Time is running out

di _Sihaya
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Time is running out

 

By Sihaya

 

Eccomi di ritorno! La mia mente malata ha ancora prodotto!

Certo che tu coi titoli proprio non ce la puoi fare! ndTutti

Scusate, ma non è colpa mia se sono le canzoni ad ispirarmi!!

 

Questa volta vi propongo una storia in prima persona… è un esperimento ^^ Siate clementi!

 

Buon divertimento!

Sihaya

 

Slam Dunk appartiene a Takehiko Inoue

Time is Running Out appartiene ai Muse

 

* * *

 

PROLOGO

 

«Lasciami in pace stronzo!», sibilo fra i denti all’idiota che mi stringe il polso. Detesto questo genere di ragazzi, figli di papà che si trastullano con quella misera parte di mondo che giace ai loro piedi, e non credono in nulla se non in sé stessi. La loro arroganza mi disgusta e mi impietosisce allo stesso tempo. Mi libero dalla stretta del bamboccio che mi sta di fronte e gli giro le spalle, scuotendo i miei lunghi capelli biondi.

 

«Con certa gente bisogna saperci fare!», sento parlare alle mie spalle un amico saccente, «quella è una stronzetta di prima riga!», commenta.

 

«Non dire cazzate. So come domarla.», dice l’altro mentre esco dal locale.

 

«Che schifo», sussurro mentre lascio che la porta si richiuda dietro di me. Quando bevo un po’ troppo divento così, mi avvolgo in me stessa disprezzando il mondo intero. Presuntuosa e arrogante. Ma la mia è una sicurezza che crolla come sabbia di fronte a me stessa. Al nulla che sono e a quello che non riuscirò mai a diventare.

 

Mi incammino lungo la strada buia e silenziosa. E’ tardi, ma non ho paura. In fondo non me ne frega nulla di quello che mi può accadere. Per quello a cui servo, posso anche sparire e nessuno si accorgerà di me.

 

Mi fermo davanti ad un distributore automatico. Inserisco le monete nella fessura e prendo un pacchetto di sigarette.

 

Non ho più voglia di camminare e poi mi fa male la testa. Ormai è abbastanza tardi da far impallidire mia madre, qualche minuto in più non cambierà nulla.

 

Mi appoggio pesantemente al muro sporco accanto alla macchinetta e mi lascio scivolare in terra, stringendo le ginocchia al petto e avvolgendomi nella gonna dell’uniforme scolastica. Non sono nemmeno tornata a casa per cena; penso di nuovo a mia madre angosciata. Apro il pacchetto e mi accendo una sigaretta cercando di non tormentarmi, ma non è facile. Forse dovrei bere di più fino a dimenticare ogni cosa, ma non ho abbastanza fegato per farlo.

 

Non ce l’ho perché nonostante io spari a zero su tutto e su tutti, sono avidamente attaccata alla mia inutile vita.

 

Tiro una boccata di nicotina e chiudo gli occhi appoggiando la testa contro il muro.

 

«Stai bene?», una voce mi costringe a riaprili impedendomi di isolarmi come avrei voluto. Alzo lo sguardo verso il ragazzo davanti a me. Tiene una lattina di birra in mano e mi fissa con uno sguardo  profondo e un po’ triste.

 

Lo riconosco: è Hisashi Mitsui. Era in classe con me al primo anno. Mi ricordo ancora di quando si era iscritto al club di basket. Ogni giorno c’era una ragazza diversa ad aspettarlo fuori dall’aula, ma lui era troppo ingenuo per approfittarne.

 

L’ho visto giocare: un vero talento. Era M.V.P alle scuole medie. Poi qualcosa è andato storto, si è fatto male al ginocchio e ha smesso.

 

Ha smesso anche di venire a scuola in modo costante.

 

Dicono che frequenti una pessima compagnia, ma non pensavo di trovarlo in questo luogo.

 

«Hn?», faccio senza rispondere alla sua domanda.

 

Lui beve, sorseggia con calma la sua birra e non smette di togliermi gli occhi di dosso.

 

«Ho detto: stai bene?», chiede dopo un’interminabile silenzio.

 

«Mai stata meglio.», faccio io senza troppa gentilezza. Non voglio dare confidenza ad uno come lui. Non voglio ammetterlo, ma adesso ho paura.

 

«Che ci fa una come te in un posto simile?», chiede lui, pacato e quasi sovrannaturale nella sua indifferenza.

 

«Che ti frega?», rispondo controllando a fatica l’inquietudine.

 

«E’ sporco lì in terra», dice lui, banale.

 

Ho intenzione di tagliare corto. Non mi piace, non so cosa voglia da me e non credo sappia che siamo compagni di classe:«senti, ci conosciamo?», chiedo.

 

«No.», mi risponde.

 

«Io ti ho già visto.», gli dico ad un tratto, sorprendendolo. Credo non si aspettasse questa disponibilità al dialogo da parte mia, e a dir la verità anche io stupisco me stessa.

 

«Ah. Dove?»

 

«Al liceo Shohoku.», dico vaga. Non mi va di ricordargli che siamo nella stessa aula, o forse voglio solo vedere se lo sa.

 

«Che?», dice lui con una faccia stupita che mi fa sorridere. Evidentemente non sa chi sono. Credo che giocherò ancora un po’ con lui.

 

«So bene chi sei. Hisashi Mitsui.», dico con aria da saputella.

 

«Tsk. Il mio nome è famoso fra le donne.», risponde lui adottando la stessa tecnica. Non so perchè mi sto imbarcando in questo dialogo.

 

«M.V.P.», dico scandendo le lettere una dopo l’altra.

 

So che gli faranno male queste parole, perchè rievocano i sogni cui ha dovuto rinunciare. Non è difficile capire che ha sofferto. Quello che non so, però, è il motivo per cui sto dicendo tutto questo, se per il gusto di ferirlo o per non lasciarlo andare.

 

Lo vedo che si morde il labbro e non parla. Mi guarda con arroganza mentre i capelli lunghi gli scendono sul viso rendendo il suo sguardo cupo e freddo.

 

«Che cazzo hai da guardare?», domando io ritirandomi sulla difensiva, «Ti faccio pena?», chiedo interpretando erroneamente i suoi sentimenti: «Oh, non siamo molto diversi noi due.», aggiungo per colmare il suo silenzio.

 

«E tu che ne sai?», mi dice lui e io lo immagino mentre lotta per trattenere l’angoscia che lo divora dentro.

 

«Hai mai avuto un sogno da realizzare?», gli chiedo cinica. So qual è la risposta che ha dentro, ma voglio vedere qual è la versione per il ‘grande pubblico’.

 

«No.», mi risponde ostentando indifferenza. Come immaginavo. Sono tutti così, senza carattere, incapaci di ammettere una sconfitta, di raccogliere i cocci e ricostruire daccapo. Forse per paura di fallire, di accorgersi ad un certo punto che mancano dei pezzi e che nulla sarà mai uguale a prima.

 

Spengo la sigaretta in terra e ne estraggo un’altra dal pacchetto. L’accendo. Chiudo gli occhi lasciando che il suo sapore amaro mi arrivi alla testa.

 

«Abbiamo tutti un sogno che non si può realizzare. L’ho detto che non siamo diversi.», dico come se non avessi udito la sua risposta. Non voglio ferirlo, adesso lo so, voglio soltanto che rimanga ancora un po’ con me. Mi sento sola.

 

Lui sbuffa scocciato, butta la lattina in un cassonetto e si mette le mani in tasca. La sua reazione mi procura un’amara sensazione di tenerezza.

 

«Quella roba ti fa male.», mi dice facendo un cenno con la testa verso il pacchetto di sigarette.

 

«Non più di quanto tu ne stia facendo a te stesso.», gli rispondo io gettando la sigaretta e alzandomi da terra per tornare a casa.

 

Continua…

 

* * *

 

Quando ho iniziato a scrivere questa fic avevo intenzione di ambientare la storia fra gli eventi descritti nel fumetto di Inoue, inserendola nei momenti che l’autore non ha raccontato.

Ci tengo sul serio a conoscere il vostro parere!

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


uno

Time is running out

By Sihaya

 

Eccomiiiii quaaaa!!!!

 

Vi rubo un istante per ringraziare mille e mille volte il Maestro Inoue, per aver creato questa stupenda opera che è Slam Dunk. E, come tutti sanno, i personaggi che sto usando e l’ambientazione in cui si muovono sono (ahimè) solo e unicamente suoi, …salvo Minako e Saeko.

 

BUONA LETTURA!

Sihaya

 

CAPITOLO 1

 

Qualche mese dopo…

 

Non ne posso più, penso mentre l’ultima ora di lezione della giornata volge al termine. Il caldo intenso e l’umidità rendono impossibile focalizzare l’attenzione su qualsiasi cosa e la maggior parte dei ragazzi della mia classe siede al banco mezza intontita e assonnata. La voce instancabile del professore di storia continua a cullare i miei pensieri mentre con il mento appoggiato sul palmo delle mani fisso in un punto indefinito della lavagna.

 

Mi volto a guardare Mitsui.

 

Siede curvo sulla sedia con le braccia incrociate sul petto e la testa china. Probabilmente dorme, dev’essere di certo stanco morto per la partita contro il Ryonan, penso.

 

Ha ripreso a frequentare le lezioni e anche il club di basket. Devo ammettere che mi ha stupito e mi vergogno un po’ per averlo giudicato. In fondo lui ha fatto quello che io non avrei mai saputo fare. Ha messo da parte l’orgoglio e ha ridato vita ai suoi sogni. L’aver ripreso a giocare lo ha fatto diventare un’altra persona; avere uno scopo, un sogno da realizzare l’ha reso più maturo e… affascinante, di certo non sono l’unica ad averlo notato.

 

Finalmente sento la campanella squillare.

 

Mi alzo e chiudo la cartella con movimenti meccanici e collaudati. Mitsui invece è ancora seduto nel banco accanto alla porta e sbadiglia vigorosamente. Non accenna ad alzarsi, probabilmente è ancora intontito per il sonno bruscamente interrotto.

 

Attraverso l’aula indifferente, non credo che sia il caso di salutarlo, dopotutto sono passati mesi dall’ultima volta che ci siamo parlati, quando l’ho incontrato per strada. Per quanto inutile e vuoto sia stato il nostro dialogo io non ho voluto dimenticarlo, ma lui…

 

Passo accanto al suo banco guardando in basso.

 

All’improvviso lui mi afferra per l’uniforme, come un bambino, e mi impedisce di proseguire. Mi volto sorpresa e incontro suoi occhi blu. Intensi.

 

«Io mi ricordo…», sussurra togliendomi la capacità di parlare.

 

Impossibile.

 

Impossibile che si ricordi!

 

«Hai cambiato il colore dei capelli», aggiunge guardandomi intensamente.

 

E’ vero, ora sono scuri: il loro colore originale.

 

«Non mi piacevano.», dico balbettando una stupida scusa. Quasi mi sento in colpa per averlo fatto, forse dovevo tenerli biondi: mi davano un aspetto meno infantile.

 

«Anche tu hai tagliato i capelli», gli dico aggrappandomi alla prima frase idiota che mi viene in mente.

 

Già, ha tagliato i capelli. Avrebbe dovuto tenerli lunghi. Lunghi abbastanza da nascondere quello sguardo.

 

«Sono cambiato», dice lui.

 

Deglutisco con fatica. Dove cavolo è finita tutta la mia baldanza?

 

«Anche io. Ho smesso di fumare», dico.

 

Lui mi sorride.

 

«Sei stato grande ieri, contro il Ryonan…», gli dico ad un tratto senza rendermi conto che le parole escono spontanee dalla mia gola. Quando comprendo quello che ho fatto le mie guance prendono colore.

 

Devo imparare a tacere.

 

«Hm», lo sento mugugnare un po’ infastidito, «Sono svenuto in campo come un cretino nel mezzo della partita», brontola sarcastico abbassando lo sguardo, come se il pensiero gli facesse ancora male.

 

Lo sapevo che dovevo tacere!

 

Mi stringe ancora per l’uniforme e non mi lascia andare. Come se cercasse sostegno. Bravo! Hai scelto proprio la persona giusta, io che non faccio altro che compiangermi.

 

«Non importa.», parlo senza riflettere, «hai dimostrato alla tua squadra che può contare su di te fino in fondo.». Dico quello che penso: alla fine è l’unica cosa che so fare.

 

Lui non risponde, si alza in piedi davanti a me tenendomi ancora per la maglia. Io alzo gli occhi per seguire il suo viso.

 

«Posso sapere il tuo nome?», mi chiede.

 

«Saeko… Takeshi», rispondo con la gola secca.

 

«Saeko», ripete lui con un tono che mi toglie il fiato, «a domani.», aggiunge uscendo dall’aula.

 

* * *

 

Alcuni giorni dopo…

 

«Non rimpiangi la tua vita di allora?», chiedo al mio compagno di classe riferendomi al periodo in cui scorazzava per Kanagawa come teppista.

 

Lui non sembra voler rispondere. Lo guardo e mi chiedo dove abbia nascosto quel suo lato aggressivo e violento che sbandierava per la scuola solo fino a pochi mesi fa. Può darsi che sia cambiato, penso, ma credo che questo suo carattere si nasconda ancora in lui. E’ parte di lui.

 

«Volevo tornare a giocare a basket», dice e le sue parole sono così vitali che mi viene il dubbio che non sia stato lui a parlare. Esamino il suo volto accuratamente mentre fissa fuori dalla finestra. La cicatrice sul mento gli da un aspetto vissuto, ma tutto il suo viso trasuda rimorso.

 

Da quando ha detto di ricordarsi di me, è capitato altre volte che mi sia fermata a parlare con lui, prima degli allenamenti. Non è di troppe parole, ma non è nemmeno banale.

Ora è fermo accanto a me con le mani in tasca e la borsa in terra, appoggiata ai suoi piedi.  Io siedo sul davanzale di una finestra nel corridoio scolastico. Un piede ciondola contro il muro e l’altro è puntato sul davanzale. La gonna mi scopre il ginocchio e la mia posa è tutt’altro che aggraziata. Gli atteggiamenti come il mio non sono visti di buon occhio a scuola, ma non ho mai avuto problemi di sorta. Dentro di me è un perenne campo di battaglia, ma fuori sono una persona tranquilla.

 

«Vado in palestra», mi dice Mitsui ad un tratto.

 

«Ok», faccio io senza muovermi, guardando giù in cortile gli studenti indaffarati.

 

Lui mi afferra per la caviglia del piede che tengo sul davanzale, e mi costringe a voltarmi mettendolo pari all’altro, poi mi tira giù la gonna a coprirmi le gambe. Lo guardo minacciosa:«Che fai!?»

 

«Sta arrivando il preside.», mi dice. Io mi guardo intorno, ma l’unica persona che scorgo in lontananza e la professoressa di scienze.

 

«Bugiardo», commento. Lui mi sorride e io mi perdo a guardarlo qualche secondo, finchè una parte di me si ribella.

 

Cazzo. Non può piacermi ora solo perché si è tagliato i capelli! Sono peggio di una bandiera in balia del vento.

 

Eppure non posso negarlo: lo ammiro. Non per l’aspetto, però, ma per la sincerità che ha avuto con se stesso e per la forza d’animo che l’ha guidato fin qui.

 

Non è una cosa facile da ammettere, almeno per me.

 

Continua…

 

* * *

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


uno

Time is running out

By Sihaya

 

Hola a todos queridos!

Entriamo nel vivo della storia!!

Prima di cominciare però vorrei ringraziare tutti voi lettori, e non mi stancherò mai di farlo, per il vostro sostegno, la vostra disponibilità e tutto il tempo che spendete per commentare le mie fic.

In particolare ringrazio Avril, per avermi incoraggiato a scrivere in prima persona. Senza il suo consiglio, infatti, non credo che avrei mai cominciato a scrivere questa storia.

 

GRAZIE A TUTTI!

Sihaya

 

* * *

 

CAPITOLO 2

 

«Sto bene così?», mi chiede mia sorella mentre esco dal bagno.

 

La guardo stralunata.

 

«Non puoi venire a scuola senza l’uniforme», le dico sbadigliando.

 

Lei si sfila la gonna e ne indossa un’altra. Stretta sui fianchi a risaltare le sue forme perfette. Non credo che mi abbia considerato. «Oggi ho il colloquio per l’università», mi ricorda.

 

«Gli viene un infarto al rettore se ti vede così.», le dico tra l’ironico e il sarcastico. Lei mi sorride, lo prende come un complimento.

 

E’ bella, spaventosamente bella. Se fosse stupida, potrei almeno disprezzarla, ma non lo è. E’ anche intelligente, con un curriculum invidiabile. Di una dolcezza quasi inverosimile, nauseante. Dubito che non si renda conto dell’effetto che può avere sugli uomini quando gira conciata in quel modo.

 

«Senti», mi chiede ad un tratto mentre si passa il rossetto sulle labbra, «Ti andrebbe di venire in palestra con me oggi pomeriggio?»

 

In palestra? Mia sorella non è certo un tipo sportivo e la sua domanda mi suona paradossale.

 

«A far cosa!?», le chiedo sorpresa.

 

«A vedere gli allenamenti della squadra di basket.»

 

Sgrano gli occhi incredula: «la… squadra di basket?!».

 

«Sì, non sapevi che lo Shohoku ha una squadra di basket?», mi chiede lei ingenua.

 

Non c’è dubbio: recita, penso guardandola attraverso lo specchio.

 

Ok. Mi sta bene che lei sia più bella di me e magari anche più brava, ma io non vivo fuori dal mondo come crede:«Certo che lo so.», rispondo piccata, «lo so dal primo anno!»

 

«Io l’ho scoperto solo da poco», mi dice.

 

Scuoto la testa e l’assecondo:«come mai?».

 

Lei si limita ad emettere un risolino:«Non mi dirai che non hai notato che razza di fusti ci sono in squadra!»

 

«Non è gente per te, quella», faccio io scocciata. Sapevo che il discorso sarebbe arrivato a questo punto.

 

Lei mi guarda con gli occhi lucidi:«Perché dici una cosa simile?»

 

Non penso di poter reggere oltre questa farsa:«Quelli pensano solo al basket, il tuo “fascino” non attacca…», dico per ferirla, ma in realtà non credo affatto a quello che ho detto.

 

«Vedremo! ^^», mi sfida lei.

 

E io la odio.

 

La odio perché le mie parole le scivolano via di dosso ogni volta che cerco di scalfire la sua forza, per trascinarla nel baratro della mia insicurezza.

 

* * *

 

«Buongiorno!^^»

 

Seguo come un cagnolino obbediente mia sorella che entra in palestra salutando solare la squadra di basket, dal capitano fino all’ultima insignificante matricola.

 

I ragazzi le puntano gli occhi addosso come pesci lessi. La manager la guarda storto. La capisco.

 

Lei avanza come una diva sulla passerella. Si passa le mani sui fianchi a sistemare la gonna stretta che si solleva ad ogni passo.  Io la seguo a braccia incrociate sul petto, scura in volto. Il playmaker s’infila le mani in tasca e si sporge verso Mitsui «Chi è quella?», gli chiede. Lui, imbambolato a bocca aperta, non parla.

 

«E’ mia sorella. Non sembra, vero? », dico sarcastica passando accanto al  playmaker e al mio compagno di classe.

 

Non ottengo risposta.

 

D’altronde non me l’aspettavo.

 

«Oh, oh, oh! Ma certo!», ride l’allenatore Anzai dopo che mia sorella gli ha chiesto qualcosa all’orecchio, «siete le benvenute!», dice facendoci cenno di prendere posto accanto alla manager - tutt’altro che felice - mi pare.

 

Mi siedo con le braccia sempre incrociate sul petto. Qualcuno una volta mi ha detto che è segno di diffidenza. Io dico ‘insofferenza’.

 

«Allora hai visto che fusti!», mi sussurra mia sorella all’orecchio ridendo. Mi viene da vomitare.

 

«Sono atleti, è normale», fingo indifferenza. Col cavolo che è normale! Mia sorella ha ragione, ma non lo ammetterò mai.

 

Lei ride ancora. E io voglio sapere “perché” siamo qui. Anzi, … “per chi”.

 

«Hai visto quello!», mi dice indicando in campo. Accidenti se non tira giù quel dito glielo stacco a morsi! «Il numero 14!», esclama entusiasta.

 

Mi viene un colpo. A mia sorella non può piacere Hisashi Mitsui.

 

Mi volto a guardarla con quella camicetta bianca stretta sui fianchi e sul seno e la gonna rosa, talmente attillata che non le permette nemmeno di accavallare le gambe. Alzo un sopracciglio quasi inorridita e penso a Mitsui, a com’era soltanto pochi mesi fa. Con i capelli lunghi e il viso sporco di sangue, ubriaco e con i denti rotti.

 

«Tu sei fuori di testa», le dico e quasi scoppio a ridere.

 

«Perché?», mi dice lei con quella sua voce acuta.

 

«Quello non è il tuo tipo», dico io saccente, «non reggi un minuto con uno così».

 

«Tu non conosci gli uomini!», mi risponde lei.

 

Che frase del cazzo!

 

«Mitsui non è il tipo che si adatta a fare il tuo cane da salotto.», faccio con disprezzo. Voglio crederci a quello che ho detto.

 

Lei tace e io sono soddisfatta. Il suo silenzio mi inorgoglisce.

 

* * *

 

«Posso chiamarti Hisashi?», dice mia sorella al mio compagno di classe.

 

Non ho parole, anche lui si è trasformato in un bamboccio non appena lei gli ha stretto la mano.

 

“Piacere sono Minako!^^”, ha detto con un sorriso a trentadue denti e lui si è assuefatto alla sua voce e alle sue parole in meno di un secondo. Ho quasi la nausea. Se la vedo ancora un po’ fare delle insulse moine a questi giocatori senza spina dorsale, giuro che vomito.

 

Giusto il numero 11 là in fondo rimane quasi indifferente. Continua ad allenarsi imperterrito. Sembra quasi che non si sia accorto di nulla, ma non ci credo gran ché. Il mio intuito si è rivelato fallace fino ad ora, perché dovrebbe prenderci questa volta?

 

Volto le spalle a questa marmaglia di animali di pezza e mi dirigo schifata fuori dalla palestra.

Mi siedo sul muretto del cortile di scuola in attesa che mia sorella smetta di esibirsi ed esca per tornare a casa.

 

Estraggo dalla tasca dell’uniforme un pacchetto di sigarette. Ne accendo una mentre dondolo le gambe sul muretto, troppo alto perché io possa toccare in terra.

 

«Hai detto che avevi smesso.»

 

Faccio un balzo spaventata e perdo quasi l’equilibrio:«Mitsui!», esclamo incredula. Non mi ero accorta del suo arrivo.

 

Lui mi fa un cenno con la testa serio, indicando la sigaretta appena accesa che tengo in mano.

 

«Ho smesso», dico colpevole spegnendola contro il muro, «lo faccio solo quando sono nervosa», aggiungo.

 

«Ti fa male comunque.»

 

Vorrei rispondergli che non me ne frega niente se fa del male, ma non ho intenzione di farmi commiserare da lui. Rimango in silenzio fissando davanti a me, senza avere il coraggio di guardarlo.

 

«Takeshi», dice lui, scandendo le lettere. Perché ripete il mio cognome?

 

«Sei la figlia del prefetto?», mi chiede lasciandomi basita.

 

«Si…», dico un po’ incerta. Dove vuole arrivare?

 

«Tua sorella è davvero bella», dice e questo mi dà veramente sui nervi.

 

«Ti chiedi come mai invece io faccio così schifo?», domando acida.

 

Lui emette un risolino sommesso. «Non intendevo dire questo.»

 

«Lascia stare», faccio io rassegnata, «Mi ero anche fatta bionda per assomigliarle, ma non è servito a nulla», confesso.

 

«Stai meglio così», mi dice lui voltandomi le spalle, «scendi adesso.»

 

E perché dovrei scendere? Mi chiedo, ma non faccio in tempo a parlare che lui mi afferra per la vita, mi solleva e mi mette in terra, come si fa con una bambina. Il mio viso si infiamma e l’imbarazzo cresce quando vedo da lontano Mina che mi sta raggiungendo.

 

Spero davvero che non mi abbia visto.

 

Continua…

 

* * *

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


uno

Time is running out

By Sihaya

 

Prima di lasciarvi alla lettura, ringrazio (oltre al supremo Inoue) i Muse, per aver composto una pezzo così bello come Time is running out. Questa storia non è una song fic, ma ho usato le strofe della canzone per introdurre alcuni capitoli.

 

 

* * *

 

I think i’m drowning

asphyxiated

I wanna break this spell

that you’ve created

 

* * *

 

CAPITOLO 3

 

Fa caldo. Quest’estate fa un caldo pazzesco. Mi chiedo come faranno i ragazzi dello Shohoku a disputare le partite del campionato interscolastico.

 

Io non riesco nemmeno a stare seduta a scuola e a seguire le lezioni. E dire che tra pochi giorni ci saranno pure gli esami! Sento un brusio in sottofondo che associo inconsciamente alla voce del professore d’inglese, ma non percepisco una parola di quello che dice. Fingo un po’ di prendere appunti. Poi mi volto per l’ennesima volta verso Mitsui, ma sono costretta a rigirarmi all’istante. Faccio finta di nulla. Quel cretino si doveva voltare proprio nello stesso momento!? Penso arrossendo. Sono tre ore che va avanti così, che continua a fissarmi.

 

«Che cos’hai da guardare!?», lo aggredisco appena finisce l’ora.

 

Lui solleva le spalle:«a te da fastidio? A me fa piacere essere guardato», mi dice con indifferenza. Io arrossisco e lui mi fa capire di averlo notato sfoderando un sorriso spavaldo. Poi esce dall’aula senza darmi il tempo di rispondere. Vorrei inseguirlo a prendermi la mia vittoria, ma sono costretta a trattenermi con il professore d’inglese.

 

«Takeshi», mi dice il prof, «allora pensi di partecipare?», mi chiede.

 

Partecipare? A cosa?

 

«A cosa?», chiedo titubante. Dev’essere qualcosa di cui ha parlato a lezione.

 

«Al concorso», fa lui sorpreso dalla mia domanda, «tu sei una delle migliori del corso. Hai buone possibilità.»

 

Accidenti di che cavolo sta parlando?!! Adesso come glielo dico che non ho ascoltato nulla?!!

 

«Che… che cosa si vince?», chiedo glissando con abilità il problema.

 

Il prof. mi guarda attonito:«Takeshi non hai ascoltato?» … Certo che no!

 

«Puoi vincere un anno di studi all’estero. In Inghilterra. E’ un’ottima occasione per esercitare l’inglese, soprattutto per te che hai ottimi voti.», dice gongolante. Se potesse tornerebbe studente per partecipare lui stesso a questo cavolo di concorso, penso guardando i suoi occhi brillare.

 

«Non lo so», dico tentennante, ma il prof. non si lascia intimorire e mi infila in mano il libricino del regolamento:«fammi sapere, penserò io alla tua iscrizione!».

 

Ci mancava solo questa. Che strazio!

 

* * *

 

Mi guardo allo specchio mentre indosso il costume da bagno. Oggi fa così caldo che andrò a fare una nuotata in piscina prima di cena. Sto lottando arduamente con il telo da bagno per riuscire a legarmelo sul petto, ormai sarà il quinto tentativo, ma non riesco a fare un nodo decente. Finalmente ho la meglio sul pezzo di stoffa ed esco vittoriosa dalla mia camera.

 

E’ una fortuna che mio padre abbia deciso di attingere al suo enorme patrimonio per costruire una piscina.

 

Mio padre è il prefetto di Kanagawa. Mia madre invece è una donna in carriera, credo. Sta di fatto che qui in casa non li vediamo quasi mai. Lavorano tutti e due come pazzi e di conseguenza possiamo godere di un livello di vita più che alto. Non che a me crei molta differenza, ma vedo che mia sorella riesce a sfruttare questo vantaggio piuttosto bene.

 

«Saeko! Saeko!», la sento gridare in preda al panico, «Saeko, hai visto i miei sabot rosa?», mi chiede.

 

I tuoi …cosa? Che cavolo è un sabot!?

 

«Rosa?», faccio io ripetendo l’ultima parola, «no».

 

«Oh dai Sae! Devi averli visti, sono quelli che ho preso l’altro giorno!».

 

Fingo di pensare un po’:«Mmh…, no, non li ho visti», dico convinta. E ancora non ho capito cosa sono!

 

«Dove vai?», le chiedo mentre mi dirigo, avvolta nel mio asciugamano, verso la porta sul retro.

 

«Devo uscire!», mi dice lei tutta agitata e in quell’istante suonano alla porta.

 

«Apri tu! Dì che sono quasi pronta!», mi grida correndo su per le scale.

 

Ma per chi cavolo mi ha presa!? Protesto mentre mi dirigo verso la porta principale ad aprire al povero disgraziato che ha appena suonato il campanello.

 

Apro con indifferenza, ma sono costretta a fermarmi esterrefatta sulla soglia.

 

Mitsui, vestito di tutto punto, si presenta davanti a me e mi sorride appoggiandosi con un braccio allo stipite della porta. Mia sorella si è data da fare fin troppo in fretta, penso ancora stordita, e mi riesce difficile digerire la sorpresa.

 

«Che fai conciata in quel modo?», sono le prime parole del mio compagno di classe che allude al telo in cui mi sono avvolta.

 

«Vado a fare un bagno in piscina.», gli rispondo secca.

 

Che pensi quello che vuole. Quando mi ha chiesto di mio padre, credo che abbia immaginato il nostro status economico. Magari ha fatto anche lui i suoi conti: mia sorella è carina ed è pure piena di soldi. Dopotutto non è un coglione.

 

«Cooosa!», sbraita lui mentre io gli volto le spalle diretta, finalmente, alla mia piscina, «avete pure una piscina!?», chiede levandosi le scarpe e seguendomi curioso. Non so, fai pure come fossi a casa tua!

 

«E’ sul retro.», rispondo rassegnata al fatto che dovrò comunque mostrargliela, anche perché mia sorella non accenna ad essere pronta. Lui mi segue come prevedevo, senza dire nulla.

 

Lo conduco sul cortile del retro e mi incammino sul prato verde e falciato a regola d’arte, che circonda la piscina. Mi fermo sull’erba e lui si trattiene dietro di me.

 

«E’ questa.», dico sperando che ora sia soddisfatto.

 

«Oh.», dice lui, «non vai a fare il bagno?», mi chiede con un tono provocatorio che mi innervosisce ulteriormente. Mi ha preso per una scema!? Mi volto verso di lui con sguardo eloquente, ma ho l’impressione che non abbia compreso i miei pensieri.

 

«Dai, va’ a fare il bagno.», mi dice e poi afferra con due dita l’asciugamano in cui sono avvolta e con un gesto rapido slaccia il nodo che avevo fatto con tanta cura. Il telo cade inesorabile a terra.

 

Maledetto! Cosa credi!? Che mi lasci mettere in imbarazzo per così poco!?

 

«Mia sorella ti sta aspettando!», gli dico a denti stretti, fissandolo dritto negli occhi e con le mani puntate sui fianchi. Lui mi guarda divertito e io gli volto le spalle dirigendomi alla piscina.

 

«Takeshi!», grida costringendomi a fermarmi a pochi passi dall’acqua. Mi volto.

 

«Hai dimenticato questo!», mi dice lanciandomi il telo in piena faccia.

 

Lo odio.

 

Devo assolutamente illuminare mia sorella su che razza di stronzo è il ragazzo con cui ha a che fare!

 

Continua…

 

* * *

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


uno

Time is running out

By Sihaya

 

* * *

 

You’re something beautiful

A contradiction

I wanna play the game

I want the friction

 

* * *

 

 

CAPITOLO 4

 

Mi incammino lungo il cortile della scuola in cerca di Mina. Era con me qualche minuto fa e poi l’ho persa di vista. Forse ha raggiunto Mitsui in palestra.

 

Passo fra gli studenti districandomi abilmente e raggiungo lo stabile. Giro l’angolo e mi fermo all’improvviso. Seduti sui gradini dell’entrata trovo mia sorella e il mio compagno di classe, che parlano. Lei gli tiene un braccio sulle spalle e lo accarezza dietro la nuca. All’improvviso sento un’amarezza riempirmi la bocca che non avevo mai provato.

 

«Non preoccuparti», gli dice lei con dolcezza, «vedrai che andrà tutto bene, fidati di me. Devi solo avere pazienza.», aggiunge premurosa e poi si alza in piedi ed entra in palestra senza vedermi. Mitsui rimane seduto in terra con i gomiti appoggiati sulle ginocchia e la testa china.

 

«Che hai da guardare?», mi chiede facendomi sobbalzare. Non pensavo che si fosse accorto di me.

 

«N…niente, cercavo Mina», specifico a scanso di equivoci.

 

«Domani partiamo per il ritiro», mi dice lui senza dar retta alle mie ultime parole. Poi mi fa cenno i sedermi accanto a lui. Io mi muovo con cautela e mi siedo sui gradini, con la gola improvvisamente secca. Non capisco tutto questo imbarazzo da parte mia, ci siamo fermati spesso a chiacchierare a scuola dopo le lezioni, ma non so perché questa situazione mi mette davvero a disagio.

 

Sapevo che la squadra doveva partire per una settimana, ma non avevo dato peso più di tanto a questa cosa. Che gli manchi davvero mia sorella?

 

«Lo so, ma è soltanto una settimana », dico sollevando le spalle simulando indifferenza, «dopo ci sarà il campionato interscolastico, non sei agitato?», gli chiedo tanto per dire qualcosa. Non mi sopporto quando imbastisco questi discorsi così banali, ma di fatto non so cosa dire. Non mi va di fargli da consolatrice per l’assenza di mia sorella e spero di essere riuscita a deviare il discorso.

 

«Ho paura che succeda di nuovo.», mi dice lui ad un tratto, «ho paura di non riuscire a reggere il ritmo delle partite del campionato. Faccio davvero schifo eh?», mi dice con la voce strozzata.

 

Lo guardo un po’ stupita. Forse era questo che diceva prima con mia sorella, ma non capisco perché ne voglia parlare anche con me.

 

«Dovresti smetterla di commiserarti», dico con il rischio di risultare un po’ cinica. Sono abituata a dire le cose che penso e non sono mai stata brava a consolare la gente.

 

«Se non avessi buttato via tutto quel tempo come un’idiota, adesso…», comincia a sfogarsi. Non ho idea del perché lo faccia. Forse ha davvero bisogno di sostegno, ma io non so cosa dirgli. Perché vuol parlarne con me?

 

Quasi d’istinto mi infilo una mano in tasca e prendo una sigaretta. Lui mi guarda con la coda dell’occhio e me la sfila di mano prima che possa accenderla.

 

«Sei nervosa anche adesso?», mi chiede ironico, ma purtroppo ha ragione.

 

Sono nervosa e ho paura di dire qualcosa di sbagliato.

 

Di’ solo quello che pensi, ripete una voce nella mia testa. La stessa voce che mi chiede incessante di fumare una sigaretta.

 

«Non pensavo che tu fossi il tipo da rimuginare tanto sul passato. Quello che hai fatto è stata una tua scelta, dovresti accettarne le conseguenze.», gli dico.

 

Lui tace e non posso fare a meno di accorgermi che i muscoli del suo viso si contraggono impercettibilmente. Sarà anche difficile per lui dimenticare il passato e smettere di piangersi addosso, ma vedo che incassa piuttosto bene.

 

Lo guardo mentre china la testa e stringe le mani in un pugno e distolgo spaventata lo sguardo da lui. Per un istante ho provato l’intenso desiderio di abbracciarlo e questo mi ha fatto quasi paura.

 

I miei pensieri corrono istintivi a mia sorella che lo attende in palestra.

 

«Sei in squadra perchè i tuoi compagni pensano che tu valga qualcosa, non ti hanno certo preso dentro per pietà.», dico dopo un lungo silenzio.

 

Non riesco a fare a meno di chiedermi cosa stia passando nella sua mente in questo momento, ma non ho il tempo di formulare nessuna ipotesi perchè lui si alza, infilandosi le mani in tasca. Sembra quasi scocciato.

 

«Sei sicura che Mina sia tua sorella?», mi chiede ironico, «perchè a me non sembrate parenti nemmeno alla lontana!», aggiunge entrando in palestra e lasciandomi sola sui gradini.

 

* * *

 

Una settimana dopo…

 

«Questa sera esco. Ricordati di fare le valige!», dice Mina parlandomi dal bordo della piscina.

 

«Si…», rispondo io per l’ennesima volta. So che uscirà con Mitsui, lei ha detto che passerà a prenderla. Mina è stata ipertesa per tutto il giorno, dopotutto è una settimana che non si vedono, ma credo sia anche a causa della partenza.

 

Abbiamo deciso, o meglio lei ha deciso, che seguiremo i ragazzi dello Shohoku ai campionati interscolastici ad Hiroshima. Beh, posso capire l’esigenza di stare appiccicata come colla al suo bello, ma sinceramente non trovo che la mia presenza sia necessaria.

 

«Oggi pomeriggio ho partecipato al concorso», le dico riferendomi al test d’inglese cui ho partecipato. Alla fine non sono riuscita a liberarmi di questo impegno a causa dell’insistenza del professore; anche i miei si sono intromessi con la scusa che vale comunque la pena tentare, e che si tratta di un modo per valutare le mie capacità. Così mi sono ritrovata invischiata anche in questa cosa.

 

Maledico la mia incapacità di ribellarmi e di decidere da sola ciò che voglio.

 

«Non ci sarai andata con il vestito della scuola?», mi chiede Mina.

 

«Perché, cos’ha?» chiedo io pensando alla mia uniforme scolastica. E’ pulita e non ha nulla fuori posto.

 

Lei balbetta un po’:«ma , era un concorso…», dice.

 

Io corrugo la fronte e la guardo dubbiosa:«E allora? Ho solo dovuto fare un test!», commento incapace di comprendere le sue ragioni.

 

Lei non dice nulla, raccoglie il suo asciugamano e corre in casa a prepararsi, io rimango in piscina ancora un po’. Il tempo che passo in acqua non mi sembra mai abbastanza. Vado un istante sott’acqua e mi sistemo i capelli, prima di decidermi a riemergere e ad uscire definitivamente.

 

Raccolgo l’asciugamano in terra e mi dirigo in casa asciugandomi il viso. Devo ancora preparare tutto, ma partiremo per Hiroshima solo fra qualche giorno. Mia sorella è sempre terribilmente apprensiva.

 

«Ma tu sei sempre in acqua?», chiede ad un certo punto qualcuno accanto a me. Alzo gli occhi e vedo Mitsui appoggiato contro il muro di casa, «Tua sorella non è ancora pronta», si giustifica.

 

«Vedo che la mia piscina ti piace molto.», commento con un sorrisetto eloquente.

 

«Non è la piscina che mi piace.», dice lui con tono tenero e sensuale allo stesso tempo. Il fiato mi abbandona all’improvviso, appena pronuncia quelle parole, e sono costretta ad  appoggiarmi contro il muro per paura di perdere l’equilibrio.

 

«Dovresti venirci qualche volta con mia sorella», ribatto cercando di mascherare al meglio l’agitazione che mi pervade.

 

«Perché invece non mi fai tu un po’ di compagnia?», propone lui con un sorriso malizioso.

 

«Credo che mia sorella sia più interessante», rispondo cercando disperatamente di deviare quel discorso che mi sta mettendo spaventosamente a disagio. La testa comincia a girarmi.

 

«Non hai nulla da invidiare a Minako», mi dice lui diretto e io arrossisco all’istante.

 

«Non dire scemenze…», mi schernisco ma non posso nascondere a me stessa il piacere che mi hanno fatto le sue parole.

 

«Lo penso sul serio», dice lui dolcemente e allunga una mano a sfiorarmi i capelli bagnati. Un brivido mi percorre per tutto il corpo e le ginocchia cedono. Sono sola in costume da bagno di fronte a lui eppure non provo alcun imbarazzo, solo il desiderio immenso che le sue mani mi sfiorino ancora una volta. Mi lascio incantare dai suoi occhi blu che sembrano volermi ipnotizzare e sento il cuore che mi batte forte in balia di un emozione che non riesco a controllare. Lui mi accarezza di nuovo sulla guancia e si avvicina a me. Le sue mani scendono sui miei fianchi e mi afferra per la vita. Io non mi ribello e allora lui si china a sfiorare il mio viso fino a baciarmi sulle labbra.

 

Il cuore prende a battermi forsennatamente in petto, tanto che ho quasi paura di un infarto. Afferro le sue braccia, che stringono i miei fianchi con l’intento di allontanarlo, ma lui è forte e non si lascia respingere. Le sue mani scivolano lente sul mio corpo bagnato fin dietro la schiena, si china ancora un po’ su di me, mi afferra  per le gambe e mi solleva.

 

Io grido. Non posso assecondare quello che mi sta facendo!

 

Afferro con forza le sue braccia che mi sorreggono mentre il suo corpo si stringe al mio e le sue labbra premono forte sulla mia bocca. Cerco di liberarmi eppure voglio che tutto questo non si fermi. Sento il cuore rimbombarmi prepotentemente nella cassa toracica e il sangue mi pulsa nella testa fino a farmi perdere il senso dell’orientamento. Lasciami andare, penso senza riuscire a trovare la voce.

 

«Hisashi!», una voce lontana e ovattata raggiunge le mie orecchie.

 

Minako!

 

Cazzo. Non posso fare una cosa del genere!! E’ maledettamente vile!

 

«Per chi mi hai preso!?», sibilo fra i denti appena Mitsui libera le mie labbra e finalmente trovo la forza di ribellarmi alla sua presenza. Lui mi lascia andare e mi appoggia in terra silenzioso e ancora un po’ stordito. Io guardo la sua maglietta, bagnata a causa mia, che ero appena uscita dall’acqua. Anche uno stupido la noterebbe traendo ovvie conclusioni.

 

«Hisashi!», di nuovo la voce di mia sorella lo cerca e non ci vuole molto perché ci raggiunga sul retro.

 

«Ah, siete qui.», dice un po’ sorpresa. Io non rispondo. Mi appoggio al muro e mi tengo una mano sul cuore che continua ancora a battere impazzito.

 

Lei non commenta, ma è impossibile che non abbia notato nulla.

 

«Allora sei pronta!», dice lui, con le mani in tasca, come se nulla fosse accaduto. Non si volta a guardarmi, né fa un cenno di saluto mentre si allontana con lei.

 

Come può fingere in questo modo?

Continua…

 

* * *

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


uno

Time is running out

By Sihaya

 

* * *

 

I wanted freedom

bound and restricted

I tried to give you up

but I’m addicted

 

* * *

 

CAPITOLO 5

 

«Sae, ti senti bene?»

 

«Sì», rispondo per l’ennesima volta a mia sorella che mi scruta senza darmi tregua.

 

Continuo a disfare la valigia, e a sistemare le mie cose nell’hotel che ci ospiterà per la durata del campionato interscolastico. Siamo arrivate con qualche giorno di ritardo, i ragazzi hanno già affrontato la loro prima partita contro il Toyotama. Hanno vinto, ma la cosa non mi fa alcuna differenza.

 

Ho la testa da un’altra parte. Quello che è accaduto qualche giorno fa non mi da pace. Non ho ancora incontrato Mitsui, qui a Hiroshima, ma sono terrorizzata all’idea di vederlo. Il solo pensiero della reazione che quel bacio ha scatenato in me mi toglie il respiro. Non posso pensare che mi piaccia il ragazzo di mia sorella, è una cosa che non accetterò mai, ma so che sarà impossibile restare fianco a fianco della squadra senza desiderare che tutto accada ancora una volta. Non riesco a dimenticare la sensazione di quel corpo forte e perfetto che preme contro il mio.

 

Mi siedo sul letto esausta per la lotta che sto intraprendendo con me stessa.

 

Mia sorella deve sapere con che tipo ha a che fare. Lei è così ingenua e convinta di questo amore eterno e fiabesco che non trovo le parole per dirle come stanno le cose e per aprirle gli occhi una volta per tutte.

 

Mi appoggio con i gomiti sulle ginocchia e nascondo il viso fra le mani. Sospiro e penso di nuovo a lui. A quando l’ho incontrato e non si ricordava nemmeno che fossimo compagni di classe. Ai suoi occhi blu intensi e profondi. Al suo coraggio e alla sua tenacia che mi hanno sorpreso più di tutto.

 

«Sae, credi che vinceranno il campionato?», chiede mia sorella distraendomi dai miei pensieri. La guardo qualche secondo per focalizzare il senso della sua domanda.

 

«Non lo so. Non credo siano all’altezza» rispondo un po’ scocciata perché ha disturbato le mie riflessioni.

 

«Come puoi dire una cosa simile? Vinceranno di certo!», esclama lei quasi inorridita.

 

«Tu me l’hai chiesto e io ti ho detto quello che penso», rispondo sempre più infastidita da questa sua eroica presa di posizione.

 

«Non credo che tu possa pensare questo!»

 

«Perché è forse un reato?», esclamo acida alzandomi in piedi, «io ho solo considerato anche questa possibilità.»

 

Lei mi guarda con gli occhi lucidi, ferita nell’orgoglio:«Tu non capisci nulla!», grida, «Tu non sai cosa significa lottare per realizzare un sogno!»

 

«Lo so invece: è una gran perdita di tempo», rispondo io cinica.

 

«Tu parli così solo perché non hai nessun obiettivo nella vita!»

 

«Io non mi pongo obiettivi irraggiungibili perché conosco i miei limiti.», rispondo ostentando sicurezza.

 

Lei chiude la valigia con rabbia e rimane in silenzio per un po’. La conosco bene e so che sta cercando di ritrovare la calma e magari ricacciare indietro qualche lacrima ribelle. Tra poco dirà qualcosa per cambiare completamente discorso.

 

Non c’è gusto a litigare con lei, piuttosto che intraprendere una discussione mi asseconda in questo modo odioso, mentre io vorrei andare in fondo a tutto questo. Vorrei che mi urlasse in faccia quello che pensa. Vorrei che avesse il coraggio di dirmi, una volta per tutte, che non mi capisce e che le faccio pena.

 

«Vieni fuori con noi questa sera?», mi chiede cambiando discorso, come avevo previsto.

 

«Per vedere voi due che vi ficcate la lingua in bocca? No grazie!», rispondo io con un tale disprezzo che le parole mi si strozzano in gola.

 

Lei tace. Mi guarda sconvolta e le lacrime cominciano a scenderle con prepotenza agli angoli del viso. Dolce e perfetto anche quando non è truccato.

 

Forse dovrei sentirmi in colpa per quello che ho detto, ma sono troppo angosciata dentro di me per ritrovare la calma:«smettila di piagnucolare come una bambina e guarda le cose come stanno!», le dico mentre la mia mente ripercorre di nuovo quello che è accaduto fra me e Mitsui.

 

«Che vuoi dire?», chiede lei, priva di forze.

 

«Voglio dire che stai con uno stronzo!»

 

«E tu cosa ne sai!?»

 

«Io lo conosco meglio di te! Solo un’oca come te può fidarsi di uno così!», grido e ho quasi l’impressione di non dirlo per lei, ma per me stessa.

 

«Se non fossi così cieca ti saresti accorta che non sei l’unica donna nella sua vita!», urlo con tutto il fiato che ho in gola, sfogando la mia rabbia e la mia vergogna.

 

Grido e mi accorgo che non provo alcun senso di colpa nel vederla piangere disperata, ma sono inebriata dalle mie stesse parole.

 

Le ho detto la verità: lei non è l’unica donna nella vita di Mitsui, perché l’altra sono io.

 

E questo mi stordisce a tal punto da farmi girare la testa. Dopo tutto è stato lui a venirmi a cercare, lui che mi ha preso e mi ha baciata a quel modo senza esitare.

 

Guardo il viso di mia sorella che si contrae in una smorfia di dolore e lei scoppia a piangere definitivamente nascondendo il volto fra le mani:«Sei cattiva! Sei la persona più crudele che io abbia mai conosciuto!», grida scappando fuori dalla stanza e sbattendo la porta, lasciandomi nel silenzio assoluto.

 

La quiete, come uno specchio fedele, mi sbatte in faccia all’istante quello che ho fatto. Ora che mia sorella non c’è più mi rendo conto di come le parole siano uscite dalla mia bocca senza che potessi trattenerle, guidate solo dalla rabbia e dalla gelosia. Mi odio per quello che ho fatto e per quello che ho detto.

 

La testa mi fa male e devo uscire a prendere un po’ d’aria.

 

Scendo in strada e cammino assente in cerca di qualche posto dove potermi fermare e dove mi diano qualcosa da bere. Qualcosa di forte, che annebbi la ragione e non mi faccia pensare, né ricordare.

 

* * *

 

Fisso nel vuoto davanti a me, triste, e incapace di focalizzare con precisione gli oggetti e tutto ciò che mi circonda.

 

Sono sola.

 

Sola come un cane, penso e provo ad alzarmi in piedi.

 

La testa mi gira. Devo ricordarmi di pagare.

 

Appoggio le mani sul tavolo del locale semivuoto in cui mi sono trattenuta per lungo tempo. Non so che ore siano, ma credo sia meglio tornare in albergo.

 

La strada di casa la so, è facile, sempre dritto, ma devo ricordarmi di pagare.

 

Ubriacarmi così è stata la cosa peggiore che potessi fare. L’alcool è riuscito a tirarmi fuori tutto quello che io cercavo disperatamente di nascondere; ha portato in superficie un sentimento che mi spaventa e mi indebolisce allo stesso tempo, perché so che non può essere corrisposto. Almeno non nel modo che vorrei.

 

La cosa peggiore è che non sono abbastanza sbronza da sperare di svegliarmi domani ed aver dimenticato tutto.

 

La testa mi fa un male insopportabile.

 

Finalmente vado alla cassa, pago ed esco dal locale.

 

L’aria fresca della notte mi dà un po’ di ristoro. Il mal di testa sembra essersi alleviato, ma ora sopraggiunge il sonno. Cammino lungo il marciapiede, la strada è breve e sono quasi arrivata.

 

Un gruppo di ragazzi dall’altra parte della strada mi fa dei cenni. Non riesco a sentire quello che dicono perché le auto passano tra di noi coprendo la loro voce. Mi fermo un istante per ascoltare, ma la testa mi gira talmente forte da farmi perdere l’equilibrio. Barcollo un po’ finchè i sensi non mi abbandonano definitivamente.

 

* * *

 

Che sta succedendo? Mi chiedo socchiudendo gli occhi. Muovo appena la testa appoggiata da qualche parte che non riesco a riconoscere.

 

Mi serve un po’ per capire. La testa mi fa ancora male e i miei sensi non si sono del tutto ripresi, ma credo che qualcuno mi stia portando sulle spalle.

 

Ha un profumo familiare.

 

Questo è l’odore di Hisashi Mitsui. Voglio credere che sia lui.

 

E’ lui che mi porta in braccio, ne sono certa, penso stringendo le braccia intorno al collo del ragazzo. «Grazie», gli sussurro all’orecchio appoggiando delicatamente le mie labbra sulla sua pelle poiché voglio sentire anche il suo sapore. «Grazie», dico di nuovo. Lui non risponde.

 

Chiudo gli occhi e lo immagino che sorride.

 

«Forza, siediti», mi dice ad un tratto la sua voce, costringendomi ad aprire gli occhi.

 

Mi fa scendere dalle sue spalle, ma io mi ostino, infantile, a tenere le braccia strette intorno al suo collo. Lui si china su di me aiutandomi a sedermi su di un letto.

 

Lo guardo negli occhi, così belli. Penso a quando l’ho visto svenire in campo durante la partita del Ryonan. Avrei voluto essere là  per sorreggerlo e per dargli la forza di continuare, ma non sono io la persona adatta per questo. Io che non faccio altro che mentire a me stessa.

 

Chino la testa incapace di perdermi ancora in quello sguardo. Lui accenna ad alzarsi, ma appena lo sento allontanarsi, la mia parte più istintiva si ribella e stringe più forte le braccia intorno al suo collo, per tenerlo ancora un po’ con me.

 

Una bambina viziata.

 

Lui si appoggia con le mani sul letto lasciandosi abbracciare. Sorride, lo sento.

 

«Hisashi», sussurro piano avvicinando le mie labbra alle sue, incapace di rinunciare a ciò che voglio.

 

Lo bacio sulla bocca e lui risponde dolce e umido, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Socchiudo le labbra e lascio che la sua lingua cerchi la mia, sensuale e languida. Lo amo, penso ma ho ancora un barlume di lucidità che fortunatamente mi impedisce di dirgli una cosa del genere. 

 

«Hisashi», sussurro di nuovo non appena lui si allontana dalle mie labbra, «Hisashi ti prego, resta con me.», lo supplico, ancora vittima degli effetti dell’alcool.

 

Lui ride.

 

«Non posso. E’ tardi, domani ho la partita», mi dice con dolcezza e si allontana da me per sempre.

 

Continua…

 

* * *

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


uno

Time is running out

By Sihaya

 

* * *

 

now that you know I’m trapped

sense of elation

you’d never dream of

breaking this fixation

 

* * *

 

 

CAPITOLO 6

 

Mi appoggio alla ringhiera degli spalti nello stadio e guardo dall’alto i giocatori che, nonostante siano privi di forze, esultano euforici per la vittoria contro il Sannoh Kogyo. Anche la tifoseria dello stadio che all’inizio sembrava salda e compatta contro lo Shohoku sembra felice di questa vittoria.

Non posso negare che sia meritata.

 

«Andiamo dai ragazzi!», mi dice mia sorella in fibrillazione. Ho temuto che potesse svenire durante la partita a causa della tensione. La guardo con apprensione, ma non sono molto felice di questa sua iniziativa. Non credo di voler incontrare Mitsui: non penso di avere il coraggio di parlargli.

 

Ho seguito questo scontro con il cuore in gola, non credevo che avrei potuto provare una simile tensione, ma so che non è solo a causa della partita di basket. Il corpo di Mitsui che si tende per tirare a canestro concentrato e preciso rimane fisso nella mia mente e non mi dà pace. Così come quello che ho lasciato accadere ieri notte. Sono stata ubriaca e stupida.

 

Non riesco a dimenticare. Non riesco a seppellire nel profondo della mia mente le emozioni di ieri, né quelle di ora.

 

Non voglio vederlo, anche se torna vittorioso. E tremo pensando a quello che voglio.

 

Pensando che voglio di nuovo sentire il suo profumo e le sue braccia forti che mi stringono, e mi faccio schifo per questo. Per il modo vile in cui approfittato dell’ingenuità di mia sorella e in cui ho rovinato la sua felicità, anche se lei non lo sa ancora.

 

La seguo da lontano che scende i gradini e raggiunge la squadra e il suo ragazzo. La guardo mentre abbraccia tutti i giocatori e si complimenta con loro. Lei sola al centro dell’attenzione. Non è mai stata così  felice, penso infilandomi le mani in tasca e voltando le spalle al gruppo in festa.

 

Meglio che me ne vada. Meglio che lasci le cose così come stanno e mi tolga in tempo da questo luogo in cui non trovo posto per me.

 

«Non mi fai i complimenti?», mi raggiunge la voce di Mitsui dietro le spalle. Mi immobilizzo stringendo le mani sudate in tasca e un nodo mi prende la gola. Che cavolo mi succede?

 

Questo ragazzo è uno stronzo. Si prende gioco di me e di mia sorella senza alcun timore e vuole anche la mia approvazione? Di certo lui non avrà dimenticato quello che è accaduto e ho il terrore che voglia delle spiegazioni.

 

«Una bella partita», dico con voce tremante e insicura.

 

«Tutto qui?», chiede lui appoggiandomi una mano sulla spalla. Un brivido gelido mi percorre il corpo e mi scosto spaventata. Faccio l’errore di guardarlo negli occhi e non riesco a reggere il suo sguardo. E’ contento, lo so, per questa vittoria e per la sua prestazione. Sono sicura che nemmeno lui poteva pensare di arrivare a tanto.

 

«Non ti basta la vittoria?», gli chiedo con cattiveria, «sei così egocentrico che hai bisogno anche della mia approvazione?»

 

Lui mi guarda serio:«sei gentile solo quando sei ubriaca», afferma.

 

Quello che temevo.

 

Sapevo che il discorso sarebbe arrivato a questo punto. Guardo mia sorella vicina tanto da vederci, ma non abbastanza per sentire le nostre parole. Anche lui si volta a guardarla.

 

Perché? Perché sei entrato così prepotentemente nella mia mente da non darmi tregua?

 

Non ti bastava lei? Bella. Intelligente. Perfetta. Non ti bastava, cazzo?

 

«Ieri sera eri diversa», mi dice lui in tono infantile, voltandosi di nuovo a guardarmi negli occhi, «ieri sera eri…»

 

Eccola.

 

E’ la mia occasione.

 

La mia occasione di uscire di scena conservando ancora quel poco di dignità che mi resta.

 

«Ieri sera ero ubriaca, non mi ricordo un cavolo di quello che ho fatto.» dico mentendo superba, e credo di averlo fatto con maestria poichè lui si zittisce e mi guarda quasi dispiaciuto:«non ti ricordi nulla?», chiede di nuovo incredulo.

 

«Nulla.», rispondo io fredda, poi gli volto le spalle e me ne torno in albergo.

 

Ho un bisogno folle di farmi una doccia gelata.

 

* * *

 

Non voglio più vederlo.

 

Lo faccio per me.

 

E’ una ossessione ormai che divora la mia autostima, mi fa sentire sporca e cattiva. E più tento di cancellarlo dalla mia testa, più lui si insinua nei miei pensieri alimentando un senso di colpa cui ormai non riesco più a far fronte.

 

Mia sorella deve sapere. Deve sapere quello che ho fatto. Quello che lui ha fatto.

 

«Avresti dovuto venire anche tu», mi dice Mina sedendosi sul letto accanto a me. Mi volto a darle le spalle. «Di me non c’era bisogno», commento.

 

«Se ne sono accorti tutti che mancavi», si lamenta lei, «ho dovuto dire che ti sei sentita male.»

 

«Scusa tanto se ti ho fatto fare una figura di merda», sottolineo io sarcastica.

 

Ho evitato ancora una volta di unirmi a loro, per festeggiare la vittoria. Se solo immaginasse lontanamente il motivo per cui l’ho fatto...

 

«Mi dispiace di aver pianto per quello che hai detto», mi dice Mina come se fosse una colpa. A volte ho l’impressione che tema davvero il mio giudizio, ma non credo che questa paura le attanagli l’anima più di tanto.

 

«L’ho detto apposta», faccio io ma non ho l’intenzione di chiederle scusa. Piuttosto voglio testare la sua reazione.

 

«Lo so che l’hai fatto apposta», mi dice lei tenera come pane, «ma so che non pensi davvero le cose che hai detto.»

 

Il nervoso mi sale alla tempia. Mi prende in giro o è scema davvero?

 

«Io non dico mai balle.», sottolineo nella speranza che capisca a cosa mi riferisco.

 

«Lo so, ma questa volta ti sei sbagliata. Lui ha solo me nella sua vita… e il basket.», dice lei con una sicurezza che quasi mi stordisce. La guardo negli occhi e cerco di scrutare i suoi pensieri.

 

L’amore rende davvero così ciechi? Penso senza trovare il coraggio di aprirle gli occhi e di confessare quello che so.

 

«Sta tranquilla, non racconterò a papà che ti sei ubriacata», mi dice lei ad un tratto, dolcemente.

 

Ma cosa gira in quella testa!?

 

«Sai cosa me ne frega», le dico alzandomi dal letto quasi indignata. Come può pensare che sia questa la mia preoccupazione?

 

«Mi hai fatto prendere uno spavento ieri sera, per fortuna che Hisashi…», Il cuore mi balza nel petto furioso non appena lei pronuncia quel nome, «per fortuna che mi ha aiutata a portarti in albergo.», dice sospirando.

 

«Tu… tu eri con lui?», chiedo sconvolta.

 

«Sì, c’erano tutti, erano così tesi per la partita di oggi…»

 

Mi porto una mano allo stomaco che brucia in modo spasmodico:«Io … io non mi ricordo nulla.», mento ancora una volta.

 

* * *

 

Qualche giorno dopo…

 

Hanno perso.

 

Hanno perso contro l’Aiwa.

 

Per un istante avevo creduto anche io nella loro vittoria e invece hanno perso.

 

Guardo i ragazzi in campo, stremati e disperati. Lui è laggiù, lontano e irraggiungibile.

 

Piange.

 

«Perché non vai a consolarlo.», chiedo in tono un po’ provocatorio a mia sorella, sugli spalti accanto a me. Ad un tratto mi si stringe lo stomaco.

 

Lei mi guarda preoccupata.

 

«Perché non ti muovi ad andare da lui? Non vedi che ha bisogno di te, idiota?», sbotto senza riuscire a trattenere la rabbia dentro di me.

 

«Voglio sapere che cos’hai.», mi chiede lei risoluta, cogliendomi di sorpresa.

 

«Non sono affari tuoi.», rispondo scocciata portandomi una mano allo stomaco che mi fa sempre più male.

 

«Sei mia sorella, sono affari miei!»

 

«Fai anche la samaritana adesso?», faccio sarcastica, lasciandole capire che ho fretta di troncare questo stupido discorso.

 

«Voglio sapere che ti ha preso in questi giorni! Mi hai costretto a mentire per trovare una scusa alle tue assenze e alle tue fughe.», protesta riferendosi a tutte le volte che ho rifiutato di uscire con lei e gli altri ragazzi della squadra. «Perché hai continuato ad evitarci? Ti facciamo così schifo dall’alto del tuo piedistallo? Siamo forse troppo banali per te?», mi chiede cercando di imitare la mia arroganza, ma le parole le si strozzano in gola e fatica a trattenersi dal piangere.

 

«Voi state meglio senza di me.», rispondo incrementando la sua angoscia.

 

«Ma come ti salta in mente una cosa del genere!», protesta lei, comprensiva e pietosa nei miei confronti.

 

«Questo è quello che penso», ripeto.

 

«Sai invece cosa penso io?», esplode ad un tratto lei, «Perso che tu sia presuntuosa ed arrogante e che tu abbia paura! Paura di te sessa e di quello che vuoi!»

 

«Smettila di dire cazzate e va a consolare quello stronzo del tuo ragazzo.», le dico io urtandole una spalla e spingendola lontano, per farmi largo fra la gente ed uscire dallo stadio.

 

Devo andarmene al più presto. Mi sento soffocare.

 

* * *

 

Inspiro profondamente l’aria umida della sera. A quest’ora, quando il sole è sceso e il cielo comincia a scurirsi, mi coglie spesso una strana malinconia. Oggi, ancora più forte del solito. Con le mani affondate nelle tasche dei jeans, sto girovagando da quasi un ora nel quartiere. Sono passata sotto all’albergo dove alloggia la squadra dello Shohoku, e in tutti i posti che mi ricordano il basket e che mi parlano di lui. Ora ho raggiunto la palestra e sono felice che non ci sia nessuno.

 

Mi siedo su una panchina, ma appena alzo lo sguardo sento un tuffo al cuore. Mitsui è seduto in terra poco distante, appoggiato contro un muretto, con i piedi puntati in terra, i gomiti sulle ginocchia e la testa china, nascosta fra le braccia. Di certo non mi ha visto e io rimango un po’ ad osservarlo con un groppo in gola.

 

Le immagini della partita contro l’Aiwa bruciano ancora nella mia mente. E’ incredibile come questa sconfitta mi abbia depresso, io che dicevo di essere completamente indifferente a qualsiasi risvolto prendesse il campionato interscolastico.

 

Non mi stupisce che non sia così.

 

Quello che mi stupisce invece è che lui sia solo, senza l’appoggio di mia sorella, quando invece ne avrebbe più bisogno. Non so perché non sia con lui, ma non credevo fosse così stupida da non capire nemmeno che ha bisogno di lei ora, più che in ogni altro momento.

 

Ma forse mi sbaglio, forse è stato lui ad allontanarla, orgoglioso com’è, per non farsi vedere così.

Si passa le mani fra i capelli e io deglutisco. A vederlo da lontano così, mi accorgo che mi sono davvero innamorata di  lui. E’ una cosa che sapevo già, solo che più diventa chiara nella mia testa, più mi fa soffrire, mi prosciuga energia e autostima.

 

Lui alza la testa e all’improvviso incrocia i miei occhi, io balzo in piedi spaventata come un ladro colto sul fatto. Il respiro e il battito cardiaco accelerano quando lui mi sorride con amarezza. Volto la testa sperando invano di calmarmi.

 

Lui mi fa cenno da lontano di avvicinarmi. Tiene una mano sospesa in aria verso di me ed io, invece di scappare, mi muovo verso di lui. Come se non fossi più io ad agire, ma soltanto le mie emozioni, lo raggiungo e mi fermo in piedi davanti a lui. La sua mano allora afferra la mia e mi tira costringendomi a sedermi in terra al suo fianco. Le mie mani non hanno mai tremato così tanto. Le nostre spalle si sfiorano e io rimango in silenzio, paralizzata.

 

«Rimani con me Saeko», mormora e io arrossisco nel sentirlo pronunciare il mio nome in modo così infantile. Sento perfettamente la tristezza che lo avvolge e penso che dovrebbe esserci mia sorella qui: lei avrebbe le parole giuste da dire; lei sa sempre cosa dire. Io invece rimango muta, per l’emozione. Mitsui allora, senza che io possa fermarlo, appoggia la testa sulla mia spalla e nasconde il viso fra i miei capelli lunghi. Sospira e si stringe a me. Io resto immobile, con il suo respiro leggero sul collo. Non oso sfiorarlo né allontanarlo. Le mani continuano a tremarmi, e il cuore mi batte così forte che è impossibile che lui non possa sentirlo.

 

Mi ripeto che non dovrei essere lì, che quel posto non mi spetta, ma mia sorella non c’è, e non arriverà.

 

Sollevo esitante una mano, poi lentamente l’avvicino e gli accarezzo i capelli. Incosciente. Egoista.

 

Lo stringo a me e lo abbraccio stretto. Il tempo si ferma e rimango a lungo con lui tenendolo fra le mie braccia, consapevole che non potrò più permettermi di avvicinarlo né di vederlo.

 

Continua…

 

* * *

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


uno

Time is running out

By Sihaya

 

* * *

 

and our time is running out

you can’t push it underground

you can’t stop it screaming out

how did it come to this?

 

* * *

 

CAPITOLO 7

 

«Saeko, vieni anche tu al ricevimento?», chiede mia sorella mentre indossa uno dei suoi abiti migliori. Nero, di seta, stretto sui fianchi e lungo fino ai piedi. La scollatura dietro la schiena è provocante e straordinariamente elegante. Posso capire cosa Mitsui abbia trovato in lei. E’ dolce, comprensiva e bellissima.

 

La invidio. Per quello che ha e perché può aspirare a tanto.

 

Da quando siamo tornati a Kanagawa, dopo l’avventura del campionato interscolastico saranno passati un paio di giorni e loro non hanno smesso di vedersi. Io li ho evitati e mi sono rinchiusa in camera per tutto il tempo. Pensavo che non vederlo e non sentire la sua voce mi avrebbero aiutato a dimenticare, ma in realtà sto peggio di prima.

 

«Allora vieni?», chiede di nuovo Mina insistentemente. Si riferisce al ricevimento cui partecipano i miei genitori e cui siamo invitate anche noi. Roba di lavoro, penso.

 

«No.», rispondo secca. Non ho intenzione di andarci. Odio questo genere di feste, sono una noia mortale, piene di gente capace solo di mettere in mostra quello che indossa. Gente che si prende orribilmente sul serio.

 

«Sae, ho invitato anche Hisashi…», mi dice lei supplichevole.

 

La gola si secca. Sempre la stessa reazione appena la sento pronunciare il suo nome. Un motivo in più per non andare.

 

Povero Mitsui, penso. Ormai è entrato in un circolo vizioso dal quale gli sarà impossibile uscire senza che mia sorella ci rimanga male, lei che adora queste cose.

 

Ero convinta di aver capito il mio compagno di classe meglio di chiunque altro, ma ora non sono più certa di nulla.

 

«Non verrò», ripeto risoluta a mia sorella che attende speranzosa una mia inversione di rotta.

 

«Avevo intenzione di presentare a mamma e papà il mio ragazzo…», dice dispiaciuta tentando un’ultima possibilità. Se solo potesse immaginare il tormento che mi danno queste parole.

 

«Vedi di uscire in fretta da questa stanza», le dico scocciata.

 

Lei esegue i miei ordini silenziosa. Credo che abbia rinunciato alla battaglia. Tendo le orecchie concentrata per accertarmi della partenza dell’auto fuori casa.

 

Sono sola. Tiro un sospiro di sollievo e mi sdraio sperando di riuscire a dormire.

 

All’improvviso un fruscio leggero mi fa sobbalzare e mi siedo sul letto. Che succede? Faccio appena in tempo a pensare prima che una mano mi tappi la bocca impedendomi di urlare, e un braccio mi afferri per la vita.

 

«Hai intenzione di evitarmi ancora per molto?», chiede una voce alle mie spalle facendomi schizzare il cuore in gola. Mitsui!

 

Il respiro affannato per lo spavento si fa ancora più rapido e angosciato. Che ci fai qui? Vorrei chiedergli, ma lui continua a tenermi una mano sulla bocca e a stringermi alle spalle.

 

«E’ una fortuna che tu non sia andata a quel ricevimento», mi sussurra all’orecchio togliendomi il fiato, «stavo male all’idea di doverti seguire a quella festa».

 

Chiudo gli occhi e desidero sparire.

 

Che cavolo sta dicendo? Perché è qui di nuovo a torturarmi? Penso e voglio vedere i suoi occhi. E’ passato troppo tempo dall’ultima volta che li ho visti.

 

La sua mano scivola lentamente via dalla mia bocca, poi lungo le spalle e lui comincia a baciarmi sul collo prima ancora che io riesca a riprendermi dallo spavento.

 

Cerco di liberarmi dal suo abbraccio, ma è terribilmente difficile, «non mandarmi via.», dice lui in un soffio accorgendosi del mio tentativo.

 

Mi fermo.

 

«Tu dovresti essere con mia sorella…», dico con la gola secca e il cuore che mi salta impazzito in petto.

 

Lui si mette finalmente di fronte a me, ma non risponde. Tremo non appena le sue mani sfiorano le mie.

 

«C…che cosa vuoi da me?», è l’unica cosa che riesco a dire con un filo di voce, ipnotizzata dal suo sguardo.

 

Lui s’avvicina a sfiorare le mie labbra con le sue. Poi si muove sopra di me costringendomi a sdraiarmi sul letto. Il suo viso è a pochi centimetri dal mio e con una mano mi accarezza dolce i capelli. Io non riesco a smettere di tremare.

 

«Voglio la stessa cosa che vuoi tu», mi dice sensuale baciandomi ancora una volta, questa volta con passione. Tutta la mia mente cerca di sfuggirgli, ma il mio corpo decide da solo. Socchiudo la  bocca e sfioro la sua lingua. Lui emette un gemito sottile e mi travolge in un bacio dal quale non so liberarmi.

 

«Tu non puoi sapere quello che voglio», dico amara, ritrovando me stessa, appena lui mi lascia per respirare. La testa mi gira vorticosamente.

 

«Dimmelo allora», dice lui sollevandosi su di me e appoggiandosi sui gomiti mentre mi fissa dritto negli occhi.

 

Deglutisco e volto la testa di lato, non riesco a reggere quello sguardo:«non posso avere quello che voglio. Non è alla mia portata.», rispondo puntandogli le mani sul petto, strette in pugni, e tentando debolmente di allontanarlo da me.

 

Lui mi accarezza il viso e mi costringe a voltarmi.

 

«Non dire stupidaggini. Non valgo poi così tanto.», dice e mi bacia di nuovo sulla bocca. Io lo lascio fare, stordita dalle sue parole, e le sue mani cominciano lentamente ad esplorare il mio corpo mentre i suoi baci umidi scendono sul collo, lungo la spalla, e la sua saliva marca la mia pelle facendomi rabbrividire.

 

Non sono in grado di respingerti.

 

Il cuore sembra volermi esplodere e il respiro mozzato mi costringe a reclinare a testa. Sento le sue mani salire delicate lungo i miei fianchi a sfilarmi la maglietta, poi con le labbra morbide scende a baciarmi il petto.

 

Non riesco a credere che tu sia qui per me.

 

Afferro la sua maglia e gliela tolgo spettinandogli i capelli e costringendolo ad alzare gli occhi per incontrare i miei. Leggo il desiderio nel suo sguardo e un brivido mi scuote. Cerco di nuovo, avida, un altro bacio.

 

Ti voglio Hisashi, ti voglio così tanto che credo di impazzire.

 

Premo languida le mie labbra umide contro le sue e lo sento gemere e rispondere con passione; spinge la lingua nella mia bocca, inebriante e sensuale fino a farmi perdere le ragione. Allora io lascio andare le mie mani lungo il suo corpo ad accarezzargli la schiena, le braccia, il petto, e l’unica cosa cui riesco ancora a pensare è che ho un bisogno folle di lui.

 

La sua mano scende calda e morbida fra le mie gambe, sotto la gonna, ed io non riesco a trattenere un grido. E finisco per lasciarmi travolgere in un gioco privo di regole. Il mio corpo si inarca e cerca impaziente il suo, mentre le mie dita fremono intorno alla cintura dei suoi pantaloni e si muovono senza logica nel tentativo di slacciarla. Lui ansima prepotentemente nella mia bocca mentre calo i suoi jeans trascinando il suo corpo nudo su di me.

 

«Non mi fermare adesso», mi supplica lui all’orecchio incapace di trattenere un gemito provocato dalle mie dita che gli sfiorano il basso ventre.

 

«Non lo farò Hisashi. Non lo farò.», gli dico ormai schiava delle sue mani.

 

Non lo farò perché questo è quello che voglio. Questa notte soltanto, poi sparisco per sempre dalla tua vita, penso, ma adesso non voglio più fermarmi. Non voglio farlo.

 

Il suo respiro affannato e incontrollato si perde nella mia bocca e il suo cuore batte forte contro il mio petto, soggiogato dal desiderio.

 

«Ti amo», gli dico e le parole mi escono dritte dal ventre alla gola senza attraversare la ragione, poi lo sento entrare dentro di me con forza e grido.

 

Grido che ho bisogno di lui.

 

Stringo a me il ragazzo che amo senza averne alcun diritto, e lascio che si muova dentro il mio corpo, lento e bramoso, mentre ansima e stringe la coperta del letto fra le mani. Invoca il mio nome,  sussurra che mi vuole.

E tutto si fa più urgente, insostenibile; ci stringiamo in un abbraccio guidati da un ritmo sempre più intenso, che mi inebria e mi sconvolge. Gli afferro i capelli e lascio che i miei sospiri invadano la stanza senza alcun freno, mentre il piacere mi travolge e sale caldo, inesorabile, fra gambe fin dentro la testa, scuotendo il mio corpo senza controllo; e lui viene dentro di me sopprimendo i suoi gemiti contro la mia spalla e abbandonandosi completamente all’estasi.

Ansima forte per un po’, accarezzandomi senza dire una parola, e io mi abbandono ai fremiti che percorrono instancabili il mio corpo. Contenta, per una volta, di non essere più in grado di pensare.

 

Poi lui si solleva appena a guardarmi negli occhi e mi accarezza il viso, tenero e dolce. Si passa il dorso della mano sulla bocca, mi bacia e infine si lascia andare, esausto, sul mio corpo sudato e affonda la testa fra i miei capelli stringendosi a me con forza.

Il silenzio ci avvolge finchè i nostri cuori riprendono il loro ritmo naturale e i nostri respiri si fanno più regolari. Lui rimane ancora immobile su di me, con i pantaloni calati all’altezza del ginocchio e una mano ferma sulla mia coscia. Accarezzo di nuovo i suoi capelli scuri e lascio che la sua testa si appoggi sul mio petto. Chiudo gli occhi, e assaporo questa sensazione unica che mi inebria e mi fa sentire così bene, che potrei dire di essere felice.

 

«Hai detto che mi ami», dice lui ad un certo punto con la voce roca e appena percettibile.

 

«Non è vero», protesto io senza rendermi conto che invece ha ragione.

 

«L’hai detto», ripete lui dolce fino a farmi provare un brivido.

 

«Non l’ho detto», ribadisco.

 

Lui ride.

 

«Non l’ho detto», ripeto, ma ad essere sinceri non ne ho la certezza.

 

* * *

 

Apro gli occhi nel buio della stanza, ancora un po’ intontita. Stringo la coperta e mi sollevo su un gomito accorgendomi che sono quasi nuda.

 

Mi serve qualche secondo per riprendere il controllo delle mie facoltà e poi comincio a ricordare. Mi volto a guardarmi intorno ma Hisashi non c’è più.

 

Nel letto accanto al mio dorme mia sorella e un brivido mi raggela. Le mie mani tremano e sento l’aria che arriva a fatica ai polmoni. Non posso averlo fatto davvero! Penso nella vana speranza che sia stato tutto un sogno, o che si possa tornare indietro nel tempo, ad evitare che il mio egoismo mi conduca di nuovo allo stesso errore.

 

Guardo Minako, composta e dolce anche nel sonno, i capelli biondi sparsi sul cuscino e il respiro regolare.

 

L’ho disprezzata, l’ho invidiata e l’ho detestata a tal punto da arrivare a farle del male in questo modo. Non riesco a credere davvero di aver ceduto così facilmente.

 

Ho fatto il suo gioco perché era quello che volevo. Ma io non sono fatta per avere quello che voglio.

 

Stringo i pugni per la rabbia, e per la paura che Mina abbia scovato anche il più piccolo indizio di quello che è accaduto.

 

Sono una persona spregevole. Orribile e inutile. Tutto quello che desidero è fuggire di qua perché non potrei sopportare ancora di vedere il suo viso pulito e ingenuo che mi sorride, ignaro della persona orrenda che sono.

 

Chiudo gli occhi e lascio che le lacrime scendano silenziose lungo le mie guance. Piango per la prima volta dopo un sacco di tempo, non mi ricordavo nemmeno che facesse così male. Piango in silenzio, con il viso nascosto fra le coperte, per un senso di colpa che non mi abbandonerà mai.

 

Poi un pensiero mi attraversa la mente.

 

La cosa più giusta.

 

Quello che devo fare. (*)

 

Continua…

* * *

(*) Questa frase è una citazione da Q di Luther Blisset

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


uno

Time is running out

By Sihaya

 

* * *

 

CAPITOLO 8

 

Mi sveglio e mi siedo sul letto con un mal di testa atroce. Questa notte ho dormito poco e male.

 

Ho pianto.

 

Mia sorella siede sul suo letto accanto al mio e legge un libro.

 

«Finalmente ti sei svegliata!», esclama sorridente mostrandomi la sveglia che segna ormai le dieci e mezza di mattina.

 

Io non dico nulla. Ho un peso sul cuore che mi impedisce di parlare.

 

Mi alzo per inerzia dal letto e prendo l’uniforme scolastica. Mi vesto di malavoglia, ma ho una cosa urgente da fare.

 

«Dove vai?», chiede mia sorella sorpresa.

 

«A scuola», faccio io.

 

«Da quando vai a scuola anche in agosto? Hai delle materie da recuperare?», mi chiede come se non sapesse la risposta.

 

«No», le dico mentre mi allaccio la gonna, e parlarle mi riesce tremendamente faticoso, «devo parlare con il prof. d’inglese.»

 

Lei mi guarda stupita.

 

«Ho vinto il concorso d’inglese», le dico lasciandole il tempo di trarre le dovute conclusioni. L’espressione sul suo viso si trasforma da stupita a sconvolta: «non … non vorrai partire…?», chiede con una vocina acuta e preoccupata.

 

«Certo che parto.», faccio io fingendomi baldanzosa e orgogliosa di questa insulsa vittoria.

 

«Tu... tu non puoi farlo…», dice lei come se fosse una tragedia.

 

«Che c’è? Ti mancherò?», chiedo sarcastica, «Mi avete rotto le scatole per settimane con la storia che dovevo partecipare e adesso che ho vinto batti in ritirata?», le dico riferendomi a tutto quello che lei, i nostri genitori e il professore hanno fatto per convincermi a tentare quel maledetto test. 

 

Minako continua a guardarmi senza parlare.

 

Io penso a quanto sono perfida e a quanto lei riesca ad essere ingenua. Inutile che nasconda il motivo della mia scelta, presa d’istinto solo poche ore fa. Non ho il coraggio di affrontare la realtà e scapperò dai miei errori come si addice ad una vigliacca.

 

Prendo le mie cose ed esco dalla stanza senza nemmeno salutarla.

 

* * *

 

Esco dalla segreteria scolastica carica di fogli e moduli che dovrò compilare prima della partenza.

 

Non prima di un mese. Ancora non so cosa farò fino a quel giorno, ma concentro i miei pensieri solo sulla data definitiva in cui uscirò da questa vita, dove non trovo posto per me.

 

Infilo i fogli in cartella e cammino decisa verso la palestra. Di certo troverò la squadra ancora là nonostante il campionato sia terminato. Dubito che riescano a stare lontani dal campo da basket per più di qualche giorno.

 

So che ci sarà Mina là con loro e troverò anche Mitsui.

 

Ma qualcosa di perfido mi spinge a raggiungerli per avvisare della mia partenza. Credo che la mia superbia abbia sete di vittoria e voglia conoscere le loro reazioni.

 

Non so perché ma riesco sempre a farmi sottomettere dalla mia impulsività. Ho scelto di partire e ho cercato di convincere me stessa che questo è quello che voglio, ma ho bisogno ancora una volta di mettermi alla prova. Di dimostrare che, per quanto squallida, anche io ho avuto parte in questa storia.

 

Attraverso la porta aperta e lancio un’occhiata fuggevole al sole che tramonta dietro le mie spalle, quasi voglia segnare la fine di tutto questo.

 

Entro a testa alta e mi avvicino ai ragazzi che chiacchierano assieme a fine allenamento. Mia sorella parla con il capitano. Mitsui si volta ed è il primo ad accorgersi di me.

 

«Ciao», mi dice con un tono che nasconde mille altre parole.

 

Mia sorella alza gli occhi verso di me, è spaventata. Credo che abbia capito quello che sto per annunciare. Allora l’accontento. Dico a tutti che partirò, che sono lì per salutarli e che non seguirò con loro gli ultimi mesi di scuola. Poi, come si addice ad un vero addio, elargisco “auguri” e “buona fortuna” per il futuro di tutti, tanto che non sembro più nemmeno io. Ancora qualche parola e sarò uguale a mia sorella.

 

Non proprio. Lei ci avrebbe aggiunto anche le lacrime.

 

Poi, sicura di aver detto abbastanza e di non voler sentire nulla di più, volto le spalle a tutti per uscire di scena.

 

«Non dire stronzate! Tu non puoi partire!», esordisce Mitsui e io mi fermo contro la mia volontà. La sua voce, come una calamita, mi costringe ad ascoltare le sue parole e rievoca nella mia mente le immagini e le emozioni di ieri sera.

 

Mi volto a guardarlo con un’espressione cupa sul volto, che gli faccia capire quanto desidero essere lasciata in pace. Mia sorella dietro di lui ha il viso contratto per trattenere le lacrime e stringe una mano del capitano, mentre si nasconde dietro la sua schiena, quasi avesse paura della mia reazione.

 

«Io posso fare quello che voglio», rispondo aggressiva.

 

Mitsui mi fissa impotente, come un bambino che sta perdendo tutti i suoi giocattoli. So perfettamente cosa sta pensando.

 

«Non è questo quello che vuoi», mi dice con la voce incrinata, «tu non volevi nemmeno partecipare a quel cazzo di concorso», sbotta agitando una mano verso di me.

 

Lo guardo sospettosa, lui come fa a saperlo? Poi guardo di nuovo mia sorella, che ha la lacrima facile e tra un po’ si metterà a piangere. Deve soltanto cominciare a capire.

 

«Ho cambiato idea», dico adducendo una scusa ignobile. Ma tutto va bene, pur di farlo tacere.

 

O di farlo parlare.

 

Che sia lui confessare quello che ha fatto: io non sono altro che una pedina nelle sue mani, lui mi ha trascinato in tutto questo senza farsi scrupoli e io l’ho seguito come una stronza.

 

Devo andarmene da qui, penso, ma lui mi afferra con violenza per un braccio sotto gli occhi sorpresi dei compagni di squadra. Ayako balza in piedi per fermarlo.

La sua mano stringe così forte il mio braccio e sono costretta a dirgli che mi sta facendo male.

 

Lui non ascolta le mie parole:«Tu non parti.», mi dice fra i denti.

 

«Dimmi il motivo per cui non dovrei farlo.», dico provocatoria fissandolo negli occhi con tutta l’arroganza che trovo dentro di me.

 

Lui è ammutolito e mi lascia il braccio. Non può parlare. Si guarda intorno e cerca mia sorella.

 

Potrei andarmene ora, ma ho ancora qualcosa, orgoglio credo, che ha un bisogno folle di sfogarsi.

 

«Dai, forza», lo sfido, «dammi un motivo per cui dovrei restare.»

 

Lui non parla. Mi guarda e le labbra gli tremano.

 

Io non ho pietà.

 

«DAMMI UN SOLO MOTIVO DEL CAZZO PER CUI DOVREI RESTARE!!», gli urlo in faccia e poi gli volto le spalle con un gesto deciso e aggressivo, gonfia di rabbia e d’orgoglio, scuotendo i miei capelli lunghi a sfiorargli il petto ancora una volta.

 

Mi allontano senza voltarmi indietro a guardare né lui, né mia sorella. Lascio i ragazzi in palestra ammutoliti e turbati, poiché non possono capire.

 

Ho fatto quello che volevo fare e ora mi nasconderò per sempre, dato che non esiste alcun motivo per cui dovrei restare.

 

«Ti amo.»

 

La voce di Mitsui, dal tono quasi disperato, mi gela nel mezzo del campo da basket.

 

Mia sorella lancia un grido e si trattiene con una mano sulla bocca.

 

«Che… che cooosa!?», sbraita il rossino spezzando il silenzio vitreo calato nella palestra.

 

Io ancora non riesco a parlare. Mi volto terrorizzata, scrutando con gli occhi sbarrati i volti dei presenti, il mio cuore batte impazzito e quasi mi strozza la voce.

 

Mia sorella si tiene una mano sulla bocca e stringe ancora più forte quella del capitano, dalla quale non si era staccata un secondo. La guardo e non piange.

 

Guardo Ayako, che è balzata in piedi per la sorpresa e mi guarda a bocca spalancata. Sakuragi fissa attonito il compagno di squadra e il playmaker accanto a lui è rosso in volto, imbarazzato come se avesse detto lui quelle parole.

 

Finalmente alzo gli occhi ad incrociare quelli di Mitsui, che mi guardano orgogliosi, sanno di avermi sconvolto.

 

«Cosa..?», sussurro senza riuscire a distogliere l’attenzione da lui.

 

E intorno me tutto comincia ad agitarsi in un modo che non riesco a comprendere. Ayako trascina alcuni ragazzi fuori dalla palestra mentre Akagi accompagna lontano mia sorella che non smette di guardaci allibita e di tenersi la mano sulla bocca.

 

Io sono ancora troppo stordita per capire.

 

«Come hai potuto dirlo davanti a mia sorella!?», chiedo sconvolta a Mitsui, appena vedo che tutti sono usciti e la voce finalmente mi torna. Lui mi guarda stupito. Sorride.

 

«Mina lo sa.», mi dice e io sento le ginocchia cedere, mentre il cuore si blocca.

 

«Ma…come?! Mina è… è la tua ragazza….come puoi…», protesto incapace di mettere insieme i pezzi di quello che vedo davanti a me. Lui china la testa e ride sommessamente.

 

Il battito cardiaco si fa sempre più intenso mentre qualcosa comincia a muoversi nella mia testa.

 

«Non stiamo insieme», dice lui.

 

«Cosa!?», sussurro.

 

«Non stiamo insieme», ripete lui divertito, «non è la mia ragazza».

 

«Ma…ma tu venivi sempre a prenderla e …e …io », balbetto infantile.

 

Lui ride, questa volta così forte che deve tenersi l’addome con un braccio. E io vedo quello che non volevo capire.

 

«Mi hai preso in giro!!?», grido furiosa.

 

Lui continua a ridere in modo spasmodico mentre scuote la testa per negare di essersi preso gioco di me:«Tua sorella non è la mia ragazza, …lei sta con il capitano! Io dovevo solo venire a prenderla per uscire perché lei non voleva che si sapesse in giro.», dice respirando a fatica mentre io mi trasformo letteralmente in una statua di pietra.

 

Che cosa!?

 

Proprio …il capitano!? Mi chiedo esterrefatta sbattendo le palpebre, cercando di ricostruire un puzzle i cui pezzi si incastrano alla perfezione sotto il mio naso.

 

Sono un’idiota.

 

«Voi…ma come …», annaspo in cerca della ragione, «Voi vi siete divertiti alle mie spalle!!! Vi siete presi gioco di me!», grido mentre sento la rabbia salirmi alla testa.

 

«SEI UNO STRONZO!! SEI UN MALEDETTO STRONZO!!», urlo stringendo la mano destra in un pugno e tirandolo con tutta la mia forza contro il suo stomaco.

 

Ma lui è più veloce, …come potevo dubitarne?

 

Mi afferra e mi immobilizza entrambe le braccia lungo i fianchi.

 

Continua a ridere di me, con arroganza: «non lo fatto apposta», dice a bassa voce avvicinandosi al mio viso. Un brivido mi percorre, «Me l’ha chiesto Minako, non voleva che si sapesse in giro di lei e Akagi. Voleva aspettare di presentarlo ai tuoi genitori.»

 

Non posso crederci. Non posso credere di essere stata così stupida e così imbecille da non voler capire quello che si svolgeva cristallino davanti ai miei occhi.

 

«Tu avevi capito!! Avevi capito tutto e hai continuato a fare finta di nulla!», lo accuso, «sei un vero bastardo!», ringhio a denti stretti e lo guardo, rassegnata, senza trovare la forza di ribellarmi alla mia stupidità. Lui non si lascia sfuggire l’occasione del mio silenzio per baciarmi sulle labbra.

 

Io che credevo non avrei mai più sentito il suo sapore…

 

Poi le sue mani afferrano il mio viso e il suo bacio si fa più intenso, poiché io non mi ribello e lo lascio fare, ancora stordita.

 

«Devo ammettere che è stato divertente», mi sussurra all’orecchio, «Non pensavo che ci avresti messo tanto a capire», dice quasi sadico, «non pensavo nemmeno che ieri sera…»

 

«SEI UNO STRONZO!!!», grido io per impedirgli di continuare a cacciare il coltello nella piaga.

 

«Mai quanto te», sottolinea lui. Io lo guardo furiosa, ma lascio che mi abbracci.

 

Ho quasi l’impressione di essere felice.

 

Mi bacia dolcemente ancora una volta finchè io non ricambio, dimenticando fin troppo in fretta tutto quello che è accaduto. Le sue mani scendono dolci sotto la mia maglietta e mi sfiorano la pelle facendomi rabbrividire di nuovo.

 

«Non partirai vero?», mi chiede lui ad un certo punto, liberando le mie labbra.

 

Partire?

 

«Per dove?», gli chiedo anelando per un altro bacio, lui mi deride di nuovo.

 

Ah! L’Inghilterra!

 

L’avevo già dimenticata.

 

«Non avrai pensato che volessi partire davvero?», mi difendo cercando di salvare un po’ di quella dignità che lui mi ha sottratto.

 

Attendo un suo commento, ma per fortuna non dice nulla.

 

Credo che sappia che ho mentito, ma preferisco che mi lasci questa soddisfazione, penso lasciandomi baciare di nuovo, insaziabile.

 

* * *

 

«Certo che non pensavo che Mitsui potesse dichiararsi a quel modo davanti a tutti...», commenta Akagi seduto sui gradini dell’entrata alla palestra mentre mia sorella appoggia delicata la testa sulla sua spalla.

 

«Beh, è innamorato», commenta lei ingenua e infantile come sempre, considerando quel comportamento come la cosa più naturale del mondo.

 

«Sarà…», commenta il capitano dubbioso, «ma non mi sembrava ci fosse bisogno di tanto casino.»

 

Mina ride. «Io l’ho trovata una cosa molto romantica! Sono contenta che sia andata così! Avevo una paura che Saeko partisse davvero…», risponde felice, sempre con la testa fra le nuvole. «Quando Mitsui è venuto a chiedermi di dargli una mano per aiutarlo con mia sorella ho capito subito che era la persona giusta per lei! Però le cose sono state piuttosto difficili, non lo so, ma credo che ci fosse qualche incomprensione fra loro… » aggiunge dimostrando ancora una volta di non aver capito nulla di quello che stava accadendo solo a causa sua.

 

«Che dice Saeko di noi due?», cambia discorso Akagi, grande e grosso, ma insicuro come un bambino, di fronte allo spirito puro di mia sorella.

 

«Ecco… Ho paura che tu non le sia molto simpatico… ma non la devi prendere sul serio, lei fa così è solo un atteggiamento. Disprezza tutto per paura di farsi coinvolgere.», risponde mia sorella tentennante, scrutando il viso del ragazzo per paura che si offenda.

 

«Posso sapere cosa le hai detto di Akagi?», mi chiede Hisashi abbracciandomi divertito mentre ascoltiamo di nascosto, ad un passo dall’uscita della palestra, il discorso di quei due.

 

«Scemo,… mi riferivo a te quando le dicevo quella roba…»

 

Se sapesse alle parole di fuoco che ho detto… rischierei la morte….

 

Hisashi mi abbraccia più stretta e ridacchia:«non credi che dovresti fare qualcosa per questo tuo caratteraccio?», dice baciandomi fra i capelli.

 

Io gli lancio un’occhiata fulminante.

 

Mh…

 

Forse ha ragione e dovrei scusarmi con mia sorella….

 

O magari le dico soltanto che ho cambiato opinione sul suo ragazzo!

 

 

* * * FINE * * *

 

 

* * *

 

Saeko (riferito a Sihaya): Ma che cos’è questo finale deficiente!?

 

Sihaya: Buona tu! E molla quel disgraziato di Mitsui che mi serve per un’altra storia!

 

Saeko: Non puoi portarmelo via così presto!

 

Sihaya:  Io posso fare tutto!!!!  UAH HA HA HA HA (delirio di onnipotenza)

 

Hanamichi (incavolato): Perché io ho avuto una squallida battuta e basta in questa storia…

 

Rukawa (sbadiglia): Lo dici a me? Io ero solo una comparsa!

 

Sihaya (batte impaziente una bacchetta fra le mani):  Che è!? Osate forse lamentarvi!!!? Al lavoro disgraziati!!! Shaaa! Shaaa!

 

I want toooo break freeeeeeee…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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