Is this the life on Mars?

di IWontFade
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Così cominciò ***
Capitolo 2: *** Forse non ero insignificante ***
Capitolo 3: *** Mi accorsi che era da molto che non vivevo ***
Capitolo 4: *** Prima o poi il fuoco si spegne da sè ***
Capitolo 5: *** La serata migliore ***
Capitolo 6: *** Ancora coincidenze. Allora il fato esiste. ***
Capitolo 7: *** Come Shannon Leto tentò di tagliarmi il piede ***



Capitolo 1
*** Così cominciò ***


La prima volta che incontrai Jared Leto fu una totale casualità.

Giravo per le strade di Milano, nel dicembre 2010. Ero felice, in una delle mie strane passeggiate fuori porta con puro scopo artistico. La mia migliore amica in quel periodo era una fuji finepix s, rigorosamente nera, con la memoria esterna che avrei voluto non finisse mai. In quel periodo la mia vita era musica, fotografia e filosofia. Adoravo perdermi nei miei pensieri esistenziali con le cuffie nelle orecchie o la chitarra in mano, e la mia stanza era letteralmente tappezzata delle mie fotografie. Mi ero laureata in scenografia da ormai 5 anni e vivevo grazie alle frequenti collaborazioni con teatri e alle rare quasi inesistenti chiamate che ricevevo dal mondo del cinema. Oltre a quello avevo già stampato due raccolte fotografiche e fatto tre calendari a degli artisti nazionali.

Ovviamente oltre a tutto questo avevo la mia musica. Suonavo la chitarra da più di 20 anni e qualche volta mi capitava di fare piccoli concerti in locali a tema o serate fuori città.
Insomma io andavo matta della mia vita, mi piaceva ogni cosa!

Dunque quel pomeriggio andavo in giro a Milano, scovando i vicoli più stretti intorno al duomo, trovando le persone più stravaganti da portare con me a casa dentro a quell’obiettivo. Il tempo non era soleggiato, anzi, c’era quella tipica luce giallognola che si trova solo prima di un temporale. Adoravo quella luce, mi sembrava trasportasse tutto in una specie di percezione parallela.

Una gatta sopra ad una macchina.

Un senzatetto con l’iPod.

Un piccione volante, sul cielo grigio ma luminoso.

Un turista con tanto di poncho rosso su pantaloni arancio.

Una di quelle artiste che conoscono solo la propria armonica e il proprio cane.

Un uomo coi capelli blu. Un uomo coi capelli blu?!?!

Quello doveva essere straniero, canadese, americano o giù di la. Avevo da sempre stimato gli uomini con le palle per andare in giro con i capelli colorati e quella sfumatura stile puffo mi faceva proprio impazzire. Anche se quell’uomo non sembrava avere niente a che vedere con i puffi. Era alto, fisico asciutto e, ci avrei scommesso, muscoloso al punto giusto, blackberry incollato nelle mani e occhi incollati nel blackberry. Girava solo, il che mi aveva fatto subito escludere il fatto che fosse una stella del cinema o qualcosa di simile.
Ma quando alzò lo sguardo verso di me (o verso il celebre e maestoso duomo che era dietro di me) mi accorsi che mi sbagliavo. Non potevo che riconoscere quel viso, quelle labbra sottili ma non troppo, la barba leggermente incolta, il nasino un po’ all’insù e gli occhi.
Gli occhi che tutti hanno desiderato, gli occhi davanti ai quali molti hanno sognato, molti non sono mai riusciti a non spalancare la bocca.
Enormi occhi azzurri, di un azzurro non molto diverso dai capelli, donavano a quell’individuo una familiarità quasi spaventosa. 

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Capitolo 2
*** Forse non ero insignificante ***


Mi sembrò di rimanere un’infinità di secondi immersa in quegli occhi. Non sentivo più un rumore, non vedevo più nient’altro. Forse era quello che tutti chiamavano colpo di fulmine, forse stavo vivendo un’ esperienza ultracorporea. E, concedetemi questo, ero convinta che lui la stesse vivendo con me. Continuavo a pensare che il motivo per cui l’avevo riconosciuto era perché lui si era fatto riconoscere da me, con un’occhiata, una specie di radiografia a distanza. Per un’ ennesima coincidenza o per il destino nelle mie cuffiette era partita la versione acustica di The Story dei 30 Seconds To Mars.

Close your eyes.

Lo feci.  O almeno ne chiusi uno perché per puro istinto le mie mani avevano avvicinato la macchina fotografica all’occhio sinistro, che era ormai fin troppo abituato a lavorare da solo.
Click. Click.
Con una piccola zoomata mi accorsi del sorrisetto che scoprì appena dei denti perfetti, ma non della smisurata macchina fotografica che lentamente mi stava inquadrando.
A quel punto ne ero certa,. Avevo gli occhi di Jared Leto nel mio obiettivo, nel mio minuscolo e insignificante obiettivo!
Per l’ennesima volta sentii un click, il mio dito ormai andava da solo.  Tra una foto e l’altra c’era forse mezzo secondo di distacco, avevo registrato ogni singola mossa di ogni muscolo del cantante. 
Ad un certo punto un uomo mi urtò, facendomi cadere addosso ad un altro tizio. Mi scusai infinitamente un bel po’ di volte, con la coda dell’occhio sempre rivolta verso il mio soggetto.
Non si era mosso di un millimetro, almeno complessivamente, ma io non potevo vedere il suo dito che premeva, non potevo vedere la sua macchina che metteva a fuoco innumerevoli volte il mio viso, né il suo sorriso che soddisfatto si apriva sul volto.
Raccolsi le cuffie che mi erano uscite dalle orecchie e, tirandomi indietro i corti capelli, guardai verso il punto che fino a poco prima era occupato da Jared.
Fino a poco prima. Non potevo credere di averlo perso di vista. Mi sentii mortificata, avevo avuto la possibilità di passare un po’ di tempo con lui, o almeno guardandolo in carne ed ossa, ed ero riuscita a rovinare tutto.  Mi girai a destra e a sinistra, non poteva essere andato lontano in così poco tempo. L’ora di punta però si stava avvicinando e la folla nella piazzetta aumentava a vista d’occhio. Beh ma per me non era mica un ostacolo, cercavo un uomo con i capelli blu!
Mentre ancora mi guardavo intorno per trovarlo una voce mi sorprese.

-Non credo che tu possa tenere quelle foto, la mia faccia ha un certo valore…

Quella era l’ultima cosa che mi sarei aspettata. Mi girai, ero senza parole. Continuai a guardarlo, esaminavo ogni centimetro del suo viso, che tanto avevo ammirato da lontano o in foto. Non ebbi il coraggio di guardarlo negli occhi, non era una cosa che facevo facilmente, ancor più in quel caso che sapevo che mi avrebbe fatto almeno svenire. Ad un certo punto mi sventolò la sua mano davanti al naso.

-Ehilà? C’è nessuno?

Cercai di ricordarmi qualche parola in inglese, qualsiasi cosa, anche solo per aprire bocca. Buio, buio totale su qualsiasi nozione grammaticale o d’uso comune sulla mia lingua preferita. Mentre la mia mente macinava, il mio istinto mi aveva fatto trovare un po’ di coraggio per guardarlo negli occhi da vicino. Se non l’avessi fato come mi suggeriva il buon senso, me ne sarei pentita per sempre. Ora se stessi qui a descrivere le infinite sfumature, la profondità, la sincerità e la bellezza di quello che vidi e quello che provai, finirei almeno tra un anno.
Quando finalmente mi accorsi che era passato fin troppo tempo dalla sua ultima domanda, presi fiato e dissi qualcosa:

-Ciao.

Si può di certo immaginare la faccia di Jared quando sentì questa unica parola. Beh ma io sono fatta così, se sono emozionata o vorrei attirare l’attenzione di qualcuno divento muta, e se apro bocca non mi ferma più nessuno.
Però dopo quel ciao fu diverso, mi sentii quasi a mio agio con quegli incredibili occhi piantati nei miei. Forse anche perché era partita Kings & Queens, la mia preferita.

Desperate and broken.

Lui sorrise, per il mio essere così imbranata o sentendo la sua stessa voce a così alto volume nelle mie cuffie. Vietai al mio cervello di farsi i complessi e tenni a bada e emozioni, se questo è possibile.

-Devi scusarmi, sono un po’ distratta,non tutti i giorni mi capita una cosa così.

-Capisco non ti preoccupare, ne sono abituato…

Sorrise di nuovo e io davvero pensai che sarei svenuta. Non sapevo assolutamente cosa dire.
Abbassando lo sguardo vidi la sua macchina e indicandola dissi la cosa più stupida che si potesse immaginare.

-Bella! È Canon?

-Si si. Ma ormai è vecchia, vorrei prenderne un’altra ma a questa ci sono affezionato, ci ho fatto il giro del mondo!

We were the kings and queens of a promise.

Ridemmo un po’, giusto per rompere la tensione imbarazzante che di lì a poco si sarebbe creata.

-A proposito, stavo dicendo che anche se ti dispiacerà non potresti tenere quelle foto.

-Speravo proprio che te ne fossi dimenticato!

Presi in mano la mia fuji pronta e rassegnata cancellare le mie foto. Evidentemente il dispiacere mi si leggeva in faccia perché Jared mi fermò dicendomi:

-Forse un modo per tenerle c’è. Sai, io ho un concerto domani sera e tu potresti venire e dimostrarmi che non venderai quelle foto a nessun giornalista impazzito. Oppure se voi mi paghi un po’ di soldi ed è come se te le avessi vendute.

-Credimi mi piacerebbe proprio venire domani sera, ma è da ingenui pensare che ci siano ancora biglietti in giro.

Into your eyes.

-Lo so, lo so. È sold out da tre mesi… però non so se ti sei accorta che alla fine Jared Leto sono io e che il concerto è mio quindi, pensa un po’ che caso, ho dei biglietti in più, per gli ospiti invitati personalmente.

Il cuore mi batteva a mille. Non potevo crederci. Il mio cervello continuava a dire: non ti illudere, è solo un sogno, tra poco ti sveglierai e vedrai che non è realtà, ti deprimerai a vita come minimo. Non ti illudere e stai attenta, è di certo un sogno.

In defense of our dreams.

Jared frugava intanto nelle tasche della sua giacca di pelle nera e dopo poco tirò fuori un biglietto un po’ stropicciato, che, stirato con le mani, sembrò come nuovo.

-Ecco qui. Io te lo affido, fanne buon uso.

Mi girai e rigirai il biglietto fra le mani.

-Che diavolo di uso posso farci se non quello di usarlo per entrare al concerto? E comunque tu sei matto, questo è un golden ticket, le persone normali pagano questo foglietto più di 500 euro e tu lo regali a una persona che nemmeno conosci?

-Ehi, non dire così. Molti dicono che io ho la capacità particolare di avvertire l’arte, di percepirla. E prima, quando hai fatto tutte quelle foto, ti giuro che c’era qualcosa di frizzante, di elettrico e maledettamente magnetico nell’aria, c’era qualcosa che non avevo mai avvertito prima, come se quel momento fosse in qualche modo determinante, come se il fato mi stesse dicendo: Ehi, stai attento! Aguzza le orecchie. E poi non è vero che non ti conosco, anche solo guardare le tue foto mi basterebbe per comprenderti più a fondo che se parlassimo dieci anni. Fidati.

The age of man is over.

Ero a bocca aperta. Sapevo che Jared Leto era una persona creativa e artistica, ma mai avrei immaginato una risposta così. Mi schiarii la voce, riprendendomi.

-Ma tu non hai ancora visto le mie foto…

-Spero proprio che succeda presto!

Si allontanò lentamente e dopo pochi passi si girò.

-Ci vediamo, mia vecchia Echelon sconosciuta. E non sto dicendo che mi dispiaccia. Un giorno forse ci incontreremo ancora.

This lessons that we’ve leart here, have only just begun. 

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Capitolo 3
*** Mi accorsi che era da molto che non vivevo ***


Ci ho dormito sopra, o almeno ci ho provato perché gli occhi non mi si sono voluti chiudere nemmeno una volta. Ho capito un paio di cosette: tutta quella suggestione,  tutto quel “oh, i suoi occhi! Oh, le sue orecchie! Oh, le sue unghie!” era solo emozione, nessun colpo di filmine o roba simile. Era solo il mio cervellino che non poteva credere di essere davanti a Quel tizio con i capelli blu e mi faceva pensare a troppe cose che in realtà non provavo. Anche se è un po’ complicato mi succede spesso. Come quando l’indomani sera arrivai al palazzetto dove avrei visto il mio primo vero concerto –tra l’altro niente meno che dei 30 Seconds to Mars- e mi sembrò il luogo migliore del mondo, mentre ritornandoci dopo era abbastanza normale, se non scarso. Quella sera mi sembrò enorme, e mi dissi che era assolutamente valsa la pena di farsi tutti quei kilometri senza un navigatore né la più pallida idea di dove andare.
La tensione in quel palazzetto era fortissima, tutti non  vedevamo l’ora di vederli, non vedevamo l’ora di essere la loro famiglia per una sera.

Leggere le parole di escape, la sua voce iniziò a prenderci. THIS IS WAR. Il telone cadde, svelò il palco, tutti urlavano, quel momento fu un sogno.

Con Night of the Hunter Jared cominciò a dettare le parole che componevano i nostri pensieri, le note di Tomo ci invasero come pioggia energica e Shannon iniziò a scandire il battito del cuore di tutti noi.
Ne ero sicura, lo potevo dire con certezza, eravamo tutti uguali. Quella musica ci univa, bastava per renderci importanti allo stesso modo quella sera.

Vox Populi. Jared con una giacca piena di lustrini e il suo immancabile faro giallo. Tomo con la chitarra puntata verso l’alto, la testa all’indietro, quasi fosse in una specie di trance, i capelli sulle spalle, i piedi che battevano forte il tempo di Shan. J
ared che correva su è giù per il palco, Tomo che saltava e Shannon che sfruttava tutta la sua energia, senza timore che i tamburi si rompessero Quella fu Vox Populi.

Poi sul palco si fece buio, solo una leggera luce bluastra illuminava due sagome. Shannon seduto per terra, con una chiara chitarra acustica in mano, Tomo con la sua rossa elettrica. Iniziarono a suonare, insieme, ogni tanto si guardavano e sorridevano. Tomo era concentratissimo, il viso non si vedeva, coperto dai capelli. È come se volesse costruirsi una piccola protezione per ammassare tutte le sue capacità e non deluderci mai. La canzone è L490, una delle mie preferite. La suonano in modo impeccabile, alla fine quasi mi viene da piangere.

Ma poi tutto cambiò.

The kill. Non ci potevo credere. Per la prima volta non erano le mie cuffie a cantare, era lui, era lui davvero!! Sentivo la sua voce, chiusi gli occhi un secondo e mi sembrò di averlo di fianco. Continuavano a tremarmi le gambe e ormai i brividi lungo il mio corpo non facevano che aumentare. Vederlo li, a pochi metri da me, che saltava con tutta la sua energia, la sua fottuta energia da quarantenne, con non stava un attimo fermo, con la voce che non poteva fare a meno di uscire, con se stesso completamente aperto a noi, al suo piccolo pezzo di famiglia italiana. All’inizio fece un pezzo in acustica, coinvolgeva molto e nessuno sarebbe riuscito a stare in silenzio in un momento del genere. Le parole uscivano da sé, intonate come mai lo erano state. Ed era incredibile come ogni singola persona sotto il palco riuscisse a seguire Jared, senza sapere cosa avrebbe fatto, senza conoscere i suoi passi. Lo seguivamo, semplicemente urlando se lui urlava o sussurrando se lo faceva. Eravamo uniti. Uniti nella stessa canzone, che a tutti aveva cambiato la vita, uniti nella stessa musica, che a tutti faceva provare emozioni fortissime. E all’improvviso luci bianche lampeggianti, quasi accecavano, mettevano confusione ed eccitazione, facevano desiderare che lui andasse avanti, facevano desiderare che quella canzone non finisse mai. Comparvero Tomo e Shan e noi urlammo, tutto il fiato che avevamo in gola, fuori. Un’ovazione immensa per pochi suoni della gibson, per l’”are you ready” urlato di Jared, per lo strano tenere il tempo dondolando di tomo, per l’incredibile e potentissima vibrazione della prima battuta di Shan.

Come, break me down.

Nessuno riusciva a stare fermo. L’adrenalina e l’energia nell’aria erano quasi palpabili. Quelle parole così note si incisero nel nostro cuore come un timbro a fuoco, per non lasciarci mai più.

I tried to be someone else.

Jared salta. In un attimo è uno di noi, in mezzo a noi. Forse è ininterrottamente stato come noi, forse qualcosa ci differenzierà per sempre. So solo che in quel momento mi sentii così vicino a lui che quasi potevo sapere i suoi pensieri. Sapevo che non pensava a niente, sapevo che quello che lo guidava era la musica, era il suo istinto.

This is who i really am.

Il suo primo vero urlo, molto di più di quello che è nelle registrazione, molto di più di quello che si vede nei live su youtube. Non si può neanche descrivere, non si può neanche comprendere se non lo si è vissuto.

Insieme cantammo un po’ di ohoh ed eravamo tutti una cosa sola, eravamo tutti thirty seconds to mars. Jared disse qualcosa sul rumore, non so chi la capì in quel momento , so che le parole “fuckin’ noise” scatenarono qualcosa di ancor più forte dentro di noi, se è possibile. Un attimo dopo fu nella folla e fui costretta a tenergli la mano per non farlo cadere per terra.

Fu incredibile. Tutto quello che potevo fare era urlare, tutte le emozioni che avevo dentro si potevano tirare fuori solo in quel modo .

Le canzoni furono ancora molte, tutte emozionanti allo stesso modo. Attack, From Yesterday, Alibi. L’incredibile abilità di Shannon nell’assolo di the Fantasy, indimenticabile. La assurda capacità di Jared di coinvolgere tutti in Kings and Queens, una cosa che adoro. E Tomo è semplicemente magnifico, in tutto quello che fa, anche se lo fa in silenzio, senza essere l’esibizionista, non sbaglia mai ed è perfetto.

Non me ne accorsi neanche ma quella serata volò.
In un momento fu tutto finito.
Il concerto era arrivato al termine.
Iniziai ad urlare più forte che potevo, anche se mi rimaneva poca voce in gola.
In un istante le luci erano spente, loro erano andati.
Non so come e quando avevo iniziato a piangere e in quel momento non riuscivo più a smettere. Le lacrime di gioia silenziose mi scendevano per le guance, non mi curavo neanche di asciugarle. Osservavo gli Echelon intorno a me, vedendo solo sguardi come il mio e guardavo il palco, dal quale tre uomini, tre esseri umani come me, anche se u po’ più talentuosi, erano riusciti a farmi piangere.
Il mio primo pensiero dopo tutta la confusione e l’annebbiamento della felicità fu il meet and greet. Sapevo che avrei avuto la possibilità di ringraziarli di persona per la serata e quello era tutto ciò che desideravo in quel momento.
Dir loro grazie.
Grazie di  averci scelti per condividere la vostra arte, grazie per essere così capaci a emozionare, per essere così bravi a capirci.
Grazie Thirty Seconds to Mars per aver cambiato in meglio la mia vita. Soprattutto questa sera. Una sera per ricordare che un giorno tutto finirà.
Forse non tutto, la musica rimane. 

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Capitolo 4
*** Prima o poi il fuoco si spegne da sè ***


Dopo il concerto mi demoralizzai al massimo. Non avevo idea di come funzionasse un meet and greet e quello che vissi mi deluse in qualche modo. Anche perché mi aspettavo un atteggiamento completamente diverso da parte di Jared.

C’erano più di quaranta persone in una fila che sembrava infinita. Io ero più  o meno verso la fine e questo peggiorò ancora le cose. Ero abbastanza tesa, quasi come una corda di violino, come si suol dire, e vedere che tutte quelle davanti a me erano ragazzine lì solo per il bel faccino di Jared e per la generosità del loro paparino mi faceva innervosire ancora di più.

Noi stavamo fermi in quello stanzone con il soffitto basso, bianco e troppo illuminato e loro passavano per firmarci dischi, magliette o qualunque cos’altro.

Per primo c’era Shannon. Dietro di lui, con una mano incollata alla sua schiena e con gli occhi fissi su ogni nostra singola mossa, c’era un tizio alto 1 e 90, con corti capelli neri. Una mano in tasca e un’espressione divertita. Il mezzo sorrisetto che gli spuntava sulla faccia gli formava due carinissime fossette ai lati della bocca, e questo lo rendeva un po’ meno inquietante. Lo sguardo era attento, la testa leggermente chinata e gli occhi che guardavano tutto dal basso in alto mettevano una certa soggezione. Meglio guardargli le fossette. Meglio non guardarlo proprio.

La mia attenzione fu subito attratta dal batterista incappucciato. La confusione era tanta e sicuramente non era facile identificarlo in mezzo a tutte quelle persone, però più si avvicinava, più riuscivo a vederlo, a cogliere ogni dettaglio. Eccolo lì, in tutto il suo fascino. Non mi ero mai accorta realmente di come fosse Shannon, certo non lo stimavo meno degli altri due, ma non avrei mai immaginato di cadere intrappolata in quel modo, come sedotta da uno sconosciuto legame invisibile che ci univa. Aveva addosso i suoi immancabili occhiali da sole e vederli mi deluse un po’ perché sognavo da molto di scoprire il reale colore dei suoi occhi. Non l’avevo mai capito, sfido chiunque a descriverlo in una parola. Semplicemente impossibile. Sembrava andasse di fretta, come se quel compito fosse a lui molto pesante, mentre la sua bocca celava a malapena un sorriso divertito. Ero confusa, non riuscivo a descriverlo nella mia testa, non riuscivo neanche a capire. Di solito, quando volevo ricordarmi un momento particolare, l’unico modo era quello di raccontarlo a me stessa mentre lo vivevo, trovare le parole con le quali i miei ricordi sarebbero stati composti. Ogni tanto Shannon salutava furtivamente qualche macchina fotografica, sapendo che non era permesso filmare niente. Sembrava si divertisse, ma ogni secondo cambiavo impressione. Era tremendamente affascinante.

Dopo passava Tomo. Appiccicato a lui –e non in senso metaforico- c’era un omone dal viso spiacevole, con corti capelli biondi e cattivi occhi neri. Faceva quasi paura. Non rimasi molto ad osservarlo perché mi metteva profondamente in agitazione. Quindi cambiai soggetto.

Ecco Tomo, il suo protetto, che era il massimo, il meglio. Quella sera era vestito di nero, dalla testa ai piedi, tranne il cappuccio grigio della felpa che gli spuntava dal colletto della giacca di pelle nera e che gli copriva i capelli. Il suo viso era rilassato, sereno ma al tempo stesso non rivelava troppo dei suoi pensieri. E come suo solito era estremamente bello. Avevo sempre ritenuto quell’uomo speciale, mi stava particolarmente simpatico; d’altronde come può una chitarrista non apprezzare un chitarrista? Lo osservai mentre lentamente passava e firmava, guardava negli occhi chi aveva davanti, un leggero sorriso e faceva un passo. Rimasi così colpita da quello sguardo che mi veniva voglia di andargli davanti e rimanere nei suoi occhi tutto il tempo. Non lo so, aveva qualcosa di talmente umano che sembrava potesse comprendere ogni aspetto dell’anima di quegli sconosciuti. Sentii una morsa che mi stringeva lo stomaco e la voglia di averli davanti e l’eccitazione di essere lì mi annebbiarono completamente la razionalità. Riuscivo solo a pensare a loro, agli aggettivi più positivi che conoscevo, alle emozioni più forti che potessi mai provare.

Per ultimo, forse solo per esaltare ancor di più il suo essere speciale, veniva Jared. Che dire? Sicuramente una descrizione del suo aspetto sarebbe stata inutile, così come lo sarebbe ora. Ricordo ogni suo particolare, forse per il semplice fatto che è ormai parte di me. Conoscevo i suoi capelli, quella sera coperti dal suo adorabile cappello con paraorecchie che lo rendeva non tanto diverso da un dolce cucciolo. Conoscevo i lineamenti del suo viso, il suo nasino da profilo con tramonto e le labbra sottili ma proporzionate. E ricordavo bene la mia parte preferita, i suoi occhi. E con questo credo di aver detto tutto. Passava disinvolto, come se salutasse i suoi parenti più stretti e cari. Il sorriso era a fior di labbra, e lui era sempre pronto a fare qualche strana boccaccia per i filmati clandestini.

Mancava pochissimo e li avrei avuti a pochi centimetri dalla mia faccia. Cosa diavolo avrei detto? Ero eccitata, e al tempo stesso nervosa e mi giravo e rigiravo i cd tra le mani sudaticce. Non ci potevo credere. I miei pensieri erano definitivamente fuori uso, la mia testa non funzionava affatto. Sentivo solo il mio cuore che martellava forte nelle orecchie e le risate esaltate delle fan che li avevano appena incontrati, che non riuscivano a togliersi il sorriso dalla faccia.

Prima che realizzassi ero davanti a Shannon che gli tenevo il cd mentre firmava. Avevo gli occhi sbarrati e credo di aver detto un po’di cavolate senza rendermene conto.
Firma sui dischi, firma sulla maglia, firma sul poster.
La stessa espressione che con le altre, la stessa incomprensibile espressione.
E poi passò, fece un passettino e si ritrovò davanti un’altra ragazzina sbalordita.
Io lo guardavo, persi completamente la percezione delle cose, anche perché Tomo (niente meno che Tomo *-*) mi era di fronte e mi sventolava davanti al naso il pennarello, chiedendomi dove volevo che firmasse. Mi risvegliai un micro secondo giusto per avere il tempo di capire che Tomo era davanti a me e la mia testa non mi ripeteva altro. Gli porsi i dischi e aggiunse il suo scarabocchio di fianco a quello del  compagno per cinque volte.
E passò.
Gli avevo visto negli occhi quel qualcosa che da lontano sembrava infinitamente piccolo e irrilevante, gli avevo visto negli occhi vero amore per ciò che faceva, vera devozione per  chi lo ammirava.
Che cosa strana l’amore.
E in un attimo passò anche lui, passettino, firma, sorriso e passettino.
Poi Jared. Era tutta la sera che lo aspettavo, e mi accorsi che era tutta la vita che lo stavo facendo! Mi guardò e mi sorrise, senza realmente vedermi. Quegli sguardi scambiati in piazza erano lontani anni luce da quel momento.
Ero una delle tante. Mentre firmava lo osservai, sembrava stanco ma felice. Oppure felice ma stanco. Dopo aver firmato mi guardò di nuovo e mi fece un mezzo sorriso salutandomi. Tutto quello che riuscii a dire fu: grazie per lo show, ragazzi, siete magnifici.
Nient’altro.
Ero riuscita un’altra volta a bruciarmi uno dei momenti migliori della mia vita, una delle migliori occasioni.
Addio, mi sembrava che quello fosse l’ultimo errore prima che morissi.
Addio. 

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Capitolo 5
*** La serata migliore ***


Sinceramente pensavo a qualcosa di diverso. Il meet and greet mi aveva completamente delusa, mi sentivo frustrata e insignificante. Proprio mentre pensavo a questo uscendo dall’arena, un uomo dal viso familiare mi corse dietro. All’inizio non capii che stava chiamando proprio me, ma quando mi poggiò la mano sulla spalla realizzai che doveva parlarmi. E dalla sua espressione sembrava anche qualcosa di piuttosto importante. Iniziò a biascicare qualche parola in italiano, con un accento talmente pesante che non capivo neanche dove finiva una parola e iniziava l’altra. Cercai di trovare un modo gentile per dirgli che capivo l’inglese ma mi uscì una banale frase da elementari, detta forse con un tono troppo severo. Il mio cervello era totalmente altrove in quel momento. Fece una faccia rilassata e iniziò a parlarmi. Faticavo anche a seguire il discorso il quel modo ma almeno le parole principali le captai. Mentre continuavo a pensare all’inutilità del momento sentii : ”Mr Leto would like you to meet him in his tour bus”. Mi si accesero gli occhi e solo in quell’istante iniziai ad ascoltare seriamente il discorso. Diceva che forse avrei dovuto aspettare un po’ ma quando sarebbe uscito mi avrebbe fatto salire sul bus per una chiacchierata a quattrocchi. Mi tornò l’entusiasmo. Ringrazia mille volte quell’uomo, che in quel momento avrei volentieri baciato, e aspettai.

L’attesa mi sembrò infinita così ad un certo punto decisi di pensare alle domande a cui tenevo veramente, che avrei posto ai miei idoli di lì a poco. Mi vennero in mente milioni di richieste, dalle più assurde e banali come “Tomo, sai parlare croato?” oppure “Jared, quando hai imparato a recitare?”. Mi sentivo alquanto ridicola, impegnavo tutte le mie conoscenze di inglese per non essere ripetitiva e parlare in modo fluido, nonostante sapessi che mi avrebbe invaso il vuoto più totale davanti a loro. A volte anche con tutte le previsioni e preparazioni non si riesce a immaginare l’emozione del momento che quasi sempre distrugge ogni pianificazione. A mente lucida era facile parlare, veniva anche abbastanza spontaneo.
Non sapevo cosa mi attendeva.
Dietro di me altri quattro o cinque ragazzi sembravano aspettare la stessa cosa che attendevo io, ma mi rifiutai di credere che ero ancora una delle tante. È sempre stato un mio difetto fissarmi sulle illusioni, credendole reali.
Dopo un po’ che aspettavo la sensibilità dei miei arti lentamente cominciava a scemare e iniziai a diventare irrequieta. Non ce la facevo più avevo bisogno di sapere cosa sarebbe successo, i miei film mentali ormai avevano vinto oscar su oscar ed erano anche diventati storici. Dovetti trattenermi per non iniziare a pensare di andare a cercarli, o peggio ancora, di tornare a casa.

Per fortuna quel momento non durò molto perché pochi secondi dopo i Mars uscivano dal retro dell’arena. Fu una strana scena, la fredda notte invernale scesa troppo presto era sulle nostre teste pesante, ma noi non ci curavamo del gelo, non facevamo caso al buio che ci impediva anche di vederci i piedi. Eravamo come distratti e confortati dal fatto di essere così vicini ai nostri idoli. E pensare a quello che di lì a poco avremmo vissuto ci rendeva euforici, o almeno così mi sentivo io.
Mi allontanai dal muro al quale mi ero appoggiata e i tolsi le cuffie, a malincuore interrompendo Alibi. Non volevo essere distratta dalla musica mentre potevo parlare direttamente con gli autori.
Jared ci salutò con calore, stonando con tutto il contorno, un grande sorriso gli riempiva il viso e si poteva vedere anche da lontano la sua allegria contagiosa. Shannon era di fianco a lui, con le braccia incrociate e piccole e regolari nuvolette di condensa che gli uscivano dal naso. Tomo era poco più indietro con le mani nelle tasche dei pantaloni, saltellando un po’ per riscaldarsi. Istintivamente tutti ci eravamo avvicinati ed ascoltavamo la calda e rassicurante voce di Jared.
Mi accorsi per la prima volta di quanto fosse strano che due uomini come Shannon e Tomo dovessero sempre essere messi dietro a Jared. Certo, lui era magnifico, ma pensai che non era giusto. In fondo loro erano insieme, eternamente legati, e da soli probabilmente non sarebbero stati altrettanto grandi. Interdipendenza, era quello a cui pensavo.
In particolare Shan mi si mostrò sotto una luce tutta nuova. Letteralmente, non pensavo che lo avrei mai guardato di notte tutto coperto tra felpe, giacche, sciarpe e guanti sotto la fioca luce gialla di un lampione. Mi venne voglia di fotografarlo e lo feci, di soppiatto. È tuttora una delle foto che amo di più.

Dopo poco entrammo nel bus e mi stupii di quante cose potessero entrare in un mezzo di trasporto. Mi resi conto che era come se fossi a casa loro, lì la loro vita era completamente insediata in ogni angolo. Era forse il meglio che potessi desiderare. Mi guardavo intorno e osservavo ogni particolare, con il desiderio di portarmi a casa tutto.

Ci fecero sedere, già mi ero rassegnata al fatto di non essere sola con loro, visto che almeno quattro o cinque ragazzi erano saliti con me sul bus. Ero molto felice di essere lì, ma non del tutto. Una parte di me voleva arrabbiarsi perché era stata illusa, ma l’altra parte voleva solo godersi quell’occasione unica. Gli altri fan si erano subito mostrati simpatici e sciolti, attaccando una conversazione che in pochissimo tempo aveva coinvolto tutti. Io presi quello che da fin troppo tempo era il mio ruolo, pura presenza con scarsa partecipazione.
Quella prima parte della serata fu di certo divertente, risi moltissimo alle freddure e alle battute di Jared, che ovviamente era al centro dell’attenzione.
Confermai la mia celebre teoria del “parla, Jared, parla, che tanto nessuno ti ascolta” perché in poco tempo piccoli gruppetti si erano formati anche intorno agli altri due componenti e chi stava con Jared era semplicemente perso nei suoi occhi, credo che tutti ne conoscano gli effetti.

Mi trovai in mezzo, tra gruppo Tomo e gruppo Shannon e, visto che nel primo parlavano in croato, optai per inglobarmi nel secondo. Mi rintanai in un posticino di fortuna giusto di fianco ai magnetici occhi verdi del protagonista. Eravamo stretti, il posto non era molto e non mi dispiaceva affatto. I due ragazzi che erano seduti con noi a quello stretto tavolino subito colsero l’occasione per bombardare il povero Shannon di domande tecniche, erano anche loro batteristi in carriera, nati dalla sua ispirazione. Mi piaceva vederli parlare con quell’entusiasmo e quell’enfasi che solo chi ha una profonda passione conosce. Sapevo che in quel gruppo c’entravo ben poco, ma mi sarei sentita sicuramente peggio tra le ragazzine adoranti Jared o tra i croati puzzolenti (di certo però Il Croato non puzzava XP).

In poco tempo però i gruppetti si unirono di nuovo perché Jared aveva avuto una specie di illuminazione e non la smetteva più di raccontare aneddoti divertenti e barzellette. Proprio in quel momento sentii una voce profonda ma leggera di fianco al mio orecchio sinistro.

- Non ti ho sentita parlare neanche una volta stasera. Mi sarebbe piaciuto ascoltarti un po’.

Mi si fermò il cuore ma mi venne da ridere. Era semplicemente assurdo.

- Sarà che forse non c’è stata occasione di parlare stasera.

Anche lui sorrise, non potevo vederlo, ma non so come mi accorgevo lo stesso di ciò che faceva.

- Questa si che è buona. Ti si leggeva una specie di sottotitolo ogni volta che c’era un microsecondo di silenzio, prima che qualcuno facesse altre domande.

Tutti scoppiarono a ridere, chissà cosa aveva detto Jared (ecco ribadita la teoria del “parla Jared parla..” ). Sorrisi anch’io, forse solo per non fare brutta figura e mi girai. Anche lui sorrideva e vidi che iniziava a squadrare il mio viso in ogni particolare, quasi come io facevo con il suo. Era molto meglio di come appariva di solito. Non che di solito fosse brutto. Sorrise ancora, forse solo per spezzare quel leggero imbarazzo che entrambi iniziavamo a provare senza motivo.

- Allora, ci segui da molto?

- Moltissimo, non riesco neanche a ricordare com’era la vita senza di voi. E non lo dico perché sono di fronte a te, è vero. Credo che ormai anche il mio dna sappia le vostre canzoni a memoria.

- Lo sapevo che sarebbe valsa la pena.

Lo guardai stranita e lui abbassò un attimo gli occhi. Le spesse ciglia si mossero per poco, nascondendo e poi rivelando di nuovo le profonde pupille, come le onde del mare coprono e scoprono di continuo gli immensi tesori celati negli abissi.

- Cosa?

- Sentirti parlare, ascoltarti. Lo sapevo che nascondevi qualcosa di grande. Comunque non ci credo che sono nel tuo dna.

- Ah, davvero? Guarda qui.

Alzai le maniche della felpa che mi coprivano metà delle mani e rivolsi i miei palmi verso di lui. Il palmo sinistro in particolare. Lì infatti si potevano vedere senza sforzo milioni di piegoline, che tutti abbiamo, intrecciate in complicate forme, quasi tutte uguali.

- Guarda qui. Gli dissi  – Guarda, tutte queste righe nelle persone normali sono confusionarie, insensate. Qui invece… beh lo puoi vedere tu stesso. Solo triangoli tagliati da piccole linee. Solo triadi. Siete dentro di me.

Si grattò la testa con le sopracciglia aggrottate e inclinò leggermente il capo verso sinistra. Sembrava incredulo, come se stesse assistendo ad un evento soprannaturale.

- Ok, ok. Ci ama proprio.

Ritornammo in silenzio. Sentii che qualcuno parlava di noi, o almeno nominava Shannon che si era isolato. Lui cercò di giustificarsi sorridendo e indicandomi, come si fa tra bambini per scaricare la colpa su qualcuno.

- E’ colpa sua! Non fa altro che farmi domande! Sapete come posso arrivare a essere un’ ossessione, no? Beh qui ci sono riuscito alla grande gente!

Ci fu una risata generale, e risi anch’io. Ero contenta che non avesse detto a tutti delle mie strane mani, io non l’avevo detto mai a nessuno e non so come lui si era accorto che volevo fosse un nostro piccolo segreto. Ritornammo alla nostra minuscola porzione di intimità. 

- Allora, cosa mi racconti de bello?

- Non dovresti essere tu quello che parla qui?

- Che parlo a fare? Tu sai già tutto de me. Scommetto anche che sai già le risposte a tutte le domande che hai in testa. Ma lo so che sentirle dire da me, da me in carne e ossa fa un effetto diverso. Stasera vorrei che parlassi tu, ti prometto che ci sarà altro tempo per la mia voce.

- Ok. Ehm… beh, non saprei proprio da dove iniziare. Che vuoi sapere di me?

- Tipo il tuo film preferito, il tuo cibo preferito, il colore che odi di più indossare, la prima cosa che ti viene in mente se ti dico procione…

- Va bene. Ehm allora, il mio film preferito… non ce l’ho perché adoro tutti i film che ha fatto tuo fratello, non per sminuirti. Il mio cibo preferito è certamente la pizza, il colore che odio di più è il giallo perché mi fa sentire un’ape più delle volte con problemi di peso e…com’era l’ultima?

- Procione. Procione, procione e procione. A che pensi?

- Beh direi assolutamente ciccione. Magari Carlone. Carlone, il procione ciccione. Come ti sembra?

- Ahah buono direi. A me viene in mente saponetta. Non ho idea del perché, è un collegamento inconscio o roba simile. Ed è terribile perché la cosa succede anche al contario. Pensa ogni mattina, lavarsi la faccia con il sapone e non poter fare a meno di pensare ad un enorme procione assassino! È terribile.

Avevo una mano davanti alla bocca, per coprire la risata che ormai non trattenevo più, facendo finta di essere comprensiva rispetto al suo problema, facendo finta di non aver mai pensato a un procione assassino con tanto di saponetta.

Mi guardò con sguardo stupito. Sembrava ammirasse il mio non voler ridere di lui. Dopo poco scoppiò a ridacchiare.

- Ehi, puoi ridere anche tu, non mi offendo mica per la storia del procione!

Esplosi anch’io. Mi venivano le lacrime agli occhi a pensare che il più grande batterista da un bel po’ di tempo aveva paura dei procioni. Mi venivano le lacrime agli occhi a pensare che lo aveva detto proprio a me.

- E’ strano, mi mette una certa carica questa parola, come bisbiglio. Prova a ripeterla più volte. È elettrizzante.

Shan mi guardò male, fece spallucce fregandosene del resto e si mise a ripetere. Bisbiglio bisbiglio procione bisbiglio procione procione bisbiglio. Era tremendamente demenziale ma mi accorsi che era davvero divertente, non come quelle cose che poi anche pensandoci non fanno effetto, ma realmente indimenticabili.
Andai avanti a lungo a parlare con lui, passammo insieme lontani da chiunque tutto il resto della serata. E fu stupendo. Venne da chiedermi se mai avevo anche lontanamente immaginato che le persone, che le anime o i cuori, potessero essere così aperti e liberi e mi accorsi che avevo perso una parte grandissima di vita. 

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Capitolo 6
*** Ancora coincidenze. Allora il fato esiste. ***


Ero stata l’ultima a lasciare il bus, e sembrava che non volessero proprio farmi tornare a casa. Infatti quando ero scesa Shannon dietro di me aveva deciso che sarebbe uscito per fumarsi una sigaretta sotto lo sguardo deluso del fratello, è vero, gli aveva promesso che avrebbe smesso, ma non ci poteva fare niente. In quel caso però la sigaretta sembrò più che altro una scusa per prendersi una boccata d’aria fresca, prima dell’intera notte e il viaggio del giorno successivo dentro allo stretto e scomodo bus.

Sull’asfalto gelido e coperto di fredda pioggia ci eravamo scambiati le ultime parole. Ci eravamo lasciati in modo un po’ triste, Jared continuava a chiamare suo fratello da un finestrino e gli mandava messaggi tipo oppure . Mi faceva morire quell’uomo, anche se mi sentivo un po’ arrabbiata con lui. In tutta la serata mi aveva rivolto solo un paio di occhiate, senza mai interessarsi minimamente di più. Proprio nel momento in cui Shannon mi stava lasciando il suo indirizzo e-mail (incredibile ma vero!) iniziò a nevicare, anzi, venne giù una bufera di neve che mi costrinse a recuperare la macchina e mettermi un strada.

Non era assolutamente il caso di affrontare il viaggio di più di due ore e mezza fino a casa così mi infilai nel parcheggio del primo motel che trovai.
Non ricordo neanche il nome, era un posto abbastanza squallido. Quando entrai nella stanza mi venne una fortissima voglia di casa, ma sapendo che avrei dovuto aspettare ancora un po’, mi feci una lunga doccia calda e mi infilai nel mio pigiamone arancione, che avevo portato prevedendo la notte fuori. Mi misi sotto le coperte pulciose.
Avevo completamente perso di vista l’ora e mi stupii di scoprire che erano le 4 e 40. Il letto era orribile, materasso duro e lenzuola inamidate, insomma non chiusi occhio.
La colpa non fu tutta dell’ambiente ostile, anche i miei pensieri non erano d’aiuto. Mi giravano e rigiravano in testa le scene di quella splendida serata, sapevo che non l’avrei dimenticata.

Mentre pensavo imparai a memoria le crepe del soffitto e le pieghe delle tende ingiallite a fiorellini che a stento coprivano le finestre di legno mangiato dai tarli.
Dopo un po’ mi vennero anche delle specie di allucinazioni, come se mi fossi fatta qualche droga poco consigliabile.

Vedevo delle maschere confuse e colorate sul soffitto, rosse, bianche e nere, ricordavano un po’ quelle di From Yesterday. Vedevo degli strani simboli tremendamente inquietanti, come se stessi avendo contatti con creature aliene. Sentivo anche qualcuno parlare, le maschere che si scioglievano e diventavano un’unica grande faccia, con occhi profondamente neri e un sorriso sadico, alla quale usciva sangue dagli occhi e dalla bocca e le pupille roteavano come tutto il soffitto, facendomi paura.

Poi tutto spariva e le linee delle crepe iniziavano a muoversi come ramoscelli in piena primavera che si intrecciavano, e formavano figure strabilianti che venivano strozzate e stritolate dagli stessi tratti da cui erano nate. Ora una ragazza, ora una tigre, ora Sherlock Holmes, poi un’aquila.

Ero terrorizzata, stavo quasi tremando, facendomi prendere completamente da quello che vedevo, pura finzione della mia testa.

Ci misi un po’ a capire che il mio unico problema era la stanchezza  e per tranquillizzarmi dovetti accendere la luce e spararmi al massimo una ninna nanna di pianoforte nelle orecchie. Riuscii a prendere sonno ma la cosa non durò più di tanto.

Mi avevano detto di lasciare la stanza entro le dieci e io, visto che la mia notte era durata dalle sei alle nove, fui fuori in perfetto orario. Mi misi in macchina controvoglia, e iniziai a passo di lumaca il mio viaggetto. Per fortuna avevo la musica, non penso che sarei sopravvissuta altrimenti. All’ora di pranzo mi fermai in un anonimo autogrill e mi presi un panino. Era una di quelle adorabili aree Wi-fi con accesso gratuito e approfittai per controllare la posta e Facebook. Nessun nuovo messaggio e niente di rilevante sul mio profilo. Ci rimasi un po’ male e feci un giro su Twitter.

“Bellissima serata, grazie Echelon!!! Io detesto i procioni che bisbigliano.”

Questo era  tutto quello che Shannon Leto aveva condiviso con il mondo.

I procioni che bisbigliano.

Adesso il mondo sapeva di me, ero in un commento della vita di Shannon Leto.

Uscendo dall’autogrill con il panino in mano e pensieri felici in testa, sbarrai gli occhi. Sotto la tettoia, a fare benzina, c’era nientemeno che il tourbus dei 30 Seconds To Mars.
Non ci potevo credere, mi veniva da ridere a pensarci.
Allora era proprio destino, non c’era altra spiegazione.
Mentre addentavo l’ultimo morso di panino mi resi conto di non essere andata in bagno, e ne avevo realmente bisogno!
Feci una piccola corsetta in mezzo alla strada e mi infilai di nuovo negli incomprensibili labirinti della stazione di servizio.

Cioccolata, vini, salami, peluche, caramelle…

Ah! Bagno, finalmente.

Maschi sinistra, femmine destra. Oh santo cielo.

Coda.

Desiderio di essere maschio.

Desiderio di arrivare al gabinetto!

Rimpianto di non averla fatta nei cespugli; sarebbe stato più comodo, veloce e pulito.

Vorrei che inventassero un corso nelle scuole di Educazione a centrare il water oppure Educazione al rispetto dei luoghi pubblici, molto meglio.
Forse l’eccesso di felicità mi rende un po’ anormale, mi fa pensare a cose strane. Sarà la concentrazione di una di quelle innumerevoli sostanze che finiscono in –ina associate ai sentimenti. E mi accorgo sempre che sarebbe stato più utile nella mia vita fare il medico o studiare anatomia.

Risi di me stessa sotto i baffi uscendo dal bagno, mi contorsi un po’ per passare la fila controcorrente e feci qualche passo verso l’uscita. Sfortunatamente davanti a me non notai l’enorme cartello giallo “attenzione pavimenti bagnati” e ci andai addosso con tutto il mio peso, distruggendolo e scivolando sul pavimento che in realtà era zuppo, non bagnato. Qualcuno ridacchiò qualcuno fece l’indifferente. Una mano forte ma leggera mi prese per aiutarmi ad alzarmi. Girandomi per ringraziare penso di aver vissuto il momento più imbarazzante della mia vita.

Era Jared, Jared Leto.

Guardandogli il viso mi sentii avvampare e, mentre mi chiedeva se mi ero fatta male, non potei fare a meno di abbassare lo sguardo. Dissi che non mi era successo niente e che stavo bene ma in realtà la caviglia sinistra mi faceva un male cane, non sapevo se sarei riuscita a camminare.

Arrivò una donna che sembrava cilena o peruviana e si mise a borbottare in spagnolo, chiedendo chi fosse la causa di tutto quel disordine. Mi nascosi con nonchalance dietro ad un gruppetto di ragazze in fila, giusto per evitare la donna e riprendermi un po’.

Mi scappò un “ahia” mentre facevo quei quattro passi e ritrovai accanto a me, appoggiato al mio stesso metro di muro, Jared.

- Sei sicura di stare bene?

La sua voce mi faceva sempre lo stesso effetto sconvolgente. D’altronde ero la stessa ragazza timida che si era limitata a fotografarlo da lontano e sveniva per due parole dette con gentilezza.

- Si, si. Non ti preoccupare, è solo la botta, tra poco passa.

- Non credo, riusciresti a camminare se fosse solo una botta.

Lo guardai dal basso in alto, cercando di non concentrarmi troppo sui suoi occhi.

-Ti serve che qualcuno ti aiuti almeno ad arrivare fino al parcheggio.

- Riesco benissimo ad arrivarci da sola, non c’è problema.

Mi ripetevo che ero arrabbiata con lui, non volevo affezionarmici. Ma come si può essere arrabbiati con quel sorriso, con quella delicatezza e preoccupazione, con quegli occhi??
Restammo ancora qualche secondo in silenzio, apparentemente distaccati. Ad un certo punto mi si mise di fronte.

- Senti, non possiamo stare qui tutto il giorno. Facciamo così, io ti porto da qualche parte, così ti fai una lastra o qualunque cos’altro si usi in questo strano paese, e tu la smetti di essere arrabbiata con me. O almeno a provarci.

Sbarrai gli occhi. Come diavolo faceva a sapere quello che stavo provando a fare? Nessuno mi aveva mai detto che ero così espressiva. Non so perché ma presi quella frase sul personale, profondamente. Ah si, Jared Leto? Ci tieni ad aiutarmi? E allora fallo, a me non cambia la vita. Forse. E sicuramente non sono fatti tuoi se voglio essere arrabbiata. Avrei voluto dirglielo, ma non ne fui capace, non sono quel tipo di persona che dice tutto ciò che pensa senza riflettere sulle conseguenze e sugli effetti delle parole sui sentimenti altrui. Beh a volte rifletto anche troppo.

- Ok, Jared Leto. Aiutami ad uscire di qui.

Mi fece mettere un braccio intorno alle sue spalle e mi ritrovai praticamente sollevata da terra. Stranamente non ero imbarazzata, anzi mi sentivo al sicuro e protetta. Non ho idea del perché ma sapevo che per nulla al mondo quell’uomo mi avrebbe lasciata andare.

Da quel momento più spesso desiderai di cadere, con la speranza che un individuo come lui mi venisse a salvare. Ma sempre c’e la consapevolezza che non accadrà mai due volte, contrastata dalla speranza di sentirsi importanti per qualcuno di speciale.
Voglio cadere, voglio cadere. 

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Capitolo 7
*** Come Shannon Leto tentò di tagliarmi il piede ***


In pochissimo tempo fummo davanti al tourbus, che nel frattempo si era spostato nel parcheggio. Non sapevo se qualcuno ci avesse notati, non sapevo se l’indomani avrei visto la mia foto in prima pagina su un giornale. Ma più di tanto non mi interessava, più che altro mi dispiaceva se era una preoccupazione per lui. Ma si era offerto lui stesso, se l’aveva fatto voleva dire che non si faceva certi problemi, e tanto meglio.
Mentre Jared saliva, lasciandomi a terra per aiutarmi dopo, Shannon da dentro lo vide e gli chiese come mai ci aveva messo tanto.

- Ho avuto delle complicazioni…

- Adesso sbrigati che dobbiamo trovare un modo per scollare Tomo dal computer, si sta fondendo il cervello davanti a quello schermo! E tutto per cosa? Per una ragazza. Io proprio non...

Si interruppe a metà frase e sbarrò gli occhi: mi aveva vista. E io avevo visto lui. Mi vennero in mente le sue parole della sera prima “ti prometto che ci sarà altro tempo per la mia voce”. Mi sembrò come se avesse fatto una specie di predizione del futuro. E quel futuro mi piaceva.

- Ciao!

Sorrise, per niente imbarazzato, con gli occhi luminosi e guardò maliziosamente il fratello.

-Ecco perchè ci mettevi tanto, fratello. Vedi di non prendere l’abitudine di fare il furbetto anche di giorno, eh!

Feci una risatina sottovoce e ricevetti lo stesso sguardo severo che Jared aveva lanciato a Shannon e da quest’ultimo una rapida occhiata di complicità. Chissà se era felice di vedermi. Io lo ero di certo. Jared mi aiutò a salire gli ultimi due gradini e mi sentii un po’ ridicola perché ci misi un secolo, senza contare i versi che facevo per il male. Shannon rideva sotto i baffi , mentre chiedeva al fratello se aveva bisogno d’aiuto e riceveva sempre un no come risposta.
Quando finalmente fui salita Jared guardò me, guardo Shannon e mise le mani sui fianchi.

-E adesso?

Dopo mezzo secondo scoppiammo tutti e tre a ridere. In quel momento comparve Tomo dal fondo del bus.

-Che succede? Che mi sono perso? Oh, ciao!

Mi guardava come per dire “tu hai una faccia familiare” e così facevo anch’io mentre ero in quello stato di adorazione muta e totale. Sapevo benissimo cosa aveva di familiare: era il mio chitarrista preferito, il migliore, nonché lo sfondo del mio cellulare in carne ed ossa e stava salutando proprio me. Shannon gli diede un colpo sulla spalla.

-Ehi, l’uomo Vicky-dipendente si è scollato dal computer! Finalmente skype può vivere in pace e curarsi il diabete che gli avete causato!

-Parla quello che si collega due volte al giorno per salutare la mamma!

-Non è vero!

-Oh si che lo è!

Iniziarono a prendersi a botte per finta. Shannon tirava i capelli a Tomo mentre lui aveva una mano intorno al suo collo il tutto incorniciato da dolorosi calci ovunque. Era proprio quello l’amore Shomesco che mi immaginavo tra loro. Trattenni a stento una risata e mi girai verso Jared che mi guardò con occhi pietosi.

-Perdonali…e dai ragazzi! Smettetela! Qui c’è bisogno di voi!

Shannon si ricompose e guardò in cagnesco Tomo che si lisciava i capelli con le mani.

-Ok, ma non è finita qui…Allora, che è successo alla fanciulla?

Jared spiegò velocemente il mio imbarazzante volo del bagno e vidi che tutti sorrisero. Scoppiai io per prima a ridere ma mi guardarono male e tornai seria.

-Scusate, è che mi sembra così comico pensandoci!

In realtà non mi faceva davvero ridere, ridevo solo per sdrammatizzare, mentre mi sarei volentieri sotterrata sotto una decina di chilometri di terra, pensante terra. Perché diavolo ero
così maledettamente imbranata? Come al solito mi arrabbiai con me stessa e decisi di non pensare più.

-Lo è cara, anche se lo stiamo solo immaginando…

Per l’ennesima e piacevolissima volta il bus si era riempito delle nostre risate. Ridevano di me, quei cretini. Ma non ci misero molto a farsi perdonare.

-Qui c’è bisogno del suo intervento, dottor Milicevic.

-Che genere di intervento?

Tomo rizzò la schiena e alzò il mento in modo da guardare tutto dall’alto in basso, non che di solito facesse diversamente. Shannon prese dei fogli e fece finta di leggerli.

-Vediamo, visitare la paziente ed effettuare la probabile amputazione dell’arto inferiore sinistro.

-Ah ah! È la nostra pratica preferita, dico bene dottor Leto?

-Eccome amico mio. Vado a prendere la motosega! Muahaha!

Shan sparì per poi tornare poco dopo con una valigetta del kit di pronto soccorso. Nel frattempo mi ero seduta e tolta la scarpa.

-Eccomi. La tua fine è vicina arto inferiore sinistro! O destro? No, sinistro…che piede era?

-Il sinistro. Dottor Leto temo che qui sia sufficiente solo una fasciatura.

-No! E io che speravo di vedere un po’ di sangue…

Shannon fece un’espressione delusa e si sedette. Mentre Tomo maneggiava il mio piede senza farmi male, lui lo guardava attento, buttando l’occhio su di me ogni tanto.

-Non ti preoccupare, è un buon medico. Ha fatto un sacco di corsi e ha anche un brevetto.

-Meno male…è grave il mio piede?

-Mmmm..beh, credo che sia slogato, come ho già detto una fasciatura per ora è abbastanza. Però devi farti visitare sul serio.

Mentre girava la garza mi guardò. Io gli sorrisi un po’ imbarazzata ma grata ed ecco che il mondo sembrò confinarsi in quel contatto visivo così intenso. Così tante volte avevo
desiderato che accadesse, avevo voluto essere in sua compagnia, resa felice dalla sua risata e sempre stupita dalla sua perfezione. Si fermò un attimo ma poi completò il suo lavoro.

-Fatto!

-Grazie, dottor Milicevic.

-Si figuri…

Mi sorrise ancora più dolcemente e mi diede due leggeri colpetti sul ginocchio mentre si alzava, poi Shannon iniziò a mettere via tutto quello che era uscito dalla cassetta bianca.

-E adesso?

Venne a tutti da sorridere: Jared sembrava ormai capace di dire solo quello.

-Beh, fratello cerca di differenziare o risulterai noioso alla nostra ospite.

-si, ok, ma adesso?

-Ahah! Adesso non ne ho idea...tu ce l’hai una casa?

Shannon mi guardò curioso con le mani sui fianchi.

-Certo…

-Ed è lontana?

-Più o meno un’ora di strada.

-Ok, allora diciamo che potremmo portarti a casa, poi tu con calma ti chiami il medico e ti fai fare le robe infrarossi eccetera, no?

-Si, sarebbe magnifico da parte vostra! Sicuri che non è un problema?

Tomo assunse un’espressione pensosa, grattandosi la corta e nera barba che gli scuriva il mento.

-No, penso proprio di no! Jared?

-Sono d’accordo! Sapete quanto adoro le scampagnate in periferia! Che male c’è?

-Perfetto, avviso John!

Shan sembrava contento, se ne era andato quasi saltellando, con un grande sorriso sulle labbra. Tomo lo guardò male.

-Ma che ha?!?

-Lo sai com’è fatto, ogni novità o sorpresa lo manda su di giri!

Quando tornò era un po’ meno felice.

-Ragazzi c’è un problema: la sua macchina?

-Oh, è vero! Fa niente, chiamo un carro attrezzi e mi faccio portare con lei fino a casa. Grazie comunque per la disponibilità!

-Oppure si potrebbe fare che uno di noi va in macchina con te fino a casa tua e poi torna sul bus che ci aveva seguiti…

Tomo si girò e sempre con la stessa espressione confusa alzò le sopracciglia.

-Shan, puoi venire di là? Mi è venuta in mente una cosa che ti devo fare vedere sul computer.

-Ok…

Mi girai ancora più confusa verso Jared.

-Tutto bene?

-Si, si, non ti preoccupare è che non ci capita spesso una cosa così!

-Neanche a me, credimi!

Feci una breve pausa che mi sembrò immensa.

-Mi dispiace solo se causo casini. Sul serio, odio essere di troppo.

-Ma non lo sei, davvero! Anzi, non ci dispiace avere intorno qualcuno che ci fa compagnia e che non sia il nostro autista o il nostro BB.

Sorrisi. Allora tutte le storie sulla relazione fin troppo paparazzata tra Jared e il suo Blackberry erano vere…

-Comunque non vi fate problemi, se sono d’intralcio, ditemelo! Senza peli sulla lingua, io me ne vado.

-Non ti preoccupare, non c’è nessun problema.

-Grazie…

Sentii i passi di Tomo e Shan che già tornavano scendendo le scale. Aguzzai le orecchie, per pura e semplice curiosità.

-Davvero non ti interessa? Neanche per una botta e via?

-…

-Shannon!

-No, neanche per una botta e via. Uff, i tuoi figli ti odieranno, lo sai questo, vero?

Mentre compariva di fronte a noi Tomo si mise a ridere e Shannon dietro lo seguì. Fu lui a riprendere il discorso.

-Quindi che si fa? Chi prende la sua macchina?

Shannon si girò verso suo fratello.

-Non se ne parla, sai quanto odio guidare se non è strettamente necessario. Tocca a Tomo!

-Ehm, veramente io avrei appuntamento con Vicky su skype tra… tipo dieci minuti! Non posso darle buca.

-Ok, ci vado io! Dove hai parcheggiato?

Mentre scendevamo dal bus, con molta, molta fatica, mi venne in mente quella mia amica che credeva nella reincarnazione. Magari io e Shannon nella scorsa vita eravamo stati un
fiore e una farfalla, un ippopotamo e uno di quegli uccellini che ci vivono sopra, una cellula e un cloroplasto. Insomma magari eravamo stati indivisibili e in simbiosi per secoli e ora che ci eravamo reincarnati dovevamo stare ancora insieme. Mi chiesi dove diavolo era stato per tutta la mia vita, e come aveva fatto a sopravvivere senza di lui. Shannon, dov’eri stato fino ad ora? Dov’eri andato? 

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