We're not the ones who meant to follow.

di DK in a Madow
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I'm a son of a gun. ***
Capitolo 2: *** How do you get your sleep at night? ***
Capitolo 3: *** I got a rock'n roll life. ***
Capitolo 4: *** My future's aim... ***
Capitolo 5: *** While I'm young and while I'm able all I wanna do is... ***
Capitolo 6: *** I think I can do Who. ***
Capitolo 7: *** Walkin' shooting stars across the earth. ***
Capitolo 8: *** Here comes the rain again. ***
Capitolo 9: *** I'm thinking...where'd you go? ***
Capitolo 10: *** So get off of my case. ***
Capitolo 11: *** In the end. ***



Capitolo 1
*** I'm a son of a gun. ***


I’m a son of a gun.

 

 

 

 

 

23.50

I denti stretti, il controllo concentrato sui nervi per quanto mi è possibile mentre a fatica mi sistemo sul sedile anteriore dell’auto.

23.53

Cazzo! Vedo il tempo scorrere veloce sull’orologio al polso di mio marito alla guida. Cerco di mantenere ancora una volta la calma, ma questa mi sfugge dal corpo, mentre sento scorrere caldo il sangue tra le gambe. Mi è impossibile non urlare.

-Tesoro, siamo quasi arrivati. Respira, resisti!

La voce di mio marito è flebile tra le mie urla, mentre parcheggia velocemente e, come se fossi di piuma, mi prende in braccio, sporcando il cappotto pesante e portandomi in pronto soccorso.

- Hey voi! Aiutatemi! Mia moglie sta partorendo, cazzo!

Qualcuno ha risposto, ma per me non c’è altro che il dolore. Mio figlio si fa strada fuori di me ed io non riesco a pensare a lui. Sento che mi hanno stesa su una barella, le gambe vestite solo di sangue, spalancate davanti al dottore.

- Amore, spingi! Forza!

-NON CE LA FACCIO!

-Signora spinga, la testa è uscita!

Cerco di trovare la forza in quelle poche parole. “La testa è uscita!”.

Mio figlio!

Solo ora realizzo la cosa e con tutta l’energia che riesco a trovare in corpo, urlo al mondo che mio figlio sta nascendo e le mie urla si confondono con le sue.

- Amore mio è fatta! È fatta finalmente!!

- Signora suo figlio è nato! È un maschietto! Complimenti!

Sorrido fra le lacrime, girando la testa per cercare lo sguardo di mio marito. Lo trovo, commosso come mai lo era stato, raggiante di gioia.

-Tesoro, sei stata forte, davvero!- dice, stampandomi un bacio a fior di labbra, delicato come sempre.

-Ti amo- la mia voce è un soffio.

Mio marito stava per rispondermi, quando il dottore lo interrompe: - Signore, vuol prendere lei il nuovo arrivato?

-Certo! Datemi il mio campione!

E’ l’entusiasmo fatto persona, mentre allarga le braccia enormi per accogliere un fagottino avvolto in un asciugamano azzurrino.

-Signora, lei ha un bisogno urgente d’esser medicata. Mi dispiace, vedrà suo figlio appena avremo finito.

-Cosa? D-dove la portate??- il panico nella voce di mio marito, mentre io venivo spostata a bordo della barella.

-Signore, stia tranquillo. E’ solo un’operazione di routine.- cercava di rincuorare il dottore.

-E va bene, va bene! Fate presto!

-Sarà fatto … signor??

-Armstrong.

-Armstrong, le riporto sua moglie tra pochi minuti!

E quelle furono le ultime parole che io ascoltai prima di entrare in una stanza del reparto di ginecologia dell’Ospedale di Oakland.

 

 

 

 

Mi volto lento verso l’orologio del corridoio del reparto di ginecologia, dove mia moglie riceve le medicazioni post-parto.

00.15

Solo cinque minuti fa ero in pronto soccorso. E’ stato un parto veloce, ma lei ha sofferto molto.

Eppure, se potesse avere ora tra le mani la meraviglia che ho io tra le mie, qualunque traccia del dolore svanirebbe. Un ometto, il mio “piccolo-senza-nome”. Chissà a cosa avrà pensato lei? Non m’importa. Qualunque sarà il nome di questo piccolo dalle guance tonde e pallide, sarà un nome degno di lui, dell’eccezionalità che porta in sé. Lo avverto nel suo respiro lento, l’ho avvertito prima nel suo urlo acuto pieno di vita, lo sento, proprio sotto la mia mano tremante, nel suo cuore che batte sereno, il suo petto una scatolina piccola e fragile. Dorme.

Il mio “piccolo-senza-nome”.

-Signor Armstrong? Può andare da sua moglie!

-Arrivo!

Lentamente entrai nella stanza candida come la neve e lei, il mio amore, era distesa su un letto. Pallida, ma felice.

-Hey voi due! Vi divertite senza di me, vero??

-Ma non dire stronzate, vero mamma?- dissi, guardando quel piccoletto addormentato.

Lei ride, la voce roca. Le porgo suo figlio, con la delicatezza che si potrebbe avere con un foglio di carta velina.

-Hey piccolo! Benvenuto! Sono la tua mamma!

-Grande donna, posso assicurartelo!

-Haha, smettila di fare l’idiota Armstrong! Non è mica la prima volta che diventi padre!

-Lo so! Ma quel piccoletto mi ha conquistato. Ha qualcosa di … diverso!

Lei torna a guardare il “piccolo-senza-nome”, probabilmente riflettendo sulle mie parole. Sorride, incantata, come lo ero io pochi minuti prima!

-Amore, ma … che ore sono?

-Mezzanotte e venti, perché??

- Quindi è nato a mezzanotte?

- Minuto più, minuto meno.

Di nuovo silenzio. La vedo mentre fissa quel piccolino, quel concentrato di amore catapultato nella nostra vita pochi minuti prima! Un tesoro, grande più di qualunque cosa! Lei sorride e, con occhi lucidi, pronuncia: -17 febbraio 1972. Billie Joe Armstrong è venuto a render speciale questa famiglia!-

Rimasi a bocca aperta. Billie Joe?

-Che diavolo di nome è? Vuoi dire William Joseph, vero?

-No! Billie Joe. Un po’ come Billy Joel!

-Ma … - non sapevo che dire. Non c’erano parole. D’altronde non m’importa molto, ora che il piccolo Billie Joe si è svegliato e cerca affamato il seno della madre.

-Andy, guardalo, ha già fame! Secondo me ha preso da te!

-Hey, cosa vorresti dire Ollie?- dico sorridendo.

-È speciale, come te!

Non posso resistere a queste parole. La felicità è troppa da contenere e decido di inciderla sulle labbra asciutte di mia moglie, mentre con una mano accarezzo la fronte a Billie Joe.

Il nostro piccolo miracolo.

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Capitolo 2
*** How do you get your sleep at night? ***


How do you get your sleep at night?

 

 

 

 

 

Gli occhi si aprirono all'improvviso. Un dolore atroce, proprio sotto l'ombelico, come se l'inferno si fosse aperto sotto il tuo letto. Era notte fonda. Peggio di qualunque droga sparata in vena, anzi, magari quella dopo un po' ti faceva dormire. Quello che provavi, invece, sembrava una lunga discesa verso l'inferno.

Le doglie erano iniziate.

Con la poca forza che ti rimaneva nelle gambe doloranti, provasti ad alzarti, ma inciampasti nel vuoto, sbattendo contro il muro. Anche quel giorno eri completamente fatta. Lentamente ti trascinasti lungo la tua stanza, afferrasti il telefono e facesti il numero dell'ospedale.

-Pronto, ospedale di Rodeo, mi dica.

-Aiutatemi...aiutatemi vi prego...s-sto partorendo.

-Signora dove si trova?

-Quattordicesima ad ovest, numero quattro.

-Arriviamo subito.

-FATE PRESTO!!!

Cadde la linea. Eri da sola in casa, abbandonata a te stessa. Rotolasti sul pavimento, stesa sulla schiena. Inchiodata al suolo dal dolore. Provasti a respirare, ma era del tutto impossibile a causa dell'eroina. Stupida. Stronza. Non ti bastava rovinare la tua vita, ma anche quella della creatura che ti portavi in corpo.

Un'altra ondata di dolore, più forte delle prime.

Quando cazzo arriva l'ambulanza??

Per il dolore, per la frustrazione, i sensi di colpa e la disperazione URLASTI. Con tutto il fiato che avevi in gola. Sentivi il sangue scorrere bollente fuori dal tuo corpo, un fiume in piena. Avresti voluto morire, eppure proprio sotto il tuo ventre c'era qualcuno che lottava per vivere.

Ad un tratto sentisti un suono sordo, proprio fuori dalla finestra. Una luce bluastra.

-SONO QUI!!! AIUTATEMI!!! SONO QUI!!! 

Un rumore secco, la porta era spalancata.

-Eccoci signora.

-Aiutatemi, vi prego!

Tu, che non avevi mai pregato nessuno, a meno che non si trattasse di eroina. Tu che per la prima volta piangevi da quando avevi scoperto di portare una creatura in grembo. Diventavi madre, eppure era di te che t'importava. Volevi che cessasse il dolore.

-Signora, la testa è già uscita, cerchi di spingere.

La testa? Ah si, quel mostro sta uscendo fuori. Raccogliesti un po' di forze e spingesti, cacciandoti il cuore in gola e sparando le tue urla fuori dalla bocca e dal petto.

Ad un tratto, un suono squillante. Come un gatto che sta per essere strozzato.

-Signora, suo figlio è nato. E' un bel bambino! Sta bene!

-Chi?...-Non sapevi nemmeno dove fossi.

-Eccolo guardi!

I tuoi occhi riuscirono a delineare una specie di bambino completamente sporco di sangue che piangeva.

Prima di crollare nell'abisso, decidesti di fare la cosa più sensata della tua vita.

-Salvatelo, prendetevi cura di lui. Io non ne sono capace...

-Signora non si preoccupi, appena sarà in ospedale potrà occuparsi di su...

-HO DETTO PRENDETEVI CURA DI LUI! Un'eroinomane non può fare da...da...."

Giù, in un sonno profondo

 

 

 

 

I tuoi occhi si aprirono, dolcemente. Una luce bianca inondò il tuo viso. Un letto morbido, caldo, che sapeva di pulito.

Avevi degli aghi al braccio, ma non di quelli che usi tu.

Realizzasti di essere in ospedale.

Voltasti la testa. Un'infermiera.

-Signorina, che ci faccio qui?

-Signora, ha partorito circa otto ore fa, ricorda?

Pensasti. Sangue. Dolore. Ti veniva da vomitare.

-Si, mi ricordo. Dov'è?

-E' nel nido, insieme ad altri bambini.

-Posso vederlo?

-Certo. Però signora la devo avvertire. Dalle sue analisi è risultato che fa uso di droghe. Abbiamo presentato i risultati al tribunale dei minori. Suo figlio sarà affidato con urgenza ad una famiglia idonea a curarsi di lui.

Non replicasti, avevi capito. Ed era meglio così.

Lentamente ti trascinasti nel corridoio. Al termine vi era il nido. Guardasti. Tra i tanti, c'era un fagottino con le mani chiuse a pugno, incollate al visino. La testolina sembrava d'oro. Aveva i capelli di suo padre. Era l'unico a non avere un cartellino azzurro posto sulla culla. Non aveva ancora un nome.

 "Michael!"

Lacrime di ghiaccio strisciarono sul tuo viso. La vergogna ti mangiava il cuore. Voltasti le spalle a quello spettacolo così bello, ma così insopportabile per i tuoi occhi. Quella fu l'ultima volta che vedesti tuo figlio. Alzasti lo sguardo sul corridoio; di fronte stava per raggiungerti un dottore.

-Signora, le avranno già dett...

-Si

-Però non ha ancora un nome.

-Chiamatelo Michael! Michael Ryan!

 

 

 

 

Il giorno dopo, uscendo dall'ospedale, t'informarono dell'adozione del tuo bambino. Era al sicuro, lontano da te. Quel giorno il sole splendeva raggiante sulla California. Era maggio e la primavera iniziava a farsi sentire. Senza fiatare, andasti dritta per la tua strada, continuando lentamente la tua discesa all'inferno.

 

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Capitolo 3
*** I got a rock'n roll life. ***


I got a rock’n roll life.

 

 

 

 

 

Viaggiavo tra le montagne al confine tra Svizzera e Germania. La neve aveva ormai ricoperto quelle cime spigolose che, alla debole luce del tramonto, avevano assunto delle sfumature rosa pallido. Ricordavo ancora la prima volta che sono arrivato in Germania, appena tornato dalla guerra in Vietnam. Non volevo ricordare la morte, il cielo che ho attraversato, quell’aereo che puzzava di benzina. Volevo una famiglia, una casa, un lavoro onesto e pulito. Nient’altro.

Tornavo in quella casa dopo tre mesi che ero in giro per lavoro, a zonzo tra l’Italia e la Francia. Tornavo dalla mia famiglia, da mia moglie, incinta per la seconda volta, e dalla piccola Lori. Chissà se sarebbe stato un maschietto? Lo desideravo da tempo ad esser sincero! All’arrivo mancava solo mezz’ora e finalmente avrei riabbracciato tutti e avrei fatto in tempo per veder nascere il nuovo arrivato!

Mi fermai un attimo in un autogrill; avevo sete, così scesi dall’auto e chiesi al grassone dietro il bancone di darmi una birra e un gettone per telefonare a casa. Volevo che sapessero che stavo arrivando. Composi il numero.

-Pronto?

La voce non mi era nuova, ma non la riconobbi.

-Sono Frank! Tu chi sei?

- Zio!!! Sono Bex!

- Hey Bex! Dolcezza, passami la zia!

- Ma, la zia è in ospedale! Le si sono rotte le acque!

- Cosa??

- Si, zio sbrigati! Lori è andata con lei e mia mamma!

Riattaccai velocemente, abbandonando la birra sul primo tavolino che trovai davanti a me, prima di fiondarmi fuori per poi accendere con mano ansiosa la mia auto. Nemmeno sul mio aereo ero stato così veloce.

Langen, Dreieich, Neu Isenburg. Le città e i loro nomi bruciavano via sotto le gomme. Mio figlio nasceva ed io ero ancora troppo lontano. Calde lacrime percorsero le guance e la frustrazione scandiva i battiti del mio cuore. Poi, finalmente, Francoforte si dipinse di fronte a me, bianca di neve e rossa di luci natalizie che già decoravano le facciate delle case. Nel giro di cinque minuti mi ritrovai davanti all’entrata dell’ospedale, a tentar di masticare il tedesco come meglio potevo per saper dove si trovava il reparto di ginecologia.

Appena entrato nel corridoio del reparto vidi una piccoletta bionda che stava di fronte al vetro che mostrava le culle del nido, dove bambini e bambine venivano accuditi nei primi giorni di vita.

- LORI!

- Papà!!!

La piccoletta dai boccoli dorati mi saltò in braccio, mentre col ditino indicava il nido.

- E’ lì! Riesci a vedere papino?? È proprio davanti a tutti!

Seguendo il consiglio di Lori, mi affacciai sul vetro dove un’esserino dalle guancie rosa dormiva beatamente. Guardai con attenzione e mi accorsi che molto probabilmente era una femminuccia, con dei piccoli boccoli biondi come la sorella, le labbra a forma di cuore e gli occhi dal taglio elegante.

- Hai visto com’è bello il mio fratellino??

La voce acuta di Lori mi riportò alla realtà. Fratellino?

- Hai detto fratellino??

- Si, e ha il tuo nome, Frank!

Fu una voce più calda a rispondermi. Mi voltai e vidi mia moglie in una vestaglia rossa, i capelli raccolti in una coda e un sorriso raggiante stampato sulle labbra. Feci scendere Lori dalle mie braccia e andai a grandi passi verso mia moglie, abbracciandola forte.

- Hai detto davvero? Si chiama come me?

- Si – Mi prese per mano e mi portò di nuovo di fronte al vetro – Lui è Frank Edwin Wright III.

Frank, il mio desiderio si era avverato. Lo vedevo arruffare il naso nel sonno e muovere i piedini sotto la coperta. Il mio cuore traboccava di gioia, mentre abbracciavo le donne più importanti della mia vita. Improvvisamente, la porta del nido si aprì e ne uscì una donna, probabilmente l’ostetrica, che aveva un’aria stanca ed infastidita. Tentai di parlarle.

- Scusi, signora, potrei prendere mio figlio?

- Signorina. Comunque si, qual è?

- Frank Edwin.

- Oh, ho capito. Ho messo un secolo a farlo dormire! Vi darà del filo da torcere, sa?

- Ho affrontato di peggio – risposi freddo, mentre lei rientrava per prendere il piccolo Frank e usciva di nuovo portandolo tra le braccia. Appena me lo porse, lui si svegliò, svelando degli occhi blu intenso, ma ancora ciechi e velati. Anche da sveglio, però, non aveva perso la sua tenerezza e ancora mi chiedevo perché quella zitella infastidita l’avesse descritto come una peste.

- Ciao Frank! Io sono il tuo papà.

- Papà, posso prenderlo in braccio?? – chiese Lori con voce squillante.

- Per ora no Lori, ma ti prometto che appena torniamo a casa lo tieni per tutto il tempo che vuoi!

Lei annuì silenziosamente, mentre Frank continuava a fissare il vuoto con quegli occhietti appannati e due labbra calde mi posavano un bacio sul collo. Il profumo di mia moglie invase le mie narici e le sue braccia si strinsero intorno a me come una cinghia.

Quella è felicità.

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Capitolo 4
*** My future's aim... ***


My future's aim...

 

 

 

 

 

16 Febbraio 1990.

 

Grattavo nervosamente la matita su un foglio che avrebbe dovuto ricevere la sua dose di appunti sulla rivoluzione francese, ma in quel momento mi era persino difficile capire dove fosse la Francia.

“A meno che un giorno non ci sarei andato per fare un concerto … o per baciarla sotto la Tour Eiffel!”

- Sogna – sussurrai a me stesso, mentre l’ennesimo nome andava a colmare quel foglio dilaniato.

AMANDA.

Un sorriso ebete si affacciò sulla mia faccia arrossata, mentre i suoi occhi si dipingevano nella mia mente.

- Signor Armstrong!

- Che vuoi?

- Mi chiedevo se la sua maleducazione potesse aiutarla a dirmi quando avvenne la presa della Bastiglia, dato che l’ho appena spiegato.

- Non credo che la mia maleducazione sia interessata a questo genere di cose – risposi, continuando a fissare il foglio.

- Ah no? E a cosa allora?

- Lo so io professore! A fare concertini nei garage puzzolenti con davanti tre persone ubriache.

Rickie parlò. Quell’idiota figlio di papà mi stava sul cazzo peggio di qualunque professore. Era dal primo anno che sfotteva, ma a quanto pare le parole con lui non servivano, anche se non gli avrei mai dato la soddisfazione di picchiarlo nonostante l’idea di farlo fosse allettante.

- Mash, non metterti anche tu a dar fastidio – risposi con tutta la calma che potevo, troppa per quel coglione presuntuoso.

- Uh, si, dimenticavo Shakespeare  probabilmente è impegnato a scrivere per la sua Amanda!

Tutto, ma non lei!

- Hey, amico! Ti rode tanto il culo perché io scopo e tu sei lì a spaccarti di seghe?

- Che cosa hai detto?

- Signor Armstrong, questo è troppo! Io la sospendo di nuovo e vado a chiamare il preside!

-Oh si, mi faccia questo favore, la prego! – risposi io cantilenando, mentre quella sottospecie di professore usciva dall’aula, completamente fuori di sé.

- Senti coglione cantastorie, vedi di controllarti prima che io ti apra il culo più di quanto non faccia già quel frocio del tuo amico!

Preferì non rispondere, quando l’avrei raccontato a Mike ci avrebbe pensato lui e la cosa mi provocò una risata fragorosa.

- Tu sei tutto idiota! Ti sei fumato anche il cervello.

- Tu invece non puoi fumarti un cazzo perché se mammina viene a saperlo non ti fa uscire per un mese, vero?

- Invece tu sei tanto sfigato che secondo me tuo padre si sta rivoltando nella tomba!

A quelle parole, i miei occhi divennero ciechi, o più probabilmente stavano sanguinando perché vedevo rosso. All’improvviso mi sentì stanco, i nervi a pezzi, mi mancava la forza per reagire.

Billie, tu sei forte!

L’eco di quella voce rimbombò nella mia testa svuotata dal dolore. La voce dei ricordi cercava di parlare, mentre intorno a me le risate acute di una ventina di bastardi pungevano il cuore.

-Ma la vuoi smettere?

Una voce isterica, mai sentita prima, mi riportò in classe. Mi voltai e vidi dietro di me Frances, la secchiona della classe, in piedi e rossa in viso.

- E tu che vuoi cesso? Lo difendi? Tanto nemmeno uno sfigato come lui ti vorrebbe. Risparmiati la scenata.

- Invece tu sei talmente uomo che l’unica donna che riesci ad amare è tua madre! - silenzio intorno, ma lei continuò: - Io non parlo mai, ma ora sono davvero stufa! Ma credi davvero che i tuoi soldi bastino a comprarti il mondo e le persone?? Ma se hai perso anche quel poco di dignità che avevi, coglione! Potete prendermi per il culo quanto volete e fare la stessa cosa con Billie. Ma sapete qual è la differenza tra lui e noi? Lui ha un sogno! Qualcosa in cui credere, da coltivare giorno per giorno! Noi invece? Stiamo qui tutti i giorni a farci riempire il cervello di merda!

Riprese fiato, mentre la classe la fissava a bocca aperta senza fiatare.

- Ah, un’altra cosa! Billie ha ragione! Forse tu non te ne sei mai accorto, riccone del cazzo, ma abito proprio vicino a casa tua! E io sento sempre tua madre che urla per farti uscire dal bagno perché ti smanetti per ore!

Frances, cazzo, quella ragazza aveva un cervello enorme, un genio in confronto a me. Eppure dalle sue parole sembrava che mi adorasse. O mi amasse. In cuor mio sperai di no. Per quanto apprezzassi ciò che stava facendo in quel momento, non avrei mai potuto amarla, anche se aveva coraggio da vendere!

Nel momento esatto in cui lei finì di parlare, quello di storia era di ritorno con il preside, il quale, sentendo le parole di Frances, non si limitò a sospendere me, ma anche lei. Fu allora che scattai.

- Come potete sospenderla? Che ha fatto di male?

- Sta diventando un’impertinente come lei, Arm…

- NO CAZZO! Lei qui si fa il culo per studiare, non merita questo! Sapete che c’è? Io me ne vado! Fanculo voi, l’educazione, il futuro che ci promettete e tutte le stronzate che ci dite ogni giorno.

Feci per alzarmi e andarmene, ma il professore mi fermò mettendomi le mani sulle spalle.

- Lo lasci stare! – Frances lo ammonì con fare minaccioso e lui tolse le mani, mentre io e lei uscivamo fuori dalla classe. Percorremmo il corridoio in silenzio e quando io lo ruppi parlando eravamo già di fronte all’uscita.

- Grazie, ma non dovevi!

- Figurati! Sono cose che penso davvero su di te! E soprattutto sono stufa di tutta questa merda.

- Si ma ti sei beccata una sospensione per colpa mia!

- Non me ne fotte più di tanto, sai? Anche io ho un sogno, proprio come te! Vorrei scrivere, vendere libri e non credo che la scuola possa aiutarmi, semmai il contrario.

Ecco perché mi aveva difeso; non era innamorata, era semplicemente accesa da una passione, da un sogno, esattamente come me. Non seppi come risponderle.

- Va beh, io me ne vado a casa! Grazie, Billie Joe!

- E di cosa?

- Di avermi insegnato che vale la pena lottare per ciò in cui si crede.

- Oh, beh, non so che dire! Grazie a te! Soprattutto per prima!

- E’ stato un piacere. Ciao Bill!

- Ciao Frances!

Fece per uscire, ma si voltò prima di varcare la soglia.

- Ah, un’ultima cosa! Son sicura che un giorno prenderò tra le mani un tuo CD e che tuo padre è fiero di te!

E lei se ne andò, portando via con sé anche le mie parole.

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Capitolo 5
*** While I'm young and while I'm able all I wanna do is... ***


While I’m young and while I’m able all I wanna do is...

 

 

 

 

 

La campanella suonò con qualche minuto d’anticipo, ma lo zaino era pronto già da mezz’ora, così raccolsi il quaderno pieno d’appunti e decorato con parecchi accordi e mi fiondai giù per le scale, cercando d’indossare il cappotto e di trasportare lo zaino contemporaneamente.

“Chissà dov’è!?” pensai, eppure quella chioma riccia e castana non spuntò fuori. “Sarà già uscito!” così, mi diressi verso la porta d’uscita e in effetti lo trovai lì, imbambolato, che fissava un punto nel vuoto.

- Billie! – urlai, mentre un’intera scolaresca gli passava di fianco ignorandolo, ma non si voltò. Così mi avvicinai e, dandogli una pacca sulla spalla, dissi: - Ma sei sordo??

- Hey Mike! – disse sognante.

- Che hai? Stai bene? – dissi, cercando di decifrare il suo sguardo.

- Si, sto bene! È solo che … - si fermò.

- Che?

- … stavo pensando che probabilmente questo è l’ultimo giorno che passo in questo posto di merda!

- Cosa?

Mi rivolse lo sguardo, gli occhi sgranati e le labbra assottigliati, il volto della rabbia.

- Io sono stufo di questa merda, Mike! – disse, un nodo nella voce, e mentre ci allontanavamo dalla scuola per poi arrivare alla fermata dell’autobus, mi raccontò ciò che gli era accaduto, di Rikie, di Frances e di quanto fosse convinto che sforzarsi per un pezzo di carta fosse inutile. Lo ascoltai senza fiatare, ma si accorse della mia preoccupazione.

 - Senti! So a cosa stai per dirmi! Che devo pensare a me stesso, al mio bene, che la musica non è una garanzia, che a mia madre le si spezzerà il cuore dopo tutti i sacrifici che ha fatto per me! Ma questa è la mia vita, cazzo! La musica è la mia vita!

Lo fissavo sconvolto, mentre l’autobus si fermava di fronte a noi. Salendo, prendemmo posto nell’ultima fila di sedili, come sempre, lui dal lato del finestrino, io da quello del corridoio. Calò il silenzio e nessuno di noi lo ruppe fino a quando non ci trovammo di fronte a casa di Billie. Decisi che dovevo dirgli qualcosa e, prima che inserisse la chiave nella toppa, parlai: - Billie?

Volse quegli occhi smeraldini verso di me come se fosse sorpreso di vedermi lì: - Dimmi!

- Senti, io non sono nessuno per giudicarti o per dirti che fare della tua vita! Io so perfettamente cosa voglio! Voglio quel diploma, ma allo stesso tempo far si che il mio sogno … il nostro sogno … - mi si seccò la gola, mentre i suoi occhi si illuminavano – Si, beh. Voglio che diventi realtà! Qualunque cosa farai, io ci sarò!

Per un attimo temetti che mi ridesse in faccia o collassasse, perché le sue guance erano infuocate, invece tirò col naso, ingoiando rumorosamente, prima di avvicinarsi a me stampandomi un bacio sulla guancia e buttandomi le braccia al collo. Io lo cinsi alla vita con le mie, mentre sentivo dei piccoli sussulti all’altezza del suo sterno. Piangeva.

- Dai Bill, credevi davvero che ti avrei abbandonato?

- Tutti lo hanno fatto con me!

- Ma io non sono “tutti”. Io sono Mike e se dovrai sbagliare, lo faremo in due!

- Me lo prometti?

- Lo prometto!

Lo promisi col cuore che mi pulsava sulle labbra, mentre dolcemente la neve iniziò a cadere silenziosa su di noi. Billie sciolse l’abbraccio.

- Forse è meglio che entriamo in casa – disse, asciugandosi una lacrima e accennando un sorriso – Le prossime ore non saranno facili.

All’improvviso ricordai che avevo un impegno e che se avessi mancato mi sarei mangiato le mani per le prossime ore!

- Che fai? Vuoi diventare un pupazzo di neve per caso??

- Ehm … no! È che mi sono ricordato che dovevo passare da Mary … hai presente quella rossa, che va in classe con John?

- No.

- Vabbè … le ho promesso i miei appunti. Chissà magari mi sgancia il suo numero! – dissi, facendo l’occhiolino.

- Ah, va bene! – disse lui, non proprio convinto e parecchio confuso.

Lo abbandonai lì, che metteva in ordine i pensieri sull’uscio di casa, mentre gli urlavo un “Ci vediamo dopo” e iniziando a correre a perdifiato fin quando, dopo un paio di isolati,  mi ritrovai di fronte alla casa di Mary. Bussai forte, sperando che fosse lei ad aprire. Dopo una manciata di secondi, una chioma rossa spuntò dalla porta.

- Hey Pritchard. Sei vivo allora!

- Poco la spiritosa Mary! Sgancia ciò che hai promesso!

- Hey, calmo biondone! Hai parlato di me a Bill, vero? – domandò, gli occhi marroni pieni di malizia. Povera illusa!

- Si che gli ho parlato di te! Ha detto che vuole vederti domani a scuola al cambio della seconda ora vicino allo sgabuzzino dei bidelli! – dissi ammiccando.

- Oh! Va bene! Digli che non mancherò! – disse con le gote in fiamme – Aspetta qui, vado a prendere il tuo regalo. Te lo sei meritato.

Scomparve per mezzo minuto per poi tornare indietro raggiante stringendo tra le mani un vinile.

“ROCKET TO RUSSIA – THE RAMONES”

Me lo porse come fosse una reliquia ed io, con altrettanta delicatezza, lo presi e lo nascosi nello zaino.

- Beh, grazie mille, Mary!

- Grazie a te, capellone! Dì al tuo amico di esser puntuale e di non darmi bidone, ok?

- Contaci – dissi io in tono rassicurante e mi voltai verso la strada, mentre lei chiudeva la porta. Appena ebbi svoltato l’angolo di casa sua, dovetti appoggiarmi al primo muro che trovai per non ridere. Ci era cascata con tutte le scarpe, mentre io, finalmente, avevo ottenuto il regalo per il compleanno di Billie.

-Menomale che ha abbandonato la scuola – sussurrai a me stesso, mentre a grandi passi tornavo a casa di Billie.

 

 

23.55

“Niente, gli occhi non vogliono chiudersi!”. Ero troppo preso dall’idea del regalo, di vedere la faccia che avrebbe fatto Billie nel riceverlo. Fu così che aspettai che l’orologio nel soggiorno di casa Armstrong segnasse la mezzanotte, per poi alzarmi dal divano e dirigermi verso la stanza di Billie. Abbassai piano la maniglia, mentre l’altra mano stringeva il regalo. Aprì la porta e m’infilai nella penombra della stanza. Il volto di Billie, illuminato dalla luce dei lampioni  che s’intrufolava dalla finestra, era bianco come la neve sui marciapiedi fuori, il suo respiro dolce, di chi dorme sonni tranquilli.

Mi dispiaceva svegliarlo, ma lo feci comunque: - Billie?

Nessuna risposta, alzai un po’ la voce: - Billie?

Questa volta socchiuse gli occhi.

- C-che c’è? È già mattina?

- No Bill, tranquillo, sono io!

- Mike? Ma … che ore sono?

- Mezzanotte!

- M-ma … tu sei tutto idiota, lasciami dormire!

Cristo, che persona complicata! Accesi l’abat-jour, sul comodino, costringendolo così a svegliarlo del tutto.

- Dirnt, si può sapere cosa cazzo ti dice il cervello? – chiese stizzito, mettendosi a sedere sul letto.

- Hey, volevo solo farti gli auguri!

- Che?

- Il tuo compleanno, idiota!

Spalancò la bocca, incredulo.

- Grazie! … sai che me n’ero dimenticato? – disse, gracchiando una risata.

- Beh, allora sei proprio idiota! – dissi, scompigliandogli la chioma ribelle.

- Tanto tu sei insuperabile – disse con uno sguardo che non riuscì a decifrare, tra il dolce e il malinconico. Improvvisamente, mi sentì arrossire.

- Beh? Non mi chiedi cosa ho concluso con Mary? – dissi con un sorriso a trentadue denti.

- Cosa hai concluso con Mary? – cantilenò lui.

- Questo! – e così dicendo, gli misi in grembo il regalo, mentre i suoi occhi si allargavano per lo stupore.

- Che caz…? –

- Aprilo! – ordinai.

Lui aprì senza fiatare e quasi potei sentire il suo cuore fermarsi per un attimo alla vista del vinile.

- M-ma … non capisco!

Fu allora che gli raccontai tutto di Mary, della bugia che le avevo appioppato e fui quasi certo che lui mi avrebbe odiato per questo.

- Wow! – fu l’unica cosa che disse.

- Davvero non t’importa di cosa ho combinato?

- No!

- Ah! – che sollievo.

- Grazie Mike! – la sua voce rotta dalla commozione.

- Figurati – dissi, fissando l’orlo del lenzuolo. Con Mary avrei inventato qualcos’altro, ora contava vedere Billie felice. Poi non so come accadde. Sentì solo la mano di Billie scivolare sotto la mia nuca e la mia testa che viaggiava rapida verso le sue labbra. Un lampo, forse più veloce.

Non avevo mani, non un cervello, né un corpo. Solo battiti accelerati che contribuivano a confondere i miei confini con quelli di Billie. Ci staccammo, non so quando, fissandoci negli occhi, il fiato corto.

- Resti con me stanotte?

Quella fu la prima e l’ultima notte che me lo chiese.

 

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Capitolo 6
*** I think I can do Who. ***


I think I can do Who.

 

 

 

 

 

“È di nuovo in ritardo” pensai, mentre guardavo per l’ennesima volta l’orologio. Che esasperazione! John mi aveva chiesto d’incontrarci nella mia cantina, che aveva bisogno di parlarmi. Sinceramente avrei preferito godermi il sole della California in un pomeriggio d’agosto, ma erano le quattro e quel demente mi aveva costretto ad aspettarlo. Poi qualcuno, finalmente, bussò alla porta.

- John, sei tu?

- Si, sono io, Frank!

Corsi ad aprirgli sperando che si sbrigasse a raccontarmi tutto e a non lasciarmi marcire qui dentro. Quando entrò era la faccia della preoccupazione, cazzo! Se era venuto a sfogarsi perché gli era morto il cane o perché la ragazza lo ha mollato, io n…

- Mollo la band, Frank.

Rimasi a bocca aperta, le mie supposizioni evaporate nel nulla.

- Haha, certo, come no!

- Dico sul serio Frank, ho già parlato con loro.

Non riuscivo a crederci. Uno sfigato come lui aveva avuto la fortuna di entrare in un gruppo di diciannovenni come me che si erano già girati mezza America dopo aver pubblicato il primo album e ora li abbandonava. Era l’occasione della sua vita. Certo, non era un granché come batterista, infatti veniva una volta a settimana da me per prendere lezioni, dato che ero iscritto al conservatorio. Cazzo, però, certe occasioni non si perdono così.

- Perché lo fai?

- Frank, la mia vita fa schifo! Ho già ventidue anni suonati, un corso di giornalismo in sospeso, Greta che vuole sposarmi e non posso permettermi di rincorrere un sogno che non so nemmeno se mi darà sicurezze. Io voglio continuare a studiare, guardarmi allo specchio ed esser fiero di me stesso!”

Ad ogni sua parola la mia bocca non faceva che aprirsi. Certo, non m’importava di perdere un allievo come lui, ma quello che diceva era troppo per le mie orecchie. Se immaginassi un giorno senza musica … beh, probabilmente sarebbe quello della mia morte.

- Fai il cazzo che ti pare, John.

Forse aveva capito, nonostante i suoi occhi neri fossero privi di emozioni. Si lisciò i capelli con le mani, si voltò verso la porta e, senza fiatare, se ne andò.

- Certo che è proprio coglione.

 

 

- Lori?

- Eh?? – la voce scoglionata di mia sorella arrivava flebile dalla cucina.

- Io esco! Vado al Gilman.

- Va bene Frank!

Saltai sulla vecchia Mercedes di mio padre e mi precipitai a tutto gas verso il Gilman. In meno di una decina di minuti mi ritrovai di fronte all’entrata del locale, il suono della musica arrivava fino in strada. Parcheggiai nel primo buco che riuscì a trovare e mi diressi verso la porta del locale, ma all’improvviso una figura snella mi si parò davanti.

- Heeeey, che ca…

- Trè sono io.

- Ancora ci vedo Larry!

- Trè devo assolutamente parlarti. Hai saputo di John??

- Si, è venuto oggi a darmi il “lieto” annuncio.

- Ecco, vedi, gli altri due del gruppo … non so, mi sono caduti in depressione e non possono farlo proprio ora che c’è in cantiere del nuovo materiale, non so se mi spiego.

- E che vuoi da me, Livermore??

- Senti, fanculo me e i Lookouts. Perché non suoni con loro?

- Eh? Ma che cazzo, sei ubriaco??

- Entriamo dentro!

Lo seguì sbuffando, entrando nel locale già pieno della puzza di birra e fumo. Mi condusse sul lato destro del locale, dove, appoggiati al muro, vi erano due ragazzi; uno biondo, intento a limonare con una dai capelli neri, e uno moro e riccio che stringeva tra due dita uno spinello, nell’altra mano una Corona e lo sguardo perso nel vuoto.

- Ragazzi! – esordì Livermore.

- Ciao – rispose il moro.

- Vi ho trovato un nuovo batterista!

Il biondo, a quelle parole, si staccò dalla morona tutta tette e la spinse via, mentre il nano moro continuava a tenere lo sguardo nel vuoto.

- Dici davvero Larry? – disse il biondone.

- Non vi dico puttanate, Mike!

- Beh, allora portacelo qui! – disse con voce monocorde il nano.

- Sono già qui, piccoletto! – M’intromisi, con voce tutt’altro che amichevole, ma quello alzò lo sguardo e fui investito dalla luce dei suoi occhi, verdi come i prati in primavera. Scattò in piedi e mi tese la mano.

- Billie Joe.

- Trè Cool. –  gli strinsi la mano e i suoi occhi si allargarono dallo stupore.

- Che diamine di nome è??

- “Très” in francese significa “molto” e Cool perché sfido chiunque a trovare un batterista più figo di me!

Il nanetto Billie Joe si mise a ridere sfoderando una dentatura sgangherata. Poi si fece avanti il biondone, altissimo e con gli occhi azzurro cielo.

- Mike. – e mi strinse la mano - Ma qual è il tuo vero nome??

- Frank Edwin Wright III, ma se non volete mettermi in ridicolo e risparmiare tempo, chiamatemi “Trè”.

- Ti va di suonare stasera? – disse improvvisamente Billie.

- Che problema c’è? – dissi sorridendo.

- Bene, fate amicizia ragazzi, io vado a prendere da bere! – disse Larry, ma nessuno gli rispose.

- Seguitemi! – disse Mike, che si avvicinò al palco del Gilman, dove stava suonando una band composta da quattro ragazzi sui diciassette anni. Il biondone si avvicinò al cantante, gli disse qualcosa nell’orecchio, mentre il sorriso di Billie si allargava sempre di più. Poi Mike tornò verso di noi.

- Ok, saliamo! Si suona, ma solo una canzone!

- Perfetto! – esclamai, in preda all’entusiasmo – M-ma che suoniamo??

Panico.

- Tranquillo, conosci “My generation” degli Who? – chiese Billie.

- E me lo chiedi pure?? -  e così dicendo, saltai sul palco, strappando le bacchette di mano al batterista dell’altra band. Nel frattempo, salirono gli altri due che, tra le urla del pubblico, avevano preso in prestito dall’altra band la chitarra e il basso. Billie parlò al microfono.

- Ehm, ok, sapete, questa sera i Green Day non erano previsti, ma volevamo presentarvi il nostro nuovo batterista. Signore e signori … TRE’ COOL!

Alzai le braccia al cielo. Adoravo già quel nano.

- Ok ragazzi – riprese – questa è “My generation” e voglio che alziate quelle fottute mani al cielo, ok??

Mi fece cenno e iniziai a suonare. Cristo, eravamo perfetti. Fino a pochi minuti prima eravamo dei perfetti sconosciuti e ora, in quella serata così strana, suonavamo insieme come se lo avessimo fatto ogni giorno negli ultimi diciannove anni. Billie era un mostro, mangiava il palco anche stando fermo, mentre Mike era preciso e secco col suo basso, fottutamente coordinato, maledettamente a ritmo con me. Quei due minuti di canzone passarono veloci come un fulmine, ma la risposta del pubblico che si dimenava sotto di noi era impressionante!

Quando finimmo, Billie si voltò verso di me, facendo cenno di avvicinarmi.  Mi fiondai verso di lui, seguito a ruota da Mike che mi cinse la vita, mentre Billie buttava un braccio intorno al mio collo. Io misi entrambe le braccia intorno ai loro fianchi e, così come stavamo, facemmo un caloroso inchino al piccolo ma elettrizzante pubblico subito sotto di noi.

Eravamo una band. Eravamo già amici. Eravamo i Green Day.

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Capitolo 7
*** Walkin' shooting stars across the earth. ***


Walkin' shooting stars across the earth.

 

 

 

 

 

 

Due settimane. Ero lì da due fottutissime settimane.

Mi guardai allo specchio, le mani tremanti. La testa girava velocemente mentre cercavo di trattenere quanta più aria possibile nei polmoni, il mio corpo completamente nudo.

- Ok! – sussurrai tra me e me: - Niente paura, passerà in fretta.

Lentamente iniziai a vestirmi; avevo calcolato il tempo che mi mancava prima di uscire da quella porta e dare un nuovo inizio alla mia vita. Appena ebbi finito di vestirmi, andai alla ricerca delle scarpe e non trovando niente di particolare, indossai quelle nere che portavo tutti i giorni. Poi qualcuno bussò alla porta chiusa a chiave.

- Chi è??

- Sono io tesoro! – mia madre, che piaga!

- Mamma, vai via, non voglio vedere nessuno!

- Come vuoi! – disse, scoraggiata, allontanandosi.

Tornai a fissare lo specchio. Due settimane e la mia pelle abbronzata sembrava dare testimonianza del mio cambiamento repentino. Due settimane e il ricordo di una notte di stelle cadenti. Il cielo, qui, è diverso da quello che ho lasciato dietro alle mie spalle, forse perché qui lo guardo attraverso i suoi occhi. Due settimane e la mia mano scivolò sul mio ventre fasciato di bianco, un brivido lungo le vertebre sembrò volesse spezzarle.

- Cazzo, non adesso! – imprecai, mentre le lacrime scorrevano via senza ritegno: - Ok, devo calmarmi!

Uscì di corsa dalla stanza di Anna e mi fiondai in cucina, ormai deserta, ma stranamente ordinata e splendente, così come il resto della casa, anche quella insolitamente deserta. Senza nemmeno riflettere su ciò che facevo, aprì il frigorifero e afferrai cinque bottiglie di birra. Le poggiai sul tavolo e mi sedetti per non svenire per la nausea. Maledetta ansia, o forse …?

- Entrambe le cose – risposi ad alta voce ai miei pensieri, prima di mandar giù un generoso sorso di birra. Si, avevo intenzione di ubriacare i sensi, perché se quelli fossero rimasti vigili, i miei nervi sarebbero crollati per le troppe emozioni. Tristezza, felicità, preoccupazione, ansia, euforia e batticuore. Bevvi, il più che potevo, ponendo finalmente fine alle mie sensazioni, lasciandomi solo un piacevole stato di leggerezza, il sorriso che tornava a incresparmi le guance. Tornai in camera di Anna con uno spirito nuovo, sorrisi al mio riflesso e iniziai a sistemarmi la criniera di capelli che mi ritrovavo. Impresa difficile, data la sbronza! Iniziai a litigare con le mie stesse mani, fin quando non riuscì a trovare un acconciatura decente, indossando finalmente il diadema floreale che Ollie mi aveva regalato.

Sorrisi compiaciuta davanti al riflesso dei miei occhi marroni, resi lucidi dall’alcool, il vestito bianco un po’ stropicciato, ma anche un tantino fuori luogo.

- Se tua madre sapesse che sei incinta ti prenderebbe a calci in culo, Adie! – dissi al mio clone nello specchio, scoppiando in una risata.

Due settimane e ho ancora la voce di Billie che mi rimbomba nelle orecchie, mentre al telefono ripeteva “Non è possibile”, le parole che gli si ghiacciavano in gola. Era successo all’improvviso, tutta la nostra storia, fin qui, sembra uno strano scherzo del caso. Ed io che volevo solo un loro album e ora porto in grembo il figlio del loro cantante. Tre anni son bastati a farci perdere la testa; ho ricucito le ferite sul suo cuore lasciate dalla fuga di Amanda e lui ha raccolto ogni singola lacrima che ho versato per Billy. Il ricordo di quei momenti lasciò la traccia di un sorriso sulla mia faccia, mentre cercavo di mettere un po’ di nero sugli occhi senza accecarli.

- 80 please take me away! – canticchiai, mentre davo un ultimo sguardo alla mia figura: - Cazzo, sembro una meringa!

Eppure non ero impaurita e ciò non era dettato dal fatto che fossi ubriaca. È vero, incontrare Billie mentre entrambi non eravamo nel pieno delle nostre facoltà non era stata una buona idea e il mio grembo all’opera ne era la testimonianza. Eppure non ero triste, piuttosto preoccupata, impegnata a farmi seghe mentali su come avremmo cresciuto un figlio e se fossimo stati all’altezza di un tale compito. Non ero ancora pronta ad esser madre, ma ero sicura che Billie mi avrebbe aiutata. Ci saremmo aiutati a vicenda.

A volte mi chiedevo se questo fosse un matrimonio riparatore; poi incontravo il verde del suo sguardo e tutto diventava più semplice. Nella coppia era lui il più piccolo, eppure mi lasciavo guidare ciecamente.

- Io lo amo. – sussurrai, mentre afferravo il bouquet e mi affrettavo ad uscire di casa. Era un matrimonio d’amore, era un gesto d’amore far crescere nuova vita nel mio grembo e, mentre salivo a bordo della macchina dei miei genitori, sapevo che sull’altare avrei detto “si” all’uomo che amavo. L’uomo della mia vita!

In meno di cinque minuti, la macchina accostò vicino al parco dove si sarebbe tenuta la cerimonia. Ognuno con la sua religione, ma non era sarebbe stato Dio ad unirci, quello l’avevamo fatto già da soli.

- Sicura che non vuoi che ti accompagni?? – la voce di mio padre pose fine ai miei pensieri.

- Più che sicura! – dissi, mentre stringevo con forza il bouquet. Per quanto il mio stato d’ebbrezza cercasse d’impedirmelo,  iniziai a sfilare lungo il vialetto che portava al centro del parco, dove mi aspettavano, sotto gli occhi curiosi dei pochi invitati, Billie e un prete. Non so se fosse per l’effetto della birra o per il cuore impazzito, ma a me sembrò che il parco fosse deserto, mentre alla fine del mio cammino vedevo solo una chioma bionda sparata nell’aria, occhi verdi e uno smoking di fortuna.

Billie!

Lui mi vide e iniziò a sorridere e per me fu come veder sorridere il cielo. Affrettai il passo che rimase fin troppo lento rispetto al ritmo del cuore e quando lo raggiunsi fu come aver posato il piede sulla terra ferma dopo aver nuotato in alto mare.

Al sicuro. A casa.

Quando lo ebbi di fronte notai la rosa rossa ad occhiello e avvertì, senza stupore, che anche il suo alito aveva l’odore forte dell’alcool. Cercai di trattenere una risata, mentre lui sussurrava un flebile “Wow!”.

Qualche parola buttata nel vento, i nostri si sgangherati e le facce esaltate, un anello al dito e in cinque minuti eravamo ufficialmente sposati. Marito e moglie. L’uno la perfetta metà dell’altro.

- Beh, direi che lo sposo può baciare la sposa. – solo allora mi accorsi del prete e degli invitati, ma Billie m’impedì di realizzare la cosa, trascinandomi con sé verso un mondo diverso, mentre le nostre labbra si muovevano affamate una sull’altra.

- È il giorno più bello della mia vita – dissi quando ci staccammo.

- No, questo è il primo giorno del resto della nostra vita! – disse lui e la mia felicità si sciolse in pianto.

Fu allora che mi prese per mano e mi condusse verso l’uscita del parco, dove ci aspettava la vecchia Mercedes del padre di Frank con la quale saremmo andati al Claremont Hotel a consumare la nostra prima notte di nozze, o almeno così dicevano in giro. Appena fummo vicini alla macchina, però, Billie si arrestò di colpo. Sul lato sinistro del vialetto Mike e Frank ci guardavano con facce diverse. Frank l’esaltazione fatta persona, Mike serio e muto come sempre.

- Vado un attimo da loro! – disse Billie al mio orecchio.

- Ti aspettiamo! – dissi, facendo un occhiolino e i suoi occhi s’illuminarono. Poi si avviò a grandi passi verso le braccia di Frank che lo aspettavano aperte.

- Haha nano!!! E fu così che decidesti di scopare per tutta la vita sempre con la stessa donna! – urlò forte, mentre lo abbracciava. Io non feci altro che ridere, non tanto per la battuta, quanto per la faccia scandalizzata di mia madre e quella scoraggiata di Ollie che apparvero a qualche metro di distanza dal punto in cui Frank stava stritolando il mio sposo.

Quando sciolsero l’abbraccio, Billie si voltò raggiante verso Mike, il quale non accennò a cambiare espressione. Anzi, non lo guardava nemmeno in faccia.

- Guardami in faccia, cazzo! – urlò Billie, ma gli invitati non si accorsero di nulla. Solo io vidi una mano di Billie stringere il mento di Mike, costringendolo a guardarlo negli occhi e in quel momento capì cosa stesse provando il basettone. Vuoto allo stomaco, lo stesso che provavo io ogni volta che fissavo gli occhi smeraldini di Billie. Infatti, improvvisamente le nuvole che attraversavano il cielo degli occhi di Mike scomparvero, lasciando solo uno sguardo limpido, bagnato dall’amore che Mike, ne ero sicura, provava per Billie. Fu allora che, con la commozione che lo assaliva, Mike lo strinse forte a sé, nascondendo il viso nell’incavo del collo del mio sposo.

Non ero gelosa, non lo sarei mai stata! Per lui che non aveva avuto una famiglia, Billie  e la musica erano diventati un punto di riferimento per ogni cosa, gli unici veri motivi che lo tenevano aggrappato alla vita e riuscivano a fargliela amare.

Si staccarono, mentre Billie, che teneva le mani intorno al collo di Mike, gli stampò un bacio a fior di labbra, facendolo sorridere.

Mike disse qualcosa sottovoce e poi Billie corse dritto verso di me, raggiante di gioia.

- Beh, io vado via eh! – disse quando mi fu vicino.

- Ok, allora ti seguo. – dissi, mentre entrambi ridevamo.

Salimmo in macchina ma, prima che mettesse a moto, gli chiesi: - Cosa ti ha detto Mike?

Si fece serio: - Che se son felice io, lo è pure lui, perché mi ama. – disse con tono nostalgico.

- E sei felice?

Mi guardò negli occhi ed ecco la sensazione di vuoto.

- Molto, molto di più!

Mi stampò un breve bacio sulle labbra e mise a moto.

Eravamo già lontani 2,000 anni luce.

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Capitolo 8
*** Here comes the rain again. ***


Here comes the rain again!

 

 

 

 

 

16 Settembre 2003

- Porca puttana, ora si mette anche a piovere!

Imprecare non avrebbe certo contribuito a far andare la mia vecchia Ford più veloce, né tanto meno avrebbe impedito al cielo di piangere acqua a cascate. Mancavano pochi metri per arrivare a destinazione eppure sembrava come se fossi ancora fin troppo lontana da quella villetta così famigliare. Poi la vidi, parcheggiai come meglio potevo e mi fiondai a piedi, sotto la pioggia, verso il grande portone di legno.

Citofonai due volte, fino a quando qualcuno non rispose: - Anna, sei tu??

- Si Adie, apri!

La porta si spalancò e mi si parò di fronte la figura di Adrienne, la mia dolce cognata. Era passato solo un mese dall’ultima volta che l’avevo vista eppure non sembrava la stessa. Dimagrita, i capelli sciolti e completamente arruffati, gli occhi gonfi di pianto.

- Che succede qui, Adie?? Al telefono mi hai fatto prendere un colpo!

- Andiamo in salotto e parliamo lì. Vuoi qualcosa da bere?

- No Adie, grazie! Voglio solo capire cosa diamine sta succedendo tra te e Bill!

Mi guardava con quei suoi occhi color cioccolato e mi si strinse il cuore quando incominciò a piangere.

- È per quel diavolo di album! Prima dice che vuole mollare il gruppo e rimanere da solo, poi ricomincia a scrivere e in casa è come se non ci fosse. Provo a rivolgergli la parola, ma niente! Sempre a fissare il vuoto. È da mesi che ormai dorme accanto alle sue chitarre. Joey e Jake, oh cazzo…

Esplose nuovamente, buttando il viso tra le mani. Non sapevo che dire. Certo, Bill è stato sempre fin troppo immerso nella sua ispirazione, il chiodo fisso di comporre, di superare se stesso, di dimostrare a chi lo criticava quanto in realtà lui continuasse ad amare la musica e che ciò che faceva era arte, qualcosa di simile ad una ferita aperta sul cuore che invece di bruciare ti fa viver meglio.

- Ascoltami Adie, ora devi essere forte! – lei alzò lo sguardo bagnato di lacrime – Quando hai conosciuto Billie sapevi perfettamente quanto per lui fosse importante la musica.

- L’HO CAPITO QUANTO FOSSE IMPORTANTE, MA NON FINO AD ARRIVARE A QUESTO! – e con un gesto veloce scostò i capelli dalla tempia sinistra, dove vi era un livido violaceo.

- T-te l’ha fatto lui?

Lei annuì.

- Oh, cazzo Adie. Mi dispiace! Mio fratello è fuori. Quando è successo?

- Ieri sera. – iniziò a raccontare – Sono andata nella sua cantina come ogni sera per dargli qualcosa da mangiare. Lui era lì, seduto sul solito sgabello con un foglio in mano, lo stesso da giorni, sempre bianco perché le parole non gli arrivano. Ero stufa di vederlo così e allora ho iniziato ad urlargli in faccia per vedere se riuscivo ad ottenere una reazione. – si bloccò.

- E poi??

- Poi ha iniziato a dire che non capisco quanto quello che sta facendo sia importante per lui, per me e per il gruppo. Si è messo a piangere iniziando a tirare calci ad ogni cosa che incontrava. Non l’ho mai visto così. – piangeva, non faceva altro.

- Infine si è seduto a terra, le mani nei capelli e…

- Cosa Adie, cosa??

- Io gli ho detto che avevo intenzione di lasciarlo. A quel punto è scattato in piedi e mi ha colpita, dicendo che ero pazza e che se non capivo è perché non lo amavo davvero!

Non sapevo cosa dirle, ero come paralizzata, la voce mi si era ghiacciata in petto. Poi ebbi un’idea.

- Sentimi, Adie, aspettami qui. Vado a parlarci io, ok?? – improvvisamente avevo ben chiaro cosa avrei detto a mio fratello.

- Ok – disse, tirando col naso e mettendosi a sedere su una poltrona del salotto. La lasciai lì, mentre si asciugava il viso con le mani. Iniziai a correre attraverso la casa il più che potevo, fin quando non mi trovai di fronte alla porta che si apriva sulla cantina. Stavo per mettere una mano sulla maniglia quando una melodia m’invase completamente, accompagnata dalla voce di mio fratello.

“Here comes the rain again, falling from the stars! Drenched my pain again, becoming who we are! As my memory rest, but never forgets what I lost, wake me up when…”

-…September ends! – conclusi io sottovoce, mentre un nodo mi si incastrava tra la gola e il cuore. Frenare le lacrime mi era impossibile, mentre la voce di Billie, stranamente roca, cantava quella melodia dolce come una ninna nanna, dolorosa come un ricordo. Il suo ricordo. Erano passati vent’anni esatti, eppure quella canzone dimostrava come il dolore per perdita di nostro padre fosse così vivida nel suo cuore, nel mio cuore.

Billie, il piccolo Billie. Era lui ad avere sempre il sorriso sulle labbra, i riccioli biondi costantemente arruffati, gli occhi verdi brillanti di vita. Il mio piccolo Billie, il preferito di papà, il preferito di tutti. Era impossibile non amare Billie perché lui amava tutti, indifferentemente. Noi sapevamo perfettamente quanto lui fosse debole, come quell’aria sfacciata fosse stata sempre e solo un modo per proteggersi il cuore.

“Billie, tu sei forte”. Ho ancora la voce di mio padre nelle orecchie. Glielo disse quel giorno di fine estate quando uscì da casa nostra per andare, come sempre da un mese a quella parte, verso quell’ospedale da cui non sarebbe mai uscito. “Wake me up when september ends!”. Furono le uniche parole che quelle labbra di rosa riuscirono a tirar fuori, tra le lacrime sue e di mia madre, dopo un funerale immerso nel silenzio.

La musica finì e io trovai il coraggio per abbassare quella maledetta maniglia che mi separava da lui. Quando aprì, lo trovai di spalle, chino sulla sua chitarra classica, il pavimento coperto da fogli scarabocchiati.

- Se sei venuta a portarmi le carte del divorzio, puoi andare via! Io…

- Billie, sono Anna. – gli dissi, la voce spezzata da qualche singhiozzo.

Lui lasciò cadere la chitarra a terra e si voltò verso di me, pallido in volto, la barba folta e grandi occhiaie a segnargli il viso, eppure i suoi occhi erano gli stessi, la solita luce, il solito calore.

- Oh! Ciao sorellina! Che ci fai qui?

- Beh, ecco, Adie mi ha telefonato. So tutto quello che è successo.

Fece una risata vuota di ogni sentimento: - Beh, allora ti avrà detto che sono un pazzo violento e che vuole lasciarmi, vero?

- Non ha detto questo, Bill! Sai che non direbbe mai una cosa del genere. – dissi, mentre lui sbuffava: - Solo che tu non riesci a capire quanto lei sia preoccupata per te!

- Davvero? – disse sarcastico.

- Lo sai Billie! Lei ti ama e detesta il fatto che tu stia perdendo cervello ed energia per un album. Cristo, Bill, non è la pr…

- Non venirmi a dire queste puttanate, Anna! – scattò in piedi urlando – Questa è la prima volta in cui mi ritrovo di fronte ad un progetto vero! Non è semplice ispirazione Anne, è la mia vita! La musica è la mia vita! E se Adie non riesce a capirlo, beh, può anche preparare le carte del divorzio! Se mi amasse dovrebbe amare anche quello che faccio! Quest’album mi sta impegnando in tutti i sensi, anima e corpo non mi appartengono più! Ma, credimi Anne, è la prima volta dopo anni in cui mi sento davvero felice senza fingere di essere qualcun altro. Riesci a capire Anna??

Si che riuscivo a capirlo, soprattutto dopo la meraviglia che avevo ascoltato pochi minuti prima. Il suo poteva sembrare il discorso di una persona egoista e stacanovista, ma io che lo conoscevo sapevo che quelle parole erano la più grande dichiarazione d’amore che ogni giorno faceva in ginocchio di fronte alla musica.

- Si, si che ti capisco Billie. Ma prova a capire, per un secondo, Adie. Lei ti ama e sai quanto! Però so cosa ho visto sul suo volto e non c’era solo il livido che le hai fatto ieri, ma c’era la frustrazione di una donna che ti ama come il primo giorno e che crede di non essere più ricambiata perché meno importante della musica!

Mi fissava a bocca aperta e il silenzio cadde su di noi. Solo il rumore della pioggia che batteva sulla strada segnava il passare del tempo.

- Io l’amo quanto la musica. – disse improvvisamente – Dal primo giorno fino ad oggi e anche se ero ubriaco quel giorno, io l’ho sposata perché ci credevo davvero e ci credo ancora!

Era sincero, me n’ero accorta perché era diventato rosso in viso e aveva abbassato lo sguardo a terra, come faceva fin da piccolo quando confessava qualcosa che aveva tenuto per troppo tempo nascosta. Sorrisi al quel ricordo e rapida mi avvicinai verso di lui, lo strinsi forte, passandogli una mano tra i capelli corvini, ricci e morbidi come sempre.

- Ti voglio bene, Anna.

- Anche io fratellino!

Ci staccammo, sorridenti.

- Credo che dovrò parlare con Adie. – disse serio.

- Si, ma prima mi fai un favore?

- Certo! – disse sfoderando il suo dolce e crudele sorriso.

- Mi ricanti la canzone di prima?

Il sorriso si trasformò in una smorfia di dolore, ma nonostante ciò afferrò la chitarra e cominciò a cantare lentamente, mentre le lacrime gli rigavano il viso. Un angelo crocifisso alla chitarra. Quando finì, alzò gli occhi e sembrò che il dolore stesse andando via poco a poco.

- Non mi sorprende che tu l’abbia scritta proprio oggi.

- Beh, sai che odio andare al cimitero, ma… - si fermò per colpa di un singhiozzo. Sapevo che voleva dire.

- Billie, papà sa che ti ricordi di lui e lui si ricorderà sempre di te! Per sempre.

A quelle parole, mi buttò un braccio al collo, nascondendo il viso nell’incavo, mentre gli sfioravo la schiena.

- Ok, ora basta piangere fratellino! C’è Adie che ti aspetta.

Mi guardò in faccia: - Si, vado! Grazie Anna! Mi chiedo che farei senza di te!

Non feci in tempo a trovare una risposta, mi stampò un breve bacio sulla guancia e andò via, scomparendo nell’ombra del corridoio che portava verso il salotto. Io feci lo stesso percorso silenziosamente e loro due non si accorsero nemmeno che uscivo di casa. Billie era in ginocchio, di fronte a Adie che rimaneva seduta in poltrona, ma che sembrava aver cambiato espressione, la luce della felicità in arrivo.

Uscì sul vialetto della villetta, mentre la pioggia accennava a frenare il ritmo. Guardai il cielo sfumato di grigio e azzurro, mentre le gocce mi pungevano il viso.

- Ci manchi, papà!

Il sole comparve tiepido da dietro quelle nuvole bianche di paradiso e asciugarono quelle poche lacrime di pioggia rimaste sul mio viso.

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Capitolo 9
*** I'm thinking...where'd you go? ***


I’m thinking … where’d you go?

 

 

 

 

 

- Pronto?

- Bill? Dove sei?

- Ma che domande sono, Mike? Sono a casa!

- Potresti correre a casa mia? Devo farti vedere una cosa.

- Ma è così indispensabile?

- Bill, cazzo, alza quelle chiappe! Ti voglio a casa mia tra cinque minuti!

- E … e va bene! – sbadigliai, prima che lui mi riattaccasse il telefono in faccia. Detesto quando fa così. Tutto e subito. Svogliato mi voltai verso il comodino dove era poggiata la radiosveglia e notai, con immensa irritazione, che erano le due di notte.

- Adie? Amore? – sussurrai nel buio.

- Mmmh??

- Sto andando da Mike. Mi ha chiesto di andare da lui, anche se non conosco il perché.

- Tranquillo, vai! – disse, mentre la sentivo rigirarsi sotto le coperte, i suoi riccioli che mi solleticavano il viso e le sue labbra che alla cieca cercavano le mie.

- Va … va bene, Adie. Non farmi cambiare idea però!

Lei soffocò una risata, mentre accendevo l’abatjour e mi vestivo velocemente.

- Quando torni?

- Non ne ho la più pallida idea, anche se era parecchio scazzato… - non avevo assolutamente idea di cosa stesse passando Mike, alle prove era sempre lo stesso, ma ogni tanto aveva degli sbalzi d’umore e il suo tono mi aveva fatto preoccupare.

- Ok, ci vediamo domani, allora. ‘Notte Billie! – disse lei, sorridendo dolcemente e sistemandosi per dormire. Finalmente tra me e lei le cose stavano andando bene, il nuovo album era quasi completo, ma mancava ancora qualcosa.

- ‘Notte, amore.

Finì di vestirmi, andai verso l’abatjour e dopo averla spenta, mi fiondai fuori dalla camera da letto. Attraversai il corridoio, soffermandomi un minuto sull’uscio della stanza di Joey e Jake. Spiai dentro la stanza buia, sentendo solo il respiro dolce di Jake e quello pesante di Joey. Non so perché, ma ogni volta che uscivo di casa volevo vederli almeno una volta, come se fosse l’ultima.

Cercai di non dare spazio a miei pensieri lugubri e mi fiondai veloce verso il garage, entrai nella mia BMW e misi a moto.

- Quell’idiota mi farà prendere un colpo prima o poi, ne sono certo.

 

 

 

 

- Ce l’hai fatta!

- Hey! Normalmente un uomo, alle due di notte, dorme o tromba con sua moglie, sai?

- E cosa vorresti dire, Armstrong? Che tu sei normale? – disse, ridendo rumorosamente.

- Simpatico – dissi sussurrando.

- Perché sussurri?

- Sbaglio o hai una figlia in casa che dorme??

- Ah, no. Stella è a casa di una sua amica.

- Ah – dissi, mentre un fastidioso prurito iniziava a farsi strada nel mio stomaco – C-che cosa devi mostrarmi?

- Andiamo in salotto.

Lo seguì senza replicare, anche perché all’improvviso era ritornato serio. Entrai nel salotto, riscaldato dal camino acceso, e mi accomodai sul divano, mentre lui si sistemava sulla poltrona di fronte.

- Devo farti ascoltare una cosa – annunciò, mentre stendeva un braccio dietro lo schienale della poltrona e afferrando la sua chitarra classica. Improvvisamente sentì le mie guance andare a fuoco. Non ero abituato a vederlo con una chitarra, anche se sapevo perfettamente che sapeva suonarla, ma ogni volta che lo faceva provavo una strana sensazione, la stessa che avvertì la prima volta che assaggiai le sue labbra. Prese fiato.

I feel asleep while watching Spike TV, after ten cups of coffee and you’re still not here!

Dreaming of a song when something went wrong, but I can’t tell anyone ‘cuz you’re not here!

Left me here alone, when I should stayed home. After ten cups of coffee I’m thinking…

Fece una pausa e piantò i suoi occhi blu nei miei. Trattenevo il fiato.

… where’d you go?

Nobody likes you, everyone left you, they’re all out without you, havin’ fun!

Everyone left you, nobody likes you, they’re all out without you, havin’ fun!

Where’d you go?

Cantò questi ultimi versi ad occhi chiusi, stretti, mentre la sua voce urlava quelle parole. La mia gola era secca e improvvisamente lo vidi diverso. Anzi, lo rividi, com’era un tempo. Rividi quel caschetto dorato che brillava come oro al sole, la sua maglietta bianca e i calzoncini di jeans, mentre mi saltellava incontro sorridente. Diceva solo “Andiamo Billie”, mentre entrambi pregustavamo un pomeriggio passato in cantina a imparare qualche accordo, a cercar di buttar giù qualche canzone.

Eravamo solo dei bambini, magari un giorno avremmo potuto prenderci a cazzotti e andare ognuno per la sua strada. Invece quei pomeriggi che per gli altri erano compiti e impegni, per noi due erano duro lavoro.

Michael, il mio migliore amico. Quant’era stata dura la vita con lui! Sua madre evaporò nel nulla dopo il parto, i suoi genitori adottivi che prendevano a morsi quel poco che era rimasto del loro matrimonio e, dopo averlo masticato per bene, hanno preso a mordere i loro figli. Mike sembrava forte, anche se con molta probabilità lo era molto più di me, ma sapere che io ero tutto ciò che aveva, mi aveva portato ad amarlo, più di qualunque amico. Lui era stato come un padre, io la sua famiglia.

Sentir quelle parole mi aveva fatto male; ripensai al periodo in cui Anastasia lo abbandonò e tutta la lotta che ne era seguita per l’affidamento di Estelle. In quel periodo si era aggrappato a me come un naufrago in alto mare si aggrapperebbe ai resti della nave. “Nessuno mi ama”, questo ripeteva tra i singhiozzi e il ricordo mi riaprì una fitta al cuore, la stessa che provavo ogni notte della mia infanzia, quando lui si svegliava dai suoi incubi urlando “mamma”.

- Bill? – la sua voce mi riportò al presente facendomi sobbalzare, il cuore che mi rimbombava nelle orecchie.

- È perfetta.

- Dici davvero?

- Hey Dirnt! Ancora devi prendere coscienza delle tue capacità? – dissi abbozzando una risata.

- Billie – aveva abbassato la voce.

- S-si?

- Dimmi cosa ne pensi.

- Te l’ho detto, è perfetta – dissi tutto d’un fiato – è…

Mi guardò con aria interrogativa e, come al solito, abbassai lo sguardo dicendo: - Come te.

Era sempre così. Erano passati più di vent’anni da quando ci siamo conosciuti, ma ogni volta che dovevo manifestargli i miei sentimenti non riuscivo a guardarlo in faccia. Non era timidezza, solo insicurezza, come se le parole che dicevo non rendessero abbastanza l’idea di quello che provavo e che, magari, potesse rimanerne deluso.

Ero ancora lì, a fissarmi le unghie mangiucchiate, quando sentì una mano posarsi sulla mia spalla. Alzai il viso e incontrai il suo, splendente di gioia, disegnato dalle ombre e dalle luci create dal fuoco scoppiettante del camino.

- Per me è importante! – disse.

- Lo so! In quelle parole ci sei tu, la tua vita e… - ripresi fiato – e comunque non è vero che non piaci a nessuno, lo sai perfettamente. – lo dissi con fermezza, inchiodando il mio sguardo nel suo! Per anni avevo nascosto nelle canzoni un po’ di lui, l’amore che provavo e ciò che avevamo vissuto, ma in quel momento lui aveva bisogno di certezze ed io ero lì per dargliele.

Continuava a guardarmi, inginocchiato di fronte a me, la chitarra ancora in mano. Se ne liberò con un gesto veloce, poi tornò a guardarmi, mentre con le mani mi slacciava le scarpe e me le sfilava via insieme ai calzini.

- Mike? – avevo la gola secca, ma non ottenni risposta dal mio interlocutore, impegnato a farmi alzare le braccia e a sfilarmi il maglione nero che avevo indossato mezz’ora prima. Nonostante il fuoco acceso, un brivido tagliò in due la mia schiena, mentre con cura mi liberava lentamente dei pantaloni. Tornò a guardarmi.

- Sai che mi fai paura quando fai così? – dissi. Il cervello era andato già a farsi fottere.

- Si, come no! – sorrise, prima di prendere le mie labbra tra le sue, ponendo fine alla mia capacità d’intendere e di volere. Poi si staccò, mentre con il suo corpo mi sovrastava completamente, le mani appoggiate sui braccioli della poltrona. Lentamente ripresi le mie capacità, mentre gli sfilavo la felpa e tiravo giù i suoi pantaloni. Eravamo pari. Fece per fiondarsi nuovamente verso il mio viso, ma con un gesto veloce, lo afferrai per la vita e lo spinsi sul tappeto di fronte al camino.

La luce del fuoco dava ai nostri corpi un’intensa tonalità di rosso, mentre ci liberavamo a vicenda dei nostri boxer. Mike, il mio Mike, tornò a guardarmi, gli occhi resi stranamente scuri dalla luce del fuoco. Le sue mani iniziarono a viaggiare su di me, ormai esperte, mentre con le labbra iniziava a disegnare sul mio petto un percorso tortuoso di cui conoscevo già la meta.

Perché chiedersi se era normale?

Perché preoccuparsi di chi ci poteva giudicare?

- Billie – ogni, lettera un affanno, mentre si faceva strada dentro di me, dolce e prepotente come solo lui riusciva ad essere. Sentivo che le mie dita affondavano nei suoi fianchi, mentre le sue tessevano ragnatele con i miei capelli, i suoi denti che affondavano nella mia spalla sinistra.

- Fanculo, strappami anche il cuore se riesci. – sentì la mia voce lontana, come se non fosse mia. Lui alzò la testa, mentre ancora ci muovevamo, sincronia perfetta. Mi baciò, schiacciando la mia testa sul pavimento, mentre venivamo insieme.

Vuoto e completezza insieme.

- È amore – sussurrai, l’affanno che sollevava il mio petto e quello di Mike, che si stringeva forte a me tremante.

- Che cazzo stai dicendo? – disse sorridendo, baciandomi il petto.

- È amore – ripetei beato – Ci svuota e ci completa.

- Wow, ti ho proprio mandato in pappa il cervello, eh? – rise.

- Grazie, eh!

- Perché?

- Perché sai rovinare tutto – dissi sorridente, mentre gli tiravo uno schiaffo su una chiappa.

- Sei troppo romantico e sdolcinato per i miei gusti – disse sereno, appoggiando il mento all’altezza del mio diaframma, mentre io incrociavo le braccia dietro la testa per poterlo vedere meglio. Lo fissai e, dopo pochi secondi, parlai: - Tanto te lo dirò comunque.

Lui distolse lo sguardo con una faccia da schiaffi, guardandosi attorno, facendo finta di nulla.

- Ti amo. – dissi.

Mi rivolse il suo sguardo ancora una volta, sospirò, appoggiò una guancia sul mio petto e fissando il fuoco, canticchiò: - Just keep saying my love is true!

Morfeo era lì e ci abbracciò senza esitare.

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Capitolo 10
*** So get off of my case. ***


So get off of my case.

 

 

 

 

 

- Mamma muoviti o perdiamo l’aereo!

- Un attimo, tu scendi in macchina intanto!

- Va bene! – la voce di mia figlia era pregna d’impazienza, mentre io guardavo riluttante i due biglietti che stringevo in mano.

“Dai Lisea, puoi farcela”. Afferrai la macchina fotografica appoggiata sul letto, la misi con cura nel suo astuccio e mi fiondai giù per le scale, per poi arrivare nell’ingresso dove Ramona mi aspettava impaziente. Aveva gli occhi grigi fuori dalle orbite e il sorriso tirato che mostrava tutti e trentasei i denti. Il ritratto di suo padre, ma al femminile e rimpicciolito di parecchie taglie.

- Ce l’hai fatta eh? Andiamo dai o vedremo papà arrivare qui da un momento all’altro perché sua figlia, cioè IO, non è ancora a casa sua!

- Hai finito? – dissi, senza entusiasmo.

- No!

- Dai Ramona, esci e andiamo in macchina!

- Prima fammi un sorriso! – ordinò ammiccante.

Alzai gli occhi al cielo e le sorrisi, sforzandomi di sembrare convincente.

- Ok, adesso sembri meno disgustata! Andiamo!

Così dicendo, si fiondò verso la nostra macchina, mentre il sole si addormentava lento dietro i grattacieli e le luci di Natale di New York. Direzione: Oakland, California.

 

 

 

 

- Papà!!!

In un attimo gli occhi delle persone presenti all’uscita dell’aeroporto erano incollati su me, Ramona e Frank, che l’aspettava a braccia spalancate e il sorriso illuminato dalla gioia. Ramona, alla fine della sua corsa, si gettò contro il petto del padre e, anche a distanza di anni, potevo immaginare cosa stesse sentendo; il petto morbido e le spalle potenti, quel calore che farebbe sentire a casa anche uno sconosciuto, il profumo di muschio bianco della sua pelle.

Io, Frank e Ramona. Una famiglia nata ancor prima del matrimonio. Già, il matrimonio. Un legame inutile. Perché giurarsi l’eternità quando poi niente è destinato ad essere immortale? Portai Ramona in grembo per nove mesi quasi da sola, periodo in cui constatai che l’unico amore eterno della mia vita si muoveva dentro di me. Ricordo ancora quando avvicinavo il pancione allo stereo per farle ascoltare i Green Day e lei che iniziava a rotolare come impazzita. Frank sempre in giro, tornò in tempo giusto per vederla nascere.

Due mesi dopo ero sull’altare, con Ramona che strillava nella culla durante la cerimonia, quasi come se volesse avvisarci di cosa stavamo facendo. Certo, la mia immaginazione viaggia sempre in maniera smisurata, eppure non riesco a fare a meno di considerare mia figlia una specie di veggente. Guardava me e Frank sempre con aria sospettosa, come se si aspettasse di vederci scattare da un momento all’altro. Successe, ma solo una volta. Ero stanca, vedevo quel matrimonio come una casa senza fondamenta: Frank che volava da una parte all’altra del mondo per suonare, io che continuavo col mio lavoro da fotografa. Rari, i momenti con Ramona. Rari quelli tra me e lui, ma indimenticabili.

- Giura! – urlò Ramona e quasi stavo per risponderle, come se lei potesse ascoltare i miei pensieri.

- Te lo giuro! T’insegnerò a suonare la batteria. Ormai sei grande, devi imparare! – disse, facendole l’occhiolino, mentre lei saltellava sul posto.

- Ricordati i compiti delle vacanze, però! – dissi io.

- COSA? – risposero in coro padre e figlia.

- Lisea, Lisea. Non cambi mai, vero? – disse lui, allontanandosi da Ramona e stringendomi delicatamente. Tremai, ma il freddo non c’entrava. Si allontanò da me di pochi centimetri e col suo sguardo intenso riprese a parlare: - Come stai?

- Bene! – dissi, sorridendo tranquilla. Nonostante io e Frank fossimo divorziati già da qualche anno, non riuscivo ad odiarlo. Se non volevo vederlo era solo perché ogni volta che incontravo i suoi occhi i ricordi mi assalivano.

- Zio Mike!!!!! – Ramona mi riportò nuovamente sulla terra, mentre si metteva nuovamente a correre verso due “nuove” figure; quella di Mike che l’aspettava con una risata e quella di Billie che osservava entrambi sorridente.

- Bentornata, eh! – disse Mike, mentre afferrava Ramona e se la teneva in braccio.

- Mamma vuol farmi fare i compiti! Io invece voglio suonare la batteria con papà! – disse lei decisa, mentre tutti scoppiavamo a ridere. Frank si voltò verso di me raggiante di felicità e disse: - Perché non resti qui da noi? Passiamo il Natale insieme. Beh, sai, ci sono regali, Babbo Natale e tutte queste cose... – stranamente non sapeva che dire, a parte il fatto di chiedermi di restare.

- Io non credo a Babbo Natale! – disse Ramona – Però papà ha ragione, resta con noi!

- Eh, ho ragione! – disse lui, incoraggiato.

Io guardai esasperata ed implorante Mike e Billie, i quali non fecero altro che fare una faccia d’incoraggiamento. Alzai gli occhi al cielo e sconfitta dissi: - Ok, rimango, ma solo fino al ventisei, chiaro?

Ramona, a quelle parole, saltò giù dalle braccia di Mike e corse verso di me abbracciandomi. Vederla felice, rendeva felice anche me.

- Ehm, scusami un attimo Ramona, ma non mi saluti?? – disse Billie cantilenando. Quando lui e Ramona iniziavano a sfottersi, i bambini diventavano due. Lei senza staccarsi da me, fece un sorrisetto malizioso e disse a denti stretti: - Che vuoi nano??

Lui spalancò la bocca e disse: - Ma senti chi parla! Non superi nemmeno il metro!

- Ma io ho otto anni! Tu ne hai trenta! Sei tu il nano!

- Eh va bene, per questa volta hai vinto! – disse, alzando le mani in aria in segno di sconfitta. Lei si staccò da me e andò ad abbracciare anche lui. Questo era uno di quei momenti in cui mi rendevo conto di quanto i Green Day fossero davvero una famiglia. Hanno superato davvero un sacco di difficoltà, sia artistiche che personali. Billie preoccupato di non essere un buon padre e marito, Mike che ha lottato per avere l’affidamento di Estelle dopo il divorzio con Anastacia e infine Frank, che dopo di me ha sposato Claudia. Altro fallimento. Lo guardavo negli occhi e vedevo ancora la stanchezza e la tristezza del divorzio, accaduto proprio in quell’anno. Era anche per quello che avevo acconsentito affinché Ramona trascorresse il Natale con suo padre, perché in quel momento lui aveva bisogno delle persone che amava. Non ero egoista, non potevo permettermi di fargli del male.

- Va bene! – dissi, mentre quei tre si divertivano con Ramona come se fossero anche loro alle elementari: - Stringetevi tutti quanti, voglio farvi una foto! – e così dicendo estrassi la macchina fotografica dal mio astuccio. Loro tre si strinsero intorno a Ramona, piegandosi sulle gambe, mentre Frank la stringeva forte stringendole la vita, sorridendo.

- Fatto! – dissi, dopo aver scattato.

- Bene! Allora tutti a casa Wright! C’è Lori che sta preparando la cena e se facciamo tardi ci mette a friggere insieme alle patate. – disse Frank, l’entusiasmo fatto persona.

- Zia sta facendo le patatine fritte?? – disse Ramona quasi commossa. Nonostante avesse un fisico snello e asciutto, era una gran mangiona. Mentre ci avvicinavamo alla BMW di Billie, Frank e Ramona si investivano a vicenda con valanghe di parole, mentre Billie prendeva i nostri bagagli e li sistemava nel cofano e Mike che si metteva al posto di guida.

Io, Frank e Ramona ci sistemammo sui sedili posteriori, mentre Billie saltava sul sedile accanto a Mike. Potevamo partire.

 

 

 

 

- Lori?? Siamo a casa! – annunciò Frank appena ebbe varcato la soglia di quella che un tempo era la nostra casa.

- Va bene! – urlò lei dalla cucina – Ma se non hai portato mia nipote in questa casa, ti metto ad arrostire sullo spiedo.

- Zia Lori!!! – Ramona iniziò a correre verso la cucina il più veloce che poteva, mentre Frank, con la solita galanteria, mi toglieva il cappotto.

- Accomodati – disse pacato, mentre mi aggiravo in quella casa così famigliare eppure così sconosciuta. Avevo perso anche il conto di quanti anni fossero passati dall’ultima volta che ci avevo messo piede. Nel frattempo entrarono anche Mike e Billie, quest’ultimo che trascinava i bagagli di Ramona.

- Hey nano! E le valigie di Lisea?

- Allora, punto numero uno. Non sono un fattorino. Due: Lisea non dorme in albergo? – disse col fiato corto per via delle valigie di Ramona.

- Ah, già – disse Frank con amarezza.

“Ok, basta con l’imbarazzo” pensai e subito mi affrettai a sistemare le cose: - Beh, ci sarà ancora la stanza degli ospiti in questa casa vero? – dissi, mentre il viso di Frank tornava ad illuminarsi. – Almeno Ramona avrà la famiglia al completo la mattina di natale, o no?

- Va bene! Vado a prendere le valigie allora! – disse Frank raggiante, mentre Billie tirava un sospiro di sollievo per non dover trascinare altri pesi e Mike si ritirava in cucina. Stavo per imitarlo, quando sentì picchiettarmi sul fianco.

- Ciao Lis!

- Hey, ciao Frankito! – quel ragazzino era un amore! Aveva solo due anni e le poche volte in cui l’avevo visto, ci avevo fatto amicizia.

- Ramona è qui? – chiese con una voce che somigliava a uno squittio.

- Si, certo tesoro, vai in cucina! – dissi con dolcezza e, mentre si allontanava, sentì qualcuno avvicinarsi dietro di me. Mi voltai e incontrai gli occhi smeraldini di Billie, il quale sembrava il volto della serenità.

- Era da tempo che non vedevo Frank così felice! Davvero! Ha bisogno di qualcuno che gli stia accanto, il divorzio con Claudia l’ha distrutto. Grazie, Lisea! – disse, gli occhi che esprimevano tutta la sincerità delle sue parole. Detto questo, si allontanò ed arrivò al tavolo dove si sarebbe consumata la cena, sedendosi accanto a Mike.

Lori apparve all’improvviso dalla cucina, la chioma bionda liscia e perfetta e le labbra iniettate di rosso. Spalancò il suo sorriso così simile a quello di Frank e venne ad abbracciarmi: - Ciao Lis!

- Ciao Lori, son contenta di vederti!

- Anche io! Scusami ma devo correre, prima che quei due marmocchi si facciano male vicino ai fornelli! – e detto ciò tornò in cucina. Io mi voltai lentamente verso le scale che portavano alle stanze da letto e sentì i passi pesanti di Frank che le saliva. Decisi di raggiungerlo e in breve mi ritrovai di fronte al corridoio del primo piano. Ma invece di entrare nella stanza degli ospiti, l’ultima in fondo al corridoio, fui attratta da quella che un tempo era la mia camera da letto. La porta era socchiusa e mi bastò spingere leggermente per entrare. Era il caos. Vestiti sparsi ovunque, mozziconi di sigarette e parecchie bottiglie di birra vuote, ma la cosa che mi sorprese fu il letto, completamente disfatto e pieno di fogli accartocciati. Solo uno era perfettamente liscio e ricamato dalla scrittura sottile di Frank. Lo presi e incominciai a leggere:

 

[Part 4: Rock and roll girlfriend]
 I got a rock and roll band.
I got a rock and roll life.
I got a rock and roll girlfriend.
And another ex-wife.
I got a rock and roll house.
I got a rock and roll car.
I play the shit out the drums
And I can play the guitar.
I got a kid in New York.
I got a kid in the bay.
I haven't drank or smoked nothin' in over 22 days!

 So get off of my case.

 

Sembrava una delle sue tante canzone demenziali, che a prima vista sembrano senza significato. Invece quelle poche righe erano il breve racconto della sua vita, del suo carattere, dei calci in culo che aveva ricevuto e la forza che aveva ritrovato per rialzarsi e riprendersi.

- Che ci fai qui? – la voce sorpresa di Frank mi fece sobbalzare e il foglio che avevo in mano cadde a terra, proprio vicino ai piedi di lui.

- Ehm … sinceramente non lo so! – avevo le guance in fiamme per l’imbarazzo. Quella non era la mia stanza già da un pezzo, eppure sembrava che quelle pareti in quel momento stessero sussurrando alla mia mente ogni cosa che era successa al loro interno.

- Tranquilla, non me la sono presa. È solo che … mi ha fatto uno strano effetto vederti qui. – disse. Lo guardai negli occhi. Brillavano di nostalgia.

- Non ho dimenticato niente di quello che è successo qui, sai? – dissi con un nodo in gola.

- Nemmeno io! – disse tranquillo e lentamente mi posò una mano sulla guancia. Istintivamente chiusi gli occhi e mi abbandonai a quel tocco, prima di sentire il calore delle sue labbra sulle mie. Fui sorpresa e riaprì gli occhi. Piangeva. Fui io ad interrompere il bacio e mi aggrappai al collo della sua camicia.

- Frank, devi esser forte! Lo sei!

- Non lo so più!

- Si che lo sai!

Non rispose.

- Senti, ti prometto che questo sarà un Natale fantastico, ok? – promisi felice. – Ora siamo amici e io starò accanto a te! E poi … c’è Ramona!

- Si! Lei è tutta la mia vita. Grazie per quello che stai facendo. – disse costringendosi a non piangere. Ci riuscì, sfoderò il suo brillante sorriso e mettendomi un braccio intorno alle spalle mi accompagnò sulle scale. Una volta arrivati a tavola, già imbandita, esordì dicendo: - Ok!!! Apro subito le danze … ma! LOOOOOORI!!! LE BIRRE!!!!

- UN ATTIMO!!! NON SONO LA TUA SERVA!!!

Scoppiammo tutti a ridere, la famiglia finalmente riunita. Guardai il volto felice di Ramona e mi sentì al settimo cielo.

New York poteva aspettare.

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Capitolo 11
*** In the end. ***


In the end.

 

 

 

 

 

13 Febbraio 2005

- Perché vederti arrivare con un’ora di ritardo non mi sorprende?

- Senti chi parla! Nano, ricordati che sei sbrigativo solo perché non ti lavi mai e dei capelli non te ne fotte un cazzo. Hai dimenticato come ci si pettina, Bill? – disse Frank con calma e un sorriso abbagliante.

- Tu invece sei passata a restaurarti, dolcezza? – disse Billie con sarcasmo.

- Oooh si! – disse Frank sbattendo le ciglia velocemente.

- Ragazzi, basta, vi prego! Non è passata nemmeno un’ora e già mi avete sfracassato i coglioni!

- Sei nervoso, Mikey? – parlò ancora Frank con una vocina da perfetta puttanella – Se vuoi ti rilasso io!

Gli tirai un’occhiataccia e lui zittì senza dire altro. Cazzo se ero nervoso. I nervi pungevano nella carne come il freddo di quella serata invernale, così limpida eppure ventosa, di quel vento che taglia la faccia.

- Dai su Mikey, non fare così! È tutto ok!

Riconobbi subito quella parlantina veloce e acuta, mi voltai e incontrai il volto luminoso di Brit. Aveva indossato solo un paio di pantaloni e una giacca, eppure era bellissima, come sempre, i capelli biondi perfettamente lisci, come fili d’oro.

- Si, tutto ok! – risposi io – che sarà mai? Ci andiamo tutti gli anni a ritirare un Grammy, vero ragazzi? – ero ancora nervoso, ma la presenza di Brit sa sollevarmi sempre e comunque.

- No, ma questo potrebbe essere l’inizio di una lunga serie … spero! – disse Billie sognante, lo sguardo perso. Poi all’improvviso scattò con la testa e guardò l’orologio appeso nel suo salotto.

- ADIEEEE, AMOREEE?? SBRIGATI O FACCIAMO TARDI! – Strillava. Era nervoso anche lui, lo conosco troppo bene.

- Arrivo! – rispose lei per quella che doveva essere la quinta volta.

- Vengo a darti una mano Adie? – disse Frank con voce sensuale.

- Fatti una sega piuttosto, Wright! – rispose lei ed era in quei momenti che io capivo davvero che lei e Bill si completavano alla perfezione. Billie ed io scoppiammo a ridere, mentre Brit era impegnata a ricontrollare il trucco.

- Perché siete tutti cattivi con me oggi? –

- Perché stai rimediando da scopare da quando sei arrivato – dissi io.

- Beh, è il modo migliore per scaricare la tensione! Ma tu hai rifiutato, Adie pure, a Brit non oso chiedere … - disse cauto mentre lo scrutavo con attenzione – quindi nano, stasera tocca a te! – disse sorridente.

- Se permetti, il nano è mio! – la voce di Adie era più vicina. Ci voltammo verso le scale e la vedemmo lì, ferma e sorridente, fasciata in un bel vestito nero e corto, con delle bretelle a forma di gilet. Con le labbra increspate da un sorriso mi voltai verso Billie, che aveva spalancato la bocca, mentre il suo viso si era colorato di rosso. Passavano gli anni, eppure la sua reazione alla vista di Adrienne era la medesima.

- Wow! – fu l’unica cosa che seppe dire.

- Sei favolosa Adie! – cinguettò Brit correndo ad abbracciarla.

- Anche tu Brit! – sorrise lei.

- A me nessuno fa i complimenti, viene a darmi un abbraccio, una carezza … niente? – cantilenò Frank.

- Trè, ti supplico, stai zitto! – dissi io esasperato.

- Ma io … - non finì la frase perché Billie, molto delicatamente, si fiondò a tappargli la bocca con la sua.

- Che tu sia benedetto Billie! – dissi io, mentre Adie e Brit ridevano a crepapelle.

- Ora sei apposto! Non voglio sentirti per il resto della serata, chiaro? – Billie si staccò da Frank e lo ammonì con un tono di voce che non ammetteva repliche.

- Okeeey! – sospirò Frank, apparentemente più tranquillo.

- Perfetto, andiamo! – disse Billie con voce distesa, mi fece l’occhiolino e poi andò verso Adrienne, cingendole la vita con un braccio. Io mi diressi a grandi passi verso Brit e, dandole un bacio a fior di labbra, uscimmo da casa Armstrong diretti verso una serata imprevedibile. Verso i Grammy.

 

 

 

 

- ECCO LA 47^ EDIZIONE DEI GRAMMY AWARDS!!! PER VOI I … GREEN DAY!–

Attaccammo con “American Idiot”. La voce di Billie tremava dall’emozione e Frank batteva il tempo con forza. Io ero costretto a mantenere la calma, sia per loro che per me. Sotto di noi si ripeteva la stessa diapositiva: facce sorridenti, altre che piangono, mani che si tendono, sguardi languidi e grida eccitate.

Per noi, solo per noi, da sedici anni a quella parte. Ricordo ancora la prima volta che suonammo con Frank al Gilman. Cazzo, sembrava un’eternità fa! Per non parlare della volta in cui Billie mi annunciò che abbandonava la scuola. Il ricordo mi arricciò le labbra in una specie di sorriso. Non eravamo cambiati di molto. Certo, eravamo più incazzati e paranoici a vent’anni, ma adesso. Adesso? Siamo nei trenta, proprio Bill ne compie trentatré tra quattro giorni. Eppure ai miei occhi è sempre giovane, forse bambino. E Frank? È semplicemente insostituibile e non una ruota di scorta come in molti hanno pensato. No. Siamo una band e prima ancora siamo amici, fratelli, amanti. Tutto. E quella sera non calpestavamo un palco, ma coglievamo l’occasione per dimostrare che noi siamo una cosa sola, la vittoria non era importante. La nostra musica rispecchiava semplicemente il nostro crescere, la nostro voler fare ancora musica significava mantener fede a quella promessa che, silenziosamente, avevamo fatto a noi stessi e ai fan, cioè restare uniti. Sempre.

- We’re not the ones who mean to follow for that’s enough to argue!

Stavamo per finire, Billie ormai urlava davanti al microfono, gli occhi scintillanti d’eccitazione. Ok, è finita. Scendiamo giù e ci fiondiamo nei camerini per indossare di nuovo i nostri abiti da sera, ma io e Frank venimmo fermati nel corridoio da un Billie Joe in delirio.

- Ragazzi, io … ecco …

Io e Frank lo guardavamo con gli occhi sgranati in attesa che completasse la frase.

- Ecco, non so, vabbè … grazie! Davvero! Non ve lo dico mai abbastanza o forse non ve lo dico mai, ma sappiate che senza di voi io non sarei qui e la mia vita sarebbe probabilmente una merda. Io … vi amo, grazie!

Si sciolse in lacrime di commozione. Lui i sentimenti li incastra nelle canzoni, eppure con le parole non ci sa fare fino in fondo. Impacciato, come sempre, come da bambino, faceva il primo passo solo se qualcosa doveva farla il cuore al posto suo. Quando esprimeva i suoi sentimenti lo faceva davvero col cuore tra i denti.

Io e Frank ci scambiammo un breve sguardo di intesa, probabilmente legati dagli stessi pensieri, e senza nemmeno parlare ci fiondammo su Billie stringendolo tra le braccia. Non c’erano i Grammy Awards, le signore potevano aspettare e così anche i nostri vestiti costosi di merda che mettiamo una volta l’anno. Cosa t’importa del mondo e del tempo che passa quando tutto ciò di cui hai bisogno si intreccia contro il tuo petto? Quando senti che tre cuori battono all’unisono, riusciresti a immaginare un concerto migliore? No! Quello era uno spettacolo che accadeva raramente e perderlo era un delitto.

Ci dividemmo dopo qualche minuto, mentre Billie iniziava a ridere senza motivo e ci contagiava in una risata ignorante senza precedenti.

- Credo sia ora di andare. – dissi dopo aver controllato l’orologio. Quindi corremmo verso i camerini, ci cambiammo il più velocemente possibile per poi uscire dieci minuti dopo vestiti da damerini.

- Pronti? – la tensione nella voce di Billie.

- Ovvio Armstrong, che è? Ti stai cagando addosso? – disse Frank con una mezza risata.

- Se è per questo, ti stai cagando anche tu! – risposi io con sarcasmo, mentre lui mi guardava con uno sguardo del tipo “Ti pare che Trè Cool si caghi sotto?”.

- Andiamo dai! – Bill era la tensione fatta persona, iniziò a camminare frettolosamente mentre io e Frank lo seguivamo a ruota. Io non ero da meno. Ero talmente teso che sentivo il cuore saltellarmi nello stomaco. Finalmente raggiungemmo la platea e quindi i nostri posti dove Adie e Brit ci aspettavano con ansia.

- Ce l’avete fatta! – esclamò Brit, contenta del nostro arrivo.

- Credevi ti avrei abbandonata qui? – dissi io, improvvisamente calmo.

- Oh, è probabile! – disse lei con un sorriso disteso, mentre le stampavo un bacio delicato sulle labbra. Mi voltai stranamente sereno verso il palco proprio mentre Penelope Cruz sfilava in completo bianco verso il microfono e annunciava le nomination per il Miglior Album Rock. Cazzo, addio serenità! Noi eravamo in nomination, ma insieme con noi c’erano quei figli di puttana dei Killers che in quel periodo andavano forti. Mentre riprendevo fiato, sul maxi schermo sfilavano i nomi dei candidati.

The Delivery Man – Elvis Costello & The Imposters”

Elvis porca troia, come avremmo fatto a vincere? Era stato un viaggio a vuoto, lo sapevo!

“American Idiot – Green Day”

Tuffo al cuore, mentre il pubblico urlava in risposta al nostro nome. Doveva venirmi proprio in quel momento un infarto? Istintivamente mi voltai verso Billie alla mia destra e, mentre stringeva la mano di Adie seduta accanto a me, incontrai i suoi occhi verdi. Un nanosecondo. Avrei potuto morire. Non avevo visto Billie, avevo visto solo la felicità e la speranza dentro le sue iridi.

“ The Reason – Hoobastank”

Alla mia sinistra, Frank, seduto di fianco a Brit, aveva gli occhi spalancati e i denti stretti mentre fissava lo schermo con l’affanno.

“Hot Fuss - The Killers”

I miei battiti acceleravano in maniera assurda. Tra poco avremmo saputo il vincitore.

“Contraband – Velvet Revolver”

Ecco i nomi. Vedevo Penelope muoversi a rallentatore mentre pronunciava la frase: “And the Grammy goes to …”. Aprì la busta e, senza aspettare un secondo di più, disse: “Green Day!”.

Gettai la testa indietro. Era fatta. Non potevo crederci davvero! Era tutto fin troppo perfetto quella sera. Comandato e trascinato dalle mie gambe, mi alzai dalla sedia e feci per andare verso Billie, ma quest’ultimo stava già festeggiando baciando Adie. Improvvisamente mi accorsi che la mia mano sinistra ne stringeva un’altra. Brit. Sorrideva raggiante.

- Congratulazioni amore! – disse, mentre mi stampava un bacio sulla guancia. Ero completamente intontito, mi muovevo come in un sogno, il sorriso stampato sulle labbra. Abbracciai Rob, Trè, diedi un bacio sulla guancia a Adie. Mentre seguivo Billie verso il palco, due mani afferrarono le mie e mi ritrovai faccia a faccia con Stevie Tyler che si complimentava con me. Lo ricambiai con un sorriso per poi saltare sul palco, raggiungendo Billie, Penelope, Mark McGrath e Williams Pharrell.

Billie si avvicinò con mani tremanti a Pharrell che gli porgeva il premio, lo prese saldamente e lo alzò al pubblico annuendo in segno di vittoria, mentre Frank salutava gli altri tre. Billie mi farfugliò qualcosa e poi prese a parlare al microfono.

- Oh, mio Dio. Bene, ci sono davvero tante persone da ringraziare e spero ricordarle tutte! Ehm, Rob Cavallo per aver prodotto l’album insieme a noi! Ti ringraziamo! E’ da molto tempo che sei insieme a noi e ti amiamo per questo. Poi … Pat Magnarella, tutte le persone della Reprise ehm… - disse guardandomi e dandomi un colpetto sul braccio – Mike Dirnt!

- Beh, voglio ringraziare tutti coloro che hanno lavorato con noi! – cazzo, stavo blaterando -  Tutti i fans, tutti quelli delle radio che continuano a mandare musica rock’n roll ehm…-

Oh cazzo, cazzo, cazzo.

- EBPM – Billie suggeriva alle mie spalle.

Cazzo, vero, la East Bay Punk Mafia!

- I componenti della EBPM e tutti coloro che hanno lavorato per tutto il tempo al 880 Studios ehm … -

Lei non poteva mancare.

- E il mio amore, Estelle. Ti amo, Estelle!

Fu la volta di Frank.

- Ramona, Frankito, Billie, Mike. Tutti i fans. Grazie!

Sintetico come sempre, complimenti Frank. Billie tornò a parlare.

- Adrienne, Joey e Jakob, grazie davvero! Ehm…

Ecco che spara qualche cazzata. Quando riflette ne dice sempre una!

- Ehm, sapete, il rock’n roll può essere divertente e pericoloso allo stesso tempo! Grazie mille!

Beh, ero d’accordo. Si era salvato in calcio d’angolo.

 

 

 

 

Uscimmo fuori dal Staples Center di Los Angeles, stretti nei nostri cappotti. Si tornava a casa.

- Ehm, scusate? –

Una voce femminile ci chiamò alle nostre spalle.

- Si? – disse Billie con voce stanca.

Ci voltammo e incontrammo, sull’uscio dell’edificio, una donna sulla trentina, i capelli rossi raccolti in una coda e un paio di occhiali troppo grandi per il suo visino minuto.

- Ehm … ecco, sono una giornalista, vorrei solo farvi due domande! – disse timidamente, mentre tremava dal freddo … o dall’emozione?

- Va bene, ma in fretta, la prego! – disse Billie supplicando.

- D’accordo! Ok, come ci si sente a vincere un Grammy?

Cazzo, originalità da vendere, eh? Era tutta una perdita di tempo e mentre Frank blaterava cose sul sesso, soldi e droga, io iniziai a sbuffare fissando il cielo.

- Ma, scusi, non prende appunti? – la voce di Adie mi riportò alla realtà.

- Oh, ecco, ho dimenticato il mio Moleskine in macchina, ma ho una buona memoria. A proposito, signor Armstrong. Lei ha buona memoria?

- Che razza di domande sono? Vuole farci perdere tempo? – dissi io irritato.

- Calmo Mike, non c’è bisogno di agitarsi. – mi disse Brit stringendomi un braccio.

- Beh, diciamo che non ricordo quante volte vado a pisciare, ma le cose importanti le ricordo, perché? – disse Bill sarcastico. Lui si stava divertendo come un matto. Beato lui.

- Perché volevo chiederle se ricorda cosa accadde il 16 febbraio del 1980. – disse lei, accesa da una strana gioia. Ma che cazzo stava succedendo? Cosa sapeva quella lì? Il giorno a cui si riferiva era quello in cui Bill aveva lasciato la scuola e in cui avemmo la nostra …

- … prima volta che ebbi il coraggio di prendere per mano la mia vita e mandare a cagare la scuola! Ma cosa cazzo c’entra? – si stava irritando e mi lanciò un’occhiata di supplica.

- Se le dicessi, signor Armstrong, che la differenza tra lei e me è che lei ha un sogno, qualcosa in cui credere, da coltivare giorno per giorno e che io, invece, mi faccio riempire il cervello di merda, lei cosa mi risponderebbe?

Sentivo quelle parole nel mio cervello come una eco. I ricordi si rincorrevano nella mia mente, eppure ricordavo quelle parole sulla bocca di Bill e di nessun altro. Lui, intanto, aveva arricciato la fronte, probabilmente investito anche lui dalla memoria. Poi, improvvisamente, si illuminò, il sorriso di chi rivede se stesso da piccolo.

- Frances? – disse con un filo di voce, mentre Adie lo guardava interrogativo.

- Si, Bill, sono io! – disse la rossa, col sorriso sulle labbra.

- Oh, porca puttana, da dove salti fuori, secchiona?? – disse Bill andandole incontro e abbracciando la sua vecchia compagna di classe. Io tornai a guardare Adie, mi avvicinai e le accennai un “compagna di scuola”. Lei rilassò i nervi e si avvicinò anche lei a Frances e Bill che chiacchieravano a ruota.

- Ehm, piacere, io sono Adie.

- E chi non ti riconoscerebbe? – rispose Frances sorridente e stringendole una mano.

- Vedi tesoro? Lei è quella che mi ha salvato da un coglione che tentava di insegnare storia e mi ha aperto gli occhi sul mondo e su me stesso!

- Addirittura! … ciao Mike! – disse, rivolgendosi a me.

- Ciao Frances, ricordo ancora quel giorno sai? Il nostro amico aveva iniziato a farsi seghe mentali e mi son dovuto impegnare parecchio per consolarlo.

Bill mi gettò un’occhiataccia per poi mettersi a ridere. Quel ricordo era intenso per entrambi.

- Beh? Qui non si fanno presentazioni? – urlò Frank, spingendo via Billie e prendendo la mano destra di Frances, ci schioccò un bacio sopra dicendo: - Enchante!

Frances rise, facendo scivolare via la mano destra, sostituendola con quella sinistra dove scintillava una fede.

- Oh cazzo! – disse Frank ridendo – Beh, fortunato lui!

Si, Frances era davvero una bella donna, totalmente diversa dalla ragazzina brutta e impacciata del liceo. Mi allontanai dal gruppo pensando, fin quando una mano non mi ridestò. Brit.

- Tesoro, io chiamo un taxi e vado in albergo. Sto crollando. Ti raggiungo domani a Berkeley, ok?

- Va bene amore! A domani – la baciai a lungo, prima che lei se ne andasse via lasciandomi da solo con i miei pensieri ingarbugliati. Tornai alla realtà dopo molti minuti, quando sentì la voce di Frances che annunciava la propria partenza verso casa. Mi avvicinai giusto in tempo per salutarla e vederla andar via.

- Dov’è Brittney, Mike? – chiese Adie.

- In albergo, cadeva giù dal sonno. Mi raggiungerà domani.

- Oh capisco. Beh, allora vado a farle compagnia. Per voi tre c’è una notte di festeggiamenti che vi aspetta! Ora è meglio che io vada! – e così dicendo fece l’occhiolino a Billie e schioccandogli un bacio a stampo. Ci salutò e si allontanò velocemente dirigendosi verso la strada. Billie rimase imbambolato a guardarla per qualche secondo, poi tornò a guardare me e Frank.

- Cazzo, che serata! – disse.

- Fottutamente bella! – esclamò Frank.

- Fottutamente stancante! – aggiunsi io.

Durante la serata avevo tentato di capire cosa cazzo mi aveva reso teso come una corda di violino, eppure dopo la vittoria non ero riuscito a controllarmi o a trovare una risposta. Senza un motivo ben preciso, guardai l’orologio che avevo al polso.

02.01

Era passato un altro giorno.

Momento, ma quel giorno era San Valentino. Cazzo, non avevo nemmeno pensato a un regalo per Brit. Facevo schifo.

- Beh, andiamo a festeggiare? – disse Frank con una luce particolare negli occhi, come un’insegna luminosa con su scritto “Adesso ci si ubriaca”.

- Si, andiamo. Anche perché dobbiamo tirare il morale al nostro bassista. – disse Bill sarcastico.

- Ma sto bene!

- Vai a raccontarle a qualcun altro le puttanate, Dirnt!

Tacqui. Non potevo fare altro.

- Va bene, aspettatemi qui voi due! Io vado a recuperare l’auto.

- Okeeey – rispondemmo in coro io e Bill.

- Che hai?

- Niente.

- Forza parla!

- Solo un po’ di stanchezza e scoraggiamento perché oggi andrò a zonzo per San Francisco per rimediare un cazzo di regalo per Brit. E’ già San Valentino.

- Oh … è vero! Cazzo, nemmeno io ho niente per Adie …

- Ma non farmi ridere nano, dove le metti le montagne di canzoni scritte per lei?

- E chi lo dice che siano tutte per lei?

Mi guardava con uno di quei sguardi accesi di passione e timidezza al tempo stesso. Distolsi lo sguardo, fissandomi le punte delle scarpe accennando un sorriso. Nel frattempo sentii uno scatto, alzai lo sguardo e una nuvola di fumo mi incipriò il volto.

- Che fai? Non offri? – dissi io, strappando la sigaretta dalle labbra carnose di Bill e portandola alle mie sottili e lunghe. Feci un tiro, poi lui si avvicinò e sostituì la sigaretta con le sue labbra, calde nonostante il freddo polare. Era un bacio casto, di quelli teneri. Alla fine, mi cinse con le sue braccia e appoggiò il mento sulla mia spalla sinistra.

- I don't wanna go back home, I don't wanna kiss goodnight! Let us paralyze this moment til it dies! – sussurrò le parole di “Cigarettes and Valentines” nel mio orecchio, mentre alle mie spalle si avvicinava un’auto.

- HEEEEY PICCIONCINI. GUARDATE CHE FUORI FA FREDDO E COMUNQUE IN TRE CI SI SCALDA DI PIU’, SAPETE?? – urlò Frank dopo aver abbassato il finestrino.

Io e Bill ci staccammo ridendo e raggiungemmo l’auto sollevati e sereni. Appena fummo dentro, Frank ci rivolse un sorriso a tremila denti e, prima di mettere a moto, disse: - Pronti?

- Cazzo, si! – rispondemmo in coro io e Billie.

E così partimmo, verso quella serata che prometteva sbronze e qualche pazzia. O, chissà, magari qualche canzone improvvisata o qualche gesto di troppo nasceranno nella penombra di quest’auto che viaggia veloce sotto la guida di Frank.

Sotto i miei pensieri che hanno la voce di Billie, o forse è proprio la sua voce che, dal sedile posteriore o in qualche angolo nascosto continua a cantare …

So come away with me tonight with cigarettes and Valentines! Cigarettes and Valentines!

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