Beautiful things happen when you don't expect it.

di Lili_Chan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I .Nightmare. ***
Capitolo 2: *** II .Work. ***



Capitolo 1
*** I .Nightmare. ***


.Nightmare.




« Noooo!  »
Si svegliò di scatto, urlando quella parola con tutto il fiato che aveva in gola.
Seduto sul letto ansimava, stringendo il bordo della coperta tra le bianche mani sudate.
Il sogno da cui era appena sfuggito continuava a mostrarsi nella sua testa.
Sempre quelle solite immagini nere di morte che si seguivano come in una vecchia pellicola.

Quel corpo sconosciuto disteso sul pavimento.
Gli occhi azzurri sbarrati che lo fissavano ancora con terrore.
Le sue mani pallide coperte di sangue caldo.

“Non può succedere davvero.
Era solo un sogno, solo e solamente un sogno. “

Continuava a ripeterselo tra se e se come un infantile filastrocca, dandosi dello stupido per aver pensato anche solo per un misero attimo che quelle scene di inumana follia potessero avverarsi.

Scuotendo con decisione il capo si convinse ad abbandonare il letto, iniziando con falsa decisione la giornata con la speranza di dimenticare ciò che la sua mente aveva autonomamente elaborato nella notte.

Dopo un quarto d’ora però ancora si aggirava per la casa con una faccia stravolta, quel maledetto incubo gli aveva già rovinato tutto, non sarebbe riuscito a farci nulla.
Rassegnato si avviò strascinando i piedi verso la cucina, preparando con fin troppa calma la colazione, magari con quella qualcosa sarebbe cambiato, anche se ne dubitava.
Intanto che l’acqua per il tè stava a bollire sul fuoco lui continuava a muoversi come un fantasma tra le varie stanze, recuperando prima i vestiti, poi le scarpe, poi la borsa, dimenticando sempre qualcosa di importante.

Mezz’ora dopo la situazione si poteva dire migliorata, non era più in pigiama, aveva riempito lo stomaco con il tè caldo e un paio di biscotti presi al volo da un armadietto scolorito della semplice cucina ed era quindi pronto ad uscire nella sua fredda, amata Londra.

Ovviamente aveva accuratamente evitato lo specchio per tutto il tempo, conscio di avere sotto gli occhi delle occhiaie tremende che gli avrebbero probabilmente donato battutine idiote da parte dei suoi altrettanto idioti colleghi una volta che li avrebbe sfortunatamente incontrati.

Il rumore dei passi nelle piccole pozzanghere sul marciapiede era solitamente per lui molto rilassante, ma nemmeno quello era riuscito a fargli passar di mente quel maledetto sogno, e invano aveva tentato anche con la musica sparata nelle orecchie mentre la metro sovraffollata lo portava al lavoro, forse l’unica cosa che avrebbe avuto un effetto in qualche modo benefico sarebbero state le idiozie e i problemi che caratterizzavano ogni giorno nell’ufficio, ci sperava.

Quando la metro fermò un mare di gente diversa ne uscì, uomini e donne spingendo una contro l’altra per scappare il prima possibile dal tunnel si scontravano lungo le scale, nessuno prestava attenzione al suo vicino e lo stesso faceva Arthur, ancora troppo coinvolto dal suo principale problema della mattinata.
Continuando però a guardare verso i suoi piedi, prestando giusto quell’attenzione necessaria a non cadere, non notò una faccia che si distingueva nella grigia folla londinese,

un viso diverso, contornato da capelli biondi dalla piega morbida, occhi azzurri, una bellezza particolare.

Era ormai in strada ma i suoi occhi non si erano ancora posati su quella figura affascinante che ora stava cambiando via perdendosi tra gli abitanti, lui era concentrato solo sui suoi pensieri, tanto da riuscir anche a dimenticare l’educazione che di solito caratterizzava il suo essere un gentleman, scontrando un numero considerevole di persone senza rivolgere loro scuse ne quantomeno uno sguardo.

Ai piedi dell’ufficio si risvegliò dalla catalessi che lo aveva invaso, alzò la testa per poterlo vedere completamente, si soffermò per qualche attimo in quella posizione, con gli occhi puntati sui mattoni rossi della facciata e sulle finestre con le tendine bianche, le braccia incrociate sul petto e un espressione corrucciata, sbuffò in maniera vistosa prima di tirar fuori il tintinnante mazzo di chiavi arrugginite e aprire il pesante portone del palazzo; mettendo piede nel solito androne  un senso di sicurezza lo accolse, erano anni ormai che lavorava lì dentro e per lui era diventata una seconda casa, una dimora accogliente in cui si sarebbe stati sicuramente meglio senza i colleghi rumorosi che si ritrovava e che gli pareva già di sentire, anzi, diciamo che era proprio certo che quelle urla provenissero dal loro ufficio.

Le porte del vecchio ascensore si aprirono davanti al suo volto riflettendolo sullo specchio sporco appeso alla parete, abbassando in fretta lo sguardo evitò ancora una volta di guardarsi, dando poi le spalle alla parete, rivolgendo il suo sguardo alle porte di metallo; lentamente arrivò al suo piano, facendo i soliti rumori inquietanti che indicavano ogni volta il giorno in cui quell’ascensore cadrà come un po’ più vicino; eppure fin ora non era ancora successo, non si bloccava nemmeno, per qualche strano motivo in quel palazzo vecchio di mezzo secolo tutto funzionava ancora piuttosto bene.

Aprendosi di nuovo le porte si ritrovò davanti alla scritta “4°” incisa in un cartello metallico dai bordi arrugginiti, uscì dall’ascensore, a quel punto le urla che gli era sembrato di sentire erano diventate concrete, poteva giurare di veder addirittura tremare la porta di quell’ufficio malridotto dove lavorava.

Con sguardo rassegnato si voltò verso l’ingresso, chiedendosi come ogni giorno perché non avesse ancora abbandonato quei poveri incapaci e rispondendosi sempre alla solita maniera, semplicemente perché quel lavoro gli serviva, non che si fosse affezionato anche solo ad uno di quei deficienti, sia chiaro.

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Capitolo 2
*** II .Work. ***


.Work.

Infilò lentamente le chiavi nella toppa, dopo un paio di giri accompagnati da vari cigolii la porta si aprì, mostrandogli quello che un comune mortale avrebbe definito “finimondo” ma che loro erano soliti chiamare “lavoro”.
Nel corridoio si vedevano Ludwig, il direttore tedesco del giornale, discutere animatamente con Lovino, un fotografo italiano che lavorava con loro da più o meno un anno.
I motivi erano ignoti a lui come ai restanti colleghi che li fissavano, ma si sentivano molto bene i vari insulti, più che altro provenienti dalla parte del italiano, nelle loro lingue madri.
Passando di lati ai due litiganti, Arthur, si diresse verso la piccola stanza che era stata adibita a ufficio del caporedattore, cioè lui, lì però, seduto tranquillamente sulla sua scrivania, trova un Antonio allegro e sorridente.

«Hola, Arthur! »
Lo salutò, con il solito insistente sorriso sulle labbra.
«Umh, ‘morning.. »
La sua voglia di parlare con lo spagnolo stava intorno allo zero, già normalmente non provava una grande simpatia per lui figuriamoci in quella giornata che era iniziata maledettamente male.
« Que tal? Ti sei alzato con il piede sbagliato?»
A quanto pare invece il ragazzo non era della sua stessa idea, anzi, continuava imperterrito a parlargli, accavallando le gambe e puntando un gomito sulla coscia per poi appoggiarvi sopra la testa. Maledetto Antonio.
« Mh,  non ho voglia di parlare, Antonio..»
Lo congedò, voltandogli le spalle per portare l’impermeabile all’attaccapanni.
La voce dello spagnolo gli arrivò da dietro.
« Uff, tu eres muy aburrido!» 
Il ragazzo si diede una spinta con le mani e saltò giù dal tavolo per poi uscire finalmente dalla sua stanza.

Si lasciò cadere sulla sedia, portando le mani sulla faccia con aria scoraggiata, non ce l’avrebbe fatta a superare quel giorno, era lì dentro da tipo quindici minuti, anche meno, e già sentiva il principio di un mal di testa orrendo; maledetti il crucco e l’italiano, proprio di prima mattina dovevano mettersi a fare le loro scenate isteriche?

Quando tolse le mani la vista si aprì di nuovo sul piccolo ufficio disordinato, sfortunatamente i suoi desideri di trovarsi di nuovo a casa non erano stati esauditi, davanti a lui c’erano ancora le stesse veneziane color marroncino abbassate, sul muro che un tempo doveva essere bianco ancora era appesa la stessa bacheca che straripava di post-it, foto e documenti vari lasciati lì per poi essere bellamente dimenticati.
Con un sospiro abbassò lo sguardo sulla scrivania, fissando l’ultimo lavoro, il quale giaceva lì sopra ad altri miliardi di fogli vecchi, guardandolo per un po’ con aria più che altro schifata lo prese tra il pollice e l’indice, lasciandolo penzolare di fronte al suo viso.

Giusto un’ occhiata gli bastò a verificarne il livello, uno schifo assurdo, frasi sconnesse, nessun significato, argomento già abbandonato alla seconda riga, diciamo peggio di un articolo da giornalino della scuola; lo accartocciò e lo lanciò verso il cestino.

Perché non riuscivano più a scrivere cose decenti?
Perché nessuno comprava più il loro giornale?
Perché i tempi d’oro erano passati?
Perché?
Cosa diamine era cambiato?


La risposta a quelle domande anche oggi non sarebbe arrivata.

Con un braccio fece spazio sulla scrivania, spostando tutti i fogli da una parte in modo da poter mettere davanti a lui il computer portatile.
Con la solita melodia lo schermo si illuminò, le sue dita batterono automaticamente sulla tastiera, digitando la password, lentamente si caricò, mostrando lo stesso schermo di sempre.

Da lì iniziò la ricerca mattutina, qualche idea ce l’aveva già, cose che gli erano venuto in mente nei giorni come stupidi articoli sui parchi londinesi o sul problema dell’inquinamento, in pratica sempre la solita roba.
E fu così che anche quel giorno, spulciando nei meandri della memoria, si decise a scrivere un articolo che aveva in testa quanto meno da un mese ma che sarebbe risultato ovviamente come tutti gli altri.

Le ore passarono lentamente, lui continuava a tenere lo sguardo fisso sullo schermo illuminato, le sue dita si muovevano da sole sulla tastiera scura, lasciando impresse parole senza veri significati; solo verso l’ora di pranzo si decise ad abbandonare il computer, si alzò dalla sedia, muovendo alcuni passi in tondo per l’ufficio, indeciso se rischiare e uscire in corridoio dai suoi adorati colleghi, o starsene lì chiuso fino a che non sarebbe scoccata l’ora di tornare a casa, alla fine la voglia di un caffè vinse.

Messo un piede fuori però si pentì di averlo fatto, fortunatamente la discussione della mattina era bella che finita ma per l’ora di pranzo tutti, escluso chi era uscito nella capitale, si erano riversati nel piccolo corridoio, intasandolo e riempiendolo di futili parole.

Appoggiandosi ad un muro, sperando di non essere visto, Arthur tirò fuori dalla borsa il panino che aveva preparato per pranzo.
Addentò il pane, strappandone un pezzo, non riuscì nemmeno ad ingoiare il boccone che ecco riapparire dalla porta di ingresso lo spagnolo accompagnato dall’odioso fratello albino del direttore tedesco, Gilbert, lui un compito preciso lì dentro non l’aveva, diciamo che si credeva un giornalista ma scriveva un articolo all’anno, la teoria del ragazzo era che il suo talento si sarebbe sprecato scrivendo tanti articoli quanti gli altri e quindi per quello ne scriveva uno  ma l’inglese credeva senza indugi che fosse solamente perché era estremamente pigro, anche se doveva ammettere che possedeva un certo talento nella scrittura.
Comunque, Gilbert e Antonio passavano tutto il tempo insieme, praticamente l’albino seguiva l’iberico in giro per la città, sostenendo di aiutarlo così a scrivere i suoi articoli, e tornavano in ufficio solo per scassare i cosiddetti a lui e agli altri colleghi.


«Hey! Arthur!»
Urlarono in coro i due ragazzi appena smisero di ridere e riuscirono a notarlo.
Non ricevendo risposta e per qualche altro strano motivo a noi sconosciuto continuarono per la loro strada, scoccandogli delle occhiate miste di noia e curiosità, dirigendosi poi nell’ufficio di Antonio dopo esser riusciti a strappargli solo un gesto con la mano.

Con ancora in bocca l’ultima parte del pranzo praticamente si mise a correre verso la macchina del caffè, posizionandovisi davanti la rivendicò come sua almeno fino a che non si sarebbe degnata di sputargli fuori la sua bevanda.
Con tutta la calma del mondo inserì le sterline nella fessura poi con un dito iniziò a premere i tasti.
Un suono strano provenne dalla macchina la qualche però dopo poco fece cadere un bicchiere tra i ganci, iniziando a versarvi dentro il suo caffè.
Lo prese tra le mani, godendosi il caldo che emanava in quella giornata di freddo autunno; poi girò i tacchi e tornò nel suo ufficio.

Aprì nuovamente il documento word, non aveva il coraggio di dargli già un’ occhiata, sapeva che gli avrebbe fatto schifo, come cavolo può essere interessante un articolo sul inquinamento del Tamigi? Anche un bambino di cinque anni sapeva dirti che il fiume che attraversava la città era inquinato! Che palle.

Prima di riprendere a scrivere si alzò ancora una volta, con il caffè in mano si diresse verso la finestra, alzandone le veneziane in modo da poter vedere la strada affollata; appoggiò i gomiti al davanzale e accanto vi lascio il bicchiere di plastica mentre con gli occhi si lasciava trasportare nella città, scendeva giù tra le strade, camminava tra i londinesi indaffarati senza degnare nessuno di un vero sguardo ma lasciando sulle labbra un insolito sorriso, poi si dava la spinta con un piede e in un balzo iniziava a volare in cielo, planava sopra le teste dei suoi concittadini che lo indicavano stupiti, da lì vedeva tutto, si muoveva con naturalezza tra i grattacieli, arrivando fin alle nuvole più alte e proprio quando stava scendendo in picchiata verso il mare suo suddito ecco che la realtà spinge contro le sue fantasie per riprendere il controllo della situazione.

La porta dietro di lui si apre lentamente, entra da lì Alfred con un espressione stranamente imbarazzata, solo con un colpo di tosse riesce a farsi sentire dal inglese sognante.
Arthur si girà di scatto, scontrando con il gomito il bicchiere del caffè e rovesciandone l’ultima parte sulla moquette già di suo sudicia, dalle sue labbra uscì una bassa imprecazione, raccolse sbuffando il bicchiere e lo lanciò nel cestino, borbottando tra sé e sé.
Solo dopo quei passaggi di degnò di alzare il capo verso il ragazzo che ancora stava fermo sull’uscio, guardandolo negli occhi un velo di imbarazzo coprì i volti di entrambi costringendo il maggiore a spostare velocemente lo sguardo.

«Cosa c’è, Alfred?»
Gli chiese poi muovendosi verso la scrivania con una finta aria scocciata e facendo finta di avere molto da mettere a posto in quel casino che lì regnava sovrano.
« Ti ho portato questo articolo, dovresti controllarlo.. »
Ascoltò le parole dell’americano, annuendo quasi impercettibilmente con il capo, evitando sempre accuratamente di incontrarne lo sguardo, l’altro però sembrava non volersene andare, anzi, ora si stava avvicinando a lui, terminando le sue azione appoggiando una mano sulla spalla dell’inglese il quale sussultò visibilmente alzando di scatto gli occhi verso l’altro, incontrandone definitivamente lo sguardo.
«Volevo … no, lascia perdere.»
Alfred aveva intenzione di dirgli qualcosa ma a quanto pare non ce l’avrebbe fatta, infatti dopo essersi smentito gli lasciò velocemente i fogli in mano, borbottando un saluto quando era ormai fuori dalla porta.

Appena uscì, Arthur mise distrattamente via i fogli che gli aveva appena consegnato e si abbandonò sulla sedia; ancora con l’americano non erano ripresi i contatti, da quando la loro storia era finita nessuno dei due aveva trovato il coraggio nemmeno di salutare nuovamente l’altro, questo perché entrambi erano allo stesso tempo vogliosi di chiedere scusa, troppo orgogliosi per farlo e troppo spaventati dall’idea di prendersi delle responsabilità vere.
La loro storia era stata importante per Arthur come per Alfred, non era stata una cosa del tipo “una botta e via”, no, erano stati insieme per più di un anno, avevano appena iniziato a convivere quando tutto pian piano si era sgretolato, giorno dopo l’altro l’amore e le emozioni erano andate scemando, lasciandoli entrambi stufi di ciò che avevano costruito con grande sforzo, abbattendo pian piano il muro di ghiaccio che chiudeva il cuore dell’inglese e creando insieme una felicità che nessuno di loro due aveva mai provato. E tutto un giorno era scomparso, si erano alzati e insieme avevano detto basta, chiudendo tutto con questa semplice parola; da quel giorno le loro vite tentavano di non incontrarsi più, si scontravano più che altro, ricongiungendosi in mute memorie di momenti passati, litigando in silenzio su vecchie discussioni mai concluse, ma i loro cuori si erano definitivamente divisi, tagliando in due il filo che li divideva e imprigionando ancora una volta l’amore dell’inglese nella sua prigione di ghiaccio.

Si affrettò ad asciugare una lacrima solitaria che gli era scesa lungo la guancia, non poteva piangere per lui, doveva dimenticarlo, cancellarlo dalla sua vita, definitivamente.
Per occupare la mente riprese il lavoro, le dita infreddolite continuarono a battere sulla tastiera, lettera dopo lettera il tempo scorreva pian piano scandito dal rumore dei tasti sotto i polpastrelli.

Mezz’ora, un’ora, due ore.

Il pomeriggio così passò, lettera dopo lettera, pagine su pagine vennero a formarsi davanti al suo sguardo catturato dal candore splendente del computer.
Arthur aveva ormai felicemente perso la vera cognizione del tempo quando terminò il lavoro.
Velocemente, appena dopo aver digitato l’ultimo punto, cliccò sull’icona del “Salva”, voglioso di terminare quella brutta giornata.
Con uno scatto brusco della mano chiuse il portatile e staccandolo dalla corrente lo infilò in borsa chiudendone il fretta la zip.

Arrivato in corridoio si guardò velocemente intorno. Via libera.
Con uno scatto arrivò alla porta, posò la mano sulla maniglia e l’aprì in fretta, quasi qualcuno lo stesso inseguendo.
Spalancata la porta non si trovò davanti il corridoio vuoto con la porta dell’ascensore aperta ad aspettarlo ma un uomo che lo guardava con un’aria a dir poco stupida.

Non l’aveva mai visto, o almeno non lo ricordava.
Biondo, capelli lunghi e mossi, occhi chiari e il pizzetto.
Decisamente non una faccia da inglese.
Anzi, sembrava proprio Francese.
Si augurò con tutto il cuore di sbagliare.

E poi un lampo, quando questo aprì bocca.

Quel corpo sconosciuto disteso sul pavimento.
Gli occhi azzurri sbarrati che lo fissavano ancora con terrore.
Le sue mani pallide coperte di sangue caldo.



} Spazio dell'autore:
    Allooooora, tanto per cominciare grazie tante sia a chi ha recensito, sia a chi a messo la storia tra le seguite, sia a chi l'ha anche solo letta.
    Già questo capitolo è più lungo del primo e credo che anche i sucessivi saranno più o meno della stessa lunghezza.
    Mi dispiace per il ritardo e vedrò di essere più puntuale d'ora in avanti.
    Arrivederci al prossimo capitolo! :D {

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