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Dovrei davvero imparare a finire
quello che ho iniziato, vero?
Il motivo di questo titolo latineggiante dovrebbe risultare chiaro
entro la fine della fic. Se non sarà così… non so che farci D: Questa fic
è nata proprio in un modo cazzuto, haha, e l’unico da ringraziare è questo titolo astruso, che
da solo ha creato un quadro perfetto nella mia mente, pronto impacchettato da
buttare giù sul foglio. E poi che palle, volevo davvero farla oneshot. E invece ho voglia di pubblicare qualcosa perché
mi sento inerte e quindi pubblico solo questo pezzo.
(ma è normale pensare a un titolo e poi a tutta la fic annessa LOL?)
Disclaimer: [s.m., raro. Vedere anche: ‘grande desiderio irrealizzabile’]
♦HicSuntDracones♦
†
Un
uomo anziano, cencioso e lercio, è seduto suoi ciottoli dissestati della
stradina di periferia, tra i calcinacci di una casa in rovina, con le ginocchia
magre e anchilosate stese di fronte a lui e la schiena ingobbita appoggiata al
muro. La sua pelle olivastra è rugosa e cadente, e sottili e radi capelli
bianchi gli adornano il cranio scuro, chiazzato di macchie pigmentate, come una
ragnatela inconsistente soffusa della luminescenza argentata di una luna
calante.
Un
ammaccato barattolo di latta giace vicino ai suoi piedi, avvolti in malconce e
sforacchiate ciabatte di legno, e dentro vi è solo qualche scarno dono in
spiccioli di poco valore.
Johnny
allunga automaticamente la sua mano verso il portamonete infilato nella tasca
della sua giacca, ma una sola occhiata di Kanda è
sufficiente a fargliela ritrarre immediatamente, come scottata da un fuoco
invisibile.
‘Non
perdiamo tempo,’ sembrano intimargli gli occhi di Kanda,
affilati e duri come la pietra, e Johnny abbassa il viso arrossato dal freddo e
dall’imbarazzo, distogliendo lo sguardo dallo straccione.
Ormai
ogni sera il vento sferza le pelli con crescente furia, e Johnny, mentre si
stringe la sciarpa intorno al collo, ripensa ai profumi speziati della mensa
dell’Ordine, al calore accogliente della sua camera, alle voci a tratti borbottanti
e impetuose degli addetti alla sezione scientifica. Pensa al suono dei richiami
esasperati di Reever, delle lagne teatrali di Jiji, e della voce burbera di Cache che ripete a tutti di
non essere suo cugino.
Le
sue dita toccano inconsciamente la cravatta sgualcita che porta fieramente al
collo, e quando i suoi occhi cominciano a bruciare, premonitori, dietro le
spesse lenti rotonde dei suoi occhiali, Johnny serra le palpebre con eccessiva
forza.
La
notte è taciturna quanto il suo compagno di viaggio. Ad occhi chiusi, per un
terribile, oscuro istante, Johnny si ritrova a sospettare che Kanda se ne sia andato. Che l’abbia dimenticato in mezzo a
quella strada sconosciuta e desolata, lasciandolo solo, come un cane
abbandonato a cui rimangono soltanto un collare rovinato e le narici ancora
piene dell’odore di casa come unico ricordo di giorni in cui la vita era più
semplice.
Ma
quando, spaventato, riapre gli occhi, Kanda è ancora
lì, davanti a lui, che procede rapido, instancabile e inarrestabile, verso qualcosa
a cui Johnny non sa dare un nome. Gli piacerebbe chiamarlo ‘Allen’, ma non è
sicuro che quello sia ciò che troveranno alla fine del loro imprevisto viaggio.
Per
quanto però la mente di Kanda rimanga imperscrutabile
come lo è sempre stata, Johnny prova una strana sensazione nei suoi confronti,
che va fortificandosi man mano che il tempo in sua compagnia passa. E ora che
la stanchezza prende il sopravvento sulle sue membra, e i suoi pensieri
divagano incontrollati, spinti da minime percezioni sensoriali, quella
sensazione si plasma fin quasi a prendere, nella sua immaginazione, le
sembianze di Kanda, allo stesso tempo familiari e
sconosciute.
La
sensazione si tramuta in una certezza.
Kanda è cambiato.
Ma
non è facile da spiegare. Stesso viso stoico e altero, stessi occhi nero pece e
impietosi, stessi modi bruschi e aggressivi: per molti versi, Kanda pare la stessa persona di un tempo.
Se
non…
per
il modo in cui le sue spalle sembrano più grandi, e il suo portamento più
eretto; se non per il suo sguardo non più costantemente truce, i muscoli non
più tesi come corde di violino in ogni momento, le labbra non più serrate in
una linea dura e severa; se non per il modo in cui, ogni tanto, Johnny lo vede
inspirare profondamente l’aria nei suoi polmoni, come un uomo che finalmente ha
raggiunto la brezza libera e fresca della superficie dopo anni di prigionia in
una stanza senza finestre e senza entrata.
Kanda si volta di nuovo, e indica con un
cenno del capo una locanda dalle finestre fiocamente illuminate, la cui entrata
passa inosservata, costretta tra un immenso portone laccato di nero e una vasta
vetrina da cui ammiccano specchi e baluginii dorati di sfarzose cornici
intarsiate.
L’insegna
della locanda cigola sinistramente sopra di loro, smossa dal vento sulla sua
asta di sostegno arrugginita.
“Ci
fermiamo qui per oggi,” dice Kanda, e il suo tono non
ammette repliche.
Johnny
apre la bocca per protestare, ma Kanda lo batte sul
tempo. “Stai cadendo a pezzi, stupido. Per oggi basta.”
Quelle
parole lo mortificano, colpendolo dritto al cuore, con la precisione di un
pugnale ben acuminato. Improvvisamente, si rende conto che tutto il suo
allenamento fisico all’Ordine non è nulla, in confronto alle capacità di un
esorcista.
Per
quanto lui possa sforzarsi, è destinato a rimanere un peso, per coloro che
desidera aiutare.
Ma
quella non è una novità, quindi Johnny stringe i denti e poi sospira,
chiedendosi da quando Kanda sia diventato così
premuroso nei confronti dell’umanità – la verità probabilmente, è che Kanda non saprebbe dove andare senza la sua guida, e
Johnny, tra uno sporadico attacco dell’Ordine e l’altro, sarebbe già da tempo
diventato un sedentario nella landa della morte, se non fosse stato Kanda il suo compagno di viaggio.
La
verità, per quanto scomoda, è che sono legati l’uno all’altro,
irrimediabilmente, fino a quando non portano a termine il loro obiettivo.
La
locanda è malmessa, e dai muri scrostati piove una polvere di vernice bianca
dall’aspetto malsano, che fluttua in quell’aria stantia come fino pulviscolo
prima di precipitare a terra. Le stanze sono pregne di un odore stagnante
indefinibile, e le assi e le testate dei loro due letti presentano così tanti
minuscoli fori nella struttura che è un miracolo che non siano ancora crollati
su se stessi in un cumulo di legni spezzati.
Con
sua sorpresa, in quel luridume generale, le coperte sembrano irrealmente
pulite.
Johnny
dà la buonanotte a Kanda, ma questi non si degna di
ricambiare. Dal letto si levano dei rumori poco rassicuranti quando vi si siede
sopra, e il soffitto offre una vista triste, macchiato e crepato sotto un
friabile strato di stucco malamente disteso in strisce brevi e discontinue.
Nel
momento in cui la sua schiena tocca il materasso, la fatica di quella giornata
lo cattura, gli fa dolere i muscoli, lo lascia molle e prosciugato, e insieme
alle sue forze, Johnny sente drenare via anche parte di se stesso.
Sono
passati giorni, e di Allen non c’è alcuna traccia.
Ormai
si sente perennemente in bilico, sull’orlo di uno strapiombo, con la roccia che
frana lentamente sotto i suoi piedi, si sbriciola e cade nell’oscurità infinita
di un burrone senza fondo.
Più
il tempo passa, più a Johnny sembra che quell’intera situazione sia
radicalmente irreale, sotto ogni punto di vista.
Eppure
si era preparato. Si è allenato duramente, ha pensato ad ogni minimo dettaglio
prima di partire, e ha raccolto tutto il coraggio che non sapeva di possedere
per farsi forza e andarsene dall’Ordine.
E
nonostante tutta la sua buona volontà, Johnny si sente fuori posto.
Ogni
sera si chiede se sia quello il suo compito, se stia facendo la cosa giusta. E
ogni sera, il silenzio davanti a quelle domande rimbomba tra le pareti di
camere sempre differenti.
Là
alla Sede, era convinto di sì. Allen è solo, là fuori, pensava, con un nemico
alle spalle, uno davanti, e uno dentro di sé. La cosa migliore che lui possa
fare è trovarlo e aiutarlo in ogni modo a lui possibile, dargli la sua forza.
Qualsiasi cosa.
Ma
alla cruda fine dei conti, la vera domanda che sale spontanea alle sue labbra è
un’altra.
Cos’è
lui?
Uno
scienziato, un topo di laboratorio, un cervellone. Ha vissuto e lavorato alla
Sede per così tanto tempo che ormai ha dimenticato cosa vuol dire vivere nel
mondo esterno.
La
trova una verità profondamente ironica, perché di quel mondo esterno lui sa
tutto, e al contempo niente. L’Ordine, la scienza, l’Innocente, il Conte, i Noah, gli akuma. Sa cose che la
gente comune, al di fuori delle mura della Sede, mai immaginerebbe nei suoi
sogni più macabri.
Ma
viaggiare? Soffrire, resistere, combattere, sopravvivere. Non più essere
salvato, ma salvare.
Non
è sicuro di sapere fare tutte quelle cose. Non è questo che gli è stato
insegnato.
Più
si ripete quelle parole tra sé e sé, più si sente inappropriato; come se gli
avessero strappato di mano il suo libro di chimica avanzata e l’avessero
sostituito con un’opera letteraria greca. ‘Aiutalo a tradurlo,’ dice una voce
pacata nella sua testa, indicando una figura dolorosamente familiare, accucciata
nell’angolo di una stanza buia e spoglia, ma lui non può che rispondere ‘non
conosco il greco’. Ma nonostante questo tiene in mano
quell’opera greca a lui estranea, la legge e la rilegge da cima a fondo, e
tenta ripetutamente di tradurla.
Ma
la triste realtà è che, semplicemente, non può.
Non
desidera tornare all’Ordine. Non vuole correre indietro con le coda tra le
gambe e gli occhi gonfi per il pianto, pieno di amarezza e scoramento, perché
ciò che desidera di più è, davvero, solo aiutare Allen.
Ma
a che scopo, tutto quello, se lui non fosse ciò di cui Allen ha bisogno?
Johnny
non lo sa. Gli sembra di non sapere più nulla ormai, come se tutta la
preparazione e lo studio acquisiti nella sua vita si fossero repentinamente
ridotti a quel singolo momento, resi piccoli dalla loro insignificanza davanti
a cose ben più importanti che avrebbe dovuto apprendere, e per cui ormai non
c’è più tempo.
Ma
mille e mille sorrisi finti di Allen gli affollano la mente, e all’improvviso
ricorda da dove gli era arrivata la forza di cominciare tutto ciò.
E
il burrone è lì, che ricambia silenziosamente il suo sguardo, e il desidero di
Johnny di buttarvisi a capofitto, abbandonando tutto ciò che c’è di amato e
familiare dietro di lui, cresce in tal modo che un brivido gli risale fulmineo
la spina dorsale, e gli infiamma il cuore di una nuova risoluzione.
Credere
nel futuro, è questo che gli scienziati devono saper fare meglio.
Se
non riesce a trovare Allen, è perché non si sta impegnando abbastanza, o sta
sbagliando qualcosa. Qualunque cosa succeda, l’importante è continuare a
muoversi, a cercare, e migliorare se stesso. ‘Non desistere’, gli risuona nelle
orecchie l’eco della voce del signor Reever. ‘Trovalo
assolutamente’, sussurra quella di Cache.
Non
sa di cos’abbia bisogno Allen, ma lui ha intrapreso quel viaggio per scoprirlo.
Camminerà giorno e notte con Kanda per trovarlo, e
alla fine lo troverà.
Troverà
Allen, ancora testardo e sorridente, saldo, indistruttibile…
Il
ricordo di un urlo disperato, pelle grigia e innaturale, occhi dorati e
cattivi, balena alla sua mente per una frazione di secondo, e subito svanisce,
lasciando dentro di lui un’ansia che pizzica i lembi della sua coscienza come
il becco di un pettirosso affamato.
Johnny
si raggomitola, tenendo le ginocchia strette al petto, su quel letto
scricchiolante e quello scomodo materasso.
Troverà
Allen, ripete a se stesso con crescente fiducia. Ma deve fare in fretta, perché
ha la tetra sensazione che il tempo a sua disposizione si stia accorciando
precipitosamente.
†
Ok, ammetto che non l’ho riletta
neanche perché ora devo uscire ma VOLEVO postarla. Sento che manca qualcosa.
Ergo, la rileggerò dopo.
Prima, però, forse dovrei fornire
qualche spiegazione. Questa storia non tiene molto conto della logica canon.
1) Non ho idea di quale sia il
metodo che Johnny userà per rintracciare Allen, ma non è un mio problema. Fate
finta che… abbia la bussola di Jack Sparrow.
2) Allen può usare l’Arca, ed è
andato dalla vecchia, prima di venir inseguito in stazione da Apocrifo, e tutto
il senso di quello che sta facendo l’Allen del manga sfugge alla mia
comprensione. In questa storia faccio finta che Allen non possa usare l’Arca, e
che possa solo scappare e scappare e scappare, in attesa di non so quale
miracolo LOL.
Spero che questa prima parte vi
sia piaciuta, ci tengo davvero davvero tanto, come
solo si può tenere a una fic introspettiva in cui ci
si è impegnati al massimo :)
(il secondo capitolo arriverà
molto presto, è già scritto, solo da correggere. Il problema per ora è il
terzo.)
Questa doveva essere la mia parte
preferita, ora che l’ho finita direi proprio che non lo è LOL però spero
comunque che piaccia a voi :)
Disclaimer: [s.m., raro. Vedere anche: ‘grande desiderio irrealizzabile’]
♦HicSuntDracones♦
†
Il
freddo lo avvolge come una coperta inzuppata di acqua ghiacciata, lentamente,
completamente, e gli toglie il fiato. Si sente soffocare. Inala il gelo e
avverte l’inerzia dei suoi polmoni, la loro mancanza di volontà nel farlo
respirare, e così ogni respiro rimane bloccato a metà gola, in un rantolo
sinistro.
L’ossigeno
sembra rifiutarsi di scendere nella sua trachea bruciante. Lui si affanna,
annaspa rumorosamente, combatte con la disperazione di un uomo morente per un
singolo soffio d’aria. Ma deglutisce il nulla, di nuovo e di nuovo,
all’infinito.
Il
suo cuore diventa più gelido ogni secondo che passa, un peso sempre più
opprimente nel petto. Non aveva mai pensato che quello potesse rivelarsi un
tale onere, prima di allora. Irrora dolorosamente il suo corpo di un sangue
simile a scaglie di ghiaccio, che trafiggono con spietatezza le pareti delle
arterie, e così il freddo non è più soltanto fuori, ma anche dentro di lui, e
gli irrigidisce le membra, le appesantisce, rendendole macigni impossibili da muovere.
Allen
pensa a Lenalee, a come si libra nell’aria con i suoi
stivali con la leggiadria di una libellula, i capelli e i vestiti che le
vorticano intorno come ali di farfalla, scie d’inchiostro nero e verde luminoso
che si mescolano solcando il cielo; mentre lui è lì, incatenato anima e corpo
alla terra, meno in grado di volare di quanto lo sia mai stato in vita sua.
Il
suo braccio sinistro pulsa. Se ancora può chiamarla così, quella cosa che vive ancorata alla sua
sopravvivenza come un parassita, e allo stesso tempo da lui un’entità
praticamente indipendente: si dimena, si contorce violentemente,
incontrollabile, e ogni contrazione spedisce una scarica di elettricità e paura
nel suo corpo, alla sua anima, e lo lascia senza fiato, di nuovo ad annaspare
per aria che non arriva. Il dolore aumenta a tal punto che non riesce più a
sentire i suoi stessi pensieri. Ciascuna pulsazione innaturale, che brilla come
la luce propria di una stella, biancastra e malsana, lo lascia sempre più
esanime.
‘Un
angelo,’ sussurra il ricordo di una voce giovanile, ammaliata e eccitata.
Allen
percepisce la sua forza vitale abbandonarlo, strappatagli via a brandelli ad
ogni palpitazione.
‘Qualcosa
di molto più mortale e obbrobrioso di un angelo,’ si ripete mentalmente per
l’ennesima volta.
È
rivoltante il modo in cui lo tira. In più direzioni, lo trascina senza un
attimo di quiete, come un cane esagitato alla ricerca dell’odore del suo amato
padrone disperso, aggressivo e disperato. Fedele a un estraneo dagli scopi
incomprensibili. Lo sente strattonare la sua spalla, come se lui fosse solo un
fantoccio che è d’impaccio al raggiungimento del suo più grande desiderio.
Verso la strada, poi verso il cielo, e di nuovo verso terra. Si chiamano a
vicenda, incessantemente.
Allen
ha voglia di vomitare.
Ma
la sua bocca non riesce a inghiottire né sputare fuori aria, tanto meno gli
interni vuoti e sussultanti del suo stomaco.
Nella
solitudine del suo temporaneo nascondiglio, il dolore fisico sembra l’unico
fattore rilevante presente nella sua vita; le braccia, le gambe, il petto, la
testa, tutto è percorso da fitte lancinanti. Si stupisce che i suoi arti non
siano ancora caduti dalle loro giunture, e frantumatisi a terra. Si stupisce di
essere ancora intero.
Ma
se anche così fosse, ad Allen importerebbe poco. L’unico suo desiderio, in quel
momento, è chiudere gli occhi, e dormire.
Ma
non può.
Strizza
le palpebre con tale violenza da farsi male, tenta di tenerle aperte nonostante
il freddo lo aggredisca con la ferocia di un esercito di aghi acuminati che
infilzano i suoi bulbi oculari come fossero portaspilli.
Lo
scenario davanti ai suoi occhi s’offusca, si ricompone, si sdoppia e s’appanna
nuovamente. Il dubbio che non ci sia nulla di reale di fronte a lui, che si
trovi da solo in mezzo a una nuvola di visioni e oggetti non realmente
esistenti, gli ottenebra la mente.
Il
sonno lo chiama, lo tenta, lo alletta con la proposta invitante di riposare,
fino a che non starà meglio, ed è amorevole come una madre, che culla e canta
con voce morbida e irresistibile una ninna nanna al suo bambino.
All’inizio
non si accorge che ormai è un continuo perdere e riacquistare conoscenza. Fino
a che l’ansia che artiglia le sue interiora non si fa lacerante, e allora ogni
volta che riesce a fatica a ritornare dal mondo di quell’oblio, ne ritorna
sempre più terrorizzato.
Perché
là, da qualche parte dentro di lui, annidata tra le pieghe della sua coscienza
come un predatore che attende l’occasione perfetta per balzare all’attacco, la
vede chiaramente.
C’è
una zona buia dentro di lui, un territorio inesplorato in cui ha timore di
addentrarsi; nero come la pece, una specie di irregolare strappo nel tessuto
della sua coscienza, al di là del quale si staglia il nulla, il vuoto più
totale. O forse è più come una bolla nera, densa e tangibile, un’oscurità
fluida che ribollisce, Allen non lo sa dire, perché non è mai riuscito a
guardarla abbastanza a lungo da poterla memorizzare nella sua interezza. Non è
mai riuscito a guardarla abbastanza a lungo senza svenire per la nausea.
Ma
qualsiasi cosa sia, è lì, immobile, che preme, tira, spinge, lo trae a sé.
Quando Allen si avvicina troppo, riesce a sentire dei sospiri, caldi e
sibilanti, che lo invitano a venire, che gli offrono il riposo che si è
guadagnato, l’oblio che ormai ogni fibra del suo essere desidera. E seppure sia
per lui qualcosa di ripugnante, attrae Allen come nient’altro al mondo, poiché
nient’altro sembra potergli offrire come quella l’abbandono più completo, la
fine di tutte le sofferenze, degli insulsi risultati di ogni suo stupido, inutile sforzo.
E
in quella bolla si sarebbe già immerso da tempo, spinto dall’egoismo di chi ha
giocato per troppo tempo a fare l’eroe, se non fosse che ciascuna volta che è
sul punto di arrendersi, questa prontamente s’ingigantisce, famelica, sempre di
più dentro di lui, inarrestabile, e procede a inghiottire tutte le sue
certezze, i suoi affetti, i ricordi, come una bestia vorace che si nutre della
sua disperazione; a quell’oscurità non basta il suo sonno.
Vuole
distruggere ogni cosa che sia mai appartenuta a lui. Vuole cancellare la sua esistenza dal mondo.
E
allora Allen automaticamente si ritrae, con il terrore che lo attanaglia e lo
stordisce, cerca di scappare il più lontano possibile, ma invano.
È
come se camminasse in un cerchio. Per quanto provi di seminarla dietro di sé,
correndo a perdifiato, ecco che il vuoto ricompare davanti, insormontabile. È
dappertutto. Come una pupilla senza iride, lo osserva vacuamente compiere ogni
sua mossa, silenziosa, tranquilla, certa che il momento in cui Allen non avrà
più la forza di scappare inevitabilmente arriverà.
Allen
vuole solo dormire. Ma non può, perché, una volta addormentato, non è sicuro di
potersi svegliare.
Dev’essere in preda alle allucinazioni,
perché a un certo punto la voce di Mana chiama dolcemente il suo nome, una
volta, due volte, lo chiama e lo esorta ad andare avanti, e un dito tocca il
suo viso e traccia una scia gelata sulla sua guancia con il polpastrello
freddo.
“Ci
sto… provando, Mana,” dice faticosamente Allen, ma
non sente la sua voce tornargli all’orecchio. C’è solo il rumore di ansiti
pesanti intorno a lui, e un male fisico che s’intensifica sempre di più. Non
riesce a scorgere Mana, e solo allora si rende conto di aver di nuovo chiuso le
palpebre. Ma questa volta, esse sembrano essersi trasmutate in lastre di
pietra.
“Forse
non ci stai provando abbastanza,” ribatte Mana, e a quella risposta
inaspettata, Allen sente il suo corpo fremere, percorso da un brivido violento,
di cui non riesce a comprendere la causa. I battiti del suo cuore aumentano il
ritmo.
Vuole
vedere Mana.
La
sua respirazione raspata accelera. Lo vuole vedere, fosse l’ultima cosa per cui
lottasse. In un attimo, l’unico obiettivo a cui tutta la sua anima mira è
soltanto quello. Perciò combatte con le sue palpebre, incollatesi chiuse, e
quando finalmente riesce ad aprire gli occhi, il senso di spossatezza che lo
invade da tempo sembra cresciuto esponenzialmente.
Il
muro lercio davanti a lui accoglie il suo sguardo, di una staticità e concretezza
quasi irreali. Sbatte ancora una volta le palpebre, incredulo, mentre qualcosa
di umido scivola verso la coda dell’occhio, e i contorni si fanno più netti,
definiti. Il mondo sembra improvvisamente uscito da quella cappa di opacità e
foschia in cui era avvolto poco prima. Lo scorcio di cielo che s’intravede tra
le tre strette pareti che svettano sopra di lui è cupo e privo di stelle, se
non per un sottilissimo spicchio di luna, il cui fioco pallore perlaceo non è
sufficiente a rischiarare quelle tenebre notturne. Più i secondi passano e
Allen continua a guardarla, più la luna pare lentamente tremare e quasi svanire
dalla buia volta celeste. Il vicolo cieco, pieno di bidoni ammaccati e
immondizia nauseabonda, è spettrale, deprimente. Vuoto.
Mana
non è da nessuna parte.
Quell’unica,
patetica goccia di verità, così ovvia e scontata, lo distrugge, lo lacera in
due, con la stessa facilità con cui si strappa un foglio di carta, e Allen vede
distintamente, dietro le palpebre, il suo mondo crollare, sgretolarsi in
frammenti troppo piccoli per poter essere ricomposti più in là. Tutto
semplicemente cade al suolo, con un boato grottesco che rimbalza tra le pareti
del vicolo, e nella sua mente morta, lasciandolo senza alcuna difesa, e
volontà.
Pian
piano, mentre tutto svanisce e la sua mente si svuota di colpo, come una
bacinella piena d’acqua in cui si è aperto un foro sul fondo, il dolore si
attutisce, e diventa distante, come se Allen si stesse allontanando da se
stesso. Guarda quasi con distacco il suo corpo che, accasciato contro il muro e
con le gambe stese in avanti, viene scosso da silenziosi spasmi.
Non
riesce a capire cosa stia succedendo, ma un’apatica passività ha preso il
controllo di lui, e non se ne dispiace. Il dolore sembra ormai lontano anni
luce.
In
quel momento, il suo braccio gli dà un potente strattone, e in una frazione di
secondo, Allen viene posseduto dalla fatale certezza che per lui il treno è
giunto al termine della corsa.
Non
riuscirà a scappare questa volta. L’ultimo scontro l’ha lasciato in quelle
condizioni, non ha la forza per combattere. Non ha neanche avuto la forza per
scappare lontano a sufficienza.
Ha
finalmente raggiunto il suo limite.
C’è
stato un tempo in cui, anche in una situazione disperata come quella, allo
stremo delle proprie forze, semicosciente, con solo una minima possibilità di
sopravvivenza, Allen avrebbe comunque costretto il suo corpo ad alzarsi, con la
forza di una volontà proveniente da chissà dove, e avrebbe combattuto, se non
per vincere, almeno per non morire senza opporre la più tenace resistenza
possibile.
Probabilmente
quel tempo è stato il giorno prima, o persino le ultime ore di luce prima che
calasse sulla città sconosciuta quella fatidica notte, ma Allen non riesce a
ricordare, e si sorprende a non interessarsene. Gli sembra distante una vita
l’ultimo passo compiuto sulle sue gambe, l’ultima parola pronunciata, l’ultimo
sorriso rivolto a una bambina innocente, e ora la sua vista ricomincia ad
offuscarsi, le figure, i muri, i bidoni, i ciottoli, la luna, si fanno sempre
più indistinti, compenetrano l’uno nell’altro originando un’enorme vortice
informe di colori grigi e cupi, mentre il suo cuore, stretto dalla morsa gelida
della consapevolezza, ancora stenta ad accettare il fatto che morirà lì, solo,
come un inutile cane randagio, stremato dalla vita e che non è riuscito ad
ottenere nulla di più da essa se non insuccessi, delusioni, odio, stanchezza.
Allen
non può fare a meno di pensare che il suo cuore si sia illuso troppo facilmente, troppo a lungo.
Il
motivo per cui si fosse imposto fino ad allora di non lasciarsi catturare dalla
presenza dentro di sé gli scivola tra le dita come acqua. Ora, la caparbia
resistenza di una vita intera gli pare assolutamente inspiegabile. D’altronde,
l’idea di sprofondare in un sonno perenne non pare così malvagia.
Quella
regione sconosciuta lo attrae, lo chiama insistente e sorprendentemente calda,
invitante come mai prima d’allora, quasi angosciata, come se questa fosse la
sua ultima occasione di conquistarlo. E quando lui la tocca, con mano tremante,
questa si attacca a lui con l’aggressività di un parassita in fin di vita, e
comincia a salirgli lungo il braccio, a trarlo al suo interno, attorcigliargli
i suoi tentacoli intorno al collo, oltre la mandibola, dentro la bocca. Come
una cappa di nebbia densa e soffocante, senza lasciargli via di scampo.
Non
è piacevole come si aspettava, ma a questo punto non gli importa.
All’improvviso,
la tremolante luce dello spicchio di luna scompare.
“Allen.”
Qualcosa
torreggia sopra di lui. Alza lo sguardo, ma non riesce a mettere a fuoco nulla.
Una macchia indistinta e scura come tutto in quell’orrendo posto. Non riesce a
parlare. Nel silenzio che segue, si rende conto di stare ancora ansimando
pesantemente, e che il suo corpo non reagisce più ad alcun suo ordine, a
nessuno stimolo, l’unica sensazione che avverte in quel mare di insensibilità è
l’ovattato dolore delle scosse che il braccio invia a tutti i suoi nervi quando
si contrae.
Rimane
lì, fermo, con la testa e la schiena appoggiate al muro, come una marionetta
senza fili e danneggiata, a osservare quella misteriosa figura dalle fattezze
che sfumano nel buio circostante.
Qualcosa
rode la sua mente, una sensazione di familiarità che non riesce a collocare.
Nota improvvisamente che la sua memoria custodisce ormai poche immagini del
passato, come un cassetto che è stato ribaltato e svuotato di ogni oggetto al
suo interno, ma in cui sono rimasti impigliati negli angoli e sui bordi i
ricordi più persistenti.
È
una voce già sentita, che inspiegabilmente fa arretrare e fremere d’incertezza
la bolla nera dentro di lui. La sua coscienza è come anestetizzata, immersa in
qualcosa di caldo da cui è difficile uscire. Si sente a disagio, è sicuro che
dovrebbe riconoscere quella voce.
“È
lì?” sussurra qualcun altro a poca distanza.
Allen
non capisce a chi l’altra persona possa riferirsi, ma smette di chiederselo
quando sente delle braccia tirarlo su goffamente da terra.
Per
un attimo cerca di ribellarsi, senza neanche sapere il perché, senza aspettarsi
di essere davvero in grado di porre anche solo una minima resistenza, ma in
tutta risposta la figura lo prende in braccio, tenendolo sotto le ginocchia e
dietro la schiena, e lo stringe a sé con fermezza.
“Smettila
di piangere,” gli impone.
‘Non
sto piangendo,’ vorrebbe dire Allen, ma non trova la sua voce, non si ricorda
neanche più che suono abbia, e se l’abbia mai usata, perciò appoggia sfinito la
testa contro il petto dell’altro.
Attraverso
gli strati di vestiti invernali, l’orecchio di Allen lo sente distintamente: un
cuore batte con regolarità nel petto di quel familiare sconosciuto, e
nonostante non riesca ad avvertirlo direttamente, sa che quel cuore è così
caldo e naturale e umano rispetto al
suo, così sicuro e forte, e lui ne è attratto come un insetto che svolazza,
incantato, attorno alla baluginante e solitaria fiamma di una lampada ad olio.
Mentre
la bolla nero pece si fa più piccola, meno attraente, Allen se ne stacca, con
il tamburellare del cuore che gli invade i timpani, gli riscuote l’anima, e
quando è abbastanza lontano da non sentirsi più nauseato e impaurito al solo
guardarla, finalmente la bolla appare per quello che è: un insignificante buco
nero, rivoltante e odioso. Questa volta, quando Allen se ne allontana sempre di
più, più in fretta che può, quel nero pece non l’insegue.
Le
sue palpebre si chiudono definitivamente. Una sorta di inaspettato torpore lo
assale, e lo spinge nell’oblio con insistenza. I suoi respiri si calmano. Si
accorge che la figura che lo porta in braccio sta camminando, sta uscendo da
quel vicolo orrendo, alla luce giallastra e debole di un lampione, e con lui
c’è qualcun altro. Non gli importa.
“Così… fottutamente pesante, mammoletta
idiota,” grugnisce la voce, mentre le braccia si serrano più strette intorno a
lui.
Allen
accetta a braccia aperte il sonno tanto agognato, libero, stranamente, dal
timore di non svegliarsi più da esso. Un esotico senso di pace e tranquillità
lo pervade, e per una qualche inspiegabile ragione ora riderebbe, se si
ricordasse come si fa.
‘È
Allen,’ pensa automaticamente, un attimo prima di perdere coscienza.
†
Boh, se questo capitolo me lo
recensite con pareri sinceri mi fate un grande piacere :)
Sapete, tanto tempo fa lessi una angstfic, che era scritta così bene che una volta finita
avevo la nausea. Una sensazione stranissima che non mi era mai capitata. Non
piansi né nulla, stavo semplicemente fisicamente male. Mi piacerebbe, un
giorno, essere capace di scrivere una fic del genere.
Ma questo non credo importi ora, lol.
L’ho detto e lo ripeto: perché.
scrivere. dal punto di vista di Kanda. è sempre.
SEMPRE. così difficile, stupido omuncolo sentimentalmente costipato? È come un
cucchiaino. È colpa sua se c’ho messo così tanto con sto capitolo, non
prendetevela con me, ma LUI D: In ogni caso, questo è un capitolo. Ehrr. Strano? Oscenamente merdaceo?
Eeeciccialculo,
sopravvivremo tutti allo shock, spero. PIUYULLENPETTUTTI. Anche se questa
storia non è una vera e propria Yullen. Sembra più una…preYullen. Magari neanche
LOL coffff.
[Ah, PS irrilevante. Questo
capitolo era stato pienamente ideato prima dell’uscita del capitolo 210, quindi
differisce assai da ciò che è effettivamente successo HAHAHA non c’ho azzeccato
per un cazzo >:D ! E allo stesso modo, eventi simili sono casuali (tanto non
ci sono)].
LEGGERE LEGGERE
QUAAA: in questo capitolo succede una
cosa strana, tipo che nel mezzo c’è un pezzo che è un FLASHBACK, quindi se vi
sentite disorientati, è perché è iniziato il flashback.
(Alzi la mano chi capisce
qualcosa dei miei discorsi d’introduzione.)
Disclaimer: [s.m., raro. Vedere anche: ‘grande desiderio irrealizzabile’]
♦HicSuntDracones♦
†
La
cosa strana è che Allen si comporta quasi normalmente, come se la settimana
precedente non fosse stata costellata di battibecchi e litigi e pericoli
mortali. Forse Allen è solo molto bravo a mascherare i suoi pensieri, suppone Kanda con poca convinzione. O forse è il risultato dell’essersi
arreso all’evidenza di avere un amico disponibile – Johnny, ovviamente.
Kanda non ha capito quasi nulla di quello
che sta succedendo; è ormai convinto che vicende ben più grandi di lui si
stiano snodando inarrestabili, dietro le quinte del sipario di quella guerra
religiosa. Gli sembra quasi di poter immaginare chiaramente, se chiude gli
occhi, il gigantesco organismo ben oleato in cui i milioni di ingranaggi che lo
compongono ruotano rapidi, senza mai rallentare. Tra questi spicca Allen; la
sua rotella è in una posizione pressoché centrale, che scintilla nel suo
bagliore argentato, e viene trascinata in quel generale movimento frenetico
dalle dentellature di tutte le altre che lo circondano, costretta a girare e
girare e girare, senza possibilità di districarsi dalla solida rete di
connessioni. Al suo più insignificante movimento, l’intera struttura ne
risente.
Non
sa bene dove collocare se stesso. Ha come la sensazione che il destino stesso
non avesse previsto la sua sopravvivenza nello scontro con Alma – lui di certo
non l’aveva fatto. Una parte di lui d’altronde, è davvero morta con Alma, in
quegli anfratti antichi e decrepiti della desolata città di Matera.
Un
fatto di cui però è abbastanza certo, è che se lui e Johnny non avessero
trovato Allen quella notte di circa una settimana prima, non ci sarebbe stato
un ‘Allen’ la mattina seguente.
Quindi
Kanda non sa se sentirsi un errore del sistema, per
essere sopravvissuto, o se una parte fondamentale del tutto, per aver impedito
– almeno per ora – la fatale scomparsa di Allen dal quadro generale di quella
guerra sempre più insensata e sanguinosa.
Di
conseguenza ora si ritrova incastrato in un viaggio senza meta, in una perenne
fuga da un nemico che non possono esattamente combattere e di cui Kanda non comprende l’esistenza. E lo sconvolge realizzare
che, questa volta, vi si è incastrato volontariamente.
Kanda contempla il viso espressivo del
giovane esorcista mentre questi, seduto sul letto dell’ennesima locanda in cui
alloggiano, ride alle parole di Johnny, che gesticola freneticamente con mani e
braccia, gli occhiali in altalenante bilico sulla punta del naso.
Le
ultime tracce della risata stanno svanendo, quando Allen incrocia il suo
sguardo.
La
cosa invece inspiegabile è il modo in
cui Allen gli sorride.
Non
gli piace pensare che quel sorriso sia diretto a lui. Lo fa sentire scomodamente debole, vulnerabile, a disagio –
quel tipo di disagio che si ha quando si avverte un prurito crescente e non ci
si può grattare.
Vorrebbe
distogliere lo sguardo, ma scopre di non potere neanche ricambiarlo con uno che
non sia statico, allibito, in vicendevole contemplazione.
Ci
sono momenti in cui gli piacerebbe estirpargli quel sorriso dalla faccia, con
violenza, strattonarlo e urlargli ‘dammi quell’occhiata sprezzante che solo tu
hai sempre la sfacciatezza di darmi!’. Ma poi, gli si
staglia davanti, sistematica, con orrenda nitidezza, l’immagine di quella notte: quel corpo inerte e
gelido, quel braccio grottesco deformato in qualcosa di macabro e
spiacevolmente familiare, quel volto sporco e ricoperto di lacrime eppure
completamente privo di espressione, quegli occhi spenti, morti come mai si
erano mostrati al mondo, quelle iridi dorate—
Kanda si rende conto che forse è per
quello che Allen gli sorride.
Johnny
sbadiglia rumorosamente e arrossisce come una donnicciola per l’imbarazzo.
Allen ride e gli consiglia di coricarsi. Pigramente, Johnny si alza e s’immerge
nel suo letto, salutandoli e scivolando in pochi secondi in un sonno che Kanda sa per esperienza essere molto profondo.
E
ora, nella piccola stanza della locanda, ci sono solo lui e Allen. Il giovane
sembra star raccogliendo il coraggio per dire qualcosa, quindi Kanda prontamente si alza e se ne allontana, rifugiandosi
sullo stretto balcone pericolosamente basculante che dà sulla strada principale
della cittadina. Guardando su, verso il cielo notturno puntellato di stelle
bianche e rischiarato dalla luce di una luna crescente, Kanda
ripensa agli avvenimenti dei giorni passati.
Più
il tempo scorre, donandogli la costante compagnia di Allen Walker,
più in Kanda s’instilla la certezza che il ragazzo
sia snervante, a tratti insopportabile, e ridicolmente ipocrita.
Il
problema basilare è che Allen è fottutamente preoccupato da morire.
Ma
al contrario di quanto sarebbe logico per una persona dalla mente non ammattita
dai traumi di una vita quantomeno complicata, il giovane non è preoccupato per
la sua sorte, che ormai vacilla costantemente sul filo di un rasoio, sospesa
tra due possibili risvolti catastrofici del futuro suo e dell’umanità; bensì
per Johnny, e lui. È praticamente
accecato dalla sua stessa ansia, e senza che se ne renda nemmeno conto.
Però… nei momenti di quiete, quando sono
costretti ad alloggiare in qualche malmesso ostello per la notte, esi rifugiano nella loro unica stanza
abbandonandosi alla spossatezza, Kanda può studiare
la differenza.
Allen
sorride spesso, tra sé e sé, mentre si spoglia, si prepara per andare a letto,
s’infila sotto le coperte. Cerca di nasconderlo, ma sorride, anche se Kanda trova ci sia molto poco di che sorridere, in quei
giorni; il suo è un sorriso amaro, imbarazzato, modesto. Segreto. Nel cuore
della notte, Kanda sospetta che Allen si permetta di
sentirsi in qualche modo contento.
Quando
Kanda vede quel suo anomalo comportamento,
automaticamente rammenta la notte in cui l’hanno trovato e di come, in quel
momento, i due viaggiatori avessero entrambi pensato che nulla avrebbe più
potuto far sorridere Allen di nuovo.
Ma
al sorgere dell’alba, di un nuovo giorno, di nuovi potenziali pericoli e
combattimenti, Allen si trasforma puntualmente in una bestia agitata, chiusa
nella sua piccola gabbia di ferro, che si dimena contro le sbarre e medita una
via di fuga, cosciente del fatto che il tempo a sua disposizione prima del
ritorno dei cacciatori si accorcia a vista d’occhio.
Tutto
ciò stuzzica dolorosamente i nervi di Kanda.
“Cosa
ti è saltato in mente, Johnny?! Perché sei venuto a cercarmi? Saresti dovuto
rimanere all’Ordine, ad aiutare gli altri! Cosa pensi di poter fare qua, quando
neanche io so cosa fare?!”
Le
parole sono le stesse ogni singola volta, eppure Johnny non riesce ad abituarvisi, e immancabilmente assume la tipica espressione
sgomenta e distrutta, penosa, di chi ha ricevuto la conferma dei suoi peggiori
timori. Per tutta la durata degli sproloqui di Allen, il ragazzo rimane
solitamente in silenzio, con la testa china, gli occhiali enormi che scivolano
sul naso, e le dita che stropicciano i lembi del cappotto. Come un cane, con la
coda tra le zampe e la preda conquistata che gocciola sangue ancora tra i denti,
che viene sgridato dal padrone arrabbiato, per un’azione che invece sperava lo
rendesse felice; a Kanda dà orrendamente fastidio,
sia perché Allen è un idiota, sia perché Johnny è incapace di opporsi ad Allen
con la stessa forza dimostrata nel viaggio intrapreso.
Kanda, semplicemente, non sopporta le
persone deboli.
Ma
Allen, sorprendentemente, sa quello che fa, e le sue prediche sono quasi sempre
dirette a Johnny; poche volte si accanisce su Kanda,
che di solito si tiene in disparte, con i nervi a fior di pelle e una cappa di
aura omicida che si allarga nell’ambiente circostante.
(Perché
Allen sa che, tra i due, Johnny è quello con meno speranze di sopravvivere se
si trovasse coinvolto in prima persona nella guerra, e il senso di colpa
probabilmente ha già preso a consumarlo).
E
mentre continua a scoraggiare Johnny, Kanda spera
solo che Allen non sia così stupido da credere che, una volta convinto Johnny
ad abbandonarlo, lui lo segua a ruota per automatica conseguenza.
Ma
c’è qualcos’altro, nelle occhiate che Allen gli lancia di straforo mentre
discute con il topo di laboratorio, che Kanda non
riesce a comprendere. È come se Allen avesse paura di affrontarlo, non sapesse
da dove cominciare, volesse dirgli qualcosa ma si tirasse sempre indietro
all’ultimo momento; Kanda si sente solo più
disorientato, ed ha l’ormai radicata impressione di non conoscere appieno quel
nuovo Allen, che qualcosa in lui sia irrimediabilmente cambiato, e Kanda non riesce a capire se per il meglio o per il peggio
– e non è mai stato un ottimista.
“Non
potete fare nulla contro Apocrifo. Lui è… non potete.”
L’idiota
si lamenta incessantemente, come una madre fin troppo premurosa sull’orlo di
una crisi di panico. Parla spesso di Apocrifo. Kanda
preferirebbe essere cieco davanti alle sue reazioni, ma Allen sembra soffrire fisicamente quando lo nomina. Il suo
corpo inizia ad essere scosso da impercettibili tremiti, e i suoi pugni si
stringono con tale ferocia che le sue nocche si tingono di bianco, e
nell’intera stanza i battiti del cuore di Allen paiono rimbombare come tamburi
di guerra. Kanda preferirebbe non vedere, non notare,
perché non sa come reagire: non è questo l’Allen che conosce, che non si lascia
scoraggiare o intimidire da nulla, nemmeno dal diavolo in persona che minaccia
di strappargli il cuore. Questo è solo un ragazzo che ha vissuto troppe
disgrazie per la sua età e che ha paure così grandi che queste sfuggono al suo
controllo – probabilmente, la differenza sta nel fatto che Allen ora sa per
certo come ognuna delle sue paure sia pienamente capace di conquistarlo.
E
in tutto questo, Allen lo guarda. Lo fissa inamovibile, come se volesse fondere
il suo viso con la sola intensità dello sguardo, e Kanda
capisce che quell’avviso è diretto a lui, un chiaro avvertimento che spicca
come uno squillo di tromba nel silenzio che normalmente Allen gli riserva. ‘Neppure tu potrai sconfiggerlo,’ sembra
dirgli, ‘è qualcosa che sta al sopra di
tutti noi, ci ucciderà tutti’.
A
questo punto, solitamente, Kanda distoglie lo sguardo
e sbuffa sonoramente, Allen s’acciglia e si fa più rumoroso.
Ma
la cosa che Kanda trova particolarmente divertente, e
allo stesso tempo irritante più che mai, è che non una volta Allen ha loro detto esplicitamente di andarsene. Li
avvisa, li minaccia, li accusa di ogni possibile idiozia, preme vilmente sui
loro punti deboli sperando di aprire in loro la breccia dell’istinto di
sopravvivenza e spingerli a voltargli le spalle di loro iniziativa e scappare
lontano da lui. È sempre un ‘perché’, ‘non dovevate’ e ‘lasciatemi andare’ dopo l’altro, ma mai ha pronunciato quel singolo ordine,
quella richiesta, che servirebbe per farli allontanare. E Kanda
osserva con pena quei momenti in cui Allen riesce quasi a dirla, quella parola,
perché ce l’ha pronta sulla punta della lingua da giorni, e ogni singola volta,
il suo sguardo inevitabilmente si perde nel vuoto, e la parola gli muore tra le
labbra, non detta per l’ennesima volta.
Perciò
una sera, Kanda si premura di aiutarlo a mettere le
cose in chiaro.
“Stammi
a sentire, mammoletta,” dice, con la rabbia repressa
a malapena e le sue dita piacevolmente strette attorno al sottile collo di
Allen. Gli mancava la sensazione.
“Kanda, ti prego, smettila…!”
“Tu
zitto, bamboccio,” ringhia Kanda con cattiveria,
senza distogliere gli occhi ardenti dal viso impassibile di Allen che, zitto ed
immobile contro la parete spoglia della stanza, ricambia lo sguardo con finta
freddezza.
“Forse
tu non sai,” sibila veemente, stringendo la sua presa alla gola dell’altro.
Allen si lascia sfuggire un suono strozzato, ma non fa nulla per difendersi, la
sua espressione ancora vuota e indecifrabile. La mano gli prude dalla voglia di
stritolare quel collo pallido e inerte, “ma ci siamo ammazzati per venire a
cercarti. In particolare il tuo amichetto, qui. È stato lui a trovare il modo
per rintracciarti, e a fuggire dall’Ordine a suo rischio e pericolo. E io che
vi sono appena tornato, e che ho il rancido fiato di Lvellie
sul collo e poca voglia di essere di nuovo un cane fedele dell’esercito che
odio di più al mondo, sai cosa faccio per prima cosa? Stendo dei Corvi e aiuto
un traditore a scappare da una sentenza di morte certa.”
La
facciata di Allen minaccia di cedere per un momento, ma il ragazzo serra la
mandibola e deglutisce. Kanda sente il pomo d’Adamo
muoversi contro il suo palmo, e i respiri diventare incostanti – il ricordo di
ansiti affannati, di pelle gelida come il ghiaccio, del sudore che gli imperla
la fronte, la faccia, il collo, il solco di una lacrima lungo la guancia – Kanda quasi ritrae la sua mano d’istinto dalla gola di
Allen, colpito da quella improvvisa visione, più reale di quanto gli sarebbe
piaciuto. La sua presa si allenta, e Allen lo nota, lo guarda confuso, le
sopracciglia aggrottate. Ma in un attimo Kanda gli è
di nuovo addosso, ancora più violento. Johnny inspira bruscamente.
“Il
minimo che potresti fare,” continua brusco, scrollando la testa per liberarsi
da quelle immagini indesiderate. Cerca di ricollegare i suoi pensieri al
discorso, ma la gravosa sensazione di debolezza che ha improvvisamente invaso
le sue membra lo confonde, e lo distrae, “in segno di riconoscenza è non
rompere le palle. Ma dato che ti è impossibile…
almeno fammi il favore di non affogarci nella tua infinita ipocrisia.”
Allen
gli lancia un’occhiata velenosa, e posa la mano sinistra su quella di Kanda, minacciosa – un braccio deformato, aperto, rilucente
di bagliori verdastri, in preda alle convulsioni, che si contrae e si muove di
propria iniziativa – Kanda chiude le palpebre con
eccessiva aggressività e le riapre.
In
quel momento, Kanda apprende, con un certo sgomento,
che ciò che è successo ad Allen lo ha turbato più di quanto si aspettasse, e
non ne comprende il motivo.
“Non
sono un ipocrita.”
La
pazienza di Kanda non è mai stata molta, resistente e
durevole quanto una bolla di sapone. Il suo volto si avvicina a quello di
Allen, e ora sono a pochi centimetri di distanza, impegnati in una battaglia di
sguardi pieni d’insofferenza e sdegno.
“Oh,
sì che lo sei,” mormora lui, livido. “Ti sei sempre lamentato da quando ti
abbiamo trovato, ma mai una volta ti ho sentito chiederci di andarcene. Non far
finta di nulla, perché lo so io come lo sai tu: se quella sera non fossimo
arrivati, non saresti qui con noi. Non negare l’evidenza, solo perché il tuo
masochismo ti impedisce di ammettere che hai bisogno d’aiuto.”
Allen
abbassa finalmente lo sguardo, mentre i suoi denti bianchi mordono il labbro
inferiore con violenza, e le sue guance si tingono di una vergogna che lo
riempiono di soddisfazione. Il suo corpo comincia ad agitarsi, a dimenarsi
sotto la sua stretta, e Kanda ha l’impressione che,
se potesse, Allen correrebbe via a nascondersi in qualche angolo buio.
Con
un atto di compassione che non gli è proprio, Kanda
tira un sospiro, e si allontana di qualche passo dal ragazzo, incrociando le
braccia e aspettando che Allen trovi la forza di ricambiare il suo sguardo –
perché Allen non demorde mai, quando desidera qualcosa, neanche davanti
all’umiliazione.
“Ti
darò la possibilità di decidere una volta per tutte, mammoletta,”
lo informa Kanda con voce ferma. “Dimmi di andarmene.
Dimmelo chiaramente, e noi ce ne andremo. Ti lasceremo solo, a morire come un
cane randagio ad un angolo della strada, tra l’immondizia e altri rifiuti umani
del tuo genere. Proprio come vuoi tu, no? E noi non faremo nulla per fermarti.”
Di
fianco a lui, Johnny si riscuote dalla sua statuaria immobilità e si lascia
scappare un verso d’orrore, portandosi una mano tremante davanti alla bocca spalancata.
Ma non dice nulla, si limita a fissare Allen, e aspettare la risposta che,
nella sua mente, con tutta probabilità sarà dettata dal fatto che Allen vuole
solo sbarazzarsi di lui.
Kanda sbuffa, stizzito.
Gli
occhi grigi di Allen sono spalancati per lo stupore, e guardano sconvolti la
faccia di Kanda. Ma le sue labbra rimangono chiuse,
serrate in una linea dura e sottile, la fronte aggrottata e a Kanda sembra quasi di vedere il combattimento che sta
avendo luogo nella testa del ragazzo.
Allen
si lascia cadere contro il muro. Pare stremato, e disperato come un uomo posto
davanti alla scelta più ardua della sua vita. Kanda
non ricorda di aver mai visto tali occhiaie adombrargli la pelle e le spalle
così ricurve, schiacciate da un peso ingente e invisibile.
Il
silenzio si allunga, imperturbato, teso e infinito, e quando infine Allen
chiude gli occhi e passa una mano sulla faccia stressata, Kanda
è convinto di aver vinto. Sente il topo di laboratorio riprendere finalmente a
respirare.
Ma
quel giorno, Kanda realizza la triste realtà che gli
idioti sono chiamati tali per un motivo.
“Andatevene.”
Ovviamente
non se ne vanno.
Ma
qualche giorno dopo, Kanda conosce di persona una
delle maggiori paure di Allen, e si scopre incapace a non condividerla.
Non
riesce a dare un nome alla ‘cosa’ che dà la caccia ad Allen. Kanda ne ha visti di esseri abominevoli nella sua vita, in
un certo senso la sua stessa esistenza lo è, eppure quell’essere è difficilmente descrivibile a parole. Senza fattezze
o lineamenti, viscido, mutevole, raccapricciante, l’unica cosa che rimane
costante sono quelle fessure sottili, che somigliano più a squarci irregolari
creati da un coltello acuminato in quel cranio bianco e informe, le pupille
insanguinate e quella bocca dai denti taglienti, così vasta che potrebbe
inghiottire il mondo intero, se lo desiderasse – ma è chiaro fin dal primo
momento che l’essere compare davanti a loro che il suo unico scopo è quello di
divorare Allen, ed eventualmente chiunque sia tanto pazzo da frapporsi tra lui
e la sua preda.
Kanda ammette che Allen forse aveva
ragione a dire che non poteva essere sconfitto così facilmente, perché quello
che prova nel momento in cui la sua Innocence fende
l’aria intorno al corpo dell’Apocrifo, e viene attirata da esso come un metallo
ad un magnete, è una sensazione rivoltante che spera non dovrà mai più
sperimentare nella sua vita.
Riescono
a scappare, fortunatamente, relativamente illesi, ma da allora una nuova
tensione permea l’animo di Kanda, tiene allerta i
suoi muscoli, e una nuova ansia affina i suoi sensi: è l’ansia data dalla
consapevolezza di essere inferiori al proprio nemico.
Kanda non è abituato a sensazioni del
genere.
Una
luce distante, sulle montagne, pulsa chiara e irregolare, prima di svanire
completamente nella notte.
“Kanda,” comincia l’altro una volta raggiuntolo sul balcone.
Appoggia gli avambracci sulla balaustra e chiude gli occhi per un momento,
inspirando lentamente la brezza pungente della notte nei polmoni. Kanda fa finta di non osservarlo. Semplicemente, Allen non
demorde mai, e questo, in certi casi, è desolante.
“Dovresti
imitare il topo di laboratorio, mammoletta, e andare
a dormire.”
Il
cipiglio offeso di Allen è l’equivalente di un piacevole massaggio alle spalle.
“È
Allen, e non sono stanco, idiota,” gli risponde irruente, “posso farcela
dormendo tanto quanto te.”
Kanda sbuffa, malfidente, ma non ribatte;
perciò Allen sospira, scoraggiato, e contempla silenziosamente il cielo.
Lo
spicchio di luna è ora alto nel cielo, e il suo pallore candido bagna
dolcemente le sagome immerse nell’ombra della cittadina, la cima aguzza di un
campanile affusolato da cui brilla l’ottone della grande campana immobile, e
più in là, neri come l’inchiostro con cui sembrano disegnati, i profili di
montagne lontane, selvagge e inesplorate.
“Non
mi hai mai detto... perché sei venuto con Johnny.”
Kanda non ha voglia di rispondere. La
voce di Allen è così soffice da essersi ridotta a un sussurro timoroso. Forse
anche Allen ha paura di sentire la risposta.
“Vedi,
è che sono… sorpreso,” continua Allen, con titubanza,
“ormai pensavo che la nostra fosse un’amicizia a senso unico, ma… non solo.”
Con
la coda dell’occhio, Kanda lo guarda arrossire
lievemente. I suoi capelli bianchi fluttuano negli striscianti soffi di vento,
mentre il suo sguardo è perso nell’orizzonte, concentrato su un panorama che
solo lui può vedere.
“Ti
ho… fornito la possibilità di abbandonare per sempre tutto… questo. Lasciarti alle spalle l’Ordine, i Noah, questa guerra senza fine che…
ti ha strappato tutto, Kanda. Perciò non capisco
proprio: perché sei tornato indietro?”
Ora
Allen è girato verso di lui, e lo osserva in silenzio, con i suoi occhi
argentati attenti, avidi di risposte che da tempo non ricevono, assetati di
familiarità e un appiglio saldo a cui aggrapparsi, che Kanda
non è sicuro di potergli dare, perché troppe cose stanno succedendo, e seppure
un capitolo della sua vita si sia definitivamente chiuso – anche grazie alla
persona che ha davanti – nuovi eventi si susseguono uno dopo l’altro, passati sentimenti
che Kanda credeva dimenticati per sempre e sperava di
non dover mai più affrontare stanno tornando a infastidire i limiti della sua
coscienza, insistenti, che gli intimano di voltarsi, riconoscerli, accettarli.
Ma
Kanda ha vissuto la sua vita due volte – nonostante
una non la ricordi – e sa come stare attento dal commettere lo stesso errore
più volte. Non sa se è in grado di poter sopportare di nuovo tutte le
difficoltà con cui quei lontani sentimenti vanno a braccetto.
Il
ricordo di Alma e la storia della loro problematica amicizia è scolpita nella
sua anima come un elaborato e preciso bassorilievo, a malapena soggetto alla
corrosione dello scorrere del tempo.
Ma
Kanda guarda quegli occhi, e immagini appartenenti a
memorie altrettanto indelebili gli passano davanti alle sue pupille come lampi
di fulmini in una tempesta, improvvisi e frastornanti, e il tuono che le
accompagna si fa presto sentire, martellante e rumoroso come i battiti del suo
cuore – iridi striate d’oro, occhi spenti e privi di qualsiasi traccia di vita
e volontà – Kanda non vuole più essere costretto a
vedere una nuova volta quegli occhi. Non vuole più esserne la causa.
E
qui Kanda si trova davanti un paradosso, perché si
tratta di ripetere un errore o l’altro, e per quanto riguarda il primo, il solo
aver intrapreso questo viaggio dimostra che è forse troppo tardi per correre ai
ripari.
Guarda
quegli occhi e, ad un tratto, riesce a scorgere ciò che aveva fallito di
comprendere fino ad ora.
Per
quanto cerchi di nasconderlo al mondo, Allen è spaventato. Non solo perché
ormai è una bomba ad orologeria, e ciò che è racchiuso dentro di lui, orrido e
letale, rischia di esplodere da un momento all’altro; non solo perché qualcosa
di sconosciuto e indescrivibile setaccia ogni angolo delle città che attraversa
alla ricerca di lui e della sua Innocence; Allen è
spaventato e prova vergogna, perché, per la prima volta nella sua vita, ha
rinunciato a combattere.
Ora
sa cosa lo aspetta, al di là di quel sottile velo nero, che anche Kanda conosce perché l’ha visto, e l’ha sfiorato con le sue
dita – e probabilmente vi è anche passato oltre, un tempo.
Ora
sa, ed è spaventato, perché se c’è arrivato così vicino una volta, nulla gli
assicura che la volta successiva non sia quella in cui vi si precipiti senza alcuna
speranza di salvarsi.
E
in mezzo a quel mare di paura e incertezza, Kanda
vede per la prima volta quello che in realtà era sempre stato lì: una mano,
pallida e incerta, che Allen gli porge, fin dal loro primo incontro, e che lui
si era sempre rifiutato di prendere in considerazione. Una mano che si trova in
un territorio rischioso, pieno d’insidie. Non è che Kanda
ne abbia timore perché è qualcosa di inesplorato; anzi, Kanda
vi si è inoltrato. L’ha esplorato con riluttanza, ne ha assaporato i vantaggi e
infine, ne è uscito rovinato.
Ma
ora Allen gliela porge con più insistenza, perché ora è anche lui stesso ad
averne bisogno; ma così gli pare persino peggio, perché stringerla ora
significherebbe permettere ad Allen di fare totale affidamento su di lui, e
mentre Kanda lo realizza, si rende anche conto che è
stato un idiota ad unirsi a Johnny con la primitiva idea di placare il proprio
rimorso e lasciare poi ogni cosa dietro di sé. Kanda
guarda quella mano, e pensa che gli piacerebbe cacciarla indietro, allontanare
il momento in cui non potrà più negare l’evidenza che il suo piano non è così
semplice come si era aspettato.
Ogni
tanto, a Kanda viene naturale paragonare Allen a un
virus. Proprio come lo era Alma.
“Perché
ne avevo voglia.”
La
smorfia di Allen gli fa capire che quella non era la risposta che stava
aspettando Allen.
“Cos’hai,
otto anni?”
Kanda ghigna soddisfatto e non dice
altro, mentre Allen continua a guardarlo torvo, e confuso, e Kanda si chiede a cosa stia pensando e quale sarà il
prossimo insulto che gli rivolgerà.
Ma
l’insulto non arriva, e quando lui si volta per osservare Allen, quest’ultimo
lo spintona leggermente con la spalla.
Kanda non sa come reagire, perché alla
fine la verità lo colpisce come un dardo al petto. Perché loro sono lì, su quel
balcone pericolante, a darsi spallate e parlare delle ragioni e rimanere in
silenzio sulle verità, e Allen gli sta di nuovo sorridendo con quel sorriso
contento, sollevato e, all’improvviso, è chiaro come il sole. Ad Allen non
importa quello che dice, quello che cerca di nascondere, e quella mano che
prima gli sembrava solo tesa verso di lui, speranzosa, in realtà lo ha già
afferrato, senza chiedergli alcun permesso, e lo trascina verso di sé,
incurante della sua resistenza.
Kanda grugnisce esasperato e, con i
gomiti poggiati sul parapetto, sprofonda la testa tra le mani.
Inspiegabilmente, una risata amara gli sale alle labbra. “È così…
stupido.”
“Cosa?”
chiede Allen, curioso e perplesso. “Cosa è—”
“Io
non—Tu. Tu sei stupido, mammoletta.” È stanco, e gli piacerebbe restare per un po’
da solo. Parlare con Allen si rivela sempre faticoso. “Va’ a letto, idiota.”
Allen
si allontana dalla balaustra, con un’espressione irritata e confusa. “È Allen, IdioKanda. E vado
a letto volentieri, dato che parlare con te mi dà la stessa soddisfazione intellettuale che mi darebbe il parlare con un bue.”
Kanda decide, stupendo se stesso, di
risparmiarsi l’ennesima rissa, rimanendo con gli occhi chiusi premuti sui palmi
delle mani e limitandosi a sbuffare sonoramente.
Accanto
a lui, Allen compie qualche passo sul balcone, prima di dire, “’Notte, Kanda,” e nonostante il suo tono possa sembrare stizzito,
nelle sue parole Kanda avverte chiaramente il suono
di un sorriso, modesto e sincero.
Quando
il ragazzo torna all’interno della locanda, Kanda
alza di nuovo gli occhi verso il cielo, da dove la luna crescente gli ammicca
luminosa.
†
Non penso che Kanda
sia così intuitivo, in realtà, ma oh, che ci vuoi fare, non lo so scrivere io, Kanda =w=
Eeee ok, finita. Spero tanto che vi sia parsa decente, lol. In ogni caso, il titolo, come avevo detto all’inizio,
dovrebbe essere chiaro :) per chi non lo sapesse ‘hicsuntdracones’ era una
frase usata nell’antichità sulle mappe per indicare regioni inesplorate. Quindi
sia Johnny che Allen che Kanda hanno una loro
personale ‘regione inesplorata’ che dovrebbe essere chiara ;) (sennò ho fallito
su tutta la linea). Non so se avete notato la cosa della luna, nei capitoli, maaa, vabehlol.
Ehm, io LO SO che Allen è già
quasi pseudomorto (a causa di Tyki).
Però. Chissene e ciao, ok? Ciao. Tra l’altro, mi sono
resa conto che Allen mi ricorda una Claymore, LOL.
Allen E’ una claymore, in realtà.
E il capitolo 210? Frastornante e
sconvolgente. Ho voglia di scrivere Yullen, e non
dovrei.