Interceding Is Often Hαrd di dalialio (/viewuser.php?uid=139398)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Epilogo ***
Capitolo 13: *** Extra ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
Interceding Is Often Hard
Interceding
is often hard
The Naval Criminal Investigative Service
|
I
personaggi presenti nella storia sono tutti di proprietà di
Donald P. Bellisario (tranne il nuovo personaggio che ho creato io e
che è di mia esclusiva proprietà); questa storia non
è stata scritta con alcuno scopo di lucro.
Salve a tutti! Questa è la prima storia che scrivo
sull'NCIS (che è decisamente la mia serie TV preferita!!). Vi
preannuncio che in questa storia non ci saranno delle indagini su un
caso o cose del genere: questa ff parla solo dei personaggi della
serie, soffermandosi di più su qualcuno di loro.
La storia è ambientata in un momento indefinito della serie; in
futuro, se si faranno riferimenti a degli episodi specifici questi
verranno riportati in una nota.
Questo capitolo è un esperimento; ne ho già
preparati degli altri, che eventualmente pubblicherò in futuro
se la storia stuzzica la vostra curiosità ;) quindi fatemi
sapere se la ff è valida per avere un seguito!
A chi volesse avventurarsi nel leggere questo capitolo auguro buona lettura!! :)
Lo stolto cerca la felicità lontano; il saggio la coltiva sotto i propri
piedi.
James Oppenheim
Capitolo 1
In cui una canzone molesta porta ad
una presentazione rivelatrice
Bastò che
riferissi il mio nome e le mie generalità alla reception
dell’edificio con i muri esterni arancioni per permettermi
l’accesso ai piani superiori. Fu più facile di quanto
avessi immaginato.
Dopo essere stata sottoposta a
un accurato controllo – con tanto di perquisizione, metaldetector
e rovistamento nella borsa – la guardia armata mi permise di
salire in ascensore. M’informai velocemente riguardo a quale
piano dovessi andare e, dopo aver premuto il pulsante corrispondente,
le porte fredde e metalliche si chiusero di fronte a me con un suono
dolce e l’ascensore iniziò il suo viaggio.
La sala sulla quale si
aprirono le porte era davvero grande, con il soffitto alto due piani.
Uomini e donne vestiti elegantemente camminavano veloci su e giù
attraverso i corridoi formati dalle scrivanie, ordinatamente separate
con divisori di metallo. Quasi tutto – separatori, muri, moquette
– era arancione, e ciò che non era di quel colore
risaltava agli occhi con il grigio metallizzato. Soprattutto la scala
sulla destra della stanza e la ringhiera del piano superiore, che
circondava l’intero perimetro della sala e si affacciava sul mare
di lavoratori seduti al proprio tavolo. La lunga parete alla mia
sinistra era tappezzata da foto di facce in bianco e nero, incorniciate
in riquadri grigi. Alcune di loro erano barrate di rosso. Era alquanto
inquietante.
Mi avvicinai alla prima
persona che riuscii a fermare e le domandai le informazioni che mi
servivano. La donna m’indicò un punto al di là di
un divisorio. La ringraziai e mi diressi verso il luogo che mi aveva
mostrato.
Superato il pannello di metallo, tuttavia, non trovai quello – o meglio chi
– stavo cercando. Ciononostante, sapevo chi fossero l’uomo
e la donna che erano seduti alle rispettive scrivanie, anche se questi
non avevano nemmeno l’idea di chi fossi io.
L’inconveniente, comunque, non era un aspetto negativo. Al contrario, avrebbe fatto aumentare l’effetto sorpresa.
Mi avvicinai cautamente alla
scrivania della donna. “Mi scusi?”, iniziai. Poi, quando
quella alzò lo sguardo, continuai: “È questo
l’ufficio dell’agente Gibbs?”.
La donna si accigliò, guardandomi dalla testa ai piedi. Potevo indovinare cosa stesse pensando. Cose del tipo: cosa ci fa un’adolescente qui dentro? E perché chiede di Gibbs?
Nonostante tutto, la donna dai lunghi capelli mori mi rispose cortesemente: “Sì. Chi lo cerca?”.
Non risposi alla sua domanda,
ma mi limitai a porgliene un’altra. “È quella la sua
scrivania?”, le chiesi, additando il tavolo ben in vista accanto
a quello dove si trovava l’altro uomo, che non potevo vedere
poiché alle mie spalle.
Lei si accigliò ancora
di più e scosse leggermente la testa. “Ehm... no”,
disse insicura. “Ma non vedo come questo...”.
Non le lasciai finire la
frase. Mi diressi verso la scrivania nascosta da un divisorio di
metallo, accanto al tavolo della donna, individuandola – andando
per esclusione – come quella che stavo cercando. Ci posai la mia
borsa con forse troppo vigore e mi accomodai sulla sedia imbottita
piegando lo schienale all’indietro.
Trovai il mio iPod nella tasca
dei jeans e m’infilai le cuffie, tanto per ascoltare della musica
nell’attesa. Mi misi a canticchiare a bocca chiusa.
Intenta
a cercare nel lettore mp3 la canzone che dalla mattina continuava a
risuonarmi in testa senza voler smettere – così da cercare
di mettere fine alla mia agonia ascoltandola ancora e ancora fino a
farmi stufare –, non mi accorsi che l’uomo seduto alla
scrivania di fronte, che fino a quel momento non avevo badato
minimamente, si era avvicinato a me con espressione sospettosa.
“Mi dispiace
disturbarti, ragazzina”, iniziò quello sarcasticamente,
costringendomi a togliermi le cuffie e ad alzare gli occhi verso di
lui, “ma mi piacerebbe sapere chi sei e perché cerchi
l’agente Gibbs”. Piegò la testa da un lato.
“Tanto più, non sei autorizzata a spaparanzarti sulla sua
sedia e ad abusare dei suoi spazi in questo modo”. Si
chinò leggermente in avanti per farsi più vicino.
“Si arrabbierebbe molto se sapesse che una ragazzina qualunque
sta toccando le sue cose”.
Non riuscii a trattenere una risata. “Ah, non credo che questo accadrà”, esclamai euforica.
L’uomo appoggiò
le mani sul tavolo e si allungò verso di me, imitando la mia
risatina. “Come fai a dirlo, ragazzina?”.
Se mi avesse chiamata di nuovo ragazzina, gli avrei dato uno scappellotto sulla nuca.
Raddrizzai la schiena,
raggiungendo l’uomo, poi abbassai lo sguardo e finsi una risatina
divertita. “Lei non sa chi sono io...”. Alzai gli occhi per
guardare la reazione del tizio. “...agente speciale Anthony
DiNozzo”, conclusi.
Quale soddisfazione vedere la
sua espressione sconcertata! Meglio di uno scappellotto. I suoi occhi
si spalancarono e la sua smorfia da sfottente sparì in un
secondo.
La voce che volevo sentire interruppe la risposta che l'uomo di fronte a me aveva intenzione di darmi.
“DiNozzo!”, urlò da qualche punto dietro di lui.
Tony si drizzò in un istante. “Sì capo!”, esclamò.
La voce si fece più
vicina. Ora era alle sue spalle. “Perché stai toccando la
mia scrivania?”, gli domandò con tono minaccioso.
DiNozzo tolse le mani dal
tavolo, fissando, con la stessa espressione scombussolata, un punto
indefinito di fronte a lui. “Niente, capo”, rispose, poi si
voltò verso la voce con il palese tentativo di nascondermi dagli
occhi grigio ghiaccio che lo stavano fissando.
L’uomo cui appartenevano la voce e gli occhi si spostò di lato e fu a quel punto che mi vide.
Gli sorrisi, contenta di
vederlo, e alzai le spalle con aria innocente. “Io gliel’ho
detto che andava bene se stavo qua, Jethro, ma il tuo agente non mi ha
dato retta”, mi giustificai, usando un tono dispregiativo quando
arrivai a dire ‘agente’.
Tony assunse la stessa
espressione sconcertata di prima. “La conosci?”, chiese a
Gibbs, mentre indicava velocemente ora me ora lui agitando furiosamente
il dito.
Jethro mi fissò con
sguardo di rimprovero, aggrottando le folte sopracciglia. “Non ti
sei presentata?”, mi accusò.
A quel punto, mi alzai
lentamente in piedi, feci il giro della scrivania e mi piazzai di
fronte a Tony. Allungai una mano verso di lui e alzai il mento,
assumendo un’espressione provocatoria come quella che lui aveva
usato con me. “Piacere, Amy Steel”, mi presentai quando
quello, dubitante, afferrò la mia mano. La sua espressione
confusa era uno spasso. Ovviamente il mio nome non poteva suggerirgli
nulla.
“Piacere”, mormorò, senza cambiare espressione.
“È mia nipote”, spiegò Jethro.
Tony sciolse la presa dalla
mia mano e fissò prima me e poi Jethro con aria confusa.
L’unico suono che gli uscì dalla bocca sembrò un
urlo a bassa voce che conferì una nota inquietante alla
situazione.
*Nota dell'autrice*
Rieccomi qua alla fine del capitolo! :)
Questo capitolo è
partito come un'idea strampalata, ma poi, con un po' di buona
volontà, sono riuscita a trasformarlo in qualcosa di - almeno
credo... :) - leggibile.
Sarei davvero felice se mi lasciaste un commentino per sapere le vostre
impressioni, se pensate che possa essere un valido inizio per una long
:)
A tutti gli appassionati dell'NCIS mando un bacione! :*
A presto!
Chiara
P.S: per tutti i fan Tiva: se la storia continuerà non sarete
delusi! Ho in mente qualche ideuzza... ma per ora non svelo altro! :)
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Interceding Is Often Hard- Cap 2
La storia non è ambientata in un momento definito della serie. Tutti i riferimenti ai vari episodi devono ritenersi utili solo per il proseguimento della storia stessa.
Eccomi qua con il secondo capitolo :) premetto che questa è la
mia prima long (o forse mini-long... dipenderà tutto da come si
evolverà la storia ^^), quindi questo è il primo secondo
capitolo di una storia che pubblico (discorso contorto ma spero abbiate
capito!) e sono molto emozionata... *arrossisce come una scolaretta e
si guarda i piedi imbarazzata*
In questo capitolo la storia prosegue e il rapporto della protagonista con Tony si evolve...
Non dico altro e vi lascio leggere! :)
Capitolo 2
Il caffe’ e le espressioni di un certo agente
diventano gli elementi fondamentali del mio divertimento
“Allora,
come stai?”, mi chiese lo zio, porgendomi un caffelatte con panna
e doppio zucchero in un bicchiere di cartone. Ci trovavamo in una
stanza al piano superiore che poteva avere le dimensioni un ufficio, ma
che somigliava più a una piccola sala riunioni, con un tavolo
grigio scuro al centro della stanza e una decina di sedie nere attorno.
Le pareti erano dipinte di quell’arancione che ormai era per me
diventato tipico degli uffici dell’NCIS, i Servizi Investigativi
della Marina.
Era lì che lavorava
Leroy Jethro Gibbs, come capo della sua squadra composta di tre persone
sul campo, in aggiunta alla perita forense ed esperta di computer
Abigail Sciuto e all’anatomopatologo Donald Mallard.
“Bene”,
risposi automaticamente mentre afferravo il bicchiere. Bevetti un sorso
di caffè bollente e lo sentii scendere giù per la gola
fino a scaldarmi lo stomaco. Che piacevole sensazione.
“Non sarai mica
venuta qui da sola”, esclamò Jethro, sollevando un
sopracciglio con espressione di rimprovero e sedendosi a capotavola
alla mia destra.
“Sì”,
dissi inconsciamente, poi mi corressi: “Cioè, no. Sono a
Washington con i miei genitori, ma loro sono qua per affari, quindi
saranno molto impegnati in questi giorni. Non mi hanno accompagnata qui
oggi”.
Dopo aver risposto ad
alcune domande riguardo sua sorella – la mia nonna paterna
– e il resto della famiglia, replicando sempre positivamente,
passò a chiedere riguardo la scuola, come erano andati gli esami
di maturità e se avevo intenzione di iscrivermi al college.
“Già fatto”, risposi euforica. “Giurisprudenza. Ho una paura folle!”, gli confidai.
Dopo avermi rassicurata
sul fatto che la mia decisione era stata, secondo lui, la più
giusta, visto la mia predilezione per la materia giuridica, le sue
domande si esaurirono e fu la mia volta di fargliene.
“E tu, invece, come
stai?”, gli domandai dopo aver bevuto un sorso di caffè.
Piegai la testa da un lato. “L’ultima volta che ti ho
parlato eri su una spiaggia deserta del Messico a costruire barche di
legno*”.
Jethro si lasciò
andare ad una risata divertita. “Beh... le cose sono cambiate
molto da allora”. Annuì più volte, con la testa
altrove. “Si è rimesso tutto a posto”.
Annuii anch’io.
“Ottimo”, commentai, sollevata. Ero contenta che lo zio si
fosse ripreso dal suo momento di crisi interiore, quando aveva lasciato
il suo lavoro per trasferirsi in Messico assieme al suo ex-capo.
Tuttavia, non ebbi il
coraggio di chiedergli altre informazioni al riguardo: sapevo che
quello era per lui ancora un argomento delicato.
Finiti i caffè e le
chiacchiere, uscimmo dalla stanza e scendemmo al piano inferiore usando
le scale sul retro invece delle principali, dalle quali eravamo saliti
in precedenza.
Girato subito
l’angolo e ritrovatici nell’ufficio di Gibbs, mi imbattei
nella schiena di DiNozzo, qualche metro più avanti a me.
Jethro mi afferrò
per un braccio e mi tirò indietro, portando l’indice alle
labbra per farmi segno di stare in silenzio. Decifrai il suo sguardo
divertito e trattenni una risata.
Con la sua stazza, DiNozzo
copriva per metà la donna - la stessa che avevo conosciuto prima
– e un altro uomo - che capii subito chi fosse, andando per
esclusione – che gli stavano di fronte.
“Non riesco a capire
come quella ragazzina possa permettersi di comportarsi così
sfacciatamente”, si stava lamentando DiNozzo. “Potrebbe
pure essere la nipote del Presidente, ma io non le permetterò di
trattarmi in quel modo”.
Lo sguardo della donna
incontrò il mio e si accorse di me e Jethro. Sbatté le
palpebre imbarazzata, poi guardò DiNozzo. “Tony...”,
mormorò all’uomo di fronte a lei.
“Non interrompermi,
Ziva! Stavo esprimendo il mio disappunto sulla questione”,
esclamò quello. Poi continuò: “E poi non riesco a
capire come faccia a essere così simile a Gibbs anche senza
portare il suo cognome. Mi chiedo quale parentela ci sia fra
loro...”.
In quel momento, Jethro mi diede una pacca sulla spalla e con la mano fece un gesto verso il gruppo. Ero pronta.
“Non è molto
complicato, agente DiNozzo”, dissi di punto in bianco,
incrociando le braccia. “Ci potrebbe anche arrivare da solo,
facendo un paio di tentativi”.
Colto alla sprovvista,
Anthony si immobilizzò di colpo, trasalendo. Vidi Ziva e
l’altro uomo guardare verso di me e trattenere una risata.
DiNozzo si voltò
lentamente. Un sorriso di imbarazzo era stampato sulle sue labbra, le
stesse che quel giorno mi avevano chiamata “ragazzina” per
ben quattro volte. Gliel’avrei fatta pagare, in un modo o
nell’altro.
Il suo sorriso imbarazzato si allargò allo stesso modo in cui io stesi le labbra con espressione di superiorità.
“Stavo giusto pensando a delle possibilità”, si giustificò, mantenendo la sua espressione.
“E cos’ha scoperto fin’ora?”, domandai petulante.
DiNozzo fissò
Jethro con un’espressione da rimbecillito. “Che tu non hai
fratelli, capo, quindi non so come spiegare la cosa”.
“È la mia pronipote, DiNozzo”, rispose lui, con un tono come se la cosa fosse nota a tutti.
Anthony spalancò
gli occhi, palesemente confuso, mentre il suo sorriso svanì
lentamente. “Allora non riesco a capire...”.
“Sua sorella
è la mia nonna paterna”, spiegai in tono fintamente
seccato, indicando Jethro con una mano. Adoravo prendere in giro
quell’uomo a quel modo.
Lasciando DiNozzo perso nei suoi confusi pensieri, lo aggirai e mi diressi verso gli altri due agenti.
“Ziva,
Timothy”, li salutai, guardando prima la donna poi l’uomo.
Ignorai le loro espressioni sorprese e diedi loro la mano. “Mi
chiamo Amy Steel”, mi presentai. Poi mi voltai verso DiNozzo,
lanciandogli un’occhiata eloquente. “Ma forse lo sapevate
già”.
Ziva mi fissò con sguardo pieno di ammirazione. “È davvero un piacere conoscerti”, affermò.
“Anche per me lo è”, risposi, sorridendo compiaciuta. “Finalmente vi posso conoscere!”.
McGee sollevò le sue folte sopracciglia. “Finalmente?”, chiese.
Annuii. “Jethro mi ha parlato molto di voi”, spiegai.
“Davvero?”, esclamò DiNozzo alle mie spalle.
Prima che potessi
ribattere con una constatazione pungente, Jethro intervenne.
“Portatela a salutare Abby e Ducky”, propose. “Credo
che ne sarebbero felici”.
Tony fece per aprire bocca, ma lo zio lo interruppe. “Tutti e tre”, precisò, fulminandolo con lo sguardo.
L’espressione di DiNozzo era indescrivibile. Se non mi fossi trattenuta, probabilmente sarei scoppiata a ridere.
Jethro andò via con la scusa di avere delle faccende importanti da sbrigare, poi rimasi sola con i tre moschettieri.
McGee fu subito di fianco
a me. “Vieni”, disse, e lo seguii. Lo stesso fecero gli
altri due. Il silenzio regnò diligente fino all’ascensore.
La tensione era palpabile.
Ad un tratto scoppiai. “Potete chiedermi quello che volete”, chiarii, divertita per il loro comportamento.
Le loro voci si
accavallarono l’una sulle altre per mezzo minuto, curiose,
arrabbiate e incredule. Non riuscivo a capire nulla. Alzai le mani di
fronte a loro e le agitai per attirare la loro attenzione.
“Calma, calma!”, urlai per farmi sentire. “Uno alla
volta”.
Per prima scelsi Ziva, che, mentre entravamo in ascensore, mi chiese come Jethro l’avesse descritta a me.
“Si fida molto di
te”, risposi. “Davvero molto”. Scorsi la sua
espressione compiaciuta quando sentì le mie parole. “Ti
considera probabilmente la più maschia del gruppo”,
continuai, con disappunto dei due uomini accanto a me. “Mi ha
raccontato qualche aneddoto sulla tua guida e su altri tuoi
comportamenti avventati... ma, nonostante questo, Gibbs crede che tu ci
sappia veramente fare”.
Poi fu il turno di McGee, che mi pose la stessa domanda.
“Jethro mi dice
sempre che se non ci fossi tu, probabilmente il computer lo
mangerebbe!”, esclamai, provocando una risata in Tim e Ziva.
“No, sul serio”, continuai, finito il momento di
ilarità. “Dice che sei capace di quello che lui non
riuscirebbe a fare neanche se volesse. Per lui sei prezioso”.
McGee arrossì e in
quel momento le porte si aprirono. Fui la prima a uscire, ma, appena
messo piede fuori, DiNozzo mi fermò.
“Ti sei dimenticata di me”, disse, con il suo solito falso sorriso.
“Ah,
sì...”, mormorai, fingendo che fosse così.
“Cosa vuole sapere?”, chiesi, mantenendo volutamente la
formalità per prenderlo in giro.
“Cosa Gibbs ti ha detto di me”.
Annuii più volte,
fingendomi sovrappensiero. “Mi ha detto che spesso ti comporti da
buffone e che ricevi molti scappellotti”, risposi, e, vedendo la
sua espressione esterrefatta, mi girai dall’altra parte e risi
sotto i baffi.
La porta del laboratorio
di Abigail Shuto era spalancata e, da dove mi trovavo io, si poteva
sentire la musica metal-rock a pieno volume. Entrare lì sarebbe
stato un inferno per i miei timpani.
Nonostante questo
dettaglio, Ziva e McGee entrarono nella stanza senza problemi. Io feci
lo stesso, seguita, a distanza un po’ troppo ravvicinata da Tony,
che – come potevo vedere guardando dietro di me con la coda
dell’occhio – era davvero arrabbiato.
Il laboratorio in cui mi
ritrovai era composto da vari macchinari bianchi che non avevo mai
visto in vita mia, da due tavoli posti a distanza al centro della
stanza, sopra uno dei quali erano presenti due computer, e da una fila
di quelli che somigliavano a dei frigoriferi da supermercato sul muro a
destra. Le pareti erano pitturate di indaco e una porta a vetri, posta
sulla parete opposta a quella dalla quale ero entrata, dava su
un’altra stanza.
Poiché lì
non si vedeva nessuno, Ziva si diresse verso la porta a vetri, che si
aprì automaticamente al suo passaggio. Appena il vetro si
scostò, la musica aumentò di volume in modo allucinante.
Avanzando cautamente di
qualche passo, scorsi due codini neri muoversi saltellando da dietro
una scrivania posta appena dietro l’angolo. La musica si
abbassò leggermente: probabilmente Ziva aveva fatto notare il
volume troppo alto dello stereo.
Mi decisi ad attraversare la stanza, seguita da Timothy e da Anthony come due cagnolini.
“Ascolti ancora quella roba, Abby?”, esclamai teatralmente inorridita appena oltrepassai la porta.
Non feci tempo a finire la
frase che la scienziata spalancò gli occhi e, resasi conto di
chi fossi, saltò in piedi e, dopo aver girato attorno alla
scrivania, mi balzò letteralmente addosso, buttandomi le braccia
al collo.
“L’agente
superspeciale Amy! Non ci posso credere!”, urlò, ancora
più forte della musica. Si scostò da me di qualche
centimetro. “Fatti vedere!”, squittì, afferrandomi
per le spalle e guardandomi dalla testa ai piedi.
Abby era acconciata
proprio come mi aspettavo. Anche se ormai trentenne, apparentemente non
aveva ancora detto addio al look da classica adolescente dark.
Indossava una corta gonna a balze bianca e nera, un paio di stivaloni
lunghi fino al ginocchio neri, una maglia punk nera e un collare nero
borchiato. I suoi capelli neri erano raccolti in due codini alti e la
fitta frangia le copriva interamente la fronte. Le unghie erano
smaltate di nero e le labbra coperte da un rossetto nero.
Nonostante il suo aspetto
cupo, il suo carattere era davvero l’opposto. Abby era sempre
solare e felice e le piaceva scherzare con le persone.
“Oddio quanto sei cresciuta!”, esclamò, ancora sotto shock. “Quanti anni hai?”.
“Diciotto”, risposi sorridente.
Abby parve illuminarsi. “Che grande!”.
DiNozzo, che si era
sistemato vicino alla porta scorrevole, sembrò sul punto di
svenire. “Vi... vi... voi due vi conoscete?”,
balbettò. Ancora una volta, la sua espressione – occhi
spalancati, bocca tremante – era a dir poco spassosa.
Abby lo fissò come
se avesse parlato un’altra lingua. “Certo che conosco la
piccola Gibbs!”, esclamò, spalancando la bocca con uno
schiocco eloquente.
In quel momento i miei
occhi si posarono su un gruppo di immensi bicchieroni di plastica rossi
che invadevano la scrivania alle sue spalle. “Abby, cosa sono
tutti quelli?”, le chiesi curiosa, indicando l’ammasso di
plastica e ignorando la reazione di Tony.
“Ah, sono lì da ieri”, rispose lei sovrappensiero.
“Sì, ma... cosa sono?”, continuai, volendone sapere di più.
Lei spalancò gli
occhi. “Non sai cos’è il CafPow?”,
domandò alzando la voce di un’ottava.
Avevo paura a risponderle. “Ehm... No”, ammisi.
Si voltò verso la
scrivania e afferrò uno di quegli immensi bicchieroni con
coperchio e cannuccia. “Assaggia”, disse porgendomelo, un
sorriso malizioso che le illuminava il volto.
Afferrai l’oggetto e lo guardai con sospetto. Poi mi decisi e succhiai dalla cannuccia.
Il gusto del caffè
inondò la mia bocca e scese giù per la gola fino allo
stomaco. L’odore intenso della bibita invase i miei polmoni e mi
penetrò fino al cervello, inebriandomi. Rischiavo quasi una
convulsione.
Ma quello fu decisamente il caffè migliore che avessi mai bevuto in tutta la mia vita.
___________________________________
Note di fine capitolo:
*: nell'episodio 3x24 Gibbs va in pensione e si ritira in Messico con
Mike, il suo ex-capo di quando ancora Jethro lavorava all'NIS e che lo
chiama ancora "pivello". Nel periodo in cui Gibbs è lontano
è Tony, in qualità di agente più anziano, a
prendere il suo posto come capo della squadra.
*Nota dell'autrice*
Rieccomi a fine capitolo :)
Spero che la scena dell'incontro con Abby sia stato di vostro
gradimento :) mentre scrivevo l'inizio del capitolo ho pensato:
"Perché Abby non potrebbe già conoscere la nipote di
Gibbs?" e così ho iniziato a immaginare le reazioni di Tony,
Ziva e McGee e non ho avuto il coraggio di modificare la storia in
qualche modo.
Se anche questo capitolo vi è piaciuto fatemelo sapere con un commento.
Se, invece, non è stato di vostro gradimento, fatemelo sapere lo stesso :)
Ci vediamo con il prossimo capitolo! :)
Chiara
|
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Interceding Is Often Hard- Cap 3
Voilà il terzo
capitolo della storia :) mi scuso già per la mia incostanza nel
pubblicare i capitoli, ma scrivo un po' lentamente ^^ quindi non vi
allarmate se tra uno e l'altro passa tanto tempo... vi assicuro che la
storia andrà avanti fino alla fine!! :) dovete avere soltanto un
po' di pazienza :)
Ora vi lascio leggere :) ci vediamo sotto!
Capitolo 3
In cui mi rendo conto del mio comportamento sgradevole e cerco di porvi rimedio
Io
e Abby ci conoscevamo da quando, parecchi anni prima, Jethro aveva
invitato me e la mia famiglia più lei, Ducky e il suo assistente
a una Festa del Ringraziamento a casa sua. Da quel momento, Abby era
rimasta stregata da me e non mancava mai l’occasione di
scambiarci e-mail per sparlare dei suoi colleghi. Più che da mio
zio, il numero maggiore di informazioni sulla sua squadra lo dovevo ai
pettegolezzi di Abby.
Evitando le domande
curiose di DiNozzo riguardo alla conoscenza mia e di Abby e rispondendo
a quelle di Timothy e Ziva con un “vi spiegherò più
tardi”, montammo in ascensore per scendere al piano meno uno per
andare da Ducky.
A quel punto la
stizza di DiNozzo nei miei confronti era palese. La tensione che
irradiava il suo corpo teso era palpabile. Un po’ mi dispiaceva
per come l’avevo trattato. Ma solo un po’.
“Sarà
meglio che tu non esca dall’ascensore”, suggerì Ziva
quando le porte si aprirono una volta giunti a destinazione.
“Siamo in sala autopsie”, spiegò sottovoce, come se
qualcuno fuori dell’ascensore non dovesse sentire.
Convenuto da tutti
che sarebbe stato meglio per me non addentrarmi nel corridoio per non
incappare in qualche brutta sorpresa, fui costretta ad aspettare in
ascensore con DiNozzo mentre gli altri due andavano a chiamare il
dottore.
Tony si
piazzò davanti alle porte per evitare che si chiudessero e
continuò a spostare lo sguardo da una parte all’altra per
evitare di guardarmi, palesemente imbarazzato.
“Niente
battute pungenti?”, chiese con tono provocatorio dopo parecchi
secondi di silenzio teso. Parlò guardando di fronte a sé:
era evidente che cercasse di non guardarmi.
Aprii bocca per rispondergli qualcosa – qualsiasi cosa -, ma in quel momento l’ascensore si affollò.
“Oh mio Dio, Miss Gibbs!”, esclamò Ducky appena si accorse di me.
“Ducky, lo sai che non voglio essere chiamata così”, dissi con un sorriso.
“Sì,
è vero”, rispose lui, prendendomi le mani. “Ma il
fatto è, bambina mia, che vi somigliate talmente tanto”.
Ducky era proprio
come lo ricordavo, non era cambiato minimamente. I radi capelli castano
scuro erano ordinatamente divisi da una riga su un lato e i suoi grandi
occhi nocciola erano incorniciati da un paio di occhiali quadrati dalla
montatura sottile. Ostentava le sue origini scozzesi indossando una
giacca di feltro dalla trama marrone e beige e un papillon rosso legato
al colletto della camicia azzurro scuro. Con il mio metro e settanta
superavo di gran lunga la sua statura.
Improvvisamente
DiNozzo, ancora attaccato alla porta dell’ascensore,
sembrò esplodere. “Vi conoscete?”, sbottò in
tono quasi rabbioso.
“Certo che lo
conosco”, risposi calma. Mi voltai verso l’altro uomo che
era entrato assieme a Ducky. “E conosco anche Jimmy”, dissi.
Il signor Palmer,
come lo chiamava sempre Ducky, era un ragazzo che non arrivava alla
trentina. Aveva l’aria del classico studente secchione senza una
vita sociale, ma con Jimmy le apparenze ingannavano. Nonostante gli
spessi occhiali tondi e i capelli disordinati, non era noioso come
l’aspetto poteva suggerire, ma divertente e spigliato.
Il ragazzo mi salutò agitando la mano e sorridendo apertamente.
Con un gesto un
po’ troppo confidenziale, Ziva mi afferrò per un braccio e
mi attirò a sé, avvicinandosi per parlarmi
all’orecchio. “Abby posso anche capirla”,
sussurrò in tono quasi rabbioso. “Ma questo, devi proprio spiegarcelo”.
***
La mia testa ormai
turbinava all’impazzata a causa delle troppe rotazioni che avevo
compiuto sulla sedia d’ufficio alla scrivania accanto a quella di
Jethro. Lo zio mi aveva permesso di occupare quel posto, che sarebbe
altrimenti rimasto vuoto, a condizione che me rimanessi lì buona
senza disturbare. La cosa non mi era stata detta proprio esplicitamente;
perspicace com’ero quando si trattava di Leroy Jethro Gibbs,
l’avevo capito dall’occhiata che mi aveva lanciato di
sbieco e dalla sua frase: “La tua presenza qui, purtroppo, non
può impedirci di fare il nostro lavoro”.
Un secondo significato c’era.
Nel bel mezzo di un
giro della sedia, puntai violentemente i piedi a terra per fermarmi e
mi ritrovai a fissare DiNozzo alla sua scrivania. Purtroppo, mi trovavo
troppo distante per cercare di decifrare la sua espressione.
Dopo vari tentativi
– tutti falliti - di cercare di intravedere meglio la sua faccia,
mi decisi ad alzarmi dalla sedia. La mia risolutezza era dovuta al
senso di colpa che provavo ogni volta che pensavo a come lo avevo
trattato appena usciti dall’ascensore per andare da Abby. Ero
stata davvero crudele.
Ora volevo porre rimedio.
Avvicinandomi alla
sua scrivania – e riuscendo finalmente a vederlo distintamente in
viso – mi accorsi dello sguardo diffidente che mi lanciò
con la coda dell’occhio.
Percependo gli
sguardi di tutti gli altri pungere dietro la mia schiena quasi
volessero perforarla – e cercando di ignorarli – mi
posizionai comodamente di fianco a DiNozzo, quasi sedendomi
sull’angolo di scrivania libero, dando le spalle a Ziva.
Anthony William
DiNozzo era davvero un bell’uomo. Quasi quarantenne, il naso
dritto e la mascella quadrata gli davano un non so che di affascinante.
Quando si mascherava con un’espressione seria poteva forse
incutere timore, ma, se lo si conosceva meglio, si potevano trovare
divertenti i suoi modi spigliati e faceva sempre piacere ricevere un
suo sorriso.
Nonostante tutto, ero abbastanza agitata.
Respirai profondamente. “Agente DiNozzo?”.
“Tony”, mi corresse lui, senza distogliere lo sguardo dallo schermo del computer.
“Anthony”, decisi infine, non volendogli dare alcuna soddisfazione.
Lui non si mosse di un millimetro.
“Volevo scusarmi”, dissi a voce abbastanza bassa così che Ziva non mi sentisse.
Tony si voltò
finalmente verso di me, guardandomi con espressione stizzita. “E
di cosa, di grazia?”, chiese teatralmente, mantenendo il mio
stesso tono di voce.
“Per come mi sono comportata prima”.
Alzò le sopracciglia. “E a quale occasione ti riferisci?”.
“A quando mi hai chiesto cosa pensasse Gibbs di te”.
Accennò a una risatina nervosa. “E tutte le altre frecciatine pungenti?”.
Risi anch’io
con fare provocatorio. Pian piano il nervosismo si stava sciogliendo.
“Quelle non erano niente”, risposi. “Mi stavo solo
riscaldando”.
“Certo, per il
colpo finale”. Si accigliò e inspirò dai denti
stretti, fingendo un’espressione di dolore. “Quello
sì che ha fatto male davvero”.
Incrociai le
braccia, con espressione seccata. “Allora, vuoi sapere cosa mi ha
detto veramente su di te, sì o no?”.
Con un gesto della mano mi fece segno di procedere.
Parlai guardandomi
le mani. “Ha detto che sai fare bene il tuo lavoro e che sei uno
dei migliori agenti con cui abbia mai lavorato. Ha detto che fai spesso
il buffone, ma che nei momenti giusti sai anche dimostrarti serio e
professionale. Ha detto che sei un bravo leader, come hai dimostrato in
passato”. Quando Jethro si era «ritirato» in Messico,
Tony, in qualità di agente più anziano, aveva occupato il
suo posto come capo della squadra. “E ha detto anche”,
continuai, alzando la testa per guardarlo, “che vorrebbe darti
più scappellotti di quelli che in realtà ricevi”.
DiNozzo
ascoltò attentamente tutto il mio discorso senza fiatare. Quando
gli rivelai l’ultima considerazione, la sua reazione fu quella di
spalancare gli occhi e corrugare la fronte in un’espressione
quasi comica.
Dopo che si riebbe,
fu in grado di pronunciare una frase di senso compiuto. “Stai
scherzando”, affermò, dubbioso.
“No, è
la verità”. Non capivo se si riferisse all’ultima
cosa che avevo detto oppure ai complimenti. Comunque, la mia risposta
era valida per entrambi i casi.
Tony annuì una volta, poco convinto.
“DiNozzo”,
chiamò Gibbs in tono duro. Quando quello si voltò verso
di lui, Jethro continuò. “Rimettiti al lavoro”.
“Subito, capo”, rispose, afferrando il mouse del computer.
“È
colpa mia, zio”, confessai, alzandomi dalla scrivania e
voltandomi verso di lui. Con la coda dell’occhio, notai che Ziva
mi guardava storto.
“Lascialo lavorare in pace”, mi sgridò Jethro, guardandomi di sbieco. “Vai giù a giocare con Abby. Sono convinto che ne sarebbe felice”.
Mi voltai verso
DiNozzo e alzai le spalle con fare colpevole. “Devo
andare”, dissi. Voltai lo sguardo verso Ziva per verificare se
avevo ragione riguardo all’occhiataccia che mi aveva lanciato, ma
la donna stava fissando lo schermo del computer. Forse con troppo
interesse.
Recuperai la mia borsa dalla sedia che avevo usato come una giostra e me ne andai silenziosamente.
*Nota dell'autrice*
Dunque, credo che questo sia il capitolo dove la storia inizia ad
ingranare... :) cioè, fate caso alle occhiatacce di Ziva :)
tenetevi a mente questo particolare perché sarà utile per
il futuro! Non rivelo altro :)
Una cosa da precisare: non so se il secondo nome di Tony sia William,
in realtà non so nemmeno se ne abbia uno. So solo che Anthony
William DiNozzo mi suonava bene :)
Ringrazio kiriri93, Maia in Wonderland, _Clarita_ e zavarix per i
loro commenti e tutti quelli che seguono la mia storia! :) mi spronate
ad andare avanti a scrivere, quindi graziegraziegrazie! :)
A presto! :)
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
Interceding Is Often Hard- Cap 4
Capitolo 4
In cui comprendo che il lavoro in ufficio a tarda ora puo’ giocare dei brutti scherzi
“Com’è
andata oggi dallo zio?”, chiese la mamma quella sera a tavola. La
casetta che avevamo affittato aveva una grande sala da pranzo, decorata
con quadri ai muri e tende di cotone verdi. Certo quello non era lo
stile di casa nostra, ma per qualche giorno sarebbe andato più
che bene.
“Benissimo”,
risposi entusiasta. “Ho conosciuto tutti i suoi colleghi. Sono
simpatici”. Misi in bocca un pezzo di bistecca e masticai.
“Sono stata praticamente sempre con Abby”, dissi a bocca
piena. “Ve la ricordate?”.
“Sì che
ce la ricordiamo”, rispose il papà. “Era quella tipa
strana che c’era al Ringraziamento di qualche anno fa”.
“Papà”,
lo rimproverai, dopo aver ingurgitato metà bicchiere
d’acqua per mandare giù il boccone. “Abby non
è strana. Lei è fatta così”.
“E che mi dici degli altri?”, continuò la mamma.
“Sono proprio
come li immaginavo”, confessai. “Forse anche meglio”.
Soprattutto una certa persona, che riuscivo a deridere fin troppo
facilmente.
“Beh, sono contenta che ti sia divertita”, disse. “Domani tornerai di nuovo?”.
Mi aprii in un sorriso a trentadue denti. “Assolutamente sì”.
***
“Com’è
Gibbs veramente?”, domandò Tony con un tono che palesava
la sua maniacale curiosità.
Eravamo tutti in
laboratorio di Abby. Io, lei e Ziva eravamo sedute sul pavimento
grigio, mentre i due uomini – stranamente più schizzinosi
– si erano accomodati sulle sedie del laboratorio.
“In che senso
‘veramente’?”, domandai, mentre mi abbracciavo le
gambe e dondolavo su e giù come una bambina. “Lui è
così”.
“Oh,
andiamo!”, sbottò DiNozzo. “Non può essere
davvero... così come lo conosciamo noi!”.
Corrugai la fronte e lo guardai meglio. “Credi che reciti, per caso?”.
“Quando è qua sì”, rispose lui. “Ne sono convinto”.
Ziva sbuffò
violentemente. “Lascia perdere DiNozzo”, mi suggerì.
“Credo che volesse chiederti se con te si comporta come con
noi”.
“No, certo che
no”, risposi con un tono che intendeva quanto ovvio fosse
ciò che avevo detto. “Lui mi vuole bene”. Mi voltai
verso Abigail. “E ne vuole anche ad Abby”.
Non facendo caso più di tanto alle reazioni dei presenti, mi concentrai sulla domanda di McGee.
“Come fa a far uscire dalla cantina le barche che costruisce?”, domandò morbosamente.
Jethro era
appassionato di barche. Che io sapessi, ne aveva già costruita
una di legno e ne aveva iniziata una seconda. Il mistero era come
riuscisse, una volta ultimate, a farle uscire dalla cantina chiusa e
interrata dove le costruiva.
“Posso ammettere di non averne la più pallida idea!”, risposi ridendo.
“Ma davvero fuori dal lavoro si comporta come qua?”, continuò DiNozzo, riprendendo il discorso di prima.
Alzai gli occhi al
cielo. Quell’uomo non mollava proprio mai. Ora capivo
perché Jethro non riusciva a sopportarlo in alcuni momenti.
“Sì, è proprio così. Forse in famiglia
è un po’ meno severo, ma posso assicurarti che lui
è così!”.
“Ah”, fu tutto quello che riuscì a rispondere.
Sembrava che le rivelazioni sul conto di Gibbs riuscissero a scuotere l’intera squadra.
***
Fu quel
mercoledì, durante il terzo giorno della mia permanenza
all’NCIS, che scoprii qual’era il segreto dell’agente
Timothy McGee.
Per due giorni non
se n’era minimamente parlato, poi, all’improvviso, tra i
membri della squadra non si faceva altro che parlare
dell’abilità di Tim come scrittore di romanzi.
Come Abby mi
spiegò pazientemente, la settimana prima lei, Anthony, Ziva,
Ducky, Palmer e addirittura Jethro avevano scoperto che McGee, con lo
pseudonimo di Tom E. Gemcity, che non era altro che l’anagramma
del suo nome e cognome, aveva scritto – e addirittura pubblicato
– un romanzo. Tutto ciò non avrebbe dato vita a questo
grande scompiglio se non fosse stato per il fatto che i personaggi da
lui creati non erano del tutto inventati...
Come McGee aveva
alla fine confessato, per ideare i personaggi della storia aveva preso
liberamente spunto dai suoi colleghi. Forse anche un po’ troppo
liberamente.
Sia per nome che per
personalità, era semplice poter identificare il personaggio del
logorroico Tommy in DiNozzo. L’intrepida agente del Mossad Lisa
non era altro che Ziva. Pimmy Jalmer, aiutante del coroner, era la
trasposizione letteraria di Palmer. Addirittura Jethro era presente
all’interno della storia, nei panni del severo capo della squadra
J. Dipps.
Tutto ciò mi
fece ridere e destò la mia curiosità. Inaspettatamente,
mi sorpresi impaziente che DiNozzo finisse di leggere il libro per
avere la possibilità di farlo io stessa.
“O-oh”,
rise DiNozzo, seduto alla sua scrivania con il libro di Timothy in
mano. “E bravo McGee! Ha davvero azzeccato il tuo personaggio,
Ziva”, commentò, appoggiando i gomiti sul tavolo e tenendo
il libro davanti la faccia così che per me era difficoltoso
scorgere il suo viso dalla scrivania di Jethro. Era sera e le luci
soffuse proiettavano in giro delle strane ombre nere e arancioni, che
facevano svuotare gli uffici – anche quello di Jethro – e
facevano impigrire qualsiasi sguardo sveglio. Anche il mio.
“Davvero?”,
fece Ziva dalla sua postazione, alzando la testa dal foglio su cui
aveva scritto alacremente fino a quel momento.
“Perché?”, chiese freddamente, ma io riuscii
comunque a scorgere nel suo tono di voce un filo di morbosa
curiosità.
“Beh”,
iniziò Tony, “il desiderio di Lisa nei confronti di Tommy
è espresso apertamente e corrisponde alla realtà”.
Iniziò a leggere un passo del racconto molto esplicito,
incurante della mia presenza a qualche metro di distanza da lui.
Così
concentrato com’era a leggere, Tony non si accorse che Ziva si
era alzata dalla sua sedia e, senza far rumore, si era piazzata dietro
di lui. Quando lui alzò lo sguardo di fronte a sé e non
la vide, corrugò la fronte e assunse un’espressione di
disappunto che provocò una risata da parte mia.
Ad un tratto Ziva,
con un movimento rapido e secco, si avvicinò da dietro a Tony,
spostando la sedia in modo da schiacciarlo contro il tavolo, e gli
piantò un ginocchio sul fianco. L’improvvisa espressione
di dolore di DiNozzo mi fece quasi star male, ma poi scoppiò in
una risatina nervosa e tenni per me le mie ansie.
“Sai Tony,
McGee ha ragione”, disse Ziva al suo orecchio con voce suadente.
“Mi serve tutta la buona volontà per... resistere al
desiderio che provo”.
DiNozzo
spalancò gli occhi a quella affermazione, ma continuò a
guardare di fronte a sé, palesemente a disagio. “Il-il
desiderio?”, balbettò.
“Già”, continuò Ziva. “Non sai quante volte avrei voluto... lasciarmi andare”.
Tony esplose di
nuovo in una risatina imbarazzata. “E con ‘lasciarti
andare’ intendi...?”, domandò.
“Abbandonarmi
ai sensi”, rispose Ziva avvicinandosi ancora di più al suo
orecchio. “Cedere al desiderio”.
DiNozzo
avvampò e spalancò ancora di più gli occhi. Temevo
che da un momento all’altro gli sarebbe uscito del fumo dalle
orecchie.
“Quindi, quella volta che siamo stati sotto copertura insieme...*”, fece Tony.
“C’ero
andata molto vicino, la prima notte”, confessò Ziva.
“Però credo che mio padre non avrebbe approvato”.
“Ah no?”, disse Tony, che sembrava essere rinsavito. “È perché non sono ebreo?”.
“No, non
è per questo motivo”, rispose lei. Poi, improvvisamente,
spostò ancora più avanti la sedia, schiacciando DiNozzo
contro la scrivania tanto da farlo rimanere senza fiato.
“È che a lui non piace quando... massacro le
persone”, disse a denti stretti, fingendo un tono duro. Poi si
mise a sogghignare.
“Ah-ah-ah”,
rise fintamente Tony. Si voltò di scatto verso Ziva.
“Comunque non ti ho creduta neanche per un secondo”, disse,
cercando di assumere un’espressione indifferente. Ma io avevo
visto la sua faccia durante la conversazione e avevo intuito la
verità.
“Certo, ti
credo”, rispose Ziva ridendo. Mentre tornava al suo posto, si
voltò verso di me e mi lanciò un’occhiata
accompagnata da uno strano sorrisino. La sua espressione sembrava
quasi... vittoriosa. In quel momento, ebbi l’impressione che la
scenetta che aveva messo in piedi le fosse servita a marcare il
territorio. Mi limitai a guardarla mentre tornava a sedersi al suo
posto.
Dopo qualche minuto
di silenzio, resami conto che non c’era nessuno in ufficio a
parte noi tre, mi assalì l’intenso desiderio di andare a
Abby.
Mi alzai dalla sedia
recuperando la mia borsa dal pavimento, poi mi diressi in silenzio
verso l’ascensore posteriore, lasciando Ziva e Tony immersi tra
le ombre arancioni e nere.
__________________________
Nota di fine capitolo:
*: La situazione cui
fa riferimento Tony quando parla della “copertura” è
nell’episodio 3x8, quando Tony e Ziva si fingono dei killer
professionisti e fingono di andare a letto insieme.
*Nota dell’autrice*
Chiedo umilmente perdono per questo capitolo... *si
inginocchia per terra e si prostra ai lettori* Se state pensando che la
scena tra Tony e Ziva vi sia familiare è perché lo
è. La scena Tiva è realmente accaduta: ha avuto luogo
nell’episodio 4x10. In quella puntata e nella 4x9 si parla del
libro di McGee, che viene letto dai suoi compagni di squadra e che,
nell’ultimo episodio citato, provoca una brutta avventura alla
povera Abby (ovvero un fan psicopatico del libro di McGee vuole
ucciderla).
Ho fatto mia la scena Tiva perché mi serviva per
mandare avanti la storia: mentre pensavo a come farla evolvere mi sono
ricordata dell’episodio in cui aveva avuto luogo la scena. Senza
rendermene conto ho iniziato a scrivere e poi non sono più
riuscita a modificare il capitolo :( I dialoghi, comunque, li ho
modificati un po’ e, diversamente dalla puntata della serie,
è presente la nostra eroina Amy ;) Nella mia storia, comunque,
la disavventura di Abby non ha avuto luogo (perché non incide
nel proseguimento).
Spero non vi siate arrabbiati per questo capitolo e spero
che, nonostante questo incidente di percorso, continuiate a seguire la
mia storia. Vi prometto che nei prossimi capitoli non succederà
più una cosa del genere! Non mi ispirerò più a
puntate della serie, lo giuro! :) :)
Rompo le scatole ancora ricordando a tutti che la mia storia
non si inserisce in un preciso punto della linea temporale della serie,
poiché la scena Tiva avviene nell’episodio 4x10 quando
come direttore c’è ancora Jenny Shepherd, mentre in questa
ff, come si potrà capire da qualche capitolo futuro, il
direttore è Vance.
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
Interceding Is Often Hard- Cap 5
Capitolo 5
In cui subisco un colpo dritto allo stomaco
Una voce a me sconosciuta mi fece scattare sulla sedia.
“Gibbs?”.
Il tono era talmente
autoritario che, sebbene l’ammonizione non fosse rivolta a me,
non riuscii ad evitare di chiudere di scatto il libro che stavo
leggendo – perdendo il segno, tra l’altro -, sedermi
compostamente sulla poltroncina girevole della scrivania e alzare lo
sguardo verso il punto da cui era provenuto il monito.
Un uomo di colore
vestito di scuro – che non riuscivo a vedere in viso molto
chiaramente a causa della luce del sole mattutino che filtrava dalla
finestra alle sue spalle e che mi stava quasi accecando – batteva
il dito sulla scrivania di Jethro, come se volesse attirare la sua
attenzione, e mi fissava insistentemente. Guardandolo, sfoderai un
sorriso imbarazzato.
“Sì, Leon?”, domandò Jethro senza sollevare lo sguardo dai fascicoli che stava sfogliando.
L’uomo, che sembrava tenesse in bocca qualcosa – era forse uno stuzzicadenti? - continuava a fissarmi.
Mi decisi a parlare. “Salve”, dissi, alzando una mano in segno di saluto.
Jethro, sentendo la
mia voce, parve capire quale fosse il problema perché
alzò lo sguardo e fissò prima me, poi l’uomo.
“Oh”,
esclamò. “Certo, scusami”, gli disse. Si
voltò verso di me e lo indicò con la testa.
“Presentati”.
Mi alzai in piedi,
leggermente intimorita dal nuovo arrivato, che si avvicinò alla
mia scrivania. Gli tesi la mano, che lui afferrò prontamente,
mentre lo stuzzicadenti che teneva in bocca si spostava di qua e di
là di continuo.
“Amy Steel”, mi presentai.
“Leon Vance”, fece lui. “Sono il direttore dell’agenzia”.
Restai di sasso. “Ah”, riuscii a rispondere, sciogliendo la stretta. “Wow”.
L’uomo continuava a fissarmi.
“Sono la nipote di Gibbs”, spiegai. Certo era quello che lui voleva sapere, no? Che diavolo ci facessi lì...
Il direttore
spalancò gli occhi. “Gibbs!”, esclamò,
guardandolo. “Non sapevo avessi una nipote”. Poi
tornò a me. “Sei giovane. Quanti anni hai?”.
“Diciotto”, risposi.
Lui annuì. “Sei qui in visita?”.
“Sì, signore”, risposi formalmente.
“Da quanto tempo sei qui?”.
“Da lunedì”, risposi.
Il direttore
reagì come prima. “Gibbs!”, esclamò ancora.
“Perché non me l’hai presentata prima?”.
Jethro sollevò le spalle. “Eri sempre impegnato, Leon. Non volevo disturbarti”.
“Certo se l’avessi saputo, sicuramente avrei trovato dieci minuti di tempo per conoscerla”, rispose Vance.
“Allora, il
prossimo parente che mi verrà a fare visita te lo
presenterò appena metterà piede
nell’edificio”, rispose Jethro in tono sarcastico,
aggiudicandosi una mia risata e un’occhiataccia da parte del
direttore.
***
Ero nascosta nella
stanza dietro il laboratorio di Abby assieme alla scienziata e stavamo
tracannando CafPow, quando la voce di Ziva, proveniente
dall’altra stanza, mi fece smettere di succhiare rumorosamente
dalla cannuccia.
“Insomma, non
è ammissibile una situazione del genere!”, stava gridando.
“Quella ragazza riceve troppe attenzioni!”.
Sentendo quella
frase, mi voltai automaticamente verso Abby per vedere la sua reazione.
Era seduta alla sua scrivania con addosso un paio di enormi cuffie e
stava ascoltando la musica a tutto volume. Si muoveva sulla sedia
agitando le braccia e saltellando sul posto, facendo roteare i suoi
codini neri. Non si accorgeva per nulla di ciò che accadeva
nell’altra stanza.
Ziva continuava a
inveire contro qualcuno, probabilmente McGee, che era sceso qualche
minuto prima in laboratorio per delle ricerche.
“Tony aveva
ragione”, esclamò Ziva, “quando all’inizio si
lamentava del suo comportamento... neanche fosse la nipote del
Presidente aveva detto!”.
Quella citazione mi
fece subito capire a chi si stesse riferendo Ziva. Tony aveva usato
quelle parole il giorno un cui ero arrivata lì, accusandomi di
credermi chissà chi per tenere un comportamento – a suo
dire - così sfrontato.
Ziva stava offendendo me.
“Ma poi il
signorino ha cambiato idea!”, continuò. “Quella
ragazza è riuscita ad ammaliarlo o chissà cosa... non
riesco a immaginare cosa lo attiri in lei!”.
“Ziva...”.
La voce di McGee arrivò debole alle mie orecchie. Sicuramente
stava cercando di interrompere i vaneggi della collega, visto che lui
sapeva che io mi trovavo nell’altra stanza e potevo sentire
tutto. Ma il suo tentativo non sembrò andare a buon fine
perché Ziva continuò con il suo discorso delirante.
“E poi,
insomma! Dobbiamo sempre tenerla d’occhio, controllare tutto
ciò che fa... Gibbs cosa crede, che siamo i suoi babysitter?
Quella ragazza ha diciotto anni, che diavolo! Non ne ha cinque! Io alla
sua età sapevo già praticare tre arti marziali e uccidere
un uomo con un coltello!”.
Il farneticare di
Ziva parve terminare perché non sentii più la sua voce
per parecchi secondi. Poi udii il soffio della porta a vetri che si
apriva e McGee entrò nella stanza.
La mia espressione era affranta.
Insomma, sapevo che
Ziva non aveva un carattere dei migliori, ma la scenata cui avevo
assistito mi aveva comunque sorpresa. Non avevo mai immaginato che lei
provasse tanto astio nei miei confronti. E per cosa poi? Perché
avevo ammaliato Tony?
Ma ne era davvero sicura?
Certo, mi divertivo
a prendere in giro l’agente DiNozzo e a osservare le sue
reazioni. Ma non avevo visto nulla nei miei confronti da parte di Tony
che non fosse una leggera antipatia e un pizzico di avversione a causa
del mio comportamento. Comunque non agivo così con lui per
cattiveria... immaginavo che lui lo sapesse.
Ero dispiaciuta del
fatto che Ziva vedesse le cose in un altro modo, che il mio fosse un
tentativo di affascinare Tony. Cosa ci avrei guadagnato da un
comportamento del genere?
E poi, insomma!
Avevo diciotto anni! Io che adescavo un uomo vent’anni più
vecchio di me? Non era credibile. Quella non era mai stata la mia
intenzione.
Forse Ziva mi vedeva
come un ostacolo? Per cosa poi? Voleva essere lei ad ammaliare Tony? Ci
sarebbe riuscita certamente, se avesse voluto! Era una donna adulta e
attraente, aveva molte più potenzialità di me.
Allora perché non ci provava con lui?
“Mi dispiace”, mormorò Tim.
Scossi la testa e sorrisi forzatamente. “Non ti preoccupare. Non è colpa tua”.
Abby si accorse
della presenza di McGee alla porta e si tolse le cuffie. “Che
succede?”, domandò, inconsapevole di quello che era
accaduto.
“Niente,
Abby”, risposi. “Anzi, mi faresti un favore? Potresti
accendere le casse dello stereo? Vorrei ascoltare anch’io della
musica a palla. È l’unico modo che mi viene in mente ora
per evitare di pensare ad altro”.
*Nota dell'autrice*
Uff... ce l'ho fatta a
pubblicarlo, finalmente!! :) Questo è decisamente il capitolo in
cui si capiscono molte cose... durante la prima stesura della storia
questo capitolo non esisteva, ma poi, rileggendo indietro, mi sono
accorta che mancava uno spaccato in cui la protagonista capiva quello
che Ziva pensava... quindi ho deciso di inserirlo qua perché
è importante per il proseguimento della storia :)
Spero che anche questo capitolo sia stato di vostro
gradimento (nonostante la figura che Amy ha fatto all'inizio
davanti a Vance e la sfuriata di Ziva... (: ). Mi rendo conto
della brevità del capitolo, in effetti è il più
corto di tutta la storia :) ma spero di essere stata comunque
esauriente.
Per chi fosse curioso... :)
La storia l'ho praticamente finita di scrivere, manca
soltanto il finale. Credo che saranno in tutto 12 o 13 capitoli, ma -
anche se è quasi finita - continuerò a pubblicare solo
una volta alla settimana (ormai la domenica è diventato il
giorno di aggiornamento di questa storia (: ) per avere il tempo
di finire gli ultimi 2 capitoli. Non voletemene, ma, tra la scuola e il
resto, non so quanto tempo avrò per scrivere :)
Ringrazio tutti quelli che seguono la mia storia! :)
Alla prossima settimana! :)
Chiara
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Capitolo 6 *** Capitolo 6 ***
Interceding Is Often Hard- Cap 6
Capitolo 6
Due inviti inaspettati
Le
voci che giravano riguardo un certo “ballo”, che si sarebbe
tenuto il sabato di quella settimana, giunsero alle mie orecchie il
giovedì. Da quanto avevo capito, veniva festeggiato un qualche
anniversario dei marines in un locale molto elegante ed erano invitate
tutte le persone che lavoravano nell’agenzia più qualche
ufficiale importante.
La conferma formale
dell’evento, che mi provò la presenza effettiva di questo
misterioso ballo, mi venne data da Jethro, che mi chiese,
inaspettatamente, di essere la sua dama.
“Ti sei
abbassato a questi livelli, zio?”, dissi ridendo. “Davvero
non c’è nessuna donna qui in ufficio che vorresti
invitare?”.
Jethro rispose
alzando le spalle con aria innocente. “Sono tutte troppo giovani
per me. Io mi trovo ormai in età pensionabile. Sono vecchio,
sai”.
L’espressione
che assunse quando pronunciò queste parole era talmente comica
che scoppiai a ridere. “Ma dai!”, esclamai, dandogli una
pacca sul braccio in modo amichevole. “Non avere
un’opinione così bassa di te. Sei ancora un uomo
attraente”, dissi sorridendo.
“E poi”,
continuò lui, “ho voglia di andarci con te. Nulla me lo
vieta”. Mi strizzò l’occhio con atteggiamento
complice. “Posso presentarti tanti bei giovani marines”.
Scorsi il leggero
velo di serietà nei suoi occhi dietro tutta
l’ilarità, quindi, dopo aver chiarito che non volevo mi
presentasse nessuno, risposi affermativamente alla sua richiesta.
Anche se non ero mai
stata a un evento del genere, non avevo la minima idea di come vestirmi
e non sapevo che persone ci sarebbero state, ero davvero eccitata
all’idea di parteciparvi.
***
“Con chi
andrai al ballo, McGee?”, domandò Ziva. Eravamo seduti
tutti assieme – io, Jethro, Ziva, McGee e DiNozzo - a un bancone
della tavola calda più vicina agli uffici e stavamo trangugiando
chi toast, chi hot-dog e chi hamburger.
Timothy piegò
la testa da un lato e sollevò le sue folte sopracciglia.
“Ci andrò con Abby”, disse in tono casuale.
Si levarono esclamazioni e mugugni – quelli di DiNozzo, che aveva la bocca piena – di approvazione.
“E bravo
pivello!”, esclamò in seguito, piazzandogli una potente
pacca sul braccio. Poi si accorse dell’occhiataccia di Jethro e
si ricompose come un bambino che viene sorpreso a combinare un malanno.
“È
stata lei a invitarmi, in realtà”, spiegò Timothy.
Raddrizzò le spalle con fare superiore. “E io ho
accettato”.
“Hai fatto
bene, McGee”, approvò Ziva, annuendo. Poi si voltò
verso DiNozzo. “E tu Tony, con chi ci andrai?”, gli chiese,
sorridendo in modo provocatorio.
“Tzè!”,
esclamò stizzito, sollevando le spalle. “Ci sono un sacco
di ragazze che vorrebbero farmi da dama a quel ballo”.
Ziva lo fissò
con la stessa espressione di prima. “Vuol dire che non
l’hai ancora chiesto a nessuna”, concretò lei.
“Hai forse paura? Oppure nessuna ti vuole?”.
DiNozzo non si
scoraggiò davanti a quell’affronto. “Come ho
detto”, rispose, “le ragazze che mi vogliono sono tante e
per me è difficile sceglierne una”.
Sembrava una
conversazione tenuta da cinque adolescenti del liceo che dovevano
scegliere il vestito per il ballo di fine anno. Gli adulti si erano per
caso messi a fare gli stessi discorsi di quando erano giovani? Erano
tornati indietro nel tempo?
“DiNozzo”,
lo riprese Jethro, facendo un cenno con la testa verso di me.
“Astieniti dal fare certe affermazioni”.
Alzai gli occhi al cielo. “Zio, sono grande ormai. Certe sottigliezze riesco a coglierle, ma so anche comprenderle”.
“Non si sa mai”, commentò Gibbs con un’alzata di spalle.
“E tu,
invece”, attaccò DiNozzo, guardando Ziva con uno sguardo
che era un misto tra la derisione e l’interesse, “hai
già un accompagnatore?”.
“Non ancora”, rispose lei ridendo. “Ma questo non significa che non ne troverò uno presto”.
DiNozzo la
continuò a guardare anche quando Ziva si voltò per
parlare con McGee, poi piegò la bocca in una smorfia
incomprensibile e diede un morso al suo hot-dog già mezzo
mangiato.
***
Il giorno dopo
ero così stanca che dormii fino a tardi. Quando mi alzai dal
letto, sul comodino trovai un foglietto su cui, con la calligrafia
appena leggibile di mia mamma, c’era scritto:
Jethro ha detto che, se vuoi andare da lui anche oggi, puoi chiamarlo e ti viene a prendere.
Mamma.
I miei erano, anche
quel giorno, in giro per la città per affari, quindi,
com’era successo fino a quel momento, non volevo restare a casa
da sola senza fare nulla. Mi preparai lentamente, poi chiamai
l’ufficio di Gibbs.
Mi rispose DiNozzo.
Un po’ imbarazzata dalla situazione, gli chiesi se poteva
riferire a Jethro il mio messaggio, poi riattaccai velocemente.
Grande fu la
sorpresa quando, aprendo la porta di casa quando il campanello
suonò, invece di Jethro mi trovai di fronte proprio Anthony.
“Ciao”,
mi salutò, così di buon umore che rimasi sconcertata. Non
l’avevo mai visto così felice.
“Ciao”, feci a mia volta, piegando la testa da un lato.
“Gibbs era impegnato”, spiegò, “e mi ha delegato il compito”.
“Okay”, risposi soltanto.
Salii
nell’auto argentata sul posto del passeggero. Dopo un paio di
minuti d’imbarazzo, che passai tutti guardando attentamente fuori
dal finestrino, Anthony decise di punto in bianco di parlare.
“Dormito bene?”, domandò inspiegabilmente.
Mi voltai leggermente verso di lui, ma mi misi a fissare la strada di fronte a me. “Sì, grazie”, risposi.
Con la coda dell’occhio lo vidi corrugare le labbra e annuire. “Sono contento”, commentò.
Passò un altro minuto di silenzio, durante il quale tornai a guardare fuori dallo stesso finestrino di prima.
“Credo che tu abbia sentito le voci che girano riguardo al ricevimento di domani sera”, disse improvvisamente.
“Certo”,
risposi, voltandomi a guardarlo. “Ne avete parlato giusto ieri
alla tavola calda, e io ero presente”.
“Vero”, mormorò lui. Poi rimase in silenzio.
Incrociai le braccia e gli lanciai un’occhiataccia. “Qual è il problema, Anthony?”, domandai seccata.
“Nessun
problema, cara”, rispose. “Mi stavo solo chiedendo se...
be’...”, balbettò, incapace di continuare.
In tutti quei giorni, non avevo mai visto l’agente DiNozzo così in difficoltà.
“Sì,
insomma”, continuò, “mi chiedevo se ti andasse di
andare insieme a me a quel ricevimento”.
Quando ultimò la frase, spalancai gli occhi.
Avevo forse capito bene?
DiNozzo mi stava invitando?
Mi saltarono alla mente le parole di Ziva della sua sfuriata del giorno prima. Che davvero io avessi ammaliato Tony?
No, impossibile.
“Sempre che tu
non abbia qualche problema con i commenti degli altri sul fatto che una
ragazza così giovane accompagni un uomo così
vecchio”, continuò, voltandosi verso di me per un secondo
e poi tornando alla strada.
“Non sei
così vecchio”, risposi, cercando di non dare una risposta
alla sua richiesta. “E poi, ho diciotto anni, è da un
po’ di tempo che non faccio più caso a cosa gli altri
pensino di me”.
Anthony mi guardò. “Allora è un sì?”, domandò speranzoso.
Scossi debolmente la testa. “No, mi dispiace”, risposi. “Me l’ha chiesto Jethro per primo”.
Nonostante tutte le
prese in giro e i commenti pungenti che c’eravamo scambiati
durante quei giorni, ero davvero dispiaciuta di non poter accompagnare
DiNozzo a quel ballo, soprattutto per l’espressione delusa che
sfoggiava in quel momento.
“Certo, è ovvio”, rispose demoralizzato.
“Ma, se lo zio mi lasciasse, potrei sempre concederti un ballo”, proposi.
Anthony parve rianimarsi un po’. “Okay”.
“D’altronde, cosa c’è di più realizzante di un ballo con la nipote del capo?”, scherzai.
Finalmente il buon
umore tornò in lui. “Niente, in effetti”, rispose
ridendo. “Sempre che non ti pesti un piede. Allora le cose per me
si metterebbero male!”.
“Tranquillo”,
dissi con un sorriso, sollevata dopotutto per come l’aveva presa
Tony, “anche se succedesse, non glielo direi”.
Arrivammo agli
uffici dell’NCIS e Anthony fermò l’auto davanti
all’entrata principale. Aprii la portiera e feci per scendere, ma
la sua voce mi fermò.
“Mi ricorderò della tua promessa”, disse. “Dovrai farlo anche tu”.
“Certo”,
risposi, poi scesi dall’auto e corsi all’interno
dell’edificio, più lontano possibile da DiNozzo e dalla
sua auto argentata, testimone, quella mattina, di un evento quantomeno
inspiegabile.
*Nota dell'autrice*
Devo ammettere di essermi divertita un sacco a scrivere questo
capitolo! :) mi sono resa conto che mi piace maneggiare Tony, fargli
dire quello che voglio... mi fa sentire onnipotente! :) :)
Scherzi a parte, non ho molto altro da dire su questo capitolo, se non
che si è praticamente scritto da solo (come gran parte della
storia, d'altronde (: ) e che, senza accorgermene, mi sono
ritrovata tra le mani un DiNozzo che invitava la nipote del suo capo ad
un ballo...
Vai a capire cosa pensavo in quel momento! :) :)
Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto! :)
Mando un bacione a tutti :) alla prossima settimana! :)
Chiara
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Capitolo 7 *** Capitolo 7 ***
Interceding Is Often Hard- Cap 7
Capitolo 7
In cui una lunga riflessione mi porta ad una conclusione poco convincente
Passai
il resto della giornata pensando a ciò che era successo quella
mattina. Cercai di spiegarmi come mai, dopo l’ostilità che
aveva dimostrato nei miei confronti, Anthony mi avesse invitata a quel
ricevimento, ma senza immediati buoni risultati.
Era risaputo – persino da me – che DiNozzo aveva un rapporto con le donne... relativamente
strano. Cioè, per farla breve, era un vero donnaiolo. Ero
convinta che, visto il suo bell’aspetto, il suo fascino e il suo
comportamento da adulatore, sarebbero state molte – colleghe
dell’NCIS o meno – quelle sarebbero state disposte ad
accompagnarlo a quel ballo. Avevo presunto, anche, che lui sarebbe
stato felice di andarci assieme ad una bella donna che indossasse un
vestito attillato che mostrasse le sue forme.
Invece no. Aveva
invitato me, una diciottenne, che conosceva da nemmeno una settimana.
Imparentata con il suo capo, per di più!
Non riuscii a trovare una risoluzione al mio dubbio, ma valutai alcune ipotesi.
Primo: gli piacevo.
Era un’affermazione azzardata e improbabile, ma ormai con DiNozzo
non sapevo più cosa aspettarmi. Avevamo vent’anni di
differenza e di certo non ero fisicamente il suo tipo, ma possibile che
nel giro di così poco tempo avesse cambiato gusti?
Secondo: mi stava
usando per fare bella figura con Jethro. Possibile, anche se non
credevo che sarebbe stata una mossa intelligente. Mio zio stravedeva
per me e non sapevo come avrebbe reagito se gli avessi detto che andavo
al ricevimento con DiNozzo. Probabilmente molto male. Anthony era un
uomo intelligente e di sicuro aveva capito che non sarebbe stato furbo
da parte sua invitarmi per questo motivo.
Terzo: nessuna donna
aveva risposto affermativamente al suo invito e io ero solo un ripiego.
Decisamente impossibile: come avevo determinato nelle mie riflessioni,
per DiNozzo c’era la coda. Certo qualcuna gli avrebbe risposto di
sì.
Quarto: non
l’aveva chiesto a nessun’altra. Io ero la prima a cui
l’avesse domandato. E questo si ricollegava al primo punto.
No, impossibile.
Scossi la testa,
cancellando le riflessioni appena fatte e rendendomi conto che stavo
facendo dei ragionamenti troppo complicati e che c’era qualcosa
che mi sfuggiva. Forse stavo guardando le cose dalla prospettiva
sbagliata.
Ricominciai con le
mie riflessioni, rendendole più semplici ed elementari. Dovevo
considerarmi la sua ultima spiaggia, chiedermi cosa avesse spinto Tony
a costringersi ad invitarmi.
Primo: nessuna donna aveva accettato. Impossibile.
Non riuscii a trovare subito una seconda ipotesi, ma poi, guardandomi attorno in ufficio, la vidi.
Ziva.
Perché
Anthony non andava al ballo con lei? Se ciò fosse accaduto, non
mi sarei sorpresa. Avevo notato le frecciatine che si lanciavano
durante il lavoro, come si prendessero in giro neanche fossero dei
bambini delle elementari. Ricordavo benissimo l’episodio della
sera di due giorni prima e l’espressione esterrefatta di DiNozzo
quando Ziva gli aveva sussurrato all’orecchio. Era chiaro che tra
loro ci fosse qualcosa.
Riuscii ad arrivare
al secondo punto: Ziva aveva rifiutato il suo invito perché
aveva già un accompagnatore. Ero certa che, se fosse stata
libera, avrebbe accettato – altrimenti il subirmi i suoi insulti
il giorno prima sarebbe stato tutto inutile -, come ero sicura che
DiNozzo gliel’avesse chiesto.
Arrivai alla
conclusione che le cose erano proprio andate in quel modo. Se Anthony
non poteva andare al ballo con Ziva, probabilmente aveva deciso che non
ci sarebbe andato con nessun’altra dell’ufficio.
Quindi Anthony mi
stava usando come ripiego... tanto meglio! Se si fosse trattato
dell’ipotesi che io gli piacessi, non sapevo come avrei reagito.
Eppure, più ci pensavo, meno ero convinta dei miei ragionamenti.
Cos’avrei dovuto fare?
***
“Ziva, posso parlarti un secondo?”, azzardai.
Assorta com’era, la
donna si voltò verso di me con un’espressione quasi
spaventata, colta di sorpresa, distogliendo l’attenzione dalla
macchinetta degli snack della «saletta relax» dietro le
stanze degli interrogatori.
“Dimmi”, disse freddamente.
Avevo preso una decisione
assurda. Nonostante l’attrito che c’era stato tra di noi
– dopo la sua sfuriata del giorno prima e le occhiate che Ziva mi
aveva lanciato ogni tanto in quei giorni, soprattutto quando parlavo di o con
Tony, e le avevo giustificate come una conseguenza della gelosia verso
DiNozzo – volevo indagare. Ero decisa a scoprire se le cose erano
andate come pensavo, se realmente Ziva avesse rifiutato l’invito
di Tony.
Così in quel momento mi
trovavo in una situazione imbarazzante. Dovevo superare il timore che
provavo per quella donna e sfondare il muro della sua freddezza per
spillarle le informazioni di cui avevo bisogno. Ma non sapevo come fare.
“Ecco, volevo
chiederti...”, farfugliai senza sapere come iniziare il discorso,
mentre Ziva digitava il codice di una barretta ai cereali sulla
tastiera della macchinetta. La spirale di metallo che manteneva
verticale lo snack girò e quest’ultimo cadde nel
raccoglitore sottostante.
Mi balenò in mente
un’idea per iniziare il discorso. “Tu lo sai che Jethro mi
ha chiesto di andare al ricevimento di domani sera con lui”. Ziva
annuì, mentre raccoglieva la barretta dallo sportello.
“Be’... mi sono resa conto... di non avere un vestito
adatto”, conclusi, non contenta della piega che aveva preso il
mio discorso. Mi stavo discostando da quello che era il mio obiettivo;
d’altronde, non avevo trovato un modo migliore per introdurre la
conversazione.
Inoltre, avevo paura di come
avrebbe reagito Ziva alla mia domanda. Magari stava pensando a
perché diavolo ero andata a chiedere una cosa simile proprio a
lei. Probabilmente avrebbe riso di me, pensando che ero una stupida se
immaginavo che avrebbe aiutato proprio me, che stavo interferendo tra
lei e Tony.
Mamma in che guai mi ero cacciata...
Ziva accennò a un
sorriso. “Non ci sono problemi per questo”, rispose.
“Te ne posso prestare uno io”.
Rimasi basita dalla sua
risposta. Non mi sarei mai aspettata che volesse aiutarmi in questo.
Forse mi ero immaginata tutto? Magari la sua freddezza nei miei
confronti, le sue occhiate non indicavano ciò che io credevo?
Non avevano un significato particolare, ma era nel carattere di Ziva
guardare storto ogni nuovo arrivato? La sua furia si era dissolta in meno di un giorno e non provava più rancore nei miei confronti?
Non ne avevo idea.
Stava di fatto che, senza
volerlo davvero, avevo trovato la soluzione al problema che più
mi preoccupava. Sorrisi apertamente, sorpresa dalla sua risposta.
“Be’, grazie”, esclamai contenta. Poi mi bloccai,
confusa. “Ma tu non ci vai? Non vorrei rubarti
l’abito...”.
La donna fece un gesto con la
mano come se stesse scacciando qualcosa davanti a sé, emettendo
un leggero sbuffo. “Tranquilla, ne ho più di uno. E,
comunque, ci sarò anch’io”. Sorrise.
In quel momento,
probabilmente, davo l’impressione a Ziva di aver messo due dita
nella spina della corrente. “Ah”, risposi, basita dalla sua
disponibilità. Nonostante il mio sbigottimento, riuscii a
cogliere l’opportunità al volo. “Sei riuscita a
trovare un cavaliere alla fine?”.
“Sì,
beh...”, rispose lei con un po’ di imbarazzo. “In
realtà è stato lui a trovare me”.
“Davvero!”, esclamai, con forse troppa foga. Aveva per caso cambiato idea e accettato l’invito di Tony?
“Sì... si chiama
Bryan, lavora in un’altra unità. Mi ha invitata giusto
stamattina”. L’orgoglio di Ziva era visibile.
Lo era anche la mia delusione. “Ah...”, sussurrai, la mia espressione palesemente contrariata.
Ziva si accigliò. “Qualcosa non va?”, mi chiese confusa.
In un secondo mi risollevai,
dandomi una parvenza decente. Agitai le mani di fronte a me come se
volessi cancellare la domanda che mi aveva rivolto. “No, no,
è tutto a posto!”, esclamai. “Solo... pensavo che ci
saresti andata con Tony”, dissi.
Alla fine ero riuscita nel mio
intento! Dopo tutta la mia fatica, avevo esplicitato a Ziva il mio
pensiero; ora la sua risposta sarebbe stata per me determinante.
L’espressione della
donna era confusa. “E perché mai!”, esclamò
con una smorfia quasi di disgusto. La sua espressione sembrava gridare:
Ma come ti è saltato in mente!
Il suo tono di voce si alzò. Sembrava nervosa. “Se lui non
me l’ha chiesto, di certo non toccava a me invitarlo!”.
Concluse con una risatina che sfiorava l’isteria.
Rimasi basita dalla sua risposta. Davvero Anthony non l’aveva invitata?
“E comunque”,
continuò Ziva, più calma, “non ci sarei mai andata
con lui. Non potrei mai sopportare di passare un’intera serata
accanto a Tony”.
“Ah”, fu tutto
quello che riuscii a dire. Dopo qualche secondo aggiunsi, con un
sorriso falso: “Be’, allora fingi che non ti abbia detto
niente”.
Ziva sorrise, poi uscì dalla stanza con la sua barretta.
Sovrappensiero com’ero,
con dei gesti automatici infilai una banconota da un dollaro nella
macchinetta e digitai il codice relativo a un pacchetto di patatine.
Ripensai all’ultima
frase di Ziva, che mi aveva lasciata sconcertata. Davvero non avrebbe
accettato l’invito di Tony se solo lui gliel’avesse
chiesto? Forse era questo il motivo per cui lui non l’aveva
fatto... il difficile carattere di Ziva era stata la causa del
comportamento di Tony? O forse la paura di un rifiuto?
E così Anthony mi aveva
fatto promettere un ballo con lui... In che guai mi aveva cacciata! Se
al ricevimento Ziva ci avesse visto ballare insieme, mi avrebbe di
certo incenerita. L’avrebbe fatto sicuramente, se solo avesse
potuto lanciare saette dagli occhi, perché, nonostante
ciò che lei mi aveva detto, ero sicura che – sotto sotto
– le avrebbe fatto piacere andare al ricevimento con Tony. Di
conseguenza non avrei mai potuto avere un buon rapporto con lei e mi
avrebbe odiata a morte per il resto della mia esistenza.
Guardando la macchinetta, mi
accorsi che il pacchetto di patatine non era caduto, ma era rimasto
incastrato tra la spirale di metallo e il vetro, in bilico. Come facevo
adesso a tirarlo giù?
Avrei dovuto tirare un calcio alla macchinetta.
Ma avrei preferito darlo a Tony.
*Nota dell'autrice*
Sono consapevole del fatto che questo capitolo possa essere noioso, mi
dispiace immensamente per ciò... ma questo capitolo è
importante perche vengono spiegate un po' di cose, ad esempio salta
fuori che Tony non ha affatto invitato Ziva, come ci si sarebbe aspettato! :)
perchè Tony ha agito (anzi, non ha agito) così?
Lascio un po' di suspence e ci vediamo la prossima settimana! :) :)
Chiara
|
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Capitolo 8 *** Capitolo 8 ***
Interceding Is Often Hard- Cap 8
Capitolo 8
In cui un cambio d’abito porta a galla
dei sentimenti repressi
Finalmente arrivò
il giorno del ballo. Quella mattina non andai in ufficio da Jethro
poiché ero troppo agitata al pensiero di affrontare quella sera.
Invece mi dedicai con molta cura al mio corpo: mi lavai i capelli con
molto balsamo, mi depilai le gambe, sfoltii le mie sopracciglia e stesi
la crema idratante sulla mia pelle.
Alle cinque del pomeriggio
arrivò Ziva con i vestiti. Portò tre abiti, tra cui
– disse lei – avrei “potuto scegliere quello
perfetto” per me.
Tutti e tre erano molto
belli, ma anche... non adatti a una diciottenne. Troppo scollati o
scosciati. Nonostante ciò, non osai commentare – per paura
che la bomba ad orologeria quale era Ziva potesse scoppiare – e
decisi che li avrei provati tutti.
Il primo abito era color
blu notte, aveva le spalline strette e mi arrivava poco sopra il
ginocchio. Mentre mi guardavo allo specchio notai che Ziva mi lanciava
delle strane occhiate, che, mi sembrava, non erano dovute al suo
giudizio su come il vestito si adattasse al mio corpo. Feci finta di
non accorgermi dei suoi sguardi.
Scartai subito
quell’abito: non avevo delle gambe magrissime e la lunghezza del
vestito faceva risaltare un po’ troppo i miei polpacci. Ziva
scosse la testa come ad esprimere i miei stessi pensieri.
Il secondo vestito era
lungo fino ai piedi, di un risaltante rosso rubino ed era... scollato.
Avevo praticamente tutto il davanzale in bella vista.
No, quello non andava bene.
“Questo proprio non va”, valutò Ziva, scuotendo il capo energicamente.
“Già”, mormorai.
Ziva mi allungò
l’ultimo vestito e lo provai. Era lungo fino ai piedi, color
verde acqua e mi lasciava scoperta una parte di schiena, ma in compenso
copriva il davanti fino alle spalle.
Mentre adagiavo il tessuto sul mio corpo, mi persi tra i miei pensieri e, senza accorgermene, mi ritrovai a fissare Ziva.
Lei si accorse del mio sguardo insistente. “Che c’è?”, sbottò.
“Niente”, risposi istintivamente, tornando con i piedi per terra. “È solo che...”.
Mi fermai di colpo: mi era mancato il coraggio di continuare.
“Sì?”, mi incitò Ziva.
Ormai il guaio era fatto.
Ero obbligata a continuare il discorso in qualche modo.
“Insomma... volevo dirti che...”. Respirai profondamente,
inalando anche il coraggio che avevo perso un attimo prima. “Ho
notato la tua avversione nei miei confronti e ne ho anche capito la
causa”.
Ziva mi fissò con
gli occhi spalancati e si lasciò andare ad una risata nervosa.
“Avversione? Di cosa stai...”.
“Non negarlo”, la interruppi. “Tu credi che io mi stia mettendo tra te e Tony”.
Mi guardò con la
stessa espressione di prima. “Tony? Sei impazzita per
caso?”, disse con un tono di voce più alto di prima.
Sembrava nervosa.
Improvvisamente mi resi
conto che, se le avessi detto tutto quello che pensavo, mi sarei
cacciata nei guai. Quindi decisi che avrei concluso il mio discorso in
modo diplomatico.
Cercai di eliminare ogni
residuo di accusa dalla mia voce, sforzandomi di mantenere un tono
calmo. “Senti, non voglio intromettermi tra di voi, non otterrei
nulla. Non ho mai avuto alcuna intenzione di... appropriarmi
di Tony o cose del genere. Che cavolo, non ho nessuna chance!”.
Cercai di ridere con naturalezza, ma non ci riuscii molto bene.
“Lui è tuo”, continuai. “Puoi farci quello che
vuoi. Stai attenta solo a non ferirlo: non lo merita”.
Ziva diventò seria
tutto d’un tratto: sembrava che stesse davvero prendendo in
considerazione le mie parole. Sorrise debolmente e le sue guance
s’imporporarono appena.
Fui presa
dall’agitazione al pensiero di farla innervosire, ma dovevo
informarla di una cosa. “Volevo solo dirti che ho promesso a Tony
che gli avrei concesso un ballo, stasera...”. Ziva si
rizzò sulla schiena come se avesse ricevuto una brutta notizia.
“...ma non succederà nulla. Cercherò di parlargli,
se sei d’accordo”.
Ziva sembrò capire
che mi stavo riferendo a loro due, perché sussurrò in un
soffio: “Sì” quasi imbarazzata.
Annuii. “Ok”.
La donna mi fissò
per un secondo. Riuscivo a leggere qualche emozione nei suoi occhi. Era
forse... gratitudine? O qualcosa di simile?
“Guardati allo specchio”, mi suggerì.
Lo feci. Rimasi esterrefatta.
Il vestito era bellissimo.
“Wow”, esclamai, non riuscendo a credere ai miei occhi.
Ziva si aprì in un sorriso che non le avevo mai visto fino a quel momento. “Comunque volevo dirti che questo è il vestito perfetto per te”.
***
I miei conobbero la
collega di Jethro e mia madre ne rimase colpita. “Da come
l’avevi descritta tu, ci saremmo aspettati una ragazza fredda e
scontrosa. Invece trovo che sia disponibile e solare, ha sorriso
sempre”, disse quando Ziva se ne fu andata.
Mio padre, invece, non
intervenne nella conversazione che stavo intrattenendo con la mamma
perché era troppo concentrato nello squadrare il vestito che
tenevo al braccio. Me l’ero tolto perché avevo dovuto
accompagnare Ziva alla porta e non avevo voluto sciuparlo; in
più, temevo la ramanzina di mio padre, che sarebbe arrivata
prima del tempo se mi avesse vista con indosso l’abito prima di
andare via. Potevo immaginare i suoi pensieri in quel momento: di
sicuro stava programmando di non farmi uscire di casa se l’abito
non fosse sottostato alle sue regole. Finsi di non accorgermi della sua
espressione pensosa.
In mezz’ora –
a tempo di record! - riuscii a truccarmi e ad attorcigliare i capelli
in una treccia alla francese. Orecchini, pochette, ballerine –
che, fortunatamente, non erano visibili agli altri perché
nascoste dalla lunga gonna... i tacchi non riuscivo proprio a portarli!
- ed ero pronta. Scesi le scale sentendomi una principessa.
Appena i miei mi videro,
mia madre giunse le mani violentemente, provocando un sonoro schiocco,
e mi squadrò con ammirazione.
“Tesoro sei bellissima!”, esclamò. “Quest’abito ti dona davvero!”.
Mio padre rispose con un grugnito. “Non sarà... troppo?”, si lamentò.
“Papà”, lo sgridai.
“Che sciocchezze”, esclamò la mamma. “Troppo cosa? È il migliore tra quelli che si potevano scegliere, è giusto per una ragazza”.
Papà rispose con un altro brontolio, per nulla convinto.
“Forza”, mi esortò mia madre spingendomi verso la porta. “Lo zio ti sta aspettando fuori”.
Scesi le scale del
vialetto di corsa perché, se non l’avessi fatto, la spinta
di mia madre mi avrebbe fatto cadere per terra. Mi diressi verso
Jethro, che riuscii a scorgere nella semi oscurità.
Era vestito elegantemente
in giacca e cravatta, ma non nel modo solito in cui l’avevo visto
al lavoro. In quel momento era tutto in tiro, i capelli pettinati
ordinatamente con una riga a lato, la giacca abbottonata sapientemente
senza che il tessuto facesse una piega. Ero senza parole.
“Sei bellissimo, zio”, mi complimentai con un sorriso.
“Anche tu, bambina
mia”, rispose. Poi salimmo nella sua auto grigia, mentre mia
mamma, dal portico, ci salutava agitando freneticamente la mano.
Jethro guidò in
silenzio per quasi tutto il tragitto; ad un tratto si voltò
verso di me con un sorrisino malizioso. “Ti vedo agitata. Va
tutto bene?”.
Lo guardai, cercando di sembrare rilassata. “Certo. Perché non dovrebbe?”.
Tornò a fissare la strada e si strinse nelle spalle. “Non so, dimmelo tu”.
Rimasi in silenzio per dei
secondi interminabili, che passai fissandomi le mani e cercando di
pensare a come poter palesare le mie preoccupazioni senza sembrare
un’idiota.
Insomma, per essere
agitata lo ero davvero, Jethro in questo ci aveva visto giusto. Ma non
ero sicura che gli avrebbe fatto piacere sapere quale fosse il motivo
del mio nervosismo.
Ci avevo pensato per tutto
il giorno, e ora che ci avvicinavamo al locale del ricevimento il mio
cuore si metteva a battere sempre più velocemente, come se
volesse farmi un dispetto.
Ma insomma, qual è il problema?!
“Senti,
zio...”, attaccai in un momento di coraggio. “Spero che tu
non ti offenda se io... cioè...”. Fissai i suoi occhi
grigio ghiaccio che celavano un certo smarrimento a causa del mio
discorso contorto.
Respiro profondo.
“Ecco, forse avrei dovuto dirtelo prima, ma... ho fatto una promessa a Tony”.
Jethro sollevò le
sopracciglia in un’espressione stralunata, la stessa che avrebbe
avuto se gli avessi detto che la luna era fatta di formaggio.
“Tony?”, ripeté. “E che cosa gli hai
promesso?”.
“Beh, gli ho detto
che...”. Feci un respiro profondo, poi dissi tutto d’un
fiato: “Avrei ballato con lui”.
Aspettai che la tempesta si abbattesse su di me.
Invano.
Sembrava che Jethro si stesse trattenendo dal ridermi in faccia.
“E perché avresti fatto una promessa del genere?”, domandò ilare.
A giudicare dalla sua espressione, stavo davvero facendo la figura dell’idiota.
“Perché...”. Mi ha invitata ma ero già impegnata con te, quindi siamo scesi a un compromesso. “Lui mi ha chiesto un ballo e io ho accettato. Tutto qui”.
Bugiarda.
“Ah”, rispose lui, piegando la testa da un lato con espressione pensierosa. “Però”.
Aspettai che dicesse qualcos’altro, ma lui non continuò.
“Quindi...”, attaccai, “mi lascerai mantenere la promessa?”.
Jethro accennò ad una risata. “Oh, sì. Certo che sì!”.
Le nuvole nere si
diradarono dall’umore che aleggiava nell’abitacolo
dell’auto, lasciando il posto ad un Gibbs inspiegabilmente
ridente e spensierato.
*Nota dell'autrice*
Ordunque... :) credo che mi
ammazzerete per questo capitolo... vi aspettavate che questo fosse
quello del ballo... invece no! :) vi lascio ancora con la suspense! :)
muahaha! (risatina sadica (: ).
No dai, a parte gli scherzi, mi dispiace di aver troncato così il capitolo, ma se avessi messo ciò che accadeva al ballo tutto
insieme il capitolo sarebbe diventato chilometrico! Quindi ho un
po' diviso la parte del ricevimento... comunque il prossimo capitolo
tratterà proprio del ballo, non vi preoccupate! :)
Ringrazio ancora e ancora zavarix e kiriri93, le mie fedeli
recensitrici, e tutti quelli che seguono la mia storia! :) non
smetterò mai di dirvi: grazie con tutto il cuore! :) :) :)
Ci vediamo la prossima settimana! :)
Chiara
|
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Capitolo 9 *** Capitolo 9 ***
Interceding Is Often Hard- Cap 9
Capitolo 9
Gli unici due uomini con cui all’inizio mi sentivo a mio agio sono ora fonte di imbarazzo
Il
locale dove si svolgeva il ricevimento era una di quelle sale lussuose
che si vedono più che altro nei film, raramente dal vero.
C’era gente vestita elegantemente, il bancone del ponche,
camerieri che giravano per la sala con vassoi pieni di tartine e drink
vari... Non potevo fare altro che guardare il tutto senza toccare,
visto che non potevo bere alcolici*. Mi limitai ad assaggiare due
salatini.
Eravamo arrivati da nemmeno
dieci minuti che subito Jethro volle ballare con me. Cercando di non
risultare scortese, gli risposi che per il momento non me la sentivo di
lanciarmi sulla pista da ballo, ma lui si accigliò e
replicò, fingendosi offeso: “Credi forse che il tuo
vecchio non sappia destreggiarsi nel ballo del mattone?”.
“Non lo pensavo”,
dissi con un sorriso. Poi, vedendo la sua espressione insistente, non
riuscii a rifiutare una seconda volta.
Jethro mi trascinò in
un angolo della sala, il più distante possibile – come
riuscii ad accorgermi – dall’entrata principale. La scelta
del luogo mi lasciò interdetta. Per caso voleva che ci
nascondessimo da qualcuno? Forse da Tony? Perché avrebbe dovuto,
se mi aveva dato il permesso di ballare con DiNozzo? Scossi la testa e
decisi che la mia era solo paranoia.
Iniziammo a dondolare
scompostamente sul posto. Il nostro modo di ballare era quello di
spostare il peso del corpo prima su un piede e poi sull’altro.
Davvero di classe.
“Allora”, iniziò Jethro. “Mi vorresti spiegare la storia della promessa che hai fatto a Tony?”.
Bingo. Allora ci avevo visto
giusto. Lo zio aveva solo finto di non preoccuparsi quando gli avevo
confidato del ballo con DiNozzo mentre eravamo in auto. In
realtà era agitato quanto lo ero io.
“Ti ho già detto
tutto”, risposi diplomaticamente, cercando di sviare il discorso.
Non potevo mica dirgli la verità. Ne andava della reputazione di
Tony.
“Ah”, esclamò Jethro, poco convinto. “Sei sicura?”.
“Sì”,
risposi, cercando di convincere anche me stessa per non rivelare al mio
cavaliere che quella era una bugia. “Perché?”.
Jethro rispose con un’alzata di spalle.
Lo fissai per qualche secondo,
cercando di capire qualcosa dalla sua espressione, poi lui
sbuffò. “Ti ho osservata, in questa settimana”,
disse. “E sono preoccupato”.
“Per cosa?”, chiesi, sinceramente curiosa di sapere dove volesse andare a parare con quel discorso.
“Ho notato uno... strano attaccamento da parte tua”, rispose.
“Un
attaccamento?”, ripetei, stupita da quelle parole. “E per
chi?”. Avevo capito di chi stava parlando, visto com’era
iniziato il discorso. Accennai ad una risata nervosa. “Non
penserai mica...”
“Tesoro, non vorrei che
ti facessi ammaliare dal suo bel faccino e dai suoi modi gentili. Non
è il caso che tu...”.
“Zio”, lo
interruppi esterrefatta. “Che discorsi stai facendo?”. Lo
fissai a bocca aperta. “Credi che io sia così ingenua
da...”.
“No, certo che no”, rispose Jethro. “Sono solo preoccupato”.
“Non sono interessata a
Tony, come lui non lo è a me!”, mi difesi, forse con
troppo impeto. “Lui...”. Stavo per dire qualcosa riguardo
Tony e Ziva, ma mi bloccai in tempo. A Jethro non sarebbe certo
piaciuto sentire che tra quei due c’era qualcosa...
“Lui?”, mi incitò, vedendo che mi ero bloccata.
Risi nervosamente.
“È troppo vecchio!”, dissi infine, riuscendo a
trovare una risposta valida senza addentrarmi nel discorso tabù.
Notai la strana occhiata di Jethro. “Per me”, chiarii.
“Certo, non dico che lui sia vecchio di per sé...”.
Jethro continuava a guardarmi
lanciandomi strane occhiate. “Oh, insomma, mi hai capita!”,
esclamai, stufa di trovarmi in quella situazione sgradevole.
“Certo, certo”, rispose lui, imbarazzato.
“Gibbs”, disse una
voce profonda dalle nostre spalle. Era il direttore Vance. “Mi
dispiace interrompere il ballo con tua nipote, ma ho bisogno di
te”.
Ci voltammo verso la voce per vedere l’espressione seria del direttore che fissava prima uno e poi l’altra.
“Beh, se il lavoro chiama...”, commentò Jethro. Poi mi guardò. “Torno subito”.
“Ah... non credo”, lo interruppe Vance, guardando lo zio con un’occhiata d’intesa.
“Va bene, allora
tornerò tra un po’”, si corresse Jethro. “Ci
sono McGee e Abby lì”, mi disse, facendo un cenno con la
testa nella loro direzione. “Stai con loro intanto, non so quanto
ci vorrà”. Detto questo, girò i tacchi e si
allontanò con il direttore.
Appena i due furono fuori
dalla mia vista, mi voltai verso Abby e Tim, seduti su una panca in un
angolo della sala, per scoprirli coinvolti in una conversazione
interessante. Entrambi accompagnavano le proprie parole con dei gesti
ampi. Erano davvero presi dai loro discorsi. Non si accorsero per nulla
di me.
Decisi di non disturbarli
poiché non volevo essere d’impiccio più di quando
già non mi sentissi – percepivo l’aria di
estraneità di quel posto -, quindi mi avvicinai alla prima panca
imbottita che trovai e mi ci accomodai.
Passai dei minuti a guardarmi
intorno, scrutando e commentando tra me i vestiti delle altre signore
nella sala. Improvvisamente sentii qualcuno sedersi pesantemente
accanto a me. Anche senza guardare capii chi era.
“Questa festa è un mortorio”, si lamentò, sbuffando.
Non mi voltai verso di lui.
Non ero dell’umore giusto per guardarlo in faccia. Non dopo il
discorso che mi aveva fatto Jethro. “Si da il caso che questa non
sia propriamente una festa”, risposi in tono quasi infastidito.
“Chiamala come
vuoi”, rispose Tony, “ma se avessi saputo che la mia serata
sarebbe stata così noiosa, me ne sarei rimasto a casa a guardare
la TV”.
Me ne restai in silenzio, stranamente agitata. Non sapevo cosa rispondere.
“Ti va di bere qualcosa?”, suggerì lui vedendo che non replicavo.
A quel punto mi voltai e lo
vidi. Indossava un completo scuro che non gli avevo mai visto addosso,
accompagnato da una camicia grigia e una cravatta nera. Ero senza
parole. Era tutto in tiro: quello non sembrava DiNozzo.
“Ho diciotto anni, non
posso bere alcolici”, risposi con il mio tono neutro. La frase
suonava ovvia anche alle mie orecchie.
“Giusto... un’acqua tonica?”, propose.
Scossi la testa. “Non mi piace”, continuai con lo stesso tono.
Passarono dei secondi di silenzio interminabili, che passai tutti a testa bassa a guardarmi le mani.
“Gibbs
dov’è?”, domandò di punto in bianco.
“Non è da lui lasciarti da sola senza una guardia del
corpo”.
A quel punto sollevai la testa
e alzai gli occhi al cielo. Che esagerazione. “Il direttore Vance
l’ha rapito”. Terribile battuta.
“A-ah”, fece Tony, poco interessato.
“E la tua dama?”, chiesi, rendendomi conto di non sapere ancora con chi fosse venuto a quel ricevimento.
Alzò le spalle,
indifferente. “Da quando si è fiondata tra le braccia di
un giovane e ricco ufficiale non l’ho più vista”,
rispose. “Guarda un po’ se non mi è capitata la
civetta più superficiale di tutto l’ufficio”.
Chi prima arriva, meglio alloggia, pensai.
“Visto che siamo
momentaneamente non impegnati – anche se credo che la mia
situazione rimarrà la stessa per il resto della serata -, che ne
dici di mantenere la tua promessa?”.
Lo guardai di sbieco, fingendo di non capire. “Cosa?”.
Tony esplose in una risata.
“Oh, andiamo! Non dirmi che te ne sei dimenticata! O forse hai
paura di me? Guarda che non ti mangio mica”.
“Non ho paura!”, replicai con una risata nervosa.
Aspettò che io
continuassi, ma non avevo il coraggio di dire altro. Improvvisamente
l’idea di ballare con Tony mi terrorizzava.
“Allora?”, fece lui, sollevando un sopracciglio e sfoderando un’espressione che sfiorava la derisione.
Fissai storto la sua mano,
tesa verso di me, che aspettava una mia risposta. Il mio cuore
iniziò a battere frenetico e mi si formò un nodo in gola.
Distrattamente cercai di trovare il motivo della mia reazione, ma ero
troppo nervosa per riuscire anche solo lontanamente a formare un
pensiero.
Non riuscendo a spiccicare una
parola a causa del peso che bloccava le mie vie respiratorie, con un
gesto automatico posai la mano su quella di Tony, che intrappolò
la mia in una stretta calda e delicata. Si alzò in piedi,
trascinandomi con sé, e mi portò più verso il
centro della sala. Mentre ci mescolavamo tra le persone, mi chiesi perché diavolo avevo accettato di ballare con lui.
Mannaggia a me!
Iniziammo a dondolare su e
giù. Rimasi sorpresa dall’abilità di Tony nel
danzare: il nostro non era un ballo del mattone, come quello mio e di
Jethro. Anthony era più sciolto, non era teso come un palo come
mi sarei aspettata. D’altronde, se aveva tanto successo con le
donne, probabilmente la sua attitudine al ballo contribuiva ad
aumentare il suo fascino italiano.
Ma, in quel momento, quello che provavo non era attrazione, ma... un profondo disagio.
Io, Amy Steel, che non avevo
fatto altro che prendere in giro Tony per tutta la settimana, quella
sera dovevo sentirmi imbarazzata in sua presenza?
Che storia era quella?
“Allora”, iniziò Anthony dal nulla. “Che cosa mi racconti di bello?”.
“Non lo so”, risposi, cercando di non incontrare il suo sguardo.
“Oh, andiamo!”,
esclamò. “Un’adolescente che non trova un argomento
di conversazione non si era mai vista. Non hai qualche pettegolezzo da
dirmi o qualcosa di simile?”.
“Un pettegolezzo?”, ripetei io, confusa. “E riguardo chi?”.
“Beh, qualcuno della squadra”, rispose Tony ridendo.
“E perché credi
che io sia a conoscenza di qualche indiscrezione sui tuoi
colleghi?”, continuai, sempre più perplessa.
DiNozzo alzò le spalle
con aria da finto innocente. “Perché in questa settimana
eri dappertutto in ufficio. Sei stata alle nostre scrivanie, da Abby,
nella sala relax, in ascensore... avrai quantomeno notato
qualcosa”.
Rimasi interdetta dal suo
discorso. Non riuscivo a capire dove Tony volesse andare a parare.
Voleva sapere se avevo notato qualcosa che riguardava lui oppure era
davvero interessato a qualche pettegolezzo sugli altri?
“Lavori con i tuoi colleghi da anni”, risposi. “Dovresti conoscere tu qualcosa di più di me”.
“Beh, sai... non tutti si aprono con me come possono fare con un’ingenua diciottenne”.
Quell’affondo fece male.
“Ingenua?”, risposi in tono acido, enfatizzando la parola.
Il primo istinto fu quello di strizzare forte la mano che stringeva
quella di Tony e affondare le unghie nella sua carne. Ma riuscii a
trattenermi.
Tony sogghignava. Sembrava sinceramente divertito dalla mia reazione.
“Senti un po’, non
so come fossi tu alla mia età, ma di sicuro non eri
ingenuo”. Poi non riuscii a contenermi. “Beh, ora che ci
penso un pettegolezzo l’avrei”, continuai con una smorfia.
“E riguarda te”.
“Oh, davvero!”, esclamò ridendo. “Dai, sentiamo”.
Sorrisi maleficamente, pronta
a dargli il colpo di grazia. “Perché non hai invitato Ziva
a questo ricevimento?”.
L’espressione di Tony
mutò improvvisamente, diventando grave. “Cosa?”,
domandò, fingendo di non capire.
“Sai di cosa sto parlando”, dissi seria.
Ci mise un po’ a rispondere. “Era già impegnata”, replicò infine.
“No, non è vero.
Lei ha trovato un cavaliere solo ieri mattina. Hai avuto tutta la
settimana per chiederglielo”, replicai con lo stesso tono.
Tony sbuffò.
“Non gliel’hai nemmeno chiesto”, continuai. “Perché?”.
“È complicato”, rispose seccamente.
“No, non lo
è!”, esclamai con forse troppo vigore. “È
semplicissimo, sei tu che rendi tutto difficile”.
“Che ne sai tu?”, domandò quasi rabbioso.
Era ironico come, nonostante
il tono che aveva preso il nostro discorso, riuscissimo a continuare a
danzare come se nulla fosse. Dovevo ammettere che Tony era davvero
bravo a condurre il ballo.
Sbuffai seccamente dal naso. “Ho diciotto anni, come tu continui
a ricordarmi, e per quelli della mia età i problemi di cuore
sono praticamente all’ordine del giorno”. Feci una pausa,
aspettando da Tony una risposta che non arrivò. “In
più”, continuai, “in questa situazione io sono una
persona non coinvolta, quindi posso essere obiettiva”.
“Va bene, mi hai
convinto”, rispose Tony spazientito. “Okay, lo ammetto, non
l’ho voluta invitare”.
Ero orgogliosa del mio lavoro:
ero riuscita a farlo confessare. “Perché?”, domandai
con un tono più calmo.
“Non sono affari tuoi”.
“Vuoi ricominciare ad
essere scontroso?”, esclamai, infiammandomi come poco prima.
Districai la mia mano dalla sua presa. “Allora accomodati pure.
Non ti aiuterò”, dissi furiosa, poi mi allontanai da lui,
facendomi strada tra gli altri ballerini, e mi diressi verso la panca
imbottita dove prima Tony mi aveva invitata a ballare.
Sentivo Anthony camminare
dietro di me. Mi raggiunse prima che potessi sedermi, afferrandomi per
un braccio e facendomi voltare violentemente.
“Ascolta, non so cosa tu
abbia intenzione di fare”, disse pacato. Il suo tono discordava
con la sua espressione tesa. “Quindi cerca di spiegarmelo”.
“So perché non
hai invitato Ziva: hai paura”, decretai. Alla fine, dopo molte
riflessioni, avevo capito cos’era successo. “Temi di dire
qualcosa di troppo e di farla allontanare da te. Ma non accadrà,
te lo posso assicurare”.
Tony mollò la presa dal mio polso e mi scrutò di sottecchi. “Come fai a saperlo?”, chiese diffidente.
Improvvisamente percepii uno
sguardo. Mi voltai e scorsi Ziva, a una decina di metri da noi, vicino
al bancone delle vivande, che ci fissava con interesse. Era avvolta in
un abito lungo blu elettrico che le lasciava scoperte le spalle e che
faceva risaltare la sua silhouette snella.
Il mio imbarazzo arrivò
alle stelle. Ad un tratto mi sentivo un’intrusa in quella
situazione. Dopo tutto il tempo passato a quel ricevimento, quello fu
il primo momento in cui mi chiesi seriamente cosa diavolo ci facessi
là, cercando di capire cosa volevo veramente fare con Tony.
Mi si formò un nodo in
gola al pensiero che avrei potuto combinare un casino tra Anthony e
Ziva. Ero entrata nelle loro vite e le avevo scompigliate. Con quale
diritto avevo agito in quel modo? Chi ero io per decidere della loro
vita? A stento riuscii a trattenere le lacrime.
Tony si accorse del mio sguardo insistente e lo seguì, incontrando gli occhi di Ziva.
“Va’ da
lei”, dissi, pregando che la mia voce non si rompesse.
“Parlale, dille ciò che provi”.
Tornò a guardarmi e probabilmente notò che ero scossa. Aprì la bocca per dire qualcosa.
“Ti prego”, lo
anticipai. “Ho già combinato abbastanza guai per oggi, non
voglio complicare di più le cose”.
“Okay”, rispose
Tony con un’espressione fiduciosa. Poi si voltò verso Ziva
e la raggiunse con passo sicuro, pronto a sopportare le conseguenze
delle proprie azioni.
_________________________________
Nota di fine capitolo:
*: Negli Stati Uniti bisogna
aver compiuto ventuno anni per poter bere alcolici. La nostra
protagonista ne ha diciotto, quindi lei non può bere.
*Nota dell'autrice*
Ok, posso dirlo?
Sono davvero fiera di questo capitolo.
Ecco, l'ho detto! :)
Sì, sono davvero fiera, perché credo che sia
venuto bene. Cioè, mi sono davvero impegnata per scriverlo,
scervellandomi per riuscire a scrivere un dialogo tra la nostra eroina
e Tony che fosse verosimile... e il risultato mi piace! :) è
proprio quello che mi immaginavo venisse fuori :)
Credo proprio che questo sia il mio capitolo preferito, nonché il più lungo :)
Spero che il capitolo sul ballo sia stato all'altezza delle vostre aspettative :) ditemi come vi è sembrato! :)
Ci vediamo la prossima settimana! :) Bacioni a tutti!
Chiara
|
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Capitolo 10 *** Capitolo 10 ***
Interceding Is Often Hard- Cap 10
Capitolo 10
Una strana reazione
Guardai
Tony avvicinarsi a Ziva e a quel punto scoppiai. Mi misi a piangere
come una fontana, cercando di soffocare i singhiozzi e le risa.
Se qualcuno si fosse
girato nella mia direzione in quel momento, sicuramente avrebbe pensato
che fossi pazza. Fortunatamente erano tutti impegnati a ballare o a
conversare e nessuno si accorse di me.
Sfogai la mia isteria per
forse un minuto, ridendo e piangendo contemporaneamente, asciugandomi
le lacrime con un fazzoletto di carta perché il trucco non
sbavasse.
Certo, la mia reazione non
fu quella che mi aspettavo e se qualcuno mi avesse notata sarebbe stata
una situazione davvero imbarazzante. Probabilmente stavo piangendo
perché le lacrime erano state sul punto di scendere per tutta la
sera e ridevo perché finalmente sapevo di avercela fatta.
Avevo finalmente capito
perché avevo agito in quel modo quella sera. Lo smarrimento di
qualche minuto prima, quando ancora Tony mi guardava con occhi persi e
io fissavo Ziva, era sparito come per magia. Mi ero resa conto che i
discorsi che avevo fatto prima a una – in camera mia, quel
pomeriggio – e poi all’altro – poco prima, mentre
ballavamo – non erano stati altro che un tentativo per farli
avvicinare. Ci avevo provato per tutta la settimana, anche se non me
n’ero resa subito conto.
E quella sera ero riuscita nel mio intento.
Ridevo proprio per quello.
Ero contenta, sia per me stessa – che mi sentivo inaspettatamente
realizzata per ciò che avevo fatto –, sia per Tony - che
aveva trovato il coraggio per fare ciò che più voleva.
L’avevo osservato per tutta la settimana, esaminando il suo
comportamento e notando l’attaccamento per Ziva che cercava di
celare a tutti.
Ma non era riuscito a nasconderlo a me.
La mia crisi isterica
finì mentre Tony prendeva Ziva per mano e la accompagnava verso
il centro della pista da ballo. Osservai compiaciuta quella scena:
d’altronde era stato anche per merito mio se Tony era arrivato a
compiere quel gesto.
Rimasi a guardarli per
qualche minuto, poi un senso di solitudine mi pervase. Jethro era
andato chissà dove non sapevo quando sarebbe tornato. Tony mi aveva lasciata per raggiungere Ziva e
non potevo godere delle sue espressioni comiche e del divertimento nel
prenderlo in giro.
Mi rimaneva solo un’opzione per cercare di alleviare la mia tristezza.
Mi alzai dalla panca e mi
avviai nella direzione in cui avevo visto Abby e McGee l’ultima
volta. Con mia sorpresa – e sollievo – li trovai ancora
seduti sulla stessa panca di prima. Sembrava che per loro il tempo si
fosse fermato: stavano ancora discutendo animatamente di qualche
argomento che sembrava interessante.
Mi avvicinai piano.
“Non ci credo!”, esclamò Abby.
“Sì, te
l’assicuro!”, replicò Tim con entusiasmo.
“Avresti dovuto vedere la sua espressione! Da piegarsi in due dal
ridere!”.
Lo sguardo di Abby
incrociò il mio. “Ehi, agente Amy! Che ci fai qui sola
soletta?”, domandò con un sorriso, interrompendo il
discorso di McGee. Si guardò in giro. “Gibbs
dov’è?”.
“L’ha rapito Vance”, risposi con un’alzata di spalle, ripetendo ciò che avevo detto a Tony.
Abby fece una smorfia.
“Mmmh... allora potrebbe averne per molto”. Poi si
aprì in un sorriso e con una mano batté sul cuscino della
panca, indicando il posto vuoto vicino a lei. “Allora siediti
qui, facci compagnia!”.
Fissai la sua mano sulla panca con timore. “Sicuri che non disturbo?”, domandai titubante.
“Naaaah!”,
rispose McGee, accompagnando l’esclamazione con un gesto della
mano. “Stavo solo raccontando ad Abby un aneddoto su un mio
collega di quando lavoravo a Norfolk”.
“Ok”, mormorai, poi mi sedetti.
Non potei fare a meno di scrutare Abby dalla testa ai piedi.
Se l’avessi
incontrata per strada vestita in quel modo, difficilmente l’avrei
riconosciuta. Indossava un abito nero che le arrivava appena sotto il
ginocchio e che aveva una scollatura a barchetta che faceva risaltare
le sue spalle bianche. Aveva raccolto i capelli scuri in uno chignon,
ma aveva comunque tenuto la frangia a coprirle la fronte. Per di
più, il modo in cui si era truccata era inusuale per lei. Aveva
scelto dei colori tenui, un ombretto grigio perla e un rossetto lavanda.
Che diavolo le era successo?
“Cavoli, Abby, sei bellissima!”, esclamai con un sorriso.
“Anche tu non sei male”, rispose. “Il vestito è di Ziva, vero?”.
“Già”, replicai secca. Era davvero così evidente?
Ad un tratto Abby parve
accorgersi di qualcosa sul mio viso. “Ehi, che è
successo?”, domandò preoccupata. Posò le mani sulle
mie guance e con i pollici levò un po’ di trucco che,
probabilmente, era colato. “Hai gli occhi tutti rossi. È
accaduto qualcosa?”.
“No, non ti preoccupare”, risposi. Poi tolsi le sue mani dal mio viso con delicatezza per non offenderla.
“Mmmh...”, mormorò poco convinta.
Con l’intento di
sfuggire dagli occhi indagatori di Abby, mi voltai verso il punto in
cui erano Tony e Ziva, ma non li vidi.
Sussultai. No, non potevo
averli persi! Volevo assolutamente sapere cosa facevano in ogni secondo
da quel momento fino alla fine della serata! Senza accorgermene, mi
ritrovai in piedi.
“Ehi!”, esclamò Abby. La ignorai.
Scandagliavo la stanza in
cerca dei due piccioncini; riuscii a trovarli vicino alla porta
d’ingresso mentre uscivano. Ziva sembrava turbata e Tony la stava
trattenendo per un braccio mentre apriva la porta e la accompagnava
fuori.
Che cos’era successo? Dovevo assolutamente seguirli per scoprirlo.
Mi voltai verso Abby e McGee. “Scusate, vado a prendere una boccata d’aria”, dissi.
Tim si alzò in piedi. “Ti accompagno”.
Scossi la testa. “No, grazie, non serve. Torno subito”. Poi mi allontanai.
Uscii dalla sala e venni
investita dal fresco dell’esterno. Il buio era totalmente calato
sulla città, segno che il sole era tramontato già da un
pezzo. Alcuni lampioni stile anni venti illuminavano l’esterno
della sala da ballo. Sfregandomi le braccia per riscaldarmi, mi
maledissi per aver lasciato la mia giacca nel guardaroba del locale.
Ma, a quel punto, era inutile tornare dentro: dovevo trovare Tony e Ziva e non potevo perdere tempo.
Girai l’angolo del
palazzo, trovandomi nel parcheggio ben illuminato. Scrutai tra la
miriade di macchine parcheggiate, ma non c’era anima viva. Poi
notai l’oggetto delle mie ricerche: i due si trovavano in un
angolo, più vicini del previsto. Sgattaiolai indietro più
velocemente possibile e mi appiattii contro la parete.
Stetti ad ascoltare per
qualche secondo, per capire se ero stata vista, ma non udii nulla. Mi
arrischiai allora ad allungare il collo oltre l’angolo per vedere
cosa succedeva.
Tony e Ziva si stavano
fissando intensamente. Apparentemente non mi avevano notata. La donna
era appoggiata con la schiena contro il muro e Anthony posava le mani sulla parete,
sbarrandole ogni via di fuga.
“Perché ti comporti così, Tony?”, esclamò Ziva. La sua voce era un misto tra rabbia e timore.
“Te l’ho detto, non posso più fingere”, rispose Anthony, in tono affranto.
Mentre spiavo da dietro
l’angolo, mi chiesi che cosa stesse succedendo. Perché
Ziva si comportava in quel modo? La sua espressione sembrava sorpresa e
contrariata. Ma non l’avevo forse avvisata, quel pomeriggio, che
avrei parlato con Tony? Aveva capito quello che avevo inteso dire?
Oppure non si era aspettata che sarebbe successo qualcosa proprio
quella sera?
“Perché
adesso?”, continuò Ziva con lo stesso tono di voce.
“Perché proprio stasera?”
“Perché solo stasera ho capito cosa voglio davvero”, rispose Tony, deciso.
Ziva scosse la testa. “Perché hai aspettato così a lungo?”, domandò più calma.
Tony la fissò
confuso, mentre io, da dietro l’angolo, guardavo la scena
trattenendo il respiro. Sentivo che stava per succedere qualcosa.
Mancava davvero pochissimo...
“Cosa intendi dire?”, chiese Anthony.
Ziva aprì la
bocca per dire qualcosa, ma poi ci ripensò e la richiuse. Si
sollevò un poco dalla parete alle sue spalle e rimase sospesa, come se stesse riflettendo su
ciò che stava facendo.“Tu che cos’è che
vuoi?”, sussurrò, così piano che feci fatica a
comprendere le sue parole.
Tony la fissò negli
occhi per un po’, probabilmente cercando di capire se la risposta
che voleva dare sarebbe stata ben accettata dalla donna. Si
avvicinò a lei, tanto che ora i loro visi distavano solo qualche
centimetro.
“Voglio te”,
disse infine. La sua voce non si ruppe: Tony era calmo, sicuro di
sé. Lo ammiravo, per questo.
Ziva continuava a fissarlo senza
muovere un muscolo, tanto che temetti per Tony che la cosa non si
sarebbe conclusa come lui desiderava. La donna aprì bocca e
sussurrò: “Perché?”.
Anthony la guardò stralunato per qualche secondo, poi parve
mettere in ordine i suoi pensieri e iniziò quello che per me fu
il discorso più bello che avessi mai sentito.
“Io ti voglio perché non riesco ad immaginare la mia vita
senza di te: senza i tuoi occhi, che quando si illuminano diventano i
più belli che abbia mai visto; senza i tuoi modi di dire
storpiati, che io correggo ogni volta; senza le smorfie che fai quando
ti prendo in giro; senza i tuoi sorrisi, tutte le volte che mi canzoni;
senza la tua guida spericolata, che mi fa restare di sasso ogni volta
che ti lascio il volante...”.
A quel punto Ziva agì. Con un movimento rapido annullò la
distanza tra lei e Tony e lo baciò, interrompendo il suo
discorso.
In quel momento venni sommersa da diverse emozioni.
Per prima cosa, mi sentivo soddisfatta del mio
lavoro: alla fine, il mio maldestro tentativo di aiutare Tony e Ziva
aveva avuto successo. Mi piaceva pensare che ciò che vedevo in
quel momento fosse accaduto anche per merito mio.
In secondo luogo, ero felice per Tony: avevo
compreso fin da subito che provava qualcosa per Ziva, qualcosa che
andava ben oltre la fiducia e l’affetto tra colleghi. Anthony era
riuscito, con qualche difficoltà, a capire cosa desiderasse
davvero e quella sera se l’era preso. Era stato coraggioso ed io
ero sinceramente contenta per lui.
In fondo al mio stomaco,
però, un peso mi opprimeva il petto. Non riuscivo bene a capire
cosa fosse, ma in quel momento, nascosto com’era dalle altre due
emozioni positive, non riuscivo a percepirlo completamente, così
non mi sforzai più di tanto per cercare di capire cosa fosse.
I due piccioncini ora si
stavano baciando con più trasporto. Tony aveva infilato le dita
tra i capelli di Ziva e premeva il corpo contro il suo. Lei gli aveva
posato le mani sulla schiena e lo stava tirando verso di sé.
Non si poteva dire che non fossero coinvolti dalla situazione.
Ad un tratto, quasi senza
accorgermene, distolsi lo sguardo dalla scena e tornai a nascondermi
dietro l’angolo. Non me la sentivo di continuare a guardare, mi
sarebbe sembrato di violare la privacy di Tony e Ziva.
Mi sollevai dal muro, sul
quale mi ero appoggiata di schiena, e decisi di rientrare, alla ricerca
di Jethro e della mia giacca nel guardaroba: era ora di tornare a casa.
*Nota dell'autrice*
Sono molto dubbiosa rispetto a questo capitolo... cioè...
diciamo che questo è il culmine della storia ed è il
capitolo che tutti stavate aspettando e sono molto timorosa! Spero di
non aver deluso le vostre aspettative!...
Fatemi sapere come vi sembrato questo capitolo :) :) sono molto curiosa di sentire cosa ne pensate!
Non ho altro da dire per adesso, quindi vi saluto e ci vediamo la prossima settimana! :) :) :)
Chiara
|
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Capitolo 11 *** Capitolo 11 ***
Interceiding Is Often Had - Cap 11
Capitolo 11
Le vecchie abitudini sono dure a morire
La
mattina dopo, anche se era domenica, mi presentai agli uffici
dell’NCIS. La sera prima Jethro mi aveva detto che, nonostante
quello fosse il giorno di riposo di tutti i comuni mortali, non sarebbe
stato strano se la sua squadra si fosse comunque presentata al lavoro
di buon’ora. Così lo zio mi aveva consigliato di cogliere
l’opportunità per salutare tutti quanti prima di tornare a
casa con i miei nel Connecticut.
Accettai il suggerimento di
Jethro e alle nove in punto lo zio suonò il campanello; dopo
aver salutato per bene i miei genitori, che non avrebbe rivisto per
molto tempo, mi caricò in auto e partimmo alla volta del centro
città.
Entrammo nell’edificio e
salimmo in ascensore. Arrivati alle scrivanie della squadra dello zio,
rimasi sorpresa nel vederle vuote. Ma non mi aveva detto che ci
sarebbero stati tutti?
Jethro mi tirò per un
braccio e mi fece avanzare verso un corridoio che si trovava dietro la
grande scala di metallo, spingendomi con la mano sulla schiena. Le mie
occhiate confuse, che gli lanciavo per chiedergli dove diavolo mi
stesse portando, non sembrarono scuoterlo. Sul suo viso era stampato un
sorrisino che non riuscivo a decifrare.
Quando passammo davanti ad
alcune porte aperte, che davano sulle sale interrogatori, mi resi conto
che quel corridoio mi era familiare e ad un tratto capii dove Jethro mi
stava portando.
Entrammo nella sala
relax, la stessa dove avevo avuto l’interessante conversazione
con Ziva davanti alla macchinetta degli snack*, e trovai tutti
lì: Tony, Ziva, McGee, Abby, Ducky e Jimmy. Sul tavolino
circolare davanti a loro era posata una scatola aperta che conteneva
delle ciambelle enormi. Accanto, un gruppetto di bicchieri di cartone
faceva sperare che si bevesse del caffè.
Tutti sorrisero mentre Tony
esclamò: “Sorpresa!” allargando le braccia ad
indicare lo spazio attorno a sé.
Per essere sorpresa, lo ero davvero!
Guardai l’espressione di
ognuno di loro, poi mi misi a fissare le ciambelle. “Wow,
ragazzi! Non so cosa dire!”, esclamai. “A cosa devo
l’onore?”.
“Beh”, fece
Jethro, posandomi le mani sulle spalle, “oggi te ne vai e
chissà quando ti rivedremo. Volevamo salutarti come si
deve”.
“Il Connecticut non è lontano”, dissi sorridendogli. “Posso venire a farvi visita quando volete”.
Jethro sorrise e mi spinse
verso il tavolino, incoraggiandomi a prendere un caffè e una
ciambella, ma Abby mi si parò davanti.
“Davvero vuoi bere quella schifezza?”,
esclamò, enfatizzando la parola con una smorfia teatrale.
“Ti do la possibilità di scegliere: puoi bere
quello” – si girò verso i bicchieri posati sul
tavolo, sfoderando la stessa espressione di disgusto –
“oppure questo!”. Sfoggiò un sorriso a trentadue
denti e mi mise sotto il naso un bicchiere rosso che conoscevo
benissimo.
Il suo amato CafPow.
Fissai il bicchierone di plastica per qualche secondo, poi lo afferrai e iniziai a succhiare avidamente dalla cannuccia.
D’altronde si sa, le vecchie abitudini sono dure a morire.
***
Passammo la mattinata tutti insieme nella saletta, a mangiare ciambelle e a trangugiare chi semplice caffè, chi CafPow,
parlando dei più disparati argomenti: la nuova agente in prova
che era arrivata la settimana prima e che era stata assegnata alla
squadra di un loro collega – Tony non perse tempo a fare uno dei
suoi soliti commenti, assegnandole subito il soprannome di
“pivella” e dicendo che l’avrebbe vista bene come la
nuova ragazza di Palmer; la nuova miscela di caffè che veniva
offerta al bar dove McGee si riforniva di solito; un ex di Abby che
sembrava volesse rifarsi avanti (l’argomento provocò delle
occhiate da parte di Tim verso Abby e un inconfondibile colorito
rossastro sul suo viso, dovuto – molto probabilmente – a un
sentimento di gelosia che era rimasto represso troppo a lungo); un
nuovo film con Sean Connery che Tony era andato a vedere al cinema
qualche tempo prima e di cui sapeva già esibire qualche
citazione. Un paio di volte Ducky partì in quarta con uno dei
suoi soliti discorsi, che iniziavano con: “Ricordo una volta,
quando...”, ma, in entrambi i casi, venne subito interrotto da
Jethro, che giustificò la sua ingerenza dicendo che io non ero
abituata alle sue consuete chiacchiere, facendo così risparmiare
a tutti l’ascolto di un racconto lungo e contorto.
L’unico argomento che
non saltò fuori quella mattina fu il ricevimento della sera
prima. Nessuno, per un motivo o per un altro, voleva iniziare il
discorso: Tony e Ziva non potevano assolutamente
parlare di ciò che era successo tra di loro – visto che le
relazioni tra colleghi erano severamente vietate all’NCIS; Jethro
non voleva menzionare nulla riguardo quella sera a causa della
conversazione che noi due avevamo avuto riguardo Tony; Abby e Tim
avrebbero dovuto raccontare come avevano passato la serata –
cioè parlando, parlando e ancora parlando; Ducky e Palmer...
beh, in quel momento non potevo saperlo, ma loro non volevano iniziare
il discorso perché sarebbero stati costretti a raccontare della
tecnica da loro utilizzata per rimorchiare due belle signore.
Senza che ce ne rendessimo
conto, arrivò mezzogiorno. Il tempo era davvero volato;
d’altronde, ritrovandosi in una compagnia così varia e
piacevole, era inevitabile che il tempo passasse molto velocemente,
così come era successo per tutta la settimana.
“Zio...”, mormorai, dopo aver guardato l’orologio. “Ora devo proprio andare...”.
Abby si raddrizzò sulla sedia. “Come? Di già?”, domandò con un’espressione contrariata.
“Sì...”,
risposi dispiaciuta. “Beh, sono stata con voi un’intera
settimana”, dissi per cercare di tirare su di morale sia Abby che
me stessa. “Abbiamo passato diverso tempo assieme”.
“Non puoi rimanere ancora un po’, mia cara?”, fece Ducky.
Scossi la testa con un sorriso
forzato. “No, mi dispiace. Il mio aereo parte alle quattro e devo
sistemare le ultime cose in valigia”, spiegai.
“Beh, allora...”, iniziò Jethro, alzandosi in piedi. “Mi sa che dobbiamo salutarti.
Quello fu un momento davvero
terribile. Salutare i colleghi di Jethro mi strinse il cuore: avevo
passato con loro molte ore al giorno per un’intera settimana e
non rivederli più – o comunque per molto tempo – mi
dispiaceva davvero tanto. Erano delle belle persone, ognuna con il
proprio carattere; tutti diversi, ma che allo stesso tempo riuscivano a
completarsi. Era davvero una cosa bella.
Si misero tutti in fila per salutarmi: sembravano in processione.
Abby era la prima.
“Agente speciale Amy!”, esclamò con un singhiozzo,
buttandomi le braccia al collo e stringendomi forte. “Mi
mancherai tantissimo!”.
“Anche a me mancherai,
Abby. Ma non ti preoccupare”, risposi con un sorriso quando mi
lasciò andare. “Ci possiamo sempre sentire per e-mail. E
adesso che ho un computer tutto mio a casa, posso usare la
webcam”.
Con un altro singhiozzo, Abby si fece da parte e McGee avanzò.
“Beh... arrivederci”, mi salutò, allungandomi la mano.
La ignorai e lo strinsi in un abbraccio. “È stato un piacere, Tim!”, esclamai.
Poi fu la volta di Ducky e di
Palmer. Il primo mi prese le mani e le strinse caldamente.
“È stato bello rivederti, Miss Gibbs”, disse,
aggiudicandosi un mio sbuffo per l’appellativo che aveva usato.
Jimmy, invece, si limitò a stringermi la mano.
Dietro di lui c’era
Ziva, che mi fissò con uno sguardo enigmatico per un tempo
indefinito. Poi sfoderò lo stesso sorriso che mi aveva rivolto
il pomeriggio del giorno prima durante la prova dei vestiti: era pieno
di... gratitudine? Ancora una volta non riuscii a decifrarlo. Si
limitò ad allungare la mano, che io strinsi caldamente e forse
per troppo tempo. Ma lei parve non dispiacersene.
Poi toccò a Tony. Era rimasto per ultimo, il fifone! Mentre
gli sorridevo forzatamente, mi chiesi se davvero fosse lui ad avere
paura di quell’ultimo incontro faccia a faccia oppure io. Dopo la
mia sbirciatina nel parcheggio della sera prima – di cui Anthony
era ancora all’oscuro – non avevamo avuto modo di parlare
da soli. Anche se non credevo ci fosse qualcosa da dire.
L’espressione di Tony somigliava alla mia. Sguardo agitato, sorriso tirato.
Mi schiarii la voce. “Ciao, Tony”, dissi in un sussurro.
“Ciao, Amy”, rispose lui. Poi si scansò.
Jethro mi si parò davanti. “Ti accompagno a casa”, disse.
Scossi la testa. “Non ti
preoccupare, prendo un taxi”, risposi. “Non è
necessario che tu esca dal lavoro”.
Ci misi un po’ per
convincerlo, ma alla fine ci riuscii. Mi accompagnò
all’ascensore e, mentre aspettavo che arrivasse al piano, ci salutammo.
“Grazie di tutto, zio: per avermi tenuta qui e sopportata...”.
“Oh, figurati! È
stato un piacere, bambina mia”, rispose con un sorriso, poi mi
abbracciò. “Torna a trovarmi quando vuoi”.
Annuii e, dopo qualche altro abbraccio, entrai in ascensore e le porte si chiusero.
Uscii dalla porta principale
dell’edificio, ritrovandomi immersa nella luce accecante del sole
che illuminava il vialone d’accesso. Mi ero allontanata di una
ventina di metri, quando sentii una voce alle mie spalle.
“Amy!”.
Mi bloccai di colpo e non mi mossi per parecchi secondi. Quella voce l’avrei riconosciuta in qualsiasi momento.
Mentre cercavo di decidere se
voltarmi oppure no, sentii dei passi che si avvicinavano e una mano si
posò sulla mia spalla. A quel punto fui costretta a girarmi.
Stava sfoderando la stessa
espressione con la quale mi aveva salutata. Anzi no, non era uguale...
lo sguardo non era agitato, ma attento; il sorriso non era tirato, ma
aperto e rilassato.
“C’è una
cosa che devo dirti”, iniziò Tony, “e non avevo il
coraggio di farlo davanti a tutti”.
Ora quella agitata ero io. Il
mio cuore batteva all’impazzata e non sapevo perché; avevo
caldo, ma non era a causa dei 25° C che aleggiavano nell’aria.
Nonostante tutto quello che era successo tra me e Tony, ero ancora nervosa davanti a lui?
Dato che Anthony non accennava a proseguire, lo incalzai: “Cioè?”.
“Volevo ringraziarti”, disse in un soffio.
“Per cosa?”, domandai. Non sapevo perché, ma stavo cercando in tutti i modi di essere fredda.
“Beh, mi hai
aiutato...”, fece Tony. “Insomma, se non fosse stato per
te, non so per quanto tempo ancora avrei tenuto nascosti i miei
sentimenti”.
Lo fissai con un espressione che non rivelava alcuna emozione.
“Sì, insomma... io e Ziva abbiamo parlato e... abbiamo deciso di provare”.
“A stare insieme?”. Il mio cuore si contrasse impercettibilmente.
Sorrise. “Sì”.
A un tratto i miei occhi si inumidirono, riempiendosi di lacrime. Oh, insomma! Possibile che Tony riuscisse a farmi piangere di nuovo?
Ma quelle non erano lacrime di tristezza, bensì di gioia. Anzi, lacrime di vittoria.
Avevo davvero vinto.
“E, ripeto, è merito tuo”, continuò Tony.
“Beh, anch’io ho qualcosa da dirti...”, mormorai in soggezione. Sapevo di doverglielo dire.
Tony mi fissò, aspettano che continuassi.
“Sì, insomma... quando ieri sera hai invitato Ziva a ballare, io vi stavo tenendo d’occhio...”.
“È normale, volevi vedere come andavano le cose”, m’interruppe.
“Già...”,
risposi, “ma vi ho anche seguiti nel parcheggio. Vi ho visti,
mentre voi...”. Non finii la frase, leggermente in imbarazzo.
Con un gesto inaspettato, Tony
mi sollevò il viso, sfiorandomi il mento con due dita, e
piantò i suoi occhi nei miei. A quel punto dovevo essere
diventata rossa come un pomodoro.
“È
normale”, ripeté, scandendo le parole. “Volevi
vedere come andavano le cose”. La sua voce era profonda,
vellutata. Cosa diavolo stava cercando di fare?
Mi stava ammaliando?
Feci un microscopico passo indietro, distogliendo lo sguardo, e la sua mano si ritrasse.
“Tu... hai voluto intercedere”, disse Tony, con lo stesso tono di voce. “No?”.
“Beh, non ne sono
sicura...”, replicai imbarazzata. Poi alzai lo sguardo e notai la
sua espressione, leggendo nei suoi occhi qual era la risposta che
voleva sentire. “Credo... sì, credo che quello fosse il
mio intento”, conclusi con un sorriso.
Restammo a fissarci per un
po’, poi Tony parlò: “Dovrei tornare dentro”,
disse, indicando l’edificio arancione alle sue spalle.
“Sì”, risposi, un po’ imbarazzata. “Devo andare anch’io. Il taxi mi aspetta”.
Tony fece per andarsene, ma lo
fermai. “Puoi riferire un messaggio a Tim?”. Annuì.
“Digli che ci provi, con lei”.
Lo sguardo di Tony si accese, probabilmente aveva capito a chi mi stavo riferendo.
“Ma ti prego, Anthony, non farne un dramma, come al tuo solito. Sii discreto. Riferisci il messaggio e basta”.
“Okay”, rispose, e sentii un velo di delusione nella sua voce.
“Giuralo”, dissi severamente.
Si posò una mano sul cuore e alzò l’altra, mostrandomi il palmo. “Lo giuro”. Poi mi sorrise e si voltò, tornando indietro.
Lo guardai per qualche secondo, poi mi feci coraggio. “Tony!”, lo chiamai.
Si fermò, girandosi verso di me. Annullai la distanza
tra di noi con passo svelto, raggiunsi il suo braccio e mi ci aggrappai
di peso. Usai l’appoggio per alzarmi in punta di piedi posai le
labbra sulla sua guancia.
Il momento sembrò
interminabile. Tony era immobile, non opponeva resistenza. Il mio cuore
batteva ancora veloce. Con gli occhi chiusi, le uniche percezioni che
avevo erano il calore del sole sulla mia pelle, il profumo del
dopobarba di Anthony e la sensazione della pelle liscia della sua
guancia sotto le mie labbra.
Quando le dita dei piedi iniziarono a dolere, mi abbassai e mi voltai di scatto, allontanandomi una volta per tutte da Tony.
Mentre camminavo per
raggiungere la strada, feci attenzione a non voltarmi indietro: non
volevo sapere se Anthony fosse rimasto lì a guardarmi o se fosse
andato via. Mi limitavo a camminare e a sorridere, persa nei miei
pensieri.
Avevo passato del tempo assieme ai colleghi di Jethro e mi ero anche divertita.
Ma la parte migliore era un’altra: ero entrata nella vita di quelle persone e ad alcune l’avevo facilitata.
O almeno così mi piaceva credere.
_________________________________
Nota di fine capitolo:
*: la situazione cui si riferisce Amy è la parte finale del Capitolo 7.
*Nota dell'autrice*
Siamo agli sgoccioli, ragazzi! La storia è quasi
finita, dopo di questo capitolo c'è solo l'epilogo e poi un
capitolino extra... :) devo dire che mi dispiace che la storia sia
quasi finita, mi sono davvero divertita a scriverla e il fatto di
aggiornarla ogni settimana mi ha in un certo senso tenuto compagnia...
:(
Ma non vi preoccupate, Amy non vi abbandonerà! :) sarà la
protagonista di altre storie, che siano long o shot, che
scriverò di sicuro in futuro! :)
Comunque, che dire di questo capitolo se non che io lo adoro? :)
Sì, lo so, le mamme parlano sempre bene delle proprie creature,
ma questo capitolo mi piace davvero tanto :) il saluto finale tra Amy e
Tony è d'effetto :) o almeno quello era il mio intento!
In ogni caso, qui viene spiegato il titolo di questa fic: "Interceiding
is often hard", cioè intercedere è spesso difficile. In
effetti, per la nostra Amy è stato parecchio difficile fare in
modo che tra Tony e Ziva accadesse qualcosa, ma alla fine ce l'ha
fatta! :) la ragazza merita un applauso!
Vi lascio :) ci vediamo domenica prossima! :)
Chiara
|
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Capitolo 12 *** Epilogo ***
Interceiding Is Often Had - Epilogo
Epilogo
In cui tiro le conclusioni riguardo la mia strampalata avventura
I
miei genitori avevano preso sonno già da un po’, mentre io
ero rimasta sveglia. Avevo davvero provato a dormire, ma un turbine di
pensieri teneva la mia mente occupata e non mi aveva dato modo di
entrare nel mondo dei sogni, costringendomi a passare il tempo a
guardare fuori dal finestrino dell’aereo e ammirare la coltre di
nuvole che sembravano formare un tappeto bianco sotto di me.
Non potevo far altro, in quel
momento, se non lasciare che i pensieri vagassero nella mia mente; ma
erano caotici: era necessario fare un po’ d’ordine.
Cercai di trovare un collegamento logico
tra tutte le immagini e le parole che saettavano nella mia mente, ma
senza buoni risultati. Decisi che avrei avuto bisogno di un aiutino.
Tirai fuori un blocchetto e una penna dalla mia borsa e iniziai a scrivere le prime cose che mi passavano per la mente.
1) Agitazione di ieri sera. Cause?
2) Perché ho agito in quel modo?
3) Perché nessuno si era accorto di niente?
Pensieri incomprensibili, anche per me! Provai a decifrarli.
Presi in considerazione il
primo punto. Agitazione di ieri sera. Sapevo a cosa mi riferivo: la
sera prima, mentre sbirciavo la scenetta tra Tony e Ziva nel
parcheggio, nascosta dalla felicità per Tony e la soddisfazione
per il mio operato, avevo sentito qualcosa di diverso. Ricordavo solo
lontanamente la sensazione precisa che avevo provato, ma, la sera
prima, ricordavo di averla definita “peso nel petto”*.
Bene, avevo decifrato la sensazione.
Cause? Beh, quello era il problema.
Rimasi a fissare il foglio per
un po’, cercando di negare l’evidenza. Poi mi decisi e,
accanto a “Cause?”, scrissi una parola.
Gelosia.
Non potevo tenerlo nascosto, non più. Non a me stessa.
Per tutta la sera prima avevo
cercato di non darlo a vedere, ma ormai mi era chiaro che ero stata
gelosa. Non in maniera possessiva, no! Era qualcosa di diverso,
qualcosa di più complicato.
Il fatto era questo: sapevo
– come Ziva aveva ben capito qualche giorno prima – di
essere riuscita, in qualche modo, ad affascinare Tony. Non nel modo
proprio della parola, ma in senso lato. Cioè, ero riuscita a
scalfire la sua armatura fatta di comportamenti a volte infantili e
battutine pungenti, usandone a mia volta, e a penetrare in
profondità. Avevo capito quello che gli serviva e gli avevo dato
una mano per ottenerlo; probabilmente era stato questo a creare una
sorta di rapporto tra di noi. Ognuno era entrato nel cuore
dell’altro e non se ne sarebbe andato tanto facilmente.
Ma non c’era niente di romantico in tutto ciò; si era soltanto creato un legame.
Il peso nel petto che avevo
provato, però, era dovuto a qualcos’altro. Ciò che
mi aveva turbata era il fatto che, sapendo di aver attirato Tony a me
in qualche modo, poi lui si fosse comunque buttato tra le braccia di
un’altra. Sapevo che avrei potuto avere qualche chance con lui,
ma non avevo colto l’opportunità. Certo, magari la cosa
non si sarebbe realizzata, ma avevo davvero fatto di tutto per
tenermelo stretto?
No, assolutamente.
Quel dettaglio era ciò che mi permetteva
di pensare a Anthony senza rancore. Non ce l’avevo messa tutta
per tenermelo stretto, quindi la mia non era stata una totale sconfitta.
Sarei sopravvissuta, dopotutto.
Passai al secondo punto della mia lista. Perché avevo agito a quel modo?
Quella domanda riassumeva un
po’ tutto ciò che era successo durante la settimana. Mi
chiedevo perché, durante la mia permanenza, avevo cercato di
dare una mano a Tony nonostante la mia quasi gelosia.
La risposta era questa: ero
stata abbastanza matura da capire che il mio capriccio non mi avrebbe
portata da nessuna parte e da accorgermi che Tony mirava a qualcosa,
che mirava a Ziva. Così avevo deciso che sarebbe stato bello dargli una mano.
A quel ricevimento
l’avevo aiutato a rivelare finalmente i suoi sentimenti. Forse il
mio tentativo era stato un po’ confuso e maldestro, ma alla fin
fine gli avevo soltanto dato una spintarella nella giusta direzione.
Forse era proprio quello che
gli era servito. Sapere che qualcuno lo supportava e che poteva avere
una chance. Sapere di poter avere ciò che desiderava per poter
essere felice. Tony meritava di essere felice. Aveva sempre lottato per
ciò che voleva ottenere, ma quella volta la paura aveva preso il
sopravvento. Io l’avevo coccolato e rassicurato –
metaforicamente – e Tony era riuscito ad agire.
In quel momento mi sentivo
importante. La soddisfazione si fece forte come la sera prima.
L’aveva detto anche Tony: se non fosse stato per me avrebbe nascosto i suoi sentimenti ancora per molto tempo.
Accanto alla domanda
“Perché avevo agito a quel modo?” feci una freccia e
scrissi soddisfazione. Non era il motivo per il quale mi ero comportata
così, ma era un effetto collaterale che accettavo di buon grado.
Infine, analizzai l’ultimo punto. Perché nessuno si era accorto di niente?
Quella era una cosa che mi lasciava ancora perplessa.
Tony e Ziva lavoravano assieme
da anni e sapevo che avevano vissuto esperienze spesso rischiose.
Sperimentare vicende del genere – essere sempre sotto pressione,
far fronte a situazioni estreme che il loro lavoro spesso comportava
– aveva creato un attaccamento tra l’uno e l’altra
che nessuno dei loro colleghi si era accorto esistesse. Perfino loro stessi non si erano resi conto dei propri sentimenti.
Dio, come avevano potuto essere così ciechi?
Davvero nessuno si era accorto
di nulla? Nemmeno Jethro, l’occhio attento della squadra, aveva
fatto caso al rapporto tra i due? Mi sembrava impossibile. Magari
faceva soltanto finta di non vedere.
Quel quesito rimaneva ancora aperto.
Per il resto, potevo ritenermi soddisfatta.
***
Due settimane dopo il mio
ritorno a casa da Washington ricevetti uno strano pacco. Firmai la
ricevuta che il fattorino mi allungava e portai dentro il grande
scatolone, che posai sul tavolo della sala da pranzo.
Mia madre allungò la testa dalla cucina per guardare. “Cos’è?”, domandò curiosa.
“Non ne ho idea”, risposi, alzando le spalle.
Girai attorno al pacco un paio
di volte per guardarlo da ogni angolo, ma il suo aspetto esteriore non
mi forniva alcun indizio circa il suo contenuto. Soltanto un adesivo
giallo, attaccato sulla parte superiore, mi informava che proveniva da
Washington. Per il resto, lo scatolone se ne restava immobile sopra il
tavolo. Mi aspettavo davvero che da un momento all’altro si
aprisse da solo e ne saltasse fuori uno di quei clown con la molla che
si vedevano nei film dell’orrore?
“Avanti, aprilo!”, mi esortò mia madre, che era sbucata alle mie spalle.
Afferrai la forbice che mi
allungava e tagliai i chilometri di nastro adesivo che lo tenevano
chiuso. Poi sollevai le due ali superiori e lo aprii.
Oh, mamma.
“Che diavolo è
questa roba?!”, esclamò mia madre. Il suo sguardo vagava
frenetico tra il contenuto del pacco. I bicchieroni di plastica rossa
la guardavano di rimando.
“È soltanto caffè, mamma”, risposi con tono calmo.
“Quello?”, domandò diffidente, indicando l’ammasso rosso.
Tirai fuori un bicchiere e
glielo porsi. “Si chiama CafPow”, spiegai con un sorriso
mentre le mostravo l’etichetta. Avevo una vaga idea di chi ci
fosse sotto tutto quello.
“E chi te l’ha mandato? È tantissimo!”, esclamò.
In effetti, per essere tanto,
nove bicchieroni erano davvero troppi! Sapevo che Abby si scolava
quella quantità in un solo giorno, ma io non ero davvero come
lei! Non sarei mai riuscita a reggere tanta caffeina.
In quel momento notai che c’era un biglietto attaccato all’interno dello scatolone. Lo lessi.
Bel lavoro.
Jethro.
P.S. Tony e Ziva ti salutano.
Ah, si spiegava tutto!
“È stato lo zio”, risposi a mia madre.
“Perché?”, domandò.
Sbuffai, stanca di quel terzo
grado. “Perché sa che mi piace”, replicai
spazientita, poi presi lo scatolone e me ne andai in camera mia.
Non feci caso a cosa mia madre mi disse in quel momento. Avevo altri pensieri per la testa.
Soprattutto un pensiero: la domanda che mi ero posta sull’aereo di ritorno da Washington.
Mi ero chiesta se davvero
Jethro non si fosse accorto del legame tra Tony e Ziva, credendo che
fosse impossibile e che avesse fatto finta di non vedere.
Quello scatolone era la risposta che cercavo.
Sul biglietto, Tony e Ziva mi
salutavano, ma sapevo che non era vero. Mi era parso strano che
soltanto loro due mi salutassero e non – chessò - McGee.
Sapevo che quella era solo una provocazione da parte di Jethro. E quel
bel lavoro non poteva riferirsi ad altro se non al mio intervento nei
confronti di Tony.
Quindi lo zio si era accorto di tutto. Sarei stata sorpresa se non fosse stato così!
La mia domanda aveva avuto risposta, alla fine.
In quel momento, potevo davvero sentirmi in pace con me stessa.
FINE.
_____________________________________
Nota di fine capitolo
*: per sapere a quale sensazione Amy si riferisce, andate a vedere la fine del Capitolo 10.
*Nota dell'autrice*
La storia è ufficialmente finita. È stata dura,
ma alla fine l’ho conclusa. Un po’ mi dispiace,
perché questa mia creatura mi ha tenuto compagnia per molto
tempo... ma tutto deve avere una fine, prima o poi.
Ehi, però non andatevene, okay? Ci sarà un altro capitolo
dopo questo, una sorta di “extra”. Spero che lo leggiate e
che lo gradiate :)
Ultima cosa: questa avrà sicuramente un seguito. Dopo aver
creato il personaggio di Amy – con il suo carattere, la sua
personalità, i suoi pensieri e tutte le sue sfaccettature
– è dura lasciarlo andare. Quindi credo che non lo
farò! :) ho già qualche idea, ma sono ancora poche e
confuse. Ma giuro che mi impegnerò! :)
Credo che la storia, però, possa essere un po’ più
complessa e lunga di questa, quindi ci metterò moltissimo tempo
per scriverla... chi vivrà e mi seguirà, vedrà! :)
Quindi, chi volesse leggere un seguito, deve essere moooolto paziente... perché io sono molto confusa!! :) :)
Magari riuscirò a creare una serie :)
Ringrazio con tutto il mio cuore (anche se l’ho già fatto
in molti capitoli passati (: ) zavarix e kiriri93, le mie fedeli
recensitrici, che hanno commentato ogni capitolo :) e ringrazio anche
daylight per aver inserito questa storia tra le ricordate e Cecile,
KillianDestroy, Maia in Wonderland, perlanera, The perfect Slyth e
xrosis per avermi seguita! :)
Un bacione a tutti e ci vediamo domenica prossima con l'ultimissimo capitolo ;)
Chiara
|
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Capitolo 13 *** Extra ***
Interceiding Is Often Hard - Extra
Extra
In cui Abby scopre una verità
Era
ormai da un’ora che Abby si trovava davanti alla webcam del
computer del laboratorio. Se qualcuno fosse entrato in quel momento
nella stanza, per prima cosa avrebbe pensato che fosse diventata una
pazza che parlava da sola, poi si sarebbe accorto che sullo schermo del
computer Amy Steel chiacchierava allegramente con la scienziata.
Gli argomenti di
conversazione erano stati i più vari: il tempo;
informazioni sullo stato di salute di tutti i componenti della squadra;
novità. Quest’ultimo era stato il più ampio.
Da quando Amy se
n’era andata – Abby si era meravigliata di come potessero
essere già passati due mesi senza che la piccola Gibbs si fosse
fatta sentire! – erano cambiate parecchie cose.
Jethro era
diventato, temporaneamente, il direttore dell’agenzia e a tutti
sembrava che quell’incarico gli stesse troppo stretto*. In poche
parole, Gibbs odiava quel
ruolo. Non era mai in ufficio e si comportava come il solito –
risolvendo crimini sul campo eccetera – mentre le scartoffie si
accumulavano sulla scrivania. La segretaria del direttore continuava a
rincorrerlo di qua e di là per cercare di catturarlo e portarlo
nel suo ufficio – minacciando di ammanettarlo alla sedia se non
fosse venuto di sua spontanea volontà –, ma senza
successo. Jethro continuava bellamente a ignorare la povera donna e la
pila di documenti sulla scrivania diventava sempre più alta.
Palmer aveva una nuova fiamma: la nuova agente in prova tanto presa in giro da Tony**.
“No! Davvero?!”, aveva esclamato Amy. La sua voce
era stata distorta dalle vecchie casse collegate al computer.
“Alla fine Tony ci aveva visto giusto!”.
“Già”, aveva risposto Abby con un sorriso.
Anche Ducky aveva
fatto colpo su un esemplare femminile della specie: era ormai da
parecchio tempo, infatti, che frequentava la signora che aveva
rimorchiato al ricevimento, che si era scoperta essere la sorella di un
ufficiale invitato.
Tony e Ziva stavano
insieme. Loro erano convinti che nessuno lo sapesse, in realtà
la cosa era di dominio pubblico tra i membri della squadra. Gli indizi
erano inconfondibili: arrivavano e andavano via dal lavoro solo con
qualche minuto di differenza – cosa che, come Abby
assicurò ad Amy, non era mai accaduta –; una mattina
presto, addirittura, quando non c’era ancora nessuno in ufficio e
McGee li aveva chiamati per informarli su un caso, avevano risposto uno
al cellulare dell’altra, senza rendersene conto. Era chiaro cosa
stessero facendo prima di ricevere la chiamata.
E poi c’erano Abby e Tim.
“Ho delle grandissime novità!”, trillò Abby.
“Non me ne hai
già dette fin’ora, per caso?”, rispose Amy
attraverso lo schermo del computer, sorridendo. “Cos’altro
hai in serbo per me?”.
Abby si mise a
gongolare. “Beh, qualcosa che mi riguarda da vicino...”,
disse, ammiccando verso l’obiettivo della webcam.
“Avanti, non tenermi sulle spine!”, si lamentò Amy.
Abby aspettò qualche secondo, per creare della
suspense. Poi disse, tutto d’un fiato: “McGee e io usciamo
insieme”.
Amy non reagì
come la scienziata si sarebbe aspettata: la ragazza, infatti, non si
mosse di un millimetro, aspettando che l’altra continuasse.
“Beh?”, esclamò Abby con una smorfia. “Non dici niente?”.
“Io...”,
iniziò l’altra. “Non vorrei offenderti, Abby, ma...
non è una novità”.
“Che vuoi dire?”.
“Intendo dire
che ci sei già uscita insieme, in passato, e che la cosa non ha
mai avuto un seguito***”, rispose Amy in tono calmo, cercando di
non urtare i sentimenti dell’amica.
Abby si
corrucciò e incrociò le braccia con fare teatrale.
“Questa volta è diverso”, mormorò.
“Facciamo sul serio. La sera del ricevimento abbiamo parlato,
come non facevamo da tantissimo tempo, e ci siamo chiariti”.
Amy sorrise al di
là dello schermo. “Ho capito, Abby. Mi dispiace di aver
detto quelle cose prima... ma sono solo preoccupata per te. Non voglio
che tu rimanga delusa. Puoi perdonarmi?”.
Anche Abby sorrise. “Va bene, agente superspeciale Amy.
Ma solo perché sono innamorata di Gibbs e tu gli assomigli
troppo!”.
Amy si mise a
ridere. Poi tornò seria. “È da quasi un’ora e
mezza che parliamo, forse è meglio se chiudiamo qui”.
Abby si
corrucciò. “Di già?”. Poi notò che Amy
aveva sorriso, mentre fissava un punto alle spalle della scienziata.
“Ciao, Tim”, salutò la ragazza.
McGee, che si trovava in piedi dietro ad Abby, la salutò a sua volta con un sorriso.
“McGee!”, si lamentò Abby. “Mi farai venire un infarto, prima o poi!”.
“Mi dispiace
di non poter chiacchierare con te, Timothy”, si scusò Amy
da dietro lo schermo del computer, “ma devo studiare e ho perso
quasi tutto il pomeriggio con Abby!”.
McGee sorrise. “Tranquilla, vai pure. Avremo altre occasioni per parlare”.
“Salutatemi gli altri”, disse Amy, prima che spegnesse la webcam e che lo scermo diventasse scuro.
Abby era ancora imbronciata. Tim le posò le mani sulle spalle e posò il mento sulla sua testa. “Non essere cupa, Abby. La rivedrai presto”, la consolò.
“Non dirlo, se non ne sei sicuro!”, esclamò lei.
McGee non rispose subito, non sapendo cosa replicare. Poi,
dopo averci pensato su, disse: “Devo confessarti una cosa”.
Abby si risollevò un poco. “Cosa?”, domandò, curiosa.
“Amy ha dato il suo contributo anche con noi”, disse Tim. “Non ha aiutato solo Tony e Ziva.
Abby lo
guardò con gli occhi spalancati. Sapeva di ciò che Amy
aveva fatto con i suoi colleghi: era stata proprio lei a dirglielo. Ma
in quel momento non riusciva a capire cosa le stesse dicendo McGee.
“Che intendi dire?”.
Tim si
inginocchiò di fianco ad Abby e la fissò negli occhi.
“Ha detto a Tony di riferirmi un messaggio. Mi ha detto di fare
un tentativo”.
Abby si accigliò. “Con me?”, disse, indicandosi con un dito.
Tim sorrise.
“Sì”, sospirò, “e io ho accettato il
consiglio. D’altronde, se è riuscita a far combinare
qualcosa tra Tony e Ziva, ho pensato che avesse visto giusto anche con
noi. È stata sempre qui con te e credevo che potesse aver notato
qualcosa”.
“Se io ci sarei stata?”, domandò Abby con un sorrisino.
McGee si avvicinò a lei. “Già...”, mormorò. Poi la baciò.
Abby rise, infilandogli le dita tra i capelli. “Quella ragazza è mitica”, sussurrò tra le sue labbra.
Poi la sedia cadde per terra insieme a loro.
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Nota di fine capitolo
*: il fatto che
Gibbs diventasse temporaneamente direttore è accaduto, in
realtà, quando c’era ancora Jenny Shepherd.
**: per capire di chi si parla, leggete l’inizio della seconda parte del Capitolo 11.
***: in effetti,
Abby e McGee si sono frequentati durante la prima stagione, quando
Timothy non faceva ancora parte della squadra ma lavorava ancora a
Norfolk.
*Nota dell’autrice*
Questo capitolo extra lo dedico a tutti i fan McAbby, ma soprattutto a
kiriri93, che quando, in una recensione di un capitolo passato, mi ha
chiesto se ci fosse qualche momento McAbby e le ho dovuto rispondere
che non ce n’erano, mi era immensamente dispiaciuto!
Kiriri93, spero che questo capitolo ti sia piaciuto! :) :) e che sia piaciuto a tutti voi! :)
La storia ora è completa. Mi dispiace davvero tanto che sia
finita, ma in questo periodo sono impegnata a iniziare il seguito,
quindi Amy continua a farmi compagnia :) e terrà compagnia anche
a voi quando inizierò a pubblicare il seguito! :)
Questa storia, assieme con altre che riguarderanno Amy, farà
parte di una serie, che si chiamerà She came into Our Lives and
Changed Everything. So che il nome è un po' lungo, ma
credo riassuma in una sola frase l'essenza della serie :) Amy è
entrata nella vita dei nostri agenti preferiti e le ha modificate.
Spero che seguirete anche le altre mie storie della serie... Amy ci conta! :)
Tanti baci a tutti i fans dell'NCIS! :)
Chiara
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