-Baby, did you forget to take your meds?

di ValeEchelon
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Chapter One: Birth. ***
Capitolo 2: *** - ***
Capitolo 3: *** - ***
Capitolo 4: *** - ***



Capitolo 1
*** Chapter One: Birth. ***


Sola, su quel letto macchiato di sangue.
Sola, in quella stanza che sapeva di erba.
Sola, in quell’ambiente ostile che non riconosceva più.
“Tesoro, hai dimenticato di prendere le tue medicine?”
Quella voce le risuonava in mente, detta da sua madre, detta da suo fratello, e ora detta pure da Brian.
Era un tormento, un tormento che martellava nella sua testa, incessante, inconsapevole che tutto questo non faceva altro che aggravare la sua situazione.
Si era ritrovata da sola, ancora una volta, con milioni di pillole e antidepressivi che la fissavano con aria di sufficienza, tutte belle e colorate se ne stavano lì a guardarla, aspettando di essere ingollate, magari con un bel sorso di vodka secca. 
Il telefono squillava pigramente, richiamava la sua attenzione, ma lei era troppo stanca per alzarsi e rispondere, era troppo stanca per parlare con qualcuno che non fosse il suo pusher.
Aveva bisogno di qualcosa, ma non sapeva ancora cosa: erba? Ce l’aveva. Cocaina? Pure. Eroina, forse? Sì.
Ecco, sì, voleva dell’eroina.
Eppure era ancora distrutta da quello che aveva passato poche ore fa, era ancora distrutta dalle posizioni scomode mentre scopava e dalle piste di coca fatte troppo in fretta. Era ancora distrutta perché il suo corpo ormai non reggeva più quei ritmi, stava morendo lentamente, era come una foglia sul punto di cadere dall’albero, ma questo non le interessava; doveva passare gli ultimi giorni della sua vita così, aveva fatto una promessa e non aveva intenzione di violarla.
La testa le girava, un rivolo di sangue colava giù per le labbra violacee, livide.
Gli occhi, ridotti a fessure iniettate di sangue, erano stanchi e vedevano tutto a righe. Il respiro era rotto e affannato, ogni volta che inspirava era una coltellata al fianco, ogni volta che espirava un grido muto.
La sua testa era ridotta ad un ammasso informe di pensieri, di preoccupazioni e di paure.
Il problema era fondamentalmente sempre lo stesso, la domanda sempre uguale: “Quando morirò?”
Se lo chiedeva da ormai un mese, ma della mitica mietitrice non c’era ombra.
Ogni giorno era peggio, ogni giorno i dolori lancinanti non la lasciavano respirare, si portavano via felicità e tranquillità.
Ogni giorno viveva, con la consapevolezza che da un momento all’altro poteva non esserci più, non che la cosa la preoccupasse, intendiamoci: non aspettava altro, voleva morire, evaporare, andarsene da questo schifo di posto, e sebbene non credesse né in Dio, né in nessuna delle puttanate che si predicava, lei in realtà sperava in qualcosa. Sperava di poter vivere un’esistenza decente, almeno da morta, visto che da viva la sua vita aveva fatto schifo.
Due volte aveva provato a suicidarsi, due volte aveva preso quel freddo revolver e se l’era infilato in bocca, pronto a fare esplodere tutto, ma per ben due volte quell’immagine l’aveva fermata, per ben due volte le aveva detto: “Farà troppo male, passa ad altro”, e lei, per ben due volte, si era seduta sulla poltrona, aveva preso il suo bel bicchierone pieno di tante belle capsulette colorate, ed era finita dritta dritta in ospedale sotto ai ferri, con tanto di lavanda gastrica.
Questa volta però aveva fatto il lavoro per bene, si era concessa l’ultima scopata della sua vita, s’era sfondata di canne e alcool, si era fatta due belle piste di coca e, per ultime, le sue amate pillole.
Forse così la faceva veramente finita.
Già l’ultima volta il medico le aveva detto delle condizioni gravi in cui versava, già l’ultima volta le aveva detto che aveva rischiato di morire e che se avesse continuato con gli stessi ritmi violenti, non avrebbe fatto altro che accelerare il tutto.
Ma lei voleva morire, loro non capivano, ma lei voleva morire.
Una voce flebile le sussurrava.
Non capiva bene cosa, ma le sussurrava parole d’affetto, parole dolci che avrebbero dovuto tirarla su ma che in realtà la trascinavano ancora giù, verso quegli abissi profondi e oscuri. Aveva aperto a fatica gli occhi, aveva cercato quel qualcuno, ma non c’era nessuno accanto a lei, non ora, non c’era.
Che senso aveva allora, vivere ancora?
Che senso aveva la vita, quella vita che prima aveva desiderato così ardentemente e che ora voleva che sparisse?
L’indifferenza con la quale viveva era presente in ogni gesto, in ogni momento.
Era diventata cinica, era diventata tutto quello che non avrebbe mai voluto essere, ma le piaceva, le piaceva perché almeno così poteva starsene sola, sola con i suoi libri e le sue parole sudate. Aveva vissuto una vita ad aspettare una risposta, una risposta che non era arrivata e che non sarebbe mai arrivata, se non dopo la sua morte.
Manoscritti su manoscritti, parole su parole, fogli su fogli: era questo che rimaneva della sua passione, niente altro.
Non ricordava nemmeno quante pagine aveva riempito, e la malattia di certo non aiutava.
La malattia, un demone oscuro che si era insinuato dentro lei, le confondeva le idee ogni volta che prendeva la sua stilografica in mano e tentava di mettere quattro parole in fila, le faceva tremare le mani e scrivere parole sbavate e senza senso.
La sua esistenza era, ancora una volta, resa inutile dalla sua malattia ma non le dava una colpa perché lei, tutto questo, se l’era meritato ed era inutile l’autocommiserazione.
Sophie Schneider era nata in un paesino sperduto della Svizzera, al confine con la Germania, precisamente a Riehen.
Era nata in un freddo giorno d’inverno, il 29 novembre del 1986, nello stesso paese in cui viveva da una ricca famiglia di banchieri del posto.
Sophie aveva passato la sua infanzia nel lusso, aveva avuto tutto quello che un bambino potrebbe chiedere e, a differenza degli altri bambini, a quattro anni esatti sapeva già leggere e scrivere.
Sophie era una bambina strana, amava stare in disparte e giocare da sola; le bambine la prendevano sempre in giro per i suoi comportamenti strani, per i viaggi mentali che si faceva, per tutta la sicurezza e la voglia di vivere che aveva, della gran voglia di scoprire il futuro che la caratterizzava.
Sophie sognava di diventare una scrittrice, sognava di diventare una pietra miliare della letteratura, sognava di vedere il suo nome stampato sul dorso di un volume grosso quanto la Bibbia, a caratteri dorati e lucidi.
Sophie sognava, le piaceva pensare che la gente, leggendo ciò che scriveva, cambiasse, o comunque voleva che le sue parole lasciassero segni nella mente e soprattutto nel cuore.
Sophie era un maschiaccio, odiava le gonne e i nastrini, i pompon e i luccichini e adorava indossare pantaloni larghi e magliette lunghe, cose che i suoi genitori si erano ormai abituati a comprare.
Sophie aveva una stanza tutta sua, una stanza verde e arancione, nella quale teneva tutti i libri che, precocemente, si era fatta regalare dal papà e che puntualmente ogni mese reclamava.
Sophie aveva una grande passione oltre la scrittura, ovvero la musica: era cresciuta con Bach e Mozart, da parte di madre, con i Queen e i Pink Floyd da parte del padre.
Sophie aveva vissuto fino a ventidue anni, a ventitré era morta, ma non fisicamente, mentalmente.
Sophie aveva il cancro.
Sophie doveva morire.

Ricordava ancora l’espressione addolorata del medico che gli aveva dato l’esito delle analisi, ricordava ancora la reazione violenta della madre e il pianto disperato, ricordava ancora gli occhi del fratello, inondati di lacrime, sebbene fossero gli unici ricordi che la sua mente riusciva a darle.
Sophie aveva il cancro da due anni e stava lentamente, inesorabilmente, debolmente morendo. 

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Capitolo 2
*** - ***


Era accasciata sul letto, un rivolo di sangue le colava dal labbro e aveva la testa vuota. Non se la sentiva di alzarsi e andare a casa, avrebbe richiesto troppa fatica per una come lei che ormai aveva le energie minime per la sopravvivenza, e soprattutto non ne aveva voglia.
Quella musica le risuonava ancora dentro le orecchie, sorda e assillante, come una ferita bruciava e faceva male, a tal punto da non sentire nemmeno il rumore esterno.
L’oceano profondo dei suoi occhi si era perso, aveva lasciato posto ad un laghetto sporco e prosciugato, un laghetto anonimo velato di una tristezza percepibile, una tristezza che da tempo si era trasformata in rassegnazione.
“E’ il caso che io vomiti.”, si disse.
Si alzò lentamente e se ne andò in bagno. Percepiva i colori come un pugno allo stomaco, tutto era talmente così acceso e vivace che le pupille faticavano a svolgere il loro lavoro: le pareti erano troppo arancioni, i sanitari troppo bianchi, il pavimento troppo marrone.
Si avvicinò allo specchio e sorrise, guardando quel viso che tanto ricordava un’esile rosa sciupata e maltrattata.
Sorrise, raccogliendo con un dito il sangue che le colava dalle labbra, poi piegò la testa e iniziò a parlare, iniziò a parlare a quella ragazza dagli occhi cerulei che la osservava con aria compassionevole.
“Perché mi tieni ancora qui, perché devi farmi soffrire così tanto?”, le chiese biascicando le parole.
“Perché chiedi continuamente di morire, quando l’unica cosa che vuoi è vivere?”, rispose lei, accennando ad un sorriso.
Sophie scosse la testa, roteando gli occhi e provocandosi un conato di vomito che le fece tremare il torace.
“ Ma non vedi che sto facendo di tutto per farci morire? Perché insisti, maledetta? Perché continui a tormentarmi?”
La sua voce era un debole sussurro, era un grido muto destinato a svanire nel nulla, un nulla che da troppo tempo abitava in lei.
“ Smettila di cercare modi per morire e datti da fare. Vivi, Sophie, vivi. Esci fuori, fai quello che ti piacerebbe fare. Attraversa l’oceano, buttati da una montagna, vai a fare bungee jumping nel Gran Canyon, ma vivi. Hai ancora molto da imparare dalla vita.”
Ed in quel momento, la sua immagine sparì e lo specchio tornò a riflettere la parete arancione. Si infilò, arrancando, sotto la doccia e aprì il rubinetto dell’acqua calda, rischiando di ustionarsi. Lavò con cura ogni parte del suo corpo, insaponanò quelle braccia pallide solcate dalle punture delle flebo, insaponò i seni piccoli e rotondi e le gambe magrissime coperte di lividi giallognoli, sicuramente segni della sua malattia in stato avanzato, poi passò ad insaponare i capelli, quei capelli che anni prima erano lunghi e biondi fino ai fianchi e che ora erano corti come quelli di un uomo; questi si staccavano quasi regolarmente dalla sua piccola testa, lasciando spazi vuoti e creandole notevole imbarazzo quando si trovava a contatto con la gente, ma non copriva nulla, voleva farsi vedere per quel che era diventata.
La chemio la distruggeva, era straziante per lei prendere quelle pillole che al loro interno contenevano già un principio di morte, ma era ancora più brutto l’essere consapevole che questo non era solo un attacco alla sua salute, ma anche al suo orgoglio.
Non riusciva a darsi pace per quel che le era accaduto, non riusciva a capacitarsi di essere malata, di avere il cancro, non riusciva ad accettare la sofferenza che ogni giorno era costretta a sopportare, a subire, per allungare la sua vita di qualche giorno o magari di qualche settimana.
Sophie faceva uso regolare di droghe, leggere e pesanti, da più o meno quando aveva il cancro, aveva iniziato per gioco eppure ora la situazione s’era capovolta: era la droga a prendersi gioco di lei, non il contrario purtroppo.
Questa condizione era dannosa non solo per lei stessa che aveva già i suoi problemi, ma anche per la gente che le stava vicino visto che molto spesso si trovava distesa mezza morta, mezza viva, sul divano del salotto.
I genitori della piccola Sophie avevano fatto il possibile per fermare la diffusione delle metastasi, avevano contattato i migliori medici europei pur di aiutarla, di salvarle la vita e alleviarle le sofferenze, ma a nulla erano serviti questi sforzi: questo per Sophie era l’ultimo capitolo e non c’era modo di cambiare la situazione.
Lei, per contro, aveva smesso da tempo di ascoltare i dottori, aveva messo da parte questa lotta e si era lasciata andare alla corrente, s’era abbandonata a se stessa e, al posto della voglia di vivere, era subentrata la rassegnazione. Non c’era niente che potesse consolarla, non c’era nessuno che potesse aiutarla: le sofferenze restavano comunque a lei, qualunque cosa dicessero.
Ancora una volta il telefono prese a squillare e Sophie, troppo presa ad asciugarsi, lo lasciò suonare fastidiosamente, ignorandolo. Non aveva vestiti in quella camera d’albergo, era arrivata lì per caso e c’era rimasta per caso, così fu costretta a rimettersi quei jeans neri lucidi e quella maglietta slabbrata e rovinata.
Le mancavano le forze persino per scendere le scale, si sentiva così spenta e debole che, passo dopo passo, controllare le gambe era come controllare le stagioni, così era entrata in ascensore ed era arrivata dritta nella hall, dalla quale si dileguò presto. Chiamò un taxi per tornare a casa ma nessuno di questi era disponibile. Si guardò intorno alla ricerca di un autobus o di qualcosa che la portasse a destinazione, ma niente.
Casa di Sophie distava molto dal centro, era una villetta posta su di una candida collina che si specchiava su di un lago blu, non era facile da raggiungere, tantomeno da lei che non aveva nemmeno la forza di alzare una mano.
“Forse è il caso che faccia l’autostop.”
Iniziò a gesticolare esplicitamente in cerca di un passaggio, ma nessuno sembrava calcolarla minimamente. Era come se fosse un puntino bianco in altre migliaia di puntini bianchi, non era facile da distinguere.
Era stanca, le gambe cominciavano a cedere e la testa a pulsare violentemente, come se il cervello volesse uscire dal cranio, come se fosse troppo stretto lì dentro. Si spostò dal marciapiede e attraversò la strada ghiacciata, postandosi proprio al centro, fra i clacson e gli imprechi degli automobilisti. Noncurante, alzò il dito medio e si fermò, guardando altezzosa la gente. Non aveva nessuna paura di essere investita, non sarebbe stata una tragedia e, anzi, le avrebbero fatto un grosso favore a toglierla di mezzo.
Nulla aveva un senso.
Poi, quando ogni speranza era svanita e le macchine continuavano ad andare per la propria strada, una inchiodò proprio ad un paio di centimetri dai suoi piedi. Lei alzò lo sguardo inarcando un sopracciglio, poi guardò verso il volante: un ragazzo dai capelli color bronzo la fissava divertito, facendole segno di salire.
“Finalmente.”, sospirò Sophie, facendo il giro dell’auto.
Aprì lo sportello un po’ logoro dell’auto e salì, portando una ventata di aria fredda nell’abitacolo della macchina, una vecchia Ford Ka verde bottiglia.
Il tepore della macchina le accarezzò il viso e l’atmosfera era resa vivace da una melodia semplice.
Non appena si sistemò sul sedile, rivolse la sua attenzione a quel ragazzo che l’aveva accolta nella sua umile macchinina.
“Sasha, io sono Sasha.”, le disse porgendole la mano senza distogliere lo sguardo, accorgendosi del suo.
Sophie la afferrò pigramente, non era il tipo da presentazione, e lo squadrò da capo a piedi: aveva un paio di pantaloni scuri, forse sul blu, un maglione bianco ed una sciarpa a righe dello stesso colore dei pantaloni.
Gli occhi, verdi come i prati svizzeri, erano concentrati in una prudente guida e le labbra sottili curvate in un tenero sorriso.
“Io sono Sophie.”, rispose poi.
Lui spostò lo sguardo per un po’ e indugiò sul suo viso, facendo una strana espressione e stringendo il volante con le mani un po’ più forte.
“Ci siamo mai visti?”, disse scrutandola ancora un po’, soffermandosi sui suoi occhi azzurri e i capelli disastrosi.
“Ehm- fece lei, specchiandosi di nascosto nel finestrino di fianco- Non credo.”
Lui annuì distrattamente, tornando a guardare la strada. Uno strano imbarazzo aveva colto i due che fingevano indifferenza.
“Come mai in autostop?”,chiese ancora, guardandola.
Sophie non era abituata alle domande, tra l’altro non conosceva nemmeno questo tizio quindi volendo non era costretta a rispondere.
“Non sapevo come arrivare a casa e non c’era nessun taxi.”, rispose secca.
“Oh, capisco. Sei abbastanza pallida, non è che ti senti male?”
Lei si affrettò a negare col capo, poi si girò di nuovo.
“Allora, dove ti porto?”
Sophie, colta alla sprovvista dalla nuova domanda, si girò si fretta ed ebbe un capogiro. Appoggiò il capo al sedile, facendo in modo che lui non si accorgesse di niente.
“Oh, Sonneggstrasse. Lo so che è un po’ lontano, ma è per questo che avevo bisogno di un passaggio.”
Lui annuì di nuovo, facendo un gesto di noncuranza con la mano destra.
“Non preoccuparti, poi ho visto che non stai benissimo.”
Sophie si appiccicò al sedile, guardando fuori dal finestrino per non incrociare il suo sguardo. Da quando in qua doveva dare spiegazioni?
Chi lo conosceva?
“Uhm.”, si limitò a rispondere.
Per tutto il tragitto in macchina nessuno dei due parlò, la musica lo faceva per loro.

“No, I’m not saying I’m sorry..One day, maybe we’ll meet again..”

Era una musica strana che lei non aveva mai sentito, non le piaceva molto il genere ma, in fin dei conti, era musica commerciale e quindi passabile; d’altronde non era in potere di poter commentare, era arrivata a casa e lo doveva solo a questo Sasha.
“E’ qui, grazie.”, gli disse indicando una villetta recintata da alberi alti e verdi.
Lui fermò dolcemente la macchina, poi si girò verso di lei accennando un sorriso cortese.
“Beh, che dirti. Grazie, veramente. Alla prossima.”, farfugliò Sophie.
Rise di gusto, poi inclinò lentamente la testa.
“Figurati, è stato un piacere. Quando avrai bisogno di un passaggio allora, mettiti in mezzo alla strada ed io sarò lì.”
Sorrise ancora.
Sophie annuì e scese dalla macchina, cercando le chiavi nella borsetta e prendendo le chiavi del telecomando del cancello.
Si voltò indietro un’ultima volta a guardare: Sasha era ancora lì, sorrideva e gli fece un gesto con la mano, poi si girò e accese l’auto, facendo inversione per poi scomparire.
Lei, di rimando, aprì il cancello ed entrò in casa, quelle parole ancora in testa:
“One day maybe we’ll meet again.”

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Capitolo 3
*** - ***


I giorni passarono e per Sophie era sempre peggio: capogiri, perdite di memoria, debolezza fisica e spossatezza la accompagnavano nelle sue giornate buie e difficili, giornate fatte di droga e stato di incoscienza, giornate troppo lunghe per una vita così breve.
Qualche giorno dopo l’incontro con Sasha, Sophie ebbe un improvviso malore che, oltre a quelli ordinari, la costrinsero a chiedere parere ai medici, ancora una volta. Lei odiava i medici, si sentiva in trappola con loro, si sentiva come una bestia nelle mani del macellaio in attesa di essere uccisa, odiava la loro presunzione di riuscire a salvare vite già distrutte, danneggiate e infine recise; per lei il solo combattere per la vita era assurdo, impossibile e addirittura ridicolo.
Che senso aveva sfidare la morte?
Che senso aveva cercare di combatterla pur sapendo che è una battaglia persa in partenza?
Che senso avevano le medicine assunte ogni giorno per combattere il dolore quando queste lo alimentavano?
Che senso aveva provare a salvare qualcuno che è già condannato?
Che senso aveva la loro compassione?
La loro determinazione?
Niente di tutto questo aveva un senso per Sophie, nessun senso.
Gli ospedali, col loro odore ed il loro clima di speranza, sofferenza e attesa, con mille sogni e mille padroni diversi, con migliaia e migliaia di flebo e medicine, che senso aveva?
Nessuno, sosteneva Sophie, proprio nessuno.
Clara invece, sua madre, era convinta che tutto si potesse risolvere, che anche il male più grave era curabile, che era necessario, se non addirittura indispensabile, avere fede nei dottori, nelle cure e nelle terapie, e soprattutto credere e pregare Dio che, nella sua infinità bontà, avrebbe aiutato i suoi figli.
Non c’era cazzata più grande per Sophie.
Clara cercava di farle cambiare idea, sui medici e sugli ospedali, su Dio e sulla religione, dicendole che se anche Dio non avesse potuto salvarla, di certo le avrebbe salvato l’anima assolvendola da tutti i suoi peccati e portandola con Lui.
“Vorrei farti conoscere delle persone- le aveva detto un giorno mentre prendevano il tè analizzando i risultati degli esami del sangue- Vorrei farti capire quanto è bello aiutare qualcuno, quanto è fondamentale la loro presenza per i malati, che guariscono solo standogli accanto. Sono ragazzi della tua età, Sophie, potrebbero essere tuoi amici,sono così dolci e intelligenti!”
Le strinse forte la mano guardandola in quegli occhi azzurri circondati da profonde occhiaie e collocati in quel viso pallido con gli zigomi troppo pronunciati; Sophie l’aveva guardata intensamente e s’era specchiata negli stessi occhi della madre, poi però aveva distolto lo sguardo e s’era alzata, andando verso la finestra che dava sulla strada fiocamente illuminata e coperta da una coltre di nebbiolina grigia. Il suo fiato caldo, a contatto col freddo vetro, lascia un grande alone davanti alle sue labbra sottili.
“Mamma, sai come la penso- aveva iniziato- Non mi importa di questa gente, non mi importa di quanto bene abbiano fatto e di quanto siano gentili. Non possiamo cambiare le cose, noi non siamo in grado di ribellarci alla morte. Il mio destino è questo, questa è la mia fine.”
Clara deglutì, posando la tazza di tè che stringeva fra le dita curate e chiare, e prese a lisciarsi silenziosamente la gonna cremisi.
“Non credo in Dio- continuò lei- e se tu credessi davvero come dici di fare, non mi diresti di combattere ma mi diresti che anche la mia malattia fa parte del suo progetto, del suo disegno imperscrutabile, e come tale noi non possiamo far nulla per cambiarlo. Sono malata, non si sa né il perché né chi l’ha voluto, ma è la realtà e come tale va accettata. Non voglio illudermi, non di nuovo mamma. Sto morendo lentamente dentro, accettalo.”
I suoi occhi azzurri e lucidi brillarono al buio e Clara, in tutta la sua compostezza e raffinatezza, si alzò dirigendosi al pianoforte scuro che c’era al centro della stanza e iniziando a suonarlo. Le dita sottili e affusolate sfioravano appena i tasti, creando una melodia dolce ma al contempo struggente, una melodia che portò Sophie al pianto, un pianto silenzioso che si protrasse per tutta la notte.

I passi rimbombavano nella stanza grigia e asettica del dottore, uno dei tanti che seguivano Sophie, un anonimo uomo di mezza età dai capelli castani brizzolati e dalle lenti spesse come fondi di bottiglia che gli dilatavano gli occhi facendolo sembrare più minaccioso che rassicurante, che parlava do gruppi sanguigni e trapianti riusciti.
“Potremmo fare richiesta- diceva alla madre di Sophie- Potremmo anche riuscire ad avere l’autorizzazione però ci sono poche possibilità per lei, comunque. Un trapianto di midollo è una cosa delicata e dolorosa e non penso che il corpo della signorina Schneider possa reggere l’intervento.”
Si era tolto gli occhiali e stropicciato gli occhi per poi seguire Sophie con lo sguardo, la quale sembrava totalmente assorta nei suoi pensieri ed estranea al discorso, che camminava avanti e indietro per la stanza quasi volesse misurarla.
“Sophie?- aveva sussurrato la madre- Tu cosa ne pensi?”
Lo aveva detto debolmente, cercando di non turbarla, proprio come si fa quando non si vuole svegliare qualcuno, cercando di insinuarsi piano nei suoi pensieri e chiedere gentilmente il suo parere, così naturalmente che sembrava gli avesse chiesto che colore preferisse tra bianco e nero piuttosto che la possibilità di fare un trapianto di midollo.
La ragazza si era fermata di colpo, si era girata verso la madre che, alla vista dello sguardo sprezzante della madre, aveva chiuso lentamente gli occhi cacciando indietro le lacrime.
“Sophie non vuole- disse interropendo il flusso di interrogativi che occupavano la mente del medico, cercando di mantenere la voce bassa e non farsi attraversare dalla paura.- Vuole smetterla con la chemio e lasciarsi andare. Vuole morire! Non lo capisci che se c’è una possibilità, anche solo una, dobbiamo sfruttarla?”
Si girò improvvisamente verso lei, la guardò con uno sguardo pietoso e triste, e continuò.
“Hai solo ventitré anni, sei una bambina, la mia unica bambina. Sophie, non morire, ti prego, non te ne andare.”
Le lacrime le rigavano il volto pallido lasciando traccie più chiare sul trucco appena accennato, bagnando gli occhi troppo simili a quelli della sua bambina, quegli occhi che anni prima brillavano di speranza e amore.
Il suo silenzio prolungato le aveva acceso una luce, un barlume di speranza a cui aggrapparsi, e credeva che forse avrebbe cambiato, finalmente, idea.
Sophie, dopo qualche minuto, riprese a camminare a grandi passi, silenziosa, mentre il suo cuore batteva fortissimo sulla cassa toracica, quasi volesse uscire.
Guardò il medico con aria di sfida, quasi volesse dirgli di farlo lui il trapianto; guardò la madre con un misto di amore e di rabbia; guardò il suo viso evanescente riflesso sulla finestra di fronte a lei, chiuse gli occhi deglutendo, poi parlò.
“Mi dispiace, io non cambierò idea.”
Guardò la madre, di nuovo, poi prese la sciarpa e uscì dallo studio, dirigendosi verso una macchinetta del caffè: ne aveva bisogno, aveva bisogno di caffeina e nicotina insieme. Frugò nelle tasche in cerca di qualche spicciolo e li infilò nella macchinetta. Picchiettava con le unghie sulla superficie ruvida dell’aggeggio con aria indifferente, come se non fosse mai successo nulla, come se fosse una persona qualunque.
“Posso offrirti io un caffè?”, disse una voce calda.
Si girò, spaventata, incrociando i suoi grandi verde smeraldo e il suo sorriso e per un attimo rimase interdetta. Le labbra socchiuse e lo sguardo sognante, le mani tremanti e sudate ed il battito accelerato.
“Ciao.”,rispose lei, abbozzando un sorriso.
“Che sorpresa- continuò lui accarezzandole una spalla e sorridendo- Cosa ci fai qui?”
Il suo sguardo tenero e sincero fecero mancare ancora una volta un battito a Sophie che, imbarazzata, distolse lo sguardo.
“Io..Io sono qui per mio nonno, sai.. Non sta benissimo.”, disse incerta.
Perché aveva mentito? Perché non gli aveva detto la verità?
Perché non gli aveva detto che aveva il cancro, che non c’era nessun nonno, che lei stava morendo?
Perché si era, stranamente, vergognata di lui?
Non doveva innamorarsi, non poteva. Se fosse successa una cosa simile avrebbe rovinato una vita, ancora un’altra.
“Capisco- rispose un po’ dispiaciuto.- Beh, mi dispiace.”
Sophie annuì, prendendo il caffè dalla macchinetta.
“Comunque l’ho già preso.”
Sasha la guardò un po’ stranito, un po’ malizioso.
“Cosa?”
“Il caffè.”, rispose Sophie, sorridendo veramente per una volta.
Lui rise insieme a lei, la sua risata mescolata alla sua voce era una combinazione perfetta.
“Ma tu lavori qui? -continuò lei che solo in quel momento si era accorta del camice che il ragazzo indossava- Non sapevo facessi l’infermiere.”
Fece cenno di no col capo.
“Non faccio l’infermiere, o perlomeno, non ancora. Mi manca l’ultimo anno, per ora faccio volontariato. “
Sophie alzò un sopracciglio, fingendo indifferenza e prendendo un sorso di caffè, poi sorrise debolmente.
“Sophie? Possiamo andare, ho finito di parlare con i dottori.”
La voce della madre fece girare Sophie, seguita da Sasha che colse l’ultimo minuto per invitarla. Lei annuì.
“Senti, io vorrei invitarti a prendere un caffè, mi ripagherai del passaggio.”
La sua voce suonò dolce anche se un po’ presa dalla fretta.
“Si, certo. Ci vediamo.”
Scappò, prima che lui potesse dire altro, senza nemmeno salutarlo, senza nemmeno dargli una risposta sicura.
La madre la guardò curiosa mentre lei noncurante si sistemava la cuffie alle orecchie, uscendo dall’ospedale e dirigendosi alla macchina.
Ripensò alla canzone di qualche giorno prima: si erano veramente incontrati.
Era un segno?
Abbandonò questi pensieri apparentemente ridicoli e salì in macchina, guardando fuori dal finestrino e chiudendo gli occhi, lasciandosi cullare dalla musica.

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Capitolo 4
*** - ***



Le colline si ricoprirono presto di un sottile strato di foglie autunnali, foglie cadute dagli alberi circostanti. Il vento che soffiava sulle case , indifferente, ed insieme al cielo plumbeo davano un’aria spettrale alla cittadina che si estendeva ai suoi piedi, lasciandosi alle spalle corpi e anime.
Sophie era lì, immobile, sul quel divano costoso con uno dei tanti libri in mano che inutilmente aveva cercato di leggere. Era frustrante rimanere segregata in casa, senza nessuna via di scampo, senza nemmeno poter uscire per fumare una sigaretta al parco o semplicemente portare il cane a spasso.
“Mamma, ti prego, ho bisogno di uscire.”, aveva detto a sua madre, biascicando quasi, contorcendosi mentre l’effetto della morfina svaniva.
Sua madre l’aveva guardata tristemente e, piegando la testa, si era tolta gli occhiali, guardandola meglio negli occhi.
“Tesoro, sai come la penso. L’ultima volta che sei uscita stavi per finire di nuovo in ospedale per un’altra lavanda gastrica, l’ennesima. Non puoi continuare così o..”
Non aveva finito la frase.
Sophie era scoppiata in un pianto isterico, proprio come una bambina di quattro anni quando le si proibisce di guardare la tv. Aveva il viso stretto tra le mani, le unghie mangiate a pelle, le dita sanguinanti.
Clara si era inginocchiata accanto a lei e le aveva abbracciato le gambe, anche lei fra le lacrime. Voleva bene a quella figlia, più di qualsiasi altra cosa, e se avesse potuto scegliere tra lei stessa e la sua bambina, non avrebbe avuto dubbi. L’unica bambina, la sua unica bambina, era destinata a morire prima di lei ed immaginare la sua vita senza era uno strazio, una delle peggiori torture.
Perché proprio a sua figlia e non a lei?
Perché Dio, a cui lei era sempre stata fedele, non aveva potuto far nulla?
Perché recidere giovani vite quando se ne possono scegliere altre?
Non c’era una risposta ben precisa e le lacrime di quella giovane madre continuavano a scendere numerose.
Non voleva dire che la figlia, se avesse continuato con quei ritmi, non avrebbe fatto altro che accelerare la sua morte. Non voleva dirlo perché era lei l’unica cosa preziosa che aveva, l’unica vera. Non era un diamante, un collier, o una pietra preziosa: era una creatura, la sua creatura, quella che aveva i suoi stessi occhi, le sue stesse labbra, gli stessi tratti e lo stesso sangue.
Voleva accontentarla nelle sue ultime volontà, voleva farla felice, almeno prima che morisse: le aveva promesso di seppellirla lontano dal cimitero, fuori dalla città, sotto quel ciliegio che tanto le piaceva da piccola, sotto quel ciliegio adorato, dove aveva dato il primo bacio e avuto la sua prima volta, quel ciliegio con ancora su il suo nome e il nome del fratello intagliati.
“Lasciami uscire- continuò- sono con un amico, puoi accompagnarmi tu se vuoi.”
A quella frase Clara si era alzata e si era asciugata gli occhi con la manica del golfino rosso di lana, per poi guardarla teneramente.
“Non mi stai mentendo, vero?- rispose preoccupata- Non te ne andrai via non appena avrò girato l’angolo, vero?”
Lei fece un cenno di diniego, poi prese le mani della madre fra le sue e le strinse forte un po’ per poi sfiorarle con le labbra.
“Perché dovrei farlo mamma? Per favore, non voglio stare qui, da sola. Voglio andare fuori, voglio vedere la gente, voglio vedere il mondo. Ti prego.”
L’affetto profondo che provava per la figlia soffocava persino la paura di perderla, persino il timore della morte: quella ragazza soffriva e lei non faceva altro che aggravare la situazione tenendola segregata in casa, senza alcun contatto esterno, senza amici, senza legami.
“Va bene, ti accompagno io. Dove devi andare?”, rispose asciugandosi il naso sottile.
Sophie sorrise contenta, abbracciò la madre ancora seduta ai suoi piedi e le diede un bacio sulla guancia fresca e bagnata. Stava cercando un posto dove andare, un posto dove mettere fine alla sua solitudine, quella solitudine che le divorava cuore e anima, ma non c’era nessun posto in cui valesse la pena andare.
“Voglio andare in ospedale a trovare un amico.”, mentì.
Non voleva andare in ospedale, non aveva nessuno lì, nessuno che l’aspettasse, voleva solo uscire a fare due passi per il paese, guardare la gente, i negozi aperti, la confusione, il traffico; voleva andare al parco, sedersi all’ombra di un albero, ascoltare la natura, ascoltarla nel suo scorrere.
“Va bene.” Disse poi Clara, alzandosi e prendendo le chiavi dell’auto mentre si infilava una giacca color crema sulle spalle ossute.
Fuori faceva freddo, il tempo stava cambiando, gli alberi erano spogli e infreddoliti. Le strade erano bagnate dall’umidità e i lampioni accesi emanavano un bagliore spettrale per le vie. Il cielo era una distesa di oro colato striato di rosa e azzurro, il sole stava per scomparire dietro quelle colline e la temperatura andava abbassandosi ogni ora che passava; l’auto scivolava impercettibilmente sull’asfalto lasciando una scia invisibile.
Avrebbe tanto voluto andare al mare, Sophie, avrebbe voluto sedersi sulla spiaggia, toccare la sabbia, sentire l’odore di salsedine insinuarsi dentro di lei, abbandonarsi al rumore delle onde, al rumore della corrente, magari riscaldata da un sole primaverile. Poche cose ormai riuscivano a renderla se non felice, almeno contenta; poche cose valevano davvero, poche cose erano importanti.
L’ospedale si trovava al centro della città, in un agglomerato di case e palazzi moderni, poco distante dal parco centrale di Riehen. Una miriade di luci arancioni circondava l’ambiente freddo che, alla povera Sophie, provocava singulti e palpitazioni in più rispetto al necessario.  La gente camminava per le strade tranquilla, assorta nei loro pensieri, nelle loro preoccupazioni, nelle loro vite, e nulla di quel che lei stava passando li avrebbe mai toccati; molte volte sognava di vivere un’altra vita, di essere un’altra persona, di avere un’altra casa, un’altra famiglia, magari anche degli amici, degli amici che le volessero bene, che l’accompagnassero nel cammino della sua vita, degli amici su cui fare affidamento nei momenti bui e con i quali gioire in quelli belli, ma si rendeva conto che erano fantasie inutili, che niente, assolutamente niente, le avrebbe dato questa vita. Era consapevole del fatto che stava morendo, consapevole del fatto che non si sarebbe mai sposata, che non avrebbe passato il Natale insieme ai familiari, che non avrebbe avuto nessuna gravidanza e nessun bambino da accompagnare a scuola.
“Prendo un taxi al ritorno.”, disse interrompendo il flusso di pensieri tristi che le attraversava la mente.
Clara la guardò intensamente negli occhi, come solo lei sapeva fare, sembrava scavare a fondo e leggerle in testa, ma fortunatamente così non era.
“Va bene, come vuoi. A più tardi, tesoro.”, rispose lei, scoccandole un sonoro bacio sulla guancia.
Sophie scese dall’auto stringendosi nel cappotto, dirigendosi dapprima verso l’ospedale sotto lo sguardo indiscreto della madre, poi verso il parco quando la stessa aveva girato l’angolo. Il forte odore di terra bagnata si insinuò lentamente nelle sue narici, per poi arrivare direttamente ai polmoni mentre le chiome degli alberi ondeggiavano pigramente sotto il vento gelido. Il parco era quasi deserto, salvo quei pochi quindicenni che venivano lì ogni pomeriggio per fumare una sigaretta di nascosto dai genitori o per sbaciucchiare il fidanzato senza dare troppo nell’occhio, mentre del suo pusher, che di solito passava i suoi pomeriggi mezzo collassato sulla panchina, non c’era l’ombra.
“Ci rivediamo di nuovo.”
Una voce conosciuta la fece girare e spaventare al contempo. I suoi occhi rilucevano al buio, il suo sorriso cortese gli dava un’aria di tenerezza incomparabile e aveva delle cuffiette alle orecchie.
“Tu mi segui.”, disse Sophie sbuffando e cercando di cambiare strada.
Lui scoppiò in una risata sincera, poi negò con la testa.
“Non ti seguo, frequentiamo solo gli stessi ambienti.”
A quella risposta lei fece una smorfia di disgusto, accompagnata da un sonoro “Per favore”.
“Io non frequento gli ospedali.- rispose secca- E’ una perdita di tempo, salvare l’insalvabile. E’ tutto una perdita di tempo. I malati sono condannati, il quando è l’unico interrogativo. Ma poi, credi davvero che a loro faccia piacere la vostra compagnia? Credi davvero che gli importi di avere qualcuno accanto?”
Il suo sguardo cambiò velocemente, come se un pugnale gli avesse trapassato il petto.
“Io non la penso così. Penso che non ci sia cosa più brutta che lasciare da sole le persone, lasciarle affogare nella loro disperazione, essere complici della loro distruzione. Prima ancora che salvargli la vita, è molto più bello dargli un conforto. E’ necessario, per un uomo, sentirsi amato, almeno una volta nella vita.”
Un sorrisino ironico affiorò sulle labbra della ragazza.
“Cazzate. Non sai quello che dici, non sai come ci si sente.”
“Perché tu sì?”
Sophie deglutì, girandosi verso le luci dell’ospedale e chiudendo studiatamente gli occhi. Non c’era alcun motivo per il quale avesse dovuto dirgli che stava per morire, non voleva la sua compagnia e neppure la sua consolazione, la sua compassione. Non aveva bisogno di nessuno, stava bene con se stessa.
“No, non lo so neanche io.. Io non vorrei che mi stessero accanto, sto bene da sola.”
“Sei una persona solitaria?”
“Se stare bene solo con se stessi significa questo, allora sì. Non mi servono amici a cui fare affidamento, non mi serve nessuno su cui contare. Io da sola mi vado bene.”
Sasha annuì. Si avvicinò e le sorrise.
“Secondo me hai bisogno di qualcuno ma sei troppo orgogliosa per dirlo.”
Si allontanò e si accovacciò in una panchina seminascosta sotto un salice, fin dove Sophie lo seguì.
“Io non sono orgogliosa.-decretò lei- Molti vedono la solitudine come una malattia, un morbo da debellare, da combattere e uccidere. La vedono come un disturbo psichico, uno dei tanti che soggioga l’uomo e lo trascina alla distruzione, ma pochi riescono a vederne il lato positivo. In pochi sanno che la solitudine ti dà una consapevolezza diversa della persona che sei, di quello che vuoi. In pochi sanno che questa ti aiuta a crescere senza aver bisogno di qualcuno, senza la necessità di dipendere. E’ un benessere, una continua ricerca.”
Si sedette accanto a lui e lo guardò, aspettando una risposta. Il vento soffiava ancora sulla città e i fantasmi di un inverno quasi arrivato si aggiravano, silenziosi, per i viottoli dei giardini.
“Forse hai ragione, forse no. Chi lo sa.”
Si girò verso di lei e sorrise, di nuovo.
“Ti va di vederci di nuovo?”, disse poi, interrompendo quell’imbarazzante silenzio che si era creato attorno a loro.
La mente di Sophie fu rapita da immagini di bambini, rose, altari, fedi e ringraziamenti, cosa che la preoccupò parecchio e le fece tenere gli occhi persi per un po’. Un leggero capogiro si impadronì della sua testa e per un qualche minuto stette con il respiro mozzato e il cuore che batteva come mai aveva fatto. In un attimo i giardini che la circondavano si trasformarono in un milione di lingue di fuoco che attanagliavano il suo cuore e la trascinavano nell’inferno, un inferno buio fatto di siringhe e medicine che si conficcavano sulla sua pelle con una violenza inaudita e una brutalità mai vista; poi, il nulla.

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