Broken Bones 2

di xNewYorker__
(/viewuser.php?uid=138575)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Teoria confermata ***
Capitolo 2: *** Quelle piccole incertezze che rendono tutto più difficile ***
Capitolo 3: *** Il rimpianto di una vita passata ***
Capitolo 4: *** Impotente, immobile, vuota. Ancora una volta ***
Capitolo 5: *** Non si può aggiustare un cuore infranto ***



Capitolo 1
*** Teoria confermata ***


Ormai era fin troppo chiaro che non riuscisse più a piangere. Aveva utilizzato i pomeriggi di un intero anno per quello.
E sembravano non bastare mai, sentiva che non bastavano, lo sentiva da quando aveva smesso.
Lo sentiva da quando non era più riuscita ad avere lo spazio materiale per le lacrime. Quindi, così, da un minuto all’altro, Temperance Brennan aveva smesso di piangere.
Per due anni nessuna lacrima aveva più toccato quelle guance gelide, nessuna lacrima era riuscita a fare arrossare quel piccolo cielo che portava con sé negli occhi.
Non era una persona felice, ma andava avanti, e questo era l’importante, o secondo lei lo era diventato.
Nella sua mente, il suo storico collega e compagno d’avventura non era altro che il protagonista di un meraviglioso romanzo, di quelli che non riusciva a dimenticare.
Era chiaro che non avrebbe mai potuto dimenticarlo, da quando lo aveva salutato mentalmente l’ultima volta in quell’ospedale.
Da quel pomeriggio non era mai più tornata in quell’edificio.
Non l’avrebbe più fatto. Il primo anno, invece, ci tornava tutti i giorni, così come tornava al cimitero a trovare quella lapide.
Era così difficile, per lei, poter credere di parlare veramente con il suo collega soltanto fissando quel pezzo di marmo infilato nella terra. Non riusciva neppure a pensare che davvero lui fosse lì sotto. Lo sentiva ancora troppo vicino a sé, per pensare che fosse lì.
Lo sentiva al posto del passeggero ogniqualvolta saliva in macchina.
Tre anni dopo continuava a sentire che qualcosa dentro le mancava. La cosa terribile era sapere cosa fosse senza poter rimediare.
Sapeva che se ne era andato attraversando un corridoio buio che l’avrebbe condotto lontano.
Sapeva che se ne era andato nell’incertezza che fosse fatta giustizia per suo figlio. Sapeva persino che lui non avrebbe mai potuto ringraziarla per aver sbattuto in prigione quei bastardi che avevano ucciso il suo piccolo Parker.
L’aveva fatto due anni prima.
Li aveva arrestati il giorno dell’anniversario della scomparsa di Seeley Booth, e aveva guardato il cielo pregando che se ne fosse accorto. “Per te, Booth” aveva detto.
“E per Parker, perché so che adesso siete insieme e potete abbracciarvi, come una volta”.
Non riusciva neppure a guardare più negli occhi Hannah, che lo aveva abbandonato qualche mese prima per andare a lavorare all’estero.
Però se la ritrovava davanti talmente spesso che aveva dovuto inventarsi una lista di scuse per togliersela di torno.
Giornalmente ne raccontava una nuova, e lei ci credeva. E andava via, senza guardarsi indietro, senza accorgersi che in realtà stesse mentendo perché il dolore la divorava viva.
Tutti sapevano di Booth, tutti avevano percepito un profondo cambiamento al Jeffersonian, tutti avevano capito che senza di lui le indagini non sarebbero state la stessa cosa.
Mancava una parte in ognuno di quei cervelloni senza cuore.
Era fin troppo chiaro che senza di lui nessuno avrebbe continuato a vivere allo stesso modo.
 
Buttò giù qualche riga per completare il rapporto che avrebbe consegnato a Camille, poi si alzò.
Prima di andare verso l’uscio osservò la foto che teneva sulla scrivania, e ricordò il momento ritratto: teneva in mano il distintivo di Booth e rideva di lui che indossava il suo camice.
La scritta “T. Brennan” sul camice e quella “Seeley Booth” sul distintivo erano gli elementi principali della fotografia, insieme ai loro sorrisi.
 
Prima che potesse uscire, bussarono. «Avanti» Disse.
«Dottoressa Brennan! Ho i riscon…cosa è successo?»
Daisy si rabbuiò solamente vedendo l’espressione che la dottoressa aveva assunto. Sembrava che non se la sentisse proprio, di lavorare.
Non dissero nulla per qualche istante, non si guardarono neppure. Il telefono squillò, e fu esso ad emettere il rumore che spezzò il silenzio.
Tremante, Brennan afferrò la cornetta e la portò all’orecchio. «Pron…» si schiarì la gola.
«Pronto. Dottoressa Temperance Brennan del Jeffersonian» Una pausa.
Si sentì qualche sommesso rumore di sottofondo, poi un cigolio. «Bones…»
Le due non ebbero neppure il coraggio di rispondere.
Nessuno la chiamava in quel modo da ben tre anni e qualche giorno.
Non ci era più abituata. «Sono impazzita, sono impazzita, sono impazzita» Sussurrò. Daisy poté sentirla.
Conosceva quella voce, l’aveva risentita tempo prima dalla segreteria telefonica.
Aveva ancora i suoi messaggi registrati.
E non ebbe il coraggio di cancellarli, non voleva dimenticare la sua voce, anche se probabilmente non ci sarebbe comunque riuscita.
Avrebbe almeno voluto poterla riascoltare.
Credeva di essere davvero impazzita. Non poteva assolutamente essere quella, la voce che aveva sentito.
 
Per ore la comparò a quella dei messaggi registrati.
Era la stessa, diversa solo per qualche minuscolo punto di suono per via della linea disturbata e del tempo trascorso.
Non poteva neanche essere una registrazione, risaliva al suo oggi.
Sorrise. Aveva sempre pensato che non potesse finire in quel modo, e adesso aveva le prove che non era davvero finita in quel modo.
Ma nessuno le avrebbe creduto. Non importava, l’importante era riuscire a trovarlo.
Un inconveniente: il numero non c’era.
Però si dice che due cuori si trovano anche a distanza di anni e di battiti. Lo avrebbe trovato anche non cercandolo.

Angolo autrice:
Benissimo, sono tornata!
Se eravate delusi dal gran finale (?) del primo Broken Bones,
mi auguro che questo possa sorprendervi e coinvolgervi,
se il primo l'ha fatto. 
Spero di ricevere qualche recensione. Non limitatevi a leggere,
mi fa molto piacere sentire i vostri pareri, anche negativi.
Beh...non vi dirò nulla sui sviluppi, leggerete.
A presto! 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Quelle piccole incertezze che rendono tutto più difficile ***


Si trascinò con quelle poche forze che aveva per alzarsi dal letto.
Anche quella mattina si sarebbe alzato con una scarsissima voglia di vivere, sarebbe andato a correre, sarebbe tornato a casa, avrebbe mangiato.
Da solo. Così come faceva da tre anni.
Avrebbe guardato la televisione, avrebbe controllato in quel modo il lavoro dell’FBI.
Oppure avrebbe guardato la videocassetta di un telegiornale di tre anni prima.
Magari avrebbe semplicemente letto il giornale. O non avrebbe fatto nulla di tutto ciò: sarebbe tornato a dormire.
Si manteneva ormai solamente con poca forza di volontà e dell’aria.
Dell’aria proveniente dalle finestre aperte del suo appartamento in Canada.
Dell’aria che aveva ottenuto scappando dalla sua vita.
Perché era scappato, poi? Perché aveva voluto lasciare tutti i suoi amici nel dolore?
E perché, soprattutto, aveva voluto lasciare la sua Bones nel dolore?
Sapeva che l’avrebbero superato. Ne era sicuro, convinto.
Credeva che sarebbe stato solo un peso.
Lui, ormai così deluso dalla vita, non aveva quasi più uno scopo per continuare a fare il suo lavoro.
Aveva salvato milioni di vite, ma non quella del figlio. Si era documentato, però.
Sapeva benissimo che l’equipe di Bones aveva risolto quel caso. Non avrebbe mai smesso di ringraziarli.
E dentro di sé era grato. Non sarebbe mai tornato, però.
Mentre si dirigeva in soggiorno, tentava di dare una risposta ad uno dei suoi dubbi maggiori: perché aveva telefonato alla dottoressa Brennan il giorno prima?
Non aveva alcuna intenzione di tornare, ed era sicuro che lei si ricordasse, che non l’avesse dimenticato, che sarebbe impazzita per cercarlo.
Di certo sarebbe impazzita.
Aveva chiamato da un prepagato: non avrebbe mai potuto rintracciarlo in una maniera relativamente semplice.
Eppure, la sua vita era cambiata da quando non vedeva più il cielo azzurro dei suoi occhi quotidianamente.
Gli mancava davvero.
Era una cosa che non aveva praticamente mai sentito, tranne quella volta in cui era partito per la guerra per un intero anno.
E adesso ne erano passati tre.
Chissà come l’avrebbe presa, Bones, se fosse tornato.
Sarebbe stata una scena alla “Hey Bones! Sono io, Booth. Sai cosa? Ti ho preso in giro per tre anni, sto benissimo! Non ho rimediato neppure una bruciatura in quell’ospedale, sono solo scappato perché avevo paura di deluderti. Ma l’ho fatto comunque, quindi! Ah, ti va di prendere una birra con me?”.
No, non poteva andare così.
Gliela avrebbe tirata in testa, piuttosto, la birra.
E sarebbe andata parecchio male.
Come poteva perdonarlo? Neanche lui, al suo posto, l’avrebbe perdonata.
E lei avrebbe capito.
Così come stava capendo lui, avrebbe capito.
Come avrebbe potuto sconfiggere le sue paure, allora?
Come sarebbe potuto tornare facendo finta che non fosse successo nulla?
Avrebbe potuto davvero fare finta di niente?
Probabilmente no, ma se non ci avesse almeno provato non avrebbe potuto dirlo con sicurezza.
Doveva almeno provare a comprare un dannato biglietto aereo per Washington.
 
In silenzio, alla sua scrivania, la dottoressa non voleva spiccicare parola.
Era troppo presa dai suoi ragionamenti, dai suoi film mentali, per parlare con qualcuno. Angela le stava di fronte, e la osservava fin troppo preoccupata.
«Tesoro…cos’hai? Sei strana da stamattina…» , «Mi sorprende che Daisy non abbia ancora cantato con tutto il Jeffersonian» , «Sembrava scossa. Non ha detto niente. So che può essere sorprendente»
Emise una risata sommessa. Non aveva quasi il coraggio di ridere più forte, per rispetto nei confronti dell’amica, che continuava imperterrita a non volere parlare.
«Scusa…avanti, puoi dirmelo…sai com’è, non ci sono segreti tra noi, giusto?» , «Giusto…ma preferisco essere sicura, che farneticare e dare false speranze» , «A proposito di cosa?» , «Non mi convincerai a parlare rigirando la frittata, Angela!» , «Va bene…era più facile quando c’era Booth, a convincerti» , «N…non…» Angela fece per andarsene, ma si bloccò al sentirla rispondere. «Cosa c’è?» , «Niente, va’ pure per la tua strada»
Se ne andò, sbattendo la porta.
Non che fosse arrabbiata, solo voleva conoscere il motivo per il quale la sua amica era così tormentata.
Con lei, anche una come la dottoressa Brennan sembrava diventare improvvisamente capace di confidarsi.
Ma questa volta non sembrava esserci forma di farla parlare. Così decise che avrebbe lasciato che riflettesse.
Se avesse voluto dirle qualcosa in futuro, avrebbe saputo dove trovarla, come sempre.
 
L’aria che si respirava al Jeffersonian era satura di segreti e di verità non svelate.
Sembrava che la dottoressa fosse stata tenuta nella bambagia per evitare che continuasse a soffrire.
La verità era che non aveva mai smesso. Non avrebbe potuto smettere.
Da quando aveva sentito di nuovo quella voce, sentiva un dolore percorrerle quello che chiamava solo “organo involontario”.
Non credeva potesse farle male anche non essendo prossima all’infarto.
Non riusciva davvero a spiegarsi il perché di quella fitta, e non aveva un rimedio medico per curarla.
Avrebbe dovuto cercare Booth, come qualsiasi amica avrebbe fatto.
Il pensiero che se ne fosse andato non la sfiorava neppure. Le sembrava un gesto ipocrita, stupido e forse addirittura cattivo.
E Booth non era cattivo, lei ne era consapevole. Non poteva essere cattivo, neanche dopo la perdita di Parker.
Talvolta il sorriso di quel bambino sulla sua scrivania le ricordava quello di Booth.
Erano così simili, e iniziavano a mancarle entrambi.
Perché le mancavano entrambi, poi?
Non era praticamente mai riuscita ad avere un vero rapporto con Parker, che era palesemente più legato ad Hannah.
O almeno così appariva ai suoi occhi. E ai suoi occhi la situazione è sempre stata distorta da una sofferenza generale che appesantiva le cose.
Osservava le foto e le passavano per la mente tutti quei momenti come diapositive ineliminabili.
Non sapeva quanto avrebbe retto senza ritrovare Booth al più presto.
Infondo, era sempre stata sicura di poterlo ritrovare.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Il rimpianto di una vita passata ***


Ormai le settimane passavano inesorabilmente, senza spegnere in lei la voglia di approfondire la faccenda.
Era una Domenica mattina, ed era sul divano davanti alla TV: cattiva abitudine insegnatale da Booth, altrimenti col cavolo che invece di leggere stava lì.
Chiuse gli occhi, e quando li riaprì era passata un’ora.
No, non era il tipo che guarda instancabilmente la TV.
Si alzò quasi svogliatamente dal divano e osservò il suo cellulare: c’era una chiamata persa, e il numero era sconosciuto.
Si affidò alla segreteria, magari aveva qualche messaggio.
La voce che sentiva era proprio quella di Booth.
Ma il numero era di Hodgins. Stava impazzendo.
Scosse il capo e lanciò l’aggeggio su quello che era stato il suo “giaciglio” fino a pochi istanti prima.
Forse doveva arrendersi al pensiero che fosse morto, come aveva quasi fatto anni prima.
Ma probabilmente una Temperance Brennan trentottenne era più determinata di una Temperance Brennan trentacinquenne, per quanto questo, prima, sembrasse impossibile persino a lei.
 
Come gli altri giorni, era sul divano, con una bottiglia di birra a fargli compagnia.
Anche dopo anni, non aveva cambiato marca.
Stringeva tra le dita una bottiglia della stessa birra che aveva spesso diviso con la Brennan quando era a Washington.
Stava quasi cominciando ad abituarsi all’aria del Canada, seppure non facesse per lui come immaginava.
Nel pomeriggio si sarebbe trasferito a New York insieme alla solitudine e al bagaglio di ricordi malinconici che solo un uomo che ha perso tutto può portarsi dietro.
Sospirò e bevve un sorso di birra.
Ogni tanto lanciava occhiate all’unica valigia che aveva, e pensava che era un codardo ad andare a New York ma non a Washington.
A New York, però, aveva un amico che era capace di rendere la sua situazione così interessante da metterla in un libro.
Anche se, in verità, non ne era ancora a conoscenza.
Compose il numero sul cellulare, certo che l’altro avrebbe risposto anche senza riconoscerlo.
Come da copione, rispose.
 
Uno squillante «Pronto!» uscì dalle labbra di Richard Castle, dischiuse in un sorriso nella speranza di un nuovo caso.
«Rick» Disse prontamente l’ex-agente.
«S…Seeley? Dormo, vero? Ok, è l’aria della Domenica. Chi è?» , «Sono io, Rick. Seeley. Seeley Joseph Booth. In carne e ossa, anche se senti solo la voce»
Dall’altra parte del telefono, lo scrittore sembrò strozzarsi con la saliva nel tentativo di realizzare la situazione.
«Seeley…so che non è bello sentirselo dire, ma…non eri morto?» , «Fidati, avrei preferito esserlo»
L’altro deglutì e tossicchiò piuttosto rumorosamente.
«Posso chiederti un favore?» , «Sicuro, spara!» , «Potresti ospitarmi? Cioè, finché non trovo un nuovo lavoro, poi tolgo il disturbo. La storia te la racconto quando arrivo» , «Co…» Avrebbe chiesto della storia, se Booth non avesse prontamente detto che gliel’avrebbe raccontata poi.
«Certo, vieni quando vuoi, Alexis è in gita, quando torna penso a come sistemarci tutti»
Ridacchiò, l’organizzatissimo Castle. «Porti anche la tua amica? Magari me la fai conoscere!»
Aveva un tono entusiasta come quello di un bambino il giorno di Natale.
«Io…non sono più in contatto con lei» perché sono un coniglio, avrebbe aggiunto “volentieri”.
«Mi racconti anche di questo, quando vieni» , «Sicuro. A stasera»
 
Erano le sei e un quarto, quando Booth e valigia furono a New York.
Il taxi si fermò sotto casa Castle.
Lui suonò, e per poco la voce di Rick non spaccò il citofono.
Appena fu all’appartamento, e bussò, un’elegante donna dai capelli rossi gli aprì la porta, sorridendo gentile
«Buonasera, lei dev’essere l’agente Seeley Booth» Disse. «Speciale, un tempo. Ora come ora, solo Seeley Booth» Rispose, nostalgico.
«Ad ogni modo, lieta di conoscerla. Sono Martha Rodgers, attrice teatrale e fiera madre di Richard»
L’invitò a entrare con un eloquente gesto della mano destra, mentre la sinistra era ancora impegnata sulla maniglia.
Lui seguì il suo gesto ed entrò, sorpreso di trovare al tavolo un’altra figura conosciuta, oltre a quella di Rick.
Sorrise, e finalmente i due lo notarono per davvero, fra un sorso di Martini e l’altro.
«Seeley, hai fatto buon viaggio?» Chiese, per poi voltarsi verso la “collega”.
«Oh, vi presento subito» Sorrise. «Lui è Seeley Booth» poi si voltò verso di lui. «Lei, invece, è K…»
Venne interrotto proprio da Booth. «Katherine Beckett» Disse.
«Seeley, ti davo per disperso!» , «Io invece sapevo che stessi qui» Ammise «Da quanto tempo, comunque! Ti trovo cambiata!» , «Beh, anche tu sei cambiato, e molto!»
Lo scrittore alternava lo sguardo tra l’una e l’altro, interdetto.
«Vi conoscete?» , «Abbiamo frequentato la stessa università»
Risposero, in coro, per poi scoppiare a ridere.
«Ti facevo più vecchio di lei» , «Infatti l’ho solamente aiutata con la tesi, ero già in servizio quando lei si è laureata, le hanno proposto me come mentore»
«Ah, capisco»
Non sembrava poi tanto felice, e gli altri due se ne accorsero. Però non dissero nulla.
«Oh, Seeley, la storia?» Sorrise, mentre l’ex-agente si rabbuiava e si metteva a sedere accanto a Beckett.
«Che ho detto?» Chiese Castle, con aria innocente.
«Nulla, avrei dovuto raccontarla prima. Ricordi quando hai chiesto se fossi…morto?»
Lui annuì.
«Morto? DI che parli?» , «Kate, su che pianeta vivi?» , «Mmh…»
Si zittirono di colpo, per farlo continuare.
«Ho p…perso mio figlio, tre anni fa. Hanno creduto che fossi morto perché, ricoverandomi per un infarto all’ospedale, c’è stato un incendio. Sono scappato dal retro. Poi…il Canada»
«Cosa?!» Castle era allibito. «Parker? Amico, mi dispiace! Non so cosa farei se Alexis…»
Kate gli diede una gomitata.
«Sht! Non sei d’aiuto» , «Ahia…»
«No, no, è normale che dica così. In certi casi lo dicevo anch’io. A B…no, nulla»
Scosse la testa, come se quel gesto potesse eliminare i suoi pensieri.
«A B…cosa?»
Per sdrammatizzare, Booth rise di un riso malinconico. «Nulla, nulla»
«B non è l’iniziale di Brennan, la tua amica?» , «L’antropologa? Conosci la dottoressa Brennan?»
Gli occhi di Beckett erano quasi luccicanti.
«S-sì, diciamo di sì…» Certo, “diciamo di sì” può ben sostituire un “la amo ma ho dovuto lasciarla perché sono un codardo”.
«Forte! Mi piacerebbe incontrarla! Non la vedo da cinque anni, una volta abbiamo lavorato insieme a un caso. Intrattabile, ma un grande genio»
Booth sorrise a quel commento, celando dietro a quella piccola smorfia del viso un universo di parole non dette e storie non a lieto fine, non a lieto fine solo per colpa sua, di un suo errore stupido a cui non avrebbe potuto porre rimedio.
«La trovi a Washington, al Jeffersonian, quando ti pare»
Rispose poi, bruscamente, cacciando indietro quella pericolosa espressione che gli sarebbe costata mesi di spiegazioni e racconti.
«Oh, ehm…okay…pensavo di andare a Washington la settimana prossima. Potete venire con me, magari le facciamo un saluto!»
«Ne farei a meno, se non ti dispiace…» , «Ma dai, la tua Brennan!» Esclamò lo scrittore.
«Non è…mia. E’ una persona, ricorda. Le persone non sono di proprietà di nessuno. Non lo sono mai» , «Okay…non ti manca?» , «No»
Quella forse era una delle bugie più grandi che avesse mai detto.
Non passava giorno in cui non rimpiangesse quegli occhi azzurri che piangevano una morte finta.
«Avete tagliato i rapporti così, senza motivo?» Castle era davvero perplesso.
«Così, senza motivo» Ripeté.
Forse un giorno gli avrebbe raccontato la vera storia.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Impotente, immobile, vuota. Ancora una volta ***


Il Martedì bussò prepotentemente ai vetri della finestra, trapanando le tende arancioni con quegli scarsi e sottili raggi di sole rimasti attraverso i residui di una pioggia notturna.
Forse era meglio che rimanesse a dormire, anziché seguire quei due a Washington.
Era già dura stare a New York.
Si rigirava nel letto, sistemando inconsciamente le coperte che, nonostante tutto, continuavano a ricadere sul vaporoso tappeto rosso.
Già, l’arredamento in casa Castle non era dei più tranquilli, specialmente nella camera di Alexis, nella quale era palese l’intervento di Martha.
Bussarono alla porta proprio quando stava per riaddormentarsi con un silenzioso sbadiglio.
«Sveglia!» Esclamò la voce entusiasta dello scrittore.
Booth mugugnò qualcosa e basta, girandosi ancora una volta, e facendo uscire un braccio da sotto le coperte.
«Lo so che mi stai deliberatamente ignorando ma mi senti benissimo»
Anche se l’altro non poteva vederlo, aveva incrociato le braccia, ed era appoggiato allo stipite della porta, con l’aria di chi non accetta un no come risposta.
Oh, destino crudele.
Continuò ancora ad ignorarlo, senza tenere conto del fatto che lo stesse osservando mossa dopo mossa nel suo intento di sparire dalla circolazione per il giorno e mezzo in cui Castle e Beckett sarebbero stati a Washington.
«Non sparirai. Quindi alzati, lavati e vestiti. Mangerai quando saremo arrivati»
Sembrava un capo-scout, mentre gli dava ordini, mantenendo però sempre l’aria bambinesca e la voce fin troppo allegra.
«Mhm…askdjsksdjha…» Booth mormorò qualcosa di simile, prima di girarsi per l’ennesima volta, sistemando di conseguenza le coperte, ma lasciandole ora completamente cadere a terra. O almeno era convinto di averle fatte cadere a terra.
Era stato un tempestivo intervento dell’altro per far sì che si svegliasse del tutto e si decidesse a partire con loro.
Così, l’ex-agente si mise a sedere sul letto, massaggiandosi le tempie, fingendo un mal di testa.
«Questi trucchi li usavo alle medie durante i compiti di matematica. Sputa il rospo»
«Io…non voglio venire con voi, d’accordo? Non ti devo nessuna spiegazione»
La voce di Booth, seppure velata di sonno, era comunque intransigente.
«No no caro, me ne devi eccome. Avanti, hai evitato il discorso per giorni, e quando parlavamo della Brennan sei andato a guardare il wrestling. Mi vuoi dire cosa ti prende? E fa’ in fretta: Beckett sta per arrivare e non vuole che la facciamo attendere»
«Per favore…ti prego, lasciami stare a casa. L-lei…lei crede ancora che io sia morto» , «E quindi? Falle una sorpresa, sarà contenta come lo sono stato io, poi ti abbraccerà e…vissero tutti felici e contenti, bada-boom!» 
«Magari fosse tutto facile come un bada-boom» Sospirò sui pugni.
«Rick, avanti. Non costringermi a farlo, ti supplico. Lasciami rimanere qui, dico sul serio. Non mi va di parlarne»
«Andiamo, mi devi una spiegazione. Anche una piccola»
Booth sbuffò, togliendosi le mani dalla faccia e guardandolo dritto negli occhi con un’espressione serissima.
«Sono un codardo, Rick. E’ questa la verità. Questa è l’unica verità fondamentale»
Non aggiunse altro per un interminabile minuto. «E lei non mi perdonerà. Sono scappato da tutto, mi capisci? Da lei, dal lavoro, dalle responsabilità, dalla vita. E’così: non volevo più vivere. Ho lasciato che la mia tragedia personale compromettesse anche la sua vita, e l’ho abbandonata. Sai cosa significa? L’ho lasciata in lacrime, con un biglietto. Non ho visto le lacrime, ma posso immaginarle benissimo anche in questo istante. La cosa peggiore è che io sapevo di mentirle. Sapevo che avrebbe sofferto, ma non mi importava. Non mi importava delle conseguenze, di lasciarla, di scappare, della vita, del lavoro, degli amici. E mi odio ancora per quel biglietto. Sapevo già di potere scappare e avevo in mente di farlo, ma non gliel’ho detto. L’ho omesso, come ho fatto con tante altre cose che non avrei dovuto evitare di dire»
Si interruppe solamente quando non riusciva più a parlare.
E in quel momento non ci riusciva.
Prese un respiro profondo.
«Non credo che potrà mai perdonarmi, e preferisco sapere che ho ancora un posto nel suo cuore da morto, piuttosto che saperla ancora più triste, più vuota e più…più arrabbiata con me. Non mi perdonerà, e sarebbe peggio che morire. Non immagini come diventano, i suoi occhi, quando è davvero arrabbiata, o delusa. Non…non è possibile reggere un suo sguardo del genere, sei costretto a cambiare direzione»
Finalmente fu il turno di Castle, di parlare.
«Io…non so cosa dire…se davvero è questo quello che pensi…se è davvero questo quello che vuoi…allora beh, resta. Ma non saprai mai se ti perdonerà se non proverai a parlarle. Ora come ora può sembrarti difficile, parecchio difficile, ma non puoi sapere se ti perdonerà senza provarci. E se davvero tieni a lei devi far sì che sappia quanto l’hai amata e quanto la ami, e quanto tu soffra per averle mentito. Dopo di che potrete ricominciare. Insieme o no, non importa. Per ora non importa»
Gli posò delicatamente una mano sulla spalla. Infondo, poteva solo dargli un consiglio. Non avrebbe mai potuto scegliere per lui.
«Sai cosa faccio? Quasi quasi vengo anch’io a Washington. Se…se non ho il coraggio…rimango in macchina, d’accordo? Non credo di…volerle fare pressione. Non voglio che mi veda dopo tre anni senza che io abbia il coraggio anche solo di reggere il suo sguardo. Ma…vedi come parlo? Mi preoccupo solo di me, e questo…questo mi fa schifo. Prima mi preoccupavo solamente di cosa potesse succedere a me se non mi perdonasse. Non riesco più ad immaginare come starebbe lei»
«E’…una fase. Ti prometto che riuscirai a ricominciare, va bene? Ma intanto andiamo» Sorrise.
 
La macchina oscillava sulle strade, finché non si fermò di fronte al Jeffersonian.
L’aria era la solita, il posto era il solito.
Le mura sembravano brillare di pace, tutto il contrario di Booth, che a malapena riusciva a respirare.
Ricordò d’un tratto la prima volta che era entrato in quell’enorme palazzo. Gli sembrava tutto così naturale, semplice.
Era…insomma, era entrare in un palazzo, nulla di più.
Aveva attraversato la strada al semaforo, aveva osservato il bianco candido che rivestiva le pareti esterne, era entrato attraversando il portone, di fianco al quale stava la targa con il nome dell’edificio. Aveva salito le scale, aveva raggiunto il laboratorio.
Aveva parlato con la Brennan per la seconda volta. Aveva osservato tutti al lavoro. Li aveva chiamati “cervelloni” per la prima volta.
Trovava incredibile come un semplice edificio potesse contenere metà della sua vita.
L’altra metà, ormai, non c’era più. S’era persa nel vento.
Improvvisamente sembrò che il senso di vuoto che lo spingeva a stare distante da quelle mura scomparisse.
Si sentiva libero, leggero. Sentiva di poter volare solo sollevando un piede.
Respirò a pieni polmoni l’aria della Capitale, seguì Beckett e Castle all’ingresso.
Stavano per recarsi ai laboratori, quando fu proprio la dottoressa Brennan a venire loro incontro.
Quasi non li notò. Reggeva delle carte in mano.
Aveva i capelli legati in una coda, gli occhi bassi, il camice.
Era la solita Temperance Brennan, che nascondeva i sentimenti così bene da far sembrare che non ne avesse.
Ed era svelta, così svelta che sembrava che tutto le scivolasse addosso nel semplice percorso di un corridoio.
Castle sorrise e la fermò richiamandola con un colpetto di tosse leggero.
Booth era scomparso dietro una porta aperta.
Beckett, intanto, allargava il suo sorriso facendo scomparire la nostalgia per la dottoressa.
«Dottoressa Brennan! Che piacere rivederla! Si ricorda di me?» Chiese, immediatamente.
La dottoressa annuì. «Detective Beckett, salve» Disse. Non che non fosse felice di vederla: era solo troppo concentrata.
«Lei…dev’essere il signor Castle» Lui le porse la mano, e lei la strinse.
«Molto lieto di conoscerla, dottoressa, ho sentito molto parlare di lei» Non volle aggiungere nulla.
Voltandosi non vide più Booth, quindi decise che il silenzio era la migliore cosa.
«A cosa devo il piacere?» Domandò Brennan, all’improvviso, come a spezzare il silenzio che stava per crearsi, mentre osservava ancora le carte.
Solo un attimo alzò lo sguardo, e sul suo volto comparve una traccia di sorriso praticamente minima.
Fu in quel momento che Booth sentì la sua voce, da dov’era nascosto. Era la voce di Bones, era davvero la sua.
Avrebbe voluto guardarla negli occhi almeno un’altra volta, prima di poter dire di essere scappato da lei e dalla verità. Si sporse da dietro la porta, e poté osservarla chiaramente in viso, mentre sorrideva distrattamente. Sembrava che tutto fosse tornato ai vecchi tempi.
Era sempre così diligente, così assorta e presa dal suo lavoro, a cui si dedicava completamente.
Sembrava che anche quel giorno avesse riposto i sentimenti in un cassetto. E i suoi occhi erano perfetti, come lo erano sempre stati. Perfettamente impassibili.
«Siamo qui in visita. Ho trascinato i mie…il mio amico Castle qui per farle un saluto veloce»
Beckett sorrise. Neanche lei aveva intenzione di aggiungere nulla. Lo scrittore le aveva appena fatto notare l’assenza di Booth.
Un sottilissimo rumore di passi risuonava in loro direzione, ma nessuno dei tre se ne accorse.
Booth aveva definitivamente preso una decisione.
Era ancora dietro agli amici, che si accorsero della sua presenza anche se si era abbassato per non farsi, in un primo momento, notare dalla dottoressa.
Tossicchiò, per richiamare l’attenzione su di sé, come aveva fatto Castle poco prima.
La dottoressa sgranò gli occhi in modo perfettamente visibile.
«B-B…» Non riusciva neanche a pronunciarne il nome.
Per l’ennesima volta si sentiva confusa, vuota, delusa, pazza.
Non poteva assolutamente credere di averlo davanti. Non dopo tre anni. Non dopo il funerale. Non dopo tutto quello che aveva passato.
Ma…era così. Seeley Booth era proprio di fronte a lei.
Le sorrideva malinconicamente, come se fosse un vecchio amico in visita dopo molto tempo. Come se non fosse mai successo nulla.
«Bones…» Quel soprannome, poi. Le era mancato davvero. Non si immaginava di poterlo sentire un’altra volta da lui.
Non riusciva ad aprire bocca, così lui la precedette.
«Bones…ti ho mentito. Mi dispiace. R-ricordi il…biglietto? Avevo…io avevo trovato una via di fuga…sono…scappato dal retro dell’ospedale…»
Anche a distanza di tempo, aveva la scena davanti agli occhi. Aveva quella scena davanti ogni singolo giorno, e ogni notte. Quando chiudeva gli occhi la riviveva nei minimi particolari. Sentiva le voci, i rumori, vedeva le luci spegnersi e le fiamme propagarsi, sentiva il dolore dell’infarto lungo il braccio.
E lo sentiva anche mentre parlava del biglietto.
«Prima che tu lo chieda…ho…ho vissuto in Canada, per tre anni. Ho…ho saputo che avete risolto il caso. Che hai risolto il caso. E…io…grazie, Bones» Concluse. Non riusciva a dire altro, a pentirsi anche a parole, oltre che col  pensiero.
Sperò con tutte le sue forze che la dottoressa lo perdonasse.
Ma lei era lì, di fronte a lui, impotente, immobile, impassibile, vuota, ancora una volta.
Ogni tanto faceva un movimento involontario dovuto al respiro affannoso. Su e giù, un movimento quasi spasmodico. Sentiva di potere addirittura stramazzare a terra.
Allungò un braccio, passando tra Castle e Beckett senza neanche guardarli.
Con tutta la forza che aveva, colpì Booth, rimanendo ancora senza espressione.
Poi, come non credeva di potere fare, scappò. Corse via. Lo lasciò lì a massaggiarsi la guancia guardando in terra, come lei non poteva invece fare con il suo cuore.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Non si può aggiustare un cuore infranto ***


Booth si guardò intorno, amareggiato da se stesso più che dalla dottoressa.
Ormai non poteva più chiamarla “sua partner”, non poteva più chiamarla “Bones”.
Avrebbe ricevuto un altro schiaffo fisico, oltre a quelli morali che si era dato da solo in tutto questo tempo.
Aveva sbagliato. Doveva pagare. Lo sapeva.
Ignorò le parole di Castle e Beckett: erano futili per il suo animo. Ignorò i rumori e il vocio che provenivano dalle sue spalle.
Sembrava che una guerra nucleare dovesse scoppiargli affianco da un momento all’altro, e si sentiva come se probabilmente non se ne sarebbe accorto.
Sentì la calda mano di Castle sulla spalla sinistra. Iniziò a camminare.
Non sapeva dove andare, non c’era un posto dove realmente volesse andare, senza che le immagini di quel che era successo e di quel che non sarebbe successo lo perseguitassero.
Non aveva neanche voglia di parlare.
Preferiva che le parole proferite da quei due gli scivolassero addosso, come avrebbero dovuto fare le sue addosso alla dottoressa Brennan.
Tutto questo non sarebbe successo, se lei avesse lasciato che il tempo le permettesse di smettere di considerarlo.
E invece, lei, continuava a chiedersi “chissà cosa farebbe Booth” su ogni scena del crimine che vedeva.
Continuava a chiedersi “chissà cosa avrebbe detto Booth” in qualsiasi situazione, ad ogni battuta, ad ogni occasione di risata mancata.
 
Lei se ne stava nel suo angolino, in ufficio, dietro alla scrivania, con la testa tra le mani.
Una parte di sé l’invitava ad accettare le scuse del suo vecchio collega, mentre un’altra parte, l’orgoglio, le suggeriva di stare a crogiolarsi nel suo dolore a fare la vittima. E quella dannata parte era sempre quella che vinceva.
Si malediceva moltissimo per il suo comportamento.
Avrebbe tanto voluto spezzare le catene che la legavano alla sua fredda immagine di scienziata.
Avrebbe voluto essere solo…Temperance, per una volta.
E Temperance, probabilmente, si sarebbe fatta guidare dal cuore, che non era solo un muscolo involontario.
In quei tre anni erano cambiate parecchie cose.
Si era nuovamente chiusa in se stessa, aveva perso quel lato mediamente umano che Booth aveva tirato fuori dopo tanto tempo.
Prima di rivederlo sembrava che non le importasse di riavere il suo lato umano. Era solo una parte di sé che era esistita e che non voleva ricordare.
Non avrebbe potuto sopportare di soffrire allo stesso modo.
Però, non appena aveva visto Booth, quel lato era tornato più forte che mai.
Aveva prevalso sul suo lato da scienziata, sulla cosa più importante che avesse avuto durante la sua assenza. Non era giusto.
Non doveva più essere così. Non avrebbe permesso che nessuno la facesse più soffrire in quel modo.
Si drizzò sulla sedia e rilassò le bracca lungo i fianchi, stringendo i pugni per un po’ e trattenendo le lacrime.
Riuscì a non farle scendere e quello fu il suo primo traguardo. Il secondo sarebbe stato…dimenticare.
 
Castle era stanco di aspettare in piedi. Lanciò uno sguardo a Beckett.
Lei sembrò non notarlo neanche, e fissava Booth, preoccupata.
«S-Seeley…vuoi che ce ne andiamo?» Gli chiese.
Lui annuì e uscì dall’edificio, seguito a ruota dai suoi amici.
Non voleva più avere niente a che fare con Washington.
Quando furono in macchina, si sedette dietro come prima.
L’atmosfera non era più “leggera” come quella iniziale. Era piena di silenzio e di vuoti incolmabili.
Le parole non sarebbero servite a niente.
Le sue parole erano inutili, e quelle di Castle lo erano ancora di più. Non si può aggiustare un cuore infranto, specie se la coltellata è stata inferta dallo stesso proprietario di quel cuore. In questi casi ci vuole solo del tempo, e forse una buona dose di coraggio per affrontare le giornate restanti alla fine della propria vita.
«Rick…posso chiederti un favore?» Interruppe quel silenzio con questa domanda.
Lo scrittore lo guardò dallo specchietto retrovisore. La sua espressione era spenta come non mai. Non lo aveva mai visto così.
«Certamente» Rispose, soltanto, sorridendo appena e mettendo in moto definitivamente.
«Posso…ecco, venire a vivere da te? È una cosa temporanea, prometto. Sloggerò non appena avrò trovato un altro posto…»
Rick drizzò la schiena istintivamente. Non si aspettava una richiesta del genere.
«Naturalmente…non preoccuparti per i limiti di tempo. Quando tornerà Alexis ti cederò la mia stanza» Sorrise ancora una volta, mentre Beckett lo prendeva in giro solo con le sue occhiate.
Non se la sentiva di sdrammatizzare in quella situazione.
Booth aveva appena deciso che avrebbe iniziato una nuova vita.

Angolo autrice:
Ciao, odiatemi pure, ciao. 
So che questo capitolo non è proprio ricco di avvenimenti.
La mia idea era di farlo più pieno di riflessioni, più introspettivo. 
E ho aggiunto una mia classica caratteristica: i finali di mer...brutti (?).
In ogni caso, spero che vi sia piaciuta anche questa. E' finita. TAN TAN TAAAAN.
-xNewYorker__/Chris

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=864415