Raggio di Sole

di Blue Drake
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1: 4 dicembre 1970 – LONDRA ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2: 4 dicembre 1950 - Sainte-Croix de Verdon – PROVENCE ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3: 26 agosto 1961 - Rotolando verso nord ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4: 2 luglio 1962 - Notturno Noir ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5: 11 settembre 1962 - Abissi ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6: 18 settembre 1962 - Discesa ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7: 4 dicembre 1962 - Dure Lezioni ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8: 31 dicembre 1962 - Fortuitamente Tu ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9: 1° gennaio 1963 - Mirages de Lune ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10: 1° gennaio 1963 - Di noi due ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11: 27 febbraio 1963 - Guai all'orizzonte ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12: 8 marzo 1963 – Ghiaccio ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13: 30 maggio 1963 - Sono qui ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14: 6-7 agosto 1963 - Accadde una sera ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15: 7 agosto 1963 - Domino di sorprese ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16: 6 settembre 1963 – Terra ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17: 26 novembre 1964 – Colpe ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18: 30 novembre 1964 - Fiume di rabbia ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19: 1° dicembre 1964 - OVINGDEAN - L'inizio della fine ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20: 6 dicembre 1964 - LONDRA - Incivili conversazioni ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21: 7 dicembre 1964 - Ipotesi, dubbi e traslochi ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22: 8 dicembre 1964 - Difficili decisioni ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23: 19 dicembre 1964 - Forse non oggi ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24: 28 dicembre 1964 - La mia scelta? ***
Capitolo 25: *** Capitolo 25: 12 gennaio 1965 - In balia di un destino avverso ***
Capitolo 26: *** Capitolo 26: 13 gennaio 1965 - La tua voce dentro di me ***
Capitolo 27: *** Capitolo 27: 16 gennaio 1965 - I miei dubbi piani per il futuro ***
Capitolo 28: *** Capitolo 28: 22 gennaio 1965 - Alla ricerca di un nuovo posto in cui sopravvivere ***
Capitolo 29: *** Capitolo 29: 30 gennaio 1965 - Visite inattese ***
Capitolo 30: *** Capitolo 30: 27 febbraio 1965 – Derek ***
Capitolo 31: *** Capitolo 31: 27 febbraio 1965 - Non un addio ***
Capitolo 32: *** Capitolo 32: 27 febbraio 1965, ore 10:00 - Sur la Route – Ruote che girano ***
Capitolo 33: *** Capitolo 33: 28 febbraio 1965 - THIRLBY - Le stelle ci osservano ***
Capitolo 34: *** Capitolo 34: 28 febbraio 1965 – Somewhere in Northern England - Scomode rivelazioni ***
Capitolo 35: *** Capitolo 35: 3 marzo 1965 – TILLYMORGAN Aberdeenshire - Nelle mani di un dio perverso ***
Capitolo 36: *** Capitolo 36: 7 marzo 1965 – La verità sulle tue labbra ***
Capitolo 37: *** Capitolo 37: 12 marzo 1965 - Incomprensibili cambiamenti ***
Capitolo 38: *** Capitolo 38: 12-13 marzo 1965 - Frammenti di vita ***
Capitolo 39: *** Capitolo 39: 5 giugno 1965 - Qualcosa in cambio ***
Capitolo 40: *** Capitolo 40: 31 dicembre 1970 - Notte insonne ***
Capitolo 41: *** Capitolo 41: 1° gennaio 1971 - Ad un passo dalla Luce ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1: 4 dicembre 1970 – LONDRA ***


RAGGIO DI SOLE

 

 

 

 

 

 

 

 

Prologo

 

 

Questa è una storia senza futuro.

Questa è la storia di un passato senza coscienza.

Questa è la storia di un presente fra le ombre.

Questa è la mia storia.

 

Non sono sempre stato crudele.

Non sono sempre stato freddo, cinico ed egoista.

Un tempo non lo ero.

Un tempo ero un bravo ragazzo, un ragazzo come tutti. Normale.

Ma ci sono esperienze che cambiano la vita. Che ti strappano alla normalità, e ti privano di speranze e sentimenti.

Un tempo non era così.

Un tempo io ero un uomo.

Ed ora?

Ora sono solo un'ombra.

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo 1

4 dicembre 1970 – LONDRA

 

 

Sono proprio uno sciocco. Non mi sono neppure presentato e già pretendo di tediarvi con il mio mondo oscuro. Sono stato molto scortese, non è vero? Ma rimediamo subito.

 

Il mio nome è Jules François D'Angart. Ho ventisette anni, ma ancora per poco: il prossimo 1° gennaio ne compirò ventotto. Sì, esatto, avete capito benissimo: il mio compleanno cade esattamente nel giorno di capodanno – già, e la mezzanotte, a cavallo tra l'anno vecchio e quello nuovo, mi tormenta ormai da una vita. Tutti quei festeggiamenti, tutta quell'allegria, tutta quell'infantile speranza, mentre io, disteso a letto senza poter dormire, vorrei solo morire.

 

Sono francese di nascita. O meglio: mio padre era francese, per metà – la metà del nonno – e greco per l'altra metà. Era un armatore, uno dei più apprezzati della costa mediterranea francese. Dico che “era”, perché morì prima che io compissi il mio ottavo anno di vita.

 

Mia madre, invece, era inglese, in ogni singola fibra, in ogni minuscola cellula, e si vedeva: posata, seria, e rigida come un asse di mogano – ne aveva anche l'espressione: dell'asse, non dell'inglese - Ma lei è ancora inglese, solo che non è più mia madre. Non lo fu più da quando, due anni dopo la morte di mio padre - nonché suo secondo marito - incontrò un altro inglese. Un nobiluomo di origini, in Francia per diletto. E dopo aver fatto i suoi due conti, scoprì che valeva la pena mollare la sua casa, la sua terra, la sua famiglia – nella fattispecie: me – per tornarsene in Inghilterra, al braccio del suo terzo marito, nuovo fiammante, facoltoso e molto danaroso.

Mia madre, non aveva uno spiccato spirito della famiglia, e men che meno amava la confusione, ed i ragazzetti petulanti e chiassosi – anche se, a ben vedere, io decisamente non ero petulante. Al contrario, mi sono sempre dimostrato piuttosto taciturno e, nei limiti, rispettoso... o almeno credo -

 

Comunque sia, lei salpò, elegante e maestosa, alla volta delle bianche coste inglesi, ed io rimasi in Francia, d'un tratto unico proprietario ed erede dei possedimenti del mio defunto padre, dei quali, va detto, non mi interessava un fico secco.

Per mia fortuna – o sfortuna, questo ancora non l'ho stabilito – i miei nonni paterni acconsentirono a divenire i miei tutori legali, fino al raggiungimento della maggiore età. E si stabilirono in casa, la MIA casa, con la scusa ufficiale di “prendersi cura” del sottoscritto. Eh... bella scusa! - Sono ancora lì, almeno per quanto ne so -

 

Una storia come un'altra, direte voi. Eh no: magari fosse così! Io, personalmente, ci metterei la firma per poter avere alla spalle – e magari, anche di fronte a me – una storia del tutto simile a mille altre. Ma no! Vogliamo mettere il vantaggio di avere qualcosa di diverso, interessante o perfino esotico da raccontare?

Dai, Jules: racconta, non farti pregare!

Certamente, non aspettavo altro. Non chiedevo di meglio che sbandierare, ai quattro venti, i reiterati fallimenti della mia assurda esistenza di mezzo sangue – Misto, per la verità. Ma non sottilizziamo: io, i nonni greci, nemmeno li ho mai conosciuti. Facciamo finta di nulla, almeno per stavolta? -

 

A me non è mai importato granché della mia “metà” inglese. Mi sono sempre sentito francese. Quella è la mia terra: calda, mite, soleggiata. Una terra fertile e ricca, immensi cieli turchesi, estati limpidissime, profumi deliziosi, ed il piacevole suono del mare: le rilassanti onde del mediterraneo che, placide, si infrangono sulla Costa Azzurra. Io, però, sono nato in Provenza, la patria di un minuscolo fiorellino lillà, dall'odore penetrante, intenso e caratteristico: la lavanda. Ora, chiudete gli occhi, scordate per un momento il fastidioso rumore del traffico cittadino, l'immondo fetore dei gas di scarico e dei fumi dei comignoli, la tetra luce opaca delle grigie mattine londinesi. Chiudete gli occhi ed immaginate: sterminate distese di morbido e profumato lillà, punteggiate di un delicato verde, sovrastate da un cielo così azzurro da far male agli occhi, piccole, basse case rurali sparse nel bel mezzo del mare fiorito. Campi di lavanda, sconfinati filari di deliziosi e delicati fiorellini. Luoghi spettacolari, da lasciare lo spettatore a bocca aperta: senza fiato.

 

Vi sono giorni in cui il profumo di casa mi manca, tanto da farmi sentire dolorose fitte al cuore. Giorni freddi, uggiosi, saturi di nebbia. Giorni come questo, in cui la nostalgia della mia terra mi schiaccia, uccidendomi. Oggi sono malinconico. Questa nebbia gelata, che penetra gli abiti, anche quelli più pesanti, ed arriva fin nelle ossa, mi toglie il respiro. Il sole, qui, non si vede da giorni, e quando si vede è pallido, in cielo, fatica a trapassare le onnipresenti nubi, e la cappa di grigio che soggioga la città. Oggi sono triste, oggi mio padre è morto...

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2: 4 dicembre 1950 - Sainte-Croix de Verdon – PROVENCE ***


 

 

Capitolo 2

4 dicembre 1950 - Sainte-Croix de Verdon – PROVENCE

 

 

Macchine, con sirene e luci lampeggianti. Seri uomini in divisa. Il freddo del mattino. Il silenzio infranto.

Qualcuno bussò alla nostra porta, in una rigida mattina di dicembre. Qualcuno ci parlò di un incidente.

Tre uomini, forse quattro. Ma erano solo le sei, ed era ancora così buio che, ancora adesso, non sono sicuro di averli visti sul serio, o solamente sognati.

Fui svegliato da quelle luci fastidiose che, anche da lontano, irrompevano nella mia stanza, e soprattutto dai rumori. Strani, rumori che non avevo mai sentito prima, suoni stridenti, nella tranquilla e silenziosa campagna immota.

Mia madre, la ricordo benissimo, era seria più degli stessi uomini che restavano, immobili, sull'entrata. Poliziotti: questo erano. Uno di loro disse che mio padre era uscito di strada, lo disse in tono pacato, abbassando gli occhi sulle proprie scarpe – come se, quelle, avessero qualche cosa di interessante da mostrare -

Scesi le scale, quando quell'uomo scandì il nome di mio padre, un nome che era anche il mio. Scesi per sentire, ma quello che sentii non aveva senso. Per me non lo aveva, così cercai di fare chiarezza. Con l'innocenza, che allora mi apparteneva ancora, con il candore proprio di un bambino, chiesi spiegazioni, rivolto a mia madre, perché lei era la mia famiglia, ed un punto di riferimento, mentre loro solo estranei, che parlavano di argomenti incomprensibili.

«È papà? Loro hanno detto qualcosa di papà. Perché?»

«Fa' silenzio, Fran!»

Mi zittì subito mia madre – Lei era solita chiamarmi Fran. Jules, o peggio, François, erano nomi troppo... francesi, e la cosa la disgustava palesemente -

Ma ero un ragazzino curioso, ed in un certo senso anche sveglio. Sapevo che qualcosa non quadrava, gli abiti degli uomini fermi in casa nostra me lo dicevano, ed anche le loro espressioni contrite. Così insistetti;

«Ma loro dicono...»

«Ti ho detto di tacere, stupido!»

La voce di mia madre, quell'inflessione cupa, il tono appena appena incrinato, perfino il modo poco convinto con il quale mi dette dello stupido: tutto questo mi fece comprendere, infine, ciò che realmente era accaduto. Mio padre era morto.

Non lo dissi mai. Mai ad alta voce. Mai a nessuno, nemmeno a me stesso, anche se spesso lo pensai.

«Papà è morto»

Ripeteva la mia testa. Ma facevo finta di nulla, fingevo di non sentire quella voce che, incessante, ripeteva una litania amara. Parole che non volevo ascoltare.

Nemmeno quando fu ormai chiaro che non si poteva tornare indietro, nemmeno al suo funerale, lasciai che qualcuno, subdolamente, mi avvicinasse, per dirmi quanto fosse addolorato per la morte di mio padre. Non lo volevo sentire.

Non volli mai. Nemmeno ora, riesco completamente ad accettarlo, nemmeno a distanza di vent'anni. Ma allora, a quel tempo, ero solo un bambino, avevo una buona scusa per rifiutare la realtà: «Papà è morto».

 

Pensandoci ora, a posteriori e con il senno di poi, sarebbe stato mille volte meglio essere in auto con papà, quella mattina. Quanto dolore, quanti dispiaceri, quante ferite mi sarei risparmiato, finendo oltre quel guardrail insieme a mio padre ed alla sua automobile?

Tante, troppe. Solo ora, a distanza di anni, mi rendo conto di quanto sia difficile vivere, sapendo quello che so, vedendo il buio che c'è in questo mondo, scorgendone gli orrori, gli sbagli, i difetti, convivendo forzatamente con i rimorsi ed i sensi di colpa: i miei.

Difficile, duro, insopportabilmente doloroso. Un dolore che prosciuga l'anima, trasformandola in un arido deserto sconfinato.

 

Avevo amato la vita. L'avevo amata in modo totale e spensierato, seppure la mia fosse una visione molto limitata e privilegiata della vita.

Sapevo così poco, non ne conoscevo ancora ogni sfumatura, né tutte le varianti possibili. E forse, in fondo, era proprio per questo che l'amavo, incondizionatamente. Perché ne conoscevo solo la parte buona, senza ombre né sofferenze, senza quei cambiamenti che ne sono parte integrante.

Fino a che, quella mattina, mi portò davanti agli occhi innocenti di fanciullo tutta la vera crudeltà di questa esistenza.

Fu allora, credo, che la mia fiducia assoluta andò in frantumi, i quali si sparsero in mille piccoli pezzi per le gelide campagne.

 

Da quel momento tutto cambiò. Quello fu l'inizio della fine, il punto di partenza che, vent'anni dopo, mi portò di prepotenza sull'orlo di un profondo ed oscuro baratro di dolore e disperazione.

Quello stesso giorno, una parte di me morì con mio padre. A poco a poco, la mia innocenza si macchiò, finendo per ricoprirsi di infiniti strati di polvere, rabbia e sangue: il mio e quello che tutte quelle persone che ho tradito in questi anni...

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3: 26 agosto 1961 - Rotolando verso nord ***


 

 

Capitolo 3

26 agosto 1961 - “Rotolando verso nord”

 

 

Ci fu un momento, nella mia vita, in cui la situazione iniziò veramente a precipitare. Ma, più ci penso e meno trovo la certezza del momento esatto, in cui si innescò l'effettiva discesa. Forse fu quando, a diciotto anni, decisi di trasferirmi a frequentare la facoltà di architettura fuori paese, mooolto fuori paese: a Londra.

OK, ammetto che avevo una certa urgenza di tagliare la corda. E diciamocelo: dieci anni di attesa, furono fin troppi, per i miei gusti – mai pazientato tanto a lungo in tutta la mia vita -

Ovviamente, me ne sarei andato volentieri via anche prima, se solo avessi potuto farlo. Purtroppo avevo tutta una serie di obblighi da rispettare, per lo più di tipo legale, che... beh, che mi legavano alla proprietà ed ai suoi eredi. Per farla breve, io ero l'unico figlio e, come tale, anche primo erede. Pertanto, tutto ciò che era appartenuto, a suo tempo, a mio padre, ora apparteneva di diritto a me – che fortuna! - Peccato che non potessi beneficiarne al 100%, almeno fino al raggiungimento della maggiore età – che fregatura! -

Nel frattempo, nemmeno a dirlo, i “cari” nonni mi stavano addosso come ottuse sanguisughe, pronti a succhiare, fino all'ultima goccia, la mia linfa vitale.

 

Ho forse detto che me ne sono andato? Non proprio, no. In realtà, sono FUGGITO, a gambe levate, mollando tutto e tutti, lasciando a quegli sciacalli ciò che più desideravano, ed allontanandomi il più velocemente possibile, per evitare qualsiasi forma di ripensamento o, peggio, di ritorsione.

Già perché, detto fra noi, a quel punto del denaro non me ne fregava più assolutamente niente. Preferivo di gran lunga tenermi la pelle e quel minimo di sanità mentale che ancora mi rimaneva – per il momento -

 

In fretta e furia firmai tutto quello che c'era da firmare, cedetti ogni briciola, tenendo per me solo i soldi per il viaggio di andata, alcuni effetti personali ed il mio nome, al quale ero affezionato e troppo legato per pensare di potermene separare.

Partii verso la fine dell'estate: in treno fino a Calais, dal porto mi imbarcai per Dover, in prossimità del quale ebbi finalmente “l'onore” di vederne le famose ed acclamate scogliere, caratterizzate da un curioso e tutto sommato piacevole candore. Da lì, nuovamente su un treno diretto al cuore pulsante di quel mondo grigio e piovoso che è l'Inghilterra: Londra.

 

A bordo del treno che mi condusse in città, seduto ad osservare le verdeggianti e piatte campagne, rimuginai sul fatto che, in quelle terre, da qualche parte – probabilmente comodamente sistemata in una lussuosa villa fuori città – viveva mia madre, la stessa donna che mi aveva partorito diciotto anni prima, e che non vedevo da più della metà di tutto quel tempo.

Pensieri estemporanei, appunto, senza una vera ragione d'essere.

 

Mi allontanai, allora, da casa per uscire dalla vita dei miei parenti e dalle loro grinfie, sperando così di ritrovare un po' di serenità, di ritrovare me stesso. Purtroppo rimasi molto deluso dal risultato. Non solo non riuscii a ritrovare né la pace che cercavo, né tanto meno l'essenza della mia vita, ma le cose finirono addirittura per peggiorare ulteriormente. La confusione aumentava, ed io mi sentivo sempre più frustrato, insoddisfatto, scontroso verso un mondo così freddo ed insensibile come era quello che mi aveva ospitato.

L'Inghilterra si rivelò, al contrario, un luogo totalmente inospitale, privo del calore a cui ero abituato nel mio paese, nella mia amata Francia.

Il grigio del cielo e della città, si rifletteva nei volti, negli occhi e nei cuori delle persone, che osservavano la “novità” con sufficienza e superiorità - quando avevi la fortuna di essere notato, ovviamente - Io, quella fortuna, non l'ebbi mai, nemmeno una volta, durante tutto il primo anno di permanenza.

Riuscii a rimanere a galla solo grazie alla mia borsa di studio. L'unica fondamentale fattore che mi permise di non morire di fame e di stenti. Nessuno, però, volle saperne di concedermi il beneficio del dubbio, ed offrirmi un lavoro, anche saltuario, per poter guadagnare qualche spicciolo extra e tirare così il fiato.

 

Quella pluricelebrata città multietnica e multiculturale, dalla tanto decantata apertura mentale, non ne voleva assolutamente sapere di offrirmi neppure una misera chance di mantenermi da solo, senza essere costretto ad elemosinare le nemmeno troppo generose elargizioni statali.

Dopo lunghi mesi, senza vedere nessun tipo di miglioramento, mi sentivo tristemente sfiduciato, privo di qualunque stimolo o buona ragione per andare avanti.

Ogni volta che mi presentavo ad un colloquio, come prima cosa, la persona dall'altra parte della scrivania storceva il naso al semplice suono del mio accento, ancora troppo marcato, ed a quel punto ero già fregato in partenza. Poi arrivava, invariabile, la domanda fatidica. Quella che non sono mai riuscito davvero a comprendere fino in fondo, quella di cui non ho mai capito l'importanza, quella che, da sola, mi trascinava a fondo, inesorabilmente e definitivamente, richiudendomi bruscamente davanti al naso tutte le porte, perfino i minuscoli spiragli.

«Lei ha famiglia?»

Che cosa rispondere ad una domanda come questa – per la quale il primo pensiero, dopo averla sentita decine e decine di volte in tutte le salse, sarebbe stato: «Ma a te, che diavolo te ne frega?!» La verità? Del tipo:

«No, guardi. Mio padre è morto dieci anni fa. Mia madre se n'è andata di casa due anni dopo. I miei nonni si sono fottuti la mia eredità fino all'ultimo spicciolo. Ed io ho mollato tutto, compresa la mia terra, la mia patria, il profumo di casa mia, per venire in questo posto schifoso a mendicare un cazzo di lavoro»

Ehm... come dire? Forse non esattamente diplomatica, come risposta, e di certo una prima “buona” impressione fallita prima ancora di iniziare...

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4: 2 luglio 1962 - Notturno Noir ***


 

 

Capitolo 4

2 luglio 1962 - “Notturno Noir”

 

 

Trascorse il primo anno, senza che io riuscissi a combinare assolutamente nulla di rilevante.

Abitavo in una stanza assieme ad un paio di altri studenti, all'interno della struttura stessa dell'università. Consumavo i miei pasti nella mensa ed il resto del mio tempo lo passavo studiando e/o camminando per la città.

Dopo i primi due mesi, mi trasformai in un maniacale risparmiatore: niente vizi, niente mezzi pubblici né privati, cibo ed alloggio spesati, libri presi in prestito dalla biblioteca interna, zero divertimenti costosi. Ogni centesimo avanzato dai bisogni primari, quale sostentamento e vestiario, veniva scrupolosamente accantonato a formare via via un gruzzoletto sempre più sostanzioso.

 

Odiavo uscire in comitiva, preferivo di gran lunga i vagabondaggi solitari, più vicini al mio stile di vita ed ai miei interessi. Le rare volte in cui mi feci convincere a seguire alcuni compagni di corso, invariabilmente, me ne dovetti in seguito pentire.

L'ultimo di questi grossi errori di valutazione si verificò alla fine del primo anno accademico, quando l'estate era già iniziata ma, a giudicare dal clima, era ancora lontana anni luce.

Ritrovandomi, senza desiderarlo, nel bel mezzo della calca ondeggiante di un club/discoteca, storsi il naso, la bocca... insomma, tutto quello che si potesse storcere, fustigandomi mentalmente per essermi lasciato convincere, per l'ennesima volta, ad uscire, solo ed unicamente per riempirmi di fumo, alcool e quant'altro – tanto più che io nemmeno bevo, né fumo, né ora né allora, pertanto mi chiedo: che cavolo ci andai a fare?! Ovviamente non ho una risposta a questo annoso dilemma e, molto probabilmente, non ce l'avrò mai, come succede sistematicamente per altre mille domande -

Quella sera fu, naturalmente, disastrosa. Durante la notte, pensai che mai sarei riuscito a cadere più in basso di così. Quanto mi ero sbagliato! Di lì a poco lo scoprii, ebbi modo di ricredermi alla grande. Ma questa è un'altra storia. Andiamo con ordine e torniamo a quella serata estiva, un inizio luglio appena intiepidito dal sole coraggioso. Torniamo dentro quel locale che, a pensarci bene, aveva un'aria poco simpatica perfino da fuori – anche se, forse, tutto questo astio deriva dalla pessima esperienza, e non necessariamente dal luogo in sé... chissà -

 

Durante tutta la prima ora tentai di svignarmela ad ogni occasione che ritenni buona, senza mai avere successo. Quei maledetti dei miei compagni di corso, sembravano provarci gusto a tenermi con loro, quando era invece più che evidente che ero in un posto che non faceva per me: un vero e proprio pesce fuor d'acqua, insomma. Ma a loro non interessava, o forse erano invece fin troppo interessati, ma a mettermi in difficoltà.

Desideravo andarmene a casa ma, a quel punto, mi sarebbe bastato anche semplicemente uscire da lì. Poi qualcosa, verso metà serata, mi fece improvvisamente cambiare idea.

Vidi i suoi capelli di fuoco, come prima cosa, poi il suo viso dalla carnagione lattea, punteggiato da una miriade di lentiggini, ed i suoi occhi verdi e magnetici. Infine, il suo sorriso allegro e solare, mi diede il colpo di grazia.

Un bellissimo ragazzo, dai morbidi ricci rossi, era appoggiato con la schiena al bancone del bar, intento ad intrattenere un piccolo gruppetto di amici con le sue parole che, a giudicare dall'attenzione con cui lo seguivano, dovevano essere qualcosa di molto interessante.

Inutile dire che arrossii come un dodicenne alla sua prima cotta, e che rimasi inebetito a fissarlo, per cinque minuti buoni, prima di essere inaspettatamente spintonato dal gregge che si agitava in pista. Per un soffio non caddi rovinosamente e, non appena ebbi riacquistato un minimo di equilibrio, tornai con gli occhi a cercare la sua figura, la quale spiccava sulle altre, brillando come la stella del mattino.

 

Ah già, che stupido sono! Ho completamente dimenticato di dirvelo, anche se, a questo punto, immagino l'abbiate già intuito da voi, senza bisogno che ve lo stia anche a spiegare. In ogni caso, per essere corretti, è comunque opportuno che parli chiaro, in modo da evitare inutili fraintendimenti.

Io sono omosessuale. Questo significa, in poche ed elementari parole, che sono attratto da uomini come me, fisicamente e mentalmente.

Ora, io posso benissimo immaginare che questa notizia possa risultare, diciamo... spiacevole. E capisco che, molti di coloro che hanno fin qui seguito – con più o meno interesse – le mie patetiche tribolazioni decidano, non si sa bene come né perché – oppure si sa, ma è più saggio non farne parola – di disinteressarsi del proseguo del mio racconto, magari per dedicarsi a qualche passatempo senza dubbio più ameno.

Io, intanto, mi ritengo soddisfatto e con la coscienza pulita – questa è una balla, la mia coscienza è più nera di un forno a legna – per aver detto le cose come stanno.

 

Ma abbandoniamo, per il momento, certe questioni spinosette e non necessariamente di interesse pubblico, e torniamo a noi. Torniamo di nuovo a quella sera, torniamo in quel club, in mezzo a gente ubriaca, intossicata e perfettamente sconosciuta, e vediamo un po' che cosa accadde dopo, quando ormai avevo compreso che non sarei più riuscito a levargli gli occhi di dosso, almeno non prima di aver tentato un qualsiasi tipo di approccio.

Ci misi un quarto d'ora abbondante, solo per decidermi a fare qualcosa che non fosse limitarmi unicamente a fissarlo ossessivamente, pressoché immobile, nel terrore di commettere qualche sciocchezza che mi rovinasse irrimediabilmente una volta per tutte – Ma rovinare cosa, poi? Io, che da anni non ho più una reputazione, né tanto meno qualunque altra sciocchezza del genere da difendere -

Mi mossi, mandando al diavolo ogni incertezza ed esitazione, quando notai che il gruppetto assiepato attorno a lui si stava gradualmente diradando. Attesi, poco in disparte, che venisse lasciato solo per almeno dieci secondi e, proprio mentre si voltava verso il bancone, probabilmente con l'intento di ordinarsi da bere, ne approfittai per comparirgli alle spalle.

«Ciao»

Mormorai impacciato – non mi era mai ancora capitato di dover prendere l'iniziativa ed avvicinare un uomo. I pochi contatti che avevo, fino a quel momento, avuto, erano partiti dall'altrui decisione, solitamente senza prendersi nemmeno la briga di consultarmi -

«Buona sera... Ci conosciamo?»

Mi rispose, gentile.

Che bella voce morbida aveva. Ed i suoi occhi verdi mi sorrisero, prima ancora che lo facessero le sue labbra rosse.

«Purtroppo no. Speravo di rimediare»

Mi guardò, incuriosito, sciogliendosi in una piccola risata divertita.

«Non perdi tempo, tu»

«Dovrei?»

«Penso di no, ma...»

Mi osservò. Il suo sguardo su di me, intento a studiarmi, mi dava i brividi. Ciò nonostante, trovai la forza di ribattere.

«Ma?»

«So che la risposta non ti piacerà, ma credo che sia giusto che te lo dica comunque»

E lo fece sul serio, a modo suo, scatenando così un gran putiferio che, immagino, non fosse nemmeno lontanamente nei suoi piani. Si protese, accostandosi quasi al mio orecchio, ma senza sfiorarmi nemmeno. Rabbrividii, mentre le sue labbra mi sussurravano poche, semplici parole.

«Sai, io vado matto per le donne. Tu, lo ammetto, sei molto carino, ma la mia attenzione è tutta per la mia ragazza»

 

Malauguratamente, quella che in seguito scoprii essere la citata ragazza, notò la scena e... non la prese per niente bene.

Un istante dopo che lui si era scostato, sentimmo entrambi, forte e chiaro, un urlo femminile, decisamente rabbioso, ed il mio obbiettivo appena sfumato mi fissò con ansia, mista a sorpresa e, forse, anche un pizzichino di terrore in fondo agli occhi.

«Merda», imprecò.

«Che cosa...»

Provai a chiedere io, ma non ci fu più tempo per dire molto altro. Venni letteralmente investito dalla furia di quella donna che, sul momento, giudicai essere una pazza scatenata – a dirvela tutta, è la stessissima impressione che ne ho anche ora, a distanza di nove anni -

«HEY!! Tu, bastardo! Togli subito le mani dal MIO uomo!!!»

«Oh merda»

Ripeté l'uomo in questione che, per un brevissimo istante, mi fissò, ed in un soffio mi disse soltanto;

«Vai, sparisci, prima che...»

Tardi. Lei già mi aveva agguantato per il bavero. Quasi rotolai sul pavimento, ma ero più veloce e mi liberai con un brusco movimento, sfuggendo alle sue grinfie.

 

Tipa insistente, ed anche parecchio incazzata. Non mi mollò al primo tentativo andato storto. I suoi occhi sembravano tizzoni ardenti, tanto che per un attimo pensai che mi avrebbe incenerito con la semplice forza del pensiero.

Per mia fortuna, non riuscì più ad arrivarmi abbastanza vicina da mettermi di nuovo le unghie addosso, anche se in un'occasione, per scansarla, dovetti eclissarmi oltre il bancone del bar, con uno spettacolare ma non altrettanto aggraziato balzo – degno di una gazzella – Il barman, inutile sottolinearlo, non ne fu per niente entusiasta.

Tagliai la corda, prima che chiunque altro iniziasse a volermi morto, schizzando fuori nel tempo record di venti secondi netti, di nuovo libero come l'aria, anche se in quel caso si trattava dell'aria fumosa di Londra...

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5: 11 settembre 1962 - Abissi ***


 

 

Capitolo 5

11 settembre 1962 - “Abissi”

 

 

Quando tocchi il fondo, non puoi fare altro che risalire”. Questo dicono io saggi. Per non parlare di quell'immensa stronzata che recita: “Non può piovere per sempre”. Non può?! Ma dove cazzo vivi?! Questa è l'Inghilterra. Qui PUO' piovere ininterrottamente per settimane, perfino mesi, senza mai uno scorcio di sole – tranne sporadiche pause di riflessione, che però non durano mai più di poche ore -

E pare che, dopotutto, il fondo io ancora non l'abbia toccato, visto che di risalire non se ne parla proprio.

Credevo di aver toccato il fondo alla fine di quel '62. Beh, mi sbagliavo, e di grosso anche. Troppo tardi scoprii che la discesa era solamente all'inizio. Ebbi poi modo di rimpiangere, più e più volte, la mia infanzia. Perfino quei bastardi dei miei parenti, sì.

 

Stava per avere inizio un nuovo anno accademico. Avevo cercato un lavoro per tutta l'estate appena trascorsa, collezionando un buco nell'acqua via l'altro, netti e ben poco gentili rifiuti, qualche velato insulto alla mia persona e/o alla mia famiglia, e perfino una proposta indecente.

Le mie prospettive per l'anno nuovo non erano decisamente delle migliori. Avevo il morale sotto i tacchi.

Se solo avessi saputo, o anche semplicemente intuito, ciò che mi attendeva al varco, avrei volentieri accettato la miseria in cui vivevo al campus con il sorriso sulle labbra. Sì, sarei senz'altro stato l'uomo più felice della terra.

Ma le cose, come prevedibile, non andarono affatto così. Tutto precipitò in un abisso, un tiepido pomeriggio di inizio settembre. Da quel momento, la mia vita cambiò. In peggio. Nulla fu più lo stesso.

Ancora oggi, continuo a pagare il prezzo di quell'infausto giorno, maledicendo la mia ingenuità.

 

Ero appena stato buttato fuori dall'ennesima ditta, presso la quale mi ero presentato a colloquio. Non era andata male, era andata peggio. Dovevo avere la faccia da delinquente, sul momento non fui in grado di trovare altre spiegazioni più accettabili che giustificassero la palese ostilità con la quale mi fissavano, e mi trattavano.

Uscendo dagli uffici, traversai la strada, infilandomi in un bar. Non avevo molti soldi con me, ma ero abbattuto, e qualcosa di caldo, o magari di dolce, mi ci voleva proprio. Ordinai un frullato al cioccolato, e me lo stavo giusto gustando, quando un tipo in giacca e cravatta mi si affiancò, sedendosi sullo sgabello accanto al mio.

«Brutta giornata?»

Mi chiese, indicando l'enorme bicchiere che avevo di fronte.

«Pessima, direi»

Sbuffai. In realtà non avevo nessuna voglia di parlarne, soprattutto non con un perfetto sconosciuto.

Ma evidentemente, quel pomeriggio, non ero completamente in me. Quindi parlai, senza neppure rendermene conto.

«In questa stramaledetta città, non si riesce a trovare un lavoro neppure supplicando!», sbottai con amarezza e frustrazione, «Scommetto che non mi si avvicinerebbe nessuno nemmeno se mi prostituissi su un marciapiedi»

Già, risposta acidella. Ero decisamente deluso e sconfortato.

«Capisco»

Si limitò a dirmi. Non si mosse, né accennò ad allontanarsi. Non sembrava neppure infastidito dall'implicito insulto al suo paese. Invece appariva incuriosito. Mi osservava attento, cercando al contempo di dare un'impressione di indifferenza.

«Senta, mi dispiace. Io non ce l'ho con lei. E nemmeno con la sua città, credo. È solo che... Dannazione! Vorrei che qualcuno si degnasse di darmi almeno una chance... almeno quello!», proruppi -

«E se le succedesse, proprio ora? Che cosa farebbe? La coglierebbe, quella opportunità?»

Lo fissai, sorpreso. Sembrava serio. Voleva mettermi alla prova?

«Naturalmente... A patto che sia legale»

Si mise a ridere, ripetendo a sua volta;

«Naturalmente»

Rifilandomi poi un sorrisetto inquietante.

 

«Ci preparerebbe un paio di tea?»

Chiese gentilmente al barman, piazzando sul bancone qualcosa come venti pounds. Non potei fare a meno di chiedermi: ma quanto cavolo costa il tea in Inghilterra? Scoprii, più tardi, che oltre al tea, aveva pagato anche il mio frullato ed un paio di birre che già aveva bevuto in precedenza, lasciando il resto come mancia.

 

Comodamente sistemati ad un tavolino con vista giardino sul retro, mentre io mi stavo riscaldando lo stomaco, mi osservò discretamente, finché d'un tratto se ne saltò fuori con un'improbabile domanda.

«Mi parli un po' di lei, signor...»

«Jules»

Completai automaticamente.

Primo errore.

Anche se scommetto che quello, se già non lo sapeva, non ci avrebbe messo più di un minuto e mezzo a scoprirlo comunque, il mio nome e probabilmente tutta quanta la mia vita.

«Signor Jules»

Sorrise. Di nuovo. Ancora oggi quel suo sorriso mi dà i brividi. Vorrei farglieli saltare, quei denti bianchissimi e perfetti. Sarebbe senz'altro una gran bella soddisfazione.

 

Ho già fatto notare quanto fosse una giornata “no”, e che avevo seri problemi di connessione con il mio cervello, giusto? Bene, perché a dimostrazione di ciò posso senz'altro citare il fatto che, alla sua richiesta, risposi diligentemente, nemmeno fermandomi a riflettere sul fatto che io, invece, di lui non sapevo assolutamente nulla, neppure il suo nome di battesimo.

Matthew Thompson, per la cronaca. Uno dei peggiori – o migliori, dipende dai punti di vista – figli di puttana doppiogiochisti profumatamente remunerati dal governo di Sua Maestà la regina. Tipo in gamba, certamente degno di fiducia. Se sei il suo datore di lavoro. In caso contrario, farai meglio a spararti da solo, prima che ci pensi lui stesso, regalandoti anche un bel ghigno di soddisfazione.

 

Fu proprio costui, disgraziatamente, che si offrì di darmi quella famosa chance di cui tanto avevo bisogno.

Beh, grazie tante Mat. Non so davvero cosa avrei fatto senza il tuo prezioso aiuto. Forse, semplicemente, ora non sarei qui, a pochi passi dal mio ventottesimo compleanno, a desiderare una fine rapida ed indolore. Proprio nello stile che predicavi sempre tu...

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6: 18 settembre 1962 - Discesa ***


 

 

Capitolo 6

18 settembre 1962 - “Discesa”

 

 

Uscivo, pensieroso, dalla facoltà. L'aria frizzante della sera mi fece rabbrividire, convincendomi a stringermi nella mia giacca troppo leggera. Lo vidi fermo, intento ad osservarmi, appoggiato in fondo al corrimano della scalinata, con in faccia il suo solito sorriso sinistro. Rabbrividii istintivamente, ma comunque lo raggiunsi, salutandolo con cortesia.

«Buona sera, Mr. Thompson»

«Buonasera a te»

Te? Da quando mi dava del tu? O piuttosto: quando gli avevo dato il mio permesso? Non lo ricordavo affatto. Dovevo proprio essere andato, l'altro giorno.

 

«Come andiamo, Jules?»

«Uhm... il solito. Non è cambiato nulla, nell'ultima settimana»

«Fede, amico mio. Presto succederà»

E chissà perché, questo non mi consolò minimamente. Al contrario, quella sorta di strana previsione mi mise addosso una certa angoscia.

«Non capisco», ammisi riluttante.

Di nuovo quel sorriso.

«Capirai. Prima di quanto tu creda».

 

Mi chiese se avevo da fare. In realtà sì, nonostante l'impegno, molto si era accumulato ed era necessario sfruttare bene il - poco - tempo libero, così da non avere troppi arretrati sulle spalle.

Ma il signor Thompson, Mat – desiderava ad ogni costo che lo chiamassi così. Contento lui... Io, personalmente, non capirò mai la mania degli anglosassoni di abbreviare i nomi, soprattutto quelli belli ed eleganti come il suo – dava l'idea di avere dei piani alternativi.

Fui così quasi costretto a seguirlo. In realtà, se davvero l'avessi voluto, a quel tempo avrei ancora potuto mandarlo al diavolo senza aspettarmi orribili conseguenze. Ma l'ho già detto e lo ripeto: ero un ragazzo ingenuo e, forse, a diciannove anni, non avevo ancora la sufficiente esperienza che mi permettesse di fare le mie scelte con criterio – non che oggi come oggi ci metta molto più criterio... però il potenziale ci sarebbe -

Infatti scelsi di seguirlo, o meglio, di farmi guidare da lui. Ora lo so, me ne rendo conto. Oltre che ingenuo e sprovveduto, fui anche fin troppo passivo, e gli permisi di entrare di forza nella mia vita e fare i comodi suoi senza opporre la benché minima resistenza. Fu una mossa molto stupida. Mi arresi, senza nemmeno provare a lottare, e di questo pagai le conseguenze, sulla mia pelle e su quella di molti altri.

 

Come al solito, finisco con il divagare e perdere di vista l'obbiettivo. Quello stronzo di inglese me lo ripeteva sempre, in continuazione: “Mai distrarsi. Mai lasciare il cervello solo a sé stesso. Nel momento in cui ti serve, potrebbe non essere a tua disposizione”.

A volte, però, vorrei che non fosse affatto a mia disposizione. Vorrei stendermi sul materasso, staccare la spina e non pensare più a nulla fino a... beh, fino a data da stabilire. È da codardi? E chi se ne frega! Ho bisogno di riposare, mi serve un po' di pace. Da ormai più di cinque stramaledettissimi, interminabili anni non faccio che pensare, e rigirarmi in angoscianti riflessioni. Ne ho abbastanza. Non voglio più pensare. A niente.

 

Mat riteneva, evidentemente, che uno studente universitario francese fosse un'ottima copertura – io, nemmeno a dirlo, non ne ero altrettanto convinto - Per cosa, effettivamente, lo scoprii solo in seguito.

Per i primi mesi, giusto perché in facoltà non avevo già abbastanza da studiare, frequentai un ulteriore corso, finanziato dal governo, dato che era poi il vero beneficiario dei nostri servizi. Così, a prima vista, l'avrei definito marketing aziendale. Ed in effetti lo era... beh, più o meno. Strategie di mercato e di vendita, presentazione del prodotto, ricerche ed indagini di settore. Tutto chiaro, tutto lineare. Se non fosse che, in aggiunta alle citate, c'erano anche strane “materie”, le quali portavano nomi decisamente meno costruttivi. Qualche esempio?

La “fantastica” ora e mezza, presieduta dal professor Kyle: Controllo e Persuasione.

Oppure l'affollatissima ed imprevedibile oretta del signor Patterson: Ricollocazione e Risoluzione delle Problematiche Insorte.

Per non parlare della sinistra ed oscura – in quella dannata aula c'era perfino poca luce! Secondo mio parere personale era una cosa voluta allo scopo di incutere timore... bah – materia del docente Hunt: Deviazione del Potere. La prima volta che vidi il nome dell'aula sulla porta, fui seriamente tentato di girare i tacchi e filarmela... Quelli dietro di me, che spingevano, evidentemente, non erano della stessa idea.

E come dimenticare i venerdì sera, in compagnia di quel simpaticone di Fisher e della sua, molto meno simpatica: Analisi ed Eliminazione dei Rischi.

Queste, com'è ovvio immaginarsi, erano solo le punte di un enorme iceberg che affondava – e probabilmente affonda tutt'ora – il suo ingombrante e glaciale culo dell'oscuro mare di un'organizzazione troppo vasta e troppo poco conosciuta per arrischiarsi a darle un nome.

 

Tutto questo mi fece riflettere. Ero piuttosto scettico e niente affatto stupido, come si sarebbe potuto pensare. Ma più riflettevo e meno ci capivo. Ed allora commisi il mio secondo, irreparabile errore: smisi di riflettere.

E si sa, quando smetti di far funzionare una parte di cervello, l'altra, che lavora il doppio, prima o poi troverà il modo per vendicarsi, e nel frattempo il lato tristemente abbandonato a sé stesso finirà, inevitabilmente, con l'impigrirsi. La conseguenza, a lungo termine, è che quando ti occorrerà e dovrai rimetterlo in pista, necessiterà di una bella revisione, rodaggio, prove tecniche... in sostanza TANTO tempo da spendere. Tempo che, per inciso, probabilmente non avrai.

Ci misi più di un anno per comprendere questo semplice principio. Peccato che, allora, ero già fin troppo invischiato nel complesso ingranaggio dell'Agenzia, per poterci fare davvero qualcosa. Niente tempo, ma soprattutto nessuna occasione – a meno di non voler mettere in conto un probabile suicidio -

 

Ora, prima di proseguire nel mio racconto, vorrei esternare alcune considerazioni che mi preme di condividere.

Ognuno di noi, ogni mattina, più o meno coscientemente, decide che è arrivato il momento di svegliarsi, alzarsi, recarsi in bagno – nel mio caso, arrancando, come uno zombie con i postumi di una sbronza – al fine di espletare le prime, basilari funzioni fisiologiche della giornata, vestirsi di tutto punto – o quasi, immagino dipenda dal genere di impegno personale – incamminarsi al lavoro/scuola – ai pensionati è benevolmente concesso il pub/parco pubblico – per fare il proprio sacrosanto dovere di ape operosa ed ansiosa di servire la comunità – nonché di portarsi al più presto a casa il denaro sufficiente a campare e, se avanza, divertirsi il sabato sera, come ogni buon cittadino che si rispetti – scambiare opinioni/battute con colleghi/compagni/amici – parenti... ma solo se necessario, ed unicamente dietro minaccia – nel caso, lamentarsi di governo/politica/burocrazia/tasse/leggi inique e quant'altro ci entri di diritto – in una civile conversazione – e poi, finalmente, tornare al proprio ovile, giustamente stanchi della dura giornata, ma anche e soprattutto segretamente – per alcuni, devo dire, nemmeno troppo segretamente – soddisfatti del proprio operato.

E adesso viene la domanda – eh, bravi, pensavate di scamparla, vero? Illusi!! Muahahahaha... - Avete presente quella «decisione», comparsa come prima cosa, la mattina, poco prima o durante il vostro risveglio? Sì? Bene. Ma se quella decisione non fosse vostra? Mi spiego meglio: se non foste davvero voi, a guidare la vostra vita, a stabilire il dove, il come, il quando e, sopratutto, il perché di tutto ciò che vi accingete a fare? In tutta onestà, vi sentireste di affermare di essere totalmente padroni di quelle stesse decisioni che vi conducono nei meandri e nelle insidie della vostra vita? Se la risposta è sì – senza indugi, né tentennamenti e/o ripensamenti – allora che dire: buon per voi. Siete decisamente persone fortunate. Vi invidio profondamente perché, per me, la risposta alla stessa domanda è un secco e categorico NO...

 

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Capitolo 7
*** Capitolo 7: 4 dicembre 1962 - Dure Lezioni ***


 

 

Capitolo 7

4 dicembre 1962 - “Dure Lezioni”

 

 

Mi chiedevo cosa, effettivamente, avessero in mente, quali fossero i reali progetti che mi coinvolgevano – o mi avrebbero coinvolto, quando fossi stato pronto - Durante quei due mesi e poco più di doppia vita, nei quali, di tanto in tanto, dovetti anche ricordarmi di dormire e mangiare, mi ero semplicemente limitato ad apprendere: architettura e studi artistici da una parte, mentre dall'altra c'erano quelle lezioni decisamente di carattere più pratico e meno nobile – questo, almeno, dal mio punto di vista -

 

Quel giorno, mi beccai una strigliata dal professor Kyle - Foster per i colleghi - il quale sosteneva che ero disattento. Dovetti, mio malgrado, concordare con la sua opinione, per quanto in verità non si trattasse di disattenzione, quanto piuttosto di una forma acuta di catatonia. Avrei dovuto rimanermene in camera mia, sepolto sotto le coperte, lo sapevo bene. Lo sapevo eppure uscii comunque di casa, nell'illusoria speranza che il malessere passasse nel momento in cui il mio cervello fosse stato occupato in altre faccende.

Beh, mi sbagliavo, e di grosso anche. Dovevo certamente avere l'aria di uno spettro. Era d'altronde quello che mi sentivo in quel momento: un fantasma, l'ombra dell'essere umano che avrei invece dovuto essere. Sarei mai riuscito a superare questo tormento? Cominciavo seriamente a dubitarne. Dopotutto erano già passati dodici anni, ma il dolore era sempre lì, non sembrava affatto diminuire, al contrario, tutto quel gelido grigio, probabilmente, serviva solo ad acuire il mio malessere.

 

«Signor D'Angart! Mi sta ascoltando o dorme?!»

Nessuno dei due, sarebbe stata la mia risposta, se solo avessi avuto la prontezza mentale di replicare. Invece mi sentivo più morto che vivo, non volevo altro che tornare a casa, piombare nel silenzio, chiudere gli occhi stanchi e pregare che quella maledetta giornata – così come tutto il restante mese – finisse in fretta.

«Ci sono... Mi... mi scusi»

Risposi invece, mostrando, con grande sforzo, tutta l'educazione che possedevo.

«Dovrebbe imparare a lasciare a casa i suoi problemi personali, signor D'Angart»

«E lei, invece, dovrebbe ricordarsi di uscire di casa con un po' più di umanità»

OPSS! ... Cazzo, questa però l'avevo detta a voce alta. Me ne resi immediatamente conto, notando l'improvviso rossore che tinse le sue guance.

«Ha fegato», mi ringhiò.

«No... Mi dispiace. Sono solo stanco, e non capisco più quello che penso e quello che invece dico»

«Allora impari a controllarsi»

«Non sono inglese. Non possiedo il vostro autocontrollo...»

Grazie al cielo, mi limitai, questa volta, a pensare.

«L'autocontrollo si può anche apprendere, con un minimo di disciplina, di cui però lei sembra essere del tutto privo»

«Ne è proprio sicuro?»

Mi azzardai, maledicendo al contempo la mia linguaccia, perché non riuscivo ad incassare in religioso silenzio.

«Signor...»

«SI'! Ho capito: sto zitto»

«Perfetto»

Disse asciutto, ma visibilmente alterato.

 

Mi augurai, contro ogni logica, che il resto del mese scorresse più liscio di come era iniziato. Ovviamente non fu così e, subito, le mie vane speranze vennero disattese. Giusto la settimana seguente, scoprii, sarebbero iniziati gli “attesissimi” - ma da chi? Da me no di certo – corsi di difesa, i quali in realtà si rivelarono dei veri e propri insegnamenti di combattimento a distanza ravvicinata.

«Di-difesa?»

Balbettai, sorpreso ed allarmato, quando Mat pensò bene di informarmi.

«Difesa... da cosa?»

Mai domanda fu più azzeccata di quella. L'occhiata, eloquente e compassionevole al tempo stesso, che mi lanciò lui, fu più dolorosa e preoccupante di una spada infilzata negli intestini.

«Non serve che ti agiti. Ti prepareranno a dovere»

Si premurò di rassicurarmi lui. Premura vana, dato che ero già fuori di testa per l'angoscia. Pensare di dover fare sfoggio delle mie ben poco innate capacità fisiche, mi fece desiderare di scomparire all'istante. Gran bella fine dell'anno, Jules! Di male in peggio.

 

Giorni dopo scoprii, con mia enorme sorpresa e contrariamente alle mie aspettative disfattiste, che invece ero decisamente predisposto, non solamente alla semplice difesa personale, ma perfino al più violento corpo a corpo. Ma fantastico! Così ora avrei continuato a rimanere un emarginato senza lavoro, ma un emarginato che sa spezzare le ossa di un uomo con precisione chirurgica. Queste sì che sono soddisfazioni!

D'accordo, lo ammetto: gli anni e le traversie hanno finito col rendermi una persona cinica e spesso insensibile, e certo il mio carattere impetuoso ed avventato non ha mai giovato ad un possibile miglioramento. Ma diciamocelo, neppure le compagnie hanno mai aiutato granché, soprattutto quelle del dopo-università.

 

Il fatto positivo – o forse fu un fatto negativo, ma all'epoca ero troppo confuso perfino per notarne la differenza - fu che, poiché la mia testa era eccessivamente presa da troppe questioni, da troppi problemi, da troppe novità, quell'anno non ebbi neppure il tempo materiale per crogiolarmi nel mio dolore tipico di San Silvestro. C'era ben altro a cui rendere conto, che non fosse il mio imminente salto d'età. Per esempio perché Daniel, uno dei giovani istruttori che si occupava dell'autodifesa delle reclute, fosse misteriosamente scomparso dalla faccia della terra da ormai più di due giorni e, stranamente, nessuno ne facesse parola.

Sembrava quasi che tutti si sforzassero di ignorare palesemente la sua assenza. Perché? Che fine aveva fatto? Forse era semplicemente andato in vacanza ma... a dire il vero, il comportamento del resto dei colleghi, mi insospettiva, convincendomi che Dany non si era affatto preso qualche giorno di ferie per tornare dalla famiglia. Che cosa poteva essergli accaduto? E perché mai a nessun altro, all'infuori di me, sembrava importare?

Quando provai a chiedere, non ottenni alcuna risposta, solo sguardi vacui o, peggio, infastiditi. Fino a quando, pochi giorni dopo, Claus, il burbero e testardo capo della sicurezza, dopo il mio ennesimo ed infruttuoso ficcanasare inappropriato, mi afferrò per il bavero della giacca, sballottandomi come uno yo-yo e piantandomi addossi i suoi occhi grigi. Sarebbe probabilmente bastato questo, per convincermi a chiudere il becco per il resto dell'anno, ma lui non si limitò ad un'occhiataccia astiosa, tenne ad inculcarmi nel cervello un insegnamento di basilare importanza – per lo meno per coloro che svolgevano quel genere attività – che tutti, più o meno inconsciamente, conoscevano e seguivano, e lo fece ringhiando a due centimetri dal mio viso.

«Nessuno fa domande, quando un collega scompare. Tutti sanno, ma solo chi ne ha il potere si muove. TU non ce l'hai! E neppure io. Quindi fa' un gran favore a tutti: stai zitto e aspetta – se ci tieni a tenerti la testa sulle spalle - Se lui sta bene, in qualche modo tornerà, altrimenti...»

Non finì mai la frase, né aggiunse altro. In fondo non ce n'era bisogno. Se Dany avesse potuto tornare, lo avrebbe fatto da sé...

 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8: 31 dicembre 1962 - Fortuitamente Tu ***


 

 

Capitolo 8

31 dicembre 1962 - “Fortuitamente Tu”

 

 

Ci sono giorni in cui, di vedere il mondo ed incontrarne i suoi abitanti, proprio non ti va. Giorni di parecchie gradazioni più scuri del solito, monotono, grigio. Neri. Come una notte senza luna. Come le sottili – e probabilmente inutili – linee di inchiostro che macchiano queste pagine bianche. Come il buio, denso e soffocante, che mi stritola il cuore, ogni mattina al mio risveglio, in special modo d'inverno, quando tutto sembra compresso e rallentato dal gelo.

 

Quello era esattamente uno di quei giorni.

I miei occhi si aprirono, nella camera in penombra. Il silenzio esterno, innaturale e sospeso, aggredì le mie orecchie.

Ero solo.

Era la vigilia di un nuovo anno – il secondo, in quella città – e tutti i miei compagni di corso e di camera erano tornati dalle loro famiglie, con le quali avrebbero trascorso le festività.

Ero solo.

Come sempre, anche se stavolta lo ero completamente. Nell'istituto, ero rimasto io soltanto e, forse, il guardiano - ma non ne avevo la certezza -

Se fossi scomparso. Se avessi avuto un incidente. Se mi fossi ubriacato, drogato... ucciso. Nessuno mai lo avrebbe scoperto, se non al ritorno in università.

Ero solo.

E, per la prima volta in vita mia, ne avevo paura.

Se fossi rimasto in camera, con tutta probabilità, questa storia si concluderebbe qui. Anzi, no! Che stupido. Non sarebbe mai stata scritta.

Essì. Lo immagino quanto la prospettiva vi turbi nel profondo. Pertanto, ne sono certo, vi farà immensamente piacere sapere che: NO, quel giorno non rimasi affatto nel dormitorio. Decisi invece, perfino contro la mia stessa volontà, che sarei uscito e, in barba ai raduni familiari così in voga nel mondo civilizzato, avrei festeggiato l'avvento del nuovo anno tutto solo soletto e... a modo mio.

 

No, non uscii con un AK-47 a trucidare mezza città. No, non feci saltare né l'università né tanto meno l'Agenzia con un esplosivo al plastico. E NO! Cazzo! Non presi parte ad un'orgia – anche se, devo ammetterlo, a posteriori un po' la cosa mi rode... almeno me la sarei potuta spassare – Invece, niente di tutto questo era nei miei programmi. In fondo, sono sempre stato un tipo abbastanza tranquillo e per niente incline agli eccessi. Quindi, onde esorcizzare lo spettro nero che si era impossessato di me, al momento del risveglio, pensai bene di trascorrere quella che si prospettava come la giornata più lunga dell'anno, in uno «sfrenato» vagabondaggio per gli angoli più snobbati e meno IN della città. L'idea di base, era di colmare la mia solitudine, visitando luoghi che, a loro volta, languivano, svuotati e silenziosi, dopo aver ceduto i propri abitanti a zone certamente più vivaci e rinomate.

Hey! Ognuno ha la propria concezione di svago, OK? Dovendo scegliere tra impiccarmi in camera mia, oppure farmi una cultura architettonica della periferia di Londra, se permettete, io scelgo la seconda. Dà sicuramente un più ampio respiro – in tutti i sensi -

 

Quello che di certo non potei immaginare fu che, ad un certo punto, passata ampiamente l'ora di cena – senza che peraltro le mie gambe fossero ancora stanche di girovagare senza meta – la mia serata prendesse una piega... imprevista.

Il mio giro di studi, venne inaspettatamente movimentato da inattesi incontri, che ancora oggi non saprei davvero se definire provvidenziali oppure catastrofici. Dal mio punto di vista, furono indubbiamente una gran scossa al placido procedere di una giornata «diversa».

 

Con la testa fra le nuvole ed il passo veloce, mi sentivo stranamente e piacevolmente leggero, privo di crucci, a tratti quasi impalpabile, con l'impressione che l'aria pungente di dicembre mi scorresse attraverso, senza essere in grado di intaccare il mio corpo. Ovviamente, si trattava solo di un'impressione. Il naso, come il resto del viso e delle mani, era rosso e mezzo congelato. Le labbra, screpolate, lasciavano passare spifferi del gelido inverno. Ciò nonostante, mi sentivo stranamente ed inspiegabilmente bene. Più sollevato. Meno oppresso dai soliti, cupi pensieri. Un fine anno incredibilmente e nettamente migliore, rispetto ai precedenti undici anni trascorsi.

 

Fu in quello stato di quasi grazia, che incappai in un imprevisto molto poco piacevole.

Distrattamente, dovevo essermi inoltrato in quartieri appena più frequentati e, per evitare la massa festante, pensai bene di percorrere le vie alternative e secondarie. Durante una di quelle deviazioni, imboccai una strada che si inoltrava nel retro di alcuni ristoranti e locali di svago. E lì, fui costretto a bloccarmi, ritrovandomi ad osservare un piccolo crocchio di quelli che, giudicai, «festaioli del fondo di bottiglia», ovvero gente che non ha la più pallida idea di cosa significhi la moderazione.

Avrei volentieri proseguito, incurante, per la mia strada, decisamente più tranquilla e piacevole. Se non fosse stato per quel riflesso rossiccio che intravidero, per un breve attimo, i miei occhi. Aguzzai la vista e lo scorsi. In mezzo a quella caotica marmaglia dondolante, c'era lui. Lo stesso ragazzo che avevo avuto la sfortuna di incontrare l'estate precedente in quel locale gremito di gente, musica ed odori strani. Non avevo dimenticato la sua pelle nivea spruzzata di lentiggini, come non avevo mai potuto scordare le sue labbra rosse dal sapore di menta – ed un retrogusto di scotch niente male, considerata la mia astemia -

La prima cosa che mi balenò in mente, fu una domanda: “Che cosa ci fa, questo ragazzo, in un vicolo umido, sul retro di quella che ha tutta l'aria di una discoteca, circondato da ubriachi persi e fumati?”. Rammentavo che le sue compagnie fossero di tutt'altro genere.

Poco dopo, ebbi modo di notare la sua espressione. Ansia, mista a nervosismo e preoccupazione. Le sue dita, serrate a pugno, facevano risaltare tendini e vene. No, quelli decisamente non potevano essere amici suoi. E di certo non davano l'impressione di volerci parlare.

Avrei forse dovuto intervenire? O sarebbe stato più saggio cambiare aria e lasciare che se la sbrigasse da solo? Osservandolo, non dava esattamente l'impressione di una persona abituata alla violenza. No, probabilmente si sarebbe fatto ammazzare. Che schifo di gente c'era in giro, mi ritrovai a riflettere, con palese disgusto.

 

«Hey, gente! Che succede?»

La mia voce risuonò, nitida e forte, tra le scure pareti del vicolo. Troppo fuori posto, per poter passare inosservata. D'altronde, era proprio ciò che volevo: distrarre l'attenzione dei presenti, dai loro dubbi passatempi.

Gli occhi verdi del ragazzo, erano visibilmente sorpresi. Mi fissarono, attoniti e... spaventati? Mi augurai di non essere io, la causa della sua paura, dato che, se ero intervenuto, era unicamente per salvare il suo bel culo dai tipi poco raccomandabili che gli stavano attorno.

«Tu..»

Accennò, bisbigliando. Ma dovette subito interrompersi, soffocato dal ringhio sghembo di una di quelle rozze e viscide creature senza un grammo di sale in zucca.

Cinque. Tanti ne contai. Sospirai, vagamente affranto. Sarebbe stata una bella faticaccia, liberarmi di loro. Ma non mi sorse il minimo dubbio su chi, alla fine, sarebbe rimasto in piedi.

Osservai, brevemente, il ragazzo che intendevo proteggere, cercando di incrociarne lo sguardo per fargli capire che stavo dalla sua parte. Sembrò cogliere al volo le mie intenzioni. Fremetti, per un attimo, sopraffatto dal suo sorriso. Da troppo tempo, oramai, nessuno mi sorrideva più in quel modo. Non ci ero più abituato

Per questo motivo, probabilmente, rimasi a fissare le sue belle labbra, impalato, senza minimamente rendermi conto del tipo che mi si era appena avventato contro...

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9: 1° gennaio 1963 - Mirages de Lune ***


 

 

Capitolo 9

1° gennaio 1963 - “Mirages de Lune”

 

 

Vent'anni e non sentirseli. A dirla proprio tutta, non erano solo gli anni che non sentivo.

All'improvviso, tutto fu silenzio e buio. Un istante dopo, tornò il rumore. Assordante.

Questa maledetta città mi vuole morto, pensai. Niente di più probabile.

Il buio, invece, era la diretta conseguenza del fatto che avevo gli occhi chiusi. Ma non me la sentivo ancora di riaprirli, non subito, almeno. Attesi un altro momento, confuso.

Mi bruciava il braccio destro. Lo toccai con l'altra mano, che scivolò su qualcosa di vischioso e tiepido. Solo allora, mi decisi a socchiudere, con prudenza, gli occhi, portandomi lentamente la mano di fronte, nel patetico tentativo di capirci qualcosa, magari anche di riconnettere il cervello che, negli ultimi istanti, pareva essersi preso una pausa caffè.

Rosse, lucide. Le mie dita erano sporche di sangue. Mio? Abbassai lo sguardo sul braccio e la risposta arrivò da sé: sì, mio. Che brutta cosa.

Vagai, ancora qualche momento, fino a che i miei occhi dorati avvistarono altre presenze umane attorno a me. Presenze che, di sicuro, non erano messe molto meglio del sottoscritto. Li riconobbi, poco dopo, come gli stessi idioti del vicolo. Con l'unica, rilevante, differenza che, ora, se ne stavano buoni buoni, stravaccati a terra. Buon per me.

Ma perché diavolo non riuscivo a fare mente locale? Qualcosa, sicuramente, mi sfuggiva. Ma cosa, esattamente, al momento non ero in grado di stabilirlo.

Provai a rialzarmi. Niente da fare. Il muro cui ero appoggiato era freddo e umido ma, evidentemente, preferibile rispetto allo stare in piedi.

Qualcosa mi sfiorò la spalla, facendomi voltare di scatto, d'un tratto pronto a difendere la mia fragile vita.

Non riuscii a muovere nemmeno un muscolo, invece, nuovamente inchiodato alla parete dallo stesso sorriso che aveva scatenato tutto quel gran putiferio.

«Hey, calma. Tutto bene»

Grugnii, in risposta. Tutto bene un cavolo, avrei tanto voluto ribattere. Peccato non mi riuscisse di spiccicare nemmeno una misera parola di senso compiuto. Non con quegli occhi verdi, che mi fissavano insistentemente, per lo meno.

«Stai bene?»

«Stavo meglio prima»

Sibilai, mentre il bruciore al braccio intorpidiva la mia attenzione.

«Non ne dubito. Non immaginavo che uno di loro avesse un coltello»

«Nemmeno io»

Si nota che non ero decisamente in vena di di parole? No? Beh, non lo ero. Avrei mille volte preferito una vasca piena di acqua calda e bagnoschiuma profumato. Ma tant'è, in quel frangente non era evidentemente fattibile.

«Sei stato davvero... WOW!»

«Già, wow», replicai sarcastico.

«No, volevo dire che... Cavolo! Sei stato velocissimo e...»

«Sssì... Forse non l'hai notato, ma uno dei tuoi amici mai ha piantato un coltello nel braccio. Altro che veloce»

Per un attimo immaginai, fin troppo vividamente, il ghigno di scherno di Mat. Mi sarebbe tanto piaciuto prendere a calci anche lui, in quello stesso istante, solo per essere comparso a tradimento e senza invito nei miei pensieri.

«Non sono miei amici»

La sua voce, secca e leggermente metallica, mi distolse dalle mie elucubrazioni. Lo fissai. Dovevo avere un aspetto veramente terribile, perché lo vidi rabbrividire e pensai fosse una forma di ribrezzo.

«No, non lo sono. Sono solo un tantino stanco, non ti volevo offendere»

Eccolo di nuovo. Avrei anche potuto farci l'abitudine, al suo sorriso. Si chinò al mio fianco.

«Ci credo che sei stanco. Ce la fai ad alzarti?»

«Forse..»

Sarebbe stato davvero bello, lasciare che mi aiutasse. Ma ero anche piuttosto terrorizzato. Quindi bloccai, con un gesto secco, il suo tentativo e, in qualche modo, riuscii a rimettermi in piedi, sbuffando come una locomotiva a vapore.

«Abiti lontano?»

Tornò alla carica lui, un momento dopo. Mi venne quasi da ridere. Il pensiero che potesse apparire un pochino sconveniente e fuori luogo, fu l'unico, vero motivo che riuscì a trattenermi dal farlo.

«Abito più o meno dal lato opposto della città»

Lo osservai sbiancare – per quanto la sua pelle lunare potesse permettere -

«Oh porca... Allora, forse, dovresti passare al pronto soccorso per farti vedere...»

Decisi, magnanimamente, di risparmiargli inutili parole e fiato prezioso, interrompendolo con decisione.

«Non credo. È solo un taglio, niente di più. Ma grazie per la preoccupazione»

Tagliai corto. Stavo giusto manovrando goffamente per abbandonare la ribalta, alla fine dello squallido spettacolino che era andato da poco in scena, quando il mio – insistentissimo - compagno di disavventure, mi si parò coraggiosamente di fronte, con un cipiglio che, nei suoi piani, avrebbe probabilmente dovuto sembrare risoluto, ma che invece mi fece sorridere.

«Dimmi tutto»

Sospirai stancamente, ormai rassegnato all'idea di starlo ad ascoltare.

«Tu non puoi andartene in giro per la città conciato così!»

«No, eh?», replicai, divertito.

«N-no...»

Balbettò, molto meno sicuro. Poi, gonfiando il petto come un piccolo, delizioso galletto, aggiunse;

«Ti porto a casa mia».

OK, ero sorpreso. Ammetto che questa, decisamente, non me l'aspettavo. Mi chiesi dove avesse la testa, per invitare un quasi perfetto sconosciuto, imbrattato di polvere, fango e sangue, a casa propria. Forse, dopotutto, sarebbe stato meglio lasciarlo nelle “amorevoli” manacce della gentaglia che ora sonnecchiava nel vicolo. Di certo avrebbe imparato un'importante lezione, che gli sarebbe sicuramente servita in futuro – sempre che fosse rimasto vivo -

«Ma stai scherzando?», chiesi a quel punto, mezzo allucinato.

«No. Ovvio che no»

«Dico, sei scemo?!»

Le sue guance si colorirono di un'adorabile sfumatura color pesca.

«Nemmeno», borbottò, indignato.

«Allora sei fuori di testa. La mamma non ti ha insegnato a non dar retta agli sconosciuti?»

«HEY! Non prendermi in giro, brutto... brutto...»

«Cosa?»

«Ahrrr! Al diavolo. Finiscila di startene lì impalato a ridere di me!»

Poi mi afferrò per il braccio – quello sano – trascinandomi via dal vicolo, senza altre parole né spiegazioni...

 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10: 1° gennaio 1963 - Di noi due ***


 

 

Capitolo 10

1° gennaio 1963 - "Di noi due"

 

 

«Come ti chiami?»

«Jules... Ti sto sporcando l'auto»

Fece spallucce, «La laverò. Io sono Christopher... preferirei Chris, però»

«Ovviamente»

«Che vuoi dire?»

«Nulla. Non farci caso»

«Sei francese?»

«Così dicono»

«E sei di poche parole»

«Non mi piacciono le domande. È diverso»

Si mise a ridere, ed io scordai ciò a cui stavo pensando per concentrare tutta la mia attenzione sul suono che produceva la sua risata.

«Scusami. Sai, dev'essere una sorta di deviazione professionale, la mia. Studio giurisprudenza»

Mio malgrado, feci una smorfia. Gli avvocati non sono mai stati la mia passione, né hanno mai fatto parte delle mie più sfrenate fantasie.

«Capisco»

Mi limitai a dire, asciutto e senza inflessioni particolari.

 

«Io non ti piaccio»

Non era neppure una domanda. Come un idiota, mi ritrovai ad arrossire.

«C-cosa te lo fa pensare?»

Fantastico! Ora balbettavo anche.

«Uh, beh... Magari il fatto che parli a monosillabi. O il modo in cui mi guardi, un po' di traverso. O...»

In verità, lo osservavo con la coda dell'occhio per evitare di apparire eccessivamente sfacciato. L'idea che potessi ottenere l'effetto contrario, non mi aveva neppure sfiorato. Fino ad ora. Nel frattempo, perso nei miei pensieri, finii per dimenticare di ascoltare il resto della sua spiegazione, salvo poi ritrovarmi di nuovo addosso il suo sguardo indagatore.

«Nessun commento?»

«Uh?...»

«Dovrei aggiungere un bel:«Non si premura di ascoltare ciò che dico», alla sfilza di accuse a tuo carico»

«Accuse?»

Chiesi, preoccupato, nemmeno accorgendomi del tono ironico usato.

«Perché mi hai aiutato?»

Oddio, ma cos'era? Un interrogatorio?!

«Eri nei guai»

«Ah, certo. Immagino che ogni giorno ti fermi a salvare sconosciuti, giusto?»

Ora basta. Aprii la portiera, deciso a cambiare aria - scendendo da un'auto in corsa? Una bella trovata dell'ultimo momento per ammazzarsi - Per fortuna, mia e sua, Chris frenò - un po' bruscamente - e mi ritrovai direttamente sul cruscotto, impossibilitato, per cause di forza maggiore, a mettere in pratica i miei propositi di fuga.

«Che cazzo volevi fare?!! Sei fuori di testa!»

«Forse»

Mi limitai ad assentire, osservandolo in tralice, intento a soppesarlo.

L'avevo spaventato e, stranamente, non ne ero minimamente pentito né dispiaciuto. Sorrisi e, forse, dato lo scarso allenamento, ciò che ne risultò fu piuttosto un ghigno sbilenco.

«Spero che tu abbia finito con le domande»

La mia apparente tranquillità, stonava decisamente con la sua espressione sconvolta. Chissà, forse ora iniziava a capire di aver commesso un errore, decidendo di trascinarmi con sé. Meglio tardi che mai.

 

Avrei preferito la famosa vasca di acqua calda e profumata. Ma la doccia, in quel caso, andava più che bene.

Mi sfuggì una smorfia, quando l'acqua prese a scorrere sul braccio ferito. Il taglio era più grosso di quanto avessi immaginato, ma anche meno profondo. Avrebbe impiegato meno tempo a guarire. Lo ripulii con cura e passai il resto del tempo godendomi la mia meritata doccia.

 

Ero intento a stringere le garze attorno al braccio, quando la sua voce, improvvisa ed inattesa, mi fece sussultare.

«Grazie»

Lentamente - per dare tempo al mio cuore di ritrovare un battito più regolare - sollevai gli occhi su di lui, fissandolo dubbioso.

«Di che parli?»

Arrossì. Oh cielo, perché mai doveva essere, per forza, così carino?

«Non... ti ho nemmeno ringraziato per... quello che hai fatto»

«Tipo tentare di buttarmi giù dalla tua macchina?»

«NO!! Scemo. Intendo per quel casino sul retro del club»

«Ohh... Figurati»

 

«Non lo hai fatto per quella storia della scorsa estate, vero?»

Che tipo insistente! Ma non era meglio quando stava zitto e si limitava a sorridere? Sbuffai, esasperato.

«No, io passo così il mio tempo libero», sbottai, sarcastico.

«Senti...?»

«NO. Chris, ti prego. Mi fa male la testa. Mi fa male il braccio. Sono stanco morto e ho anche una fame assurda. Ne ho abbastanza di ascoltare stronzate.»

D'accordo, forse un po' troppo duro. Ma provate un po' a mettervi, anche solo per un secondo, nei miei panni. Poi ne riparliamo, va bene?

 

Scomparve, alla vista ed all'udito, per un tempo che non seppi definire. Credo, nel frattempo, di essermi anche assopito. Questo almeno finché non fui bruscamente riportato alla realtà da uno strillo. CHE DIAVOLO?! Partii immediatamente in una rapida ispezione di quella casa, ancora troppo sconosciuta, ritrovandomi infine ad osservare, attonito, il mio gentile ospite intento a leccarsi un dito, con i lacrimoni agli occhi. Per un soffio mi trattenni dallo scoppiargli a ridere in faccia. La sua espressione era troppo buffa.

«Che combini stavolta, signor avvocato?»

«Hai detto di avere fame. Cucino... o almeno... ci provo. Ma, ehr...»

Una rapida occhiata al macello prodotto, fu più che sufficiente.

«Con scarsi risultati, noto»

Sbuffò. Ma, quando varcai la soglia e mi rimboccai le maniche per salvarlo - per la seconda volta - si fece rispettosamente da parte, rimanendo a guardarmi in silenzio.

 

«Sei bravo a cucinare»

Bofonchiò a bocca piena, mentre eravamo seduti a tavola, intenti a fare onore ai risultati dei miei sforzi culinari.

«Grazie»

«Hai imparato da solo?»

Stavo per rispondergli per le rime ma, ancora una volta, saggiamente, mi trattenni. Sospirai, sconfortato, pensando fra me e me: «Non imparerà mai a chiudere il becco». Invece, mi sforzai di offrirgli una spiegazione che, mi auguravo, lo soddisfacesse.

«No. Me lo ha insegnato un'amica. Molto tempo fa, quando...»

Quando ancora vivevo in un mondo che comprendevo e che mi comprendeva, stavo per aggiungere. Ma decisi, per questa volta, di tacere...

 

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Capitolo 11
*** Capitolo 11: 27 febbraio 1963 - Guai all'orizzonte ***


 

 

Capitolo 11

27 febbraio 1963 - "Guai all'orizzonte"

 

 

16:30. Due intere ore, trascorse fingendo di sonnecchiare, con gli occhi fissi sul soffitto crepato, nell'attesa che si facesse l'ora giusta per uscire. Quella sera ci sarebbe stato Patterson. Ogni tanto mi veniva la tentazione di chiedere a lui, come risolvere certi problemi. I MIEI problemi, per una volta, invece di quelli degli altri. Ma il suo sguardo, nero ed apparentemente senza fondo, non concorreva a mettermi a mio agio. Non abbastanza da portare allo scoperto certe mie faccende personali, per lo meno.

 

Stavo diventando irrequieto. Era un periodo frenetico, in effetti, senza molto tempo per prendere un respiro. Inoltre, la consapevolezza che, fra meno di due settimane, questa gente fuori di testa avrebbe deciso dove piazzarmi e, soprattutto, con chi, mi mandava in totale paranoia. Non ero per nulla certo di ciò che avrei dovuto aspettarmi

Odio l'incertezza. Odio non avere il controllo. Odio svegliarmi la mattina, con il terrore di non sapere dove mi addormenterò - e se avrò la fortuna di risvegliarmi - Ed infine, odio loro, primo su tutti il "caro" signor Thompson.

«Ti odio! Mi hai sentito?! Non me ne frega niente di dove tu sia ora, ma sappi che ti detesto con tutto il cuore, da sempre e per sempre»

Bah, tanto è perfettamente inutile. Se non mi può sentire, a che scopo inveire contro di lui? Non è certamente DIO - grazie al cielo, aggiungerei -

 

«July! Come andiamo?»

Dannato. Quella sera mi fece prendere un colpo.

«Non mi chiamo July... Jules, Jules, JULES!! Che cazzo. È così difficile, per voi inglesi, pronunciare i nomi per quello che sono?!»

«Uhh... Siamo nervosetti, eh?»

Rise. Ahh, che voglia di spaccargli la faccia.

«Tsk!»

«Preoccupato?»

«Non sono affari tuoi, Matthew»

Sibilai, scandendo di proposito il suo bel nome, ben sapendo quanto la cosa lo irritasse.

«Lo sono invece. Dimentichi che ho delle responsabilità sui miei ragazzi»

«E allora vai a fare loro da balia e lasciami in pace. Io NON sono un tuo ragazzo»

 

Ciò che più di tutto detestavo, in lui, era la sua freddezza. Così difficile, da scalfire. Sembrava fatto di marmo. Potevi ricoprirlo di insulti, tentare di sterminare la sua famiglia, far saltare in aria casa sua, la sua auto, il suo cane, dar fuoco al suo conto in banca, e tutto quello che ne ricavavi era uno sbuffo ironico e mezzo divertito o, tuttalpiù, un sopracciglio che si sollevava irritato. Ma che razza di essere umano era? Possibile che non avesse sentimenti? Possibile che fosse del tutto senza cuore?

Quella volta, ad esempio, tutto ciò che ottenni, dopo la mia piccola sfuriata, fu una leggera risata divertita. Niente di più. Come se le mie parole non avessero la forza di toccarlo. O peggio, come se nemmeno le avesse sentite.

 

«Non hai nulla di cui preoccuparti»

Mi disse invece, aggiungendo poi, con tutta tranquillità;

«Andiamo ora, o finirai col fare tardi a lezione»

Lo fissai, interdetto, con un dubbio che andava gonfiandosi nel mio cervello. Mi sorvegliava? C'era qualcosa, di ciò che facevo, di cui lui non fosse a conoscenza? Deglutii, d'un tratto decisamente nervoso. Ma annuii, seguendolo comunque, in silenzio. Se anche avessi avuto ragione, quello non era proprio il momento per fare domande né, tanto meno, pericolose scenate.

 

«Come vanno gli studi?»

«Gli... studi?»

Chiesi, con circospezione, osservandolo discretamente, mentre sentivo il mio cuore accelerare il proprio ritmo.

«Architettura, se ricordo bene»

Bugiardo. Non hai nessun bisogno di ricordare. Lo sai benissimo quello che studio, pensai, guardandomi bene da lasciar trapelare i miei pensieri. Invece abbozzai un sorriso, più finto di una bambola gonfiabile.

«Vanno bene. Credo che riuscirò a sostenere tutti gli esami previsti entro l'anno»

«Bene, sì... Uhm...»

Ahi! Guai in vista.

«Ci sarebbe una questione, in effetti, di cui ancora non abbiamo avuto modo di discutere. E spero che non ti creerà problemi con l'università»

Ed ecco un'altra cosa che, di lui, detestavo: l'innata capacità di far venire il panico a chiunque, con poche, semplici parole, creando insicurezze capaci di espandersi ed ingigantirsi come enormi voragini.

«Di cosa si tratta?»

Provai così a domandare, nonostante fossi consapevole che non avrei comunque ottenuto alcuna risposta, soddisfacente, ai miei dubbi.

«Sì... Si tratta del nostro... uhm... lavoro. Diciamo che potrebbe portarti via un po' di tempo...»

«Quanto tempo?»

Lo interruppi, bruscamente.

«Vedi, è difficile quantificarlo...»

«Finirò fuori corso?!»

Non riuscii a trattenermi dal ringhiare. La prospettiva mi irritava enormemente. Con tutti i sacrifici fatti, fino a quel momento, per tenermi al passo, ora tutto rischiava di venire vanificato da questo... questo...

«Spero di no, ma... è possibile»

... Schifo di pseudo-lavoro part-time, altamente sopravvalutato ed altrettanto altamente sottopagato.

«Ho intenzione di laurearmi nei tempi previsti»

Affermai, con più sicurezza di quanta in realtà possedessi.

«Ne sono convinto, e mi dispiace»

Non era affatto vero! Era un'altra maledetta menzogna. Non facevi che mentirmi, in ogni momento! Perché?! Perché, semplicemente, non potevi dirmi: «Prenderemo la tua vita e ne faremo ciò di cui abbiamo bisogno»? Perché è questo quello che succede con voi. È questo, ciò che successe... con me...

 

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Capitolo 12
*** Capitolo 12: 8 marzo 1963 – Ghiaccio ***


Capitolo 12

8 marzo 1963 – "Ghiaccio"



«La Commissione ha stabilito il reparto a cui verrai assegnato»

Senza nemmeno consultarmi? Riflettei, limitandomi però ad annuire. Lo interpretò, evidentemente, come un'autorizzazione a proseguire.

«Verrai convocato di fronte al Consiglio, probabilmente già domani sera, che si premurerà di informarti di ogni dettaglio»

Si premurerà? Cos'è: uno scherzo? Neppure si sono presi la briga di interpellarmi, ed ora si premurano di ragguagliarmi su quello che LORO hanno già deciso per me.

Tutto questo, ovviamente, rimase nella mia testa. Forse, solo le ombre scure che velavano i miei occhi chiari, potevano, in qualche modo, dare un'idea di quali realmente fossero i miei veri pensieri.

«Ci sei, ragazzo?»

«Non sono un...», sospirai, sconfitto, «... Sì, ci sono»

«Hai capito cosa ho detto?»

«Sì. Sai, non sono stupido»

Le sue labbra si incresparono in un ghigno sinistro.

«Questo lo so. Perché credi che ti abbia scelto, altrimenti?»

E chi lo sa? È la stessa, identica, cosa che mi chiedo da anni. Ovviamente, nessuna soluzione all'orizzonte. Solo altre nuvole di tempesta, che si avvicinano, minacciose, ogni giorno di più.


Ciò che mi dissero - una volta entrato nella vasta sala riunioni ed aver atteso un buon quaranta minuti, che qualcuno si facesse vivo – rappresentò, per il sottoscritto, qualcosa di molto simile ad una sentenza, se non di morte, per lo meno di condanna a vita. Questo, di certo, non servì a rallegrarmi. Già il semplice sentire, dalle loro bocche, il nome di colui al quale sarei, presto, stato affiancato, così da apprendere, all'atto pratico, il necessario per svolgere degnamente l'incarico - e sopravvivere all'incarico stesso - fu decisamente un duro colpo.

Era sufficiente guardarlo in faccia, per comprendere che, uscirne vivi, non sempre era la soluzione migliore.

Lui, il mio nuovo "tutore" ed insegnante, rispondeva al nome di Derek Marlow. Derek - anche se, da quelle parti, tutti erano soliti chiamarlo W. - aveva solo trentuno anni. Solo perché, normalmente, o sei molto giovane, e con la poca esperienza che possiedi è un vero miracolo superare i trent'anni, oppure ti sei guadagnato il sacrosanto rispetto che meriti, dopo aver raggiunto, più o meno incolume, la veneranda età di quarantacinque/cinquant'anni, avendo quindi un gran mucchio di cose da insegnare - e vagonate di storie da raccontare -.

W. non era né l'uno né l'altro. Ed in ogni caso, difficilmente si perdeva in spiegazioni, a suo parere inutili. Preferiva invece dimostrarti, nei fatti, come agire nel migliore dei modi. Se poi avevi la somma fortuna - o la disgrazia - di sopravvivere, giudicava che dovevi aver ben appreso e che, quindi, eri perfettamente idoneo e pronto per svolgere quel lavoro. Solitamente, strano a dirsi, il suo metodo risultava pressoché infallibile - a patto di accettarne le inevitabili perdite -


Trentadue anni portati splendidamente, fra le altre cose. Se non fosse stato uno stronzo - ed un tantino violento e sanguinario... ma questi, ovviamente, sono dettagli - l'avrei persino giudicato bello. Affascinante, lo era di sicuro. Ma, al tempo stesso, il suo aspetto inquietava. Quei capelli, lunghi e neri, così simili ad ali di corvo, contrastavano troppo con gli occhi azzurri, così chiari da sembrare ghiaccio. E non sorrideva mai, neppure per sbaglio - nemmeno nel sonno, ed io posso dirlo: l'ho osservato molte volte dormire - Insomma, dava i brividi, in tutti i sensi.


«Mat dice che sei in gamba»

Lo scrutai, con istintiva diffidenza.

«Mat dice un sacco di cose. Se solo la metà di ciò che afferma, corrispondesse a verità, sarebbe un mondo migliore»

Perché dissi una cosa simile? Ma soprattutto: perché proprio a Derek? Nemmeno lo conoscevo. Il nostro primo scambio di battute e già avrei potuto guadagnarmi tre metri di terra sopra la mia testa bacata ed impulsiva.

A sorpresa, invece di staccarmela - la testa - annuì.

«Sono d'accordo. Però, in questo caso, ho il dubbio che abbia ragione lui»

Per un istante, forse troppo breve, fui libero da quell'agitazione che fino ad un momento prima mi aveva stritolato lo stomaco. Ciò nonostante, non mi azzardai a trarre un sospiro di sollievo. Mi limitai, invece, a fare spallucce, replicando prontamente;

«Tutto è possibile. Sarebbe, però, il caso di accertarsene, prima di fare promesse azzardate»

I suoi occhi freddi mi scrutarono, dubbiosi ed al contempo incuriositi.

«Non ho mai fatto promesse in tutta la mia vita. E tu sei qui proprio per questo: per permettermi di capire se ciò che sembra è reale»

Questa volta fui io ad annuire. Finalmente qualcosa era chiaro. Un barlume di vera comprensione si profilava nel buio orizzonte.

«D'accordo, allora. Da dove si comincia?»

Sollevò un sopracciglio, nero e sottile sulla pelle d'avorio.

«Hai fretta?»

Lo fissai, senza capire, «Fretta? Solitamente no. In realtà, presumo dipenda tutto da ciò che mi attende»

«Dimentica la fretta, allora. A meno che tu non desideri lasciare il tuo posto ad un altro ragazzo particolarmente dotato».


Come sapeva metterti a tuo agio W., nessun altro era in grado di farlo.

Esattamente in quel momento ritornò, prepotentemente, l'agitazione.

A volte fu paura, altre insicurezza, altre ancora panico. Una cosa è certa: da quel momento, non mi riuscì più di liberarmi da quella sgradevole sensazione. Perfino ora, a distanza di anni, ho l'impressione che un'ombra di ignoto ed indefinito gravi sul mio cuore e sulla mia mente. Non so neppure spiegarmene il senso, né il motivo. Ma sento che non è ancora finita, che qualcosa deve ancora accadere. Questa continua ansia, prima o poi, finirà col farmi impazzire...

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Capitolo 13
*** Capitolo 13: 30 maggio 1963 - Sono qui ***


 

 

Capitolo 13

30 maggio 1963 - "Sono qui"

 

 

«Ti sto dicendo che non ho tempo!»

«Jules, tutti hanno quindici minuti liberi. Perfino i carcerati... E tu non lo sei»

«Non ancora. Ma aspetta e vedrai»

Borbottai, sfinito, all'apparecchio telefonico.

«Andiamo, sembri stanco... E non riesco a vederti da quasi un mese ormai. È solo un quarto d'ora, cazzo! Possibile che tu non abbia neppure la possibilità di ritagliarti pochi minuti per te... per noi?»

«Chris...»

«Sì, lo so. Non me lo dire: ti dispiace»

Sospirai. Perché mai dovevo sentirmi sempre in colpa? Come diavolo ci riusciva?

«D'accordo... OK: quindici minuti»

«Sì?!»

Potevo sentirlo sorridere, perfino oltre quel filo sottile che c'era tra me e lui.

«Sì, però...»

«Però?», mi incalzò, preoccupato.

«Credo che dovrai venire tu. Potremmo... scendere al caffè qui sotto, forse», proposi titubante.

«Non c'è problema!! Arrivo subito! E... grazie»

«Di che cosa, questa volta?»

«Non ne sono certo. Forse credevo che non avrei ottenuto nulla...»

Rise. Mi era davvero mancata la sua risata allegra, nell'ultimo mese.

«... Sei difficile. Perfino più dei clienti dello studio in cui faccio il tirocinio»

Per la prima volta, da settimane, anche io potei concedermi un sorriso.

«Lo prenderò come un complimento»

«Lo è, amico. Le sfide mi avvincono. Amo lottare per ciò che desidero».

Allora ti sei scelto proprio la persona giusta, pensai. Ma ritenni più opportuno tacere.

 

«Sei pallido»

Mi disse, mormorando, non appena ci fummo accomodati al piccolo tavolino che dava sulla trafficata via principale.

«Lo sei anche tu. Ma non ricordo di essermene mai lagnato», feci garbatamente notare.

«Io sono sempre pallido. È il colore della mia pelle. Tu invece sei quasi della stessa sfumatura dei fogli di carta che ricoprono la mia scrivania... e i miei libri»

«Dovresti pensare di pagarti una domestica»

Lo presi in giro, guadagnandomi una smorfia contrariata.

«Poi a Sarah lo dici tu, che un'altra donna si aggira per casa, con la scusa di rassettare»

«Non ci contare. Se poi quella mi ammazza, mi avrai sulla coscienza a vita»

«Sarah non ti ucciderà»

«No?»

«No. Glielo impedirò io»

«Confortante»

Commentai, ben poco rassicurato. Probabilmente avrebbe fatto a pezzettini anche lui - per sbaglio, ovviamente, visto che lo amava -

 

«Raccontami qualcosa»

Arricciai il naso, «Non ho tutto questo tempo»

I suoi occhi verdi mi fissarono a lungo, indagatori.

«Ci sono cose che non mi vuoi dire. Non ne capisco il motivo. Non riesco a capire se è solo la tua allergia alle domande, se sono io che ti ispiro poca fiducia, se ciò che nascondi è, magari, qualcosa di cui ti vergogni o... che diavolo ne so!»

In fondo, ne ero consapevole: Chris aveva ragione. Ma sapevo anche che, parlargli della mia doppia vita, non sarebbe stata la scelta migliore. Ci sono cose che, forse, è meglio tenere per sé. E ciò che occupava una fetta consistente delle mie giornate - e monopolizzava il mio tempo libero, così come la mia stessa esistenza - era esattamente una di quelle cose.

«Non me la sento»

Ammisi, semplicemente, senza altre spiegazioni. I suoi occhioni, che mi osservavano, preoccupati e dispiaciuti, erano una vera e propria tortura. Non avrei retto a lungo quella situazione asfissiante.

«C'è qualche problema, Jules? Sei nei guai? Forse...»

«Devo andare»

Lo interruppi seccamente, guadagnandomi l'ennesima occhiata smarrita.

«Scusami»

Aggiunsi allora, con l'intento di farmi perdonare la mia apparente scontrosità.

Ero già quasi alla porta del locale, quando la sua voce tornò a riempirmi le orecchie.

«Aspetta...»

Decisi di accontentarlo, di nuovo, ed attesi, ben sapendo che sarebbe stato un errore, l'ennesimo.

«Ti ascolto», dissi, invece.

«C'è qualcosa che ti turba. Questo lo vedo e... posso anche capire che tu non abbia nessuna voglia di parlarne. Però... N-non dimenticarti di me...»

Ridacchiai. Nonostante la situazione, non potei farne a meno.

«Come potrei mai, uh?»

Mi rifilò un pugno sulla spalla.

«Idiota. Sai benissimo di cosa sto parlando»

«Ah sì? E di cosa?»

Giocai, crudelmente, con lui. Spazientito, sbuffò.

«Certe volte sei proprio insopportabile, lo sai? Ti sto dicendo che, se mai avessi bisogno di aiuto, potrai rivolgerti a me... Sempre»

Annuii, regalandogli un piccolo sorriso.

«Lo so. Me lo ricorderò, promesso».

 

Prima che la situazione peggiorasse, diventando insostenibile, sgusciai via, varcando quella benedetta porta. Tornai, con decisione, alla mia vita, ai miei pensieri, ai miei problemi. Tornai a cacciarmi diritto nella tana del lupo...

 

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Capitolo 14
*** Capitolo 14: 6-7 agosto 1963 - Accadde una sera ***


 

 

Capitolo 14

6-7 agosto 1963 - "Accadde una sera"

 

 

Caldo. A malapena riuscivo a respirare. Ammetto, però, che le mie difficoltà non erano legate unicamente alla canicola estiva di quell'anno. La sera precedente, avevo avuto un piccolo problema... OK, non tanto piccolo. In ogni caso, l'infausto risultato furono due costole incrinate ed una dozzina di punti sul fianco sinistro. Dopo aver trascorso gran parte della notte in ospedale, a farmi rattoppare - in modo anche piuttosto approssimativo - ed a desiderare ardentemente una stanza silenziosa, sopraffatto dal frastuono di decine di voci differenti, tutte incuranti del fastidio provocato ai degenti, finalmente all'alba - è proprio il caso di dirlo - delle 4 di mattina, ottenni il permesso - troppa grazia - di tornarmene a casa.

 

Derek, incredibilmente, si offrì perfino di accompagnarmici in auto. Ma, non appena accennò ad avvicinarsi troppo, gli ringhiai contro e me ne andai dalla parte opposta. La strada era lunga, ed io non ero esattamente nelle condizioni di affrettarmi. Per questo, ci misi quasi due ore, solamente per raggiungere il mio sospirato alloggio. Certo, avrei potuto accettare la sua offerta o, in alternativa, pagarmi un taxi che mi portasse a casa. Ma avevo bisogno di tempo - per capire - e di aria - anche se si trattava dello smog di Londra -

 

Alle 7:00 fissavo, nuovamente, il nulla. Ancora incapace di comprendere davvero, di darmi una spiegazione seria, che reggesse. Avrei potuto lasciarci la pelle, la sera scorsa. Perché? Qualcosa era andato tremendamente storto. Ma che cosa? Perché mi ero cacciato in quel guaio? Perché mai ero stato così stupido ed ottuso da non vedere la realtà dei fatti?

Buffo. Solo un anno prima, mi sarei rallegrato del fatto di avere una buona scusa per finire al cimitero. Ma ora era diverso. No, non ci stavo più a farmi ammazzare. Non senza un buon motivo. No, dovevo sapere. VOLEVO sapere. Era un mio diritto, dopotutto! Oh no?

No, non lo era. Evidentemente, non avevo alcun diritto di conoscere i motivi che muovevano l'Agenzia. Ero poco importante, per non dire insignificante. Ovviamente, per quelle persone, rappresentavo unicamente un burattino da manovrare, niente di più di un semplice operaio. In sostanza: sacrificabile.

Nell'istante stesso in cui l'idea si insinuò nella mia mente, ebbi - finalmente? - una visione chiara, ed agghiacciante, di ciò che, con buona probabilità, mi sarebbe accaduto un giorno, forse già domani, forse fra qualche mese o fra qualche anno. Ma, prima o poi, sapevo sarebbe accaduto. Non riuscii ad impedirmi di tremare al pensiero, gemendo allo stesso tempo, per il dolore che inavvertitamente mi ero causato.

 

Che fare, ora? Ora che tutto era divenuto più chiaro? Di certo, non potevo semplicemente scrivere una bella lettera di dimissioni ed andarmene, come se niente fosse. Loro non me lo avrebbero permesso. Avevano investito tempo e denaro su di me, ed avrebbero accettato di perdere sia gli uni che l'altro, solo nel caso in cui fossi deceduto, non certo per mio volere.

«Jules... che guaio»

Gemetti nuovamente. Non avevo idea di cosa fare, di come comportarmi. E, sì: avevo paura. Paura per me, ma anche per le - poche - persone che avevo imparato ad amare in quel poco tempo.

 

Nel mezzo delle mie angosciose riflessioni, qualcuno bussò alla mia porta. Sospirai. Non avevo proprio voglia di vedere gente. Per un attimo, pensai di far finta di nulla. Poi, chiunque ci fosse dall'altra parte, bussò nuovamente, ma questa volta non si limitò a questo, parlò anche.

«Jules... Lo so che sei lì dentro. E so anche che sei sveglio e puoi sentirmi. APRI... per favore»

Chris. Quell'uomo non conosce la parola riservatezza.

«Chris... Sono stanco...»

«Lo so che sei stanco...», mi interruppe, «... Non voglio disturbarti. Voglio solo sapere come stai. Voglio solo... vederti»

Di nuovo sospirai, scuotendo piano la testa, come sempre sconfitto in partenza.

«D'accordo. D-dammi... un minuto»

Lo pregai. Sì, un minuto. Nemmeno in mezz'ora, sarei riuscito a combinare qualcosa di utile. Mi sollevai, a fatica - e con immenso rammarico - dal comodo materasso, arrancando poi fino alla porta e facendo scattare la serratura. Avevo l'affanno, solo per aver percorso quei miseri tre metri e poco più. Lui mi fissò, per un lungo momento. Le sue labbra si mossero. Sapevo che stava per dire qualcosa, ma lo anticipai.

«Non dire nulla, per favore. Sono già abbastanza distrutto di mio»

Lentamente mi spostai, per farlo entrare, e... rimasi attaccato alla porta. Improvvisamente, ebbi la certezza che, se me ne fossi staccato, molto probabilmente mi sarei ritrovato spiaccicato a terra. La cosa non mi andava per niente. D'altra parte, ero perfettamente consapevole di non poter passare tutto il giorno appeso alla maniglia.

Gemetti, sconfortato. Chris mi lanciò un'occhiata, dapprima dubbiosa, ma che ben presto assunse una sfumatura visibilmente preoccupata.

«Jules... tutto bene?»

Non trovai la forza di rispondere. Unicamente un grugnito, mezzo strozzato, fu il misero commento alla sua più che giustificata domanda. Lo fissai. L'urgenza del momento era ampiamente ostacolata dall'incapacità di pronunciare anche una sola sillaba. Strinsi più forte la maniglia, riponendo le mie esili speranze nel notevole intuito del ragazzo che mi stava accanto in quel momento.

Di qualunque divinità si trattasse, la ringraziai con tutto il cuore, quando sentii, oltre all'assordante ronzio nella mia testa, un paio di braccia che avvolsero il mio corpo, impedendogli di cedere alla forza di gravità. Avrei voluto essere di aiuto, ma tempo qualche secondo il collegamento fra il mio cervello ed il mondo esterno si spezzò, precipitandomi nel buio più totale, senza suoni né forme, né odori o luci.

 

Quando i miei occhi si riaprirono, non vidi nulla, ed ebbi paura.

«C-Chris...», mormorai, spaventato.

«Sono qui. Va' tutto bene»

D'istinto, a quella risposta decisamente insensata alle mie orecchie, mi venne da ridere. Subito, però, la mia impulsività venne punita da dolorose fitte che, dal mio corpo, schizzarono direttamente al cervello, facendomene pentire amaramente.

«Cos'è successo?»

Chiesi, troppo spaesato e confuso per ricordare. Mi guadagnai una risata divertita - e, dal mio punto di vista, decisamente fuori luogo.

«Questo, a dirti la verità, avrei voluto chiedertelo io. Ma tu hai pensato bene di svenirmi fra le braccia, e da allora sono qui, a bocca asciutta, a girarmi i pollici ed aspettare che il tuo cervellino torni a funzionare... sempre che lo abbia mai fatto»

Mugolai, indispettito ed un po' offeso per la sua battuta di cattivo gusto, dato il pessimo momento.

Mi riservai ancora qualche minuto, per tentare di riprendermi e radunare le poche idee rimastemi.

«Io non...»

Stavo giusto per provare a spiegare che non ero per niente sicuro di cosa fosse successo. Venni però bloccato sul nascere dai suoi, ormai famosi, controinterrogatori.

«Che cosa è successo, Jules? Ti ritrovo, dopo settimane, più morto che vivo. Ti rifiuti di dirmi cosa ti preoccupa. A volte sembra quasi che tu voglia evitarmi. Jules... sei nei guai? Puoi... p-puoi parlarmene...»

«No»

Non potei vedere la sua espressione. Cercando di proteggere, nello stesso momento, sia me stesso che lui, avevo arbitrariamente deciso di ignorare la sua curiosità, per quanto mi fosse possibile. Ovviamente, feci male i miei calcoli. Infatti, poco dopo, lo sentii mugolare, con voce tremante.

«Non ti fidi di me?»

Così, con l'intento di frenare i suoi viaggi mentali e le sue incalzanti paranoie, mi affrettai a spiegare.

«No, non mi fido di loro»

Evidentemente, non risultai poi così chiaro come invece avevo sperato, tant'è che tornò alla carica con l'ennesima domanda.

«Loro chi?»...

 

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Capitolo 15
*** Capitolo 15: 7 agosto 1963 - Domino di sorprese ***


 

 

Capitolo 15

7 agosto 1963 - "Domino di sorprese"

 

 

«Loro chi?». Bella domanda. Non ero però sicuro di poter fornire una risposta altrettanto valida. Ed in fondo, anche se avessi saputo esattamente cosa dire, molto probabilmente non avrei potuto permettermelo. Mi trovavo in un maledetto circolo vizioso, dal quale era arduo ritrovare una via d'uscita. O per lo meno, una via che prevedesse ancora molti anni di vita futura.

«Jules...»

«Non voglio che ti succeda qualcosa di brutto. La... gente per cui lavoro, è troppo imprevedibile e... potrebbe diventare pericolosa, se pensasse che tu possa rappresentare una minaccia. Non permetterò che accada. Non voglio perdere un'altra persona che amo»

Sentivo l'aria mancarmi. Mi sentii così inutile. Ma avrei fatto qualunque cosa, pur di proteggere coloro a cui tenevo. Chris, era - è - la cosa più simile ad una famiglia che fossi riuscito a trovare. Dopo tredici anni, lui era tutto ciò che di importante mi era rimasto. Non intendevo permettere a nessuno di portarmelo via.

 

Silenzio. D'un tratto me ne accorsi: intorno a me, c'era solo silenzio. Tutto sommato, era piacevole. Chiusi gli occhi, per un attimo, riaprendoli pochi istanti dopo, al tocco delle sue dita sulla fronte.

«Che fai?»

Chiesi, incerto, provando a mettere a fuoco l'immagine tremolante che scorgevo china su di me.

«Volevo controllare se... Non hai la febbre»

«Mmmhh, evviva»

Bisbigliai, facendo sfoggio della scarsa ironia rimastami.

 

«Chris...»

«Dimmi»

«Grazie»

«Per... che cosa?»

«Per essere qui, con me... nonostante tutto»

«Non ti avevo forse detto che ci sarei sempre stato?»

Mi chiese, con un tono leggermente offeso. Mi sfuggì un piccolo sorriso, del tutto involontario.

«È vero. Ma non sono stato molto collaborativo. Pensavo che...»

«Che cosa, Jules? Credevi che ti avrei mollato qui da solo, perché non ho avuto le risposte che cercavo? Mi credi tanto insensibile?»

«No... No, non lo credo. Io...»

Lo guardai negli occhi. Osservai le sue labbra, che fremevano indignate. Sorrisi nuovamente.

«... Ti voglio bene»

Con un pizzico di compiacimento, mi godetti lo stupore che comparve nei suoi occhi sgranati. Poi fece una cosa che non mi ero minimamente aspettato: si fiondò ad abbracciarmi, facendo scricchiolare pericolosamente le mie povere ossa, già duramente provate dalla brutta esperienza della sera precedente. Non contento, mi stampò un bacio sulla guancia.

«Anch'io!»

Esclamò entusiasta, costringendomi a mugolare, protestando rumorosamente per riavere lo spazio e l'aria perduti in quell'improvviso attacco di smancerie gratuite.

«Credevo che voi inglesi foste più riservati e... poco espansivi», borbottai, colto da un leggero rossore imbarazzato -

«Ahahh, si vede che sono un inglese atipico, allora...»

Mi osservò, un po' sovrappensiero, per poi aggiungere;

«... Ti do fastidio?»

«Non proprio. Mi hai sorpreso»

«Anche tu, prima. Siamo pari, no?»

«Immagino di sì»

Annuii, pensando però che, in fondo, io mi ero semplicemente limitato ad un paio di paroline. Di certo, non immaginavo che fossero in grado di provocare una reazione simile.

 

Era, nonostante il disagio iniziale, piuttosto piacevole rilassarsi nel tepore di un abbraccio. Mi assopii. Non lo desideravo sul serio, ma evidentemente il resto del mio corpo non era dello stesso parere.

Uno spostamento d'aria, che percepii appena, nello stato di dormiveglia in cui ero piombato, mi ridestò bruscamente e definitivamente. Di scatto, aprii gli occhi. Una sensazione ignota, forse di allarme, mi spinse a guardarmi intorno. Ciò che intercettarono i miei occhi dorati, fu una figura in controluce, ferma sulla porta. Ebbi paura, d'un tratto consapevole delle mie pessime condizioni e del fatto che, difficilmente, mi avrebbero permesso di difendermi.

Ma non ce ne fu bisogno. La figura bisbigliò. Un suono a malapena udibile, ma che riuscii ad intercettare nel totale silenzio della stanza.

«Non agitarti. Non sono qui per farti del male»

DEREK?! Quella era la sua voce, non potevo sbagliarmi.

«Che cosa...?»

Non feci in tempo a terminare la domanda. Lui entrò, richiuse la porta alla proprie spalle e sollevò una mano, ad indicare di parlare piano. Quell'uomo era imprevedibile, e potenzialmente pericoloso. Eppure, la sua espressione mi convinse a fare silenzio ed attendere, buono, lo scorrere degli eventi.

«Non voglio crearti problemi»

Mi disse, avvicinandosi, ancora con quel tono appena udibile.

«Questo già l'hai detto. Non mi hai invece ancora detto PERCHÈ sei qui»

La sua presenza mi innervosiva, spingendomi involontariamente sulla difensiva. Deglutii, inquieto, quando i suoi occhi di ghiaccio mi fissarono.

«Sono qui per vedere come stai»

La mia smorfia, ironica e disgustata insieme, doveva essere piuttosto eloquente. Ciò nonostante, preferii precisare.

«Ti ci hanno spedito loro? Cos'è, vogliono assicurarsi che il loro investimento sia ancora utilizzabile?»

Chiesi, sprezzante e, forse, più acido del dovuto.

Tentennò, evidentemente sorpreso dalle mie parole. Poi si fece, se possibile, ancora più serio.

«Non si scomoderebbero mai, per questioni del genere. Le ritengono di poco conto»

Impallidii. Dunque avevo ragione. I miei sospetti, dopotutto, erano fondati - perfino più di quanto desiderassi -

«Capisco»

Riuscii solo a dire, con appena un filo di voce. Ero troppo turbato e sconvolto, per poter pensare lucidamente. Nemmeno il vero motivo per cui era lì, mi importava più, ormai.

«Jules...»

Lo fissai, smarrito.

«Che cosa vuoi? Perché non te ne torni a casa e mi lasci in pace?»

Incredibilmente, trasalì. Anche se, in quel momento, non ero abbastanza presente per dargli la giusta importanza.

«Non voglio niente da te. Te ne sei andato, senza dire nulla. Ero semplicemente... preoccupato»

Sgranai gli occhi, troppo sorpreso per controllare le mie reazioni.

«Cosa?!»

Domandai, incredulo - e forse anche un tantino isterico – Lui, però, si era già ritirato dietro la facciata gelida, che era solito usare per evitare di lasciar trapelare qualunque possibile emozione dannosa. Fece per girarsi, con la palese intenzione di togliere il disturbo. Ma ero troppo confuso, e forse anche "leggermente" incazzato, per lasciar correre senza aver almeno provato a...

«Fermo! Non te ne andrai così. Non dopo quello che hai detto!»

«Ah no? E sentiamo, mi fermerai tu?»

Stronzo. Ma non credere che ti permetterò di tagliare la corda con tanta facilità, pensai, mentre i miei occhi tentavano, invano, di incenerirlo.

Mi sforzai di sollevarmi, anche se ogni più piccolo movimento mi costava litri di sudore ed imprecazioni assortite. Durante la complessa operazione, persi però la presa sulla coperta e, con essa, il precario equilibrio appena stabilito. Stavo per ripiombare rovinosamente sul materasso, ma venni trattenuto da un paio di braccia. Mi ritrovai, senza neppure rendermene conto, stretto a lui, che mormorò;

«Fai attenzione. Finirai col farti di nuovo male»

Arrossii, di vergogna e rabbia. Me lo scrollai di dosso, spingendolo via in malo modo e sibilando;

«Lasciami stare! Non ho nessun bisogno delle tue stupide preoccupazioni da quattro soldi!»

Per un lungo istante mi fissò, senza dire una sola parola. Non sembrava arrabbiato. Sembrava, piuttosto... addolorato. Possibile?

«Non sono stupide. Sono legittime e perfettamente giustificate...»

«Stronzate! Non so perché sei qui, ma non ti ci voglio. Stavo meglio, molto meglio, prima che tu entrassi»

 

Perché lo sommersi di insulti e crudeltà? In fondo non mi aveva mai fatto nulla. Altri, oltre a me stesso, erano responsabili del mio malessere. Non certo lui. Quindi, perché prendermela con Derek? Per di più, in un momento in cui sembrava insolitamente vulnerabile? Forse, dopotutto, lo stronzo lì dentro ero io, chi lo sa.

 

Con il cervello in avaria, perso in mille riflessioni, quasi non mi resi conto che, forse tentando di assecondare il mio volere, se ne stava andando.

«Mi dispiace»

Bisbigliai, poco prima che ruotasse la maniglia per uscire. I suoi occhi di ghiaccio mi osservarono. Per la prima volta, avevano perduto la loro solita freddezza. Li abbassò, solo per un momento, scuotendo la testa.

«Dispiace anche a me. Sono stato molto stupido a venire fin qui. Lo so... lo sapevo, eppure... Dovevo farlo»

«Capisco»

Mentii. No, non era vero, era una bugia. In realtà non ci stavo capendo proprio nulla. Ma, almeno, quella fu una bugia con buone intenzioni. Che però venne presto smascherata.

«Non credo. Ma apprezzo comunque il tentativo»

Mi venne da sorridere. Uno dei due, in fondo, doveva pur farlo. Se aspettavo che lo facesse lui, avrei certamente atteso in eterno.

«Beh... G-grazie per essere passato, allora»

Balbettai, vagamente imbarazzato.

 

Mi sfuggirono totalmente i suoi movimenti. Probabilmente troppo assorto nei miei pensieri. O magari troppo insonnolito ed esausto. Resta il fatto che me lo ritrovai ad una manciata di centimetri, senza neppure aver capito come ci fosse arrivato, così vicino. Sgranai gli occhi, sconvolto, sorpreso e totalmente impreparato, nel momento in cui le sue labbra fredde sfiorarono le mie...

 

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Capitolo 16
*** Capitolo 16: 6 settembre 1963 – Terra ***


 

 

Capitolo 16

6 settembre 1963 – "Terra"

 

 

Non trovai neppure la forza di spingerlo via, quella volta. Lo feci in seguito, ma ormai, è ovvio, mi ero giocato la credibilità - ed a quanto pare, anche il diritto di ribellarmi alle scelte altrui - Ma questa non è certo una novità.

Il mio migliore amico... Ohhh, d'accordo, il mio UNICO amico, come c'era da aspettarsi, si impuntò, chiedendomi più e più volte che problema avessi, perché, a volte, mi comportavo in modo strano ed incomprensibile, che diamine fosse successo nel "poco" tempo in cui lui si era addormentato come un bambino - sbavando sul mio letto -

Non gli diedi mai uno straccio di soddisfazione. Primo, perché onestamente non erano proprio affaracci suoi, e secondo, ma non meno importante, perché tutto sommato sarebbe stato imbarazzante - forse anche un tantino umiliante - dare certe spiegazioni.

Uhmm... Un giorno, temo, dovrò necessariamente spiattellare tutta la verità - OK, non proprio tutta. Diciamo la versione censurata - Non si è ancora arreso, il mastino.

 

Inutile che fate quella faccia! A voi altri non racconterò proprio un bel niente di tutta questa storia. Non sia mai che poi io venga malignamente bollato come pervertito. Ci mancherebbe anche questa, ad arricchire la mia bacheca, già stracolma di ogni genere di colpe e bassezze varie.

 

Torniamo piuttosto al tema principale. Vediamo di riprendere il filo di ciò che successe in quell'ultima parte dell'anno.

L'estate ormai era agli sgoccioli, ma già il caldo aveva abbandonato la città, per non più tornare fino all'anno successivo.

Nonostante le premesse pessimistiche, avrei felicemente completato il mio secondo anno di architettura senza aver lasciato indietro nessun esame. Questo, ad essere sincero, mi riempiva di una sottile gioia ed anche di un pizzico di orgoglio.

Avevo ormai messo da parte l'idea di socializzare con i compagni di corso e coinquilini vari. Non eravamo, evidentemente, sulla stessa lunghezza d'onda. Loro non facevano che pensare alle feste del sabato seguente, preparando tutto nei dettagli e con largo anticipo - almeno per quanto lo permettessero le condizioni psico-fisiche del lunedì mattina - In alternativa, erano anche soliti dilungarsi in futili discorsi "da uomini", parlando tutto il santo giorno di ragazze. Anche in modo piuttosto spudorato e volgare, dovrei aggiungere. Ora, io personalmente non ho mai fatto mistero di non provare una grande simpatia per il genere femminile. Ciò nonostante, mi era insopportabile starli a sentire mentre riuscivano - non ho mai davvero capito come - a portare ogni argomento a livelli infimi e senza un briciolo di decenza. Se mi fossi soffermato unicamente su quegli esemplari, eleggendoli a modelli del genere "maschio etero", di certo avrei potuto impiccarmi. Per fortuna, mia e del suddetto genere, sapevo che non tutti ragionavano dalla cintola in giù – quando ragionavano -

 

Non ci furono ulteriori, disastrosi "incidenti", che potessero mettere a repentaglio la mia incolumità. Ciò non di meno, la mia occupazione part-time mi procurava non pochi grattacapi. A partire dalle dubbie compagnie, per terminare agli ancora più dubbi incarichi.

Per quanto ampiamente deluso dalla vita - la mia, in particolar modo - mai mi sarebbe venuto in mente di ricambiare il favore, rendendo un inferno quella degli altri. Eppure, a conti fatti, ciò che mi veniva richiesto di fare, avrebbe certamente finito con l'avere esattamente quell'effetto.

Almeno una volta al giorno, invece di recitare una bella preghierina come un bravo bambino, ero solito allietare le mie serate maledicendo la mia ottusità, per essere stato tanto scemo ed avventato da accettare, su due piedi ed a scatola chiusa, l'insana proposta di quel furbone di Mat. Ed ogni sera, come da programma, oltre ad un'amara sensazione di impotenza, non ne ricavavo assolutamente nient'altro.

Così ero passato, da un momento all'altro, dall'essere un emarginato squattrinato e senza lavoro, all'essere un emarginato con un lavoro ai limiti della legalità, grazie al quale non riuscivo a ritagliarmi neppure un'ora al giorno per me stesso. Per questo, e per molti altri svariati motivi sempre legati al problema principale, non perdevo mai occasione di congratularmi con me stesso, per la grande pensata. Anzi, se permettete, oggi ancora non l'ho fatto: «Congratulazioni, Jules. Sei proprio un deficiente». Ecco, a posto. Ora possiamo continuare.

 

D'accordo, volete la verità? Dopo tanto tempo, ammetto di essermi affezionato a questa città. È vero: è grigia, fredda, umida, spesso insensata ed incomprensibile. È vero: qui la gente rispecchia quasi completamente il luogo in cui vive. Eppure... c'è qualcosa di incredibile in questo posto. Se ci fai l'abitudine, inizia anche a piacere. Il rovescio della medaglia è proprio questo “farci l'abitudine”. Senza accorgertene, finisci per non notare più le sue stranezze, quella stramba frenesia, distaccata ma piena di vita al tempo stesso. Ed è un vero peccato, perché è proprio questo, il continuo sorprendersi, che rende questa città unica.

Basti pensare che, dopo due anni trascorsi qui, ancora non ero stato in grado di scoprirne tutti i segreti. A dirla tutta, nemmeno ora, a distanza di quasi dieci anni - mioddio, quanto tempo lontano da casa - questo posto continua a serbare sorprese. E forse è proprio per questo che sono riuscito a sopravvivere, fino ad ora, in un luogo così alieno alla mia essenza, un luogo che non mi è mai realmente appartenuto, o meglio, che non mi ha mai accettato. Qui, io, non sono mai stato a casa. Sono e sarò sempre uno straniero. Non importa quanto tempo vi trascorrerò. Sopravvivere è tutto ciò che posso permettermi. L'unico modo per vivere, sarebbe quello di tornare sui prati della mia terra. Ma non è più possibile. Ormai non posso più tornare indietro. Quello che sono, ciò che ho fatto, niente di tutto ciò me lo permetterebbe.

Un giorno, questa terra, sarà la mia tomba...

 

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Capitolo 17
*** Capitolo 17: 26 novembre 1964 – Colpe ***


 

 

Capitolo 17

26 novembre 1964 – "Colpe"

 

 

Una brutta sensazione. Odore di guai e, forse, anche di sangue.

Fu un anno difficile, il '64. Con grandi fatiche e dispendio di energia, passai il terzo anno di architettura, iniziando il quarto stremato, sfiduciato e con veramente pochi obbiettivi. Avevo bisogno di riposare. Era una necessità, urgente. Ogni cellula del mio corpo me lo gridava ogni santo giorno. Ormai però avevo smesso di dar retta alle loro implorazioni. Non badavo più a nulla, se non ad arrivare al giorno seguente tutto intero e senza troppi graffi - qualcuno era inevitabile, soprattutto con certe frequentazioni -

Avrei voluto prendermi una vacanza, di quelle lunghe e rilassanti, magari con vista lago. Ma sarebbe andata bene qualsiasi cosa, purché mi permettesse di tirare il fiato.

Per di più, avevo la sgradevole impressione di essere cambiato. In peggio. Ma non avevo idea né di come né del modo per impedirlo, o per tornare sui miei passi. Lo vedevo. Vedevo questo cambiamento, dal modo in cui le persone attorno a me mi guardavano, dal tono che usavano. Ho sempre percepito una nota di disprezzo nei miei confronti, ma in quel periodo sembrava essersi acuito, trasformandosi in qualcosa di più profondo, radicato, indelebile.

Non volevo! Mi sentivo ancora un essere umano, dopotutto. Ancora capace di provare sentimenti, e soffrire. Questo atteggiamento mi faceva star male. Solo, non sapevo come rimediare, né se potevo permettermelo. Forse era tardi. Tardi anche solo per recuperare una vita normale. Non che io abbia mai avuto molti amici, ma in quel periodo, perfino le semplici conoscenze sembravano avercela con me. Il problema era però che, nonostante i miei sforzi per venirne a capo, non riuscivo a trovare l'origine di tutto questo. E stavo male. Non potevo accettare di essere preso a male parole, perfino da gente che appena conoscevo, ed a cui non avevo mai fatto alcuno sgarbo, né mancato di rispetto.

Perché tutto questo? Perché succedeva a me?

 

Trovai la cosa più simile ad una risposta, proprio alla fine del mese.

Una mattina, buia, fredda e molto bagnata, stavo per mettere piede in un caffè in cui andavo, di tanto in tanto, per riscaldarmi e bere qualcosa di dolce. Non feci però in tempo ad entrare perché, poco prima, dalla porta vetrata sbucò una piccola signora. Doveva avere almeno sessant'anni, giudicai, notando i capelli bianchi e le rughe attorno alla bocca ed agli occhi. Rimasi fermo impalato, sorpreso, perché lei mi venne incontro, con gli occhioni nocciola visibilmente arrabbiati, ed iniziò a tempestarmi di parole - che inizialmente ritenni senza senso - e pugni sul petto e sulle spalle. Non sapevo nemmeno se e come difendermi. Ma soprattutto non sapevo perché lei fosse tanto arrabbiata. Nemmeno la conoscevo. Di lei sapevo solo che era la madre della proprietaria del caffè, nulla di più.

Eppure il suo volto, la rabbia in quelle linee spigolose, nelle parole quasi incomprensibili. Qualcosa doveva essere accaduto. Qualcosa che non compresi subito, troppo sorpreso e confuso, ma che, con un po' di fatica, mi fu infine chiaro.

Tentando di fermarla, le bloccai delicatamente le spalle e, con vagonate di incertezza, le chiesi;

«Io non capisco. Che cosa è capitato? Perché...»

Non mi permise di finire. Invece riprese a gridare, ma questa volta mi concentrai, prestando la massima attenzione a ciò che mi disse.

«Tu non capisci?! Sei un uomo cattivo! Peter non ti aveva fatto nulla. Lui era un bravo ragazzo! Lavorava per mantenere la famiglia. Come faranno ora? Come faranno, adesso che Peter non c'è più?! È colpa tua! TUA, TUA! Perché?! Non dovevi, non...»

«Di cosa sta parlando? Che cosa è colpa mia?»

Sbottai, più confuso di prima, scuotendo la donna, forse con troppa energia, tanto che il fiume di parole cessò un momento e lei, dopo aver ritrovato l'equilibrio, mi fissò con quello che sembrava proprio odio.

«TU l'hai ucciso. È morto per quello che gli hai fatto»

Mi accusò, senza mezzi termini.

«Q-quello che... ho fatto?», balbettai, sconvolto, «C-che cosa...»

«TU, e i tuoi amici! VOI avete costretto l'azienda per cui lavorava a chiudere. VOI, siete stati voi!»

«Ma... m-ma...»

Stavo per dire che non era vero. Invece lo era. Faceva parte dei nostri compiti. Noi decidevamo il destino di molte aziende e dei loro capitali. Noi, indirettamente, decidevamo della vita e del futuro di tutte quelle persone.

Ecco. Di fronte a me c'era il frutto di lunghi mesi di addestramento e lavoro. Ecco. Tutto il mio impegno di quegli anni, riconduceva a questo: un ragazzo, come me, un padre, un marito. Avrebbe potuto avere un futuro. Ora non ce l'aveva più. Per colpa nostra. Per colpa mia...

 

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Capitolo 18
*** Capitolo 18: 30 novembre 1964 - Fiume di rabbia ***


 

 

Capitolo 18

30 novembre 1964 - "Fiume di rabbia"

 

 

«Ragazzo, che cos'hai? Sei strano in questi giorni. Non stai bene?»

«Starei meglio se la piantaste, una buona volta, di chiamarmi tutti ragazzo. Ho quasi ventidue anni. Perché diavolo non potete usare il mio nome?!»

Derek mi fissò, dubbioso.

«Dal mio punto di vista sei ancora giovane...»

«Non me ne frega un cazzo del tuo punto di vista»

Divenne improvvisamente, mortalmente serio. Normalmente, quell'espressione mi avrebbe fatto tremare, presagendo qualche disastro imminente. La differenza è che quella volta ero troppo fuori di me per preoccuparmi anche del suo umore. Infatti, irritato, sbottai;

«Finiscila di fissarmi come un serial-killer. Tanto non attacca»

Sospirò, accantonando momentaneamente il suo cipiglio seccato.

«Jules, qualcosa ti turba. Di cosa si tratta?»

«Mi turba? MI TURBA?!! Ma ti senti quando parli? Io non sono turbato, sono incazzato!!»

«D'accordo, allora. Che cosa ti ha fatto incazzare?»

Ma per la miseria, come diavolo faceva a rimanere così calmo? Io avrei già perso la pazienza da un bel po'. Lui però non era così. Il modo in cui sapeva controllare le proprie emozioni e le reazioni, aveva qualcosa di sovrannaturale. Un po' lo invidiavo, a dire il vero. Gli unici momenti in cui pareva lasciarsi andare erano a letto. Allora i suoi occhi di ghiaccio prendevano improvvisamente vita, bruciando come lava incandescente.

Provai a trarre qualche profondo respiro per calmarmi. Anche se non servì a molto, per lo meno il mio tono divenne appena un po' più pacato, quando mi decisi a chiedere;

«Hai mai riflettuto su ciò che accade alle persone coinvolte nel nostro lavoro?»

«Ognuno di noi sa a cosa va incontro, chi più chi meno»

Scossi la testa, frustrato, «No, no, no! Derek, tu non ascolti ciò che dico. Non sto parlando di noi. Sto parlando di tutti quegli estranei... decine, centinaia di persone. Gente che non abbiamo mai visto, né sentito nominare, ma della cui vita decidiamo ugualmente»

«Jules, non dovresti soffermarti su di loro. Lo dici tu stesso: nemmeno li conosci, non sai chi siano...»

Lo fissai, inorridito, mentre la mia agitazione spiccava il volo.

«Che diavolo dici?! NOI siamo responsabili, anche di loro!»

«Noi non...»

«Sì, invece. Non mentirmi anche tu, dannazione! Quanti?... Quante persone ho ucciso, in tutto questo tempo?»

«Tu non hai ucciso proprio nessuno»

«L'ho fatto! Derek, quello che facciamo si ripercuote su di loro! Come fai a non capire?»

Il suo sguardo. Il modo distaccato ed un po' triste in cui mi guardò. Il suo silenzio indeciso. La conferma ai miei sospetti era lì, di fronte a me, così palese da spezzare il cuore.

«Tu... sapevi già tutto», bisbigliai strozzato.

«Non dovresti preoccuparti di ciò che non sai, di persone di cui nemmeno conosci l'esistenza. Loro non sono nessuno»

Sgranai gli occhi, troppo sconvolto per riuscire a ribattere con la dovuta prontezza.

Per la prima volta, dopo più di quattordici anni, una piccola lacrima bagnò il mio viso.

«Ti odio», ringhiai, accecato dalla rabbia, «Per tutto questo tempo, non hai fatto che mentirmi, usarmi, prendermi in giro...»

«Non ti ho mai mentito»

«Lo hai fatto! Centinaia di volte. Non dicendomi mai cosa realmente stava succedendo. Per colpa mia un uomo è morto! Aveva una famiglia, aveva una vita. E ora non ce l'ha più! Quante altre persone innocenti sono morte per colpa nostra... per colpa mia? Quante, Derek?! Chi ho ucciso, senza nemmeno sapere perché? Io ti odio. Sei un bastardo. Non ho mai potuto decidere veramente, tra ciò che era giusto e ciò che era sbagliato. Voi... TU non me lo hai mai permesso».

Su di lui scaricai gran parte della mia rabbia, di tutto il rancore accumulato in quegli ultimi anni. Gli riversai addosso ogni cosa, tutto il dolore e l'impotenza. A lui diedi ogni colpa, nonostante sapessi benissimo che la colpa era unicamente mia. Io avevo deciso quella vita. Io ero stato tanto stupido da accettarla, e così cieco da non vedere ciò che accadeva intorno a me. Solamente io ne ero il responsabile. Peter era morto, perché io l'avevo voluto. Non Derek. Non Matthew. E nemmeno l'Agenzia. Solo io. Ma era molto più comodo e vantaggioso addossare la responsabilità su chi, forse, la meritava.

Mi lasciò fare. Senza mai opporre resistenza. Chissà, forse, in qualche modo, anche lui aveva bisogno di scaricarsi la coscienza. Così aveva appena trovato un modo perfetto e veloce per farlo.

Lo odiavo veramente? E chi lo sa. Forse, dopotutto, tutta quella rabbia, quel dolore, tutto quell'odio, erano solo ed unicamente rivolti a me stesso...

 

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Capitolo 19
*** Capitolo 19: 1° dicembre 1964 - OVINGDEAN - L'inizio della fine ***


 

 

Capitolo 19

1° dicembre 1964 - OVINGDEAN - "L'inizio della fine"

 

 

Dopo aver girato nervosamente per la città, sprecando tutta la mattinata e gran parte del pomeriggio, senza venire a capo di nulla, verso sera mi infilai nel garage - uno dei tanti - dell'Agenzia, presi un'auto a caso e me ne andai. Guidai per tutta la notte, tanto non sarei comunque riuscito a chiudere occhio nemmeno stavolta. All'alba giunsi in un piccolo paesino sulle coste inglesi. Era ancora troppo buio. Non potei scorgere molto, ma sentii il suono delle onde e riuscii a calmarmi un po', quel tanto che bastava a ritrovare un battito ed un respiro regolari.

Faceva molto freddo. Il vento, gelido, mi congelò il viso e le mani. Ma portò con sé l'odore del mare. Mi concessi uno stentato sorriso. Durò poco però, schiacciato da un senso di malinconia troppo pesante da sostenere.

Il sole, lentamente, sorse, illuminando e facendo brillare d'argento l'enorme distesa d'acqua davanti ai miei occhi. Da qualche parte, oltre quel braccio di mare, c'era la mia terra. Casa mia. Le ginocchia cedettero e caddi a terra, nuovamente soffocato dalle lacrime e dalla tristezza che mi dava il sapere di non poterla rivedere.

Avrei voluto andarmene. Sparire lontano. Fuggire dal quel posto, così freddo ed ostile. Ma non potevo. Forse non potrò mai.

Rimasi, imbambolato, a fissare il mare, che gradualmente si tingeva d'oro, divenendo poi blu, come il grande cielo sopra la mia testa.

Rimasi lì seduto, per quasi tutta la mattina. Nonostante il freddo, non volevo muovermi. Avevo ancora bisogno di quel tenue contatto con ciò che una volta mi era appartenuto.

 

Non mi resi conto dei rumori alle mie spalle. Troppo concentrato su qualcosa che non era reale, per dare ascolto a quello che mi circondava, che invece lo era – reale - Qualcosa, qualcuno mi sollevò da terra, strattonandomi per le braccia. Non vi badai. Continuai invece a fissare il mare, ad immagazzinare nella mia memoria il suo odore. Fino al momento in cui anche la sua vista mi fu preclusa. Davanti a me si chiuse il portello di un furgone, dopo che mi ebbero gettato malamente dentro. Feci vagare, confuso, lo sguardo all'intorno, fino ad individuare una figura nell'ombra.

«Dovresti ringraziare di essere ancora vivo»

Sibilò la voce di Mat. Feci spallucce, sospirando e distogliendo lo sguardo. Chiusi gli occhi, lasciando fuori la realtà che tornava a circondarmi. Decisi di disinteressarmene, almeno finché non fossi stato costretto a farci, nuovamente, i conti.

Non passò, purtroppo, molto tempo, prima che succedesse. Poche ore più tardi, così come si era chiuso, il portello si riaprì, accecandomi. Qualcuno, forse le stesse persone che mi ci avevano spinto dentro, mi costrinsero ad uscire dal furgone. Incespicai sulle mattonelle del parcheggio, rischiando di sfracellarmi a terra. Avevo la testa pesante, una specie di nebbia permeava il mio cervello, impedendomi di pensare, di comprendere davvero ciò che accadeva.

Corridoi. Un'infinità. Alcuni illuminati a giorno, altri neri come la pece. I suoi occhi di ghiaccio furono l'ultima cosa che riuscii a scorgere, prima di piombare nel silenzio e nell'oscurità totale. Mi aveva fissato, per un attimo che era parso un'eternità. Ciò che più di tutto mi aveva stupito, era che non sembrava arrabbiato, ma solo molto triste, forse più di quanto non fossi io stesso.

 

Non ho idea di quanto tempo trascorsi in quel luogo privo di stimoli. Non mi interessava. Più nulla era in grado di riscuotermi dalla grigia apatia nella quale ero piombato. Non ricordo neppure se venne qualcuno, giusto per vedere se ero ancora vivo. La prima cosa che rammento fu il bianco. Mi bruciavano gli occhi. Per svariati minuti dovetti concentrarmi, per non urlare. Cercai di ripararmi come potevo, ma con le mani immobilizzate dietro la schiena, e spinto continuamente a procedere avanti, non era per nulla semplice. Mi sfuggirono alcuni mugolii di protesta, ma oltre a quelli non dissi proprio nulla. Mi limitai a seguire la corrente, sballottato qua e là come all'interno di un gorgo.

Infine, mi ritrovai seduto, non per mio volere, su di una sedia o uno sgabello. Sbattei freneticamente le ciglia, sperando che i miei occhi chiari si abituassero in fretta a tutta quella luce. Voci, intorno a me. Mi confondevano, in un assordante e confuso chiacchiericcio senza senso. Forse mi fecero anche delle domande, alle quali però non potei in alcun modo rispondere, dato che non le avevo né capite né tanto meno ascoltate.

«Signor D'Angart!»

Toh, il mio nome. Quale onore, pensai cinicamente. Invece di scomodarmi a rispondere, grugnii, onde mettere al corrente il mio interlocutore che sì, lo avevo sentito, e che no, non sapevo che diamine volesse dal sottoscritto, né tanto meno avevo desiderio di scoprirlo.

«Mi ascolta?»

Insistette invece quello, lungi dall'essere persuaso delle mie intenzioni.

«No», mugugnai, scombussolato.

«Come?!»

Strillò di rimando quello, rintronandomi ancora di più.

«P-po-trebbe... evitare d-di... gridare? Per favore»

Sentii una risata, provenire da un punto imprecisato di quella che presumevo essere una stanza. Conoscevo quel suono? Non ne ero sicuro. Era un suono strano. Rideva, ma senza reale divertimento.

«Non cambi mai, Jules»

Esclamò. Allora riconobbi la voce. Allora seppi con chi avevo a che fare...

 

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Capitolo 20
*** Capitolo 20: 6 dicembre 1964 - LONDRA - Incivili conversazioni ***


 

 

Capitolo 20

6 dicembre 1964 - LONDRA - "Incivili conversazioni"

 

 

Manuel Henderson. Uno dei sei membri del Consiglio. Nel tempo avevo, giustamente, imparato a non fidarmi di nessuno di loro, in modo particolare di un paio di individui, uno dei quali era, per l'appunto, Manuel - l'altro era suo fratello, o meglio, il suo gemello: Samuel... La fantasia dei genitori, certe volte, mi lascia allibito -

Manuel era esattamente l'ultima persona al mondo che ogni essere umano sano di mente e con un minimo di cervello avrebbe desiderato incontrare. Io, nemmeno a dirlo, avevo avuto la drammatica sfortuna, non solo di incontrarlo, ma perfino di frequentarlo e conoscerlo. Nei mesi, trascorsi più tempo in sua compagnia che non in compagnia di me stesso. Presto ebbi modo di rendermi conto di quanto quest'uomo fosse malato, nonché mentalmente instabile. Questo, unito alla consapevolezza che possedesse potere decisionale all'interno dell'Agenzia e, pertanto, su una buona fetta di paese, era quanto di più sconfortante potesse esserci.

 

Dopo aver faticosamente riacquistato l'uso della vista, lo osservai di traverso, mentre le mie preoccupazioni crescevano, secondo dopo secondo. Che cosa voleva? Perché si trovava lì, ora? Ed io, in tutto questo, come ci entravo? Tutte ottime preoccupazioni, le mie. Peccato che, più mi sforzavo, nel tentativo di capire, meno risultati ottenevo.

Nel frattempo, il tipo piccato dietro la scrivania, mi aveva posto altre domande che io, naturalmente, non avevo sentito e che, puntualmente, avevo ignorato.

«Che succede?»

Mi decisi a chiedere, rivolto all'unica persona che, lì dentro, poteva saperne davvero qualcosa. Mi sorrise, senza gentilezza né allegria, ma con una leggera sfumatura divertita sulle labbra.

«Dovresti rispondere alla Commissione», mi suggerì.

Lo fissai, confuso, «Non ho risposte da dare. Solo domande», replicai, sinceramente.

«Non è questa la sede appropriata»

Feci una smorfia, pensando: “Quando mai?”.

«Che cosa ci faccio, allora, qui?»

«Questa è una domanda, Jules»

L'evidenza di quella constatazione mi diede sui nervi. Provai a muovermi ma scoprii, in ritardo, di essere ammanettato allo sgabello. Ohh, bene, grandioso!

«Che cosa volete da me?»

Sibilai, per nulla disposto a collaborare.

«Questo già ti è stato detto. Non è carino costringere gente impegnata a ripetersi»

«Gente IMPEGNATA?!»

Ringhiai, incredulo. OK, era ufficiale: avevo definitivamente perso la pazienza.

«Voi non siete altro che fottuti bastardi senza scrupoli! Voi distruggete il lavoro delle persone, i loro sogni, la loro vita. Siete solo assassini! Non...»

Le mie "colorite" rimostranze, vennero sedate da un colpo sapientemente assestato alla base del mio collo.

 

Ripresi conoscenza in una camera buia, del tutto simile a quella che mi aveva ospitato in precedenza. Il mio risveglio fu corredato da una serie di malesseri degni del peggior dopo-sbornia. Avevo una gran voglia di vomitare. Solo, non avevo la più pallida idea di dove, visto che non si vedeva assolutamente nulla. Non ricordavo nemmeno più da quanto tempo non mangiavo. Probabilmente avrei vomitato solo succhi gastrici e l'idea non mi sorrideva granché.

«Stronzi», borbottai fra me.

«Non sei il solo a pensarlo»

Replicò una voce ovattata, probabilmente dalla porta che la divideva dal sottoscritto. Nonostante non avesse usato un timbro forte, mi fece comunque sobbalzare - se così si può dire, dato che ero praticamente sdraiato a terra -

«Chi sei?»

Fu la mia domanda preoccupata.

«Non lo sai?»

Sbuffai, «Se lo sapessi, non l'avrei chiesto»

Risposi, acido e decisamente spazientito.

«Allora faresti meglio a rimanere nell'ignoranza»

«Ci ho provato. Non ha funzionato. Chi sei?»

«Alex»

«Alex cosa?»

«Alex e basta»

«Va bene, Alex e basta, che cosa vuoi?»

«Nulla»

Risi. Una risata amara. Per nulla divertita.

«Conversi con me in questo... posto.. per nulla? Permettimi di dire che non ti credo»

«Perché te ne sei andato?»

Uhuhh! Una domanda chiara e diretta. Interessante.

«Avevo bisogno di pensare. E di calmarmi. Mi serviva tempo, aria. Tutto questo... Questa città, mi soffoca. E loro...», sospirai, «Dovevo provare a comprendere. Capire le menzogne che mi erano state dette»

«E hai capito?»

«Forse. Non completamente, temo. Ma... credo di essermi avvicinato, almeno un po', a quella verità che hanno sempre cercato di nascondermi»

«Qual è?».

 

Rimasi in silenzio. A lungo. Fino a quando la sua voce si fece risentire.

«Jules...»

«Tu mi conosci»

«Non proprio. Ti ho osservato. So chi sei. So qualcosa di ciò che hai fatto...»

«Io, di te, non so nulla»

Lo interruppi. Per quanto ne sapevo, poteva benissimo essere uno dei loro cervelloni, spedito qua giù a svolgere il lavoro che l'idiota dietro la scrivania non aveva saputo portare a termine.

Di nuovo silenzio. Molto più prolungato del precedente. Tanto che credetti se ne fosse andato. Invece, dopo molto tempo, eccolo di nuovo;

«Alexander Jasper Deveroe. Questo è il mio nome. Ho venticinque anni. Lavoro per l'Agenzia da circa tre anni, come crittologo, per lo più. Ma ho una laurea in psicologia, così, di tanto in tanto, decidono di utilizzarmi anche in questo campo...»

«Quindi sei qui per studiare il mio cervello e riferire alle alte sfere lo stato dei miei neuroni?»

Una piccola risata provenne da oltre la porta.

«No, direi di no. È più... diciamo che si tratta piuttosto di interesse personale. Quello che hai fatto mi ha incuriosito. Volevo capire perché, all'improvviso, uno dei più validi operativi dell'Agenzia avesse deciso di sparire, volontariamente. Per me non ha senso, ma immagino lo abbia per te. È così?»

«Ogni azione umana, per quanto incomprensibile, ha un suo senso. Avevo... Ho le mie ragioni, per aver fatto ciò che ho fatto»

«Non ne dubito affatto. Abbiamo un po' di tempo, prima che qualcuno di loro torni a... farti visita. Ti va di parlarmene?»...

 

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Capitolo 21
*** Capitolo 21: 7 dicembre 1964 - Ipotesi, dubbi e traslochi ***


 

 

Capitolo 21

7 dicembre 1964 - "Ipotesi, dubbi e traslochi"

 

 

Parlammo per diverso tempo. A dire il vero ero piuttosto stanco, ma non mi andava di dormire. Avevo un po' di paura all'idea di staccare la spina, lasciando il mio corpo mortale inerme, in balia di possibili psicopatici schizzati desiderosi di spargere sangue. E poi Alexander era un tipo interessante, a suo modo perfino simpatico ed abbastanza alla mano, considerato il lavoro che svolgeva. Era anche maledettamente curioso ed avido di informazioni. In questo mi ricordò molto un certo avvocato di mia conoscenza. Oltretutto, avevano quasi la stessa età.

Dopo ore di chiacchiere, più o meno serie, rimasi in silenzio per un lungo momento.

«Jules, sei ancora sveglio?»

Mi chiese, dubbioso, il mio interlocutore.

«Sì, sono sveglio, Alexander»

«Alex»

«Quello che vuoi»

Sospirai, come sempre sconfitto in partenza, almeno su questo fronte.

«Stai bene?»

Preoccupazione inutile, la sua. Inutile ma anche, in un certo modo, lodevole. No, non stavo decisamente bene. Ero, invero, anni luce lontano dallo stare bene. Ciò non di meno tentai, ancora una volta, di tenere per me la frustrazione ed il malessere che da tempo si erano insinuati dentro di me.

«Sì, più o meno. Alex...?»

«Dimmi»

«Credi che intendano uccidermi?»

«Non lo penso. Se così fosse, non ti avrebbero lasciato qui tutto questo tempo. Avrebbero provveduto già molto prima a liberarsi di te...»

Mi sfuggì una smorfia di disappunto, per le sue parole indelicate. Ma lo lasciai continuare, senza fiatare.

«... Io credo... non ho modo di averne la certezza, ma è probabile che stiano studiando un modo per... recuperarti»

«Non sono un malato terminale», protestai.

«No, ovviamente no. Non è questo che intendevo. Pensavo piuttosto che, probabilmente, hanno in mente di riutilizzarti. Magari dopo essersi accertati che tu sia ancora nelle condizioni di svolgere i tuoi compiti»

«La cosa non mi tranquillizza», ammisi.

 

Rumori, provenienti dal corridoio, riportarono in allerta 1 i miei sensi. Voci, non meglio identificate, si aggiunsero ai rumori.

«Signore, non ha l'autorizzazione per sostare nei sotterranei»

Scandì la prima voce, in modo molto compito e marziale, tanto da farmi pensare ad un militare.

«Jass, che combini quaggiù?»

«Io... uhm... Nulla di importante, signor Henderson»

«Allora fila di sopra. Linda ti sta cercando da più di un'ora. Credo che voglia sventrare uno dei cervelloni informatici che si rifiuta di darle ascolto»

«COME?!»

Sentii Alex strillare, visibilmente angosciato dalla prospettiva. Udii distintamente dei passi veloci. Evidentemente il signor Deveroe aveva deciso di correre in soccorso dei suoi preziosissimi computer, levandoli dalle grinfie di qualche assistente assetata di vendetta. Beh, buona fortuna, Alex.

 

Poco dopo, la porta si aprì, accecandomi nuovamente. Due paia di braccia robuste mi trascinarono di peso fuori da lì, poi su per almeno quattro rampe di scale - scommetto tutto quello che volete che evitarono volutamente i ben più comodi e pratici ascensori, prendendo le scale, giusto per divertirsi alle spalle del sottoscritto - e dritto di filato attraverso l'ennesima porta che racchiudeva l'ennesima stanza sconosciuta. Questa volta, però, la camera era perfettamente illuminata, nonché dotata di letto - letto, parola grossa, chiamiamola piuttosto con il suo nome: branda - bagno e, dulcis in fundo, minuscolo scrittoio con sedia annessa. Degna di una super ospitalità a cinque stelle, per la miseria!

Non mi azzardai ad emettere nemmeno un fiato, per tutta la durata dell'impresa di trasloco. Speravo, inconsciamente, di essere trattato come un semplice complemento d'arredo, privo cioè del dono dell'intelletto. Con un po' di fortuna, vedendomi apatico e disinteressato, mi avrebbero, a loro volta, ignorato. E così, incredibilmente, fu. Venni scaricato, non proprio delicatamente, sul pavimento della mia nuova suite imperiale, e lì lasciato a decantare, da solo e senza ulteriori interferenze.

Oh, beh... quasi. In verità, qualche ora dopo, mentre un nuovo, splendente giorno, sorgeva fuori dalla finestra con vista che mi era stata gentilmente concessa, ricevetti una visita, imprevista ed altrettanto imprevedibile...

 

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Capitolo 22
*** Capitolo 22: 8 dicembre 1964 - Difficili decisioni ***


 

 

Capitolo 22

8 dicembre 1964 - "Difficili decisioni"

 

 

Tutto intento a placare l'ennesimo crampo che tormentava, ormai da qualche ora a questa parte, il mio corpo denutrito ed altamente snobbato, nemmeno mi resi conto che la porta si era socchiusa, facendo entrare qualcuno.

«Ciao, Jules»

Mormorò con voce pacata. A quel suono del tutto inatteso sussultai, sorpreso, voltando lentamente la testa per accertarmi dell'identità del visitatore di turno.

«D-Derek... Qual buon vento? Ti chiedo scusa per il disordine, ma non aspettavo ospiti»

Ironizzai, seppur incapace di muovere un solo dito.

«Sei uno straccio»

«Mmmmhhh... Mi mancavano proprio le tue dolci paroline»

«Parlo sul serio»

«Ahah... Senti, lascia perdere i convenevoli e vieni al sodo. Cosa sei venuto a fare?»

Tentennò. Per svariati minuti non spiccicò parola. Mi fissava, apparentemente assorto nei propri pensieri. Stavo quasi per addormentarmi, con la speranza, nemmeno troppo remota, di risvegliarmi tutto d'un pezzo. Non ne ebbi però la possibilità perché, sua Signoria Illustrissima, si degnò, finalmente, di sprecare la sua preziosa dialettica con la plebe - che sarei io -

«Quello che hai fatto... È stato molto stupido»

«Quale, delle mie innumerevoli prodezze, per l'esattezza?»

Roteò gli occhi, «Tutte. Ma in modo particolare l'idea di sottrarre l'auto e farti un pic-nic sulla costa. Quella, decisamente, è stata una mossa cretina e molto appariscente»

«Non era un pic-nic»

Tenni a precisare, brontolando ad occhi chiusi, mentre ripensavo al suono delle onde.

«Sei proprio uno stupido»

Socchiusi gli occhi, osservandolo con tutta calma.

«Meglio stupido che assassino...», poi feci una smorfia, «Ma immagino dipenda dai gusti personali».

 

«Eliah avrebbe voluto farti fuori e liberarsi, una volta per tutte, di questo problema»

Deglutii a vuoto, immaginando benissimo i piani di "pulizia" del gran capo del Consiglio.

«Sono ancora vivo, però. A cosa devo questa grazia?»

«Samuel e Louis non erano d'accordo. Volevano provare a... rimetterti sulla retta via - per così dire - Manuel, beh lui tiene in gran conto il parere del fratello. Scott e Michael sono in viaggio. Non ne sapevano nulla. Quando Eliah ha pensato bene di informarli, interrompendo la loro giornata sulla spiaggia, lo hanno mandato 'affanculo e sono tornati ad abbronzarsi»

Ridacchiai, mio malgrado, contrariando un poco Mr. Perfezione.

«C'è poco da ridere», mi ammonì, infatti.

«Quindi, se ho ben capito, erano tre contro uno?»

Annuì, «Più o meno, sì...»

«Ma?»

Chiesi, un po' sulle spine, sub-odorando qualche gabola inespressa.

«Mi ha chiesto di liberarmi di te».

Questo mi disse. Sempre con quel tono pacato e spaventosamente neutro. Impallidii.

«C-cosa?»

«Sai com'è fatto Eliah. È un po' psicopatico, e parecchio avventato»

«Qui-quindi... Sei qui per uccidermi?»

Sgranò gli occhi, sorpreso.

«No. Io... Mi sono rifiutato. Voleva ammazzare anche me, con le sue mani credo. Ma sono riuscito a farlo desistere. Mi dicono che sono piuttosto bravo nel convincere la gente. In un certo senso, credo abbiano ragione. In ogni caso, per ora, ho vinto io».

 

In tutto quel discorso, fui a malapena in grado di respirare. Probabilmente lui si rese conto del mio nervosismo ed ancora una volta riuscì a stupirmi.

«Nessuno ti toccherà. Se ci provassero, glielo impedirei»

Lo fissai, molto più che sorpreso, quasi sconvolto.

«Davvero?»

«Sì. Ma tu, per carità, fammi il favore di non provocarli di nuovo. Quella... cosa, quella specie di sceneggiata, davanti alla Commissione, è stata una gran cazzata. L'unico risultato che hai ottenuto è stato farli infuriare più di quanto già non fossero»

Mi incupii e, incapace di trattenere la lingua, precisai;

«Era solo la verità. Sono loro quelli con la coda di paglia, non io»

«Ma sei tu ad avere una pistola puntata alla testa, pronta a fare fuoco alla minima provocazione!», sospirò, «Non importa chi ha ragione e chi no, in questo caso. Importa unicamente chi ha maggiori probabilità di perdere. Tu non sei nelle condizioni di batterli, non con le tue sole forze. Almeno questo lo capisci, Jules?»

Mi presi un lungo momento, per metabolizzare le sue parole. Sì, per quanto mi costasse ammetterlo, ciò che mi diceva era vero. Non avevo alcuna possibilità di vincere al loro gioco. Erano troppi e troppo potenti. Mi avrebbero fatto a pezzi, prima ancora che riuscissi a trovare il modo per contrattaccare.

«Sì... Sì, lo capisco»

Fui costretto ad ammettere. Bruciava la sconfitta. Ma più di tutto, era la consapevolezza di avere le mani legate e, probabilmente, il futuro segnato, a sconvolgermi.

 

«Me ne voglio andare, Derek»

Per un momento, vidi la sua sicurezza svanire. I suoi occhi, spalancati ed increduli, sembravano persi nel vuoto. La sua pelle, già molto pallida, aveva perso ogni traccia di colore. Infine si decise a parlare, ma lo fece con voce malferma. Le sue labbra fredde tremarono appena, pronunciando quelle poche, difficili parole.

«Lo so. Speravo che non fosse così, ma... Non... c'è modo di tornare sulla tua decisione?»

«Non posso rimanere. Non posso pensare di continuare ad aiutare l'Agenzia a distruggere le persone. Non sono nemmeno sicuro di come potrò sopravvivere, dopo... questo. L'unica cosa che so, è che non voglio più farlo»

«Non te lo permetteranno», si premurò di avvertirmi.

«Lo so. Non mi importa. Troverò un modo per risolvere anche questo problema. In fondo sono stato preparato per ogni eventualità, no?», sorrisi, «Ed ho avuto un ottimo insegnante»

Sbuffò, borbottando indispettito, «Stupido ragazzino. Ti farai ammazzare. E per cosa, poi?»

«Per la mia vita»

Risposi, senza rifletterci neppure un secondo. Era la verità. Rivolevo la mia vita. Ed avrei fatto tutto ciò che era in mio potere, pur di riaverla...

 

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Capitolo 23
*** Capitolo 23: 19 dicembre 1964 - Forse non oggi ***


 

 

Capitolo 23

19 dicembre 1964 - "Forse non oggi"

 

 

«Mi stai ascoltando?»

«Come? Cosa?»

«Jules, insomma, si può sapere dove l'hai lasciata la testa? Se me ne fossi rimasto a casa a guardare qualche documentario non sarebbe cambiato niente. Invece sono qui, a fissare te che fissi il vuoto, da almeno venti minuti. E ti posso assicurare che è piuttosto seccante»

«Mi dispiace, Chris, io...»

«Ti dispiacerà di più quando ti strangolerò»

Chris mi aveva invitato a cena fuori, sostenendo che avevo assolutamente bisogno di un po' di svago e movimento. A dire il vero, quello che di certo non mancava nella mia vita, era proprio il movimento. Avrei di gran lunga preferito sfruttare il tempo miracolosamente libero per recuperare tutte le ore di sonno perse in mesi e mesi di vita frenetica e di orari impossibili. D'altra parte, erano più di due settimane che non ci sedevamo da qualche parte a scambiare quattro chiacchiere. La sua riserva di discrezione era ormai in esaurimento. Morale: aveva urgente bisogno di qualche nuova notizia. Quello che era certo, era che non intendevo, nel modo più assoluto, soddisfare la sua smania di conoscenza narrandogli le mie disavventure governative. Né, men che meno, i miei dubbi piani di fuga dall'Agenzia.

 

«È un periodo difficile, per me», tentai di spiegare.

«I tuoi sono sempre periodi difficili», replicò, per nulla impressionato.

«Già. Beh, dubito di poter avere una vita più complicata di questa»

In effetti era vero. Ma forse, sarebbe stato più saggio, da parte mia, evitare di portarmi sfiga da solo.

«Dimmi dell'università. Almeno di quella potrai parlare. O è top-secret perfino il tuo corso di studi?»

«No...»

Risi. Dopotutto mi rilassava la compagnia di Chris. Riusciva, in qualche modo, a farmi scordare la maggior parte delle mie preoccupazioni. Perfino a farmi ridere, come quella volta.

 

«Sai, amico, io e te dovremmo prenderci una bella vacanza, un giorno di questi...»

Eh, magari, pensai sconsolato. Purtroppo ero ragionevolmente sicuro di non potermela permettere, questa sospirata vacanza di cui andavamo delirando. Lo feci comunque proseguire nel suo bel sogno, senza interromperlo con i miei infausti pensieri.

«... Magari ci facciamo una bella settimana sulle Alpi, che ne dici? Sai sciare? Uhm... potremmo andare in Svizzera, e rinchiuderci in qualche baita al calduccio, ad ubriacarci... Ah già, ma tu sei astemio, lo dimentico sempre. Beh, potresti sempre rimorchiare qualche istruttore di sci. Coi tuoi occhioni dorati, un ragazzo figo e abbronzato, che ti mostri i pendii, lo trovi di sicuro»

Nel frattempo, io ero diventato più rosso dei suoi capelli. Alla fine del suo bel discorsetto edificante, ripreso sufficiente fiato, sbottai;

«Sei scemo?! Io non rimorchio proprio nessuno...»

«Perché? Non l'hai mai fatto?»

Rimasi per qualche istante a bocca aperta, colto alla sprovvista dalla sua sfacciataggine.

«No», sibilai, secco.

«No?»

«No», ribadii, «Sono pigro. Lascio fare agli altri la fatica. Io mi limito a godere dei risultati dei loro sforzi»

Stavolta fui io a farlo scoppiare a ridere.

«Beh, bella tattica, Jules. Allora potresti semplicemente sdraiarti nel solarium ed attendere la tua vittima»

Le mie labbra si distesero, mio malgrado, in un sorriso sornione.

«Mmmhh... Sai, non sarebbe un'idea poi così malvagia, dopotutto... Se solo avessi il tempo di metterla in pratica»

 

Il tempo. Giusto quella piccola cosa di poco conto che a me mancava completamente. Per non parlare del fatto che, se anche avessi provato a fare un passo fuori città, c'erano buone probabilità che i "bravi ragazzi" a capo dell'Agenzia sguinzagliassero una bella squadra di simpaticoni, con l'ordine di ridurmi in tanti piccoli coriandolini. Grande prospettiva, non trovate?

Erano giorni che mi scervellavo, nel disperato tentativo di trovare una via d'uscita da quell'immenso casino che ormai mi teneva legato e prigioniero. Nulla. Non avevo trovato assolutamente NIENTE che potesse darmi anche una sola, misera speranza. Cominciavo a pensare che Derek avesse ragione. Che non sarei mai riuscito ad andarmene, a liberarmi di loro. C'erano momenti in cui la voglia di gridare andava oltre qualunque buon senso. Momenti in cui, piuttosto che continuare a rimanere legato a quella vita, avrei preferito fare qualcosa di drastico ed avventato. Per qualche strambo motivo, c'era però sempre qualcosa che riusciva a distrarmi, o a sorprendermi, proprio sul più "bello". Quel giorno, ad esempio, era stata la telefonata di Chris, con la sua bislacca proposta di uscire a cena insieme.

Sai che c'è, Jules? Forse, dopotutto, non lo desideravi veramente. Forse, a soli ventuno anni, non ti sentivi ancora pronto per mollare tutto, per rinunciare a vivere...

 

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Capitolo 24
*** Capitolo 24: 28 dicembre 1964 - La mia scelta? ***


 

 

Capitolo 24

28 dicembre 1964 - "La mia scelta?"

 

 

«NO! Ti ho detto di no! Sto parlando arabo, per caso? Che cosa non ti è chiaro, nella parola NO?»

«Jules, ragiona...»

«Non mi serve ragionare. Non ho intenzione di tornare indietro. Non voglio più svolgere nessun maledetto incarico per loro. È chiaro?»

«Ma devi!»

Lo fissai con tanto d'occhi. L'avrei volentieri strozzato, o per lo meno riempito di calci. Solo con grandi sforzi mi trattenni dal compiere gesti inconsulti.

«Devo? IO DEVO?!! Che cosa devo, Derek? Mi daranno un premio, per questo? Mi concederanno la grazia di poter lasciare il paese indisturbato? Riscriveranno le loro regole, per adattarle ad un mondo di esseri umani?!»

Mi osservò di sottecchi, visibilmente a disagio per il mio ennesimo exploit.

«No, Jules. Non credo faranno nulla di tutto ciò»

«Bene. Allora non ho alcun motivo per accettare questo incarico»

Sbottai, in tono molto definitivo.

 

Rimasi letteralmente paralizzato, quando mi guardò implorante. Non era assolutamente da lui lasciarsi andare in quel modo. Quello di fronte a me non poteva essere Derek. Lui non avrebbe mai permesso alle proprie debolezze di prendere il sopravvento in quel modo.

Eppure, quasi a volermi, ancora una volta, contraddire, lo vidi fremere impercettibilmente. Indeciso, provò ad avvicinarsi. Potevo vedere chiaramente quella battaglia interiore che si stava combattendo nella sua testa. Non voleva farsi dominare da bisogni tipicamente umani, ma al tempo stesso c'era qualcosa di urgente, che lo spingeva a sfidare sé stesso.

«Jules... ti prego»

Questo era decisamente troppo. Da un momento all'altro mi aspettavo una drammatica fine del mondo, causata da quell'uomo che, d'un tratto, si era messo a pregarmi di dargli ascolto. Ma figuriamoci se intendevo dargli ascolto. Nemmeno per sogno!

«Scordatelo»

Ribadii infatti, tutto fuorché convinto a cooperare, fosse anche per il mio bene. Ciò che invece avevo largamente sottovalutato, era che la sua testa era quasi più dura della mia. Se voleva qualcosa, sapeva fare di tutto - nel suo caso non è un modo di dire, lui era capacissimo di fare proprio di tutto - pur di ottenerla. Esattamente come in quell'occasione in cui, invece di usare le solite maniere forti a cui tutti - me compreso - erano abituati, riuscì a sorprendermi. Poco mancò che si gettasse ai miei piedi - in ogni caso glielo avrei impedito. Va bene tutto, ma non credo avrei mai potuto tollerare una cosa simile - quando mi disse, senza giri di parole;

«Per favore, almeno questa volta ascoltami. Non credo di poterli tenere a bada ancora a lungo. Presto o tardi, pretenderanno la tua collaborazione, o la tua testa», infine bisbigliò, «E a me la tua testa piace così com'è: attaccata al resto del corpo»

Lo disse con un tono così particolare, e fissandomi in un modo talmente intenso, da farmi rabbrividire.

 

Che disgrazia fu quel giorno. Ancora adesso, non faccio che maledire quei suoi occhi di ghiaccio, capaci di trafiggere l'anima. Che altro potevo fare? Dovetti accettare. Non avevo nessun'altra scelta, non con quell'uomo insistente e fin troppo convincente nei paraggi. Come sempre, però, finii col pentirmene più che amaramente. Fu una delle scelte più catastrofiche della mia esistenza, ed io, che ci crediate o meno, ho fatto una valanga di scelte azzardate e tremendamente sbagliate. Ma quella... ohhh, quella le superò tutte. Eppure, nonostante tutto, fu anche quella che, in un certo senso, mi condusse di prepotenza ad un'importante punto di svolta. L'unica, in tanto tempo, che mi diede una speranza, e la possibilità di realizzarla. Finalmente...

 

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Capitolo 25
*** Capitolo 25: 12 gennaio 1965 - In balia di un destino avverso ***


 

 

Capitolo 25

12 gennaio 1965 - "In balia di un destino avverso"

 

 

A poco meno di due settimane di distanza dal mio ventiduesimo compleanno, la faccenda si mise veramente molto male. Iniziai seriamente a pensare che quell'anno sarebbe durato ancora poco. Una parte del mio cervello, inconsciamente, sperava di avere abbastanza fortuna da poter rivedere la luce di un nuovo, schifosissimo, uggioso e grigio giorno londinese. L'altra, più pragmatica, sapeva che era questione di ore, forse minuti, prima che tutto finisse, molto probabilmente in modo intollerabilmente doloroso.

Mi sarebbe piaciuto, una volta morto, poter rivedere mio padre. Ma, di nuovo, la parte pratica del mio odioso cervello, mi suggeriva che ciò non era possibile. Lui era morto da anni. Di lui non era rimasto più nulla, se non il ricordo. E presto anche io avrei fatto la stessa fine. Con la differenza che, con tutta probabilità, di me non sarebbe rimasto neppure il mero ed inutile ricordo. Che strazio questa ragione!

 

Mi ritrovai, d'un tratto, fra gente a cui proprio non piacevo. Tutt'ora non mi è chiaro se il loro palese odio dipendesse dalla mia nazionalità - sembravano avere una potente avversione verso i francesi - dal mio orientamento sessuale - chissà come, dovevano aver scoperto la mia omosessualità. Capisco benissimo che non avrebbe dovuto riguardarli in alcun modo, ma... Beh, loro evidentemente non la pensavano così, e chi ero io per contraddirli? - o dal mio lavoro. Io opterei per la terza ipotesi. In effetti, sarei molto seccato anche io, nello scoprire di avere a che fare con un uomo del governo, infiltrato nel mio piccolo e solido mondo. Voi no?

Scoprii, forse con un pizzico di ritardo, che questa gente possedeva una spiccata vena di puro sadismo, e che amava particolarmente tenere sulle spine le proprie incaute vittime. Ed indovinate un po'! Ebbene sì: io facevo esattamente parte delle sopracitate incaute vittime. Che fortuna, vero? No, non proprio. Anche perché, per farsi beccare, era decisamente il giorno sbagliato. Tutti gli operativi erano in servizio - me compreso - e di certo l'Agenzia non poteva permettersi, né tanto meno si sarebbe sprecata, a mandare in giro un'intera squadra di recupero - militari, per la cronaca - Non per una sola, insignificante persona, per lo meno. Guarda caso, io ero giusto molto bisognoso di uno di quei famosi e tempestivi interventi.

Restai invece - e prevedibilmente - a bocca asciutta, mentre i miei desideri altalenavano, alternando il bisogno di urlare e sfuggire all'enorme guaio in cui ero capitato, al desiderio di una fine rapida - indolore, ormai, era fuori discussione, anche se, potendo... -

Mentre Lor Signori si divertivano nei loro dubbi passatempi, incidendo incomprensibili segni sulla mia schiena - presumo con il contributo di qualcosa di molto affilato, tipo rasoi, o coltelli, o che diavolo ne so io! - avendo io completamente esaurito ogni riserva di ossigeno per continuare a gridare, mi limitavo a tremare come una foglia, accorgendomi, nel frattempo, che la mia attenzione stava andando a farsi benedire e che le linee tendevano ad andare fuori fuoco. Molto fastidioso, se non fossi stato troppo occupato a contare i battiti del mio cuore, per essere certo che continuasse a svolgere il proprio lavoro.

 

Papà diceva che un vero uomo è colui che sa riconoscere i propri limiti. Beh, io quel giorno, i miei, li avevo raggiunti ed ampiamente superati. E volevo che tutto finisse. Non volevo più sentire nulla. Né dolore, né risa di scherno. Volevo uscire di lì. Volevo un posto tranquillo e silenzioso. Un posto sicuro, in cui riposare. E volevo smettere di aver paura.

In un solo, terribile istante, realizzai che nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile. Seppi, con fredda chiarezza, che quello stesso giorno sarei morto. Fui ormai drammaticamente sicuro che nessuno al mondo sarebbe giunto in mio soccorso, che nessuno mi avrebbe più protetto e difeso.

Ero solo. Di nuovo. E forse, questa volta, per sempre...

 

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Capitolo 26
*** Capitolo 26: 13 gennaio 1965 - La tua voce dentro di me ***


 

 

Capitolo 26

13 gennaio 1965 - "La tua voce dentro di me"

 

 

La volete sapere una cosa divertente? No? Beh, poco male, io ve la dico comunque.

Mi sbagliavo. Forse - anzi, che dico, probabilmente - non su tutto, ma mi ero sbagliato nel prevedere l'evolversi della situazione.

Non saprei dire né come, né esattamente quando, eppure, quel giorno - o meglio, quella sera, ormai - qualcuno giunse davvero in mio soccorso. Forse non si trattava del mio personale principe azzurro sul cavallo bianco ma, detto tra noi, chi se ne frega?

In qualche momento, non meglio identificato, di quell'orribile giornata, dovevo anche aver perduto i sensi. Di fatto, quando riaprii - a fatica - gli occhi per la prima volta, riuscii a stento a scorgere una confusa figura davanti a me - o di fianco a me, o sopra di me... non ne ho la più pallida idea. Di certo so solo che si trovava nel raggio d'azione dei miei occhi - Era troppo confusa e sporca per avere qualche speranza di riconoscerla, ma la mia testa mi diceva che era, per lo meno, un essere umano.

Poco dopo, i miei occhi si richiusero, le palpebre troppo pesanti per sopportare un tale sforzo, ben superiore alle mie capacità.

 

Quando, per la seconda volta, si riaprirono, lo scenario attorno a me era drasticamente cambiato. Il grigio ed il bianco avevano sostituito il nero ed il rosso.

Un solo tentativo di muovermi mi aveva convinto, oltre ogni ragionevole dubbio, che non era proprio il caso. Mi lasciai sfuggire un grido strozzato, quando centinaia di scintille di dolore si accesero lungo tutto il mio corpo. La sensazione, orribile ed inquietante, fu quella di essermi appoggiato, per errore, ad una stufa rovente. Percepii, fin troppo distintamente, la pelle della schiena tendersi, in agonia. Per i primi minuti, rimasi totalmente immobile, con il terrore di ripetere la stessa esperienza. Perfino respirare mi spaventava. Lo facevo lentamente, con cautela.

 

Sbarrai gli occhi, quando sentii delle voci avvicinarsi. Ero ferocemente combattuto tra il desiderio di fuggire e mettermi in salvo dall'ennesimo, possibile guaio, e la paura di tornare a soffrire non appena mi fossi mosso. Decisi, forse vigliaccamente, di rimanere immobile, chiudendo gli occhi e fingendomi ancora addormentato, nella speranza di capire così dove ero finito e cosa mi sarebbe capitato se fossi rimasto in quel posto.

La maggior parte di quelle voci mi erano totalmente sconosciute. Nessuna di loro mi diceva nulla. Nessuna di loro mi dava alcuna particolare emozione. Finché, nel marasma di voci, ne riconobbi una. Allora il mio cuore balzò nel petto con una vertiginosa capriola. Di riflesso, strinsi più forte le palpebre, nel tentativo di impedire all'istinto di farmi scoprire.

 

Attesi, per un lunghissimo tempo che allora mi parve eterno, con il cuore in gola per l'agitazione, sperando che tutta quella gente che si ostinava a starmi attorno se ne andasse una buona volta. Che sparissero. Tutti, tranne uno.

Avevo ormai i nervi a pezzi quando, finalmente, quella che credevo una piccola folla, iniziò lentamente a disperdersi, facendomi respirare più normalmente.

Non ebbi ancora il coraggio di aprire gli occhi, nonostante ormai il silenzio fosse tornato ad invadere la stanza in cui mi trovavo. Fu nuovamente la sua voce a convincermi.

Raramente avevo potuto sentirla così flebile ed insicura. Quel giorno, quel pomeriggio, mi si ripresentò quella stessa, rara fortuna.

«Jules... Lo so che sei sveglio e puoi sentirmi...»

Silenzio, di nuovo. Poi, dei leggeri passi ed ancora quella voce, ora più vicina, molto più vicina.

«... Nessuno ti farà del male, qui. Te lo prometto»

Avrei dovuto crederle? Avrei dovuto, ancora una volta, prestare fede a quella voce che, già in precedenza, mi aveva portato sull'orlo dell'annullamento?

Le sue labbra, fredde, mi sfiorarono la fronte.

«Non mi credi?»

Cautamente, aprii gli occhi, scrutandolo diffidente.

«Dovrei?»

La mia voce suonava dubbiosa e spenta perfino alle mie stesse orecchie.

«Non ti sto mentendo»

«Lo hai fatto un milione di volte. Perché stavolta dovrebbe essere differente?»

«Perché è la verità».

Verità. Qual era la verità? Come potevo continuare a fidarmi?

Dannazione! Perché, quegli occhi di ghiaccio, dovevano per forza farmi un effetto così... incontrollato?

«Non guardarmi così»

Lo implorai, con le poche forze che sentivo di possedere.

«Come dovrei guardarti?»

«Non farlo, Derek. Non farmi soffrire di nuovo. Sto già abbastanza male»

«Lo so... Mi dispiace».

 

È buffo. La sua presenza mi spaventava e rassicurava al tempo stesso.

Non gli permisi di toccarmi di nuovo. Né di farmi ancora del male. Ma volli comunque trattenerlo con me. Perché non volevo rimanere da solo. Perché in quel posto sentivo freddo. Perché avevo bisogno di qualcuno che rimanesse al mio fianco.

Avevo bisogno di lui...

 

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Capitolo 27
*** Capitolo 27: 16 gennaio 1965 - I miei dubbi piani per il futuro ***


 

 

Capitolo 27

16 gennaio 1965 - "I miei dubbi piani per il futuro"

 

 

Rimanere legato a quello stupido letto, in quella maledetta, piccola stanzetta bianca, costretto a stare fermo, era quasi una tortura più grande di quando, incautamente, mi agitavo, vedendo milioni di stelle.

Il bruciore iniziale si trasformò, poco a poco, in un sordo e pulsante dolore. Riuscivo a scorgere, nella mia mente, ogni piccolo segno che solcava la pelle della mia schiena. Ogni volta che, volente o nolente, mi lasciavo trasportare dall'intorpidimento della stanchezza, accecanti flash lampeggiavano nella mia testa, riportandomi alla memoria sgradevoli istanti che avrei preferito dimenticare.

 

In uno di quei momenti, mentre mi risvegliavo di soprassalto, soffocando il grido che inevitabilmente chiedeva di sgorgare dalla mia gola, avvertii qualcosa, posato vicino a me. Voltai, con non poche difficoltà, la testa, curioso di scoprire di cosa si trattasse, e rimasi a fissare la figura raggomitolata al mio fianco, sbigottito ed a bocca aperta.

Non lo avevo mai veduto in quel modo. Così fragile, ed apparentemente indifeso. Di una bellezza oscura ed eterea al tempo stesso.

Provai a parlare, ma non trovai la voce. Mi chiedevo da quanto tempo fosse lì. Rimasi ad osservarlo a lungo, stregato da quell'insolita visione, fino a che le sue ciglia si mossero, tremolando. Mi fissò a sua volta, forse sorpreso, di certo confuso.

«Uhm... Io... ecco...»

Gli sorrisi. Avrei potuto reagire in mille altri modi. Invece, l'unica cosa che riuscii a fare fu quella.

«Dove eri finito in questi giorni?»

Domandai infine, appena mi fui ripreso dalla nuova scoperta.

«A sistemare problemi che richiedevano il mio intervento», borbottò, quasi scocciato.

«Capisco»

Era ormai un'abitudine, la mia. Sostenevo di aver capito - anche quando non era vero - per non dover passare ore a discutere, finendo, inevitabilmente, con l'avere torto.

Ma forse, quella volta in particolare, andò in modo differente ed inaspettato. Le sorprese, evidentemente, non erano finite.

«Scusa. Non volevo lasciarti da solo, ma... Quella gente su cui stavi lavorando, continua a creare problemi»

Mio malgrado, sbiancai, mentre sgraditi ricordi mi sospingevano, in modo del tutto autonomo ed incontrollato, nuovamente verso quella sera. Tremai, spaventato. E poi tremai ancora, stavolta sorpreso dal leggero tocco della sue dita sul mio viso.

«Non ci pensare. Non si avvicineranno più a te»

Chissà perché, quella volta credetti ciecamente alle sue parole. Forse, semplicemente, ne avevo bisogno. Sentivo la necessità di fidarmi di qualcuno. Ed in fondo, lui era l'unico, lì dentro, sul quale avrei potuto permettermi di confidare.

 

«Rimani ancora un po'?»

Chiesi, sentendomi, al contempo, molto infantile. Annuì.

«Come ti senti?»

«Male»

Era la verità. Non avevo proprio la forza di continuare a nasconderlo. Di mentire agli altri e, soprattutto, a me stesso.

«Lo vedo. Posso... fare qualcosa per aiutarti?»

La sua offerta, completamente imprevista, mi lasciò turbato e sconvolto.

«Sì... Ma non lo farai»

Questa volta fui io a sorprenderlo.

«Come lo sai?»

Il mio ghigno era più di disperazione che di divertimento.

«Perché sei uno di loro».

 

«Cosa vuoi che faccia?»

Serio, deciso, risoluto. Diritto all'obbiettivo. Ecco, quello era l'uomo che piaceva a me. Terribilmente eccitante nella sua freddezza calcolatrice.

«Voglio andarmene. Sparire dall'Agenzia. Voglio tornare alla mia vita. E voglio che tu mi aiuti a farlo»

Incapace di proferire parola, rimase a fissarmi, stordito, per diverso tempo.

«Io... non so come»

Fu costretto ad ammettere. Una debolezza. Una macchia indelebile nel suo prestigioso ed impeccabile curriculum.

«Nemmeno io. Per questo mi serve il tuo aiuto. Un modo, di certo, lo troveremo. Insieme»

Scosse la testa, «No, no... non è possibile»

«Lo è, invece. Sai che ci proverò comunque, non è vero? Vuoi proprio macchiarti anche della mia morte, sapendo di non aver mosso un dito per provare ad aiutarmi?».

 

Sì, lo so. Fu un colpo basso. Decisamente crudele da parte mia. Ma quale altra scelta mi rimaneva? Nessuna. Derek era la mia ultima speranza. L'unica che avevo. Dovevo assolutamente convincerlo a lavorare per me, una volta tanto. Ne andava del mio futuro, dopotutto.

 

«D'accordo»

«Come?», domandai, confuso.

«D'accordo. Io... lo farò. Non so come, ma avrai il mio aiuto. In qualche modo, noi riusciremo a portarti fuori di qui»

Eccolo. Finalmente, il mio biglietto bianco era comparso. Un futuro diverso baluginava, invitante, davanti ai miei pensieri, come un luminoso miraggio di fievoli speranze.

«Bene. Allora diamoci da fare»

Lo scrutai, perplesso, mentre con una smorfia vagamente simile ad un sorriso, sollevava dubbioso ed ironico un sopracciglio nero.

«Sai, non mi pare proprio che tu sia nelle condizioni per... darti da fare»

Mormorò, facendomi diventare più rosso di un tramonto estivo...

 

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Capitolo 28
*** Capitolo 28: 22 gennaio 1965 - Alla ricerca di un nuovo posto in cui sopravvivere ***


 

 

Capitolo 28

22 gennaio 1965 - "Alla ricerca di un nuovo posto in cui sopravvivere"

 

 

Non avrei resistito un solo minuto in più, segregato in quella claustrofobica stanzetta asettica, all'interno dei palazzi dell'Agenzia. Quel giorno, deciso ad averla vinta a tutti i costi, mi adoperai con tutto me stesso, per far dannare chiunque, incautamente, mi si avvicinasse. Ottenni in premio di far arrivare, a tempo di record, la cavalleria - per loro, per me era piuttosto il mio biglietto per uscire da lì, e forse anche qualcosa di più -

Giunse infine, trafelato, corredato di un cipiglio più che minaccioso, ed imbrattato, dalla testa ai piedi, di quella che mi parve proprio fuliggine. Insomma: una visione da brividi.

«Buongiorno», salutai allegramente - forse troppo -

«Il buon giorno dallo a qualcun altro. Io non sono dell'umore»

«Lo vedo. Che succede?»

Sbuffò, voltando la testa e facendo oscillare i capelli scuri.

«Tsk! Lascia perdere. Piuttosto, che diavolo vuoi?»

«Uhh, che gentile che sei»

Lo canzonai, facendolo irritare ancora di più.

«Non provocarmi, Jules. Non è proprio il momento. Potrei pensare di...»

«Di cosa, Derek? Che cosa vorresti fare, che già non hai fatto?»

Trattenne il fiato. D'un tratto, pareva essersi scordato di ciò che lo aveva fatto imbestialire.

«Dimmi perché sono qui»

Mormorò. Più che una richiesta, la sua aveva tutto il tono di una preghiera.

Lo accontentai, spiegandogli che non ne potevo più di rimanere lì. Che, in sostanza, me ne volevo andare. Uscire.

«Non sei nelle condizioni di andartene in giro»

Lo ripagai con una smorfia esasperata.

«Come al solito, non mi ascolti. Non ho detto di volermene andare in giro. Ho detto di volere uscire da qui. Se provi ad usare quel cervello che ti ritrovi per rifletterci, converrai certamente con me che sono due cose distinte e ben diverse»

Voleva ammazzarmi. Glielo leggevo negli occhi, che mandavano lampi rabbiosi.

«E sentiamo, dove pensi di andare, una volta fuori da qui?»

Quella. Sì, quella era un'ottima domanda. Ci avrei pensato una volta ottenuta la libertà. Ragionavo un passo per volta, in quei giorni. Di più, sarebbero stati ben superiori alle mie capacità di elaborazione dei problemi.

Tanto dissi e tanto feci che, alla fine - forse più per non dover continuare a sentirmi parlare - decise di accontentarmi, pretendendo però di sapere dove sarei stato e per quanto tempo. Un dittatore, insomma. Ma a me piaceva così.

 

Non dovetti attendere molto, per scoprire che, d'un tratto, stare in piedi era diventata un'impresa seriamente ardua, un vero affare di stato. Da quando era così difficile? Forse da quando, dopo più di una settimana di riposo forzato e totale inattività, il mio corpo sembrava essersi totalmente disabituato alle sue normali funzioni. O forse da quando, anche solo reggermi sulle gambe, spostava il peso in un modo totalmente differente da quello che in realtà poteva permettersi, infierendo crudelmente su ogni singolo centimetro di pelle lesionata. Un solo passo e dovetti mordermi la labbra per non urlare.

«Ce la fai?»

Domanda inutile e tendenziosa, la sua.

«N-no...»

Rantolai, già a corto di fiato.

«Vuoi che ti...?»

Derek allungò le mani, con l'intento di aiutarmi, ed io, terrorizzato dalla probabili, catastrofiche conseguenze, non mi limitai ad un semplice, gentile rifiuto. Strillai atterrito;

«NO!! N-non farlo. Per carità»

Sbilanciandomi appena, cercai affannosamente di recuperare l'equilibrio perduto, mentre lui ritraeva istantaneamente quelle sue manacce pericolose.

«Non volevi uscire?»

Domandò, con velata ironia, prendendosi bellamente gioco di me.

«TACI»

Sibilai, trattenendomi a stento dall'insultarlo.

Alla fine, non avendo molte altre alternative, mi risolsi a trascinarmi fuori, un centimetro alla volta, abbarbicato alla sua spalla come un koala al suo eucalipto. OK, so che detto così sembra un paragone un po' azzardato. E poi non sono nemmeno così morbido e peloso. Ma, seriamente, se avessi dovuto raggiungere l'aria aperta con le mie sole forze, al 99% sarei stramazzato a terra prima ancora di attraversare il corridoio. Sarà pure uno stronzo, bastardo e cinico esecutore, ma senza di lui, probabilmente, oggi sarei ancora ad ammuffire ed invecchiare là dentro, in servizio a vita per l'Agenzia.

 

Invece andò molto diversamente. Se solo quella mattina avessi immaginato come sarebbe finita, di certo il mio umore sarebbe stato molto migliore. Mi sarei fatto tutta quanta la strada cinguettando come un fringuello in calore. Invece avevo i nervi a pezzi ed una spaventosa emicrania. Le mie pessime e patetiche condizioni dovevano essere talmente evidenti che perfino Derek le notò, decidendo di accompagnarmi in silenzio e senza discutere.

Rischiai di addormentarmi almeno un paio di volte, sul sedile di pelle nera della sua auto, lungo il tragitto. Dovette insistere, pazientemente e più volte, per convincermi ad uscire dall'abitacolo.

Ancora adesso ho il ricordo, dopo aver suonato il campanello ed aver atteso per svariati minuti al freddo, fermi sotto il porticato come due barboni rincitrulliti, dell'espressione sorpresa e sconvolta di Chris, nel momento in cui si ritrovò di fronte lo sguardo - sicuramente glaciale - di Derek. La sua schiena e le sue spalle mi nascondevano quasi completamente alla vista, perciò non mi notò subito. Dovetti, a fatica, farmi avanti, per attirare la sua attenzione e rassicurarlo che tutto andava bene, o per lo meno questo era quello che mi auguravo. Chris spostò lo sguardo perso da Derek a me, poi nuovamente su di lui, ed infine mi fissò, confuso e visibilmente spaventato.

«Jules... Che cavolo succede?»...

 

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Capitolo 29
*** Capitolo 29: 30 gennaio 1965 - Visite inattese ***


 

 

Capitolo 29

30 gennaio 1965 - "Visite inattese"

 

 

Trascorsi lunghi e nebbiosi giorni, in stato semi-vegetativo. A tratti cosciente, ma per la maggior parte del tempo il mio cervello non ne voleva proprio sapere di connettere. Per lo più, mi accontentavo di rimanere immobile, disteso a pancia in giù sul comodo letto ad una piazza, in una delle numerose camere per gli ospiti di quella casa indecentemente grande che si ritrovava fra le mani Chris.

Ogni volta che tentava di stabilire un contatto con il sottoscritto, poco dopo era costretto ad arrendersi all'evidenza che non ero né abbastanza presente, né tanto meno pronto, per permettermi di sottopormi ad uno dei suoi tipici interrogatori.

In realtà, durante quel periodo, non desideravo altro che silenzio e tempo per riposare. Di notte però non ci riuscivo. Forse il silenzio era troppo. Forse il buio mi opprimeva, riportandomi alla memoria tutti quegli avvenimenti spiacevoli che non desideravo affatto ricordare, ma che invece erano sempre lì, in agguato, pronti ad aggredirmi a tradimento nell'attimo in cui avessi abbassato la guardia.

 

Avrei dovuto raccontagli qualcosa. Lo sapevo benissimo. Occupare il suo spazio ed il suo tempo, senza dare nulla in cambio, tenendolo allo scuro del problema che mi aveva condotto lì, in quello stato, era scorretto. La paura però mi frenava. Ogni volta che provavo a radunare idee e pensieri, il terrore che ciò che avevo da dire risultasse, in qualche modo, sbagliato, inaccettabile, finiva invariabilmente per frenarmi, impedendomi di fare ciò che ritenevo giusto. Impedendomi di parlare liberamente con lui, di raccontare al mio Chris tutta la verità.

 

Un giorno di quelli, capitò nella stanza che occupavo qualcuno che, né io né lui, aspettavamo: Sarah. Chris fu più veloce, riuscendo a trascinarla via prima che avesse il tempo materiale per farmi lo scalpo. Ma lo scampato pericolo e la consapevolezza che lei fosse comunque lì, da qualche parte, a tramare ai miei danni, rappresentò un potente deterrente contro il mio desiderio di riposo. Per il resto della giornata, e parte di quella seguente, non riuscii più a calmarmi abbastanza da chiudere gli occhi. Non che rimanere sveglio mi servisse a molto. Se avesse voluto, avrebbe benissimo potuto scuoiarmi vivo senza che io avessi la minima possibilità di impedirglielo. Ma, se non altro, rimanendo vigile avevo l'illusoria speranza di poter attirare i soccorsi gridando.

Sì, lo so che sembra sciocco. Lo so che non ha molto senso. Ma lei mi faceva paura. No, correzione: lei mi FA paura, anche adesso a dirla tutta. Ho sempre avuto l'impressione che non si trattasse di semplice antipatia. Sembrava molto di più odio. Ormai ero abbastanza allenato, per riconoscere quello sgradevole sentimento. Il modo in cui lei mi guardava, senza bisogno di inutili e scontate parole, faceva pensare che mi odiasse, anche se, né allora né ora, ho mai ben capito il perché.

 

Mi sarebbe tanto piaciuto non pensare a niente. Lasciare semplicemente il mio corpo e la mia mente alla deriva, galleggiando in un piacevole stato di semi-incoscienza, che mi desse almeno un'illusione di benessere. Peccato che, ogni volta che ci provavo, allentando cautamente le briglie sui miei pensieri e le mie percezioni, accadeva attorno a me qualcosa di imprevisto, che bruscamente riportava al presente la mia attenzione sfilacciata.

L'ultimo di quei bruschi risvegli, fu una sera di fine gennaio - o era inizio febbraio? Non ne sono certo. A quel tempo ero decisamente troppo rimbecillito per tenere il conto dei giorni che scorrevano -

Era ormai buio. Lo sapevo perché, nella camera in cui ero ospite, le poche superfici distinguibili mandavano tenui bagliori argentati, illuminati, molto probabilmente, da un timido spicchio di luna.

Qualcuno entrò nella mia stanza. Il passo, leggero, fu appena in grado di scalfire i miei sensi in letargo. Ciò che veramente mi ridestò, fu più quella strana vibrazione che si propagava nell'aria immota, ogni volta che il suo corpo ne attraversava l'impalpabile superficie.

Non mi sprecai a dire nulla, nonostante sapessi benissimo chi si stava avvicinando a me. Lasciai che fossero sue le prime parole ad infrangere quel silenzio sospeso.

Invece non parlò. Si sedette a terra, accanto al mio letto, facendo scorrere lo sguardo sul mio corpo disteso. Per lunghi minuti rimasi così, immobile, facendomi accarezzare dai suoi occhi. Infine, non resistendo più a quell'agonia, mi decisi ad aprire bocca.

«Credevo ti fossi dimenticato della mia esistenza. Forse, per te, sono già morto»

«O forse no»

Bisbigliò, in un soffio appena percettibile che mi fece rabbrividire. Con qualche impiccio, voltai la testa nella sua direzione, fissandolo negli occhi trasparenti.

«Perché sei qui? Lo sai, non dovresti»

Annuì, «Sì... Credo di aver trovato una soluzione»

«P-per...»

«Per riavere la tua vita»...

 

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Capitolo 30
*** Capitolo 30: 27 febbraio 1965 – Derek ***


 

 

Capitolo 30

27 febbraio 1965 – "Derek"

 

 

Ci sono giorni in cui ancora mi sveglio sudato e tremante, con l'ultimo strascico di un sogno che ricorre, di tanto in tanto, rendendo alcune delle mie notti un vero e proprio incubo. I miei ricordi tornano indietro di qualche anno, impietosi nella loro fredda dettagliatezza. Ricordi che ho tentato in ogni modo di rimuovere, senza successo. Vorrei liberarmene, una volta per tutte, ma non sono abbastanza forte da costringere la mia mente al mio volere. Sono più forti loro. Lo sono sempre stati. Speravo che allontanarmi sarebbe bastato, per lasciarmi tutto alle spalle. Mi sbagliavo. Non è così, e non lo è mai stato. Per quanto mi sforzi, non riuscirò mai davvero ad andare avanti. Ci saranno sempre delle ombre ad oscurare il futuro, ed il presente.

 

Vorrei sprecare una piccola parte del mio e del vostro tempo, per spendere qualche parola, nel tentativo di spiegarvi cosa... chi era la persona, l'uomo a cui affidai parte del mio futuro, quella parte più immediata. Forse non ne siete interessati, ma desidero provare a spiegarvi, un piccolo frammento di verità su una delle più importanti influenze della mia esistenza. Cercherò di essere il più chiaro e conciso possibile, almeno nei miei intenti.

 

Il giorno in cui si presentò alla porta di Chris - per la seconda volta, dopo avermici accompagnato - commise uno dei peggiori errori di valutazione. Provai a rammentarglielo, ma non ne sembrò minimamente toccato. Proseguì invece, indifferente, per la sua linea di azione, ignorando deliberatamente qualsiasi segnale di pericolo, fingendo che tutto fosse in ordine.

Non lo era. Entrare in quella casa, nella vita privata di un normalissimo, comune cittadino, fu un'azione sconsiderata, che non mancò di scontare, una volta che tutto tornò alla normalità - normalità, in questo caso, è un termine relativo. La normalità, all'interno dell'Agenzia, non esisteva e non esiste realmente. È un concetto astratto e non praticabile -

 

È difficile spiegare. Me ne rendo conto solo ora, cercando di dare un senso a tutto questo. Non c'è un senso. Per quanto mi sforzi di trovarlo, non esiste, e spiegare diventa un'impresa senza speranza.

Allora proviamo a cominciare dall'inizio. Forse tutto risulterà, se non immediatamente comprensibile, per lo meno più chiaro.

Nell'autunno del 1937, i genitori di Derek persero la vita durante un attentato. Aveva sei anni. Era figlio unico. Senza altri parenti conosciuti, ai quali poterlo affidare, fu consegnato ad un orfanotrofio. Un anno più tardi, una giovane donna ed il suo presunto consorte, ne chiesero l'affidamento. In realtà i due non erano coniugi, ma colleghi. Loro compito era scovare giovani promettenti, dotati di spiccate doti organizzative, assicurando loro un'istruzione appropriata, un adeguato mantenimento ed un corso di addestramento specializzato, finalizzato alla formazione di ragazzi con le qualità giuste per portare a compimento alcuni, delicati incarichi, richiesti da una particolare sfera del governo.

Il nostro piccolo Derek faceva parte di un progetto, finanziato dallo stato, denominato Comet. A soli quattordici anni, il suo bagaglio culturale e le sue conoscenze, teoriche e pratiche, avrebbero fatto sicuramente invidia a molti laureati senza esperienza. A conti fatti, pur nella sua immaturità anagrafica, aveva tutte le carte in regola per aspirare alla direzione di uno dei tanti reparti di quella che, allora, non era ancora l'Agenzia - non a pieno ritmo, in ogni caso -

Presto - due anni più tardi - le sue predisposizioni vennero meglio indirizzate ed incanalate all'interno di un gruppo di supporto di recente creazione. Quel gruppo venne provvisoriamente denominato "Esecutivo", nome che, contrariamente alle aspettative iniziali, permase fino ad ora - almeno che io sappia - Allo stesso modo, coloro che ne facevano parte, furono insigniti della dubbia carica di esecutori.

A differenza di un "normale" operativo che, almeno sulla carta, aveva la piena libertà di azione ed integrazione all'interno del tessuto sociale, un esecutore rappresentava, per così dire, il lato oscuro e nascosto, e come tale doveva necessariamente mantenersi all'esterno della normale vita del paese, il più distaccato possibile da qualunque genere di interazione fra i cittadini. Era, in poche parole, destinato ad un'ombra perpetua. La faccia non visibile della luna.

Che cosa comportava questo? Beh, qualunque contatto con il mondo esterno doveva, imperativamente, essere filtrato, il meno diretto possibile. Non esistevano - e non dovevano esistere - conoscenze, amicizie, legami famigliari e/o affettivi, all'esterno dell'Agenzia. Per la verità, non erano previste relazioni di alcun tipo, comprese quelle interne. Sarebbe stato controproducente. Avrebbe finito con il distrarre l'attenzione. Insomma: sarebbe risultato dannoso, sia per l'Agenzia, sia per l'esecutore stesso - o per lo meno, questo era ciò che ci si premurava di inculcare in coloro che ne erano membri effettivi, o potenziali -

 

Fu un enorme sbaglio, da parte sua, spingersi fino alla porta di casa di Chris. Ma le mie parole, i miei dubbi, non servirono in alcun modo a farlo ragionare. Sì, ora lo so, avrei dovuto fare qualcosa per lui, impedirgli di fare cazzate, di cedere all'istinto che in quel caso, davvero, si rivelò dannoso. Forse... probabilmente, era questa la ragione per la quale manteneva tutta quella freddezza. Forse era cosciente che, se solo avesse allentato un momento il controllo, l'equilibrio di tanti anni si sarebbe spezzato, mettendolo in pericolo.

Più o meno inconsciamente, sapevo di avere almeno parte della responsabilità, per quello che era e sarebbe accaduto. Ma ero egoista. Desideravo solo ciò che ritenevo giusto per me, senza preoccuparmi affatto delle conseguenze sugli altri. Me ne resi conto tardi.

Realizzai quanto, ciò che volevo e che avevo fatto, avesse influito non solo sulla mia esistenza, ma anche su quella di chi mi stava intorno, una mattina di fine inverno quando, solo in quella casa non mia, occupato a cucinare qualcosa di decente, venni sorpreso dal suono isterico del campanello del porticato. Imprecando fra i denti, per l'interruzione inattesa, mi avviai all'entrata, con l'intento di scoprire la causa di tanta fretta ed agitazione.

Sgranai gli occhi, sconvolto, scorgendo dallo spioncino la sua pelle bianca, e gli eleganti vestiti, ricoperti di sangue...

 

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Capitolo 31
*** Capitolo 31: 27 febbraio 1965 - Non un addio ***


 

 

Capitolo 31

27 febbraio 1965 - "Non un addio"

 

 

Abbandonato l'ultimo briciolo di ragione, mi ero fatto guidare semplicemente dall'istinto, quando aprii quella porta, rimanendo a fissare la sua figura, ferma sul tappetino del porticato, a bocca aperta e con la paura che velocemente si trasformava in panico.

«Che... cosa... D-Derek, stai bene?...»

Nonostante la sua sembrasse un'apparizione spettrale, i suoi occhi, lucidi ed arrossati, possedevano una luce particolare, quasi una folle energia.

Incerto, sembrò rendersi conto solo in quel momento del suo stato pietoso.

«Uhm... Non è mio...»

Tentò di spiegare, molto probabilmente riferendosi a tutto quel sangue che macchiava, in modo grottesco e surreale, la sua figura.

Spalancai gli occhi, preoccupato. Non ero per nulla certo che ciò che mi disse potesse essere considerato una rassicurazione.

«D-De... C-cosa...»

I miei pensieri vennero interrotti dalle sue dita che si strinsero con forza attorno al mio polso.

«Dobbiamo andare. Ora! Non c'è tempo per...»

«Andare?!»

Lo fissai, inorridito e con la testa sottosopra. Con uno strattone liberai il braccio.

«Jules... Ti prego»

Intollerabile. Non riuscii a sostenere il peso dei suoi occhi, d'un tratto così tristi da far male all'anima.

«Che cosa succede? Perché non puoi dirmelo? Come... c-come...?»

«Ti giuro che ti spiegherò tutto. Ma non ora! Per favore»

Di nuovo non mi lasciava scelta. Quel brutto bastardo riusciva sempre a convincermi a fare tutto quello che voleva. Dio, quanto lo detestavo, certe volte.

«D'accordo»

Senza attendere oltre, mi riafferrò per il polso, ma prima che riuscisse a trascinarmi fuori, tornai in me con un ultimo sprazzo di lucidità.

«NO!»

Gridai, mordendomi le labbra nel disperato tentativo di non sentirmi, come sempre, in colpa. In colpa per lo sguardo sperduto e confuso che comparve sul suo volto.

«Non posso sparire così, come se niente fosse. Cosa penserebbe Chris?»

«Ma... ma...»

«No, zitto. Faccio in fretta»

Poi lo fissai un secondo, scrutandolo perplesso e scuotendo la testa.

«Entra. Non stare sulla porta in quel modo. Sembri un maniaco psicopatico»

Se me lo avessero detto, non ci avrei creduto.

Arrossì. Fu la prima - e, credo, l'ultima - volta che lo vidi in quello stato.

Sorrisi, compiaciuto, tra me, per aver ottenuto tanto.

 

Di fianco alla tovaglietta, con la colazione pronta e mai toccata, lasciai un biglietto di scuse ed un tentativo di spiegazione al mio povero e sconvolto Chris.

L'idea di sparire in quel modo, mi metteva a disagio. Lui non meritava tutto ciò. Non meritava di soffrire a causa mia. Avevo giurato a me stesso che lo avrei protetto, sempre. Ma ora, come potevo continuare a proteggerlo, se ero costretto a scappare? Speravo, pregavo che mi perdonasse. Forse non immediatamente. Ma un giorno, chissà.

 

"Avrei voluto lasciarti qualcosa di meglio.

Se solo avessi potuto, te lo avrei detto di persona...

e mi avresti dato per pazzo.

Perdonami per averti deluso. Non era mia intenzione.

Un giorno, te lo prometto, proverò a spiegarti tutto.

Ma ora è tardi. Per me lo è.

Tornerò, perché non voglio perderti.

Solo... non so quando.

Ti voglio bene

J."

 

Lasciai il foglietto e la matita accanto ai biscotti. Osservai, smarrito, la cucina. Infine scossi la testa. Tutto questo non aveva senso. Io lo sapevo. Sapevo che era sbagliato. Sapevo che non avrei dovuto. Eppure non seppi tirarmi indietro. Qualcosa mi diceva che lui era qui perché io l'avevo voluto. Era colpa mia. Lo sentivo, dentro di me.

Con un sospiro, lasciai la cucina. Lo trovai, fermo e completamente fuori posto, sul grande tappeto del soggiorno. Trattenni il respiro. Sembrava così fragile in quel luogo, così impalpabile. Un'ombra tremolante, pronta a svanire con il sorgere del sole.

«Possiamo andare»

Bisbigliai. Piano, annuì ed insieme uscimmo da quella casa, svanendo, poco dopo, nella fredda nebbia di un grigio mattino londinese...

 

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Capitolo 32
*** Capitolo 32: 27 febbraio 1965, ore 10:00 - Sur la Route – Ruote che girano ***


 

 

Capitolo 32

27 febbraio 1965, ore 10:00 - Sur la Route – "Ruote che girano"

 

 

Non riuscivo a smettere di tremare. Eravamo in strada già da due ore, ma non mi ero ancora liberato del panico, che mi aveva afferrato nell'istante in cui lo avevo visto fuori dalla porta. Per tutto quel tempo, rimasi raggomitolato contro il sedile, con gli occhi sbarrati e persi nel paesaggio che scorreva là fuori. Non mi ero mai voltato a guardarlo. Avevo paura. Ero atterrito dalle implicazioni di ciò che poteva essere successo.

Lui non parlò mai. Per tutto quel tempo, guidò in silenzio, con lo sguardo fisso sulla strada.

 

Avevo mille domande in testa. Una confusione assordante, che non riuscivo a placare. Finalmente mi decisi a voltarmi, per provare a fare luce almeno su qualcuno dei miei dubbi. Ma ogni domanda mi rimase incollata in bocca.

Lo osservai. Pochi secondi, non me ne servirono di più, per capire che qualcosa non andava. Era così pallido. Le macchie, ormai seccatesi sul suo viso, contrastavano in modo impressionante con il non-colore della sua pelle. Ciò che però mi spaventò di più, furono le sue labbra, ora di un improbabile violetto, ed i suoi occhi lucidi, sotto i quali spiccavano un paio di profonde occhiaie.

Non lo avevo mai visto ridotto in quel modo. Un sospetto strisciò lentamente dentro di me. Lo osservai meglio, quasi trattenendo il fiato. Ed infine, con un nodo alla gola, compresi.

«Fermati»

Sibilai. Strinse le dita al volante, facendo guizzare gli occhi ora su di me, ora sulla strada.

«Cosa?»

«Ti ho detto di fermarti»

«Non poss...»

«Adesso. O ti giuro che mi butto fuori. Ne sono capacissimo, chiedilo a Chris»

Lo minacciai, con tutte le intenzioni di averla vinta, in un modo o nell'altro.

«J-Jules... Non è il momento di...»

Lo fissai, freddo. Fu costretto ad inchiodare, mentre io già mi ero sporto oltre lo sportello socchiuso.

«Sei impazzito?!»

Ruggì, sconvolto. Non vi badai, concentrato sul mio obbiettivo.

«Accosta e spegni il motore», intimai, secco.

«T-tu sei...»

«Derek... SPEGNI QUEL FOTTUTO MOTORE!»

Si fermò, finalmente. Gli levai le chiavi di mano, gettandole sul sedile posteriore. Lui mi fissava, stranito ed incredulo. Poi un grido di dolore sfuggì alle sue labbra, quando feci slittare - troppo velocemente - il suo sedile indietro.

«Non era tuo?!»

Lo aggredii, facendolo tremare, confuso e forse, ora, un po' spaventato.

«D-di che... parli?»

Invece di rispondere, afferrai con rabbia il bordo inferiore della sua bella - una volta, di sicuro lo era - camicia, scoprendogli il ventre. Nonostante mi fossi preparato al peggio, non potei fare a meno di impallidire ed imprecare. Qualcosa, di grosso e molto tagliente, lo aveva trafitto, arrivando anche piuttosto in profondità. Continuava a perdere sangue. Con un brivido, mi chiesi da quanto tempo poteva essere conciato in quel modo osceno.

«Perché cazzo non me lo hai detto?! Che diavolo credevi di dimostrare?!»

«I-io non...»

«Sta zitto! Porca puttana, potevi morire dissanguato, te ne rendi conto?!»

Tremava. Ma non era paura, la sua. Doveva essere distrutto. Cercai di frenare l'istinto di ucciderlo una volta per tutte con le mie mani. Invece ringhiai;

«Dove sta la roba per il primo soccorso?»

«Non serv...»

«Derek, non farmi girare le palle. Ti ho fatto una domanda chiara e precisa. Non mi interessano i tuoi MA e SE. Esigo unicamente una dannatissima risposta»

Deglutì, stravolto, balbettando, «B-bagagliaio»

Stavo per uscire, ma mi fermai all'ultimo istante, fissandolo torvo e minacciandolo senza mezzi termini.

«Non azzardarti a muoverti, o giuro che ti ammazzo».

 

Non sono mai stato un granché come infermiere. Questo va detto, a mia discolpa. Ripulii con cura la ferita e rimisi insieme i suoi pezzi come meglio potei. Avevo, se non altro, molta fantasia ed un certo tocco artistico. Mi venne fuori una curiosa opera d'arte post-moderna, che non mancò di sfuggire al suo occhio critico.

«Che schifo di sutura», borbottò a mezza voce.

«Cretino. Fosse per te, saresti ancora qui a riempire la tua auto del tuo sangue. Almeno io mi rendo utile»

«Già, cucendo a mezzo punto»

«Ti prendo a calci. Giuro che lo faccio»

«No... Va bene così».

 

Guidai per il resto della mattina e tutto il pomeriggio, seguendo diligentemente l'itinerario che sembrava portarci verso nord - ancora, che palle -

Con un po' di fatica, ero riuscito a spostarlo, facendolo scivolare adagio da un sedile all'altro. Ora dormiva, almeno così sembrava, con un'espressione pacata, nella quale si intravedeva appena tutta la stanchezza ed il dolore che doveva aver provato quel giorno.

Continuai a guidare, un pizzico più rilassato da quando avevo sistemato almeno uno dei tanti - troppi - problemi che mi assillavano.

Pensavo a Chris, che forse a quell'ora già malediva il giorno - la notte - in cui mi aveva incontrato.

Pensavo all'Agenzia, rimuginando sulla possibilità che esistesse realmente un modo per uscirne.

Pensavo all'università, ed al fatto che, dopo tanta fatica e sacrifici, non volevo assolutamente mandare tutto all'aria. Non ora che ero così vicino alla laurea.

E pensavo a Derek, che riposava tranquillo al mio fianco. Mi chiedevo cosa lo avesse ridotto in quello stato o, più probabilmente, chi. Temevo la risposta, ed allo stesso tempo credevo di conoscerla. No, mi rifiutavo di disperarmi, prima ancora di aver saputo tutta quanta la verità.

Mi serviva tempo, aria. Mi serviva un momento per pensare. Un momento per ritrovare anche solo un attimo di pace. Solo questo...

 

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Capitolo 33
*** Capitolo 33: 28 febbraio 1965 - THIRLBY - Le stelle ci osservano ***


 

 

Capitolo 33

28 febbraio 1965 - THIRLBY - "Le stelle ci osservano"

 

 

Le ruote si fermarono su di un piccolo piazzale sterrato, ai margini di un fitto bosco che, a quell'ora della notte, sembrava un'enorme macchia di inchiostro pronta ad inghiottire chiunque fosse stato abbastanza folle da osare avvicinarlesi.

Sospirai. Ero esausto ed a pezzi, ed avevo una fame da lupi - non mangiavo dalla mattina precedente - Uscii lentamente dall'auto e, distratto, mi guardai intorno, intento a stiracchiarmi. La pelle della schiena tirava ancora, ma aveva smesso di dolermi già da una settimana. Sollevai la testa ed incontrai milioni di stelle, le stesse che ricordavo di aver visto da piccolo, quando camminavo sui prati davanti a casa mia. Sorrisi a quelle stelle conosciute, puntandone una con un dito.

«Conosci il loro nome?»

Trasalii, a quella voce inattesa. La sua espressione mutò in fretta, dal divertito al dispiaciuto.

«Scusa, non volevo spaventarti»

Feci spallucce. Indicai, con la punta dell'indice, un piccolo e luminoso diamante, incastonato nel cielo.

«Vedi, quel puntino di ghiaccio? Quella è Spica, la stella più luminosa di Virgo»

Mi osservò, dubbioso. Così mi avvicinai, chinandomi al suo fianco e puntando di nuovo il dito nella direzione indicata.

«Quella è la costellazione della Vergine: Spica, Porrima, Vindemiatrix...»

Elencai, muovendo la mano nel cielo, a disegnarne i contorni invisibili.

«Non vedo nulla»

Si lamentò, con la voce piagnucolosa di un bambino, agitandosi irrequieto sul sedile e gemendo per il dolore.

«Scemo. Non ti muovere, o strapperai i miei punti perfetti»

«Perfetti... Certo, come no»

Gli feci una smorfia indispettita, poi tornai a guardare il cielo.

«D'accordo. Stavolta concentrati. Questa è facile e si vede molto meglio»

Descrissi, con le dita, un pentagono, al vertice del quale evidenziai una meravigliosa stella dorata.

«Riesci a vederla, Derek? Lei è Capella. È una delle gemme più luminose del cielo. Ha un bellissimo colore giallo oro, come quello del sole...»

«Come quello dei tuoi occhi»

Lo guardai, solo per un istante, ed arrossii.

«Uhm... più o meno»

Fremetti, soffocato dal suo sguardo. Grazie al cielo - ed a tutto il suo luminoso firmamento - sembrò spostare l'attenzione su altro che non fossi io.

«Dove siamo?»

«Vicino a Sutton Road, il paese credo si chiami Thirlby... così ho letto sul cartello. Sempre e comunque diretti a nord, grande capo. Speravo che ti svegliassi per tempo, prima di raggiungere le Shetland... a nuoto»

«Sei molto spiritoso stasera»

Lui invece era troppo serio, e stranamente malinconico.

«Cerco di mantenere la testa occupata in pensieri confortanti. Magari così evito di impazzire, che dici?»

Annuì, senza però aggiungere nient'altro.

 

Ero stato molto paziente. Lo avevo medicato. Avevo lasciato che si riposasse, guidando per tredici ore quasi ininterrottamente, se non altro per tenere la mente impegnata, visto che non avevo idea di dove fossimo diretti. Mi ero perfino adoperato per alleggerire la tensione. Ma la mia pazienza aveva i suoi limiti ed a quel punto, quei limiti, erano stati raggiunti. Non potevo più attendere. Non ci sarei riuscito, per quanto mi sforzassi.

«Derek...»

Mi osservò, di nuovo con quegli occhi un po' tristi, apparentemente lontani, persi chissà dove.

«Dimmi»

«Io...»

Non ero più così sicuro di ciò che veramente volevo, di ciò che era giusto sapere. Non ero più sicuro di un bel niente, a dire il vero. Ma mi feci comunque coraggio.

«Che cosa è successo? Che cosa... hai fatto?»

Il nodo che sentivo allo stomaco ed alla gola, si strinse di più, quasi soffocandomi, mentre attendevo in preda all'agitazione e, forse, ad una crisi di nervi.

«Ho... Credo di aver ucciso un uomo»

Ebbi l'impressione che mi si fosse gelato il sangue. Non fui in grado di spiccicare una sola misera sillaba, stravolto e totalmente incapace di reagire. Solo una domanda, sulle mie labbra esangui: «Perché?».

 

Purtroppo, mentre ero impegnato a riportare indietro il mio cervello, volato chissà dove, lui aveva ben pensato di riaddormentarsi. No, dico: DORMIVA! Dopo il macigno che aveva appena lasciato cadere, aveva avuto l'incredibile coraggio di ripiombare nel sonno.

Dovetti usare tutte le mie forze per impedirmi di prenderlo a ceffoni e scuoterlo fino a risvegliarlo. Probabilmente non sarebbe stato il caso. In fondo, se nonostante tutto era stato in grado di chiudere gli occhi e lasciarsi trascinare nuovamente nell'oblio, doveva essere veramente distrutto.

Sbuffai, spazientito e stravolto. Ero stanco anche io. Non mi andava di risalire in auto e tornare a guidare. Comunque non ci sarei riuscito. Non con un solo pensiero fisso in testa: viaggiavo in compagnia di un assassino. E l'idea ancora più angosciante: gli avevo affidato parte della mia vita. Che grandissimo idiota.

Eppure, lo osservavo, ma da nessuna parte riuscivo a scorgere pericolo. Niente, nella sua figura addormentata, mi dava la sensazione di una persona malvagia. Non riuscivo a raccapezzarmici. Non potevo immaginare come, né perché, avesse fatto una cosa simile.

Avevo bisogno di sapere. DOVEVO sapere. Non sarei mai riuscito a trovare pace, senza almeno aver chiaro il motivo per cui era successo. Già, perché in fondo ero convinto che ci dovesse essere una buona ragione che lo avesse "costretto" ad uccidere qualcuno. Ma quale?! Che ragione poteva esserci, per arrivare a togliere la vita ad un altro essere umano... di proposito?...

 

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Capitolo 34
*** Capitolo 34: 28 febbraio 1965 – Somewhere in Northern England - Scomode rivelazioni ***


 

 

Capitolo 34

28 febbraio 1965 – Somewhere in Northern England - "Scomode rivelazioni"

 

 

Attesi, mentre la mia pazienza si esauriva velocemente. Continuai ad attendere. Avevo lo stomaco ormai vuoto, un sonno allucinante ed i nervi a pezzi. Ma rimasi fermo, appoggiato all'auto, a scrutare il cielo stellato, sperando irragionevolmente che si svegliasse presto, e che avesse qualche risposta alle mie mille domande. Chiusi gli occhi, solo un attimo, e quando li riaprii il sole faceva capolino all'orizzonte, colorando il cielo di mille sfumature.

Ero mezzo ghiacciato e mi doleva ogni singola giuntura. Non era, evidentemente, mia intenzione addormentarmi all'aperto e, per giunta, seduto a terra. Tuttavia questo è esattamente ciò che successe.

«Ah... Jules, che cazzate combini?», borbottai fra me.

«Piacerebbe anche a me saperlo»

Trasalii al suono della sua voce. Mi voltai, sentendo il collo scricchiolare paurosamente, ed incontrai i suoi occhi di ghiaccio che mi fissavano dal finestrino.

«Tu sei davvero l'ultima persona al mondo che ha il diritto di compatirmi. Seriamente, credi di essere messo molto meglio di me?»

«No... forse no»

«Forse?»

Non rispose. Si limitò ad abbassare lo sguardo e sospirare.

 

 

«Ho bisogno che tu mi dica come sono andate le cose»

«Perché?»

«Perché non riesco a pensare a nient'altro. Perché, al momento, sono terrorizzato dall'idea di condividere un viaggio per chissà dove con un killer psicopatico. Perché...»

«D'accordo! D'accordo... Io... so di averti spaventato. Non avrei voluto. Non avrei voluto nemmeno uccidere quell'uomo e... non so perché è successo. Non doveva succedere. Lui... era un uomo di Eliah. L'altra mattina è venuto a cercarmi, sostenendo che c'erano cose di cui dovevamo discutere. Lo ascoltai. Secondo lui ero... sarei un traditore. Mi accusò di aver deliberatamente infranto le regole che mi impongono il distacco dalla società. S-sosteneva che mi fossi lasciato comprare da qualche stupido magnate di qualche importante compagnia. Credeva che in tutto questo fossi implicato anche tu, e che per questo io ti stessi aiutando. Ma niente di tutto quello che mi disse era vero... t-tranne per il fatto che effettivamente ti sto aiutando. Io... tentai di spiegare che si stava sbagliando, ma... ma lui non sembrava disposto ad ascoltarmi e... mi disse in faccia che mi avrebbe denunciato alla Commissione. Gli... dissi che non poteva farlo, che era una menzogna, che... P-perse la pazienza. N-non so... come... io non riesco a... capire... D'un tratto lo vidi con quell'arnese in mano, un... coltello, credo. Fu allora che compresi che dovevo difendermi, e che forse sarebbe finita male... Non volevo ucciderlo e... Non avrei voluto portarti via, ma non ho trovato nessun'altra scelta... Nessuna»

Sospirai, poi lo scrutai, diritto negli occhi.

«Perché ti ha rivolto quelle accuse?»

«Non lo so»

«Qualcuna di quelle era vera?»

«Solo il fatto che ti sto aiutando»

«Le altre?»

«No... Le altre sono menzogne»

Strinsi i denti, soppesando le possibilità, osservando i suoi occhi trasparenti. Dovevo credergli? Se mi avesse mentito, me ne sarei reso conto... in tempo? Forse. Non avevo modo di saperlo. In quel momento, però, sembrava sincero. Decisi di dargli la mia fiducia, pregando che la meritasse.

«D'accordo. Io... ti credo».

 

 

«Ho fatto una cosa assurda ed orribile. Ne sono consapevole. Ho messo in pericolo me stesso ed anche te. E questa, vorrei che tu mi credessi, era davvero l'ultima cosa che desideravo»

«Non è stata colpa tua. Non potevi prevederlo»

«Forse no. Ma se solo fossi stato più attento. Se solo avessi evitato di scoprirmi in quel modo. Se... solo... Sono riuscito unicamente a peggiorare la situazione. Ti avevo promesso che ti avrei aiutato a liberarti dell'Agenzia, ed ora sono costretto a fuggire e... e ti ho trascinato con me. Mi dispiace. Non era quello che volevo»

Gli sorrisi. Fu, indubbiamente, una reazione sconsiderata e senza senso, eppure lo feci ugualmente, in modo del tutto spontaneo, guadagnandomi, fra l'altro, un'occhiata dubbiosa e sconcertata.

«Lo trovi divertente?»

«No. Però, in un certo senso, è bello scoprire che anche tu, come tutti, sei un essere umano»

«Questa te la potevi risparmiare»

Borbottò stizzito, probabilmente sentendosi umiliato.

«Non ti sto prendendo in giro. Lo penso veramente. Trovo che sia confortante sapere che anche tu commetti errori di giudizio. Ed hai perfino il tempo di pentirtene. E poi... la tua aria colpevole è assurdamente carina»

Cercò di allungarsi oltre lo sportello, probabilmente con l'intento di costringermi a rimangiare ciò che avevo appena detto, in particolare l'ultima parte. Ma si bloccò, con il fiato mozzo, gemendo pietosamente.

«Te l'avevo detto di stare attento. Tu non hai le mezze misure, vero? O Mr. Perfezione oppure una vera piaga per il genere umano».

 

 

Mi rimisi alla guida, sempre verso nord, ma questa volta con l'obbiettivo di trovare, sul percorso, un posto in cui riposare e magari anche rifocillarsi. Lui, per sua fortuna, sembrava perfettamente in grado di dormire ovunque, anche seduto su uno scomodo sedile.

Io no. Avevo bisogno di un letto. Avevo bisogno di un bagno. Ed avevo disperatamente bisogno di un vero pasto, non di un paio di stupidissime gallette insipide e rinsecchite.

La risposta alle mie ferventi preghiere, giunse intorno al primo pomeriggio, quando ero ormai esausto e rassegnato a fermarmi nuovamente in una semplice radura in mezzo ai boschi. Un Bed&Breakfast. Dio salvi la Regina! Pensai, producendomi in una sfilza di ringraziamenti a chi di dovere - chiunque esso fosse - Nel bel mezzo del mio rosario, il mio poco partecipe passeggero si degnò di tornare fra i comuni mortali, mugugnando assonnato;

«Che succede? Ci fermiamo?»

Sbuffai, irritato, «Derek, non so tu, ma a me serve un minimo di comodità nella vita: cibo - quello vero - acqua corrente e potabile, un VERO letto con VERE lenzuola ed un morbidissimo guanciale...»

«Quante pretese»

«Chiudi quella bocca, prima che decida di tappartela io con le maniere forti»

Lui, grazie al cielo, decise saggiamente di darmi ascolto. Ed io fluttuai letteralmente a mezz'aria, già pregustando la camera dei miei sogni, dalla quale non mi sarei mosso fino al mattino seguente...

 

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Capitolo 35
*** Capitolo 35: 3 marzo 1965 – TILLYMORGAN Aberdeenshire - Nelle mani di un dio perverso ***


 

 

Capitolo 35

3 marzo 1965 – TILLYMORGAN Aberdeenshire - "Nelle mani di un dio perverso"

 

 

Accadde tutto una mattina. Una normalissima, fresca mattina di quasi primavera.

Dormivo, beato, su di un altro comodo letto che avevo costretto con la forza Derek a cercare, sulla nostra solita strada senza meta. Si stava infinitamente bene, quel giorno. Ricordo che, persino il tenue bruciore alla schiena, era scomparso. Sognavo ruscelli freschi e lavanda profumata.

Un istante prima, la mia mente era immersa in quel dolce e speziato profumo. L'istante successivo sbarravo gli occhi, sconvolto e mezzo - per non dire completamente - nudo, sotto lo sguardo canzonatorio di alcuni uomini, armati di pistole automatiche.

 

 

Nella confusione che infuriava, sia nella mia testa che nel mondo reale, osservai, con la coda dell'occhio, il mio compagno di viaggio. Il suo corpo era teso, vibrava leggermente. Nonostante la situazione fosse palesemente a nostro sfavore, riuscivo a percepire chiaramente il suo istinto che premeva, per liberarsi da invisibili catene imposte e fare qualcosa, qualunque cosa, pur di uscire da quel pasticcio colossale.

La verità è che non c'era assolutamente nulla che, né lui né io, potessimo fare. La verità è che eravamo spacciati, e questo lo sapeva Derek così come lo sapevo io. Ci avevano appena ritrovati. Non ho idea di come, ma erano lì, di fronte a noi, ed avevano delle espressioni che non promettevano nulla di buono. Molto probabilmente, non ci avrebbero pensato su due volte a liberarsi di noi, se solo gliene avessimo fornito un qualsiasi pretesto.

 

 

Non dissi una sola parola. Venimmo trascinati giù dal letto, invitati - poco gentilmente - a rivestirci, e nuovamente trascinati, questa volta fuori, ed al volo - letteralmente - dentro un paio di furgoni. Avrei voluto, almeno, potermi fare tutto il percorso fino a Londra assieme a lui. Ma quella gente era sempre molto previdente ed accorta. Ci separò, per evitare possibili complicazioni.

Che ci crediate o meno, mi scoprii, d'un tratto, ad essere in pensiero per lui. Non facevo che domandarmi se gli avrebbero fatto del male. Il fatto che fosse ferito e nelle mani di gente con poca cura per la salute del prossimo, non contribuiva certamente a rassicurarmi.

Il tragitto fu angosciosamente lungo, scomodo e sconfortante. Una vera agonia. Captavo, qua e là, i discorsi strampalati e poco rispettosi degli uomini che ci avevano prelevato. Un pensiero, amaro, si fissò nella mia testa: ero nuovamente alla mercé di gente che mi disprezzava. Perfino i faticosi ed estenuanti giorni, passati su strade sconosciute e senza troppe comodità, ora sembravano simili ad un'oasi di pace, in confronto allo stare rinchiuso in compagnia di gente che si prendeva gioco di me, insultandomi più o meno apertamente. Come se loro, e ciò che facevano ogni giorno, fossero invece rispettabili e degni di lode. Certo: loro distruggevano i sogni, i progetti, la vita delle persone. Ma erano scusati, perché lavoravano per una causa giusta. Ma giusta per chi? Non per Peter. Lui, di certo, di tutti questi "nobili" progetti, poteva benissimo farne a meno. Avrebbe continuato a vivere la sua vita, tra alti e bassi, ma pur sempre di vita si trattava. Invece era stata distrutta, troppo presto, come probabilmente quella di decine, centinaia, forse addirittura migliaia di altri uomini e donne. E perché, poi? Perché tutto questo? Tutt'ora non sono riuscito a trovare una risposta a questa domanda. Solo mille altre domande, senza soluzione.

 

 

Finii, come prevedibile, nell'ennesima camera chiusa a chiave. Stavolta però, forse per timore che me la svignassi di nuovo, me ne avevano assegnata una con le sbarre alle finestre - ALLA finestra: una sola, ed anche piccoletta -

Non mi aspettavo nulla di buono da quel soggiorno forzato. Ed infatti, le mie aspettative si rivelarono fin troppo esatte. A parte il fatto che ero certo mi avrebbero trascinato fuori, da un momento all'altro, per qualche inutile interrogatorio, con il solo ed unico scopo di divertirsi con me. Invece, ancora una volta, mi sorpresero, inviandomi direttamente un paio di loro fidati uomini: servizio in camera! Che gente deliziosamente gentile e premurosa.

 

 

Due, tre, forse quattro giorni più tardi - ho perso il conto dopo le prime trentasei ore - quando mi era ormai chiaro che mai, in nessun modo, sarei uscito da quel posto - non vivo, per lo meno - mi capitò di ricevere un'ulteriore visita.

La ignorai, come avevo già ignorato le cinque o sei precedenti. Questa volta però non si trattava degli "ottimi" soldatini omofobi dell'Agenzia, ma di qualcuno che non riconobbi - o non volli riconoscere - immediatamente.

Si avvicinò, silenziosamente, alla scomoda brandina sulla quale stavo raggomitolato, con gli occhi persi nel piccolo scorcio di paesaggio esterno. Solo quando le mie orecchie ne percepirono il timbro vocale, mi irrigidii, appallottolandomi ancora più strettamente.

«Jules...»

No. Non dovevo ascoltare. Non VOLEVO ascoltare. Doveva essere un'altra, stupidissima illusione. Non poteva essere vero.

Un'ombra si mosse, fermandosi al mio fianco. Mi sentii osservato. Rabbrividii, a quel contatto indesiderato, e cercai di nascondere il volto fra le braccia, illudendomi di scomparire, come uno struzzo.

«Jules... Che cosa ti hanno fatto?»

Di nuovo. Quella maledetta voce, insistente, non voleva proprio darmi pace. Tentai di scacciarla, girandomi verso il muro e cercando di ignorarla. Ma quella non si diede affatto per vinta.

«Hey...»

Mi sentii sfiorare un braccio e trasalii, tremando come una foglia. Nonostante avessi tentato di opporre resistenza, fui costretto, da una forza esterna, a risollevare la testa.

Il mio sguardo, stravolto, incrociò il suo. I suoi occhi erano ancora trasparenti, esattamente come li ricordavo. Mi ritrassi bruscamente, come scottato dal suo leggero tocco. Lui mi guardò con tristezza e, forse, rabbia.

Era arrabbiato con me? Perché? Che cosa potevo aver fatto, stavolta, per farlo arrabbiare? Non lo ricordavo. Non ricordavo proprio nulla, a dire il vero...

 

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Capitolo 36
*** Capitolo 36: 7 marzo 1965 – La verità sulle tue labbra ***


 

 

Capitolo 36

7 marzo 1965 – “La verità sulle tue labbra”

 

 

«Che cosa vuoi?»

Mi fissò. Nei suoi occhi c'era dolore.

«Che cosa ti hanno fatto?»

Ripeté per la seconda volta, come una litania.

«Va' via!»

Ringhiai, sperando di apparire abbastanza minaccioso. Così non fu, evidentemente, perché lui rimase fermo nel punto in cui si trovava, ed invece di allontanarsi, allungò nuovamente una mano, a scostare ciocche di capelli finitemi davanti agli occhi.

«Non volevo che succedesse tutto questo e... Mi dispiace. Mi dispiace così tanto, Jules. Se solo... sapessi come tirarti fuori da questo posto... Ma non so come»

«Non puoi. Tu non sei reale»

Spalancò gli occhi, fissandomi con un'espressione inorridita e sconvolta. Mi accarezzò una guancia, sfiorando uno dei tanti lividi e facendomi fremere. Ed infine si allungò, appoggiando piano le sue labbra alle mie. Quelle stesse labbra fredde che ricordavo così bene, ora erano di nuovo su di me. Sgranai gli occhi, incredulo.

«D-Derek...»

«Era ora che mi riconoscessi»

Bisbigliò, soffiando il suo alito tiepido sulla mia guancia.

«S-sei tu... Che cosa... Q-quando... ?»

«Calma, calma. Una cosa per volta»

«Stai bene?», chiesi, timidamente.

«Abbastanza...», mi osservò, ancora, facendomi vibrare, «Meglio di te, da quanto posso vedere»

«Loro... l-loro...»

«Lo so, lo vedo. Non parlare, ora. Rilassati»

La sua voce, che attraversava dolcemente il mio corpo, si mischiò al leggero tocco delle sue mani sulla mia schiena. Mi appoggiai a lui, lasciandomi cullare dal suo calore.

 

 

 

«Morirò qui, in questo posto»

Sussurrai appena, diverso tempo più tardi, sforzandomi di non rompere quella strana quiete appena creatasi con il suono della mia voce. Sentii ugualmente il suo corpo irrigidirsi sotto il mio. I suoi occhi di ghiaccio mi scrutarono, con rabbia e decisione.

«No. Non succederà. Troverò un modo per farti uscire. Non importa come, ma lo farò. E questa volta sarà per sempre. Te lo giuro»

Ancora una volta decisi di credere alle sue parole. VOLEVO credergli, anche se sembrava una cosa impossibile, in quel momento, desideravo con tutto me stesso che fosse la verità.

 

Fu costretto a scivolare via dalle mie braccia quando, uno dei tanti soldatini da guardia entrò - senza, ovviamente, chiedere il permesso - avvisando che un fantomatico tempo limite era appena scaduto, ed intimandogli bruscamente di uscire.

Mi guardò, a lungo. Quando i nostri occhi si incrociarono, ebbi d'un tratto paura.

Allora non seppi spiegare quella sensazione, apparentemente immotivata. Sapevo solo che se ne sarebbe andato, lasciandomi di nuovo da solo. Sentivo unicamente quel vuoto oscuro dentro di me, che si dilatava. Un'opprimente sensazione di abbandono.

Ciò nonostante, rimasi in silenzio. Non sapevo cosa dire, né come dirlo. Stetti ad osservarlo scomparire, oltre la porta grigia di quella che sentivo come la mia tomba.

Avrei dovuto fermarlo. Non lo feci. Per qualche assurdo motivo, non dissi nulla.

 

 

 

Quella fu l'ultima volta in cui lo vidi. L'ultima occasione di sentire la sua voce, di perdermi nei suoi occhi infiniti.

Non so nemmeno se sia ancora vivo. Se sia ancora a Londra. Se continui a svolgere, diligentemente, il suo lavoro. O se, invece... non esista più nessun Derek Marlow.

 

In alcuni momenti della mia esistenza, quando i dubbi si fanno più pressanti ed i ricordi più dolorosi, torna a bussare alla mia mente la sua figura, slanciata e misteriosa. Ma subito mi affretto a scacciarla, temendo di non avere più la forza di liberarmene ed andare avanti.

Avanti. Come posso anche solo pensare di andare avanti? Di guardare oltre? Se tutto quello che ho lasciato alle spalle sono i pezzi più importanti e tormentati della mia vita? Se ogni mattina mi sveglio, dilaniato dal pensiero che non sono niente, che da quasi sei anni a questa parte mento a me stesso, e non faccio che vivere all'ombra di ciò che è stato? Che forse, quel giorno di neri e rossi, sarebbe stato meglio se mi avessero lasciato a dissanguarmi fra le mani di quei folli?

 

La libertà non è un diritto. È un dovere.

A volte il suo peso diventa insostenibile. A volte è più facile vivere schiavi. Senza futuro. Ma sapendo di essere qualcosa, di appartenere a qualcuno, di avere uno scopo.

Io, quello scopo, non ce l'ho più. Non mi rimane più niente. Vivo, respirando aria che brucia i miei polmoni, rammentandomi che non dovrei esserci.

Non sono in grado di guardare al futuro. Il futuro appartiene a coloro che lo vogliono, a chi sa che un giorno raggiungerà i propri traguardi, a chi insegue i propri sogni, cercando un equilibrio, la serenità, a chi appartiene a questo mondo e crede che il mondo gli appartenga.

Io non appartengo a nessuno, neppure a me stesso. Lascio che la vita mi scorra fra le mani, senza mai provare ad afferrarla, a trattenerla. Ho smesso da tempo di rimanerle aggrappato. Da quel lontano mattino di quasi primavera...

 

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Capitolo 37
*** Capitolo 37: 12 marzo 1965 - Incomprensibili cambiamenti ***


 

 

Capitolo 37

12 marzo 1965 - "Incomprensibili cambiamenti"

 

 

Comprensione.

No, decisamente non rientrava nel mio abituale vocabolario. Ho sempre avuto immani difficoltà nel comprendere i ragionamenti dei grandi capi dell'Agenzia. Non riuscivo - e tutt'ora non riesco - a concepire i loro piani. Sono sempre stati qualcosa di oscuro, intangibile, superiore alle mie possibilità. Di sicuro mi sfuggiva qualcosa. Magari un minuscolo particolare, la chiave che avrebbe potuto aprirmi le porte della verità - e di tanti altri piccoli e grandi segreti. Ma intanto loro, imperterriti, seguitavano ad agire indisturbati, seguendo vie note unicamente ai vertici - si spera -

 

 

Attesi. Attesi per giorni, lunghissimi, pallidi, noiosi e senza motivo. Attesi che quella porta grigia si riaprisse, portandomi notizie, facendo entrare esseri umani, persone reali. Sarebbero andati bene, a quel punto, anche i soldatini, che si divertivano a picchiarmi. Invece non venne nessuno. Rimasi da solo, in quella piccola e triste stanzetta, fissando ossessivamente quell'unico scorcio di mondo esterno di cui disponevo.

L'unica prova dell'esistenza di vita, oltre quelle quattro mura, era costituita da brevi passaggi, due volte al giorno, e da una mano anonima che faceva scivolare all'interno un piatto con del cibo dentro.

Non toccai mai nulla. Mi limitavo ad osservarlo, stancamente e senza particolari emozioni, per pochi secondi, tornando poi a rivolgere la mia attenzione all'esterno. In fondo, perché mangiare, se comunque sarei dovuto morire? Non aveva senso. Tanto valeva risparmiarmi inutile peso sullo stomaco ed occupare il poco tempo rimastomi assorbendo più luce possibile, proprio come una pianta avida di sole.

 

 

Non ci riuscivo. Non riuscivo a respirare. La dolorosa consapevolezza di essere stato abbandonato, mi toglieva perfino la forza di raccogliere l'aria sufficiente a sopravvivere.

In fondo non era una novità. Già in altre occasioni mi era capitato. Perché mai, questa volta, avrebbe dovuto essere differente? Perché mai avrebbe dovuto importarmene davvero qualcosa? Forse perché, in questo caso, avevo deciso di fidarmi, di credere a delle semplici parole, prive di qualunque sostanza. Forse perché, assieme a quella sensazione di abbandono, si sommava la vivida impressione di essere stato, in qualche modo, tradito. Forse, ancora una volta, la colpa era solo ed unicamente mia. Io avevo riposto la mia fiducia in qualcosa che non aveva valore, in qualcosa che non esisteva. Perché dovevo essere sempre così stupido? Così sciocco ed ottuso da non vedere?

 

 

Eppure qualcosa, alla fine, accadde.

Un bel giorno - è, naturalmente, un modo di dire. In realtà fu un giorno orribile, o per lo meno nella media dell'ultimo periodo - mi ritrovai, mezzo rimbambito e confuso, a penzolare dalla spalla di un tipo enorme, che mi issò come un sacco di patate, portandomi fuori. Anche volendo, non avrei avuto la forza di opporre resistenza. Mi sentivo troppo debole e stanco. Ed in ogni caso, non era davvero mia intenzione oppormi, per quanto venissi sballottato in modo ben poco gentile e delicato.

Pensai, irragionevolmente, che mi avrebbero gettato via, come semplice spazzatura, per evitare che iniziassi a puzzare. Ed effettivamente, quella sera, venni gettato. Ma non in un cassonetto, come era nelle mie idee. Direttamente in mezzo ad una strada.

Impreparato, sgranai gli occhi, ritrovandomi, ammaccato e dolorante, con il culo spiaccicato in fondo alle scale, su di un umido marciapiedi. Il tempo di raccapezzarmi, guardarmi intorno, socchiudere la bocca per provare a chiedere spiegazioni, e dalla porticina dalla quale ero stato gettato, spuntò il mio "caro" signor Thompson che, con una delle sue occhiatacce raggelanti, mi fissò, dall'alto al basso. Infine scosse la testa e mi informò;

«Il Consiglio ti diffida dal tornare in questi luoghi. Sarebbe opportuno che tu sparissi ed evitassi di aprire bocca a sproposito. Uhm... Personalmente ti suggerisco di non lasciare la città. Potrebbe rappresentare un problema».

Dopo un'ultima occhiata derisoria, scomparve oltre la porticina, lasciandomi solo con me stesso, in balia di mille pensieri, in uno stato d'animo sconvolto e senza la più vaga idea di cosa fosse capitato.

Rimasi fermo per qualche minuto, incapace di qualsiasi processo mentale. Troppo confuso, sorpreso e scombussolato, anche solo per trovare la forza di alzarmi da quello scomodo marciapiedi. Avevo la testa totalmente nel pallone. Continuavo a fissare, attonito e senza una precisa ragione, quella piccola porta ed il punto in cui i due uomini erano scomparsi. Non capivo. O forse sarebbe più appropriato dire che non volevo capire, poiché quella volta la spiegazione non era poi così complessa.

Ero stato appena scaricato. Buttato - letteralmente - fuori dall'Agenzia. Per motivi, ancora adesso, ignoti, avevano preso la decisione di togliersi dalle palle il mio scomodo ed inutile peso. Ciò che non comprendevo era il perché. Perché, d'un tratto, ero diventato inutile ed irrilevante? Ma soprattutto: perché, alla luce di ciò, mi avevano comunque permesso di continuare a vivere? No, questo era troppo difficile da capire. Un concetto troppo complesso, ben superiore alle mie esigue possibilità.

 

Li avevo lasciati fare. Mi sentivo talmente inerme di fronte alle loro decisioni. Privo di voce in capitolo. Privo di una volontà mia. Non avrei comunque saputo come reagire. Ero costretto ad accettare tutto questo, passivamente, poiché di fatto non mi rimaneva altra scelta.

Ed ero nuovamente solo. Ed in mezzo ad una strada. A malapena in possesso della forza necessaria per sopravvivere. Per non lasciarmi andare alla deriva. Per impedire al mio corpo ed alla mia mente di soccombere ad un baratro di distruzione.

Di nuovo solo, perso nel vuoto di questa città aliena...

 

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Capitolo 38
*** Capitolo 38: 12-13 marzo 1965 - Frammenti di vita ***


 

 

Capitolo 38

12-13 marzo 1965 - "Frammenti di vita"

 

 

Il buio era ormai parte della città. Non potevo vedere le stelle, oscurate dall'immancabile cappa di pesanti nuvole, ma sapevo che era molto tardi. Per ore, dopo essere riuscito a rimettermi in piedi, avevo camminato, senza una meta e senza un motivo, lungo le strade affollate, perso in mezzo a gente sconosciuta, cercando una risposta che non arrivò mai.

Distrattamente, la mia consapevolezza dello scorrere del tempo aleggiava, come nebbia, attorno a pensieri sconnessi. Non riuscivo a percepire con chiarezza il significato e l'origine dei suoni che giungevano alle mie orecchie. L'aria fredda della notte, che intaccava la mia pelle, non giungeva invece mai a sfiorare la mia attenzione. Per molto tempo, neppure mi resi conto che mi avevano gettato fuori solo con un paio di pantaloni ed una leggera maglia di cotone. Niente scarpe, niente giacca, niente documenti, niente di niente. Non ero più nessuno. Camminavo, attraverso la città, senza coscienza, forse nel tentativo di trovare quella parte di me che avevo perduto. Che cosa mi era rimasto? C'ero unicamente io. Nient'altro che un misero corpo, svuotato di ogni cosa. Sentivo freddo. Ma era un freddo che proveniva da dentro, dall'enorme vuoto che potevo intravvedere ogni volta che mi guardavo. Che cosa ero? Niente. Solo un'ombra che risucchiava la luce, lasciando unicamente vuoto ed oscurità.

 

 

Ero stanco. Tanto, troppo stanco. Finii per accasciarmi contro una porta, sfinito, mentre il cielo schiariva, acceso di nuovi colori, della luce di un nuovo giorno. Per tutta la notte non avevo fatto che cercare risposte. Ora non volevo più pensare. Volevo solo riposare. Volevo solo scomparire.

La porta si aprì, di scatto, e mi ritrovai scompostamente disteso, mezzo fuori e mezzo dentro. Avrei, forse, dovuto alzarmi, ma non ci riuscivo, non riuscivo più a muovermi. Attesi, rassegnato, di scoprire cosa sarebbe accaduto. Forse sarebbe stato più facile se mi fossi addormentato, magari per non risvegliarmi mai più.

Invece, con gli occhi appannati, scorsi una figura piegarsi su di me. La sua voce era un indistinto brusio nella mia testa. Rimasi in silenzio. Non avrei comunque trovato la forza di parlare.

Qualcuno, forse la stessa persona che aveva aperto a porta, mi trascinò completamente dentro. Continuava a parlare, anche se io non capivo cosa dicesse. Avrei preferito di gran lunga il silenzio, ma dato che avevo appena invaso, senza invito, la casa di qualcuno, non potevo certo pretendere che quel qualcuno se ne rimanesse zitto e mi desse il tempo di riprendermi.

L'ultima cosa che ricordo, fu il mio patetico tentativo di sollevarmi e dire qualcosa. Evidentemente lo sforzo si rivelò superiore a ciò che in realtà potevo permettermi. Il buio ed il silenzio calarono di nuovo su di me, impietosi e senza appello.

 

 

Ripresi coscienza su una superficie diversa dalla precedente. Non più il duro e freddo pavimento, ma un morbido materasso, e sopra il mio corpo perfino un caldo piumino. Fu come ritrovarsi improvvisamente all'interno di una tiepida nuvola. Mi rannicchiai su me stesso, concentrandomi unicamente su quell'inatteso senso di pace. Per una frazione di secondo, mi sentii perfino sereno e privo di peso.

Un istante troppo breve, ma infinitamente dolce. Poi, le ultime ore, l'ultimo giorno, tutto lo sgomento, lo sconforto, lo smarrimento, mi circondarono, stringendomi nella loro morsa, come un tornado di incontrollabili emozioni contrastanti, che mi lasciò letteralmente senza fiato, ad ansimare, stravolto, sotto le soffici e profumate coltri che mi ricoprivano.

Piansi. Non ero più in grado di frenare la mia disperazione. Tutto d'un tratto qualcosa, dentro di me, si ruppe, lasciando fluire le paure, l'angoscia, la stanchezza, l'impotenza, il dolore. Piansi a lungo, lasciando che il mio corpo si consumasse ed esaurisse. Decisi di smettere di oppormi, di smettere di lottare.

Mi arresi.

Poco dopo, molto probabilmente attirato dal suono dei miei singhiozzi, comparve sulla soglia della stanza in cui avevo, fino a poco prima, dormito, qualcuno. Faticai non poco per metterlo a fuoco, intralciato, fra le altre cose, dalle lacrime che velavano i miei occhi. Ma alla fine, non senza una certa sorpresa, fui in grado di riconoscerlo, nel momento stesso in cui si accucciò di fronte a me, con l'aria stanca e preoccupata, e mi chiese;

«Che cos'hai, Jules? Perché piangi?»

Chris. A stento riuscii a crederci. Senza nemmeno rendermene conto, dovevo essermi trascinato fino a casa sua. Ma quando era successo? Perché non ricordavo nulla? Perché non riuscivo a fermare i singhiozzi? Per quale diavolo di motivo era tutto così confuso, così doloroso, così assurdamente difficile?

Sentii le sue braccia sollevarmi delicatamente. Mi ritrovai appoggiato alle sue gambe, mentre la sua voce tentava di confortarmi.

«Non piangere, ti prego. Andrà tutto bene, vedrai. Sistemeremo tutto, te lo prometto. Jules, calmati...»

No. Troppe volte avevo creduto nelle favole. Ma non questa volta. Ormai era tardi. Niente si sarebbe sistemato. Sarei stato proprio uno stupido, se lo avessi pensato. No, non andava affatto tutto bene. La mia vita era appena andata in mille frantumi. Spezzata e calpestata. Non avrei mai trovato la forza di raccattarne tutti i pezzi e rimetterli insieme. Ero troppo distrutto per poter essere riparato.

 

 

Continuai a piangere, ora fra le sue braccia, sapendo che lui, per quanto fosse parte di me, non poteva veramente capire, non poteva aiutarmi. Solo io potevo farlo. Ma non ci sarei mai riuscito. Ero troppo debole. Lo sono ancora. Troppo debole per lottare. Troppo stanco per rialzarmi, ancora una volta, e riprendere in mano la mia vita a pezzi...

 

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Capitolo 39
*** Capitolo 39: 5 giugno 1965 - Qualcosa in cambio ***


 

 

Capitolo 39

5 giugno 1965 - "Qualcosa in cambio"

 

 

Le rotelline, arrugginite e mezze svitate, del mio cervello, arrancavano nel tentativo di ritrovare un ritmo umanamente sostenibile.

Dando ascolto alla mia personalissima ed assillante coscienza, per l'occasione nelle vesti di quel gran rompiballe che è il mio amico Chris, mi ero sforzato di riprendere in mano i libri di architettura. Concentrarmi su quelle pagine un po' ingiallite, scritte fitte fitte e senza un grammo di personalità, fu un'impresa titanica. La mia attenzione sfuggiva ogni cinque o sei righe, costringendomi continuamente a tornare indietro, stringere i denti e sforzarmi di comprendere il senso di tutte quelle parole stampate, all'apparenza perfettamente inutili ed indecifrabili.

Ogni sera ero praticamente obbligato a trascinarmi a letto, con gli occhi doloranti ed il cervello drammaticamente in panne, pregando che il giorno seguente fosse meno difficile di quello appena trascorso.

Ma non lo era. Ogni mattina, al mio risveglio, avevo bisogno di lunghi minuti per rendermi presentabile. Se fossi uscito dal letto così com'ero, di certo mi avrebbero preso per malato mentale ed internato di volata.

 

Avevo tentato di tornare all'università, ma evidentemente non ero ancora pronto ad affrontare tanta gente, tutta assieme. Gente che, sicuramente, si sarebbe avvicinata con il desiderio di parlarmi o, peggio, di farmi delle domande.

Chris aveva insistito per farmi rimanere, almeno per il momento, a casa sua. In particolare dopo il mio precipitoso ritorno dal primo, misero tentativo di reinserirmi in facoltà. Dovevo essere talmente pallido e tremante che nemmeno lui aveva avuto cuore di chiedermi spiegazioni. Si era limitato a levarmi dalla porta, a cui ero appiccicato, e trascinarmi, adagio, fino al grande divano nel suo salotto.

 

C'erano alcuni momenti in cui lo scorgevo, mentre mi osservava, con tutta la discrezione di cui era capace, con l'espressione triste e preoccupata di chi vorrebbe fare qualcosa per risolvere la situazione, ma non ha modo di sapere che cosa sia davvero giusto fare.

La realtà era ben diversa. Chris non poteva fare proprio nulla. Io sapevo che non esisteva un modo per uscirne. Non c'era alcun tipo di soluzione a portata di mano. Già il fatto che mi ospitasse in casa sua, evitandomi di stare in mezzo ad una strada a morire di fame, era molto più di quanto meritassi.

 

Cercai, mi impegnai con tutto me stesso, per trovare la forza di parlargli di ciò che mi era capitato, del perché ero ridotto in quello stato. Ci provai sul serio. Ma non ci riuscii mai.

A volte avrei voluto dare un'occhiata ai pensieri che riempivano la sua testa. Spesso mi domandavo che cosa pensasse, che idea si fosse fatto, come aveva accolto il mio inatteso e burrascoso ritorno.

Eppure, stranamente, in tutto quel periodo non mi disse mai nulla, non cercò mai di scoprire ciò che nascondevo, non sembrò mai desideroso di indagare su dove ero sparito quella mattina di febbraio.

Per quanto mi sentissi profondamente colpevole ed ingrato, fui anche sollevato dal suo silenzio rispettoso. Mi aspettavo spesso di vederlo entrare, un bel giorno, con la fronte corrugata e tutta l'intenzione di estorcermi la verità. Invece non accadde mai.

 

 

 

I primi giorni, a dire il vero, nemmeno parlai.

Dopo aver consumato tutte le lacrime che possedevo, rimasi disteso, senza forze, ad attendere pazientemente che il dolore scemasse. La sera del secondo giorno mi trascinò lui stesso, di peso, direttamente in una vasca da bagno. Quando ne uscii, pallido come un lenzuolo candeggiato e ricoperto di lividi di ogni forma e dimensione, trovai ad attendermi dei vestiti puliti. Tornai immediatamente a seppellirmi nel letto appena rifatto e, solo la mattina seguente, in seguito alle strazianti preghiere di Chris, accettai di mangiare qualcosa.

Lui mi guardava, probabilmente angosciato dal mio silenzio ostinato ed apparentemente incomprensibile. Io invece cercavo, per quanto mi fosse possibile, di evitare i suoi occhi indagatori, sapendo che difficilmente avrei potuto sostenere a lungo la sua evidente voglia di sapere.

 

 

 

In quei giorni... No, forse sarebbe più giusto dire in quei mesi, mi sentii tremendamente simile ad un insulso parassita: capace solo di prendere, finendo per prosciugare ogni energia, ma totalmente incapace di dare qualcosa in cambio.

Che cosa avrei potuto offrire, per ripagare ciò che avevo preso, senza alcun rimorso, senza nemmeno chiedere il permesso? Per quanto cercassi, non trovavo nulla che potesse servire allo scopo.

Fino al giorno in cui, muovendomi per la sua casa come un fantasma, lo scorsi, accoccolato in una poltrona. Qualcosa mi costrinse a bloccarmi. Lo osservai, qualche momento. Le sue mani ricoprivano stancamente parte del volto. Un brivido percorse la mia schiena, quando me ne resi conto. Stava piangendo.

Cautamente, mi avvicinai, rimanendo poco distante, in attesa. Forse, inavvertitamente, dovevo aver prodotto qualche rumore. Forse fu la mia semplice presenza, in un posto in cui prima non c'era nulla. Risollevò il volto, fissando i suoi occhi verdi, ora arrossati, nei miei.

«J-Jules...»

Una piccola lacrima rotolò giù, bagnandogli la guancia. Si rese conto, forse solo in quel momento, di ciò che stava accadendo.

«Io... s-scusa, non...»

«Perché stavi piangendo?»

Spalancò gli occhi, sorpreso, poiché quelle erano le prime parole che mi sentì pronunciare dal mio ritorno.

«N-niente, sono solo sciocchezze»

Mormorò, accennando un lieve sorriso.

Un sorriso. Ero piombato in casa sua, invadendo la sua vita, usando il suo tempo, la sua casa, oscurando le sue giornate con le ombre che mi portavo dietro. Tutto quello che in cambio avevo saputo dare era solo freddezza, dolore e silenzio. E lui mi aveva sorriso.

«Mi dispiace», sussurrai.

«Per... cosa?», chiese, apparentemente sorpreso.

«Per tutto. Sono stato un egoista..»

Una seconda lacrima scivolò, sfuggendo ai suoi occhi.

«... E ti ho fatto piangere»

Aggiunsi, sentendomi un verme.

Tremai, ritrovandomi, senza accorgermene, le sue braccia attorno al corpo.

«Non importa. Niente ha davvero importanza. Tu sei qui. In qualche modo hai mantenuto la tua promessa di tornare. Non mi serve nient'altro. Mi basta sapere che sei di nuovo qui»

Mi guardò di nuovo. I suoi occhi dolci si posarono delicatamente su di me.

Avevo appena trovato qualcosa da offrire in cambio. Qualcosa di mio, di cui fargli dono.

Gli donai un piccolo sorriso sincero...

 

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Capitolo 40
*** Capitolo 40: 31 dicembre 1970 - Notte insonne ***


 

 

Capitolo 40

31 dicembre 1970 - "Notte insonne"

 

 

Riuscii perfino a laurearmi. Con enormi sforzi e ben sette mesi di ritardo. Ma alla fine ottenni quel maledetto titolo: architetto.

Avrei dovuto esserne orgoglioso. Avevo sudato tanto per arrivarci. Chris saltellava su e giù ogni due secondi - peggio di un bambino a cui avessero promesso un lecca lecca - sia il giorno precedente che il giorno stesso della cerimonia ufficiale. Sembrava proprio fuori di sé dalla gioia. La sua evidente felicità mi rese appena un poco più sereno del solito. Era bello sentire la sua eccitazione che gli dava alla testa.

Sorrisi, quel giorno. Infagottato in una scomodissima uniforme, mi incollai addosso la mia migliore espressione raggiante e fiduciosa. Desideravo che tutto filasse liscio, che il mio Chris fosse orgoglioso di me. Desideravo anche strappare di mano al Cancelliere quel cazzo di rotolo di pergamena e scomparire in camera mia, per i prossimi due o tre giorni. Ma non volevo fare del male all'unica persona al mondo che ancora credeva in me. Sarei stato forte. Avrei abbagliato tutti con il mio sorriso ed avrei concluso per il meglio quella lunghissima e faticosa giornata. E poi me ne sarei andato a letto, a recuperare le energie spese in quella difficile interpretazione del neo-laureato emozionato e raggiante.

 

 

Detesto mentire. Lo faccio solo ed unicamente quando sento che la verità ferirebbe qualcun altro, oltre a me.

Di me stesso non mi preoccupo più molto ormai. Qualunque tipo di verità, non sarebbe comunque in grado di peggiorare il mio stato d'animo. Accetto qualunque cosa. Non ho più neppure la forza di protestare.

L'unico, vero motivo che mi spinge a non abbassare mai la guardia, a continuare a lottare, a superare anche i giorni più neri, è la promessa che, un giorno ormai lontano e quasi dimenticato, feci al mio unico, vero amico.

Non ho mai smesso di proteggerlo. Lo faccio continuamente, anche e soprattutto da me stesso.

E la stessa cosa fa lui con me: si prende cura di me, mi protegge da un mondo a cui non riesco ad appartenere, ed a volte corre a proteggermi anche da me stesso.

 

 

Come oggi, ad esempio.

Ho tentato, in tutti i modi, di raccogliere le forze per superare quest'anno così difficile. Con il suo aiuto, sono perfino riuscito ad aprire uno studio tutto mio, a procurarmi dei lavori di rilievo, clienti che sembrano sinceramente interessati al mio operato.

Ma ho esaurito le energie. Avrei bisogno di staccare. Mi servirebbe una pausa, un momento per tirare il fiato ed allentare la tensione. Sono stanco. Gli ultimi giorni mi hanno risucchiato la poca forza che mi rimaneva. Ed ora vorrei solo chiudere gli occhi, ed addormentarmi.

 

Ma quel dannato telefono non vuole smetterla di suonare! Mi scoppia la testa. Dovrei rispondere. Ma so perfettamente chi è. So perché è tanto insistente. So benissimo quello che mi direbbe. Non voglio sentire. Non ora. Non... oggi.

«BASTA! Chris... basta, basta, basta!»

Ma perché mi sono trovato un amico così rompicoglioni? Perché?! Sollevo il ricevitore - con il profondo desiderio di farlo a pezzettini - e ci grido dentro;

«Piantala! Porca puttana!»

«Jules...»

Non fa in tempo a dire altro, perché ho già riagganciato.

Mi ficco le mani nei capelli, tentando inutilmente di riprendere fiato, di calmarmi. Il telefono, grazie al cielo, ha smesso di suonare. Disgraziatamente, poco dopo, ci pensano i primi di una lunga, estenuante serie di fuochi d'artificio, a spaccarmi i timpani - e qualcos'altro -

«Non è possibile»

Piagnucolo esasperato. Un uomo non può nemmeno morir... ehm... dormire in santa pace.

 

Un'ora più tardi, qualcuno bussa alla mia porta. Non mi scomodo né ad aprire né ad alzarmi. Lo scocciatore di turno riesce comunque ad entrare - forzando la serratura: Chris ha un dono innato da scassinatore -

«Jules»

«Che vuoi?!»

Lo sento sospirare. Si avvicina ed infine si siede sul materasso al mio fianco.

«Jules, stai bene?»

«No. Sparisci»

«Non posso. Lo sai che non lo posso fare»

Gemo, sconfortato, «Perché? Perché non puoi lasciarmi in pace?»

«Perché ti voglio bene. Non voglio che ti succeda nulla di male»

«Tsk! Non mi succederà niente. Ora te ne vai?»

«No. Non posso crederti...»

Mi irrigidisco, quando lo sento distendersi accanto a me.

«... Non me ne vado, Jules. Non finché sarò certo che domani potremo festeggiare insieme i tuoi ventotto anni»

Sospiro, «Sei esasperante. Te l'ha mai detto nessuno?»

Lui ridacchia, solleticandomi un orecchio.

«Sì, in molti, in effetti»

All'improvviso il suo tono è serio e preoccupato.

«Ho visto quanto stai male. Non sono cieco. Queste ultime settimane sono state difficili, ma... Non voglio che tu ti arrenda proprio ora. So che puoi farcela. So che sei abbastanza forte»

«Non è vero», protesto debolmente.

«Sì invece. In questi anni ti ho visto superare così tanti ostacoli. Forse tu non te ne rendi conto, ma sei una persona in gamba e... speciale»

«Io... sono solo uno spreco di tempo e denaro»

«Questo non è vero! Sono solo menzogne, Jules. Non ho idea di chi te le abbia messe in testa, ma ti giuro che non è così!»

«Eppure... io mi sento... inutile e... vuoto e... e... Chris...?»

«Sono qui. Jules, sono qui. Per favore, fidati di me»

«Mi fido di te... Ma non mi fido di me stesso»...

 

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Capitolo 41
*** Capitolo 41: 1° gennaio 1971 - Ad un passo dalla Luce ***


 

 

Capitolo 41

1° gennaio 1971 - "Ad un passo dalla Luce"

 

 

Chris mi ha proposto di uscire, questa sera, per festeggiare il mio compleanno. A cena, in qualche locale in cui, mi ha promesso, il cuoco cucina meglio di me. Vorrei essere fiducioso, ma comincio a conoscere gli inglesi troppo bene per sprecare le mie speranze in una cena degna di questo nome.

Forse, il furbastro, tenterà di portarmi anche in qualche assordante discoteca. Ho in mente di mettere a soqquadro i suoi piani, trascinandolo da tutt'altra parte. Le discoteche, ed i luoghi affollati in genere, non fanno al caso mio. Poi è il mio compleanno. Avrò pure il diritto di decidere dove passare la notte - al di là del letto di qualche temerario - ?

 

Da quanto tempo non festeggio questo giorno? Vent'anni. Sono decisamente fuori allenamento. Ho un po' di fifa. Nemmeno so cosa aspettarmi. Ma sarà solo una serata, mica devo andare in guerra o prepararmi per qualche irruzione in grande stile.

OK, calma Jules, non è niente, puoi farcela...

No, no, no... Non si può, non me la sento. Ora telefono a Chris ed annullo tutto.

Nemmeno il tempo materiale di pensarlo e raggiungere la cornetta, che quel figlio di... un principe del foro, bussa alla mia porta - di nuovo - facendo un gran fracasso.

«JULES! Apriiii! Dai, dai, dai, apri. Sbrigati!»

«Ti vuoi dare una calmata?»

Sibilo, dopo aver aperto la porta, aver trascinato dentro quel matto del mio amico ed essermi prudentemente guardato attorno, per accertarmi che nessuno dei miei vicini si sia affacciato, giusto per vedere chi fosse il casinista di turno.

«Non ti sei ancora cambiato? Che diavolo stai aspettando: il cameriere in livrea che ti vesta?»

«Chris, sono solo le sei...»

Provo a far presente, senza successo.

«E con questo? Possiamo fare quattro passi, e magari prenderci un aperitivo»

Ecco, appunto: addio alle mie speranze di mandare tutto a monte. Sospiro, sconfortato.

«D'accordo, hai vinto. Ti preparo un tea, così chiudi il becco il tempo necessario perché io mi faccia una doccia e mi cambi. Ti va?»

«Uuuhhh, sìììì!! E... ci sono ancora i biscottini all'arancia che hai fatto l'altro giorno?»

Rimango un attimo senza parole, pensando fra me: “Quest'uomo è senza speranze”. Ma mi rendo conto che il suo entusiasmo, la sua curiosità e la sua voglia di vivere sono le uniche ragioni per le quali sono ancora qui, su questa terra. Ed allora sorrido, scuotendo la testa divertito.

«Sì, Chris. E credo ti renderà felice sapere che stamattina ho fatto anche quelli al pistacchio, ed alla cannella»

Il suo sguardo, estasiato e luccicante, è impagabile e dà veramente un senso alla mia intera esistenza.

 

 

 

La cena non è stata tremenda come avevo creduto. Sospetto che il cuoco sia straniero. In caso contrario, lo devo assolutamente conoscere!

Senza fretta, usciamo dal ristorante. È una sera strana. Si vedono milioni di stelle, in un cielo incredibilmente blu. Londra, sotto questo manto scintillante, è bellissima.

Camminiamo lentamente, chiacchierando di argomenti leggeri come l'aria che si respira. È curiosamente tiepida, molto più di quanto ci si aspetterebbe da un primo dell'anno.

Per qualche istante, anche io mi sento leggero, sereno come non lo sono da... anni. Troppi anni per poterne tenere il conto.

 

Decidiamo, di comune accordo, di cercare qualche locale tranquillo ed interessante, nel quale trascorrere qualche ora in compagnia di noi stessi.

Così ci infiliamo in un grazioso club, con piccoli tavolini rotondi che fanno da cornice ad una lucida pista da ballo. Sì, questo mi piace. I prezzi un po' meno. Sono cari come il fuoco in questo posto!

«Respira, Jules. Ricordati che è il tuo compleanno. Penso a tutto io»

Arrossisco, mio malgrado, rendendomi conto delle implicazioni della sua “rassicurazione”. Speravo di aver concluso, una volta per tutte, la mia carriera di parassita. Evidentemente mi sbagliavo.

 

Nonostante le mie iniziali remore, si rivela essere un posto piacevole, in cui ascoltare musica rilassante senza essere né disturbati né importunati da niente e da nessuno.

«Stai bene?»

I suoi occhi verdi mi osservano con apprensione, ma sembrano rasserenarsi quando gli sorrido.

«Sì, oggi sì»

«Forse dovresti uscire più spesso, cercare qualche distrazione in più, quando senti di essere troppo sotto pressione»

«Forse...»

Sospiro. In realtà, non sono certo che possa servire a molto. E, soprattutto, non sono certo di avere il diritto di cercare un po' di serenità.

«... E se non lo meritassi?»

Bisbiglio, distratto, senza la vera intenzione di farmi sentire né di ricevere una risposta ai miei dubbi. Solo quando noto la sua espressione incredula, mi rendo conto di aver parlato ad alta voce.

«Scusa. Dimentica quello che ho detto. Non era mia intenzione»

«Jules, che cosa...?»

 

Il resto della sua domanda va perduta nel nulla.

La mia attenzione si è appena distaccata da Chris, per concentrarsi completamente sul nuovo intrattenimento offerto dal locale.

A prima vista, direi che si tratta di una piccola band di ragazzi, che suonano... uhm... qualcosa di indefinito, ma sicuramente più chiassoso del jazz. La cosa sarebbe anche un tantino seccante, non sono però in grado di prenderla a male. Qualcosa... qualcuno, attira non solo la mia curiosità, ma anche gran parte del mio interesse.

Devo avere un'aria veramente idiota in questo momento. Ma non posso proprio farne a meno. Non riesco a staccare gli occhi dal punto in cui, come un miraggio, è comparsa questa visione.

Sorrido, molto probabilmente come uno scemo, osservando, con stupore e meraviglia insieme, i suoi movimenti, ampi e delicati come il volo di una farfalla.

Mi perdo, smarrendomi infine nei suoi occhi, grandi e blu, desiderando ardentemente di sfiorare i suoi capelli, che sembrano morbidi e soffici come una nuvola, e le sue labbra, socchiuse in una buffa espressione.

Come può esistere, su questa terra dura, grigia e fredda, una creatura così delicata e piena di luce? Sembra impossibile, eppure è reale, proprio lì, a pochi passi da me, così viva e brillante da sembrare quasi un sogno.

 

 

 

Oh, papà... Sai, oggi ho visto qualcosa di meraviglioso. Qualcosa che mi ha lasciato a bocca aperta e con il cuore che batteva forte, tanto veloce da farmi credere che sarebbe esploso.

Sai, papà, oggi ho capito una cosa importante. Forse, in questo mondo pieno di ombre e dolore, esiste ancora abbastanza luce da poterlo accendere di nuove speranze. Abbastanza luce perché, per un solo, incredibile momento, ogni ombra venga rischiarata e messa in fuga. Annullata.

Forse, papà, c'è ancora qualche motivo per continuare a vivere, per continuare a sperare, per credere in un futuro possibile, per andare avanti e lottare per la propria felicità.

Oggi ho visto un raggio di sole. Brillava, più dei milioni di stelle che accendono il nostro cielo.

Un raggio di sole. Luce, forse anche per me.

 

 

 

 

 

Fine


 

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