Tu, da un altro tempo.

di AyaAya96
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il ragazzo che salvai dalla pioggia. ***
Capitolo 2: *** Nel futuro? ***
Capitolo 3: *** La ricerca. ***



Capitolo 1
*** Il ragazzo che salvai dalla pioggia. ***


Mi avvicinai: Il ragazzo era riverso sui sacchetti dell’immondizia accatastati sotto il lampione, con la guancia destra affondata in una sportina scura.
La pioggia l’aveva infradiciato, e i capelli bagnati gli erano rimasti incollati sul viso. Con una mano, delicatamente, glieli scostai. Accidenti, ricordavo di averlo già visto, da qualche parte.
Mi rialzai di scatto, spaventata. Non importava chi fosse, era sdraiato su un cumulo di immondizia, di certo non era un persona rispettabile. Strinsi il manico dell’ombrello, mordendomi le labbra, mentre poggiavo a terra la spazzatura che avevo portato da casa.
Ma perché era lì? Era morto? Svenuto?
Di nuovo, mi piegai su di lui, stavolta afferrandogli il polso. Il cuore batteva, sì, ma era anche bollente. Aveva la febbre? Gli misi una mano sulla fronte: rovente.
E ora? Che faccio?
Lasciarlo lì sotto la pioggia non era certo una buona idea: non volevo avere niente e nessuno sulla coscienza.
Appoggiai l’ombrello al muro, e tentai di metterlo a sedere.
Sudava e ansimava terribilmente.
Con una mano gli levai velocemente le schifezze che aveva addosso, e tentai di metterlo in piedi, invano. Sebbene avesse un fisico esile, non era per nulla leggero. Alla fine, dovendo però rinunciare all’ombrello, riuscii a caricarmelo sulle spalle, e cominciai a correre verso casa.
Sentivo il suo respiro sul mio collo, e la cosa mi metteva ansia, ricordandomi ogni secondo di più quanto stupido e irresponsabile fosse ciò che stavo facendo.
Finalmente, intravidi il cancello del mio condominio, e un sorriso mi scappò involontario.
Oramai anch’io ero fradicia, e la frangia mi si era appiccicata sulla fronte impedendomi in parte anche la vista. Dopo essere riuscita a liberare una mano, frugai nelle tasche del cappotto e trovata la chiave aprii il cancello.
Tentando di non far rumore salii le scale del condominio, soffocando gli insulti e i lamenti che a chiunque sarebbero usciti spontanei con più di 60 kili sulle spalle, salendo per un’infinita scalinata a chiocciola.
Arrivai all’ultimo piano sfinita: scaricando bruscamente a terra il ragazzo che avevo sulle spalle, mi aggrappai alla maniglia, inserendo e voltando la chiave. La porta si aprii con un cigolio e trascinai dentro casa il malato, controllando che nessuno mi vedesse.
Richiusi la porta, sbattendoci contro la schiena e scivolando lungo la sua superficie fino a terra, sedendomi sul pavimento. Davanti a me, sdraiato sul parchè, tremava il ragazzo che avevo appena salvato dalla pioggia. Puzzava terribilmente di immondizia, e i suoi vestiti erano laceri e sporchi. I capelli spettinati gli invadevano il viso, neri corvini.
Possibile che queste cose capitassero solo a me? Mi ero trasferita da appena due settimane, e mi ritrovavo con uno sconosciuto malato sul ciglio di casa. Sospirai, e raggiungendolo a gattoni, lo alzai, stavolta con più successo, e lo portai sul divano, dove lo feci sdraiare. Corsi in bagno, tornando con una bacinella d’acqua e qualche asciugamano. Adagiai il ragazzo sopra un cuscino, e intingendo una salvietta nel catino, la strizzai e gliela sistemai sulla fronte. Gli tolsi il gilè di pelle sintetica, lasciandolo in canottiera. Solo allora notai che era pieno di tatuaggi: sullo sterno, e sulle braccia. Un’enorme scritta che gli cingeva il collo attirò la mia attenzione: UN-DO. Era scritto in caratteri molto spessi, nell’alfabeto occidentale. La sfiorai incantata con la punta delle dita, ma un colpo di tosse del ragazzo mi riportò alla realtà, e svelta gli tolsi scarpe e calze, portandole all’entrata. Frugando tra gli scatoloni che ancora infestavano l’appartamento trovai una coperta di lana e lo coprii dalla testa ai piedi. Gli cambiai di nuovo la salvietta sulla fronte prima di provargli la febbre: 39°.
Una tachipirina, una tachipirina.  
Ne avevo sempre in borsa una, per le emergenze. Presi un bicchiere d’acqua, e aiutai il ragazzo a ingerire la pillola e a bere. Non potevo più fare altro che aspettare, giusto?
Ora la febbre avrebbe dovuto cominciare a scendere…
Mi appoggiai al divano, sfinita. Il mio sguardo scivolò sul gilè che avevo poggiato sul tavolo. Sarebbe stato meglio lavarlo, visto quanto puzzava. Lo afferrai, svuotando le tasche: qualche moneta, una caramella alla fragola e qualche cartaccia. Nessun documento. Lo rigettai sul tavolo, e alzandomi raggiunsi la poltrona di fronte al divano. Il ragazzo aveva smesso di ansimare, e sembrava anche più tranquillo. Mi avvicinai, scrutando i lineamenti del suo viso.
Dove l’ho già visto?   
Era senza dubbio un bel ragazzo. Un bellissimo ragazzo. Era esile e slanciato, aveva una pelle chiarissima, senza alcuna imperfezione. Portava tre piercing: uno al labbro inferiore, uno alla narice e uno sul sopracciglio. Aveva anche diversi orecchini.
La cosa che però si notava di più erano i suoi tatuaggi. Le braccia erano piene di numeri e scritte in giapponese. Su un braccio aveva anche una scritta che sembrava inglese.
Portare così tanti tatuaggi in Giappone non era una buona cosa: anche chi ne portava solo uno, se questo era troppo in vista, era considerato un malavitoso.
Forse ho fatto veramente male a portarlo qui.
Non sapevo neppure chi fosse. E se avesse avuto a che fare con la Yakuza? Istintivamente mi allontanai, mentre la mia mente si riempiva di terribili supposizioni.
Il ragazzo, con un mugolio si voltò di lato, dandomi la schiena, facendo cadere a terra la salvietta bagnata che aveva sulla fronte. Eppure sembrava veramente indifeso. Mi avvicinai, strizzando l’asciugamano per poi bagnarlo nuovamente. Lo riposai con cautela sulla sua fronte, scostandogli i capelli, che pian piano si stavano asciugando del tutto.
Aveva il visetto di un bimbo, ma di certo aveva più di 18 anni.
Forse 20.
Mi risedetti a terra, posando i gomiti sulla ginocchia. Avevo sonno, i miei occhi cominciavano a chiudersi da soli. Però dormire con in casa uno sconosciuto, seppur malato, non mi rendeva per nulla sicura. Mi alzai e mi risedetti sulla poltrona, e inconsciamente, scivolai nel sonno.
 
Quando mi svegliai la prima cosa che sentii fu la lana che pizzicava su tutto il mio corpo. Aprii gli occhi, stanchi. Davanti a me un soffitto bianco. Del freddo, sulla fronte. Alzai un braccio, sfiorando con la mano qualcosa di soffice e umido che avevo appoggiata sul viso. Solo quel gesto bastò per stancarmi.
Dove diavolo sono?
Cercai di fare mente locale: qualcuno la sera prima, mi aveva salvato.
E prima di quello?
Non riuscivo a ricordare. Raccogliendo tutte le mie forze mi misi a sedere, accorgendomi solo allora del terribile malditesta che avevo. La salvietta bagnata che avevo sulla fronte mi cadde in grembo, e con un gesto stanco la lanciai a terra. Davanti a me c’era una ragazza, sui 20 anni circa. Aveva il viso tondo, un divertente naso a patata e una bocca rosea e sottile. Dormiva, tenendo la testa a penzoloni sul petto: i capelli le ricadevo in avanti, spettinati, e la frangia le copriva l’intera fronte. Aveva ancora addosso il cappotto, nonostante non ce ne fosse bisogno.
E’ lei che mi ha portato qui?
Mi guardai intorno: Non conoscevo quell’appartamento. Quindi dov’ero? Mi alzai a tentoni, raggiungendo la finestra, spalancandola: un vicolo che non avevo mai visto.
E ora? Che faccio?
La testa mi stava scoppiando. Non riuscivo a pensare: l’unico sentimento che dominava il mio corpo era la paura. Voltai lo sguardo e riconobbi la mia giacca sul tavolo. L’afferrai e corsi barcollando verso l’entrata. Aprii la porta, e senza preoccuparmi di richiuderla mi fiondai giù per le scale, correndo, finchè alla seconda rampa non inciampai rovinando a terra.
Mi guardai il braccio: sangue. Cosa diavolo stavo facendo?
- Giovanotto… si sente bene? –
Una voce tremante, anziana. Mi voltai di scatto. Chissà che faccia che avevo: la signora di fronte a me sembrava davvero preoccupata. Mi alzai, facendomi leva con il braccio sano, mentre tentavo di fingere un sorriso.
- Non si preoccupi signora, sto bene. –
Risi, una pessima risata. Chinai il capo e scesi le scale, stavolta con più cautela. Finalmente arrivai all’entrata. La spalancai, e corsi nel vialetto. Il cancello era chiuso, non avevo pensato ad aprirlo dall’interno. Lo scavalcai, rovinando sull’asfalto del vicolo parallelo al condominio. Mi inginocchiai a terra, trattenendo un gemito. Avevo freddo, paura, e stavo male.
Mi ero svegliato in una casa che non conoscevo, sdraiato di fronte ad una donna che non conoscevo. Non sapevo in che città ero, niente mi suggeriva qualcosa.
E il peggio fra tutto, era che non ricordavo nulla di come fossi arrivato lì.
 
- Signorina Kato! Signorina Kato! –
Una voce squillante, fastidiosa mi svegliò di colpo. Mi alzai all’istante, sull’attenti, scatenando le risate della classe. Solo allora mi resi conto che ero nel bel mezzo della lezione.
- Signorina Kato, mi dispiace averla svegliata, ma qui si studia, non si dorme! –
Sbraitò l’insegnate, scandendo istericamente l’ultima parola pronunciata.
Chinai il capo imbarazzata.
- Mi scusi. Non ricapiterà. –
- Lo spero bene. –
Sussurrò accida, chiudendo il libro che aveva tra le mani.
La campanella, suono amico, squillò dopo qualche istante.
 
- Rosa, si può sapere cos’hai oggi? – Yumi mi seguiva tenendo i libri stretti sul petto, con un’espressione preoccupata sul viso. Mi voltai, fissandola di traverso. Non avevo una bella faccia, ne ero consapevole, ed ero anche consapevole del fatto che quello che era successo a lezione non era nella mia norma. Ma diavolo, perché nessuno capiva mai quand’era il momento di non rivolgermi la parola?
- Nulla. –
- Come nulla? Nemmeno quando siamo rimaste sveglie fino alle 6 di mattina il giorno dopo ti sei addormentata a scuola. Qualcosa DEVE essere successo. –
Sbuffai, raggiungendo la fermata dell’autobus. Sentivo puntato su di me lo sguardo di Yumi, probabilmente eccitata e incuriosita all’idea di cosa mi avesse tenuta occupata la notte per lasciarmi in quello stato la mattina dopo.
- Non vuoi raccontarmi proprio nulla? –
Si lamentò Yumi, fingendosi offesa.
- Guarda che i tuoi genitori mi hanno lasciato il loro numero per le emergenze. –
Sorrise perfida, facendo dondolare il suo cellulare davanti ai miei occhi.
- Non lo faresti mai. –
Risposi, scettica.
- Ah, sì? –
Sentii il “beep” dei tasti che venivano schiacciati, e preoccupata mi voltai.
- Buongiorno. Salve, sono Yumi, l’a…
Le tappai la bocca appena in tempo strappandole il telefono di mano e chiudendo impacciata la chiamata. – Sei pazza? –
- Perché? Non credi che i tuoi genitori debbano sapere se la loro figlia ha problemi a scuola? –
La fulminai con lo sguardo, mordendomi le labbra solo per impedire che dalla mia bocca non uscisse un fiume di insulti.
- E va bene! – dissi, mollandole i polsi.
- Allora? Allora? –
- Ieri sera ho pescato un ragazzo dall’immondizia. –
Dissi, infilando il mento sotto la sciarpa rossa.
- Cosa? Un barbone? – Yumi non sembrava soddisfatta della mia risposta.
- No, era un ragazzo giovane, forse della mia età. Aveva la febbre, perciò l’ho portato a casa. –
- Cosa? Ma che razza di incosciente sei? –
Mi voltai, sorpresa di quanto poco umana fosse stata la sua reazione.
- Scherzi? Hai visto come pioveva ieri notte? Secondo te avrei dovuto lasciarlo lì? –
- Perché no? –
Ribatté lei. – Comunque, che hai fatto alla fine, l’hai davvero portato a casa tua? –
- Già… e non sai che mal di schiena. Sembrava tanto esile ma alla fine era più pesante di un macigno. –
- L… l’hai portato sulla schiena? –
Yumi si alzò di scatto, alzando tremendamente la voce. Portai l’indice alla bocca, fissandola con occhi truci, finchè non si risedette.
- Rosa, ma cosa ti salta in testa? Non lo conoscevi neppure? E se fosse stato un malavitoso? –
- In effetti era pieno di tatuaggi… -
- Cosa?! – Di nuovo, alzò la voce. La gente che aspettava con noi alla fermata stava cominciando a guardarci male.
- Non ho controllato bene, ma quelli sulle braccia e quello sullo sterno erano piuttosto evidenti. –
Yumi si passò una mano tra i capelli. Lo faceva spesso.
- Oddio, allora era proprio un malavitoso. Dio, Rosa, ma un po’ di buonsenso no, eh? –
Feci spallucce, infilando le mani nel cappotto.
- Comunque non c’è da preoccuparsi. Stamattina, quando mi sono svegliata, se n’era già andato. –
- Senza dirti nulla? Non ti ha nemmeno ringraziato? –
- Ti ho detto che stamattina non c’era più. Non l’ho visto neanche uscire. –
- Oh, bene. Speriamo solo non si ripresenti. –
Non risposi. In verità, non ero sollevata. Ma nemmeno preoccupata. Solo.. in ansia? Nervosa? Non sapevo neppure dire come mi sentivo.
L’autobus si fermò davanti a noi, e stancamente mi alzai dalla panchina, salendo a bordo. Yumi mi seguì con il suo solito passo frizzante, mentre la vedevo estrarre una rivista dalla borsa.
Cercai i primi due posti liberi vicini, e appena trovati sprofondai nel sedile di fianco al finestrino, voltando lo sguardo alla città che a malapena intravedevo attraverso il finestrino appannato.
Yumi si sedette accanto a me, con le auricolari nelle orecchie e gli occhi vispi puntati sulle foto del suo giornale di gossip.
Feci scivolare lo sguardo stancamente sulle foto stampate sulle pagine, chiedendomi che gusto ci fosse nel sapere della vita privata degli idols. In fondo erano persone normali, e in quanto tali avevano il diritto di avere una loro privacy e non avevano di certo il dovere di informare i fan di ogni secondo della loro vita.
Poi il mio sguardo si fermò su un’immagine. Un’immagine che avevo già visto.
- UN… DO. –
Feci scivolare lentamente le dita su quella foto, su quella scritta che ero sicura di aver già visto.
Yumi mi guardava perplessa. – Rosa, tutto ok? –
Non le risposi neppure: le presi la rivista e osservai confusa la foto che avevo intravisto.
Era un uomo, sui 25 anni, circa, con i capelli lunghi castani che gli sfioravano le spalle. Aveva uno sguardo penetrante, due occhi neri come la notte e la pelle candida, bagnata di sudore. In mano, teneva un microfono: un cantante.
- Ah, quello? E’ Miyavi. Non lo conosci? –
- Miyavi? – Ripetei, guardandola con gli occhi sbarrati. Ovvio che non lo conoscevo bene, l’avevo sentito nominare, ma non avevo mai neppure ascoltato una sua canzone. Per me era sempre stato uno di quei tanti idols che apparivano di tanto in tanto in tv o sulle riviste dando mostra di sé.
- Questo tatuaggio… - sfiorai la foto dove era ritratta la scritta “UN-DO”, esattamente sullo sterno dell’uomo. Anche gli altri tatuaggi, sulle braccia, erano identici. Ma il volto… quello della foto era decisamente più vecchio. Il ragazzo che avevo salvato ieri, era decisamente più giovane. Un cosplay forse? Eppure i lineamenti del viso erano gli stessi…
- Rosa, stai bene? –
- Sì, benissimo. – Le restituii la rivista con un gesto brusco, imponendo alla miriade di pensieri che mi affollavano la testa di tacere.
 
Quando raggiunsi la soglia di casa, non ero ancora riuscita a calmarmi. 
Sebbene mi imponessi di dimenticare, il mio cervello continuava a ritornare sullo stesso pensiero.
Stavo per infilare le chiavi nella serratura della porta, quando sentii dei passi dietro di me. Mi voltai di scatto spaventata.
- Rosa? –
La signora Satoshi mi fissava confusa. Quella non era certo la giusta reazione alla vista di una innocente vecchietta.
- Mi scusi… buongiorno. –
Chinai il capo, tentando di star calma, ma soprattutto di apparire tale.
- Senti Rosa, stamattina ho visto un ragazzo scendere per le scale, lo conosci? –
Alzai lo sguardo, gli occhi sbarrati.
- N-no… perché? –
- L’ho visto scendere dagli ultimi piani di corsa, e sai essendo la padrona del condominio mi sono un po’ preoccupata, sai, non avendolo mai visto… –
- Capisco perfettamente. – Sorrisi.
La signora Satoshi guardò verso le scale che si radunavano a chiocciola lungo l’edificio, pensierosa.
- Eppure ho chiesto ad ogni porta… -
Ma deve sempre farsi gli affari degli altri questa nonnetta? Non ha proprio niente da fare tutto il giorno?
- In ogni caso, - Riprese,
- Il fatto è che l’ho visto rotolare per un’intera rampa di scale… gli avevo anche chiesto se stava bene, ma anche se mi ha detto di non preoccuparsi, era evidente che stesse sanguinando. Ho dovuto persino pulire il pavimento. –
- Sanguinava? –
- Sì, probabilmente si sarà ferito nel cadere. Sarà stato un ladro? Correre con tutta quella fretta… -
Ferito? Ma è idiota? Correva per le scale? Con la febbre che aveva?
- Grazie delle informazioni, starò attenta. –
Chinai il capo e senza lasciarle il tempo di dire nulla, entrai in casa e richiusi la porta. Guardai fuori dalla finestra: stava piovigginando.
Avrei dovuto fare qualcosa: conciato com’era di sicuro non era andato lontano, trovarlo forse non sarebbe stato poi così difficile.
Le parole di Yumi mi risuonarono in testa: “Rosa, ma cosa ti salta in testa? Non lo conoscevi neppure? E se fosse stato un malavitoso?”
Già. Restava il fatto che non lo conoscevo. E restava il fatto che ora non era più un problema mio.
Avevo fatto tutto quello che avevo potuto in fondo, no? Ero stata anche fin troppo gentile.
Mi spogliai, e mi sedetti sul divano. A terra c’era ancora la bacinella d’acqua. L’afferrai per le maniglie e la portai in bagno, rovesciando l’acqua nel lavandino.
L’immagine riflessa nel mio specchio mi attrasse come una calamita: istinto femminile, o disperato senso di colpa?
Poggiai le mani sui bordi del lavandino, e fissai negli occhi il mio riflesso. Sembrava una sfida tra me, la parte razionale del mio essere, e la mia copia nello specchio, la coscienza repentina che mi guardava con disprezzo.
- Aah! E va bene! –
Mi fiondai all’entrata, e infilato il cappotto uscii, richiudendomi la porta alle spalle.
 
Chissà dov’ero. Avevo vagato per tutto il giorno tra vicoli, strade, senza avere la minima idea di dove stessi andando. In più, mi sentivo morire: la testa mi scoppiava, la ferita sul braccio mi bruciava da pazzi, avevo fame e sete. Mi aggrappai ad un muretto, alzando lo sguardo al cielo. L’ultimo ricordo che avevo era il soffitto dell’appartamento di Tokyo, poi nient’altro.
Come fossi arrivato lì, non me lo ricordavo: non sapevo neppure dove fosse, quel “lì”.
Mi sedetti a terra, sfinito. Avevo una voglia pazza di scoppiare a piangere, di gridare… volevo svegliarmi da quell’incubo. Alzai di nuovo gli occhi al cielo.
- Ma perché tutto a me? Mi odi per caso? –
Una goccia d’acqua cadde dal cielo, solcandomi la guancia come una gelida lacrima.
Una, due, tre. Stava cominciando a piovere.
- Perfetto. –
Mi coprii il capo con il cappuccio del mio gilè, e avvicinai le ginocchia al petto, abbracciandole.
Ero in uno stato orribile. Chissà cosa sarebbe successo se qualcuno mi avesse visto in quello stato: vedevo già i titoli sui giornali… “MIYAVI, trovato collassato sul ciglio della strada”
Scossi la testa, stringendo le ginocchia al il petto.
Voltai stancamente lo sguardo, poggiando la testa sulla spalla. Davanti a me, per terra, c’era un giornale. Allungando una mano lo salvai dalla pioggia, e me lo misi in grembo.
Almeno avrei saputo che giorno era.
Aprii il giornale e lo scossi un attimo prima di leggere la data: 09/11/2010.
Spalancai gli occhi. Non poteva essere vero. La data era sbagliata, doveva esserlo.
E’ uno scherzo?
Mi alzai, in preda al panico. Mi guardai intorno: non era possibile. Di nuovo, rilessi la data sul giornale. Forse era solo un errore di stampa.
Una coppia s’introdusse nel vicolo, passandomi di fianco. Una donna, sui 20 anni, e un uomo sui 30 circa, camminavano svelti sotto un ombrello sgualcito. La prima era proprio una bella ragazza: aveva il viso tondo e gli occhi grandi, sembrava quasi una bambola. Il secondo invece, non aveva un bel viso: Gli zigomi troppo alti, gli occhi troppo piccoli. In compenso aveva un fisico ammirevole, ma forse anche troppo palestrato. Entrambi avevano sguardi truci, e i loro discorsi sembravano tutto tranne che amichevoli. Però, non importava, non avevo tempo per queste cose. Barcollando li raggiunsi, afferrando la ragazza per una spalla. Questa si girò, con gli occhi spalancati e un’espressione confusa dipinta sul volto.
- Scusi, sa dirmi che giorno è? In che anno siamo? –
La mia voce era terrorizzata, e probabilmente anche il mio viso aveva assunto un’espressione sconvolta.
- Mollami, barbone! – Urlò la ragazza, spingendomi a terra. Le mie mani strisciarono sull’asfalto, graffiandosi. Trattenni un gemito di dolore, e provai a rialzarmi.
- Hey, tu! – Una mano mi afferrò la canotta, mettendomi in piedi. L’uomo che avevo di fronte e che mi minacciava con il suo pugno era senza dubbio l’amante della ragazza.
- Cosa credi di fare? Cerchi guai? –
- No, io, veramente… -
- Amore, smettila! –
La donna afferrò le spalle del suo fidanzato, con occhi supplichevoli e voce tremante.
L’uomo mollò la presa, e io, senza più forze, caddi direttamente tra le braccia della ragazza, che rispose con un urlo agghiacciante.
Sentii di nuovo la mano dell’uomo afferrarmi la giacca, e spingermi via dal petto della donna, l’istante dopo un dolore lancinante al naso, il sapore del ferro in bocca e l’asfalto sotto il corpo.
Mi aveva tirato un pugno.
- Sei pazzo? Vuoi ucciderlo? Non è successo nulla! –
- Nulla? Questo lo chiami nulla? Anche l’altra volta allora era “nulla”? –
Voglio morire…  
Alzai il petto, poggiando i gomiti a terra. Anche la vista ora cominciava a farmi brutti scherzi: vedevo sfocato, i suoni giungevano lontani e persino sensazioni come il tatto o l’olfatto cominciavano a venir meno.
- Diventerò pazza per colpa tua! –
Urlò la ragazza, afferrando l’ombrello e incamminandosi verso la fine del vicolo. L’uomo stava per raggiungerla, quando alla scenetta si aggiunse un terzo attore. – Hey, tu! –
L’uomo ora era seduto di fianco a me, con una mano premuta sulla guancia sinistra. Chi l’aveva colpito? Mi voltai verso il suo aggressore: una ragazza. Un momento, io quella ragazza la conoscevo.
- Che cazzo vuoi, puttana?! –
- Voglio che ti togli dalla mia strada, pezzo di merda. O vuoi che continui? –
La ragazza mostrò il pugno, e l’uomo a terra per un istante sembrò spaventato. Poi la sua attenzione fu attirata dalla sua fidanzata, che all’arrivo della ragazza si era fermata, tornando poi però sui suoi passi. L’uomo sputò a terra, e fissando la sua avversaria con sguardo minaccioso si alzò e si mise a rincorrere la sua donna, ormai lontana.
La ragazza che mi aveva salvato rimase in piedi per qualche secondo, poi mi si avvicinò e s’accovacciò al mio fianco.
- Stai bene? –
Ti sembra che stia bene?
Mi aiutò ad alzarmi, e trascinandomi tenendo il mio braccio sulle sue spalle prendemmo il vicolo che s’incrociava perpendicolarmente con quello dove ci trovavamo prima. Da lì in poi, persi i sensi.

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Capitolo 2
*** Nel futuro? ***


 
Alla fine l’avevo trovato. Probabilmente, continuavo a pensare, se non fossi intervenuta quel ragazzo ora sarebbe stato all’altro mondo.
Lo fissai di striscio, mentre sistemavo la cucina. L’avevo lasciato dormire per qualche ora, e l’avevo curato come la prima volta, finchè non si era svegliato: “Che giorno è? In che anno siamo?”
Aveva detto appena sveglio. Ora fissava il giornale che gli avevo dato come prova delle mie parole, e stava zitto, con le gambe strette al petto.
Appoggiai di fianco al lavandino lo straccio che avevo in mano e mi diressi in soggiorno, sedendomi sulla poltrona di fronte al divano, dove stava ora il ragazzo.
- Senti, tu come ti chiami? –
Alzò lo sguardo. Aveva un’espressione sconvolta.
- Takamasa… Takamasa Ishihara. –
Sorrisi. – Bene. Io sono Rosa Kato, piacere. –
Gli tesi la mano, ma lui non la notò neppure. Ritrassi il braccio, un tantino imbarazzata.
- Siamo veramente nel 2010? Non è uno scherzo, vero? –
Non avevo mai visto uno sguardo così spaventato.
- No, non lo è… -
Non sapevo come rispondere ad una domanda simile. Era una cosa piuttosto ovvia. Possibile che fosse talmente sotto shock?
- E.. dove siamo? –
- A… Kyoto. –
- Kyoto? – Esclamò.
- Sì. –
Takamasa infilò le dita tra i capelli, afferrandosi il capo, mentre chiudeva gli occhi. Sembrava un bimbo in fuga da un incubo.
Forse è meglio chiederglielo.
Mi alzai, dirigendomi verso l’attaccapanni all’entrata. Frugai nella mia borsa e pescai la rivista che Yumi mi aveva prestato. Velocemente voltai le pagine fino ad arrivare a quella dove era ritratto il cantante che forse stava seduto sul divano del mio soggiorno. Nascondendo dietro la schiena la rivista mi risedetti sulla poltrona.
- Posso chiederti una cosa? –
Takamasa alzò lo sguardo, togliendosi le mani dai capelli.
- E’ possibile che tu sia un cantante? Famoso, intendo. –
Mi guardò, all’inizio un po’ spaesato.
- Sei una mia fan? –
- Cosa? –
Proprio non me l’aspettavo quella reazione.
- No, ti ho visto stamattina sul giornale! –
Risposi, lanciandogli la rivista che avevo tenuto dietro la schiena.
L’afferrò al volo, sfogliandola e ogni tanto spiandomi da dietro il magazine.
Quando giunse alla pagina dov’era raffigurato, per poco non si mise a gridare.
- Sono.. Sono io?! –
- E’ quello che mi stavo domandando. –
- Sì ma… qui… io non… -
Si fermò, passandosi una mano davanti alla bocca. Si alzò di scatto, correndo verso il bagno che gli avevo indicato l’istante prima con un cenno della testa.
Mentre lo sentivo passare le pene dell’inferno, afferrai la rivista che era caduta per terra.
Ora che ci pensavo, non avevo letto l’articolo legato alla foto.
 
L’ARTISTA MIYAVI COINVOLTO IN UN INCIDENTE D’AUTO, RIMANE IN COMA.
 
Sbarrai gli occhi. Era in coma? Perciò non poteva essere lui. Però me l’aveva confermato.
Che fosse pazzo allora? O che mi stesse solo prendendo in giro…?
Afferrai la rivista e mi diressi verso il bagno. Takamasa, sempre che si chiamasse veramente così, stava aggrappato al lavandino come un naufrago a un pezzo di legno nell’oceano.
Si voltò, gli occhi stanchi, il volto pallido e smunto.
- Tu.. non puoi essere Miyavi. –
Dissi.
- Qui c’è scritto che è in coma. –
Gli mostrai il titolo, nella pagina di fianco alla sua foto.
Strizzò gli occhi, leggendo a bassa voce il contenuto dell’articolo. D'altronde, nonostante la gravità della notizia, era piuttosto corto.
- Un incidente… –
Annuii.
- Allora, vuoi dirmi chi sei veramente? –
- Cosa? –
Sembrava non capire: la situazione cominciava ad irritarmi.
- E’ ovvio che tu non sei Miyavi. –
Di nuovo, Takamasa si prese la testa tra le mani, strizzando gli occhi.
- Credi quello che vuoi allora! –
- C… cosa? –
Ma che razza di…
Non potevo crederci. Era lui quello che aveva mentito, lui era l’unico che avrebbe dovuto scusarsi, o perlomeno prendermi con le pinze, in una situazione simile.
- Senti, questa è la seconda volta che ti salvo il culo. –
Gli afferrai il colletto, cercando di ignorare la puzza di vomito.
- Non pensi che sia un po’ troppo prendermi in giro? Ti avviso, non sono una persona paziente. –
- Te l’ho detto. –
Sbuffò, spingendomi stancamente.
- Non so neppure io che sta succedendo: io ero convito di essere a Tokyo, nel dicembre del 2003! –
- Mi prendi in giro? –
Possibile che non stia mentendo? Non sembra stia recitando…
Takamasa si sedette a terra, coprendosi il volto.
Non sapevo che fare: se non mentiva, era pazzo. Non c’era una terza opzione.
Diceva di credersi a Tokyo, nel 2003. Non era possibile.
Se le sue parole fossero state vere, cos’era? Una copia di un cantate venuto dal passato?
Però…
Non aveva documenti per provarmi chi era. Però se nel 2003 era già famoso di certo sul web ci sarebbero state sue foto di quel tempo. Corsi in soggiorno, accendendo il portatile poggiato sulla scrivania: Ci mise un po’ a connettersi, ma non appena si aprì la homepage del motore di ricerca, scrissi “MIYAVI 2003” e cliccai invio.
Le foto che trovai raffiguravano il ragazzo che avevo salvato. Senza ombra di dubbio.
Ma come era possibile?
Tornai in bagno, trovando Takamasa a terra, nella stessa posizione di quando l’avevo lasciato.
Mi accovacciai, toccandogli una spalla. Lui allontanò le dita tra loro, scoprendo gli occhi, che confusi mi fissarono. Sembrava un cagnolino abbandonato.
- Tu… sei veramente Miyavi? –
Non rispose.
Non importava.
Mi alzai, e gli tesi la mano. – Non hai fame? –
Lui, lentamente, si tolse le mani dal viso, alzando lo sguardo su di me. Sembrava sorpreso, ma soprattutto confuso.
- Perché lo fai? –
- Cosa? –
- Perché mi aiuti? –
Sospirai, sedendomi di fianco a lui. Incrociai le gambe, e mi afferrai i piedi, dondolando.
- Sai, mio papà era cristiano. Una volta, mi ha raccontato una storia: mi disse che tanto tempo fa un uomo saggio l’aveva raccontata ad altre persone, che dopo averla sentita avevano continuato ad aiutare il prossimo fino alla loro morte. La storia parlava di un uomo che un giorno sulla via di casa era incappato in un gruppo di briganti che l’avevano derubato e picchiato, lasciandolo in fin di vita sul ciglio della strada. Di lì era passata tanta gente, anche un sacerdote, ma nessuno si era fermato a soccorrerlo. Solo un uomo, un samaritano, quando lo incontrò, decise di prendersene cura. Gli curò le ferite, lo vestì e lo portò in una locanda, pagandogli l’alloggio. -
Mi voltai, sorridendogli. Già, non importava chi fosse, né se era pazzo. Io ero il buon samaritano, e non mi importava se il ragazzo che avevo salvato dalla pioggia era scortese, pazzo o bugiardo.
- Alla fine della storia… l’uomo che era stato salvato aveva fatto la stessa domanda che mi hai fatto tu al suo salvatore. E sai cosa gli ha risposto? –
Takamasa scosse la testa.
- “Aiuta il prossimo come sei stato aiutato. Ogni uomo sulla terra è tuo fratello: impara ad amare e sarai amato.” –
 
Guardarlo divorare il Donburi che gli avevo preparato faceva veramente ridere.
Chissà da quanto non mangiava.
Teneva ferma la ciotola con una mano, e con l’altra impugnava il cucchiaio che immergeva nel riso cotto per poi ficcarlo l’istante dopo nella bocca.
Ogni tanto si fermava per bere un sorso d’acqua, e poi di nuovo, con il mento immerso nella scodella.
Mi lasciai scappare un risolino, e Takamasa, accortosene, alzò gli occhi dal pasto, oramai consumato. Il suo sguardo era quello di un cagnolino colto dal padrone nel fare qualcosa che non avrebbe dovuto.
Diedi un’occhiata all’orologio: le 23:07.
Domani avevo scuola e non potevo permettermi di restar sveglia fino a tardi come la notte scorsa. Nel frattempo Takamasa aveva finito il Donburi, tentando stavolta di mangiare un po’ più educatamente. Mi alzai, e cominciai a sparecchiare, mentre sentivo i suoi occhi puntatimi addosso. Probabilmente si sentiva un po’ disorientato… come quando si ha comprato da poco un animale domestico e questo non si è ancora abituato alla casa e alla padrona.
In verità nel guardarlo mi capitava più volte di paragonarlo ad un cucciolo, e ridevo nel pensare che la situazione in cui ci trovavamo ricordava molto il drama Kimi Wa Petto… solo che qui non si trattava di un “Petto” ma di una persona che credeva di venire dal passato, ma soprattutto che era convinta di essere un cantante tuttora in coma.
- Si è fatto tardi. –
Dissi.
- E io domani ho scuola… già oggi mi sono addormentata in classe… -
Takamasa si alzò e sparecchiò velocemente la tavola, portandomi i piatti al lavandino, mentre io lo osservavo divertita, notando il suo evidente imbarazzo.
- Senti, per stanotte puoi dormire qui. –
Gli indicai il divano, non appena finii di lavare le stoviglie e metterle ad asciugare. Takamasa era un po’ perplesso, ma annuì, sedendosi sul divano.
Lo salutai con un cenno della testa, e stavo per dirigermi in camera, quando mi fermò, chiamandomi:
- Aspetta! –
Mi voltai, quasi sorpresa.
Chinò il capo, urlando: - Grazie Mille! –
Anche se erano piuttosto comici i suoi ringraziamenti, non potevo non notare la costante disperazione e paura in ogni suo gesto. Anche se non sembrava a primo impatto, in realtà, probabilmente aveva tenuto a freno le lacrime.
Chissà a cosa stava pensando: Dove saranno i miei genitori? I miei amici? Staranno tutti bene? Ho una fidanzata? Una moglie? O forse addirittura dei figli?
In dieci anni può accadere di tutto. Nella tua vita possono comparire nuove persone… e magari scomparire.
Mi resi conto che stavo cominciando a credergli, senza ragionarci. Quei pensieri mi erano venuti spontanei, e non avevo nemmeno fatto caso che fossero basati su una realtà che restava comunque impossibile. Però… l’idea che stesse mentendo o che fosse pazzo, mi suonava come una bugia. O forse mi spaventava.
- Non devi ringraziarmi. –
Risposi con un sorriso. Ma perché la mia voce tremava?
- Invece… sì. – Ribatté.
- Mi hai aiutato senza conoscermi… senza… -
Un singhiozzo lo interruppe bruscamente. Non potevo neppure vedergli il volto, rivolto a terra.
Volevo avvicinarmi, rassicurarlo, ma non riuscivo a muovermi. O forse ero proprio io a non volerlo fare.
- Adesso… riposati. –
Voltai lo sguardo ed entrata in camera richiusi lentamente la porta. Lo sentivo piangere, in soggiorno. Combattere con le sue lacrime e contro la sua paura.
Non volevo uscire.

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Capitolo 3
*** La ricerca. ***


Yuki fissava Takamasa, che al contrario tentava di non incrociare il suo sguardo. Sembrava proprio una bambina alla scoperta di un nuovo giocattolo, che meravigliata lo osservava cercando di comprendere e conoscerne ogni particolare.
Takamasa, invece, affondava le mani nell’ampio maglione che gli avevo comprato quella mattina al mercato, e giocherellando con le dita tentava di distrarsi da quel momento di imbarazzo.
- E’ lui! – Esclamò sottovoce Yuki, aggrappandosi al mio braccio.
- Non è un cosplay! O mio dio… -
Si avvicinò di nuovo a Takamasa, stavolta con più audacia: gli sfiorò i capelli, gli toccò il mento, osservò estasiata i suoi tatuaggi… finché lui, scocciato non si allontanò, staccandosela di dosso con uno strattone. Yuki non sembrò neppur far caso alla sua reazione, e meravigliata continuò ad osservarlo. – Allora, hai finito? –
La rimproverai, trascinandola per un braccio.
- Ma.. ma.. –
Yuki boccheggiava, guardando prima me poi Takamasa, che la fissava scettico.
- Vedi di darti una calmata. E’ lui o no? –
- E’ lui, senza dubbio. Ma… -
- Ma? –
- Ma non è lui. Non il lui di adesso almeno. Sembra.. Miyavi ringiovanito di una decina d’anni. –
Le scappò un sorriso, quando tornò a fissare Takamasa.
- E’ per questo che hai chiamato la tua amica? Non mi credevi? –
La sua voce, tagliente come un coltello, spezzò la tensione dei miei pensieri. Mi ero accorta solo quella mattina di quanto arrogante e irrispettoso fosse quel ragazzo. La sera prima probabilmente, era solo spaventato, e per questo mi ero fatta un’idea su di lui che pian piano mi accorgevo essere sbagliata.
Gli risposi con una smorfia, e tornai a interrogare l’affamata di gossip che avevo portato apposta per accertarmi sull’identità del ragazzo che avevo salvato.
Dopo una breve discussione, Yuki, per provarmi ciò che dichiarava, si diresse verso il portatile appoggiato sulla scrivania, e mi mostrò alcune foto. Takamasa seguiva i nostri discorsi e sbirciava le immagini sullo schermo del PC.
- Vedi? Questo è lui. –
Disse, mostrandomi una foto che secondo il sito risaliva ad un servizio fotografico del 2003.
- E questo è sempre lui, nel 2010. –
Stavolta aprì un secondo sito, dove trovammo foto più recenti. Sentii Takamasa dietro di me fare smorfie e allontanarsi.
- Che c’è? –
- Mi fa senso vedermi invecchiato. – Rispose lui dandomi la schiena. Un po’ perplessa tornai a fissare lo schermo.
- E questa? –
Domandai, indicando una foto che lo ritraeva con in braccio una bimba.
- Ah, quella? E’ Lovelie, sua figlia. –
- Figlia? –
In quel momento maledissi, me è Yuki, per la nostra indelicatezza. Takamasa ci fissava con la bocca spalancata e gli occhi sbarrati seduto sul divano, mentre noi tentavamo di nascondere la foto sul PC. Si alzò e si precipitò davanti allo schermo, fissando confuso la foto che aveva di fronte.
- Io ho… una figlia? –
- Ehm… veramente due. – Rispose Yuki.
- Due?! –
Fissai la mia amica con occhi truci: come poteva avere così poco tatto?
- Ma una è nata da poco… si chiama… aspetta… -
Yuki fece una breve ricerca e dopo pochi istanti annunciò vittoriosa: - Jewelie! –
- Jewelie… e Lovelie. –
Sussurrò Takamasa, fissando incantato le foto che Yuki gli aveva trovato su internet. No, quella ragazza probabilmente il tatto non sapeva neppure cosa fosse.
-  Ma… sono sposato? –
- Sì. Con una cantante. Ma lei non è più attiva da qualche anno, dopo la sua prima gravidanza. –
A Takamasa non servì neppure cercare la foto: sotto quella che lo ritraeva con in braccio Lovelie, c’era la foto di una donna, una donna piuttosto bella. La didascalia diceva: Melody.
Il silenzio calò in soggiorno. Io non sapevo che dire: mi chiedevo come si sentisse lui, a subire uno shock dopo l’altro e come facesse Yuki a restare con il sorriso sulle labbra.
- Ah, che mal di testa! –
Esclamò Takamasa. – Quello non sono io! Non mi importa! –
- Ma… -
- Ma niente! – Ribatté lui, quasi spaventando Yuki, che per poco non cadde dalla sedia, mentre schivava l’ampio gesto delle braccia di Takamasa.
- Io sono Miyavi, ho 22 anni, non sono sposato e non ho figli! – Urlò.
- Abbassa la voce! – Lo rimproverai, anche se mi accorsi solo dopo che forse non era il caso di sgridarlo.
Lui mi guardò imbronciato. Poi, togliendomi di mezzo spingendomi alla sua destra si diresse verso la porta di casa e uscì, sbattendola rumorosamente.
Il silenzio cadde solenne nella stanza.
- Forse è meglio se vai. –
Mormorai e Yuki, senza farselo ripetere due volte, si diresse verso l’uscita e infilate le scarpe e indossato il giubbotto anche lei uscì di casa.
 
Ero davvero furioso. Con chi? Non lo sapevo neppure. Forse con il destino, con la mia vita.
Ero riuscito in parte ad accettare l’idea di essere nel futuro, ma… io non avevo figli. Né mi ero mai sposato. Non avevo mai neppure amato seriamente una donna.
Un brivido mi percosse: nella rabbia, avevo dimenticato di coprirmi, uscendo.
Sbuffando, mi strinsi nel maglione che mi pungeva la pelle, abbassando lo sguardo a terra.
Ero diviso in due: da una parte mi incuriosiva, e forse mi spaventava per alcuni punti di vista, sapere cosa fosse successo in quei 10 anni. Dall’altra, tentavo di capire il motivo per il quale mi era successo tutto questo, e come avrei potuto uscirne. Forse c’era anche una terza parte di me, che ancora non credeva che quella fosse la realtà.
- Passa! Passa! –
Delle voci mi distrassero. Alzai lo sguardo, e mi accorsi di essere proprio di fronte all’entrata di un parco: dei bambini, stavano giocando a calcio: avranno avuto sì e no dieci anni.
Mi scappò un sorriso, mentre vecchi ricordi mi riempivano la mente, rendendomi nostalgico.
- Attento! – Urlò di colpo un bambino. Neppure mi ero reso conto che ero io la persona a cui si stava rivolgendo. Il pallone mi arrivò dritto in faccia, schiantandosi sul mio naso. La palla ricadde a terra, e io mi coprii il viso con le mani: il piercing al naso mi faceva veramente male.
Sentii dei passi veloci, e il mormorio dei bambini attorno a me. Lentamente scoprii il volto.
Probabilmente la mia faccia somigliava ad un pomodoro.
- Signore, tutto a posto? –
Feci di sì con la testa, accennando un sorriso. Stavo per andarmene, cercando di evitare gli sguardi dei bimbi, ma non appena mi voltai i miei piedi urtarono il pallone a terra. Mi fermai a fissarlo per qualche istante: Chissà da quant’è che non giocavo a pallone.
In quei secondi, uno dopo l’altro, tutti i pensieri che mi affollavano la mente svanirono. C’ero solo io, e ai miei piedi il pallone. Mi abbassai e lo presi tra le mani. Lo feci girare fra le dita, finchè alzandomi non lo lanciai in aria, per poi farlo ricadere sul mio ginocchio. La palla rimbalzò, e chinando la testa la feci cadere sotto il capo, per poi farla scivolare sulla schiena, calciandola infine con il tallone destro. Di nuovo la ripresi, continuando a passarla da piede a piede, lanciandola in aria e facendola strisciare a terra.
- Signore, mi scusi… -
Mi fermai, lasciando cadere la palla sull’asfalto.
- Sorry. – Dissi, accennando un sorriso nervoso, e passandola al bambino che mi aveva fermato, feci per andarmene.
- Aspetti! –
Mi fermò il bimbo.
- E’ davvero bravo! E’ un calciatore? –
Mi voltai. Il bambino che teneva il pallone tra le mani mi fissava estasiato, mentre i suoi compagni mormoravano guardandomi meravigliati. Spostai il mio sguardo da lui a loro più volte, finchè sorridendo non mi avvicinai.
- Lo ero. –
 
Chissà dov’era finito quel ragazzo. Aveva il vizio di scomparire, a quanto avevo constatato in quei due giorni. Mi strinsi nelle spalle.
Alla fine avevo deciso di crederci. Nelle sue parole.
Mio papà diceva che spesso sono più vere le cose che non puoi provare, o dimostrare con la scienza, di quelle che consideriamo normalmente certe. Perciò, avevo deciso di crederci, anche se ero ancora molto confusa.
Feci scivolare distrattamente lo sguardo sotto il mio braccio: nella mano destra stringevo un vecchio cappotto: Takamasa era uscito di casa senza coprirsi, e quella sera faceva particolarmente freddo. Le previsioni dicevano che avrebbe potuto addirittura nevicare.
Accelerai il passo, decisa a trovarlo, con la netta sensazione che stavolta l’avrei trovato più facilmente, sperando non si fosse cacciato in qualche guai come l’altra volta.
Delle risate però mi costrinsero a fermarmi.
Ma guarda, un parco.
Non avevo mai passeggiato nel centro abitato dove si trovava il mio palazzo, e di conseguenza non l’avevo mai notato. Le risa che avevo sentito appartenevano a dei bambini, che in una zona erbosa del parco, giocavano a calcio.
- Cos’è, non riesci a battermi? –
Questa voce però mi era familiare. E di sicuro non poteva appartenere ad un bimbo di dieci anni. Mi avvinai all’entrata del parco: Takamasa stava in mezzo ai bambini, facendo roteare la palla per terra e schivando i calci dei suoi avversari. Un bimbo si avvicinò a lui e presa la palla passatagli si diresse verso la porta. Seppur a fatica riuscì ad evitare i suoi rivali e a tirare verso la rete. Il portiere si lanciò sulla palla, mancandola, e rovinando a terra strisciò sull’erba bagnata. La palla entrò in porta e colpì la rete, rimbalzando poi a terra.
- Gooooaaalll!!! – Urlò il bimbo, correndo per il campo, mentre i suoi compagni si gettavano su di lui, abbracciandolo e spettinandogli la folta chioma corvina.
Il mio sguardo, distrattamente cadde sul volto di Takamasa. Sorrideva.
Non l’avevo mai visto sorridere.
Un sorriso così puro, così innocente, che sembrava quello di un bambino.
- Bambini! E’ ora di tornare a casa! – La voce di una donna, oltre il muretto che chiudeva il parco, richiamò i ragazzini che ancora esultavano per l’ultimo goal, e dopo aver salutato con pacche e sorrisi Takamasa abbandonarono il campo. Lui li guardava allontanarsi, con quel splendido sorriso sulle labbra.
Poi, voltandosi verso l’uscita mentre posava lo sguardo a terra, incontrò la mia immagine, e infine il mio sguardo. Chissà che espressione avevo in quel momento: stupita? Estasiata? O sorpresa?
Il sorriso gli scomparve delicatamente dalle labbra, ma non perché fosse triste: divenne solo serio, fissando i miei occhi che s’inebriavano ancora del ricordo di quel sorriso.
- Che ci fai qui? –
La sua voce, il suo tono arrogante, mi risvegliarono da quel sogno.
- Il cappotto. – Risposi, mostrandoglielo. Lui prima lo guardò scettico, poi lo afferrò e lo indossò senza staccarmi gli occhi di dosso, come se cercasse di capire se stessi nascondendo qualche sorta di trucco nei miei gesti.
Cercando di troncare quell’imbarazzante tensione mi voltai, uscendo dal parco. Sentivo i suoi passi dietro di me, e anche se non lo vedevo, potevo immaginarmi chiaramente la sua figura che stancamente mi seguiva.
- Ti piace giocare a calcio? –
- Una volta ci giocavo. –
Ammise lui stirando le braccia. – Una volta? –
- A sedici anni ho smesso. –
Raccontò, mentre saltellando mi si avvicinava, camminando di fianco a me.
Quell’enorme giacca e quell’enorme maglione, su di lui, lo facevano sembrare molto più giovane, se non fosse stato per la sua altezza sproporzionata.
- Giocavo nella squadra professionale di Osaka. –
Continuò.
- In una squadra professionale? E perché hai smesso? – Ora ero curiosa.
- Dopo un infortunio sono stato costretto ad abbandonare tutto. –
Rimasi in silenzio, maledicendomi per la seconda volta. Istintivamente mi portai una mano alla bocca, e con quel gesto attirai la sua attenzione. Prima mi guardò con disappunto, poi scoppiò in una breve risata dal gusto amaro.
- Che fai? Mica mi sono offeso. – Disse.
- E’ una vecchia storia dopotutto… -
Lo guardai di striscio. Continuava ad avere sulle labbra quel sorriso malinconico, che giuro, mi dava sui nervi, più che altro senza un motivo preciso.
- Allora, che hai intenzione di fare? –
- Come? –
- Non importa quanto tu sia sotto shock, se sei nel passato, nel futuro o dove vuoi tu… da ora in poi.. quali sono i tuoi piani? –
- Voglio tornare indietro. – Rispose lui, sorpreso che gli avessi fatto una domanda con una così ovvia risposta.
- E sai come fare? – Il mio sguardo lo trapassò da parte a parte: non era ciò che intendevo.
- No, certo. – Mi risposi, accennando una risata.
- Cos’è, mi prendi in giro ora? – Domandò sbraitando, mentre con uno scatto si mise di fronte a me, impedendomi di proseguire. Io stavo con le braccia incrociate, e con la testa leggermente inclinata verso destra lo guardavo con un sorriso arrogante sul volto.
- Ti ricordi la storia del buon samaritano? –
- Sì. –
- Cosa disse all’uomo che aveva salvato? –
- Che c’entra ora?! – Takamasa a quanto pare era una persona impaziente. Proprio un moccioso.
- “Aiuta.” Questo gli disse. –
- E allora? –
- E allora non ti senti neppure un po’ in dovere di aiutare chi ti ha salvato, pur vivendo gratis in casa sua? Mangiando ciò che ti prepara? Vestendo di ciò che ti compra? –
Ad ogni domanda facevo un passo, facendo arretrare Takamasa, che finalmente aveva afferrato il senso del mio discorso.
Devo ammetterlo, sono una persona buona e gentile, ma non ho mai amato i fannulloni e finchè avrebbe vissuto sotto il mio tetto… avrebbe dovuto fare tutto ciò che gli veniva chiesto. D'altronde, era in debito, no?

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