Interceding Is Often Hαrd

di dalialio
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Epilogo ***
Capitolo 13: *** Extra ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Interceding Is Often Hard

Interceding is often hard

 

The Naval Criminal Investigative Service

 



I personaggi presenti nella storia sono tutti di proprietà di Donald P. Bellisario (tranne il nuovo personaggio che ho creato io e che è di mia esclusiva proprietà); questa storia non è stata scritta con alcuno scopo di lucro.


Salve a tutti! Questa è la prima storia che scrivo sull'NCIS (che è decisamente la mia serie TV preferita!!). Vi preannuncio che in questa storia non ci saranno delle indagini su un caso o cose del genere: questa ff parla solo dei personaggi della serie, soffermandosi di più su qualcuno di loro.
La storia è ambientata in un momento indefinito della serie; in futuro, se si faranno riferimenti a degli episodi specifici questi verranno riportati in una nota.
Questo capitolo è un esperimento; ne ho già preparati degli altri, che eventualmente pubblicherò in futuro se la storia stuzzica la vostra curiosità ;) quindi fatemi sapere se la ff è valida per avere un seguito!
A chi volesse avventurarsi nel leggere questo capitolo auguro buona lettura!! :)



Lo stolto cerca la felicità lontano; il saggio la coltiva sotto i propri piedi.

James Oppenheim








Capitolo 1

In cui una canzone molesta porta ad
una presentazione rivelatrice


Bastò che riferissi il mio nome e le mie generalità alla reception dell’edificio con i muri esterni arancioni per permettermi l’accesso ai piani superiori. Fu più facile di quanto avessi immaginato.
Dopo essere stata sottoposta a un accurato controllo – con tanto di perquisizione, metaldetector e rovistamento nella borsa – la guardia armata mi permise di salire in ascensore. M’informai velocemente riguardo a quale piano dovessi andare e, dopo aver premuto il pulsante corrispondente, le porte fredde e metalliche si chiusero di fronte a me con un suono dolce e l’ascensore iniziò il suo viaggio.
La sala sulla quale si aprirono le porte era davvero grande, con il soffitto alto due piani. Uomini e donne vestiti elegantemente camminavano veloci su e giù attraverso i corridoi formati dalle scrivanie, ordinatamente separate con divisori di metallo. Quasi tutto – separatori, muri, moquette – era arancione, e ciò che non era di quel colore risaltava agli occhi con il grigio metallizzato. Soprattutto la scala sulla destra della stanza e la ringhiera del piano superiore, che circondava l’intero perimetro della sala e si affacciava sul mare di lavoratori seduti al proprio tavolo. La lunga parete alla mia sinistra era tappezzata da foto di facce in bianco e nero, incorniciate in riquadri grigi. Alcune di loro erano barrate di rosso. Era alquanto inquietante.
Mi avvicinai alla prima persona che riuscii a fermare e le domandai le informazioni che mi servivano. La donna m’indicò un punto al di là di un divisorio. La ringraziai e mi diressi verso il luogo che mi aveva mostrato.
Superato il pannello di metallo, tuttavia, non trovai quello – o meglio chi – stavo cercando. Ciononostante, sapevo chi fossero l’uomo e la donna che erano seduti alle rispettive scrivanie, anche se questi non avevano nemmeno l’idea di chi fossi io.
L’inconveniente, comunque, non era un aspetto negativo. Al contrario, avrebbe fatto aumentare l’effetto sorpresa.
Mi avvicinai cautamente alla scrivania della donna. “Mi scusi?”, iniziai. Poi, quando quella alzò lo sguardo, continuai: “È questo l’ufficio dell’agente Gibbs?”.
La donna si accigliò, guardandomi dalla testa ai piedi. Potevo indovinare cosa stesse pensando. Cose del tipo: cosa ci fa un’adolescente qui dentro? E perché chiede di Gibbs?
Nonostante tutto, la donna dai lunghi capelli mori mi rispose cortesemente: “Sì. Chi lo cerca?”.
Non risposi alla sua domanda, ma mi limitai a porgliene un’altra. “È quella la sua scrivania?”, le chiesi, additando il tavolo ben in vista accanto a quello dove si trovava l’altro uomo, che non potevo vedere poiché alle mie spalle.
Lei si accigliò ancora di più e scosse leggermente la testa. “Ehm... no”, disse insicura. “Ma non vedo come questo...”.
Non le lasciai finire la frase. Mi diressi verso la scrivania nascosta da un divisorio di metallo, accanto al tavolo della donna, individuandola – andando per esclusione – come quella che stavo cercando. Ci posai la mia borsa con forse troppo vigore e mi accomodai sulla sedia imbottita piegando lo schienale all’indietro.
Trovai il mio iPod nella tasca dei jeans e m’infilai le cuffie, tanto per ascoltare della musica nell’attesa. Mi misi a canticchiare a bocca chiusa.
Intenta a cercare nel lettore mp3 la canzone che dalla mattina continuava a risuonarmi in testa senza voler smettere – così da cercare di mettere fine alla mia agonia ascoltandola ancora e ancora fino a farmi stufare –, non mi accorsi che l’uomo seduto alla scrivania di fronte, che fino a quel momento non avevo badato minimamente, si era avvicinato a me con espressione sospettosa.
“Mi dispiace disturbarti, ragazzina”, iniziò quello sarcasticamente, costringendomi a togliermi le cuffie e ad alzare gli occhi verso di lui, “ma mi piacerebbe sapere chi sei e perché cerchi l’agente Gibbs”. Piegò la testa da un lato. “Tanto più, non sei autorizzata a spaparanzarti sulla sua sedia e ad abusare dei suoi spazi in questo modo”. Si chinò leggermente in avanti per farsi più vicino. “Si arrabbierebbe molto se sapesse che una ragazzina qualunque sta toccando le sue cose”.
Non riuscii a trattenere una risata. “Ah, non credo che questo accadrà”, esclamai euforica.
L’uomo appoggiò le mani sul tavolo e si allungò verso di me, imitando la mia risatina. “Come fai a dirlo, ragazzina?”.
Se mi avesse chiamata di nuovo ragazzina, gli avrei dato uno scappellotto sulla nuca.
Raddrizzai la schiena, raggiungendo l’uomo, poi abbassai lo sguardo e finsi una risatina divertita. “Lei non sa chi sono io...”. Alzai gli occhi per guardare la reazione del tizio. “...agente speciale Anthony DiNozzo”, conclusi.
Quale soddisfazione vedere la sua espressione sconcertata! Meglio di uno scappellotto. I suoi occhi si spalancarono e la sua smorfia da sfottente sparì in un secondo.
La voce che volevo sentire interruppe la risposta che l'uomo di fronte a me aveva intenzione di darmi.
“DiNozzo!”, urlò da qualche punto dietro di lui.
Tony si drizzò in un istante. “Sì capo!”, esclamò.
La voce si fece più vicina. Ora era alle sue spalle. “Perché stai toccando la mia scrivania?”, gli domandò con tono minaccioso.
DiNozzo tolse le mani dal tavolo, fissando, con la stessa espressione scombussolata, un punto indefinito di fronte a lui. “Niente, capo”, rispose, poi si voltò verso la voce con il palese tentativo di nascondermi dagli occhi grigio ghiaccio che lo stavano fissando.
L’uomo cui appartenevano la voce e gli occhi si spostò di lato e fu a quel punto che mi vide.
Gli sorrisi, contenta di vederlo, e alzai le spalle con aria innocente. “Io gliel’ho detto che andava bene se stavo qua, Jethro, ma il tuo agente non mi ha dato retta”, mi giustificai, usando un tono dispregiativo quando arrivai a dire ‘agente’.
Tony assunse la stessa espressione sconcertata di prima. “La conosci?”, chiese a Gibbs, mentre indicava velocemente ora me ora lui agitando furiosamente il dito.
Jethro mi fissò con sguardo di rimprovero, aggrottando le folte sopracciglia. “Non ti sei presentata?”, mi accusò.
A quel punto, mi alzai lentamente in piedi, feci il giro della scrivania e mi piazzai di fronte a Tony. Allungai una mano verso di lui e alzai il mento, assumendo un’espressione provocatoria come quella che lui aveva usato con me. “Piacere, Amy Steel”, mi presentai quando quello, dubitante, afferrò la mia mano. La sua espressione confusa era uno spasso. Ovviamente il mio nome non poteva suggerirgli nulla.
“Piacere”, mormorò, senza cambiare espressione.
“È mia nipote”, spiegò Jethro.
Tony sciolse la presa dalla mia mano e fissò prima me e poi Jethro con aria confusa. L’unico suono che gli uscì dalla bocca sembrò un urlo a bassa voce che conferì una nota inquietante alla situazione.












*Nota dell'autrice*

Rieccomi qua alla fine del capitolo! :)
Questo capitolo è partito come un'idea strampalata, ma poi, con un po' di buona volontà, sono riuscita a trasformarlo in qualcosa di - almeno credo... :) - leggibile.
Sarei davvero felice se mi lasciaste un commentino per sapere le vostre impressioni, se pensate che possa essere un valido inizio per una long :)
A tutti gli appassionati dell'NCIS mando un bacione! :*
A presto!

Chiara

P.S: per tutti i fan Tiva: se la storia continuerà non sarete delusi! Ho in mente qualche ideuzza... ma per ora non svelo altro! :)

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Interceding Is Often Hard- Cap 2 La storia non è ambientata in un momento definito della serie. Tutti i riferimenti ai vari episodi devono ritenersi utili solo per il proseguimento della storia stessa.


Eccomi qua con il secondo capitolo :) premetto che questa è la mia prima long (o forse mini-long... dipenderà tutto da come si evolverà la storia ^^), quindi questo è il primo secondo capitolo di una storia che pubblico (discorso contorto ma spero abbiate capito!) e sono molto emozionata... *arrossisce come una scolaretta e si guarda i piedi imbarazzata*
In questo capitolo la storia prosegue e il rapporto della protagonista con Tony si evolve...
Non dico altro e vi lascio leggere! :)





Capitolo 2

Il caffe’ e le espressioni di un certo agente
diventano gli elementi fondamentali del mio divertimento



“Allora, come stai?”, mi chiese lo zio, porgendomi un caffelatte con panna e doppio zucchero in un bicchiere di cartone. Ci trovavamo in una stanza al piano superiore che poteva avere le dimensioni un ufficio, ma che somigliava più a una piccola sala riunioni, con un tavolo grigio scuro al centro della stanza e una decina di sedie nere attorno. Le pareti erano dipinte di quell’arancione che ormai era per me diventato tipico degli uffici dell’NCIS, i Servizi Investigativi della Marina.
Era lì che lavorava Leroy Jethro Gibbs, come capo della sua squadra composta di tre persone sul campo, in aggiunta alla perita forense ed esperta di computer Abigail Sciuto e all’anatomopatologo Donald Mallard.
“Bene”, risposi automaticamente mentre afferravo il bicchiere. Bevetti un sorso di caffè bollente e lo sentii scendere giù per la gola fino a scaldarmi lo stomaco. Che piacevole sensazione.
“Non sarai mica venuta qui da sola”, esclamò Jethro, sollevando un sopracciglio con espressione di rimprovero e sedendosi a capotavola alla mia destra.
“Sì”, dissi inconsciamente, poi mi corressi: “Cioè, no. Sono a Washington con i miei genitori, ma loro sono qua per affari, quindi saranno molto impegnati in questi giorni. Non mi hanno accompagnata qui oggi”.
Dopo aver risposto ad alcune domande riguardo sua sorella – la mia nonna paterna – e il resto della famiglia, replicando sempre positivamente, passò a chiedere riguardo la scuola, come erano andati gli esami di maturità e se avevo intenzione di iscrivermi al college.
“Già fatto”, risposi euforica. “Giurisprudenza. Ho una paura folle!”, gli confidai.
Dopo avermi rassicurata sul fatto che la mia decisione era stata, secondo lui, la più giusta, visto la mia predilezione per la materia giuridica, le sue domande si esaurirono e fu la mia volta di fargliene.
“E tu, invece, come stai?”, gli domandai dopo aver bevuto un sorso di caffè. Piegai la testa da un lato. “L’ultima volta che ti ho parlato eri su una spiaggia deserta del Messico a costruire barche di legno*”.
Jethro si lasciò andare ad una risata divertita. “Beh... le cose sono cambiate molto da allora”. Annuì più volte, con la testa altrove. “Si è rimesso tutto a posto”.
Annuii anch’io. “Ottimo”, commentai, sollevata. Ero contenta che lo zio si fosse ripreso dal suo momento di crisi interiore, quando aveva lasciato il suo lavoro per trasferirsi in Messico assieme al suo ex-capo.
Tuttavia, non ebbi il coraggio di chiedergli altre informazioni al riguardo: sapevo che quello era per lui ancora un argomento delicato.
Finiti i caffè e le chiacchiere, uscimmo dalla stanza e scendemmo al piano inferiore usando le scale sul retro invece delle principali, dalle quali eravamo saliti in precedenza.
Girato subito l’angolo e ritrovatici nell’ufficio di Gibbs, mi imbattei nella schiena di DiNozzo, qualche metro più avanti a me.
Jethro mi afferrò per un braccio e mi tirò indietro, portando l’indice alle labbra per farmi segno di stare in silenzio. Decifrai il suo sguardo divertito e trattenni una risata.
Con la sua stazza, DiNozzo copriva per metà la donna - la stessa che avevo conosciuto prima – e un altro uomo - che capii subito chi fosse, andando per esclusione – che gli stavano di fronte.
“Non riesco a capire come quella ragazzina possa permettersi di comportarsi così sfacciatamente”, si stava lamentando DiNozzo. “Potrebbe pure essere la nipote del Presidente, ma io non le permetterò di trattarmi in quel modo”.
Lo sguardo della donna incontrò il mio e si accorse di me e Jethro. Sbatté le palpebre imbarazzata, poi guardò DiNozzo. “Tony...”, mormorò all’uomo di fronte a lei.
“Non interrompermi, Ziva! Stavo esprimendo il mio disappunto sulla questione”, esclamò quello. Poi continuò: “E poi non riesco a capire come faccia a essere così simile a Gibbs anche senza portare il suo cognome. Mi chiedo quale parentela ci sia fra loro...”.
In quel momento, Jethro mi diede una pacca sulla spalla e con la mano fece un gesto verso il gruppo. Ero pronta.
“Non è molto complicato, agente DiNozzo”, dissi di punto in bianco, incrociando le braccia. “Ci potrebbe anche arrivare da solo, facendo un paio di tentativi”.
Colto alla sprovvista, Anthony si immobilizzò di colpo, trasalendo. Vidi Ziva e l’altro uomo guardare verso di me e trattenere una risata.
DiNozzo si voltò lentamente. Un sorriso di imbarazzo era stampato sulle sue labbra, le stesse che quel giorno mi avevano chiamata “ragazzina” per ben quattro volte. Gliel’avrei fatta pagare, in un modo o nell’altro.
Il suo sorriso imbarazzato si allargò allo stesso modo in cui io stesi le labbra con espressione di superiorità.
“Stavo giusto pensando a delle possibilità”, si giustificò, mantenendo la sua espressione.
“E cos’ha scoperto fin’ora?”, domandai petulante.
DiNozzo fissò Jethro con un’espressione da rimbecillito. “Che tu non hai fratelli, capo, quindi non so come spiegare la cosa”.
“È la mia pronipote, DiNozzo”, rispose lui, con un tono come se la cosa fosse nota a tutti.
Anthony spalancò gli occhi, palesemente confuso, mentre il suo sorriso svanì lentamente. “Allora non riesco a capire...”.
“Sua sorella è la mia nonna paterna”, spiegai in tono fintamente seccato, indicando Jethro con una mano. Adoravo prendere in giro quell’uomo a quel modo.
Lasciando DiNozzo perso nei suoi confusi pensieri, lo aggirai e mi diressi verso gli altri due agenti.
“Ziva, Timothy”, li salutai, guardando prima la donna poi l’uomo. Ignorai le loro espressioni sorprese e diedi loro la mano. “Mi chiamo Amy Steel”, mi presentai. Poi mi voltai verso DiNozzo, lanciandogli un’occhiata eloquente. “Ma forse lo sapevate già”.
Ziva mi fissò con sguardo pieno di ammirazione. “È davvero un piacere conoscerti”, affermò.
“Anche per me lo è”, risposi, sorridendo compiaciuta. “Finalmente vi posso conoscere!”.
McGee sollevò le sue folte sopracciglia. “Finalmente?”, chiese.
Annuii. “Jethro mi ha parlato molto di voi”, spiegai.
“Davvero?”, esclamò DiNozzo alle mie spalle.
Prima che potessi ribattere con una constatazione pungente, Jethro intervenne. “Portatela a salutare Abby e Ducky”, propose. “Credo che ne sarebbero felici”.
Tony fece per aprire bocca, ma lo zio lo interruppe. “Tutti e tre”, precisò, fulminandolo con lo sguardo.
L’espressione di DiNozzo era indescrivibile. Se non mi fossi trattenuta, probabilmente sarei scoppiata a ridere.
Jethro andò via con la scusa di avere delle faccende importanti da sbrigare, poi rimasi sola con i tre moschettieri.
McGee fu subito di fianco a me. “Vieni”, disse, e lo seguii. Lo stesso fecero gli altri due. Il silenzio regnò diligente fino all’ascensore. La tensione era palpabile.
Ad un tratto scoppiai. “Potete chiedermi quello che volete”, chiarii, divertita per il loro comportamento.
Le loro voci si accavallarono l’una sulle altre per mezzo minuto, curiose, arrabbiate e incredule. Non riuscivo a capire nulla. Alzai le mani di fronte a loro e le agitai per attirare la loro attenzione. “Calma, calma!”, urlai per farmi sentire. “Uno alla volta”.
Per prima scelsi Ziva, che, mentre entravamo in ascensore, mi chiese come Jethro l’avesse descritta a me.
“Si fida molto di te”, risposi. “Davvero molto”. Scorsi la sua espressione compiaciuta quando sentì le mie parole. “Ti considera probabilmente la più maschia del gruppo”, continuai, con disappunto dei due uomini accanto a me. “Mi ha raccontato qualche aneddoto sulla tua guida e su altri tuoi comportamenti avventati... ma, nonostante questo, Gibbs crede che tu ci sappia veramente fare”.
Poi fu il turno di McGee, che mi pose la stessa domanda.
“Jethro mi dice sempre che se non ci fossi tu, probabilmente il computer lo mangerebbe!”, esclamai, provocando una risata in Tim e Ziva. “No, sul serio”, continuai, finito il momento di ilarità. “Dice che sei capace di quello che lui non riuscirebbe a fare neanche se volesse. Per lui sei prezioso”.
McGee arrossì e in quel momento le porte si aprirono. Fui la prima a uscire, ma, appena messo piede fuori, DiNozzo mi fermò.
“Ti sei dimenticata di me”, disse, con il suo solito falso sorriso.
“Ah, sì...”, mormorai, fingendo che fosse così. “Cosa vuole sapere?”, chiesi, mantenendo volutamente la formalità per prenderlo in giro.
“Cosa Gibbs ti ha detto di me”.
Annuii più volte, fingendomi sovrappensiero. “Mi ha detto che spesso ti comporti da buffone e che ricevi molti scappellotti”, risposi, e, vedendo la sua espressione esterrefatta, mi girai dall’altra parte e risi sotto i baffi.
La porta del laboratorio di Abigail Shuto era spalancata e, da dove mi trovavo io, si poteva sentire la musica metal-rock a pieno volume. Entrare lì sarebbe stato un inferno per i miei timpani.
Nonostante questo dettaglio, Ziva e McGee entrarono nella stanza senza problemi. Io feci lo stesso, seguita, a distanza un po’ troppo ravvicinata da Tony, che – come potevo vedere guardando dietro di me con la coda dell’occhio – era davvero arrabbiato.
Il laboratorio in cui mi ritrovai era composto da vari macchinari bianchi che non avevo mai visto in vita mia, da due tavoli posti a distanza al centro della stanza, sopra uno dei quali erano presenti due computer, e da una fila di quelli che somigliavano a dei frigoriferi da supermercato sul muro a destra. Le pareti erano pitturate di indaco e una porta a vetri, posta sulla parete opposta a quella dalla quale ero entrata, dava su un’altra stanza.
Poiché lì non si vedeva nessuno, Ziva si diresse verso la porta a vetri, che si aprì automaticamente al suo passaggio. Appena il vetro si scostò, la musica aumentò di volume in modo allucinante.
Avanzando cautamente di qualche passo, scorsi due codini neri muoversi saltellando da dietro una scrivania posta appena dietro l’angolo. La musica si abbassò leggermente: probabilmente Ziva aveva fatto notare il volume troppo alto dello stereo.
Mi decisi ad attraversare la stanza, seguita da Timothy e da Anthony come due cagnolini.
“Ascolti ancora quella roba, Abby?”, esclamai teatralmente inorridita appena oltrepassai la porta.
Non feci tempo a finire la frase che la scienziata spalancò gli occhi e, resasi conto di chi fossi, saltò in piedi e, dopo aver girato attorno alla scrivania, mi balzò letteralmente addosso, buttandomi le braccia al collo.
“L’agente superspeciale Amy! Non ci posso credere!”, urlò, ancora più forte della musica. Si scostò da me di qualche centimetro. “Fatti vedere!”, squittì, afferrandomi per le spalle e guardandomi dalla testa ai piedi.
Abby era acconciata proprio come mi aspettavo. Anche se ormai trentenne, apparentemente non aveva ancora detto addio al look da classica adolescente dark. Indossava una corta gonna a balze bianca e nera, un paio di stivaloni lunghi fino al ginocchio neri, una maglia punk nera e un collare nero borchiato. I suoi capelli neri erano raccolti in due codini alti e la fitta frangia le copriva interamente la fronte. Le unghie erano smaltate di nero e le labbra coperte da un rossetto nero.
Nonostante il suo aspetto cupo, il suo carattere era davvero l’opposto. Abby era sempre solare e felice e le piaceva scherzare con le persone.
“Oddio quanto sei cresciuta!”, esclamò, ancora sotto shock. “Quanti anni hai?”.
“Diciotto”, risposi sorridente.
Abby parve illuminarsi. “Che grande!”.
DiNozzo, che si era sistemato vicino alla porta scorrevole, sembrò sul punto di svenire. “Vi... vi... voi due vi conoscete?”, balbettò. Ancora una volta, la sua espressione – occhi spalancati, bocca tremante – era a dir poco spassosa.
Abby lo fissò come se avesse parlato un’altra lingua. “Certo che conosco la piccola Gibbs!”, esclamò, spalancando la bocca con uno schiocco eloquente.
In quel momento i miei occhi si posarono su un gruppo di immensi bicchieroni di plastica rossi che invadevano la scrivania alle sue spalle. “Abby, cosa sono tutti quelli?”, le chiesi curiosa, indicando l’ammasso di plastica e ignorando la reazione di Tony.
“Ah, sono lì da ieri”, rispose lei sovrappensiero.
“Sì, ma... cosa sono?”, continuai, volendone sapere di più.
Lei spalancò gli occhi. “Non sai cos’è il CafPow?”, domandò alzando la voce di un’ottava.
Avevo paura a risponderle. “Ehm... No”, ammisi.
Si voltò verso la scrivania e afferrò uno di quegli immensi bicchieroni con coperchio e cannuccia. “Assaggia”, disse porgendomelo, un sorriso malizioso che le illuminava il volto.
Afferrai l’oggetto e lo guardai con sospetto. Poi mi decisi e succhiai dalla cannuccia.
Il gusto del caffè inondò la mia bocca e scese giù per la gola fino allo stomaco. L’odore intenso della bibita invase i miei polmoni e mi penetrò fino al cervello, inebriandomi. Rischiavo quasi una convulsione.
Ma quello fu decisamente il caffè migliore che avessi mai bevuto in tutta la mia vita.

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Note di fine capitolo:

*: nell'episodio 3x24 Gibbs va in pensione e si ritira in Messico con Mike, il suo ex-capo di quando ancora Jethro lavorava all'NIS e che lo chiama ancora "pivello". Nel periodo in cui Gibbs è lontano è Tony, in qualità di agente più anziano, a prendere il suo posto come capo della squadra.












*Nota dell'autrice*

Rieccomi a fine capitolo :)
Spero che la scena dell'incontro con Abby sia stato di vostro gradimento :) mentre scrivevo l'inizio del capitolo ho pensato: "Perché Abby non potrebbe già conoscere la nipote di Gibbs?" e così ho iniziato a immaginare le reazioni di Tony, Ziva e McGee e non ho avuto il coraggio di modificare la storia in qualche modo.
Se anche questo capitolo vi è piaciuto fatemelo sapere con un commento.
Se, invece, non è stato di vostro gradimento, fatemelo sapere lo stesso :)
Ci vediamo con il prossimo capitolo! :)
Chiara

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Interceding Is Often Hard- Cap 3
Voilà il terzo capitolo della storia :) mi scuso già per la mia incostanza nel pubblicare i capitoli, ma scrivo un po' lentamente ^^ quindi non vi allarmate se tra uno e l'altro passa tanto tempo... vi assicuro che la storia andrà avanti fino alla fine!! :) dovete avere soltanto un po' di pazienza :)
Ora vi lascio leggere :) ci vediamo sotto!




Capitolo 3

In cui mi rendo conto del mio comportamento sgradevole e cerco di porvi rimedio


Io e Abby ci conoscevamo da quando, parecchi anni prima, Jethro aveva invitato me e la mia famiglia più lei, Ducky e il suo assistente a una Festa del Ringraziamento a casa sua. Da quel momento, Abby era rimasta stregata da me e non mancava mai l’occasione di scambiarci e-mail per sparlare dei suoi colleghi. Più che da mio zio, il numero maggiore di informazioni sulla sua squadra lo dovevo ai pettegolezzi di Abby.
Evitando le domande curiose di DiNozzo riguardo alla conoscenza mia e di Abby e rispondendo a quelle di Timothy e Ziva con un “vi spiegherò più tardi”, montammo in ascensore per scendere al piano meno uno per andare da Ducky.
A quel punto la stizza di DiNozzo nei miei confronti era palese. La tensione che irradiava il suo corpo teso era palpabile. Un po’ mi dispiaceva per come l’avevo trattato. Ma solo un po’.
“Sarà meglio che tu non esca dall’ascensore”, suggerì Ziva quando le porte si aprirono una volta giunti a destinazione. “Siamo in sala autopsie”, spiegò sottovoce, come se qualcuno fuori dell’ascensore non dovesse sentire.
Convenuto da tutti che sarebbe stato meglio per me non addentrarmi nel corridoio per non incappare in qualche brutta sorpresa, fui costretta ad aspettare in ascensore con DiNozzo mentre gli altri due andavano a chiamare il dottore.
Tony si piazzò davanti alle porte per evitare che si chiudessero e continuò a spostare lo sguardo da una parte all’altra per evitare di guardarmi, palesemente imbarazzato.
“Niente battute pungenti?”, chiese con tono provocatorio dopo parecchi secondi di silenzio teso. Parlò guardando di fronte a sé: era evidente che cercasse di non guardarmi.
Aprii bocca per rispondergli qualcosa – qualsiasi cosa -, ma in quel momento l’ascensore si affollò.
“Oh mio Dio, Miss Gibbs!”, esclamò Ducky appena si accorse di me.
“Ducky, lo sai che non voglio essere chiamata così”, dissi con un sorriso.
“Sì, è vero”, rispose lui, prendendomi le mani. “Ma il fatto è, bambina mia, che vi somigliate talmente tanto”.
Ducky era proprio come lo ricordavo, non era cambiato minimamente. I radi capelli castano scuro erano ordinatamente divisi da una riga su un lato e i suoi grandi occhi nocciola erano incorniciati da un paio di occhiali quadrati dalla montatura sottile. Ostentava le sue origini scozzesi indossando una giacca di feltro dalla trama marrone e beige e un papillon rosso legato al colletto della camicia azzurro scuro. Con il mio metro e settanta superavo di gran lunga la sua statura.
Improvvisamente DiNozzo, ancora attaccato alla porta dell’ascensore, sembrò esplodere. “Vi conoscete?”, sbottò in tono quasi rabbioso.
“Certo che lo conosco”, risposi calma. Mi voltai verso l’altro uomo che era entrato assieme a Ducky. “E conosco anche Jimmy”, dissi.
Il signor Palmer, come lo chiamava sempre Ducky, era un ragazzo che non arrivava alla trentina. Aveva l’aria del classico studente secchione senza una vita sociale, ma con Jimmy le apparenze ingannavano. Nonostante gli spessi occhiali tondi e i capelli disordinati, non era noioso come l’aspetto poteva suggerire, ma divertente e spigliato.
Il ragazzo mi salutò agitando la mano e sorridendo apertamente.
Con un gesto un po’ troppo confidenziale, Ziva mi afferrò per un braccio e mi attirò a sé, avvicinandosi per parlarmi all’orecchio. “Abby posso anche capirla”, sussurrò in tono quasi rabbioso. “Ma questo, devi proprio spiegarcelo”.




***




La mia testa ormai turbinava all’impazzata a causa delle troppe rotazioni che avevo compiuto sulla sedia d’ufficio alla scrivania accanto a quella di Jethro. Lo zio mi aveva permesso di occupare quel posto, che sarebbe altrimenti rimasto vuoto, a condizione che me rimanessi lì buona senza disturbare. La cosa non mi era stata detta proprio esplicitamente; perspicace com’ero quando si trattava di Leroy Jethro Gibbs, l’avevo capito dall’occhiata che mi aveva lanciato di sbieco e dalla sua frase: “La tua presenza qui, purtroppo, non può impedirci di fare il nostro lavoro”.
Un secondo significato c’era.
Nel bel mezzo di un giro della sedia, puntai violentemente i piedi a terra per fermarmi e mi ritrovai a fissare DiNozzo alla sua scrivania. Purtroppo, mi trovavo troppo distante per cercare di decifrare la sua espressione.
Dopo vari tentativi – tutti falliti - di cercare di intravedere meglio la sua faccia, mi decisi ad alzarmi dalla sedia. La mia risolutezza era dovuta al senso di colpa che provavo ogni volta che pensavo a come lo avevo trattato appena usciti dall’ascensore per andare da Abby. Ero stata davvero crudele.
Ora volevo porre rimedio.
Avvicinandomi alla sua scrivania – e riuscendo finalmente a vederlo distintamente in viso – mi accorsi dello sguardo diffidente che mi lanciò con la coda dell’occhio.
Percependo gli sguardi di tutti gli altri pungere dietro la mia schiena quasi volessero perforarla – e cercando di ignorarli – mi posizionai comodamente di fianco a DiNozzo, quasi sedendomi sull’angolo di scrivania libero, dando le spalle a Ziva.
Anthony William DiNozzo era davvero un bell’uomo. Quasi quarantenne, il naso dritto e la mascella quadrata gli davano un non so che di affascinante. Quando si mascherava con un’espressione seria poteva forse incutere timore, ma, se lo si conosceva meglio, si potevano trovare divertenti i suoi modi spigliati e faceva sempre piacere ricevere un suo sorriso.
Nonostante tutto, ero abbastanza agitata.
Respirai profondamente. “Agente DiNozzo?”.
“Tony”, mi corresse lui, senza distogliere lo sguardo dallo schermo del computer.
“Anthony”, decisi infine, non volendogli dare alcuna soddisfazione.
Lui non si mosse di un millimetro.
“Volevo scusarmi”, dissi a voce abbastanza bassa così che Ziva non mi sentisse.
Tony si voltò finalmente verso di me, guardandomi con espressione stizzita. “E di cosa, di grazia?”, chiese teatralmente, mantenendo il mio stesso tono di voce.
“Per come mi sono comportata prima”.
Alzò le sopracciglia. “E a quale occasione ti riferisci?”.
“A quando mi hai chiesto cosa pensasse Gibbs di te”.
Accennò a una risatina nervosa. “E tutte le altre frecciatine pungenti?”.
Risi anch’io con fare provocatorio. Pian piano il nervosismo si stava sciogliendo. “Quelle non erano niente”, risposi. “Mi stavo solo riscaldando”.
“Certo, per il colpo finale”. Si accigliò e inspirò dai denti stretti, fingendo un’espressione di dolore. “Quello sì che ha fatto male davvero”.
Incrociai le braccia, con espressione seccata. “Allora, vuoi sapere cosa mi ha detto veramente su di te, sì o no?”.
Con un gesto della mano mi fece segno di procedere.
Parlai guardandomi le mani. “Ha detto che sai fare bene il tuo lavoro e che sei uno dei migliori agenti con cui abbia mai lavorato. Ha detto che fai spesso il buffone, ma che nei momenti giusti sai anche dimostrarti serio e professionale. Ha detto che sei un bravo leader, come hai dimostrato in passato”. Quando Jethro si era «ritirato» in Messico, Tony, in qualità di agente più anziano, aveva occupato il suo posto come capo della squadra. “E ha detto anche”, continuai, alzando la testa per guardarlo, “che vorrebbe darti più scappellotti di quelli che in realtà ricevi”.
DiNozzo ascoltò attentamente tutto il mio discorso senza fiatare. Quando gli rivelai l’ultima considerazione, la sua reazione fu quella di spalancare gli occhi e corrugare la fronte in un’espressione quasi comica.
Dopo che si riebbe, fu in grado di pronunciare una frase di senso compiuto. “Stai scherzando”, affermò, dubbioso.
“No, è la verità”. Non capivo se si riferisse all’ultima cosa che avevo detto oppure ai complimenti. Comunque, la mia risposta era valida per entrambi i casi.
Tony annuì una volta, poco convinto.
“DiNozzo”, chiamò Gibbs in tono duro. Quando quello si voltò verso di lui, Jethro continuò. “Rimettiti al lavoro”.
“Subito, capo”, rispose, afferrando il mouse del computer.
“È colpa mia, zio”, confessai, alzandomi dalla scrivania e voltandomi verso di lui. Con la coda dell’occhio, notai che Ziva mi guardava storto.
“Lascialo lavorare in pace”, mi sgridò Jethro, guardandomi di sbieco. “Vai giù a giocare con Abby. Sono convinto che ne sarebbe felice”.
Mi voltai verso DiNozzo e alzai le spalle con fare colpevole. “Devo andare”, dissi. Voltai lo sguardo verso Ziva per verificare se avevo ragione riguardo all’occhiataccia che mi aveva lanciato, ma la donna stava fissando lo schermo del computer. Forse con troppo interesse.
Recuperai la mia borsa dalla sedia che avevo usato come una giostra e me ne andai silenziosamente.













*Nota dell'autrice*

Dunque, credo che questo sia il capitolo dove la storia inizia ad ingranare... :) cioè, fate caso alle occhiatacce di Ziva :) tenetevi a mente questo particolare perché sarà utile per il futuro! Non rivelo altro :)
Una cosa da precisare: non so se il secondo nome di Tony sia William, in realtà non so nemmeno se ne abbia uno. So solo che Anthony William DiNozzo mi suonava bene  :)
Ringrazio kiriri93, Maia in Wonderland, _Clarita_ e zavarix  per i loro commenti e tutti quelli che seguono la mia storia! :) mi spronate ad andare avanti a scrivere, quindi graziegraziegrazie! :)
A presto! :)

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Interceding Is Often Hard- Cap 4

Capitolo 4

In cui comprendo che il lavoro in ufficio a tarda ora puo’ giocare dei brutti scherzi




“Com’è andata oggi dallo zio?”, chiese la mamma quella sera a tavola. La casetta che avevamo affittato aveva una grande sala da pranzo, decorata con quadri ai muri e tende di cotone verdi. Certo quello non era lo stile di casa nostra, ma per qualche giorno sarebbe andato più che bene.
“Benissimo”, risposi entusiasta. “Ho conosciuto tutti i suoi colleghi. Sono simpatici”. Misi in bocca un pezzo di bistecca e masticai. “Sono stata praticamente sempre con Abby”, dissi a bocca piena. “Ve la ricordate?”.
“Sì che ce la ricordiamo”, rispose il papà. “Era quella tipa strana che c’era al Ringraziamento di qualche anno fa”.
“Papà”, lo rimproverai, dopo aver ingurgitato metà bicchiere d’acqua per mandare giù il boccone. “Abby non è strana. Lei è fatta così”.
“E che mi dici degli altri?”, continuò la mamma.
“Sono proprio come li immaginavo”, confessai. “Forse anche meglio”. Soprattutto una certa persona, che riuscivo a deridere fin troppo facilmente.
“Beh, sono contenta che ti sia divertita”, disse. “Domani tornerai di nuovo?”.
Mi aprii in un sorriso a trentadue denti. “Assolutamente sì”.




***





“Com’è Gibbs veramente?”, domandò Tony con un tono che palesava la sua maniacale curiosità.
Eravamo tutti in laboratorio di Abby. Io, lei e Ziva eravamo sedute sul pavimento grigio, mentre i due uomini – stranamente più schizzinosi – si erano accomodati sulle sedie del laboratorio.
“In che senso ‘veramente’?”, domandai, mentre mi abbracciavo le gambe e dondolavo su e giù come una bambina. “Lui è così”.
“Oh, andiamo!”, sbottò DiNozzo. “Non può essere davvero... così come lo conosciamo noi!”.
Corrugai la fronte e lo guardai meglio. “Credi che reciti, per caso?”.
“Quando è qua sì”, rispose lui. “Ne sono convinto”.
Ziva sbuffò violentemente. “Lascia perdere DiNozzo”, mi suggerì. “Credo che volesse chiederti se con te si comporta come con noi”.
“No, certo che no”, risposi con un tono che intendeva quanto ovvio fosse ciò che avevo detto. “Lui mi vuole bene”. Mi voltai verso Abigail. “E ne vuole anche ad Abby”.
Non facendo caso più di tanto alle reazioni dei presenti, mi concentrai sulla domanda di McGee.
“Come fa a far uscire dalla cantina le barche che costruisce?”, domandò morbosamente.
Jethro era appassionato di barche. Che io sapessi, ne aveva già costruita una di legno e ne aveva iniziata una seconda. Il mistero era come riuscisse, una volta ultimate, a farle uscire dalla cantina chiusa e interrata dove le costruiva.
“Posso ammettere di non averne la più pallida idea!”, risposi ridendo.
“Ma davvero fuori dal lavoro si comporta come qua?”, continuò DiNozzo, riprendendo il discorso di prima.
Alzai gli occhi al cielo. Quell’uomo non mollava proprio mai. Ora capivo perché Jethro non riusciva a sopportarlo in alcuni momenti. “Sì, è proprio così. Forse in famiglia è un po’ meno severo, ma posso assicurarti che lui è così!”.
“Ah”, fu tutto quello che riuscì a rispondere.
Sembrava che le rivelazioni sul conto di Gibbs riuscissero a scuotere l’intera squadra.




***




Fu quel mercoledì, durante il terzo giorno della mia permanenza all’NCIS, che scoprii qual’era il segreto dell’agente Timothy McGee.
Per due giorni non se n’era minimamente parlato, poi, all’improvviso, tra i membri della squadra non si faceva altro che parlare dell’abilità di Tim come scrittore di romanzi.
Come Abby mi spiegò pazientemente, la settimana prima lei, Anthony, Ziva, Ducky, Palmer e addirittura Jethro avevano scoperto che McGee, con lo pseudonimo di Tom E. Gemcity, che non era altro che l’anagramma del suo nome e cognome, aveva scritto – e addirittura pubblicato – un romanzo. Tutto ciò non avrebbe dato vita a questo grande scompiglio se non fosse stato per il fatto che i personaggi da lui creati non erano del tutto inventati...
Come McGee aveva alla fine confessato, per ideare i personaggi della storia aveva preso liberamente spunto dai suoi colleghi. Forse anche un po’ troppo liberamente.
Sia per nome che per personalità, era semplice poter identificare il personaggio del logorroico Tommy in DiNozzo. L’intrepida agente del Mossad Lisa non era altro che Ziva. Pimmy Jalmer, aiutante del coroner, era la trasposizione letteraria di Palmer. Addirittura Jethro era presente all’interno della storia, nei panni del severo capo della squadra J. Dipps.
Tutto ciò mi fece ridere e destò la mia curiosità. Inaspettatamente, mi sorpresi impaziente che DiNozzo finisse di leggere il libro per avere la possibilità di farlo io stessa.
“O-oh”, rise DiNozzo, seduto alla sua scrivania con il libro di Timothy in mano. “E bravo McGee! Ha davvero azzeccato il tuo personaggio, Ziva”, commentò, appoggiando i gomiti sul tavolo e tenendo il libro davanti la faccia così che per me era difficoltoso scorgere il suo viso dalla scrivania di Jethro. Era sera e le luci soffuse proiettavano in giro delle strane ombre nere e arancioni, che facevano svuotare gli uffici – anche quello di Jethro – e facevano impigrire qualsiasi sguardo sveglio. Anche il mio.
“Davvero?”, fece Ziva dalla sua postazione, alzando la testa dal foglio su cui aveva scritto alacremente fino a quel momento. “Perché?”, chiese freddamente, ma io riuscii comunque a scorgere nel suo tono di voce un filo di morbosa curiosità.
“Beh”, iniziò Tony, “il desiderio di Lisa nei confronti di Tommy è espresso apertamente e corrisponde alla realtà”. Iniziò a leggere un passo del racconto molto esplicito, incurante della mia presenza a qualche metro di distanza da lui.
Così concentrato com’era a leggere, Tony non si accorse che Ziva si era alzata dalla sua sedia e, senza far rumore, si era piazzata dietro di lui. Quando lui alzò lo sguardo di fronte a sé e non la vide, corrugò la fronte e assunse un’espressione di disappunto che provocò una risata da parte mia.
Ad un tratto Ziva, con un movimento rapido e secco, si avvicinò da dietro a Tony, spostando la sedia in modo da schiacciarlo contro il tavolo, e gli piantò un ginocchio sul fianco. L’improvvisa espressione di dolore di DiNozzo mi fece quasi star male, ma poi scoppiò in una risatina nervosa e tenni per me le mie ansie.
“Sai Tony, McGee ha ragione”, disse Ziva al suo orecchio con voce suadente. “Mi serve tutta la buona volontà per... resistere al desiderio che provo”.
DiNozzo spalancò gli occhi a quella affermazione, ma continuò a guardare di fronte a sé, palesemente a disagio. “Il-il desiderio?”, balbettò.
“Già”, continuò Ziva. “Non sai quante volte avrei voluto... lasciarmi andare”.
Tony esplose di nuovo in una risatina imbarazzata. “E con ‘lasciarti andare’ intendi...?”, domandò.
“Abbandonarmi ai sensi”, rispose Ziva avvicinandosi ancora di più al suo orecchio. “Cedere al desiderio”.
DiNozzo avvampò e spalancò ancora di più gli occhi. Temevo che da un momento all’altro gli sarebbe uscito del fumo dalle orecchie.
“Quindi, quella volta che siamo stati sotto copertura insieme...*”, fece Tony.
“C’ero andata molto vicino, la prima notte”, confessò Ziva. “Però credo che mio padre non avrebbe approvato”.
“Ah no?”, disse Tony, che sembrava essere rinsavito. “È perché non sono ebreo?”.
“No, non è per questo motivo”, rispose lei. Poi, improvvisamente, spostò ancora più avanti la sedia, schiacciando DiNozzo contro la scrivania tanto da farlo rimanere senza fiato. “È che a lui non piace quando... massacro le persone”, disse a denti stretti, fingendo un tono duro. Poi si mise a sogghignare.
“Ah-ah-ah”, rise fintamente Tony. Si voltò di scatto verso Ziva. “Comunque non ti ho creduta neanche per un secondo”, disse, cercando di assumere un’espressione indifferente. Ma io avevo visto la sua faccia durante la conversazione e avevo intuito la verità.
“Certo, ti credo”, rispose Ziva ridendo. Mentre tornava al suo posto, si voltò verso di me e mi lanciò un’occhiata accompagnata da uno strano sorrisino. La sua espressione sembrava quasi... vittoriosa. In quel momento, ebbi l’impressione che la scenetta che aveva messo in piedi le fosse servita a marcare il territorio. Mi limitai a guardarla mentre tornava a sedersi al suo posto.
Dopo qualche minuto di silenzio, resami conto che non c’era nessuno in ufficio a parte noi tre, mi assalì l’intenso desiderio di andare a Abby.
Mi alzai dalla sedia recuperando la mia borsa dal pavimento, poi mi diressi in silenzio verso l’ascensore posteriore, lasciando Ziva e Tony immersi tra le ombre arancioni e nere.
__________________________

Nota di fine capitolo:

*: La situazione cui fa riferimento Tony quando parla della “copertura” è nell’episodio 3x8, quando Tony e Ziva si fingono dei killer professionisti e fingono di andare a letto insieme.












*Nota dell’autrice*

Chiedo umilmente perdono per questo capitolo... *si inginocchia per terra e si prostra ai lettori* Se state pensando che la scena tra Tony e Ziva vi sia familiare è perché lo è. La scena Tiva è realmente accaduta: ha avuto luogo nell’episodio 4x10. In quella puntata e nella 4x9 si parla del libro di McGee, che viene letto dai suoi compagni di squadra e che, nell’ultimo episodio citato, provoca una brutta avventura alla povera Abby (ovvero un fan psicopatico del libro di McGee vuole ucciderla).
Ho fatto mia la scena Tiva perché mi serviva per mandare avanti la storia: mentre pensavo a come farla evolvere mi sono ricordata dell’episodio in cui aveva avuto luogo la scena. Senza rendermene conto ho iniziato a scrivere e poi non sono più riuscita a modificare il capitolo :( I dialoghi, comunque, li ho modificati un po’ e, diversamente dalla puntata della serie, è presente la nostra eroina Amy ;) Nella mia storia, comunque, la disavventura di Abby non ha avuto luogo (perché non incide nel proseguimento).
Spero non vi siate arrabbiati per questo capitolo e spero che, nonostante questo incidente di percorso, continuiate a seguire la mia storia. Vi prometto che nei prossimi capitoli non succederà più una cosa del genere! Non mi ispirerò più a puntate della serie, lo giuro! :) :)
Rompo le scatole ancora ricordando a tutti che la mia storia non si inserisce in un preciso punto della linea temporale della serie, poiché la scena Tiva avviene nell’episodio 4x10 quando come direttore c’è ancora Jenny Shepherd, mentre in questa ff, come si potrà capire da qualche capitolo futuro, il direttore è Vance.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Interceding Is Often Hard- Cap 5

Capitolo 5

In cui subisco un colpo dritto allo stomaco


Una voce a me sconosciuta mi fece scattare sulla sedia.
“Gibbs?”.
Il tono era talmente autoritario che, sebbene l’ammonizione non fosse rivolta a me, non riuscii ad evitare di chiudere di scatto il libro che stavo leggendo – perdendo il segno, tra l’altro -, sedermi compostamente sulla poltroncina girevole della scrivania e alzare lo sguardo verso il punto da cui era provenuto il monito.
Un uomo di colore vestito di scuro – che non riuscivo a vedere in viso molto chiaramente a causa della luce del sole mattutino che filtrava dalla finestra alle sue spalle e che mi stava quasi accecando – batteva il dito sulla scrivania di Jethro, come se volesse attirare la sua attenzione, e mi fissava insistentemente. Guardandolo, sfoderai un sorriso imbarazzato.
“Sì, Leon?”, domandò Jethro senza sollevare lo sguardo dai fascicoli che stava sfogliando.
L’uomo, che sembrava tenesse in bocca qualcosa – era forse uno stuzzicadenti? - continuava a fissarmi.
Mi decisi a parlare. “Salve”, dissi, alzando una mano in segno di saluto.
Jethro, sentendo la mia voce, parve capire quale fosse il problema perché alzò lo sguardo e fissò prima me, poi l’uomo.
“Oh”, esclamò. “Certo, scusami”, gli disse. Si voltò verso di me e lo indicò con la testa. “Presentati”.
Mi alzai in piedi, leggermente intimorita dal nuovo arrivato, che si avvicinò alla mia scrivania. Gli tesi la mano, che lui afferrò prontamente, mentre lo stuzzicadenti che teneva in bocca si spostava di qua e di là di continuo.
“Amy Steel”, mi presentai.
“Leon Vance”, fece lui. “Sono il direttore dell’agenzia”.
Restai di sasso. “Ah”, riuscii a rispondere, sciogliendo la stretta. “Wow”.
L’uomo continuava a fissarmi.
“Sono la nipote di Gibbs”, spiegai. Certo era quello che lui voleva sapere, no? Che diavolo ci facessi lì...
Il direttore spalancò gli occhi. “Gibbs!”, esclamò, guardandolo. “Non sapevo avessi una nipote”. Poi tornò a me. “Sei giovane. Quanti anni hai?”.
“Diciotto”, risposi.
Lui annuì. “Sei qui in visita?”.
“Sì, signore”, risposi formalmente.
“Da quanto tempo sei qui?”.
“Da lunedì”, risposi.
Il direttore reagì come prima. “Gibbs!”, esclamò ancora. “Perché non me l’hai presentata prima?”.
Jethro sollevò le spalle. “Eri sempre impegnato, Leon. Non volevo disturbarti”.
“Certo se l’avessi saputo, sicuramente avrei trovato dieci minuti di tempo per conoscerla”, rispose Vance.
“Allora, il prossimo parente che mi verrà a fare visita te lo presenterò appena metterà piede nell’edificio”, rispose Jethro in tono sarcastico, aggiudicandosi una mia risata e un’occhiataccia da parte del direttore.




***




Ero nascosta nella stanza dietro il laboratorio di Abby assieme alla scienziata e stavamo tracannando CafPow, quando la voce di Ziva, proveniente dall’altra stanza, mi fece smettere di succhiare rumorosamente dalla cannuccia.
“Insomma, non è ammissibile una situazione del genere!”, stava gridando. “Quella ragazza riceve troppe attenzioni!”.
Sentendo quella frase, mi voltai automaticamente verso Abby per vedere la sua reazione. Era seduta alla sua scrivania con addosso un paio di enormi cuffie e stava ascoltando la musica a tutto volume. Si muoveva sulla sedia agitando le braccia e saltellando sul posto, facendo roteare i suoi codini neri. Non si accorgeva per nulla di ciò che accadeva nell’altra stanza.
Ziva continuava a inveire contro qualcuno, probabilmente McGee, che era sceso qualche minuto prima in laboratorio per delle ricerche.
“Tony aveva ragione”, esclamò Ziva, “quando all’inizio si lamentava del suo comportamento... neanche fosse la nipote del Presidente aveva detto!”.
Quella citazione mi fece subito capire a chi si stesse riferendo Ziva. Tony aveva usato quelle parole il giorno un cui ero arrivata lì, accusandomi di credermi chissà chi per tenere un comportamento – a suo dire - così sfrontato.
Ziva stava offendendo me.
“Ma poi il signorino ha cambiato idea!”, continuò. “Quella ragazza è riuscita ad ammaliarlo o chissà cosa... non riesco a immaginare cosa lo attiri in lei!”.
“Ziva...”. La voce di McGee arrivò debole alle mie orecchie. Sicuramente stava cercando di interrompere i vaneggi della collega, visto che lui sapeva che io mi trovavo nell’altra stanza e potevo sentire tutto. Ma il suo tentativo non sembrò andare a buon fine perché Ziva continuò con il suo discorso delirante.
“E poi, insomma! Dobbiamo sempre tenerla d’occhio, controllare tutto ciò che fa... Gibbs cosa crede, che siamo i suoi babysitter? Quella ragazza ha diciotto anni, che diavolo! Non ne ha cinque! Io alla sua età sapevo già praticare tre arti marziali e uccidere un uomo con un coltello!”.
Il farneticare di Ziva parve terminare perché non sentii più la sua voce per parecchi secondi. Poi udii il soffio della porta a vetri che si apriva e McGee entrò nella stanza.
La mia espressione era affranta.
Insomma, sapevo che Ziva non aveva un carattere dei migliori, ma la scenata cui avevo assistito mi aveva comunque sorpresa. Non avevo mai immaginato che lei provasse tanto astio nei miei confronti. E per cosa poi? Perché avevo ammaliato Tony?
Ma ne era davvero sicura?
Certo, mi divertivo a prendere in giro l’agente DiNozzo e a osservare le sue reazioni. Ma non avevo visto nulla nei miei confronti da parte di Tony che non fosse una leggera antipatia e un pizzico di avversione a causa del mio comportamento. Comunque non agivo così con lui per cattiveria... immaginavo che lui lo sapesse.
Ero dispiaciuta del fatto che Ziva vedesse le cose in un altro modo, che il mio fosse un tentativo di affascinare Tony. Cosa ci avrei guadagnato da un comportamento del genere?
E poi, insomma! Avevo diciotto anni! Io che adescavo un uomo vent’anni più vecchio di me? Non era credibile. Quella non era mai stata la mia intenzione.
Forse Ziva mi vedeva come un ostacolo? Per cosa poi? Voleva essere lei ad ammaliare Tony? Ci sarebbe riuscita certamente, se avesse voluto! Era una donna adulta e attraente, aveva molte più potenzialità di me.
Allora perché non ci provava con lui?
“Mi dispiace”, mormorò Tim.
Scossi la testa e sorrisi forzatamente. “Non ti preoccupare. Non è colpa tua”.
Abby si accorse della presenza di McGee alla porta e si tolse le cuffie. “Che succede?”, domandò, inconsapevole di quello che era accaduto.
“Niente, Abby”, risposi. “Anzi, mi faresti un favore? Potresti accendere le casse dello stereo? Vorrei ascoltare anch’io della musica a palla. È l’unico modo che mi viene in mente ora per evitare di pensare ad altro”.















*Nota dell'autrice*

Uff... ce l'ho fatta a pubblicarlo, finalmente!! :) Questo è decisamente il capitolo in cui si capiscono molte cose... durante la prima stesura della storia questo capitolo non esisteva, ma poi, rileggendo indietro, mi sono accorta che mancava uno spaccato in cui la protagonista capiva quello che Ziva pensava... quindi ho deciso di inserirlo qua perché è importante per il proseguimento della storia :)
Spero che anche questo capitolo sia stato di vostro gradimento (nonostante la  figura che Amy ha fatto all'inizio davanti a Vance e la sfuriata di Ziva... (:  ). Mi rendo conto della brevità del capitolo, in effetti è il più corto di tutta la storia :) ma spero di essere stata comunque esauriente.

Per chi fosse curioso... :)
La storia l'ho praticamente finita di scrivere, manca soltanto il finale. Credo che saranno in tutto 12 o 13 capitoli, ma - anche se è quasi finita - continuerò a pubblicare solo una volta alla settimana (ormai la domenica è diventato il giorno di aggiornamento di questa storia (:  ) per avere il tempo di finire gli ultimi 2 capitoli. Non voletemene, ma, tra la scuola e il resto, non so quanto tempo avrò per scrivere :)

Ringrazio tutti quelli che seguono la mia storia! :)
Alla prossima settimana! :)
Chiara

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Interceding Is Often Hard- Cap 6

Capitolo 6

Due inviti inaspettati


Le voci che giravano riguardo un certo “ballo”, che si sarebbe tenuto il sabato di quella settimana, giunsero alle mie orecchie il giovedì. Da quanto avevo capito, veniva festeggiato un qualche anniversario dei marines in un locale molto elegante ed erano invitate tutte le persone che lavoravano nell’agenzia più qualche ufficiale importante.
La conferma formale dell’evento, che mi provò la presenza effettiva di questo misterioso ballo, mi venne data da Jethro, che mi chiese, inaspettatamente, di essere la sua dama.
“Ti sei abbassato a questi livelli, zio?”, dissi ridendo. “Davvero non c’è nessuna donna qui in ufficio che vorresti invitare?”.
Jethro rispose alzando le spalle con aria innocente. “Sono tutte troppo giovani per me. Io mi trovo ormai in età pensionabile. Sono vecchio, sai”.
L’espressione che assunse quando pronunciò queste parole era talmente comica che scoppiai a ridere. “Ma dai!”, esclamai, dandogli una pacca sul braccio in modo amichevole. “Non avere un’opinione così bassa di te. Sei ancora un uomo attraente”, dissi sorridendo.
“E poi”, continuò lui, “ho voglia di andarci con te. Nulla me lo vieta”. Mi strizzò l’occhio con atteggiamento complice. “Posso presentarti tanti bei giovani marines”.
Scorsi il leggero velo di serietà nei suoi occhi dietro tutta l’ilarità, quindi, dopo aver chiarito che non volevo mi presentasse nessuno, risposi affermativamente alla sua richiesta.
Anche se non ero mai stata a un evento del genere, non avevo la minima idea di come vestirmi e non sapevo che persone ci sarebbero state, ero davvero eccitata all’idea di parteciparvi.




***




“Con chi andrai al ballo, McGee?”, domandò Ziva. Eravamo seduti tutti assieme – io, Jethro, Ziva, McGee e DiNozzo - a un bancone della tavola calda più vicina agli uffici e stavamo trangugiando chi toast, chi hot-dog e chi hamburger.
Timothy piegò la testa da un lato e sollevò le sue folte sopracciglia. “Ci andrò con Abby”, disse in tono casuale.
Si levarono esclamazioni e mugugni – quelli di DiNozzo, che aveva la bocca piena – di approvazione.
“E bravo pivello!”, esclamò in seguito, piazzandogli una potente pacca sul braccio. Poi si accorse dell’occhiataccia di Jethro e si ricompose come un bambino che viene sorpreso a combinare un malanno.
“È stata lei a invitarmi, in realtà”, spiegò Timothy. Raddrizzò le spalle con fare superiore. “E io ho accettato”.
“Hai fatto bene, McGee”, approvò Ziva, annuendo. Poi si voltò verso DiNozzo. “E tu Tony, con chi ci andrai?”, gli chiese, sorridendo in modo provocatorio.
“Tzè!”, esclamò stizzito, sollevando le spalle. “Ci sono un sacco di ragazze che vorrebbero farmi da dama a quel ballo”.
Ziva lo fissò con la stessa espressione di prima. “Vuol dire che non l’hai ancora chiesto a nessuna”, concretò lei. “Hai forse paura? Oppure nessuna ti vuole?”.
DiNozzo non si scoraggiò davanti a quell’affronto. “Come ho detto”, rispose, “le ragazze che mi vogliono sono tante e per me è difficile sceglierne una”.
Sembrava una conversazione tenuta da cinque adolescenti del liceo che dovevano scegliere il vestito per il ballo di fine anno. Gli adulti si erano per caso messi a fare gli stessi discorsi di quando erano giovani? Erano tornati indietro nel tempo?
“DiNozzo”, lo riprese Jethro, facendo un cenno con la testa verso di me. “Astieniti dal fare certe affermazioni”.
Alzai gli occhi al cielo. “Zio, sono grande ormai. Certe sottigliezze riesco a coglierle, ma so anche comprenderle”.
“Non si sa mai”, commentò Gibbs con un’alzata di spalle.
“E tu, invece”, attaccò DiNozzo, guardando Ziva con uno sguardo che era un misto tra la derisione e l’interesse, “hai già un accompagnatore?”.
“Non ancora”, rispose lei ridendo. “Ma questo non significa che non ne troverò uno presto”.
DiNozzo la continuò a guardare anche quando Ziva si voltò per parlare con McGee, poi piegò la bocca in una smorfia incomprensibile e diede un morso al suo hot-dog già mezzo mangiato.




***





Il giorno dopo ero così stanca che dormii fino a tardi. Quando mi alzai dal letto, sul comodino trovai un foglietto su cui, con la calligrafia appena leggibile di mia mamma, c’era scritto:


Jethro ha detto che, se vuoi andare da lui anche oggi, puoi chiamarlo e ti viene a prendere.

Mamma.


I miei erano, anche quel giorno, in giro per la città per affari, quindi, com’era successo fino a quel momento, non volevo restare a casa da sola senza fare nulla. Mi preparai lentamente, poi chiamai l’ufficio di Gibbs.
Mi rispose DiNozzo. Un po’ imbarazzata dalla situazione, gli chiesi se poteva riferire a Jethro il mio messaggio, poi riattaccai velocemente.
Grande fu la sorpresa quando, aprendo la porta di casa quando il campanello suonò, invece di Jethro mi trovai di fronte proprio Anthony.
“Ciao”, mi salutò, così di buon umore che rimasi sconcertata. Non l’avevo mai visto così felice.
“Ciao”, feci a mia volta, piegando la testa da un lato.
“Gibbs era impegnato”, spiegò, “e mi ha delegato il compito”.
“Okay”, risposi soltanto.
Salii nell’auto argentata sul posto del passeggero. Dopo un paio di minuti d’imbarazzo, che passai tutti guardando attentamente fuori dal finestrino, Anthony decise di punto in bianco di parlare.
“Dormito bene?”, domandò inspiegabilmente.
Mi voltai leggermente verso di lui, ma mi misi a fissare la strada di fronte a me. “Sì, grazie”, risposi.
Con la coda dell’occhio lo vidi corrugare le labbra e annuire. “Sono contento”, commentò.
Passò un altro minuto di silenzio, durante il quale tornai a guardare fuori dallo stesso finestrino di prima.
“Credo che tu abbia sentito le voci che girano riguardo al ricevimento di domani sera”, disse improvvisamente.
“Certo”, risposi, voltandomi a guardarlo. “Ne avete parlato giusto ieri alla tavola calda, e io ero presente”.
“Vero”, mormorò lui. Poi rimase in silenzio.
Incrociai le braccia e gli lanciai un’occhiataccia. “Qual è il problema, Anthony?”, domandai seccata.
“Nessun problema, cara”, rispose. “Mi stavo solo chiedendo se... be’...”, balbettò, incapace di continuare.
In tutti quei giorni, non avevo mai visto l’agente DiNozzo così in difficoltà.
“Sì, insomma”, continuò, “mi chiedevo se ti andasse di andare insieme a me a quel ricevimento”.
Quando ultimò la frase, spalancai gli occhi.
Avevo forse capito bene?
DiNozzo mi stava invitando?
Mi saltarono alla mente le parole di Ziva della sua sfuriata del giorno prima. Che davvero io avessi ammaliato Tony?
No, impossibile.
“Sempre che tu non abbia qualche problema con i commenti degli altri sul fatto che una ragazza così giovane accompagni un uomo così vecchio”, continuò, voltandosi verso di me per un secondo e poi tornando alla strada.
“Non sei così vecchio”, risposi, cercando di non dare una risposta alla sua richiesta. “E poi, ho diciotto anni, è da un po’ di tempo che non faccio più caso a cosa gli altri pensino di me”.
Anthony mi guardò. “Allora è un sì?”, domandò speranzoso.
Scossi debolmente la testa. “No, mi dispiace”, risposi. “Me l’ha chiesto Jethro per primo”.
Nonostante tutte le prese in giro e i commenti pungenti che c’eravamo scambiati durante quei giorni, ero davvero dispiaciuta di non poter accompagnare DiNozzo a quel ballo, soprattutto per l’espressione delusa che sfoggiava in quel momento.
“Certo, è ovvio”, rispose demoralizzato.
“Ma, se lo zio mi lasciasse, potrei sempre concederti un ballo”, proposi.
Anthony parve rianimarsi un po’. “Okay”.
“D’altronde, cosa c’è di più realizzante di un ballo con la nipote del capo?”, scherzai.
Finalmente il buon umore tornò in lui. “Niente, in effetti”, rispose ridendo. “Sempre che non ti pesti un piede. Allora le cose per me si metterebbero male!”.
“Tranquillo”, dissi con un sorriso, sollevata dopotutto per come l’aveva presa Tony, “anche se succedesse, non glielo direi”.
Arrivammo agli uffici dell’NCIS e Anthony fermò l’auto davanti all’entrata principale. Aprii la portiera e feci per scendere, ma la sua voce mi fermò.
“Mi ricorderò della tua promessa”, disse. “Dovrai farlo anche tu”.
“Certo”, risposi, poi scesi dall’auto e corsi all’interno dell’edificio, più lontano possibile da DiNozzo e dalla sua auto argentata, testimone, quella mattina, di un evento quantomeno inspiegabile.










*Nota dell'autrice*

Devo ammettere di essermi divertita un sacco a scrivere questo capitolo! :) mi sono resa conto che mi piace maneggiare Tony, fargli dire quello che voglio... mi fa sentire onnipotente! :) :)
Scherzi a parte, non ho molto altro da dire su questo capitolo, se non che si è praticamente scritto da solo (come gran parte della storia, d'altronde (:  ) e che, senza accorgermene, mi sono ritrovata tra le mani un DiNozzo che invitava la nipote del suo capo ad un ballo...
Vai a capire cosa pensavo in quel momento! :) :)
Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto! :)
Mando un bacione a tutti :) alla prossima settimana! :)
Chiara

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Interceding Is Often Hard- Cap 7
Capitolo 7

In cui una lunga riflessione mi porta ad una conclusione poco convincente


Passai il resto della giornata pensando a ciò che era successo quella mattina. Cercai di spiegarmi come mai, dopo l’ostilità che aveva dimostrato nei miei confronti, Anthony mi avesse invitata a quel ricevimento, ma senza immediati buoni risultati.
Era risaputo – persino da me – che DiNozzo aveva un rapporto con le donne... relativamente strano. Cioè, per farla breve, era un vero donnaiolo. Ero convinta che, visto il suo bell’aspetto, il suo fascino e il suo comportamento da adulatore, sarebbero state molte – colleghe dell’NCIS o meno – quelle sarebbero state disposte ad accompagnarlo a quel ballo. Avevo presunto, anche, che lui sarebbe stato felice di andarci assieme ad una bella donna che indossasse un vestito attillato che mostrasse le sue forme.
Invece no. Aveva invitato me, una diciottenne, che conosceva da nemmeno una settimana. Imparentata con il suo capo, per di più!
Non riuscii a trovare una risoluzione al mio dubbio, ma valutai alcune ipotesi.
Primo: gli piacevo. Era un’affermazione azzardata e improbabile, ma ormai con DiNozzo non sapevo più cosa aspettarmi. Avevamo vent’anni di differenza e di certo non ero fisicamente il suo tipo, ma possibile che nel giro di così poco tempo avesse cambiato gusti?
Secondo: mi stava usando per fare bella figura con Jethro. Possibile, anche se non credevo che sarebbe stata una mossa intelligente. Mio zio stravedeva per me e non sapevo come avrebbe reagito se gli avessi detto che andavo al ricevimento con DiNozzo. Probabilmente molto male. Anthony era un uomo intelligente e di sicuro aveva capito che non sarebbe stato furbo da parte sua invitarmi per questo motivo.
Terzo: nessuna donna aveva risposto affermativamente al suo invito e io ero solo un ripiego. Decisamente impossibile: come avevo determinato nelle mie riflessioni, per DiNozzo c’era la coda. Certo qualcuna gli avrebbe risposto di sì.
Quarto: non l’aveva chiesto a nessun’altra. Io ero la prima a cui l’avesse domandato. E questo si ricollegava al primo punto.
No, impossibile.
Scossi la testa, cancellando le riflessioni appena fatte e rendendomi conto che stavo facendo dei ragionamenti troppo complicati e che c’era qualcosa che mi sfuggiva. Forse stavo guardando le cose dalla prospettiva sbagliata.
Ricominciai con le mie riflessioni, rendendole più semplici ed elementari. Dovevo considerarmi la sua ultima spiaggia, chiedermi cosa avesse spinto Tony a costringersi ad invitarmi.
Primo: nessuna donna aveva accettato. Impossibile.
Non riuscii a trovare subito una seconda ipotesi, ma poi, guardandomi attorno in ufficio, la vidi.
Ziva.
Perché Anthony non andava al ballo con lei? Se ciò fosse accaduto, non mi sarei sorpresa. Avevo notato le frecciatine che si lanciavano durante il lavoro, come si prendessero in giro neanche fossero dei bambini delle elementari. Ricordavo benissimo l’episodio della sera di due giorni prima e l’espressione esterrefatta di DiNozzo quando Ziva gli aveva sussurrato all’orecchio. Era chiaro che tra loro ci fosse qualcosa.
Riuscii ad arrivare al secondo punto: Ziva aveva rifiutato il suo invito perché aveva già un accompagnatore. Ero certa che, se fosse stata libera, avrebbe accettato – altrimenti il subirmi i suoi insulti il giorno prima sarebbe stato tutto inutile -, come ero sicura che DiNozzo gliel’avesse chiesto.
Arrivai alla conclusione che le cose erano proprio andate in quel modo. Se Anthony non poteva andare al ballo con Ziva, probabilmente aveva deciso che non ci sarebbe andato con nessun’altra dell’ufficio.
Quindi Anthony mi stava usando come ripiego... tanto meglio! Se si fosse trattato dell’ipotesi che io gli piacessi, non sapevo come avrei reagito.
Eppure, più ci pensavo, meno ero convinta dei miei ragionamenti.
Cos’avrei dovuto fare?




***




“Ziva, posso parlarti un secondo?”, azzardai.
Assorta com’era, la donna si voltò verso di me con un’espressione quasi spaventata, colta di sorpresa, distogliendo l’attenzione dalla macchinetta degli snack della «saletta relax» dietro le stanze  degli interrogatori.
“Dimmi”, disse freddamente.
Avevo preso una decisione assurda. Nonostante l’attrito che c’era stato tra di noi – dopo la sua sfuriata del giorno prima e le occhiate che Ziva mi aveva lanciato ogni tanto in quei giorni, soprattutto quando parlavo di o con Tony, e le avevo giustificate come una conseguenza della gelosia verso DiNozzo – volevo indagare. Ero decisa a scoprire se le cose erano andate come pensavo, se realmente Ziva avesse rifiutato l’invito di Tony.
Così in quel momento mi trovavo in una situazione imbarazzante. Dovevo superare il timore che provavo per quella donna e sfondare il muro della sua freddezza per spillarle le informazioni di cui avevo bisogno. Ma non sapevo come fare.
“Ecco, volevo chiederti...”, farfugliai senza sapere come iniziare il discorso, mentre Ziva digitava il codice di una barretta ai cereali sulla tastiera della macchinetta. La spirale di metallo che manteneva verticale lo snack girò e quest’ultimo cadde nel raccoglitore sottostante.
Mi balenò in mente un’idea per iniziare il discorso. “Tu lo sai che Jethro mi ha chiesto di andare al ricevimento di domani sera con lui”. Ziva annuì, mentre raccoglieva la barretta dallo sportello. “Be’... mi sono resa conto... di non avere un vestito adatto”, conclusi, non contenta della piega che aveva preso il mio discorso. Mi stavo discostando da quello che era il mio obiettivo; d’altronde, non avevo trovato un modo migliore per introdurre la conversazione.
Inoltre, avevo paura di come avrebbe reagito Ziva alla mia domanda. Magari stava pensando a perché diavolo ero andata a chiedere una cosa simile proprio a lei. Probabilmente avrebbe riso di me, pensando che ero una stupida se immaginavo che avrebbe aiutato proprio me, che stavo interferendo tra lei e Tony.
Mamma in che guai mi ero cacciata...
Ziva accennò a un sorriso. “Non ci sono problemi per questo”, rispose. “Te ne posso prestare uno io”.
Rimasi basita dalla sua risposta. Non mi sarei mai aspettata che volesse aiutarmi in questo. Forse mi ero immaginata tutto? Magari la sua freddezza nei miei confronti, le sue occhiate non indicavano ciò che io credevo? Non avevano un significato particolare, ma era nel carattere di Ziva guardare storto ogni nuovo arrivato? La sua furia si era dissolta in meno di un giorno e non provava più rancore nei miei confronti?
Non ne avevo idea.
Stava di fatto che, senza volerlo davvero, avevo trovato la soluzione al problema che più mi preoccupava. Sorrisi apertamente, sorpresa dalla sua risposta. “Be’, grazie”, esclamai contenta. Poi mi bloccai, confusa. “Ma tu non ci vai? Non vorrei rubarti l’abito...”.
La donna fece un gesto con la mano come se stesse scacciando qualcosa davanti a sé, emettendo un leggero sbuffo. “Tranquilla, ne ho più di uno. E, comunque, ci sarò anch’io”. Sorrise.
In quel momento, probabilmente, davo l’impressione a Ziva di aver messo due dita nella spina della corrente. “Ah”, risposi, basita dalla sua disponibilità. Nonostante il mio sbigottimento, riuscii a cogliere l’opportunità al volo. “Sei riuscita a trovare un cavaliere alla fine?”.
“Sì, beh...”, rispose lei con un po’ di imbarazzo. “In realtà è stato lui a trovare me”.
“Davvero!”, esclamai, con forse troppa foga. Aveva per caso cambiato idea e accettato l’invito di Tony?
“Sì... si chiama Bryan, lavora in un’altra unità. Mi ha invitata giusto stamattina”. L’orgoglio di Ziva era visibile.
Lo era anche la mia delusione. “Ah...”, sussurrai, la mia espressione palesemente contrariata.
Ziva si accigliò. “Qualcosa non va?”, mi chiese confusa.
In un secondo mi risollevai, dandomi una parvenza decente. Agitai le mani di fronte a me come se volessi cancellare la domanda che mi aveva rivolto. “No, no, è tutto a posto!”, esclamai. “Solo... pensavo che ci saresti andata con Tony”, dissi.
Alla fine ero riuscita nel mio intento! Dopo tutta la mia fatica, avevo esplicitato a Ziva il mio pensiero; ora la sua risposta sarebbe stata per me determinante.
L’espressione della donna era confusa. “E perché mai!”, esclamò con una smorfia quasi di disgusto. La sua espressione sembrava gridare: Ma come ti è saltato in mente! Il suo tono di voce si alzò. Sembrava nervosa. “Se lui non me l’ha chiesto, di certo non toccava a me invitarlo!”. Concluse con una risatina che sfiorava l’isteria.
Rimasi basita dalla sua risposta. Davvero Anthony non l’aveva invitata?
“E comunque”, continuò Ziva, più calma, “non ci sarei mai andata con lui. Non potrei mai sopportare di passare un’intera serata accanto a Tony”.
“Ah”, fu tutto quello che riuscii a dire. Dopo qualche secondo aggiunsi, con un sorriso falso: “Be’, allora fingi che non ti abbia detto niente”.
Ziva sorrise, poi uscì dalla stanza con la sua barretta.
Sovrappensiero com’ero, con dei gesti automatici infilai una banconota da un dollaro nella macchinetta e digitai il codice relativo a un pacchetto di patatine.
Ripensai all’ultima frase di Ziva, che mi aveva lasciata sconcertata. Davvero non avrebbe accettato l’invito di Tony se solo lui gliel’avesse chiesto? Forse era questo il motivo per cui lui non l’aveva fatto... il difficile carattere di Ziva era stata la causa del comportamento di Tony? O forse la paura di un rifiuto?
E così Anthony mi aveva fatto promettere un ballo con lui... In che guai mi aveva cacciata! Se al ricevimento Ziva ci avesse visto ballare insieme, mi avrebbe di certo incenerita. L’avrebbe fatto sicuramente, se solo avesse potuto lanciare saette dagli occhi, perché, nonostante ciò che lei mi aveva detto, ero sicura che – sotto sotto – le avrebbe fatto piacere andare al ricevimento con Tony. Di conseguenza non avrei mai potuto avere un buon rapporto con lei e mi avrebbe odiata a morte per il resto della mia esistenza.
Guardando la macchinetta, mi accorsi che il pacchetto di patatine non era caduto, ma era rimasto incastrato tra la spirale di metallo e il vetro, in bilico. Come facevo adesso a tirarlo giù?
Avrei dovuto tirare un calcio alla macchinetta.
Ma avrei preferito darlo a Tony.














*Nota dell'autrice*
Sono consapevole del fatto che questo capitolo possa essere noioso, mi dispiace immensamente per ciò... ma questo capitolo è importante perche vengono spiegate un po' di cose, ad esempio salta fuori che Tony non ha affatto invitato Ziva, come ci si sarebbe aspettato! :) perchè Tony ha agito (anzi, non ha agito) così?
Lascio un po' di suspence e ci vediamo la prossima settimana! :) :)
Chiara

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Interceding Is Often Hard- Cap 8
Capitolo 8

In cui un cambio d’abito porta a galla
dei sentimenti repressi


Finalmente arrivò il giorno del ballo. Quella mattina non andai in ufficio da Jethro poiché ero troppo agitata al pensiero di affrontare quella sera. Invece mi dedicai con molta cura al mio corpo: mi lavai i capelli con molto balsamo, mi depilai le gambe, sfoltii le mie sopracciglia e stesi la crema idratante sulla mia pelle.
Alle cinque del pomeriggio arrivò Ziva con i vestiti. Portò tre abiti, tra cui – disse lei – avrei “potuto scegliere quello perfetto” per me.
Tutti e tre erano molto belli, ma anche... non adatti a una diciottenne. Troppo scollati o scosciati. Nonostante ciò, non osai commentare – per paura che la bomba ad orologeria quale era Ziva potesse scoppiare – e decisi che li avrei provati tutti.
Il primo abito era color blu notte, aveva le spalline strette e mi arrivava poco sopra il ginocchio. Mentre mi guardavo allo specchio notai che Ziva mi lanciava delle strane occhiate, che, mi sembrava, non erano dovute al suo giudizio su come il vestito si adattasse al mio corpo. Feci finta di non accorgermi dei suoi sguardi.
 Scartai subito quell’abito: non avevo delle gambe magrissime e la lunghezza del vestito faceva risaltare un po’ troppo i miei polpacci. Ziva scosse la testa come ad esprimere i miei stessi pensieri.
Il secondo vestito era lungo fino ai piedi, di un risaltante rosso rubino ed era... scollato. Avevo praticamente tutto il davanzale in bella vista.
No, quello non andava bene.
“Questo proprio non va”, valutò Ziva, scuotendo il capo energicamente.
“Già”, mormorai.
Ziva mi allungò l’ultimo vestito e lo provai. Era lungo fino ai piedi, color verde acqua e mi lasciava scoperta una parte di schiena, ma in compenso copriva il davanti fino alle spalle.
Mentre adagiavo il tessuto sul mio corpo, mi persi tra i miei pensieri e, senza accorgermene, mi ritrovai a fissare Ziva.
Lei si accorse del mio sguardo insistente. “Che c’è?”, sbottò.
“Niente”, risposi istintivamente, tornando con i piedi per terra. “È solo che...”.
Mi fermai di colpo: mi era mancato il coraggio di continuare.
“Sì?”, mi incitò Ziva.
Ormai il guaio era fatto. Ero obbligata a continuare il discorso in qualche modo. “Insomma... volevo dirti che...”. Respirai profondamente, inalando anche il coraggio che avevo perso un attimo prima. “Ho notato la tua avversione nei miei confronti e ne ho anche capito la causa”.
Ziva mi fissò con gli occhi spalancati e si lasciò andare ad una risata nervosa. “Avversione? Di cosa stai...”.
“Non negarlo, la interruppi. “Tu credi che io mi stia mettendo tra te e Tony”.
Mi guardò con la stessa espressione di prima. “Tony? Sei impazzita per caso?”, disse con un tono di voce più alto di prima. Sembrava nervosa.
Improvvisamente mi resi conto che, se le avessi detto tutto quello che pensavo, mi sarei cacciata nei guai. Quindi decisi che avrei concluso il mio discorso in modo diplomatico.
Cercai di eliminare ogni residuo di accusa dalla mia voce, sforzandomi di mantenere un tono calmo. “Senti, non voglio intromettermi tra di voi, non otterrei nulla. Non ho mai avuto alcuna intenzione di... appropriarmi di Tony o cose del genere. Che cavolo, non ho nessuna chance!”. Cercai di ridere con naturalezza, ma non ci riuscii molto bene. “Lui è tuo”, continuai. “Puoi farci quello che vuoi. Stai attenta solo a non ferirlo: non lo merita”.
Ziva diventò seria tutto d’un tratto: sembrava che stesse davvero prendendo in considerazione le mie parole. Sorrise debolmente e le sue guance s’imporporarono appena.
Fui presa dall’agitazione al pensiero di farla innervosire, ma dovevo informarla di una cosa. “Volevo solo dirti che ho promesso a Tony che gli avrei concesso un ballo, stasera...”. Ziva si rizzò sulla schiena come se avesse ricevuto una brutta notizia. “...ma non succederà nulla. Cercherò di parlargli, se sei d’accordo”.
Ziva sembrò capire che mi stavo riferendo a loro due, perché sussurrò in un soffio: “Sì” quasi imbarazzata.
Annuii. “Ok”.
La donna mi fissò per un secondo. Riuscivo a leggere qualche emozione nei suoi occhi. Era forse... gratitudine? O qualcosa di simile?
“Guardati allo specchio”, mi suggerì.
Lo feci. Rimasi esterrefatta.
Il vestito era bellissimo.
“Wow”, esclamai, non riuscendo a credere ai miei occhi.
Ziva si aprì in un sorriso che non le avevo mai visto fino a quel momento. “Comunque volevo dirti che questo è il vestito perfetto per te”.




***




I miei conobbero la collega di Jethro e mia madre ne rimase colpita. “Da come l’avevi descritta tu, ci saremmo aspettati una ragazza fredda e scontrosa. Invece trovo che sia disponibile e solare, ha sorriso sempre”, disse quando Ziva se ne fu andata.
Mio padre, invece, non intervenne nella conversazione che stavo intrattenendo con la mamma perché era troppo concentrato nello squadrare il vestito che tenevo al braccio. Me l’ero tolto perché avevo dovuto accompagnare Ziva alla porta e non avevo voluto sciuparlo; in più, temevo la ramanzina di mio padre, che sarebbe arrivata prima del tempo se mi avesse vista con indosso l’abito prima di andare via. Potevo immaginare i suoi pensieri in quel momento: di sicuro stava programmando di non farmi uscire di casa se l’abito non fosse sottostato alle sue regole. Finsi di non accorgermi della sua espressione pensosa.
In mezz’ora – a tempo di record! - riuscii a truccarmi e ad attorcigliare i capelli in una treccia alla francese. Orecchini, pochette, ballerine – che, fortunatamente, non erano visibili agli altri perché nascoste dalla lunga gonna... i tacchi non riuscivo proprio a portarli! - ed ero pronta. Scesi le scale sentendomi una principessa.
Appena i miei mi videro, mia madre giunse le mani violentemente, provocando un sonoro schiocco, e mi squadrò con ammirazione.
“Tesoro sei bellissima!”, esclamò. “Quest’abito ti dona davvero!”.
Mio padre rispose con un grugnito. “Non sarà... troppo?”, si lamentò.
“Papà”, lo sgridai.
“Che sciocchezze”, esclamò la mamma. “Troppo cosa? È il migliore tra quelli che si potevano scegliere, è giusto per una ragazza”.
Papà rispose con un altro brontolio, per nulla convinto.
“Forza”, mi esortò mia madre spingendomi verso la porta. “Lo zio ti sta aspettando fuori”.
Scesi le scale del vialetto di corsa perché, se non l’avessi fatto, la spinta di mia madre mi avrebbe fatto cadere per terra. Mi diressi verso Jethro, che riuscii a scorgere nella semi oscurità.
Era vestito elegantemente in giacca e cravatta, ma non nel modo solito in cui l’avevo visto al lavoro. In quel momento era tutto in tiro, i capelli pettinati ordinatamente con una riga a lato, la giacca abbottonata sapientemente senza che il tessuto facesse una piega. Ero senza parole.
“Sei bellissimo, zio”, mi complimentai con un sorriso.
“Anche tu, bambina mia”, rispose. Poi salimmo nella sua auto grigia, mentre mia mamma, dal portico, ci salutava agitando freneticamente la mano.
Jethro guidò in silenzio per quasi tutto il tragitto; ad un tratto si voltò verso di me con un sorrisino malizioso. “Ti vedo agitata. Va tutto bene?”.
Lo guardai, cercando di sembrare rilassata. “Certo. Perché non dovrebbe?”.
Tornò a fissare la strada e si strinse nelle spalle. “Non so, dimmelo tu”.
Rimasi in silenzio per dei secondi interminabili, che passai fissandomi le mani e cercando di pensare a come poter palesare le mie preoccupazioni senza sembrare un’idiota.
Insomma, per essere agitata lo ero davvero, Jethro in questo ci aveva visto giusto. Ma non ero sicura che gli avrebbe fatto piacere sapere quale fosse il motivo del mio nervosismo.
Ci avevo pensato per tutto il giorno, e ora che ci avvicinavamo al locale del ricevimento il mio cuore si metteva a battere sempre più velocemente, come se volesse farmi un dispetto.
Ma insomma, qual è il problema?!
“Senti, zio...”, attaccai in un momento di coraggio. “Spero che tu non ti offenda se io... cioè...”. Fissai i suoi occhi grigio ghiaccio che celavano un certo smarrimento a causa del mio discorso contorto.
Respiro profondo.
“Ecco, forse avrei dovuto dirtelo prima, ma... ho fatto una promessa a Tony”.
Jethro sollevò le sopracciglia in un’espressione stralunata, la stessa che avrebbe avuto se gli avessi detto che la luna era fatta di formaggio. “Tony?”, ripeté. “E che cosa gli hai promesso?”.
“Beh, gli ho detto che...”. Feci un respiro profondo, poi dissi tutto d’un fiato: “Avrei ballato con lui”.
Aspettai che la tempesta si abbattesse su di me.
Invano.
Sembrava che Jethro si stesse trattenendo dal ridermi in faccia.
“E perché avresti fatto una promessa del genere?”, domandò ilare.
A giudicare dalla sua espressione, stavo davvero facendo la figura dell’idiota.
“Perché...”. Mi ha invitata ma ero già impegnata con te, quindi siamo scesi a un compromesso. “Lui mi ha chiesto un ballo e io ho accettato. Tutto qui”.
Bugiarda.
“Ah”, rispose lui, piegando la testa da un lato con espressione pensierosa. “Però”.
Aspettai che dicesse qualcos’altro, ma lui non continuò.
“Quindi...”, attaccai, “mi lascerai mantenere la promessa?”.
Jethro accennò ad una risata. “Oh, sì. Certo che sì!”.
Le nuvole nere si diradarono dall’umore che aleggiava nell’abitacolo dell’auto, lasciando il posto ad un Gibbs inspiegabilmente ridente e spensierato.










*Nota dell'autrice*

Ordunque... :) credo che mi ammazzerete per questo capitolo... vi aspettavate che questo fosse quello del ballo... invece no! :) vi lascio ancora con la suspense! :) muahaha! (risatina sadica (:  ).
No dai, a parte gli scherzi, mi dispiace di aver troncato così il capitolo, ma se avessi messo ciò che accadeva al ballo tutto insieme  il capitolo sarebbe diventato chilometrico! Quindi ho un po' diviso la parte del ricevimento... comunque il prossimo capitolo tratterà proprio del ballo, non vi preoccupate! :)
Ringrazio ancora e ancora zavarix e kiriri93, le mie fedeli recensitrici, e tutti quelli che seguono la mia storia! :) non smetterò mai di dirvi: grazie con tutto il cuore! :) :) :)
Ci vediamo la prossima settimana! :)
Chiara

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Interceding Is Often Hard- Cap 9

Capitolo 9

Gli unici due uomini con cui all’inizio mi sentivo a mio agio sono ora fonte di imbarazzo


Il locale dove si svolgeva il ricevimento era una di quelle sale lussuose che si vedono più che altro nei film, raramente dal vero. C’era gente vestita elegantemente, il bancone del ponche, camerieri che giravano per la sala con vassoi pieni di tartine e drink vari... Non potevo fare altro che guardare il tutto senza toccare, visto che non potevo bere alcolici*. Mi limitai ad assaggiare due salatini.
Eravamo arrivati da nemmeno dieci minuti che subito Jethro volle ballare con me. Cercando di non risultare scortese, gli risposi che per il momento non me la sentivo di lanciarmi sulla pista da ballo, ma lui si accigliò e replicò, fingendosi offeso: “Credi forse che il tuo vecchio non sappia destreggiarsi nel ballo del mattone?”.
“Non lo pensavo”, dissi con un sorriso. Poi, vedendo la sua espressione insistente, non riuscii a rifiutare una seconda volta.
Jethro mi trascinò in un angolo della sala, il più distante possibile – come riuscii ad accorgermi – dall’entrata principale. La scelta del luogo mi lasciò interdetta. Per caso voleva che ci nascondessimo da qualcuno? Forse da Tony? Perché avrebbe dovuto, se mi aveva dato il permesso di ballare con DiNozzo? Scossi la testa e decisi che la mia era solo paranoia.
Iniziammo a dondolare scompostamente sul posto. Il nostro modo di ballare era quello di spostare il peso del corpo prima su un piede e poi sull’altro.
Davvero di classe.
“Allora”, iniziò Jethro. “Mi vorresti spiegare la storia della promessa che hai fatto a Tony?”.
Bingo. Allora ci avevo visto giusto. Lo zio aveva solo finto di non preoccuparsi quando gli avevo confidato del ballo con DiNozzo mentre eravamo in auto. In realtà era agitato quanto lo ero io.
“Ti ho già detto tutto”, risposi diplomaticamente, cercando di sviare il discorso. Non potevo mica dirgli la verità. Ne andava della reputazione di Tony.
“Ah”, esclamò Jethro, poco convinto. “Sei sicura?”.
“Sì”, risposi, cercando di convincere anche me stessa per non rivelare al mio cavaliere che quella era una bugia. “Perché?”.
Jethro rispose con un’alzata di spalle.
Lo fissai per qualche secondo, cercando di capire qualcosa dalla sua espressione, poi lui sbuffò. “Ti ho osservata, in questa settimana”, disse. “E sono preoccupato”.
“Per cosa?”, chiesi, sinceramente curiosa di sapere dove volesse andare a parare con quel discorso.
“Ho notato uno... strano attaccamento da parte tua”, rispose.
“Un attaccamento?”, ripetei, stupita da quelle parole. “E per chi?”. Avevo capito di chi stava parlando, visto com’era iniziato il discorso. Accennai ad una risata nervosa. “Non penserai mica...”
“Tesoro, non vorrei che ti facessi ammaliare dal suo bel faccino e dai suoi modi gentili. Non è il caso che tu...”.
“Zio”, lo interruppi esterrefatta. “Che discorsi stai facendo?”. Lo fissai a bocca aperta. “Credi che io sia così ingenua da...”.
“No, certo che no”, rispose Jethro. “Sono solo preoccupato”.
“Non sono interessata a Tony, come lui non lo è a me!”, mi difesi, forse con troppo impeto. “Lui...”. Stavo per dire qualcosa riguardo Tony e Ziva, ma mi bloccai in tempo. A Jethro non sarebbe certo piaciuto sentire che tra quei due c’era qualcosa...
“Lui?”, mi incitò, vedendo che mi ero bloccata.
Risi nervosamente. “È troppo vecchio!”, dissi infine, riuscendo a trovare una risposta valida senza addentrarmi nel discorso tabù. Notai la strana occhiata di Jethro. “Per me”, chiarii. “Certo, non dico che lui sia vecchio di per sé...”.
Jethro continuava a guardarmi lanciandomi strane occhiate. “Oh, insomma, mi hai capita!”, esclamai, stufa di trovarmi in quella situazione sgradevole.
“Certo, certo”, rispose lui, imbarazzato.
“Gibbs”, disse una voce profonda dalle nostre spalle. Era il direttore Vance. “Mi dispiace interrompere il ballo con tua nipote, ma ho bisogno di te”.
Ci voltammo verso la voce per vedere l’espressione seria del direttore che fissava prima uno e poi l’altra.
“Beh, se il lavoro chiama...”, commentò Jethro. Poi mi guardò. “Torno subito”.
“Ah... non credo”, lo interruppe Vance, guardando lo zio con un’occhiata d’intesa.
“Va bene, allora tornerò tra un po’”, si corresse Jethro. “Ci sono McGee e Abby lì”, mi disse, facendo un cenno con la testa nella loro direzione. “Stai con loro intanto, non so quanto ci vorrà”. Detto questo, girò i tacchi e si allontanò con il direttore.
Appena i due furono fuori dalla mia vista, mi voltai verso Abby e Tim, seduti su una panca in un angolo della sala, per scoprirli coinvolti in una conversazione interessante. Entrambi accompagnavano le proprie parole con dei gesti ampi. Erano davvero presi dai loro discorsi. Non si accorsero per nulla di me.
Decisi di non disturbarli poiché non volevo essere d’impiccio più di quando già non mi sentissi – percepivo l’aria di estraneità di quel posto -, quindi mi avvicinai alla prima panca imbottita che trovai e mi ci accomodai.
Passai dei minuti a guardarmi intorno, scrutando e commentando tra me i vestiti delle altre signore nella sala. Improvvisamente sentii qualcuno sedersi pesantemente accanto a me. Anche senza guardare capii chi era.
“Questa festa è un mortorio”, si lamentò, sbuffando.
Non mi voltai verso di lui. Non ero dell’umore giusto per guardarlo in faccia. Non dopo il discorso che mi aveva fatto Jethro. “Si da il caso che questa non sia propriamente una festa”, risposi in tono quasi infastidito.
“Chiamala come vuoi”, rispose Tony, “ma se avessi saputo che la mia serata sarebbe stata così noiosa, me ne sarei rimasto a casa a guardare la TV”.
Me ne restai in silenzio, stranamente agitata. Non sapevo cosa rispondere.
“Ti va di bere qualcosa?”, suggerì lui vedendo che non replicavo.
A quel punto mi voltai e lo vidi. Indossava un completo scuro che non gli avevo mai visto addosso, accompagnato da una camicia grigia e una cravatta nera. Ero senza parole. Era tutto in tiro: quello non sembrava DiNozzo.
“Ho diciotto anni, non posso bere alcolici”, risposi con il mio tono neutro. La frase suonava ovvia anche alle mie orecchie.
“Giusto... un’acqua tonica?”, propose.
Scossi la testa. “Non mi piace”, continuai con lo stesso tono.
Passarono dei secondi di silenzio interminabili, che passai tutti a testa bassa a guardarmi le mani.
“Gibbs dov’è?”, domandò di punto in bianco. “Non è da lui lasciarti da sola senza una guardia del corpo”.
A quel punto sollevai la testa e alzai gli occhi al cielo. Che esagerazione. “Il direttore Vance l’ha rapito”. Terribile battuta.
“A-ah”, fece Tony, poco interessato.
“E la tua dama?”, chiesi, rendendomi conto di non sapere ancora con chi fosse venuto a quel ricevimento.
Alzò le spalle, indifferente. “Da quando si è fiondata tra le braccia di un giovane e ricco ufficiale non l’ho più vista”, rispose. “Guarda un po’ se non mi è capitata la civetta più superficiale di tutto l’ufficio”.
Chi prima arriva, meglio alloggia, pensai.
“Visto che siamo momentaneamente non impegnati – anche se credo che la mia situazione rimarrà la stessa per il resto della serata -, che ne dici di mantenere la tua promessa?”.
Lo guardai di sbieco, fingendo di non capire. “Cosa?”.
Tony esplose in una risata. “Oh, andiamo! Non dirmi che te ne sei dimenticata! O forse hai paura di me? Guarda che non ti mangio mica”.
“Non ho paura!”, replicai con una risata nervosa.
Aspettò che io continuassi, ma non avevo il coraggio di dire altro. Improvvisamente l’idea di ballare con Tony mi terrorizzava.
“Allora?”, fece lui, sollevando un sopracciglio e sfoderando un’espressione che sfiorava la derisione.
Fissai storto la sua mano, tesa verso di me, che aspettava una mia risposta. Il mio cuore iniziò a battere frenetico e mi si formò un nodo in gola. Distrattamente cercai di trovare il motivo della mia reazione, ma ero troppo nervosa per riuscire anche solo lontanamente a formare un pensiero.
Non riuscendo a spiccicare una parola a causa del peso che bloccava le mie vie respiratorie, con un gesto automatico posai la mano su quella di Tony, che intrappolò la mia in una stretta calda e delicata. Si alzò in piedi, trascinandomi con sé, e mi portò più verso il centro della sala. Mentre ci mescolavamo tra le persone, mi chiesi perché diavolo avevo accettato di ballare con lui.
Mannaggia a me!
Iniziammo a dondolare su e giù. Rimasi sorpresa dall’abilità di Tony nel danzare: il nostro non era un ballo del mattone, come quello mio e di Jethro. Anthony era più sciolto, non era teso come un palo come mi sarei aspettata. D’altronde, se aveva tanto successo con le donne, probabilmente la sua attitudine al ballo contribuiva ad aumentare il suo fascino italiano.
Ma, in quel momento, quello che provavo non era attrazione, ma... un profondo disagio.
Io, Amy Steel, che non avevo fatto altro che prendere in giro Tony per tutta la settimana, quella sera dovevo sentirmi imbarazzata in sua presenza?
Che storia era quella?
“Allora”, iniziò Anthony dal nulla. “Che cosa mi racconti di bello?”.
“Non lo so”, risposi, cercando di non incontrare il suo sguardo.
“Oh, andiamo!”, esclamò. “Un’adolescente che non trova un argomento di conversazione non si era mai vista. Non hai qualche pettegolezzo da dirmi o qualcosa di simile?”.
“Un pettegolezzo?”, ripetei io, confusa. “E riguardo chi?”.
“Beh, qualcuno della squadra”, rispose Tony ridendo.
“E perché credi che io sia a conoscenza di qualche indiscrezione sui tuoi colleghi?”, continuai, sempre più perplessa.
DiNozzo alzò le spalle con aria da finto innocente. “Perché in questa settimana eri dappertutto in ufficio. Sei stata alle nostre scrivanie, da Abby, nella sala relax, in ascensore... avrai quantomeno notato qualcosa”.
Rimasi interdetta dal suo discorso. Non riuscivo a capire dove Tony volesse andare a parare. Voleva sapere se avevo notato qualcosa che riguardava lui oppure era davvero interessato a qualche pettegolezzo sugli altri?
“Lavori con i tuoi colleghi da anni”, risposi. “Dovresti conoscere tu qualcosa di più di me”.
“Beh, sai... non tutti si aprono con me come possono fare con un’ingenua diciottenne”.
Quell’affondo fece male. “Ingenua?”, risposi in tono acido, enfatizzando la parola. Il primo istinto fu quello di strizzare forte la mano che stringeva quella di Tony e affondare le unghie nella sua carne. Ma riuscii a trattenermi.
Tony sogghignava. Sembrava sinceramente divertito dalla mia reazione.
“Senti un po’, non so come fossi tu alla mia età, ma di sicuro non eri ingenuo”. Poi non riuscii a contenermi. “Beh, ora che ci penso un pettegolezzo l’avrei”, continuai con una smorfia. “E riguarda te”.
“Oh, davvero!”, esclamò ridendo. “Dai, sentiamo”.
Sorrisi maleficamente, pronta a dargli il colpo di grazia. “Perché non hai invitato Ziva a questo ricevimento?”.
L’espressione di Tony mutò improvvisamente, diventando grave. “Cosa?”, domandò, fingendo di non capire.
“Sai di cosa sto parlando”, dissi seria.
Ci mise un po’ a rispondere. “Era già impegnata”, replicò infine.
“No, non è vero. Lei ha trovato un cavaliere solo ieri mattina. Hai avuto tutta la settimana per chiederglielo”, replicai con lo stesso tono.
Tony sbuffò.
“Non gliel’hai nemmeno chiesto”, continuai. “Perché?”.
“È complicato”, rispose seccamente.
“No, non lo è!”, esclamai con forse troppo vigore. “È semplicissimo, sei tu che rendi tutto difficile”.
“Che ne sai tu?”, domandò quasi rabbioso.
Era ironico come, nonostante il tono che aveva preso il nostro discorso, riuscissimo a continuare a danzare come se nulla fosse. Dovevo ammettere che Tony era davvero bravo a condurre il ballo.
Sbuffai seccamente dal naso. “Ho diciotto anni, come tu continui a ricordarmi, e per quelli della mia età i problemi di cuore sono praticamente all’ordine del giorno”. Feci una pausa, aspettando da Tony una risposta che non arrivò. “In più”, continuai, “in questa situazione io sono una persona non coinvolta, quindi posso essere obiettiva”.
“Va bene, mi hai convinto”, rispose Tony spazientito. “Okay, lo ammetto, non l’ho voluta invitare”.
Ero orgogliosa del mio lavoro: ero riuscita a farlo confessare. “Perché?”, domandai con un tono più calmo.
“Non sono affari tuoi”.
“Vuoi ricominciare ad essere scontroso?”, esclamai, infiammandomi come poco prima. Districai la mia mano dalla sua presa. “Allora accomodati pure. Non ti aiuterò”, dissi furiosa, poi mi allontanai da lui, facendomi strada tra gli altri ballerini, e mi diressi verso la panca imbottita dove prima Tony mi aveva invitata a ballare.
Sentivo Anthony camminare dietro di me. Mi raggiunse prima che potessi sedermi, afferrandomi per un braccio e facendomi voltare violentemente.
“Ascolta, non so cosa tu abbia intenzione di fare”, disse pacato. Il suo tono discordava con la sua espressione tesa. “Quindi cerca di spiegarmelo”.
“So perché non hai invitato Ziva: hai paura”, decretai. Alla fine, dopo molte riflessioni, avevo capito cos’era successo. “Temi di dire qualcosa di troppo e di farla allontanare da te. Ma non accadrà, te lo posso assicurare”.
Tony mollò la presa dal mio polso e mi scrutò di sottecchi. “Come fai a saperlo?”, chiese diffidente.
Improvvisamente percepii uno sguardo. Mi voltai e scorsi Ziva, a una decina di metri da noi, vicino al bancone delle vivande, che ci fissava con interesse. Era avvolta in un abito lungo blu elettrico che le lasciava scoperte le spalle e che faceva risaltare la sua silhouette snella.
Il mio imbarazzo arrivò alle stelle. Ad un tratto mi sentivo un’intrusa in quella situazione. Dopo tutto il tempo passato a quel ricevimento, quello fu il primo momento in cui mi chiesi seriamente cosa diavolo ci facessi là, cercando di capire cosa volevo veramente fare con Tony.
Mi si formò un nodo in gola al pensiero che avrei potuto combinare un casino tra Anthony e Ziva. Ero entrata nelle loro vite e le avevo scompigliate. Con quale diritto avevo agito in quel modo? Chi ero io per decidere della loro vita? A stento riuscii a trattenere le lacrime.
Tony si accorse del mio sguardo insistente e lo seguì, incontrando gli occhi di Ziva.
“Va’ da lei”, dissi, pregando che la mia voce non si rompesse. “Parlale, dille ciò che provi”.
Tornò a guardarmi e probabilmente notò che ero scossa. Aprì la bocca per dire qualcosa.
“Ti prego”, lo anticipai. “Ho già combinato abbastanza guai per oggi, non voglio complicare di più le cose”.
“Okay”, rispose Tony con un’espressione fiduciosa. Poi si voltò verso Ziva e la raggiunse con passo sicuro, pronto a sopportare le conseguenze delle proprie azioni.
_________________________________

Nota di fine capitolo:

*: Negli Stati Uniti bisogna aver compiuto ventuno anni per poter bere alcolici. La nostra protagonista ne ha diciotto, quindi lei non può bere.













*Nota dell'autrice*

Ok, posso dirlo?
Sono davvero fiera di questo capitolo.
Ecco, l'ho detto! :)
Sì, sono davvero fiera, perché credo che sia venuto bene. Cioè, mi sono davvero impegnata per scriverlo, scervellandomi per riuscire a scrivere un dialogo tra la nostra eroina e Tony che fosse verosimile... e il risultato mi piace! :) è proprio quello che mi immaginavo venisse fuori :)
Credo proprio che questo sia il mio capitolo preferito, nonché il più lungo :)
Spero che il capitolo sul ballo sia stato all'altezza delle vostre aspettative :) ditemi come vi è sembrato! :)
Ci vediamo la prossima settimana! :) Bacioni a tutti!
Chiara

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Interceding Is Often Hard- Cap 10

Capitolo 10

Una strana reazione


Guardai Tony avvicinarsi a Ziva e a quel punto scoppiai. Mi misi a piangere come una fontana, cercando di soffocare i singhiozzi e le risa.
Se qualcuno si fosse girato nella mia direzione in quel momento, sicuramente avrebbe pensato che fossi pazza. Fortunatamente erano tutti impegnati a ballare o a conversare e nessuno si accorse di me.
Sfogai la mia isteria per forse un minuto, ridendo e piangendo contemporaneamente, asciugandomi le lacrime con un fazzoletto di carta perché il trucco non sbavasse.
Certo, la mia reazione non fu quella che mi aspettavo e se qualcuno mi avesse notata sarebbe stata una situazione davvero imbarazzante. Probabilmente stavo piangendo perché le lacrime erano state sul punto di scendere per tutta la sera e ridevo perché finalmente sapevo di avercela fatta.
Avevo finalmente capito perché avevo agito in quel modo quella sera. Lo smarrimento di qualche minuto prima, quando ancora Tony mi guardava con occhi persi e io fissavo Ziva, era sparito come per magia. Mi ero resa conto che i discorsi che avevo fatto prima a una – in camera mia, quel pomeriggio – e poi all’altro – poco prima, mentre ballavamo – non erano stati altro che un tentativo per farli avvicinare. Ci avevo provato per tutta la settimana, anche se non me n’ero resa subito conto.
E quella sera ero riuscita nel mio intento.
Ridevo proprio per quello. Ero contenta, sia per me stessa – che mi sentivo inaspettatamente realizzata per ciò che avevo fatto –, sia per Tony - che aveva trovato il coraggio per fare ciò che più voleva. L’avevo osservato per tutta la settimana, esaminando il suo comportamento e notando l’attaccamento per Ziva che cercava di celare a tutti.
Ma non era riuscito a nasconderlo a me.
La mia crisi isterica finì mentre Tony prendeva Ziva per mano e la accompagnava verso il centro della pista da ballo. Osservai compiaciuta quella scena: d’altronde era stato anche per merito mio se Tony era arrivato a compiere quel gesto.
Rimasi a guardarli per qualche minuto, poi un senso di solitudine mi pervase. Jethro era andato chissà dove non sapevo quando sarebbe tornato. Tony mi aveva lasciata per raggiungere Ziva e non potevo godere delle sue espressioni comiche e del divertimento nel prenderlo in giro.
Mi rimaneva solo un’opzione per cercare di alleviare la mia tristezza.
Mi alzai dalla panca e mi avviai nella direzione in cui avevo visto Abby e McGee l’ultima volta. Con mia sorpresa – e sollievo – li trovai ancora seduti sulla stessa panca di prima. Sembrava che per loro il tempo si fosse fermato: stavano ancora discutendo animatamente di qualche argomento che sembrava interessante.
Mi avvicinai piano.
“Non ci credo!”, esclamò Abby.
“Sì, te l’assicuro!”, replicò Tim con entusiasmo. “Avresti dovuto vedere la sua espressione! Da piegarsi in due dal ridere!”.
Lo sguardo di Abby incrociò il mio. “Ehi, agente Amy! Che ci fai qui sola soletta?”, domandò con un sorriso, interrompendo il discorso di McGee. Si guardò in giro. “Gibbs dov’è?”.
“L’ha rapito Vance”, risposi con un’alzata di spalle, ripetendo ciò che avevo detto a Tony.
Abby fece una smorfia. “Mmmh... allora potrebbe averne per molto”. Poi si aprì in un sorriso e con una mano batté sul cuscino della panca, indicando il posto vuoto vicino a lei. “Allora siediti qui, facci compagnia!”.
Fissai la sua mano sulla panca con timore. “Sicuri che non disturbo?”, domandai titubante.
“Naaaah!”, rispose McGee, accompagnando l’esclamazione con un gesto della mano. “Stavo solo raccontando ad Abby un aneddoto su un mio collega di quando lavoravo a Norfolk”.
“Ok”, mormorai, poi mi sedetti.
Non potei fare a meno di scrutare Abby dalla testa ai piedi.
Se l’avessi incontrata per strada vestita in quel modo, difficilmente l’avrei riconosciuta. Indossava un abito nero che le arrivava appena sotto il ginocchio e che aveva una scollatura a barchetta che faceva risaltare le sue spalle bianche. Aveva raccolto i capelli scuri in uno chignon, ma aveva comunque tenuto la frangia a coprirle la fronte. Per di più, il modo in cui si era truccata era inusuale per lei. Aveva scelto dei colori tenui, un ombretto grigio perla e un rossetto lavanda.
Che diavolo le era successo?
“Cavoli, Abby, sei bellissima!”, esclamai con un sorriso.
“Anche tu non sei male”, rispose. “Il vestito è di Ziva, vero?”.
“Già”, replicai secca. Era davvero così evidente?
Ad un tratto Abby parve accorgersi di qualcosa sul mio viso. “Ehi, che è successo?”, domandò preoccupata. Posò le mani sulle mie guance e con i pollici levò un po’ di trucco che, probabilmente, era colato. “Hai gli occhi tutti rossi. È accaduto qualcosa?”.
“No, non ti preoccupare”, risposi. Poi tolsi le sue mani dal mio viso con delicatezza per non offenderla.
“Mmmh...”, mormorò poco convinta.
Con l’intento di sfuggire dagli occhi indagatori di Abby, mi voltai verso il punto in cui erano Tony e Ziva, ma non li vidi.
Sussultai. No, non potevo averli persi! Volevo assolutamente sapere cosa facevano in ogni secondo da quel momento fino alla fine della serata! Senza accorgermene, mi ritrovai in piedi.
“Ehi!”, esclamò Abby. La ignorai.
Scandagliavo la stanza in cerca dei due piccioncini; riuscii a trovarli vicino alla porta d’ingresso mentre uscivano. Ziva sembrava turbata e Tony la stava trattenendo per un braccio mentre apriva la porta e la accompagnava fuori.
Che cos’era successo? Dovevo assolutamente seguirli per scoprirlo.
Mi voltai verso Abby e McGee. “Scusate, vado a prendere una boccata d’aria”, dissi.
Tim si alzò in piedi. “Ti accompagno”.
Scossi la testa. “No, grazie, non serve. Torno subito”. Poi mi allontanai.
Uscii dalla sala e venni investita dal fresco dell’esterno. Il buio era totalmente calato sulla città, segno che il sole era tramontato già da un pezzo. Alcuni lampioni stile anni venti illuminavano l’esterno della sala da ballo. Sfregandomi le braccia per riscaldarmi, mi maledissi per aver lasciato la mia giacca nel guardaroba del locale.
Ma, a quel punto, era inutile tornare dentro: dovevo trovare Tony e Ziva e non potevo perdere tempo.
Girai l’angolo del palazzo, trovandomi nel parcheggio ben illuminato. Scrutai tra la miriade di macchine parcheggiate, ma non c’era anima viva. Poi notai l’oggetto delle mie ricerche: i due si trovavano in un angolo, più vicini del previsto. Sgattaiolai indietro più velocemente possibile e mi appiattii contro la parete.
Stetti ad ascoltare per qualche secondo, per capire se ero stata vista, ma non udii nulla. Mi arrischiai allora ad allungare il collo oltre l’angolo per vedere cosa succedeva.
Tony e Ziva si stavano fissando intensamente. Apparentemente non mi avevano notata. La donna era appoggiata con la schiena contro il muro e Anthony posava le mani sulla parete, sbarrandole ogni via di fuga.
“Perché ti comporti così, Tony?”, esclamò Ziva. La sua voce era un misto tra rabbia e timore.
“Te l’ho detto, non posso più fingere”, rispose Anthony, in tono affranto.
Mentre spiavo da dietro l’angolo, mi chiesi che cosa stesse succedendo. Perché Ziva si comportava in quel modo? La sua espressione sembrava sorpresa e contrariata. Ma non l’avevo forse avvisata, quel pomeriggio, che avrei parlato con Tony? Aveva capito quello che avevo inteso dire? Oppure non si era aspettata che sarebbe successo qualcosa proprio quella sera?
“Perché adesso?”, continuò Ziva con lo stesso tono di voce. “Perché proprio stasera?”
“Perché solo stasera ho capito cosa voglio davvero”, rispose Tony, deciso.
Ziva scosse la testa. “Perché hai aspettato così a lungo?”, domandò più calma.
Tony la fissò confuso, mentre io, da dietro l’angolo, guardavo la scena trattenendo il respiro. Sentivo che stava per succedere qualcosa. Mancava davvero pochissimo...
“Cosa intendi dire?”, chiese Anthony.
Ziva aprì la bocca per dire qualcosa, ma poi ci ripensò e la richiuse. Si sollevò un poco dalla parete alle sue spalle e rimase sospesa, come se stesse riflettendo su ciò che stava facendo.“Tu che cos’è che vuoi?”, sussurrò, così piano che feci fatica a comprendere le sue parole.
Tony la fissò negli occhi per un po’, probabilmente cercando di capire se la risposta che voleva dare sarebbe stata ben accettata dalla donna. Si avvicinò a lei, tanto che ora i loro visi distavano solo qualche centimetro.
“Voglio te”, disse infine. La sua voce non si ruppe: Tony era calmo, sicuro di sé. Lo ammiravo, per questo.
Ziva continuava a fissarlo senza muovere un muscolo, tanto che temetti per Tony che la cosa non si sarebbe conclusa come lui desiderava. La donna aprì bocca e sussurrò: “Perché?”.
Anthony la guardò stralunato per qualche secondo, poi parve mettere in ordine i suoi pensieri e iniziò quello che per me fu il discorso più bello che avessi mai sentito.
“Io ti voglio perché non riesco ad immaginare la mia vita senza di te: senza i tuoi occhi, che quando si illuminano diventano i più belli che abbia mai visto; senza i tuoi modi di dire storpiati, che io correggo ogni volta; senza le smorfie che fai quando ti prendo in giro; senza i tuoi sorrisi, tutte le volte che mi canzoni; senza la tua guida spericolata, che mi fa restare di sasso ogni volta che ti lascio il volante...”.
A quel punto Ziva agì. Con un movimento rapido annullò la distanza tra lei e Tony e lo baciò, interrompendo il suo discorso.
In quel momento venni sommersa da diverse emozioni.
Per prima cosa, mi sentivo soddisfatta del mio lavoro: alla fine, il mio maldestro tentativo di aiutare Tony e Ziva aveva avuto successo. Mi piaceva pensare che ciò che vedevo in quel momento fosse accaduto anche per merito mio.
In secondo luogo, ero felice per Tony: avevo compreso fin da subito che provava qualcosa per Ziva, qualcosa che andava ben oltre la fiducia e l’affetto tra colleghi. Anthony era riuscito, con qualche difficoltà, a capire cosa desiderasse davvero e quella sera se l’era preso. Era stato coraggioso ed io ero sinceramente contenta per lui.
In fondo al mio stomaco, però, un peso mi opprimeva il petto. Non riuscivo bene a capire cosa fosse, ma in quel momento, nascosto com’era dalle altre due emozioni positive, non riuscivo a percepirlo completamente, così non mi sforzai più di tanto per cercare di capire cosa fosse.
I due piccioncini ora si stavano baciando con più trasporto. Tony aveva infilato le dita tra i capelli di Ziva e premeva il corpo contro il suo. Lei gli aveva posato le mani sulla schiena e lo stava tirando verso di sé.
Non si poteva dire che non fossero coinvolti dalla situazione.
Ad un tratto, quasi senza accorgermene, distolsi lo sguardo dalla scena e tornai a nascondermi dietro l’angolo. Non me la sentivo di continuare a guardare, mi sarebbe sembrato di violare la privacy di Tony e Ziva.
Mi sollevai dal muro, sul quale mi ero appoggiata di schiena, e decisi di rientrare, alla ricerca di Jethro e della mia giacca nel guardaroba: era ora di tornare a casa.












*Nota dell'autrice*

Sono molto dubbiosa rispetto a questo capitolo... cioè... diciamo che questo è il culmine della storia ed è il capitolo che tutti stavate aspettando e sono molto timorosa! Spero di non aver deluso le vostre aspettative!...
Fatemi sapere come vi  sembrato questo capitolo :) :) sono molto curiosa di sentire cosa ne pensate!
Non ho altro da dire per adesso, quindi vi saluto e ci vediamo la prossima settimana! :) :) :)
Chiara

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Interceiding Is Often Had - Cap 11

Capitolo 11

Le vecchie abitudini sono dure a morire


La mattina dopo, anche se era domenica, mi presentai agli uffici dell’NCIS. La sera prima Jethro mi aveva detto che, nonostante quello fosse il giorno di riposo di tutti i comuni mortali, non sarebbe stato strano se la sua squadra si fosse comunque presentata al lavoro di buon’ora. Così lo zio mi aveva consigliato di cogliere l’opportunità per salutare tutti quanti prima di tornare a casa con i miei nel Connecticut.
Accettai il suggerimento di Jethro e alle nove in punto lo zio suonò il campanello; dopo aver salutato per bene i miei genitori, che non avrebbe rivisto per molto tempo, mi caricò in auto e partimmo alla volta del centro città.
Entrammo nell’edificio e salimmo in ascensore. Arrivati alle scrivanie della squadra dello zio, rimasi sorpresa nel vederle vuote. Ma non mi aveva detto che ci sarebbero stati tutti?
Jethro mi tirò per un braccio e mi fece avanzare verso un corridoio che si trovava dietro la grande scala di metallo, spingendomi con la mano sulla schiena. Le mie occhiate confuse, che gli lanciavo per chiedergli dove diavolo mi stesse portando, non sembrarono scuoterlo. Sul suo viso era stampato un sorrisino che non riuscivo a decifrare.
Quando passammo davanti ad alcune porte aperte, che davano sulle sale interrogatori, mi resi conto che quel corridoio mi era familiare e ad un tratto capii dove Jethro mi stava portando.

Entrammo nella sala relax, la stessa dove avevo avuto l’interessante conversazione con Ziva davanti alla macchinetta degli snack*, e trovai tutti lì: Tony, Ziva, McGee, Abby, Ducky e Jimmy. Sul tavolino circolare davanti a loro era posata una scatola aperta che conteneva delle ciambelle enormi. Accanto, un gruppetto di bicchieri di cartone faceva sperare che si bevesse del caffè.
Tutti sorrisero mentre Tony esclamò: “Sorpresa!” allargando le braccia ad indicare lo spazio attorno a sé.
Per essere sorpresa, lo ero davvero!
Guardai l’espressione di ognuno di loro, poi mi misi a fissare le ciambelle. “Wow, ragazzi! Non so cosa dire!”, esclamai. “A cosa devo l’onore?”.
“Beh”, fece Jethro, posandomi le mani sulle spalle, “oggi te ne vai e chissà quando ti rivedremo. Volevamo salutarti come si deve”.
“Il Connecticut non è lontano”, dissi sorridendogli. “Posso venire a farvi visita quando volete”.
Jethro sorrise e mi spinse verso il tavolino, incoraggiandomi a prendere un caffè e una ciambella, ma Abby mi si parò davanti.
“Davvero vuoi bere quella schifezza?”, esclamò, enfatizzando la parola con una smorfia teatrale. “Ti do la possibilità di scegliere: puoi bere quello” – si girò verso i bicchieri posati sul tavolo, sfoderando la stessa espressione di disgusto – “oppure questo!”. Sfoggiò un sorriso a trentadue denti e mi mise sotto il naso un bicchiere rosso che conoscevo benissimo.
Il suo amato CafPow.
Fissai il bicchierone di plastica per qualche secondo, poi lo afferrai e iniziai a succhiare avidamente dalla cannuccia.
D’altronde si sa, le vecchie abitudini sono dure a morire.





***




Passammo la mattinata tutti insieme nella saletta, a mangiare ciambelle e a trangugiare chi semplice caffè, chi CafPow, parlando dei più disparati argomenti: la nuova agente in prova che era arrivata la settimana prima e che era stata assegnata alla squadra di un loro collega – Tony non perse tempo a fare uno dei suoi soliti commenti, assegnandole subito il soprannome di “pivella” e dicendo che l’avrebbe vista bene come la nuova ragazza di Palmer; la nuova miscela di caffè che veniva offerta al bar dove McGee si riforniva di solito; un ex di Abby che sembrava volesse rifarsi avanti (l’argomento provocò delle occhiate da parte di Tim verso Abby e un inconfondibile colorito rossastro sul suo viso, dovuto – molto probabilmente – a un sentimento di gelosia che era rimasto represso troppo a lungo); un nuovo film con Sean Connery che Tony era andato a vedere al cinema qualche tempo prima e di cui sapeva già esibire qualche citazione. Un paio di volte Ducky partì in quarta con uno dei suoi soliti discorsi, che iniziavano con: “Ricordo una volta, quando...”, ma, in entrambi i casi, venne subito interrotto da Jethro, che giustificò la sua ingerenza dicendo che io non ero abituata alle sue consuete chiacchiere, facendo così risparmiare a tutti l’ascolto di un racconto lungo e contorto.
L’unico argomento che non saltò fuori quella mattina fu il ricevimento della sera prima. Nessuno, per un motivo o per un altro, voleva iniziare il discorso: Tony e Ziva non potevano assolutamente parlare di ciò che era successo tra di loro – visto che le relazioni tra colleghi erano severamente vietate all’NCIS; Jethro non voleva menzionare nulla riguardo quella sera a causa della conversazione che noi due avevamo avuto riguardo Tony; Abby e Tim avrebbero dovuto raccontare come avevano passato la serata – cioè parlando, parlando e ancora parlando; Ducky e Palmer... beh, in quel momento non potevo saperlo, ma loro non volevano iniziare il discorso perché sarebbero stati costretti a raccontare della tecnica da loro utilizzata per rimorchiare due belle signore.
Senza che ce ne rendessimo conto, arrivò mezzogiorno. Il tempo era davvero volato; d’altronde, ritrovandosi in una compagnia così varia e piacevole, era inevitabile che il tempo passasse molto velocemente, così come era successo per tutta la settimana.
“Zio...”, mormorai, dopo aver guardato l’orologio. “Ora devo proprio andare...”.
Abby si raddrizzò sulla sedia. “Come? Di già?”, domandò con un’espressione contrariata.
“Sì...”, risposi dispiaciuta. “Beh, sono stata con voi un’intera settimana”, dissi per cercare di tirare su di morale sia Abby che me stessa. “Abbiamo passato diverso tempo assieme”.
“Non puoi rimanere ancora un po’, mia cara?”, fece Ducky.
Scossi la testa con un sorriso forzato. “No, mi dispiace. Il mio aereo parte alle quattro e devo sistemare le ultime cose in valigia”, spiegai.
“Beh, allora...”, iniziò Jethro, alzandosi in piedi. “Mi sa che dobbiamo salutarti.
Quello fu un momento davvero terribile. Salutare i colleghi di Jethro mi strinse il cuore: avevo passato con loro molte ore al giorno per un’intera settimana e non rivederli più – o comunque per molto tempo – mi dispiaceva davvero tanto. Erano delle belle persone, ognuna con il proprio carattere; tutti diversi, ma che allo stesso tempo riuscivano a completarsi. Era davvero una cosa bella.
Si misero tutti in fila per salutarmi: sembravano in processione.
Abby era la prima. “Agente speciale Amy!”, esclamò con un singhiozzo, buttandomi le braccia al collo e stringendomi forte. “Mi mancherai tantissimo!”.
“Anche a me mancherai, Abby. Ma non ti preoccupare”, risposi con un sorriso quando mi lasciò andare. “Ci possiamo sempre sentire per e-mail. E adesso che ho un computer tutto mio a casa, posso usare la webcam”.
Con un altro singhiozzo, Abby si fece da parte e McGee avanzò.
“Beh... arrivederci”, mi salutò, allungandomi la mano.
La ignorai e lo strinsi in un abbraccio. “È stato un piacere, Tim!”, esclamai.
Poi fu la volta di Ducky e di Palmer. Il primo mi prese le mani e le strinse caldamente. “È stato bello rivederti, Miss Gibbs”, disse, aggiudicandosi un mio sbuffo per l’appellativo che aveva usato. Jimmy, invece, si limitò a stringermi la mano.
Dietro di lui c’era Ziva, che mi fissò con uno sguardo enigmatico per un tempo indefinito. Poi sfoderò lo stesso sorriso che mi aveva rivolto il pomeriggio del giorno prima durante la prova dei vestiti: era pieno di... gratitudine? Ancora una volta non riuscii a decifrarlo. Si limitò ad allungare la mano, che io strinsi caldamente e forse per troppo tempo. Ma lei parve non dispiacersene.
Poi toccò a Tony. Era rimasto per ultimo, il fifone! Mentre gli sorridevo forzatamente, mi chiesi se davvero fosse lui ad avere paura di quell’ultimo incontro faccia a faccia oppure io. Dopo la mia sbirciatina nel parcheggio della sera prima – di cui Anthony era ancora all’oscuro – non avevamo avuto modo di parlare da soli. Anche se non credevo ci fosse qualcosa da dire.
L’espressione di Tony somigliava alla mia. Sguardo agitato, sorriso tirato.
Mi schiarii la voce. “Ciao, Tony”, dissi in un sussurro.
“Ciao, Amy”, rispose lui. Poi si scansò.
Jethro mi si parò davanti. “Ti accompagno a casa”, disse.
Scossi la testa. “Non ti preoccupare, prendo un taxi”, risposi. “Non è necessario che tu esca dal lavoro”.
Ci misi un po’ per convincerlo, ma alla fine ci riuscii. Mi accompagnò all’ascensore e, mentre aspettavo che arrivasse al piano, ci salutammo.
“Grazie di tutto, zio: per avermi tenuta qui e sopportata...”.
“Oh, figurati! È stato un piacere, bambina mia”, rispose con un sorriso, poi mi abbracciò. “Torna a trovarmi quando vuoi”.
Annuii e, dopo qualche altro abbraccio, entrai in ascensore e le porte si chiusero.
Uscii dalla porta principale dell’edificio, ritrovandomi immersa nella luce accecante del sole che illuminava il vialone d’accesso. Mi ero allontanata di una ventina di metri, quando sentii una voce alle mie spalle.
“Amy!”.
Mi bloccai di colpo e non mi mossi per parecchi secondi. Quella voce l’avrei riconosciuta in qualsiasi momento.
Mentre cercavo di decidere se voltarmi oppure no, sentii dei passi che si avvicinavano e una mano si posò sulla mia spalla. A quel punto fui costretta a girarmi.
Stava sfoderando la stessa espressione con la quale mi aveva salutata. Anzi no, non era uguale... lo sguardo non era agitato, ma attento; il sorriso non era tirato, ma aperto e rilassato.
“C’è una cosa che devo dirti”, iniziò Tony, “e non avevo il coraggio di farlo davanti a tutti”.
Ora quella agitata ero io. Il mio cuore batteva all’impazzata e non sapevo perché; avevo caldo, ma non era a causa dei 25° C che aleggiavano nell’aria.
Nonostante tutto quello che era successo tra me e Tony, ero ancora nervosa davanti a lui?
Dato che Anthony non accennava a proseguire, lo incalzai: “Cioè?”.
“Volevo ringraziarti”, disse in un soffio.
“Per cosa?”, domandai. Non sapevo perché, ma stavo cercando in tutti i modi di essere fredda.
“Beh, mi hai aiutato...”, fece Tony. “Insomma, se non fosse stato per te, non so per quanto tempo ancora avrei tenuto nascosti i miei sentimenti”.
Lo fissai con un espressione che non rivelava alcuna emozione.
“Sì, insomma... io e Ziva abbiamo parlato e... abbiamo deciso di provare”.
“A stare insieme?”. Il mio cuore si contrasse impercettibilmente.
Sorrise. “Sì”.
A un tratto i miei occhi si inumidirono, riempiendosi di lacrime. Oh, insomma! Possibile che Tony riuscisse a farmi piangere di nuovo?
Ma quelle non erano lacrime di tristezza, bensì di gioia. Anzi, lacrime di vittoria.
Avevo davvero vinto.
“E, ripeto, è merito tuo”, continuò Tony.
“Beh, anch’io ho qualcosa da dirti...”, mormorai in soggezione. Sapevo di doverglielo dire.
Tony mi fissò, aspettano che continuassi.
“Sì, insomma... quando ieri sera hai invitato Ziva a ballare, io vi stavo tenendo d’occhio...”.
“È normale, volevi vedere come andavano le cose”, m’interruppe.
“Già...”, risposi, “ma vi ho anche seguiti nel parcheggio. Vi ho visti, mentre voi...”. Non finii la frase, leggermente in imbarazzo.
Con un gesto inaspettato, Tony mi sollevò il viso, sfiorandomi il mento con due dita, e piantò i suoi occhi nei miei. A quel punto dovevo essere diventata rossa come un pomodoro.
“È normale”, ripeté, scandendo le parole. “Volevi vedere come andavano le cose”. La sua voce era profonda, vellutata. Cosa diavolo stava cercando di fare?
Mi stava ammaliando?
Feci un microscopico passo indietro, distogliendo lo sguardo, e la sua mano si ritrasse.
“Tu... hai voluto intercedere”, disse Tony, con lo stesso tono di voce. “No?”.
“Beh, non ne sono sicura...”, replicai imbarazzata. Poi alzai lo sguardo e notai la sua espressione, leggendo nei suoi occhi qual era la risposta che voleva sentire. “Credo... sì, credo che quello fosse il mio intento”, conclusi con un sorriso.
Restammo a fissarci per un po’, poi Tony parlò: “Dovrei tornare dentro”, disse, indicando l’edificio arancione alle sue spalle.
“Sì”, risposi, un po’ imbarazzata. “Devo andare anch’io. Il taxi mi aspetta”.
Tony fece per andarsene, ma lo fermai. “Puoi riferire un messaggio a Tim?”. Annuì. “Digli che ci provi, con lei”.
Lo sguardo di Tony si accese, probabilmente aveva capito a chi mi stavo riferendo.
“Ma ti prego, Anthony, non farne un dramma, come al tuo solito. Sii discreto. Riferisci il messaggio e basta”.
“Okay”, rispose, e sentii un velo di delusione nella sua voce.
“Giuralo”, dissi severamente.
Si posò una mano sul cuore e alzò l’altra, mostrandomi il palmo. “Lo giuro”. Poi mi sorrise e si voltò, tornando indietro.
Lo guardai per qualche secondo, poi mi feci coraggio. “Tony!”, lo chiamai.
Si fermò, girandosi verso di me. Annullai la distanza tra di noi con passo svelto, raggiunsi il suo braccio e mi ci aggrappai di peso. Usai l’appoggio per alzarmi in punta di piedi posai le labbra sulla sua guancia.
Il momento sembrò interminabile. Tony era immobile, non opponeva resistenza. Il mio cuore batteva ancora veloce. Con gli occhi chiusi, le uniche percezioni che avevo erano il calore del sole sulla mia pelle, il profumo del dopobarba di Anthony e la sensazione della pelle liscia della sua guancia sotto le mie labbra.
Quando le dita dei piedi iniziarono a dolere, mi abbassai e mi voltai di scatto, allontanandomi una volta per tutte da Tony.
Mentre camminavo per raggiungere la strada, feci attenzione a non voltarmi indietro: non volevo sapere se Anthony fosse rimasto lì a guardarmi o se fosse andato via. Mi limitavo a camminare e a sorridere, persa nei miei pensieri.
Avevo passato del tempo assieme ai colleghi di Jethro e mi ero anche divertita.
Ma la parte migliore era un’altra: ero entrata nella vita di quelle persone e ad alcune l’avevo facilitata.
O almeno così mi piaceva credere.

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Nota di fine capitolo:
*: la situazione cui si riferisce Amy è la parte finale del Capitolo 7.









*Nota dell'autrice*

Siamo agli sgoccioli, ragazzi! La storia è quasi finita, dopo di questo capitolo c'è solo l'epilogo e poi un capitolino extra... :) devo dire che mi dispiace che la storia sia quasi finita, mi sono davvero divertita a scriverla e il fatto di aggiornarla ogni settimana mi ha in un certo senso tenuto compagnia... :(
Ma non vi preoccupate, Amy non vi abbandonerà! :) sarà la protagonista di altre storie, che siano long o shot, che scriverò di sicuro in futuro! :)
Comunque, che dire di questo capitolo se non che io lo adoro? :) Sì, lo so, le mamme parlano sempre bene delle proprie creature, ma questo capitolo mi piace davvero tanto :) il saluto finale tra Amy e Tony è d'effetto :) o almeno quello era il mio intento!
In ogni caso, qui viene spiegato il titolo di questa fic: "Interceiding is often hard", cioè intercedere è spesso difficile. In effetti, per la nostra Amy è stato parecchio difficile fare in modo che tra Tony e Ziva accadesse qualcosa, ma alla fine ce l'ha fatta! :) la ragazza merita un applauso!
Vi lascio :) ci vediamo domenica prossima! :)
Chiara

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Capitolo 12
*** Epilogo ***


Interceiding Is Often Had - Epilogo

Epilogo

In cui tiro le conclusioni riguardo la mia strampalata avventura


I miei genitori avevano preso sonno già da un po’, mentre io ero rimasta sveglia. Avevo davvero provato a dormire, ma un turbine di pensieri teneva la mia mente occupata e non mi aveva dato modo di entrare nel mondo dei sogni, costringendomi a passare il tempo a guardare fuori dal finestrino dell’aereo e ammirare la coltre di nuvole che sembravano formare un tappeto bianco sotto di me.
Non potevo far altro, in quel momento, se non lasciare che i pensieri vagassero nella mia mente; ma erano caotici: era necessario fare un po’ d’ordine.
Cercai di trovare un collegamento logico tra tutte le immagini e le parole che saettavano nella mia mente, ma senza buoni risultati. Decisi che avrei avuto bisogno di un aiutino.
Tirai fuori un blocchetto e una penna dalla mia borsa e iniziai a scrivere le prime cose che mi passavano per la mente.



1) Agitazione di ieri sera. Cause?
2) Perché ho agito in quel modo?
3) Perché nessuno si era accorto di niente?



Pensieri incomprensibili, anche per me! Provai a decifrarli.
Presi in considerazione il primo punto. Agitazione di ieri sera. Sapevo a cosa mi riferivo: la sera prima, mentre sbirciavo la scenetta tra Tony e Ziva nel parcheggio, nascosta dalla felicità per Tony e la soddisfazione per il mio operato, avevo sentito qualcosa di diverso. Ricordavo solo lontanamente la sensazione precisa che avevo provato, ma, la sera prima, ricordavo di averla definita “peso nel petto”*.
Bene, avevo decifrato la sensazione.
Cause? Beh, quello era il problema.
Rimasi a fissare il foglio per un po’, cercando di negare l’evidenza. Poi mi decisi e, accanto a “Cause?”, scrissi una parola.
Gelosia.
Non potevo tenerlo nascosto, non più. Non a me stessa.
Per tutta la sera prima avevo cercato di non darlo a vedere, ma ormai mi era chiaro che ero stata gelosa. Non in maniera possessiva, no! Era qualcosa di diverso, qualcosa di più complicato.
Il fatto era questo: sapevo – come Ziva aveva ben capito qualche giorno prima – di essere riuscita, in qualche modo, ad affascinare Tony. Non nel modo proprio della parola, ma in senso lato. Cioè, ero riuscita a scalfire la sua armatura fatta di comportamenti a volte infantili e battutine pungenti, usandone a mia volta, e a penetrare in profondità. Avevo capito quello che gli serviva e gli avevo dato una mano per ottenerlo; probabilmente era stato questo a creare una sorta di rapporto tra di noi. Ognuno era entrato nel cuore dell’altro e non se ne sarebbe andato tanto facilmente.
Ma non c’era niente di romantico in tutto ciò; si era soltanto creato un legame.
Il peso nel petto che avevo provato, però, era dovuto a qualcos’altro. Ciò che mi aveva turbata era il fatto che, sapendo di aver attirato Tony a me in qualche modo, poi lui si fosse comunque buttato tra le braccia di un’altra. Sapevo che avrei potuto avere qualche chance con lui, ma non avevo colto l’opportunità. Certo, magari la cosa non si sarebbe realizzata, ma avevo davvero fatto di tutto per tenermelo stretto?
No, assolutamente.
Quel dettaglio era ciò che mi permetteva di pensare a Anthony senza rancore. Non ce l’avevo messa tutta per tenermelo stretto, quindi la mia non era stata una totale sconfitta.
Sarei sopravvissuta, dopotutto.
Passai al secondo punto della mia lista. Perché avevo agito a quel modo?
Quella domanda riassumeva un po’ tutto ciò che era successo durante la settimana. Mi chiedevo perché, durante la mia permanenza, avevo cercato di dare una mano a Tony nonostante la mia quasi gelosia.
La risposta era questa: ero stata abbastanza matura da capire che il mio capriccio non mi avrebbe portata da nessuna parte e da accorgermi che Tony mirava a qualcosa, che mirava a Ziva. Così avevo deciso che sarebbe stato bello dargli una mano.
A quel ricevimento l’avevo aiutato a rivelare finalmente i suoi sentimenti. Forse il mio tentativo era stato un po’ confuso e maldestro, ma alla fin fine gli avevo soltanto dato una spintarella nella giusta direzione.
Forse era proprio quello che gli era servito. Sapere che qualcuno lo supportava e che poteva avere una chance. Sapere di poter avere ciò che desiderava per poter essere felice. Tony meritava di essere felice. Aveva sempre lottato per ciò che voleva ottenere, ma quella volta la paura aveva preso il sopravvento. Io l’avevo coccolato e rassicurato – metaforicamente – e Tony era riuscito ad agire.
In quel momento mi sentivo importante. La soddisfazione si fece forte come la sera prima. L’aveva detto anche Tony: se non fosse stato per me avrebbe nascosto i suoi sentimenti ancora per molto tempo.
Accanto alla domanda “Perché avevo agito a quel modo?” feci una freccia e scrissi soddisfazione. Non era il motivo per il quale mi ero comportata così, ma era un effetto collaterale che accettavo di buon grado.
Infine, analizzai l’ultimo punto. Perché nessuno si era accorto di niente?
Quella era una cosa che mi lasciava ancora perplessa.
Tony e Ziva lavoravano assieme da anni e sapevo che avevano vissuto esperienze spesso rischiose. Sperimentare vicende del genere – essere sempre sotto pressione, far fronte a situazioni estreme che il loro lavoro spesso comportava – aveva creato un attaccamento tra l’uno e l’altra che nessuno dei loro colleghi si era accorto esistesse. Perfino loro stessi non si erano resi conto dei propri sentimenti.
Dio, come avevano potuto essere così ciechi?
Davvero nessuno si era accorto di nulla? Nemmeno Jethro, l’occhio attento della squadra, aveva fatto caso al rapporto tra i due? Mi sembrava impossibile. Magari faceva soltanto finta di non vedere.
Quel quesito rimaneva ancora aperto.
Per il resto, potevo ritenermi soddisfatta.




***




Due settimane dopo il mio ritorno a casa da Washington ricevetti uno strano pacco. Firmai la ricevuta che il fattorino mi allungava e portai dentro il grande scatolone, che posai sul tavolo della sala da pranzo.
Mia madre allungò la testa dalla cucina per guardare. “Cos’è?”, domandò curiosa.
“Non ne ho idea”, risposi, alzando le spalle.
Girai attorno al pacco un paio di volte per guardarlo da ogni angolo, ma il suo aspetto esteriore non mi forniva alcun indizio circa il suo contenuto. Soltanto un adesivo giallo, attaccato sulla parte superiore, mi informava che proveniva da Washington. Per il resto, lo scatolone se ne restava immobile sopra il tavolo. Mi aspettavo davvero che da un momento all’altro si aprisse da solo e ne saltasse fuori uno di quei clown con la molla che si vedevano nei film dell’orrore?
“Avanti, aprilo!”, mi esortò mia madre, che era sbucata alle mie spalle.
Afferrai la forbice che mi allungava e tagliai i chilometri di nastro adesivo che lo tenevano chiuso. Poi sollevai le due ali superiori e lo aprii.
Oh, mamma.
“Che diavolo è questa roba?!”, esclamò mia madre. Il suo sguardo vagava frenetico tra il contenuto del pacco. I bicchieroni di plastica rossa la guardavano di rimando.
“È soltanto caffè, mamma”, risposi con tono calmo.
“Quello?”, domandò diffidente, indicando l’ammasso rosso.
Tirai fuori un bicchiere e glielo porsi. “Si chiama CafPow”, spiegai con un sorriso mentre le mostravo l’etichetta. Avevo una vaga idea di chi ci fosse sotto tutto quello.
“E chi te l’ha mandato? È tantissimo!”, esclamò.
In effetti, per essere tanto, nove bicchieroni erano davvero troppi! Sapevo che Abby si scolava quella quantità in un solo giorno, ma io non ero davvero come lei! Non sarei mai riuscita a reggere tanta caffeina.
In quel momento notai che c’era un biglietto attaccato all’interno dello scatolone. Lo lessi.

Bel lavoro.

Jethro.

P.S. Tony e Ziva ti salutano.


Ah, si spiegava tutto!
“È stato lo zio”, risposi a mia madre.
“Perché?”, domandò.
Sbuffai, stanca di quel terzo grado. “Perché sa che mi piace”, replicai spazientita, poi presi lo scatolone e me ne andai in camera mia.
Non feci caso a cosa mia madre mi disse in quel momento. Avevo altri pensieri per la testa.
Soprattutto un pensiero: la domanda che mi ero posta sull’aereo di ritorno da Washington.
Mi ero chiesta se davvero Jethro non si fosse accorto del legame tra Tony e Ziva, credendo che fosse impossibile e che avesse fatto finta di non vedere.
Quello scatolone era la risposta che cercavo.
Sul biglietto, Tony e Ziva mi salutavano, ma sapevo che non era vero. Mi era parso strano che soltanto loro due mi salutassero e non – chessò - McGee. Sapevo che quella era solo una provocazione da parte di Jethro. E quel bel lavoro non poteva riferirsi ad altro se non al mio intervento nei confronti di Tony.
Quindi lo zio si era accorto di tutto. Sarei stata sorpresa se non fosse stato così!
La mia domanda aveva avuto risposta, alla fine.
In quel momento, potevo davvero sentirmi in pace con me stessa
.



FINE.


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Nota di fine capitolo
*: per sapere a quale sensazione Amy si riferisce, andate a vedere la fine del Capitolo 10
.














*Nota dell'autrice*

La storia è ufficialmente finita. È stata dura, ma alla fine l’ho conclusa. Un po’ mi dispiace, perché questa mia creatura mi ha tenuto compagnia per molto tempo... ma tutto deve avere una fine, prima o poi.
Ehi, però non andatevene, okay? Ci sarà un altro capitolo dopo questo, una sorta di “extra”. Spero che lo leggiate e che lo gradiate :)
Ultima cosa: questa avrà sicuramente un seguito. Dopo aver creato il personaggio di Amy – con il suo carattere, la sua personalità, i suoi pensieri e tutte le sue sfaccettature – è dura lasciarlo andare. Quindi credo che non lo farò! :) ho già qualche idea, ma sono ancora poche e confuse. Ma giuro che mi impegnerò! :)
Credo che la storia, però, possa essere un po’ più complessa e lunga di questa, quindi ci metterò moltissimo tempo per scriverla... chi vivrà e mi seguirà, vedrà! :)
Quindi, chi volesse leggere un seguito, deve essere moooolto paziente... perché io sono molto confusa!! :) :)
Magari riuscirò a creare una serie :)
Ringrazio con tutto il mio cuore (anche se l’ho già fatto in molti capitoli passati (: ) zavarix e kiriri93, le mie fedeli recensitrici, che hanno commentato ogni capitolo :) e ringrazio anche daylight per aver inserito questa storia tra le ricordate e Cecile, KillianDestroy, Maia in Wonderland, perlanera, The perfect Slyth e xrosis 
per avermi seguita! :)
Un bacione a tutti e ci vediamo domenica prossima con l'ultimissimo capitolo ;)
Chiara

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Capitolo 13
*** Extra ***


Interceiding Is Often Hard - Extra
Extra
In cui Abby scopre una verità


Era ormai da un’ora che Abby si trovava davanti alla webcam del computer del laboratorio. Se qualcuno fosse entrato in quel momento nella stanza, per prima cosa avrebbe pensato che fosse diventata una pazza che parlava da sola, poi si sarebbe accorto che sullo schermo del computer Amy Steel chiacchierava allegramente con la scienziata.
Gli argomenti di conversazione erano stati i più vari: il tempo; informazioni sullo stato di salute di tutti i componenti della squadra; novità. Quest’ultimo era stato il più ampio.
Da quando Amy se n’era andata – Abby si era meravigliata di come potessero essere già passati due mesi senza che la piccola Gibbs si fosse fatta sentire! – erano cambiate parecchie cose.
Jethro era diventato, temporaneamente, il direttore dell’agenzia e a tutti sembrava che quell’incarico gli stesse troppo stretto*. In poche parole, Gibbs odiava quel ruolo. Non era mai in ufficio e si comportava come il solito – risolvendo crimini sul campo eccetera – mentre le scartoffie si accumulavano sulla scrivania. La segretaria del direttore continuava a rincorrerlo di qua e di là per cercare di catturarlo e portarlo nel suo ufficio – minacciando di ammanettarlo alla sedia se non fosse venuto di sua spontanea volontà –, ma senza successo. Jethro continuava bellamente a ignorare la povera donna e la pila di documenti sulla scrivania diventava sempre più alta.
Palmer aveva una nuova fiamma: la nuova agente in prova tanto presa in giro da Tony**.
“No! Davvero?!”, aveva esclamato Amy. La sua voce era stata distorta dalle vecchie casse collegate al computer. “Alla fine Tony ci aveva visto giusto!”.
“Già”, aveva risposto Abby con un sorriso.
Anche Ducky aveva fatto colpo su un esemplare femminile della specie: era ormai da parecchio tempo, infatti, che frequentava la signora che aveva rimorchiato al ricevimento, che si era scoperta essere la sorella di un ufficiale invitato.
Tony e Ziva stavano insieme. Loro erano convinti che nessuno lo sapesse, in realtà la cosa era di dominio pubblico tra i membri della squadra. Gli indizi erano inconfondibili: arrivavano e andavano via dal lavoro solo con qualche minuto di differenza – cosa che, come Abby assicurò ad Amy, non era mai accaduta –; una mattina presto, addirittura, quando non c’era ancora nessuno in ufficio e McGee li aveva chiamati per informarli su un caso, avevano risposto uno al cellulare dell’altra, senza rendersene conto. Era chiaro cosa stessero facendo prima di ricevere la chiamata.
E poi c’erano Abby e Tim.
“Ho delle grandissime novità!”, trillò Abby.
“Non me ne hai già dette fin’ora, per caso?”, rispose Amy attraverso lo schermo del computer, sorridendo. “Cos’altro hai in serbo per me?”.
Abby si mise a gongolare. “Beh, qualcosa che mi riguarda da vicino...”, disse, ammiccando verso l’obiettivo della webcam.
“Avanti, non tenermi sulle spine!”, si lamentò Amy.
Abby aspettò qualche secondo, per creare della suspense. Poi disse, tutto d’un fiato: “McGee e io usciamo insieme”.
Amy non reagì come la scienziata si sarebbe aspettata: la ragazza, infatti, non si mosse di un millimetro, aspettando che l’altra continuasse.
“Beh?”, esclamò Abby con una smorfia. “Non dici niente?”.
“Io...”, iniziò l’altra. “Non vorrei offenderti, Abby, ma... non è una novità”.
“Che vuoi dire?”.
“Intendo dire che ci sei già uscita insieme, in passato, e che la cosa non ha mai avuto un seguito***”, rispose Amy in tono calmo, cercando di non urtare i sentimenti dell’amica.
Abby si corrucciò e incrociò le braccia con fare teatrale. “Questa volta è diverso”, mormorò. “Facciamo sul serio. La sera del ricevimento abbiamo parlato, come non facevamo da tantissimo tempo, e ci siamo chiariti”.
Amy sorrise al di là dello schermo. “Ho capito, Abby. Mi dispiace di aver detto quelle cose prima... ma sono solo preoccupata per te. Non voglio che tu rimanga delusa. Puoi perdonarmi?”.
Anche Abby sorrise. “Va bene, agente superspeciale Amy. Ma solo perché sono innamorata di Gibbs e tu gli assomigli troppo!”.
Amy si mise a ridere. Poi tornò seria. “È da quasi un’ora e mezza che parliamo, forse è meglio se chiudiamo qui”.
Abby si corrucciò. “Di già?”. Poi notò che Amy aveva sorriso, mentre fissava un punto alle spalle della scienziata.
“Ciao, Tim”, salutò la ragazza.
McGee, che si trovava in piedi dietro ad Abby, la salutò a sua volta con un sorriso.
“McGee!”, si lamentò Abby. “Mi farai venire un infarto, prima o poi!”.
“Mi dispiace di non poter chiacchierare con te, Timothy”, si scusò Amy da dietro lo schermo del computer, “ma devo studiare e ho perso quasi tutto il pomeriggio con Abby!”.
McGee sorrise. “Tranquilla, vai pure. Avremo altre occasioni per parlare”.
“Salutatemi gli altri”, disse Amy, prima che spegnesse la webcam e che lo scermo diventasse scuro.
Abby era ancora imbronciata. Tim le posò le mani sulle spalle e posò il mento sulla sua testa. “Non essere cupa, Abby. La rivedrai presto”, la consolò.
“Non dirlo, se non ne sei sicuro!”, esclamò lei.
McGee non rispose subito, non sapendo cosa replicare. Poi, dopo averci pensato su, disse: “Devo confessarti una cosa”.
Abby si risollevò un poco. “Cosa?”, domandò, curiosa.
“Amy ha dato il suo contributo anche con noi”, disse Tim. “Non ha aiutato solo Tony e Ziva.
Abby lo guardò con gli occhi spalancati. Sapeva di ciò che Amy aveva fatto con i suoi colleghi: era stata proprio lei a dirglielo. Ma in quel momento non riusciva a capire cosa le stesse dicendo McGee. “Che intendi dire?”.
Tim si inginocchiò di fianco ad Abby e la fissò negli occhi. “Ha detto a Tony di riferirmi un messaggio. Mi ha detto di fare un tentativo”.
Abby si accigliò. “Con me?”, disse, indicandosi con un dito.
Tim sorrise. “Sì”, sospirò, “e io ho accettato il consiglio. D’altronde, se è riuscita a far combinare qualcosa tra Tony e Ziva, ho pensato che avesse visto giusto anche con noi. È stata sempre qui con te e credevo che potesse aver notato qualcosa”.
“Se io ci sarei stata?”, domandò Abby con un sorrisino.
McGee si avvicinò a lei. “Già...”, mormorò. Poi la baciò.
Abby rise, infilandogli le dita tra i capelli. “Quella ragazza è mitica”, sussurrò tra le sue labbra.
Poi la sedia cadde per terra insieme a loro.

_______________________

Nota di fine capitolo
*: il fatto che Gibbs diventasse temporaneamente direttore è accaduto, in realtà, quando c’era ancora Jenny Shepherd.
**: per capire di chi si parla, leggete l’inizio della seconda parte del Capitolo 11.
***: in effetti, Abby e McGee si sono frequentati durante la prima stagione, quando Timothy non faceva ancora parte della squadra ma lavorava ancora a Norfolk.


















*Nota dell’autrice*

Questo capitolo extra lo dedico a tutti i fan McAbby, ma soprattutto a kiriri93, che quando, in una recensione di un capitolo passato, mi ha chiesto se ci fosse qualche momento McAbby e le ho dovuto rispondere che non ce n’erano, mi era immensamente dispiaciuto!
Kiriri93, spero che questo capitolo ti sia piaciuto! :) :) e che sia piaciuto a tutti voi! :)
La storia ora è completa. Mi dispiace davvero tanto che sia finita, ma in questo periodo sono impegnata a iniziare il seguito, quindi Amy continua a farmi compagnia :) e terrà compagnia anche a voi quando inizierò a pubblicare il seguito! :)
Questa storia, assieme con altre che riguarderanno Amy, farà parte di una serie, che si chiamerà She came into Our Lives and Changed Everything. So che il nome è un po'  lungo, ma credo riassuma in una sola frase l'essenza della serie :) Amy è entrata nella vita dei nostri agenti preferiti e le ha modificate.
Spero che seguirete anche le altre mie storie della serie... Amy ci conta! :)
Tanti baci a tutti i fans dell'NCIS! :)
Chiara

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