The silence of death.

di Estiefone
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


Silenzio.

Buio.

Claustrofobia.

Aiuto.

Aiuto.

Aiuto.

Quattro parole. Quattro parole mi risuonavano nella mente, possenti e irresistibili. Non ero certo del luogo in cui mi trovavo. Eppure, tastando con le mani, sapevo di essere in uno spazio angusto, buio, umido. Il sangue mi colava dalle unghie frantumate, lentamente. Potevo sentire, nell’assoluto silenzio, quando quel liquido compatto si schiantava contro il terreno duro. Un sonoro Plik. Il momento di pazzie era passato, avevo riso, pianto, urlato, gemito abbastanza. Ora aspettavo. Ma aspettavo che cosa? Che cosa diavolo aspettavo? La morte? La luce? Un briciolo di vita?

Risi.

Mi sorpresi da solo, era da tanto, troppo tempo, che non sentivo la mia voce. Il tempo.

Da quanto tempo ero li? Quanti minuti? Quante ore? Quanti giorni? Quanti mesi?

Strinsi le mani a pungo, e un dolore lancinante mi colpì ai polpartelli. Mi stesi a terra, in preda alla disperazione, e mi rannicchiai in posizione fetale. Per un attimo pensai a quando ero piccolo, quando piangevo, urlavo come un bambino. E mi ritrovai a singhiozzare, come quando ero piccolo. Pregai il Signore di Salvarmi da quella trappola, gli dissi che avevo paura, ma niente. Solo quel maledettissimo silenzio.

Poi, nel mezzo della disperazione più assoluta, quando il sonno stava per impadronirsi di me, sentii qualcosa, e non ero io, non era il sangue che cadeva nel pavimento, no. NO! Erano passi. Passi di qualcuno. Qualcuno di vivo. Con tutte le forze che avevo in corpo mi misi in ginocchio, e urlai. Inizialmente con voce roca, poi quando le corde vocali si abituarono, la richiesta di aiuto si espanse per tutto la stanza. Attessi in silenzio, i passi si erano fermati. Contai.

Un secondo.

Due secondi.

Tre secondi.

Quattro secondi.

Altri passi, più vicini. Ero libero, potevo uscire. Mi aveva sentito, e ora stava venendo a liberarmi. Mi distesi a terra, e cominciai a contare.

Cinque.

Sei.

Sette secondi. I passi continuavano ad avvicinarsi.

Otto.

Nove.

Perchè non aveva chiesto chi ero?

Dieci.

Perchè non si era preoccupato?

Undici.

Magari stava chiamanda la polizia.

Dodici.

Passi più vicini, scanditi dal tempo, lenti e dolorosi, come una coltellata al cuore.

Tredici.

Libertà.

Quattordicici secondi.

Luce.

Quindici secondi.

Vita.

Sedici secondi.

I passi più vicini.

Diciassette secondi.

Poi si fermarono. “E’ vicino alla porta. Sta per aprire la porta. Sta per salvarmi”

Diciotto.

Un sonoro Clank mi giunse alle orecchie. Capii subito: Un Lucchetto. Un lucchetto? Cosa se ne facecva di un lucchetto? E perchè aveva la chiave “Del” lucchetto?

Diciannove.

La porta si aprì. La luce mi accecò, mi abituai poco dopo. Lo vidi alzare pian piano il braccio.

Venti.

-Mi aiut...-

Poi mi resi conto, in quel millesecondo che mi rimaneva. Aveva la chiave del lucchetto, e nella mano teneva qualcosa. “Una pistola. Una pistola? Una pistola? Merda! Merda! Che cosa se ne fa di una pistola? NO! NO! Non può essere! Signore Mio Dio, non farmi questo, che cosa ho fatto per meritarmi questo? Signore, aiutami! Aiutam..”

“Bang”

Ma non come nei film, dove la pistola è carcicata a salve. Quella fù estremamente dolorosa. Ma fù istantanea. Il filo dei pensieri si interruppe. Una luce. Finalmente la luce, la libertà, la vita, la speranza.  Poi, di nuovo quell’orribile, pauroso buio.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***



Capitolo 1.
 
-E’ pericoloso.-
-Non mi importa.-
-Signora Ray, lei si ostina a non capire che quel ragazzo è estremamente pericoloso.-
-E lei non si ostina a capire che io sono una psicologa, e se non riesco a vedere, almeno per una volta quel ragazzo, non mi sentirò mai realizzata. Comprende Mea Lingua?-
-Non posso permetterglielo. Mi licenzierebbero.-
Odio quando mi propibiscono di fare qualcosa. Non mi resta altro da fare che...
-La prego! Ne vale della mia vita!-
-Se lei morisse, di certo non sarebbe bello, ma di fatto, non sarebbe un dispiacere.-
-Ma lo sà che lei ha un senso dell’umorismo pazzesco?-
-Me lo dicono spesso.- Ribattè Il Sergente Greg O’Malley.
Sbuffai e guardai verso la piccola finestrella della stanza dove un ragazzo  di venti anni, pluriomicida, stava rinchiuso, ammanettato alla sedia, e guardava il muro.
-Le chiedo solo dice minuti. Niente di più.-
-Non credo ne uscirebbe viva.-
-O Santo Dio ma per favore! E’ solo un ragazzo, per lo più ammanettato ad una scrivania.-
-Un ragazzo che ha ucciso diciassette persone dottoressa Ray.-
-Sono abituata a parlare con gente del genere.-
Gli occhi dell’uomo mi fissavano amaramente, indeciso sul da farsi, mi osservava da capo a piedi.
-Le do dieci minuti dottoressa. Poi verrò a prenderla io personalemente, e se si rifiuta, giuro su mio nonno Ferdinand, che la porto via di peso.-
Feci per saltargli addosso e schioccarli un grosso bacio in quelle sue labbra carnose, ma il mio istinto mi trattenne.
-Grazie Sergente.- Mi diressi da sola verso la porta, poggiai la mano sul pomello. Esitai, poi girai ed entrai. Mi sedetti senza degnarlo di uno sguardo. Sapevo che, se anche avesso avuto un contatto visivo con lui, non avrei potuto far altro che rimanerne affascinata. Osservai la certella che mi aveva consegnato il Sergente.
-Qui leggo che ti chiami James. Vent’ anni. Diciasette omicidi. La tua famiglia. Nel giorno del tuo compleanno.- Non pòotei farne a meno, lo guardai. E rimasi di sasso, due occhi celesti mi paralizzarono, mi fecero sentire leggera come una farfalla che esce dal suo bozzolo, per vivere una nuova vita.
-Lei sarebbe?- Una voce suadente. Lo vidi spostarsi con una mano una ciocca di capelli biondi. Li aveva lunghi, molto lunghi, come i vecchi cantanti e chitarristi anni 70. Mi scossi, come per darmi una svegliata.
-Dottoressa Sandra Ray. Molto lieta di conoscerti James.-
-Non mi serve un dottore.- Ribatte freddamente.
-Non sono proprio un dottore. Diciamo che sono qui per capire il motivo del tuo...disagio.-
Mi guardò. Sebrava incapace di provare qualsiasi emozione, come se avesse un cuore di ghiaccio. No, forse il ghiaccio era più caldo.
-Disagio?- Alzò un sopraciglio. Cavolo. Era seducente, sapeva di esserlo e ne approfittava.
-Vorrei capire perchè hai ucciso quelle persone.-
Rise.
-Non ho bisogno di un dottore.- Ripete. Lo guardai, inclinai la testa di lato, e lo guardai per qualche secondo.
-Ti ho già detto che non sono un dottore.-
-Perchè è venuta qui Sandra?- Il fatto che mi avesse chiamato per nome mi colpì, di solito i miei pazienti usavano il mio cognome, o semplicemente mi chiamavano dottoressa. Mi diedi della stupida. Lui non era un mio paziente.
-Per capire perchè hai ucciso quelle persone.-
-No.- Mi sorrise. Si alzò leggermente, e il suo viso si avvicinò improvvisamente al mio. I suoi occhi, così celesti, così belli, così seducenti... Mi allontanai, non lo feci apposta, ma lo fece, e lui sorrise. Era quello che si aspettava. Voleva che lo facessi. Si sedette di nuovo, e si mise comodo. Era più intelligente di quanto dava a vedere, i suoi occhi ne erano la dimostrazione.
-Perchè è qui Sandra. Perchè è davvero qui?-
Perchè volevo vederti. Pensai amaramente. Ed era la verità, fin da quando mi era arrivata voce di quel fatto, ne ero attratta, sentivo il bisogno, sia fisico che mentale, di andare a vedere quel ragazzo. Continuò.-Lo ammetta, lei voleva vedermi. La mia storia la Attrae, non è consapevole del perchè, ma la attrae, fisicamente e mentalmente.-
-Leggi nel pensiero?- Merda! Mi facevo sfuggire sempre troppe cose. Mi capitava spesso.
-No Sandra, ma riesco a capire che cosa provano le persone.-
-Da che cosa?- Si, ne ero attratta, profondamente, sentii il mio stomaco rivoltarsi.
-Dagli occhi.-  Ci guardammo. E sì, può sembrar strano, ma mi sembrò di essere in contatto con quel ragazzo. La porta della stanza si aprì di scatto. Sobbalzai e quel contatto visivo si interruppe. James abbassò lo aguardo e tornò allo stato quasi catatonico di dieci minuti prima.
-I dieci minuti sono conclusi dottoressa Ray.- Il Sergente, mi chiesi se aveva sempre quel tempismo perfetto. Mi alzai, delusa e scoraggiata.
Raggiunsi la porta, mi affiancai al Sergente e guardai per un ultima volta quel ragazzo così bello.
-Addio James.- Lui alzò lo sguardo. Mi sorrise compiaciuto.
-Arrivederci Sandra.-

Nota: Dovete perdonare gli errori di battitura, ma ormai ho davvero pochissimo tempo, mi ritrovo a dover recuperare delle materie e con lo studio sono molto occupata, quindi la scrittura sfortunatamente deve andare al secondo post ç.ç Spero vi sia piaciuto, e appena posso, posto il prossimo capitolo.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2.

 
La mattina dopo fui svegliata dallo squillo del cellulare. Mi alzai come una sonnambula, con gli occhi semichiusi e la mente annebbiata. Tastai con la mano il tavolo finchè non trovai quell’aggeggio che vibrava. Cliccai quel tastino e mi misi il telefono all’orecchio senza nemmeno controllare chi fosse.
-Mmmmmmpronto?-
-Dottoressa Ray?-
-Si, sono io. Chi parla?-
-Sono il sergente Greg O’Malley. L’ho svegliata?.- Il sergente? Mi svegliai tutto c’un colpo. Dall’agitazione diedi un calcio al piede del tavolo. Maledissi tutti gli dei da me conosciuti.
-Accidenti! No, sergente non mi ha svegliata. Come ha fatto a trovare il mio numero?-
-Stra scherzando vero? Noi riusciamo sempre a trovare ciò che cerchiamo.- Guardai l’ora, le 8:30 del mattino.
-Vada al sodo Sergente, perchè mi ha svegliato a quest’ora?-
-Aveva detto che non l’avevo svegliata.-
-Questo non conta!- Sbottai irritata. Una volta avevo seguito un corso di Yoga, non era servito un granchè, se non per placare la rabbia e le sensazioni forti. Il Maestro diceva sempre, inspirate ed espirate, fate che la calma interiore si impadronisca di voi... Lo Feci, inspirai ed espirai. –Mi dica Sergente.-
-Stamane abbiamo provate ad interrogare James  Sarbory, si ricorda chi è?- E come dimenticarlo... i suoi occhi, i suoi capelli... –Si, mi ricordo benissimo.-
-Non vuole parlare, è da tre ore che cerchiamo di fargli spicar parola, ma l’unica cosa che dice è il suo nome.-
Presi a giocherellare con una penna trovata lì nel tavolo.
-Il nome di chi?-
-Il suo Dottoressa. Cotinua a ripetere solo e unicamente il suo nome. Sandra Ray.-
La penna mi scivolò dalle mani. Il tempo si fermò per un secondo, sentii il tonfo della penna nel parque quando toccò il terreno solido e piatto. –Se non le dispiace vorrei farla venire qui a parlare con lui. Il Capo ha acconsentito.- Attese, ma invano. Riflettevo. Perchè mai avrebbe dovuto cercare me? Perchè proprio io? –Dottoressa?- Mi chiamò sconcentrata la voce del sergente dall’altra parte del filo.
-Si, si, mi scusi, mi ero incantata. Bèh certo, non c’è problema, anzi, in realtà c’è... La mia macchina è andata in panne.- Era vero, proprio la sera prima, appena rientrata a casa, la macchina si era, spenta. Già, la solita fortuna. Silenzio da parte del sergente. Poi..
-Non c’è problema Dottoressa Ray. Se mi dice l’indirizzo in meno di venti minuti sono lì da lei.-
-Davvero? Grazie Sergente.- Diedi indirizzo, chiusi la chiamata, e senza attendere, mi lanciai di corsa verso il bagno a farmi la doccia, e poi, dopo, a farmi bella.
 
Proprio mentre uscivo dalla doccia il campanello suonò. Mi misi un asciugamano attorno al corpo, per coprire seno e parti intime, ed andai ad aprire, con i piedi scalzi. Aprii al Sergente O’Malley, che entrò, e appena mi vide, seminuda,mi guardò dritto negli occhi, arrossendo leggermente. Liberai una mano e la alzai, lui la strinse. Una presa ferrea.
-Prego sergente, può accomodarsi dove le pare. E scusi il disordine, non ero preparata a ricevere visite.- Lui in risposta mi sorrise, e poi cominciò a squadrare la casa, mentre si dirigeve verso una sedia libera da scatroffie, computer, e libri di psicologia. Corsi in bagno a cambiarmi.
 Presi la prima cosa che mi capitò a tiro. Un paio di Jeans in pelle nera, una camicetta bianca, e dei tacchi neri ed eleganti. Presi il Foon e cominciai ad asciugarmi i capelli bagnati, mentre con la spazzola li allisciavo. Il risultato fù un bel mazzo di capelli lisci tutto scompigliati. Mi misi un pò di matita negli occhi, e un pò di profumo, poi uscii dal bagno. Trovai il sergente che leggeva un libro di psicologia. Mi lanciò un occhiata e disse:
-In questo libro dice che alcuni criminali uccidono per esperienze negative vissute nella propria vita. Qui c’è un esempio che parla di un uomo che uccise undici donne. Sua madre morì quando aveva undici anni, e l’uomo disse appunto che fù per quel motivo, che uccise tutte quelle donne.
Fù condannato a morte nel 1982, dopo essere stato considerato un uomo con gravi problemi psichici e mentali.- Concluse, poi mi vide e alzò un sopraciglio.
-Esattamente.- Dissi con tono abbastanza freddo.-Molto spesso i criminali commettono omicidi per qualche trauma, per qualche stupro, in poche parole da fatti che hanno gravemente influito nella loro capacità di riflettere lucidamente. Ho parlato con questo genere di casi, spesso mi raccontavano i particolari: come, a che ora, in che posto, in che posizione. Una cosa da...- Mi interruppe:
-Malati mentali?- Lo guardai freddamente strigendo le labbra.
-Sà quante volte mi sento dire che i  miei pazienti sono solo dei malati mentali? Non è così, io credo che se a lei l’avessero stuprata a sette anni in qualche cazzo di modo avrebbe dovuto sfogare la sua rabbia su qualcuno o qualcosa no? Alcuni sono fortunati, sono cosi traumatizzati che dimenticano, altri invecene no, altri ricordano, sentono il dolore lancinante, un peso nel cuore, una voglia di vomitare tutto il tuo dolore ogni santissimo giorno, una volgia di prendere un coltello o qualcosa di affilato e farla finita!- Sbattei il pungo sul tavolo. Calò il silenzio. Il sergente rimase boccheggiante. Scuotei la testa. Ogni occasione è buona per fare bella figura eh?
-Credo si possa andare.- Continuai. Ci alzammo e ci dirigemmo verso l’uscita. Chiusi la porta.
Salimmo in macchina. Una bella macchina. Il sergente non si trattava male, lussuosa all’interno e all’esterno. Mi sedetti comoda, e quando girò la chiave, un tremore leggero e rilassante invase la macchina.
-Bel mezzo.- Dissi io. Ero crudele, avevo messo il muso e sembravo antipatica, ma non mi importava, non era questo l’importante.
-Grazie.- Rispose freddamente, guardando dall’altra parte. Sembrava non voler incrociare il mio sguardo.
Rimanemmo in silenzio per metà del viaggio, poi il silenzio fù interrotto dal suono della sua voce.
-Quando è accaduto?- Mi aspettavo quella domanda, da quando avevo fatto la scenata in casa, eppure, ci rimasi comunque male, offesa, arrabbiata, triste.
-Questo non è fondalmentalmente importante sergente.-
-Mi dispiace Dottore...Sandra. Per tutto.-
Non risposi, guardai fuori, e attesi che passasse, come sempre.

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3.


-La trovo davvero molto male Sandra.- Guardai per un secondo James. La stanza era vuota. Avevo costretto il Sergente e i poliziotti ad uscire, anche se parecchio contrariati.
-Lo prendo come un complimento James. Non mi hai ancora detto il perchè mi hai chiamata.- Mi sorrise.
-Semplice, perchè lei è l’unica di cui io possa fidarmi. L’unica che sa cosa si prova. Che ha provato ciò che ho provato io. Che ha sentito il mio stesso dolore.-
Mi paralizzai, spalancai gli occhi. Terrore. Si, provavo paura. Solo paura.
-Come? Come lo hai capito?-
Rise.
-Lei crede che uno come me non capisca quando qualcuno è stato stuprato? Mi dica dottoressa, quanti anni aveva? E’ stato molto doloroso? Chi era? Suo padre? Un suo vicino di casa? Un Cugino troppo benevolo? Oppure un fratello...- Quelle parole mi martellavano il cervello. Era come un feroce mal di testa che nom vuole andar via. –Basta!- Sbattei i pugni sul tavolo, mentre mi alzavo e scaraventavo la sedia a terra. Il cuore pulsava sangue, mi permetteva di riflettere velocemente, i sensi si erano risvegliati, e l’adrenalina mi scorreva ferocemente nelle vene. La porta di spalancò, e sbucò la faccia del Sergente, che mi fissò sbalordito. Poi passò al viso innocente di James, che prese a fissare il tavolo.
-Dottoressa Ray? Si Sente bene?- No, non mi sento bene pezzo di merda! Eppure, avevo qualcos’altro per la testa. Potevo usare quel fatto, quel terribile incubo, come un aiuto, potevo fraternizzare con il nemico. Cominciai a calmarmi, mentre l’idea prendeva forma nella mia mente. Sorrisi docilmente al Sergente, feci un cenno d’assenso, e lui uscì lanciandomi un ultimo sguardo preoccupato. Rimisi in piedi la sedia e mi ci sedetti.
-Bene James. Tu sai il mio segreto. Ora io voglio sapere il tuo intesi? Non starò qui a subire tutti i tuoi insulti. Non starò qui con il c*** sulla sedia a sentirmi dire chi o quando sono stata...-Un groppo in gola.- Stuprata.-
Mi fissò per un secondo, stupito.
-E’ difficile ammettere una cosa del genere dottoressa.-
-Stai tranquillo, sono nella norma, prima di ammetterlo mi ci sono voluti anni e anni di terapia.-
-Una Psicologa che ha vissuto per anni e anni facendo sedute. Wow.-
-Non cambiare discorso. Tocca a te.-
-Come ha fatto a capirlo?- Mi sorrise.
-Basta osservarti, per capire che soffri, non lo vuoi far notare, ma se ci stai attento, e se sei abituato, puoi notarlo. E in più, ho notato la cicatrice.- Si passò una mano sul collo, facendo una smorfia.
-Avevo undici anni. Undici. Un tenero bambino, che ancora si chiedeva perchè la vita era così crudele. Una notte, mio padre tornò a casa, ubriaco. No, non faccia quella faccia Sandra, ci ero abituato, ogni notte tornava a casa, ubrico, fatto di qualche sostanza, e stuprava mia madre. Ma quella notte, oh no, quella notte non si accontentò. Mi nascondevo sempre sotto il letto, entrambi i miei genitori ne erano a conoscenza, infatti, quando mio padre finì con mia madre, venne a prendermi.-Lo vidi rabbrividire- Da quella notte non l’ho più guardato in faccia. Nessuno sapeva, apparte me, lui e mia madre. Nessuno aveva idea, di quello che era capace di fare quell’uomo. Due anni dopo, ormai ero incapace di reggere quel peso, cercai di suicidarmi.- Si passò la mano nel collo, e scoppiò a ridere. Non mi preoccupai, un caso come il suo era normale, si rideva per scacciare la disperazione. Il “Rido per non piangere”alla fin fine è utile. Mi alzai in piedi, e gli feci cenno di continuare. Ci mise un pò, riprese fiato. Sembrava un agnellino che si sottometteva al lupo. –Mi trovò mio padre, appeso nella mia camera. Mi tirò giù, appena in tempo, chiamò un ambulanza, e poi prese a schiaffeggiarmi. Come lo so? Ero semi-cosciente, ero in grado di sentire il dolore. Ma non era un dolore fisico, era un dolore... strano.- Alzò la mano non ammanettata e si indicò il cuore. –Il dolore, era qui dentro.- Rise di nuovo. Lo fissai. Due anime compatibili, che provavano lo stesso dolore, le stesse esperienze. Poi la sua espressione cambiò. Divenne strana, malvagia. –E’ stato divertente ucciderlo. Ad ogni colpo, gli rinfacciavo tutto il male, ferite superficiali, volevo che sentisse, che provasse ciò che ho provato io- Mi fissò. Mi sedetti di nuovo. Perchè ero così attratta? Forse, perchè eravamo simili. Alzai le maniche della camicia, e gli mostrai i polsi, le cicatrici che ancora portavo, dopo tanti anni.
-Avevo 7 anni. Il mio caro vicino di casa.Alexander Raynols. Io gli volevo bene, ma lui provava qualcosa di più. Quando tentai il suicidio ne avevo 18. Già, ho resistito più di te. Mi trovò mia madre. Feci 2 anni di Terapia, e poi, mi iscrissi all’uneversità, ero brava, molto brava, dotata. E ora mi trovo qui, a 26 anni, a parlare con un ragazzo, assassino per di più. E ora James. Dimmelo. Perchè hai ucciso undici persone?-
Mi sorrise.
-E’ proprio sicura di volerlo sapere?- Annuii. –Bene allora, si metta comoda, la storia ha inizio.-

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


*I FlashBack saranno sempre in corsivo. E in più saranno in terza persona, per non confondere il lettore.


Quel giorno James era sereno. Suo padre non era ancora tornato, e poteva starsene in pace, in camera sua, solo, a guardare il soffitto. Era rilassante, stare da soli. Sua madre dormiva placidamente, imbottita di calmanti, non si sarebbe svegliata molto presto, almeno che il bestione non fosse tornato a casa, invece di starsene a scopare con delle troie trovate per strada. Non fece in tempo a finire quel pensiero, che sentì la porta spalancarsi e sbattere.
Una voce si alzò nella stanza, il bestione urlava. Ubriaco, e chissà, magari drogato. Ma dubitava. Il padre era contro la droga a tutti gli effetti, se sentiva una notizia al telegiornale riguardante morti di overdose: “Puàh, potessero marcire tutti quei lurdi bastardi.” Diceva sempre quel bestione.
Istintivamente saltò giù dal letto, e ci si infilò sotto.
Lo senti in camera che grugniva, mentre di faceva la propria moglie. Sentiva il letto sbattere contro il muro. Le urla di sua madre, che si era svegliata, e chissà cosa provava in quel momento, ad essere montata da un bruto.
James sentì suo padre venire, e in quel momento scoppiò in lacrime. Odiava sentire la madre soffrire, odiava sentire il bastardo grugnire e spingere il suo grosso vermone dentro la madre. Odiava lui. Odiava la sua vita, la sua casa, il loro cane. Odiava tutto. Tutti. Niente e nessuno erano esclusi dal suo odio.
Poco dopo sentì i passi del bastardo, venivani verso la sua camera. Non passò poco che la porta si spalancò. Il ragazzo si rannicchiò, sperò di non essere scoperto. Ma a cosa serviva nascondersi?
“Dove sei figliolo? Forza dai, ci divertiamo un pò. E magari dopo papà ti dà anche il dolcetto.”
James chiuse gli occhi, sperando che se ne andasse, che morisse lì, davanti ai suoi occhi.
Una mano gli prese la gamba e lo trascinò fuori dal letto. James cominciò ad urlare e a dibattersi.  Ma si trovò immobilizzato, i pantaloni abbasstati, inginocchiato, e il padre. Il padre che gli faceva male, molto male, troppo male. James urlava. Ma nessuno andava ad aiutarlo. La madre era caduta in un pozzo buio e deserto, e poco dopo, anche il ragazzo cadde giù, nel buio, nel silenzio, nella disperazione.

6 anni dopo.

-James, metti i piatti a tavola, e poi prendi le posate.-
-Si mamma.- Rispose il ragazzo.
James era cresciuto, ora era un uomo. Un uomo forte, coraggioso, e pieno di odio.
Oggi era invitata tutta la famiglia a cena.  Dopo circa mezzora arrivarono tutti, e cominciarono a mangiare. James gli osservava. Tutti erano felici, anche la madre. La madre che sapeva, che però scappava da quei pensieri e fingeva di essere felice. Gli ospiti, cugini e zii, sicuramente non erano felici di stare lì, chi vorrebbe stare in una casa fetida, con un uomo ubriacone e bastardo.  Poi ad un certo punto, mentre James finiva di ingioare un boccone di carne:
-Hei James. Vieni qui da papà. Lo sai che ti vuole...-Papà. No lurido bastardo, figlio di puttana, io non sono tuo figlio, tu non sei mio padre. Urlava una voce dentro del ragazzo.
Sì alzò, incolore, e andò in camera dei genitori. Era in trance, sapeva dove si trovava il fucile da caccia. Lo prese, lo caricò, e sceei in cucina. Appena lo videro con l’arnese in maso, scoppiarono a ridere, ma smisero subito, appena il primo colpò spappolò la testa della Zia Betty. Lurida stronza la zia Betty. Il sangue schizzò da tutte le parti. E in casa arrivò il pandimonio. Tutti presero ad urlare e scappare, ma prima che arrivassero alla porta James sparava. Sangue sulle pareti, sui vestiti, sui divani, suo mobili. Sangue dappertutto.
Rimasero solo i suoi genitori che piangevano, raggomitolati l’uno su l’altro.si avvicinò, schiacciò una mano, o forse un piede. Ma che importava. Prese dal tavolo un coltello, affilato, lucente, con qualche schizzo di sangue. Magari del cugina Al, o della nonna Mari.
Rise nel vedere sua padre inginocchiarsi per pregarlo. Lurido verme. Glielo disse. Glielo disse varie volte. -Lurido verme bastardo. Perchè non hai pregato così quando mi hai stuprato eh? Eh?- Il padre lo fissò, poi scoppiò in sighiozzi, la madre lo guardava, tremava, pallida come la morte. Sotto shock. Si, i medici dicevano così alla Tv. Sotto Shock.
Avrebbe  potuto farla vivere.
Lei non gli aveva fatto niente di male.
E nemmeno i suoi parenti.
E allora perchè gli aveva uccisi?
Non lo sapeva.
Un raptus. Si, disse, un raptus.
NO INVECE!
Gli avevano fatto del male. Si, non aveva fatto niente lei quando avevo sofferto, non gli era mai importato di suo figlio. E nemmeno quei babbei dei suoi parenti. Sapevano di quelk che era successo, o almeno, lo sapevano nel loro cuore, ma non volevano ammetterlo.
Cominciò il lavoro con il padre. E quando finì osservò il proprio lavoro. Già. Bellissimo.
La sua opera d’arte. Sulla fronte, una scritta sanguinante: “Pedofilo”. Il sangue che gli colava sugli occhi privi di vita, sui vestiti. Sangue. Che brutta cosa il sangue.
Poi si voltò verso la madre. E stava per iniziare anche con lei, scrivendo sulla sua fronte la parola “Troia”. Ma delle sirene si avvicinavano. La polizia.
Era finita. Gli mancava poco però. E di certo non l’avrebbe lasciata libera. Anche se forse, sarebbe morta poco dopo, a causa dello Schock. James rise. No. La sua vendetta doveva compiersi. Voleva farla soffrire. Voleva fargli provare ciò che lui aveva provato in 17 anni di vita. Il vuoto, la morte, la solitudine.
Gettò il coltello a terra, e se ne andò in camera sua. Si draiò, e prese a fissare il tetto.
Quella sera  James era sereno. Poteva starsene in pace, in camera sua, solo, a guardare il soffitto. Era rilassante, stare da soli. Poi sentì la porsa spalancarsi, sentire qualcuno urlare. E una marea di passi. Si dimenticò la parola libertà. In effetti, l’aveva dimenticata 6 anni prima, quando aveva perso la sua anima, la sua vita, la sua vitalità. Quando aveva perso se stesso.

*My Space*

Pochino violento lo ammetto. Non mi piace molto, anche se in altri posti ho ricevuto vari complimenti, continua a non piacermi.
Ditemi la vostra! :D


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