Nonostante tutto. di _V_ (/viewuser.php?uid=129326)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Equilibri. ***
Capitolo 3: *** Mezze parole. ***
Capitolo 4: *** Rivelazioni. ***
Capitolo 5: *** Sogni e realtà. ***
Capitolo 6: *** Passi avanti, passi indietro. ***
Capitolo 7: *** Confusione. ***
Capitolo 8: *** Sviluppi. ***
Capitolo 9: *** Complicazioni. ***
Capitolo 10: *** Vecchie e nuove conoscenze. ***
Capitolo 11: *** I can't leave you behind. ***
Capitolo 12: *** Tregua...? ***
Capitolo 13: *** Il punto di svolta. ***
Capitolo 14: *** Alle sei all'angolo. ***
Capitolo 15: *** La verità non sempre fa male. ***
Capitolo 1 *** Prologo. ***
Storia
Recentemente l'amministrazione del sito mi ha fatto notare l'esistenza di alcune somiglianze tra la mia storia, "Nonostante tutto", e quella dell'autrice "_Bec_", dal titolo "Tra l'odio e l'amore c'è la distanza di un bacio", che potete trovare a questo indirizzo: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=474329&i=1 .
Ci tengo a specificare che non era assolutamente mia intenzione infrangere il regolamento del sito, e quindi creare questa spiacevole situazione, perciò chiedo scusa all'autrice (a cui sarò lietissima di fare le scuse in privato), a voi lettori e all'amministrazione, che è stata davvero paziente e disponibile con me.
Davvero, mi dispiace moltissimo per tutto quello che è successo.
E dato che mi trovo nella sezione "originali", provvederò al più presto - e gradualmente, dato il poco tempo che ho a disposizione - ad eliminare e/o sostituire questi punti in comune tra le due storie.
NONOSTANTE
TUTTO
-Prologo:
Ricordi-
Milano,
giugno 2000. (10 anni prima)
Era
un grande prato,
pieno di fiori rossi e bianchi, adombrato quasi completamente da un
sacco di alberi altissimi e carichi dei frutti più svariati
e colorati. Nell'aria c'era il solito, dolce profumo di ciliegia, che
si mischiava perfettamente con quello fresco e forte dell'erba viva e
verde su cui correvo. Non un solo filo di essa era secco o schiacciato,
eccetto per quella che veniva calpestata, ma che quasi miracolosamente
tornava subito al suo posto...e, a dirla tutta, io credevo davvero che
quel posto fosse magico; perché era lì che vivevo
la mia infanzia, era lì che piangevo quando mi sbucciavo le
ginocchia; ma soprattutto era lì che trascorrevo - senza
rendermene conto - gli attimi migliori della mia vita, fatti di risate
spensierate e di una gioia che non aveva bisogno di essere cercata,
perché arrivava da sola insieme alle piccole cose, quelle
più importanti.
E
poi c'era lui, il mio
migliore amico, la persona che mi dava più di tutti gli
altri messi insieme senza chiedermi nulla in cambio, la presenza che
probabilmente occuperà sempre un posto speciale nel mio
cuore...perché è grazie a lui se ho potuto vivere
quei momenti indimenticabili che conservo ancora con incredibile
affetto nella memoria, nonostante tutto, nonostante il tempo trascorso
e nonostante i cambiamenti che ci hanno colto.
«Aspettami
Lore!». Urlai con quanto fiato avevo in gola –
poco, a dire il vero -, mentre con una mano cercavo di aggiustarmi le
codine, che ormai erano sfatte a furia di correre, giocare e rotolarmi
per terra.
«Certo,
contaci, così mi prendi e perdo».
Rispose lui, con i
pantaloncini tutti strappati e le ginocchia piene di graffi - che ormai
non bruciavano più - cominciando a correre più
velocemente per aumentare la distanza.
Rallentai piano la mia
corsa, ormai sfinita e senza più un briciolo di ossigeno in
corpo, sbuffando e sedendomi per terra, non curandomi del fango e degli
sguardi degli altri bambini che mi giocavano intorno. Lo sguardo di
tutti tranne quello del mio migliore amico, che continuava a correre
senza neanche voltarsi indietro per controllare che ci fossi ancora.
«Uffa».
Brontolai poi, strappando malamente un paio di fiori e gettandoli poco
distanti dal punto in cui giacevo sdraiata e arrabbiata.
Dopo un po', Lorenzo si
fermò per riprendere fiato.
Non appena si
voltò per controllare a che punto fossi arrivata, si dovette
accorgere della mia assenza, perché cominciò a
guardarsi intorno preoccupato, temendo che magari fossi caduta e mi
fossi fatta talmente male da non riuscire più a rialzarmi.
Con passo svelto
cominciò ad avvicinarsi a me e, sentendo il mio nome gridato
a gran voce, mi risollevai da terra completamente sporca di terra e in
attesa che mi raggiungesse.
«Dove ti eri
cacciata?». Mi chiese Lorenzo una volta che fu abbastanza
vicino perché potessi sentirlo.
«Qui».
Risposi guardandolo storto e aggiungendo una smorfia.
«Che cos'hai?
Ti sei fatta male?». Continuò, lui, imperterrito
il suo interrogatorio, accorgendosi però che c'era qualcosa
che non andava nel mio comportamento.
«No, sto
benissimo». Risposi secca, continuando a guardarlo negli
enormi occhi blu.
Mi piacevano tantissimo,
delle volte mi fermavo a fissarli senza neanche rendermene conto,
distraendomi da tutto il resto e lui mi rimproverava perché
non lo ascoltavo.
«Sei
arrabbiata?». Mi chiese facendosi coraggio.
Feci spallucce e mi
sedetti nuovamente a terra. La rabbia mi era pressoché
passata, ora mi restava solo da gestire un po' di delusione.
Lorenzo si
sistemò accanto a me, con ancora un po' di fiatone dovuto
alla folle corsa.
«Coraggio,
dimmi cos'hai». Mi esortò tentando un sorriso, che
tuttavia non gli riuscì molto bene.
«Mi hai
lasciata indietro e neanche ti sei preoccupato di controllare che ti
stessi ancora seguendo». Confessai abbassando lo sguardo e
cominciando a strappare altri fiori...come facevo ogni volta che
litigavo con lui.
«Ma stavamo
giocando a chi arriva primo!». Protestò Lorenzo
alzando la voce e spingendomi – di conseguenza – ad
alzare la testa in sua direzione.
«Sei tu che ci
hai voluto giocare».
«Eravamo
d'accordo tutti e due». Precisò lui stizzito.
«Fa lo stesso.
Non mi piace più quel gioco». Conclusi dando prova
della mia infantilità, facendo sorridere Lorenzo.
«Sei una
stupida».
«E tu un
egoista».
Tra di noi
calò il silenzio, interrotto solo dal brusio del vento e
dalle mamme che richiamavano i propri figli perché si era
fatto tardi e dovevano tornare a casa.
«Senti
Giò...». Fu Lorenzo a riprendere la parola, quando
ormai il sole era quasi nella fase del tramonto e il prato praticamente
deserto, eccezion fatta per i ragazzini più grandi che
potevano stare ancora a giocare. «Perché non
facciamo pace? Non mi piace litigare con te».
Concluse con
un'espressione leggermente triste, che mi portò ad annuire
spontaneamente e impercettibilmente.
«Va
bene». Concordai senza neanche pensarci un attimo: anche io
odiavo essere in lite con lui, perché ogni volta che
succedeva cominciavo a pensare e a ripensare finché non
arrivavo al punto in cui mi chiedevo quale fosse stato il motivo di
tale litigio; a dimostrazione del fatto che qualunque esso fosse, non
era abbastanza importante.
Lorenzo si
aprì in uno di quei sorrisi che mi piacevano tanto,
perché gli facevano le fossette sotto gli occhi che lo
rendevano buffo; e fu inevitabile ricambiare il gesto.
Nel frattempo, pronto a
sigillare quella riappacificazione con un giuramento, lui mi aveva teso
il mignolo, che ben presto si intrecciò perfettamente - come
molte altre volte – al mio.
«Pace».
Dissimo insieme, scoppiando a ridere per la nostra tempistica perfetta.
Erano quelli i momenti
che preferivo, perché mi sembrava tutto perfetto e felice
come nel mondo delle mie amate fiabe, e non li avrei mai scambiati con
niente e nessuno, perché erano miei e basta...miei e di
Lorenzo.
«Lore?».
Lo chiamai poco dopo, mentre eravamo entrambi sdraiati sull'erba,
affannati per l'intensa lotta di solletico che ci eravamo fatti a
vicenda per una buona mezz'ora.
«Mmh?».
Mi esortò lui a parlare.
«Mi prometti
che non litigheremo più?». Gli chiesi, chiudendo
gli occhi in attesa di una sua risposta.
«Non che
quella di prima possa essere definita una vera lite...».
Ribatté Lorenzo pensieroso. «Comunque te lo
prometto...e ti prometto anche che la prossima volta
rallenterò per aspettarti».
«E che quando
ti chiederò la merenda me la darai subito, senza fare
storie?».
Chiesi sollevandomi su
un gomito per osservarlo meglio mentre rifletteva. Ero ben conscia che
quanto gli stavo chiedendo non era poco, perciò temevo un
rifiuto...anche se in tal caso non penso mi sarei arrabbiata.
«Sì,
lo giuro». Rispose, infine, sorprendendomi e accennando un
mezzo sorriso.
La sua merenda era
sacra, non la dava mai a nessuno e mi sentivo terribilmente felice di
quella piccola, grande conquista.
«E giurami che
rimarremo sempre amici». Aggiunsi, presa da quella specie di
gioco che avevamo intavolato.
Lui aprì un
occhio e mi fece un altro enorme sorriso.
«Migliori
amici, vorrai dire». Puntualizzò in un tacito
consenso alla mia richiesta, che probabilmente gli sembrava stupida e
inutile da fare: non aveva la minima intenzione di separarsi da me, lo
sapevo.
Sentii il cuore farmi
una capriola nel petto e cominciai a saltare e correre per il prato in
preda ad una felicità tale che non riuscivo a tenere dentro
stando semplicemente ferma: era sempre - troppo - bello sentirsi dire
ciò che si desiderava, sia che si trattasse di qualcosa di
stupido che di qualcosa di importante.
Lorenzo si
alzò ridendo, evidentemente sorpreso della mia improvvisa
energia; fino a neanche un'ora prima mi lamentavo perché non
riuscivo a stargli dietro e ora andavo avanti e indietro,
apparentemente senza mai stancarmi. Quando lo raggiunsi gli presi le
mani e lo abbracciai come forse non avevo mai fatto, o come non facevo
da molto tempo e quando lui ricambiò la stretta, con la
bocca ad un centimetro dal suo orecchio, riuscii ad esprimere quello
che sentivo in tre semplici parole, che mi uscirono dal cuore e che gli
avrei ripetuto all’infinto, se solo me ne avesse dato
l’occasione.
«Ti voglio
bene, Lore».
«Anche io,
Giorgina, tanto».
Eppure,
adesso quelli
sono dei semplici ricordi che probabilmente non rivivranno mai
più. Quelle dolci parole dette dal mio migliore amico in uno
dei pomeriggi più caldi e belli della mia vita si sono
rivelate semplici promesse che non sono state mantenute.
E
mentre ripenso ai bei
momenti passati insieme è triste realizzare di averli
vissuti con la persona che ora odio di più al mondo. No, non
è una parola eccessiva; è lui la causa principale
delle mie sofferenze.
Le
cose non sono andate
come avevo previsto; anzi, si sono rivelate tutto il contrario di
quello che pensavo che fossero.
Non
ho ancora accettato
che il mio migliore amico si sia trasformato in quello che è
il mio peggiore incubo.
Non
ho mai capito che
cosa l'abbia fatto cambiare così radicalmente, eppure ci ho
pensato tante volte.
E la
cosa peggiore
è che io continuo a volergli bene.
Nonostante
tutto.
Note:
Dunque...
È
la prima
volta che scrivo su EFP e sono un po' emozionata!
Ho sempre avuto la passione per la scrittura creativa e - dopo aver
scritto innumerevoli storie originali, destinate a marcire nel mio
computer - mi sono finalmente decisa a renderne pubblica qualcuna.
Questa
è
l'ultima che ho scritto ed è anche
quella a cui sono più affezionata in assoluto (qualora la
storia vi piacesse un po' e decideste di andare avanti, capirete il
motivo di questo mio attaccamento particolare...).
Riguardo al capitolo, vorrei solo dire che - ma penso non ce ne sia bisogno - ovviamente è un piccolo racconto di un episodio passato, che Giorgia rivive con molta nostalgia. Essendo appunto un prologo, dal prossimo la storia cambierà completamente; sarà ambientata nel presente, nel momento in cui la situazione subisce una "rottura", un cambiamento, che sarà l'inizio dei veri "guai".
Non
credo di dover dire
molto altro, se non che spero che vi piaccia e
che la continuerò solo ed esclusivamente se qualche anima
pia dovesse trovarla interessante e non troppo banale. So che da un
prologo striminzito non si può capire granché,
per questo spero che - se questa introduzione ha catturato
almeno una piccolissima parte della vostra attenzione - leggiate almeno
il primo capitolo, per vedere un po' come si svolgono i fatti,
com'è la narrazione e il mio modo di scrivere; ma trovo
assolutamente inutile continuare a pubblicarla se nessuno dovesse
"filarsela" di striscio.
Va
bene, credo di non
esser riuscita ad esprimere pienamente quello che
volevo dire, perciò leverei anche le tende e vi pregherei di
concentrarvi solo su quello che ho scritto sopra! XD
Si
vede proprio che sono
nuova qui, eh? Prometto che
migliorerò ;)
Grazie
a chiunque
dovesse leggerla anche solo per sbaglio, a presto!
P.s: Mi sembra brutto chiedervelo, ma vi pregherei di lasciare almeno una riga di recensione per dire cosa ne pensate...altrimenti mi sento forever alone, anche se continuate a leggerla!
Veronica
|
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Capitolo 2 *** Equilibri. ***
Capitolo 1
CAPITOLO
1: Equilibri
Milano,
settembre 2010.
Era
il mio primo giorno di scuola del quarto superiore, il futuro non
sembrava poi così carico di novità e io vivevo
semplicemente la mia vita, come avrebbe fatto una qualunque
diciassettenne.
Uscii di casa con la solita fretta che mi contraddistingueva quando si
trattava di andare scuola, con ancora un cornetto in una mano e la
cerniera rotta del cappotto nell’altra. Mi chiusi la porta
alle spalle e fu inevitabile sentire il cigolio snervante che da
qualche tempo accompagnava quel vecchio pezzo di legno, che ormai
sembrava lo facesse apposta solo per ricordarci che andava sostituita.
Stanca di fare i salti mortali, ingoiai l’ultimo enorme pezzo
di brioche e cercai di chiudere il cappotto con entrambe le mani; era
solo settembre, ma a Milano sembrava già Natale!
Una volta terminata la mia lotta con quello stupido aggeggio, mi
avvicinai di soppiatto verso la porta dei coniugi Belli, che vivevano
nell’appartamento accanto al mio, e tesi le orecchie per
cercare di cogliere anche il minimo rumore. Quando mi fui accertata che
l’allegra famigliola fosse già fuori casa, mi
precipitai giù dalle scale con uno scatto fulmineo, senza
neanche prendermi la briga di provare a chiamare l'ascensore; tanto a
quell'ora lo chiamavano da tutte le parti, avrei solo incrementato
l'interminabile coda che lo attendeva impaziente.
Tre piani di scale non erano pochi, ma ormai ero abituata a farli,
perciò non fu particolarmente stancante la discesa e riuscii
persino a prendere l'autobus delle 7.40, che per fortuna quella mattina
aveva deciso di passare in ritardo.
Con ancora il fiatone, presi posto in fondo alla vettura, e cominciai a
guardarmi intorno con aria furtiva, certa che anche lui fosse
lì, nascosto da qualche parte e pronto a tendermi un agguato
non appena mi fossi distratta un secondo.
Tuttavia, dei suoi capelli biondi e del suo metro e ottanta non
c’era la minima traccia, evidentemente aveva preso il pullman
prima, oppure lo stava aspettando alla fermata di fronte alla gelateria
del Centro. Non appena l'autobus girò l'angolo del parco
sentii l'agitazione crescere e percepii distintamente il mio cuore
iniziare la sua folle corsa; non era la prima volta, ma era sempre come
se lo fosse. Alla fine avevo compreso quale fosse la causa di quel
cambiamento e, seppur a malincuore, avevo accettato il fatto che fosse
inevitabile quando la causa in questione corrispondeva al nome e alla
faccia di...
«Belli!».
Ecco, per l'appunto, lui :
Lorenzo Belli, classe 1992, stronzo di professione, nonché
mio ex migliore amico e attuale peggior incubo e vicino di casa.
Come calcolato, era salito alla fermata prevista - no, non osservavo di
proposito tutto quello che faceva o lo riguardasse solo
perché un tempo eravamo amici - e neanche il tempo di far
ripartire l’autobus, che si era messo a parlare allegramente
con quelli che definiva i suoi amici...ovvero tutti i ragazzi della
scuola, che lo ammiravano neanche avesse portato la pace nel Mondo.
Come ho detto prima, non le avevo cercate di proposito quelle
informazioni sul suo conto, ma - per chissà quale motivo -
me lo ritrovavo sempre nelle vicinanze, come un incubo...per l'appunto;
soprattutto durante il periodo scolastico dato che frequentavamo la
stessa scuola…e da quell’anno saremmo stati anche
nella stessa classe.
Ci trovavamo praticamente ai lati opposti del pullman, era
matematicamente impossibile che dal punto in cui si trovava potesse
riuscire anche solo a scorgermi, tuttavia cercai di nascondermi il
più possibile dalla sua vista, probabilmente passando per
una persona con qualche piccolo squilibrio mentale.
In sua presenza era meglio un giudizio sbagliato che rischiare di
essere scoperta, su questo non avevo dubbi.
«Lore!». Sentii sbraitare contro il mio orecchio
sinistro, trattenendomi a stento dall'urlare per lo spavento.
Mi voltai lentamente, in direzione della voce gallinacea che mi avrebbe
inevitabilmente fatto saltare la copertura; pregai tutti i Santi che
non fosse come pensavo, e invece ebbi l'ennesima conferma del fatto che
le mie speranze fossero destinate ad essere vane, in qualunque
circostanza.
Con un gesto più automatico che volontario puntai lo sguardo
verso Lorenzo, ma anziché trovarlo intento a ridere come un
idiota per le battute dei suoi sciocchi compagni, incontrai il suo
sguardo irritante. Irritante perché era azzurro ed identico
a quello di quando era bambino e io avevo sempre avuto un debole per il
colore dei suoi occhi che, sfortunatamente, ancora non accennava a
passarmi.
Come ogni volta in cui i nostri sguardi si incrociavano, per caso o di
proposito che fosse, mi parve di vederlo soffermarsi più del
dovuto sul mio, ma sapevo benissimo che era solo una mia impressione,
perché Lorenzo Belli non avrebbe mai, e sottolineo il mai,
rivolto alcuna attenzione a Giorgia Mori, la sottoscritta.
Per quale motivo?
Chiedetelo a lui, ma non sono del tutto convinta che sappia rispondervi.
«Reb!». Esclamò con un sorriso largo
trentadue denti, dopo quella che mi parve una vita.
Ora, ovviamente, il suo sguardo era completamente rivolto a Rebecca
Galbiati, la ragazza più carina della scuola,
nonché sua attuale fidanzata, ammesso che tale si potesse
definire.
Lorenzo si allontanò dal suo gruppo di caproni e facendo a
spallate con la miriade di studenti che popolavano l'autobus,
vecchietti compresi, riuscì a raggiungere
l'estremità opposta, quella dove si trovava Rebecca...quella
dove mi trovavo io.
Scostai immediatamente lo sguardo per cercare di cancellare la mia
presenza da quell'insopportabile automezzo, pregai che mi ignorasse e
si concentrasse solo su quell'ochetta starnazzante, ma ormai l'incubo
era inevitabilmente cominciato e la solita storia iniziava a ripetersi.
«Mori, ti vedo in forma quest'anno». Mi
salutò, apparentemente sincero e cordiale. Ma sincero e
cordiale sono due aggettivi che non possono essere collegati a Lorenzo
Belli, almeno non quando il suddetto si rivolgeva a me.
«Belli!». Esclamai io in risposta, cercando di
fingere quella che doveva essere sorpresa, ma che invece
risultò come una battuta da commedia. «Cosa ci fai
qui?».
Lorenzo arcuò un sopracciglio indispettito, per poi
riprendere a sorridermi come se non lo stessi prendendo per i fondelli.
«Quello che ci fai anche tu, vado a scuola. Ho saputo che sei
passata dal linguistico alla ragioneria, e che sarai in classe
mia». Disse sottolineando le ultime due parole facendogli
assumere una nota minacciosa, velata agli altri, chiara come
l’acqua a me.
«Sì, per sfortuna». Replicai, fingendomi
delusa per quella notizia, ma in realtà non appena avevo
scoperto di essere in classe con lui mi ero sentita felice. Stupida io
che pensavo che avendolo in classe con me, avrei potuto riavvicinarlo.
Lorenzo fece una smorfia che lasciò trasparire un rivolo di
rabbia, dopodiché si voltò dall’altra
parte, ma non prima di prendersi una piccola rivincita.
«Mori, sai che ti renderò la vita impossibile,
vero?».
Non mi spaventai a quelle parole, scossi semplicemente le spalle e
decisi di ignorarlo, come sempre d'altronde. Per riuscire nel mio
intento, presi l'ipod, che portavo appositamente per uscire mentalmente
illesa da quelle situazioni, e feci finta di far partire la
riproduzione. Chiamatemi masochista, ma non avevo la minima intenzione
di perdermi i discorsi che avrebbe fatto con Rebecca, anche se ero
perfettamente consapevole che ogni sua singola parola sarebbe stata una
mia piccola sconfitta.
«Eddai, non fare la musona già il primo giorno di
scuola». Si lamentò trattenendo a stento una
risata. Conoscevo perfettamente il suo tono ilare, era quello che usava
perennemente quando mi diceva qualcosa.
«Amore, lasciala stare. Non ne vale la pena di perdere tempo
con un'asociale emarginata come lei. E poi...non mi hai ancora dato
neanche un bacino». Intervenne Rebecca, probabilmente
appiccicandosi ancora di più a Lorenzo. In un certo senso le
fui grata, perché nonostante ciò che avesse detto
non fosse propriamente gentile ed educato, almeno aveva distolto il suo
ragazzo dall'intenzione di torturarmi, seppur temporaneamente.
Dagli schiocchi che sentii subito dopo, immaginai che avessero
cominciato a dare spettacolo e a quel punto sì che feci
partire la musica.
Le critiche non mi davano poi così fastidio,
finché fatte nei limiti, perché erano comunque
rivolte a me e da ingenua quale sono, in fondo ero contenta che non mi
ignorasse del tutto; ma quando si trattava di dover vedere o sentire
qualcosa che aveva per oggetto altre persone, amiche sue, allora ne
facevo volentieri a meno.
Gelosa? Può darsi.
Ascoltai distrattamente tutto il CD dell'estate, finché non
fui distratta dalla voce di Lorenzo che probabilmente era riuscito ad
impegnare la lingua in qualcosa di più costruttivo.
«Reb, non essere gelosa, lo sai che non ci riesco. L'ho messo
in chiaro fin da subito e tu hai accettato».
Lorenzo era scocciato, avevo anche imparato a riconoscere quel tipo di
voce, e questo non era molto normale, me ne rendevo conto.
Non sapevo di cosa stessero parlando, eppure prevedevo aria di lite e
questo non mi dispiaceva per nulla, anche se non avrebbe giovato
minimamente al nostro rapporto.
«Dimmi quante, allora». Sentenziò
Rebecca, con un sospiro di rassegnazione.
Ci fu un attimo di silenzio in cui mi decisi a spegnere nuovamente la
musica e stare ad ascoltare. Era così che riuscivo a sapere
qualcosa della vita di Lorenzo, e me ne vergognavo terribilmente.
«Non le ho contate, probabilmente una decina».
Rispose lui con voce strascicata e annoiata.
«Sei andato a letto con dieci ragazze
quest'estate?!». Chiese, ma più che altro
urlò, Rebecca. La sua voce era carica di rabbia, chiunque se
ne sarebbe accorto, ma Lorenzo rimase tranquillo, incurante della gente
che ormai fissava solo loro.
«Sì, più o meno». Ammise lui,
senza titubare neanche un attimo.
«Non mi va di essere perennemente cornuta».
Protestò Rebecca, marcando sull’ultima parola
così che tutti potessero sentirla.
«Cazzi tuoi, io te l'avevo detto».
Spinta da chissà quale moto, riuscii a voltarmi nella loro
direzione, dove ormai erano puntati gli sguardi di tutti i presenti,
sperando che non si accorgessero che tra di essi ci fosse anche il mio.
«Sei uno stronzo!». Sbraitò la biondina,
che ormai tra la rabbia e la vergogna aveva raggiunto il color peperone.
Lorenzo, come avevo immaginato, era distrattamente e tranquillamente
appoggiato ad uno dei pali, con le mani infilate in tasca e gli occhi
rivolti verso l'alto.
Neanche il tempo di collegare l'idea di quello che stava succedendo al
cervello, che la mano di Rebecca raggiunse in pieno viso Lorenzo.
In men che non si dica l’autobus si era trasformato in un
ritrovo di gente intenta a commentare quanto avevano appena visto: gli
amici di Lorenzo erano rimasti con la bocca socchiusa e gli occhi fuori
dalle orbite, le ragazze della scuola che gli sbavavano dietro si erano
precipitate in massa per soccorrerlo – neanche Rebecca gli
avesse rotto qualcosa – e i vecchietti criticavano la
gioventù che secondo loro stava crescendo in modo sbagliato.
E io, io cosa facevo?
Io probabilmente facevo parte di tutte e tre le categorie,
perciò si potrebbe tranquillamente dire che non facevo testo.
Se da una parte non avevo mai visto nessuno osare toccare con un dito
il Grande ed Unico Belli, ed ero rimasta folgorata dal coraggio e dalla
potenza di quella ragazza così apparentemente stupida e
inetta, dall’altra era stato inevitabile che mi portassi una
mano davanti alla bocca non appena il suo labbro superiore aveva
cominciato a sanguinare.
Lorenzo, dal canto suo, era rimasto immobile, con
l’espressione di chi stesse sognando e non riuscisse a capire
niente di quello che stava succedendo. Io ovviamente rimasi lontana
dalla mischia e seppur desiderassi ardentemente di sentirlo parlare
ancora, rimisi le cuffie alle orecchie e mi isolai da tutto il resto.
Era terribilmente deprimente dover rimanere con le mani in mano senza
poter fare nulla, tuttavia ero costretta a farlo, perché ero
assolutamente sicura che se avessi anche solo provato ad avvicinarmi,
lui avrebbe sfogato la sua ira per l’umiliazione subita su di
me e alla fine quella che ci avrebbe rimesso sarei stata solo e
soltanto io.
Poco dopo arrivammo a scuola, dove, neanche il tempo di entrare che si
era già diffusa la voce di un Belli picchiato a sangue da
una ragazzina e che ora non riusciva neanche a reggersi in piedi;
quando invece – per fortuna – era ancora tutto
integro e neanche troppo infervorato con il mondo.
Ho detto con il mondo, non con me.
«Mori, levati dai coglioni». Disse infatti brusco,
allontanandomi dal suo cammino con una violenta spallata.
«Ehi!». Lo rimproverai massaggiandomi il punto che
aveva colpito con forza. Probabilmente era stato il dolore a farmi
protestare, perché se fossi stata pienamente cosciente delle
mie azioni – specialmente in quel momento – avrei
sicuramente scelto la via del silenzio e
dell’accondiscendenza.
Belli si fermò di scatto, voltandosi con rabbia verso di me
mentre i suoi amici continuavano a tirargli delle pacche affettuose
sulle spalle per esortarlo ad entrare a scuola e ad andare
immediatamente in infermeria. Il suo sguardo – ancora una
volta incatenato al mio – trasmetteva lo stesso identico
sentimento iroso, solo misto ad un po’ di odio che lo rendeva
ancora più terrificante e lascivo. A quel punto mi fu
inevitabile fare un passo indietro per cercare di scappare, ma il
piazzale della scuola era gremito di studenti intenti a chiacchierare
tra di loro e dirigersi al cancello, perciò desistetti dal
farne altri.
«Scusa?». Domandò accennando ad un
sorriso che non era per niente dolce e sincero come quelli che mi
regalava anni prima, ma piuttosto pungente ed ironico, tale e quale a
quelli che mi rivolgeva alla prima occasione che gli si presentasse per
potersi divertire e sfottermi. «Hai per caso detto
qualcosa?».
«Assolutamente no!». Mi affrettai a dire,
risultando patetica e succube – ancora una volta –
di quello che avevamo vissuto insieme, perché non era di lui
che avevo paura, bensì di quello che eravamo stati un tempo.
«Senti, Mori, vai al diavolo e non rompere più il
cazzo». Aggiunse stringendo gli occhi a due fessure.
Non ebbi neanche il tempo di replicare, nonostante non credo che lo
avrei fatto se me ne avesse dato il tempo, che Lorenzo sputò
a terra con stizza e dopo avermi lanciato l’ultima, fugace
occhiata proseguì per l’entrata che ormai era
bloccata da tutti gli altri alunni.
Decisi di aspettare che la situazione migliorasse, perciò mi
sedetti su un gradino isolato vicino ad una macchina e cominciai a
smuovere il cemento vecchio con il piede, con ancora in mente
l’immagine del mio migliore amico che mi diceva “Ti
voglio bene” e faceva promesse forse troppo grandi per
entrambi.
Giunsi in classe in concomitanza con il suono della campanella che
segnava l'inizio di un altro terrificante anno scolastico; presi posto
all'unico banco rimasto libero - quello davanti alla cattedra - e
inspirai profondamente sperando che l'ossigeno potesse aiutarmi a
dimenticare, almeno temporaneamente, quello che era successo solo pochi
minuti prima.
Nella mia mente, che ormai faceva di testa sua, le torture subite in
passato cominciarono a susseguirsi una dopo l'altra tristemente
accompagnate dai momenti belli, che mano a mano che il tempo passava,
diventavano dei semplici e inutili ricordi sempre più
sbiaditi e imprecisi.
Ormai era parecchio tempo che avevo smesso di illudermi che non me ne
importava nulla se Lorenzo mi parlasse o meno, ero perfettamente
consapevole che mi mancava. Sì, il mio migliore amico mi
mancava terribilmente, mentre io per lui ero solo un facile bersaglio
di cui prendersi gioco. La situazione era insostenibile.
Ben presto il resto della classe prese il suo posto e ritrovai nelle
loro facce dei perfetti sconosciuti, a parte Lorenzo, che si era seduto
all'ultimo banco con una ragazza bionda dal seno piuttosto sviluppato.
Il banco vicino al mio era stato rigorosamente lasciato vuoto, neanche
avessi la peste, ma non me ne curai molto perché ormai era
una routine. La mia vita scolastica non era per nulla semplice: credo
che mi si potesse definire una sorta di secchiona, che metteva lo
studio prima di tutto e non usciva mai; non avevo amici - se non quel
paio di persone con cui ero riuscita a mantenere un buon rapporto - e
odiavo altamente qualunque cosa riguardasse lo sport. Nonostante tutto,
però, con qualche sacrificio e dopo parecchio tempo ero
sempre riuscita ad ottenere l'indifferenza dei miei compagni e tra di
noi vigeva una convivenza abbastanza civile; quell’anno
però sarebbe cambiato tutto, in peggio chiaramente, ed ero
certa che i termini “pace” e
“tolleranza” sarebbero stati un lontano ricordo.
Per quale motivo? Il fatto che Lorenzo fosse uno dei miei compagni di
classe non vi dice niente?
«Buongiorno ragazzi». Ci salutò
distrattamente il primo professore della giornata, facendoci segno di
risederci, e da quella frase capii che era veramente iniziato tutto.
Ed io non ero affatto pronta.
La giornata trascorse nella tranquillità più
assoluta, ovviamente fui esclusa da ogni tipo di discorso che gli altri
intraprendessero e mantenni la mia più totale solitudine.
I professori mi riempirono di domande riguardanti il mio trasferimento,
talvolta risultando parecchio pesanti ed impiccioni, mentre Lorenzo
sembrò essere finalmente riuscito a capire il significato
del verbo "ignorare", perciò potevo ritenermi abbastanza
soddisfatta di quell'inizio scolastico.
«Ehi, Mori, aspetta!».
Non dire gatto se non ce l'hai nel sacco.
A metà del corridoio mi voltai incuriosita, quella voce
l'avrei riconosciuta anche se disturbata dal ronzio di un centinaio
d'api, piegai leggermente la testa di lato e pregai che non avesse
intenzione di iniziare ancora a tormentarmi.
«Stai andando a casa?». Mi chiese senza neanche
darmi il tempo di concludere il mio pensiero, lasciandomi completamente
scettica ed interdetta.
Che cosa voleva da me?
«Certo, dove vuoi che vada altrimenti?». Risposi
risultando forse troppo acida e indisponente; mentre i miei occhi
cominciarono a vagare circospetti in cerca dei suoi e di quelli dei
suoi amici.
Lorenzo sorrise bonariamente, o almeno ci provò,
perché più che altro sembrava gli fosse venuta
una paresi facciale.
«Ovunque tranne che a casa, ovviamente».
Rispose con una scrollata di spalle, come se quanto mi stava chiedendo
fosse la cosa più logica del mondo.
Assottigliai lo sguardo, certa che dietro tutta quella storia si
nascondesse qualcosa che ben presto mi avrebbe
rivelato...perché era impossibile che mi rivolgesse la
parola se non per ottenere qualcosa.
«Hai cinque minuti per spiegarti». Lo minacciai
puntandogli un dito contro. Da dove prendevo tutto quel coraggio non
saprei dirlo, considerando i precedenti.
Il suo sorriso diventò vittorioso e, dopo aver fatto cenno
ai suoi amici di aspettarlo lì, si avvicinò
ancora di più a me, con le mani in tasca e gli occhi fissi
sui miei.
Deglutii aria a vuoto, facendo un involontario passo indietro, e attesi
che si decidesse a parlare, cominciando davvero a spazientirmi.
«Giorgina...». Cominciò piuttosto serio
e furtivo, e per un attimo credetti davvero di rivedere il mio amato
Lore in lui. «Tu non devi assolutamente andare a
casa». Concluse allargando ancora di più il
sorriso e mostrando i suoi denti perfetti. Sembrava più un
ipnotizzatore a dire il vero, assolutamente mal riuscito.
«Punto primo, non mi chiamare Giorgina, non mi pare di avere
tutta questa confidenza con te. E punto secondo non vedo
perché dovrei fare una cosa del genere».
«Se tu torni a casa i miei ti vedranno e capiranno che gli ho
detto una bugia». Confessò d'un fiato, cominciando
a muoversi nervosamente sul posto.
«Non ho intenzione di chiederti di che tipo di bugia si
tratti, in ogni caso non mi sembra una valida ragione. Ora scusa ma ho
il pullman». Replicai intransigente, facendo qualche altro
passo verso le scale, ma lui mi afferrò per un polso
costringendomi a fermarmi.
Da quando le sue mani erano così calde e forti?
«Qualunque cosa». Disse in un sussurro, stringendo
ancora di più la presa sul mio braccio. «In cambio
ti darò qualunque cosa».
A quelle parole sgranai gli occhi, facendoli quasi uscire dalle orbite.
Sognavo o ero desta? Belli mi stava davvero quasi supplicando?
I neuroni del mio cervello cominciarono a lavorare freneticamente,
valutando i pro e i contro di quella situazione: se da una parte c'era
la possibilità di tenerlo sotto controllo, dall'altra vigeva
la consapevolezza che non gli avrei mai fatto un favore solo per uno
stupido capriccio, senza contare che probabilmente neanche avrebbe
mantenuto la parola...conoscendo il soggetto.
«No». Risposi secca, strattonando il braccio.
«Mi hai sempre reso la vita impossibile, è giusto
che paghi per essere stato uno stronzo».
La mia decisione sembrò coglierlo alla sprovvista e provai
anche una piacevole sensazione di gioia scorrermi nelle vene, non
appena lessi nei suoi occhi la delusione dovuta alle sue previsioni
errate.
Lo vidi chiaramente mordersi il labbro inferiore, mentre
l'intensità del suo sguardo venne alimentata dalla rabbia,
ormai perfettamente percepibile in ogni fibra del suo corpo.
«Ne sei proprio sicura?». Chiese, infine,
riportando le mani in tasca e lasciandomi andare tranquillamente.
Proseguii per un po' verso le scale, senza smettere di guardarlo, ma
non pensai minimamente di rivalutare la sua richiesta e cominciai a
pregustare la ramanzina che avrebbe dovuto subire a casa qualora non
avesse rinunciato al suo impegno “inderogabile”,
che per chissà quale ragione ero sicura avesse i capelli
biondi e delle curve.
«Sicurissima». Risposi, alla fine, vittoriosa,
agitando la mano in sua direzione in segno di saluto, e trattenendomi a
stento dal mettermi a saltellare per la mia piccola conquista.
Mi voltai verso le scale - ormai completamente sgombre - e cominciai a
scendere i primi gradini appoggiandomi al corrimano; ma mi bloccai di
scatto e il sangue mi si gelò nelle vene quando sentii delle
mani forti stringermi i polsi.
Non osai voltarmi nemmeno per sbaglio, chiusi gli occhi e sentii il
tumulto del mio cuore salire fino in gola e poi su nelle orecchie.
«Non dire che non ti ho dato una possibilità
poi».
Cazzo, avevo davvero pensato di potergliela fare, così,
sotto al naso, senza prevedere la minima conseguenza?!
Sì, l'avevo pensato, e non avrei potuto biasimare nessuno se
non me stessa del trattamento che avrei subito di lì a poco.
Avevo dimenticato la regola numero uno che mi ero imposta da dieci anni
a quella parte: mai contraddire Lorenzo Belli; perché dire
no a lui era come prepararsi da soli il cappio per l'esecuzione.
Note:
Eccomi qui dopo neanche un giorno di assenza! Sono un incubo, lo so...XD
Questo primo capitolo - che dà inizio alla storia vera e propria
- è molto diverso dal prologo come stile. Da questo punto
in poi si farà sul serio, vedremo come il rapporto tra Giorgia e
Lorenzo si evolverà e se l'ostilità di quest'ultimo
è destinata a durare per sempre, oppure è ancora
possibile fare qualcosa per recuperare almeno una parvenza di amicizia.
Lui è il solito bello e dannato - sì, amo i ragazzi
così...ma solo nella finzione - mentre lei è un po'
l'emarginata della situazione, quella che - per diversi motivi - non
riesce a farsi accettare dagli altri e molto spesso viene presa in giro
e/o di mira.
Nel capitolo c'è scritto che Giorgia è una "secchiona",
ma non nel vero senso del termine...anche lei ha un bel caratterino -
dice un sacco di parolacce XD - e certamente non passa TUTTO il tempo libero che ha disposizione, studiando ;) È un personaggio molto
particolare - forse anche più di Lorenzo - che scopriremo a poco a
poco, se vi va!
Bene, non ho nient'altro da dire, se non "grazie" ai pochi che hanno
letto il prologo! Come previsto, l'esperimento non è partito
bene...ma spero che con questo capitolo le cose miglioreranno almeno un
pochettino. Fatemi sapere cosa ne pensate, per favore, per me è importante ç___ç
Buona lettura e a presto! :D
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Capitolo 3 *** Mezze parole. ***
Capitolo 2
CAPITOLO 2: Mezze parole
Negli attimi di panico totale in cui avevo temuto la mia fine, qualcuno
si era premurato di sciogliermi la sciarpa dal collo e l'aveva stretta
con forza sulla mia bocca per impedirmi di parlare. Quando finalmente
l'ossigeno aveva cominciato a raggiungermi il cervello era troppo
tardi: le sue mani erano ben salde sulle mie, legate dietro la schiena
in una morsa tanto naturale quanto forte.
Provai a chiedergli cosa
avessero intenzione di fare, ma mi uscirono solo dei suoni lamentosi
che causarono la loro ilarità.
Venni trascinata senza
troppa grazia per tutto il corridoio, fino a giungere ad una porta che
tutti gli studenti del Bocconi conoscevano fin troppo bene, quella che
si apriva nel cosiddetto "Trash".
Il trash era il luogo in
cui coloro che venivano sorpresi a danneggiare l'impeccabile pulizia
della scuola con mozziconi di sigarette, cicche, pezzi di carta e
quant'altro, erano costretti a subire una sorta di redenzione che
consisteva nel pulire quella che un tempo era stata un'aula, ma che per
chissà quale ragione, col tempo, era diventata un enorme
spazio pieno di rifiuti accumulati durante anni di disuso; poteva
essere tranquillamente definita la discarica della scuola e tutti
evitavano di andarci proprio per l'odore nauseabondo che si era
costretti a respirare lì dentro.
«Hai davvero
intenzione di chiuderla qui?». Chiese Curcio, uno dei
migliori amici di Lorenzo, facendo una smorfia schifata in direzione
del trash.
«Assolutamente».
Replicò lui con un sorrisetto sadico rivolto alla
sottoscritta, mentre abbassava deciso la maniglia della porta blu,
trovandola chiusa. Imprecò malamente e tirò un
pugno alla porta mezza rotta.
«Gabri, vai a
prendere le chiavi nel cassetto della bidelleria». Disse poi,
rivolto all'altro suo compagno; che si precipitò ad eseguire
l'ordine del "capo".
Non era troppo anche per
lui pensare di chiudermi lì dentro?
No, decisamente no.
«E che cosa
farai se per caso si dovesse sentire male?».
Dovevo ricordarmi di
fare una statua a Curcio. Dopo averlo ucciso, ovviamente.
Lorenzo
sbuffò lanciandogli un'occhiata di fuoco.
«No, soffre di
vertigini, ma non di claustrofobia». Disse fermo, senza
lasciar trasparire la minima emozione. «E comunque si tratta
solo di un'oretta e mezza, Bea ha casa libera per poco».
Rimasi a bocca aperta
per un po', ancora concentrata e ferma su quella prima frase
pronunciata con troppa decisione per essere solo una semplice
supposizione. Il resto del suo discorso mi era scivolato addosso, come
se non avesse fatto illusione al fatto che mi lasciava a marcire
lì dentro solo per scopare con una delle oche che si portava
a letto di solito.
Forse non si era
dimenticato tutto di me. Forse.
«…no,
non è solo apparenza, è davvero una porca da
paura».
A quelle parole mi
riscossi dai miei pensieri e non riuscii a trattenere un singulto di
disgusto, se solo avessi avuto la facoltà di parlare o di
muovermi gliene avrei dette quattro e non solo.
Dal canto suo, Lorenzo
si dovette accorgere di qualcosa perché tornò a
rivolgersi a me.
«Mori, non
essere gelosa, se proprio vuoi, puoi metterti in coda anche
tu...».
E in quel momento non ci
vidi più; approfittai della libertà delle mie
gambe per tentare di tirargli un calcio in mezzo alle gambe, magari il
suo ego si sarebbe smontato insieme al suo caro organo genitale, ma non
avevo fatto i conti con i suoi riflessi, decisamente troppo pronti e
ben allenati a causa, o grazie - in base ai punti di vista - alla sua
intensa attività fisica. E non mi riferivo a quella sotto le
coperte...non solo, perlomeno.
Così mi
ritrovai con un gamba bloccata a mezz'aria da una sua mano e i polsi
ancora stretti saldamente dall'altra. Lo fissai in cagnesco per un po',
decisa a non lasciarmi sopraffare dalla delusione del mio vano
tentativo di difesa, ma sapevo bene che neanche il peggior sguardo
d'odio gli avrebbe potuto mettere paura. La mia era una partita persa
in partenza, e lo sapevamo entrambi.
Dopo qualche attimo
passato a cercare di trattenere le lacrime, sia per il dolore della
stretta ferrea che per la situazione in generale, Lorenzo fece cenno a
Curcio di aiutarlo; ero sicura che tenere ferma una ragazzina di un
metro e sessanta scarsi, esile e contraria allo sport, non gli costasse
il minimo sforzo perciò cominciai a temere le sue intenzioni.
Avvertii dei passi alle
mie spalle e proprio in quel momento affidò le mie braccia
all'amico per poi afferrare anche l'altra gamba, sollevandola - e
sollevandomi - da terra come un sacco di patate, come quando qualcuno
ha intenzione di buttarti a peso morto su una superficie morbida,
eppure ero sicura che quello che sarebbe toccato a me non era niente di
soffice, e né tantomeno confortante.
«Gabri, era
ora». Esclamò puntando lo sguardo oltre me e
Curcio, verso Gabriele Lonta e sentii distintamente una gocciolina di
sudore freddo scendermi per il viso. «Muoviti ad aprire
questa cazzo di porta che ho già perso troppo tempo con 'sta
schizzata».
D'istinto chiusi gli
occhi e quando sentii lo scatto della porta, immediatamente seguito dal
suo cigolio, pregai nel buonsenso di quegli idioti, non potevano
davvero farmi del male, non mi avrebbero mai buttata a terra rischiando
di farmi rompere l'osso del collo o la spina dorsale.
Non cercai nemmeno di
opporre resistenza, loro erano in tre, forti e assolutamente immuni a
qualunque mio tentativo di difesa, perciò mi limitai a
percepire gli spostamenti d'aria, cercando di urlare, quando i miei
unici appigli rimasti mi lasciarono andare ed io caddi nel vuoto.
In meno di un secondo mi
ritrovai sdraiata con la pancia rivolta al pavimento e la faccia
schiacciata contro il marmo freddo e umidiccio che lo caratterizzava.
Con un movimento incerto provai a voltarmi, ma una mano giunse svelta a
bloccarmi in quella posizione ed ero pronta a giurare che fosse la sua.
«Sta'
giù, altrimenti ti lasciamo la bocca e i polsi
legati». La sua voce era poco più che un sussurro,
tutt'altro che perfido o minaccioso. Piuttosto lo avrei
definito...gentile, ma ero certa che la botta mi avesse dato alla testa
e ai sensi perciò cancellai immediatamente quel pensiero dal
cervello.
Sentii altre mani
tenermi ferma e poi qualcuno slegarmi la sciarpa e i polsi. Avrei
potuto ribellarmi a quel punto, direte voi, ma sarebbe stato inutile e
non avrei fatto altro che peggiorare la situazione.
«Immagino che
ormai, anche se vi dicessi che non tornerò a casa, non
cambierebbe nulla». Dissi con un sospiro rassegnato, muovendo
i polsi di cui avevo perso la sensibilità e felice di poter
risentire la mia voce.
«Avresti
dovuto pensarci prima». Rispose Lonta con un ringhio.
«Ci avresti anche risparmiato un sacco di fatica».
Grazie al cazzo. Pensai,
ma non osai dire neanche mezza parola; purtroppo pendevo dalle loro
labbra e mi ero anche stancata.
Ormai completamente
libera di muovermi, chiesi a Lorenzo il permesso di potermi sedere - il
colmo, non eravamo mica in un paese libero e blablabla? - e lui
annuì brevemente, facendo segno agli altri di spostarsi.
Restai in silenzio per
un po', sebbene avessi in mente di dirgli moltissime cose - la maggior
parte insulti - finché Lorenzo non guardò
l'orologio con un'espressione nervosa e si alzò
immediatamente seguito dagli altri.
Mi si
avvicinò con impazienza e tese una mano verso di me;
credetti volesse aiutarmi ad alzare e sollevai la mano per afferrare la
sua, ma lui scostò lo sguardo affrettandosi a parlare.
«Il
cellulare». Fu un ordine breve e autoritario, sebbene i suoi
occhi stessero guardando da tutt'altra parte.
Sentii un'ondata d'acqua
gelida colpirmi in pieno petto e riconobbi delusione in quella
sensazione, che tuttavia cercai di nascondere con la solita maschera di
acidità che mi ero costruita.
Presi il cellulare dalla
tasca dei jeans e glielo porsi con uno scatto d'ira che
stupì anche me stessa, Lorenzo rimase fermo per un po',
intento a guardarmi con una di quelle espressioni che non riuscivo mai
a decifrare, dopodiché allungò la mano per
prenderlo, ma glielo impedii lasciando cadere il cellulare a terra e
stringendola con la mia.
Il suo tocco caldo mi
sorprese per un attimo, mentre quello mio - freddo come la temperatura
di Milano di quella mattina - dovette fargli lo stesso effetto,
perché sussultò un attimo prima di scuotere la
testa e abbassarsi per recuperare il mio telefonino.
«Mi stai
davvero lasciando qui solo per farti una puttana?». Gli
chiesi in un tono di voce talmente basso che probabilmente neanche lui
riuscì a sentire, approfittando del momento in cui il suo
orecchio si trovò vicino alla mia bocca.
Lo sentii stringere
più forte la mia mano prima di rialzarsi così
velocemente che sembrava stesse scappando da un mostro, che in questo
caso aveva assunto le mie sembianze.
«Devo
andare». Disse fermandosi ad un passo dalla porta, ed ero
certa stesse parlando con me. «Un'ora, non di
più».
Concluse abbassando la
maniglia e scomparvero dalla stanza lasciandomi sì sola, ma
con una piccola speranza che avrebbe rivoluzionato completamente le
cose.
Probabilmente ero solo
una stupida sentimentale, che al minimo spiraglio di
possibilità si era illusa che quegli anni trascorsi fossero
stati solo un errore, una terribile incomprensione, e che in
realtà Lorenzo non aveva mai smesso di volermi bene,
esattamente come avevo fatto io. Eppure, avevo visto qualcosa nei suoi
gesti, nelle sue esitazioni, nel suo modo di guardarmi o di evitare il
mio sguardo, che mi aveva portato a credere che non tutto fosse perduto
e che forse Mori e Belli potevano tornare ad essere semplicemente
Giorgia e Lorenzo. Ero certa che anche il solo pensare a questa
possibilità mi avrebbe portata ad affogare in un mare di
tristezza e delusione, che il mio affetto per lui si sarebbe frantumato
per sempre, ma non potevo far finta di non aver sentito niente quando
la sua mano si era stretta alla mia, non potevo fingere di non aver
visto nulla nei suoi occhi quando si erano legati brevemente ai miei.
Persa nei miei pensieri,
non mi accorsi di essere rimasta seduta nella stessa posizione scomoda
per almeno una mezz’ora e non realizzai neanche di essere
immersa nel terribile fetore del trash, fin quando uno struscio
preoccupante non catturò la mia attenzione. Balzai in piedi
come se il punto in cui ero seduta stesse andando a fuoco e mi guardai
intorno furtiva, in attesa che qualcuno o qualcosa uscisse allo
scoperto.
Afferrai un vecchio palo
arrugginito che si trovava su un grande tavolo alla mia destra e con le
mani tremanti lo puntai verso una figura piccola e bianca che fece
capolino da sotto una scatola di cartone, facendomi urlare dal terrore.
«Fermo!».
Gli intimai, come se un topo fosse in grado di capirmi. «Non
ti avvicinare!».
Avevo il terrore dei
topi, erano il mio incubo peggiore – dopo Belli, ovviamente
– ed avevo talmente paura che le gambe rischiavano di cedermi
da un momento all'altro.
L'essere squittente mi
guardò immobile per qualche secondo, dopodiché
cominciò ad avvicinarsi, spingendomi a salire su un tavolo
traballante per sfuggirgli.
I topi non sanno
arrampicarsi, vero? Pensai in un momento di panico acuto, vedendo il
topo rosicchiare le gambe del ripiano su cui avevo avuto la pessima
idea di rifugiarmi.
Sentii le lacrime
cominciare a scorrere sulle guance e chiusi gli occhi per non vedere la
scena pietosa di un topo intento a mordermi e graffiarmi.
«No, ti
prego...». Lo supplicai piagnucolando. «Non sono
buona da mangiare».
Resistetti altri pochi
minuti in quella situazione, dopodiché cominciai a sbattere
i piedi sul tavolo per farlo cadere e lanciai degli urletti isterici
senza alcun senso.
«Vaffanculo
Lore!». Sbottai poi, balzando giù dal tavolo in un
impeto di coraggio e ritrovandomi spiaccicata a terra con una gamba
impigliata chissà dove.
Mi ero praticamente
arresa al mio destino quando sentii qualcuno armeggiare con delle
chiavi fuori dalla porta, lanciai un'occhiata di sfuggita all'orologio
che avevo al polso e mi resi conto che era troppo presto per essere
Lorenzo e che sarei finita in un mare di guai se uno dei professori mi
avesse trovata lì dentro intenta a scappare da un topo.
Feci appena in tempo a
vedere il topo scappare spaventato che mi buttai in avanti per
supplicare il nuovo arrivato di non prendere provvedimenti drastici.
«Professore,
non è come sembra!». Cominciai concitata, con lo
sguardo basso rivolto alle scarpe della persona davanti a me.
«Non sono così stupida da chiudermi qui dentro di
proposito, mi hanno teso una trappola!». Spiegai alzando di
un'ottava la voce e finalmente sollevai il capo per vedere quale dei
professori il destino mi avesse mandato. Magari era uno di quelli che
chiudevano sempre un occhio...
«Mori, come
temevo sei proprio una spia del cazzo». Sentenziò
la causa di tutto quel trambusto, che era beatamente poggiato alla
porta con le braccia incrociate e un sorriso divertito dipinto sulle
labbra.
«Tu!».
Sbraitai non appena mi fui accertata che quello davanti a me fosse
proprio lui e non il frutto della mia immaginazione. Mi alzai
malamente, dimentica della mia gamba imprigionata, e rischiai di finire
con la faccia a terra se Lorenzo non mi avesse afferrata per un braccio
appena in tempo.
Lo vidi mordersi un
labbro per evitare di scoppiare a ridermi in faccia e se non fossi
stata sul punto di ricadere da un momento all'altro gli avrei di certo
mollato un ceffone per il terribile incubo che mi aveva fatto vivere
con quello stupido topo, il suo prendermi in giro in quel momento era
solo una motivazione valida in più per farlo.
«Smettila di
ridere e liberami». Grugnii in sua direzione, ci misi
talmente enfasi in quella specie di minaccia che probabilmente avrei
fatto invidia persino ad un cane selvaggio.
Lui sembrò
capire che in quel momento mettersi contro di me non sarebbe stata una
mossa saggia, perciò mi sollevò e mi mise a
sedere - senza troppa delicatezza - sul banco che avevo usato come
rifugio dal topo.
Quando si
abbassò per poter liberare la stoffa dei miei jeans dalla
gamba del tavolo, non potei fare a meno di pensare che quello fosse un
gesto insolito da parte sua; il Lorenzo Belli che conoscevano tutti non
lo avrebbe mai fatto...ma Lorenzo il mio amico sì.
Giunta a quella
conclusione mi sentii il cuore fare un balzo da una parte all'altra del
petto, quel sospetto avuto prima che lui andasse via stava diventando
qualcosa di più e io ne ero terribilmente consapevole e
felice, troppo.
«Quest'anno
hai tirato fuori un bel caratterino, eh».
La sua voce mi distolse
dai miei pensieri, per fortuna, perché altrimenti avrei
finito per confessargli che quella sua ostilità mi faceva
ancora troppo male e le possibilità che mi potesse ridere in
faccia erano troppo elevate per rischiare.
«L'ho sempre
avuto». Cominciai, osservando attentamente i lineamenti del
suo viso concentrato in quello che stava facendo, avevo la sensazione
che non avrebbe colto nemmeno un quarto di quanto gli stessi dicendo,
perciò mi sentii spronata a dire più di quanto
non avessi mai fatto. «Ma non sempre riesco a tirarlo fuori,
specialmente quando mi rendo conto che è inutile».
Lo sentii fermarsi un
attimo, dopodiché riprese ad armeggiare con il bordo dei
miei pantaloni, mentre con una mano si tirava indietro i capelli
disordinati.
«È
un modo velato per ricordarmi cosa ti ho fatto in questi ultimi
anni?». Se ne uscì all'improvviso, scoprendosi
forse più di quanto avessi fatto io e rimasi così
scioccata dal suo coraggio di tirar fuori l'argomento che non riuscii a
dire niente per un bel po' di tempo.
«Io...».
Dissi titubante, cercando di non pensare che avevamo intrapreso il
discorso proibito, quello che credevo non avremmo mai tirato fuori.
«Sei tu che lo stai dicendo, anche se mentirei se ti dicessi
che non è vero».
Confessai distogliendo
lo sguardo, anche se ero consapevole che da quella posizione non mi
avrebbe mai potuto vedere. Lui ridacchiò leggermente e
sollevò il viso per guardarmi; a quel punto mi fu
impossibile non cercare l'azzurro dei suoi occhi, che per una volta
stavano fissando solo e soltanto me.
«È
che tu...sei così strana». Disse in un sussurro
impercettibile, diventando d'un tratto tutto serio. «Non
riesco a lasciarti in pace».
«Ed
è un motivo valido per rendermi la vita un
inferno?». Gli chiesi stizzita, alzando leggermente la voce.
Forse sarebbe stato meglio rimanere nell'ignoranza, quella ragione
faceva persino più male del suo silenzio.
Lui scosse la testa e la
riabbassò interrompendo il contatto visivo che dopo tanto
tempo eravamo riusciti a recuperare, il che era un chiaro segno che il
discorso poteva considerarsi chiuso. Ma a quel punto ero io che non
volevo lasciare perdere. Sarei andata fino in fondo.
«Lore, non ti
sei dimenticato che un tempo noi eravamo amici, vero?».
La mia voce
risultò spezzata persino alle mie stesse orecchie, ma non
potevo mettermi a frignare, no? Avevo già passato la fase
della disperazione per la perdita del mio migliore amico, avevo deciso
di mantenere i ricordi in un cassetto chiuso e di riviverli poco a poco
con il sorriso sulle labbra, mi ero promessa di provare a convivere con
il mio affetto per lui senza ottenere nulla in cambio, magari
sostituendolo con l’odio. E allora perché stavo
per cedere?
«Giorgia, sono
passati tanti anni. Le persone cambiano, i tempi cambiano, persino le
amicizie cambiano. Non puoi rimanere attaccata alle stesse persone per
sempre».
Quelle parole furono una
coltellata al cuore, o forse anche di più, perché
le sentii echeggiare nella mia mente con insistenza ed ogni volta era
lo stesso dolore all'altezza della gola. Le lacrime erano vicine, ma
non potevo piangere davanti a lui; lui era forte, perché
invece io dovevo essere sempre la debole della situazione? Non lo
meritava, no.
Avrei voluto ribattere
in mille modi possibili a quella risposta, perché non ero
per niente d'accordo e perché era ingiusta, ma rimasi in
silenzio cercando di ricacciare indietro le lacrime, perché
se avessi anche solo aperto bocca sarebbe stato impossibile trattenerle
ulteriormente.
L'aria era tesa, noi
eravamo tesi, e nessuno dei due osava parlare. Di tanto in tanto
riprendevo a guardarlo, ma i miei occhi cambiavano traiettoria
autonomamente non appena coprivano un tratto del suo viso, mentre io
non osavo muovermi di un solo millimetro dalla posizione scomoda in cui
mi trovavo, né tantomeno cercavo di sfiorarlo per sbaglio;
era come se avessi paura di scottarmi, e io mi ero bruciata
già troppe volte a causa sua.
«Si
può sapere come cazzo hai fatto a rimanere incastrata qui?
Non riesco a scioglierlo, temo che dovrai toglierli».
Fu lui a rompere il
silenzio e non avrebbe potuto farlo in modo peggiore, mi ci volle un
po' per realizzare quanto avesse detto - perché ero ancora
troppo scossa -, ma quando compresi il significato delle sue parole e
ciò che avrebbero comportato, cercai di saltare in piedi.
Cercai, perché alla fine riuscii a malapena a fare un
saltello imbarazzante sul posto, rischiando persino di ricadere a terra
se la mano di Lorenzo non si fosse mossa rapida per bloccarmi.
Lo fissai ad occhi
spalancati per qualche secondo, prima di prendere ad urlare come una
pazza evasa dal manicomio.
«Che cosa?! E
come ci torno a casa in mutande?».
Lui si alzò
in piedi, in preda alle risate e troppo tranquillo per i miei gusti.
Non appena fossi riuscita a liberarmi gliel'avrei fatta pagare cara.
«Nonostante
tutto, non credo sarebbe una brutta visione».
Sentenziò squadrandomi da capo a piedi e dal calore sulle
guance percepii di essere diventata bordeaux.
«Maniaco!».
Sbottai coprendomi pudicamente, neanche fossi nuda davanti al ragazzo
più bello della scuola. Il ragazzo c'era, dovevo solo
togliere i vestiti...ma io non ci pensavo neanche.
«Sei proprio
uno spasso, Mori». Disse Lorenzo tra le risate, riuscendo a
malapena a parlare mentre si copriva la pancia con le mani.
Si divertiva davvero
molto, lo stronzo.
«Sono contenta
che ti stia divertendo!». Tuonai per attirare la sua
attenzione, dato che era troppo impegnato a ridere per cercare di
aiutarmi a trovare una soluzione che non comprendesse il togliermi
indumenti.
«Ok, scusa,
vuoi che ti aiuti a toglierli?». Chiese facendo cenno con il
capo ai miei jeans ed ero sicura che traesse un indicibile piacere nel
mettermi in imbarazzo.
«NO!».
Urlai, tendendo le mani in avanti per evitare ogni minimo avvicinamento
da parte sua. «Non ti avvicinare».
Scandii ogni parola con
estrema attenzione, per fargli capire che non stavo scherzando e che se
mi avesse anche solo sfiorata lo avrei come minimo preso a morsi.
Lui sollevò
le mani in segno di resa, dopodiché fece un passo indietro
con un sorriso strafottente.
«Va bene,
allora me ne vado, ci vediamo domani...forse».
Si voltò e
cominciò a raggiungere la porta fischiettando, tenendo le
mani in tasca come al solito.
«Aspetta! Li
tolgo...». Lo fermai, cominciando a sbottonare quello stupido
pezzo di stoffa per fargli capire che dicevo sul serio.
Un modo per coprirmi
l'avrei trovato, di stare lì da sola tutta la notte - in
compagnia dei topi, per giunta - non se ne parlava proprio. Inoltre
dubitavo che avesse intenzione di approfittare della situazione, con
tutte le strafighe che aveva io sarei stata l'equivalente di una tazza
di camomilla per i suoi ormoni.
Rossa di vergogna e
decisa a cambiare città, regione e persino paese se fossi
riuscita ad uscire di lì, feci forza sulle braccia per
togliermi i jeans; ma l'impresa si dimostrò più
difficile del previsto e fui costretta a chiedere aiuto a Lorenzo.
«Belli?».
Lo chiamai con voce bassissima, sperando che non mi sentisse.
«Sì?».
Chiese voltandosi verso di me, le sue labbra erano piegate in un
sorriso vittorioso.
«Mi aiuteresti
a...». Cominciai a chiedergli, ma pronunciare quell'ultima
parola era troppo imbarazzante, perciò non riuscii a
terminare la richiesta.
«A...?».
Mi incalzò lui, sebbene fossi certa che sapesse
perfettamente cosa volevo chiedergli.
Assottigliai lo sguardo
per cercare di mettergli paura, ma lui rimase immobile dov'era,
incrociando le braccia al petto in segno d'attesa.
«Dai, lo
sai...». Balbettai cercando di evitare il suo sguardo,
dimostrandogli involontariamente quanto quel tipo di situazioni fossero
nuove per me.
«Mori, sei
più pudica di quanto pensassi».
Sentenziò Lorenzo con uno sbuffo, cominciando ad
avvicinarsi, ma proprio in quel momento sentii un rumore familiare che
mi fece irrigidire sul posto.
«F-Fra...».
Lo chiamai quando fu ad un passo da me, indicandogli con lo sguardo un
punto alla nostra destra: non erano state le mie orecchie a giocarmi un
brutto scherzo; quel roditore bianco era tornato davvero.
«Che succede
ancora?». Disse seguendo la direzione del mio sguardo con
cipiglio incuriosito e credendo probabilmente che stessi dando di matto
come al solito.
«È
un topo, Dio santissimo». Esclamò con
ovvietà, una volta che ebbe inquadrato la causa della mia
improvvisa agitazione. Chiaramente lui non si lasciava impressionare da
un roditore grande neanche quanto un suo piede, per questo mi
guardò come se fossi matta, prima di ricominciare ad
avvicinarsi a me…incurante del pericolo alle sue spalle.
«Sta venendo
verso di me!». Piagnucolai non perdendo di vista quella palla
di pelo bianca neanche per un secondo, mentre Lorenzo assumeva
un’espressione decisamente spazientita. Era solito farlo
anche quando eravamo piccoli: non appena vedevo un insetto o un
qualunque essere strisciante cominciavo ad urlare come
un’isterica, e se non prestavo ascolto alle sue assicurazioni
si alterava parecchio.
«Cosa vuoi che
ti faccia, scusa? Non è mica carnivoro e scommetto che non
ha a minima intenzione di avvicinarsi a te». Disse infatti,
una volta che mi ebbe raggiunta; ma proprio in quel momento vidi il
topo avvicinarsi alla gamba del tavolo – ancora – e
la mia reazione fu inevitabile. Balzai in piedi senza badare al fatto
che la mia gamba fosse ancora attaccata proprio all’oggetto
di rosicchiamento del topo e ci misi un po’ a realizzare di
non aver fatto la minima fatica nel compiere quel gesto.
Abbassai lo sguardo
verso il mio jeans e vidi che non era minimamente strappato o scucito e
dopo aver superato l’attimo di confusione, cominciai a
spostarlo ripetutamente dal mio indumento a Lorenzo, che aveva
cominciato ad indietreggiare nascondendo un sorriso colpevole.
«BELLI, TU SEI
MORTO!». Urlai preda di un’ira funesta che neanche
durante la peggiore delle angherie subite avevo provato. Balzai
giù dal tavolino scassato con un salto degno di Tarzan e lo
raggiunsi in due falcate; dal canto suo, lui rimase immobile
dov’era…ad un passo dalla porta chiusa e senza la
minima preoccupazione in volto.
«Che cazzo ti
è saltato in mente di fare, si può
sapere?». Continuai il mio rimprovero, accertandomi di tanto
in tanto che il topo fosse ancora impegnato a mangiare la gamba del
tavolo.
Non ricevendo alcuna
risposta, se non un sorriso sempre più largo sul suo viso,
cominciai a tirarlo per la maglia, per fargli capire che non poteva
ignorarmi così dopo che mi aveva quasi costretta a rimanere
in mutande. Proseguii con una serie di insulti e domande a cui non
reagì minimamente per una buona mezz’ora, durante
la quale mi stancai terribilmente, sebbene non volessi darlo a vedere,
finché non mi bloccò i pugni con
un’abile mossa di difesa, che probabilmente aveva imparato
durante una delle sue lezioni di karate.
«Calmati».
Disse poi con tranquillità, spingendo i miei polsi verso il
basso, lungo i fianchi; la sua presa era talmente stretta che se non
fosse stata altrettanto piacevole avrei certamente urlato dal dolore.
Improvvisamente persi
ogni proposito di vendicarmi, avevo Lorenzo talmente vicino che
riuscivo a sentire distintamente il suo odore. Certo, era cambiato da
quando era un bambino, ma aveva la stessa identica capacità
di attrarmi ed io ne ero totalmente dipendente.
«Era solo uno
scherzo, va bene? Non c’è alcun bisogno che tu
reagisca in questo modo per una sciocchezza del genere».
Ti ho fatto cose ben
peggiori. Non lo disse, ma ero certa che lo stesse pensando.
Fu solo allora che
compresi di aver fatto un terribile errore: anziché
allontanarmi da lui come avrei dovuto fare, avevo appena compiuto un
passo verso l’esatto centro delle fiamme da cui avevo sempre
provato a tenermi alla larga; eppure in quel momento non avevo la
minima intenzione di farlo, mi sarei bruciata mille e altre mille volte
se questo fosse servito a recuperare anche solo un briciolo del nostro
vecchio rapporto, se questo avesse potuto mettere da parte il rancore e
l’indifferenza che con il tempo mi avevano fatto perdere ogni
speranza. Sapevo che anche il solo cercare di comprendere quello che
gli passasse per la testa era un punto a mio sfavore, un gesto
inconsapevole che avrebbe portato solo ad altre insormontabili
difficoltà che non sarei mai riuscita a superare, ma non
riuscivo ad esimermi dal farlo.
«Lasciami».
Dissi, sforzandomi di rimanere fredda, ma provando il segreto desiderio
di abbracciarlo e risentirne il calore dopo tanto tempo. Che effetto mi
avrebbe fatto? Mi sarei sentita ancora protetta come 10 anni prima?
La sua presa si sciolse
lentamente, così come lentamente tornai ad acquistare un
respiro regolare. Feci qualche passo indietro e cercai di risultare il
più naturale possibile, nonostante i pensieri che avevo in
testa in quel momento mi stessero mandando al manicomio.
«Sei un
idiota». Commentai, risultando ridicola alle mie stesse
orecchie per come avevo parlato. Piuttosto che un insulto, sembrava un
complimento.
«Non sei la
prima che me lo dice». Disse lui con un’alzata di
spalle, non accennando a spostarsi di un millimetro, nonostante ormai
fosse molto tardi e non avessi neanche avvisato i miei genitori.
I miei genitori!
«Oh
cazzo!». Imprecai fissandolo come se fosse un mostro, mentre
la mia mente cominciava a farsi i peggiori filmini mentali su quello
che stavano pensando i miei sulla mia
scomparsa…probabilmente avevano già chiamato la
polizia e mi stavano facendo cercare.
«Cosa
c’è? Hai visto un fantasma? O ho un topo
spiaccicato in faccia?». Si prese gioco di me, facendo finta
di togliersi qualcosa dal viso. Al solo pensiero che uno di quegli
esseri potesse essere davvero lì, rabbrividii, ma non avevo
tempo di pensare a quelle futilità, dovevo sbrigarmi a
tornare a casa.
«Peggio, i
miei mi uccideranno!». Esclamai, correndo a recuperare la mia
sciarpa da terra - al diavolo quel topo guastafeste! - e
riallacciandomi il cappotto, mentre tornavo a passo spedito verso la
porta.
«Non dirmi che
non li hai avvisati! Sono quasi le 5». Commentò
Lorenzo, mentre si apprestava a recuperare le chiavi.
«E come
facevo, scusa?! Ti ricordo che mi hai sequestrato il cellulare prima di
andare da quella zoccola». Urlai isterica, dando ancora una
volta prova di essere una tremenda lunatica sotto il segno dei gemelli.
«Hai ragione,
scusa, sono stato un idiota». Disse passandosi una mano tra i
capelli con fare apprensivo, mentre con l’altra cercava di
chiudere la porta del Trash a chiave.
«Molto
idiota!». Lo rimbeccai cominciando a correre per il corridoio
e poi giù per le scale, immediatamente seguita da lui che mi
stava dietro semplicemente camminando.
«Se ti
può essere di consolazione, almeno hai reso felice il
sottoscritto».
«No, non mi
è per niente d’aiuto in questo
momento!». Parlai già completamente priva di
ossigeno nei polmoni, non badando neanche a quello che mi aveva detto;
non ero abituata a correre in quel modo per un tempo così
lungo e sarei potuta collassare da un momento all’altro.
Per fortuna giungemmo
nell’atrio qualche secondo dopo, dove fummo costretti a
rallentare – almeno io – a causa della stretta
sorveglianza di bidelle e addetti alla segreteria. Pregai mentalmente
che nessuno facesse domande o mi trattenesse un secondo di
più là dentro, dopodiché raggiunsi
velocemente l’entrata e uscii respirando l’aria
gelida.
Il passaggio dal tepore
confortante della scuola al freddo lancinante dell’esterno fu
traumatico; non appena una folata di vento mi arrivò diritta
in faccia fui costretta a fermarmi per abituarmi alla nuova
temperatura. Mentre Lorenzo, come al solito, non sembrava minimamente
provato dalla folle corsa appena fatta o dal gelo in cui ci eravamo
ritrovati immersi all’improvviso, sebbene lui indossasse un
semplice cappottino ed io un piumino d’oca.
Afferrai il cellulare
dalle mani di Lorenzo, fregandomene del fatto che fosse il suo, e
composi il numero di casa, pregando che qualche anima pia si decidesse
a rispondermi. Tuttavia, il telefono squillò a lungo, ma
nessuno si decise ad alzare la cornetta.
«Vaffanculo».
Mi lagnai cominciando a sbattere i piedi per terra come una bambina
capricciosa. «Sono nei guai fino al collo».
«Senti, ti ho
già detto che mi dispiace, di certo non sono capace di
indietro nel tempo; perciò ora fammi il favore di darti una
calmata e di tornare a casa, possibilmente senza farti più
di 10 chilometri di corsa».
Lo fissai indecisa se
tirargli uno schiaffo, oppure prenderlo direttamente a sassate. Non era
lui quello che avrebbe passato le ire di Dio una volta tornato a casa,
non era lui quello che aveva fatto preoccupare i suoi genitori.
«Sai cosa ti
dico? Tu fai quello che ti pare, io me ne vado a casa come cavolo dico
io».
Gli voltai le spalle e
scesi gli scalini a due a due, non voltandomi nemmeno per controllare
se mi avesse seguita o meno.
Percorsi il tragitto
fino alla fermata dell’autobus, sarebbe stato masochista
farsi tutta quella strada a piedi – magari di corsa
– con quel freddo, ma proprio mentre svoltavo
l’angolo, mi sentii bloccare per un braccio. Sì,
la situazione era identica a quella che molte volte avevo visto nei
telefilm, peccato che quella fosse la vita reale e che io non avevo la
minima intenzione di sprecare altro tempo con lui…almeno non
in quel momento.
«Che
vuoi?». Grugnii cominciando a strattonare il braccio per
liberarmi dalla sua presa, ma ancora una volta l’impresa si
dimostrò impossibile.
«Il tuo
cellulare, ce l’ho io, cretina».
Roteai leggermente la
testa e incontrai ancora i suoi occhi. L’avevo già
detto che avevano un effetto ipnotico su di me? Avrebbero dovuto
dichiararli illegali per la quiete pubblica.
«Ti ringrazio
per la precisazione, ora puoi andare». Dissi spazientita
– ormai quell’aggeggio elettronico era inutile come
lo 0 nelle addizioni e nelle sottrazioni – , sempre dandogli
le spalle e cercando di sfuggire al suo sguardo senza dare troppo
nell’occhio.
«Mori,
abitiamo nello stesso palazzo e siamo per giunta vicini di
casa…come credi che abbia intenzione di tornare a
casa?».
«Non me ne
importa, basta che sparisci dalla mia vista». Balbettai non
più tanto sicura di voler essere arrabbiata con lui, in
fondo la sua unica colpa era quella di essere un ragazzo ancora in
piena crisi ormonale e che per sfortuna aveva una vasta gamma di
ragazze con cui intrattenersi. Approfittai di una sua esitazione per
liberarmi e mi sedetti sulla panca per aspettare l’autobus,
sperando che mi lasciasse in pace.
«Io non ti
capisco, davvero Mori». Sentenziò poco dopo,
sedendosi accanto a me come se quanto gli avessi detto non avesse
alcuna importanza.
«Io ho smesso
di cercare di capirti da un bel po’, invece».
Sputai acida, fregandomene del fatto che stavo ritoccando
l’argomento tabù.
«Figurati, non
mi capisco neanche io…non pretendo che lo facciano gli
altri».
A quelle parole lo
guardai di sottecchi, trovandolo con la solita espressione divertita e
strafottente. Una cosa era certa: Lorenzo non lasciava trasparire
facilmente le sue emozioni.
«Lo stesso
vale per me, quindi sei pregato di lasciarmi in pace».
Per tutta risposta lui
cominciò a ridacchiare, lo vidi schiudere le labbra pronto a
dirmi qualcosa; ma l’arrivo dell’autobus gli
impedì di continuare.
No, cazzo, no!
Perché era passato proprio in quel momento?
E va bene, dovevo
ammetterlo, anche se non ne avevo mai fatto mistero, ero ben lungi
dall’essere indifferente a quello che aveva da dirmi e avrei
persino rinunciato alla mia collezione di cd d’altri tempi
pur di sentire quel pensiero che probabilmente sarebbe rimasto celato
nella sua mente per sempre.
«Ehi, ti muovi
a salire?».
Ero rimasta imbambolata
a fissare un punto indefinito della strada, ancora una volta avevo
avuto la prova che stavo irrimediabilmente capitolando per quella
stupida amicizia che invece avrei dovuto dimenticare e mi sentii in
collera con me stessa per quella mia debolezza. Non si diceva mica che
con il tempo si tende a dimenticare le emozioni passate? E allora
perché dopo dieci anni non mi ero ancora lasciata
quell’assurda storia alle spalle?
Lorenzo era
sì stato il mio migliore amico, ma non avevo mai provato un
sentimento del genere, nemmeno quando mia mamma aveva lasciato mio
padre e si era risposata: l’avevo odiata davvero in quegli
anni, esattamente come avevo fatto con Lorenzo, ma mentre con lei
l’odio era l’unica cosa che riuscivo a
sentire…con Lore era completamente diverso: lo amavo e
l’odiavo allo stesso identico modo. A quel punto
l’unica domanda da farmi era: ma io lo odiavo
davvero?
Note:
Salve a tutti!
Inizierei questo mio piccolo spazio col dire che mi farebbe davvero
molto piacere leggere qualunque opinione voi abbiate riguardo a questa
storia! Anche se avete deciso di non continuare a leggere, mi sarebbe
molto utile capire cosa c'è di sbagliato per poter
migliorare...anche una riga sarebbe più che sufficiente.
Detto questo, so di essere una frana nel suddividere i capitoli e che
magari possano risultare tagliati di netto, ma essendo che questa parte
ce l'ho già bella che scritta mi viene molto difficile stabilire
in che punto il capitolo debba finire. Perciò vi chiedo di
perdonarmi, dal prossimo non ci dovrebbe più essere questo
problema.
Per il resto, il capitolo parla da sé, non credo di dover aggiungere altro rispetto al suo contenuto.
Grazie a chi ha letto quello precedente...conto sul vostro parere d'ora
in poi, altrimenti mi sembra abbastanza inutile continuare a pubblicare
qui, dato che sarebbe come lasciarne il contenuto nel mio pc. XD
Non mi resta che augurarvi buona lettura! A presto.
|
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Capitolo 4 *** Rivelazioni. ***
Capitolo 3
CAPITOLO 3: Rivelazioni
«Sicura
di non voler controllare il tuo cellulare?».
Stavamo discutendo – ma sarebbe più
giusto dire litigando – da un buon quarto d’ora
circa il livello di preoccupazione di mamma e papà; Lorenzo
mi aveva consigliato di vedere quante chiamate perse contava il mio
cellulare, mentre io ero fermamente convinta che sarebbe stato meglio
non saperlo: più chiamate ci avrei trovato e più
la voglia di scendere dall’autobus per farmela di corsa fino
a casa sarebbe diventata insopportabile. Milano era una
città pessima, l’avevo sempre pensato, ma quel
giorno me ne ero convinta ancora di più: 6 giorni su 7 le
strade erano perennemente bloccate durante la fascia oraria che andava
dalle 17 alle 18 e di quel passo avrei fatto davvero prima ad andare a
piedi.
«Assolutamente! Non farei altro che aumentare la mia ansia e
io non sono assolutamente masochista».
Ok, forse un po’ lo ero considerando che stavo
tranquillamente seduta vicino alla persona che invece avrei dovuto
prendere a schiaffi, ma che cosa c’era di male nel non
ammetterlo davanti agli altri? Specialmente davanti a lui che sarebbe
diventato la causa principale dei miei guai e dei miei pentimenti.
«Va bene, come vuoi». Rispose Lore rassegnato,
sfregandosi le mani per riscaldarsi un po’. Come avevo
pensato, anche lui sentiva freddo, solo che non lo avrebbe mai dato a
vedere…tantomeno in mia presenza.
Buona parte del viaggio trascorse nel più assoluto silenzio,
sulla vettura c’eravamo solo io e lui ed avevamo entrambi
esaurito gli argomenti di cui parlare; quelli tranquilli,
perché poi c’erano anche quelli spinosi che
evitavamo come la peste.
Di tanto in tanto Lorenzo tirava fuori il suo cellulare per mandare
qualche messaggio, e in alcune occasioni l’avevo persino
beccato imbambolato a ridere fissando lo schermo. Mi piaceva
vederlo sorridere, anche se non ero io la causa della sua
ilarità, perché ero stupida e mi accontentavo
delle piccole cose, probabilmente.
Mentirei se dicessi che ero felice per lui e tutte quelle frasi di
circostanza false e ipocrite, mi sentivo logorare dentro dalla gelosia
e avrei preso volentieri a testate qualcosa per sfogare quella
terribile sensazione di abbandono e di tradimento, ma non mi restava
che consolarmi con il pensiero che un tempo le sue attenzioni erano
rivolte tutte a me e che il bene che aveva provato per me non
l’avrebbe mai provato per nessun’altra.
«Mori, hai finito di fissarmi?». Disse
all’improvviso, facendomi spaventare e saltare sul sedile per
la sorpresa, dopodiché rimise in tasca il cellulare e
spostò lo sguardo verso di me.
Le sue gambe erano poggiate sul sedile davanti, chiaro segno della sua
villania e strafottenza.
Sì, non era solo apparenza, era davvero uno a cui piaceva
non rispettare le regole e cacciarsi nei casini, tanto che molto spesso
mi capitava di sentire la sua povera mamma sfogarsi con la mia per la
sua irrecuperabilità e in alcuni casi le sue urla isteriche
le sentivamo chiaramente persino dal nostro appartamento.
«Non ti stavo fissando!». Sbottai distogliendo
immediatamente lo sguardo, ma la mia voce era uscita talmente stridula
che nemmeno il più stupido degli allocchi avrebbe abboccato
alla mia bugia.
«Certo, certo, come dici tu». Disse sistemandosi
meglio sul posto, mentre riacciuffava il cellulare dalla tasca e
riprendeva ad ignorarmi, o almeno così credevo.
«In genere non mi piace dire le cose apertamente, ma questa
volta farò un’eccezione…».
Lasciò la frase metà, in un chiaro e tacito
invito a chiedergli di proseguirla. Ma io non avrei mai fatto il suo
gioco, se davvero ci teneva, l’avrebbe dovuta concludere lui,
anche perché avevo una mezza idea su cosa avesse intenzione
di dirmi e dato che ne avevo la possibilità, avrei evitato
di ascoltarlo. Oppure no?
«Vuoi che ti cavi le parole di bocca, o sei ancora in grado
di parlare?». Cercai di stemperare la mia resa con un
po’ di ironia, ma ero certa di esserci riuscita malissimo;
soprattutto considerando che stavo scappando dal suo sguardo come una
lucertola che cercava di sfuggire alla luce.
«Sai che sei davvero buffa quando ti imbarazzi?».
«Cosa? Io non mi sto…!».
«Sì, lo sappiamo che non ti stai imbarazzando e
non ti stai vergognando come una ladra solo perché hai paura
che ti stia per dire qualcosa di compromettente». Mi
interruppe muovendo la mano come per imitarmi, sforzandosi pure di
modificare la voce per riuscire meglio nell’intento.
Calcò sull’ultima parola schioccando persino la
lingua, gettò malamente il cellulare sulle gambe e
tornò a rivolgermi la sua piena attenzione.
Automaticamente la mia salivazione cominciò a scarseggiare e
quello stupido muscolo involontario che tutti si ostinavano a chiamare
cuore, ma che per me era solo uno sciocco traditore, prese a battere
sempre più forte. Accidenti, ne avevamo davvero
così bisogno da non potercelo strappare dal petto?
«Esatto». Risposi lasciva, avevo gli occhi
inchiodati ai suoi e le ciglia incollate alle palpebre. Il bruciore mi
aiutava a deconcentrarmi dal suo sguardo ipnotico, perlomeno.
«Bene, allora immagino che se ti dicessi che in questo
momento ho una voglia matta di baciarti non ti metteresti a lanciare
urletti isterici e a darmi del porco maniaco, giusto?».
«Assolutame…COSA HAI DETTO?!». Balzai in
piedi sul sedile, urlando come il peggiore esemplare vittima
dell’isterismo, proprio nel momento in cui stava salendo un
signore anziano sull’autobus che guardò in nostra
direzione scuotendo il capo, come quelli della sua veneranda
età erano soliti fare di fronte ai giovani.
«Mori, sei prevedibile come il risultato di una partita
Inter-Milan». Sentenziò stiracchiandosi e
appoggiando le braccia sul poggiatesta dietro di lui, per poi stendersi
meglio su di esso.
«E tu sei un depravato».
Vidi le sue iridi chiare voltarsi completamente in mia direzione, come
per sottolineare – senza bisogno di usare le parole
– che le sue previsioni erano state esatte e che io non
potevo reggere il confronto con uno come lui.
«Senti, sapientino di sto cazzo…».
Soffiai cercando di nascondere alla bell’e meglio la collera
che imperversava dentro di me e che in quel momento poteva essere
considerata almeno pari a quella di Nettuno quando scoprì
che colui l’assassino di suo figlio stava beatamente
navigando sulle sue acque. «…anche se io fossi un
po’ timida – e ti posso assicurare che non lo sono
– mi spieghi cosa ci sarebbe di male? Per fortuna qualche
ragazza seria esiste ancora. Che razza di mondo schifoso se fossero
tutte come le sciacquette che usi per divertimento».
Ero sicura di averlo punto sul vivo, avrei scommesso tutta la mia
paghetta che non avrebbe più osato ribattere alla mia accusa
e ancora una volta cominciai a pregustare il sapore della vittoria
troppo in fretta.
«Il male è che ti nascondi. Non mi sembra di
averti mai preso in giro per questa tua discrezione».
Touchée.
Avrei presto imparato che era inutile provare a metterlo in
difficoltà; in un modo o nell’altro sarebbe sempre
riuscito a sviare il discorso e a portarlo a suo favore, ma per il
momento mi era inevitabile rimanere interdetta dalle sue parole e
continuare a fissare i contorni delle sue ciglia, iniziando persino a
contarle in attesa che un’argomentazione valida mi si
formasse nel cervello…e delle volte avrei persino dovuto
iniziare da capo, perché il tempo che passavo con lui non
era mai sufficiente a capirlo.
«Perché te ne esci adesso con questi apprezzamenti
e voglie mal celate?».
La mia voce aveva perso ogni enfasi, riducendosi ad un flebile sussurro
che nemmeno il passeggero più vicino avrebbe potuto
cogliere; eppure ero certa che lui sarebbe riuscito a decifrarlo
correttamente.
«Perché in fondo non sei la racchia che pensavo
che fossi, e a tratti sai anche essere simpatica».
Spiegò riaprendo lentamente gli occhi, mentre la linea
sottile delle sue labbra si stringeva ancora di più e il blu
tornava a fare capolino dai suoi occhi.
Santo Cielo, non potevo lasciarmi incantare così da lui solo
perché madre natura lo aveva donato di un fisico perfetto e
di un viso bellissimo. Dov’era finita la Giorgia che
criticava tutte le ochette che avrebbero fatto carte false per uscire
con lui?
«Quindi…». Cominciai schiarendomi la
voce; avevo la gola secca e le corde vocali doloranti.
«…ogni volta che vedi una ragazza non propriamente
racchia – perché è così che
mi hai definita tra le righe – e che ti suscita una certa
simpatia ti viene voglia di baciarla? Che cazzo di ragionamenti
sono?».
Non importava quante volte e quanto insistentemente provassi ad entrare
nella sua mente o a capirlo, sarebbe sempre stato come sperare di
vedere le stelle quando il cielo era completamente ricoperto di nubi.
«Lo stai dicendo tu questo, guarda che per finire nelle mie
grazie bisogna passare un’attenta selezione».
La situazione stava cominciando ad innervosirmi, le sue frasi mezze
dette erano irritanti almeno quanto lo sciocco sorriso che continuava
ad albergare sul suo viso, neanche se lo fosse incollato di proposito
per farmi uscire fuori dai gangheri, e per di più stavo pure
morendo di fame!
«Ok, lasciamo perdere il discorso. Anche perché
non me ne importa nulla di quello che vorresti fare con me».
A quel punto ero sicura di avere la sua completa attenzione,
perciò decisi di sferrare il colpo finale per non uscire
completamente illesa da tutto quel ciarlare senza senso.
«Scordatelo e basta, chiaro?».
Lorenzo si alzò di scatto dalla posa di dormiveglia che
aveva assunto, inchiodò i suoi occhi ai miei e si
avvicinò leggermente al mio viso, sul quale riuscii a
percepire distintamente il calore del suo respiro; che come in una
reazione a catena mozzò il mio in gola.
«Sai, tendo sempre a fare l’opposto di quello che
mi dicono di fare…». Alitò
all’altezza del mio collo, provocandomi un brivido lungo
tutta la spina dorsale, che poi si estese ad ogni altro centimetro di
pelle.
«Belli, io non…». Mi bloccai cercando di
recuperare la giusta lucidità per terminare il mio monito,
ma ci impiegai troppo tempo perciò alla fine quanto dissi si
rivelò solo fiato sprecato. «…io non
sarò mai una di quelle barbie senza cervello che ti ostini a
portare a letto per divertimento».
«E chi ti dice che io voglia concederti l’onore di
finire nel mio letto?». Sussurrò a quello che
doveva essere un millimetro dal mio orecchio, perché nel
parlare le sue labbra mi avevano sfiorato delicatamente il collo.
«Io…non ti capisco». Dissi buttandomi a
peso morto contro il sedile, troppo stanca per ogni altro giochetto
avesse in mente di fare. «Fino a neanche due ore fa ti
saresti schifato persino a toccarmi, ora invece non fai altro che
provocarmi e starmi appiccicato. La storia della non esagerata
bruttezza non regge; perciò, soffri di qualche problema di
personalità multipla o la reputi una cosa normale?
Perché in tal caso ti pago la visita dal
neurologo».
«Mori, io direi che ti stai facendo problemi che non
esistono. Non c’è nulla di male a lasciarsi andare
all’attrazione fisica». Parlò con
improvviso tono concitato e infastidito, probabilmente la mia
resistenza lo stava mettendo a dura prova e io non potevo che essere
felice di questo. «Il tempo che stiamo impiegando a parlare
potremmo tranquillamente usarlo per fare cose più
interessanti».
«Solo se mi spieghi il motivo del tuo cambiamento repentino.
Il mio cervello sta valutando tutte le possibilità, ma
nessuna di queste mi sembra abbastanza convincente».
Puntualizzai dopo una lunga riflessione, durante la quale ero stata
altamente propensa al non dargli più corda e ad aspettare di
coprire anche quegli ultimi chilometri rimasti per tornare a casa, in
attesa che tutto tornasse come prima; quella situazione e quel Lorenzo
mi stavano mandando letteralmente al manicomio e se non avessi fatto
qualcosa al più presto, avrei finito per fare la
più grande cazzata della mia vita.
Chiaramente non avrei mai impiegato il tempo come avrebbe voluto fare
lui, ma se dire una piccola bugia poteva servire ad ottenere una minima
verità allora sarei passata volentieri per
bugiarda…al diavolo la correttezza; quando mai gli altri
l’avevano usata con me?!
Il viso di Lorenzo assunse mille espressioni diverse, ciascuna delle
quali rimaneva per me un mistero che non osai nemmeno tentare di
risolvere, dopodiché indossò nuovamente la solita
maschera di neutralità e piegò le labbra in un
sorriso sadico e compiaciuto. Ero sicura che avesse deciso di accettare
l’ennesima sfida, in fondo lui non aveva niente da perdere,
se non un briciolo di verità che aveva tenuto nascosto.
«Come al solito ti lasci ingannare dalle apparenze,
Giò». Sussurrò portando due dita
all’altezza del mio mento, per poi sollevarlo con forza e
dolcezza allo stesso tempo. Sentii il cuore impazzirmi
all’altezza della gola e il respiro farsi sempre
più pesante mentre una terribile realtà si
affacciava davanti ai miei occhi; non avrei mai avuto il coraggio di
allontanarlo, avevo cercato quella vicinanza per così tanto
tempo che alla fine si sarebbe rivelata la mia stessa sconfitta.
«Non sei mai cambiata, e il motivo è che non hai
mai avuto il coraggio di farlo». Proseguì
tracciando con la punta dell’indice il contorno delle mie
labbra, per poi posarvelo sopra e fare una leggera pressione contro di
esse.
«Nonostante mi accanisca sempre con te, nonostante ti renda
la vita un inferno, nonostante non ti dimostri mai un briciolo di
affetto tu continui a volermi bene, non è
così?». Chiese retorico, continuando a usare le
dita per accarezzare ogni centimetro del mio viso, giungendo fino agli
zigomi per poi proseguire la scia verso il collo. Annuii come se fossi
sotto effetto ipnotico, ormai ero ridotta allo stato di un automa,
avrei fatto qualunque cosa mi avesse chiesto di fare e non me ne
sarebbe importato nulla, avrei persino calpestato il mio orgoglio e
cancellato le mie convinzioni per arrivare a lui.
«Sei talmente impegnata a capire le ragioni che spingono gli
altri a comportarsi in un certo modo che ti lasci sfuggire i piccoli
gesti, le minime attenzioni…e finisci inevitabilmente
per perdere il contatto con la realtà».
Continuò il suo monologo allargando ulteriormente il
sorriso, che gli fece comparire le due solite fossette sotto agli occhi.
«In questi anni hai solo pensato ai motivi che mi avessero
spinto ad allontanarmi da te, anche se contro la tua volontà
non riesci a lasciarti il passato alle spalle…a lasciarmi
alle spalle: non ti importa di nessuno quanto ti importa di
me».
I suoi ragionamenti erano quanto di più contorto avessi mai
sentito, non avevano un filo logico eppure non riuscivo a smettere di
ascoltarlo. Ero completamente assuefatta dal tono soave della sua voce,
sarebbe potuto persino cadere un meteorite che non me ne sarei accorta.
«E questo che cosa c’entra con la tua
richiesta?». Domandai con un filo di voce, approfittando di
un brevissimo momento di lucidità e non staccando neanche
per un secondo i miei occhi dai suoi; era come nuotare in una pozza
d’acqua limpida, che per quanto potesse essere piccola non
aveva via d’uscita.
Lorenzo si avvicinò ancora di qualche millimetro e io mi
dimenticai persino come respirare quando le sue labbra andarono a
sfiorare prima il mio naso e poi le mie guance.
«Mi è bastato stare con te qualche ora per capire
cosa ti ronzava in questa testolina bacata…».
Soffiò prima di lasciarmi un piccolo bacio sullo zigomo, per
poi proseguire la sua scia arrivando fino all’angolo della
mia bocca; dove ne posò un altro più languido e
lungo che mi fece schiudere le labbra e respirare più a
fondo. «…e devo dire che trovo parecchio
interessante e appagante quanto ho scoperto. Il mio insormontabile ego
ne gioisce incontrollatamente».
Quasi come se fossi un burattino nelle sue mani, lasciai che anche
l’ultimo barlume di reticenza mi abbandonasse e portai le
miei dita ad intrecciarsi nei suoi capelli; non ne sentivo la
consistenza da quando ci divertivamo a tirarceli per gioco ed era
dolorosamente piacevole scoprire che in quel contatto adesso di
scherzoso non c’era assolutamente nulla.
Vidi il suo viso avvicinarsi al mio in un movimento lento ed
esasperante, per poi avvertire, finalmente, il calore delle sue ad un
soffio dalle mie, dal quale capii che l’attesa era finita e
che forse aspettare 10 anni non era stato poi un grosso fardello, se
quella ne era la diretta conseguenza.
La semplice vicinanza tra le nostre bocche, certamente smaniose di
muoversi e modellarsi l’una sull’altra, ben presto
diventò troppo poco, entrambi bramavamo di più ed
eravamo pronti ad ottenerlo – chi per un motivo,
chi per un altro – se il fastidioso suono acuto del segnale
di fermata prenotata non avesse attirato la mia attenzione. Con un
gesto spontaneo distolsi l’attenzione da quello che tutti i
miei sensi avvertivano in quel momento e guardai fuori dal finestrino
alle spalle di Lorenzo, minuziosamente impegnato a darmi dei piccoli
morsi per farmi schiudere le labbra. E lo avrei lasciato fare senza
oppormi – nonostante le assurde motivazioni che lo stavano
spingendo a comportarsi in quel modo –, mi sarei beata delle
sue attenzioni ancora a lungo, se non avessi colto un piccolo
particolare.
Scattai indietro all’istante, separandomi da quel minuscolo
paradiso terrestre che avevo trovato con tanta fatica, e mi alzai di
scatto, lasciando Lore completamente sconvolto e infastidito dalla mia
reazione improvvisa.
«Che co…». Balbettò confuso,
passandosi le mani tra i capelli per sistemarli; mi ci ero avvinghiata
come un polipo e li avevo resi un disastro. Probabilmente avrei riso di
lui in un’altra situazione; vedere l’impeccabile
Belli in quelle condizioni era una cosa rara e avrei potuto riscattarmi
da alcune delle sue torture passate.
«La fermata, imbecille!». Urlai isterica
raggiungendo le porte per scendere.
«Hai idea di quanta strada siamo costretti a farci a piedi
per colpa tua?». Sbuffai cercando di coprirmi il
più possibile dal freddo.
Camminavo ad almeno un metro di distanza da Lorenzo, per evitare che
tentasse ogni qual tipo di attacco simile a quello sul pullman e
cercavo di non pensare ai miei genitori prendendomela con qualcuno, in
questo caso lui.
«Ah, mia? Di certo non mi stavo baciando da solo».
Mi fece eco senza voltarsi, continuando a camminare con le mani in
tasca e il giubbotto slacciato. Se si fosse preso un accidenti ne avrei
gioito enormemente, così avrebbe pensato due volte alla sua
aria da maschio figo, la prossima volta.
«Ah-ah, come sei simpatico, Belli». Finsi una
risata degna di premio Oscar. «Ammesso che non sia stata del
tutto colpa tua, non mi pare che sia stata io a provocarti, quindi
indirettamente c’entri tu».
«Senti, Mori, se hai intenzione di passare il resto del
tragitto ad affibbiarmi colpe che non ho, fa’ pure; ma sappi
che non sono molto tollerante». Sbottò in risposta
Lore, il cui tono di voce non risulto per niente amichevole.
Per chissà quale ragione, le sue parole mi spinsero a stare
in silenzio. Non avevo certo paura della sua intolleranza,
l’avevo provata tante volte, ci ero abituata; piuttosto mi
ero resa conto che non serviva a nulla fare ricadere tutta la
responsabilità su di lui, perciò avevo lasciato
correre il discorso.
«Cosa diranno i miei?». Chiesi in un sussurro,
avvicinandomi un po’ a lui, mentre la preoccupazione
cominciava a riaffiorare nei meandri del mio cervello.
«Qualunque cosa dicano, devi tenere in mente che sono
arrabbiati; non lo pensano sul serio». Disse dopo qualche
secondo, senza particolare inflessione nella voce, ed ebbi la
sensazione che stesse rallentando leggermente il passo per permettermi
di raggiungerlo. O forse ero io che l’avevo accelerato.
«Certamente tu ne sai più di me in
proposito». Commentai guardando di sfuggita le luci della
città, ormai quasi immersa nel buio totale.
«Poveri genitori, non so come facciano a
sopportarti».
La mia doveva essere una battuta, forse un po’ infelice, ma
pur sempre una battuta; eppure suonò più come una
critica, di cui mi pentii all’istante.
«Non volevo dire…». Mi affrettai a
parlare, per cercare di rimediare al mio errore prima che potesse
essere colto nel modo sbagliato.
Mi facevo sempre prendere dai sensi di colpa, probabilmente se lui
fosse stato al posto mio non si sarebbe minimamente preoccupato di
avermi ferita; ma era nel mio carattere, dovevo conviverci.
«Non ti preoccupare, hai perfettamente ragione». Mi
interruppe, tra il divertito e il…malinconico? «So
perfettamente di essere un disastro come figlio, e non solo».
«Ehi, dov’è finito
Lorenzo-io-sono-perfetto-e-tu-no?». Cercai di smorzare la
tensione che si era creata, a causa mia, tirandogli perfino un pugno
sul braccio.
Non mi era piaciuto il modo in cui aveva parlato di se stesso,
decisamente non era da lui, e nonostante tutto non gradivo vederlo
amareggiato e arrendevole.
«Io non sono perfetto». Confidò
bloccandosi all’improvviso, voltandosi in mia direzione
proprio poco prima dell’angolo che ci avrebbe condotti
finalmente a casa.
Non avevo mai visto i suoi occhi brillare in quel modo, non erano
lucidi dal pianto, né tantomeno a causa del freddo;
sembravano riflettere una luce invisibile, che forse – in
quel caso – altro non era che la realtà dei fatti.
«Nessuno lo è». Avevo pensato a mille
altre cose da dire, ma alla fine mi era uscita la frase più
banale e scontata che avessi mai potuto scegliere. La solita Giorgia
avrebbe risposto in modo completamente opposto, spiazzandolo con
qualcosa di inaspettato e sorprendente, perciò temetti che
potesse scoppiare a ridermi in faccia.
Tuttavia, non lo fece, contro ogni mia aspettativa. Arricciò
le labbra in un sorriso storto e scosse la testa con un gesto veloce e
impercettibile, avvicinandosi di un passo a me. Ma, come se
all’improvviso si fosse ricordato di qualcosa, o avesse
trovato di meglio da fare, fece per rivoltarsi.
«Posso farti una domanda? Non vederci dentro cose che non
esistono, è solo una semplice e disinteressata
curiosità». Gli chiesi, sia per trattenerlo
ulteriormente ed impedirgli di richiudersi nel suo guscio di freddezza,
che per risolvere un dubbio personale che da qualche ora non aveva
smesso di tormentarmi.
Lo vidi passarsi la lingua sulle labbra in un gesto che di involontario
e non studiato aveva veramente ben poco, dopodiché
annuì leggermente, fissandomi con le sopracciglia distese e
le labbra ancora lucide di saliva.
«Oggi…perché sei tornato
così presto?». Domandai ricorrendo a tutto il
coraggio che avevo in corpo, e probabilmente chiedendolo anche in
prestito, conoscendo la mia poca audacia in certe situazioni.
«Mi stai implicitamente chiedendo se ci ho fatto sesso o
meno?». Chiese a sua volta, voltando ancora la situazione a
suo favore. Ci sarebbe sempre stata una grande differenza tra noi due:
la terribile sfacciataggine, che lui aveva in abbondanza e che io non
sapevo minimamente dove trovare.
Provai a ribattere, non era proprio quello che volevo sapere: la mia
curiosità riguardava soprattutto il motivo; non nascondeva
nessuna domanda di quel genere, era solo un tentativo di
scoprire se magari avesse rinunciato al suo incontro ravvicinato
perché mosso da un qualche rimorso.
Alla fine, però, ci misi troppo tempo per formulare la frase
in modo che non passassi per l’illusa della situazione;
perciò lui dovette prendere il mio silenzio come un consenso.
«Sono arrivato tardi e i suoi genitori sono rincasati prima
del previsto, perciò non abbiamo fatto molto, no».
Disse come se mi stesse raccontando una fiaba per bambini, peccato che
in quel genere di racconti non venissero descritte quelle scene.
A quel punto fu inevitabile chiedermi come mai avesse risposto senza
fare domande insidiose. Nel frattempo mi ero preparata qualche scusa
per rispondere – con qualche giro di parola – se
avesse voluto sapere le mie motivazioni.
«Non credo tu voglia sapere i dettagli, comunque,
perciò…hai qualcos’altro da chiedere o
possiamo andare? Sai, sono stanco, ho fame e ho assolutamente bisogno
di una doccia».
Era proprio necessario dirmi quali erano le sue intenzioni? Non riuscii
a trattenermi e un leggero rossore mi imporporò le guance,
spingendomi a pregare di essere abbastanza al buio da non essere vista,
altrimenti chi avrebbe fermato più le sue convinzioni
sull’ascendente che aveva su di me? Non che fossero errate,
comunque.
«Andiamo». Risposi all’istante,
precedendolo lungo lo stretto marciapiede su cui non mettevamo piede
insieme da una vita.
Era incredibile come in poche ore tutto fosse cambiato, come dalla
totale indifferenza fossimo passati alla sopportazione e forse anche a
qualcosa di più. Non seppi dire cosa ci successe quel
giorno, o cosa avesse azionato quel processo di cambiamento, ma
accettai tutto a braccia aperte, scioccamente sopraffatta dalla sua
ritrovata vicinanza.
Quando mi risvegliai da quei pensieri sfuggenti mi resi conto che
Lorenzo era intento a dirmi qualcosa, di cui riuscii a cogliere solo le
ultime parole, che non avevano minimamente senso.
«Ma mi stai ascoltando?». Attirò poi la
mia attenzione, inarcando un sopracciglio e sfoggiando
un’espressione quasi infastidita.
Lo fissai perplessa per un po’, indecisa se dirgli
“no” e passare per quella che non ascolta mai
quando gli altri parlano, oppure mentire ed andare incontro ad una
figuraccia certa se avesse deciso di confermare quando avevo detto.
«Scusa, stavo pensando ai miei genitori, dicevi?».
Pessima bugia, la prima che mi era venuta in mente, ma sperai che non
fosse troppo evidente.
«Mi chiedevo…». E marcò su
quella parola come se la stesse sottolineando con un pennarello
indelebile. «…se ti andrebbe di farla con
me».
In un primo momento non capii a cosa si riferisse, perciò
rimasi interdetta a fissarlo. Ero convinta che non sarebbe stato saggio
chiedergli spiegazioni, si vedeva chiaramente dal sorriso malizioso che
cercava di trattenere a stento, ma potevo lasciare che il dubbio
rimanesse tale per sempre?
Evidentemente no.
«Fare cosa?». Domandai con cautela e incertezza,
scrutando minuziosamente ogni suo singolo movimento.
«La doccia. Che cosa, se no?». Rispose poi,
lasciando finalmente piegare le sue labbra in un largo sorriso
compiaciuto, che mi fece arrossire fino alla punta dei capelli.
«Fottiti, Lore». Lo invitai gentilmente ad andare a
quel paese, prima di accelerare il passo per cercare di aumentare le
distanze. Cosa che si rivelò del tutto inutile, per giunta,
dato che – e non ne ho mai fatto mistero – la mia
velocità era paragonabile a quella di una macchina in coda
davanti ad un semaforo.
«Mi chiedo come possa fare a fottermi da solo, che ne dici di
darmi una mano?».
Era proprio incorreggibile, aveva sempre e solo quello in testa, e come
se non bastasse mi stava chiaramente prendendo in giro. Ero quasi certa
che non fosse quello ciò che mi stava dicendo mentre mi ero
persa nei miei pensieri.
«Mi fai schifo». Replicai indignata, anche se in
fondo non lo ero sul serio. La sua espressione solare era decisamente
in contrasto con le sue proposte indecenti.
«Dai, si scherza».
«Ti diverti, lo fai apposta». Lo accusai, notando
le luci delle finestre di casa mia farsi sempre più vicine.
Lui si lasciò andare ad una risatina ilare,
dopodiché mi bloccò contro il muro dove erano
appesi i citofoni.
«Bisogna vedere cosa intendi tu per
“apposta”». Disse spostando lo sguardo a
fissarmi le labbra, con una smania tale che quasi mi spaventai.
Sapevo che, se anche fosse stato vero che mi desiderava,
l’unica ragione per cui si comportava così era il
suo ego spropositato, inevitabilmente incrementato in seguito alla
scoperta del mio interesse nei suoi confronti. L’aveva detto
lui stesso, ed essere a conoscenza di quel particolare non mi faceva
certo fare i salti di gioia, anzi.
«Se vuoi ti posso dare una dimostrazione pratica del
significato che gli attribuisco io, se non ti levi immediatamente di
dosso». Lo minacciai sperando di risultare almeno un
po’ convincente e pericolosa, ma alla fine dubitai che il
motivo per cui decise di spostarsi fosse propriamente quello.
Gli rivolsi un sorriso soddisfatto e – dopo aver preso
coraggio – premetti brevemente il pulsante di casa Mori.
Attesi la voce preoccupata di uno qualunque dei miei genitori, oppure
di entrambi, ma mai mi sarei aspettata che il portone si aprisse senza
neanche sentire un “chi è”, al quale
avrei risposto certamente con “io”. La forza
dell’abitudine.
Fissai Lorenzo scettica, come per chiedergli se sapesse cosa stava
succedendo, ma lui scosse le spalle in senso di diniego e
aprì il portone facendomi entrare per prima.
Ero talmente presa a pensare che neanche mi accorsi del suo gesto di
“galanteria”, che fino a neanche un giorno prima
non mi avrebbe rivolto neanche sotto tortura; avevo perso il conto di
quante volte mi avesse sbattuto porte in faccia di proposito. Le
persone a volte cambiavano velocemente…forse troppo.
Feci per salire le scale, ma Lorenzo me lo impedì tirandomi
per un braccio.
«Non prendi l’ascensore?». Chiese
indicando quell’aggeggio che non usavo da quando avevo sei
anni ed andavo a fare la spesa con i miei.
«Non ci penso neanche a stare in uno spazio così
piccolo con te». Dissi strattonando il braccio per liberarmi
dalla sua presa, ma finii solo per farlo sorridere divertito, come al
solito.
«Paura, Mori?». Mi sbeffeggiò,
precedendomi nella salita, ma senza allentare minimamente la sua
stretta.
«Che mi violenti?». Chiesi sarcastica cercando di
stare al passo con lui, ma finendo con l’avere un fiatone
degno del primo posto ad una campestre. «Certo».
«Sempre sesso consenziente, è questo il mio
motto».
Avrei certamente trovato qualcosa da ridire, non avevo la minima
intenzione di lasciargli l’ultima parola, ma i gradini quel
giorno sembrarono essere diminuiti…o forse li avevo saliti
talmente in fretta che quella era stata la mia sensazione.
«Ok, eccoci qua. Se domani non mi vedi a scuola è
perché mi hanno scuoiata viva». Cercai di
stemperare la mia ansia con una pessima battuta, ma comunque era con
Lorenzo che stavo parlando…il re delle battute cretine.
«Interessante, lo farò presente ai professori,
allora». Rispose stando al gioco, dopodiché
indicò la porta con un cenno del capo.
«Comunque non sembrano molto preoccupati, non hanno chiamato
la polizia e non ti hanno atteso sulla soglia di casa con una padella.
È già un passo avanti, non trovi?».
«Hai provato l’esperienza?». Chiesi
incuriosita, senza staccare – nervosa – lo sguardo
dalla porta socchiusa.
«Sì, e ho dovuto fingere di farmi male altrimenti
mia madre non mi avrebbe dato pace».
La sua voce era ironica come sempre, e in quel frangente mi
aiutò davvero a rilassarmi, così tanto che mi
lasciai persino andare ad una risatina.
«Be’, allora io vado». Dissi
allontanandomi da lui e avvicinandomi al mio appartamento.
«Okay, ciao. Salutami Laura e Mario».
«Sì, e tu porgi i miei saluti ai tuoi».
Lo vidi rivolgermi un sorriso appena accennato e poi mi voltai per
entrare finalmente in casa e subirmi la predica di un quarto
d’ora, ma la sua voce mi interruppe nuovamente.
«Giorgia?». Mi chiamò titubante, ma
altrettanto chiaramente e deciso.
Feci per voltarmi per starlo a sentire, ma una specie di tempesta, con
forma umana, mi addossò contro il muro e mi
stampò un bacio tutt’altro che delicato sulle
labbra, prima di allontanarsi con lo stesso impeto e la stessa
velocità, stordendomi del tutto.
«Me l’avevi promesso,
ricordi?». Spiegò, rivolgendomi un
occhiolino beffardo.
Non dissi niente, ero praticamente pietrificata, mi girai di scatto,
aprii definitivamente la porta e me la richiusi alle spalle con un
gesto automatico; lasciando fuori dai miei sensi l’odore
forte e buono del ragazzo che mi aveva appena dato il bacio
più breve, inaspettato e allo stesso tempo intenso, della
mia vita.
Qualcosa non andava, decisamente, ma non avevo la minima intenzione di
preoccuparmene.
Note:
Come
al solito non ho molto da dire, se non ringraziare tutti coloro che
hanno letto i precedenti capitoli, chi ha aggiunto la storia tra le
seguite, le preferite, le ricordate e soprattutto - di cuore - colei
che ha ascoltato le mie preghiere e recensito uno dei capitoli:
HazelStardust. (Grazieeee!)
Non mi resta che augurarvi una buona lettura e rinnovarvi il mio invito a recensire per migliorarmi!
Un bacio e a presto ^^
P.s: il prossimo
capitolo non sarà pubblicato domani perché è
ancora in fase di "ultimazione" XD Questi ce li avevo già pronti
e quindi ho aggiornato in fretta ma, ora che ho finito il materiale a disposizione, i tempi si allungheranno un
pochettino dato che sono una studentessa straimpegnata in questo
periodo! ç___ç
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Capitolo 5 *** Sogni e realtà. ***
Capitolo 5
CAPITOLO 4: Sogni e realtà.
La casa era completamente avvolta nel silenzio, nemmeno il suono della
tv - perennemente tenuta accesa da mio padre, sintonizzata sul primo
telegiornale di turno - si riusciva a distinguere nell'aria e questa
decisamente non era una cosa normale.
«Mamma, papà ci siete?». Chiesi posando
la giacca sull'appendiabiti accanto alla porta e dirigendomi verso il
soggiorno con passo incerto. Avevo pensato che magari si fossero
addormentati sul divano.
«Oh, eccoti tesoro».
Mi bloccai di colpo, colta alla sprovvista e con il cuore in gola per
la sorpresa.
La voce di mia madre mi era arrivata alle spalle e quando mi voltai
vidi che si era affacciata dalla porta della cucina, dalla quale
proveniva un profumino delizioso che mi fece brontolare lo stomaco.
I minuti passati con Lorenzo erano stati talmente impegnativi che non
mi ero neanche accorta di avere fame.
Perfetto, potevano anche rinchiudermi in una casa di cura per giovani
precocemente impazziti.
«Mamma!». Esclamai in un tono misto tra rimprovero
per lo spavento subito e confusione per il suo strano comportamento.
Erano le sei e mezzo del pomeriggio, sarei dovuta essere a casa almeno
tre ore prima e lei non aveva fatto la minima piega; come se tutto
fosse normale. C'era qualcosa che non andava, assolutamente.
«Scusa, non volevo spaventarti. Tra mezz'ora si
cena». Disse con un sorriso, e fece per rientrare in cucina
per rimettersi ai fornelli, ma glielo impedii decisa ad arrivare fino
in fondo a quella faccenda.
Non era possibile che l’anno prima si fossero preoccupati
eccessivamente per un ritardo di venti minuti, e che in quel momento
fossero così tranquilli.
«Dov'è papà?». Chiesi per
attaccare bottone.
Di certo non era mia intenzione spiattellarle il mio ritardo senza
preavviso e scatenare la sua ira di proposito. Se per qualche motivo
era di buon umore, tanto vale che rimanesse intatto.
«Oh, è ancora al lavoro. Mi ha chiamato poco fa
per dirmi che torna tardi stasera». Fece spallucce e si
sfregò le mani contro il grembiulino, che un tempo era stato
bianco, ma che ora era pieno di macchie di tutti i colori.
Mia madre era una cuoca eccezionale, mi piaceva sempre pensarlo, ed io
ero una buona forchetta.
«Oggi mi avete lasciata sola tutti e due. Tu per colpa di
quel progetto per aiutare i nuovi studenti e lui a causa di quelle
inutili scartoffie». Si lamentò fingendo un
broncio.
La sentii sospirare sommessamente, prima che rientrasse in cucina e mi
lasciasse sola con mille domande per la testa.
Aveva davvero detto “progetto per aiutare i nuovi
studenti”? Non mi pareva di averla mai avvisata,
né tantomeno che avessi usato una scusa del genere come
motivazione.
Restai un bel po’ a spremermi le meningi per cercare di
capire chi fosse il mio “salvatore”, ma
l’unica spiegazione che mi venne in mente non era
assolutamente possibile.
Scossi la testa rassegnata ed andai in camera mia, dove mi tolsi i
vestiti e mi preparai per fare un bagno caldo.
Avevo la pelle più fredda di un cubetto di ghiaccio, e tutto
per colpa di quell'idiota di Lorenzo, che non aveva di meglio da fare
che portarsi a letto la prima ragazza carina di turno disposta a
dargliela.
A quel pensiero – oltre alla rabbia e ai nervi tesi
- riaffiorò anche il ricordo del bacio e del suo
riavvicinamento, facendomi arrossire come una cretina e sorridere come
un'ebete allo stesso tempo.
Ero una cretina, stupida, illusa, pazza…ma anche felice, di
nuovo, dopo tanto tempo.
«Allora, com'è andata a scuola?». Mi
chiese mia madre una volta a tavola, dove stavo già
consumando il secondo piatto di spaghetti con le vongole.
A quella domanda deglutii rischiando di strozzarmi con un pezzo di
prezzemolo.
Chiunque gli avesse detto della storia dei nuovi studenti mi aveva
salvato la vita, ma non avevo idea di cosa avrei potuto raccontarle a
quel punto.
Ero stata troppo impegnata a pensare a Lorenzo per pensare a cosa dirle
qualora mi avesse rivolto la fatidica domanda.
«Ehm...». Cominciai schiarendomi la voce.
«Bene».
Banale. Scontata. Ma meglio di niente...
«Da quando fanno questo meeting il primo giorno di
scuola?».
Colpita e affondata.
«Da quest'anno. È una bella cosa, non
trovi?».
«Sì, certo. Anche se stavo cominciando a
preoccuparmi per il tuo ritardo. Se non fosse stato per
Rossella...».
«Rossella?!». Chiesi con una voce fin troppo acuta,
che tuttavia sembrò non destare sospetti in mia madre.
«Sì, è passata di qui e parlando del
più e del meno mi ha tranquillizzata dicendo che anche
Lorenzo sarebbe rimasto a scuola per qualche ora. Così l'ha
chiamato e gli ha chiesto se ci fossi anche tu». Prese il
tovagliolo e si pulì la bocca lentamente, prima di tornare a
fissarmi con uno sguardo di rimprovero.
«La prossima volta gradirei che mi avvisassi tu, comunque. E
che rispondessi alle chiamate che ti faccio. Se ci fosse stato tuo
padre...».
Ma non stetti a sentire il resto del discorso. Aveva detto che Rossella
aveva chiamato Lorenzo per chiedergli di me e che lui aveva confermato
la mia presenza a quella pagliacciata del meeting, quindi lui sapeva
che mia madre non era preoccupata e, tuttavia, non mi aveva detto
niente.
Mi alzai di scatto dal tavolo, decisa a prendere a pugni quello
stronzo, ma mi ero dimenticata che prima avrei dovuto fare i conti con
mia madre.
«Ma mi stai ascoltando?!». Chiese, infatti,
assottigliando lo sguardo.
«Sì, mamma, scusa ma mi sono ricordata di una cosa
urgentissima che devo chiedere a Lore!».
Tentai di giustificarmi con nonchalance, celando la rabbia che stava
per esplodere in me e rivolgendole un sorriso fintissimo.
«Ma non hai ancora finito di mangiare».
Protestò lei mettendo il broncio e fissandomi sorpresa.
Mi scusai ancora una volta, sottolineando il fatto che non potevo
rimandare la questione neanche di un secondo e mi precipitai fuori
dalla porta come una furia.
Avevo un solo pensiero per la testa e mi piaceva pensare che avrei
potuto realizzarlo: Lorenzo Belli, sei morto!
Ero in pigiama e con le ciabatte di Titti, ma quando me ne resi conto
era troppo tardi; il campanello l'avevo già bello che
suonato e il viso amichevole di Rossella era comparso ad accogliermi in
casa Belli, facendomi quasi dimenticare il motivo per cui mi trovavo
lì.
«Ehm...». Iniziai schiarendomi la voce e cercando
di evitare il suo sguardo. «...dovrei chiedere una cosa a
Lorenzo per la scuola ».
L'inizio non era stato poi tanto disastroso, ora non mi restava che
compiere la mia missione di vendetta.
«Lorenzo sta facendo la doccia, ma dovrebbe finire a momenti,
entra pure».
Santa donna la madre di quel povero disgraziato. Se solo avesse saputo
che razza di vita conduceva il figlio, come minimo le sarebbero venuti
complessi sulle sue qualità di genitore e si sarebbe
suicidata.
Nonostante il tanto tempo passato lontana da Lorenzo – e
quindi un po’ anche da lei – Rossella si era sempre
dimostrata gentile e apprensiva nei miei confronti – da
piccola ero solita definirla la mia seconda mamma – e ne
avevo ricevuto la conferma da diversi fattori nel corso degli anni.
Per prima cosa era chiaramente dispiaciuta della mia sparizione
improvvisa dalla sua casa, ma nonostante me l’avesse chiesto
mille e mille volte non avevo mai avuto il coraggio di dirle il vero
motivo, perciò mi limitavo a rifilarle qualche scusa banale
del tipo che entrambi avevamo cambiato amicizie e cose del genere e lei
accettava le mie storie senza quasi battere ciglio. Ovviamente in un
primo momento c’era rimasta male, ma sforzandomi di recitare
la mia stupida parte ero riuscita a farla desistere dal suo proposito
di riappacificazione forzata e alla fine si era accontentata di essere
lei mia amica.
Il suo affetto lo potevo percepire da qualunque parola o gesto mi
rivolgesse, iniziando dall’aiuto che mi offriva prontamente
in cucina nel caso in cui i miei fossero in vacanza da qualche parte,
per finire all’innumerevole quantità di zucchero
che mi dava qualora me ne fosse servito solo un cucchiaio.
Erano piccole cose, ma che insieme erano davvero tanto…forse
addirittura troppo.
«Sono così contenta che tu sia qui!».
Esclamò accomodandosi accanto a me sul divano del salotto,
la cui morbidezza era solo un lontano ricordo che piano piano si stava
risvegliando. «Mi sembra passato un secolo da quando tu e
Lore mi mettevate a soqquadro la casa».
Parlò con voce divertita, ma allo stesso tempo potevo
scorgere nei suoi occhi una vena di malinconia; certamente dovuta al
passato.
E chi meglio di me poteva capirla? Se a lei mancavano quei momenti,
figurarsi a me.
«Già». Risposi abbassando lo sguardo e
pregando contemporaneamente che suo figlio uscisse da quel cavolo di
bagno per togliermi da quella situazione difficile. Come avrei potuto
dirle che si stava solo illudendo se pensava che tutto sarebbe tornato
come prima?
«Oh, tranquilla, lo so a costa stai pensando e…no,
ormai ci ho perso le speranze. So che non potrete più
tornare ad essere amici come un tempo». Disse in
tono sconsolato, rivolgendomi un mezzo sorriso che mi scaldò
e, allo stesso tempo, provocò una fitta di delusione al
cuore.
Non sapevo cosa risponderle, se da una parte avrei voluto dirle che
forse c’era una minuscolissima possibilità,
dall’altra ero consapevole che io e Lorenzo avevamo passato
troppo tempo “lontani” per poter far finta di nulla
e ricominciare da capo, o da dove ci eravamo fermati, perciò
non riuscii a dire niente di sensato.
«Mamma, si può sapere dove hai messo le mie
canottiere?».
L’apparizione del diretto interessato – o almeno,
quello che mancava all’appello dei due – mi
salvò da una situazione che ben presto sarebbe diventata
spinosa; ma contemporaneamente mi cacciò in
un’altra – se possibile – ancora
più imbarazzante.
«Oh, Santo Cielo…». Esclamò
Rossella scuotendo la testa, probabilmente cercando di imitare il gesto
tipico di chi ormai ha capito che è impossibile far
ragionare qualcuno. «Quante volte ti ho detto di non girare
per casa mezzo nudo? Ci potrebbero essere ospiti!».
Dal canto mio era stato inevitabile voltarmi in sua direzione quando
aveva parlato, perciò mi ero ritrovata a fissare Lorenzo,
che stava tra il corridoio e il salone con solo un jeans addosso e i
capelli ancora bagnati.
Decisamente una visione poco salutare per me, che di corpi maschili ne
avevo visti ben pochi, e specialmente in quella perfetta forma fisica.
Quando finalmente si accorse della mia presenza, lo vidi dischiudere
leggermente le labbra in un gesto quasi involontario, prima di
richiuderle immediatamente a formare un sorrisetto che di imbarazzo non
aveva proprio un bel niente.
La mia reazione fu spontanea e assolutamente fuori dalla mia portata:
sentii le guance diventare sempre più calde e per poco non
mi coprii gli occhi con una mano, rischiando di fare la figura della
ragazza pudica e senza esperienza che in realtà ero, ma che
mi sforzavo di non essere davanti agli altri.
«Oh, c’è anche lei. Ciao».
Commentò infine, spostandosi una ciocca ribelle di capelli
dal viso.
Parlare in quel momento sarebbe stato impossibile, perciò mi
limitai a fargli un cenno di saluto con la testa a cui lui rispose con
una mezza risatina.
«Giorgia ti deve chiedere una cosa a proposito della scuola,
ma prima è meglio che tu ti vada a vestire». E
nella voce di Rossella, a quel punto, non lessi altro che una minaccia
velata.
Lorenzo roteò gli occhi infastidito, tuttavia qualcosa
nell’espressione della madre dovette convincerlo che fosse
meglio non protestare; perciò fece retromarcia e
cominciò a dirigersi verso la camera.
«Aspetta, è solo una cosa veloce, non
c’è…bisogno che
tu…ecco…ti vesta». Balbettai, alzandomi
in piedi e cercando di distogliere il più possibile lo
sguardo dal suo petto nudo, dove facevano capolino degli addominali
abbastanza visibili e definiti, seppur non troppo, e un tatuaggio a
forma di serpente.
«Mamma, lasciaci soli per favore». Disse Lorenzo,
dopo avermi scrutata attentamente; chiaramente sorpreso da quanto avevo
detto.
Rossella fece per rispondere visibilmente spazientita,
dopodiché mi guardò in cerca di un consenso ed io
annuii debolmente.
«Ho capito». Sentenziò, poi, alzandosi a
sua volta e lanciando un’altra occhiataccia a suo figlio,
prima di rivolgere un sorriso a me e chiudersi la porta della cucina
alle spalle.
«Allora, che c’è?». Mi
esortò a parlare, incrociando le braccia svogliato, dopo che
fui rimasta in silenzio per parecchi minuti, passati a cercare di
ricordarmi che cosa dovessi dirgli.
Fino a qualche minuto prima l’unica cosa che avevo in mente
era prenderlo a pugni e calci finché non mi avesse
supplicato di smettere; ma, forse a causa della chiacchierata con sua
madre, forse a causa del modo in cui si era presentato come se niente
fosse, non ero più tanto sicura di avere una motivazione
valida per fargli la paternale.
«Sei uno stronzo». Riuscii a dire alla fine, forse
spronata dalla sua espressione, che diceva “prendimi a
schiaffi” a caratteri cubitali.
Lorenzo inarcò un sopracciglio sorpreso,
dopodiché ripiegò l’angolo della bocca
in un sorriso ancora più ironico e si avvicinò di
qualche passo a me, che automaticamente indietreggiai.
«Tutto qui? Se sei venuta per dirmi solo questo, hai sprecato
solo del tempo. Lo so che sono stronzo».
«No, certo che no…».
«E allora? Non ho tutta la serata, perciò muoviti
che devo prepararmi per uscire».
La parola uscire per Lorenzo Belli poteva significare solo una cosa:
locali, alcool a palate e una fila infinta di ragazze con cui chiudersi
nei bagni.
«Perché non mi hai detto che mia madre sapeva del
mio ritardo?». Riuscii a dire, ormai a corto di fiato a causa
della troppa vicinanza con il suo corpo perfetto.
«Oh, per quello sei venuta qui di tutto punto?».
Fece come se stessimo discutendo di una cavolata.
Aprii e richiusi le labbra parecchie volte, cercando le parole giuste
per non scendere al suo livello, prima di riuscire a rispondergli per
le rime.
«Esatto! Quindi sei pregato di darmi una valida ragione,
altrimenti…».
«Altrimenti cosa?». Chiese avvicinandosi ancora, e
ancora, finché le mie mani non gli si posarono
automaticamente sul petto per fermarlo.
Stava usando uno squallido trucco per risolvere la faccenda,
approfittando del suo fascino, e io ci stavo cascando con tutte le
scarpe.
Distolsi lo sguardo in completo imbarazzo, sentendomi le mani troppo
calde a contatto con la sua pelle, e lui dovette interpretarla come una
resa, al solito.
«Bene, vedo che ci siamo capiti. Puoi andare adesso,
no?». Disse, infatti, pungente e senza la minima
gentilezza. Mi voleva fuori dai piedi, la mia presenza era tornata a
dargli fastidio, quando invece fino a qualche ora prima non aveva fatto
altro che cercare di saltarmi addosso.
«Vaffanculo…». Dissi a bassa voce, senza
mai smettere di guardare il pavimento.
Da una parte sapevo di non poter vincere niente contro di lui, ma
dall’altra non volevo lasciare perdere come se niente fosse,
perciò iniziai ripetergli vari insulti come se in
realtà stessi leggendo la lista della spesa.
«Dio mio…quanto sei fastidiosa!». Mi
interruppe dopo un centinaio di parolacce. «Non mi stai
dicendo niente che non mi abbiano già detto,
perciò risparmiati la fatica e vai a casa».
Quelle poche parole bastarono a cancellare tutto il buono che avevo
cercato di vedere nel suo atteggiamento di quel pomeriggio, era tornato
semplicemente ad essere il solito Lorenzo; stronzo e meschino.
Sollevai finalmente il viso, tornando a fissarlo dimentica del fatto
che fosse ancora mezzo nudo davanti a me; ormai ero talmente distrutta
dal suo comportamento che non riuscivo a pensare ad altro che non fosse
la delusione che provavo in quel momento.
«Hai ragione, perché sto ancora perdendo tempo con
te?». Chiesi con un filo di voce, sentendomi gli occhi
pungere e la gola stringersi sempre di più.
Lorenzo non rispose, mantenne semplicemente lo sguardo sul mio, e
ancora una volta non riuscii a leggere niente nei suoi occhi, che in
quel momento sembravano ancora più vitrei e freddi del
solito, se possibile.
Ed era proprio questa sua capacità nel nascondere quello che
sentiva, quello che gli passava per la testa, che aveva e avrebbe
causato sofferenza ad entrambi.
Staccai lentamente le mani dal suo petto, come se farlo a rallentatore
potesse servire a qualcosa, come se sentire il calore del suo corpo
qualche secondo più a lungo potesse farmi del bene; quando
invece tutto quello che riuscivo a provare era dolore.
Un dolore assopito negli anni e che io avevo scioccamente rievocato,
dopo essermi lasciata trascinare ancora nella sua rete di
instabilità e freddezza.
«Giorgia…». Provò a dire lui,
afferrandomi per un polso prima che potessi allontanarlo completamente.
Ma evidentemente si rese conto da solo che non avrebbe potuto dire
niente a quel punto, che ancora una volta mi aveva ferita e che
probabilmente mi aveva persa per sempre. Anche se non ero per niente
sicura che l’ultima scoperta gli dispiacesse, piuttosto si
trattava di una semplice constatazione che era stato costretto a fare.
Mi lasciò andare ancora prima che potessi strattonare il
braccio, fece qualche passo indietro e poi si voltò
completamente, raggiungendo il corridoio e scomparendo poi in camera
sua.
Rimasi immobile in quel punto, con lo sguardo fisso nel punto in cui
Lorenzo si era allontanato, con una valle di lacrime pronte ad uscire e
una delusione più profonda dell’Oceano da gestire.
E l’unica cosa che riuscivo a pensare era “lo
sapevo”. Perché solo una sciocca come me non
avrebbe dato ascolto alle certezze per seguire i sentimenti,
perché nonostante sapessi che Lorenzo mi aveva sempre e solo
fatto del male, avevo deciso di ricominciare a fidarmi. Non del tutto,
come quando eravamo bambini, ma a poco a poco…e quel poco di
fiducia che gli avevo concesso l’aveva calpestato come se per
lui fosse solo un impiccio e non una possibilità.
«Giorgia, ti fermi a cena?».
Rossella era sbucata dalla cucina, con in mano un pacco di spaghetti e
un mestolo di legno.
Quando si accorse che ero sola si guardò intorno per cercare
suo figlio, di cui ovviamente non c’era neanche
l’ombra.
«Tesoro, tutto bene?». Mi chiese poi, avvicinandosi
e passando il dorso della mano sulla mia guancia con fare
apprensivo.
Mi sforzai di sorridere e annuii, ma non ero brava a fingere come lo
era Lorenzo, perciò si dimostrò un patetico
tentativo.
«Sì, sì, certo, ho risolto tutto. Stavo
giusto andando a casa, mamma mi sta aspettando e…».
Ma Rossella mi rivolse uno sguardo misto tra lo scettico, il
preoccupato e il rimprovero che mi fece bloccare a metà
della frase.
«LORENZO!». Urlò rivolta verso la stanza
del figlio ed ero certa che chiunque l’avesse sentita nel
palazzo, e quindi anche il diretto interessato.
Andai immediatamente in panico, non avevo assolutamente voglia di
rivederlo in quel momento, dopo quello che era successo e dopo quanta
fatica avevo fatto per trattenere le lacrime. Se mi si fosse
ripresentato davanti l’avrei prima preso a pugni e poi avrei
pianto come una deficiente, davanti a lui. E questo non doveva
succedere.
«Cosa ti ha fatto?».
«N-niente, non ti preoccupare». Cercai di risultare
convincente, non mi andava che si intromettesse in quello che
c’era – o forse sarebbe più appropriato
dire non c’era – tra me e Lorenzo.
La situazione era già abbastanza difficile anche senza il
suo intervento.
«LORENZO, VIENI SUBITO QUI!». Continuò a
chiamarlo con una certa impazienza e nel frattempo io cercavo di
trovare una scusa per darmela a gambe prima che fosse troppo tardi.
«Ma…Rossella, non c’è bisogno
che lo chiami. Davvero, non mi ha fatto nulla». Feci un
ultimo tentativo, ma ormai tentare di fermarla era come cercare di
imbrigliare un toro impazzito.
«Cara, scusami se te lo dico, ma non sei per niente brava a
mentire. Se vuoi essere convincente, la prossima volta che piangi e
vuoi negarlo, asciugati prima le lacrime».
Lacrime? Pensai, ma non dissi nulla.
Con un gesto meccanico mi portai due dita sul viso e le feci scorrere
sotto agli occhi e giù per gli zigomi, per poi ritrarle e
trovarle completamente bagnate.
Avevo davvero pianto.
E non me ne ero neanche accorta.
Com’era possibile una cosa del genere? Possibile che Lorenzo
avesse il potere di farmi perdere il senso della realtà a
tal punto?
«Io…». Balbettai come se volessi
giustificarmi, anche se sapevo che non ce n’era bisogno,
perché l’unica cosa di cui ero colpevole, era solo
l’illusione in cui mi ero stupidamente chiusa.
«Mamma, ma non te l’hanno mai detto che le porte
sono fatte apposta per bussare? Si può sapere cosa
vuoi?».
La sua voce mi trafisse le orecchie e capii di non poter aspettare
oltre, dovevo andarmene immediatamente, prima che mi vedesse e
realizzasse di avere tutto quell’ascendente su di me;
così tanto da riuscire a farmi piangere. Io che ero sempre
stata invulnerabile davanti a lui, io che, nonostante le terribili
angherie subite, non avevo mai mostrato la minima debolezza, io che ero
stata capace di mandarlo a quel paese anche nella peggiore delle
situazioni.
«Scusa, devo andare».
Corsi alla porta e uscii di fretta, come se fossi inseguita dal mostro
dei miei peggiori incubi e mai definizione sarebbe stata più
appropriata per descrivere Lorenzo da quel momento in poi.
Rimasi poggiata contro il legno della porta ancora un po’,
aspettando di recuperare un po’ di lucidità per
poter fronteggiare mia madre senza farle capire che qualcosa non andava.
«Allora?». Sentii la sua voce in lontananza, come
se qualcuno mi stesse facendo sentire di proposito quello che io non
volevo sentire.
«Allora lo dovrei dire io! Che cos’hai fatto a
quella povera ragazza, si può sapere? Lei non me
l’ha voluto dire».
Ci furono attimi di silenzio in cui rimasi con il fiato sospeso in
attesa di una sua qualsiasi giustificazione, ma mai mi sarei aspettata
di sentirgli dire ciò che invece ebbe il coraggio di dire.
«Povera? Sempre a lasciarvi ingannare dalle apparenze voi
donne». Fece una pausa e poi continuò a parlare
come avrebbe fatto un uomo vissuto. «Semplicemente le ho
fatto capire che non mi interessa averla come amica».
Avevo pensato infinite cose quel pomeriggio, e ne avevo messe in conto
altrettante – a cui avrei dovuto andare incontro se mi fossi
lasciata andare – ma quello andava ben oltre ogni mia
più deludente aspettativa, fu come sentirmi strappare il
cuore dal petto, lasciare che ci giocasse e poi lo rimettesse al suo
posto più sconfitto e sofferente che mai.
Piansi. Piansi tanto, piansi ancora e ancora, finché non
rimasero solo i singhiozzi a farmi capire che stavo piangendo,
perché le lacrime mi erano finite, ne avevo versate troppe
per lui, fino a terminarle nel peggiore dei modi.
Avevo sempre cercato di accettare che la nostra amicizia fosse finita,
ma non ci ero mai riuscita. Mi ero sempre crogiolata nel suo silenzio,
leggendovi dentro cose che in realtà non erano mai esistite.
Fino a quel momento avevo vissuto la sua lontananza come una cosa
temporanea, come se in realtà – nonostante i fatti
dessero a pensare il contrario – quello fosse solo il Lorenzo
che gli altri volevano vedere.
E solo allora, sentendo quelle parole – quelle fatidiche
– con le mie stesse orecchie, avevo realizzato davvero di
aver perso il mio migliore amico.
Era come sentire la terra mancare da sotto i piedi e sprofondare in un
baratro così nero e profondo da non riuscire a vederne la
fine.
Non aveva importanza a quanti appigli cercassi di attaccarmi, nessuno
era abbastanza forte per sostenermi; ed era inutile persino urlare
perché a sentire le mie grida disperate non c’era
nessuno.
«Giò, si può sapere che
cos’hai? Non mi fare preoccupare».
«Mamma, non è niente, okay? Perciò
lasciami in pace».
Non appena rientrata in casa, mi ero chiusa in camera mia, ed
ovviamente questo aveva attirato tutti i sospetti di mia madre, che
continuava ad esortarmi a raccontarle quello che era successo.
Mi aveva esposto le ipotesi più improbabili e solo quando
aveva chiesto “c’entra un ragazzo?” si
era avvicinata alla verità, perché le altre erano
così assurde da essere realistiche solo se considerate in un
contesto cinematografico.
«E io dovrei crederci? Ti ricordo che sono tua madre e che
sono stata giovane prima di te».
«Non mi va di parlarne!». Urlai, coprendomi le
orecchie con il cuscino per non sentire più i suoi sproloqui
senza senso.
Ero talmente stanca di pensare che mi faceva male la testa e
l’unica cosa che volevo fare era dormire, cosa impossibile
dato che continuava a disturbarmi da più di
mezz’ora.
«Se non apri immediatamente questa porta, giuro che quando
torna tuo padre gli racconto tutto».
«Fai quello che vuoi, non mi interessa». Risposi
senza la minima inflessione nella voce. Ero ridotta alla stregua di un
robot; mi muovevo, parlavo, ascoltavo, ma era come se facessi tutto per
seguire uno schema, non perché spinta dalla mia
volontà.
«C’entra Lorenzo per caso? Effettivamente sono
rimasta sorpresa del fatto che tu sia andata da lui oggi e sei
così da quando sei tornata…».
Rimasi in silenzio, sebbene fossi cosciente del fatto che
così facendo stavo in un certo senso confermando la sua
ipotesi. Ma mi sembrava inutile persino controbattere in quella
circostanza.
«Non mi hai mai detto perché vi siete allontanati
così all’improvviso dopo la scuola
elementare».
«Mamma, mi lasci dormire, per favore? Sono stanca e domani ho
scuola». Sapevo che tirando in ballo la scuola,
l’avrei convinta a lasciarmi in pace.
«Ma sono solo le 9! E tu vai sempre dormire tardi, anche
quando c’è scuola». Protestò
lei senza darsi per vinta.
Tipico del suo carattere, tipico di quasi ogni madre: essere apprensiva
fino al midollo e non lasciarti in pace finché non le
racconti tutto quello che ti tormenta.
Ma io di avere una mamma per amica non ne avevo la minima intenzione;
mi andava bene affliggermi da sola, perché di amiche ne
avevo pochissime e nessuna di loro era fidata, ed ero convinta di
essere l’unica in grado di gestire i miei problemi, nessuno
mi avrebbe mai potuto capire meglio di me stessa.
«Giorgia, non mi costringere ad andare a chiedere
direttamente a lui». Mi minacciò dopo un lungo
silenzio, nel quale ero quasi riuscita a rilassarmi ed addormentarmi.
«Fa’ come vuoi, non me ne importa.
Buonanotte».
Sperai che la faccenda fosse chiusa. Che andasse pure a chiedere al
diretto interessato, se voleva, tanto si sarebbe solo sentita dire
quello che sapeva già e cioè che non mi voleva
come amica; in quegli anni ero stata l’unica a credere che
una cosa del genere fosse ancora possibile, tutte le persone che mi
circondavano l’avevano capito da un pezzo che di me non
gliene sarebbe più importato nulla.
Finalmente udii i suoi passi allontanarsi sempre di più
dalla mia stanza e pochi istanti dopo, sentii la porta di casa aprirsi.
Non seppi mai se mia madre fosse uscita per parlare davvero con Lorenzo
o se, invece, era stato mio padre ad entrare; ormai troppo stanca,
provata ed esausta mi addormentai subito, non appena chiusi le
palpebre, e pregai che almeno quella notte non fosse lui il
protagonista dei miei sogni.
Mani calde, pelle liscia e labbra bollenti. Era questo che sentivo sul
mio corpo e tutto, ancora una volta, apparteneva a lui. Stringevo i
suoi capelli tra le dita, tirandoli quando i suoi baci si facevano
più audaci e le sue carezze più profonde.
Sospiravo sommessamente contro il suo collo e l’unica cosa
che riuscivo a vedere, nell’oscurità
più totale, erano due chiazze blu ad un centimetro dal mio
viso.
«Giorgia…». Mi chiamò quando
mi aggrappai alle sue spalle con tutta la forza che avevo in corpo,
poca a dire il vero.
«Giorgia, guardami». Ripeté, soffiando
quelle parole contro il mio orecchio e facendomi rabbrividire.
Avevo freddo, ma tra le sue braccia, completamente stretta a lui, mi
sentivo bene…e insanamente felice.
A quelle parole, come se mi avesse impartito un ordine a cui non avrei
potuto disubbidire, girai la testa per guardarlo meglio, ma il buio era
ancora troppo opprimente, nonostante ora dalla finestra entrasse un
pallido bagliore.
«Accendi la luce».
La mia voce giunse lontana persino alle mie orecchie, sembrava che
nessuno potesse sentirmi, eppure Lorenzo fece quello che gli avevo
chiesto senza battere ciglia.
Era bello, bello come non lo era mai stato, con gli occhi lucidi e le
labbra un po’ dischiuse.
Per la prima volta da dieci anni a quella parte, riuscivo a capire il
suo sguardo, sembrava che non avesse più segreti per me,
sembrava che non avesse più niente da nascondere.
«Mi dispiace…». Sussurrò
contro le mie labbra, prima di riprendere a baciarle come e
più di prima, per poi spostarsi verso il collo,
giù lungo la clavicola e infine tra l’incavo dei
miei seni.
Non avevo mai provato sensazioni del genere, era come vivere
intrappolata in una bolla lontano da tutto il resto, lontano dalle
apparenze e dalle finzioni.
«Lore, torna qui…». Dissi, afferrandogli
il volto con tutte e due le mani, esortandolo a tornare alla mia
altezza. Volevo ancora guardarlo negli occhi, perché erano
l’unica certezza che avevo sempre avuto.
Nel movimento che fece, sentii la collana che portava al collo
– fredda più del ghiaccio – posarsi sul
mio petto e a quel contatto sussultai rabbrividendo.
«Che succede?». Mi chiese Lorenzo preoccupato,
guardandomi così intensamente da inchiodare i miei occhi ai
suoi.
«La collana…». Risposi indicandola con
un cenno del capo, mentre piegavo le labbra in un sorriso per
rassicurarlo.
Lui di riflesso guardò il punto che avevo indicato, su cui
si soffermò parecchio tempo, prima di staccare una mano dal
lenzuolo – che stava usando come appoggio per non pesarmi
troppo addosso – e posarla delicatamente su uno dei miei
seni.
Rimase fermo in quella posizione per un po’, in cerca di un
mio consenso, dopodiché prese a muovere le dita con cautela
su tutta la mia pelle morbida.
«Sei sicura di…di volerlo fare
davvero?». Mi chiese prima di sistemarsi meglio su di me,
intrecciando di più le nostre gambe.
«Sì…». Annuii decisa,
chiudendo gli occhi un secondo per rilassarmi.
«Nessun rimpianto?».
«Nessuno».
Ero sicura di averlo convinto, ma la sua espressione –
anziché aprirsi nel sorriso che avevo immaginato –
rimase seria e afflitta.
«E perché piangi, allora?».
Mi svegliai di soprassalto, con il viso bagnato di sudore e il cuore
più in tumulto di una tempesta.
Fu istintivo accertarmi di avere ancora i vestiti addosso. Era stupido
pensare che quel sogno fosse vero, ma sembrava così reale
che per un secondo mi era sembrato di sentire davvero il calore del
corpo di Lorenzo sul mio.
Mi passai una mano sulla fronte per scacciare via tutti quei pensieri
controproducenti, ma contro a quanto pensavo non c’era
neanche una goccia di sudore ad imperlarla. Spostai la mano verso la
guancia e la ritrassi completamente bagnata, per la seconda volta in un
giorno, realizzando che in realtà il sudore altro non era
che lacrime che avevo versato inconsciamente durante il
sogno.
Note:
Dopo due giorni sono tornata, anche se so di non esservi mancata per nulla ç___ç
Questa volta ho solo una
precisazione da fare riguardo al capitolo: probabilmente qualcuno si
starà chiedendo spiegazioni sul padre di Giorgia. Tra qualche
capitolo verrà spiegata tutta la faccenda, per il momento posso
solo dirvi che quello che Giorgia chiama "papà" è il
nuovo marito di sua madre - non il suo vero padre - e lei porta il suo
cognome ;) Inoltre, nel capitolo precedente avevo accennato al fatto di
un certo "odio" provato dalla nostra protagonista nei confronti della
madre proprio in seguito alla separazione tra i suoi genitori,
ovviamente ora è passato ma scorpriremo meglio le dinamiche
più avanti. Nulla verrà lasciato in sospeso! XD
Bene, non ho altro da dirvi, come al solito non sono di molte parole...preferisco lasciarvi alla lettura.
Grazie a tutti quelli
che hanno letto la storia, che l'hanno aggiunta tra le preferite, le
ricordate, le seguite e - ancora - ad HazelStardust che ha recensito
anche lo scorso capitolo! Grazie mille ^^
Ne approfitto per
esortare anche gli altri a scrivere qualunque cosa a proposito di
questa storia, mi farebbe davvero molto piacere!
A presto con il prossimo capitolo, se vi va.
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Capitolo 6 *** Passi avanti, passi indietro. ***
Capitolo 6
CAPITOLO 5: Passi avanti, passi
indietro.
Quando
mi svegliai – per la seconda volta in una sola notte
– erano le cinque del mattino e le prime luci dorate
dell’alba filtravano dalla finestra, accompagnate dal canto degli
uccellini che auguravano il buongiorno.
Mi sentivo tutta indolenzita, con
la testa che rischiava di scoppiarmi da un momento all’altro per
il dolore e decine e decine di brividi lungo tutta la schiena.
Poggiai i gomiti contro il cuscino
per sollevarmi un po’ e mi portai una mano sulla fronte, che
trovai bollente quasi quanto lo era il corpo di Lorenzo nel sogno di
quella notte.
Lorenzo.
Faceva male anche solo pensare il
suo nome, era doloroso come non lo era mai stato, mi sembrava di
essermi svegliata da un sogno durato una vita e la cosa più
triste di tutte era che al mio risveglio non avevo trovato nessuno,
nessuno che desiderassi veramente al mio fianco.
Stavo pensando a lui, di nuovo, e non dovevo farlo.
Mi presi la testa tra le mani,
scuotendola un po’, e mi alzai per andare in bagno a sciacquarmi
la fronte, che sentivo pulsare e bruciare neanche fosse le fiamme
dell’Inferno.
Una volta in piedi, rischiai di
cadere come una di quelle palline rimbalzanti con cui giocavo da
piccola, ma riuscii a malapena in tempo a sostenermi contro il muro.
Erano state poche le volte in cui
mi ero sentita in quel modo e tutte le volte la causa era stata sempre
una, che speravo non fosse la stessa anche in quel momento.
Più debole che mai
raggiunsi la porta, la aprii e mi chiusi in bagno, dove passai una
buona mezz’ora a rinfrescarmi il viso con l’acqua
ghiacciata. Avvertii immediatamente un po’ di sollievo, ma non
abbastanza da sentirmi anche solo minimamente bene, e in un attimo di
pura follia pensai di buttarmi sotto il getto gelido della doccia con
tutti i vestiti.
Persino spogliarmi mi sembrava troppo faticoso.
Rimasi a fissarmi allo specchio
per parecchio tempo, cercando tutti i difetti possibili e
inimmaginabili sulla mia pelle, ma nonostante non ce ne fosse nessuno
particolarmente accentuato o evidente, non mi riuscivo a vedere per
niente carina, ero la ragazza più anonima della storia e mai
nessuno si sarebbe interessato a me.
Eppure, quello che era successo con Lorenzo quel pomeriggio...
Poteva dire qualunque cosa, poteva
smentire e dire che per lui contavo meno di zero, ma ci avrei messo la
mano sul fuoco sul fatto che quel bacio lo desiderasse sul serio.
Il motivo ancora mi era
sconosciuto, poteva tranquillamente essere un capriccio – tipico
dei ragazzi come lui – ma se mi fosse venuto a dire che era solo
una scommessa con gli amici, oppure che mi voleva prendere in giro e
mettere in imbarazzo allora no, non ci avrei creduto nemmeno se
l’avesse giurato sulla persona più importante della sua
vita.
Questa mia nuova – e nel
peggiore dei casi, infondata – deduzione riuscì ad
alleviare un po’ il mio malumore: la consapevolezza che non gli
fossi del tutto indifferente, almeno dal punto di vista fisico, era
troppo forte e insistente per potermi lasciare sopraffare completamente
dalle cose terribili che mi aveva detto quel pomeriggio.
Certo, le continuavo a sentire
come un eco nella mia testa e mi facevano ancora venire voglia di
piangere e prenderlo a schiaffi, ma improvvisamente mi ero resa conto
che erano rarissime le volte in cui Lorenzo diceva la verità, o
quello che gli passava sul serio per la testa, perciò
c’era la possibilità che anche quello che avevo sentito di
nascosto fosse solo una copertura.
Mi ero quasi dimenticata di questo
suo lato caratteriale, chiuso e in un certo senso inaccessibile,
così come avevo dimenticato che per lui rispondermi in quel modo
era un’abitudine che forse non avrebbe mai abbandonato.
Non avevo intenzione di
dimenticare tutto quello che era successo, di fare finta di niente e
tornare ad odiarlo come avevo fatto per quei sette anni, perché
avrei continuato solo a farmi del male, non era assolutamente
plausibile per me stare vicino ad una persona così instabile
– pronta a ferirti nel peggiore dei modi non appena ne avesse
avuto l’occasione –, non saremmo più stati amici e
questa ormai era una certezza.
Tuttavia, avevo capito che la
colpa non era stata solo sua; l’illusione me l’ero creata
io, leggendo nel suo comportamento qualcosa che in realtà non
esisteva…ero stata davvero stupida a credere che quei quasi
dieci anni si potessero cancellare in qualche ora.
Lorenzo era diventato
un’altra persona, un ragazzo completamente diverso –
stronzo, in cerca di divertimento e di avventure – che io non ero
disposta ad accettare e lui di certo non voleva far niente
perché io potessi anche solo provare a farlo.
Perciò lo avrei
semplicemente ignorato, lui non era il mio migliore amico, era cambiato
troppo radicalmente per poter esserlo ancora, e nonostante me ne fossi
accorta molto tardi, ero sicura che da quel punto in poi le cose
sarebbero migliorate.
Era come se avessi chiuso un
capitolo della mia vita – avevo deciso di cancellare
l’esistenza del vecchio Lorenzo dalla mia mente ed avrei
continuato a rivivere quei ricordi pensando a lui come ad una persona
che non c’era più – per iniziarne un altro
completamente nuovo, dove il passato e il presente sarebbero state due
linee parallele che, per quanto potessero essere vicine, non avrebbero
mai potuto incontrarsi.
«Si può sapere come hai fatto a prendere la febbre così alta?».
«Mamma, mi scoppia la testa,
lasciami in pace». Mugugnai rivoltandomi nelle coperte per
cercare una posizione più comoda, coprendomi contemporaneamente
le orecchie per non sentire la predica che mi avrebbe fatto di
lì a poco.
«Mauro, puoi venire un attimo?».
Se fossi stata in condizioni
decenti mi sarei chiesta perché avesse chiamato mio padre, ma
ero talmente debole e stanca che mi risultava difficile persino
azionare le rotelle del cervello e pensare.
«Mi sento la testa
scoppiare…». Mi lamentai senza saper bene con chi, avevo
la mente annebbiata e riuscivo a stento a parlare.
«E ci credo! Hai la febbre a quaranta, mi meraviglierei del contrario».
Poco dopo sentii entrare qualcun altro nella stanza, a giudicare dai passi probabilmente si trattava di papà.
«Che succede?». La sua
voce arrivò alle mie orecchie ovattata e fastidiosa, mi sembrava
di avere intorno un frastuono terribile, come se cento trapani avessero
deciso di azionarsi nello stesso momento.
«Giorgia ha preso la febbre e non ho niente da darle in casa, potresti passare in farmacia, per favore?».
Udii un vociare non ben distinto e poi di nuovo la voce squillante e chiara di mia madre.
«Sì, intanto che torni vado a chiedere a Rossella se ha qualcosa per la febbre».
La sentii spostarmi i capelli dalla fronte bagnata ed aprii gli occhi, che bruciavano talmente tanto da lacrimare.
«Torno subito, tesoro, non ti alzare assolutamente dal letto».
Non risposi, annuii soltanto e quando sentii la porta della mia camera chiudersi caddi in un sonno leggero ed agitato.
Mi sembrava di sentire mille voci
nella testa, tra le quali la più forte era quella di Lorenzo;
che sentivo ben distinta e senza interferenze, mentre le altre erano
dei ronzii senza senso che si interrompevano per pochi secondi per poi
ricominciare a tormentarmi.
Basta. Continuavo a pensare,
perché quelle voci insistenti mi impedivano di capire quello che
diceva lui, ma loro sembravano aumentare la loro intensità
rendendo l’impresa sempre più difficile e la voce di
Lorenzo sempre più lieve e distante.
Sentivo le mani fredde di mia
madre sulla pelle, mentre lo straccio che avevo sulla fronte diventava
sempre più caldo e asciutto e le voci diventavano sempre
più confuse.
«Vieni, è
aperto». Disse mia mamma con un tono troppo alto per le mie
povere orecchie, che mi fece rantolare infastidita.
Non seppi dire se la sua voce era
frutto di un sogno o della realtà; ma era tutto così
surreale che ero certa stessi dormendo e speravo che almeno quando mi
fossi svegliata sarei stata più lucida.
Passarono dei momenti di buio,
durante i quali avvertii una ventata di profumo buono, che nonostante
mi sembrasse familiare, non riuscivo ad associare a niente o nessuno in
particolare. Sapeva di ciliegia, di menta…e di una fragranza
maschile.
«Grazie mille, Lorenzo, non hai idea di quanto mi sia preoccupata non appena ho visto la temperatura».
In un primo momento credetti di
aver sentito male, in fondo era di finzione che si trattava; non era
possibile che quel ragazzo mi tormentasse sempre.
Più cercavo di non pensare
a lui e più le varie circostanze mi inducevano a fare il
contrario, cominciavo a credere che sarebbe rimasto sempre il mio
peggior incubo.
Ma almeno – per quanto
potesse fare male – era solo un sogno, se lo avessi avuto davanti
nella realtà non avrei saputo come affrontarlo razionalmente,
avevo sì deciso di cambiare completamente il modo di vederlo, ma
era ancora troppo presto per mettere il tutto in atto.
«Figurati, mi dispiace che stia così male e credo sia stata anche colpa mia».
Se davvero aveva intenzione di confessarle tutto, non ero sicura che potesse uscire del tutto illeso da quel confronto.
«Colpa tua?».
Infatti.
«Abbiamo dovuto aspettare venti minuti fuori perché le ho fatto perdere il pullman prima».
Ok, aveva avuto l’accortezza
di non dirle il vero motivo quantomeno, ma mia madre era troppo
iperprotettiva e di certo non gli avrebbe detto…
«Oh, ma non dire
sciocchezze! È lei che non mi ascolta quando le dico di mettersi
sciarpa, cappello e guanti. Non devi assolutamente sentirti in colpa,
caro».
Anche mia madre mi si era rivoltata contro, perfetto.
Va bene che Lorenzo non sembrava colui che in realtà era, ma mi sembrava eccessivo riporre in lui una tale fiducia!
Ci fu ancora silenzio, era chiaro
che non avesse niente da dire lui, di certo non avrebbe mai
rivoluzionato le convinzioni che mia madre aveva nei suoi confronti.
Sentii un ticchettio metallico e
un rumore strano, dopodiché riuscii a distinguere solo il mio
nome chiamato a gran voce da mia madre.
Sapevo che dovevo svegliarmi, ma
per quanto mi sforzassi di aprire gli occhi e tornare nella
realtà sembrava che qualcosa mi trattenesse nel mondo dei sogni,
la stanchezza, forse, ma non ne ero sicura.
«Be’, allora io vado. Falle i miei migliori auguri di guarigione quando si sveglia».
«Non vuoi farglieli direttamente tu?».
«Non li accetterebbe se glieli facessi di persona e non avrebbe tutti i torti».
Sembrava sereno, nonostante quello
che stava dicendo non fosse una verità molto felice; ma con
Lorenzo il verbo sembrare molto spesso non corrispondeva alla
realtà e questo l’avrei imparato a mie spese.
«Ma cos’è
successo tra voi due? Cioè, lo so che sono passati tanti anni,
ma lei non me ne ha mai parlato…».
Ci fu lunga pausa e, poi, quello
che non mi sarei mai aspettata di sentire, una frase che probabilmente
sarebbe sempre e solo rimasta una prerogativa di quel sogno.
«Non è successo niente, è questo il punto».
Sentii solo dei passi strascicati
e un’altra folata di profumo, dopodiché il resto non
contò più nulla, fu nuovamente buio totale.
«Tesoro, dai svegliati».
Poco dopo che Lorenzo scomparve
dalla mia mente, sentii ancora la voce di mia madre, ma questa volta
non era confusa e distante; la percepivo in tutte le sue sfumature e
non come se fosse un frutto della mia immaginazione.
Aprii gli occhi di scatto, come
quando ci si sveglia da un brutto sogno, per accertarsi di essere
ancora in grado di svegliarsi e porre fine a tutto il terrore, ma la
debolezza non era scomparsa, né tantomeno lo stordimento e la
confusione che avevo prima di addormentarmi.
«Che
c’è?». Biascicai cercando di mettermi a sedere
contro la testiera del letto, ma con scarsi risultati.
«Prendi questa, starai
meglio». Disse porgendomi un bicchiere con un liquido tra il
bianco e il trasparente al suo interno.
«Cosa…».
«Tuo padre non è
ancora tornato dalla farmacia, ma per fortuna Lorenzo è riuscito
a trovare questa in casa». Allungò di più il
braccio e mi rivolse un sorriso radioso, come se il solo pensare alla
causa di tutti i miei problemi la rendesse felice.
«Lorenzo?». Non
riuscii ad esimermi dal chiederle spiegazioni, non capivo perché
avesse nominato lui e non sua madre.
Mentre aspettavo una risposta,
presi il bicchiere e cominciai a sorseggiarne il contenuto, piuttosto
dolce e buono, a differenza delle pastiglie che ero solita prendere
quando mi ammalavo.
Mia madre mi osservò bere
per un po’ con uno sguardo assorto e uno strano sorriso
compiaciuto ad arricciarle le labbra, dopodiché sembrò
ricordarsi della mia domanda e si sedette accanto a me sul letto, come
se si stesse preparando a raccontarmi una lunga storia.
«Perché fai domande su di lui?». Chiese, infatti, sospettosa.
La febbre mi aveva persino fatto
dimenticare della sua indole investigativa, se avesse cominciato a
mettermi sotto torchio o le avrei dovuto confessare tutto, oppure non
mi avrebbe lasciata in pace.
«Perché, non posso?
Comunque era una semplice curiosità, se non vuoi dirmelo non
c’è problema». Feci spallucce come per liquidare la
faccenda, anche se in realtà morivo dalla voglia di saperlo,
bevvi l’ultimo goccio di medicina con nonchalance e poggiai di
nuovo la testa contro il cuscino.
«Rossella era già
andata al lavoro, così ho chiesto a lui». Rispose lei,
dopo quella che mi parve un’eternità.
«Ah, e ti ha aiutata?
Strano». Commentai stupita e senza cercare di nascondere
l’acidità nella mia voce.
«Perché è
strano? Lorenzo è un bravo ragazzo». Ribatté lei,
dando sfoggio della curiosità che certamente la stava
attanagliando.
«Sì e io non sono mai
stata meglio!». Dissi sarcastica, aggiungendo persino una smorfia
che le fece corrucciare l’espressione.
«Mi ha detto persino di farti gli auguri di buona guarigione».
«Ah sì? Be’, non me ne faccio niente…so io dove se li può mettere i suoi auguri!».
«Giorgia!». Mi
rimproverò mia madre, alzandosi dal letto come se stesse andando
a fuoco. «Da quando sei diventata così volgare?».
Lo sono sempre stata, solo che tu non te ne sei mai accorta.
Avrei risposto senz’altro questo, se un pensiero non mi avesse occupato completamente la mente.
«Hai detto che mi fa gli
auguri?». Chiesi cauta, sentendo il mio cuore accelerare sempre
di più il suo battito; stupide emozioni, se solo qualcuno avesse
inventato un modo per liberarsene…
«Per caso ti ha detto anche che ieri abbiamo perso il pullman a causa sua?».
«Sì, ma come…».
«Ho tirato ad
indovinare!». Mi giustificai prima che potesse terminare la sua
domanda, ed anche se sembrò non crederci, decise comunque di non
dire nulla.
«Si sentiva persino in colpa…».
E tu gli hai detto che invece lui non c’entrava nulla.
«Mamma, a volte le persone non sono come sembrano, dovresti saperlo meglio di me».
«Oh, andiamo! Non fare la
persona saggia con me, sono più grande di te! Sappiamo tutte e
due che c’è qualcosa che non va tra te e lui e, a questo
proposito, lascia che ti dica una cosa da mamma: non pensare sempre che
sia solo colpa sua, prova a chiederti cosa avete sbagliato
entrambi».
La fissai per un po’
incredula e per una volta fui davvero tentata di raccontarle tutto, per
farle capire che io non avevo fatto proprio niente per arrivare a
quella situazione.
«Tu credi questo, ma in
realtà non sai un bel niente della mia vita,
perciò…non giudicarmi». Dissi pungente e delusa,
perché lei era mia madre e se non era lei dalla mia parte,
allora chi altri?
La vidi spalancare gli occhi, come
se le avessi piantato una spada nel petto - e probabilmente
l’avevo fatto davvero – che diventarono un po’
lucidi, ma quella forse era solo un’impressione dovuta alla
febbre.
«Sei tu che non mi dici mai
niente». Replicò infine in un sussurro, guardandomi
come se non fossi sua figlia, prima di girare i tacchi ed andarsene
sbattendo la porta, lasciandomi completamente sola.
Era addirittura peggio del
pomeriggio prima, quando Lorenzo mi aveva chiusa nel Trash; questa
volta ero stata io la stronza ed oltre alla solitudine avrei dovuto
anche sopportare il rimorso.
In più, avevo realizzato
che la voce di Lorenzo non era stata solo un sogno, quello che avevo
sentito l’aveva detto sul serio, e questo non faceva altro che
confondermi e destabilizzarmi ancora di più, quando invece avrei
dovuto ignorarlo.
«Non li accetterebbe se glieli facessi di persona e non avrebbe tutti i torti». Questo aveva detto.
Stupido.
«Non è successo niente, è questo il punto». Aveva spiegato.
Perché non riesco a capirti? Perché sei così enigmatico?
Pensai a lungo e poi mi lasciai andare ad altre lacrime amare finché non mi riaddormentai.
Quando mi svegliai tutta la stanza
era al buio, ma quello non significava niente, perché la
tapparella della mia camera era completamente abbassata.
Non seppi dire quanto tempo fosse
passato – un’ora, forse anche dieci – ma finalmente
mi sentivo un po’ meglio e questo era già un passo avanti.
Neanche avesse i sensori, pochi
minuti dopo, mia madre fece irruzione nella mia stanza senza bussare;
in genere mi dava fastidio quando non lo faceva ma, considerando le
condizioni in cui ero, ci avrei messo una pietra sopra.
«Oh, ti sei svegliata!». Esclamò con un sorriso enorme, una volta che ebbe acceso la luce.
«Già…ma che
ore sono?». Domandai strofinandomi gli occhi per cercare di
abituarmi all’improvvisa luminosità della stanza.
«Le sei, più o meno, ti ho portato la cena».
Fu solo in quel momento che
realizzai di non aver mangiato nulla per pranzo e, soprattutto, che
avrei evitato di farlo anche in quel momento.
«Mamma,
veramente…». Cercai di dirle che non avevo per niente
fame, ma venni interrotta proprio da lei, che intervenne come una furia
nel discorso.
«Sì, lo so che non
hai fame, ma non puoi rimanere digiuna, perciò ora scegli
qualcosa e te la mangi, capito?». Né il suo tono di voce,
né la sua espressione lasciavano spazio a repliche,
perciò diedi un’occhiata al vassoio per cercare qualcosa
che non mi desse la nausea.
«Ma sono tutte verdure! Lo
sai che non mi piacciono…». Protestai stizzita, passando
con lo sguardo da una ciotola di insalata ad un piatto di spinaci.
«Sì, ma sono quelle
che ti farebbero più bene in questo momento. E poi non è
solo verdura…». Disse scoprendo uno dei piatti coperti, da
cui fece capolino della pastina con il brodo.
Già quello andava meglio, la pastina era uno dei miei piatti preferiti durante l’inverno.
«Niente formaggino?».
Chiesi tentando gli occhioni dolci e sfoderando la tecnica del labbro
tremulo. Quella componente era fondamentale per me.
«Solo se oltre a questa mangi anche qualche verdura».
Mia madre sapeva benissimo come
prendermi, così come conosceva esattamente su quali punti
potesse ricattarmi per ottenere ciò che voleva.
«Va bene». Risposi sbuffando e cercando di trattenere un sorriso.
Ero felice che la litigata di
qualche ora prima fosse stata superata, era come se non fosse successo
nulla, così i miei sensi di colpa si affievolirono; anche se non
del tutto.
«Mamma, mi dispiace per quello che è successo oggi». Dissi cogliendola di sorpresa.
Lei rimase incantata a fissarmi per un po’, dopodiché allargò le labbra in un sorriso.
«Non fa niente, non è stata solo colpa tua».
Liquidò la faccenda con un
gesto della mano – dal quale capii che non mi avrebbe lasciato
più dire nulla in proposito – e mi porse una
salviettina umidificata, che guardai scettica.
«È per lavarti le mani». Spiegò allungandola ancora di più verso di me.
«Mamma, ho la febbre, non
sono in punto di morte. Posso benissimo andare in bagno per
lavarle». Tentai di farla ragionare, ma lei rimase ferma nella
sua posizione.
Avevo quasi dimenticato quanto fosse testarda, ma – a parte tutto – avevo davvero bisogno di andare in bagno.
«Dai, mà, non essere
sempre così iperprotettiva». La rimproverai, prima di
alzarmi e raggiungere lentamente la porta della mia camera.
La testa mi girava ancora e avevo
le gambe più molli di un budino, ma tutto sommato riuscivo a
reggermi in piedi perfettamente.
«Vuoi che ti accompagni?». Mi chiese speranzosa, seguendomi fino in corridoio.
Mi voltai e le lanciai un’occhiataccia che non lasciava spazio al minimo dubbio.
«Va bene, va bene…ma se hai bisogno d’aiuto io sono qui».
Sarà stata anche petulante,
testarda, assillante, iperprotettiva; ma era pur sempre la mia mamma ed
io la adoravo anche per tutti i suoi difetti.
Dopo mangiato mi rimisurai la
febbre e, accertatasi che non superasse il 37 e mezzo, mia mamma mi
permise di alzarmi un po’ dal letto per spostarmi in salotto,
dove feci zapping per un po’; ma con scarsi risultati: in tv non
c’era mai niente di interessante. Perciò decisi di
accendere il pc per leggere qualche novità su facebook e magari
parlare con le mie amiche che non sentivo da settimane.
La mia vita reale era totalmente
opposta a quella virtuale: adoravo i social network e conoscere gente
nuova, anche a distanza di parecchi chilometri. Si poteva
tranquillamente dire che era il mio modo per sfuggire alla
realtà, per sentirmi un po’ più accettata dagli
altri; perché quando mi trovavo davanti allo schermo di un
computer riuscivo ad essere veramente me stessa, sconfiggendo la
timidezza.
Lessi tutte le notifiche che avevo
e poi spostai l’attenzione verso le richieste di amicizia; in
genere accettavo tutti senza neanche guardare chi fossero, qualche
volta trovandomi persino nei guai, ma in quel momento il mio occhio
cadde automaticamente su un nome, che non avrebbe mai potuto passare
inosservato.
Lorenzo Belli vuole stringere amicizia con te.
Sentii il mio cuore prendere la sua folle corsa e l’agitazione crescere proporzionalmente al suo battito esagerato.
Cercai di calmarmi, ripetendomi
che si trattava solo di una richiesta di amicizia su facebook e che
magari era solo un caso di omonimia.
Avevo perso il conto delle volte
che avevo guardato il suo profilo, per vedere cosa combinasse, quali
persone frequentasse; ma ogni volta che leggevo cosa scriveva, ogni
volta che guardavo le sue foto…mi sembrava sempre una persona
diversa da quella che avevo conosciuto io. Mi sentivo una stupida solo
a pensare che ci avessi messo così tanto tempo per rendermene
conto e per lasciarmelo alle spalle, ma ora che cosa significava quella
richiesta?
Quel ragazzo aveva la
capacità di farmi impazzire, un secondo prima ero convinta delle
mie decisioni, poi bastava anche un suo minimo gesto per mandarmi in
confusione ed ero arrabbiata con me stessa, perché non riuscivo
ad essere ferma e decisa.
Cliccai sul suo profilo per
controllare che fosse davvero lui e, quando mi trovai la sua foto
davanti, mi sentii quasi mancare un battito.
Era bello, troppo, e mai come in quel momento lo avevo sentito lontano da me.
Aveva il petto scoperto,
probabilmente per mettere in mostra il tatuaggio, e sorrideva. Era uno
di quei sorrisi spontanei, di quelli che vengono immortalati quando non
sai che stai per essere fotografato e che risultano essere sempre i
migliori.
Vedere quella foto mi mise una
strana malinconia addosso; i suoi capelli– che solo il giorno
prima avevo stretto tra le mie dita – sembravano più
dorati che mai, le sue labbra sottili – che, anche se solo per un
breve istante, erano state mie – mi attiravano irrimediabilmente,
e il suo viso – che desideravo tenere tra le mie mani ancora una
volta – non era mai stato così bello.
D’istinto, quasi come se
fossi in ipnosi, accettai la sua richiesta di amicizia; pensando che
avrei potuto cancellarla in qualsiasi momento, eppure una piccola parte
di me sapeva perfettamente che non lo avrei mai fatto.
Sempre inconsciamente, mi misi a
guardare le altre sue foto, perdendo la cognizione del tempo. Ne vidi
alcune in cui faceva il cretino, altre in cui abbracciava delle ragazze
e altre ancora in cui era stato ritratto durante gli allenamenti di
karate.
Poi ce n’erano un paio
dov’era insieme alle sue precedenti fidanzate, tutte bellissime e
perfette accanto a lui, che mi fecero stringere un po’ lo stomaco
e provare una fitta di gelosia all’altezza della gola.
Ero gelosa, tremendamente gelosa.
«Ehi, tesoro!».
Non appena sentii la voce di mio
padre, mi risvegliai dallo stato d’automa in cui ero piombata e
chiusi automaticamente lo schermo del pc, per quale motivo non saprei
dirlo, in fondo non c’era niente di male in quello che stavo
facendo.
Ero talmente presa a guardare Lorenzo che non mi ero neanche accorta del suo ritorno.
«Ciao papà». Lo
salutai cercando di risultare il più tranquilla e serena
possibile, mentre dentro di me c’era una tempesta pronta ad
esplodere.
«Vedo che stai meglio». Disse avvicinandosi e scompigliandomi i capelli neanche fossi ancora una bambina.
«Sì, più o meno».
«Cosa stavi guardando?». Mi chiese poi sospettoso, fissando insistentemente il coperchio del computer.
«N-niente, ho appena chiuso
il pc, mi cominciava girare la testa e…». Cominciai a
balbettare imbarazzata, cercando di nascondere la lucina ancora accesa.
«Va bene, faccio finta di
non aver sentito il rumore della ventola». Rispose poco dopo
ridacchiando, prima di uscire dal salone senza lasciarmi neanche il
tempo di replicare.
Sospirai massaggiandomi le tempie,
avevo persino cominciato a mentire ai miei genitori, di questo passo
nel giro di qualche giorno sarei diventata un’altra persona pure
io.
Riaprii il computer decisa a
spegnerlo sul serio questa volta, ma proprio in quel momento qualcuno
mi scrisse in chat, perciò decisi di controllare nel caso in cui
fosse stata una delle mie amiche.
Rosaria Murata:
Ehi, ti sei dimenticata della tua migliore amica, per caso? :(
Rosaria era una delle poche
persone con cui ero riuscita ad aprirmi, ci conoscevamo dalle
elementari, epoca in cui lei e Lorenzo si odiavano a morte; eravamo
state compagne di classe fino alle medie, dopodiché si era
trasferita in un paese vicino Milano e da allora ci vedevamo veramente
pochissimo, anche se continuavamo a tenerci in contatto.
Giorgia Mori dice:
Rosy, certo che no! Scusami, è che...ho preso la febbre.
Rosaria Murata:
Oh, mi dispiace, riprenditi presto.
Come va nella nuova classe?
Giorgia Mori dice:
Male, come al solito, anzi…peggio. Anche se non posso dare un giudizio oggettivo, dato che ci sono stata solo un giorno.
Rosaria Murata:
E con Lorenzo?
Ma perché tutti dovevano
toccare quel tasto dolente? Presi un respiro profondo e trovai il
coraggio di risponderle. Sembrava che tutti sapessero che era lui il
mio problema.
Giorgia Mori:
Possiamo cambiare domanda? Non mi va di parlarne.
Rosaria Murata:
È successo qualcosa? Se ti ha fatto qualcosa di male giuro che vengo a Milano e lo pesto.
Sorrisi. I modi fini e gentili di
Rosaria mi erano mancati moltissimo, avrei pagato oro per rivederla in
quel momento e sfogarmi con lei.
Giorgia Mori:
Direi che sono successe troppe cose.
Rosaria Murata:
E dai, non farti pregare, immagina che ti stia facendo gli occhioni dolci.
Chiusi gli occhi e scrissi ad occhi chiusi, talmente veloce che sembrava avessi dietro una mandria di bufali inferociti.
Giorgia Mori:
Mi ha baciata. Ieri.
Per qualche minuto
dall’altra parte non ci fu alcuna risposta e temetti che
l’avesse presa persino peggio di me, poi mi resi conto che era
impossibile.
Rosaria Murata:
Oh Mio Dio.
Giorgia Mori:
È stato esattamente quello che ho pensato io.
Ora scusami ma
è meglio che vada, sono da troppo tempo al pc e comincio a
sentire freddo, temo che mi stia risalendo la febbre.
Domani ti chiamo e ti racconto tutto, promesso.
Un bacio.
Rosaria Murata:
Va bene, riguardati e non pensare troppo a quel mascalzone, sono certa che si stia solo prendendo gioco di te.
A domani, un bacione.
Feci per uscire dalla chat, ma fu
inevitabile guardare la lista delle persone collegate e – come
sospettavo – vidi il suo.
Per chissà quale istinto
fui tentata di contattarlo, ma per fortuna mi era ancora rimasto un
briciolo di cervello, perciò desistetti dal farlo; finché
si aprì un’altra finestra della chat ed io rimasi a
fissarla sbalordita.
Non poteva essere vero.
Lorenzo Belli scrive:
Ehi, come va? Stamattina avevi un aspetto orrendo :D
Era sempre il solito, ma tutto
sommato se mi aveva scritto, voleva dire che un po’ si era
preoccupato per me. Un po’, non tanto, magari.
Giorgia Mori:
Meglio. Grazie per il complimento, vorrei dire lo stesso di te; peccato che stessi dormendo.
Lorenzo Belli:
Ero impeccabile come al solito, non avresti avuto niente da ridire.
Giorgia Mori:
Le dimensioni
del tuo ego mi stupiscono sempre di più, davvero. Piuttosto,
perché questa richiesta di amicizia improvvisa?
Lorenzo Belli:
Così, mi andava di mandartela e te l’ho mandata.
Riguardo alle dimensioni del mio ego, ti assicuro che non sono le uniche ad essere spropositate.
Giorgia Mori:
Cretino! Vedi che sei un porco?
Lorenzo Belli:
E dai, non fare la santarellina…scommetto che in questo momento sei diventata bordeaux ahahah!
Giorgia Mori:
Non è vero!
E invece sì, sentivo le
guance andarmi a fuoco ed ero certa che la febbre mi fosse salita alle
stelle. Per fortuna che non ce lo avevo davanti.
Lorenzo Belli:
…….
Verrei lì solo per smascherarti ;)
Giorgia Mori:
E perché non lo fai? Sono sicura che se quella fosse la ragione, non verresti mai.
Lorenzo Belli:
Sì,
effettivamente per un motivo del genere non mi scomoderei. Ma
giacché ci siamo, avrei in mente qualcosa di molto più
divertente da fare, ma dato che sei moribonda non ti vorrei avere sulla
coscienza. Sai, mi dicono che ci so fare.
Giorgia Mori:
Scommetto anche che nessuna ragazza è mai uscita intera dal tuo letto.
Il mio commento era assolutamente sarcastico, ma mi ero dimenticata che su internet tutto poteva essere travisato.
Lorenzo Belli:
Indovinato! A nessuna ho concesso l’onore di dormire nel mio letto, magari potresti essere tu la prima.
Giorgia Mori:
Vai a dormire, Belli, è tardi…su.
Lorenzo Belli:
Mi piacerebbe, sono stanchissimo, ma devo uscire.
A proposito, sono in super ritardo, vado a prepararmi prima che mi lascino qui.
Ciao Giò, buona guarigione :)
Giorgia Mori:
Ciao Lore, divertiti.
Chiusi la pagina di facebook prima
che qualcun altro decidesse di scrivermi e poggiai la testa contro lo
schienale. Mi era tornato il mal di testa e nonostante tutto mi aveva
fatto piacere parlare con lui, anche se non aveva fatto altro che
prendermi in giro e farmi proposte indecenti.
Ancora non capivo perché
quel suo interesse improvviso per me, soprattutto dopo le cose orribili
che mi aveva detto il giorno prima, e cercavo di scervellarmi per
comprenderlo almeno un po’; ma più ci provavo e più
la soluzione mi sembrava distante.
Di quel passo il mio buonissimo
proposito di voltare pagina sarebbe andato a quel paese,
altroché; anziché fare dei passi in avanti, stavo
tornando indietro come un gambero.
Spensi il computer e afferrai il
cellulare, era giunto il momento di chiedere aiuto, altrimenti sarei
impazzita nel giro di qualche giorno.
Marti, chiamami non appena puoi, ti prego. Ho bisogno di parlarti, ma sappi che la cosa non sarà per niente breve.
Andai a dormire poco dopo, stanca
e spossata da tutto il trambusto di quella giornata, e con la minuscola
speranza che Lorenzo mi lasciasse in pace almeno nel sogno di quella
notte.
Note:
In questo capitolo Giorgia e Lorenzo non si incontrano, ma in compenso si scambiano qualche battutina divertente su facebook.
A questo proposito, chiedo scusa se le discussioni sul social network
più famoso del web sono state un po' ridicole; ma io mi sono
divertita moltissimo a scriverle, perciò chiedo venia! XD
La nostra cara protagonista è convinta di voler voltare pagina,
perché del suo amico - in Lorenzo - non c'è più
alcuna traccia, ma le circostanze sembrano sempre impedirglielo...e
come se non bastasse si prende anche un bel febbrone da cavallo!
Sì, sono molto sadica ç_ç
Nel prossimo capitolo le cose si faranno decisamente molto più
vive, ce ne saranno delle belle e magari si scoprirà anche
qualche altarino :P
Ringrazio come sempre chi legge, chi mette la storia tra le seguite, le
preferite e le ricordate e - soprattutto - chi recensisce; quindi un
ringraziamento particolare a HazelStardust, Fresita93 e Stella Nera che
hanno recensito gli scorsi capitoli...ma un enorme grazie anche a chi
dà solo un'occhiata *-*
Scusate se ci ho messo un po' ad aggiornare, cercherò di farvi aspettare un po' di meno per il prossimo capitolo!
Un bacio,
Veronica.
|
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Capitolo 7 *** Confusione. ***
capitolo 7
Capitolo 6: Confusione
Un
paio di giorni dopo stavo già meglio: la febbre era
pressoché scomparsa – ne rimaneva solo qualche
lineetta insignificante – e fisicamente mi sentivo come se
fossi rinata; niente più debolezza o giramenti di testa.
«Sei sicura di voler andare a
scuola?». Mi chiese mia madre una volta che ebbe capito le
mie intenzioni.
Si sarebbe opposta, lo sapevo, ma ero cera che
non me lo avrebbe impedito.
«Sì, mamma,
sicurissima».
Feci colazione con una tazza di tè e
cominciai a provare un po’ di nervosismo.
Di lì a poco avrei rivisto Lorenzo e
non avevo la più pallida idea di come comportarmi con lui,
né tantomeno di come lui si sarebbe comportato con me.
Mi avrebbe presa in giro come al solito? Mi
avrebbe semplicemente ignorata? Oppure mi avrebbe salutata rivolgendomi
un sorriso?
Quel ragazzo ormai aveva il completo monopolio di
tutti i miei pensieri, non facevo altro che pensare a lui, era come se
il mio cervello si azionasse solo per fare congetture sui suoi
atteggiamenti, senza mai venirne a capo.
«Se stai male non esitare a chiamare a
casa, okay?». Fu proprio mia madre a risvegliarmi dai miei
pensieri a senso unico.
«E come verresti a prendermi? Con
l’ottovolante?». Le chiesi sarcastica, stampandole
un bacio sulla guancia.
«Non dire sciocchezze, chiama tuo padre
al lavoro». Mi rimbeccò lei con espressione
sconvolta. Chiaramente non aveva colto l’ironia delle mie
parole.
«Sì, va bene, ho capito.
Ciao mamma».
Nel pianerottolo c’era il completo
silenzio, come al solito dalla porta di fronte alla mia non proveniva
alcun rumore sospetto, ma per la prima volta dopo anni non potevo dire
di esserne veramente felice.
Se da una parte volevo rivederlo, più
di ogni altra cosa, dall’altra sapevo di non essere pronta,
avrei finito per comportarmi da idiota; perciò presi un
respiro profondo e scesi lentamente i primi scalini, senza fare troppi
sforzi.
La mia ultima intenzione era quella di
riammalarmi, quindi dovevo cercare di non strafare, anche se sarebbe
stato difficile.
Giunta alla fine della prima rampa
sentii una serratura scattare al piano di sopra e, senza neanche
accertarmi di quale si trattasse, corsi verso l’ascensore,
che per fortuna avevano deciso di lasciare libero.
Data la velocità del soggetto, mi
avrebbe raggiunta in un battibaleno se avessi continuato a scendere le
scale in quel modo e non avevo ancora pensato a cosa dirgli nel caso in
cui mi avesse rivolto la parola, a come comportarmi.
Schiacciai il bottone di chiamata e attesi con il
cuore in gola, sempre più sicura che colui che stava
scendendo fosse proprio Lorenzo.
Perfetto, avevo persino imparato a riconoscere il
rumore dei suoi passi, ero proprio fuori di testa.
Dopo un tempo interminabile, finalmente,
l’ascensore arrivò: aprii la porta con mano
tremante – e un occhio sempre rivolto alle mie spalle
– e ci saltai dentro con uno scatto degno di un felino.
Tirai un sospiro di sollievo, certa di essere
ormai al sicuro, ma niente poteva andarmi per il verso giusto, no?
Nonostante avessi chiuso la porta esterna, quelle
automatiche dell’interno non accennavano a muoversi e ormai
avevo consumato il tasto del piano terra, ero fritta.
«Mori, che stai facendo?».
Eccolo, neanche fosse stato evocato dal peggiore dei miei incubi, per
tormentarmi anche nella vita reale.
La fortuna era proprio dalla mia parte, in ogni
situazione.
«Sto giocando con
l’ascensore, non vedi?». Risposi ironica, senza
nascondere l’acidità che avevo dentro; non tanto
per lui, ma per quello sciocco destino che aveva deciso di rovinarmi la
giornata già di prima mattina.
Lo sentii ridacchiare e a quel punto sollevai lo
sguardo verso di lui, perché volevo guardarlo negli occhi e
perché ormai mi era impossibile ignorarlo.
«Simpatica. Hai bisogno di una
mano?». Domandò aprendo la porta esterna. In un
battito di ciglia me lo ritrovai davanti, impeccabile e irritante come
sempre, con quel solito, buon profumo addosso.
«Questo coso non parte».
Risposi tirando un calcio ad un lato dell’ascensore, facendo
tremare tutto.
«Da quando, tu, prendi
l’ascensore?». Chiese trattenendosi a stento dal
ridere, prima di entrare nello stretto spazio dell’abitacolo.
E fu solo allora che mi ricordai la regola principale che mi ero
imposta, quando mi trovavo sola con lui; non abbassare mai la guardia.
Era troppo vicino, non sarei stata in grado di
ragionare lucidamente, era ingiusto, contro ogni regola, contro ogni
morale e soprattutto non mi aveva chiesto il permesso. Certo, come se
ce ne fosse davvero bisogno.
Cercai di annullare la sua presenza schiacciante,
fingendo indifferenza nonostante avessi il cuore in tumulto e la gola
secca.
«Da quando ho preso la febbre a
quaranta e mia mamma mi ha raccomandato di non stancarmi
troppo». Dissi evitando il suo sguardo curioso ed indagatore,
ero certa che non ci avrebbe messo molto a capire il vero motivo se mi
avesse guardata negli occhi. Nei miei, a differenza sua, si leggeva
tutto.
«E giustamente la prendi al secondo
piano, mi sembra logico». Sentenziò smascherandomi
subito; si diceva che le bugie avessero le gambe corte, ma a quanto
pare le mie non ne avevano proprio.
«Non pensare che abbia voglia di
perdere tempo con te». Lo minacciai allora puntandogli un
dito contro, per tentare di salvare il salvabile; e magari spostare
l’attenzione su di lui. «Non dopo quello che hai
fatto».
Lo vidi arcuare scettico un sopracciglio, ma non
gli diedi il tempo di parlare; aveva già detto fin troppo,
era giunto il momento di fargli capire che non poteva prendermi e
lasciarmi a suo piacimento.
«E non fare il finto tonto! I tuoi
cambiamenti repentini mi manderanno al manicomio di questo
passo».
Lorenzo rimase in silenzio, probabilmente in
cerca di qualcosa da dire, ma ovviamente queste erano solo
supposizioni; perché capire cosa gli passasse per la testa
era un’impresa titanica.
«Da quello che ho capito, hai bisogno
di chiarimenti, giusto?». Chiese pensieroso, grattandosi
nervosamente il mento in attesa di un mio assenso.
«Oh, che intuito».
Finsi di essere sorpresa, portandomi persino una
mano davanti alla bocca, e incrociando le braccia in attesa che quei
chiarimenti me li desse davvero.
Ero un’illusa?
Le sue labbra si piegarono in un sorriso strano,
quasi vittorioso, ma non ero certa della sua reale natura.
«Credevo che ormai ti fossi abituata al
mio caratteraccio, ma a quanto pare mi sono sbagliato».
Feci per replicare, per dirgli qualunque cosa, ma
lui me lo impedì con un gesto della mano che
mandò in frantumi ogni mio minimo proposito di farlo.
«Io sono fatto
così...». Disse allargando le braccia in un gesto
teatrale. «...non posso cambiare, né tantomeno
voglio farlo».
Il suo sorriso diventò amaro, come se
le parole che aveva appena pronunciato nascondessero un
triste segreto, che non mi era concesso sapere.
«Non mi sembra che tu abbia avuto
remore a cambiare, 7 anni fa». Ribattei senza riflettere,
decisa ad andare fino in fondo e approfittare della sua improvvisa
apertura nel spiegare le cose, o almeno provarci.
«Ancora con questa storia?».
Rispose esasperato, alzando leggermente la voce e facendo qualche passo
incerto verso di me. «Ti ho detto che devi dimenticare il
passato, altrimenti non andrai da nessuna parte, ci ritroveremo sempre
punto e da capo».
Mi faceva male sentirlo parlare in quel modo, ma
sapevo che almeno stava dicendo la sua verità, o parte di
essa.
«E se io non volessi farlo, oppure non
ci riuscissi?». Dissi con un filo di voce, temendo quasi che
mi fossi sentita solo io, quando la sua risposta tardò ad
arrivare.
Avevo messo in tavola tutte le mie carte, ora
spettava a lui fare lo stesso; tuttavia, ero convinta che, piuttosto
che scoprirsi tanto, avrebbe preferito rinunciare alla sua collezione
di videogiochi; frutto di anni e anni di paghette settimanali.
Lorenzo rimase in silenzio per parecchio tempo,
ed io approfittai di quel momento per uscire di corsa da
quell'ascensore – ormai troppo stretto per entrambi
– e dal portone, ritrovandomi nell’improvviso gelo
della città.
Erano le 7.40 precise, con molta
probabilità avrei fatto in tempo a prendere
l’autobus, e quella era una cosa positiva se paragonata alla
miriade di “disgrazie” che non facevano altro che
accadermi negli ultimi giorni.
I modi di fare di Lorenzo mi mandavano in bestia.
Avevo deciso di passare sopra ai suoi sbalzi
d’umore, avevo deciso di cancellare la sua esistenza dalla
mia vita e dai miei ricordi; ma più cercavo di mettere il
tutto in pratica e più sembrava che mi allontanassi dai miei
obiettivi.
Avrei finito per fare tutto l’opposto
di quello che mi ero prefissata, se non avessi trovato una soluzione
definitiva.
Poco dopo lo sentii arrivare alle mie spalle, non
ebbi bisogno di voltarmi e controllare, ero certa che fosse lui. Il suo
profumo inconfondibile era la più forte delle tentazioni,
per me, dopo i suoi occhi ovviamente.
Mi girai dall’altro lato sbuffando
infastidita; ne avevo avuto davvero abbastanza di lui per quella
mattina, ero giunta al limite di sopportazione e la giornata era ancora
lunga.
«Per favore, puoi provare ad
ascoltarmi?».
Feci finta di non aver sentito, limitandomi a
guardare in lontananza, verso il pullman fermo al semaforo, desiderando
che arrivasse il più presto possibile; perché
avevo paura di cedere di nuovo, se avesse usato le parole giuste.
«Va bene, capisco che tu possa essere
arrabbiata con me, ma ti stai comportando da bambina fingendo di
ignorarmi».
Lo sentii afferrarmi per un braccio e per un
attimo fui tentata di accontentarlo, ma – per grazia Divina,
forse – riuscii a mantenere lo sguardo incollato alla coda di
macchine che sfrecciavano davanti a noi.
«Porca miseria, Giorgia, non farmi
incazzare! Ho sbagliato, lo so, ma vuoi continuare a farmene una colpa
per sempre?».
Le sue parole, questa volta, mi raggiunsero in
pieno petto e se avesse aggiunto qualcos’altro avrei potuto
commettere la più grande cazzata della mia vita; dato che
ormai quelle, con lui, erano d’obbligo.
Probabilmente resosi conto del mio attimo di
debolezza, poggiò la mano sulla mia spalla, che
sembrò andare a fuoco a quel contatto. Scosse di calore
partirono da quel punto, irradiandosi per tutta la mia spina dorsale, e
a quel punto fu inevitabile voltarmi per fronteggiarlo.
«Prima mi odi…».
Cominciai con tono lieve e rassegnato, certa che qualunque cosa avessi
detto non sarebbe servita a nulla.«…poi mi lanci
provocazioni e, come se non bastasse, mi ferisci con i tuoi
atteggiamenti del cazzo». Feci una lunga pausa, durante la
quale deglutii ripetutamente, in cerca di un qualcosa
– qualunque cosa – che mi aiutasse ad andare
avanti. «Mi dici cosa dovrei pensare io di tutto
questo?».
A quelle parole allentò la sua presa,
portando entrambe le mani in tasca, come era solito fare quando passava
alla fase difensiva.
«Non sapevo che sentissi
così tanto la mia mancanza, sembravi…apposto, sei
sempre stata così…forte».
Parlò lentamente, come se stesse ricordando
qualcosa, scandendo una parola dopo l’altra in cerca di
quelle giuste, nel chiaro tentativo di non ferirmi.
«Apposto, dici?». Chiesi
ironica, guardandolo senza farmi più alcun problema.
Era la prima volta che ci spingevamo
così in là in quel discorso ed ero decisa ad
ottenere delle vere risposte, non mezze parole messe a caso o altre
domande con cui poter rigirare il discorso.
«E perché non me
l’hai chiesto, prima di convincertene?».
Scossi la testa rassegnata, nuovamente conscia
che non mi avrebbe mai detto la verità. Per quanto ci si
potesse avvicinare, non si sarebbe mai esposto completamente, ero
sciocca io a pensare, ogni volta, che invece potesse riuscirci.
«Perché sono un coglione,
è questo che vuoi sentirti dire?». Si
rianimò proprio quando il rosso del semaforo
lasciò posto al verde, segno che nel giro di un minuto
l’autobus sarebbe arrivato alla nostra fermata. «Va
bene, lo sono, e posso anche ripetertelo all’infinito se ti
fa sentire meglio».
Dovette leggere qualcosa nella mia espressione,
perché prese un grande respiro e cambiò
completamente registro.
«Quello che voglio dire è
che ormai non posso fare niente per modificare il passato, e neanche
voglio farlo».
Scattai in avanti, verso di lui, ma senza
toccarlo, perché avevo paura e perché non
c’era cosa più sbagliata da fare in quel momento.
«E allora cosa vuoi fare? Dimmelo,
perché non ti capisco».
Lo vidi rilassare un po’
l’espressione, mentre i suoi occhi cominciarono a ricoprirsi
della solita maschera che li rendeva intellegibili.
Sospirò distogliendo lo sguardo e
capii che da lui non avrei ottenuto nessun’altra spiegazione.
In seguito a quella discussione, io e Lorenzo
passammo per un po’ all’indifferenza totale.
Era come se non esistessimo l’uno per
l’altro, e questa non era certo la mia più grande
ambizione, ma quantomeno non era passato all’offensiva e si
limitava ad ignorarmi come aveva sempre fatto.
Una volta saliti sul pullman, entrambi avevamo
preso le nostre strade, lui in fondo insieme ai suoi amici e ad un
branco di oche starnazzanti che gli sbavavano dietro; e io, nel sedile
dietro all’autista, che di tanto in tanto gli lanciavo
qualche occhiata fugace.
Mi veniva spontaneo farlo, forse
perché avevo la flebile speranza che magari –
durante uno di quei momenti – l’avessi beccato ad
osservarmi.
Lo avevo messo di fronte a una verità
da cui era sempre scappato e, anche se alla fine lo aveva fatto di
nuovo, ero comunque riuscita a capire qualcosa in più di lui.
Mi era sembrato confuso, esattamente come lo ero
io, e quasi spaventato, da cosa non saprei dirlo.
Avevo paura che, nonostante tutto, non fosse
cambiato nulla tra di noi e che magari si sarebbe vendicato della
trappola che gli avevo teso, costringendolo, in qualche strano modo a
me sconosciuto, a parlare.
A scuola ebbi la strana sensazione che
continuasse a guardarmi dal suo ultimo banco, ma non potevo controllare
perché mi trovavo davanti alla cattedra e dietro di me
c’erano solo dei colossi, che mi impedivano di arrivare fino
a lui con lo sguardo.
Per la prima volta, da quando ero passata alle
scuole medie, non prestai la minima attenzione alle spiegazioni dei
professori; avevo la mente completamente concentrata su di lui e su
quello che ci eravamo detti quella mattina.
Non sapevo cosa aspettarmi da lui, né
tantomeno dal nostro rapporto; per quanto ne sapevo io, Lorenzo avrebbe
potuto tranquillamente far finta di niente, continuando a prendermi in
giro e a comportarsi da stronzo.
Ad un certo punto della mattinata, mi ero presa
la testa tra le mani e l’avevo sbattuta contro il banco,
imponendomi di distrarmi da lui e pensare seriamente alla lezione.
Ovviamente avevo controllato che nessuno mi
stesse guardando, ci mancava solo che avessero cominciato a chiedersi
se avessi problemi mentali di qualche tipo.
L’unica cosa degna di nota, di quella
noiosissima giornata scolastica, fu il discorso che origliai per caso
– ma anche no – tra Lorenzo e i suoi amici. Per
fortuna le ragazze avevano deciso di lasciarlo in pace almeno durante
l’intervallo, la loro presenza attorno a lui cominciava
infastidirmi parecchio.
Ero solita passare quei 15 minuti in classe,
mangiando la merenda portatami da casa e scribacchiando qualcosa sul
diario, perciò ero certa che non avrei dato
nell’occhio.
«Davvero stasera esci con quella tipa
di quinta?». Chiese Curcio, dando sfoggio della sua pessima
natura truzza.
Odiavo il termine tipa, cosa c’era di
male nel dire semplicemente “ragazza”?
In ogni caso, quello era l’ultimo dei
miei problemi, avevo teso le orecchie in attesa che Lorenzo
rispondesse. Speravo che negasse e quando me ne resi conto mi stupii di
me stessa.
«Sì». Rispose lui
semplicemente, senza mostrare alcun entusiasmo particolare.
«Ma mi sembra una un po’…».
Si stoppò probabilmente a corto di un
aggettivo adatto, ma alcuni dei suoi amici gli andarono incontro
suggerendogliene un paio.
«Verginella?».
«Chiusa?».
Lore ridacchiò, ma la sua non mi
sembrava una risata spontanea, piuttosto studiata e fredda.
«Esatto, temo che ci vorrà
un po’ per quello».
Trattenni a stento un singulto schifato. Va bene
che ormai avevo capito che tipo di persona fosse, ma sentire parlare di
una ragazza in quei termini era comunque disgustoso, specialmente
durante quella che doveva essere la mia merenda.
«Scegline un’altra,
no?». Suggerì Lonta, facendo la sua apparizione da
cretino.
«Quelle come lei mi danno sui
nervi». Si aggiunse un altro alla conversazione, come se
fosse una questione di stato il fatto che il soggetto della discussione
fosse almeno un po’ ragionevole.
Di tutto il gruppetto non avrei saputo scegliere
chi fosse quello con meno cervello degli altri.
Sentii il rumore di una sedia spostarsi e uno
schiocco di lingua, che annullarono i miei pensieri in un batter
d’occhio.
«Gabri, ma dico, l’hai vista?
È una figa da paura, non importa quanto tempo ci
vorrà, deve essere mia».
«Se lo dici tu…».
Rispose Lonta, che non contento aggiunse: «…gira
voce che sia un’isterica, comunque».
«Cosa vuoi che me ne importi? Come si
dice…una botta e via. Se dovessi badare al carattere di
tutte le ragazze con cui esco, non ne rimarrebbe nessuna».
A quelle parole mi strozzai con un pezzo di
panino e cominciai a tossire ripetutamente, finché non mi
uscirono gli occhi dalle orbite.
Giustamente nessuno aveva pensato di offrirmi un
goccio d’acqua e io ero troppo impegnata a cercare di
respirare per pensare di andare a bere quella del rubinetto, che
sebbene non fosse propriamente potabile, perlomeno mi avrebbe salvato
la vita, o risparmiato di fare una figuraccia a seconda dei casi.
«Ehi, tutto bene?». Mi chiese
uno dei ragazzi che nel frattempo si doveva essere avvicinato. La sua
voce mi sembrava di averla sentita prima, ma non ne ero sicura.
«Sì». Dissi, per
poi schiarirmi la voce arrochita a causa della tosse forzata.
«Grazie».
Sollevai lo sguardo lentamente, incuriosita dal
fatto che nonostante lo avessi rassicurato, non si era mosso di un
millimetro; e quando finalmente vidi il suo volto, riconobbi un ragazzo
sorridente, moro e con gli occhi dello stesso
colore…piuttosto carino.
Lo vidi fissarmi incerto per un po’,
dopodiché mi tese la mano e sorrise ancora di
più, mostrando una fila di denti bianchi e perfetti.
«Davide». Si
presentò una volta che ebbi ricambiato la sua stretta.
«Giorgia».
Era la prima volta che un mio compagno di classe
si rivolgeva a me in modo così gentile, senza mostrare
alcuna traccia di scherno, perciò mi venne spontaneo
ricambiare il suo sorriso.
«Ehi, Mori, ti sei dimenticata come
mangiare, per caso?». Chiese ironica una voce alle mie
spalle, che mi fece passare immediatamente il buonumore.
La battutina di Lorenzo venne seguita dai
risolini divertiti dei suoi amici e a quel punto mi voltai verso di
loro, pronta a fronteggiarli.
A quanto pareva, no, non aveva affatto
dimenticato le sue vecchie abitudini.
«O hai sentito qualcosa che ti ha
sconvolto?». Continuò senza guardarmi veramente
Era in bilico sulla sedia, con i piedi sul banco
e il cellulare in mano. Logico che non avesse attenzione da potermi
rivolgere.
Tuttavia, la sua deduzione mi colse di sorpresa
e, prima di riuscire a rispondere, aprii e chiusi la bocca parecchie
volte, passando per una cretina.
«No, ormai sono abituata a sentire i
tuoi discorsi a senso unico». Dissi infine, certa di averlo
stupito e che l’avrebbe piantata ancora prima di cominciare.
La sua bocca si piegò in un lieve
sorriso e i suoi occhi finalmente raggiunsero i miei.
Fu come sentire una scossa al centro del petto,
ogni volta avevano lo stesso effetto devastante su di me e cominciavo a
pensare che sarebbe stato impossibile annullare il loro potere.
«Ne sei sicura? Io dico che non hai
sentito ancora niente di veramente interessante, vuoi unirti alla
conversazione? Stavamo giusto per parlare di….».
«Lore, la stai scandalizzando, guarda
che faccia ha!». Lo interruppe Davide alla mia destra, che
ora lo fissava come se fosse un alieno o qualcosa di simile.
Evidentemente non lo conosceva bene, se rimaneva interdetto da quel suo
continuo cercare di mettermi in imbarazzo.
«Non è colpa mia se
è più casta di una suora». Rispose lui
tornando a fissare il cellulare, forse decidendo che non ero poi
così degna di essere l’oggetto della discussione.
«Sei tu che te ne fai quaranta a
settimana, quella ad avere seri problemi non sono di certo
io!». Cercai di difendermi, ma il mio tentativo
risultò patetico e non ottenni altro che
l’attenzione di tutti i lì presenti e in
particolare quella di Lorenzo.
«Il mio record è di venti,
per esser precisi». Sentenziò arricciando le
labbra pensieroso e fingendo anche di contarle sulle dita.
Lo fissai sconvolta. Non aveva il minimo senso
della misura e del ritegno. Ne parlava con tranquillità,
come se fosse normale saltare da un letto all’altro per
divertimento. Io forse ero troppo pudica, ma lui decisamente esagerato.
«Lore, ma di cosa ti stupisci,
scusa?». Intervenne Curcio con un sorriso che non lasciava
presagire niente di buono. «Chi mai vorrebbe provarci con una
secchiona acida come lei? È logico che sia così
poco aperta».
«Hai ragione ed è un peccato
che sprechi così le sue doti». Disse Lorenzo
facendomi una radiografia completa, con il suo solito sorrisetto
compiaciuto.
Pronunciò quella frase con una malizia
tale che mi fece cedere le gambe per un attimo.
Quel ragazzo mi voleva morta e prima o poi ci
sarebbe riuscito senz’altro.
Ero talmente in imbarazzo e rossa di vergogna che
per i restanti minuti dell’intervallo rimasi
immobile dov’ero, non desiderando altro che il pavimento
sotto ai miei piedi si spaccasse per farmi scomparire.
Proprio al suono della campanella Lorenzo si
alzò dal suo posto per la sua abituale passeggiatina del
cambio dell’ora, sembrava lo facesse apposta per risultare
“figo” e ribelle agli occhi dei suoi compagni; ma
con lui non si poteva mai essere sicuri di nulla, perciò
quelle rimanevano delle mie semplici supposizioni a cui non avrei mai
potuto dare conferma.
Non appena mi fu accanto lo vidi rallentare un
po’ il passo e spostare lo sguardo su di me, come se stesse
per dirmi qualcosa, ma alla fine sembrò lasciare perdere; mi
fece l’occhiolino e uscì dalla porta,
fischiettando, con le mani in tasca.
Fortunatamente le restanti tre ore trascorsero
tranquillamente e senza troppi intoppi.
Lorenzo continuò per tutto il tempo a
provocarmi, con delle frecciatine molto spesso velate, e io riuscii a
concentrarmi – almeno in parte – sulle lezioni,
scambiando di tanto in tanto due parole con Davide, che, data
l’assenza del suo compagno di banco, si era seduto accanto a
me.
Sembrava un ragazzo abbastanza simpatico, a primo
impatto, tranquillo ed assolutamente fuori dagli standard di quelli che
erano i suoi amici.
E proprio questa differenza, mi spinse a
chiedermi perché frequentasse – ad esempio
– uno come Lore, che avrei tranquillamente potuto definire
l’esatto suo opposto.
Dopo tanto tempo non passai tutte le lezioni con
gli occhi incollati ai libri, molto spesso ci distraevamo per
commentare la stranezza di alcuni professori, oppure la loro inettezza
e le loro scarse qualità di insegnanti.
Era piacevole parlare con Davide, mi sembrava di
essere tornata bambina, ai tempi in cui a nessuno importava
delle apparenze e dei giudizi, ma ci divertivamo per il semplice gusto
di farlo.
E avrei sicuramente etichettato quella come la
mia giornata scolastica preferita, se Lorenzo –
sì, sempre lui – non avesse deciso di mettermi in
ridicolo davanti a tutta la classe, con un patetico scherzo degno di un
bambino delle elementari.
«Ehi, dove scappi?».
Quel giorno avrei fatto indigestione di lui.
Ero giunta a questa conclusione quando
– una volta scesa dal pullman di ritorno – mi aveva
fermata, nel bel mezzo della strada.
«Carino lo scherzo del
ragno». Gli dissi, ironica, mentre ci avviavamo insieme verso
casa, per la seconda volta in cinque giorni. Avevamo raggiunto il
nostro record, fantastico.
«Ti è piaciuto
davvero?». Chiese scettico, rallentando il passo per
aspettarmi.
«No». Lo spensi con un
semplice monosillabo. Inutile dire che fu un’enorme
soddisfazione constatare che anche io possedevo un po’ di
talento per la recitazione.
«Ma si fa per scherzare, lo
sai».
Mi bloccai davanti al portone, girandomi verso di
lui e tendendo le mani in avanti per mantenere le distanze.
«Certo, certo».
Lo vidi fissarmi incuriosito e divertito allo
stesso tempo, con la fronte aggrottata e un’espressione
buffissima dipinta in volto. Dovetti sforzarmi tantissimo per mantenere
la serietà che volevo trapelasse dal mio sguardo, quando
osservai bene tutto il quadretto.
«Che
c’è?». Mi chiese abbandonando le braccia
lungo i fianchi e poggiandosi contro il muro dei citofoni, lo stesso di
qualche sera prima, solo che adesso le posizioni si erano invertite.
«Volevo mettere in chiaro una
cosa…a proposito delle tue battutine idiote e
oltraggiose». Dichiarai decisa, ma con un pizzico di
imbarazzo che mi fece tremare leggermente la voce.
«Sentiamo». Rispose
incrociando le braccia al petto, approfittandone per guardare
l’orologio che aveva al polso.
Mi sistemai di fronte a lui, sempre a debita
distanza, e cominciai a raccogliere le parole giuste dal mio cervello,
per poi sputarle fuori con la stessa velocità di una
Ferrari.
«Finora ti sei limitato a delle
semplici frecciatine, ma per il futuro, se ti venissero in testa strane
idee, sappi che non voglio assalti di alcun tipo».
Ci mise un po’ a capire cosa intendessi
e quando finalmente ci arrivò, cominciò a muovere
la bocca nel vano tentativo di una risposta, che sembrava non trovare
da nessuna parte.
«Non se ne parla neanche».
Disse infine, piegando le sopracciglia e le labbra in una strana
smorfia.
«Come? Non credo di aver sentito
bene…».
Lorenzo roteò gli occhi infastidito,
dopodiché si staccò dal muro e abbassò
brevemente lo sguardo, prima di rialzarlo più fermo e deciso
che mai.
«Hai sentito benissimo,
invece». Si passò la lingua sulle labbra, in un
gesto involontario, forse, dettato dal fatto che cominciavano a
screpolarsi per il freddo. «Se sei in cerca di una
motivazione valida che mi spinga a farlo, be’, allora non ce
l’ho…». Mi afferrò per il
braccio, facendomi finire dritta fra le sue braccia, tra le quali mi
sentii immediatamente e stupidamente bene, dopo tanto tempo.
«Mi va di farlo e basta».
Terminò la frase come se avesse appena
confessato di essere un serial killer, fissandomi intensamente in
attesa che gli dicessi qualcosa. Anche io avrei aspettato una risposta
se fossi stata al posto suo, era comprensibile, ed ero decisa a
dargliela.
Il cuore mi era impazzito al centro del petto e
avevo cominciato a sentire le farfalle allo stomaco. Ero
un’inguaribile romantica, anche se in tutto quello che stava
succedendo non c’era assolutamente nulla che rispecchiasse
anche solo vagamente quell’aggettivo.
«Non ha senso quello che
dici». Dissi contro la sua spalla, mentre le sue mani mi si
allacciavano intorno alla vita.
«A mio parere, niente ha senso, e dopo
gli ultimi avvenimenti ne sono ancora più convinto, ma
potrei impiegare ore per spiegarti questa mia filosofia di
vita…».
Per una volta mi trovai in parte
d’accordo con lui. Ma in che razza di situazione ci eravamo
cacciati? Dov’erano finite la logica e la
razionalità in tutto quel macello di emozioni?
«Ma…perché?
Voglio dire…cosa vuoi veramente da me?». Chiesi
titubante, mentre lui portava due dita ad accarezzarmi la pelle sopra
gli zigomi, per poi usarle per delineare i contorni delle mie labbra.
«Toccarti…».
Soffiò contro il mio orecchio, tracciando la linea del collo
con una mano. Rabbrividii a quelle attenzioni e ne desiderai ancora, e
ancora…«Baciarti…».
Continuò posandomi un brevissimo bacio all’angolo
della bocca, che mi fece sussultare e cedere le gambe.
«Assaggiarti…». Sussurrò,
prima di iniziare a mordicchiarmi il lobo dell’orecchio,
facendomi il solletico. «Ogni volta che voglio».
Concluse avvicinandosi alle mie labbra, che erano
richiamate dalle sue come se fossero fatte apposta per scontrarsi.
«Non voglio essere una di loro, lo
sai». Mi ritrassi appena in tempo, deviando la traiettoria in
modo che le sue labbra si andassero a posare sul mio collo.
«Non lo sarai». Mi
rassicurò, cominciando a stuzzicare la clavicola con la
punta della lingua, che lasciò delle scie bollenti che
probabilmente non avrebbero mai smesso di bruciare.
«Ne sei sicuro?». Gli chiesi
con l’ultimo briciolo di volontà rimastomi.
«Non hai fiducia in me, lo so, ma
lascia che te lo dimostri… ».
«E perché dovrei? Quale
fiducia potrei mai riporre in una persona che dopo tanto tempo mi si
riavvicina solo per poter avere il libero arbitrio sul mio
corpo?».
Sentii la sua presa rafforzarsi, le sue braccia
spingermi di più contro di lui e il mio cuore scandire la
solita marcia ritmata che prendeva piede ogni volta che la vicinanza
tra i nostri corpi aumentava.
«Non ho intenzione di dirti che ci sono
altre ragioni, non voglio illuderti, può darsi che questo
sia davvero l’unica, non lo so neanche
io…dannazione…». Disse poggiando la sua
fronte contro la mia, facendo in modo che i nostri occhi si
allineassero perfettamente. «Ma nega che anche tu provi la
stessa cosa che provo io in questo momento, se ci riesci».
Non dissi nulla.
Avevo perso e desideravo averlo come non avevo
mai desiderato nessuno.
Anche il solo essere sfiorata da lui per un breve
istante era la sensazione più bella potessi provare; era
come se improvvisamente non vedessi altro che lui, e questo mi
spaventava, ma allo stesso tempo attraeva e incuriosiva
irrimediabilmente.
Non mi resi bene conto del come, né
del quando, ma ben presto fui io quella ad essere appoggiata contro il
muro, con il suo metro e ottanta a sovrastarmi.
Aveva un sorriso bellissimo stampato in volto,
che sconfisse anche il mio ultimo spirito di salvezza.
«Un’ultima
cosa…». Lo fermai prima che potesse dare il via a
quel bacio che entrambi desideravamo come qualunque persona avrebbe
desiderato l’acqua nel deserto.
«…promettimi che ci andrai piano e che non mi
farai soffrire troppo».
Lorenzo ridacchiò e scosse brevemente
la testa, attorcigliando i miei capelli intorno alle sue dita.
«Vuoi un giuramento ufficiale, oppure
ti basta la mia parola?».
Prendendo quella domanda come una garanzia, mi
sollevai sulle punte per poterlo baciare, ma non feci in tempo a darmi
la spinta che una voce fin troppo familiare ci colse entrambi di
sorpresa.
«Ragazzi?».
Rimasi paralizzata nel vedere mio padre a pochi
passi da noi, con la valigetta del lavoro ancora in mano e
un’espressione confusa sul volto.
Dopo l’attimo di shock, Lorenzo si
allontanò di scatto da me, guardandomi – se
possibile – con la stessa mia agitazione negli occhi.
Cosa ci faceva mio padre a casa a
quell’ora? Santo Cielo, come gli avrei spiegato quella
inequivocabile situazione?
Ma più di tutto, e contro ogni logica,
mi maledissi per il mio brutto vizio di parlare troppo, se non avessi
fatto tutte quelle domande, probabilmente non sarei rimasta
insoddisfatta e con quella terribile voglia di lui.
.«Signor Mori, come va?».
Prese la parola Lore, con la solita faccia da schiaffi che gli altri
scambiavano per “adorabile”.
«Benissimo, grazie, ma
cosa…stavate facendo?». Domandò
passando lo sguardo da me a lui, e viceversa, senza nascondere la sua
aria sospettosa.
«Ecco, papà, Lorenzo mi
stava aiutando a…».
Ma perché non mi veniva in mente
nessuna scusa, nei casi di emergenza? Per fortuna accanto a me
c’era il re delle stronzate, perciò, teoricamente,
ero al sicuro, no?
«La stavo aiutando a stare in
piedi!». Venne infatti in mio aiuto, ed io annuii prontamente
per dargli man forte, senza prestare molta attenzione a quello che
diceva. «Ha avuto un giramento di testa e io l’ho
sorretta appena in tempo, avrebbe potuto sbattere la testa a terra se
non fossi intervenuto».
Non avevo mai sentito scusa più
sciocca e banale, ma mio padre era un credulone, perciò
sperai con tutto il cuore che si bevesse quella bugia.
Lo vidi aggrottare le sopracciglia pensieroso,
certamente scettico e non del tutto convinto. «Ed
era necessario stare avvinghiati in quel modo?». Chiese
probabilmente nel tentativo di metterci in difficoltà, ma
non sapeva con chi aveva a che fare; se sperava di incastrare
Lorenzo…be’, si sbagliava di grosso.
L’avevo imparato con l’esperienza.
«Avrebbe preferito che cadesse, per
caso?». Lo prese lui in contropiede, fingendo
un’espressione rammaricata che gli riuscì
piuttosto bene.
Dovevo ricordarmi di dirgli che
anziché perdere tempo a fare karate, avrebbe potuto
tranquillamente buttarsi nel mondo del Cinema.
Mio padre passò da
un’espressione sconvolta ad una perplessa e per un attimo
credetti che puntare sul senso di colpa non fosse stata una buona idea.
Per qualche strana ragione, però, alla fine si
rilassò e, una volta accertatosi che stessi bene,
ringraziò persino Lorenzo per avermi salvato la vita,
melodrammatico come al solito.
Tirai un sospiro di sollievo ed aspettai che mio
padre se ne andasse per rimanere sola con lui ancora un po’,
ma ovviamente il mio caro vecchio non avrebbe mai lasciato che la sua
povera figlioletta ancora in via di guarigione rimanesse fuori a
parlare rischiando di sfracellarsi la testa al primo attacco di
debolezza.
Riuscii a malapena ad evitare che mi portasse in
braccio fino a casa, prima di rivolgere uno sguardo di scuse a Lorenzo,
che in risposta mimò con le labbra una specie di
avvertimento.
“La prossima volta voglio quel cazzo di
bacio, niente scuse”.
Lo salutai un secondo prima che le porte
dell’ascensore si chiudessero, ancora scossa da quella
minaccia che mi aveva fatto rivoltare lo stomaco in una capriola, e non
potei fare a meno di notare quanto fosse bello, anche con lo sguardo di
chi aveva appena perso il suo giocattolo preferito.
Il pomeriggio lo passai a scrivere qualche
racconto che avevo lasciato in sospeso durante le vacanze. Mi divertiva
inventare storie, di qualunque tipo, e mi piaceva immaginare che fossi
io la protagonista, in grado di trovare il principe azzurro; o meglio,
che fosse lui a trovare me.
Fantasticavo molto e per la maggior parte delle
volte la controparte maschile era tale e quale a Lorenzo. Quello che
scrivevo aveva sempre un lieto fine, ma sarebbe stato così
anche nella realtà?
Mi ero chiesta più volte come lo
vedevo al mio fianco, se come un semplice amico, oppure come
l’amore della mia vita, ma alla fine la risposta che mi davo
era sempre la stessa: mi sarebbe bastato averlo al mio fianco e basta,
perché per come stavano le cose non era sicuro nemmeno
quello.
Finito il relax, presi il diario per controllare
i compiti ma la suoneria del cellulare cominciò ad
echeggiare per la stanza, fin quando non lo trovai – sotto
una montagna di fogli – e risposi, contenta della persona che
aveva deciso di chiamarmi.
«Marti!». Esclamai con voce
squillante, al settimo cielo per la gioia.
«Se non ti chiamo io, tu non lo fai
mai, eh?». Rispose lei con la sua solita voce sarcastica.
Anche il solo sentirla per telefono mi rendeva felice, specialmente in
quel momento in cui avevo bisogno di lei più che mai.
«Ma lo sai che sei la mia cuginetta
preferita!». Dissi sedendomi sul letto, facendo attenzione a
non sedermi sulla miriade di cianfrusaglie sparse sulla coperta.
La sentii ridacchiare piano, forse per non farsi
sentire. «Sì, certo, dici sempre
così». Fece una breve pausa, dopodiché
partì all’attacco. «Allora, cosa ti
tormenta questa volta?».
Sospirai e pensai a lungo, chiedendomi da dove
avrei potuto iniziare a raccontare; erano successe talmente tante cose
che temevo di non ricordarle neanche tutte.
«Lorenzo». Dissi
d’un fiato, come a volermi togliere un peso che avevo sul
cuore.
«Ancora lui? Che ti ha
fatto?». Sbraitò Martina dall’altro capo
del telefono, facendomi partire un timpano.
«Non lo capisco». Risposi
semplicemente, dando il via libera al mio sfogo. «Dopo 7 anni
da incubo in cui mi ha fatto soffrire come un cane, se ne esce dicendo
che… ». Mi interruppi un po’ in
imbarazzo per quello che dovevo dire, ero abituata a parlare di tutto
con mia cugina, ma era nel mio carattere essere timida quando si
trattava di quelle cose. «…sì, ecco,
facendomi proposte…strane». Terminai la frase a
stento, con il viso più caldo di quando avevo avuto la
febbre a quaranta.
«Strane?». Mi fece eco lei,
non del tutto sicura del significato di quell’aggettivo.
Perché aveva deciso di perdere la sua
perspicacia proprio in quel momento?
«Dai, Marti, hai
capito…».
Per un po’ sentii solo dei disturbi
alla linea telefonica, tipici di quando si stava parlava tra cellulari,
dopodiché sussultai spaventata, colta alla sprovvista,
quando mia cugina disse a voce troppo alta: «Oh Mio
Dio!».
«Ecco, ora capisci perché
sto impazzendo? Credo che se continua così
diventerò matta sul serio». Mi lamentai
giocando con un laccetto che avevo attaccato al telefono, che tra
l’altro mi aveva regalato proprio lei.
«Voglio sperare che tu abbia
accettato». Disse lei ignorando le mie paranoie e per poco
non rischiai di strozzarmi con la mia stessa saliva.
«Che cosa?!». Quasi urlai una
volta scampato il pericolo, sebbene le sue speranze non fossero affatto
vane.
«Avanti, Giò, non
prendiamoci in giro!». Rispose Martina concitata, mettendo in
mostra il suo lato di donna vissuta. «Quel ragazzo
sarà anche uno stronzo psicopatico, ma è
– soprattutto – uno strafigo da paura!»
Avevo dimenticato la sua opinione su Lorenzo, o
almeno quella che si era creata quando l’aveva visto di
persona e non sotto forma di mio personale tormento.
Era successo durante l’estate, nel
periodo in cui mi era venuta a trovare. Un pomeriggio
l’avevamo incrociato in giro per il centro e la reazione
della mia cara cuginetta non era stata quella che si potrebbe dire una
“reazione contenuta”, tutt’altro, e da
allora non aveva fatto altro che ripetermi che non aveva mai visto un
ragazzo così “figo”.
«Ho accettato». Dissi una
volta tornata alla realtà, ma con la voce ridotta ad un
sussurro.
«Giorgia? Ci sei ancora?».
«Ho detto che ho accettato!».
Alzai il tono in modo che potesse sentirmi, mentre il mio unico
pensiero era quello di sotterrarmi per la vergogna.
Io, la persona più giudiziosa di
questo mondo, avevo accettato la proposta più sconclusionata
dal ragazzo più cretino della città.
Chiusi gli occhi pronta a sentire
l’urlo di gioia di Martina, che arrivò –
come previsto – immediatamente.
«Lo sapevo che in fondo anche tu ne eri
attratta, solo che non volevi ammetterlo!».
Sentenziò una volta finito di mettere a dura prova le mie
orecchie con le sue grida isteriche.
«Non so cosa mi sia preso».
Mi lamentai pur sapendo che da quel momento in poi avrei parlato con un
muro.
«Andiamo, non tormentarti adesso sul
perché l’hai fatto. Se vuoi una spiegazione, io ce
l’ho».
«E sarebbe?». Chiesi
titubante, non del tutto sicura di volerla sentire.
«Finalmente hai dato ascolto agli
ormoni, anziché a quel cervello da strapazzo che ti
ritrovi». Disse soddisfatta della sua deduzione e incurante
del fatto che mi avesse appena offesa.
«Grazie tante, eh!». Finsi un
tono deluso e poi spiegai: «Per il cervello da strapazzo,
intendo».
La sentii ridacchiare leggermente,
dopodiché assunse un tono quasi serio. «A parte
gli scherzi, io direi di provare…nel senso che nessuno ti
obbliga ad andarci a letto se non vuoi, ma se hai accettato vuol dire
che un minimo di attrazione fisica c’è e se lui te
l’ha chiesto la cosa è reciproca». Si
fermò per un attimo, per poi proseguire con lo stesso tono
di voce calmo ed asciutto. «Vedi come vanno le cose, ma se
non noti alcun interesse reale da parte sua, che vada oltre il semplice
sesso, tronca tutto subito, capito?».
Deglutii un po’ a disagio, le sue
parole per una volta non mi avevano minimamente tranquillizzata.
«Mi stai dicendo che dovrei
rischiare?».
«Esattamente».
«E se rimanessi più delusa
di quanto non lo sia già?».
«E se invece lui si accorgesse di
provare qualcosa per te?».
1 a 0 per Martina. Come al solito aveva ragione;
io pensavo solo alle cose negative, mentre lei riusciva a vedere tutte
le possibilità con grande spirito critico.
«Il problema è che non so
neanche io quello che provo per lui». Dissi sospirando, certa
che di lì a poco mi avrebbe mandata a quel paese.
«Scopritelo insieme, allora. Se
continuate semplicemente a litigare non arriverete da nessuna
parte».
Stetti in silenzio a riflettere su quelle parole,
ma alla fine dovetti rinunciare a prendere una decisione. Era una
questione troppo delicata per poterlo fare così su due piedi.
«Va bene, ci
penserò». Decretai infine, alzandomi in piedi per
stendere un po’ i muscoli indolenziti, sia per la febbre
appena passata che per la posizione scomoda che avevo assunto.
«Brava, cuginetta, adesso devo andare;
ma sappi che mi fido di te e che non appena succede qualcosa dovrai
chiamarmi immediatamente!».
Martina, con i suoi modi di fare, riusciva a
farmi sorridere persino nelle situazioni più difficili. Per
questo la adoravo.
«Certo, allora ci sentiamo. Un bacio
enorme per te».
«Notte, piccola secchioncina del mio
cuore. Ti voglio bene».
Quando la giornata giunse finalmente al suo
termine, mi sentii leggermente più rilassata e libera dallo
stress che avevo accumulato durante quelle ventiquattro ore.
Erano successe troppe cose e troppo in fretta per
poterle digerire.
Non avevo fatto altro che pensare ai pro e ai
contro che la mia decisione avrebbe comportato –
sebbene Lorenzo credesse che l’avessi già presa
–, mi ero insultata da sola per aver accettato di ridurre il
nostro rapporto ad una semplice relazione fisica, per soddisfare
chissà quale desiderio nascosto, quando per anni non avevo
fatto altro che tentare di recuperare l’amicizia profonda che
ci aveva legati un tempo.
Ero una stupida, sciocca e con qualche rotella
fuori posto. E questa volta me l’ero cercata davvero, non
avevo più scusanti, ero stata io l’artefice di
tutto.
Lorenzo era la persona più
indecifrabile e odiosa del pianeta, ma io ero certamente la peggiore
delle masochiste.
E, come se non bastasse, in tutto quel casino,
sentivo ancora la sensazione della sua presa forte e calda sulla mia
pelle, e il suo profumo tra i miei capelli, non desiderando altro che
lui fosse lì con me, per poter riprendere da dove eravamo
stati interrotti.
Note:
Udite, udite...questa volta sono riuscita ad aggiornare prima! XD
In questo capitolo succedono tante cose, forse troppe, ma mi è
uscito così di getto e mi è piaciuto molto scriverlo.
Forse perché era qui che volevo arrivare fin dall'inizio...
Lorenzo finalmente si espone un po' di più, mettendo Giorgia di
fronte ad una scelta molto ardua; che compie in modo del tutto
irrazionale. Nel momento in cui succede tutto il casino, infatti,
è talmente ammaliata dal suo caro amico che non oppone alcuna resistenza e ammette persino di essere attratta da lui fisicamente!
La telefonata con la cugina, se possibile, le mette addirittura
più confusione in testa ma - nonostante tutte le paranoie - non
riesce a fare a meno di pensare che quel bacio lo vuole davvero.
Ora non le resta che decidere cosa fare, se lasciarsi andare e seguire
l'istinto, oppure "scappare" prima che le cose si complichino
ulteriormente. Difficile, no?
Basta, non mi dilungo ulteriormente, passo direttamente ai ringraziamenti...che sono assolutamente d'obbligo per me ;)
Grazie a tutte le
persone che continuano a leggere questa storia, grazie a chi l'ha messa
nelle preferite, ricordate e seguite....e un grazie enorme a chi ha
recensito lo/gli scorso/i capitoli! Stella Nera, Deilantha e MakaGD...Grazie care, se ho dimenticato qualche risposta provvederò a recuperarla al più presto *-*
Un bacio e alla prossima settimana (salvo imprevisti...)! ^^
P.s: ho usato un font diverso per scrivere questo capitolo! Mi piace
sperimentare e alla fine non so mai qual è meglio, perciò
ho lasciato questo. Se preferivate l'altro, perché magari
aiutava nella lettura, ditemelo senza problemi; provvederò a
modificare! Grazie.
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Capitolo 8 *** Sviluppi. ***
Capitolo 8
Capitolo
7: Sviluppi
Avevo sempre vissuto nella più totale convinzione che scappare
dalle situazioni e dai problemi, allontanandosi dalle proprie responsabilità,
fosse il comportamento più sbagliato da tenere nei momenti di difficoltà.
A scuola era uno dei concetti che i professori continuavano a
ripetere più di frequente e ovviamente io gli davo ragione, crogiolandomi nel
piacere di vedere gli altri miei compagni tacciati di immaturità e scorrettezza
nei confronti degli altri.
Loro si lamentavano e per una volta io provavo un pizzico di
rivalsa.
Ero stata sempre impeccabile sotto quel punto di vista: sempre
pronta alle interrogazioni, mai assente nei giorni di verifica e – qualora non
fossi stata preparata – piuttosto che stare assente prendevo il brutto voto che
meritavo; che non andava mai al di sotto del cinque.
A distanza di parecchi anni, però, mi ritrovai a rivalutare
tutte le mie certezze, compressa quella; io per prima cominciai a scappare
dalle situazioni scomode, evitandole come la peste, e chiaramente era tutta una
diretta conseguenza degli avvenimenti degli ultimi giorni, perciò soprattutto colpa
di Lorenzo.
Mi aveva messo, meschinamente, davanti ad una scelta difficile,
che in un momento di debolezza avevo accettato, ma di cui non ero più così
tanto sicura, anzi.
Alla fine avevo deciso di prendere tempo, il più possibile, per
capire davvero cosa volessi da quello strano rapporto e cosa no, cosa fosse
giusto e cosa fosse sbagliato, anche se tutto quel buon proposito si poteva tranquillamente
riassumere in un solo e semplice concetto: volevo scappare, e così avrei fatto.
Non era stato molto difficile evitare Lorenzo. Ci ero riuscita
per quasi due settimane; a casa, sul pullman...a scuola, e il tutto senza
problemi, o almeno non troppi.
Da quando avevo conosciuto Davide, passavo tutto il tempo
scolastico con lui e avevo persino cominciato a muovermi dalla classe durante
l'intervallo, limitando al massimo le occasioni per incontrarci. Se stessi con
Davide per scappare da una risposta che mi opprimeva terribilmente, oppure
perché lo trovavo divertente, non saprei dirlo. L'unica cosa di cui ero
veramente sicura, in generale in quel periodo, era che la sua compagnia mi
piaceva molto: avevo trovato in lui la mia ancora di salvezza in tutto quel
mare di confusione e incertezze.
Lore, dal canto suo, non era certo stato a guardare lasciando
che lo ignorassi deliberatamente. Avevo perso il conto dei tentativi che aveva
fatto per rimanere solo con me, quando i suoi amici non erano nelle vicinanze,
ma fortunatamente me l'ero sempre cavata con qualche scusa imbastita sul
momento, che lui non si era certo bevuto.
In ogni caso, se mai avessi potuto provare un minimo senso di
colpa per quello che stavo facendo, ci aveva pensato lui a distruggerlo, con un
atteggiamento da 'è Lorenzo Belli che pianta le ragazze, non loro che piantano
lui’:
Dopo circa due giorni di silenzio da parte mia, aveva cominciato
a frequentare 'la ragazza di quinta' con una certa frequenza, e chiaramente la
cosa mi dava parecchio fastidio: alla prima occasione se n'era trovata
un'altra, dando prova del fatto che l’oggetto della sua proposta altro non fosse
che un passatempo, qualcosa di nuovo da sperimentare, difficile da ottenere…ma
in quel caso che cosa avrei potuto dirgli, io?
«A che pensi?».
L'arrivo improvviso di Davide alle mie spalle mi colse di
sorpresa, facendomi fare un balzo di quasi un metro sulla sedia.
«Buongiorno anche a te». Risposi quando mi fui ripresa, felice
di vederlo dopo un weekend piuttosto noioso: passato più che altro pensando a
Lorenzo, pensando a Lorenzo e...ripensando a Lorenzo. Proprio una vita
monotona, la mia.
«Mmmh, successo qualcosa?». Chiese posando la cartella sul banco
e piegando la bocca nel modo in cui era solito fare quando cercava di
estorcermi informazioni. Ovviamente non gli avevo detto niente del rapporto tra
me e Lorenzo: erano amici e il che non era certo un punto a suo favore perché
potessi parlare.
«Solite cose, pensavo alla monotonia della mia vita».
Davide roteò gli occhi al cielo esasperato, per poi battere le mani sul mio banco.
«La finisci di parlare di te e della tua vita come se fossi una
centenaria in procinto di lasciare questo mondo?».
Lo fissai attentamente per qualche secondo, aggrottando le
sopracciglia, stupita, per quello strano paragone, dopodiché scoppiai a
ridergli in faccia; come ormai facevo spesso quando diceva una genialata delle
sue. Stavo per ribattere, quando il suono della campanella mi trafisse le
orecchie come il peggiore degli allarmi.
«Devo andare in bagno». Dissi scattando in piedi e affrettandomi
a lasciare la classe, ma Davide mi bloccò per un braccio, proprio ad un passo
dalla porta
«Perché scappi?». Mi chiese dall'alto dei suoi quindici
centimetri in più.
Ma perché ero così bassa?! Mi sentivo talmente piccola, da
quella prospettiva, che qualunque cosa mi venisse in mente da dire mi sembrava
una grande stronzata.
«Non sto scappando da te». Dissi cercando di liberarmi, mentre
con un occhio controllavo agitata il corridoio.
«Lo so». Disse lui come se fosse ovvio. «Intendevo, perché scappi
da lui?».
A quelle parole fu come se il peso di un'enorme illusione mi
cascasse addosso: ero sicurissima di non aver mai dato a vedere il mio
interesse per Lorenzo, né tantomeno il continuo tormento che mi causava,
possibile che stessimo davvero parlando della stessa persona?
Vidi tutte le mie certezze sparire, continuando a sentire la
voce accusatoria di Davide nella mia mente per un tempo inquantificabile, prima
che la situazione peggiorasse ulteriormente.
«Scappare da chi?».
No, decisamente la fortuna non era dalla mia parte. Non lo era
mai stata, ma in quel periodo sembrava proprio in vacanza!
«Lore, credo che tu e lei abbiate un problema da risolvere».
Lo accolse Davide, traditore e incurante di quello che volevo
io, tirandomi per il braccio in modo da farmi trovare esattamente di fronte a
lui.
Rimasi immobile come una statua, chiedendomi se quelle non
fossero scene degne di un film, quando l’oggetto della discussione fa la sua
apparizione improvvisa causando l’imbarazzo di quelli che stavano parlando –
magari male – di lui. Alla fine mi decisi a voltarmi verso Lorenzo, ormai
consapevole di essere stata incastrata.
In quelle settimane lo avevo osservato da lontano, avevo evitato
ogni minimo contatto con lui, visivo e non, e ritrovarmelo davanti, a pochi
passi da me, mi provocò una terribile stretta al cuore.
«Già, lo credo anche io». Disse mantenendo lo sguardo fisso su
di me, con un'espressione tra l’iroso e il trionfante, che mi diede i brividi.
Non avrei potuto scappare, non più, i suoi occhi parlavano
chiaro.
Abbassai i miei cercando di calmare la corsa impazzita del mio
cuore, trovando interessanti persino i graffi del pavimento, pur di non stare
sotto la sua aura d'accusa.
«Dobbiamo parlare, Giorgia. Ora». Continuò spazientito,
afferrandomi per una mano e trascinandomi fuori dall'aula con uno strattone.
Dopotutto era sempre lui, non avrebbe mai imparato le buone
materie.
Le seguii impotente, non del tutto pronta a prendere la mia
decisione, le mie responsabilità, ma quando finalmente guardai Davide, il suo
sorriso mi fece capire che sarebbe andato tutto bene.
Forse l'aveva fatto per me. Forse.
Non mi resi conto di dove fossimo finché non sentii la
temperatura scendere vertiginosamente, ne ebbi la conferma quando superammo una
porta a vetro e una lunga serie di sedie rosse apparve alla nostra vista.
Eravamo in aula video, la stanza più fredda e isolata della
scuola.
Si trovava nel seminterrato, per questo i gradi, lì dentro, non
andavano mai oltre lo zero. L’avevo sempre considerato un bel posto per pensare
e stare da soli, chi l’avrebbe mai detto che sarebbe diventato il peggiore di
tutti?
Lasciai che il silenzio occupasse l'enorme spazio intorno a noi,
aspettando che fosse lui a fare la fatidica domanda e limitandomi, nel
frattempo, a torturarmi nervosamente le mani e le unghie.
Lorenzo chiuse la porta con studiata lentezza, dopodiché si andò
a sedere – con la stessa calma - su una delle sedie, facendomi cenno di
raggiungerlo.
Se la stava prendendo comoda quando di lì a poco sarebbe
cominciata la lezione, pazzesco, e voleva che anche io finissi nei guai per
colpa sua.
Ok, forse non era tutta colpa sua, ma perché aveva scelto
proprio quel momento? Avevamo tutta la vita davanti!
Fui tentata di scappare, certa che non mi avrebbe inseguita pur
di mettermi davanti alla scelta, ma qualcosa nei suoi occhi, o nel modo in cui
sbatteva i piedi nervosamente, forse, mi impedì di farlo.
Mi avvicinai a lui con passo lento, come se quello potesse
essere un valido diversivo per ritardare la catastrofe, e quando gli fui
davanti non ebbi neanche il tempo di parlare, perché mi afferrò per i fianchi e
mi tirò a sé, per poi farmi abbassare alla sua altezza, portando le nostre
labbra così vicine da poterne già sentire la consistenza e il sapore.
Fu inevitabile distogliere lo sguardo dal suo, troppo profondo e
indagatore per poter resistere a lungo al suo fascino.
«Stai scappando ancora». Sussurrò con una sorta di cantilena
nella voce, quasi ammaliante, che mi spinse e guardarlo negli occhi.
Probabilmente aveva capito che era la peggiore delle tentazioni
per me e aveva, di conseguenza, deciso di mettermi in difficoltà.
«Perché ti stai vedendo con quella?».
Gli chiesi in un momento di coraggio e parlai talmente in fretta
che feci fatica persino a capirmi da sola.
Inizialmente mi sembrò che fosse rimasto un attimo interdetto
dalla mia domanda improvvisa – chi non lo sarebbe stato? – ma chiaramente si
riprese subito, portando immediatamente la situazione a suo vantaggio.
«E tu perché mi eviti?».
«Non vale rispondere con un'altra domanda».
Protestai spontaneamente, allontanandomi di scatto e sedendomi
nella sedia accanto alla sua.
Per quanto mi fossi disintossicata dal suo profumo, era sempre
troppo vicino per poter pensare lucidamente.
«Piantala Giorgia, e dimmi la verità». Mi rimproverò lui
infastidito, certamente pronto a perdere la pazienza, non appena gliene avessi
dato occasione.
«Ah, adesso sei tu quello che chiede spiegazioni». Sentenziai
assottigliando lo sguardo e le labbra. «E se decidessi di non dartene neanche
io?».
Ero certa di averlo messo a tacere, stupito in qualche modo, ma
lui non fece una piega. Evidentemente aveva imparato a difendersi dai miei
attacchi. Prevedibile al massimo.
«Oh sì che lo farai, invece». Disse, infatti, sicuro di sé e di
qualcosa di cui io non ero a conoscenza.
Vidi le sue sopracciglia chiarissime distendersi e addolcirsi,
mentre un accenno di sorriso tentava di far capolino dalle sue labbra.
«Perché stiamo entrambi morendo dalla voglia di saltarci
addosso». Spiegò, rispondendo alla domanda che stavo per fargli. Pure veggente
era?
«E cosa c'entra questo?». Fu solo dopo qualche secondo che mi
resi conto di quel che avevo detto, perciò aggiunsi di tutta fretta: «Ammesso
che tu abbia ragione, ovviamente».
Lorenzo si lasciò andare ad una mezza risatina, prima di
afferrarmi il viso con entrambe le mani e avvicinarlo al suo senza troppi
riguardi.
Ed erano proprio quell’impetuosità e quella irragionevolezza che
mi prendevano più di tutto il resto; cose sbagliate, forse, ma altrettanto irresistibili.
«Be', credevo di averti già detto che io ottengo sempre ciò che
voglio». Sussurrò con voce roca e bassissima, ma fin troppo udibile per il mio
cuore, che stava rischiando di uscirmi dal petto. «E quello che voglio, in
questo momento, è un cazzo di bacio, che mi stai negando da…ben due settimane».
Sussultai impercettibilmente a quella confessione. Mi era sembrata
troppo sincera per uno come lui, sempre distante dalla realtà dei suoi
pensieri, e mai diretto come in quel momento.
Tuttavia, c’erano talmente tanti sentimenti mascherati dentro di
lui, che mi risultava difficile fidarmi veramente. Un conto era il mio corpo,
che reagiva al suo come se fosse telecomandato, provocandomi sensazioni
assolutamente nuove e devastanti; un altro era la certezza – impossibile da
raggiungere – che non potesse ferirmi.
Dovevo difendermi, almeno finché fossi stata in grado di farlo,
perciò decisi di tirare fuori la parte “cattiva” del mio carattere.
«Cos’è, per caso la grande figa di quinta non ti soddisfa
abbastanza?». Lo punzecchiai con il classico tono dei bambini dispettosi, ma
senza muovermi di una virgola. Era inutile: non ci riuscivo. Era…bello,
semplicemente bello, stargli così vicino.
«Può darsi». Soffiò, abbassando lo sguardo sulle mie labbra,
vogliose di incontrare le sue e dire addio al buonsenso, ma qualcosa riusciva
ancora a trattenermi.
«Sei pessimo». Lo insultai senza troppa
convinzione. La mia mente stava già visualizzando quello che sarebbe successo
di lì a poco se non avessi fatto nulla per impedirlo, e io non desideravo
altro, purtroppo; ne stavo diventando sempre più consapevole.
«Lo so». Si affrettò a dire, prima di
tirarmi in avanti e portarmi a sedere sulle sue gambe, facendo scattare la mia
reazione immediata.
Non ero mai stata in certi atteggiamenti
con un ragazzo, nessuno mi aveva mai stretta con la stessa forza e, anche se
qualcuno ci avesse provato, non glielo avrei certo permesso.
Eppure, con lui era tutto così diverso,
tutto così ampliato e forte, che mi sembrava di aver sprecato ogni singolo
istante dei miei diciassette anni di vita.
Razionalità, Giorgia, ci vuole razionalità
in questi casi! Mi rimproverai silenziosamente, pregando di essere capace di
allontanarmi quando fosse partito all’attacco.
Distolsi l’attenzione da lui e la rivolsi
all’enorme schermo dell’aula, sentivo tutto il fervore pronto ad esplodermi
dall’interno, dovevo prendere ancora un po’ di tempo…solo qualche secondo.
«Menomale che te ne rendi conto…».
Biascicai cominciando a giocare involontariamente con una ciocca dei suoi
capelli, di un biondo quasi dorato e morbida al tatto, come la seta della
camicetta che indossavo.
«In questi giorni non ho pensato ad altro che non fossi tu».
Confessò, probabilmente stordito anche lui dalla situazione, perché in
circostanze normali non l’avrebbe mai detto. E lo sapevamo entrambi, per questo
fu più forte di me correggerlo.
«A me o a quello che avresti voluto farmi?».
Lorenzo rimase in silenzio per un po’, senza darmi una risposta,
con lo sguardo vacuo ma sempre incatenato al mio.
Non eravamo mai stati così vicini, ma allo stesso tempo così
lontani; era quasi come tentare di scavare una fossa nel cemento. Inutile.
Tutto inutile.
«Che importanza ha?». Chiese dopo un po’ irrigidendosi. Si stava
richiudendo nella sua corazza di ferro, dura e impenetrabile, e a quel punto
era facile prevedere come sarebbe andata a finire.
«Per te nessuna, ovvio». Commentai ironica, alzando le spalle
per indicare la verità delle mie parole.
Con una rapida mossa mi afferrò da dietro la nuca, spingendomi
ad abbassare il viso sul suo, che per la prima volta vidi da quella
prospettiva.
Decisamente, quel gesto non me lo aspettavo, avevo fatto i
calcoli sbagliati e non potei fare a meno di pensare a quanto fossi
scioccamente felice di quel particolare.
«Giorgia». Mi richiamò esasperato, sfiorando impercettibilmente
le mie labbra con le sue quando le mosse
per parlare; ogni minimo contatto era fuoco e fiamme pure. Troppo da sopportare
in una volta sola.
«Non ti ho mai obbligata a fare niente, sbaglio?». Chiese
deciso, ma non c’era bisogno che rispondessi. «Perché continui a nasconderti,
allora? Perché diamine non vuoi ammettere quello che senti qui?». Continuò scuotendomi
leggermente le spalle, mentre mi posava una mano sul cuore.
«E, soprattutto…». Deglutii nervosamente, pregando che finisse
al più presto. «Perché ti ostini a ragionare con quel cazzo di cervello idiota
che ti ritrovi?».
Furono parole forti, che mi lasciarono di stucco, ma sentivo
ogni suo singolo dito bruciare sulla stoffa della mia camicetta, trascinando
quel calore insopportabile fino alla pelle sottostante e automaticamente il mio
cervello divenne nero…vidi solo lui.
«Lasciati andare…». Disse pianissimo, con voce calma ed ipnotica,
mentre strofinava il suo naso contro il mio, dolcemente, quasi timoroso. «Non
ti farò del male, questa volta».
Proseguì depositandomi un piccolo bacio sulle labbra, che si incollarono
alla sue alla perfezione, pronte a ricevere dell’altro.
Sentivo una scossa e un brivido dopo l’altro, avevo il corpo invaso
da una tensione tale da lasciarmi quasi senza fiato. Nonostante ciò, il bisogno
di respirare era passato in secondo piano. Mi apparve così chiara la scelta da
fare in quel momento, che arrivai persino a chiedermi perché avessi aspettato
tanto per metterla in atto.
Il futuro mi sembrava solo una macchia indistinta, lontana e
priva di significato; erano pensieri sciocchi, i miei, eppure mi ero arresa
all’evidenza che per una volta – e chissà quante altre ancora – il cuore
avrebbe avuto il sopravvento sulla testa.
«Rilassati…». Sussurrò
all’altezza del mio orecchio, cominciando a tracciare dei cerchi concentrici
sulle mie guance, mentre io cercavo di raggiungere la sua bocca per porre fine
a tutta quell’ansia che la troppa attesa aveva causato.
Ogni volta che stavo per riuscirci, però, lui si allontanava
sadicamente, sorridendo come un bambino che avesse appena vinto un sacchetto di
caramelle.
Quel tira e molla dopo un po’ divenne snervante, ma cercai di
far ricorso a tutta la pazienza che avevo in corpo per non mandare tutto
all’aria ancora una volta.
Se non fossi già partita per brividolandia probabilmente me ne
sarei andata da un pezzo, ma dopotutto era logico che non conoscesse i miei
difetti, per scoprirli – se gliene fosse davvero importato – c’era ancora tutto
il tempo del mondo, mentre quel bacio lo volevo subito.
Quando poco dopo rividi i suoi occhi, della cui vista mi aveva
privato per qualche tempo, seppi che le mie preghiere erano state ascoltate;
erano diventati di un nero quasi lucido, forse anche a causa del gioco di ombre
che creavano i nostri volti l’uno contro l’altro, e questo poteva voler dire soltanto che i
giochi erano finiti.
Come in un sogno, vidi i contorni del suo viso diventare sempre
più sfocati e incerti, meccanicamente chiusi gli occhi per cogliere al meglio
anche la minima sfumatura del dolce tepore delle sue labbra sulle mie, e,
quando finalmente lo sentii davvero, ogni mia aspettativa venne surclassata
all’istante.
Neanche la più fervida immaginazione, nemmeno il più bello dei
miei sogni, avrebbe mai potuto concepire qualcosa del genere; era fuoco e
ghiaccio allo stesso tempo, era luna e stelle nella stessa notte, era dolce e
incontrollato… era addirittura troppo per me.
Spinta da tutte quelle sensazioni contrastanti, arpionai le mie
mani sulle sue spalle con forza, mentre le sue si posavano sui miei fianchi per
farmi sistemare meglio su di lui, era ancora un semplice contatto, ma bruciava
già più dell’inferno.
Entrambi schiudemmo la bocca nello stesso istante e lì sentii
un’ulteriore ondata di agitazione farsi largo in me: era il mio primo, vero bacio e non
avevo la più pallida idea di come fare per non morire soffocata.
Dannazione, avrei dovuto informarmi prima, invece ero stata
troppo impegnata ad evitarlo…inutilmente, peraltro.
Il mio cuore prese a correre follemente, ma neanche per un
secondo mi passò per la testa l’idea di scappare da quella morsa carica di
elettricità che ci avvolgeva, dopotutto lui era un esperto, no? Avrebbe pensato
a tutto.
La mia testa vorticava in mille pensieri e non mi ero neanche
accorta delle delicate carezze con le quali stava cercando di farmi rilassare,
probabilmente aveva avvertito l’ansia da prestazione che mi aveva colto
all’improvviso e quello era il suo modo per dirmi che non c’era nessun
problema.
Con un movimento della bocca più ampio dei precedenti, fece in
modo che le mie labbra si separassero completamente, ma niente di quello che
stavo attendendo con ardore ed ansia si verificò.
«Cazzo, no…». Imprecò Lorenzo tra i denti, facendomi
aprire gli occhi di scatto, proprio quando mi ero preparata al peggio, o meglio
che dir si voglia.
Si staccò da me lasciandomi confusa e con
la mente persa, non capivo più niente, sentivo solo l’impellente desiderio di
riavvertire il calore del suo respiro contro il mio viso e lo maledissi
silenziosamente per essersi fermato. Avevo impiegato una vita per convincermi
che abbandonarmi alle sue attenzioni fosse la cosa migliore da fare, e lui,
come al solito, aveva mandato tutte le mie fragili sicurezze – appena raggiunte
– a quel paese.
Non feci in tempo a chiedergli spiegazioni
e ad arrabbiarmi, questa volta con l’intenzione di non stare a sentire nemmeno
le sue scuse, che mi tappò la bocca con una mano per poi tirarmi giù malamente,
sotto le sedie.
Cominciai a lamentarmi e a dimenarmi – con
qualche secondo di ritardo – ma ogni mio gemito di protesta venne soffocato dal
palmo della sua mano e per poco non rischiai di morire soffocata.
Quando mi calmai un po’, più per stanchezza
che per altro, e la smisi di agitarmi, si portò una delle dita della mano
libera sulle labbra, per farmi capire che dovevo stare zitta, dopodiché, con un
cenno del capo, mi indicò la porta dell’aula.
Afferrai saldamente la mano che mi impediva
di respirare correttamente e feci forza per un bel po’, finché Lorenzo non si
decise a toglierla a causa dei miei morsi, lanciandomi un’occhiata minacciosa
che diceva “questa me la paghi”.
Risposi al suo sguardo sollevando le
sopracciglia in segno di sfida e mi voltai verso la porta per vedere che cosa
stesse succedendo e soprattutto per scoprire quale fosse la causa
dell’interruzione.
Avrebbe fatto bene ad avere una valida
motivazione.
Dall’altro lato del vetro opaco si
intravedevano due sagome scure, intente a parlare e a gesticolare con fervore;
il panico mi assalì quando riconobbi in una di loro l’acconciatura inconfondibile
della professoressa Zanna.
Tornai a fissare Lorenzo preoccupata,
indecisa se chiedergli se si rendesse conto della situazione in cui ci eravamo
cacciati o meno, comunque pronta ad affibbiargli tutte le colpe di ogni
eventuale punizione, ma il suo sguardo saccente e superiore – che intendeva un
“visto?” piuttosto mal celato – mi diede parecchio sui nervi.
Feci per rispondergli per le rime – al
diavolo quella stronza della Zanna, per quanto mi riguardava poteva pure
scoprirci! – ma proprio in quel momento lei e la sua amica entrarono chiacchierando animatamente e io mi ritrovai, senza
possibilità di oppormi, con le labbra saldamente sigillate da quelle di
Lorenzo.
Tentai invano di liberarmi – sembrava ci
avesse messo l’attack! – e alla fine fui costretta alla resa: mi avrebbe
lasciata andare solo se fossi stata zitta.
«Siamo solo all’inizio dell’anno e già mi
fanno arrabbiare come una belva…non studiano neanche a pagarli!».
La voce acuta della Zanna riempì lo spazio
vuoto dell’enorme aula video e fu solo in quel momento che mi resi realmente
conto del pasticcio in cui mi trovavo: la mia impeccabile condotta rischiava di
essere macchiata per sempre. Lanciai un’occhiata fulminante a Lorenzo, su cui
gravava tutta la colpa, che mimò uno “scusa” divertito con il labiale, al quale
risposi con un gesto del dito contro al collo.
Eravamo accovacciati e praticamente
appiccicati l’uno all’altro, sentivo il suo profumo come se ce lo avessi
addosso io, ed ero di spalle al corridoio tra i due lati di sedie, perciò non
riuscivo a vedere nulla.
Non sentendo più alcuna voce, rivolsi a
Lorenzo un’occhiata interrogativa per chiedergli cosa stesse facendo la megera,
così chiamavamo la nostra amatissima professoressa di economia aziendale, e
sperai che capisse la mia tacita richiesta.
“Stanno andando al cassetto dei DVD”.
Riuscii a cogliere dal movimento delle sue labbra e quella notizia mi
tranquillizzò un poco, dato che il suddetto si trovava dal lato opposto al
nostro.
«Speriamo che almeno siano in grado di
prestare attenzione a questo film». Disse, infatti, poco dopo la Zanna, prima che
sentissi il rumore dei suoi tacchi pestare il pavimento senza alcuna grazia o
giustizia.
«Laura, non è mia intenzione dirti come ti
dovresti comportare, prendilo come un consiglio…». Disse l’altra, parlando con
una tale sottomissione che mi sembrò si stesse rivolgendo ad una specie di nuovo
Hitler.
La Zanna probabilmente annuì, perché la sua
collega proseguì tutta concitata. «Fai una verifica a sorpresa, vedrai come
funziona!». Suggerì soddisfatta di se stessa, ma era chiaro che non sapesse di
chi stava parlando, i miei compagni di classe non avrebbero studiato prima
dell’inizio del secondo quadrimestre, senza alcun dubbio, e infatti guardai
Lorenzo come a volergli trasmettere quel mio pensiero. Lui sembrò coglierlo
perché mi fece un gestaccio con la mano, piegando le labbra in un sorriso
inquietante, che voleva far intendere tutto il contrario di quello che pensava
veramente.
«Come se non ci avessi già provato gli
altri anni! Per fortuna quest’anno c’è una nuova studentessa che promette
benissimo, anche se ha cominciato a studiare economia solo da qualche mese;
sai, viene dal linguistico…».
Le mie orecchie si scollegarono non appena
prese a ciarlare di cose senza senso, troppo impegnate a trasmettere al mio
cervello le parole di lusinga nei miei confronti.
Sorrisi a Lore vittoriosa, ma lui sembrava
non badare alla mia dimostrazione di infantilità, infatti presto liquidò la
faccenda con la mano e spostò lo sguardo alle mie spalle, probabilmente per
controllare che le due uscissero.
Attesi il cigolio della porta arrugginita,
pregando che non gli venisse in mente di controllare qualcosa nel lato in cui
ci eravamo rifugiati; con la sfortuna che avevo, il mio timore avrebbe potuto
benissimo rivelarsi fondato, o quantomeno non lontano dalla realtà.
Quando finalmente le due comari si chiusero
l’uscio alle spalle tirai un sospiro di sollievo, staccandomi velocemente da
Lorenzo, prima che fosse troppo tardi, per poi rialzarmi e sgranchirmi le gambe
con un certo sollievo per i miei muscoli indolenziti.
Fu spontaneo portare due dita a sfiorarmi
le labbra, sulla quale sentivo il suo sapore, ancora insistente e tentatore, e
me ne vergognai tantissimo quando mi accorsi che il diretto interessato mi
stava fissando incuriosito.
«Non è come pensi!». Dissi quasi urlando,
bordeaux dall’imbarazzo e dimentica del fatto che le due professoresse fossero
appena uscite dall’aula. «Mi sono fatta un graffio e stavo controllando che non
uscisse più sangue».
Fu la pima scusa che mi venne in mente e
non sarebbe stata neanche tanto sciocca se avessi usato un po’ più di
convinzione e realisticità nel dirla.
«Ma io non ho detto niente, perché ti
scaldi tanto?». Commentò lui tranquillo, ma visibilmente sul punto di
scoppiarmi a ridere in faccia.
«’Fanculo Lore!». Gracchiai isterica, prima
di girare i tacchi e raggiungere la porta…o almeno provai a farlo, perché
quell’essere odioso mi impedì il passaggio, parandomisi davanti come un armadio
a muro.
Dovetti alzare la testa fino al limite per
poterlo guardare in faccia e non concentrare lo sguardo sul suo petto, non che
mi dispiacesse, ma non era certamente buona educazione, e io – fino a prova
contraria – educata lo ero davvero!
«Dove credi di andare, scusa?». Disse
serrando le labbra nella sua tipica espressione minacciosa.
«Dove dovresti andare anche tu: in
classe!». Risposi cercando di risultare il più indifferente a lui possibile,
incrociando persino le braccia al petto, ma tradendomi con il solito tremore
che caratterizzava perennemente la mia voce quando parlavo con lui.
Lorenzo sbuffò sonoramente, scuotendo la
testa in quello che doveva essere il suo modo per esprimere quanto fosse
esasperato.
«Lo immaginavo». Sospirò avvicinandosi di
un passo, e quindi riducendo le distanze al nulla. «E cosa hai intenzione di
dire alla prof, una volta che ti presenti in classe a…». Si fermò un attimo per
dare una fugace occhiata all’orologio che portava al polso. «…ben mezz’ora
dall’inizio della lezione?».
Accertatami che non mi stesse prendendo in
giro sull’orario – perché ne sarebbe stato davvero capace – cominciai a
sbattere furiosa per terra.
«Hai idea di cosa voglia dire questo?!».
Gli chiesi alzando ulteriormente la voce, mentre dalla mia testa aveva
cominciato ad uscire il fumo della rabbia che avevo in corpo.
«Che sarai costretta a portare una
giustificazione per il ritardo?». Fece lui alzando le spalle, come se fosse una
cosa normale; be’, dopotutto per lui lo era davvero, considerando che il
coordinatore aveva già avvertito i suoi genitori dei ripetuti ritardi.
«Esatto! Macchierò il mio libretto di
immaturità e tutto per colpa tua!».
Lorenzo aggrottò le sopracciglia
pensieroso. «Mi stai dando dell’immaturo, tra le righe, per caso?».
«Togli anche il “tra le righe”». Dissi
mimando le virgolette nell’aria, sperando di farlo arrabbiare almeno un po’; mi
ero stancata di essere sempre io quella adirata.
Ma, come non detto, la mia offesa sembrò
produrre l’effetto contrario; in un secondo mi ritrovai ancora una volta tra le
sue braccia e con il viso schiacciato contro il suo addome.
Oh Santo Cielo, era ingiusto!
«Che fai?». Dissi con voce strozzata e
isterica, cominciando a dimenarmi per fargli sciogliere la presa, tirandogli
tanti di quei pugni che avrei potuto fare invidia ad un boxeur.
«Sei ancora più bella quando ti arrabbi».
Sussurrò contro il mio orecchio, incurante e immune ai ripetuti colpi che gli
stavo dando, e strofinando contemporaneamente il naso sui miei capelli.
«Che cosa?!». Strillai cercando di
nascondere la vera conseguenza che quella confessione aveva avuto su di me. «Ma
dico, ti è dato di volta il cervello?».
«Mamma mia, che petulante che sei!».
Esclamò Lorenzo staccandosi infastidito. «Ti offendo e non ti va bene, ti
faccio un complimento e impazzisci…ma che problemi hai?».
«Ovvio, se dici cose senza senso…».
Balbettai distogliendo lo sguardo dal suo, non ero più tanto sicura di voler
essere arrabbiata con lui e il che era un brutto segno, significava che il suo potere aveva cominciato ad avere effetto
su di me.
Feci automaticamente qualche passo
indietro, conscia che se avessi aspettato ulteriormente mi sarei lasciata
andare di nuovo e quello decisamente non era il momento adatto.
«Che ti prende, ancora?». Chiese Lorenzo,
scompigliandosi i capelli, probabilmente li usava come anti stress, anche se non
capivo perché fosse lui a comportarsi da stressato, quando l’unica ad esserlo –
in realtà – dovevo essere io.
«Tengo le distanze». Risposi facendo un
sorriso finto, cercando di smorzare il significato delle mie parole.
Lorenzo roteò gli occhi spazientito. «Che
palle, stiamo solo perdendo tempo! Anziché stare qui a discutere, avremmo
potuto riprendere da dove siamo stati interrotti, fin dall’inizio».
Allungai le mani in avanti, per prevenire
qualunque tipo di attacco, che sarebbe arrivato da un momento all’altro. «Scordatelo».
Lorenzo si bloccò nel bel mezzo di un passo
in mia direzione e i suoi occhi cominciarono a mandare scintille di ira. Lo
stavo facendo innervosire, finalmente, e la cosa non mi dispiaceva affatto.
«La coerenza è proprio il tuo forte…».
Disse con la lingua tra i denti, forse per evitare di insultarmi, e per una
volta fui felice del fatto che fosse lui quello ad essere confuso dal mio
atteggiamento, e non viceversa.
«Oh, oh, oh!». Sbottai nel vano tentativo
di accusarlo, ma finendo per fare una pessima imitazione di Babbo Natale. Mi
ripresi in fretta da quei pensieri inutili ed aggiunsi il resto della frase,
sperando di salvarmi in corner da una ormai prossima figuraccia. «Ha parlato
Mister Coerenza 2010».
«Mi hai stancato. Fai quel cazzo che ti
pare». Sputò lui con veemenza, riandandosi a sedere con stizza sulla sedia
rossa accanto alla quale avevo lasciato il mio zaino.
Nonostante mi avesse lasciato libero il
passaggio e fossi completamente libera di tornare in classe, rimasi immobile
con ancora un dito puntato in direzione della porta, colta alla sprovvista
dalla sua reazione.
Avevo ottenuto la sua indifferenza, non era
quello che volevo e avevo sperato per tutte quelle due settimane di fuga?
No, dannazione, no! Solo Dio sapeva quanto
anche io desiderassi quel maledetto bacio, solo che non volevo ammetterlo e
alla prima occasione scappavo dalla consapevolezza della dipendenza che avevo
da lui, e di cui mi rendevo conto ogni volta che passavamo del tempo insieme.
Feci un passo avanti timorosa, ma alla fine
desistetti dal proposito di farne altri dal momento che non avrei saputo cosa
dirgli.
Accidenti, era tutto così complicato! Quasi
quasi rimpiangevo i tempi in cui mi disprezzava nel modo più assoluto, e quello
non era assolutamente un pensiero che sarebbe passato per la testa ad una
persona sana di mente.
Sebbene ci fossero parecchie sedie – anche dal lato opposto a quelle su cui lui si
era sdraiato - alla fine mi sedetti per
terra, incrociando le gambe e prendendomi la testa fra le mani.
Se Lore non si fosse accorto della Zanna
saremmo stati, senz’ombra di dubbio – ancora impegnata in quel bacio che, per
un motivo o per un altro, non riuscivamo mai a concludere. Lo volevo, e lo
sapevo, ma qualcosa mi impediva di lasciarmi veramente tutto alle spalle e
abbandonarmi completamente a lui, perciò alla prima occasione tornavo a
chiudermi nel muro di castità che mi ero costruita intorno.
Non volevo soffrire, ma neanche in quel
modo, distante da lui e dal tepore del suo corpo, stavo bene…quindi, che cosa avrei dovuto fare?
Quando la campanella della seconda ora
suonò, chissà quanto tempo dopo, andai a recuperare lo zaino, posato
ordinatamente accanto a Lorenzo, e, di conseguenza, i nostri sguardi si
incrociarono di nuovo. I suoi occhi erano vividi e la sua bocca serrata, come a
voler sopprimere qualunque parola gli venisse in mente di dire, era come un
monito, quello, da parte sua, che se avessi voluto chiarire non era il momento
adatto per farlo.
“Attenzione, potrei ferirti”. Stava cercando
di dirmi, ed io – per quella volta – decisi di non rischiare.
Presi un profondo respiro per riempirmi –
un’ultima volta – i polmoni del suo profumo e gli voltai le spalle, uscendo
dall’aula senza aspettarlo. Non avrebbe avuto senso…ma cosa aveva un senso ormai, nella mia vita sentimentale?
Mi diressi cautamente verso la vicepresidenza
per farmi fare il permesso di entrata posticipata, controllando costantemente che
nessuno potesse intuire da dove venissi e, finché non giunsi al terzo piano,
continuai a guardarmi indietro, senza sapere bene alla ricerca di che cosa, mentre
il chi era chiaro come l’acqua.
Entrai in classe pronta all’umiliazione che
avrei subito di lì a poco, era un evento più unico che raro che io entrassi
un’ora dopo e tutti ne avrebbero approfittato per fare battutine e deridermi,
anche se non avrei scommesso nulla sulla partecipazione del capo gruppo all’opera di annientamento e
umiliazione nei miei confronti, non quando sembrava incazzato con il mondo.
«Mori, domani la giustifica». Mi ricordò
l’insegnante prima che andassi a sedermi e cominciai a sperare che si sbrigasse
a cominciare la lezione: almeno avrebbe tenuto impegnate quelle vipere pronte
ad assalirmi.
«Ehi, dov’è Lore?». Bisbigliò Davide al mio
fianco, facendo finta di nulla, come se non fosse stato lui a tendermi una
perfida trappola solo un’ora prima.
Lo fissai in cagnesco per un brevissimo
istante – facendolo ritrarre immediatamente con sguardo spaventato – dopodiché
tornai a rivolgere la mia attenzione alla lavagna, cercando di isolare i
risolini divertiti dei miei compagni di classe.
Ignorai beatamente tutti i tentativi, da
parte del mio nuovo compagno di banco, di rivolgermi la parola o chiedermi
scusa, anche se in realtà l’avevo già perdonato da un pezzo.
Non che ci fosse molto da perdonargli,
comunque, sapevo che le sue intenzioni erano buonissime, l’unica colpa che
potevo fargli era quella di aver scoperto il mio segreto senza che gli dicessi
nulla.
Qualche minuto dopo, mentre la
professoressa sceglieva i due
interrogati del giorno, tra l’ansia e le preghiere generali, Lorenzo fece il
suo ingresso trionfale, senza neanche dire “buongiorno” e dando pugni e pacche
sulla schiena – in segno di saluto – a destra e a manca. Era una scena
agghiacciante. Possibile che quegli sciocchi dei suoi amici non si rendessero
conto di quanto risultassero ridicoli agli occhi degli altri?
Quando arrivò il turno di Davide, distolsi
immediatamente lo sguardo, cominciando a scarabocchiare qualcosa sul mio
quaderno e per un momento sentii i suoi occhi puntati su di me, prima che si
andasse a sedere, finalmente.
«Belli, quando hai finito di fare la tua
sfilata avvisami che inizio la lezione». Lo rimproverò l’insegnante sarcastica,
ma nessuno – eccetto la mia controparte maschile, Matteo Bavieri – trovò la sua
uscita divertente.
E la cosa più spaventosa di tutte era che
fino qualche giorno prima c’ero io a fargli compagnia.
«Ho finito». Annunciò Lore con la sua
solita spocchia, una volta sistematosi comodamente al suo posto e causando le
risa di tutta la classe, a parte quelle mie e di Bavieri.
Almeno quell’aspetto era rimasto invariato,
seppur con qualche differenza: in genere mi montava la rabbia quando affermava
cose del genere, mentre il quel frangente mi limitai ad osservare il tutto con
scarso interesse.
La professoressa si alzò con un movimento
talmente veloce che non mi resi conto di nulla finché non parlò minacciosa.
«Dato che hai voglia di fare lo spiritoso,
perché non vieni a fare un esercizio alla lavagna? Con valutazione,
ovviamente».
E lì mi sarei alzata per farle una standing
ovation, se Lorenzo non mi avesse rincitrullita del tutto nei giorni passati.
Nell’aula calò un silenzio spettrale e
temetti che da un momento all’altro qualcuno si offrisse al posto suo pur di
salvargli il didietro, ne sarebbero stati davvero capaci e la cosa mi
inquietava parecchio.
Per fortuna non ebbi modo di assistere a
quello spettacolo indecoroso, perché sentii lo stridio delle gambe di una sedia
contro il pavimento ed immediatamente dopo la sua voce, segno che per una volta
avrebbe evitato il sacrificio di uno dei suoi scagnozzi.
«Okay». Rispose con tranquillità assoluta e
– se non lo avessi conosciuto bene – avrei pensato che fosse preparato sul
serio.
«Dai, Giò, quante volte ti devo chiedere
scusa?».
Era più o meno la millesima volta che
Davide mi poneva quella domanda e, altrettante volte, gli avevo risposto nello
stesso modo.
«Ti ho già perdonato, ma lasciami in pace,
non ho voglia di parlare con nessuno adesso».
«Sei arrabbiata perché ho scoperto che ti
piace Lore?». Domandò naturalmente, come se stesse ordinando pizza e patatine
ad una rosticceria e non parlando del tormento dei miei ultimi sette anni di
vita.
«Non mi piace Lore!». Sbraitai forse troppo
risentita per poter risultare sincera, ma dopotutto neanche io sapevo la verità,
perciò ero giustificata.
Davide piegò un sopracciglio e si avvicinò
alla macchinetta automatica per prendere il suo caffè delle 11.15 del mattino –
diceva che ne aveva bisogno per stare sveglio a scuola -, così mi rilassai
ritenendo chiusa la questione Lorenzo.
«Sei una pessima bugiarda». Disse in tono
pacato, prima di cominciare a sorseggiare quella schifosa bevanda che si
ostinava a bere senza zucchero. «Ma non ho intenzione di giudicarti, dato che
non conosco tutti i dettagli della storia. Credo ci sia qualcosa di forte
sotto, che va ben oltre il fatto del piacersi o meno, mi sbaglio?».
Stetti in silenzio per un po’, non sapendo
bene cosa dirgli dato che ci aveva azzeccato in pieno. Infine, la curiosità
ebbe il sopravvento.
«Lui…lui non ti ha detto nulla di me? Siete
amici da parecchio tempo da quanto ne so…». Domandai nervosamente, tenendo lo
sguardo abbassato per evitare di guardarlo negli occhi. Sapevo di potermi
fidare di lui, in un certo senso, ma non mi piaceva aprirmi troppo con le
persone, specialmente se dell’altro sesso.
Davide inizialmente rimase sorpreso dalla
mia domanda, poi fece un sorriso amaro, di quelli in cui ci apriamo quando
ricordiamo qualcosa di triste e felice allo stesso tempo; avevo imparato a
riconoscerli molto bene, dato che ormai per me – quando pensavo a Lorenzo –
erano un habitué.
«Scherzi? Lore non parla mai delle persone
a cui tiene veramente».
«Ma lui non ci tiene a me, per nulla.
Altrimenti non…». Mi interruppi conscia che, se avessi continuato, avrei
rivelato parte di ciò che non volevo sapesse; non ancora, almeno.
«Fidati di me, Giò, lo conosco meglio di
chiunque altro. L’ho sentito raccontare cose inimmaginabili sulle ragazze che
si è…ehm, che ha frequentato, ma mai una singola parola su di te. Pensa che
nessuno sapeva che vi conoscevate già, prima di quest’anno, ed è chiaro che non
gli sei indifferente, perciò…».
«Ehi, ehi, aspetta…». Lo interruppi prima
che il mio cervello avesse troppo a cui pensare. «Punto primo, avresti potuto
tranquillamente dire “portato a letto”, non mi scandalizzo, sai? E punto
secondo, logico che non te ne abbia mai parlato, si vergogna di me perché non
sono come le gran fighe che si fa di solito».
Feci una smorfia disgustata e proseguii:
«Sul fatto che non gli sono indifferente, chi può dirlo con certezza? Per
quanto ne so, potrebbe rientrare tutto in una scommessa».
Davide agitò le mani con disappunto. «Lore
non lo farebbe mai per soldi».
«Forse non lo conosci abbastanza».
Era stato capace di ferirmi senza alcuna
pietà per molto tempo, niente gli avrebbe impedito di farlo di nuovo.
Scossi la testa rassegnata e mi voltai per
tornare in classe; mi dispiaceva avergli detto quelle cose, in fondo però non
era colpa di nessuno, se non di Lorenzo, che era stato indubbiamente molto
bravo nel nascondere i lati peggiori del suo carattere ai suoi amici. Se li
avessero conosciuti, ora probabilmente sarebbe solo.
«E tu sì?». Mi raggiunse la voce affaticata
di Davide, quando ormai ero all’ultima rampa di scale. «Tu lo conosci?».
Mi bloccai nell’esatto momento in cui suonò
la campanella. Di lì a poco tutti avrebbero ricominciato a salire come bufali per
non arrivare in ritardo alla lezione, compreso lui, perciò dovevo decidere in
fretta se ignorare la sua domanda oppure provare a rispondergli.
Alla fine optai per la seconda scelta,
anche se avrei dovuto fare un discorso lungo un decennio per essere davvero
esauriente.
«Non lo so, ma mi piacerebbe tanto capire che
cosa gli passa per la testa».
Le restanti ore scolastiche passarono abbastanza in fretta, io e
Davide avevamo accantonato l’argomento Lorenzo ed eravamo tornati a comportarci
come al solito; punzecchiandoci a vicenda e parlando del più e del meno.
Non mi ero ancora fermata a pensare seriamente al rapporto che
si stava instaurando tra di noi, eppure sapevo che stavo cominciando ad
affezionarmi a lui…la prima persona che era riuscita ad avvicinarmi dopo
l’enorme delusione subita con la fine dell’amicizia con Lore.
La cosa che più mi piaceva di Davide era la sua discrezione, se
vedeva che una domanda mi metteva troppo in difficoltà, allora la cambiava
immediatamente; con lui mi sentivo a mio agio, niente era forzato, e
soprattutto non sentivo il bisogno di scappare.
«Mori, Vinci, volete renderci partecipi della vostra
discussione?».
Ultima ora del martedì, Economia aziendale, Professoressa Zanna.
«Ehm…ci scusi, prof, noi stavamo…». Tentai di giustificarmi, ma
era la prima volta che un insegnante mi rimproverava perciò ero troppo inesperta
per poter inventare una scusa accettabile. La verità era che la lezione era
talmente noiosa che per evitare di addormentarmi mi ero messa a giocare a tris
con Davide.
Un momento, ero io che stavo pensando quelle cose? Ero io che
avevo preferito giocare piuttosto che seguire la lezione? L’unica spiegazione
plausibile era che qualcuno si fosse impossessato di me.
«Veda prof, stavamo parlando di quanto le sta bene questo nuovo
taglio di capelli». Vedendomi in difficoltà, Davide arrivò in mio soccorso, ma
il suo tentativo di addolcire la temibile Zanna risultò decisamente falso,
persino alle mie orecchie.
«Vinci, sono nata prima di te». Lo redarguì la suddetta,
picchiettando impazientemente le dita sulla cattedra, chiaramente in attesa
delle sue scuse.
Ma Davide sembrava perso nello spazio, impegnato a pensare a che
cosa volesse sentirsi dire; ero certa che di lì a poco la megera sarebbe
esplosa, perciò gli tirai una gomitata sul fianco e scrissi con nonchalance la
parola “scusa” sul suo banco.
Lui, inizialmente sorpreso da quel mio gesto, ci mise poco a
collegare il tutto e – sfoderando un sorriso da orecchio a orecchio – le porse
le sue scuse con fare cavalleresco.
La classe scoppiò a ridere – io e Bavieri inclusi – per la
pessima interpretazione di Davide, tuttavia – per Grazia Divina – la prof
lasciò correre tutta la faccenda, limitandosi a ricordarci dell’imminente
verifica, prima di rivolgersi a me con disapprovazione.
«Mori, da te non me l’aspettavo un comportamento del genere».
Quelle parole furono l’ennesima pugnalata al cuore in pochi
giorni, un’ulteriore conferma del fatto che non ero più la stessa; ora il
problema era capire se stessi cambiando in meglio oppure no.
Il pullman del ritorno era pieno zeppo di studenti, segno che
probabilmente aveva saltato la corsa precedente, e non poteva esserci modo
peggiore di terminare la giornata se non quello di essermi ritrovata
praticamente appiccicata Lorenzo.
Accidenti, se lo avessi visto alla fermata non mi sarei di certo
messa dietro!
L’unica cosa positiva, anche se non sapevo fino a che punto
potessi considerarla tale, era che mi stava ignorando completamente; sembrava
che non esistessi per lui, che la vicinanza dei nostri corpi non gli facesse
più alcun effetto, perciò rimasi ad ascoltare i suoi discorsi chiaramente volti
a conquistare le ragazze intorno e le scemenze che continuava a dire con i suoi
amici. Ne sentii davvero troppe in quei venti minuti scarsi di tragitto, tanto
che ad un certo punto tirai fuori il mio amato ipod per coprire le loro voci ed
isolarmi da tutta quella confusione.
La situazione poteva anche non essere così grave, se confrontata
ad altre ben peggiori in cui mi ero trovata, almeno finché l’autista non decise
di frenare bruscamente e farmi sbattere letteralmente contro di lui, rischiando
di farlo cadere a terra…e lì si che sarebbero stati guai.
«Scusa, scusa, scusa!». Esclamai in preda all’agitazione,
congiungendo persino le mani per supplicare il suo perdono. Quel ragazzo mi
metteva in soggezione, non perché avessi paura di lui – di certo non mi avrebbe
uccisa! – ma gli ultimi avvenimenti mi avevano fatto sviluppare una sorta di
timore nei suoi confronti.
Non sentendo alcuna risposta, sollevai leggermente una palpebra
per controllare che non mi stesse mandando maledizioni silenziose, ma quello
che vidi mi lasciò di stucco.
Mi stava guardando come se fossi pazza, con un sopracciglio
sollevato e la bocca dischiusa nel tentativo di dire qualcosa; sembrava quasi
in trance e non potei fare a meno di provare un pizzico di felicità per quella
reazione insolita.
«È tutto okay». Sussurrò impercettibilmente, riprendendosi con
un battito di ciglia più forte degli altri; aveva le mani ancora strette
intorno alla mia vita, nell’assurda, stessa posizione che avevano assunto
quando gli ero piombata addosso e – per un istante – sperai che non le
togliesse mai più.
Ovviamente non passarono neanche due secondi prima che mi
lasciasse andare e tornasse ad ignorarmi, quando invece io non desideravo altro
che parlargli. Ma ormai mancavano solo poche fermate e avrei facilmente
resistito all’incontrollabile impulso di riabbracciarlo.
Quando scesi dal pullman andai dritta per la mia strada, senza
voltarmi mai indietro. Volevo evitare di rimanere sola con Lorenzo, perché
sapevo perfettamente come sarebbero andate le cose, se non lo avessi fatto:
avremmo ignorato il fatto di essere in mezzo alla strada – o anche nelle scale
del nostro palazzo – e ci saremmo scambiati quel bacio, il cui desiderio mi
stava praticamente uccidendo.
Quello che continuavo a chiedermi era quanto ci avrei perso una
volta che avessi combinato il danno. La parte razionale di me rispondeva
“tutto”, mentre l’istinto mi suggeriva l’esatto contrario. Era una terribile
lotta interiore, che stava rischiando di mandarmi in pappa il cervello – al
punto che in preda all’esasperazione ero arrivata alla conclusione che stavo
vivendo lo stesso conflitto interiore di Petrarca, il suo famoso “dissidio”.
«Ehi, ti vuoi fermare?».
Quando sentii la sua voce ci misi un po’ per rendermi conto che
fosse la realtà e non un frutto della mia immaginazione. Mi bloccai all’istante
e attesi che mi raggiungesse, certa che quella volta niente e nessuno ci
avrebbe fermati, potevo farlo solo io e…no, non volevo.
Lo guardai per un po’ incerta, non sapendo esattamente cosa dire
o fare, credevo che per lui la questione fosse chiusa, che lo avessi fatto
arrabbiare irrimediabilmente, e i suoi occhi, in quel momento vuoti e freddi,
non facevano altro che confermare la mia ipotesi.
«Hai vinto tu». Disse secco, allargando le braccia e poi
alzandole in segno di resa.
In quei secondi di silenzio mi ero preparata a sentire qualunque
cosa – ti odio, ti voglio bene,
perdonami, non farti vedere mai più – ma mai e poi mai mi sarei aspettata che
se ne uscisse con una cosa del genere.
«Come?». Domandai confusa, facendo istintivamente un passo verso
di lui.
«Hai vinto». Ripeté, questa volta più deciso. «Non cercherò più
di baciarti, ti lascerò in pace».
Assimilai lentamente il significato di quelle parole e quando me
ne resi conto non riuscii a dissimulare la mia reazione, forse esagerata.
«Lore, qui non si tratta di vincere o perdere». Gli spiegai, cercando
di trattenere il nervosismo. «Perché devi sempre sminuire tutto in questo
modo?».
«Perché non mi piace rincorrere le ragazze, sono loro che cadono
ai miei piedi, e con te ho perso fin troppo tempo».
Era quel suo modo di esprimersi, come se i sentimenti – sia suoi
che degli altri – non avessero alcun senso, che mi faceva arrabbiare più di tutto.
«Sei proprio pessimo». Lo accusai, pronta a cedere all’ira da un
momento all’altro.
«Credo che tu me l’abbia già detto questo». Ribatté facendo un
sorriso ironico, che servì da meccanismo per far scattare la molla della mia
pazienza.
Per la prima volta in tutta la mia vita tirai un ceffone a
qualcuno. Non mi sentii fiera di aver lasciato l’impronta delle mia dita su
quella guancia che avevo sfiorato parecchie volte e che una volta ero solita
riempire di baci, ma perlomeno anche lui avrebbe provato un po’ di dolore.
Si portò la mano nel punto in cui l’avevo colpito, guardandomi
come se fosse indeciso tra il ricambiare il favore e l’uccidermi direttamente;
alla fine lo vidi rilassarsi lentamente, per poi portare le mani in tasca e
tendere le labbra in un sorriso forzato.
«Molto coraggioso da parte tua, avresti potuto essere la prima a
farlo se Rebecca non ti avesse preceduta».
Deglutii un paio di volte, prima di ricacciare dentro l’impulso
di cominciare ad insultarlo. «Sicuro di non aver nient’altro da dire?».
Lorenzo si fece serio un attimo, nel vano tentativo di
riflettere, dopodiché scosse la testa e fece spallucce, ritrovando la stessa,
finta allegria di poco prima. «Io credo
di aver già detto abbastanza».
Ci misi un po’ ad accettare quelle parole, avevo appena avuto la
conferma che il suo comportamento sarebbe rimasto per sempre un arcano per me,
eppure non me la sentivo di fargliene; ero certa che ci fosse una spiegazione –
nascosta da chissà quale parte nel suo cuore – a tutta quell’indifferenza con
cui mascherava il vero se stesso.
«Allora la finiamo qua?».
Questa volta lo avrei posto io davanti ad una scelta, sebbene sapessi
che in realtà l’aveva già compiuta.
«Non vedo perché continuare». Rispose lui con tranquillità,
mostrando la solita indifferenza che alcune volte gli invidiavo.
Sospirai e gli rivolsi un sorriso più falso di una banconota da
trentordici euro.
«Nessun rancore?».
«Nessuno, certo».
«Perfetto».
«Va bene».
«Allora ciao».
Dopo quelle battute monosillabiche – degne di una discussione
tra bambini – Lorenzo mi congedò con un cenno del capo.
Non gli chiesi perché non avesse intenzione di fare la strada con
me fino a casa, non sentivo di avere il diritto di farlo, anche se teoricamente
avevamo troncato tutto con la promessa di non odiarci troppo.
«Giorgia». La sua voce mi giunse fin troppo vicina, possibile
che avessi camminato così poco?
Mi voltai più per controllare che non fossi del tutto matta, che
per sentire quello che aveva da dirmi, ma quando lo feci mi venne in mente la
solita regola numero uno che dimenticavo perennemente di rispettare quando ero
con lui.
«Vaffanculo all’orgoglio maschile». Imprecò malamente, prima di
afferrarmi con forza e trascinarmi dall’altro lato della strada, contro il
solito muro che aveva fatto da sfondo ai miei sogni più accesi in quell’ultimo
periodo.
Il tempo che intercorse dal momento in cui sentii la ruvida
superficie di cemento a contatto con la mia schiena, a quello in cui mi
avvinghiai a lui, come se fosse la mia unica speranza di salvezza, fu
praticamente inesistente, e solo quando sentii le sue labbra appropriarsi con
impeto delle mie capii che era esattamente tra le sue braccia che volevo stare.
Senza dubbi, senza incertezze.
Questa volta neanche un uragano avrebbe potuto fermarci, lo
capivo dal modo in cui mi stava baciando, come se fosse davvero disposto a
rinunciare al suo orgoglio per poter essere mio – e farmi sua – anche se solo per
qualche secondo.
Le sue mani avevano cominciato a percorrere distrattamente tutta
la superficie delle mie spalle per poterle marchiare con delle profonde carezze
che – ero certa – non avrei mai dimenticato e, di tanto in tanto, quando le
nostre lingue venivano accidentalmente a contatto, lo sentivo affondare senza
remore le dita nella mia pelle, coperta dal cappotto che ormai mi aveva
slacciato fin sotto al seno.
Quando mi dischiuse le labbra con le sue, ponendo finalmente
fine all'incessante, e ormai opprimente, desiderio di sentire completamente il
suo sapore, mi lasciai sfuggire un sospiro più profondo degli altri che lo fece
ridacchiare leggermente; ma non vi badai granché, mi lasciai guidare da quel
vortice infinito di emozioni che si stavano susseguendo una dopo l'altra e in
cui non avevo potuto far altro che perdermi.
Sentivo il suo fiato corto, così come lo era il mio,
solleticarmi il viso e nella foga generale distinsi un debole sorriso storto
piegargli le labbra, prima che mi sollevasse le braccia sopra la testa e
stringesse le mie mani nelle sue, con una tale forza che quasi temetti potesse
farmi male.
A quel punto, l'unica cosa che riuscii a fare fu lasciare che la
passione distruggesse ogni mia forza o convinzione, mentre le sue labbra
cercavano insistentemente le mie trascinandomi in un circolo vizioso che,
sapevo, non avrebbe avuto più fine.
I battiti del mio cuore avevano raggiunto la frequenza dei
decimi di secondo, li sentivo premere contro il mio cervello con la stessa
intensità di un martello pneumatico. Non avrei mai interrotto quel momento di
pura follia, nemmeno se avessi avuto la certezza che quel bacio non
significasse nulla per lui; perciò, quando sentii la sua lingua disegnare
ripetutamente i contorni delle mie labbra e premere contro di esse per farle
schiudere, non opposi alcuna resistenza e lasciai che raggiungesse la mia, alla
quale si intrecciò in una morsa che mi lasciò senza fiato.
Non avevo mai provato tutte quelle sensazioni nello stesso
momento - piacere, ansia, vertigini, desiderio che non smettesse mai - e fu
assolutamente appagante lasciarsi trasportare dall'istinto e dall'urgenza che
avvertivamo in quel momento.
Il suo sapore sulla mia lingua era dolce e buono, non avrei mai potuto
immaginarlo così forte e delicato allo stesso tempo.
Lore non smise un solo secondo di muovere la sua bocca contro la
mia, nemmeno quando l'aria nei polmoni si era completamente esaurita e
riuscivamo a respirare solo per miracolo.
L'irruenza del bacio scemò a poco a poco, per lasciare posto a
movimenti lenti e studiati, accompagnati di tanto in tanto da dei piccoli morsi
dispettosi che aumentavano progressivamente la voglia che avevamo l'uno
dell'altro.
Non appena riaprii gli occhi, trovai i suoi intenti ad
osservarmi attentamente; e, quando si accorse che anche io avevo cominciato a
fissarlo, mi rivolse un mezzo sorriso dolce, che mi sorprese quanto l'appena
accennata carezza sulla mia guancia. E in quel momento capii che non avrei mai
potuto fare a meno di lui, dei suoi sorrisi, dei suoi baci, del suo tocco; ne
ero insanamente dipendente e ormai era troppo tardi per qualunque tentativo di
evasione dalla realtà.
Non sapevo cosa mi avesse spinto tutti quegli anni ad aspettare
che tornasse quello di un tempo, e probabilmente non sarebbe mai successo, ma
ero certa che una parte del mio cuore fosse sempre stata indissolubilmente
legata a lui, così come ero convinta che la stessa si fosse rifiutata di
allontanarsi dal suo ricordo. Non sapevo dire se ciò fosse una cosa positiva o
meno, avevo sofferto tanto e a lungo, ma mi bastava leggere nelle sue iridi più
fredde e chiare del vetro per capire che mi sarebbe sempre mancato qualcosa se
non avesse fatto parte - in qualche modo - della mia vita.
«Sicura che fosse il tuo primo bacio?». Mi chiese con voce roca
e spezzata. «Forse dovrei accertarmene ancora una volta...». Soffiò, portandomi
una ciocca di capelli dietro l’orecchio, prima di riprendere a baciarmi con maggiore
frenesia e audacia.
Più sentivo il suo sapore mischiato al mio e più desideravo
assaggiarlo ancora e ancora; continuammo ad alternare baci passionali a
semplici e quasi teneri contatti tra le nostre labbra, ormai rosse e gonfie a
causa dei morsi.
Non saprei dire quanto tempo restammo lì, fregandocene della
possibilità che potesse arrivare qualcuno - magari mio padre di ritorno dal
lavoro - e vederci avvinghiati e intenti a baciarci come due assatanati, ma
quando ci staccammo ansanti, riconobbi solo felicità nel battito accelerato del
mio cuore; nessun rimpianto o pretesa di spiegazioni, solo la gioia di essergli
appartenuta per qualche minuto.
Restammo in quella posizione ancora un po’, lui con il viso
poggiato sull'incavo del mio collo e io con le braccia incatenate alle sue
spalle, dopodiché mi stampò un ultimo fugace bacio all'angolo della bocca e si allontanò
da me lentamente.
Una volta che mi fui ripresa dall’annebbiamento totale del mio
cervello, mi chiesi se lo stesso sorriso che aveva stampato in volto si stesse
riflettendo anche sul mio. E quasi mi spaventai nel vederlo ancora più bello
del solito, con le labbra lucide e rosse e i capelli più aggrovigliati di un
mucchio di paglia.
Ero certa che entrambi provassimo la stessa, identica cosa in
quel momento – confusione, sollievo,
incredulità – così come non avrei scommesso un centesimo sulla possibilità che
lo avrebbe dato a vedere.
Piano piano stavo cominciando ad accettare parte dei suoi
difetti e, giusto o sbagliato che fosse, l’unica cosa a cui riuscivo a pensare
era che se il comprenderlo portava a tutto quello che ero riuscita a provare
con quel bacio, allora non avrei mai più smesso di farlo.
Altro che “tre metri sopra al cielo”, contro quel cielo io ci
avevo completamente sbattuto la testa; ed ero finita direttamente in Paradiso.
Ma ora, chi diavolo mi avrebbe tirato giù, facendomi tornare con
i piedi per terra?
In quel momento non mi importava, eppure più avanti mi sarei
maledetta per la leggerezza con cui avevo deciso di affrontare la situazione.
Note:
Tadan, rieccomi qui!
Chiedo scusa per il ritardo, ma alla fine ce l'ho fatta ç_ç (È questo l'importante, no?)
So che probabilmente nessuno ha sentito la mia mancanza (XD)
però lasciatemi credere che stavate attendendo
l'aggiornamento con ansia e che non ce la facevate più ad
aspettare...almeno un po' ç_ç
Spero di essermi fatta perdonare con la lunghezza straordinaria del
capitolo (praticamente il doppio dei precedenti!) e con il fattaccio
eheheh :P
Sono successe un bel po' di cose, ma la storia richiedeva tutto questo
movimento per giungere al punto che mi sono prefissata e ho dovuto
farlo!
Dal prossimo capitolo, il rapporto che lega i nostri due cari
protagonisti cambierà...e come non potrebbe, dopo quello che
hanno combinato?!
Il problema è capire se in positivo o in negativo.......
Ok, basta, non dico più nulla XD Mi sono lasciata sfuggire già troppo ç_ç
Ringrazio - come al solito - tutti quelli che hanno recensito,
commentato, aggiunto alle preferite/ricordate/seguite e vi mando un
grosso bacio.
P.s: non vi farò più aspettare così tanto,
promesso! Perdonatemi, ma la scuola mi ha tenuta alle strette fino ad
oggi e ho avuto pochissimo tempo per scrivere ç_ç
|
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Capitolo 9 *** Complicazioni. ***
Capitolo 9
Capitolo 8: Complicazioni
Da
quel giorno io e il sorriso eravamo diventati una cosa sola.
Mi veniva spontaneo tirarlo fuori, ogni volta che per caso lo
incrociavo fuori casa, tra i corridoi vuoti della scuola mentre gli
altri facevano lezione, o anche solo quando pensavo a lui; e per la
prima volta dopo anni ricordai cosa volesse dire essere veramente
felici.
Non era passato molto tempo da quel bacio, a dire il vero solo quattro
giorni, ma mi sembravano un’eternità; durante la
quale non avevo fatto altro che rivivere con la mente quegli attimi
incredibili, in cui ci eravamo letteralmente divorati anima e corpo e
che probabilmente non avrei mai dimenticato.
«Lore, dai, potrebbe vederci chiunque…».
Dissi staccandomi dalle sue labbra, e da lui, che non aveva la minima
intenzione di lasciarmi prendere fiato.
«Ma non c’è nessuno». Si
lamentò, cominciando a baciarmi lentamente il collo e
infischiandosene di ciò che gli avevo appena detto.
Ormai era tutto un cliché, succedeva praticamente ogni
giorno da quando avevo tolto i freni alle mie reticenze.
Facevamo di tutto per creare le occasioni giuste per rimanere un
po’ da soli, in modo che nessuno potesse vederci e scoprire
che ci frequentava-
No, “frequentare” non era decisamente il verbo
giusto; i nostri incontri si limitavano solo a momenti di intensa
passione, mai una parola dolce, un solo abbraccio o dimostrazione di
affetto da parte sua, e io di certo non avrei mai fatto la prima mossa
per rendere il nostro rapporto qualcosa di più serio e meno
stupido.
Per quel giorno la nostra complice era la biblioteca del primo piano,
dove – per qualche strana ragione – non
c’era alcuna traccia della simpaticissima bibliotecaria che
aveva fatto di quel posto la sua casa.
La situazione, quando ci eravamo ritrovati lì, era talmente
favorevole che il passo dalle semplici chiacchiere al saltarci addosso
era stato davvero brevissimo.
Ebbene sì, Giorgia Mori aveva definitivamente ceduto
all’attrazione che provava per Lorenzo Belli. Una
barzelletta, vero? E il tutto diventava persino una cosa squallida, se
si considerava che, ufficialmente, il suddetto era felicemente
fidanzato con la famosa ragazza di quinta, Diana Manna.
«Sei sleale». Lo rimproverai, piegando la testa
all’indietro per dargli libero accesso anche alla restante
parte del collo.
In due secondi mi ritrovai poggiata contro uno scaffale di libri
impolverati, con la schiena martoriata dagli spigoli di quei
pesantissimi manuali scientifici; che qualche tempo prima ero solita
sfogliare con interesse, ma che in quel momento avrei buttato
volentieri a terra.
«Non è colpa mia se i miei baci ti fanno
impazzire…». Si giustificò, prima di
lasciarmene uno proprio sotto l’orecchio, che mi fece
scappare un gemito più forte degli altri.
«Te l’ho già detto che adoro da
impazzire quando ti lasci andare?». Ansimò Lore
con un leggero affanno, per poi tornare a dedicarsi con attenzione alle
mie labbra.
Ogni bacio era un nuovo brivido, una piccola scintilla che alimentava
l’immenso incendio divampato tra di noi, ed ogni volta era
diversa dalla precedente, ma ugualmente intensa ed inspiegabilmente
giusta.
«Lore, sii ragionevole per una volta…».
Lo implorai contro voglia, sperando che almeno nel suo cervello ci
fosse ancora un minimo di buon senso; perché il mio era
completamente andato.
Non avevo la minima intenzione di fermarlo…perché
avrei dovuto porre fine a quella piacevolissima tortura?
Senza alcun preavviso, Lore mi morse il labbro inferiore con decisione,
come era solito fare quando aveva in mente qualcosa di diabolico.
«Uhm, temo di non poterci riuscire». Disse
frettolosamente, e con uno slancio incredibile mi sollevò da
terra, facendomi poi stringere le gambe intorno alla sua vita.
Era un contatto del tutto nuovo per me, che sussultai immediatamente
tra le sue braccia, e appoggiai la testa sulla sua spalla.
Le sue mani si spostarono agilmente per tutta la lunghezza dei miei
jeans, fino a raggiungere con estrema lentezza le mie natiche, che
strinsero in una morsa di ferro e ghiaccio.
Lo sentii ridacchiare contro il mio orecchio, dopodiché
strofinò il suo naso sui miei capelli. «Lo
immaginavo sodo, ma non fino a questo punto».
Sentenziò fiero di me – o se stesso, chi potrebbe
dirlo – continuando con cura la sua ispezione.
«Non ne approfittare troppo, maniaco». Lo redarguii
fermandolo, dedicandogli uno sguardo ammonitore.
In realtà ero in completo imbarazzo, ma non volevo che se ne
accorgesse, per questo lo avevo bloccato.
«Ma che palle!». Sbuffò infastidito,
facendomi scendere rassegnato. «Non esistono solo i baci,
sai?». Aggiunse ammiccando, con un’occhiata che non
lasciava alcuno spazio all’immaginazione.
Fu estremamente difficile impedirmi di fare la figura della deficiente
e lasciargli fare quello che aveva in mente, ma alla fine ci riuscii.
«Certo che lo so». Dissi trattenendo a stento un
sorriso vittorioso. «Ma ti dovrai accontentare di questo, per
il momento. Prendere o lasciare».
Lore sbiancò improvvisamente, mettendosi subito
all’erta.
«Da quando sei diventata così sadica?».
Mi chiese poi, avvicinandosi cautamente di qualche passo.
«Da quando ho a che fare con il re degli stronzi».
Risposi secca, portandomi le mani sui fianchi per sottolineare la
fermezza con cui l’avevo posto davanti a quella scelta.
Lui sospirò arrendendosi, per poi raggiungermi in due sole
falcate.
La sua imprevedibilità riusciva sempre a sorprendermi: ogni
volta che credevo di aver capito di cosa fosse capace, oppure quale
piano avesse in serbo per me, lui mi faceva ricredere
all’istante.
Le sue labbra si piegarono nel solito sorrisetto irritante, purtroppo
ad una misera distanza dalle mie.
La mia vittoria era stata breve.
«Prendo». Annunciò deciso. E mi
baciò con la stessa convinzione, come a voler dimostrare che
il suo non era un capriccio: mi voleva sul serio.
«Mori, stai meglio?». Mi chiese
preoccupata la prof, al mio rientro in classe, esattamente tre quarti
d’ora dopo che ero uscita dall’aula con la scusa di
avere una forte nausea.
Era quella la parte peggiore del mentire: rimanere comunque interdetti
quando qualcuno ti poneva davanti alle tue bugie.
Ed era proprio in cui casi che rimpiangevo la Zanna e il suo
disinteresse per i problemi degli studenti.
«Sì, credo di sì». Risposi
con un sorriso volto a tranquillizzarla.
Le mie ore scolastiche ormai funzionavano così: nessuna
attenzione prestata al professore di turno, qualche chiacchiera con
Davide e continue occhiatine a Lorenzo; a quel punto – se lui
mi avesse scoperta-, le cose avrebbero potuto prendere due pieghe
diverse, in base al livello di buon senso che avevo quando i nostri
occhi si incontravano. Se fossi stata pronta e abbastanza ragionevole,
avrei distolto velocemente lo sguardo; altrimenti il suo mi avrebbe
fatto comprendere ciò che aveva in mente, e io non sarei
più stata in grado di resistere alla tentazione e
raggiungerlo fuori dall’aula.
La mia era una misura necessaria per prevenire ogni eventuale
esagerazione da parte di entrambi. Se avessi lasciato tutto nelle mani
di Lorenzo, avremmo finito per appartarci praticamente dovunque pur di
stare insieme e la cosa, prima o poi, sarebbe diventata sospetta.
Non solo per gli altri compagni, che riuscivamo tranquillamente a
depistare con qualche scambio di battute astiose, ma soprattutto per i
professori, che a lungo andare avrebbero certamente notato qualcosa.
«I tuoi capelli sono un disastro». Disse Davide
divertito, interrompendo i miei pensieri. Per lo meno, rendeva la mia
vita meno noiosa: che tristezza se il mio continuo rimuginare sugli
atteggiamenti di Lorenzo mi avesse isolata dal resto del mondo.
«Lore dovrebbe andarci più piano».
Proseguì sforzandosi di essere serio, ma era chiaro che
quello fosse il suo modo di distrarmi un po’.
A quelle parole arrossii violentemente, vittima della sua
consapevolezza.
Davide era a conoscenza di tutti i recenti sviluppi. Non aveva
impiegato molto tempo per capire il motivo delle nostre sparizioni
– più o meno contemporanee – e a quel
punto – davanti ad una sua sincerissima richiesta di
verità – non avevo potuto far altro che
confermare.
«È fatto così. Mi sono
rassegnata». Risposi con un’alzata di spalle,
mentre la mia mente veniva occupata da alcuni flash
piuttosto…infuocati relativi ai nostri incontri
«E a te sta bene questo?». Chiese lui scettico e
capii che la sua domanda ne nascondeva un’altra, che mi aveva
rivolto tante volte, ma che evitavo sempre.
«È un modo per chiedermi se mi sta bene dividerlo
con quella “strafiga”?». Gli domandai,
imitando la voce di Lore quando parlava della sua bellissima ragazza.
Non aspettai la sua risposta, presi un respiro profondo racimolando le
idee che mi ero fatta fino a quel momento, mentre i miei piedi
cominciavano a muoversi da soli, agitati.
«Certo che no». Dissi con enfasi, guardandolo
finalmente negli occhi.
«Però…».
«Ascolta Giò, indubbiamente Lore è un
bel ragazzo, che sa come intrattenere le donne e conosce tutti i
segreti del mestiere, ma davvero…mi chiedo come tu possa
sopportare tutto questo. Io, al posto tuo, impazzirei».
Il suo punto di vista era di certo il più comprensibile,
mentre il mio non l’avrebbe mai capito
nessuno…neanche io, probabilmente, per questo avevo
rinunciato alla possibilità di spiegargli cosa mi impedisse
di prendere Lorenzo a sprangate per quello che mi stava facendo.
Tuttavia, decisi di fare un tentativo.
«I momenti che passo con lui sono i più belli che
abbia mai vissuto. Da quando sono nata». Risposi il
più sinceramente possibile. E non mi riferivo solo agli
ultimi anni, ma anche a quelli di un passato ormai lontano, che prima
non erano altro che causa di dolore e sofferenza, mentre ora erano
diventati la mia speranza.
«Questo è tutto nuovo per te, è logico
che ti sembri di stare in Paradiso e tutte quelle stronzate
varie…». Protestò lui, sforzandosi
inutilmente di tenere la voce troppo bassa. «Ma Lore non
potrà mai essere il tuo principe azzurro, e tu questo lo sai
meglio di me».
Sbattere contro la verità non era mai una piacevole
sensazione, il problema era che io sapevo benissimo quale fosse, ancora
prima che Davide me la piazzasse davanti.
«Dav, per favore, non rovinare tutto». Lo
supplicai, prendendogli una mano tra le mie. «Ci sono cose
che tu non sai e che mi spingono ad andare avanti in questa grande
sciocchezza».
Lui assottigliò lo sguardo. «Te ne rendi
conto?».
Annuii velocemente e proprio in quel momento Lore fece la sua comparsa,
senza neanche bussare e con le mani rigorosamente in tasca.
«Belli, ti avevo mandato in bagno, non a gironzolare per la
scuola». Lo rimproverò l’insegnante, che
era stata interrotta nel bel mezzo della spiegazione di un qualche
nuovo argomento.
Lorenzo sorrise fintamente dispiaciuto. «Mi scusi prof, ma mi
stavo annoiando terribilmente e non avrei mai voluto che mi vedesse
dormire». E concluse il tutto mettendosi la mano sul cuore,
lasciandosi poi andare ad uno sbadiglio.
Era il solito cretino spocchioso, che si divertiva a prendere per i
fondelli gli insegnanti, eppure – dopo tutto quello che era
successo – mi faceva quasi tenerezza vederlo in quel modo e
un sorriso spontaneo mi spuntò sulle labbra.
«Vai a sederti, ne parliamo dopo». Disse la prof
rassegnata, tornando a scrivere strane formule matematiche alla
lavagna.
«Sei proprio senza speranze». Mi
sussurrò Davide all’orecchio. Non mi ero accorta
di averlo così vicino e non sarebbe stato certo saggio
lasciare che Lore ci vedesse in quel momento.
Feci per staccarmi da lui prima che fosse troppo tardi, ma i suoi occhi
mi batterono sul tempo, spostandosi prima su me e Davide, poi sulle
nostre mani intrecciate sul banco; ancora prima che potessi muovere
anche solo un singolo dito per nascondere l’evidenza.
In un primo momento mi sembrò sorpreso, ma la sua
espressione era sempre fredda e intellegibile perciò era
impossibile averne la certezza.
Distolsi velocemente lo sguardo dal suo indagatore e sciolsi la presa
sperando che Davide capisse le mie motivazioni.
«È arrabbiato?». Gli chiesi poi in un
sussurro, una volta accertatami che fosse tornato al suo posto.
«Chi lo sa? È impossibile capire quel
ragazzo».
E non potevo essere più d’accordo.
L’intervallo era la parte più complicata della
giornata, per diversi motivi.
Innanzitutto, avevo ricominciato a trascorrerlo in classe, lasciando
Davide libero di divertirsi con i suoi amici delle altre classi, che in
quelle due e passa settimane aveva un po’ trascurato a causa
mia.
Passare quei quindici minuti in classe significava stare a sentire i
racconti a luci rosse di Lorenzo, che descriveva ai suoi amici, con
troppi particolari, la sua vita di letto con Diana.
Chiaramente non c’era niente di profondo nei loro discorsi;
si parlava solo di sesso e di quanto fossero perfette le forme della
sua fidanzata; tanto che molte volte avevo cercato di non cogliere
alcuni dettagli troppo piccanti, altrimenti non avrei avuto
più il coraggio neanche di farmi sfiorare da lui e questo
avrebbe messo fine al mio stupido tentativo di farlo accorgere della
mia esistenza.
Volevo dimostrargli che non ero solo un corpo con cui potersi
intrattenere quando voleva, ma soprattutto una persona, che un tempo
era la sua migliore amica.
Speravo di potergli far capire tutto di me stando con lui –
seppur in quel modo squallido -, anche sopportando di doverlo dividere
con un’altra, perché ormai non avrei
più potuto semplicemente ignorarlo, o odiarlo, eravamo
andati troppo oltre e una parte di me sapeva che
quell’interesse improvviso da parte sua non era solo una
questione fisica; dovevo solo rendere quella speranza una certezza.
Volevo riprendermi il mio Lorenzo…e ci sarei riuscita.
Quel giorno, però, mentre lasciavo sciogliere la mia
barretta di cioccolato sul banco, non feci altro che pensare a come mi
aveva guardata quando era rientrato in classe. Stavo cercando di
trovare una spiegazione a quello sguardo strano che mi aveva rivolto,
ma più ci pensavo e più mi convincevo che era
semplicemente arrabbiato.
Avrei potuto aspettare l’uscita da scuola e chiarire con lui
una volta a casa, ma resistere sarebbe stato impossibile,
perciò raccolsi tutto il mio coraggio e mi avvicinai
titubante al gruppetto dei suoi amici.
«Oh, guardate chi c’è». Disse
Curcio notando la mia presenza.
Lore alzò immediatamente lo sguardo e quando mi vide, rimise
in tasca il suo cellulare, fissandomi incuriosito.
«Posso parlarti un minuto?». Gli chiesi speranzosa.
Ma sapevo di avere pochissime possibilità; eravamo a scuola,
circondai da tutti i suoi amici…
«Ehi, da quando tu hai il diritto di parlare con
lui?». Commentò sarcastico Lonta, ponendosi tra me
e Lore.
Non mi aspettavo che mi difendesse, mi ero arresa già in
partenza, non si sarebbe mai esposto troppo intervenendo in una
faccenda così stupida.
«Gabri, fatti da parte». Disse Lore secc0,
alzandosi in piedi e spuntando alle spalle del suo amico.
Il mio cuore prese a battere velocemente: non importava quanto tempo
passassi con lui, quanto mi abituassi al suo strano atteggiamento
scostante; vedere i suoi occhi completamente dedicati a me, mi causava
sempre lo stesso subbuglio all’altezza dello stomaco.
«Andiamo». Ordinò con un cenno del capo,
senza accennare all’ombra di un sorriso, per poi dirigersi
velocemente verso la porta, come se non vedesse l’ora di
liberarsi dei suoi compagni; le cui facce attonite erano la migliore
delle mie rivincite.
Li fissai con un certo orgoglio nello sguardo, ma senza esagerare
troppo – sia mai far arrabbiare Lorenzo! –
dopodiché corsi per raggiungerlo, prima che si accorgesse
della mia assenza.
Lo seguii fino al secondo piano, mantenendo sempre una certa distanza.
Agli occhi degli estranei dovevamo apparire come due semplici studenti
che stavano andando dalla stessa parte, questa era stata la richiesta
di Lorenzo, e così avrei fatto sembrare tutto.
Giunti in una parte deserta del corridoio cominciai a capire quali
fossero le sue intenzioni, ma non dissi una parola, finché
– questa volta senza protestare – mi lasciai
trascinare dentro al Trash.
«Si può sapere che ti prende? Ti è dato
di volta il cervello?». Mi aggredì subito Lore,
cominciando a fare su e giù per quella stanza piena di
schifezze di ogni genere.
Mi aspettavo una reazione del genere. La regola principale era non
rivolgerci la parola per nessun motivo quando lui era con i suoi amici,
a meno che non fosse qualcosa di urgente e irrimandabile, e io
l’avevo bellamente infranta.
«Io…avevo bisogno di parlarti». Risposi
titubante, sperando che si calmasse almeno un po’.
Improvvisamente, la motivazione per cui ero venuta meno alla parola
data non mi sembrava più tanto inderogabile.
Cogliendo il mio silenzio, fu lui a parlare per primo. «Se si
tratta di quello che hai sentito riguardo a Diana, sei tu che hai
scelto di rimanere in classe, sapevi benissimo a cosa andavi
incontro».
I suoi occhi non tradivano alcuna emozione, come al solito, ma ero
quasi certa di aver sentito una nota di disappunto nella sua voce.
«No, non c’entra lei». Risposi con
vigore, scuotendo la testa con altrettanta forza. «Riguarda
solo me e te, smettila di tirarla sempre in mezzo».
Lore sembrò addolcirsi un pochettino; lo capii dal modo in
cui rilassò il viso.
«Sentiamo, allora». Decretò sedendosi
sul tavolo che poche settimane prima avevo usato come rifugio dal topo.
Ripensarci in quel momento mi fece sorridere, era incredibile come le
cose fossero cambiate da allora, eppure non era passato molto tempo.
«Quando sei entrato in classe, dopo
che…noi…insomma, lo sai…».
Balbettai abbassando e rialzando lo sguardo ripetutamente, in cerca di
un qualche cambiamento di espressione sul suo viso.
«Sei proprio buffa quando ti imbarazzi, lo sai?».
Disse palesemente divertito, mordendosi poi il labbro inferiore per non
mettersi a ridere.
Lo vidi tendere una mano in mia direzione, con un sorriso quasi dolce
dipinto sulle labbra. «Su, vieni qua».
Se non fossi sembrata ridicola e inappropriata, mi sarei letteralmente
buttata tra le sue braccia.
Era la prima cosa veramente carina che mi diceva da giorni, non
l’avevo mai visto così premuroso nei miei
confronti, e il mio cuore – giustamente – si mise a
ballare la samba nel mio petto.
Per una qualche strana ragione rimasi immobile dov’ero, ma
Lore non si diede per vinto.
«Dai, cucciolina, non costringermi a venirti a
prendere».
Come mi aveva chiamata?! Santo Cielo…perché certe
cose accadevano all’improvviso? Dovevo essere preparata prima
di sentirle!
Arrossii immediatamente, sorpresa da quel nomignolo con il quale si era
rivolto a me, ero certa che neanche se n’era reso conto,
probabilmente mi aveva persino scambiata per Diana.
Fu la prima volta che mi sentii così triste al pensiero di
quella ragazza, mi ripetevo sempre che era necessario sopportare,
resistere, che ne sarebbe valsa la pena, perciò riuscivo a
prendere tutto abbastanza serenamente, quella volta – invece
– anche solo immaginare Diana al posto mio, era stato come
inciampare sui miei stessi piedi.
«Co-come mi hai chiamata?». Domandai,
senza riuscire a trattenermi, e questa volta fu lui a rimanere sorpreso
dalla mia domanda.
Lo vidi riflettere, perplesso, per un po’,
dopodiché si portò una mano ai capelli per
spettinarli, come se non lo fossero già abbastanza.
«Oh, quello…be’, in un certo senso sei
un po’ cucciolina, no?». Chiese retorico facendo
spallucce. «Non si può certo dire che tu sia anche
solo lontanamente alta quanto me».
Lo fissai abbastanza a lungo, indecisa se credergli o no, alla fine mi
affidai alla cara, vecchia ironia; che molto spesso riusciva a tirare
fuori le persone dalle situazioni imbarazzanti.
«È molto gentile da parte tua ricordarmi quanto
sia bassa!». Esclamai voltandomi dall’altra parte,
fingendomi offesa.
«Sei permalosetta oggi, eh?».
Lo sentii scendere dal tavolo, ma questa volta ero decisa a non cedere
subito, avrei continuato ancora un po’ con la mia recita.
«E va bene, guarda il lato positivo, per questo soprannome ho
preso spunto dal nanetto di Biancaneve, e non mi pare che la sua unica
caratteristica fosse la bassezza».
«E sentiamo, quali altre caratteristiche aveva?».
Lo punzecchiai un po’, il mio intento era di costringerlo a
esporsi di più; era un trucchetto da quattro soldi ma
c’erano buone possibilità che funzionasse.
«Ma come, non te le ricordi? Lo avremmo visto almeno
cinquanta volte da bambini».
Sentirlo parlare del nostro passato con quella tranquillità
fu un’altra piccola vittoria, aveva tirato in ballo la nostra
amicizia senza ritrarre immediatamente ciò che aveva detto,
come invece era solito fare. E questo era senz’altro un
enorme passo in avanti…forse la mia non era
un’inutile e vana speranza.
«Era molto tempo fa, ricordo a malapena la faccia di quel
gran figo del principe».
«Confessa, lo immaginavi esattamente come me»
La sua voce mi giunse vicina, troppo, così come il suo
profumo, e quella sensazione non mi era affatto nuova. Sapevo cosa
stava per succedere, ma avrei resistito fino alla fine.
E in fondo non aveva tutti i torti, mi era capitato spesso di pensare a
lui come al mio principe azzurro, prima che distruggesse i miei sogni.
No, il passato era il passato, dovevo solo concentrarmi sul presente,
per costruirmi un futuro privo di rimpianti e rimorsi.
Ma certi ricordi erano ancora troppo forti per poter essere relegati in
un cassetto della memoria e cominciavo a credere che lo sarebbero
sempre stati, avrebbero sempre vinto su di me, ed io li avrei sempre
lasciati liberi di farlo.
«Com’è che siamo finiti a parlare di
te?». Chiesi quasi senza respirare, stavo cercando di tenere
il suo odore buonissimo lontano dai miei sensi, ma avevo dimenticato
che l’olfatto era solo uno di essi.
«Preferisci che si parli di te?». Soffiò
contro il mio orecchio, spostandomi contemporaneamente i capelli di
lato, facendomi rabbrividire. «Perché in quel caso
avrei parecchie cose da dire».
Il suo fiato era caldissimo contro la mia pelle, le sue labbra morbide
sulla mia nuca e la sua voce quanto di più provocante avessi
mai sentito.
Stavo miseramente fallendo. Davvero avevo creduto di potergli resistere?
«Sei bella…più di quanto tu non
creda». Sussurrò nuovamente, lasciandomi un
piccolissimo bacio sul collo, che mi fece arrivare dritta in Paradiso.
Oh, al diavolo i buoni propositi!
Provai a girarmi verso di lui, per far smettere quella tortura che
aveva appena cominciato…prima che mi lasciassi andare
troppo.
Temevo di non riuscire più a controllarmi, e, se davvero
fosse stato così, le cose sarebbero precipitate
all’istante.
Con Lorenzo era solo cuore e istinto, né il cervello
né la testa potevano qualcosa, e se anche io – che
riuscivo a mantenere il nostro rapporto in un appena precario
equilibrio – avessi lasciato che le mie difese crollassero,
allora nessuno avrebbe potuto impedirci di farci del male a vicenda.
«Eh, no, adesso ascolti tutto quello che ho da dire, mia cara
principessina».
Nell’esatto momento in cui una sua mano andò a
posarsi appena sotto il mio seno, smisi di opporre resistenza. Lui era
lì, ed io anche, non c’era bisogno di fasciarsi la
testa prima di rompersela, e se davvero ce la fossimo spaccata avremmo
trovato una modo per rimetterne insieme i pezzi.
«Brava bambina». Disse ironico, dandomi un bacio
sulla guancia che mi fece sorridere.
Lentamente, senza mai spingersi oltre il tacito limite che gli avevo
imposto, cominciò a muovere in circolo la sua mano,
spostandola dai miei fianchi al mio petto, dove lasciò
profonde carezze.
«Lore…». Lo chiamai con un ansito,
quando l’altra raggiunse la mia pancia, massaggiandola
dolcemente, quasi tentennante, in un modo che non era certo nel suo
stile.
«Sei molto dolce, anche se a volte non lo vuoi dare a
vedere». Continuò il suo elenco di
qualità, tracciando con le labbra una lunga scia per tutto
il mio collo.
«Hai un profumo tremendamente buono, che mi fa venire voglia
di prenderti a morsi». Lo sentii ridacchiare, prima
di affondare la punta dei denti nella mia pelle, senza troppa forza.
«E sei proprio nana». Concluse, smorzando la
tensione e caricandomi in spalla come un sacco di patate.
Il passaggio dall’oblio alla realtà fu decisamente
traumatico, ritrovarmi all’improvviso con i piedi per aria e
la testa all’ingiù non fu certo piacevole, ma mi
venne spontaneo cominciare a ridere a crepapelle quando prese a girare
maldestramente per tutto il Trash.
«Per un attimo ho creduto che fossi un vampiro».
Dissi tra le risate, mentre mi aiutava a salire sul tavolo dopo di lui,
per poi farmi sedere sulle sue gambe.
Adoravo stare in braccio a lui, riuscivo a cancellare tutti i miei
dubbi. Era uno di quei momenti in cui non avevo paura che potessi
rimanere ferita da tutto quello che avevo intorno, ed era una delle
rarissime volte in cui riuscivo ad avere la certezza che quando era con
me, non c’era nessun’altra ragazza nei
suoi pensieri.
C’era qualcosa nel modo che aveva di stringermi, nel modo con
cui mi lasciava dolci carezze sulle guance e mi sorrideva che mi dava
una tranquillità assoluta.
«Va meglio ora?». Mi chiese aggiustandomi i
capelli, sconvolti a causa del suo gesto di
“galanteria” di poco prima.
Annuii brevemente e mi rilassai sotto il tocco delicato delle sue dita,
che avevano cominciato a tracciare la forma dei miei zigomi.
«Ora dimmi cosa ti tormenta, miss paranoica».
Era davvero difficile riuscire a concentrarmi in quella situazione, in
cui le sue labbra – ad una distanza misera dalle mie
– mi sembravano ancora più invitanti del solito.
Stavo diventando una specie di ninfomane, dovevo darmi un contegno.
Distolsi l’attenzione dalla sua bocca e la puntai sui suoi
occhi. Fui sorpresa nel trovarli così fissi su di me, era un
evento piuttosto raro dato che la maggior parte delle volte sembravano
rivolti chissà dove.
«Te la sei presa?». Chiesi in un fiato, riprendendo
il discorso che avevo iniziato, ma che – a causa sua
– non ero riuscita a portare al termine.
Lore sembrò confuso, ma poi scoppiò a ridere
sguaiatamente. Continuò per un bel po’, facendomi
sentire un tantino idiota e fuori luogo, finché non
cominciai a perdere la pazienza e lo richiamai un paio di volte.
«Sì». Rispose poi, tornando
improvvisamente serio. Dell’ilarità di poco prima
non c’era più traccia. Non erano mica le donne
quelle ad avere frequenti sbalzi d’umore? No, evidentemente
no.
«Perché tu sei mia e basta».
«Ma Davide è tuo amico…».
Ribattei infastidita.
Parlava lui di possesso, quando io ero la prima a doverlo dividere con
un’altra. Quel ragazzo era proprio un egoista di prima
categoria…ma ancora non riuscivo a lasciarlo andare, neanche
per questo suo pessimo difetto.
«E immagino che sappia tutto di noi». Disse in tono
neutrale, come se non gli importasse nulla di tutta la faccenda, quando
in realtà avrebbe voluto urlarmi contro, perché
chiaramente credeva che fossi stata io a metterlo al corrente di tutto.
«Ha scoperto tutto da solo». Mi affrettai a dire,
prima che potesse trarre conclusioni sbagliate.
Sapevo di non dovergli nessuna giustificazione, che quello dalla parte
del torto era lui, ma mi venne spontaneo difendermi dalla sua
silenziosa accusa.
Nonostante tutto, volevo mettere in chiaro che io non avrei mai tradito
la sua fiducia; neanche se lui avesse continuato a calpestare la mia in
quel modo.
Lorenzo inarcò un sopracciglio scettico. Incredibile, non mi
credeva…lui non credeva a me! Sembrava davvero una
barzelletta e invece era solo la realtà.
«E come avrebbe potuto?». Domandò
infatti, confermando tutti i miei sospetti.
«Contrariamente a quanto pensi, Davide non è
affatto uno stupido». Lo rimproverai, incrociando le braccia
al petto e aspettando con ansia la sua reazione.
«Tu non sai un bel niente di quello che penso io».
Rispose lui tra i denti, facendo suonare le sue parole come una
minaccia, che tuttavia non mi spaventò come invece avrebbe
fatto normalmente.
«Non è difficile capirlo dal modo in cui ti
comporti».
Lore fece per dire qualcosa, ma alla fine scosse solamente la testa,
prima di saltare giù dal tavolo e dirigersi verso
l’uscita.
«Ehi, dove credi di andare?». Lo fermai ad un passo
dalla porta. «Non puoi sempre abbandonare le conversazioni
spinose».
Lore si voltò con uno scatto, mi
afferrò per le spalle e mi spinse contro al muro.
«Ascoltami bene, non ho intenzione di ripeterlo ancora: la
mia vita non ti riguarda, perciò stanne fuori».
Sputò con acidità, senza alleggerire la presa
sulla mia pelle neanche un attimo.
Stava cominciando a fare male, ma dovevo far di tutto per non darlo a
vedere.
«Ah sì? Allora, dimmi, cosa sono io per
te?». Gli chiesi facendo ricorso a tutto il mio coraggio.
«Un semplice giocattolo con cui puoi divertirti quando
più ne hai voglia?».
«Non ricominciare con questa storia, lo sai che non
è così».
«Dimostramelo allora, perché tutto quello che fai
mi lascia intendere l’esatto contrario». Lo sfidai
stringendo i pugni, per sopportare meglio il dolore che mi stava
causando.
«E cosa dovrei fare? Dirti che sei la ragazza della mia vita
e tutte quelle cose sdolcinate da film strappalacrime?». La
sua voce trasudava puro sarcasmo, quello che sfoggiava ogni volta che
toccavo un argomento di cui non voleva parlare; oppure di cui non
sapeva cosa dire.
Non attese la mia risposta, mi lasciò semplicemente andare,
senza smettere di guardarmi negli occhi, che stringevo il
più possibile per evitare di piangere davanti a lui.
«Mi dispiace ma non sarò mai quello che vuoi che
io sia, perciò…se sai di poter accettarmi per
come sono, allora stai con me e non cercare di farmi pesare sempre ogni
cosa; in caso contrario è meglio per entrambi finirla
qui».
Che sciocca ero stata a pensare che potesse durare abbastanza a lungo
da fargli capire quanto tenessi a lui.
«Finire cosa, scusa? Non è neanche
iniziata!». Scossi la testa rassegnata e non potei fare a
meno di notare un lampo di sorpresa nei suoi occhi.
Mi chiesi quale definizione lui potesse dare al rapporto che si era
creato tra di noi in quegli ultimi giorni, ma come risposta ottenni
solo il nulla.
Non eravamo niente.
Lore contrasse leggermente le labbra, come se volesse dire qualcosa, ma
per un po’ rimase in silenzio, probabilmente impegnato a
pesare le parole.
«Ti ho chiesto di decidere». Sibilò lui
contrito, stringendo le mani a pugno contro i fianchi.
Annuii al colmo della rabbia, con lui gli unici discorsi affrontabili
erano quelli superficiali, gli altri erano da evitare come una buca in
mezzo alla strada.
«Se le cose stanno veramente come hai detto, allora la mia
scelta l’ho fatta molto tempo fa, quando avevo capito che
razza di stronzo fossi!». La mia voce suonò
tremante e instabile, l’esatto opposto di ciò che
volevo trasmettergli.
Stavo per piangere, lo sapevo, così come sapevo che dovevo
andarmene prima che lui mi vedesse farlo.
Speravo che quel mio riferimento al nostro passato gli smuovesse
qualcosa dentro, oltre tutta quella freddezza che si ostinava a
mostrarmi.
Avevo visto dei punti di uscita in tutta quella confusione che mi
creava stare con lui, credevo che la sua parte insensibile potesse
essere oscurata in qualche modo, che io potessi riuscirci. Invece
Lorenzo sarebbe rimasto sempre chiuso nelle sue convinzioni, sempre
pronto a rifugiarsi dietro il suo muro di cemento armato costruito ad
hoc per non essere intaccato minimamente da chiunque volesse anche solo
provare ad avvicinarsi.
Non mi fermò, non provò neanche a chiamarmi,
avevamo entrambi preso una decisione e le nostre strade si sarebbero
nuovamente divise.
Mentre camminavo per i corridoi mi sembrava che tutti stessero
guardando me, che ero pronta ad affogare in un mare di lacrime.
Sentivo il groppo alla gola farsi sempre più insopportabile,
non avrei resistito ancora per molto e di certo umiliarmi davanti a
tutta la scuola era l’ultimo dei miei desideri.
Accelerai il passo e raggiunsi il bagno quando ormai la campanella era
suonata e tutti si precipitavano nelle loro classi.
Non aspettai che tutte le ragazze presenti lì se ne
andassero, presi un profondo respiro e mi chiusi a chiave in uno dei
bagni.
Poco igienico, forse, ma era l’unico posto dove potevo
sfogarmi senza il rischio di essere vista.
Ero stata una stupida, ancora una volta, a credere che prima o poi non
ci sarebbe stato nessuno tra noi; eppure mi ero davvero convinta che
quando Lorenzo era con me, non c’era nessuna Diana o gran
figa che tenesse. Eravamo solo io e lui.
Non sapevo più a cosa credere, cosa pensare, cosa fare per
fargli capire quanto fosse importante per me. Ma, anche tra tutte
quelle lacrime, il pensiero che per lui fossi il nulla più
assoluto non mi aveva neanche sfiorata.
Non parlai con Lorenzo per tutta la giornata, oppure fu proprio lui a
fare in modo che ciò non succedesse, ed evitai tutte le
domande di Davide riguardo ai miei occhi rossi per tutte le ore
restanti, dal mio ritorno in classe.
C’era solo una cosa che potevo fare, solo una persona di cui
volevo fidarmi e a cui dovevo
chiedere aiuto.
Composi il suo numero alla velocità della luce, buttandomi
sul letto come un sacco di patate e nascondendo la faccia contro il
cuscino.
«Pronto?». La sua voce servì per rompere
la diga che teneva al sicuro la valle di lacrime pronte a sfondarla al
minimo cedimento.
«Marti…». La chiamai tra i singhiozzi,
con la voce attutita e distorta dai vari strati di coperte.
Sentii mia cugina trattenere un attimo il respiro, prima di riprendersi
allarmata.
«Oddio, cos’è successo?».
Sapevo che aveva cominciato a camminare per tutta la sua stanza in
preda all’ansia. Si preoccupava spesso per me e
ogni volta faceva tutto quello che poteva, e anche di più,
per aiutarmi a risolvere i miei problemi.
Tirai su con il naso e feci un solo nome, sapevo che avrebbe capito.
«Lore».
Le raccontai tutto per filo e per segno, dei quattro giorni passati a
saltarci addosso, della sua relazione ufficiale con Diana e della
conversazione avvenuta a scuola qualche ora prima.
Martina mi ascoltò per tutto il tempo in silenzio,
limitandosi ad assentire e ad emettere versi schifati di tanto in
tanto, ed aspettò che finissi il mio sfogo prima di
commentare nel suo classico modo da cugina iper protettiva.
«Se lo vedo lo faccio nero!». Disse infatti con
rabbia e la sentii tirare un calcio contro qualcosa che non riuscii ad
identificare.
«Marti, calmati, non è niente di grave o non
superabile. Sai come è fatto». Tentai di
rassicurarla, ma non riuscii molto bene nel mio intento. Suonai falsa
persino alle mie stesse orecchie, che alle mie bugie ci erano abituate
ormai.
«Non è grave un corno, Giò! Qualcuno
deve dargli una lezione a quel presuntuoso del
cavolo…».
«Ho sbagliato io a credere che stare con lui in quelle
condizioni potesse servire qualcosa. Me la sono cercata». Mi
morsi un labbro per evitare di rimettermi a piangere, altrimenti la mia
cara cuginetta sarebbe stata persino capace di prendere il primo mezzo
disponibile per venire a fare a pezzi Lorenzo.
«No, tu non hai sbagliato proprio nulla! Chiunque avrebbe
ceduto alle sue avances…». Mi
rassicurò, leggermente più calma di prima.
«Accidenti a madre natura che fa belli solo gli
stronzi».
Non potei fare a meno di sorridere al suo commento. Se c’era
qualcuno che poteva capirmi davvero quella era proprio lei, che con i
ragazzi belli e stronzi ci aveva passato vent’anni.
L’unica differenza era che lei li attirava come il miele
attira le api a causa della sua indiscutibile bellezza, mentre io
– nella mia ordinarietà – ne avevo
attirato solo uno, che poi era il peggiore di tutti.
«So che stai sorridendo». Disse dolcemente e questa
volta dedussi che si fosse completamente rilassata.
«Come potrei rimanere triste mentre sono al telefono con la
mia mitica cuginetta distante chilometri e chilometri da
me?». Era sempre abbastanza deprimente ogni volta
che tiravamo in ballo la nostra distanza. Qualche tempo prima eravamo
solite vederci con una certa frequenza, almeno ad ogni festa, ma da
quando i miei genitori si erano separati e mia madre aveva trovato
Mauro, riuscivo ad andare in Calabria da lei solo per
l’estate, insieme al mio padre biologico.
Era lui quello originario di lì e mia madre aveva tagliato i
rapporti con tutti i familiari di mio padre, eccetto qualche mia cugina
coetanea (Marti compresa); a sua detta perché non si erano
comportati bene con lei, ma per me era solo il suo modo di scappare dal
passato.
Ah, questo passato, quante vittime mieteva.
«Senti, a questo proposito, ci stavo pensando già
da un po’, ma dopo oggi mi sono
convinta…». Cominciò Martina,
interrompendo lo scorrere dei miei ricordi, e dalla felicità
che trasudava da ogni sua singola sillaba capii che quello che mi stava
per dire mi avrebbe portato almeno un pizzico di gioia.
«Parla». La esortai, curiosa e ansiosa allo stesso
tempo. Mi alzai a sedere, pronta a urlare e saltare, qualora ce ne
fosse stato bisogno.
«Che ne dici se uno di questi weekend passiamo una bellissima
serata in compagnia di un altrettanto spettacolare film stupido come
piace a noi?»
Ci misi un po’ a metabolizzare quanto mi aveva detto, ma
quando lo capii la mia reazione fu decisamente al di fuori dei miei
programmi. Mi lasciai andare ad urletto stridulo –
sì, uno di quelli degni delle peggiori oche – e
lanciai per aria tutte le cianfrusaglie che mi capitarono sotto tiro,
prima di fare il giro della mia camera e cominciare a saltare come una
pazza sul letto.
Quando la mia manifestazione di pura gioia finì avevo il
fiatone e ridevo con le lacrime.
«Hai finito di spaccarmi i timpani?».
Domandò Martina fingendosi irritata, ma anche lei avrebbe
volentieri abbandonato la sua indole “matura” per
unirsi a me, se non si fosse fissata con il fatto che adesso era
un’adulta e doveva darmi il buon esempio. «Avrai
fatto prendere uno spavento a tua madre!».
«Se credi che con questo abbia finito di festeggiare, ti
sbagli di grosso: mamma è dalla nonna». Dissi
ancora tra le risate, riacquistando lentamente un respiro regolare.
«Ah, al diavolo la maturità, questa è
la Giorgia che mi piace: allegra e spensierata!».
Esclamò Martina rinunciando finalmente alla sua copertura.
Forse doveva imparare a resistere un po’ di più.
«Ora dobbiamo decidere quando, però».
Aggiunse tornando seria e la sentii distintamente sfogliare delle
carte.
Riflettei un attimo sulle varie ipotesi, ma quella che più
mi aggradava era altamente improbabile da realizzare.
«Il prossimo weekend?». Proposi speranzosa,
incrociando le dita mentre Marti controllava la sua agenda.
Se avesse accettato si sarebbe trattato solo di una settimana di attesa
e il che era abbastanza sopportabile.
«Perché non questo?». Chiese lei
all’improvviso e ci avrei giurato sul fatto che stesse per
mettersi a ridere per la mia reazione di sorpresa.
«Non è un problema?». Domandai quando mi
fui ripresa dall’attacco di felicità acuta. Dopo
quello che avevo passato un po’ me lo meritavo, no?
Ok, non ero certo andata in guerra, ma in quel momento la notizia che
mi aveva dato mia cugina mi aveva salvata dal vicolo buio in cui mi
sarei certo persa se non fosse intervenuta lei.
Una poetessa nata, eh?
«Dammi cinque minuti». Rispose Martina
frettolosamente, chiudendomi praticamente il telefono in faccia.
Lei era fatta così, per questo non me la presi, mi ero
abituata ormai da un pezzo ai suoi modi un po’ impulsivi di
fare le cose, perciò decisi di aspettare pazientemente che
mi richiamasse, senza sapere neanche per quale motivo avesse interrotto
la piacevolissima conversazione che stavamo avendo.
Mi rigirai il telefono tra le mani per qualche minuto, controllando
ogni secondo che il segnale fosse al massimo e che rimanesse acceso.
Erano precauzioni necessarie, dato che ce l’avevo da almeno
cinque anni e per questo non era il massimo
dell’affidabilità la maggior parte delle volte.
Mia madre e mio padre – quello attuale – avevano
cercato in tutti i modi di convincermi a cambiarlo e passare a qualche
cellulare più moderno – persino al popolarissimo
i-phone - ma a me il “touch” faceva venire
l’orticaria, senza contare che essere alla moda era
l’ultimo dei miei pensieri. Indi per
cui…finché il mio telefono non mi avesse
abbandonata del tutto, me lo sarei tenuto stretto stretto!
Mentre stavo per richiamare mia cugina e chiederle perché i
cinque minuti fossero diventati dieci, il telefono suonò
annunciandomi l’arrivo di un messaggio.
Non badai neanche al nome del mittente, dato che credevo fosse proprio
lei, per questo lo aprii con foga, imprecando per la lentezza
disarmante di quell’aggeggio.
Sì, lo amavo, ma non poteva incepparsi proprio in quel
momento!
Quando finalmente riuscii nel mio intento, lessi il testo tutto
d’un fiato.
Eh sì, a
quanto pare ti sei proprio dimenticata di me! u.u Se non mi faccio
sentire io, tu non dai tue notizie neanche a pagarti...
News su
“Tu-sai-Chi”? Sono certa che sia successo qualcosa
:D
Un bacione. Ti voglio
bene.
P.s: si vede che ho
appena visto Harry Potter? Ahahahah!
Rosaria.
Pensai sorridendo davanti a quel messaggio e scoppiando
letteralmente a ridere una volta letto il post scriptum.
La mia migliore amica si sapeva far riconoscere anche via sms, non ci
fu neanche bisogno di controllare che fosse lei prima di rispondere.
E fu proprio in quel momento che mi venne un’idea geniale.
Ehi, Rosy! Hai
ragione, scusa, ma purtroppo hai indovinato…sono successe
parecchie cose di cui devi essere assolutamente messa a
conoscenza! Quel ragazzo mi fa impazzire, sul serio. (Nessun doppio
senso :P)
Che ne pensi di una
“bella gita” a Milano per questo fine settimana?
Una serata tra ragazze: io, te e Marti! All’insegna del
divertimento ;) Ti prego, dimmi di sì! Se i tuoi fanno
storie, me ne occupo io. Non accetto rifiuti.
Un bacio enorme. Ti
voglio bene.
P.s: No, non
l’avrei mai detto XD
Lottai un po’ con il cellulare e alla fine riuscii ad inviare
il messaggio, appena qualche secondo prima che cominciasse a squillare
e il nome “Martina” lampeggiasse a caratteri
cubitali sullo schermo.
«Cos’hai da dire a tua discolpa?».
Risposi ironica alla telefonata, avvolgendomi nel plaid a causa del
freddo glaciale che avevo cominciato a sentire
all’improvviso.
Era ottobre, Santo Cielo, di quel passo la neve sarebbe arrivata in un
paio di settimane al massimo, battendo il suo record di metà
novembre dell’anno precedente.
«Uhm, se ti dicessi volo 18278, ore 18 e venerdì 7
ottobre mi perdoneresti?».
Mi aspettavo qualcosa di simile, ma come dava le notizie mia cugina non
le dava nessuno, per questo boccheggiai in cerca di qualcosa da dire
per almeno un minuto buono.
Tuttavia, alla fine optai per un'altra serie di urla isteriche, giusto
per rendere meglio il concetto di felicità.
«Ok, direi che sono perdonata». Commentò
lei dopo che l’ebbi elogiata a suon di complimenti per un
po’, senza lasciarle neanche la minima possibilità
di replicare o farmi smettere.
«Ti adoro!». Esclamai nel vano tentativo di
riprendere la mia opera, ma lei mi interruppe subito.
«Sì, me l’hai già detto, ora
basta, prima che mi monti la testa».
Scoppiamo a ridere insieme e ci salutammo dopo un’ora piena
passata a discutere del nostro imminente super weekend, durante la
quale il nome di Lorenzo non venne fatto neanche per sbaglio.
E quando le dissi “Ci vediamo venerdì”
feci fatica persino a credere alle mie stesse parole.
Non appena mia madre tornò a casa, fu sorpresa nel trovarmi
così su di giri: era rarissimo che mia cugina mi venisse a
trovare d’inverno, anche a causa delle temperature bassissime
di Milano che lei, abituata ad un clima decisamente più
mite, non sopportava molto.
Sapevo che lo faceva per me e che aveva capito di quanto avessi bisogno
di lei in quel periodo, per questo la ritenevo una delle persone
più importanti della mia vita, se non addirittura la persona
fondamentale della mia vita.
Per me c’era ed ero certa che ci sarebbe sempre stata.
Il pensiero insistente e schiacciante di Lorenzo era stato sostituito
da quello della magnifica serata che avrei passato in compagnia di mia
cugina e quando, dopo aver mangiato in tutta allegria – come
non succedeva da parecchio tempo – con i miei genitori,
ricevetti la risposta di Rosaria, raggiunsi l’apice della
contentezza.
Aaaaaa! E tu queste
cose me le dici così?! Non sai da quanto aspettavo una
proposta del genere.
Aggiungimi pure alla
lista, sei pronta a divertirti?! Ti farò, anzi faremo,
dimenticare quel bellimbusto senza cervello, stanne certa :D
A venerdì,
allora? Un bacio!
P.s: certo che sai
proprio come farti perdonare tu, eh?
Sorrisi soddisfatta, lanciando il cellulare sul letto con poca grazia e
accendendo lo stereo a tutto volume, subendo poi gli improperi di mamma
e papà, che mi obbligarono a spegnerlo.
Si poteva essere più felici di quanto lo ero io in quel
momento?
Lorenzo. Mi risposi da sola con uno sbuffo, lasciandomi andare ad un
attimo di sconforto. Solo un attimo, però, perché
ci pensò il mio cervello a riportare il tutto alla
normalità.
Chi diamine era Lorenzo?!
Quel trucchetto non avrebbe funzionato per sempre, lo sapevo, ma quel
tanto che bastava per non affogare definitivamente prima
dell’arrivo delle mie due salvatrici, sì.
«E così domani sera sarai impegnata con un pigiama
party?».
«Uhm, di solito le serate che passo con mia cugina le chiamo
in un altro modo, ma anche quel termine può andare
bene». Sorrisi, smettendo di seguire una noiosissima lezione
di letteratura italiana su chissà quale grande autore del
passato.
Davide era un’ottima distrazione durante le ore scolastiche,
da quando avevamo legato era molto più divertente andare a
scuola. Certo, avevo solo lui con cui parlare, ma almeno era
già un passo avanti rispetto agli altri anni.
«Ho paura di chiederti quale sia l’altro
modo». Commentò lui, poggiando la penna sul banco
e rinunciando al mero tentativo di capire qualcosa sulla poesia che
stava leggendo l’insegnante.
«Infatti fai bene ad averne». Cercai di assumere un
tono inquietante, di quelli che si usano nei film horror, ma fallii
anche in quel proposito e Davide scoppiò a ridere beccandosi
un rimprovero della professoressa.
«È incredibile, ogni volta sono io a beccarmi i
richiami!». Protestò facendo il finto broncio, ma
sapevo che non avrebbe resistito neanche trenta secondi.
Soffocai una risatina e feci finta di prestare un minimo di attenzione
a quello che l’insegnante stava dicendo.
«Mi dicono che ho il visino da brava ragazza».
Dissi facendo spallucce, una volta assicuratami che la donna di fronte
a me non ci stesse più tenendo d’occhio.
Mi piaceva da matti punzecchiarlo, forse anche più del
dovuto, e la parte migliore era che lui non si offendeva; anzi, era
probabilmente la persona più autoironica che avessi mai
conosciuto.
«Tutta apparenza». Ribatté Davide,
pizzicandomi un fianco e trattenendosi a stento dal farmi il solletico.
«Piuttosto, perché non sono stato
invitato?». Domandò subito dopo, incrociando le
braccia sul petto con fare accusatorio.
«Dav, è una serata tra ragazze, quindi a meno che
tu non mi abbia nascosto qualcosa in questo mesetto
scarso…». Lasciai volutamente la frase in sospeso
e dalla faccia del mio amico capii che questa volta avevo fatto centro.
L’avevo sorpreso!
«Non ti hanno mai detto che non esistono solo i ragazzi
stronzi?». Lo vidi rilassarsi arricciando le labbra in un
sorrisetto storto, uno di quelli che personalmente amavo molto, ed ebbi
l’impressione che il riferimento ad una certa persona
– distante da noi solo qualche metro – non fosse
puramente casuale.
Aggrottai la fronte a mo’ di rimprovero, ma lui
sembrò non farci caso, e si limitò a guardarmi
con un’espressione che diceva “cosa ho
fatto?”, ma che in realtà nascondeva un bel
“ben ti sta”.
Gli avevo espressamente vietato di parlare di Lorenzo e lui non aveva
tenuto fede alla sua parola; decisamente meritava una punizione. I miei
punti deboli non andavano assolutamente toccati.
«Oh, certo che lo so». Bisbigliai avvicinandomi al
suo orecchio. «Peccato che quelli belli siano tutti
stronzi». Proseguii fingendomi delusa della mia stessa
constatazione. La risposta di Davide non arrivò,
perciò sorrisi compiaciuta e distolsi lo sguardo per godermi
appieno la mia vittoria.
Con la coda dell’occhio lo osservai muoversi, visibilmente
nervoso, e ci impiegò ben due minuti per riprendersi.
«Ok, hai vinto tu». Confessò,
come se avesse appena espresso ad alta voce il risultato
dell’ultima vinta dal Milan (lui era schifosamente
interista). «Ah, e grazie per avermi dato del
“cesso”, in ogni caso». Aggiunse poi in
tono ilare, contagiando anche me in neanche due secondi.
Quelle erano le tipiche conversazioni che avvenivano tra di noi. Ci
comportavamo come due bambini – o perfetti idioti che dir si
voglia –, prendendoci in giro a vicenda finché uno
dei due non cedeva e poi ci lasciavamo andare ad almeno un quarto
d’ora di risate.
Come ogni lezione passata a parlare di cavolate, anche quella
passò abbastanza in fretta e ne sarei stata felice se,
girandomi al cambio dell’ora per chiedere una cosa a Davide,
non mi fossi trovata lui davanti.
«Che vuoi?». Gli chiesi acida, mentre si sistemava
comodamente sulla sedia accanto alla mia.
«Quanto zucchero». Rispose Lorenzo sarcastico,
passandosi volutamente la lingua sulle labbra.
«Credevo ti desse fastidio che gli altri ci vedessero
insieme». Tentai di calmarmi un po’, prima che la
rabbia mi annebbiasse completamente il cervello – ponendo
fine al mio autocontrollo - e per evitare di finire dritta
dal Preside per aver scatenato una rissa con un compagno.
Lore fece spallucce, portandosi le mani dietro la testa nel classico
gesto da “me ne frega di tutto e di tutti”.
«Finché manteniamo le distanze va bene».
Parlò con una tale nonchalance che lo avrei preso veramente
a pugni da un momento all’altro.
«Arriva al punto». Lo esortai, conficcandomi le
unghie nella pelle delle mani per sfogare il mio nervosismo.
«Credevo ti piacessero i preliminari!». Si difese
lui con falsa sorpresa, ma qualcosa in me gli fece capire che non era
il momento adatto per scherzare, perché si
schiarì la voce e tornò serio.
«Oggi pomeriggio alle 4 da me». Disse solamente,
come se invitarmi a casa sua fosse una cosa normalissima.
«Come?!». Chiesi alzando la voce di un paio di
ottave, ma nessuno ci badò dato l’anarchia totale
che vigeva in classe.
Lorenzo si aprì in un sorriso malizioso ed
ammiccò. «C’è mia mamma,
tranquilla, non ti salto addosso».
«Sparisci immediatamente dalla mia vista, prima che ti renda
mostruoso a suon di pugni». Lo minacciai allora, puntandogli
persino il dito contro.
«Wow, mi piace questa grinta». Commentò
lui, ignorando apertamente il mio ammonimento e rimanendo inchiodato su
quella maledetta sedia.
Ma perché diavolo Davide aveva lasciato il suo posto? Dove
si era cacciato?!
«Lorenzo, non sto scherzando». Scandii bene le
parole, marcando con decisione sul suo nome per fargli afferrare il
concetto, ma dalla sua risposta capii che con lui le buone maniere non
sarebbero mai servite.
«Nemmeno io». Disse infatti, con
apparente sincerità. «Casa mia alle 4, dobbiamo
parlare». Ripeté con la stessa
tranquillità.
«Tu vuoi parlare?». Scoppiai a ridere come davanti
alla migliore delle battute, ma Lorenzo non si scompose di una virgola,
segno che diceva sul serio.
«Ok, mi stai spaventando». Gli confessai ironica.
«Non è da te tutto questo, dimmi cosa vuoi e falla
finita». Aggiunsi con una smorfia spazientita.
Lorenzo sbuffò scocciato, per poi alzarsi in piedi di scatto
e piegarsi leggermente per farsi sentire meglio. «Ho
sbagliato a dirti quelle cose, ok? Perciò vorrei
rimediare». Lo vidi guardarsi intorno furtivamente per poi
tornare a posare gli occhi su di me.
No, non mi sarei lasciata ammaliare dalla loro bellezza.
«Sai che ti dico? Sei solo un bamboccio viziato,
va’ a quel paese». E per fortuna ci
pensò l’arrivò della prof a mettere un
punto a quella discussione, dalla quale probabilmente sarei uscita
sconfitta.
Attesi non troppo pazientemente l’inizio della lezione
successiva. Prima fosse cominciata, meglio sarebbe stato: sentivo il
sangue ribollirmi nelle vene, più cercavo di convincermi che
in lui non c’era niente di buono e più una parte
di me mi convinceva del contrario.
Dovevo darci un taglio, sentivo che se avessi continuato in quel modo
sarei potuta scoppiare da un momento all’altro. Mi
restava solo da sperare che il fatidico “momento”
coincidesse con la serata di venerdì, durante la quale
almeno avrei avuto qualcuno su cui fare affidamento.
«Oh, oh. Quella faccia non mi piace». Disse Davide
allarmato, riprendendo il suo posto di tutta fretta.
Bell’amico, si faceva vedere quando ormai i danni erano fatti.
«Va’ al diavolo anche tu, traditore! Lasciarmi
sola, tra le grinfie del lupo cattivo…che cosa
crudele!».
«Sicura di stare bene?». Domandò il mio
amico perplesso.
«No che non sto bene!». Quasi urlai per sfogare la
rabbia. «Quel cretino di Lor…».
«Mori, vuoi andare a farti un giro?». Mi interruppe
la prof, parecchio alterata a dire il vero, facendomi diventare rossa
dalla vergogna, tra le risate generali della classe.
Fantastico, eravamo arrivati persino al punto in cui lui –
sì, sempre lui – mi faceva fare pessime figuracce
con gli insegnanti!
«Sì, prof, credo di averne bisogno».
Annunciai dopo qualche attimo di riflessione, e senza neanche aspettare
il suo reale consenso, uscii dall’aula sotto gli occhi
sbigottiti dei miei compagni di classe.
Per fortuna le conseguenze della mia “fuga”
dall’aula non furono eccessive. L’insegnante aveva
benevolmente compreso che c’era qualcosa che non andava nella
mia vita nell’ultimo periodo – a sua detta ero
diversa dall’inizio dell’anno –
perciò si era limitata a farmi un discorso sui problemi
dell’adolescenza - che non ero stata neanche a sentire - e ad
esprimere tutta la sua disponibilità ad aiutarmi qualora ne
avessi avuto bisogno.
Non male come risultato, no? Mi sarebbe potuta andare molto peggio,
considerando i precedenti di alcuni miei compagni che avevano fatto
più o meno la stessa cosa, e la punizione meno indulgente
che mi sarebbe potuta capitare – in quel caso – era
la pulizia intensiva del Trash; luogo che tra
l’altro odiavo
quasi quanto colui che poco tempo prima mi ci aveva chiuso
dentro.
Se quel giorno non mi fossi ribellata forse non sarei arrivata a quel
punto di non ritorno in cui mi ero cacciata.
Non dissi più una parola. Non parlai con Davide, non risposi
alle battutine derisorie di Curcio e sviai persino le domande di
ripasso che i professori mi rivolsero.
Era stata una giornata decisamente da dimenticare, insomma, per questo
quando suonò l’ultima campanella me la filai a
gambe levate…almeno finché qualcuno non mi
bloccò la strada proprio all’uscita principale.
«Davide, per favore…». Lo implorai
cercando un passaggio libero tra la sua figura decisamente troppo alta
e la porta dell’atrio.
«Niente da fare, tu adesso ti calmi e – senza fare
storie – vieni con me a mangiare qualcosa da
“Bourbon”*».
«Ho bisogno di stare da sola, mi dispiace». Risposi
a malincuore.
Seppur la sua proposta fosse assolutamente gentile ed apprezzabile, non
desideravo parlarne con nessuno. Avrei affrontato il problema da sola e
l’avrei superato come sempre.
Anche se “superato” era una parola grossa e forse
sarebbe stato più appropriato dire
“evitato”, invece.
«No, tu hai bisogno di qualcuno che ti ascolti».
Ribatté lui senza muoversi di un millimetro e con una
dolcezza tale che mi sentii la persona più detestabile del
mondo a rifiutare il suo aiuto.
Avvertii le lacrime pungere negli occhi, pronte ad uscire. Mi morsi un
labbro per non piangere e scossi la testa lentamente, abbassando lo
sguardo…certa che avrebbe capito.
E cosi fu.
Senza aggiungere altro si fece da parte e mi lasciò passare,
ma riuscii chiaramente a vedere la delusione nel suo sguardo appena
prima che lo superassi di corsa…ed ero certa che
quell’espressione amareggiata avrebbe continuato a
tormentarmi a lungo.
Davide non meritava di essere messo da parte in quel modo, avevo capito
che a me ci teneva davvero, e io – tuttavia –
l’avevo ripiegato ad uno degli ultimi gradini delle persone
in grado di starmi vicino.
Ma cosa avevo in testa?
Solo un nome, uno ed uno solo, sempre lo stesso e che non aveva
intenzione di lasciarmi in pace.
Ero un completo impiastro.
Tutto quello che mi circondava era un irrimediabile disastro. E
l’unica speranza che nutrivo l’avevo riposta in
Martina, certa che non me ne sarei pentita. Ma potevo davvero
esserlo in maniera così assoluta?
Mentre raggiungevo la fermata dell’autobus captai
distintamente la risposta nella mia testa; ed era un no: con
Lorenzo Belli niente poteva essere sicuro.
Il pullman quel giorno aveva deciso di passare in ritardo ed ovviamente
Lorenzo non aveva trovato nessun passaggio in macchina per il ritorno,
per cui me lo ritrovai fin troppo vicino in un momento in cui anche il
solo pensare a lui era diventato insostenibile.
Fissai senza particolare interesse la strada, osservando distrattamente
le macchine sfrecciare impazzite, e non desiderando altro che tornare a
casa il prima possibile. Ma solo pochi istanti dopo accadde la cosa
più assurda di quella terribile giornata, quando ormai
credevo che il peggio fosse passato e che niente di più
drammatico potesse succedere.
Non feci in tempo neanche a mettere a fuoco la scena che
delle urla spaventate mi penetrarono nelle orecchie come degli spilli
troppo appuntiti, mentre tutti i passanti si affrettavano a raggiungere
incuriositi la mia stessa fermata dell'autobus.
In pochi secondi mi ritrovai in mezzo al caos più totale,
con una folla di persone preoccupate tutto intorno e Lorenzo e Davide
al centro dell'attenzione.
Era stato un attimo, ero riuscita solo a vedere Davide venire verso di
me, rivolgere il suo sguardo alle mie spalle e deviare immediatamente
il suo percorso in quella direzione, per poi sferrare un pugno in piena
faccia a Lorenzo.
Non ero riuscita nemmeno a gridare, ci avevano pensato gli altri
presenti a farlo, e l'unica cosa che feci fu fissarli impotente e
scioccata, mentre alcuni ragazzi tentavano di dividerli.
«Che cazzo ti è preso, si può
sapere?!». Sbraitò Lorenzo in direzione
dell'amico, mentre tentava invano di liberarsi dalla presa di Curcio e
Lonta.
«Qualcuno doveva pur farlo prima o poi, non
credi?». Ribatté Davide apparentemente tranquillo,
ma il suo sguardo e le sue mani chiuse a pugno non mentivano: l'avrebbe
fatto volentieri nero.
Non riuscivo a credere ai miei occhi. Era la prima volta che vedevo
Davide così furioso con qualcuno, lui che era il ragazzo
più calmo e ricco di autocontrollo che conoscessi...che cosa
gli aveva fatto Lore di tanto grave da spingerlo ad attaccar briga con
lui, che per giunta sarebbe stato in grado di metterlo al tappeto con
un solo colpo se solo avesse voluto?
Una parte del mio cervello mi suggeriva la risposta, ma non era
possibile, non potevo essere io la causa.
«Ragazzi, mollatemi». Disse Lorenzo tra i denti
rivolto ai due amici che lo stavano trattenendo e nel contempo
cercavano di calmarlo.
«Sì, certo, così ti becchi una
sospensione di un mese». Lo redarguì Curcio
facendo forza per spingerlo indietro, di qualche passo più
lontano da Davide.
«Sì, dai, lasciatelo andare». Disse
l'altro in tono provocatorio. «Così magari gli
posso aggiustare quel cervello bacato che si ritrova a suon di
pugni».
A quelle parole Lore scoppiò di rabbia. Cominciò
a dimenarsi come un ossesso, tirando calci a destra e sinistra
finché i suoi amici non lo lasciarono andare.
«Amico, l'hai voluto tu...». Lo ammonì
Lonta tirandosi indietro, mentre un paio di ragazze fecero l'ultimo
disperato tentativo di fermare Lorenzo.
Proprio quando cominciai a temere il peggio, però, una
ragazza minuta e in lacrime vicino a Davide - che non avevo notato
perché coperta da uno degli amici del suddetto - intervenne
tirando il ragazzo per un braccio.
«Davi, basta!». Urlò tra i
singhiozzi e Davide si fermò all'improvviso, come
paralizzato dalla voce della ragazza, guardandola poi come se
fosse impazzita.
Ma Lorenzo non sembrava così intenzionato a seguire il suo
esempio, sebbene anche lui fosse rimasto sorpreso da quell'intervento
inaspettato.
Sentivo di dover fare qualcosa, anche a costo di pentirmene,
perché anche se magari non ero la causa
principale di tutto quello che stava succedendo, perlomeno lo ero in
parte.
«Lore, non fare stronzate». Dissi avvicinandomi a
lui, sotto gli occhi increduli degli altri miei compagni di classe,
Curcio e Lonta in primis.
Lorenzo si voltò verso di me a rallentatore, come se non
credesse di aver sentito sul serio la mia voce, e quando mi vide rimase
per un po' immobile, con la classica espressione di chi non sa cosa
dire o pensare.
Tuttavia, il suo attimo di confusione durò pochissimo,
perché mi sorrise in un modo talmente freddo da farmi gelare
il sangue nelle vene.
«Mori, sparisci». Disse infatti, accompagnando il
tutto con un gesto eloquente della mano. Ma se credeva di ferirmi con
quei suoi orribili modi di fare si sbagliava di grosso, ormai lo ero
già in abbondanza, la sua stronzaggine non avrebbe potuto
sortire più alcun effetto.
«Scordatelo». Risposi con decisione, mettendomi
praticamente davanti a lui, mentre la ragazza che non conoscevo parlava
con Davide. Sapevo di non poter fare lo stesso, ma speravo almeno di
riuscire a prendere abbastanza tempo per permettere al mio amico di
andarsene prima di prenderle sul serio.
Lorenzo mi fulminò con lo sguardo, ma non mi parve propenso
ad alzare le mani persino su di me.
Almeno un minimo di galanteria doveva averla, no?
«Non ti devi intromettere, è una questione che
riguarda solamente me e lui». Mi minacciò, tenendo
contemporaneamente d'occhio la situazione alle mie spalle.
«Ed è proprio qui che ti sbagli!».
Esclamai senza pensarci, forse in modo troppo avventato, ma almeno
riuscii ad ottenere la sua attenzione.
«Guardate la piccola Mori come tira fuori le unghie per
difendere il suo amico». Disse sarcastico uno dei presenti,
che neanche mi sforzai di riconoscere.
«Vi ricordo che lo è anche del vostro
capo».
«Era, volevi dire». Mi corresse Lore facendo una
smorfia quasi offesa.
Scossi la testa e controllai velocemente la situazione: Davide stava
ancora discutendo animatamente con quella ragazza, tuttavia mi sembrava
molto più rilassato e disposto a ragionare di prima.
«Se Davide l'ha fatto c'è sicuramente un motivo, e
questo tu dovresti saperlo meglio di me». Dissi rivolta a
Lorenzo, tentando di fare leva sulla sua coscienza. Ma ne possedeva
davvero una?
«Aspetta, tu credi davvero di c'entrare qualcosa in tutto
questo?». Mi chiese sarcastico, fingendo poi una risata.
«Perché no?».
Il mio riferimento a quello che c'era stato tra di noi era fin troppo
chiaro, e nonostante lui facesse finta di non capire, sapevo che era
tutta una montatura.
«Sai chi è quella ragazza?». Mi
domandò Lore, facendo un cenno in direzione di Davide, ma
senza mai distogliere lo sguardo dal mio.
Credevo che il suo fosse solo un modo per cambiare discorso, tuttavia
negai con la testa e attesi la sua risposta.
Notai con sollievo che era tornato alla sua solita indifferenza, ma
sapevo che era meglio non abbassare la guardia con lui, e infatti poco
dopo si lasciò andare ad una risatina fastidiosa,
guardandomi con quella sua aria di superiorità.
«Che stupida sei stata a pensare che lo abbia fatto per
te». Disse in un sussurro, in modo che i suoi amici non
potessero sentirlo. «A nessuno importa di quello che ti
succede, ok? Perciò smettila di andare a piangere dai tuoi
amici per ogni cosa».
Ogni sua parola fu un piccolo squarcio nel mio petto. Probabilmente era
la cosa più crudele che mi avesse mai detto, ma non meritava
altre lacrime da parte mia, ne avevo già versate troppe;
raccolsi tutto il dolore che avevo accumulato dentro a causa sua e gli
tirai uno schiaffo in pieno viso, nella stessa guancia arrossata dal
pugno di Davide.
Lore accusò il colpo e sembrò sul punto di
ricambiare, ero certa di avere puntati addosso tutti gli occhi dei
presenti, tuttavia non mi mossi di una virgola, in attesa della sua
reazione.
Era stato gratificante oltre ogni immaginazione colpirlo con tutta la
mia forza, ma ancora di più lo fu vedere lo shock nel suo
sguardo.
Ero riuscita a sorprenderlo, a dimostrargli che non ero in suo pugno
come invece credeva, e questa era senz'altro la vittoria più
grande che avrei mai potuto ottenere contro di lui.
Guardai i suoi amici corrergli ancora una volta incontro, ma qualunque
domanda gli rivolgessero, lui non la prendeva neanche in
considerazione; continuò imperterrito a massaggiarsi la
guancia perso nei suoi pensieri, lanciandomi invisibili scintille di
fuoco con gli occhi. E mi sentii sicura di poter affernare che per una
volta c'ero io nella sua testa.
Dopo qualche minuto di tranquillità, poco prima che
l'autobus finalmente arrivasse, Davide si avvicinò a
Lorenzo, accompagnato dalla solita ragazzina, che ora lo teneva sotto
braccio con un accenno di sorriso.
«Cosa vuoi, ancora?». Si lamentò Lore
annoiato, dimostrando scarso interesse per quello che il suo (ex) amico
aveva da dirgli.
«Solo dirti che se ti dovessi prendere ancora gioco di mia
sorella non te la caverai con una guancia rossa».
Sua sorella? Quella accanto a lui era sua sorella?!
In pochi secondi tutto mi fu più chiaro e sentii un pizzico
di delusione nel realizzare che in fondo quello che Lorenzo mi aveva
detto non era del tutto sbagliato.
Certo, magari aveva usato parole forti e pungenti, ma la
realtà non era tanto diversa, né meno crudele.
«Tutto qui?». Chiese Lore con un'alzata di spalle.
«Tranquillo, non ho la minima intenzione di avvicinarmi
ancora a lei. Sai, è stato tutto abbastanza
deludente».
La sua allusione volutamente provocatoria non sortì alcun
effetto su Davide, che sorrise di rimando e rispose: «Bene,
perché credo che Carol abbia qualche cosetta da dire in
proposito alla tua fidanzata».
Lore alzò un sopracciglio scettico, neanche minimamente
turbato dalla possibilità di perdere Diana. «Se
questa è la tua vendetta, fai pure, non me ne importa nulla,
anzi mi stai facendo un favore».
E dalle sua parole ebbi la conferma che per lui i sentimenti non
significavano nulla, riduceva tutti rapporti con l'universo femminile a
qualcosa di puramente fisico, mentre quelli con le persone del suo
stesso sesso consistevano in una semplice ammirazione sconsiderata
degli altri nei suoi confronti.
Io ero davvero più sola di lui, ma esclusivamente dal punto
di vista materiale, perché per tutto il resto Lore lo era
molto più di me e la cosa più triste era che non
voleva far niente per cambiare questo aspetto della sua vita, mentre io
mi battevo ogni giorno.
«Se hai finito con le minacce puoi anche andare, la tua
fermata se non sbaglio è dall'altra parte».
Continuò scocciato, vedendo che Davide non accennava ad
andarsene.
«No, ancora un'ultima cosa». Disse Dav, facendo
scomparire il finto sorriso dalle sue labbra.
Fece una breve pausa e mi rivolse una altrettanto breve occhiata.
«Mia sorella non è l'unica da cui devi stare
lontano, e non c'è bisogno che faccia nomi,
vero?».
Nessuno sembrò capire a chi si riferisse Davide, e se
proprio lui non mi avesse guardata prima di parlare probabilmente non
lo avrei capito neanche io.
In quell'esatto momento, mentre tutti bisbigliavano le più
svariate congetture sul nome della "fortunata", l'autobus
frenò bruscamente davanti a noi e Lore si alzò
ignorando la domanda di Davide; almeno finché tutti non
furono saliti.
«Tienitela pure quella secchioncella da quattro soldi, faccio
volentieri a meno anche di lei».
Non badai nemmeno a quella risposta, era arrabbiato con me e quindi era
impossibile capire quale parte di ciò che aveva detto fosse
vera e quale no.
Salutai Davide con una mano e gli mimai un "grazie" con le labbra,
prima di seguire Lorenzo sul pullman e prendere la direzione opposta
alla sua.
Arrivai a casa tremendamente stanca, sia fisicamente che
psicologicamente.
Per tutto il viaggio di ritorno non si era fatto altro che parlare
della lite e quindi ero stata costretta ad ascoltare almeno dieci
versioni diverse dell’accaduto, ognuna delle quali arricchita
con uno o più particolari inventati.
Nel dettaglio, una delle tante mi aveva colpita, sia per la fervida
fantasia di chi l’aveva costruita ad arte che per
l’ironia di quanto in parte fosse vera, peccato che nessuno
l’avesse creduta possibile.
Secondo l’inventore della storia, Davide aveva preso a pugni
Lorenzo per dieci minuti buoni perché il suo presunto
migliore amico, ad una festa della sera prima, si era
“fatto” – così aveva detto,
senza specificare in quali termini – la sorella.
Stando alle voci, Carol – così si chiamava
– aveva sempre avuto un debole per Lorenzo, che per anni non
aveva fatto altro che ignorarla, definendola troppo piccola e
appiccicosa per i suoi gusti, ma cedendo alla tentazione quando lei gli
si era praticamente appiccicata addosso.
Sempre secondo i rumors, quello che aveva fatto imbestialire Davide,
però, non era stato tanto l’accaduto in
sé, ma bensì il fatto che Lorenzo frequentava
ufficialmente Diana e questo l’aveva portato a credere che la
sorella per lui era stato solo un modo per divertirsi e
“trasgredire” le regole di un rapporto di coppia.
Fin qui la storia era piuttosto credibile, e a mio parere poteva anche
essere veritiera (tranne per il particolare dei dieci minuti di pugni),
se non fosse stato che – non contento –
aveva elaborato una teoria pure per il mio intervento.
In pratica, come se la relazione con Diana non bastasse, Lorenzo si
vedeva di nascosto anche con me – che ero d’accordo
con il “ménage a trois” – ma
non essendo a conoscenza della sbandata con Carol mi ero infuriata e
avevo aiutato Davide a picchiarlo brutalmente.
Non appena quest’ultima parte era venuta fuori, tutti gli
ascoltatori erano scoppiati a ridere e si erano complimentati con il
pettegolo per l’inventiva senza eguali.
Ma perché risultava così difficile credere che io
potessi stare con Lorenzo? Insomma, cosa avevo in meno di lui?
Certo, non ero bella da mozzare il fiato, non avevo corteggiatori
pronti a comparire dietro l’angolo e né tantomeno
cambiavo partner ogni settimana; ma non mi ritenevo nemmeno
così fuori dalla sua portata…non ero mica un
mostro!
Il carattere. Mi risposi da sola dopo averci pensato a lungo.
Eravamo incompatibili sotto quel punto di vista, praticamente i due
poli opposti, oppure le due facce di una stessa medaglia, lui aperto
allo svago e io precisina e abbastanza studiosa, lui molto estroverso e
io troppo chiusa.
E allora che fine aveva fatto il detto “gli opposti si
attraggono”? Io lo avevo imparato in quei pochi giorni
passati a stretto contatto con Lorenzo quanto fosse vero, ma nessun
altro sembrava crederci e comunque ormai non aveva più
importanza.
Mangiai controvoglia per evitare di suscitare sospetti in mia madre ed
andai subito a chiudermi in camera mia, dove neanche due secondi dopo
suonò il mio cellulare.
Un nuovo messaggio.
Da Davide.
Mi sedetti sul letto per leggerlo e mentre si apriva mi chiesi cosa mai
volesse dirmi di così urgente da ricorrere agli sms (sapeva
quanto li odiavo).
Sentivo il cuore battere sempre più velocemente nel mio
petto, riflesso incondizionato dell’ansia che mi era montata
addosso, e quando finalmente ebbi il testo davanti mi pentii amaramente
di averlo aperto.
Scusa per la
terribile scenata a cui hai dovuto assistere oggi, ma ero fuori di me.
Quel coglione ha fatto credere a mia sorella di avere qualche reale
possibilità con lui, quando tutti sappiamo che non
è così, e venirlo a sapere dopo che ti avevo
visto in quello stato mi ha fatto esplodere di rabbia.
Sono certo anche che
ti ha detto delle crudeltà quando ti si è
avvicinato per non farsi sentire, vero? Qualunque cosa fosse, sappi che
era arrabbiato per la mia scenata, e che probabilmente ha ingigantito
il tutto per ferire anche te e non essere l’unico a soffrire.
Nonostante tutto io
credo che gli darò un’altra
possibilità, se ha fatto quel che ha fatto doveva essere
proprio incasinato (e credo di sapere il
perché)…tu che cosa hai intenzione di fare, lo
perdonerai mai?
È uno
stupido, lo sappiamo benissimo entrambi, ma se vuoi parlarne con me sai
dove trovarmi e sono certo di poterti aiutare. Credo che tu debba
sapere alcune cose su di lui.
Scusa per il poema XD
Ci vediamo domani a scuola. Ti voglio bene.
In due secondi tutta la mia risolutezza nel mettere la parola fine a
tutta quella storia si era frantumata.
Davide non era tipo da bugie, se mi aveva detto che aveva qualcosa da
dirmi a proposito di Lorenzo allora era vero.
E se lui aveva intenzione di perdonarlo, dopo tutte le
crudeltà che - magari per rabbia - aveva detto a lui e sua
sorella, evidentemente non riteneva la faccenda tanto importante, e
forse per gli stessi motivi di cui voleva mettermi a conoscenza.
Tuttavia, le nostre posizioni erano completamente diverse.
Nel mio caso, era stato proprio Lorenzo ad allontanarmi, lui mi aveva
messo davanti a quella scelta e io avevo preso l'unica decisione
possibile.
Non ci sarebbe stato alcun futuro per noi due se avesse
continuato a comportarsi in quel modo egoista. Non era quello il
Lorenzo che volevo al mio fianco, se lui non aveva intenzione di
affezionarsi seriamente a qualcuno, allora non ero interessata a
perdere tempo con una relazione senza alcuna via di uscita, in cui
avrei continuato ad alternare momenti di felicità assoluti a
giorni di grande sofferenza.
Mi rendevo sempre più conto che quello che provavo nei suoi
confronti stava prendendo una piega troppo pericolosa; avrei
fatto meglio a interrompere tutto sul nascere, non potevo permettere ai
miei sentimenti di farmi apparire debole davanti a lui.
Sarebbe stata praticamente la mia fine.
Cancellai tutti quei pensieri dalla mia mente e risposi al messaggio di
Davide, seppur con qualche difficoltà.
Non ti preoccupare,
chiunque avrebbe fatto lo stesso al posto tuo :)
Ti prometto che
parleremo il prima possibile, ma per il momento ho seriamente bisogno
di fare chiarezza su molte cose...da sola.
Riguardo al perdono,
non credo di farcela, non adesso almeno.
Non lo odio, ma non
posso rischiare...capisci cosa intendo? Probabilmente no, ma a dire il
vero neanche io, perciò lascia stare.
A domani, ti voglio
bene compagno di banco cerca risse :P
Avevo cercato di apparire sicura e in grado di gestire la situazione,
ma in realtà non avevo la più pallida idea di
cosa fare, avrei atteso semplicemente l'arrivo di Martina e Rosaria; di
certo loro avrebbero saputo darmi consigli su come impedirmi di
innamorarmi di uno stronzo prima che fosse troppo tardi.
O almeno speravo di essere ancora in tempo.
Note:
*Bourbon è una specie di rosticceria, assolutamente
inventata e che non ho la più pallida idea se esista davvero a
Milano XD
Hola a tutti, sono tornata! :D
Innanzitutto Buon Natale e Felice anno nuovo!
Scusate ancora per il ritardo nell'aggiornamento ma con le feste di
mezzo non ho avuto molto tempo per scrivere e quindi ci ho messo un po'
di più per finire il capitolo!
Siccome ho visto che avete apprezzato la lunghezza di quello
precedente, ho deciso di mantenere anche questo sulle 20 e passa
pagine, sperando che non risulti troppo pesante.
Ok, passiamo agli avvenimenti principali :
- La "rottura" (ma de che?) tra Giorgia e Lorenzo!
Ve l'aspettavate? Be', a mia discolpa ho da dire che nello scorso
capitolo vi avevo messo in guardia...era logico che ci fossero delle
conseguenze e purtroppo eccole qui ç_ç Sul fatto che il
biondino sia un po' confuso ormai non ci sono dubbi e quando Giorgia
prova a "scalfire" il suo muro, lui si chiude in difesa e le dice in
malomodo di non intromettersi nella sua vita, perciò ancora una
volta la nostra protagonista è costretta a fare una scelta: se
Lorenzo non ha intenzione di cambiare ed è deciso a rimanere lo
"stronzo" che è stato per sette anni, allora è meglio
accantonare le speranze e finirla prima che tutto precipiti .
- La doppia (o tripla?) relazione di Lore. Su questo
punto so che molte di voi staranno dando a Giorgia della stupida per
aver deciso di continuare a "stare" con Lorenzo nonostante il suo
fidanzamento ufficiale con Diana, ma ingenuamente
lei crede di poter tirare fuori il meglio di Lorenzo ed è
convinta che in lui ci sia ancora qualcosa del suo ex migliore amico.
Ben presto però capisce che in realtà non ha la minima
intenzione di mostrare apertamente quel lato del suo carattere e che
vuole rimanere esattamente com'è: freddo e scostante. A Giorgia
questo non sta bene e quindi rinuncia al suo desiderio di
riconquistarlo.
- L'organizzazione del "weekend party" con Martina e
Rosaria. Finalmente Giorgia potrà sfogarsi liberamente con le
sue due migliori amiche, che daranno un contributo fondamentale alla
storia...ooops, fate finta che non vi abbia detto nulla XD
- La rabbia di Davide. A questo proposito devo dire che Davide ha sì cercato di fare a botte con il suo migliore amico principalmente
per quello che è successo con la sorella, tuttavia, il motivo
del suo "scoppio" non è solo questo, ma una serie di eventi che
hanno avuto il culmine nella sua personale "realizzazione" di quanto
Giorgia soffra per la sua relazione con Lorenzo. La loro amicizia
è diventata molto forte, e anche se lei lo esclude da quasi
tutte le sue decisioni, Davide è deciso
ad aiutarla e farà il possibile per riuscirci...anche
confessargli i segreti più segreti del suo migliore amico.
- Ultimo punto, ma non meno importante...Giorgia capisce che si sta innamorando di Lorenzo e questo non va assolutamente
bene, da questo sentimento non potrà mai ricavare nulla di buono
e per questo decide di fare affidamento sui consigli delle sue ultime
"speranze".
Oddio, ho scritto troppo, ma ci tenevo a chiarire alcuni
punti che - mi rendo conto - possono risultare un po' "forzati" o
"strani".
Non credo di dover aggiungere altro alla spiegazione del capitolo, se
non l'augurio che vi possa piacere e che non vi abbia deluso. Dopo le
vostre bellissime recensioni sullo scorso capitolo, non lo vorrei mai e poi mai...sarebbe una mia personale sconfitta T.T
E a questo proposito volevo ringraziarvi una per una per le bellissime parole che mi avete regalato; quindi un enorme grazie a: HazelStardust, Stella nera, mery_dec_, happyness elly, eveline90, Miss Demy, AntoJosephine, MakaGD e Deilantha.
Arrivare a 9 recensioni per un capitolo è stato il più bel regalo di Natale che avreste potuto farmi! THANK YOU!
Ma grazie anche a chi ha aggiunto la storia tra le preferite, ricordate e seguite!
Vorrei dirvi grazie in tutte le lingue del mondo, ma purtroppo ne
conosco solo due e mezza, per cui...vi saluto e vi mando un grosso
bacio.
Alla prossima,
Veronica.
P.s: vi chiedo scusa se per caso ci dovessero essere alcuni errori, ho
letto e riletto il capitolo ma potrebbe essermene sfuggito qualcuno,
per cui perdonatemi!
|
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Capitolo 10 *** Vecchie e nuove conoscenze. ***
Capitolo 10 prova
Ed eccomi qua - dopo tanto tempo - per un nuovo
aggiornamento! Scusate
il ritardo!
Questa volta, prima di
lasciarvi alla lettura, però, è necessario
che leggiate il seguente avviso:
Recentemente l'amministrazione del sito mi ha fatto notare l'esistenza
di alcune somiglianze tra la mia storia, "Nonostante tutto", e quella
dell'autrice "_Bec_", dal titolo "Tra l'odio e l'amore c'è
la distanza di un bacio", che potete trovare a questo indirizzo: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=474329&i=1
.
Ci tengo a specificare che non era assolutamente mia intenzione
infrangere il regolamento del sito, e quindi creare questa spiacevole
situazione, perciò chiedo scusa all'autrice (a cui
sarò lietissima di fare le scuse in privato), a voi lettori
e all'amministrazione, che è stata davvero paziente e
disponibile con me.
Davvero, mi dispiace moltissimo per tutto quello che è
successo. E dato che mi trovo nella sezione "originali",
provvederò al più presto - e gradualmente, dato
il poco tempo che ho a disposizione - ad eliminare e/o sostituire
questi punti in comune tra le due storie.
Bene, non mi resta che augurarvi buona
lettura...ci "vediamo" giù ;)
Capitolo 9: Vecchie e nuove conoscenze
L'aeroporto non era mai stato così deserto.
Il periodo non era certo dei migliori, ma faceva comunque uno strano
effetto vedere quel posto, sempre gremito di gente intenta a spostarsi
con più o meno velocità in direzione dei
rispettivi gate, vittima di una tale desolazione.
Quel giorno Milano era, se possibile, ancora più fredda; in
ogni angolo della città - le relativamente poche persone che
avevano deciso di uscire a dispetto del tempaccio - erano imbottite
dalla testa ai piedi, con sciarpe, cappelli, guanti e cappotti degni
del miglior sciatore; mentre il solito cielo grigio aveva lentamente
cominciato a tendere al bianco, chiaro segno dell'imminente nevicata.
L'aereo delle 18 era in ritardo, proprio a causa del maltempo, e io
attendevo con ansia l'arrivo di Martina, fantasticando nel frattempo su
come sarebbe stato il nostro incontro.
Avevo decisamente bisogno di un abbraccio stritolatore, addirittura
più forte di quelli che ci scambiavamo quando ci rivedevamo
dopo un intero anno di lontananza, che mi facesse veramente capire che
mia cugina era lì, pronta a darmi il suo sostegno e il suo
aiuto.
Continuavo costantemente a guardare il tabellone degli arrivi, sperando
che il ritardo non aumentasse ulteriormente, e ogni tanto scambiavo
qualche chiacchiera con mio padre, che mi aveva accompagnata
lì risparmiandomi un terribile viaggio in metropolitana.
Dopo circa un'ora d'attesa - troppa - finalmente l'aereo
atterrò e io mi precipitai verso l'uscita del gate, sotto
gli occhi attoniti di papà, che mi chiamò come se
fossi impazzita.
Non passò molto tempo prima che vedessi il suo sorriso
raggiante e i suoi lunghissimi capelli biondi fare capolino dal nulla,
insieme al suo solito trolley rosa che avrei volentieri fatto a pezzi;
e fu inevitabile constatare quanto mi fosse mancata, soprattutto quando
le corsi incontro e lei, prima di stringermi, mi disse: “Sono
qui, adesso non devi preoccuparti più di nulla”.
Fu difficile trattenere le lacrime di gioia e se ci riuscii fu solo
perché mio padre ci raggiunse poco dopo, interrompendo il
nostro momento perfetto e rimproverandomi per essermi allontanata in
quel modo. Forse non sapeva che non ero più una bambina, ma
d’altronde non aveva mai avuto a che fare con dei figli, come
potevo biasimarlo?
Per fortuna la ramanzina non durò molto, perché
si concentrò quasi immediatamente su Martina, salutandola
affettuosamente e offrendosi di portarle la valigia. In quanto a
galanteria, mio padre era semplicemente perfetto, in poche parole
l’emblema di come un uomo avrebbe dovuto essere, e non mi
riferivo solo a quelle particolari occasioni, ma ai piccoli gesti
quotidiani che l’avevano reso ai miei occhi così
speciale.
Il viaggio verso casa fu monopolizzato da mia cugina, che
cominciò a raccontarci delle sue
“sventure” di viaggio e di come Milano la rendesse
triste, facendo anche riferimento all’umidità che
le arricciava i capelli e al freddo che l’aveva costretta ad
indossare abiti pesanti. Era un po’ vanitosa – se
così vogliamo definirla – a volte, ma quando si
trattava di farsi in quattro per le persone, allora diventava la
ragazza più dolce e premurosa del mondo e non
l’avrei scambiata con nessun altro, assolutamente.
Quando arrivammo a destinazione era ormai ora di cena e il che
significava che Lorenzo era certamente a casa. Se c’era una
parte della giornata che passava sicuramente con la famiglia, quella
era la sera, l’avevo imparato con il tempo e ovviamente mia
madre aveva avuto un ruolo fondamentale in tutta questa
“conoscenza” indiretta.
Lanciai una fugace occhiata alla porta di fronte alla mia, con il cuore
a mille per la possibilità che potesse uscire proprio in
quel momento, e quello che mi sorprese fu vedere Martina fare la stessa
identica cosa, con la differenza che il suo sguardo era carico
d’odio, mentre il mio rifletteva lo stesso mix di sentimenti,
senza forma né consistenza, che provavo.
A quel punto mi uscì un sorriso spontaneo, perché
vederla così agguerrita e pronta a rivoltare il mondo pur di
difendermi non poteva che rendermi felice. In fondo era proprio
ciò di cui avevo bisogno, anche se questo poteva essere
considerato un po' egoistico da parte mia.
«Ragazze, avete intenzione di stare sul pianerottolo a
vita?». Ci richiamò mio padre ancora sull'uscio e,
dopo esserci scambiate uno sguardo complice, entrammo in casa, dove per
l'enorme gioia di Marti c'erano almeno quaranta gradi.
Fino a quel momento, l'unico posto dove mi ero sempre sentita al sicuro
era casa mia, per questo mai mi sarei aspettata di vedere questa mia
certezza, che durava da praticamente una vita, infrangersi in due
secondi netti.
Mi accorsi che qualcosa non andava nell'esatto momento in cui mia
cugina si bloccò all'improvviso davanti alla porta della
cucina. Anche se l'impatto con la sua schiena non fu dei peggiori, un
"ahi" quasi meccanico mi uscì dalla bocca e a quel punto lei
si voltò verso di me, fingendo un sorriso.
«Giorgia, che ne dici se mi ricordi dov'è il
bagno?». Mi chiese cercando di spingermi via, mentre salutava
frettolosamente mia madre.
Tentai inutilmente di guardare oltre Martina, perché ero
certa che mi stesse nascondendo qualcosa, oppure semplicemente era
impazzita, ma a quel punto intervenne proprio colei che mi
aveva dato la vita, chiaramente insoddisfatta di come si era presentata
mia cugina.
«Oh, eccovi qui». Sentii distintamente i suoi passi
in nostra direzione, in seguito ai quali Martina - probabilmente a
corto di idee - si spostò, lasciandomi davanti proprio
all'ultima delle persone che avrei voluto vedere.
Non appena catturai il blu dei suoi occhi con i miei balzai
all'indietro come scottata, e la classica fitta allo stomaco
cominciò ad impedirmi di respirare correttamente.
Non riuscivo a credere a quello che stavo vedendo, era troppo anche per
lui, non poteva rovinare tutto così, presentandosi a casa
mia come se nulla fosse successo, senza pensare minimamente a quanto mi
sentissi male per causa sua.
Oh be', in fondo cosa glielo impediva? Era l'egoista tra gli egoisti,
per lui contavano solamente i suoi sentimenti...quelli degli altri
erano semplice erbaccia da calpestare a piacimento.
Forse impiegai troppo tempo per reagire, ma una parte di me credeva che
fosse solo frutto della mia immaginazione e quando finalmente distolsi
lo sguardo ero consapevole di avergli mostrato ancora una volta quanto
fossi debole.
Vidi l'espressione dispiaciuta di mia cugina, impegnata ad abbracciare
mia madre e a intavolare una discussione di circostanza con lei.
Tentai in tutti i modi di ignorare il ragazzo davanti a me, sebbene
fosse così vicino che il suo profumo aveva cominciato a
stordirmi, ma evidentemente lui non era poi così disposto a
lasciare posto al silenzio…non aveva intenzione di
risparmiarmi altra sofferenza.
«Ehi». Mi salutò infatti, apparentemente
più distaccato del solito, ma io sapevo che mi aveva rivolto
la parola solo per mettermi in difficoltà. Poteva mentire
agli altri, ma con me non ci sarebbe più riuscito,
perché non lo avrei neanche ascoltato.
Non volevo far capire a mia madre che tra di noi c'era dell'astio,
avrebbe cominciato a fare domande ed intromettersi, e in quel momento
era davvero l'ultima cosa che volevo; per questo mi sforzai di apparire
tranquilla e serena ai suoi occhi, riuscendo persino a simulare un
sorriso di circostanza quando risposi al saluto di Lorenzo.
«Ciao, come va?».
Lore inizialmente mi rivolse uno di quegli sguardi strani, tipici di
chi si trovava davanti qualcosa che non si aspettava, e fui
piacevolmente colpita dal lampo di sopresa che attraversò i
suoi occhi per un secondo, a dispetto della maschera di indifferenza
che indossava.
«Esattamente come stamattina». Rispose sarcastico,
lanciandomi una delle sue occhiate indecifrabili. «In forma
come al solito, ma potrebbe andare meglio».
Continuò come se il "potrebbe andare meglio" non fosse di
alcuna utilità. Forse era solo un'ulteriore dimostrazione di
quanto fossi illusa, ma una parte di me credeva che fossi io la causa
di questo piccolo intoppo nella perfezione che era normalmente la sua
routine.
«Sono certa che - qualunque cosa sia - si
sistemerà tutto».
Ok, questo trucco era abbastanza squallido, meschino e certamente non
da me, che sapevo non sarebbe mai successo. Ma perché lui
poteva ricorrere ai più svariati metodi sleali per
difendersi, mentre io no?!
Il sorriso che seguì a quella mia affermazione fu talmente
gelido che mi sembrò di sentire scendere vertiginosamente la
temperatura confortevole della casa, causandomi qualche brivido di
troppo, che di certo non passò inosservato ai suoi occhi
attenti.
Un immediato silenzio calò su di noi e per una volta
apprezzai il tentativo di mia madre di salvare la situazione, anche se
alla fine non fece altro che peggiorarla.
«Lorenzo è venuto per portarmi gli
spaghetti». Disse rivolgendosi a me, come se desse per
scontato che volessi sapere per quale motivo lui fosse lì.
«Mi sono dimenticata di comprarli, così ho chiesto
a Rossella se ne aveva un pacco da prestarmi e...».
«Non credo che a Giorgia interessi». La interruppe
proprio Lorenzo, con la classica, finta gentilezza che tirava fuori
quando si rivolgeva a qualche adulto. «Tranquilla, me ne
stavo andando». Concluse sorridendomi, portandosi le mani in
tasca e facendo un altro passo in mia direzione.
«Sicuro di non volerti fermare a mangiare?». Gli
domandò mia madre, che ottusamente non aveva ancora capito
quanto mi desse fastidio la sua presenza lì.
Lore mi guardò un istante, come per volermi tacitamente
chiedere il consenso, e alla fine scosse la testa. «No, ti
ringrazio, la mamma mi aspetta». Disse quasi in un sussurro,
ma in modo stranamente dolce.
Mi spostai automaticamente di lato per lasciarlo passare, abbassando
contemporaneamente lo sguardo per impedirmi di cedere in qualunque
senso. E non seppi dire se fu solo una mia sensazione, dettata da
chissà qualche desiderio inconsulto, ma quando mi
passò accanto sembrò rallentare di proposito il
passo; mentre il calore della sua mano che mi accarezzava il braccio
per quella che fu una frazione di decimo di secondo...be', quello
l'avevo sentito sul serio e non avrei dovuto lasciarmi coinvolgere
così tanto da quel gesto, certamente studiato e volto a
confondermi le idee.
«Ciao Marti, buona permanenza». Salutò
infine mia cugina, piegando le labbra in una sorta di sorriso
ammaliatore, al quale la diretta interessata rispose con un'occhiata di
fuoco.
Ecco perché adoravo mia cugina: non si faceva mettere i
piedi in testa da nessuno e per chiunque ci provasse...aveva in serbo
una vendetta lenta e "dolorosa".
«Grazie, ci vediamo in giro». Lore
recepì chiaramente il messaggio, o meglio la minaccia, alla
quale rispose con un'alzata di spalle e un sorriso beffardo.
Oh sì, ci sarebbe stato da divertirsi in quel fine settimana.
Pochi minuti dopo ero in camera con Martina, che una volta sistemati
alcuni vestiti sul letto aveva cominciato a camminare nervosamente per
tutta la stanza, chiaro segno che qualcosa stava frullando nella sua
testa.
«Marti?». La chiamai stufa di seguire i suoi
spostamenti con lo sguardo.
«Non lo ricordavo così odioso». Rispose
immediatamente lei, massaggiandosi le tempie pensierosa.
«Be', io ti avevo avvisata...ma possiamo non parlarne
ora?».
Sapevo benissimo che il mio era un mero tentativo di dissuaderla,
perché quando si fissava su qualcosa allora non la lasciava
perdere finché non risolveva la questione a modo suo.
«Abbiamo un grosso problema, Giò».
Annunciò bloccandosi all'improvviso nel mezzo della stanza,
ignorando bellamente la mia disperata richiesta.
«E sentiamo, di cosa si tratta?». Le chiesi
buttandomi esausta sul letto, non del tutto certa di voler ascoltare
ciò che il suo cervello aveva macchinato così
velocemente.
Il suo sguardo era seriamente preoccupato e io cominciavo a
sentirmi un po' nervosa. I suoi silenzi prolungati non portavano mai a
nulla di buono. «È antipatico fino al midollo,
stronzo infame e tutto quel che vuoi; ma - cazzo - l'hai visto in
faccia? Mi chiedo come tu abbia fatto a non saltargli
addosso!».
«Ehm..». Intervenni interrompendo le sue
considerazioni, che rasentavano quasi rabbia nei confronti di Lorenzo.
Per lo meno non ero l'unica a provare quei sentimenti per lui, oltre
che ad un ingiustificato affetto.
Martina mi fissò confusa per qualche secondo, con ancora un
dito puntato verso il vuoto, per poi riprendersi immediatamente, quando
si rese conto della scorrettezza delle sue parole. «Giusto,
gli sei saltata addosso». Disse delusa, più di se
stessa che della verità.
«Sì, ma...non capisco cosa c'entri il fatto che
sia bello con questo enorme problema». Risposi mimando le
virgolette per le ultime due parole.
Mia cugina fece uno scatto fulmineo in avanti, che di rimando
mi fece arretrare spaventata sul letto.
«Non ci arrivi?». Mi domandò ad un palmo
dal mio naso e senza aspettare la mia risposta aggiunse:
«Questo cambia tutto, il mio piano perfetto non
funzionerà». Continuò a fissarmi
agguerrita per un po', dopodiché sospirò
rassegnata e si sedette mollemente al mio fianco.
«Quale piano?». Ebbi il coraggio di chiedere.
«Il piano "troviamo qualcuno che faccia sballare come si deve
gli ormoni di mia cugina", ma credo che in questo Lorenzo abbia
già fatto abbastanza».
La sua aria afflitta avrebbe certamente meritato un premio se non fossi
scoppiata a ridere come davanti alla migliore delle barzellette.
«Ehi!». Si lamentò lei offesa, tirandomi
una cuscinata mentre io mi tenevo la pancia dolorante.
«Scusa...». Dissi ancora tra le risate, senza
riuscire a smettere neanche per un secondo. «È che
il tuo piano non avrebbe funzionato nemmeno se Lorenzo non fosse stato
così...figo».
Mi sdraiai a corto di fiato, tentando di asciugare nel frattempo le
lacrime che mi si erano formate intorno agli occhi.
«Si può sapere cosa stai blaterando?!».
Chiese Martina spazientita, e forse anche un po' preoccupata per la mia
ilarità improvvisa.
«È tutto inutile ormai, ci sono dentro con tutte
le scarpe». Tentai di spiegarle, ma la sua espressione
confusa mi esortò a proseguire.
«Sono stata una sciocca a pensare di poter cambiare le cose,
a credere che fossi ancora in tempo».
«Parli come se fossi....».
Mi sembrò quasi di vedere la lampadina nella sua testa
accendersi quando non obiettai alla sua osservazione inconclusa.
«Sono rovinata, Marti...rovinata». Scandii quella
parola con cura, abbandonando anche l'ultima traccia di sorriso che mi
era rimasta.
«Da quando?». Chiese lei corruciando la fronte con
apprensione. Sembrava turbata da quella scoperta, e come avrebbe potuto
non esserlo?
«Non lo so, probabilmente da sempre, e questo mese passato
insieme - tra alti e bassi - mi ha semplicemente aperto gli occhi; per
tutto questo tempo non ho fatto altro che aspettare che mi dimostrasse
qualcosa. Una parola, anche solo una parola mi sarebbe bastata e
lui...lui ha fatto molto di più, mi ha avvicinata, mi ha
fatto credere di poter tornare indietro...ma alla fine erano solo
illusioni costruite ad arte».
Fu confortante sentire la sua mano accarezzarmi delicatamente la
fronte, mentre lei si mordeva un labbro con aria triste e sconsolata.
"Sono ad un vicolo cieco" tutti dicevano, ma solo in quel momento capii
cosa realmente volesse dire quell'espressione; per quanto si cerchi di
sfuggire al peso opprimente di qualcosa, una volta che ci si trova ad
un punto "morto" siamo costretti ad arrenderci all'evidenza, e
così anche la mia dolcissima cugina stava lentamente
realizzando quanto ormai solo il tempo avrebbe potuto cambiare le cose.
«Dannazione, perché mi sono innamorata di uno
stronzo del genere?!». Imprecai tirando un pugno contro il
materasso, e, quando Martina cercò di consolarmi tra le sue
braccia, mi lasciai andare, ascoltando in sottofondo le sue parole
cariche di conforto.
Un paio d'ore più tardi Rosaria ancora non era arrivata, mi
aveva mandato un sms dicendomi che in autostrada c'era traffico a causa
di un incidente e che quindi ci avrebbe impiegato un po' di
più per raggiungerci; i miei erano andati a cena per la
prima volta dopo tanto tempo ed io e Martina, una volta scartata
l'ipotesi "televisione" a causa della pessima programmazione di quella
sera, avevamo deciso di passare l'attesa al computer.
«Credo che i miei non aspettassero altro che il tuo arrivo
per divertirsi un po'». Confidai a mia cugina, che, mentre io
cercavo l'elenco dei film usciti di recente per scegliere quello da
vedere l'indomani, si stava rimpinzando di patatine e salatini con aria
assente.
Accidenti a lei e alla sua capacità di mantenera una linea
perfetta anche dopo aver mangiato intere scatole di cioccolatini.
«Tu dici?».
Sospirai e mi stravaccai maggiormente sul divano. Ero stanchissima,
sebbene non avessi fatto nulla di particolare quel giorno; eccetto
trovarmi Lorenzo in casa al mio ritorno. «Purtroppo
sì, credo che mi considerino ancora una bambina che non
è in grado di stare in casa da sola».
«Si preoccupano per te». Spiegò Martina
cominciando a gesticolare, ma prima che partisse con i suoi monologhi
senza senso la bloccai.
«Se fosse per loro non dovrei neanche uscire la sera, ma
questo problema neanche se lo pongono dato che non ho una vita
sociale».
«È il loro modo di volerti bene, Giò,
prima o poi si renderanno conto che stanno sbagliando».
Corrucciò la fronte e mi guardò con rimprovero.
«E comunque sei tu che non vuoi una vita sociale, da
quando...coso ha tradito la tua amicizia».
Un sorriso mi sorse spontaneo sulle labbra. Odiava il fatto che avessi
deciso di non legarmi a nessuno per non soffrire ancora; per questo
avevo tentato in tutti i modi di spiegarle che più che una
volontà era un riflesso incondizionato allontanare le
persone, prima che potessi affezionarmici troppo.
«Allora è proprio un modo assurdo.
Perché privarsi della loro felicità solo per
darla a me? Guarda i genitori di Lore, lui è perennemente
fuori casa, ma non gli dicono nulla». Non appena mi resi
conto di ciò che avevo detto, mi fermai interdetta.
«Perché siamo finite a parlare di lui? Basta,
concentriamoci sul film!». Feci una breve pausa e –
prima che Martina potesse ribattere – cominciai a scorrere
tutti i titoli che avevo davanti, rinunciando, tuttavia, all'impresa
quasi subito. «Allora, horror, romantico, fantasy o
avventura?».
Martina non aggiunse altro alla faccenda Lorenzo, valutò
semplicemente la mia domanda. «Escluderei i film d'amore, non
credo ti facciano bene nella situazione in cui sei ora».
Decretò sicura di se, per poi proseguire con l'analisi delle
categorie. «L'ultima volta che abbiamo visto un horror, se
non sbaglio hai avuto gli incubi la notte...».
«Ma è stato l'anno scorso!». Mi difesi
vedendo quanto si stesse divertendo a prendermi velatamente in giro.
«Ora sono diventati i miei film preferiti».
Ok, forse non proprio preferiti, ma questo potevo pure ometterlo.
Martina inizialmente mi fissò scettica, ma alla fine si
arrese. «Va bene, mi fido, che horror sia allora».
Sorrisi di rimando e feci per aprire la lista degli horror, ma lei me
lo impedì sottraendomi il pc da sotto il naso, in un gesto
talmente veloce che ci misi un po’ a realizzare
l’accaduto. La sua espressione macchinosa non lasciava
presagire nulla di buono, non era da lei partecipare così
poco attivamente alla scelta di un film da vedere, me n'ero accorta fin
dal subito che aveva la testa tra le nuvole e in quel momento ebbi la
certezza che aveva in mente qualcosa di importante, un altro dei suoi
piani “ingegnosi” che avrebbe portato ad una serie
infinita di guai.
«Gli horror sono la mia specialità, non
c'è bisogno di fare affidamento su internet».
Spiegò lei fieramente, liquidando la faccenda film in due
secondi, prima di aprire facebook soddisfatta.
«Cos'hai intenzione di fare?». Le chiesi
preoccupata, ma lei si limitò a dirmi che era tutto okay e
di fidarmi.
Ed effettivamente ci provai, ma sapevo di non poter stare tranquilla
con lei.
Un brutto presentimento mi colse nell'esatto momento in cui
cominciò ad analizzare tutti i nomi degli amici presenti in
chat. Aveva lo sguardo assottigliato, chiaramente in cerca di un nome
in particolare, ed io credevo di sapere quale fosse.
«Marti, cosa...». Tentai di fermarla, ma ormai era
troppo tardi, una finestra di chat comparve come nel peggiore dei miei
incubi.
«Non c'è stato nemmeno bisogno che lo contattassi
io». Disse allegramente, cominciando a battere sulla tastiera
alla velocità della luce.
«Marti, esci subito dalla chat, non rispondergli».
Provai a riappropriarmi del mio computer in tutti i modi possibili, ma
senza alcun risultato. Non ero mai stata brava nell'autodifesa, neanche
quando facevo karate, ma forse avrei dovuto valutare seriamente la
proposta di frequentare un corso.
«Cuginetta, un giorno mi ringrazierai per questo».
Affermò con sicurezza, per poi premere il tasto invio con
forza mentre io mi portavo le mani ai capelli dalla disperazione.
La pregai in tutte le lingue del mondo, mi inginocchiai anche, ma alla
fine non mi restò che leggere la conversazione, guardando la
scena impotente.
Lorenzo scrive:
Salve, Miss "si sistemerà tutto".
Giorgia scrive:
Sì, con un calcio dove dico io probabilmente si sistemerebbe
tutto. Peccato che Giorgia sia contro la violenza.
Lorenzo scrive:
Ooooh, giusto, quasi dimenticavo della fila di suoi protettori pronti a
difenderla.
Fammi indovinare: la tua povera cuginetta indifesa ti ha raccontato
tutto e ora me la vuoi far pagare. Be', in tal caso sai dove trovarmi,
ma mettiti in coda.
Giorgia scrive:
Non immagini quanto, ma voglio solo parlare...per il momento.
Lorenzo scrive:
Quel tuo "per il momento" potrebbe essere frainteso ;)
Giorgia scrive:
Hai ragione, avrei dovuto mettere in chiaro le cose fin dall'inizio: mi
dispiace ma non sono interessata agli stronzi. Adesso posso andare
avanti o hai intenzione di continuare a sviare le mie domande?
Lorenzo scrive:
Chi lo sa...
Martina si passò nervosamente una mano tra i capelli, mentre
le dita dell'altra ticchettavano sulla tastiera in una specie di rito
anti stress che le avevo visto fare tante volte.
Giorgia scrive:
Immagino che se ti chiedessi perché l'hai fatto non ci
caverei un ragno dal buco, e poi non mi pare il caso discuterne qui su
facebook, perciò...che ne dici se domani ci facciamo una
bella chiacchierata, io e te?
Passò qualche minuto prima che la risposta di Lore
arrivasse, tempo che passai in compagnia dell'ansia. Qualunque cosa
avesse in mente Martina, avrebbe fatto bene a lasciarmene fuori...non
avevo la benché minima intenzione di affrontarlo
così apertamente in quel momento di confusione totale. Avrei
finito per combinare l'ennesima cavolata ed era proprio
l’ultima cosa di cui avevo bisogno.
Lorenzo scrive:
A te non ho un bel niente da dire. Perciò...no, grazie :)
Giorgia scrive:
E se ci fosse pure Giorgia? Cambieresti idea?
Non so cosa mi avesse impedito di intervenire fino a quel momento, ma
qualunque essa fosse, venne meno nell'esatto frangente in cui lessi
l'ultimo messaggio di Martina.
«Cosa?!». Urlai con voce stridula.
«Marti, no, piuttosto che parlare con lui mi mangerei un
piatto di broccoli!». Il solo pensiero mi fece rabbrividire,
ma sarei stata disposta a tutto pur di non avere un faccia a faccia con
Lorenzo.
Martina ridacchiò piuttosto divertita, senza darmi troppo
ascolto. Non riuscivo a capire come potesse essere così
serena quando io avrei volentieri preso un biglietto di sola andata per
il Polo Nord pur di sparire dalla circolazione e liberarmi di tutti i
miei problemi. «Come sei estremista, comunque non ti
preoccupare, è solo una trappola».
«Oh be', ora sì che sono tranquilla».
Dissi con voce appena udibile, scuotendo contemporaneamente la testa in
segno di resa.
Lorenzo scrive:
Non credo che abbia molta voglio di vedermi, sai?
E poi tutta questa storia non mi convince: perché mai tu
dovresti aiutarmi a parlare con lei?
Giorgia scrive:
Oh, non lo faccio certo per te, semplicemente non mi va di vedere mia
cugina soffrire a causa di uno stronzo qualsiasi e prima di aiutarla a
cancellarti definitivamente dalla sua vita voglio essere sicura che per
te non conti nulla.
In breve, sto cercando di salvare il salvabile: se posso evitare di
ricorrere a metodi drastici per aiutare mia cugina sarebbe meglio ;)
Passarono minuti e minuti di silenzio totale da parte di Lorenzo, che
probabilmente si stava chiedendo dove fosse la fregatura in tutta
quella storia, a buona ragione, e quando arrivò la
risposta non potei fare a meno di esserne sorpresa.
Lorenzo scrive:
Domani alle 3 al bar del Centro, Giorgia sa dov'è ;)
«Astuto il ragazzo». Commentò Martina
pensierosa, voltandosi poi per guardarmi - anzi squadrarmi - con
attenzione. «Ma io lo sono più di lui».
Concluse tornando a concentrarsi sul monitor che aveva davanti, dove
era appena comparso un nuovo messaggio.
Lorenzo scrive:
Ora, se non ti dispiace, devo andare. I miei amici mi aspettano.
Giorgia scrive:
Nessun problema, playboy, quante ragazze farai cadere nella tua rete,
stasera?
Lorenzo scrive:
Simpatica! Non più di due, credo, sono piuttosto stanco e
non vorrei deludere nessuno...;) Scappo, ciao Dolly, ciao
Giò (so che stai leggendo)...non piangerti troppo addosso :D
Lorenzo è offline.
«Che essere irritante!». Sbottai una volta chiusa
la conversazione, arrabbiata più per il saluto che mi aveva
rivolto a sorpresa che per la sua solita indole da figo che aveva
mostrato. «"Dolly"». Aggiunsi poi, mimando le
virgolette nell'aria con una smorfia.
«Io mi aspettavo peggio». Rispose Martina
rilassandosi un po' contro lo schienale del divano.
«È un ragazzo piuttosto interessante».
«Quanto la mia collezione di peluche». Ribattei
ironica, riuscendo finalmente a riappropriami del mio computer.
«Piuttosto, spero che tu abbia in mente un buon piano per
coprire la mia "assenza" all'appuntamento di domani».
Martina fece una smorfia di disappunto. «No, a dire il vero
non ce l'ho, ma mi inventerò qualcosa e poi...ho ottenuto
esattamente quello che volevo». Disse arricciando le labbra
compiaciuta, fissando un punto indefinito sul muro di fronte a lei.
Aggrottai le sopracciglia, non del tutto certa di voler sapere di cosa
si trattasse. «E cioè?».
Marti, dal canto suo, sembrava non aspettasse altro che questa domanda
per lasciare esplodere tutto il suo entusiasmo, infatti mi si
gettò addosso come un koala.
«Informazioni, cuginetta, di cui verrai a conoscenza non
appena avrò portato a termine tutta la faccenda. Devo prima
esserne sicura».
Annuii poco convinta della riuscita del suo piano e rilessi tutta la
conversazione con calma.
«Credi che abbia detto quelle cose sulle ragazze di stasera
solo perché pensava che stessi leggendo pure io?».
Chiesi vergognandomi come una ladra del fatto che stessi mostrando
interesse per quello che Lorenzo faceva o non faceva realmente.
«Non lo so, ma non ti preoccupare, con loro non è
nulla di serio».
«Ah, quindi con me sì?». Domandai
sarcastica, rispondendomi da sola immediatamente. «Marti, con
nessuna è qualcosa di serio, e io non faccio
eccezione».
Martina non sembrò affatto turbata dalla mia affermazione,
anzi, le sue labbra si piegarono persino in un debole sorriso, di cui
non capii il significato. «Mia cara, c’è
una differenza fondamentale tra te e le ragazze che conosce
la notte in discoteca – o dove cavolo va lui – e su
questo sono pronta a metterci la mano sul fuoco».
Sollevai scettica un sopracciglio, esortandola a parlare e nascondendo
contemporaneamente la mia impazienza. «Hai intenzione di
dirmi qual è oppure prima vuoi aumentare la suspance con una
musichetta adatta?».
Martina sbuffò irritata, ma per lo meno arrivò
dritta al punto. «Non importa quante cazzate faccia, quanto
ti ferisca o ti allontani di proposito…alla fine
tornerà sempre da te e sai perché?».
Scossi sistematicamente la testa in segno di diniego, sentendomi il
cuore in tumulto nel petto.
«Perché sei probabilmente l’unica
persona di cui gli importi veramente qualcosa».
«Anche Davide ha detto la stessa cosa». Dissi
sottovoce tra me e me. «Ma possibile che io sia
l’unica a non crederci? Non mi ha mai dimostrato nulla e
quando l’ha fatto, mi ha allontanata
subito…».
«Le mie sono solo supposizioni, ma ho buone ragioni per
credere ciò che credo e domani lo costringerò a
vuotare il sacco». Si voltò energica verso di me e
mi prese le mani tra le sue. «Non è detto che tu
debba rinunciare a lui, per il momento devi solo fidarti di me,
ok?».
Annuii accennando un sorriso. «Non sei tu il problema, Marti,
è di lui che non mi fido, non dopo tutto quello che
è successo. Non posso rischiare di nuovo,
capisci?».
Mia cugina si morse un labbro nervosamente, fissandomi in modo strano
per un po', prima di gettarmi addosso un cuscino che mi
colpì in pieno viso.
«Ok, va bene, basta parlare di lui, non voglio vederti
piangere di nuovo». Si affrettò a chiudere il
discorso, probabilmente notando i miei occhi lucidi.
«Sono pessima».
«No, sei solo innamorata».
Le parole di mia cugina mi fecero uno strano effetto, mi resi
conto che da quel momento in poi avrei dovuto convivere con quella
consapevolezza; non era più una cosa astratta o lontana, era
forse diventata la certezza più reale della mia vita e avrei
dovuto abituarmici.
Capirlo era stato difficile, ammetterlo anche, ma sentirselo dire era
un altro paio di maniche e io non ero assolutamente preparata per
questo.
«Bello schifo». Commentai con una smorfia,
allungandomi per prendere il cellulare sulla mensola dietro al divano.
Composi velocemente il numero di Rosaria e aspettai che rispondesse
sbadigliando. Cominciavo ad avere sonno e di lei non c’era
neanche l’ombra.
«Rosy, dove sei?». Chiesi sdraiandomi sul divano,
sotto gli occhi stanchi di mia cugina, che era chiaramente in procinto
di addormentarsi.
«Vai a rispondere al citofono». Rispose lei
enigmatica come al solito.
Un po’ per la tarda ora, un po’ per la mia lentezza
nel capire le cose, impiegai qualche secondo di troppo nel decifrare
ciò che aveva detto e solo quando il citofono
suonò, facendo saltare Martina sul divano per lo spavento,
ne capii veramente il senso.
Mi trattenni a stento dall’urlare di gioia e raggiunsi
velocemente la porta, rischiando persino di inciampare sul tappeto. Mi
affrettai ad aprirle il portone ed uscii sul pianerottolo fregandomene
del fatto che fossi in pigiama, per giunta davanti
all’appartamento di Lore, che sarebbe potuto uscire da un
momento all’altro e quindi vedermi in quelle pessime
condizioni.
Quando le porte dell’ascensore si aprirono le saltai
letteralmente addosso, abbracciandola forse un po’ troppo
forte, dato la sua esile corporatura.
«Quanto affetto». Disse Rosaria stringendo di
più la presa.
«È l’amore».
Commentò Martina ridacchiando, che nel frattempo ci aveva
raggiunto coperta da un piumone.
«Mi sono persa qualcosa?». Domandò la
mia amica, sciogliendo l’abbraccio e guardandomi con aria di
rimprovero.
Spostai involontariamente lo sguardo verso casa Belli e spinsi il resto
della combriccola dentro la mia.
Temevo che Lorenzo potesse sentire qualcosa di troppo, e a quel punto
il suo vantaggio sarebbe stato eccessivo, IO sarei stata spacciata e
lui avrebbe potuto sfruttare a suo piacimento quella mia debolezza.
«Allora?». Domandò Rosaria impaziente,
una volta concluse le presentazioni e prima ancora che sistemasse le
sue cose.
Wow, in pochi mesi la mia monotona vita era diventata oggetto di
interesse di qualcuno, e senza che neanche me ne rendessi conto.
«Io...». Cominciai balbettando, in cerca delle
parole giuste da usare.
«È innamorata di quel gran figo-stronzo di
Lorenzo». Intervenne Martina in mio aiuto, con voce forse
troppo acuta e gioiosa.
Insomma, non c’era niente di positivo in ciò che
aveva appena detto!
La reazione di Rosaria a quella news fu l’esatto opposto di
ciò che mi aspettavo, non sembrava per nulla stupita, e ne
ebbi la conferma quando mi guardò annuendo e disse:
«Era anche ora che te ne rendessi conto!».
«Tu lo sapevi?!». Strillai incredula,
meravigliandomi persino della voce assurda che mi era uscita.
«Sì, sai com’è, una ragazza
che continua a parlare ininterrottamente per sette anni di uno stesso
ragazzo non può che esserne innamorata».
Martina, alle mie spalle, ridacchiò soddisfatta, dandomi una
pacca sulla spalla.
Incrociai le braccia al petto con stizza, sentendomi in un certo senso
tradita da quella sua confessione.
«A quanto pare…». Sussurrai, facendo
però in modo che entrambe mi sentissero chiaramente.
Scossi la testa e mi ripresi dallo shock. «Comunque non ti ho
ancora detto tutto». Proseguii rivolgendomi a Rosaria, che
doveva essere informata dei recenti sviluppi, in preparazione
dell'incontro che la mia cugina traditrice aveva combinato con Lore.
Lanciai un’occhiata veloce a Martina ed una più
lunga a Rosy, per poi accompagnare la mia amica vicino alla poltrona e
dirle: «Siediti, è una lunga storia».
Il mattino successivo, quando riaprii un attimo gli occhi per
controllare l'ora, balzai giù dal letto senza neanche
prendermi il tempo di ritornare alla realtà. Erano le 8
passate ed io ero in super ritardo!
Nel buio totale della stanza inciampai su qualcosa, qualcosa che quando
gli finii addosso urlò, e che presto scoprii essere Martina.
«Qual è il tuo problema?».
Biascicò con la voce ancora impastata dal sonno, e mi
meravigliai del fatto che avesse la forza di parlare, considerata la
sua attitudine nel non svegliarsi neanche con le cannonate.
Mi massaggiai la testa pensierosa, ancora seduta sul bordo del letto di
Martina, e cominciai a riflettere. Perché mia cugina era
lì? E perché la sveglia non era suonata un'ora
prima?
Accesi la luce sul comodino e spostai lo sguardo dall'altro lato della
stanza, dove vidi Rosaria beatamente addormentata.
A quel punto ci misi davvero poco a ricordare tutto e mi diedi
mentalmente della stupida per lo stato di confusione totale in cui ero
piombata: i miei mi avevano concesso senza troppi problemi di stare a
casa quel sabato, in primis perché c'erano solo quattro ore
di lezione, e poi perché non capitava tutti i giorni di
avere due ospiti speciali come Martina e Rosaria.
Avrei mai potuto abbandonarle per tutta la mattina quando avevamo a
disposizione due giorni scarsi per divertirci?
Ovviamente no. Ci attendeva una giornata di shopping (cosa che per
altro io odiavo), una serata tra ragazze in compagnia di un bel film
horror e poi, alle 3 del pomeriggio, il fatidico incontro con Lorenzo,
a cui io non avrei partecipato neanche se me l'avessero chiesto in
ginocchio.
Per quale motivo? Be', avevo appena accettato di essermi innamorata del
ragazzo che mi aveva rovinato l'esistenza, non potevo parlare con lui
come se nulla fosse, avevo bisogno di metabolizzare la cosa...senza
contare tutte le crudeltà che mi aveva detto e fatto in
quegli ultimi giorni.
Controllai un ultima volta le lancette dell'orologio, indecisa se
rinunciare al tentativo di dormire senza neanche provarci oppure
alzarmi definitivamente dal letto e trovare qualcosa di più
produttivo da fare, invece di rotolarmi tra le lenzuola pensando a
quanto la mia situazione sentimentale fosse sensibilmente precipitata
dall'inizio dell'anno.
Alla fine optai per la prima ipotesi, anche perché non aveva
proprio un bel nulla di produttivo da fare, ma non prima di aver dato
un colpo di telefono a Davide. Volevo sapere se era tornato tutto a
posto con sua sorella.
Sgattaiolai silenziosamente fuori dalla mia stanza, premurandomi
persino di richiudere la porta, e mi diressi in cucina, stampandomi un
sorriso in faccia prima di entrare.
«Ciao pà». Lo salutai dandogli un bacio
sulla guancia e sedendomi contemporaneamente di fronte a lui, che stava
leggendo il giornale mentre beveva il suo solito caffé
mattutino.
«Buongiorno, come mai così mattiniera? Quando stai
a casa di solito sei in letargo fino all'ora di pranzo».
Feci spallucce mi alzai per prepararmi la colazione. «Mi sono
svegliata credendo che dovessi andare a scuola, così ho
pensato di fare colazione e sentire un amico prima di tornare a
dormire».
Alla parola "amico" mio padre tese le orecchie e sollevò lo
sguardo da quelle scritte minuscole che si ostinava a voler capire. Lo
udii schiarirsi la voce ma gli impedii di parlare.
«Nessuna storia, papà, è davvero solo
un amico».
Lui sembrò rilassarsi un pochino, ma stranamente non lo vidi
poi così fiducioso nei miei confronti, e il che era molto
strano, dato che - qualunque cosa gli dicessi - mi aveva sempre creduto
sulla parola...per questo mi sentii delusa.
«Non voglio intromettermi nella tua vita, ma Lorenzo non mi
sembra il ragazzo adatto a te».
A quelle parole mi sarei certamente strozzata con il té, se
solo non fosse stato ancora in fase di preparazione, invece versai
qualche grammo di zucchero di troppo nella mia amata bevanda, fingendo
poi una risata ironica e guardando mio padre come se fosse impazzito.
«Ma che dici? Non stavo parlando di lui, lo so che non
è il ragazzo giusto, e poi l'oggetto del mio discorso era un
amico, non un fidanzato...e Lorenzo non è nessuna delle due
cose».
Lui mi fissò scettico per un po', mescolando distrattamente
il suo caffé. «Quel giorno, quando vi ho visti
davanti al portone non mi sembravate affatto "nessuna delle due
cose"». Disse imitando il modo in cui l'avevo detto io poco
prima.
Deglutii a fatica e mi sforzai di pensare ad una scusa plausibile, ma
nella mia testa c'era solo il vuoto.
Conoscendo la capacità degli altri di leggermi negli occhi,
poi, presi la precauzione di girarmi di spalle, con la scusa di dover
controllare il tè sul fuoco.
«Qualunque cosa tu abbia visto, adesso non c'è
più, tranquillo».
Alla fine avevo detto una mezza verità, nel senso che in
fondo tra di noi non c'era davvero più nulla, ma avevo
volutamente omesso il fatto che mi sarebbe tanto piaciuto che non fosse
così.
«Giorgia, io so che non è quel che vuol far
credere di essere, l'ho visto».
Sospirai sommessamente ed andai a sedermi di nuovo. Ormai il giornale
era stato ripiegato con cura e poggiato sul tavolo, segno che il suo
interesse e la sua attenzione erano completamente rivolti a me.
«Cos'hai visto?». Domandai allora, fingendo
curiosità, quando in realtà potevo benissimo
immaginare la sua risposta.
«È ogni sera con una ragazza diversa...e non in
atteggiamenti amichevoli».
Annuii di rimando e finalmente riuscii a guardarlo negli occhi,
arrendendomi. Che senso aveva fingere che non sapessi nulla?
«Tu lo sapevi?». Chiese sorpreso, spalancando gli
occhi come davanti al miglior quadro della sua collezione.
Non dissi nulla, né tantomento confermai in alcun modo: non
ce ne fu bisogno, il mio silenzio era la prova tangibile della
verità.
«E...». Tentò di dire, ma questa volta
non lo lasciai continuare, avevo capito perfettamente cosa volesse dire.
«Sì, papà, ma non devi preoccuparti,
ok? Tra di noi non c'è stato, non c'è e non ci
sarà mai nulla».
La discussione terminò lì, nessuno dei due
aggiunse altro per un po', finché il silenzio che era calato
nella stanza non diventò troppo opprimente per entrambi.
Sapevo che aveva bisogno di tempo per assimilare la cosa, gli avevo
quasi confermato di aver avuto un intrallazzo con il ragazzo meno serio
e affidabile del pianeta, era logico che si sentisse confuso e
preoccupato.
«La mamma?». Chiesi appunto per spezzare la
tensione, sfruttando la strana assenza di mia madre.
«Dalla nonna». Rispose lui telegrafico, gettando il
giornale nel cestino ed alzandosi da tavola. «Stamattina la
badante aveva un impegno e quindi è dovuta andare lei ad
assisterla».
Annuii impercettibilmente e mi avvicinai per aggiustargli la cravatta.
Lo facevo sempre con il mio padre naturale prima del divorzio dei miei,
ma era la prima volta che lo facevo anche con lui. Non c'era un motivo
particolare per questa mia mancanza, semplicemente non avevo mai
sentito il bisogno di farlo, ma in quel momento era stato tutto
naturale e mi sentii inspiegabilmente felice mentre stringevo quel nodo
sfatto...specialmente quando vidi un sorriso disegnarsi sulle sue
labbra.
«Grazie». Disse mettendosi poi di tutta fretta il
cappotto.
Il nostro discorso gli aveva portato via un po' di tempo e ora era in
ritardo per il lavoro.
Gli posai un altro bacio sulla guancia ed uscì di casa di
corsa, salutandomi velocemente prima di scendere di corsa le scale,
esattamente come facevo io quando non sentivo la sveglia.
Osservai il punto in cui era scomparso per un po', riflettendo ancora
su ciò che mi aveva detto, e rimasi lì a lungo,
finché una folata di vento gelido non mi riportò
alla realtà con un brivido lungo la schiena.
Perfetto, ci mancava solo il vizio di incantarmi a pensare!
Stavo per richiudere la porta, quando lo scatto di quella di fronte mi
colse di sorpresa; rimasi paralizzata mentre si apriva lentamente
davanti a me, come nella più terribile scena dell'orrore, e
cominciai a ripetere a me stessa che dovevo assolutamente sbrigarmi a
rientrare, tuttavia non riuscii a fare un solo passo.
Come al solito, il mio cuore aveva preso ad andare per conto suo,
battendo impazzito e ansioso: sebbene teoricamente Lorenzo fosse a
scuola, in pratica poteva benissimo darsi che aveva deciso di saltare
la prima ora di lezione. Lo faceva spesso, dopotutto, perché
non avrebbe dovuto farlo anche quel giorno?
E il mio presentimento si trasformò ben presto nella
semplice realtà. Sperai inutilmente che non mi vedesse, che
per qualche ragione non guardasse verso di me, ma puntualmente i suoi
occhi raggiunsero i miei...imprigionandoli nella stessa morsa carica di
tensione dove li catturavano ogni volta.
Non appena mi vide sembrò sinceramente sorpreso - ma chi non
lo sarebbe stato vedendo una ragazza in piedi, davanti alla porta, a
fissare il nulla e persino in pigiama? - e io chiusi automaticamente
occhi, pregando al mio cuore di smetterla di correre in quel modo.
Maledette gambe, perché non si muovevano? Ero ancora in
tempo per scappare!
Sentii il suo profumo raggiungermi ad ondate sempre più
forti, finché le mie narici non si riempirono completamente
di quell'odore forte e buono, di cui ero diventata irrimediabilmente
dipendente.
«Bel pigiama». Commentò nel suo classico
tono ironico, lasciandosi poi andare ad una risata.
Dopo tutto quello che mi aveva fatto, lui pensava a prendere in giro il
mio pigiama? Qualcuno avrebbe dovuto regalargli il libro "100 modi per
farsi perdonare da una ragazza", quantomeno ci avrebbe fatto
più bella figura.
Riaprii gli occhi furiosa, incrociando le braccia al petto e
guardandolo con astio.
«Vaffanculo Lore».
Lui sorrise apertamente, umettandosi le labbra con la lingua in un
gesto che mi mandò troppo sangue al cervello.
«Sei monotona, Giò». Disse perentorio,
avvicinandosi di un altro passo.
«E tu sei stronzo». Ribattei, cercando di risultare
il più acida possibile.
La sua espressione non cambiò di una virgola; era sempre
disinteressata e irritante al punto giusto, cosa che per altro mi dava
fastidio...per questo spostai involontariamente l'attenzione sulle sue
labbra, le stesse che si erano incollate alle mie parecchie volte. e
soprattutto le stesse labbra di cui - nonostante tutto -
avrei voluto sentire nuovamente il sapore.
Stupida, stupida, stupida!
«Anche questo me l'hai già detto».
Rispose lui pensieroso.
«Vai a scuola, dai, è tardi». Lo
rimbeccai prendendolo volutamente in giro.
Lore inarcò un sopracciglio e mi sfiorò
delicatamente un braccio, in un gesto che per la sua
intensità mi mandò direttamente al manicomio.
«Lo farei, se tu fossi più brava a mascherare
quello che vuoi veramente». Sussurrò avvicinando
la bocca al mio orecchio.
Mi sentivo il fiato corto, chiaro segno del fatto che non stavo
praticamente respirando, e quando lo feci per evitare di collassare per
mancanza di ossigeno, me ne pentii immediatamente, perché i
miei polmoni si riempirono della fragranza dolcissima di cui il profumo
di Lorenzo aveva permeato l'aria.
«Volere cosa?». Cercai in tutti i modi di risultare
sicura di me stessa e del fatto che non lo volessi lì, ma
alla fine la mia voce tremante mi tradì in ogni caso.
«Stai morendo dalla voglia di baciarmi ma non lo fai per come
mi sono comportato con te». Affermò sicuro di se e
a ragione, ma non dissi nulla per confermare la sua ipotesi, non che me
l'avesse chiesto, comunque.
«Vedi? Basta che ti sfiori anche solo con un dito per farti
sciogliere, non riesci a nasconderlo». Continuò,
tracciando il contorno del mio viso con due dita.
«E tu...?». Riuscii a chiedere nell'annebbiamento
generale che era il mio cervello, fermando le sue mani con le mie.
«Tu cosa vuoi veramente?».
Sapevo di aver usato le parole giuste, sapevo di essere riuscita a
ribaltare la situazione, e ne ebbi la conferma quando Lore ritrasse
definitivamente le mani, annullando contemporaneamente ogni traccia di
ilarità dal suo volto.
Era passato alla fase di difesa, mentre io avrei potuto scegliere se
attaccarlo o scappare finché quella condizione di stallo
fosse durata.
«Io voglio te, Giorgia». Disse dopo un lungo
silenzio, con una strana luce negli occhi che mi lasciò
perplessa: sembrava davvero…sincero, per una volta.
«Ma non nel modo in cui mi vuoi tu». Aggiunse
apparentemente risentito per ciò che aveva appena detto. Se
mi avessero chiesto di descrivere lo stato d'animo di Lorenzo in quel
momento, avrei detto "dispiaciuto".
Ma potevo davvero fidarmi di quello che trasmettevano i suoi occhi,
oppure erano semplicemente uno specchio delle sue menzogne?
«E tu che ne sai del modo in cui ti voglio io?».
Chiesi inviperita. Il timore che non sarei mai riuscita a capirlo si
stava facendo sempre più largo in me...ed io non sopportavo
l'idea.
«Smettila di pretendere di sapere come mi sento!».
Sbottai, poi, sforzandomi di mantenere un tono di voce basso, dato il
posto in cui ci trovavamo.
«Perché ti conosco e so di cosa hai bisogno, ma io
non potrò mai dartelo». Disse scuotendo lievemente
la testa, mordendosi poi un labbro, in chiara difficoltà.
Lorenzo Belli era davvero in difficoltà? Se lo avessi
raccontato in giro, mi avrebbero riso in faccia.
Era già la seconda emozione che mi mostrava, non poteva
essere davvero finzione, né tantomeno una coincidenza. Certe
cose non si potevano progettare, non si potevano recitare...altrimenti
non sarebbero risultate credibili.
Sentii improvvisamente le lacrime bruciare negli occhi, e non
perché mi stesse dicendo che in lui non avrei mai potuto
trovare niente di ciò che cercavo - lo aveva fatto tante
volte e in modo molto più crudo - ma per la
sincerità disarmante con cui l’aveva fatto. Era
reale, doveva esserlo.
Alla fine ero riuscita a scalfire la sua maschera, a vedere qualcosa al
di là di essa, e quello che avevo scorto mi avrebbe portato
solo ulteriore sofferenza.
Si poteva tranquillamente dire che avevo perso solo tempo, anni interi
passati cercando un briciolo di verità nelle sue parole, nei
suoi gesti...ed ora che avevo ottenuto ciò che volevo e
avevo realizzato che questo non era quello che avrei voluto, mi sentivo
persa e la ragione era solo una, egoistica ed incancellabile: fino a
quel momento non avevo avuto nessun motivo per credere alle sue parole,
ma di fronte alla verità cosa potevo fare se non desiderare
inutilmente di cambiarla?
«Mi stai dicendo che non potrai mai volermi bene,
giusto?». Domandai, cercando di nascondere una sofferenza
inquantificabile, che dentro era troppo forte per poterle resistere a
lungo.
Lorenzo sbuffò un po' contrariato. «Sai che non mi
riferivo a questo. Te ne ho voluto una volta». Disse
distogliendo brevemente lo sguardo. "E potrei volertene ancora".
Conclusi nella mia mente.
Asciugai distrattamente l'unica goccia di lacrima che era sfuggita al
mio controllo e ricacciai indietro le altre.
«Perché devi rendere sempre tutto così
difficile?». Chiesi quasi singhiozzando.
«Perché mi hai avvicinata se sapevi che alla fine
avrei sofferto?». Proseguii concitata. Giacché ero
in ballo, tanto valeva ballare. «Ok, va bene che non te ne
frega un cavolo di niente e nessuno, ma non ti sembra un po' troppo,
questo? Non ti sembra troppo anche per te, giocare in modo
così crudele con i sentimenti degli altri?». Feci
una pausa, preparandomi a chiedergli quello che non avevo mai avuto il
coraggio di chiedergli fino ad allora. «Perché
sette anni fa hai deciso di non essere più mio amico da un
giorno all'altro?! Perché?!».
Lore rimase in silenzio, il suo sguardo era vacuo e assente, mentre
della sua solita sicurezza non era rimasta neanche l'ombra. Era strano
vederlo così indifeso e a corto di parole, così
come era piuttosto triste trovarsi improvvisamente faccia a faccia con
la sua debolezza.
«Ho capito». Dissi infine, catturando nuovamente la
sua attenzione. «Non ti preoccupare, il messaggio
è chiarissimo, ma adesso vai...per favore». Lo
stavo praticamente supplicando, perché non sarei mai
riuscita a sbattergli la porta in faccia di mia spontanea
volontà.
«Giò...». Mi chiamò incerto,
i suoi occhi erano coperti da un velo di tristezza, che lo rendevano
fin troppo vulnerabile.
«Ti prego, non peggiorare le cose...vai».
Lui scosse la testa facendo un altro passo avanti. «Solo se
mi prometti che non piangerai più a causa mia».
Le sue parole colpirono il mio cuore come tante freccette il cui
obiettivo era proprio quello di raggiungerne il centro, e una dopo
l'altra sciolsero le redini che trattenevano le mie lacrime.
Presto cominciai a piangere senza controllo, mostrandogli una volta per
tutte quanto tenessi a lui; perché al di là
dell'amore, al di là dell'amicizia, al di là di
tutto quello che avevo passato a causa sua, avevo capito che non sarei
mai riuscita a dare l'affetto che provavo per lui a nessun altro.
«No, cazzo, no! Mi spieghi cosa devo fare per farti smettere
di piangere per me?! Perché io le ho provate tutte, ma non
ha funzionato niente come vedi!». Urlò prendendomi
il viso tra le mani, questa volta incurante del fatto che ci trovassimo
nelle scale.
«Ma se non hai fatto altro che ferirmi, come potevi
pretendere che non reagissi?». Chiesi tra un singhiozzo e
l'altro, cercando contemporaneamente di liberarmi dalla sua presa.
Faceva troppo male anche solo guardarlo.
«Perché non capisci?».
«Spiegamelo tu, allora!».
«Spiegarti cosa? Il perché sono stato un coglione
a rinunciare a te? Perché? che senso avrebbe
adesso?».
«Perché io non ho ancora rinunciato a te,
idiota!». Sbottai senza pensarci, in preda alla disperazione.
Mi veniva voglia di colpirlo, non poteva essere così cieco
da non capire quanto fossi disposta a perdere pur di riaverlo al mio
fianco.
«Ma questo non cambia le cose, Giò, io non posso
stare con te».
«Non puoi o non vuoi?».
Lore fece spallucce. «Forse entrambe le cose».
Avevo accumulato talmente tanta rabbia che fu difficile riuscire a
reprimerla ancora una volta. «Seriamente, basta, mi sono
stancata con tutti questi giochetti, non posso, non voglio e
blablabla...va' al diavolo!».
Con un ultimo strattone mi divincolai e lo spinsi indietro, pronta a
chiudere la porta, ma lui mise un piede all'angolo per impedirmelo.
«Ascolta, so che non hai alcun motivo per fidarti di me, ma
lascia che ti dica una cosa, l'unica su cui so per certo di non
sbagliarmi».
Nonostante la porta semi chiusa, la sua voce arrivò chiara
alle mie orecchie, portando con se quelle parole decise.
Non riuscivo a vederlo, tuttavia potevo tranquillamente immaginare
quale potesse essere la sua espressione in quel momento.
«Tu non sei come le altre ragazze per me, te l'ho
già detto, è vero, ma questa volta ti prego di
credermi sul serio. Toglitelo dalla testa, ed è proprio per
questo che non posso permettermi di trattarti come se fossi una di
loro».
«Non farlo, allora». Risposi aprendo leggermente la
porta. «Non c'è bisogno che mi tratti come
loro».
Lore scosse la testa per l'ennesima volta, portandomi ad odiare quel
gesto. «...ma non posso neanche fare il fidanzato perfetto e
affettuoso, non ci riesco». Proseguì quindi il suo
discorso, mandandomi ancora più in confusione.
Non riuscivo proprio a capirlo. Era probabilmente la persona
più contorta che avessi mai conosciuto, si poneva un sacco
di problemi che magari non avevano neanche ragione di esistere, ma che
non avrebbe mai superato se avesse continuato a tenersi tutto dentro.
«E se ti dicessi che non è ciò che
voglio?». Chiesi titubante, incespicando sulle mie stesse
parole, perché entrambi sapevamo che stavo mentendo.
«Ti risponderei che sei una pessima bugiarda,
ancora». Accennò un sorriso e spalancò
nuovamente la porta, questa volta senza incontrare la mia resistenza.
«E allora che si fa? Fingiamo di odiarci come sempre, quando
in realtà moriamo dalla voglia di saltarci
addosso?».
Lore annuì spostandomi una ciocca di capelli dietro
l'orecchio. «È meglio se non ci spingiamo oltre in
questa storia»
«Quindi mi stai dicendo che non potrò
più riavere il mio migliore amico?». Mi stupii
persino da sola del tono di voce calmo e tranquillo che avevo usato;
forse il detto "la quiete dopo la tempesta" non era poi tanto
sbagliato, eccetto per il fatto che la "tempesta" in realtà
ce l'avevo dentro.
Lorenzo fece per dire qualcosa, ma finì solo per aprire e
chiudere la bocca ripetutatemente per qualche secondo.
Alla fine però sembrò rinunciare a questo
proposito; con labbra serrate e pugni rigorosamente chiusi vidi i suoi
occhi armarsi di una determinazione quasi preoccupante.
E poi fu solo un attimo il tempo che intercorse tra l'intesa dei nostri
sguardi e le sue labbra che si appropriavano delle mie con impeto. Non
feci nulla per fermare quel gesto così contradditorio con
quanto avevamo - aveva - appena deciso, risposi al bacio con
la stessa intensità e forse anche di più,
stringendo i suoi capelli tra le dita e lasciando che le sue mani si
muovessero libere per tutto il mio corpo attraversato da brividi.
Fu un bacio disperato, al sapore di lacrime e limone, che non sarei mai
riuscita a dimenticare. Perché nonostante le sue sciocche
convinzioni, mentre le nostre lingue si cercavano smaniose e
incontrollate, non potei far a meno di constatare. - per l'ennesima
volta - che era proprio tra le sue braccia l'unico posto in cui volevo
stare...ed ero certa che anche lui stesse sentendo lo stesso nodo
all'altezza dello stomaco. Per questo arrivai alla conclusione che una
persona impossibilitata ad amare non sarebbe mai stata in grado di
provocarmi tutte quelle emozioni in una volta sola, per questo mi
convinsi che si sbagliava, che lui poteva amare, ma che semplicemente
non voleva farlo...per paura, orgoglio, incertezza, qualcosa di cui non
ero a conoscenza.
Lasciai che la porta si spalancasse completamente, non facendo caso a
niente e nessuno che non fossero le labbra di Lorenzo o Lorenzo stesso.
Ero completamente persa...sì, persa per lui,
perché ero stupida e perché non riuscivo a
smettere di amarlo.
«Oh Mio Dio». Esclamò Martina alle mie
spalle, interrompendo quel momento di pura follia a cui ci eravamo
lasciati andare.
Mi staccai da Lore immediatamente e con una certa agitazione. A parte
l'imbarazzo della situazione in se, temevo di passare per quella
incoerente: un momento prima gli stavo rivolgendo gli insulti peggiori
e quello dopo ero avvinghiata a lui, impegnata a baciarlo come se
quella fosse l'unica cosa giusta da fare.
L'espressione incredula di Martina non fece altro che confermare il mio
timore: sembrava in preda ad una qualche allucinazione ed aveva la
bocca spalancata. Neanche mi avesse sorpresa a fare il barbecue con i
miei amatissimi libri.
Distolsi immediatamente lo sguardo, prendendo a fissare il pavimento
con scarso interesse, finché mia cugina non si riprese dallo
stato di shock schiarendosi la voce.
«Ehm...continuate pure, scusate l'interruzione».
Disse apparentemente a disagio - lei che non sapeva neanche il
significato di quella parola! - e vidi i suoi piedi muoversi uno dopo
l'altro per andarsene.
«No, aspetta». La fermai, afferrandola per un
braccio e allontanandomi di più da Lorenzo. «Lore
se ne stava andando». Dissi raccogliendo tutta la forza che
avevo in corpo per guardarlo negli occhi.
Lui, dal canto suo, sembrava completamente a suo agio, ma ben presto mi
resi conto che la sua maschera era tornata al proprio posto, a coprire
impeccabilmente qualunque tipo di emozione o pensiero gli passasse per
la mente.
Mi risultò più difficile del solito sostenere il
suo sguardo magnetico, dopo tutto quello che ci eravamo detti - urlati.
Avevo bisogno di capire veramente il significato delle sue parole,
così come quello del suo gesto contorto e, anche se
probabilmente non sarei riuscita nel mio intento, almeno avrei avuto
l'occasione per cominciare a pensare seriamente ad una
soluzione...perché più andavo avanti,
più cercavo di allontanarmi da lui e dal nostro passato, e
più una sua singola ed insignificante dimostrazione
d'affetto mi spingeva a fare almeno cento passi indietro. Era
decisamente una proporzione ingiusta, non credete? Uno avanti e cento
indietro. Bello schifo.
«Certo, perché stare a rinvagare inutilmente uno
stupido passato?». Rispose lui, più a se stesso
che a me, tornando al suo solito sorriso strafottente. Si
sistemò la cartella sulle spalle e si voltò senza
aggiungere altro.
Mentre guardavo la sua figura perfetta allontanarsi, non potei fare a
meno di pensare che forse era arrabbiato - oppure deluso? - ma per
quale motivo? Che la presenza di Martina lo rendesse nervoso?
Potevo solo fare congetture, niente era certo, e niente lo sarebbe mai
stato con lui, ma sentii un pizzico - giusto un pizzico! - di
soddisfazione nel rendermi conto che in fondo non era così
difficile comprendere le sue reazioni. Avevo ancora qualche
possibilità, forse.
Non appena si rendeva conto di aver abbassato la guardia, allora
cominciava ad attaccarmi e a dirmi cattiverie, per questo motivo giunsi
alla conclusione che semplicemente odiava essere in svantaggio...voleva
sempre essere un passo avanti rispetto agli altri, per proteggersi da
tutto quello che lo circondava.
Wow, avevo cominciato persino ad interpretare i suoi atteggiamenti,
forse ero io quella che necessitava al più presto di uno
psicologo! Dovevo ricordarmi di prendere appuntamento con quello della
scuola...
«Lore!». Lo chiamai quando ormai era già
alla fine della prima rampa di scale. Se la prendeva con comodo,
probabilmente aveva intenzione di saltare anche la seconda ora.
Lui fece qualche altro passo e si bloccò, forse aveva avuto
un conflitto-lampo interiore, per decidere se fermarsi oppure
proseguire ed ignorarmi. Alla fine, evidentemente, aveva vinto la prima
fazione.
Si voltò a guardarmi scocciato, mettendosi poi in attesa, e
con in mano il suo fedele cellulare - ma a furia di digitare messaggi
su quel coso, non gli si atrofizzavano le dita?!
"Certo, Giorgia". Mi rimproverai mentalmente. "È logico
pensare all'interezza delle sue dita, invece che trovare qualcosa di
sensato da dirgli in tempo record!".
Ebbene sì, avevo attirato la sua attenzione senza nessuna
valida ragione, eppure non ero riuscita ad esimermi dal farlo...non
potevo lasciarlo andare via così e permettere che
l'avvicinamento di quel pomeriggio si riducesse ad un altro inutile
ricordo.
«Ecco...non ora...magari più avanti,
ma...». Cominciai balbettando, e schioccando
comtemporaneamente le dita per rilassarmi un po'. «Mi
piacerebbe finire la nostra conversazione».
Occhi bassi, piedi storti e nervosismo alle stelle. Fantastico, questa
era la versione più patetica di me.
«Oh sì, anche a me piacerebbe». Disse
con voce velata di ironia.
Che cosa...?
Alzai lentamente la testa e lo squadrai con attenzione. Il sorriso era
sempre al suo posto, solo che questa volta malcelava una malizia fin
troppo evidente.
E quando l'espressione era quella, Lorenzo stava pensando certamente ad
una cosa.
Non appena i neuroni presenti nel mio cervello si collegarono,
facendolo riprendere a funzionare, arrossii violentemente, rendendomi
conto - troppo tardi - dell'ambiguità di quanto avevo detto.
Santo Cielo, perché non pensavo mai prima di parlare?
«Lo sai che non mi riferivo a quello». Mormorai con
voce flebile, riuscendo tuttavia a farmi sentire dall'interessato;
oltre che da Martina, che mi stava stringendo il braccio con fin troppa
energia, nel chiaro tentativo di trattenersi dal riempirlo di
pugni; e se Lorenzo non avesse ben dosato le parole, non sarei
più stata in grado di trattenerla...ma forse, in quel caso,
sarei stata proprio io ad incoraggiarla.
Nonostante tutto, però, apprezzai il suo enorme sforzo nel
cercare di non intervenire e lasciarmi risolvere la situazione da sola.
Se c'era una cosa su cui Lore aveva ragione, probabilmente era proprio
quella: senza l'aiuto degli altri non riuscivo mai a combinare un bel
nulla. Perciò volevo prendermi quella piccola rivincita,
perciò volevo dimostrargli che io ero in grado di superare
le mie debolezze i miei difetti, grazie alla volontà.
«No, non lo sapevo...». Ribatté lui,
umettandosi le labbra. «E in tal caso, mi dispiace ma non
sono interessato».
Me l'aspettavo una risposta del genere, per questo non ci rimasi troppo
male.
Strinsi a pugno le mani e aprii le labbra in un sorriso falso
e sardonico .
Ho detto troppo male, non per niente male.
«Oh, non c'è problema, come non detto.
Ciao». Dissi salutandolo con una mano, mentre con l'altra
richiudevo violentemente la porta, senza aspettare la sua risposta, che
neanche ero sicura sarebbe arrivata.
«Si può sapere perché non posso
lasciarti sola per un'oretta, che tu ti cacci nei casini?!».
Mi urlò contro Martina, una volta che ci trovammo nel
silenzio spettrale della casa.
«Non dire niente!». Sbraitai io di rimando,
dirigendomi a passo svelto in cucina, alla ricerca di qualcosa da fare
per sfuggire alle sue ire.
«No che non dico niente! Cosa credevi di fare, attaccandoti
come una ventosa alla sua lingua?». Continuò la
sua ramanzina, mantenendo sempre un tono di voce altissimo. Era davvero
arrabbiata con me, come forse non lo era mai stata, e la cosa mi
rendeva abbastanza nervosa.
«Mi ha teso una trappola, e io ci sono cascata con tutte le
scarpe, Marti!». Provai a difendermi, sebbene la mia fosse
una bugia bella e buona.
«Certo, è stato lui a mettere la
colla!». Rispose con stizza, agitando le mani nell'aria per
sottolineare la falsità delle mie parole.
Feci una smorfia e mi sedetti malamente su una delle sedie della
cucina, mentre Martina si appoggiò alla porta della stessa,
incrociando le braccia al petto e mandandomi scintille di fuoco con gli
occhi.
«Ok, non è stata colpa sua, non solo
almeno». Ammisi infine, con molta calma e
serenità, per abbassare un po' i toni della discussione. Non
volevo certo svegliare anche Rosaria.
«E ti dispiacerebbe dirmi cos'è successo?
Perché non vedo nessuna - e dico nessuna - possibile ragione
che possa giustificare quel...bacio». Concluse con voce
schifata al ricordo di quanto aveva visto.
Presi un profondo respiro e cominciai a raccontare a grandi linee.
«Mi ha detto che non devo piangere per lui, che non
può stare con me e tutte cavolatine
così...». Mi fermai per cercare lo sguardo di mia
cugina, che tuttavia trovai addirittura più infuocato.
«Appunto perché sono cavolate non avresti dovuto
cedere». Spiegò, cercando di mantenere un tono di
voce accettabile.
Cercando, appunto.
Scossi la testa e cominciai a giocherellare con la tazzina del
té che avevo lasciato sul tavolo. «Non
è tutto, Marti, ascoltami e basta».
Martina annuì sospirando e si mise a sedere di fronte a me,
sebbene i suoi occhi mantenessero sempre quella loro parvenza
indagatrice e scettica che mi metteva in soggezione.
«Gli ho chiesto cosa voleva fare di noi, se potevo
considerare il mio migliore amico perso per sempre, una volta per
tutte». Feci un'altra breve pausa per accertarmi che mi
stesse ascoltando con attenzione e proseguii. «E a quella mia
domanda lui, be', è come se fosse scattato. In un secondo si
è riempito di una determinazione sorprendente,
strana...affascinante, così mi ha colta di sorpresa e il
resto della storia lo conosci già». Terminai il
racconto sempre meno convinta delle mie parole, e quella che prima mi
era sembrata una valida ragione per permettermi di lasciarmi andare a
lui, ora stava cominciando ad apparirmi per come in
realtà era: sciocca e insulsa.
Mia cugina aveva ragione: mi ero lasciata abbindolare come al solito,
solo che questa volta - dopo le recenti scoperte - ne potevo
individuare il motivo, ed in parte mi sentivo giustificata per la
stronzata colossale che avevo combinato.
Tutti quei pensieri dovevano leggermisi in faccia, insieme alla lenta
consapevolezza di cui mi stavo riempendo, perché Martina
rimase in silenzio a fissarmi, con un'espressione compiaciuta che
diceva: "brava, te ne stai rendendo conto da sola".
«So già cosa mi stai per dire, perciò
non farlo». Dissi abbassando lo sguardo.
«Ehi, Giò, guardami». Il suo tono era
tornato pacato, contro ogni mia aspettativa, e quando ripresi a
guardarla si aprì in un sorriso dolce. «So che i
modi che ho usato non sono dei più civili, ma volevo che
capissi e questo era l'unico sistema che sapevo avrebbe
funzionato». Posò una mano sulla mia con
delicatezza e continuò: «Io sarò sempre
dalla tua parte, sempre, sia che tu voglia scegliere di stare con lui,
sia che tu voglia mandarlo a quel paese, ma per il momento - e solo per
il momento - ti prego di stargli lontana, il più possibile.
Sei ancora troppo confusa, finiresti solo per combinare una cazzata
dopo l'altra - esattamente come hai fatto oggi - hai bisogno di
tempo...prenditelo».
Martina non diceva mai nulla apertamente, non faceva discorsi
strappalacrime, né tantomeno dimostrava il suo affetto per
gli altri esplicitamente - in questo mi ricordava un po' Lorenzo - per
questo non volevo obiettare...tuttavia non potevo fare altrimenti.
Provai a sorriderle a mia volta, per farle capire che sapevo
perfettamente la causa dei suoi modi bruschi e dimostrarle quanto
apprezzassi i suoi consigli, dopodiché le presi una mano
nelle mie e la strinsi con forza.
«Marti, quanto tempo ancora? Sono anni che aspetto il giorno
in cui non me ne importerà più nulla di lui - non
sai quanto - ma ancora non è arrivato».
«Ma prima non lo vedevi come lo vedi adesso, sbaglio? Era
semplicemente il tuo ex migliore amico, che avresti voluto ancora avere
al tuo fianco...una persona per te importante che non volevi lasciare
andare. Adesso, oltre a tutte queste cose, ne provi altre mille in
più, perché hai realizzato di essertene
innamorata e non puoi permetterti di subire una delusione di questa
portata».
Non riuscii a dire una parola, cominciai ad analizzare il significato
di quelle parole, una per volta, facendo partire in quarta il
cervello, che cominciò a lavorare all'impazzata.
Delusione, dolore, andare avanti: era questo lo schema che avevo
seguito in tutti quegli anni, ma sarebbe stato ancora così?
Non potevo saperlo, e non dovevo rischiare, non potevo dare per
scontato che le cose - da quel momento in poi, in cui si era messo in
mezzo pure l'amore - restassero come prima.
Prevenire è meglio che curare, diceva qualcuno, e forse per
una volta avrei dovuto seguire il consiglio di chi era più
esperto di me.
«Impara a convivere con questo sentimento, piangi se
necessario, e solo quando ci sarai riuscita potrai prendere una
decisione. Adesso è ancora troppo presto».
Concluse apprensiva, morendosi un labbro per scaricare la tensione.
A quel punto divenne inutile stare dall'altra parte del tavolo, mi
alzai di scatto e corsi ad abbracciarla. Era probabilmente la ventesima
volta che lo facevo da quando era arrivata, e - come sempre - lei mi
accolse tra le sue braccia senza dire nulla.
Il legame che avevo con mia cugina andava oltre ogni tipo di affetto
che potessi provare per chiunque, era puro, semplice,
naturale...sincero.
Le volevo un bene immenso e almeno questo non sarebbe riuscito a
cambiarlo nessuno.
«Cosa mi sono persa ancora?».
La voce assonnata di Rosaria mi fece tornare rapida alla
realtà, non senza spaventarmi. Sciolsi l'abbraccio con
Martina e dopo aver dato il buongiorno, mi avvicinai ai fornelli.
«Caffé?». Proposi, sorridendo colpevole,
tra i risolini divertiti di mia cugina e l'espressione confusa della
nuova arrivata.
«Ero solo una ragazzina! E poi sfido qualunque ragazza che
l'abbia conosciuto a dire che non ha mai pensato di farsi Lorenzo!
Persino mia mamma non faceva altro che elargirgli
complimenti!».
In casa Mori l'allegria la faceva da padrona.
Io, Martina e Rosaria eravamo stravaccate sul divano del salotto,
intente a raccontare episodi divertenti e/o imbarazzanti della nostra
vita.
Fino a quel momento, stando agli aneddoti, la più sfortunata
era stata Rosaria, che stava pudicamente parlando della sua cotta
stratosferica per Lorenzo, quando eravamo appena in prima superiore.
Era strano come all'improvviso riuscissi a trovare divertente qualcosa
che lo riguardasse, ma forse era solo merito della compagnia.
«Io non l'ho mai pensato». Affermò
Martina sicura di se, pavoneggiandosi del suo finto autocontrollo e
sorridendo soddisfatta.
«No?». Ribattei io dandole corda. «Ah,
già, com'era? "Giorgia, non credo di aver mai visto un figo
del genere in tutta la mia vita!". Con tanto di urletti eccitati e
apprezzamenti sui suoi addominali».
«Non è colpa mia se la prima volta che l'ho visto
si stava cambiando per gli allenamenti di karate!». Si difese
lei prontamente, alzando le mani al cielo per dimostrare la sua
innocenza.
«Certo, perché tu casualmente ti trovavi negli
spogliatoi maschili».
«Stavo cercando te ed ho sbagliato porta!».
Proseguì il suo alibi stizzita, e un sorriso sorse spontaneo
sulle mie labbra quando cominciai a ricordare quella giornata di anni e
anni prima.
Mi succedeva sempre. Ogni volta che per un motivo o per l'altro pensavo
a quello sport, automaticamente il mio cuore cominciava a battere
più velocemente, ed era probabilmente l'unico nostro ricordo
insieme che non mi causasse dolore; nostalgia, sicuramente, ma che
veniva annullata da una miriade di altri sentimenti positivi. Da
lì era iniziato tutto, e anche se alla fine le cose non
erano andate come previsto, quel particolare aveva comunque contribuito
a costruire una parte importante della mia vita, a cui forse mi ero
attaccata troppo, ma era pur sempre il periodo che racchiudeva i miei
giorni migliori e quindi mi piaceva ricordarlo con il sorriso.
«A.A: terra chiama Giorgia!». Rosaria mi stava
sventolando una mano davanti agli occhi, prendendomi
visibilmente in giro per la faccia da pesce lesso che sicuramente avevo
assunto durante il mio excursus mentale nel passato.
«Scusate, mi ero persa nei miei pensieri». Mi
giustificai quasi involontariamente e un po' imbarazzata, mentre
Martina assottigliava lo sguardo per lanciarmi un monito facilmente
interpretabile.
«E questi tuoi pensieri iniziavano per L e finivano per O,
per caso?». Chiese sarcastica proprio mia cugina, che
incrociò le braccia al petto perentoria per rendere la sua
minaccia ancora più credibile.
Sbuffai leggermente infastidita e mi rivolsi a Rosaria. «La
puoi fare smettere tu, per favore?».
La mia migliore amica fece spallucce un po' a disagio e, quando mi
voltai di nuovo verso Martina, un cuscino mi colpì in pieno
volto, facendomi non poco male.
«Ahia!». Mi lamentai, massaggiando con vigore la
parte lesa.
«Ben ti sta, così impari ad ignorare le mie
domande». Disse lei soddisfatta, ma visibilmente divertita
dalla mia espressione sconvolta.
Attesi il momento giusto e, approfittando di un suo attimo di
distrazione - impiegato per controllare l'integrità del suo
smalto fresco - ricambiai il favore con il doppio dell'energia;
esultando come in seguito ad un goal della Juve, nel vedere
l'incredulità dipingersi a poco a poco nei suoi occhi.
Ben presto il nostro battibecco si trasformò in una vera e
propria lotta di cuscini all'ultimo lancio, alternavamo risate a
piccoli insulti ed era assolutamente rigenerante lasciarsi andare alla
spensieratezza, che avevo accantonato completamente in seguito agli
avvenimenti dell'ultimo mese.
Fu Rosaria ad impedirci di cominciare a tirarci i capelli; sedendosi
con nonchalance in mezzo a noi due e schiantando due cuscini contro la
faccia di entrambe.
Rinunciammo al nostro proposito di continuare praticamente subito,
insieme al proposito di coinvolgere la mia amica nella guerra ormai
aperta.
Avevamo il fiatone e contemporaneamente non riuscivamo a smettere di
ridere; il che ci rendeva - a seconda dei punti di vista - o due
bambine che avevano appena finito di litigare per il giocattolo nuovo,
o due perfette idiote che si erano prese a cuscinate per il semplice
gusto di farlo.
Da osservatrice interna, io rientravo nella seconda categoria di
pensiero.
«Siete impossibili, voi due». Decretò
saggiamente Rosaria, che accertatasi delle nostre buonissime intenzioni
di convivenza civile si alzò dal divano apprestandosi a
lasciare la stanza.
«Dove vai?». Domandai seguendola con lo
sguardo fino alla porta, dove si fermò.
«A prepararmi». Spiegò brevemente.
«Non c'era mica un pomeriggio di shopping sfrenato in
programma?». Chiese quindi, mimando le virgolette nell'aria
nel pronunciare l'ultima parte della frase.
«Giusto!». Si rianimò Martina, come se
le avessero appena annunciato una vittoria al superenalotto. Sembrerei
eccessiva se dicessi che un bambino davanti ad una scatola di
cioccolatini sarebbe stato più tranquillo?
Dal canto mio, io mi stavo maledicendo per aver fatto quella proposta.
Odiavo lo shopping - l'ho già detto? - i posti affollati,
provare tremila vestiti prima di trovare quello giusto...e se a questo
ci si aggiungeva anche il fatto che Martina e lo shopping - a
differenza mia - andavano in giro a braccetto, il risultato era un
pomeriggio di dolore per i miei piedi e un forte stress a cui
sottoporre la mia testa.
Non ero certa di potercela fare.
«Non vedo l'ora di andare da Abercrombie!».
Squittì Martina eccitata, cercando di coinvolgermi nel suo
mare di entusiasmo.
Alla fine, dopo aver tenuto il muso per un po', mi resi conto che sarei
stata solo un'egoista se avessi continuato a comportarmi in quel modo:
per me certi negozi erano quotidianità, ne avevo fatto
indigestione, ma per mia cugina - patita della moda - probabilmente
rappresentavano una specie di sogno da realizzare
periodicamente, e chi ero io per impedirglielo?
Mi sollevai stancamente dal divano e - dopo aver pregato tutti i Santi
di farmi sopravvivere a quell'intensa giornata - seguii Martina in
camera mia per prepararmi.
Sarebbe stato un lungo pomeriggio...
Neanche un'ora dopo la figura del Duomo si stagliava imponente davanti
a noi.
Martina la fissava sognante, come ogni volta, mentre Rosaria - che in
quindici anni di vita aveva imparato a conoscerne ogni dettaglio - lo
guardava con un pizzico di nostalgia.
Più volte - da quando si era trasferita - mi aveva detto
espressamente quanto le mancasse la sua vecchia vita, gli amici, i
luoghi, persino la scuola...e io non avevo fatto altro che
pensare a quanto invece avrei voluto essere al suo posto; lontana dal
passato, lontana da Lorenzo, pronta a ricominciare una vita senza di
lui.
Ma vedendola in quel momento mi resi conto di quanto avessi sbagliato
con lei: quello di cui aveva bisogno era qualcuno che la spronasse ad
andare avanti e continuasse ad ascoltare i suoi sfoghi; non una
ragazzina capricciosa che le ripetesse costantemente quanto fosse
fortunata. Possibile che fossi stata così egoista in passato?
Ed anche i sensi di colpa nei confronti della mia migliore amica erano
presenti all’appello…mancava ancora
qualcos’altro, forse?
Non appena Rosaria tornò alla realtà, fui tentata
di distogliere lo sguardo, e – codarda com’ero
–lo avrei fatto sicuramente in altre circostanze; invece
continuai a guardarla senza nascondermi, senza nascondere le mie scuse
silenziose, che appunto rimasero tali. Cosa avrebbe pensato di me se le
avessi chiesto scusa per qualcosa successo anni prima? Probabilmente
che ero una buona amica nel riconoscerlo, seppur a distanza di tempo,
ma la paura che potesse dirmi qualcosa come “il passato
è passato” era troppo forte perché
potessi rischiare. Volevo un confronto, non un motivo in più
per rendermi conto della differenza tra me e lei.
«Cosa ti frulla in quella testolina bacata?».
Chiese sospettosa, arricciando poi le labbra in una smorfia pensierosa.
Anche Martina, che nel frattempo si era messa a socializzare con un
gruppo di stranieri, posò lo sguardo su noi due, chiedendosi
sicuramente cosa stesse succedendo e soprattutto il perché
Rosaria mi stesse guardando in quel modo.
Tranquillizzai mia cugina con un sorriso e mi rivolsi a Rosaria facendo
lo stesso. «Niente di particolare, solite cose».
Parlai cauta, in modo da non sembrare innaturale, e la presi sotto
braccio per trascinarla via, senza neanche darle il tempo di
controbattere.
Raggiungemmo Martina con solo un paio di passi, e quando ci vide
avvicinarci sembrò in un certo senso rilassarsi , prima di
passare alle presentazioni.
Stando a quanto avevo capito, quei ragazzi - inglesi - le avevano
chiesto indicazioni per raggiungere "Grom" - la migliore gelateria
della città - e lei stava cercando di far ricorso alle sue
scarsissime conoscenze della lingua per aiutarli, ma ovviamente senza
molti risultati.
«Grazie al Cielo siete venute in mio aiuto» .
Esclamò con un sorriso a trentadue denti, dando
temporaneamente le spalle ai poveri turisti.
Lanciai un'occhiata leggermente più lunga delle altre oltre
la sua figura ed osservai con attenzione gli sconosciuti: erano tre
ragazzi decisamente carini, due mori e uno biondo, avevano tutti gli
occhi chiari tipici di chiunque fosse nato in Inghilterra e con loro
c'era una graziosissima ragazza sorridente, dai lineamenti vagamente
sudorientali, che teneva per mano il biondino.
Una volta terminata la mia analisi, spostai lo sguardo verso Martina,
fulminandola all'istante. Mi era bastato guardare i suoi interlocutori
per capire per quale motivo non la smetteva di mettersi in ridicolo con
loro.
I ragazzi erano sempre stati il punto debole di mia cugina, bastava che
ne vedesse uno anche solo accettabile perché partisse in
quarta nella sua conquista, e non si arrendeva finché la
preda non le offriva almeno un gelato.
Brom. Inglesi fighi. Martina. Ora era tutto chiaro.
«Sorry guys for the stop, this is my cousin Giorgia and his
friend Rosaria».
I ragazzi davanti a noi si misero a ridere di gusto, ma non in modo
derisorio come un qualunque straniero avrebbe probabilmente
fatto…no, non la stavano prendendo in giro, ci avrei messo
la mano sul fuoco, ed anche se mia cugina mi aveva appena dato del lui,
decisi di lasciar correre quel piccolo malinteso; in fondo non
l’aveva fatto di proposito.
«Piacere di conoscervi, ragazze». Prese parola il
moro più alto dei due, stringendo la mano prima a me e poi a
Rosaria. «Io sono Benjamin, ma potete chiamarmi
Ben». E concluse il tutto con un occhiolino che per poco non
fece cascare a terra mia cugina.
Nonostante il mero tentativo di rimorchio, non riuscivo a tacciare quei
ragazzi come “antipatici”. Era la prima volta che
mi succedeva una cosa del genere e avrei senz’altro definito
quella sensazione “colpo di fulmine”, se solo si
fosse trattato di amore e se solo l’avessi mai sperimentato.
«Io sono Trevor». Rispose l’altro, il cui
colore di capelli – guardandolo attentamente - sembrava di un
tono più chiaro di quello di Benjamin.
Da quando prestavo così tanta attenzione ai particolari?
Nel mentre le presentazioni erano andate avanti, mancava solo la
presunta coppietta ed io ero curiosissima di sapere quali fossero le
origini della ragazza dai tratti così particolari
«Alex». Fu il ragazzo a parlare per primo e non
potei fare a meno di pensare che effettivemente la faccia da Alex ce
l'aveva. Anche quella era una cosa che mi capitava raramente, per
questo cominciai a preoccuparmi.
«Manila, piacere». Concluse allegramente la sua
presunta fidanzata, con un accento buffo ma stranamente dolce.
«Allora, sapete dove si trova la gelateria?».
Chiese bonariamente Ben, mostrando dei denti perfetti, quasi quanto
quelli di...
"Nessuno, quasi quanto quelli di nessuno". Mi corressi immediatamente,
appena prima che Martina mi tirasse una gomitata per farmi capire che
dovevo rispondere io.
«Certo, dovete andare…». Ma non feci in
tempo a finire la frase che la mia adorabilissima cugina mi
pestò un piede con una delle sue scarpe a trampolo.
«Ahia!». Gemetti dal dolore, cominciando a
saltellare sul posto per lenirlo almeno un po'. Dopodiché,
incurante di ciò che avrebbero potuto pensare gli stranieri,
le lanciai un'occhiata tra l'interrogativo e l'iroso.
«Anche noi stiamo andando lì». Disse
Martina tra i denti, sorridendo nervosamente ogni qual volta incrociava
lo sguardo di uno dei quattro amici.
Sospirai sommessamente e decisi di stare al gioco, in fondo mi sarebbe
piaciuto conoscerli meglio, sembravano dei ragazzi davvero
interessanti. «Oh, che coincidenza! Anche noi stiamo andando
lì…se volete possiamo farvi strada».
«Sarebbe fantastico!». Risposero loro in coro, e
sembravano davvero felici di passare del tempo con noi.
«Grazie, Giò, sei la migliore cugina del
mondo!».
«E tu sei ruffiana». Risposi evitando il suo
abbraccio, non riuscendo però a trattenere un risolino
divertito nel vederla acchiappare il vuoto, mentre io mi affiancavo a
Rosaria per fare strada agli altri.
«Ehi, aspettatemi! Non è facile camminare su
questi cosi!».
La gelateria Grom era affollata come al solito ed il locale era troppo
ristretto per poter contenere tutte quelle persone. Erano anni che lo
dicevo: il proprietario doveva provvedere ad ingrandire tutto, non
poteva certo far morire assiderate le decine e decine di
clienti costrette ad aspettare fuori.
Durante il tragitto io avevo fatto da interprete a Martina, che aveva
continuato a provarci spudoratamente con Ben, mentre Rosaria si era
limitata a scambiare qualche chiacchiera con Manila; quelle due
sembravano avere un'intesa particolare, e l'inglese della mia migliore
amica era decisamente di buon livello, così da non aver
bisogno delle mie traduzioni istantanee.
Io parlavo un po' con tutti, a dire il vero, e non perché
volessi sforzarmi di socializzare – sapevo neanche come fare!
- bensì perché ciascuno di loro aveva qualcosa di
interessante da dire e a me piaceva ascoltarli.
In quei pochi minuti avevo scoperto già una marea di cose
sul loro conto: innanzitutto erano in Italia per una vacanza-studio di
qualche mese, e quindi ne avevano approfittato per girare un po' tutto
il Bel Paese, la cui ultima tappa era proprio Milano, da dove sarebbero
partiti il sabato successivo.
Trevor si era dimostrato il simpaticone della compagnia, mentre
Benjamin sembrava piuttosto dolce e comprensivo con quella sanguisuga
di Martina; cosa in cui pochi riuscivano, a dire il vero.
Manila invece era la più colta: per ogni monumento o palazzo
che vedeva aveva sempre pronta una spiegazione dettagliatissima che lo
riguardava: architetto, ragione per cui si trovava lì,
materiali usati e altre cose come queste. Inutile dire che mi sentivo
un po’ in imbarazzo nell’apprendere tutte quelle
cose sulla mia città da una ragazza londinese.
Non era stato difficile, a quel punto, capire il motivo della sua
immediata conoscenza con Rosaria; anche lei amava l'arte e la cultura,
e condividere la stessa passione con qualcuno l'aveva resa su di giri.
Sorrisi compiaciuta ed osservai di sottecchi Alex, l'unico che si era
limitato a partecipare alle discussioni con dei semplici monosillabi,
più di buona educazione che di vero interesse.
A primo impatto mi aveva fatto una buonissima impressione, ma in quel
momento cominciai a credere di essermi sbagliata sul suo conto, non che
lo conoscessi abbastanza da poterlo giudicare, comunque, poteva
tranquillamente essere timido.
«Io non ho intenzione di soffocare lì
dentro». Disse Martina scrutando le persone in fila.
«Va bene, principessina, glielo prenderò io il
gelato...non si preoccupi!». Risposi ironica, mettendomi in
coda senza neanche chiederle quali gusti prendesse. Be', certo, ormai
aveva ottenuto quello che voleva; perché non lasciare sua
cugina - da sola - in mezzo a tutta quella calca? Per fortuna Rosaria
era una ragazza seria, lei non mi avrebbe mai abbandonata per motivi
così stu-...
«Ehm, Giò, ti dispiace se vado a dare un'occhiata
a quella statua laggiù? Manny è proprio una fonte
inesauribile di sapere!». E vedendo i suoi occhi brillare, e
le mani giunte a mo' di supplica, non potei che farle cenno di andare.
Presi un profondo respiro e mi voltai verso gli unici tre rimasti -
esclusa Martina, che se ne stava comodamente seduta su una panca
lì vicino - per vedere chi mi avrebbe accompagnata
nella missione. O almeno speravo che uno di loro avesse il buonsenso di
farlo...
Ma che fine avevano fatto i gentiluomini di un tempo che si facevano in
quattro per salvare le fanciulle in pericolo? Ok, forse non ero in
pericolo, ma portare tre gelati da sola non era il massimo delle
aspirazioni di una ragazza piuttosto gracilina.
Un colpo di tosse - chiaramente finto - proveniente dal luogo in cui
mia cugina si stava riposando, bastò a farmi escludere Ben
dalle possibili scelte.
Ovvio che la ressa di gente fosse solo una scusa!
Per un attimo fui tentata di mandare a monte il suo piano,
così sarebbe rimasta lei sola, ma era pur sempre Marti, non
potevo tradire la sua fiducia per una sciocchezza del genere...in fondo
non era lì solo per farmi da psicologa momentanea, aveva il
diritto di divertirsi come più credeva.
«Ben, puoi stare con Martina, per favore? Ha detto che non si
sente molto bene e sono un po’ preoccupata...».
Finsi un tono veramente preoccupato e il povero ragazzo ci
cascò con tutte le scarpe. «Nessun problema, me ne
occupo io». E si precipitò subito da lei, dopo
aver dato indicazioni sui gusti da prendere.
«Allora, andiamo?».
Le battute di Trevor - sebbene alcune non le avessi capite a pieno -
erano le migliori che sentivo dopo parecchio tempo. Quel ragazzo aveva
la stoffa per fare il comico, ma era inutile che glielo dicessi io,
qualcuno ci aveva sicuramente pensato prima di me; perciò
parlammo del più del meno durante tutta l'attesa, sempre
accompagnati dal silenzio spettrale di Alex.
Quando ormai riuscivamo a vedere la cassa, il telefono di Trevor
cominciò a squillare con le note di una simpaticissima
musichetta Disney, che però sul momento non associai a
nessun film in particolare. E dire che ce li avevo tutti in
videocassetta, pronti da rivedere ogni qual volta avessi avuto voglia
di ritornare bambina.
«Scusate, torno subito». Annunciò,
allontanandosi a grandi passi, mentre premeva la cornetta verde per
accettare la chiamata.
Il fatto che fossi rimasta sola con Alex un po' mi metteva a disagio:
ero una persona piuttosto timida e taciturna, come avrei potuto rendere
il tutto anche solo vagamente confortevole se lui lo era anche
più di me?
Senza rendermene conto mi ero incantata a fissarlo con insistenza, e
con la mia innata capacità di attirare figure di emmental
poteva non accorgersi del mio sguardo? No, ovviamente no.
«Perché mi fissi?». Se ne
uscì, infatti, improvvisamente più rilassato, ma
allo stesso tempo incuriosito dal mio comportamento.
«Me ne sono accorto già prima, ma credevo fosse
solo una sensazione…». Proseguì
sostenendo il mio sguardo. Sembrava determinato adesso, forse il suo
silenzio era dovuto ad un pensiero insistente che non riusciva a
scacciare dalla sua testa. E io quella sensazione la conoscevo molto
bene.
«Oh, non c’è nessun motivo in
particolare, mi dispiace se ti ho infastidito». Mi affrettai
a rispondere, ma non riuscii a nascondere un po' di incertezza nel
farlo, e quindi risultai poco credibile.
«Stai mentendo…».
Avevo il nervosismo alle stelle e non vedevo l'ora che Travor
ritornasse, l'aria era decisamente troppo tesa e sarei scappata pur di
non doverla reggere.
Non mi faceva paura Alex, anzi, ero certa che fosse un bravo ragazzo,
ma in lui c'era qualcosa che mi spingeva ad allontanarmene e credevo
anche di sapere cosa fosse.
«Non è vero!». Mi difesi prontamente.
«So che può sembrare strano, ma stavo solo
pensando che per certi aspetti siamo simili».
Via il dente, via il dolore. E poi non ci saremmo neanche
più rivisti, che senso aveva mentirgli?
Per la prima volta incontrai i suoi occhi, di un azzurro quasi
spettrale, sembravano di vetro tanto che erano chiari. Ed erano belli,
sì, ma non quanto quelli di Lor...
Alt, alt...perché ancora lui?! Non c’entrava un
fico secco!
«Capisco, per caso la tua testa è sempre piena di
pensieri e cose così?». Chiese Alex con un gran
sorriso, forse un po' malinconico, che riuscì a
tranquillizzarmi un po'.
"Più che di pensieri, di una sola persona, direi". Pensai
dentro di me, ma mi guardai bene dal dirglielo...mi avrebbe presa per
una stupida ragazzina innamorata. Non che non lo fossi, ma non si
trattava semplicemente di amore, c'era qualcosa in più, e
quel qualcosa mi impediva di andare avanti, di lasciarmi tutto alle
spalle.
«Più o meno». Risposi, accennando anche
io un sorriso, e fu piuttosto difficile riuscirci, data la piega che
avevano assunto i miei pensieri. «E fa veramente
schifo».
«Mmmh, non semplici pensieri…un
ragazzo?». Domandò allora lui, sorprendendomi per
la prima volta.
Rimasi con la bocca semiaperta finché davanti a noi non
rimase solo una persona: mi si leggeva davvero in faccia?
Non erano quelli i miei piani...sarei andata in giro con una maschera
pur di non darlo a vedere; magari potevo chiedere a Lorenzo di
prestarmi la sua...
Stavo diventando pure spiritosa, wow!
«Scusate ragazzi, era la mia ex». Trevor
spuntò senza alcun preavviso alla mia sinistra, mimando
disperazione quando spiegò di chi si trattasse.
La sua presenza era davvero una liberazione, tutto era più
spontaneo, non mi sentivo a disagio o sotto esame...ed Alex si era
richiuso nel suo silenzio.
La nostra breve chiacchierata mi aveva confusa ancora di
più, tuttavia decisi di lasciare perdere; il tempo di un
gelato e le nostre strade si sarebbero divise.
Era così che funzionava: il destino ci faceva incontrare
persone, ci metteva davanti a delle scelte che le riguardavano e poi le
faceva uscire dalla nostra vita.
Forse un disegno di vita un po' drastico, ma più passava il
tempo e più me ne convincevo.
Poteva un cuore calpestato come il mio pensare qualcosa di diverso?
Quando uscimmo dalla gelateria, l'orologio della piazza segnava
già le quattro. Incredibile, quasi un'ora per prendere un
gelato!
Buono quanto si voleva, ma sarebbe andata bene qualunque altra
gelateria! Senza contare che la temperatura non era certo delle
più adatte. Gli inglesi magari ci erano abituati, Martina
aveva un secondo fine, ma ancora non riuscivo a spiegarmi
perché tutte quelle persone avevano tanta voglia di
congelarsi lo stomaco con quel freddo.
Altro mistero che sarebbe rimasto irrisolto.
Mentre ascoltavo Travor raccontare delle sue disavventure a Roma, diedi
un'occhiata distratta in giro - Alex, al mio fianco, sembrava fare lo
stesso - ma quando il mio sguardo si posò sulla panchina
dove Martina si era seduta, notai subito che di lei non c'era traccia.
Poteva essere tranquillamente andata a farsi una passeggiata, direte
voi, ma allora perché Ben era esattamente dove l'avevo
lasciato, insieme a Manila?
Cercando di mantenere la calma, raggiunsi i due in un batter d'occhio:
dovevano sapere per forza il motivo della loro assenza.
«Dove sono loro?!». Chiesi, infatti, non riuscendo
a trattenere un po' di panico nella voce.
Ben mi sorrise subito, forse per tranquillizzarmi. «Sono
andate da quella parte con un ragazzo». Disse
indicando un punto in lontananza, dopodiché fece una pausa.
«Ma non ti preoccupare, lo conoscevano».
Un ragazzo? Ma se Martina non conosceva nessuno lì! Magari
un amico di Rosy; oppure...possibile che...?!
«E lo conoscevano entrambe?». Continuai il mio
interrogatorio, mentre nella mia testa si faceva largo un presentimento.
Ben annuì sicuro, rendendo il mio sospetto qualcosa di
più...ma ancora non era abbastanza.
«E com’era, lui?». Chiesi deglutendo.
«Era figo!». Rispose Manila al posto suo,
beccandosi un'occhiataccia da parte di Alex, che tuttavia non le
impedì di continuare. «Capelli biondi, occhi blu,
scuri…ed anche abbastanza muscoli».
La descrizione era la sua, ma esistevano un sacco di ragazzi con quelle
caratteristiche, e io in certe situazioni diventavo proprio paranoica.
«E…ti ricordi come le ragazze l’hanno
chiamato? Voglio dire, il suo nome…».
Entrambi rifletterono per un po', poi Ben sollevò un dito
vittorioso.
«Lorenzo!». Esclamò soddisfatto,
storpiando il nome con il suo accento inglesissimo.
Tirai un sospiro di sollievo e mi seddetti sulla panca.
Come al solito avevo subito pensato al peggio. Non che Lorenzo non lo
fosse, ma almeno non era un malvivente, e Martina sarebbe stata in
grado di fronteggiarlo a modo suo.
«Quindi lo conosci?». Domandò Manila
passandomi un braccio intorno alle spalle.
Annuii poggiando la testa sul bordo della panchina: ero tremendamente
stanca, altro che serata tra ragazze.
Dove poteva andare Lore il sabato pomeriggio, se non in Centro Milano?
«E perché non li raggiungi, allora?». Mi
chiese Ben apprensivo, mentre Trevor si lamentava per i gelati che si
stavano sciogliendo.
«…dovrei farlo?». Domandai apatica, con
un filo di voce.
Che senso avrebbe avuto? Era già stato abbastanza chiaro
quella mattina, e Martina mi aveva espressamente suggerito di vederlo
il meno possibile.
«Sì, dato che sei la ragione per cui stanno
parlando». Rispose Manila, sorprendendomi. Ma gli inglesi
avevano per caso il dono della veggenza? Prima Alex, ora lei...
«Come fai a…?». Provai a chiedere
titubante, ma lei mi precedette prima che potessi finire. «Ha
detto il tuo nome».
Il cuore mi saltò in gola come impazzito, e così
feci anche io. Aveva solo detto il mio nome, niente di nuovo, che
bisogno c’era di reagire in quel modo? Perché
avevo quella incontenibile voglia di rivederlo?
Senza neanche pensarci - o darmi una qualsiasi risposta - scattai in
piedi e diedi il mio gelato - ormai mezzo andato - a Manila.
Presi il cellulare dalla tasca e cominciai a digitare con frenesia il
numero di Rosaria.
Se avessi chiamato Martina, non mi avrebbe detto dov'erano neanche se
l'avessi minacciata di buttarle i trucchi nel Po.
Mi tremavano persino le mani! Senza speranze, ero proprio senza
speranze.
«Rosy, dove siete?». Dissi - praticamente urlai -
una volta udito il suo pronto. Oh, al diavolo le persone intorno che mi
guardavano!
«Ehm...vicino, non preoccuparti». Rispose sviando
la mia domanda.
«Santo Dio, non potete parlare di me...senza di
me!». Sbottai senza riuscire a trattenere la rabbia che si
rifletteva nella mia voce.
Rosy sospirò un po' a disagio. «È
meglio così, fidati».
«Non è meglio niente! Io devo vederlo,
capisci?».
In sottofondo sentivo chiaramente la voce di Martina, che contro ogni
mia aspettativa non era molto alterata.
«Non puoi, Giò! Combineresti solo-...ehi, che
fai?! Ridammi il mio telefono! Non ci provare, sai?
Ridammelo!». Sbraitò la mia amica mettendomi fuori
gioco un timpano.
Udii qualche rumore confuso e poi una voce secca e decisa. La sua voce.
«Noir Café, sbrigati». Telegrafico come
al solito, ma era l’unico in grado di farmi perdere la
ragione in quel modo.
Provai a dire qualcosa, ma l'urlo nero di qualcuno me lo
impedì. «Pezzo di...!»
La conversazione si chiuse bruscamente, con quell'insulto a
metà partito da Martina, il cui continuo non era poi
così difficile da immaginare.
Rimisi frettolosamente il cellulare in tasca e diedi una fugace
occhiata ai quattro ragazzi vicino a me, sui cui visi trovai
l’incoraggiamento che cercavo. Armata di una determinazione
fuori dal comune – e accompagnata dai battiti sempre
più accelerati del mio cuore - mi allontanai di corsa verso
il luogo indicatomi da Lore.
Sapevo che quello che stavo facendo era sbagliato, continuavo a
ripetermi che tanto sarebbe stato inutile, e mi insultavo senza sosta
per la mia ennesima illusione, ma i miei piedi continuavano a muoversi
da soli, accorciando velocemente le distanze e portandomi sempre
più vicina a lui, sempre più vicina alla fonte di
disperazione da cui invece avrei dovuto fuggire.
Note:
Direi che è un capitolo abbastanza corposo. Alla fine sono
uscite ben 30 pagine, ma ho deciso comunque di non dividerlo a
metà; sia perché non sapevo dove interromperlo,
sia perché ho pensato che se è uscito tutto
insieme ci doveva essere un motivo XD
Non ho nient’altro da aggiungere a riguardo, se non qualche
piccola precisazione.
-
Non sono mai stata in aeroporto, quindi non ho la più
pallida idea di come sia fatto. Ho cercato un po’ sul web, ma
non essendo riuscita a trovare molto l’ho lasciato
così.
-
I dialoghi con Ben, Trevor, Alex e Manila sono ovviamente in inglese
– e all’inizio li avevo persino scritti in
originale XD – poi però ho pensato che sarebbe
stato meglio mettere direttamente la traduzione altrimenti la lettura
sarebbe potuta risultare poco fluida ^^ E dato che i lettori sono
importanti, ho cambiato.
Bene, anche per questa volta il mio spazio è terminato XD
Concludo, come sempre, ringraziando chi ha recensito, aggiunto tra le
preferite, ricordate e seguite. Quindi un gigantesco-enorme-iper-mega
grazie a: happiness elly, AntoJosephine, xxStellina92xx, Miss Demy,
MakaGD, Stella nera, eveline90, Deilantha, HazelStardust, china91,
mery_dec_, Callyope89, rodney e _Miss_ .
Con lo scorso capitolo ho raggiunto davvero un traguardo
importantissimo – ben 14 recensioni! (ancora non ci credo
ç_ç) – e adesso ho paura di deludervi.
Quante paranoie, eh? Ma credo sia normale ^^
E per ultima cosa – ma non meno importante – un
ringraziamento particolare alle ragazze che mi hanno sopportata su
facebook in queste settimane di stress! Voi sapete chi siete
;)
Alla prossima.
Un bacio.
P.s: mi dispiace di non esser riuscita a rispondere alle vostre
recensioni prima di pubblicare...lo farò
quanto prima!
|
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Capitolo 11 *** I can't leave you behind. ***
capitolo 11
CAPITOLO 10: I can't
leave you behind
Avevo il fiato corto e il
cuore a mille quando finalmente riconobbi un punto in comune alla mappa
che
avevo in testa. Era ben noto a tutti il mio pessimo senso
dell'orientamento, e
dalla foga non avevo tenuto conto di quel piccolissimo particolare,
perciò mi ero ritrovata a girare in tondo senza neanche
rendermene conto.
Camminavo a
passo spedito
incurante della gente che mi camminava intorno, avevo perso il conto
delle
volte in cui mi ero scusata, così come avevo rinunciato a
compilare la lista
degli insulti che i poveri malcapitati mi rivolgevano adirati. La mia
unica
preoccupazione era quella di osservare lo scorrere del tempo e, man
mano che i
minuti passavano, la paura che Lorenzo si stufasse dell'attesa, oppure
che
Rosaria e Martina portassero a termine la discussione prima ancora che
arrivassi, aumentava in una proporzione imperfetta.
Giunsi al
Noir Café quando
ormai avevo perso le speranze. Le persone a cui avevo chiesto
indicazioni si
erano rivelate essere turisti, oppure abitanti di città
limitrofe in gita a
Milano per la prima volta, con la conseguenza che - la maggior parte
delle
volte - ne sapevano addirittura meno di me.
Diedi
un'occhiata in giro
sforzandomi di mantenere una parvenza di tranquillità, ma
delle tre comari non
si vedeva neanche l'ombra.
Che mi
avesse presa in
giro per depistarmi? Mi ero fidata così ciecamente di lui
che neanche per un
secondo mi aveva colto il dubbio che mi avesse mentito. "Sbagliando si
impara", diceva il proverbio, ma evidentemente io costituivo
un'eccezione...quella classica che confermava la regola.
Sbuffai
infastidita e
osservai con più attenzione tutto quello che mi circondava,
in cerca di un
qualunque segno della loro presenza, ma prima che - terminata la
ricerca -
potessi andarmene rassegnata, un lampo di genio mi colse
all'improvviso. Lore
non aveva detto che erano in quel bar, mi aveva semplicemente indicato
un punto
di riferimento per raggiungerli.
Ora tutto
aveva più senso.
Come avevo potuto pensare che
potessero discutere di un argomento così delicato in mezzo a
tutta quella
gente? Non quando di mezzo c'era Martina, almeno.
Mi diedi
della stupida -
neanche tanto mentalmente - e decisi di fare almeno un tentativo,
avvicinandomi
cautamente all'entrata di un vicolo buio, la cui uscita conduceva ad
uno
spiazzo ampio e semi deserto. Poca gente lo riempiva: un paio di
ragazzi
intenti a fare i galletti con altrettante ragazze, qualche anziano che
borbottava qualcosa in modo burbero e - infine - tre figure largamente
distanziate, di cui una appoggiata con noncuranza al muro alle sue
spalle.
Braccia conserte e sorriso strafottente.
Per una
volta mi aveva
detto davvero la verità.
Feci solo in
tempo a
sentire il cuore saltarmi in gola che improvvisamente tutto era
scomparso;
rimanevamo solo io, lui e la sua innata capacità di
cancellare tutto ciò che di
sensato avevo nel cervello.
Nonostante
la sostanziale
distanza che ci divideva, i nostri occhi si incrociarono quasi subito,
come se
fosse stata una calamita invisibile ad attrarli, e avrei giurato di
aver visto
qualcosa riflettersi nei suoi, quando con un respiro più
profondo degli altri -
e le dita saldamente incrociate dietro la schiena - avevo cominciato ad
avanzare spedita in sua direzione.
Qualche
secondo dopo,
Martina e Rosaria si voltarono contemporaneamente verso di me; e,
ancora, non
mi stupii di vedere solo cieca rabbia nell'espressione della prima,
forse mista
ad un pizzico di delusione e tradimento. La conoscevo fin troppo bene e
sapevo
perfettamente quanto odiasse veder prendere i suoi consigli con
leggerezza,
specialmente da me che li avevo sempre ritenuti oro colato. Lorenzo
aveva
sballato tutto, il mio equilibrio, la mia ragione, la mia vita...era
persino
riuscito a mettermi contro mia cugina, la mia adorabile Marti, e
chissà per quale
ragione poi mi ero precipitata lì per rivederlo, per farmi
di nuovo del
male.
Rosaria,
invece, sembrava
più preoccupata che altro e questo era un bene: mai come in
quel momento avevo
bisogno di qualcuno che fosse dalla mia parte.
Deglutii e
con un ultimo
sforzo li raggiunsi, fermandomi proprio vicino alla mia migliore amica,
che mi
guardò con apprensione, prima di stringere la mia mano nella
sua.
«Bene,
ora che ci siamo
tutti direi che possiamo cominciare». Sentenziò
Lore, arricciando il naso sotto
gli occhi attenti di Martina, che ormai aveva assunto
un’espressione omicida:
se non avesse dosato le parole l’avrebbe certamente fatto a
pezzi.
«Allora,
chi vuole
insultarmi per prima?». Ci esortò poi, fissandoci
una alla volta con aria di
sfida, seriamente divertito dalla situazione. E davvero mi chiedevo
cosa ci
trovasse di così divertente nello
sguardo inceneritore di mia cugina. Chiunque avesse avuto un briciolo
di
cervello sarebbe scappato a gambe levate, perciò le cose
erano due, e una non
escludeva necessariamente l'altra: o non ce l'aveva oppure era
masochista.
«Sono a vostra completa disposizione».
«Non
siamo qui per
metterti al patibolo, Lore». Dissi già stanca del
suo atteggiamento. Prima
avesse smesso di fare il "non vedo, non sento, non parlo" della
situazione, prima sarebbe stato meglio per tutti.
«Parla
per te!». Mi
rimbeccò Martina prontamente, dando libero sfogo alla stessa
ira che - prima
del mio arrivo - aveva
dedicato
esclusivamente a Lorenzo.
«Tua
cugina è proprio
tosta, eh?». Commentò quest’ultimo
rivolto a me, guardando Martina in modo
sprezzante e allo stesso tempo…affascinato? Escludendo lei -
la diretta
interessata - da quell'apprezzamento.
Allora non
mentiva sul
fatto che gli piacevano le ragazze decise.
Che bel
momento adatto avevo
scelto per appuntarmi questa sua preferenza in fatto di donne!
Fantastico,
Giorgia, sei davvero arrivata fino a questo punto?!
«Io
le darei ascolto,
fossi in te». Intervenne Rosaria mettendolo in guardia. E se
non lo avesse
fatto lei, ci avrei certamente pensato io. In fondo mi sarebbe
dispiaciuto
vederlo con un labbro spaccato per la trecentesima volta.
«Oh,
davvero?». Chiese
lui, fingendosi stupito, alternando - nel contempo - occhiatine a tutte
noi.
«So badare a me stesso, grazie». Fece una pausa
brevissima, per poi rivolgersi
solo alla mia migliore amica, sfoggiando una pessima ironia.
«E lo stesso
avvertimento vale anche per te, per caso? Perché ho
seriamente intenzione di
non seguire il tuo consiglio».
Rosaria
reagì piuttosto
bene a quella sua battuta infelice - come del resto mi aspettavo - a
differenza
di Martina, lei non era una ragazza vendicativa. Sapeva farsi valere,
questo
sì, ma cercava sempre di non serbare rancore per nessuno. E
la maggior parte
delle volte ci riusciva senza troppi sforzi. Ecco, sotto questo aspetto
eravamo
molto simili.
«Sai
cos'ho intenzione di
fare io, invece?». Si intromise mia cugina, quasi grugnendo
dalla rabbia. La
sua mano tremante, stretta in un pugno saldo, non era certo il preludio
di una
festa. Provai a dire qualcosa per fermarla, ma ottenni esattamente
l'opposto,
con l'aggiunta di una fiammata invisibile che
raggiunse in pieno centro
i miei occhi.
«Non
saprei...sesso?». La buttò
giù Lore, serrando poi le labbra con forza, per evitare di
scoppiare a ridere.
«Quando una donna è così aggressiva,
per rilassarsi al meglio può
ricorrere al sesso». Spiegò in modo quasi
convincente. Quasi...perché
ormai era sul punto di non trattenersi più.
Più
Marti si adirava e più
lui si divertiva come un bambino a prenderla in giro. Ma sarebbe
arrivato il
momento in cui le situazioni si sarebbero invertite, era inevitabile
con quella
sua scarsa propensione a voler rendere pacifica la conversazione, e io
non
sapevo se attenderlo con ansia oppure sperare che si desse una regolata
in
tempo.
«E
dai, Dolly, non essere
così musona...la vita è fatta per
divertirsi». Ammiccò, marcando quella parola
con una strana voce languida che mi diede i brividi. Se per il freddo o
per
qualche inconsulto desiderio, non saprei dirlo.
Dolly. Ancora quel soprannome
idiota! Poi proprio per
Martina, che fin dalla nascita mi aveva proibito di darle nomignoli
strani.
Senza contare il suo tentativo da provolone fallito. Lo avrebbe ucciso.
Lo
avrebbe ucciso!
Mi voltai
preoccupata
verso mia cugina, che dalla rabbia si era ormai conficcata le unghie
nel palmo
della mano.
Allarme
rosso. Pensai. Se era
disposta persino a rovinarsi le unghie fresche di manicure, la
situazione era
addirittura peggiore di come l'avevo creduta.
Pregai con
tutta me stessa
che non facesse sciocchezze, altrimenti come avrebbe spiegato a tutti
per quale
motivo aveva rotto il naso (nella migliore delle ipotesi) ad un quasi
sconosciuto? Era una vacanza all’insegna della pace e
dell’amore in famiglia,
quella, non poteva diventare un incubo.
Pensa a
qualcosa, pensa a
qualcosa, pensa a…
«Non
gira tutto intorno a
te, idiota!». Sbottò mia cugina, con un tale
impeto da interrompere bruscamente
i miei pensieri. «Oh, ma credimi, io ti ho capito, mio caro.
Più di quanto tu
immagini».
Nessuno
osava parlare,
nell'aria c'era solo una tensione generata dall'attesa, e l'unico che
sembrava
avere ancora la capacità di respirare - nonostante fosse
l'obiettivo di
quell'intimidazione - era proprio Lorenzo, che tuttavia non
tentò di fermare la
sua sfuriata.
«I
tipi come te sono un
libro aperto per me, un cliché».
Affermò, imitando lo stesso sorriso che Lore
improvvisamente aveva abbandonato. I ruoli si erano davvero invertiti,
alla
fine. «Cosa credi, che comportandoti da perfetto
menefreghista nessuno possa
scalfirti o causarti dolore?». Proseguì
assottigliando lo sguardo severamente,
per poi lanciarmi un'occhiata brevissima, quasi inesistente, che mi
inchiodò
sul posto all'istante. Avvertii la mano di Rosaria stringersi con
più forza
alla mia, come a volermi infondere coraggio, perché sapeva
quanto fosse
difficile per me affrontare tutti quei fantasmi del passato,
confrontarmi con
tutte le verità che avevo sempre cercato, ma delle quali -
allo stesso tempo -
avevo un'insana paura.
Tutti
stavamo aspettando
che Lore rispondesse, un suo segnale, una smorfia, una risata
derisoria,
addirittura che se ne andasse, ma lui sembrava in trance, assente, come
se
fosse partito per un altro mondo e la sua reazione non
arrivò che dopo un
altro, lungo, insostenibile silenzio.
«Si
vede che non hai
capito un cazzo». Biascicò lui serio, mantenendo
un tono piatto che non
trasudava alcuna emozione. Avrei detto nervosismo, probabilmente, ma
non ci
avrei scommesso niente. «Non
credi di
essere un po' troppo presuntuosa?».
Martina si
ritrasse
leggermente, la sua convinzione aveva vacillato e, anche se non avrebbe
voluto
darlo a vedere, l'avevo notato praticamente subito; il fatto che lei mi
conoscesse alla perfezione non era una cosa a senso unico.
Inoltre,
l'ipotesi che
aveva sollevato era una di quelle che mi aveva tormentato in tutti
quegli anni,
ci avevo pensato parecchio, ma alla fine mi ero convinta che la sua
preoccupazione non poteva essere semplicemente quella di non soffire,
la
ragione era un'altra, una che si guardava bene dal rendere esplicita,
una che
magari, da sola, racchiudesse tutta quella sofferenza da cui voleva
scappare.
Non sentendo
arrivare
alcuna risposta, Lore continuò con la sua opera di
affossamento. «Non mi
conosci e io non conosco te, perciò stai fuori da questa
storia». Scandì
l'ultima frase facendo una pausa tra una parola e l'altra, forse per
dare ad
ognuna di esse il significato per il quale le aveva realmente usate. E
riuscì
perfettamente nel suo intento, perché pesarono
più del piombo, addosso a Marti,
addosso a Rosy...persino addosso a me.
«E
Giorgia?». Si riprese
temporaneamente mia cugina, sferrando il colpo decisivo.
«Anche Giorgia non
c'entra niente in questa storia?!».
Bingo.
Lore dopo un
attimo di
sorpresa, che a nessuna di noi era sfuggito, fece per parlare...e
bramavo di
sentire quella risposta, avrei dato qualunque cosa per scoprire se
avesse
deciso di deviare la domanda oppure di dire semplicemente la
verità, ma
chiaramente Martina non la pensava allo stesso modo, avevo dimenticato
la
storia del "non ti farebbe bene parlare con lui in questo momento".
«Andiamo».
Sentenziò
infatti, dopo aver sostenuto una sfida interminabile di sguardi con
Lorenzo,
finita in parità assoluta. Tanto che i loro caratteri erano
forti e
contrastanti, mi era sembrato di poter vedere persino le scintille
partire dai
loro occhi e colpire l’avversario.
«Che
cosa?!». Me ne uscii
io, rendendomi conto solo in quel momento di quanto aveva detto.
Martina
tornò a
concentrarsi su di me, nuovamente scocciata. «Mi dispiace, ma
tu non eri
inclusa nel piano “affossiamo Mr. stronzaggine”,
perciò muovi quelle
gambe-scamorze chi ti ritrovi e andiamocene di qui».
«Quindi,
era una
trappola». Constatò Lorenzo immediatamente,
tornato improvvisamente pungente e invacillabile.
«Chissà perché la cosa
non mi stupisce per niente».
Martina si
voltò di scatto
verso il suo interlocutore, senza celare nemmeno un pizzico della
rabbia che la
stava consumando. «Però ti sei presentato
all’appuntamento».
Lore fece
spallucce.
«Volevo accertarmene». Posò brevemente
lo sguardo su di me, dopodiché si scostò
dal muro alle sue spalle senza fare una piega. «Tu lo sapevi,
no?».
Colpita e
affondata. Ma
perché avrei dovuto sentirmi in responsabile per qualcosa di
così futile,
quando in realtà lui aveva fatto di molto peggio?
A
quell'accusa sentii la
collera montarmi dentro, ad ondate sempre più alte e
pericolose. Lui mi
stava tacciando di scorrettezza tra le righe! Lui!
Ignorai i
ripetuti
richiami di mia cugina per un po', allontanandola poi con uno strattone
quando
tentò di portarmi via da lì con la forza.
«Non
ti azzardare, sai?».
Sbottai avvicinandomi di qualche passo all'oggetto della mia ira. Ormai
gli
avvertimenti di mia cugina erano diventati solo un piccolo brusio
nell'anticamera del mio cervello, fastidioso ma facilmente isolabile.
«A
fare cosa?». Fece
lui il finto tonto, senza cancellare però quel sorrisetto
terribilmente
irritante e fastidioso che si era incollato permanentemente sul viso.
«Ma
lo fai apposta o sei
cretino?!».
Lore fece un
passo verso
di me. Piccolo, invisibile, eppure riuscii comunque a percepire
distintamente
la diminuzione dello spazio che ci separava. Ogni cosa con lui si
amplificava:
ogni sentimento normale con lui diventava letteralmente devastante,
ogni
sguardo insignificante, con lui assumeva un peso e
un'intensità tali da non
poterne scordare neanche il minimo dettaglio...ogni abbraccio, bacio o
carezza
ordinario si trasformava in un'insaziabile voglia di averne ancora, di
più,
all'infinito.
«Sono
cretino».
«Lo
sapevo io, lo
sapevo!». Intervenne Martina nervosamente, frapponendosi tra
noi due con
stizza, prima che potessi rispondergli per le rime.
«Smettetela voi due!».
Sbraitò poi, afferrandomi malamente per un braccio per
tirarmi via. «E tu non
stare lì impalata, aiutami a portarla via di
qui!». Urlò in direzione di Rosaria,
che corse spaventata in suo aiuto.
«Ma
io devo parlare
con lui! Non potete obbligarmi ad andarmene!». Protestai
piantando i piedi a
terra per ostacolarle, ma con scarsi risultati. Ero sempre stata una
frana in
resistenza, ed eravamo due contro uno.
«Rispondi alla domanda di Martina, Lore! Anche
io non c'entro nulla in
questa storia?!». Feci un ultimo, disperato tentativo,
sebbene sapessi quanto
fosse vano.
«Non
adesso». Mi disse
Martina tra i denti, prima di rivolgersi a Lore con un sorriso
minaccioso. «Arrivederci,
carissimo, è stato un piacere conoscerti!».
Gli lanciai
un'ultima
occhiata e lo trovai impassibile come al solito. Non fece nulla per
fermarmi,
nemmeno una singola parola, eppure anche lui sapeva che sarebbe bastato
davvero
poco per farmi abbandonare le resistenze, per farmi correre di nuovo da
lui.
Entrambi lo sapevamo, così come entrambi conoscevamo le
conseguenze, solo che
lui non era disposto ad accettarle.
Non vuole.
Mi dissi con
rammarico, sostituendolo interamente alla rabbia di poco prima. Non ha
mai
voluto che rimanessi, perché dovrebbe ora?
E me lo
lasciai alle
spalle ancora una volta, arrendendomi sconfitta. Magari quella era
davvero
l'ultima, magari non mi avrebbe più cercata, magari gli
sarebbe bastato un
singolo secondo del presente per dimenticarne mille passati.
Lui ci
sarebbe riuscito.
Io no.
Lui sarebbe
andato avanti.
Io sarei rimasta ancorata ad un'inutile speranza per chissà
ancora quanto
tempo.
Forse per
lui era stato
solo un gioco, ma per me in gioco c'era stata soltanto la mia vita e,
alla
fine, l'aveva segnata indissolubilmente.
Tornammo da
Grom in un
silenzio quasi assoluto: nessuna di noi osava aprire bocca, a parte
Martina che
continuava ad insultare Lorenzo a bassa voce, e in più
c'erano i suoni
della città sempre presenti, da
qualunque parte si andasse.
Trovammo
Benjamin e Trevor
ancora seduti sulla panchina di legno davanti alla gelateria e, quando
ci
videro arrivare, si alzarono entrambi sorridenti.
«Alex
e Manila?». Domandò
Rosy accorgendosi della mancanza della strana coppietta, anche se a mio
parere
era solo un modo per distrarre l'attenzione dei due da me e Martina.
«Oh,
sono tornati in
hotel. Manila si è sentita poco bene e Alex l'ha
accompagnata. Vi ringraziano
per la compagnia e vi salutano tanto».
Rispose
Benjamin allegramente, per poi guardare Marti
perplesso,
probabilmente notando il suo silenzio insolito.
Cercò
il mio sguardo in cerca di spiegazioni e io provai a tranquillizarlo
con un
sorriso, che a quanto pare sortì l'effetto desiderato,
perché tornò a sorridere
sereno.
«Siete
stati gentilissimi ad aspettare che tornassimo». Presi
la parola,
leggermente più lucida rispetto a qualche minuto prima.
«Nessun
problema, mi dispiace solo che i vostri gelati si siano sciolti
completamente».
Intervenne Trevor, indicando con un dito il cestino dei
rifiuti lì vicino,
dal quale sbucavano tre coni completamente intatti, eccetto per la
parte del
gelato.
Io
e Rosy scoppiammo a ridere di gusto, mentre Martina sembrava ancora
immersa nel
suo mondo, intenta a rimuginare su chissà quale parte della
discussione con
Lorenzo.
«Non
lo capisco». Mugugnò a bassissima voce, sembrava
quasi che neanche si rendesse
conto di dove ci trovavamo. Prima faceva di tutto per far colpo su Ben
e poi
neanche si accorgeva delle sue attenzioni...avrebbe fatto bene a
mandare in
vacanza il suo cervello, prima che questo fosse diventato proprio un
suo
limite.
Le
tirai una gomitata leggera, facendo in modo che gli altri non mi
notassero, e
lei si riscosse dal suo stato di isolamento, sbattendo più
volte le palpebre,
con aria confusa e spaesata. Mi guardò interrogativa e io le
indicai Benjamin
con lo sguardo, che stava parlando con Rosaria e Trevor di qualcosa non
ben
identificato.
Mi
ero distratta pensando a lei e avevo perso il filo del discorso.
«...Milano
è una città bellissima, credo una delle
più belle che abbia visto qui in
Italia». Stava dicendo Ben, seriamente affascinato
da tutto ciò che lo
circondava, e non potei fare a meno di pensare che se ci avesse vissuto
l'avrebbe pensata diversamente. Anzi, lo avrei addirittura detto se
Martina non
mi avesse preceduta con un'altra delle sue. Ci metteva davvero molto
poco per
riprendersi...
«Hai
proprio ragione, c'è così tanta storia
qui...oltre ad un freddo da paura!». Commentò
a sorpresa, aggiungendosi con nonchalance alla discussione. Scossi la
testa
rassegnata, soprattutto per la bugia colossale che aveva appena
raccontato, e
mi unii anche io al gruppo, anche se l'unica cosa che volevo fare era
tornare a
casa, farmi un bagno bollente e rilassarmi un po'.
Ero
davvero stanchissima.
Dopo
qualche minuto di chiacchiere in libertà (problemi con
l'inglese di Martina a
parte), il telefono di Benjamin squillò. Il ragazzo
annunciò che si trattava di
Alex e rispose leggermente ansioso, forse temendo che fosse successo
qualcosa a
Manila.
La
conversazione fu piuttosto breve, solo qualche secondo di monosillabi
da parte
di Ben, che concluse il tutto con un saluto abbastanza sbrigativo e
scocciato.
«Sì, arriviamo. Ciao».
«Dobbiamo
tornare in hotel anche noi, la Malvin ha qualcosa
di importante da dirci». Spiegò a
Trevor un po' contrariato,
tornando poi a rivolgersi a noi, che lo guardavamo con tre enormi punti
interrogativi sul viso.
Sorrise.
«La Malvin è l'organizzatrice della
vacanza-studio, è una storia un po'
lunga, ma in poche parole controlla che non facciamo quello che ci
pare, rende
la vacanza una non vacanza».
«Puoi
anche dire che controlla che non ci diamo alla pazza
gioia». Intervenne Trevor
con una smorfia, ricevendo una pacca di
consolazione sulla spalla da parte dell'amico.
«Quindi
è giunto il momento dei saluti?». Domandai
un po' in imbarazzo per la piega
che stava prendendo quella discussione sulla "pazza gioia". Martina
mi trucidò con lo sguardo, mentre i due londinesi annuirono
un po' dispiaciuti.
«È
stato un piacere conoscervi ragazze, ci avete salvato da un girotondo
per
questo casino di città». Disse Trevor
avvicinandosi per darmi un bacio sulla
guancia. Sentii un'ondata di calore concentrarsi proprio in quel punto:
era la
prima volta che un ragazzo faceva una cosa del genere, eccetto Lorenzo
che...be', aveva fatto molto di più, ma lui era un caso a
parte, e non potei
controllare un battito più veloce degli altri, insieme ad un
brivido lungo la
schiena, mentre
posava le sue labbra
bollenti sulla pelle fredda del mio viso.
Era
pur sempre un bel ragazzo e io non ero indifferente al fascino maschile.
Salutai
Ben allo stesso modo, anche se l'effetto fu decisamente meno
sconvolgente,
forse a causa degli occhi insistenti di mia cugina, che non lo
mollavano
neanche un secondo.
«È
volato il tempo». Disse proprio
quest'ultima, appena si
ritrovò davanti a lui.
Era strano
come il destino avesse deciso di farli
incontrare e poi separare senza neanche dare loro il tempo di
conoscersi. Se
non avessero dovuto ritornare a casa, quante possibilità
c'erano che sarebbero
finiti insieme? E quante che, invece, quell'apparente
affinità si sarebbe
rivelata un semplice abbaglio?
Entrambi
erano dispiaciuti, ma proprio quella
conoscenza superficiale fece in modo che il commiato non fosse poi
tanto
drammatico.
Ognuno
sarebbe tornato alla propria vita e presto
si sarebbero dimenticati l'uno dell'altra, magari ancora prima che se
ne
rendessero conto.
Ero
sempre più convinta che il mio schema del destino fosse
corretto, ci faceva
incontrare, amare e poi lasciare le persone della nostra vita.
Crudele,
meschino, ma purtroppo reale.
Ed
impegnata com'ero a riflettere, non mi accorsi delle parole che si
sussurrarono
durante l'abbraccio, parole che diedero a mia cugina il conforto di cui
aveva
bisogno, il conforto che invece avrei voluto darle io.
Il resto del
pomeriggio lo passammo in giro per
negozi come stabilito, anche se l'aria non era propriamente quella che
avevamo
immaginato per il nostro giro all'insegna dello shopping. C'era una
questione
irrisolta tra me e Martina, e questa causava una sorta di disagio che
non
vedevo l'ora di superare, una volta arrivate a casa.
Ero
consapevole del fatto che rientrassi nell'1%
delle ragazze che odiavano provare vestiti su vestiti, ma mi sforzai
comunque
di non fare la nonna Papera della situazione, assecondandole il
più possibile
nella loro scelta.
«Come
mi sta?». Continuavano a chiedermi
entusiaste, ma a me quegli abiti sembravano tutti uguali, per questo
rispondevo
"bene" al primo colpo, con la conseguenza che dopo un po'
cominciarono a scegliere secondo i propri gusti.
Quando tutto
sembrava finito, dopo un'interminabile
ora e mezza di dolori ai piedi passata a fare l'appendi abiti vivente,
tirai un
sospiro di sollievo e feci per raggiungere la cassa. Mancava ancora il
film da
affittare, ma almeno quello sarebbe stato divertente da scegliere e ci
avremmo
impiegato solo qualche minuto.
«Dove
credi di andare?». Mi fermarono due voci alle
mie spalle, afferrandomi ciascuna per un braccio e ritrascinandomi nel
bel
mezzo del negozio, più precisamente davanti a una serie di
abiti eleganti,
quelli classici da cerimonia con gonne corte e corpetti
scollati...quelli che
non avrei comprato nemmeno se fossero stati gli unici disponibili sulla
faccia
della terra.
«Non
ditemi che volete comprare pure questa roba?».
Chiesi indicando gli indumenti davanti a me, passando poi in rassegna
tutti
quei colori fin troppo appariscenti per i miei gusti.
«No,
per noi no...».
Confusa
sollevai lo sguardo verso di loro, ma le
espressioni che trovai ad attendermi mi diedero letteralmente i
brividi.
«Cosa...?». Tentai di dire, mentre le loro labbra
si piegavano in due sorrisi
inquietanti.
«Quando
è il tuo compleanno, Rosy? Il tuo
diciassettesimo compleanno». Chiese Martina, calcando sulle
parole
diciassettesimo e compleanno.
Rosy finse
di contare i mesi con le dita e poi, con
altrettanta finzione, si portò una mano alla bocca.
«Il mese prossimo».
«E
questo cosa c'entra? So benissimo quando è il
compleanno della mia migliore amica». Puntualizzai, piuttosto
offesa da
quell'allusione insensata.
Martina
sbuffò ignorando la mia domanda e
servendosene di un'altra. «Cosa indosserai alla
festa?».
«Non
so, un jeans e una camicetta un po'
eleganti...». Risposi pensando al mio guardaroba, nel quale
avrei certamente
trovato qualcosa di adatto all'occasione.
«Quest'anno
non andrete in una pizzeria per bambini
a mangiare con altri quattro gatti, lo sai vero?».
«E
con questo?». Chiesi cominciando ad
innervosirmi. Tutti quei giri di parole mi stavano facendo venire il
mal di
testa. «Non penso di fare un torto a qualcuno andandoci con
un paio di jeans
e...un momento!». Esclamai improvvisamente consapevole delle
sue intenzioni.
«No, cara, non riuscirai a farmi comprare questi vestiti
striminziti per andare
ad una festa a cui parteciperá un'orda di ragazzi
maniaci». La avvisai
minacciosa, arretrando contemporaneamente spaventata per la sorte che
mi
sarebbe toccata.
«Tu
dici?».
Vidi gli
occhi di Martina incontrare quelli di
Rosaria in un'occhiata di intesa, dopodiché non mi
restò che assistere impotente
alla scelta del vestito, prima di ritrovarmi chiusa in un camerino
insieme a
due vestiti, uno più odioso dell'altro.
«Sequestratrici,
sapete che potrei denunciarvi?».
Urlai mentre cercavo di capire come si indossassero quei cosi.
«Va
bene, ma prima prova quelle meraviglie».
«Tanto
non li indosserò mai».
«Sì,
lo sappiamo...però adesso sbrigati».
Armeggiai
con cerniere, nastri e bottoni e in
qualche modo riuscii ad infilare il primo dei due decentemente. Per una
volta
ringraziai il mio metro e cinquanta di altezza, che rendeva quel
vestito corto
meno...corto, successivamente lisciai le pieghe che si erano formate e
diedi
un'occhiata allo specchio.
Troppo appariscente.
Mi
giudicai facendo un mezzo giro.
Il risultato
era esattamente quello che mi aspettavo
e, tralasciando la mia avversione per la moda, quel genere di abiti
perdeva
ogni tipo di fascino addosso a me...sembravo un manico di scopa
vestito, senza
forme a risaltarne il taglio, e con due gambe decisamente (troppo) poco
slanciate.
Raddrizzai
il busto, spinsi il petto all'infuori e
mi preparai ad uscire, pregando che, una volta resesi conto di quanto
apparissi
ridicola, mi risparmiassero un'ulteriore tortura con l'altro vestito.
«Quanto
sei lenta, ragazza mia». Mi accolse Martina
frettolosamente, e senza darmi neanche il tempo di ribattere,
cominciò a
scrutarmi con attenzione da testa a piedi. Sembrava avesse
i raggi X
negli occhi e la cosa mi incuteva non poco terrore. «Carina
ma non eccellente».
Sentenziò infine, arricciando le labbra pensierosa, per poi
rivolgersi a
Rosaria, che confermò il suo responso con un cenno
affermativo del capo.
«È
inutile che speriate di trovare qualcosa di
questo genere che mi stia anche solo in modo accettabile». Le
avvisai sperando
che mi dessero retta, ma quello che ottenni fu l’esatto
contrario: Martina si
catapultò verso di me, guardandomi con occhi tristi.
«Senti,
sciocchina, non sei un cesso ambulante,
okay? Hai un bel viso e degli occhi stupendi, oltre che un seno scarso
e un'altezza
alquanto discutibile». Un guizzo di disappunto le
attraversò il viso, ma
scomparve in un nonnulla, perché continuò
addirittura più spedita di prima. «Pregi
e difetti sono due facce della stessa medaglia, bisogna solo saperli
compensare,
perciò cancellati quella faccia da funerale e prova l'altro,
sono certa che mi
darai ragione». Mi rimproverò aggiungendo un
occhiolino al termine della frase,
tuttavia, neanche le sue parole di conforto - che comunque apprezzai
moltissimo
- riuscirono a motivarmi un po' di più.
«Ma...».
«Niente
ma». Mi interruppe, secca e
perentoria, spingendomi di nuovo dentro il
camerino con una alquanto discutibile grazia.
Mia cugina
era l’esempio femminile più evidente che
conoscessi, ma in alcuni frangenti – neanche poco frequenti
– l’unico aggettivo
che riuscivo ad associare ai suoi modi bruschi era proprio
“rozzo”.
Una
contraddizione vivente, non credete?
Il secondo
vestito era leggermente più sobrio: di
un azzurro brillante che associai immediatamente a quello degli occhi
di
Lorenzo (erano uguali, non potevo non collegarli!),
con due spalline e un'arricciatura poco sopra
il seno che gli conferivano un'aria davvero molto elegante. Stava
abbastanza
aderente, ma non risultava per nulla volgare, e di spazio
all'immaginazione ne
lasciava in abbondanza.
Non male,
decisamente non male. Commentai
tra me e me, guardando la mia immagine goffa riflessa nello specchio di
fronte.
«Oh
mio Dio!». Esclamarono entusiaste le mie due aguzzine
non appena mi videro, si guardarono compiaciute e mi corsero
immediatamente
incontro, sistemando qua e là i segni della mia
incapacità nel vestirmi
decentemente. «Non c'è dubbio, questo vestito
è assolutamente tuo!». Asserì
Martina facendomi fare persino un mezzo giro per osservarmi meglio.
«Sembra
che l'abbiano disegnato per te». Aggiunse
Rosaria annuendo con vigore.
«Ti
è stato cucito addosso!». Squittì
Martina
facendomi una foto a tradimento, che ricambiai con uno sguardo truce.
«È
praticamente perfetto».
«E
fa pendant con gli occhi di Lorenzo». Mi lasciai
sfuggire in un sussurro inudibile per chiunque, mentre loro si
perdevano in
elogi senza senso. Ma evidentemente non parlai tanto piano,
perché nello
specchio di fronte a me vidi il viso di Martina contrarsi in una
smorfia,
mentre quello di Rosaria cominciava ad ospitare un mezzo sorriso di
consolazione.
«Mi
dispiace, non riesco a tenerlo lontano dai miei
pensieri per troppo tempo». Mi scusai, voltandomi per tornare
nel camerino e
cambiarmi – era già tutto abbastanza difficile e
continuare quella
disquisizione avrebbe portato solo ad ulteriori complicazioni - ma
Martina mi
bloccò posando una mano sulla mia spalla con fare
protettivo. «Non devi
scusarti di nulla, Giò».
Mi voltai
lentamente e, trattenendo un insulto
rivolto a me stessa, mi morsi un labbro con esitazione, indecisa se
parlare e
risultare patetica, oppure stare zitta e tenermi tutto dentro. Alla
fine decisi
che la seconda ipotesi mi avrebbe solo danneggiata ulteriormente.
«Odio il
fatto di non riuscire a fare a meno di lui, odio questa mia dipendenza
da uno
stronzo, lunatico e pure menefreghista, ma non posso farci niente.
Qualunque
cosa faccia, non importa quanto provi o cerchi di lasciarmelo alle
spalle, non
riesco ad andare avanti, ad immaginare un futuro che non comprenda
anche la sua
presenza». Parlai a raffica, senza pause né
respiri, come se solo così facendo
il filo dei miei pensieri potesse avere un nesso logico, per loro, ma
soprattutto per me; volevo
che Marti capisse
che non avevo ignorato il suo consiglio per un semplice capriccio,
volevo spiegarle
che il mio affetto
per Lorenzo era
diventato ingestibile a tal punto da fare una cazzata dietro l'altra,
volevo
farle comprendere che mi rendevo perfettamente conto di aver preso una
pala per
scavarmi la fossa da sola. Volevo che mi dicesse che sarebbe andato
tutto bene,
che insieme avremmo risolto i miei problemi.
«Ti
ho detto che non devi darmi spiegazioni». Mi
rimproverò lei dolcemente.
«Ma
ho...».
«Sbaglio
o i ma non erano accetti?».
Provai a
ribattere ancora, ma lei me lo impedì.
«Dimentica per due secondi...quello e rivestiti, intanto io
vado a cercare le
scarpe. Per oggi abbiamo già fatto abbastanza
shopping». E due secondi dopo era
già nel reparto delle scarpe, intenta a cercare quelle
più adatte al mio
vestito.
Sospirai
arrendendomi.
«Ti
vuole bene». Mi disse Rosaria con un sorriso.
Osservai
un'altro po' l'esile figura di mia cugina
e mi diressi al camerino pensierosa. «Lo so, credimi, lo
so».
Sentire
finalmente i miei piedi rilassarsi, una
volta liberati dalla tortura cui erano stati costretti, fu quanto di
più
appagante potesse esserci. Mentre Rosaria e Martina apparivano nella
loro forma
migliore, io mi lamentavo del dolore alle gambe e alla schiena...quella
giornata mi aveva davvero distrutta, e non solo fisicamente parlando.
«La
prossima volta ricordatemi di non accompagnarvi
più a fare shopping». Borbottai accasciandomi sul
divano del salotto.
Martina si
sedette accanto a me, dandomi una pacca
sulla spalla. «Presto ti ci abituerai e non ne potrai
più fare a meno».
Sollevai un
sopracciglio scettica, come per dire
"contaci", e chiusi gli occhi.
In testa
avevo solo la mia bellissima vasca da
bagno, ricolma di acqua bollente e bagnoschiuma alla frutta, ma la
stanchezza
era talmente tanta che non ce l'avrei fatta ad alzarmi per almeno i
prossimi
due minuti.
«Io
sto morendo di fame». Si lagnò Rosy,
affacciandosi alla cucina per vedere a che punto fosse la preparazione
della
cena.
«E
tu quando mai?». La rimbeccai ridacchiando.
«Sono certa che se non avessi l'abilità di far
sparire tutto ciò che mangi ti
daresti un contegno».
«Infatti,
non è salutare mangiare ogni due per tre.
Ci sono degli orari da rispettare per il nostro metabolismo».
Mi diede man
forte Martina, sottolineando il tutto con un'aria da maestrina
saccente.
«Ma
piantala! Il discorso vale anche per te...tutte
e due avete il verme solitario nello stomaco».
«Dove
c'è pancia c'è sostanza». Mi
consolò allora
mia cugina, lanciando un'occhiata all'oggetto della discussione.
Saltai in
piedi, punta sul vivo. «Ehi, io non ho la
pancia da bevitore di birra!». Mi difesi coprendomi la pancia
con una mano.
«Da
che...?». Chiesero loro in coro, scoppiando a
ridere follemente.
Assistii
alle loro prese in giro per un altro po',
tentando invano di parlare, dopodiché mi avvicinai alla
porta con finta offesa.
«È inutile che perda tempo con voi».
Dissi a voce alta, per fare in modo che mi
sentissero in mezzo a tutte quelle risate isteriche.
Vedendo il
mio intento fallire così miseramente,
scossi la testa e con uno sbuffo mi diressi verso la mia tanto agognata
vasca
da bagno. Finalmente un'ora di relax, relax e solo relax...nessun
Lorenzo ad
occuparmi la mente.
Stomaco
pieno - per la gioia di Marti e Rosy -
pigiami comodi, genitori nuovamente a cena ed eravamo pronte a goderci
la
serata.
Il film
scelto era "Insidious", che
Martina aveva definito inquietante
al punto giusto, ma, a
giudicare dal suo (scarso) entusiasmo, avrei piuttosto detto che fosse
semplicemente il primo che le era venuto in mente.
Gli horror
mi avevano sempre fatto paura, più per
prevenzione che per altro, ma da quando ne avevo visto uno per caso in
tv,
avevo capito che in fondo non erano poi così male o
spaventosi: bastava
ripetersi che era solo finzione e, soprattutto, essere sempre pronti
alle scene
più terrificanti.
«Buona
visione, ragazze, e, mi raccomando, non
gridate troppo se no i vicini pensano chissà
cosa». Le avvisai con voce bassa e
roca, per creare l'atmosfera giusta, ma quello che ottenni furono solo
altre
grasse risate.
Di certo
quelle due non facevano crescere la mia
autostima.
Il film
trascorse tranquillo
per
un po', finché qualcosa di strano
alla mia destra non catturò la mia attenzione.
«Marti,
che fai?». Domandai distrattamente,
guardando con la coda dell'occhio mia cugina, che aveva acceso il pc
con
accurata indifferenza.
Lei
sussultò colta alla sprovvista, sorridendo poi
nervosamente. «Io...ecco...io... devo controllare alcune cose
sul volo di
domani sera». Spiegò gesticolando, mentre Rosaria
ci intimava di stare
zitte.
La fissai a
lungo perplessa, ma alla fine decisi di
crederle. Dopo quello che era successo quel pomeriggio, non poteva
avere
intenzione di parlare ancora con lui.
«Ok,
ma abbassa la luce dello schermo, altrimenti
c'è troppa luce e rovina tutto».
Per il resto
della serata rimasi talmente attaccata
allo schermo della tv, stringendo più volte convulsamente la
mano di Rosaria,
che non feci caso a nulla, nemmeno all'armeggiare silenzioso di Martina
con qualcosa,
che praticamente non aveva seguito nemmeno un secondo di film.
«Che
paura». Commentai ai titoli di coda, tirando
un sospiro di sollievo per la fine di quell'inferno. «Ritiro
tutto quello che
ho detto: i film horror non fanno per me».
«Dai,
non è stato così terribile!».
Intervenne
Rosaria accendendo la luce.
La fulminai
con lo sguardo e poi sorrisi
vittoriosa. «Ma se hai urlato più di
me».
«Certo,
con quel mostro inquietante che è comparso
dietro la testa della signora chiunque avrebbe gridato!». Si
giustificò con
fervore: non voleva ammettere di essersela fatta addosso e quindi
scaricava la
colpa sugli altri.
Sorrisi.
Tipico di lei.
Non vedendo
Martina partecipare, scoprii il suo computer
dal plaid con cui si era coperta dalla testa ai piedi, e finalmente
riuscii ad
ottenere la sua attenzione. «E a te cosa ne è
parso, Marti?». Chiesi
sadicamente, ben consapevole che non sapeva neanche di cosa stessimo
parlando.
Mia cugina mi guardò confusa, dopodiché sollevo
le spalle chiudendo il pc. «È
inutile che cerchi di incastrarmi, è vero, non ho seguito,
ma ti ricordo che io
l'avevo già visto».
Posò
il pc sul mobiletto accanto al divano e con
molta tranquillità staccò un cavetto attaccato ad
una delle porte USB. Storsi
il naso e mi dissi che probabilmente aveva solo caricato il cellulare,
ma il
mio sesto senso mi suggerì che con Martina niente era
semplice.
«Marti».
La chiamai. Secca. Decisa. Perentoria. E
lei si bloccò. Sorpresa. Nervosa...colpevole. Era fin troppo
facile
incastrarla.
«Sì?».
Chiese con voce acuta, nascondendo l'oggetto
dietro la schiena.
Puntai le
mani sui fianchi e mi rivolsi a lei
sospettosa. «Cos'hai dietro la schiena?».
Martina si
guardò di istinto dietro, dopodiché si
morse un labbro indecisa, continuando a fissarmi con fare ingenuo. Eh,
no, non
ci casco, tesoro.
Le lanciai
un'occhiataccia e mi avvicinai di un
passo. «Fa' vedere». Intimai tendendo la mano.
Rosaria
osservava la scena confusa, ma anche lei
aveva capito che qualcosa non andava, perché Marti alternava
occhiate spaurite
ad entrambe.
E poi il
campanello di casa trillò facendoci
saltare tutte quante. Martina indietreggiò spaventata e io e
Rosy ci guardammo
terrorizzate, trattenendoci a stento dal saltarci addosso per
proteggerci.
Decisamente,
i film di paura non facevano per
me.
Deglutii
nervosa e inchiodai Martina al suo posto
con uno sguardo, per poi schiarirmi la voce. «Controlla che
non scappi».
Ordinai alla mia amica, che annuì con un cenno del capo.
Mi diressi a
passo lento - molto lento, oserei dire
lentissimo - verso la porta, afferrando, durante l'irto tragitto un
vaso cinese
dal mobile d'entrata. Pregai che fossero i miei genitori, che magari
avevano
perso le chiavi (cosa per altro impossibile) - e mi ripetei per
un'ultima volta
che gli esseri soprannaturali esistevano solo nei film. Poggiai
l'orecchio alla
porta per percepire qualunque tipo di suono e contemporaneamente mi
sollevai
sulle punte, tremando, per sbirciare dallo spioncino. Ma, proprio in
quel
momento, lo stesso suono acuto di poco prima riecheggiò per
la casa, facendomi
riatterrare malamente sui piedi.
«Giorgia,
apri questa cazzo di porta e non fare la
bambina».
Fui colpita
da quella voce come una palla da
bowling colpirebbe un birillo in pieno centro e a quel punto successero
più
cose contemporaneamente, nessuna delle quali meno devastante delle
altre: il
cuore mi schizzò in gola come
impazzito,
lo stomaco mi si attorcigliò nervosamente e le gambe si
rammollirono a tal
punto da cedere immediatamente.
Mi accasciai
a terra e contro ogni logica mi
ritrovai a pensare che forse, in confronto, la visita di un mostro
proveniente
dall'altra dimensione non sarebbe stata poi tanto male.
Ignorai -
con molta pazienza - un paio di pugni e
calci sferratti duramente al legno della porta, finché al
terzo non mi decisi
ad accontentarlo, per sventarne la sua distruzione.
Oh
sì, ne sarebbe stato capace.
«Calmati,
cretino!». Lo rimproverai tra i denti,
facendo scattare rabbiosamente la serratura. « Ti ricordo che
chi rompe
paga...».
Non feci in
tempo ad abbassare la maniglia, che ci
pensò lui a farlo al posto mio, con una foga ed impazienza
tali da lasciarmi impietrita.
Io che ormai
non mi stupivo più di niente quando si
trattava di lui.
Io che ormai
ero pronta a tutto.
Trovarmelo
davanti mi causò comunque la perdita di
un battito, ed era furioso - come non lo avevo mai visto -, furioso e
trafelato. Sembrava incazzato con il mondo e mi venne spontaneo
arretrare di un
passo o due.
«Ora
tu mi spieghi che cazzo vuol dire questa!».
Sbraitò tirando fuori di tasca il cellulare. «Si
può sapere cosa diavolo ti
passa per quella testa da secchioncina che ti ritrovi?».
Lo fissai
confusa mentre armeggiava con il
telefono, imprecando di tanto in tanto per la sua lentezza, e temevo
che da un
momento all'altro l'avrebbe buttato giù dalle scale se non
si fosse deciso a
collaborare.
Approfittai
della sua distrazione per guardarlo
meglio e notai, non senza un minimo di sorpresa, che fosse vestito da
serata acchiappa femmine...chiaro segno che
venisse da una qualche discoteca
in centro città.
Mi morsi le
labbra pensierosa e, vedendo il suo
cellulare rivolto verso di me, lo presi titubante, quasi avessi paura
che
potesse mordermi. Ed effettivamente mi
aveva morsa davvero, parecchie
volte.
Avvicinai
quell'aggeggio agli occhi e, quando i
contorni dello schermo diventarono più delineati, li
spalancai sbigottita.
«Cosa...?».
Provai a chiedere, ma non fu difficile
fare due più due, e in ogni caso Lorenzo non me ne diede il
tempo.
«Proprio
un bello scherzetto, complimenti». Sputò
ironico tra i denti. «Ora dimmi, come dovrei interpretarlo?
"Lore, ti
prego scopami!", oppure "Lore, guarda e muori dalla voglia di
scoparmi, tanto io non te la darò mai?"».
Pungente.
Stronzo. Distrutto.
«Ascolta,
so che...».
«Ascolta
un bel niente! Tu sai quanto mi piaci e ne
hai approfittato, credevo che quel ruolo spettasse a me, no? Sono io lo
stronzo, tu sei sempre quella buona. Ma sai cosa? Mi fai sempre la
paternale
ma, in fondo, non sei poi tanto diversa da me». Fu crudele e,
per quanto
provassi a mettermi nei suoi panni, non ci riuscii.
«Ti
dico che...». Cercai di difendermi, ormai sul
punto di arrabbiarmi anche io, ma ancora una volta mi interruppe
bruscamente.
«Non
dire niente, ti prego! Ne ho abbastanza di
tutta questa storia. Me ne sono pentito, va bene? Avrei dovuto lasciare
tutto
com'era prima, non avrei dovuto cedere, non avrei dovuto
sedurti...». Si fermò
rendendosi conto con un secondo di ritardo delle sue parole, ma
proseguì ancora
più diretto di prima. «Dio, l'ho detto finalmente.
Quante altre volte vuoi che
te lo ripeta?!». Senza pietà, né paura
di ferire...verso la meta, verso il mio
cuore; per ferirlo - ancora - calpestarlo - ancora - dilaniarlo -
ancora.
Aveva
parlato così di foga che si era persino
dimenticato di respirare. I capelli appiccicati alla fronte imperlata
di
sudore, le labbra serrate in una morsa quasi dolorosa, le mani strette
a pugno
contro i fianchi e gli occhi...gli occhi più fragili e duri
che avessi mai
visto.
Era
arrabbiato.
Deluso.
Ferito...?
Sollevai una
mano intimorita - temevo potesse
reagire male - e la
portai ad un
millimetro dal suo viso, mentre con l'altra andai a sfiorare la sua, ma
senza
mai toccarla veramente.
«Sei
venuto fin qua, di corsa, da chissà dove, per
dirmi questo?». Chiesi con un filo di voce, ignorando il
groppo che mi si stava
formando in gola.
Nonostante
tutto non riuscivo a fargli una colpa
di quello che mi
aveva detto: Lore era
impulsivo, parlava per difendersi, feriva senza accorgersene...
Lui
scacciò le mie parole con un cenno del capo,
inchiodandomi poi col suo sguardo di vetro. «Questa volta
sono io a
chiedertelo. Perché?».
E sembrava
davvero fragile. Per la seconda volta in
un solo giorno stava mostrando la sua debolezza.
Che la
maschera si stesse sciogliendo?
«Perché
è così difficile?». Chiese fissandomi
le
labbra.
«Difficile
cosa?».
Lore mi
guardò in modo più triste, meno tormentato
ed iroso.
«Dimenticarti».
Ammise, quindi, allontanando
con delicatezza le mie mani dal
suo corpo.
In un
secondo il mondo mi crollò addosso e,
contemporaneamente, la terra mi mancò da sotto i piedi. Era
come se fossi in
piedi per miracolo, ogni parola mi moriva in gola, ed ogni movimento mi
sembrava sconnesso e fuori luogo.
«Che
succede qui?». Spuntò la voce di Martina alle
mie spalle, probabilmente proveniente dalla fine del corridoio.
La ignorai.
Perché
è così difficile?
Cosa?
Dimenticarti.
«Giorgia?».
Mi richiamò, questa volta più
chiaramente, segno che ormai fosse alle mie spalle.
Allontanai
quelle parole dalla mente e mi rivolsi a
mia cugina, concentrandomi sulla questione principale per risolverla il
prima
possbile. Era giusto che Lore sapesse chi era il vero artefice dello scherzetto.
«Mah,
non so, forse potresti spiegarcelo tu». La
afferrai per un braccio e, senza darle il tempo di reagire, la tirai
accanto a
me, sotto gli occhi inquisitori di Lorenzo.
Martina
parve vedere un fantasma, ma poi un sorriso
tentennante le piegò le labbra con noncuranza.
«Ehi, come va, amico?».
Scocciata,
avvicinai la mano al cellulare di
Lorenzo e, dopo avergli chiesto un tacito consenso, lo presi mostrando
la foto
incriminata a mia cugina.
La sua
faccia assunse dieci colori diversi, in
quelli che mi parvero appena due secondi, dopodiché si
girò a guardarmi
colpevole. «Te l'ho già detto che quel vestito ti
sta da Dio?».
«Tu...!».
Le puntai un dito contro. Ed avrei
giurato che i miei occhi stessero lanciando scintille di veleno.
«Spero abbia
una valida ragione per ciò che hai fatto».
Lorenzo
sembrava tornato il solito...Lorenzo,
osservava la scena con apparente disinteresse, muovendo ritmicamente le
mani
rifugiate nelle tasche dei jeans.
«Ok,
va bene, parlo!». Si arrese Marti alle mie
ripetute minacce, prima di voltarsi verso Lore con un'espressione
intimidatoria. «Doveva pur pagarla in qualche
modo!». Storse il naso ed
incrociò le braccia al petto, abbandonando l'aria amichevole
che aveva usato
fino a quel momento.
«Pagarla
per cosa?». Domandai incerta, guardando
con la coda dell'occhio il diretto interessato.
«Andiamo,
Giò, hai pure il coraggio di chiedere per
cosa?! Guardalo!». Grignò indicandolo.
«Ora che ha scoperto che non sei stata
tu si è improvvisamente rilassato».
«E
questo cosa c'entra?».
Martina
sbuffò spazientita. «Ti vuole fare del
male? Bene. Vuole continuare ad allontanarti da lui? Perfetto. Ma
almeno che si
rendesse conto di quello che si sta perdendo! Si deve pentire di tutto
quello
che ti sta facendo». Terminò
la frase e
sorrise in direzione di Lore. «Cosa stavi facendo quando hai
ricevuto la
foto?».
Lui, dopo un
attimo di sorpresa, fece spallucce.
«Niente di che, mi stavo annoiando».
Mia cugina
roteò gli occhi soddisfatta, tornando a
me. «Qual è stata la sua reazione, Giò?
Schifo, per caso? O solo cieca rabbia
perché sa di non poterti avere?».
«Ora
dimmi, come dovrei interpretarlo?
"Lore, ti prego scopami!", oppure "Lore, guarda e muori dalla
voglia di scoparmi, tanto io non te la darò
mai?"».
«Io
me ne vado, ne ho abbastanza». Annunciò Lore,
facendo per allontanarsi.
«Cos'è,
ora che sai di esser caduto in trappola
scappi?». Chiese allora Martina, sfidandolo apertamente.
Lorenzo si
fermò ad un passo dalla rampa di scale,
sfoggiando il suo sorriso più impertinente. «No,
torno a fare quello che stavo
facendo prima che un'ochetta qualsiasi mi inviasse una certa foto:
scopo». La
corresse con tono di sfida.
«Pensando
a mia cugina?».
«Marti!».
La rimproverai imbarazzata, evitando di
incrociare i suoi occhi il
più possibile.
Ma Lore non
sembrava minimamente toccato da quella
domanda, come se fosse naturale o all'ordine del giorno riceverla.
«Che
importanza ha? Chi, come, dove, quando...basta farlo».
Martina fece
una smorfia schifata, arrendendosi.
«Lo sai anche tu che non è così...e,
comunque, sei proprio disgustoso!».
Esclamò indignata, rientrando in casa per "bere un bicchiere
d'acqua", o almeno così aveva detto.
E
così restammo soli, di nuovo, con una decisione
da prendere: continuare il discorso? Oppure chiuderlo definitivamente?
Avrei tanto
voluto lasciarlo andare, dimenticare le
sue parole, e provare a ricominciare ancora una volta da capo, senza
riuscirci,
ma i nostri occhi non sembravano della stessa opinione, incollati e
irremovibili. Feci un passo in avanti, approdando sul tappetino davanti
alla
porta di casa, muovendo i piedi un po' a disagio.
«Lore...».
Sussurrai, indecisa sia sul cosa dirgli
che sul come dirglielo.
Accidenti,
non sapevo proprio dove stesse di casa la
fermezza!
Scacciai
ogni timore, strinsi i denti per farmi
coraggio e parlai, con così poca convinzione da risultare
solamente patetica.
«Non devi dimenticarmi, se non vuoi».
Stupida! Ma che
dici?! Rimangiatelo!
Lore
sorrise. Non sardonico, non fastidioso, non
irritante...solo maledettamente sincero. E la cosa non fece bene al mio
povero
cuore: avevo preso un biglietto di sola andata per il Burundi.
«Credi
davvero che sarebbe giusto?». Mi chiese
rassegnato, come se si fosse arreso in partenza.
Giusto? Chi
poteva dire cosa fosse giusto e cosa
fosse sbagliato? E, poi, che importava ormai? Se fosse servito ad
averlo al mio
fianco, avrei dimenticato tutti gli anni passati a piangere per lui,
tutte le
notti spese a sognarlo inutilmente, tutto ciò che mi aveva
causato dolore e
angoscia; avrei lasciato posto ai ricordi felici del passato, e insieme
ne
avremmo costruiti di nuovi.
Aprii la
bocca per esprimere questi pensieri ed
altri mille, tutti contorti ed insensati, forse, ma lui doveva sapere,
doveva
sapere che se avesse voluto riniziare da capo io ci sarei stata.
Gli avrei
dato un'altra possibilità? Mille volte
sì.
Lo avrei
perdonato? Quante volte ne avesse avuto
bisogno.
Lo avrei
amato? Sempre.
Eppure, il
destino aveva un potere troppo grande e,
quando si metteva in mezzo, non c'era nulla da fare.
L'eco del
portone sbattuto e due voci a me ben note
mi colsero impreparata. Ci misi poschissimo a realizzare: i miei genitori erano
tornati e che scusa avrei
usato per giustificare la mia presenza sul pianerottolo, a
quell’ora e per
giunta insieme a Lore?
«Cazzo...!».
Imprecai a bassa voce, guardandomi
intorno sospetta mentre il suono dell'ascensore in movimento diventava
inevitabilmente sempre più vicino.
Dovevo
trovare una soluzione...per parlargli.
Perché sì, con lui ci avrei parlato per ore, se
fosse stato necessario.
Non mi sarei
mai stancata di ascoltarlo, non dopo
che aveva mostrato di tenere - in qualche modo - al nostro rapporto.
È vero,
più volte era andato alla deriva, e di certo non avrebbe
smesso da un giorno
all'altro di farlo, ma davvero non riuscivo a far finta
niente...fingere che
tutto ormai fosse andato perso per sempre, che lui
non
fosse più lo stesso.
Buffa la
vita: un mese prima non credevo più a
nulla, non avevo alcuna speranza, non avrei scommesso un singolo
centesimo sui
suoi sentimenti per me...ma per come stavano le cose ora, potevo
davvero
rinunciare?
Io
ci credo ancora.
E
tu?
Ero ancora
paralizzata, intenta a cercare le parole
più adatte, e mi stupii del fatto che non se ne fosse
già andato, approfittando
del mio silenzio, come aveva sempre fatto. No, stava aspettando una
risposta e
io gliel’avrei data, com’era giusto che fosse.
«Lore,
io...».
«Giorgia?».
«Lorenzo?».
Chiesero in
coro quattro voci, non appena
l'ascensore si fu aperto alla mia destra.
Un momento,
quattro?! Mi voltai verso il gruppetto
e compresi che i miei genitori non erano gli unici ad aver partecipato
a quella
riunione inaspettata.
«Mamma,
papà». Li salutai con nonchalance, come se
fosse normale per loro trovarmi fuori casa in pigiama. E lo stesso fece
Lore
con i suoi, con l'unica differenza che almeno lui era vestito.
«Rossella,
Alessandro...da quanto tempo non ci
vediamo!». Provai a sciogliere la tensione e il silenzio
improvvisi, sfoderando
un sorriso a trentadue denti.
Mia mamma
guardò dapprima l'orologio, poi Lore e
poi me, in modo quasi meccanico. «Cosa ci fate
qui?». Domandò quindi dubbiosa,
affiancandomi in un batter d'occhio, immediatamente seguita da mio
padre.
«Be',
ecco...io stavo andando in cucina quando ho
sentito dei rumori fuori dalle scale, ho aperto la porta, credendo che
foste
voi, e ho visto che invece era solo Lorenzo». Mi inventai di
sana pianta,
sperando che Lore confermasse la mia versione dei fatti.
«Esatto,
ero tornato per prendere una cosa che
avevo dimenticato prima di uscire».
Credeteci.
Credeteci. Credeteci.
«Cosa?».
Chiese sospettoso Alessandro,
evidentemente immune alle frottole del figlio.
Lore sorrise
malizioso, piegando poi un sopracciglio.
«Vuoi davvero saperlo, pà?».
No, non
poteva davvero aver fatto riferimento a quello in
presenza dei suoi genitori! Mi
rifiutavo
di crederlo, era troppo anche per lui!
Arrossii
violentemente e guardai con circospezione
i volti di tutti gli altri presenti, trovandoli altrettanto sbigottiti
e
sfatando il dubbio che potessi aver maleinterpretato solo io.
«Oh,
andiamo, cosa sono quelle facce? Non fate i
santarellini, se io e Giorgia siamo qui ci dovrà pur essere
un motivo».
«Lore,
per l'amor del Cielo, non puoi parlare di
certe cose in presenza di una ragazza!». Lo
redarguì Rossella, scusandosi sia
con me che con i miei genitori della maleducazione del figlio.
«Be',
quantomeno usa precauzioni». Commentò mio
padre inaspettatamente, beccandosi un'occhiataccia da parte di mia
madre.
«E
ci mancherebbe...». Borbottò Alessandro
indignato.
Ok, la
situazione era diventata quanto di più
imbarazzante avessi mai vissuto e l'unico che non provava nemmeno un
po' di
disagio era proprio Lorenzo, che
se ne
stava bellamente appoggiato al corrimano delle scale, con le braccia
incrociate
e un sorriso strafottente ad incorniciargli il viso.
«Basta,
per favore, non sono interessata a sapere
nel dettaglio la vita sessuale di Lorenzo...». Presi parola,
rivolgendomi poi
ai miei genitori con ancora un pizzico di disagio. «Voi,
piuttosto, come mai
siete insieme?».
«Ci
siamo incontrati al ristorante e abbiamo fatto
una piacevolissima cena a quattro, ma questi non sono affari tuoi, non
tentare
di sviare la discussione, signorina». Spiegò mia
madre frettolosamente, facendo
aumentare a dismisura il mio nervosismo.
Non sono
affari tuoi, aveva detto, eh?
«Io
taglio la corda». Intervenne Lorenzo,
ridacchiando soddisfatto, per poi puntare i suoi occhi nei miei,
facendomi
deglutire nervosamente. «I miei amici mi
aspettano».
«È
già tardi, è meglio rientrare». Lo
fermò
Rossella prima che potesse fare anche un solo passo.
«È
sabato, mamma ed ho diciotto anni. Credevo che
ormai avessi superato quella fase».
Mi
guardò nuovamente, questa volta senza alcuna
malizia o secondo fine ed io distolsi automaticamente lo sguardo,
incapace di
sostenere il suo.
«Bene,
allora ci si vede, eh». Salutò tutti con un
cenno della mano, per poi digitare qualcosa al cellulare, prima di
scendere di
corsa le scale.
Stupido.
«Io
ho freddo, vado dentro. Buonanotte a tutti».
Annunciai piccata, rompendo il silenzio piombato in seguito alla fuga
di
Lorenzo.
Non attesi
alcuna risposta, entrai in camera e mi
gettai a peso morto sul letto.
Ero esausta,
priva di qualunque energia, ma – per
chissà quale assurda e masochista ragione - trovai comunque
la forza di
addormentarmi pensando a lui. E, mentre le palpebre cominciavano ad
appesantirsi, l'idea che quella notte sarebbe stato di qualcun'altra mi
affiorò
alla mente, come una punizione, continuando a tormentarmi per tutta la
dormiveglia, senza abbandonarmi un istante.
Neanche quando sognai di
essere io,
per una volta, quella tra le sue braccia.
Note:
Eccoci qui!
Come qualcuno avrà notato, questo capitolo è
leggermente più corto degli altri ed il motivo è
molto semplice: mi sono fatta prendere la mano ed ho scritto più
di 30 pagine (forse 35?!), perciò non mi è sembrato il
caso di pubblicarlo per intero ed ho deciso di dividerlo in due parti
per rendere la lettura più leggera, diciamo così.
Detto questo, non sono per niente convinta del risultato finale.
Non era così che l'avevo pensato, non era così
nella mia testa ed ogni volta che lo rileggo mi sembra sempre
più "lento" e scialbo. E dire che generalmente sono
abbastanza soddisfatta di quello che scrivo! Non della forma (quando
mai?!), ma almeno del contenuto sì.
Spero di farmi perdonare con il prossimo, ma per il momento dovrete
accontentarvi di questa schifezza...scusate! ç_ç
Se volete lanciarmi i pomodori, provvederò io stessa a procurarveli.
Ringrazio
le persone che sono arrivate fino in fondo alla lettura di questo
capitolo, quelle che hanno recensito quello precedente e tutti
coloro che hanno aggiunto la storia tra le preferite, seguite,
ricordate, ecc. Grazie di cuore!
Mi scuso per
non aver risposto a tutte le recensioni, ho preferito dare la
precedenza alla pubblicazione del capitolo, ma recupererò al
più presto, lo prometto.
Concludo dicendovi che, dato che buona parte del prossimo capitolo
è già pronta, il prossimo aggiornamento dovrebbe arrivare
davvero a breve, anche se con tutti gli impegni scolastici non posso
proprio assicurarvelo.
Vi ricordo che sono sempre a disposizione per chiarire ogni eventuale
dubbio, rispondere alle vostre domande e, perché no, accettare
anche le vostre critiche. Anzi, a questo proposito, ne approfitto per
lasciarvi il link del mio profilo facebook, che trovate a questo indirizzo.
Un bacio e a presto,
Veronica
|
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Capitolo 12 *** Tregua...? ***
capitolo 12
CAPITOLO 11: Tregua...?
Domenica.
Alcuni ritengono sia il giorno più bello della settimana -
relax, riposo, svago... - ma io la definisco semplicemente una noia
mortale.
Deprimente è l'aggettivo giusto.
Andiamo, cosa potrebbe fare una normale diciassettenne di domenica?
Uscire con gli amici, vedersi in santa pace con il fidanzato, per
esempio. Ma se proprio i suddetti amici mancassero e il fidanzato
in questione fosse non propriamente un fidanzato, bensì uno
stronzo - figo - di cui si è innamorata? Be', allora ecco la
risposta che cercate.
Tuttavia, quella domenica costituiva un'eccezione, un avvenimento
più unico che raro, per questo quando mi svegliai - stanchissima
e con un mal di testa lancinante - non ero poi di così cattivo
umore.
«Sveglia dormiglione, questa è la nostra ultima giornata
insieme». Annunciai tirando le tende della finestra per
illuminare un po' la stanza.
In risposta ottenni solo dei mugolii sconnessi e qualche minaccia che
mi intimava di tornare a letto, a meno che non avessi voluto veder
bruciare i miei libri in un falò.
«Avrete tutto il tempo di dormire durante il viaggio di
ritorno». Le rimproverai più severa, tirando giù la
coperta di Martina per farmi dare ascolto.
«Sei una cugina perfida, lo sai?». Borbottò acida
lei, coprendosi la faccia col cuscino per proteggersi dalla luce sempre
più accecante. Se non altro sembrava una bella giornata.
E una è sistemata. Pensai con un pizzico di soddisfazione, tornando all'attacco con Rosaria.
«Rosy, c'è Nico che ti cerca». Le sussurrai in un orecchio, facendola sobbalzare di qualche metro.
«Dove?!». Chiese lei, mettendosi a sedere di scatto, causandomi un attacco acuto di risate.
Ci mise poco a realizzare che l'avessi presa per i fondelli, e quando
ci arrivò assottigliò lo sguardo a mo' di minaccia.
«'Fanculo, Giò!».
«Scusa, ma era l'unico modo per farmi ascoltare». Mi
giustificai cercando di trattenere il più possibile la mia
ilarità.
«Sai che è il mio tallone di Achille!».
Sorrisi comprensiva.
Nicola, meglio conosciuto come Nico, era il ragazzo che popolava i
sogni più proibiti di Rosaria. Viveva nella sua stessa
città, andavano nella stessa scuola e...non si erano mai rivolti
la parola. Lui non era quello che si potrebbe definire un donnaiolo, ma
nemmeno un Santo, mentre lei...be', lei era felicemente fidanzata. Per
questo, per Rosy, Nicola costituiva un vero e proprio tormento, si
sentiva in colpa per l'attrazione sconfinata che provava per lui, ma
continuava a spergiurare di amare il suo ragazzo alla follia.
Io? Io le credevo e, finché Nico fosse stato una semplice fantasia, l'avrei supportata in tutto e per tutto.
«Bene, e ora che siamo tutte allegramente in piedi...».
Dissi beccandomi altre occhiate di fuoco. «...possiamo andare a
fare colazione da qualche parte».
Martina sollevò un sopracciglio. «Non si usa più fare colazione in casa?».
«Ma è una così bella giornata!». Protestai mettendo il broncio.
«Ci saranno sì e no 4 gradi fuori». Mi corresse
Rosaria, rabbrividendo una volta uscita dal caldo rifugio delle coperte.
«Per favore...». Le supplicai, sbattendo persino le ciglia per assumere un'aria quantomeno tenera.
«E va bene». Concessero in coro con uno sbuffo e io mi
tuffai addosso a loro, riempendole di complimenti degni di una ruffiana
del mio calibro.
Proprio per la monotonia ordinaria che caratterizzava le mie domeniche,
avevo pensato che uscire di casa il più possibile fosse un buon
diversivo per rendere quella domenica in compagnia di Martina e Rosaria
diversa.
Non ci allontanammo molto da casa - anche perché entrambe
sarebbero dovute partire nel primo pomeriggio - e sperai che il bar
scelto offrisse delle bevande qualitivamente - almeno - accettabili.
Era lo stesso che frequentava Lore con i suoi amici e, data la loro
assidua presenza lì, mi ero fidata dei suoi gusti.
L'unico problema sarebbe stato incontrarlo, ma era domenica, e il
giorno prima era stato sabato; il che significava che sicuramente era
tornato tardi, e di conseguenza - al 99% - alle nove del mattino non
avrebbe potuto far altro che dormire.
«Certo che qui è pieno di gran fighi qui».
Commentò Martina guardandosi intorno estasiata. «Non mi
aspettavo che frequentassi questo genere di posti...e brava la mia
cuginetta». Mi diede una gomitata di approvazione ed io arrossii
prontamente. Bella figura ci avevo fatto! Ero passata per la ninfomane
della situazione...
«Vedo che dimentichi in fretta le tue fiamme». La
punzecchiai, dirigendomi con sicurezza - per nascondere il mio reale
smarrimento - verso un tavolino nascosto. Il lupo dormiva, ma era pur
sempre meglio non rischiare, qualora si fosse svegliato.
«Ti riferisci a Ben, per caso?». Domandò
distrattamente, dopo averci riflettuto un attimo. Prese il mio silenzio
come un sì e rispose saccentemente. «Be', ti sbagli mia
cara, non l'ho dimenticato».
«Che vuoi dire?». Indagai sospettosa. Quando cominciava a
girare intorno alle domande, nascondeva sicuramente qualcosa.
«Voglio dire che non ce n'è stato bisogno».
Sviò ancora il fulcro della questione, fingendo di prestare
attenzione al menu.
«Vuoi parlare o no?». La esortai impaziente, togliendole da
sotto il naso quel pezzo di carta, ma proprio in quel momento
arrivò l'addetto alle ordinazioni, che si beccò una delle
mie occhiate peggiori.
Pover uomo, in fonda stava solo facendo il suo lavoro.
Martina e Rosaria presero un caffé macchiato, mentre io optai
per il mio buon vecchio tè al limone. Aspro e dolce al punto
giusto. E poi, era lo stesso sapore dell'ultimo bacio che...
«Allora, Giò, cosa ti ha detto ieri tu-sai-chi?».
Chiese Martina interrompendo il mio pensiero deleterio, nel mero
tentativo di sviare il discorso.
Sollevai entrambe le sopracciglia e incrociai le braccia sul tavolo,
fissandola insistentemente. «Non riuscirai a cavartela
così».
Lei sostenne il mio sguardo per un po', finché non si arrese
scocciata. «Mi ha detto che probabilmente torneranno in Italia il
mese prossimo e quindi mi ha dato il suo numero per tenerci in
contatto». Disse in un fiato. «Contenta ora? Magari neanche
ci sentiremo e presto ci dimenticheremo l'uno dell'altra».
Silenzio.
Un colpo di tosse di Rosaria e poi ancora un altro silenzio.
«E che motivo c'era di nascondermelo?!». Mi alterai
leggermente, ma assicurandomi comunque di mantenere un tono di voce
moderato.
«Se te l'avessi detto, cosa avresti fatto?». Rispose Martina con una tranquillità invidiabile.
«Questo non c'entra».
«E invece sì, ti saresti opposta con tutte le forze a
questa storia senza né capo né coda, mi avresti
raccomandato di non illudermi e ti saresti accollata un probelma
inutile...come se tu non ne avessi già abbastanza».
«Smettila di trattarmi come se fossi una vittima!».
Sbottai, questa volta senza troppa calma. Tutti i vicini di tavolo si
voltarono verso di noi e provai una vergogna talmente grande che per
poco non scappai da quel posto a gambe levate. «Non ho nessun
problema...niente che non si possa risolvere». Proseguii
più pacata, cercando di rimediare alla pessima figura appena
fatta.
«E tu stare appresso ad un ragazzo per diciassette anni come lo chiami?».
«Lo chiamo essere stupida». Mormorai, appena prima che ci servissero le nostre bevande.
La brevissima discussione tra me e Martina aveva trasformato l'idea di
una piacevole mattinata, da passare in compagnia, in un inferno. Non mi
piaceva essere in conflitto con mia cugina, era capitato rarissime
volte che lo fossimo, ma nel giro di due giorni quella
sporadicità non sembrava più tanto tale.
E tutto per colpa di Lorenzo, sempre colpa sua, qualunque cosa mi
capitasse dipendeva da lui, ogni mia parola...ogni mio gesto erano
indissolubilmente legati a lui e mi dava fastidio tutta quella
situazione, perché avrei tanto voluto essere libera...libera di
innamorarmi di qualcun altro, libera di mettere finalmente la parola
fine a tutto quel casino, libera di ricominciare a vivere senza essere
accompagnata da quell'incessante paura che mi tormentava.
Persa com'ero nei miei pensieri, non mi accorsi dell'entrata di
qualcuno nel bar...qualcuno che, se non avessi avuto la testa fra le
nuvole, avrei notato subito. Furono, invece, proprio le mie due
compagne di tavolo ad attirare la mia attenzione sulla porta di
ingresso, non senza un po' di agitazione e sorpresa...cercando di
coprirmi il più possibile alla sua vista.
Su una cosa eravamo d'accordo: Lorenzo non doveva vedermi, o
chissà cosa sarebbe successo. Con lui niente era prevedibile.
Non ebbi neanche il tempo di chiedermi perché si trovasse
lì. Mi guardai intorno furtiva, con il battito del cuore
improvvisamente più martellante e fastidioso, alla ricerca di un
rifugio che potesse nascondermi quel tanto che bastava...
Scartata l'ipotesi del bagno, troppo distante dal punto in cui mi
trovavo io, e per di più esattamente nella traiettoria che stava
seguendo Lore, l'unica cosa che mi restava da fare era sistemarmi alla
bell'e meglio sotto il tavolo, sperando che non decidesse di voler
giocare a nascondino. Non ero mai stata brava in quel gioco e lui lo
sapevo.
Ma magari mi stavo solo preoccupando inutilmente, magari neanche si
sarebbe avvicinato al nostro tavolo, dopotutto non mi sembrava poi
tanto propenso al volersi riappacificare con me, al volermi chiedere
scusa. In fondo, cosa avrei mai potuto cavar fuori dalle sue parole?
Contradditorie e senza senso...magari - d'ora in poi - avrebbe fatto
semplicemente finta di niente, avrebbe cominciato ad ignorarmi ed io mi
sarei finalmente disintossicata da lui.
Oppure l'inferno sarebbe durato per sempre.
«Ragazzo biondo e figo ad ore dodici...». Bisbigliò Martina, prima che qualcuno parlasse.
«Quante belle ragazze stamattina qui, in genere ci sono sempre e solo racchie».
Una risatina facilmente riconoscibile per me, un'ironia pungente che poteva appartenere solo a lui.
«Qual buon vento...». Esclamò Rosaria con finta
sorpresa, imitando senza grandi risultati un fischio di approvazione.
«Come vedi Giorgia non è qui, e la tua compagnia - a noi
due - non è affatto gradita, perciò puoi anche andare a
rompere da un'altra parte».
«Wow, acidità di prima mattina, dovresti smetterla di bere
tè al limone per colazione». Ci fu una breve pausa e un
altrettanto fugace spostamento di tazzine, poi - di nuovo - la sua
voce. «E comunque, magari sono qui solo per salutarvi, no?
Smettetela di essere così scortesi e sull'attenti. Non
mangio...o almeno non senza il consenso della preda».
«Ah, che carino! Il buon, dolce Lorenzo è venuto al nostro
tavolo solo per salutarci». Sentenziò Martina sicura di
se, non nascondendo la sua solita velata ironia che la metteva nelle
condizioni di saper tenere testa a chiunque. «Sicuro di non voler
sapere perché Giorgia non sia con noi?».
«Be', effettivamente no. Perché vi risulta tanto difficile
credere che sia qui solo con le migliore intenzioni?».
«Non saprei, ma in ogni caso accettiamo il tuo saluto volentieri.
E ora che l'hai fatto direi che non hai nessun altro motivo per stare
qui, no? Bye bye».
Nuovamente, si udì solo un chiacchiericcio indistinto, in
lontananza, ma le scarpe di Lore erano ancora ben visibili, chiaro
segno che non si fosse mosso di una virgola.
«Non mi pare di avervi fatto mai qualche torto, personalmente
parlando, perché dovete avercela con me così
ciecamente?».
«A noi no, certo, ci mancherebbe...». Intervenne Rosaria,
rompendo la bolla di silenzio in cui si chiudeva sempre. «Ma a
Giorgia, da sola, hai fatto molto più di quanto noi tre insieme
avessimo potuto sopportare. Direi che questo è un buon motivo
per avercela con te, non trovi?».
«Giorgia di qua, Giorgia di là, non credete che sappia
difendersi da sola? Che scarsa considerazione avete di lei».
«Purtroppo sì, quando si tratta di te...». Sibilò Martina a denti stretti.
«Ricevuto il messaggio, capo». Tagliò corto Lore,
probabilmente nel tentativo di fuggire da un discorso che non aveva
ancora trovato il coraggio di affrontare. «Allora buon viaggio,
eh. Spero di rivedervi presto».
Da parte di Martina e Rosaria non ci fu nessuna risposta. Solo un tacito invito a togliersi di mezzo il prima possibile.
I piedi di Lorenzo si voltarono e mossero qualche passo allontanandosi,
prima di tornare indietro in un batter d'occhio, senza lasciar spazio
ad alcuna domanda…proprio un secondo prima che mi decidessi a
rialzarmi.
Con un movimento mesto, vidi le sue ginocchia piegarsi e il suo viso
sbucare esattamente di fronte a me, come nel peggiore degli incubi, che
si ripresentano ai nostri occhi quando meno ce l'aspettiamo.
E la sua voce…sempre destabilizzante, per me, ma mai lo fu come in quel frangente.
«Ciao Giorgina, sai che adoro giocare a nascondino, ma la
prossima volta ricordati di nascondere con te anche la tua tazzina,
altrimenti non c’è gusto, ok?». La sua mano mi
scompigliò i capelli, e il suo sguardo vitreo mi gelò sul
posto, mentre le sue labbra disegnarono un sorriso glaciale che mi mise
addosso una strana sensazione di disagio.
Rimasi lì, con la bocca socchiusa, gli occhi spalancati, e le
sue parole a ronzarmi insistentemente in testa, come uno di quei
moniti che si ripetano all'infinito.
E, tuttavia, l'unica cosa che riuscivo a pensare era che avrebbe potuto far finta di niente...ma non l'aveva fatto.
Solo una domanda, la stessa da mesi, ormai: Lorenzo Belli, perché vuoi rovinarmi la vita?
«Mi chiedo come facesse a sapere della nostra partenza».
Brontolò Martina, quello stesso pomeriggio, raccattando le sue
cose e riponendole senza troppa cura nella valigia.
«Le madri parlano, purtroppo, specialmente quando si conoscono da una vita».
Martina annuì pensierosa, dopodiché mi guardò in
modo strano, abbassando leggermente la voce. «Comunque...hai
visto come ti ha guardata quando ce ne siamo andate via?».
Sorrise sadicamente e chiuse la valigia in un colpo solo. «Ti
stava mangiando con gli occhi». Dichiarò quindi
soddisfatta, sedendosi sul mio letto e incrociando le braccia
fieramente.
«Mangiare con gli occhi non implica necessariamente un sentimento positivo, Marti».
«Qualunque cosa implichi...stai sicura che non si
perdonerà mai per quello che ti ha fatto in questi mesi.
Insomma, piano piano sta realizzando che non potrà mai averti
come desidera e questo lo irrita parecchio».
Mi morsi un labbro pensierosa, e fu inevitabile chiedermi se quanto aveva appena detto Martina fosse vero o meno.
Non potrà averti come desidera.
Avrei resistito davvero ad ogni suo possibile approccio?
E se sì, per quanto tempo?
«So a cosa stai pensando». Proseguì con tono di
rimprovero, ma allo stesso tempo dolce. «Ma è importante
che tu gli stia alla larga. Ho avuto modo di osservarlo in questi due
giorni e sono giunta alla conclusione che mi sbagliavo: non
c’è alcuna possibilità che tra voi due possa
funzionare». Lasciò da parte un attimo le valigie e
mi si avvicinò con apprensione. «Non sto dicendo che non
prova niente per te, anzi, sono convinta del contrario, ma…lui
non è il ragazzo giusto, Giorgia. Tu hai bisogno di qualcuno che
ti dia certezze, non un cretino che alla prima occasione ti ferisca nel
più crudele dei modi. Non sei abbastanza forte per sopportarlo,
non quando c’è di mezzo lui».
Chiusi un attimo gli occhi per soppesare le sue parole, anche se in
fondo il loro significato mi era già abbastanza chiaro,
dopodiché sospirai. «Vorrei tanto poterti dire che non gli
permetterò di avvicinarsi di nuovo, ma mentirei,
perciò…».
«Perciò fai attenzione». Mi ammonì, senza
lasciarmi il tempo di replicare, abbracciandomi affettuosamente, ma
sempre con un pizzico di quell’inevitabile inquietudine; che
prendeva il sopravvento ogni qual volta Lorenzo fosse l’oggetto
delle nostre discussioni.
Annuii e mi staccai da lei con un velo di tristezza, per le lacrime ci sarebbe stato tempo dopo la sua partenza
«Ma devi proprio andare?». Le domandai retorica, sapendo alla perfezione la risposta.
«Già, ma spero di poter tornare nei prossimi mesi. Non mi fido a lasciarti da sola».
Ridacchiò di una risata priva di reale ironia, forzata, e fece per dire qualcosa, ma la interruppi io questa volta.
«Grazie».
Davvero in quei due giorni non gliel’avevo mai detto? Eppure era una semplice parola, altrettanto facile da dire.
«E di che? Se non ti cacciassi io fuori da guai, chi lo farebbe?».
Deglutii trattenendo l’opprimente magone che quella discussione
mi stava causando e la riabbracciai. Mi avrebbe certamente uccisa per
tutte quelle dimostrazioni d’affetto eccessive, in altre
circostanze…perché in quel momento stette in silenzio,
riempiendomi di raccomandazioni e incoraggiamenti vari.
Sì, decisamente, mi sarebbe mancata troppo.
Alle cinque del pomeriggio Martina era già partita. Io e Rosaria
l’avevamo accompagnata in aeroporto in metropolitana (papà
aveva avuto un impegno urgente di lavoro, perciò avevamo dovuto
arrangiarci con i mezzi pubblici), dove il padre di quest’ultima
si era fatto trovare per evitare un pezzo di strada trafficato che li
avrebbe fatti tornare a casa ad un orario improponibile.
Io e la mia migliore amica ci eravamo salutate dandoci appuntamento per
il mese prossimo, in occasione del suo diciassettesimo compleanno,
aggiungendo inoltre l’invito a stare qualche giorno da
lei…un po’ come i vecchi tempi, quando abitavamo nella
stessa città ed eravamo in classe insieme.
Martina, invece, mi aveva continuato a ripetere che avrebbe fatto il
possibile per fare in modo che non dovessero trascorrere sette,
interminabili mesi prima che ci rivedessimo.
E così, ero rimasta di nuovo da sola. La mia domenica speciale
era tornata ad essere, improvvisamente, una domenica come tutte le
altre, mentre quello che in fondo potevo considerare il mio migliore
amico (l’unico maschio) non accennava a farsi sentire.
Non avevo dimenticato il suo messaggio e, per quanto provassi a
convincermi del fatto che non me ne doveva importare più nulla
di Lorenzo, la curiosità era troppa per non sperare di ricevere
una sua chiamata, o un suo messaggio che mi avvisassero che l’ora
di sapere era finalmente giunta.
Stavo per uscire dalla metropolitana quando la suoneria del mio
cellulare mi colse alla sprovvista. Nessuno mi chiamava mai, eccetto
Martina, Rosaria, mia madre e mio padre…qualche volta.
Mi fermai per recuperare il cellulare da quella fastidiosissima borsa
che Martina mi aveva costretta a portare e vidi la notifica di un
messaggio non letto…un messaggio di Davide.
Wow, avevo pure il dono di far avverare i miei pensieri?
Ancora “turbata” da quella coincidenza, lo aprii con un mezzo sorriso sulle labbra.
Ehi, morettina, che dici…hai un po’ di tempo per questo povero sfigato?
Mi morsi un labbro per non scoppiare a ridere da sola come una scema e mi accostai al muro, per lasciare libero il passaggio.
Se fossi stata un po’ più pratica di cellulari
probabilmente avrei risparmiato tempo, rispondendo all’sms mentre
camminavo, ma mi pare di avere già espresso il mio odio verso la
tecnologia avanzata (computer escluso, ovviamente),
perciò…
Vincenzino, quanto tempo! Per te ne ho sempre ;) di cosa hai bisogno? :)
Qualche secondo dopo ricevetti un altro suo sms. Lui sì
che doveva essere un vero amante della tecnologia, magari, se ce ne
fosse stata l’occasione, gli avrei chiesto di insegnarmi qualche
trucchetto del mestiere.
Sei a casa? Possiamo vederci? Magari non subito, eh, quando vuoi/puoi :)
Sorrisi, questa volta più apertamente: ero pronta a tornare a
casa, per poi affogare il dispiacere per la partenza delle mie due
salvatrici nei libri scolastici, dato che in quei giorni non avevo
fatto praticamente nulla. Perciò la sua proposta era arrivata al
momento giusto…per una volta mi sarei distratta senza mettere
sottopressione – inutilmente – il cervello.
Sono fuori
dalla metropolitana che sto tornando a casa. Se vuoi possiamo vederci
direttamente adesso, non ho voglia di tornare a casa :(
In un lampo, la risposta arrivò, sorprendendomi ancora di più della sua tempestività.
Perfetto! Aspettami lì, tra 5 minuti sono da te.
Davide abitava proprio lì vicino, per questo non avevo obiettato
alla sua decisione. Se così non fosse stato, avrei scelto un
punto d’incontro comodo per entrambi.
Passai la prima parte dell’attesa facendo una breve telefonata a
mia madre, per avvisarla che sarei andata da un’amica e che
quindi avrei fatto tardi. Non mi andava di parlare di un
amico…avrebbe cominciato a fare domande su domande mettendo a
dura prova i miei nervi.
Le madri sanno essere davvero pesanti a volte.
Poi, come una rivelazione improvvisa, mi resi conto del fatto che era
la prima volta che uscivo da sola con un ragazzo. Certo, era pur sempre
Davide, il migliore amico di Lorenzo che non si sarebbe mai interessato
a me da quel punto di vista, ma sarebbe stato comunque strano. Arrossii
come una cretina, dandomi mentalmente della stupida per quelle
considerazioni davvero idiote, un solo istante prima che la sua figura
apparisse – cogliendomi di sorpresa – alle mie spalle.
Gli tirai una gomitata sul braccio per ricambiare il favore e –
nell’euforia della situazione – gli diedi un bacio sulla
guancia: la compagnia di Davide era sempre ben gradita, forse una delle
pochissime cose positive che mi stavano succedendo in quel
periodo. E, sì, era un amico eccezionale.
Definire quella serata "fredda" sarebbe stato un eufemismo: era proprio una serata polare.
I vari quartieri che attraversavamo accompagnavano i nostri passi con
il loro silenzio spettrale, non c'era praticamente nessuno in giro, ed
io mi stringevo con forza nel cappotto, per cercare di trovare un po'
di sollievo dall'incredibile gelo che ci avvolgeva.
Davide camminava al mio fianco senza troppa fretta, uno strano sorriso
gli increspava le labbra dall'inizio della passeggiata, le mani
comodamente sistemate nelle tasche del giubbotto di pelle.
E a differenza mia non sembrava minimamente toccato dalla temperatura
glaciale, anzi, avrei detto che ne fosse addirittura soddisfatto.
"Ti piace il freddo?. Avrei tanto voluto chiedergli, perché in
fondo di lui non sapevo quasi nulla, troppo impegnata com'ero stata -
in quel mese - a raccontargli delle mie pene d'amore; ma l'atmosfera
era talmente rilassata che temevo di fargli un torto persino
distraendolo dai suoi pensieri così beati.
Alternavo sguardi a ciò che mi si presentava davanti con
occhiate fugaci a lui, ed ogni volta che mi beccava fingevo
immediatamente di guardare da un'altra parte.
«Non mi dà fastidio, tranquilla». Disse proprio in
uno di questi momenti, bloccandosi una volta giunti davanti al parco.
Provai a giustificarmi in qualche modo, perché era piuttosto
imbarazzante essere scoperti a fissare qualcuno di nascosto, ma proprio
quando ero ormai riuscita a trovare la scusa perfetta, lui mi
batté nel tempo, cambiando completamente argomento.
«Va bene se ci fermiamo qui?». Chiese indicando l'enorme distesa verde davanti noi.
Sorrisi amara: era davvero buffo che avesse scelto proprio quel posto
per la nostra chiacchierata, lo stesso che visitavo sempre nei miei
sogni, lo stesso da cui ero stata alla larga per sfuggire al passato e
ai ricordi.
Guardai con attenzione ogni singolo particolare e fui felice di
ritrovare tutto come l'avevo lasciato, sembrava quasi che il tempo si
fosse fermato sette anni prima, ma nessuno più di me avrebbe
potuto sapere quanto in realtà l'apparenza fosse solo la
superficie di come invece le cose erano veramente.
«Sì...». Risposi dopo essermi fatta coraggio. «Direi che è perfetto».
Non mi chiesi il perché di quella mia decisione istantanea,
senza riserve, non sapevo se era un modo per autoconvincermi che non ci
sarebbe più stato bisogno di dimenticare quei momenti felici,
oppure se stavo semplicemente cercando di cancellare i vecchi ricordi
per fare spazio ad altri completamente nuovi; ma non me ne preoccupai
granché, ancora una volta ci avrei pensato dopo.
Arrivati a una panchina libera, ci sedemmo uno accanto all’altro,
un po’ impacciati e con gli sguardi rivolti ad alcuni bambini che
andavano sull’altalena.
Attesi che Davide cominciasse a parlare con una leggera ansia, e quando
lo fece non ero nemmeno sicura di essere pronta ad ascoltare quanto
aveva da dirmi. Perché anche il peggiore degli sciocchi avrebbe
intuito quale sarebbe stato l’argomento della discussione. Lo si
sentiva nell’aria, dalla sottile tensione nel pensare alla stessa
persona a cui entrambi, seppur in modo completamente diverso, eravamo
legati.
«Bene, direi che è giunto il momento delle
confessioni». Si sfregò le mani, ormai rosse dal freddo.
«Io ti dirò tutto quello che vuoi sapere, ovviamente per
come l'ho vissuto io, ma dovrai fare lo stesso anche tu...altrimenti
avremo solo sprecato fiato inutilmente».
A quelle parole avvicinai lentamente la mia mano al suo braccio,
lasciando poi una delicata carezza per tutta la sua lunghezza,
finché non raggiunsi il suo polso scoperto. Era un po’ che
continuavo a chiedermi perché avessi aspettato tanto per
raccontargli tutto, e se non mi avesse esortata lui a farlo, avrei
preso sicuramente io l'iniziativa.
Mi fidavo di lui e non era semplicemente per una questione di
correttezza che dovesse sapere, ma perché lo volevo io,
perché io avevo bisogno che fosse al corrente di tutto.
Annuii piegando le labbra in un sorriso. «Non c'è neanche
bisogno che tu me lo chieda». Mi avvicinai un po' di più a
lui, spostandomi impercettibilmente su quella panchina di legno, ancora
troppo fredda per essere confortante. «E so che non sei obbligato
a farlo, ma ti prego di non credere che se sono qui è solo
perché voglio sapere di Lorenzo. Mi piace la tua compagnia, Dav,
solo che non siamo mai riusciti a trovare un momento adatto per
sfruttare questa condizione reciproca».
Quando finii di parlare, Davide si poggiò meglio contro lo
schienale della panca, portandosi le mani dietro la testa e guardandomi
di sbieco. «Non l'ho mai pensato. Neanche per un secondo».
Disse in un flebile sussurro, facendo uscire dalla bocca delle
leggerissime nuvole di fumo ghiacciato.
Avrei tanto voluto abbracciarlo in quel momento, non l'avevo fatto
neanche una volta, e mai come in quel momento mi apparve chiara come
l'acqua - nel suo sguardo - la cieca fiducia che riponeva in me. Una
fiducia che neanche credevo di meritare, mi sentivo inadeguata per una
persona come lui e anche se avevo sempre avuto la presunzione di
dichiararmi sua amica, in fondo non avevo fatto proprio nulla per
meritare di esserlo.
«Venivo sempre con Lore qui, in terza superiore: l'anno scorso,
quello in cui l'ho conosciuto». Disse con un sorriso nostalgico,
mentre cominciava a ripercorrere quanto raccontava.
«Era esattamente come lo vedi adesso: stronzo, apparentemente
disinteressato a tutto quello che gli succedeva intorno, un sacco di
amici e nessuno di cui potersi veramente fidare. Appena l'ho visto ho
pensato che fosse nato per fare il leader e, anche se non avevo alcun
tipo di pregiudizio, credevo che non saremmo mai potuti essere amici.
Eravamo troppo diversi».
Lo ascoltavo con estrema attenzione. Era come se riuscissi a vedere
tutto attraverso i suoi occhi; lasciavano trasparire ogni cosa, e non
c'era neanche il minimo dubbio che potesse mentire.
Se mi avessero chiesto di descrivere come sarebbe apparsa
un'espressione sincera, avrei risposto senza alcun dubbio di guardare
quella di Davide.
«Ed inizialmente fu davvero così...». Riprese il
discorso dopo una breve pausa. «Lui da una parte e io dall'altra.
Oserei dire che per almeno i primi tre mesi di scuola non ci siamo
neanche rivolti un saluto. Ma poi tutto è cambiato». Si
fermò nuovamente, senza però smettere di sorridere, in
quel modo così sereno e spensierato. E un po' lo invidiavo,
perché era come se ricordare il passato non gli causasse alcun
tipo di dolore.
«L'anno scorso io non ero come mi vedi adesso, e non intendo solo
fisicamente, ma in tutto. Ero molto più chiuso, avevo pochissimi
amici, e le ragazze non sapevano neanche della mia esistenza. Ero un
po' come...».
«Me». Conclusi la sua frase vedendolo in difficoltà.
«Un po' come me». Ripetei quindi con un sorriso, per fargli
capire che non c'era nulla di male nel dirlo.
Davide mi guardò incerto - piuttosto pensieroso - dopodiché mi sorrise.
«Non era proprio questo che volevo dire, ma comunque sì,
diciamo di sì, eccetto per il fatto che non amo studiare
granché». Ridacchiò brevemente, poi tornò a
raccontare, con lo sguardo perso nel vuoto, fisso in un punto davanti a
lui che non riuscivo ad individuare con precisione. «Ed è
proprio per questo che ho fatto il primo passo per conoscerti. Vederti
così sola mi ha fatto ricordare il vecchio me stesso, e quindi
ho pensato che dovevo fare qualcosa a riguardo; mi sono sentito in
dovere di aiutarti».
Si girò a guardarmi. I suoi occhi erano illuminati dalla luce
fioca del tramonto. «Fidati, Giò, nessuno potrebbe capire
più di me come ti senti e, quello che io ho fatto per te un mese
fa, è esattamente lo stesso che Lorenzo ha fatto per me l'anno
prima. Niente di più, niente di meno».
Non potei fare a meno di mostrarmi sorpresa a quella dichiarazione, sia
per l'intensità con cui era stata formulata, che per il suo
significato in se.
"Lo stesso che Lorenzo ha fatto per me". Quella stessa ed unica frase
si ripeteva più e più volte nella mia testa, acquistando
ogni volta sempre più spessore, finché alla fine non
assunse le sue vere fattezze, cioè quelle della pura e semplice
verità.
«No, non dire nulla, lasciami continuare». Mi interruppe
Davide, prima che potessi proferire parola. E lo ringraziai per quel
suo intervento, perché non sapevo assolutamente quale reazione
sarebbe stata la più giusta da mostrare in quella situazione.
Gratitudine? Sorpresa? Curiosità?
«Spinto dai suoi consigli - più minacce, a dire il vero -
ho cominciato a fare un po' di palestra e, quando mi ha buttato gli
occhiali giù dalla finestra, ha detto che se non fossi passato
alle lenti avrebbe fatto fare la stessa fine a tutte le nuove paia di
occhiali». Si lasciò andare ad una fragorosa risata,
che scosse l’aria intorno a noi. «Da allora ha iniziato a
coinvolgermi nelle sue marachelle, ha lasciato che i suoi amici
diventassero anche i miei amici, e mi ha persino presentato qualche
ragazza...». Distolse lo sguardo imbarazzato, e pensai che forse
la riservatezza del suo carattere non era scomparsa del tutto.
«Tutti siamo spinti da motivazioni in ciò che facciamo ed
anche lui doveva averne una, per questo un giorno mi sono fatto
coraggio e gli ho chiesto quale fosse la sua, per quale ragione mi
avesse aiutato ad uscire dal mio mondo». Era diventato
improvvisamente serio e questo mi fece capire che la parte più
difficile stava per arrivare.
«L'obiettivo di Lore non era farmi diventare un'altra persona,
voleva davvero aiutarmi e, anche se il suo approccio è stato
tutt'altro che gentile, sulle sue buone intenzioni nessuno
riuscirà mai a farmi cambiare idea. E questa mia sicurezza non
è semplicemente dovuta a ciò che mi rispose, ma al modo
in cui lo fece. Per la prima volta riuscii a vedere qualcosa di diverso
in lui, non era il ragazzo freddo e distaccato che tutti conoscevano,
persino i suoi occhi non erano più dei semplici pezzi di
ghiaccio che congelavano al loro interno qualunque tipo emozione; e
quel giorno ne lasciarono trasparire diverse allo stesso tempo –
pentimento, dolore, amore. Non sembrava neanche lui».
«Tutto questo da solo bastò a farmi credere nella
sua amicizia, non avevo bisogno di ulteriori prove per quanto mi
riguardava, mi fidavo di lui...mi fido di lui. Ed è stato
egoistico da parte mia accettare la sua motivazione senza capirla
veramente a fondo, avrei potuto aiutarlo prima, ma ora mi è
tutto chiaro, so di poterlo aiutare, e questo solo grazie a te».
Sbattei più volte le palpebre, sorpresa, e chiedendomi se per
caso mi fossi persa qualche passaggio. «Grazie a me?». .
Davide annuì. «Ricordi quando ti dissi che Lore non aveva
mai parlato di te ai suoi amici? Be’, mi sbagliavo: l’ha
fatto con me e proprio in quell’occasione».
Ero confusa da tutte quelle rivelazioni, mi sembrava di aver raccolto
solo pezzi di informazioni scollegati tra di loro e niente aveva un
nesso logico, per quanto mi sforzassi di capire. Lui invece sembrava
percorrere un suo personale filo invisibile, da seguire per arrivare
alla conclusione, ed ogni volta che aggiungeva un nuovo pezzo
continuava soddisfatto del suo lavoro.
«Voi due…vi conoscevate già, vero?». Mi
domandò allora, cauto. Non voleva toccare quel tasto, nonostante
gli avessi promesso che gliene avrei parlato era ancora restio ad
entrare nella mia vita.
Davide scacciò la questione con un gesto della mano, ancora
prima che finissi di tirarla in ballo. «Conosco Lorenzo
abbastanza da poter capire quando allontana di proposito le Forse per
prevenire qualunque mia domanda, si affrettò ad aggiungere:
«Conosco Lorenzo abbastanza da poter capire quando allontana di
proposito le persone, e con te l'ha fatto. Ti ferisce affinché
tu non ti avvicini più a lui. Una persona talmente importante,
da arrivare persino a tenerla fuori dalla sua vita incasinata pur di
proteggerla». Si voltò verso di me, impaziente.
«È solo una conferma quella che ti sto chiedendo: non vi
conoscete solo da qualche mese, no?».
«No...». Dritta al punto. Sincera fino in fondo. Per una
volta. «...si può dire che ci conosciamo da sempre,
effettivamente». Non c'era più alcun motivo di girarci
intorno.
Davide sorrise, questa volta ancora più apertamente. Si
adagiò nuovamente contro lo schienale della panchina ed
incrociò le gambe fissando per un po' due ragazzini che
correvano davanti a noi. «Allora sei proprio tu la ragazza che
crede di aver perso per sempre».
«Davide, cosa...». Provai a dire, dopo esser rimasta in silenzio per quella che mi parve un'eternità.
«Giorgia, credimi, non sei l'unica che ha sofferto in tutti questi anni».
Presi un respiro profondo, consapevole che da quel momento in poi sarebbe iniziato il vero racconto. «Ti ascolto».
«A prima vista Lorenzo sembra un ragazzo privo di problemi,
sempre a caccia di guai e di divertimento, ma non è così,
quella è solo una facciata, e credo che questo tu lo sappia
già...». Cercò una conferma nei miei occhi, che
trovò quasi immediatamente, quindi proseguì.
«Ti ho detto che ciò che lo spinse a fare quel che ha
fatto con me, in qualche modo c'entra con te, ma è importante
che io dica le parole esatte che usò, parole che credo che tu
debba sapere, per poi valutarle con attenzione.
“Ho perso una persona importante una volta, un'amica speciale, a
cui ho rinunciato perché sono stato - e sono - un coglione. In
te rivedo esattamente lei, per questo ho pensato che, magari, aiutando
te mi sarei sentito meno in colpa per aver abbandonato
lei”». Citò ogni parola come se le ricordasse a
memoria, come se ci avesse riflettuto sopra talmente tante volte da
essersele impresse nella mente a vita. «"Ma la verità
è che non riuscirò mai a perdonarmi per quel che ho
fatto. Io non la merito, e questo non cambierà mai, nemmeno se
lei decidesse di dimenticare tutto”».
Faceva male sentir parlare di un Lorenzo così debole, privo
della forza che lo contraddistingueva e in preda ai sensi di colpa.
Colpa che aveva, in effetti, ma era comunque triste pensare che avesse
deciso di affrontarla da solo, nascondendola in chissà quale
parte del suo cuore.
«E ti ha detto il motivo...ti ha detto il motivo per cui l'ha
fatto?». Chiesi speranzosa. Avevo rinunciato a trovare quel
motivo, ormai, ma in quel momento la possibilità che potessi
finalmente ottenere la risposta che cercavo era troppo reale
perché potessi lasciarla andare senza provarci un'ultima volta.
Davide scosse la testa con espressione dispiaciuta. «No, non
gliel'ho neanche chiesto...sono stato un egoista. Lui ha fatto tutto
per me, e io?».
«Ehi, ehi, non è colpa tua, ok?». Annullai anche
l'ultimo briciolo di distanza tra i nostri corpi e gli presi il viso
tra le mani, per costringerlo a guardarmi. «Non potevi saperlo,
Dav, tu non c'entri assolutamente nulla con i problemi di Lorenzo, non
ti riguardano, è stata una sua scelta...tu e l'aggettivo egoista
non siete minimamente compatibili, no». Provai a
consolarlo, e nel farlo non mi resi conto neanche conto di aver
cominciato a piangere. Lo facevo talmente spesso, ormai, che era
diventata una spiacevole abitudine.
«Tu ci tieni ancora a lui». Affermò Davide, sicuro
delle sue parole, asciugandomi contemporaneamente le lacrime con
l'ausilio di due dita.
Annuii quasi meccanicamente. «Sì, così tanto che se
anche venisse a bussare alla mia porta tra altri dieci, lunghi anni per
farmi le sue scuse, non riuscirei a sbattergliela in faccia».
Davide inclinò leggermente la testa di lato, visibilmente
pensieroso. «Sicura che per te sia solo un amico?».
Domandò poi, sorridendomi complice.
Distolsi immediatamente lo sguardo, colpevole e rossa dall'imbarazzo.
Non avevo mai parlato di certe cose con un ragazzo, il che rendeva
tutto abbastanza difficile per me. Più di quanto non lo fosse in
circostanze normali. «Hai un po' di tempo per sentire la mia, di
storia?». Mi decisi a chiedergli, mordendomi poi un labbro per
nascondere la vergogna.
«Per te ho tutto il tempo che vuoi».
«Da miglior amico a peggior incubo. Wow, un cambio
notevole!». Commentò Davide ironico, per stemperare la
tensione e allo stesso tempo cercare di farmi smettere di piangere.
Purtroppo non riuscivo a trattenermi ogni volta che cominciavo a ricordare il passato.
«Comunque sono deciso a scoprire tutto, se non vuoterà il
sacco con le buone, lo farà con le cattive». Aggiunse,
poi, e per un attimo credetti che fosse davvero capace di usare le
maniere forti. Ma era di Davide che stavamo parlando...
Arcuai un sopracciglio scettica. «Buona fortuna, allora, se ci
dovessi riuscire ricordami di avvisare gli autori di libri scolastici
di inserirti il quelli storici».
«Prepara i numeri di telefono, cara».
«Spaccone». Lo apostrofai tirandogli un buffetto sulla guancia.
Scherzammo così per un altro po', finché non mi decisi a
porgli il mio dubbio amletico. «...e adesso che si fa? Fingo che
tu non mi abbia detto nulla, oppure lo affronto?».
Lui sembrò aspettarsi quella domanda, sulla quale
rifletté un attimo, valutando entrambe le possibilità con
estrema attenzione. «Io credo che tua cugina abbia ragione.
È meglio che tu gli stia lontana per il momento».
Decretò infine, passandomi un braccio intorno alle spalle in un
gesto così spontaneo da risultare assurdamente naturale, tanto
che mi chiesi perché ancora mi facevo tutti quei problemi ad
abbracciarlo o dimostrargli il mio affetto, con i gesti oltre che con
le parole.
«Sarà difficile». Dissi guardando il cielo sopra di
noi, che da chissà quanto tempo ormai aveva assunto i colori
tipici del tramonto. La visione da lì era sempre spettacolare, e
mi sentii sciocca nel realizzare che avevo rinunciato a parecchie cose
nella mia vita per non soffrire, ma alla fine avevo ottenuto solo
l'effetto contrario…
«E tu cosa farai?». Chiesi cambiando discorso. Se
avessi continuato a rimuginare in quel modo sulla mia vita, avrei
finito per risultare noiosa e ridicola, oltre che monotona.
«Io l'ho già perdonato». Rispose con un sospiro, come a voler specificare che non aveva altra scelta.
E io proprio non riuscivo a capire il perché di tutta quella
riconoscenza nei suoi confronti. Magari la risposta andava cercata
nell'infinta correttezza del mio amico, oppure era semplicemente una
mia mancanza, dovuta al fatto che nessuno aveva mai fatto una cosa
tanto importante per me, prima d’allora, prima di Davide.
Non capirai mai cosa si prova, finché non lo vivi sulla tua pelle; minuto dopo minuto, gesto dopo gesto, amore su amore.
«Non devi, se non vuoi, solo perché ti ha aiutato una
volta». Dissi con un filo di voce, più che altro per dar
sfogo ai miei pensieri; non volevo certo spingerlo a dimenticare tutto
e a cominciare a fregarsene del suo migliore amico. Chi ero io per
farlo? Io che per prima non riuscivo a rinunciare a lui.
Davide sorrise e tornò a guardarmi. «Ho sbagliato a
reagire in quel modo. Le cose si fanno in due, Giò, e Lore non
avrebbe mai fatto nulla se Carol non fosse stata d'accordo. Sono un
fratello piuttosto protettivo e mi sono lasciato prendere dal fatto che
fosse mia sorella, ma la verità è che se fosse stata
un'altra ragazza - qualunque - non avrei detto niente per
difenderla». Sospirò amaramente. «Come vedi non sono
poi così perfetto come credi».
Scossi ripetutamente la testa e gli accarezzai il dorso della mano con
due dita. «È tua sorella, Dav. Ti sei comportato come
avrebbe fatto un qualunque fratello maggiore».
«Ma Lore non ha colpa, e né tantomeno mia
sorella...nessuno ne ha. Carol sapeva perfettamente di Diana, eppure
c'è stata lo stesso».
Mi lanciò un'occhiata d'intesa, talmente breve che quasi non la
notai, ma capii perfettamente a cosa alludeva e per questo non riuscii
a nascondere un po' di imbarazzo.
«Messaggio ricevuto». Mormorai colpevole, alzandomi per
scaldarmi con un po' di movimento. Controllai l'orologio e rimasi
piuttosto sorpresa dall'ora che si era fatta: erano le sei del
pomeriggio ed ormai eravamo lì da un'ora abbondante.
Poco dopo Davide mi imitò, raggiungendomi con fare stanco e stiracchiandosi un po'.
«Parlare di quell'idiota mi prosciuga le forze». Disse - o
almeno così capii - mentre sbadigliava visibilmente assonnato.
«Davide...». Lo chiamai incerta, avvicinandomi a lui di
qualche piccolo passo, mentre un pensiero più incoerente degli
altri cercava di prendere il controllo sul mio cervello.
Con lui era diverso: non c'era paura, non c'era incertezza, nessun
dubbio o tentennamento. Con Lore, invece, era tutto l'opposto di tutto:
sentimenti contrastanti, paura ed emozione, voglia di abbracciarlo e
voglia di prenderlo a schiaffi, voglia di lasciarmi andare e paura di
soffrire.
Le vie semplici erano davvero quelle meno dolorose. Ma se davvero
avessi intrapreso una di quelle, se avessi scelto qualcuno in grado di
darmi sicurezze, quanto ci avrei perso? E quanto ci avrei guadagnato?
«Mmmh?». Mi esortò lui curioso.
Sorrisi. «Grazie...». Una parola appena accennata, dolce ed
insicura...ma non era abbastanza. «Grazie di tutto».
Ripetei allora più forte.
Davide sembrò stranito da quel ringraziamento, che invece a me
era parso fin troppo normale e giusto in quella circostanza. Mi
schiarii la voce e feci per dire qualcosa che cancellasse quel silenzio
insolito, ma lui mi interruppe riducendo al minimo le distanze e
posandomi poi un dito sulle labbra.
Lo fissai dal basso confusa, senza muovermi di un millimetro, mentre le
sue labbra si stendevano in un sorriso bellissimo sorriso.
«Quando capirai che abbracciare un amico non è così
difficile?».
E difficile non lo fu per niente: lasciarmi stringere dalle sue braccia
forti, stringerlo con le mie più fragili, poggiare una guancia
contro il suo petto e farmi cullare dal candido tepore del suo corpo
contro il mio. Finché avessi voluto, finché ne avessi
sentito il bisogno...senza vincoli né condizioni.
È a questo che servono gli amici. Disse una voce saccente dentro la mia testa.
Ma l’amore è un’altra cosa. Rispose un’altra, più forte e chiara.
Ottobre era passato e insieme a lui anche ogni singola briciola del
rapporto carico di sofferenza che io e Lore avevamo costruito in quel
mese.
Dall'odio eravamo arrivati, in un arco di ben sette, duri anni, al
contrasto e alla passione, mentre nel giro di soli trenta giorni ogni
sentimento era sparito; quello che avevamo costruito non esisteva
più...non c'era più niente di niente tra di noi. E non
avrei potuto definirlo neanche un ignorarsi reciproco, perché
era anche peggio...era tensione, e la si avvertiva chiaramente, l'unico
problema era che non riusciva a trovare alcuna via d'uscita, rimaneva
insistente, insita in ogni gesto o sguardo che condividevamo. Ed
eravamo automaticamente giunti ad un punto in cui tutto sembrava
privo di alcun senso...giocavamo a farci del male senza fare
assolutamente nulla, ma se questo era l'unico modo per risollevarmi dal
famoso fosso in cui mi ero sotterrata da sola, be' allora andava
bene...sarebbe andato tutto bene, no? Dovevo solo continuare a giocare.
Già, giocare...ma quanta fortuna mi sarebbe servita per vincere?
«Cari ragazzi miei, quest'anno c'è una novità
molto interessante per quanto riguarda le insufficienze riscontrate a
metà di ciascun quadrimestre».
La professoressa Zanna, nonché coordinatrice di classe,
sorrideva in modo inquietante, guardandoci uno per uno con malcelata
soddisfazione; mentre con le dita ossute tamburellava insistentemente
sulla superficie della cattedra.
Era inizio novembre, periodo dell'anno caratterizzato dalla
distribuzione delle "situazioni iniziali" di noi studenti - così
le chiamavano i prof quando volevano sembrare intelligenti - e, con una
puntualità impeccabile, ecco che ci avevano portate le nostre.
Normalmente vivevo il tutto con molta tranquillità, non avevo
mai avuto insufficienze gravi, e i professori avevano sempre premiato
il mio impegno; ma quell'anno era diverso. Quell'anno avevo cambiato
scuola - da un linguistico a una ragioneria, mica facile! - e
sempre quell'anno una persistente distrazione mi aveva deconcentrata
dai miei soliti e buonissimi propositi di studio intenso, con la
tragica conseguenza che solo Bavieri poteva permettersi di attendere il
fatidico momento con un sorriso molto simile a quello della Zanna. E il
che era abbastanza preoccupante, oltre che demoralizzante.
«Matematica e storia». Sbuffò Davide guardando
velocemente il suo pagellino. «Di nuovo! Ma quella stronza di
matematica non poteva mettermi 6? Cavolo avevo la media del
5,5...».
Diedi un'occhiata anche io e notai con piacere che erano entrambe con
il cinque, poteva andargli peggio. «Insufficiente in storia.
Proprio non la sopporti, eh?». Ridacchiai stemperando la tensione.
Davide voltò rabbioso il foglio e si volse verso di me con
stizza. «Non è che non la sopporto, è inutile! E
poi ho già messo in conto che anche quest'anno avrò il
debito».
«Ehi, non osare dire così, sai? Non sarò una cima,
ma se necessario ti aiuterò io...potremmo studiare insieme,
così magari ti divertiresti di più. Assolutamente non ti
permetto di avere il debito in una materia così idiota!».
Davide sorrise in quello che mi parve un modo di gratitudine e io
ricambiai, prima che il suo sguardo si spostasse sul mio di pagellino.
«Perché non lo guardi?». Domandò con un cenno del capo rivolto a quel malefico pezzo di carta.
Sospirai e cominciai a giocherellare con un angolino del foglio girato,
tenendo basso lo sguardo. «Ho paura di vedere quante
insufficienze sono». Confessai mordendomi un labbro.
«Scherzi? Se io ne ho sotto solo due, tu non ne avrai nessuna».
«Fino all'anno scorso le cose stavano così, Dav, ma la media dei miei voti questa volta non mente».
«Avanti, ti supporto io, ora gira quel cazzo di pagellino».
Mi esortò in modo poco fine, abbastanza da lui direi.
«Tanto prima o poi dovrai farlo».
Deglutii incerta ma alla fine mi decisi e lo voltai con un movimento
rapidissimo, pensai un momento sul da farsi e poi lo porsi a Davide
neanche fosse veleno. «Guarda prima tu, io non ce la
faccio».
Dav annuì e afferrò il foglio, osservandolo poi con
attenzione e un sorriso sempre crescente. «Lo dicevo io che sei
paranoica!». Disse allegro, restituendomi il pagellino e
costringendomi a guardarlo.
Cominciai a scorrerlo lentamente con un pizzico di agitazione in meno e, senza accorgermene, stringendo la mano di Davide.
Italiano: 8
Bene, venivo da un linguistico, se avessi preso di meno che figura avrei fatto?
Storia: 7
Matematica: 6
Economia aziendale: 7
Diritto: 5
La mia rovina!
Economia politica: 7
Inglese : 9
Informatica: 8
Religione: ottimo
Educazione fisica: 6
Condotta: 10
Tirai un sospiro di sollievo e mi rilassai un po': il peggio era
passato, bisognava solo vedere quale diabolico piano avesse in mente la
Zanna. «Pensavo peggio, mi hanno aiutata moltissimo, specialmente
in diritto e matematica!».
«Perché si vede che studi e si saranno accorti che hai avuto qualche problema personale...».
Ogni allusione a Lorenzo era stata tacitamente vietata, per questo
Davide ci stava girando intorno...e io lo apprezzavo moltissimo.
Quanto bene volevo a quel ragazzo?
«Secondo te cos'ha in mente?». Gli chiesi, cambiando
improvvisamente discorso nel vedere la prof scribacchiare
qualcosa su un foglio di carta.
«E chi lo sa? Quella donna ne sa una più del diavolo, comunque lo scopriremo presto...credo sia pronta».
Nella classe piombò un silenzio improvviso, immediatamente
seguito dalla potente voce della Zanna, che passò lo sguardo da
una parte all'altra dell'aula con la stessa sadicità di poco
prima.
«Ecco qua, vi consiglio di ascoltarmi molto bene, e vi dico fin
da subito che nessuno di voi può rifiutarsi di partecipare al
progetto, salvo motivazione certificatamente valida». Nell'aria
c'era il gelo, e la mia ansia d'un tratto aumentò bruscamente,
insieme ad un crescente senso di disagio. «E per motivazione
valida intendo molto valida». Aggiunse poi con un tono
esageratamente perentorio.
Quell’aggettivo suonò come una vera e propria minaccia alle mie orecchie, e per poco non cominciai a sudare freddo.
Ma si divertiva a farci soffrire in quel modo? Perché non sputare il rospo e basta?!
«Bene, vedo che siete tutti molto entusiasti di conoscere quale
questa grandiosa novità sia, perciò...». Altra
occhiata, altra pausa snervante. Stavo cominciando a perdere la
pazienza, odiavo quando qualcuno girava troppo intorno ad una cosa in
quel modo!
E poi…e poi l’incubo ebbe inizio. Mi aspettavo di tutto e ancora peggio, ma mai quello.
«Come non è difficile da credere, ho avuto questa
brillantissima idea che è stata felicemente, e senza troppe
esitazioni, approvata dal resto del consiglio di classe, chiamatela
prova, chiamatela verifica, recupero…come vi pare, ma da questa
dipenderà l’esito del vostro anno scolastico».
Guardai Davide stranita, in cerca della stessa reazione in lui, e fui
ben lieta di trovarla quando scosse leggermente le spalle. Non ero
l’unica terrorizzata a morte…
«Ognuno di voi ha dei punti di forza, così come
altrettanti deboli, per questo ho pensato di sfruttare questi due
fattori per dar vita ha questa meravigliosa iniziativa: formeremo delle
coppie, in base a quanto ho appena detto, in cui l’uno
aiuterà l’altro a superare le proprie
difficoltà…studiando, trovando un modo alternativo che
esuli dal contesto scolastico, qualunque cosa che possa servire al
vostro compagno per vedere la materia in modo diverso, più
familiare, diciamo così…e quindi, per esempio, se Vinci
ha problemi in matematica, Bavieri si preoccuperà di risolverli
come più gli aggrada e, viceversa, se Bavieri ha appena la
sufficienza in economia aziendale, Vinci lo aiuterà a staccarsi
da quel misero voto».
La mia mente era un black-out totale, si rifiutava di assimilare quella
informazione, perché – inevitabilmente – , di
rimando, avrebbe dovuto mettere in conto quella possibilità.
«Mi pare non ci sia niente di poco chiaro in questo,
perciò passiamo pure alle regole e allo svolgimento del
progetto: avete tempo fino alla settimana prima della fine del
quadrimestre, che cade esattamente il 10 febbraio, ed entro quella data
dovrete aver incontrato dei miglioramenti consistenti, miglioramenti
che verranno valutati con una verifica – scritta o orale a
discrezione del professore – dove mostrerete proprio le
differenze rispetto a quanto è stato riscontrato in questi primi
due mesi. Con questo ovviamente si sottintende la sufficienza per
quelli che hanno insufficienze non proprio gravissime e un salto
qualitativo notevole per gli altri; in linea di massima, comunque,
tutti dovrete incrementare il vostro voto di almeno un
punto». La Zanna incrociò le braccia sul tavolo,
cominciando a torturare le stanghette degli occhiali per sfogare
un’evidente frustrazione…sì, frustrazione era
l’unico aggettivo attribuibile ad una donna del male come lei,
che chissà quante notti aveva impiegato per mettere a punto quel
piano diabolico. «Ci sono domande fino qui?».
Lonta alzò la mano, con la sua classica aria da stupido che voleva solo perdere tempo.
Dopo un cenno della prof, il suddetto le pose la domanda che
probabilmente ci stavamo chiedendo tutti, ma che nessuno aveva il
coraggio di fare.
«Prof, e quali sarebbero le conseguenze se per caso uno di noi
non dovesse riuscire…». La frase si spense a metà,
perché la Zanna non attese oltre, cominciando a sovrastare la
voce di Gabriele con la sua. «Ovviamente si spera che voi ci
mettiate tutta la vostra volontà in questa meravigliosa
opportunità che vi stiamo dando, ma qualora questa non sia
sufficientemente adeguata…allora condividerete il fallimento, il
che implica che se il risultato è negativo per la parte debole,
lo sarà anche per la parte che avrebbe dovuto aiutarlo, e che
invece non ha fatto il suo dovere. Il discorso vale anche al contrario
però: più proficui saranno i risultati ottenuti,
più riconoscimenti verranno attribuiti allo studente che ha reso
ciò possibile. Non prendete la cosa sotto gamba, mi raccomando,
non c’è niente di peggio che un intero consiglio deluso e
amareggiato…».
Tutto era stato spiegato alla perfezione, in un modo talmente chiaro
che nemmeno i più lenti di comprendonio avevano dubbi da
chiarire, nessun’altra domanda, perciò, era stata fatta,
mancavano solo le coppie…che la prof aveva immediatamente
cominciato a formare.
«Dav…». Chiamai il mio amico a bassissima voce,
accompagnando il tutto con una leggerissima gomitata. Eravamo pur
sempre ai primi banchi e la Zanna aveva un udito finissimo, meglio non
rischiare le sue ire. Davide si voltò verso di me con un mezzo
sorriso, segno della sua tranquillità più assoluta:
logico, lui non aveva niente di cui preoccuparsi. «Toglimi una
curiosità…a parte matematica, in quali altre materie Lore
va…».
«È stato più semplice del previsto».
Esclamò la professoressa gongolante, dopo neanche 5 minuti,
schiarendosi la voce e guardando soddisfatta il pezzo di carta su cui
scintillavano d’inchiostro nero ventiquattro nomi, rigorosamente
raggruppati due a due.
Rinunciai al mio proposito di rovinarmi la sorpresa e attesi che fosse
proprio la Zanna a svelare il nome del mio fantomatico compagno di
progetto.
C’è una sola possibilità su venticinque, una sola possibilità, una…
Continuavo a ripetermi, quasi cantilenando, nella mia testa.
«Ecco le coppie:
Accorsi con Baudino,
Bardo con Testa,
Bavieri con Mancini,
Belli con Mori...».
La voce della Zanna si interruppe nella mia testa come un disco rotto,
inceppato, che continui a ripetere la stessa cosa finché non
viene estratto dal vano.
No, non era assolutamente possibile...non ci potevo credere! La mia
vita era stata condannata alla rovina in meno di un secondo, come
potevo anche solo trovare la forza di contrastare quell'inevitabile
catastrofe?
Quale astro oscuro si era messo contro di me e me la stava facendo
pagare così crudelmente? Ma soprattutto, perché?
Quella sola, misera possibilità era riuscita a trasformarsi in
realtà. Sì, dovevo decisamente prenotare un viaggio per
Lourdes, al più presto, e magari di sola andata...
«Ehi». Mi chiamò Davide riscuotendomi dai miei pensieri, uno più demoralizzante dell'altro.
Io. Lore. Studio. Da soli.
Dopo tutto quello che era succeso.
Dopo la nostra spontanea decisione di ignorarci a vicenda.
Tutto era andato a puttane.
«Andrà tutto bene, vedrai». Provò a
consolarmi, ma neanche lui sembrava convinto delle sue parole. Erano
semplici rassicurazioni di circostanza, che tuttavia apprezzai.
«No, Dav, non andrà bene niente». Mormorai
rassegnata, mentre l'insegnante terminava l'elenco e ci chiedeva per
l'ennesima volta se tutto fosse chiaro.
«Non c’è bisogno che vi elenchi le materie in cui
dovrete aiutarvi, siete abbastanza maturi per rendervene conto da soli,
perciò...be', che il progetto abbia inizio!».
E dal sorriso della Zanna capii che non sarebbe stata un'impresa facile.
«Devo assolutamente parlare con la prof». Affermai decisa,
durante l'intervallo, alzandomi dal mio posto con un'improvvisa
determinazione.
«Hai sentito: motivazioni validissime...e stiamo parlando di una
che ha persino fatto storie di fronte ad un certificato medico».
Davide smontò immediatamente la mia mera speranza, osservando
con una certa aria vittoriosa l'impavido Bavieri, che come al solito
stava studiando qualche argomento del programma dei mesi successivi.
Era il suo hobby, portarsi avanti solo per sentire gli elogi dei
professori.
«Ma...Dav, capisci cos-...».
«Mori, è inutile che ti lagni...forse non conosci
abbastanza la Zanna, ma quando dice una cosa la fa e basta.
Perciò rassegnati».
30 giorni, 30 insopportabili giorni erano passati dall'ultima volta che
ci eravamo scambiati qualche frase di senso compiuto e quale peggior
modo di ricominciare un dialogo poteva scegliere se non quello?
«Purtroppo è così, Giò».
Confermò Davide, rivolgendo una brevissima occhiata d'intesa a
Lorenzo. Da quanto ne sapevo, quei due avevano mantenuto buonissimi
rapporti in quel periodo; dopo quella temporanea incomprensione tutto
era tornato alla normalità tra di loro e in più occasioni
li avevo visti fare comunella. Nonostante il mio rapporto con Davide si
fosse rafforzato moltissimo in quel periodo, Davide era sempre
abbastanza restio a riferirmi tutto quello di cui lui e Lorenzo
parlavano; sia perché certamente erano discorsi da ragazzi, sia
perché non era giusto spiattellare così ogni eventuale
rivelazione di Lore.
Di certo la sua posizione non era delle migliori, essere amico di due eterni nemici non doveva essere per niente semplice.
Non riuscii a dire nulla, ogni parola che mi veniva in mente era un
insulto peggiore del precedente, perciò preferii ignorare il suo
intervento dandogli le spalle.
«Io vado in bagno». Dissi a Davide, cercando di sfuggire a
quella situazione scomoda...perché non sopportavo neanche
più la sua spocchiosa presenza.
«Ehi». Una presa salda e forte mi bloccò per un
braccio. Un tocco che mi era mancato terribilmente, ma che non avrei
implorato per nessun motivo al mondo. «Non pensare di essere
l'unica a detestare questa situazione, credi che io sia tanto
più felice di lavorare con te?».
«Lore...». Provò a fermarlo Davide, probabilmente
temendo che le sue parole potessero ferirmi. La cosa che però
nessuno dei due sapeva, e forse neanche io, era che in quelle 720 ore
passate ad ignorarlo avevo costruito intorno a me uno scudo, in grado
di riflettere qualunque cosa - bella o brutta che fosse - mi dicesse. E
mi sentivo incredibilmente forte nel non provare dolore ogni volta che
me lo trovavo davanti e mi diceva una bastardata delle sue, nel non
percepire il mio cuore spezzarsi un po' ogni giorno che si allontanava
da me.
«E con questo?». Domandai perciò, scuotendo il
braccio per fargli sciogliere la presa ferrea che cominciava a farmi
male.
Lore abbozzò un sorrisino indecifrabile, staccandosi da me con
una lentezza esasperante e chiaramente studiata, il tutto sotto gli
occhi attenti di Davide.
«Con questo...perché non mettiamo da parte i rancori, ci
concentriamo su questa stronzata di progetto, e diamo il meglio
di noi?».
Aprii la bocca per rifiutare a prescindere, ma la richiusi immediatamente, rendendomi conto dei reali termini di quell'accordo.
«Intendi...una specie tregua?».
Lore annuì.
«Niente avvicinamenti di alcun tipo? Niente rinvagamenti del nostro passato?».
« Niente, solo tanto e sano studio».
Aggrottai le sopracciglia perplessa. Se fosse stato qualcun altro a
farmi quella proposta avrei accettato ad occhi chiusi, ma era di Lore
che stavamo parlando, perciò...
«Dov'è l'inganno?». Gli chiesi assottigliando lo sguardo.
Lore scosse le spalle. «Nessun inganno, solo voglia di andare in
quinta e finire questa cazzo di scuola il prima possibile».
Be', la motivazione era in Lorenzo style, dopotutto.
Mi morsi un labbro pensierosa e guardai Davide in cerca di un qualche
consiglio, ma quello che trovai nella sua espressione era solo
confusione, esattamente come quella che provavo io.
«Quanto tempo ho per pensarci?».
Lore ridacchiò e guardò l'orologio che portava al polso.
«Ti serve davvero tempo per una stupidata del genere? È la
cosa migliore per tutti: tu mi aiuti, io ti aiuto, (continuiamo ad
ignorarci) e la Zanna è contenta».
Incrociai le braccia al petto e lo guardai scontrosa.
Lore sbuffò. «Come vuoi, se ti serve tempo...hai dieci
secondi a partire da adesso». Annunciò con un leggero
schiocco di lingua.
Stronzo fino al midollo e fino alla fine, eh?
Gli lanciai un'occhiata furiosa ed osservai indecisa le lancette del suo orologio.
Allo scadere del tempo assentii un po’ titubante. «Ci
sto». Feci un passo avanti e sollevai lo sguardo a mo' di
sfida.
Lore sembrò rilassarsi, ma allo stesso tempo stava accettando la mia dichiarazione di guerra e io lo sapevo benissimo.
«Bene, allora affare fatto». Disse quindi, tendendo la mano verso di me.
Stetti immobile a contemplarla per un po’, ricordandone la
consistenza a contatto con la mia pelle, cancellai subito quel pensiero
e la afferrai decisa, scuotendola un paio di volte insieme a quel
ricordo deleterio. «Affare fatto». Ripetei sicura
all'esterno, ma assolutamente non convinta dentro.
Era stranamente soddisfatto, come se avesse raggiunto il suo obiettivo.
No, non era semplicemente un’occasione di studio.
«Be', allora ci vediamo...ciao Dà, ciao Giò».
Ci salutò con un cenno del capo e sparì fuori dall'aula,
lasciandomi sola con Davide e in un vortice di insicurezza.
«Cos’è quella faccia?». Chiesi al mio amico,
che era rimasto in silenzio da quando Lore se n’era andato.
«Non so, fossi in te non abbasserei la guardia…». Si
decise a parlare dopo un attimo di esitazione.
«Intendi dire che potrebbe avere altri fini? Be’, ci ho pensat-».
Davide mi interruppe con un gesto della mano. «No, non credo
abbia altri fini, ma stai dimenticando una cosa di fondamentale
importanza».
«E cioè?».
Il mio amico scosse la testa e sospirò, guardandomi in modo assurdamente serio.
«Lore non rispetta mai le regole».
Note:
Sono di corsa, perciò vi lascio proprio con due righe di saluto e ringraziamenti vari, che poi sono sempre gli stessi XD
Grazie a tutti quelli che hanno recensito lo scorso capitolo, a quelli
che hanno aggiunto la storia tra le preferite, ricordate e seguite, e a
coloro che hanno letto anche questo! *-*
Mi dispiace per il super ritardo, ma purtroppo è un periodaccio
con la scuola e non so fino a quando durerà… :(
Un bacio a tutti e…al prima possibile! <3
P.s: chiedo scusa per non aver risposto alle recensioni, spero di rimediare al più presto :(
P.p.s: ho riletto tutto velocemente perché volevo dare
priorità all'aggiornamento, perciò non vi garantisco che
sia tutto scritto bene, che non ci siano errori, ecc. Sopportatemi, per
favore! XD
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Capitolo 13 *** Il punto di svolta. ***
Capitolo 14
Capitolo
12: Il punto di
svolta
Erano
le quattro del pomeriggio e Lorenzo era in
ritardo, come a qualsiasi appuntamento al quale non gli interessasse
presentarsi. Ci eravamo accordati per studiare in biblioteca...o
meglio, avevo
scelto io la biblioteca e per una volta ero riuscita ad imporgli una
mia
decisione, il tutto per evitare un problema elementare,
perché di stare a casa
sua - da soli, come aveva proposto lui - non se ne parlava neanche! La
biblioteca era sempre - bene o male - frequentata, perciò
ogni suo tentativo di
approfittarsi troppo di me sarebbe morto sul nascere; mentre a
casa...be', a
casa cosa gli - o ci? - avrebbe impedito di trasformare la nostra noiosissima
ora e mezza di studio in un piacevole esercizio di
tutt’altro tipo?
Per
tutte queste ragioni ero fierissima della
mia piccola conquista, sorridevo apertamente e attendevo il suo arrivo
giocando
con una penna, neanche lontanamente irritata dal suo ritardo. Il mio
scudo
aveva potenzialità davvero sorprendenti, ma se il prossimo
traguardo raggiunto
fosse stato il disinnamoramento sarebbe stato ancora meglio.
Non
ne potevo davvero più, l'amore faceva
tremendamente schifo.
«Eccomi
qua! Di' la verità, cominciavi a pensare
che non sarei venuto».
Così
si presentò, apparendomi davanti all'improvviso,
con uno zaino a tracolla messo di traverso e un leggero affanno come
conseguenza della sua evidente corsetta per raggiungermi.
Rimasi
in silenzio, a pensare: come avevo fatto
a non vederlo?
«Veramente
no».
Risposi con assoluta calma, riscuotendomi contemporaneamente dai miei
pensieri.
Lore
sorrise, sedendosi di fronte a me, il
tavolo di plastica arancione ci separava quel tanto che bastava per far
sì che
lo studio restasse la nostra priorità.
Era
una misura necessaria, non solo per lui, ma
anche - e soprattutto - per me.
«Allenamenti».
Spiegò senza che io chiedessi
niente, estraendo velocemente un quaderno dallo zaino.
«Capisco...e,
a proposito, come va alla OS?».
Non mi resi conto dell'importanza della mia domanda fin quando non vidi
Lorenzo
bloccarsi sorpreso e io feci lo stesso. Sollevò lo sguardo -
fino a quel
momento rivolto ai quadretti del suo quaderno di informatica - e
schiuse
leggermente le labbra, probabilmente per dire qualcosa.
«Ehm...scusa,
io non...». Provai a
giustificarmi, ma mi uscirono solo una serie di balbettamenti senza
senso,
perciò mi fermai prima che potessi combinare qualche danno.
«No,
non mi hai chiesto niente di male è che non
mi facevi questa domanda da...be', da...».
Ora
era lui ad essere in difficoltà, perciò
intervenni in suo aiuto, non senza sfoggiare tutto l'astio che avevo in
corpo.
«...da quando hai deciso di non rivolgermi più la
parola, sette anni fa».
Lui
rimase impassibile, intento a fissarmi con
quella sua solita espressione indecifrabile, forse questa volta
leggermente
colpevole. «Sì, tutto bene, Michele è
sempre il solito svitato, ma un maestro
eccezionale, mi chiedo ancora come faccia a sopportarmi e a credere in
me così
ciecamente. Se avessi avuto io un alunno come me, lo avrei sbattuto fuori dal corso
già al termine della
prima lezione».
Non
potei fare a meno di lasciarmi andare ad una
risatina quando vidi la sua espressione sinceramente divertita.
Non
c'era paura di ferirsi, solo tensione...dovuta
ad altro.
«So
che sei diventato cintura nera un paio di
anni fa». "Me l'ha detto mia mamma". Avrei voluto aggiungere,
ma
sapevo che non ce ne sarebbe stato bisogno, ci sarebbe arrivato
tranquillamente
da solo. «Be', complimenti». Abbozzai un sorriso,
ma il nostro discorso stava
virando su un argomento che avrebbe sicuramente risvegliato la
nostalgia
temporaneamente assopita...sarei riuscita a sopportarla?
Lore
mi sorrise, posando per un secondo lo
sguardo sulle mie labbra...sguardo che stranamente non mi
sfuggì e che allo stesso
tempo mi causò un brivido lungo tutta la schiena.
«Bei
tempi quelli passati all'OS insieme,
ricordi? Stressavamo i nostri allenatori fin quando non ci concedevano
di fare
uno scontro anche se eravamo in due corsi diversi».
Tante
immagini confuse mi attraversarono la
mente, immagini di bambini ingenui, legati l'un l'altro da un qualcosa
che non
era semplice amicizia.
«Abbiamo
fatto dannare quei poveretti, ma le
nostre scommesse erano decisamente più importanti. "Se vinco
io mi regali
il tuo peluche, se vinci tu mi dai la merenda"». Dissi
effettivamente nostalgica.
«Hai
sempre vinto tu...».
«Fin
quando non ho lasciato il karate e ti ho
lasciato strada libera». Sospirai a disagio e decisi di
mentire. «La scuola era
diventata troppo pesante».
Lore
non disse nulla, finse semplicemente di
crederci. Quello della nostra amicizia passata era un argomento ancora
troppo
spinoso perché potessimo parlarne senza alcun coinvolgimento
particolare e per
quel giorno, a mio parere, avevamo già detto abbastanza.
Forse
se avessimo adottato quel sistema, se
avessimo continuato in quel modo, poco a poco...Già, forse...
No,
nessun se, non potevo riporre in lui alcuna
fiducia. Chi gli avrebbe impedito di tradirla di nuovo? Nessuno,
assolutamente
nessuno.
«Visto?
Non è stato difficile». Fece lui
soddisfatto, poggiando la testa sul palmo della mano.
Aggrottai
la fronte scettica. «Cosa?». Chiesi
ingenuamente.
«Parlare
senza offenderci né ferirci, da persone
normali, e del nostro irto passato per giunta».
«Era
una prova?». Domandai confusa, con un filo
di voce.
Lore
ci rifletté un attimo. «Uhm, più o
meno...sì».
Sentii
una specie di squarcio scalfire la
superficie del mio scudo, lasciando che portasse la delusione a galla.
In
seguito, dopo attimi interminabili di silenzio, troncammo lì
la discussione e
aprii il mio quaderno di informatica alla prima pagina.
«Cominciamo? Ti avviso
che dovrai partire dall'inizio e che dovrai avere tanta, tanta, tanta
pazienza
con me».
Lore
sorrise avvicinando leggermente la sedia al bordo del tavolo,
per ridurre lievemente le distanze.
«Nessun
problema, abbiamo tutto un quadrimestre
davanti».
Decisamente
no: il mio scudo non era
infallibile.
«Ehi,
che fai?». Saltai sulla sedia, vedendolo
alzarsi dalla sua e sistemarsi su quella accanto alla mia.
Lore
mi guardò stranito. «Ti aiuto, no? Ricordi
il progetto? Io aiuto te, tu aiuti me, ecc. ecc...».
«Non
fare il cretino, sai benissimo cosa
intendevo».
Lore
roteò gli occhi leggermente infastidito.
«Siamo in biblioteca, Giò, non posso urlare per
farmi sentire e in più abbiamo
concordato una tregua, non ti toccherò con un dito anche se
ciò dovesse
richiedere tutto il mio autocontrollo».
Pesai
le sue parole con la dovuta cautela e
decisi che non mi fidavo, l'ammonimento di Davide continuava a ronzarmi
in
testa, ma l'ultima cosa che volevo in quel momento era litigare con
lui, perciò
lo lasciai fare.
I
nostri corpi si toccavano, il suo profumo non
era mai stato più reale e la mia volontà
cominciava a vacillare.
Mi
riscossi con un movimento del capo.
Studio,
Giorgia, studio...la cosa che ami di più
al mondo.
Sì,
dopo di lui.
«Devi
partire dal presupposto che gli algoritmi sono
la base per tradurre un problema in linguaggio comprensibile per la
macchina.
Se capisci questo, allora siamo a buon punto».
Annuii
tenendo lo sguardo incollato sul foglio,
se lo avessi guardato negli occhi avrei potuto dire tranquillamente
addio alla
mia concentrazione.
«Ora
vediamo se sai quali sono le varie
istruzioni e condizioni e a cosa servono».
Ok,
quella la sapevo. Era piuttosto semplice,
avrei potuto mostrare le mie ottime qualità d'apprendimento.
«Il leggi, legge
una variabile, il while, ripete un'azione fino a quando la condizione
non
diventa falsa, il for fa la stessa cosa, il punto e virgola assegna un
valore,
l'if è l'operatore del confronto e lo scrivi è
l'output».
Lo
guardai soddisfatta, ma la sua espressione
smontò il mio entusiasmo all'istante. Stava quasi per
ridere, come se gli
avessi raccontato una barzelletta.
«Non
sono definizioni da dare a memoria, Giò,
devi prima capirle».
«Ma
le ho capite!».
Lore
sollevò un sopracciglio scettico e scrisse
qualcosa sul mio quaderno. «Cosa fa questa
istruzione?».
«Legge
la variabile N». Ripetei saccentemente.
«Sì,
ma da dove?».
Provai
a rispondere ma rimasi con la bocca mezza
aperta per un po', prima di richiuderla stizzita.
«È
questo il tuo problema, studi tutto a
memoria, anche le materie che invece andrebbero capite
ragionando».
Ok,
FORSE non aveva tutti i torti...
«E
pensi di potermi aiutare?». Chiesi mordendomi
un labbro.
Lore
si mise una mano sul cuore e, con aria
solenne, disse: «Lorenzo Belli al suo servizio».
«Che
scemo». Commentai scuotendo il capo.
Passammo
circa mezz'ora in quel modo: lui a
criticare il mio metodo di studio, io a cercare di far valere le mie
ragioni e
un quaderno che veniva riempito di codici informatici astrusi, che
Lorenzo si
premurava di spiegarmi, armato di almeno una tonnellata di pazienza.
Non avrei
mai immaginato che potesse essere un insegnante così bravo,
ma ancora una volta
il detto l’apparenza inganna tornava
a colpire.
Quando
decidemmo che di algoritmi, condizioni e
istruzioni ne avevamo abbastanza, passammo al mio vero tallone
d’Achille e lì,
ci avrei scommesso la pelle, avrebbe perso la pazienza.
Anche qui tutto trascorse abbastanza liscio, finché...
«Sei
distratta». Lore si interruppe nel bel
mezzo della spiegazione di...cosa mi stava spiegando?! Ah
già, era da circa
dieci minuti ormai che stavo fissando il suo volto perfetto, quasi
angelico,
cercando di contare le imperfezioni che vi scorgevo; ma alla fine non
ne trovai
nessuna.
«Cosa?».
Chiesi ingenuamente, sbirciando il
libro per scoprire l'argomento e non farmi trovare impreparata.
Lore
passò da un'espressione quasi seria ad una
divertita. «Non fingere, dai, lo sai che non sei
brava».
«Ma
se ho seguito tutto!». Protestai sforzandomi
di risultare naturale, ma lui roteò gli occhi scocciato e
chiuse il libro,
ignorando il mio tentativo.
«Quindi
se ti chiedo quali tipi di contratto ci
sono me li sai elencare alla perfezione?».
Stronzo!
Rimasi
con la bocca socchiusa, in cerca di
qualcosa da dire, per un po', imprecando mentalmente ad ogni cenno di
soddisfazione che gli si formava in volto. Finché lui non
continuò con la sua
missione "mettiamo Giorgia in imbarazzo" e disse con tono
compassionevole: «È normale, dai, stiamo studiando ininterrottamente da un'ora...». Fece
una breve pausa per poi aggiungere,
con incredibile
modestia: «...e poi anche io mi guarderei in quel modo».
Arrossii
violentemente e distolsi lo sguardo.
«Non ti stavo guardando». Provai a mentire.
«E dai, ancora che neghi? Che ti costa ammetterlo?!». Insisté come avrebbe
fatto un bambino per farsi comprare un giocattolo al supermercato.
«Non
lo ammetto perché non è vero!».
«Ma
non c'è niente di male, su! Anche io ti
guardo spesso di nascosto…a
scuola». La tranquillità con cui lo disse mi
sorprese, come se fosse una cosa normale, perciò lo fissai
interrogativa. «Tu,
mi guardi?». Domandai incredula.
Lore
allargò le braccia in un gesto teatrale.
«Già, solo che io sono più bravo a non
farmi beccare...». Ammise sorridendo,
per poi scoppiare a ridere alla vista della mia espressione sconvolta.
«Che c'è
di strano? Tu sei una ragazza, io sono un ragazzo e a me piacciono le
ragazze...tanto».
«Ma...voglio
dire, non c'è niente da guardare in
me! Specialmente durante le lezioni, in classe nostra ci sono delle
ragazze molto
più belle e degne delle tue attenzioni».
Gli
occhi di Lore diventarono improvvisamente
liquidi e scuri, come attraversati da uno strano impulso. Scosse la
testa. «Il
confronto con loro non regge».
Infatti,
pensai
con un moto di delusione.
«Loro
saranno anche delle gran fighe, ma un tuo
semplice sguardo mi tenta più di cento loro sorrisi
maliziosi».
Ingoiai
il groppo che avevo in gola e cercai di
ignorare il martellamento del cuore contro il mio petto. Non riuscivo a
dire
nulla. Niente. Il vuoto totale.
Accidenti!
«Credevo
di essere già stato abbastanza chiaro
in proposito, ma se hai ancora dei dubbi posso continuare all'infinito
a dirti cosa
penso di te».
Ok,
alt, stop, stop...stop! Non
mi piaceva la piega che stava prendendo quella discussione; la malizia
nel suo
sguardo, nel suo sorriso era diventata fin troppo evidente. La
situazione era
pericolosa e, come se non bastasse, il cervello aveva cominciato ad
elaborare
lentamente le informazioni, perciò mi rimaneva una sola cosa
da fare.
«Facciamo
una pausa?». Proposi speranzosa, cambiando discorso. Lore,
che aveva già lasciato cadere la matita sul tavolo, e si
stava stiracchiando
senza ritegno, disse un “sì” dissimulato
dal terribile suono di uno sbadiglio.
Lo
guardai con aria di rimprovero, ma non
riuscii a trattenere un sorriso: stava mantenendo davvero la sua
promessa, non
aveva fatto altro che aiutarmi e - a parte qualche sguardo tutt'altro
che
disinteressato e la discussione appena affrontata - non era successo assolutamente niente.
Richiusi
libri e quaderni, e ringraziai il Cielo
per quella pausa.
Feci
per voltarmi e raggiungere i distributori
automatici, quando mi sentii afferrare per un polso.
Mi
colse alla sprovvista, per questo gli puntai
lo sguardo addosso, cercando al contempo di isolare la sensazione
destabilizzante causata dal calore della sua mano. Il suo volto era
rilassato e
tranquillo, le sue labbra piegate in uno strano sorriso.
«Torna qui». Disse
tirando dei colpetti alla mia sedia con la mano libera.
«Non
ci penso neanche, abbiamo deciso di fare
una pausa e...». Parlai a raffica, seriamente preoccupata
dalle sue intenzioni,
ma lui mi fermò prima che potessi anche solo finire la prima
frase.
Forse
avevo sbagliato a cantare vittoria...che
il peggio dovesse ancora arrivare?
«Rilassati
Giorgia, non stare sempre
sull'attenti...».
«Fidarsi
è bene, ma non fidarsi è meglio».
Mormorai strattonando il braccio per farmi lasciare andare. Lui parve
arrendersi perché non fece resistenza e né mi
segui quando mi avvicinai con
passo svelto alle macchinette.
Stare
vicino a lui in quel modo, senza quasi toccarlo,
era snervante.
Avevo
bisogno di ossigeno.
Ossigeno
che non avesse il suo stesso profumo.
Inserii
i soldi e feci scorrere velocemente lo
sguardo tra le file delle varie bibite. A dire il vero non avevo
neanche sete,
quella della macchinetta era stata solo una scusa per scappare da lui,
per
riprendermi dalla sua vicinanza, per allontanarmi dal suo...
...corpo.
Quello
che proprio in quel momento comparve alle
mie spalle. Mi pietrificai all'istante, con il dito a mezz'aria sul
tastierino
numerico e il cuore impazzito.
Lo
faceva apposta, non c'era altra possibile
spiegazione!
Ed
era tremendamente vicino, troppo vicino,
praticamente appiccicato a me, con la testa poggiata sulla mia spalla e
la
bocca ad un millimetro dal mio orecchio, che si mosse facendomi passare
una
scossa elettrica per tutto il corpo. «Be', che
prendi?» Domandò visibilmente
divertito dalla mia momentanea paralisi.
Non
avrei mai ceduto...MAI.
Senza
voltarmi, digitai un numero a caso,
sperando che non fosse quello per la fanta (l'unica bibita che proprio
non
sopportavo) e cercai di ignorarlo.
«Qui
c'è qualcuno che sta tremando...».
Continuò
soddisfatto, nel chiaro tentativo di mettermi in difficoltà.
Si piegò per
prendere la bibita al posto mio e mise altri soldi nella macchinetta.
«Freddo?».
No,
caldo, un caldo insopportabile...di lì a
poco sarei andata in iperventilazione.
«Lore,
smettila...».
«Dillo.
Solo una volta».
«Che
cosa? Di che stai parlando?». Finsi.
«Che
mi vuoi, almeno quanto ti voglio io». Lore
prese la sua bibita, ma non si mosse. «Non me l'hai mai detto
e io ho bisogno
di sentirlo da te».
Non
riuscii a nascondere un sussulto, ma la sua
pretesa non riuscii ad accettarla. «Allontanati
immediatamente, non mi
toccare». Sibilai contrita, dimenandomi per liberarmi dalla
gabbia in cui mi
aveva costretta.
«Non
ci penso neanche. Smettila di fare la
santa, dai, dimmi anche tu non sopporti l'idea di starmi lontana, dimmi
che
anche tu prima, su quel tavolo avresti voluto fare altro, che sei
scappata
perché non avresti resistito oltre». Si
fermò, stringendo di più le braccia
intorno alla mia vita. «Fallo».
Lore
che mi supplicava di dirgli una cosa
così...sentimentale, certo a modo suo, ma pur sempre
sentimentale. E credevo
fosse chiaro ormai che l'unico ragazzo che avrei voluto, prima, in quel
momento
e sempre era lui.
«Con
che diritto mi chiedi una cosa del genere
adesso?!». Urlai, rendendomene conto con un secondo di
ritardo. Mi guardai
intorno per verificare la gravità della situazione, ma in
quella zona della
biblioteca non c'era nessuno. «E comunque ti ho detto che mi
dà fastidio che tu
mi stia così appiccicato...».
«Stai
mentendo, ancora». Sentenziò con eccessiva
convinzione; cosa che mi diede ai nervi. «Tu puoi dire
ciò che vuoi, ma ogni
tuo singolo sussulto, ogni tuo brivido...io riesco a
sentirlo». E così dicendo
mi posò una mano sul cuore. Non ebbi il tempo di reagire,
avrei voluto dirgli
tante cose; da "sei tu quello che non ha le palle di dirmi
perché mi
tratti in questo modo" a "levami quelle sudicie manacce di
dosso" - sudicie perché su chissà quante ragazze
si erano posate, sudicie
perché mi facevano stare bene e invece il loro tocco avrebbe
dovuto
innervosirmi - , ma ogni insulto rimase al suo posto.
«Ragazzi,
so che siete giovani e mi dispiace
interrompervi, ma se siete qui per amoreggiare allora andate da
un'altra parte.
Questo non è un posto per dare dimostrazioni pubbliche di
affetto».
Balzai
all'indietro spaventata, dimentica della
situazione in cui mi trovavo, e andando a sbattere contro il corpo di
Lorenzo.
Ero
certa di esser diventata rossa in viso e mai
come in quel momento invidiai l'impassibilità di Lore.
Non
ti sopporto, non ti sopporto, non ti
sopporto!
«Mi...ci
scusi, noi non...». Balbettai a
disagio, cercando di sfuggire allo sguardo perentorio della
bibliotecaria e di
superare la collera di cui mi stavo nutrendo.
«Non
mi pareva di esser entrato in un convento».
Intervenne Lore in mio aiuto, seppur peggiorando la situazione.
«Dovreste
mettere un'insegna».
Gli
piazzai una gomitata sul fianco, che tuttavia
non sortì alcun effetto: anzi, aumentò la sua
sfrontatezza.
«Perdoni
la sua irruenza, quello che voleva dire
è che non stavamo facendo nulla di male e...».
«Manco
stessimo limonando!». Insisté Lore.
«Te
l'hanno mai detto che sei maleducato,
ragazzino?».
«Sì,
risparmi pure la fatica...». Lanciò
un'occhiataccia alla povera malcapitata e mi afferrò per un
braccio. «Andiamo
Giò».
Andiamo?!
Piantai i piedi a terra per resistere
alla sua forza, ricorrendo persino alle unghie per graffiarlo. Nessuno
dei miei
sforzi sembrò scalfirlo.
Al
limite della furia e dell'umiliazione, una
volta giunti nella parte dove il silenzio era sovrano, dovetti seguirlo
senza
dire una parola, continuando a sentire il calore della sua mano sulla
mia.
«Io
con te non ho intenzione di spendere neanche
un secondo in più!». Protestai mentre mi
trascinava via, diretto al
tavolo per raccattare le nostre cose.
«Finiamo
a casa mia». Disse come se non avessi
parlato proprio, come se in quel momento, con quella valanga di rabbia io potessi realmente studiare.
«Ma
mi ascolti quando parlo? Ho detto che...»
Mi
fermai di colpo e Lore dopo di me, alterato.
«Senti Giorgia, non farmi incazzare anche tu, ti ho detto che
non farò niente
di niente, e manterrò la mia parola. Ho ceduto prima, ok?
Non ce l'ho fatta!
Sono umano, non un mostro come credi».
«Ah
davvero? Non ce l'hai fatta...». Commentai
ironica, senza distogliere lo sguardo. Per una volta mi sentivo in
grado di
poter mangiare il mondo. «Non parlare che è
meglio, fai più bella figura».
Con
pochi ultimi passi raggiungemmo l'esterno.
Senza cappotto il freddo era insopportabile, sembrava entrarmi sotto la
pelle,
come tanti spilli di ghiaccio doloranti; ma neanche quella sensazione
terribile
riusciva a cancellare quella causata dalla rabbia cieca, che mi stava
divorando. Lo avrei colpito all'istante se non avessi avuto la mano
congelata. E
nonostante tutto mi
chiedevo perché stessi aspettando che parlasse,
anziché andare a prendere le
mie cose - cappotto in primis - e poi tornare a casa il prima possibile.
Lore
era stato di
spalle fino a quel momento, le mani strette a pugno lungo i fianchi e
le spalle
leggermente incurvate a dimostrare il suo nervosismo. Quando si
voltò verso di
me i suoi occhi bruciavano di tormento, mentre la sua bocca
tremava...se dal
freddo o da qualcos'altro non avrei saputo dirlo.
«Non
è facile, sai?
Dovermi ripetere in continuazione che non posso averti, chiedermi
sempre perché
posso averle tutte ma non te! E non sopporto neanche il fatto di
dovermi
trattenere dal fare quello che veramente vorrei fare...anche
adesso!». Sbottò
urlando, incurante dei passanti che ci guardavano incuriositi e anche
un po'
preoccupati. Non aveva mai alzato la voce in quel modo, non con me.
Cos'era
cambiato all'improvviso?
«È
tutto così maledettamente
snervante, tutto. E la cosa che mi dà più
fastidio è sapere che è stata e sarà
sempre colpa mia. Ma cosa posso fare? Venire da te come se niente fosse
e
chiederti di...». Si bloccò, fissandomi quasi
timoroso. «Perdonarmi...?».
Concluse quindi incerto, scoppiando a ridere. Era una risata di
circostanza, di
quelle da sfoggiare solo per sfogare la tensione accumulata.
Le
conoscevo molto
bene.
Non
avevo mai visto
Lore in quel modo, parlare senza alcun freno, dire tutto quello che gli
passava
per la testa. Avevo sempre avuto l'impressione che qualcosa lo
fermasse, ma in
quel momento ne ebbi la conferma. Quello che era un mio patetico dubbio
divenne
una fondamentale certezza.
«Lore...».
Lo chiamai
preoccupata. Non stava più dicendo nulla. Mi fissava con
sguardo assente.
«Perché
ti sto dicendo
tutto questo?». Scosse la testa, portandosi una mano su un
lato di essa,
confuso.
«Lore...».
Feci un altro
tentativo, questa volta con più convinzione.
Un
passo mio verso di
lui corrispondeva ad uno dei suoi lontano da me.
«Incredibile,
alla
fine ho perso davvero il controllo. Se lo raccontassi a qualcuno non mi
crederebbe...».
«Lore,
mi ascolti?».
Insistei, riuscendo a raggiungerlo quando smise di scappare.
Lui
inchiodò i suoi
occhi ai miei e di fatto rimasero incatenati per parecchio tempo.
Stavo
tremando, ma
nonostante questo non potevo sopportare di vederlo così,
dovevo fare qualcosa.
Alla
fine annuì poco
convinto, lasciandomi avvicinare finché la distanza tra i
nostri corpi fu
talmente sottile da poterci sfiorare.
«Non
devi mai smettere
di essere te stesso, mai. Non lasciare che il giudizio degli altri ti
condizioni...».
Lui
fece per parlare,
ma gli feci immediatamente cenno di far silenzio.
«Non
accetto repliche.
Devi solo dirmi che hai capito». La mia voce tremò
dal freddo, i denti si
scontravano sfuggendo al mio controllo. Mi sarei presa un accidenti, ma
non mi
importava.
«Stai
congelando».
Disse con tono di accusa e nel farlo intravidi uno sprazzo del suo lato
calmo
di sempre, quello che per qualche minuto aveva lasciato posto alla sua
parte
ricca di tormenti a
lungo accumulati.
Lo
guardai di sbieco
e, senza pensarci un secondo di più, mi sollevai sulle punte
e lo abbracciai di
slancio, come volevo fare da troppo tempo.
Gli
legai le braccia
intorno al collo, provando uno strano sollievo nel sentire il suo corpo
scaldarmi. Non il mio cappotto, non la mia sciarpetta...solo lui. Era
come lo
avevo sempre immaginato, un abbraccio tra due amici,
un abbraccio
sentito...da entrambi; sì, perché una volta
superata la sorpresa - credeva che
non avrei mai fatto una cosa del genere di mia iniziativa, e
probabilmente a
buon ragione dopo quello che era successo - percepii distintamente le
sue mani
allacciarsi dietro la mia schiena, spingendomi completamente contro di
lui.
Non
sentii più freddo,
non sentii più niente, niente che non fosse lui. Il profumo
dei suoi capelli mi
entrò prepotentemente nelle narici quando gli sussurrai
qualcosa nell'orecchio,
una frase di cui non sono sicura ad oggi. Gli anni probabilmente
l'hanno
consumata a poco a poco, lasciandola rilegata nel passato, come avrebbe
dovuto
effettivamente essere. Era qualcosa di importante comunque,
perché la sua
risposta da allora è sempre rimasta in cima alla mia lista.
Fu
semplice.
Troppo
breve, forse.
Ma
mi raggiunse in
pieno petto, come una freccia che raggiunga l'esatto centro.
«Grazie».
Mi
staccai quando
ormai ero diventata un pezzo di ghiaccio; be', a dire il vero fu
proprio lui a
sciogliere l'abbraccio, ma dalla sua espressione preoccupata capii che
lo fece
proprio per non ritrovarsi con una compagna di studio ibernata.
Mi
sollevò il mento
con le dita, e posò delicatamente l'indice sulle mie labbra.
Non staccò gli
occhi da me nemmeno per un secondo mentre tracciò con
attenzione e estrema
precisione la linea della mia bocca. La sua era leggermente dischiusa,
e lui
era...lui.
«Va
bene così». Se ne
uscì all'improvviso, ritraendo le dita come scottato.
«Prendiamo le nostre cose
e andiamo a casa»
«Ah...Giorgia?».
Mi
fermò, quando ero ad un passo dalla porta.
Lo
guardai
interrogativa, ma il suo sguardo serio mi lasciò un po'
preoccupata.
«Dimentica
quello che
è successo oggi e soprattutto quello che ho detto, per
favore».
Rimasi
a fissarlo
incredula. Dentro di me stavo già facendo i salti di gioia
per la sua quasi e
strana ammissione di poco prima, ma questa richiesta cambiava tutto.
Poi
ripensai al mese appena passato ignorandolo…e,
di nuovo, alla dolcezza con cui il suo dito mi aveva sfiorato le
labbra, al suo
fiato dolce contro il mio orecchio…
Sentii
Lore esortarmi a sbrigarmi e scossi la
testa aggiustandomi distrattamente la borsa in spalla.
Lo
seguii in silenzio, mentre mi chiedevo cosa
avessi sbagliato, perché all’improvviso fosse
tornato tutto al punto di
partenza, come se quel mese non fosse trascorso.
Nessun
progresso, nessun passo avanti, era stata
solo apparenza.
Lo
amavo ancora, come prima.
O
forse la lontananza me lo aveva fatto amare
ancora di più
Cavolo,
sì, mi era mancato terribilmente…
Durante
il tragitto di ritorno non proferimmo parola
riguardo all'accaduto, eppure io continuavo ad avere mille dubbi; sul
perché
fosse scoppiato, sul suo discorso del non poter fare ciò che
voleva...del non
poter avermi.
Lui
mi voleva.
Ma
questo l'avevo sempre saputo.
Il
problema era scoprire come mi voleva. Solo
sesso? Oppure amore?
No,
non era in grado di amare; me l'aveva detto
chiaro e tondo solo qualche giorno prima. Ma se invece se ne fosse
solamente
convinto? In quel caso si sarebbero spiegate diverse cose, tutti i suoi
atteggiamenti contorti, i suoi cambi d'umore, il suo tormento...
Tutte
cose che sarebbero successe a qualcuno che
reprime troppo a lungo ciò che realmente vuole. Prima o poi
si scoppia, no? Me
l'aveva insegnato bene Rosaria: la sua sconfinata attrazione per
Nicola, che
aumentava di giorno in giorno, la preoccupava; non sapeva per quanto
tempo
sarebbe riuscita a trattenerla dentro di se ed aveva paura che le
potesse
sfuggire qualcosa di troppo quando questa sarebbe diventata
incontrastabile.
Mi
fermai di colpo, Lorenzo ancora davanti a me.
Non
aveva mai negato che mi voleva.
Ma
aveva detto che non poteva amarmi.
Se
fosse stata una semplice scusa, se mi amava
come Rosaria era attratta da Nicola allora...
«Ehi,
che fai?». La sua voce mi riscosse
immediatamente, non era il momento per pensare a quanto di vero ci
fosse nelle
sue parole.
«Niente...ehm...mi
era caduto un bottone». Mi
inventai su due piedi, riprendendo a camminare per raggiungerlo.
Lui
mi aspettò con le mani in tasca e la fronte
aggrottata, lo sguardo ad esaminare i bottoni del mio cappotto.
Sperai
che non si accorgesse della mia
stupidissima bugia, ma il suo sguardo mi disse il contrario; tuttavia
non fece
alcun commento. Si girò e riprese a camminare, questa volta
più piano. Lui
davanti e io dietro.
Una
volta dentro al portone non potei fare a
meno di emettere un piccolo gemito di sollievo nel sentire il
piacevolissimo
calore tipico di un luogo chiuso.
Le
scale del mio palazzo non erano mai state
così calde. O forse era solo una sensazione.
Lore
mi guardò attentamente, dopodiché si morse
un labbro con aria vagamente preoccupata.
«Ti conviene farti subito un bagno caldo, una
volta a casa...».
La
sua raccomandazione mi stupì parecchio.
Probabilmente di norma gli avrei risposto che sapevo cosa era meglio
fare in
questi casi, ma vederlo lì, in quell'esatto frangente,
preoccupato per me,
non me lo fece passare di testa. Non
ci
riuscii.
Annuii
semplicemente, cercando di trattenere il
più possibile un sorriso serrando le labbra; ma lui
sembrò comunque scorgerlo
perché distolse lo sguardo imbarazzato e si avviò
verso l'ascensore con passo
deciso.
Senza
pensarci due volte, lo seguii.
Non
si accorse di me finché non si voltò. Era
sorpreso.
«Prendi
l’ascensore?». Mi chiese con voce
distante, ma sapevo che stava solo fingendo di essere disinteressato.
Feci
spallucce e lo guardai dritto negli occhi.
«Be’, le cose sono cambiate un pochettino, no? Non
ho più paura».
Lui
fece per replicare, ma proprio in quel
momento l’ascensore si fermò davanti a noi. Lore
aprì la porta come se niente
fosse e mi lasciò entrare per prima, dopodiché mi
raggiunse e lasciò che la
porta si chiudesse alle sue spalle; lasciandoci soli in quello spazio
ristrettissimo.
Il
tragitto fino al nostro piano fu stranamente
breve. Eravamo il più distante possibile: lui poggiato
contro la parete destra e
io contro quella sinistra. Lui con le braccia incrociate, io con le
mani nelle
tasche del cappotto. Non ci guardammo neanche, o almeno non
contemporaneamente,
forse perché entrambi sapevamo come sarebbe andata a finire
se l’avessimo
fatto.
L’attrazione
in quel minuscolo spazio era
palpabile, nessuno dei due avrebbe potuto negarla.
Giungemmo
al nostro pianerottolo poco dopo,
sembravano passate delle ore, invece non erano stati che secondi.
Durante
la salita, un malsano pensiero si era
insidiato nella mia testa. Avevo cercato di cacciarlo via, ripetendomi
che non
era una buona idea, tuttavia...
«Lore».
Lo chiamai, appena prima che lui
suonasse alla porta.
Lui
girò leggermente la testa e mi fece cenno di
parlare, sembrava rilassato e tranquillo...il mio opposto. Deglutii
rumorosamente e tolsi le mani dalla maniglia, avvicinandomi di un solo
passo.
«Dopo
il bagno, che ne dici se...». Mi bloccai
da codarda, ma ormai non potevo tirarmi indietro; perciò con
sguardo fermo proseguii
la mia richiesta. «Continuiamo a studiare?».
Nella
mia mente quella proposta non suonava così
stupida, per questo quando sentii la mia voce formularla mi vergognai a
morte
per averla fatta.
Ovviamente
non era per lo studio che volevo
andare da lui, semplicemente non me la sentivo di separarmi da Lore in
quel
modo, dopo quello che era successo quel pomeriggio. Probabilmente
sarebbe stato
meglio rimuginarci su da sola, nel mio letto, ma sentivo il bisogno
fisico di
stargli vicina e non ero stata in grado di reprimerlo.
Lui
sorrise appena - che avesse capito che la
mia era solo una scusa? - e annuì. «Certo, ti
aspetto. Ma ora vai».
«A
dopo». Gli diedi un'ultima occhiata e mi
rigirai per aprire la porta di casa.
«Ah,
Giorgia?».
Lo
guardai interrogativa e attesi. La sua
domanda arrivò poco dopo, più in stile solito
Lore, a dire il vero, e la cosa –
stranamente – mi sollevò. «Sicura di
voler studiare?».
Sbuffai
fingendomi irritata ed aprii la porta
ignorandolo, quando la richiusi sentii la sua leggera risata aleggiare
ancora
per le scale e ovviamente mi guardai bene dal permettergli di captare
anche la
mia, che risuonava in sincrono con la sua.
Quando
uscii dal bagno mi sentivo rigenerata.
Prima
che ricorressi alla paradisiaca acqua
bollente, avevo le gambe praticamente paralizzate e la pelle
più fredda di un
cubetto di ghiaccio, tanto che mia madre aveva persino pensato di
portarmi in
ospedale per far riprendere la circolazione. Proprio a lei chiesi di
prepararmi
un tè caldo e nel frattempo indossai qualcosa di morbido e
comodo.
«Dove
vai?». Mi domandò la mia adorabile mamma,
una volta finito di bere.
«A
casa di L...». Mi fermai appena in tempo per
correggermi. «Rossella».
Mia
madre mi guardò scettica e dalla sua
espressione capii che di lì a poco sarebbe iniziato il suo
interrogatorio. «A
fare cosa?».
«Perché
ti interessa? Sputa il rospo».
«Lorenzo...».
A sentire quel nome sentii il tè
tornarmi su. «Tuo padre dice che vi vedete».
Quell'uomo...!
Farsi i cazzi suoi? E dire che
ero stata contenta della nostra conversazione…
«È
solo per quel progetto, tra di noi non c'è
assolutamente nulla».
«Tuo
padre non la pensa così». Ribatté lei
fissandomi intensamente, con quel tipico sguardo accusatorio di chi ti
sta
rimproverando.
«Tuo
padre dice, tuo padre pensa, tuo padre
fa...ma non sai pensare con la tua testa?».
Lei
fece per dire qualcosa indignata, ma non
gliene diedi il tempo perché troncai il suo discorso sul
nascere.
«Sta'
tranquilla, gli standard di Lore sono
altri».
E,
senza aggiungere altro, me ne andai.
Alla fine
dei conti, la decisione di andare da lui non si dimostrò poi
così stupida.
Rimanemmo concentrati per tutto il tempo, ci rilassammo con qualche,
sporadica
battutina di tanto in tanto e lui non mi sfiorò neanche per
sbaglio, mentre
alla discussione avvenuta fuori dalla biblioteca non accennammo nemmeno
di
sfuggita. Sembravamo davvero due compagni di classe che stavano
studiando per
meri scopi scolastici. Incredibile, vero? Noi, che a stento riuscivamo
a non
saltarci addosso, eravamo riusciti a resistere.
Avrei
mentito a me stessa se non avessi detto
che la tentazione di toccarlo, di farmi più vicina, era quasi riuscita a
sopraffarmi, e non solo una
volta; ma era bastato che continuassi a ripetermi che non dovevo farlo:
le
ferite che mi aveva inflitto si erano appena rimarginate e se mi fossi
riavvicinata al fuoco avrei rischiato di farle riprendere a sanguinare.
Al solo
pensiero rabbrividii, ma dovetti confessare che dopo la sua
dimostrazione di
debolezza non ero poi così preoccupata.
Nella
nostra seconda parte di studio ci eravamo
concentrati solo su di lui. Apprendeva in fretta, ma si distraeva ogni
tre per
due, quando per un messaggio, quando per prendere da bere,
perciò non fu molto
semplice aiutarlo.
«È
tardi». Annunciai interrompendo la
spiegazione degli ausiliari inglesi – sì, era
ancora a quel punto, se ve lo
state chiedendo – poiché mi ero accorta che la sua
concentrazione era
drasticamente diminuita. Inutile perdere tempo. «Ci vediamo
domani, ok?».
Proseguii senza mai guardarlo, ma comunque in attesa che dicesse
qualcosa.
Mi
guardò senza nessuna particolare inflessione
del viso, e quel silenzio mi stava ormai uccidendo, quando sentii la
sua sedia
spostarsi. «Ok». Rispose in tono piatto.
«Domani ti chiamo e ci mettiamo bene d'accordo».
«Ma
ci vediamo a scuola...». Ribattei confusa,
guardandolo con la coda dell'occhio mentre recuperava il cellulare da
sopra il
letto e me lo porgeva. «Domani ho delle gare a Como, ma
dovrei tornare nel
primo pomeriggio. Scrivimi il tuo numero così so dove
poterti rintracciare».
«Gare?».
Gli feci eco, prendendo con titubanza
il suo telefono. Realizzai con un attimo di ritardo il vero senso di
quella
parola. «Ma scherzi? Tornerai stanchissimo! Possiamo vederci
dopodomani,
abbiamo ancora tempo...».
Lore
mi interruppe leggermente infastidito. «Non
sono un novellino dello sport, Giò, e non devi preoccuparti
per me, conosco i
miei tempi di ripresa. E poi…». Si interruppe, in
cerca delle parole giuste. «Come
si dice? Non rimandare quello che puoi fare oggi al
domani...?».
Non
riuscii a fare a meno di ridere sentendo
quella mezza gaffe. «Teoricamente sarebbe non
rimandare a domani quello che
potresti fare oggi...ma comunque, sei libero di fare come
vuoi». Digitai
velocemente il numero e gli riconsegnai il cellulare. Nel farlo, le
nostre mani
si sfiorarono e un brivido partì da quel punto, per poi
percorrermi tutto il
corpo…dalla testa ai piedi.
Ritirai
la mia come scottata e feci per uscire
dalla stanza, ma lui mi fermò per un braccio. «Non
scappare così». La sua voce
era implorante, le sue labbra si mossero appena nel pronunciare quella
richiesta. Un attimo dopo, quando ormai temevo il peggio,
allentò la presa e mi
sorrise. «Ti faccio uno squillo così puoi salvarti
il mio numero».
Annuii
brevemente e provai a mostrarmi
tranquilla, sebbene dentro di me provassi solo agitazione.
«Fatto».
Annunciò mettendo in tasca il
cellulare. «Allora ciao».
«Ciao».
Dissi in un sussurro impercettibile.
Per
qualche ragione non riuscivo a muovermi di
lì, volevo farlo, ma la sua immagine davanti mi inchiodava
sul posto. «A
domani». Presi un profondo respiro, scollai in qualche modo i
piedi da terra e
mi incamminai in direzione della porta.
«Aspetta».
Mi fermò nuovamente lui.
Mi
bloccai incerta e mi voltai lentamente, trovandomelo
incredibilmente vicino.
Oh
porca
pupazzola.
Quelle
sue apparizioni improvvise mi avrebbero
uccisa un giorno.
E
la situazione precipitò ancora di più quando
lo vidi piegarsi per avvicinarsi pericolosamente al mio viso.
No,
non poteva infrangere il nostro patto così.
Non dopo che avevamo raggiunto quell'appena precario equilibrio.
Fermalo.
Mi
consigliò una voce nella testa, ma mi sembrò
talmente lontana che non ci feci neanche caso.
Ora
o mai più. Insisté
inutilmente,
perché ormai non c'era più distanza tra di noi.
Le sue labbra erano ad un
millimetro dalle mie, i suoi occhi inchiodati ai miei e il suo profumo
irrimediabilmente mischiato al mio.
Addio
buon senso,
pensai chiudendo gli
occhi, abbandonandomi all'istinto e alle emozioni.
Ma
contro ogni logica, le nostre bocche si
sfiorarono a malapena, e la sua si posò in un morbido, lungo
bacio sulla mia
guancia.
Spalancai
gli occhi e trovai i suoi chiusi.
Le
sue labbra scottavano sulla mia pelle e la
loro ritrovata consistenza abbatté senza alcuna resistenza
gli argini che avevo
costruito intorno a me.
Potevo
quasi sentirli sgretolarsi senza che io
potessi fare nulla e quando infine si staccò da me, la
sensazione di poco prima
rimase intatta.
Lui
mi sorrise, ma dentro di me - in quel
momento - c'era un vortice di emozioni inarrestabile, perciò
mi limitai a
fissarlo assente.
«Grazie
Giorgia, davvero, per tutto».
Senza
dire una parola, poi, raggiunsi
meccanicamente la porta, come se mi muovessi senza pensare;
perché la mia mente
era troppo occupata a ripetere all'infinito il suo nome.
Lorenzo.
Lorenzo. Lorenzo. Lorenzo. Suonava
così bene...
Mi
chiusi la porta alle spalle e aprii quella di
casa mia senza veramente rendermene conto. Salutai mia madre e
finalmente mi
rinchiusi in camera. Cercai velocemente il cellulare e salvai il suo
numero, dopodiché scrissi un messaggio telegrafico a mia
cugina.
Help.
Non credo che mi passerà
mai.
Sono
letteralmente
fottuta…felicemente cotta!
L’indomani
arrivai a scuola insanamente felice,
e ancora prima del solito.
Sapevo
che Lore sarebbe stato assente, ma lo
avrei comunque rivisto quel pomeriggio.
Il
nostro rapporto stava finalmente cambiando,
era inutile negarlo, mi aveva persino dato dimostrazione di qualche
gentilezza;
due "grazie" in un pomeriggio non erano pochi per uno come lui.
Rischiavo
di ricaderci e alla grande, ma quella
volta sapevo che sarebbe stato diverso.
«Noto
con piacere che sei sana e salva». Fece la
sua comparsa Davide, trascinandosi fino al suo banco con la solita aria
assonnata delle 8.10 del mattino.
«E…felice». Aggiunse incredulo.
«Già
e chissà ancora per quanto». Mormorai con
voce appena udibile, prima di concentrarmi sul mio amico, al quale
rivolsi il
massimo sorriso che riuscii a fare. «Buongiorno anche a
te, Dav».
Davide
mi guardò perplesso, quindi lasciò cadere
la cartella con un tonfo pesante, e per finire si sedette accanto a
me…accompagnando il tutto con qualche mugolio di
soddisfazione. «Ahia, non ti
chiedo cosa avete fatto perché so che se ne andrebbe tutta
la giornata, perciò
andiamo dritti al punto: ti ha baciata?».
Quella
domanda improvvisa mi colse impreparata,
perciò non riuscii ad impedire che almeno una briciolo di
rossore mi
imporporasse le guance. «Davide!». Lo richiamai
indignata.
«Che
ho detto adesso?!».
Lo
fulminai con lo sguardo finché non recuperai
la mia apparente tranquillità interiore.
«Sì…». Ammisi con un sospiro
di
rassegnazione, ma prima che Davide potesse fare qualunque insinuazione,
per
sfatare ogni dubbio aggiunsi: «…sulla
guancia».
Davide
mi fissò stralunato per un po’,
dopodiché
cominciò a ridere di gusto. «E fammi indovinare,
tu lo avresti voluto da
un’altra parte!».
«Non
c’è niente da ridere! E comunque ci siamo
anche abbracciati, se è per questo. È stato un pomeriggio…intenso».
Lo rimproverai con una vena di disperazione nella voce e lui si
fermò
immediatamente, prendendo a guardarsi intorno furtivo.
«È chiaro che stai
cedendo, di nuovo».
Marcò quella
parola con una velata ironia, probabilmente nel tentativo di
alleggerire il
reale peso della situazione. «Dobbiamo fare
qualcosa». Constatò quindi serio,
mettendosi a pensare.
«Martina
dice che devo essere più forte, che
prima o poi – se lo continuo ad evitare – mi
farà lo stesso effetto di un
moscerino, ma io non credo sia così…non riesco a
controllarlo, Dav e…». Feci
una pausa, sferrando la battuta finale,
arrivando dritta al nocciolo della questione. «E se invece
non facessimo nulla?
Se lasciassi gli eventi fare il loro corso?».
I
miei erano i discorsi di una pazza masochista.
Dovevo sembrare matta ai suoi occhi, matta da legare, e la sua
espressione
confermò la mia ipotesi.
«Soffrirai». Disse semplicemente.
Scossi
la testa. «È questo il punto, Dav. Ci
sono cose che non posso raccontarti perché
gliel’ho promesso, cose che
probabilmente ti dirà lui stesso, ma…».
Non riuscii a trattenere l’ennesimo
sorriso. «Sento di potercela fare questa volta».
Quello
che mi aveva detto non poteva essere niente,
voleva certamente dire qualcosa.
Ne ero certa: non erano parole che una persona disinteressata mi
avrebbe mai
rivolto.
«Sei
solo innamorata». Sminuì il tutto Davide e
inizialmente
non badai molto a quella affermazione, ma poi l’analizzai con
attenzione e ci
ricavai un indizio importante. «Stai parlando con cognizione
di causa». Lo
accusai, prima che suonasse la campanella e tutti i nostri compagni si
riversassero nell’aula come una mandria di buoi, mandando in
fumo i miei
propositi.
Davide
sembrò leggermente in imbarazzo – cosa
assolutamente fuori dal normale – e ovviamente
approfittò della situazione per
non rispondere.
«Non
credere che finisca qui». Lo minacciai
tirando fuori i libri, mentre nella mia testa si affollavano migliaia
di
pensieri su come poterlo costringere a vuotare il sacco.
Se
c’era una cosa che avevo capito in quei tre
mesi di scuola, questa era che Davide era una persona fondamentalmente
molto
riservata. Aiutava sempre gli altri, se poteva, ma non parlava mai di
se stesso,
non cercava mai aiuto.
L’unica
persona con cui questo suo lato
caratteriale veniva meno era proprio Lorenzo.
Da
quel poco che li avevo sentiti dirsi mi erano
subito sembrati molto uniti: era stata una sensazione particolare, a
pelle,
diversa da tutte le altre, come se a legarli ci fosse qualcosa di
invisibile
che solo loro erano in grado di comprendere. E io non avevo la minima
intenzione di intromettermi in quel rapporto così intenso, fatto più di sguardi
che di parole, di un qualcosa che
ancora io non avevo trovato per me.
Dopo
il tentativo fallito dell'ultima volta in
biblioteca, ci accordammo per vederci direttamente a casa sua,
così da evitare
interruzioni e sbraitamenti di vecchie bibliotecarie zitelle.
Ovviamente queste
furono le parole di Lorenzo, io ancora mi vergognavo a morte se
ripensavo a
quella pessima figuraccia del giorno prima. Meglio rimuovere quel
pomeriggio….tranne la parte finale, ovvio, quella era stata
fin troppo
perfetta.
Alle
5 del pomeriggio, il cellulare squillò
annunciandomi che era tornato dalle gare di karate; indossai
velocemente un
jeans e una maglietta, da sostituire a quell'orrenda tuta che portavo
sempre in
casa, ed uscii di casa sempre con lo stesso insistente martellamento
del cuore.
Sarei
mai riuscita a vederlo senza provare
nemmeno un pizzico di paura?
Bussai
alla porta un paio di volte prima che mi
venisse ad aprire e quando me lo trovai davanti mi sentii quasi male: i
capelli
biondi e spettinati erano leggermente bagnati, le labbra tirate in una
linea
sottile e gli occhi...be', quelli erano sempre il colpo di grazia.
Indossava
solo una canottiera sopra a un pantalone nero della tuta e mi
meravigliai nel
realizzare che trovavo perfetti anche quelli addosso a lui...io che non
li
sopportavo,
Ormai
dovevo esserci abituata, eppure ogni volta
mi sorprendeva...era come se non riuscissi a capacitarmi dell'esistenza
di un
ragazzo così fisicamente perfetto.
«Ehi».
Mi salutò riportandomi alla realtà. Fosse
stato per me, sarei rimasta lì a contemplarlo all'infinito.
«Ciao».
Risposi distogliendo lo sguardo un po'
in imbarazzo. Mi aveva sicuramente colta a fargli la radiografia
completa.
Lore
sorrise e si spostò di lato per farmi
passare. «Ti decidi ad entrare o vuoi studiare qui nelle
scale?».
Lo
guardai male e lo superai, dopodiché sentii
richiudere la porta alle mie spalle.
«Come
sono andate le gare?». Gli chiesi per
rompere il silenzio, una volta giunti in cucina e sistemati i vari
libri sul
tavolo.
Lui
mi guardò un attimo confuso, come per
chiedersi il motivo di quella domanda così improvvisa e
assolutamente non
disinteressata, poi mi diede le spalle e prese due bicchieri. «Bene, come
sempre». Aprì il frigorifero e
prese una bottiglia di succo all'arancia. «Vuoi?».
Mi chiese mostrandomela.
Annuii e, non senza chiedermi il perché di tanta gentilezza,
risposi: «Sì,
grazie».
Mentre
versava il liquido nei bicchieri non
potei fare a meno di pensare che fosse strano quel giorno,
più distaccato e
poco propenso al dialogo. Normalmente avrebbe già cominciato
con le sue
battutine maliziose, e invece, in quel momento sembrava con la testa da
un'altra parte. Che fosse successo qualcosa alle gare?
Lore
si sedette stancamente e, dopo aver
sorseggiato la sua bevanda, finalmente sollevò lo sguardo su
di me. «Allora,
oggi cosa vuoi fare?».
«Credo
sia il caso di iniziare con diritto...».
Risposi titubante. Lui annuì brevemente e prese il libro,
aprendolo alla pagina
in cui eravamo rimasti. «Ti ricordi quello che abbiamo
studiato l'altra
volta?». Domandò, più per
curiosità che per sfiducia.
Con
una certa soddisfazione, piegai le labbra in
un sorriso affermativo. «Certo».
«Bene,
allora andiamo avanti con le cause della
nullità dei contratti».
«Non
mi fai domande per vedere se ti ho detto la
verità?». Chiesi confusa dalla sua fretta di
andare avanti.
Lore
puntò lo sguardo su di me e con ovvietà
disse: «Andiamo, è di te che stiamo
parlando...ovvio che tu abbia studiato». Si
interruppe e sorrise più apertamente. «A meno che
tu non voglia sentirmi
perdere in elogi per te».
Arrossii
dall'imbarazzo e scossi la testa.
«Muoviamoci».
Era
trascorsa appena mezz'ora quando il mio insegnante
cominciò a tempestarmi di
domande sull'argomento appena spiegato. Per l'ennesima volta mi sentii
rimproverare del fatto che studiassi a memoria e per l'altrettanto
ennesima
volta mi difesi dicendo che alcune materie potevano essere studiate
solo a
memoria. Continuammo a battibeccare un po', finché Lorenzo
non si stancò.
«Mettiamola così. Quanto studi per
italiano?».
Ci
misi qualche istante di troppo per
rispondere, troppo impegnata a chiedermi il perché di quella
domanda. «Poco».
Lui
annuì soddisfatto. «E per le altre materie?
Diritto, per esempio».
«A
volte anche pomeriggi interi». Ammisi
cominciando a capire dove volesse arrivare.
«Visto?
Studi a memoria solo le materie che non
ti piacciono».
Provai
a ribattere, ma non ci riuscii. «Mi stai
dicendo che devo farmele piacere, tra le righe?».
Lore
richiuse il libro soddisfatto. «Esatto».
«Impossibile,
diritto è una materia odiosa».
«Interessante».
Mi corresse lui
puntigliosamente.
Incrociai
le braccia al petto e lo guardai
storto. «Abbiamo davvero intenzione di stare qui a discutere
di cosa è noioso e
cosa non lo è? Ognuno ha i suoi gusti».
Lore
alzò le braccia arrendendosi. «Sì,
signora». Proprio in quel momento il suo cellulare,
inseparabilmente posato sul
tavolo, ad un centimetro da lui, vibrò facendo tremare
tutto. Entrambi
guardammo d'istinto il telefono e, dopo aver visto il nome lampeggiare
sullo
schermo, si
alzò in piedi. «Scusa, devo
rispondere».
Per
quanto fosse lontano da me, ero riuscita a
leggere chiaramente il nome in questione, e un irreprimibile moto di
gelosia mi
attraversò da testa a piedi, annidandosi all'altezza stomaco.
Bambolina.
A
parte la ridicolezza di quel nomignolo,
sdolcinato e inusuale per uno come Lorenzo, era chiaro che fosse una
delle
ragazze con cui si intratteneva piacevolmente nel tempo libero.
Rimasi
a picchiettare nervosamente le dita sulla
superficie del tavolo per un tempo indefinito, dopodiché,
senza volerlo - o
forse sì? -, complice un silenzio assoluto, riuscii a captare
alcuni sprazzi
della conversazione.
«No,
Laura, sabato non posso...te l'ho detto ho
un impegno». Una pausa, in cui Laura
probabilmente rispose e poi ancora
la sua voce, questa volta più scocciata e infastidita.
«Non
cominciare anche tu con la storia della
fedeltà e stronzate varie, perché le cose erano
chiarissime fin dall'inizio:
solo sesso. Conosci il significato della parola o te lo devo
spiegare?».
Perfetto,
un'altra ragazza caduta nella trappola
del ragazzo bello e stronzo da cui non si poteva ricavare niente di
serio.
Illusa.
Esattamente come lo ero stata io...
Sentii
la rabbia salire e poi un'ultima frase
conclusiva. «Mi dispiace, non son sono in cerca di storie
serie».
Rimasi
impietrita a quelle parole.
Niente
storie serie, ok, non era una novità, no?
Accidenti, quel suo discorso, il pomeriggio prima, mi aveva
irrimediabilmente
deviata.
Qualche
secondo dopo rientrò in cucina, un po'
turbato a dire il vero, dopodiché mi guardò
freddamente. «Hai sentito».
Sentenziò, come se fosse ovvio.
Ma
mi si leggeva tutto così lucidamente in
faccia? Forse avrei dovuto cambiarmela.
Era
inutile mentire. «Non era mia intenzione».
Mi giustificai senza troppa convinzione.
Lui
rimase con lo sguardo incollato al mio per
quello che mi parve un tempo interminabile, durante il quale temetti di
poter
affogare nei suoi occhi. Se dovesse succedere, vi prego di non
salvarmi, pensai
ipnotizzata.
«Non
l'avevo illusa io, ha fatto tutto lei».
Mi
riscossi con un'alzata di spalle. «Non devi
darmi spiegazioni».
«E
allora, se le cose stanno davvero così, se non te ne frega nulla, non guardarmi come se ti avessi fatto
il più grande dei torti, per favore».
Era
quello ciò che aveva visto?
«Non
l'hai fatto, per caso?». Ribattei acida,
per ricordargli che di torti me ne aveva fatti eccome, uno
più grave
dell'altro.
«Sì,
ma non è a quello che mi riferivo,
lo sai». Fece una lunga pausa, che io interruppi bruscamente.
«Risparmiati
queste cavolate delle sei meno un
quarto del pomeriggio»
Lore
sembrò colto da un'illuminazione
improvvisa. «Non puoi pensare davvero che sia lo stesso. Con
te è stato
diverso, di loro non me ne è mai fregato niente».
«Ah,
sì?». Alzai leggermente il tono di voce.
«Hai una bella faccia tosta ad affermare una cosa del genere,
dopo tutto quello
che mi hai fatto passare. Se a me ci tenevi e mi hai trattata in quel
modo, non
oso immaginare cosa hanno dovuto subire quelle poveracce di cui non ti
importa
nulla».
«Giorgia...».
Provò a calmarmi, ma di quel
discorso ne avevo già abbastanza.
«Possiamo
studiare?».
«No».
«Lasciamo
da parte rancori, passato e blablabla,
ricordi?».
Lore
schiuse la bocca per parlare, ma proprio
quando sembrò sul punto di cambiare idea, chiusi libri e
quaderni con una
rabbia forse spropositata, quasi improvvisa e non accumulata.
«Anzi, meglio
terminare per oggi».
Ero
così furiosa, che non avrei sopportato un
secondo di più in sua compagnia senza scoppiare; in quale
modo ancora non lo
sapevo, e questo era il problema maggiore.
Lorenzo
era imprevedibile e per me, che ero
stata sempre una maniaca del controllo, costituiva un grosso limite. Un
limite
che non sarei mai stata in grado di superare.
Per
la ventesima volta in sole due giornate di
studio afferrai la borsa e feci per uscire dalla camera senza dargli
alcuna
spiegazione. In fondo era quello che aveva sempre fatto lui, no?
Nessuna
spiegazione, solo gesti sconnessi, insensati, senza nessuna ragione di
esistere.
«No».
Mi fermò, con voce decisa e perentoria.
Non suonò come una supplica, a dire il vero, più
come un ordine incontrollato.
E
come se mi controllasse con dei fili
invisibili, mi bloccai incapace di muovermi; rassegnata.
«Rimani...».
Aggiunse con lo stesso tono secco e
lo sentii avvicinarsi con pochi passi. Ero ancora di spalle quando
sentii le
sue mani intrecciarsi saldamente sulla mia pancia, e automaticamente il
mio
cuore fece un salto di 50 metri. Dritto fino in gola, come il suo
profumo...ormai quanto di più lontano potesse esserci da un
semplice ricordo.
Era reale, non era un sogno. «Per favore».
«Non
puoi chiedermelo sul serio». Commentai con
stizza - nascosta un po' da una falsa ironia - pur non riuscendo ad
allontanarlo.
«Invece
sì». Insisté lui, stringendomi ancora
di
più. Eravamo uno contro l’altro e non solo
fisicamente, per una volta potevo
dire che non c'erano barriere tra di noi.
La
realizzazione fu immediata. Che il suo scudo
avesse perso definitivamente efficacia?
«Giorgia,
io non voglio più giocare, non se so
di aver perso la partita in partenza». Sentii il suo mento
appoggiarsi
delicatamente sulla mia spalla, le sue mani risalire fin sotto al seno
e il suo
respiro più accelerato che mai. Sussultai inevitabilmente,
era troppo tempo che
non mi toccava in quel modo.
«La
vita non è un gioco, Lore». Dissi scettica.
Non capivo dove volesse andare a parare, ma non volevo neanche
provarci,
sinceramente.
Ero
troppo stanca. Stanca e delusa da lui.
«Se
non è un gioco cos'è, allora?». Chiese
con
una vena di tormento, un'impercettibile incrinatura nella voce che mi
diede i
brividi. «Perché siamo qui a discutere quando
avresti potuto essere mia?».
Feci
per voltarmi, ma ero in trappola. Complici
la porta e la sua forza.
«Non...».
Feci in tempo a dire una singola parola,
tre misere lettere accozzate insieme, senza più alcun
significato, perché il
resto del mio pensiero venne soffocato dalle sue labbra; inghiottito
completamente dalla pazzia. Perché era pura follia quella.
Mi aveva voltato il
viso con una mano, portandolo esattamente nella sua direzione, alla sua
altezza
e sentire le sue labbra indugiare sulle mie dopo tutto quel tempo fu
come
trovare una parte di me stessa che avevo lasciato andare.
Non
mi aveva mai baciata in quel modo, era come se fino a quel momento
fosse stato
trattenuto, bloccato...spaventato da qualcosa. Ero sempre
più sicura che il
giorno prima si fosse spezzato qualcosa
in lui, perché lì, in quel momento, non poteva
altro che essere
se stesso. Aveva lasciato andare tutto. Lo sentivo dalla
leggera
pressione delle sue mani, dalla disperazione delle sue labbra, in ogni
singolo
angolo della sua pelle.
Non
fu comunque un bacio passionale, come uno di
quelli che ci eravamo scambiati abusivamente nelle varie aule vuote
della
scuola, tutt'altro. Ma
era come se
i sentimenti che
provavo per lui fossero
lì, davanti a me, bisognosi di rivelarsi e di trovare
corrispondenza. E per una
volta li sentii davvero corrisposti, dal primo all'ultimo.
C'era
tristezza.
C'era
tormento.
C'era
pentimento.
C'era...amore.
La
prima cosa che vidi quando riaprii gli occhi
fu un azzurro vivido. Acceso. Quello del suo sguardo.
Le
sue mani mi incorniciavano il viso, le sue
dita asciugavano quelle stupide lacrime sfuggite al mio controllo.
«Cosa
vuol dire tutto questo?». Chiesi confusa,
il suo sapore mi stava ancora stordendo e la sua bocca era ancora
troppo
vicina.
«Tu
cos'hai sentito?».
La
sua domanda mi spiazzò. Che non fosse stata
una mera sensazione quella di poco prima? Anche lui aveva sentito quello?
Balbettai
confusa, abbassando ripetutamente lo
sguardo.
Non
potevo dirgli la verità. Se mi fossi
sbagliata?
«Probabilmente
solo quello che avrei voluto
sentire».
Ero
io la stronza in quella situazione, ma non
me ne importava. Era il suo turno di soffrire.
Lui
scosse la testa, lasciandomi andare, ma
senza allontanarsi troppo. «Fantastico, siamo arrivati al
punto in cui hai
paura di me?».
«Non
è di te che ho paura, ma di quello che
provo». Sussurrai sincera. Ormai anche un cieco si sarebbe
accorto di quello
che provavo per lui, era inutile girarci intorno.
Non
disse nulla per almeno 60 giri di lancette
di orologio, li contai perché quel silenzio mi stava
uccidendo.
E
alla fine mi uccise davvero.
«E
se ti dicessi che non devi averne più?».
Sgranai
gli occhi incredula.
«Aspetta,
aspetta...non dire nulla». Mi posò un
dito sulle labbra, un secondo prima che le schiudessi per parlare.
«Ti posso
assicurare che hai capito perfettamente, ma non voglio nessuna
risposta».
Indietreggiò
ancora di qualche passo,
lasciandomi finalmente lo spazio per pensare a quello che stava
succedendo.
Mi
aveva davvero detto tra le righe che quello
che provavo per lui non era una cosa a senso
unico?
Ma
soprattutto, gli stavo davvero credendo?
«Un
passo alla volta, non c'è fretta».
Accennò
un sorriso timoroso, che mi causò una strana stretta al
cuore. «Ricominciamo
dall'inizio».
«Se
è uno scherzo, non fa ridere». Asserii
sempre più convinta di quella ipotesi, fino a quel momento
custodita
gelosamente nella mia testa.
Lore
allargò il sorriso. «Ascolta, so che non
hai nessun motivo per fidarti di me, ma dammi una
possibilità. Posso far
funzionare tutto, lo so».
«Perché
così all'improvviso?».
«Perché
se dopo tutti questi anni non sono
riuscito a cancellarti dalla mente, non vedo come potrei riuscirci per
il resto
della mia vita».
Aggrottai
le sopracciglia perplessa.
«Ti
spiegherò tutto, te lo prometto, ma non
adesso». Fece una pausa. «Non qui».
Sospirai
incerta. Leggevo speranza nei suoi
occhi, era impossibile non vederla. Ma potevo davvero sopportare di
vederla
infrangere? Di farla scomparire...
«Sono
confusa...». Mormorai raccogliendo la
borsa caduta a terra dall'adrenalina pre-durante-post bacio.
«Molto».
Lui
annuì. «E ti capisco, completamente, hai il
diritto di prenderti tutto il tempo che vuoi. Non dovrai fare
assolutamente
niente, tu».
«Non
mi stai prendendo in giro, vero? Perché se
così fosse…». Domandai prevenuta, ma
lui precedette il resto della mia frase.
«Io
sono quello che vedi, Giorgia...». Si passò
una mano tra i capelli, le labbra ancora rosse e umide a causa dei baci
e dei
morsi. «Sul fatto che non sarò mai uno di quei
principi azzurri delle fiabe non
mentivo».
Sollevai
le spalle, per niente sorpresa. «Ho
smesso di credere alle fiabe anni fa, quando scoprii che la storia di
Cenerentola
non era così bella come pensavo e feci una mia
personalissima teoria a
riguardo».
Lore
ridacchiò. «Me la racconterai un giorno,
questa teoria?».
Non
riuscii a trattenere un sorriso. Ancora
prima di sentirlo, mi piegò gli angoli della bocca.
«Se ne hai voglia...».
«Ho
un sacco di
tempo da recuperare». Disse piano, nostalgico,
ma comunque deciso.
«Non
te ne sei dimenticato, vero?». Chiesi in un
moto di fiducia sconsiderato, forse.
Lui
capì subito la mia domanda. «Della
promessa…?».
Annuii
debolmente.
Lore
mi guardò serio, con una determinazione mai
vista prima e una sincerità ancora più disarmante. «Mai, neanche per un
secondo».
E
a quella risposta avrei potuto aggiungere
altro?
Lo
amavo. Punto.
Note:
Scusate
tanto l'eccessivo ritardo, questa volta vi ho fatto aspettare davvero
troppo. Il motivo principale è stato, come sempre, la
scuola (quanto la odio!) ma non nego che con questo capitolo ho cercato
di raggiungere il massimo; perciò la scrittura è stata
più lenta e ho modificato più e più volte diverse
parti...alcune completamente! Alla fine sono abbastanza soddisfatta del
risultato e spero di essere riuscita nel mio pazzo intento. Mi auguro
davvero che vi sia piaciuto leggerlo almeno un decimo di quanto
è piaciuto a me scriverlo :)
Riguardo alla storia, già il titolo dice tutto: da questo punto in poi le cose si fanno serie, cambieranno radicalmente
e ci avvieremo alla parte finale della storia. Era proprio qui che
volevo arrivare e per questo sto saltellando dalla gioia per tutta la
casa (metaforicamente XD). Un capitolo completamente incentrato
su Lorenzo e Giorgia; certo, non è quello che si definisce zuccheroso o dolce
- e non credo di arrivare mai a scrivere qualcosa di veramente smielato
su di loro - ma si sono dette tante cose importanti e la verità
è ormai sul punto di esser rivelata :)
Ringrazio tutti quelli che hanno
recensito il capitolo precedente, quelli che hanno aggiunto la storia
alle seguite - siete tantissimi! -, ricordate e preferite.
Questi numeri per me sono un grande traguardo e, comunque vada alla fine, sono contentissima di averlo raggiunto.
Mi scuso per le recensioni, ma proprio non ce l'ho fatta e non credo di farcela a rispondere nell'immediato.
Spero di non fare un torto a nessuno :(
Vi ringrazio comunque per tutte le belle
cose che scrivete, adoro leggervi, probabilmente più di quanto
voi adorate leggere la mia storia...XD
Ok, mi sto dilungando troppo. Vi mando un grosso bacio e un invito alla prossima!
Veronica
|
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Capitolo 14 *** Alle sei all'angolo. ***
Capitolo 14
Capitolo 13: Alle sei all'angolo
L'indomani arrivai a scuola
in preda - contemporaneamente - al panico assoluto e ad una
felicità praticamente impossibile da controllare.
Due emozioni totalmente opposte, ma allo stesso tempo
inevitabili quando la loro fonte altri non era che lui. L'unico in
grado di farmi sentire la ragazza più sbagliata di questo mondo
e dopo neanche un secondo l'unica degna di stargli accanto. Contrasti e
opposti, niente uniformità o tinte unite, era questa la vita con
Lorenzo, non c'era né bianco né nero, ed io lo sapevo
bene.
La paura era dovuta al fatto che non avevo la più
pallida idea di cosa aspettarmi da lui - la sera prima non aveva
accennato al solito "facciamo finta di non conoscerci, comportiamoci
come abbiamo sempre fatto", ma si era svolto tutto così
all'improvviso e velocemente che probabilmente se n'era semplicemente
dimenticato - certo, se davvero voleva riiniziare da capo come aveva
detto, il frequentarci anche a scuola, davanti agli occhi di tutti,
sarebbe stato un buon inizio; ma neanche io volevo mettergli fretta,
perciò avrei rispettato i suoi tempi con molta pazienza se me lo
avesse chiesto.
La felicità, invece, be' quella era logica, no? Dopo
anni e anni passati a rincorrerlo, finalmente ero riuscita - se non a
raggiungerlo - quantomeno ad avvicinarlo, sembrava tutto così
surreale, impossibile; eppure la promessa che mi aveva fatto non me
l'ero semplicemente immaginata.
«Buongiorno, Miss
sono-più-felice-di-una-Pasqua». Apparve all'improvviso
come sempre, il caro Davide, lanciando senza alcun riguardo lo zaino a
terra e piazzandomisi davanti con sguardo eloquente. «Le vostre
facce sembrano fatte con lo stampino, perciò se non mi racconti
tutto entro tre secondi ti...».
«...ti faccio finire in infermeria col naso
rotto». Lo interruppe l'altro soggetto della discussione con
tutta la sua finezza - annunciando il suo arrivo - e percepii
chiaramente il mio stupidissimo cuore perdere un battito, o due -
che importava?!
Non ebbi il coraggio di guardarlo, rimasi con gli occhi fissi sul banco e le dita occupate a torturarsi.
«Fatti i cazzi tuoi, Dà». Lo sentii aggiungere, per poi allontanarsi velocemente.
«Certo che siete proprio strani voi due».
Brontolò Davide riavvicinandosi, quando mi voltai verso di lui
vidi che Lore stava parlando allegramente con Lonta, Curcio e qualche
altro ragazzo non ben identificato.
Possibile che quel giorno mi sembrasse ancora più bello? Sorridente e...bello.
Scossi la testa dandomi della sciocca. No, forse ero solo io ad essermi innamorata ancora di più.
«Dio, amica mia! Dovresti guardarti in
faccia...». La sua voce divertita attirò la mia
attenzione. «Si nota tanto?». Chiesi mordendomi un labbro,
con tanto di preoccupazione annessa. Non volevo fare la figura della
ragazzina pateticamente innamorata dello stronzo di turno. Ma
stronzo...lo era davvero?
Davide fece finta di pensarci, ma la sua risposta
arrivò poco dopo, chiaro segno che ce l'aveva già pronta.
«Considerando che non mi hai ancora salutato - tu che ti arrabbi
quando ti saluto con un secondo di ritardo -, che da quando è
entrato non fai altro che evitare il suo sguardo per chissà
quale motivo e che nonostante questo ora stai morendo dalla voglia di
guardarlo...direi proprio di sì».
«Oh merda». Fu il mio unico commento, prima che rifugiassi la testa sul banco, tra le braccia.
Davide ridacchiò dandomi delle amorevoli pacche sulla
schiena. «Sì, "oh merda" è proprio il termine
giusto».
Rimasi in quella posizione per un po', a mugugnare frasi
senza senso, finché non mi decisi. «E lui com'è?
Come ti sembra?».
Dav mi guardò spaventato per quella mia domanda
improvvisa, dopodiché spostò lo sguardo verso Lorenzo,
sguardo che io mi premurai di non seguire. «Lui è
certamente più bravo di te a nascondersi, ma conoscendolo direi
che non sta messo molto meglio».
Sospirai giocando nervosamente con una ciocca di capelli.
Ecco la nuova vittima della mia ansia. «Non so che fare, come
comportarmi...». Mi lamentai lanciando una brevissima occhiata in
sua direzione. Proprio in quel momento - come se avesse una qualche
specie di sentore - lui sollevò gli occhi dal cellulare e li
puntò dritti a me, accompagnando il tutto con un mezzo sorriso
da collasso istantaneo, che nessuno dei suoi amici sembrò notare.
Avvampai e mi riconcentrai sul mio amico, che stava parlando
senza che lo ascoltassi. «Ehm, scusa, mi ero distratta.
Dicevi?». Chiesi colpevole.
Davide sbuffò, ma non sembrava arrabbiato, forse
comprensivo. «Dicevo...». Calcò su quella parola
più del dovuto. «...che se magari mi spiegassi quello che
è successo potrei darti qualche consiglio».
«Ah, non te l'ho ancora detto?».
Davide sgranò gli occhi, esasperato, ma non aggiunse altro: toccava a me parlare.
Sebbene la campana fosse suonata da un pezzo e
l’insegnante fosse già bello che sistemato davanti a noi,
il mio amico non si risparmiò di darmi la sua personalissima
opinione su tutta la situazione.
«Certo, se ti parlasse all’improvviso sarebbe un
bel colpo per i suoi amici». Si bloccò pensieroso.
«Io l’avrei già fatto, ma lui è lui ed ha
delle regole tutte precise e personali da rispettare prima di fare
qualcosa…».
Annuii amareggiata e sbirciai di riflesso alla mia destra,
solo con la coda dell’occhio, e questa volta trovai lui a fissare
me. Curcio, al suo fianco, dormiva. Notai che Lore, invece, aveva
l’astuccio davanti, con il suo telefono dentro, e lui lo stava
ignorando per fissare me. Be’, me l’aveva detto che ogni
tanto lo faceva – con discrezione – ma accertarmene era un
altro conto.
Mi fece l’occhiolino ed io arrossii prontamente,
rigirandomi verso la cattedra e cercando di riconcentrarmi sulla
lezione. Il professore mi ammonì con lo sguardo, facendomi
imbarazzare più di quanto non fossi già e poi lo
spostò su Lore.
«Belli». Chiamò poi, con voce accusatoria.
Ti prego, fa che non gli dica nulla in proposito, nulla, nulla…
«Che ne dici di alzarti ancora un po’ la media con una bella interrogazione?».
Tirai un sospiro di sollievo, ma a giudicare dallo sbuffo che
lasciò Lore prima di alzarsi, capii che per lui invece era una
seccatura.
Be’, come biasimarlo? Nessuno era contento di essere
l’interrogato di turno, nemmeno nella materia in cui era
più forte…in questo caso – nel suo caso
– diritto.
«Sei pronto?». Bisbigliai quando mi passò
accanto, facendo attenzione a non farmi sentire da nessuno, a parte
Davide ovviamente. Lui gettò uno sguardo veloce su di me, uno
sul mio compagno di banco, e poi sorrise facendo cenno di sì con
la testa.
«Mori, vuoi fargli compagnia?». Aggiunse quindi
il Bertocchi, facendomi imprecare mentalmente per la sua stronzaggine.
Brutto frustato che non era altro, ce la stava facendo pagare
per quel misero occhiolino privo di ogni significato possibile! Ok,
forse non proprio insignificante, ma…
«Preferisci un impreparato?». Mi domandò con foga, aprendo il registro alla pagina dei voti.
Da quando era diventato così stronzo?
Mi sollevai dalla sedia con stizza, tra i risolini divertiti
della classe e lo raggiunsi, cercando comunque di mantenere le distanze
che in circostanze comuni avremmo tenuto.
Non volevo metterlo in difficoltà con i suoi amici,
dovevamo prima parlarne di persona, ma lui sorprendentemente mi
afferrò per un braccio – senza farsi vedere dal Bertocchi
– e mi avvicinò.
Di riflesso guardai la reazione della classe, ma nessuno
parve essersene accorto, men che meno Lonta, che stava stressando la
sua compagna di banco con chissà quali porcherie.
Successivamente, incrociai nuovamente lo sguardo di Lore, nel quale
lessi una silenziosa domanda, apprensiva. “Credi di potercela
fare?”
Mi strinsi nelle spalle ed annuii debolmente.
Non era solo per me che dovevo andare bene, ma anche per lui
e per dimostrare che con quello stupido progetto ce la stavamo mettendo
tutta.
«Mori, sono impressionato». Commentò il
professore al termine dell’interrogazione, guardandomi con
ammirazione.
Cercai di sforzarmi di non girarmi verso di Lore, che mi
stava accanto sfiorandomi – forse inavvertitamente – il
braccio, e sorridergli apertamente. Lui era stato impeccabile,
ovviamente, e se avevo fatto una bella figura anche io era stato solo
merito suo.
«Vedo che vi state dando da fare con quel
progetto». Proseguì con la medesima gioia. A momenti era
più felice lui di me.
«Belli è un ottimo insegnante, è merito suo».
Il Bertocchi ci osservò entrambi curioso,
dopodiché sorrise beffardo. «Be’, se questi sono i
risultati continuate pure così». Scribacchiò un
voto con decisione e mi riconsegnò il libretto dei voti con un
sorriso umiliante.
Lo afferrai, a testa bassa, e mi sentii sprofondare dalla vergogna, mentre Lore ridacchiava divertito.
Quel ragazzo era incredibilmente sfacciato! Il nostro
professore aveva fatto un’allusione neanche tanto velata sul
nostro rapporto e lui rideva tranquillamente, come se ciò fosse
una cosa normale.
Neanche controllai il voto, tornai a sedermene desiderando solo di scomparire da quell’aula.
Per fortuna la classe era nello stato di confusione totale
tipico del cambio dell’ora, perciò non avevano prestato
attenzione a quello scambio di battute, altrimenti avrebbero dato il
via alle battutine e chi li avrebbe più fermati? Forse Lore, che
li avrebbe fatti passare per degli svitati a pensare che lui potesse
aver qualcosa a che fare con la sottoscritta.
Mi riscossi e Lore mi raggiunse poco dopo, incurante del
fatto che non mi si era mai avvicinato così tanto se non per
sfottermi, incurante di tutto.
Non capivo dove volesse arrivare. Voleva farsi scoprire?
Oppure si comportava così perché sapeva che nessuno lo
stava guardando?
Sollevai lo sguardo chiedendo aiuto a Davide, ma lui si defilò con una scusa chiaramente imbastita sul momento.
«Grazie». Borbottai un po’ scontrosa.
Più che altro perché avrei voluto sapere le sue
intenzioni, altrimenti sarei impazzita nel continuare a chiedermi cosa
fare senza ricevere alcuna risposta.
Dovevamo parlare al più presto, ma quello non era il momento…e quando lo sarebbe stato?
Lui mi guardò perplesso e fece per dire qualcosa, ma
proprio in quel momento quelli che erano usciti fuori rientrarono di
corsa, seguiti dalla voce squillante ed irritata della Zanna, che si
richiuse la porta alle spalle con un pesantissimo tonfo.
«Ne parliamo dopo». Soffiò Lore a
bassissima voce, tornando a sedersi con una strana inquietudine in
volto, quella che dalle otto di quella mattina non lo aveva sfiorato
neanche per sbaglio.
«Quante volte vi devo dire che dovete aspettare in classe?».
Ecco, al mio nervosismo mancavano solo gli scleri della Zanna: il quadro era completo.
L’intervallo suonò esattamente due ore dopo e la
classe si svuotò in brevissimo tempo, eccezion fatta per me,
Davide, Lore e i suoi due inseparabili amici.
«Ehi, Lore, non vieni?». Tuonò la voce di
Curcio, ormai nei pressi della porta. Lonta era al suo fianco, pronto
ad uscire, mentre Lore doveva essere ancora seduto al suo posto.
Probabilmente aspettava di restare solo con me.
Ci fu un attimo di silenzio, persino io e Davide smettemmo di parlare in attesa della sua risposta e alla fine…
«Arrivo».
Provai un pizzico di delusione, giusto un po’ perché mi aspettavo rimanesse.
Si sentì il rumore di una sedia strusciare e poi una
folata d’aria – permeata dal suo odore – mi raggiunse
in pieno viso. L’effetto fu immediato, mi paralizzai
all’istante, e quando mi ripresi dal mio breve momento di
incapacità mentale e fisica il terzetto aveva già
abbandonato l’aula.
«Sei un caso disperato». Mormorò Davide, porgendomi un bigliettino ripiegato con cura.
Lo fissai scettica e lui mi indicò con la testa il
punto in cui Lore era uscito. «Me l’ha fatto cadere in
mano».
Afferrai il bigliettino titubante e lo aprii.
Ti aspetto nel corridoio del Trash.
Aggrottai le sopracciglia ancora più confusa e mi rivolsi al mio amico. «Cosa vuol dire secondo te?».
Lui sbuffò esasperato e mi sollevò per un
braccio. «Vuol dire che devi alzare il tuo bellissimo sederino e
raggiungerlo».
Feci per ribattere, ma lui mi spinse fuori dalla porta senza ammettere repliche. «Muoviti!».
Lo guardai in cerca di coraggio, quello che
nell’ambiente scolastico mi mancava più di tutto, e,
trovandolo, mi diressi a passo spedito verso il punto indicato.
Avevo il cuore a mille e continuavo a chiedermi come avrebbe
fatto a liberarsi dei suoi tirapiedi e, anche in quel caso, come si
sarebbe comportato se ci avessero visti insieme. Avrebbe trovato una
scusa? Oppure avrebbe detto loro che mi stava importunando? Magari gli
avrebbero dato man forte e…
I pensieri mi si bloccarono all’istante, senza
rendermene conto ero arrivata nel corridoio deserto del Trash, e
qualcuno mi aveva stretto una mano davanti alla bocca per impedirmi di
urlare.
Impossibile non riconoscerne il calore, o la forma. Sorrisi.
Smisi immediatamente di fare resistenza e mi lasciai trascinare dentro senza alcuna fatica.
Quella situazione l’avevo già vissuta, in un
certo senso, ma mentre le altre volte il cuore mi batteva
dall’ansia, quella volta era solo mosso dalla felicità.
Solo quando avvertii la puzza nauseante del Trash giungere al mio naso mi resi conto che mi aveva liberata.
«Ti piace proprio questo posto». Dissi storcendo
il naso, ma non ebbi il coraggio di guardarlo in faccia. Avevo paura di
trovarci qualcosa di negativo.
«Al contrario, mi fa proprio schifo». Sentii i
suoi passi calpestare quelle mille schifezze sul pavimento e poi il
cigolio del tavolino di legno, lo stesso su cui mi ero rifugiata dal
topo.
Mi sfuggì un sorriso.
Presi un profondo respiro e mi costrinsi a muovere lo sguardo su di lui.
Era di nuovo sereno. Il cuore mi saltò nel petto con una rinnovata violenza e poi tornò al suo posto.
«Dove sono…?». Cominciai a chiedere, ma lui liquidò la mia domanda con un gesto della mano.
«Non ha importanza». Per un secondo mi
sembrò leggermente infastidito, ma un leggero sorriso gli
increspò nuovamente le labbra. «Hai intenzione di stare
lì a fissarmi all’infinito? Non mordo».
Accolsi il suo invito e mi avvicinai più tranquilla,
pur non sedendomi accanto a lui, per chissà quale recondita
paura che mi attanagliava.
Non ebbi il tempo di arrivare al nocciolo della
questione, a chiedergli del perché ci trovassimo lì,
perché ci pensò lui a ridurre le distanze: con
un’abile mossa mi prese dolcemente per la vita e mi
sistemò al suo fianco.
Un passo per volta, mi ripetei, prima che potessi chiedermi il perché non avesse scelto le sue gambe come sistemazione.
«Allora…». Iniziò con voce piatta. «Perché fai così?».
L’azzurro dei suoi occhi mi colpì con la potenza di uno schiaffo in faccia.
«Così come?». Domandai con un filo di voce.
«Mi stai evitando da stamattina».
«Non ti sto evitando!» sbottai incredula, poi
cominciai a balbettare in cerca delle parole giuste.
«Ecco…io credevo che…che tu non…».
Lore scoppiò a ridere interrompendo il mio misero tentativo di parlare.
Lo fulminai all’istante e lui si mise una mano davanti
alla bocca. Mi piaceva vederlo ridere, ma non potevo dire altrettanto
dell’essere presa in giro.
«Dai, smettila di imbarazzarti per niente, ti metto così tanto in soggezione?».
Scossi la testa.
«No, quello che volevo dire è che…credevo
che tu volessi tenerlo nascosto. Non ne abbiamo parlato ieri e io non
volevo metterti in difficoltà con i tuoi amici».
Riabbassai lo sguardo e lui cominciò a giocare con le
mie dita, forse neanche di proposito. Si lasciò scappare un
risolino.
«Anche io credevo la stessa cosa! Sei proprio
incredibile a chiederti se a me vada bene, sai? Sei tu quella che deve
decidere. Insomma, mi hai visto? Che reputazione ti faresti se si
venisse a sapere che frequenti uno come me? Uno che ha sempre ragazze
diverse e tradisce senza pensarci due volte, ti crederebbero
cornuta».
«E tu credi che a me importi del giudizio della gente dopo tutte le prese in giro che ho ricevuto in questi anni?».
«Quindi tu vuoi?». Mi chiese a bruciapelo,
spingendomi a riportare gli occhi nei suoi. «Che gli altri lo
sappiano». Specificò, vedendo la mia espressione confusa.
Feci spallucce. «Non è per me che cambierebbero le cose».
Lo guardai timidamente, non sapendo cosa aspettarmi come
risposta, probabilmente avrebbe detto che gli serviva tempo e a me non
dispiaceva più di tanto, però…
«Be’, allora non farti più problemi. Per me è ok».
Sgranai gli occhi. «Dici sul serio?». Chiesi con voce strozzata.
Lui non rispose, si limitò a sorridermi.
Il mondo si era fermato. Da qualunque prospettiva la vedessi non ci potevo credere: niente più finzione.
«Il che significa niente più prese in giro davanti agli altri…?».
Lui scosse la testa.
«E niente discorsi su quanto siano fighe le ragazze che ti sei portato a letto?»
Lo vidi chiaramente cercare di trattenere un sorriso, ma con
scarsi risultati. «Assolutamente». Poi,
improvvisamente conscio di qualcosa, aggiunse: «Hai usato solo il
passato ».
«Non dovevo? Credevo che…».
«Sei una paranoica assurda, Giò. Sono stato chiaro ieri, no? Ci voglio provare sul serio ».
«E perciò possiamo dire a tutti di essere amici?».
Il suo immediato silenzio e la sua espressione
improvvisamente seria mi fecero temere di aver osato troppo, in fondo
le prime due condizioni erano sufficienti…un passo per volta.
Feci per aggiungere qualcos’altro in proposito, per
cancellare quel vuoto di parole, ma fui distratta dal suo viso, ora
incredibilmente vicino al mio.
«Odio le presentazioni ufficiali, ma possiamo
semplicemente comportarci con naturalezza, come faremmo fuori di qui. E
se qualcuno fa domande che meritano risposta, allora gli spieghiamo
come stanno le cose».
«Mi sembra giusto».
Una strana luce passò negli occhi di Lore. «Un momento…hai detto davvero amici?».
Abbassai lo sguardo. Anche io avevo pensato che la parola
amici non fosse la più adatta, ma di certo non potevo dire
conoscenti, e neppure fidanzati. Approfittai della situazione e decisi
di lasciare la palla in mano a lui. «Sì, perché?
Hai una definizione migliore per due come noi?».
«Be’, dipende da che punto di vista la vedi».
Quando sollevai la testa per ascoltare la sua tesi lo trovai
incredibilmente vicino, e la voglia di baciarlo – fino a quel
momento sopita – esplose in me come una tempesta. Annullai la
mente e distinsi solo qualche parola, pronunciata sulla mia bocca
secca. «In genere gli amici non fanno questo…».
Poi mi baciò come se fosse la cosa più naturale e giusta di questo mondo.
E, di fatto, mentre le sue labbra sfioravano le mie in quello
che si dimostrò – deludentemente – un castissimo
bacio, non riuscii a pensarla diversamente.
Era tutto così vivido davanti ai miei occhi…e
lui stava diventando la certezza di una vita, quella che avevo cercato
a lungo, sapendo inconsciamente che un giorno l’avrei trovata.
Si staccò da me subito dopo, senza alcun ulteriore
indugio, ed io mi ritrovai – sorprendentemente - a bramare un
contatto più profondo; per questo quando avvertii nuovamente il
calore del suo respiro e la sua bocca sempre più smaniosa di
raggiungere la mia, fui io a trovarla per prima, legandogli le braccia
intorno al collo e lasciandomi andare ad un bacio frenetico, dove le
nostre lingue si cercarono a lungo e le nostre dita si intrecciarono
per la prima, vera volta insieme ai nostri cuori.
Qualche minuto dopo ero miseramente sdraiata sul legno marcio
del tavolino, con lui sopra di me. La situazione mi, ci, era sfuggita
di mano e quello che doveva essere un semplice bacio per sugellare
silenziosamente quella nuova ed elettrizzante relazione a cui avevamo
dato inizio, si era trasformato in uno sfogo per i nostri ormoni.
Ecco cosa succedeva a stare troppo tempo lontana da lui!
Lore comunque si dimostrò molto cauto in quella
situazione di smarrimento totale, in cui i nostri ansiti echeggiavano
in quell’angusta stanza chiusa, non osò troppo,
limitandosi a qualche dolce carezza che apprezzai immensamente.
La campanella fu l’unica in grado di porre fine a
quella piacevolissima tortura, ma quello che mi piacque più di
tutto fu il suo sorriso. Sembrava esserselo stampato permanentemente
sulle labbra, esattamente come me.
Giocai con qualche ciocca dei suoi capelli per riprendere
fiato, mi sentivo le guance calde, e il cuore partito per la tangente.
Lore mi diede un impercettibile bacio all’angolo della
bocca e mi aiutò ad alzarmi. Solo in quel momento, guardandomi
nello specchio rotto – una volta appartenuto al bagno delle
ragazze – mi resi pienamente conto delle pietose condizioni
in cui ero. Avevo i capelli scompigliati, la maglia sollevata fin sotto
al seno e le labbra rosse e gonfie.
«Sembra che hai visto un mostro». Intervenne divertito alle mie spalle e allora mi girai per dirgliene quattro.
«Certo, dici così perché tu sei perfetto
come al solito…non hai neanche un capello fuori
posto». Mi morsi un labbro troppo tardi per quel complimento
sfuggito al mio controllo, ormai il suo ego si sarebbe gonfiato
più del professore di Informatica.
«Perfetto?». Ripeté, infatti, facendo finta di non aver capito.
Allungai le mani sul suo petto per spingerlo via, ma lui rimase immobile dov’era.
«Ridillo». Disse prendendomi le mani fredde nelle
sue e facendo la faccia da cucciolo bastonato. Peccato che con me non
attaccasse.
Roteai gli occhi incrociando le braccia. «Che bisogno
c’è? Te lo avranno detto in mille prima di me, e anche tu
sai benissimo di esserlo».
«Ma a me importa che me lo dica tu».
Ok, quella risposta non me l’aspettavo. Arrossii
all’istante e trovai una via di fuga, raggiungendo la porta in un
batter d’occhio. Non fece nulla per fermarmi, tuttavia mantenne
il mio passo finché non arrivammo in classe.
La porta era chiusa.
Cazzo!
Gli lanciai un’occhiata eloquente. Ci mancavano solo i ritardi post-intervallo, perfetto.
Lui fece spallucce e provò a tranquillizzarmi a modo
suo. «Capirai, sai quante volte m’è capitato».
Busso alla porta e non attese neanche l’avanti
dell’insegnante, la spalancò e mi lasciò entrare
per prima.
«Belli, Mori, siete in ritardo». Disse la
professoressa guardandomi delusa. Abbassai lo sguardo di riflesso,
tuttavia, non ebbi molto tempo per pentirmi e darmi della scema
irresponsabile per aver rovinato la mia impeccabile condotta a causa di
un ragazzo, perché i sussurri sorpresi della stragrande
maggioranza della classe mi fecero rendere conto della vera cazzata che
avevo – avevamo – appena fatto.
Eravamo entrati insieme.
Certo, sarebbe potuto essere un caso, eppure...a nessuno
sembrò passargli per la mente, dato la miriade di insinuazioni
che sentii fargli.
Che fosse a causa del mio aspetto sconvolto e felice?
Quando Lore mi passò accanto, non ebbi il coraggio di
guardarlo. È vero che avevamo deciso di dirlo a tutti,
ma…non in quel modo. Avrebbe dovuto avere la possibilità
di parlargliene con calma, per poter capire.
Scossi la testa ed udii un bisbiglio incredulo di quello che
doveva essere Curcio. «Lore, che hai combinato?». Il suo
tono mi sembrò vanamente speranzoso, come se volesse pensare a
tutti i costi che mi avesse fatto qualcosa di male, sebbene non ci
credesse veramente neanche lui.
Sentii la sedia di Lore spostarsi, accanto a quella del suo
amico, mentre la professoressa ci segnava il ritardo sbuffando.
«Non sono affari tuoi, Cu». Rispose infastidito.
Probabilmente lui rientrava nella cerchia degli immeritevoli di
spiegazioni.
Avevo appena avuto la conferma che faceva davvero sul serio
e, nonostante quello che era appena successo non rientrasse nei miei
piani, mi sentii felice…scioccamente felice.
Fu strano parlare con lui nei successivi cambi d’ora,
così come fu snervante sentire i commenti infelici di alcuni
compagni di classe, che comunque Lore gestì alla perfezione; col
suo sarcasmo pungente e l’indole da leader che pareva non
abbandonarlo mai.
Alla fine della giornata avevano praticamente smesso e ormai non ci dicevano più nulla.
Gli unici che sembravano veramente delusi erano i suoi due migliori amici e io mi sentii un po’ responsabile.
Nonostante non fossero il massimo della simpatia, per me, sapevo quanto fossero importanti per Lore.
«Ehi, Belli, smettila di slinguazzare e vieni con
noi». Un ragazzo di quinta era sbucato dalla porta, mentre tutti
noi stavamo attendendo a modo nostro l’arrivo del professore
dell’ultima lezione.
Lore lo guardò con fare ingenuo. «Slinguazzare io? Non faccio queste cose a scuola».
«No, hai ragione, infatti l’anno scorso non sei
finito dal preside perché ti hanno trovato nel bagno dei
professori a scopare come un coniglio con…». Lore gli
lanciò un’occhiata inceneritrice e lui si coprì la
bocca prima di fare il nome della ragazza, che comunque avrei voluto
sentire. «Ops, scusa dolcezza, non volevo tirare in ballo vecchie
storie».
Mi strinsi nelle spalle. «Temo che dovrò farci l’abitudine ».
«Che ci vuoi fare? È un coglione questo tipo
qui». Indicò Lore con un ghigno e mi porse la mano.
«A proposito, non credo ci siamo mai presentati. Io sono
Luca».
«Giorgia». Dissi stringendola.
«Sei proprio carina, sai?».
«E tu tra non molto sei morto».
Luca parve sorpreso da quell’uscita di Lore. «Wow, che violenza».
«Allora, dove vorreste portarmi?». Chiese Lore, ignorando il commento dell’amico.
«Andiamo fuori, c’è un pallone nella pista, facciamo due tiri».
Ero tentata di intervenire e dire, al posto suo, che di
lì a poco sarebbe iniziata la lezione; ma logicamente lo
sapevano benissimo entrambi, solo non gliene importava.
«Ho preso una nota oggi».
«E due anni fa sette in un giorno».
Lore sorrise e poi disse: «va bene, ma non fino alla fine della lezione».
«Agli ordini, capo!».
Ci vediamo dopo. Mimò con le labbra, prima di andarsene.
Non avevo niente in contrario al fatto che mi lasciasse da
sola, era libero di continuare a vivere la sua vita come voleva; quello
che chiedevo era un po’ più di rispetto e serietà
rispetto al nostro primo esperimento disastroso e sotto quel punto di
vista ero piuttosto soddisfatta.
Stavo per andare da Davide, quando una voce alle mie spalle
mi fece irrigidire. «Ehi, Mori. Puoi uscire un attimo?».
Mi voltai e vidi Lonta distogliere lo sguardo. Non era
imbarazzato, ma lanciava veloci occhiate in giro come per accertarsi
che nessuno ci stesse guardando.
«Sì». Dissi e sgattaiolai fuori dall’aula senza attirare l’attenzione di nessuno.
Arrivammo ad una parete del corridoio completamente vuota e Lonta si fermò di scatto. Per poco non gli andai addosso.
«Da quanto va avanti?». Chiese voltandosi, senza preoccuparsi dei convenevoli.
«Da ieri». Risposi, adeguandomi al suo ritmo.
Lui arcuò un sopracciglio scettico. «Me
n’ero accorto, sai? Quelle sparizioni improvvise, un mese fa, non
mi sono sfuggite e spesso l’ho anche beccato a guardarti, ma
ovviamente ho fatto finta di niente. Poi sembrava esservi passata, non
vi rivolgevate più la parola e lui ci è andato giù
con parole pesanti quando era con noi, e oggi…oggi scopro che
state insieme».
«Non stiamo insieme».
«Non ha importanza se state insieme o no. Ho usato un
termine come un altro: tu gli muori dietro e lui ha perso la testa per
te, direi che questo basta. Anzi, mi domando se in tutto questo tempo
non l’avesse già persa…». Scandagliò
la mia espressione per un po’. «So anche che vi conoscete
da una vita, praticamente. Lo voci girano, ma non gli ho dato
peso…».
«E, se avevi il dubbio, perché non
gliel’hai mai chiesto allora?». Ebbi il coraggio di
chiedere. Forse perché era la prima, vera conversazione civile
che avevo con Lonta e chissà quando sarebbe ricapitata
un’occasione del genere.
«Perché?». Mi chiese sarcastico, ridendo
di una risata amara. «Perché se ne avesse avuto voglia me
ne avrebbe parlato lui. Non credere che sia così leale con noi,
eh, anzi il più delle volte ci fa capire che non gliene importa
un cazzo di noi. Non ci dice mai niente di lui, passiamo tutto il tempo
a dire e fare stronzate».
«Non è vero che non gliene importa. Finge.
Altrimenti non darebbe tanto peso al vostro giudizio sulla nostra
storia, non ve l’avrebbe tenuto nascosto».
«E allora perché informarci in questo modo? Avrei gradito che ce ne avesse parlato prima».
«Non sei così stupido come sembra, se ti sforzi
di pensarci ci arrivi da solo». Vedendo il suo silenzio,
aggiunsi: «È una mia personalissima opinione, eppure sono
quasi convinta che l’abbia fatto perché crede di non poter
avere sia me che i suoi migliori amici. Ci sono cose che non so neanche
io e che aspetto di sentire…quello che so per certo è che
l’altra volta ha scelto voi, questa volta me».
«È proprio un coglione». Mormorò
esasperato e a quel punto non mi trattenni. «Vuoi dirmi che
accetterete tutto senza battere ciglio? Senza prenderlo in giro
perché sta con la secchioncina sfigata, racchia e
quant’altro?». Scossi la testa. «Mi dispiace ma non
ci credo».
Lo osservai stare in silenzio e per un po’ rimasi a
guardarlo, in attesa di una risposta. Che comunque non arrivò.
Mi allontanai decisa, ma neanche dieci passi dopo la sua voce
tornò ad echeggiare per quella parte di corridoio deserta.
«Puoi non crederci, se vuoi, ma per quanto testa di cazzo possa
essere, è pur sempre nostro amico». Fu solo una frase
mezza sussurrata, che udii appena da quella distanza, ma suonò
finalmente sincera e fui felice di sentirla e di
ricredermi…perché ammetto di aver sempre pensato che quei
due seguissero Lore solo per la sua fama di ribelle.
Per la prima volta realizzai di aver giudicato senza
conoscere, basandomi solo su quella stupida apparenza che tanto
criticavo negli altri.
L’ultima campanella suonò nella gioia generale,
salutai Davide e rimasi fuori ad aspettare Lore. Non ero rimasta dentro
in primis perché non volevo sembrare la ragazza appiccicosa che
in realtà non ero e in secondo luogo perché Curcio e
Lonta l’avevano avvicinato.
Mi poggiai contro il muro accanto alla finestra, sentendo di
tanto in tanto qualche sprazzo di frase detta con voce più alta.
Non passarono neanche cinque minuti che Lore uscì di un passo
dall’aula. «Comincia ad andare, ci vediamo
pomeriggio».
Provai a protestare, ma il suo sguardo non ammetteva
repliche, perciò sospirai rassegnata. «Va bene. A
più tardi».
Abbozzai un sorriso storto e mi diressi verso le scale, dove
qualcuno mi afferrò per il braccio. Un giorno o l’altro me
l’avrebbe staccato a furia di prenderlo con tanta forza.
Ero stretta tra le sue braccia, il suo viso vicino.
«Non ti azzardare mai più ad andartene in quel
modo». Ridacchiò, prendendomi un labbro tra i denti.
«Ahia». Mi lamentai, pur non avendo sentito
dolore e, tuttavia, le sue labbra catturarono quel piccolo gemito
andandosi a modellare con precisione alle mie.
«Tutto qui, ragazzo arrabbiato?». Chiesi
mordendomi una guancia. Non era da me alludere in quel modo, ma mi era
sembrato così naturale farlo che neanche ci avevo pensato. Lore,
ovviamente, colse la palla al balzo. Lui, che era il mago delle
allusioni e delle frasi a metà, sorrise malizioso. «Non mi
provocare. Sai che non me ne importa delle punizioni in cui
incapperemmo».
Poggiai le mani sul suo petto e lo allontanai. «Ma a me
sì». Gli diedi un bacio sulla guancia e lo salutai con la
mano, prima di scendere di corsa le scale.
Quando raggiunsi la fermata non c'era nessuno ad aspettare il
pullman. Mi strinsi di più nel cappotto e mi sedetti senza
neanche guardare gli orari. Osservai le cartacce per terra muoversi
trascinate dal vento, rabbrividendo quando una folata di vento
più gelida delle altre mi colpì in pieno viso.
Passarono due autobus, prima che la chioma bionda di Lore mi
sbucasse davanti. Si era piegato sulle ginocchia, poggiando le
mani sulle mie, e mi stava guardando dritto negli occhi.
Fui lieta di vedere il sorriso sulle sue labbra e non i
lineamenti duri che assumeva quando era arrabbiato. «Sei proprio
sciocca, sai?». Mi disse soltanto. Il suo respiro caldo si
trasmormò in nuvolette di fumo nell'aria.
«Volevo stare un po' con te, prima di andare a
casa». Feci spallucce e deviai lo sguardo dal suo indagatore.
Temevo che la mia frase potesse risultare troppo sentimentale e lui di
certo non era tipo da regalare rose rosse per San Valentino,
perciò avevo preferito nascondermi.
«Bastava che me lo dicessi. Sarei rimasto un'altra volta a parlare con quei due».
Non riuscii a nascondere la sorpresa nel sentire quelle sue
parole, ma non aggiunsi altro in proposito. «Non ha importanza.
Com'è andata?».
Lui si alzò, sgranchendosi le gambe e le braccia
contemporaneamente. «Bene». Rispose con voce piatta e capii
che per lui il discorso era finito lì. Ma non per me,
così presi l'iniziativa.
«Non sono così male i tuoi amici,
dopotutto». Mormorai facendomi coraggio, mentre i denti
cominciavano a battere per il freddo.
Lore aggrottò le sopracciglia e si guardò
intorno, alla ricerca di qualcosa che non esisteva. «Chi?».
Domandò infatti.
«Lonta e Curcio. Oggi ho parlato con Gabriele e ho
avuto modo di rivalutarlo». Vedendo la sua espressione
interrogativa, aggiunsi: «Mentre tu eri andato via con quel
Luca».
I suoi muscoli si rilassarono a poco a poco, finché
non si sedette accanto a me. «Non puoi averlo rivalutato con una
sola chiacchierata. Con molta probabilità è stata
costruita su misura per l'occasione».
«No...sembr...sembrava sin...sincero, fidati».
Balbettai in preda al tremore, quando non riuscii più a
nasconderlo.
Era la seconda volta nel giro di due giorni che mi ritrovai a
tremare davanti a lui per lo stesso motivo e la cosa mi infastidiva,
perché sicuramente ne avrebbe approfittato per concentrarsi su
di me e concludere quella parentesi che riguardava lui.
Lore mi fissò scettico mentre mi muovevo sul posto per
cercare un po' di calore. «Stai congelando, ancora».
Constatò e le mie previsioni si dimostrarono esatte, così
come quello che disse dopo. «Ti darei la mia giacca, se non
stessi morendo di freddo anche io». Trascorse un istante e
fingendosi scocciato mi passò un braccio intorno alle spalle,
avvicinandomi al suo tiepido calore. «Però questo lo posso
fare».
Poggiai la testa contro la sua spalla e mi lasciai cullare
dal lieve movimento circolare delle sue dita, che disegnavano motivetti
astratti sul mio braccio.
Era il massimo di gentilezza che potevo ricavare da lui.
Poca, tutto sommato, ma ben accetta in ogni caso. Il commento
successivo mi uscì spontaneo, con un sorriso nostalgico.
«Sei sempre stato un po' stronzo, ora che ci penso». Lore
stava guardando la strada poco trafficata davanti a noi, ed anche io
stavo facendo lo stesso, perciò mi persi la sua reazione,
qualunque essa fosse, dato che non disse nulla in proposito.
«Non come lo eri fino a fino a poco tempo fa, sia chiaro, ma non
hai usato mai parole veramente gentili... e non solo con me, con
nessuno». Sollevai appena gli occhi, ma sfortunatamente non
incontrai i suoi.
«Avresti voluto?».
Scossi la testa impercettibilmente. «Mentirei se ti
dicessi che ogni tanto un segno d'affetto in più mi avrebbe
fatto piacere. Ma alla fine non credo ce ne fosse bisogno. A modo tuo
ci sei sempre stato».
Lore fermò il gioco lento delle sue dita sulla mia
pelle e lo sentii irrigidirsi. La sua espressione era contratta,
qualcosa lo disturbava. «Tu invece sei proprio tutto l'opposto di
me: l'apoteosi delle parole carine e dei gesti sempre appropriati. E
non mi hai mai ferito, neanche per sbaglio...neanche quando me lo
meritavo davvero». La sua voce suonò tranquilla, per poi
assumere una nota più incrinata. «Per quanto ora sia
fermamente deciso ad andare fino in fondo, io ti ho persa una volta,
Giorgia. E questo non lo cambierà nessuno».
Quella discussione venne troncata dal brusco arrivo del
pullman e nessuno dei due osò riprenderla durante il tragitto
verso casa. Io perché non volevo forzarlo a dirmi cose che in
realtà voleva tener per se e lui perché probabilmente si
era solo lasciato prendere dal momento, senza voler davvero rendermi
partecipe di quei suoi pensieri così ben nascosti.
Parlammo solo di cose inutili, quasi non mi toccò e quando arrivammo nel nostro pianerottolo ci fermammo in silenzio.
«Domani pomeriggio ho un incontro». Esordì
stranamente serio, come se qualcosa del discorso precedente lo
tormentasse ancora. «Ti va di venire a vedermi? È da tanto
che non fai il tifo per me». Verso la fine della frase, la sua
voce mi sembrò addirittura speranzosa ed io ovviamente non ci
pensai un secondo a rispondere. «Certo. Perché no?».
Lui sorrise. «Alle sei all'angolo della strada».
Poi fece un passo, o due, in mia direzione, avvicinando la bocca ad un
mio orecchio scoperto...e congelato. «È meglio essere
discreti con i nostri genitori. Chi li regge più se cominciano a
rompere con le loro prediche?».
Ridacchiai perché aveva ragione, ma sapevo che le
paternali non erano l'unica cosa che lo preoccupava. Aveva paura che i
suoi precedenti fossero giunti alle orecchie dei miei genitori e, lui
non lo sapeva, lo immaginava soltanto, ma era proprio così.
«Inventerò una scusa. Spero che se la bevano...».
«Sforzati di essere convincente e vedrai che non
faranno obiezioni». Mi passò una ciocca di capelli umidi
dietro l'orecchio e poi si staccò di scatto, come se avesse
deciso che era abbastanza. «Sei in punto. Non mi piace arrivare
tardi».
«È già tanto se arrivi al suono della campanella a scuola».
«E chi ha parlato di scuola?».
Lore fece per voltarsi, ma rimase immobile dov'era, con lo
sguardo puntato addosso a me. Di sicuro stava pensando a qualcosa. Poi,
con un movimento veloce e impercettibile le sue labbra furono sulle
mie, ma solo per qualche misero secondo. Infatti, le allontanò
immediatamente, per poterci sussurrare sopra. «Porta del cibo,
una coperta pesante e di' ai tuoi che farai molto tardi».
Sentii la sua bocca posarsi sulla mia guancia e lo guardai
attonita mentre si richiudeva la porta di casa alle spalle, lasciandomi
di stucco davanti alla mia.
Un mare di domande mi affollò la mente, di cui due principali.
La prima riguardava il perché di quella richiesta.
E la seconda mi faceva porre il problema di come avrei fatto a far passare la scomparsa di una coperta pesante inosservata.
Mi serviva un piano ben architettato e una chiamata urgente a
Martina…qualunque cosa potesse aiutarmi a riuscire nel mio
intento. Perché di rinunciare a quella proposta così
pazza, misteriosa e allo stesso tempo allettante non se ne parlava
neanche.
«Dimenticati il mio aiuto e quello di chiunque altro.
Nessuno sano di mente ti crederebbe...e i tuoi purtroppo lo
sono». Rispose mia cugina, dopo che le ebbi spiegato il mio
problema.
«Grazie mille, Marti. Sei molto d'aiuto». Brontolai delusa mentre mi passavo un asciugamano tra i capelli bagnati.
Il vivavoce del mio cellulare tuonò come in una vera e
propria tempesta. «Eh, no! Non riuscirai a farmi sentire in
colpa!».
Vidi il mio sorriso allo specchio. Quella frase poteva voler
dire solo una cosa: stava già cedendo. Proprio come avevo
previsto. «No, ti capisco...le mie qualità recitative sono
alquanto discutibili, hai ragione».
«Una festa di compleanno?». Buttò lì Martina, alzando finalmente bandiera bianca.
«Non ho amici. E i miei lo sanno».
«Vai a trovare Rosaria?».
«Li avrei dovuti avvisare prima».
La sentii sbuffare sonoramente. Non le piaceva veder scartare
così le sue fantastiche idee. «Ci sono! Davide ti ha
invitato ad una cena per presentarti sua sorella. Che, tra
l’altro, ti stima tantissimo per l'ottima media
scolastica!».
Accolsi l'idea con benevolenza e cominciai a pensarci su. I
miei avevano conosciuto Davide, dopotutto, e si fidavano di lui.
Nell'ultimo periodo avevo cominciato ad uscire più del solito e
ovviamente loro avevano cominciato a farmi domande sulle mie
scappatelle. Alla fine avevo vuotato il sacco, dicendogli che avevo
conosciuto un ragazzo fantastico e loro avevano voluto che glielo
presentassi. Dopo qualche tempo, pochissimo a dire il vero, avevano
capito che tra di noi c'era e ci poteva essere solo una grande
amicizia.
«Buona idea! Anche se non ricordo neanche come si
chiama...». Mi rabbuiai un attimo ripensando al motivo per cui
l'avevo rimosso: Lore. Un singulto e un battito fuori posto mi fecero
ricordare. «È stata con Lore». Dissi con voce
strozzata.
«E mica ci devi andare davvero, è solo una
copertura...anzi, è la tua occasione per far capire alle
sanguisughe di chi è quel gran pezzo di figo che ti-».
«È chiaro il concetto, Marti». La
interruppi a metà. «Ho bisogno dell'appoggio di Davide,
però».
«E credi che non te lo darà?». La sua voce
suonò terribilmente maliziosa e la risatina compiaciuta di poco
dopo mi dimostrò che era proprio quello che voleva trapelasse
dalle sue parole. La ignorai.
«Mi aiuterà». Dissi in un sussurro, poi
mia mamma bussò insistentemente alla porta e mi congedai da
Martina, stringendo bene l'accappatoio ed andando ad aprire.
«Che c'è?». Le chiesi con i capelli ancora gocciolanti.
Mia madre fissò con apprensione l'acqua che stava
bagnando il suo adorato pavimento e poi si guardò intorno
circospetta. Alla fine i suoi occhi incontrarono i miei ed erano
glaciali, spaventati e al contempo spaventosi. «Lorenzo vuole
vederti. È in salotto».
Deglutii colpita dal suo modo di fare. Aveva paura di lasciarmi da sola con lui, ma lo aveva fatto entrare.
«Muoviti». Mi esortò con un fil di voce. «Prima che torni tuo padre».
Tutto mi fu più chiaro e il suo atteggiamento
acquistò un senso. Sorrisi riconoscente e feci per uscire, ma
lei mi rispinse dentro con forza. «Chiudere un occhio si
può fare, ma non tutti e due». Sibilò aggiustandosi
gli occhiali da riposo sul naso. «Vestiti». Concluse calma,
scuotendo la testa.
Annuii e lasciai che si allontanasse in cucina,
indossai un pantaloncino e una maglietta a mezze maniche prima di
sgattaiolare fuori con prudenza.
Non aveva importanza in che condizioni fossi, mio padre
sarebbe arrivato da un momento all'altro e se avesse scoperto che io e
Lore ci frequentavamo al di fuori del progetto scolastico lo avrebbe
tartassato finché non si fosse arreso.
Lo trovai sul divano intento a giocare con il mio cuscino
preferito, a forma di hamburger. Era così sereno che mi fermai
per guardarlo un po' finché un mio starnuto non attirò la
sua attenzione e io fui costretta ad uscire allo scoperto.
Lui balzò in piedi colto di sorpresa, ma quando mi
vide rimase immobile sul posto. Rigido e teso come le corde di un
violino. «È uno scherzo, vero?». Chiese fissando la
scollatura della mia magliettina.
Automaticamente portai una mano sul petto per coprirmi,
sebbene niente fosse veramente ai suoi occhi. Le gambe forse...eppure
mi sentivo a disagio con quello sguardo penetrante addosso.
«Non c'era tempo». Balbettai a disagio.
«Non ho pensato a cosa indossare e....». Continuai ad
articolare parole slegate tra loro, finché Lore non mi
stoppò sollevando una mano e agitandola. «Ok, va bene...ho
capito». Sospirò e sembrò rilassarsi, così
feci qualche passo in direzione del divano per sedermi, ma lui me lo
impedì piazzandomisi davanti. «Non ho intenzione di fare
in modo che tuo padre ci veda parlare qui, di questioni non
scolastiche...perciò non mi tratterrò a lungo». Mi
minacciò ad un palmo dal naso e aggiunse con una smorfia:
«Se tua mamma sembrava sul punto di uccidermi, non oso immaginare
cosa voglia farmi lui». Rabbrividì al pensiero, ma si
riscosse subito. «Sarò breve: come lo sanno?».
«Papà ti ha visto». Risposi in un sussurro. «Ogni sera con una ragazza diversa».
Lui sembrava aspettarselo, tuttavia lo vidi stringere una
mano a pugno...forse per rabbia nei confronti di se stesso.
«Immagino ti abbia detto di starmi alla larga».
Annuii. «Prova a capirli, non hanno tutti i
torti…hanno solo bisogno di tempo e di prove del tuo
cambiamento».
Gli sfiorai un braccio per fargli capire che credevo in lui e
si addolcì. «Lo sospettavo...». Sbuffò
stancamente prima di cambiare argomento e io mi misi in ascolto.
«Hai pensato a qualcosa per domani? So quanto sei scarsa con le
bugie».
Ridacchiai. «Martina mi ha aiutata».
Lore parve infastidito dalla cosa. Lui e Martina avevano due
personalità talmente forti e simili che se non si fossero visti
solo una volta ogni mille anni probabilmente si sarebbero già
fatti un occhio nero a vicenda.
«E posso avere l'onore di dare la mia opinione sulla sua idea geniale?».
Lo guardai storto. «Sapevi che la sorella di Davide ha
un'ammirazione nei miei confronti?». Chiesi con tono serio e
senza aspettare nessun cenno di assenso aggiunsi: «Be’,
domani sarò a cena da lei».
Lore strabuzzò gli occhi, sconvolto. «E da quando Carol avrebbe un’ammirazione per te?».
Una strana sensazione di disagio mi assalì nel sentire
il nome di quella ragazza. Perché ricordava il suo nome?
Be’, in fondo era amico di Davide, chissà quante volte
sarà stato a casa sua quando c’era anche sua sorella.
Magari non era stata solo una cosa passeggera, anzi, era probabile che
la conoscesse più di quanto pensassi.
Quando smisi di rimuginarci su, Lore concluse un discorso che non gli avevo sentito iniziare.
«…non ti coprirà mai, anche se dice che
ormai non prova più nulla per me io so che non è
così, hai mai visto come mi guarda quando le passo davanti per i
corridoi?».
Feci spallucce, cercando di non far trasparire i miei
pensieri. «Non ha alcuna ammirazione, infatti, ma che importa?
Non ho detto che deve venire a sapere di questa cosa. Davide
sarà più che sufficiente».
Lore non disse nulla per una manciata di minuti. «Le
ragazzine della sua età sono le più fastidiose da
gestire...basta che gli dai un bacetto e ti rimangono appolipate per
sempre».
«Se qualcuno non si fosse divertito tanto a loro
spese....». Mi lasciai scappare. Quando me ne resi conto mi morsi
un labbro, ma non riuscii a ritrattare ciò che avevo detto, in
fondo sapevamo bene entrambi quanto le illudesse.
«Non mi sono divertito ad illuderle, Giorgia».
Rispose un po' cupo. «Tutte quelle con cui sono stato mi
piacevano. Tranne forse quelle conosciute in discoteca».
«Resta il fatto che le illudi, però. Non hai
smentito». Alzai le spalle in segno di evidenza. Non era il
momento per fare quel discorso, ma prima o poi lo avremmo dovuto
affrontare, no? Poteva essere considerato un anticipo.
«Già, ma credevo che…». Si
fermò, mi fissò per qualche secondo e poi scosse la
testa. «Lasciamo stare, mi fido di te comunque».
Un colpetto di tosse ci fece voltare verso la cucina, dove
mia madre stava a braccia incrociate. «Abbiamo finito,
mamma».
«Tuo padre sarà qui a momenti e io non voglio avere niente a che fare con...».
«Non ti preoccupare, Laura, me ne stavo andando».
Intervenne Lore con un sorriso benevolo. Mia mamma, che a Lore aveva
sempre voluto bene, parve perdere un po’ di quella sua aria
così tirata.
«Ciao Giorgia. Buonasera Laura». Si congedò velocemente e in due falcate era già alla porta.
«Mi dispiace, Lore. Un anno fa probabilmente saresti
potuto rimanere a cena». Lo fermò mia mamma con rammarico
evidente. «Cosa hai combinato in tutto questo tempo?».
Lore si fermò e senza voltarsi rispose: «Non ha
importanza». Scosse la testa ed uscì senza aggiungere
altro.
Alle sei all'angolo. Questa era la frase che continuavo a
ripetermi da quando ero arrivata lì, circa mezz'ora prima
dell'ora stabilita, non staccando gli occhi dall'orologio nemmeno per
sbaglio. Non mi piaceva essere in ritardo e Lore era stato
intransigente sulla puntualità, così per evitare
eventuali imprevisti ero uscita in anticipo.
«Non stiamo partendo, Giorgia». La sua voce
giunse alle mie spalle, sarcastica come al solito, ma con una punta di
dolcezza che avevo imparato a riconoscere.
Mi voltai sorridendo. «Ho dovuto portare questo zaino
per metterci le coperte che tu mi hai chiesto». Gli feci presente
fingendomi offesa.
«Scherzavo». Mi scompigliò leggermente i
capelli e lo lasciai fare, solo perché era lui.
«Rilassati, non è...proprio un appuntamento. Non mi
aspettavo davvero che ti lasciassero venire».
«È stato facile. Si fidano di Davide».
Lore mi guardò stralunato. «Potrei essere geloso».
Arrossii e feci per incamminarmi, nascondendo l'imbarazzo. «Non vorrai fare tardi?».
Lore scosse la testa e mi passò un braccio sulle spalle. «Ovviamente no.
Trovarmi davanti alla palestra che un tempo mi aveva fatto da
seconda casa fu come respirare aria nuova e allo stesso tempo
familiare. Ci ero passata qualche volta, per lo più in macchina,
ma mai da così vicino e l'idea di rivedere coloro che un tempo
ero solita frequentare ogni giorno mi elettrizzava e intimidiva insieme.
«Saranno felici di rivederti, non ti preoccupare».
Mi riscossi dai miei pensieri e mi accorsi di esser rimasta a fissare quell'edificio come un'idiota.
«Faranno domande?». Chiesi preoccupata. Lui
intrecciò le sue dita alle mie. «Non molte, quando
vedranno questo».
Sorrisi per quel gesto. A quanto pare gli amici della palestra sarebbero stati i primi a vederci insieme in veste ufficiale.
L’interno era tale e quale a come l’avevo
lasciato. Riconobbi lo stesso pavimento lucido e i soliti gradoni alti
e scomodi su cui ero stata seduta parecchie volte. Persino
l’odore di detersivo e i tre allenatori al centro della palestra
non erano cambiati.
«Vuoi andare a salutarli?». Chiese Lore intercettando il mio sguardo.
«Meglio aspettare la fine dell’incontro».
Lorenzo strinse di più la mia mano. «Io dico che
stai solo cercando di rimandare. Andiamo». E così dicendo
mi trascinò in mezzo a quel gruppetto di persone.
«Buongiorno gente». Li salutò Lore con
enfasi. Alla OS erano sempre tutti piuttosto informali e a volte erano
in grado di farti sentire più a tuo agio di quanto non fossi in
famiglia. Ed era proprio questo clima così confortevole che mi
era mancato più di tutto.
«Lore, sei in anticipo». Michele, il maestro che
seguiva Lore, si voltò allegro come sempre. Non era cambiato di
una virgola, eccetto per qualche capello bianco e un paio di rughe in
più. Non appena si accorse della mia presenza,
assottigliò lo sguardo per scrutarmi meglio. Probabilmente
voleva accertarsi che fossi io. I suoi muscoli facciali si rilassarono
e, senza darmi il tempo di dire alcunché, mi abbracciò di
slancio.
«Giorgia! Non ci posso credere, alla fine ti sei fatta viva!».
«Michele! Che bello rivederti. Sembra che sia passata una vita».
«Non dirlo a me, cara». Sciolse la stretta e si
rivolse ad una donna in fondo alla palestra. «Cinzia, guarda un
po’ chi c’è venuto a trovare!».
La donna smise di smistare una pila di carte e lo
guardò confusa. Poi guardò me e scosse la testa,
incredula. Cominciò ad avvicinarsi ed io le andai incontro.
Quasi non mi accorsi di aver lasciato la mano di Lore quando la
raggiunsi.
«Sei davvero tu. Cominciavo a credere che ti fossi dimenticata di noi».
«Come potrei? Mi siete stati più vicino di chiunque altro in quel periodo».
Fu bellissimo ritrovarsi in mezzo a tutti quei sorrisi
sinceri e per quanto cercassi di non piangere mai in pubblico, una o
due lacrime sfuggirono comunque al mio infallibile controllo.
«Chiedevamo sempre a Lore di te. Bene o male riuscivamo
a sapere come te la stavi cavando». Disse Cinzia con un sorriso.
Di rimando, guardai Lore con la coda dell’occhio e fui
ancora più felice di vederlo contendo della mia rimpatriata.
«Allora, sei qui per vedere l’incontro di
Lore?». Chiese Giorgio, un uomo buono e dolce che insegnava ai
ragazzi più grandi.
«Il tuo amico qui è davvero eccezionale. Siamo
molto orgogliosi di lui». Intervenne Michele dandogli alcune
pacche sulle spalle. Forse più forti del dovuto, perché
Lore emise un gemito di dolore al termine della decima.
«Ehi, vacci piano! Non vorrai mica distruggermi prima
della gara?». Si lamentò massaggiandosi la spalla. Poi
spostò lo sguardo su di me. «E per la cronaca non siamo
più solo amici».
Negli occhi di tutto i presenti passò la stessa,
identica reazione. Ma non era stupore. «Era ora, cavolo! Vi siete
fidanzati!».
«Più che fidanzati, ci stiamo frequentando». Specificai nell’imbarazzo totale.
«E che differenza fa?». Borbottò Giulia,
l’unica che ancora non aveva detto niente, quella un po’
più riservata. «Resta il fatto che inciuciate».
Con un singulto di sorpresa la guardai scandalizzata, ma
Michele mi impedì di dire qualunque cosa. «Dobbiamo
assolutamente festeggiare dopo l’incontro!».
«Possiamo andare al Red Moon a bere qualcosa». Suggerì Giorgio, ma gli altri lo guardarono male.
«Giorgia è ancora minorenne, vero cara?»
«Io…ecco…». Balbettai non sapendo
cosa dire. Mi dispiaceva spegnere la loro gioia, ma io e Lore avevamo
già un impegno e io non volevo perderlo per nulla al mondo. Ci
sarebbero state altre occasioni per festeggiare con la OS. Feci per
parlare, ma Lore mi precedette. «A dire il vero, abbiamo
già da fare».
«Oh, un appuntamento?». Chiese Cinzia sognante. «Dove la porti?».
«È una sorpresa».
«Incredibile. Giorgia ha fatto diventare Lore un
ragazzo da appuntamenti romantici». Mormorò Michele
seriamente sorpreso.
Lore si strinse nelle spalle. «E chi ha detto che
è un appuntamento romantico?». E senza dar loro il tempo
di reagire mi riprese per mano. «Andiamo Giò».
«Ci vediamo a dopo!». Urlai mentre Lore mi guidava verso l’ingresso degli spogliatoi.
«Ehi, Lore, non portarla dentro! Per quelle cose ci sono altri posti». Lo avvertì Michele ridendo.
Quando ci fermammo, lontano dalle orecchie indiscrete, mi misi a fissarlo con un sorrisetto.
«Che c’è?». Chiese preoccupato guardandosi intorno.
«Credevo non fosse un appuntamento». Dissi
avvicinandomi, ricordandogli le parole che mi aveva detto prima di
andare.
Lore piegò un solo angolo della bocca. «Andiamo,
Giò. Siamo io e te, definirci amici è un’eresia,
saremo soli. Come chiameresti questa cosa?».
«Sì, ma prima hai detto…». Provai a
lamentarmi, anche se in realtà non avevo niente su cui
obiettare. Lore si piegò in avanti, raggiungendo il mio viso col
suo.
«Quello che ho detto prima l’ho detto per non
farti venire l’ansia fin da subito». Mormorò sulle
mie labbra. «Ti dispiace così tanto avere un appuntamento
con il sottoscritto?».
Sorrisi e lui si aggiustò la borsa sulla spalla, allontanandosi. «A dopo».
«In bocca al lupo». Dissi, ma così piano che quelle parole si persero solamente nell’aria.
Mi voltai verso i gradoni e spostai lo sguardo su quello più in alto. Vuoto.
Sì, ero proprio tornata a casa.
«Sei stato incredibile!». Accolsi entusiasta Lore
fuori dallo spogliatoio, che rimase sorpreso nel vedermi tanto
euforica. «Non c'era proprio paragone, voglio dire...eri su un
altro pianeta!».
Il suo stupore lasciò il posto ad uno sguardo
compiaciuto. «Penso che dovresti riprendere anche tu il
karate». Disse con tranquillità, come se non gli avessi
fatto tutti quei complimenti. In circostanze normali si sarebbe
pavoneggiato per un buon quarto d'ora, invece...
«Dovresti guardare i tuoi occhi mentre ne parli, non
credo di averli mai visti così...accesi prima. E comunque ora
che le cose tra di noi si stanno sistemando, non ci sono problemi,
no?».
Cercai di assumere un'espressione interrogativa. «Chi
ti dice che abbia lasciato il karate per te?». Chiesi incrociando
le braccia al petto.
Lore sorrise . «So ancora fare due più due».
Inspirai una quantità indefinita di ossigeno, misto al
profumo del bagnoschiuma usato da Lore e mi dimenticai di ribattere.
Era sempre lo stesso, buonissimo odore che aveva addosso e notai anche
che aveva lasciato i capelli un po’ bagnati, come faceva dopo la
doccia. «Ti prenderai un accidenti fuori, vai ad asciugarteli
meglio, ti aspetto». Dissi mossa dalla preoccupazione.
Lore aggrottò le sopracciglia e mi guardò in modo strano.
«Che c'è?». Gli chiesi, dopo che fu rimasto in silenzio per troppo tempo.
«Sembra di sentire mia madre». Spiegò sforzandosi di non ridere.
«Ehi! Guarda che lo dico per te, se ti ammali son cavoli tuoi. A me non potrebbe fregar di...».
«Ok, ho capito. Torno subito». Intervenne prima
che iniziassi a parlare a sproposito e gliene fui grata. Prima di
rientrare, però, si guardò intorno furtivo...fermando lo
sguardo sugli allenatori. Tutti e tre ci voltavano le spalle. Lore si
morse un labbro, come preso da un'incredibile indecisione, e senza che
potessi farmi domande o tantomeno oppormi, mi tirò per un
braccio dentro con lui.
Non appena realizzai dove mi trovassi, per poco non urlai.
«Che fai? Non ci tengo a vedere degli sconosciuti mezzi
nudi!».
Lore sbuffò. «E dai, Giò, non c'è
più nessuno, non vedi?. Ti pare che ti avrei trascinata qui
altrimenti?».
Mantenni lo sguardo fisso e lui capì che la mia
risposta era un sì. Parve sul punto di dire qualcosa, ma
qualcos'altro dovette balenargli per la mente perché sorrise
malizioso. «Aspetta, hai detto sconosciuti».
Constatò e, vedendomi sempre più confusa, aggiunse:
«Quindi non ti dispiacerebbe vedere ragazzi conosciuti mezzi
nudi».
Il modo in cui marcò sulla parola "conosciuti" mi fece
rabbrividire. Un'altra occhiata d'intesa e compresi che stava
parlando di lui. «Oh...no...non intendevo dire questo».
«Stavo scherzando, Giorgia. So che l'idea di vedermi a petto nudo non ti elettrizza neanche un po'».
Aprii la bocca per parlare, ma la richiusi non trovando le parole giuste.
Sapevo che mi stava mettendo alla prova, ma ero comunque
indecisa tra il ti ho già visto a petto nudo ed è stato
tutto fuorché non elettrizzante e il se vuoi puoi spogliarti
adesso, così controlliamo che effetto hai su di me. Alla fine
non prevalse nessuna delle due, perché Lore mi riportò
alla mia amata sanità mentale. Per quanto possibile.
«Sarà meglio sbrigarci. Presto si accorgeranno della
nostra mancanza».
Lore lasciò cadere la sua borsa, che nell'atterraggio
emise uno strano tonfo sordo. La guardai incuriosita, chiedendomi cosa
contenesse, e poi riportai lo sguardo su di lui, che stava andando
verso gli asciugatori che fungevano da phon con passo veloce.
«C'era davvero bisogno che mi portassi qui?».
Domandai un po' a disagio. Era il tipico covo maschile. L'odore del
deodorante usato dai ragazzi era ancora forte e pungente.
Lore mi fece cenno di avvicinarmi e, dopo un attimo di
esitazione, lo raggiunsi titubante. Con un sorriso strafottente mi
lasciò l'asciugatore in mano e posizionò una delle panche
di legno sotto il getto da cui sarebbe uscita l'aria calda, sedendovisi
sopra.
«Son tutti tuoi». Mi esortò schiacciando
il bottone con una mano, che successivamente portò sulla mia
vita per avvicinarmi un po'.
Nonostante la panca fosse piuttosto bassa, Lore mi arrivava
comunque al petto...altezza perfetta per concludere la mia prima - ed
ultima - esperienza da parrucchiera. Scacciai l'imbarazzo per quella
vicinanza inaspettata e cominciai ad asciugargli i capelli con estrema
lentezza e senza una tecnica precisa.
Fu difficile concentrarsi in quella situazione, in cui le
nostre gambe si incrociavano alla perfezione e la sua mano si
muoveva impercettibilmente per tutta la zona circostante la vita,
tracciando disegni astratti con la punta delle dita.
Asciutti, i suoi capelli erano ancora più
biondi...quasi dorati. Senza rendermene conto mi persi nella loro
morbidezza e continuai il mio lavoro anche quando era ormai
abbondantemente finito.
La perfetta calma di quel momento venne interrotta solo da
Lore, che poggiò la testa sul mio petto e mi strinse con
entrambe le braccia, avvicinandomi ancora di più. Ormai eravamo
corpo contro corpo, pelle su pelle...e il suo calore, misto a quello
dell'aria dell'asciugatore mi fecero rilassare, nonostante il balzo
improvviso che aveva preso il mio cuore.
La Giorgia pudica lo avrebbe allontano, ma quella persa per
lui non lo mosse di una virgola, anzi...«Adoro i tuoi
capelli». Mi lasciai sfuggire e, nonostante il rumore fosse
forte, Lore parve sentirmi comunque.
«Stavo pensando la stessa cosa delle tue mani. Potresti
fare la massaggiatrice». Disse con naturalezza, allontanandosi e
spegnendo l'aggeggio che tenevo in mano con un mezzo pugno. Stese un
po' i muscoli e si alzò.
«Mi ha insegnato qualcosa mio padre». Sussurrai appena, ma Lore colse ancora ogni mia parola.
«Mauro?». Chiese riprendendo il borsone da terra senza alcuno sforzo, sebbene avesse l'aria di essere pesante.
Scossi la testa. «Il mio padre naturale».
Lore mi fissò serio. La solita traccia di
ilarità presente sul suo volto, in qualunque momento, era
svanita del tutto. E allora compresi: lui sapeva.
Certo le mamme parlano, mi ricordai mentalmente.
«Come sta?».
Feci spallucce ed abbassai lo sguardo. «Questa
settimana ci vediamo, vorrebbe che questa volta fossi io ad andare da
lui e si è persino offerto di accompagnarmi alla festa di
Rosaria domenica prossima».
«E...non sei contenta di rivederlo?». La voce di
Lore sembrò tremare. Inchiodai gli occhi nei suoi e capii che
doveva aver paura di dire qualcosa di sbagliato. Era la prima volta che
mi dava quell'impressione, perciò rimasi immobile a fissarlo
senza rispondergli.
«Oh, forse sono stato troppo invadente». Mormorò scompigliandosi i capelli.
Negai con un movimento leggero del capo e gli presi la mano.
«Abbiamo tutta la sera per parlare». Mi alzai sulle punte e
gli schioccai un bacio sulla guancia.
Fummo beccati in flagrante all'uscita dallo spogliatoio,
ovviamente, ma ce la cavammo con qualche scusa. Cioè, fu Lore a
parlare, usando qualche espediente - come il fatto che avesse
stravinto l'incontro - mentre io tenni gli occhi bassi, continuando a
mormorare scuse imbarazzate. Ma chi ci salvò davvero fu Cinzia.
«Oh, andiamo gente. È il bello dell'essere
giovani». Aveva detto con voce sognante. «Pensate, una
volta mi hanno beccata con il mio ragazzo nei bagni della scuola...e
non gli stavo certo asciugando i capelli». Ridacchiò come
se non ci fosse nulla di cui vergognarsi e Lore la imitò, sotto
gli occhi increduli miei e dei suoi colleghi.
«Sentito Giorgia? Dovremmo seguire l'esempio...».
Lo fulminai con lo sguardo e lui si zittì quasi all'istante, per poi sbuffare qualcosa sulla mia timidezza e pudicizia.
«Tienitela stretta, ragazzo, al giorno d'oggi è
difficile trovarne così. La maggior parte te la sbattono in
faccia al primo appuntamento...logico che poi ci caschi e alla fine ti
mollano». Brontolò Giorgio. Lasciando di stucco tutti i
presenti; eccetto Lore, che in quegli argomenti ci sguazzava come in
acque tranquille.
Questa volta gli pestai il piede prima che potesse dare la
propria opinione in proposito e lui emise un gemito di dolore,
chiedendomi cosa avesse detto o fatto di male.
Alla fine, parlando più del meno, la nostra piccola
infrazione del regolamento passò in secondo piano e Lore
riuscì persino a farsi prestare la macchina da Michele,
dicendogli che gliel'avrebbe portata quella notte stessa.
Una volta salutati, con la promessa che sarei andata a trovarli presto, ci dirigemmo alla Berlina del nostro allenatore.
«Sentiamo, da quando guidi?» Gli domandai
sorpresa, una volta raggiunto quel piccolo gioiello. Mia madre non
aveva mai accennato al fatto che avesse preso la patente e per di
più non l'avevo mai visto guidare. Per andare a scuola prendeva
sempre il pullman e di sera usciva a piedi. Mi sentii una sciocca nel
pensare a quanto attentamente avessi osservato i suoi spostamenti
per tutti quegli anni.
«L'anno scorso. Diciott’anni appena
compiuti». Rispose sintetico, aprendo lo sportello del lato del
passeggero per farmi salire.
«Ma tu non hai la macchina». Insistei e lui roteò gli occhi scocciato.
«Hai davvero bisogno di vedere la patente per credermi?»
Sospirai entrando in quello spazio ristrettissimo e chiudendo
la portiera al mio fianco con uno scatto forte. Avevo sempre il terrore
di metterci troppa forza e rompere qualcosa, ma se non ne avessi usata
abbastanza lo sportello sarebbe rimasto aperto e allora avrei potuto
rischiare la vita.
Sempre tragica, Giorgia. Pensai rassegnata, mentre Lore prendeva il suo posto con estremo agio.
«Non è la prima volta che la guidi, vero?».
«No, esatto».
Le sue risposte fredde cominciavano a preoccuparmi. Forse gli davano fastidio tutte quelle domande?
Dopo qualche metro constatai che fosse anche piuttosto bravo
a guidare e si sa che la curiosità è donna,
perciò... «Hai fatto molta pratica». Cominciai con
nonchalance, sperando che stavolta non lasciasse cadere nel vuoto la
conversazione.
«Sentiamo, cosa vuoi sapere?». Chiese rassegnato, svoltando in una strada che mi sembrava di non avere mai visto.
Presi un gran respiro e trovai il coraggio di sollevare il
mio dubbio. «La mattina vai a scuola in pullman, la sera esci a
piedi. Quando guideresti?».
Lore mi guardò con la coda dell’occhio e sorrise di sbieco. «Mi osservi».
Sentii le guance scottare. «Non era volontario, ti ho visto qualche volta per caso, dalla finestra…».
«Be’, è vero, qualche volta vado a piedi,
o mi vengono a prendere degli amici, ma solo quando i miei devono
uscire. Altrimenti prendo l’auto di mio padre».
«E te la lascia guidare?». Chiesi sconvolta.
Alessandro lasciava prendere deliberatamente la macchina a suo figlio?
Quell’Alessandro?!
Lore ridacchiò sinceramente divertito. «Certo
che no». Ci fu una breve pausa in cui una serie di pensieri
assurdi si susseguirono nella mia testa, poi proseguì. «La
prendo di nascosto, ovviamente. Ho fatto una copia delle chiavi. Un
giorno mi aveva chiesto di andare a far visita alla nonna, ma sa quanto
mi scocci prendere i mezzi pubblici per andare, così mi ha
convinto consentendomi di andarci in macchina. È stato facile e
per evitare che mi vedano faccio il giro a piedi fino al garage».
«Sei incredibile. Se un giorno ti scoprisse saresti…».
La macchina si fermò di colpo e capii che eravamo
giunti a destinazione. «Non lo scoprirà».
Disse soltanto, dopodiché scese e mi fece cenno di sbrigarmi.
Lo seguii e mi guardai intorno alla ricerca di qualcosa di
familiare. Niente. Mi sembrava di essere in mezzo al vuoto, poi
qualcosa catturò la mia attenzione: davanti a me c’erano
degli alberi più che familiari…pini e aranci.
Ci misi un secondo a capire dove ci trovassimo, ma lui mi
precedette comunque. «So che probabilmente ti eri fatta un
milione di film mentali su pizzerie, ristoranti e quant’altro, ma
ho pensato che come primo appuntamento questo fosse
il posto ideale».
Rimasi immobile ad osservare il verde circostante,
finché una ventata fredda non mi fece rabbrividire.
«Sono…».
«Delusa?». Provò a concludere la frase.
«Sorpresa». Lo corressi con un sorriso appena accennato. «Non me l’aspettavo».
«Andiamo regina delle nevi, so che stai già congelando».
Non ero mai stata in quella parte del parco, quella in fondo,
da cui io e Lore da piccoli eravamo sempre stati alla larga. Si diceva
ci fossero serpenti, mostri e altre idiozie simili lì; ma a
quanto pare erano tutte storielle per bambini. Era separata dal resto
semplicemente perché lì non c’erano giochi,
né panchine su cui sedersi. Mi chiesi se Lore me lo stesse
facendo attraversare solo per farmi esplorare qualcosa di nuovo,
insieme, come un tempo, ma quando si fermò in mezzo al nulla,
all’uscita dagli alberi e parecchio lontano dalla parte gremita
di gente, compresi che era proprio lì che voleva arrivare. Mi
chiese di porgergli il mio zaino e lo aiutai ad estrarne l’enorme
coperta calda, quella che adoperavo in pieno dicembre. La mia scelta
era stata proprio mirata.
Quella coperta la tenevo chiusa nell’armadio fino al
Natale successivo e mia madre non si sarebbe mai accorta della sua
assenza.
Tirammo fuori anche degli asciugamani vecchi che aveva
portato lui e li stendemmo a terra alla bell’e meglio.
L’erba era ancora bagnata a causa della pioggia dei giorni
precedenti, ma quelli sarebbero bastati a evitare che ci
infradiciassimo, e gli alberi ci riparavano dal forte vento che si
stava alzando. Tutto era perfetto, persino le urla lontane dei bambini
che giocavano sembravano un dettaglio fondamentale in quella
circostanza.
Sorrisi nel ricordare che pochi anni prima anche io ero una di loro. Eravamo due di loro.
Era così strano essere lì con lui, nel posto
che ci aveva visto crescere finché le nostre strade non si erano
divise; ma alla fine quella stranezza non si rivelò essere altro
che gioia mischiata ad un pizzico di nostalgia, che lasciai correre.
Quando tutto fu sistemato ci sedemmo sugli asciugamani,
coprendoci con la mia coperta pesante. Eravamo uno di fronte
all’altra, le gambe incrociate che si toccavano nel calore
già forte che ci avviluppava.
Era un momento così dolce e delicato che non osai
rompere il silenzio in cui eravamo piombati…uno di quei pochi
silenzi che in realtà celavano mille parole.
«Hai fame?». Mi chiese guardando il mio zaino. A
me era spettato portare il cibo, ma anche quello non era stato
difficile da procurare. Avevo da parte abbastanza soldi per fare la
spesa e quando mia madre era uscita per andare dalla nonna io mi ero
diretta al supermercato. Ci avevo impiegato tutto il pomeriggio, ma
alla fine ero stata abbastanza soddisfatta del risultato.
«No, per niente». Dissi reprimendo un brivido causato dall’aria gelida.
«Vieni qui, dai». Lore sciolse le gambe e io mi
ci misi in mezzo, con la schiena poggiata contro al suo petto. Il suo
viso era piegato sul mio collo, dove si infrangeva il suo respiro.
Serrai la bocca e le sue labbra bollenti si posarono sulla mia nuca,
mandando brividi ovunque.
Quando i tremori per il freddo cessarono, Lore smise di
lasciarmi baci su quella parte di pelle nuda e lo sentii irrigidirsi
leggermente. «Non ti ho portata qui solo per far una buona
impressione. Non ho scelto questo poso a caso…l’ho fatto
perché pensavo fosse giusto così».
Socchiusi gli occhi, completamente rilassata. In quel
momento, mi fidavo di lui come non mi ero mai fidata di nessun altro.
Non avevo paura dei suoi giri di parole…non mi avrebbe delusa,
non avrebbe distrutto quella bolla di felicità in cui ci eravamo
chiusi insieme. «Che intendi dire?».
Lore respirò a fondo, come se aspettasse quella
domanda per poter parlare . «Sei pronta a sentire la
verità?». Si fermò, non soddisfatto delle sue
stesse parole. «Tutta la verità?».
Note:
Ciao carissime lettrici! So che sono passati più di due mesi dall'ultimo giorno e che vi ho fatto aspettare decisamente troppo, ma vi prego di perdonarmi!
Questa volta non ho nessuna
giustificazione, mi sono semplicemente lasciata prendere dalle vacanze
e, anche se il capitolo era già pronto, rimandavo sempre
l'aggiornamento. Vi chiedo ancora scusa, cercherò di ridurre i tempi per i prossimi.
Per quanto riguarda il capitolo. Non mi sento di commentarlo
perché non
saprei proprio cosa dire...perciò lascio che siate voi a farlo!
Fatemi sapere se vi è piaciuto, se è valsa la pena di
aspettare e qual è stata la vostra "scena" preferita, se vi va.
La mia è stata quella degli spogliatoi, che tra l'altro non era
nemmeno in programma. È stato bello scriverla, così come
il resto del capitolo...Giorgia e Lore finalmente sereni! Ora
c'è da risolvere solo il problema con i genitori di Giorgia, che
non si fidano di lui.
Vediamo cosa ne uscirà fuori e se Lore riuscirà a farli ricredere sul suo conto. Voi che dite?
In ogni caso, la storia ormai è quasi conclusa. Non saranno
più di venti capitoli, forse anche di meno, ma è giuto
che giunga al suo capolinea ^^ Mi mancherete moltissimo!
ç_ç
Per finire, ringrazio di cuore
tutte le persone che hanno commentato lo scorso capitolo e tutte quelle che
hanno aggiunto la storia alle seguite, preferite e ricordate.
Scusate se non ho risposto alle recensioni, proverò a recuperarle.
Un bacione a tutte e buone vacanze!
Veronica
P.s: perdonate gli errori, se mi fossi messa a revisionare un'altra
volta il capitolo probabilmente avrei rimandato l'aggiornamento alla
fine del mese XD
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Capitolo 15 *** La verità non sempre fa male. ***
Capitolo 14: La verità non sempre fa male
«Qualunque
cosa sto per dire ti sembrerà inaccettabile ed
hai tutte le ragioni del mondo per ritenerla tale, così come
di
prendere la tua borsa, andartene e non volermi vedere mai
più». Lore abbassò lo sguardo. Aveva
paura e
dovetti ricorrere a tutte le mie energie per non allungare la mano
sulla sua, per confortarlo.
«Non sono neanche bravo con le parole».
Commentò
sarcastico, ma il sorriso che in quel frangente gli increspò
le
labbra era solo una copertura. Lo sapevo bene io. Lo sapeva bene
lui. Prese un profondo respiro e mi fissò dritto
negli
occhi. «Per sette anni - credimi, li ho contati anche io -
sono
stato un codardo». Fece una pausa in cui distolse lo sguardo.
«Mi vergogno persino a parlartene...cavolo, no, non sono
stato
semplicemente un codardo, sono stato un vero idiota».
«Lore, non ha senso che tu stia a giudicare il tuo
comportamento». Lo esortai, ma lui scosse la testa.
«Perché credi che sia cambiato tanto?».
Mi chiese a
bruciapelo ed io mi strinsi nelle spalle. Guardò dritto
davanti
a se per un interminabile eternità. «La
verità
è che non sono mai cambiato, te l’ho fatto
semplicemente
credere».
«Non credo di esserne sorpresa».
Lore riportò bruscamente l'attenzione su di me,
allontanandola
dalla miriade di parole che stava selezionando. «Lo
sapevi?». Chiese incredulo.
«No». Risposi. «Era solo un pensiero, che
però
mi sembrava totalmente assurdo e, comunque, l'idea mi ha sfiorata solo
dopo che...sì, insomma, dopo che mi hai chiesto di darti
un'altra possibilità». Conclusi arrossendo.
Restammo in silenzio per un po', poi Lore annuì.
«Ti ricordi quando ho iniziato ad ignorarti?».
Strabuzzai gli occhi. «Sette anni-».
«Non in termini di tempo, che periodo era, te lo
ricordi?». Mi interruppe lui. Il viso esternamente
impassibile.
Per quanto non capissi, decisi di rifletterci su.
Periodo...periodo...che fosse...? «Da quando ho iniziato le
medie».
«Esatto». Disse lui senza nessun particolare
inflessione
nella voce. «O, se preferisci, l'anno in cui ho raggiunto
l'apice
della mia popolarità - se così possiamo
chiamarla».
Fissò il prato mosso da un leggero vento e colse una
margherita.
«Oppure ancora, l'anno in cui tu ti sei fatta la tua fama da
secchiona». Lo ascoltai in silenzio, mentre strappava con
precisione i petali del fiore. Ed era bellissimo.
«Popolarità e denigrazione non possono andare di
pari
passo, Giorgia, o almeno di questo ero convinto...i miei amici ne erano
convinti».
Una vaga idea di quello che stava per dire cominciò a
formarsi
nella mia mente e il sangue mi si gelò nelle vene. Mi
aggrappai
all'erba con una mano, per farmi forza, anche se una parte di me voleva
solo aggrapparsi a lui.
«"Ma sei davvero amico di quella di prima?" mi chiedevano
ridendo
"è una sfigata assurda!". Io inizialmente rispondevo di
sì e mi arrabbiavo per quelle stupide insinuazioni, ma
presto i
loro commenti diventarono insistenti, le loro battutine fastidiose ed
io cominciai a vacillare nel dare quella stessa risposa. Allo stesso
tempo, il numero dei miei amici cresceva a dismisura - ovviamente
ciò era dovuto al mio carattere ribelle (l'ho sempre avuto)
e
all'ammirazione che le ragazze nutrivano nei miei confronti, non erano
amici veri - e io ci tenevo a quella popolarità, mi piaceva
vedermi circondato di gente sempre nuova, pronta ad elogiarmi e a
trattarmi come un idolo...mi sentivo forte in un certo senso, ma ora mi
rendo conto che erano solo i miraggi della piena
adolescenza». Si
fermò con un sorriso triste e strappò un ciuffo
d'erba
che lanciò davanti a se. «Capirai che la posizione
in cui
ero - e ancora sono - non è facile da mantenere, devi sempre
pensare prima a cosa gli altri vorrebbero che tu faccia, a cosa si
aspettano da te...e a quel tempo loro pensavano che tu fossi solo una
perfettina a cui interessava lo studio, un bersaglio facile da colpire,
prendere in giro e anche umiliare. Non ero contento di vedere come
venivi schernita da quelli che io definivo amici, ma resta il fatto che
da quando hanno iniziato con le loro cattiverie io non ho mai fatto
nulla per fermarli, avevo paura di mandare tutto all’aria. E
poi...poi mi sono ritrovato ad incoraggiarli e, ancora, ad essere io a
farti del male».
La temperatura mi sembrava calata di parecchi gradi, ma non volevo
lasciare che i sentimenti - troppi, forti e incontrollabili - mi
rendessero poco lucida. Dovevo ascoltare tutta la
storia...perché non finiva così, vero?
«Non volevo veramente farlo, non ne traevo alcun
piacere…e
se i miei amici non ti avessero presa così di mira non ti
avrei
mai fatto del male. Mi sforzavo di trovare un lato divertente nella
cosa, lo stesso che vedevano gli altri, ma poi mi ritrovavo a pensare
alla Giorgia che era stata mia amica, a questo parco e mi chiedevo se
il nostro tempo trascorso qui non fosse la rappresentazione
più
corretta di ciò che è divertente. Mi rispondevo
che
quello era stato il mio passato, che ero cresciuto ed era giusto
lasciarti indietro...come un piacevole ricordo. Sì, ero
deciso a
calpestare la nostra amicizia pur di non perdere la mia
popolarità».
Quell'ultima frase mi squarciò il petto in due. Cacciai
indietro
le lacrime e mi alzai in piedi. «Continua». Dissi
con un
fil di voce, voltandomi di spalle per nascondermi dal suo sguardo.
C'era per forza una parte positiva, ci doveva essere.
«Dopo qualche tempo divenne un’abitudine renderti
la vita
un inferno, non so cosa mi successe, ma ci fu un periodo in cui, alla
fine, credetti di capire perché gli altri si divertissero
tanto
nel farlo. E questo periodo terminò quando arrivai in terza
superiore, l'anno in cui venni bocciato. Fu un anno orribile: le
ragazze che frequentavo mi sembravano odiose, i miei amici
insopportabili e cominciai a pensare che forse non era quella la vita
che volevo e che perderti era stato un errore imperdonabile. Iniziai
nuovamente la terza ed incontrai Davide...mi ricordò subito
te -
con quegli occhiali da secchione e i vestiti più orrendi di
quelli del prof Consuelo - mi dissi che non avrei fatto lo stesso
errore e decisi di aiutarlo. Avevo fallito con te e non potevo far
nulla per recuperare, ma lui era ancora in tempo...potevo renderlo
degno di essere mio amico, così che gli altri miei amici non
gli
si potessero mettere contro. Anche questo è un pensiero
sbagliato, lo so, ma non credo sia stato un male cambiare per
lui».
Deglutii e gli posi l'unica domanda che riuscii a formulare.
«Se
avevi capito di aver sbagliato, perché non sei venuto da me
a
chiedermi di ricomin...».
Lore si alzò di scatto e le parole mi si bloccarono in gola.
La
sua presenza mi dominava come sempre. «Chi mi avrebbe
garantito
che non ti avrei più fatto del male? Ci ero riuscito una
volta e
niente avrebbe impedito una seconda, Giorgia. Se ho continuato a
trattarti in quel modo è solo perché non volevo
che tu
pensassi di poter tornare mia amica, se fosse successo e ti avessi
ferita di nuovo non me lo sarei mai perdonato. In quel modo, invece,
potevamo continuare a vivere entrambi. Comunque, da allora ho sempre
cercato di andarci piano…e non so se ci sono riuscito, forse
no.
Be’, è meglio concludere la storia,
così puoi
insultarmi quanto ti pare...ascolterò ogni singolo impropero
se
ti farà sentire meglio. Per tutta l'estate avevo continuato
a
chiedermi perché le ragazze con cui stavo mi stancassero
subito
ed ho pensato che in qualche modo potesse essere collegato a te. Eri
l'unica amica che avessi mai avuto, cosa avevano in meno le altre per
essermi comode solo quando avevo voglia di qualcosa di farci sesso?
Mancava il dialogo, i loro discorsi mi annoiavano e io non gli avrei
mai rivelato nulla di me. Avevo bisogno di risposte e così
ho
sfruttato la parte migliore di me per avvicinarti, quella estetica. Di
avvicinarti come amica non se ne parlava, in questo ero
deciso,
ma come potrai immaginare le cose mi sono sfuggite di mano. Oltre a
sentirmi a mio agio ero anche irrimediabilmente attratto da te e capii
perché le altre non mi interessavano. Io voglio te, Giorgia.
Il
resto della storia lo sai già».
Quando Lore finì di raccontare, respirai a fondo per ridare
aria
ai polmoni. In tutti quegli anni mi ero fatta mille filmini mentali su
quella che poteva essere la ragione del suo abbandono, ma mai la
versione più semplice - quella che aveva raccontato lui - mi
era
passata per l'anticamera del cervello. La risposta era così
chiara...eppure era l'unica possibilità che non avevo
vagliato.
Nonostante questo, quando le immagini del passato mi passarono davanti
con una nuova luce pronta a giustificarle, mi sembrò di
rivivere
una vita che non era stata mia.
Sentii un fruscio alle mie spalle e intuii che Lore si era alzato.
Attesi il calore della sua mano, ma non arrivò.
«Giorgia,
il silenzio è l'unica risposta che non vorrei
sentire».
Presi coraggio e mi voltai. «Mi dispiace...è
l'unica che
posso darti questo momento». Risultai più dura di
quanto
sperassi, ma sapevo che lui non ci sarebbe rimasto male...non
più del necessario.
Lore mi guardò in silenzio, soppesando il mio sguardo e le
mie
intenzioni con il suo solito, finto disinteresse, dopodiché
annuì. «Capisco. Be', prenditi il tempo che ti
serve, io sono qui».
Lo osservai tornare seduto e poi stendersi con le mani dietro la testa.
La mia coperta era rimasta ingarbugliata da un lato e lui non l'aveva
nemmeno sfiorata. Accanto a lui, c'era lo spazio necessario per me.
Non volevo andarmene, in quel momento più che mai volevo
stargli
vicino, ma non era la cosa giusta da fare, dovevo raccogliere le idee.
Così raccattai le mie cose e tastai la borsa in cerca del
cellulare. Niente.
Dopo qualche minuto di vane ricerche, il rumore delle cianfrusaglie
sembrò catturare l'attenzione di Lore e i suoi occhi mi
furono
addosso. Nell'incrociarli, mi arresi all'evidenza. «Puoi
prestarmi il cellulare?». Chiesi in imbarazzo.
Lore mi guardò incerto per la mia richiesta, poi
frugò
nelle tasche dei jeans ed estrasse il telefono. Era touch come quello
di tutti i miei coetanei, ma avrei trovato il modo di usarlo.
«Grazie». Mormorai prendendolo. Nel farlo, le
nostre dita
si sfiorarono appena. Ma quel minimo contatto bastò a far
accelerare la corsa del mio cuore.
Mi sedetti sull'erba e in qualche modo riuscii a trovare il numero di
Davide in rubrica. Al secondo squillo rispose. «Ehi, amico,
perché mi chiami nel bel mezzo del tuo appuntamento
galante?».
«Ehm, Dav, sono io...».
A quel nome, un lampo di sorpresa attraversò gli occhi di
Lore.
Probabilmente si aspettava che chiamassi mio padre...e l'avrei fatto se
non mi fossi trovata in quel posto sperduto. Che scusa avrei trovato?
Per lui ero a casa di Davide...
«Giorgia? Che succede?». La voce preoccupata di
Davide mi fece sorridere.
«Niente di grave, tranquillo, volevo solo chiederti se...puoi
venirmi a prendere?».
«Che cosa ti ha fatto? Passamelo».
«Dav, davvero, nulla. Vieni all'ingresso del parco, ti
spiegherò tutto. Intanto chiedi a tua mamma se
può
aggiungere un posto a tavola. Ti aspetto».
Non attesi oltre, chiusi la conversazione e mi alzai da terra. Avrei
cenato a casa di Davide e sarei rientrata all'orario previsto, sua
madre era una donna talmente gentile che non avrebbe obiettato. Non
volevo risultare maleducata nell'autoinvitarmi, ma se fossi tornata a
casa troppo presto, i miei avrebbero fatto domande e io ne avevo
già fin troppe a cui dare una risposta.
Lore prese il cellulare senza fare una piega, come se il fatto che
avessi chiamato il suo migliore amico non lo interessasse minimamente,
ma prima che mi allontanassi, mi serrò il polso con la mano.
Non
c'era forza nella sua stretta, solo determinazione. «Credevo
che
volessi prendere la tua decisione da sola».
«Lore...». Lo rimproverai. «Lasciami
andare».
«Davide ti influenzerà e lo sai anche
tu».
«Non voglio decidere da sola, voglio solo riflettere
senza...distrazioni».
Sentii la presa allentarsi e tirai un sospiro di sollievo per la sua
arrendevolezza, ma non appena cercai di alzarmi, le sue dita si
strinsero di più nella carne e mi trascinarono su di lui. Mi
portò la mano imprigionata sul cuore che batteva
all'impazzata.
Feci per dire qualcosa, o aspettai che fosse lui a farlo, invece mi
baciò. Lentamente, mi lasciò andare la mano e
poggiò le sue sulle mie guance, tenendomi fermo il viso
mentre
giocava con le mie labbra, mordendole, e poi con la mia lingua. Fu
tutto talmente veloce e inaspettato che non feci in tempo a reagire e,
quando lo feci era ormai troppo tardi. «Ho detto che non
voglio...».
«Distrazioni?». Concluse la frase per me,
sorridendo.
«Oh, come vuoi, ma se hai davvero intenzione di lasciarmi
è meglio che ricordi quello che senti quando sei con
me».
Qualche minuto dopo ero davanti all'ingresso del parco. Lore era
rimasto lì e io gli avevo lasciato gli asciugamani...in
fondo
non ero arrabbiata con lui, solamente molto confusa. Le persone non
restano sempre le stesse ed io credevo davvero che lui fosse
cambiato...in meglio. Ma allo stesso tempo avevo bisogno di
metabolizzare tutte le confessioni che mi aveva fatto quel giorno,
l'idea di lasciarlo – anche se non stavamo insieme - non mi
aveva
sfiorata nemmeno per un secondo. Mi aveva fatto soffrire, è
vero, ma quello era il passato, così come passato erano i
nostri
momenti da bambini e, se quello che mi aveva raccontato era vero, ad un
certo punto la sua sfuggevolezza nei miei confronti era stata
giustificata dalla voglia di proteggermi.
La casa di Davide era molto grande, almeno il doppio della mia e
nonostante ci fossi stata parecchie volte, ancora non sapevo orientarmi
bene. Il soffitto era molto alto e dalla sala, degna di una di quelle
ville d’altri tempi, partiva un corridoio lungo almeno cinque
metri che portava alle camere da letto e al bagno. E proprio in quel
corridoio mi ero persa parecchie volte, quando diretta verso al bagno
mi ero ritrovata invece in qualche stanza da letto.
Quando arrivammo, la cena era quasi pronta, quindi non ebbi modo di
raccontare immediatamente i dettagli. Tutto ciò che Davide
sapeva si limitava alle tre parole contate che gli avevo accennato in
macchina e cioè: “So la
verità”.
Verità. Quante cose nascondeva quella singola parola, alcune
talmente dolorose che una volta scoperta ti sconvolgeva ogni
prospettiva che avevi della tua vita. Ad ogni modo, non era
così
che mi sentivo io. Ero confusa e...allo stesso tempo tutto mi era
così chiaro.
«Giorgia, cara, che piacere rivederti». Mi
salutò la
mamma di Davide mandandomi un bacio. Tale donna era un vero portento:
dolce e assolutamente con i contro cazzi. Ecco, se avessi potuto
scegliere che tipo di donna diventare, avrei fatto il suo nome.
«Vale lo stesso per me, Dora». Replicai di buon
umore, mentre posavo cappotto e sciarpa all’ingresso.
«Spero che tu abbia avuto una valida ragione per abbandonarmi
al
mio irrimediabile destino di mamma a tempo pieno».
Proseguì ironica, sempre intenta a girare i suoi intrugli.
Feci per rispondere, ma qualcuno mi anticipò. E quando
quella
voce arrivò vivace e squillante, mi irrigidii sul posto.
«Era troppo impegnata a vedersi con il suo ragazzo per
pensare a
te, mamma».
In pochi passi Carol mi fu davanti e, munita di un sorriso falsissimo,
mi salutò con la mano. «Vero, Giorgia?».
Aprii la bocca e la richiusi all’istante. Non mi aspettavo di
vederla in casa, era sempre fuori con gli amici e le poche volte che ci
eravamo incrociate non era uscita dalla sua camera nemmeno per sbaglio.
La fissai in silenzio, silenzio poi prontamente interrotto da Dora, che
alle parole della figlia aveva lasciato cadere il mestolo nella pentola
che aveva davanti. Una delle trecento intente a bollire.
«Cosa?!». Esclamò infatti, con la bocca
a mezzo
centimetro da terra. «Ti sei fidanzata senza dirmi
nulla?».
«Mamma». Intervenne Davide in imbarazzo quanto me.
«Non siete amiche, non deve raccontarti tutto e
poi…».
«Non sono fidanzata». Riuscii a dire continuando a
guardare
Carol con sospetto. «Non
proprio…almeno». Aggiunsi
più timidamente.
«Non è ufficiale, quindi?». Si
informò Dora con il broncio.
Scossi la testa e fissai lo sguardo sul pavimento, interrompendo il
contatto visivo con Carol.
«Ohhh, capisco».
Ero pronta a ritenere l’argomento archiviato, ma la sorellina
adorata di Davide era proprio decisa a farmi sotterrare dalla vergona.
«È Lorenzo il fortunato, mamma. Te lo ricordi?
Quel gran
figo che è venuto qui qualche volta. Biondo, fisico da
mozzare
il fiato…».
Dora parve pensarci, poi si illuminò sbattendo vittoriosa la
mano sul bancone della cucina. «Lorenzo? Il ragazzo a cui ho
consigliato di fare il modello appena ha messo piede qui? Quel
Lorenzo?».
«Sì, mamma». Rispose Davide scocciato.
«Possiamo non parlare di lui?».
Guardai il mio amico con la coda dell’occhio e gli sorrisi
appena
appena per ringraziarlo. Lui mi fece l’occhiolino e poi mi
trascinò in bagno per lavarci le mani.
«Che problemi ha tua sorella con me?». Dissi non
appena l’acqua del rubinetto prese a scorrere.
Davide fece spallucce. «Gelosia…credo».
«Gli piace ancora Lore?». Chiesi perplessa.
«Be’, se trovi una qualunque ragazza che abbia
avuto un
incontro del terzo tipo con lui e che non vorrebbe ripetere
l’esperienza, fammi un fischio. Magari tu sarai
più
fortunata».
«Wow». Dissi provando una strana gelosia. E per un
istante
desiderai ardentemente di non essermene andata da quel parco.
«Ma lui ha scelto te, no?». Davide dovette cogliere
quella
sfumatura nella mia voce. «Insomma non so cosa sia successo
tra
di voi stasera, ma posso assicurarti che non pensa più alle
altre. Da quando state insieme si può parlare con lui anche
di
cose che non siano sesso, taglie di reggiseno e
quant’altro».
«Non stiamo insieme».
Davide sbuffò. «A scuola sarai anche una secchiona
del
cavolo, ma per quanto riguarda i ragazzi sei proprio ottusa».
Si asciugò le mani e spense la luce. «Andiamo, sto
morendo di fame».
«Giorgia, sei fortunata!». Esclamò Dora
spegnendo i
fornelli. Mi fermai sorpresa. Non avevo neanche messo piede in cucina
ancora.
Superata la confusione seguii Davide al tavolo. «Ah,
sì?». Chiesi sedendomi accanto a lui e a quel
punto fu
inevitabile trovarmi davanti gli occhi insistenti di Carol. Ricambiai
lo sguardo freddamente.
«Il menu di questa sera prevede anche le cotolette alla
milanese che ti piacciono tanto».
«Grazie, Dora». Dissi un po' in imbarazzo. Quella
donna mi
viziava troppo e temevo che il suo atteggiamento potesse regalarmi
un'altra frecciatina da parte di Carol.
«Perché un giorno non porti qui il tuo
ragazzo?».
Chiese infatti quest'ultima con un sorriso falso. «Pranzo,
cena...merenda. Potremmo passare del tempo insieme, scommetto che ci
divertiremmo tantissimo.
«Sì, ti prego!». Implorò Dora
congiungendo le
mani in segno di preghiera. «Non vedo Lorenzo dall'anno
scorso ed
era proprio una buona forchetta. La mia cucina ha bisogno di
soddisfazioni».
Davide lanciò un'occhiataccia alla sorella, a cui lei
rispose con una scrollata di spalle.
«Ehm...io....glielo chiederò».
Balbettai, sicura che
non fosse assolutamente una buona idea. Anche se, pensandoci bene, il
pensiero di rimarcare il territorio con Carol era parecchio allettante.
Questa prospettiva mi fece sorridere. «Anzi, credo proprio
che verrà se glielo chiedo io».
Scandii ogni parola con gli occhi fissi sulla ragazza davanti a me, che
per un secondo sembrò perdere la sua sicurezza,
riacquistandola
poi con la risposta successiva.
«Benissimo». Disse fieramente. Intanto Davide, al
mio fianco, mi guardava sconvolto.
«Oh, non vedo l'ora!». Disse Dora entusiasta e
così
ci servì la prima portata di cibo. Chiesi mentalmente al mio
stomaco di essere clemente quel giorno, perché le portate di
Dora erano sempre parecchio abbondanti.
La cena trascorse abbastanza tranquilla, feci persino il bis di
cotoletta, e tra uno sguardo inceneritore e l'altro scambiato con
Carol, arrivai alla fine senza sentirmi eccessivamente piena.
Erano ancora le dieci di sera. Chissà cosa stava facendo
Lore…
Era ancora al parchetto?
Con questi pensieri ancora in testa, finalmente io e Davide riuscimmo a
sfuggire alle amorevoli grinfie di mamma Dora e alle fastidiose
frecciatine di Carol rinchiudendoci in camera sua.
Al sicuro da orecchie indiscrete e con un peso enorme dentro che avevo
assolutamente bisogno di tirare fuori, rimandare il discorso e le
spiegazioni non avrebbe avuto senso.
Quando ebbi finito mi sentivo terribilmente stanca, avevo parlato tutto
d’un fiato e con tanta foga da sorprendermi io stessa.
Davide,
invece, non aveva ancora detto nulla e io aspettavo con ansia il suo
parere. Era un ragazzo saggio per la sua età e i suoi
consigli
erano sempre ben ragionati e perspicaci.
Perciò, mentre lui rifletteva con un’espressione
dolce e concentrata io pendevo dalle sue labbra.
«Se non te la senti di farlo ora, prenditi il tempo che vuoi.
Non
ti preoccupare delle conseguenze, non c'è niente di male se
lo
fai patire un po', è troppo abituato ad ottenere subito
ciò che vuole». Disse infine, facendomi tirare un
sospiro
di sollievo. Temevo dicesse che le mie preoccupazioni erano stupide o
che avrei dovuto perdonarlo all’istante, ma il suo
suggerimento
era allettante e in linea con i miei pensieri.
Sospirai prendendo a giocare con il cuscino di Davide.
«È
questo il problema, Dav, non sono arrabbiata con lui...non come dovrei,
almeno, e la cosa mi manda in bestia».
Davide mi guardò stranito per un'infinità di
tempo, poi
sembrò sbloccarsi. «No, fammi capire. Tu stai
facendo
tutta questa manfrina solo perché credi che dovresti essere
arrabbiata con lui?».
Ok, detta così suonava malissimo, ma nella mia mente aveva
un
significato tutto suo. Cioè, se lo avessi perdonato...
Scossi la testa per liberare la mente e deviai lo sguardo sul cuscino.
«E per quale ragione dovresti esserlo, Giorgia?».
Improvvisamente sentii il calore della sua mano e sobbalzai incrociando
i suoi occhi pieni di comprensione. «Io...non lo so.
È
tutto così assurdo. La sua storia, le motivazioni che mi ha
dato, ma soprattutto il fatto che credo che sia davvero
cambiato».
«Magari è così, anzi, ne sono
sicuro». Ribatté prontamente.
Mi torturai il labbro inferiore con i denti, meditando su quella
risposta. «Già, magari».
«Prova a pensarci. Perché credi che non sia
più il ragazzo che ti rendeva la vita
impossibile?».
E le parole mi uscirono come un fiume in piena.
«Perché
quando ci siamo dati una seconda possibilità era tormentato,
come se stesse andando contro tutti i suoi principi, ho letto paura nei
suoi occhi, Davide. Ma non paura per se stesso, paura di ferirmi. E io
sono sicuro che sia sincero questa volta, perché so che non
potrebbe più ferirmi. È...è
impossibile... nessuno
sarebbe in grado di infliggere tanta sofferenza ad una persona e a
ricalpestare di nuovo il suo cuore in questo modo subdolo. Ho capito
che non posso stare aggrappata al passato per sempre, devo voltare
pagina...e credevo di averlo già fatto da molto tempo, sai?
Ma
non è così! Ho continuato a vivere nei ricordi,
gli ho
permesso di condizionare le mie scelte presenti e...questo è
sbagliato. Ma allo stesso tempo ho paura di dimenticare,
perché
se cancello il passato, se dimentico come mi sono sentita ferita quando
ho visto Lore voltarmi le spalle, se dovesse tradirmi di nuovo dovrei
ricominciare tutto da capo, soffrirei il doppio, capisci?».
«Perfettamente».
«Sono una stupida, vero?».
«No, sei innamorata».
«Non...». Tentennai. Un conto era ammetterlo a me
stessa,
un altro con la mia migliore amica e mia cugina, ma con Davide
era...imbarazzante. Lui era un ragazzo! Il migliore amico di Lore, per
giunta.
Arrossii vedendo la sua espressione divertita.
«Ok, forse lo sono».
Davide si lasciò scappare una risata mentre annuiva e si
sporgeva in avanti per abbracciarmi. «Senza forse, fino al
midollo, ma...». Disse tra i miei capelli.
«Anche lui lo è». Proseguì in
un sussurro
rassicurante. «E comunque, se vuoi sapere la mia, Lore
è
davvero e sinceramente cambiato questa volta, anche se continuo a
pensare che bramarti non gli farebbe che bene».
«Se lo dici tu». Mormorai inebriandomi del suo
delicatissimo profumo, che in qualche modo mi rimandò al mio
cruccio più grande.
Sbuffai e mi staccai da Davide con stizza. «Ad ogni modo, hai
ragione, dovrà sudarsi il mio perdono questa
volta». Poi
mi venne un'idea malsana, assurda ed altamente idiota. «Io
non
sono fidanzata». Dissi meccanicamente.
«Tecnicamente lo sei».
Ignorai la sua precisazione e continuai a seguire il filo dei miei
pensieri «...e non credo ti farebbe così
schifo se
ti chiedessi di...». Presi un profondo respiro, rossa dalla
vergogna. Lo stavo davvero per dire? «Baciami».
Chiesi con
voce stridula. Mi succedeva ogni volta che dicevo una stronzata. E
quella lo era.
Davide, dal canto suo, mi guardò perplesso per un paio di
minuti, forse per elaborare bene la mia richiesta, infatti si ritrasse
spaventato e con gli occhi sbarrati dalla paura.
«Ok, mamma deve aver messo qualcosa di avariato nel cibo.
Vado a
chiamare gli addetti alla sanità culinaria».
Constatò seriamente preoccupato.
«Ehi, non sono mica così orrenda! E poi la
principessa di
non-mi-ricordo-quale-fiaba ha baciato un rospo
disgustoso...». Mi
difesi d'istinto.
«Frena, frena. Non si tratta di questo. Lo stai facendo per
vendetta e poi...». Blaterò Davide con fare
professionale.
«Certo che lo sto facendo per vendetta! E poi Lore ha baciato
almeno tutte le ragazze della nostra scuola e io solo lui, non mi
sembra giusto! Non è equo».
«Giorgia, ti rendi conto di quello che stai dicendo? No,
vero?».
«Sì, invece. Almeno per una volta voglio cambiare
i nostri ruoli, voglio che sia lui a rincorrermi».
«E vorresti farlo baciando me?».
«E chi altro? Sei il suo migliore amico! E l'unico che mi
bacerebbe, a dirla tutta. A scuola non ho amici».
Per un attimo Davide sembrò valutare davvero la mia
proposta.
«Non se ne parla nemmeno! Giorgia, tu non sei
così».
«E non essere così a cosa mi ha portata? A
dipendere dagli sbalzi d’umore di un idiota
putt...».
«Ok, comincio a pentirmi di averti suggerito l'idea di farlo
patire. Non era questa la vendetta che avevo in mente e se proprio ci
tieni a portarla avanti allora dovrai trovarti un altro volontario,
oppure potrai fingere di aver baciato qualcuno che hai conosciuto...da
qualche parte, basta che non sia io».
«Non crederebbe mai che ho baciato uno sconosciuto, ma
soprattutto che questo avrebbe mai baciato me...». Biascicai
offesa. «E poi perché non tu?».
Protestai con il
broncio.
Davide arrossì grattandosi la nuca imbarazzato.
«Perché sono fidanzato, Giorgia».
Per poco non toccai il pavimento con la mascella a quella notizia.
«Come?!».
«Beh...si....da poco...non...beh...». Davide stava
balbettando! Davide stava balbettando! La cosa non era affatto di poco
conto.
«E perché non me l'hai detto? È da mesi
che io ti rompo con i miei problemi amorosi...».
«Perché è avvenuto tutto molto in
fretta e...non sapevo se fosse una cosa seria».
«Lo è?».
Davide sorrise e seppi la risposta immediatamente.
Battei le mani entusiasta, pronta a fare un interrogatorio al mio
amico. Poi, un pensiero mi fece inorridire. «Ho davvero
cercato
di indurti a tradire la tua ragazza?».
Ci guardammo per una frazione di secondo e poi scoppiammo a ridere.
Dopo aver ricavato le informazioni necessarie sulla ragazza che aveva
rubato il cuore del mio migliore amico - e ottenuto la promessa di un
incontro con lei al più presto possibile - decisi di tornare
a
casa. Parlare con Davide era stata una liberazione, ma soprattutto
utile per fare un po' di chiarezza nella mia testa, cosa che sembrava
assolutamente rara da trovare in quel periodo. Avevo intenzione di
riferire a Lore la mia decisione, che sarei passata sopra ai suoi
errori e al nostro passato pur di stare con lui, ma non subito e
soprattutto non senza vendicarmi.
Quando entrai in casa le voci dei miei genitori provenivano dal salotto
ed erano coperte dal suono della tv accesa. Mi bloccai di scatto: non
stavano ancora dormendo e la cosa era piuttosto strana e preoccupante
dato che era domenica sera. Al suono della porta che sbatteva
si
erano azzittiti improvvisamente, chiaro segno che stessero parlando di
me. E quegli elementi non prospettavano decisamente nulla di buono.
Prendendo coraggio e superando ogni indugio, raggiunsi la sala e li
trovai intenti a guardare uno sciocco reality show di cui - ci
scommettevo - non conoscevano neanche il nome. Poi loro li odiavano
quei programmi! Chi credevano di prendere in giro?
«No, continuate pure, voglio sentire». Dissi
posando la
borsa per terra. Odiavo quando cercavano di nascondermi qualcosa e ne
parlavano alle mie spalle.
In un primo momento provarono a giustificarsi e a blaterare cose che
non stavano né in cielo né in terra, ma vedendo
la mia
determinazione a non ascoltare le loro scuse decisero di informarmi dei
fatti.
«Ha chiamato Fabrizio...è tornato in Italia e dice
che
vuole vederti». La voce di mia madre, come ogni volta in cui
parlava di lui, non fu che un flebile sussurro allarmato e rassegnato.
Perché lei sapeva che ogni volta che sentivo il nome del mio
padre biologico reagivo all'opposto di come avrebbe voluto lei:
sorridendo come una bambina davanti ad una lecca-lecca gigante.
«Davvero?! E quando è tornato? Vuole
vedermi?».
Domandai a raffica, davanti all'espressione vuota di mia madre.
«Non lo so, non sono cose che mi interessano, ma ha detto di
chiamarlo il prima possibile».
«E tu, ovviamente, avevi intenzione di tenermi nascosto tutto
questo, vero?». Dissi con acidità,
perché era
quello che faceva ogni volta. Quante occasioni avevo sprecato di vedere
mio padre per colpa sua!
«Giorgia, lo sai che non sono d'accordo».
«Ma sai anche quanto mi faccia piacere vederlo e non dovresti
nascondermelo dato che sai quanto ho sofferto per il vostro
divorzio».
Mia madre si tuffò il viso nelle mani e scosse la testa. Era
un
discorso che avevamo affrontato parecchie volte, ma lei sembrava non
capire il mio punto di vista. Era convinta che fosse un male per me
vedere l'uomo che mi aveva dato la vita.
Spostai lo sguardo su Mauro. Mauro che mi incoraggiava sempre, Mauro
che mi aiutava sempre a convincere la mamma quando sorgeva il solito
problema: mio padre tornava in Italia e voleva vedermi.
Questa volta tuttavia, lo trovai assente, come se quella fosse l'ultima
delle sue preoccupazioni. E vedendo il mio unico alleato voltarmi le
spalle mi sentii improvvisamente sola.
Li guardai con disprezzo e girai i tacchi, chiudendomi finalmente in
camera mia. Trovai il cellulare sulla scrivania e aprii le chiamate
perse: ce n'erano cinque di mio padre. Nessuna di Lore. Non seppi se
apprezzare il suo gesto di lasciarmi lo spazio e il tempo di decidere,
oppure essere delusa del fatto che non mi avesse cercato neanche una
volta. La seconda ipotesi era infantile quanto il mio tentativo di
baciare Davide per ripicca, così la scartai immediatamente.
Controllai l'orologio e rinunciai al proposito di chiamare subito mio
padre, così cercai in rubrica il numero di Martina. Lei
sapeva
quanto soffrissi per la lontananza di mio padre, quanto fossi felice di
vederlo quelle poche volte che riuscivamo ad incontrarci, mi avrebbe
capita ed io sarei riuscita a superare il nervosismo.
Ma anziché lei, fu la segreteria a rispondere. Imprecai e
provai
a chiamare Rosaria. Anche lei mi avrebbe dato un po’ di
conforto,
ma il cellulare squillò a vuoto. Probabilmente stava
dormendo e
aveva lasciato il silenzioso.
L’unica, altra persona che potevo chiamare e che mi avrebbe
ascoltata era Davide, ma la questione di mio padre era troppo lunga e
complicata da spiegare con una telefonata. Sentii bruciarmi gli occhi:
ero davvero sola. Forse per la prima, vera volta in vita mia.
Per distrarmi passai in rassegna i nuovi messaggi, ma ne trovai solo
uno di Rosaria che mi ricordava del suo compleanno. Mancava poco ormai.
Lanciai il cellulare sul letto e presi qualche libro a caso. Cosa
c’era di meglio dello studio per non pensare ai miei problemi
personali? Certo, una volta finito di studiare sarei tornata al punto
di partenza, ma almeno avrei rimandato il corso dei pensieri che mi
frullavano per la testa. L’indomani poi avrei chiamato mio
padre
per metterci d’accordo sul nostro incontro e a quel punto
avrei
potuto condividere la mia gioia con Martina. Era tutto sistemato, vero?
E allora perché mentre sottolineavo paragrafi di cui non
capivo
il significato continuavo a piangere in silenzio?
Al limite dell’esasperazione, pensai all’unica
persona che avrebbe potuto aiutarmi in quel momento.
Un tasto dopo l’altro composi il suo numero e quando premetti
la
cornetta verde il pensiero che potesse negarmi il suo sostegno mi
assalì insieme alla paura.
«Lore?». Lo chiamai tra i singhiozzi, sentendo la
sua voce assonnata. «Possiamo vederci?».
********************
Dopo aver messo il pigiama e cercato di far passare il rossore degli
occhi, uscii lentamente dalla mia camera. La tv era spenta e la casa
era avvolta dal silenzio della notte. Sgattaiolai in punta di piedi
fino all’ingresso e sperai che non avessero chiuso a chiave
la
porta. Era raro che lo facessero, la nostra zona era molto tranquilla e
per di più era possibile aprirla solo
dall’interno.
Presi il giaccone appeso lì vicino e aprii quel tanto che
bastava per scivolare fuori.
Socchiusi la porta alle mie spalle, facendo attenzione a non chiuderla,
e lo trovai davanti a me. Era ancora spettinato, con indosso un
pantaloncino che gli arrivava alle ginocchia, una magliettina leggera e
sopra la felpa di una tuta. I capelli erano ancora spettinati e gli
occhi leggermente assonnati.
Nel vederlo così, con lo sguardo preoccupato intento a
studiarmi, non potei fare a meno di sorridere.
«Allora? Cosa succede? Mi hai fatto spaventare a
morte». Disse lui con apprensione.
«Hai ragione, scusa, non avrei dovuto neanche chiamarti
probabilmente…ma mi sentivo uno straccio e non sapevo a chi
rivolgermi. Martina ha la segreteria, Rosaria non risponde, Davide non
sa…». Ecco che straparlavo come sempre in sua
presenza, ma
Lore mi conosceva bene ormai e non si fece problemi ad interrompermi.
«Alt. Fermati. Mi vuoi dire cosa c’è che
non va
senza farmi l’elenco delle persone che hai chiamato prima di
me e
ricordarmi che sono l’ultima ruota del carro?». La
sua voce
era sarcastica, ma nascondeva una vera punta di fastidio.
Ok, forse non era stato propriamente carino fargli capire che era stato
l’ultima spiaggia. «Si tratta di mio
padre». Ammisi
guardandolo fisso, questa volta.
Lore parve allarmarsi. «Mauro?».
Scossi la testa, ripensando alla sua noncuranza di poco prima.
«Il mio vero padre».
La sorpresa animò gli occhi di Lore. «Vi vedete
ancora?».
Annuii.
«E fammi indovinare. Tua mamma non vuole».
«Come sempre! E non capisco il perché, cavolo!
Dovrebbe
essere felice che mio padre mi cerchi ancora, che si preoccupi per me,
no? E questa volta anche Mauro mi ha voltato le spalle, sembra assente,
come se questi non fossero affari suoi».
Lore si sedette sul gradino più basso delle scale, ma non mi
invitò a raggiungerlo. Era nel suo carattere non essere un
gentiluomo e a me andava bene anche così.
«Anche se tuo padre si ricorda di te una volta
all’anno sei comunque felice di rivederlo?».
Lo guardai stranita. «È fuori per lavoro, Lore,
non per divertirsi».
«E ti ha mai chiamato dall’estero?».
«No, ma…». Mi fermai non sapendo cosa
dire. Mi ero
aspettata incoraggiamento da parte sua, non che mettesse in discussione
le buone intenzioni di mio padre.
«Quindi mi stai dicendo che dovrei rinunciare
all’unica
possibilità che ho di passare del tempo con lui? Solo
perché non ha tempo di chiamarmi?». Chiesi un
po’
delusa. Forse avevo sbagliato a rivolgermi a lui, avrei dovuto sapere
quanto fosse contorto nei suoi ragionamenti e poi eravamo quasi sempre
in disaccordo.
«Non sto dicendo questo, Giorgia. La scelta è tua
e tua
madre sbaglia ad ostacolarti, ma prova a capirla…forse non
le va
che lui si ricordi di te solo quando torna qui».
«Non è per questo che mi ostacola, le
dà fastidio
che sia così felice di vedere l’uomo di cui si era
stufata».
«Credi ancora che sia questo il motivo per cui l’ha
lasciato?».
«Certo che sì! Quale altro potrebbe essere
altrimenti?».
Lore scosse le spalle. «Magari tua madre non voleva crescere
una figlia con un padre poco presente».
«Non ti ho chiamato per parlare delle ragioni del divorzio
dei miei genitori». Dissi acidamente.
«Ma devi parlarne, devi comprenderle, se vuoi capire
perché tua mamma non vuole che vi vediate. Finora sei sempre
rimasta nella convinzione che tua madre l’abbia lasciato
perché si era stancata di lui, ma se non fosse
così?».
Provai a ribattere, ma rinunciai all’istante. «Ma
anche se
scoprissi che è quella la motivazione, cosa cambierebbe?
Credi
che non avrei più voglia di vederlo?».
«No, Giorgia, smettila di pensare che tutti vogliano
convincerti
che sia sbagliato vederlo. È sbagliato attribuire a tua
madre
una colpa che non ha. Mettiti nei suoi panni, cresceresti un figlio con
un marito sempre fuori per lavoro? E se tua madre fosse rimasta col tuo
padre biologico, se tu non avessi avuto un padre come Mauro sempre al
tuo fianco, come credi che sarebbe stato? Sono queste le domande che
devi porti. Vedi tuo padre, ne hai tutto il diritto, rimprovera tua
madre quando ti impedisce di incontrarlo, ne hai tutte le ragioni, ma
non pensare che lo faccia con cattiveria».
«Tu cosa faresti?». Chiesi a bruciapelo nascondendo
il nodo che avevo in gola e mi sedetti al suo fianco.
«Lo vedrei, ma non lo farei passare per un santo.
Innanzitutto
gli chiederei perché non trova mai un minuto per
chiamarmi».
Ascoltai le sue parole con attenzione e presi a giocare con il bordo
del cappotto. «I tuoi ragionamenti…hanno un
senso».
Gli concessi, infine. «E nessuno mi ha mai fatto pensare a
queste
cose, non mi hanno mai fatto vedere l’altro lato della
medaglia».
«Perché avevano paura di vederti
soffrire».
«E tu non ne hai?». Mi venne spontaneo chiedergli e
lo vidi
sorridere con la coda dell’occhio. «Sei brava con
le
domande a trabocchetto, ma la risposta è sì. Ho
sempre
paura di vederti soffrire ultimamente, ma in questo caso era necessario
che qualcuno ti aprisse gli occhi».
Restammo in silenzio per un po’, io intenta a guardare il
pavimento lucido, lui a pensare a chissà cosa. Poi mi decisi
a
fare un passo avanti.
«Lore, per oggi…».
«No, non c’è bisogno che tu dica
nulla».
«Ce n’è bisogno, invece. Ho quasi
baciato Davide per ripicca».
Lore mi guardò confuso. «Davide? Non sapevi che
è…».
«No, l’ho scoperto stasera. Ma a quanto pare tu lo
sapevi già».
«Certo che lo sapevo! È da mesi che rompe i
coglioni su
questa Giada…sai quante volte gli ho suggerito di farci
sesso
per togliersi lo sfizio? Ma lui è davvero innamorato, a
quanto
pare». Disse con una smorfia.
«Cosa c’è di male nell’essere
innamorati?» Domandai per nulla disinteressata.
Lore analizzò la mia reazione con cura, come se fosse
cascato
dalle nuvole. Possibile che non si fosse ancora accorto che ero
innamorata di lui?
«Niente, ma…».
E a malincuore, non seppi mai cosa avrebbe detto, perché la
porta di casa mia si aprì di scatto e io saltai in piedi
pregando che fosse mia madre.
Con lei sarebbe stato più facile spiegare e probabilmente
aveva
già intuito che tra me e Lore c’era qualcosa, mio
padre
invece…lui non avrebbe capito. E infatti non
capì.
«Giorgia, quale parte del stai lontana da lui non
ti è chiara?».
Note:
Ciao a tutti! Non ci provo neanche
a giustificare il ritardo imperdonabile perché non saprei cosa
dire, posso solo chiedere scusa a quelli che aspettavano il capitolo da
mesi.
Comunque... eccoci qui! Giorgia e
Lorenzo sono tornati e la loro storia è davvero quasi al culmine
arrivati a questo punto. Cosa ne pensate delle motivazioni di Lore? E
della reazione di Giorgia?
Spero che il capitolo non vi abbia deluso, anche perché ci ho messo una vita per scriverlo XD
Come sempre ringrazio tutti quelli che hanno recensito e chi ha messo la storia tra le preferite, le ricordate e le seguite.
Al prossimo capitolo, se vi va!
Veronica
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