Deep Roots Are not Reached by the Frost

di Nenredhel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lend ath i Maur (Un Viaggio nell’Oscurità) ***
Capitolo 2: *** Noer a Maur (Fiamme e Ombra) ***
Capitolo 3: *** Ah Gwanath ned i Gûr (Con la Morte nel Cuore) ***



Capitolo 1
*** Lend ath i Maur (Un Viaggio nell’Oscurità) ***


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DISCLAIMER: Non mi appartiene niente, nè Dean, nè Castiel nè nessuno dei parti della mente diabolicamente geniale di Erik Kripke, e neppure, sfortunatamente, la Terra di Mezzo e il meraviglioso mondo nato dal genio di Tolkien...

DEDICA: A Sepherim, che è una grande fan di questa fanfiction/saga e che attendendo con impazienza i nuovi capitoli, mi sprona a dare il meglio di me! Ma soprattutto, che ha compiuto gli anni pochi giorni fa e quindi si merita un bel regalo, un bacione forte e un grande abbraccio! AUGURI CARA! (Ti avviso che questa è solo la prima parte del mio regalo ritardatario! Abbi fede e presto arriveranno anche le altre due. Tutta questa “riga” della poesia è dedicata a te!)


 

Lend ath i Maur (Un Viaggio nell’Oscurità)1

 

1 Il titolo è esattamente lo stesso del capitolo dedicato a Moria nel Signore degli Anelli… ci sono un po’ di citazioni (liberamente) tratte dai libri disseminate qui, chissà chi le riconosce tutte ;P

* Solo attraverso l’oscurità, puoi giungere al mattino

 “You can only come to the morning through the shadows”*
[J.R.R. Tolkien]

 

Dean lanciò un’ultima occhiata attraverso lo spiraglio sempre più stretto delle pesanti porte di pietra, mentre queste si richiudevano lentamente sotto la spinta di chissà quale meccanismo o magia. La sua espressione era corrucciata mentre indirizzava i propri occhi verdi, ancora una volta, verso la superficie nera e terribilmente immobile delle acque del lago sul quale erano stati accampati fino a pochi momenti prima.

Man presta le? (Cosa ti turba?)” chiese la voce pacata di Castiel, accanto a lui, mentre i suoi occhi, quasi neri nell’ombra fitta delle miniere, lo guardavano con la fissità intenta degli Eldar.

“Si raccontano strane cose, cose oscure, riguardo alle acque di quel lago” replicò Dean nella lingua corrente, distogliendo finalmente lo sguardo dalla porta ormai chiusa per portarlo a cercare di fendere l’oscurità davanti a lui, che ancora ammantava il sentiero sotterraneo delle miniere di Moria.

“Molte leggende corrono sulle strade della Terra di Mezzo, ma non è saggio temere tutte le vecchie parole dei viaggiatori” lo redarguì Rufus, superandolo con passo deciso per andare a tastare i muri intorno a loro, in evidente ricerca di qualche cosa per illuminare la strada.

“Non è saggio nemmeno ignorarle tutte, Rufus, ma ancor meno saggio è preoccuparsi di ciò che è alle nostre spalle quando c’è ancora tanta strada di fronte a noi” ribatté Bobby con il suo consueto tono burbero, battendo il bastone in terra finché la pietra sulla sua punta non si fu illuminata di un’intensa ma discreta luce candida “questa ci servirà meglio di una vecchia torcia consumata, ora andiamo” proseguì il vecchio stregone, senza più degnare nessuno di uno sguardo, ma indirizzando la propria luce verso la scala che dipartiva dalla piccola sala in cui si trovavano, prima di salire i primi gradini.

Rufus si limitò a grugnire una risposta inintelligibile ma discretamente infastidita, prima di fare un gesto al resto della compagnia, attendendo che fossero tutti sulle scale, prima di chiudere il gruppo.

Sam fu il primo a seguire i passi dello stregone, non prima di avere indirizzato uno sguardo divertito a Dean, che rispose con una scrollata di spalle, seguendolo poi insieme a Castiel. Non sapeva da quanto il ramingo e Bobby si conoscessero, ma ogni volta che li aveva visti insieme, aveva avuto l’impressione che fossero amici dall’inizio del mondo stesso: nessuno, a parte Rufus, si rivolgeva allo stregone con lo stesso tono ironico ed affettuosamente insofferente. Il giovane uomo fissò per alcuni secondi lo sguardo sull’ampia schiena di Sam, davanti a sé: Castiel non era stato il primo né l’unico a dire che quella era esattamente la stessa cosa che accadeva fra lui e il principe di Gran Burrone.

Il filo dei suoi pensieri fu interrotto bruscamente, quando gli sconnessi gradini della scala che stavano percorrendo si interruppero bruscamente, finendo su di uno stretto ma solido sentiero, scavato in quella che sembrava una scura parete granitica, che si gettava per decine di metri in un ampio ed imponente strapiombo. Esili e malridotte impalcature di legno erano incastrate qui e là nella parete rocciosa, abbarbicate come ragni alle pietre scure, con funi che pendevano come tentacoli morti dalle loro piattaforme, spesso inclinate e marcescenti, protendendosi verso lo stesso baratro da cui parevano volersi sottrarre con tutte le loro forze. C’era un’aria di desolazione e di stantio abbandono nell’aria immobile e fredda dell’enorme caverna in cui si trovavano, e allo stesso tempo, Dean non avrebbe saputo immaginare nulla di più grandioso di quella nera voragine, sfidata con tanta alacre sollecitudine dalle costruzioni dei nani, o di più magnifico delle intricate trame di splendenti venature di limpido argento che attraversavano, come linfa pulsante di vita, la volgare pietra scura.

Mentre seguivano con attenzione i passi di Bobby, giù per il sentiero, stretto ma non abbastanza da rendere opprimente il vuoto che li accompagnava, Dean stese la mano per percorrere con le dita la scabra superficie fredda di uno di quegli esili e preziosi rigagnoli d’argento.

“Mithril” gli sussurrò la voce di Castiel all’orecchio, e il ramingo trasalì appena, sentendo un brivido scendere per la spina dorsale nel sentire all’improvviso il respiro dell’Elfo accanto all’orecchio. Il desiderio impellente di voltarsi e spingerlo contro quello stesso muro striato di splendore antico, e divorare le sue labbra, gli fu mozzato d’improvviso nel petto dallo sguardo penetrante di Bobby.

“Esatto, Mithril” annunciò la sua voce secca, e le sue note più gravi rimbombarono fra le pareti della miniera come se i suoi mille anfratti volessero rispondere e ripetere quelle prole all’infinito “L’oro dei Nani. Leggero come una piuma, splendente come l’argento più puro, e duro come le scaglie di drago. Molti Signori degli Elfi del passato si rivestirono di questo metallo, prima che sciocche dispute dividessero i popoli degli Eldar e Nani, indossando vesti che avevano il valore di intere città di uomini” spiegò Bobby, avvicinando la luce del suo bastone alla parete rocciosa per mostrare le piccole venature argentate, che catturarono il tenue bagliore, riflettendolo in mille fulgori candidi, come la superficie di un lago inondato dalla luce della luna.

“E allora perché questo tesoro è abbandonato?” domandò Sam cupamente, prima che lo stregone potesse finire di voltarsi per riprendere il cammino.

“E’ vero. Questo luogo è privo di vita, sembra abbandonato da decenni. Dove sono i cugini di cui ha parlato Ronald della Montagna Solitaria al consiglio di John?” aggiunse subito Dean, portando uno sguardo inquieto sulla vuota solitudine intorno a lui.

“I Nani hanno scavato troppo a fondo e troppo a lungo” replicò lo stregone, e mentre il palmo della sua mano si poggiava alla parete rocciosa, parve d’un tratto che tutti i suoi lunghi anni fossero giunti in un solo momento a gravare finalmente sulle sue spalle “Chi sa cosa hanno risvegliato nelle profondità della terra?” proseguì, riscuotendosi e drizzando la schiena “Ma ora basta chiacchiere, o non usciremo più di qui! Abbiamo ancora molte sale, e ben più imponenti di questo luogo, da attraversare” veloce com’era venuta, quella strana aura di stanchezza era scivolata via dallo stregone come l’acqua di un torrente, e la sua voce era tornata quella brusca e decisa di Bobby il Grigio.

“Le parole di Bobby non mi hanno affatto tranquillizzato” commentò Sam in tono preoccupato, sfiorando il lungo pugnale elfico che portava alla cintura, mentre riprendeva lentamente il cammino.

“Hai passato troppo poco tempo con lui, altrimenti avresti imparato che fare una domanda a Bobby il Grigio è il modo migliore per pentirsene pochi secondi dopo” replicò Dean con una vena di amara ironia, abbassando lo sguardo sul fodero vuoto della propria spada e cercando quindi di sopprimere il sospiro che arrivò ugualmente a gonfiargli il petto.

 

~~~

 

Bobby passò una mano sulla pietra appuntita incastonata sulla cima del suo lungo bastone di legno, e la luce bianca aumentò prontamente di intensità, inondando le altissime arcate e gli imponenti pilastri di pietra grigia, mentre la sua voce rimbalzava in mille eco solenni fra le pareti dell’immensa sala in cui erano finalmente sbucati.

“Ammirate le sale di Durin, signore di Moria”

Dean si ritrovò con lo sguardo che si perdeva all’insù e la bocca semiaperta dallo stupore, prima che si fosse effettivamente reso conto di cosa stesse facendo. Aveva perso il conto dei giorni che avevano trascorso negli scuri corridoi di Moria, perché nelle gallerie scavate negli abissi della terra il sole non giungeva mai, e non avevano che la loro stanchezza a misurare il tempo che avevano trascorso a camminare sui gradini di pietra delle miniere. Avevano percorso corridoi interminabili e sceso scale che sembravano finire nei visceri stessi della terra, avevano camminato sugli stretti sentieri dei minatori illuminati dai bagliori del Mithril, e attraversato le sale dove la vita dei Nani trascorreva tra pinte di birra e maiale salato, ma quando la luce di Bobby si espanse nel salone dove li aveva infine condotti, Dean fu sicuro che qualche magia dovesse avere scavato quella grotta, raddrizzato le sue pareti e posto pietra su pietra quegli immensi pilastri, perché né mano umana né Elfica, né tanto meno le tozze mani dei Nani potevano avere costruito qualcosa di così immensamente grandioso.

Forse più di venti uomini uno sull’altro potevano trovare spazio sotto le volte della sala, e nemmeno l’intensa luce del bastone di Bobby riusciva a strappare completamente all’oscurità le pietre scolpite degli immensi pilastri compositi, né tanto meno riusciva ad indagare la liscia superficie grigia delle pareti di fondo della sala. Il ramingo poteva solo immaginare quanto dovesse essere vasta, perché l’altro capo della stanza era ancora avvolta completamente nel buio, mentre avanzavano i primi passi, ascoltando il loro sordo rimbombare in quell’interminabile vuoto di pietra.

“Le risate e le musiche si elevavano alte, fra il clangore di boccali di birra Nanica e il bagliore di monili di Mithril, riempivano questa sala fino alle sue volte, quando Durin regnava su Moria” spiegò la voce di Bobby, e i suoi compagni potevano indovinarvi una nota di nostalgia e forse una vaga venatura di timore “C’è solo un luogo dove gli eredi di Durin possono avere ritenuto di conservare le vestigia della spada di Colt, ed è insieme alle spoglie del più grande fra i loro sovrani” proseguì lo stregone, indicando con la punta illuminata del proprio bastone, una piccola porta aperta sul muro più vicino dell’immensa sala “Vai a rendere i tuoi omaggi al signore dei Nani, Dean. Sarà dalle mani di un grande Re che dovrai prendere la tua eredità regale” concluse bruscamente, voltando gli occhi chiari sul ramingo, che sentì il proprio cuore balzargli improvvisamente in gola, mentre si rendeva conto che il suo destino lo stava aspettando proprio lì, in quella sala che, ironicamente, lo faceva apparire ancora più minuscolo di quanto già non fosse.

Quando mosse il primo passo in direzione della porta, gli parve che i suoi piedi fossero diventati di piombo, per poi fondersi con gli enormi lastroni del pavimento di pietra della sala: a quanto pareva la strada per il destino era una salita tanto ripida da apparire insormontabile. Il breve tragitto fino ai battenti spalancati della porta, che appariva molto più imponente da vicino di quanto non fosse sembrata quando era incorniciata dai mastodontici pilastri, gli sembrò interminabile, come se in tutti i suoi viaggi non avesse mai percorso una strada così lunga con le proprie gambe. E quando finalmente si trovò sormontato dal grande architrave, fiocamente illuminato dal raggio di luce solare che penetrava da una fenditura nel soffitto, i suoi passi si bloccarono, come se una forza invisibile gli avesse sbarrato la strada.

Alla poca luce che filtrava da metri e metri di solida roccia, poteva già intravedere il profilo, splendente e ancora affilato nonostante l’età, di ciò che stavano cercando: giaceva su di un panno che doveva essere stato prezioso e raffinato un tempo, di un rosso reso scuro dalla polvere e dal tempo, sopra a quello che solo ad un primo momento aveva scambiato per un altare. C’era qualcosa di sinistro nel fatto che quella lama fosse stata conservata in una tomba.

Dean strinse i pugni e sfiorò con la sinistra il fodero vuoto della sua spada, l’elegante guaina di cuoio che lady Lisa aveva fatto fare per lui e gli aveva consegnato in dono, con un sorriso appena bagnato di lacrime, prima di partire, e fu proprio in quel momento che sentì la mano di Castiel lambire appena la sua e, simultaneamente, quella di Sam posarsi sicura sulla sua spalla. Il ramingo si voltò prima da una parte e poi dall’altra: i loro volti erano seri, ma nei loro occhi c’era una fiducia incrollabile, oltre ad un affetto incondizionato. Solo allora il giovane uomo tornò a percepire anche la presenza rassicurante di Rufus e Bobby alle sue spalle: malgrado le bugie e le incomprensioni, malgrado non ci fosse una sola goccia di sangue condiviso fra di loro, lui non era solo, non lo era mai stato. La sua famiglia era con lui.

Le dita delle sue mani si aprirono: non c’era in lui nessuna nuova certezza di poter davvero diventare un Re, ma sapeva di poter contare sui suoi amici, e forse questo poteva bastare per arrivare in fondo a quella strada. Dean si mosse, e nonostante le mani di Sam e Castiel scivolassero via da lui mentre procedeva incontro al destino, poteva ancora sentire la loro presenza al suo fianco.

In due lunghi passi lenti fu davanti alla massiccia tomba, e prima di allungare la mano a sfiorare l’elsa, finemente lavorata ed ancora perfetta, della spada che fu spezzata, si fermò ad osservare gli spigolosi caratteri incisi nella tomba di Durin. Non ricordava la storia dei Nani, conosceva a malapena quella degli uomini, e solo vaghi stralci della millenaria storia elfica rimanevano nella sua mente, non molto portata per lo studio, ma il monumento alla grandezza che erano le miniere stesse su cui questo Nano aveva regnato, gli rendevano giustizia più di quanto potessero fare le parole di qualsiasi libro. E questo grande Re aveva custodito quella spada per lui per tutto questo tempo, per lui che avrebbe dovuto ringraziare gli dei per il resto della sua vita, se fosse riuscito a diventare degno anche solo dell’ombra su cui aveva camminato Durin di Moria.

Allungò titubante la mano verso l’elsa da cui si allungava il moncherino della lama che aveva sconfitto Lilith all’alba dei tempi, ed ebbe l’impulso di voltarsi, per chiedere ancora una volta se non ci fosse stato un errore, se quella lama leggendaria fosse davvero lì per lui. Solo che sapeva perfettamente che non c’erano errori o vie d’uscita: sua era la decisione di impugnare il suo destino per il futuro dei popoli della Terra di Mezzo, sua e solo sua. E per quanto potesse pensare di essere ben poca cosa a cospetto dell’ombra che si stava ergendo contro di loro, se qualcuno aveva deciso di affidare a lui questo compito, non era suo diritto voltarvi le spalle e lasciare che qualcun altro morisse al posto suo.

La sua mano coprì il resto della distanza in un gesto deciso, e le sue dita si strinsero con forza intorno all’elsa scura, sollevando il metallo leggero e lucente nel chiaro fascio di luce solare. Dean vi vide riflessi per un secondo i propri occhi verdi, e in quell’attimo si chiese se sarebbero mai più stati gli occhi del ragazzo che aveva visto riflessi nell’acqua di Gran Burrone mille e mille volte, mentre attendeva con la trepidazione di un bambino il proprio futuro.

Nel momento in cui la lama fu sollevata dalla sede che l’aveva ospitata per tutti quei lunghi anni, un secco rumore di pietra contro pietra fece tremare per un secondo le pareti della stanza, subito seguito da un colpo sordo, come quello di un gigantesco tamburo, nelle viscere della terra.

Preso di sorpresa, Rufus si voltò di scatto, estraendo rapido la spada dal suo fodero e guardandosi intorno, sulla difensiva: fu proprio quello il movimento che fece oscillare lo scheletro coperto di ragnatele, che era rimasto per tutto quel tempo a guardia del sovrano e del suo tesoro. La sua testa coronata dal pesante elmo nanesco colpì le pareti del pozzo sul quale il Nano era rimasto in bilico fino ad allora con un assordante rumore metallico che risuonò di mille eco nelle profondità delle grotte di Moria, prima di spegnersi nel nero di quel baratro che pareva interminabile.

Un silenzio carico di tensione avvolse la piccola compagnia non appena l’ultima eco morì in lontananza, mentre una ragnatela di sguardi sospesi nel terrore si intesseva fra i loro occhi tanto immobili quanto frementi d’attesa.

“Gettati tu la prossima volta, Rufus, e liberaci della tua goffaggine!” sbraitò Bobby, colpendo il ramingo dritto sulla testa con il suo lungo bastone, quando il silenzio si fu allungato abbastanza a lungo da aver stemperato almeno in superficie la paura.

Fu allora che il secondo colpo di tamburo riempì con il suo cupo annuncio di guerra il vuoto funereo delle miniere di Moria.

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Capitolo 2
*** Noer a Maur (Fiamme e Ombra) ***


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Piccola premessa (della serie "mettiamo le mani avanti"): nella descrizione del balrog così come in quella del ponte di Kahzad-dum ho deciso di fare una specie di mix tra le effettive descrizioni di Tolkien e le immagini del film... mi perdonino i puristi! ;P

Invece, permettetemi di prendermi una riga per ringraziare tutte le persone che hanno letto e soprattutto commentato (in particolare Castiel Who), non solo perché ricevere recensioni e sapere di essere letta fa sempre piacere, non solo perché gioisco a vedere che ci sono davvero lettori fedelissimi che mi stanno davvero seguendo in questo strano viaggio nella Terra di Mezzo, ma perché i vostri commenti pertinenti, sagaci e intelligenti mi aiutano a migliorare e a definire il futuro dei miei personaggi! Quindi, un grosso GRAZIE!


 

 

Noer a Maur (Fiamme e Ombra)

 

* Non giuri di camminare nell’oscurità, colui che non ha visto la notte calare

“Let him not vow to walk in the dark, who has not seen the darkness fall”*
[J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli_La Compagnia dell’Anello]

 

Non c’erano stati altri rumori, dopo i due isolati colpi di tamburo che erano risuonati nell’oscurità scuotendo i cinque viandanti fino nell’anima. Il silenzio era tornato ad avvolgere con il suo pesante manto le miniere di Moria. Bobby aveva stretto convulsamente il legno del suo bastone, mentre Castiel scrutava l’oscurità con i suoi ottimi occhi di Elfo, e solo quando era stato ragionevolmente sicuro che non sarebbero stati presi in un imboscata appena fuori da quella stanza, li aveva guidati con passo veloce attraverso la sala.

Il piano originario era stato di recuperare la spada e tornare a Gran Burrone per la stessa strada percorsa all’andata, ma Bobby sapeva bene che in quel momento si trovavano molto vicini all’uscita est delle miniere, il Cancello dei Rivi Tenebrosi, e ora che avevano sentito qualcosa risvegliarsi nelle viscere della terra, non avrebbe rischiato un’altra lunga e pericolosa traversata per tornare indietro. Dovevano lasciare le miniere il più velocemente possibile, poi avrebbero pensato a come valicare nuovamente le Montagne Nebbiose per fare ritorno nel reame di sire John.

Ma la sala in cui si trovavano era ancora più ampia di quanto Dean fosse riuscito ad immaginare, e loro erano stanchi per le lunghe ore di marcia che li avevano condotti fino lì. Quando finalmente raggiunsero la parete opposta del salone, erano tutti abbastanza stremati da accettare il rischio di fermarsi qualche ora a riposare.

Sam e Castiel si erano subito presi l’onere di montare la guardia mentre i compagni dormivano: il loro sangue Elfico permetteva loro di recuperare le forze semplicemente sedendo rilassati e vigili, avendo bisogno di vero sonno solo raramente, e per brevi periodi di tempo. Bobby era sempre stato tanto prudente quanto diffidente, ma era stanco, forse anche più dei due raminghi, e sapeva di potersi fidare degli occhi e delle orecchie dei due Elfi. Quando la pietra sul bastone dello stregone aveva affievolito la sua luce fino a spegnersi, il buio era calato sulla piccola compagnia, ma era sembrato solido ed impenetrabile solo per qualche secondo: spaccature ed aperture opportunamente predisposte si aprivano nella roccia, esattamente come nella cripta di Durin, e lasciavano che una vaga luminescenza si spandesse per le sale, indice che fuori doveva essere ancora giorno pieno.

Così, Dean se ne stava steso sul proprio mantello, una mano sotto la nuca a reggere la testa pesante, mentre l’altra riposava sul fodero di cuoio che conteneva ora tutti i frammenti della spada di Colt. L’elsa fuoriusciva come se l’arma fosse stata ancora intatta, ma il ramingo sentiva i pezzi sconnessi tintinnare fra loro ad ogni passo, a ricordargli che la strada da percorrere era ancora tanto lunga quanto ripida e irta di pericoli. Mentre giaceva ad occhi socchiusi, guardando le ombre dei pilastri intorno a lui emergere come forme vaghe e fantasmagoriche dal buio effimero, sentiva il bisogno di estrarre ancora una volta il moncherino dal suo fodero: voleva osservare di nuovo il proprio sguardo riflesso dal metallo lucido della sua lama, e allo stesso tempo non c’era nulla al mondo che temeva di più.

Sentiva il respiro lento e regolare di Rufus e Bobby poco lontano da lui, e sapeva che stavano dormendo: avrebbe potuto riconoscere il ritmo del loro sonno ovunque; mentre i due Elfi di guardia erano tanto immobili e silenziosi da sembrare essere stati inghiottiti dall’oscurità stessa. Quando gli parve evidente che non sarebbe riuscito ad addormentarsi, o meglio quando non riuscì più a sopportare la solitudine opprimente che la vicinanza di quella lama gli imponeva nel cuore, il giovane uomo si levò a sedere con un movimento repentino, e si allontanò il più silenziosamente possibile dai due amici addormentati.

Brancolò nel buio per un paio di passi, guardandosi intorno alla ricerca della corta tunica verde chiaro di Castiel, o della forma aguzza del suo arco, la cui sommità gli spuntava dalla spalla, accanto alla testa, ma fra le ombre più o meno dense intorno a sé, non riuscì a scorgere niente del genere. Erano in uno spazio aperto, e non riusciva a capire dove l’amico potesse essersi nascosto, ma ricordava anche molto bene che un Elfo sapeva confondersi con l’ambiente, se lo desiderava. Avanzò a casaccio ancora di qualche passo nell’oscurità, desiderando solo di allontanarsi dal resto del gruppo e dal malefico fodero che sembrava continuare a chiamarlo, e infine poggiò la mano sulla liscia superficie fredda di uno dei pilastri.

Telig thinno (Dovresti dormire)” bisbigliò una voce accanto al suo orecchio, facendolo trasalire.

Dean non poteva scorgere con esattezza l’espressione del viso dell’Elfo, eppure avrebbe giurato che si fosse divertito un mondo ad apparirgli alle spalle a quel modo, prendendolo di sorpresa.

“Non riesco. La mia mente continua a tornare a quella dannata spada” replicò il ramingo con voce roca, forse leggermente troppo forte. Si voltò distrattamente a controllare che nessuno dei due compagni si fosse riscosso, quindi mosse qualche passo attorno al pilastro, finché la vista del loro piccolo accampamento gli fu preclusa dalla roccia.

“Non lasciare che il peso di quella lama ti schiacci. Tu sei più forte di quello che pensi…” sussurrò l’Elfo, posandogli una mano sulla spalla per richiamare la sua attenzione.

Per un attimo, le sue parole rassicuranti lo irritarono: gli fecero ripensare a tutte le volte che gli aveva parlato con dolcezza, nel buio della sua camera, per calmare le sue paure di bambino; ma quando si trovò di nuovo ad incrociare i suoi occhi blu, la cui lucentezza il buio non riusciva ad occultare, sentì ogni stizza scemare. Non c’era il sorriso divertito e condiscendente che gli aveva visto tante volte sul viso, quando era solo un bimbo. Il suo bel volto chiaro era estremamente serio. Nei suoi lineamenti dolci ma decisi, riusciva a vedere il principe, il guerriero, la splendida, incredibile creatura millenaria che era e che, dall’alto della sua perfezione impossibile, accettava di mettere nelle sue mani, così giovani e impreparate, il suo destino e quello del suo popolo.

Come poteva un tale principe degli Elfi riporre in un semplice uomo tanta incrollabile fiducia? Come era possibile che una creatura del genere avesse donato il suo cuore a lui?

“Io sono più forte quando sei con me” rispose alle sue parole, andando a poggiare una mano sulla sua guancia, prima di avvicinarsi, deciso a sentire di nuovo sulle labbra quel sapore antico e celestiale che per troppi giorni aveva sognato senza poter avere.

 “Dean, Samuel nar si ennas (Dean, Samuel è qui intorno)” lo avvisò Castiel in un soffio, che danzò sensualmente sulle labbra dell’uomo.

Avo preston nin (Non mi importa)” replicò il giovane, accostando una guancia alla sua perché i dolci suoni della lingua elfica potessero scivolare come miele nel suo orecchio “Tirnin le an eraid pen aglenno le (ti guardo da giorni senza poterti toccare)” aggiunse, stuzzicando appena con le labbra la punta del suo orecchio, scendendo sul collo non appena sentì il suo corpo tremare d’improvviso, e assaggiando piano la sua pelle mentre faceva scorrere le dita sulla stoffa liscia della sua tunica da viaggio “Aniron le (ti voglio)” sussurrò contro la sua pelle, saggiandola con i denti mentre sorrideva del sospiro improvviso che gonfiò il petto dell’Elfo “Ora” concluse d’improvviso, soffiandogli quella parola contro le labbra, nel momento in cui gli afferrò la vita, facendolo ruotare per spingerlo contro la fredda superficie di pietra del pilastro.

“Dean…” riuscì a sospirare solamente l’Elfo, prima che il ramingo catturasse le sue labbra con veemenza, bevendo da esse il suo respiro già affannato come fosse la fonte stessa della sua vita, mentre una mano gli afferrava saldamente il fianco, ed il bacino accarezzava con insistenza il suo.

Le dita di Dean giocarono per un secondo con gli stretti lacci della casacca, prima di scendere fra di loro, cercando con insistenza il bordo dei pantaloni, per insinuarsi dolcemente sotto la sottile stoffa morbida che li divideva.

Dean derig le! (Dean fermati!)” ansimò disperatamente l’Elfo, ma il suo corpo sembrava pensarla altrimenti, mentre si spingeva con impazienza nel palmo caldo del compagno “Fermati!” ripeté di nuovo nel linguaggio comune, con più urgenza, mentre una mano si afferrava alla sua nuca, stringendo i corti capelli castani come per richiamare la sua attenzione.

Dean sorrideva di trionfo nel vedere gli occhi languidamente liquidi e la bocca dischiusa dell’Elfo, ma mentre si sporgeva in avanti per leccare di nuovo, lentamente, le sue labbra piene, finalmente si immobilizzò. Sul fondo delle sue iridi blu c’era qualcosa di sbagliato: Castiel era allarmato per qualcosa, ma era troppo in preda alle sensazioni del proprio corpo per riuscire a dominarsi e dare voce alla sua paura. Non ci fu bisogno di domandare cosa lo avesse spaventato, ora poteva sentirlo anche lui: tamburi nell’oscurità.

Il giovane ramingo fece appena in tempo ad allontanarsi in fretta dal compagno, prima che Sam comparisse al suo fianco dalle ombre, silenzioso come ogni Elfo. Dean non ebbe il tempo di chiedersi da quanto li stesse osservando e cosa avesse visto, riusciva a sentire sul pavimento le vibrazioni di mille piedi che si avvicinavano correndo: stavano arrivando.

Bobby balzò in piedi in un lampo, accanto a Rufus, quando Sam li raggiunse per dare l’allarme. Stava succedendo tutto troppo in fretta, e lo sguardo torvo che lo stregone indirizzò al Mezzelfo diceva era solo per metà un rimprovero. Aveva intuito che qualcosa aveva distratto le due sentinelle di guardia, ritardando fin troppo l’allarme, ma non c’era il tempo per fermarsi a rimproverare nessuno. Dean corse a raccogliere le proprie cose: si avvolse il mantello sulle spalle e allacciò il cinturone con la spada alla vita, assicurandosi che fosse ben saldo, quindi si sentì afferrare bruscamente il braccio da Bobby.

“Tu, davanti a tutti. Corri e non ti voltare, qualsiasi cosa succeda!” ordinò perentoriamente lo stregone, e quando il giovane ramingo rimase per un secondo a fissarlo frastornato, lo spinse in malo modo verso la buia porta che si apriva solo a pochi metri da loro, prima di voltarsi per rivolgersi a Rufus “Il ponte di Khazad-dûm non dev’essere lontano, ma siamo troppo in alto. Raggiungete il fondo delle scale, ma lì non indugiate più di qualche secondo ad aspettarmi, se non sarò arrivato, conducili tu fuori”

Mentre fissava corrucciato l’espressione decisa degli occhi chiari dello stregone, parve che Rufus stesse per ribellarsi protestare qualcosa, ma alla fine il suo sguardo scuro si spostò, fulmineo, sul ragazzo che stava scomparendo in quel momento oltre la porta di uscita della sala, e il ramingo si limitò ad annuire serio, prima di seguire il resto del gruppo giù per le strette scale immerse nell’oscurità.

Dean non si rese conto del fatto che Bobby non li aveva seguita, finché non udì lo strano boato che li raggiunge rimbalzando fra le strette pareti che il gruppo continuava a percorrere a tentoni il più velocemente possibile. Non c’erano fessure né finestre lungo quella rampa di scale, e la totale mancanza di luce rendeva la discesa pericolosa, ma i quattro compagni continuarono a procedere con il passo più veloce consentito dagli stretti gradini, fino a che il giovane ramingo non si immobilizzò, quando il rumore di rocce franate non lo raggiunse insieme ad un violento spostamento d’aria.

“Cosa sta succedendo?” domandò al buio fitto che lo circondava.

“Muoviti ragazzo!” sbottò Rufus alcuni gradini più in alto, e Dean calcolò che doveva essere lui a chiudere la fila. Non fece in tempo a protestare, che il Dunedain proseguì “Non costringermi a spingerti!” il ruvido tono brusco convinse il ragazzo a voltarsi e ricominciare la faticosa discesa, sebbene qualcosa nella sua voce lo avesse preoccupato ancor più degli inquietanti suoni che provenivano dalle scale alle loro spalle.

Mano a mano che scendevano, l’aria sembrava farsi sempre più calda e Dean si trovò a sudare copiosamente quando finalmente raggiunsero l’ultimo pianerottolo delle scale. Davanti a lui si aprivano tre porte: una sembrava condurre ancora più in basso, una svoltava a destra e ricominciava a salire, mentre la terza sembrava dare accesso ad una piccola sala, illuminata da una strana e tremula luce rossa.

“E adesso? Dove andiamo?” domandò il ragazzo, passandosi un braccio sulla fronte quando sentì le prime gocce di sudore bruciargli negli occhi. Al tenue bagliore proveniente dalla terza porta, il ramingo poteva scorgere le facce accaldate e preoccupate dei compagni, ma trasalì ugualmente quando Bobby comparve alle spalle di Rufus, facendosi largo in malo modo con il bastone per raggiungere la testa del gruppo. I suoi vestiti, così come la sua barba rossiccia sembravano coperti di polvere di roccia, mentre il modo con cui si appoggiava pesantemente al suo bastone mentre scendeva gli ultimi gradini lo faceva apparire ancora più vecchio del solito.

“Non mi piace quella luce, ma è quella l’unica via d’uscita” annunciò, avvicinandosi alla porta illuminata di rosso “Andiamo” li esortò senza troppi complimenti, voltandosi per proseguire il cammino nonostante il respiro affannoso.

“Bobby, cosa è successo?” gli chiese Dean, poggiandogli una mano sul braccio per attirare la sua attenzione, mentre si affrettava per tenere il suo passo.

“Qualcosa di ben peggiore degli orchetti è stato risvegliato nelle viscere della terra” replicò lo stregone, indirizzandogli due occhi fiammeggianti di potere, malgrado fossero velati di stanchezza “Per fortuna la porta della sala è crollata, non sarei riuscito a trattenerlo oltre” aggiunse, tornando a guardarsi attorno come stesse cercando ossessivamente la fonte della luce rossa che stava illuminando loro il cammino.

“Il Flagello di Durin” commentò la voce di Castiel, da un punto fin troppo distante, alle spalle del giovane ramingo.

Dean si voltò e riuscì ad incrociare lo sguardo preoccupato dell’Elfo solo per un secondo, prima che gli fosse nascosto dal corpo di Sam, che camminava dietro di lui. Era stato, però, sufficiente per notare che l’Elfo teneva ora pronto tra le mani il proprio arco, così come Rufus, dietro di lui, aveva appena finito di sguainare la spada. Il giovane portò la mano all’elsa della spada di Colt e si sentì inerme, sapendo che non era altro che un inutile mozzicone, solo un peso che doveva assolutamente riportare alla luce del sole. Estrasse dal suo fodero il lungo pugnale elfico che teneva legato all’altro fianco, e stringendo la sua impugnatura tentò di ritrovare un po’ della sicurezza che non aveva.

Un terribile presentimento stava crescendo dentro di lui, e neppure la vista dello stretto ponte di Khazad-dûm, così vicino all’uscita da poter già sentire il profumo dell’aria libera, riuscì a liberargli il cuore da quel peso. Bobby iniziò l’ultima discesa verso il ponte nel momento in cui una delle corte frecce degli orchetti gli sibilò vicino all’orecchio: dovevano esserci arcieri nascosti da qualche parte, sopra il ponte. Dean vide il primo cadere nel vuoto un attimo dopo che Castiel ebbe scoccato la prima freccia, ma un secondo più tardi fu indotto a voltarsi nel sentire il clangore vicinissimo di mille armi che smaniavano di assaggiare la loro carne.

L’orda degli orchetti li aveva raggiunti per chissà quale via, e ora premeva alle loro spalle. Certo, sullo stretto passaggio sospeso non avrebbero potuto attaccarli in massa o circondarli, ma non era quello a preoccuparlo. Quello che gli stava mozzando il fiato nel petto, al momento, era l’ombra che stava risalendo alle spalle dei loro inseguitori, mettendo in fuga gli orchetti stessi con il suo seguito di atavico terrore. Pareva una nube di fumo e cenere, al cui centro si poteva distinguere qualcosa di molto simile ad una figura umana. Dean sentì le proprie gambe divenire come di marmo, mentre il cuore gli sprofondava nel petto per l’orrore, e gli vollero alcuni secondi per vedere che tutto il gruppo era stato paralizzato da quella visione.

Quando anche Bobby si voltò, puntando i propri occhi chiari dritti all’interno di quel nero ammasso di terrore ed aumentando la luce del proprio bastone come per attirare la loro attenzione, uno strano ruggito riempì le alte pareti che circondavano il baratro sul quale si gettava il ponte di Khazad-dûm, mentre il nero fumo che avvolgeva quella creatura si accendeva improvvisamente di rosso, come stesse bruciando dall’interno e il suo corpo fosse composto di tizzoni d’inferno.

“Sono un servitore del Fuoco Segreto e reggo la Fiamma di Anor! A nulla ti servirà il fuoco oscuro, torna nell’Ombra Azazel, fiamma di Udûn!” tuonò la voce di Bobby, e il suo bastone vibrò di potere e di luce per un attimo, facendo tremare il demone di fiamma che stava loro innanzi, il quale reagì con un lungo ruggito che sembrò scuotere le fondamenta delle miniere, mentre sul suo volto distorto ora illuminato dalle sue stesse fiamme, si scorgeva un sorriso che fece gelare il sangue nelle vene dei cinque compagni.

“C’è qualcosa che devo prendere, prima di tornare nell’Ombra, Istari” sibilò la sua voce, come fosse il suono delle fiamme che lo componevano, e quelle parole quasi sommesse parvero squassare ancor più a fondo le pietre intorno a loro.

Sinistri scricchiolii raggiunsero il loro orecchio, prima che i massi iniziassero e piovere sulle loro teste, minando il loro già stretto percorso sospeso nel vuoto.

“Correte!” ordinò immediatamente Bobby, percorrendo gli ultimi gradini per imboccare poi il ponte, che li costringeva ad avanzare in fila indiana.

Quando Dean gettò un’occhiata dietro le spalle, vide le orde di orchetti superare di corsa il demone che fino ad allora li aveva tenuti lontani con il timore che incuteva loro, e coprire velocemente lo spazio che li divideva. Rufus aveva appena raggiunto a sua volta l’altro lato del ponte, quando il primo orchetto lo raggiunse con la sua lama. Il ramingo imprecò al dolore provocato dalla prima ferita, e si voltò abbattendo l’avversario con un unico fendente della sua lama lunga. Ormai, però, si era fermato, e gli orchetti gli si avventavano uno dopo l’altro, calpestando senza pietà i corpi dei loro compagni morti, che scivolavano lentamente giù dal sentiero di pietra piombando nel vuoto.

Dean strinse più forte le dita attorno all’impugnatura del suo pugnale, e si voltò per andare a dar manforte all’amico, ma le ferme mani di Sam lo fermarono. Il ragazzo lo guardò come se fosse impazzito, ma in quel momento un masso più grosso degli altri cadde alle loro spalle, portando con sé una consistente parte del cammino sospeso. Bobby si trovava già dall’altro lato, e si voltò fissando ad occhi sbarrati la scena.

“Salta ragazzo, muoviti!” ordinò perentorio, facendo un passo indietro per dargli lo spazio di atterrare dall’altro lato. Il buco che si era aperto nel loro sentiero era ampio ma non insormontabile, eppure il ragazzo continuava a guardarsi indietro, verso il ramingo che gli aveva fatto da maestro, che continuava a tenere ostinatamente la sua posizione, rispondendo colpo su colpo nonostante la stanchezza gli stesse evidentemente già attanagliando le braccia.

“Non possiamo lasciarlo solo!” protestò Dean con rabbia, spostando il proprio sguardo fra i tre compagni, non trovando altro che costernazione e rassegnazione “Non…” continuò Dean, ma Bobby lo interruppe bruscamente.

“Se resti qui condannerai molto più che la vita di Rufus. Devi riportare quella spada dagli Elfi perché sia riforgiata. Devi portare la luce contro l’Ombra” lo ammonì la sua voce brusca, e per quanto Dean si rendesse conto che aveva ragione, non poteva risolversi a lasciare l’amico a morire solo in quelle miniere.

Disperato, si voltò verso Sam, non osando neppure guardare negli occhi Castiel mentre afferrava il fodero della spada di Colt, per tenderlo al Mezzelfo “Prendi la spada, portala a tuo padre! La spada è fondamentale, io…” ma questa volta fu qualcun altro ad impedirgli di completare la frase.

“La spada non è nulla senza qualcuno che la brandisca. La luce di cui parla Bobby è dentro di te” la voce di Castiel era profonda e solenne tanto quanto i suoi occhi blu che lo fissavano senza possibilità di sfuggire.

“Salta Dean, Rufus non vorrebbe che tornassi indietro per lui” aggiunse Sam, spingendolo con delicatezza verso il baratro, mentre il suo sguardo verde pareva fissarlo con un misto di affetto e irremovibile durezza.

Dean lanciò un ultimo sguardo alle mosse sempre più stanche di Rufus, solo alcuni metri più indietro: non c’era più tempo, ben presto il ramingo avrebbe ceduto e gli orchetti sarebbero stati loro addosso. Senza più dire una parola, lasciò che il fodero della spada gli ricadesse al fianco, quindi si voltò e spiccò il balzo senza pensarci oltre, ritrovandosi in men che non si dica dall’altro lato, insieme a Bobby. Sam lo seguì velocemente, non appena il ramingo si fu scostato per fargli spazio, quindi fu il turno di Castiel di prepararsi a saltare.

Il giovane uomo osservava con apprensione la scena alle sue spalle, e i suoi occhi verdi non riuscivano a staccarsi dalla figura avvolta dalle fiamme, che ora stava avanzando lentamente in direzione del ponte. Era troppo distante per scorgere il suo volto, ma Dean era certo che stesse ancora sorridendo in quel suo modo freddo quanto incandescente doveva essere il suo corpo: sorrideva, come se sapesse di avere già vinto.

Castiel piegò le gambe, pronto a balzare, ma proprio in quel momento sentì il ruggito di dolore di Rufus giungergli alle orecchie. Istintivamente, si fermò e voltò lo sguardo per guardarlo crollare in ginocchio mentre la spada insanguinata di un orchetto dalla malsana pelle verdognola scivolava fuori dal suo corpo con un suono liquido di sangue versato, cavandogli le viscere dal ventre con un crudele movimento di torsione. Dean vide il lampo di rabbia nel blu solitamente placido dello sguardo dell’Elfo, nonostante potesse scorgerlo solo di profilo, quindi lo vide estrarre velocemente una freccia ed incoccare, rapido e silenzioso proprio come la punta del suo dardo mentre si conficcava nel volto ghignante dell’essere mostruoso che aveva appena brutalmente assassinato il loro amico.

Quando l’Elfo si voltò nuovamente per saltare a sua volta, finalmente, un nuovo, gigantesco masso piombò fra lui e i suoi compagni, frantumando un nuovo pezzo del sentiero di pietra, che si sbriciolò velocemente sotto i piedi dei tre compagni, che riuscirono a malapena a trarsi in salvo, arrampicandosi più su per l’ultima rampa di scale che portava verso il Cancello dei Rivi Tenebrosi. Ora il vuoto che si apriva fra i due lembi del sentiero era di parecchi metri, e nemmeno le lunghe ed agili gambe di un Elfo avrebbero potuto coprirlo con un salto.

Dean non sentiva nemmeno la mano di Sam che, posata sulla sua spalla, cercava di trascinarlo via di peso, su per i gradini e verso la salvezza, aveva semplicemente gli occhi sbarrati fissi sul volto incredibilmente ancora impassibile di Castiel. I suoi occhi sembravano valutare e rivalutare lo spazio del salto, come se stesse veramente meditando di provare a coprirlo con le sue sole forze, e sembrò che fosse trascorsa un’eternità prima che rialzasse lo sguardo, puntandolo in quello terrorizzato del compagno per sorridergli dolcemente. Dean vide le sue labbra incurvarsi appena in quel suo sorriso segreto e appena accennato, quello che aveva sempre quando accarezzava la sua pelle sudata dopo aver fatto l’amore, e sentì il respiro mancargli nel petto quando vide un addio ricolmo di una malinconia dolorosa nei suoi occhi.

“Cas!” urlò con quanto fiato aveva in gola, lottando come un diavolo contro le braccia di Sam che ancora cercavano con fatica di trascinarlo via.

No, non poteva finire così: con un sorriso ed un addio silenzioso, con uno sguardo ancora colmo di fiducia e amore mentre si voltava per andare a morire. Non poteva, non voleva dire addio e lasciarlo andare, lasciarlo morire per una stupida spada, per una speranza appesa un filo che si sarebbe reciso presto, nel momento stesso in cui il suo cuore avrebbe cessato di battere. Dean vide Castiel voltargli le spalle e sguainare la sua lama elfica, prima di gettarsi incontro alla morte come un eroe delle antiche canzoni, risplendendo della luce di Valinor come solo un principe degli Elfi poteva, e portando il chiarore del suo cuore immacolato contro l’Ombra che già si faceva avanti per inghiottirlo.

Dean sentì l’odio per quell’essere di ombra e fiamma bruciare dentro le lacrime che già gli solcavano il volto, mentre con una ferocia senza pari gli divorava l’anima di dolore. Lasciò cadere il pugnale che aveva stretto fino a quel momento tra le dita, mentre finalmente si voltava per lasciare che Sam lo trascinasse via, perché sapeva che altrimenti se lo sarebbe piantato nel petto, nell’inutile tentativo di uccidere la bestia di odio e sofferenza che lo stava già dilaniando dall’interno.

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Capitolo 3
*** Ah Gwanath ned i Gûr (Con la Morte nel Cuore) ***


Nuova pagina 1

Ok, ci ho messo una vita per questo terzo capitolo... chiedo venia ai miei 4 fedelissimi lettori! Però, fedelissimi, oltre alla pazienza voglio chidervi ance qualcos'altro stavolta: ho una gran paura di avere fatto un bel casino con la mia "Galadriel" (e in realtà temo anche di avere mandato un po' OOC Dean...) mi dite voi cosa ne pensate? Aspetto i vostri commenti con trepidazione! Grazie a tutti!


 

 

Ah Gwanath ned i Gûr (Con la Morte nel Cuore)

 

* Non dirò, non piangete, perché non tutte le lacrime sono un male”

"I will not say, do not weep, for not all tears are an evil."*
[J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli _ Il Ritorno del Re]

 

Macchie di verde e d’argento su di un cielo notturno. Facevano a gara con le stelle in splendore e magnificenza. Ondeggiavano leggermente alla silenziosa e tiepida brezza di una primavera inoltrata, guardando con invidia le sorelle che già tingevano il loro manto dell’oro che avrebbe rivestito il bosco di lì a poco tempo. Lòrien pareva vestirsi a festa per i suoi visitatori, salutando con gesti lenti delle sue fronde possenti, il primo piede mortale che calpestava il suo suolo in secoli e secoli di esistenza, e schiudendo i suoi tesori segreti per ornare il sentiero del nuovo Re degli uomini. Sussurri sembravano correre tra le foglie dei Mellyrn, come se gli alberi stessi volessero raccontare del dolore che vedevano seguire come una cupa ombra questo figlio degli uomini, come se si accingessero ad un tratto a cantare il dolore di un cuore vuoto.

Dean sedeva sull’erba soffice, la schiena, coperta solo da una soffice maglia bianca, poggiata all’enorme tronco argentato di uno degli alberi, cercando di sentire la vita che batteva sommessa ma forte in questo bosco che pareva incantato; riuscendo solo a percepire il dolore sordo e costante che continuava ad assordargli il cuore. Neppure le limpide acque del Nimrodel, il conforto di ogni viaggiatore, avevano potuto scacciare da lui la stanchezza invincibile che uccideva ogni suo passo, come fosse già sconfitto, già avvolto in un’ombra mortifera. Ed ora sedeva lì, una mano abbandonata stancamente su di un fodero ornato che pareva ormai solo un inutile fardello, e gli occhi rivolti all’insù, ad un cielo indifferente che sembrava osservarlo da lontano, con le sue fredde lucciole pronte a giudicare la sua debolezza e condannare lui e tutte le vane speranze che in lui erano state riposte.

Non c’era stato tempo per fermarsi e piangere, non c’era stato tempo per chiedersi cosa fare, a chi dare la colpa, non c’era stato tempo neppure per rendersi conto di ciò che era irrimediabilmente perduto. Gli orchetti li inseguivano e malgrado la magia di Bobby avesse sbarrato le porte di Moria dietro di loro, non c’era stato tempo per fare nulla se non correre, lasciare quelle montagne nefaste che si erano tramutate in una orribile tomba, volare sull’erba verde alle loro pendici per cercare il rifugio degli alberi d’oro di Lothlorien e dei suoi Galadhrim. Cercare rifugio dagli Elfi, in questo reame incantato e bellissimo, per sfuggire all’occhio oscuro dei nemici, per nascondere al loro sguardo malizioso la spada e una speranza, morta con un grido e un lampo d’azzurro che si spegne nel buio, e andare avanti, ancora avanti, sempre avanti, un passo dopo l’altro come il cammino di un sonnambulo che arranca verso il burrone.

Non c’era stato tempo neppure per pensare, fino a che non avevano raggiunto i cancelli di Caras Galadhon, la città degli Elfi nel cuore del reame d’oro della Dama, e Dean ne era stato grato. Grato di poter semplicemente portare un piede davanti all’altro, seguendo Bobby e Sam ciecamente, senza pensare ad un futuro che i suoi occhi non volevano più vedere, ad un presente appeso sulla sua testa e pronto a schiacciarlo.

Ma ora… ora era solo sotto quel tronco imponente, che lo faceva sentire tanto piccolo da parere insignificante: guardava distrattamente le piccole luci che illuminavano i flet, le case degli Elfi costruite tra i Mellyrn, e benché l’avessero abbigliato come un principe degli Eldar, non riusciva a sentirsi parte di quel luogo, di quella realtà ancora capace di sorridere e gioire della relativa sicurezza ovattata di un mondo di foglie e argento. Il cibo, il giaciglio promesso e cercato, perfino la lunga strada che ancora si srotolava davanti ai suoi piedi parevano ricordi effimeri, lontani ed insignificanti.

Canti distanti riempivano, senza disturbarla, l’aria della notte: melodie dolci che inducevano a riposare, ma che si ostinavano a suonare al suo orecchio come inni funebri, innalzati da voci angeliche nelle parole di una lingua da lungo tempo dimenticata per piangere la scomparsa del più candido fra i primogeniti di Iluvatar.

Non ricordava più per quante notti, quando era solo un fanciullo, era rimasto a sentire la voce di Castiel che gli raccontava del grande mondo: delle terre Selvagge e dei suoi boschi, oscuri ma amati, nel lontano Nord; della luce sempre calda e dorata, come in un eterno tramonto autunnale, che le foglie degli alberi di Lòrien riflettevano sul suo terreno incantato. Lo aveva ascoltato narrare la storia di Lòrien, il Vala che amò tanto quella terra da stendersi su di essa e divenirne parte, facendovi germogliare l’oro dei Mellyrn; e quando lo aveva sentito descrivere come le nuove foglie spuntassero ogni primavera su quei rami millenari, verdi e argentate al tempo stesso, aveva desiderato camminare fra quei fusti, arrampicarsi nelle alte case degli Elfi ed ammirare il giallo fiore degli Elanor e il bianco candore dei Niphredil, mentre divideva il pane Elfico con la Dama in persona.

Anche per questo era partito, dieci anni prima, per il ricordo di quei racconti aveva percorso instancabile i sentieri della Terra di Mezzo, e grazie a quel ricordo la lontananza gli era sembrata a volte meno pensante e la solitudine meno terribile. Ma ora che finalmente si trovava seduto su quel manto d’oro, ad osservare le foglie d’argento tingersi per la primavera, ogni desiderio ardente di fanciullezza si era spento, e non rimaneva altro che un vuoto che faceva orrore, e una paura innominabile, in agguato appena oltre il limite della sua coscienza. C’era una strada che conduceva nell’ombra, davanti a lui, e la luce cui si era appoggiato per percorrerla gli era stata strappata con il fragore di un mondo che crolla.

Poteva ancora rivedere i suoi occhi, il suo sorriso rassegnato ma audace, se solo si azzardava ad abbassare le palpebre: un’immagine che si stagliava su di uno sfondo di fiamma, e ombre che divoravano ogni cosa, bruciandogli l’anima fino a consumarla. Eppure, se passava la lingua sulle labbra, il suo sapore era ancora lì, indugiava sulla sua pelle come un fantasma che non voleva lasciarlo, circondandolo di un ricordo che gli scavava nel cuore fino a farlo sanguinare. Avrebbe voluto dimenticare tutto, e al tempo stesso si aggrappava a quell’immagine, a quel sapore, a quel sentore sommesso di amore ed eternità, e forse solo immaginato con la forza di un disperato.

Dean chinò il capo e lo sprofondò fra le proprie mani, mentre le dita si intrecciavano ai corti capelli castani, stringendosi a pugno fino a farsi del male, e una lacrima bagnava le sue ciglia, per poi correre veloce a confondersi fra l’oro delle foglie sul terreno. Avrebbe voluto strapparsi il cuore dal petto, per quanto vuoto, e pesante, e doloroso gli sembrasse, ma non voleva dimenticare, accarezzava il suo dolore come un amante, perché era tutto ciò che gli restava di lui.

- Dean – lo chiamò ad un tratto una voce che riconobbe subito, malgrado l’avesse udita solo una volta: dolce nelle sue note quanto era perentoria nel tono.

Il giovane uomo non si preoccupò di asciugare il viso e cancellare le tracce delle lacrime come avrebbe fatto solo qualche tempo prima, ma semplicemente alzò i suoi occhi verdi resi gemme brillanti dal dolore, per fissarli sull’Elfa di fronte a lui.

I suoi lunghi capelli neri gli ricordavano subito Lisa, ma c’era qualcosa di profondamente diverso nella creatura che aveva innanzi, qualcosa di antico e potente, che lo faceva tremare e al tempo stesso lo rincuorava. Dean scrutò i lineamenti severi ma piacevoli del volto della Dama, e la sua figura alta e snella, avvolta nei morbidi veli bianchi del suo lungo abito di seta, ma furono gli occhi, i suoi chiarissimi e fermi occhi azzurri ad incatenare il suo sguardo senza più lasciarlo andare. Quando la Dama gli sorrise, un sorriso caldo e senza sotterfugi, il ramingo sentì finalmente scivolare via un po’ della stanchezza che sembrava volerlo uccidere lentamente, e per un secondo benedetto nella sua mente non ci furono più visioni di fiamma ed oscurità, ma un vuoto piacevole e calmo. Nessun sorriso e nessuna magia gli avrebbero portato via la pena che gli bruciava al centro del petto, tanto saldamente vi si era aggrappato, ma quando la Dama gli tese una mano, in un chiaro invito ad alzarsi e camminare con lei, Dean obbedì immediatamente, muovendosi lento ma deciso, all’interno della strana pace malinconica che aveva avvolto il suo dolore.

“Seguimi, Dean. Ci sono cose che devi vedere” disse la Dama sorridendogli ancora, e il ramingo si trovò a pensare che non era come l’aveva immaginata, la creatura eterea e sfuggente che si era aspettato: c’era qualcosa di concreto e schietto in lei, che la rendeva come più presente, e al tempo stesso completamente distante dai suoi simili.

“Voi siete la Dama, la signora del Bosco d’Oro…” non sapeva bene se quella che aveva appena pronunciato fosse una domanda oppure no: malgrado fosse diversa da come l’aveva sognata, Dean non aveva dubbi di trovarsi di fronte a quella che gli uomini aveva spesso chiamato una strega, una veggente.

La signora annuì con decisione, mentre lo conduceva con passo sicuro fra gli alberi, aggirando la collina di Caras Galadhon, fino a raggiungere l’ampia radura dove un ruscello scorreva allegramente in un piccola cascata, accanto alla quale riposava un’anfora d’argento e quello che pareva un tondo bacile di pietra. “Dama Pamela è il mio nome, Dean di Nùmenor, e da molte ere veglio e proteggo questo luogo” rispose infine la Dama, voltandosi per indirizzare uno sguardo orgoglioso al giovane uomo “La tua gente mi ha chiamato strega, e molti mi temono” proseguì mentre raccoglieva l’anfora, portandola a riempirsi tra le acque chiare del torrente “Ma non tu. Il tuo cuore è tanto vuoto che nemmeno la paura vi trova più spazio, eppure c’è ancora una lunga strada davanti a te…” l’Elfa si fermò davanti al bacile e fissò gli occhi di ghiaccio in quelli di Dean “Ci sono cose che hai bisogno di vedere, ma non sarò io a costringerti. Vuoi guardare nello specchio, Dean di Nùmenor?”

Il ragazzo osservò l’acqua scivolare lentamente dal bordo incurvato dell’anfora fino a riempire il grosso bacile di pietra chiara. Si sentiva come ipnotizzato dai gesti delle mani dell’Elfa, tanto quanto il suo sguardo era attirato dalla superficie increspata dell’acqua: temeva ciò che avrebbe potuto vedere, perché che fosse stata vittoria o disfatta, non c’era in lui più desiderio di percorrere quello o alcun sentiero.

“Cosa vedrò?” chiese d’improvviso, spinto dall’impulso di rimandare ancora la decisione, il momento in cui, inevitabilmente, avrebbe abbassato lo sguardo e scrutato nelle acque.

“Nemmeno il più saggio può dirlo. Lo specchio mostra molte cose: cose che sono, cose che furono, e alcune cose che devono ancora verificarsi. Lo specchio ti mostrerà ciò che hai bisogno di vedere” rispose la Dama pacata, riponendo l’anfora senza mai staccare le iridi azzurre da quelle dell’uomo. Sembrava che stesse leggendo l’anima stessa del ragazzo, e Dean percepiva che era davvero così, ma era troppo stanco per sentirsi minacciato o per pensare di fuggire.

Dean sapeva cosa aveva bisogno di vedere, quello che non sapeva era se lo specchio glielo avrebbe davvero mostrato, o se sarebbe stato in grado di sopportarne la vista. In ogni caso, l’unica cosa di cui era sicuro era che non si sarebbe allontanato senza tentare, senza provare almeno a recuperare un qualche significato per ciò che stava facendo. Il ragazzo prese un profondo sospiro, poi i suoi occhi verdi si abbassarono lentamente sulla superficie perfettamente quieta dell’acqua sotto di lui, e si ritrovò a fissare il nero liquido del cielo punteggiato di stelle. Aveva quasi iniziato a credere che il suo cuore fosse troppo vuoto perfino per essere letto dalla magia delle strega del Bosco d’Oro, quando finalmente un’immagine iniziò ad apparire sul fondo di pietra.

Alberi, e macchie di un sole freddo, spento. Il verde mantello irregolare di un bosco che non aveva mai visto, e poi il correre veloce di un cavallo affannato, montato da un uomo fiero con gli occhi verdi. Un Re fiero con gli occhi verdi. E poi urla, sangue, buio e gorgoglio di morte. Le bianche pietre scintillanti di una torre nel sole velato di un mezzogiorno invernale, e le fiamme che si alzano da due corpi sulle loro pire. Lacrime, e dolore, e oscurità, e morte. E una fuga nel cuore della notte, e un sorriso freddo che non sa rincorrerlo.

E una fanciulla vestita di bianco: il suo abito si agita come un vessillo catturato dal vento mentre osserva orde nere correre incontro alla sua casa. E’ fiero il suo sguardo, velato dai fili dorati della sua chioma bionda, e la sua mano non trema ma regge una spada, pronta a combattere, pronta a morire insieme ai suoi amici, ai suoi soldati in groppa a splendidi cavalli che fremono ai primi sentori della battaglia. Fiamme, sangue e morte si dipingono sul chiaro volto giovane adorno di scompigliati capelli biondi, e spaccato da un’orrenda ferita sanguinante.

Un fulgore nel buio, il lampo di una lama scintillante di fredda vita che beve il cremisi orribile di sangue innocente, mischiato al nero osceno di creature rovinate dall’oscurità. Un bagliore, una corona, un trono vuoto che attende in silenzio, già imbrattato di sangue. Una speranza così esigua da parere follia, eppure ancora viva, bruciante di vita.

E poi azzurro, il blu intenso di cieli d’estate avvolti da un’ombra troppo nera per essere contrastata. E il lampo rosso di sangue e fiamma su di un’armatura candida, risplendente in mezzo alla morte.

Dean ansimava vistosamente, e le sue mani stringevano tanto forte il bordo di pietra del bacile da farsi male. Non si accorse delle lacrime che erano tornate a rigargli il viso, fino a che non le vide cadere a mischiarsi con l’acqua, spezzando quell’ultima abbagliante visione di bianco. Aveva voglia di prendere a pugni quello strano altare di pietra, di scuoterlo fino ad estirparlo dalle radici della terra e ridurlo a pezzi, voleva gridare, e correre fino a sentire i polmoni bruciargli nel petto. Crollò in ginocchio ed afferrò manciate della tenera erba verde che indifferente cresceva nell’autunno d’oro di Lorièn. Voleva ferire il cielo stesso, perché non era giusto che potesse esserci ancora tanta bellezza intorno a lui mentre il suo cuore era un paese straziato.

“Dean” lo chiamò la voce gentile ma ferma della Dama, e quando la sua mano si posò sulla sua schiena, proprio all’altezza del cuore, qualcosa dentro di lui si riscosse e il dolore impotente diventò rabbia, e poi qualcosa di ancora diverso.

Non poteva strappare i Valar dai loro troni indifferenti, come non poteva far cessare la pena bruciante che colava come sangue infetto dal suo cuore, ma forse poteva ancora salvare una fanciulla dallo sguardo indomito e i capelli biondi.

“Rohan, devo andare a Rohan”

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