, dopo essermi lasciata trascinare ancora nella sua rete di instabilità e freddezza.
«Giorgia…». Provò a dire lui, afferrandomi per un polso prima che potessi allontanarlo completamente.
Ma evidentemente si rese conto da solo che non avrebbe potuto dire niente a quel punto, che ancora una volta mi aveva ferita e che probabilmente mi aveva persa per sempre. Anche se non ero per niente sicura che l’ultima scoperta gli dispiacesse, piuttosto si trattava di una semplice constatazione che era stato costretto a fare.
Mi lasciò andare ancora prima che potessi strattonare il braccio, fece qualche passo indietro e poi si voltò completamente, raggiungendo il corridoio e scomparendo poi in camera sua.
Rimasi immobile in quel punto, con lo sguardo fisso nel punto in cui Lorenzo si era allontanato, con una valle di lacrime pronte ad uscire e una delusione più profonda dell’Oceano da gestire.
E l’unica cosa che riuscivo a pensare era “lo sapevo”. Perché solo una sciocca come me non avrebbe dato ascolto alle certezze per seguire i sentimenti, perché nonostante sapessi che Lorenzo mi aveva sempre e solo fatto del male, avevo deciso di ricominciare a fidarmi. Non del tutto, come quando eravamo bambini, ma a poco a poco…e quel poco di fiducia che gli avevo concesso l’aveva calpestato come se per lui fosse solo un impiccio e non una possibilità.
«Giorgia, ti fermi a cena?».
Rossella era sbucata dalla cucina, con in mano un pacco di spaghetti e un mestolo di legno.
Quando si accorse che ero sola si guardò intorno per cercare suo figlio, di cui ovviamente non c’era neanche l’ombra.
«Tesoro, tutto bene?». Mi chiese poi, avvicinandosi e passando il dorso della mano sulla  mia guancia con fare apprensivo.
Mi sforzai di sorridere e annuii, ma non ero brava a fingere come lo era Lorenzo, perciò si dimostrò un patetico tentativo.
«Sì, sì, certo, ho risolto tutto. Stavo giusto andando a casa, mamma mi sta aspettando e…».
Ma Rossella mi rivolse uno sguardo misto tra lo scettico, il preoccupato e il rimprovero che mi fece bloccare a metà della frase.
«LORENZO!». Urlò rivolta verso la stanza del figlio ed ero certa che chiunque l’avesse sentita nel palazzo, e quindi anche il diretto interessato.
Andai immediatamente in panico, non avevo assolutamente voglia di rivederlo in quel momento, dopo quello che era successo e dopo quanta fatica avevo fatto per trattenere le lacrime. Se mi si fosse ripresentato davanti l’avrei prima preso a pugni e poi avrei pianto come una deficiente, davanti a lui. E questo non doveva succedere.
«Cosa ti ha fatto?».
«N-niente, non ti preoccupare». Cercai di risultare convincente, non mi andava che si intromettesse in quello che c’era – o forse sarebbe più appropriato dire non c’era – tra me e Lorenzo.
La situazione era già abbastanza difficile anche senza il suo intervento.
«LORENZO, VIENI SUBITO QUI!». Continuò a chiamarlo con una certa impazienza e nel frattempo io cercavo di trovare una scusa per darmela a gambe prima che fosse troppo tardi.
«Ma…Rossella, non c’è bisogno che lo chiami. Davvero, non mi ha fatto nulla». Feci un ultimo tentativo, ma ormai tentare di fermarla era come cercare di imbrigliare un toro impazzito.
«Cara, scusami se te lo dico, ma non sei per niente brava a mentire. Se vuoi essere convincente, la prossima volta che piangi e vuoi negarlo, asciugati prima le lacrime».
Lacrime? Pensai, ma non dissi nulla.
Con un gesto meccanico mi portai due dita sul viso e le feci scorrere sotto agli occhi e giù per gli zigomi, per poi ritrarle e trovarle completamente bagnate.
Avevo davvero pianto.
E non me ne ero neanche accorta.
Com’era possibile una cosa del genere? Possibile che Lorenzo avesse il potere di farmi perdere il senso della realtà a tal punto?
«Io…». Balbettai come se volessi giustificarmi, anche se sapevo che non ce n’era bisogno, perché l’unica cosa di cui ero colpevole, era solo l’illusione in cui mi ero stupidamente chiusa.
«Mamma, ma non te l’hanno mai detto che le porte sono fatte apposta per bussare? Si può sapere cosa vuoi?».
La sua voce mi trafisse le orecchie e capii di non poter aspettare oltre, dovevo andarmene immediatamente, prima che mi vedesse e realizzasse di avere tutto quell’ascendente su di me; così tanto da riuscire a farmi piangere. Io che ero sempre stata invulnerabile davanti a lui, io che, nonostante le terribili angherie subite, non avevo mai mostrato la minima debolezza, io che ero stata capace di mandarlo a quel paese anche nella peggiore delle situazioni.
«Scusa, devo andare».
Corsi alla porta e uscii di fretta, come se fossi inseguita dal mostro dei miei peggiori incubi e mai definizione sarebbe stata più appropriata per descrivere Lorenzo da quel momento in poi.
Rimasi poggiata contro il legno della porta ancora un po’, aspettando di recuperare un po’ di lucidità per poter fronteggiare mia madre senza farle capire che qualcosa non andava.
«Allora?». Sentii la sua voce in lontananza, come se qualcuno mi stesse facendo sentire di proposito quello che io non volevo sentire.
«Allora lo dovrei dire io! Che cos’hai fatto a quella povera ragazza, si può sapere? Lei non me l’ha voluto dire».
Ci furono attimi di silenzio in cui rimasi con il fiato sospeso in attesa di una sua qualsiasi giustificazione, ma mai mi sarei aspettata di sentirgli dire ciò che invece ebbe il coraggio di dire.
«Povera? Sempre a lasciarvi ingannare dalle apparenze voi donne». Fece una pausa e poi continuò a parlare come avrebbe fatto un uomo vissuto. «Semplicemente le ho fatto capire che non mi interessa averla come amica».
Avevo pensato infinite cose quel pomeriggio, e ne avevo messe in conto altrettante – a cui avrei dovuto andare incontro se mi fossi lasciata andare – ma quello andava ben oltre ogni mia più deludente aspettativa, fu come sentirmi strappare il cuore dal petto, lasciare che ci giocasse e poi lo rimettesse al suo posto più sconfitto e sofferente che mai.
Piansi. Piansi tanto, piansi ancora e ancora, finché non rimasero solo i singhiozzi a farmi capire che stavo piangendo, perché le lacrime mi erano finite, ne avevo versate troppe per lui, fino a terminarle nel peggiore dei modi.
Avevo sempre cercato di accettare che la nostra amicizia fosse finita, ma non ci ero mai riuscita. Mi ero sempre crogiolata nel suo silenzio, leggendovi dentro cose che in realtà non erano mai esistite.
Fino a quel momento avevo vissuto la sua lontananza come una cosa temporanea, come se in realtà – nonostante i fatti dessero a pensare il contrario – quello fosse solo il Lorenzo che gli altri volevano vedere.
E solo allora, sentendo quelle parole – quelle fatidiche – con le mie stesse orecchie, avevo realizzato davvero di aver perso il mio migliore amico.
Era come sentire la terra mancare da sotto i piedi e sprofondare in un baratro così nero e profondo da non riuscire a vederne la fine.
Non aveva importanza a quanti appigli cercassi di attaccarmi, nessuno era abbastanza forte per sostenermi; ed era inutile persino urlare perché a sentire le mie grida disperate non c’era nessuno.

«Giò, si può sapere che cos’hai? Non mi fare preoccupare».
«Mamma, non è niente, okay? Perciò lasciami in pace».
Non appena rientrata in casa, mi ero chiusa in camera mia, ed ovviamente questo aveva attirato tutti i sospetti di mia madre, che continuava ad esortarmi a raccontarle quello che era successo.
Mi aveva esposto le ipotesi più improbabili e solo quando aveva chiesto “c’entra un ragazzo?” si era avvicinata alla verità, perché le altre erano così assurde da essere realistiche solo se considerate in un contesto cinematografico.
«E io dovrei crederci? Ti ricordo che sono tua madre e che sono stata giovane prima di te».
«Non mi va di parlarne!». Urlai, coprendomi le orecchie con il cuscino per non sentire più i suoi sproloqui senza senso.
Ero talmente stanca di pensare che mi faceva male la testa e l’unica cosa che volevo fare era dormire, cosa impossibile dato che continuava a disturbarmi da più di mezz’ora.
«Se non apri immediatamente questa porta, giuro che quando torna tuo padre gli racconto tutto».
«Fai quello che vuoi, non mi interessa». Risposi senza la minima inflessione nella voce. Ero ridotta alla stregua di un robot; mi muovevo, parlavo, ascoltavo, ma era come se facessi tutto per seguire uno schema, non perché spinta dalla mia volontà.
«C’entra Lorenzo per caso? Effettivamente sono rimasta sorpresa del fatto che tu sia andata da lui oggi e sei così da quando sei tornata…».
Rimasi in silenzio, sebbene fossi cosciente del fatto che così facendo stavo in un certo senso confermando la sua ipotesi. Ma mi sembrava inutile persino controbattere in quella circostanza.
«Non mi hai mai detto perché vi siete allontanati così all’improvviso dopo la scuola elementare».
«Mamma, mi lasci dormire, per favore? Sono stanca e domani ho scuola». Sapevo che tirando in ballo la scuola, l’avrei convinta a lasciarmi in pace.
«Ma sono solo le 9! E tu vai sempre dormire tardi, anche quando c’è scuola». Protestò lei senza darsi per vinta.
Tipico del suo carattere, tipico di quasi ogni madre: essere apprensiva fino al midollo e non lasciarti in pace finché non le racconti tutto quello che ti tormenta.
Ma io di avere una mamma per amica non ne avevo la minima intenzione; mi andava bene affliggermi da sola, perché di amiche ne avevo pochissime e nessuna di loro era fidata, ed ero convinta di essere l’unica in grado di gestire i miei problemi, nessuno mi avrebbe mai potuto capire meglio di me stessa.
«Giorgia, non mi costringere ad andare a chiedere direttamente a lui». Mi minacciò dopo un lungo silenzio, nel quale ero quasi riuscita a rilassarmi ed addormentarmi.
«Fa’ come vuoi, non me ne importa. Buonanotte».
Sperai che la faccenda fosse chiusa. Che andasse pure a chiedere al diretto interessato, se voleva, tanto si sarebbe solo sentita dire quello che sapeva già e cioè che non mi voleva come amica; in quegli anni ero stata l’unica a credere che una cosa del genere fosse ancora possibile, tutte le persone che mi circondavano l’avevano capito da un pezzo che di me non gliene sarebbe più importato nulla.
Finalmente udii i suoi passi allontanarsi sempre di più dalla mia stanza e pochi istanti dopo, sentii la porta di casa aprirsi. Non seppi mai se mia madre fosse uscita per parlare davvero con Lorenzo o se, invece, era stato mio padre ad entrare; ormai troppo stanca, provata ed esausta mi addormentai subito, non appena chiusi le palpebre, e pregai che almeno quella notte non fosse lui il protagonista dei miei sogni.

Mani calde, pelle liscia e labbra bollenti. Era questo che sentivo sul mio corpo e tutto, ancora una volta, apparteneva a lui. Stringevo i suoi capelli tra le dita, tirandoli quando i suoi baci si facevano più audaci e le sue carezze più profonde. Sospiravo sommessamente contro il suo collo e l’unica cosa che riuscivo a vedere, nell’oscurità più totale, erano due chiazze blu ad un centimetro dal mio viso.
«Giorgia…». Mi chiamò quando mi aggrappai alle sue spalle con tutta la forza che avevo in corpo, poca a dire il vero.
«Giorgia, guardami». Ripeté, soffiando quelle parole contro il mio orecchio e facendomi rabbrividire.
Avevo freddo, ma tra le sue braccia, completamente stretta a lui, mi sentivo bene…e insanamente felice.
A quelle parole, come se mi avesse impartito un ordine a cui non avrei potuto disubbidire, girai la testa per guardarlo meglio, ma il buio era ancora troppo opprimente, nonostante ora dalla finestra entrasse un pallido bagliore.
«Accendi la luce».
La mia voce giunse lontana persino alle mie orecchie, sembrava che nessuno potesse sentirmi, eppure Lorenzo fece quello che gli avevo chiesto senza battere ciglia.
Era bello, bello come non lo era mai stato, con gli occhi lucidi e le labbra un po’ dischiuse.
Per la prima volta da dieci anni a quella parte, riuscivo a capire il suo sguardo, sembrava che non avesse più segreti per me, sembrava che non avesse più niente da nascondere.
«Mi dispiace…». Sussurrò contro le mie labbra, prima di riprendere a baciarle come e più di prima, per poi spostarsi verso il collo, giù lungo la clavicola e infine tra l’incavo dei miei seni.
Non avevo mai provato sensazioni del genere, era come vivere intrappolata in una bolla lontano da tutto il resto, lontano dalle apparenze e dalle finzioni.
«Lore, torna qui…». Dissi, afferrandogli il volto con tutte e due le mani, esortandolo a tornare alla mia altezza. Volevo ancora guardarlo negli occhi, perché erano l’unica certezza che avevo sempre avuto.
Nel movimento che fece, sentii la collana che portava al collo – fredda più del ghiaccio – posarsi sul mio petto e a quel contatto sussultai rabbrividendo.
«Che succede?». Mi chiese Lorenzo preoccupato, guardandomi così intensamente da inchiodare i miei occhi ai suoi.
«La collana…». Risposi indicandola con un cenno del capo, mentre piegavo le labbra in un sorriso per rassicurarlo.
Lui di riflesso guardò il punto che avevo indicato, su cui si soffermò parecchio tempo, prima di staccare una mano dal lenzuolo – che stava usando come appoggio per non pesarmi troppo addosso – e posarla delicatamente su uno dei miei seni.
Rimase fermo in quella posizione per un po’, in cerca di un mio consenso, dopodiché prese a muovere le dita con cautela su tutta la mia pelle morbida.
«Sei sicura di…di volerlo fare davvero?». Mi chiese prima di sistemarsi meglio su di me, intrecciando di più le nostre gambe.
«Sì…». Annuii decisa, chiudendo gli occhi un secondo per rilassarmi.
«Nessun rimpianto?».
«Nessuno».
Ero sicura di averlo convinto, ma la sua espressione – anziché aprirsi nel sorriso che avevo immaginato – rimase seria e afflitta.
«E perché piangi, allora?».

Mi svegliai di soprassalto, con il viso bagnato di sudore e il cuore più in tumulto di una tempesta.
Fu istintivo accertarmi di avere ancora i vestiti addosso. Era stupido pensare che quel sogno fosse vero, ma sembrava così reale che per un secondo mi era sembrato di sentire davvero il calore del corpo di Lorenzo sul mio.
Mi passai una mano sulla fronte per scacciare via tutti quei pensieri controproducenti, ma contro a quanto pensavo non c’era neanche una goccia di sudore ad imperlarla. Spostai la mano verso la guancia e la ritrassi completamente bagnata, per la seconda volta in un giorno, realizzando che in realtà il sudore altro non era che lacrime che avevo versato inconsciamente durante il sogno.


Note:
Dopo due giorni sono tornata, anche se so di non esservi mancata per nulla ç___ç
Questa volta ho solo una precisazione da fare riguardo al capitolo: probabilmente qualcuno si starà chiedendo spiegazioni sul padre di Giorgia. Tra qualche capitolo verrà spiegata tutta la faccenda, per il momento posso solo dirvi che quello che Giorgia chiama "papà" è il nuovo marito di sua madre - non il suo vero padre - e lei porta il suo cognome ;) Inoltre, nel capitolo precedente avevo accennato al fatto di un certo "odio" provato dalla nostra protagonista nei confronti della madre proprio in seguito alla separazione tra i suoi genitori, ovviamente ora è passato ma scorpriremo meglio le dinamiche più avanti. Nulla verrà lasciato in sospeso! XD
Bene, non ho altro da dirvi, come al solito non sono di molte parole...preferisco lasciarvi alla lettura.
Grazie a tutti quelli che hanno letto la storia, che l'hanno aggiunta tra le preferite, le ricordate, le seguite e - ancora - ad HazelStardust che ha recensito anche lo scorso capitolo! Grazie mille ^^
Ne approfitto per esortare anche gli altri a scrivere qualunque cosa a proposito di questa storia, mi farebbe davvero molto piacere!
A presto con il prossimo capitolo, se vi va.

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Capitolo 6
*** Passi avanti, passi indietro. ***


Capitolo 6

CAPITOLO 5: Passi avanti, passi indietro.



Quando mi svegliai –  per la seconda volta in una sola notte – erano le cinque del mattino e le prime luci dorate dell’alba filtravano dalla finestra, accompagnate dal canto degli uccellini che auguravano il buongiorno.
Mi sentivo tutta indolenzita, con la testa che rischiava di scoppiarmi da un momento all’altro per il dolore e decine e decine di brividi lungo tutta la schiena.
Poggiai i gomiti contro il cuscino per sollevarmi un po’ e mi portai una mano sulla fronte, che trovai bollente quasi quanto lo era il corpo di Lorenzo nel sogno di quella notte.
Lorenzo.
Faceva male anche solo pensare il suo nome, era doloroso come non lo era mai stato, mi sembrava di essermi svegliata da un sogno durato una vita e la cosa più triste di tutte era che al mio risveglio non avevo trovato nessuno, nessuno che desiderassi veramente al mio fianco.
Stavo pensando a lui, di nuovo, e non dovevo farlo.
Mi presi la testa tra le mani, scuotendola un po’, e mi alzai per andare in bagno a sciacquarmi la fronte, che sentivo pulsare e bruciare neanche fosse le fiamme dell’Inferno.
Una volta in piedi, rischiai di cadere come una di quelle palline rimbalzanti con cui giocavo da piccola, ma riuscii a malapena in tempo a sostenermi contro il muro.
Erano state poche le volte in cui mi ero sentita in quel modo e tutte le volte la causa era stata sempre una, che speravo non fosse la stessa anche in quel momento.
Più debole che mai raggiunsi la porta, la aprii e mi chiusi in bagno, dove passai una buona mezz’ora a rinfrescarmi il viso con l’acqua ghiacciata. Avvertii immediatamente un po’ di sollievo, ma non abbastanza da sentirmi anche solo minimamente bene, e in un attimo di pura follia pensai di buttarmi sotto il getto gelido della doccia con tutti i vestiti.
Persino spogliarmi mi sembrava troppo faticoso.
Rimasi a fissarmi allo specchio per parecchio tempo, cercando tutti i difetti possibili e inimmaginabili sulla mia pelle, ma nonostante non ce ne fosse nessuno particolarmente accentuato o evidente, non mi riuscivo a vedere per niente carina, ero la ragazza più anonima della storia e mai nessuno si sarebbe interessato a me.
Eppure, quello che era successo con Lorenzo quel pomeriggio...
Poteva dire qualunque cosa, poteva smentire e dire che per lui contavo meno di zero, ma ci avrei messo la mano sul fuoco sul fatto che quel bacio lo desiderasse sul serio.
Il motivo ancora mi era sconosciuto, poteva tranquillamente essere un capriccio – tipico dei ragazzi come lui – ma se mi fosse venuto a dire che era solo una scommessa con gli amici, oppure che mi voleva prendere in giro e mettere in imbarazzo allora no, non ci avrei creduto nemmeno se l’avesse giurato sulla persona più importante della sua vita.
Questa mia nuova – e nel peggiore dei casi, infondata – deduzione riuscì ad alleviare un po’ il mio malumore: la consapevolezza che non gli fossi del tutto indifferente, almeno dal punto di vista fisico, era troppo forte e insistente per potermi lasciare sopraffare completamente dalle cose terribili che mi aveva detto quel pomeriggio.
Certo, le continuavo a sentire come un eco nella mia testa e mi facevano ancora venire voglia di piangere e prenderlo a schiaffi, ma improvvisamente mi ero resa conto che erano rarissime le volte in cui Lorenzo diceva la verità, o quello che gli passava sul serio per la testa, perciò c’era la possibilità che anche quello che avevo sentito di nascosto fosse solo una copertura.
Mi ero quasi dimenticata di questo suo lato caratteriale, chiuso e in un certo senso inaccessibile, così come avevo dimenticato che per lui rispondermi in quel modo era un’abitudine che forse non avrebbe mai abbandonato.
Non avevo intenzione di dimenticare tutto quello che era successo, di fare finta di niente e tornare ad odiarlo come avevo fatto per quei sette anni, perché avrei continuato solo a farmi del male, non era assolutamente plausibile per me stare vicino ad una persona così instabile – pronta a ferirti nel peggiore dei modi non appena ne avesse avuto l’occasione –, non saremmo più stati amici e questa ormai era una certezza.
Tuttavia, avevo capito che la colpa non era stata solo sua; l’illusione me l’ero creata io, leggendo nel suo comportamento qualcosa che in realtà non esisteva…ero stata davvero stupida a credere che quei quasi dieci anni si potessero cancellare in qualche ora.
Lorenzo era diventato un’altra persona, un ragazzo completamente diverso – stronzo, in cerca di divertimento e di avventure – che io non ero disposta ad accettare e lui di certo non voleva far niente perché io potessi anche solo provare a farlo.
Perciò lo avrei semplicemente ignorato, lui non era il mio migliore amico, era cambiato troppo radicalmente per poter esserlo ancora, e nonostante me ne fossi accorta molto tardi, ero sicura che da quel punto in poi le cose sarebbero migliorate.
Era come se avessi chiuso un capitolo della mia vita –  avevo deciso di cancellare l’esistenza del vecchio Lorenzo dalla mia mente ed avrei continuato a rivivere quei ricordi pensando a lui come ad una persona che non c’era più  – per iniziarne un altro completamente nuovo, dove il passato e il presente sarebbero state due linee parallele che, per quanto potessero essere vicine, non avrebbero mai potuto incontrarsi.

«Si può sapere come hai fatto a prendere la febbre così alta?».
«Mamma, mi scoppia la testa, lasciami in pace». Mugugnai rivoltandomi nelle coperte per cercare una posizione più comoda, coprendomi contemporaneamente le orecchie per non sentire la predica che mi avrebbe fatto di lì a poco.
«Mauro, puoi venire un attimo?».
Se fossi stata in condizioni decenti mi sarei chiesta perché avesse chiamato mio padre, ma ero talmente debole e stanca che mi risultava difficile persino azionare le rotelle del cervello e pensare.
«Mi sento la testa scoppiare…». Mi lamentai senza saper bene con chi, avevo la mente annebbiata e riuscivo a stento a parlare.
«E ci credo! Hai la febbre a quaranta, mi meraviglierei del contrario».
Poco dopo sentii entrare qualcun altro nella stanza, a giudicare dai passi probabilmente si trattava di papà.
«Che succede?». La sua voce arrivò alle mie orecchie ovattata e fastidiosa, mi sembrava di avere intorno un frastuono terribile, come se cento trapani avessero deciso di azionarsi nello stesso momento.
«Giorgia ha preso la febbre e non ho niente da darle in casa, potresti passare in farmacia, per favore?».
Udii un vociare non ben distinto e poi di nuovo la voce squillante e chiara di mia madre.
«Sì, intanto che torni vado a chiedere a Rossella se ha qualcosa per la febbre».
La sentii spostarmi i capelli dalla fronte bagnata ed aprii gli occhi, che bruciavano talmente tanto da lacrimare.
«Torno subito, tesoro, non ti alzare assolutamente dal letto».
Non risposi, annuii soltanto e quando sentii la porta della mia camera chiudersi caddi in un sonno leggero ed agitato.

Mi sembrava di sentire mille voci nella testa, tra le quali la più forte era quella di Lorenzo; che sentivo ben distinta e senza interferenze, mentre le altre erano dei ronzii senza senso che si interrompevano per pochi secondi per poi ricominciare a tormentarmi.
Basta. Continuavo a pensare, perché quelle voci insistenti mi impedivano di capire quello che diceva lui, ma loro sembravano aumentare la loro intensità rendendo l’impresa sempre più difficile e la voce di Lorenzo sempre più lieve e distante.
Sentivo le mani fredde di mia madre sulla pelle, mentre lo straccio che avevo sulla fronte diventava sempre più caldo e asciutto e le voci diventavano sempre più confuse.
«Vieni, è aperto». Disse mia mamma con un tono troppo alto per le mie povere orecchie, che mi fece rantolare infastidita.
Non seppi dire se la sua voce era frutto di un sogno o della realtà; ma era tutto così surreale che ero certa stessi dormendo e speravo che almeno quando mi fossi svegliata sarei stata più lucida.
Passarono dei momenti di buio, durante i quali avvertii una ventata di profumo buono, che nonostante mi sembrasse familiare, non riuscivo ad associare a niente o nessuno in particolare. Sapeva di ciliegia, di menta…e di una fragranza maschile.
«Grazie mille, Lorenzo, non hai idea di quanto mi sia preoccupata non appena ho visto la temperatura».
In un primo momento credetti di aver sentito male, in fondo era di finzione che si trattava; non era possibile che quel ragazzo mi tormentasse sempre.
Più cercavo di non pensare a lui e più le varie circostanze mi inducevano a fare  il contrario, cominciavo a credere che sarebbe rimasto sempre il mio peggior incubo.
Ma almeno – per quanto potesse fare male – era solo un sogno, se lo avessi avuto davanti nella realtà non avrei saputo come affrontarlo razionalmente, avevo sì deciso di cambiare completamente il modo di vederlo, ma era ancora troppo presto per mettere il tutto in atto.
«Figurati, mi dispiace che stia così male e credo sia stata anche colpa mia».
Se davvero aveva intenzione di confessarle tutto, non ero sicura che potesse uscire del tutto illeso da quel confronto.
«Colpa tua?».
Infatti.
«Abbiamo dovuto aspettare venti minuti fuori perché le ho fatto perdere il pullman prima».
Ok, aveva avuto l’accortezza di non dirle il vero motivo quantomeno, ma mia madre era troppo iperprotettiva e di certo non gli avrebbe detto…
«Oh, ma non dire sciocchezze! È lei che non mi ascolta quando le dico di mettersi sciarpa, cappello e guanti. Non devi assolutamente sentirti in colpa, caro».
Anche mia madre mi si era rivoltata contro, perfetto.
Va bene che Lorenzo non sembrava colui che in realtà era, ma mi sembrava eccessivo riporre in lui una tale fiducia!
Ci fu ancora silenzio, era chiaro che non avesse niente da dire lui, di certo non avrebbe mai rivoluzionato le convinzioni che mia madre aveva nei suoi confronti.
Sentii un ticchettio metallico e un rumore strano, dopodiché riuscii a distinguere solo il mio nome chiamato a gran voce da mia madre.
Sapevo che dovevo svegliarmi, ma per quanto mi sforzassi di aprire gli occhi e tornare nella realtà sembrava che qualcosa mi trattenesse nel mondo dei sogni, la stanchezza, forse, ma non ne ero sicura.
«Be’, allora io vado. Falle i miei migliori auguri di guarigione quando si sveglia».
«Non vuoi farglieli direttamente tu?».
«Non li accetterebbe se glieli facessi di persona e non avrebbe tutti i torti».
Sembrava sereno, nonostante quello che stava dicendo non fosse una verità molto felice; ma con Lorenzo il verbo sembrare molto spesso non corrispondeva alla realtà e questo l’avrei imparato a mie spese.
«Ma cos’è successo tra voi due? Cioè, lo so che sono passati tanti anni, ma lei non me ne ha mai parlato…».
Ci fu lunga pausa e, poi, quello che non mi sarei mai aspettata di sentire, una frase che probabilmente sarebbe sempre e solo rimasta una prerogativa di quel sogno.
«Non è successo niente, è questo il punto».
Sentii solo dei passi strascicati e un’altra folata di profumo, dopodiché il resto non contò più nulla, fu nuovamente buio totale.

«Tesoro, dai svegliati».
Poco dopo che Lorenzo scomparve dalla mia mente, sentii ancora la voce di mia madre, ma questa volta non era confusa e distante; la percepivo in tutte le sue sfumature e non come  se fosse un frutto della mia immaginazione.
Aprii gli occhi di scatto, come quando ci si sveglia da un brutto sogno, per accertarsi di essere ancora in grado di svegliarsi e porre fine a tutto il terrore, ma la debolezza non era scomparsa, né tantomeno lo stordimento e la confusione che avevo prima di addormentarmi.
«Che c’è?». Biascicai cercando di mettermi a sedere contro la testiera del letto, ma con scarsi risultati.
«Prendi questa, starai meglio». Disse porgendomi un bicchiere con un liquido tra il bianco e il trasparente al suo interno.
«Cosa…».
«Tuo padre non è ancora tornato dalla farmacia, ma per fortuna Lorenzo è riuscito a trovare questa in casa». Allungò di più il braccio e mi rivolse un sorriso radioso, come se il solo pensare alla causa di tutti i miei problemi la rendesse felice.
«Lorenzo?». Non riuscii ad esimermi dal chiederle spiegazioni, non capivo perché avesse nominato lui e non sua madre.
Mentre aspettavo una risposta, presi il bicchiere e cominciai a sorseggiarne il contenuto, piuttosto dolce e buono, a differenza delle pastiglie che ero solita prendere quando mi ammalavo.
Mia madre mi osservò bere per un po’ con uno sguardo assorto e uno strano sorriso compiaciuto ad arricciarle le labbra, dopodiché sembrò ricordarsi della mia domanda e si sedette accanto a me sul letto, come se si stesse preparando a raccontarmi una lunga storia.
«Perché fai domande su di lui?». Chiese, infatti, sospettosa.
La febbre mi aveva persino fatto dimenticare della sua indole investigativa, se avesse cominciato a mettermi sotto torchio o le avrei dovuto confessare tutto, oppure non mi avrebbe lasciata in pace.
«Perché, non posso? Comunque era una semplice curiosità, se non vuoi dirmelo non c’è problema». Feci spallucce come per liquidare la faccenda, anche se in realtà morivo dalla voglia di saperlo, bevvi l’ultimo goccio di medicina con nonchalance e poggiai di nuovo la testa contro il cuscino.
«Rossella era già andata al lavoro, così ho chiesto a lui». Rispose lei, dopo quella che mi parve un’eternità.
«Ah, e ti ha aiutata? Strano». Commentai stupita e senza cercare di nascondere l’acidità nella mia voce.
«Perché è strano? Lorenzo è un bravo ragazzo». Ribatté lei, dando sfoggio della curiosità che certamente la stava attanagliando.
«Sì e io non sono mai stata meglio!». Dissi sarcastica, aggiungendo persino una smorfia che le fece corrucciare l’espressione.
«Mi ha detto persino di farti gli auguri di buona guarigione».
«Ah sì? Be’, non me ne faccio niente…so io dove se li può mettere i suoi auguri!».
«Giorgia!». Mi rimproverò mia madre, alzandosi dal letto come se stesse andando a fuoco. «Da quando sei diventata così volgare?».
Lo sono sempre stata, solo che tu non te ne sei mai accorta.
Avrei risposto senz’altro questo, se un pensiero non mi avesse occupato completamente la mente.
«Hai detto che mi fa gli auguri?». Chiesi cauta, sentendo il mio cuore accelerare sempre di più il suo battito; stupide emozioni, se solo qualcuno avesse inventato un modo per liberarsene…
«Per caso ti ha detto anche che ieri abbiamo perso il pullman a causa sua?».
«Sì, ma come…».
«Ho tirato ad indovinare!». Mi giustificai prima che potesse terminare la sua domanda, ed anche se sembrò non crederci, decise comunque di non dire nulla.
«Si sentiva persino in colpa…».
E tu gli hai detto che invece lui non c’entrava nulla.
«Mamma, a volte le persone non sono come sembrano, dovresti saperlo meglio di me».
«Oh, andiamo! Non fare la persona saggia con me, sono più grande di te! Sappiamo tutte e due che c’è qualcosa che non va tra te e lui e, a questo proposito, lascia che ti dica una cosa da mamma: non pensare sempre che sia solo colpa sua, prova a chiederti cosa avete sbagliato entrambi».
La fissai per un po’ incredula e per una volta fui davvero tentata di raccontarle tutto, per farle capire che io non avevo fatto proprio niente per arrivare a quella situazione.
«Tu credi questo, ma in realtà non sai un bel niente della mia vita, perciò…non giudicarmi». Dissi pungente e delusa, perché lei era mia madre e se non era lei dalla mia parte, allora chi altri?
La vidi spalancare gli occhi, come se le avessi piantato una spada nel petto - e probabilmente l’avevo fatto davvero – che diventarono un po’ lucidi, ma quella forse era solo un’impressione dovuta alla febbre.
«Sei tu che non mi dici mai niente». Replicò infine in  un sussurro, guardandomi come se non fossi sua figlia, prima di girare i tacchi ed andarsene sbattendo la porta, lasciandomi completamente sola.
Era addirittura peggio del pomeriggio prima, quando Lorenzo mi aveva chiusa nel Trash; questa volta ero stata io la stronza ed oltre alla solitudine avrei dovuto anche sopportare il rimorso.
In più, avevo realizzato che la voce di Lorenzo non era stata solo un sogno, quello che avevo sentito l’aveva detto sul serio, e questo non faceva altro che confondermi e destabilizzarmi ancora di più, quando invece avrei dovuto ignorarlo.
«Non li accetterebbe se glieli facessi di persona e non avrebbe tutti i torti». Questo aveva detto.
Stupido.
«Non è successo niente, è questo il punto». Aveva spiegato.
Perché non riesco a capirti? Perché sei così enigmatico?
Pensai a lungo e poi mi lasciai andare ad altre lacrime amare finché non mi riaddormentai.

Quando mi svegliai tutta la stanza era al buio, ma quello non significava niente, perché la tapparella della mia camera era completamente abbassata.
Non seppi dire quanto tempo fosse passato – un’ora, forse anche dieci – ma finalmente mi sentivo un po’ meglio e questo era già un passo avanti.
Neanche avesse i sensori, pochi minuti dopo, mia madre fece irruzione nella mia stanza senza bussare; in genere mi dava fastidio quando non lo faceva ma, considerando le condizioni in cui ero, ci avrei messo una pietra sopra.
«Oh, ti sei svegliata!». Esclamò con un sorriso enorme, una volta che ebbe acceso la luce.
«Già…ma che ore sono?». Domandai strofinandomi gli occhi per cercare di abituarmi all’improvvisa luminosità della stanza.
«Le sei, più o meno, ti ho portato la cena».
Fu solo in quel momento che realizzai di non aver mangiato nulla per pranzo e, soprattutto, che avrei evitato di farlo anche in quel momento.
«Mamma, veramente…». Cercai di dirle che non avevo per niente fame, ma venni interrotta proprio da lei, che intervenne come una furia nel discorso.
«Sì, lo so che non hai fame, ma non puoi rimanere digiuna, perciò ora scegli qualcosa e te la mangi, capito?». Né il suo tono di voce, né la sua espressione lasciavano spazio a repliche, perciò diedi un’occhiata al vassoio per cercare qualcosa che non mi desse la nausea.
«Ma sono tutte verdure! Lo sai che non mi piacciono…». Protestai stizzita, passando con lo sguardo da una ciotola di insalata ad un piatto di spinaci.
«Sì, ma sono quelle che ti farebbero più bene in questo momento. E poi non è solo verdura…». Disse scoprendo uno dei piatti coperti, da cui fece capolino della pastina con il brodo.
Già quello andava meglio, la pastina era uno dei miei piatti preferiti durante l’inverno.
«Niente formaggino?». Chiesi tentando gli occhioni dolci e sfoderando la tecnica del labbro tremulo. Quella componente era fondamentale per me.
«Solo se oltre a questa mangi anche qualche verdura».
Mia madre sapeva benissimo come prendermi, così come conosceva esattamente su quali punti potesse ricattarmi per ottenere ciò che voleva.
«Va bene». Risposi sbuffando e cercando di trattenere un sorriso.
Ero felice che la litigata di qualche ora prima fosse stata superata, era come se non fosse successo nulla, così i miei sensi di colpa si affievolirono; anche se non del tutto.
«Mamma, mi dispiace per quello che è successo oggi». Dissi cogliendola di sorpresa.
Lei rimase incantata a fissarmi per un po’, dopodiché allargò le labbra in un sorriso.
«Non fa niente, non è stata solo colpa tua».
Liquidò la faccenda con un gesto della mano – dal quale capii che non mi avrebbe lasciato più dire nulla in proposito –  e mi porse una salviettina umidificata, che guardai scettica.
«È per lavarti le mani». Spiegò allungandola ancora di più verso di me.
«Mamma, ho la febbre, non sono in punto di morte. Posso benissimo andare in bagno per lavarle». Tentai di farla ragionare, ma lei rimase ferma nella sua posizione.
Avevo quasi dimenticato quanto fosse testarda, ma – a parte tutto – avevo davvero bisogno di andare in bagno.
«Dai, mà, non essere sempre così iperprotettiva». La rimproverai, prima di alzarmi e raggiungere lentamente la porta della mia camera.
La testa mi girava ancora e avevo le gambe più molli di un budino, ma tutto sommato riuscivo a reggermi in piedi perfettamente.
«Vuoi che ti accompagni?». Mi chiese speranzosa, seguendomi fino in corridoio.
Mi voltai e le lanciai un’occhiataccia che non lasciava spazio al minimo dubbio.
«Va bene, va bene…ma se hai bisogno d’aiuto io sono qui».
Sarà stata anche petulante, testarda, assillante, iperprotettiva; ma era pur sempre la mia mamma ed io la adoravo anche per tutti i suoi difetti.

Dopo mangiato mi rimisurai la febbre e, accertatasi che non superasse il 37 e mezzo, mia mamma mi permise di alzarmi un po’ dal letto per spostarmi in salotto, dove feci zapping per un po’; ma con scarsi risultati: in tv non c’era mai niente di interessante. Perciò decisi di accendere il pc per leggere qualche novità su facebook e magari parlare con le mie amiche che non sentivo da settimane.
La mia vita reale era totalmente opposta a quella virtuale: adoravo i social network e conoscere gente nuova, anche a distanza di parecchi chilometri. Si poteva tranquillamente dire che era il mio modo per sfuggire alla realtà, per sentirmi un po’ più accettata dagli altri; perché quando mi trovavo davanti allo schermo di un computer riuscivo ad essere veramente me stessa, sconfiggendo la timidezza.
Lessi tutte le notifiche che avevo e poi spostai l’attenzione verso le richieste di amicizia; in genere accettavo tutti senza neanche guardare chi fossero, qualche volta trovandomi persino nei guai, ma in quel momento il mio occhio cadde automaticamente su un nome, che non avrebbe mai potuto passare inosservato.

Lorenzo Belli vuole stringere amicizia con te.

Sentii il mio cuore prendere la sua folle corsa e l’agitazione crescere proporzionalmente al suo battito esagerato.
Cercai di calmarmi, ripetendomi che si trattava solo di una richiesta di amicizia su facebook e che magari era solo un caso di omonimia.
Avevo perso il conto delle volte che avevo guardato il suo profilo, per vedere cosa combinasse, quali persone frequentasse; ma ogni volta che leggevo cosa scriveva, ogni volta che guardavo le sue foto…mi sembrava sempre una persona diversa da quella che avevo conosciuto io. Mi sentivo una stupida solo a pensare che ci avessi messo così tanto tempo per rendermene conto e per lasciarmelo alle spalle, ma ora che cosa significava quella richiesta?
Quel ragazzo aveva la capacità di farmi impazzire, un secondo prima ero convinta delle mie decisioni, poi bastava anche un suo minimo gesto per mandarmi in confusione ed ero arrabbiata con me stessa, perché non riuscivo ad essere ferma e decisa.
Cliccai sul suo profilo per controllare che fosse davvero lui e, quando mi trovai la sua foto davanti, mi sentii quasi mancare un battito.
Era bello, troppo, e mai come in quel momento lo avevo sentito lontano da me.
Aveva il petto scoperto, probabilmente per mettere in mostra il tatuaggio, e sorrideva. Era uno di quei sorrisi spontanei, di quelli che vengono immortalati quando non sai che stai per essere fotografato e che risultano essere sempre i migliori.
Vedere quella foto mi mise una strana malinconia addosso; i suoi capelli– che solo il giorno prima avevo stretto tra le mie dita – sembravano più dorati che mai, le sue labbra sottili – che, anche se solo per un breve istante, erano state mie – mi attiravano irrimediabilmente, e il suo viso – che desideravo tenere tra le mie mani ancora una volta – non era mai stato così bello.
D’istinto, quasi come se fossi in ipnosi, accettai la sua richiesta di amicizia; pensando che avrei potuto cancellarla in qualsiasi momento, eppure una piccola parte di me sapeva perfettamente che non lo avrei mai fatto.
Sempre inconsciamente, mi misi a guardare le altre sue foto, perdendo la cognizione del tempo. Ne vidi alcune in cui faceva il cretino, altre in cui abbracciava delle ragazze e altre ancora in cui era stato ritratto durante gli allenamenti di karate.  
Poi ce n’erano un paio dov’era insieme alle sue precedenti fidanzate, tutte bellissime e perfette accanto a lui, che mi fecero stringere un po’ lo stomaco e provare una fitta di gelosia all’altezza della gola.
Ero gelosa, tremendamente gelosa.
«Ehi, tesoro!».
Non appena sentii la voce di mio padre, mi risvegliai dallo stato d’automa in cui ero piombata e chiusi automaticamente lo schermo del pc, per quale motivo non saprei dirlo, in fondo non c’era niente di male in quello che stavo facendo.
Ero talmente presa a guardare Lorenzo che non mi ero neanche accorta del suo ritorno.
«Ciao papà». Lo salutai cercando di risultare il più tranquilla e serena possibile, mentre dentro di me c’era una tempesta pronta ad esplodere.
«Vedo che stai meglio». Disse avvicinandosi e scompigliandomi i capelli neanche fossi ancora una bambina.
«Sì, più o meno».
«Cosa stavi guardando?». Mi chiese poi sospettoso, fissando insistentemente il coperchio del computer.
«N-niente, ho appena chiuso il pc, mi cominciava girare la testa e…». Cominciai a balbettare imbarazzata, cercando di nascondere la lucina ancora accesa.
«Va bene, faccio finta di non aver sentito il rumore della ventola». Rispose poco dopo ridacchiando, prima di uscire dal salone senza lasciarmi neanche il tempo di replicare.
Sospirai massaggiandomi le tempie, avevo persino cominciato a mentire ai miei genitori, di questo passo nel giro di qualche giorno sarei diventata un’altra persona pure io.
Riaprii il computer decisa a spegnerlo sul serio questa volta, ma proprio in quel momento qualcuno mi scrisse in chat, perciò decisi di controllare nel caso in cui fosse stata una delle mie amiche.

Rosaria Murata:
Ehi, ti sei dimenticata della tua migliore amica, per caso? :(

Rosaria era una delle poche persone con cui ero riuscita ad aprirmi, ci conoscevamo dalle elementari, epoca in cui lei e Lorenzo si odiavano a morte; eravamo state compagne di classe fino alle medie, dopodiché si era trasferita in un paese vicino Milano e da allora ci vedevamo veramente pochissimo, anche se continuavamo a tenerci in contatto.

Giorgia Mori dice:
Rosy, certo che no! Scusami, è che...ho preso la febbre.
Rosaria Murata:
Oh, mi dispiace, riprenditi presto.
Come va nella nuova classe?
Giorgia Mori dice:
Male, come al solito, anzi…peggio. Anche se non posso dare un giudizio oggettivo, dato che ci sono stata solo un giorno.
Rosaria Murata:
E con Lorenzo?

Ma perché tutti dovevano toccare quel tasto dolente? Presi un respiro profondo e trovai il coraggio di risponderle. Sembrava che tutti sapessero che era lui il mio problema.

Giorgia Mori:
Possiamo cambiare domanda? Non mi va di parlarne.
Rosaria Murata:
È successo qualcosa? Se ti ha fatto qualcosa di male giuro che vengo a Milano e lo pesto.

Sorrisi. I modi fini e gentili di Rosaria mi erano mancati moltissimo, avrei pagato oro per rivederla in quel momento e sfogarmi con lei.

Giorgia Mori:
Direi che sono successe troppe cose.
Rosaria Murata:
E dai, non farti pregare, immagina che ti stia facendo gli occhioni dolci.

Chiusi gli occhi e scrissi ad occhi chiusi, talmente veloce che sembrava avessi dietro una mandria di bufali inferociti.

Giorgia Mori:
Mi ha baciata. Ieri.

Per qualche minuto dall’altra parte non ci fu alcuna risposta e temetti che l’avesse presa persino peggio di me, poi mi resi conto che era impossibile.

Rosaria Murata:
Oh Mio Dio.
Giorgia Mori:
È stato esattamente quello che ho pensato io.
Ora scusami ma è meglio che vada, sono da troppo tempo al pc e comincio a sentire freddo, temo che mi stia risalendo la febbre.
Domani ti chiamo e ti racconto tutto, promesso.
Un bacio.
Rosaria Murata:
Va bene, riguardati e non pensare troppo a quel mascalzone, sono certa che si stia solo prendendo gioco di te.
A domani, un bacione.

Feci per uscire dalla chat, ma fu inevitabile guardare la lista delle persone collegate e – come sospettavo – vidi il suo.
Per chissà quale istinto fui tentata di contattarlo, ma per fortuna mi era ancora rimasto un briciolo di cervello, perciò desistetti dal farlo; finché si aprì un’altra finestra della chat ed io rimasi a fissarla sbalordita.
Non poteva essere vero.

Lorenzo Belli scrive:
Ehi, come va? Stamattina avevi un aspetto orrendo :D

Era sempre il solito, ma tutto sommato se mi aveva scritto, voleva dire che un po’ si era preoccupato per me. Un po’, non tanto, magari.

Giorgia Mori:
Meglio. Grazie per il complimento, vorrei dire lo stesso di te; peccato che stessi dormendo.
Lorenzo Belli:
Ero impeccabile come al solito, non avresti avuto niente da ridire.
Giorgia Mori:
Le dimensioni del tuo ego mi stupiscono sempre di più, davvero. Piuttosto, perché questa richiesta di amicizia improvvisa?
Lorenzo Belli:
Così, mi andava di mandartela e te l’ho mandata.
Riguardo alle dimensioni del mio ego, ti assicuro che non sono le uniche ad essere spropositate.
Giorgia Mori:
Cretino! Vedi che sei un porco?
Lorenzo Belli:
E dai, non fare la santarellina…scommetto che in questo momento sei diventata bordeaux ahahah!
Giorgia Mori:
Non è vero!

E invece sì, sentivo le guance andarmi a fuoco ed ero certa che la febbre mi fosse salita alle stelle. Per fortuna che non ce lo avevo davanti.

Lorenzo Belli:
…….
Verrei lì solo per smascherarti ;)
Giorgia Mori:
E perché non lo fai? Sono sicura che se quella fosse la ragione, non verresti mai.
Lorenzo Belli:
Sì, effettivamente per un motivo del genere non mi scomoderei. Ma giacché ci siamo, avrei in mente qualcosa di molto più divertente da fare, ma dato che sei moribonda non ti vorrei avere sulla coscienza. Sai, mi dicono che ci so fare.
Giorgia Mori:
Scommetto anche che nessuna ragazza è mai uscita intera dal tuo letto.

Il mio commento era assolutamente sarcastico, ma mi ero dimenticata che su internet tutto poteva essere travisato.

Lorenzo Belli:
Indovinato! A nessuna ho concesso l’onore di dormire nel mio letto, magari potresti essere tu la prima.
Giorgia Mori:
Vai a dormire, Belli, è tardi…su.
Lorenzo Belli:
Mi piacerebbe, sono stanchissimo, ma devo uscire.
A proposito, sono in super ritardo, vado a prepararmi prima che mi lascino qui.
Ciao Giò, buona guarigione :)
Giorgia Mori:
Ciao Lore, divertiti.

Chiusi la pagina di facebook prima che qualcun altro decidesse di scrivermi e poggiai la testa contro lo schienale. Mi era tornato il mal di testa e nonostante tutto mi aveva fatto piacere parlare con lui, anche se non aveva fatto altro che prendermi in giro e farmi proposte indecenti.
Ancora non capivo perché quel suo interesse improvviso per me, soprattutto dopo le cose orribili che mi aveva detto il giorno prima, e cercavo di scervellarmi per comprenderlo almeno un po’; ma più ci provavo e più la soluzione mi sembrava distante.
Di quel passo il mio buonissimo proposito di voltare pagina sarebbe andato a quel paese, altroché; anziché fare dei passi in avanti, stavo tornando indietro come un gambero.
Spensi il computer e afferrai il cellulare, era giunto il momento di chiedere aiuto, altrimenti sarei impazzita nel giro di qualche giorno.

Marti, chiamami non appena puoi, ti prego. Ho bisogno di parlarti, ma sappi che la cosa non sarà per niente breve.

Andai a dormire poco dopo, stanca e spossata da tutto il trambusto di quella giornata, e con la minuscola speranza che Lorenzo mi lasciasse in pace almeno nel sogno di quella notte.



Note:
In questo capitolo Giorgia e Lorenzo non si incontrano, ma in compenso si scambiano qualche battutina divertente su facebook.
A questo proposito, chiedo scusa se le discussioni sul social network più famoso del web sono state un po' ridicole; ma io mi sono divertita moltissimo a scriverle, perciò chiedo venia! XD
La nostra cara protagonista è convinta di voler voltare pagina, perché del suo amico - in Lorenzo - non c'è più alcuna traccia, ma le circostanze sembrano sempre impedirglielo...e come se non bastasse si prende anche un bel febbrone da cavallo!
Sì, sono molto sadica ç_ç
Nel prossimo capitolo le cose si faranno decisamente molto più vive, ce ne saranno delle belle e magari si scoprirà anche qualche altarino :P
Ringrazio come sempre chi legge, chi mette la storia tra le seguite, le preferite e le ricordate e - soprattutto - chi recensisce; quindi un ringraziamento particolare a HazelStardust, Fresita93 e Stella Nera che hanno recensito gli scorsi capitoli...ma un enorme grazie anche a chi dà solo un'occhiata *-*
Scusate se ci ho messo un po' ad aggiornare, cercherò di farvi aspettare un po' di meno per il prossimo capitolo!
Un bacio,
Veronica.



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Capitolo 7
*** Confusione. ***


capitolo 7

Capitolo 6: Confusione













Un paio di giorni dopo stavo già meglio: la febbre era pressoché scomparsa – ne rimaneva solo qualche lineetta insignificante – e fisicamente mi sentivo come se fossi rinata; niente più debolezza o giramenti di testa.
«Sei sicura di voler andare a scuola?». Mi chiese mia madre una volta che ebbe capito le mie intenzioni.
Si sarebbe opposta, lo sapevo, ma ero cera che non me lo avrebbe impedito.
«Sì, mamma, sicurissima».
Feci colazione con una tazza di tè e cominciai a provare un po’ di nervosismo.
Di lì a poco avrei rivisto Lorenzo e non avevo la più pallida idea di come comportarmi con lui, né tantomeno di come lui si sarebbe comportato con me.
Mi avrebbe presa in giro come al solito? Mi avrebbe semplicemente ignorata? Oppure mi avrebbe salutata rivolgendomi un sorriso?
Quel ragazzo ormai aveva il completo monopolio di tutti i miei pensieri, non facevo altro che pensare a lui, era come se il mio cervello si azionasse solo per fare congetture sui suoi atteggiamenti, senza mai venirne a capo.
«Se stai male non esitare a chiamare a casa, okay?». Fu proprio mia madre a risvegliarmi dai miei pensieri a senso unico.
«E come verresti a prendermi? Con l’ottovolante?». Le chiesi sarcastica, stampandole un bacio sulla guancia.
«Non dire sciocchezze, chiama tuo padre al lavoro». Mi rimbeccò lei con espressione sconvolta. Chiaramente non aveva colto l’ironia delle mie parole.
«Sì, va bene, ho capito. Ciao mamma».
Nel pianerottolo c’era il completo silenzio, come al solito dalla porta di fronte alla mia non proveniva alcun rumore sospetto, ma per la prima volta dopo anni non potevo dire di esserne veramente felice.
Se da una parte volevo rivederlo, più di ogni altra cosa, dall’altra sapevo di non essere pronta, avrei finito per comportarmi da idiota; perciò presi un respiro profondo e scesi lentamente i primi scalini, senza fare troppi sforzi.
La mia ultima intenzione era quella di riammalarmi, quindi dovevo cercare di non strafare, anche se sarebbe stato difficile.
Giunta alla fine della prima rampa sentii una serratura scattare al piano di sopra e, senza neanche accertarmi di quale si trattasse, corsi verso l’ascensore, che per fortuna avevano deciso di lasciare libero.
Data la velocità del soggetto, mi avrebbe raggiunta in un battibaleno se avessi continuato a scendere le scale in quel modo e non avevo ancora pensato a cosa dirgli nel caso in cui mi avesse rivolto la parola, a come comportarmi.
Schiacciai il bottone di chiamata e attesi con il cuore in gola, sempre più sicura che colui che stava scendendo fosse proprio Lorenzo.
Perfetto, avevo persino imparato a riconoscere il rumore dei suoi passi, ero proprio fuori di testa.
Dopo un tempo interminabile, finalmente, l’ascensore arrivò: aprii la porta con mano tremante – e un occhio sempre rivolto alle mie spalle – e ci saltai dentro con uno scatto degno di un felino.
Tirai un sospiro di sollievo, certa di essere ormai al sicuro, ma niente poteva andarmi per il verso giusto, no?
Nonostante avessi chiuso la porta esterna, quelle automatiche dell’interno non accennavano a muoversi e ormai avevo consumato il tasto del piano terra, ero fritta.
«Mori, che stai facendo?». Eccolo, neanche fosse stato evocato dal peggiore dei miei incubi, per tormentarmi anche nella vita reale.
La fortuna era proprio dalla mia parte, in ogni situazione.
«Sto giocando con l’ascensore, non vedi?». Risposi ironica, senza nascondere l’acidità che avevo dentro; non tanto per lui, ma per quello sciocco destino che aveva deciso di rovinarmi la giornata già di prima mattina.
Lo sentii ridacchiare e a quel punto sollevai lo sguardo verso di lui, perché volevo guardarlo negli occhi e perché ormai mi era impossibile ignorarlo.
«Simpatica. Hai bisogno di una mano?». Domandò aprendo la porta esterna. In un battito di ciglia me lo ritrovai davanti, impeccabile e irritante come sempre, con quel solito, buon profumo addosso.
«Questo coso non parte». Risposi tirando un calcio ad un lato dell’ascensore, facendo tremare tutto.
«Da quando, tu, prendi l’ascensore?». Chiese trattenendosi a stento dal ridere, prima di entrare nello stretto spazio dell’abitacolo. E fu solo allora che mi ricordai la regola principale che mi ero imposta, quando mi trovavo sola con lui; non abbassare mai la guardia.
Era troppo vicino, non sarei stata in grado di ragionare lucidamente, era ingiusto, contro ogni regola, contro ogni morale e soprattutto non mi aveva chiesto il permesso. Certo, come se ce ne fosse davvero bisogno.
Cercai di annullare la sua presenza schiacciante, fingendo indifferenza nonostante avessi il cuore in tumulto e la gola secca.
«Da quando ho preso la febbre a quaranta e mia mamma mi ha raccomandato di non stancarmi troppo». Dissi evitando il suo sguardo curioso ed indagatore, ero certa che non ci avrebbe messo molto a capire il vero motivo se mi avesse guardata negli occhi. Nei miei, a differenza sua, si leggeva tutto.
«E giustamente la prendi al secondo piano, mi sembra logico». Sentenziò smascherandomi subito; si diceva che le bugie avessero le gambe corte, ma a quanto pare le mie non ne avevano proprio.
«Non pensare che abbia voglia di perdere tempo con te». Lo minacciai allora puntandogli un dito contro, per tentare di salvare il salvabile; e magari spostare l’attenzione su di lui. «Non dopo quello che hai fatto».
Lo vidi arcuare scettico un sopracciglio, ma non gli diedi il tempo di parlare; aveva già detto fin troppo, era giunto il momento di fargli capire che non poteva prendermi e lasciarmi a suo piacimento.
«E non fare il finto tonto! I tuoi cambiamenti repentini mi manderanno al manicomio di questo passo».
Lorenzo rimase in silenzio, probabilmente in cerca di qualcosa da dire, ma ovviamente queste erano solo supposizioni; perché capire cosa gli passasse per la testa era un’impresa titanica.
«Da quello che ho capito, hai bisogno di chiarimenti, giusto?». Chiese pensieroso, grattandosi nervosamente il mento in attesa di un mio assenso.
«Oh, che intuito».
Finsi di essere sorpresa, portandomi persino una mano davanti alla bocca, e incrociando le braccia in attesa che quei chiarimenti me li desse davvero.
Ero un’illusa?
Le sue labbra si piegarono in un sorriso strano, quasi vittorioso, ma non ero certa della sua reale natura.
«Credevo che ormai ti fossi abituata al mio caratteraccio, ma a quanto pare mi sono sbagliato».
Feci per replicare, per dirgli qualunque cosa, ma lui me lo impedì con un gesto della mano che mandò in frantumi ogni mio minimo proposito di farlo.
«Io sono fatto così...». Disse allargando le braccia in un gesto teatrale. «...non posso cambiare, né tantomeno voglio farlo».
Il suo sorriso diventò amaro, come se le  parole che aveva appena pronunciato nascondessero un triste segreto, che non mi era concesso sapere.
«Non mi sembra che tu abbia avuto remore a cambiare, 7 anni fa». Ribattei senza riflettere, decisa ad andare fino in fondo e approfittare della sua improvvisa apertura nel spiegare le cose, o almeno provarci.
«Ancora con questa storia?». Rispose esasperato, alzando leggermente la voce e facendo qualche passo incerto verso di me. «Ti ho detto che devi dimenticare il passato, altrimenti non andrai da nessuna parte, ci ritroveremo sempre punto e da capo».
Mi faceva male sentirlo parlare in quel modo, ma sapevo che almeno stava dicendo la sua verità, o parte di essa.
«E se io non volessi farlo, oppure non ci riuscissi?». Dissi con un filo di voce, temendo quasi che mi fossi sentita solo io, quando la sua risposta tardò ad arrivare.
Avevo messo in tavola tutte le mie carte, ora spettava a lui fare lo stesso; tuttavia, ero convinta che, piuttosto che scoprirsi tanto, avrebbe preferito rinunciare alla sua collezione di videogiochi; frutto di anni e anni di paghette settimanali.
Lorenzo rimase in silenzio per parecchio tempo, ed io approfittai di quel momento per uscire  di corsa da quell'ascensore –  ormai troppo stretto per entrambi – e dal portone, ritrovandomi nell’improvviso gelo della città.
Erano le 7.40 precise, con molta probabilità avrei fatto in tempo a prendere l’autobus, e quella era una cosa positiva se paragonata alla miriade di “disgrazie” che non facevano altro che accadermi negli ultimi giorni.
I modi di fare di Lorenzo mi mandavano in bestia.
Avevo deciso di passare sopra ai suoi sbalzi d’umore, avevo deciso di cancellare la sua esistenza dalla mia vita e dai miei ricordi; ma più cercavo di mettere il tutto in pratica e più sembrava che mi allontanassi dai miei obiettivi.
Avrei finito per fare tutto l’opposto di quello che mi ero prefissata, se non avessi trovato una soluzione definitiva.

Poco dopo lo sentii arrivare alle mie spalle, non ebbi bisogno di voltarmi e controllare, ero certa che fosse lui. Il suo profumo inconfondibile era la più forte delle tentazioni, per me, dopo i suoi occhi ovviamente.
Mi girai dall’altro lato sbuffando infastidita; ne avevo avuto davvero abbastanza di lui per quella mattina, ero giunta al limite di sopportazione e la giornata era ancora lunga.
«Per favore, puoi provare ad ascoltarmi?».
Feci finta di non aver sentito, limitandomi a guardare in lontananza, verso il pullman fermo al semaforo, desiderando che arrivasse il più presto possibile; perché avevo paura di cedere di nuovo, se avesse usato le parole giuste.
«Va bene, capisco che tu possa essere arrabbiata con me, ma ti stai comportando da bambina fingendo di ignorarmi».
Lo sentii afferrarmi per un braccio e per un attimo fui tentata di accontentarlo, ma – per grazia Divina, forse – riuscii a mantenere lo sguardo incollato alla coda di macchine che sfrecciavano davanti a noi.
«Porca miseria, Giorgia, non farmi incazzare! Ho sbagliato, lo so, ma vuoi continuare a farmene una colpa per sempre?».
Le sue parole, questa volta, mi raggiunsero in pieno petto e se avesse aggiunto qualcos’altro avrei potuto commettere la più grande cazzata della mia vita; dato che ormai quelle, con lui, erano d’obbligo.
Probabilmente resosi conto del mio attimo di debolezza, poggiò la mano sulla mia spalla, che sembrò andare a fuoco a quel contatto. Scosse di calore partirono da quel punto, irradiandosi per tutta la mia spina dorsale, e a quel punto fu inevitabile voltarmi per fronteggiarlo.
«Prima mi odi…». Cominciai con tono lieve e rassegnato, certa che qualunque cosa avessi detto non sarebbe servita a nulla.«…poi mi lanci provocazioni e, come se non bastasse, mi ferisci con i tuoi atteggiamenti del cazzo». Feci una lunga pausa, durante la quale deglutii ripetutamente,  in cerca di un qualcosa – qualunque cosa – che mi aiutasse ad andare avanti. «Mi dici cosa dovrei pensare io di tutto questo?».
A quelle parole allentò la sua presa, portando entrambe le mani in tasca, come era solito fare quando passava alla fase difensiva.
«Non sapevo che sentissi così tanto la mia mancanza, sembravi…apposto, sei sempre stata così…forte». Parlò  lentamente, come se stesse ricordando qualcosa, scandendo una parola dopo l’altra in cerca di quelle giuste, nel chiaro tentativo di non ferirmi.
«Apposto, dici?». Chiesi ironica, guardandolo senza farmi più alcun problema.
Era la prima volta che ci spingevamo così in là in quel discorso ed ero decisa ad ottenere delle vere risposte, non mezze parole messe a caso o altre domande con cui poter rigirare il discorso.
«E perché non me l’hai chiesto, prima di convincertene?».
Scossi la testa rassegnata, nuovamente conscia che non mi avrebbe mai detto la verità. Per quanto ci si potesse avvicinare, non si sarebbe mai esposto completamente, ero sciocca io a pensare, ogni volta, che invece potesse riuscirci.
«Perché sono un coglione, è questo che vuoi sentirti dire?». Si rianimò proprio quando il rosso del semaforo lasciò posto al verde, segno che nel giro di un minuto l’autobus sarebbe arrivato alla nostra fermata. «Va bene, lo sono, e posso anche ripetertelo all’infinito se ti fa sentire meglio».
Dovette leggere qualcosa nella mia espressione, perché prese un grande respiro e cambiò completamente registro.
«Quello che voglio dire è che ormai non posso fare niente per modificare il passato, e neanche voglio farlo».
Scattai in avanti, verso di lui, ma senza toccarlo, perché avevo paura e perché non c’era cosa più sbagliata da fare in quel momento.
«E allora cosa vuoi fare? Dimmelo, perché non ti capisco».
Lo vidi rilassare un po’ l’espressione, mentre i suoi occhi cominciarono a ricoprirsi della solita maschera che li rendeva intellegibili.
Sospirò distogliendo lo sguardo e capii che da lui non avrei ottenuto nessun’altra spiegazione.


In seguito a quella discussione, io e Lorenzo passammo per un po’ all’indifferenza totale.
Era come se non esistessimo l’uno per l’altro, e questa non era certo la mia più grande ambizione, ma quantomeno non era passato all’offensiva e si limitava ad ignorarmi come aveva sempre fatto.
Una volta saliti sul pullman, entrambi avevamo preso le nostre strade, lui in fondo insieme ai suoi amici e ad un branco di oche starnazzanti che gli sbavavano dietro; e io, nel sedile dietro all’autista, che di tanto in tanto gli lanciavo qualche occhiata fugace.
Mi veniva spontaneo farlo, forse perché avevo la flebile speranza che magari – durante uno di quei momenti – l’avessi beccato ad osservarmi.
Lo avevo messo di fronte a una verità da cui era sempre scappato e, anche se alla fine lo aveva fatto di nuovo, ero comunque riuscita a capire qualcosa in più di lui.
Mi era sembrato confuso, esattamente come lo ero io, e quasi spaventato, da cosa non saprei dirlo.
Avevo paura che, nonostante tutto, non fosse cambiato nulla tra di noi e che magari si sarebbe vendicato della trappola che gli avevo teso, costringendolo, in qualche strano modo a me sconosciuto, a parlare.
A scuola ebbi la strana sensazione che continuasse a guardarmi dal suo ultimo banco, ma non potevo controllare perché mi trovavo davanti alla cattedra e dietro di me c’erano solo dei colossi, che mi impedivano di arrivare fino a lui con lo sguardo.
Per la prima volta, da quando ero passata alle scuole medie, non prestai la minima attenzione alle spiegazioni dei professori; avevo la mente completamente concentrata su di lui e su quello che ci eravamo detti quella mattina.
Non sapevo cosa aspettarmi da lui, né tantomeno dal nostro rapporto; per quanto ne sapevo io, Lorenzo avrebbe potuto tranquillamente far finta di niente, continuando a prendermi in giro e a comportarsi da stronzo.
Ad un certo punto della mattinata, mi ero presa la testa tra le mani e l’avevo sbattuta contro il banco, imponendomi di distrarmi da lui e pensare seriamente alla lezione.
Ovviamente avevo controllato che nessuno mi stesse guardando, ci mancava solo che avessero cominciato a chiedersi se avessi problemi mentali di qualche tipo.
L’unica cosa degna di nota, di quella noiosissima giornata scolastica, fu il discorso che origliai per caso – ma anche no – tra Lorenzo e i suoi amici. Per fortuna le ragazze avevano deciso di lasciarlo in pace almeno durante l’intervallo, la loro presenza attorno a lui cominciava infastidirmi parecchio.
Ero solita passare quei 15 minuti in classe, mangiando la merenda portatami da casa e scribacchiando qualcosa sul diario, perciò ero certa che non avrei dato nell’occhio.
«Davvero stasera esci con quella tipa di quinta?». Chiese Curcio, dando sfoggio della sua pessima natura truzza.
Odiavo il termine tipa, cosa c’era di male nel dire semplicemente “ragazza”?
In ogni caso, quello era l’ultimo dei miei problemi, avevo teso le orecchie in attesa che Lorenzo rispondesse. Speravo che negasse e quando me ne resi conto mi stupii di me stessa.
«Sì». Rispose lui semplicemente, senza mostrare alcun entusiasmo particolare. «Ma mi sembra una un po’…».
Si stoppò probabilmente a corto di un aggettivo adatto, ma alcuni dei suoi amici gli andarono incontro suggerendogliene un paio.
«Verginella?».
«Chiusa?».
Lore ridacchiò, ma la sua non mi sembrava una risata spontanea, piuttosto studiata e fredda.
«Esatto, temo che ci vorrà un po’ per quello».
Trattenni a stento un singulto schifato. Va bene che ormai avevo capito che tipo di persona fosse, ma sentire parlare di una ragazza in quei termini era comunque disgustoso, specialmente durante quella che doveva essere la mia merenda.
«Scegline un’altra, no?». Suggerì Lonta, facendo la sua apparizione da cretino.
«Quelle come lei mi danno sui nervi». Si aggiunse un altro alla conversazione, come se fosse una questione di stato il fatto che il soggetto della discussione fosse almeno un po’ ragionevole.
Di tutto il gruppetto non avrei saputo scegliere chi fosse quello con meno cervello degli altri.
Sentii il rumore di una sedia spostarsi e uno schiocco di lingua, che annullarono i miei pensieri in un batter d’occhio.
«Gabri, ma dico, l’hai vista? È una figa da paura, non importa quanto tempo ci vorrà, deve essere mia».
«Se lo dici tu…». Rispose Lonta, che non contento aggiunse: «…gira voce che sia un’isterica, comunque».
«Cosa vuoi che me ne importi? Come si dice…una botta e via. Se dovessi badare al carattere di tutte le ragazze con cui esco, non ne rimarrebbe nessuna».
A quelle parole mi strozzai con un pezzo di panino e cominciai a tossire ripetutamente, finché non mi uscirono gli occhi dalle orbite.
Giustamente nessuno aveva pensato di offrirmi un goccio d’acqua e io ero troppo impegnata a cercare di respirare per pensare di andare a bere quella del rubinetto, che sebbene non fosse propriamente potabile, perlomeno mi avrebbe salvato la vita, o risparmiato di fare una figuraccia a seconda dei casi.
«Ehi, tutto bene?». Mi chiese uno dei ragazzi che nel frattempo si doveva essere avvicinato. La sua voce mi sembrava di averla sentita prima, ma non ne ero sicura.
«Sì». Dissi, per poi schiarirmi la voce arrochita a causa della tosse forzata. «Grazie».
Sollevai lo sguardo lentamente, incuriosita dal fatto che nonostante lo avessi rassicurato, non si era mosso di un millimetro; e quando finalmente vidi il suo volto, riconobbi un ragazzo sorridente, moro e con gli occhi dello stesso colore…piuttosto carino.
Lo vidi fissarmi incerto per un po’, dopodiché mi tese la mano e sorrise ancora di più, mostrando una fila di denti bianchi e perfetti.
«Davide». Si presentò una volta che ebbi ricambiato la sua stretta.
«Giorgia».
Era la prima volta che un mio compagno di classe si rivolgeva a me in modo così gentile, senza mostrare alcuna traccia di scherno, perciò mi venne spontaneo ricambiare il suo sorriso.
«Ehi, Mori, ti sei dimenticata come mangiare, per caso?». Chiese ironica una voce alle mie spalle, che mi fece passare immediatamente il buonumore.
La battutina di Lorenzo venne seguita dai risolini divertiti dei suoi amici e a quel punto mi voltai verso di loro, pronta a fronteggiarli.
A quanto pareva, no, non aveva affatto dimenticato le sue vecchie abitudini.
«O hai sentito qualcosa che ti ha sconvolto?». Continuò senza guardarmi veramente
Era in bilico sulla sedia, con i piedi sul banco e il cellulare in mano. Logico che non avesse attenzione da potermi rivolgere.
Tuttavia, la sua deduzione mi colse di sorpresa e, prima di riuscire a rispondere, aprii e chiusi la bocca parecchie volte, passando per una cretina.
«No, ormai sono abituata a sentire i tuoi discorsi a senso unico». Dissi infine, certa di averlo stupito e che l’avrebbe piantata ancora prima di cominciare.
La sua bocca si piegò in un lieve sorriso e i suoi occhi finalmente raggiunsero i miei.
Fu come sentire una scossa al centro del petto, ogni volta avevano lo stesso effetto devastante su di me e cominciavo a pensare che sarebbe stato impossibile annullare il loro potere.
«Ne sei sicura? Io dico che non hai sentito ancora niente di veramente interessante, vuoi unirti alla conversazione? Stavamo giusto per parlare di….».
«Lore, la stai scandalizzando, guarda che faccia ha!». Lo interruppe Davide alla mia destra, che ora lo fissava come se fosse un alieno o qualcosa di simile. Evidentemente non lo conosceva bene, se rimaneva interdetto da quel suo continuo cercare di mettermi in imbarazzo.
«Non è colpa mia se è più casta di una suora». Rispose lui tornando a fissare il cellulare, forse decidendo che non ero poi così degna di essere l’oggetto della discussione.
«Sei tu che te ne fai quaranta a settimana, quella ad avere seri problemi non sono di certo io!». Cercai di difendermi, ma il mio tentativo risultò patetico e non ottenni altro che l’attenzione di tutti i lì presenti e in particolare quella di Lorenzo.
«Il mio record è di venti, per esser precisi». Sentenziò arricciando le labbra pensieroso e fingendo anche di contarle sulle dita.
Lo fissai sconvolta. Non aveva il minimo senso della misura e del ritegno. Ne parlava con tranquillità, come se fosse normale saltare da un letto all’altro per divertimento. Io forse ero troppo pudica, ma lui decisamente esagerato.
«Lore, ma di cosa ti stupisci, scusa?». Intervenne Curcio con un sorriso che non lasciava presagire niente di buono. «Chi mai vorrebbe provarci con una secchiona acida come lei? È logico che sia così poco aperta».
«Hai ragione ed è un peccato che sprechi così le sue doti». Disse Lorenzo facendomi una radiografia completa, con il suo solito sorrisetto compiaciuto.
Pronunciò quella frase con una malizia tale che mi fece cedere le gambe per un attimo.
Quel ragazzo mi voleva morta e prima o poi ci sarebbe riuscito senz’altro.
Ero talmente in imbarazzo e rossa di vergogna che per i restanti minuti dell’intervallo rimasi  immobile dov’ero, non desiderando altro che il pavimento sotto ai miei piedi si spaccasse per farmi scomparire.
Proprio al suono della campanella Lorenzo si alzò dal suo posto per la sua abituale passeggiatina del cambio dell’ora, sembrava lo facesse apposta per risultare “figo” e ribelle agli occhi dei suoi compagni; ma con lui non si poteva mai essere sicuri di nulla, perciò quelle rimanevano delle mie semplici supposizioni a cui non avrei mai potuto dare conferma.
Non appena mi fu accanto lo vidi rallentare un po’ il passo e spostare lo sguardo su di me, come se stesse per dirmi qualcosa, ma alla fine sembrò lasciare perdere; mi fece l’occhiolino  e uscì dalla porta, fischiettando, con le mani in tasca.
Fortunatamente le restanti tre ore trascorsero tranquillamente e senza troppi intoppi.
Lorenzo continuò per tutto il tempo a provocarmi, con delle frecciatine molto spesso velate, e io riuscii a concentrarmi – almeno in parte – sulle lezioni, scambiando di tanto in tanto due parole con Davide, che, data l’assenza del suo compagno di banco, si era seduto accanto a me.
Sembrava un ragazzo abbastanza simpatico, a primo impatto, tranquillo ed assolutamente fuori dagli standard di quelli che erano i suoi amici.
E proprio questa differenza, mi spinse a chiedermi perché frequentasse – ad esempio – uno come Lore, che avrei tranquillamente potuto definire l’esatto suo opposto.
Dopo tanto tempo non passai tutte le lezioni con gli occhi incollati ai libri, molto spesso ci distraevamo per commentare la stranezza di alcuni professori, oppure la loro inettezza e le loro scarse qualità di insegnanti.
Era piacevole parlare con Davide, mi sembrava di essere tornata bambina, ai tempi in cui  a nessuno importava delle apparenze e dei giudizi, ma ci divertivamo per il semplice gusto di farlo.
E avrei sicuramente etichettato quella come la mia giornata scolastica preferita, se Lorenzo – sì, sempre lui – non avesse deciso di mettermi in ridicolo davanti a tutta la classe, con un patetico scherzo degno di un bambino delle elementari.



«Ehi, dove scappi?».

Quel giorno avrei fatto indigestione di lui.
Ero giunta a questa conclusione quando – una volta scesa dal pullman di ritorno – mi aveva fermata, nel bel mezzo della strada.
«Carino lo scherzo del ragno». Gli dissi, ironica, mentre ci avviavamo insieme verso casa, per la seconda volta in cinque giorni. Avevamo raggiunto il nostro record, fantastico.
«Ti è piaciuto davvero?». Chiese scettico, rallentando il passo per aspettarmi.
«No». Lo spensi con un semplice monosillabo. Inutile dire che fu un’enorme soddisfazione constatare che anche io possedevo un po’ di talento per la recitazione.
«Ma si fa per scherzare, lo sai».
Mi bloccai davanti al portone, girandomi verso di lui e tendendo le mani in avanti per mantenere le distanze.
«Certo, certo».
Lo vidi fissarmi incuriosito e divertito allo stesso tempo, con la fronte aggrottata e un’espressione buffissima dipinta in volto. Dovetti sforzarmi tantissimo per mantenere la serietà che volevo trapelasse dal mio sguardo, quando osservai bene tutto il quadretto.
«Che c’è?». Mi chiese abbandonando le braccia lungo i fianchi e poggiandosi contro il muro dei citofoni, lo stesso di qualche sera prima, solo che adesso le posizioni si erano invertite.
«Volevo mettere in chiaro una cosa…a proposito delle tue battutine idiote e oltraggiose». Dichiarai decisa, ma con un pizzico di imbarazzo che mi fece tremare leggermente la voce.
«Sentiamo».  Rispose incrociando le braccia al petto, approfittandone per guardare l’orologio che aveva al polso.
Mi sistemai di fronte a lui, sempre a debita distanza, e cominciai a raccogliere le parole giuste dal mio cervello, per poi sputarle fuori con la stessa velocità di una Ferrari.
«Finora ti sei limitato a delle semplici frecciatine, ma per il futuro, se ti venissero in testa strane idee, sappi che non voglio assalti di alcun tipo».
Ci mise un po’ a capire cosa intendessi e quando finalmente ci arrivò, cominciò a muovere la bocca nel vano tentativo di una risposta, che sembrava non trovare da nessuna parte.
«Non se ne parla neanche». Disse infine, piegando le sopracciglia e le labbra in una strana smorfia.
«Come? Non credo di aver sentito bene…».
Lorenzo roteò gli occhi infastidito, dopodiché si staccò dal muro e abbassò brevemente lo sguardo, prima di rialzarlo più fermo e deciso che mai.
«Hai sentito benissimo, invece». Si passò la lingua sulle labbra, in un gesto involontario, forse, dettato dal fatto che cominciavano a screpolarsi per il freddo. «Se sei in cerca di una motivazione valida che mi spinga a farlo, be’, allora non ce l’ho…». Mi afferrò per il braccio, facendomi finire dritta fra le sue braccia, tra le quali mi sentii immediatamente e stupidamente bene, dopo tanto tempo. «Mi va di farlo e basta».
Terminò la frase come se avesse appena confessato di essere un serial killer, fissandomi intensamente in attesa che gli dicessi qualcosa. Anche io avrei aspettato una risposta se fossi stata al posto suo, era comprensibile, ed ero decisa a dargliela.
Il cuore mi era impazzito al centro del petto e avevo cominciato a sentire le farfalle allo stomaco. Ero un’inguaribile romantica, anche se in tutto quello che stava succedendo non c’era assolutamente nulla che rispecchiasse anche solo vagamente quell’aggettivo.
«Non ha senso quello che dici». Dissi contro la sua spalla, mentre le sue mani mi si allacciavano intorno alla vita.
«A mio parere, niente ha senso, e dopo gli ultimi avvenimenti ne sono ancora più convinto, ma potrei impiegare ore per spiegarti questa mia filosofia di vita…».
Per una volta mi trovai in parte d’accordo con lui. Ma in che razza di situazione ci eravamo cacciati? Dov’erano finite la logica e la razionalità in tutto quel macello di emozioni?
«Ma…perché? Voglio dire…cosa vuoi veramente da me?». Chiesi titubante, mentre lui portava due dita ad accarezzarmi la pelle sopra gli zigomi, per poi usarle per delineare i contorni delle mie labbra.
«Toccarti…». Soffiò contro il mio orecchio, tracciando la linea del collo con una mano. Rabbrividii a quelle attenzioni e ne desiderai ancora, e ancora…«Baciarti…». Continuò posandomi un brevissimo bacio all’angolo della bocca, che mi fece sussultare e cedere le gambe. «Assaggiarti…». Sussurrò, prima di iniziare a mordicchiarmi il lobo dell’orecchio, facendomi il solletico. «Ogni volta che voglio».  
Concluse avvicinandosi alle mie labbra, che erano richiamate dalle sue come se fossero fatte apposta per scontrarsi.
«Non voglio essere una di loro, lo sai». Mi ritrassi appena in tempo, deviando la traiettoria in modo che le sue labbra si andassero a posare sul mio collo.
«Non lo sarai». Mi rassicurò, cominciando a stuzzicare la clavicola con la punta della lingua, che lasciò delle scie bollenti che probabilmente non avrebbero mai smesso di bruciare.
«Ne sei sicuro?». Gli chiesi con l’ultimo briciolo di volontà rimastomi.
«Non hai fiducia in me, lo so, ma lascia che te lo dimostri… ».
«E perché dovrei? Quale fiducia potrei mai riporre in una persona che dopo tanto tempo mi si riavvicina solo per poter avere il libero arbitrio sul mio corpo?».
Sentii la sua presa rafforzarsi, le sue braccia spingermi di più contro di lui e il mio cuore scandire la solita marcia ritmata che prendeva piede ogni volta che la vicinanza tra i nostri corpi aumentava.
«Non ho intenzione di dirti che ci sono altre ragioni, non voglio illuderti, può darsi che questo sia davvero l’unica, non lo so neanche io…dannazione…». Disse poggiando la sua fronte contro la mia, facendo in modo che i nostri occhi si allineassero perfettamente. «Ma nega che anche tu provi la stessa cosa che provo io in questo momento, se ci riesci».
Non dissi nulla.
Avevo perso e desideravo averlo come non avevo mai desiderato nessuno.
Anche il solo essere sfiorata da lui per un breve istante era la sensazione più bella potessi provare; era come se improvvisamente non vedessi altro che lui, e questo mi spaventava, ma allo stesso tempo attraeva e incuriosiva irrimediabilmente.
Non mi resi bene conto del come, né del quando, ma ben presto fui io quella ad essere appoggiata contro il muro, con il suo metro e ottanta a sovrastarmi.
Aveva un sorriso bellissimo stampato in volto, che sconfisse anche il mio ultimo spirito di salvezza.
«Un’ultima cosa…». Lo fermai prima che potesse dare il via a quel bacio che entrambi desideravamo come qualunque persona avrebbe desiderato l’acqua nel deserto. «…promettimi che ci andrai piano e che non mi farai soffrire troppo».
Lorenzo ridacchiò e scosse brevemente la testa, attorcigliando i miei capelli intorno alle sue dita.
«Vuoi un giuramento ufficiale, oppure ti basta la mia parola?».
Prendendo quella domanda come una garanzia, mi sollevai sulle punte per poterlo baciare, ma non feci in tempo a darmi la spinta che una voce fin troppo familiare ci colse entrambi di sorpresa.
«Ragazzi?».
Rimasi paralizzata nel vedere mio padre a pochi passi da noi, con la valigetta del lavoro ancora in mano e un’espressione confusa sul volto.
Dopo l’attimo di shock, Lorenzo si allontanò di scatto da me, guardandomi – se possibile – con la stessa mia agitazione negli occhi.
Cosa ci faceva mio padre a casa a quell’ora? Santo Cielo, come gli avrei spiegato quella inequivocabile situazione?
Ma più di tutto, e contro ogni logica, mi maledissi per il mio brutto vizio di parlare troppo, se non avessi fatto tutte quelle domande, probabilmente non sarei rimasta insoddisfatta e con quella terribile voglia di lui.
.«Signor Mori, come va?». Prese la parola Lore, con la solita faccia da schiaffi che gli altri scambiavano per “adorabile”.
«Benissimo, grazie, ma cosa…stavate facendo?». Domandò passando lo sguardo da me a lui, e viceversa, senza nascondere la sua aria sospettosa.
«Ecco, papà, Lorenzo mi stava aiutando a…».
Ma perché non mi veniva in mente nessuna scusa, nei casi di emergenza? Per fortuna accanto a me c’era il re delle stronzate, perciò, teoricamente, ero al sicuro, no?
«La stavo aiutando a stare in piedi!». Venne infatti in mio aiuto, ed io annuii prontamente per dargli man forte, senza prestare molta attenzione a quello che diceva. «Ha avuto un giramento di testa e io l’ho sorretta appena in tempo, avrebbe potuto sbattere la testa a terra se non fossi intervenuto».
Non avevo mai sentito scusa più sciocca e banale, ma mio padre era un credulone, perciò sperai con tutto il cuore che si bevesse quella bugia.
Lo vidi aggrottare le sopracciglia pensieroso, certamente scettico e non del tutto convinto.  «Ed era necessario stare avvinghiati in quel modo?». Chiese probabilmente nel tentativo di metterci in difficoltà, ma non sapeva con chi aveva a che fare; se sperava di incastrare Lorenzo…be’, si sbagliava di grosso. L’avevo imparato con l’esperienza.
«Avrebbe preferito che cadesse, per caso?». Lo prese lui in contropiede, fingendo un’espressione rammaricata che gli riuscì piuttosto bene.
Dovevo ricordarmi di dirgli che anziché perdere tempo a fare karate, avrebbe potuto tranquillamente buttarsi nel mondo del Cinema.
Mio padre passò da un’espressione sconvolta ad una perplessa e per un attimo credetti che puntare sul senso di colpa non fosse stata una buona idea. Per qualche strana ragione, però, alla fine si rilassò e, una volta accertatosi che stessi bene, ringraziò persino Lorenzo per avermi salvato la vita, melodrammatico come al solito.
Tirai un sospiro di sollievo ed aspettai che mio padre se ne andasse per rimanere sola con lui ancora un po’, ma ovviamente il mio caro vecchio non avrebbe mai lasciato che la sua povera figlioletta ancora in via di guarigione rimanesse fuori a parlare rischiando di sfracellarsi la testa al primo attacco di debolezza.
Riuscii a malapena ad evitare che mi portasse in braccio fino a casa, prima di rivolgere uno sguardo di scuse a Lorenzo, che in risposta mimò con le labbra una specie di avvertimento.
“La prossima volta voglio quel cazzo di bacio, niente scuse”.
Lo salutai un secondo prima che le porte dell’ascensore si chiudessero, ancora scossa da quella minaccia che mi aveva fatto rivoltare lo stomaco in una capriola, e non potei fare a meno di notare quanto fosse bello, anche con lo sguardo di chi aveva appena perso il suo giocattolo preferito.


Il pomeriggio lo passai a scrivere qualche racconto che avevo lasciato in sospeso durante le vacanze. Mi divertiva inventare storie, di qualunque tipo, e mi piaceva immaginare che fossi io la protagonista, in grado di trovare il principe azzurro; o meglio, che fosse lui a trovare me.
Fantasticavo molto e per la maggior parte delle volte la controparte maschile era tale e quale a Lorenzo. Quello che scrivevo aveva sempre un lieto fine, ma sarebbe stato così anche nella realtà?
Mi ero chiesta più volte come lo vedevo al mio fianco, se come un semplice amico, oppure come l’amore della mia vita, ma alla fine la risposta che mi davo era sempre la stessa: mi sarebbe bastato averlo al mio fianco e basta, perché per come stavano le cose non era sicuro nemmeno quello.
Finito il relax, presi il diario per controllare i compiti ma la suoneria del cellulare cominciò ad echeggiare per la stanza, fin quando non lo trovai – sotto una montagna di fogli – e risposi, contenta della persona che aveva deciso di chiamarmi.
«Marti!». Esclamai con voce squillante, al settimo cielo per la gioia.
«Se non ti chiamo io, tu non lo fai mai, eh?». Rispose lei con la sua solita voce sarcastica. Anche il solo sentirla per telefono mi rendeva felice, specialmente in quel momento in cui avevo bisogno di lei più che mai.
«Ma lo sai che sei la mia cuginetta preferita!». Dissi sedendomi sul letto, facendo attenzione a non sedermi sulla miriade di cianfrusaglie sparse sulla coperta.
La sentii ridacchiare piano, forse per non farsi sentire. «Sì, certo, dici sempre così». Fece una breve pausa, dopodiché partì all’attacco. «Allora, cosa ti tormenta questa volta?».
Sospirai e pensai a lungo, chiedendomi da dove avrei potuto iniziare a raccontare; erano successe talmente tante cose che temevo di non ricordarle neanche tutte.
«Lorenzo». Dissi d’un fiato, come a volermi togliere un peso che avevo sul cuore.
«Ancora lui? Che ti ha fatto?». Sbraitò Martina dall’altro capo del telefono, facendomi partire un timpano.
«Non lo capisco». Risposi semplicemente, dando il via libera al mio sfogo. «Dopo 7 anni da incubo in cui mi ha fatto soffrire come un cane, se ne esce dicendo che… ». Mi interruppi un po’ in imbarazzo per quello che dovevo dire, ero abituata a parlare di tutto con mia cugina, ma era nel mio carattere essere timida quando si trattava di quelle cose. «…sì, ecco, facendomi proposte…strane». Terminai la frase a stento, con il viso più caldo di quando avevo avuto la febbre a quaranta.
«Strane?». Mi fece eco lei, non del tutto sicura del significato di quell’aggettivo.
Perché aveva deciso di perdere la sua perspicacia proprio in quel momento?
«Dai, Marti, hai capito…».
Per un po’ sentii solo dei disturbi alla linea telefonica, tipici di quando si stava parlava tra cellulari, dopodiché sussultai spaventata, colta alla sprovvista, quando mia cugina disse a voce troppo alta: «Oh Mio Dio!».
«Ecco, ora capisci perché sto impazzendo? Credo che se continua così diventerò matta sul serio».  Mi lamentai giocando con un laccetto che avevo attaccato al telefono, che tra l’altro mi aveva regalato proprio lei.
«Voglio sperare che tu abbia accettato». Disse lei ignorando le mie paranoie e per poco non rischiai di strozzarmi con la mia stessa saliva.
«Che cosa?!». Quasi urlai una volta scampato il pericolo, sebbene le sue speranze non fossero affatto vane.
«Avanti, Giò, non prendiamoci in giro!». Rispose Martina concitata, mettendo in mostra il suo lato di donna vissuta. «Quel ragazzo sarà anche uno stronzo psicopatico, ma è – soprattutto – uno strafigo da paura!»
Avevo dimenticato la sua opinione su Lorenzo, o almeno quella che si era creata quando l’aveva visto di persona e non sotto forma di mio personale tormento.
Era successo durante l’estate, nel periodo in cui mi era venuta a trovare. Un pomeriggio  l’avevamo incrociato in giro per il centro e la reazione della mia cara cuginetta non era stata quella che si potrebbe dire una “reazione contenuta”, tutt’altro, e da allora non aveva fatto altro che ripetermi che non aveva mai visto un ragazzo così “figo”.
«Ho accettato». Dissi una volta tornata alla realtà, ma con la voce ridotta ad un sussurro.
«Giorgia? Ci sei ancora?».
«Ho detto che ho accettato!». Alzai il tono in modo che potesse sentirmi, mentre il mio unico pensiero era quello di sotterrarmi per la vergogna.
Io, la persona più giudiziosa di questo mondo, avevo accettato la proposta più sconclusionata dal ragazzo più cretino della città.
Chiusi gli occhi pronta a sentire l’urlo di gioia di Martina, che arrivò – come previsto – immediatamente.
«Lo sapevo che in fondo anche tu ne eri attratta, solo che non volevi ammetterlo!». Sentenziò una volta finito di mettere a dura prova le mie orecchie con le sue grida isteriche.
«Non so cosa mi sia preso». Mi lamentai pur sapendo che da quel momento in poi avrei parlato con un muro.
«Andiamo, non tormentarti adesso sul perché l’hai fatto. Se vuoi una spiegazione, io ce l’ho».
«E sarebbe?». Chiesi titubante, non del tutto sicura di volerla sentire.
«Finalmente hai dato ascolto agli ormoni, anziché a quel cervello da strapazzo che ti ritrovi». Disse soddisfatta della sua deduzione e incurante del fatto che mi avesse appena offesa.
«Grazie tante, eh!». Finsi un tono deluso e poi spiegai: «Per il cervello da strapazzo, intendo».
La sentii ridacchiare leggermente, dopodiché assunse un tono quasi serio. «A parte gli scherzi, io direi di provare…nel senso che nessuno ti obbliga ad andarci a letto se non vuoi, ma se hai accettato vuol dire che un minimo di attrazione fisica c’è e se lui te l’ha chiesto la cosa è reciproca». Si fermò per un attimo, per poi proseguire con lo stesso tono di voce calmo ed asciutto. «Vedi come vanno le cose, ma se non noti alcun interesse reale da parte sua, che vada oltre il semplice sesso,  tronca tutto subito, capito?».
Deglutii un po’ a disagio, le sue parole per una volta non mi avevano minimamente tranquillizzata.
«Mi stai dicendo che dovrei rischiare?».
«Esattamente».
«E se rimanessi più delusa di quanto non lo sia già?».
«E se invece lui si accorgesse di provare qualcosa per te?».
1 a 0 per Martina. Come al solito aveva ragione; io pensavo solo alle cose negative, mentre lei riusciva a vedere tutte le possibilità con grande spirito critico.
«Il problema è che non so neanche io quello che provo per lui». Dissi sospirando, certa che di lì a poco mi avrebbe mandata a quel paese.
«Scopritelo insieme, allora. Se continuate semplicemente a litigare non arriverete da nessuna parte».
Stetti in silenzio a riflettere su quelle parole, ma alla fine dovetti rinunciare a prendere una decisione. Era una questione troppo delicata per poterlo fare così su due piedi.
«Va bene, ci penserò». Decretai infine, alzandomi in piedi per stendere un po’ i muscoli indolenziti, sia per la febbre appena passata che per la posizione scomoda che avevo assunto.
«Brava, cuginetta, adesso devo andare; ma sappi che mi fido di te e che non appena succede qualcosa dovrai chiamarmi immediatamente!».
Martina, con i suoi modi di fare, riusciva a farmi sorridere persino nelle situazioni più difficili. Per questo la adoravo.
«Certo, allora ci sentiamo. Un bacio enorme per te».
«Notte, piccola secchioncina del mio cuore. Ti voglio bene».
Quando la giornata giunse finalmente al suo termine, mi sentii leggermente più rilassata e libera dallo stress che avevo accumulato durante quelle ventiquattro ore.
Erano successe troppe cose e troppo in fretta per poterle digerire.
Non avevo fatto altro che pensare ai pro e ai contro che la mia decisione avrebbe comportato –  sebbene Lorenzo credesse che l’avessi già presa –, mi ero insultata da sola per aver accettato di ridurre il nostro rapporto ad una semplice relazione fisica, per soddisfare chissà quale desiderio nascosto, quando per anni non avevo fatto altro che tentare di recuperare l’amicizia profonda che ci aveva legati un tempo.
Ero una stupida, sciocca e con qualche rotella fuori posto. E questa volta me l’ero cercata davvero, non avevo più scusanti, ero stata io l’artefice di tutto.
Lorenzo era la persona più indecifrabile e odiosa del pianeta, ma io ero certamente la peggiore delle masochiste.
E, come se non bastasse, in tutto quel casino, sentivo ancora la sensazione della sua presa forte e calda sulla mia pelle, e il suo profumo tra i miei capelli, non desiderando altro che lui fosse lì con me, per poter riprendere da dove eravamo stati interrotti.

Note:
Udite, udite...questa volta sono riuscita ad aggiornare prima! XD
In questo capitolo succedono tante cose, forse troppe, ma mi è uscito così di getto e mi è piaciuto molto scriverlo. Forse perché era qui che volevo arrivare fin dall'inizio...
Lorenzo finalmente si espone un po' di più, mettendo Giorgia di fronte ad una scelta molto ardua; che compie in modo del tutto irrazionale. Nel momento in cui succede tutto il casino, infatti, è talmente ammaliata dal suo caro amico che non oppone alcuna resistenza e ammette persino di essere attratta da lui fisicamente!
La telefonata con la cugina, se possibile, le mette addirittura più confusione in testa ma - nonostante tutte le paranoie - non riesce a fare a meno di pensare che quel bacio lo vuole davvero.
Ora non le resta che decidere cosa fare, se lasciarsi andare e seguire l'istinto, oppure "scappare" prima che le cose si complichino ulteriormente. Difficile, no?
Basta, non mi dilungo ulteriormente, passo direttamente ai ringraziamenti...che sono assolutamente d'obbligo per me ;)
Grazie a tutte le persone che continuano a leggere questa storia, grazie a chi l'ha messa nelle preferite, ricordate e seguite....e un grazie enorme a chi ha recensito lo/gli scorso/i capitoli! Stella Nera, Deilantha e MakaGD...Grazie care, se ho dimenticato qualche risposta provvederò a recuperarla al più presto *-*
Un bacio e alla prossima settimana (salvo imprevisti...)! ^^

P.s: ho usato un font diverso per scrivere questo capitolo! Mi piace sperimentare e alla fine non so mai qual è meglio, perciò ho lasciato questo. Se preferivate l'altro, perché magari aiutava nella lettura, ditemelo senza problemi; provvederò a modificare! Grazie.

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Capitolo 8
*** Sviluppi. ***


Capitolo 8

Capitolo 7: Sviluppi

 

Avevo sempre vissuto nella più totale convinzione che scappare dalle situazioni e dai problemi, allontanandosi dalle proprie responsabilità, fosse il comportamento più sbagliato da tenere nei momenti di difficoltà.
A scuola era uno dei concetti che i professori continuavano a ripetere più di frequente e ovviamente io gli davo ragione, crogiolandomi nel piacere di vedere gli altri miei compagni tacciati di immaturità e scorrettezza nei confronti degli altri.
Loro si lamentavano e per una volta io provavo un pizzico di rivalsa.
Ero stata sempre impeccabile sotto quel punto di vista: sempre pronta alle interrogazioni, mai assente nei giorni di verifica e – qualora non fossi stata preparata – piuttosto che stare assente prendevo il brutto voto che meritavo; che non andava mai al di sotto del cinque.
A distanza di parecchi anni, però, mi ritrovai a rivalutare tutte le mie certezze, compressa quella; io per prima cominciai a scappare dalle situazioni scomode, evitandole come la peste, e chiaramente era tutta una diretta conseguenza degli avvenimenti degli ultimi giorni, perciò soprattutto colpa di Lorenzo.
Mi aveva messo, meschinamente, davanti ad una scelta difficile, che in un momento di debolezza avevo accettato, ma di cui non ero più così tanto sicura, anzi.
Alla fine avevo deciso di prendere tempo, il più possibile, per capire davvero cosa volessi da quello strano rapporto e cosa no, cosa fosse giusto e cosa fosse sbagliato, anche se tutto quel buon proposito si poteva tranquillamente riassumere in un solo e semplice concetto: volevo scappare, e così avrei fatto.
Non era stato molto difficile evitare Lorenzo. Ci ero riuscita per quasi due settimane; a casa, sul pullman...a scuola, e il tutto senza problemi, o almeno non troppi.
Da quando avevo conosciuto Davide, passavo tutto il tempo scolastico con lui e avevo persino cominciato a muovermi dalla classe durante l'intervallo, limitando al massimo le occasioni per incontrarci. Se stessi con Davide per scappare da una risposta che mi opprimeva terribilmente, oppure perché lo trovavo divertente, non saprei dirlo. L'unica cosa di cui ero veramente sicura, in generale in quel periodo, era che la sua compagnia mi piaceva molto: avevo trovato in lui la mia ancora di salvezza in tutto quel mare di confusione e incertezze.
Lore, dal canto suo, non era certo stato a guardare lasciando che lo ignorassi deliberatamente. Avevo perso il conto dei tentativi che aveva fatto per rimanere solo con me, quando i suoi amici non erano nelle vicinanze, ma fortunatamente me l'ero sempre cavata con qualche scusa imbastita sul momento, che lui non si era certo bevuto.
In ogni caso, se mai avessi potuto provare un minimo senso di colpa per quello che stavo facendo, ci aveva pensato lui a distruggerlo, con un atteggiamento da 'è Lorenzo Belli che pianta le ragazze, non loro che piantano lui’:
Dopo circa due giorni di silenzio da parte mia, aveva cominciato a frequentare 'la ragazza di quinta' con una certa frequenza, e chiaramente la cosa mi dava parecchio fastidio: alla prima occasione se n'era trovata un'altra, dando prova del fatto che l’oggetto della sua proposta altro non fosse che un passatempo, qualcosa di nuovo da sperimentare, difficile da ottenere…ma in quel caso che cosa avrei potuto dirgli, io?
«A che pensi?».
L'arrivo improvviso di Davide alle mie spalle mi colse di sorpresa, facendomi fare un balzo di quasi un metro sulla sedia.
«Buongiorno anche a te». Risposi quando mi fui ripresa, felice di vederlo dopo un weekend piuttosto noioso: passato più che altro pensando a Lorenzo, pensando a Lorenzo e...ripensando a Lorenzo. Proprio una vita monotona, la mia.
«Mmmh, successo qualcosa?». Chiese posando la cartella sul banco e piegando la bocca nel modo in cui era solito fare quando cercava di estorcermi informazioni. Ovviamente non gli avevo detto niente del rapporto tra me e Lorenzo: erano amici e il che non era certo un punto a suo favore perché potessi parlare.
«Solite cose, pensavo alla monotonia della mia vita».
Davide roteò gli occhi al cielo esasperato, per poi  battere le mani sul mio banco.
«La finisci di parlare di te e della tua vita come se fossi una centenaria in procinto di lasciare questo mondo?».
Lo fissai attentamente per qualche secondo, aggrottando le sopracciglia, stupita, per quello strano paragone, dopodiché scoppiai a ridergli in faccia; come ormai facevo spesso quando diceva una genialata delle sue. Stavo per ribattere, quando il suono della campanella mi trafisse le orecchie come il peggiore degli allarmi.
«Devo andare in bagno». Dissi scattando in piedi e affrettandomi a lasciare la classe, ma Davide mi bloccò per un braccio, proprio ad un passo dalla porta
«Perché scappi?». Mi chiese dall'alto dei suoi quindici centimetri in più.
Ma perché ero così bassa?! Mi sentivo talmente piccola, da quella prospettiva, che qualunque cosa mi venisse in mente da dire mi sembrava una grande stronzata.
«Non sto scappando da te». Dissi cercando di liberarmi, mentre con un occhio controllavo agitata il corridoio.
«Lo so». Disse lui come se fosse ovvio. «Intendevo, perché scappi da lui?».
A quelle parole fu come se il peso di un'enorme illusione mi cascasse addosso: ero sicurissima di non aver mai dato a vedere il mio interesse per Lorenzo, né tantomeno il continuo tormento che mi causava, possibile che stessimo davvero parlando della stessa persona?
Vidi tutte le mie certezze sparire, continuando a sentire la voce accusatoria di Davide nella mia mente per un tempo inquantificabile, prima che la situazione peggiorasse ulteriormente.
«Scappare da chi?».
No, decisamente la fortuna non era dalla mia parte. Non lo era mai stata, ma in quel periodo sembrava proprio in vacanza!
«Lore, credo che tu e lei abbiate un problema da risolvere».
Lo accolse Davide, traditore e incurante di quello che volevo io, tirandomi per il braccio in modo da farmi trovare esattamente di fronte a lui.
Rimasi immobile come una statua, chiedendomi se quelle non fossero scene degne di un film, quando l’oggetto della discussione fa la sua apparizione improvvisa causando l’imbarazzo di quelli che stavano parlando – magari male – di lui. Alla fine mi decisi a voltarmi verso Lorenzo, ormai consapevole di essere stata incastrata.
In quelle settimane lo avevo osservato da lontano, avevo evitato ogni minimo contatto con lui, visivo e non, e ritrovarmelo davanti, a pochi passi da me, mi provocò una terribile stretta al cuore.
«Già, lo credo anche io». Disse mantenendo lo sguardo fisso su di me, con un'espressione tra l’iroso e il trionfante, che mi diede i brividi.
Non avrei potuto scappare, non più, i suoi occhi parlavano chiaro.
Abbassai i miei cercando di calmare la corsa impazzita del mio cuore, trovando interessanti persino i graffi del pavimento, pur di non stare sotto la sua aura d'accusa.
«Dobbiamo parlare, Giorgia. Ora». Continuò spazientito, afferrandomi per una mano e trascinandomi fuori dall'aula con uno strattone.
Dopotutto era sempre lui, non avrebbe mai imparato le buone materie.
Le seguii impotente, non del tutto pronta a prendere la mia decisione, le mie responsabilità, ma quando finalmente guardai Davide, il suo sorriso mi fece capire che sarebbe andato tutto bene.
Forse l'aveva fatto per me. Forse.
 

Non mi resi conto di dove fossimo finché non sentii la temperatura scendere vertiginosamente, ne ebbi la conferma quando superammo una porta a vetro e una lunga serie di sedie rosse apparve alla nostra vista.
Eravamo in aula video, la stanza più fredda e isolata della scuola.
Si trovava nel seminterrato, per questo i gradi, lì dentro, non andavano mai oltre lo zero. L’avevo sempre considerato un bel posto per pensare e stare da soli, chi l’avrebbe mai detto che sarebbe diventato il peggiore di tutti?
Lasciai che il silenzio occupasse l'enorme spazio intorno a noi, aspettando che fosse lui a fare la fatidica domanda e limitandomi, nel frattempo, a torturarmi nervosamente le mani e le unghie.
Lorenzo chiuse la porta con studiata lentezza, dopodiché si andò a sedere – con la stessa calma - su una delle sedie, facendomi cenno di raggiungerlo.
Se la stava prendendo comoda quando di lì a poco sarebbe cominciata la lezione, pazzesco, e voleva che anche io finissi nei guai per colpa sua.
Ok, forse non era tutta colpa sua, ma perché aveva scelto proprio quel momento? Avevamo tutta la vita davanti!
Fui tentata di scappare, certa che non mi avrebbe inseguita pur di mettermi davanti alla scelta, ma qualcosa nei suoi occhi, o nel modo in cui sbatteva i piedi nervosamente, forse, mi impedì di farlo.
Mi avvicinai a lui con passo lento, come se quello potesse essere un valido diversivo per ritardare la catastrofe, e quando gli fui davanti non ebbi neanche il tempo di parlare, perché mi afferrò per i fianchi e mi tirò a sé, per poi farmi abbassare alla sua altezza, portando le nostre labbra così vicine da poterne già sentire la consistenza e il sapore.
Fu inevitabile distogliere lo sguardo dal suo, troppo profondo e indagatore per poter resistere a lungo al suo fascino.
«Stai scappando ancora». Sussurrò con una sorta di cantilena nella voce, quasi ammaliante, che mi spinse e guardarlo negli occhi.
Probabilmente aveva capito che era la peggiore delle tentazioni per me e aveva, di conseguenza, deciso di mettermi in difficoltà.
«Perché ti stai vedendo con quella?».
Gli chiesi in un momento di coraggio e parlai talmente in fretta che feci fatica persino a capirmi da sola.
Inizialmente mi sembrò che fosse rimasto un attimo interdetto dalla mia domanda improvvisa – chi non lo sarebbe stato? – ma chiaramente si riprese subito, portando immediatamente la situazione a suo vantaggio.
«E tu perché mi eviti?».
«Non vale rispondere con un'altra domanda».
Protestai spontaneamente, allontanandomi di scatto e sedendomi nella sedia accanto alla sua.
Per quanto mi fossi disintossicata dal suo profumo, era sempre troppo vicino per poter pensare lucidamente.
«Piantala Giorgia, e dimmi la verità». Mi rimproverò lui infastidito, certamente pronto a perdere la pazienza, non appena gliene avessi dato occasione.
«Ah, adesso sei tu quello che chiede spiegazioni». Sentenziai assottigliando lo sguardo e le labbra. «E se decidessi di non dartene neanche io?».
Ero certa di averlo messo a tacere, stupito in qualche modo, ma lui non fece una piega. Evidentemente aveva imparato a difendersi dai miei attacchi. Prevedibile al massimo.
«Oh sì che lo farai, invece». Disse, infatti, sicuro di sé e di qualcosa di cui io non ero a conoscenza.
Vidi le sue sopracciglia chiarissime distendersi e addolcirsi, mentre un accenno di sorriso tentava di far capolino dalle sue labbra.
«Perché stiamo entrambi morendo dalla voglia di saltarci addosso». Spiegò, rispondendo alla domanda che stavo per fargli. Pure veggente era?
«E cosa c'entra questo?». Fu solo dopo qualche secondo che mi resi conto di quel che avevo detto, perciò aggiunsi di tutta fretta: «Ammesso che tu abbia ragione, ovviamente».
Lorenzo si lasciò andare ad una mezza risatina, prima di afferrarmi il viso con entrambe le mani e avvicinarlo al suo senza troppi riguardi.
Ed erano proprio quell’impetuosità e quella irragionevolezza che mi prendevano più di tutto il resto; cose sbagliate, forse, ma altrettanto irresistibili.
«Be', credevo di averti già detto che io ottengo sempre ciò che voglio». Sussurrò con voce roca e bassissima, ma fin troppo udibile per il mio cuore, che stava rischiando di uscirmi dal petto. «E quello che voglio, in questo momento, è un cazzo di bacio, che mi stai negando da…ben due settimane».
Sussultai impercettibilmente a quella confessione. Mi era sembrata troppo sincera per uno come lui, sempre distante dalla realtà dei suoi pensieri, e mai diretto come in quel momento.
Tuttavia, c’erano talmente tanti sentimenti mascherati dentro di lui, che mi risultava difficile fidarmi veramente. Un conto era il mio corpo, che reagiva al suo come se fosse telecomandato, provocandomi sensazioni assolutamente nuove e devastanti; un altro era la certezza – impossibile da raggiungere – che non potesse ferirmi.
Dovevo difendermi, almeno finché fossi stata in grado di farlo, perciò decisi di tirare fuori la parte “cattiva” del mio carattere.
«Cos’è, per caso la grande figa di quinta non ti soddisfa abbastanza?». Lo punzecchiai con il classico tono dei bambini dispettosi, ma senza muovermi di una virgola. Era inutile: non ci riuscivo. Era…bello, semplicemente bello, stargli così vicino.
«Può darsi». Soffiò, abbassando lo sguardo sulle mie labbra, vogliose di incontrare le sue e dire addio al buonsenso, ma qualcosa riusciva ancora a trattenermi.
«Sei pessimo». Lo insultai senza troppa convinzione. La mia mente stava già visualizzando quello che sarebbe successo di lì a poco se non avessi fatto nulla per impedirlo, e io non desideravo altro, purtroppo; ne stavo diventando sempre più consapevole.
«Lo so». Si affrettò a dire, prima di tirarmi in avanti e portarmi a sedere sulle sue gambe, facendo scattare la mia reazione immediata.
Non ero mai stata in certi atteggiamenti con un ragazzo, nessuno mi aveva mai stretta con la stessa forza e, anche se qualcuno ci avesse provato, non glielo avrei certo permesso.
Eppure, con lui era tutto così diverso, tutto così ampliato e forte, che mi sembrava di aver sprecato ogni singolo istante dei miei diciassette anni di vita.
Razionalità, Giorgia, ci vuole razionalità in questi casi! Mi rimproverai silenziosamente, pregando di essere capace di allontanarmi quando fosse partito all’attacco.
Distolsi l’attenzione da lui e la rivolsi all’enorme schermo dell’aula, sentivo tutto il fervore pronto ad esplodermi dall’interno, dovevo prendere ancora un po’ di tempo…solo qualche secondo.
«Menomale che te ne rendi conto…». Biascicai cominciando a giocare involontariamente con una ciocca dei suoi capelli, di un biondo quasi dorato e morbida al tatto, come la seta della camicetta che indossavo.
«In questi giorni non ho pensato ad altro che non fossi tu». Confessò, probabilmente stordito anche lui dalla situazione, perché in circostanze normali non l’avrebbe mai detto. E lo sapevamo entrambi, per questo fu più forte di me correggerlo.
«A me o a quello che avresti voluto farmi?».
Lorenzo rimase in silenzio per un po’, senza darmi una risposta, con lo sguardo vacuo ma sempre incatenato al mio.
Non eravamo mai stati così vicini, ma allo stesso tempo così lontani; era quasi come tentare di scavare una fossa nel cemento. Inutile. Tutto inutile.
«Che importanza ha?». Chiese dopo un po’ irrigidendosi. Si stava richiudendo nella sua corazza di ferro, dura e impenetrabile, e a quel punto era facile prevedere come sarebbe andata a finire.
«Per te nessuna, ovvio». Commentai ironica, alzando le spalle per indicare la verità delle mie parole.
Con una rapida mossa mi afferrò da dietro la nuca, spingendomi ad abbassare il viso sul suo, che per la prima volta vidi da quella prospettiva.
Decisamente, quel gesto non me lo aspettavo, avevo fatto i calcoli sbagliati e non potei fare a meno di pensare a quanto fossi scioccamente felice di quel particolare.
«Giorgia». Mi richiamò esasperato, sfiorando impercettibilmente le mie labbra  con le sue quando le mosse per parlare; ogni minimo contatto era fuoco e fiamme pure. Troppo da sopportare in una volta sola.
«Non ti ho mai obbligata a fare niente, sbaglio?». Chiese deciso, ma non c’era bisogno che rispondessi. «Perché continui a nasconderti, allora? Perché diamine non vuoi ammettere quello che senti qui?». Continuò scuotendomi leggermente le spalle, mentre mi posava una mano sul cuore.
«E, soprattutto…». Deglutii nervosamente, pregando che finisse al più presto. «Perché ti ostini a ragionare con quel cazzo di cervello idiota che ti ritrovi?».
Furono parole forti, che mi lasciarono di stucco, ma sentivo ogni suo singolo dito bruciare sulla stoffa della mia camicetta, trascinando quel calore insopportabile fino alla pelle sottostante e automaticamente il mio cervello divenne nero…vidi solo lui.
«Lasciati andare…». Disse pianissimo, con voce calma ed ipnotica, mentre strofinava il suo naso contro il mio, dolcemente, quasi timoroso. «Non ti farò del male, questa volta».  Proseguì depositandomi un piccolo bacio sulle labbra, che si incollarono alla sue alla perfezione, pronte a ricevere dell’altro.
Sentivo una scossa e un brivido dopo l’altro, avevo il corpo invaso da una tensione tale da lasciarmi quasi senza fiato. Nonostante ciò, il bisogno di respirare era passato in secondo piano. Mi apparve così chiara la scelta da fare in quel momento, che arrivai persino a chiedermi perché avessi aspettato tanto per metterla in atto.
Il futuro mi sembrava solo una macchia indistinta, lontana e priva di significato; erano pensieri sciocchi, i miei, eppure mi ero arresa all’evidenza che per una volta – e chissà quante altre ancora – il cuore avrebbe avuto il sopravvento sulla testa.
«Rilassati…».  Sussurrò all’altezza del mio orecchio, cominciando a tracciare dei cerchi concentrici sulle mie guance, mentre io cercavo di raggiungere la sua bocca per porre fine a tutta quell’ansia che la troppa attesa aveva causato.
Ogni volta che stavo per riuscirci, però, lui si allontanava sadicamente, sorridendo come un bambino che avesse appena vinto un sacchetto di caramelle.
Quel tira e molla dopo un po’ divenne snervante, ma cercai di far ricorso a tutta la pazienza che avevo in corpo per non mandare tutto all’aria ancora una volta.
Se non fossi già partita per brividolandia probabilmente me ne sarei andata da un pezzo, ma dopotutto era logico che non conoscesse i miei difetti, per scoprirli – se gliene fosse davvero importato – c’era ancora tutto il tempo del mondo, mentre quel bacio lo volevo subito.
Quando poco dopo rividi i suoi occhi, della cui vista mi aveva privato per qualche tempo, seppi che le mie preghiere erano state ascoltate; erano diventati di un nero quasi lucido, forse anche a causa del gioco di ombre che creavano i nostri volti l’uno contro l’altro,  e questo poteva voler dire soltanto che i giochi erano finiti.
Come in un sogno, vidi i contorni del suo viso diventare sempre più sfocati e incerti, meccanicamente chiusi gli occhi per cogliere al meglio anche la minima sfumatura del dolce tepore delle sue labbra sulle mie, e, quando finalmente lo sentii davvero, ogni mia aspettativa venne surclassata all’istante.
Neanche la più fervida immaginazione, nemmeno il più bello dei miei sogni, avrebbe mai potuto concepire qualcosa del genere; era fuoco e ghiaccio allo stesso tempo, era luna e stelle nella stessa notte, era dolce e incontrollato… era addirittura troppo per me.
Spinta da tutte quelle sensazioni contrastanti, arpionai le mie mani sulle sue spalle con forza, mentre le sue si posavano sui miei fianchi per farmi sistemare meglio su di lui, era ancora un semplice contatto, ma bruciava già più dell’inferno.
Entrambi schiudemmo la bocca nello stesso istante e lì sentii un’ulteriore ondata di agitazione farsi largo in me: era il mio primo, vero bacio e non avevo la più pallida idea di come fare per non morire soffocata.
Dannazione, avrei dovuto informarmi prima, invece ero stata troppo impegnata ad evitarlo…inutilmente, peraltro.
Il mio cuore prese a correre follemente, ma neanche per un secondo mi passò per la testa l’idea di scappare da quella morsa carica di elettricità che ci avvolgeva, dopotutto lui era un esperto, no? Avrebbe pensato a tutto.
La mia testa vorticava in mille pensieri e non mi ero neanche accorta delle delicate carezze con le quali stava cercando di farmi rilassare, probabilmente aveva avvertito l’ansia da prestazione che mi aveva colto all’improvviso e quello era il suo modo per dirmi che non c’era nessun problema.
Con un movimento della bocca più ampio dei precedenti, fece in modo che le mie labbra si separassero completamente, ma niente di quello che stavo attendendo con ardore ed ansia si verificò.
«Cazzo, no…». Imprecò Lorenzo tra i denti, facendomi aprire gli occhi di scatto, proprio quando mi ero preparata al peggio, o meglio che dir si voglia.
Si staccò da me lasciandomi confusa e con la mente persa, non capivo più niente, sentivo solo l’impellente desiderio di riavvertire il calore del suo respiro contro il mio viso e lo maledissi silenziosamente per essersi fermato. Avevo impiegato una vita per convincermi che abbandonarmi alle sue attenzioni fosse la cosa migliore da fare, e lui, come al solito, aveva mandato tutte le mie fragili sicurezze – appena raggiunte – a quel paese.
Non feci in tempo a chiedergli spiegazioni e ad arrabbiarmi, questa volta con l’intenzione di non stare a sentire nemmeno le sue scuse, che mi tappò la bocca con una mano per poi tirarmi giù malamente, sotto le sedie.
Cominciai a lamentarmi e a dimenarmi – con qualche secondo di ritardo – ma ogni mio gemito di protesta venne soffocato dal palmo della sua mano e per poco non rischiai di morire soffocata.
Quando mi calmai un po’, più per stanchezza che per altro, e la smisi di agitarmi, si portò una delle dita della mano libera sulle labbra, per farmi capire che dovevo stare zitta, dopodiché, con un cenno del capo, mi indicò la porta dell’aula.
Afferrai saldamente la mano che mi impediva di respirare correttamente e feci forza per un bel po’, finché Lorenzo non si decise a toglierla a causa dei miei morsi, lanciandomi un’occhiata minacciosa che diceva “questa me la paghi”.
Risposi al suo sguardo sollevando le sopracciglia in segno di sfida e mi voltai verso la porta per vedere che cosa stesse succedendo e soprattutto per scoprire quale fosse la causa dell’interruzione.
Avrebbe fatto bene ad avere una valida motivazione.
Dall’altro lato del vetro opaco si intravedevano due sagome scure, intente a parlare e a gesticolare con fervore; il panico mi assalì quando riconobbi in una di loro l’acconciatura inconfondibile della professoressa Zanna.
Tornai a fissare Lorenzo preoccupata, indecisa se chiedergli se si rendesse conto della situazione in cui ci eravamo cacciati o meno, comunque pronta ad affibbiargli tutte le colpe di ogni eventuale punizione, ma il suo sguardo saccente e superiore – che intendeva un “visto?” piuttosto mal celato – mi diede parecchio sui nervi.
Feci per rispondergli per le rime – al diavolo quella stronza della Zanna, per quanto mi riguardava poteva pure scoprirci! – ma proprio in quel momento lei e la sua amica entrarono chiacchierando animatamente e io mi ritrovai, senza possibilità di oppormi, con le labbra saldamente sigillate da quelle di Lorenzo.
Tentai invano di liberarmi – sembrava ci avesse messo l’attack! – e alla fine fui costretta alla resa: mi avrebbe lasciata andare solo se fossi stata zitta.
«Siamo solo all’inizio dell’anno e già mi fanno arrabbiare come una belva…non studiano neanche a pagarli!».
La voce acuta della Zanna riempì lo spazio vuoto dell’enorme aula video e fu solo in quel momento che mi resi realmente conto del pasticcio in cui mi trovavo: la mia impeccabile condotta rischiava di essere macchiata per sempre. Lanciai un’occhiata fulminante a Lorenzo, su cui gravava tutta la colpa, che mimò uno “scusa” divertito con il labiale, al quale risposi con un gesto del dito contro al collo.
Eravamo accovacciati e praticamente appiccicati l’uno all’altro, sentivo il suo profumo come se ce lo avessi addosso io, ed ero di spalle al corridoio tra i due lati di sedie, perciò non riuscivo a vedere nulla.
Non sentendo più alcuna voce, rivolsi a Lorenzo un’occhiata interrogativa per chiedergli cosa stesse facendo la megera, così chiamavamo la nostra amatissima professoressa di economia aziendale, e sperai che capisse la mia tacita richiesta.
“Stanno andando al cassetto dei DVD”. Riuscii a cogliere dal movimento delle sue labbra e quella notizia mi tranquillizzò un poco, dato che il suddetto si trovava dal lato opposto al nostro.
«Speriamo che almeno siano in grado di prestare attenzione a questo film». Disse, infatti, poco dopo la Zanna, prima che sentissi il rumore dei suoi tacchi pestare il pavimento senza alcuna grazia o giustizia.
«Laura, non è mia intenzione dirti come ti dovresti comportare, prendilo come un consiglio…». Disse l’altra, parlando con una tale sottomissione che mi sembrò si stesse rivolgendo ad una specie di nuovo Hitler.
La Zanna probabilmente annuì, perché la sua collega proseguì tutta concitata. «Fai una verifica a sorpresa, vedrai come funziona!». Suggerì soddisfatta di se stessa, ma era chiaro che non sapesse di chi stava parlando, i miei compagni di classe non avrebbero studiato prima dell’inizio del secondo quadrimestre, senza alcun dubbio, e infatti guardai Lorenzo come a volergli trasmettere quel mio pensiero. Lui sembrò coglierlo perché mi fece un gestaccio con la mano, piegando le labbra in un sorriso inquietante, che voleva far intendere tutto il contrario di quello che pensava veramente.
«Come se non ci avessi già provato gli altri anni! Per fortuna quest’anno c’è una nuova studentessa che promette benissimo, anche se ha cominciato a studiare economia solo da qualche mese; sai, viene dal linguistico…».
Le mie orecchie si scollegarono non appena prese a ciarlare di cose senza senso, troppo impegnate a trasmettere al mio cervello le parole di lusinga nei miei confronti.
Sorrisi a Lore vittoriosa, ma lui sembrava non badare alla mia dimostrazione di infantilità, infatti presto liquidò la faccenda con la mano e spostò lo sguardo alle mie spalle, probabilmente per controllare che le due uscissero. 
Attesi il cigolio della porta arrugginita, pregando che non gli venisse in mente di controllare qualcosa nel lato in cui ci eravamo rifugiati; con la sfortuna che avevo, il mio timore avrebbe potuto benissimo rivelarsi fondato, o quantomeno non lontano dalla realtà.
Quando finalmente le due comari si chiusero l’uscio alle spalle tirai un sospiro di sollievo, staccandomi velocemente da Lorenzo, prima che fosse troppo tardi, per poi rialzarmi e sgranchirmi le gambe con un certo sollievo per i miei muscoli indolenziti.
Fu spontaneo portare due dita a sfiorarmi le labbra, sulla quale sentivo il suo sapore, ancora insistente e tentatore, e me ne vergognai tantissimo quando mi accorsi che il diretto interessato mi stava fissando incuriosito.
«Non è come pensi!». Dissi quasi urlando, bordeaux dall’imbarazzo e dimentica del fatto che le due professoresse fossero appena uscite dall’aula. «Mi sono fatta un graffio e stavo controllando che non uscisse più sangue».
Fu la pima scusa che mi venne in mente e non sarebbe stata neanche tanto sciocca se avessi usato un po’ più di convinzione e realisticità nel dirla.
«Ma io non ho detto niente, perché ti scaldi tanto?». Commentò lui tranquillo, ma visibilmente sul punto di scoppiarmi a ridere in faccia.
«’Fanculo Lore!». Gracchiai isterica, prima di girare i tacchi e raggiungere la porta…o almeno provai a farlo, perché quell’essere odioso mi impedì il passaggio, parandomisi davanti come un armadio a muro.
Dovetti alzare la testa fino al limite per poterlo guardare in faccia e non concentrare lo sguardo sul suo petto, non che mi dispiacesse, ma non era certamente buona educazione, e io – fino a prova contraria – educata lo ero davvero!
«Dove credi di andare, scusa?». Disse serrando le labbra nella sua tipica espressione minacciosa.
«Dove dovresti andare anche tu: in classe!». Risposi cercando di risultare il più indifferente a lui possibile, incrociando persino le braccia al petto, ma tradendomi con il solito tremore che caratterizzava perennemente la mia voce quando parlavo con lui.
Lorenzo sbuffò sonoramente, scuotendo la testa in quello che doveva essere il suo modo per esprimere quanto fosse esasperato.
«Lo immaginavo». Sospirò avvicinandosi di un passo, e quindi riducendo le distanze al nulla. «E cosa hai intenzione di dire alla prof, una volta che ti presenti in classe a…». Si fermò un attimo per dare una fugace occhiata all’orologio che portava al polso. «…ben mezz’ora dall’inizio della lezione?».
Accertatami che non mi stesse prendendo in giro sull’orario – perché ne sarebbe stato davvero capace – cominciai a sbattere furiosa per terra.
«Hai idea di cosa voglia dire questo?!». Gli chiesi alzando ulteriormente la voce, mentre dalla mia testa aveva cominciato ad uscire il fumo della rabbia che avevo in corpo.
«Che sarai costretta a portare una giustificazione per il ritardo?». Fece lui alzando le spalle, come se fosse una cosa normale; be’, dopotutto per lui lo era davvero, considerando che il coordinatore aveva già avvertito i suoi genitori dei ripetuti ritardi.
«Esatto! Macchierò il mio libretto di immaturità e tutto per colpa tua!».
Lorenzo aggrottò le sopracciglia pensieroso. «Mi stai dando dell’immaturo, tra le righe, per caso?».
«Togli anche il “tra le righe”». Dissi mimando le virgolette nell’aria, sperando di farlo arrabbiare almeno un po’; mi ero stancata di essere sempre io quella adirata.
Ma, come non detto, la mia offesa sembrò produrre l’effetto contrario; in un secondo mi ritrovai ancora una volta tra le sue braccia e con il viso schiacciato contro il suo addome.
Oh Santo Cielo, era ingiusto!
«Che fai?». Dissi con voce strozzata e isterica, cominciando a dimenarmi per fargli sciogliere la presa, tirandogli tanti di quei pugni che avrei potuto fare invidia ad un boxeur.
«Sei ancora più bella quando ti arrabbi». Sussurrò contro il mio orecchio,  incurante e immune ai ripetuti colpi che gli stavo dando, e strofinando contemporaneamente il naso sui miei capelli.
«Che cosa?!». Strillai cercando di nascondere la vera conseguenza che quella confessione aveva avuto su di me. «Ma dico, ti è dato di volta il cervello?».
«Mamma mia, che petulante che sei!». Esclamò Lorenzo staccandosi infastidito. «Ti offendo e non ti va bene, ti faccio un complimento e impazzisci…ma che problemi hai?».
«Ovvio, se dici cose senza senso…». Balbettai distogliendo lo sguardo dal suo, non ero più tanto sicura di voler essere arrabbiata con lui e il che era un brutto segno, significava che il suo potere aveva cominciato ad avere effetto su di me.
Feci automaticamente qualche passo indietro, conscia che se avessi aspettato ulteriormente mi sarei lasciata andare di nuovo e quello decisamente non era il momento adatto.
«Che ti prende, ancora?». Chiese Lorenzo, scompigliandosi i capelli, probabilmente li usava come anti stress, anche se non capivo perché fosse lui a comportarsi da stressato, quando l’unica ad esserlo – in realtà –  dovevo essere io.
«Tengo le distanze». Risposi facendo un sorriso finto, cercando di smorzare il significato delle mie parole.
Lorenzo roteò gli occhi spazientito. «Che palle, stiamo solo perdendo tempo! Anziché stare qui a discutere, avremmo potuto riprendere da dove siamo stati interrotti, fin dall’inizio».
Allungai le mani in avanti, per prevenire qualunque tipo di attacco, che sarebbe arrivato da un momento all’altro. «Scordatelo».
Lorenzo si bloccò nel bel mezzo di un passo in mia direzione e i suoi occhi cominciarono a mandare scintille di ira. Lo stavo facendo innervosire, finalmente, e la cosa non mi dispiaceva affatto.
«La coerenza è proprio il tuo forte…». Disse con la lingua tra i denti, forse per evitare di insultarmi, e per una volta fui felice del fatto che fosse lui quello ad essere confuso dal mio atteggiamento, e non viceversa.
«Oh, oh, oh!». Sbottai nel vano tentativo di accusarlo, ma finendo per fare una pessima imitazione di Babbo Natale. Mi ripresi in fretta da quei pensieri inutili ed aggiunsi il resto della frase, sperando di salvarmi in corner da una ormai prossima figuraccia. «Ha parlato Mister Coerenza 2010». 
«Mi hai stancato. Fai quel cazzo che ti pare». Sputò lui con veemenza, riandandosi a sedere con stizza sulla sedia rossa accanto alla quale avevo lasciato il mio zaino.
Nonostante mi avesse lasciato libero il passaggio e fossi completamente libera di tornare in classe, rimasi immobile con ancora un dito puntato in direzione della porta, colta alla sprovvista dalla sua reazione.
Avevo ottenuto la sua indifferenza, non era quello che volevo e avevo sperato per tutte quelle due settimane di fuga? 
No, dannazione, no! Solo Dio sapeva quanto anche io desiderassi quel maledetto bacio, solo che non volevo ammetterlo e alla prima occasione scappavo dalla consapevolezza della dipendenza che avevo da lui, e di cui mi rendevo conto ogni volta che passavamo del tempo insieme.
Feci un passo avanti timorosa, ma alla fine desistetti dal proposito di farne altri dal momento che non avrei saputo cosa dirgli.
Accidenti, era tutto così complicato! Quasi quasi rimpiangevo i tempi in cui mi disprezzava nel modo più assoluto, e quello non era assolutamente un pensiero che sarebbe passato per la testa ad una persona sana di mente.
Sebbene ci fossero parecchie sedie  – anche dal lato opposto a quelle su cui lui si era sdraiato -  alla fine mi sedetti per terra, incrociando le gambe e prendendomi la testa fra le mani.
Se Lore non si fosse accorto della Zanna saremmo stati, senz’ombra di dubbio – ancora impegnata in quel bacio che, per un motivo o per un altro, non riuscivamo mai a concludere. Lo volevo, e lo sapevo, ma qualcosa mi impediva di lasciarmi veramente tutto alle spalle e abbandonarmi completamente a lui, perciò alla prima occasione tornavo a chiudermi nel muro di castità che mi ero costruita intorno.
Non volevo soffrire, ma neanche in quel modo, distante da lui e dal tepore del suo corpo, stavo bene…quindi, che cosa avrei dovuto fare?
Quando la campanella della seconda ora suonò, chissà quanto tempo dopo, andai a recuperare lo zaino, posato ordinatamente accanto a Lorenzo, e, di conseguenza, i nostri sguardi si incrociarono di nuovo. I suoi occhi erano vividi e la sua bocca serrata, come a voler sopprimere qualunque parola gli venisse in mente di dire, era come un monito, quello, da parte sua, che se avessi voluto chiarire non era il momento adatto per farlo.
“Attenzione, potrei ferirti”. Stava cercando di dirmi, ed io – per quella volta – decisi di non rischiare.
Presi un profondo respiro per riempirmi – un’ultima volta – i polmoni del suo profumo e gli voltai le spalle, uscendo dall’aula senza aspettarlo. Non avrebbe avuto senso…ma cosa aveva un senso ormai, nella mia vita sentimentale?
Mi diressi cautamente verso la vicepresidenza per farmi fare il permesso di entrata posticipata, controllando costantemente che nessuno potesse intuire da dove venissi e, finché non giunsi al terzo piano, continuai a guardarmi indietro, senza sapere bene alla ricerca di che cosa, mentre il chi era chiaro come l’acqua.
Entrai in classe pronta all’umiliazione che avrei subito di lì a poco, era un evento più unico che raro che io entrassi un’ora dopo e tutti ne avrebbero approfittato per fare battutine e deridermi, anche se non avrei scommesso nulla sulla partecipazione del capo gruppo all’opera di annientamento e umiliazione nei miei confronti, non quando sembrava incazzato con il mondo.
 

«Mori, domani la giustifica». Mi ricordò l’insegnante prima che andassi a sedermi e cominciai a sperare che si sbrigasse a cominciare la lezione: almeno avrebbe tenuto impegnate quelle vipere pronte ad assalirmi.
«Ehi, dov’è Lore?». Bisbigliò Davide al mio fianco, facendo finta di nulla, come se non fosse stato lui a tendermi una perfida trappola solo un’ora prima.
Lo fissai in cagnesco per un brevissimo istante – facendolo ritrarre immediatamente con sguardo spaventato – dopodiché tornai a rivolgere la mia attenzione alla lavagna, cercando di isolare i risolini divertiti dei miei compagni di classe.
Ignorai beatamente tutti i tentativi, da parte del mio nuovo compagno di banco, di rivolgermi la parola o chiedermi scusa, anche se in realtà l’avevo già perdonato da un pezzo.
Non che ci fosse molto da perdonargli, comunque, sapevo che le sue intenzioni erano buonissime, l’unica colpa che potevo fargli era quella di aver scoperto il mio segreto senza che gli dicessi nulla.
Qualche minuto dopo, mentre la professoressa sceglieva  i due interrogati del giorno, tra l’ansia e le preghiere generali, Lorenzo fece il suo ingresso trionfale, senza neanche dire “buongiorno” e dando pugni e pacche sulla schiena – in segno di saluto – a destra e a manca. Era una scena agghiacciante. Possibile che quegli sciocchi dei suoi amici non si rendessero conto di quanto risultassero ridicoli agli occhi degli altri?
Quando arrivò il turno di Davide, distolsi immediatamente lo sguardo, cominciando a scarabocchiare qualcosa sul mio quaderno e per un momento sentii i suoi occhi puntati su di me, prima che si andasse a sedere, finalmente.
«Belli, quando hai finito di fare la tua sfilata avvisami che inizio la lezione». Lo rimproverò l’insegnante sarcastica, ma nessuno – eccetto la mia controparte maschile, Matteo Bavieri – trovò la sua uscita divertente.
E la cosa più spaventosa di tutte era che fino qualche giorno prima c’ero io a fargli compagnia.
«Ho finito». Annunciò Lore con la sua solita spocchia, una volta sistematosi comodamente al suo posto e causando le risa di tutta la classe, a parte quelle mie e di Bavieri.
Almeno quell’aspetto era rimasto invariato, seppur con qualche differenza: in genere mi montava la rabbia quando affermava cose del genere, mentre il quel frangente mi limitai ad osservare il tutto con scarso interesse.
La professoressa si alzò con un movimento talmente veloce che non mi resi conto di nulla finché non parlò minacciosa.
«Dato che hai voglia di fare lo spiritoso, perché non vieni a fare un esercizio alla lavagna? Con valutazione, ovviamente».
E lì mi sarei alzata per farle una standing ovation, se Lorenzo non mi avesse rincitrullita del tutto nei giorni passati.
Nell’aula calò un silenzio spettrale e temetti che da un momento all’altro qualcuno si offrisse al posto suo pur di salvargli il didietro, ne sarebbero stati davvero capaci e la cosa mi inquietava parecchio.
Per fortuna non ebbi modo di assistere a quello spettacolo indecoroso, perché sentii lo stridio delle gambe di una sedia contro il pavimento ed immediatamente dopo la sua voce, segno che per una volta avrebbe evitato il sacrificio di uno dei suoi scagnozzi.
«Okay». Rispose con tranquillità assoluta e – se non lo avessi conosciuto bene – avrei pensato che fosse preparato sul serio.
 
«Dai, Giò, quante volte ti devo chiedere scusa?».
Era più o meno la millesima volta che Davide mi poneva quella domanda e, altrettante volte, gli avevo risposto nello stesso modo.
«Ti ho già perdonato, ma lasciami in pace, non ho voglia di parlare con nessuno adesso».
«Sei arrabbiata perché ho scoperto che ti piace Lore?». Domandò naturalmente, come se stesse ordinando pizza e patatine ad una rosticceria e non parlando del tormento dei miei ultimi sette anni di vita.
«Non mi piace Lore!». Sbraitai forse troppo risentita per poter risultare sincera, ma dopotutto neanche io sapevo la verità, perciò ero giustificata.
Davide piegò un sopracciglio e si avvicinò alla macchinetta automatica per prendere il suo caffè delle 11.15 del mattino – diceva che ne aveva bisogno per stare sveglio a scuola -, così mi rilassai ritenendo chiusa la questione Lorenzo.
«Sei una pessima bugiarda». Disse in tono pacato, prima di cominciare a sorseggiare quella schifosa bevanda che si ostinava a bere senza zucchero. «Ma non ho intenzione di giudicarti, dato che non conosco tutti i dettagli della storia. Credo ci sia qualcosa di forte sotto, che va ben oltre il fatto del piacersi o meno, mi sbaglio?».
Stetti in silenzio per un po’, non sapendo bene cosa dirgli dato che ci aveva azzeccato in pieno. Infine, la curiosità ebbe il sopravvento.
«Lui…lui non ti ha detto nulla di me? Siete amici da parecchio tempo da quanto ne so…». Domandai nervosamente, tenendo lo sguardo abbassato per evitare di guardarlo negli occhi. Sapevo di potermi fidare di lui, in un certo senso, ma non mi piaceva aprirmi troppo con le persone, specialmente se dell’altro sesso.
Davide inizialmente rimase sorpreso dalla mia domanda, poi fece un sorriso amaro, di quelli in cui ci apriamo quando ricordiamo qualcosa di triste e felice allo stesso tempo; avevo imparato a riconoscerli molto bene, dato che ormai per me – quando pensavo a Lorenzo – erano un habitué.
«Scherzi? Lore non parla mai delle persone a cui tiene veramente».
«Ma lui non ci tiene a me, per nulla. Altrimenti non…». Mi interruppi conscia che, se avessi continuato, avrei rivelato parte di ciò che non volevo sapesse; non ancora, almeno.
«Fidati di me, Giò, lo conosco meglio di chiunque altro. L’ho sentito raccontare cose inimmaginabili sulle ragazze che si è…ehm, che ha frequentato, ma mai una singola parola su di te. Pensa che nessuno sapeva che vi conoscevate già, prima di quest’anno, ed è chiaro che non gli sei indifferente, perciò…».
«Ehi, ehi, aspetta…». Lo interruppi prima che il mio cervello avesse troppo a cui pensare. «Punto primo, avresti potuto tranquillamente dire “portato a letto”, non mi scandalizzo, sai? E punto secondo, logico che non te ne abbia mai parlato, si vergogna di me perché non sono come le gran fighe che si fa di solito».
Feci una smorfia disgustata e proseguii: «Sul fatto che non gli sono indifferente, chi può dirlo con certezza? Per quanto ne so, potrebbe rientrare tutto in una scommessa».
Davide agitò le mani con disappunto. «Lore non lo farebbe mai per soldi».
«Forse non lo conosci abbastanza».
Era stato capace di ferirmi senza alcuna pietà per molto tempo, niente gli avrebbe impedito di farlo di nuovo.
Scossi la testa rassegnata e mi voltai per tornare in classe; mi dispiaceva avergli detto quelle cose, in fondo però non era colpa di nessuno, se non di Lorenzo, che era stato indubbiamente molto bravo nel nascondere i lati peggiori del suo carattere ai suoi amici. Se li avessero conosciuti, ora probabilmente sarebbe solo.
«E tu sì?». Mi raggiunse la voce affaticata di Davide, quando ormai ero all’ultima rampa di scale. «Tu lo conosci?».
Mi bloccai nell’esatto momento in cui suonò la campanella. Di lì a poco tutti avrebbero ricominciato a salire come bufali per non arrivare in ritardo alla lezione, compreso lui, perciò dovevo decidere in fretta se ignorare la sua domanda oppure provare a rispondergli.
Alla fine optai per la seconda scelta, anche se avrei dovuto fare un discorso lungo un decennio per essere davvero esauriente.
«Non lo so, ma mi piacerebbe tanto capire che cosa gli passa per la testa».
 

Le restanti ore scolastiche passarono abbastanza in fretta, io e Davide avevamo accantonato l’argomento Lorenzo ed eravamo tornati a comportarci come al solito; punzecchiandoci a vicenda e parlando del più e del meno.
Non mi ero ancora fermata a pensare seriamente al rapporto che si stava instaurando tra di noi, eppure sapevo che stavo cominciando ad affezionarmi a lui…la prima persona che era riuscita ad avvicinarmi dopo l’enorme delusione subita con la fine dell’amicizia con Lore.
La cosa che più mi piaceva di Davide era la sua discrezione, se vedeva che una domanda mi metteva troppo in difficoltà, allora la cambiava immediatamente; con lui mi sentivo a mio agio, niente era forzato, e soprattutto non sentivo il bisogno di scappare.
«Mori, Vinci, volete renderci partecipi della vostra discussione?».
Ultima ora del martedì, Economia aziendale, Professoressa Zanna.
«Ehm…ci scusi, prof, noi stavamo…». Tentai di giustificarmi, ma era la prima volta che un insegnante mi rimproverava perciò ero troppo inesperta per poter inventare una scusa accettabile. La verità era che la lezione era talmente noiosa che per evitare di addormentarmi mi ero messa a giocare a tris con Davide.
Un momento, ero io che stavo pensando quelle cose? Ero io che avevo preferito giocare piuttosto che seguire la lezione? L’unica spiegazione plausibile era che qualcuno si fosse impossessato di me.
«Veda prof, stavamo parlando di quanto le sta bene questo nuovo taglio di capelli». Vedendomi in difficoltà, Davide arrivò in mio soccorso, ma il suo tentativo di addolcire la temibile Zanna risultò decisamente falso, persino alle mie orecchie.
«Vinci, sono nata prima di te». Lo redarguì la suddetta, picchiettando impazientemente le dita sulla cattedra, chiaramente in attesa delle sue scuse.
Ma Davide sembrava perso nello spazio, impegnato a pensare a che cosa volesse sentirsi dire; ero certa che di lì a poco la megera sarebbe esplosa, perciò gli tirai una gomitata sul fianco e scrissi con nonchalance la parola “scusa” sul suo banco.
Lui, inizialmente sorpreso da quel mio gesto, ci mise poco a collegare il tutto e – sfoderando un sorriso da orecchio a orecchio – le porse le sue scuse con fare cavalleresco.
La classe scoppiò a ridere – io e Bavieri inclusi – per la pessima interpretazione di Davide, tuttavia – per Grazia Divina – la prof lasciò correre tutta la faccenda, limitandosi a ricordarci dell’imminente verifica, prima di rivolgersi a me con disapprovazione.
«Mori, da te non me l’aspettavo un comportamento del genere».
Quelle parole furono l’ennesima pugnalata al cuore in pochi giorni, un’ulteriore conferma del fatto che non ero più la stessa; ora il problema era capire se stessi cambiando in meglio oppure no.
 

Il pullman del ritorno era pieno zeppo di studenti, segno che probabilmente aveva saltato la corsa precedente, e non poteva esserci modo peggiore di terminare la giornata se non quello di essermi ritrovata praticamente appiccicata Lorenzo.
Accidenti, se lo avessi visto alla fermata non mi sarei di certo messa dietro!
L’unica cosa positiva, anche se non sapevo fino a che punto potessi considerarla tale, era che mi stava ignorando completamente; sembrava che non esistessi per lui, che la vicinanza dei nostri corpi non gli facesse più alcun effetto, perciò rimasi ad ascoltare i suoi discorsi chiaramente volti a conquistare le ragazze intorno e le scemenze che continuava a dire con i suoi amici. Ne sentii davvero troppe in quei venti minuti scarsi di tragitto, tanto che ad un certo punto tirai fuori il mio amato ipod per coprire le loro voci ed isolarmi da tutta quella confusione.
La situazione poteva anche non essere così grave, se confrontata ad altre ben peggiori in cui mi ero trovata, almeno finché l’autista non decise di frenare bruscamente e farmi sbattere letteralmente contro di lui, rischiando di farlo cadere a terra…e lì si che sarebbero stati guai.
«Scusa, scusa, scusa!». Esclamai in preda all’agitazione, congiungendo persino le mani per supplicare il suo perdono. Quel ragazzo mi metteva in soggezione, non perché avessi paura di lui – di certo non mi avrebbe uccisa! – ma gli ultimi avvenimenti mi avevano fatto sviluppare una sorta di timore nei suoi confronti.
Non sentendo alcuna risposta, sollevai leggermente una palpebra per controllare che non mi stesse mandando maledizioni silenziose, ma quello che vidi mi lasciò di stucco.
Mi stava guardando come se fossi pazza, con un sopracciglio sollevato e la bocca dischiusa nel tentativo di dire qualcosa; sembrava quasi in trance e non potei fare a meno di provare un pizzico di felicità per quella reazione insolita.
«È tutto okay». Sussurrò impercettibilmente, riprendendosi con un battito di ciglia più forte degli altri; aveva le mani ancora strette intorno alla mia vita, nell’assurda, stessa posizione che avevano assunto quando gli ero piombata addosso e – per un istante – sperai che non le togliesse mai più. 
Ovviamente non passarono neanche due secondi prima che mi lasciasse andare e tornasse ad ignorarmi, quando invece io non desideravo altro che parlargli. Ma ormai mancavano solo poche fermate e avrei facilmente resistito all’incontrollabile impulso di riabbracciarlo.
 
Quando scesi dal pullman andai dritta per la mia strada, senza voltarmi mai indietro. Volevo evitare di rimanere sola con Lorenzo, perché sapevo perfettamente come sarebbero andate le cose, se non lo avessi fatto: avremmo ignorato il fatto di essere in mezzo alla strada – o anche nelle scale del nostro palazzo – e ci saremmo scambiati quel bacio, il cui desiderio mi stava praticamente uccidendo.
Quello che continuavo a chiedermi era quanto ci avrei perso una volta che avessi combinato il danno. La parte razionale di me rispondeva “tutto”, mentre l’istinto mi suggeriva l’esatto contrario. Era una terribile lotta interiore, che stava rischiando di mandarmi in pappa il cervello – al punto che in preda all’esasperazione ero arrivata alla conclusione che stavo vivendo lo stesso conflitto interiore di Petrarca, il suo famoso “dissidio”.
«Ehi, ti vuoi fermare?».
Quando sentii la sua voce ci misi un po’ per rendermi conto che fosse la realtà e non un frutto della mia immaginazione. Mi bloccai all’istante e attesi che mi raggiungesse, certa che quella volta niente e nessuno ci avrebbe fermati, potevo farlo solo io e…no, non volevo.
Lo guardai per un po’ incerta, non sapendo esattamente cosa dire o fare, credevo che per lui la questione fosse chiusa, che lo avessi fatto arrabbiare irrimediabilmente, e i suoi occhi, in quel momento vuoti e freddi, non facevano altro che confermare la mia ipotesi.
«Hai vinto tu». Disse secco, allargando le braccia e poi alzandole in segno di resa.
In quei secondi di silenzio mi ero preparata a sentire qualunque cosa – ti odio,  ti voglio bene, perdonami, non farti vedere mai più – ma mai e poi mai mi sarei aspettata che se ne uscisse con una cosa del genere.
«Come?». Domandai confusa, facendo istintivamente un passo verso di lui.
«Hai vinto». Ripeté, questa volta più deciso. «Non cercherò più di baciarti, ti lascerò in pace».
Assimilai lentamente il significato di quelle parole e quando me ne resi conto non riuscii a dissimulare la mia reazione, forse esagerata.
«Lore, qui non si tratta di vincere o perdere». Gli spiegai, cercando di trattenere il nervosismo. «Perché devi sempre sminuire tutto in questo modo?».
«Perché non mi piace rincorrere le ragazze, sono loro che cadono ai miei piedi, e con te ho perso fin troppo tempo».
Era quel suo modo di esprimersi, come se i sentimenti – sia suoi che degli altri – non avessero alcun senso, che mi faceva arrabbiare più di tutto.
«Sei proprio pessimo». Lo accusai, pronta a cedere all’ira da un momento all’altro.
«Credo che tu me l’abbia già detto questo». Ribatté facendo un sorriso ironico, che servì da meccanismo per far scattare la molla della mia pazienza.
Per la prima volta in tutta la mia vita tirai un ceffone a qualcuno. Non mi sentii fiera di aver lasciato l’impronta delle mia dita su quella guancia che avevo sfiorato parecchie volte e che una volta ero solita riempire di baci, ma perlomeno anche lui avrebbe provato un po’ di dolore.
Si portò la mano nel punto in cui l’avevo colpito, guardandomi come se fosse indeciso tra il ricambiare il favore e l’uccidermi direttamente; alla fine lo vidi rilassarsi lentamente, per poi portare le mani in tasca e tendere le labbra in un sorriso forzato.
«Molto coraggioso da parte tua, avresti potuto essere la prima a farlo se Rebecca non ti avesse preceduta».
Deglutii un paio di volte, prima di ricacciare dentro l’impulso di cominciare ad insultarlo. «Sicuro di non aver nient’altro da dire?».
Lorenzo si fece serio un attimo, nel vano tentativo di riflettere, dopodiché scosse la testa e fece spallucce, ritrovando la stessa, finta allegria di poco prima. «Io credo di aver già detto abbastanza».
Ci misi un po’ ad accettare quelle parole, avevo appena avuto la conferma che il suo comportamento sarebbe rimasto per sempre un arcano per me, eppure non me la sentivo di fargliene; ero certa che ci fosse una spiegazione – nascosta da chissà quale parte nel suo cuore – a tutta quell’indifferenza con cui mascherava il vero se stesso.
«Allora la finiamo qua?».
Questa volta lo avrei posto io davanti ad una scelta, sebbene sapessi che in realtà l’aveva già compiuta.
«Non vedo perché continuare». Rispose lui con tranquillità, mostrando la solita indifferenza che alcune volte gli invidiavo.
Sospirai e gli rivolsi un sorriso più falso di una banconota da trentordici euro.
«Nessun rancore?».
«Nessuno, certo».
«Perfetto».
«Va bene».
«Allora ciao».
Dopo quelle battute monosillabiche – degne di una discussione tra bambini – Lorenzo mi congedò con un cenno del capo.
Non gli chiesi perché non avesse intenzione di fare la strada con me fino a casa, non sentivo di avere il diritto di farlo, anche se teoricamente avevamo troncato tutto con la promessa di non odiarci troppo.
«Giorgia». La sua voce mi giunse fin troppo vicina, possibile che avessi camminato così poco?
Mi voltai più per controllare che non fossi del tutto matta, che per sentire quello che aveva da dirmi, ma quando lo feci mi venne in mente la solita regola numero uno che dimenticavo perennemente di rispettare quando ero con lui.
«Vaffanculo all’orgoglio maschile». Imprecò malamente, prima di afferrarmi con forza e trascinarmi dall’altro lato della strada, contro il solito muro che aveva fatto da sfondo ai miei sogni più accesi in quell’ultimo periodo.
Il tempo che intercorse dal momento in cui sentii la ruvida superficie di cemento a contatto con la mia schiena, a quello in cui mi avvinghiai a lui, come se fosse la mia unica speranza di salvezza, fu praticamente inesistente, e solo quando sentii le sue labbra appropriarsi con impeto delle mie capii che era esattamente tra le sue braccia che volevo stare. Senza dubbi, senza incertezze.
Questa volta neanche un uragano avrebbe potuto fermarci, lo capivo dal modo in cui mi stava baciando, come se fosse davvero disposto a rinunciare al suo orgoglio per poter essere mio – e farmi sua – anche se solo per qualche secondo.
Le sue mani avevano cominciato a percorrere distrattamente tutta la superficie delle mie spalle per poterle marchiare con delle profonde carezze che – ero certa – non avrei mai dimenticato e, di tanto in tanto, quando le nostre lingue venivano accidentalmente a contatto, lo sentivo affondare senza remore le dita nella mia pelle, coperta dal cappotto che ormai mi aveva slacciato fin sotto al seno.
Quando mi dischiuse le labbra con le sue, ponendo finalmente fine all'incessante, e ormai opprimente, desiderio di sentire completamente il suo sapore, mi lasciai sfuggire un sospiro più profondo degli altri che lo fece ridacchiare leggermente; ma non vi badai granché, mi lasciai guidare da quel vortice infinito di emozioni che si stavano susseguendo una dopo l'altra e in cui non avevo potuto far altro che perdermi.
Sentivo il suo fiato corto, così come lo era il mio, solleticarmi il viso e nella foga generale distinsi un debole sorriso storto piegargli le labbra, prima che mi sollevasse le braccia sopra la testa e stringesse le mie mani nelle sue, con una tale forza che quasi temetti potesse farmi male.
A quel punto, l'unica cosa che riuscii a fare fu lasciare che la passione distruggesse ogni mia forza o convinzione, mentre le sue labbra cercavano insistentemente le mie trascinandomi in un circolo vizioso che, sapevo, non avrebbe avuto più fine.
I battiti del mio cuore avevano raggiunto la frequenza dei decimi di secondo, li sentivo premere contro il mio cervello con la stessa intensità di un martello pneumatico. Non avrei mai interrotto quel momento di pura follia, nemmeno se avessi avuto la certezza che quel bacio non significasse nulla per lui; perciò, quando sentii la sua lingua disegnare ripetutamente i contorni delle mie labbra e premere contro di esse per farle schiudere, non opposi alcuna resistenza e lasciai che raggiungesse la mia, alla quale si intrecciò in una morsa che mi lasciò senza fiato.
Non avevo mai provato tutte quelle sensazioni nello stesso momento - piacere, ansia, vertigini, desiderio che non smettesse mai - e fu assolutamente appagante lasciarsi trasportare dall'istinto e dall'urgenza che avvertivamo in quel momento.
Il suo sapore sulla mia lingua era dolce e buono, non avrei mai potuto immaginarlo così forte e delicato allo stesso tempo.
Lore non smise un solo secondo di muovere la sua bocca contro la mia, nemmeno quando l'aria nei polmoni si era completamente esaurita e riuscivamo a respirare solo per miracolo.
L'irruenza del bacio scemò a poco a poco, per lasciare posto a movimenti lenti e studiati, accompagnati di tanto in tanto da dei piccoli morsi dispettosi che aumentavano progressivamente la voglia che avevamo l'uno dell'altro.
Non appena riaprii gli occhi, trovai i suoi intenti ad osservarmi attentamente; e, quando si accorse che anche io avevo cominciato a fissarlo, mi rivolse un mezzo sorriso dolce, che mi sorprese quanto l'appena accennata carezza sulla mia guancia. E in quel momento capii che non avrei mai potuto fare a meno di lui, dei suoi sorrisi, dei suoi baci, del suo tocco; ne ero insanamente dipendente e ormai era troppo tardi per qualunque tentativo di evasione dalla realtà.
Non sapevo cosa mi avesse spinto tutti quegli anni ad aspettare che tornasse quello di un tempo, e probabilmente non sarebbe mai successo, ma ero certa che una parte del mio cuore fosse sempre stata indissolubilmente legata a lui, così come ero convinta che la stessa si fosse rifiutata di allontanarsi dal suo ricordo. Non sapevo dire se ciò fosse una cosa positiva o meno, avevo sofferto tanto e a lungo, ma mi bastava leggere nelle sue iridi più fredde e chiare del vetro per capire che mi sarebbe sempre mancato qualcosa se non avesse fatto parte - in qualche modo - della mia vita.
«Sicura che fosse il tuo primo bacio?». Mi chiese con voce roca e spezzata. «Forse dovrei accertarmene ancora una volta...». Soffiò, portandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio,  prima di riprendere a baciarmi con maggiore frenesia e audacia.
Più sentivo il suo sapore mischiato al mio e più desideravo assaggiarlo ancora e ancora; continuammo ad alternare baci passionali a semplici e quasi teneri contatti tra le nostre labbra, ormai rosse e gonfie a causa dei morsi.
Non saprei dire quanto tempo restammo lì, fregandocene della possibilità che potesse arrivare qualcuno - magari mio padre di ritorno dal lavoro - e vederci avvinghiati e intenti a baciarci come due assatanati, ma quando ci staccammo ansanti, riconobbi solo felicità nel battito accelerato del mio cuore; nessun rimpianto o pretesa di spiegazioni, solo la gioia di essergli appartenuta per qualche minuto.
Restammo in quella posizione ancora un po’, lui con il viso poggiato sull'incavo del mio collo e io con le braccia incatenate alle sue spalle, dopodiché mi stampò un ultimo fugace bacio all'angolo della bocca e si allontanò da me lentamente.
Una volta che mi fui ripresa dall’annebbiamento totale del mio cervello, mi chiesi se lo stesso sorriso che aveva stampato in volto si stesse riflettendo anche sul mio. E quasi mi spaventai nel vederlo ancora più bello del solito, con le labbra lucide e rosse e i capelli più aggrovigliati di un mucchio di paglia.
Ero certa che entrambi provassimo la stessa, identica cosa in quel momento –  confusione, sollievo, incredulità – così come non avrei scommesso un centesimo sulla possibilità che lo avrebbe dato a vedere.
Piano piano stavo cominciando ad accettare parte dei suoi difetti e, giusto o sbagliato che fosse, l’unica cosa a cui riuscivo a pensare era che se il comprenderlo portava a tutto quello che ero riuscita a provare con quel bacio, allora non avrei mai più smesso di farlo.
Altro che “tre metri sopra al cielo”, contro quel cielo io ci avevo completamente sbattuto la testa; ed ero finita direttamente in Paradiso.
Ma ora, chi diavolo mi avrebbe tirato giù, facendomi tornare con i piedi per terra?
In quel momento non mi importava, eppure più avanti mi sarei maledetta per la leggerezza con cui avevo deciso di affrontare la situazione.



Note:
Tadan, rieccomi qui!
Chiedo scusa per il ritardo, ma alla fine ce l'ho fatta ç_ç (È questo l'importante, no?)
So che probabilmente nessuno ha sentito la mia mancanza (XD) però lasciatemi credere che stavate attendendo l'aggiornamento con ansia e che non ce la facevate più ad aspettare...almeno un po' ç_ç
Spero di essermi fatta perdonare con la lunghezza straordinaria del capitolo (praticamente il doppio dei precedenti!) e con il fattaccio eheheh :P
Sono successe un bel po' di cose, ma la storia richiedeva tutto questo movimento per giungere al punto che mi sono prefissata e ho dovuto farlo!
Dal prossimo capitolo, il rapporto che lega i nostri due cari protagonisti cambierà...e come non potrebbe, dopo quello che hanno combinato?!
Il problema è capire se in positivo o in negativo.......
Ok, basta, non dico più nulla XD Mi sono lasciata sfuggire già troppo ç_ç
Ringrazio - come al solito - tutti quelli che hanno recensito, commentato, aggiunto alle preferite/ricordate/seguite e vi mando un grosso bacio.

P.s: non vi farò più aspettare così tanto, promesso! Perdonatemi, ma la scuola mi ha tenuta alle strette fino ad oggi e ho avuto pochissimo tempo per scrivere ç_ç

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Capitolo 9
*** Complicazioni. ***


Capitolo 9

Capitolo 8: Complicazioni







Da quel giorno io e il sorriso eravamo diventati una cosa sola.
Mi veniva spontaneo tirarlo fuori, ogni volta che per caso lo incrociavo fuori casa, tra i corridoi vuoti della scuola mentre gli altri facevano lezione, o anche solo quando pensavo a lui; e per la prima volta dopo anni ricordai cosa volesse dire essere veramente felici.
Non era passato molto tempo da quel bacio, a dire il vero solo quattro giorni, ma mi sembravano un’eternità; durante la quale non avevo fatto altro che rivivere con la mente quegli attimi incredibili, in cui ci eravamo letteralmente divorati anima e corpo e che probabilmente non avrei mai dimenticato.
«Lore, dai, potrebbe vederci chiunque…». Dissi staccandomi dalle sue labbra, e da lui, che non aveva la minima intenzione di lasciarmi prendere fiato.
«Ma non c’è nessuno». Si lamentò, cominciando a baciarmi lentamente il collo e infischiandosene di ciò che gli avevo appena detto.
Ormai era tutto un cliché, succedeva praticamente ogni giorno da quando avevo tolto i freni alle mie reticenze.
Facevamo di tutto per creare le occasioni giuste per rimanere un po’ da soli, in modo che nessuno potesse vederci e scoprire che ci frequentava-
No, “frequentare” non era decisamente il verbo giusto; i nostri incontri si limitavano solo a momenti di intensa passione, mai una parola dolce, un solo abbraccio o dimostrazione di affetto da parte sua, e io di certo non avrei mai fatto la prima mossa per rendere il nostro rapporto qualcosa di più serio e meno stupido.
Per quel giorno la nostra complice era la biblioteca del primo piano, dove – per qualche strana ragione – non c’era alcuna traccia della simpaticissima bibliotecaria che aveva fatto di quel posto la sua casa.
La situazione, quando ci eravamo ritrovati lì, era talmente favorevole che il passo dalle semplici chiacchiere al saltarci addosso era stato davvero brevissimo.
Ebbene sì, Giorgia Mori aveva definitivamente ceduto all’attrazione che provava per Lorenzo Belli. Una barzelletta, vero? E il tutto diventava persino una cosa squallida, se si considerava che, ufficialmente, il suddetto era felicemente fidanzato con la  famosa ragazza di quinta, Diana Manna.
«Sei sleale». Lo rimproverai, piegando la testa all’indietro per dargli libero accesso anche alla restante parte del collo.
In due secondi mi ritrovai poggiata contro uno scaffale di libri impolverati, con la schiena martoriata dagli spigoli di quei pesantissimi manuali scientifici; che qualche tempo prima ero solita sfogliare con interesse, ma che in quel momento avrei buttato volentieri a terra.
«Non è colpa mia se i miei baci ti fanno impazzire…». Si giustificò, prima di lasciarmene uno proprio sotto l’orecchio, che mi fece scappare un gemito più forte degli altri.
«Te l’ho già detto che adoro da impazzire quando ti lasci andare?». Ansimò Lore con un leggero affanno, per poi tornare a dedicarsi con attenzione alle mie labbra.
Ogni bacio era un nuovo brivido, una piccola scintilla che alimentava l’immenso incendio divampato tra di noi, ed ogni volta era diversa dalla precedente, ma ugualmente intensa ed inspiegabilmente giusta.
«Lore, sii ragionevole per una volta…». Lo implorai contro voglia, sperando che almeno nel suo cervello ci fosse ancora un minimo di buon senso; perché il mio era completamente andato.
Non avevo la minima intenzione di fermarlo…perché avrei dovuto porre fine a quella piacevolissima tortura?
Senza alcun preavviso, Lore mi morse il labbro inferiore con decisione, come era solito fare quando aveva in mente qualcosa di diabolico.
«Uhm, temo di non poterci riuscire». Disse frettolosamente, e con uno slancio incredibile mi sollevò da terra, facendomi poi stringere le gambe intorno alla sua vita.
Era un contatto del tutto nuovo per me, che sussultai immediatamente tra le sue braccia, e appoggiai la testa sulla sua spalla.
Le sue mani si spostarono agilmente per tutta la lunghezza dei miei jeans, fino a raggiungere con estrema lentezza le mie natiche, che strinsero in una morsa di ferro e ghiaccio.
Lo sentii ridacchiare contro il mio orecchio, dopodiché strofinò il suo naso sui miei capelli. «Lo immaginavo sodo, ma non fino a questo punto». Sentenziò fiero di me – o se stesso, chi potrebbe dirlo – continuando con cura la sua ispezione.
«Non ne approfittare troppo, maniaco». Lo redarguii fermandolo, dedicandogli uno sguardo ammonitore.
In realtà ero in completo imbarazzo, ma non volevo che se ne accorgesse, per questo lo avevo bloccato.
«Ma che palle!». Sbuffò infastidito, facendomi scendere rassegnato. «Non esistono solo i baci, sai?». Aggiunse ammiccando, con un’occhiata che non lasciava alcuno spazio all’immaginazione.
Fu estremamente difficile impedirmi di fare la figura della deficiente e lasciargli fare quello che aveva in mente, ma alla fine ci riuscii.
«Certo che lo so». Dissi trattenendo a stento un sorriso vittorioso. «Ma ti dovrai accontentare di questo, per il momento. Prendere o lasciare».
Lore sbiancò improvvisamente, mettendosi subito all’erta.
«Da quando sei diventata così sadica?». Mi chiese poi, avvicinandosi cautamente di qualche passo.
«Da quando ho a che fare con il re degli stronzi». Risposi secca, portandomi le mani sui fianchi per sottolineare la fermezza con cui l’avevo posto davanti a quella scelta.
Lui sospirò arrendendosi, per poi raggiungermi in due sole falcate.
La sua imprevedibilità riusciva sempre a sorprendermi: ogni volta che credevo di aver capito di cosa fosse capace, oppure quale piano avesse in serbo per me, lui mi faceva ricredere all’istante.
Le sue labbra si piegarono nel solito sorrisetto irritante, purtroppo ad una misera distanza dalle mie.
La mia vittoria era stata breve.
«Prendo». Annunciò deciso. E mi baciò con la stessa convinzione, come a voler dimostrare che il suo non era un capriccio: mi voleva sul serio.

 «Mori, stai meglio?». Mi chiese preoccupata la prof, al mio rientro in classe, esattamente tre quarti d’ora dopo che ero uscita dall’aula con la scusa di avere una forte nausea.
Era quella la parte peggiore del mentire: rimanere comunque interdetti quando qualcuno ti poneva davanti alle tue bugie.
Ed era proprio in cui casi che rimpiangevo la Zanna e il suo disinteresse per i problemi degli studenti.
«Sì, credo di sì». Risposi con un sorriso volto a tranquillizzarla.
Le mie ore scolastiche ormai funzionavano così: nessuna attenzione prestata al professore di turno, qualche chiacchiera con Davide e continue occhiatine a Lorenzo; a quel punto – se lui mi avesse scoperta-, le cose avrebbero potuto prendere due pieghe diverse, in base al livello di buon senso che avevo quando i nostri occhi si incontravano. Se fossi stata pronta e abbastanza ragionevole, avrei distolto velocemente lo sguardo; altrimenti il suo mi avrebbe fatto comprendere ciò che aveva in mente, e io non sarei più stata in grado di resistere alla tentazione e raggiungerlo fuori dall’aula.
La mia era una misura necessaria per prevenire ogni eventuale esagerazione da parte di entrambi. Se avessi lasciato tutto nelle mani di Lorenzo, avremmo finito per appartarci praticamente dovunque pur di stare insieme e la cosa, prima o poi, sarebbe diventata sospetta.
Non solo per gli altri compagni, che riuscivamo tranquillamente a depistare con qualche scambio di battute astiose, ma soprattutto per i professori, che a lungo andare avrebbero certamente notato qualcosa.
«I tuoi capelli sono un disastro». Disse Davide divertito, interrompendo i miei pensieri. Per lo meno, rendeva la mia vita meno noiosa: che tristezza se il mio continuo rimuginare sugli atteggiamenti di Lorenzo mi avesse isolata dal resto del mondo.
«Lore dovrebbe andarci più piano». Proseguì sforzandosi di essere serio, ma era chiaro che quello fosse il suo modo di distrarmi un po’.
A quelle parole arrossii violentemente, vittima  della sua consapevolezza.
Davide era a conoscenza di tutti i recenti sviluppi. Non aveva impiegato molto tempo per capire il motivo delle nostre sparizioni – più o meno contemporanee – e a quel punto – davanti ad una sua sincerissima richiesta di verità – non avevo potuto far altro che confermare.
«È fatto così. Mi sono rassegnata». Risposi con un’alzata di spalle, mentre la mia mente veniva occupata da alcuni flash piuttosto…infuocati relativi ai nostri incontri
«E a te sta bene questo?». Chiese lui scettico e capii che la sua domanda ne nascondeva un’altra, che mi aveva rivolto tante volte, ma che evitavo sempre.
«È un modo per chiedermi se mi sta bene dividerlo con quella “strafiga”?». Gli domandai, imitando la voce di Lore quando parlava della sua bellissima ragazza.
Non aspettai la sua risposta, presi un respiro profondo racimolando le idee che mi ero fatta fino a quel momento, mentre i miei piedi cominciavano a muoversi da soli, agitati.
«Certo che no». Dissi con enfasi, guardandolo finalmente negli occhi. «Però…».
«Ascolta Giò, indubbiamente Lore è un bel ragazzo, che sa come intrattenere le donne e conosce tutti i segreti del mestiere, ma davvero…mi chiedo come tu possa sopportare tutto questo. Io, al posto tuo, impazzirei».  
Il suo punto di vista era di certo il più comprensibile, mentre il mio non l’avrebbe mai capito nessuno…neanche io, probabilmente, per questo avevo rinunciato alla possibilità di spiegargli cosa mi impedisse di prendere Lorenzo a sprangate per quello che mi stava facendo. Tuttavia, decisi di fare un tentativo.
«I momenti che passo con lui sono i più belli che abbia mai vissuto. Da quando sono nata». Risposi il più sinceramente possibile. E non mi riferivo solo agli ultimi anni, ma anche a quelli di un passato ormai lontano, che prima non erano altro che causa di dolore e sofferenza, mentre ora erano diventati la mia speranza.
«Questo è tutto nuovo per te, è logico che ti sembri di stare in Paradiso e tutte quelle stronzate varie…». Protestò lui, sforzandosi inutilmente di tenere la voce troppo bassa. «Ma Lore non potrà mai essere il tuo principe azzurro, e tu questo lo sai meglio di me».
Sbattere contro la verità non era mai una piacevole sensazione, il problema era che io sapevo benissimo quale fosse, ancora prima che Davide me la piazzasse davanti.
«Dav, per favore, non rovinare tutto». Lo supplicai, prendendogli una mano tra le mie. «Ci sono cose che tu non sai e che mi spingono ad andare avanti in questa grande sciocchezza».
Lui assottigliò lo sguardo. «Te ne rendi conto?».
Annuii velocemente e proprio in quel momento Lore fece la sua comparsa, senza neanche bussare e con le mani rigorosamente in tasca.
«Belli, ti avevo mandato in bagno, non a gironzolare per la scuola». Lo rimproverò l’insegnante, che era stata interrotta nel bel mezzo della spiegazione di un qualche nuovo argomento.
Lorenzo sorrise fintamente dispiaciuto. «Mi scusi prof, ma mi stavo annoiando terribilmente e non avrei mai voluto che mi vedesse dormire». E concluse il tutto mettendosi la mano sul cuore, lasciandosi poi andare ad uno sbadiglio.
Era il solito cretino spocchioso, che si divertiva a prendere per i fondelli gli insegnanti, eppure – dopo tutto quello che era successo – mi faceva quasi tenerezza vederlo in quel modo e un sorriso spontaneo mi spuntò sulle labbra.
«Vai a sederti, ne parliamo dopo». Disse la prof rassegnata, tornando a scrivere strane formule matematiche alla lavagna.
«Sei proprio senza speranze». Mi sussurrò Davide all’orecchio. Non mi ero accorta di averlo così vicino e non sarebbe stato certo saggio lasciare che Lore ci vedesse in quel momento.
Feci per staccarmi da lui prima che fosse troppo tardi, ma i suoi occhi mi batterono sul tempo, spostandosi prima su me e Davide, poi sulle nostre mani intrecciate sul banco; ancora prima che potessi muovere anche solo un singolo dito per nascondere l’evidenza.
In un primo momento mi sembrò sorpreso, ma la sua espressione era sempre fredda e intellegibile perciò era impossibile averne la certezza.
Distolsi velocemente lo sguardo dal suo indagatore e sciolsi la presa sperando che Davide capisse le mie motivazioni.
«È arrabbiato?». Gli chiesi poi in un sussurro, una volta accertatami che fosse tornato al suo posto.
«Chi lo sa? È impossibile capire quel ragazzo».
E non potevo essere più d’accordo.


L’intervallo era la parte più complicata della giornata, per diversi motivi.
Innanzitutto, avevo ricominciato a trascorrerlo in classe, lasciando Davide libero di divertirsi con i suoi amici delle altre classi, che in quelle due e passa settimane aveva un po’ trascurato a causa mia.
Passare quei quindici minuti in classe significava stare a sentire i racconti a luci rosse di Lorenzo, che descriveva ai suoi amici, con troppi particolari, la sua vita di letto con Diana.
Chiaramente non c’era niente di profondo nei loro discorsi; si parlava solo di sesso e di quanto fossero perfette le forme della sua fidanzata; tanto che molte volte avevo cercato di non cogliere alcuni dettagli troppo piccanti, altrimenti non avrei avuto più il coraggio neanche di farmi sfiorare da lui e questo avrebbe messo fine al mio stupido tentativo di farlo accorgere della mia esistenza.
Volevo dimostrargli che non ero solo un corpo con cui potersi intrattenere quando voleva, ma soprattutto una persona, che un tempo era la sua migliore amica.
Speravo di potergli far capire tutto di me stando con lui – seppur in quel modo squallido -, anche sopportando di doverlo dividere con un’altra, perché ormai non avrei più potuto semplicemente ignorarlo, o odiarlo, eravamo andati troppo oltre e una parte di me sapeva che quell’interesse improvviso da parte sua non era solo una questione fisica; dovevo solo rendere quella speranza una certezza. Volevo riprendermi il mio Lorenzo…e ci sarei riuscita.
Quel giorno, però, mentre lasciavo sciogliere la mia barretta di cioccolato sul banco, non feci altro che pensare a come mi aveva guardata quando era rientrato in classe. Stavo cercando di trovare una spiegazione a quello sguardo strano che mi aveva rivolto, ma più ci pensavo e più mi convincevo che era semplicemente arrabbiato.
Avrei potuto aspettare l’uscita da scuola e chiarire con lui una volta a casa, ma resistere sarebbe stato impossibile, perciò raccolsi tutto il mio coraggio e mi avvicinai titubante al gruppetto dei suoi amici.
«Oh, guardate chi c’è». Disse Curcio notando la mia presenza.
Lore alzò immediatamente lo sguardo e quando mi vide, rimise in tasca il suo cellulare, fissandomi incuriosito.
«Posso parlarti un minuto?». Gli chiesi speranzosa. Ma sapevo di avere pochissime possibilità; eravamo a scuola, circondai da tutti i suoi amici…
«Ehi, da quando tu hai il diritto di parlare con lui?». Commentò sarcastico Lonta, ponendosi tra me e Lore.
Non mi aspettavo che mi difendesse, mi ero arresa già in partenza, non si sarebbe mai esposto troppo intervenendo in una faccenda così stupida.
«Gabri, fatti da parte». Disse Lore secc0, alzandosi in piedi e spuntando alle spalle del suo amico.
Il mio cuore prese a battere velocemente: non importava quanto tempo passassi con lui, quanto mi abituassi al suo strano atteggiamento scostante; vedere i suoi occhi completamente dedicati a me, mi causava sempre lo stesso subbuglio all’altezza dello stomaco.
«Andiamo». Ordinò con un cenno del capo, senza accennare all’ombra di un sorriso, per poi dirigersi velocemente verso la porta, come se non vedesse l’ora di liberarsi dei suoi compagni; le cui facce attonite erano la migliore delle mie rivincite.
Li fissai con un certo orgoglio nello sguardo, ma senza esagerare troppo – sia mai far arrabbiare Lorenzo! – dopodiché corsi per raggiungerlo, prima che si accorgesse della mia assenza.
Lo seguii fino al secondo piano, mantenendo sempre una certa distanza. Agli occhi degli estranei dovevamo apparire come due semplici studenti che stavano andando dalla stessa parte, questa era stata la richiesta di Lorenzo, e così avrei fatto sembrare tutto.
Giunti in una parte deserta del corridoio cominciai a capire quali fossero le sue intenzioni, ma non dissi una parola, finché – questa volta senza protestare – mi lasciai trascinare dentro al Trash.
«Si può sapere che ti prende? Ti è dato di volta il cervello?». Mi aggredì subito Lore, cominciando a fare su e giù per quella stanza piena di schifezze di ogni genere.
Mi aspettavo una reazione del genere. La regola principale era non rivolgerci la parola per nessun motivo quando lui era con i suoi amici, a meno che non fosse qualcosa di urgente e irrimandabile, e io l’avevo bellamente infranta.
«Io…avevo bisogno di parlarti». Risposi titubante, sperando che si calmasse almeno un po’. Improvvisamente, la motivazione per cui ero venuta meno alla parola data non mi sembrava più tanto inderogabile.
Cogliendo il mio silenzio, fu lui a parlare per primo. «Se si tratta di quello che hai sentito riguardo a Diana, sei tu che hai scelto di rimanere in classe, sapevi benissimo a cosa andavi incontro».
I suoi occhi non tradivano alcuna emozione, come al solito, ma ero quasi certa di aver sentito una nota di disappunto nella sua voce.
«No, non c’entra lei». Risposi con vigore, scuotendo la testa con altrettanta forza. «Riguarda solo me e te, smettila di tirarla sempre in mezzo».
Lore sembrò addolcirsi un pochettino; lo capii dal modo in cui rilassò il viso.
«Sentiamo, allora». Decretò sedendosi sul tavolo che poche settimane prima avevo usato come rifugio dal topo.
Ripensarci in quel momento mi fece sorridere, era incredibile come le cose fossero cambiate da allora, eppure non era passato molto tempo.
«Quando sei entrato in classe, dopo che…noi…insomma, lo sai…». Balbettai abbassando e rialzando lo sguardo ripetutamente, in cerca di un qualche cambiamento di espressione sul suo viso.
«Sei proprio buffa quando ti imbarazzi, lo sai?». Disse palesemente divertito, mordendosi poi il labbro inferiore per non mettersi a ridere.
Lo vidi tendere una mano in mia direzione, con un sorriso quasi dolce dipinto sulle labbra. «Su, vieni qua».
Se non fossi sembrata ridicola e inappropriata, mi sarei letteralmente buttata tra le sue braccia.
Era la prima cosa veramente carina che mi diceva da giorni, non l’avevo mai visto così premuroso nei miei confronti, e il mio cuore – giustamente – si mise a ballare la samba nel mio petto.
Per una qualche strana ragione rimasi immobile dov’ero, ma Lore non si diede per vinto.
«Dai, cucciolina, non costringermi a venirti a prendere».
Come mi aveva chiamata?! Santo Cielo…perché certe cose accadevano all’improvviso? Dovevo essere preparata prima di sentirle!
Arrossii immediatamente, sorpresa da quel nomignolo con il quale si era rivolto a me, ero certa che neanche se n’era reso conto, probabilmente mi aveva persino scambiata per Diana.
Fu la prima volta che mi sentii così triste al pensiero di quella ragazza, mi ripetevo sempre che era necessario sopportare, resistere, che ne sarebbe valsa la pena, perciò riuscivo a prendere tutto abbastanza serenamente, quella volta – invece – anche solo immaginare Diana al posto mio, era stato come inciampare sui miei stessi piedi.
«Co-come mi hai chiamata?».  Domandai, senza riuscire a trattenermi, e questa volta fu lui a rimanere sorpreso dalla mia domanda.
Lo vidi riflettere, perplesso, per un po’, dopodiché si portò una mano ai capelli per spettinarli, come se non lo fossero già abbastanza.
«Oh, quello…be’, in un certo senso sei un po’ cucciolina, no?». Chiese retorico facendo spallucce. «Non si può certo dire che tu sia anche solo lontanamente alta quanto me».
Lo fissai abbastanza a lungo, indecisa se credergli o no, alla fine mi affidai alla cara, vecchia ironia; che molto spesso riusciva a tirare fuori le persone dalle situazioni imbarazzanti.
«È molto gentile da parte tua ricordarmi quanto sia bassa!». Esclamai voltandomi dall’altra parte, fingendomi offesa.
«Sei permalosetta oggi, eh?».
Lo sentii scendere dal tavolo, ma questa volta ero decisa a non cedere subito, avrei continuato ancora un po’ con la mia recita.
«E va bene, guarda il lato positivo, per questo soprannome ho preso spunto dal nanetto di Biancaneve, e non mi pare che la sua unica caratteristica fosse la bassezza».
«E sentiamo, quali altre caratteristiche aveva?». Lo punzecchiai un po’, il mio intento era di costringerlo a esporsi di più; era un trucchetto da quattro soldi ma c’erano buone possibilità che funzionasse.
«Ma come, non te le ricordi? Lo avremmo visto almeno cinquanta volte da bambini».
Sentirlo parlare del nostro passato con quella tranquillità fu un’altra piccola vittoria, aveva tirato in ballo la nostra amicizia senza ritrarre immediatamente ciò che aveva detto, come invece era solito fare. E questo era senz’altro un enorme passo in avanti…forse la mia non era un’inutile e vana speranza.
«Era molto tempo fa, ricordo a malapena la faccia di quel gran figo del principe».
«Confessa, lo immaginavi esattamente come me»
La sua voce mi giunse vicina, troppo, così come il suo profumo, e quella sensazione non mi era affatto nuova. Sapevo cosa stava per succedere, ma avrei resistito fino alla fine.
E in fondo non aveva tutti i torti, mi era capitato spesso di pensare a lui come al mio principe azzurro, prima che distruggesse i miei sogni.
No, il passato era il passato, dovevo solo concentrarmi sul presente, per costruirmi un futuro privo di rimpianti e rimorsi.
Ma certi ricordi erano ancora troppo forti per poter essere relegati in un cassetto della memoria e cominciavo a credere che lo sarebbero sempre stati, avrebbero sempre vinto su di me, ed io li avrei sempre lasciati liberi di farlo.
«Com’è che siamo finiti a parlare di te?». Chiesi quasi senza respirare, stavo cercando di tenere il suo odore buonissimo lontano dai miei sensi, ma avevo dimenticato che l’olfatto era solo uno di essi.
«Preferisci che si parli di te?». Soffiò contro il mio orecchio, spostandomi contemporaneamente i capelli di lato, facendomi rabbrividire. «Perché in quel caso avrei parecchie cose da dire».
Il suo fiato era caldissimo contro la mia pelle, le sue labbra morbide sulla mia nuca e la sua voce quanto di più provocante avessi mai sentito.
Stavo miseramente fallendo. Davvero avevo creduto di potergli resistere?
«Sei bella…più di quanto tu non creda». Sussurrò nuovamente, lasciandomi un piccolissimo bacio sul collo, che mi fece arrivare dritta in Paradiso.
Oh, al diavolo i buoni propositi!
Provai a girarmi verso di lui, per far smettere quella tortura che aveva appena cominciato…prima che mi lasciassi andare troppo.
Temevo di non riuscire più a controllarmi, e, se davvero fosse stato così, le cose sarebbero precipitate all’istante.
Con Lorenzo era solo cuore e istinto, né il cervello né la testa potevano qualcosa, e se anche io – che riuscivo a mantenere il nostro rapporto in un appena precario equilibrio – avessi lasciato che le mie difese crollassero, allora nessuno avrebbe potuto impedirci di farci del male a vicenda.
«Eh, no, adesso ascolti tutto quello che ho da dire, mia cara principessina».
Nell’esatto momento in cui una sua mano andò a posarsi appena sotto il mio seno, smisi di opporre resistenza. Lui era lì, ed io anche, non c’era bisogno di fasciarsi la testa prima di rompersela, e se davvero ce la fossimo spaccata avremmo trovato una modo per rimetterne insieme i pezzi.
«Brava bambina». Disse ironico, dandomi un bacio sulla guancia che mi fece sorridere.
Lentamente, senza mai spingersi oltre il tacito limite che gli avevo imposto, cominciò a muovere in circolo la sua mano, spostandola dai miei fianchi al mio petto, dove lasciò profonde carezze.
«Lore…». Lo chiamai con un ansito, quando l’altra raggiunse la mia pancia, massaggiandola dolcemente, quasi tentennante, in un modo che non era certo nel suo stile.
«Sei molto dolce, anche se a volte non lo vuoi dare a vedere». Continuò il suo elenco di qualità, tracciando con le labbra una lunga scia per tutto il mio collo.
«Hai un profumo tremendamente buono, che mi fa venire voglia di prenderti a morsi».  Lo sentii ridacchiare, prima di affondare la punta dei denti nella mia pelle, senza troppa forza.
«E sei proprio nana». Concluse, smorzando la tensione e caricandomi in spalla come un sacco di patate.
Il passaggio dall’oblio alla realtà fu decisamente traumatico, ritrovarmi all’improvviso con i piedi per aria e la testa all’ingiù non fu certo piacevole, ma mi venne spontaneo cominciare a ridere a crepapelle quando prese a girare maldestramente per tutto il Trash.
«Per un attimo ho creduto che fossi un vampiro». Dissi tra le risate, mentre mi aiutava a salire sul tavolo dopo di lui, per poi farmi sedere sulle sue gambe.
Adoravo stare in braccio a lui, riuscivo a cancellare tutti i miei dubbi. Era uno di quei momenti in cui non avevo paura che potessi rimanere ferita da tutto quello che avevo intorno, ed era una delle rarissime volte in cui riuscivo ad avere la certezza che quando era con me,  non c’era nessun’altra ragazza nei suoi pensieri.
C’era qualcosa nel modo che aveva di stringermi, nel modo con cui mi lasciava dolci carezze sulle guance e mi sorrideva che mi dava una tranquillità assoluta.
«Va meglio ora?». Mi chiese aggiustandomi i capelli, sconvolti a causa del suo gesto di “galanteria” di poco prima.
Annuii brevemente e mi rilassai sotto il tocco delicato delle sue dita, che avevano cominciato a tracciare la forma dei miei zigomi.
«Ora dimmi cosa ti tormenta, miss paranoica».
Era davvero difficile riuscire a concentrarmi in quella situazione, in cui le sue labbra – ad una distanza misera dalle mie – mi sembravano ancora più invitanti del solito.
Stavo diventando una specie di ninfomane, dovevo darmi un contegno.
Distolsi l’attenzione dalla sua bocca e la puntai sui suoi occhi. Fui sorpresa nel trovarli così fissi su di me, era un evento piuttosto raro dato che la maggior parte delle volte sembravano rivolti chissà dove.
«Te la sei presa?». Chiesi in un fiato, riprendendo il discorso che avevo iniziato, ma che – a causa sua – non ero riuscita a portare al termine.
Lore sembrò confuso, ma poi scoppiò a ridere sguaiatamente. Continuò per un bel po’, facendomi sentire un tantino idiota e fuori luogo, finché non cominciai a perdere la pazienza e lo richiamai un paio di volte.
«Sì». Rispose poi, tornando improvvisamente serio. Dell’ilarità di poco prima non c’era più traccia. Non erano mica le donne quelle ad avere frequenti sbalzi d’umore? No, evidentemente no.
«Perché tu sei mia e basta».
«Ma Davide è tuo amico…». Ribattei infastidita.
Parlava lui di possesso, quando io ero la prima a doverlo dividere con un’altra. Quel ragazzo era proprio un egoista di prima categoria…ma ancora non riuscivo a lasciarlo andare, neanche per questo suo pessimo difetto.
«E immagino che sappia tutto di noi». Disse in tono neutrale, come se non gli importasse nulla di tutta la faccenda, quando in realtà avrebbe voluto urlarmi contro, perché chiaramente credeva che fossi stata io a metterlo al corrente di tutto.
«Ha scoperto tutto da solo». Mi affrettai a dire, prima che potesse trarre conclusioni sbagliate.
Sapevo di non dovergli nessuna giustificazione, che quello dalla parte del torto era lui, ma mi venne spontaneo difendermi dalla sua silenziosa accusa.
Nonostante tutto, volevo mettere in chiaro che io non avrei mai tradito la sua fiducia; neanche se lui avesse continuato a calpestare la mia in quel modo.
Lorenzo inarcò un sopracciglio scettico. Incredibile, non mi credeva…lui non credeva a me! Sembrava davvero una barzelletta e invece era solo la realtà.
«E come avrebbe potuto?». Domandò infatti, confermando tutti i miei sospetti.
«Contrariamente a quanto pensi, Davide non è affatto uno stupido». Lo rimproverai, incrociando le braccia al petto e aspettando con ansia la sua reazione.
«Tu non sai un bel niente di quello che penso io». Rispose lui tra i denti, facendo suonare le sue parole come una minaccia, che tuttavia non mi spaventò come invece avrebbe fatto normalmente.
«Non è difficile capirlo dal modo in cui ti comporti».
Lore fece per dire qualcosa, ma alla fine scosse solamente la testa, prima di saltare giù dal tavolo e dirigersi verso l’uscita.
«Ehi, dove credi di andare?». Lo fermai ad un passo dalla porta. «Non puoi sempre abbandonare le conversazioni spinose».
 Lore si voltò con uno scatto, mi afferrò per le spalle e mi spinse contro al muro.
«Ascoltami bene, non ho intenzione di ripeterlo ancora: la mia vita non ti riguarda, perciò stanne fuori». Sputò con acidità, senza alleggerire la presa sulla mia pelle neanche un attimo.
Stava cominciando a fare male, ma dovevo far di tutto per non darlo a vedere.
«Ah sì? Allora, dimmi, cosa sono io per te?». Gli chiesi facendo ricorso a tutto il mio coraggio. «Un semplice giocattolo con cui puoi divertirti quando più ne hai voglia?».
«Non ricominciare con questa storia, lo sai che non è così».
«Dimostramelo allora, perché tutto quello che fai mi lascia intendere l’esatto contrario». Lo sfidai stringendo i pugni, per sopportare meglio il dolore che mi stava causando.
«E cosa dovrei fare? Dirti che sei la ragazza della mia vita e tutte quelle cose sdolcinate da film strappalacrime?». La sua voce trasudava puro sarcasmo, quello che sfoggiava ogni volta che toccavo un argomento di cui non voleva parlare; oppure di cui non sapeva cosa dire.
Non attese la mia risposta, mi lasciò semplicemente andare, senza smettere di guardarmi negli occhi, che stringevo il più possibile per evitare di piangere davanti a lui. «Mi dispiace ma non sarò mai quello che vuoi che io sia, perciò…se sai di poter accettarmi per come sono, allora stai con me e non cercare di farmi pesare sempre ogni cosa; in caso contrario è meglio per entrambi finirla qui».
Che sciocca ero stata a pensare che potesse durare abbastanza a lungo da fargli capire quanto tenessi a lui.
«Finire cosa, scusa? Non è neanche iniziata!». Scossi la testa rassegnata e non potei fare a meno di notare un lampo di sorpresa nei suoi occhi.
Mi chiesi quale definizione lui potesse dare al rapporto che si era creato tra di noi in quegli ultimi giorni, ma come risposta ottenni solo il nulla.
Non eravamo niente.
Lore contrasse leggermente le labbra, come se volesse dire qualcosa, ma per un po’ rimase in silenzio, probabilmente impegnato a pesare le parole.
«Ti ho chiesto di decidere». Sibilò lui contrito, stringendo le mani a pugno contro i fianchi.
Annuii al colmo della rabbia, con lui gli unici discorsi affrontabili erano quelli superficiali, gli altri erano da evitare come una buca in mezzo alla strada.
«Se le cose stanno veramente come hai detto, allora la mia scelta l’ho fatta molto tempo fa, quando avevo capito che razza di stronzo fossi!». La mia voce suonò tremante e instabile, l’esatto opposto di ciò che volevo trasmettergli.
Stavo per piangere, lo sapevo, così come sapevo che dovevo andarmene prima che lui mi vedesse farlo.
Speravo che quel mio riferimento al nostro passato gli smuovesse qualcosa dentro, oltre tutta quella freddezza che si ostinava a mostrarmi.
Avevo visto dei punti di uscita in tutta quella confusione che mi creava stare con lui, credevo che la sua parte insensibile potesse essere oscurata in qualche modo, che io potessi riuscirci. Invece Lorenzo sarebbe rimasto sempre chiuso nelle sue convinzioni, sempre pronto a rifugiarsi dietro il suo muro di cemento armato costruito ad hoc per non essere intaccato minimamente da chiunque volesse anche solo provare ad avvicinarsi.
Non mi fermò, non provò neanche a chiamarmi, avevamo entrambi preso una decisione e le nostre strade si sarebbero nuovamente divise.

Mentre camminavo per i corridoi mi sembrava che tutti stessero guardando me, che ero pronta ad affogare in un mare di lacrime.
Sentivo il groppo alla gola farsi sempre più insopportabile, non avrei resistito ancora per molto e di certo umiliarmi davanti a tutta la scuola era l’ultimo dei miei desideri.
Accelerai il passo e raggiunsi il bagno quando ormai la campanella era suonata e tutti si precipitavano nelle loro classi.
Non aspettai che tutte le ragazze presenti lì se ne andassero, presi un profondo respiro e mi chiusi a chiave in uno dei bagni.
Poco igienico, forse, ma era l’unico posto dove potevo sfogarmi senza il rischio di essere vista.
Ero stata una stupida, ancora una volta, a credere che prima o poi non ci sarebbe stato nessuno tra noi; eppure mi ero davvero convinta che quando Lorenzo era con me, non c’era nessuna Diana o gran figa che tenesse. Eravamo solo io e lui.
Non sapevo più a cosa credere, cosa pensare, cosa fare per fargli capire quanto fosse importante per me. Ma, anche tra tutte quelle lacrime, il pensiero che per lui fossi il nulla più assoluto non mi aveva neanche sfiorata.


Non parlai con Lorenzo per tutta la giornata, oppure fu proprio lui a fare in modo che ciò non succedesse, ed evitai tutte le domande di Davide riguardo ai miei occhi rossi per tutte le ore restanti, dal mio ritorno in classe.
C’era solo una cosa che potevo fare, solo una persona di cui volevo fidarmi e a cui dovevo chiedere aiuto.
Composi il suo numero alla velocità della luce, buttandomi sul letto come un sacco di patate e nascondendo la faccia contro il cuscino.
«Pronto?». La sua voce servì per rompere la diga che teneva al sicuro la valle di lacrime pronte a sfondarla al minimo cedimento.
«Marti…». La chiamai tra i singhiozzi, con la voce attutita e distorta dai vari strati di coperte.
Sentii mia cugina trattenere un attimo il respiro, prima di riprendersi allarmata.
«Oddio, cos’è successo?».  
Sapevo che aveva cominciato a camminare per tutta la sua stanza in preda all’ansia.  Si preoccupava spesso per me e ogni volta faceva tutto quello che poteva, e anche di più, per aiutarmi a risolvere i miei problemi.
Tirai su con il naso e feci un solo nome, sapevo che avrebbe capito. «Lore».
Le raccontai tutto per filo e per segno, dei quattro giorni passati a saltarci addosso, della sua relazione ufficiale con Diana e della conversazione avvenuta a scuola qualche ora prima.
Martina mi ascoltò per tutto il tempo in silenzio, limitandosi ad assentire e ad emettere versi schifati di tanto in tanto, ed aspettò che finissi il mio sfogo prima di commentare nel suo classico modo da cugina iper protettiva.
«Se lo vedo lo faccio nero!». Disse infatti con rabbia e la sentii tirare un calcio contro qualcosa che non riuscii ad identificare.
«Marti, calmati, non è niente di grave o non superabile. Sai come è fatto». Tentai di rassicurarla, ma non riuscii molto bene nel mio intento. Suonai falsa persino alle mie stesse orecchie, che alle mie bugie ci erano abituate ormai.
«Non è grave un corno, Giò! Qualcuno deve dargli una lezione a quel presuntuoso del cavolo…».
«Ho sbagliato io a credere che stare con lui in quelle condizioni potesse servire qualcosa. Me la sono cercata». Mi morsi un labbro per evitare di rimettermi a piangere, altrimenti la mia cara cuginetta sarebbe stata persino capace di prendere il primo mezzo disponibile per venire a fare a pezzi Lorenzo.
«No, tu non hai sbagliato proprio nulla! Chiunque avrebbe ceduto alle sue avances…». Mi rassicurò, leggermente più calma di prima.
«Accidenti a madre natura che fa belli solo gli stronzi».
Non potei fare a meno di sorridere al suo commento. Se c’era qualcuno che poteva capirmi davvero quella era proprio lei, che con i ragazzi belli e stronzi ci aveva passato vent’anni. L’unica differenza era che lei li attirava come il miele attira le api a causa della sua indiscutibile bellezza, mentre io – nella mia ordinarietà – ne avevo attirato solo uno, che poi era il peggiore di tutti.
«So che stai sorridendo». Disse dolcemente e questa volta dedussi che si fosse completamente rilassata.
«Come potrei rimanere triste mentre sono al telefono con la mia mitica cuginetta distante chilometri e chilometri da me?».  Era sempre abbastanza deprimente ogni volta che tiravamo in ballo la nostra distanza. Qualche tempo prima eravamo solite vederci con una certa frequenza, almeno ad ogni festa, ma da quando i miei genitori si erano separati e mia madre aveva trovato Mauro, riuscivo ad andare in Calabria da lei solo per l’estate, insieme al mio padre biologico.
Era lui quello originario di lì e mia madre aveva tagliato i rapporti con tutti i familiari di mio padre, eccetto qualche mia cugina coetanea (Marti compresa); a sua detta perché non si erano comportati bene con lei, ma per me era solo il suo modo di scappare dal passato.
Ah, questo passato, quante vittime mieteva.   
«Senti, a questo proposito, ci stavo pensando già da un po’, ma dopo oggi mi sono convinta…». Cominciò Martina, interrompendo lo scorrere dei miei ricordi, e dalla felicità che trasudava da ogni sua singola sillaba capii che quello che mi stava per dire mi avrebbe portato almeno un pizzico di gioia.
«Parla». La esortai, curiosa e ansiosa allo stesso tempo. Mi alzai a sedere, pronta a urlare e saltare, qualora ce ne fosse stato bisogno.
«Che ne dici se uno di questi weekend passiamo una bellissima serata in compagnia di un altrettanto spettacolare film stupido come piace a noi?»
Ci misi un po’ a metabolizzare quanto mi aveva detto, ma quando lo capii la mia reazione fu decisamente al di fuori dei miei programmi. Mi lasciai andare ad urletto stridulo – sì, uno di quelli degni delle peggiori oche – e lanciai per aria tutte le cianfrusaglie che mi capitarono sotto tiro, prima di fare il giro della mia camera e cominciare a saltare come una pazza sul letto.
Quando la mia manifestazione di pura gioia finì avevo il fiatone e ridevo con le lacrime.
«Hai finito di spaccarmi i timpani?». Domandò Martina fingendosi irritata, ma anche lei avrebbe volentieri abbandonato la sua indole “matura” per unirsi a me, se non si fosse fissata con il fatto che adesso era un’adulta e doveva darmi il buon esempio. «Avrai fatto prendere uno spavento a tua madre!».
«Se credi che con questo abbia finito di festeggiare, ti sbagli di grosso: mamma è dalla nonna». Dissi ancora tra le risate, riacquistando lentamente un respiro regolare.
«Ah, al diavolo la maturità, questa è la Giorgia che mi piace: allegra e spensierata!». Esclamò Martina rinunciando finalmente alla sua copertura. Forse doveva imparare a resistere un po’ di più.
«Ora dobbiamo decidere quando, però». Aggiunse tornando seria e la sentii distintamente sfogliare delle carte.
Riflettei un attimo sulle varie ipotesi, ma quella che più mi aggradava era altamente improbabile da realizzare.
«Il prossimo weekend?». Proposi speranzosa, incrociando le dita mentre Marti controllava la sua agenda.
Se avesse accettato si sarebbe trattato solo di una settimana di attesa e il che era abbastanza sopportabile.
«Perché non questo?». Chiese lei all’improvviso e ci avrei giurato sul fatto che stesse per mettersi a ridere per la mia reazione di sorpresa.
«Non è un problema?». Domandai quando mi fui ripresa dall’attacco di felicità acuta. Dopo quello che avevo passato un po’ me lo meritavo, no?
Ok, non ero certo andata in guerra, ma in quel momento la notizia che mi aveva dato mia cugina mi aveva salvata dal vicolo buio in cui mi sarei certo persa se non fosse intervenuta lei.
Una poetessa nata, eh?
«Dammi cinque minuti». Rispose Martina frettolosamente, chiudendomi praticamente il telefono in faccia.
Lei era fatta così, per questo non me la presi, mi ero abituata ormai da un pezzo ai suoi modi un po’ impulsivi di fare le cose, perciò decisi di aspettare pazientemente che mi richiamasse, senza sapere neanche per quale motivo avesse interrotto la piacevolissima conversazione che stavamo avendo.
Mi rigirai il telefono tra le mani per qualche minuto, controllando ogni secondo che il segnale fosse al massimo e che rimanesse acceso. Erano precauzioni necessarie, dato che ce l’avevo da almeno cinque anni e per questo non era il massimo dell’affidabilità la maggior parte delle volte.
Mia madre e mio padre – quello attuale – avevano cercato in tutti i modi di convincermi a cambiarlo e passare a qualche cellulare più moderno – persino al popolarissimo i-phone - ma a me il “touch” faceva venire l’orticaria, senza contare che essere alla moda era l’ultimo dei miei pensieri. Indi per cui…finché il mio telefono non mi avesse abbandonata del tutto, me lo sarei tenuto stretto stretto!
Mentre stavo per richiamare mia cugina e chiederle perché i cinque minuti fossero diventati dieci, il telefono suonò annunciandomi l’arrivo di un messaggio.
Non badai neanche al nome del mittente, dato che credevo fosse proprio lei, per questo lo aprii con foga, imprecando per la lentezza disarmante di quell’aggeggio.
Sì, lo amavo, ma non poteva incepparsi proprio in quel momento!
Quando finalmente riuscii nel mio intento, lessi il testo tutto d’un fiato.

Eh sì, a quanto pare ti sei proprio dimenticata di me! u.u Se non mi faccio sentire io, tu non dai tue notizie neanche a pagarti...
News su “Tu-sai-Chi”? Sono certa che sia successo qualcosa :D
Un bacione. Ti voglio bene.

P.s: si vede che ho appena visto Harry Potter? Ahahahah!

Rosaria. Pensai sorridendo davanti a quel messaggio e scoppiando letteralmente  a ridere una volta letto il post scriptum.
La mia migliore amica si sapeva far riconoscere anche via sms, non ci fu neanche bisogno di controllare che fosse lei prima di rispondere.
E fu proprio in quel momento che mi venne un’idea geniale.

Ehi, Rosy! Hai ragione, scusa, ma purtroppo hai indovinato…sono successe parecchie cose di cui devi essere assolutamente messa a  conoscenza! Quel ragazzo mi fa impazzire, sul serio. (Nessun doppio senso :P)
Che ne pensi di una “bella gita” a Milano per questo fine settimana? Una serata tra ragazze: io, te e Marti! All’insegna del divertimento ;) Ti prego, dimmi di sì! Se i tuoi fanno storie, me ne occupo io. Non accetto rifiuti.
Un bacio enorme. Ti voglio bene.

P.s: No, non l’avrei mai detto XD

Lottai un po’ con il cellulare e alla fine riuscii ad inviare il messaggio, appena qualche secondo prima che cominciasse a squillare e il nome “Martina” lampeggiasse a caratteri cubitali sullo schermo.
«Cos’hai da dire a tua discolpa?». Risposi ironica alla telefonata, avvolgendomi nel plaid a causa del freddo glaciale che avevo cominciato a sentire all’improvviso.
Era ottobre, Santo Cielo, di quel passo la neve sarebbe arrivata in un paio di settimane al massimo, battendo il suo record di metà novembre dell’anno precedente.
«Uhm, se ti dicessi volo 18278, ore 18 e venerdì 7 ottobre mi perdoneresti?».
Mi aspettavo qualcosa di simile, ma come dava le notizie mia cugina non le dava nessuno, per questo boccheggiai in cerca di qualcosa da dire per almeno un minuto buono.
Tuttavia, alla fine optai per un'altra serie di urla isteriche, giusto per rendere meglio il concetto di felicità.
«Ok, direi che sono perdonata». Commentò lei dopo che l’ebbi elogiata a suon di complimenti per un po’, senza lasciarle neanche la minima possibilità di replicare o farmi smettere.
«Ti adoro!». Esclamai nel vano tentativo di riprendere la mia opera, ma lei mi interruppe subito.
«Sì, me l’hai già detto, ora basta, prima che mi monti la testa».
Scoppiamo a ridere insieme e ci salutammo dopo un’ora piena passata a discutere del nostro imminente super weekend, durante la quale il nome di Lorenzo non venne fatto neanche per sbaglio.
E quando le dissi “Ci vediamo venerdì” feci fatica persino a credere alle mie stesse parole.

Non appena mia madre tornò a casa, fu sorpresa nel trovarmi così su di giri: era rarissimo che mia cugina mi venisse a trovare d’inverno, anche a causa delle temperature bassissime di Milano che lei, abituata ad un clima decisamente più mite, non sopportava molto.
Sapevo che lo faceva per me e che aveva capito di quanto avessi bisogno di lei in quel periodo, per questo la ritenevo una delle persone più importanti della mia vita, se non addirittura la persona fondamentale della mia vita.
Per me c’era ed ero certa che ci sarebbe sempre stata.
Il pensiero insistente e schiacciante di Lorenzo era stato sostituito da quello della magnifica serata che avrei passato in compagnia di mia cugina e quando, dopo aver mangiato in tutta allegria – come non succedeva da parecchio tempo – con i miei genitori, ricevetti la risposta di Rosaria, raggiunsi l’apice della contentezza.

Aaaaaa! E tu queste cose me le dici così?! Non sai da quanto aspettavo una proposta del genere.
Aggiungimi pure alla lista, sei pronta a divertirti?! Ti farò, anzi faremo, dimenticare quel bellimbusto senza cervello, stanne certa :D

A venerdì, allora? Un bacio!

P.s: certo che sai proprio come farti perdonare tu, eh?


Sorrisi soddisfatta, lanciando il cellulare sul letto con poca grazia e accendendo lo stereo a tutto volume, subendo poi gli improperi di mamma e papà, che mi obbligarono a spegnerlo.
Si poteva essere più felici di quanto lo ero io in quel momento?
Lorenzo. Mi risposi da sola con uno sbuffo, lasciandomi andare ad un attimo di sconforto. Solo un attimo, però, perché ci pensò il mio cervello a riportare il tutto alla normalità.
Chi diamine era Lorenzo?!
Quel trucchetto non avrebbe funzionato per sempre, lo sapevo, ma quel tanto che bastava per non affogare definitivamente prima dell’arrivo delle mie due salvatrici, sì.


«E così domani sera sarai impegnata con un pigiama party?».
«Uhm, di solito le serate che passo con mia cugina le chiamo in un altro modo, ma anche quel termine può andare bene». Sorrisi, smettendo di seguire una noiosissima lezione di letteratura italiana su chissà quale grande autore del passato.
Davide era un’ottima distrazione durante le ore scolastiche, da quando avevamo legato era molto più divertente andare a scuola. Certo, avevo solo lui con cui parlare, ma almeno era già un passo avanti rispetto agli altri anni.
«Ho paura di chiederti quale sia l’altro modo». Commentò lui, poggiando la penna sul banco e rinunciando al mero tentativo di capire qualcosa sulla poesia che stava leggendo l’insegnante.
«Infatti fai bene ad averne». Cercai di assumere un tono inquietante, di quelli che si usano nei film horror, ma fallii anche in quel proposito e Davide scoppiò a ridere beccandosi un rimprovero della professoressa.
«È incredibile, ogni volta sono io a beccarmi i richiami!». Protestò facendo il finto broncio, ma sapevo che non avrebbe resistito neanche trenta secondi.
Soffocai una risatina e feci finta di prestare un minimo di attenzione a quello che l’insegnante stava dicendo.
«Mi dicono che ho il visino da brava ragazza». Dissi facendo spallucce, una volta assicuratami che la donna di fronte a me non ci stesse più tenendo d’occhio.
Mi piaceva da matti punzecchiarlo, forse anche più del dovuto, e la parte migliore era che lui non si offendeva; anzi, era probabilmente la persona più autoironica che avessi mai conosciuto.
«Tutta apparenza». Ribatté Davide, pizzicandomi un fianco e trattenendosi a stento dal farmi il solletico.
«Piuttosto, perché non sono stato invitato?». Domandò subito dopo, incrociando le braccia sul petto con fare accusatorio.
«Dav, è una serata tra ragazze, quindi a meno che tu non mi abbia nascosto qualcosa in questo mesetto scarso…». Lasciai volutamente la frase in sospeso e dalla faccia del mio amico capii che questa volta avevo fatto centro. L’avevo sorpreso!
«Non ti hanno mai detto che non esistono solo i ragazzi stronzi?». Lo vidi rilassarsi arricciando le labbra in un sorrisetto storto, uno di quelli che personalmente amavo molto, ed ebbi l’impressione che il riferimento ad una certa persona – distante da noi solo qualche metro – non fosse puramente casuale.
Aggrottai la fronte a mo’ di rimprovero, ma lui sembrò non farci caso, e si limitò a guardarmi con un’espressione che diceva “cosa ho fatto?”, ma che in realtà nascondeva un bel “ben ti sta”.
Gli avevo espressamente vietato di parlare di Lorenzo e lui non aveva tenuto fede alla sua parola; decisamente meritava una punizione. I miei punti deboli non andavano assolutamente toccati.
«Oh, certo che lo so». Bisbigliai avvicinandomi al suo orecchio. «Peccato che quelli belli siano tutti stronzi». Proseguii fingendomi delusa della mia stessa constatazione. La risposta di Davide non arrivò, perciò sorrisi compiaciuta e distolsi lo sguardo per godermi appieno la mia vittoria.
Con la coda dell’occhio lo osservai muoversi, visibilmente nervoso, e ci impiegò ben due minuti per riprendersi.
 «Ok, hai vinto tu». Confessò, come se avesse appena espresso ad alta voce il risultato dell’ultima vinta dal Milan (lui era schifosamente interista). «Ah, e grazie per avermi dato del “cesso”, in ogni caso». Aggiunse poi in tono ilare, contagiando anche me in neanche due secondi.
Quelle erano le tipiche conversazioni che avvenivano tra di noi. Ci comportavamo come due bambini – o perfetti idioti che dir si voglia –, prendendoci in giro a vicenda finché uno dei due non cedeva e poi ci lasciavamo andare ad almeno un quarto d’ora di risate.
Come ogni lezione passata a parlare di cavolate, anche quella passò abbastanza in fretta e ne sarei stata felice se, girandomi al cambio dell’ora per chiedere una cosa a Davide, non mi fossi trovata  lui davanti.
«Che vuoi?». Gli chiesi acida, mentre si sistemava comodamente sulla sedia accanto alla mia.
«Quanto zucchero». Rispose Lorenzo sarcastico, passandosi volutamente la lingua sulle labbra.
«Credevo ti desse fastidio che gli altri ci vedessero insieme». Tentai di calmarmi un po’, prima che la rabbia mi annebbiasse completamente il cervello – ponendo fine al mio autocontrollo -  e per evitare di finire dritta dal Preside per aver scatenato una rissa con un compagno.
Lore fece spallucce, portandosi le mani dietro la testa nel classico gesto da “me ne frega di tutto e di tutti”. «Finché manteniamo le distanze va bene».
Parlò con una tale nonchalance che lo avrei preso veramente a pugni da un momento all’altro.
«Arriva al punto». Lo esortai, conficcandomi le unghie nella pelle delle mani per sfogare il mio nervosismo.
«Credevo ti piacessero i preliminari!». Si difese lui con falsa sorpresa, ma qualcosa in me gli fece capire che non era il momento adatto per scherzare, perché si schiarì la voce e tornò serio.
«Oggi pomeriggio alle 4 da me». Disse solamente, come se invitarmi a casa sua fosse una cosa normalissima.
«Come?!». Chiesi alzando la voce di un paio di ottave, ma nessuno ci badò dato l’anarchia totale che vigeva in classe.
Lorenzo si aprì in un sorriso malizioso ed ammiccò. «C’è mia mamma, tranquilla, non ti salto addosso».  
«Sparisci immediatamente dalla mia vista, prima che ti renda mostruoso a suon di pugni». Lo minacciai allora, puntandogli persino il dito contro.
«Wow, mi piace questa grinta». Commentò lui, ignorando apertamente il mio ammonimento e rimanendo inchiodato su quella maledetta sedia.
Ma perché diavolo Davide aveva lasciato il suo posto? Dove si era cacciato?!
«Lorenzo, non sto scherzando». Scandii bene le parole, marcando con decisione sul suo nome per fargli afferrare il concetto, ma dalla sua risposta capii che con lui le buone maniere non sarebbero mai servite.
«Nemmeno io».  Disse infatti, con apparente sincerità. «Casa mia alle 4, dobbiamo parlare». Ripeté con la stessa tranquillità.
«Tu vuoi parlare?». Scoppiai a ridere come davanti alla migliore delle battute, ma Lorenzo non si scompose di una virgola, segno che diceva sul serio.
«Ok, mi stai spaventando». Gli confessai ironica. «Non è da te tutto questo, dimmi cosa vuoi e falla finita».  Aggiunsi con una smorfia spazientita.
Lorenzo sbuffò scocciato, per poi alzarsi in piedi di scatto e piegarsi leggermente per farsi sentire meglio. «Ho sbagliato a dirti quelle cose, ok? Perciò vorrei rimediare». Lo vidi guardarsi intorno furtivamente per poi tornare a posare gli occhi su di me.
No, non mi sarei lasciata ammaliare dalla loro bellezza.
«Sai che ti dico? Sei solo un bamboccio viziato, va’ a quel paese». E per fortuna ci pensò l’arrivò della prof a mettere un punto a quella discussione, dalla quale probabilmente sarei uscita sconfitta.
Attesi non troppo pazientemente l’inizio della lezione successiva. Prima fosse cominciata, meglio sarebbe stato: sentivo il sangue ribollirmi nelle vene, più cercavo di convincermi che in lui non c’era niente di buono e più una parte di me mi convinceva del contrario.
Dovevo darci un taglio, sentivo che se avessi continuato in quel modo sarei  potuta scoppiare da un momento all’altro. Mi restava solo da sperare che il fatidico “momento” coincidesse con la serata di venerdì, durante la quale almeno avrei avuto qualcuno su cui fare affidamento.
«Oh, oh. Quella faccia non mi piace». Disse Davide allarmato, riprendendo il suo posto di tutta fretta.
Bell’amico, si faceva vedere quando ormai i danni erano fatti.
«Va’ al diavolo anche tu, traditore! Lasciarmi sola, tra le grinfie del lupo cattivo…che cosa crudele!».
«Sicura di stare bene?». Domandò il mio amico perplesso.
«No che non sto bene!». Quasi urlai per sfogare la rabbia. «Quel cretino di Lor…».
«Mori, vuoi andare a farti un giro?». Mi interruppe la prof, parecchio alterata a dire il vero, facendomi diventare rossa dalla vergogna, tra le risate generali della classe.
Fantastico, eravamo arrivati persino al punto in cui lui – sì, sempre lui – mi faceva fare pessime figuracce con gli insegnanti!
«Sì, prof, credo di averne bisogno». Annunciai dopo qualche attimo di riflessione, e senza neanche aspettare il suo reale consenso, uscii dall’aula sotto gli occhi sbigottiti dei miei compagni di classe.

Per fortuna le conseguenze della mia “fuga” dall’aula non furono eccessive. L’insegnante aveva benevolmente compreso che c’era qualcosa che non andava nella mia vita nell’ultimo periodo – a sua detta ero diversa dall’inizio dell’anno – perciò si era limitata a farmi un discorso sui problemi dell’adolescenza - che non ero stata neanche a sentire - e ad esprimere tutta la sua disponibilità ad aiutarmi qualora ne avessi avuto bisogno.
Non male come risultato, no? Mi sarebbe potuta andare molto peggio, considerando i precedenti di alcuni miei compagni che avevano fatto più o meno la stessa cosa, e la punizione meno indulgente che mi sarebbe potuta capitare – in quel caso – era la pulizia intensiva del Trash; luogo che tra l’altro odiavo quasi quanto colui che poco tempo prima mi ci aveva chiuso dentro.
Se quel giorno non mi fossi ribellata forse non sarei arrivata a quel punto di non ritorno in cui mi ero cacciata.

Non dissi più una parola. Non parlai con Davide, non risposi alle battutine derisorie di Curcio e sviai persino le domande di ripasso che i professori mi rivolsero.
Era stata una giornata decisamente da dimenticare, insomma, per questo quando suonò l’ultima campanella me la filai a gambe levate…almeno finché qualcuno non mi bloccò la strada proprio all’uscita principale.
«Davide, per favore…». Lo implorai cercando un passaggio libero tra la sua figura decisamente troppo alta e la porta dell’atrio.
«Niente da fare, tu adesso ti calmi e – senza fare storie – vieni con me a mangiare qualcosa da “Bourbon”*».
«Ho bisogno di stare da sola, mi dispiace». Risposi a malincuore.
Seppur la sua proposta fosse assolutamente gentile ed apprezzabile, non desideravo parlarne con nessuno. Avrei affrontato il problema da sola e l’avrei superato come sempre.
Anche se “superato” era una parola grossa e forse sarebbe stato più appropriato dire “evitato”, invece.
«No, tu hai bisogno di qualcuno che ti ascolti». Ribatté lui senza muoversi di un millimetro e con una dolcezza tale che mi sentii la persona più detestabile del mondo a rifiutare il suo aiuto.
Avvertii le lacrime pungere negli occhi, pronte ad uscire. Mi morsi un labbro per non piangere e scossi la testa lentamente, abbassando lo sguardo…certa che avrebbe capito.
E cosi fu.
Senza aggiungere altro si fece da parte e mi lasciò passare, ma riuscii chiaramente a vedere la delusione nel suo sguardo appena prima che lo superassi di corsa…ed ero certa che quell’espressione amareggiata avrebbe continuato a tormentarmi a lungo.
Davide non meritava di essere messo da parte in quel modo, avevo capito che a me ci teneva davvero, e io – tuttavia – l’avevo ripiegato ad uno degli ultimi gradini delle persone in grado di starmi vicino.
Ma cosa avevo in testa?
Solo un nome, uno ed uno solo, sempre lo stesso e che non aveva intenzione di lasciarmi in pace.

Ero un completo impiastro.
Tutto quello che mi circondava era un irrimediabile disastro. E l’unica speranza che nutrivo l’avevo riposta in Martina, certa che non me ne sarei pentita.  Ma potevo davvero esserlo in maniera così assoluta?
Mentre raggiungevo la fermata dell’autobus captai distintamente la risposta nella mia testa; ed  era un no: con Lorenzo Belli niente poteva essere sicuro.

Il pullman quel giorno aveva deciso di passare in ritardo ed ovviamente Lorenzo non aveva trovato nessun passaggio in macchina per il ritorno, per cui me lo ritrovai fin troppo vicino in un momento in cui anche il solo pensare a lui era diventato insostenibile.
Fissai senza particolare interesse la strada, osservando distrattamente le macchine sfrecciare impazzite, e non desiderando altro che tornare a casa il prima possibile. Ma solo pochi istanti dopo accadde la cosa più assurda di quella terribile giornata, quando ormai credevo che il peggio fosse passato e che niente di più drammatico potesse succedere.
Non feci in tempo neanche a mettere a fuoco la scena  che delle urla spaventate mi penetrarono nelle orecchie come degli spilli troppo appuntiti, mentre tutti i passanti si affrettavano a raggiungere incuriositi la mia stessa fermata dell'autobus.
In pochi secondi mi ritrovai in mezzo al caos più totale, con una folla di persone preoccupate tutto intorno e Lorenzo e Davide al centro dell'attenzione.
Era stato un attimo, ero riuscita solo a vedere Davide venire verso di me, rivolgere il suo sguardo alle mie spalle e deviare immediatamente il suo percorso in quella direzione, per poi sferrare un pugno in piena faccia a Lorenzo.
Non ero riuscita nemmeno a gridare, ci avevano pensato gli altri presenti a farlo, e l'unica cosa che feci fu fissarli impotente e scioccata, mentre alcuni ragazzi tentavano di dividerli.
«Che cazzo ti è preso, si può sapere?!». Sbraitò Lorenzo in direzione dell'amico, mentre tentava invano di liberarsi dalla presa di Curcio e Lonta.
«Qualcuno doveva pur farlo prima o poi, non credi?». Ribatté Davide apparentemente tranquillo, ma il suo sguardo e le sue mani chiuse a pugno non mentivano: l'avrebbe fatto volentieri nero.
Non riuscivo a credere ai miei occhi. Era la prima volta che vedevo Davide così furioso con qualcuno, lui che era il ragazzo più calmo e ricco di autocontrollo che conoscessi...che cosa gli aveva fatto Lore di tanto grave da spingerlo ad attaccar briga con lui, che per giunta sarebbe stato in grado di metterlo al tappeto con un solo colpo se solo avesse voluto?
Una parte del mio cervello mi suggeriva la risposta, ma non era possibile, non potevo essere io la causa.
«Ragazzi, mollatemi». Disse Lorenzo tra i denti rivolto ai due amici che lo stavano trattenendo e nel contempo cercavano di calmarlo.
«Sì, certo, così ti becchi una sospensione di un mese». Lo redarguì Curcio facendo forza per spingerlo indietro, di qualche passo più lontano da Davide.
«Sì, dai, lasciatelo andare». Disse l'altro in tono provocatorio. «Così magari gli posso aggiustare quel cervello bacato che si ritrova a suon di pugni».
A quelle parole Lore scoppiò di rabbia. Cominciò a dimenarsi come un ossesso, tirando calci a destra e sinistra finché i suoi amici non lo lasciarono andare.
«Amico, l'hai voluto tu...». Lo ammonì Lonta tirandosi indietro, mentre un paio di ragazze fecero l'ultimo disperato tentativo di fermare Lorenzo.
Proprio quando cominciai a temere il peggio, però, una ragazza minuta e in lacrime vicino a Davide - che non avevo notato perché coperta da uno degli amici del suddetto - intervenne tirando il ragazzo per un braccio.
 «Davi, basta!». Urlò tra i singhiozzi e Davide si fermò all'improvviso, come paralizzato dalla voce della ragazza,  guardandola poi come se fosse impazzita.
Ma Lorenzo non sembrava così intenzionato a seguire il suo esempio, sebbene anche lui fosse rimasto sorpreso da quell'intervento inaspettato.
Sentivo di dover fare qualcosa, anche a costo di pentirmene, perché anche  se magari  non ero la causa principale di tutto quello che stava succedendo, perlomeno lo ero in parte.
«Lore, non fare stronzate». Dissi avvicinandomi a lui, sotto gli occhi increduli degli altri miei compagni di classe, Curcio e Lonta in primis.
Lorenzo si voltò verso di me a rallentatore, come se non credesse di aver sentito sul serio la mia voce, e quando mi vide rimase per un po' immobile, con la classica espressione di chi non sa cosa dire o pensare.
Tuttavia, il suo attimo di confusione durò pochissimo, perché mi sorrise in un modo talmente freddo da farmi gelare il sangue nelle vene.
«Mori, sparisci». Disse infatti, accompagnando il tutto con un gesto eloquente della mano. Ma se credeva di ferirmi con quei suoi orribili modi di fare si sbagliava di grosso, ormai lo ero già in abbondanza, la sua stronzaggine non avrebbe potuto sortire più alcun effetto.
«Scordatelo». Risposi con decisione, mettendomi praticamente davanti a lui, mentre la ragazza che non conoscevo parlava con Davide. Sapevo di non poter fare lo stesso, ma speravo almeno di riuscire a prendere abbastanza tempo per permettere al mio amico di andarsene prima di prenderle sul serio.
Lorenzo mi fulminò con lo sguardo, ma non mi parve propenso ad alzare le mani persino su di me.
Almeno un minimo di galanteria doveva averla, no?
«Non ti devi intromettere, è una questione che riguarda solamente me e lui». Mi minacciò, tenendo contemporaneamente d'occhio la situazione alle mie spalle.
«Ed è proprio qui che ti sbagli!». Esclamai senza pensarci, forse in modo troppo avventato, ma almeno riuscii ad ottenere la sua  attenzione.
«Guardate la piccola Mori come tira fuori le unghie per difendere il suo amico». Disse sarcastico uno dei presenti, che neanche mi sforzai di riconoscere.
«Vi ricordo che lo è anche del vostro capo».
«Era, volevi dire». Mi corresse Lore facendo una smorfia quasi offesa.
Scossi la testa e controllai velocemente la situazione: Davide stava ancora discutendo animatamente con quella ragazza, tuttavia mi sembrava molto più rilassato e disposto a ragionare di prima.
«Se Davide l'ha fatto c'è sicuramente un motivo, e questo tu dovresti saperlo meglio di me». Dissi rivolta a Lorenzo, tentando di fare leva sulla sua coscienza. Ma ne possedeva davvero una?
«Aspetta, tu credi davvero di c'entrare qualcosa in tutto questo?». Mi chiese sarcastico, fingendo poi una risata.
«Perché no?».
Il mio riferimento a quello che c'era stato tra di noi era fin troppo chiaro, e nonostante lui facesse finta di non capire, sapevo che era tutta una montatura.
«Sai chi è quella ragazza?». Mi domandò Lore, facendo un cenno in direzione di Davide, ma senza mai distogliere lo sguardo dal mio.
Credevo che il suo fosse solo un modo per cambiare discorso, tuttavia negai con la testa e attesi la sua risposta.
Notai con sollievo che era tornato alla sua solita indifferenza, ma sapevo che era meglio non abbassare la guardia con lui, e infatti poco dopo si lasciò andare ad una risatina fastidiosa, guardandomi con quella sua aria di superiorità.
«Che stupida sei stata a pensare che lo abbia fatto per te». Disse in un sussurro, in modo che i suoi amici non potessero sentirlo. «A nessuno importa di quello che ti succede, ok? Perciò smettila di andare a piangere dai tuoi amici per ogni cosa».
Ogni sua parola fu un piccolo squarcio nel mio petto. Probabilmente era la cosa più crudele che mi avesse mai detto, ma non meritava altre lacrime da parte mia, ne avevo già versate troppe; raccolsi tutto il dolore che avevo accumulato dentro a causa sua e gli tirai uno schiaffo in pieno viso, nella stessa guancia arrossata dal pugno di Davide.
Lore accusò il colpo e sembrò sul punto di ricambiare, ero certa di avere puntati addosso tutti gli occhi dei presenti, tuttavia non mi mossi di una virgola, in attesa della sua reazione.
Era stato gratificante oltre ogni immaginazione colpirlo con tutta la mia forza, ma ancora di più lo fu vedere lo shock nel suo sguardo.
Ero riuscita a sorprenderlo, a dimostrargli che non ero in suo pugno come invece credeva, e questa era senz'altro la vittoria più grande che avrei mai potuto ottenere contro di lui.
Guardai i suoi amici corrergli ancora una volta incontro, ma qualunque domanda gli rivolgessero, lui non la prendeva neanche in considerazione; continuò imperterrito a massaggiarsi la guancia perso nei suoi pensieri, lanciandomi invisibili scintille di fuoco con gli occhi. E mi sentii sicura di poter affernare che per una volta c'ero io nella sua testa.
Dopo qualche minuto di tranquillità, poco prima che l'autobus finalmente arrivasse, Davide si avvicinò a Lorenzo, accompagnato dalla solita ragazzina, che ora lo teneva sotto braccio con un accenno di sorriso.
«Cosa vuoi, ancora?». Si lamentò Lore annoiato, dimostrando scarso interesse per quello che il suo (ex) amico aveva da dirgli.
«Solo dirti che se ti dovessi prendere ancora gioco di mia sorella non te la caverai con una guancia rossa».
Sua sorella? Quella accanto a lui era sua sorella?!
In pochi secondi tutto mi fu più chiaro e sentii un pizzico di delusione nel realizzare che in fondo quello che Lorenzo mi aveva detto non era del tutto sbagliato.
Certo, magari aveva usato parole forti e pungenti, ma la realtà non era tanto diversa, né meno crudele.
«Tutto qui?». Chiese Lore con un'alzata di spalle. «Tranquillo, non ho la minima intenzione di avvicinarmi ancora a lei. Sai, è stato tutto abbastanza deludente».
La sua allusione volutamente provocatoria non sortì alcun effetto su Davide, che sorrise di rimando e rispose: «Bene, perché credo che Carol abbia qualche cosetta da dire in proposito alla tua fidanzata».
Lore alzò un sopracciglio scettico, neanche minimamente turbato dalla possibilità di perdere Diana. «Se questa è la tua vendetta, fai pure, non me ne importa nulla, anzi mi stai facendo un favore».
E dalle sua parole ebbi la conferma che per lui i sentimenti non significavano nulla, riduceva tutti rapporti con l'universo femminile a qualcosa di puramente fisico, mentre quelli con le persone del suo stesso sesso consistevano in una semplice ammirazione sconsiderata degli altri nei suoi confronti.
Io ero davvero più sola di lui, ma esclusivamente dal punto di vista materiale, perché per tutto il resto Lore lo era molto più di me e la cosa più triste era che non voleva far niente per cambiare questo aspetto della sua vita, mentre io mi battevo ogni giorno.
«Se hai finito con le minacce puoi anche andare, la tua fermata se non sbaglio è dall'altra parte». Continuò scocciato, vedendo che Davide non accennava ad andarsene.
«No, ancora un'ultima cosa». Disse Dav, facendo scomparire il finto sorriso dalle sue labbra.
Fece una breve pausa e mi rivolse una altrettanto breve occhiata.
«Mia sorella non è l'unica da cui devi stare lontano, e non c'è bisogno che faccia nomi, vero?».
Nessuno sembrò capire a chi si riferisse Davide, e se proprio lui non mi avesse guardata prima di parlare probabilmente non lo avrei capito neanche io.
In quell'esatto momento, mentre tutti bisbigliavano le più svariate congetture sul nome della "fortunata", l'autobus frenò bruscamente davanti a noi e Lore si alzò ignorando la domanda di Davide; almeno finché tutti non furono saliti.
«Tienitela pure quella secchioncella da quattro soldi, faccio volentieri a meno anche di lei».
Non badai nemmeno a quella risposta, era arrabbiato con me e quindi era impossibile capire quale parte di ciò che aveva detto fosse vera e quale no.
Salutai Davide con una mano e gli mimai un "grazie" con le labbra, prima di seguire Lorenzo sul pullman e prendere la direzione opposta alla sua.


Arrivai a casa tremendamente stanca, sia fisicamente che psicologicamente.
Per tutto il viaggio di ritorno non si era fatto altro che parlare della lite e quindi ero stata costretta ad ascoltare almeno dieci versioni diverse dell’accaduto, ognuna delle quali arricchita con uno o più particolari inventati.
Nel dettaglio, una delle tante mi aveva colpita, sia per la fervida fantasia di chi l’aveva costruita ad arte che per l’ironia di quanto in parte fosse vera, peccato che nessuno l’avesse creduta possibile.
Secondo l’inventore della storia, Davide aveva preso a pugni Lorenzo per dieci minuti buoni perché il suo presunto migliore amico, ad una festa della sera prima, si era “fatto” – così aveva detto, senza specificare in quali termini – la sorella.
Stando alle voci, Carol – così si chiamava – aveva sempre avuto un debole per Lorenzo, che per anni non aveva fatto altro che ignorarla, definendola troppo piccola e appiccicosa per i suoi gusti, ma cedendo alla tentazione quando lei gli si era praticamente appiccicata addosso.
Sempre secondo i rumors, quello che aveva fatto imbestialire Davide, però, non era stato tanto l’accaduto in sé, ma bensì il fatto che Lorenzo frequentava ufficialmente Diana e questo l’aveva portato a credere che la sorella per lui era stato solo un modo per divertirsi e “trasgredire” le regole di un rapporto di coppia.
Fin qui la storia era piuttosto credibile, e a mio parere poteva anche essere veritiera (tranne per il particolare dei dieci minuti di pugni), se non fosse stato che – non contento –  aveva elaborato una teoria pure per il mio intervento.
In pratica, come se la relazione con Diana non bastasse, Lorenzo si vedeva di nascosto anche con me – che ero d’accordo con il “ménage a trois” – ma non essendo a conoscenza della sbandata con Carol mi ero infuriata e avevo aiutato Davide a picchiarlo brutalmente.
Non appena quest’ultima parte era venuta fuori, tutti gli ascoltatori erano scoppiati a ridere e si erano complimentati con il pettegolo per l’inventiva senza eguali.
Ma perché risultava così difficile credere che io potessi stare con Lorenzo? Insomma, cosa avevo in meno di lui?
Certo, non ero bella da mozzare il fiato, non avevo corteggiatori pronti a comparire dietro l’angolo e né tantomeno cambiavo partner ogni settimana; ma non mi ritenevo nemmeno così fuori dalla sua portata…non ero mica un mostro!
Il carattere. Mi risposi da sola dopo averci pensato a lungo.
Eravamo incompatibili sotto quel punto di vista, praticamente i due poli opposti, oppure le due facce di una stessa medaglia, lui aperto allo svago e io precisina e abbastanza studiosa, lui molto estroverso e io troppo chiusa.
E allora che fine aveva fatto il detto “gli opposti si attraggono”? Io lo avevo imparato in quei pochi giorni passati a stretto contatto con Lorenzo quanto fosse vero, ma nessun altro sembrava crederci e comunque ormai non aveva più importanza.

Mangiai controvoglia per evitare di suscitare sospetti in mia madre ed andai subito a chiudermi in camera mia, dove neanche due secondi dopo suonò il mio cellulare.
Un nuovo messaggio.
Da Davide.
Mi sedetti sul letto per leggerlo e mentre si apriva mi chiesi cosa mai volesse dirmi di così urgente da ricorrere agli sms (sapeva quanto li odiavo).
Sentivo il cuore battere sempre più velocemente nel mio petto, riflesso incondizionato dell’ansia che mi era montata addosso, e quando finalmente ebbi il testo davanti mi pentii amaramente di averlo aperto.

Scusa per la terribile scenata a cui hai dovuto assistere oggi, ma ero fuori di me. Quel coglione ha fatto credere a mia sorella di avere qualche reale possibilità con lui, quando tutti sappiamo che non è così, e venirlo a sapere dopo che ti avevo visto in quello stato mi ha fatto esplodere di rabbia.
Sono certo anche che ti ha detto delle crudeltà quando ti si è avvicinato per non farsi sentire, vero? Qualunque cosa fosse, sappi che era arrabbiato per la mia scenata, e che probabilmente ha ingigantito il tutto per ferire anche te e non essere l’unico a soffrire.
Nonostante tutto io credo che gli darò un’altra possibilità, se ha fatto quel che ha fatto doveva essere proprio incasinato (e credo di sapere il perché)…tu che cosa hai intenzione di fare, lo perdonerai mai?
È uno stupido, lo sappiamo benissimo entrambi, ma se vuoi parlarne con me sai dove trovarmi e sono certo di poterti aiutare. Credo che tu debba sapere alcune cose su di lui.
Scusa per il poema XD Ci vediamo domani a scuola. Ti voglio bene.

In due secondi tutta la mia risolutezza nel mettere la parola fine a tutta quella storia si era frantumata.
Davide non era tipo da bugie, se mi aveva detto che aveva qualcosa da dirmi a proposito di Lorenzo allora era vero.
E se lui aveva intenzione di perdonarlo, dopo tutte le crudeltà che - magari per rabbia - aveva detto a lui e sua sorella, evidentemente non riteneva la faccenda tanto importante, e forse per gli stessi motivi di cui voleva mettermi a conoscenza.
Tuttavia, le nostre posizioni erano completamente diverse.
Nel mio caso, era stato proprio Lorenzo ad allontanarmi, lui mi aveva messo davanti a quella scelta e io avevo preso l'unica decisione possibile.
Non ci sarebbe stato  alcun futuro per noi due se avesse continuato a comportarsi in quel modo egoista. Non era quello il Lorenzo che volevo al mio fianco, se lui non aveva intenzione di affezionarsi seriamente a qualcuno, allora non ero interessata a perdere tempo con una relazione senza alcuna via di uscita, in cui avrei continuato ad alternare momenti di felicità assoluti a giorni di grande sofferenza.
Mi rendevo sempre più conto che quello che provavo nei suoi confronti stava prendendo una piega troppo pericolosa;  avrei fatto meglio a interrompere tutto sul nascere, non potevo permettere ai miei sentimenti di farmi apparire debole davanti a lui.
Sarebbe stata praticamente la mia fine.
Cancellai tutti quei pensieri dalla mia mente e risposi al messaggio di Davide, seppur con qualche difficoltà.

Non ti preoccupare, chiunque avrebbe fatto lo stesso al posto tuo :)
Ti prometto che parleremo il prima possibile, ma per il momento ho seriamente bisogno di fare chiarezza su molte cose...da sola.
Riguardo al perdono, non credo di farcela, non adesso almeno.
Non lo odio, ma non posso rischiare...capisci cosa intendo? Probabilmente no, ma a dire il vero neanche io, perciò lascia stare.
A domani, ti voglio bene compagno di banco cerca risse :P

Avevo cercato di apparire sicura e in grado di gestire la situazione, ma in realtà non avevo la più pallida idea di cosa fare, avrei atteso semplicemente l'arrivo di Martina e Rosaria; di certo loro avrebbero saputo darmi consigli su come impedirmi di innamorarmi di uno stronzo prima che fosse troppo tardi.
O almeno speravo di essere ancora in tempo.






Note:

*Bourbon è una specie di rosticceria, assolutamente inventata e che non ho la più pallida idea se esista davvero a Milano XD


Hola a tutti, sono tornata! :D
Innanzitutto Buon Natale e Felice anno nuovo!
Scusate ancora per il ritardo nell'aggiornamento ma con le feste di mezzo non ho avuto molto tempo per scrivere e quindi ci ho messo un po' di più per finire il capitolo!
Siccome ho visto che avete apprezzato la lunghezza di quello precedente, ho deciso di mantenere anche questo sulle 20 e passa pagine, sperando che non risulti troppo pesante.
Ok, passiamo agli avvenimenti principali :
  • La "rottura" (ma de che?) tra Giorgia e Lorenzo! Ve l'aspettavate? Be', a mia discolpa ho da dire che nello scorso capitolo vi avevo messo in guardia...era logico che ci fossero delle conseguenze e purtroppo eccole qui ç_ç Sul fatto che il biondino sia un po' confuso ormai non ci sono dubbi e quando Giorgia prova a "scalfire" il suo muro, lui si chiude in difesa e le dice in malomodo di non intromettersi nella sua vita, perciò ancora una volta la nostra protagonista è costretta a fare una scelta: se Lorenzo non ha intenzione di cambiare ed è deciso a rimanere lo "stronzo" che è stato per sette anni, allora è meglio accantonare le speranze e finirla prima che tutto precipiti . 
  • La doppia (o tripla?) relazione di Lore. Su questo punto so che molte di voi staranno dando a Giorgia della stupida per aver deciso di continuare a "stare" con Lorenzo nonostante il suo fidanzamento ufficiale con Diana, ma ingenuamente lei crede di poter tirare fuori il meglio di Lorenzo ed è convinta che in lui ci sia ancora qualcosa del suo ex migliore amico. Ben presto però capisce che in realtà non ha la minima intenzione di mostrare apertamente quel lato del suo carattere e che vuole rimanere esattamente com'è: freddo e scostante. A Giorgia questo non sta bene e quindi rinuncia al suo desiderio di riconquistarlo.
  • L'organizzazione del "weekend party" con Martina e Rosaria. Finalmente Giorgia potrà sfogarsi liberamente con le sue due migliori amiche, che daranno un contributo fondamentale alla storia...ooops, fate finta che non vi abbia detto nulla XD
  • La rabbia di Davide. A questo proposito devo dire che Davide ha sì cercato di fare a botte con il suo migliore amico principalmente per quello che è successo con la sorella, tuttavia, il motivo del suo "scoppio" non è solo questo, ma una serie di eventi che hanno avuto il culmine nella sua personale "realizzazione" di quanto Giorgia soffra per la sua relazione con Lorenzo. La loro amicizia è diventata molto forte, e anche se lei lo esclude da quasi tutte le sue decisioni, Davide è deciso ad aiutarla e farà il possibile per riuscirci...anche confessargli i segreti più segreti del suo migliore amico. 
  • Ultimo punto, ma non meno importante...Giorgia capisce che si sta innamorando di Lorenzo e questo non va assolutamente bene, da questo sentimento non potrà mai ricavare nulla di buono e per questo decide di fare affidamento sui consigli delle sue ultime "speranze". 
Oddio, ho scritto troppo, ma ci tenevo a chiarire alcuni punti che - mi rendo conto - possono risultare un po' "forzati" o "strani".
Non credo di dover aggiungere altro alla spiegazione del capitolo, se non l'augurio che vi possa piacere e che non vi abbia deluso. Dopo le vostre bellissime recensioni sullo scorso capitolo, non lo vorrei mai e poi mai...sarebbe una mia personale sconfitta T.T
E a questo proposito volevo ringraziarvi una per una per le bellissime parole che mi avete regalato; quindi un enorme grazie a: HazelStardust, Stella nera, mery_dec_, happyness elly, eveline90, Miss Demy, AntoJosephine, MakaGD e Deilantha.
Arrivare a 9 recensioni per un capitolo è stato il più bel regalo di Natale che avreste potuto farmi! THANK YOU!

Ma grazie anche a chi ha aggiunto la storia tra le preferite, ricordate e seguite!
Vorrei dirvi grazie in tutte le lingue del mondo, ma purtroppo ne conosco solo due e mezza, per cui...vi saluto e vi mando un grosso bacio.
Alla prossima,
Veronica.

P.s: vi chiedo scusa se per caso ci dovessero essere alcuni errori, ho letto e riletto il capitolo ma potrebbe essermene sfuggito qualcuno, per cui perdonatemi!


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Capitolo 10
*** Vecchie e nuove conoscenze. ***


Capitolo 10 prova
Ed eccomi qua - dopo tanto tempo - per un nuovo aggiornamento! Scusate il ritardo!

Questa volta, prima di lasciarvi alla lettura, però, è necessario che leggiate il seguente avviso:

Recentemente l'amministrazione del sito mi ha fatto notare l'esistenza di alcune somiglianze tra la mia storia, "Nonostante tutto", e quella dell'autrice "_Bec_", dal titolo "Tra l'odio e l'amore c'è la distanza di un bacio", che potete trovare a questo indirizzo: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=474329&i=1 .
Ci tengo a specificare che non era assolutamente mia intenzione infrangere il regolamento del sito, e quindi creare questa spiacevole situazione, perciò chiedo scusa all'autrice (a cui sarò lietissima di fare le scuse in privato), a voi lettori e all'amministrazione, che è stata davvero paziente e disponibile con me.
Davvero, mi dispiace moltissimo per tutto quello che è successo. E dato che mi trovo nella sezione "originali", provvederò al più presto - e gradualmente, dato il poco tempo che ho a disposizione - ad eliminare e/o sostituire questi punti in comune tra le due storie.


Bene, non mi resta che augurarvi buona lettura...ci "vediamo" giù ;)


Capitolo 9: Vecchie e nuove conoscenze



L'aeroporto non era mai stato così deserto.
Il periodo non era certo dei migliori, ma faceva comunque uno strano effetto vedere quel posto, sempre gremito di gente intenta a spostarsi con più o meno velocità in direzione dei rispettivi gate, vittima di una tale desolazione.
Quel giorno Milano era, se possibile, ancora più fredda; in ogni angolo della città - le relativamente poche persone che avevano deciso di uscire a dispetto del tempaccio - erano imbottite dalla testa ai piedi, con sciarpe, cappelli, guanti e cappotti degni del miglior sciatore; mentre il solito cielo grigio aveva lentamente cominciato a tendere al bianco, chiaro segno dell'imminente nevicata.
L'aereo delle 18 era in ritardo, proprio a causa del maltempo, e io attendevo con ansia l'arrivo di Martina, fantasticando nel frattempo su come sarebbe stato il nostro incontro.
Avevo decisamente bisogno di un abbraccio stritolatore, addirittura più forte di quelli che ci scambiavamo quando ci rivedevamo dopo un intero anno di lontananza, che mi facesse veramente capire che mia cugina era lì, pronta a darmi il suo sostegno e il suo aiuto.
Continuavo costantemente a guardare il tabellone degli arrivi, sperando che il ritardo non aumentasse ulteriormente, e ogni tanto scambiavo qualche chiacchiera con mio padre, che mi aveva accompagnata lì risparmiandomi un terribile viaggio in metropolitana.
Dopo circa un'ora d'attesa - troppa - finalmente l'aereo atterrò e io mi precipitai verso l'uscita del gate, sotto gli occhi attoniti di papà, che mi chiamò come se fossi impazzita.
Non passò molto tempo prima che vedessi il suo sorriso raggiante e i suoi lunghissimi capelli biondi fare capolino dal nulla, insieme al suo solito trolley rosa che avrei volentieri fatto a pezzi; e fu inevitabile constatare quanto mi fosse mancata, soprattutto quando le corsi incontro e lei, prima di stringermi, mi disse: “Sono qui, adesso non devi preoccuparti più di nulla”.
Fu difficile trattenere le lacrime di gioia e se ci riuscii fu solo perché mio padre ci raggiunse poco dopo, interrompendo il nostro momento perfetto e rimproverandomi per essermi allontanata in quel modo. Forse non sapeva che non ero più una bambina, ma d’altronde non aveva mai avuto a che fare con dei figli, come potevo biasimarlo?
Per fortuna la ramanzina non durò molto, perché si concentrò quasi immediatamente su Martina, salutandola affettuosamente e offrendosi di portarle la valigia. In quanto a galanteria, mio padre era semplicemente perfetto, in poche parole l’emblema di come un uomo avrebbe dovuto essere, e non mi riferivo solo a quelle particolari occasioni, ma ai piccoli gesti quotidiani che l’avevano reso ai miei occhi così speciale.
Il viaggio verso casa fu monopolizzato da mia cugina, che cominciò a raccontarci delle sue “sventure” di viaggio e di come Milano la rendesse triste, facendo anche riferimento all’umidità che le arricciava i capelli e al freddo che l’aveva costretta ad indossare abiti pesanti. Era un po’ vanitosa – se così vogliamo definirla – a volte, ma quando si trattava di farsi in quattro per le persone, allora diventava la ragazza più dolce e premurosa del mondo e non l’avrei scambiata con nessun altro, assolutamente.
 
Quando arrivammo a destinazione era ormai ora di cena e il che significava che Lorenzo era certamente a casa. Se c’era una parte della giornata che passava sicuramente con la famiglia, quella era la sera, l’avevo imparato con il tempo e ovviamente mia madre aveva avuto un ruolo fondamentale in tutta questa “conoscenza” indiretta.
Lanciai una fugace occhiata alla porta di fronte alla mia, con il cuore a mille per la possibilità che potesse uscire proprio in quel momento, e quello che mi sorprese fu vedere Martina fare la stessa identica cosa, con la differenza che il suo sguardo era carico d’odio, mentre il mio rifletteva lo stesso mix di sentimenti, senza forma né consistenza, che provavo.
A quel punto mi uscì un sorriso spontaneo, perché vederla così agguerrita e pronta a rivoltare il mondo pur di difendermi non poteva che rendermi felice. In fondo era proprio ciò di cui avevo bisogno, anche se questo poteva essere considerato un po' egoistico da parte mia.
«Ragazze, avete intenzione di stare sul pianerottolo a vita?». Ci richiamò mio padre ancora sull'uscio e, dopo esserci scambiate uno sguardo complice, entrammo in casa, dove per l'enorme gioia di Marti c'erano almeno quaranta gradi.
Fino a quel momento, l'unico posto dove mi ero sempre sentita al sicuro era casa mia, per questo mai mi sarei aspettata di vedere questa mia certezza, che durava da praticamente una vita, infrangersi in due secondi netti.
Mi accorsi che qualcosa non andava nell'esatto momento in cui mia cugina si bloccò all'improvviso davanti alla porta della cucina. Anche se l'impatto con la sua schiena non fu dei peggiori, un "ahi" quasi meccanico mi uscì dalla bocca e a quel punto lei si voltò verso di me, fingendo un sorriso. «Giorgia, che ne dici se mi ricordi dov'è il bagno?». Mi chiese cercando di spingermi via, mentre salutava frettolosamente mia madre.
Tentai inutilmente di guardare oltre Martina, perché ero certa che mi stesse nascondendo qualcosa, oppure semplicemente era impazzita,  ma a quel punto intervenne proprio colei che mi aveva dato la vita, chiaramente insoddisfatta di come si era presentata mia cugina.
«Oh, eccovi qui». Sentii distintamente i suoi passi in nostra direzione, in seguito ai quali Martina - probabilmente a corto di idee - si spostò, lasciandomi davanti proprio all'ultima delle persone che avrei voluto vedere.
Non appena catturai il blu dei suoi occhi con i miei balzai all'indietro come scottata, e la classica fitta allo stomaco cominciò ad impedirmi di respirare correttamente.
Non riuscivo a credere a quello che stavo vedendo, era troppo anche per lui, non poteva rovinare tutto così, presentandosi a casa mia come se nulla fosse successo, senza pensare minimamente a quanto mi sentissi male per causa sua.
Oh be', in fondo cosa glielo impediva? Era l'egoista tra gli egoisti, per lui contavano solamente i suoi sentimenti...quelli degli altri erano semplice erbaccia da calpestare a piacimento.
Forse impiegai troppo tempo per reagire, ma una parte di me credeva che fosse solo frutto della mia immaginazione e quando finalmente distolsi lo sguardo ero consapevole di avergli mostrato ancora una volta quanto fossi debole.
Vidi l'espressione dispiaciuta di mia cugina, impegnata ad abbracciare mia madre e a intavolare una discussione di circostanza con lei.
Tentai in tutti i modi di ignorare il ragazzo davanti a me, sebbene fosse così vicino che il suo profumo aveva cominciato a stordirmi, ma evidentemente lui non era poi così disposto a lasciare posto al silenzio…non aveva intenzione di risparmiarmi altra sofferenza.
«Ehi». Mi salutò infatti, apparentemente più distaccato del solito, ma io sapevo che mi aveva rivolto la parola solo per mettermi in difficoltà. Poteva mentire agli altri, ma con me non ci sarebbe più riuscito, perché non lo avrei neanche ascoltato.
Non volevo far capire a mia madre che tra di noi c'era dell'astio, avrebbe cominciato a fare domande ed intromettersi, e in quel momento era davvero l'ultima cosa che volevo; per questo mi sforzai di apparire tranquilla e serena ai suoi occhi, riuscendo persino a simulare un sorriso di circostanza quando risposi al saluto di Lorenzo.
«Ciao, come va?».
Lore inizialmente mi rivolse uno di quegli sguardi strani, tipici di chi si trovava davanti qualcosa che non si aspettava, e fui piacevolmente colpita dal lampo di sopresa che attraversò i suoi occhi per un secondo, a dispetto della maschera di indifferenza che indossava.
«Esattamente come stamattina». Rispose sarcastico, lanciandomi una delle sue occhiate indecifrabili. «In forma come al solito, ma potrebbe andare meglio». Continuò come se il "potrebbe andare meglio" non fosse di alcuna utilità. Forse era solo un'ulteriore dimostrazione di quanto fossi illusa, ma una parte di me credeva che fossi io la causa di questo piccolo intoppo nella perfezione che era normalmente la sua routine.
«Sono certa che - qualunque cosa sia - si sistemerà tutto».
Ok, questo trucco era abbastanza squallido, meschino e certamente non da me, che sapevo non sarebbe mai successo. Ma perché lui poteva ricorrere ai più svariati metodi sleali per difendersi, mentre io no?!
Il sorriso che seguì a quella mia affermazione fu talmente gelido che mi sembrò di sentire scendere vertiginosamente la temperatura confortevole della casa, causandomi qualche brivido di troppo, che di certo non passò inosservato ai suoi occhi attenti.
Un immediato silenzio calò su di noi e per una volta apprezzai il tentativo di mia madre di salvare la situazione, anche se alla fine non fece altro che peggiorarla.
«Lorenzo è venuto per portarmi gli spaghetti». Disse rivolgendosi a me, come se desse per scontato che volessi sapere per quale motivo lui fosse lì. «Mi sono dimenticata di comprarli, così ho chiesto a Rossella se ne aveva un pacco da prestarmi e...».
«Non credo che a Giorgia interessi». La interruppe proprio Lorenzo, con la classica, finta gentilezza che tirava fuori quando si rivolgeva a qualche adulto. «Tranquilla, me ne stavo andando». Concluse sorridendomi, portandosi le mani in tasca e facendo un altro passo in mia direzione.
«Sicuro di non volerti fermare a mangiare?». Gli domandò mia madre, che ottusamente non aveva ancora capito quanto mi desse fastidio la sua presenza lì.
Lore mi guardò un istante, come per volermi tacitamente chiedere il consenso, e alla fine scosse la testa. «No, ti ringrazio, la mamma mi aspetta». Disse quasi in un sussurro, ma in modo stranamente dolce.
Mi spostai automaticamente di lato per lasciarlo passare, abbassando contemporaneamente lo sguardo per impedirmi di cedere in qualunque senso. E non seppi dire se fu solo una mia sensazione, dettata da chissà qualche desiderio inconsulto, ma quando mi passò accanto sembrò rallentare di proposito il passo; mentre il calore della sua mano che mi accarezzava il braccio per quella che fu una frazione di decimo di secondo...be', quello l'avevo sentito sul serio e non avrei dovuto lasciarmi coinvolgere così tanto da quel gesto, certamente studiato e volto a confondermi le idee.
«Ciao Marti, buona permanenza». Salutò infine mia cugina, piegando le labbra in una sorta di sorriso ammaliatore, al quale la diretta interessata rispose con un'occhiata di fuoco.
Ecco perché adoravo mia cugina: non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno e per chiunque ci provasse...aveva in serbo una vendetta lenta e "dolorosa".
«Grazie, ci vediamo in giro». Lore recepì chiaramente il messaggio, o meglio la minaccia, alla quale rispose con un'alzata di spalle e un sorriso beffardo.
Oh sì, ci sarebbe stato da divertirsi in quel fine settimana.
 


Pochi minuti dopo ero in camera con Martina, che una volta sistemati alcuni vestiti sul letto aveva cominciato a camminare nervosamente per tutta la stanza, chiaro segno che qualcosa stava frullando nella sua testa.
«Marti?». La chiamai stufa di seguire i suoi spostamenti con lo sguardo.
«Non lo ricordavo così odioso». Rispose immediatamente lei, massaggiandosi le tempie pensierosa.
«Be', io ti avevo avvisata...ma possiamo non parlarne ora?».
Sapevo benissimo che il mio era un mero tentativo di dissuaderla, perché quando si fissava su qualcosa allora non la lasciava perdere finché non risolveva la questione a modo suo.
«Abbiamo un grosso problema, Giò». Annunciò bloccandosi all'improvviso nel mezzo della stanza, ignorando bellamente la mia disperata richiesta.
«E sentiamo, di cosa si tratta?». Le chiesi buttandomi esausta sul letto, non del tutto certa di voler ascoltare ciò che il suo cervello aveva macchinato così velocemente.
Il suo sguardo era seriamente preoccupato e io cominciavo a  sentirmi un po' nervosa. I suoi silenzi prolungati non portavano mai a nulla di buono. «È antipatico fino al midollo, stronzo infame e tutto quel che vuoi; ma - cazzo - l'hai visto in faccia? Mi chiedo come tu abbia fatto a non saltargli addosso!».
«Ehm..». Intervenni interrompendo le sue considerazioni, che rasentavano quasi rabbia nei confronti di Lorenzo.
Per lo meno non ero l'unica a provare quei sentimenti per lui, oltre che ad un ingiustificato affetto.
Martina mi fissò confusa per qualche secondo, con ancora un dito puntato verso il vuoto, per poi riprendersi immediatamente, quando si rese conto della scorrettezza delle sue parole. «Giusto, gli sei saltata addosso». Disse delusa, più di se stessa che della verità.
«Sì, ma...non capisco cosa c'entri il fatto che sia bello con questo enorme problema». Risposi mimando le virgolette per le ultime due parole.
Mia cugina fece uno scatto fulmineo in avanti, che di rimando  mi fece arretrare spaventata sul letto.
«Non ci arrivi?». Mi domandò ad un palmo dal mio naso e senza aspettare la mia risposta aggiunse: «Questo cambia tutto, il mio piano perfetto non funzionerà». Continuò a fissarmi agguerrita per un po', dopodiché sospirò rassegnata e si sedette mollemente al mio fianco.
«Quale piano?». Ebbi il coraggio di chiedere.
«Il piano "troviamo qualcuno che faccia sballare come si deve gli ormoni di mia cugina", ma credo che in questo Lorenzo abbia già fatto abbastanza».
La sua aria afflitta avrebbe certamente meritato un premio se non fossi scoppiata a ridere come davanti alla migliore delle barzellette.
«Ehi!». Si lamentò lei offesa, tirandomi una cuscinata mentre io mi tenevo la pancia dolorante.
«Scusa...». Dissi ancora tra le risate, senza riuscire a smettere neanche per un secondo. «È che il tuo piano non avrebbe funzionato nemmeno se Lorenzo non fosse stato così...figo».
Mi sdraiai a corto di fiato, tentando di asciugare nel frattempo le lacrime che mi si erano formate intorno agli occhi.
«Si può sapere cosa stai blaterando?!». Chiese Martina spazientita, e forse anche un po' preoccupata per la mia ilarità improvvisa.
«È tutto inutile ormai, ci sono dentro con tutte le scarpe». Tentai di spiegarle, ma la sua espressione confusa mi esortò a proseguire.
«Sono stata una sciocca a pensare di poter cambiare le cose, a credere che fossi ancora in tempo».
«Parli come se fossi....».
Mi sembrò quasi di vedere la lampadina nella sua testa accendersi quando non obiettai alla sua osservazione inconclusa.
«Sono rovinata, Marti...rovinata». Scandii quella parola con cura, abbandonando anche l'ultima traccia di sorriso che mi era rimasta.
«Da quando?». Chiese lei corruciando la fronte con apprensione. Sembrava turbata da quella scoperta, e come avrebbe potuto non esserlo?
«Non lo so, probabilmente da sempre, e questo mese passato insieme - tra alti e bassi - mi ha semplicemente aperto gli occhi; per tutto questo tempo non ho fatto altro che aspettare che mi dimostrasse qualcosa. Una parola, anche solo una parola mi sarebbe bastata e lui...lui ha fatto molto di più, mi ha avvicinata, mi ha fatto credere di poter tornare indietro...ma alla fine erano solo illusioni costruite ad arte».
Fu confortante sentire la sua mano accarezzarmi delicatamente la fronte, mentre lei si mordeva un labbro con aria triste e sconsolata.
"Sono ad un vicolo cieco" tutti dicevano, ma solo in quel momento capii cosa realmente volesse dire quell'espressione; per quanto si cerchi di sfuggire al peso opprimente di qualcosa, una volta che ci si trova ad un punto "morto" siamo costretti ad arrenderci all'evidenza, e così anche la mia dolcissima cugina stava lentamente realizzando quanto ormai solo il tempo avrebbe potuto cambiare le cose.
«Dannazione, perché mi sono innamorata di uno stronzo del genere?!». Imprecai tirando un pugno contro il materasso, e, quando Martina cercò di consolarmi tra le sue braccia, mi lasciai andare, ascoltando in sottofondo le sue parole cariche di conforto.
 



Un paio d'ore più tardi Rosaria ancora non era arrivata, mi aveva mandato un sms dicendomi che in autostrada c'era traffico a causa di un incidente e che quindi ci avrebbe impiegato un po' di più per raggiungerci; i miei erano andati a cena per la prima volta dopo tanto tempo ed io e Martina, una volta scartata l'ipotesi "televisione" a causa della pessima programmazione di quella sera, avevamo deciso di passare l'attesa al computer.
«Credo che i miei non aspettassero altro che il tuo arrivo per divertirsi un po'». Confidai a mia cugina, che, mentre io cercavo l'elenco dei film usciti di recente per scegliere quello da vedere l'indomani, si stava rimpinzando di patatine e salatini con aria assente.
Accidenti a lei e alla sua capacità di mantenera una linea perfetta anche dopo aver mangiato intere scatole di cioccolatini.
«Tu dici?».
Sospirai e mi stravaccai maggiormente sul divano. Ero stanchissima, sebbene non avessi fatto nulla di particolare quel giorno; eccetto trovarmi Lorenzo in casa al mio ritorno. «Purtroppo sì, credo che mi considerino ancora una bambina che non è in grado di stare in casa da sola».
«Si preoccupano per te». Spiegò Martina cominciando a gesticolare, ma prima che partisse con i suoi monologhi senza senso la bloccai.
«Se fosse per loro non dovrei neanche uscire la sera, ma questo problema neanche se lo pongono dato che non ho una vita sociale».
«È il loro modo di volerti bene, Giò, prima o poi si renderanno conto che stanno sbagliando». Corrucciò la fronte e mi guardò con rimprovero. «E comunque sei tu che non vuoi una vita sociale, da quando...coso ha tradito la tua amicizia».
Un sorriso mi sorse spontaneo sulle labbra. Odiava il fatto che avessi deciso di non legarmi a nessuno per non soffrire ancora; per questo avevo tentato in tutti i modi di spiegarle che più che una volontà era un riflesso incondizionato allontanare le persone, prima che potessi affezionarmici troppo.
«Allora è proprio un modo assurdo. Perché privarsi della loro felicità solo per darla a me? Guarda i genitori di Lore, lui è perennemente fuori casa, ma non gli dicono nulla». Non appena mi resi conto di ciò che avevo detto, mi fermai interdetta. «Perché siamo finite a parlare di lui? Basta, concentriamoci sul film!». Feci una breve pausa e – prima che Martina potesse ribattere – cominciai a scorrere tutti i titoli che avevo davanti, rinunciando, tuttavia, all'impresa quasi subito. «Allora, horror, romantico, fantasy o avventura?».
Martina non aggiunse altro alla faccenda Lorenzo, valutò semplicemente la mia domanda. «Escluderei i film d'amore, non credo ti facciano bene nella situazione in cui sei ora». Decretò sicura di se, per poi proseguire con l'analisi delle categorie. «L'ultima volta che abbiamo visto un horror, se non sbaglio hai avuto gli incubi la notte...».
«Ma è stato l'anno scorso!». Mi difesi vedendo quanto si stesse divertendo a prendermi velatamente in giro. «Ora sono diventati i miei film preferiti».
Ok, forse non proprio preferiti, ma questo potevo pure ometterlo.
Martina inizialmente mi fissò scettica, ma alla fine si arrese. «Va bene, mi fido, che horror sia allora».
Sorrisi di rimando e feci per aprire la lista degli horror, ma lei me lo impedì sottraendomi il pc da sotto il naso, in un gesto talmente veloce che ci misi un po’ a realizzare l’accaduto. La sua espressione macchinosa non lasciava presagire nulla di buono, non era da lei partecipare così poco attivamente alla scelta di un film da vedere, me n'ero accorta fin dal subito che aveva la testa tra le nuvole e in quel momento ebbi la certezza che aveva in mente qualcosa di importante, un altro dei suoi piani “ingegnosi” che avrebbe portato ad una serie infinita di guai.
«Gli horror sono la mia specialità, non c'è bisogno di fare affidamento su internet». Spiegò lei fieramente, liquidando la faccenda film in due secondi, prima di aprire facebook soddisfatta.
«Cos'hai intenzione di fare?». Le chiesi preoccupata, ma lei si limitò a dirmi che era tutto okay e di fidarmi.
Ed effettivamente ci provai, ma sapevo di non poter stare tranquilla con lei.
Un brutto presentimento mi colse nell'esatto momento in cui cominciò ad analizzare tutti i nomi degli amici presenti in chat. Aveva lo sguardo assottigliato, chiaramente in cerca di un nome in particolare, ed io credevo di sapere quale fosse.
«Marti, cosa...». Tentai di fermarla, ma ormai era troppo tardi, una finestra di chat comparve come nel peggiore dei miei incubi.
«Non c'è stato nemmeno bisogno che lo contattassi io». Disse allegramente, cominciando a battere sulla tastiera alla velocità della luce.
«Marti, esci subito dalla chat, non rispondergli». Provai a riappropriarmi del mio computer in tutti i modi possibili, ma senza alcun risultato. Non ero mai stata brava nell'autodifesa, neanche quando facevo karate, ma forse avrei dovuto valutare seriamente la proposta di frequentare un corso.
«Cuginetta, un giorno mi ringrazierai per questo». Affermò con sicurezza, per poi premere il tasto invio con forza mentre io mi portavo le mani ai capelli dalla disperazione.
La pregai in tutte le lingue del mondo, mi inginocchiai anche, ma alla fine non mi restò che leggere la conversazione, guardando la scena impotente.
 
Lorenzo scrive:
Salve, Miss "si sistemerà tutto".
Giorgia scrive:
Sì, con un calcio dove dico io probabilmente si sistemerebbe tutto. Peccato che Giorgia sia contro la violenza.
Lorenzo scrive:
Ooooh, giusto, quasi dimenticavo della fila di suoi protettori pronti a difenderla.
Fammi indovinare: la tua povera cuginetta indifesa ti ha raccontato tutto e ora me la vuoi far pagare. Be', in tal caso sai dove trovarmi, ma mettiti in coda.
Giorgia scrive:
Non immagini quanto, ma voglio solo parlare...per il momento.
Lorenzo scrive:
Quel tuo "per il momento" potrebbe essere frainteso ;)
Giorgia scrive:
Hai ragione, avrei dovuto mettere in chiaro le cose fin dall'inizio: mi dispiace ma non sono interessata agli stronzi. Adesso posso andare avanti o hai intenzione di continuare a sviare le mie domande?
Lorenzo scrive:
Chi lo sa...
 
Martina si passò nervosamente una mano tra i capelli, mentre le dita dell'altra ticchettavano sulla tastiera in una specie di rito anti stress che le avevo visto fare tante volte.
 
Giorgia scrive:
Immagino che se ti chiedessi perché l'hai fatto non ci caverei un ragno dal buco, e poi non mi pare il caso discuterne qui su facebook, perciò...che ne dici se domani ci facciamo una bella chiacchierata, io e te?
 
Passò qualche minuto prima che la risposta di Lore arrivasse, tempo che passai in compagnia dell'ansia. Qualunque cosa avesse in mente Martina, avrebbe fatto bene a lasciarmene fuori...non avevo la benché minima intenzione di affrontarlo così apertamente in quel momento di confusione totale. Avrei finito per combinare l'ennesima cavolata ed era proprio l’ultima cosa di cui avevo bisogno.
 
Lorenzo scrive:
A te non ho un bel niente da dire. Perciò...no, grazie :)
Giorgia scrive:
E se ci fosse pure Giorgia? Cambieresti idea?
 
Non so cosa mi avesse impedito di intervenire fino a quel momento, ma qualunque essa fosse, venne meno nell'esatto frangente in cui lessi l'ultimo messaggio di Martina.
«Cosa?!». Urlai con voce stridula. «Marti, no, piuttosto che parlare con lui mi mangerei un piatto di broccoli!». Il solo pensiero mi fece rabbrividire, ma sarei stata disposta a tutto pur di non avere un faccia a faccia con Lorenzo.
Martina ridacchiò piuttosto divertita, senza darmi troppo ascolto. Non riuscivo a capire come potesse essere così serena quando io avrei volentieri preso un biglietto di sola andata per il Polo Nord pur di sparire dalla circolazione e liberarmi di tutti i miei problemi. «Come sei estremista, comunque non ti preoccupare, è solo una trappola».
«Oh be', ora sì che sono tranquilla». Dissi con voce appena udibile, scuotendo contemporaneamente la testa in segno di resa.
 
Lorenzo scrive:
Non credo che abbia molta voglio di vedermi, sai?
E poi tutta questa storia non mi convince: perché mai tu dovresti aiutarmi a parlare con lei?
Giorgia scrive:
Oh, non lo faccio certo per te, semplicemente non mi va di vedere mia cugina soffrire a causa di uno stronzo qualsiasi e prima di aiutarla a cancellarti definitivamente dalla sua vita voglio essere sicura che per te non conti nulla.
In breve, sto cercando di salvare il salvabile: se posso evitare di ricorrere a metodi drastici per aiutare mia cugina sarebbe meglio ;)
 
Passarono minuti e minuti di silenzio totale da parte di Lorenzo, che probabilmente si stava chiedendo dove fosse la fregatura in tutta quella storia, a buona ragione,  e quando arrivò la risposta non potei fare a meno di esserne sorpresa.
 
Lorenzo scrive:
Domani alle 3 al bar del Centro, Giorgia sa dov'è ;)
 
«Astuto il ragazzo». Commentò Martina pensierosa, voltandosi poi per guardarmi - anzi squadrarmi - con attenzione. «Ma io lo sono più di lui». Concluse tornando a concentrarsi sul monitor che aveva davanti, dove era appena comparso un nuovo messaggio.
 
Lorenzo scrive:
Ora, se non ti dispiace, devo andare. I miei amici mi aspettano.
Giorgia scrive:
Nessun problema, playboy, quante ragazze farai cadere nella tua rete, stasera?
Lorenzo scrive:
Simpatica! Non più di due, credo, sono piuttosto stanco e non vorrei deludere nessuno...;) Scappo, ciao Dolly, ciao Giò (so che stai leggendo)...non piangerti troppo addosso :D
Lorenzo è offline.
 
«Che essere irritante!». Sbottai una volta chiusa la conversazione, arrabbiata più per il saluto che mi aveva rivolto a sorpresa che per la sua solita indole da figo che aveva mostrato. «"Dolly"». Aggiunsi poi, mimando le virgolette nell'aria con una smorfia.
«Io mi aspettavo peggio». Rispose Martina rilassandosi un po' contro lo schienale del divano. «È un ragazzo piuttosto interessante».
«Quanto la mia collezione di peluche». Ribattei ironica, riuscendo finalmente a riappropriami del mio computer. «Piuttosto, spero che tu abbia in mente un buon piano per coprire la mia "assenza" all'appuntamento di domani».
Martina fece una smorfia di disappunto. «No, a dire il vero non ce l'ho, ma mi inventerò qualcosa e poi...ho ottenuto esattamente quello che volevo». Disse arricciando le labbra compiaciuta, fissando un punto indefinito sul muro di fronte a lei.
Aggrottai le sopracciglia, non del tutto certa di voler sapere di cosa si trattasse. «E cioè?».
Marti, dal canto suo, sembrava non aspettasse altro che questa domanda per lasciare esplodere tutto il suo entusiasmo, infatti mi si gettò addosso come un koala.
«Informazioni, cuginetta, di cui verrai a conoscenza non appena avrò portato a termine tutta la faccenda. Devo prima esserne sicura».
Annuii poco convinta della riuscita del suo piano e rilessi tutta la conversazione con calma.
«Credi che abbia detto quelle cose sulle ragazze di stasera solo perché pensava che stessi leggendo pure io?». Chiesi vergognandomi come una ladra del fatto che stessi mostrando interesse per quello che Lorenzo faceva o non faceva realmente.
«Non lo so, ma non ti preoccupare, con loro non è nulla di serio».
«Ah, quindi con me sì?». Domandai sarcastica, rispondendomi da sola immediatamente. «Marti, con nessuna è qualcosa di serio, e io non faccio eccezione».
Martina non sembrò affatto turbata dalla mia affermazione, anzi, le sue labbra si piegarono persino in un debole sorriso, di cui non capii il significato. «Mia cara, c’è una differenza fondamentale tra  te e le ragazze che conosce la notte in discoteca – o dove cavolo va lui – e su questo sono pronta a metterci la mano sul fuoco».
Sollevai scettica un sopracciglio, esortandola a parlare e nascondendo contemporaneamente la mia impazienza. «Hai intenzione di dirmi qual è oppure prima vuoi aumentare la suspance con una musichetta adatta?».
Martina sbuffò irritata, ma per lo meno arrivò dritta al punto. «Non importa quante cazzate faccia, quanto ti ferisca o ti allontani di proposito…alla fine tornerà sempre da te e sai perché?».
Scossi sistematicamente la testa in segno di diniego, sentendomi il cuore in tumulto nel petto.
«Perché sei probabilmente l’unica persona di cui gli importi veramente qualcosa».
«Anche Davide ha detto la stessa cosa». Dissi sottovoce tra me e me. «Ma possibile che io sia l’unica a non crederci? Non mi ha mai dimostrato nulla e quando l’ha fatto, mi ha allontanata subito…».
«Le mie sono solo supposizioni, ma ho buone ragioni per credere ciò che credo e domani lo costringerò a vuotare il sacco». Si voltò energica verso di me e mi prese le mani tra le sue. «Non è detto che tu debba rinunciare a lui, per il momento devi solo fidarti di me, ok?».
Annuii accennando un sorriso. «Non sei tu il problema, Marti, è di lui che non mi fido, non dopo tutto quello che è successo. Non posso rischiare di nuovo, capisci?».
Mia cugina si morse un labbro nervosamente, fissandomi in modo strano per un po', prima di gettarmi addosso un cuscino che mi colpì in pieno viso.
«Ok, va bene, basta parlare di lui, non voglio vederti piangere di nuovo». Si affrettò a chiudere il discorso,  probabilmente notando i miei occhi lucidi.
«Sono pessima».
«No, sei solo innamorata».
Le parole di mia cugina mi fecero uno strano effetto,  mi resi conto che da quel momento in poi avrei dovuto convivere con quella consapevolezza; non era più una cosa astratta o lontana, era forse diventata la certezza più reale della mia vita e avrei dovuto abituarmici.
Capirlo era stato difficile, ammetterlo anche, ma sentirselo dire era un altro paio di maniche e io non ero assolutamente preparata per questo.
«Bello schifo». Commentai con una smorfia, allungandomi per prendere il cellulare sulla mensola dietro al divano.
Composi velocemente il numero di Rosaria e aspettai che rispondesse sbadigliando. Cominciavo ad avere sonno e di lei non c’era neanche l’ombra.
«Rosy, dove sei?». Chiesi sdraiandomi sul divano, sotto gli occhi stanchi di mia cugina, che era chiaramente in procinto di addormentarsi.
«Vai a rispondere al citofono». Rispose lei enigmatica come al solito.
Un po’ per la tarda ora, un po’ per la mia lentezza nel capire le cose, impiegai qualche secondo di troppo nel decifrare ciò che aveva detto e solo quando il citofono suonò, facendo saltare Martina sul divano per lo spavento, ne capii veramente il senso.
Mi trattenni a stento dall’urlare di gioia e raggiunsi velocemente la porta, rischiando persino di inciampare sul tappeto. Mi affrettai ad aprirle il portone ed uscii sul pianerottolo fregandomene del fatto che fossi in pigiama, per giunta davanti all’appartamento di Lore, che sarebbe potuto uscire da un momento all’altro e quindi vedermi in quelle pessime condizioni.
Quando le porte dell’ascensore si aprirono le saltai letteralmente addosso, abbracciandola forse un po’ troppo forte, dato la sua esile corporatura.
«Quanto affetto». Disse Rosaria stringendo di più la presa.
«È l’amore». Commentò Martina ridacchiando, che nel frattempo ci aveva raggiunto coperta da un piumone.
«Mi sono persa qualcosa?». Domandò la mia amica, sciogliendo l’abbraccio e guardandomi con aria di rimprovero.
Spostai involontariamente lo sguardo verso casa Belli e spinsi il resto della combriccola dentro la mia.
Temevo che Lorenzo potesse sentire qualcosa di troppo, e a quel punto il suo vantaggio sarebbe stato eccessivo, IO sarei stata spacciata e lui avrebbe potuto sfruttare a suo piacimento quella mia debolezza.
«Allora?». Domandò Rosaria impaziente, una volta concluse le presentazioni e prima ancora che sistemasse le sue cose.
Wow, in pochi mesi la mia monotona vita era diventata oggetto di interesse di qualcuno, e senza che neanche me ne rendessi conto.
«Io...». Cominciai balbettando, in cerca delle parole giuste da usare.
«È innamorata di quel gran figo-stronzo di Lorenzo». Intervenne Martina in mio aiuto, con voce forse troppo acuta e gioiosa.
Insomma, non c’era niente di positivo in ciò che aveva appena detto!
La reazione di Rosaria a quella news fu l’esatto opposto di ciò che mi aspettavo, non sembrava per nulla stupita, e ne ebbi la conferma quando mi guardò annuendo e disse: «Era anche ora che te ne rendessi conto!».
«Tu lo sapevi?!». Strillai incredula, meravigliandomi persino della voce assurda che mi era uscita.
«Sì, sai com’è, una ragazza che continua a parlare ininterrottamente per sette anni di uno stesso ragazzo non può che esserne innamorata».
Martina, alle mie spalle, ridacchiò soddisfatta, dandomi una pacca sulla spalla.
Incrociai le braccia al petto con stizza, sentendomi in un certo senso tradita da quella sua confessione.
«A quanto pare…». Sussurrai, facendo però in modo che entrambe mi sentissero chiaramente.
Scossi la testa e mi ripresi dallo shock. «Comunque non ti ho ancora detto tutto». Proseguii rivolgendomi a Rosaria, che doveva essere informata dei recenti sviluppi, in preparazione dell'incontro che la mia cugina traditrice aveva combinato con Lore.
Lanciai un’occhiata veloce a Martina ed una più lunga a Rosy, per poi accompagnare la mia amica vicino alla poltrona e dirle: «Siediti, è una lunga storia».
 



Il mattino successivo, quando riaprii un attimo gli occhi per controllare l'ora, balzai giù dal letto senza neanche prendermi il tempo di ritornare alla realtà. Erano le 8 passate ed io ero in super ritardo!
Nel buio totale della stanza inciampai su qualcosa, qualcosa che quando gli finii addosso urlò, e che presto scoprii essere Martina.
«Qual è il tuo problema?». Biascicò con la voce ancora impastata dal sonno, e mi meravigliai del fatto che avesse la forza di parlare, considerata la sua attitudine nel non svegliarsi neanche con le cannonate.
Mi massaggiai la testa pensierosa, ancora seduta sul bordo del letto di Martina, e cominciai a riflettere. Perché mia cugina era lì? E perché la sveglia non era suonata un'ora prima?
Accesi la luce sul comodino e spostai lo sguardo dall'altro lato della stanza, dove vidi Rosaria beatamente addormentata.
A quel punto ci misi davvero poco a ricordare tutto e mi diedi mentalmente della stupida per lo stato di confusione totale in cui ero piombata: i miei mi avevano concesso senza troppi problemi di stare a casa quel sabato, in primis perché c'erano solo quattro ore di lezione, e poi perché non capitava tutti i giorni di avere due ospiti speciali come Martina e Rosaria.
Avrei mai potuto abbandonarle per tutta la mattina quando avevamo a disposizione due giorni scarsi per divertirci?
Ovviamente no. Ci attendeva una giornata di shopping (cosa che per altro io odiavo), una serata tra ragazze in compagnia di un bel film horror e poi, alle 3 del pomeriggio, il fatidico incontro con Lorenzo, a cui io non avrei partecipato neanche se me l'avessero chiesto in ginocchio.   
Per quale motivo? Be', avevo appena accettato di essermi innamorata del ragazzo che mi aveva rovinato l'esistenza, non potevo parlare con lui come se nulla fosse, avevo bisogno di metabolizzare la cosa...senza contare tutte le crudeltà che mi aveva detto e fatto in quegli ultimi giorni.
Controllai un ultima volta le lancette dell'orologio, indecisa se rinunciare al tentativo di dormire senza neanche provarci oppure alzarmi definitivamente dal letto e trovare qualcosa di più produttivo da fare, invece di rotolarmi tra le lenzuola pensando a quanto la mia situazione sentimentale fosse sensibilmente precipitata dall'inizio dell'anno.
Alla fine optai per la prima ipotesi, anche perché non aveva proprio un bel nulla di produttivo da fare, ma non prima di aver dato un colpo di telefono a Davide. Volevo sapere se era tornato tutto a posto con sua sorella.
Sgattaiolai silenziosamente fuori dalla mia stanza, premurandomi persino di richiudere la porta, e mi diressi in cucina, stampandomi un sorriso in faccia prima di entrare.
«Ciao pà». Lo salutai dandogli un bacio sulla guancia e sedendomi contemporaneamente di fronte a lui, che stava leggendo il giornale mentre beveva il suo solito caffé mattutino.
«Buongiorno, come mai così mattiniera? Quando stai a casa di solito sei in letargo fino all'ora di pranzo».
Feci spallucce mi alzai per prepararmi la colazione. «Mi sono svegliata credendo che dovessi andare a scuola, così ho pensato di fare colazione e sentire un amico prima di tornare a dormire».
Alla parola "amico" mio padre tese le orecchie e sollevò lo sguardo da quelle scritte minuscole che si ostinava a voler capire. Lo udii schiarirsi la voce ma gli impedii di parlare.
«Nessuna storia, papà, è davvero solo un amico».
Lui sembrò rilassarsi un pochino, ma stranamente non lo vidi poi così fiducioso nei miei confronti, e il che era molto strano, dato che - qualunque cosa gli dicessi - mi aveva sempre creduto sulla parola...per questo mi sentii delusa.
«Non voglio intromettermi nella tua vita, ma Lorenzo non mi sembra il ragazzo adatto a te».
A quelle parole mi sarei certamente strozzata con il té, se solo non fosse stato ancora in fase di preparazione, invece versai qualche grammo di zucchero di troppo nella mia amata bevanda, fingendo poi una risata ironica e guardando mio padre come se fosse impazzito.
«Ma che dici? Non stavo parlando di lui, lo so che non è il ragazzo giusto, e poi l'oggetto del mio discorso era un amico, non un fidanzato...e Lorenzo non è nessuna delle due cose».
Lui mi fissò scettico per un po', mescolando distrattamente il suo caffé. «Quel giorno, quando vi ho visti davanti al portone non mi sembravate affatto "nessuna delle due cose"». Disse imitando il modo in cui l'avevo detto io poco prima.
Deglutii a fatica e mi sforzai di pensare ad una scusa plausibile, ma nella mia testa c'era solo il vuoto.
Conoscendo la capacità degli altri di leggermi negli occhi, poi, presi la precauzione di girarmi di spalle, con la scusa di dover controllare il  tè sul fuoco.
«Qualunque cosa tu abbia visto, adesso non c'è più, tranquillo».
Alla fine avevo detto una mezza verità, nel senso che in fondo tra di noi non c'era davvero più nulla, ma avevo volutamente omesso il fatto che mi sarebbe tanto piaciuto che non fosse così.
«Giorgia, io so che non è quel che vuol far credere di essere, l'ho visto».
Sospirai sommessamente ed andai a sedermi di nuovo. Ormai il giornale era stato ripiegato con cura e poggiato sul tavolo, segno che il suo interesse e la sua attenzione erano completamente rivolti a me.
«Cos'hai visto?». Domandai allora, fingendo curiosità, quando in realtà potevo benissimo immaginare la sua risposta.
«È ogni sera con una ragazza diversa...e non in atteggiamenti amichevoli».
Annuii di rimando e finalmente riuscii a guardarlo negli occhi, arrendendomi. Che senso aveva fingere che non sapessi nulla?
«Tu lo sapevi?». Chiese sorpreso, spalancando gli occhi come davanti al miglior quadro della sua collezione.
Non dissi nulla, né tantomento confermai in alcun modo: non ce ne fu bisogno, il mio silenzio era la prova tangibile della verità.
«E...». Tentò di dire, ma questa volta non lo lasciai continuare, avevo capito perfettamente cosa volesse dire.
«Sì, papà, ma non devi preoccuparti, ok? Tra di noi non c'è stato, non c'è e non ci sarà mai nulla».
La discussione terminò lì, nessuno dei due aggiunse altro per un po', finché il silenzio che era calato nella stanza non diventò troppo opprimente per entrambi.
Sapevo che aveva bisogno di tempo per assimilare la cosa, gli avevo quasi confermato di aver avuto un intrallazzo con il ragazzo meno serio e affidabile del pianeta, era logico che si sentisse confuso e preoccupato.
«La mamma?». Chiesi appunto per spezzare la tensione, sfruttando la strana assenza di mia madre.
«Dalla nonna». Rispose lui telegrafico, gettando il giornale nel cestino ed alzandosi da tavola. «Stamattina la badante aveva un impegno e quindi è dovuta andare lei ad assisterla».
Annuii impercettibilmente e mi avvicinai per aggiustargli la cravatta. Lo facevo sempre con il mio padre naturale prima del divorzio dei miei, ma era la prima volta che lo facevo anche con lui. Non c'era un motivo particolare per questa mia mancanza, semplicemente non avevo mai sentito il bisogno di farlo, ma in quel momento era stato tutto naturale e mi sentii inspiegabilmente felice mentre stringevo quel nodo sfatto...specialmente quando vidi un sorriso disegnarsi sulle sue labbra.
«Grazie». Disse mettendosi poi di tutta fretta il cappotto.
Il nostro discorso gli aveva portato via un po' di tempo e ora era in ritardo per il lavoro.
Gli posai un altro bacio sulla guancia ed uscì di casa di corsa, salutandomi velocemente prima di scendere di corsa le scale, esattamente come facevo io quando non sentivo la sveglia.
Osservai il punto in cui era scomparso per un po', riflettendo ancora su ciò che mi aveva detto, e rimasi lì a lungo, finché una folata di vento gelido non mi riportò alla realtà con un brivido lungo la schiena.
Perfetto, ci mancava solo il vizio di incantarmi a pensare!
Stavo per richiudere la porta, quando lo scatto di quella di fronte mi colse di sorpresa; rimasi paralizzata mentre si apriva lentamente davanti a me, come nella più terribile scena dell'orrore, e cominciai a ripetere a me stessa che dovevo assolutamente sbrigarmi a rientrare, tuttavia non riuscii a fare un solo passo.
Come al solito, il mio cuore aveva preso ad andare per conto suo, battendo impazzito e ansioso: sebbene teoricamente Lorenzo fosse a scuola, in pratica poteva benissimo darsi che aveva deciso di saltare la prima ora di lezione. Lo faceva spesso, dopotutto, perché non avrebbe dovuto farlo anche quel giorno?
E il mio presentimento si trasformò ben presto nella semplice realtà. Sperai inutilmente che non mi vedesse, che per qualche ragione non guardasse verso di me, ma puntualmente i suoi occhi raggiunsero i miei...imprigionandoli nella stessa morsa carica di tensione dove li catturavano ogni volta.
Non appena mi vide sembrò sinceramente sorpreso - ma chi non lo sarebbe stato vedendo una ragazza in piedi, davanti alla porta, a fissare il nulla e persino in pigiama? - e io chiusi automaticamente occhi, pregando al mio cuore di smetterla di correre in quel modo.
Maledette gambe, perché non si muovevano? Ero ancora in tempo per scappare!
Sentii il suo profumo raggiungermi ad ondate sempre più forti, finché le mie narici non si riempirono completamente di quell'odore forte e buono, di cui ero diventata irrimediabilmente dipendente.
«Bel pigiama». Commentò nel suo classico tono ironico, lasciandosi poi andare ad una risata.
Dopo tutto quello che mi aveva fatto, lui pensava a prendere in giro il mio pigiama? Qualcuno avrebbe dovuto regalargli il libro "100 modi per farsi perdonare da una ragazza", quantomeno ci avrebbe fatto più bella figura.
Riaprii gli occhi furiosa, incrociando le braccia al petto e guardandolo con astio.
«Vaffanculo Lore».
Lui sorrise apertamente, umettandosi le labbra con la lingua in un gesto che mi mandò troppo sangue al cervello.
«Sei monotona, Giò». Disse perentorio, avvicinandosi di un altro passo.
«E tu sei stronzo». Ribattei, cercando di risultare il più acida possibile.
La sua espressione non cambiò di una virgola; era sempre disinteressata e irritante al punto giusto, cosa che per altro mi dava fastidio...per questo spostai involontariamente l'attenzione sulle sue labbra, le stesse che si erano incollate alle mie parecchie volte. e soprattutto le stesse labbra di cui - nonostante tutto -  avrei voluto sentire nuovamente il sapore.
Stupida, stupida, stupida!
«Anche questo me l'hai già detto». Rispose lui pensieroso.
«Vai a scuola, dai, è tardi». Lo rimbeccai prendendolo volutamente in giro.
Lore inarcò un sopracciglio e mi sfiorò delicatamente un braccio, in un gesto che per la sua intensità mi mandò direttamente al manicomio.
«Lo farei, se tu fossi più brava a mascherare quello che vuoi veramente». Sussurrò avvicinando la bocca al mio orecchio.
Mi sentivo il fiato corto, chiaro segno del fatto che non stavo praticamente respirando, e quando lo feci per evitare di collassare per mancanza di ossigeno, me ne pentii immediatamente, perché i miei polmoni si riempirono della fragranza dolcissima di cui il profumo di Lorenzo aveva permeato l'aria.
«Volere cosa?». Cercai in tutti i modi di risultare sicura di me stessa e del fatto che non lo volessi lì, ma alla fine la mia voce tremante mi tradì in ogni caso.
«Stai morendo dalla voglia di baciarmi ma non lo fai per come mi sono comportato con te». Affermò sicuro di se e a ragione, ma non dissi nulla per confermare la sua ipotesi, non che me l'avesse chiesto, comunque.
«Vedi? Basta che ti sfiori anche solo con un dito per farti sciogliere, non riesci a nasconderlo». Continuò, tracciando il contorno del mio viso con due dita.
«E tu...?». Riuscii a chiedere nell'annebbiamento generale che era il mio cervello, fermando le sue mani con le mie. «Tu cosa vuoi veramente?».
Sapevo di aver usato le parole giuste, sapevo di essere riuscita a ribaltare la situazione, e ne ebbi la conferma quando Lore ritrasse definitivamente le mani, annullando contemporaneamente ogni traccia di ilarità dal suo volto.
Era passato alla fase di difesa, mentre io avrei potuto scegliere se attaccarlo o scappare finché quella condizione di stallo fosse durata.
«Io voglio te, Giorgia». Disse dopo un lungo silenzio, con una strana luce negli occhi che mi lasciò perplessa: sembrava davvero…sincero, per una volta. «Ma non nel modo in cui mi vuoi tu». Aggiunse apparentemente risentito per ciò che aveva appena detto. Se mi avessero chiesto di descrivere lo stato d'animo di Lorenzo in quel momento, avrei detto "dispiaciuto".
Ma potevo davvero fidarmi di quello che trasmettevano i suoi occhi, oppure erano semplicemente uno specchio delle sue menzogne?
«E tu che ne sai del modo in cui ti voglio io?». Chiesi inviperita. Il timore che non sarei mai riuscita a capirlo si stava facendo sempre più largo in me...ed io non sopportavo l'idea.
«Smettila di pretendere di sapere come mi sento!». Sbottai, poi, sforzandomi di mantenere un tono di voce basso, dato il posto in cui ci trovavamo.
«Perché ti conosco e so di cosa hai bisogno, ma io non potrò mai dartelo». Disse scuotendo lievemente la testa, mordendosi poi un labbro, in chiara difficoltà.
Lorenzo Belli era davvero in difficoltà? Se lo avessi raccontato in giro, mi avrebbero riso in faccia.
Era già la seconda emozione che mi mostrava, non poteva essere davvero finzione, né tantomeno una coincidenza. Certe cose non si potevano progettare, non si potevano recitare...altrimenti non sarebbero risultate credibili.
Sentii improvvisamente le lacrime bruciare negli occhi, e non perché mi stesse dicendo che in lui non avrei mai potuto trovare niente di ciò che cercavo - lo aveva fatto tante volte e in modo molto più crudo - ma per la sincerità disarmante con cui l’aveva fatto. Era reale, doveva esserlo.
Alla fine ero riuscita a scalfire la sua maschera, a vedere qualcosa al di là di essa, e quello che avevo scorto mi avrebbe portato solo ulteriore sofferenza.
Si poteva tranquillamente dire che avevo perso solo tempo, anni interi passati cercando un briciolo di verità nelle sue parole, nei suoi gesti...ed ora che avevo ottenuto ciò che volevo e avevo realizzato che questo non era quello che avrei voluto, mi sentivo persa e la ragione era solo una, egoistica ed incancellabile: fino a quel momento non avevo avuto nessun motivo per credere alle sue parole, ma di fronte alla verità cosa potevo fare se non desiderare inutilmente di cambiarla?
«Mi stai dicendo che non potrai mai volermi bene, giusto?». Domandai, cercando di nascondere una sofferenza inquantificabile, che dentro era troppo forte per poterle resistere a lungo.
Lorenzo sbuffò un po' contrariato. «Sai che non mi riferivo a questo. Te ne ho voluto una volta». Disse distogliendo brevemente lo sguardo. "E potrei volertene ancora". Conclusi nella mia mente.
Asciugai distrattamente l'unica goccia di lacrima che era sfuggita al mio controllo e ricacciai indietro le altre.
«Perché devi rendere sempre tutto così difficile?». Chiesi quasi singhiozzando. «Perché mi hai avvicinata se sapevi che alla fine avrei sofferto?». Proseguii concitata. Giacché ero in ballo, tanto valeva ballare. «Ok, va bene che non te ne frega un cavolo di niente e nessuno, ma non ti sembra un po' troppo, questo? Non ti sembra troppo anche per te, giocare in modo così crudele con i sentimenti degli altri?». Feci una pausa, preparandomi a chiedergli quello che non avevo mai avuto il coraggio di chiedergli fino ad allora. «Perché sette anni fa hai deciso di non essere più mio amico da un giorno all'altro?! Perché?!».
Lore rimase in silenzio, il suo sguardo era vacuo e assente, mentre della sua solita sicurezza non era rimasta neanche l'ombra. Era strano vederlo così indifeso e a corto di parole, così come era piuttosto triste trovarsi improvvisamente faccia a faccia con la sua debolezza.
«Ho capito». Dissi infine, catturando nuovamente la sua attenzione. «Non ti preoccupare, il messaggio è chiarissimo, ma adesso vai...per favore». Lo stavo praticamente supplicando, perché non sarei mai riuscita a sbattergli la porta in faccia di mia spontanea volontà.
«Giò...». Mi chiamò incerto, i suoi occhi erano coperti da un velo di tristezza, che lo rendevano fin troppo vulnerabile.
«Ti prego, non peggiorare le cose...vai».
Lui scosse la testa facendo un altro passo avanti. «Solo se mi prometti che non piangerai più a causa mia».
Le sue parole colpirono il mio cuore come tante freccette il cui obiettivo era proprio quello di raggiungerne il centro, e una dopo l'altra sciolsero le redini che trattenevano le mie lacrime.
Presto cominciai a piangere senza controllo, mostrandogli una volta per tutte quanto tenessi a lui; perché al di là dell'amore, al di là dell'amicizia, al di là di tutto quello che avevo passato a causa sua, avevo capito che non sarei mai riuscita a dare l'affetto che provavo per lui a nessun altro.
«No, cazzo, no! Mi spieghi cosa devo fare per farti smettere di piangere per me?! Perché io le ho provate tutte, ma non ha funzionato niente come vedi!». Urlò prendendomi il viso tra le mani, questa volta incurante del fatto che ci trovassimo nelle scale.
«Ma se non hai fatto altro che ferirmi, come potevi pretendere che non reagissi?». Chiesi tra un singhiozzo e l'altro, cercando contemporaneamente di liberarmi dalla sua presa. Faceva troppo male anche solo guardarlo.
«Perché non capisci?».
«Spiegamelo tu, allora!».
«Spiegarti cosa? Il perché sono stato un coglione a rinunciare a te? Perché? che senso avrebbe adesso?».
«Perché io non ho ancora rinunciato a te, idiota!». Sbottai senza pensarci, in preda alla disperazione.
Mi veniva voglia di colpirlo, non poteva essere così cieco da non capire quanto fossi disposta a perdere pur di riaverlo al mio fianco.
«Ma questo non cambia le cose, Giò, io non posso stare con te».
«Non puoi o non vuoi?».
Lore fece spallucce. «Forse entrambe le cose».
Avevo accumulato talmente tanta rabbia che fu difficile riuscire a reprimerla ancora una volta. «Seriamente, basta, mi sono stancata con tutti questi giochetti, non posso, non voglio e blablabla...va' al diavolo!».
Con un ultimo strattone mi divincolai e lo spinsi indietro, pronta a chiudere la porta, ma lui mise un piede all'angolo per impedirmelo.
«Ascolta, so che non hai alcun motivo per fidarti di me, ma lascia che ti dica una cosa, l'unica su cui so per certo di non sbagliarmi».
Nonostante la porta semi chiusa, la sua voce arrivò chiara alle mie orecchie, portando con se quelle parole decise.
Non riuscivo a vederlo, tuttavia potevo tranquillamente immaginare quale potesse essere la sua espressione in quel momento.
 «Tu non sei come le altre ragazze per me, te l'ho già detto, è vero, ma questa volta ti prego di credermi sul serio. Toglitelo dalla testa, ed è proprio per questo che non posso permettermi di trattarti come se fossi una di loro».
«Non farlo, allora». Risposi aprendo leggermente la porta. «Non c'è bisogno che mi tratti come loro».
Lore scosse la testa per l'ennesima volta, portandomi ad odiare quel gesto. «...ma non posso neanche fare il fidanzato perfetto e affettuoso, non ci riesco». Proseguì quindi il suo discorso, mandandomi ancora più in confusione.
Non riuscivo proprio a capirlo. Era probabilmente la persona più contorta che avessi mai conosciuto, si poneva un sacco di problemi che magari non avevano neanche ragione di esistere, ma che non avrebbe mai superato se avesse continuato a tenersi tutto dentro.  
«E se ti dicessi che non è ciò che voglio?». Chiesi titubante, incespicando sulle mie stesse parole, perché entrambi sapevamo che stavo mentendo.
«Ti risponderei che sei una pessima bugiarda, ancora». Accennò un sorriso e spalancò nuovamente la porta, questa volta senza incontrare la mia resistenza.
«E allora che si fa? Fingiamo di odiarci come sempre, quando in realtà moriamo dalla voglia di saltarci addosso?».
Lore annuì spostandomi una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «È meglio se non ci spingiamo oltre in questa storia»
«Quindi mi stai dicendo che non potrò più riavere il mio migliore amico?». Mi stupii persino da sola del tono di voce calmo e tranquillo che avevo usato; forse il detto "la quiete dopo la tempesta" non era poi tanto sbagliato, eccetto per il fatto che la "tempesta" in realtà ce l'avevo dentro.
Lorenzo fece per dire qualcosa, ma finì solo per aprire e chiudere la bocca ripetutatemente per qualche secondo.
Alla fine però sembrò rinunciare a questo proposito; con labbra serrate e pugni rigorosamente chiusi vidi i suoi occhi armarsi di una determinazione quasi preoccupante.
E poi fu solo un attimo il tempo che intercorse tra l'intesa dei nostri sguardi e le sue labbra che si appropriavano delle mie con impeto. Non feci nulla per fermare quel gesto così contradditorio con quanto avevamo - aveva -  appena deciso, risposi al bacio con la stessa intensità e forse anche di più, stringendo i suoi capelli tra le dita e lasciando che le sue mani si muovessero libere per tutto il mio corpo attraversato da brividi.
Fu un bacio disperato, al sapore di lacrime e limone, che non sarei mai riuscita a dimenticare. Perché nonostante le sue sciocche convinzioni, mentre le nostre lingue si cercavano smaniose e incontrollate, non potei far a meno di constatare. - per l'ennesima volta - che era proprio tra le sue braccia l'unico posto in cui volevo stare...ed ero certa che anche lui stesse sentendo lo stesso nodo all'altezza dello stomaco. Per questo arrivai alla conclusione che una persona impossibilitata ad amare non sarebbe mai stata in grado di provocarmi tutte quelle emozioni in una volta sola, per questo mi convinsi che si sbagliava, che lui poteva amare, ma che semplicemente non voleva farlo...per paura, orgoglio, incertezza, qualcosa di cui non ero a conoscenza.
Lasciai che la porta si spalancasse completamente, non facendo caso a niente e nessuno che non fossero le labbra di Lorenzo o Lorenzo stesso. Ero completamente persa...sì, persa per lui, perché ero stupida e perché non riuscivo a smettere di amarlo.
«Oh Mio Dio». Esclamò Martina alle mie spalle, interrompendo quel momento di pura follia a cui ci eravamo lasciati andare.
Mi staccai da Lore immediatamente e con una certa agitazione. A parte l'imbarazzo della situazione in se, temevo di passare per quella incoerente: un momento prima gli stavo rivolgendo gli insulti peggiori e quello dopo ero avvinghiata a lui, impegnata a baciarlo come se quella fosse l'unica cosa giusta da fare.
L'espressione incredula di Martina non fece altro che confermare il mio timore: sembrava in preda ad una qualche allucinazione ed aveva la bocca spalancata. Neanche mi avesse sorpresa a fare il barbecue con i miei amatissimi libri.
Distolsi immediatamente lo sguardo, prendendo a fissare il pavimento con scarso interesse, finché mia cugina non si riprese dallo stato di shock schiarendosi la voce.
«Ehm...continuate pure, scusate l'interruzione». Disse apparentemente a disagio - lei che non sapeva neanche il significato di quella parola! - e vidi i suoi piedi muoversi uno dopo l'altro per andarsene.
«No, aspetta». La fermai, afferrandola per un braccio e allontanandomi di più da Lorenzo. «Lore se ne stava andando». Dissi raccogliendo tutta la forza che avevo in corpo per guardarlo negli occhi.
Lui, dal canto suo, sembrava completamente a suo agio, ma ben presto mi resi conto che la sua maschera era tornata al proprio posto, a coprire impeccabilmente qualunque tipo di emozione o pensiero gli passasse per la mente.
Mi risultò più difficile del solito sostenere il suo sguardo magnetico, dopo tutto quello che ci eravamo detti - urlati. Avevo bisogno di capire veramente il significato delle sue parole, così come quello del suo gesto contorto e, anche se probabilmente non sarei riuscita nel mio intento, almeno avrei avuto l'occasione per cominciare  a pensare seriamente ad una soluzione...perché più andavo avanti, più cercavo di allontanarmi da lui e dal nostro passato, e più una sua singola ed insignificante dimostrazione d'affetto mi spingeva a fare almeno cento passi indietro. Era decisamente una proporzione ingiusta, non credete? Uno avanti e cento indietro. Bello schifo.
«Certo, perché stare a rinvagare inutilmente uno stupido passato?». Rispose lui, più a se stesso che a me, tornando al suo solito sorriso strafottente. Si sistemò la cartella sulle spalle e si voltò senza aggiungere altro.
Mentre guardavo la sua figura perfetta allontanarsi, non potei fare a meno di pensare che forse era arrabbiato - oppure deluso? - ma per quale motivo? Che la presenza di Martina lo rendesse nervoso?
Potevo solo fare congetture, niente era certo, e niente lo sarebbe mai stato con lui, ma sentii un pizzico - giusto un pizzico! - di soddisfazione nel rendermi conto che in fondo non era così difficile comprendere le sue reazioni. Avevo ancora qualche possibilità, forse.
Non appena si rendeva conto di aver abbassato la guardia, allora cominciava ad attaccarmi e a dirmi cattiverie, per questo motivo giunsi alla conclusione che semplicemente odiava essere in svantaggio...voleva sempre essere un passo avanti rispetto agli altri, per proteggersi da tutto quello che lo circondava.
Wow, avevo cominciato persino ad interpretare i suoi atteggiamenti, forse ero io quella che necessitava al più presto di uno psicologo! Dovevo ricordarmi di prendere appuntamento con quello della scuola...
«Lore!». Lo chiamai quando ormai era già alla fine della prima rampa di scale. Se la prendeva con comodo, probabilmente aveva intenzione di saltare anche la seconda ora.
Lui fece qualche altro passo e si bloccò, forse aveva avuto un conflitto-lampo interiore, per decidere se fermarsi oppure proseguire ed ignorarmi. Alla fine, evidentemente, aveva vinto la prima fazione.
Si voltò a guardarmi scocciato, mettendosi poi in attesa, e con in mano il suo fedele cellulare - ma a furia di digitare messaggi su quel coso, non gli si atrofizzavano le dita?!
"Certo, Giorgia". Mi rimproverai mentalmente. "È logico pensare all'interezza delle sue dita, invece che trovare qualcosa di sensato da dirgli in tempo record!".
Ebbene sì, avevo attirato la sua attenzione senza nessuna valida ragione, eppure non ero riuscita ad esimermi dal farlo...non potevo lasciarlo andare via così e permettere che l'avvicinamento di quel pomeriggio si riducesse ad un altro inutile ricordo.
«Ecco...non ora...magari più avanti, ma...». Cominciai balbettando, e schioccando comtemporaneamente le dita per rilassarmi un po'. «Mi piacerebbe finire la nostra conversazione».
Occhi bassi, piedi storti e nervosismo alle stelle. Fantastico, questa era la versione più patetica di me.
«Oh sì, anche a me piacerebbe». Disse con voce velata di ironia.
Che cosa...?
Alzai lentamente la testa e lo squadrai con attenzione. Il sorriso era sempre al suo posto, solo che questa volta malcelava una malizia fin troppo evidente.
E quando l'espressione era quella, Lorenzo stava pensando certamente ad una cosa.
Non appena i neuroni presenti nel mio cervello si collegarono, facendolo riprendere a funzionare, arrossii violentemente, rendendomi conto - troppo tardi - dell'ambiguità di quanto avevo detto.
Santo Cielo, perché non pensavo mai prima di parlare?
«Lo sai che non mi riferivo a quello». Mormorai con voce flebile, riuscendo tuttavia a farmi sentire dall'interessato; oltre che da Martina, che mi stava stringendo il braccio con fin troppa energia, nel chiaro tentativo di trattenersi  dal riempirlo di pugni; e se Lorenzo non avesse ben dosato le parole, non sarei più stata in grado di trattenerla...ma forse, in quel caso, sarei stata proprio io ad incoraggiarla.
Nonostante tutto, però, apprezzai il suo enorme sforzo nel cercare di non intervenire e lasciarmi risolvere la situazione da sola.
Se c'era una cosa su cui Lore aveva ragione, probabilmente era proprio quella: senza l'aiuto degli altri non riuscivo mai a combinare un bel nulla. Perciò volevo prendermi quella piccola rivincita, perciò volevo dimostrargli che io ero in grado di superare le mie debolezze i miei difetti, grazie alla volontà.
«No, non lo sapevo...». Ribatté lui, umettandosi le labbra. «E in tal caso, mi dispiace ma non sono interessato».
Me l'aspettavo una risposta del genere, per questo non ci rimasi troppo male.
Strinsi a pugno le  mani e aprii le labbra in un sorriso falso e sardonico .
Ho detto troppo male, non per niente male.
«Oh, non c'è problema, come non detto. Ciao». Dissi salutandolo con una mano, mentre con l'altra richiudevo violentemente la porta, senza aspettare la sua risposta, che neanche ero sicura sarebbe arrivata.
 



«Si può sapere perché non posso lasciarti sola per un'oretta, che tu ti cacci nei casini?!». Mi urlò contro Martina, una volta che ci trovammo nel silenzio spettrale della casa.
«Non dire niente!». Sbraitai io di rimando, dirigendomi a passo svelto in cucina, alla ricerca di qualcosa da fare per sfuggire alle sue ire.
«No che non dico niente! Cosa credevi di fare, attaccandoti come una ventosa alla sua lingua?». Continuò la sua ramanzina, mantenendo sempre un tono di voce altissimo. Era davvero arrabbiata con me, come forse non lo era mai stata, e la cosa mi rendeva abbastanza nervosa.
«Mi ha teso una trappola, e io ci sono cascata con tutte le scarpe, Marti!». Provai a difendermi, sebbene la mia fosse una bugia bella e buona.
«Certo, è stato lui a mettere la colla!». Rispose con stizza, agitando le mani nell'aria per sottolineare la falsità delle mie parole.
Feci una smorfia e mi sedetti malamente su una delle sedie della cucina, mentre Martina si appoggiò alla porta della stessa, incrociando le braccia al petto e mandandomi scintille di fuoco con gli occhi.
«Ok, non è stata colpa sua, non solo almeno». Ammisi infine, con molta calma e serenità, per abbassare un po' i toni della discussione. Non volevo certo svegliare anche Rosaria.
«E ti dispiacerebbe dirmi cos'è successo? Perché non vedo nessuna - e dico nessuna - possibile ragione che possa giustificare quel...bacio». Concluse con voce schifata al ricordo di quanto aveva visto.
Presi un profondo respiro e cominciai a raccontare a grandi linee. «Mi ha detto che non devo piangere per lui, che non può stare con me e tutte cavolatine  così...». Mi fermai per cercare lo sguardo di mia cugina, che tuttavia trovai addirittura più infuocato.
«Appunto perché sono cavolate non avresti dovuto cedere». Spiegò, cercando di mantenere un tono di voce accettabile.
Cercando, appunto.
Scossi la testa e cominciai a giocherellare con la tazzina del té che avevo lasciato sul tavolo. «Non è tutto, Marti, ascoltami e basta».
Martina annuì sospirando e si mise a sedere di fronte a me, sebbene i suoi occhi mantenessero sempre quella loro parvenza indagatrice e scettica che mi metteva in soggezione.
«Gli ho chiesto cosa voleva fare di noi, se potevo considerare il mio migliore amico perso per sempre, una volta per tutte». Feci un'altra breve pausa per accertarmi che mi stesse ascoltando con attenzione e proseguii. «E a quella mia domanda lui, be', è come se fosse scattato. In un secondo si è riempito di una determinazione sorprendente, strana...affascinante, così mi ha colta di sorpresa e il resto della storia lo conosci già». Terminai il racconto sempre meno convinta delle mie parole, e quella che prima mi era sembrata una valida ragione per permettermi di lasciarmi andare a lui, ora stava cominciando ad apparirmi per come  in realtà era: sciocca e insulsa.
Mia cugina aveva ragione: mi ero lasciata abbindolare come al solito, solo che questa volta - dopo le recenti scoperte - ne potevo individuare il motivo, ed in parte mi sentivo giustificata per la stronzata colossale che avevo combinato.
Tutti quei pensieri dovevano leggermisi in faccia, insieme alla lenta consapevolezza di cui mi stavo riempendo, perché Martina rimase in silenzio a fissarmi, con un'espressione compiaciuta che diceva: "brava, te ne stai rendendo conto da sola".
«So già cosa mi stai per dire, perciò non farlo». Dissi abbassando lo sguardo.
«Ehi, Giò, guardami». Il suo tono era tornato pacato, contro ogni mia aspettativa, e quando ripresi a guardarla si aprì in un sorriso dolce. «So che i modi che ho usato non sono dei più civili, ma volevo che capissi e questo era l'unico sistema che sapevo avrebbe funzionato». Posò una mano sulla mia con delicatezza e continuò: «Io sarò sempre dalla tua parte, sempre, sia che tu voglia scegliere di stare con lui, sia che tu voglia mandarlo a quel paese, ma per il momento - e solo per il momento - ti prego di stargli lontana, il più possibile. Sei ancora troppo confusa, finiresti solo per combinare una cazzata dopo l'altra - esattamente come hai fatto oggi - hai bisogno di tempo...prenditelo».
Martina non diceva mai nulla apertamente, non faceva discorsi strappalacrime, né tantomeno dimostrava il suo affetto per gli altri esplicitamente - in questo mi ricordava un po' Lorenzo - per questo non volevo obiettare...tuttavia non potevo fare altrimenti.
Provai a sorriderle a mia volta, per farle capire che sapevo perfettamente la causa dei suoi modi bruschi e dimostrarle quanto apprezzassi i suoi consigli, dopodiché le presi una mano nelle mie e la strinsi con forza.
«Marti, quanto tempo ancora? Sono anni che aspetto il giorno in cui non me ne importerà più nulla di lui - non sai quanto - ma ancora non è arrivato».
«Ma prima non lo vedevi come lo vedi adesso, sbaglio? Era semplicemente il tuo ex migliore amico, che avresti voluto ancora avere al tuo fianco...una persona per te importante che non volevi lasciare andare. Adesso, oltre a tutte queste cose, ne provi altre mille in più, perché hai realizzato di essertene innamorata e non puoi permetterti di subire una delusione di questa portata».
Non riuscii a dire una parola, cominciai ad analizzare il significato di quelle parole, una per volta, facendo partire in quarta il  cervello, che cominciò a lavorare all'impazzata.
Delusione, dolore, andare avanti: era questo lo schema che avevo seguito in tutti quegli anni, ma sarebbe stato ancora così? Non potevo saperlo, e non dovevo rischiare, non potevo dare per scontato che le cose - da quel momento in poi, in cui si era messo in mezzo pure l'amore - restassero come prima.
Prevenire è meglio che curare, diceva qualcuno, e forse per una volta avrei dovuto seguire il consiglio di chi era più esperto di me.
«Impara a convivere con questo sentimento, piangi se necessario, e solo quando ci sarai riuscita potrai prendere una decisione. Adesso è ancora troppo presto». Concluse apprensiva, morendosi un labbro per scaricare la tensione.
A quel punto divenne inutile stare dall'altra parte del tavolo, mi alzai di scatto e corsi ad abbracciarla. Era probabilmente la ventesima volta che lo facevo da quando era arrivata, e - come sempre - lei mi accolse tra le sue braccia senza dire nulla.
Il legame che avevo con mia cugina andava oltre ogni tipo di affetto che potessi provare per chiunque, era puro, semplice, naturale...sincero.
Le volevo un bene immenso e almeno questo non sarebbe riuscito a cambiarlo nessuno.
«Cosa mi sono persa ancora?».
La voce assonnata di Rosaria mi fece tornare rapida alla realtà, non senza spaventarmi. Sciolsi l'abbraccio con Martina e dopo aver dato il buongiorno, mi avvicinai ai fornelli.
«Caffé?». Proposi, sorridendo colpevole, tra i risolini divertiti di mia cugina e l'espressione confusa della nuova arrivata.
 


«Ero solo una ragazzina! E poi sfido qualunque ragazza che l'abbia conosciuto a dire che non ha mai pensato di farsi Lorenzo! Persino mia mamma non faceva altro che elargirgli complimenti!».
In casa Mori l'allegria la faceva da padrona.
Io, Martina e Rosaria eravamo stravaccate sul divano del salotto, intente a raccontare episodi divertenti e/o imbarazzanti della nostra vita.
Fino a quel momento, stando agli aneddoti, la più sfortunata era stata Rosaria, che stava pudicamente parlando della sua cotta stratosferica per Lorenzo, quando eravamo appena in prima superiore.
Era strano come all'improvviso riuscissi a trovare divertente qualcosa che lo riguardasse, ma forse era solo merito della compagnia.
«Io non l'ho mai pensato». Affermò Martina sicura di se, pavoneggiandosi del suo finto autocontrollo e sorridendo soddisfatta.
«No?». Ribattei io dandole corda. «Ah, già, com'era? "Giorgia, non credo di aver mai visto un figo del genere in tutta la mia vita!". Con tanto di urletti eccitati e apprezzamenti sui suoi addominali».
«Non è colpa mia se la prima volta che l'ho visto si stava cambiando per gli allenamenti di karate!». Si difese lei prontamente, alzando le mani al cielo per dimostrare la sua innocenza.
«Certo, perché tu casualmente ti trovavi negli spogliatoi maschili».
«Stavo cercando te ed ho sbagliato porta!». Proseguì il suo alibi stizzita, e un sorriso sorse spontaneo sulle mie labbra quando cominciai a ricordare quella giornata di anni e anni prima.
Mi succedeva sempre. Ogni volta che per un motivo o per l'altro pensavo a quello sport, automaticamente il mio cuore cominciava a battere più velocemente, ed era probabilmente l'unico nostro ricordo insieme che non mi causasse dolore; nostalgia, sicuramente, ma che veniva annullata da una miriade di altri sentimenti positivi. Da lì era iniziato tutto, e anche se alla fine le cose non erano andate come previsto, quel particolare aveva comunque contribuito a costruire una parte importante della mia vita, a cui forse mi ero attaccata troppo, ma era pur sempre il periodo che racchiudeva i miei giorni migliori e quindi mi piaceva ricordarlo con il sorriso.
«A.A: terra chiama Giorgia!». Rosaria mi stava sventolando una mano davanti agli  occhi, prendendomi visibilmente in giro per la faccia da pesce lesso che sicuramente avevo assunto durante il mio excursus mentale nel passato.
«Scusate, mi ero persa nei miei pensieri». Mi giustificai quasi involontariamente e un po' imbarazzata, mentre Martina assottigliava lo sguardo per lanciarmi un monito facilmente interpretabile.
«E questi tuoi pensieri iniziavano per L e finivano per O, per caso?». Chiese sarcastica proprio mia cugina, che incrociò le braccia al petto perentoria per rendere la sua minaccia ancora più credibile.
Sbuffai leggermente infastidita e mi rivolsi a Rosaria. «La puoi fare smettere tu, per favore?».
La mia migliore amica fece spallucce un po' a disagio e, quando mi voltai di nuovo verso Martina, un cuscino mi colpì in pieno volto, facendomi non poco male.
«Ahia!». Mi lamentai, massaggiando con vigore la parte lesa.
«Ben ti sta, così impari ad ignorare le mie domande». Disse lei soddisfatta, ma visibilmente divertita dalla mia espressione sconvolta.
Attesi il momento giusto e, approfittando di un suo attimo di distrazione - impiegato per controllare l'integrità del suo smalto fresco - ricambiai il favore con il doppio dell'energia; esultando come in seguito ad un goal della Juve, nel vedere l'incredulità dipingersi a poco a poco nei suoi occhi.
Ben presto il nostro battibecco si trasformò in una vera e propria lotta di cuscini all'ultimo lancio, alternavamo risate a piccoli insulti ed era assolutamente rigenerante lasciarsi andare alla spensieratezza, che avevo accantonato completamente in seguito agli avvenimenti dell'ultimo mese.
Fu Rosaria ad impedirci di cominciare a tirarci i capelli; sedendosi con nonchalance in mezzo a noi due e schiantando due cuscini contro la faccia di entrambe.
Rinunciammo al nostro proposito di continuare praticamente subito, insieme al proposito di coinvolgere la mia amica nella guerra ormai aperta.
Avevamo il fiatone e contemporaneamente non riuscivamo a smettere di ridere; il che ci rendeva - a seconda dei punti di vista - o due bambine che avevano appena finito di litigare per il giocattolo nuovo, o due perfette idiote che si erano prese a cuscinate per il semplice gusto di farlo.
Da osservatrice interna, io rientravo nella seconda categoria di pensiero.
«Siete impossibili, voi due». Decretò saggiamente Rosaria, che accertatasi delle nostre buonissime intenzioni di convivenza civile si alzò dal divano apprestandosi a lasciare la stanza.
«Dove vai?». Domandai  seguendola con lo sguardo fino alla porta, dove si fermò.
«A prepararmi». Spiegò brevemente. «Non c'era mica un pomeriggio di shopping sfrenato in programma?». Chiese quindi, mimando le virgolette nell'aria nel pronunciare l'ultima parte della frase.
«Giusto!». Si rianimò Martina, come se le avessero appena annunciato una vittoria al superenalotto. Sembrerei eccessiva se dicessi che un bambino davanti ad una scatola di cioccolatini sarebbe stato più tranquillo?
Dal canto mio, io mi stavo maledicendo per aver fatto quella proposta.
Odiavo lo shopping - l'ho già detto? - i posti affollati, provare tremila vestiti prima di trovare quello giusto...e se a questo ci si aggiungeva anche il fatto che Martina e lo shopping - a differenza mia - andavano in giro a braccetto, il risultato era un pomeriggio di dolore per i miei piedi e un forte stress a cui sottoporre la mia testa.
Non ero certa di potercela fare.
«Non vedo l'ora di andare da Abercrombie!». Squittì Martina eccitata, cercando di coinvolgermi nel suo mare di entusiasmo.
Alla fine, dopo aver tenuto il muso per un po', mi resi conto che sarei stata solo un'egoista se avessi continuato a comportarmi in quel modo: per me certi negozi erano quotidianità, ne avevo fatto indigestione, ma per mia cugina - patita della moda - probabilmente rappresentavano una specie di sogno  da realizzare periodicamente, e chi ero io per impedirglielo?
Mi sollevai stancamente dal divano e - dopo aver pregato tutti i Santi di farmi sopravvivere a quell'intensa giornata - seguii Martina in camera mia per prepararmi.
Sarebbe stato un lungo pomeriggio...

 
 
 
 
Neanche un'ora dopo la figura del Duomo si stagliava imponente davanti a noi.
Martina la fissava sognante, come ogni volta, mentre Rosaria - che in quindici anni di vita aveva imparato a conoscerne ogni dettaglio - lo guardava con un pizzico di nostalgia.
Più volte - da quando si era trasferita - mi aveva detto espressamente quanto le mancasse la sua vecchia vita, gli amici, i luoghi, persino la scuola...e io non avevo fatto altro  che pensare a quanto invece avrei voluto essere al suo posto; lontana dal passato, lontana da Lorenzo, pronta a ricominciare una vita senza di lui.
Ma vedendola in quel momento mi resi conto di quanto avessi sbagliato con lei: quello di cui aveva bisogno era qualcuno che la spronasse ad andare avanti e continuasse ad ascoltare i suoi sfoghi; non una ragazzina capricciosa che le ripetesse costantemente quanto fosse fortunata. Possibile che fossi stata così egoista in passato?
Ed anche i sensi di colpa nei confronti della mia migliore amica erano presenti all’appello…mancava ancora qualcos’altro, forse?
Non appena Rosaria tornò alla realtà, fui tentata di distogliere lo sguardo, e – codarda com’ero –lo avrei fatto sicuramente in altre circostanze; invece continuai a guardarla senza nascondermi, senza nascondere le mie scuse silenziose, che appunto rimasero tali. Cosa avrebbe pensato di me se le avessi chiesto scusa per qualcosa successo anni prima? Probabilmente che ero una buona amica nel riconoscerlo, seppur a distanza di tempo, ma la paura che potesse dirmi qualcosa come “il passato è passato” era troppo forte perché potessi rischiare. Volevo un confronto, non un motivo in più per rendermi conto della differenza tra me e lei.
«Cosa ti frulla in quella testolina bacata?». Chiese sospettosa, arricciando poi le labbra in una smorfia pensierosa.
Anche Martina, che nel frattempo si era messa a socializzare con un gruppo di stranieri, posò lo sguardo su noi due, chiedendosi sicuramente cosa stesse succedendo e soprattutto il perché Rosaria mi stesse guardando in quel modo.
Tranquillizzai mia cugina con un sorriso e mi rivolsi a Rosaria facendo lo stesso. «Niente di particolare, solite cose». Parlai cauta, in modo da non sembrare innaturale, e la presi sotto braccio per trascinarla via, senza neanche darle il tempo di controbattere.
Raggiungemmo Martina con solo un paio di passi, e quando ci vide avvicinarci sembrò in un certo senso rilassarsi , prima di passare alle presentazioni.
Stando a quanto avevo capito, quei ragazzi - inglesi - le avevano chiesto indicazioni per raggiungere "Grom" - la migliore gelateria della città - e lei stava cercando di far ricorso alle sue scarsissime conoscenze della lingua per aiutarli, ma ovviamente senza molti risultati.
«Grazie al Cielo siete venute in mio aiuto» . Esclamò con un sorriso a trentadue denti, dando temporaneamente le spalle ai poveri turisti.
Lanciai un'occhiata leggermente più lunga delle altre oltre la sua figura ed osservai con attenzione gli sconosciuti: erano tre ragazzi decisamente carini, due mori e uno biondo, avevano tutti gli occhi chiari tipici di chiunque fosse nato in Inghilterra e con loro c'era una graziosissima ragazza sorridente, dai lineamenti vagamente sudorientali, che teneva per mano il biondino.
Una volta terminata la mia analisi, spostai lo sguardo verso Martina, fulminandola all'istante. Mi era bastato guardare i suoi interlocutori per capire per quale motivo non la smetteva di mettersi in ridicolo con loro.
I ragazzi erano sempre stati il punto debole di mia cugina, bastava che ne vedesse uno anche solo accettabile perché partisse in quarta nella sua conquista, e non si arrendeva finché la preda non le offriva almeno un gelato.
Brom. Inglesi fighi. Martina. Ora era tutto chiaro.
«Sorry guys for the stop, this is my cousin Giorgia and his friend Rosaria».
I ragazzi davanti a noi si misero a ridere di gusto, ma non in modo derisorio come un qualunque straniero avrebbe probabilmente fatto…no, non la stavano prendendo in giro, ci avrei messo la mano sul fuoco, ed anche se mia cugina mi aveva appena dato del lui, decisi di lasciar correre quel piccolo malinteso; in fondo non l’aveva fatto di proposito.
«Piacere di conoscervi, ragazze». Prese parola il moro più alto dei due, stringendo la mano prima a me e poi a Rosaria. «Io sono Benjamin, ma potete chiamarmi Ben». E concluse il tutto con un occhiolino che per poco non fece cascare a terra mia cugina.
Nonostante il mero tentativo di rimorchio, non riuscivo a tacciare quei ragazzi come “antipatici”. Era la prima volta che mi succedeva una cosa del genere e avrei senz’altro definito quella sensazione “colpo di fulmine”, se solo si fosse trattato di amore e se solo l’avessi mai sperimentato.
«Io sono Trevor». Rispose l’altro, il cui colore di capelli – guardandolo attentamente - sembrava di un tono più chiaro di quello di Benjamin.
Da quando prestavo così tanta attenzione ai particolari?
Nel mentre le presentazioni erano andate avanti, mancava solo la presunta coppietta ed io ero curiosissima di sapere quali fossero le origini della ragazza dai tratti così particolari
«Alex». Fu il ragazzo a parlare per primo e non potei fare a meno di pensare che effettivemente la faccia da Alex ce l'aveva. Anche quella era una cosa che mi capitava raramente, per questo cominciai a preoccuparmi.
«Manila, piacere». Concluse allegramente la sua presunta fidanzata, con un accento buffo ma stranamente dolce.
«Allora, sapete dove si trova la gelateria?». Chiese bonariamente Ben, mostrando dei denti perfetti, quasi quanto quelli di...
"Nessuno, quasi quanto quelli di nessuno". Mi corressi immediatamente, appena prima che Martina mi tirasse una gomitata per farmi capire che dovevo rispondere io.
«Certo, dovete andare…». Ma non feci in tempo a finire la frase che la mia adorabilissima cugina mi pestò un piede con una delle sue scarpe a trampolo.
«Ahia!». Gemetti dal dolore, cominciando a saltellare sul posto per lenirlo almeno un po'. Dopodiché, incurante di ciò che avrebbero potuto pensare gli stranieri, le lanciai un'occhiata tra l'interrogativo e l'iroso.
«Anche noi stiamo andando lì». Disse Martina tra i denti, sorridendo nervosamente ogni qual volta incrociava lo sguardo di uno dei quattro amici.
Sospirai sommessamente e decisi di stare al gioco, in fondo mi sarebbe piaciuto conoscerli meglio, sembravano dei ragazzi davvero interessanti. «Oh, che coincidenza! Anche noi stiamo andando lì…se volete possiamo farvi strada».
«Sarebbe fantastico!». Risposero loro in coro, e sembravano davvero felici di passare del tempo con noi.
«Grazie, Giò, sei la migliore cugina del mondo!».
«E tu sei ruffiana». Risposi evitando il suo abbraccio, non riuscendo però a trattenere un risolino divertito nel vederla acchiappare il vuoto, mentre io mi affiancavo a Rosaria per fare strada agli altri.
«Ehi, aspettatemi! Non è facile camminare su questi cosi!».
 
 
 
La gelateria Grom era affollata come al solito ed il locale era troppo ristretto per poter contenere tutte quelle persone. Erano anni che lo dicevo: il proprietario doveva provvedere ad ingrandire tutto, non poteva certo far morire assiderate le  decine e decine di clienti costrette ad aspettare fuori.
Durante il tragitto io avevo fatto da interprete a Martina, che aveva continuato a provarci spudoratamente con Ben, mentre Rosaria si era limitata a scambiare qualche chiacchiera con Manila; quelle due sembravano avere un'intesa particolare, e l'inglese della mia migliore amica era decisamente di buon livello, così da non aver bisogno delle mie traduzioni istantanee.
Io parlavo un po' con tutti, a dire il vero, e non perché volessi sforzarmi di socializzare – sapevo neanche come fare! - bensì perché ciascuno di loro aveva qualcosa di interessante da dire e a me piaceva ascoltarli.
In quei pochi minuti avevo scoperto già una marea di cose sul loro conto: innanzitutto erano in Italia per una vacanza-studio di qualche mese, e quindi ne avevano approfittato per girare un po' tutto il Bel Paese, la cui ultima tappa era proprio Milano, da dove sarebbero partiti il sabato successivo.
Trevor si era dimostrato il simpaticone della compagnia, mentre Benjamin sembrava piuttosto dolce e comprensivo con quella sanguisuga di Martina; cosa in cui pochi riuscivano, a dire il vero.
Manila invece era la più colta: per ogni monumento o palazzo che vedeva aveva sempre pronta una spiegazione dettagliatissima che lo riguardava: architetto, ragione per cui si trovava lì, materiali usati e altre cose come queste. Inutile dire che mi sentivo un po’ in imbarazzo nell’apprendere tutte quelle cose sulla mia città da una ragazza londinese.
Non era stato difficile, a quel punto, capire il motivo della sua immediata conoscenza con Rosaria; anche lei amava l'arte e la cultura, e condividere la stessa passione con qualcuno l'aveva resa su di giri.
Sorrisi compiaciuta ed osservai di sottecchi Alex, l'unico che si era limitato a partecipare alle discussioni con dei semplici monosillabi, più di buona educazione che di vero interesse.
A primo impatto mi aveva fatto una buonissima impressione, ma in quel momento cominciai a credere di essermi sbagliata sul suo conto, non che lo conoscessi abbastanza da poterlo giudicare, comunque, poteva tranquillamente essere timido.
«Io non ho intenzione di soffocare lì dentro». Disse Martina scrutando le persone in fila.
«Va bene, principessina, glielo prenderò io il gelato...non si preoccupi!». Risposi ironica, mettendomi in coda senza neanche chiederle quali gusti prendesse. Be', certo, ormai aveva ottenuto quello che voleva; perché non lasciare sua cugina - da sola - in mezzo a tutta quella calca? Per fortuna Rosaria era una ragazza seria, lei non mi avrebbe mai abbandonata per motivi così stu-...
«Ehm, Giò, ti dispiace se vado a dare un'occhiata a quella statua laggiù? Manny è proprio una fonte inesauribile di sapere!». E vedendo i suoi occhi brillare, e le mani giunte a mo' di supplica, non potei che farle cenno di andare.
Presi un profondo respiro e mi voltai verso gli unici tre rimasti - esclusa Martina, che se ne stava comodamente seduta su una panca lì vicino  - per vedere chi mi avrebbe accompagnata nella missione. O almeno speravo che uno di loro avesse il buonsenso di farlo...
Ma che fine avevano fatto i gentiluomini di un tempo che si facevano in quattro per salvare le fanciulle in pericolo? Ok, forse non ero in pericolo, ma portare tre gelati da sola non era il massimo delle aspirazioni di una ragazza piuttosto gracilina.
Un colpo di tosse - chiaramente finto - proveniente dal luogo in cui mia cugina si stava riposando, bastò a farmi escludere Ben dalle possibili scelte.
Ovvio che la ressa di gente fosse solo una scusa!
Per un attimo fui tentata di mandare a monte il suo piano, così sarebbe rimasta lei sola, ma era pur sempre Marti, non potevo tradire la sua fiducia per una sciocchezza del genere...in fondo non era lì solo per farmi da psicologa momentanea, aveva il diritto di divertirsi come più credeva.
«Ben, puoi stare con Martina, per favore? Ha detto che non si sente molto bene e sono un po’ preoccupata...». Finsi un tono veramente preoccupato e il povero ragazzo ci cascò con tutte le scarpe. «Nessun problema, me ne occupo io». E si precipitò subito da lei, dopo aver dato indicazioni sui gusti da prendere.
«Allora, andiamo?».
 
 


Le battute di Trevor - sebbene alcune non le avessi capite a pieno - erano le migliori che sentivo dopo parecchio tempo. Quel ragazzo aveva la stoffa per fare il comico, ma era inutile che glielo dicessi io, qualcuno ci aveva sicuramente pensato prima di me; perciò parlammo del più del meno durante tutta l'attesa, sempre accompagnati dal silenzio spettrale di Alex.
Quando ormai riuscivamo a vedere la cassa, il telefono di Trevor cominciò a squillare con le note di una simpaticissima musichetta Disney, che però sul momento non associai a nessun film in particolare. E dire che ce li avevo tutti in videocassetta, pronti da rivedere ogni qual volta avessi avuto voglia di ritornare bambina.
«Scusate, torno subito». Annunciò, allontanandosi a grandi passi, mentre premeva la cornetta verde per accettare la chiamata.
Il fatto che fossi rimasta sola con Alex un po' mi metteva a disagio: ero una persona piuttosto timida e taciturna, come avrei potuto rendere il tutto anche solo vagamente confortevole se lui lo era anche più di me?
Senza rendermene conto mi ero incantata a fissarlo con insistenza, e con la mia innata capacità di attirare figure di emmental poteva non accorgersi del mio sguardo? No, ovviamente no.
«Perché mi fissi?». Se ne uscì, infatti, improvvisamente più rilassato, ma allo stesso tempo incuriosito dal mio comportamento.
«Me ne sono accorto già prima, ma credevo fosse solo una sensazione…». Proseguì sostenendo il mio sguardo. Sembrava determinato adesso, forse il suo silenzio era dovuto ad un pensiero insistente che non riusciva a scacciare dalla sua testa. E io quella sensazione la conoscevo molto bene.
«Oh, non c’è nessun motivo in particolare, mi dispiace se ti ho infastidito». Mi affrettai a rispondere, ma non riuscii a nascondere un po' di incertezza nel farlo, e quindi risultai poco credibile.
«Stai mentendo…».
Avevo il nervosismo alle stelle e non vedevo l'ora che Travor ritornasse, l'aria era decisamente troppo tesa e sarei scappata pur di non doverla reggere.
Non mi faceva paura Alex, anzi, ero certa che fosse un bravo ragazzo, ma in lui c'era qualcosa che mi spingeva ad allontanarmene e credevo anche di sapere cosa fosse.
«Non è vero!». Mi difesi prontamente. «So che può sembrare strano, ma stavo solo pensando che per certi aspetti siamo simili».
Via il dente, via il dolore. E poi non ci saremmo neanche più rivisti, che senso aveva mentirgli?
Per la prima volta incontrai i suoi occhi, di un azzurro quasi spettrale, sembravano di vetro tanto che erano chiari. Ed erano belli, sì, ma non quanto quelli di Lor...
Alt, alt...perché ancora lui?! Non c’entrava un fico secco!
«Capisco, per caso la tua testa è sempre piena di pensieri e cose così?». Chiese Alex con un gran sorriso, forse un po' malinconico, che riuscì a tranquillizzarmi un po'.
"Più che di pensieri, di una sola persona, direi". Pensai dentro di me, ma mi guardai bene dal dirglielo...mi avrebbe presa per una stupida ragazzina innamorata. Non che non lo fossi, ma non si trattava semplicemente di amore, c'era qualcosa in più, e quel qualcosa mi impediva di andare avanti, di lasciarmi tutto alle spalle.
«Più o meno». Risposi, accennando anche io un sorriso, e fu piuttosto difficile riuscirci, data la piega che avevano assunto i miei pensieri. «E fa veramente schifo».
«Mmmh, non semplici pensieri…un ragazzo?». Domandò allora lui, sorprendendomi per la prima volta.
Rimasi con la bocca semiaperta finché davanti a noi non rimase solo una persona: mi si leggeva davvero in faccia?
Non erano quelli i miei piani...sarei andata in giro con una maschera pur di non darlo a vedere; magari potevo chiedere a Lorenzo di prestarmi la sua...
Stavo diventando pure spiritosa, wow!
«Scusate ragazzi, era la mia ex». Trevor spuntò senza alcun preavviso alla mia sinistra, mimando disperazione quando spiegò di chi si trattasse.
La sua presenza era davvero una liberazione, tutto era più spontaneo, non mi sentivo a disagio o sotto esame...ed Alex si era richiuso nel suo silenzio.
La nostra breve chiacchierata mi aveva confusa ancora di più, tuttavia decisi di lasciare perdere; il tempo di un gelato e le nostre strade si sarebbero divise.
Era così che funzionava: il destino ci faceva incontrare persone, ci metteva davanti a delle scelte che le riguardavano e poi le faceva uscire dalla nostra vita.
Forse un disegno di vita un po' drastico, ma più passava il tempo e più me ne convincevo.
Poteva un cuore calpestato come il mio pensare qualcosa di diverso?
 
 
 
Quando uscimmo dalla gelateria, l'orologio della piazza segnava già le quattro. Incredibile, quasi un'ora per prendere un gelato!
Buono quanto si voleva, ma sarebbe andata bene qualunque altra gelateria! Senza contare che la temperatura non era certo delle più adatte. Gli inglesi magari ci erano abituati, Martina aveva un secondo fine, ma ancora non riuscivo a spiegarmi perché tutte quelle persone avevano tanta voglia di congelarsi lo stomaco con quel freddo.
Altro mistero che sarebbe rimasto irrisolto.
Mentre ascoltavo Travor raccontare delle sue disavventure a Roma, diedi un'occhiata distratta in giro - Alex, al mio fianco, sembrava fare lo stesso - ma quando il mio sguardo si posò sulla panchina dove Martina si era seduta, notai subito che di lei non c'era traccia.
Poteva essere tranquillamente andata a farsi una passeggiata, direte voi, ma allora perché Ben era esattamente dove l'avevo lasciato, insieme a Manila?
Cercando di mantenere la calma, raggiunsi i due in un batter d'occhio: dovevano sapere per forza il motivo della loro assenza.
«Dove sono loro?!». Chiesi, infatti, non riuscendo a trattenere un po' di panico nella voce.
Ben mi sorrise subito, forse per tranquillizzarmi. «Sono andate da quella parte con un ragazzo».  Disse indicando un punto in lontananza, dopodiché fece una pausa. «Ma non ti preoccupare, lo conoscevano».
Un ragazzo? Ma se Martina non conosceva nessuno lì! Magari un amico di Rosy; oppure...possibile che...?!
«E lo conoscevano entrambe?». Continuai il mio interrogatorio, mentre nella mia testa si faceva largo un presentimento.
Ben annuì sicuro, rendendo il mio sospetto qualcosa di più...ma ancora non era abbastanza.
«E com’era, lui?». Chiesi deglutendo.
«Era figo!». Rispose Manila al posto suo, beccandosi un'occhiataccia da parte di Alex, che tuttavia non le impedì di continuare. «Capelli biondi, occhi blu, scuri…ed anche abbastanza muscoli».
La descrizione era la sua, ma esistevano un sacco di ragazzi con quelle caratteristiche, e io in certe situazioni diventavo proprio paranoica.
«E…ti ricordi come le ragazze l’hanno chiamato? Voglio dire, il suo nome…».
Entrambi rifletterono per un po', poi Ben sollevò un dito vittorioso.
«Lorenzo!». Esclamò soddisfatto, storpiando il nome con il suo accento inglesissimo.
Tirai un sospiro di sollievo e mi seddetti sulla panca.
Come al solito avevo subito pensato al peggio. Non che Lorenzo non lo fosse, ma almeno non era un malvivente, e Martina sarebbe stata in grado di fronteggiarlo a modo suo.
«Quindi lo conosci?». Domandò Manila passandomi un braccio intorno alle spalle.
Annuii poggiando la testa sul bordo della panchina: ero tremendamente stanca, altro che serata tra ragazze.
Dove poteva andare Lore il sabato pomeriggio, se non in Centro Milano?
«E perché non li raggiungi, allora?». Mi chiese Ben apprensivo, mentre Trevor si lamentava per i gelati che si stavano sciogliendo.
«…dovrei farlo?». Domandai apatica, con un filo di voce.
Che senso avrebbe avuto? Era già stato abbastanza chiaro quella mattina, e Martina mi aveva espressamente suggerito di vederlo il meno possibile.
«Sì, dato che sei la ragione per cui stanno parlando». Rispose Manila, sorprendendomi. Ma gli inglesi avevano per caso il dono della veggenza? Prima Alex, ora lei...
«Come fai a…?». Provai a chiedere titubante, ma lei mi precedette prima che potessi finire. «Ha detto il tuo nome».
Il cuore mi saltò in gola come impazzito, e così feci anche io. Aveva solo detto il mio nome, niente di nuovo, che bisogno c’era di reagire in quel modo? Perché avevo quella incontenibile voglia di rivederlo?
Senza neanche pensarci - o darmi una qualsiasi risposta - scattai in piedi e diedi il mio gelato - ormai mezzo andato - a Manila.
Presi il cellulare dalla tasca e cominciai a digitare con frenesia il numero di Rosaria.
Se avessi chiamato Martina, non mi avrebbe detto dov'erano neanche se l'avessi minacciata di buttarle i trucchi nel Po.
Mi tremavano persino le mani! Senza speranze, ero proprio senza speranze.
«Rosy, dove siete?». Dissi - praticamente urlai - una volta udito il suo pronto. Oh, al diavolo le persone intorno che mi guardavano!
«Ehm...vicino, non preoccuparti». Rispose sviando la mia domanda.
«Santo Dio, non potete parlare di me...senza di me!». Sbottai senza riuscire a trattenere la rabbia che si rifletteva nella mia voce.
Rosy sospirò un po' a disagio. «È meglio così, fidati».
«Non è meglio niente! Io devo vederlo, capisci?».
In sottofondo sentivo chiaramente la voce di Martina, che contro ogni mia aspettativa non era molto alterata.
«Non puoi, Giò! Combineresti solo-...ehi, che fai?! Ridammi il mio telefono! Non ci provare, sai? Ridammelo!». Sbraitò la mia amica mettendomi fuori gioco un timpano.
Udii qualche rumore confuso e poi una voce secca e decisa. La sua voce. «Noir Café, sbrigati». Telegrafico come al solito, ma era l’unico in grado di farmi perdere la ragione in quel modo.
Provai a dire qualcosa, ma l'urlo nero di qualcuno me lo impedì. «Pezzo di...!»
La conversazione si chiuse bruscamente, con quell'insulto a metà partito da Martina, il cui continuo non era poi così difficile da immaginare.
Rimisi frettolosamente il cellulare in tasca e diedi una fugace occhiata ai quattro ragazzi vicino a me, sui cui visi trovai l’incoraggiamento che cercavo. Armata di una determinazione fuori dal comune – e accompagnata dai battiti sempre più accelerati del mio cuore - mi allontanai di corsa verso il luogo indicatomi da Lore.
Sapevo che quello che stavo facendo era sbagliato, continuavo a ripetermi che tanto sarebbe stato inutile, e mi insultavo senza sosta per la mia ennesima illusione, ma i miei piedi continuavano a muoversi da soli, accorciando velocemente le distanze e portandomi sempre più vicina a lui, sempre più vicina alla fonte di disperazione da cui invece avrei dovuto fuggire.
 





Note:
Direi che è un capitolo abbastanza corposo. Alla fine sono uscite ben 30 pagine, ma ho deciso comunque di non dividerlo a metà; sia perché non sapevo dove interromperlo, sia perché ho pensato che se è uscito tutto insieme ci doveva essere un motivo XD
Non ho nient’altro da aggiungere a riguardo, se non qualche piccola precisazione.

  • Non sono mai stata in aeroporto, quindi non ho la più pallida idea di come sia fatto. Ho cercato un po’ sul web, ma non essendo riuscita a trovare molto l’ho lasciato così.

  • I dialoghi con Ben, Trevor, Alex e Manila sono ovviamente in inglese – e all’inizio li avevo persino scritti in originale XD – poi però ho pensato che sarebbe stato meglio mettere direttamente la traduzione altrimenti la lettura sarebbe potuta risultare poco fluida ^^ E dato che i lettori sono importanti, ho cambiato.

Bene, anche per questa volta il mio spazio è terminato XD
Concludo, come sempre, ringraziando chi ha recensito, aggiunto tra le preferite, ricordate e seguite. Quindi un gigantesco-enorme-iper-mega grazie a: happiness elly, AntoJosephine, xxStellina92xx, Miss Demy, MakaGD, Stella nera, eveline90, Deilantha, HazelStardust, china91, mery_dec_, Callyope89, rodney e _Miss_ .
Con lo scorso capitolo ho raggiunto davvero un traguardo importantissimo – ben 14 recensioni! (ancora non ci credo ç_ç) – e adesso ho paura di deludervi. Quante paranoie, eh? Ma credo sia normale ^^
E per ultima cosa – ma non meno importante – un ringraziamento particolare alle ragazze che mi hanno sopportata su facebook in queste settimane di stress! Voi sapete chi siete  ;)
Alla prossima.
Un bacio.
 
P.s: mi dispiace di non esser riuscita a rispondere alle vostre recensioni prima di pubblicare...lo farò quanto prima!

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Capitolo 11
*** I can't leave you behind. ***


capitolo 11

CAPITOLO 10:  I can't leave you behind








Avevo il fiato corto e il cuore a mille quando finalmente riconobbi un punto in comune alla mappa che avevo in testa. Era ben noto a tutti il mio pessimo senso dell'orientamento, e dalla foga non avevo tenuto conto di quel piccolissimo particolare, perciò mi ero ritrovata a girare in tondo senza neanche rendermene conto.

Camminavo a passo spedito incurante della gente che mi camminava intorno, avevo perso il conto delle volte in cui mi ero scusata, così come avevo rinunciato a compilare la lista degli insulti che i poveri malcapitati mi rivolgevano adirati. La mia unica preoccupazione era quella di osservare lo scorrere del tempo e, man mano che i minuti passavano, la paura che Lorenzo si stufasse dell'attesa, oppure che Rosaria e Martina portassero a termine la discussione prima ancora che arrivassi, aumentava in una proporzione imperfetta.
Giunsi al Noir Café quando ormai avevo perso le speranze. Le persone a cui avevo chiesto indicazioni si erano rivelate essere turisti, oppure abitanti di città limitrofe in gita a Milano per la prima volta, con la conseguenza che - la maggior parte delle volte - ne sapevano addirittura meno di me.
Diedi un'occhiata in giro sforzandomi di mantenere una parvenza di tranquillità, ma delle tre comari non si vedeva neanche l'ombra.
Che mi avesse presa in giro per depistarmi? Mi ero fidata così ciecamente di lui che neanche per un secondo mi aveva colto il dubbio che mi avesse mentito. "Sbagliando si impara", diceva il proverbio, ma evidentemente io costituivo un'eccezione...quella classica che confermava la regola.
Sbuffai infastidita e osservai con più attenzione tutto quello che mi circondava, in cerca di un qualunque segno della loro presenza, ma prima che - terminata la ricerca - potessi andarmene rassegnata, un lampo di genio mi colse all'improvviso. Lore non aveva detto che erano in quel bar, mi aveva semplicemente indicato un punto di riferimento per raggiungerli.
Ora tutto aveva più  senso. Come avevo potuto pensare che potessero discutere di un argomento così delicato in mezzo a tutta quella gente? Non quando di mezzo c'era Martina, almeno.
Mi diedi della stupida - neanche tanto mentalmente - e decisi di fare almeno un tentativo, avvicinandomi cautamente all'entrata di un vicolo buio, la cui uscita conduceva ad uno spiazzo ampio e semi deserto. Poca gente lo riempiva: un paio di ragazzi intenti a fare i galletti con altrettante ragazze, qualche anziano che borbottava qualcosa in modo burbero e - infine - tre figure largamente distanziate, di cui una appoggiata con noncuranza al muro alle sue spalle. Braccia conserte e sorriso strafottente.
Per una volta mi aveva detto davvero la verità.
Feci solo in tempo a sentire il cuore saltarmi in gola che improvvisamente tutto era scomparso; rimanevamo solo io, lui e la sua innata capacità di cancellare tutto ciò che di sensato avevo nel cervello.
Nonostante la sostanziale distanza che ci divideva, i nostri occhi si incrociarono quasi subito, come se fosse stata una calamita invisibile ad attrarli, e avrei giurato di aver visto qualcosa riflettersi nei suoi, quando con un respiro più profondo degli altri - e le dita saldamente incrociate dietro la schiena - avevo cominciato ad avanzare spedita in sua direzione.
Qualche secondo dopo, Martina e Rosaria si voltarono contemporaneamente verso di me; e, ancora, non mi stupii di vedere solo cieca rabbia nell'espressione della prima, forse mista ad un pizzico di delusione e tradimento. La conoscevo fin troppo bene e sapevo perfettamente quanto odiasse veder prendere i suoi consigli con leggerezza, specialmente da me che li avevo sempre ritenuti oro colato. Lorenzo aveva sballato tutto, il mio equilibrio, la mia ragione, la mia vita...era persino riuscito a mettermi contro mia cugina, la mia adorabile Marti, e chissà per quale ragione poi mi ero precipitata lì per rivederlo, per farmi di nuovo del male. 
Rosaria, invece, sembrava più preoccupata che altro e questo era un bene: mai come in quel momento avevo bisogno di qualcuno che fosse dalla mia parte.
Deglutii e con un ultimo sforzo li raggiunsi, fermandomi proprio vicino alla mia migliore amica, che mi guardò con apprensione, prima di stringere la mia mano nella sua.
«Bene, ora che ci siamo tutti direi che possiamo cominciare». Sentenziò Lore, arricciando il naso sotto gli occhi attenti di Martina, che ormai aveva assunto un’espressione omicida: se non avesse dosato le parole l’avrebbe certamente fatto a pezzi.
«Allora, chi vuole insultarmi per prima?». Ci esortò poi, fissandoci una alla volta con aria di sfida, seriamente divertito dalla situazione. E davvero mi chiedevo cosa ci trovasse di così divertente nello sguardo inceneritore di mia cugina. Chiunque avesse avuto un briciolo di cervello sarebbe scappato a gambe levate, perciò le cose erano due, e una non escludeva necessariamente l'altra: o non ce l'aveva oppure era masochista. «Sono a vostra completa disposizione». 
«Non siamo qui per metterti al patibolo, Lore». Dissi già stanca del suo atteggiamento. Prima avesse smesso di fare il "non vedo, non sento, non parlo" della situazione, prima sarebbe stato meglio per tutti.
«Parla per te!». Mi rimbeccò Martina prontamente, dando libero sfogo alla stessa ira che - prima del mio arrivo -  aveva dedicato esclusivamente a Lorenzo.
«Tua cugina è proprio tosta, eh?». Commentò quest’ultimo rivolto a me, guardando Martina in modo sprezzante e allo stesso tempo…affascinato? Escludendo lei - la diretta interessata - da quell'apprezzamento.
Allora non mentiva sul fatto che gli piacevano le ragazze decise.
Che bel momento adatto avevo scelto per appuntarmi questa sua preferenza in fatto di donne! Fantastico, Giorgia, sei davvero arrivata fino a questo punto?!
«Io le darei ascolto, fossi in te». Intervenne Rosaria mettendolo in guardia. E se non lo avesse fatto lei, ci avrei certamente pensato io. In fondo mi sarebbe dispiaciuto vederlo con un labbro spaccato per la trecentesima volta.
«Oh, davvero?». Chiese lui, fingendosi stupito, alternando - nel contempo - occhiatine a tutte noi. «So badare a me stesso, grazie». Fece una pausa brevissima, per poi rivolgersi solo alla mia migliore amica, sfoggiando una pessima ironia. «E lo stesso avvertimento vale anche per te, per caso? Perché ho seriamente intenzione di non seguire il tuo consiglio».
Rosaria reagì piuttosto bene a quella sua battuta infelice - come del resto mi aspettavo - a differenza di Martina, lei non era una ragazza vendicativa. Sapeva farsi valere, questo sì, ma cercava sempre di non serbare rancore per nessuno. E la maggior parte delle volte ci riusciva senza troppi sforzi. Ecco, sotto questo aspetto eravamo molto simili.
«Sai cos'ho intenzione di fare io, invece?». Si intromise mia cugina, quasi grugnendo dalla rabbia. La sua mano tremante, stretta in un pugno saldo, non era certo il preludio di una festa. Provai a dire qualcosa per fermarla, ma ottenni esattamente l'opposto, con l'aggiunta di una fiammata invisibile che raggiunse in pieno centro i miei occhi.
«Non saprei...sesso?». La buttò giù Lore, serrando poi le labbra con forza, per evitare di scoppiare a ridere. «Quando una donna è così aggressiva, per rilassarsi al meglio può ricorrere al sesso». Spiegò in modo quasi convincente. Quasi...perché ormai era sul punto di non trattenersi più.
Più Marti si adirava e più lui si divertiva come un bambino a prenderla in giro. Ma sarebbe arrivato il momento in cui le situazioni si sarebbero invertite, era inevitabile con quella sua scarsa propensione a voler rendere pacifica la conversazione, e io non sapevo se attenderlo con ansia oppure sperare che si desse una regolata in tempo.
«E dai, Dolly, non essere così musona...la vita è fatta per divertirsi». Ammiccò, marcando quella parola con una strana voce languida che mi diede i brividi. Se per il freddo o per qualche inconsulto desiderio, non saprei dirlo.
Dolly.  Ancora quel soprannome idiota! Poi proprio per Martina, che fin dalla nascita mi aveva proibito di darle nomignoli strani. Senza contare il suo tentativo da provolone fallito. Lo avrebbe ucciso. Lo avrebbe ucciso!
Mi voltai preoccupata verso mia cugina, che dalla rabbia si era ormai conficcata le unghie nel palmo della mano.
Allarme rosso. Pensai. Se era disposta persino a rovinarsi le unghie fresche di manicure, la situazione era addirittura peggiore di come l'avevo creduta.
Pregai con tutta me stessa che non facesse sciocchezze, altrimenti come avrebbe spiegato a tutti per quale motivo aveva rotto il naso (nella migliore delle ipotesi) ad un quasi sconosciuto? Era una vacanza all’insegna della pace e dell’amore in famiglia, quella, non poteva diventare un incubo.
Pensa a qualcosa, pensa a qualcosa, pensa a…
«Non gira tutto intorno a te, idiota!». Sbottò mia cugina, con un tale impeto da interrompere bruscamente i miei pensieri. «Oh, ma credimi, io ti ho capito, mio caro. Più di quanto tu immagini».
Nessuno osava parlare, nell'aria c'era solo una tensione generata dall'attesa, e l'unico che sembrava avere ancora la capacità di respirare - nonostante fosse l'obiettivo di quell'intimidazione - era proprio Lorenzo, che tuttavia non tentò di fermare la sua sfuriata.
«I tipi come te sono un libro aperto per me, un cliché». Affermò, imitando lo stesso sorriso che Lore improvvisamente aveva abbandonato. I ruoli si erano davvero invertiti, alla fine. «Cosa credi, che comportandoti da perfetto menefreghista nessuno possa scalfirti o causarti dolore?». Proseguì assottigliando lo sguardo severamente, per poi lanciarmi un'occhiata brevissima, quasi inesistente, che mi inchiodò sul posto all'istante. Avvertii la mano di Rosaria stringersi con più forza alla mia, come a volermi infondere coraggio, perché sapeva quanto fosse difficile per me affrontare tutti quei fantasmi del passato, confrontarmi con tutte le verità che avevo sempre cercato, ma delle quali - allo stesso tempo - avevo un'insana paura.
Tutti stavamo aspettando che Lore rispondesse, un suo segnale, una smorfia, una risata derisoria, addirittura che se ne andasse, ma lui sembrava in trance, assente, come se fosse partito per un altro mondo e la sua reazione non arrivò che dopo un altro, lungo, insostenibile silenzio. 
«Si vede che non hai capito un cazzo». Biascicò lui serio, mantenendo un tono piatto che non trasudava alcuna emozione. Avrei detto nervosismo, probabilmente, ma non ci avrei scommesso niente.  «Non credi di essere un po' troppo presuntuosa?».
Martina si ritrasse leggermente, la sua convinzione aveva vacillato e, anche se non avrebbe voluto darlo a vedere, l'avevo notato praticamente subito; il fatto che lei mi conoscesse alla perfezione non era una cosa a senso unico.
Inoltre, l'ipotesi che aveva sollevato era una di quelle che mi aveva tormentato in tutti quegli anni, ci avevo pensato parecchio, ma alla fine mi ero convinta che la sua preoccupazione non poteva essere semplicemente quella di non soffire, la ragione era un'altra, una che si guardava bene dal rendere esplicita, una che magari, da sola, racchiudesse tutta quella sofferenza da cui voleva scappare.
Non sentendo arrivare alcuna risposta, Lore continuò con la sua opera di affossamento. «Non mi conosci e io non conosco te, perciò stai fuori da questa storia». Scandì l'ultima frase facendo una pausa tra una parola e l'altra, forse per dare ad ognuna di esse il significato per il quale le aveva realmente usate. E riuscì perfettamente nel suo intento, perché pesarono più del piombo, addosso a Marti, addosso a Rosy...persino addosso a me.
«E Giorgia?». Si riprese temporaneamente mia cugina, sferrando il colpo decisivo. «Anche Giorgia non c'entra niente in questa storia?!».
Bingo. 
Lore dopo un attimo di sorpresa, che a nessuna di noi era sfuggito, fece per parlare...e bramavo di sentire quella risposta, avrei dato qualunque cosa per scoprire se avesse deciso di deviare la domanda oppure di dire semplicemente la verità, ma chiaramente Martina non la pensava allo stesso modo, avevo dimenticato la storia del "non ti farebbe bene parlare con lui in questo momento". 
«Andiamo». Sentenziò infatti, dopo aver sostenuto una sfida interminabile di sguardi con Lorenzo, finita in parità assoluta. Tanto che i loro caratteri erano forti e contrastanti, mi era sembrato di poter vedere persino le scintille partire dai loro occhi e colpire l’avversario.
«Che cosa?!». Me ne uscii io, rendendomi conto solo in quel momento di quanto aveva detto.
Martina tornò a concentrarsi su di me, nuovamente scocciata. «Mi dispiace, ma tu non eri inclusa nel piano “affossiamo Mr. stronzaggine”, perciò muovi quelle gambe-scamorze chi ti ritrovi e andiamocene di qui».
«Quindi, era una trappola». Constatò Lorenzo immediatamente, tornato improvvisamente pungente e invacillabile. «Chissà perché la cosa non mi stupisce per niente».
Martina si voltò di scatto verso il suo interlocutore, senza celare nemmeno un pizzico della rabbia che la stava consumando. «Però ti sei presentato all’appuntamento».
Lore fece spallucce. «Volevo accertarmene». Posò brevemente lo sguardo su di me, dopodiché si scostò dal muro alle sue spalle senza fare una piega. «Tu lo sapevi, no?».
Colpita e affondata. Ma perché avrei dovuto sentirmi in responsabile per qualcosa di così futile, quando in realtà lui aveva fatto di molto peggio?
A quell'accusa sentii la collera montarmi dentro, ad ondate sempre più alte e pericolose. Lui mi stava tacciando di scorrettezza tra le righe! Lui!
Ignorai i ripetuti richiami di mia cugina per un po', allontanandola poi con uno strattone quando tentò di portarmi via da lì con la forza.
«Non ti azzardare, sai?». Sbottai avvicinandomi di qualche passo all'oggetto della mia ira. Ormai gli avvertimenti di mia cugina erano diventati solo un piccolo brusio nell'anticamera del mio cervello, fastidioso ma facilmente isolabile.
«A fare cosa?». Fece lui il finto tonto, senza cancellare però quel sorrisetto terribilmente irritante e fastidioso che si era incollato permanentemente sul viso.
«Ma lo fai apposta o sei cretino?!».
Lore fece un passo verso di me. Piccolo, invisibile, eppure riuscii comunque a percepire distintamente la diminuzione dello spazio che ci separava. Ogni cosa con lui si amplificava: ogni sentimento normale con lui diventava letteralmente devastante, ogni sguardo insignificante, con lui assumeva un peso e un'intensità tali da non poterne scordare neanche il minimo dettaglio...ogni abbraccio, bacio o carezza ordinario si trasformava in un'insaziabile voglia di averne ancora, di più, all'infinito.
«Sono cretino».
«Lo sapevo io, lo sapevo!». Intervenne Martina nervosamente, frapponendosi tra noi due con stizza, prima che potessi rispondergli per le rime. «Smettetela voi due!». Sbraitò poi, afferrandomi malamente per un braccio per tirarmi via. «E tu non stare lì impalata, aiutami a portarla via di qui!». Urlò in direzione di Rosaria, che corse spaventata in suo aiuto.
«Ma io devo parlare con lui! Non potete obbligarmi ad andarmene!». Protestai piantando i piedi a terra per ostacolarle, ma con scarsi risultati. Ero sempre stata una frana in resistenza, ed eravamo due contro uno.  «Rispondi alla domanda di Martina, Lore! Anche io non c'entro nulla in questa storia?!». Feci un ultimo, disperato tentativo, sebbene sapessi quanto fosse vano.
«Non adesso». Mi disse Martina tra i denti, prima di rivolgersi a Lore con un sorriso minaccioso. «Arrivederci, carissimo, è stato un piacere conoscerti!».
Gli lanciai un'ultima occhiata e lo trovai impassibile come al solito. Non fece nulla per fermarmi, nemmeno una singola parola, eppure anche lui sapeva che sarebbe bastato davvero poco per farmi abbandonare le resistenze, per farmi correre di nuovo da lui. Entrambi lo sapevamo, così come entrambi conoscevamo le conseguenze, solo che lui non era disposto ad accettarle.
Non vuole. Mi dissi con rammarico, sostituendolo interamente alla rabbia di poco prima. Non ha mai voluto che rimanessi, perché dovrebbe ora?
E me lo lasciai alle spalle ancora una volta, arrendendomi sconfitta. Magari quella era davvero l'ultima, magari non mi avrebbe più cercata, magari gli sarebbe bastato un singolo secondo del presente per dimenticarne mille passati.
Lui ci sarebbe riuscito. Io no.
Lui sarebbe andato avanti. Io sarei rimasta ancorata ad un'inutile speranza per chissà ancora quanto tempo.
Forse per lui era stato solo un gioco, ma per me in gioco c'era stata soltanto la mia vita e, alla fine, l'aveva segnata indissolubilmente.
 
 
Tornammo da Grom in un silenzio quasi assoluto: nessuna di noi osava aprire bocca, a parte Martina che continuava ad insultare Lorenzo a bassa voce, e in più c'erano  i suoni della città sempre presenti, da qualunque parte si andasse.
Trovammo Benjamin e Trevor ancora seduti sulla panchina di legno davanti alla gelateria e, quando ci videro arrivare, si alzarono entrambi sorridenti. 
«Alex e Manila?». Domandò Rosy accorgendosi della mancanza della strana coppietta, anche se a mio parere era solo un modo per distrarre l'attenzione dei due da me e Martina.
«Oh, sono tornati in hotel. Manila si è sentita poco bene e Alex l'ha accompagnata. Vi ringraziano per la compagnia e vi salutano tanto».  Rispose Benjamin allegramente, per poi guardare Marti perplesso, probabilmente notando il suo silenzio insolito.
Cercò il mio sguardo in cerca di spiegazioni e io provai a tranquillizarlo con un sorriso, che a quanto pare sortì l'effetto desiderato, perché tornò a sorridere sereno.
«Siete stati gentilissimi ad aspettare che tornassimo». Presi la parola, leggermente più lucida rispetto a qualche minuto prima.
«Nessun problema, mi dispiace solo che i vostri gelati si siano sciolti completamente». Intervenne Trevor, indicando con un dito il cestino dei rifiuti lì vicino, dal quale sbucavano tre coni completamente intatti, eccetto per la parte del gelato.
Io e Rosy scoppiammo a ridere di gusto, mentre Martina sembrava ancora immersa nel suo mondo, intenta a rimuginare su chissà quale parte della discussione con Lorenzo.
«Non lo capisco». Mugugnò a bassissima voce, sembrava quasi che neanche si rendesse conto di dove ci trovavamo. Prima faceva di tutto per far colpo su Ben e poi neanche si accorgeva delle sue attenzioni...avrebbe fatto bene a mandare in vacanza il suo cervello, prima che questo fosse diventato proprio un suo limite.
Le tirai una gomitata leggera, facendo in modo che gli altri non mi notassero, e lei si riscosse dal suo stato di isolamento, sbattendo più volte le palpebre, con aria confusa e spaesata. Mi guardò interrogativa e io le indicai Benjamin con lo sguardo, che stava parlando con Rosaria e Trevor di qualcosa non ben identificato.
Mi ero distratta pensando a lei e avevo perso il filo del discorso.
«...Milano è una città bellissima, credo una delle più belle che abbia visto qui in Italia». Stava dicendo Ben, seriamente affascinato da tutto ciò che lo circondava, e non potei fare a meno di pensare che se ci avesse vissuto l'avrebbe pensata diversamente. Anzi, lo avrei addirittura detto se Martina non mi avesse preceduta con un'altra delle sue. Ci metteva davvero molto poco per riprendersi...
«Hai proprio ragione, c'è così tanta storia qui...oltre ad un freddo da paura!». Commentò a sorpresa, aggiungendosi con nonchalance alla discussione. Scossi la testa rassegnata, soprattutto per la bugia colossale che aveva appena raccontato, e mi unii anche io al gruppo, anche se l'unica cosa che volevo fare era tornare a casa, farmi un bagno bollente e rilassarmi un po'.
Ero davvero stanchissima.
Dopo qualche minuto di chiacchiere in libertà (problemi con l'inglese di Martina a parte), il telefono di Benjamin squillò. Il ragazzo annunciò che si trattava di Alex e rispose leggermente ansioso, forse temendo che fosse successo qualcosa a Manila.
La conversazione fu piuttosto breve, solo qualche secondo di monosillabi da parte di Ben, che concluse il tutto con un saluto abbastanza sbrigativo e scocciato. «Sì, arriviamo. Ciao».
«Dobbiamo tornare in hotel anche noi, la Malvin ha qualcosa di importante da dirci». Spiegò a Trevor un po' contrariato, tornando poi a rivolgersi a noi, che lo guardavamo con tre enormi punti interrogativi sul viso.
Sorrise. «La Malvin è l'organizzatrice della vacanza-studio, è una storia un po' lunga, ma in poche parole controlla che non facciamo quello che ci pare, rende la vacanza una non vacanza». 
«Puoi anche dire che controlla che non ci diamo alla pazza gioia». Intervenne Trevor con una smorfia, ricevendo una pacca di consolazione sulla spalla da parte dell'amico.
«Quindi è giunto il momento dei saluti?». Domandai un po' in imbarazzo per la piega che stava prendendo quella discussione sulla "pazza gioia". Martina mi trucidò con lo sguardo, mentre i due londinesi annuirono un po' dispiaciuti.
«È stato un piacere conoscervi ragazze, ci avete salvato da un girotondo per questo casino di città». Disse Trevor avvicinandosi per darmi un bacio sulla guancia. Sentii un'ondata di calore concentrarsi proprio in quel punto: era la prima volta che un ragazzo faceva una cosa del genere, eccetto Lorenzo che...be', aveva fatto molto di più, ma lui era un caso a parte, e non potei controllare un battito più veloce degli altri, insieme ad un brivido lungo la schiena,  mentre posava le sue labbra bollenti sulla pelle fredda del mio viso.
Era pur sempre un bel ragazzo e io non ero indifferente al fascino maschile. 
Salutai Ben allo stesso modo, anche se l'effetto fu decisamente meno sconvolgente, forse a causa degli occhi insistenti di mia cugina, che non lo mollavano neanche un secondo.
«È volato il tempo». Disse proprio quest'ultima, appena si ritrovò davanti a lui.
Era strano come il destino avesse deciso di farli incontrare e poi separare senza neanche dare loro il tempo di conoscersi. Se non avessero dovuto ritornare a casa, quante possibilità c'erano che sarebbero finiti insieme? E quante che, invece, quell'apparente affinità si sarebbe rivelata un semplice abbaglio? 
Entrambi erano dispiaciuti, ma proprio quella conoscenza superficiale fece in modo che il commiato non fosse poi tanto drammatico.
Ognuno sarebbe tornato alla propria vita e presto si sarebbero dimenticati l'uno dell'altra, magari ancora prima che se ne rendessero conto.  
Ero sempre più convinta che il mio schema del destino fosse corretto, ci faceva incontrare, amare e poi lasciare le persone della nostra vita.
Crudele, meschino, ma purtroppo reale.
Ed impegnata com'ero a riflettere, non mi accorsi delle parole che si sussurrarono durante l'abbraccio, parole che diedero a mia cugina il conforto di cui aveva bisogno, il conforto che invece avrei voluto darle io.
 
Il resto del pomeriggio lo passammo in giro per negozi come stabilito, anche se l'aria non era propriamente quella che avevamo immaginato per il nostro giro all'insegna dello shopping. C'era una questione irrisolta tra me e Martina, e questa causava una sorta di disagio che non vedevo l'ora di superare, una volta arrivate a casa.
Ero consapevole del fatto che rientrassi nell'1% delle ragazze che odiavano provare vestiti su vestiti, ma mi sforzai comunque di non fare la nonna Papera della situazione, assecondandole il più possibile nella loro scelta. 
«Come mi sta?». Continuavano a chiedermi entusiaste, ma a me quegli abiti sembravano tutti uguali, per questo rispondevo "bene" al primo colpo, con la conseguenza che dopo un po' cominciarono a scegliere secondo i propri gusti.
Quando tutto sembrava finito, dopo un'interminabile ora e mezza di dolori ai piedi passata a fare l'appendi abiti vivente, tirai un sospiro di sollievo e feci per raggiungere la cassa. Mancava ancora il film da affittare, ma almeno quello sarebbe stato divertente da scegliere e ci avremmo impiegato solo qualche minuto.
«Dove credi di andare?». Mi fermarono due voci alle mie spalle, afferrandomi ciascuna per un braccio e ritrascinandomi nel bel mezzo del negozio, più precisamente davanti a una serie di abiti eleganti, quelli classici da cerimonia con gonne corte e corpetti scollati...quelli che non avrei comprato nemmeno se fossero stati gli unici disponibili sulla faccia della terra.
«Non ditemi che volete comprare pure questa roba?». Chiesi indicando gli indumenti davanti a me, passando poi in rassegna tutti quei colori fin troppo appariscenti per i miei gusti.
«No, per noi no...».
Confusa sollevai lo sguardo verso di loro, ma le espressioni che trovai ad attendermi mi diedero letteralmente i brividi. «Cosa...?». Tentai di dire, mentre le loro labbra si piegavano in due sorrisi inquietanti.
«Quando è il tuo compleanno, Rosy? Il tuo diciassettesimo compleanno». Chiese Martina, calcando sulle parole diciassettesimo e compleanno.
Rosy finse di contare i mesi con le dita e poi, con altrettanta finzione, si portò una mano alla bocca. «Il mese prossimo».
«E questo cosa c'entra? So benissimo quando è il compleanno della mia migliore amica». Puntualizzai, piuttosto offesa da quell'allusione insensata.
Martina sbuffò ignorando la mia domanda e servendosene di un'altra. «Cosa indosserai alla festa?».
«Non so, un jeans e una camicetta un po' eleganti...». Risposi pensando al mio guardaroba, nel quale avrei certamente trovato qualcosa di adatto all'occasione.
«Quest'anno non andrete in una pizzeria per bambini a mangiare con altri quattro gatti, lo sai vero?».
«E con questo?». Chiesi cominciando ad innervosirmi. Tutti quei giri di parole mi stavano facendo venire il mal di testa. «Non penso di fare un torto a qualcuno andandoci con un paio di jeans e...un momento!». Esclamai improvvisamente consapevole delle sue intenzioni. «No, cara, non riuscirai a farmi comprare questi vestiti striminziti per andare ad una festa a cui parteciperá un'orda di ragazzi maniaci». La avvisai minacciosa, arretrando contemporaneamente spaventata per la sorte che mi sarebbe toccata.
«Tu dici?».
Vidi gli occhi di Martina incontrare quelli di Rosaria in un'occhiata di intesa, dopodiché non mi restò che assistere impotente alla scelta del vestito, prima di ritrovarmi chiusa in un camerino insieme a due vestiti, uno più odioso dell'altro.
«Sequestratrici, sapete che potrei denunciarvi?». Urlai mentre cercavo di capire come si indossassero quei cosi.
«Va bene, ma prima prova quelle meraviglie».
«Tanto non li indosserò mai».
«Sì, lo sappiamo...però adesso sbrigati».
Armeggiai con cerniere, nastri e bottoni e in qualche modo riuscii ad infilare il primo dei due decentemente. Per una volta ringraziai il mio metro e cinquanta di altezza, che rendeva quel vestito corto meno...corto, successivamente lisciai le pieghe che si erano formate e diedi un'occhiata allo specchio.
Troppo appariscente. Mi giudicai facendo un mezzo giro.
Il risultato era esattamente quello che mi aspettavo e, tralasciando la mia avversione per la moda, quel genere di abiti perdeva ogni tipo di fascino addosso a me...sembravo un manico di scopa vestito, senza forme a risaltarne il taglio, e con due gambe decisamente (troppo) poco slanciate.
Raddrizzai il busto, spinsi il petto all'infuori e mi preparai ad uscire, pregando che, una volta resesi conto di quanto apparissi ridicola, mi risparmiassero un'ulteriore tortura con l'altro vestito.
«Quanto sei lenta, ragazza mia». Mi accolse Martina frettolosamente, e senza darmi neanche il tempo di ribattere, cominciò  a  scrutarmi con attenzione da testa a piedi. Sembrava avesse i raggi X negli occhi e la cosa mi incuteva non poco terrore. «Carina ma non eccellente». Sentenziò infine, arricciando le labbra pensierosa, per poi rivolgersi a Rosaria, che confermò il suo responso con un cenno affermativo del capo.
«È inutile che speriate di trovare qualcosa di questo genere che mi stia anche solo in modo accettabile». Le avvisai sperando che mi dessero retta, ma quello che ottenni fu l’esatto contrario: Martina si catapultò verso di me, guardandomi con occhi tristi.
«Senti, sciocchina, non sei un cesso ambulante, okay? Hai un bel viso e degli occhi stupendi, oltre che un seno scarso e un'altezza alquanto discutibile». Un guizzo di disappunto le attraversò il viso, ma scomparve in un nonnulla, perché continuò addirittura più spedita di prima. «Pregi e difetti sono due facce della stessa medaglia, bisogna solo saperli compensare, perciò cancellati quella faccia da funerale e prova l'altro, sono certa che mi darai ragione». Mi rimproverò aggiungendo un occhiolino al termine della frase, tuttavia, neanche le sue parole di conforto - che comunque apprezzai moltissimo - riuscirono a motivarmi un po' di più.
«Ma...».
«Niente ma». Mi interruppe, secca  e perentoria, spingendomi di nuovo dentro il camerino con una alquanto discutibile grazia.
Mia cugina era l’esempio femminile più evidente che conoscessi, ma in alcuni frangenti – neanche poco frequenti – l’unico aggettivo che riuscivo ad associare ai suoi modi bruschi era proprio “rozzo”.
Una contraddizione vivente, non credete?
Il secondo vestito era leggermente più sobrio: di un azzurro brillante che associai immediatamente a quello degli occhi di Lorenzo (erano uguali, non potevo non collegarli!),  con due spalline e un'arricciatura poco sopra il seno che gli conferivano un'aria davvero molto elegante. Stava abbastanza aderente, ma non risultava per nulla volgare, e di spazio all'immaginazione ne lasciava in abbondanza.
Non male, decisamente non male. Commentai tra me e me, guardando la mia immagine goffa riflessa nello specchio di fronte.
«Oh mio Dio!». Esclamarono entusiaste le mie due aguzzine non appena mi videro, si guardarono compiaciute e mi corsero immediatamente incontro, sistemando qua e là i segni della mia incapacità nel vestirmi decentemente. «Non c'è dubbio, questo vestito è assolutamente tuo!». Asserì Martina facendomi fare persino un mezzo giro per osservarmi meglio.
«Sembra che l'abbiano disegnato per te». Aggiunse Rosaria annuendo con vigore.
«Ti è stato cucito addosso!». Squittì Martina facendomi una foto a tradimento, che ricambiai con uno sguardo truce.
«È praticamente perfetto». 
«E fa pendant con gli occhi di Lorenzo». Mi lasciai sfuggire in un sussurro inudibile per chiunque, mentre loro si perdevano in elogi senza senso. Ma evidentemente non parlai tanto piano, perché nello specchio di fronte a me vidi il viso di Martina contrarsi in una smorfia, mentre quello di Rosaria cominciava ad ospitare un mezzo sorriso di consolazione.
«Mi dispiace, non riesco a tenerlo lontano dai miei pensieri per troppo tempo». Mi scusai, voltandomi per tornare nel camerino e cambiarmi – era già tutto abbastanza difficile e continuare quella disquisizione avrebbe portato solo ad ulteriori complicazioni - ma Martina mi bloccò posando una mano sulla mia spalla con fare protettivo. «Non devi scusarti di nulla, Giò».
Mi voltai lentamente e, trattenendo un insulto rivolto a me stessa, mi morsi un labbro con esitazione, indecisa se parlare e risultare patetica, oppure stare zitta e tenermi tutto dentro. Alla fine decisi che la seconda ipotesi mi avrebbe solo danneggiata ulteriormente. «Odio il fatto di non riuscire a fare a meno di lui, odio questa mia dipendenza da uno stronzo, lunatico e pure menefreghista, ma non posso farci niente. Qualunque cosa faccia, non importa quanto provi o cerchi di lasciarmelo alle spalle, non riesco ad andare avanti, ad immaginare un futuro che non comprenda anche la sua presenza». Parlai a raffica, senza pause né respiri, come se solo così facendo il filo dei miei pensieri potesse avere un nesso logico, per loro, ma soprattutto per me;  volevo che Marti capisse che non avevo ignorato il suo consiglio per un semplice capriccio, volevo spiegarle che  il mio affetto per Lorenzo era diventato ingestibile a tal punto da fare una cazzata dietro l'altra, volevo farle comprendere che mi rendevo perfettamente conto di aver preso una pala per scavarmi la fossa da sola. Volevo che mi dicesse che sarebbe andato tutto bene, che insieme avremmo risolto i miei problemi.
«Ti ho detto che non devi darmi spiegazioni». Mi rimproverò lei dolcemente.
«Ma ho...».
«Sbaglio o i ma non erano accetti?».
Provai a ribattere ancora, ma lei me lo impedì. «Dimentica per due secondi...quello e rivestiti, intanto io vado a cercare le scarpe. Per oggi abbiamo già fatto abbastanza shopping». E due secondi dopo era già nel reparto delle scarpe, intenta a cercare quelle più adatte al mio vestito.
Sospirai arrendendomi.
«Ti vuole bene». Mi disse Rosaria con un sorriso.
Osservai un'altro po' l'esile figura di mia cugina e mi diressi al camerino pensierosa. «Lo so, credimi, lo so».
 
 
Sentire finalmente i miei piedi rilassarsi, una volta liberati dalla tortura cui erano stati costretti, fu quanto di più appagante potesse esserci. Mentre Rosaria e Martina apparivano nella loro forma migliore, io mi lamentavo del dolore alle gambe e alla schiena...quella giornata mi aveva davvero distrutta, e non solo fisicamente parlando.
«La prossima volta ricordatemi di non accompagnarvi più a fare shopping». Borbottai accasciandomi sul divano del salotto.
Martina si sedette accanto a me, dandomi una pacca sulla spalla. «Presto ti ci abituerai e non ne potrai più fare a meno».
Sollevai un sopracciglio scettica, come per dire "contaci", e chiusi gli occhi.
In testa avevo solo la mia bellissima vasca da bagno, ricolma di acqua bollente e bagnoschiuma alla frutta, ma la stanchezza era talmente tanta che non ce l'avrei fatta ad alzarmi per almeno i prossimi due minuti.
«Io sto morendo di fame». Si lagnò Rosy, affacciandosi alla cucina per vedere a che punto fosse la preparazione della cena.
«E tu quando mai?». La rimbeccai ridacchiando. «Sono certa che se non avessi l'abilità di far sparire tutto ciò che mangi ti daresti un contegno».
«Infatti, non è salutare mangiare ogni due per tre. Ci sono degli orari da rispettare per il nostro metabolismo». Mi diede man forte Martina, sottolineando il tutto con un'aria da maestrina saccente.
«Ma piantala! Il discorso vale anche per te...tutte e due avete il verme solitario nello stomaco».
«Dove c'è pancia c'è sostanza». Mi consolò allora mia cugina, lanciando un'occhiata all'oggetto della discussione.
Saltai in piedi, punta sul vivo. «Ehi, io non ho la pancia da bevitore di birra!». Mi difesi coprendomi la pancia con una mano.
«Da che...?». Chiesero loro in coro, scoppiando a ridere follemente.
Assistii alle loro prese in giro per un altro po', tentando invano di parlare, dopodiché mi avvicinai alla porta con finta offesa. «È inutile che perda tempo con voi». Dissi a voce alta, per fare in modo che mi sentissero in mezzo a tutte quelle risate isteriche. 
Vedendo il mio intento fallire così miseramente, scossi la testa e con uno sbuffo mi diressi verso la mia tanto agognata vasca da bagno. Finalmente un'ora di relax, relax e solo relax...nessun Lorenzo ad occuparmi la mente. 
 
 
Stomaco pieno - per la gioia di Marti e Rosy - pigiami comodi, genitori nuovamente a cena ed eravamo pronte a goderci la serata.
Il film scelto era "Insidious", che Martina aveva definito inquietante al punto giusto, ma, a giudicare dal suo (scarso) entusiasmo, avrei piuttosto detto che fosse semplicemente il primo che le era venuto in mente.
Gli horror mi avevano sempre fatto paura, più per prevenzione che per altro, ma da quando ne avevo visto uno per caso in tv, avevo capito che in fondo non erano poi così male o spaventosi: bastava ripetersi che era solo finzione e, soprattutto, essere sempre pronti alle scene più terrificanti.
«Buona visione, ragazze, e, mi raccomando, non gridate troppo se no i vicini pensano chissà cosa». Le avvisai con voce bassa e roca, per creare l'atmosfera giusta, ma quello che ottenni furono solo altre grasse risate.
Di certo quelle due non facevano crescere la mia autostima.
Il film trascorse tranquillo per un po', finché qualcosa di strano alla mia destra non catturò la mia attenzione.
«Marti, che fai?». Domandai distrattamente, guardando con la coda dell'occhio mia cugina, che aveva acceso il pc con accurata indifferenza.
Lei sussultò colta alla sprovvista, sorridendo poi nervosamente. «Io...ecco...io... devo controllare alcune cose sul volo di domani sera». Spiegò gesticolando, mentre Rosaria ci intimava di stare zitte. 
La fissai a lungo perplessa, ma alla fine decisi di crederle. Dopo quello che era successo quel pomeriggio, non poteva avere intenzione di parlare ancora con lui.
«Ok, ma abbassa la luce dello schermo, altrimenti c'è troppa luce e rovina tutto».
Per il resto della serata rimasi talmente attaccata allo schermo della tv, stringendo più volte convulsamente la mano di Rosaria, che non feci caso a nulla, nemmeno all'armeggiare silenzioso di Martina con qualcosa, che praticamente non aveva seguito nemmeno un secondo di film.
«Che paura». Commentai ai titoli di coda, tirando un sospiro di sollievo per la fine di quell'inferno. «Ritiro tutto quello che ho detto: i film horror non fanno per me».
«Dai, non è stato così terribile!». Intervenne Rosaria accendendo la luce.
La fulminai con lo sguardo e poi sorrisi vittoriosa. «Ma se hai urlato più di me».
«Certo, con quel mostro inquietante che è comparso dietro la testa della signora chiunque avrebbe gridato!». Si giustificò con fervore: non voleva ammettere di essersela fatta addosso e quindi scaricava la colpa sugli altri.
Sorrisi. Tipico di lei.
Non vedendo Martina partecipare, scoprii il suo computer dal plaid con cui si era coperta dalla testa ai piedi, e finalmente riuscii ad ottenere la sua attenzione. «E a te cosa ne è parso, Marti?». Chiesi sadicamente, ben consapevole che non sapeva neanche di cosa stessimo parlando. Mia cugina mi guardò confusa, dopodiché sollevo le spalle chiudendo il pc. «È inutile che cerchi di incastrarmi, è vero, non ho seguito, ma ti ricordo che io l'avevo già visto».
Posò il pc sul mobiletto accanto al divano e con molta tranquillità staccò un cavetto attaccato ad una delle porte USB. Storsi il naso e mi dissi che probabilmente aveva solo caricato il cellulare, ma il mio sesto senso mi suggerì che con Martina niente era semplice.
«Marti». La chiamai. Secca. Decisa. Perentoria. E lei si bloccò. Sorpresa. Nervosa...colpevole. Era fin troppo facile incastrarla.
«Sì?». Chiese con voce acuta, nascondendo l'oggetto dietro la schiena.
Puntai le mani sui fianchi e mi rivolsi a lei sospettosa. «Cos'hai dietro la schiena?».
Martina si guardò di istinto dietro, dopodiché si morse un labbro indecisa, continuando a fissarmi con fare ingenuo. Eh, no, non ci casco, tesoro. 
Le lanciai un'occhiataccia e mi avvicinai di un passo. «Fa' vedere». Intimai tendendo la mano.
Rosaria osservava la scena confusa, ma anche lei aveva capito che qualcosa non andava, perché Marti alternava occhiate spaurite ad entrambe.
E poi il campanello di casa trillò facendoci saltare tutte quante. Martina indietreggiò spaventata e io e Rosy ci guardammo terrorizzate, trattenendoci a stento dal saltarci addosso per proteggerci.
Decisamente, i film di paura non facevano per me.  
Deglutii nervosa e inchiodai Martina al suo posto con uno sguardo, per poi schiarirmi la voce. «Controlla che non scappi». Ordinai alla mia amica, che annuì con un cenno del capo.
Mi diressi a passo lento - molto lento, oserei dire lentissimo - verso la porta, afferrando, durante l'irto tragitto un vaso cinese dal mobile d'entrata. Pregai che fossero i miei genitori, che magari avevano perso le chiavi (cosa per altro impossibile) - e mi ripetei per un'ultima volta che gli esseri soprannaturali esistevano solo nei film. Poggiai l'orecchio alla porta per percepire qualunque tipo di suono e contemporaneamente mi sollevai sulle punte, tremando, per sbirciare dallo spioncino. Ma, proprio in quel momento, lo stesso suono acuto di poco prima riecheggiò per la casa, facendomi riatterrare malamente sui piedi.
«Giorgia, apri questa cazzo di porta e non fare la bambina».
Fui colpita da quella voce come una palla da bowling colpirebbe un birillo in pieno centro e a quel punto successero più cose contemporaneamente, nessuna delle quali meno devastante delle altre: il cuore mi schizzò in gola come  impazzito, lo stomaco mi si attorcigliò nervosamente e le gambe si rammollirono a tal punto da cedere immediatamente.
Mi accasciai a terra e contro ogni logica mi ritrovai a pensare che forse, in confronto, la visita di un mostro proveniente dall'altra dimensione non sarebbe stata poi tanto male.  
 
Ignorai - con molta pazienza - un paio di pugni e calci sferratti duramente al legno della porta, finché al terzo non mi decisi ad accontentarlo, per sventarne la sua distruzione.
Oh sì, ne sarebbe stato capace.
«Calmati, cretino!». Lo rimproverai tra i denti, facendo scattare rabbiosamente la serratura. « Ti ricordo che chi rompe paga...».
Non feci in tempo ad abbassare la maniglia, che ci pensò lui a farlo al posto mio, con una foga ed impazienza tali da lasciarmi impietrita.
Io che ormai non mi stupivo più di niente quando si trattava di lui.
Io che ormai ero pronta a tutto.
Trovarmelo davanti mi causò comunque la perdita di un battito, ed era furioso - come non lo avevo mai visto -, furioso e trafelato. Sembrava incazzato con il mondo e mi venne spontaneo arretrare di un passo o due.
«Ora tu mi spieghi che cazzo vuol dire questa!». Sbraitò tirando fuori di tasca il cellulare. «Si può sapere cosa diavolo ti passa per quella testa da secchioncina che ti ritrovi?».
Lo fissai confusa mentre armeggiava con il telefono, imprecando di tanto in tanto per la sua lentezza, e temevo che da un momento all'altro l'avrebbe buttato giù dalle scale se non si fosse deciso a collaborare.
Approfittai della sua distrazione per guardarlo meglio e notai, non senza un minimo di sorpresa, che fosse vestito da serata acchiappa femmine...chiaro segno che venisse da una qualche discoteca in centro città.
Mi morsi le labbra pensierosa e, vedendo il suo cellulare rivolto verso di me, lo presi titubante, quasi avessi paura che potesse mordermi. Ed effettivamente mi aveva morsa davvero, parecchie volte.
Avvicinai quell'aggeggio agli occhi e, quando i contorni dello schermo diventarono più delineati, li spalancai sbigottita.
«Cosa...?». Provai a chiedere, ma non fu difficile fare due più due, e in ogni caso Lorenzo non me ne diede il tempo.
«Proprio un bello scherzetto, complimenti». Sputò ironico tra i denti. «Ora dimmi, come dovrei interpretarlo? "Lore, ti prego scopami!", oppure "Lore, guarda e muori dalla voglia di scoparmi, tanto io non te la darò mai?"».
Pungente. Stronzo. Distrutto.
«Ascolta, so che...».
«Ascolta un bel niente! Tu sai quanto mi piaci e ne hai approfittato, credevo che quel ruolo spettasse a me, no? Sono io lo stronzo, tu sei sempre quella buona. Ma sai cosa? Mi fai sempre la paternale ma, in fondo, non sei poi tanto diversa da me». Fu crudele e, per quanto provassi a mettermi nei suoi panni, non ci riuscii.
«Ti dico che...». Cercai di difendermi, ormai sul punto di arrabbiarmi anche io, ma ancora una volta mi interruppe bruscamente.
«Non dire niente, ti prego! Ne ho abbastanza di tutta questa storia. Me ne sono pentito, va bene? Avrei dovuto lasciare tutto com'era prima, non avrei dovuto cedere, non avrei dovuto sedurti...». Si fermò rendendosi conto con un secondo di ritardo delle sue parole, ma proseguì ancora più diretto di prima. «Dio, l'ho detto finalmente. Quante altre volte vuoi che te lo ripeta?!». Senza pietà, né paura di ferire...verso la meta, verso il mio cuore; per ferirlo - ancora - calpestarlo - ancora - dilaniarlo - ancora. 
Aveva parlato così di foga che si era persino dimenticato di respirare. I capelli appiccicati alla fronte imperlata di sudore, le labbra serrate in una morsa quasi dolorosa, le mani strette a pugno contro i fianchi e gli occhi...gli occhi più fragili e duri che avessi mai visto.
Era arrabbiato.
Deluso.
Ferito...?
Sollevai una mano intimorita - temevo potesse reagire male -  e la portai ad un millimetro dal suo viso, mentre con l'altra andai a sfiorare la sua, ma senza mai toccarla veramente. 
«Sei venuto fin qua, di corsa, da chissà dove, per dirmi questo?». Chiesi con un filo di voce, ignorando il groppo che mi si stava formando in gola.
Nonostante tutto non riuscivo a fargli una colpa di  quello che mi aveva detto: Lore era impulsivo, parlava per difendersi, feriva senza accorgersene...
Lui scacciò le mie parole con un cenno del capo, inchiodandomi poi col suo sguardo di vetro. «Questa volta sono io a chiedertelo. Perché?».
E sembrava davvero fragile. Per la seconda volta in un solo giorno stava mostrando la sua debolezza.
Che la maschera si stesse sciogliendo?
«Perché è così difficile?». Chiese fissandomi le labbra.
«Difficile cosa?».
Lore mi guardò in modo più triste, meno tormentato ed iroso.
«Dimenticarti». Ammise, quindi,  allontanando con delicatezza le mie mani dal suo corpo.
In un secondo il mondo mi crollò addosso e, contemporaneamente, la terra mi mancò da sotto i piedi. Era come se fossi in piedi per miracolo, ogni parola mi moriva in gola, ed ogni movimento mi sembrava sconnesso e fuori luogo.
«Che succede qui?». Spuntò la voce di Martina alle mie spalle, probabilmente proveniente dalla fine del corridoio.
La ignorai.
 
Perché è così difficile?
Cosa?
Dimenticarti.
 
«Giorgia?». Mi richiamò, questa volta più chiaramente, segno che ormai fosse alle mie spalle.
Allontanai quelle parole dalla mente e mi rivolsi a mia cugina, concentrandomi sulla questione principale per risolverla il prima possbile. Era giusto che Lore sapesse chi era il vero artefice dello scherzetto.
«Mah, non so, forse potresti spiegarcelo tu». La afferrai per un braccio e, senza darle il tempo di reagire, la tirai accanto a me, sotto gli occhi inquisitori di Lorenzo.
Martina parve vedere un fantasma, ma poi un sorriso tentennante le piegò le labbra con noncuranza. «Ehi, come va, amico?».
Scocciata, avvicinai la mano al cellulare di Lorenzo e, dopo avergli chiesto un tacito consenso, lo presi mostrando la foto incriminata a mia cugina.
La sua faccia assunse dieci colori diversi, in quelli che mi parvero appena due secondi, dopodiché si girò a guardarmi colpevole. «Te l'ho già detto che quel vestito ti sta da Dio?».
«Tu...!». Le puntai un dito contro. Ed avrei giurato che i miei occhi stessero lanciando scintille di veleno. «Spero abbia una valida ragione per ciò che hai fatto».
Lorenzo sembrava tornato il solito...Lorenzo, osservava la scena con apparente disinteresse, muovendo ritmicamente le mani rifugiate nelle tasche dei jeans.
«Ok, va bene, parlo!». Si arrese Marti alle mie ripetute minacce, prima di voltarsi verso Lore con un'espressione intimidatoria. «Doveva pur pagarla in qualche modo!». Storse il naso ed incrociò le braccia al petto, abbandonando l'aria amichevole che aveva usato fino a quel momento.
«Pagarla per cosa?». Domandai incerta, guardando con la coda dell'occhio il diretto interessato.
«Andiamo, Giò, hai pure il coraggio di chiedere per cosa?! Guardalo!». Grignò indicandolo. «Ora che ha scoperto che non sei stata tu si è improvvisamente rilassato».
«E questo cosa c'entra?».
Martina sbuffò spazientita. «Ti vuole fare del male? Bene. Vuole continuare ad allontanarti da lui? Perfetto. Ma almeno che si rendesse conto di quello che si sta perdendo! Si deve pentire di tutto quello che ti sta facendo».  Terminò la frase e sorrise in direzione di Lore. «Cosa stavi facendo quando hai ricevuto la foto?».
Lui, dopo un attimo di sorpresa, fece spallucce. «Niente di che, mi stavo annoiando».
Mia cugina roteò gli occhi soddisfatta, tornando a me. «Qual è stata la sua reazione, Giò? Schifo, per caso? O solo cieca rabbia perché sa di non poterti avere?».
 
«Ora dimmi, come dovrei interpretarlo? "Lore, ti prego scopami!", oppure "Lore, guarda e muori dalla voglia di scoparmi, tanto io non te la darò mai?"».
 
«Io me ne vado, ne ho abbastanza». Annunciò Lore, facendo per allontanarsi.
«Cos'è, ora che sai di esser caduto in trappola scappi?». Chiese allora Martina, sfidandolo apertamente.
Lorenzo si fermò ad un passo dalla rampa di scale, sfoggiando il suo sorriso più impertinente. «No, torno a fare quello che stavo facendo prima che un'ochetta qualsiasi mi inviasse una certa foto: scopo». La corresse con tono di sfida.
«Pensando a mia cugina?».
«Marti!». La rimproverai imbarazzata, evitando di incrociare i suoi occhi il più possibile.
Ma Lore non sembrava minimamente toccato da quella domanda, come se fosse naturale o all'ordine del giorno riceverla. «Che importanza ha? Chi, come, dove, quando...basta farlo».
Martina fece una smorfia schifata, arrendendosi. «Lo sai anche tu che non è così...e, comunque, sei proprio disgustoso!». Esclamò indignata, rientrando in casa per "bere un bicchiere d'acqua", o almeno così aveva detto.
E così restammo soli, di nuovo, con una decisione da prendere: continuare il discorso? Oppure chiuderlo definitivamente?
Avrei tanto voluto lasciarlo andare, dimenticare le sue parole, e provare a ricominciare ancora una volta da capo, senza riuscirci, ma i nostri occhi non sembravano della stessa opinione, incollati e irremovibili. Feci un passo in avanti, approdando sul tappetino davanti alla porta di casa, muovendo i piedi un po' a disagio.
«Lore...». Sussurrai, indecisa sia sul cosa dirgli che sul come dirglielo.
Accidenti, non sapevo proprio dove stesse di casa la fermezza!
Scacciai ogni timore, strinsi i denti per farmi coraggio e parlai, con così poca convinzione da risultare solamente patetica. «Non devi dimenticarmi, se non vuoi».
Stupida! Ma che dici?! Rimangiatelo!
Lore sorrise. Non sardonico, non fastidioso, non irritante...solo maledettamente sincero. E la cosa non fece bene al mio povero cuore: avevo preso un biglietto di sola andata per il Burundi.
«Credi davvero che sarebbe giusto?». Mi chiese rassegnato, come se si fosse arreso in partenza.
Giusto? Chi poteva dire cosa fosse giusto e cosa fosse sbagliato? E, poi, che importava ormai? Se fosse servito ad averlo al mio fianco, avrei dimenticato tutti gli anni passati a piangere per lui, tutte le notti spese a sognarlo inutilmente, tutto ciò che mi aveva causato dolore e angoscia; avrei lasciato posto ai ricordi felici del passato, e insieme ne avremmo costruiti di nuovi.
Aprii la bocca per esprimere questi pensieri ed altri mille, tutti contorti ed insensati, forse, ma lui doveva sapere, doveva sapere che se avesse voluto riniziare da capo io ci sarei stata.
Gli avrei dato un'altra possibilità? Mille volte sì.
Lo avrei perdonato? Quante volte ne avesse avuto bisogno.
Lo avrei amato? Sempre.
Eppure, il destino aveva un potere troppo grande e, quando si metteva in mezzo, non c'era nulla da fare.
L'eco del portone sbattuto e due voci a me ben note mi colsero impreparata. Ci misi poschissimo a realizzare: i  miei genitori erano tornati e che scusa avrei usato per giustificare la mia presenza sul pianerottolo, a quell’ora e per giunta insieme a Lore?
«Cazzo...!». Imprecai a bassa voce, guardandomi intorno sospetta mentre il suono dell'ascensore in movimento diventava inevitabilmente sempre più vicino.
Dovevo trovare una soluzione...per parlargli. Perché sì, con lui ci avrei parlato per ore, se fosse stato necessario.
Non mi sarei mai stancata di ascoltarlo, non dopo che aveva mostrato di tenere - in qualche modo - al nostro rapporto. È vero, più volte era andato alla deriva, e di certo non avrebbe smesso da un giorno all'altro di farlo, ma davvero non riuscivo a far finta niente...fingere che tutto ormai fosse andato perso per sempre, che lui non fosse più lo stesso.
Buffa la vita: un mese prima non credevo più a nulla, non avevo alcuna speranza, non avrei scommesso un singolo centesimo sui suoi sentimenti per me...ma per come stavano le cose ora, potevo davvero rinunciare?
Io ci credo ancora.
E tu?
Ero ancora paralizzata, intenta a cercare le parole più adatte, e mi stupii del fatto che non se ne fosse già andato, approfittando del mio silenzio, come aveva sempre fatto. No, stava aspettando una risposta e io gliel’avrei data, com’era giusto che fosse.
«Lore, io...».
«Giorgia?».
«Lorenzo?». 
Chiesero in coro quattro voci, non appena l'ascensore si fu aperto alla mia destra.
Un momento, quattro?! Mi voltai verso il gruppetto e compresi che i miei genitori non erano gli unici ad aver partecipato a quella riunione inaspettata.
«Mamma, papà». Li salutai con nonchalance, come se fosse normale per loro trovarmi fuori casa in pigiama. E lo stesso fece Lore con i suoi, con l'unica differenza che almeno lui era vestito.
«Rossella, Alessandro...da quanto tempo non ci vediamo!». Provai a sciogliere la tensione e il silenzio improvvisi,  sfoderando un sorriso a trentadue denti.
Mia mamma guardò dapprima l'orologio, poi Lore e poi me, in modo quasi meccanico. «Cosa ci fate qui?». Domandò quindi dubbiosa, affiancandomi in un batter d'occhio, immediatamente seguita da mio padre.
«Be', ecco...io stavo andando in cucina quando ho sentito dei rumori fuori dalle scale, ho aperto la porta, credendo che foste voi, e ho visto che invece era solo Lorenzo». Mi inventai di sana pianta, sperando che Lore confermasse la mia versione dei fatti.
«Esatto, ero tornato per prendere una cosa che avevo dimenticato prima di uscire».
Credeteci. Credeteci. Credeteci.
«Cosa?». Chiese sospettoso Alessandro, evidentemente immune alle frottole del figlio.
Lore sorrise malizioso, piegando poi un sopracciglio. «Vuoi davvero saperlo, pà?».
No, non poteva davvero aver fatto riferimento a quello in presenza dei suoi genitori!  Mi rifiutavo di crederlo, era troppo anche per lui!
Arrossii violentemente e guardai con circospezione i volti di tutti gli altri presenti, trovandoli altrettanto sbigottiti e sfatando il dubbio che potessi aver maleinterpretato solo io.
«Oh, andiamo, cosa sono quelle facce? Non fate i santarellini, se io e Giorgia siamo qui ci dovrà pur essere un motivo».
«Lore, per l'amor del Cielo, non puoi parlare di certe cose in presenza di una ragazza!». Lo redarguì Rossella, scusandosi sia con me che con i miei genitori della maleducazione del figlio.
«Be', quantomeno usa precauzioni». Commentò mio padre inaspettatamente, beccandosi un'occhiataccia da parte di mia madre.
«E ci mancherebbe...». Borbottò Alessandro indignato.
Ok, la situazione era diventata quanto di più imbarazzante avessi mai vissuto e l'unico che non provava nemmeno un po' di disagio era proprio Lorenzo,  che se ne stava bellamente appoggiato al corrimano delle scale, con le braccia incrociate e un sorriso strafottente ad incorniciargli il viso.
«Basta, per favore, non sono interessata a sapere nel dettaglio la vita sessuale di Lorenzo...». Presi parola, rivolgendomi poi ai miei genitori con ancora un pizzico di disagio. «Voi, piuttosto, come mai siete insieme?».
«Ci siamo incontrati al ristorante e abbiamo fatto una piacevolissima cena a quattro, ma questi non sono affari tuoi, non tentare di sviare la discussione, signorina». Spiegò mia madre frettolosamente, facendo aumentare a dismisura il mio nervosismo.
Non sono affari tuoi, aveva detto, eh?
«Io taglio la corda». Intervenne Lorenzo, ridacchiando soddisfatto, per poi puntare i suoi occhi nei miei, facendomi deglutire nervosamente. «I miei amici mi aspettano».
«È già tardi, è meglio rientrare». Lo fermò Rossella prima che potesse fare anche un solo passo.
«È sabato, mamma ed ho diciotto anni. Credevo che ormai avessi superato quella fase».
Mi guardò nuovamente, questa volta senza alcuna malizia o secondo fine ed io distolsi automaticamente lo sguardo, incapace di sostenere il suo.
«Bene, allora ci si vede, eh». Salutò tutti con un cenno della mano, per poi digitare qualcosa al cellulare, prima di scendere di corsa le scale.
Stupido.
«Io ho freddo, vado dentro. Buonanotte a tutti». Annunciai piccata, rompendo il silenzio piombato in seguito alla fuga di Lorenzo.
Non attesi alcuna risposta, entrai in camera e mi gettai a peso morto sul letto.
Ero esausta, priva di qualunque energia, ma – per chissà quale assurda e masochista ragione - trovai comunque la forza di addormentarmi pensando a lui. E, mentre le palpebre cominciavano ad appesantirsi, l'idea che quella notte sarebbe stato di qualcun'altra mi affiorò alla mente, come una punizione, continuando a tormentarmi per tutta la dormiveglia, senza abbandonarmi un istante.
Neanche quando sognai di essere io, per una volta, quella tra le sue braccia.








Note:

Eccoci qui!
Come qualcuno avrà  notato, questo capitolo è leggermente più corto degli altri ed il  motivo è molto semplice: mi sono fatta prendere la mano ed ho scritto più di 30 pagine (forse 35?!), perciò non mi è sembrato il caso di pubblicarlo per intero ed ho deciso di dividerlo in due parti per rendere la lettura più leggera, diciamo così.

Detto questo, non sono per niente convinta del risultato finale.  Non era così che l'avevo pensato, non era così nella mia testa ed ogni volta che lo rileggo mi sembra sempre più "lento" e scialbo.  E dire che generalmente sono abbastanza soddisfatta di quello che scrivo! Non della forma (quando mai?!), ma almeno del contenuto sì.
Spero di farmi perdonare con il prossimo, ma per il momento dovrete accontentarvi di questa schifezza...scusate!  ç_ç
Se volete lanciarmi i pomodori, provvederò io stessa a procurarveli.

Ringrazio le persone che sono arrivate fino in fondo alla lettura di questo capitolo, quelle  che hanno recensito quello precedente e tutti coloro che hanno aggiunto la storia tra le preferite, seguite, ricordate, ecc. Grazie di cuore!

Mi scuso
per non aver risposto a tutte le recensioni, ho preferito dare la precedenza alla pubblicazione del capitolo, ma recupererò al più presto, lo prometto.

Concludo dicendovi che, dato che buona parte del prossimo capitolo è già pronta, il prossimo aggiornamento dovrebbe arrivare davvero a breve, anche se con tutti gli impegni scolastici non posso proprio assicurarvelo.
Vi ricordo che sono sempre a disposizione per chiarire ogni eventuale dubbio, rispondere alle vostre domande e, perché no, accettare anche le vostre critiche. Anzi, a questo proposito, ne approfitto per lasciarvi il link del mio profilo facebook, che trovate a questo indirizzo.

Un bacio e a presto,
Veronica







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Capitolo 12
*** Tregua...? ***


capitolo 12


CAPITOLO 11:  Tregua...?

Domenica.
Alcuni ritengono sia il giorno più bello della settimana - relax, riposo, svago... - ma io la definisco semplicemente una noia mortale.
Deprimente è l'aggettivo giusto.
Andiamo, cosa potrebbe fare una normale diciassettenne di domenica? Uscire con gli amici, vedersi in santa pace con il fidanzato, per esempio.  Ma se proprio i suddetti amici mancassero e il fidanzato in questione fosse non propriamente un fidanzato, bensì uno stronzo - figo - di cui si è innamorata? Be', allora ecco la risposta che cercate.
Tuttavia, quella domenica costituiva un'eccezione, un avvenimento più unico che raro, per questo quando mi svegliai - stanchissima e con un mal di testa lancinante - non ero poi di così cattivo umore.
«Sveglia dormiglione, questa è la nostra ultima giornata insieme». Annunciai tirando le tende della finestra per illuminare un po' la stanza.
In risposta ottenni solo dei mugolii sconnessi e qualche minaccia che mi intimava di tornare a letto, a meno che non avessi voluto veder bruciare i miei libri in un falò.
«Avrete tutto il tempo di dormire durante il viaggio di ritorno». Le rimproverai più severa, tirando giù la coperta di Martina per farmi dare ascolto.
«Sei una cugina perfida, lo sai?». Borbottò acida lei, coprendosi la faccia col cuscino per proteggersi dalla luce sempre più accecante. Se non altro sembrava una bella giornata.
E una è sistemata. Pensai con un pizzico di soddisfazione, tornando all'attacco con Rosaria.
«Rosy, c'è Nico che ti cerca». Le sussurrai in un orecchio, facendola sobbalzare di qualche metro.
«Dove?!». Chiese lei, mettendosi a sedere di scatto, causandomi un attacco acuto di risate.
Ci mise poco a realizzare che l'avessi presa per i fondelli, e quando ci arrivò assottigliò lo sguardo a mo' di minaccia. «'Fanculo, Giò!».
«Scusa, ma era l'unico modo per farmi ascoltare». Mi giustificai cercando di trattenere il più possibile la mia ilarità.
«Sai che è il mio tallone di Achille!».
Sorrisi comprensiva.
Nicola, meglio conosciuto come Nico, era il ragazzo che popolava i sogni più proibiti di Rosaria. Viveva nella sua stessa città, andavano nella stessa scuola e...non si erano mai rivolti la parola. Lui non era quello che si potrebbe definire un donnaiolo, ma nemmeno un Santo, mentre lei...be', lei era felicemente fidanzata. Per questo, per Rosy, Nicola costituiva un vero e proprio tormento, si sentiva in colpa per l'attrazione sconfinata che provava per lui, ma continuava a spergiurare di amare il suo ragazzo alla follia.
Io? Io le credevo e, finché Nico fosse stato una semplice fantasia, l'avrei supportata in tutto e per tutto.
«Bene, e ora che siamo tutte allegramente in piedi...». Dissi beccandomi altre occhiate di fuoco. «...possiamo andare a fare colazione da qualche parte».
Martina sollevò un sopracciglio. «Non si usa più fare colazione in casa?».
«Ma è una così bella giornata!». Protestai mettendo il broncio.
«Ci saranno sì e no 4 gradi fuori». Mi corresse Rosaria, rabbrividendo una volta uscita dal caldo rifugio delle coperte.
«Per favore...». Le supplicai, sbattendo persino le ciglia per assumere un'aria quantomeno tenera.
«E va bene». Concessero in coro con uno sbuffo e io mi tuffai addosso a loro, riempendole di complimenti degni di una ruffiana del mio calibro.


Proprio per la monotonia ordinaria che caratterizzava le mie domeniche, avevo pensato che uscire di casa il più possibile fosse un buon diversivo per rendere quella domenica in compagnia di Martina e Rosaria diversa.
Non ci allontanammo molto da casa - anche perché entrambe sarebbero dovute partire nel primo pomeriggio - e sperai che il bar scelto offrisse delle bevande qualitivamente - almeno - accettabili. Era lo stesso che frequentava Lore con i suoi amici e, data la loro assidua presenza lì, mi ero fidata dei suoi gusti.
L'unico problema sarebbe stato incontrarlo, ma era domenica, e il giorno prima era stato sabato; il che significava che sicuramente era tornato tardi, e di conseguenza - al 99% - alle nove del mattino non avrebbe potuto far altro che dormire.  
«Certo che qui è pieno di gran fighi qui». Commentò Martina guardandosi intorno estasiata. «Non mi aspettavo che frequentassi questo genere di posti...e brava la mia cuginetta». Mi diede una gomitata di approvazione ed io arrossii prontamente. Bella figura ci avevo fatto! Ero passata per la ninfomane della situazione...
«Vedo che dimentichi in fretta le tue fiamme». La punzecchiai, dirigendomi con sicurezza - per nascondere il mio reale smarrimento - verso un tavolino nascosto. Il lupo dormiva, ma era pur sempre meglio non rischiare, qualora si fosse svegliato.
«Ti riferisci a Ben, per caso?». Domandò distrattamente, dopo averci riflettuto un attimo. Prese il mio silenzio come un sì e rispose saccentemente. «Be', ti sbagli mia cara, non l'ho dimenticato».
«Che vuoi dire?». Indagai sospettosa. Quando cominciava a girare intorno alle domande, nascondeva sicuramente qualcosa.
«Voglio dire che non ce n'è stato bisogno». Sviò ancora il fulcro della questione, fingendo di prestare attenzione al menu.
«Vuoi parlare o no?». La esortai impaziente, togliendole da sotto il naso quel pezzo di carta, ma proprio in quel momento arrivò l'addetto alle ordinazioni, che si beccò una delle mie occhiate peggiori.
Pover uomo, in fonda stava solo facendo il suo lavoro.
Martina e Rosaria presero un caffé macchiato, mentre io optai per il mio buon vecchio tè al limone. Aspro e dolce al punto giusto. E poi, era lo stesso sapore dell'ultimo bacio che...
«Allora, Giò, cosa ti ha detto ieri tu-sai-chi?». Chiese Martina interrompendo il mio pensiero deleterio, nel mero tentativo di sviare il discorso.
Sollevai entrambe le sopracciglia e incrociai le braccia sul tavolo, fissandola insistentemente. «Non riuscirai a cavartela così».
Lei sostenne il mio sguardo per un po', finché non si arrese scocciata. «Mi ha detto che probabilmente torneranno in Italia il mese prossimo e quindi mi ha dato il suo numero per tenerci in contatto». Disse in un fiato. «Contenta ora? Magari neanche ci sentiremo e presto ci dimenticheremo l'uno dell'altra».
Silenzio.
Un colpo di tosse di Rosaria e poi ancora un altro silenzio.
«E che motivo c'era di nascondermelo?!». Mi alterai leggermente, ma assicurandomi comunque di mantenere un tono di voce moderato.
«Se te l'avessi detto, cosa avresti fatto?». Rispose Martina con una tranquillità invidiabile.
«Questo non c'entra».
«E invece sì, ti saresti opposta con tutte le forze a questa storia senza né capo né coda, mi avresti raccomandato di non illudermi e ti saresti accollata un probelma inutile...come se tu non ne avessi già abbastanza».
«Smettila di trattarmi come se fossi una vittima!». Sbottai, questa volta senza troppa calma. Tutti i vicini di tavolo si voltarono verso di noi e provai una vergogna talmente grande che per poco non scappai da quel posto a gambe levate. «Non ho nessun problema...niente che non si possa risolvere». Proseguii più pacata, cercando di rimediare alla pessima figura appena fatta.
«E tu stare appresso ad un ragazzo per diciassette anni come lo chiami?».
«Lo chiamo essere stupida». Mormorai, appena prima che ci servissero le nostre bevande.

La brevissima discussione tra me e Martina aveva trasformato l'idea di una piacevole mattinata, da passare in compagnia, in un inferno. Non mi piaceva essere in conflitto con mia cugina, era capitato rarissime volte che lo fossimo, ma nel giro di due giorni quella sporadicità non sembrava più tanto tale.
E tutto per colpa di Lorenzo, sempre colpa sua, qualunque cosa mi capitasse dipendeva da lui, ogni mia parola...ogni mio gesto erano indissolubilmente legati a lui e mi dava fastidio tutta quella situazione, perché avrei tanto voluto essere libera...libera di innamorarmi di qualcun altro, libera di mettere finalmente la parola fine a tutto quel casino, libera di ricominciare a vivere senza essere accompagnata da quell'incessante paura che mi tormentava.
Persa com'ero nei miei pensieri, non mi accorsi dell'entrata di qualcuno nel bar...qualcuno che, se non avessi avuto la testa fra le nuvole, avrei notato subito. Furono, invece, proprio le mie due compagne di tavolo ad attirare la mia attenzione sulla porta di ingresso, non senza un po' di agitazione e sorpresa...cercando di coprirmi il più possibile alla sua vista.
Su una cosa eravamo d'accordo: Lorenzo non doveva vedermi, o chissà cosa sarebbe successo. Con lui niente era prevedibile.
Non ebbi neanche il tempo di chiedermi perché si trovasse lì. Mi guardai intorno furtiva, con il battito del cuore improvvisamente più martellante e fastidioso, alla ricerca di un rifugio che potesse nascondermi quel tanto che bastava...
Scartata l'ipotesi del bagno, troppo distante dal punto in cui mi trovavo io, e per di più esattamente nella traiettoria che stava seguendo Lore, l'unica cosa che mi restava da fare era sistemarmi alla bell'e meglio sotto il tavolo, sperando che non decidesse di voler giocare a nascondino. Non ero mai stata brava in quel gioco e lui lo sapevo.
Ma magari mi stavo solo preoccupando inutilmente, magari neanche si sarebbe avvicinato al nostro tavolo, dopotutto non mi sembrava poi tanto propenso al volersi riappacificare con me, al volermi chiedere scusa. In fondo, cosa avrei mai potuto cavar fuori dalle sue parole? Contradditorie e senza senso...magari - d'ora in poi - avrebbe fatto semplicemente finta di niente, avrebbe cominciato ad ignorarmi ed io mi sarei finalmente disintossicata da lui.
Oppure l'inferno sarebbe durato per sempre.
«Ragazzo biondo e figo ad ore dodici...». Bisbigliò Martina, prima che qualcuno parlasse.
«Quante belle ragazze stamattina qui, in genere ci sono sempre e solo racchie».
Una risatina facilmente riconoscibile per me, un'ironia pungente che poteva appartenere solo a lui.
«Qual buon vento...». Esclamò Rosaria con finta sorpresa, imitando senza grandi risultati un fischio di approvazione. «Come vedi Giorgia non è qui, e la tua compagnia - a noi due - non è affatto gradita, perciò puoi anche andare a rompere da un'altra parte».
«Wow, acidità di prima mattina, dovresti smetterla di bere tè al limone per colazione». Ci fu una breve pausa e un altrettanto fugace spostamento di tazzine, poi - di nuovo - la sua voce. «E comunque, magari sono qui solo per salutarvi, no? Smettetela di essere così scortesi e sull'attenti. Non mangio...o almeno non senza il consenso della preda».
«Ah, che carino! Il buon, dolce Lorenzo è venuto al nostro tavolo solo per salutarci». Sentenziò Martina sicura di se, non nascondendo la sua solita velata ironia che la metteva nelle condizioni di saper tenere testa a chiunque. «Sicuro di non voler sapere perché Giorgia non sia con noi?».
«Be', effettivamente no. Perché vi risulta tanto difficile credere che sia qui solo con le migliore intenzioni?».
«Non saprei, ma in ogni caso accettiamo il tuo saluto volentieri. E ora che l'hai fatto direi che non hai nessun altro motivo per stare qui, no? Bye bye».
Nuovamente, si udì solo un chiacchiericcio indistinto, in lontananza, ma le scarpe di Lore erano ancora ben visibili, chiaro segno che non si fosse mosso di una virgola.
«Non mi pare di avervi fatto mai qualche torto, personalmente parlando, perché dovete avercela con me così ciecamente?».
«A noi no, certo, ci mancherebbe...». Intervenne Rosaria, rompendo la bolla di silenzio in cui si chiudeva sempre. «Ma a Giorgia, da sola, hai fatto molto più di quanto noi tre insieme avessimo potuto sopportare. Direi che questo è un buon motivo per avercela con te, non trovi?».
«Giorgia di qua, Giorgia di là, non credete che sappia difendersi da sola? Che scarsa considerazione avete di lei».
«Purtroppo sì, quando si tratta di te...». Sibilò Martina a denti stretti.
«Ricevuto il messaggio, capo». Tagliò corto Lore, probabilmente nel tentativo di fuggire da un discorso che non aveva ancora trovato il coraggio di affrontare. «Allora buon viaggio, eh. Spero di rivedervi presto».
Da parte di Martina e Rosaria non ci fu nessuna risposta. Solo un tacito invito a togliersi di mezzo il prima possibile.
I piedi di Lorenzo si voltarono e mossero qualche passo allontanandosi, prima di tornare indietro in un batter d'occhio, senza lasciar spazio ad alcuna domanda…proprio un secondo prima che mi decidessi a rialzarmi.
Con un movimento mesto, vidi le sue ginocchia piegarsi e il suo viso sbucare esattamente di fronte a me, come nel peggiore degli incubi, che si ripresentano ai nostri occhi quando meno ce l'aspettiamo.
E la sua voce…sempre destabilizzante, per me, ma mai lo fu come in quel frangente.
«Ciao Giorgina, sai che adoro giocare a nascondino, ma la prossima volta ricordati di nascondere con te anche la tua tazzina, altrimenti non c’è gusto, ok?». La sua mano mi scompigliò i capelli, e il suo sguardo vitreo mi gelò sul posto, mentre le sue labbra disegnarono un sorriso glaciale che mi mise addosso una strana sensazione di disagio.
Rimasi lì, con la bocca socchiusa, gli occhi spalancati, e le sue parole a ronzarmi insistentemente in testa, come uno di  quei moniti che si ripetano all'infinito.
E, tuttavia, l'unica cosa che riuscivo a pensare era che avrebbe potuto far finta di niente...ma non l'aveva fatto.
Solo una domanda, la stessa da mesi, ormai: Lorenzo Belli, perché vuoi rovinarmi la vita?

«Mi chiedo come facesse a sapere della nostra partenza». Brontolò Martina, quello stesso pomeriggio, raccattando le sue cose e riponendole senza troppa cura nella valigia.
«Le madri parlano, purtroppo, specialmente quando si conoscono da una vita».
Martina annuì pensierosa, dopodiché mi guardò in modo strano, abbassando leggermente la voce. «Comunque...hai visto come ti ha guardata quando ce ne siamo andate via?». Sorrise sadicamente e chiuse la valigia in un colpo solo. «Ti stava mangiando con gli occhi». Dichiarò quindi soddisfatta, sedendosi sul mio letto e incrociando le braccia fieramente.
«Mangiare con gli occhi non implica necessariamente un sentimento positivo, Marti».
«Qualunque cosa implichi...stai sicura che non si perdonerà mai per quello che ti ha fatto in questi mesi. Insomma, piano piano sta realizzando che non potrà mai averti come desidera e questo lo irrita parecchio».
Mi morsi un labbro pensierosa, e fu inevitabile chiedermi se quanto aveva appena detto Martina fosse vero o meno.

Non potrà averti come desidera.
 
Avrei resistito davvero ad ogni suo possibile approccio?
E se sì, per quanto tempo?

«So a cosa stai pensando». Proseguì con tono di rimprovero, ma allo stesso tempo dolce. «Ma è importante che tu gli stia alla larga. Ho avuto modo di osservarlo in questi due giorni e sono giunta alla conclusione che mi sbagliavo: non c’è alcuna possibilità che tra voi due possa funzionare».  Lasciò da parte un attimo le valigie e mi si avvicinò con apprensione. «Non sto dicendo che non prova niente per te, anzi, sono convinta del contrario, ma…lui non è il ragazzo giusto, Giorgia. Tu hai bisogno di qualcuno che ti dia certezze, non un cretino che alla prima occasione ti ferisca nel più crudele dei modi. Non sei abbastanza forte per sopportarlo, non quando c’è di mezzo lui».
Chiusi un attimo gli occhi per soppesare le sue parole, anche se in fondo il loro significato mi era già abbastanza chiaro, dopodiché sospirai. «Vorrei tanto poterti dire che non gli permetterò di avvicinarsi di nuovo, ma mentirei, perciò…».
«Perciò fai attenzione». Mi ammonì, senza lasciarmi il tempo di replicare, abbracciandomi affettuosamente, ma sempre con un pizzico di quell’inevitabile inquietudine; che prendeva il sopravvento ogni qual volta Lorenzo fosse l’oggetto delle nostre discussioni.
Annuii e mi staccai da lei con un velo di tristezza, per le lacrime ci sarebbe stato tempo dopo la sua partenza
«Ma devi proprio andare?». Le domandai retorica, sapendo alla perfezione la risposta.
«Già, ma spero di poter tornare nei prossimi mesi. Non mi fido a lasciarti da sola».
Ridacchiò di una risata priva di reale ironia, forzata, e fece per dire qualcosa, ma la interruppi io questa volta.
«Grazie».
Davvero in quei due giorni non gliel’avevo mai detto? Eppure era una semplice parola, altrettanto facile da dire.
«E di che? Se non ti cacciassi io fuori da guai, chi lo farebbe?».
Deglutii trattenendo l’opprimente magone che quella discussione mi stava causando e la riabbracciai. Mi avrebbe certamente uccisa per tutte quelle dimostrazioni d’affetto eccessive, in altre circostanze…perché in quel momento stette in silenzio, riempiendomi di raccomandazioni e incoraggiamenti vari.
Sì, decisamente, mi sarebbe mancata troppo.



Alle cinque del pomeriggio Martina era già partita. Io e Rosaria l’avevamo accompagnata in aeroporto in metropolitana (papà aveva avuto un impegno urgente di lavoro, perciò avevamo dovuto arrangiarci con i mezzi pubblici), dove il padre di quest’ultima si era fatto trovare per evitare un pezzo di strada trafficato che li avrebbe fatti tornare a casa ad un orario improponibile.
Io e la mia migliore amica ci eravamo salutate dandoci appuntamento per il mese prossimo, in occasione del suo diciassettesimo compleanno, aggiungendo inoltre l’invito a stare qualche giorno da lei…un po’ come i vecchi tempi, quando abitavamo nella stessa città ed eravamo in classe insieme.
Martina, invece, mi aveva continuato a ripetere che avrebbe fatto il possibile per fare in modo che non dovessero trascorrere sette, interminabili mesi prima che ci rivedessimo.
E così, ero rimasta di nuovo da sola. La mia domenica speciale era tornata ad essere, improvvisamente, una domenica come tutte le altre, mentre quello che in fondo potevo considerare il mio migliore amico (l’unico maschio) non accennava a farsi sentire.
Non avevo dimenticato il suo messaggio e, per quanto provassi a convincermi del fatto che non me ne doveva importare più nulla di Lorenzo, la curiosità era troppa per non sperare di ricevere una sua chiamata, o un suo messaggio che mi avvisassero che l’ora di sapere era finalmente giunta.
Stavo per uscire dalla metropolitana quando la suoneria del mio cellulare mi colse alla sprovvista. Nessuno mi chiamava mai, eccetto Martina, Rosaria, mia madre e mio padre…qualche volta.
Mi fermai per recuperare il cellulare da quella fastidiosissima borsa che Martina mi aveva costretta a portare e vidi la notifica di un messaggio non letto…un messaggio di Davide.
Wow, avevo pure il dono di far avverare i miei pensieri?
Ancora “turbata” da quella coincidenza, lo aprii con un mezzo sorriso sulle labbra.

Ehi, morettina, che dici…hai un po’ di tempo per questo povero sfigato?

Mi morsi un labbro per non scoppiare a ridere da sola come una scema e mi accostai al muro, per lasciare libero il passaggio.
Se fossi stata un po’ più pratica di cellulari probabilmente avrei risparmiato tempo, rispondendo all’sms mentre camminavo, ma mi pare di avere già espresso il mio odio verso la tecnologia avanzata (computer escluso, ovviamente), perciò…

Vincenzino, quanto tempo! Per te ne ho sempre ;) di cosa hai bisogno? :)

Qualche secondo dopo ricevetti un altro suo sms. Lui sì che doveva essere un vero amante della tecnologia, magari, se ce ne fosse stata l’occasione, gli avrei chiesto di insegnarmi qualche trucchetto del mestiere.

Sei a casa? Possiamo vederci? Magari non subito, eh, quando vuoi/puoi :)

Sorrisi, questa volta più apertamente: ero pronta a tornare a casa, per poi affogare il dispiacere per la partenza delle mie due salvatrici nei libri scolastici, dato che in quei giorni non avevo fatto praticamente nulla. Perciò la sua proposta era arrivata al momento giusto…per una volta mi sarei distratta senza mettere sottopressione – inutilmente – il cervello.
 
Sono fuori dalla metropolitana che sto tornando a casa. Se vuoi possiamo vederci direttamente adesso, non ho voglia di tornare a casa :(

In un lampo, la risposta arrivò, sorprendendomi ancora di più della sua tempestività.

Perfetto! Aspettami lì, tra 5 minuti sono da te.

Davide abitava proprio lì vicino, per questo non avevo obiettato alla sua decisione. Se così non fosse stato, avrei scelto un punto d’incontro comodo per entrambi.
Passai la prima parte dell’attesa facendo una breve telefonata a mia madre, per avvisarla che sarei andata da un’amica e che quindi avrei fatto tardi. Non mi andava di parlare di un amico…avrebbe cominciato a fare domande su domande mettendo a dura prova i miei nervi.
Le madri sanno essere davvero pesanti a volte.
Poi, come una rivelazione improvvisa, mi resi conto del fatto che era la prima volta che uscivo da sola con un ragazzo. Certo, era pur sempre Davide, il migliore amico di Lorenzo che non si sarebbe mai interessato a me da quel punto di vista, ma sarebbe stato comunque strano. Arrossii come una cretina, dandomi mentalmente della stupida per quelle considerazioni davvero idiote, un solo istante prima che la sua figura apparisse – cogliendomi di sorpresa – alle mie spalle.
Gli tirai una gomitata sul braccio per ricambiare il favore e – nell’euforia della situazione – gli diedi un bacio sulla guancia: la compagnia di Davide era sempre ben gradita, forse una delle pochissime cose positive che mi stavano succedendo in quel periodo.  E, sì, era un amico eccezionale.


Definire quella serata "fredda"  sarebbe stato un eufemismo: era proprio una serata polare.
I vari quartieri che attraversavamo accompagnavano i nostri passi con il loro silenzio spettrale, non c'era praticamente nessuno in giro, ed io mi stringevo con forza nel cappotto, per cercare di trovare un po' di sollievo dall'incredibile gelo che ci avvolgeva.
Davide camminava al mio fianco senza troppa fretta, uno strano sorriso gli increspava le labbra dall'inizio della passeggiata, le mani comodamente sistemate nelle tasche del giubbotto di pelle.
E a differenza mia non sembrava minimamente toccato dalla temperatura glaciale, anzi, avrei detto che ne fosse addirittura soddisfatto.
"Ti piace il freddo?. Avrei tanto voluto chiedergli, perché in fondo di lui non sapevo quasi nulla, troppo impegnata com'ero stata - in quel mese - a raccontargli delle mie pene d'amore; ma l'atmosfera era talmente rilassata che temevo di fargli un torto persino distraendolo dai suoi pensieri così beati.
Alternavo sguardi a ciò che mi si presentava davanti con occhiate fugaci a lui, ed ogni volta che mi beccava fingevo immediatamente di guardare da un'altra parte.
«Non mi dà fastidio, tranquilla». Disse proprio in uno di questi momenti, bloccandosi una volta giunti davanti al parco.
Provai a giustificarmi in qualche modo, perché era piuttosto imbarazzante essere scoperti a fissare qualcuno di nascosto, ma proprio quando ero ormai riuscita a trovare la scusa perfetta, lui mi batté nel tempo, cambiando completamente argomento.
«Va bene se ci fermiamo qui?». Chiese indicando l'enorme distesa verde davanti noi.
Sorrisi amara: era davvero buffo che avesse scelto proprio quel posto per la nostra chiacchierata, lo stesso che visitavo sempre nei miei sogni, lo stesso da cui ero stata alla larga per sfuggire al passato e ai ricordi.
Guardai con attenzione ogni singolo particolare e fui felice di ritrovare tutto come l'avevo lasciato, sembrava quasi che il tempo si fosse fermato sette anni prima, ma nessuno più di me avrebbe potuto sapere quanto in realtà l'apparenza fosse solo la superficie di come invece le cose erano veramente.
«Sì...». Risposi dopo essermi fatta coraggio. «Direi che è perfetto».
Non mi chiesi il perché di quella mia decisione istantanea, senza riserve, non sapevo se era un modo per autoconvincermi che non ci sarebbe più stato bisogno di dimenticare quei momenti felici, oppure se stavo semplicemente cercando di cancellare i vecchi ricordi per fare spazio ad altri completamente nuovi; ma non me ne preoccupai granché, ancora una volta ci avrei pensato dopo.
Arrivati a una panchina libera, ci sedemmo uno accanto all’altro, un po’ impacciati e con gli sguardi rivolti ad alcuni bambini che andavano sull’altalena.
Attesi che Davide cominciasse a parlare con una leggera ansia, e quando lo fece non ero nemmeno sicura di essere pronta ad ascoltare quanto aveva da dirmi. Perché anche il peggiore degli sciocchi avrebbe intuito quale sarebbe stato l’argomento della discussione. Lo si sentiva nell’aria, dalla sottile tensione nel pensare alla stessa persona a cui entrambi, seppur in modo completamente diverso, eravamo legati.
 «Bene, direi che è giunto il momento delle confessioni». Si sfregò le mani, ormai rosse dal freddo. «Io ti dirò tutto quello che vuoi sapere, ovviamente per come l'ho vissuto io, ma dovrai fare lo stesso anche tu...altrimenti avremo solo sprecato fiato inutilmente».
A quelle parole avvicinai lentamente la mia mano al suo braccio, lasciando poi una delicata carezza per tutta la sua lunghezza, finché non raggiunsi il suo polso scoperto. Era un po’ che continuavo a chiedermi perché avessi aspettato tanto per raccontargli tutto, e se non mi avesse esortata lui a farlo, avrei preso sicuramente io l'iniziativa.
Mi fidavo di lui e non era semplicemente per una questione di correttezza che dovesse sapere, ma perché lo volevo io, perché io avevo bisogno che fosse al corrente di tutto.
Annuii piegando le labbra in un sorriso. «Non c'è neanche bisogno che tu me lo chieda». Mi avvicinai un po' di più a lui, spostandomi impercettibilmente su quella panchina di legno, ancora troppo fredda per essere confortante. «E so che non sei obbligato a farlo, ma ti prego di non credere che se sono qui è solo perché voglio sapere di Lorenzo. Mi piace la tua compagnia, Dav, solo che non siamo mai riusciti a trovare un momento adatto per sfruttare questa condizione reciproca».
Quando finii di parlare, Davide si poggiò meglio contro lo schienale della panca, portandosi le mani dietro la testa e guardandomi di sbieco. «Non l'ho mai pensato. Neanche per un secondo». Disse in un flebile sussurro, facendo uscire dalla bocca delle leggerissime nuvole di fumo ghiacciato.
Avrei tanto voluto abbracciarlo in quel momento, non l'avevo fatto neanche una volta, e mai come in quel momento mi apparve chiara come l'acqua - nel suo sguardo - la cieca fiducia che riponeva in me. Una fiducia che neanche credevo di meritare, mi sentivo inadeguata per una persona come lui e anche se avevo sempre avuto la presunzione di dichiararmi sua amica, in fondo non avevo fatto proprio nulla per meritare di esserlo.
«Venivo sempre con Lore qui, in terza superiore: l'anno scorso, quello in cui l'ho conosciuto». Disse con un sorriso nostalgico, mentre cominciava a ripercorrere quanto raccontava.
«Era esattamente come lo vedi adesso: stronzo, apparentemente disinteressato a tutto quello che gli succedeva intorno, un sacco di amici e nessuno di cui potersi veramente fidare. Appena l'ho visto ho pensato che fosse nato per fare il leader e, anche se non avevo alcun tipo di pregiudizio, credevo che non saremmo mai potuti essere amici. Eravamo troppo diversi».
Lo ascoltavo con estrema attenzione. Era come se riuscissi a vedere tutto attraverso i suoi occhi; lasciavano trasparire ogni cosa, e non c'era neanche il minimo dubbio che potesse mentire.
Se mi avessero chiesto di descrivere come sarebbe apparsa un'espressione sincera, avrei risposto senza alcun dubbio di guardare quella di Davide.
«Ed inizialmente fu davvero così...». Riprese il discorso dopo una breve pausa. «Lui da una parte e io dall'altra. Oserei dire che per almeno i primi tre mesi di scuola non ci siamo neanche rivolti un saluto. Ma poi tutto è cambiato». Si fermò nuovamente, senza però smettere di sorridere, in quel modo così sereno e spensierato. E un po' lo invidiavo, perché era come se ricordare il passato non gli causasse alcun tipo di dolore.
«L'anno scorso io non ero come mi vedi adesso, e non intendo solo fisicamente, ma in tutto. Ero molto più chiuso, avevo pochissimi amici, e le ragazze non sapevano neanche della mia esistenza. Ero un po' come...».
«Me». Conclusi la sua frase vedendolo in difficoltà. «Un po' come me». Ripetei quindi con un sorriso, per fargli capire che non c'era nulla di male nel dirlo.
Davide mi guardò incerto - piuttosto pensieroso - dopodiché mi sorrise.
«Non era proprio questo che volevo dire, ma comunque sì, diciamo di sì, eccetto per il fatto che non amo studiare granché». Ridacchiò brevemente, poi tornò a raccontare, con lo sguardo perso nel vuoto, fisso in un punto davanti a lui che non riuscivo ad individuare con precisione. «Ed è proprio per questo che ho fatto il primo passo per conoscerti. Vederti così sola mi ha fatto ricordare il vecchio me stesso, e quindi ho pensato che dovevo fare qualcosa a riguardo; mi sono sentito in dovere di aiutarti».
Si girò a guardarmi. I suoi occhi erano illuminati dalla luce fioca del tramonto. «Fidati, Giò, nessuno potrebbe capire più di me come ti senti e, quello che io ho fatto per te un mese fa, è esattamente lo stesso che Lorenzo ha fatto per me l'anno prima. Niente di più, niente di meno».
Non potei fare a meno di mostrarmi sorpresa a quella dichiarazione, sia per l'intensità con cui era stata formulata, che per il suo significato in se.
"Lo stesso che Lorenzo ha fatto per me". Quella stessa ed unica frase si ripeteva più e più volte nella mia testa, acquistando ogni volta sempre più spessore, finché alla fine non assunse le sue vere fattezze, cioè quelle della pura e semplice verità.
«No, non dire nulla, lasciami continuare». Mi interruppe Davide, prima che potessi proferire parola. E lo ringraziai per quel suo intervento, perché non sapevo assolutamente quale reazione sarebbe stata la più giusta da mostrare in quella situazione. Gratitudine? Sorpresa? Curiosità?
«Spinto dai suoi consigli - più minacce, a dire il vero - ho cominciato a fare un po' di palestra e, quando mi ha buttato gli occhiali giù dalla finestra, ha detto che se non fossi passato alle lenti avrebbe fatto fare la stessa fine a tutte le nuove paia di occhiali». Si lasciò andare  ad una fragorosa risata, che scosse l’aria intorno a noi. «Da allora ha iniziato a coinvolgermi nelle sue marachelle, ha lasciato che i suoi amici diventassero anche i miei amici, e mi ha persino presentato qualche ragazza...». Distolse lo sguardo imbarazzato, e pensai che forse la riservatezza del suo carattere non era scomparsa del tutto.
«Tutti siamo spinti da motivazioni in ciò che facciamo ed anche lui doveva averne una, per questo un giorno mi sono fatto coraggio e gli ho chiesto quale fosse la sua, per quale ragione mi avesse aiutato ad uscire dal mio mondo». Era diventato improvvisamente serio e questo mi fece capire che la parte più difficile stava per arrivare.
«L'obiettivo di Lore non era farmi diventare un'altra persona, voleva davvero aiutarmi e, anche se il suo approccio è stato tutt'altro che gentile, sulle sue buone intenzioni nessuno riuscirà mai a farmi cambiare idea. E questa mia sicurezza non è semplicemente dovuta a ciò che mi rispose, ma al modo in cui lo fece. Per la prima volta riuscii a vedere qualcosa di diverso in lui, non era il ragazzo freddo e distaccato che tutti conoscevano, persino i suoi occhi non erano più dei semplici pezzi di ghiaccio che congelavano al loro interno qualunque tipo emozione; e quel giorno ne lasciarono trasparire diverse allo stesso tempo – pentimento, dolore, amore. Non sembrava neanche lui».
 «Tutto questo da solo bastò a farmi credere nella sua amicizia, non avevo bisogno di ulteriori prove per quanto mi riguardava, mi fidavo di lui...mi fido di lui. Ed è stato egoistico da parte mia accettare la sua motivazione senza capirla veramente a fondo, avrei potuto aiutarlo prima, ma ora mi è tutto chiaro, so di poterlo aiutare, e questo solo grazie a te».
Sbattei più volte le palpebre, sorpresa, e chiedendomi se per caso mi fossi persa qualche passaggio. «Grazie a me?». .
Davide annuì. «Ricordi quando ti dissi che Lore non aveva mai parlato di te ai suoi amici? Be’, mi sbagliavo: l’ha fatto con me e proprio in quell’occasione».
Ero confusa da tutte quelle rivelazioni, mi sembrava di aver raccolto solo pezzi di informazioni scollegati tra di loro e niente aveva un nesso logico, per quanto mi sforzassi di capire. Lui invece sembrava percorrere un suo personale filo invisibile, da seguire per arrivare alla conclusione, ed ogni volta che aggiungeva un nuovo pezzo continuava soddisfatto del suo lavoro.
«Voi due…vi conoscevate già, vero?». Mi domandò allora, cauto. Non voleva toccare quel tasto, nonostante gli avessi promesso che gliene avrei parlato era ancora restio ad entrare nella mia vita.
Davide scacciò la questione con un gesto della mano, ancora prima che finissi di tirarla in ballo. «Conosco Lorenzo abbastanza da poter capire quando allontana di proposito le Forse per prevenire qualunque mia domanda, si affrettò ad aggiungere: «Conosco Lorenzo abbastanza da poter capire quando allontana di proposito le persone, e con te l'ha fatto. Ti ferisce affinché tu non ti avvicini più a lui. Una persona talmente importante, da arrivare persino a tenerla fuori dalla sua vita incasinata pur di proteggerla». Si voltò verso di me, impaziente. «È solo una conferma quella che ti sto chiedendo: non vi conoscete solo da qualche mese, no?».

«No...». Dritta al punto. Sincera fino in fondo. Per una volta. «...si può dire che ci conosciamo da sempre, effettivamente». Non c'era più alcun motivo di girarci intorno.
Davide sorrise, questa volta ancora più apertamente. Si adagiò nuovamente contro lo schienale della panchina ed incrociò le gambe fissando per un po' due ragazzini che correvano davanti a noi. «Allora sei proprio tu la ragazza che crede di aver perso per sempre».

«Davide, cosa...». Provai a dire, dopo esser rimasta in silenzio per quella che mi parve un'eternità.
«Giorgia, credimi, non sei l'unica che ha sofferto in tutti questi anni».
Presi un respiro profondo, consapevole che da quel momento in poi sarebbe iniziato il vero racconto. «Ti ascolto».
«A prima vista Lorenzo sembra un ragazzo privo di problemi, sempre a caccia di guai e di divertimento, ma non è così, quella è solo una facciata, e credo che questo tu lo sappia già...». Cercò una conferma nei miei occhi, che trovò quasi immediatamente, quindi proseguì.
«Ti ho detto che ciò che lo spinse a fare quel che ha fatto con me, in qualche modo c'entra con te, ma è importante che io dica le parole esatte che usò, parole che credo che tu debba sapere, per poi valutarle con attenzione.
“Ho perso una persona importante una volta, un'amica speciale, a cui ho rinunciato perché sono stato - e sono - un coglione. In te rivedo esattamente lei, per questo ho pensato che, magari, aiutando te mi sarei sentito meno in colpa per aver abbandonato lei”». Citò ogni parola come se le ricordasse a memoria, come se ci avesse riflettuto sopra talmente tante volte da essersele impresse nella mente a vita. «"Ma la verità è che non riuscirò mai a perdonarmi per quel che ho fatto. Io non la merito, e questo non cambierà mai, nemmeno se lei decidesse di dimenticare tutto”».
Faceva male sentir parlare di un Lorenzo così debole, privo della forza che lo contraddistingueva e in preda ai sensi di colpa. Colpa che aveva, in effetti, ma era comunque triste pensare che avesse deciso di affrontarla da solo, nascondendola in chissà quale parte del suo cuore.
«E ti ha detto il motivo...ti ha detto il motivo per cui l'ha fatto?». Chiesi speranzosa. Avevo rinunciato a trovare quel motivo, ormai, ma in quel momento la possibilità che potessi finalmente ottenere la risposta che cercavo era troppo reale perché potessi lasciarla andare senza provarci un'ultima volta.
Davide scosse la testa con espressione dispiaciuta. «No, non gliel'ho neanche chiesto...sono stato un egoista. Lui ha fatto tutto per me, e io?».
«Ehi, ehi, non è colpa tua, ok?». Annullai anche l'ultimo briciolo di distanza tra i nostri corpi e gli presi il viso tra le mani, per costringerlo a guardarmi. «Non potevi saperlo, Dav, tu non c'entri assolutamente nulla con i problemi di Lorenzo, non ti riguardano, è stata una sua scelta...tu e l'aggettivo egoista non siete minimamente compatibili, no».  Provai a consolarlo, e nel farlo non mi resi conto neanche conto di aver cominciato a piangere. Lo facevo talmente spesso, ormai, che era diventata una spiacevole abitudine.
«Tu ci tieni ancora a lui». Affermò Davide, sicuro delle sue parole, asciugandomi contemporaneamente le lacrime con l'ausilio di due dita.
Annuii quasi meccanicamente. «Sì, così tanto che se anche venisse a bussare alla mia porta tra altri dieci, lunghi anni per farmi le sue scuse, non riuscirei a sbattergliela in faccia».
Davide inclinò leggermente la testa di lato, visibilmente pensieroso. «Sicura che per te sia solo un amico?». Domandò poi, sorridendomi complice.
Distolsi immediatamente lo sguardo, colpevole e rossa dall'imbarazzo. Non avevo mai parlato di certe cose con un ragazzo, il che rendeva tutto abbastanza difficile per me. Più di quanto non lo fosse in circostanze normali. «Hai un po' di tempo per sentire la mia, di storia?». Mi decisi a chiedergli, mordendomi poi un labbro per nascondere la vergogna.
«Per te ho tutto il tempo che vuoi».


«Da miglior amico a peggior incubo. Wow, un cambio notevole!». Commentò Davide ironico, per stemperare la tensione e allo stesso tempo cercare di farmi smettere di piangere.
Purtroppo non riuscivo a trattenermi ogni volta che cominciavo a ricordare il passato.
«Comunque sono deciso a scoprire tutto, se non vuoterà il sacco con le buone, lo farà con le cattive». Aggiunse, poi, e per un attimo credetti che fosse davvero capace di usare le maniere forti. Ma era di Davide che stavamo parlando...
Arcuai un sopracciglio scettica. «Buona fortuna, allora, se ci dovessi riuscire ricordami di avvisare gli autori di libri scolastici di inserirti il quelli storici».
«Prepara i numeri di telefono, cara».
«Spaccone». Lo apostrofai tirandogli un buffetto sulla guancia.
Scherzammo così per un altro po', finché non mi decisi a porgli il mio dubbio amletico. «...e adesso che si fa? Fingo che tu non mi abbia detto nulla, oppure lo affronto?».
Lui sembrò aspettarsi quella domanda, sulla quale rifletté un attimo, valutando entrambe le possibilità con estrema attenzione. «Io credo che tua cugina abbia ragione. È meglio che tu gli stia lontana per il momento». Decretò infine, passandomi un braccio intorno alle spalle in un gesto così spontaneo da risultare assurdamente naturale, tanto che mi chiesi perché ancora mi facevo tutti quei problemi ad abbracciarlo o dimostrargli il mio affetto, con i gesti oltre che con le parole.
«Sarà difficile». Dissi guardando il cielo sopra di noi, che da chissà quanto tempo ormai aveva assunto i colori tipici del tramonto. La visione da lì era sempre spettacolare, e mi sentii sciocca nel realizzare che avevo rinunciato a parecchie cose nella mia vita per non soffrire, ma alla fine avevo ottenuto solo l'effetto contrario…
«E tu cosa farai?».  Chiesi cambiando discorso. Se avessi continuato a rimuginare in quel modo sulla mia vita, avrei finito per risultare noiosa e ridicola, oltre che monotona.
«Io l'ho già perdonato». Rispose con un sospiro, come a voler specificare che non aveva altra scelta.
E io proprio non riuscivo a capire il perché di tutta quella riconoscenza nei suoi confronti. Magari la risposta andava cercata nell'infinta correttezza del mio amico, oppure era semplicemente una mia mancanza, dovuta al fatto che nessuno aveva mai fatto una cosa tanto importante per me, prima d’allora, prima di Davide.
Non capirai mai cosa si prova, finché non lo vivi sulla tua pelle; minuto dopo minuto, gesto dopo gesto, amore su amore.
«Non devi, se non vuoi, solo perché ti ha aiutato una volta». Dissi con un filo di voce, più che altro per dar sfogo ai miei pensieri; non volevo certo spingerlo a dimenticare tutto e a cominciare a fregarsene del suo migliore amico. Chi ero io per farlo? Io che per prima non riuscivo a rinunciare a lui.
Davide sorrise e tornò a guardarmi. «Ho sbagliato a reagire in quel modo. Le cose si fanno in due, Giò, e Lore non avrebbe mai fatto nulla se Carol non fosse stata d'accordo. Sono un fratello piuttosto protettivo e mi sono lasciato prendere dal fatto che fosse mia sorella, ma la verità è che se fosse stata un'altra ragazza - qualunque - non avrei detto niente per difenderla». Sospirò amaramente. «Come vedi non sono poi così perfetto come credi».
Scossi ripetutamente la testa e gli accarezzai il dorso della mano con due dita. «È tua sorella, Dav. Ti sei comportato come avrebbe fatto un qualunque fratello maggiore».
«Ma Lore non ha colpa, e né tantomeno mia sorella...nessuno ne ha. Carol sapeva perfettamente di Diana, eppure c'è stata lo stesso».
Mi lanciò un'occhiata d'intesa, talmente breve che quasi non la notai, ma capii perfettamente a cosa alludeva e per questo non riuscii a nascondere un po' di imbarazzo.
«Messaggio ricevuto». Mormorai colpevole, alzandomi per scaldarmi con un po' di movimento. Controllai l'orologio e rimasi piuttosto sorpresa dall'ora che si era fatta: erano le sei del pomeriggio ed ormai eravamo lì da un'ora abbondante.
Poco dopo Davide mi imitò, raggiungendomi con fare stanco e stiracchiandosi un po'.
«Parlare di quell'idiota mi prosciuga le forze». Disse - o almeno così capii - mentre sbadigliava visibilmente assonnato.
«Davide...». Lo chiamai incerta, avvicinandomi a lui di qualche piccolo passo, mentre un pensiero più incoerente degli altri cercava di prendere il controllo sul mio cervello.
Con lui era diverso: non c'era paura, non c'era incertezza, nessun dubbio o tentennamento. Con Lore, invece, era tutto l'opposto di tutto: sentimenti contrastanti, paura ed emozione, voglia di abbracciarlo e voglia di prenderlo a schiaffi, voglia di lasciarmi andare e paura di soffrire.
Le vie semplici erano davvero quelle meno dolorose. Ma se davvero avessi intrapreso una di quelle, se avessi scelto qualcuno in grado di darmi sicurezze, quanto ci avrei perso? E quanto ci avrei guadagnato?
«Mmmh?». Mi esortò lui curioso.
Sorrisi. «Grazie...». Una parola appena accennata, dolce ed insicura...ma non era abbastanza. «Grazie di tutto». Ripetei allora più forte.
Davide sembrò stranito da quel ringraziamento, che invece a me era parso fin troppo normale e giusto in quella circostanza. Mi schiarii la voce e feci per dire qualcosa che cancellasse quel silenzio insolito, ma lui mi interruppe riducendo al minimo le distanze e posandomi poi un dito sulle labbra.
Lo fissai dal basso confusa, senza muovermi di un millimetro, mentre le sue labbra si stendevano in un sorriso bellissimo sorriso. «Quando capirai che abbracciare un amico non è così difficile?».
E difficile non lo fu per niente: lasciarmi stringere dalle sue braccia forti, stringerlo con le mie più fragili, poggiare una guancia contro il suo petto e farmi cullare dal candido tepore del suo corpo contro il mio. Finché avessi voluto, finché ne avessi sentito il bisogno...senza vincoli né condizioni.
È a questo che servono gli amici.  Disse una voce saccente dentro la mia testa.
Ma l’amore è un’altra cosa.  Rispose un’altra, più forte e chiara.


Ottobre era passato e insieme a lui anche ogni singola briciola del rapporto carico di sofferenza che io e Lore avevamo costruito in quel mese.
Dall'odio eravamo arrivati, in un arco di ben sette, duri anni, al contrasto e alla passione, mentre nel giro di soli trenta giorni ogni sentimento era sparito; quello che avevamo costruito non esisteva più...non c'era più niente di niente tra di noi. E non avrei potuto definirlo neanche un ignorarsi reciproco, perché era anche peggio...era tensione, e la si avvertiva chiaramente, l'unico problema era che non riusciva a trovare alcuna via d'uscita, rimaneva insistente, insita in ogni gesto o sguardo che condividevamo. Ed eravamo automaticamente giunti  ad un punto in cui tutto sembrava privo di alcun senso...giocavamo a farci del male senza fare assolutamente nulla, ma se questo era l'unico modo per risollevarmi dal famoso fosso in cui mi ero sotterrata da sola, be' allora andava bene...sarebbe andato tutto bene, no? Dovevo solo continuare a giocare. Già, giocare...ma quanta fortuna mi sarebbe servita per vincere?

«Cari ragazzi miei,  quest'anno c'è una novità molto interessante per quanto riguarda le insufficienze riscontrate a metà di ciascun quadrimestre».
La professoressa Zanna, nonché coordinatrice di classe, sorrideva in modo inquietante, guardandoci uno per uno con malcelata soddisfazione; mentre con le dita ossute tamburellava insistentemente sulla superficie della cattedra.
Era inizio novembre, periodo dell'anno caratterizzato dalla distribuzione delle "situazioni iniziali" di noi studenti - così le chiamavano i prof quando volevano sembrare intelligenti - e, con una puntualità impeccabile, ecco che ci avevano portate le nostre. Normalmente vivevo il tutto con molta tranquillità, non avevo mai avuto insufficienze gravi, e i professori avevano sempre premiato il mio impegno; ma quell'anno era diverso. Quell'anno avevo cambiato scuola - da un linguistico a una ragioneria, mica facile!  - e sempre quell'anno una persistente distrazione mi aveva deconcentrata dai miei soliti e buonissimi propositi di studio intenso, con la tragica conseguenza che solo Bavieri poteva permettersi di attendere il fatidico momento con un sorriso molto simile a quello della Zanna. E il che era abbastanza preoccupante, oltre che demoralizzante.
«Matematica e storia». Sbuffò Davide guardando velocemente il suo pagellino. «Di nuovo! Ma quella stronza di matematica non poteva mettermi 6? Cavolo avevo la media del 5,5...».
Diedi un'occhiata anche io e notai con piacere che erano entrambe con il cinque, poteva andargli peggio. «Insufficiente in storia. Proprio non la sopporti, eh?». Ridacchiai stemperando la tensione.
Davide voltò rabbioso il foglio e si volse verso di me con stizza. «Non è che non la sopporto, è inutile! E poi ho già messo in conto che anche quest'anno avrò il debito».
«Ehi, non osare dire così, sai? Non sarò una cima, ma se necessario ti aiuterò io...potremmo studiare insieme, così magari ti divertiresti di più. Assolutamente non ti permetto di avere il debito in una materia così idiota!».
Davide sorrise in quello che mi parve un modo di gratitudine e io ricambiai, prima che il suo sguardo si spostasse sul mio di pagellino.
«Perché non lo guardi?». Domandò con un cenno del capo rivolto a quel malefico pezzo di carta.
Sospirai e cominciai a giocherellare con un angolino del foglio girato, tenendo basso lo sguardo. «Ho paura di vedere quante insufficienze sono». Confessai mordendomi un labbro.
«Scherzi? Se io ne ho sotto solo due, tu non ne avrai nessuna».
«Fino all'anno scorso le cose stavano così, Dav, ma la media dei miei voti questa volta non mente».
«Avanti, ti supporto io, ora gira quel cazzo di pagellino». Mi esortò in modo poco fine, abbastanza da lui direi. «Tanto prima o poi dovrai farlo».
Deglutii incerta ma alla fine mi decisi e lo voltai con un movimento rapidissimo, pensai un momento sul da farsi e poi lo porsi a Davide neanche fosse veleno. «Guarda prima tu, io non ce la faccio».
Dav annuì e afferrò il foglio, osservandolo poi con attenzione e un sorriso sempre crescente. «Lo dicevo io che sei paranoica!». Disse allegro, restituendomi il pagellino e costringendomi a guardarlo.
Cominciai a scorrerlo lentamente con un pizzico di agitazione in meno e, senza accorgermene, stringendo la mano di Davide.
Italiano: 8
Bene, venivo da un linguistico, se avessi preso di meno che figura avrei fatto?
Storia: 7
Matematica: 6
Economia aziendale: 7
Diritto: 5
La mia rovina!
Economia politica: 7
Inglese : 9
Informatica: 8
Religione: ottimo
Educazione fisica: 6
Condotta: 10
Tirai un sospiro di sollievo e mi rilassai un po': il peggio era passato, bisognava solo vedere quale diabolico piano avesse in mente la Zanna. «Pensavo peggio, mi hanno aiutata moltissimo, specialmente in diritto e matematica!».
«Perché si vede che studi e si saranno accorti che hai avuto qualche problema personale...».
Ogni allusione a Lorenzo era stata tacitamente vietata, per questo Davide ci stava girando intorno...e io lo apprezzavo moltissimo.
Quanto bene volevo a quel ragazzo?
«Secondo te cos'ha in mente?». Gli chiesi, cambiando improvvisamente discorso nel vedere la prof  scribacchiare qualcosa su un foglio di carta.
«E chi lo sa? Quella donna ne sa una più del diavolo, comunque lo scopriremo presto...credo sia pronta».
Nella classe piombò un silenzio improvviso, immediatamente seguito dalla potente voce della Zanna, che passò lo sguardo da una parte all'altra dell'aula con la stessa sadicità di poco prima.
«Ecco qua, vi consiglio di ascoltarmi molto bene, e vi dico fin da subito che nessuno di voi può rifiutarsi di partecipare al progetto, salvo motivazione certificatamente valida». Nell'aria c'era il gelo, e la mia ansia d'un tratto aumentò bruscamente, insieme ad un crescente senso di disagio. «E per motivazione valida intendo molto valida».  Aggiunse poi con un tono esageratamente perentorio.
Quell’aggettivo suonò come una vera e propria minaccia alle mie orecchie, e per poco non cominciai a sudare freddo.
Ma si divertiva a farci soffrire in quel modo? Perché non sputare il rospo e basta?!
«Bene, vedo che siete tutti molto entusiasti di conoscere quale questa grandiosa novità sia, perciò...». Altra occhiata, altra pausa snervante. Stavo cominciando a perdere la pazienza, odiavo quando qualcuno girava troppo intorno ad una cosa in quel modo!
E poi…e poi l’incubo ebbe inizio. Mi aspettavo di tutto e ancora peggio, ma mai quello.
«Come non è difficile da credere, ho avuto questa brillantissima idea che è stata felicemente, e senza troppe esitazioni, approvata dal resto del consiglio di classe, chiamatela prova, chiamatela verifica, recupero…come vi pare, ma da questa dipenderà l’esito del vostro anno scolastico».
Guardai Davide stranita, in cerca della stessa reazione in lui, e fui ben lieta di trovarla quando scosse leggermente le spalle. Non ero l’unica terrorizzata a morte…
«Ognuno di voi ha dei punti di forza, così come altrettanti deboli, per questo ho pensato di sfruttare questi due fattori per dar vita ha questa meravigliosa iniziativa: formeremo delle coppie, in base a quanto ho appena detto, in cui l’uno aiuterà l’altro a superare le proprie difficoltà…studiando, trovando un modo alternativo che esuli dal contesto scolastico, qualunque cosa che possa servire al vostro compagno per vedere la materia in modo diverso, più familiare, diciamo così…e quindi, per esempio, se Vinci ha problemi in matematica, Bavieri si preoccuperà di risolverli come più gli aggrada e, viceversa, se Bavieri ha appena la sufficienza in economia aziendale, Vinci lo aiuterà a staccarsi da quel misero voto».
La mia mente era un black-out totale, si rifiutava di assimilare quella informazione, perché – inevitabilmente – , di rimando, avrebbe dovuto mettere in conto quella possibilità.
«Mi pare non ci sia niente di poco chiaro in questo, perciò passiamo pure alle regole e allo svolgimento del progetto: avete tempo fino alla settimana prima della fine del quadrimestre, che cade esattamente il 10 febbraio, ed entro quella data dovrete aver incontrato dei miglioramenti consistenti, miglioramenti che verranno valutati con una verifica – scritta o orale a discrezione del professore – dove mostrerete proprio le differenze rispetto a quanto è stato riscontrato in questi primi due mesi. Con questo ovviamente si sottintende la sufficienza per quelli che hanno insufficienze non proprio gravissime e un salto qualitativo notevole per gli altri; in linea di massima, comunque, tutti dovrete incrementare il vostro voto di  almeno un punto». La Zanna incrociò le braccia sul tavolo, cominciando a torturare le stanghette degli occhiali per sfogare un’evidente frustrazione…sì, frustrazione era l’unico aggettivo attribuibile ad una donna del male come lei, che chissà quante notti aveva impiegato per mettere a punto quel piano diabolico. «Ci sono domande fino qui?».
Lonta alzò la mano, con la sua classica aria da stupido che voleva solo perdere tempo.
Dopo un cenno della prof, il suddetto le pose la domanda che probabilmente ci stavamo chiedendo tutti, ma che nessuno aveva il coraggio di fare.
«Prof, e quali sarebbero le conseguenze se per caso uno di noi non dovesse riuscire…». La frase si spense a metà, perché la Zanna non attese oltre, cominciando a sovrastare la voce di Gabriele con la sua. «Ovviamente si spera che voi ci mettiate tutta la vostra volontà in questa meravigliosa opportunità che vi stiamo dando, ma qualora questa non sia sufficientemente adeguata…allora condividerete il fallimento, il che implica che se il risultato è negativo per la parte debole, lo sarà anche per la parte che avrebbe dovuto aiutarlo, e che invece non ha fatto il suo dovere. Il discorso vale anche al contrario però: più proficui saranno i risultati ottenuti, più riconoscimenti verranno attribuiti allo studente che ha reso ciò possibile. Non prendete la cosa sotto gamba, mi raccomando, non c’è niente di peggio che un intero consiglio deluso e amareggiato…».
Tutto era stato spiegato alla perfezione, in un modo talmente chiaro che nemmeno i più lenti di comprendonio avevano dubbi da chiarire, nessun’altra domanda, perciò, era stata fatta, mancavano solo le coppie…che la prof aveva immediatamente cominciato a formare.
«Dav…». Chiamai il mio amico a bassissima voce, accompagnando il tutto con una leggerissima gomitata. Eravamo pur sempre ai primi banchi e la Zanna aveva un udito finissimo, meglio non rischiare le sue ire. Davide si voltò verso di me con un mezzo sorriso, segno della sua tranquillità più assoluta: logico, lui non aveva niente di cui preoccuparsi. «Toglimi una curiosità…a parte matematica, in quali altre materie Lore va…».
«È stato più semplice del previsto». Esclamò la professoressa gongolante, dopo neanche 5 minuti, schiarendosi la voce e guardando soddisfatta il pezzo di carta su cui scintillavano d’inchiostro nero ventiquattro nomi, rigorosamente raggruppati due a due.
Rinunciai al mio proposito di rovinarmi la sorpresa e attesi che fosse proprio la Zanna a svelare il nome del mio fantomatico compagno di progetto.
C’è una sola possibilità su venticinque, una sola possibilità, una…
Continuavo a ripetermi, quasi cantilenando, nella mia testa.
«Ecco le coppie:
Accorsi con Baudino,
Bardo con Testa,
Bavieri con Mancini,
Belli con Mori...».
La voce della Zanna si interruppe nella mia testa come un disco rotto, inceppato, che continui a ripetere la stessa cosa finché non viene estratto dal vano.
No, non era assolutamente possibile...non ci potevo credere! La mia vita era stata condannata alla rovina in meno di un secondo, come potevo anche solo trovare la forza di contrastare quell'inevitabile catastrofe?
Quale astro oscuro si era messo contro di me e me la stava facendo pagare così crudelmente? Ma soprattutto, perché?
Quella sola, misera possibilità era riuscita a trasformarsi in realtà. Sì, dovevo decisamente prenotare un viaggio per Lourdes, al più presto, e magari di sola andata...
«Ehi». Mi chiamò Davide riscuotendomi dai miei pensieri, uno più demoralizzante dell'altro.
Io. Lore. Studio. Da soli.
Dopo tutto quello che era succeso.
Dopo la nostra spontanea decisione di ignorarci a vicenda.
Tutto era andato a puttane.
«Andrà tutto bene, vedrai». Provò a consolarmi, ma neanche lui sembrava convinto delle sue parole. Erano semplici rassicurazioni di circostanza, che tuttavia apprezzai.
«No, Dav, non andrà bene niente». Mormorai rassegnata, mentre l'insegnante terminava l'elenco e ci chiedeva per l'ennesima volta se tutto fosse chiaro.
«Non c’è bisogno che vi elenchi le materie in cui dovrete aiutarvi, siete abbastanza maturi per rendervene conto da soli, perciò...be', che il progetto abbia inizio!».
E dal sorriso della Zanna capii che non sarebbe stata un'impresa facile.

«Devo assolutamente parlare con la prof». Affermai decisa, durante l'intervallo, alzandomi dal mio posto con un'improvvisa determinazione.
«Hai sentito: motivazioni validissime...e stiamo parlando di una che ha persino fatto storie di fronte ad un certificato medico». Davide smontò immediatamente la mia mera speranza, osservando con una certa aria vittoriosa l'impavido Bavieri, che come al solito stava studiando qualche argomento del programma dei mesi successivi. Era il suo hobby, portarsi avanti solo per sentire gli elogi dei professori.
«Ma...Dav, capisci cos-...».
«Mori, è inutile che ti lagni...forse non conosci abbastanza la Zanna, ma quando dice una cosa la fa e basta. Perciò rassegnati».
30 giorni, 30 insopportabili giorni erano passati dall'ultima volta che ci eravamo scambiati qualche frase di senso compiuto e quale peggior modo di ricominciare un dialogo poteva scegliere se non quello?
«Purtroppo è così, Giò». Confermò Davide, rivolgendo una brevissima occhiata d'intesa a Lorenzo. Da quanto ne sapevo, quei due avevano mantenuto buonissimi rapporti in quel periodo; dopo quella temporanea incomprensione tutto era tornato alla normalità tra di loro e in più occasioni li avevo visti fare comunella. Nonostante il mio rapporto con Davide si fosse rafforzato moltissimo in quel periodo, Davide era sempre abbastanza restio a riferirmi tutto quello di cui lui e Lorenzo parlavano; sia perché certamente erano discorsi da ragazzi, sia perché non era giusto spiattellare così ogni eventuale rivelazione di Lore.
Di certo la sua posizione non era delle migliori, essere amico di due eterni nemici non doveva essere per niente semplice.
Non riuscii a dire nulla, ogni parola che mi veniva in mente era un insulto peggiore del precedente, perciò preferii ignorare il suo intervento dandogli le spalle.
«Io vado in bagno». Dissi a Davide, cercando di sfuggire a quella situazione scomoda...perché non sopportavo neanche più la sua spocchiosa presenza.
«Ehi». Una presa salda e forte mi bloccò per un braccio. Un tocco che mi era mancato terribilmente, ma che non avrei implorato per nessun motivo al mondo. «Non pensare di essere l'unica a detestare questa situazione, credi che io sia tanto più felice di lavorare con te?».
«Lore...». Provò a fermarlo Davide, probabilmente temendo che le sue parole potessero ferirmi. La cosa che però nessuno dei due sapeva, e forse neanche io, era che in quelle 720 ore passate ad ignorarlo avevo costruito intorno a me uno scudo, in grado di riflettere qualunque cosa - bella o brutta che fosse - mi dicesse. E mi sentivo incredibilmente forte nel non provare dolore ogni volta che me lo trovavo davanti e mi diceva una bastardata delle sue, nel non percepire il mio cuore spezzarsi un po' ogni giorno che si allontanava da me.
«E con questo?». Domandai perciò, scuotendo il braccio per fargli sciogliere la presa ferrea che cominciava a farmi male.
Lore abbozzò un sorrisino indecifrabile, staccandosi da me con una lentezza esasperante e chiaramente studiata, il tutto sotto gli occhi attenti di Davide.
«Con questo...perché non mettiamo da parte i rancori, ci concentriamo su questa stronzata di progetto,  e diamo il meglio di noi?».
Aprii la bocca per rifiutare a prescindere, ma la richiusi immediatamente, rendendomi conto dei reali termini di quell'accordo.
«Intendi...una specie tregua?».
Lore annuì.
«Niente avvicinamenti di alcun tipo? Niente rinvagamenti del nostro passato?».
« Niente, solo tanto e sano studio».
Aggrottai le sopracciglia perplessa. Se fosse stato qualcun altro a farmi quella proposta avrei accettato ad occhi chiusi, ma era di Lore che stavamo parlando, perciò...
«Dov'è l'inganno?». Gli chiesi assottigliando lo sguardo.
Lore scosse le spalle. «Nessun inganno, solo voglia di andare in quinta e finire questa cazzo di scuola il prima possibile».
Be', la motivazione era in Lorenzo style, dopotutto.
Mi morsi un labbro pensierosa e guardai Davide in cerca di un qualche consiglio, ma quello che trovai nella sua espressione era solo confusione, esattamente come quella che provavo io.
«Quanto tempo ho per pensarci?».
Lore ridacchiò e guardò l'orologio che portava al polso. «Ti serve davvero tempo per una stupidata del genere? È la cosa migliore per tutti: tu mi aiuti, io ti aiuto, (continuiamo ad ignorarci)  e la Zanna è contenta».
Incrociai le braccia al petto e lo guardai scontrosa.
Lore sbuffò. «Come vuoi, se ti serve tempo...hai dieci secondi a partire da adesso». Annunciò con un leggero schiocco di lingua.
Stronzo fino al midollo e fino alla fine, eh?
Gli lanciai un'occhiata furiosa ed osservai indecisa le lancette del suo orologio.
Allo scadere del tempo assentii un po’ titubante. «Ci sto».  Feci un passo avanti e sollevai lo sguardo a mo' di sfida.
Lore sembrò rilassarsi, ma allo stesso tempo stava accettando la mia dichiarazione di guerra e io lo sapevo benissimo.
«Bene, allora affare fatto». Disse quindi, tendendo la mano verso di me.
Stetti immobile a contemplarla per un po’, ricordandone la consistenza a contatto con la mia pelle, cancellai subito quel pensiero e la afferrai decisa, scuotendola un paio di volte insieme a quel ricordo deleterio. «Affare fatto». Ripetei sicura all'esterno, ma assolutamente non convinta dentro.
Era stranamente soddisfatto, come se avesse raggiunto il suo obiettivo.
No, non era semplicemente un’occasione di studio.
«Be', allora ci vediamo...ciao Dà, ciao Giò». Ci salutò con un cenno del capo e sparì fuori dall'aula, lasciandomi sola con Davide e in un vortice di insicurezza.
«Cos’è quella faccia?». Chiesi al mio amico, che era rimasto in silenzio da quando Lore se n’era andato. «Non so, fossi in te non abbasserei la guardia…». Si decise a parlare dopo un attimo di esitazione.
«Intendi dire che potrebbe avere altri fini? Be’, ci ho pensat-».
Davide mi interruppe con un gesto della mano. «No, non credo abbia altri fini, ma stai dimenticando una cosa di fondamentale importanza».
«E cioè?».
Il mio amico scosse la testa e sospirò, guardandomi in modo assurdamente serio.
«Lore non rispetta mai le regole».

 
Note:
Sono di corsa, perciò vi lascio proprio con due righe di saluto e ringraziamenti vari, che poi sono sempre gli stessi XD
Grazie a tutti quelli che hanno recensito lo scorso capitolo, a quelli che hanno aggiunto la storia tra le preferite, ricordate e seguite, e a coloro che hanno letto anche questo! *-*
Mi dispiace per il super ritardo, ma purtroppo è un periodaccio con la scuola e non so fino a quando durerà… :(
Un bacio a tutti e…al prima possibile! <3

P.s: chiedo scusa per non aver risposto alle recensioni, spero di rimediare al più presto :(

P.p.s: ho riletto tutto velocemente perché volevo dare priorità all'aggiornamento, perciò non vi garantisco che sia tutto scritto bene, che non ci siano errori, ecc. Sopportatemi, per favore! XD

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Capitolo 13
*** Il punto di svolta. ***


Capitolo 14

Capitolo 12:  Il punto di svolta
 




Erano le quattro del pomeriggio e Lorenzo era in ritardo, come a qualsiasi appuntamento al quale non gli interessasse presentarsi. Ci eravamo accordati per studiare in biblioteca...o meglio, avevo scelto io la biblioteca e per una volta ero riuscita ad imporgli una mia decisione, il tutto per evitare un problema elementare, perché di stare a casa sua - da soli, come aveva proposto lui - non se ne parlava neanche! La biblioteca era sempre - bene o male - frequentata, perciò ogni suo tentativo di approfittarsi troppo di me sarebbe morto sul nascere; mentre a casa...be', a casa cosa gli - o ci? - avrebbe impedito di trasformare la nostra noiosissima ora e mezza di studio in un piacevole esercizio di tutt’altro tipo?
Per tutte queste ragioni ero fierissima della mia piccola conquista, sorridevo apertamente e attendevo il suo arrivo giocando con una penna, neanche lontanamente irritata dal suo ritardo. Il mio scudo aveva potenzialità davvero sorprendenti, ma se il prossimo traguardo raggiunto fosse stato il disinnamoramento sarebbe stato ancora meglio.
Non ne potevo davvero più, l'amore faceva tremendamente schifo.
«Eccomi qua! Di' la verità, cominciavi a pensare che non sarei venuto».
Così si presentò, apparendomi davanti all'improvviso, con uno zaino a tracolla messo di traverso e un leggero affanno come conseguenza della sua evidente corsetta per raggiungermi.
Rimasi in silenzio, a pensare: come avevo fatto a non vederlo?
«Veramente no». Risposi con assoluta calma, riscuotendomi contemporaneamente dai miei pensieri.
Lore sorrise, sedendosi di fronte a me, il tavolo di plastica arancione ci separava quel tanto che bastava per far sì che lo studio restasse la nostra priorità.
Era una misura necessaria, non solo per lui, ma anche - e soprattutto - per me.
«Allenamenti». Spiegò senza che io chiedessi niente, estraendo velocemente un quaderno dallo zaino.
«Capisco...e, a proposito, come va alla OS?». Non mi resi conto dell'importanza della mia domanda fin quando non vidi Lorenzo bloccarsi sorpreso e io feci lo stesso. Sollevò lo sguardo - fino a quel momento rivolto ai quadretti del suo quaderno di informatica - e schiuse leggermente le labbra, probabilmente per dire qualcosa.
«Ehm...scusa, io non...». Provai a giustificarmi, ma mi uscirono solo una serie di balbettamenti senza senso, perciò mi fermai prima che potessi combinare qualche danno.
«No, non mi hai chiesto niente di male è che non mi facevi questa domanda da...be', da...».
Ora era lui ad essere in difficoltà, perciò intervenni in suo aiuto, non senza sfoggiare tutto l'astio che avevo in corpo. «...da quando hai deciso di non rivolgermi più la parola, sette anni fa».
Lui rimase impassibile, intento a fissarmi con quella sua solita espressione indecifrabile, forse questa volta leggermente colpevole. «Sì, tutto bene, Michele è sempre il solito svitato, ma un maestro eccezionale, mi chiedo ancora come faccia a sopportarmi e a credere in me così ciecamente. Se avessi avuto io un alunno come me, lo avrei  sbattuto fuori dal corso già al termine della prima lezione».
Non potei fare a meno di lasciarmi andare ad una risatina quando vidi la sua espressione sinceramente divertita.
Non c'era paura di ferirsi, solo tensione...dovuta ad altro.
«So che sei diventato cintura nera un paio di anni fa». "Me l'ha detto mia mamma". Avrei voluto aggiungere, ma sapevo che non ce ne sarebbe stato bisogno, ci sarebbe arrivato tranquillamente da solo. «Be', complimenti». Abbozzai un sorriso, ma il nostro discorso stava virando su un argomento che avrebbe sicuramente risvegliato la nostalgia temporaneamente assopita...sarei riuscita a sopportarla?
Lore mi sorrise, posando per un secondo lo sguardo sulle mie labbra...sguardo che stranamente non mi sfuggì e che allo stesso tempo mi causò un brivido lungo tutta la schiena.
«Bei tempi quelli passati all'OS insieme, ricordi? Stressavamo i nostri allenatori fin quando non ci concedevano di fare uno scontro anche se eravamo in due corsi diversi».
Tante immagini confuse mi attraversarono la mente, immagini di bambini ingenui, legati l'un l'altro da un qualcosa che non era semplice amicizia.
«Abbiamo fatto dannare quei poveretti, ma le nostre scommesse erano decisamente più importanti. "Se vinco io mi regali il tuo peluche, se vinci tu mi dai la merenda"». Dissi effettivamente nostalgica.
«Hai sempre vinto tu...».
«Fin quando non ho lasciato il karate e ti ho lasciato strada libera». Sospirai a disagio e decisi di mentire. «La scuola era diventata troppo pesante».
Lore non disse nulla, finse semplicemente di crederci. Quello della nostra amicizia passata era un argomento ancora troppo spinoso perché potessimo parlarne senza alcun coinvolgimento particolare e per quel giorno, a mio parere, avevamo già detto abbastanza.
Forse se avessimo adottato quel sistema, se avessimo continuato in quel modo, poco a poco...Già, forse...
No, nessun se, non potevo riporre in lui alcuna fiducia. Chi gli avrebbe impedito di tradirla di nuovo? Nessuno, assolutamente nessuno.
«Visto? Non è stato difficile». Fece lui soddisfatto, poggiando la testa sul palmo della mano.
Aggrottai la fronte scettica. «Cosa?». Chiesi ingenuamente.
«Parlare senza offenderci né ferirci, da persone normali, e del nostro irto passato per giunta».
«Era una prova?». Domandai confusa, con un filo di voce.
Lore ci rifletté un attimo. «Uhm, più o meno...sì».
Sentii una specie di squarcio scalfire la superficie del mio scudo, lasciando che portasse la delusione a galla. In seguito, dopo attimi interminabili di silenzio, troncammo lì la discussione e aprii il mio quaderno di informatica alla prima pagina. «Cominciamo? Ti avviso che dovrai partire dall'inizio e che dovrai avere tanta, tanta, tanta pazienza con me».
Lore sorrise avvicinando leggermente la sedia al bordo del tavolo, per ridurre lievemente le distanze.
«Nessun problema, abbiamo tutto un quadrimestre davanti».
Decisamente no: il mio scudo non era infallibile.
 

«Ehi, che fai?». Saltai sulla sedia, vedendolo alzarsi dalla sua e sistemarsi su quella accanto alla mia.
Lore mi guardò stranito. «Ti aiuto, no? Ricordi il progetto? Io aiuto te, tu aiuti me, ecc. ecc...».
«Non fare il cretino, sai benissimo cosa intendevo».
Lore roteò gli occhi leggermente infastidito. «Siamo in biblioteca, Giò, non posso urlare per farmi sentire e in più abbiamo concordato una tregua, non ti toccherò con un dito anche se ciò dovesse richiedere tutto il mio autocontrollo».
Pesai le sue parole con la dovuta cautela e decisi che non mi fidavo, l'ammonimento di Davide continuava a ronzarmi in testa, ma l'ultima cosa che volevo in quel momento era litigare con lui, perciò lo lasciai fare.
I nostri corpi si toccavano, il suo profumo non era mai stato più reale e la mia volontà cominciava a vacillare.
Mi riscossi con un movimento del capo.
Studio, Giorgia, studio...la cosa che ami di più al mondo.
Sì, dopo di lui.
«Devi partire dal presupposto che gli algoritmi sono la base per tradurre un problema in linguaggio comprensibile per la macchina. Se capisci questo, allora siamo a buon punto».
Annuii tenendo lo sguardo incollato sul foglio, se lo avessi guardato negli occhi avrei potuto dire tranquillamente addio alla mia concentrazione.
«Ora vediamo se sai quali sono le varie istruzioni e condizioni e a cosa servono».
Ok, quella la sapevo. Era piuttosto semplice, avrei potuto mostrare le mie ottime qualità d'apprendimento. «Il leggi, legge una variabile, il while, ripete un'azione fino a quando la condizione non diventa falsa, il for fa la stessa cosa, il punto e virgola assegna un valore, l'if è l'operatore del confronto e lo scrivi è l'output».
Lo guardai soddisfatta, ma la sua espressione smontò il mio entusiasmo all'istante. Stava quasi per ridere, come se gli avessi raccontato una barzelletta.
«Non sono definizioni da dare a memoria, Giò, devi prima capirle».
«Ma le ho capite!».
Lore sollevò un sopracciglio scettico e scrisse qualcosa sul mio quaderno. «Cosa fa questa istruzione?».
«Legge la variabile N». Ripetei saccentemente.
«Sì, ma da dove?».
Provai a rispondere ma rimasi con la bocca mezza aperta per un po', prima di richiuderla stizzita.
«È questo il tuo problema, studi tutto a memoria, anche le materie che invece andrebbero capite ragionando».
Ok, FORSE non aveva tutti i torti...
«E pensi di potermi aiutare?». Chiesi mordendomi un labbro.
Lore si mise una mano sul cuore e, con aria solenne, disse: «Lorenzo Belli al suo servizio».
«Che scemo». Commentai scuotendo il capo.
 
Passammo circa mezz'ora in quel modo: lui a criticare il mio metodo di studio, io a cercare di far valere le mie ragioni e un quaderno che veniva riempito di codici informatici astrusi, che Lorenzo si premurava di spiegarmi, armato di almeno una tonnellata di pazienza. Non avrei mai immaginato che potesse essere un insegnante così bravo, ma ancora una volta il detto l’apparenza inganna tornava a colpire.
Quando decidemmo che di algoritmi, condizioni e istruzioni ne avevamo abbastanza, passammo al mio vero tallone d’Achille e lì, ci avrei scommesso la pelle, avrebbe perso la pazienza.
Anche qui tutto trascorse abbastanza liscio, finché...
«Sei distratta». Lore si interruppe nel bel mezzo della spiegazione di...cosa mi stava spiegando?! Ah già, era da circa dieci minuti ormai che stavo fissando il suo volto perfetto, quasi angelico, cercando di contare le imperfezioni che vi scorgevo; ma alla fine non ne trovai nessuna.
«Cosa?». Chiesi ingenuamente, sbirciando il libro per scoprire l'argomento e non farmi trovare impreparata.
Lore passò da un'espressione quasi seria ad una divertita. «Non fingere, dai, lo sai che non sei brava».
«Ma se ho seguito tutto!». Protestai sforzandomi di risultare naturale, ma lui roteò gli occhi scocciato e chiuse il libro, ignorando il mio tentativo.
«Quindi se ti chiedo quali tipi di contratto ci sono me li sai elencare alla perfezione?».
Stronzo!
Rimasi con la bocca socchiusa, in cerca di qualcosa da dire, per un po', imprecando mentalmente ad ogni cenno di soddisfazione che gli si formava in volto. Finché lui non continuò con la sua missione "mettiamo Giorgia in imbarazzo" e disse con tono compassionevole: «È normale, dai, stiamo studiando ininterrottamente da un'ora...». Fece una breve pausa per poi  aggiungere, con incredibile modestia: «...e poi anche io mi guarderei in quel modo».
Arrossii violentemente e distolsi lo sguardo. «Non ti stavo guardando». Provai a mentire.
«E dai, ancora che neghi? Che ti costa ammetterlo?!». Insisté come avrebbe fatto un bambino per farsi comprare un giocattolo al supermercato.
«Non lo ammetto perché non è vero!».
«Ma non c'è niente di male, su! Anche io ti guardo spesso di nascosto…a scuola». La tranquillità con cui lo disse mi sorprese, come se fosse una cosa normale, perciò lo fissai interrogativa. «Tu, mi guardi?». Domandai incredula.
Lore allargò le braccia in un gesto teatrale. «Già, solo che io sono più bravo a non farmi beccare...». Ammise sorridendo, per poi scoppiare a ridere alla vista della mia espressione sconvolta. «Che c'è di strano? Tu sei una ragazza, io sono un ragazzo e a me piacciono le ragazze...tanto».
«Ma...voglio dire, non c'è niente da guardare in me! Specialmente durante le lezioni, in classe nostra ci sono delle ragazze molto più belle e degne delle tue attenzioni».
Gli occhi di Lore diventarono improvvisamente liquidi e scuri, come attraversati da uno strano impulso. Scosse la testa. «Il confronto con loro non regge».
Infatti, pensai con un moto di delusione.
«Loro saranno anche delle gran fighe, ma un tuo semplice sguardo mi tenta più di cento loro sorrisi maliziosi».
Ingoiai il groppo che avevo in gola e cercai di ignorare il martellamento del cuore contro il mio petto. Non riuscivo a dire nulla. Niente. Il vuoto totale.
Accidenti!
«Credevo di essere già stato abbastanza chiaro in proposito, ma se hai ancora dei dubbi posso continuare all'infinito a dirti cosa penso di te».
Ok, alt, stop, stop...stop! Non mi piaceva la piega che stava prendendo quella discussione; la malizia nel suo sguardo, nel suo sorriso era diventata fin troppo evidente. La situazione era pericolosa e, come se non bastasse, il cervello aveva cominciato ad elaborare lentamente le informazioni, perciò mi rimaneva una sola cosa da fare.
«Facciamo una pausa?». Proposi speranzosa, cambiando discorso. Lore, che aveva già lasciato cadere la matita sul tavolo, e si stava stiracchiando senza ritegno, disse un “sì” dissimulato dal terribile suono di uno sbadiglio.
Lo guardai con aria di rimprovero, ma non riuscii a trattenere un sorriso: stava mantenendo davvero la sua promessa, non aveva fatto altro che aiutarmi e - a parte qualche sguardo tutt'altro che disinteressato e la discussione appena affrontata - non era successo assolutamente niente.
Richiusi libri e quaderni, e ringraziai il Cielo per quella pausa.
Feci per voltarmi e raggiungere i distributori automatici, quando mi sentii afferrare per un polso.
Mi colse alla sprovvista, per questo gli puntai lo sguardo addosso, cercando al contempo di isolare la sensazione destabilizzante causata dal calore della sua mano. Il suo volto era rilassato e tranquillo, le sue labbra piegate in uno strano sorriso. «Torna qui». Disse tirando dei colpetti alla mia sedia con la mano libera.
«Non ci penso neanche, abbiamo deciso di fare una pausa e...». Parlai a raffica, seriamente preoccupata dalle sue intenzioni, ma lui mi fermò prima che potessi anche solo finire la prima frase.
Forse avevo sbagliato a cantare vittoria...che il peggio dovesse ancora arrivare?
«Rilassati Giorgia, non stare sempre sull'attenti...».
«Fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio». Mormorai strattonando il braccio per farmi lasciare andare. Lui parve arrendersi perché non fece resistenza e né mi segui quando mi avvicinai con passo svelto alle macchinette.
Stare vicino a lui in quel modo, senza quasi toccarlo, era snervante. 
Avevo bisogno di ossigeno.
Ossigeno che non avesse il suo stesso profumo.
Inserii i soldi e feci scorrere velocemente lo sguardo tra le file delle varie bibite. A dire il vero non avevo neanche sete, quella della macchinetta era stata solo una scusa per scappare da lui, per riprendermi dalla sua vicinanza, per allontanarmi dal suo...
...corpo.
Quello che proprio in quel momento comparve alle mie spalle. Mi pietrificai all'istante, con il dito a mezz'aria sul tastierino numerico e il cuore impazzito.
Lo faceva apposta, non c'era altra possibile spiegazione!
Ed era tremendamente vicino, troppo vicino, praticamente appiccicato a me, con la testa poggiata sulla mia spalla e la bocca ad un millimetro dal mio orecchio, che si mosse facendomi passare una scossa elettrica per tutto il corpo. «Be', che prendi?» Domandò visibilmente divertito dalla mia momentanea paralisi.
Non avrei mai ceduto...MAI.
Senza voltarmi, digitai un numero a caso, sperando che non fosse quello per la fanta (l'unica bibita che proprio non sopportavo) e cercai di ignorarlo.
«Qui c'è qualcuno che sta tremando...». Continuò soddisfatto, nel chiaro tentativo di mettermi in difficoltà. Si piegò per prendere la bibita al posto mio e mise altri soldi nella macchinetta. «Freddo?».
No, caldo, un caldo insopportabile...di lì a poco sarei andata in iperventilazione.
«Lore, smettila...».
«Dillo. Solo una volta».
«Che cosa? Di che stai parlando?». Finsi.
«Che mi vuoi, almeno quanto ti voglio io». Lore prese la sua bibita, ma non si mosse. «Non me l'hai mai detto e io ho bisogno di sentirlo da te».
Non riuscii a nascondere un sussulto, ma la sua pretesa non riuscii ad accettarla. «Allontanati immediatamente, non mi toccare». Sibilai contrita, dimenandomi per liberarmi dalla gabbia in cui mi aveva costretta.
«Non ci penso neanche. Smettila di fare la santa, dai, dimmi anche tu non sopporti l'idea di starmi lontana, dimmi che anche tu prima, su quel tavolo avresti voluto fare altro, che sei scappata perché non avresti resistito oltre». Si fermò, stringendo di più le braccia intorno alla mia vita. «Fallo».
Lore che mi supplicava di dirgli una cosa così...sentimentale, certo a modo suo, ma pur sempre sentimentale. E credevo fosse chiaro ormai che l'unico ragazzo che avrei voluto, prima, in quel momento e sempre era lui.
«Con che diritto mi chiedi una cosa del genere adesso?!». Urlai, rendendomene conto con un secondo di ritardo. Mi guardai intorno per verificare la gravità della situazione, ma in quella zona della biblioteca non c'era nessuno. «E comunque ti ho detto che mi dà fastidio che tu mi stia così appiccicato...».
«Stai mentendo, ancora». Sentenziò con eccessiva convinzione; cosa che mi diede ai nervi. «Tu puoi dire ciò che vuoi, ma ogni tuo singolo sussulto, ogni tuo brivido...io riesco a sentirlo». E così dicendo mi posò una mano sul cuore. Non ebbi il tempo di reagire, avrei voluto dirgli tante cose; da "sei tu quello che non ha le palle di dirmi perché mi tratti in questo modo" a "levami quelle sudicie manacce di dosso" - sudicie perché su chissà quante ragazze si erano posate, sudicie perché mi facevano stare bene e invece il loro tocco avrebbe dovuto innervosirmi - , ma ogni insulto rimase al suo posto.  
«Ragazzi, so che siete giovani e mi dispiace interrompervi, ma se siete qui per amoreggiare allora andate da un'altra parte. Questo non è un posto per dare dimostrazioni pubbliche di affetto».
Balzai all'indietro spaventata, dimentica della situazione in cui mi trovavo, e andando a sbattere contro il corpo di Lorenzo.
Ero certa di esser diventata rossa in viso e mai come in quel momento invidiai l'impassibilità di Lore.
Non ti sopporto, non ti sopporto, non ti sopporto!
«Mi...ci scusi, noi non...». Balbettai a disagio, cercando di sfuggire allo sguardo perentorio della bibliotecaria e di superare la collera di cui mi stavo nutrendo.
«Non mi pareva di esser entrato in un convento». Intervenne Lore in mio aiuto, seppur peggiorando la situazione.
«Dovreste mettere un'insegna».
Gli piazzai una gomitata sul fianco, che tuttavia non sortì alcun effetto: anzi, aumentò la sua sfrontatezza.
«Perdoni la sua irruenza, quello che voleva dire è che non stavamo facendo nulla di male e...».
«Manco stessimo limonando!». Insisté Lore.
«Te l'hanno mai detto che sei maleducato, ragazzino?».
«Sì, risparmi pure la fatica...». Lanciò un'occhiataccia alla povera malcapitata e mi afferrò per un braccio. «Andiamo Giò».
Andiamo?! Piantai i piedi a terra per resistere alla sua forza, ricorrendo persino alle unghie per graffiarlo. Nessuno dei miei sforzi sembrò scalfirlo.
 


Al limite della furia e dell'umiliazione, una volta giunti nella parte dove il silenzio era sovrano, dovetti seguirlo senza dire una parola, continuando a sentire il calore della sua mano sulla mia.
«Io con te non ho intenzione di spendere neanche un secondo in più!». Protestai mentre mi trascinava via, diretto al tavolo per raccattare le nostre cose.
«Finiamo a casa mia». Disse come se non avessi parlato proprio, come se in quel momento, con quella valanga di rabbia io potessi realmente studiare.
«Ma mi ascolti quando parlo? Ho detto che...»
Mi fermai di colpo e Lore dopo di me, alterato. «Senti Giorgia, non farmi incazzare anche tu, ti ho detto che non farò niente di niente, e manterrò la mia parola. Ho ceduto prima, ok? Non ce l'ho fatta! Sono umano, non un mostro come credi».
«Ah davvero? Non ce l'hai fatta...». Commentai ironica, senza distogliere lo sguardo. Per una volta mi sentivo in grado di poter mangiare il mondo. «Non parlare che è meglio, fai più bella figura».
Con pochi ultimi passi raggiungemmo l'esterno. Senza cappotto il freddo era insopportabile, sembrava entrarmi sotto la pelle, come tanti spilli di ghiaccio doloranti; ma neanche quella sensazione terribile riusciva a cancellare quella causata dalla rabbia cieca, che mi stava divorando. Lo avrei colpito all'istante se non avessi avuto la mano congelata.  E nonostante tutto mi chiedevo perché stessi aspettando che parlasse, anziché andare a prendere le mie cose - cappotto in primis - e poi tornare a casa il prima possibile.
Lore era stato di spalle fino a quel momento, le mani strette a pugno lungo i fianchi e le spalle leggermente incurvate a dimostrare il suo nervosismo. Quando si voltò verso di me i suoi occhi bruciavano di tormento, mentre la sua bocca tremava...se dal freddo o da qualcos'altro non avrei saputo dirlo.
«Non è facile, sai? Dovermi ripetere in continuazione che non posso averti, chiedermi sempre perché posso averle tutte ma non te! E non sopporto neanche il fatto di dovermi trattenere dal fare quello che veramente vorrei fare...anche adesso!». Sbottò urlando, incurante dei passanti che ci guardavano incuriositi e anche un po' preoccupati. Non aveva mai alzato la voce in quel modo, non con me. Cos'era cambiato all'improvviso?
«È tutto così maledettamente snervante, tutto. E la cosa che mi dà più fastidio è sapere che è stata e sarà sempre colpa mia. Ma cosa posso fare? Venire da te come se niente fosse e chiederti di...». Si bloccò, fissandomi quasi timoroso. «Perdonarmi...?». Concluse quindi incerto, scoppiando a ridere. Era una risata di circostanza, di quelle da sfoggiare solo per sfogare la tensione accumulata.
Le conoscevo molto bene.
Non avevo mai visto Lore in quel modo, parlare senza alcun freno, dire tutto quello che gli passava per la testa. Avevo sempre avuto l'impressione che qualcosa lo fermasse, ma in quel momento ne ebbi la conferma. Quello che era un mio patetico dubbio divenne una fondamentale certezza.
«Lore...». Lo chiamai preoccupata. Non stava più dicendo nulla. Mi fissava con sguardo assente.
«Perché ti sto dicendo tutto questo?». Scosse la testa, portandosi una mano su un lato di essa, confuso.
«Lore...». Feci un altro tentativo, questa volta con più convinzione.
Un passo mio verso di lui corrispondeva ad uno dei suoi lontano da me.
«Incredibile, alla fine ho perso davvero il controllo. Se lo raccontassi a qualcuno non mi crederebbe...».
«Lore, mi ascolti?». Insistei, riuscendo a raggiungerlo quando smise di scappare.
Lui inchiodò i suoi occhi ai miei e di fatto rimasero incatenati per parecchio tempo.
Stavo tremando, ma nonostante questo non potevo sopportare di vederlo così, dovevo fare qualcosa.
Alla fine annuì poco convinto, lasciandomi avvicinare finché la distanza tra i nostri corpi fu talmente sottile da poterci sfiorare.
«Non devi mai smettere di essere te stesso, mai. Non lasciare che il giudizio degli altri ti condizioni...».
Lui fece per parlare, ma gli feci immediatamente cenno di far silenzio.
«Non accetto repliche. Devi solo dirmi che hai capito». La mia voce tremò dal freddo, i denti si scontravano sfuggendo al mio controllo. Mi sarei presa un accidenti, ma non mi importava.
«Stai congelando». Disse con tono di accusa e nel farlo intravidi uno sprazzo del suo lato calmo di sempre, quello che per qualche minuto aveva lasciato posto alla sua parte ricca di tormenti  a lungo accumulati.
Lo guardai di sbieco e, senza pensarci un secondo di più, mi sollevai sulle punte e lo abbracciai di slancio, come volevo fare da troppo tempo.
Gli legai le braccia intorno al collo, provando uno strano sollievo nel sentire il suo corpo scaldarmi. Non il mio cappotto, non la mia sciarpetta...solo lui. Era come lo avevo sempre immaginato, un abbraccio tra due amici, un abbraccio sentito...da entrambi; sì, perché una volta superata la sorpresa - credeva che non avrei mai fatto una cosa del genere di mia iniziativa, e probabilmente a buon ragione dopo quello che era successo - percepii distintamente le sue mani allacciarsi dietro la mia schiena, spingendomi completamente contro di lui.
Non sentii più freddo, non sentii più niente, niente che non fosse lui. Il profumo dei suoi capelli mi entrò prepotentemente nelle narici quando gli sussurrai qualcosa nell'orecchio, una frase di cui non sono sicura ad oggi. Gli anni probabilmente l'hanno consumata a poco a poco, lasciandola rilegata nel passato, come avrebbe dovuto effettivamente essere. Era qualcosa di importante comunque, perché la sua risposta da allora è sempre rimasta in cima alla mia lista.
Fu semplice.
Troppo breve, forse.
Ma mi raggiunse in pieno petto, come una freccia che raggiunga l'esatto centro.
«Grazie».
Mi staccai quando ormai ero diventata un pezzo di ghiaccio; be', a dire il vero fu proprio lui a sciogliere l'abbraccio, ma dalla sua espressione preoccupata capii che lo fece proprio per non ritrovarsi con una compagna di studio ibernata.
Mi sollevò il mento con le dita, e posò delicatamente l'indice sulle mie labbra. Non staccò gli occhi da me nemmeno per un secondo mentre tracciò con attenzione e estrema precisione la linea della mia bocca. La sua era leggermente dischiusa, e lui era...lui.
«Va bene così». Se ne uscì all'improvviso, ritraendo le dita come scottato. «Prendiamo le nostre cose e andiamo a casa»
«Ah...Giorgia?». Mi fermò, quando ero ad un passo dalla porta.
Lo guardai interrogativa, ma il suo sguardo serio mi lasciò un po' preoccupata.
«Dimentica quello che è successo oggi e soprattutto quello che ho detto, per favore».
Rimasi a fissarlo incredula. Dentro di me stavo già facendo i salti di gioia per la sua quasi e strana ammissione di poco prima, ma questa richiesta cambiava tutto.
  Poi ripensai al mese appena passato ignorandolo…e, di nuovo, alla dolcezza con cui il suo dito mi aveva sfiorato le labbra, al suo fiato dolce contro il mio orecchio…
Sentii Lore esortarmi a sbrigarmi e scossi la testa aggiustandomi distrattamente la borsa in spalla.
Lo seguii in silenzio, mentre mi chiedevo cosa avessi sbagliato, perché all’improvviso fosse tornato tutto al punto di partenza, come se quel mese non fosse trascorso.
Nessun progresso, nessun passo avanti, era stata solo apparenza.
Lo amavo ancora, come prima.
O forse la lontananza me lo aveva fatto amare ancora di più
Cavolo, sì, mi era mancato terribilmente…
 
Durante il tragitto di ritorno non proferimmo parola riguardo all'accaduto, eppure io continuavo ad avere mille dubbi; sul perché fosse scoppiato, sul suo discorso del non poter fare ciò che voleva...del non poter avermi.
Lui mi voleva.
Ma questo l'avevo sempre saputo.
Il problema era scoprire come mi voleva. Solo sesso? Oppure amore?
No, non era in grado di amare; me l'aveva detto chiaro e tondo solo qualche giorno prima. Ma se invece se ne fosse solamente convinto? In quel caso si sarebbero spiegate diverse cose, tutti i suoi atteggiamenti contorti, i suoi cambi d'umore, il suo tormento...
Tutte cose che sarebbero successe a qualcuno che reprime troppo a lungo ciò che realmente vuole. Prima o poi si scoppia, no? Me l'aveva insegnato bene Rosaria: la sua sconfinata attrazione per Nicola, che aumentava di giorno in giorno, la preoccupava; non sapeva per quanto tempo sarebbe riuscita a trattenerla dentro di se ed aveva paura che le potesse sfuggire qualcosa di troppo quando questa sarebbe diventata incontrastabile.
Mi fermai di colpo, Lorenzo ancora davanti a me.
Non aveva mai negato che mi voleva.
Ma aveva detto che non poteva amarmi.
Se fosse stata una semplice scusa, se mi amava come Rosaria era attratta da Nicola allora...
«Ehi, che fai?». La sua voce mi riscosse immediatamente, non era il momento per pensare a quanto di vero ci fosse nelle sue parole.
«Niente...ehm...mi era caduto un bottone». Mi inventai su due piedi, riprendendo a camminare per raggiungerlo.
Lui mi aspettò con le mani in tasca e la fronte aggrottata, lo sguardo ad esaminare i bottoni del mio cappotto.
Sperai che non si accorgesse della mia stupidissima bugia, ma il suo sguardo mi disse il contrario; tuttavia non fece alcun commento. Si girò e riprese a camminare, questa volta più piano. Lui davanti e io dietro.
 


Una volta dentro al portone non potei fare a meno di emettere un piccolo gemito di sollievo nel sentire il piacevolissimo calore tipico di un luogo chiuso.
Le scale del mio palazzo non erano mai state così calde. O forse era solo una sensazione.
Lore mi guardò attentamente, dopodiché si morse un labbro con aria vagamente preoccupata.  «Ti conviene farti subito un bagno caldo, una volta a casa...».
La sua raccomandazione mi stupì parecchio. Probabilmente di norma gli avrei risposto che sapevo cosa era meglio fare in questi casi, ma vederlo lì, in quell'esatto frangente, preoccupato per me, non me lo fece passare di testa.  Non ci riuscii.
Annuii semplicemente, cercando di trattenere il più possibile un sorriso serrando le labbra; ma lui sembrò comunque scorgerlo perché distolse lo sguardo imbarazzato e si avviò verso l'ascensore con passo deciso.
Senza pensarci due volte, lo seguii.
Non si accorse di me finché non si voltò. Era sorpreso.
«Prendi l’ascensore?». Mi chiese con voce distante, ma sapevo che stava solo fingendo di essere disinteressato.
Feci spallucce e lo guardai dritto negli occhi. «Be’, le cose sono cambiate un pochettino, no? Non ho più paura».
Lui fece per replicare, ma proprio in quel momento l’ascensore si fermò davanti a noi. Lore aprì la porta come se niente fosse e mi lasciò entrare per prima, dopodiché mi raggiunse e lasciò che la porta si chiudesse alle sue spalle; lasciandoci soli in quello spazio ristrettissimo.
Il tragitto fino al nostro piano fu stranamente breve. Eravamo il più distante possibile: lui poggiato contro la parete destra e io contro quella sinistra. Lui con le braccia incrociate, io con le mani nelle tasche del cappotto. Non ci guardammo neanche, o almeno non contemporaneamente, forse perché entrambi sapevamo come sarebbe andata a finire se l’avessimo fatto.
L’attrazione in quel minuscolo spazio era palpabile, nessuno dei due avrebbe potuto negarla.
 
Giungemmo al nostro pianerottolo poco dopo, sembravano passate delle ore, invece non erano stati che secondi.
Durante la salita, un malsano pensiero si era insidiato nella mia testa. Avevo cercato di cacciarlo via, ripetendomi che non era una buona idea, tuttavia...
«Lore». Lo chiamai, appena prima che lui suonasse alla porta.
Lui girò leggermente la testa e mi fece cenno di parlare, sembrava rilassato e tranquillo...il mio opposto. Deglutii rumorosamente e tolsi le mani dalla maniglia, avvicinandomi di un solo passo.
«Dopo il bagno, che ne dici se...». Mi bloccai da codarda, ma ormai non potevo tirarmi indietro; perciò con sguardo fermo proseguii la mia richiesta. «Continuiamo a studiare?».
Nella mia mente quella proposta non suonava così stupida, per questo quando sentii la mia voce formularla mi vergognai a morte per averla fatta. 
Ovviamente non era per lo studio che volevo andare da lui, semplicemente non me la sentivo di separarmi da Lore in quel modo, dopo quello che era successo quel pomeriggio. Probabilmente sarebbe stato meglio rimuginarci su da sola, nel mio letto, ma sentivo il bisogno fisico di stargli vicina e non ero stata in grado di reprimerlo.
Lui sorrise appena - che avesse capito che la mia era solo una scusa? - e annuì. «Certo, ti aspetto. Ma ora vai».
«A dopo». Gli diedi un'ultima occhiata e mi rigirai per aprire la porta di casa.
«Ah, Giorgia?».
Lo guardai interrogativa e attesi. La sua domanda arrivò poco dopo, più in stile solito Lore, a dire il vero, e la cosa – stranamente – mi sollevò. «Sicura di voler studiare?».
Sbuffai fingendomi irritata ed aprii la porta ignorandolo, quando la richiusi sentii la sua leggera risata aleggiare ancora per le scale e ovviamente mi guardai bene dal permettergli di captare anche la mia, che risuonava in sincrono con la sua.



Quando uscii dal bagno mi sentivo rigenerata.
Prima che ricorressi alla paradisiaca acqua bollente, avevo le gambe praticamente paralizzate e la pelle più fredda di un cubetto di ghiaccio, tanto che mia madre aveva persino pensato di portarmi in ospedale per far riprendere la circolazione. Proprio a lei chiesi di prepararmi un tè caldo e nel frattempo indossai qualcosa di morbido e comodo.
«Dove vai?». Mi domandò la mia adorabile mamma, una volta finito di bere.
«A casa di L...». Mi fermai appena in tempo per correggermi. «Rossella».
Mia madre mi guardò scettica e dalla sua espressione capii che di lì a poco sarebbe iniziato il suo interrogatorio. «A fare cosa?».
«Perché ti interessa? Sputa il rospo».
«Lorenzo...». A sentire quel nome sentii il tè tornarmi su. «Tuo padre dice che vi vedete».
Quell'uomo...! Farsi i cazzi suoi? E dire che ero stata contenta della nostra conversazione…
«È solo per quel progetto, tra di noi non c'è assolutamente nulla».
«Tuo padre non la pensa così». Ribatté lei fissandomi intensamente, con quel tipico sguardo accusatorio di chi ti sta rimproverando.
«Tuo padre dice, tuo padre pensa, tuo padre fa...ma non sai pensare con la tua testa?».
Lei fece per dire qualcosa indignata, ma non gliene diedi il tempo perché troncai il suo discorso sul nascere.
«Sta' tranquilla, gli standard di Lore sono altri».
E, senza aggiungere altro, me ne andai.
 



 Alla fine dei conti, la decisione di andare da lui non si dimostrò poi così stupida. Rimanemmo concentrati per tutto il tempo, ci rilassammo con qualche, sporadica battutina di tanto in tanto e lui non mi sfiorò neanche per sbaglio, mentre alla discussione avvenuta fuori dalla biblioteca non accennammo nemmeno di sfuggita. Sembravamo davvero due compagni di classe che stavano studiando per meri scopi scolastici. Incredibile, vero? Noi, che a stento riuscivamo a non saltarci addosso, eravamo riusciti a resistere.
Avrei mentito a me stessa se non avessi detto che la tentazione di toccarlo, di farmi più vicina, era  quasi riuscita a sopraffarmi, e non solo una volta; ma era bastato che continuassi a ripetermi che non dovevo farlo: le ferite che mi aveva inflitto si erano appena rimarginate e se mi fossi riavvicinata al fuoco avrei rischiato di farle riprendere a sanguinare. Al solo pensiero rabbrividii, ma dovetti confessare che dopo la sua dimostrazione di debolezza non ero poi così preoccupata.
Nella nostra seconda parte di studio ci eravamo concentrati solo su di lui. Apprendeva in fretta, ma si distraeva ogni tre per due, quando per un messaggio, quando per prendere da bere, perciò non fu molto semplice aiutarlo.
«È tardi». Annunciai interrompendo la spiegazione degli ausiliari inglesi – sì, era ancora a quel punto, se ve lo state chiedendo – poiché mi ero accorta che la sua concentrazione era drasticamente diminuita. Inutile perdere tempo. «Ci vediamo domani, ok?». Proseguii senza mai guardarlo, ma comunque in attesa che dicesse qualcosa.
Mi guardò senza nessuna particolare inflessione del viso, e quel silenzio mi stava ormai uccidendo, quando sentii la sua sedia spostarsi. «Ok». Rispose in tono piatto. «Domani ti chiamo e ci mettiamo bene d'accordo».
«Ma ci vediamo a scuola...». Ribattei confusa, guardandolo con la coda dell'occhio mentre recuperava il cellulare da sopra il letto e me lo porgeva. «Domani ho delle gare a Como, ma dovrei tornare nel primo pomeriggio. Scrivimi il tuo numero così so dove poterti rintracciare».
«Gare?». Gli feci eco, prendendo con titubanza il suo telefono. Realizzai con un attimo di ritardo il vero senso di quella parola. «Ma scherzi? Tornerai stanchissimo! Possiamo vederci dopodomani, abbiamo ancora tempo...».
Lore mi interruppe leggermente infastidito. «Non sono un novellino dello sport, Giò, e non devi preoccuparti per me, conosco i miei tempi di ripresa. E poi…». Si interruppe, in cerca delle parole giuste. «Come si dice? Non rimandare quello che puoi fare oggi al domani...?».
Non riuscii a fare a meno di ridere sentendo quella mezza gaffe. «Teoricamente sarebbe non rimandare a domani quello che potresti fare oggi...ma comunque, sei libero di fare come vuoi». Digitai velocemente il numero e gli riconsegnai il cellulare. Nel farlo, le nostre mani si sfiorarono e un brivido partì da quel punto, per poi percorrermi tutto il corpo…dalla testa ai piedi.
Ritirai la mia come scottata e feci per uscire dalla stanza, ma lui mi fermò per un braccio. «Non scappare così». La sua voce era implorante, le sue labbra si mossero appena nel pronunciare quella richiesta. Un attimo dopo, quando ormai temevo il peggio, allentò la presa e mi sorrise. «Ti faccio uno squillo così puoi salvarti il mio numero».
Annuii brevemente e provai a mostrarmi tranquilla, sebbene dentro di me provassi solo agitazione.
«Fatto». Annunciò mettendo in tasca il cellulare. «Allora ciao».
«Ciao». Dissi in un sussurro impercettibile.
Per qualche ragione non riuscivo a muovermi di lì, volevo farlo, ma la sua immagine davanti mi inchiodava sul posto. «A domani». Presi un profondo respiro, scollai in qualche modo i piedi da terra e mi incamminai in direzione della porta.
«Aspetta». Mi fermò nuovamente lui.
Mi bloccai incerta e mi voltai lentamente, trovandomelo incredibilmente vicino.
Oh porca pupazzola.
Quelle sue apparizioni improvvise mi avrebbero uccisa un giorno.
E la situazione precipitò ancora di più quando lo vidi piegarsi per avvicinarsi pericolosamente al mio viso.
No, non poteva infrangere il nostro patto così. Non dopo che avevamo raggiunto quell'appena precario equilibrio.
Fermalo. Mi consigliò una voce nella testa, ma mi sembrò talmente lontana che non ci feci neanche caso.
Ora o mai più. Insisté inutilmente, perché ormai non c'era più distanza tra di noi. Le sue labbra erano ad un millimetro dalle mie, i suoi occhi inchiodati ai miei e il suo profumo irrimediabilmente mischiato al mio.
Addio buon senso, pensai chiudendo gli occhi, abbandonandomi all'istinto e alle emozioni.
Ma contro ogni logica, le nostre bocche si sfiorarono a malapena, e la sua si posò in un morbido, lungo bacio sulla mia guancia.
Spalancai gli occhi e trovai i suoi chiusi. 
Le sue labbra scottavano sulla mia pelle e la loro ritrovata consistenza abbatté senza alcuna resistenza gli argini che avevo costruito intorno a me.
Potevo quasi sentirli sgretolarsi senza che io potessi fare nulla e quando infine si staccò da me, la sensazione di poco prima rimase intatta.
Lui mi sorrise, ma dentro di me - in quel momento - c'era un vortice di emozioni inarrestabile, perciò mi limitai a fissarlo assente.
«Grazie Giorgia, davvero, per tutto».
Senza dire una parola, poi, raggiunsi meccanicamente la porta, come se mi muovessi senza pensare; perché la mia mente era troppo occupata a ripetere all'infinito il suo nome. 
Lorenzo. Lorenzo. Lorenzo. Lorenzo. Suonava così bene...
Mi chiusi la porta alle spalle e aprii quella di casa mia senza veramente rendermene conto. Salutai mia madre e finalmente mi rinchiusi in camera. Cercai velocemente il cellulare e salvai il suo numero, dopodiché scrissi un messaggio telegrafico a mia cugina.
 
Help. Non credo che mi passerà mai.
Sono letteralmente fottuta…felicemente cotta!



L’indomani arrivai a scuola insanamente felice, e ancora prima del solito.
Sapevo che Lore sarebbe stato assente, ma lo avrei comunque rivisto quel pomeriggio.
Il nostro rapporto stava finalmente cambiando, era inutile negarlo, mi aveva persino dato dimostrazione di qualche gentilezza; due "grazie" in un pomeriggio non erano pochi per uno come lui.
Rischiavo di ricaderci e alla grande, ma quella volta sapevo che sarebbe stato diverso.
«Noto con piacere che sei sana e salva». Fece la sua comparsa Davide, trascinandosi fino al suo banco con la solita aria assonnata delle 8.10 del mattino. «E…felice». Aggiunse incredulo.
«Già e chissà ancora per quanto». Mormorai con voce appena udibile, prima di concentrarmi sul mio amico, al quale rivolsi il massimo sorriso che riuscii a fare. «Buongiorno anche a te, Dav».
Davide mi guardò perplesso, quindi lasciò cadere la cartella con un tonfo pesante, e per finire si sedette accanto a me…accompagnando il tutto con qualche mugolio di soddisfazione. «Ahia, non ti chiedo cosa avete fatto perché so che se ne andrebbe tutta la giornata, perciò andiamo dritti al punto: ti ha baciata?».
Quella domanda improvvisa mi colse impreparata, perciò non riuscii ad impedire che almeno una briciolo di rossore mi imporporasse le guance. «Davide!». Lo richiamai indignata.
«Che ho detto adesso?!».
Lo fulminai con lo sguardo finché non recuperai la mia apparente tranquillità interiore. «Sì…». Ammisi con un sospiro di rassegnazione, ma prima che Davide potesse fare qualunque insinuazione, per sfatare ogni dubbio aggiunsi: «…sulla guancia».
Davide mi fissò stralunato per un po’, dopodiché cominciò a ridere di gusto. «E fammi indovinare, tu lo avresti voluto da un’altra parte!».
«Non c’è niente da ridere! E comunque ci siamo anche abbracciati, se è per questo. È stato un pomeriggio…intenso». Lo rimproverai con una vena di disperazione nella voce e lui si fermò immediatamente, prendendo a guardarsi intorno furtivo. «È chiaro che stai cedendo, di nuovo». Marcò quella parola con una velata ironia, probabilmente nel tentativo di alleggerire il reale peso della situazione. «Dobbiamo fare qualcosa». Constatò quindi serio, mettendosi a pensare.
«Martina dice che devo essere più forte, che prima o poi – se lo continuo ad evitare – mi farà lo stesso effetto di un moscerino, ma io non credo sia così…non riesco a controllarlo, Dav e…». Feci una pausa, sferrando la battuta finale, arrivando dritta al nocciolo della questione. «E se invece non facessimo nulla? Se lasciassi gli eventi fare il loro corso?».
I miei erano i discorsi di una pazza masochista. Dovevo sembrare matta ai suoi occhi, matta da legare, e la sua espressione confermò la mia ipotesi.
«Soffrirai». Disse semplicemente.
Scossi la testa. «È questo il punto, Dav. Ci sono cose che non posso raccontarti perché gliel’ho promesso, cose che probabilmente ti dirà lui stesso, ma…». Non riuscii a trattenere l’ennesimo sorriso. «Sento di potercela fare questa volta».
Quello che mi aveva detto non poteva essere niente, voleva certamente dire qualcosa. Ne ero certa: non erano parole che una persona disinteressata mi avrebbe mai rivolto.
«Sei solo innamorata». Sminuì il tutto Davide e inizialmente non badai molto a quella affermazione, ma poi l’analizzai con attenzione e ci ricavai un indizio importante. «Stai parlando con cognizione di causa». Lo accusai, prima che suonasse la campanella e tutti i nostri compagni si riversassero nell’aula come una mandria di buoi, mandando in fumo i miei propositi.
Davide sembrò leggermente in imbarazzo – cosa assolutamente fuori dal normale – e ovviamente approfittò della situazione per non rispondere.
«Non credere che finisca qui». Lo minacciai tirando fuori i libri, mentre nella mia testa si affollavano migliaia di pensieri su come poterlo costringere a vuotare il sacco.
Se c’era una cosa che avevo capito in quei tre mesi di scuola, questa era che Davide era una persona fondamentalmente molto riservata. Aiutava sempre gli altri, se poteva, ma non parlava mai di se stesso, non cercava mai aiuto.
L’unica persona con cui questo suo lato caratteriale veniva meno era proprio Lorenzo.
Da quel poco che li avevo sentiti dirsi mi erano subito sembrati molto uniti: era stata una sensazione particolare, a pelle, diversa da tutte le altre, come se a legarli ci fosse qualcosa di invisibile che solo loro erano in grado di comprendere. E io non avevo la minima intenzione di intromettermi in quel rapporto così intenso, fatto più di sguardi che di parole, di un qualcosa che ancora io non avevo trovato per me.




Dopo il tentativo fallito dell'ultima volta in biblioteca, ci accordammo per vederci direttamente a casa sua, così da evitare interruzioni e sbraitamenti di vecchie bibliotecarie zitelle. Ovviamente queste furono le parole di Lorenzo, io ancora mi vergognavo a morte se ripensavo a quella pessima figuraccia del giorno prima. Meglio rimuovere quel pomeriggio….tranne la parte finale, ovvio, quella era stata fin troppo perfetta.
Alle 5 del pomeriggio, il cellulare squillò annunciandomi che era tornato dalle gare di karate; indossai velocemente un jeans e una maglietta, da sostituire a quell'orrenda tuta che portavo sempre in casa, ed uscii di casa sempre con lo stesso insistente martellamento del cuore.
Sarei mai riuscita a vederlo senza provare nemmeno un pizzico di paura?
Bussai alla porta un paio di volte prima che mi venisse ad aprire e quando me lo trovai davanti mi sentii quasi male: i capelli biondi e spettinati erano leggermente bagnati, le labbra tirate in una linea sottile e gli occhi...be', quelli erano sempre il colpo di grazia. Indossava solo una canottiera sopra a un pantalone nero della tuta e mi meravigliai nel realizzare che trovavo perfetti anche quelli addosso a lui...io che non li sopportavo,
Ormai dovevo esserci abituata, eppure ogni volta mi sorprendeva...era come se non riuscissi a capacitarmi dell'esistenza di un ragazzo così fisicamente perfetto.
«Ehi». Mi salutò riportandomi alla realtà. Fosse stato per me, sarei rimasta lì a contemplarlo all'infinito.
«Ciao». Risposi distogliendo lo sguardo un po' in imbarazzo. Mi aveva sicuramente colta a fargli la radiografia completa. 
Lore sorrise e si spostò di lato per farmi passare. «Ti decidi ad entrare o vuoi studiare qui nelle scale?».
Lo guardai male e lo superai, dopodiché sentii richiudere la porta alle mie spalle.
«Come sono andate le gare?». Gli chiesi per rompere il silenzio, una volta giunti in cucina e sistemati i vari libri sul tavolo.
Lui mi guardò un attimo confuso, come per chiedersi il motivo di quella domanda così improvvisa e assolutamente non disinteressata, poi mi diede le spalle e prese due bicchieri.  «Bene, come sempre». Aprì il frigorifero e prese una bottiglia di succo all'arancia. «Vuoi?». Mi chiese mostrandomela. Annuii e, non senza chiedermi il perché di tanta gentilezza, risposi: «Sì, grazie».
Mentre versava il liquido nei bicchieri non potei fare a meno di pensare che fosse strano quel giorno, più distaccato e poco propenso al dialogo. Normalmente avrebbe già cominciato con le sue battutine maliziose, e invece, in quel momento sembrava con la testa da un'altra parte. Che fosse successo qualcosa alle gare?
Lore si sedette stancamente e, dopo aver sorseggiato la sua bevanda, finalmente sollevò lo sguardo su di me. «Allora, oggi cosa vuoi fare?».
«Credo sia il caso di iniziare con diritto...». Risposi titubante. Lui annuì brevemente e prese il libro, aprendolo alla pagina in cui eravamo rimasti. «Ti ricordi quello che abbiamo studiato l'altra volta?». Domandò, più per curiosità che per sfiducia.
Con una certa soddisfazione, piegai le labbra in un sorriso affermativo. «Certo».
«Bene, allora andiamo avanti con le cause della nullità dei contratti».
«Non mi fai domande per vedere se ti ho detto la verità?». Chiesi confusa dalla sua fretta di andare avanti.
Lore puntò lo sguardo su di me e con ovvietà disse: «Andiamo, è di te che stiamo parlando...ovvio che tu abbia studiato». Si interruppe e sorrise più apertamente. «A meno che tu non voglia sentirmi perdere in elogi per te».
Arrossii dall'imbarazzo e scossi la testa. «Muoviamoci».
 
Era trascorsa appena mezz'ora quando il mio insegnante cominciò a tempestarmi di domande sull'argomento appena spiegato. Per l'ennesima volta mi sentii rimproverare del fatto che studiassi a memoria e per l'altrettanto ennesima volta mi difesi dicendo che alcune materie potevano essere studiate solo a memoria. Continuammo a battibeccare un po', finché Lorenzo non si stancò. «Mettiamola così. Quanto studi per italiano?».
Ci misi qualche istante di troppo per rispondere, troppo impegnata a chiedermi il perché di quella domanda. «Poco».
Lui annuì soddisfatto. «E per le altre materie? Diritto, per esempio».
«A volte anche pomeriggi interi». Ammisi cominciando a capire dove volesse arrivare.
«Visto? Studi a memoria solo le materie che non ti piacciono».
Provai a ribattere, ma non ci riuscii. «Mi stai dicendo che devo farmele piacere, tra le righe?».
Lore richiuse il libro soddisfatto. «Esatto».
«Impossibile, diritto è una materia odiosa».
«Interessante». Mi corresse lui puntigliosamente.
Incrociai le braccia al petto e lo guardai storto. «Abbiamo davvero intenzione di stare qui a discutere di cosa è noioso e cosa non lo è? Ognuno ha i suoi gusti».
Lore alzò le braccia arrendendosi. «Sì, signora». Proprio in quel momento il suo cellulare, inseparabilmente posato sul tavolo, ad un centimetro da lui, vibrò facendo tremare tutto. Entrambi guardammo d'istinto il telefono e, dopo aver visto il nome lampeggiare sullo schermo,  si alzò in piedi. «Scusa, devo rispondere».
Per quanto fosse lontano da me, ero riuscita a leggere chiaramente il nome in questione, e un irreprimibile moto di gelosia mi attraversò da testa a piedi, annidandosi all'altezza stomaco.
Bambolina.
A parte la ridicolezza di quel nomignolo, sdolcinato e inusuale per uno come Lorenzo, era chiaro che fosse una delle ragazze con cui si intratteneva piacevolmente nel tempo libero.
Rimasi a picchiettare nervosamente le dita sulla superficie del tavolo per un tempo indefinito, dopodiché, senza volerlo - o forse sì? -, complice un silenzio assoluto, riuscii a captare alcuni sprazzi della conversazione.
«No, Laura, sabato non posso...te l'ho detto ho un impegno». Una pausa, in cui Laura probabilmente rispose e poi ancora la sua voce, questa volta più scocciata e infastidita.
«Non cominciare anche tu con la storia della fedeltà e stronzate varie, perché le cose erano chiarissime fin dall'inizio: solo sesso. Conosci il significato della parola o te lo devo spiegare?».
Perfetto, un'altra ragazza caduta nella trappola del ragazzo bello e stronzo da cui non si poteva ricavare niente di serio.
Illusa. Esattamente come lo ero stata io...
Sentii la rabbia salire e poi un'ultima frase conclusiva. «Mi dispiace, non son sono in cerca di storie serie».
Rimasi impietrita a quelle parole.
Niente storie serie, ok, non era una novità, no? Accidenti, quel suo discorso, il pomeriggio prima, mi aveva irrimediabilmente deviata.
Qualche secondo dopo rientrò in cucina, un po' turbato a dire il vero, dopodiché mi guardò freddamente. «Hai sentito». Sentenziò, come se fosse ovvio.
Ma mi si leggeva tutto così lucidamente in faccia? Forse avrei dovuto cambiarmela.
Era inutile mentire. «Non era mia intenzione». Mi giustificai senza troppa convinzione.
Lui rimase con lo sguardo incollato al mio per quello che mi parve un tempo interminabile, durante il quale temetti di poter affogare nei suoi occhi. Se dovesse succedere, vi prego di non salvarmi, pensai ipnotizzata.
 «Non l'avevo illusa io, ha fatto tutto lei».
Mi riscossi con un'alzata di spalle. «Non devi darmi spiegazioni».
«E allora, se le cose stanno davvero così, se non te ne frega nulla, non guardarmi come se ti avessi fatto il più grande dei torti, per favore».
Era quello ciò che aveva visto?
«Non l'hai fatto, per caso?». Ribattei acida, per ricordargli che di torti me ne aveva fatti eccome, uno più grave dell'altro. 
«Sì, ma non è a quello che mi riferivo, lo sai». Fece una lunga pausa, che io interruppi bruscamente.
«Risparmiati queste cavolate delle sei meno un quarto del pomeriggio»
Lore sembrò colto da un'illuminazione improvvisa. «Non puoi pensare davvero che sia lo stesso. Con te è stato diverso, di loro non me ne è mai fregato niente».
«Ah, sì?». Alzai leggermente il tono di voce. «Hai una bella faccia tosta ad affermare una cosa del genere, dopo tutto quello che mi hai fatto passare. Se a me ci tenevi e mi hai trattata in quel modo, non oso immaginare cosa hanno dovuto subire quelle poveracce di cui non ti importa nulla». 
«Giorgia...». Provò a calmarmi, ma di quel discorso ne avevo già abbastanza.
«Possiamo studiare?».
«No».
«Lasciamo da parte rancori, passato e blablabla, ricordi?».
Lore schiuse la bocca per parlare, ma proprio quando sembrò sul punto di cambiare idea, chiusi libri e quaderni con una rabbia forse spropositata, quasi improvvisa e non accumulata. «Anzi, meglio terminare per oggi».
Ero così furiosa, che non avrei sopportato un secondo di più in sua compagnia senza scoppiare; in quale modo ancora non lo sapevo, e questo era il problema maggiore.
Lorenzo era imprevedibile e per me, che ero stata sempre una maniaca del controllo, costituiva un grosso limite. Un limite che non sarei mai stata in grado di superare.
Per la ventesima volta in sole due giornate di studio afferrai la borsa e feci per uscire dalla camera senza dargli alcuna spiegazione. In fondo era quello che aveva sempre fatto lui, no? Nessuna spiegazione, solo gesti sconnessi, insensati, senza nessuna ragione di esistere.
«No». Mi fermò, con voce decisa e perentoria. Non suonò come una supplica, a dire il vero, più come un ordine incontrollato.
E come se mi controllasse con dei fili invisibili, mi bloccai incapace di muovermi; rassegnata. 
«Rimani...». Aggiunse con lo stesso tono secco e lo sentii avvicinarsi con pochi passi. Ero ancora di spalle quando sentii le sue mani intrecciarsi saldamente sulla mia pancia, e automaticamente il mio cuore fece un salto di 50 metri. Dritto fino in gola, come il suo profumo...ormai quanto di più lontano potesse esserci da un semplice ricordo. Era reale, non era un sogno. «Per favore».
«Non puoi chiedermelo sul serio». Commentai con stizza - nascosta un po' da una falsa ironia - pur non riuscendo ad allontanarlo.
«Invece sì». Insisté lui, stringendomi ancora di più. Eravamo uno contro l’altro e non solo fisicamente, per una volta potevo dire che non c'erano barriere tra di noi.
La realizzazione fu immediata. Che il suo scudo avesse perso definitivamente efficacia?
«Giorgia, io non voglio più giocare, non se so di aver perso la partita in partenza». Sentii il suo mento appoggiarsi delicatamente sulla mia spalla, le sue mani risalire fin sotto al seno e il suo respiro più accelerato che mai. Sussultai inevitabilmente, era troppo tempo che non mi toccava in quel modo.
«La vita non è un gioco, Lore». Dissi scettica. Non capivo dove volesse andare a parare, ma non volevo neanche provarci, sinceramente.
Ero troppo stanca. Stanca e delusa da lui.
«Se non è un gioco cos'è, allora?». Chiese con una vena di tormento, un'impercettibile incrinatura nella voce che mi diede i brividi. «Perché siamo qui a discutere quando avresti potuto essere mia?».
Feci per voltarmi, ma ero in trappola. Complici la porta e la sua forza.
«Non...». Feci in tempo a dire una singola parola, tre misere lettere accozzate insieme, senza più alcun significato, perché il resto del mio pensiero venne soffocato dalle sue labbra; inghiottito completamente dalla pazzia. Perché era pura follia quella. Mi aveva voltato il viso con una mano, portandolo esattamente nella sua direzione, alla sua altezza e sentire le sue labbra indugiare sulle mie dopo tutto quel tempo fu come trovare una parte di me stessa che avevo lasciato andare.
Non mi aveva mai baciata in quel modo, era come se fino a quel momento fosse stato trattenuto, bloccato...spaventato da qualcosa. Ero sempre più sicura che il giorno prima si fosse spezzato qualcosa in lui, perché lì, in quel momento, non poteva altro che  essere  se stesso. Aveva lasciato andare tutto. Lo sentivo dalla leggera pressione delle sue mani, dalla disperazione delle sue labbra, in ogni singolo angolo della sua pelle.
Non fu comunque un bacio passionale, come uno di quelli che ci eravamo scambiati abusivamente nelle varie aule vuote della scuola, tutt'altro.  Ma era come se i  sentimenti che provavo per lui fossero lì, davanti a me, bisognosi di rivelarsi e di trovare corrispondenza. E per una volta li sentii davvero corrisposti, dal primo all'ultimo.
C'era tristezza.
C'era tormento.
C'era pentimento.
C'era...amore.
 
La prima cosa che vidi quando riaprii gli occhi fu un azzurro vivido. Acceso. Quello del suo sguardo.
Le sue mani mi incorniciavano il viso, le sue dita asciugavano quelle stupide lacrime sfuggite al mio controllo. 
«Cosa vuol dire tutto questo?». Chiesi confusa, il suo sapore mi stava ancora stordendo e la sua bocca era ancora troppo vicina.
«Tu cos'hai sentito?».
La sua domanda mi spiazzò. Che non fosse stata una mera sensazione quella di poco prima? Anche lui aveva sentito quello?
Balbettai confusa, abbassando ripetutamente lo sguardo.
Non potevo dirgli la verità. Se mi fossi sbagliata?
«Probabilmente solo quello che avrei voluto sentire».
Ero io la stronza in quella situazione, ma non me ne importava. Era il suo turno di soffrire.
Lui scosse la testa, lasciandomi andare, ma senza allontanarsi troppo. «Fantastico, siamo arrivati al punto in cui hai paura di me?».
«Non è di te che ho paura, ma di quello che provo». Sussurrai sincera. Ormai anche un cieco si sarebbe accorto di quello che provavo per lui, era inutile girarci intorno.
Non disse nulla per almeno 60 giri di lancette di orologio, li contai perché quel silenzio mi stava uccidendo.
E alla fine mi uccise davvero.
«E se ti dicessi che non devi averne più?».
 
 
Sgranai gli occhi incredula.
«Aspetta, aspetta...non dire nulla». Mi posò un dito sulle labbra, un secondo prima che le schiudessi per parlare. «Ti posso assicurare che hai capito perfettamente, ma non voglio nessuna risposta».
Indietreggiò ancora di qualche passo, lasciandomi finalmente lo spazio per pensare a quello che stava succedendo.
Mi aveva davvero detto tra le righe che quello che provavo per lui non era una cosa a  senso unico?
Ma soprattutto, gli stavo davvero credendo?
«Un passo alla volta, non c'è fretta». Accennò un sorriso timoroso, che mi causò una strana stretta al cuore. «Ricominciamo dall'inizio».
«Se è uno scherzo, non fa ridere». Asserii sempre più convinta di quella ipotesi, fino a quel momento custodita gelosamente nella mia testa. 
Lore allargò il sorriso. «Ascolta, so che non hai nessun motivo per fidarti di me, ma dammi una possibilità. Posso far funzionare tutto, lo so».
«Perché così all'improvviso?».
«Perché se dopo tutti questi anni non sono riuscito a cancellarti dalla mente, non vedo come potrei riuscirci per il resto della mia vita».
Aggrottai le sopracciglia perplessa.
«Ti spiegherò tutto, te lo prometto, ma non adesso». Fece una pausa. «Non qui».
Sospirai incerta. Leggevo speranza nei suoi occhi, era impossibile non vederla. Ma potevo davvero sopportare di vederla infrangere? Di farla scomparire...
«Sono confusa...». Mormorai raccogliendo la borsa caduta a terra dall'adrenalina pre-durante-post bacio. «Molto».
Lui annuì. «E ti capisco, completamente, hai il diritto di prenderti tutto il tempo che vuoi. Non dovrai fare assolutamente niente, tu».
«Non mi stai prendendo in giro, vero? Perché se così fosse…». Domandai prevenuta, ma lui precedette il resto della mia frase.
«Io sono quello che vedi, Giorgia...». Si passò una mano tra i capelli, le labbra ancora rosse e umide a causa dei baci e dei morsi. «Sul fatto che non sarò mai uno di quei principi azzurri delle fiabe non mentivo».
Sollevai le spalle, per niente sorpresa. «Ho smesso di credere alle fiabe anni fa, quando scoprii che la storia di Cenerentola non era così bella come pensavo e feci una mia personalissima teoria a riguardo».
Lore ridacchiò. «Me la racconterai un giorno, questa teoria?».
Non riuscii a trattenere un sorriso. Ancora prima di sentirlo, mi piegò gli angoli della bocca. «Se ne hai voglia...».
«Ho un sacco di  tempo da recuperare». Disse piano, nostalgico, ma comunque deciso.
«Non te ne sei dimenticato, vero?». Chiesi in un moto di fiducia sconsiderato, forse.
Lui capì subito la mia domanda. «Della promessa…?».
Annuii debolmente.
Lore mi guardò serio, con una determinazione mai vista prima e una sincerità ancora più disarmante. «Mai, neanche per un secondo».
E a quella risposta avrei potuto aggiungere altro?
Lo amavo. Punto.




Note:

Scusate tanto l'eccessivo ritardo, questa volta vi ho fatto aspettare davvero troppo.  Il motivo principale è stato, come sempre, la scuola (quanto la odio!) ma non nego che con questo capitolo ho cercato di raggiungere il massimo; perciò la scrittura è stata più lenta e ho modificato più e più volte diverse parti...alcune completamente! Alla fine sono abbastanza soddisfatta del risultato e spero di essere riuscita nel mio pazzo intento. Mi auguro davvero che vi sia piaciuto leggerlo almeno un decimo di quanto è piaciuto a me scriverlo :)


Riguardo alla storia, già il titolo dice tutto: da questo punto in poi le cose si fanno serie, cambieranno radicalmente e ci avvieremo alla parte finale della storia. Era proprio qui che volevo arrivare e per questo sto saltellando dalla gioia per tutta la casa (metaforicamente XD).  Un capitolo completamente incentrato su Lorenzo e Giorgia; certo, non è quello che si definisce zuccheroso o dolce - e non credo di arrivare mai a scrivere qualcosa di veramente smielato su di loro - ma si sono dette tante cose importanti e la verità è ormai sul punto di esser rivelata :)


Ringrazio tutti quelli che hanno recensito il capitolo precedente, quelli che hanno aggiunto la storia alle seguite - siete tantissimi! -, ricordate e preferite.
Questi numeri per me sono un grande traguardo e, comunque vada alla fine, sono contentissima di averlo raggiunto.


Mi scuso per le recensioni, ma proprio non ce l'ho fatta e non credo di farcela a rispondere nell'immediato.
Spero di non fare un torto a nessuno :(
Vi ringrazio comunque per tutte le belle cose che scrivete, adoro leggervi, probabilmente più di quanto voi adorate leggere la mia storia...XD

Ok, mi sto dilungando troppo. Vi mando un grosso bacio e un invito alla prossima!

Veronica

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Capitolo 14
*** Alle sei all'angolo. ***


Capitolo 14

Capitolo 13:  Alle sei all'angolo

L'indomani arrivai a scuola in preda - contemporaneamente - al panico assoluto e ad una felicità praticamente impossibile da controllare.
Due emozioni totalmente opposte, ma allo stesso tempo inevitabili quando la loro fonte altri non era che lui. L'unico in grado di farmi sentire la ragazza più sbagliata di questo mondo e dopo neanche un secondo l'unica degna di stargli accanto. Contrasti e opposti, niente uniformità o tinte unite, era questa la vita con Lorenzo, non c'era né bianco né nero, ed io lo sapevo bene.
La paura era dovuta al fatto che non avevo la più pallida idea di cosa aspettarmi da lui - la sera prima non aveva accennato al solito "facciamo finta di non conoscerci, comportiamoci come abbiamo sempre fatto", ma si era svolto tutto così all'improvviso e velocemente che probabilmente se n'era semplicemente dimenticato - certo, se davvero voleva riiniziare da capo come aveva detto, il frequentarci anche a scuola, davanti agli occhi di tutti, sarebbe stato un buon inizio; ma neanche io volevo mettergli fretta, perciò avrei rispettato i suoi tempi con molta pazienza se me lo avesse chiesto.
La felicità, invece, be' quella era logica, no? Dopo anni e anni passati a rincorrerlo, finalmente ero riuscita - se non a raggiungerlo - quantomeno ad avvicinarlo, sembrava tutto così surreale, impossibile; eppure la promessa che mi aveva fatto non me l'ero semplicemente immaginata.
«Buongiorno, Miss sono-più-felice-di-una-Pasqua». Apparve all'improvviso come sempre, il caro Davide, lanciando senza alcun riguardo lo zaino a terra e piazzandomisi davanti con sguardo eloquente. «Le vostre facce sembrano fatte con lo stampino, perciò se non mi racconti tutto entro tre secondi ti...».
«...ti faccio finire in infermeria col naso rotto». Lo interruppe l'altro soggetto della discussione con tutta la sua finezza - annunciando il suo arrivo - e percepii chiaramente il mio stupidissimo cuore perdere un battito, o due -  che importava?!
Non ebbi il coraggio di guardarlo, rimasi con gli occhi fissi sul banco e le dita occupate a torturarsi.
«Fatti i cazzi tuoi, Dà». Lo sentii aggiungere, per poi allontanarsi velocemente.
«Certo che siete proprio strani voi due». Brontolò Davide riavvicinandosi, quando mi voltai verso di lui vidi che Lore stava parlando allegramente con Lonta, Curcio e qualche altro ragazzo non ben identificato.
Possibile che quel giorno mi sembrasse ancora più bello? Sorridente e...bello.
Scossi la testa dandomi della sciocca. No, forse ero solo io ad essermi innamorata ancora di più. 
«Dio, amica mia! Dovresti guardarti in faccia...». La sua voce divertita attirò la mia attenzione. «Si nota tanto?». Chiesi mordendomi un labbro, con tanto di preoccupazione annessa. Non volevo fare la figura della ragazzina pateticamente innamorata dello stronzo di turno. Ma stronzo...lo era davvero?
Davide fece finta di pensarci, ma la sua risposta arrivò poco dopo, chiaro segno che ce l'aveva già pronta. «Considerando che non mi hai ancora salutato - tu che ti arrabbi quando ti saluto con un secondo di ritardo -, che da quando è entrato non fai altro che evitare il suo sguardo per chissà quale motivo e che nonostante questo ora stai morendo dalla voglia di guardarlo...direi proprio di sì».
«Oh merda». Fu il mio unico commento, prima che rifugiassi la testa sul banco, tra le braccia.
Davide ridacchiò dandomi delle amorevoli pacche sulla schiena. «Sì, "oh merda" è proprio il termine giusto».
Rimasi in quella posizione per un po', a mugugnare frasi senza senso, finché non mi decisi. «E lui com'è? Come ti sembra?».
Dav mi guardò spaventato per quella mia domanda improvvisa, dopodiché spostò lo sguardo verso Lorenzo, sguardo che io mi premurai di non seguire. «Lui è certamente più bravo di te a nascondersi, ma conoscendolo direi che non sta messo molto meglio».
Sospirai giocando nervosamente con una ciocca di capelli. Ecco la nuova vittima della mia ansia. «Non so che fare, come comportarmi...». Mi lamentai lanciando una brevissima occhiata in sua direzione. Proprio in quel momento - come se avesse una qualche specie di sentore - lui sollevò gli occhi dal cellulare e li puntò dritti a me, accompagnando il tutto con un mezzo sorriso da collasso istantaneo, che nessuno dei suoi amici sembrò notare.
Avvampai e mi riconcentrai sul mio amico, che stava parlando senza che lo ascoltassi. «Ehm, scusa, mi ero distratta. Dicevi?». Chiesi colpevole.
Davide sbuffò, ma non sembrava arrabbiato, forse comprensivo. «Dicevo...». Calcò su quella parola più del dovuto. «...che se magari mi spiegassi quello che è successo potrei darti qualche consiglio».
«Ah, non te l'ho ancora detto?».
Davide sgranò gli occhi, esasperato, ma non aggiunse altro: toccava a me parlare.

Sebbene la campana fosse suonata da un pezzo e l’insegnante fosse già bello che sistemato davanti a noi, il mio amico non si risparmiò di darmi la sua personalissima opinione su tutta la situazione.
«Certo, se ti parlasse all’improvviso sarebbe un bel colpo per i suoi amici». Si bloccò pensieroso. «Io l’avrei già fatto, ma lui è lui ed ha delle regole tutte precise e personali da rispettare prima di fare qualcosa…».
Annuii amareggiata e sbirciai di riflesso alla mia destra, solo con la coda dell’occhio, e questa volta trovai lui a fissare me. Curcio, al suo fianco, dormiva. Notai che Lore, invece, aveva l’astuccio davanti, con il suo telefono dentro, e lui lo stava ignorando per fissare me. Be’, me l’aveva detto che ogni tanto lo faceva – con discrezione – ma accertarmene era un altro conto.
Mi fece l’occhiolino ed io arrossii prontamente, rigirandomi verso la cattedra e cercando di riconcentrarmi sulla lezione. Il professore mi ammonì con lo sguardo, facendomi imbarazzare più di quanto non fossi già e poi lo spostò su Lore.
«Belli». Chiamò poi, con voce accusatoria.
Ti prego, fa che non gli dica nulla in proposito, nulla, nulla…
«Che ne dici di alzarti ancora un po’ la media con una bella interrogazione?».
Tirai un sospiro di sollievo, ma a giudicare dallo sbuffo che lasciò Lore prima di alzarsi, capii che per lui invece era una seccatura.
Be’, come biasimarlo? Nessuno era contento di essere l’interrogato di turno, nemmeno nella materia in cui era più forte…in questo caso – nel suo caso –  diritto.
«Sei pronto?». Bisbigliai quando mi passò accanto, facendo attenzione a non farmi sentire da nessuno, a parte Davide ovviamente. Lui gettò uno sguardo veloce su di me, uno sul mio compagno di banco, e poi sorrise facendo cenno di sì con la testa.
«Mori, vuoi fargli compagnia?». Aggiunse quindi il Bertocchi, facendomi imprecare mentalmente per la sua stronzaggine.
Brutto frustato che non era altro, ce la stava facendo pagare per quel misero occhiolino privo di ogni significato possibile! Ok, forse non proprio insignificante, ma…
«Preferisci un impreparato?». Mi domandò con foga, aprendo il registro alla pagina dei voti.
Da quando era diventato così stronzo?
Mi sollevai dalla sedia con stizza, tra i risolini divertiti della classe e lo raggiunsi, cercando comunque di mantenere le distanze che in circostanze comuni avremmo tenuto.
Non volevo metterlo in difficoltà con i suoi amici, dovevamo prima parlarne di persona, ma lui sorprendentemente mi afferrò per un braccio – senza farsi vedere dal Bertocchi – e mi avvicinò.
Di riflesso guardai la reazione della classe, ma nessuno parve essersene accorto, men che meno Lonta, che stava stressando la sua compagna di banco con chissà quali porcherie. Successivamente, incrociai nuovamente lo sguardo di Lore, nel quale lessi una silenziosa domanda, apprensiva. “Credi di potercela fare?”
Mi strinsi nelle spalle ed annuii debolmente.
Non era solo per me che dovevo andare bene, ma anche per lui e per dimostrare che con quello stupido progetto ce la stavamo mettendo tutta.

«Mori, sono impressionato». Commentò il professore al termine dell’interrogazione, guardandomi con ammirazione.
Cercai di sforzarmi di non girarmi verso di Lore, che mi stava accanto sfiorandomi – forse inavvertitamente – il braccio, e sorridergli apertamente. Lui era stato impeccabile, ovviamente, e se avevo fatto una bella figura anche io era stato solo merito suo.
«Vedo che vi state dando da fare con quel progetto». Proseguì con la medesima gioia. A momenti era più felice lui di me.
«Belli è un ottimo insegnante, è merito suo».
Il Bertocchi ci osservò entrambi curioso, dopodiché sorrise beffardo. «Be’, se questi sono i risultati continuate pure così». Scribacchiò un voto con decisione e mi riconsegnò il libretto dei voti con un sorriso umiliante.
Lo afferrai, a testa bassa, e mi sentii sprofondare dalla vergogna, mentre Lore ridacchiava divertito.
Quel ragazzo era incredibilmente sfacciato! Il nostro professore aveva fatto un’allusione neanche tanto velata sul nostro rapporto e lui rideva tranquillamente, come se ciò fosse una cosa normale.
Neanche controllai il voto, tornai a sedermene desiderando solo di scomparire da quell’aula.
Per fortuna la classe era nello stato di confusione totale tipico del cambio dell’ora, perciò non avevano prestato attenzione a quello scambio di battute, altrimenti avrebbero dato il via alle battutine e chi li avrebbe più fermati? Forse Lore, che li avrebbe fatti passare per degli svitati a pensare che lui potesse aver qualcosa a che fare con la sottoscritta.
Mi riscossi e Lore mi raggiunse poco dopo, incurante del fatto che non mi si era mai avvicinato così tanto se non per sfottermi, incurante di tutto.
Non capivo dove volesse arrivare. Voleva farsi scoprire? Oppure si comportava così perché sapeva che nessuno lo stava guardando?
Sollevai lo sguardo chiedendo aiuto a Davide, ma lui si defilò con una scusa chiaramente imbastita sul momento.
«Grazie». Borbottai un po’ scontrosa. Più che altro perché avrei voluto sapere le sue intenzioni, altrimenti sarei impazzita nel continuare a chiedermi cosa fare senza ricevere alcuna risposta.
Dovevamo parlare al più presto, ma quello non era il momento…e quando lo sarebbe stato?
Lui mi guardò perplesso e fece per dire qualcosa, ma proprio in quel momento quelli che erano usciti fuori rientrarono di corsa, seguiti dalla voce squillante ed irritata della Zanna, che si richiuse la porta alle spalle con un pesantissimo tonfo.
«Ne parliamo dopo». Soffiò Lore a bassissima voce, tornando a sedersi con una strana inquietudine in volto, quella che dalle otto di quella mattina non lo aveva sfiorato neanche per sbaglio.
«Quante volte vi devo dire che dovete aspettare in classe?».
Ecco, al mio nervosismo mancavano solo gli scleri della Zanna: il quadro era completo.

L’intervallo suonò esattamente due ore dopo e la classe si svuotò in brevissimo tempo, eccezion fatta per me, Davide, Lore e i suoi due inseparabili amici.
«Ehi, Lore, non vieni?». Tuonò la voce di Curcio, ormai nei pressi della porta. Lonta era al suo fianco, pronto ad uscire, mentre Lore doveva essere ancora seduto al suo posto. Probabilmente aspettava di restare solo con me.
Ci fu un attimo di silenzio, persino io e Davide smettemmo di parlare in attesa della sua risposta e alla fine…
«Arrivo».
Provai un pizzico di delusione, giusto un po’ perché mi aspettavo rimanesse.
Si sentì il rumore di una sedia strusciare e poi una folata d’aria – permeata dal suo odore – mi raggiunse in pieno viso. L’effetto fu immediato, mi paralizzai all’istante, e quando mi ripresi dal mio breve momento di incapacità mentale e fisica il terzetto aveva già abbandonato l’aula.
«Sei un caso disperato». Mormorò Davide, porgendomi un bigliettino ripiegato con cura.
Lo fissai scettica e lui mi indicò con la testa il punto in cui Lore era uscito. «Me l’ha fatto cadere in mano».
Afferrai il bigliettino titubante e lo aprii.
Ti aspetto nel corridoio del Trash.
Aggrottai le sopracciglia ancora più confusa e mi rivolsi al mio amico. «Cosa vuol dire secondo te?».
Lui sbuffò esasperato e mi sollevò per un braccio. «Vuol dire che devi alzare il tuo bellissimo sederino e raggiungerlo».
Feci per ribattere, ma lui mi spinse fuori dalla porta senza ammettere repliche. «Muoviti!».
Lo guardai in cerca di coraggio, quello che nell’ambiente scolastico mi mancava più di tutto, e, trovandolo, mi diressi a passo spedito verso il punto indicato.
Avevo il cuore a mille e continuavo a chiedermi come avrebbe fatto a liberarsi dei suoi tirapiedi e, anche in quel caso, come si sarebbe comportato se ci avessero visti insieme. Avrebbe trovato una scusa? Oppure avrebbe detto loro che mi stava importunando? Magari gli avrebbero dato man forte e…
I pensieri mi si bloccarono all’istante, senza rendermene conto ero arrivata nel corridoio deserto del Trash, e qualcuno mi aveva stretto una mano davanti alla bocca per impedirmi di urlare.
Impossibile non riconoscerne il calore, o la forma. Sorrisi.
Smisi immediatamente di fare resistenza e mi lasciai trascinare dentro senza alcuna fatica.
Quella situazione l’avevo già vissuta, in un certo senso, ma mentre le altre volte il cuore mi batteva dall’ansia, quella volta era solo mosso dalla felicità.
Solo quando avvertii la puzza nauseante del Trash giungere al mio naso mi resi conto che mi aveva liberata.
«Ti piace proprio questo posto». Dissi storcendo il naso, ma non ebbi il coraggio di guardarlo in faccia. Avevo paura di trovarci qualcosa di negativo.
«Al contrario, mi fa proprio schifo». Sentii i suoi passi calpestare quelle mille schifezze sul pavimento e poi il cigolio del tavolino di legno, lo stesso su cui mi ero rifugiata dal topo.
Mi sfuggì un sorriso.
Presi un profondo respiro e mi costrinsi a muovere lo sguardo su di lui.
Era di nuovo sereno. Il cuore mi saltò nel petto con una rinnovata violenza e poi tornò al suo posto.
«Dove sono…?». Cominciai a chiedere, ma lui liquidò la mia domanda con un gesto della mano.
«Non ha importanza». Per un secondo mi sembrò leggermente infastidito, ma un leggero sorriso gli increspò nuovamente le labbra. «Hai intenzione di stare lì a fissarmi all’infinito? Non mordo».
Accolsi il suo invito e mi avvicinai più tranquilla, pur non sedendomi accanto a lui, per chissà quale recondita paura che mi attanagliava.
 Non ebbi il tempo di arrivare al nocciolo della questione, a chiedergli del perché ci trovassimo lì, perché ci pensò lui a ridurre le distanze: con un’abile mossa mi prese dolcemente per la vita e mi sistemò al suo fianco.
Un passo per volta, mi ripetei, prima che potessi chiedermi il perché non avesse scelto le sue gambe come sistemazione.
«Allora…». Iniziò con voce piatta. «Perché fai così?».
L’azzurro dei suoi occhi mi colpì con la potenza di uno schiaffo in faccia.
«Così come?». Domandai con un filo di voce.
«Mi stai evitando da stamattina».
«Non ti sto evitando!» sbottai incredula, poi cominciai a balbettare in cerca delle parole giuste. «Ecco…io credevo che…che tu non…».
Lore scoppiò a ridere interrompendo il mio misero tentativo di parlare.
Lo fulminai all’istante e lui si mise una mano davanti alla bocca. Mi piaceva vederlo ridere, ma non potevo dire altrettanto dell’essere presa in giro.
«Dai, smettila di imbarazzarti per niente, ti metto così tanto in soggezione?».
Scossi la testa.
«No, quello che volevo dire è che…credevo che tu volessi tenerlo nascosto. Non ne abbiamo parlato ieri e io non volevo metterti in difficoltà con i tuoi amici».
Riabbassai lo sguardo e lui cominciò a giocare con le mie dita, forse neanche di proposito. Si lasciò scappare un risolino.
«Anche io credevo la stessa cosa! Sei proprio incredibile a chiederti se a me vada bene, sai? Sei tu quella che deve decidere. Insomma, mi hai visto? Che reputazione ti faresti se si venisse a sapere che frequenti uno come me? Uno che ha sempre ragazze diverse e tradisce senza pensarci due volte, ti crederebbero cornuta».
«E tu credi che a me importi del giudizio della gente dopo tutte le prese in giro che ho ricevuto in questi anni?».
«Quindi tu vuoi?». Mi chiese a bruciapelo, spingendomi a riportare gli occhi nei suoi. «Che gli altri lo sappiano». Specificò, vedendo la mia espressione confusa.
Feci spallucce. «Non è per me che cambierebbero le cose».
Lo guardai timidamente, non sapendo cosa aspettarmi come risposta, probabilmente avrebbe detto che gli serviva tempo e a me non dispiaceva più di tanto, però…
«Be’, allora non farti più problemi. Per me è ok».
Sgranai gli occhi. «Dici sul serio?». Chiesi con voce strozzata.
Lui non rispose, si limitò a sorridermi.
Il mondo si era fermato. Da qualunque prospettiva la vedessi non ci potevo credere: niente più finzione.
«Il che significa niente più prese in giro davanti agli altri…?».
Lui scosse la testa.
«E niente discorsi su quanto siano fighe le ragazze che ti sei portato a letto?»
Lo vidi chiaramente cercare di trattenere un sorriso, ma con scarsi risultati. «Assolutamente».  Poi, improvvisamente conscio di qualcosa, aggiunse: «Hai usato solo il passato ».
«Non dovevo? Credevo che…».
«Sei una paranoica assurda, Giò. Sono stato chiaro ieri, no? Ci voglio provare sul serio ».
«E perciò possiamo dire a tutti di essere amici?».
Il suo immediato silenzio e la sua espressione improvvisamente seria mi fecero temere di aver osato troppo, in fondo le prime due condizioni erano sufficienti…un passo per volta.
Feci per aggiungere qualcos’altro in proposito, per cancellare quel vuoto di parole, ma fui distratta dal suo viso, ora incredibilmente vicino al mio.
«Odio le presentazioni ufficiali, ma possiamo semplicemente comportarci con naturalezza, come faremmo fuori di qui. E se qualcuno fa domande che meritano risposta, allora gli spieghiamo come stanno le cose».
«Mi sembra giusto».
Una strana luce passò negli occhi di Lore. «Un momento…hai detto davvero amici?».
Abbassai lo sguardo. Anche io avevo pensato che la parola amici non fosse la più adatta, ma di certo non potevo dire conoscenti, e neppure fidanzati. Approfittai della situazione e decisi di lasciare la palla in mano a lui. «Sì, perché? Hai una definizione migliore per due come noi?».
«Be’, dipende da che punto di vista la vedi».
Quando sollevai la testa per ascoltare la sua tesi lo trovai incredibilmente vicino, e la voglia di baciarlo – fino a quel momento sopita – esplose in me come una tempesta. Annullai la mente e distinsi solo qualche parola, pronunciata sulla mia bocca secca. «In genere gli amici non fanno questo…».
Poi mi baciò come se fosse la cosa più naturale e giusta di questo mondo.
E, di fatto, mentre le sue labbra sfioravano le mie in quello che si dimostrò – deludentemente – un castissimo bacio, non riuscii a pensarla diversamente.
Era tutto così vivido davanti ai miei occhi…e lui stava diventando la certezza di una vita, quella che avevo cercato a lungo, sapendo inconsciamente che un giorno l’avrei trovata.
Si staccò da me subito dopo, senza alcun ulteriore indugio, ed io mi ritrovai – sorprendentemente - a bramare un contatto più profondo; per questo quando avvertii nuovamente il calore del suo respiro e la sua bocca sempre più smaniosa di raggiungere la mia, fui io a trovarla per prima, legandogli le braccia intorno al collo e lasciandomi andare ad un bacio frenetico, dove le nostre lingue si cercarono a lungo e le nostre dita si intrecciarono per la prima, vera volta insieme ai nostri cuori.
Qualche minuto dopo ero miseramente sdraiata sul legno marcio del tavolino, con lui sopra di me. La situazione mi, ci, era sfuggita di mano e quello che doveva essere un semplice bacio per sugellare silenziosamente quella nuova ed elettrizzante relazione a cui avevamo dato inizio, si era trasformato in uno sfogo per i nostri ormoni.
Ecco cosa succedeva a stare troppo tempo lontana da lui!
Lore comunque si dimostrò molto cauto in quella situazione di smarrimento totale, in cui i nostri ansiti echeggiavano in quell’angusta stanza chiusa, non osò troppo, limitandosi a qualche dolce carezza che apprezzai immensamente.
La campanella fu l’unica in grado di porre fine a quella piacevolissima tortura, ma quello che mi piacque più di tutto fu il suo sorriso. Sembrava esserselo stampato permanentemente sulle labbra, esattamente come me.
Giocai con qualche ciocca dei suoi capelli per riprendere fiato, mi sentivo le guance calde, e il cuore partito per la tangente.
Lore mi diede un impercettibile bacio all’angolo della bocca e mi aiutò ad alzarmi. Solo in quel momento, guardandomi nello specchio rotto – una volta appartenuto al bagno delle ragazze –  mi resi pienamente conto delle pietose condizioni in cui ero. Avevo i capelli scompigliati, la maglia sollevata fin sotto al seno e le labbra rosse e gonfie.
«Sembra che hai visto un mostro». Intervenne divertito alle mie spalle e allora mi girai per dirgliene quattro.
«Certo, dici così perché tu sei perfetto come al solito…non hai neanche  un capello fuori posto». Mi morsi un labbro troppo tardi per quel complimento sfuggito al mio controllo, ormai il suo ego si sarebbe gonfiato più del professore di Informatica.
«Perfetto?». Ripeté, infatti, facendo finta di non aver capito.
Allungai le mani sul suo petto per spingerlo via, ma lui rimase immobile dov’era.
«Ridillo». Disse prendendomi le mani fredde nelle sue e facendo la faccia da cucciolo bastonato. Peccato che con me non attaccasse.
Roteai gli occhi incrociando le braccia. «Che bisogno c’è? Te lo avranno detto in mille prima di me, e anche tu sai benissimo di esserlo».
«Ma a me importa che me lo dica tu».
Ok, quella risposta non me l’aspettavo. Arrossii all’istante e trovai una via di fuga, raggiungendo la porta in un batter d’occhio. Non fece nulla per fermarmi, tuttavia mantenne il mio passo finché non arrivammo in classe.
La porta era chiusa.
Cazzo!
Gli lanciai un’occhiata eloquente. Ci mancavano solo i ritardi post-intervallo, perfetto.
Lui fece spallucce e provò a tranquillizzarmi a modo suo. «Capirai, sai quante volte m’è capitato».
Busso alla porta e non attese neanche l’avanti dell’insegnante, la spalancò e mi lasciò entrare per prima.
«Belli, Mori, siete in ritardo». Disse la professoressa guardandomi delusa. Abbassai lo sguardo di riflesso, tuttavia, non ebbi molto tempo per pentirmi e darmi della scema irresponsabile per aver rovinato la mia impeccabile condotta a causa di un ragazzo, perché i sussurri sorpresi della stragrande maggioranza della classe mi fecero rendere conto della vera cazzata che avevo – avevamo – appena fatto.
Eravamo entrati insieme.
Certo, sarebbe potuto essere un caso, eppure...a nessuno sembrò passargli per la mente, dato la miriade di insinuazioni che sentii fargli.
Che fosse a causa del mio aspetto sconvolto e felice?
Quando Lore mi passò accanto, non ebbi il coraggio di guardarlo. È vero che avevamo deciso di dirlo a tutti, ma…non in quel modo. Avrebbe dovuto avere la possibilità di parlargliene con calma, per poter capire.
Scossi la testa ed udii un bisbiglio incredulo di quello che doveva essere Curcio. «Lore, che hai combinato?». Il suo tono mi sembrò vanamente speranzoso, come se volesse pensare a tutti i costi che mi avesse fatto qualcosa di male, sebbene non ci credesse veramente neanche lui.
Sentii la sedia di Lore spostarsi, accanto a quella del suo amico, mentre la professoressa ci segnava il ritardo sbuffando. «Non sono affari tuoi, Cu». Rispose infastidito. Probabilmente lui rientrava nella cerchia degli immeritevoli di spiegazioni.
Avevo appena avuto la conferma che faceva davvero sul serio e, nonostante quello che era appena successo non rientrasse nei miei piani, mi sentii felice…scioccamente felice.




Fu strano parlare con lui nei successivi cambi d’ora, così come fu snervante sentire i commenti infelici di alcuni compagni di classe, che comunque Lore gestì alla perfezione; col suo sarcasmo pungente e l’indole da leader che pareva non abbandonarlo mai.
Alla fine della giornata avevano praticamente smesso e ormai non ci dicevano più nulla.
Gli unici che sembravano veramente delusi erano i suoi due migliori amici e io mi sentii un po’ responsabile.
Nonostante non fossero il massimo della simpatia, per me, sapevo quanto fossero importanti per Lore. 
«Ehi, Belli, smettila di slinguazzare e vieni con noi». Un ragazzo di quinta era sbucato dalla porta, mentre tutti noi stavamo attendendo a modo nostro l’arrivo del professore dell’ultima lezione.
Lore lo guardò con fare ingenuo. «Slinguazzare io? Non faccio queste cose a scuola».
«No, hai ragione, infatti l’anno scorso non sei finito dal preside perché ti hanno trovato nel bagno dei professori a scopare come un coniglio con…». Lore gli lanciò un’occhiata inceneritrice e lui si coprì la bocca prima di fare il nome della ragazza, che comunque avrei voluto sentire. «Ops, scusa dolcezza, non volevo tirare in ballo vecchie storie».
Mi strinsi nelle spalle. «Temo che dovrò farci l’abitudine ».
«Che ci vuoi fare? È un coglione questo tipo qui». Indicò Lore con un ghigno e mi porse la mano. «A proposito, non credo ci siamo mai presentati. Io sono Luca».
«Giorgia». Dissi stringendola.
«Sei proprio carina, sai?».
«E tu tra non molto sei morto».
Luca parve sorpreso da quell’uscita di Lore. «Wow, che violenza».
«Allora, dove vorreste portarmi?». Chiese Lore, ignorando il commento dell’amico.
«Andiamo fuori, c’è un pallone nella pista, facciamo due tiri».
Ero tentata di intervenire e dire, al posto suo, che di lì a poco sarebbe iniziata la lezione; ma logicamente lo sapevano benissimo entrambi, solo non gliene importava.
«Ho preso una nota oggi».
«E due anni fa sette in un giorno».
Lore sorrise e poi disse: «va bene, ma non fino alla fine della lezione».
«Agli ordini, capo!».
Ci vediamo dopo. Mimò con le labbra, prima di andarsene.
Non avevo niente in contrario al fatto che mi lasciasse da sola, era libero di continuare a vivere la sua vita come voleva; quello che chiedevo era un po’ più di rispetto e serietà rispetto al nostro primo esperimento disastroso e sotto quel punto di vista ero piuttosto soddisfatta.
Stavo per andare da Davide, quando una voce alle mie spalle mi fece irrigidire. «Ehi, Mori. Puoi uscire un attimo?».
Mi voltai e vidi Lonta distogliere lo sguardo. Non era imbarazzato, ma lanciava veloci occhiate in giro come per accertarsi che nessuno ci stesse guardando.
«Sì». Dissi e sgattaiolai fuori dall’aula senza attirare l’attenzione di nessuno.
Arrivammo ad una parete del corridoio completamente vuota e Lonta si fermò di scatto. Per poco non gli andai addosso.
«Da quanto va avanti?». Chiese voltandosi, senza preoccuparsi dei convenevoli.
«Da ieri». Risposi, adeguandomi al suo ritmo.
Lui arcuò un sopracciglio scettico. «Me n’ero accorto, sai? Quelle sparizioni improvvise, un mese fa, non mi sono sfuggite e spesso l’ho anche beccato a guardarti, ma ovviamente ho fatto finta di niente. Poi sembrava esservi passata, non vi rivolgevate più la parola e lui ci è andato giù con parole pesanti quando era con noi, e oggi…oggi scopro che state insieme».
«Non stiamo insieme».
«Non ha importanza se state insieme o no. Ho usato un termine come un altro: tu gli muori dietro e lui ha perso la testa per te, direi che questo basta. Anzi, mi domando se in tutto questo tempo non l’avesse già persa…». Scandagliò la mia espressione per un po’. «So anche che vi conoscete da una vita, praticamente. Lo voci girano, ma non gli ho dato peso…».
«E, se avevi il dubbio, perché non gliel’hai mai chiesto allora?». Ebbi il coraggio di chiedere. Forse perché era la prima, vera conversazione civile che avevo con Lonta e chissà quando sarebbe ricapitata un’occasione del genere.
«Perché?». Mi chiese sarcastico, ridendo di una risata amara. «Perché se ne avesse avuto voglia me ne avrebbe parlato lui. Non credere che sia così leale con noi, eh, anzi il più delle volte ci fa capire che non gliene importa un cazzo di noi. Non ci dice mai niente di lui, passiamo tutto il tempo a dire e fare stronzate».
«Non è vero che non gliene importa. Finge. Altrimenti non darebbe tanto peso al vostro giudizio sulla nostra storia, non ve l’avrebbe tenuto nascosto».
«E allora perché informarci in questo modo? Avrei gradito che ce ne avesse parlato prima».
«Non sei così stupido come sembra, se ti sforzi di pensarci ci arrivi da solo». Vedendo il suo silenzio, aggiunsi: «È una mia personalissima opinione, eppure sono quasi convinta che l’abbia fatto perché crede di non poter avere sia me che i suoi migliori amici. Ci sono cose che non so neanche io e che aspetto di sentire…quello che so per certo è che l’altra volta ha scelto voi, questa volta me».
«È proprio un coglione». Mormorò esasperato e a quel punto non mi trattenni. «Vuoi dirmi che accetterete tutto senza battere ciglio? Senza prenderlo in giro perché sta con la secchioncina sfigata, racchia e quant’altro?». Scossi la testa. «Mi dispiace ma non ci credo».
Lo osservai stare in silenzio e per un po’ rimasi a guardarlo, in attesa di una risposta. Che comunque non arrivò. Mi allontanai decisa, ma neanche dieci passi dopo la sua voce tornò ad echeggiare per quella parte di corridoio deserta. «Puoi non crederci, se vuoi, ma per quanto testa di cazzo possa essere, è pur sempre nostro amico». Fu solo una frase mezza sussurrata, che udii appena da quella distanza, ma suonò finalmente sincera e  fui felice di sentirla e di ricredermi…perché ammetto di aver sempre pensato che quei due seguissero Lore solo per la sua fama di ribelle.
Per la prima volta realizzai di aver giudicato senza conoscere, basandomi solo su quella stupida apparenza che tanto criticavo negli altri.



L’ultima campanella suonò nella gioia generale, salutai Davide e rimasi fuori ad aspettare Lore. Non ero rimasta dentro in primis perché non volevo sembrare la ragazza appiccicosa che in realtà non ero e in secondo luogo perché Curcio e Lonta l’avevano avvicinato.
Mi poggiai contro il muro accanto alla finestra, sentendo di tanto in tanto qualche sprazzo di frase detta con voce più alta. Non passarono neanche cinque minuti che Lore uscì di un passo dall’aula. «Comincia ad andare, ci vediamo pomeriggio».
Provai a protestare, ma il suo sguardo non ammetteva repliche, perciò sospirai rassegnata. «Va bene. A più tardi».
Abbozzai un sorriso storto e mi diressi verso le scale, dove qualcuno mi afferrò per il braccio. Un giorno o l’altro me l’avrebbe staccato a furia di prenderlo con tanta forza.
Ero stretta tra le sue braccia, il suo viso vicino. «Non ti azzardare mai più ad andartene in quel modo». Ridacchiò, prendendomi un labbro tra i denti.
«Ahia». Mi lamentai, pur non avendo sentito dolore e, tuttavia, le sue labbra catturarono quel piccolo gemito andandosi a modellare con precisione alle mie.
«Tutto qui, ragazzo arrabbiato?». Chiesi mordendomi una guancia. Non era da me alludere in quel modo, ma mi era sembrato così naturale farlo che neanche ci avevo pensato. Lore, ovviamente, colse la palla al balzo. Lui, che era il mago delle allusioni e delle frasi a metà, sorrise malizioso. «Non mi provocare. Sai che non me ne importa delle punizioni in cui incapperemmo».
Poggiai le mani sul suo petto e lo allontanai. «Ma a me sì». Gli diedi un bacio sulla guancia e lo salutai con la mano, prima di scendere di corsa le scale.






Quando raggiunsi la fermata non c'era nessuno ad aspettare il pullman. Mi strinsi di più nel cappotto e mi sedetti senza neanche guardare gli orari. Osservai le cartacce per terra muoversi trascinate dal vento, rabbrividendo quando una folata di vento più gelida delle altre mi colpì in pieno viso.
Passarono due autobus, prima che la chioma bionda di Lore mi sbucasse davanti.  Si era piegato sulle ginocchia, poggiando le mani sulle mie, e mi stava guardando dritto negli occhi.
Fui lieta di vedere il sorriso sulle sue labbra e non i lineamenti duri che assumeva quando era arrabbiato. «Sei proprio sciocca, sai?». Mi disse soltanto. Il suo respiro caldo si trasmormò in nuvolette di fumo nell'aria.
«Volevo stare un po' con te, prima di andare a casa». Feci spallucce e deviai lo sguardo dal suo indagatore. Temevo che la mia frase potesse risultare troppo sentimentale e lui di certo non era tipo da regalare rose rosse per San Valentino, perciò avevo preferito nascondermi.
«Bastava che me lo dicessi. Sarei rimasto un'altra volta a parlare con quei due».
Non riuscii a nascondere la sorpresa nel sentire quelle sue parole, ma non aggiunsi altro in proposito. «Non ha importanza. Com'è andata?».
Lui si alzò, sgranchendosi le gambe e le braccia contemporaneamente. «Bene». Rispose con voce piatta e capii che per lui il discorso era finito lì. Ma non per me, così presi l'iniziativa.
«Non sono così male i tuoi amici, dopotutto». Mormorai facendomi coraggio, mentre i denti cominciavano a battere per il freddo.
Lore aggrottò le sopracciglia e si guardò intorno, alla ricerca di qualcosa che non esisteva. «Chi?». Domandò infatti.
«Lonta e Curcio. Oggi ho parlato con Gabriele e ho avuto modo di rivalutarlo». Vedendo la sua espressione interrogativa, aggiunsi: «Mentre tu eri andato via con quel Luca».
I suoi muscoli si rilassarono a poco a poco, finché non si sedette accanto a me. «Non puoi averlo rivalutato con una sola chiacchierata. Con molta probabilità è stata costruita su misura per l'occasione». 
«No...sembr...sembrava sin...sincero, fidati». Balbettai in preda al tremore, quando non riuscii più a nasconderlo.
Era la seconda volta nel giro di due giorni che mi ritrovai a tremare davanti a lui per lo stesso motivo e la cosa mi infastidiva, perché sicuramente ne avrebbe approfittato per concentrarsi su di me e concludere quella parentesi che riguardava lui.
Lore mi fissò scettico mentre mi muovevo sul posto per cercare un po' di calore. «Stai congelando, ancora». Constatò e le mie previsioni si dimostrarono esatte, così come quello che disse dopo. «Ti darei la mia giacca, se non stessi morendo di freddo anche io». Trascorse un istante e fingendosi scocciato mi passò un braccio intorno alle spalle, avvicinandomi al suo tiepido calore. «Però questo lo posso fare».
Poggiai la testa contro la sua spalla e mi lasciai cullare dal lieve movimento circolare delle sue dita, che disegnavano motivetti astratti sul mio braccio.
Era il massimo di gentilezza che potevo ricavare da lui. Poca, tutto sommato, ma ben accetta in ogni caso. Il commento successivo mi uscì spontaneo, con un sorriso nostalgico. «Sei sempre stato un po' stronzo, ora che ci penso». Lore stava guardando la strada poco trafficata davanti a noi, ed anche io stavo facendo lo stesso, perciò mi persi la sua reazione, qualunque essa fosse, dato che non disse nulla in proposito.  «Non come lo eri fino a fino a poco tempo fa, sia chiaro, ma non hai usato mai parole veramente gentili... e non solo con me, con nessuno». Sollevai appena gli occhi, ma sfortunatamente non incontrai i suoi.
«Avresti voluto?».
Scossi la testa impercettibilmente. «Mentirei se ti dicessi che ogni tanto un segno d'affetto in più mi avrebbe fatto piacere. Ma alla fine non credo ce ne fosse bisogno. A modo tuo ci sei sempre stato».
Lore fermò il gioco lento delle sue dita sulla mia pelle e lo sentii irrigidirsi. La sua espressione era contratta, qualcosa lo disturbava. «Tu invece sei proprio tutto l'opposto di me: l'apoteosi delle parole carine e dei gesti sempre appropriati. E non mi hai mai ferito, neanche per sbaglio...neanche quando me lo meritavo davvero». La sua voce suonò tranquilla, per poi assumere una nota più incrinata. «Per quanto ora sia fermamente deciso ad andare fino in fondo, io ti ho persa una volta, Giorgia. E questo non lo cambierà nessuno». 

Quella discussione venne troncata dal brusco arrivo del pullman e nessuno dei due osò riprenderla durante il tragitto verso casa. Io perché non volevo forzarlo a dirmi cose che in realtà voleva tener per se e lui perché probabilmente si era solo lasciato prendere dal momento, senza voler davvero rendermi partecipe di quei suoi pensieri così ben nascosti.
Parlammo solo di cose inutili, quasi non mi toccò e quando arrivammo nel nostro pianerottolo ci fermammo in silenzio.
«Domani pomeriggio ho un incontro». Esordì stranamente serio, come se qualcosa del discorso precedente lo tormentasse ancora. «Ti va di venire a vedermi? È da tanto che non fai il tifo per me». Verso la fine della frase, la sua voce mi sembrò addirittura speranzosa ed io ovviamente non ci pensai un secondo a rispondere. «Certo. Perché no?».
Lui sorrise. «Alle sei all'angolo della strada». Poi fece un passo, o due, in mia direzione, avvicinando la bocca ad un mio orecchio scoperto...e congelato. «È meglio essere discreti con i nostri genitori. Chi li regge più se cominciano a rompere con le loro prediche?».
Ridacchiai perché aveva ragione, ma sapevo che le paternali non erano l'unica cosa che lo preoccupava. Aveva paura che i suoi precedenti fossero giunti alle orecchie dei miei genitori e, lui non lo sapeva, lo immaginava soltanto, ma era proprio così. «Inventerò una scusa. Spero che se la bevano...».
«Sforzati di essere convincente e vedrai che non faranno obiezioni». Mi passò una ciocca di capelli umidi dietro l'orecchio e poi si staccò di scatto, come se avesse deciso che era abbastanza. «Sei in punto. Non mi piace arrivare tardi».
«È già tanto se arrivi al suono della campanella a scuola».
«E chi ha parlato di scuola?».
Lore fece per voltarsi, ma rimase immobile dov'era, con lo sguardo puntato addosso a me. Di sicuro stava pensando a qualcosa. Poi, con un movimento veloce e impercettibile le sue labbra furono sulle mie, ma solo per qualche misero secondo. Infatti, le allontanò immediatamente, per poterci sussurrare sopra. «Porta del cibo, una coperta pesante e di' ai tuoi che farai molto tardi».
Sentii la sua bocca posarsi sulla mia guancia e lo guardai attonita mentre si richiudeva la porta di casa alle spalle, lasciandomi di stucco davanti alla mia.
Un mare di domande mi affollò la mente, di cui due principali.
La prima riguardava il perché di quella richiesta.
E la seconda mi faceva porre il problema di come avrei fatto a far passare la scomparsa di una coperta pesante inosservata.
Mi serviva un piano ben architettato e una chiamata urgente a Martina…qualunque cosa potesse aiutarmi a riuscire nel mio intento. Perché di rinunciare a quella proposta così pazza, misteriosa e allo stesso tempo allettante non se ne parlava neanche.





«Dimenticati il mio aiuto e quello di chiunque altro. Nessuno sano di mente ti crederebbe...e i tuoi purtroppo lo sono». Rispose mia cugina, dopo che le ebbi spiegato il mio problema.
«Grazie mille, Marti. Sei molto d'aiuto». Brontolai delusa mentre mi passavo un asciugamano tra i capelli bagnati.
Il vivavoce del mio cellulare tuonò come in una vera e propria tempesta. «Eh, no! Non riuscirai a farmi sentire in colpa!».
Vidi il mio sorriso allo specchio. Quella frase poteva voler dire solo una cosa: stava già cedendo. Proprio come avevo previsto. «No, ti capisco...le mie qualità recitative sono alquanto discutibili, hai ragione».
«Una festa di compleanno?». Buttò lì Martina, alzando finalmente bandiera bianca.
«Non ho amici. E i miei lo sanno».
«Vai a trovare Rosaria?».
«Li avrei dovuti avvisare prima».
La sentii sbuffare sonoramente. Non le piaceva veder scartare così le sue fantastiche idee. «Ci sono! Davide ti ha invitato ad una cena per presentarti sua sorella. Che, tra l’altro, ti stima tantissimo per l'ottima media scolastica!».
Accolsi l'idea con benevolenza e cominciai a pensarci su. I miei avevano conosciuto Davide, dopotutto, e si fidavano di lui. Nell'ultimo periodo avevo cominciato ad uscire più del solito e ovviamente loro avevano cominciato a farmi domande sulle mie scappatelle. Alla fine avevo vuotato il sacco, dicendogli che avevo conosciuto un ragazzo fantastico e loro avevano voluto che glielo presentassi. Dopo qualche tempo, pochissimo a dire il vero, avevano capito che tra di noi c'era e ci poteva essere solo una grande amicizia.
«Buona idea! Anche se non ricordo neanche come si chiama...». Mi rabbuiai un attimo ripensando al motivo per cui l'avevo rimosso: Lore. Un singulto e un battito fuori posto mi fecero ricordare. «È stata con Lore». Dissi con voce strozzata.
«E mica ci devi andare davvero, è solo una copertura...anzi, è la tua occasione per far capire alle sanguisughe di chi è quel gran pezzo di figo che ti-».
«È chiaro il concetto, Marti». La interruppi a metà. «Ho bisogno dell'appoggio di Davide, però».
«E credi che non te lo darà?». La sua voce suonò terribilmente maliziosa e la risatina compiaciuta di poco dopo mi dimostrò che era proprio quello che voleva trapelasse dalle sue parole. La ignorai.
«Mi aiuterà». Dissi in un sussurro, poi mia mamma bussò insistentemente alla porta e mi congedai da Martina, stringendo bene l'accappatoio ed andando ad aprire.
«Che c'è?». Le chiesi con i capelli ancora gocciolanti.
Mia madre fissò con apprensione l'acqua che stava bagnando il suo adorato pavimento e poi si guardò intorno circospetta. Alla fine i suoi occhi incontrarono i miei ed erano glaciali, spaventati e al contempo spaventosi. «Lorenzo vuole vederti. È in salotto».
Deglutii colpita dal suo modo di fare. Aveva paura di lasciarmi da sola con lui, ma lo aveva fatto entrare.
«Muoviti». Mi esortò con un fil di voce. «Prima che torni tuo padre».
Tutto mi fu più chiaro e il suo atteggiamento acquistò un senso. Sorrisi riconoscente e feci per uscire, ma lei mi rispinse dentro con forza. «Chiudere un occhio si può fare, ma non tutti e due». Sibilò aggiustandosi gli occhiali da riposo sul naso. «Vestiti». Concluse calma, scuotendo la testa.
Annuii e lasciai  che si allontanasse in cucina, indossai un pantaloncino e una maglietta a mezze maniche prima di sgattaiolare fuori con prudenza. 
Non aveva importanza in che condizioni fossi, mio padre sarebbe arrivato da un momento all'altro e se avesse scoperto che io e Lore ci frequentavamo al di fuori del progetto scolastico lo avrebbe tartassato finché non si fosse arreso.
Lo trovai sul divano intento a giocare con il mio cuscino preferito, a forma di hamburger. Era così sereno che mi fermai per guardarlo un po' finché un mio starnuto non attirò la sua attenzione e io fui costretta ad uscire allo scoperto.
Lui balzò in piedi colto di sorpresa, ma quando mi vide rimase immobile sul posto. Rigido e teso come le corde di un violino. «È uno scherzo, vero?». Chiese fissando la scollatura della mia magliettina.
Automaticamente portai una mano sul petto per coprirmi, sebbene niente fosse veramente ai suoi occhi. Le gambe forse...eppure mi sentivo a disagio con quello sguardo penetrante addosso.
«Non c'era tempo». Balbettai a disagio. «Non ho pensato a cosa indossare e....». Continuai ad articolare parole slegate tra loro, finché Lore non mi stoppò sollevando una mano e agitandola. «Ok, va bene...ho capito». Sospirò e sembrò rilassarsi, così feci qualche passo in direzione del divano per sedermi, ma lui me lo impedì piazzandomisi davanti. «Non ho intenzione di fare in modo che tuo padre ci veda parlare qui, di questioni non scolastiche...perciò non mi tratterrò a lungo». Mi minacciò ad un palmo dal naso e aggiunse con una smorfia: «Se tua mamma sembrava sul punto di uccidermi, non oso immaginare cosa voglia farmi lui». Rabbrividì al pensiero, ma si riscosse subito. «Sarò breve: come lo sanno?».
«Papà ti ha visto». Risposi in un sussurro.  «Ogni sera con una ragazza diversa».
Lui sembrava aspettarselo, tuttavia lo vidi stringere una mano a pugno...forse per rabbia nei confronti di se stesso. «Immagino ti abbia detto di starmi alla larga». 
Annuii. «Prova a capirli, non hanno tutti i torti…hanno solo bisogno di tempo e di prove del tuo cambiamento».
Gli sfiorai un braccio per fargli capire che credevo in lui e si addolcì. «Lo sospettavo...». Sbuffò stancamente prima di cambiare argomento e io mi misi in ascolto. «Hai pensato a qualcosa per domani? So quanto sei scarsa con le bugie».
Ridacchiai. «Martina mi ha aiutata».
Lore parve infastidito dalla cosa. Lui e Martina avevano due personalità talmente forti e simili che se non si fossero visti solo una volta ogni mille anni probabilmente si sarebbero già fatti un occhio nero a vicenda.
«E posso avere l'onore di dare la mia opinione sulla sua idea geniale?».
Lo guardai storto. «Sapevi che la sorella di Davide ha un'ammirazione nei miei confronti?». Chiesi con tono serio e senza aspettare nessun cenno di assenso aggiunsi: «Be’, domani sarò a cena da lei». 
Lore strabuzzò gli occhi, sconvolto. «E da quando Carol avrebbe un’ammirazione per te?».
Una strana sensazione di disagio mi assalì nel sentire il nome di quella ragazza. Perché ricordava il suo nome? Be’, in fondo era amico di Davide, chissà quante volte sarà stato a casa sua quando c’era anche sua sorella. Magari non era stata solo una cosa passeggera, anzi, era probabile che la conoscesse più di quanto pensassi.
Quando smisi di rimuginarci su, Lore concluse un discorso che non gli avevo sentito iniziare.
«…non ti coprirà mai, anche se dice che ormai non prova più nulla per me io so che non è così, hai mai visto come mi guarda quando le passo davanti per i corridoi?».
Feci spallucce, cercando di non far trasparire i miei pensieri. «Non ha alcuna ammirazione, infatti, ma che importa? Non ho detto che deve venire a sapere di questa cosa. Davide sarà più che sufficiente».
Lore non disse nulla per una manciata di minuti. «Le ragazzine della sua età sono le più fastidiose da gestire...basta che gli dai un bacetto e ti rimangono appolipate per sempre».
«Se qualcuno non si fosse divertito tanto a loro spese....». Mi lasciai scappare. Quando me ne resi conto mi morsi un labbro, ma non riuscii a ritrattare ciò che avevo detto, in fondo sapevamo bene entrambi quanto le illudesse.
«Non mi sono divertito ad illuderle, Giorgia». Rispose un po' cupo. «Tutte quelle con cui sono stato mi piacevano. Tranne forse quelle conosciute in discoteca».
«Resta il fatto che le illudi, però. Non hai smentito». Alzai le spalle in segno di evidenza. Non era il momento per fare quel discorso, ma prima o poi lo avremmo dovuto affrontare, no? Poteva essere considerato un anticipo.
«Già, ma credevo che…». Si fermò, mi fissò per qualche secondo e poi scosse la testa. «Lasciamo stare, mi fido di te comunque».
Un colpetto di tosse ci fece voltare verso la cucina, dove mia madre stava a braccia incrociate. «Abbiamo finito, mamma».
«Tuo padre sarà qui a momenti e io non voglio avere niente a che fare con...».
«Non ti preoccupare, Laura, me ne stavo andando». Intervenne Lore con un sorriso benevolo. Mia mamma, che a Lore aveva sempre voluto bene, parve perdere un po’ di quella sua aria così tirata.
«Ciao Giorgia. Buonasera Laura». Si congedò velocemente e in due falcate era già alla porta.
«Mi dispiace, Lore. Un anno fa probabilmente saresti potuto rimanere a cena». Lo fermò mia mamma con rammarico evidente. «Cosa hai combinato in tutto questo tempo?».
Lore si fermò e senza voltarsi rispose: «Non ha importanza». Scosse la testa ed uscì senza aggiungere altro. 


Alle sei all'angolo. Questa era la frase che continuavo a ripetermi da quando ero arrivata lì, circa mezz'ora prima dell'ora stabilita, non staccando gli occhi dall'orologio nemmeno per sbaglio. Non mi piaceva essere in ritardo e Lore era stato intransigente sulla puntualità, così per evitare eventuali imprevisti ero uscita in anticipo.
«Non stiamo partendo, Giorgia». La sua voce giunse alle mie spalle, sarcastica come al solito, ma con una punta di dolcezza che avevo imparato a riconoscere.
Mi voltai sorridendo. «Ho dovuto portare questo zaino per metterci le coperte che tu mi hai chiesto». Gli feci presente fingendomi offesa.
«Scherzavo». Mi scompigliò leggermente i capelli e lo lasciai fare, solo perché era lui. «Rilassati, non è...proprio un appuntamento. Non mi aspettavo davvero che ti lasciassero venire».
«È stato facile. Si fidano di Davide».
Lore mi guardò stralunato. «Potrei essere geloso».
Arrossii e feci per incamminarmi, nascondendo l'imbarazzo. «Non vorrai fare tardi?».
Lore scosse la testa e mi passò un braccio sulle spalle. «Ovviamente no.

Trovarmi davanti alla palestra che un tempo mi aveva fatto da seconda casa fu come respirare aria nuova e allo stesso tempo familiare. Ci ero passata qualche volta, per lo più in macchina, ma mai da così vicino e l'idea di rivedere coloro che un tempo ero solita frequentare ogni giorno mi elettrizzava e intimidiva insieme.
«Saranno felici di rivederti, non ti preoccupare».
Mi riscossi dai miei pensieri e mi accorsi di esser rimasta a fissare quell'edificio come un'idiota.
«Faranno domande?». Chiesi preoccupata. Lui intrecciò le sue dita alle mie. «Non molte, quando vedranno questo».
Sorrisi per quel gesto. A quanto pare gli amici della palestra sarebbero stati i primi a vederci insieme in veste ufficiale.
L’interno era tale e quale a come l’avevo lasciato. Riconobbi lo stesso pavimento lucido e i soliti gradoni alti e scomodi su cui ero stata seduta parecchie volte. Persino l’odore di detersivo e i tre allenatori al centro della palestra non erano cambiati.
«Vuoi andare a salutarli?». Chiese Lore intercettando il mio sguardo.
«Meglio aspettare la fine dell’incontro».
Lorenzo strinse di più la mia mano. «Io dico che stai solo cercando di rimandare. Andiamo». E così dicendo mi trascinò in mezzo a quel gruppetto di persone.
«Buongiorno gente». Li salutò Lore con enfasi. Alla OS erano sempre tutti piuttosto informali e a volte erano in grado di farti sentire più a tuo agio di quanto non fossi in famiglia. Ed era proprio questo clima così confortevole che mi era mancato più di tutto.
«Lore, sei in anticipo». Michele, il maestro che seguiva Lore, si voltò allegro come sempre. Non era cambiato di una virgola, eccetto per qualche capello bianco e un paio di rughe in più. Non appena si accorse della mia presenza, assottigliò lo sguardo per scrutarmi meglio. Probabilmente voleva accertarsi che fossi io. I suoi muscoli facciali si rilassarono e, senza darmi il tempo di dire alcunché, mi abbracciò di slancio.
«Giorgia! Non ci posso credere, alla fine ti sei fatta viva!».
«Michele! Che bello rivederti. Sembra che sia passata una vita».
«Non dirlo a me, cara». Sciolse la stretta e si rivolse ad una donna in fondo alla palestra. «Cinzia, guarda un po’ chi c’è venuto a trovare!».
La donna smise di smistare una pila di carte e lo guardò confusa. Poi guardò me e scosse la testa, incredula. Cominciò ad avvicinarsi ed io le andai incontro. Quasi non mi accorsi di aver lasciato la mano di Lore quando la raggiunsi.
«Sei davvero tu. Cominciavo a credere che ti fossi dimenticata di noi».
«Come potrei? Mi siete stati più vicino di chiunque altro in quel periodo».
Fu bellissimo ritrovarsi in mezzo a tutti quei sorrisi sinceri e per quanto cercassi di non piangere mai in pubblico, una o due lacrime sfuggirono comunque al mio infallibile controllo.
«Chiedevamo sempre a Lore di te. Bene o male riuscivamo a sapere come te la stavi cavando». Disse Cinzia con un sorriso.
Di rimando, guardai Lore con la coda dell’occhio e fui ancora più felice di vederlo contendo della mia rimpatriata.
«Allora, sei qui per vedere l’incontro di Lore?». Chiese Giorgio, un uomo buono e dolce che insegnava ai ragazzi più grandi.
«Il tuo amico qui è davvero eccezionale. Siamo molto orgogliosi di lui». Intervenne Michele dandogli alcune pacche sulle spalle. Forse più forti del dovuto, perché Lore emise un gemito di dolore al termine della decima.
«Ehi, vacci piano! Non vorrai mica distruggermi prima della gara?». Si lamentò massaggiandosi la spalla. Poi spostò lo sguardo su di me. «E per la cronaca non siamo più solo amici».
Negli occhi di tutto i presenti passò la stessa, identica reazione. Ma non era stupore. «Era ora, cavolo! Vi siete fidanzati!».
«Più che fidanzati, ci stiamo frequentando». Specificai nell’imbarazzo totale.
«E che differenza fa?». Borbottò Giulia, l’unica che ancora non aveva detto niente, quella un po’ più riservata. «Resta il fatto che inciuciate».
Con un singulto di sorpresa la guardai scandalizzata, ma Michele mi impedì di dire qualunque cosa. «Dobbiamo assolutamente festeggiare dopo l’incontro!».
«Possiamo andare al Red Moon a bere qualcosa». Suggerì Giorgio, ma gli altri lo guardarono male.
«Giorgia è ancora minorenne, vero cara?»
«Io…ecco…». Balbettai non sapendo cosa dire. Mi dispiaceva spegnere la loro gioia, ma io e Lore avevamo già un impegno e io non volevo perderlo per nulla al mondo. Ci sarebbero state altre occasioni per festeggiare con la OS. Feci per parlare, ma Lore mi precedette. «A dire il vero, abbiamo già da fare».
«Oh, un appuntamento?». Chiese Cinzia sognante. «Dove la porti?».
«È una sorpresa».
«Incredibile. Giorgia ha fatto diventare Lore un ragazzo da appuntamenti romantici». Mormorò Michele seriamente sorpreso.
Lore si strinse nelle spalle. «E chi ha detto che è un appuntamento romantico?». E senza dar loro il tempo di reagire mi riprese per mano. «Andiamo Giò».
«Ci vediamo a dopo!». Urlai mentre Lore mi guidava verso l’ingresso degli spogliatoi.
«Ehi, Lore, non portarla dentro! Per quelle cose ci sono altri posti». Lo avvertì Michele ridendo.
Quando ci fermammo, lontano dalle orecchie indiscrete, mi misi a fissarlo con un sorrisetto.
«Che c’è?». Chiese preoccupato guardandosi intorno.
«Credevo non fosse un appuntamento». Dissi avvicinandomi, ricordandogli le parole che mi aveva detto prima di andare.
Lore piegò un solo angolo della bocca. «Andiamo, Giò. Siamo io e te, definirci amici è un’eresia, saremo soli. Come chiameresti questa cosa?».
«Sì, ma prima hai detto…». Provai a lamentarmi, anche se in realtà non avevo niente su cui obiettare. Lore si piegò in avanti, raggiungendo il mio viso col suo.
«Quello che ho detto prima l’ho detto per non farti venire l’ansia fin da subito». Mormorò sulle mie labbra. «Ti dispiace così tanto avere un appuntamento con il sottoscritto?».
Sorrisi e lui si aggiustò la borsa sulla spalla, allontanandosi. «A dopo».
«In bocca al lupo». Dissi, ma così piano che quelle parole si persero solamente nell’aria.
Mi voltai verso i gradoni e spostai lo sguardo su quello più in alto. Vuoto.
Sì, ero proprio tornata a casa.



«Sei stato incredibile!». Accolsi entusiasta Lore fuori dallo spogliatoio, che rimase sorpreso nel vedermi tanto euforica. «Non c'era proprio paragone, voglio dire...eri su un altro pianeta!».
Il suo stupore lasciò il posto ad uno sguardo compiaciuto. «Penso che dovresti riprendere anche tu il karate». Disse con tranquillità, come se non gli avessi fatto tutti quei complimenti. In circostanze normali si sarebbe pavoneggiato per un buon quarto d'ora, invece...
«Dovresti guardare i tuoi occhi mentre ne parli, non credo di averli mai visti così...accesi prima. E comunque ora che le cose tra di noi si stanno sistemando, non ci sono problemi, no?».
Cercai di assumere un'espressione interrogativa. «Chi ti dice che abbia lasciato il karate per te?». Chiesi incrociando le braccia al petto.
Lore sorrise . «So ancora fare due più due».
Inspirai una quantità indefinita di ossigeno, misto al profumo del bagnoschiuma usato da Lore e mi dimenticai di ribattere. Era sempre lo stesso, buonissimo odore che aveva addosso e notai anche che aveva lasciato i capelli un po’ bagnati, come faceva dopo la doccia. «Ti prenderai un accidenti fuori, vai ad asciugarteli meglio, ti aspetto». Dissi mossa dalla preoccupazione.
Lore aggrottò le sopracciglia e mi guardò in modo strano.
«Che c'è?». Gli chiesi, dopo che fu rimasto in silenzio per troppo tempo.
«Sembra di sentire mia madre». Spiegò sforzandosi di non ridere.
«Ehi! Guarda che lo dico per te, se ti ammali son cavoli tuoi. A me non potrebbe fregar di...».
«Ok, ho capito. Torno subito». Intervenne prima che iniziassi a parlare a sproposito e gliene fui grata. Prima di rientrare, però, si guardò intorno furtivo...fermando lo sguardo sugli allenatori. Tutti e tre ci voltavano le spalle. Lore si morse un labbro, come preso da un'incredibile indecisione, e senza che potessi farmi domande o tantomeno oppormi, mi tirò per un braccio dentro con lui.
Non appena realizzai dove mi trovassi, per poco non urlai. «Che fai? Non ci tengo a vedere degli sconosciuti mezzi nudi!».
Lore sbuffò. «E dai, Giò, non c'è più nessuno, non vedi?. Ti pare che ti avrei trascinata qui altrimenti?».
Mantenni lo sguardo fisso e lui capì che la mia risposta era un sì. Parve sul punto di dire qualcosa, ma qualcos'altro dovette balenargli per la mente perché sorrise malizioso. «Aspetta, hai detto sconosciuti». Constatò e, vedendomi sempre più confusa, aggiunse: «Quindi non ti dispiacerebbe vedere ragazzi conosciuti mezzi nudi».
Il modo in cui marcò sulla parola "conosciuti" mi fece rabbrividire. Un'altra occhiata d'intesa  e compresi che stava parlando di lui. «Oh...no...non intendevo dire questo».
«Stavo scherzando, Giorgia. So che l'idea di vedermi a petto nudo non ti elettrizza neanche un po'».
Aprii la bocca per parlare, ma la richiusi non trovando le parole giuste.
Sapevo che mi stava mettendo alla prova, ma ero comunque indecisa tra il ti ho già visto a petto nudo ed è stato tutto fuorché non elettrizzante e il se vuoi puoi spogliarti adesso, così controlliamo che effetto hai su di me. Alla fine non prevalse nessuna delle due, perché Lore mi riportò alla mia amata sanità mentale. Per quanto possibile. «Sarà meglio sbrigarci. Presto si accorgeranno della nostra mancanza».
Lore lasciò cadere la sua borsa, che nell'atterraggio emise uno strano tonfo sordo. La guardai incuriosita, chiedendomi cosa contenesse, e poi riportai lo sguardo su di lui, che stava andando verso gli asciugatori che fungevano da phon con passo veloce.
«C'era davvero bisogno che mi portassi qui?». Domandai un po' a disagio. Era il tipico covo maschile. L'odore del deodorante usato dai ragazzi era ancora forte e pungente.
Lore mi fece cenno di avvicinarmi e, dopo un attimo di esitazione, lo raggiunsi titubante. Con un sorriso strafottente mi lasciò l'asciugatore in mano e posizionò una delle panche di legno sotto il getto da cui sarebbe uscita l'aria calda, sedendovisi sopra.
«Son tutti tuoi». Mi esortò schiacciando il bottone con una mano, che successivamente portò sulla mia vita per avvicinarmi un po'.
Nonostante la panca fosse piuttosto bassa, Lore mi arrivava comunque al petto...altezza perfetta per concludere la mia prima - ed ultima - esperienza da parrucchiera. Scacciai l'imbarazzo per quella vicinanza inaspettata e cominciai ad asciugargli i capelli con estrema lentezza e senza una tecnica precisa.
Fu difficile concentrarsi in quella situazione, in cui le nostre gambe si incrociavano alla perfezione  e la sua mano si muoveva impercettibilmente per tutta la zona circostante la vita, tracciando disegni astratti con la punta delle dita.
Asciutti, i suoi capelli erano ancora più biondi...quasi dorati. Senza rendermene conto mi persi nella loro morbidezza e continuai il mio lavoro anche quando era ormai abbondantemente finito.
La perfetta calma di quel momento venne interrotta solo da Lore, che poggiò la testa sul mio petto e mi strinse con entrambe le braccia, avvicinandomi ancora di più. Ormai eravamo corpo contro corpo, pelle su pelle...e il suo calore, misto a quello dell'aria dell'asciugatore mi fecero rilassare, nonostante il balzo improvviso che aveva preso il mio cuore.
La Giorgia pudica lo avrebbe allontano, ma quella persa per lui non lo mosse di una virgola, anzi...«Adoro i tuoi capelli». Mi lasciai sfuggire e, nonostante il rumore fosse forte, Lore parve sentirmi comunque. 
«Stavo pensando la stessa cosa delle tue mani. Potresti fare la massaggiatrice». Disse con naturalezza, allontanandosi e spegnendo l'aggeggio che tenevo in mano con un mezzo pugno. Stese un po' i muscoli e si alzò.
«Mi ha insegnato qualcosa mio padre». Sussurrai appena, ma Lore colse ancora ogni mia parola.
«Mauro?». Chiese riprendendo il borsone da terra senza alcuno sforzo, sebbene avesse l'aria di essere pesante.
Scossi la testa. «Il mio padre naturale».
Lore mi fissò serio. La solita traccia di ilarità presente sul suo volto, in qualunque momento, era svanita del tutto. E allora compresi: lui sapeva.
Certo le mamme parlano, mi ricordai mentalmente.
«Come sta?».
Feci spallucce ed abbassai lo sguardo. «Questa settimana ci vediamo, vorrebbe che questa volta fossi io ad andare da lui e si è persino offerto di accompagnarmi alla festa di Rosaria domenica prossima».
«E...non sei contenta di rivederlo?». La voce di Lore sembrò tremare. Inchiodai gli occhi nei suoi e capii che doveva aver paura di dire qualcosa di sbagliato. Era la prima volta che mi dava quell'impressione, perciò rimasi immobile a fissarlo senza rispondergli.
«Oh, forse sono stato troppo invadente». Mormorò scompigliandosi i capelli.
Negai con un movimento leggero del capo e gli presi la mano. «Abbiamo tutta la sera per parlare». Mi alzai sulle punte e gli schioccai un bacio sulla guancia.


Fummo beccati in flagrante all'uscita dallo spogliatoio, ovviamente, ma ce la cavammo con qualche scusa. Cioè, fu Lore a parlare, usando qualche espediente -  come il fatto che avesse stravinto l'incontro - mentre io tenni gli occhi bassi, continuando a mormorare scuse imbarazzate. Ma chi ci salvò davvero fu Cinzia.
«Oh, andiamo gente. È il bello dell'essere giovani». Aveva detto con voce sognante. «Pensate, una volta mi hanno beccata con il mio ragazzo nei bagni della scuola...e non gli stavo certo asciugando i capelli». Ridacchiò come se non ci fosse nulla di cui vergognarsi e Lore la imitò, sotto gli occhi increduli miei e dei suoi colleghi.
«Sentito Giorgia? Dovremmo seguire l'esempio...».
Lo fulminai con lo sguardo e lui si zittì quasi all'istante, per poi sbuffare qualcosa sulla mia timidezza e pudicizia.
«Tienitela stretta, ragazzo, al giorno d'oggi è difficile trovarne così. La maggior parte te la sbattono in faccia al primo appuntamento...logico che poi ci caschi e alla fine ti mollano». Brontolò Giorgio. Lasciando di stucco tutti i presenti; eccetto Lore, che in quegli argomenti ci sguazzava come in acque tranquille.
Questa volta gli pestai il piede prima che potesse dare la propria opinione in proposito e lui emise un gemito di dolore, chiedendomi cosa avesse detto o fatto di male.
Alla fine, parlando più del meno, la nostra piccola infrazione del regolamento passò in secondo piano e Lore riuscì persino a farsi prestare la macchina da Michele, dicendogli che gliel'avrebbe portata quella notte stessa.
Una volta salutati, con la promessa che sarei andata a trovarli presto, ci dirigemmo alla Berlina del nostro allenatore.
«Sentiamo, da quando guidi?» Gli domandai sorpresa, una volta raggiunto quel piccolo gioiello. Mia madre non aveva mai accennato al fatto che avesse preso la patente e per di più non l'avevo mai visto guidare. Per andare a scuola prendeva sempre il pullman e di sera usciva a piedi. Mi sentii una sciocca nel pensare a quanto attentamente  avessi osservato i suoi spostamenti per tutti quegli anni.
«L'anno scorso. Diciott’anni appena compiuti». Rispose sintetico, aprendo lo sportello del lato del passeggero per farmi salire.
«Ma tu non hai la macchina». Insistei e lui roteò gli occhi scocciato.
«Hai davvero bisogno di vedere la patente per credermi?»
Sospirai entrando in quello spazio ristrettissimo e chiudendo la portiera al mio fianco con uno scatto forte. Avevo sempre il terrore di metterci troppa forza e rompere qualcosa, ma se non ne avessi usata abbastanza lo sportello sarebbe rimasto aperto e allora avrei potuto rischiare la vita.
Sempre tragica, Giorgia. Pensai rassegnata, mentre Lore prendeva il suo posto con estremo agio.
«Non è la prima volta che la guidi, vero?».
«No, esatto».
Le sue risposte fredde cominciavano a preoccuparmi. Forse gli davano fastidio tutte quelle domande?
Dopo qualche metro constatai che fosse anche piuttosto bravo a guidare e si sa che la curiosità è donna, perciò... «Hai fatto molta pratica». Cominciai con nonchalance, sperando che stavolta non lasciasse cadere nel vuoto la conversazione.
«Sentiamo, cosa vuoi sapere?». Chiese rassegnato, svoltando in una strada che mi sembrava di non avere mai visto.
Presi un gran respiro e trovai il coraggio di sollevare il mio dubbio. «La mattina vai a scuola in pullman, la sera esci a piedi. Quando guideresti?».
Lore mi guardò con la coda dell’occhio e sorrise di sbieco. «Mi osservi».
Sentii le guance scottare. «Non era volontario, ti ho visto qualche volta per caso, dalla finestra…».
«Be’, è vero, qualche volta vado a piedi, o mi vengono a prendere degli amici, ma solo quando i miei devono uscire. Altrimenti prendo l’auto di mio padre».
«E te la lascia guidare?». Chiesi sconvolta. Alessandro lasciava prendere deliberatamente la macchina a suo figlio? Quell’Alessandro?!
Lore ridacchiò sinceramente divertito. «Certo che no». Ci fu una breve pausa in cui una serie di pensieri assurdi si susseguirono nella mia testa, poi proseguì. «La prendo di nascosto, ovviamente. Ho fatto una copia delle chiavi. Un giorno mi aveva chiesto di andare a far visita alla nonna, ma sa quanto mi scocci prendere i mezzi pubblici per andare, così mi ha convinto consentendomi di andarci in macchina. È stato facile e per evitare che mi vedano faccio il giro a piedi fino al garage».
«Sei incredibile. Se un giorno ti scoprisse saresti…».
La macchina si fermò di colpo e capii che eravamo giunti a destinazione. «Non lo scoprirà».  Disse soltanto, dopodiché scese e mi fece cenno di sbrigarmi.
Lo seguii e mi guardai intorno alla ricerca di qualcosa di familiare. Niente. Mi sembrava di essere in mezzo al vuoto, poi qualcosa catturò la mia attenzione: davanti a me c’erano degli alberi più che familiari…pini e aranci. 
Ci misi un secondo a capire dove ci trovassimo, ma lui mi precedette comunque. «So che probabilmente ti eri fatta un milione di film mentali su pizzerie, ristoranti e quant’altro, ma ho pensato che come primo appuntamento     questo fosse il posto ideale».
Rimasi immobile ad osservare il verde circostante, finché una ventata fredda non mi fece rabbrividire. «Sono…».
«Delusa?». Provò a concludere la frase.
«Sorpresa». Lo corressi con un sorriso appena accennato. «Non me l’aspettavo».
«Andiamo regina delle nevi, so che stai già congelando».
Non ero mai stata in quella parte del parco, quella in fondo, da cui io e Lore da piccoli eravamo sempre stati alla larga. Si diceva ci fossero serpenti, mostri e altre idiozie simili lì; ma a quanto pare erano tutte storielle per bambini. Era separata dal resto semplicemente perché lì non c’erano giochi, né panchine su cui sedersi. Mi chiesi se Lore me lo stesse facendo attraversare solo per farmi esplorare qualcosa di nuovo, insieme, come un tempo, ma quando si fermò in mezzo al nulla, all’uscita dagli alberi e parecchio lontano dalla parte gremita di gente, compresi che era proprio lì che voleva arrivare. Mi chiese di porgergli il mio zaino e lo aiutai ad estrarne l’enorme coperta calda, quella che adoperavo in pieno dicembre. La mia scelta era stata proprio mirata.
Quella coperta la tenevo chiusa nell’armadio fino al Natale successivo e mia madre non si sarebbe mai accorta della sua assenza.
Tirammo fuori anche degli asciugamani vecchi che aveva portato lui e li stendemmo a terra alla bell’e meglio. L’erba era ancora bagnata a causa della pioggia dei giorni precedenti, ma quelli sarebbero bastati a evitare che ci infradiciassimo, e gli alberi ci riparavano dal forte vento che si stava alzando. Tutto era perfetto, persino le urla lontane dei bambini che giocavano sembravano un dettaglio fondamentale in quella circostanza.
Sorrisi nel ricordare che pochi anni prima anche io ero una di loro. Eravamo due di loro.
Era così strano essere lì con lui, nel posto che ci aveva visto crescere finché le nostre strade non si erano divise; ma alla fine quella stranezza non si rivelò essere altro che gioia mischiata ad un pizzico di nostalgia, che lasciai correre.
Quando tutto fu sistemato ci sedemmo sugli asciugamani, coprendoci con la mia coperta pesante. Eravamo uno di fronte all’altra, le gambe incrociate che si toccavano nel calore già forte che ci avviluppava.
Era un momento così dolce e delicato che non osai rompere il silenzio in cui eravamo piombati…uno di quei pochi silenzi che in realtà celavano mille parole.
«Hai fame?». Mi chiese guardando il mio zaino. A me era spettato portare il cibo, ma anche quello non era stato difficile da procurare. Avevo da parte abbastanza soldi per fare la spesa e quando mia madre era uscita per andare dalla nonna io mi ero diretta al supermercato. Ci avevo impiegato tutto il pomeriggio, ma alla fine ero stata abbastanza soddisfatta del risultato.
«No, per niente». Dissi reprimendo un brivido causato dall’aria gelida. 
«Vieni qui, dai». Lore sciolse le gambe e io mi ci misi in mezzo, con la schiena poggiata contro al suo petto. Il suo viso era piegato sul mio collo, dove si infrangeva il suo respiro. Serrai la bocca e le sue labbra bollenti si posarono sulla mia nuca, mandando brividi ovunque.
Quando i tremori per il freddo cessarono, Lore smise di lasciarmi baci su quella parte di pelle nuda e lo sentii irrigidirsi leggermente.  «Non ti ho portata qui solo per far una buona impressione. Non ho scelto questo poso a caso…l’ho fatto perché pensavo fosse giusto così».
Socchiusi gli occhi, completamente rilassata. In quel momento, mi fidavo di lui come non mi ero mai fidata di nessun altro. Non avevo paura dei suoi giri di parole…non mi avrebbe delusa, non avrebbe distrutto quella bolla di felicità in cui ci eravamo chiusi insieme. «Che intendi dire?».
Lore respirò a fondo, come se aspettasse quella domanda per poter parlare . «Sei pronta a sentire la verità?». Si fermò, non soddisfatto delle sue stesse parole. «Tutta la verità?».






Note:
Ciao carissime lettrici! So che sono passati più di due mesi dall'ultimo giorno e che vi ho fatto aspettare decisamente troppo, ma vi prego di perdonarmi!
Questa volta non ho nessuna giustificazione, mi sono semplicemente lasciata prendere dalle vacanze e, anche se il capitolo era già pronto, rimandavo sempre l'aggiornamento. Vi chiedo ancora scusa, cercherò di ridurre i tempi per i prossimi.

Per quanto riguarda il capitolo. Non mi sento di commentarlo perché non saprei proprio cosa dire...perciò lascio che siate voi a farlo! Fatemi sapere se vi è piaciuto, se è valsa la pena di aspettare e qual è stata la vostra "scena" preferita, se vi va. La mia è stata quella degli spogliatoi, che tra l'altro non era nemmeno in programma. È stato bello scriverla, così come il resto del capitolo...Giorgia e Lore finalmente sereni! Ora c'è da risolvere solo il problema con i genitori di Giorgia, che non si fidano di lui.
Vediamo cosa ne uscirà fuori e se Lore riuscirà a farli ricredere sul suo conto. Voi che dite?
In ogni caso, la storia ormai è quasi conclusa. Non saranno più di venti capitoli, forse anche di meno, ma è giuto che giunga al suo capolinea ^^ Mi mancherete moltissimo! ç_ç

Per finire, ringrazio di cuore tutte le persone che hanno commentato lo scorso capitolo e tutte quelle che hanno aggiunto la storia alle seguite, preferite e ricordate.
Scusate  se non ho risposto alle recensioni, proverò a recuperarle.

Un bacione a tutte e buone vacanze! 

Veronica

P.s: perdonate gli errori, se mi fossi messa a revisionare un'altra volta il capitolo probabilmente avrei rimandato l'aggiornamento alla fine del mese XD









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Capitolo 15
*** La verità non sempre fa male. ***


Capitolo 14: La verità non sempre fa male




«Qualunque cosa sto per dire ti sembrerà inaccettabile ed hai tutte le ragioni del mondo per ritenerla tale, così come di prendere la tua borsa, andartene e non volermi vedere mai più». Lore abbassò lo sguardo. Aveva paura e dovetti ricorrere a tutte le mie energie per non allungare la mano sulla sua, per confortarlo.

«Non sono neanche bravo con le parole». Commentò sarcastico, ma il sorriso che in quel frangente gli increspò le labbra era solo una copertura. Lo sapevo bene io. Lo sapeva bene lui.  Prese un profondo respiro e mi fissò dritto negli occhi. «Per sette anni - credimi, li ho contati anche io - sono stato un codardo». Fece una pausa in cui distolse lo sguardo. «Mi vergogno persino a parlartene...cavolo, no, non sono stato semplicemente un codardo, sono stato un vero idiota».
«Lore, non ha senso che tu stia a giudicare il tuo comportamento». Lo esortai, ma lui scosse la testa.
«Perché credi che sia cambiato tanto?». Mi chiese a bruciapelo ed io mi strinsi nelle spalle. Guardò dritto davanti a se per un interminabile eternità. «La verità è che non sono mai cambiato, te l’ho fatto semplicemente credere».
«Non credo di esserne sorpresa».
Lore riportò bruscamente l'attenzione su di me, allontanandola dalla miriade di parole che stava selezionando. «Lo sapevi?». Chiese incredulo.
«No». Risposi. «Era solo un pensiero, che però mi sembrava totalmente assurdo e, comunque, l'idea mi ha sfiorata solo dopo che...sì, insomma, dopo che mi hai chiesto di darti un'altra possibilità». Conclusi arrossendo.
Restammo in silenzio per un po', poi Lore annuì. «Ti ricordi quando ho iniziato ad ignorarti?».
Strabuzzai gli occhi. «Sette anni-».
«Non in termini di tempo, che periodo era, te lo ricordi?». Mi interruppe lui. Il viso esternamente impassibile.
Per quanto non capissi, decisi di rifletterci su. Periodo...periodo...che fosse...? «Da quando ho iniziato le medie».
«Esatto». Disse lui senza nessun particolare inflessione nella voce. «O, se preferisci, l'anno in cui ho raggiunto l'apice della mia popolarità - se così possiamo chiamarla». Fissò il prato mosso da un leggero vento e colse una margherita. «Oppure ancora, l'anno in cui tu ti sei fatta la tua fama da secchiona». Lo ascoltai in silenzio, mentre strappava con precisione i petali del fiore. Ed era bellissimo. «Popolarità e denigrazione non possono andare di pari passo, Giorgia, o almeno di questo ero convinto...i miei amici ne erano convinti».
Una vaga idea di quello che stava per dire cominciò a formarsi nella mia mente e il sangue mi si gelò nelle vene. Mi aggrappai all'erba con una mano, per farmi forza, anche se una parte di me voleva solo aggrapparsi a lui.
«"Ma sei davvero amico di quella di prima?" mi chiedevano ridendo "è una sfigata assurda!". Io inizialmente rispondevo di sì e mi arrabbiavo per quelle stupide insinuazioni, ma presto i loro commenti diventarono insistenti, le loro battutine fastidiose ed io cominciai a vacillare nel dare quella stessa risposa. Allo stesso tempo, il numero dei miei amici cresceva a dismisura - ovviamente ciò era dovuto al mio carattere ribelle (l'ho sempre avuto) e all'ammirazione che le ragazze nutrivano nei miei confronti, non erano amici veri - e io ci tenevo a quella popolarità, mi piaceva vedermi circondato di gente sempre nuova, pronta ad elogiarmi e a trattarmi come un idolo...mi sentivo forte in un certo senso, ma ora mi rendo conto che erano solo i miraggi della piena adolescenza». Si fermò con un sorriso triste e strappò un ciuffo d'erba che lanciò davanti a se. «Capirai che la posizione in cui ero - e ancora sono - non è facile da mantenere, devi sempre pensare prima a cosa gli altri vorrebbero che tu faccia, a cosa si aspettano da te...e a quel tempo loro pensavano che tu fossi solo una perfettina a cui interessava lo studio, un bersaglio facile da colpire, prendere in giro e anche umiliare. Non ero contento di vedere come venivi schernita da quelli che io definivo amici, ma resta il fatto che da quando hanno iniziato con le loro cattiverie io non ho mai fatto nulla per fermarli, avevo paura di mandare tutto all’aria. E poi...poi mi sono ritrovato ad incoraggiarli e, ancora, ad essere io a farti del male».
La temperatura mi sembrava calata di parecchi gradi, ma non volevo lasciare che i sentimenti - troppi, forti e incontrollabili - mi rendessero poco lucida. Dovevo ascoltare tutta la storia...perché non finiva così, vero?
«Non volevo veramente farlo, non ne traevo alcun piacere…e se i miei amici non ti avessero presa così di mira non ti avrei mai fatto del male. Mi sforzavo di trovare un lato divertente nella cosa, lo stesso che vedevano gli altri, ma poi mi ritrovavo a pensare alla Giorgia che era stata mia amica, a questo parco e mi chiedevo se il nostro tempo trascorso qui non fosse la rappresentazione più corretta di ciò che è divertente. Mi rispondevo che quello era stato il mio passato, che ero cresciuto ed era giusto lasciarti indietro...come un piacevole ricordo. Sì, ero deciso a calpestare la nostra amicizia pur di non perdere la mia popolarità».
Quell'ultima frase mi squarciò il petto in due. Cacciai indietro le lacrime e mi alzai in piedi. «Continua». Dissi con un fil di voce, voltandomi di spalle per nascondermi dal suo sguardo.
C'era per forza una parte positiva, ci doveva essere.
«Dopo qualche tempo divenne un’abitudine renderti la vita un inferno, non so cosa mi successe, ma ci fu un periodo in cui, alla fine, credetti di capire perché gli altri si divertissero tanto nel farlo. E questo periodo terminò quando arrivai in terza superiore, l'anno in cui venni bocciato. Fu un anno orribile: le ragazze che frequentavo mi sembravano odiose, i miei amici insopportabili e cominciai a pensare che forse non era quella la vita che volevo e che perderti era stato un errore imperdonabile. Iniziai nuovamente la terza ed incontrai Davide...mi ricordò subito te - con quegli occhiali da secchione e i vestiti più orrendi di quelli del prof Consuelo - mi dissi che non avrei fatto lo stesso errore e decisi di aiutarlo. Avevo fallito con te e non potevo far nulla per recuperare, ma lui era ancora in tempo...potevo renderlo degno di essere mio amico, così che gli altri miei amici non gli si potessero mettere contro. Anche questo è un pensiero sbagliato, lo so, ma non credo sia stato un male cambiare per lui».
Deglutii e gli posi l'unica domanda che riuscii a formulare. «Se avevi capito di aver sbagliato, perché non sei venuto da me a chiedermi di ricomin...».
Lore si alzò di scatto e le parole mi si bloccarono in gola. La sua presenza mi dominava come sempre. «Chi mi avrebbe garantito che non ti avrei più fatto del male? Ci ero riuscito una volta e niente avrebbe impedito una seconda, Giorgia. Se ho continuato a trattarti in quel modo è solo perché non volevo che tu pensassi di poter tornare mia amica, se fosse successo e ti avessi ferita di nuovo non me lo sarei mai perdonato. In quel modo, invece, potevamo continuare a vivere entrambi. Comunque, da allora ho sempre cercato di andarci piano…e non so se ci sono riuscito, forse no. Be’, è meglio concludere la storia, così puoi insultarmi quanto ti pare...ascolterò ogni singolo impropero se ti farà sentire meglio. Per tutta l'estate avevo continuato a chiedermi perché le ragazze con cui stavo mi stancassero subito ed ho pensato che in qualche modo potesse essere collegato a te. Eri l'unica amica che avessi mai avuto, cosa avevano in meno le altre per essermi comode solo quando avevo voglia di qualcosa di farci sesso? Mancava il dialogo, i loro discorsi mi annoiavano e io non gli avrei mai rivelato nulla di me. Avevo bisogno di risposte e così ho sfruttato la parte migliore di me per avvicinarti, quella estetica. Di avvicinarti come amica non se ne parlava, in questo ero deciso,  ma come potrai immaginare le cose mi sono sfuggite di mano. Oltre a sentirmi a mio agio ero anche irrimediabilmente attratto da te e capii perché le altre non mi interessavano. Io voglio te, Giorgia. Il resto della storia lo sai già».
Quando Lore finì di raccontare, respirai a fondo per ridare aria ai polmoni. In tutti quegli anni mi ero fatta mille filmini mentali su quella che poteva essere la ragione del suo abbandono, ma mai la versione più semplice - quella che aveva raccontato lui - mi era passata per l'anticamera del cervello. La risposta era così chiara...eppure era l'unica possibilità che non avevo vagliato. Nonostante questo, quando le immagini del passato mi passarono davanti con una nuova luce pronta a giustificarle, mi sembrò di rivivere una vita che non era stata mia.
Sentii un fruscio alle mie spalle e intuii che Lore si era alzato. Attesi il calore della sua mano, ma non arrivò. «Giorgia, il silenzio è l'unica risposta che non vorrei sentire».
Presi coraggio e mi voltai. «Mi dispiace...è l'unica che posso darti questo momento». Risultai più dura di quanto sperassi, ma sapevo che lui non ci sarebbe rimasto male...non più del necessario.
Lore mi guardò in silenzio, soppesando il mio sguardo e le mie intenzioni con il suo solito, finto disinteresse, dopodiché annuì. «Capisco. Be', prenditi il tempo che ti serve,  io sono qui».
Lo osservai tornare seduto e poi stendersi con le mani dietro la testa. La mia coperta era rimasta ingarbugliata da un lato e lui non l'aveva nemmeno sfiorata. Accanto a lui, c'era lo spazio necessario per me.
Non volevo andarmene, in quel momento più che mai volevo stargli vicino, ma non era la cosa giusta da fare, dovevo raccogliere le idee. Così raccattai le mie cose e tastai la borsa in cerca del cellulare. Niente.
Dopo qualche minuto di vane ricerche, il rumore delle cianfrusaglie sembrò catturare l'attenzione di Lore e i suoi occhi mi furono addosso. Nell'incrociarli, mi arresi all'evidenza. «Puoi prestarmi il cellulare?». Chiesi in imbarazzo.
Lore mi guardò incerto per la mia richiesta, poi frugò nelle tasche dei jeans ed estrasse il telefono. Era touch come quello di tutti i miei coetanei, ma avrei trovato il modo di usarlo. «Grazie». Mormorai prendendolo. Nel farlo, le nostre dita si sfiorarono appena. Ma quel minimo contatto bastò a far accelerare la corsa del mio cuore.
Mi sedetti sull'erba e in qualche modo riuscii a trovare il numero di Davide in rubrica. Al secondo squillo rispose. «Ehi, amico, perché mi chiami nel bel mezzo del tuo appuntamento galante?».
«Ehm, Dav, sono io...».
A quel nome, un lampo di sorpresa attraversò gli occhi di Lore. Probabilmente si aspettava che chiamassi mio padre...e l'avrei fatto se non mi fossi trovata in quel posto sperduto. Che scusa avrei trovato? Per lui ero a casa di Davide...
«Giorgia? Che succede?». La voce preoccupata di Davide mi fece sorridere.
«Niente di grave, tranquillo, volevo solo chiederti se...puoi venirmi a prendere?».
«Che cosa ti ha fatto? Passamelo».
«Dav, davvero, nulla. Vieni all'ingresso del parco, ti spiegherò tutto. Intanto chiedi a tua mamma se può aggiungere un posto a tavola. Ti aspetto».
Non attesi oltre, chiusi la conversazione e mi alzai da terra. Avrei cenato a casa di Davide e sarei rientrata all'orario previsto, sua madre era una donna talmente gentile che non avrebbe obiettato. Non volevo risultare maleducata nell'autoinvitarmi, ma se fossi tornata a casa troppo presto, i miei avrebbero fatto domande e io ne avevo già fin troppe a cui dare una risposta.
Lore prese il cellulare senza fare una piega, come se il fatto che avessi chiamato il suo migliore amico non lo interessasse minimamente, ma prima che mi allontanassi, mi serrò il polso con la mano. Non c'era forza nella sua stretta, solo determinazione. «Credevo che volessi prendere la tua decisione da sola».
«Lore...». Lo rimproverai. «Lasciami andare».
«Davide ti influenzerà e lo sai anche tu».
«Non voglio decidere da sola, voglio solo riflettere senza...distrazioni».
Sentii la presa allentarsi e tirai un sospiro di sollievo per la sua arrendevolezza, ma non appena cercai di alzarmi, le sue dita si strinsero di più nella carne e mi trascinarono su di lui. Mi portò la mano imprigionata sul cuore che batteva all'impazzata. Feci per dire qualcosa, o aspettai che fosse lui a farlo, invece mi baciò. Lentamente, mi lasciò andare la mano e poggiò le sue sulle mie guance, tenendomi fermo il viso mentre giocava con le mie labbra, mordendole, e poi con la mia lingua. Fu tutto talmente veloce e inaspettato che non feci in tempo a reagire e, quando lo feci era ormai troppo tardi. «Ho detto che non voglio...».
«Distrazioni?». Concluse la frase per me, sorridendo. «Oh, come vuoi, ma se hai davvero intenzione di lasciarmi è meglio che ricordi quello che senti quando sei con me».
Qualche minuto dopo ero davanti all'ingresso del parco. Lore era rimasto lì e io gli avevo lasciato gli asciugamani...in fondo non ero arrabbiata con lui, solamente molto confusa. Le persone non restano sempre le stesse ed io credevo davvero che lui fosse cambiato...in meglio. Ma allo stesso tempo avevo bisogno di metabolizzare tutte le confessioni che mi aveva fatto quel giorno, l'idea di lasciarlo – anche se non stavamo insieme - non mi aveva sfiorata nemmeno per un secondo. Mi aveva fatto soffrire, è vero, ma quello era il passato, così come passato erano i nostri momenti da bambini e, se quello che mi aveva raccontato era vero, ad un certo punto la sua sfuggevolezza nei miei confronti era stata giustificata dalla voglia di proteggermi.



La casa di Davide era molto grande, almeno il doppio della mia e nonostante ci fossi stata parecchie volte, ancora non sapevo orientarmi bene. Il soffitto era molto alto e dalla sala, degna di una di quelle ville d’altri tempi, partiva un corridoio lungo almeno cinque metri che portava alle camere da letto e al bagno. E proprio in quel corridoio mi ero persa parecchie volte, quando diretta verso al bagno mi ero ritrovata invece in qualche stanza da letto.
Quando arrivammo, la cena era quasi pronta, quindi non ebbi modo di raccontare immediatamente i dettagli. Tutto ciò che Davide sapeva si limitava alle tre parole contate che gli avevo accennato in macchina e cioè: “So la verità”.
Verità. Quante cose nascondeva quella singola parola, alcune talmente dolorose che una volta scoperta ti sconvolgeva ogni prospettiva che avevi della tua vita. Ad ogni modo, non era così che mi sentivo io. Ero confusa e...allo stesso tempo tutto mi era così chiaro.
«Giorgia, cara, che piacere rivederti». Mi salutò la mamma di Davide mandandomi un bacio. Tale donna era un vero portento: dolce e assolutamente con i contro cazzi. Ecco, se avessi potuto scegliere che tipo di donna diventare, avrei fatto il suo nome.
«Vale lo stesso per me, Dora». Replicai di buon umore, mentre posavo cappotto e sciarpa all’ingresso.
«Spero che tu abbia avuto una valida ragione per abbandonarmi al mio irrimediabile destino di mamma a tempo pieno». Proseguì ironica, sempre intenta a girare i suoi intrugli.
Feci per rispondere, ma qualcuno mi anticipò. E quando quella voce arrivò vivace e squillante, mi irrigidii sul posto. «Era troppo impegnata a vedersi con il suo ragazzo per pensare a te, mamma».
In pochi passi Carol mi fu davanti e, munita di un sorriso falsissimo, mi salutò con la mano. «Vero, Giorgia?».
Aprii la bocca e la richiusi all’istante. Non mi aspettavo di vederla in casa, era sempre fuori con gli amici e le poche volte che ci eravamo incrociate non era uscita dalla sua camera nemmeno per sbaglio. La fissai in silenzio, silenzio poi prontamente interrotto da Dora, che alle parole della figlia aveva lasciato cadere il mestolo nella pentola che aveva davanti. Una delle trecento intente a bollire.
«Cosa?!». Esclamò infatti, con la bocca a mezzo centimetro da terra. «Ti sei fidanzata senza dirmi nulla?».
«Mamma». Intervenne Davide in imbarazzo quanto me. «Non siete amiche, non deve raccontarti tutto e poi…».
«Non sono fidanzata». Riuscii a dire continuando a guardare Carol con sospetto. «Non proprio…almeno». Aggiunsi più timidamente.
«Non è ufficiale, quindi?». Si informò Dora con il broncio.
Scossi la testa e fissai lo sguardo sul pavimento, interrompendo il contatto visivo con Carol.
«Ohhh, capisco».
Ero pronta a ritenere l’argomento archiviato, ma la sorellina adorata di Davide era proprio decisa a farmi sotterrare dalla vergona. «È Lorenzo il fortunato, mamma. Te lo ricordi? Quel gran figo che è venuto qui qualche volta. Biondo, fisico da mozzare il fiato…».
Dora parve pensarci, poi si illuminò sbattendo vittoriosa la mano sul bancone della cucina. «Lorenzo? Il ragazzo a cui ho consigliato di fare il modello appena ha messo piede qui? Quel Lorenzo?».
«Sì, mamma». Rispose Davide scocciato. «Possiamo non parlare di lui?».
Guardai il mio amico con la coda dell’occhio e gli sorrisi appena appena per ringraziarlo. Lui mi fece l’occhiolino e poi mi trascinò in bagno per lavarci le mani.
«Che problemi ha tua sorella con me?». Dissi non appena l’acqua del rubinetto prese a scorrere.
Davide fece spallucce. «Gelosia…credo».
«Gli piace ancora Lore?». Chiesi perplessa.
«Be’, se trovi una qualunque ragazza che abbia avuto un incontro del terzo tipo con lui e che non vorrebbe ripetere l’esperienza, fammi un fischio. Magari tu sarai più fortunata».
«Wow». Dissi provando una strana gelosia. E per un istante desiderai ardentemente di non essermene andata da quel parco.
«Ma lui ha scelto te, no?». Davide dovette cogliere quella sfumatura nella mia voce. «Insomma non so cosa sia successo tra di voi stasera, ma posso assicurarti che non pensa più alle altre. Da quando state insieme si può parlare con lui anche di cose che non siano sesso, taglie di reggiseno e quant’altro».
«Non stiamo insieme».
Davide sbuffò. «A scuola sarai anche una secchiona del cavolo, ma per quanto riguarda i ragazzi sei proprio ottusa».
Si asciugò le mani e spense la luce. «Andiamo, sto morendo di fame».


«Giorgia, sei fortunata!». Esclamò Dora spegnendo i fornelli. Mi fermai sorpresa. Non avevo neanche messo piede in cucina ancora.
Superata la confusione seguii Davide al tavolo. «Ah, sì?». Chiesi sedendomi accanto a lui e a quel punto fu inevitabile trovarmi davanti gli occhi insistenti di Carol. Ricambiai lo sguardo freddamente.
«Il menu di questa sera prevede anche le cotolette alla milanese che ti piacciono tanto».
«Grazie, Dora». Dissi un po' in imbarazzo. Quella donna mi viziava troppo e temevo che il suo atteggiamento potesse regalarmi un'altra frecciatina da parte di Carol.
«Perché un giorno non porti qui il tuo ragazzo?». Chiese infatti quest'ultima con un sorriso falso. «Pranzo, cena...merenda. Potremmo passare del tempo insieme, scommetto che ci divertiremmo tantissimo.
«Sì, ti prego!». Implorò Dora congiungendo le mani in segno di preghiera. «Non vedo Lorenzo dall'anno scorso ed era proprio una buona forchetta. La mia cucina ha bisogno di soddisfazioni».
Davide lanciò un'occhiataccia alla sorella, a cui lei rispose con una scrollata di spalle.
«Ehm...io....glielo chiederò». Balbettai, sicura che non fosse assolutamente una buona idea. Anche se, pensandoci bene, il pensiero di rimarcare il territorio con Carol era parecchio allettante.
Questa prospettiva mi fece sorridere. «Anzi, credo proprio che verrà se glielo chiedo io».
Scandii ogni parola con gli occhi fissi sulla ragazza davanti a me, che per un secondo sembrò perdere la sua sicurezza, riacquistandola poi con la risposta successiva.
«Benissimo». Disse fieramente. Intanto Davide, al mio fianco, mi guardava sconvolto.
«Oh, non vedo l'ora!». Disse Dora entusiasta e così ci servì la prima portata di cibo. Chiesi mentalmente al mio stomaco di essere clemente quel giorno, perché le portate di Dora erano sempre parecchio abbondanti.
La cena trascorse abbastanza tranquilla, feci persino il bis di cotoletta, e tra uno sguardo inceneritore e l'altro scambiato con Carol, arrivai alla fine senza sentirmi eccessivamente piena.
Erano ancora le dieci di sera. Chissà cosa stava facendo Lore…
Era ancora al parchetto?
Con questi pensieri ancora in testa, finalmente io e Davide riuscimmo a sfuggire alle amorevoli grinfie di mamma Dora e alle fastidiose frecciatine di Carol rinchiudendoci in camera sua.
Al sicuro da orecchie indiscrete e con un peso enorme dentro che avevo assolutamente bisogno di tirare fuori, rimandare il discorso e le spiegazioni non avrebbe avuto senso.

Quando ebbi finito mi sentivo terribilmente stanca, avevo parlato tutto d’un fiato e con tanta foga da sorprendermi io stessa. Davide, invece, non aveva ancora detto nulla e io aspettavo con ansia il suo parere. Era un ragazzo saggio per la sua età e i suoi consigli erano sempre ben ragionati e perspicaci.
Perciò, mentre lui rifletteva con un’espressione dolce e concentrata io pendevo dalle sue labbra.
«Se non te la senti di farlo ora, prenditi il tempo che vuoi. Non ti preoccupare delle conseguenze, non c'è niente di male se lo fai patire un po', è troppo abituato ad ottenere subito ciò che vuole». Disse infine, facendomi tirare un sospiro di sollievo. Temevo dicesse che le mie preoccupazioni erano stupide o che avrei dovuto perdonarlo all’istante, ma il suo suggerimento era allettante e in linea con i miei pensieri.
Sospirai prendendo a giocare con il cuscino di Davide. «È questo il problema, Dav, non sono arrabbiata con lui...non come dovrei, almeno, e la cosa mi manda in bestia».
Davide mi guardò stranito per un'infinità di tempo, poi sembrò sbloccarsi. «No, fammi capire. Tu stai facendo tutta questa manfrina solo perché credi che dovresti essere arrabbiata con lui?».
Ok, detta così suonava malissimo, ma nella mia mente aveva un significato tutto suo. Cioè, se lo avessi perdonato...
Scossi la testa per liberare la mente e deviai lo sguardo sul cuscino. «E per quale ragione dovresti esserlo, Giorgia?».
Improvvisamente sentii il calore della sua mano e sobbalzai incrociando i suoi occhi pieni di comprensione. «Io...non lo so. È tutto così assurdo. La sua storia, le motivazioni che mi ha dato, ma soprattutto il fatto che credo che sia davvero cambiato».
«Magari è così, anzi, ne sono sicuro». Ribatté prontamente.
Mi torturai il labbro inferiore con i denti, meditando su quella risposta. «Già, magari».
«Prova a pensarci. Perché credi che non sia più il ragazzo che ti rendeva la vita impossibile?».
E le parole mi uscirono come un fiume in piena. «Perché quando ci siamo dati una seconda possibilità era tormentato, come se stesse andando contro tutti i suoi principi, ho letto paura nei suoi occhi, Davide. Ma non paura per se stesso, paura di ferirmi. E io sono sicuro che sia sincero questa volta, perché so che non potrebbe più ferirmi. È...è impossibile... nessuno sarebbe in grado di infliggere tanta sofferenza ad una persona e a ricalpestare di nuovo il suo cuore in questo modo subdolo. Ho capito che non posso stare aggrappata al passato per sempre, devo voltare pagina...e credevo di averlo già fatto da molto tempo, sai? Ma non è così! Ho continuato a vivere nei ricordi, gli ho permesso di condizionare le mie scelte presenti e...questo è sbagliato. Ma allo stesso tempo ho paura di dimenticare, perché se cancello il passato, se dimentico come mi sono sentita ferita quando ho visto Lore voltarmi le spalle, se dovesse tradirmi di nuovo dovrei ricominciare tutto da capo, soffrirei il doppio, capisci?».
«Perfettamente».
«Sono una stupida, vero?».
«No, sei innamorata».
«Non...». Tentennai. Un conto era ammetterlo a me stessa, un altro con la mia migliore amica e mia cugina, ma con Davide era...imbarazzante. Lui era un ragazzo! Il migliore amico di Lore, per giunta.
Arrossii vedendo la sua espressione divertita.
«Ok, forse lo sono».
Davide si lasciò scappare una risata mentre annuiva e si sporgeva in avanti per abbracciarmi. «Senza forse, fino al midollo, ma...». Disse tra i miei capelli.
«Anche lui lo è». Proseguì in un sussurro rassicurante. «E comunque, se vuoi sapere la mia, Lore è davvero e sinceramente cambiato questa volta, anche se continuo a pensare che bramarti non gli farebbe che bene».
«Se lo dici tu». Mormorai inebriandomi del suo delicatissimo profumo, che in qualche modo mi rimandò al mio cruccio più grande.
Sbuffai e mi staccai da Davide con stizza. «Ad ogni modo, hai ragione, dovrà sudarsi il mio perdono questa volta». Poi mi venne un'idea malsana, assurda ed altamente idiota. «Io non sono fidanzata». Dissi meccanicamente.
«Tecnicamente lo sei».
Ignorai la sua precisazione e continuai a seguire il filo dei miei pensieri «...e  non credo ti farebbe così schifo se ti chiedessi di...». Presi un profondo respiro, rossa dalla vergogna. Lo stavo davvero per dire? «Baciami». Chiesi con voce stridula. Mi succedeva ogni volta che dicevo una stronzata. E quella lo era.
Davide, dal canto suo, mi guardò perplesso per un paio di minuti, forse per elaborare bene la mia richiesta, infatti si ritrasse spaventato e con gli occhi sbarrati dalla paura.
«Ok, mamma deve aver messo qualcosa di avariato nel cibo. Vado a chiamare gli addetti alla sanità culinaria». Constatò seriamente preoccupato.
«Ehi, non sono mica così orrenda! E poi la principessa di non-mi-ricordo-quale-fiaba ha baciato un rospo disgustoso...». Mi difesi d'istinto.
«Frena, frena. Non si tratta di questo. Lo stai facendo per vendetta e poi...». Blaterò Davide con fare professionale.
«Certo che lo sto facendo per vendetta! E poi Lore ha baciato almeno tutte le ragazze della nostra scuola e io solo lui, non mi sembra giusto! Non è equo».
«Giorgia, ti rendi conto di quello che stai dicendo? No, vero?».
«Sì, invece. Almeno per una volta voglio cambiare i nostri ruoli, voglio che sia lui a rincorrermi».
«E vorresti farlo baciando me?».
«E chi altro? Sei il suo migliore amico! E l'unico che mi bacerebbe, a dirla tutta. A scuola non ho amici».
Per un attimo Davide sembrò valutare davvero la mia proposta. «Non se ne parla nemmeno! Giorgia, tu non sei così».
«E non essere così a cosa mi ha portata? A dipendere dagli sbalzi d’umore di un idiota putt...».
«Ok, comincio a pentirmi di averti suggerito l'idea di farlo patire. Non era questa la vendetta che avevo in mente e se proprio ci tieni a portarla avanti allora dovrai trovarti un altro volontario, oppure potrai fingere di aver baciato qualcuno che hai conosciuto...da qualche parte, basta che non sia io».
«Non crederebbe mai che ho baciato uno sconosciuto, ma soprattutto che questo avrebbe mai baciato me...». Biascicai offesa. «E poi perché non tu?». Protestai con il broncio.  
Davide arrossì grattandosi la nuca imbarazzato. «Perché sono fidanzato, Giorgia».
Per poco non toccai il pavimento con la mascella a quella notizia. «Come?!».
«Beh...si....da poco...non...beh...». Davide stava balbettando! Davide stava balbettando! La cosa non era affatto di poco conto.
«E perché non me l'hai detto? È da mesi che io ti rompo con i miei problemi amorosi...».
«Perché è avvenuto tutto molto in fretta e...non sapevo se fosse una cosa seria».
«Lo è?».
Davide sorrise e seppi la risposta immediatamente.
Battei le mani entusiasta, pronta a fare un interrogatorio al mio amico. Poi, un pensiero mi fece inorridire. «Ho davvero cercato di indurti a tradire la tua ragazza?».
Ci guardammo per una frazione di secondo e poi scoppiammo a ridere.


Dopo aver ricavato le informazioni necessarie sulla ragazza che aveva rubato il cuore del mio migliore amico - e ottenuto la promessa di un incontro con lei al più presto possibile - decisi di tornare a casa. Parlare con Davide era stata una liberazione, ma soprattutto utile per fare un po' di chiarezza nella mia testa, cosa che sembrava assolutamente rara da trovare in quel periodo. Avevo intenzione di riferire a Lore la mia decisione, che sarei passata sopra ai suoi errori e al nostro passato pur di stare con lui, ma non subito e soprattutto non senza vendicarmi.  
Quando entrai in casa le voci dei miei genitori provenivano dal salotto ed erano coperte dal suono della tv accesa. Mi bloccai di scatto: non stavano ancora dormendo e la cosa era piuttosto strana e preoccupante dato che era domenica sera. Al suono della porta che sbatteva  si erano azzittiti improvvisamente, chiaro segno che stessero parlando di me. E quegli elementi non prospettavano decisamente nulla di buono.
Prendendo coraggio e superando ogni indugio, raggiunsi la sala e li trovai intenti a guardare uno sciocco reality show di cui - ci scommettevo - non conoscevano neanche il nome. Poi loro li odiavano quei programmi! Chi credevano di prendere in giro?
«No, continuate pure, voglio sentire». Dissi posando la borsa per terra. Odiavo quando cercavano di nascondermi qualcosa e ne parlavano alle mie spalle.
In un primo momento provarono a giustificarsi e a blaterare cose che non stavano né in cielo né in terra, ma vedendo la mia determinazione a non ascoltare le loro scuse decisero di informarmi dei fatti.
«Ha chiamato Fabrizio...è tornato in Italia e dice che vuole vederti». La voce di mia madre, come ogni volta in cui parlava di lui, non fu che un flebile sussurro allarmato e rassegnato. Perché lei sapeva che ogni volta che sentivo il nome del mio padre biologico reagivo all'opposto di come avrebbe voluto lei: sorridendo come una bambina davanti ad una lecca-lecca gigante. «Davvero?! E quando è tornato? Vuole vedermi?». Domandai a raffica, davanti all'espressione vuota di mia madre.
«Non lo so, non sono cose che mi interessano, ma ha detto di chiamarlo il prima possibile».
«E tu, ovviamente, avevi intenzione di tenermi nascosto tutto questo, vero?». Dissi con acidità, perché era quello che faceva ogni volta. Quante occasioni avevo sprecato di vedere mio padre per colpa sua!
«Giorgia, lo sai che non sono d'accordo».
«Ma sai anche quanto mi faccia piacere vederlo e non dovresti nascondermelo dato che sai quanto ho sofferto per il vostro divorzio».
Mia madre si tuffò il viso nelle mani e scosse la testa. Era un discorso che avevamo affrontato parecchie volte, ma lei sembrava non capire il mio punto di vista. Era convinta che fosse un male per me vedere l'uomo che mi aveva dato la vita.
Spostai lo sguardo su Mauro. Mauro che mi incoraggiava sempre, Mauro che mi aiutava sempre a convincere la mamma quando sorgeva il solito problema: mio padre tornava in Italia e voleva vedermi.
Questa volta tuttavia, lo trovai assente, come se quella fosse l'ultima delle sue preoccupazioni. E vedendo il mio unico alleato voltarmi le spalle mi sentii improvvisamente sola.
Li guardai con disprezzo e girai i tacchi, chiudendomi finalmente in camera mia. Trovai il cellulare sulla scrivania e aprii le chiamate perse: ce n'erano cinque di mio padre. Nessuna di Lore. Non seppi se apprezzare il suo gesto di lasciarmi lo spazio e il tempo di decidere, oppure essere delusa del fatto che non mi avesse cercato neanche una volta. La seconda ipotesi era infantile quanto il mio tentativo di baciare Davide per ripicca, così la scartai immediatamente. Controllai l'orologio e rinunciai al proposito di chiamare subito mio padre, così cercai in rubrica il numero di Martina. Lei sapeva quanto soffrissi per la lontananza di mio padre, quanto fossi felice di vederlo quelle poche volte che riuscivamo ad incontrarci, mi avrebbe capita ed io sarei riuscita a superare il nervosismo.
Ma anziché lei, fu la segreteria a rispondere. Imprecai e provai a chiamare Rosaria. Anche lei mi avrebbe dato un po’ di conforto, ma il cellulare squillò a vuoto. Probabilmente stava dormendo e aveva lasciato il silenzioso.
L’unica, altra persona che potevo chiamare e che mi avrebbe ascoltata era Davide, ma la questione di mio padre era troppo lunga e complicata da spiegare con una telefonata. Sentii bruciarmi gli occhi: ero davvero sola. Forse per la prima, vera volta in vita mia.
Per distrarmi passai in rassegna i nuovi messaggi, ma ne trovai solo uno di Rosaria che mi ricordava del suo compleanno. Mancava poco ormai.
Lanciai il cellulare sul letto e presi qualche libro a caso. Cosa c’era di meglio dello studio per non pensare ai miei problemi personali? Certo, una volta finito di studiare sarei tornata al punto di partenza, ma almeno avrei rimandato il corso dei pensieri che mi frullavano per la testa. L’indomani poi avrei chiamato mio padre per metterci d’accordo sul nostro incontro e a quel punto avrei potuto condividere la mia gioia con Martina. Era tutto sistemato, vero? E allora perché mentre sottolineavo paragrafi di cui non capivo il significato continuavo a piangere in silenzio?
Al limite dell’esasperazione, pensai all’unica persona che avrebbe potuto aiutarmi in quel momento.
Un tasto dopo l’altro composi il suo numero e quando premetti la cornetta verde il pensiero che potesse negarmi il suo sostegno mi assalì insieme alla paura.
«Lore?». Lo chiamai tra i singhiozzi, sentendo la sua voce assonnata. «Possiamo vederci?».

 ********************

Dopo aver messo il pigiama e cercato di far passare il rossore degli occhi, uscii lentamente dalla mia camera. La tv era spenta e la casa era avvolta dal silenzio della notte. Sgattaiolai in punta di piedi fino all’ingresso e sperai che non avessero chiuso a chiave la porta. Era raro che lo facessero, la nostra zona era molto tranquilla e per di più era possibile aprirla solo dall’interno.
Presi il giaccone appeso lì vicino e aprii quel tanto che bastava per scivolare fuori.
Socchiusi la porta alle mie spalle, facendo attenzione a non chiuderla, e lo trovai davanti a me. Era ancora spettinato, con indosso un pantaloncino che gli arrivava alle ginocchia, una magliettina leggera e sopra la felpa di una tuta. I capelli erano ancora spettinati e gli occhi leggermente assonnati.
Nel vederlo così, con lo sguardo preoccupato intento a studiarmi, non potei fare a meno di sorridere.
«Allora? Cosa succede? Mi hai fatto spaventare a morte». Disse lui con apprensione.
«Hai ragione, scusa, non avrei dovuto neanche chiamarti probabilmente…ma mi sentivo uno straccio e non sapevo a chi rivolgermi. Martina ha la segreteria, Rosaria non risponde, Davide non sa…». Ecco che straparlavo come sempre in sua presenza, ma Lore mi conosceva bene ormai e non si fece problemi ad interrompermi.
«Alt. Fermati. Mi vuoi dire cosa c’è che non va senza farmi l’elenco delle persone che hai chiamato prima di me e ricordarmi che sono l’ultima ruota del carro?». La sua voce era sarcastica, ma nascondeva una vera punta di fastidio.
Ok, forse non era stato propriamente carino fargli capire che era stato l’ultima spiaggia. «Si tratta di mio padre». Ammisi guardandolo fisso, questa volta.
Lore parve allarmarsi. «Mauro?».
Scossi la testa, ripensando alla sua noncuranza di poco prima. «Il mio vero padre».
La sorpresa animò gli occhi di Lore. «Vi vedete ancora?».
Annuii.
«E fammi indovinare. Tua mamma non vuole».
«Come sempre! E non capisco il perché, cavolo! Dovrebbe essere felice che mio padre mi cerchi ancora, che si preoccupi per me, no? E questa volta anche Mauro mi ha voltato le spalle, sembra assente, come se questi non fossero affari suoi».
Lore si sedette sul gradino più basso delle scale, ma non mi invitò a raggiungerlo. Era nel suo carattere non essere un gentiluomo e a me andava bene anche così.
«Anche se tuo padre si ricorda di te una volta all’anno sei comunque felice di rivederlo?».
Lo guardai stranita. «È fuori per lavoro, Lore, non per divertirsi».
«E ti ha mai chiamato dall’estero?».
«No, ma…». Mi fermai non sapendo cosa dire. Mi ero aspettata incoraggiamento da parte sua, non che mettesse in discussione le buone intenzioni di mio padre.
«Quindi mi stai dicendo che dovrei rinunciare all’unica possibilità che ho di passare del tempo con lui? Solo perché non ha tempo di chiamarmi?». Chiesi un po’ delusa. Forse avevo sbagliato a rivolgermi a lui, avrei dovuto sapere quanto fosse contorto nei suoi ragionamenti e poi eravamo quasi sempre in disaccordo.
«Non sto dicendo questo, Giorgia. La scelta è tua e tua madre sbaglia ad ostacolarti, ma prova a capirla…forse non le va che lui si ricordi di te solo quando torna qui».
«Non è per questo che mi ostacola, le dà fastidio che sia così felice di vedere l’uomo di cui si era stufata».
«Credi ancora che sia questo il motivo per cui l’ha lasciato?».
«Certo che sì! Quale altro potrebbe essere altrimenti?».
Lore scosse le spalle. «Magari tua madre non voleva crescere una figlia con un padre poco presente».
«Non ti ho chiamato per parlare delle ragioni del divorzio dei miei genitori». Dissi acidamente.
«Ma devi parlarne, devi comprenderle, se vuoi capire perché tua mamma non vuole che vi vediate. Finora sei sempre rimasta nella convinzione che tua madre l’abbia lasciato perché si era stancata di lui, ma se non fosse così?».
Provai a ribattere, ma rinunciai all’istante. «Ma anche se scoprissi che è quella la motivazione, cosa cambierebbe? Credi che non avrei più voglia di vederlo?».
«No, Giorgia, smettila di pensare che tutti vogliano convincerti che sia sbagliato vederlo. È sbagliato attribuire a tua madre una colpa che non ha. Mettiti nei suoi panni, cresceresti un figlio con un marito sempre fuori per lavoro? E se tua madre fosse rimasta col tuo padre biologico, se tu non avessi avuto un padre come Mauro sempre al tuo fianco, come credi che sarebbe stato? Sono queste le domande che devi porti. Vedi tuo padre, ne hai tutto il diritto, rimprovera tua madre quando ti impedisce di incontrarlo, ne hai tutte le ragioni, ma non pensare che lo faccia con cattiveria».
«Tu cosa faresti?». Chiesi a bruciapelo nascondendo il nodo che avevo in gola e mi sedetti al suo fianco.
«Lo vedrei, ma non lo farei passare per un santo. Innanzitutto gli chiederei perché non trova mai un minuto per chiamarmi».
Ascoltai le sue parole con attenzione e presi a giocare con il bordo del cappotto. «I tuoi ragionamenti…hanno un senso». Gli concessi, infine. «E nessuno mi ha mai fatto pensare a queste cose, non mi hanno mai fatto vedere l’altro lato della medaglia».
«Perché avevano paura di vederti soffrire».
«E tu non ne hai?». Mi venne spontaneo chiedergli e lo vidi sorridere con la coda dell’occhio. «Sei brava con le domande a trabocchetto, ma la risposta è sì. Ho sempre paura di vederti soffrire ultimamente, ma in questo caso era necessario che qualcuno ti aprisse gli occhi».
Restammo in silenzio per un po’, io intenta a guardare il pavimento lucido, lui a pensare a chissà cosa. Poi mi decisi a fare un passo avanti.
«Lore, per oggi…».
«No, non c’è bisogno che tu dica nulla».
«Ce n’è bisogno, invece. Ho quasi baciato Davide per ripicca».
Lore mi guardò confuso. «Davide? Non sapevi che è…».
«No, l’ho scoperto stasera. Ma a quanto pare tu lo sapevi già».
«Certo che lo sapevo! È da mesi che rompe i coglioni su questa Giada…sai quante volte gli ho suggerito di farci sesso per togliersi lo sfizio? Ma lui è davvero innamorato, a quanto pare». Disse con una smorfia.
«Cosa c’è di male nell’essere innamorati?» Domandai per nulla disinteressata.
Lore analizzò la mia reazione con cura, come se fosse cascato dalle nuvole. Possibile che non si fosse ancora accorto che ero innamorata di lui?
«Niente, ma…».
E a malincuore, non seppi mai cosa avrebbe detto, perché la porta di casa mia si aprì di scatto e io saltai in piedi pregando che fosse mia madre.
Con lei sarebbe stato più facile spiegare e probabilmente aveva già intuito che tra me e Lore c’era qualcosa, mio padre invece…lui non avrebbe capito. E infatti non capì.
«Giorgia, quale parte del stai lontana da lui non ti è chiara?».

Note:
Ciao a tutti! Non ci provo neanche a giustificare il ritardo imperdonabile perché non saprei cosa dire, posso solo chiedere scusa a quelli che aspettavano il capitolo da mesi.
Comunque... eccoci qui! Giorgia e Lorenzo sono tornati e la loro storia è davvero quasi al culmine arrivati a questo punto. Cosa ne pensate delle motivazioni di Lore? E della reazione di Giorgia?
Spero che il capitolo non vi abbia deluso, anche perché ci ho messo una vita per scriverlo XD
Come sempre ringrazio tutti quelli che hanno recensito e chi ha messo la storia tra le preferite, le ricordate e le seguite.
Al prossimo capitolo, se vi va!
Veronica









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