In Flames

di Ruri
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX ***
Capitolo 10: *** Capitolo X ***
Capitolo 11: *** Capitolo XI ***
Capitolo 12: *** Capitolo XII ***
Capitolo 13: *** Capitolo XIII ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


 

In Flames

 

Capitolo I

 

 

Il piede scivolò di qualche centimetro e il ragazzino si fece sfuggire un grido d’irritazione dalle labbra, abbarbicandosi al costone roccioso per non cadere più in basso.

Una volta ritrovato l’equilibrio riprese a respirare, togliendosi i capelli resi umidi dal sudore dalla faccia. 

Camminare per le vecchie rovine era sempre pericoloso, ma Soheil non si faceva troppi problemi al riguardo. L’aria mistica, magica, che poteva respirare fra quelle vecchie costruzioni era motivo sufficiente per fargli correre qualche rischio. 

 

“Te ne torni fra i ruderi?” 

Amin lo prendeva in giro regolarmente per questo, piantandosi sulla faccia un sorrisetto strafottente. Lo stesso sorriso che ad ogni gara di corsa Soheil provvedeva a strappargli senza alcuna difficoltà.

Per quanto provassero, nessuno era più rapido di lui. Il che, oltre a divertirlo con i suoi coetanei, era anche comodo dal punto di vista professionale.

Quando passi le giornate a rubacchiare il possibile, devi mettere in conto di saper correre velocemente.

 

Il ragazzino riprese a camminare, quasi arrampicandosi fra le mura crollate, mentre i grandi rilievi di calcare venivano levigati dal vento che limava le espressioni di Re e generali e grandi sacerdoti di migliaia d’anni fa.

Soheil non si sentiva mai solo da quelle parti. Era sempre circondato da una folla silenziosa, una folla di dignitari, geni fantastici con quattro o sei ali, donne bellissime che mostravano pudicamente solo le caviglie alle occhiate invadenti di tutti gli altri.

E poi c’erano le scene di guerra.

Una guerra silenziosa.

Bellissima e ordinata come una danza.

Gli unici gemiti che Soheil udiva guardando quelle immagini erano provocati dal vento.

Si accucciò, sfiorando con le dita un rilievo rappresentante un carro da guerra. Chissà chi era l’uomo che correva così spavaldo alla battaglia.

La sua immagine era rimasta, ma il nome?

Sarebbe rimasto il nome?

No, certo che no.

Soheil ghignò. Che cosa stupida pensare di riuscire a guadagnarsi l’immortalità solo facendosi incidere nel calcare.

Come se l’immortalità servisse davvero a qualcosa, poi.

 

Gli ultimi raggi del sole illuminavano di rosso i ruderi di Susa, la Città dei Gigli. Sembrava un cimitero in fiamme. 

Con entrambe le mani Soheil spinse indietro i capelli, mugugnando. Era l’ora che preferiva quella: quando Susa si ammantava di vermiglio; ma non poteva rimanere a lungo. Farsi sorprendere dalla notte sarebbe stato quando meno sciocco, meglio tornare verso l’altra Susa, quella ancora viva.

Ridiscese agilmente e si mise a correre, evitando con un sorriso di sfida i vari ostacoli che la città in fiamme gli poneva davanti. Una svolta, un salto: facile.

Soheil gridò, mentre cadeva nel buio.


 

L’impatto con l’acqua fu qualcosa di devastante. Soheil percepì chiaramente il fiato che gli veniva aspirato fuori dai polmoni mentre tutto diventava tenebra. Per un istante perse completamente il senso dell’orientamento, intrappolato in un vortice d’acqua e bolle d’aria.

Cominciò a scalciare con furia, annaspando per riuscire a riconquistare la superficie malgrado i vestiti bagnati lo trascinassero verso il basso.

L’aria gli riempì di nuovo i polmoni e Soheil si guardò attorno, confuso. La schiena gli doleva a causa dell’impatto con l’acqua e sentiva in bocca e nelle narici uno sgradevolissimo sentore di marcio. Alzò lo sguardo, imprecando a mezza voce con respiro affannoso.

Riusciva a scorgere il cielo color porpora attraverso l’apertura da dove era caduto: una bocca circolare e frastagliata dalla quale era stato inghiottito senza pietà. Non era così lontano, il bordo. Ma due metri erano più che sufficienti.

Sguazzò fino alle pareti, percorrendole con le dita senza riuscire a trovare altro che viscido muschio. 

“Dannazione, dannazione, dannazione…” ripeteva la parola fra sé come un mantra, mentre sfregava con le unghie le pareti umide alla ricerca di un qualsiasi, dannato, appiglio. 

Per un istante la paura gli chiuse lo stomaco e percepì l’impellente desiderio di vomitare. 

Non sarebbe uscito di lì. Non da solo.

Sarebbe morto e avrebbero trovato il suo cadavere verdastro e gonfio d’acqua solo dopo molti giorni, sicuramente nessuno l’avrebbe neanche riconosciuto a quel punto.

Graffiò disperatamente il muro di quella che era stata un tempo, probabilmente, una cisterna, senza neanche accorgersi delle imperfezioni della roccia che gli scavavano rivoli sanguigni sui polpastrelli.

“Aiuto! AIUTO! QUALCUNO MI TIRI FUORI DI QUI!” gridò, prendendo a calci e pugni l’acqua.   La voce rimbalzò fra le pareti, rimbombando e stordendolo, ma all’esterno non arrivò che un flebile sussurro.

Fuori, il cielo color porpora virava al violetto.

 

Quando cadi, precipiti nel buio; quando ti abbatti sul fondo, sei nel buio; quando qualcuno copre l’ingresso, neanche guardando in alto riesci a vedere la luce.

Soheil vuol dire stella. Il ragazzino lo trovò ironico, visto che in quel momento le stelle non lo stavano aiutando per niente.

La poca luce che producevano non era sufficiente a fargli vedere alcunché. Non che ci fosse poi molto da vedere, ma Soheil aveva la brutta impressione di trovarsi immerso nella tenebra. Una tenebra viscida, appiccicosa, con mostri che gli sfioravano le gambe pronti ad afferrarlo subito sotto la superficie.

Freddo, fame, sete: tutto era passato in secondo piano. L’unica cosa che Soheil provava in quel momento era paura.

Fra i ragazzi che, come lui, avevano eletto a casa i vicoli di Shush lui sicuro era uno dei meno paurosi. Non lo spaventava correre qualche rischio per fregare due soldi in più ad un incauto turista, né giocare d’azzardo davanti alla polizia. Neanche infilarsi nei vicoli meno raccomandabili lo aveva mai spaventato, anche se certo c’erano persone dalle quali era meglio stare alla larga.

Eppure in quel momento provava un terrore folle.

Non riusciva a spiegarselo razionalmente, non ci provava nemmeno. Si era arrochito la gola urlando e strappato due unghie nel tentativo di scavare quella pietra millenaria, con l’unico risultato di provare un dolore lancinante alle mani ed essere riuscito a staccare un po’ di muschio.

Sarebbe morto lì. Ma non era l’idea della morte in sé a spaventarlo.

Non riusciva a temere la morte.

Era il prima che lo terrorizzava. Essere rinchiuso in quella tenebra lo stava facendo lentamente impazzire.

Per quello non si stupì più di tanto quando vide il demone.

 

 

 

 


Welcome to Hell

***

Piccolo angolino dell'autrice. Questa è una storia su un personaggio originale e per un bel po' non appariranno personaggi canonici, siate dunque clementi. Sì, è uno Spectre. Si accettano supposizioni sul suo totem anche se molti lo conoscono già (*C*! Vi amo tanto voi-sapete-chi! *C*). Un esperimento, in qualche modo, che però mi ha divertita molto e mi divertirà ancora.

Spero che possa risultare gradito anche a chi non milita nel Lato Viola della Forza :P

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


 Capitolo II

 

 

"Ripetilo se hai il coraggio!”

Soheil ringhiò, piantando il ginocchio nelle costole del coetaneo dopo averlo sbattuto sul terreno, le mani pronte a stringergli la trachea.

Javeed sospirò e gli circondò la vita con entrambe le braccia, staccandolo da un Amin pesto e malconcio. 

“Stai buono Soh. Non ha alcun senso quello che stai facendo.” disse con calma mentre rimetteva il ragazzino recalcitrante a terra. La reazione di Soheil non si fece attendere: appena fu di nuovo libero si voltò e sputò sul viso abbronzato di Javeed. Quest’ultimo non fece una piega, limitandosi ad alzare la mano e appioppare a Soheil un sonoro ceffone.

“Ora datti una calmata, d’accordo? Nessuno di noi ti stava dando del bugiardo, ma la tua storia è quanto meno poco credibile.”

“Diciamo pure che te la sei inventata Soh.” aggiunse Amin ridacchiando e per quest’infelice affermazione si guadagnò un’altra occhiata rovente da parte di Soheil.

“Non sto raccontando storie, ve l’assicuro.” sibilò il giovane, sedendosi sulla prima sgangherata sedia libera. All’interno del locale nessuno aveva fatto troppo caso alla breve rissa : il fumo ammantava praticamente ogni cosa ed erano tutti troppo impegnati nei loro affari per badare ai tre ragazzi.

“E hai visto un demone allora. Dovresti ringraziarlo se è stato lui a tirarti fuori da lì.” Javeed prese la cosa con filosofia, arruffando i capelli ancora umidi di Soheil. “Altrimenti Shush avrebbe perso il suo miglior corridore e Majid avrebbe fatto festa per tre giorni.”

Soheil chinò il capo, fissando il tavolo con poco interesse.

“Vi assicuro che non sto mentendo. C’era davvero un demone. Aveva un’armatura nera, grandi ali nere come quelle di un pipistrello e le corna sul capo. Il suo ghigno ecco… sembrava un teschio.”

“Sì e magari sputava anche fuoco dalle narici.” sogghignò Amin, guadagnandosi uno scappellotto sui capelli biondi.

“Piantala tu, o la prossima volta non vi separo e lascio che finisca di strozzarti.”

“Non mi credete eh?”

Soheil lanciò in alto la pesca che aveva tenuto da parte fin dal mattino e la riprese al volo, irritato. “Che motivo avrei avuto per inventare una storia del genere eh?”

Javeed si strinse nelle spalle senza dire niente mentre Amin borbottava qualcosa d’incomprensibile riguardo l’egocentrismo altrui.

Soheil non rispose alla provocazione, limitandosi ad addentare la pesca dopo averla pulita sommariamente su una manica. Non stava mentendo. Aveva visto davvero un demone, ma non sapeva se era stato lui a tirarlo fuori dalla cisterna.

Si erano guardati e poi, molto semplicemente, Soheil si era ritrovato fuori nella notte. Non gli piaceva granché l’idea di esser preso per pazzo, ma era sicuro di averlo visto.

Sicuro. E d’accordo, non è che stesse benissimo nella cisterna ma non era tanto fuori di testa da mettersi ad immaginare cose del genere!

Il succo della pesca gli colò sul mento e Soheil non fece la fatica necessaria per agguantare un tovagliolo di carta, limitandosi a pulirsi con la manica. 

“Invece di discutere di queste scemenze, non ci si era accordati di ritrovarci qui per qualcosa di più interessante?” Javeed sogghignò, mentre tirava fuori dalla borsa di tela un grosso involto racchiuso nella carta di giornale.

“Tieni Soheil. Sia mai che ci dimentichiamo del tuo compleanno. Anche se mezzanotte è passata da un pezzo e siamo in ritardo… ma non è colpa nostra, sei tu che ti sei buttato in un pozzo.”

Amin si allungò sul tavolo per abbracciare l’amico. D’accordo, litigavano un giorno sì e l’altro pure, ma lo facevano perché si conoscevano da tempo. Su cose importanti come i compleanni non si transigeva invece.

Soheil ridacchiò imbarazzato, gettando l’osso della pesca spolpata in un angolo del locale e tirando verso di sé il pacco. 

Prima di aprirlo lo voltò da tutti i lati, esaminandolo e cercando d’indovinare cosa potevano essersi inventati come regalo. Non sembrava niente di particolare, una cosa rettangolare spessa circa cinque centimetri. Dopo averlo scosso per un po’ vicino l’orecchio giunse anche alla conclusione che non suonava. Sotto l’odore dell’inchiostro a buon mercato del giornale però si sentiva qualcos’altro. Sapeva di nuovo e, malgrado fosse rigido, gli sembrava in qualche modo morbido.

“Aprilo invece di fare tutte queste scene!” sbottò Javeed, e Soheil obbedì con una risata, stracciando la carta di giornale.

“Un...libro?”

Per un istante ci rimase quasi male. Che scherzo era quello? Un libro? A lui?

E che se ne faceva di un libro?!

Annusò la copertina, di spesso cartone rosso, poi senza degnare di uno sguardo il titolo prese a sfogliarlo. Più per dare soddisfazione ai suoi amici che per reale interesse.

Un libro non scritto. C’erano solo immagini, tantissime. Disegni spettacolari.

“Direi che potresti trovarci persino il tuo demone qui dentro. E’ una raccolta di disegni mit...mat…mer...” Javeed lanciò un’occhiata ad Amin che gli suggerì sottovoce la parola mancante. “Mitologici, ecco. Vedi? Qui c’è l’Arcangelo Gabriele . Sai, lo stesso che porta a Maometto la rivelazione di Dio.”

No, Soheil non lo sapeva. O meglio, non glien’era mai importato granché della religione. Erano belle favole, d’accordo. Niente di più, niente di meno.

Ma quel libro invece era interessante. Si fermò ad osservare uno strano animale in parte leone, con artigli d’aquila e una testa di capra sul dorso, la coda un serpente attorcigliato pronto a sputare veleno. Poi voltò di nuovo pagina e vide un carro nero, trainato da quattro cavalli di bronzo che avevano gli zoccoli e gli occhi colmi di fiamme.

Voltò il libro per mostrare l’immagine a Javeed, puntando il dito sulla didascalia. “Cosa c’è scritto qui? Chi sono questi?”

Esitante Javeed lesse: “Ofneo, Nitteo, Aetone e Alastor dice. I cavalli di Hades. Gl’Incubi li chiama.”

Soheil chinò la testa di lato e osservò a lungo l’immagine capovolta.

 

 

 

Welcome to Hell

 

***

Eccoci di nuovo qui. 

Prima di tutto, i ringraziamenti ai recensori.

Adarion: Sì, i Persiani son dannosi e sai che nelle mie mani possono essere più dannosi del solito. Benvenuto nel Lato Viola della Forza! Ghghghgh 

Shinji: Non sai quanto mi abbia confortato l'approvazione di Hadessama. E di Mathias. E i baci. Davvero, io ci sto mettendo un sacco d'amore in questa cosa e sono felice che si veda *C*

Meiou Hades: Sono una persona crudele ad interrompere sul più bello, lo so. Ma era necessario *C* L'ambientazione l'amo tantissimo e spero si noti. Probabilmente ci saranno delle inesattezze qua e là, ho cercato di documentarmi il più possibile ma sull'Iran odierno so relativamente poco. Spero la storia risulti comunque gradita e ti ringrazio per la fiducia! Starò ben attenta a non tradirla. Come vedi il totem è abbastanza chiaro fin da subito :P

 

Dunque eccoci qui, il seguito. Un po' di precisazioni che possono tornare utili. I nomi dei cavalli di Hades vengono dal De Raptu Proserpinae di Claudiano ( Orphnaeus crudele micans Aethonque sagitta/ ocior et Stygii sublimis gloria Nycteus/ armenti Ditisque nota signatus Alastor./ Stabant ante fores iuncti saevumque fremebant/ crastina venturae gaudia praedae [...]). Ovviamente lui non li chiama Incubi, questa è una mia personale interpretazione. Per chi abbia interesse a sapere cosa intendo per Incubo ecco un link che può spiegare parecchio, per quanto sia decisamente incompleto. Diciamo che fornisce un'idea.

 

http://en.wikipedia.org/wiki/Nightmare_(Dungeons_%26_Dragons)

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


 Capitolo III

 

 

Il giovane appoggiò una mano contro la parete per evitare di cadere e fissò in basso, cercando il responsabile della sua perdita d’equilibrio. Malgrado si fosse rapidamente coperta di polvere la copertina rossa quasi brillava sull’asfalto. Javeed si chinò a raccoglierla, pulendola sommariamente. Riconosceva quel libro. 

E gli sembrò stranamente leggero. Lo aprì, spinto dalla curiosità, e rimase perplesso davanti allo spettacolo che gli apparve davanti: a parte un paio di pagine le altre erano state tutte accuratamente strappate. 

Soheil all’inizio non era sembrato troppo contento del regalo, questo era da ammettere, eppure a Javeed era parso che l’avesse infine apprezzato. Ma arrivare a strappare le pagine e gettare il tutto! Questo non se l’aspettava.

Mugugnò qualcosa d’incomprensibile e si tolse dal centro della strada, alzando lo sguardo verso la finestra dell’amico. Era comunque lì per una visita ed ora era anche curioso di vedere cosa avrebbe inventato Soheil quando gli avrebbe rimesso sotto al naso quella copertina vuota.

Anche se, in realtà, non gli faceva mai piacere andare a trovarlo.

Soheil viveva in un bugigattolo, ma non era tanto la povertà della stanza a disturbare Javeed: la sua non era poi tanto migliore. Quello che gli dava fastidio era l’arredamento. 

La stanzetta era sempre ricolma degli oggetti più disparati e dall’utilità controversa: Soheil raccoglieva ogni singola cosa in grado di accendere anche in minima parte la sua curiosità e poi la sistemava secondo un ordine tutto suo.

In mezzo a quel caos c’erano anche oggetti di discreto valore, soprattutto reperti archeologici che il ragazzo non si faceva il minimo scrupolo di trafugare dagli scavi, sistemandoli poi insieme a una collezione di accendini dalle forme più disparate; delle uova di legno dipinto; una colonna vertebrale che chissà dove aveva ripescato; una macchinetta del moto perpetuo; bottiglie vuote particolarmente strane e un centinaio di altre cose che Javeed non si era mai preso la briga di censire.

La scala cigolò mentre saliva al secondo piano, gli altri abitanti del palazzo non parevano troppo interessati al suo passaggio. Tutti, nel quartiere, badavano a farsi gli affari propri.

Fortunatamente.

“Ehi Soh, sei in casa?” gridò Javeed dopo aver bussato. 

Da dietro la porta si sentì un tonfo e poi un grido in risposta.

“Sì sì, entra è aperto, ma porc...”

Javeed scostò l’uscio il tanto necessario per poter sbirciare all’interno, poi si fece coraggio ed entrò rimanendo immobile sulla porta di casa a fissare l’amico.

E’ impazzito fu il primo pensiero a frullargli nella testa.

Soheil si stava arrampicando su una scala dall’aspetto non esattamente stabile, con una serie di chiodi in bocca e un’espressione decisa. 

“Soheil…” mormorò Javeed recuperando l’uso della lingua “Cosa diamine stai facendo?”

“Non si vede scusa?”

Soheil fissò l’amico con perplessità, biascicando la risposta per non far cadere i chiodi. Con una mano sosteneva una pagina del libro contro il soffitto mentre con l’altra cercava di sistemare il chiodo necessario a tenerla definitivamente ferma lassù; il martello era appoggiato su un gradino della scala e probabilmente era stato quello cadendo a fare rumore pochi minuti prima.

Javeed alzò lo sguardo, stringendo la copertina fra le mani.

Le pagine strappate erano tutte lì, attaccate al soffitto.

Doveva essere stato un lavoro immane, toglierle tutte senza rovinarle e poi appiccicarle lassù, soprattutto per i non pochi disegni che occupavano due pagine.

Ovviamente alcuni ormai erano nascosti per sempre, ma la cosa non sembrava preoccupare troppo Soheil.

“Senti Javeed, lo so che è bello, l’ho fatto io d’altronde. Ma se mi dai una mano attacco anche l’ultimo e scendo da questo trespolo traballante, d’accordo?”

Javeed annuì e si fece più vicino, passando il martello all’amico. Soheil orientò il disegno in diverse posizioni prima di decidere, alla fine piantò gli ultimi chiodi e fissò il lavoro con espressione soddisfatta.

Tutto il soffitto della stanzetta era ricoperto di disegni ora. Javeed si accorse che formavano uno strano corteo, una specie di spirale. 

Al centro riconobbe il disegno con il Dio dei Morti sul suo carro, da quello si dipanavano altri mostri ed esseri mitologici delle più disparate culture senza un apparente legame.

Attorno al carro c’erano una specie di drago rachitico, un’aquila dal piumaggio di svariati ed inverosimili colori e un grifone. Poi a ventaglio Javeed ne vide moltissimi altri: un’arpia, una donna fantasma che sembrava urlare di dolore, un altro drago circondato di statue di pietra, un minotauro, un uomo in nero con le labbra sporche di sangue, un altro circondato da ombre...

Javeed distolse lo sguardo prima di farsi prendere dalle vertigini. Non che fosse esattamente brutto tutto quell’insieme, ma era fin troppo inquietante per i suoi gusti.

“Allora Javeed, piace?”

Soheil sorrise, le mani sui fianchi e lo sguardo rivolto al soffitto.

“Bhe un gran lavoro lo ammetto Soh… quando ho trovato questa vuota per terra pensavo che il nostro regalo ti avesse disgustato. Hai un modo tutto tuo di dimostrarlo ma sembri aver gradito parecchio invece.”

Javeed gli porse la copertina, sogghignando. Con un sospiro Soheil controllò di non aver dimenticato nessuna pagina rilevante all’interno, poi senza neanche guardare se la buttò alle spalle e fuori dalla finestra.

“Sì sì ho gradi…” una sequela d’imprecazioni colorite sui costumi sessuali libertini di un dio e della sua pletora di santi si fece udire dalla strada, interrompendo la frase di Soheil. Oltretutto, la voce era  ben conosciuta da entrambi i ragazzi.

Javeed si avvicinò alla porta, aprendola proprio mentre Amin finiva di fare le scale di corsa, con il libro in mano.

“Che diamine fai Soh?! Si trattano così i regali eh?!”

Soheil alzò gli occhi al cielo, disperato.

“Ma quella dannata copertina è una persecuzione!”

Javeed scoppiò a ridere, recuperando il libro dalle mani di Amin per porgerlo al legittimo proprietario.

“Sai che ti dico Soh?” sogghignò, mentre gli mollava la copertina. “Bruciala.”

 

 

Welcome to Hell

***

Cosa dire? Sono commossa dalla pubblicità che mi ha fatto Rucci (per la precisione qui. Si, ricambio con tanto amore, anche se dubito serva altra pubblicità ad una scrittrice magnifica come lei *C*). Ma tanto, penso piangerò viscido per dodici anni, sono troppi complimenti tutti insieme e non me li merito çOç

MeiouHades: Eh. Soheil non è granché aperto alle critiche in generale. Sono contenta di vederti qui, spero la storia continui ad intrigarti anche se per ora avanza un po' lentamente *C* E sì, l'Incubo è magnifico. *spande amore*                              

Beat: Non ti preoccupare! çOç Poi tu conosci già la storia quindi... ma grazie dell'amore, quello serve sempre! Serve tantissimo!!


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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


 Capitolo IV

 

 

Le strade di Shush erano assimilabili ad un groviglio inestricabile, soprattutto quelle dei quartieri più bassi dove i vicoli e le viuzze senza nome non si contavano.

I turisti, di solito, non erano così pazzi da arrivare fino a lì. Per la città erano una risorsa, sia per gli onesti che per i meno inclini ad obbedire alla legge, quindi si evitava di ammazzarli. Traumatizzarli invece non era considerato un problema. 

Majid controllava, da sempre, il passaggio fra i quartieri abitati da popolino impoverito e quelli dove bazzicavano i turisti incoscienti. Lo faceva con un certo ardore, un po’ perché credeva davvero nel suo lavoro di poliziotto, un po’ perché da qualche anno a questa parte tutta la cosa aveva assunto i caratteri di una sfida personale.

In generale i delinquentelli del quartiere giravano al largo appena avvistavano Majid o uno della sua cricca, evitando di fare guai almeno quando ce l’avevano davanti.

Infischiandosene solennemente, Soheil continuava invece a fare i suoi porci comodi a prescindere dagl’insulti del poliziotto.

Una sfida personale fra i due: Soheil ripuliva l’ignaro turista; Majid lo vedeva; Soheil scappava.

E mai, in anni, Majid era riuscito ad arrivare a sfiorare il ragazzo. Lo rincorreva fra i vicoli per un po’ finché improvvisamente sembrava venir risucchiato dal terreno: semplicemente Soheil scompariva per tornare solo il giorno dopo con un sorriso strafottente sulla faccia.

 

Il sole splendeva allegro e Majid si tolse il cappello per asciugarsi il sudore dalla fronte, esasperato. L’estate aveva il potere di metterlo sempre di cattivo umore. 

Una coppia di turisti anglosassoni ciarlava tranquillamente a pochi metri da lui, fotografando a destra e a manca quelli che ritenevano angoli particolarmente esotici e particolari della città.

Soheil sorrideva dall’altro lato della strada, irritante.

Majid l’avrebbe volentieri acchiappato per il collo e sbattuto contro il muro, ma sapeva bene che sarebbe stato sufficiente un passo e Soheil sarebbe scomparso fra i vicoli andando a puntare altre prede ignare. Questi, almeno per ora, erano inconsapevolmente salvi.

In realtà, Majid sperava di coglierlo sul fatto. La sfida consisteva in questo: riuscire un giorno ad acchiappare quel ragazzino strafottente e riportare il maltolto ai legittimi proprietari.

 

Javeed aveva spesso redarguito Soheil su questo modo di fare. Soheil rideva e continuava, imperterrito. Un paio di ragazzi un giorno si erano messi ad imitarlo e Javeed l’aveva preso per il bavero e scrollato un po’.

“Finché rischi solo la tua, di dannata pellaccia, puoi fare quel che ti pare Soh. Ma non istigare altri a stuzzicare Majid, d’accordo?”

A Soheil non interessava avere una pletora di ragazzini adoranti, quindi aveva acconsentito. Non che gl’importasse poi molto in realtà della loro salvezza ma rischiare di essere messo nei guai per causa loro non gli piaceva affatto come idea.

“Un giorno di questi ti prenderà.”

“No Javeed… non può farcela.”

“Ce la farà e tu finirai in prigione. E allora ti pentirai di questa condotta sconsiderata.”

“Non mi prenderà.”

Soheil ghignava davanti alle previsioni pessimistiche dell’amico. Javeed dal canto suo in prigione c’era passato. Non augurava a nessuno un’esperienza del genere, tanto meno ad una persona cara.

Per quanto testardo cocciuto e irriverente fosse.

 

Soheil si staccò dalla parete e fece un paio di passi avanti, proprio mentre un altro gruppetto di turisti lo copriva alla vista di Majid. 

Rapido, si avvicinò ai due anglosassoni, cercando di mantenere comunque una camminata rilassata ed evitando con cura di guardarli. Allungò la mano ed afferrò la macchinetta fotografica, torcendo il polso dell’inglese.

Quello lanciò un grido, più di spavento che di dolore, e lasciò la presa sull’oggetto proprio mentre Soheil lo strappava via e cominciava a correre.

Majid non perse tempo, correndo a sua volta.

Non gli sarebbe scappato per sempre. L’avrebbe preso un giorno quel dannato ladruncolo che si divertiva così tanto a prenderlo per i fondelli.

E quel giorno Soheil si sarebbe pentito di essere nato.

 

Soheil non conosceva tutti gli abitanti di Shush. Ma ne conosceva parecchi delle sue parti e sapeva perfettamente che, fra questi, non ce n’era neanche uno in grado di tenergli testa nella corsa.

Sfruttava la cosa a suo vantaggio. Lo scatto iniziale serviva a mettere distanza con l’inseguitore, poi rallentava ma in modo da mantenere la distanza acquisendo un passo più ritmico e meno stancante. Infine, tutto stava nel ricordarsi perfettamente quali svolte prendere e quali no.

Strade particolarmente larghe andavano bene se Majid si avvicinava: lì era più facile aumentare la velocità e staccarlo di nuovo. Ma di solito questo non accadeva e Soheil guizzava fra i vicoli, attento a non investire nessuno, evitando quelli più frequentati per non finire imbottigliato nella folla. E il trucco finale era aggirare Majid e tornare indietro. 

A quel punto si sarebbe nascosto a casa di uno dei tanti conoscenti per un paio d’ore, avrebbe sistemato la refurtiva in modo da non avere prove addosso, e poi sarebbe andato tranquillamente a mangiare qualcosa.

Il piano, tutti i giorni, era quello.

Soheil svoltò rapido a destra, saltando sul marciapiede e poi di nuovo sull’asfalto. Evitò con uno scatto un vecchio motorino sbuffante che veniva dalla direzione opposta e cambiò nuovamente strada.

Quello che lo mise sull’avviso fu la perdita di ritmo. Improvvisamente percepì che qualcosa non andava non tanto nelle sue gambe, quanto nei suoi polmoni. 

Fece una cosa che di solito evitava: si fermò a riprendere fiato. Aveva distanziato abbastanza Majid da permetterselo.

Ma per quanto respirasse, sembrava che l’aria non volesse scendergli in gola. Era come cercare di respirare olio bollente. La cassa toracica bruciava. Vide sfocatamente il poliziotto farsi vicino e scattò di nuovo, quasi in apnea.

Non fece molta strada prima di cadere a terra, bocconi, a rantolare alla ricerca d’aria.

Majid lo prese per il collo, sollevandolo senza troppa difficoltà. Gli strappò la macchina fotografica dalle mani e sorrise sotto i lunghi baffi neri.

“Fine della corsa Soheil.” disse ansimando.

“Ti ho preso.”

 


 

Welcome to Hell

***

E rieccoci con un altro sprazzo di vita quasi quotidiana per il nostro piccolo Soheil. Ho sonno, non dirò altro =C=

Meiou Hades: Grazie di aver preso in simpatia il "virticchio" *C*. Ha uno stile tutto suo, che non è sempre condivisibile anzi. Ma si fa ben volere il giovanotto, per fortuna. =C= diciotto anni e ogni tanto si comporta come un decenne, la cosa non sai quanto mi sconvolga o.O

Beat: cdjskndsdklsmlk SI', in realtà voleva fare l'arredatorkldlkfmkl... Ok, no, forse no. Te l'ho detto, avrebbe eliminato ogni singola libreria perché: "I libri sono pesanti, brutti ed occupano spazio utile." Non lo condivido ma, povero amore mio, in fondo non sa leggere. Eh. 

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***


Capitolo V

 

 

Il giovane cadde in ginocchio. Il dolore causato dall’impatto con il pavimento gli avrebbe, poche ore prima, strappato almeno una smorfia. Ora invece scompariva senza essere neanche realmente avvertito, completamente surclassato da un dolore molto più grande.

Soheil represse un gemito mentre una mano gli afferrava i capelli, strattonandogli indietro la testa con un gesto secco. Si ritrovò a fissare il soffitto con l’unico occhio che ancora poteva vedere qualcosa accecato da una luce bianca e fastidiosa. Attorno a lui non c’erano che ombre incombenti.

“Fra poco ti metterai a piangere ragazzo?” ghignò una.

“Cane, assaggia la punizione per la tua strafottenza ora!”

Majid.

Lo riconobbe dalla voce. Erano i suoi pugni ad averlo accolto in quella stanza, riducendolo in quel modo. Soheil sorrise, con le labbra spaccate e i denti sporchi di sangue.

E gli sputò in faccia un grumo di sangue e saliva.

“Piccolo figlio di puttana.”

Il sorriso di Soheil scomparve sostituito da una smorfia di dolore mentre il pugno gli affondava nello stomaco. Non fece in tempo ad assimilarlo che qualcosa lo colpiva al volto, scagliandolo riverso sul pavimento a sputare sangue e un molare.

“Quando avremo finito con te, Soheil, la perdita della mano destra non ti sembrerà più qualcosa di così tremendo. Anzi, l’affronterai con gioia. E ti assicuro che sarà la cosa meno dolorosa che ti capiterà fra queste mura.”

Il ragazzo non aveva il minimo dubbio al riguardo.

 

Non si può dire stesse realmente camminando: veniva piuttosto trasportato con malagrazia da due guardie, strascicando i piedi sul pavimento lurido della prigione.

Anche ci fosse stato qualcosa d’interessante da vedere, e non c’era, Soheil difficilmente sarebbe riuscito a vederla e soprattutto a ricordarla; era fin troppo impegnato a stabilire se fosse presente in tutto il suo corpo almeno un centimetro di pelle che non ululasse dal dolore.

Voleva scappare. Uscire di lì il prima possibile.

Alzò appena la testa mentre una combinazione di odori raccapriccianti gli arrivava al naso tumefatto: un tanfo che sapeva di disperazione e di paura.

L’odore metallico del sangue che sentiva anche in bocca, escrementi, sudore, aria rimescolata in decine di polmoni diversi ma sempre quella: schifosa e stantia.

Mugolò qualcosa mentre le guardie lo trasportavano, completamente privo di forze. 

Non voglio non voglio non voglio. Piuttosto ammazzatemi ma non rinchiudetemi bastardi. No. Non la gabbia. Non la gabbia! No!

“Sta buono se non ne vuoi ancora, cane.”

Soheil si agitava invano. Anche nel pieno delle sue forze difficilmente sarebbe riuscito a liberarsi dalla presa di quei due energumeni. E malgrado sapesse di non poter fuggire, continuava a dimenarsi incurante del dolore. Non era in una gabbia di ferro, non ancora, ma la gabbia di carne che lo tratteneva non era poi molto diversa: lo disgustava.

“Sta’ fermo!” 

Uno dei due gli afferrò il braccio destro, torcendoglielo dietro la schiena fino a lussargli la spalla. Soheil gridò e cominciò a singhiozzare, senza riuscire a fermare le lacrime.

Vi ammazzo vi ammazzo vi ammazzerò tutti quanti. Tutti!

La guardia sogghignò divertita e cominciò ad armeggiare con un mazzo di chiavi. La porta si aprì con un cigolio sinistro e Soheil si ritrovò gettato nel buio, con la spalla ridotta ad un piccolo sole pulsante di dolore.

“Buona permanenza, ragazzino.”

La porta si chiuse con un tonfo e Soheil rimase a fissare il buio con gli occhi sgranati, cercando almeno una fonte di luce. Anche una sola.

Risate si allontanavano alle sue spalle e dopo circa dieci minuti era totalmente solo. Solo e in gabbia.

Cominciò ad urlare.

 

Appoggiò la fronte contro il freddo metallo della porta, cercando di riprendere fiato. Rantolò portandosi una mano alla gola, sentendosi nuovamente i polmoni andare in fiamme.

Aveva continuato a gridare fino a ridursi la voce ad un roco bisbiglio, graffiando senza alcun risultato la parete metallica tanto da riuscire a strapparsi le unghie. E alla fine non gli era rimasta né la voce né la forza per fare qualcosa di diverso dal rimanere immobile ad ascoltare il proprio cuore battere in maniera irregolare.

Tu-tum Tu-Tum Tu-Tum… Tu-tum.

Soheil si rannicchiò contro la porta, rassegnato. 

Chiudere gli occhi era solo un inutile palliativo, percepiva chiaramente le mura che si stringevano addosso a lui, incombenti. Il tanfo del sudore si univa a quello del sangue e del vomito, anche se non riusciva a ricordare esattamente quando aveva vomitato.

Sofferenza e paura si mescolavano nel suo animo senza che Soheil potesse in alcun modo controllarle. 

Chiuse gli occhi, pronto ad abbandonarsi ad un sonno forzato che non gli avrebbe dato alcun ristoro. 

Impazzirò.

Fu l’ultimo pensiero cosciente che ebbe.

Salvami, demonio. Salvami.


 

Welcome to Hell

 

***

 

Le cose cominciano a farsi pesanti, me ne rendo conto. Resistete! Soheil resiste! *C*

 

Meiou Hades: Ma figurati se mi offendo, anzi XD una critica non può che far bene. L'azione continuerà ad esserci e il risveglio si fa ad ogni passetto più vicino, non temere! Spero che questo capitolo tu lo gradisca di più, poi se ti va d'indicarmi esattamente in cosa ti ha lasciato freddo il precedente io son solo che contenta ^_^ Buona lettura! Spero :P


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Capitolo 6
*** Capitolo VI ***


Capitolo VI

 

 

Javeed si lasciò letteralmente cadere, più che sedersi, prendendosi la testa fra le mani. Il silenzio era qualcosa di terribile in quella casa: aleggiava e ricopriva tutto come il velo di una donna irriverente e sembrava colpevolizzarlo. Come se Javeed non ne avesse già abbastanza di sensi di colpa.

“Non possiamo lasciarlo lì!”

Amin gli afferrò le spalle cominciando a scuoterlo, spaventato più che furibondo. Javeed alzò il capo con espressione affranta.

“Non possiamo neanche farlo uscire.” mormorò con un filo di voce.

 

Le notizie volavano veloci nei bassifondi. In pochi minuti un ascoltatore attento era in grado di ricavare da due o tre informatori fidati tutti gli eventi salienti accaduti in città nell’arco delle ultime dodici ore. Con una buona approssimazione almeno.

Quando aveva saputo della cattura di Soheil, Amin aveva picchiato il vecchio gestore del bar che gliel’aveva comunicato fino a fargli sputare tre denti.

Poi era scoppiato a piangere ai limiti dell’isteria, finché non era arrivato Javeed per portarlo a casa.

 

La Tenebra comincia ad assumere un aspetto meno inquietante, quando ci si abitua.

Avvolge come una calda coperta, lenendo tutti i dolori.

Non c’è niente di cui preoccuparsi quando la Tenebra ti culla. Basta accettare che non si sarà mai più liberi.

Il ragazzo si riscuote dalle braccia della Tenebra perché ne ha paura. 

C’è un mostro terrorizzato che vive dentro di lui, all’altezza dello stomaco, e gli sussurra di spazi aperti e di libertà. Di aria fresca e pioggia sul viso. 

Il ragazzo si ritrae e le sue spalle sbattono contro la parete scabra. E di nuovo realizza di essere in trappola.

La Tenebra lo uccide.

La Luce lo uccide.

Soheil socchiude gli occhi.

 

Javeed scosse il capo e allargò le braccia, impotente. 

“Non possiamo tirarlo fuori di lì. Come pensi di fare? Andare là e chiedere gentilmente a Majid di lasciar libera la sua bella preda? Si limiterebbe a mettere in gabbia anche noi due.”

Amin si passò le mani fra i capelli, scompigliandoli. L’idea di essere completamente impotente lo irritava fortemente.

Poteva un giorno capitare a lui. Come era successo a Javeed.

“La pena per il furto è il taglio di una mano, non possiamo permetterglielo!” esplose, senza rendersi conto di cosa esattamente stava dicendo.

“Permettere cosa? Noi non possiamo fare niente Amin! Mettitelo in testa! E fosse solo la mano a preoccuparmi!”

Una mano chiusa a pugno portata alla bocca, per evitare di urlare il proprio sconforto. Javeed si sentiva in colpa per non aver fermato prima l’amico. Avrebbe potuto.

Se solo fosse stato più chiaro. Se gliel’avesse impedito.

Se.

Se.

“Che vuoi dire…?”

“Che Soh può sopravvivere senza una mano. Io non sono sicuro che Majid voglia farlo sopravvivere.” sussurrò, affranto.

E Amin percepì chiaramente tutto il sangue che gli defluiva dal viso, lasciandolo a fissare un punto qualsiasi della stanza con espressione vacua.

 

Le lame di Luce feriscono gli occhi, che non sono più abituati.

Una figura si staglia fra esse, uno degli uomini d’ombra. Soheil li conosce ormai, gli uomini d’ombra. Entrano spesso nella cella.

Sono Senza Volto.

Quest’uomo d’ombra si avvicina con cautela, mormorando qualcosa che il ragazzo non può e non vuole capire. Si ritira per quanto più possibile in un angolo, per evitare un contatto che lo disgusta.

Senza alcun successo.

Mani lo trattengono senza difficoltà: è solo un ragazzo ferito e denutrito.

Tasta ossa incrinate, carne spezzata. Ha una voce triste quest’uomo d’ombra.

Soheil gli morde una mano.

 

Il medico richiuse la valigetta, lanciando a Majid uno sguardo a metà fra il disgusto e il terrore.

“Allora?”

“Niente che non potrebbe guarire se adeguatamente steccato e cucito. Ovviamente in quelle condizioni la guarigione è piuttosto aleatoria. Quanto ai problemi respiratori, non riesco a comprendere a cosa siano dovuti.” mugugnò il medico. Poche cose erano in grado d’infastidirlo come quell’obbligatoria, quanto inutile, visita alle prigioni.

Controsenso.

Chiamavano un medico, senza avere la minima intenzione di curare il paziente. Probabilmente gl’interessava solo capire come continuare a fargli provare dolore senza ucciderlo.

Lanciò uno sguardo a Majid, impegnato a ticchettare pensieroso le dita sulla scrivania di metallo. Il medico non ignorava affatto che se osasse dire qualcosa riguardo all’inumano trattamento carcerario finirebbe per provarlo sulla sua stessa pelle.

Quindi si limitò a tacere, somministrando quel che poteva per rimettere in sesto pazienti che nel giro di una settimana saranno, inspiegabilmente, nuovamente ridotti ad un cumulo di tessuti organici devastati.

Il pensiero di rivelare a Majid che il ragazzo soffre di claustrofobia gli strappò un ghigno che si guardò bene dal mostrare. Se ne venisse a conoscenza, lo trasferirebbe in una cella ancor più angusta pensò.

La coscienza del medico carcerario si contorse come uno strano animale: tacere un problema del paziente per salvarlo. 

“Molto bene.” Majid si alzò, annuendo piano. “Il nostro Soheil non è in pericolo di vita dunque.”

“No. Non ancora.”

Il poliziotto sorrise. Non ancora, già.

 

La Tenebra non conforta: è una prigione.

La Luce non libera: è solo sofferenza.

Le Ombre dei Senza Volto vagano fra questi due mondi con mani che sanno solo distruggere.

Lontano, nell’animo del ragazzo, albergano Fiamme.

Le Fiamme pulsano piano. Non ancora, sembra sussurrino. Non ancora.

Ma presto.

Presto.

Soheil respira le fiamme e tossisce. 

Presto.

 

Welcome to Hell

***

Avanti! Per Aurocast...no, quello era Brancaleone. 

Meiou Hades: I consigli e le critiche son sempre benvenuti! ^_^ Senza loro non c'è modo di migliorare. E proprio perché tengo molto a Soheil e alla sua storia, mi piace poterla migliorare man mano :P Son contenta di essere riuscita a trasmettere la violenza e la repulsione di questa situazione, è proprio lì il punto. Spero gradirai anche quest'aggiornamento!

Dima: Sì, ho uno stile molto da sceneggiatura ogni tanto, me ne rendo conto XD In questo caso si adatta poi, Soheil è palesemente Aladd...no, forse no. Majid mi piace molto, malgrado sia palesemente il villain della situazione. Ma effettivamente Soh se le tira. E tanto. Continua a stare con me! Stiamo abbracciate e sopravvivremo a queste cose terribili che succedono! çOç

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Capitolo 7
*** Capitolo VII ***


Capitolo VII

 

 

La donna si sistemò il velo sul capo con cura certosina, prima di decidersi ad uscire di casa. 

Piccola stella splendente, Roshanai. 

Scese in strada tenendosi in disparte, lontana dalla folla pressante che inglobava ogni giorno le strade di Shush. Non aveva particolarmente fretta, anzi. Quel tragitto le dava il tempo di riordinare le idee e soprattutto pensare al modo migliore di avanzare la sua proposta.

Aveva compreso perfettamente, appena Javeed era entrato in casa sua, che non sarebbe stato facile.

 

“Da quanto?” chiese, rigirandosi la tazza di tè fumante fra le mani.

Javeed sospirò. Aveva preferito non sedersi, rimanendo in piedi davanti a quella donna che gli metteva parzialmente soggezione.

Sei mesi.” rispose alla fine, chinando il capo.

Sei mesi e loro non erano riusciti a far niente. E forse adesso era troppo tardi.

“E’ nel suo stile.” Roshanai appoggiò la tazza sul tavolino basso, continuando a fissare Javeed con un orgoglio che poche donne a Shush potevano permettersi di mostrare.

Ma aveva il nome di una principessa, e il suo portamento.

“Sei l’unica che forse può fare qualcosa. Lo conosci anche tu d’altronde.”

“Conosco entrambi, ma non sono affatto certa di poter fare qualcosa, anche volendo.” si alzò, lisciandosi le pieghe dell’abito con le lunghe dita affusolate. “Il ragazzo non ha ascoltato te adesso come non ascoltava me al tempo. Anche riuscendo a convincere Majid… sarebbe solo questione di tempo, lo sai bene quanto me.”

“Lo ucciderà.”

Roshanai alzò il capo con uno scatto. La voce di Javeed sembrava provenire direttamente dall’Oltretomba: portava con sé uno spettro di sfiducia e rassegnazione ad un destino apparentemente ineluttabile.

Sospirò, affranta. Sei mesi fa il suo cuore aveva sussultato alla notizia, ma la ferrea logica l’aveva convinta di non poter far niente per aiutare il ragazzo con il nome tanto simile, eppur dissimile, al suo.

Ricordava Soheil, difficile dimenticarsene. Lui e tanti altri nel quartiere entravano ed uscivano dalla sua casa senza problemi. Nessuno aveva mai rubato qualcosa a Roshanai.

Neanche gli stranieri. Malgrado la sua porta sempre aperta.

Era la Principessa lì. Si occupava di tutti e di tutto, gestendo con astuzia buona parte del mercato nero tramite intermediari. E qualche ragazzo aveva anche scoperto l’amore per la prima volta fra le sue braccia.

“Majid ti ascolterà.” enunciò con veemenza il giovane. Anche lui era entrato nel letto di Roshaine, ma questo non li aveva resi amanti. Lei era lo spirito protettore del quartiere: anche se finivi fra le sue braccia eri cosciente di non essere né il primo né l’ultimo.

“E non possiamo abbandonarlo.”

“Possiamo Javeed. Tutto sta nel comprendere se vogliamo o meno farlo.”

“Tu lo faresti?”

Roshanai si morse il labbro inferiore e non rispose.

Non aveva mai abbandonato nessuno.

 

Il poliziotto ebbe un sussulto e arretrò, confuso. La donna che gli si parava davanti lo fissava in silenzio, gli occhi bistrati l’unica cosa visibile di lei.

Eppure erano più che sufficienti per comprendere la sua identità, senza bisogno di futili presentazioni. 

“Majid.” mormorò lei, la voce già morbida e sommessa attutita dal velo. Non una richiesta: un ordine.

Il poliziotto chinò il capo e la fece passare, lei e l’odore pungente di lavanda che la seguiva.

 

S’innalzano e ricadono.

Si abbracciano e si respingono.

Continuamente. Un balletto senza fine dal quale è impossibile scappare.

Ne ode il rombo nel petto; lo respira ad ogni rantolo; ne fissa i contorni sulle pareti scure.

Il fuoco s’innalza.

Giustamente un tempo lo veneravano come un Dio.

Il fuoco s’innalza.

Ma poi non rimane che cenere.

 

Majid si alzò dalla sedia di scatto, senza distogliere lo sguardo dalla donna. 

“Persino tu…” mormorò, stringendo poi le labbra fino a farle diventare una linea dura, inaccessibile.

“Quindi immagini già per quale motivo sono qui.”

Al contrario Roshanai si sedette, tranquilla, le mani giunte tenute a riposo in grembo, gli occhi appena socchiusi in quello che Majid sa perfettamente non essere un segno di rispetto.

“Sei venuta ad implorarmi persino tu, Principessa del Fango?” 

Sogghignò risedendosi, ma senza smettere di sentirsi fortemente a disagio davanti a quella donna velata, simbolo di qualcosa che non ha mai voluto comprendere. 

“Io non imploro mai Majid. Sono venuta a chiederti di saldare il tuo debito.”

Un sibilo scivolò fra le labbra del poliziotto, senza che lui potesse far nulla per fermarlo.

“Lui non è compreso nel saldo, lo sai molto bene.”

“Farò in modo che lo sia.”

“E’ troppo tardi Roshanai. Pensi di salvarlo? Ormai non sa più neanche chi è.”

La donna lo fulminò con lo sguardo, una silenziosa accusa negli occhi. E Majid chinò il capo, senza cercare scuse inutili.

“Non è tardi. Hai un debito nei miei confronti e lo salderai. Se la sua libertà è un prezzo che non sei disposto a pagare…”

Lasciò la frase in sospeso, alzando le mani per sciogliere accuratamente il velo, fino a mostrare il viso senza neanche un’ombra di timidezza.

“Devi essere in grado di sostenere una posta più alta.” terminò, mentre a viso scoperto lo fissava. Principessa del Fango e dei Bassifondi.

Principessa e basta.

Majid aveva smesso di respirare fin da prima. 

E Roshanai sorrise, certa della sua vittoria.

Nell’ombra Soheil alzò il capo, senza intuire che le sue catene si stavano impercettibilmente allentando.


 

Welcome to Hell

 

***

Avvertenza: non è che io abbia smesso di scrivere, in realtà. Anzi, sto continuando. Semplicemente però per cinque settimane dubito avrò modo di accedere ad un pc, figuriamoci ad EFP. Quindi per un po' gli aggiornamenti saranno fermi, mi spiace. Appena avrò modo comunque manderò avanti il tutto, siate fiduciosi. 

Non abbandonatemi, davvero, tornerò! çOç


Meiou Hades: Soheil sta passando il momento più oscuro della sua vita, letteralmente. E il fatto che lo passi prima di Risvegliarsi dovrebbe dirla lunga. Si libererà, per fortuna... e quanto a Majid... non ti anticipo niente ma sappi che passerà un bruttissimo quarto d'ora prima della fine :P

Spero rimarrai ad attendere gli altri aggiornamenti! *C*

 

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Capitolo 8
*** Capitolo VIII ***


Capitolo VIII

 

 

Aprì gli occhi e li richiuse immediatamente.

I deboli raggi di un sole offuscato, ma ancora troppo potente per qualcuno uscito dalle tenebre, l’avevano strappato ad un sonno eterno.

Gli era parso di dormire da anni. Forse di non aver fatto altro in tutta la sua vita.

Si rannicchiò mugolando contro il corpo caldo che percepiva al suo fianco, beandosi della serenità che gl’ispirava quel respiro tranquillo. E il profumo di lavanda.

Familiare, in un certo qual modo.

Eppure distante, come fosse il ricordo sfocato di una vita precedente. 

Soheil rimase in quella posizione a lungo, incapace di quantificare nuovamente lo scorrere del tempo, lui che proveniva da un luogo in cui non aveva la minima rilevanza.

Quando Roshanai aprì gli occhi al mattino lo trovò così: rannicchiato contro di lei con gli occhi caparbiamente serrati.

“Bentornato.” sussurrò, baciandogli la fronte.

 

I ricordi erano diventati una matassa disordinata di filo spinato, decisamente troppo complessi e dolorosi da svolgere perché Soheil decidesse di provarci.

Le uniche cose più impicciate erano i suoi capelli, con molta probabilità.

Raderlo del tutto sarebbe stata la soluzione più sensata, eppure Roshanai non aveva neanche sfiorato quell’ipotesi, limitandosi ad accorciarli molto prima di cominciare a combattere contro i nodi con un pettine ed una pazienza infinita.

Ore passate a litigare con quelle ciocche ribelli, ricorrendo alle forbici solo davanti agl’intrecci più ostinati, e Soheil se ne rimaneva seduto a fissare il vuoto. 

Senza emettere gemiti di protesta neanche agli strattoni più decisi. Fissava il vuoto e scavava sotto la cenere.

Uno scavo lungo, difficile e parzialmente inutile: non tornavano ricordi, tornavano immagini sfocate, suoni, odori, sensazioni tattili, emozioni. Il tutto separato e mescolato, come se i suoi sensi avessero perso la capacità di lavorare insieme.

Roshanai cantava.

Vecchie canzoni e filastrocche per bambini, in un mormorio indefinibile ma sempre presente e morbidamente costante.

Era cosciente delle difficoltà che Soheil stava affrontando. Si ricordava molto bene di situazioni peggiori, in cui la ricerca di sé stessi era terminata in un vuoto che niente era stato in grado di colmare.

Ma questo non la scoraggiava. Non gli aveva tagliato i capelli per questo: basta cambiamenti traumatici.

Soheil doveva tornare in grado di guardarsi allo specchio e riconoscersi, il resto sarebbe venuto dopo, naturalmente. Per ora, Soheil guardava lo specchio e sprofondava nelle fiamme.

 

“Come sta?”

Javeed si sporse un minimo, il tanto sufficiente per spiare all’interno della stanza attigua la posizione dell’amico. Soheil era immobile, sprofondato in una poltrona a fissare il cielo fuori dalla finestra.

“Come potrebbe stare una palma.”

Roshanai versò il tè, porgendo la tazza al ragazzo con movimenti gentili.

“Mangia quando lo obbligo, si lascia fare il bagno, vestire, pettinare. Ma non ha coscienza di sé. Non più di una palma, appunto.”

Javeed si sedette, accettando il tè con un gesto di ringraziamento, senza distogliere lo sguardo dal ragazzo sprofondato in sé stesso prima che nella poltrona ma senza il coraggio di avvicinarglisi. Qualsiasi aspettativa avesse avuto riguardo Roshanai, lei le aveva superate egregiamente. Soheil viveva in quella casa da più di una settimana ormai, eppure tutto sembrava men che libero.

Esistono catene molto difficili da infrangere.

Per quanto fosse tranquillo ora, nei primi giorni non lo era stato affatto. 

Più volte Roshanai si era alzata nel cuore della notte per cullarlo e calmarlo, dopo essere stata svegliata da grida lancinanti che poco avevano di umano. Finché non aveva deciso di farlo dormire assieme a lei e lui era parso tranquillizzarsi un poco.

Ma rimaneva una creatura a brandelli.

La Principessa aveva capito una cosa molto semplice: Soheil aveva paura.

Un terrore folle. 

La prima sera, in un impeto di disperazione, le aveva stretto il polso con tanta forza da causarle una distorsione. 

Javeed spostò nuovamente lo sguardo sulla donna, ingoiandosi le domande poco opportune che gli stavano salendo alle labbra.

Roshanai era un simbolo. La Principessa. 

In quella specifica frazione di Shush c’erano ben pochi affari nei quali non fosse coinvolta, nessuno di loro neanche lontanamente legale. Laddove non poteva giungere personalmente utilizzava intermediari: persone fidatissime che le dovevano cose ben più importanti della vita stessa.

Eppure, malgrado questa occupazione la rendesse la donna più ricca del quartiere, oltre che l’unica in grado di amministrare il proprio patrimonio, Roshanai riutilizzava quelle stesse sostanze per occuparsi attivamente della gente stessa del quartiere.

Non aveva mai accettato di darsi all’usura, né al più redditizio traffico di droga. Il suo regno erano i bassifondi e il mercato nero.

Principessa del Fango, ma pur sempre Principessa.

Di suo marito nessuno parlava volentieri. Javeed aveva tentato d’immaginarselo un giorno, un uomo scialbo e privo di spina dorsale che si limitava a bearsi dello splendore di Roshanai.

Si era sentito infinitamente superiore a lui.

Poi lo aveva invidiato ferocemente.

Ma nessuno poteva sperare di possedere l’anima o il corpo della Principessa, accordi matrimoniali o meno.

“Sta mettendo ordine nel suo spirito. Bisogna dargli tempo per farlo.”

Sei mesi sono eterni quando un singolo istante racchiude in sé il dolore di secoli. Sei mesi sono sufficienti a spezzare la volontà di chiunque.

Soheil era l’ombra di quello che era stato, un’ombra sfocata e sottile. Ma non si era ancora spezzato.

Roshanai fece una smorfia di dolore quando, per abitudine, provò a sollevare la tazza facendo leva sul polso fasciato e Javeed approfittò di quella piccola dimostrazione di mortalità.

“Come hai fatto?”

Abbassò subito lo sguardo, imbarazzato. La curiosità aveva prevalso, eppure sapeva bene che certe domande non andrebbero poste.

Lei sorrise, accondiscendente, mentre teneva la tazza con la mano sinistra.

“Cosa ti cambierebbe saperlo?”

“Cercherei di contraccambiare, in qualche modo.”

Roshanai scosse il capo, senza smettere di sorridere. 

“Javeed” mormorò con dolcezza “Ognuno sceglie la strada che desidera percorrere e ne affronta i rischi e i sacrifici. Majid ha i suoi lati fragili, come tutti. Io ho semplicemente fatto pressione su uno di questi. Inoltre…”

Si voltò verso Soheil, ancora immobile.

“E’ lui ad essere in debito con me, non tu.”

Javeed aveva un fortissimo e fastidioso sospetto riguardo la debolezza di Majid. E il solo pensiero gli dava la nausea.

Senza contare che Soheil, al momento, non era in grado di ricambiare un bel niente.

“Potevi scegliere un’altra strada.” azzardò, più irritato di quanto gli piacesse ammettere.

Roshanai rise, divertita.

“Mi hai chiesto tu di salvarlo e ora compiangi i metodi che ho utilizzato? Ho deciso di farlo perché cosciente di poter pagare il prezzo che mi avrebbe richiesto. O pensi forse…” la voce ridotta ad un sussurro allegro “Che questo possa ledere in qualche modo la mia dignità?”

Il ragazzo scosse rapidamente il capo.

No, questo non avrebbe mai neanche osato pensarlo.

Mormorò delle scuse, senza riuscire a guardare in viso la donna, concentrato sulle piastrelle del pavimento.

Poi rialzò la testa di scatto, spaventato dal grido soffocato che Roshanai aveva, inconsapevolmente, emesso.

Soheil era fermo. Davanti a loro, in piedi. 

Non mi ero mai accorto di quanto fossero neri i suoi occhi.

Sul viso senza espressione del ragazzo si disegnò un ghigno crudele.

“Non riuscite a sentirlo dunque?” chiese, con la voce arrochita dal tanto gridare.

Non mi ero mai accorto di quanta tenebra ci fosse.

“Il rumore di qualcosa che s’infrange?”


 

Welcome to Hell

 

***

Cosa dire? Risponderò alle recensioni tramite l'ottimo metodo che EFP mi mette a disposizione (l'avrei fatto prima, ma mi ero completamente dimenticata della sua esistenza) e intanto sfrutto questo spazietto per ringraziare tutti quelli che, nonostante l'assenza, hanno continuato a seguire questa fic.

Spero gli aggiornamenti possano tornare ad essere stabili entro poco tempo ma purtroppo le contingenze della vita mi tengono forzatamente lontana dal pc e per quanto possa scrivere comunque, certo non posso mettermi a pubblicare qui. Ma la storia c'è e va avanti! Quindi non abbandonatemi!

E non abbandonate Soheil! Lui vi vuole bene! çOç (?!)

 

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Capitolo 9
*** Capitolo IX ***


Capitolo IX

 

 

La vita nei bassifondi di Shush si reggeva su alcune incrollabili certezze: il canto del muezzin che scandiva le ore del giorno invitando alla preghiera; il chicaleccio all’interno dei bar; l’aspro odore che proveniva dai canali fognari mai ristrutturati. Piccole certezze incrollabili che riguardavano cose e persone.

A queste se n’era aggiunta un’altra, da poco.

Soheil era pazzo.

Completamente ed irrimediabilmente pazzo.

 

“Ancora?!”

Amin alzò lo sguardo e le braccia al cielo, pregando almeno dodici divinità diverse ed insultando i libertini costumi sessuali delle rimanenti.

Se non fosse stata una situazione ai limiti del tragico, Javeed sarebbe anche scoppiato a ridere. Invece si limitò a tornare qualche passo indietro poggiando le mani sulle spalle di Soheil per scuoterlo forte.

“Ehi, torna sulla terra!” urlò, senza ottenere poi un gran risultato.

Solo dopo dieci minuti buoni di questo trattamento Soheil sembrò tornare in sé. Smise di fissare il cielo e riportò lo sguardo su Javeed, incuriosito.

“Sì…?”

“Tu sei del tutto fuori di testa.” mugugnò Amin, ficcandosi i pugni in tasca con irritazione mentre riprendeva a camminare.

“Non è possibile andare da qualche parte con te ultimamente, se ti fermi ogni cinque passi a fissare il vuoto.”

“Ma io non fisso il vuoto.” Soheil protestò con un leggero sorriso sulle labbra. Uno di quei sorrisi che Javeed ed Amin conoscevano bene. Uno di quei sorrisi che non portavano niente di buono.

“Sì sì, l’ho già sentita la storiella So, risparmiamela.” 

“Non è una storiella.”

“Piantatela voi due o sbatterò i vostri crani l’uno contro l’altro finché non riuscirò a far entrare del sale nelle vostre dannatissime zucche.” ringhiò Javeed, ben poco propenso ad accettare una lite fra i due amici in quel momento. Sopportare il carattere di Soheil era difficile prima, ora stava diventando impossibile.

Amin non gli dava alcun aiuto in questo, visto che passava il tempo a stuzzicarlo. L’altra sera per poco non si erano ammazzati a vicenda.

Non era una scena gradevole da ricordare quella, visto che all’improvviso Soheil era saltato alla gola di Amin con tutto l’intento di azzannarlo. Non l’aveva mai visto così e sperava di non vedercelo mai più.

“Non prendertela con me Javeed! E’ lui quello pazzo!”

Soheil sorrise di nuovo, inquietante. “Vuoi che ti dimostri quanto sono pazzo Amin?”

“Basta ora!”

Di nuovo Soheil si bloccò in mezzo alla strada, ma questa volta piegato in due dalle risate. “Oh sì, basta. E’ finita, è finita. E’ straordinario che non ve ne rendiate conto! Forse perché per voi è appena cominciata… ma è l’inizio o la fine? Non lo ricordo sai Javeed? Non riesco a capire! E’ straordinario!”

Rideva ancora, appoggiato con la schiena contro il muro, senza riuscire a fermarsi mentre continuava a parlare di cose incomprensibili davanti ai due amici sconvolti.

“Sai che ti dico Javeed… io me ne vado, ora, o lo ammazzo.” sibilò Amin prima di voltare le spalle e filarsela. Un po’ perché davvero il suo primo istinto era stato prendere l’amico per il collo e sbatterlo contro il muro, un po’ perché ne aveva una recondita paura.

“Amin…” 

“Lascialo, lascialo andare Javeed! Lo troverò a tempo debito vedrai! Vi troverò tutti, davvero. E vi porterò con me, che amico sarei altrimenti? Ma prima devono trovare me oppure…”

“Soheil smettila con questa storia! Ha smesso da tempo di essere divertente!” esplose Javeed, ormai al limite della sopportazione.

Una storia, già. Una storia che Soheil raccontava, in maniera inconcludente e frammentaria, da un mese. Da quando Roshanai l’aveva tirato fuori di prigione.

Javeed era convinto che sarebbe stato sufficiente aspettare, che prima o poi Soheil sarebbe tornato se non quello di sempre almeno qualcosa di molto simile. Invece non era cambiato niente. Ogni tanto sembrava padrone di sé, poi scoppiava a ridere o a piangere in maniera convulsa. Aveva momenti d’iperattività compensati da minuti interi, a volte ore, di completa immobilità. 

E quando Javeed gli aveva chiesto cosa diamine stesse facendo Soheil aveva risposto, candidamente: “Aspetto.”

Chi, o cosa, non era dato saperlo.

“Non dev’essere divertente! Non lo è mai stata in millenni e tu dovresti trovarla divertente Javeed?!” Il riso di Soheil si era spento di colpo, mentre fissava l’amico con un astio incomprensibile. 

“Fiamme, Javeed! Fiamme, sangue e morte. E Divinità! Ci sono Dei antichi Javeed, che tu non conosci e non vuoi conoscere ma ci sono! Esistono e combattono e io ricordo tutto questo!”

Javeed non riusciva ad articolare parola. Non davanti all’esplosione di rabbia che aveva davanti. Soheil non era mai stato pericoloso, almeno non per i suoi amici. In realtà, non aveva mai fatto male ad anima viva.

“Tu non capisci neanche cosa succede ora come pensi di capire quello che ti sto dicendo? Io ti parlo di cose successe millenni fa che stanno per accadere di nuovo!”

“Magari se tu le spiegassi senza farneticare le cose, io ti capirei!”

Soheil ghignò. “Tu non capisci.” si limitò a ripetere.

“Non hai neanche capito Roshanai.”

“E lei cosa c’entra esattamente in tutto questo?! Sei tu che non ti sei dato neanche pena di ricambiare quel che ha fatto per te!” 

La pazienza di Javeed era proverbiale. Un’altra delle tante certezze nei bassifondi di Shush.

Quel giorno ebbe drasticamente fine quando tirò un pugno nello stomaco a Soheil.

Il ragazzo si piegò in due, tossendo e ridendo insieme. “Non è andata a letto con Majid. Non l’ha fatto, capisci! Tu lo credi, ma non è andata così. Voleva vedere a cosa avresti pensato! E ha vinto la sua scommessa, visto che che ti sei limitato ad accarezzare la possibilità più morbosa.”

Javeed ringhiò, indeciso se colpire di nuovo l’amico o meno. Non voleva sapere niente riguardo a quella storia, non gl’interessava. Non era giusto infangare i gesti di Roshanai con le sue sterili supposizioni.

“Vedi Javeed?”

Soheil ridacchiò, sollevandosi.

“Non vuoi capire neanche il presente. Figuriamoci se vuoi comprendere il passato di cui ti parlo.”

Indispettito Javeed gli voltò le spalle, andandosene. Solo la risata di Soheil gli tenne compagnia mentre si allontanava.

 

 

 

Esiste un tempo che l’Uomo ha dimenticato. 

Esiste un epoca in cui gli Dei calcavano la Terra, assoggettando l’Umanità al loro volere.

In quel tempo, un Dio amò una fanciulla. La Fanciulla.

Un rapimento rituale, un matrimonio coatto sancito da sei semi di melograno. Ma non per questo privo di valore.

Molti doni vennero portati al Dio. 

Due divinità si unirono per costruire il dono più bello fra questi. L’uno era Signore dei Mari e usando la forza delle profondità oceaniche diede forma a quattro splendidi animali.

L’altro, Signore delle Forge, infuse in loro il fuoco divino. Perché fossero imbattibili in guerra foderò i loro zoccoli di bronzo, rinforzò le loro ossa e li fornì di zanne affilate.

Dalle nari e dagli occhi fuoriuscivano fiamme.

Il fuoco annerì le loro pelli, che pure rilucevano di quello stesso fuoco interiore. Esternamente di tenebra all’interno erano luminosi quanto il Sole.

Erano quattro cavalli, i migliori che si fossero mai visti. Quattro cavalli di tenebra e fiamme.

Il dono di Poseidone ed Efesto al Signore dei Morti.

Hades.

Trainano il suo carro, calpestando i suoi nemici, fin dal tempo del mito.

L’Uomo, timoroso di queste creature infernali, ha dato loro un nome. 

L’Uomo li ha chiamati Incubi.

 

Le rovine dell’antica Susa ardevano di nuovo nelle fiamme del tramonto. Soheil ci tornava spesso, senza temerle, alla ricerca del demonio che vi aveva incontrato.

Ma il demonio si teneva ancora nascosto, in attesa, perché il risveglio non era ancora completo e quella stella ancora non pulsava degnamente nel cielo infernale.

Soheil aspettava e cercava, tornando verso la città viva solo in piena notte. Le Fiamme della Stella fremono.

 

Presto, mormorano.

Presto.

 

Ora.

 

Shush esplose.

 

Susa era detta la Città dei Gigli. Ai tempi del regno Achemenide era il palazzo di Primavera, così come Babilonia lo era d’Inverno ed Ecbatana lo era d’Estate.

Sopra tutte loro vi era Persepoli, capitale antica e simbolo dell’intera dinastia Persiana.

Quando Alessandro il Macedone giunse a Susa, la città si arrese. Quando giunse a Persepoli, la incendiò.

Persepoli fu elevata dalle fiamme.

Susa, a distanza di secoli, affrontò lo stesso destino. 

 

Javeed cadde in ginocchio, tossendo. Ovunque attorno a lui non c’era che fumo e il bagliore rossastro del fuoco. Aveva perso il senso dell’orientamento da tempo e malgrado questo continuava ad andare avanti, con un fazzoletto sommariamente bagnato stretto sul viso a coprire naso e bocca.

“Amin…! Soh…” gridò, interrompendo il grido a metà per colpa del fumo che gl’incendiava i polmoni. Tossì di nuovo, esausto.

Attorno a lui si faceva strada il caos. 

Presi dal panico più totale gli abitanti di Shush correvano in ogni direzione, senza meta. Senza possibilità di salvezza perché le fiamme ruggenti non lasciavano scampo ad alcuno. 

“Sai…”

Javeed alzò il capo, stupito nel trovare Soheil al suo fianco. Pareva del tutto incurante del fuoco e il fuoco stesso non lo toccava eppure sembrava danzargli attorno. 

“Mi ero sempre chiesto se la carne umana avesse lo stesso odore di quella animale, una volta bruciata.”

“Soheil cosa…”

“Invece ha un puzzo nauseabondo. Il corpo umano non è fatto per accogliere qualcosa di così alto come le fiamme, lo rifiuta automaticamente. Le fiamme non hanno corpo d’altronde, non hanno una forma. L’uomo tende ad odiare quello che non ha forma e non riesce a controllare.”

Javeed afferrò la caviglia di Soheil per alzarsi in piedi, scoprendo con sconforto di essersi ustionato la mano fino al polso. Il fuoco danzava davvero attorno al ragazzo.

E dentro di lui.

“Soheil…”

Soheil sorrise, accondiscendente. 

“Il fuoco purifica.” mormorò, affascinato. “Eleva anche le cose più basse fino al cielo.”

“Dobbiamo scappare Soheil...moriremo…”

Il ragazzo non rispose, limitandosi a fare qualche passo in avanti, ancora avvolto dalle fiamme. Amin era a poca distanza, accasciato addosso ad una parete e privo di forze. Gli si avvicinò sollevandolo senza la minima fatica fra le braccia.

“No Javeed.” mormorò mentre fissava con affetto il ragazzo privo di sensi che stringeva a sé.

“Voi morirete.”

Il fuoco ruggì, consumando ogni cosa. 

Amin non fece in tempo a gridare mentre le fiamme lo consumavano avvolgendolo con furia: divenne in pochi istanti una bambola ardente con i capelli ridotti ad una chioma di fiamme.

“No!”

Javeed non si accorse di aver urlato mentre si lanciava contro Soheil nel vano tentativo di strappargli il corpo privo di vita di Amin dalle braccia, non aveva importanza d’altronde. I suoi movimenti erano lenti, affaticati.

“Non puoi aver fatto tu tutto questo!”

Soheil appoggiò il cadavere ardente contro una parete, dove questo si dissolse in pochi istanti, voltandosi ad affrontare Javeed a braccia aperte. Lo strinse a sé, baciandolo. Le labbra si toccarono e il fiato ardente passò dall’uno all’altro con naturalezza consumando Javeed dall’interno.

Cadde a terra, bruciando. Un burattino gettato nel fuoco che si restringe e brucia, fremendo negli ultimi attimi di vita.

 

Il demonio si fece largo, incurante delle fiamme. L’armatura nera risplendeva come diamante, decorata dagli arabeschi del fuoco.

Le grandi ali membranose erano spiegate, inquietanti.

Il demonio parlava. Soheil era felice di questo. Aveva ritrovato il suo demonio, e gli stava parlando.

Ma scoppiò a ridere davanti a lui per l’ironia della situazione.

Shush ardeva nelle fiamme e il demonio appariva nella tenebra per parlargli.

Ma Soheil non riusciva a capire una sola parola.

 

Welcome to Hell

 

***

Chiedo umilmente venia. Lo so, sono in ritardo mostruoso, ma davvero non ho fisicamente il tempo per aggiornare.

Grazie Meiou Hades, per continuare a seguirmi malgrado tutto! Vedi? Ecco il risveglio che aspettavi, spero ti soddisfi abbastanza! Finalmente entriamo nel nero della storia. Nero. E viola. E buona lettura, almeno spero!

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Capitolo 10
*** Capitolo X ***


Capitolo X

 

 

 

Era felice.

Una gioia sorda, profonda, che gli rimbombava nel petto e nelle orecchie come le fiamme. Tanto intensa da fargli lacrimare gli occhi. 

Soheil piangeva ed era felice, per la prima volta da moltissimo tempo. 

Aveva il demonio, il suo demonio davanti agli occhi e non capiva una sola parola di quella lingua che si ostinava ad utilizzare.

Aveva il corpo di Javeed raggrinzito ai piedi, il viso ormai distrutto dal fuoco che l’aveva bruciato dall’interno condannandolo ad una morte atroce e bellissima.

Aveva la città attorno a sé che ardeva incessantemente, ripiegandosi su sé stessa con urla e gemiti quasi umani. O forse erano veramente le grida degli uomini intrappolati dal fuoco e dal fumo.

Ed era felice.

Il demonio fece qualche passo avanti, incurante delle fiamme che arrivavano a lambirgli i piedi, gli occhi violetti che risplendevano come tizzoni in quell’inferno rosso e ardente. Si fermò davanti a Soheil, riprendendo a parlare.

Lentamente il ragazzo capì. Non tutto, non subito. Prima una parola, poi una frase.

Hades.

Incubus.

All’interno del suo animo si dibattevano memorie di un tempo tanto antico da sfumare nel mito e nella leggenda. Una parte di lui voleva aprire quella piccola porta che ancora teneva i ricordi lontano dal suo io cosciente. Ma ne aveva paura. Perché c’erano ricordi, molto più recenti, che Soheil non voleva in alcun modo risvegliare.

Se l’avesse fatto, lo sapeva molto bene, quel poco d’intatto che era rimasto in lui si sarebbe frantumato. Quel che non conosci non può ferirti d’altronde.

E faticava a fare questa cernita, distinguere dagli altri i ricordi del mito e separarli, analizzarli e accoglierli pienamente.

Il demonio appariva anche in quelli.

Ricordava gli occhi violetti e i capelli candidi. Ma c’erano altri occhi dorati, con uno stridio e un battere d’ali incessante.

E su tutto c’era un Dio con molte ali e una spada nera come la pece.

“Vieni con me, Incubus.”

E Soheil seguì il demonio, le labbra tese in un sorriso e le guance bagnate dalle lacrime. Forse avrebbe dovuto provare rimorso, o qualcosa di simile, per la distruzione che si stava lasciando alle spalle.

Ma se ne dimenticò.

Perché ora sapeva, con una precisione quasi inumana, che quel luogo non gli era mai appartenuto e lui non ne aveva mai fatto parte veramente. Che il suo posto era altrove.

Che nel suo cielo splendevano solo centootto stelle, altri centootto demoni pulsanti di malignità. 

Soheil seguì il demonio. 

E le fiamme dietro di lui danzarono di gioia.

 

Soheil non aveva la minima idea di dove fosse e non gl’importava. La sua mente era concentrata su altro: il difficile tentativo di rimettere a posto i ricordi nella sua testa; l’accettazione di aver appena dato alle fiamme mezza città. Non che di Shush gl’importasse veramente.

Ma non riusciva a distogliere la mente dall’ultima immagine degli occhi di Javeed. 

Imploranti e terrorizzati.

Cos’altro era arso lassù? Era rimasto qualcosa del suo animo?

Era sicuro di sì, eppure era qualcosa che, in qualche modo, gli faceva paura.

Così rideva e piangeva, istericamente, senza dare troppo peso al mondo che si spiegava ai suoi piedi. Era felice e insieme profondamente triste: quello era il suo mondo ma avvertiva una netta mancanza. C’era qualcosa che lo aspettava, laggiù, e lui non riusciva ad identificarla pur provando una devastante nostalgia.

Si rese conto passivamente di aver attraversato un fiume e l’arco che ora lo sovrastava recava incisa una scritta in una lingua sconosciuta.

Quelle poche parole eleganti lo spaventarono a morte, anche se non aveva idea di cosa ci fosse scritto.

Ma per ora doveva solo continuare a seguire il suo demonio, non gli era richiesto altro e questo faceva, diligentemente, il significato di quell’iscrizione gli sarebbe stato chiarito in futuro forse. O forse l’avrebbe ricordato.

Rideva e piangeva.

Poi il demonio si fermò e Soheil alzò lo sguardo su una costruzione imponente. Le pietre che costituivano quel palazzo erano così bianche da dare l’impressione di essere illuminate dall’interno, un fulgore candido e inappellabile. 

Inappellabile è la parola giusta per questo posto pensò, senza far troppo caso a quei pensieri che gli vorticavano nella mente da fin troppo tempo ormai. 

Il demonio continuava a fissarlo e il ragazzo rise piano, asciugandosi le lacrime che gli avevano scavato solchi salati sul viso.

Poi Soheil alzò lo sguardo e la risata gli morì in gola, soffocata da una lama gelida ed affilata. Si ritrovò a fissare il cielo consapevole che poteva perdersi in quell’immensità di tenebra, in quel viola carico e crudele. Freddo come la morte.

“Dèi santissimi…” mormorò. 

Per un attimo si chiese per quale stupido motivo aveva usato il plurale, poi non ci fece semplicemente più caso, gli occhi sgranati come a voler includere dentro di sé quelle immensità violette.

“Silenzio”

La voce del demonio lo riportò bruscamente alla realtà, spegnendo con un soffio tutte le sue elucubrazioni. Parlava la sua lingua e questo lo sorprese, oltre ad infastidirlo.

“Non potevi parlarmi in maniera comprensibile da subito?” sibilò, ma il demonio si limitò a lanciargli uno sguardo tagliente prima di dischiudere le porte del palazzo, invitandolo ad entrare.

Soheil si passò una mano sulla gola, come rassicurato dal proprio battito cardiaco, prima di decidersi a varcare quella soglia.

Il Regno del Silenzio.

Dio, come sto diventando poetico.

Il ragazzo si trovò immerso nel buio e attese, trepidante. Quando il demonio riprese a camminare lo seguì, ben meno docile di prima. Scalpitava, quasi, e quel silenzio opprimente non gli era di nessun aiuto.

Ma dove diamine stiamo andando?!

Con immenso sforzo di volontà cercò di calmarsi e attendere, mentre lanciava occhiate incuriosite alle numerose stanze che formavano quel palazzo, cercando d’imprimersi nella mente la strada che stava percorrendo.

Ancora un po’ di pazienza, poi sarebbe stato tutto chiaro.

Fin troppo.

 

“Che luogo pensi che sia?”

Soheil era seduto per terra, a gambe incrociate. C’erano delle sedie in quella stanza ma le aveva evitate accuratamente. Gli davano un vago senso di prigionia che in quel momento non sarebbe riuscito a sopportare.

Inoltre lo divertiva, e non poco, cercare di affrontare quel demonio almeno ad armi pari.

Quindi non si sarebbe piegato alle normali regole dell’etichetta, per ora. Non gliene importava assolutamente niente di fare bella figura o altre idiozie del genere, visto che si trovava davanti ad un demone. Per di più era cosciente della situazione disastrata del suo corpo fra vestiti a brandelli e fuliggine ovunque, a quel punto tanto valeva godersi l’espressione perplessa del demone.

“Questo è l’Inferno, Soheil”

“Ah. Quindi sono morto”

Un po’ si sorprese, ma l’eventualità non lo spaventava affatto. Provava un vago dispiacere all’idea ma nessuna paura. Negli ultimi tempi aveva invocato la morte così tante volte da aver perso qualsiasi timore reverenziale nei suoi confronti.

Anche se non voleva ricordare perché l’aveva fatto.

“Questo è il Tribunale dove vengono giudicati i Morti”

Inappellabile.

“Tu sei stato giudicato?” il demonio si tolse l’elmo, mostrando un volto che di demoniaco aveva ben poco. Soheil ebbe reazioni contrastanti: da una parte quell’uomo appariva molto più rassicurante ora che non in precedenza; dall’altra era come se gli avessero sottratto quel demone che lo accompagnava ormai da tanti mesi.

“Forse mi stai giudicando tu adesso” rispose, con una certa mal celata arroganza. Tanto difficile limitarsi ad un sì o un no nelle risposte?

“Non è questo il luogo deputato, ma la grande sala che ci siamo lasciati alle spalle. E nessuno verrà giudicato in questo giorno di Risvegli”

Soheil ebbe la netta impressione di rimanere indietro. Di non avere tutti i pezzi necessari per mettere ordine in quella situazione. Pezzi che l’uomo seduto dietro la scrivania invece dava per scontati.

“Sono già stato qui” mormorò, come fulminato dalla rivelazione. L’aveva già visto tutto questo, già vissuto in qualche modo.

“E anche tu… ti ho già visto. Non nel pozzo non…” si portò una mano alla fronte, irritato con sé stesso e in parte anche con quel demonio che sembrava aver ingoiato un dizionario. 

Non ricordare!

Devi ricordare!

“E’ normale…? Che mi ricordi?” 

Adesso Soheil aveva paura. Paura di quel luogo che conosceva ma dove non era mai stato, paura di doversi mettere a scavare nell’intrico della sua memoria andando a ripescare eventi troppo recenti perché fosse in grado di affrontarli senza distruggersi del tutto.

Il demonio lo guardò comprensivo.

“Non ricorderai molto. Sensazioni, presentimenti, memorie inconsce. Forse nei tuoi sogni ti sembrerà di riuscire a riafferrare il passato, ma la veglia ti toglierà ogni consapevolezza”

Non devi ricordare, non è necessario. Questo va bene.

“Non sei stato qui solo una volta Soheil, ma molte. E per quanto ti sia impossibile ricordare le vite passate, puoi invece ricordare la tua essenza”

Il demonio si chinò verso di lui.

“Tu sai cosa sei?”

Fiamme.

Una creatura nera ricolma di fiamme e di potere. 

“Un cavallo”

La risposta parve spiazzare sul momento il demonio, che si ritirò assumendo un’espressione a metà fra l’incredulo e lo sconfortato.

E’ così! E’ un cavallo! Quella creatura è un cavallo e io lo conosco ma non riesco a…

“Sai, quelli che nitriscono. Ma non è esattamente un cavallo...” mormorò Soheil come per spiegare, forse più a sé stesso che al demone. Si massaggiò nuovamente le tempie, cercando di ricordare.

Sapeva il nome di quella creatura, lo conosceva. 

Gli veniva mormorato dalle fiamme ogni giorno. Un sussurro, breve, intenso, pregno di significati che andavano ben oltre la parola stessa.

“Un Incubo”

Incubus.

E’ questo che sono. Incubus.

Aveva afferrato qualcosa di sé, quella parte che cercava da tantissimo tempo. Quel lato oscuro e ardente del suo animo per il quale provava un’ardente nostalgia.

Incubus.

Soheil ascoltò le spiegazioni del demonio, mentre queste andavano a rimestare l’insieme confuso delle sue memorie ancestrali, riportando alla luce nomi, volti, significati che il ragazzo non avrebbe mai pensato di conoscere.

Parlava il demonio, con tono di voce severo ma non arrogante, illustrando a Soheil il suo mondo e chi lo abitava, lo amministrava.

“Avrai un ruolo qui, Soheil. E io sarò responsabile delle tue azioni”

“Mi pare logico, sei il mio demonio d’altro canto”

Soheil avrebbe riso a crepapelle davanti all’espressione sconcertata dell’uomo che aveva innanzi.

“Sono il tuo Maestro” specificò infatti, con lieve irritazione.

Demonio, Maestro, siamo lì.

“Rune di Balrog”

 

Da parecchio tempo ormai Soheil aveva smesso di chiedersi se fosse diventato pazzo. Per un semplice motivo, era sicuro di esserlo. Quindi si mise a ripetere quei nomi, i tanti nomi che Rune gli aveva snocciolato con tranquillità aspettandosi che li memorizzasse all’istante. E lui l’aveva fatto, ripetendoli dentro di sé fino a legarli tutti un una cadenza quasi armonica nel suo essere completamente caotica. 

Rune. Minos. Incubus.

Rhadamanthys. Aiacos. Minos. Rune.

Incubus.

Hades.

Hades.

Hades.

Mentre coccolava quei nomi, Soheil sorrise. Non un bel sorriso, quanto piuttosto un ghigno crudele. Potendo avrebbe urlato di felicità.

E pianto di disperazione.

“La tua memoria è la tua essenza. E la tua essenza è l’essenza di Hades, che ha santificato le Stelle con la sua divinità. Sei una Stella Soheil

D’altronde, Soheil voleva dire proprio questo. Stella. 

Come trovarsi in un Tribunale Infernale per lui, che era un ladro. Soheil scoppiò a ridere, notando quanto assurda fosse quella situazione.

“C’è una leggera ironia in tutto questo. Sarebbe persino irritante, se non fosse… giusto”

“Gli dèi hanno senso dell’umorismo”

Rune di Balrog sorrise, di un sorriso appena accennato.

Davanti a quel sorriso Soheil si rese conto di un particolare. Un piccolo, insignificante e forse inutile particolare.

Soheil vuol dire stella. Nella sua lingua. Ma non stava parlando la sua lingua.

“Aspetta…” la cosa lo spaventò, in maniera inconscia. Non conosceva lingue, non le aveva mai imparate ne gli era mai interessato farlo eppure…

“Che lingua stiamo parlando?” chiese, cercando di nascondere il timore. 

Assurdo. Perché me ne preoccupo? Sono all’Inferno! 

“Greco Antico”

Greco Antico.

Soheil sapeva a malapena dove situare geograficamente la Grecia e solo perché aveva passato metà della sua vita a rovistare fra ruderi che proprio i Greci avevano reso tali.

Adesso, di colpo, parlava una lingua completamente sconosciuta. Ed era stato un processo automatico, sul quale non aveva avuto il minimo controllo.

Non se n’era accorto. E questo lo sprofondò nel panico.

Era Soheil.

Era l’Incubo.

Era entrambe le cose e non riusciva ancora a conciliarle in maniera che non si distruggessero a vicenda. Soprattutto temeva, con tutte le sue forze, di perdere completamente il controllo sulla sua memoria.

Devo uscire di qui. Devo respirare. Devo…

Fuggire.

E lo fece.

 

 

Welcome to Hell

E dopo tanto tempo, rieccomi qui. Gli aggiornamenti continueranno ad essere saltuari per un po': sono lontana da casa e ho poco tempo per gestire EFP in questo periodo. Chiedo venia çOç anche perché la storia in realtà è già scritta, ma mettermi ogni volta a litigare con l'html prosciuga le mie già scarse energie. Per dopo la metà di Agosto dovrei comunque tornare a pubblicare in maniera più regolare, quindi forza e coraggio: l'Inferno ci attende.

Meiou Hades: Son contenta che il Risveglio della palmina al napalm ti sia stato gradito! Vedi, finisce fra le grinfie del Balrog e di Minos anche lui. E ora gli si presenteranno davanti parecchie difficoltà: non per niente siamo finalmente giunti all'Inferno! Vediamo come riuscirà ad ambientarsi :P

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Capitolo 11
*** Capitolo XI ***


Capitolo XI

 

 

 

Era fuori.

Soheil si affidò totalmente al suo senso dell’orientamento per riuscire a scappare da quel labirintico Tribunale, accelerando il passo ad ogni svolta. Alla fine stava correndo. Fuori.

Non aveva la minima idea di dove andare, in quel momento l’unica cosa che gl’interessava era correre. Correre fino a farsi bruciare i polmoni nel petto, sentirsi le gambe ridotte a macigni e la vista offuscata. Non era interessato ad allontanarsi: sapeva di non poter fuggire da quel luogo e da ciò che aveva in serbo per lui.

Lo sentiva, Soheil, quel legame profondo ed ineluttabile che gli artigliava il corpo e l’anima senza dargli possibilità di scampo. Una parte di lui lo amava, voleva accoglierlo e abbracciarlo.

Ma voleva anche sfuggirlo, liberarsi da quelle maglie che si facevano ogni istante più strette. Perché tutto l’amore che provava era pervaso da un terrore profondo.

Non hai scampo.

E non hai scelta.

Questo Soheil non lo tollerava. Non voleva perdere la sua libertà ma non voleva perdere quel legame che con tanta fatica aveva ritrovato.

Per questo continuò a correre, sfiancando il corpo per smettere di pensare a qualcosa di diverso dal mettere un piede davanti all’altro, per riuscire a svuotare la mente da tutte le congetture e le sensazioni fino ad arrivare al Nulla e al Buio.

Scivolò a terra, in ginocchio, su quella terra dei Morti bagnata dal sangue e dall’acqua dei cadaveri. Su quella terra che gli apparteneva come mai nessun’altra.

Fissò la polvere, stordito, poi rialzò il capo verso quel cielo che non era cielo, dove centootto stelle brillavano di un’intensa luce maligna.

Sentì nuovamente la fredda lama della consapevolezza penetrare in lui, senza trovare più alcuna resistenza. 

C’era una stella, lassù, che era la sua. Che era lui, più profondamente di quanto avesse mai immaginato. 

Si prese il viso fra le mani e pianse.

 

Soheil non avrebbe saputo dire come era riuscito a ritrovare la strada per il Tribunale: si era affidato totalmente all’istinto. Per un tratto aveva seguito dei dannati, che lo avevano fissato senza interesse con le loro orbite vuote.

Era rimasto ad ascoltare i loro lamenti, le loro preghiere, le loro scuse infantili. Bocche spalancate e mani ridotte ad artigli che graffiavano il terreno, cercando di raggiungerlo. Lui li aveva fissati con indifferenza, evitando il contatto.

E le sue labbra si erano tese in un ghigno che nessuno aveva mai visto prima: un ghigno da belva feroce, assetata di sangue ardente.

Davanti ad esso i dannati si erano ritratti, rattrappiti, terrorizzati. E lui aveva ripreso ad avanzare, senza più porsi domande.

Quando arrivò al Tribunale era esausto. Non riusciva a ricordare l’ultima volta che aveva dormito; l’incendio che aveva sconvolto Shush aveva allo stesso modo risucchiato le sue energie senza che lui potesse controllarlo. E dopo quell’ultima corsa non si reggeva più in piedi.

Appoggiò la schiena ad una delle colonne dell’entrata e si lasciò scivolare seduto, aspirando con avidità l’aria del Mondo dei Morti.

Pochi istanti e la luce, già di per sé scarsa in quel Regno, sparì quasi completamente.

Soheil alzò gli occhi su un demone. Un altro demone.

Incontrò uno sguardo gelido, dorato, che lo fissava a sua volta con cipiglio severo e arcigno. E realizzò immediatamente che di quella creatura, poiché faticava a definirlo semplicemente uomo, provava timore.

Non paura, non più. 

Ma un timore profondo, reverenziale, apparentemente privo di motivo. Soheil non era in grado di collegare quel viso ad un nome, ancora. Ma sapeva che aveva davanti uno dei tre Giudici degli Inferi.

E si rese anche conto, con ironia, di essere scompostamente buttato a terra sulla soglia del Tribunale, in un comportamento non proprio consono al luogo.

Scrollò mentalmente le spalle.

“Minos del Grifone è in Tribunale?”

La voce era umana. Severa e profonda, ma umana. Ed era la voce di qualcuno abituato ad essere obbedito all’istante, con fedeltà cieca e senza tentennamenti.

Soheil si schiarì la voce, obbligato suo malgrado a rispondere. Il problema sostanziale era che non aveva la minima idea di dove fosse Minos del Grifone.

Non sapeva neanche troppo bene che faccia avesse, per quanto fosse certo che l’avrebbe riconosciuto all’istante.

“Non mi risulta” esordì, cercando di mantenere la calma e un tono di voce composto.

“Penso comunque che Rune di Balrog ne sappia di più al proposito” aggiunse, in un modo un po’ articolato per dire Non lo so e non penso di volerlo sapere, ancora.

L’uomo lo fissò ancora per qualche tempo e Soheil si sentì osservato più in profondità di quanto desiderasse. Avvertiva un’energia provenire da quell’essere.

La stessa che aveva percepito in Rune e persino in sé stesso quando aveva raso al suolo la sua città, elevandola nelle fiamme. Solo infinitamente più potente ed altera.

“Alzati, Incubus”

Obbedì senza neanche rendersene conto.

Dall’esterno la scena avrebbe avuto un che d’ironico: un uomo alto, rivestito di un’armatura nera e lucente, rappresentazione stessa dell’autorità… davanti ad un ragazzino lercio ed esausto che era riuscito ad alzarsi per riflesso e forza di volontà.

“Serve altro…?” chiese Soheil, esitante. Forse avrebbe dovuto annunciare quell’uomo, avvertire Rune del suo arrivo, ma non osava muovere un muscolo senza un ordine diretto.

Sapeva perfettamente che quell’uomo poteva ucciderlo. Senza alcuna difficoltà.

Eppure non successe.

“Mh” l’uomo lo fissò ancora per qualche istante, senza emettere altro suono. Fece un semplice gesto con la mano prima di ritirarsi, la luce delle stelle dei morti che si rifletteva sulle sue ali mentre si allontanava.

Soheil rimase immobile, aspettando che scomparisse dal suo campo visivo prima di rientrare nel Tribunale.

Davanti a quella creatura aveva realizzato qualcosa di tremendo, che lo fece scattare alla ricerca di Rune, aprendo furiosamente ogni porta che gli capitava davanti, infischiandosene del silenzio che gli era stato imposto.

In tutta la sua vita non aveva mai desiderato ardentemente qualcosa. Nel caso fosse attirato da qualche oggetto particolare, semplicemente lo prendeva. La libertà era una vittoria scandita giorno per giorno e per la quale lottava ma che dava anche grandemente per scontata. Non aveva profondi legami, né con delle persone, né con la sua terra, né con un ideale. Figuriamoci un oggetto.

Ora tutto questo era cambiato, capovolto. La libertà la stava cedendo. Forse l’aveva già ceduta nel momento in cui aveva obbedito senza fare una piega.

Ma in cambio aveva ottenuto un senso d’appartenenza, un ideale per il quale morire. E la volontà, profonda, di essere degno di tutto ciò.

Con tutto quello che avrebbe comportato.

 

“Così, hai incontrato Rhadamanthys della Viverna. Hai agito nel migliore dei modi”

Soheil fu intimamente felice di due cose in quel momento. Anzi, tre: di aver avuto la giusta intuizione di trovarsi davanti ad uno dei Giudici; di non avergli dato, dopo la rassicurazione di Rune, un’informazione errata e infine del semplice fatto di essere ancora in vita dopo il rumore infernale che aveva causato nel Tribunale.

Che, gli fu spiegato gelidamente, si chiamava Tribunale del Silenzio per un motivo.

“Questo mi rincuora. E l’energia che emanava…?” fissò Rune, senza decidersi a rimettersi seduto. Il suo corpo reclamava riposo e la sua volontà non aveva la minima intenzione di darglielo, ma era cosciente che se si fosse seduto di nuovo difficilmente avrebbe ritrovato la forza per alzarsi

“Si chiama Cosmo. E’ il termine che usano i Sacri Guerrieri di ogni Divinità. Ne capirai appieno le sfumature con il tuo addestramento”

“Quindi ho usato questo… Cosmo, quando ho arso mezza città?” la cosa lo sorprese, ma ormai si stava abituando a questa sensazione di perpetua scoperta.

“Esattamente”

Rune si alzò a sua volta, facendogli strada. Parve non dare troppo peso alla fuga di poco tempo prima, guidando il ragazzo per i corridoi del Tribunale mentre continuava a spiegargli, didascalicamente, cose al limite dell’incomprensibile.

“E’ il Primo Sacrificio. Al Risveglio il Cosmo arde, incontrollabile. Con il tempo imparerai ad averne invece il pieno controllo”

Soheil osservò Rune camminare a qualche passo di distanza e mormorò, più a sé stesso che altro: “E’ stato bello…”

Il Balrog gli lanciò un’occhiata penetrante.

“Ah sì? L’hai trovato interessante?” chiese, con molta tranquillità.

“Anche ma… semplicemente bello. Era fuoco e il fuoco purifica…” Soheil scrollò le spalle, senza riuscire a trovare parole più adatte.

“Bello” ripeté.

Rune annuì debolmente, guidandolo fuori dal Tribunale.

“Vieni. E’ tempo che tu abbia la tua surplice. Ti guiderò agli alloggi provvisori, per ora. Nel caso sarai poi trasferito alle Malebolge, che sono situate comunque piuttosto lontano” 

Lo guidò per le strade sconosciute dell’Inferno, prima di domandare “E… cosa ti è rimasto fuori di qui?”

Soheil lo fissò senza capire e Rune specificò “Una casa, una famiglia…”

Il ragazzo non ci pensò su più di qualche istante. Sorrise crudelmente e rispose: “Una persona da uccidere”

La risposta prese di sorpresa il Balrog, che lo scrutò in silenzio ma con molta attenzione, tanto che Soheil si sentì costretto a specificare: “Non è rimasto altro, è bruciato tutto. Non sono neanche sicuro lui sia sopravvissuto…”

Ma sarebbe sicuramente andato a controllare. Una volta in grado di controllare il Cosmo, sarebbe tornato a Shush. E avrebbe fatto conoscere a Majid il potere purificatore delle fiamme.

Con questo pensiero in mente continuò a sorridere, mentre camminava sempre più in profondità nelle tenebre.

 

 

Welcome to Hell

 

Come promesso sono riuscita ad aggiornare prima del previsto! (E' stato un caso, non fateci troppo l'abitudine che poi rischiate di rimanere delusi.)

@Meiou Hades: Ecco ecco che si continua con la permanenza di Soheil agl'Inferi! Non sarà Minos del Grifone ma anche Sir Rhadamanthys fa la sua bella figura alla fin fine. Grazie per la splendida recensione: hai colto in pieno la dualità del passaggio e speravo proprio che la si notasse! Abbiamo ancora Soheil e l'Incubo come entità unite ma distinte ed il percorso per avere una piena unione fra le due cose è sempre lungo e travagliato. Ma tu non abbandonarmi! çOç

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Capitolo 12
*** Capitolo XII ***


Capitolo XII

 

 

 

 

Soheil era stanco, malgrado cercasse in ogni modo di non darlo a vedere. La sua non era una stanchezza solo fisica, anche se ovviamente era presente anche quella.

Era mentalmente stanco. 

Stanco del tentativo di assorbire troppe informazioni nuove in una volta; stanco di doversi rapportare con un mondo a lui completamente estraneo eppure tanto amato; stanco di dover mostrare referenza verso il demonio che aveva davanti e praticamente   a tutti quelli che avrebbe incontrato. 

Stanco di quei misteri e di quella luce gelida delle stelle, che brillavano in un cielo vuoto.

Soprattutto, era stanco di camminare.

Non aveva mai desiderato un letto, o anche solo un angolo di terreno dove sdraiarsi, con tanta intensità.

Ma l’orgoglio non gli permetteva di emettere un solo gemito di disapprovazione per quella lunga marcia, né di mostrare al demonio la sua evidente stanchezza.

Strinse le labbra, severo. Non sarebbe crollato.

“Da domani, Soheil, comincerà il tuo addestramento.”

Il ragazzo rispose con un grugnito. Avrebbe voluto chiedere come riuscissero a calcolare il tempo negli Inferi, dove le stelle non tramontano e il sole non sorge mai.

Ma non aveva voglia di ascoltare l’ennesima spiegazione che probabilmente non avrebbe capito, quindi tacque.

Ci sarebbe stato tempo anche per quello.

“Mi occuperò io del tuo allenamento” continuò Rune imperterrito, dando l’impressione di essere perfettamente a suo agio mentre calcava la terra dei Morti, avvolto in metallo spettrale. 

“Così come dell’altra Stella affidatami, dobbiamo aspettarlo.”

“Altra? Siamo in due allora? Cosa si sa di lui?”

Soheil ebbe uno sprazzo di curiosità al riguardo. L’idea di non doversi trovare da solo a subire l’allenamento di quel demonio falsamente rassicurante lo rallegrava un po’.

Forse è un tipo simpatico, chissà.

“Nulla ancora. Lord Minos è andato a prenderlo.”

Silenziosamente il ragazzo ringraziò la sua buona stella, e la cosa gli parve decisamente ironica, di non essere stato costretto ad incontrare Lord Minos. Ancora.

Il solo nome gli faceva tornare alla mente una serie di emozioni molto vaghe: come ricordi sfocati di ricordi. E quei ricordi parlavano di Re e di palazzi infiniti e di una potenza inimmaginabile.

Gli alloggi provvisori apparvero, finalmente, nel campo visivo del ragazzo. Li guardò per qualche istante, senza riuscire a memorizzare assolutamente niente di quella costruzione. Sarebbe andata bene anche una stalla a quel punto.

“Guarda. Laggiù.” Rune glieli indicò e Soheil annuì stancamente. Gli edifici in sé non gli dicevano assolutamente niente ma c’era, lì, che era suo.

Sentiva come un’essenza chiamarlo, con una nota di gioia indefinibile.

“Ed è là che riceverai la tua Surplice.”

Surplice.

Rune specificò che si trattava di un’armatura ma Soheil non ne ebbe bisogno. L’istinto, mezzo assopito dalla stanchezza, gli aveva fatto riconoscere automaticamente la parola estranea.

Surplice.

E’ quella a chiamarmi. 

Il Balrog riprese ad avanzare, mentre Soheil lo seguiva, dimentico della stanchezza provata poco prima. I corridoi erano deserti, in quella landa di morte sembrava che fossero vivi solo loro due.

E le Stelle malefiche che nel cielo non avevano mai smesso di brillare.

Si udì chiaro il rimbombo dei passi sul pavimento di pietra mentre avanzavano, Maestro e Allievo, poi Soheil s’immobilizzò, completamente.

Non un singolo muscolo pareva rispondere ai suoi comandi, come fosse stato in quel momento colpito da un fulmine d’inusitata potenza.

Era lì immobile. 

Avrebbe desiderato allungare un braccio per toccare la Surplice che risplendeva come un diamante oscuro davanti a lui, ma non ne ebbe la forza.

Un destriero nero come l’Inferno, la criniera di fiamme, fatto di tenebra splendente. 

Con estrema forza di volontà Soheil riuscì a fare qualche passo avanti, senza prestare la minima attenzione a Rune. Non riusciva a distogliere lo sguardo dalla Surplice, percepiva le fiamme che l’attraversavano.

Il suo sguardo nero nello sguardo vuoto dell’Incubo.

“E’ tua.”

La voce di Rune, venata di gentilezza, interruppe lo strano contatto e a Soheil parve di ritornare da un lunghissimo viaggio. Sentì di nuovo la stanchezza appesantirgli gli arti ma trovò la forza di mormorare: “Sì. Non potrebbe essere altrimenti.”

Di nuovo provò un desiderio bruciante, impellente. 

“E’…” cercò le parole dentro di sé, tentando di esprimere l’amalgama di emozioni contrastanti che si stavano agitando nel suo animo.

“E’ qualcosa che ho sempre cercato… e devo esserne degno.” sussurrò, con decisione.

“Lo sarai.” gli rispose Rune, comodamente seduto su uno dei letti liberi. Soheil si voltò, un sorriso strafottente stampato sulle labbra.

“Sei tu il Maestro, mi dovrò fidare del tuo giudizio.”

“Ora dovresti riposare. Risponderò ancora alle tue domande, se ne hai, ma da domani mattina ricorda che inizierà l’addestramento e sarà molto duro.”

“Non ho altre domande. So cosa sono, cosa devo fare, agli ordini di chi.”

Soheil ghignò, scrollando debolmente le spalle.

“Messa così è molto semplice, vero Demonio?”

Rune socchiuse gli occhi, infastidito. “Maestro, Soheil. Non demonio.”

“Oh bhe… l’addestramento comincia da domani, domani sarai il Maestro. E anche se senza quell’elmo non gli assomigli più, lasciami ancora per un po’ il mio demonio.”

Voleva chiedere, Soheil, se era stato lui a tirarlo fuori dal pozzo. Quel giorno sembrava distante secoli interi eppure non riusciva a dimenticarlo.

Saltò indietro, quasi perdendo l’equilibrio, quando la frusta schioccò, raschiando il terreno fra i suoi piedi. Impallidì continuando a fissare quell’arma che aveva già provato sulla pelle e che avrebbe preferito non vedere mai più.

Lentamente alzò lo sguardo su Rune, che lo fissava con severità.

“Impara, Soheil. C’è una precisa gerarchia ed io rispondo per te. Pertanto esigo rispetto.”

Nella voce del Balrog non c’era più niente di gentile e Soheil annuì leggermente, alzando le mani in segno di resa.

“Va bene, va bene. Le darò del lei e la chiamerò Maestro Luogotenente. Meglio così?” replicò con irritazione per nascondere lo spavento che la frusta gli aveva provocato.

“Maestro sarà più che sufficiente.”

Rune riagganciò la frusta alla cinta, senza smettere di fissare Soheil con severità. Il ragazzo non sapeva se il sarcasmo nella sua frase era stato o meno colto, ma preferì non indagare.

“E…” deglutì “Intendi usare quella anche negli allenamenti?” chiese, indicando la frusta con un leggero cenno del capo.

“Mi auguro che non debba servire.”

Soheil annuì, prendendo quella frase per quel che era: un sì. 

“Comunque non temere, Incubus. E’ solo un’arma… te la caverai.” 

La frase di Rune suonò vagamente minacciosa, ma Soheil si rese conto che quello non era altro che un maldestro tentativo di dargli conforto, forse motivato dall’evidente reazione di paura che il ragazzo aveva mostrato udendo lo schiocco della frusta.

Soheil sorrise, annuendo piano.

“Me la sono sempre cavata. E…” lo fissò, per un istante imbarazzato. “Grazie, Maestro. Non lo dico spesso quindi non ci fare troppo l’abitudine” si affrettò a specificare.

Se Rune gli avesse chiesto per cosa lo stava ringraziando, sarebbe stato lungo rispondere. E Soheil non ci sarebbe probabilmente riuscito.

Ma Rune non lo chiese, limitandosi a tendere le labbra in un sorriso che Soheil non ebbe modo di scorgere.

“Non mi ci abituerò.”

Indicò poi alcuni letti liberi.

“Riposa Incubus. Uno qualsiasi di questi andrà bene.”

Sollevato dal non dover dare spiegazioni, Soheil si guardò attorno, accasciandosi esausto sul primo giaciglio libero a sua disposizione, sotto lo sguardo perplesso di Rune, addormentandosi all’istante.

Per la prima volta da molti giorni ormai, ora che aveva di nuovo calcato la terra dei Morti, Soheil riuscì a dormire senza sogni.

 

Welcome to Hell

 

***

Rieccomi qui. Incredibile, vero? Figuriamoci, non ci credo neanche io.

@Meiou Hades: Grazie del continuo supporto, carissimo! Sì, sono capitoli di transizione, nei quali la situazione deve ancora definirsi per bene: insomma, Soh non sa che pesci pigliare e si vede. Va avanti alla giornata e questo può essere positivo come no. Non lo è quando finisci con l'incontrare inglesi con il monosopracciglio almeno. (Oh, Rhada è adorabile!). Se è l'azione che vuoi, carissimo, dovrai aspettare ancora un po' mi sa. Ma dovrebbe esserci, ad un certo punto almeno... fidati di me!

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Capitolo 13
*** Capitolo XIII ***


Capitolo XIII

 

 

La luce delle Stelle Demoniache non si era fatta più potente con il passare delle ore, solo più nitida. Come se lentamente il loro bagliore fosse riuscito ad attraversare una sottile, invisibile, coltre di nubi, per accarezzare con freddezza la terra scabrosa del Regno dei Morti.

Soheil lanciò l’anello in aria e lo riprese al volo, osservando come quella luce non si riflettesse affatto nell’argento lucido. Il fenomeno non lo sorprese più di tanto, ormai si stava abituando all’idea che buona parte delle sue certezze incrollabili fossero in realtà nient’altro che castelli di carte, pronti a rovinare su sé stessi al primo soffio di vento. 

E il vento, nel Mondo dei Morti, era sempre tempesta e mai brezza leggera.

Si era svegliato un paio d’ore prima, scostandosi di dosso la coperta che qualcuno gentilmente gli aveva appoggiato sopra, e per fortuna altrimenti si sarebbe ritrovato completamente intirizzito. La camerata era avvolta nel silenzio e Soheil sgusciò all’esterno osservando ogni cosa con curiosità, persino quelle persone addormentate che nel sonno rivelavano sul volto molteplici espressioni: alcuni erano raggomitolati in posizione fetale, il viso nascosto dalle coperte, troppo timorosi per accettare di trovarsi lì; altri sembravano dormire serenamente di un sonno senza sogni né incubi; un paio, persino, avevano il sorriso sulle labbra.

Come se sogni piacevoli potessero scendere fin nell’Inferno, accompagnati dalle braccia di Morfeo.

Ora, vestito con abiti da allenamento con i quali aveva litigato per qualche minuto prima di capire come diamine s’indossassero e con i capelli ancora umidi sulle spalle, Soheil se ne rimaneva immobile su un sasso, ad ascoltare i lamenti dei dannati.

Il Tribunale era l’unica isola silenziosa in quella terra, situato alle sue porte forse proprio per questo. In ogni altro luogo risuonavano grida e sospiri, gemiti e lamenti, urla lancinanti e pianti convulsi. Dove non arrivava la voce dei dannati arrivava il sibilo feroce del vento o il ruggito delle fiamme.

Non c’era silenzio all’Inferno, anche questo Soheil lo scoprì in fretta. 

Lanciò nuovamente l’anello, per poi rimanere ad osservarlo immoto sul palmo della mano. Una fascetta d’argento, niente di eclatante. Rimasuglio di un furto di parecchi anni prima.

Lo aveva tenuto con sé per via dell’incisione all’interno che l’aveva incuriosito. Javeed gliel’aveva letta e gli era piaciuta, così aveva cominciato ad indossarlo. 

Al Destino.

Ora era l’unica cosa che gli rimanesse dei suoi precedenti anni di vita. Non rimaneva nient’altro di quel Soheil che aveva corso fra le strade di Shush sorridendo strafottente; che beveva analcolici preso in giro dagli amici in locali pieni di fumo aromatico; che solitario si addentrava fra i ruderi di civiltà morte e dimenticate. Soheil piegò le labbra nell’idea di un sorriso.

Anche allora era stato attratto da un mondo di morti. 

Ironia del destino. Gli Dei hanno un gran senso dell’umorismo.

Chiuse il pugno, stringendo l’anello tanto forte da segnarsi il palmo. 

Se n’era andato. Tutto quello che era stato non valeva più che un pugno di cenere. Tutto quello che pensava di sapere era sbagliato.

Tutto quello che aveva fatto durante la sua vita era stato inutile.

Soheil scosse la testa, cancellando tutta quella serie di pensieri poco edificanti che si stavano affastellando nella sua mente. 

Le recriminazioni non sono mai servite a niente.

Si rimise l’anello all’anulare sinistro e si alzò, scendendo dal masso con pochi agili salti. Affondò i pugni nelle tasche, riavvicinandosi agli alloggi con lo sguardo chino sulla terra nera, priva di vita e nutrimento.

Rune aveva parlato di un addestramento e a Soheil l’idea non dispiaceva affatto. Non per l’ambizione di riuscire a controllare le fiamme che gli ardevano in petto, quelle le conosceva, gli appartenevano senza ombra alcuna di dubbio, ma per il semplice desiderio di sforzo fisico. Anche la mente più allenata deve cedere davanti ad un corpo esausto e Soheil voleva proprio questo: stancarsi fino a crollare.

Alzò di nuovo lo sguardo verso le stelle, brillanti nel cielo violetto, e sorrise. 

Un sorriso freddo come la luce nel Mondo dei Morti.

 

Il ragazzo davanti a lui doveva avere circa la sua età, anno più anno meno. Soheil chinò la testa di lato, esaminandolo: lo sconosciuto era più basso di qualche centimetro e decisamente più esile, con la pelle così chiara che Soheil si chiese per un istante se non fosse malato. 

Boccoli rossi e occhi azzurri, troppo estranei perché Soheil fosse in grado di trovarli gradevoli. Per quanto sorridesse innocentemente mentre gli tendeva la mano, Soheil ebbe la netta sensazione di essere davanti ad una cosa molto bella e molto velenosa.

Sorrise di rimando. Gli piaceva.

“Mathias.” si presentò lo sconosciuto, continuando a sorridere. 

Se i serpenti sorridessero probabilmente avrebbero quest’espressione.

Gli strinse la mano, presentandosi a sua volta: “Soheil.”

“Soheilbello.” flautò l’altro, divertito dalla situazione.

“Soheil e basta.” 

Mathias annuì, senza troppa convinzione.

“Soheilbello.” ripeté, senza mai smettere di sorridere. Soheil alzò gli occhi al cielo e lasciò perdere.

Rune, che li aveva osservati in silenzio fino a quel momento, li chiamò entrambi: “Da oggi siete miei allievi e l’allenamento comincia subito.” 

Non disse altro, limitandosi a portare una mano alla frusta che portava alla vita. Soheil fece una smorfia, per quanto quel gesto fosse più d’ammonimento che di reale minaccia la cosa non gli faceva comunque piacere.

Le fruste sono armi particolari. Un’arma, notoriamente, serve per dare all’Uomo che non ha zanne o artigli un modo più efficace per uccidere. Le fruste ed altri strumenti similari non servivano per uccidere, per quanto potessero portare alla morte. Il loro compito principale era infliggere dolore.

Soheil se lo ricordava bene.

Mentre Rune li guidava verso il luogo preposto per l’addestramento, Soheil si prese il tempo necessario per cercare di capire meglio lo strano ragazzo che aveva accanto. 

Qualche frase, più di circostanza che altro. Da dove Mathias provenisse in fondo a Soheil non interessava granché, anche perché non aveva la minima idea di dove fosse questa Danimarca.

Ne del perché ci fosse una sirena da quelle parti.

Rimase circospetto: per qualche motivo l’istinto gli gridava di fare molta attenzione a Mathias, malgrado il suo aspetto innocuo e innocente.

Però, a dispetto dell’istinto e della prudenza, a Soheil quel ragazzo piacque. 

Chissà. Potrei trovarmi bene con lui.


 

 

 

Welcome to Hell

 

 

IMPORTANTE: In questo capitolo appare un personaggio, Mathias di Ivy, che NON mi appartiene. E' di proprietà di Shinji e appare ne Il Canto della Banshee. Lui mi ha gentilmente concesso di farlo comparsare qui e io lo ricambio con tutto il mio amore. Grazie, Shinji! >******<

 

@Meiou Hades: Ecco finalmente qui il nuovo capitolo. Ci metto un sacco ma aggiorno, vedi? XD Sì, Soheil è stanco. Ma per fortuna ora ha uno splendido alleato, sìsì! E ne combineranno di guai quei due (Povero Rune. Povero, povero Rune. )

@Beat: djskfnsdkjnfksdjnfdjsknfdsjkdfs *LA BACIA* Sì. Ha le fiammelle rosse. E Grazie, lo so che ci sei sempre çOç

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