Don't you remember?

di Noth
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Don't you remember? ***
Capitolo 2: *** Breaking in a half. ***
Capitolo 3: *** Be the one. ***
Capitolo 4: *** It's just too strange. ***
Capitolo 5: *** I promise. ***
Capitolo 6: *** Maybe I couldn't. ***
Capitolo 7: *** I thought I knew all. ***
Capitolo 8: *** I wanted to learn. ***
Capitolo 9: *** It wasn't. ***
Capitolo 10: *** Never ***
Capitolo 11: *** I'll do it for you. ***
Capitolo 12: *** Don't even say it. ***
Capitolo 13: *** I want to marry you. ***
Capitolo 14: *** It wasn't an option. ***
Capitolo 15: *** Now I know. ***
Capitolo 16: *** I'll find you. ***
Capitolo 17: *** Epilogue ***



Capitolo 1
*** Don't you remember? ***


Avete mai immaginato Kurt e Blaine, piccoli, in un orfanotrofio, che si amano prima ancora di sapere cos'è l'amore?


Don't you remember?
-Capitolo 1-








Mi ricordo ancora i dolci anni passati in quell’orfanotrofio. Eravamo due stolti ragazzini, quasi due bambini. Due anime giovani che giocavano a rincorrersi in mezzo all’erba, due poveri giovani che arrossivano per qualche bacio dato sotto le coperte la notte.

E le nostre bravate, te le ricordi, Kurt?

Ogni memoria si è tatuata nella mia mente ed ancora oggi sorrido a pensarci.

Arrivammo al St. Benedict lo stesso giorno. Due bambini di cinque anni, due cuccioli di uomo senza nessuna base su cui crescere. Abbiamo fatto affidamento solo l’uno sull’altro. Vicini di letto un po’ per fortuna un po’ per caso. Tu, con quel tuo vizio di succhiarti il pollice che non riuscivano a levarti ed io, con la mania di prendere due bastoncini e sbatacchiarli ovunque per creare del ritmo. Due bambini nati per restare assieme.

Due bambini che si amarono ancora prima di sapere cosa questo voleva dire.
Due bambini che il fato si è divertito ad allontanare ed avvicinare come due futili marionette peccatrici.
Io e te.
Ti ricordi, Kurt?


 
***


 
« Blaine! Kurt! Dove vi siete cacciati? » gridava Marianne, una delle donne che gestiva l’orfanotrofio.
Non potevano immaginare che avevamo trovato un buco nel muro, dietro la carta da parati della nostra stanza, né che ci nascondevamo lì dopo ogni bravata.
« Blaine! Kurt! » tuonava, correndo per i corridoi.

Eravamo ben nascosti, vicinissimi, i visi a pochi centimetri, stipati in quella fessura che si era creata nel tempo in quelle vecchie mura. Ci mordevamo la lingua per non scoppiare a ridere e ci tenevamo per mano.

Respiravo il tuo profumo da bambino e terra che ci ritrovavamo sul vestiti dopo aver rotolato nel cortile dell’orfanotrofio. Adoravo il nostro profumo, quello mio ed il tuo mischiato assieme. E se lo capivo da bambino, che eravamo perfetti assieme, voleva dire che eravamo fatti per completarci.

« Non ci beccheranno mai qui. » sussurrasti, portandoti una mano davanti alla bocca per soffocare le risate.
Annuii vigorosamente e diedi una sbirciata oltre la carta da parati. Ormai ci avevano ampiamente superati.

« Ripetimi un attimo perché abbiamo rubato due barattoli di marmellata di more dalla cucina? » domandasti, con l’aria di chi la sapeva lunga.
Feci spallucce.
« Perché è superbuona e perché è terribilmente divertente. » risposi, e tu ridesti.

Ero cresciuto con la tua risata, con le nostre fughe, con i nostri racconti di mostri notturni che non esistevano in nessun posto se non nelle nostre menti. Sono cresciuto con la tua mano nella mia, con il tuo sorriso sempre accanto al mio, con le nostre lacrime di solitudine e di paura che annegavano nel pigiama dell’altro. Ci siamo salvati a vicenda nel modo in cui solo i bambini sanno farlo: naturalmente, come fratelli, come due ragazzini che si sono innamorati l’uno dell’altro senza volerlo, senza esserne consapevoli, ma quel genere d’amore che è come quello per una madre o per un padre: infinito ed inscindibile.
Eterno.

« Dici che possiamo uscire? » chiedesti, cercando anche tu di sbirciare oltre il buco nel muro.

Assentii. Non ci avrebbero preso mai e, comunque, nessuna punizione sarebbe stata poi così insopportabile con te accanto.
Sgattaiolammo fuori dal buco e buttammo un’occhiata all’orologio.

Erano le otto e mezza di sera, avevamo saltato la cena comune, oramai, ma avevamo due barattoli di dolcissima marmellata alle more sotto i cuscini della nostra minuscola stanzetta.
« E’ quasi ora della preghiera di gruppo. » borbottasti poco intenzionato ad andarci. Mi guardasti e pensammo lo stesso, come sempre, due menti, due cuori diversi che troppo spesso pensavano come uno.

Eri il mio amato fratello, il mio pezzo di puzzle mancante, la bellissima pentola d’oro alla fine di un mediocre arcobaleno.

« Dici che se corriamo fino alla radura nel bosco a mangiare la marmellata col pane che abbiamo messo da parte da ieri sera se ne accorge qualcuno? » chiedesti, titubante quanto bastava per spingermi ad accogliere l’idea a braccia aperte.
« E anche se fosse? » sorrisi e corsi a prendere il vasetto di marmellata da sotto il cucino, ormai macchiato di more. Tu mi imitasti e mi sorridesti di rimando, come al solito, indugiando un po’ troppo sui miei occhi per essere un semplice sguardo tra amichetti.

Quella sorta di amore peccaminoso eppure innocente si era insinuato nei nostri cuori da troppo tempo. Ora era impossibile cacciarlo via.

Eravamo due bambini, Cristo, due bambini.
Perché ci volevamo già allora così tanto bene?
Cupido quella volta ci aveva visto fin troppo bene.
Anzi, no, era un affetto che era cresciuto ad ogni bravata, ogni sorriso, ogni abbraccio di conforto durante gli incubi notturni che non mancavano mai, dopo ogni panino ceduto all’altro, a causa di tutto quello che ci eravamo trovati a condividere.
Una vita intera.

Corremmo giù per le scale, ormai silenziosi e ottimi conoscitori dei punti scricchiolanti della struttura, raggiungendo l’atrio ed aspettando che Dominique, un’altra donna che gestiva il St. Benedict, si dirigesse verso la stanza delle riunioni serali.

Respiravamo piano e oramai, assieme, sembrava tutto troppo semplice.

Sgattaiolammo fuori dalla porta, consci dell’aria settembrina che ci mordeva la pelle con il suo vento freddo. Ci prendemmo per mano, la marmellata sotto il braccio, e scappammo dentro il bosco di conifere appena fuori l’orfanotrofio. Corremmo come due disperati, inciampando e cadendo, sempre per mano, graffiandoci le gambe coperte solo da dei pantaloni corti e riempiendoci di terra. La luce soffusa della luna gettava ombre morbide sul tuo viso di bambino e non riuscivo a smettere di guardarti. Quello che consideravo più di un fratello. La mia metà perfetta.

Sorridevi, felice, ed il mio cuore faceva a gara con il mio velocissimo respiro. Non so chi dei due stesse vincendo, mi sembrava di stare volando tra le fronde con la mano in quella di un angelo.
Raggiungemmo la radura dove nascondevamo i panini in una cavità dentro un albero secco. Il tutto era avvolto in un lembo di lenzuolo che avevamo strappato, e stava ben sicuro sotto a un sasso cavo.

Avevamo il fiatone ed i capelli castano chiaro ti cadevano distrattamente sul viso a ciuffetti disordinati. Sapevo che ti piaceva averli in ordine, eppure quando eri con me ti lasciavi sempre andare.
« Siamo proprio una bella squadra. » esclamai, accucciandomi, prendendo i panini e mettendo il pezzo di lenzuolo come una tovaglietta per dividerli a pezzi e farne metà.
« Ovvio che lo siamo. Siamo perfetti. » rispondesti, sorridendo e guardandomi mentre ti allungavo il tuo pezzo di pane.

Con le dita ci spalmammo la marmellata sul panetto facendo un pasticcio e rendendoci tutti appiccicaticci. Divorammo la nostra cena accucciati e vicini, un po’ come degli animali, mentre ridavamo. Il sapore delle more mi si scioglieva sulla lingua, zuccheroso e terribilmente dolce. Con un retrogusto lievemente fresco e acerbo.

Ti sporcasti il naso di marmellata, sembravi un gatto spelacchiato. Mi avvicinai e, con un dito, ti pulii, sorridendo e quasi cercando di non scoppiarti a ridere in faccia.
« Che c’è? » bofonchiasti, la bocca piena e circondata di nero-violaceo.
« No, no niente. Sei buffo così. » commentai, indicandoti con un gesto distratto. Tu scuotesti la testa.

« Perché tu pensi di avere la faccia pulita, vero? » borbottasti, spingendomi con le mani imbrattate di marmellata e sporcandomi.

« Maledetto! » gridai, e risposi all’attacco macchiandoti la guancia destra.

Finimmo a rotolare nella terra, sporchi dalla testa ai piedi, ridendo come due pazzi, azzuffandoci e mordendoci.
Era tutto terribilmente bello con te. Litigare era impossibile. Eravamo due parti di una cosa sola e mi confortava sapere che eri sempre al mio fianco. La solitudine non mi pesava. Non così.

Tu eri la mia perfezione.

Lo sapevi, vero?


Esausti ci distendemmo sulla rada erba della radura. Respiravamo affannosamente ed avevamo le lacrime per le risate. Eravamo messi in una posizione da angeli di neve.
Ridevamo, ridevamo, facevamo un chiasso che avremmo potuto svegliare il mondo intero.

Le nostre mani si trovarono con naturalezza, lentamente, si sfiorarono, si conobbero e, lentamente, si intrecciarono. Le mie terminazioni nervose impazzivano ed il mio cuore era troppo felice per poter semplicemente battere. Cantava.

Chi avrebbe mai pensato che la mia vita sarebbe stata tanto bella in uno squallido orfanatrofio maschile?

Chi avrebbe mai pensato che mi sarei irrimediabilmente innamorato della persona più splendida del mondo?

Chi avrebbe mai immaginato che la nostra maledizione avrebbe avuto inizio in maniera così innocente?

« Blaine? » mormorasti, tra le risate.
« Dimmi, Kurt. »

Ci fu qualche attimo di silenzio.
« Sono tanto felice di averti incontrato. »

Ed ecco che la nostra natura di bambini emergeva con facilità. Commenti confusi, troppi sentimenti per due cuori così giovani e fragili. Non avevamo nulla che ci spiegasse cosa fosse l’amore. Nemmeno eravamo a conoscenza della sua esistenza.

Soprattutto non sapevamo che due ragazzi avessero il diritto di amarsi. Ma oramai non si parlava più di diritti, si parlava di un bisogno atroce che ci aveva unito ancora prima che acconsentissimo.
















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Spazio Autrice:
Mi sono soffermata a pensare a quanto l'amore sia incontrollabile. Se si fossero incontrati prima?
Se fosse stato impossibile non innamorarsi?
E se la società dell'epoca non approvasse?
Da adulti cosa sarebbe successo?


Lo scoprirete, promesso.
Yours,
Noth

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Capitolo 2
*** Breaking in a half. ***


Don't you remember?
-Capitolo 2-

canzone consigliata: http://www.youtube.com/watch?v=RiwKZUYMvaE








Ero abituato ad averti accanto, tanto che non avrei mai immaginato di trovarmi separato da te un giorno. Eravamo io e te, noi e le nostre avventure, noi e i nostri cuori che battevano all’impazzata ogni volta che ci sfioravamo.

Io e te che venivamo adottati da famiglie differenti.

Me lo ricordo ancora il dolore, proprio come uno strappo, come se avessi preso il cuore ed avessi tirato i ventricoli in due direzioni differenti.

Me ne ero accorto che a stare senza di te non ero capace. Proprio non ci riuscivo, per quanto mi sforzassi. Nemmeno l’allenamento poteva aiutarmi. Era quel genere di cose che fanno radici dentro di te come un cancro e per quante chemioterapie tu faccia non spariscono mai del tutto.

Te lo ricordi, Kurt?



 
***



 
« … Per questo siamo felici di annunciarvi che siete entrambi stati adottati! » squittì entusiasta la direttrice dell’orfanotrofio, congiungendo le mani e facendo un sorriso sollevato. Chissà da quanto tempo volevano liberarsi di noi.

« Intendete che… siamo stati addottati dalla stessa famiglia? » chiese Kurt, ingenuamente.

Le due badanti accanto alla direttrice scoppiarono a ridere quasi in contemporanea, guardandosi confuse.

« Ma no, sciocchini. » disse una, ricomponendosi in fretta.
« Nessuna famiglia adotta mai due bambini contemporaneamente. È già tanto che ne vogliano uno solo. » aggiunse l’altra e la direttrice annuì a sostegno delle loro parole.

Due famiglie diverse.

Chissà quanto lontane.

Due famiglie che avrebbero tenuto divisi entrambi. Sarebbe tutto finito. Il mio piccolo angolo di paradiso stava diventando una prateria immensa di inferno.
Non volevo  vivere lontano da Kurt.

« Bè, noi rifiutiamo. » risposi. « Sicuramente altri due ragazzini andranno altrettanto bene. »

La direttrice mi fulminò con lo sguardo, sporgendosi sulla scrivania e poggiandovi le mani.
« Non è una scelta che spetta a voi ragazzini. Le famiglie pagano per le adozioni ed è giusto che abbiano ciò che hanno acquistato, non vi pare equo? »

Strinsi con violenza i braccioli della sedia dove mi ero seduto, mentre la direttrice mi osservava con aria saccente. Volevo prendere per mano Kurt e correre fuori da quell’ufficio polveroso che odorava di thè e cannella.
« Ma se noi non vogliamo non possono prenderci! » esclamai, cercando di sprofondare nella sedia, odiando quell’atmosfera. Era una tortura e sentivo già il dolore della separazione.

Era una decisione sulla quale non avevamo voce in capitolo, le nostre vite avrebbero preso vie scelte da altri. Non saremmo stati padroni di amarci, mai.
« Possono. » mi zittì una delle due badanti. Mi imbronciai all’istante.

Kurt si mordicchiava il labbro con nervosismo, gli occhi lucidi per la frustrazione e dondolava le gambe da bambino. Non toccava a terra coi piedi e, anche in quella situazione, era adorabile come mai nessuno era stato.

Non potevano dividerci. Era come se fosse mio fratello. Era come se fosse… non sapevo cosa.

Nessuno dei due ebbe più il coraggio di ribattere.

« Dunque, Kurt, tu sei stato scelto dalla famiglia Norberg. È composta solo da un padre e da un figlio che ha più o meno la tua età, forse un po’ più grande. Sono abbastanza agiati ed abitano a… uhm, Fake Street, numero 34. »

Non capivo perché ci desse quelle informazioni, non sapevamo nulla della vita fuori dall’orfanotrofio. Era come se stesse parlando in un’altra lingua. Nulla
acquisiva senso, era come dover fingere di ascoltarla mentre il mio mondo si strappava come carta straccia e volava via trascinato da chissà quale vento.

« Tu, invece, Blaine sei stato adottato dai Damian. Una famiglia molto più numerosa, vedo dal fascicolo che sono una coppia non troppo giovane con due gemelle femmine di due anni più piccole di te. E vivono a… Oh, che cosa divertente! » esclamò la direttrice. « La parta opposte della città! » e scoppiò in una risata divertita, subito imitata dalle due donne al suo fianco. I suoi capelli bianchi non si muovevano nemmeno, tanto erano fissati, ed i denti che spuntavano da quelle grottesche labbra rosa acceso erano terribili da fissare.

Volevo mettermi a piangere e a gridare. Che senso avrebbe mai avuto la mia vita ora?

« Domani verranno a prendervi, abbiamo già concordato ed hanno già pagato. Ora tornate nella vostra stanza, preparate i fagotti e dormite. Domani inizia la vostra nuova vita. E ora via. » ci liquidò con un gesto della mano.

Apatici in maniera spaventosa venimmo spinti dalle due donne fuori dall’ufficio e ci accompagnarono fino alla nostra stanza. Come se avessimo potuto andare da qualsiasi altra parte.

Ci distendemmo a letto, a pancia sotto, e sentii Kurt scoppiare a piangere. Si raggomitolò su se stesso e pianse come se fosse morto qualcuno. Io stavo con gli occhi spalancati e mi rifiutavo di singhiozzare. Guardavo la sua schiena, dato che aveva deciso di darmi le spalle, con le lacrime che mi scorrevano sul
viso. Ero arrabbiato, stavo immobile ed esse fluivano via da me.

Avevo freddo e avevo voglia di Kurt. Mi alzai e strusciai i piedi, infilati in dei calzini bucati, sul pavimento freddo. Mi distesi accanto a lui e rimanemmo schiena contro schiena.

Lui non la smetteva di piangere. Era come se non riuscisse a fermarsi, come se oramai fosse caduto in un burrone che non aveva fine e non potesse stoppare la sua caduta.

Gli presi la mano che teneva in grembo e lui se la appoggiò al petto.

« Non voglio andare via. » singhiozzò, assumendo quel tono da bambino capriccioso che aveva sempre quando piangeva.

Gli diedi una stretta alla mano.
« Andrà tutto bene. Vedrai che… che ci troveremo. Non saranno poi tanto lontane le case, no? » cercai di rassicurarlo, non credendoci neanche un po’. Era come se dovessi cedere il mio unico compagno di giochi. Mi accompagnava da una vita, era come se dovessi cedere la via vita. Avrei voluto bloccare quell’istante. Avrei voluto fermare tutto e restare lì, infreddolito, a strusciare i miei piedi contro quelli ugualmente gelidi di Kurt. A pensarci, l’escursione termica, in quel periodo, era assurda.

« Non è vero. Non voglio lasciarti, non so nemmeno come si fa a stare senza di te. » piagnucolò, tirando su col naso.
« Imparerai. Imparerò anch’io. Ma… non è un addio, Kurt. » sussurrai, girandomi e mettendomi contro la sua fronte. Era come essere abbracciati ad un peluche.

Era normale essere innamorati del proprio peluche?
A quell’età non lo capivo nemmeno, ma d’altra parte i sentimenti non si capiscono, si sentono e basta.

Si girò anche lui per guardarmi dritto in faccia, occhi negli occhi.
« Mi mancherai tantissimo. » gli dissi, mordendomi il labbro per non scoppiare di nuovo a piangere. Dovevo essere forte. Un bambino forte.
Però non lo ero, fingevo di esserlo per entrambi.

« Posso restare qua con te questa notte? » gli chiesi, abbassando lo sguardo. Lo abbassò anche lui, le sue ciglia lunghe gli carezzavano le guance rosee e morbide.

« Voglio che resti. Voglio ricordarmi come profumi. » mormorò tra sé, come se stesse rispondendo a se stesso e non a me. Non capivamo che quelle frasi volevano dire molto di più.

Le dicevamo perché non c’era altro da dire e non ci era stato insegnato cosa era giusto e cosa non lo era.
Appoggiò la fronte sulla mia e chiuse gli occhi, lasciandomi lì, a sopportare una notte in cui non avrei mai dormito, a stringere le coperte con le mani nella speranza di smettere di sentire quel dolore spaccarmi il cuore in due.






















----------------------------------------------------------------------------
Spazio Autrice:
Allora, bentornati al secondo capitolo della storia.
Allora, un po' triste no? Ma d'altra parte i bambini sono spesso sottovalutati.
Mi sono sorpresa di come ho scritto questo capitolo, sul serio.

Vorrei dedicarlo a Francesca che compie gli anni.
Doppio regalo tesoro, tutto per te.
Buon Compleanno!

Spero che vi piaccia, ogni recensione o commento è ben accetto.


Vostra,
{noth

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Capitolo 3
*** Be the one. ***


Don't you remember?
-Capitolo 3-








Erano passati otto anni. Otto anni senza di te, in una famiglia che, nonostante la sua dolcezza, era a fatica diventata la mia.
Mi sei mancato ogni giorno d ho obbligato il mio cuore a non dimenticarti per tutto questo tempo.

Ho creato un me che non era mai esistito per compensare la tua assenza. Ho inglobato rabbia e rancore, sono cresciuto con due sorelle identiche eppure tremendamente diverse che mi presentavano alle loro amichette sperando di metterci assieme.

Ma loro non mi davano nulla.

Nulla di quello che io e te avevamo semplicemente condiviso.
Sono rimasto solo tutto questo tempo.

Te lo ricordi, Kurt?
 

 
***

 
 
« Blaine, fammi il favore di portare le tue sorelle con te a scuola in macchina oggi! Tanto andate nella stessa struttura, è inutile ch io debba accompagnarle prima quando ci via anche tu, anche se in ritardo. Non ha senso ed è uno spreco di benzina! » gridò la donna che era diventata mia madre.

Mi infilai la canottiera sul torso nudo e rabbrividii, passandomi le mani tra i capelli per fare una scossa ai ricci scuri.
« Che palle! » risposi, ma assentii, e lei sapeva che non sapevo dirle di no. Era sempre stata davvero gentile con me e mi aveva trattato come se fossi stato sul serio figlio suo.
Le volevo bene.

Non come se volevo a Kurt, però. Quel sentimento era diverso, era stato come un fiume che si era scavato il sentiero: naturale e piacevole.

Ficcai un paio di quaderni nello zaino e scesi le scale mentre mi infilavo le scarpe.

« Buongiorno. » disse Richard, il mio padre adottivo, mentre leggeva il giornale e beveva il caffè, con quei suoi occhialetti appollaiati sulla punta del naso.
« ‘Giorno. » risposi, afferrando i biscotti al cioccolato che stavano sopra la tavola. Uno a testa, chiaramente.

In realtà, a causa delle calorie e dell’eccessiva quantità di burro che contenevano, uno bastava ed avanzava per tirare avanti fino all’ora di pranzo.
Era il primo giorno alla Ruth High School, la nuova scuola superiore aperta in città. Avrei fatto lì il mio Senior Year, invece di dover prendere un autobus scassato anche quell’anno per arrivare alla scuola più economica e vicina alla mia parte della città.

Chiaramente non avevo mai più visto Kurt dopo la notte del nostro addio.

Avevo scoperto di aver vissuto la mia infanzia in un orfanotrofio a regime alquanto stretto. Ci trattavano ancora come carcerati quando in realtà, fuori da quelle mura, il mondo era molto più moderno di quanto non avessi mai creduto.

« Buon primo giorno. » disse Ellen, mia madre, quando le mie sorelle fecero il loro ingresso in cucina. Nonostante avesse la sua età sprizzava ancora una certa energia.
« Mamma, è scuola. » commentò Ally, con aria scocciata.
« Sarà come al solito. » concluse Veronique con un sorriso, cercando di compensare il cattivo comportamento della gemella.

Mi avvicinai alla porta, legandomi la scarpa saltellando su un piede solo.

« Che ne dite se andiamo? Primo giorno di scuola, ricordate? » sbottai, sgattaiolando fuori e salutando tutti con un cenno della mano.
« Come se potessimo dimenticarcelo. » borbottò Ally, seguendomi.
 


***


 
Il discorso della nuova preside era stato davvero banale e stereotipato, ma non mi importava molto. Era una giornata dove le cose cominciavano daccapo, uno di quei giorni che partono, a prescindere, con il piede giusto.

Ogni armadietto aveva una targhetta con un nome, plastificata. Cercavo disperatamente il mio ma, fortunatamente, la scuola non era esageratamente grande e a scovare dove fosse non ci misi poi tanto come pensavo. Era il primo di una fila, e mi convinsi che lo avrei ritrovato in fretta al cambio di ogni lezione. Per curiosità diedi un’occhiata a colui che sarebbe stato il mio compagno di battute per il resto dell’anno, accanto al mio armadietto e, dopo averne letto il nome, mi cadde di mano la borsa.

Le persone mi camminavano attorno, mi spingevano per farsi largo tra la folla di corpi che cercavano il loro nominativo tra tutte le targhette, ed io a stento riuscivo a respirare.

In inchiostro nero, perfettamente leggibile, la targhetta riportava il nome di “Kurt Norberg”, ed io non avevo mai dimenticato a che famiglia lui era stato ceduto. Era come se mi fossi tatuato il suo nome e lo avessi continuato ad osservare per tutti gli anni seguenti passati in sua assenza.

Il cuore mi salì in gola, tanto che pensavo mi uscisse dalla bocca, ed iniziò a tremare ed a battere violentemente.

Dov’era? Era lì? Lo avrei rivisto? Lo avrei riconosciuto? Ma, soprattutto, lui avrebbe riconosciuto me?

« Ehm, » tossì una voce alle mie spalle. « Credo tu sia dinanzi al mio armadietto. »

Il timbro era lievemente diverso, si era lievemente scurito ed era cresciuto, anche se risultava ancora acuto come era stato in quelle giornate all’orfanotrofio, e lo avrei riconosciuto anche se il mondo ci steste urlando sopra.

Mi voltai, gli occhi sbarrati, ed eccolo lì, i capelli castani più in ordine di quanto non fossero mai stati. Gli occhi azzurri erano limpidi e grandi come un tempo.  Quel naso particolare che rendeva quel volto ancora bambino come un tempo, l’aria innocente ma lievemente più altezzosa di quanto ricordassi.

Quanto poteva essere cambiato il ragazzino col quale ero cresciuto?

Non sapevo cosa dire, avevo la bocca aperta ma ero immobile e lo fissavo senza riuscire a spiccicare una parola.

« Tutto okay? » Kurt piegò la testa da un lato « Hai l’aria di chi ha appena visto un fantasma. »
Se solo avesse saputo.

Un attimo, perché lui non mi aveva riconosciuto?

« Kurt. » riuscii a sibilare, sembrando quasi pazzo.
« S...sì, sono Kurt, e tu sei...? » domandò, gli occhi spalancati.

Sapevo che mi stava analizzando: aveva alzato il sopracciglio. Quel tic lo aveva perseguitato per anni all’orfanotrofio.
Ero sicuro al 100% che fosse lui, allora perché non mi riconosceva?

« Sono Blaine. » specificai, sperando di vedere sorpresa sul suo volto, invece rimase impassibile e sembrò sbirciare alle mie spalle.

« Piacere, Blaine. Posso poggiare la mia roba nell’armadietto? Sai com’è, pesa. » cercò di sorridermi, timidamente. Indossava una t-shirt azzurra a cui aveva sovrapposto un gilet grigio chiaro e dei pantaloni neri.

Non sapeva chi ero.
Non si ricordava di me.

Com’era possibile? Io non avevo smesso un solo istante di pensare a lui.

Mi oltrepassò con sguardo di scuse, mise i suoi libri nell’armadietto e se ne andò, salutandomi con un cenno della mano.

Rimasi immobile, con gli occhi che bruciavano ed i pugni stretti.

Mi aveva dimenticato.

Avevo speso tutti quegli anni ad obbligarmi a pensare  a lui, a ricordare ogni sue ruga, la forma delle sue ciglia, la curva della sua schiena e la sporgenza dei suoi zigomi.
Lui invece aveva rimosso ogni cosa.

Ero così ferito che tutti i nostri ricordi mi esplosero nella testa come se avessero finalmente rotto la gabbia che li tratteneva. Mio fratello, il ragazzo per il quale provavo dei sentimenti così forti non si era nemmeno preso il disturbo di portarsi con sé un pezzo di me.

Quel giorno faceva schifo.

Chiusi l’armadietto con un pugno e mi diressi a lezione, giurando a me stesso che non sarebbe finita lì, che avrebbe ricordato.
Si sarebbe ricordato di me, dei nostri discorsi, delle nostre corse.

Lo avrei riportato da me.

Non potevo lasciarlo andare via di nuovo ora che era di nuovo accanto a me.
Non potevo.

Kurt era... lui era speciale.













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Spazio Autrice:
Allora, vi dirò.
Avete presente che la mente funziona a psicologia inversa?
A volte più si cerca di ricordare qualcosa più si cancella, vi ricordate?
Ebbene, a volte capita.
A volte bisogna saperlo acecttare.
A volte arriva il momento di ricordare.

Spero che vi piaccia, ogni recensione è la benvenuta.
Vi avviso che il prossimo capitolo sarà dal punto di vista di Kurt!

Vostra,
{Noth

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Capitolo 4
*** It's just too strange. ***


Don't you remember?
-Capitolo 4-










Era stato come un dejà-vu. Avevo avuto la sensazione di conoscere quel ragazzo. Tutto di lui mi era familiare: il modo in cui parlava, in cui inarcava le sopracciglia e in cui si muoveva e, per qualche istante, avrei detto che pure lui avesse pensato la stessa cosa ma, più mi sforzavo di ricordare, più il cervello spingeva via quel pensiero dicendomi che non poteva essere possibile.

Di colpo pensai al mio braccio e vi lanciai un’occhiata distratta mentre mi guardavo allo specchio nel bagno dei ragazzi. Le lunghe linee bianche e sbilenche delle cicatrici sui miei polsi sembravano sempre bruciare ogni volta che le fissavo.

La mia famiglia era un vero incubo: un fratello bullo di un sadismo particolarmente acuto che non faceva altro che godere nel crearmi problemi in ogni ambito ed un padre che era fin troppo giovane, con un lavoro precario e un brutto vizio chiamato alcolismo che di certo non aiutava nelle discussioni domestiche.

Mi guardai allo specchio e pensai a tutte le volte che mi ero fatto del male per sentirmi meno solo. Era come se nelle mie iridi potessi leggere ogni mia ferita.

Pensavo a quel ragazzo e più lo facevo più mi veniva mal di testa.

A peggiorare ulteriormente il problema Blaine entrò in bagno. Qualcosa si spense nei suoi occhi non appena mi vide. Mi ferì profondamente, sembrava quasi delusione.

Perché?

« Ciao. » lo salutai, mentre fingevo di dovermi lavare le mani.

Chissà quanto sarei risultato strambo a riflettere guardandomi allo specchio.

« Ciao Kurt. » sussurrò lui, evitando il mio sguardo ed avvicinandosi. Si mise dinanzi allo specchio e rimase immobile a guardarlo.

« Va... tutto bene? » chiesi, provando a guardarlo, ma lui non mi voleva fissare. Forse aveva visto le mie cicatrici poco prima e si era reso conto che con persone come me era meglio non avere a che
fare.

Qualcosa, dentro di me, protestò, dicendo che non poteva essere così.

« Sto solo pensando. » rispose.

Rimasi imbambolato a guardarlo e non potei fare a meno di chiedermi dove potevo avere già visto quegli occhi verdi – anzi neanche verdi, tendevano più ad un castano dorato a seconda di come vi ci si
infrangeva la luce – nella mia squallida vita.

Forse in televisione, eppure la loro vista mi scuoteva nel profondo.

Tornai a lavarmi le mani e, per il nervosismo, ci misi troppa foga, schizzando l’acqua calda ovunque. Una goccia bollente mi finì in un occhio e arretrai premendoci sopra un palmo.

« Cavolo! » esclamai, stringendo i denti.

Il viso di Blaine si distese un po’ e si lasciò andare ad un sorriso.

« Cosa c’è? Cosa c’è di così divertente? » borbottai.

« Hai sempre esclamato “cavolo”, anche quando io gridavo le peggiori imprecazioni. » mormorò, avvicinandosi e levandomi le mani dall’occhio rosso e lacrimante. « Pure i tuoi occhi sono rimasti gli stessi. »

« Che? » chiesi.

Lui sospirò.

« Lascia perdere. » diede un’occhiata al danno creato dall’acqua e scrollò le spalle. « Niente di grave comunque, tutto regolare, niente sangue. » prese una salvietta e me la porse perché me la mettessi
sull’occhio.

« Grazie. » mormorai. Poi si voltò e solo allora parve guardarmi davvero ma, allo stesso tempo, come se lo avesse fatto un’infinità di volte prima. Qualcosa si spezzò dentro di lui e anche
dentro di me.

« Non posso credere che non ricordi. » sussurrò, allontanandosi e dirigendosi verso la porta.

Lo afferrai istintivamente per un braccio, tanto che la manica della maglia mi scoprì il polso e le cicatrici.

« Che dovrei ricordare? » gli chiesi, confuso e allo stesso tempo offeso per il modo in cui mi parlava.

« Cosa diavolo ti sei fatto al polso? Kurt... » lo spinsi lontano, coprendomi la pelle martoriata con la mano.

« Te lo dirò quando mi risponderai tu. »

Mi pareva impossibile di stare dicendo tutto quello a uno sconosciuto. D’altra parte praticamente nessuno aveva mai voluto parlare con me, quindi non sapevo giudicare se fosse normale o meno.

Blaine sembrava stare combattendo una guerra contro se stesso. Alzò più volte le braccia ma infine le lasciò ricadere lungo i fianchi.

« Forse mi sono immaginato tutto io... ma non è possibile. Senti, ci vediamo dopo scuola. Aspettami all’entrata, e non ti preoccupare per quello che ti dirò. Dubito significherà qualcosa per te. » disse e,
lanciandomi un’ultima esausta occhiata, uscì spingendo la porta.

La testa mi pulsava e il fatto che quel ragazzo avesse visto le mie cicatrici era come se mi avesse scorto nudo.

Era stato un dejà-vu continuo. La sua voce, i suoi sguardi, i suoi occhi. Avevo l’inquietante sensazione di conoscerlo. Ma non poteva essere. Non poteva.

































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Spazio Autrice:
Immaginate di dover convivere con questo disagio. Mai nessuno si è avvicinato a te a parte questo ragazzo che tu SAI di conoscere anche se tutto ti dice di no.
Perchè?

PS: scusate se sono lenta ma i miei professori credo mi odino e vogliano uccidermi di verifiche, 'sti simpaticoni.
Spero mi perdonerete anche se il capitolo non è eccessivamente lungo ma credevo che uno spinn-off dal punto di vista di Kurt sarebbe stato utile.

Dedico al gruppo You're killing me now. Vi adoro.

Vostra,
{noth

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Capitolo 5
*** I promise. ***


Don't you remember?
-Capitolo 5-








La panchina che avevamo scelto era di legno verde. Dinanzi a noi c’era un fiume che scorreva lento, mentre noi lo fissavamo. Alla nostra destra un salice.

Kurt guardava a terra, fissandosi la punta delle scarpe come se fosse troppo preso a riflettere per parlare.

Anche all’orfanotrofio ero sempre stato io quello spigliato e loquace. Avevo perso quella parte di me quando mi era stato portato via Kurt.

Cosa avrei dovuto dirgli ora? Non sapevo nemmeno come cominciare.

« Bè, immagino che dovremmo iniziare a parlare. Tra un’ora devo essere a casa oppure il mio padre adottivo e mio fratello si arrabbieranno da morire e mi renderanno la settimana un inferno. » borbottò, intrecciando le mani.

« Sono… cattivi? » chiesi, sempre guardando dinanzi a me, come se parlassi con un fantasma.

« Sono semplicemente fatti così. » si limitò a rispondere, sospirando.

« Quindi sei stato in un orfanotrofio? » domandai, cercando di iniziare il discorso che tanto avevo bisogno di fare. Il cuore già iniziava a martellarmi nel petto.

« Io… io credo. Purtroppo non ricordo nulla della mia infanzia. A volte ci provo, è così frustrante non riuscire a vedere nulla. È un banco di nebbia completo,
è come se fossi nato poco dopo essere stato adottato. Mio padre dice che appena arrivato ero molto triste. Che piangevo un sacco. Immagino fossi felice
all’orfanotrofio. »

Non riuscii a rispondere. Eri felice sì, perché eri con me, stupido.

« Ma allora deve essere successo qualcosa, voglio dire, non è normale che non ricordi nulla della tua infanzia… » provai a dire, ma lui sbuffò.

« In realtà forse è meglio così. Se ricordassi un tempo in cui sono stato felice probabilmente ora sarei ancora più triste di quanto non sia già. Se vivessi all’Inferno vorresti ricordare il Paradiso? Non lo so, non credo valga la pena conoscere la felicità che hai avuto se vivi una vita miserabile. Poi tornerei di nuovo a piangere, probabilmente. »

« Magari lì c’era qualcuno di importante. » mormorai.

« Non è mai venuto a cercarmi quindi probabilmente anche questo qualcuno sì è dimenticato di me, immagino. » fece spallucce.

« No che non lo ha fatto. » sussurrai impercettibilmente, ma lui mi sentì. Sentivo già le lacrime pungermi gli occhi, ma sarei stato più uomo di quanto non
fossi mai stato nella mia vita e le ricacciai in gola.

« Scusa la domanda ma non eravamo qui per parlare del fatto che… aspetta e poi te come puoi saperlo? » si voltò a guardarmi per la prima volta, gli occhi spalancati, il viso pallido.

Kurt, come puoi avere dimenticato tutto?

« Non so proprio come dirlo. » fiatai, facendo ballare il ginocchio per il nervosismo, un tic che non era mai scomparso nonostante avessi provato più volte a tenerlo fermo e a stare tranquillo.

« Come dire cosa? » ripeté Kurt esasperato.

« Non so come non puoi esserti dimenticato dell’orfanotrofio! In quell’orfanotrofio c’ero io! » gridai. « C’eravamo io e te ed eravamo sempre insieme. La nostra era un’amicizia fraterna, ci volevamo bene sul serio, facevamo tutto l’uno con l’altro, mai separati. Ricordo ogni singolo secondo passato in tua compagnia, perché invece tu hai rimosso tutto? »

Kurt, se possibile, sbiancò ulteriormente.

Iniziò a boccheggiare, e fu come se il suo volto si riempisse di punti interrogativi.

« Io… No, no me ne ricorderei. Mi stai scambiando per qualcun altro. » balbettò, e fece per alzarsi. Lo afferrai per un polso e temetti quasi di fargli male.

Sentii le cicatrici sotto la pelle. Sentii il dolore che si era inferto e quasi dovetti ritrarre la mano.

« Ti assicuro che non ti scambierei con nessuno. » risposi. « Ti prego, ascoltami sono un attimo. Poi se davvero non ricordi ti lascerò in pace, promesso. »

Kurt parve essere combattuto tra l’idea di scappare via o restare.

Alla fine rimase.

« Ti direi che sei completamente pazzo se non fosse per il fatto che… » deglutì faticosamente, e respirò. « E’ da quando ci siamo visti la prima volta che ho l’inquietante sensazione di conoscerti. » ammise infine, tremando.

Feci per mettergli un braccio attorno alle spalle ma mi ritrassi di colpo.

Sospirai.

« Eravamo entrambi all’orfanotrofio St. Benedict, quello che si trova sulle colline a nord ed eravamo nella stessa stanza. Facevamo tutto assieme, abbiamo fatto impazzire le badanti, almeno fino a che non sono riuscite a liberarsi di noi. Dormivamo assieme, parlavamo tutta la notte. Oh, aspetta, ti ricordi quella volta che siamo corsi giù nel bosco e abbiamo mangiato i panini con la marmellata che avevamo rubato? Dai, la nostra radura… » poi lo fissai negli occhi: mentre io sorridevo lui aveva iniziato a piangere.

« Cos… »

« Non mi ricordo niente di tutto questo… niente… vorrei poter dire che te lo stai inventando… ma è come se sapessi che fosse successo eppure allo stesso
tempo non capissi di che stai parlando… cos’ho che non va… perché il mio cervello non funziona? » le lacrime gli cadevano sulle mani.

Una volta, se si fosse messo a piangere, mi sarei accoccolato accanto a lui ed avrei preso sonno al suo fianco. Ora però le cose non erano più così semplici.

Ora per qualche motivo Kurt non ricordava nulla di me, non consciamente almeno. Ora non eravamo più dei bambini.

« Noi… sistemeremo le cose. »  posai una mano sopra la sua e così le lacrime iniziarono a bagnare me, non più solo lui.

Kurt si voltò verso di me, una lacrima sul naso e gli occhi grandi e spaventati. Identici a quelli che ricordavo, che io potevo ricordare e lui no.

« E come? Io sono così da anni, da anni non ho memoria, non so dove siano questi ricordi, non ricordo nulla. È come se prima di me ci fosse solo… il vuoto. » singhiozzò.

Effettivamente era vero. Ero solo un ragazzino, che non andava nemmeno troppo bene a scuola a dirla tutta, ma doveva esserci un modo, una soluzione.

Sembrava un’idea assurda ma mio padre non faceva altro che elogiare il potere del web e spiegare come si potesse trovare un rimedio per ogni cosa nella rete. Forse aveva ragione anche quella volta, in fondo lui ci lavorava con il computer e sicuramente se ne intendeva più di me.

« Farò delle ricerche. » dissi, dandogli un colpetto con la spalla. Kurt smise per un attimo di singhiozzare. « Sono sicuro che c’è una spiegazione. »

Trattenne per un attimo il respiro.

« Diggy. » sussurrò.

« Eh? »

« Diggy. Il pupazzo a forma di rana che avevamo trovato nella nicchia del muro. » sussurrò. Il tono di voce era appena percettibile. Il mio cuore perse
irrimediabilmente un battito.

« Si? » lo incitai a continuare.

« Mettevi la sua zampa sulla mia mano quando piangevo, così non mi sentivo solo. Da dove salta fuori quest’immagine? Non la conoscevo. Non… io non… » sembrava stesse combattendo contro se stesso, era una visuale dolorosa.

« Ti prometto che ti ricorderai di me. Tornerai felice, te lo giuro. » dissi. Lui tornò a guardarsi le scarpe ed annuì.

Mi cadde l’occhio sui suoi polsi martoriati. Decine di cicatrici biancastre gli attraversavano la pelle, segni di un dolore che non riuscivo nemmeno ad immaginare. Distolsi lo sguardo, perché era come se bruciassero. Non riuscivo a guardarle.

« E riguardo alle tue cicatrici? » domandai cauto. Lui parve riscuotersi e si asciugò in fretta le lacrime, cercando di tornare in sé.

« Conosci la solitudine? » mi chiese.

Era una domanda semplice però la risposta rischiava di essere fin troppo scontata.

Se conoscevo la solitudine? Non ero mai stato davvero solo nella mia vita. Uscito dall’orfanotrofio ero capitato in una famiglia numerosa ed anche discretamente premurosa. Vero era però che non sempre mi capivano, mi era capitato di sentirmi un estraneo, e mi ero sempre sentito come se mi fosse
mancato qualcosa. Negarlo era difficile, soprattutto contando quanti secondi della mia vita avevo passato pensando a Kurt.

Mi ero fatto tante domande su di lui.

Stava bene?

Era felice?

Sorrideva?

Mi pensava anche lui?

Avevo trovato la risposta a gran parte di esse, e non era decisamente stata quella che mi aspettavo.

« Sì » la conosco da quado ho lasciato quell’orfanotrofio, avrei voluto dire.

« Bene. Io ci sguazzo dentro e a volte sembra così densa, così acida, così terribile che ho bisogno di qualcosa che smuova il mio inconscio. Allora comincio a tagliarmi, con il taglierino. So che stai pensando: ‘Che ragazzino stupido’, però non sapevo che altro attuare per uscire dall’apatia. Era terribile, è terribile. Non sapevo cos’altro fare ed è diventata una dipendenza prima che me ne rendessi conto. » fece un sorriso amaro, rivolto al fiume. « Com’è stronza la vita, eh? »

« Uhm, però. » esclamai, cercando di trattenere un sorriso.

« Cosa? »

« Niente. Non ti avevo mai sentito dire una parolaccia prima d’ora. » commentai, abbassando lo sguardo e notando che il tempo era passato disgustosamente in fretta e Kurt presto sarebbe tornato a casa e chissà, magari avrebbe pensato che era solo un pazzo svampito che lo aveva abbordato in un bagno dell’istituto.

Kurt accennò ad un sorriso, il primo che gli vidi mai fare da quei tempi all’orfanotrofio.

« Solo perché non mi vedi da quando ero solo un bambino. » rispose.

Aveva terribilmente ragione e tutto ciò che desideravo era rimediare.




























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Spazio Autrice:
Mai sentito parlare del fenomeno della rimozione di Freud? Vedrete.

Questo capitolo va dedicato alla mitica Ilaria Rossetton, detta anche Ross, detta anche PsychoHilary e taaaante altre cose.
Per qualche strano motivo le piace ciò che scrivo. Le piace e mi legge anche se non ha EFP.
Mi legge e mi manda via messaggio privato su face di quelle recensioni da cavare gli occhi per le lacrime.
E' adorabile?
No, è sadica.
Ama vedermi soffrire, lo so.
Però in realtà è una lettrice fedele e speciale alla quale tengo molto.
Grazie Ila.

E grazie a voi che leggete questa fic, siete il mio orgoglio.

vostra,
{noth

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Capitolo 6
*** Maybe I couldn't. ***


Don't you remember?
-Capitolo 6-









Tornato a casa mi ero fiondato in camera praticamente senza nemmeno salutare, soprattutto perché gli occhi mi avevano bruciato per tutto il viaggio. Non riuscivo a non pensare all’espressione sconvolta e disperata di Kurt mentre gli parlavo. Inoltre ogni volta che richiamavo alla mente il momento in cui avevo toccato le sue cicatrici dovevo chiudere gli occhi di colpo e scuotere la testa per non pensare al fatto che doveva aver passato anni a ferirsi.

Dovevo risolvere la situazione.

Dovevo far qualcosa, non potevo lasciare tutto così com’era.

Avevo trovato Kurt, gli avevo parlato, lui mi aveva parlato.

Non era andato tutto a quel paese come aveva creduto.

Mi buttai sul letto e cercai il portatile sotto il letto, mentre stringevo in bocca un Togo e accendevo il PC.

Internet mi avrebbe aiutato, avrei capito che era successo. Lo giurai sulla mia vita.

Sarebbe stato tutto come un tempo.

Ero terribilmente fiducioso, forse perché ero disperato. Non potevo vivere tutta la mia vita accanto ad un Kurt che non aveva la più pallida idea di chi fossi. Sarebbe stato invivibile.

Mi comparve davanti la schermata iniziale di Google e rimasi con il Togo in bocca e le dita immobili sulla tastiera. Non sapevo bene nemmeno cosa cercare.

Passarono ore, ore in cui mia madre mi chiamò giù per la cena, una delle mie sorelle cercò di entrare nella stanza ma tirai una scarpa sulla porta, così da cacciarla. Mio padre addirittura entrò e cercò di
convincermi ad andare a fargli compagnia, così da mangiare tutti assieme, ma non mi mossi.

Davanti a me scorrevano notizie differenti, pagine sulla memoria, articoli sulle amnesie, ma nulla sembrava fare al caso mio. Spinsi il portatile lontano e mi distesi sul letto tirando un pugno sul muro e facendolo vibrare. Mi passai una mano tra i capelli esasperato.

Deve esserci qualcosa.

Mi rimisi a sedere, insultandomi per quel momento di debolezza e continuai la ricerca. Passò un’altra mezz’ora buona prima che trovassi una cosa che attirasse la mia attenzione. Un articolo che parlava di Freud e del fenomeno della rimozione.

Dopo che lo lessi capii cos’era successo.

In psicologia, la rimozione è un meccanismo psichico che allontana dalla coscienza desideri, pensieri o residui mnestici considerati inaccettabili e insostenibili dall'Io, e la cui presenza provocherebbe dispiacere.
Insieme ai concetti di proiezione (vedi anche transfert) e inconscio, la rimozione è uno dei cardini del pensiero e della prassi psicoanalitica. L'inconscio stesso per la psicoanalisi si costituisce in massima parte come conseguenza della rimozione.
L'introduzione di questo concetto si deve a Sigmund Freud a partire dai suoi primi studi sull'isteria quando il medico viennese notò che alcuni traumi psichici vissuti dai pazienti rimanevano sconosciuti alla loro coscienza e che la guarigione avveniva nel momento in cui questi traumi venivano riportati dall'inconscio al conscio.
La rimozione tuttavia va considerata come una modalità universale dello psichismo la cui finalità è proprio quella di difendere, come una sorta di apparato immunitario proprio dello psichismo, l'ideale dell'io (o Super-io) in cui ci si rispecchia.

Ora capivo tutto.

Kurt doveva avere sofferto talmente tanto, dopo essere stato separato da me, che il suo cervello doveva avere attuato una via di salvezza nell’eliminarmi completamente dai suoi ricordi, così da non
provocargli dolore.

Deglutii il Togo e rimasi a fissare il vuoto mentre le lacrime mi scendevano sulle guance. Non potevo credere di essere stata la cause di un male così grande da provocargli un fenomeno di salvataggio di emergenza completamente inconscio.

Mi buttai indietro, sprofondando nel cuscino. Mi voltai in modo da immergerci la faccia e lasciai che il resto delle lacrime annegasse nella stoffa della federa, mentre cercavo di piangere così silenziosamente che il resto della mia famiglia non avrebbe sentito.

Era così difficile da accettare. In un certo senso non capivo se io avevo sofferto di meno oppure ero semplicemente stato più forte.

Forse i nostri cervelli funzionavano in maniera diversa anche se avevo sempre creduto il contrario.

Con la vista annebbiata dalle lacrime, che non accennavano a smettere di rigarmi il viso, afferrai il cellulare da dentro la sacca di scuola.

Cosa potevo fare ora? Forse avrei dovuto parlarne con qualcuno. Magari il counselor della scuola. Sicuramente si intendeva di psicologia più di me e di un paio di informazioni poco dettagliate fornite da un sito web.

Cercai il numero che Kurt mi aveva dato appena prima di salutarci e inviai un messaggio.

“Io ho trovato cosa potrebbe essere.”

La risposta arrivò quasi immediata.

“Ho qualcosa che non va?”

Mi bloccai, non sapendo esattamente cosa rispondere.

“E’ colpa mia.” Digitai, e abbracciai il cuscino, pensando agli anni passati in orfanotrofio. Eravamo perfetti, due gocce identiche create per stare assieme e rimanere unite. Due anime gemelle fatte su misura.

Perché ci era accaduto tutto quello? Non potevamo essere felici?

“Non dire cavolate.” Rispose, e mi immaginai facilmente la sua faccia. Risi, lasciando che una lacrima mi attraversasse le labbra e ne sentii il sapore salato.

“No, davvero. Ti spiegherò, promesso.”

“Va bene. Ho paura.”

“Non devi averne. Risolverò ogni cosa.”

Stavo facendo un sacco di promesse che non sapevo se sarei stato in grado di mantenere. Cosa capitava a chi non le manteneva? Non lo sapevo, però io le facevo per me, quelle promesse. Ero io che
avevo bisogno di sapere che sarei tornato ad essere come tanti anni prima, che sarei stato infinitamente felice e che avrei intrecciato le dita della mia mano con quelle di Kurt con la semplicità di un
tempo.

Nemmeno mi rendevo conto di stare facendo pensieri che andavano ben oltre la semplice amicizia, nemmeno sapevo come si chiamava quel sentimento che pulsava nel petto come se fosse stato vivo e, allo stesso tempo, era un mostro che cercava di divorarmi ogni secondo che passava.

« Blaine! Se non scendi a mangiare immediatamente giuro che chiamo... il governo! » gridò mia madre.

Sbuffai.

« Quale parte di “non ho fame” non hai capito? » urlai in risposta, la gola secca.

Mi misi il cuscino sopra la testa e provai a non ascoltare. Era troppo difficile, ma il rumore dei miei pensieri mi assordava già da solo.

Qualcuno bussò alla mia porta.

« Vattene via. » borbottai.

Quel qualcuno poco si curò di ciò che avevo detto ed entrò comunque.

« Blaine. » la voce profonda di mio padre riecheggiò tra le mura della mia piccola stanza. « Si può sapere cos’hai? » domandò, sedendosi sul letto, accanto alla mia figura informe prima di testa,
rigorosamente nascosta sotto il cuscino, dove stava diventando difficile respirare.

« No. » risposi.

« Andiamo. » ripeté.

Sbuffai.

« Ho trovato una persona che cercavo da molto. » dissi.

« Bè, bene. » rispose. « Dove stai il problema? È cambiata tanto? » chiese.

« Oh, no. È sempre la stessa. Incredibilmente uguale. »

Lui sbuffò, lo immaginai fin troppo bene massaggiarsi le tempie.

« Allora? »

Presi fiato, anche se le parole sembravano incollarsi alla gola pur di non uscire.

« Si è dimenticata di me. »  spiegai.

« Bè, è normale, a volte succede. »

Mi alzai, scoprendo il viso disfatto dalle lacrime, ma lui non fece commenti.

« No, non succede. Avevamo passato un sacco di tempo assieme all’orfanotrofio. Eravamo... eravamo come fratelli. E non è che non mi abbia riconosciuto, non ricorda nemmeno più niente di dove siamo cresciuti, di ciò che abbiamo fatto. Non esisto più nella sua memoria. » spiegai, tornando a nascondermi.

Lui fece un verso accondiscendente.

« Fenomeno della rimozione. » commentò.

Sussultai.

« Come fai a saperlo? » sussurrai.

« Potrei farti la stessa domanda, comunque la sorella di mia madre aveva dimenticato qualsiasi cosa avesse a che fare con suo padre perché lo detestava troppo. Non conosco bene la dinamica ma
ricordo che mia madre la chiamava sempre così: rimozione. Immagino sia la stessa cosa. » sospirò.

Mi levai il cuscino dalla testa e lo guardai negli occhi.

« E... la avete curata? » domandai.

Mio padre distolse lo sguardo.

« Ci sono cose che non puoi cambiare. Non dipendeva da noi, dipendeva da lei, e non riusciva a rimuovere quell’odio, immagino. »

Fu come se mi si aprisse uno squarcio nel petto. Il dolore fu uguale.

« Quindi questa persona potrebbe odiarmi inconsciamente? » chiesi.

Li si alzò e si diresse verso la porta.

« Non ne ho idea, non è detto, spero di no. Ti porto su dei cracker? »

Annuii, raggomitolandomi su me stesso.

Forse davvero non potevo risolvere ogni cosa.






















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Spazio Autrice:

Grazie per aver letto anche questo capitolo, davvero per me è molto importante.

Vorrei dedicare questo capitolo a Andrea. Insomma, lo conosco da un po' ma più per sentito dire che per averci parlato.
Si è dimostrato essere una persona che non mi sarei mai aspettata, ma non è questo il bello di conoscere davvero persone con le quali non avevi mai parlato?
Spero che questo capitolo ti piaccia.

Spero che sia tutto chiaro, se avete qualche domanda basta chiedere.
Grazie, davvero, per ogni singola recensione, ogni aiuto o commento per me è prezioso.


vostra,
{noth

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Capitolo 7
*** I thought I knew all. ***


Don't you remember?
-Capitolo 7-










Era freddo, l’autunno stava arrivando. La scuola era gremita come al solito, le persone mi passavano accanto e si scontravano con me per farsi strada nei corridoi e non si voltavano nemmeno a chiedere scusa. Tutti troppo occupati a perdersi nella loro vita e, infondo, anche io ero perso nella mia. Mi trovai davanti all’ufficio del counselor della scuola, rimasi immobile davanti all’entrata così a lungo che suonò la campanella e nemmeno me ne accorsi. Qualcuno aprì la porta al posto mio e ne uscì un uomo che avrà avuto una trentina d’anni, occhi scuri e capelli neri, la pelle olivastra.

Sembrava più un surfista australiano in giacca e cravatta che un counselor. Mi guardava con aria incuriosita mentre io tenevo la bocca aperta ma non ne usciva niente.

« Ti serve qualcosa? » domandò cortesemente, aggiustandosi la cravatta con un movimento professionale del polso.

« Ecco io... » provai a dirgli che ero lì perché ero disperato ed avevo bisogno dell’aiuto di qualcuno di esperto. Che la persona alla quale tenevo di più al mondo non ricordava nulla di me. Che rischiavo di avere un esaurimento nervoso da un momento all’altro.

« Ti va di sederti e parlare con me? Mi sono arrivati dei nuovi cioccolatini, te ne offro uno. » disse, e si scansò dalla porta facendomi segno di entrare nel suo ufficio. Sgattaiolai al suo fianco, in ansia, prima di cambiare idea e lui chiuse la porta alle mie spalle. Mi oltrepassò e si andò a sedere sulla sua poltrona, oltre la scrivania rossa dove sopra c’era solo un posacenere e un blocco di carta sovrastato da una penna. Aprì un cassetto e tirò fuori una scatola di cioccolatini, la aprì e me la porse.

« Prendi quello che preferisci, ma attento a quelli con la noce sopra, hanno una crema dal gusto molto... particolare. » mi avvicinai e mi sedetti sulla sedia di fronte a lui, afferrando un cioccolatino scuro che speravo fosse fondente.

Me lo ficcai in bocca ed era davvero buono, era amaro e dolce allo steso tempo, soffice e spumoso, cremoso. Uno di quei cioccolatini molto costosi. Mi continuavo a fissare la mani strette in grembo perché proprio non riuscivo a fissarlo negli occhi. Ero sicuro che avrebbe capito troppe cose. Ma non ero forse lì per quello?

« Dunque, ti va di dirmi quel’è il problema? » domandò, riponendo la scatola nel cassetto e congiungendo le mani sopra la scrivania. Lanciai un’occhiata al suo viso che era disteso in un’espressione gentile.

« No, non c’è nessun problema... » abbozzai, balbettando come raramente mi era capitato di fare.

Ecco, si trattava di Kurt e io diventavo un perfetto idiota.

« Ragazzo, credo di aver imparato a riconoscere il volto di qualcuno che ha un problema. » commentò, sorridendo.

Sospirai e cercai di trovare un modo per sciogliere il groviglio che mi si era formato in gola. Non riuscivo a districarlo e dare un ordine alle cose da dire. Patetico.

« Ecco io.... conosce il fenomeno della rimozione di Freud? » domandai a bruciapelo.

Il counselor sembrò sorpreso, ma rispose senza esitare troppo.

« Sì, si lo conosco. » disse. « Perché ti preoccupa così tanto? Non credi che dovremmo cominciare dall’inizio? »

« Dall’inizio? » chiesi, sconcertato.

Lui annuì.

« Sì, dall’inizio. Con un “come ti chiami?” ad esempio. » spiegò.

Era vero, non mi ero nemmeno presentato.

« Oh, mi scusi, il mio nome è Blaine Damian. » mi affrettai ad aggiungere, mortificato.

Lui sorrise, come se fossi buffo. Io non mi sentivo buffo.

« Sono Peter Williams, ma chiamami pure Peter e dammi del tu. »

« E tu... chiamami pure Blaine. »

« Sarà fatto. » disse. « Dunque, Blaine, vuoi spiegarmi il tuo problema? »

Presi fiato, era il momento di sputare il rospo.

« Io sono stato adottato. »

« E cos’è, lo hai scoperto da poco? » domandò.

« No, nulla di questo genere. Si tratta del periodo all’orfanotrofio. Lì avevo un amico. » spiegai.

« E ti manca? » chiese, con l’aria di chi sta facendo una normale conversazione.

« Sì, sì moltissimo. Ma non è questo il punto. » cercai di finire. « Il punto è che eravamo come fratelli, come due anime gemelle. Eravamo una cosa sola. Io ero tutto per lui, lui era tutto per me. Quante scorribande abbiamo fatto assieme, quanti sorrisi abbiamo condiviso, quante avventure quante sgridate, quante... »

« Stai cercando di dirmi che ti eri innamorato di lui? » chiese Peter, scrutandomi attentamente. Rimasi con la bocca aperta, senza riuscire a fare uscire la voce.
Cosa? Innamorato?

Non ci avevo mai pensato.

Forse.

Ma era un ragazzo.

Non avrei dovuto innamorarmi di una donna?

« Ma è un maschio... » cercai di replicare, non convinto nemmeno io di ciò che stavo dicendo.

Lui ridacchiò.

« Blaine, l’amore non ha un sesso predefinito. La massa non detta regole, la massa mostra quello che è la normalità per la maggior part delle persone, non per tutti. » spiegò. « Ma se tu dici che era solo
una forte amicizia, bè » allargò le braccia. « va bene, basta che lo sappia tu. »

Rimasi in silenzio, a masticarmi il labbro per il nervosismo. Non sapevo rispondere a quella domanda, non ero capace di dire se quello che sentivo per lui era amore. Non lo avevo mai provato prima, come potevo capirlo?

« Il problema è che poi siamo stati adottati da due famiglie diverse e non ci siamo più visti. Lo ho incontrato di nuovo qui il primo giorno di scuola. Chiaramente lo ho riconosciuto all’istante, lui però... ha dimenticato ogni cosa di me. »

Peter tossicchiò.

« Magari semplicemente sei cambiato tanto e non ti ha riconosciuto. »

Scossi il capo.

« No. Lui stesso ammette di non ricordare nulla della sua infanzia, nulla dell’orfanotrofio. Sa solo che, arrivato nella nuova famiglia, piangeva sempre ed era molto infelice. Poi di colpo ha smesso di
esserlo. Gli ho citato degli avvenimenti, gli ho detto il mio nome, ma nulla. Non sa. Non ricorda. Anzi, no, qualcosa lo ricorda. Ieri pomeriggio parlavamo di questo e un frammento di memoria gli è
balzato alla mente. Solo quello. Sapevo di non essermi immaginato tutta la nostra infanzia. Lo sapevo. E lui stesso dice di avere la sensazione di conoscermi troppo bene. »

« Vai avanti. » disse il counselor.

« Arrivato a casa mi sono fiondato su internet a cercare informazioni. Avevo promesso a Kurt che avrei risolto la situazione. Dopo ore l’unica cosa interessante che ho trovato riguarda il fenomeno della rimozione di Freud. Il dolore provocato dalla nostra separazione potrebbe aver attivato le sue difese del Super-Io ed avergli farro rimuovere tutti i ricordi in cui sono compreso io. Può essere accaduto sul serio? Mi rivolgo a te perché ho bisogno di un parere esperto che non sia stato trovato su internet. Non posso... credere di avergli fatto tanto male. » sussurrai.

Peter si allungò sulla sedia fino a raggiungere la mia spalla e mi diede una pacca confortante.

Poi si ritrasse e si massaggiò la radice del naso.

« Blaine devi sapere una cosa. » iniziò. « La rimozione è curabile. Ma non dipende da noi. Purtroppo da come la hai descritta sembra ch tu abbia azzeccato la diagnosi, ma dovrei parlare con Kurt per averne la certezza. È curabile se lui riuscirà a rimuovere il dolore che la tua assenza ha provocato. Non è detto che ci riesca. È un processo molto difficile perché inconscio, soprattutto per il fatto che,
non ricordandosi di te, non ricorda il dolore che gli hai provocato e non sa dove agire. Insomma, non so se mai riuscirà a ricordarsi di te. So che potreste crearvi dei nuovi ricordi, ma devo comunque
parlare con Kurt. Spesso la rimozione porta ad autolesionismo, depressione, disturbi di personalità, ansia ed altri effetti collaterali. Potrebbe avere bisogno di un aiuto che va oltre la mia portata, quindi è davvero necessario che ci parli, potrebbe essere pericoloso lasciare il fenomeno incustodito. Già che nessuno lo abbia fatto visitare per così tanto tempo è un grossissimo rischio per la sua salute psichica già compromessa. Grazie per averne parlato con me, comunque. »

Boccheggiai per le troppe informazioni.

« Quindi cosa posso fare? » domandai.

« Portarlo da me, in primis. Vedrò cosa sarà il caso di fare. » rispose, appuntandosi qualcosa nel blocco di carta dinanzi a lui in una calligrafia illeggibile.

Mi alzai e feci per andarmene, quando Peter mi chiamò.

« Ah, Blaine. »

« Mh? »

Sospirò.

« Stai molto attento a non dare per scontata l’amicizia. Non far sì che l’idea eterosessuale della massa ti condizioni al punto da non accettare l’amore che puoi provare per un ragazzo. Mi hai parlato di
Kurt in maniera molto diversa da come si parla di un amico. » commentò.

Abbassai lo sguardo e salutai, uscendo e chiudendomi la porta alle spalle.

Il cuore mi batteva freneticamente e corsi verso il bagno, veloce come non mai.

Mi appostai e vomitai anche l’anima. Non potevo reggere tutte quelle cose.

Era davvero colpa mia.

Potevo essere innamorato di Kurt.

Potevo averlo ferito a tal punto da cancellare la sua infanzia per sempre.

Era colpa mia.

Era tutta colpa mia.

Mi odiavo.

Stavo male.

Dovevo trovare Kurt.


























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Spazio Autrice:
Questo capitolo è stato più difficile del solito da scrivere, perchè più scientifico e professionale.
Spero di aver descritto tutto in maniera da rendervi facile la comprensione del fenomeno e della storia.
Mi farebbe molto piacere sapere cosa ne pensate, è un capitolo importante.
Un bacio

vostra.
{noth

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Capitolo 8
*** I wanted to learn. ***


Don't you remember?
-Capitolo 8-








Blaine non aveva voluto dirmi nulla. Si era rifiutato di parlare di ciò che aveva scoperto on line e della chiacchierata che aveva avuto con il counselor. Mi aveva solo detto di andare nel suo ufficio finite le lezioni, che così avrebbe avuto inizio il nostro cammino. Nostro. Quella parola mi aveva fatto immediatamente battere il cuore eppure dentro di me la sentivo come vuota. Non aveva significato. Era prima di un qualsiasi senso.

Nostro.

C’era mai stato un noi?

Bussai alla porta dell’ufficio del counselor e una voce gentile mi invitò ad entrare. Presi fiato, nascosi le cicatrici che avevo sui polsi e deglutii. Abbassai la maniglia e, non appena misi un piede dentro, udii una forte fragranza di lavanda. Lavanda che mi ricordava qualcosa, ma che, come al solito, non riuscivo ad inquadrare. I ricordi erano, nella mia mente, un po’ come fumo. Non riuscivo ad afferrarli, lasciavano un’idea veloce e generale di loro stessi e poi svanivano, dissipandosi tra le mie mani.

« Oh, Kurt, immagino! » si alzò il counselor. Non lo avrei mai pensato così. Era piuttosto sobrio nella sua giacca e cravatta, con quel viso da attore e quel sorriso affabile. Mi tese la mano e gliela strinsi, facendo fatica a distogliere lo sguardo dal suo volto.

« Sono Peter Williams. » aggiunse.

« Blaine Anderson mi ha detto che voleva vedermi. » spiegai, senza girare troppo attorno al discorso. Era diventata improvvisamente un’ossessione quella di sapere cosa avevo, cosa era successo alla mia testa, se potevo riavere i ricordi che mi erano stati rubati o che, come da una tasca bucata, erano scivolati
via.

« Esattamente. Siediti, prego. » disse, facendo un cenno verso la sedia dinanzi alla sua scrivania e sedendosi a sua volta. Lo imitai, mettendomi la cartella sulle ginocchia.

« Cos’ho che non va? » domandai, continuando a tirare giù la stoffa delle maniche, terrorizzato all’idea che potesse vedere le mie cicatrici e spedirmi in chissà quale istituto per disturbati mentali.

Non ero pazzo, no?

Speravo di no.

« No, no Kurt, tu non hai nulla che non va.  Però, diciamocelo, dimenticare un’intera infanzia non è una cosa da poco. » mi lanciò un’occhiata eloquente.
Cercava di far sembrare quel colloquio una chiacchierata amichevole, ma ero troppo nervoso e spaventato perché lo fosse.

« Ecco io… » provai a replicare.

« Non ti preoccupare. Comunque Blaine, il tuo amico, è venuto qui molto preoccupato. Sai, ha navigato molto nel web e… bè è venuto a sapere di questo

Fenomeno della Rimozione, di Freud. Ne hai mai sentito parlare? » domandò, intrecciando le mani sopra la scrivania e continuando a fissarmi nonostante io ostentassi a evitare il suo sguardo.

« Nossignore. » risposi. Lui scoppiò a ridere.
« Non essere così rigido! Non ho intenzione di lobotomizzarti o roba del genere! Rilassati. » disse, come se fosse stato semplice. Era evidente che non mi conosceva. « Comunque, » continuò, « il Fenomeno della Rimozione si può riassumere in poche parole: a causa di un dolore particolarmente intenso la mente si difende cancellando ogni tipo di ricordo che sia riconducibile a quel dolore. Ti spiego. » aggiunse, vedendo il mio sguardo perplesso. « Blaine mi ha detto che sei stato molto male dopo aver lasciato l’orfanotrofio dove avete vissuto da bambini. Probabilmente perché voi due eravate molto legati e tu hai sofferto per la separazione. » mi guardò, come in attesa di una risposta che non sapevo dare.

« Sì, immagino di sì, non ricordo. » dissi, incrociando le braccia e guardando il tavolo.

Poteva essere, ma perché solo io avevo rimosso? Perché Blaine ricordava ogni istante? Perché a lui non era toccata la mia stessa sorte? Forse davvero ero stato il solo stupido a tenerci così tanto. Ma poi perché? Cosa c’era tra noi che non riuscivo a ricordare?

« Non… riesci a trovare dentro di te un sentimento che riconduca a Blaine? » chiese, cauto.

Lo guardai e provai a cercare nel mio petto qualcosa che parlasse di me. Della mia infanzia. Di un amico che avevo perso, di un… qualcosa che mi dicesse chi fossi. L’unica cosa che sentivo, quando ci pensavo, era un insistente mal di testa che sembrava non darmi la forza di continuare quel mio scavare ossessivo nel nulla. L’unica cosa che vedevo erano dei sorrisi sconosciuti che la mia memoria non ricollegava a nessuno. Dei panini alla marmellata, nascosti, che non ricordavo di aver mai mangiato.

Era come guardare la vita di qualcun altro.

« Non lo so. Vedo delle immagini ma è come se fossero di qualcun altro, non mie. Non le riconosco, non le sento. E mi fa male la testa, tanto. La prego, mi dica che posso smettere di pensare. Voglio smettere. » mi lamentai, respirando a fondo e cercando di bloccare le lacrime che mi danzavano sul bordo degli occhi. Le asciugai velocemente con la mano, lasciando cadere la stoffa che mi copriva i polsi. Notai immediatamente il cambiamento nello sguardo del counselor non appena scorse le cicatrici. Tornai immediatamente a nasconderle e a fare come se nulla fosse.

« Kurt, dimmi, da quanto pratichi l’autolesionismo? » domandò, con un tono di voce molto serio che mi fece venir voglia di correre via all’istante da quell’ufficio. Sudavo, la testa mi pulsava per la ricerca di poco prima e mi sentivo incollato a quella sedia.

« Da… da qualche anno. » risposi, vagamente.

Lui sbatté le palpebre più volte ed iniziò a scrivere su un foglietto.

« Non starò qui a farti la paternale su quanto sia sbagliato, Kurt, credo che tu abbia dei motivi se ti sei fatto del male. Motivi che, mi dispiace, ma sono
obbligato a collegare al FDR di cui parlavamo prima. Credo, in poche parole, che la diagnosi di Blaine fosse corretta e che tu abbia sofferto molto per la
separazione e, di conseguenza, il tuo cervello abbia deciso di farti stare meglio impedendoti di pensare a lui. In poche parole ha eliminato la fonte del dolore.

Dovevi tenerci davvero tanto, e Blaine, infatti, sembra tenerci ancora parecchio. » disse, continuando a scrivere con una calligrafia irregolare e sbilenca che, a guardarla da quel verso, pareva oltremodo incomprensibile.

Dunque era vero. Io conoscevo Blaine, sapevo che doveva essere così. Il suo sguardo mi scatenava le farfalle nello stomaco senza motivo.

« E quindi cosa posso fare? » domandai, deglutendo forzatamente e torturandomi una pellicina.

Lui mi guardò, sorrise in modo paterno e mi consegnò il foglietto.

« Innanzitutto ti ho prescritto un farmaco che sarebbe meglio tu iniziassi a prendere. È un antidepressivo, dovrebbe aiutarti a pensare al tuo passato evitando quei mal di testa e dovrebbe rendere più facile ricondurre qualche ricordo al suo posto. Ti aiuterà anche contro l’autolesionismo, mi rendo conto di quanto possa essere terribile ed imbarazzante dover nascondere quelle cicatrici tutti i giorni. Per ora non ti spedisco da nessun superiore, quindi nessuno psicoterapeuta. Vorrei provare a farti uscire da questa storia con le tue gambe. Ti spiego. Per dirne una, dovresti perdonare Blaine. Perdonarlo e capire che non ti ha abbandonato per sua volontà, ho come l’impressione che tu lo colpevolizzi e allo stesso tempo colpevolizzi te stesso per esserti dimenticato di lui.

Ora è qui, con te, sta cercando di farsi ricordare. » disse, continuando a fissarmi.

« Lui non mi ha cercato. Eppure si ricordava di me. E lui non mi ha cancellato. Non è stato male come me, evidentemente. » sussurrai, quasi senza rendermi conto che era stato fin troppo facile dare voce ai miei pensieri.

Prima che potessi rendermi conto vidi Peter sorridere.

« Vedi di cosa parlavo? » chiese. « Mi raccomando, se vuoi ricordarti della tua infanzia resta con Blaine e datti tempo. Ci vuole un po’ a volte per perdonare il Destino. » mi consigliò, poi guardò l’orologio e, prima che potessi dire nulla, mi accompagnò fuori dalla porta con un foglietto con il nome di un antidepressivo scritto in una strana calligrafia, seguito dalla sua firma e con la testa che pesava come un macigno.

Volevo ricordare Blaine?

Volevo ricordare un periodo in cui ero stato felice?

Forse potevo esserlo davvero di nuovo. Con lui.

Le farfalle nel mio stomaco protestarono.

Come avrei perdonato qualcosa che non ricordavo?

Nella mia memoria vedevo due mani che si stringevano, e percepii il ricordo di una sensazione. Una sensazione veloce, un cuore che palpitava quasi come se stessi correndo, una piccola scossa e la voglia di piangere.

Come si chiamava quella sensazione?

Era sicuramente una cosa che volevo imparare.

Ora il problema era uno solo: come lo avrei detto a mio padre?












---------------------------------------------------------------------------------------
Spazio Autrice:
Non ho molto da dire oggi.
Sono troppo presa dal debutto di Darren, dai Tweet e da Tiziano Ferro in TV.
Grazie di essere arrivati fino a qua.

Vostra,
{noth

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Capitolo 9
*** It wasn't. ***


Don't you remember?
-Capitolo 9-








Non so cosa mi aspettassi, forse che Kurt, improvvisamente, dopo la chiacchierata con Peter, si ricordasse di me. Cosa che, ovviamente, non era successa.

Eravamo seduti sulle scale esterne dell’istituto, proprio dinanzi all’entrata, accucciati in silenzio.

Non sapevamo cosa dire, ed il senso di colpa per essere la causa di un dolore talmente intenso da avergli fatto rimuovere qualsiasi ricordo riguardasse me mi divorava a morsi lenti ed assaporava la mia agonia.

Inoltre una domanda mi rodeva più di altre: perché io non ero stato così male da cancellare Kurt? Forse mi ero lamentato tanto ma, alla fine, lui aveva sofferto infinitamente più di me e l’idea mi mandava fuori di testa.

Tutto ciò che il mio corpo m’implorava era di azzerare la distanza che c’era tra di noi e stringerlo a me, stare talmente vicini da non riuscire a respirare e tornare bambini, tornare a quello che ci legava un tempo, a rincorrerci per il bosco e a rotolare tra il fango e a dormire nello stesso enorme letto, per mano e ad osservarlo scivolare tra le braccia di Morfeo.

Era un desiderio così morboso da risultare malato, ma non riuscivo a placarlo, era come se si cibasse di me.

« Mi hai aspettato. » disse, di punto in bianco, sbriciolando il mio silenzio e destandomi dai miei pensieri con quella voce che avrei seguito anche nei meandri dell’Inferno.

« Già, così sembra. » risposi, abbassando lo sguardo e sorridendo tra me.

« Perché? » chiese, come se fosse stata una domanda chiave di fondamentale importanza, guardandomi sconcertato con quegli occhi che altro non si
potevano definire che pazzeschi e con un espressione confusa stampata in volto.

Perché se lo guardavo il mio cuore iniziava a correre come un pazzo? Non era così che avrebbe dovuto essere, volevo dirgli di fermarmi, di smetterla di darmi le vertigini ma non mi prestava ascolto.

« Come perché? Perché mi importa! »

« E perché? » chiese, ancora più esasperato.

« Perché sì, cazzo! » sbottai, tenendomi la testa con le mani. « Perché è così difficile da capire? »

« Perché tu non hai dimenticato tutto! Tu… tu stai bene, diamine! Perché io no? Perché io sono giusto al punto di non ricordare un singolo istante nostro? » gridò, alzandosi in piedi.

Gli afferrai un braccio ma lui non si voltò, lo potevo sentire piangere.

« Io non lo so. » risposi, per nulla disposto a lasciarlo andare. « Ma ti posso assicurare che, se potessi, patirei io quello che hai patito tu. Ti ridarei tutti i tuoi ricordi, credimi. » strinsi i denti, obbligandomi ad essere forte.

Nessuno di noi due parlò per i minuti seguenti, finché Kurt non si sedette a terra, poggiò la borsa accanto a lui e si abbracciò le ginocchia.

« Come lo dirò a mio padre ora? Che dirà quando scoprirà che sono pazzo e dovrà spendere miliardi per le medicine che il signor Williams mi ha prescritto? » affondò la testa tra le braccia, tremando e scoprendo un lembo di schiena, sotto il collo, dove notai un livido fin troppo fresco.

« Verrò con te, vedrai che… capirà. » risposi.

Lui emise un verso scettico.

« Mio padre e la comprensione non stanno nella stessa frase, soprattutto se l’alcool e mio fratello sono coinvolti. » spiegò, passandosi una mano sugli zigomi
a raccogliere le lacrime.

Mi accucciai accanto a lui. Gli posai cautamente una mano sulla spalla e, nonostante gli avessi dato la scossa, non si ritrasse.

Mi sentivo il cuore pulsare nelle tempie.

« Proviamo. Tu… ricorderai tutto, okay? Altrimenti ci creeremo dei nuovi ricordi, va bene? » sussurrai.

Lui annuì, respirando a fondo.

Dopo un attimo di silenzio disse:

« Il tuo profumo mi è tanto familiare. »

Mi morsi un labbro e sorrisi, pensando alle parole di Peter Williams.

Amore. Potevano due ragazzini aver scoperto l’amore ancora prima che tale sentimento potesse acquisire un nome nella loro mente?

Poteva?

Sarei stato obbligato a scoprirlo.

« Anche il tuo profumo è lo stesso. » risposi, distogliendo lo sguardo.

Lui si voltò verso di me, aumentando la stretta sulle sue ginocchia.

« Te lo ricordi? » sussurrò, gli occhi enormi.

Sorrisi.

« Ha fatto parte di troppe notti perché io non me ne rammenti. » mormorai, e notai un impercettibile sorriso fare capolino sul suo viso.

Uno a zero per me, la sua depressione era al capolinea ora. Avrebbe avuto un valido avversario.

« E com’ero da piccolo? » chiese, alzando le spalle e passandosi una mano tra i capelli castano chiaro.

Ci pensai su un po’. Cosa potevo dire che non sembrasse scontato? Perché lui era tutto fuorché scontato ai miei occhi. Non lo era mai stato.

Mi ero sempre reputato molto fortunato ad averlo e, di nuovo, il pensiero che il sentimento che mi legava a lui fosse di natura diversa ad una semplice
amicizia mi bussò alla mente, facendomi rabbrividire.

Certo era che non ero sicuro si provasse certe emozioni in amicizia.

« Eri… terribilmente… » ci pensai su. « … buono. »

Sì, perché lui era sempre stato disgustosamente dolce, sorridente, timido, gentile, il tipico bambino che veniva definito buono. Era sempre stata colpa mia se era finito nei guai, delle mie marachelle, ma non se ne era mai lamentato, e questo mi era sempre piaciuto di lui.

« Buono? » domandò, sorpreso, lasciandosi andare a una risata.

« Fin troppo. » sorrisi. « E anche un po’ vanitoso a dirla tutta. » aggiunsi, scrollando le spalle.

Mi diede una gomitata sulle costole ed era come se i miei sogni si stessero realizzando. Era come essere tornati bambini.

« Ah, grazie. » borbottò, fingendosi offeso.

Ci era sempre risultato facile ritagliarci il nostro spazio. Come dentro a una bolla, quando eravamo assieme, il resto non esisteva. Finivamo per restare
aggrovigliati nelle nostre prese in giro, nei nostri sorrisi e nelle nostre frecciatine.

Mi trovavo impigliato nell’affetto che provavo per lui che, ogni istante diventava più palese, andava oltre la soglia dell’amicizia. Lo sentivo nel petto, e non
avrei dovuto.

« Prego, pappamolla. » commentai, e mi scansai appena in tempo per evitare un pugno diretto alla mia coscia. Mi alzai in piedi e mi piegai verso di lui.

« Chi arriva ultimo a casa tua è uno sfigato. » sussurrai quasi davanti al suo viso imbronciato. Non appena terminai la frase, un sorriso di sfida gli sbocciò sul
viso e si alzò in fretta e furia, quasi scaraventandomi a terra.

« Provaci. » sillabò con le labbra, correndo e voltandosi nella mia direzione mentre, entrambi con le borse in spalla, ci rincorrevamo come due incoscienti.

Il vento mi sferzava sul viso e spingevo al massimo, non sapendo nemmeno dove abitava ma continuando a stargli dietro, accelerando e cercando di
passargli davanti ma, mi doleva ammetterlo, era sempre stato il più veloce.

Il sangue mi scorreva a velocità inaudita nelle vene, il cuore pompava come un forsennato e le gambe mi dolevano mentre i muscoli si tendevano e
stiravano per permettermi di raggiungerlo.

Ci vidi come ai tempi dell’orfanotrofio, due bambini che correvano, due ragazzini catapultati in un mondo che non riuscivano a fare loro e si accontentavano
di quello che avevano creato.

L’ossigeno mi dava alla testa, ma ero sicuro che il cuore non mi stesse battendo così forte soltanto per la corsa. 



















----------------------------------------------------------------------------
Spazio Autrice:
Ecco, passiamo a noi.
Voglio dedicare il capitolo a Ilaria, che mi sta scrivendo qualcosa e la cosa mi ispira assai.
Lei che legge tutto quello che leggo, e chissà perchè.
Lei che forse è un po' troppo intelligente.
Lei che è la migliore amica della mia sorella sfigata.
Ah, chiamatela come volete ma è magica.

Spero il capitolo vi sia piaciuto, la storia diventa sempre più complicata.
Oh, e vi auguro, in ritardo, buona Befana. :D

Vostra,
{noth

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Capitolo 10
*** Never ***


Don't you remember?
-Capitolo 10-








Casa di Kurt era più lontana di quanto pensassi e la nostra corsa mi parve infinita. Non che mi dispiacesse sentire il vento che mi scompigliava i ricci ed il respiro affannato di Kurt, proprio come all’orfanotrofio, però le mie gambe iniziavano ad implorare pietà, anche se non lo avrei mai ammesso.

Si fermò dinanzi ad una casa veramente piccola, una di quelle a schiera ma dalle dimensioni di un appartamentino. Il cancello era una sorta di grata di legno che chiunque avrebbe potuto sfondare con un calcio e la muffa imbrattava le pareti. Non sembrava decisamente un posto da Kurt ma più uno di quelli ai quali fanno visita gli assistenti sociali nei film.

« Vivi qui? » domandai, sorpreso. Mi ero fatto un’idea diversa quando ne aveva parlato, chissà poi perché.

« Già. » rispose, ed assunse un aria cupa che non mi piacque per niente. Rimasi a fissarlo, come credendo che così avrei trovato un modo per capirlo.
« Entriamo? » chiese, mordendosi un labbro decisamente a disagio. Annuii, cercando di mostrarmi sicuro e dicendomi che, qualsiasi cosa avrebbe detto suo padre, sarei stato saggio ed irremovibile. Come un medico. Era una cosa che lui avrebbe dovuto accettare.

Kurt aprì lentamene il cancello e mi fece segno di seguirlo. Attraversammo l’acciottolato sconnesso che portava alla porta di casa e la aprimmo quasi semplicemente spingendo, senza aver bisogno di abbassare completamente la maniglia. La porta scricchiolò meccanicamente, non per la ruggine ma probabilmente perché era stata montata storta, ed entrando sentii che non cambiava molto dalla temperatura esterna. Non sembrava esserci il riscaldamento acceso.

« Fa freddo. » dissi, rabbrividendo e Kurt sorrise amaramente.

« Non troppo. » rispose, come a lasciar intendere che era abituato a peggio. Non potevo fare a meno di domandarmi da che razza di famiglia era stato
adottato. Insomma, io ero stato molto fortunato, erano tutti gentili e la casa era veramente una normale abitazione americana. Kurt sembrava essere stato adottato da dei poveracci. Come potevano aver avuto i requisiti per adottare un figlio? Forse all’epoca non erano ridotti così male.

« Papà, sono a casa! » gridò Kurt, levandosi le scarpe inutilmente viste le condizioni sudice del pavimento.

« Ah, sei tornato frocetto. » riecheggiò una voce dalla fine del corridoio, una voce giovane e strafottente, che non si addiceva al padre. Kurt deglutì e respirò a fondo.

« E’ tuo… » iniziai a chiedere, ma lui scosse la testa.

« E’ mio fratello Paul. » spiegò. « Si diverte ad accogliermi nelle maniere migliori. Ogni settimana trova l’insulto adatto. Quest'ultimo va avanti da un po’, in realtà. »

Lo guardai e non potei fare a meno di sentirmi male per lui. Percepivo nelle vene, come lamette, il suo dolore. Mi salì dentro la voglia di andare a prendere suo fratello e sfondarlo di pugni.

« Kurt? Sei tu? » una voce rauca rispose qualche istante dopo, irregolare, saliva e scendeva come incontrollata. Era decisamente inquietante ed anormale.

Era quello il padre.

E Kurt non aveva esagerato sui problemi con l’alcool.

« Sì, papà. » rispose, camminando verso la stanza che doveva essere la cucina. Seduto a tavola, con una bottiglia di whiskey accanto al bicchiere semivuoto poggiata sulla superfice legnosa e consumata, stava un uomo sulla quarantina. Aveva capelli biondi, spettinati ed incollati tra loro, occhi chiari e acquosi e le
spalle ricurve ed abbandonate a loro stesse.

Continuavo a pensare che mi ricordavo distintamente le infermiere dire che la famiglia di Kurt sarebbe stata agiata. Perché ora non lo era?

« Chi è? » ruggì l’uomo, sulla difensiva, fissandomi con quegli occhi terribilmente vuoti e persi che mi fecero rabbrividire di nuovo, e non di freddo.

Kurt appoggiò a terra la tracolla e parlò lentamente, come quando si ha a che fare con un malato.

« Lui è Blaine, un mio compagno di scuola. » rispose Kurt, avvicinandosi al tavolo e sedendosi di fronte al padre. Lo seguii a debita distanza.

« Oh, ti sei fatto un amico? » chiese il padre, ridendo. Non capii se lo facesse per la felicità o per sadico divertimento e scetticismo. Decisi di non
soffermarmici.

Kurt annuì.

« Papà, devo parlarti di una cosa. Quanto hai bevuto? » domandò cauto, allontanando dall’uomo la bottiglia. Non appena lo fece il padre esplose in grida.

« Ridammela subito! Non provare a ricominciare con le ramanzine, chiaro? Io ho bisogno di bere, mi piace bere, voglio bere, quindi smettiamola! Vado
incontro al coma etilico con la testa alta! » gridò, come un ossesso, come un pazzo, come un cretino. Sussultai quando iniziò a sbattere le mani sul tavolo.

« Va bene! Va bene! Scusami… » rispose Kurt, riavvicinando la bottiglia al padre. « Devo parlarti di una cosa. » ripeté.

L’uomo riempì il bicchiere già mezzo pieno e se lo portò alle labbra, trangugiando con orrido piacere e voracità la bevanda ambrata.

« E allora parla! » sbottò, dopo aver deglutito.

Kurt prese fiato.

« Sai che non mi ricordo la mia infanzia, giusto? »

Il padre annuì lievemente.

« Blaine, » e mi indicò « era con me all’orfanotrofio, però io non mi ricordo di lui. O meglio qualcosa di vaghissimo, quasi inconsistente c’è, però non me lo
ricordo. »

L’uomo annuì di nuovo, spostando lo sguardo, sospettoso, verso di me.

« Insieme a lui, che invece di me si ricorda, ho parlato con il counselor della scuola. Sai, quell’uomo che aiuta a comprendere, a capire, una specie di
psicologo… »

Il padre si mise in allerta.

« Se vuole dei soldi può anche andare… »

Kurt lo interruppe.

« No, no. Non vuole soldi! » esclamò, vidi già le lacrime affacciarglisi in volto. Non doveva piangere.

Intervenni.

« Con quest’uomo abbiamo appurato che Kurt è vittima del Fenomeno della Rimozione di Freud. » spiegai. Il padre mi fissò con ostilità, non sembrava
ascoltarmi benevolmente. Sembrava sospettoso, come se mi fossi presentato in casa sua per rovinargli la vita.

« Che sarebbe? » biascicò.

Presi fiato anch’io, cercando di ignorare i suoi occhi.

« Sarebbe un metodo attuato dal cervello per cancellare ciò che crea troppo dolore. » dissi, lanciando un’occhiata a Kurt, sperando di non lasciare intendere
quello che iniziavo a sentire per lui. Distolsi lo sguardo.

« E cosa ti avrebbe creato questo dolore? » domandò l’uomo, riempiendo ancora il bicchiere vuoto, lasciando scorrere l’alcool come una malvagia medicina
nel suo sangue.

« Io… » sussurrò Kurt. « Io non lo so. »

Il padre fece un verso scettico.

« Puoi guarire? Puoi ricordare? Sempre se ne vale la pena. » e mi lanciò un’altra occhiata carica di disprezzo. Perché quell’uomo ce l’aveva con me? Che
avevo fatto?

Kurt sembrò cercare di evitare lo sguardo indagatore del padre.

« Devo fare un percorso con il counselor, passare del tempo con Blaine che conosce il mio passato e ne faceva parte e prendere… prendere dei farmaci. »

« Farmaci costosi? » chiese il padre, trangugiando l’ultima goccia di whiskey.

« Farmaci normali. » intervenni. « Posso dare una mano io economicamente. » proposi, pur sapendo che i miei fondi non erano infiniti e non avevo queste
grandi disponibilità.

Ma mi sarei trovato un lavoro. Avrei chiesto un aumento di paghetta. Avrei… fatto qualcosa.

« Non voglio la tua carità. » mi rispose e poi si volse verso Kurt. « Hai vissuto bene fino ad adesso, perché dovresti voler ricordare qualcosa ora? Sarà com’è
sempre stato. » terminò, facendo per alzarsi.

« Papà… » si lamentò Kurt, implorandolo con gli occhi.

« Smettila di guardarmi così! » gridò, avvicinandosi con passo instabile a Kurt e tirandogli uno schiaffo sulla guancia. « Siamo sul lastrico! Ci siamo dovuti
trasferire ed abbandonare la nostra bella casa per questa bettola! A malapena mangiamo, tuo fratello lavora, smettila di guardarmi come se fosse tutta
colpa mia! Non è colpa mia! Basta! Basta! » disse ed alzò di nuovo la mano per colpire Kurt, ma mi avvicinai e strinsi il polso di quell’uomo, sospeso a mezz’aria.

Mai, avrebbe dovuto toccare Kurt.

Mai.
























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Spazio Autrice:
Scusatemi se mi ci è voluto un giorno in più ad aggiornare, ma sono stata malata e non ero esattamente dell'umore per scrivere.
Spero il capitolo vi sia piaciuto, non ho molto da dire questa volta.
Un commento fa sempre piacere, mi serve per capire il feedback e grazie per essere arrivati fin qui. Grazie di cuore, davvero.

Vostra,
{noth

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Capitolo 11
*** I'll do it for you. ***



Don't you remember
-Capitolo 11-










Blaine teneva il polso di mio padre mentre io aspettavo che il colpo piovesse su di me, come al solito. Lo guardava con un’aria ferita, quasi disgustata.

« Non si dovrebbe picchiare i propri figli. » disse, gli occhi accesi di una furia trattenuta a stento.

Mio padre contrasse il viso, sembrando molto più vecchio di quanto in realtà fosse.

« Questa è la mia casa, e la mia famiglia. Non hai alcun diritto di venire qui e dirmi cosa devo fare con mio figlio. » rispose, e cercò di liberarsi dalla presa di
Blaine.

« Io no, ma probabilmente un assistente sociale sì. »

La faccia dell’uomo parve perdere colore, come se il flusso sanguigno si fosse bloccato di colpo.

 « Cosa? » sibilò tra i denti, gli occhi ridotti a due fessure lucide.

« Basterebbe mostrare i lividi di Kurt e la mia testimonianza, anche solo le condizioni di questa casa per far intervenire l’assistenza sociale. » spiegò Blaine,
lasciando il polso di mio padre che portava i segni lividi dell’impronta della sua stretta.

« Lo ributterebbero in orfanotrofio, è minorenne. Vuoi questo Kurt? Eh? Vuoi questo? » gridò, lanciando il bicchiere mezzo colmo di whiskey contro il muro.

Questo si spaccò con un rumore assordante e cadde a terra.

« Io non ho intenzione di parlare con nessuna assistenza, a patto che lei sostenga parte delle spese per i farmaci di Kurt. Una parte la sosterrò io, va bene? »
Blaine era di colpo divenuto risoluto e nel suo sguardo leggevo una determinazione che non conoscevo, anche se una piccola parte di me sembrava riconoscerla. Mi faceva male la testa, mi portai le mani sulle tempie.

« Kurt, cos’hai? » scattò Blaine, come se fino ad allora non avesse fatto altro che prestare attenzione a me e non all’uomo che gridava.

« Niente, una delle mie emicranie. » risposi, stringendo i denti perché questa volta era come se qualcuno mi stesse schiacciando la testa in una morsa.

« Sono… sempre più frequenti » biascicò il padre, il viso nuovamente paonazzo mentre si accasciava a peso morto su una delle sedie della cucina.

Blaine gli lanciò uno sguardo eloquente.

« Io… Stefan! » gridò, battendo un pugno sul tavolo e tossendo distrattamente. Dal corridoio udimmo una porta aprirsi e dei passi strascicati. Comparve un
ragazzo con i capelli lunghi e legati in una coda. Aveva una maglietta larga verde militare e dei Jeans strappati. Per completare il quadro portava dei calzini blu bucati e uno sguardo vuoto sopra un sorriso ebete appiccicato sul volto.

« Che succede pa’? che vuole lo sfigato? » domandò, ruminando vistosamente con una gomma americana un bocca.

« Smettila di chiamare così tuo fratello. » borbottò mio padre, sudato come se avesse fatto una corsa.

Stefan storse il naso.

« Non sei abbastanza ubriaco per trovarlo divertente. » rispose, appoggiandosi allo stupite della porta.

« Vai a prendere i risparmi in cassa. Portameli.  »

Mio fratello sgranò gli occhi.

« Perché? Avevamo detto di aspettare ad usarli. Mi compri già il basso? »

L’uomo sbattè nuovamente un pugno sul tavolo.

« Vai a prendere quei cazzo di soldi! » gridò. « Servono a tuo fratello. Medicinali. »

L’espressione di Stefan divenne immediatamente ostile.

« Pastiglie anti-finocchiaggine? » domandò.

« Vuoi muovere il culo e prendere quella cassetta? » sbraitò papà mentre la testa mi implodeva e sembrava volere ripiegarsi su se stessa. Cercai di
diventare invisibile.

Blaine restava immobile a guardare con aria preoccupata la curva della schiena stanca di mio padre. Chissà a cosa pensava.

Stefan tornò, sempre strascicando fastidiosamente i piedi. Sbattè una cassetta nera con un lucchetto a combinazione sul tavolo e se ne andò, spargendo astio
come una nube tossica attorno a lui.

Papà frugò con le mani tremanti nella scatola della quale aveva a fatica ricordato la combinazione e tirò fuori diverse banconote da venti e cinquanta dollari, ficcandole nelle mani di Blaine che guardava sconcertato la meticolosità con la quale gli posava i risparmi di anni nelle mani.

« Cos… »

« Gestisci tu le spese. Non ne voglio sapere e non lo so fare… » gracchiò mio padre prima di accasciarsi esausto sul tavolo. Il puzzo di alcool impregnava
l’aria.

« Io… va bene. » rispose Blaine che poi si voltò verso di me. Si guardò attorno e parve valutare la situazione.

« Tu sta notte vieni a dormire da me. » disse, e diede un buffetto sulla spalla a mio padre per attirare la sua attenzione mentre metteva i soldi nella borsa.

« Va bene? » chiese.

« C… come… volete… » biascicò papà, mentre Blaine mi prendeva per un polso, dolcemente e mi trascinava fuori.

« Ti presto tutto io, non prendere nulla. » sussurrò. Arrivammo dalla porta, ci infilammo meccanicamente le scarpe ed uscimmo.

« Arrivederci. » gridò Blaine, prima di chiudersi la porta alle spalle.

Appena fuori feci un respiro profondo, lasciando che la testa prendesse aria ed il dolore diminuisse. Ero molto grato a Blaine per ciò che aveva appena fatto.

Era riuscito a farsi ascoltare dove io avevo sempre fallito. In un certo senso ero quasi invidioso di lui e del suo sangue freddo. Ci eravamo rincontrati solo da
qualche giorno e già stava stravolgendo la mia vita. Ne faceva ciò che voleva.

Ne era inconsciamente padrone.

Ricordavo vagamente una presenza forte nel mio passato, però ancora non aveva la sua forma. Era indistinta, quasi come un’ombra.

Non ero in grado di capire se fosse stata un’ombra buona, se cercavo di scavare più in profondità era come sbattere contro un muro elastico che mi
ricacciava indietro.

« Grazie. » dissi, sentendomi svuotato di un peso che mi gravava sul petto da un po’.

Blaine non rispose.

« Quindi ora vengo da te? E i tuoi lo sanno? Saranno d’accordo? » domandai.

Lui mi fece cenno di seguirlo, rilassando finalmente le spalle.

« Non ti preoccupare, e comunque passiamo prima in farmacia a prendere le tue medicine, okay? »

Annuii poco convinto.

« Mi sembra di essere tornato indietro nel tempo. » sussurrò e sorrise. Istintivamente sorrisi anche io e sentii il cuore sfarfallare come le ali di un colibrì.

Che mi stava succedendo?

















------------------------------------------------------------------------------
Spazio Autrice: 
Bè, scusate se sono più lenta ad aggiornare, ma sono più impegnata!

In ogni caso saranno molto belle le scene in camera di Blaine, ve lo assicuro.
Spero il capitolo vi sia piaciuto!

Vostra,
{noth

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Capitolo 12
*** Don't even say it. ***


Don't you remember?
-Capitolo 12-










Non era stato difficile convincere i miei a fare restare Kurt per cena e a dormire. Anzi. Papà era fin troppo contento di conoscere, finalmente, il ragazzo di cui tanto gli avevo parlato. Il bambino che mi aveva fatto sempre compagnia all’orfanotrofio di cui avevo sempre raccontato loro. Mamma era entusiasta all’idea che, finalmente, avessi portato a casa qualcuno che non fosse Wes, il nostro vicino.

Quando Kurt ed io c’eravamo presentati alla porta di casa mia, avevo già avvisato i miei con un paio di messaggi ed avevano risposto entusiasti all’idea.
Spalancarono il portone ed entrambi indossavano un sorriso ampio quanto il loro volto.

« E così tu sei Kurt. Il fantomatico Kurt. » aveva detto mia madre, stringendogli la mano.

« Erm, sì, credo di sì. Fa-fantomatico? » aveva risposto Kurt, con aria confusa. Sentivo le guance prendermi fuoco.

« Sì, mi ricordo di te all’orfanotrofio. Eri con Blaine quando lo abbiamo scelto. » aveva affermato papà, dandogli una pacca sulla spalla ed invitandolo ad
entrare. Kurt era cautamente sgusciato dentro, io gli stavo giusto dietro e non potevo fare ameno di notare la curva della sua schiena. Mi soffermai anche, inavvertitamente, sulla forma delle sue spalle e sui muscoli lievi che si intravedevano da sotto la maglietta sulle sue braccia.

Scossi la testa per concentrarmi, e spinsi Kurt fino allo sgabuzzino dove tenevamo le giacche, invitandolo ad appoggiare la cartella e ad appendere la borsa.

Notai il suo disagio, evitava di guardare negli occhi tutti e spostava lo sguardo di continuo, come se non riuscisse a calmare l’onda impetuosa che si era alzata
dentro di sé, confondendolo.

Ci sedemmo a tavola e scoprii presto che mamma aveva dato il meglio di sé in cucina. Era tutto buonissimo e, tolte le lamentele delle gemelle riguardo i loro nuovi insegnanti, la cena fu piuttosto allegra e tranquilla. Kurt mangiava tutto, divorava ogni cosa lentamente, assaporandola, ed educatamente. Notavo i muscoli della sua mascella vibrare. Mangiai più volentieri del solito, realizzando solo in quel momento che, il ragazzo che avevo tanto cercato di ritrovare per tutta la vita, ora era seduto alla mia tavola, accanto a me e, quella notte, avremmo dormito assieme. Come un tempo.

Papà e mamma fecero del loro meglio per sembrare spontanei e furono molto gentili con Kurt. Gli sorrisero spesso e gli chiesero se il cibo era di suo gradimento e, sotto tutte quelle nuove attenzioni, egli annuiva imbarazzato, cercando di non sembrare un ingordo mentre assaggiava tutto e lanciandomi continue occhiate di nascosto, come a controllare che fossi là al suo fianco, pronto a sostenerlo se mai fosse caduto.

A fine cena, con la scusa dei compiti, ci rintanammo in camera mentre mio padre vi portava un materasso, che tenevamo in un armadio, accanto alla mia scrivania. Ci buttò sopra una coperta ed un cuscino e uscì, augurandoci buono studio.

Non appena se ne andò, Kurt si sedette sul suo letto, accarezzando la stoffa con aria concentrata.

« Che succede? » domandai a bassa voce, incrociando le gambe e continuando a fissarlo, cercando di entrare nella sua testa per capire ciò che pensasse, una cosa che mi era sempre venuta molto semplice ma che, ora, mi risultava incredibilmente complicato.

Lui scosse la testa lievemente, accennando un sorriso malinconico.

« Nulla di particolare. » rispose, sospirando e gettando un’occhiata alla stanza che pareva sembrargli troppo luminosa, troppo spaziosa, troppo normale. Si guardava in giro come se fosse stata la sua prima notte in albergo, il che perdeva senso se consideravo che era lì con me.

Non riuscivo a levargli gli occhi di dosso, i ricordi mi crollavano addosso come se cadessero dal cielo, mi spezzavano le ossa, mi schiacciavano il cuore ed, improvvisamente, qualsiasi cosa bella mi fosse mai successa in vita portava il nome di Kurt. Questo sentimento mi avvolgeva per intero, mi tirava da parti differenti, mi lacerava l’anima e sentivo che era addirittura più forte dell’affetto che avevo sempre provato per Larry, l’orsetto di peluche che mi avevano regalato non appena ero arrivato là, nella nuova famiglia. Era come se fossi stato asmatico e lui fosse stato il Ventolin che riusciva a farmi respirare. Ero in crisi quando non c’era lui, tutto era confusione, ormoni, solitudine, compiti, sguardi, aspettative… lui calmava le acque dentro di me. Per qualche strana ragione mi dava sicurezza.

« Sul serio, puoi dirmelo se vuoi dormire sul letto, posso stare il sul materasso. » dissi, mordendomi il labbro.

Lui sembrò svegliarsi da una rete fittissima di pensieri.

« Oh, no, non ti preoccupare. Voglio dire, starò benissimo. » rispose, dando delle pacche al cuscino, come a confermare ciò che aveva appena detto.

« Non sembri stare benissimo. » puntualizzai, piegando la testa da un lato e guardandolo mentre si lasciava sfuggire un sorriso correlato poi ad un sospiro.

« Non ti si può nascondere nulla, eh. »

« No, non a me. Non tu. » risposi, sporgendomi in avanti e facendogli capire che non avevo intenzione di lasciar perdere.

« Blaine tu… sei stato così fortunato. » cominciò, guardandomi negli occhi per la prima volta da tutta la sera. « Hai una famiglia meravigliosa, una casa bellissima, sorelle simpatiche, tutti i tuoi ricordi… Io cos’ho di tutto questo? Siamo così diversi, ed un po’ ti invidio. Sai, stando con te, tutti i tuoi movimenti, il tuo accento, i tuoi sguardi fuggenti… sembrano tutti ricordarmi qualcosa, eppure non so cosa. È come se avessi letto un libro e poi me ne fossi completamente scordato, pur rendendomi conto di averlo letto. E non lo trovo più, non riesco a rileggerlo. Quando sono con te è come se i ricordi spingessero su un muro elastico invisibile, non riescono ad oltrepassarlo eppure mi accarezzano il cervello. Mi sembra di non starci con la testa, mi sembra di stare per impazzire. » spiegò. I suoi occhi chiari mi avevano fatto battere il cuore a mille, mi ero scordato come si facesse a respirare e sentivo di non riuscire a collegare il cervello. Ero andato in tilt. Kurt mi mandava in tilt.

« Potrei condividere tutto con te. A partire da questa notte per esempio. Potrai venire qui tutte le volte che vorrai. »

Kurt sorrise.

« Ce l’ho una famiglia, Blaine, anche se non è bella e ricca come la tua. »

Allungai, inconsciamente una mano verso di lui e gli sfiorai una guancia. Le sue gote si colorarono istantaneamente di un rosso vivo e i suoi occhi parvero riempirsi di lacrime, lacrime che non scendevano.

« Puoi averne un’altra se vuoi. Posso essere io la tua famiglia. E tu la mia. Come un tempo. » feci una pausa, « Vorrei tanto che ricordassi… »

Dopo qualche istante Kurt spalancò gli occhi.

« I panini con la marmellata.  Nel bosco. » sussurrò, un’espressione sconvolta sul viso. « Mi… ora… mi sono improvvisamente ricordato di una corsa nel
bosco. Con me c’era un bambino. Mi ricordo che ci tenevamo per mano… » si portò una mano alla bocca e con l’altra si prese la radice del naso. « Dio mio,
allora è vero che eri tu. »

Mi guardai attorno con una finta aria sorpresa.

« Ma dai? Non te lo avevo ancora detto? » esclamai sarcastico. « Siamo cresciuti insieme. »

Kurt annuì energicamente, sorridendo. Rideva sinceramente, come poche volte, in quei giorni, lo avevo sentito fare. Si alzò in piedi e mi si buttò addosso,
ridendo e piangendo come un idiota. Mi circondò con le braccia e mi strinse forte. Il suo profumo mi schiaffeggiò il volto, forte e dolce come era sempre stato. Mai cambiato. Lo abbracciai anch’io e non so per quanto tempo restammo lì nel letto, avvinghiati a ridere e a piangere, come i due idioti che eravamo.

Iniziavo ad essere sempre più sicuro di quel sentimento che mi cresceva nel petto. Ne avevo letto a scuola, nel poemi, nelle fiabe, ne avevo sentito parlare. I sintomi erano batticuore, sudorazione, respiro affannoso, dipendenza da qualcosa o qualcuno quindi, a meno che non stessi avendo un overdose o un infarto, mi stavo innamorando di Kurt.

« Che bello, che bello, posso ricordare. » sussurrò, districando il nostro abbraccio.

« Farò il possibile perché continui a farlo. » risposi.

Kurt si piegò su se stesso, tenendosi la testa tra le mani ed emettendo un verso soffocato.

« Che succede? » domandai preoccupato, il cuore che mi usciva dal petto.

« Nulla, nulla. Una delle mie emicranie. » esalò, col fiato corto. « S-sembra che mi si spacchi la testa. »

Scesi dal letto e corsi giù per le scale, andando a cercare mio padre nel soggiorno. Lui alzò gli occhi dal giornale e mi guardò in attesa.

« Kurt ha una delle sue emicranie, abbiamo qualcosa per dargli una mano, per favore? Fa fatica a respirare… »

Incredibile come mi venisse naturare rivolgermi a loro, come se fossero la mia àncora di salvezza. Il loro affetto per me era sempre stato infinito e Kurt
aveva avuto ragione: ero stato fin troppo fortunato.

Papà mi diede una pastiglia di qualcosa e mi disse di fargliela ingoiare intera con un goccio d’acqua. Eseguii, Kurt la guardò dubbioso ma alla fine accettò la
medicina e, in contemporanea, prese anche quella che avevamo comprato in farmacia. Mi guardò spaventato.

« E se non riuscissi a reggere di nuovo tutti quei ricordi? Voglio dire, se si sono cancellati c’è una ragione… »

Io scossi la testa, invitandolo a distendersi accanto a me, come una volta, e come avevo sempre sognato di fare di nuovo. Lui accettò il mio invito e si
accoccolò al mio fianco.

« Ce la farai, perché ora siamo di nuovo insieme e io e te, assieme, possiamo fare qualsiasi cosa. Okay? » lo rassicurai, stringendolo in un abbraccio.

Stava tutto tornando come prima e, di colpo, mi domandai se sarebbe stato tutto così relativamente semplice.

Kurt sospirò.

« Grazie. »

Sorrisi e risposi:

« Non dirlo nemmeno. »
























----------------------------------------------------------------------
Spazio autrice:
Lo ho già detto nell'altra storia ma, in ogni caso, volevo avvisare che ora ho una pagina autrice su Facebook.
Eccola:
-----------------> Noth. <-------------------

In questa pagina pubblicherò musica, avviserò degli aggiornamenti, risponderò a QUALSIASI domanda.
Scriverò degli spoiler, chiederò SOPRATTUTTO opionioni e consigli.
Sarete partecipi di ciò che scrivo.

Spero che il capitolo vi sia piaciuto e vi avviso che la nottata sarà interessante.

Vostra,
Noth

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Capitolo 13
*** I want to marry you. ***


Don't you remember?
-Capitolo 13-









Non era facile parlare con Blaine. Era difficile avere a che fare con una persona che, ogni volta che ti guardava, ti vedeva con una decina di anni di meno. Ero sicuro lo facesse. Eravamo distesi sul letto e lui mi si era raggomitolato sulla schiena, mi abbracciava affondando il viso nella maglia del pigiama che mi aveva prestato.

Mi sembrava di stare tornando a conoscere quella sensazione di cui quasi avevo dimenticato il nome: la felicità. Blaine era sempre riuscito a regalarmi un sorriso. A riportarlo sul mio volto. A darmi una ragione per non essere troppo triste e a sorridermi facendo apparire quelle fossette così famigliari al centro delle sue guance.

Che cosa provavo per Blaine? Non lo sapevo. A volte mi pareva di essermi perso nel suo labirinto, e quasi di non volerne uscire, troppo spaventato da quale avrebbe potuto essere l’uscita. Il cuore mi esplodeva di speranza con lui nelle vicinanze, mi sembrava di essere vicino ad una sorta di salvezza. Mi sentivo un idiota anche solo a pensarle certe cose, ma non potevo farci niente se il suo sorriso mi faceva volare uno stormo di pterodattili nello stomaco. Non potevo farci niente se al suono della sua voce sussultavo. Che fosse perchè, anche se il mio cervello non rammentava nulla, il mio corpo avesse immagazzinato i suoi ricordi e reagisse proprio come una volta? Sarebbe stato bello poter chiudere l’argomento così. Non preoccuparmi. Ma io ero uno che si preoccupava
sempre per troppe cose.

La nostra posizione al momento poteva risultare equivoca, e sperai che nessuno entrasse nonostante avessi la sensazione che nessuno dei genitori di Blaine sarebbe mai venuto a controllarci, accecati dalla fiducia verso il figlio.

« Blaine? » sussurrai sulle lenzuola, stringendole nei pugni e schiacciando le sue mani sul mio petto.

« Mh? » mugugnò lui, mezzo addormentato nonostante non fosse per niente tardi. Giocherellò, quasi inconsciamente, con la stoffa del pigiama che mi aveva prestato dopo aver chiacchierato per un paio d’ore su quello che avrei dovuto ricordare mentre lui mi raccontava barzellette per nulla divertenti alle quali mi ero ritrovato, cosa che non avevo mai fatto, a fingere divertimento.

« Perché non sono stato adottato assieme a te? Ci saremmo risparmiati tutte queste paranoie… » risposi, ed un brivido mi corse lungo la schiena. Lui sbadigliò e mi abbraccio, quasi per stiracchiare i muscoli indolenziti della schiena e delle braccia.

« Kurt… »

« No, è una cosa che mi sono chiesto diverse volte questa sera. Sei stato così fortunato, non posso fare a meno di invidiarti. »

Lui si lasciò sfuggire una risata che vibrò tra le mie vertebre.

« Non fidarti troppo di quello che dico, non so nemmeno se sto dormendo o se sono sveglio, va bene? » biascicò, con un tono di voce lento e cadenzato, come in un sogno.

« Va bene. » risposi, e lui prese fiato.

« Un giorno ti sposerò. Voglio sposarti, un giorno. E così vivremo assieme, sempre, tutti i giorni, e dormiremo sempre così. E tu sarai sempre felice e… se
ricorderai bè, bene, sennò creeremo tantissimi altri ricordi e non avrai bisogno di quelli vecchi. E sorriderai, e sarò felice anch’io. Magari avremo un cane, un paio di gatti e un criceto. Potremo… potremo… » mormorò, e poi iniziò a russare. Non aveva nemmeno terminato la frase e, mentre sorridevo come un ebete, non potevo fare a meno di chiedermi se intendesse davvero ciò che aveva detto o se era soltanto vittima dell’inconscio e non si accorgeva di ciò che usciva dalla sua bocca.

L’immagine che aveva descritto, però, per qualche strano motivo mi sembrava terribilmente giusta. Era possibile innamorarsi così? Era possibile innamorarsi di un ragazzo?


 
***


Avevamo scordato di chiudere i balconi quando ci eravamo raggomitolati nel minuscolo letto di Blaine e così, la mattina, ci svegliammo piuttosto presto a causa della luce del sole che aveva deciso di battere con violenza dritta nei nostri occhi. Mi mossi appena e Blaine si ritrovò a mormorare imprecazioni alle finestre e alla luce, coprendosi con le coperte e continuando a borbottare.

Era domenica, quindi effettivamente avremmo potuto dormire di più e restare vicini più a lungo. L’idea che la nostra felicità fosse stata interrotta mi fece innervosire.

« Stupidi balconi inutili e schifosi che non funzionano mai quando servono, perché non hanno inventato la chiusura automatica brutti inutili pezzi di legno… » e la lista di insulti continuava. Blaine aveva un’inventiva strabiliante appena sveglio. Magari anche da mezzo addormentato.

« Un giorno ti sposerò. »

Decisi che era il caso di lasciare stare per quel momento. Era meglio recuperare qualche ricordo prima di fare domande che potevano risultare inopportune.

Mentre Blaine si alzava e si levava la maglia del pigiama, con i capelli scompigliati a regola d’arte, mi stropicciai più volte gli occhi. Si alzò in piedi e cercò nell’armadio una felpa da buttarsi addosso mentre io non riuscivo a distogliere gli occhi pigri dalla sua schiena, dalla linea della sua colonna vertebrale e dai suoi fianchi. Per non parlare delle fossette di venere che gli spuntavano appena sopra l’elastico dei pantaloni.

Distogliere lo sguardo fu uno sforzo troppo grande da fare di prima mattina.

« Perché non ho mai nulla da mettermi? » strillò sottovoce, scavando dell’armadio e creando un gran disordine. Ora capivo il perché dei calzini abbandonati a stendere sopra lo schermo del computer.

« Lascia, faccio io. » commentai esasperato dal suo nervosismo mattutino e, in poco tempo, trovai un paio di jeans scuri, una maglietta bianca con lo scollo a
V e un cardigan blu scuro che si sarebbe abbinato a meraviglia con ciò che avevo scelto.

« Come diavolo hai fatto? Non ricordavo nemmeno di averla questa roba! » esclamò, e non si fece nemmeno troppi problemi e levarsi i pantaloni e a
mettersi in tutta velocità gli abiti che avevo scelto.

« Se non sai bene cosa stai cercando è più facile trovare quello che vuoi. Non hai aspettative, vai a istinto. Per quanto riguarda i vestiti, anche se non è che io ne abbia tanti, ho un buon intuito. » commentai e mi stiracchiai rumorosamente. « Non è che disturbiamo i tuoi con tutto questo chiasso? » domandai, guardando la sveglia e notando quanto fosse presto.

« Non ti preoccupare. » rispose lui. « La domenica escono molto presto con le gemelle per andare in chiesa e poi a pranzo fuori. È una tradizione che hanno da quando sono arrivato. Una volta andavo anch’io a mangiare con loro, ma oggi ho chiesto di stare a casa con te. Per… aiutarti con le pillole, i ricordi e tutto il resto. Posso chiederti se ti è venuto in mente qualcosa durante la notte? »

« Non che io sappia. » dissi, e sembrò deluso. « Ma tu non vai in chiesa? »

Lui scosse la testa.

« No, non sono mai stato educato alla religione. » rispose, e fui felice che avessimo quello in comune. Nessuno a casa mia era mai stato religioso. Le uniche volte in cui veniva gridato il nome di Dio era nelle imprecazioni.

« Andiamo, ti presto dei vestiti e metto da lavare quelli vecchi. Te li riporterò. Andiamo a fare colazione. » disse, e mi indicò l’armadio con un cenno, facendomi capire che potevo scegliere, mentre lui usciva dalla stanza e mi lasciava solo.

Era questo che significava avere un amico? Era questo che voleva dire stare bene con una persona? Così bene che ti saresti ammanettato a lui ed avresti gettato la chiave nell’oceano senza troppi ripensamenti? Inspirai il profumo della stanza e me ne gonfiai il cuore, giurando di non dimenticare almeno quello.




























--------------------------------------------------------------------------
Spazio Autrice: 
Dopo aver scritto questo capitolo avevo un sorriso ebete stampato sulla faccia.
Devo dire che è stato troppo fluff da scrivere tutto in una mattinata, ma ci sono riuscita.

Spero vi sia piaciuto!

vostra,
{noth

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Capitolo 14
*** It wasn't an option. ***


Don't you remember?
-Capitolo 14-








Avere Kurt a casa, dormirci assieme, vedere i suoi capelli scompigliati da appena alzato era stato molto meglio di quanto pensassi, e fermare il mio cuore a tutto questo era praticamente impossibile. Lo prendevo a pugni, cercando di abortirlo ma continuava imperterrito a ballarmi la polka nel petto.

Kurt sgranocchiava i cereali con sguardo assorto, mentre io cercavo delle uova da friggere in padella per una colazione degna di tale nome. Nel frattempo lui prendeva le pillole, deglutendole con un bicchiere d’acqua e continuando a masticare i corn-flakes.

« Ho fatto un sogno questa notte. » disse, e quasi rovesciai il latte che mi stavo versando nella tazza al pensiero di ciò che avevo sognato io, diventando di un imbarazzante color ketchup.

« Ah, sì? » balbettai, dandogli le spalle e respirando a fondo per calmare i bollenti spiriti.

« Già. Non sognavo da un po’. Era come se fossimo stati ai lati opposti di un ponte, tipo, e non riuscivamo mai ad incontrarci. » disse, dando un’occhiata allo schermo del suo cellulare.

« Triste. » commentai. « Spero non sia premonitore. »

Lui scrollò le spalle e si tirò su le maniche della mia felpa troppo grande per lui.

Sarei rimasto là con lui per sempre, a vivere quella convivenza che mi portava alla mente tutti quei ricordi che in orfanotrofio avevo sigillato in un cassetto.

Però non capivo: era il genere di sentimenti che avrei dovuto provare nei confronti di una ragazza. Ma io volevo stringere Kurt, toccarlo, fissarlo, tenerlo per mano, baciarlo. Perché? Cosa c’era che non andava in me?

Mi sedetti a tavola con lui, facendogli scivolare sotto il naso le uova fumanti e una forchetta con la quale iniziò a smangiucchiarla, lasciandosi scappare un sorriso.

« Mi sento così a casa oggi. » mormorò, ficcandosi in bocca quanta più frittata poteva e dovetti mordermi le guance per non scoppiare a ridere.

« Perché? » chiesi, mentre mi complimentavo mentalmente con me stesso perché le uova erano davvero venute buonissime grazie agl’insegnamenti di mia madre.

« Non lo so. L’odore della colazione pronta, non mangiare da solo, svegliarsi con calma i profumi di pulito e di domenica… è come ho sempre immaginato casa. »

Istintivamente gli afferrai la mano, trovandola fredda sotto il mio tocco. Lui sussultò appena, come se il contatto gli fosse estraneo, ma era comunque un grande passo avanti rispetto a quando sobbalzava.

« Mi piace che tu ti senta a casa. » risposi, e poi tornò tutto come prima, normale, con il solo rumore delle mandibole che lavoravano e delle forchette che sbatacchiavano sui piatti.

Stare accanto a Kurt era facile e bello come respirare e sentivo che quello sarebbe stato un grande giorno.

Lo passammo seduti sul divano a guardare trasmissioni inutili e a ridere come idioti, a tirarci i cuscini e a rotolare per terra. Ordinammo delle pizza che
pagai con i soldi lasciati nel vaso dei risparmi dei miei genitori e le mangiammo a gambe incrociate sul tappeto ispido.

Kurt aveva tutto il contorno della bocca lucido di olio e pomodoro e dovetti davvero trattenermi per non piegarmi a leccargli gli angoli delle labbra, così gli passai semplicemente un dito sulla pelle macchiata.

« Non sono mai stato capace di mangiare senza sporcarmi ovunque. » mormorò, pulendosi col dorso della mano e abbassando gli occhi mentre sorrideva ed il cuore mi perdeva un battito. Ti prego, pensai, non smettere mai di farmi questo.

Il pomeriggio passò velocemente, troppo, a lanciarci orsetti gommosi e a cercare di fare i pop-corn cercando di non farli volare per la cucina mentre scoppiettavano. Ma anche tutto questo doveva finire.

Il suo cellulare squillò, irrompendo violentemente in quella che era stata la nostra giornata mentre combattevamo in cucina, io con un cucchiaio di legno e lui con un mestolo.

Appena vide il nome sul display, il sorriso abbandonò il suo volto. Quel sorriso che avevo fatto emergere a fatica. Si portò una mano alla bocca e rimase in silenzio.

Morivo dalla voglia di sapere cosa fosse successo, però lui sembrava essere diventato muto ed io mi morsi le labbra per non parlare.

Dopo cinque minuti buoni di nulla, decisi che non era più il caso di aspettare.

« Kurt, che succede? » domandai, meno cauto di quando avrei voluto.

Lui scosse la testa.

« Mio padre. » sussurrò. « E’ caduto dalle scale e ha sbattuto la testa. Non si muove. Stefan ha chiamato l’ambulanza ma non si sa se sia troppo tardi. »
disse, cercando di tirarsi in piedi, ma evidentemente sotto shock. Lo aiutai ad alzarsi ma era troppo disorientato, si guardava in giro e sembrava sul punto di
piangere. Strano, non avrei mai detto che tenesse così tanto a suo padre.

« E’ in ospedale ora? Vuoi che andiamo? » proposi. Lui mi guardò e parve sorpreso da tanta gentilezza. Si fermò a pensare qualche minuto.

« Prendo l’autobus, ti ho già disturbato abbastanza. »

Lo presi per un braccio e gli aprii la porta d’ingresso, facendogli cenno di avviarsi, di entrare nel pick-up e di fare poche storie. Afferrai le chiavi da sopra il tavolo e mandai un messaggio ai miei. Sul volto sconvolto di Kurt lessi una sorpresa gratitudine e poi fece come gli avevo detto.

Salii anch’io nel mezzo e lo misi in moto, programmando mentalmente la strada per andare in ospedale.

Gli presi la mano che tremava e la tenni stretta, senza alcun fraintendimento a parte il cuore che decideva di ammutinarsi e partire per una maratona.

A metà strada Kurt decise di aprire di nuovo la bocca.

« Lo sai che sei muore verrò dato in adozione a qualcun altro o spedito in un orfanotrofio? » mormorò, deglutendo a fatica, ed io quasi sbandai, perché proprio non ci avevo pensato con la scusa che finalmente lo avevo al mio fianco.

« Cosa? »

« Potrebbero mandarmi lontano. » sorrise amaramente lui, sull’orlo delle lacrime. « Magari mi dimenticherò di nuovo di te. »

Accostai a lato della strada e strinsi il volante tra le mani, tentando di calmarmi.

« Hai le tue medicine, ed io ti troverei. »

Lui scosse la testa.

« Le medicine non possono durare per sempre, ne ho solo un barattolo, e poi sai come funziona. Non mi ricorderei di te solo vedendoti. »

Avevo voglia di gridare.

« Ti troverei. Sistemerei tutto. »

« Non mi hai trovato già una volta. » rispose e mi fece cenno di tornare in strada ed io, chissà perché, obbedii.

Non sapevo più cosa dire.

Mi zittii e dissi solo.

« Vedrai che tuo padre starà bene. »

Lui fece un verso scettico e triste.

« Stefan non la pensava così. »

Mi sentii sprofondare sul sedile, avevo voglia di smettere di respirare e di schiantarmi con la macchina.

Perdere di nuovo Kurt non era un’opzione.












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Spazio Autrice:
Scusatemi per l'imperdonabile ritardo ad aggiornare, ma avendola scritta us carta dovevo trovare la forza di ricopiarla.
Maledetta me.
Spero che vi piaccia, mi dispiace, sapete che io e l'ANGST andiamo a braccetto. Eh.

Pagina Facebook: http://www.facebook.com/pages/Noth-EFP/364038186940771


V
ostra,
{noth

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Capitolo 15
*** Now I know. ***


Don't you remember?
-Capitolo 15-










Odiavo gli ospedali. Sapevano di morte, di malattia, di solitudine e di tristezza. Una vocina dentro di me mi gridava di scappare, di girare i tacchi e correre via, ma Blaine mi teneva distrattamente una mano sulla spalla, facendomi sentire come se non avessi via di scampo, ed era vero: dovevo sapere come stava mio padre. Mi avvicinai al banco informazioni ed un’infermiera con i capelli ossigenati alzò gli occhi verso di me, smettendo per qualche istante di scrivere.

« Posso aiutarla? »

No, avrebbe voluto rispondere, nessuno poteva tirarlo fuori da quell’orrenda situazione.

« Cerco Joseph Norberg, è arrivato da poco, credo dopo essere caduto dalle scale. Condizioni critiche. »

Lei diede un’occhiata alle cartelle che aveva davanti.

« Lei è…? » chiese, ed io mi schiarii la voce.

« Il figlio. Mio fratello dovrebbe essere già qui. »

L’infermiera estrasse un modulo e mi indicò di fare una firma in basso.

« Lei non somiglia affatto a suo padre, al contrario di suo fratello. » commentò, ed allora io sorrisi, colpevolizzandomi per quanto quelle parole mi
rassicurassero. Per qualche istante sperai di somigliare almeno un po’ a Blaine, che era così sicuro, così gentile, così bello.

Poi l’infermiera si rivolse a qualcuno alle mie spalle.

« Lei è un altro fratello? » domandò, e Blaine sorrise imbarazzato alzando le mani in segno di diniego.

« Oh, no, sono solo un amico. » rispose, alzando le spalle. L’infermiera sembrò delusa.

« Strano, avrei detto che lo foste. Avete lo stesso sguardo di ostentata tristezza. » spiegò, porgendo il modulo anche a lui e facendogli segno di firmare.

« Bè, siamo in un ospedale… » cercò di spiegare Blaine, ma lei non parve del tutto convinta.

« Reparto terapia intensiva, stanza 702. » ci informò, e ci dirigemmo verso essa, seguendo i cartelli, come automi.

C’era un’innaturale tensione tra di noi, e solo allora capii che, se era lì, inconsciamente mi fidavo di lui come se lo conoscessi fin troppo bene. Probabilmente
era solo la mia parte razionale ad essere stata intaccata, quella che mi suggeriva che non lo avevo mai visto prima. L’inconscio mi faceva impazzire il cuore,
respirare a fatica e venire voglia di abbracciarlo e stringerlo a me e restare semplicemente così.

Entrammo nella stanza e cercai di chiudere quei pensieri in un’anta dell’armadio dei ricordi sfasati che avevo nel cervello.

Stefan era accanto a papà, seduto, e non gli toglieva gli occhi di dosso. Sembrava incantato ad osservare l’infinità di tubi che gli si piantavano sulla pelle e gli
erano stati infilati in gola. Il rumore dei macchinari era insopportabile. Non mi vide nemmeno entrare.

« Come sta? » esordii, e lui nemmeno alzò lo sguardo verso di me.

« In coma. Dubitano che si sveglierà. Siamo fottuti. » rispose, ed il cuore mi salì in gola.

« Perch… »

« Perché, » mi interruppe, « non abbiamo parenti che ci terrebbero. Verremo affidati a servizi sociali e mandati chissà dove! Non avremo più una casa, né un padre. E sai cosa? È tutta colpa tua. Prima di te papà non beveva perché tutto ci bastava. Poi sei arrivato tu, così fragile, così stupido, ed hai mandato tutto a puttane. È solo questo che sai fare: distruggere ogni cosa. Io non ti volevo. Non ti ho mai voluto. L’unica cosa positiva di tutto questo è che probabilmente verrò separato da te! »

La cassa toracica mi si era gonfiata, sembrava che il cuore mi stesse per esplodere. Le lacrime mi caddero senza preavviso sulle guance.

Ero un mostro.

Odio. Quell’odo per me stesso. Odio che avevo sempre provato nei miei confronti e che avrei continuato a provare dopo quel discorso. Ricordai i tagli sulle
mie braccia ed allora capii. Non avevo ferito solo me stesso, in tutta la mia vita non avevo fatto altro che ferire tutti coloro che mi circondavano: papà, Stefan, Blaine…

Avrei voluto restare a parare con papà, a guardarlo mentre si beava del suo sonno eterno, il piano era stato quello, ma ora il bisogno di scappare era troppo forte e non lo trattenni più. Arretrai e scappai per i corridoi bianchi e acidi dell’ospedale. Dei passi mi seguirono veloci, qualcuno che correva, ma non era veloce quanto me. Superai un medico che mi gridò che non si correva in ospedale, ma non vedevo più niente. Le lacrime avevano invaso il mio campo visivo.

Mi schiantai contro il maniglione antipanico di una porta e la spalancai per inerzia, catapultandomi all’esterno dell’edificio.

L’aria fredda mi morse la pelle bagnata del viso e mi appoggiai al muro, cercando di calmarmi ma, qualsiasi cosa fosse ciò che mi stava accadendo dentro,
aveva rotto ogni argine, scatenando un caos che mi stava distruggendo con violenza, pezzo per pezzo.

Singhiozzavo forte e, con il viso appoggiato al muro, non vidi chi fosse il mio inseguitore che ormai mi aveva raggiunto ed era uscito con me.

« Kurt… » la sua voce fu come una stilettata nelle viscere: era Blaine.

Non risposi, non ci riuscivo.

Il silenzio era palpabile, rotto solo dai miei singhiozzi.

Pensavo che saremmo rimasti così per sempre quando, improvvisamente ed inaspettatamente, il corpo di Blaine si premette sul mio in un abbraccio. Posò la testa sulla mia schiena e mi strinse, forte, ma senza farmi davvero male. Lo sentivo respirare su di me, il suo petto si gonfiava e sgonfiava. Tremava, forse
per il freddo, ma non accennava a mollarmi, ed io stavo talmente bene così.

E fu allora che capii. Capii perché lo avevo cancellato, capii perché ero stato tanto male. Al freddo, tra le lacrime, abbracciato a Blaine, capii.

Non avevo mai odiato lui. Avevo odiato me senza di lui. Quel me insipido, solo, debole che non avevo mai voluto essere. Avevo cancellato ogni motivo per
detestarmi e ferirmi, senza di lui, però per colpa dell’inconscio questo era successo comunque. Perché senza di lui non ero niente, o meglio, perché assieme a
lui era tutto perfetto.

Ed ora, lì, con Blaine che respirava in contemporanea con me, mi sentii improvvisamente molto leggero.

Mi voltai e, il viso sfigurato, le lacrime lungo le guance e gli occhi lucidi, lo baciai. Incastrai le mie labbra con le sue e per la prima volta in vita mia, mi parve
terribilmente giusto.

Non feci nemmeno caso al fatto che eravamo due ragazzi, che poteva respingermi disgustato perché, dopo qualche attimo di esitazione, rispose,
poggiandomi una mano alla base della schiena dandomi i brividi e passandomi l’altra tra i capelli. Lui era caldo, era bello, sorrideva ed era mio.

Una volta separate le mie labbra dalle sue la testa mi si schiacciò in una morsa, il dolore fu atroce, ma stava succedendo qualcosa

Un milione d’immagini diverse mi stavano comparendo nella memoria. Troppi frammenti della mia infanzia si stavano incastrando al loro posto, come una
cascata. Parte di ciò che era stato aveva finalmente avuto il coraggio di riemergere, lasciandomi a terra con le lacrime agli occhi ed un sorriso ebete
stampato sul volto.

Stavano tornando.

Avevo trovato la cura.

E la cura eravamo noi. Io e Blaine.


















-------------------------------------------------------------------------------
Spazio Autrice:
Ebbene ho aggiornato presto per farmi perdonare dello scorso ritardo.
Devo dire che finisco sempre negli ospedali nelle storie, forse perchè ci devo stare tanto anche io e li odio. Bah.
Comunque finalmente una sorta di barlume, nè?
Vi avviso, non crogiolatevi sugli allori, sapete che io e l'angst ci amiamo profondamente.

Un bacio.
Vostra,
{noth

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Capitolo 16
*** I'll find you. ***


Don't you remember?
-Capitolo 16-









Era bastato così poco a farmi cadere. A dare senso ad ogni dubbio che Kurt aveva creato in me. Era bastato che mi baciasse, come se mi stesse cadendo addosso, come se oramai non avesse più nulla da perdere, per fare incastrare ogni tassello al suo posto, per far scattare la serratura, per risolvere il rompicapo.

Ora tutto aveva senso.

Lo amavo era una cosa così semplice, eppure realizzarlo mi era sembrato terribilmente difficile.

Era così, proprio come sembrava: ero innamorato perso del mio migliore amico d’infanzia, ed ormai era troppo tardi per tornare indietro o ripensarci e, oltretutto, non ne avevo intenzione. Al diavolo la società e al diavolo tutto ciò che non eravamo noi.

Kurt si accasciò a terra, mormorando parole che non comprendevo. Mi inginocchiai accanto a lui, notando come tutto mi paresse più colorato. Allora era quello ciò che si provava a trovare l’anima gemella? Ma poi perché proprio lui? Cosa faceva decidere al mio cervello che sarebbe sempre stato lui e nessun
altro? Non avevo risposta, sapevo solo che era un brivido, un’emozione, inspiegabile e dolorosamente bella.

Poi Kurt, di colpo, spalancò gli occhi ed altre lacrime gli inondarono il viso mentre cercava di alzarsi.

« Mi ricordo. » sussurrò, guardandomi con una particolare luce nel viso.

Deglutii incredulo, prendendogli le mani ed aiutandolo ad alzarsi.

« Ti… ti ricordi? »

Kurt annuì, cercando di reggersi sulle gambe come se non lo facesse da un’infinita quantità di tempo e stesse reimparando tutto daccapo.

Tenendogli le mani sentii sotto le dita le cicatrici affilate sui suoi polsi e rabbrividii.

Lo sguardo di Kurt, però, aveva qualcosa di diverso. Finalmente mi guardava come se non mi avesse mai visto bene prima. Mi toccò il viso e sorrise, quel
raro sorriso che sembrava essergli stato strappato via troppo presto. Mi abbracciò, buttandomi le braccia al collo e premendo il suo corpo contro il mio.

Era tutto così bello che non potevo nemmeno pensare a quello che aveva detto il fratello. Non potevano portarmelo via, non lo avrei permesso.

Kurt, all’improvviso, smise di respirare.

« Mi porteranno via di nuovo. » sussurrò, il terrore traspariva dai suoi enormi occhi.

« No. » risposi.

Lui fece un sorriso triste.

« Lo sai che lo faranno. »

Gli strinsi più forte la mano.

« No, no, no… io… mi inventerò qualcosa, ti adotteremo, noi… »

Kurt fece un sospiro.

« Sei sempre stato molto determinato, ora me lo ricordo bene, ma non puoi far sì che i tuoi genitori si accollino un altro figlio. È vero, senza di te io… non so come si vive. Arranco, lo so ma… non posso permetterti una cosa del genere, proprio non posso. » sorrise amaramente, non riuscendo a trattenere le lacrime.

Sentii gli occhi bruciarmi e tirai su col naso.

« Da quando sei diventato così calmo e saggio? » domandai, e lui rise.

« Lo sono sempre stato. »

Sbuffai ed abbassai lo sguardo.

« Non posso lasciarti andare. Non posso, non voglio. » mormorai.

« Ci ritroveremo. Non… non può essere successo tutto questo per niente. Ho… ho capito che ho bisogno di te, non può essere stato un viaggio senza senso.

Noi… noi… » si interruppe perché aveva iniziato a singhiozzare, così lo strinsi a me, lasciando che le mie lacrime gli inzuppassero i capelli e le sue la mia
felpa.

« Ti troverò. » sussurrai al suo orecchio. « Anche se dovessi girare tutta l’America. Ora non ho più paura di trovarti e scoprire che mi avrai sostituito. »

Lui alzò la testa.

« E’ per questo che non mi hai più cercato? » chiese, sconvolto.

Annuii mestamente.

« Era stupido, lo so, ma ero completamente terrorizzato. »

Mi diede un finto pugno sulla pancia.

« Razza di idiota. » borbottò, e provai a sorridere.

« Lo so. » ripetei, e ancora non capivo se fosse il momento di ridere o piangere.

Mi resi conto di quanto avessi paura di essere felice, perché una persona felice è una persona vulnerabile. Tutto avrebbe potuto buttarmi giù in un istante, e
ciò che stavo vivendo era troppo bello per durare.

Infatti, mi avrebbero strappato Kurt dalle mani. Sarebbe tornato tutto come qualche mese prima. Ma come potevi tornare al pane ora che avevi sperimentato la dolcezza dello zucchero?

Mi mancava il respiro a pensarci.

« Non andartene. Scappiamo. » proposi, e Kurt sorrise tra le lacrime, incrinandosi come un vaso di porcellana.

« E’ un addio, Blaine, i servizi sociali saranno già stati avvertiti. Gli ospedali sono piuttosto veloci in questo genere di cose, e ormai è già quasi sera. Verranno
a prendermi. »

Come per confermare ciò che aveva appena detto, l’altoparlante dell’interfono dell’edificio gracchiò.

“Kurt Norberg è atteso al banco informazioni, gli assistenti sociali sono attivati per prelevare lui e suo fratello Stefan Norberg.” L’avviso venne ripetuto un paio di volte, e fu allora che iniziai a singhiozzare sul serio.

Tutto ciò che avevo fatto non era servito a nulla, era stato tutto vano, perché avrei perso Kurt di nuovo, subito dopo aver finalmente compreso di amarlo.

Ero stato così stupido.

Tutto ciò era terribilmente ingiusto. Volevo spaccare qualcosa, sentivo di stare andando in pezzi. Kurt mi abbracciò stretto e sussurrò.

« Ssssh. »

« Ti troverò. » mormorai, cercando di darmi un contegno inutilmente.

« Lo so. » disse lui, sapendo che sarebbe stato quasi impossibile, e mi guardò negli occhi. Mi persi nelle sue iridi color oceano che rispecchiavano il ragazzino
che avevo amato fin dal primo istante, ancora quando non sapevo che si chiamasse amore. Lo guardai e seppi per certo che sarebbe stato un addio, perché era vero, non sarei mai venuto a conoscenza di dove lo avrebbero portato.

Lo baciai di nuovo, un semplice e leggero sfiorarsi di labbra che sapeva di sale e lacrime, e sentii la crepa che stava percorrendo il mio cuore allargarsi
ancora.

Tornammo dentro, come due automi, come rassegnati, ed osservai i due assistenti sociali posare le mani sulle spalle a Stefan che osservava il fratello con
disprezzo. Poi presero Kurt per un braccio, gentilmente, e gli sorrisero.

« Vi troveremo un buon orfanotrofio. » dissero, ma nessuno dei due fratelli rispose. Solo Stefan dopo qualche secondo aggiunse:

« Basta che mi teniate lontano da lui. » ed indicò Kurt con un cenno del capo.

Infine li accompagnarono fuori e li vidi salire in macchina attraverso le porte a vetro. Kurt continuava a guardarsi indietro e a sillabare “non dimenticherò”,
ed infine, poco prima che la porta si chiudesse sul suo viso “ti amo”.

Fu allora che iniziai a correre, gridai il suo nome e rincorsi la macchina mentre partiva, corsi più veloce di quanto non avessi mai fatto in tutta la mia vita, coi
polmoni che andavano a fuoco e consumavano più ossigeno di quanto ne incamerassi. La testa pulsava dolorosamente e, nel mezzo del rumoroso traffico
ospedaliero, Kurt non sentì nemmeno le mie grida disperate. Vidi solo il suo volto, attaccato al finestrino posteriore, che mi guardava disperato, entrambi
bloccati nelle nostre insulse vite. La macchina accelerò e sparì dietro l’angolo, lasciandomi accasciato a terra nel parcheggio, mentre piangevo come un disperato e la gente che passava non aveva nemmeno il tempo di consolarmi. Mi accorsi di non avere più il cellulare in tasca, perso durante la corsa chissà quanti metri prima.

La crepa sul mio cuore lo aveva definitivamente spezzato.

Era finita.


















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Spazio Autrice:
Non linciatemi, per favore!
Ebbene signori questo era l'ultimo capitolo. MANCA ANCORA L'EPILOGO che pubblicherò a breve.
Lo so che sembra tutto disperato, ma mi conoscete, sono buona e questo dice tutto.
Spero di avervi trascinati con me nella mia voragine di ricordi e di sentimenti.
Sono un mostro.
In compenso grazie di essere arrivati fino a qua, non potevo chiedere per dei lettori migliori.
Vostra,
{noth

Pagina Facebook: http://www.facebook.com/pages/Noth-EFP/364038186940771
T
witter: https://twitter.com/#!/___noth

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Capitolo 17
*** Epilogue ***


Don't You Remember?
-Epilogue-









Un anno era passato, e mi era sembrato un’eternità e, contemporaneamente, era come se il tempo si fosse fermato nel vuoto assoluto. Vivevo come un automa, persino i miei genitori si erano preoccupati per me. Non ne avevano motivo perché mangiavo, andavo decentemente a scuola e parlavo, anche se molto poco. Dormivo male, poiché i sogni che facevo erano molto più belli della realtà.

Non facevo altri che ripetermi che probabilmente Kurt mi aveva dimenticato e non sarebbe mai venuto a cercarmi. E allora avevo voglia di gridare. Avevo voglia di correre finchè non fossi stramazzato al suolo, di andarmene per sempre e dimenticare chi fossi. Kurt mi mancava ogni singolo secondo.

Ormai avevo fatto l’abitudine a tutto questo, mi svegliavo e conoscevo la sensazione di vuoto e mancanza che mi assaliva. Non mi era più nuova, era diventata una dolorosa routine. Mi era difficile concentrarmi perché, ora più che mai, davanti agli occhi vedevo i nostri brevi momenti assieme, il raro sorriso che avevo riplasmato sul suo viso, le sue lacrime ed il sapore delle sue labbra, che era quello che preferivo.

Era Natale e non avevo affatto voglia di festeggiarlo, perché non ero felice e volevo potermi permettere di avere un solo giorno per me stesso, stare male e tacere nel mio silenzio. Era difficile vedere tutti così euforici e sentirsi in guastafeste, ma tirare verso l’alto gli angoli della bocca sembrava strapparmi la faccia.

I canti natalizi andavano a ripetizione in salone, e la loro allegria cominciava a risultarmi fastidiosa.

Mia madre spuntò dalla cucina, gridando alle gemelle di non spruzzarsi le bucce d’arancia negli occhi, e mi guardò, sorridendo, e rimestando la sua profumata salsa arancione con un mestolo nella terrina trasparente che teneva tra le mani.

« Tesoro… » mormorò, e sapevo cosa voleva dire, sapevo che il mio umore era deleterio per tutti e avrei tanto voluto essere felice ma avevo la sensazione che avrei potuto esserlo sono se Kurt fosse stato di nuovo accanto a me. Cosa impossibile. Ed ecco che ricominciava il dolore.

« Scusami, mamma, lo so che vi sto rovinando la festa… »

Lei si sedette sul divano, così che fossimo vicini.

« Blaine, lo so che stai male, so che è difficile. Probabilmente tutto ciò che vorresti fare è chiuderti a chiave in una stanza ed urlare. » deglutii per quanto avesse ragione, guardando quel sorriso amorevole che le creava una lieve mappa di rughe attorno agli occhi. Eppure era sempre bellissima. « So come ci si sente quando si è così soli che si ha voglia di soffocare, ma è Natale, abbiamo preso dei regali e stiamo cucinando tutti assieme e papà… tornerà tra poco con le luci da mettere sulla porta. »

Sospirai, cercando di farmi prendere dall’atmosfera, senza riuscirci.

« Facciamo così: vai a farti una passeggiata, magari vedendo gli alberi e gli addobbi riuscirai a farti trasportare un po’. » suggerì, carezzandomi una spalla.

Annuii e mi misi la giacca, guardando la televisione che trasmetteva uno dei soliti film che passavano ad ogni Natale. Guardarli con Kurt sarebbe stato come vederli per la prima volta.

« Mamma? » chiamai, prima di uscire dalla porta.

Lei si voltò prima di entrare nuovamente in cucina.

« Mh? »

La guardai, con quel sorriso dolce, una donna che aveva sofferto. Lo si capiva da quello che mi aveva detto poco prima. Detestavo l’idea di vederle portato via quel sorriso.

La abbracciai, sentendone il profumo, e dicendomi quanto ero stato fortunato a trovare una donna così gentile e che mi aveva accolto a casa sua come fosse
stata la mia. Ed era ancora in piedi, nonostante tutto. Non volevo ferirla col mio comportamento.

La lasciai andare ed uscii, sperando davvero che le luci facessero qualcosa e risvegliassero l’animo natalizio che stava sopito dentro di me.
 


 
***


 
Le strade erano ricoperte di neve, e profumavano di apple pie. Avevo la sciarpa eppure, attraverso la lana spessa, si formavano comunque delle nuvolette di condensa che davano una qualche forma al mio respiro.

Chissà se Kurt stava festeggiando.

Chissà se si tagliava ancora.

Camminai a lungo, osservando le luci sulle case ed il fumo che usciva dal camini. Non c’era nessuno, pareva tutto così calmo e fermo che mi spaventava l’idea di sentire di venire dilaniato da un uragano, dentro.

Cosa c’era di sbagliato in me?

La strada innevata era quasi scivolosa, e mi accorsi appena di essere arrivato a quella panchina dove io e Kurt avevamo parlato durante uno dei nostri primi incontri.

Sospirai e vi tolsi la neve da sopra con la mano, rabbrividendo per il freddo. Il silenzio era terrificante e sembrava quasi volermi schiaffeggiare. Lo avevo tanto bramato ma non ero in grado di sostenerlo, perché sentivo la voce di Kurt ovunque. Un eco distratto della mia mente che non si decideva a lasciarlo andare. Inoltre quel luogo non aveva più alcun valore senza di lui.

« Mi manchi, Kurt. » sussurrai a quel silenzio, come se avesse potuto capirmi e confortarmi, e magari rispondermi.

La cosa buffa è che lo fece.

« Mi sei mancato anche tu, Blaine. » mormorò qualcuno, talmente piano che avrebbe potuto essere il suono del vento. Mi voltai, il cuore in gola che pulsava freneticamente, forse più svelto di quanto non corresse la mia mente.

Alle mia spalle c’era Kurt, in testa un berretto di lana bianco, indossava un cappotto chiaro. Mi guardava sorridendo, tanto che lo riconobbi a malapena così radioso. Aveva il naso e le guance rosse per via del gelo e teneva le mani in tasca, imbarazzato.

Le cose erano due: o ero diventato pazzo, oppure questa volta Kurt mi aveva trovato.

« Cosa… Io… Kurt… » balbettai, il suono del battito del mio cuore era troppo forte nelle mie orecchie e mi impediva di pensare razionalmente.

Lui allargò il suo sorriso e le lacrime iniziarono a rigargli le guance. Ma non erano di tristezza, come se fosse stato un incubo, erano di gioia, luminose. Mi alzai dalla panchina, le ginocchia mi reggevano a stento.

« E’ un sogno? Ho preso sonno sul divano? » chiesi, avvicinandomi cautamente, e Kurt non si mosse.

« Ti ho trovato, Blaine. » mormorò, abbassando lo sguardo e trattenendo un singhiozzo.

Mi gettai su di lui, scivolando sul ghiaccio e travolgendolo, facendoci cadere entrambi nella neve soffice. Era vero, era lui, potevo toccarlo, ne avvertivo il calore, ne sentivo la realtà. Lui rideva e, Dio, quanto mi era mancato quel suono.

« Come mi hai trovato? Da dove arrivi? Come stai? » lo tempestai di domande, e avrei voluto potergliene fare altre, ma lui ancora rideva beatamente e mi mise le mani sulle guance, cancellando con la punta dei pollici le lacrime che stavano scivolando sul mio viso senza che nemmeno me ne accorgessi.

« Mi sei mancato tanto. » ripeté, abbracciandomi e non lamentandosi del fatto che stessi sopra il suo petto. Il suo profumo mi mandò su di giri e mi resi
conto di quando mi fosse pesata la sua assenza. Affondai in viso nella sua spalla.

« Davvero, rispondi alle mie domande o credo che impazzirò. » sussurrai, sciogliendo l’abbraccio e mettendomi a sedere sulla neve a gambe incrociate, e lui mi imitò.

« Allora: ti ho trovato prendendo l’aereo. Mi avevano trasferito a parecchi chilometri da qui. A diciotto anni sono diventato indipendente dall’orfanotrofio e sono andato a lavorare per guadagnarmi i soldi per tornare qui. Poi non sapevo bene dove fosse casa tua, ma ricordavo la strada per arrivare a questa panchina e pensavo che forse, poi, mi sarei ricordato come si arriva da te, ma non ce n’è stato bisogno, perché eri qui. Non potevo crederci. » scosse la testa, sorridendo e tirando su col naso. « Non sapevo cosa dire, il cuore minacciava di spappolarmisi nel petto. E poi hai parlato, e non ho fatto altro che rispondere. E grazie a Dio lo hai fatto, altrimenti chissà quanto altro tempo sarei rimasto qui ad aspettare. Per rispondere alla domanda come sto, devi aspettare che smetta di piangere e che il cuore la finisca di battermi così velocemente. » abbassò lo sguardo e si portò una mano sul petto. « Dio, » mormorò « sei rimasto proprio uguale. »

Sospirai e sorrisi, non riuscendo a togliergli gli occhi di dosso, come se avesse potuto scomparire all’improvviso.

« Ti ricordi di me. » sussurrai, trattenendo un singhiozzo, e non era una domanda. Era la verità, finalmente sulle mie labbra, che usciva lentamente e prendeva forma.

Lui annuì, scoppiando in una risata incredula. Gli occhi cerulei luminosi come quelli che avevo conosciuto da bambino.

« Sempre. » rispose, prendendomi teneramente una mano.

Esplosi.

« Sei… se solo sapessi com’è stato senza di te. Non era vita, non era… non era niente. Come può un’esistenza essere considerata tale solo se tu sei accanto a me? Kurt… Kurt io ti amo. Ti amo da quando siamo bambini, solo che non lo sapevo. E-e non abbiamo bisogno di etichette, non abbiamo bisogno di niente. Ho bisogno di te, il resto… può anche andare a farsi fottere. »

Il mio insulso monologo si interruppe di colpo, quando Kurt mi si avvicinò senza preavviso e posò le sue labbra sulle mie, scaldandomi all’istante e dando, come sempre, un senso a tutte le mie domande inespresse. Gli passai una mano trai i capelli morbidi, gli carezzai le guance sulle quali ancora scendevano lacrime. Dentro di me tutto stava per esplodere.

Era lì.

Scoppiai in singhiozzi più violenti, io che avrei voluto essere la sua roccia.

« Non te ne andare. » mormorai appoggiando la fronte sulla sua, annegando e soffocando nei suoi occhi e lasciandomi andare a tutto ciò che avevo
immagazzinato in quell’anno da solo. « Ti prego non lasciarmi qui di nuovo. Resta. Resta con me. »

Kurt sorrise, e mi mise una mano sulle labbra per farmi tacere.

« Resto se tu rimani con me. » rispose, e mi spostò un ricciolo dalla fronte.

« Non devi nemmeno chiederlo, cazzo, con tutta la fatica che ho fatto per farti ricordare di me… » borbottai, e poi mi venne in mente una cosa. « Perché non
mi hai dimenticato questa volta? »

Lui si alzò in piedi, e mi tese la mano. La strinsi all’istante, facendomi tirare in piedi.

« Perché sapevo che ti amavo. Sapevo cos’era quel sentimento che mi opprimeva il petto, e sapevo che anche tu mi amavi. Sapevo che sarei tornato qui.

Sapevo che non ero solo. È complicato, ma diciamo che semplicemente ho fatto ordine nel mio cuore. Grazie a te. »

Gli strinsi la mano, beandomi della sua bellezza. Era mio. Era lì.

« Quindi ora cosa farai? » domandai, sapendo che pur di farlo restare lo avrei chiuso nel mio armadio, lo avrei sfamato a merendine e non lo avrei mai fatto
uscire.

Non potevo perderlo di nuovo, non lo avrei permesso mai. Mai.

« Troverò un lavoro e riscatterò la vecchia casa che avevo qui. Non varrà molto, credo, e dubito che qualcuno sia stato così disperato da andarci ad abitare.
Oh. » esclamò.

« Cosa? » mi allarmai, avvicinandomi a lui.

« Buon Natale, Blaine. » sussurrò, « Che stupido, mi ero dimenticato. Cavolo. »

Risi, e mi compiacqui del fatto che ancora imprecasse come da bambino. Era vero che le persone non cambiavano mai sul serio.

« Buon Natale, Kurt. » sorrisi, ed ebbi voglia di scappare via, per sempre, solo io e lui, così che non avremmo mai più potuto essere separati. « Ti va di
venire a pranzo da me? » chiesi.

Lui alzò un sopracciglio, a disagio.

« E’ il pranzo di Natale, Blaine… »

Io scossi la testa, e lo tirai nella mia direzione.

« Fidati che ci sarà da mangiare anche per te. A dire il vero ci sarà cibo per altre dieci persone, sono sicuro… »

Kurt sorrise timidamente, ed incassò la testa tra le spalle.

« Sicuro che posso? »

Pensai ai miei genitori, che tanto volevano vedermi felice, che si erano appassionati alla vicenda di Kurt, ed annuii.

« Casa mia è casa tua. Lo sarà sempre. »

Lo baciai, e non so quanto tempo passò. So solo che ero felice. Per la prima volta dopo tanto tempo, ero felice.



 
***



E’ questa la routine che voglio, la routine che amo di tutti i giorni. Una routine che si chiama Kurt e che mi sono guadagnato attraverso le avversità. L’ho avuto, mi è stato strappato via, non si ricordava di me, ci siamo ritrovati, è stato costretto ad andarsene e poi, alla fine, mi ha cercato ancora, perché dovevo essere suo e lui mio.

Il destino lavora in modo curioso, a volte l’ho detestato, a volte avrei voluto urlare.
Ma alla fine mi ha fatto avere l’unica cosa della quale mi importasse veramente.

Kurt.

L’uomo che ho amato da quando ero uno stupido ragazzino, l’uomo che amo e che non potrò fare a meno di amare in futuro. Perché siamo fatti per stare assieme. Perché non lo lascerò andare via. Perché io e lui siamo una cosa sola, don’t you remember?

























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Spazio Autrice:
Ebbene, siamo all'addio per questa storia, nè?
Io spero tanto che vi sia piaciuta. Che vi abbia fatto piangere, che vi abbia emozionato, che vi abbia fatto riflettere
e che vi abbia dato la possibilità di provare delle emozioni.
Siete stati dei lettori fantastici nonostante i miei problemi ad aggiornare.
Ora vi saluto per l'ultima volta da questa fanfic e, invece, ne ho iniziata un'altra. Sempre Klaine ovviamente.
Per chi volesse ecco il link.

'Nobody Said It Was Easy', ambientata in un "centro di cura per l'omosessualità"

http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=992201&i=1

Detto questo grazie, grazie per ogni recensione, per ogni preferito, per ogni cosa.
Sarò sempre vostra,
Noth.



Pagina Autrice su Facebook: http://www.facebook.com/pages/Noth-EFP/364038186940771

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